Luigi
Speranza -- Grice e Cocconato: l’implicatura conversazionale -- scuola di Torino – filosofia torinese –
filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I like Coconato – I
used to say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless
you are a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato!
He spent some time in London, as I did – and he shows that the average Italian
philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato,
as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto Radicati, conte di
Passerano e Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore, fu il «primo illuminista della
penisola», secondo una definizione di Piero Gobetti. Cocconato matura il
suo pensiero anti-clericale nel clima dell'anticurialismo sabaudo ben presente
in alcuni settori della corte di Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora
tutto della sua prima formazione, verosimilmente affidata a qualche
ecclesiastico. Un infelice matrimonio precoce, combinato dalle famiglie, lo
coinvolge ventenne, e già due volte padre, in una serie di penosi contrasti il
cui significato travalica i conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti
della moglie si mobilita il partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a
corte in chi appoggia il re sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la
Curia romana. Il grottesco-ironico racconto della sua «conversion
pubblicato a Londra e ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of
the Modern Cannibal's Religion” induce a datare intorno agli anni venti il
precipitare della crisi della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto.
Nell'opuscolo autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso
emblematico di «uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal
contrasto tra santoni bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli
agostinianisui presunti miracoli operati da un'immagine della Vergine,
rinvenuta nel convento agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la
fede e come, verso i vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a
far uso della mia ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione
intellettuale è il viaggio compiuto nella Francia della "Reggenza"
tin cui poté ampliare il raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi
libertine come La Sagesse di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité
contre la Médisance di Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e
sviluppo nelle sue opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali,
storici e politici redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato
clima conseguente alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e
Benedetto XIII diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da
un riacquisito potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà
e per la sua stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a
Londra, dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il
sequestro e la confisca dei beni. A Londra pubblica con un discreto
successo l'instant book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione
di Vittorio Amedeo II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e
radicale dei suoi scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che,
tradotta da JMorgan, uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo.
Nella Dissertazione, che gli costa anche l'esperienza delle carceri della
tollerante Inghilterra di Walpole, propugna il diritto al suicidio e
all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita filosofia materialistica che scorge
nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di
senso. Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si
inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere
Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il
suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua
prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità
occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in
termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto individuale
alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul suicidio non sia
priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni confessione
ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente nella
gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede, considerano la
vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo cristiano, lo
stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma
l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per
secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile
dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà
divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la
crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro
eredi. Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da
una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari
di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di
una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi
occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella
Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio
muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana.
Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega
affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio
vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di
servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente,
incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi
per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le
cose. Definisce l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa
intrattiene con il tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia
della materia che costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La
certezza che ci resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e
dagli idola tribus, i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo
vicissitudini della materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio
londinese e poi olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci
giunge fino a Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione,
continua ad aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione
continua. Come per il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la
materia pensata dal Radicati è la materia actuosa che reingloba nel
meccanicismo moderno motivi provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui
ineriscono direttamente movimento e autoregolazione. L'universo è un
mondo infinito in perpetuo movimento: in esso nulla continua ad essere anche
solo per un istante la stessa cosa. Le continue alterazioni, successioni,
rivoluzioni e trasmutazioni della materia non incrementano né diminuiscono
tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera dell'alfabeto si aggiunge o si
perde per le infinite combinazioni e trasposizioni di essa in tante diverse
parole e linguaggi. La natura, mirabile architetta sa sempre come utilizzare
anche il minimo dei suoi atomi. La fine della nostra individualità costituita
dalla morte non è quindi fine assoluta, perché niente si annichila nella
materia e il principio vitale che ci anima come non è nato con noi troverà
sicuramente altre forme di esplicazione: come la nostra nascita non è avvenuta
dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.-- è estranea ogni forma di
lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla sua rifiorirà in una
delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici della modernità,
nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina, Diotima: “Noi moriamo
per vivere: Oh, certo, i miserabili che non conoscono se non il ciarpame
arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del bisogno e
disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della natura, a
ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro mondo, non
conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da stupirsi che
temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho sentita la vita
della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò una pianta, sarà
poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire dalla sfera della
vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti, riunifica le nature?
come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti gli esseri?»
Opere Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed
economisti del primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi,
Dodici discorsi morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò
editori, Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo, Pisa, Ets Vite
parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo, Sestri Levante,
Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il Nazareno e Licurgo
messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check); edizione e commento
di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione filosofica sulla
morte, F. Ieva, Indiana, Milano Piero
Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero nel Risorgimento, Torino,
anche in Opere completeSpriano, Torino, Einaudi Franco Venturi, Adalberto
Radicati di Passerano, Torino, Einaudi,
Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Torino, Einaudi, Silvia Berti, Radicati in Olanda. Nuovi
documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti, in
Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini: materialismo, libero
pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano, in Rivista Storica
Italiana», Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of
Modernity Oxford, Cavallo, Introduzione a Radicati, Dissertazione filosofica
sulla morte, Pisa, Ets, Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto,
Nazareno e Licurgo: impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati,
introduzione ad A. Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e
Licurgo, Sestri Levante, Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione
umana, in I Quaderni di Muscandia», Tarantino, “Alternative Hierarchies:
Manhood and Unbelief in Early Modern Europe, in Governing Masculinities:
Regulating Selves and Others in the Early Modern Period, ed. by Broomhall and
JGent, Ashgate, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite Parallele di Alberto
Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come uomo politico e
consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di filosofo; e la sua
filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono a destare
interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero come cose
inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come il loro
autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese su di
loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua filosofia.
Infatti il Saraceno pubblicando il
Manifesto» e le due Lettere »
indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e
premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e
bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia
a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a
Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il
suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei
pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono
vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come
non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile
lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune
notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e
la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca
di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in
Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate
invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al
British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino,
dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta
in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P.,
Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata
al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio
Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che
intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia
della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S.
Sebastiano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True Light” in “XII Discourses
Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted” (London.
Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row; and sold by the
Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication of
Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of
Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the Crown
in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came to
repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his
Restauration. On a letter frorn the Marquis de T... a Piemonlais now at the
Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd
without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa
recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange; and by the Booksellers
and Pamphletsellers of London and Westminster. “A phliosophical [sic]
dissertation upon death composed for the consolation of the unhappy, by a
friend to Truth” (London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on
Ludgate-Hill). Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele III colla
quale supplica la prelodata S. M. di voler gradire la dedica della opera da lui
composta e già presentata alla fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC. (Arch. Slato
Torino - Storia Real Casa - Cat. Ili - Storie particolari). Twelve discourses concerning
Religion and Governement, Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by
Albert Comte de Passeran, Written by Royal Command, The second Edition”
(London, printed for the Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad
Westminster). Recueuil de pieces
curieuses sur les matieres les plus interessantes – Rotterdam, Chez la Veuve
Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A. R. de P.
parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage. Douze Discours
Moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration de l'Auteur,
Histoire abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne a la tres illustre
et tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker Chrètien, Nazarenus
et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius neophyte, Epitre à
l'Empereur Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la religion des
Cannibales modernes par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare les motifs
qu'il eut de quitter celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe a Rome par
M. Machiavel [sic] imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda fide, con
prefazione dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour rendre utile
à la Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son maintenant fort à
charhe, traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la grande assamblé des
Quakers par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée, traduit de l'Anglois a
Londres, au depens de la Compagnie. La religion Muhammedane comparée à la
paienne de l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem epitre a C.inknin, Bramili de
Visa - pour traduit de l'Arabe. A
Londres au depens de la Compagnie. Notiamo, ora di queste opere le notizie e di
caratteri più salienti. È edita dal Saraceno, nell'opera più volte citata. Il
testo rimane nella sua grafia del tutto immutato, con le inconstanze di
scrittura (et, ed; chino e hanno) caratteristiche del filosofo; alquanto mutata
è invece la punteggiatura, e gli alinea, la prima più scorretta nel testo
originale, i secondi inesistenti nel MS., che corre tutto di seguito. Questa
lettera con la quale comunica a Vittorio Amedeo II il suo desiderio di fargli
pervenire la cassetta e di cui abbiamo notizia sia dalla lett. del March. d'Aix,
sia dalla risposta del March, del Borgo, che c'informa pure del suo contenuto,
per quante ricerche abbia fatte all'Arch. di Stato di Torino, non mi è stata
possibile trovarla. Questa Memoria inedita si trova all'Ardi, di Stato di
Torino. Fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata
perduta. Delle lettere comprese sotto questi due numeri abbiamo notizia da una
lettera del Cav. Ossorio al March. Del Borgo e dalla risposta del Del Borgo. Ma
non mi è stato possibile poterle rintracciare. Quest'operetta edita, in un
elegante Vili0, dopo due anni di soggiorno in Inghilterra, doveva nella mente
dell'Autore essere composta di dodici discorsi. Fu edita invece incompleta contenendo solamente un
“Preliminary discourse in wich the Author gives a particular account of his
conversion” e il Discourse I, “Of the Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al primo di essi corrisponde alquanto mutato nella
forma e nell'estensione il Recit, contenuto nel Recueil. Al secondo corrisponde
invece esattamente il Discorso I. Cfr. Twelve Discourses riprodotto poi
integralmente dal Discours, Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus Christ, dei
Douze Discours, moreaux ecc.editi nel Becueil . Ritornando al Preliminary
discourse abbiamo detto che questo discorso fu riprodotto nelle sue linee
sostanziali dal Recit incluso nel Recueil, ma molte varianti, e alcune di
valore capitale sussistono fra i due testi. Accenneremo, qui, da un punto di
vista generale, le caratteristiche più salienti dei due testi, e la maggior
importanza che può avere, da un punto di vista biografico, l'edizione inglese;
e infatti, pur essendo quest'ultima mancante dell'introduzione che troviamo nel
testo di Rotterdam. L'imprimeur au lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di
Benedetto XtlI, le numerosissime note esplicative, che svelano luoghi, nomi e
date, la rendono di una importanza capitale per la ricostruzione della vita del
filosofo. Senza questa edizione, corredata di note e di avvertimenti, veramente
preziosi, sarebbe stato impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal
semplice testo le notizie importantissime documentanti la conversione del
filosofo al calvinismo. L'assenza di note del Recit e l'espressione più
attenuata, in taluni punti, del testo inglese costituiscono i caratteri differenziali
fra le due edizioni. I titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla
Christianity sono i seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the
Apostles and Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the Religion
of Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption of the
Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the great
Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the Bishop of
Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse VII: That
neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by the
Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has
maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can
make use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns
and their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of
Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual
as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical
Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to
Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere dai titoli i discorsi mancanti
non avrebbero dovuto essere altro che quelli contenuti nei “Twelve Discourses”
come di fatto prova il primo discorso contenuto nella Christianity del
tutto analogo al primo di quelli contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del
resto, ch e si può rilevar e facilmente confrontando rispettivamente i titoli
delle due edizioni, che, pur essendo vi qualche tenue variante di espressione,
sintettizzano reciprocamente un analogo contenuto. Copia di questa edizione
l'ho trovata soltanto al British Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente
attribuita al Marchese Trivié o ad un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed
il Carutti avevan o rivendicat a al filosofo, furono fatte numerosissime
edizioni. Citiamo quelle che abbiamo potuto rintracciare e confrontar e con
l'edizione inglese che possediamo. Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor
Amédée II, ou l'on trouve les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner
la couronne en faveur de son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne.
Comment il s’en est repenti, avec les raisons et les intrigues secretes qui
l'ont porte à entreprendre son rétablissement par le marquis de F***
piemontois, à present à la Gour de Pologne; en forme de lettres écrite au comte
de G*** a Londres. S. 1. in Vili. Histoire de l'abdication de Victor Amédé e
nel volumetto La politique des deux partis, ou Recueil de pièces traduites de
l'anglois de Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione: Génève contenente una
seconda lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de filosofo. Histoire de
l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris, in 4°, erratament e
attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio identificato. L'Oettinger dà una traduzione
tedesca dell’Histoire edita a Francoforte. Histoire de l'abdication de Victor
Amédée roi de Sardaigne, et de sa detention au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit
les veritables motifs qui obligerent ce prince d'abdiquer la couronne en faveur
de Charles-Emmanuel, son fils, et ceux qu'il eut ensuite de s'en repentir et de
vouloir la reprendre. Lettre écrite au Conte de C*** a Londres, par le marquis
de Trivié, qui est à présent à la Gour du roi de Pologne, edita nel "
Recueil de pièces qui regardent le gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui
ont rapport aux affaires présentes de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye.
Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure
attribuita dall'Oettinger al Lamberti. Cfr. OETTINGER, Bibliographie
biographique universale, Paris. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi
de Sardaigne etc. de sa detention au Ghateau de Rivoli et des moyens qu'il
s'est servi pour remonter sur le trone, à Turiu. De l'impremerie Royal.
Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II, Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne
Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury
che il Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de l'abdication de
Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau de Rivole, et
des moyens dont il s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle édition sur celle de Turin de 1734-, a
Londres, 1782. Non abbiamo creduto necessario per quanto il testo inglese
rappresenti il testo originale redatto dal P. di annotare le poche varianti che
esistono più di forma che di contenuto. N. 9 di questa operetta, che ho trovato
solamente al British Museum, catalogata sotto il nome di Thomas Morgan
(l'indicazione della bibliografia del B. M. è: " A philosophical
dissertation upon Death - Composed for the consolation of the Unhappy (By A.
Badicati Count di Passerano translated or edited by John, or rather Thomas
Morgan? era data notizia tanto dal Cav. Ossorio, che ne espone in brevissime
righe il contenuto e ci avverte che fu causa di prigionia per l'autore e il
traduttore, quanto dal Lilienthals, dal Kahl e dall'Henke (1). Completamente
dimenticata dai più recenti studiosi del R. compare citata dal Natali senza
indicazione nè di data nè di luogo di stampa. Secondo quanto afferma l'Ossorio,
l'operetta stesa in lingua italiana dal R. sarebbe stata tradotta da " un
de ses compagnons " en bon
Anglois e sotto il nome di questo
traduttore, che si seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa andò per alcun
tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale
andata smarrita. La scoperta di questa nuova edizione, ricordata in alcune
opere Cfr. HENKE loco cit. LILIENTHALS loco cit. FREYTAG loco cit. VOGT loco
cit. BAUER: loco cit., WAHIUS loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove però
compare come semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di luogo
di stampa, nè di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che i
" Discours siano stati stampati per
la prima volta a Rotterdam nel " Recueil , e che quindi sino al 1736 i
" Discours medesimi siano rimasti
manoscritti nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista la
primissima introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere edita
prima per le ragioni stesse che giustificano l'edizione) che il nostro si
decise a dare alle stampe i " Discours
dopo aver visto che non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e
che di conseguenza dallo stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe
più dipesa la possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo
l'edizione inglese dei " Discours , la quale messa in confronto con quella
di Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese la
" Dedica a Don Carlos (sedizione
Rotterdam) e il " Factum fonte di
preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da pag. 1 a pag. 10). mentre
che la Declaration de Vauteur contenente
i motivi che hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel
suo svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che
sotto riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. THE AUTHOR' S DECLARATION.
Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the benevolent reader will
forgive me for making a short declaration concerning the publication of this
work, as follows. BAUMGARTEN: Narichten von einer Ilallischen Bibliothec, ENGEL:
Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum omni scientiarum genere
rarissimorum - BERNAE, TRINIUS: Freydenken Lexicon. - Leipzig, und Bemberg,
Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon. MASCH I Beilriige zur Geschichte
merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK: Cristliche Kirchengeschichte seil
deiReformation - Leipzig SCHLEGELS:
Kirchengeschichte des 18 Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un
Amateur citato dal QUERARD. Les
supercheries litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen)
afferma parlando del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur
grand papier, celui de la Bibliotheque du Roi, et le mien Di questa edizione, probabilmente in foglio o
in 4° grande, (" sur grand papier ) non siamo però riusciti ad averne
traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera indirizzata dal P. a CARLO
EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit. In primis et ante omnia. I do
declare that this Work was written at the Command of a great PRINCE, who would
be plainly inform'd of all the matters contain'd in it: and as that PRINCE was
then reputed to be one of the greatest Politicians of his Age, I was oblig'd to
proportionate my Labour to his profound Capacity. So that if I have reveal'd
some Religious or Civil Mystery, which had generally been conceal'd, I have
methink given a suffìcient Reason for it: However, I have alter'd some Passages
and soften'd some Expressions, to make them more intelligible and more
agreeable to the Reader. I do solemnly declare, that in all this Work I had
nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a word, the Good of Mankind
in general; and I flatter my self that all who shall peruse it with candour,
shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I do declare, that I have
kept dos e throughout this Work to the Doctrine and Morality of our Saviour,
occording to the best of my knowledge; and I hope I have not advanc'd anything
without good authorities. I do protest before GOD and Men, that whatever is
said in this Work concerning the Church or Clergy is to be understood of the
Popish Church and Clergy only (who really have long since abandon'd and
despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER) and not of any other
church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very humble, vastly
charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and Riches; may justly be
stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples, and of those primitive
good Prelates instituted by the Apostles. (*) See the 54th page of this Book,
and you will fìnd what their duty was, and with what Qualities they were
endued. Item. I do declare, that I have not her e opposed the superstitious
Tenets of the Popish Church; for this has been so often done ever since the
Reformation, and by so many Learned Divines, that it would be vain to attempt
it. Besides, Popish Princes little regard at this time wha t is said against
Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of Saints, and such like;
as things, which ways affect their
temporal Interest: so, whethe r these opinions are well or ill-grounded; whethe
r they spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e
they to know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to
the WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon
the proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin; and
this is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work.
I tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of
some service to this Country, particularly at this time, whe n " the
Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their
Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in every
Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age . (*)
Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18, LASTLY, ] declare that I have made use of
ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII ) the
TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in Mysteries;
in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and that of
others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish them.
But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know myself not
to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent Divines of
this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my Reason by
Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII ) And I
farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with this
salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha s
expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous; nay,
mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to rad,
calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who labour
Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss of
Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this
plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope
that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice,
will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for
having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz. lond. pag. 1-13; Ediz. Rot. pag.
15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione olandese: uniche varianti
sono le seguenti: Pag. 2 - in not a Collins è qualificato: 0 great and
goodman attribut i c h e mancan o
nell'Ediz. . - manc a la not a sul
ministr o Jurie u ch e si trov a a pag. 2 4 dell'Edizion e di Rotterdam. Il
Discors o II (Ediz. lond. pag. 14-25; Ediz. Rot.) è pur e ess o integralment e
riprodotto. Unich e varianti:
pag. 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag. 3 5 ediz. di Bot.) è aggiunt o "
and 1 shall not be tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „.
nota, dop o le parol e " universally observed „ " généralement
observées „ ediz. Rot.) ch e no n si trov a nell'edizion e del 1736: " I
say universally observed: for wer e there a Society or Republic, however great
it might be, that should be inclined to observe the Laws of Gbrist, it would be
obliged for their own preservation, to lay aside the laws of Christ, or suffer
themselves to be destroyed by following them. - In a word, a Society of true
Christians, wer e they as numerous as the whole Empire of China, could no more
make head against a single Infide], who had a mind to plunder them, than a
hundred thousand Rabbits could make head against a hungry Lion, that
should fall in among them. But if ali Men, without exception, were good
Christians, it is most sure they would be exceding happy. For, being without
Ambition, Envy and Revenge, nothing would be capable of di sturbing Iheir Quiet
- Here on Gonsult - Bayle's Pensées diverses chap. 141 - continuation des
Pensées - Ghap. „. Il Discorso III (Ediz. lond.; Ediz. Rot. pag.
38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il medesimo riportato in
Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è quasi del tutto
riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole " le
gouvernement de leur Eepublique „,
dell'ediz. di Rot.) il testo prosegue con 2 pagine in più che qui
appresso riproduciamo. But they wer e
never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles,
we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the Christian
Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles of it For,
Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that Religion, and shew
them wherein it consisted, says expressly, and in so many words, that we ar e
" not to boast of our good works, but of Faith alone in Jesus Ghrist, for
that good works ncither justify, nor save; but to him, saith he, that worketh
not, but believeth on him that justifieth the ungodly, his Faith is counted for
Righteousness (**) and shall save him „. James, on the other hand, in a few
words summing up the Essentials of Religion, and not amusing himself with vain
disputes, as Paul did, tells us; that " Faith without good woorks will
neither justify, nor save „; and gives us to' understand that " good works
will save us independent of Faith”This Doctrine is highly just and reasonable,
and more orthodox than Paul's. For wha t avails it for a man to bellieve that
Ghrist dieci to save him, so long as he is cruel, covetous, revengful, and i*)
Rom. IV. 5.James II, etc. (***) Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag.
64) proud? were he not better without that Belief, but good, charitable, and
humble? it is much better for a man to be a Christian in practice without
speculation, than to be a Christian in speculation, without the practice; that
is, it wer e better being a Savage, who. tho' without any Religion, stili
practised the duties of a true Christian, who is resolved absolutely to obey
none of the precepts of his Religion, tlio' he firmly believes in its
mysterles. This notion, so agreeable to the Justice and Wisdom of God, and
Intentions of Ghrist, would be of great advantage to Society, wer e it put in
practice. Now it is indisputable that the Apostles, by building Religion upon
various. and different foundations bave caused an infinite numbe r of Quarrels
and Schisms to spring up in the Christian Gommon-wealth, by whieh it ha s
been, and will ever be tome asunder most assuredly, if it does not lay
aside the mysterious, or incomprehensible speeulations of Divinity, and frx
wholly to those most holy and simple Tenets, which Christ hath taught us, and
are very easy to be observed, being the same as those of Nature, as he himself
has told us, saying: " Come unto me, ali ye that labour, and are heavy
laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke upon you, and learn of me,
for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find rest unto (pag. 65) your
Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„, and not grievous and
insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*) Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond.
pag. 73-92; Ediz. Rot.) è riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag.
80, in nota su S. Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue:
" Non in Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in
operibns misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda
simplicium callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates -
Cyprian de Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella
Edizione di Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot.) è
riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg.
125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag.
129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag. 128 Ediz. Rot.):
" See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et Contin. des
Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo enquire whant
a thind is, before we have examined whether it really exist „. Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la
parola “religion” è tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione
Rot. con " Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164;
Ediz. Rot.) è riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz.
lond. pag. 165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente.
Uniche varianti sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota
" cependant ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X
(Ediz. lond.; Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200
ridotte nell'Ediz. Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo
inglese. By natural right
(ius naturale), I mean the faculty given by nature to each individual, whereby
each of them is forced or determined to act, according as he finds it necessary
for the preservation of his own being. All animals are forced by nature to eat,
drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they eat, drink, and sleep of
natural and absolute right, when they stand in need of them. In the same
manner, fish being by nature determined to swim, and the greater to devour the
smaller, consequently they enjoy water by natural right, and the greater by the
same right devour the smaller. Thus, birds are determined by nature to fly, and
by consequence possess the air by natural right, and birds of prey by the same
right feed upon the tame. For it is most certain that Nature considered in the
general, has an unlimited right over every part of herself: that is, this right
extends as far as her power extends, so that every thing that she can do is
lawful for her to do. For the power of nature is the very same as that of God,
whose right is eternal, and consequently unalterable. Now as the power of
nature is the same with that of every individual who make up that Nature,
without exception, it follows, that the right of no one is limited, but extends
as far as the strength and industry that nature has bestowed on them; and as it
is a general law for all beings, that each of them in particular shall
perpetuate his kind, as far as lies in his power, without regarding anything
save his own preservation. it follows, that the natural right of every indivual
is, to subsist and act to that end according to the power which nature has
given him. In this state man is not to be distinguished from the rest of
natural beings, no more than the words, reason, or wisdom, and folly; virtue,
and vice; honest, and dishonest, just and unjust are, etc. Wherefore there is
no difference between the wise and the foolish, the virtuous and vicious; for
every individual has a right to act according to the laws of his constitution
or organization. that is, according as he is determined by nature to such and
such a thing, without being able to act otherwise. So that considering man
under the empire of nature, as unacquainted with what philosophers call reason,
or virtue; and not having acquired a habit of either, they have, I say, as much
right to life in pursuing the dictates of their appetite, as they have that
live according to the laws of reason, virtue, and justice, with which they have
conneted their ideas. That is, that, as he who is called wise in society has a
right to do any thing that is dictaded to him by reason, and to live according
to the light of it; so the ignorant and foolish man in the state of nature has
a right to every thing his appetite suggests, and to live according to its
dictates. For, according to the apostle’s opinion before the law, or in the
natural state of man, no man could sin. Rom. It is not then the business
of that reason, or justice, to regulate the right of nature, but of the desire
or strength of every individual. For, so far is nature from determining us to
live according to the law and rules of this reason, that, on the contrary,
notwithstanding education, and the penalties appointed in order to natural
impulses. Such is the power of nature. New as we are obliged, as far as in us
lies, to preserve our natural being, so we cannot do it but by acting in
obedience to the laws of appetite, since nature denies us the actual use of
that reason, and none of us are more obliged to live according to the rules of
good sense, introduced among us by the civilised part of mankind, than an ant
is to live according to the nature of an elephant. From whence it follows that,
in the state of mere nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all
things whatever without exception, because nature has given all to every man,
and may use it without a crime, if we can get it, whether by force, or cunning,
by entreaties, or threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or
endeavours to hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural
right, an animal may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his
power to support his own individual, or satisfy his inclination. However we are
not to imagine that so unlimited a liberty can produce any great disorder
amongst animals of the same kind, as many have thought, because nature has
previded them necessaries in abundance; upon which foot, they can have none,
no, not thel esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves.
Foxes with Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the state
of nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy, and an
implacable hatred reign between one species and another. And this would in
reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom consisted
in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the pidgeon
would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a sufficient
strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the same
complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint would
be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain limited
time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that every being
may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never be, if an
animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must necessarily
die to make room for another, it imports little whether he dies in this or that
manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's prey, and the
wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that have devoured
them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion,
languish and suffer long before they die, if they die a natural death. Besides,
a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's injustice, by making
him the prey of innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones,
and throughout their whole bodies, which feeding upon the best and finest
substance in their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him
without mercy. For, those invisible animals that kill not only a lion, but a
man too, and every beast that dies of a natural death has no more thought of
the mischief they do in feeding upon their blood, than a lion or a man when he
kills another animals for food without mercy, they having ali a power to do so
by an absolute and natural right. An animal therefore, far from complaining,
tough constantly to thank Nature for her infinite justice and goodnes to him,
in giving them a limited life only. For, had she created him immortal, she had
shewed herself exceeding cruel; considering we are all assured there is no
condition of life, however happy, but what at last grows rneasy and burthensom.
As we see by those, who having passed most of their time in the polite world,
are desirous of retiring, and leading a private life in the country; so he that
lives in solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he
that has long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and
wishes for a new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may
be perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his
life; what would it be, were they to live for ever, without ever varying the
pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels) had
tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they
complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which
they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal,
who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy
his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most
signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of
her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them
equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man,
since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an
animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small
point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and
that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that
what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man,
appears such only because we know things but in part, and because we cannot
have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending
the immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what
reason sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and
laws of universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme
natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which
is really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action
of an animal tending to the preservation and propagation of his own individual
or his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end,
proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali
those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to
those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that
they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for
perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender
mother of ali Animals, not satisfied with impressing on their mind those
notions, has always affixed a proporlional recompense to moral good, and a like
punishment to moral evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and
avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion to setlle such
rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well
knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which
is Man. And it was for them se appointed them, because knowing they had several
cavities in their brains fdled with animai spirits, which by a high
fermentalion would so heat their imagination, as to make them fall into a sort
of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back from their wandring,
has thought lil severely to punisti them, whenever they swerve from their duty
and act agreeably to the false notions with whict that madnes inspires them, which
notions tend to the destruction of their own individuai, and to make their
Species unhappy. I will explain my self. It is well known, that ali Animals,
except Man, act according to the notions infused into them by Nature, commonly
called Instinct, for instance, knows its proper food, and the actions to be
performed in order to live in health, and perpetuate its Species. Consequently
to these notions it acts, by chusing at first such places as are agreable to
it: some live in Marchs, some in the Fields, some in the Plains, and others on
Hills; some swim, other crawl, and in short, some, called amphibious, live bo!h
on Land, and in Water. Ali these Animals perceive what they are to do in order
to subsist Wherefore they eat, drink, and make use of their females, when they
have occasion; mor did, or do, any one of them ever force itself to eat, or
drilli or enjoy its females, when it was satisfied; nor did ever any of them
ever voluntarily refuse to eat, drink, or make use of their females, whenever
Nature required it; thus by denying themselves nothing necessary, and by never
forcing themselves to do what is beyond their strength, they lead a healthy and
a happy life. But this is not the case of Mankind. For, tho' they pretend to a
greater share of wisdom and reason than other Animals, their actions shew they
have less than the rest of them; some thro' excessive folly eating and drinking
when they are neither hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon
and kill Ihemselves; and forcing themselves upon venereal pleasure when they
are exhausted, is so much as to destroy themselves: Others from a contrary
madness, denying themselves meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and
dragging a miserable life, consume and pine away. Thus by not allowing Nature
what she absolutely requires, or forcing her beyond her strength, they are guilty
of real moral evil, from whence the Physical takes its rise, which cruelly
torments them their whole life time. Anolher madness, to which Mankind are
subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches, without
making any use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only makes
himself miserable, but greatly contributes to the misery of others. There is
stili another kind of madness, called ambition, that lords it over Man, which
puts most Men upon depriving themselves of what is really necessary to life,
for Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili
effects of this last folly have not stopped there, but produced the greatest
disorders amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For,
it has happened, that some of them thinlcing themselves better than others,
have endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to
the rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the
opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These
different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that
have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have
from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to
preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which
they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from
their errore; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a
whole Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the
decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his
naturai right, promised obedience to them, upon condition that they on their
side should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and formation of Aristocratical
Government. (Ecliz.) il test o
corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo le lievi differenz a qui
sott o notate. - i puntin i di quest a
edizione son o son o sostituiti nell'edizione olandes e " le coeur de
Nobles en àrbitraire ou absolu „. Pag. 22 3: mancano le ultime due righe del
testo di pag. 20 6 ediz. Rol. 11 Discorso
(Ediz. lond.; Ediz. Rot.) Titolo: "Wherein it is proveci that religion was
introduced into Society by legislatore, in order to give a sanction to their
laivs; and that consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to
the Prince „. Le pagine 224 e
236 costituiscono, in confronto dell'edizione olandese, una parte del tutto
nuova, e corrispondente alla prima parte del titolo, che difatli non si trova
nell'Ediz. Rot. Diamo un breve riassunto di queste pagine, che non parve
necessario trascrivere integralmente. Il R. così comincia: My design then in this Discourse
is to make Princes sensible that Religion was institued by legislators, in
order to give strength and credit to their Laws, and that Sovereign Princes,
having the administration of civil Laws, ought by consequence too have that of
Religion; and thereby 1 propose tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining
the sacred and civil authority in one, and the second, to the People, by
rescuing the from the Tiranny of Priests. This then is what the most celebrated
Historians teli us concerning the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi, l'intera pagina è
dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz. Han.;
l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag. 524,
ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e
Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav. Joseph, contra Appion., - Edit. 1634, in fol., e " a very candid
popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2 eh. 5. In nota
a pag. 235, così meglio identifica il Gharron: " Ile was Canon and Master
of the School of the Church of Bordeaux - He lived in Montagne's time, and ivas
his intimate freind - See Bayle's Did. Artide, Charron „. E con tutte queste
citazioni la dimostrazione è raggiunta: " Wherefore 1 may be allowed to
say without any impietg, that lleligion might be subject to the Prince, to
Religion „. Dopo di che da pag. 236 a 248 continua
con la seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz. Rot. Unica
differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter, late Czar of Moscow how be wisely
reduced the high Priest's exorbitant authority io his own power „ è estesa nel
testo a pag. 211 dell'Ediz. di Rotterdam. " Enfin chacun fait toutes les autres nouveautéz
„. Il Discorso Ediz. lond.; Ediz. Rot.)
è riprodotto integralmente, ed unica differenza è data dalla mancanza a pag.
259 della esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12: Abbiamo già parlato a
proposito del N. 11 degli scritti " a-b-c „ contenuti nel " Recueil „
ed a proposito del N. 7 dello scritto " f „ ed abbiamo notato come la loro
prima comparsa, eccettuato per il " b „, sia avvenuta in lingua inglese, e
quali cambiamenti abbiano subito nella loro ultima redazione francese.
Notiamo invece per le operette " d „, " e „ che il testo dato dal
" Recueil „ deve presumibilmente essere l'unico lasciato dal P.; nè
infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi, anteriori o posteriori al 1736,
nè elementi o prove che suffraghino questa possibilità; potrebbe essere
presumibile che queste operette scritte dal R. ancora in Inghilterra e forse
già pronte per essere tradotte, siano rimaste a noi nel loro testo originale
per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle in Olanda, non avendo più
possibilità di trovare un traduttore, le abbia conservate e poi edite nella
loro lingua originale. Lo scritto "
g „ è la traduzione dell'operetta analoga dello Svvift: " A modest
proposai for preventnig the children of poor people in Ireland from beìng a
burden to their parents or country, and for making them beneficiai io the
publick „ (1). Non esiste tra le due edizioni alcuna
differenza, che possano mutare lo spirito del testo originale le due uniche
varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione del " Recueil „ della
parole: " Gastigat ridendo mores „ immediatamente dopo il titolo, e omesso
dall'originale; e la sostitutuzione della parola " Spain „ del testo
inglese, con la parola " Rome „ della versione del R. Fu fatta nel 1749 a
Londra una ristampa di tutto il N. 12 (" Recueil de pieces curieuses sur
le matieres les plus interessantes par A. R. comte d. P. a Londre) ma
dall'esame di questa nuova ediz. posseduta dalla Bib. Querini-Stampalia di
Venezia, è risultata l'identità, persino negli errori di stampa coll'ediz. di
Rotterdam. N. 13-14 formano nell'Ediz. originale un volume solo, senza titolo
generale, con pagine numerate progressivamente (da 1 a 47 il testo n. 13, da 49
a 104 il testo n. 14). L'attribuzione di paternità al R. del primo di questi
opuscoli, e convalidata non solo da quanto afferma il " Dictionary of
National Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il Barbier, ma
dalla rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei " Twelve
discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché originai „
manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del testo ingl.;
pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. in: The Works of Swift, London. (2) Cfr. Dictionary of
national biography, edited by LESLIE STEPHEN, sotto 'Elicali.’ Cfr. QUERAR D Col. 1231, T III.
Cfr. BARBIER: Dictionaire des onorages anonymes et pseudonymes, Paris. commento e la cit. del testo ingl.; pag. 8, nota. 1,
mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere celeste „ manca la
nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del testo ingl.; pag. 12
nota 1: manca il lungo commento del testo ingl.; pag. 17 " ces Docteurs „
il testo ingl. ha “our Priest” e nota 2: manca la cit. e il comrn. del testo
ingl.; pag. 18 " vous dis-je mes Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 19
nota 1: manca la cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2: manca la spiegaz.
esistente nel testo ingl.; pag. 22: "et comment auroit-il mieux „ manca la
nota del testo ingl.;: " Amerique „ manca la nota del testo ingl.; pag. 27
e 28 sino ad: " Enfiti temoin... „ mancano nel testo ingl.; pag. 32, nota
2: manca il lungo coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2; manca la citaz. del
testo ingl.; pag. 35: " les hommes hereux „ manca nel testo ingl. la nota
corrispondente; pag. 38 dopo le parole "... leur dependence „ manca quasi
l'intera pagina 47 del testo ingl.; pag. 40: " mes cheres Frères „ manca
nel testo ingl.; pag. 4 nota 2: differisce dalla rispondente nel testo ingl.;:
l'ultimo periodo (“l'esprit... vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In merito
al N. 14 l'attribuzione di esso al R., è affermata dal Querard (1) e dal
Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo Ali-EbnOmar con il nome del R., è
confermata dal fatto che a pag. 100 dell'operetta in una nota l'autore citando
se stesso rinvia al " Discorso Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale
attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14, sostengono pure lo Henke, il
Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di quest'ultimo che viene ad
affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene seguita dalla n. 14 con un
seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è l'ediz. da noi esaminata),
come facenti parli del " Recueil „ edito a Londra e Rotterdam nel 1736,
facciamo rilevare come ciò non risponda a verità. A parte la confusione
dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese, tanto nell'una che
nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si tratta, nè infatti
potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute alla luce la prima
volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la precedente, nè
possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo esaminata, come
stralciata dal volume del 0 Recueil „ stante la appariscente diversità
dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state edite a Londra, mentre già
da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non siamo in grado di dire: forse
trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte stampare da qualche suo amico
nella capitale inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove era già uscito per
i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato? Sono questi tutti
interrogativi che ci poniamo senza avere la possibilità di potere rispondere,
per mancanza di documenti che giustifichino una ragione piuttosto che un'altra;
e questa è un'altra lacuna nella perfetta conoscenza della vita del
R. Cocconato. [H] Desideri: fenomenologia degenerativa e
strategie di controllo 1. I/epithymia nella fenomenologia
degenerativa Il processo degenerativo che dal nobile desiderio per
il sapere del filosofo giunge infine alla liberazione e soddisfazione dei
più feroci desideri attuata dal tiranno è innescato, da una prospettiva
psicodinamica, dall'adozione di particolari modalità repressive. Queste, e più
in generale le strategie paradigmatiche di controllo del desiderio, sono il
nostro oggetto d'indagine privilegiato. La loro analisi ci condurrà
direttamente alla disamina delle molteplici specie di desideri, alla
caratterologia e alle derive psicopatologiche tracciate da Platone nel
libro Vili, nonché alla dinamica dei processi onirici e alla mania
disegnate nel IX. Da ultimo ci soffermeremo sulla contrapposizione strutturale
tra repressione e canalizzazione, parimenti inerente a epithymiai ed
eros, che attraversa il grande dialogo. A monte, Yepithymia
platonica è un moto psichico volto a riempire, soddisfare, generando
piacere, una mancanza di origine somatica come di matrice intellettuale; 1 essa
viene così a convergere con l'ampio spettro semantico dischiuso dal
termi 1 sull'intera questione cfr. qui voi. Ili, [H], pp. 251 sgg.;
sulla "interiorizzazione" della sfera del desiderio cfr. M.
VEGETTI, L'io, l'anima, il soggetto, in S. SETTIS (a cura di), I Greci, voi. I,
Noi e i Greci, Torino; sul rapporto complessivo psyche-soma, cfr.
ROBINSON, Plato 's Psychology, Toronto LA REPUBBLICA ne
"desiderio". 2 Tale estensione, uno dei cardini metapsicologici della
fenomenologia degenerativa del libro Vili, fa tutt'uno con la diretta
attribuzione ad ogni istanza di una sfera "propria" di desideri
esplicitata nel libro IX: siccome tre sono le parti della psyche,
triplici mi sembrano anche i piaceri, ognuno proprio di ciascuna parte; e
similmente i desideri e il loro ruolo di comando. Con ciò la statica
tripartizione delineata nel libro viene calata, retroattivamente,
all'interno della dinamica psico-politica e quindi delle forme
caratteriali disegnata nell'VIII. Più da vicino, l'attribuzione
rende conto del legame tra il governo del logistikon e il desiderio di
sapere del filosofo, il governo dello thymoeide s e il desiderio di onori
e gloria del carattere timocratico, e le tre forme caratteriali dischiuse dal
governo del polimorfo epithymetikon, contenente tre specie di desideri e
piaceri: 1) i necessari», dei quali non ci si può liberare», quali fame, sete
ed eros riproduttivo, il cui appagamento è utile e salutare; 2) i non
necessari», che possono essere allontanati», la cui soddisfazione non frutta
alcun bene, talvolta anzi un male;
i paranomoi, fuorilegge, perversi e malvagi, sottospecie dei non
necessari, anch'essi allontanabili. Partizione metapsicologica sulla quale
poggia la fenomenologia caratteriale: l'avaro uomo oligarchico, dominato dai
desideri necessari, nel quale il legittimo desiderio per il denaro
degenera in ossessione; il disinvolto carattere democratico, assediato dalla
cangiante moltitudine dei desideri non necessari; le inquietanti e
parzialmente convergenti figure 2 La convergenza con il nostro
"desiderio" è già attestata in Marsilio Ficino, Sopra il Convito di
Platone, ove Amore è sempre "desiderio di bellezza"; soluzione
che venne a sciogliere, indirettamente, le tensioni tra concupiscentia,
appetitus e desiderium derivate dalle letture scolastiche della
metapsicologia aristotelica: cfr., per es., TOMMASO d'Aquino, Summa
theologiae; sulla revisione dell'impianto platonico dell'ultimo Aristotele cfr.
per es. A. GRAESER, Probleme der platonischen Seelenteilungslehre,
Mùnchen 1969, pp. 22-24. Vm E IX, [H] deYL'erottkos e
del tirannico, invasi e pervasi dai desideri paranomoi? Questa
diairesi delle specie del desiderio, tassonomicamente inerente d&
epithymetikon, eccede euristicamente la catalogazione tipologica su due fronti.
Su un versante viene con 3 Sulla convergenza tra la tripartizione delle
specie dei desideri e il polimorfo epithymetikon, cfr., per es., HELLWIG,
Adikia in Platons 'Politela'. Interpretationen zu den Bùchern Vili undlX,
Amsterdam 1980, pp. 47-50. Ha sostenuto la forte discrepanza» e aperta
contraddizione» tra la tripartizione psichica e rimprowisata» diairesi
dell' 'epithymetikon, N. BlÓéNER, Dialogform und Argument. Studien zu Platons
'Politeia', Stuttgart 1997, soprattutto pp. 61-62, 237-40, -appellandosi alla
possibilità che le forme costituzionali e caratteriali potrebbero essere più numerose,
e che la partizione psichica sia forzatamente modellata su quella
politica. Sebbene sia vero che rimangano delle tensioni nel testo -
soprattutto rispetto al desiderio necessario del carattere oligarchico:
l'ossessione per il denaro potrebbe a rigore esser interpretata quale
elemento appartenente al regno del non necessario - tuttavia Y epithymetikon
stesso, in ragione della sua natura polimorfa, supporta perfettamente i
tre tipi caratteriali degenerati, come anche eventuali altre forme "intermedie".
Sul rapporto complessivo tra la tripartizione psichica e le cinque forme
politiche cfr. TJ. Andersson, Polis and Psyche. A motifin Plato's
'Republic', Goteborg. Ferrari, City and Soulin Plato's 'Republic', Sankt
Augustin, ha ultimamente sostenuto, di contro a Andersson, il carattere
meramente analogico», non causale» dell'isomorfismo, cfr. soprattutto pp.
50-53, 60, 65-66. Tale tesi implica però l'esclusione della kallipolis e della
tirannia (p: 53 e pp. 85 sgg.) nonché, di fatto, della timocrazia; vi è poi una
tendenza a caricare eccessivamente alcune tensioni del testo (cfr. per
es. p. 71) e a trascurare la dimensione dialettica e temporale della dinamica
degenerativa. Inoltre, Ferrari è costretto a eludere interi brani, come
544d, e nello specifico la dimensione sociale nella quale è calata la
degenerazione caratteriale come ove non considera che il giovane
timocratico esce di casa» etc., e che la figura paterna risulta infine
sconfitta» perché è collocata in un contesto etico-politico che osteggia il suo
modello psicocaratteriale (549c, 550b); analoga la questione rispetto al
carattere oligarchico (pp. 71-71) ove Ferrari elude 553a-d, e rispetto al
carattere democratico ove tace. In breve ritengo, di contro a Ferrari, che i
due piani, psicologico e politico, siano in una relazione di
corrispondenza biunivoca circolare che garantisce ad ognuno un'autonomia
semi-ontologica dal punto di vista descrittivo, statico, ma che preserva
nel templata la possibilità che i desideri possano essere
allontanati o meno, approccio che mostra come la materia
epithymetica sia analizzata ad iniziare dalle strategie di controllo
adottabili nei suoi confronti. E questa la prospettiva all'interno della
quale si articola la catalogazione, non viceversa. Sull'altro fronte,
anche qui sorvolando al di sopra dei contenuti specifici veicolati dalle
singole epithymiai, viene rimarcato il peso che la loro soddisfazione
gioca rispetto al benessere o al malessere psicofisico complessivo del
soggetto. Questi due fattori, modalità di gestione tese al contenimento e
allontanamento del materiale epithymetico più pericoloso, insidie e
derive psicopatologiche ad esse correlate, sono i primi due assi sui quali
corre la degenerazione che conduce infine alla mania. Essi trovano la
loro unità nel concetto di repressione, dal quale cominceremo,
ripercorrendola a ritroso, la nostra ricostruzione della degenerazione.
2. Repressione ed esilio Kolazomenai: i desideri possono
essere e talvolta vengono repressi: Fra i piaceri e i
desideri non necessari, alcuni mi sembrano essere contrari alle leggi.
Essi probabilmente nascono in ognuno, ma se vengono repressi (kolazomenai)
dalle leggi e dai desideri migliori con l'aiuto della ragione, nel caso
di alcuni uomini si allontanano del tutto oppure restano pochi e deboli,
in altri (restano) più forti e numerosi. La repressione dei
desideri non necessari, ed in particolare di quelli paranomoi, genera una
dislocazione topica, bipartita rispetto alla modalità funzionale,
tripartita quanto alle categorie caratterologiche. contempo
la relazione causale circolare dal punto di vista dinamico-temporale,
dialettico. E IX, [H] 475
L'allontanamento: 1) nel primo caso i desideri repressi si allontanano
del tutto» (pantapasin apallattesthai). Stesso esito viene ascritto, più
in generale, alla repressione giovanile dei desideri genericamente non
necessari: si potrebbero allontanare (apallaxeien), se ci si prendesse
cura di farlo fin da giovani. Ancora: se il desiderio non necessario è represso
ed educato {kolazomene kai paideuomené) fin da giovani, può essere tenuto
lontano {apallattesthai) dalla maggior parte degli uomini» (559b9-10).
b) La permanenza: i desideri repressi permangono esplicitamente
(leipesthai) . Esito a sua volta ramificato: 2) in un caso permangono
pochi e deboli» desideri; condizione che non viene però contrapposta al
loro intero allontanamento: le due forme riguardano la stessa categoria
di persone. Nel terzo caso permangono desideri più forti e numerosi sì
che viene delineata una seconda categoria di persone. Per comprendere la
dinamica, la forma, la topica e le conseguenze che comporta l'adozione delle
suddette strategie repressive fornisce un contributo essenziale il brano sulla
transizione dal carattere oligarchico a quello democratico. Analizzando
l'aspro conflitto intrapsichico che lacera il giovane democratico, 5
Platone traccia anzitutto una esplicita distinzione inerente alle
strategie di repressione e contenimento del desiderio: alcuni desideri (non
necessari) vengono distrutti {diephtharesan), altri banditi {exepeson). Abbandonati
i desideri banditi al proprio destino, Platone si con- Analoga la
ricostruzione, che coniuga le modalità che permettono di abwenden» i
desideri non necessari e il fortdauern» dei paranomoi attestata
dall'analisi dei processi onirici, di VoiGTLÀNDER, Die Lust und das Gute
bei Platon, Wurzburg. Cfr. 559e4-560a2: il conflitto vede ivi schierati su un
fronte la specie dei desideri necessari, "alleati" alla figura
paterna, rappresentanti della parte oligarchica, e la specie dei desideri non
necessari, fomentati dalle cattive compagnie, rappresentanti della parte
democratica. LA REPUBBLICA centra quindi sull'analisi di altri
desideri affini a quelli che sono stati messi al bando», dei quali scrive, in
un passaggio nevralgico, che, in talune occasioni, cresciuti di nascosto»
(hypotrephomenai), diventano infine molti e vigorosi.
Hypotrephomenai: le epithymiai crescono di nascosto, insensibilmente;
carattere subito rimarcato da Platone: esse unendosi di nascosto [tra
loro] ne partoriscono una folla. Essendo tale proliferazione nascosta»,
segreta», furtiva» {lathra), 6 siamo di fronte ad una crescita effettivamente
inconsapevole»: ciò alle spalle di cui crescono, ciò da cui si nascondono
non può essere se non ciò che noi usualmente indichiamo con l'espressione
coscienza». In breve, sfuggono alla presa di coscienza. La proliferazione dei
desideri non necessari è dunque in questo caso collocata in un luogo
intrapsichico oscuro, nascosto, tenebroso, al di fuori della sfera cosciente.
Tale sito è quasi certamente lo stesso dei desideri paranomoi repressi nel caso
in cui restano forti e numerosi». L'individuazione e concettualizzazione
di processi psichici pacificamente definibili come inconsapevoli» è del
resto attestata in diversi altri brani della Repubblica. Ad esempio ove
leggiamo che si deve evitare che i giovani, frequentando persone viziose,
ammassino senza accorgersene {lanthanosin) un'unica grande mole di vizio nelle
loro psychai» e che, al contrario, devono crescere tra opere belle» così
che la loro aura», fin da bambini, inconsapevolmente {lanthane)», li
conduca all'armonico accordo con la bella ragione. 7 Ed an- Anche HELLWIG sottolinea
come le Begierden gewaltsam unterdriicken» rompano la Harmonie psichica e
possano poi rafforzarsi in heimlichem». 7 Jaeger, Paideia, Firenze,
parla a questo proposito di inconscio», così come Lear, La psicoanalisi e
i suoi nemici, Milano, XVIII; il termine inconscio» però, in questo caso
specifico, non può essere inteso nel senso classico e ristretto
(dinamico) di Freud, poiché slegato da processi riconducibili alla
rimozione. cora ove leggiamo che in certi casi un'opinione esce
dalla mente» in modo involontario, come accade in coloro che
vengono indotti a mutare le loro convinzioni e che se le dimenticano,
perché agli uni il tempo, agli altri il ragionamento, le portano via di
nascosto {exairoumenos lanthanei)». Ora, i suddetti processi repressivi
sono collocati da Platone all'interno di una ben precisa topica
metapsicologica: i desideri repressi, una volta rinvigoritisi e cresciuti di
nascosto, hanno infine conquistato l'acropoli della psyche.
L'acropoli raffigura il centro direttivo della psyche-polis, il luogo nel quale
si controlla l'azione, dal quale ognuna delle tre istanze e le
particolari sfere di desideri ad esse pertinenti possono governare l'individuo.
I conflitti, lo scontro tra sfere di desideri alternativi che segnano
intimamente la psyche hanno quindi un obbiettivo ultimo: conquistare la
regale fortezza», penetrare attraverso i portali» che conducono al cuore
del soggetto, al sé. La repressione che si limita ad
allontanare, ma forse anche a bandire, e comunque esclusivamente a
dislocare topicamente il desiderio senza distruggerlo, si lascia allora
intendere quale espulsione dall'acropoli e attività di continua difesa,
resistenza e opposizione al loro rientro in essa. Dinamica raffigurata
nel mettere guardie e sentinelle» ai suoi portali, che altro non sono che
discorsi, opinioni, convinzioni che sbarrano l'accesso alla pressione del
materiale pulsionale. Anche qui la politicizzazione platonica della
psyche mostra di non esser solo metafora, ma descrizione, non anatomica o
fisiologica, dei processi psicologici di per se stessi, che divengono
intelligibili, direttamente, in questa dimensione concettuale. Un
ultimo elemento chiave inerente alle strategie repressive, sempre di matrice
psico-politica, è la schiavitù cui sono soggetti i desideri repressi. Una
prima chiara indicazione in tal senso ci è data nella discussione del
carattere oligarchico che letteralmente rende schiavi», mette in
schiavitù» i desideri non necessari (554a7: doulomenos). Modalità che
riemerge, in generale, anche ove leggiamo che bisogna reprimere e mettere
in schiavitù» i desideri malvagi» (kolazein te kai doulousthai). Vedremo
meglio come anche nell'analisi dei processi onirici la schiavitù» (douleia),
cui sono soggette le opinioni che sorreggono i desideri paranomoi, svolga
un ruolo cruciale. Il punto che ora ci preme sottolineare è che la repressione
in taluni casi si configura come un processo seguito da una forma di
controllo radicale, di incatenamento. In conclusione, la
repressione dei desideri, paranomoi ma più in generale non necessari, è
un processo tale per cui essi vengono allontanati, non distrutti; in
alcuni casi essa comporta la loro esplicita permanenza, in catene, al di
fuori della coscienza, dell'acropoli; dimensione dalla quale,
rinvigorendosi di nascosto, inconsapevolmente, possono, in un secondo
momento, tentare un attacco alle sue porte. 3. Il ritomo onirico
del represso I desideri paranomoi repressi, scrive Platone
all'inizio del libro IX, sono quelli che si risvegliano nel sonno,
inaugurando così l'analisi dei processi onirici. Disamina che ci offre un
contributo tanto stringato quanto sorprendente per la sua modernità,
essenziale nell'architettura metapsicologica complessiva delle strategie
di controllo deH'epithymia nonché ai fini della definizione della specie
dei desideri paranomoi e della deriva psicopatologica complessiva della
fenomenologia degenerativa. II risveglio» avviene quando
il resto della psyche - il logistikon e ciò che è socievole e adatto al comando
- riposa, mentre la parte ferina e selvaggia, piena di cibo o di vino, si
sfrena nella sua danza e, scacciando il sonno, cerca di aprirsi la via
per dare sfogo ai suoi abituali costumi. Vi è, dunque, una
condizione positiva: Yepithymetikon, stimolato fisiologicamente (cibo e vino),
si sfrena e respinge via il sonno; ciò comporta il sincronico risveglio»
dei suoi desideri; ed una condizione negativa: il logistikon dorme,
perciò non può dominare la parte desiderante. E associato ad esso
anche ciò che è socievole», 8 probabilmente lo thymoeides. Il
proseguo del brano fa luce su tale stato psicologico: Sai bene che in un
simile stato essa osa fare di tutto, come sciolta e liberata da ogni
freno di vergogna e di ragionevolezza» (571c79). H sonno del logistikon,
l'istanza cui va ascritta la phronesis, e verosimilmente dello
thymoeides, al quale possiamo attribuire, quando è sotto l'egida della ragione,
Yaischyne, viene quindi a rappresentare la mancanza di quell'attività di
resistenza che impedisce la manifestazione dei desideri repressi. Il
fattore quantitativo e la struttura dinamica delle due precondizioni sono
perfettamente convergenti: al risveglio» indotto dall'eccitazione della parte
desiderante, quindi ad una rinnovata pressione dei desideri, segue la loro
emersione e soddisfazione permessa dall'inattività delle forze razionali,
morali. Date tali condizioni, tentare di accoppiarsi
con la madre (così s'immagina) non la imbarazza affatto, o con chiunque altro
fra uomini, dèi, animali, e commettere qualsiasi assassinio, e non astenersi da
alcun cibo. Quadro edipico», 9 perversione, aggressività
omicida. Questo l'inquietante scenario che si apre dinanzi agli
occhi dell'impotente sognatore. Posto che l'attività onirica
rappresenta la soddisfazione» immaginaria» o visionaria» di desideri
repressi, riprendendo la topica dell'acropoli la loro appari 8 Su hemeron
e thymoeides cfr. JAEGER, A New Greek Word in Plato's 'Republic', in
Scripta Minora, Roma. ' Hanno richiamato al riguardo l'edipo
freudiano, tra gli altri, POPPER, La società aperta e i suoi nemici, Milano;
Kahn, Plato's Theory of Desire, Review of Metaphysics; GlGON, Erlàuterungen, in
Plato. Der Staat, Munchen. zione e sincronico appagamento
potrebbero essere interpretati come se essi vi penetrassero nottetempo,
superando la vigilanza di sentinelle assopite. 10 Trattandosi di una
soddisfazione, anche se solo immaginaria, è difatti lecito raffigurarsela
nell'unico sito nel quale essa sembra poter realizzarsi. Nel sonno l'acropoli
si verrebbe così a configurare come sfera della coscienza, come teatro
dell'immaginazione nel quale i desideri impongono la visione della loro
drammatica rappresentazione, diventando coscienti e trovando soddisfazione
senza però attivare le funzioni psico-motorie. La ricostruzione di
quest'immagine, priva di riferimenti diretti, mira soltanto a rendere in
termini spaziali il fatto che, come emerge senza incertezze dal testo,
il sogno rappresenta il momento privilegiato grazie al quale è
possibile prendere coscienza di quei desideri repressi e tenuti in
schiavitù che nella veglia sfuggono al suo sguardo. 11 Platone ha
così dischiuso e percorso la via regia per l'inconscio» tracciata nel Novecento
da Sigmund Freud. A monte, la repressione platonica si lascia intendere
alla luce della rimozione {Verdràngung), o viceversa, anzitutto perché
quest'ultima, che è una forma particolare di repressione {Unterdrùcken),
12 Cfr. anche VEGLEEIS, Platone e il sogno della notte, GuiDOKIZZI (a cura
di), Il sogno in Grecia E IL SOGNO D’ENEA, Bari. La più articolata trattazione
platonica di ciò che noi indichiamo con le espressioni coscienza» e
autocoscienza» è probabilmente quella di Filebo 33b-42c. Ivi, utilizzando
la metafora del pittore, Platone scrive che un individuo vede in qualche modo
in se stesso le immagini delle cose dette o opinate, poi che egli scorge in sé
anche se stesso» (40a). Il passo della Repubblica, limitato alla percezione di
immagini prodotte psichicamente, pare presupporre una concezione della
coscienza» simile. u Parlano di desideri allo stato di latenza»
Kahn, e LEAR (n. 7), p. 142. 12 Ci sono nella vita psichica
desideri rimossi. Ci sono non è inteso storicamente, nel senso che simili
desideri sono esistiti e poi sono stati distrutti; per la teoria della
rimozione simili desideri rimossi esistono ancora, ma contemporaneamente
esiste un'inibizione che pesa su di essi. Il linguaggio COMMENTO Al LIBRI
Vm E LX, dal carattere morale», 13 tesa a contrastare una sfera di desideri
immorali, incestuosi e perversi, o di voglie omicide, sadiche», 14 anziché
condurre ad una completa distruzione» 15 dei desideri, si limita al loro
allontanamento» (Entfernung) dalla coscienza. Questi perciò permangono»
(Fortbesteben) al di là dei confini della sfera cosciente. 17 In una sola
parola, il rimosso è vogelfrei, 18 ovvero "bandito",
"proscritto", "fuorilegge". La rimozione
rappresenta, dunque, un'arma a doppio taglio. Su un fronte, al rimosso viene normalmente
impedito di scaricarsi nell'azione reale», gli viene metaforicamente
negato l'accesso alla Festung freudiana, la fortezza» dalla quale si
colpisce nel giusto quando parla della "repressione"
(Unterdrucken) di tali impulsi. L'organizzazione psichica, che permette a
codesti desideri repressi di realizzarsi, rimane intatta e utilizzabile»
(S. Freud, L 'interpretazione dei sogni, in Opere complete, 12 voli.,
trad. it. Torino; DIE TRAUMDEUTUNG, in Gesammelte Werke, 18 voli., rist.
Frankfurt a. M. 1999, voi. Il/in, p. 241; d'ora in poi, tutti i richiami
a Freud si riferiscono a queste edizioni). Freud, L'Io e l'Es; cfr.
anche Lo., Breve compendio di psicoanalisi, FREUD, Alcune aggiunte
d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni'. Freud, Introduzione alla
psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 201 [FREUD, Neue Volge
der Vorlesungen zur Einfiihrung in die Psychoanalyse, voi. XV, p. 98: eine
vollstandige Zerstòrung»]; il richiamo successivo è certamente a Id., Il
tramonto del complesso edipico; cfr. anche S. Freud, Inibizione, sintomo
e angoscia, voi. X, p. 290. 16 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili,
p. 40, e ivi p. 37: la sua essenza consiste semplicemente nelPespellere e
nel tener lontano qualcosa dalla coscienza» [Die Verdràngung]; cfr. anche Lo.,
L'Io e l'Es, FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 39 [Die Verdràngung, FREUD,
Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 300 [Hemmung, Symptom
undAngst, voi. XIV, p. 185]. FREUD, Al di là del principio di
piacere. LA REPUBBLICA domina la motilità». 20 Sull'altro però
esso sopravvive al di fuori» della coscienza godendo del privilegio della
Exterritorialùàt»: 21 una volta estromesso dal dominio cosciente può
sviluppare derivati e annodare connessioni», prolifera per così dire
nell'oscurità», im Dunkeln. 22 Proliferazione che rappresenta la possibilità
del suo sempre possibile ritorno». 23 Da qui la necessità di una costante
attività di resistenza» alle soglie della coscienza. In termini spaziali:
espulso un ospite indesiderato si deve poi far sorvegliare perennemente la
porta da un guardiano giacché altrimenti l'individuo respinto la
forzerebbe». 25 Poste queste premesse, Freud, ricalcando ancora le
orme platoniche, 26 individua nel sogno la via regia per
l'inconscio perché in esso i desideri repressi, approfittando del
cedimento della sorveglianza deU'Io dormiente», 27 e godendo del
casuale 20 S. Freud, L 'interpretazione dei sogni [Die Traumdeutung, voi. II/III, p. 573].
Riprende questa stessa immagine, accostandola ai conflitti della psyche
platonica, M. Stella. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, pp. 247-48
[Hemmung, Symptom und Angst,; cfr. anche Id., Il problema dell'analisi condotta
da non medici, Freud, Metapsicologia,
[Die Verdrdngung]. Sui meccanismi di difesa cfr., per es., S.
Freud, Metapsicologia, voi. VILT Sul dispendio psichico della resistenza
cfr. per es. S. Freud, Metapsicologia, voi. Vili, p. 41; Id., Inibizione, SINTOMO
(GRICE) e angoscia. Sulla distinzione tra derivati e rimosso originario,
e tra rimozione originaria e postrimozione, cfr. Id., Metapsicologia, Freud,
Metapsicologia, voi. Vili, p. 43 e nota; cfr. anche Id., Cinque
conferenze sulla psicoanalisi; Id., Introduzione alla psicoanalisi, Cfr. in
questo senso anche KENNY [citato da Grice, VOLITING – INTENTION AND UNCERTAINTY,
The Anatomy of the Soul – cf. Grice, THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL,
Oxford; FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), Vili E
IX, [H] 483 rinvestimento energetico pre-notturno, 28 riescono
talvolta a farsi breccia nelle porte custodite da resistenze» della
coscienza. 29 Non dunque nella Festung, la cui porta che conduce alla motilità»
durante il sonno viene chiusa» dal guardiano», 30 il sogno rappresenta infatti
la soddisfazione allucinatoria», non certo reale, del desiderio. 31 Al di là
dei meccanismi peculiari del sogno 32 e delle possibilità con le quali la
censura inconscia può deformare i pensieri onirici latenti, anche
per Freud accade talvolta, sebbene «raramente», che si formino
sogni che «significano proprio quello che dicono, e non hanno subito
alcuna deformazione dalla censura», 33 «come quello cui allude Giocasta
nell'Edipo re». 34 Infine, considerato che il concetto di inconscio
in senso stretto (dinamico e non descrittivobè direttamente
«ricavato» dalla dottrina della rimozione, nel senso che il rimosso «è
per FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 304; Id.,
Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), vMetapsicologia; in
Id., Analisi terminabile e interminabile, voi. XI, p. 509, viene ribadito
«l'irresistibile potere del fattore quantitativo» nei processi di rimozione;
sulla diversità dei vari stimoli cfr. per es. Id., L 'interpretazione dei
sogni, Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io; cfr. anche Id.,
Autobiografia, Freud, Il interpretazione dei sogni; al limite ci si può
rifare all'immagine delle «guardie alle porte dell'intelletto. Cfr. anche S.
FREUD, Introduzione alla psicoanalisi; Id., Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni) Cfr., per es., FREUD, Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla
'Interpretazione dei sogni', voi. X, p. 158. 34 Ibidem. Freud
allude qui al passo dell'Expo re in cui Giocasta dice: «Tu non temere le
nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in sogno con la propria
madre» (980-82; trad. it. di R. Cantarella). noi il modello
dell'inconscio», ove l'elemento essenziale è dato dal fatto che i
desideri confinati «non possono divenire coscienti perché una certa forza vi si
oppone», 35 esattamente come accade per i desideri repressi platonici tenuti in
schiavitù, possiamo concludere affermando che, di fronte alle
analogie tra le due concezioni complessive, questi ultimi possono
essere considerati alla stregua di desideri rimossi, dunque inconsci
in senso stretto (dinamico). Difese pre-oniriche La difesa
approntata dall’ACCADEMIA per prevenire l'emersione onirica dei desideri
repressi o se si vuole «rimossi» è così delineata: ci si deve «accostare al
sonno dopo aver tenuto ben desto il logistikon», facendo nel contempo «rimanere
assopito Yepithymetikon» - conducendolo cioè in una condizione tale per
cui non resti né «affamato» né sia «troppo riempito» - ed infiFreud, L'Io e
l'Es, voi. Cfr. nello stesso
senso JAEGER; GOULD, Platonic Love, London; Lear; HOBBS, Platon and the Hero. Courage, Manliness and the Impersonai Good,
Cambridge; GlGON; MONTONERI, Platone: l'eros, il piacere, la bellezza, in I
filosofi greci e il piacere,Bari; REALE (si veda), Corpo, anima e
salute, Milano. Nello stesso senso, ma un po' più cauti, cfr.
DODDS, Plato and the Irrational SOUL – cf. Grice --, Journal of Hellenic
Studies; KENNY [citato da Grice, VOLITING – INTENTION AND UNCERTAINTY. Di
diversa opinione FERRARI, 'AKRASIA' – cf. H. P. Grice ‘akrasia, incontentia,
weakness of the will -- as Neurosis in Plato's 'Protagoras', Boston Colloquium
in Ancient Philosophy, rispetto a Repubblica; egli rimanda però alla
messa in schiavitù del logistikon da parte déH'epithymetikon, che abbiamo visto
essere di natura diversa, in quanto tesa allo "sfruttamento" e non
all'allontanamento, dalla messa in schiavitù dei desideri paranomoi etc. Ho
cercato di affrontare l'intera questione in SOLINAS, Unterdrùckung, Traum und
Unbewusstes in Platons 'Politeia' und bei Freud, Philosophisches
Jahrbuch. ne «ammansendo lo thymoeides»; in questo caso «le
visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle leggi. Rispetto
all'emersione" onirica lo thymoeides presenta un carattere
asimmetrico: la sua inattività sembra agevolare l'emersione del materiale
represso, il suo risveglio rappresenta però un pericolo. Ciò è
verosimilmente dovuto alla sua costitutiva ambivalenza: privo della guida del
logistikon mostra la sua natura bestiale, aggressiva (cfr. 441a sgg.,
590b); caratteristica che potrebbe suggerire che esso possa contribuire
alla manifestazione stessa dei desideri paranomoi nel loro carattere
marcatamente omicida, e che renderebbe conto del legame tra il logistikon ed un
vago «ciò che è socievole». Quanto all' epithymetikon, il rimarcare
la pericolosità del lasciarlo «affamato» può esser inteso sia come un
richiamo alla concezione del desiderio quale soddisfazione di una
mancanza, sia alla formazione di sogni non appaganti, avvalorata dal fatto che
l'attività onirica dell' 'epithymetikon è detta comprendere oltre alle
sue «gioie» anche i suoi «dolori» (%aipov r\ À.imo'unevov). Richiamo
all'incubo che trova un puntello già nel libro I: l'uomo ingiusto «spesso
si risveglia dal sonno, come i bambini, in preda al terrore»
(330e6-7). Anche rispetto al logistikon, ora nutrito da «buoni
discorsi e ricerche, emerge un'asimmetria funzionale: il sonno
rappresenta l'inattività delle sue funzioni di controllo e resistenza, il suo
risveglio non comporta però la capacità di svolgere alcuna attività inibente, è
limitata allo svolgimento di funzioni intellettuali interne: «solo in se stesso
nella sua purezza» potrà «venire in contatto con la verità. 38 Attività
che 37 Anche in Timeo 45e-46a emerge uno stretto legame tra
tranquillità e qualità dei sogni, e in 71c-d tra condizioni pre-notturna
e sogno. 38 Cfr. nello stesso senso anche VEGLERIS.
Profondamente diversa è la concezione del Timeo ove<è il fegato a fornire
una conoscenza non razionale che la ragione deve «interpretare con
non ha, quindi, niente a che fare con l'emersione dei
desideri repressi. (Rispetto a Freud si potrebbe pensare alla netta
distinzione tra il lavoro intellettuale preconscio svolto nel sonno
dall'Io e l'emersione onirica del rimosso). 39 Platone non afferma
del resto mai la possibilità di un intervento diretto (notturno) del logistikon
teso a calmare o sedare o compiere una qualsiasi operazione tesa ad
arginare eventuali intemperanze delle altre istanze. Il loro assopimento,
come viene ribadito due volte nel proseguo del passo, deve essere perseguito e
raggiunto prima di abbandonarsi al sonno; soltanto dopo aver assolto
questo compito ci si può finalmente concedere il riposo. La non-emersione dei
desideri è, dunque, garantita univocamente da un intervento consapevole, pre-notturno.
Le possibilità d’interrelazioni nei processi onirici paiono perciò
significativamente ridotte rispetto a quelle della veglia, tanto da non
contemplare casi di vero e proprio conflitto. Tutt'al più la parte
razionale può essere turbata dalle gioie o dai dolori dell' epithymetikon,
accenno che sembra indicare che essa si limiti a percepire
passivamente, ad assistere impotente alle sue turbolente
manifestazioni. In conclusione, il quadro dei processi onirici è
così articolato: o il logistikon è desto e le altri parti dormono, ed
allora «le visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie
alle il ragionamento dopo il risveglio. Sempre diversi da quelli di
Repubblica sono i sogni quali appaiono in Fedone, Critone, Leg.,
Epinomide, poiché veicolano messaggi di origine extra-psichica: cfr. al
riguardo Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze. Cfr., per es., S. FREUD,
L’io e l'Es: un lavoro intellettuale sottile e difficile, che normalmente
richiede una rigorosa meditazione, può essere effettuato in modo
preconscio senza pervenire alla coscienza. Non vi sono dubbi su casi del
genere: essi si verificano ad esempio nel sonno», e Id., Introduzione
alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni): la funzione preconscia svolta
dall'Io può ben accadere «durante la notte» ma «non ha nulla a che fare
con il lavoro onirico. leggi, ed esso può attivare le sue funzioni
intellettuali; oppure V epithymetikon e verosimilmente lo thymoeides son
desti e il logistikon dorme, ed allora emergono i desideri repressi.
Essendo l'esito univocamente determinato da un intervento indiretto e
consapevole, tale concezione non ha niente a che fare con la «difesa» di
Freud, incentrata sulla censura onirica, diretta ed inconscia. In Platone, nel
sogno, i desideri repressi o non compaiono affatto o dilagano senza
indossare maschera alcuna. 5. Strategie di controllo e caratteri
universali Ora, poiché leggiamo che proprio chi «si trovi in una
condizione di sanità e moderazione» deve ottemperare alle suddette misure
preventive prima di concedersi il riposo, sì da evitare la manifestazione delle
empie visioni, è necessario che sia presente, anzi incombente il pericolo
della loro comparsa. La ragione metapsicologica fondamentale della
precarietà di ogni forma di difesa nei confronti dei desideri paranomoi,
anche rispetto ai moderati, ci è data nel brano che chiude l'analisi dei
processi onirici: Però parlando di queste cose siamo andati troppo
lontano. Ma ciò che vogliamo capire è questo: in ognuno - anche in quei
pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati - è senza dubbio
presente una forma di desideri terribile, selvaggia e illegale, che si
manifesta chiaramente appunto nel sonno. Il sogno
rappresenta, dunque, lo smascheramento delle apparenze, il riconoscimento che
«in ognuno», anche in coloro che più sembrano moderati, nonostante ciò
possa parere inam 40 Cfr. per es. S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), voi; sulla metafora politica del sogno come
«conquista» e sulla «resistenza delle popolazioni soggiogate» cfr. Id.,
Compendio di psicoanalisi, voi. missibile, ebbene anche in loro, anzi in
«noi» - Platone qui sembrerebbe includere anche se stesso - questa specie
di desideri esiste: essa «si manifesta appunto nel sonno». Poiché il moderato
è sicuramente colui che ha operato la migliore repressione, i desideri
paranomoi in lui debbono essere stati «interamente allontanati, non sono perciò
né pochi né deboli né schiavi. Ciò nonostante tale operazione lascia
aperta la via alla possibilità del loro ritorno. Lo stesso pericolo affiorava
del resto nel brano sull'acropoli, ove Platone scriveva che gli uomini
«cari agli dèi», in altri termini i moderati, predispongono la «guardia» alle
porte dell'acropoli. Ta hautou ethe: nel sogno V epithymetikon
soddisfa «i suoi abituali costumi» o «i propri caratteri» (571c7). In
questa definizione sta la chiave che spiega l'incombenza del pericolo: siamo di
fronte ad una «specie di desideri tremenda, selvaggia e illegale» che
costituisce un elemento strutturale dell' 'epithymetikon. Trattandosi di
un'istanza costitutiva e originaria della psyche, la specie epithymetica ad
essa connaturata non può che essere presente in ogni uomo. E universale.
Con ciò Platone sembra fugare ogni dubbio rispetto al fatto che i
desideri paranomoi «probabilmente nascono in ognuno» C571b56). Del resto i
desideri non necessari bussano alle porte dell'acropoli fin dalla giovane età,
come mostrano i molteplici richiami ad operare una loro repressione ed
educazione «fin da giovani. Certo, il fatto che i desideri
paranomoi repressi e allontanati «esistano» anche nei moderati non significa
che il loro status sia lo stesso di quelli repressi e tenuti in schiavitù
nei non-moderati. Con ciò veniamo all'intreccio tra i vari tipi di repressione
i cui fili è giunto il momento di provare a dipanare. Bipartiamo
dal carattere oligarchico. Egli «rende schiavi» i desideri non necessari,
in altri termini essi «vengono tenuti sotto controllo con la forza»
(554cl: katechomenas bia); spiega ancor meglio Platone: il carattere
oligarchico] con una sorta di apprezzabile violenza su di sé tiene a
freno gli altri cattivi desideri interni che pure lo abitano, non perché
li convinca che non vanno nella direzione migliore, né li ammansisca con
un discorso razionale, ma con il peso della necessità e della paura
(554cl2-d3: èrcieiKeì xivi èonnou pm Karéicei oì> TteiOcov ot>8'
finepcòv A,óy(p). La capacità di convinzione e persuasione {peithó) della
sfera razionale è qui direttamente contrapposta alla forza o violenza (bia) di
una repressione che, sebbene nei suoi intenti sia apprezzabile, lodevole
(epieikei), con le catene della schiavitù non risolve il problema. Siamo
di fronte a due modelli di gestione del desiderio alternativi: l'uno repressivo,
negativo, l'altro persuasivo, positivo. 41 Di contro, è anche vero
che Platone discutendo del carattere democratico scrive: se accade
che qualcuno gli dica che alcuni piaceri sono relativi ai desideri belli e
buoni, altri a quelli malvagi, e che bisogna praticare e onorare i primi,
reprimere e mettere in schiavitù i secondi, in tutte queste occasioni
scuote la testa e afferma che essi sono tutti uguali e di pari rispetto
(561b8-c4). Poiché qui la messa in schiavitù assume un valore
positivo, sembra emergere una contraddizione. In verità però come
il processo di repressione svolto dall'oligarchico è «apprezzabile» nelle
intenzioni, è comunque meglio di niente per un individuo degenerato, così nel
«discorso vero» che deve esser fatto passare nella psyche del giovane
carattere democratico, che è ancora più avanti nel processo di
degenerazione, tanto da non 41 Anche D. Hellwig (n. 3), soprattutto
pp. 147-54, insiste su «die Alternative bia-peitho», ovvero tra
l'atteggiamento che «mit Gewalt unterdriickt» e quello «durch Peitho», non solo
rispetto al carattere ed alla costituzione oligarchica ma nei confronti
dell'intera fenomenologia degenerativa; la Hellwig inoltre riferisce tale
alternativa, ai paradigmi naturalistici di fondo adottati da Platone.
preoccuparsi ormai di controllare alcun desiderio, sarebbe già
sufficiente se egli comprendesse che deve tentare di contrastare perlomeno i
suoi desideri peggiori. Includendo a tal fine l'adozione della strategia più
drastica: la loro repressione e messa in schiavitù. Del resto, tale
strategia dovrebbe essere l'unica a disposizione dei degenerati caratteri
oligarchico e democratico (e anche del timocratico), nei quali il
logistikon, l'unico in grado di gestire i conflitti in modo «armonico», è ormai
«asservito» 42 all' ' epithymetikon (o allo thymoeides. Stringente il
parallelismo semantico e concettuale che si pone a livello politico
nell'oligarchia. Ivi la degenerazione politica e sociale permette la nascita e
proliferazione di «ladri, tagliaborse e saccheggiatori» «nascosti» negli angoli
della polis che «le autorità provvedono a tenere sotto controllo con la
forza» (ove, èni\i£teiq pUa KoaéxoDow ai àp%ou). Il circolo della
degenerazione, a livello sia psichico che politico, si avvita su stesso:
conflitto e disarmonia generano elementi conturbanti, laceranti, patogeni,
annidati negli anfratti di psyche e polis, di fronte ai quali l'unica
arma, ormai, è quella inefficace e patogena, ancorché lodevole, della repressione
violenta. In questo caso la «schiavitù» va intesa nel senso dell'asservimento,
dello sfruttamento positivo: «l'una calcolando e studiando il modo di
aumentare le ricchezze, l'altro onorando le ricchezze»; viceversa la
schiavitù dei desideri ha carattere esclusivamente negativo: di
incatenamento, espulsione, allontanamento. 43 Sull'armonia psichica
instaurata dal logistikon nel filosofo, e sulla sua contrapposizione con
la scissione psichica dei caratteri degenerati cfr. R. KRAUT, Plato's Comparison of
Just and Unjust Lives, in Hòffe, Platon. Politela,
Berlin. Diversa la questione che si pone rispetto alla kallipolis, ove
Platone, rimarcando il suo elitarismo e pessimismo antropologico, difende la
necessità di «asservire» ai filosofi, ovvero di «imporre dall'esterno le
direttive corrette» agli individui ed alle classi sociali da lui considerate
non pienamente educabili. Se in entrambi i casi si tratta di una extrema ratio,
nell'uno si fa fronte a differenze antropologiche costitutive, tali per
cui l'auspicata armonia sociale trova agli occhi di Platone dei limiti
invalicabili; nell'altro inve- Riprendendo i fili delle diverse strategie
di controllo dei desideri non necessari emergono allora quattro modelli
paradigmatici (escludendo la loro soddisfazione): due repressivi, uno
misto, uno persuasivo: 1) quello per cui essi vengono «distrutti»; 2) quello
che li «reprime e mette in schiavitù»; 3) quello in cui il desiderio «represso
ed educato» viene «allontanato»; 4) quello in cui il desiderio, anziché esser
«controllato con la forza», è convinto e ammansito. Ciò considerato,
l'indeterminata «repressione» dei desideri paranomoi che conduce al loro intero
allontanamento od alla loro esplicita permanenza in condizione di
schiavitù non è esattamente una medesima operazione repressiva come
l'abbiamo interpretata inizialmente, ma rimanda a due strategie affini ma
distinte. La prima rientra nel modello che «reprime e mette in schiavitù»
ed ha l'esito univoco di spostare e incatenare il desiderio. La seconda rientra
nel modello per cui il desiderio «represso ed educato viene allontanato». Qui
la compresenza di repressione e educazione, sì che il desiderio «allontanato»
non è né pienamente persuaso né brutalmente incatenato, designa un approccio
misto, e spiega l'unificazione in un'unica categoria di persone, i
moderati, di coloro che hanno interamente allontanato i desideri
paranomoi o nei quali permangono ma sono «pochi e deboli». Modalità nella quale
potremmo forse inserire anche quei desideri «banditi» che Platone abbandonava al
proprio destino: in tutti e tre i casi i desideri vengono repressi, non
distrutti, ma si tratta di una repressione per così dire morbida, tendente
perlomeno in parte alla loro «educazione», sì che essi non permangono, in
massa, alle porte dell'acropoli. Viceversa, la strategia puramente
repressiva, di ce viene criticata una modalità di controllo
metapsicologica che adotta, a priori ed unilateralmente, un approccio
brutalmente repressivo, lacerante. 45 Cfr. rispettivamente: 1)
560a5: diepbtbaresan: kolazein te hai doulousthai; anche:
douloumenos; kolazomene kaipaideuomene
apallattesthai; anche: apallaxeien; bia katechei oupeitho oud'henieron
logo. messa in schiavitù, lascia intonso il potenziale energetico
dei desideri; è questa la via che conduce prima al democratico,
poi' alla mania del tiranno. In conclusione, l'eventualità
che anche nei moderati emergano oniricamente i desideri paranomoi si lascia
intendere come se, piuttosto che singoli desideri incatenati che premono
ininterrottamente alle porte dell'acropoli, siano gli ethe originari e
costitutivi dell' ' epithymetikon a riuscire talvolta ad approfittare di una
certa eccitazione pre-notturna e del sonno del logistikon per mostrare le
strutture universali, esse stesse «inconsce», che generano e sospingono in
avanti i singoli desideri paranomoi - come sarà poi per l'Es, non solo
per i singoli desideri rimossi, di Freud -, Al di là di ogni modalità di
controllo adottata e adottabile, siano pure le più persuasive, il sogno
mostra che è impossibile sradicare definitivamente la «specie» dei
desideri paranomoi in quanto tale, parte propria di quella «bestia policefala»,
tremenda e selvaggia, che abita ogni uomo, e fa sentire, di tanto in
tanto, la sua minacciosa presenza, «anche in quei pochi di noi che
sembrano essere del tutto moderati». Jaeger scrive che siamo di fronte
alle «regioni istintive subcoscienti dell'anima»; cfr. nello stesso senso
Kenny [citato da Grice, VOLITING – “INTENTION AND UNCERTAINTY”]; Vegleris;
Janke, AAH0ELTATH TPAmiMA, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie. Anche Freud
opera del resto una distinzione tra singolo desiderio rimosso e strutture
«istintuali», innate ed «inconsce» dell'Es, cfr. Freud, Compendio di
psicoanalisi; L’uomo Mosè e la religione monoteistica; Id.,
Metapsicologia; sulla differenza tra individuo e specie cfr. Id., Dalla
storia di una nevrosi infantile, voi. 47 Cfr., per es., S. FREUD,
Introduzione alla psicoanalisi, tutti gli uomini hanno questi sogni perversi,
incestuosi e omicidi», e Id., Alcune aggiunte d'insieme alla Interpretazione
dei sogni, I miei rapporti con Popper-Lynkeus; Gould. Sostengono
apertamente l'universalità dei desideri paranomoi, tra gli altri,
Guthrie, A History ofGreek Philosophy, IV: Plato, Cambridge Dal sogno alla
realtà: derive psicopatologiche Se ritorniamo alla degenerazione
caratteriale, è facile ora riconoscere come rispetto alle modalità
intrapsichiche di contenimento del desiderio l'approccio univocamente
repressivo alle epithymiai sia il principale responsabile della deriva
psicopatologica. La rottura dell'armonia intrapsichica, condizione
necessaria dell'integrità, salute e euàaimonia individuale assicurata dal
governo del logistikon, ha inizio con il carattere timocratico, che
colloca sul trono dell'acropoli lo thymoeides. Se egli non rappresenta ancora
una figura patologica in senso stretto le conseguenze del defenestramento
si fanno però sentire nella figura immediatamente successiva: il
carattere oligarchico, dominato ormai dai desideri necessari dell 1 '
epithymetikon, non trova altra strada che reprimere e mettere in schiavitù gli
altri desideri. Così facendo egli però non risolve ma acuisce la scissione e la
lacerazione intrapsichica: «un simile uomo non potrà dunque esser libero
da conflitti interiori, e non sarà uno ma in un certo senso doppio. In
negativo: «la vera virtù, quella della psyche concorde a armoniosa, fuggirà via
lontano da lui. La stessa strategia repressiva è adottata dal
giovane figlio democratico. Anche lui, dunque, si impegnerà a
governare con la forza quei piaceri che vi insorgono chiamati non; BlRAL,
L’ACCADEMIA e la conoscenza di sé, Bari. KAHN; Klosko, The "Rule" of Reason
in Plato s Psychology, «History of Philosophy Quarterly;VoiGTLÀNDER; Lear, con linguaggio freudiano scrive che
anche nel migliore dei casi nella psiche vi saranno sempre desideri
paranomoi da rendere inoffensivi o da rimuovere. L'approccio duramente
repressivo mostra in questo caso la sua nefasta presenza nell'interazione
psyche-polis: i timocrati sono «educati non con la persuasione ma con la
forza. Necessari. Bice Sri kou oinoc, ap^cov xcòv év anta» èSovcòv),
In questo modo però, se talvolta alcuni desideri vengono distrutti, talaltra
invece proliferano «inconsciamente», rafforzandosi fino alla conquista
dell'acropoli. Saranno allora «i discorsi cialtroni» di cui si fanno
scudo a «chiudere le porte della regale fortezza» a più miti consigli e
ad «esiliare il pudore. 30 Solitamente, tuttavia, superata la lacerante
fase adolescenziale, l'uomo democratico riequilibra parzialmente i suoi
desideri e richiama a sé alcuni degli elementi in passato
sconsideratamente «esiliati. Il passo che porta alla mania tirannica,
nell'arbitrario determinismo degenerativo disegnato da Platone, è però
ormai cortissimo: l'Eros tyrannos, che raccoglie intorno a sé
l'intero sciame dei desideri paranomoi, facendosene «capo» e «guida», e
quelle opinioni che gli fanno da «scorta», si liberano definitivamente «dalla
schiavitù», mentre prima, quando egli «si autogovernava in modo
democratico, esse [le opinioni] si liberavano solo in sogno, nel sonno.
51 Le catene della schiavitù sono state spezzate: Ma sotto la
tirannide di Eros, divenuto in ogni momento della sua vita da desto quello che
raramente gli capitava di essere in sogno, non si asterrà da alcun
tremendo assassinio né da alcun cibo né azione. L'uomo tirannico è
«colui che da sveglio è proprio come l'avevamo descritto nei suoi sogni.
Dal punto di vista della fenomenologia degenerativa questa figura è
dunque dovuta, a livello psicodinamico, al «ritorno» di un represso
che scavalca le barriere oniriche: si transita dall'appagamento
oni- [Cfr. anche Lear. La comparsa dell'uomo democratico è, in linea di
principio, il ritorno del represso nella generazione successiva»;
sull'oligarchico. Se sono le opinioni che si liberano dalla schiavitù, è però
l'Eros con i suoi desideri a riempire di contenuti sia le manifestazioni
oniriche sia le azioni dissolute del tiranno. rico a quello
reale dei desideri repressi, dall'estemporanea rappresentazione della loro
soddisfazione nel teatro dell'immaginazione alla conquista permanente
dell'acropoli. L'Eros «spadroneggia» ora incontrastato, «governa ogni
settore della psyche abitandovi come un tiranno. I rapporti di forza della
psyche-polis vengono nuovamente ribaltati: è l'Eros a «sopprimere e
scacciare fuori di sé i desideri e le opinioni oneste. Tirannia che
genera una profonda lacerazione, un'espropriazione della volontà. Il soggetto è
in balìa dei suoi desideri più selvaggi, rafforzatisi al grado estremo, ne ha
perso ormai completamente il controllo e, messo all'angolo dalla loro
inappagabile ed ininterrotta pressione, «ogni giorno e ogni notte», ne
cade preda. Siamo alla mania: l'uomo tirannico è «reso folle dai
suoi desideri e amori. Riepilogando, dal punto di vista intrapsichico il
processo di degenerazione avviato dal defenestramento dell'armonico
ed armonizzante logistikon e concludentesi con la tirannia dell'Eros si
configura, perlomeno nelle sue ultime tre fasi, quale risultato di un
approccio brutalmente repressivo del materiale epithymetico. La
repressione permette difatti la permanenza e il rafforzamento
«inconscio», accertato grazie all'analisi dei processi onirici, dei
desideri repressi, i quali, una volta rinvigoritisi, riescono a penetrare
nell'acropoli, generando stati psicopatologici di lacerazione, frammentazione,
dispersione ed espropriazione maniacale. Dalla nostra prospettiva
psicodinamica è dunque a tale strategia di controllo che deve essere attribuita
la più grave responsabilità della fenomenologia degenerativa. Sul doppio
livello psico-politico della «schiavitù» e sulla metameleia, cfr. GlGON,
Die Unseligkeit des Tyrannen in ACCADEMIA Staat, “Museum Helveticum”. all:
navvo|iévcp imo èniQv\ii&v te k<xì épcÓTCOV. L 'altra via: la
canalizzazione ACCADEMIA, LA REPUBBLICA La strategia antitetica alla
repressione è quella della persuasione e educazione del desiderio. L'architrave
metapsicologico sotto il quale si dispiega tale modalità è rappresentato
dall'adozione di un modello pulsionale "idraulico" che assicura
all' epithy mia, e all'eroi-, una intrinseca malleabilità.
Uepithymia, anzi le epithymiai dal punto di vista dinamico si
delineano quale forza fluida, canalizzabile, come emerge limpidamente nei
libri: «Sappiamo che quando le epithymiai di una persona si concentrano con
forza in una sola direzione, esse ne risultano indebolite nei riguardi di tutto
il resto, come una corrente lì incanalata. Così, prosegue L’ACCADEMIA,
in quella persona in cui esse (le epithymiai) sono rivolte agli
studi e a ogni attività simile, esse riguarderanno, credo, il
piacere della psyche per se stessa e trascureranno i piaceri del
corpo», come accade nel philosophos. Se, allora, si considera non
Yepithymia nella sua fenomenica e contingente singolarità, si tratti di
specifici desideri necessari, non necessari e/o paranomoi, ma le
epithymiai nella loro plurale unitarietà, esse risultano essere una forza
energetico-pulsionale unitaria, canalizzabile verso mete diverse, anche
opposte, secondo un modello economico. Anche da qui l'insistere di
Platone, a monte, piuttosto che sui contenuti specifici, sulle strategie
di gestione del materiale epithymetico. Questa è la ragione,
dalla nostra prospettiva psicodinamica, con la quale si spiega perché
l'estensione metapsicologica della tripartizione poteva coniugare
esplicitamente, in modo simultaneo e complementare, piaceri, desideri e
governi: ogni parte, in conformità con la sua natura intrinseca, «ha» dei
desideri specifici, ma essi possono essere preservati, rinforzati e
quindi soddisfatti soltanto in virtù dell'egemonia intrapsichica
raggiunta dalla singola istanza anche perché le Resp.: lóonep
pev\ia éiceìae àjicoxexE'Uiiévov. COMMENTO AI LIBRI VHI E epithymiai sono
una risorsa unitaria e limitata. Modello rafforzato, descrittivamente, da
una sorta di estremizzazione erotico-caratteriale operata da Platone: si
tratti del filosofo o meno, chi «ama» veramente una cosa la «ama in tutta
la sua forma, come chi «desidera qualcosa la desidera in tutta la
sua forma. Estremismo che conforta la tipologia caratteriale del libro
Vili. L'integrazione tra queste due dimensioni, psicodinamica e
caratterologica, è, infine, rinsaldata dall'eros: unità di misura comune
à tutti i tipi, dal filosofo, letteralmente erastes della verità, 57
aìl'erotikos e al tirannico. La stessa contrapposizione strutturale tra
repressione e canalizzazione risulta così radicalizzarsi nel nome dell'eros. Ai
due estremi: su un versante scorre il fiume impetuoso dell'eros tyrannos, ove
confluiscono i terribili desideri paranomoi, che trascina il soggetto verso il
mare .aperto deìl'adikia; sul versante opposto si distende l'intensa
ma benefica corrente epithymetica dell'eros filosofico, la sola
forza psichica che in virtù della sua potenza può supportare la
lunga navigazione che permette infine di approdare nel porto sicuro
della dikaiosyne. 38 In conclusione, posta la permanenza di specie
di desideri stabili, indissolubilmente legate alle tre istanze di
riferimento, come quella dei desideri paranomoi, dalle quali non si può
mai svincolarsi del tutto, una parte cospicua del materiale epithymetico,
decisivo rispetto agli equilibri o squilibri dei rapporti 56 Cfr.
in questo senso anche J. ANNAS, An Introduction to Plato's 'Republic', Oxford
-Sulla centralità psicologica, etica e politica dell'eros e la possibilità
di una sua «canalizzazione» o «sublimazione» nella Repubblica ma anche
nel Simposio e nel Fedro cfr. M. VEGETTI, Quindici lezioni su Platone,
Torino, Rimarca la necessità di non confinare l'eros nella dimensione
subconscia L.H. CRAIG, The War Lover. A Study of Plato's 'Republic', Toronto «a psychology
that confines eros to the sub-rational parts of the soul most definitely falls
short of the truth. LA
REPUBBLICA di forza intrapsichici complessivi, è intrinsecamente
trasformabile, manipolabile. E questa l'energia pulsionale, in gran parte
riconducibile all'universo dell'eros, che non è solo possibile ma
doveroso utilizzare, canalizzandola verso nobili mete, anziché tentare,
inutilmente ed invero assai pericolosamente, di annientarne il potenziale con
strategie brutalmente repressive. E questo lo snodo cruciale di fronte al
quale vediamo divaricarsi i due approcci fondamentali, le due strategie
basilari di controllo del desiderio adottate da Platone: repressione versus
canalizzazione, violenza versus persuasione, schiavizzazione versus educazione.
È questo il bivio dal quale si può imboccare la via che conduce
all'armonia, alla salute, all' 'eudaimonia e alla giustizia del filosofo,
o invece il cammino psicopatologico che sbocca, da ultimo, nella mania del
tiranno. L'uomo massimamente ingiusto, infelice, malato, espropriato, travolto
da una massa di epithymiai feroci, incontrollabili, ormai liberatesi
dalle catene di quella schiavitù che le relegava al di là dei confini
della coscienza, sottraendole ad ogni controllo diretto e permettendo così il
rafforzamento fino al massimo grado, e quindi l'esplosione finale del
loro devastante potenziale. Alberto Radicati, conte di Passerano e
Cocconato. Keywords: implicature della morte, eros e tanatos, amore e morte. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Coco: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del mutuale prevalente
– il contratto di carattere mutuale prevalente – scuola di Crotone – scuola
d’Umbriatico – filosofia crotonese – filosofia calabrese -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Umbriatico). Filosofo
crotonese. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Umbriatico, Crotone,
Calabria. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can play with
words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is conversation a
work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the ‘codice’ of
the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’,
short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It sounds slightly
fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco
is a performativist, so he understands that ius must ‘constitute’ and define:
so he goes on to analyse what I’ve been analysing too – what is to cooperate –
in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements
for mutuality, and so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it
provides a framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a
Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” -- Dal punto di vista sistematico molto vicino
alla visione del grundnorm, teoria da Kelsen.
Si laurea a Napoli. Sostituto procuratore del Re a Cassino. La Regia
Procura di Roma. Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Roma.
Fondatore dell'Ufficio del Massimario. Insegna a Roma. Noto soprattutto per
aver partecipato ai lavori di stesura del nuovo codice civile italiano nonché
del codice di procedura civile, entrambi entrati in vigore nel 1942. Si occupa
prevalentemente della stesura di leggi in materia del contratto, obbligazione,
e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli eclettismi contemporanei e le lezioni
di filosofia del diritto” (Lagonegro, M. Tancredi et Figli); “La filosofia del
diritto”; “Una quistione di diritto transitorio in tema di farmacie” (Milano,
Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo capoverso dell'art. 375 del codice
penale” (Milano, Società Editrice Libraria); “Luce di pensiero italico nelle
tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed. Meridionale); “Per la tradizione
giuridica italiana” (Milano, Società Editrice Libraria); “Saggio filosofico
sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Sulla
costituzione di parte civile delle associazioni sindacali” (Roma, Edizioni del
diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale (recensita da Santi
Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, MILANI); “Intorno alla
pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma, U.S.I.L.A.); “Raffaele
Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro e la impresa
cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli, SIEM). Annuario
Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna di dottrina,
legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista di diritto
pubblico. La giustizia amministrativa, Roma,
Società per la Rivista di diritto pubblico e la Giustizia amministrativa, Una
vita per il Diritto Giusto, La giustizia penale. Rivista critica settimanale di
giurisprudenza, dottrina e legislazione, Società editoriale del periodico La
giustizia penale, Tale trasferimento avvenne per via di un suggerimento
pervenutogli al Re dagli allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli
Salvatore Pagliano e Giacomo Calabria.
La giustizia tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città
di Castello, Società tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del
Regno d'Italia, Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva.
Rivista di diritto e procedura penale, Milano, Vallardi. Nominato pretore di
Lagonegro. Pretore di Moliterno, assume in seguito le funzioni di sostituto
procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma presso la Procura. Presidente di
sezione della Corte Suprema di Cassazione, oltre che Professore di Filosofia
del diritto. Dotato di una solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro
applicativo, partecipa ai lavori per la stesura del Codice Civile e del
Codice di Procedura Civile.Cura vari aspetti della normativa: contratto,
obbligazione, diritto del lavoro. Una delle sue grandi doti è quella di riuscire
a non farsi condizionare dal regime dell’epoca. Non accetta la candidatura in parlamento
offertagli dai suoi conterranei della Calabria. “Una Vita per il diritto
giusto” si lascia leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i
tratti che lo hanno contraddistinto come uomo, come magistrato e
giurista, troveremo, inoltre, la sua attività di ricerca e di elaborazione
teoretica. Sotto il profilo sistematico si accosta alla visione di Kelsen per
quanto riguarda l’ordinamento e le codificazioni, nonché, proprio per la
ricerca e per l’identificazione di una grande norma fondamentale. Dal punto di
vista epistemologico, rappresenta la condanna dell’ideologia e della prassi
delle scomposizioni in una galassia di frammenti superficialistici. Lo sguardo
al pensiero C. ci consente anche di sottolineare la sua analisi critica, egli
non si ferma alla semplice stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei
confronti del singolo. Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare
come all’accanimento contro la condotta individuale della persona fisica non
corrispondesse eguale severità verso gl’atti illeciti e dannosi della pubblica
amministrazione. Scrive “la responsabilità della pubblica
amministrazione”. -- è stato anche filosofo e storico al tempo stesso.
Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso ricordare. Dal
padre, persona di cultura, ricevette i primi rudimenti di
storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno, successivamente, in
taluni suoi saggi filosofici su AQUINO (si veda). Inizia la carriera
giudiziaria come pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di Moliterno, per
assumere successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore del Re a Cassino.
Trasferito a Roma, presso quella Regia Procura, col viatico di rapporti oltremodo
favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali Pagliano e
Calabria della Corte d’Appello di Napoli, dove vi
permarrà per passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello.
Ottenne la nomina a Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello
di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a
presiedere il Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della
Corte Suprema di Cassazione. Il giornale “Il Tribunale”, pubblicazione
mensile edita a Roma, lo saluta a tale nomina. È della nostra famiglia,
di quell’aristocratica famiglia giornalistica, alla quale non disdegna di
appartenere, nonostante l’altissimo grado che ricopre nell’ordine
giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con quello forense, Presidente di
Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di Cassazione sin
dagli anni ormai lontani della sua felice unificazione. E stato, infatti, tra
i fondatori e promotori di quell’Ufficio del Massimario che raccoglie il vasto
e prezioso materiale giurisprudenziale della Suprema Corte. Non appena
conseguita la promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica di Consigliere,
partecipando attivamente alla funzione giudiziaria di così eminente consesso.
Ci asterremo, di proposito, da ogni aggettivazione che non sarebbe di buon
gusto né riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaboratore; non possiamo,
peraltro, esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo di Professore
di Filosofia del Diritto nella Scuola di Perfezionamento di Diritto
Penale né l’altro, per noi particolarmente caro, di Redattore Capo
della Rivista di Diritto Pubblico. La recente nomina, se
indubbiamente costituisce un nuovo riconoscimento dei meriti di così
eletto Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore di così
ambita carica. Ma l’accoglierà di buon grado, assolvendo
anche dal nuovo seggio presidenziale le delicate funzioni giudiziarie,
alle quali porta il valido contributo della sua competenza, ma soprattutto
una grande serenità ed equanimità. Riguardo ai meriti illustrati
dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus honorum non è stato
caratterizzato soltanto da solidissima dottrina e da rigorosissimo lavoro
applicativo, ma anche dalla partecipazione costante all’evoluzione dell’ordine
giudiziario, e tappa importante in tale attività, fu la Sua nomina a membro del
Consiglio Superiore della Magistratura, ossia dell’organo politico e
politico-amministrativo, anche se in base alla legislazione dell’epoca il
Consiglio Superiore della Magistratura non aveva ancora il potere e
l’importanza che la Costituzione e la successiva normativa di attuazione gli
diedero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario civile della
Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu tra i
principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni, perchè
all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino
esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli
e di Palermo (che assunsero anch’esse la denominazione di Corte di
Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre
quella di Roma fu trasformata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare
dell’insegnamento di filosofia a Roma. In questo ambito, svolse attività
accademica per quel periodo che vide la Scuola annoverare i più bei nomi della
dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano, ancora oggi, alla base
della trattatistica più importante. Altro aspetto rilevante della sua
eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio del nipote dell’alto
Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il Professore Nicola Coco,
dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal coerente riferimento
alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico quali unica garanzia
di contratto sociale. Per questo, il periodo che va dal primo
dopoguerra all’ avvento del fascismo, costituisce una parentesi temporale di
efficace e prorompente elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro
e sindacale, o “giuslavorismo”, costituendo davvero una novità assoluta
nelle scienze giuridiche del tempo. Così, quando si verificheranno gravissime
crisi socio0economiche che metteranno a rischio l’assetto della produzione, la
politica e i sindacati troveranno i loro punti d’incontro nel noto
Statuto del Lavoratori, una ri-edizione aggiornata delle linee guida
tracciate, agli inizi del “secolo breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i
quali appunto C. Altro aspetto qualificante del giurista è l’aver concorso
alla stesura del Codice Civile, ai cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e
Grandi (che è il sottoscrittore anche del Codice di Procedura Civile,
emanato anch’esso, furono chiamate le più belle e fertili menti di magistrati e
giuristi. Cura vari aspetti della normativa (il contratto, l’obbligazione,
diritto del lavoro), tant’è, che nell’imminenza della promulgazione, il
Ministro Grandi gli inviò una lettera personale di ringraziamento per il
prezioso contributo offerto per il codice. Sua vita coincide con
l’immane conflitto mondiale, con la guerra civile e con la scia di
vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga del Re e la costituzione
della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad assumere la Presidenza
della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e fors’anche la carica di
Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta. Ha, nonostante tale ferma
presa di posizione nei confronti del regime fascista, sulla base di taluni
articoli che aveva scritto su “Il Messaggero” di Perrone, di commento a leggi
e questioni giuridiche di alto livello, ovviamente di epoca fascista, l’occhiuta
Commissione di epurazione, su decine di articoli scritti in una pluridecennale
collaborazione, ne scova qualcuno che suona come apologetico del Fascismo.
Nulla di più falso, quando era nota a tutti la dirittura morale del magistrato
integerrimo, del quale va appena ricordato, ammesso ve ne fosse bisogno, che
la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli fece pervenire sollecitazioni per
una causa che la interessava. Ebbene, Coco procedette secondo coscienza,
quindi non nel modo auspicato dalla sorella del Duce! L’epurazione ingiusta,
nella quale probabilmente influirono anche motivazioni non occulte di gelosia e
invidia da parte di taluni, soprattutto per il fatto che per meriti poteva
benissimo aspirare alle funzioni di Primo Presidente della Suprema Corte, ne
mina rapidamente le condizioni di salute. Negli ultimi mesi non volle proporre
ricorso contro i provvedimenti che lo avevano colpito e rifiuta cortesemente
anche una candidatura in Parlamento, per le elezioni, che i conterranei di
Calabria gli avevano offerto con affetto e riconoscenza. Spira serenamente,
non mancando nel suo testamento di perdonare cristianamente quanti gli avevano
provocato tanto immeritato dolore. Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa
cooperative e della mutue assicuratrici, delle societa cooperative –
disposizione generali – cooperative a mutualita prevalente. Articoli: societa
cooperative; societa cooperative a mutualita prevalente, criterio per la
definizione della prevalenza, requisiti delle cooperative a mutualita
prevalente. Del Lavoro. Le Società di MUTO SOCCORSO in Italia. Gobbi, nel
suo pregevole saggio Le Società di MUTUO SOCCORSO – cfr. Grice, the principle
of conversational (i. e. mutual) helpfulness -- dice che il nome di società di MUTUO
SOCCORSO è comunemente assunto d’associazioni, le quali hanno per loro
scopo principale di dare ai soci sussidi in caso di malattia o in altre
eventualità che interessino la loro famiglia o l’esercizio della loro attività
economica, ricavando i mezzi all’uopo principalmente da contributi dei soci
stessi. Considerato così il carattere economico-sociale dei sodalizi
muralisti, non possiamo sicuramente affermare che le prime traccie di
essi si riscontrino nelle antiche corporazioni d’arti e mestieri, nelle
maestranze, nei collegi, nelle università. Queste associazioni si
proponeno scopi di difesa professionale, di perfezionamento nell’arti
esercitate dagl’associati. Qualche volta, in via secondaria, l’esercizio di
pratiche religiose; e spesso assumeno importanza politica di prim’ordine e
conferivano dignità nobiliare, come nell’arti della repubblica di FIRENZE.
Abbiamo però nel nostro paese esempi di società mutualiste scaturite dal
vecchio tronco della corporazione o del collegio, o meglio che'di questo
possono reputarsi trasformazione. Così e non altrimenti noi possiamo
considerare la società fra i falegnami e fabbri di Faenza; l’altra pure
di Faenza fra calzolai ed arti affini; la società veneta Sovvegno
Calafati al R. Arsenale; la Società Calafati del porto di GENOVA; la
Società dei Cappellai di Padova; il Consorzio degli Orafi ed Argentieri
capi d’arte di Roma. Nè diverso giudizio possiamo recare sui
sodalizi che sorsero nel secolo decimosettimo e nella prima metà del
decimottavo. E questi sono: la Società dei calzolai di Cesena; le due Società
Maestri falegnami, ebanisti e carrozzai e fra falegnami ed arti affini di
Torino; la Società fra carrozzai, sellai, fabbricanti di Torino; la Società fra
calzolai padroni di Asti; la Società Archimede fra operai fabbri,
meccanici ed affini e fra fabbri ferrai e serraglieri (proprietari di
officina) (1700); la Confraternita Sovvegno fra israeliti di Padova; le
Società Riunite Sovvegni spagnuoli e tedeschi di Venezia; il Pio Istituto
lavoranti Milano, Società editrice libraria, pellai di Torino; la Società
Cocchieri e palafrenieri di Torino. Quantunque sorta nel 1738, la Unione
Pio-Tipografica Italiana di Torino può dirsi la prima che abbia assunto
dalle sue origini e poi meglio perfezionati con successivi adattamenti, i
caratteri del mutuo soccorso. Essa fu approvata con Regie patenti e
poi nel suo riformato organismo con Regie patenti 28 settembre 1770.
E ira i sodalizi che sorsero nella seconda metà del secolo
decimottavo e possiamo considerare, al pari della Unione Pio Tipografica
di Torino, come le più antiche Società di mutuo soccorso, meritano particolar
menzione: la Pia Unione fra lavoranti calzolai di Torino del i/54 e la
Società dei Servitori di Faenza T . 1 -^
a s ? c °nda metà del secolo decimottavo sorsero quindi in rippnr, • P
rim ? Società di mutuo soccorso, secondo il concetto moDaese affe[>m are che
di buon'ora si manifestò nel nostro Fara il^KfrfSr? 11 6 J° Uta A } P rev
idenza sociale. Ed è cosa singoconcettn°df nnl a Che ’ “® ntre secoQdo la
evoluzione logica del Sassari dalIe, f orme più semplici di essa
dovrebbe videnza tipIIa lesse, il risparmio, forma primigenia della
pre previdenza mutuaPs/nT 116 0I ! ganicile . sorse in Italia più tardi
della Hlllacoo^fonì qUale C r blna * due elementi del risparmio
auanrìn <yìà ^ !• ^ prime Casse di risparmio sorsero nel 1822,
litaria, la quale si esu M, Jl ns P arm io, che è virtù so adatto a
raccoglierlo duò P«p.»?r ma - pa e ® e quando trova l’organo domestiche,
ed in questa anche nel segreto delle pareti quanto
l’economiaVonetaria dp? 0 ^^^ fumare che esso è antico che l’atto primo
deTsodalizfo ? 10va inoltre considerare contributo che versa il
socio 1Sta + e Un atto dl ris P a nmio; il fini della mutualità,
rappresenta La - 1 fondi occorren ti ai “lata, sottratta alle spese
vofottSie sp t np dei SU01 guadagni risparoccorre per i bisogni della vita 6 6
n pUre risecata su quanto me„fo 0 U“liX a .S a m m uta 4,I?5', ’ ec
?l° 1 . d!,olmo " 0 no rapido l'inoroprimo dofsecoli“orsòrKtcietó Fi ” 0
al società di MUUO SOCCORSO. di dii Gl0va rammentarle dl Bergamo .
Pr« ’camnen*»! !’ ls p. tut0 n | armoniTo’dS el Teatr’f) 1 r?Ìni
SU Ì“ t ^ municipale Simoiie Mayr ano. la Pia Unione tessitori in
seta areento l a Società di M. S. fra cap’ aigento e oro di Tonno; nel 1884, la
Società Assieme a’gli altri benefici di ordine politico e 'sociale che la
unificazione del Regno ci recò, dobbiamo segnalare anche il rapido
incremento nelle Società di mutuo soccorso. Durante il periodo della
prima metà del secolo decimonono solo 48 Società nuove videro la luce,
come abbiamo veduto. Al 31 dicembre 1885, cioè dopo 35 anni soltanto, la
statistica a quella data denunzia la esistenza di 4896 Sodalizi e ah 31
dicembre 1894, dopo nove anni, ne troviamo 6722, con un aumento di 1826.
Vedremo in seguito quante e di qual forza siano quei sodalizi al 31
dicembre 1904, secondo la recente statistica, pubblicata dall’Ispettorato
Generale del Credito e della Previdenza. Le Società di mutuo soccorso
italiane, nella loro generalità, sono associazioni che esercitano in modo
prevalente funzioni di carattere assicurativo col principio della
mutualità, aggiungendo spesso a queste altre funzioni accessorie dirette
ad accrescere le forze economiche e intellettuali e morali dei
soci. Fra le funzioni di carattere assicurativo ha prevalenza in
tutte l’assicurazione di un sussidio in caso di malattia. Spesso vi si
aggiungono le spese funerarie in caso di morte ed un sussidio una volta
tanto ai superstiti. I sussidi di malattia sono commisurati ai
contributi, spesso con calcoli empirici, qualche volta alla stregua di
previsioni tecnicamente calcolate. Quasi tutte le Societàc he concedono sussidi
di malattia, per conseguire il diritto al sussidio fissano un periodo di
tempo dall’ ammissione, che comunemente chiamasi periodo di noviziato.
Sono poche le Società che accordano il sussidio subito dopo l’ammissione:
45 secondo l’ultima statistica (1); tutte le altre vanno da un minimo di
un mese ad un massimo di 24 mesi, e ve ne ha 120 nelle quali il periodo
di noviziato supera i 24 mesi. Ma il numero maggiore si condenza intorno
al periodo da uno a 12 mesi: il 76 per 100 del totale. Non
tutte le Società concedono il sussidio dal primo giorno della malattia,
sono anzi pocchissime quelle che lo concedono; le altre fissano un periodo, che
chiamono periodo di carenza, nel quale i soci non hanno diritto al
sussidio. Il periodo di carenza è di ordinario di uno a tre giorni, ma giunge
sino a dieci e per poche Società va oltre i dieci giorni. orefici
ed arti aifiai di Bologna, la Società Sant’Anna fra i maestri muratori di
Pinerolo; nel' 1835, la Società cocchieri e domestici di Sant’Antonio
Abate di Verona; nel 1836, la Società •di M. S. fra parrucchieri di
Novara, la Società di M. S. fra brentatori di Vercelli, la Società di M.
S. fra lavoranti guantai, tintori e conciatori di pelle di guanto di Torino, la
Società operaia di M. S. fra conciatori di Torino, la Società di M. S.
fra parrucchieri di "Torino, la Società dì vi. s. fra barbieri,
parrucchieri e profumieri di Bologna; nei 1444, il Pio Istituto di M. S.
pei medici e chirurgi della città e provincia di Bologna, la Società fra medici
e chirurgi di Lombardia in Milano, la Società di M. S. fra farmacisti,
medici e veterinari di Parma, la Società lavoranti calzolai di Pinerolo,
la Società di M. S. fra marinai pescatori di Trapani; nel 1846, la Società di
M. S. dei medici-chirurgi della città e provincia di Ferrara, l’Istituto
di M. S. fra medici, chirurgi e farmacisti di Roma e sua provincia, la Società
mutua beneficenza di Citta di Castello; nel 1847, la Società di M. S. tra
calzolai di Alba, la Società medico-farmaceutica di Padova, l’Unione operaia
patriottica fratellanza di Asti, la Società Femminile di M. S. S. Bonifacio di
Pinerolo, la Società Generale fra gli operai di Pinerolo, l’Unione per le malattie
di Verona, la Federazione italiana fra lavoranti del libro (compositori)
di Tonno; nel 1849, la Società di M. S. fra i pompieri municipali di
Ancona ; nel 1764, la Università dei pescivendoli patentati di Roma
Questi dati e i seguenti concernono le Società riconosciute soltanto, per la
quale la statistica ha potuto registrare notizie più copiose. Si tratta
quindi di osservazioni che concernono 1548 Società soltanto. Nè il
sussidio è concesso per tutta la durata della malattia.Società soltanto
sussidiano la malattia fino al suo termine; ma nelle altre assai
raramente il sussidio va oltre i 180 giorni in un anno, e il numero
maggiore si conta fra quelle che non vanno oltre 120 giorni La misura del
sussidio di malattia per mo te Società (il 4-2 per 1001 rimane invariata
per tutta la durata della malattia, in molte altre (il 50.4 per 100)
varia, sia aumentando dopo alquanti giorni sia
diminuendo. L’assicurazione obbligatoria contro gl infortuni del lavoro
tutela oggi in Italia una larga massa di operai, ma non H tutela
tutti: l’artigianato, la mano d’opera agricola, le industrie ohe non
applicano macchine, sono ancora oggi fuori il campo dell assicurazione
obbligatoria. E’ confortante perciò osservare nell azione dei nostri
sodalizi muralisti, in via se pur vuoisi sussidiaria, un aiuto integratore pei
casi di infortunio. Per quanto concerne la invalidità temporanea il
numero maggiore delle Società (823 su 965) considerano questa agli effetti-del
sussidio come una malattia ordinaria; le altre danno il sussidio in
misura diversa. Piu scarso è il numero delle Società che danno sussidio
in caso d’invahdita permanente (542), e il sussidio per alcune è
determinato sia in un assegno una volta tanto, sia in forma
continuativa;- per altre, e sono il numero maggiore, il sussidio è
indeterminato, viene dato, cioè, secondo la entità e la disponibilità dei
fondi sociali. E ancora in minor numero sono le Società che danno sussidi
in caso di morte per fa,tto di infortunio sul lavoro (464 soltanto); e questi
sussidi sono in misura determinata sotto forma di assegni per una volta o
continuativi o di pensioni o di spese funerarie, o in misura
indeterminata. Quantunque riferentisi alle Società riconosciute
soltanto, hanno valore, come indice tecnico, i dati relativi ai casi di
malattia sussidiati, ai soci sussidiati, alle giornate di malattia sussidiate
ed agli oneri finanziari che ne derivano alla Società. Di questi dati
ripor Per ogni Società, in media, sono sussidiati 45.1 soci all’
anno, per 52 6 casi di malattia e per 995.3 giornate di malattia, con
una spesa media di 1007.02. Su 100 soci si hanno 29.1 casi di
malattia, sussidiati e sono sussidiati 25 soci. Per ogni caso di malattia
sono sussidiate giornate 18.7; e per ogni socio esistente sono sussidiate
giornate 5.52. Questa media può rappresentare l’indice di morbosità nei
soci delia Società di mutuo soccorso ed ha grande valore per il
migliore ordinamento tecnico di questi sodalizi, per una più razionale
corrispondenza fra i mezzi di cui dispongono e gli impegni che assumono
con la promessa statutaria. La spesa media pei sussidi di malattia,
annualmente, risulta di lire 5.64 per ogni socio esistente.
Nell’ordine stesso del mutuo soccorso devono porsi i sussidi per
spese funerarie di soci defunti. Molte Società provvedono direttamente alle
spese funerarie, alcune concorrono con la famiglia alle spese stesse. Non
sono infrequenti poi i casi di Società che danno sussidi alle famiglie
dei soci morti sia una volta tanto sia in forma continuativa. Sono relativamente
poche le Società che concedono sussidi di puerperio e di baliatico (l’8.9
per 100). Nè sono molte le Società che provvedono con sussidi ai soci
disoccupati (il 6.5 per 5 100). Questi dati si riferiscono a tutte
Società delle quali si occupa la statistica recente.
Carattere degno del maggiore studio delle nostre Società muiualiste è di aver
attinto alla forza delle loro organizzazioni per dar vita ad istituzioni
cooperative a vantaggio dei propri soci. Questa geniale filiazione della
cooperazione dal seno della previdenza mutualista fu rilevata ed illustrata dal
Mabilleau in occasione di uno studio che, per conto del Musee Sociale di
Parigi venne a fare in Italia delle nostre Istituzione di previdenza
assieme al Conte di Rocquigny ed al Rayneri (1). La statistica recente ne
dà una conferma luminosa. Nel quadro seguente è indicato il numero
delle Società di Mutuo Soccorso che esercitano funzioni
cooperative. COMPARTIMENTI Prestiti ai soci Magazzini di
consumo Cooperative di lavoro Cooperative di
credito Piemonte. 174 281 2 Liguria 19 15 Lombardia
233 46 1 Veneto 161 32 Emilia. 182 23 1 Toscana.
92 58 1 Marche 128 24 1 Umbria. 72 18
Lazio 63 2 . Abruzzi. 82 5
Campania. 150 10 Puglie 1 • 57
7 1 Basilicata. 27 Calabria
47 14 Sicilia. 95 17 Sardegna 15 Regno .
.1597 552 5 2 Nella
maggior parte dei casi non si tratta di istituzioni autonome fondate
secondo le norme del codice di commercio, ma di i-ami di attività della
stessa Società di mutuo soccorso operante coi fondi di questa. Le Casse
di prestiti sono principalmente dirette al fine di produrre un maggiore
rendimento coi fondi sociali, e quindi si comprende come esse siano in numero
maggiore (il 24.9 per 100). I magazzini di consumo, che sul totale
rappresentano 8 6 per 100 delle Società esistenti, primeggiano nel
Piemonte, dove il 21.3 per 100 delle Società hanno annesso il magazzino
di consumo, e merita particolare mensione quello della Società Generale operaia
di .Torino, reso ancora più forte dalla alleanza con la Cooperativa di
consumo dei ferrovieri. La Prévoyance Sociale en Italie - Paris,
Armand Colin et C.« Editeurs Fra gli scopi accessori delle nostre Società
mutualiste meritano poi particolare mensione quelli diretti alla istruzione
dei soci; le Società vi contribuiscono mediante biblioteche, scuole
serali o festive, scuole di disegno o industriali, ó pure mediante I’
assegnazione di premi, la provvista dei libri e così via.
Altri scopi accessori sono il collocamento dei soci disoccupati^ ed
alcune Società hanno annessi veri e propri uffici di collocamento; il
conferimento di doti alle figlie dei soci; la costruzione di abitazioni
operaie; la concessione dei sussidi alle famiglie dei soci richiamati
sotto le armi. Nei riguardi della costruzione delle case operaie la
legge del 1903 sulle case popolari contempla in modo particolare le
Società di mutuo soccorso, dando ad esse facoltà di impiegare una parte
dei loro fondi in costruzione di case pei propri soci. La legge
vuole soltanto che le Società, le quali questa impresa intendono
assumere, costituiscano una sezione speciale. E già sotto l’impegno di
quella legge parecchie Società hanno chiesto ed ottenuto 1’
autorizzazione di intraprendere la costruzione di case Operaie.
Un nuovissimo ufficio assunto delle nostre Società di mutuo soccorso è
quello di promuovere la iscrizione, collettiva o individuale, dei soci
alla Cassa Nazionale di providenza per la invalidità e la vecchiaia degli
operai. Contiamo nel nostro paese Società le quali assicurano
pensioni di vecchiaia tecnicamente calcolate: sono modelli del genere le
due Società, maschile e femminile, di Cremona. E sonovi Società le
quali non pensioni ma sussidi di invalidità o di vecchiaia promettono ai
loro soci in misura e qualità corrispondenti ai fondi disponibili.
E siccome le Società che corrispondono pensioni o sussidi' di
vecchiaia ai soci hanno per tale servizio costituito un fondo speciale
alimentato da speciali contributi o da avanzi di bilancio, la legge institutrice
della Cassa Nazionale di previdenza consente’ a queste Società di versare
alla Cassa i fondi così raccolti e le future contribuzioni, inscrivendo ad essa
collettivamente i soci aventi diritto a pensione ed accorda a quei soci,
segnatamente i più anziani, qualche maggior favore. Quel precetto della
legge è provvido, contiene un germe che dovrebbe essere sviluppato,
fecondato da nuove e più larghe concessioni per condurre i sodalizi mutualisti
a divenire organi intermedi attivissimi fra l’operaio e la Cassa Nazionale,
sull’esempio di quanto con maravigliosi risultati viene praticandosi nel
Belgio. Alcuni credono che, per mantenere vivo lo spirito di
fratellanza per aumentare gli elementi che fanno fiorire e cementano la
solidarietà mutualista, sia opportuno conservare alle Società di mutuosoccorso
il servizio di pensioni di vecchiaia, di perfezionarlo. Ed altri persuasi
che quei sodalizi non possono coi soli contributi dei b^ C n t rni°HAi I
ìr e i+ PenS10ni vec ?. hiaia sufficienti ai più elementari vorrebbero
che una parte delle risorse assicurate - e i ^ preTld ® nza 0 nu °ve
risorse affluissero a quelle Società che intendono mstituire o continuare
un bene ordinato servizio di pensioni di vecchiaia. ordinato Io non
posso, senza venir meno alle mie convinzioni, manifestate già in
pubbliche conferenze, accogliere 1’ una tesi nè 1’ altra. Non occorrono
lunghe considerazioni per dimostrare condannevole la prima. In un paese
in cui è sorto un Istituto, il quale, con mezzi forniti dallo Stato, può
assicurare pensioni di vecchiaia in misura superiore a quella cui possono
provvedere istituzioni o sodalizi privati, si renderebbe un cattivo servizio ai
lavoratori consigliandoli a preferire la cassa pensioni della Società
mutualista cui appartengono. Nè si può ammettere che le inscrizioni dei
soci di un gruppo operaio alla Cassa Nazionale rallenti i vincoli della
fratellanza e della solidarietà. La Società, organo intermedio fra il socio e
la Cassa Nazionale, non affievolisce perciò i suoi rapporti coi soci, anzi li
afforza, procurando ad essi maggior vantaggio. E poi, come in tutti i
fenomeni sociali ed economici, vi sono virtù compensatoci che colmano le
lacune e riconducono rapidamente 1’ equilibrio per un momento turbato.
La seconda tesi è pericolosa per le conseguenze cui condurrebbe: il
fatale spezzamento delle forze le quali per dare il maggiore effetto
utile devono convergere in un unico grande e solido organismo, nel quale
soltanto può giuocare, in tema di assicurazioni, la legge così proficua
dei grandi numeri. In un sistema d’assicurazione libera, nel quale,
pure come nella obbligatoria, devono nécessariamente concorrere i tre
elementi: lo Stato, il padrone, l’operaio, non si può ammettere che,
accanto all’Istituto nazionale, il quale può funzionare e divenire centro
potente di attrazione soltanto per la larghezza dei mezzi che gli si
procurano, vivano Istituti privati e diano gli stessi buoni risultati
anche procurando ad essi aiuti speciali e peggio ancora se questi vengono
sottratti all’Istituto Nazionale, L’esperimento dell’assicurazione
libera non può farsi che all’ombra di un grande Istituto verso il quale
convergano le cure assidue dello Stato, la simpatia delle classi
dirigenti, la fiducia dei lavoratori. La legge operò quindi
saviamente quando volle associare alla grande opera dell’assicurazione
per la invalidità e la vecchiaia degli operai le forze, le iniziative dei
sodalizi mutualisti ; ed il legislatore farà ancora meglio se aumenterà
gli stimoli, con un ben congegnato sistema di premi, per la iscrizione
dei soci della Società di mutuo soccorso. Intanto sono
salutari gl’incitamenti che l’amministrazione del grande Istituto adopera
presso le nostre Società mutualiste, fu provvido il pensiero del Ministero di
agricoltura, industria e commercio, il quale, con R. Decreto 19 marzo
1905, bandì un concorso a premi in danaro ed in medaglie d’oro e di
argento da conferire a quelle Società di mutuo soccorso che al 30 giugno
del corrente anno dimostreranno di avere contribuito efficacemente alla
iscrizione dei propri soci alla Cassa Nazionale di previdenza.
Di queste buone iniziative già si raccolgono copiosi i primi
frutti. Sono molte le società che hanno inscritto collettivamente o
procurato le inscrizioni individuali dei loro soci. Si hanno notizie
precise di 73 sodalizi a tutto il mese di febbraio scorso. Queste 73
Società hanno inscritto alla Cassa Nazionale, 16,078 soci. Meritano
particolare mensione: la Società di m. s. della ditta Ginori, di Sesto
Fiorentino che ha inscritto tutti i soci (587); la Società Generale di m.
s. per le operaie di Milano che ne ha inscritto 568; la Società operaia
di m. s. di Modena che ne ha inscritto 519; la Società di m. s. di
Molfetta. (Bari) che ne ha inscritto 512. 3.° La legislazione e la
giurisprudenza. Le Società di mutuo soccorso sono regolate in
Italia dalla legge 15 aprile 1886. Questa contempla però soltanto le
Società Operaie. Il legislatore temè che con le forme assai semplici per
il riconoscimento giuridico fissate nella legge, senza alcun controllo della
potestà politica, potessero rivivere, sotto la specie dell’ associazione
mutualistica. le soppresse corporazioni religiose e quindi volle che le
Società composte di operai soltanto potessero chiedere ed ottenere il
riconoscimento giuridico con il procedimento escogitato. La formula rigida
della legge è stata però largamente temperata dalla giurisprudenza; la quale ha
ammesso che possa considerarsi operaia una Società costituita in gran parte
da operai. E così si è potuto ammettere anche nelle Società operaie
l’intervento di soci benemeriti, di soci fondatori, che con largo
concorso pecuniario esercitano il benefico ufficio del patronato.
Le Società di mutuo soccorso non composte di operai possono
ottenere il riconoscimento giuridico in base all’articolo 2 del codice
civile, come enti morali, e seguendo le norme che all’ uopo furono
tracciate dal Consiglio di Previdenza (1). Qui è opportuno rilevare che la
giurisprudenza ha riconosciuto nelle Società di mutuo soccorso i caratteri
dell’ ente morale. E quindi non ammette che in caso di scioglimento, il
patrimonio sociale possa essere distribuito fra i soci superstiti,jjma
debba essere devoluto a scopi afllni o in opere di beneficenza, e vuole
che le Società di mutuo soccorso nello acquisto di immobili,
nell’accettazione di doni o di legati siano autorizzate con decreto Reale, ai
termini della legge del 1850 che contempla appunto enti morali. a uà, ^aucenena
aei j naie Civile, depositando copia autentica dell’atto
costitutivo e statuto. statuto. Le condizioni che la legge
vuole adempiute sono soltanto le seguenti : 1. Le Società devono
proporsi tutti o alcuni dei fini seguenti: assicurar ai soci un
sussidio nei casi di malattia, di impotenza al lavorò o di vecchiaia ;
venir in aiuto alle famiglie dei soci defunti. Possono
inoltre; cooperare all’ educazione dei soci e delle loro famiglie
; dare aiuto ai sòci per l’acquisto degli attrezzi del loro
mestiere ; esercitare altri uffici propri delle istituzioni di
previdenza economica. 2. Gli statuti delle Società devono
determinare espressamente; la sede dèlia Società; i Ani
pei quali è costituita ; le condizioni, la modalità d’ammissione e
di eliminazione dei soci; i doveri che i soci contraggono e i
diritti che ne acquistano ; le norme e le cautele per l’impiego e
la conservazione del patrimonio sociale ; la disciplina alla
cui osservanza è condizionata la validità delle assemblee generali, delle
elezioni e delle deliberazioni; la costituzione della
rappresentanza della Società in giudizio e fuori; le
particolari cautele con cui possono essere deliberati, lo scioglimento,
la proroga della Società e le modificazioni degli sta-, tuti, sempre che
le medesime non. siano contrarie alle disposizioni della legge. La
concessione della personalità giuridica alla Società di mutuo soccorso è
quindi secondo la legge del 1886, subordinata soltanto all’ esame
estrinsero dell’adempimento delle condizioni dianzi indicate. Non si
chiede come ne fn manifestato il proposito in alcuni disegni, di legge
presentati prima che si giungesse alla legge del 1886, la dimostrazione
tecnica della corrispondenza fra contributi e sussidi, non si impone l’impiego
dei fondi sociali in determinate specie di investimenti. Deve però
avvertirsi che la legge parla di sussidi e dalla discussione parlamentare
risulta che si volle escludere pensatamente la parola pensioni, implicando un
regolare servizio di pensioni necessariamente la dimostrazione di un
ordinamento tecnico adatto allo scopo. Nè si può dire che la facoltà di
corrispondere pensioni possa vedersi compresa nella formula della legge :
« esercitare altri uffici propri delle istituzioni di previdenza
economica ». Si tratta di una funzione che ha speciale importanza che non
può essere esercitata senza un ordinamento tecnico preciso, che implica
impegni a lunga scadenza e non si può in modo assoluto ammettere, tenuto conto
anche della discussione parlamentare, che il legislatore abbia voluto
concedere di straforo l’esercizio di una . così importante
funzione. B la giurisprudenza ha confermato il pensiero del
legislatore ammettendo che occorra una speciale concessione governativa
per' esercitare il ramo pensióni di vecchiaia o di invalidità;
concessione subordinata alla dimostrazione di un ordinamento
tecnico che dia sicurezza per il mantenimento degli impegni assunti
(1). Nelle norme preparate dal Consiglio della Prev^nza per a
concessione della personalità giuridica mediante deci eto .R®* 1 ® a “®
Società di mutuo soccorso non operaie, si chiede qualche cosa di più di
quello che la legge del 1886 chiede alle Società operaie. Può sembrare a
una prima impressione, che ciò costituisce una c0I1 ^ 10ne meno
favorevole alle Società che non possono ottenere i 1 1 conoscimento giuridico
altrimenti che con un atto del potere esecutivo. Ma ove si consideri che
si tratta di Società fra persone che hanno qualche maggiore coltura, non
sembrerà eccessivo chiedere ad esse una più razionale discriminazione
negli scopi, qualche maggiore dettaglio negli Statuti. E nello stabilire quelle
nome il Consiglio della Previdenza si è anche proposto l’obbiettivo d
additarle ad esempio alle Società operaie. La legge chiede il minimo, e
non può quinci escludere che si faccia di più e meglio. I
vantaggi che la legge del 1886 consente alle Società di mutuo soccorso
riconosciute sono i seguenti: esenzione dalle tasse di bollo e
registro, conferita alla Società cooperative dell’articolo 228 del codice di
commercio; esenzione dalla tassa sulle assicurazioni e dall' imposta
di ricchezza mobile, come all’ articolo 8 della legge 24 agosto 1877,
numero 4021; parificazione alle Opere pie per il gratuito
patrocinio, per la esecuzione dalle tasse di bollo e registro e perla
misura dell’imposta di successione o di trasmissione per atti ira soci ;
esenzione da sequestro e pignoramento dei sussidi dovuti dalle
Società ai soci. Gli obblighi delle Società registrate, come anche
di quelle riconosciute con decreto Reale, si riassumono nell’invio del
proprio Statuto al Ministero di agricoltura, industria e commercio e
nelle comunicazioni allo stesso Ministero dei rendiconti annuali i
quali sono compilati sopra moduli dal Ministero stesso forniti
gratuitamente. Il Ministero esamina i rendiconti annuali e spesso dà
buoni consigli per la migliore gestione del patrimonio sociale, mettendo
in guardia il sodalizio contro la tendenza di spese suutuarie, per un più
cauto impiego dei fondi disponibili. Nessun altra ingerenza il
Ministero esercita nelle Società registrate, nè esercita ufficio di
vigilanza sovra di esse, non potendo sottoporle ad ispezioni, scioglierne le
amministrazioni, nominare Commissari Regi. Nè la legge del 1886 nè
altre leggi, oltre i vantaggi di ordine fiscale, conferiscono alle
Società di mutuo soccorso aiuti diretti o inni Il Consiglio di Previdenza non
espresse divei del 1897, cosi concepita « Le Società di mutuo
so< lità giuridica ai termini della legge del 15 aprile
- -.-e pensioni, ossia rendite vitalizie jn^misuraJìssa e prestabi
i una nota al modello di statuto spirano ad ottenere la personas
possono proporsi di assi diretti dello Stato. I nostri sodalizi
mutualisti vivono esclusivamente, o quasi, eccettuate le non frequenti
obblazioni dei benefattori, attingendo le proprie forze alle contribuzioni dei
soci. E ciò, a mio giudizio, costituisce il loro miglior vanto.
Occorre però tener conto degli aiuti di carattere non continuativo e
straordinario che vengono ad esse nei concorsi a premio e da sussidi
speciali conferiti dal Ministero di agricoltura, industria e
commercio. Nel campo dei concorsi a premio meritano particolare
mensione quelli che una volta con alquanta frequenza indiceva la Cassa
di Risparmio di Milano fra le Società di mutuo soccorso meglio
ordinate. Nel 1882 fu bandito un concorso a premio, di lire 3000
(1500 offerte dal comm Besso e 1500 date dal Ministero) per il miglior
ordinamento delle Società di mutuo soccorso; enei 1901 ne fu indetto
un’altro dal Ministero con un premio di mille lire, due di cinquecento e con
medaglie di argento o di bronzo a quelle Società operaie di M. S. che avessero
meglio provveduto ad organizzare e garantire un servizio di rendite Vitalizie
ai soci nei casi di inabilità al lavoro o di vecchiaia, sia direttamente
con apposito fondo sociale, sia mediante l’inscrizione dei soci alla
Cassa Nazionale di previdenza. Ho rammentato più sopra il concorso
a premi del 1905. Incoraggiamenti morali vengono dal Governo alle
Società di mutuo soccorso, mediante concessione di medaglie di
benemerenza. Nella occasione della Esposizione Generale di Torino del
1882, il Ministero istituì premi consistenti di quattro medaglie d’oro di
prima Classe, cinque di seconda e 12 medaglie di argento da conferirsi
a quelle Società Operaie che avessero dato prova di miglior ordinamento e
di più lunga esistenza con risultati efficaci, giovando anche con le
scuole e con le biblioteche alla istruzione degli operai. E
frequensemente il Ministero concede medaglie di Benemerenza ai sodalizi
operai che hanno dato prova per lunga serie di anni di buon ordinamento e
di costante devozione ai principii della mutualità. Nè sono infrequenti i
sussidi in denaro, non molto larghi data la parità dal fondo all’uopo
stanziato, che il Ministero dà alle Società operaie che più si addimostrano
bisognose di aiuti. A. Lo stato attuale. La recente
statistica sulle Società di mutuo soccorso, elaborate dell’ Ispettorato
generale del credito della previdenza, registra la esistenza in Italia al
31 dicembre 1904 di 6535 Società delle quali riconosciute
1548 non riconosciute 4987 Abbiamo veduto più innanzi che la
statistica del 1892 denunziava al 31 dicembre di quell’ànno la esistenza
di 6722 Società di mutuo soccorso; e quindi nel decennio, in luogo di
riscontrare un incremento, come erasi verificata, e notevole, dal 1885 al 1894,
si constata uua diminuzione di 187 Società, e cioè, in cifra media, del 2
- 8 per cento. La diminuzione più notevole si osserva nell’Italia
meridionale e nell’insulare ed in parte della centrale; si giunge sino al
48. 1 per cent© nelle Puglie. Ma per compenso si ha un aumento nell’
Italia settentrionale e nel rimanente della centrale; aumento che riuscì
notevole nel Veneto col 24.2 per cento e nella Lombardia col .15.0 per
cento. Abbiamo detto più innanzi che la diffusione delle Società di mutuo
soccorso, assai lenta nella prima metà del secolo decimonono, andò
accentuandosi dopo la unificazione del Regno, e riportammo, a
dimostrazione, le cifre delle statistiche del 1885 e del 1894. La dimostrazione
riesce più evidente classificando il numero delle Società per anno di
fondazione. Dai numeri assoluti si traggono le medie seguenti su 100
Società esistenti al 31 dicembre 1904: Società fondate prima del 18*0 % . 1.0 dal 1850 al 1859 2.7 dal 1860 al 1869 10 . 3 dal
1870 al 1879 19 . 2 dal 1880 al 1884 18 . 9 » » dal 1885 al
1889 14 . 5 dal 1890 al 1894 12 . 6 dal 1896 al 1899 8.7 dal
1900 al 1904 12 . 1 Il decennio più fecondo è stato quello dal
1880 al 1889, con una inedia di 33 4: vien dopo il decennio 1890-99 con
21.3; e terzo il decennio 1870-79 con 19 2. Ma l'incremento più rapido si
determina appunto dal 1860 in poi. Esaminando le cifre afferenti ai
vari compartimenti è da notare che, mentre nell’Italia settentrionale e
centrale è piccolo il numero delle Società instituite negli ultimi anni,
questo numero è notevole nell’Italia meridionale ed insulare. E siccome
in queste regioni si riscontra pure la maggior diminuzione delle Società
nel periodo 18951904, si deve concludere che in esse le Società hanno vita più
breve. Tale ipotesi trova conferma nelle cifre seguenti: Su
100 Società esistenti al 31 dicembre 1891, numero di quelle sciolte nel
decennio: Piemonte Liguria Lombardia Veneto Emilia.
Toscana Marche Umbria Abruzzi
Campania Puglie. Basilicata
Calabria Sicilia . Sardegna
Regno 25 . 2 L’indice più alto di diminuzioni lo danno le
Puglie; seguono la Basilicata, la Calabria, la Campania, la Sardegna.
° Delle 6,535 Società esistenti al 31 dicembre 1904
sono composte di soli uomini . di sole donne di uomini e donne
se ne ignora la composizione . 5,078 252
1,017 189 Le Società esistenti al 31 dicembre
1904, abbiamo veduto, sono 1548. Di queste 42 soltanto sono riconosciute
con decreto Reale e 1506 con provvedimento del Tribunale, ai sensi della
legge 15 aprile 1886. Al 31 dicembre 1894 le Società riconosciute erano
1156; vi fu quindi nel decennio un aumento di 392 ed in media del 33. 6
per %• L’aumento fu più sensibile nell’Italia meridionale. Su 100 Società
esistenti, si contano 23.7 Società riconosciute. Quando si consideri che
la legge del 1886 è sufficientemente liberale, non impone vincoli e
formalità costose, lascia ai sodalizi la maggiore libertà di azione nello
esplicamento dei fini che si propongono, sullo impiego dei fondi, non le
asservisce ad alcuna vigilanza governativa, male si spiega il lento incremento
delle Società riconosciute e il loro scarso numero rispetto alla massa. Forse
deve rintracciarsi la ragione del fatto in pregiudizi non ancora rimossi
dall’animo dei nostri lavoratori, nella imperfetta conoscenza dei
benefizi che la personalità giuridica reca, indipendentemente da quelli
d’ordine finanziario conferiti dalla legge. Non vogliamo ammettere che
influiscano anche tendenze che esulano dal campo della mutualità, del
fratellevole aiuto. Queste tendenze trovano più conveniente esplicazione
in altre forme di organizzazioni, che in ben ordinato reggimento politico hanno
diritto di cittadinanza per la legittima difesa di interessi professionali e
per la protezione del lavoro. Il,numero dei soci aggregati
alle Società di mutuo soccorso, secondo le statistiche alle tre date, risulta
nelle cifre seguenti: nel 1885 730,475 nel 1894 - 933,685 nel
1904 926,026 Siccome però non tutte le Società diedero sulle tre
indagini le indicazioni del numero dei soci, assumendo, per la
integrazione, il criterio della media dei soci per ciascuna Società, si
avrebbero le cifre seguenti : nel 1885 — 760,085 nel
1894 — 956,328 nel 1904 — 953,455 La media dei soci per ogni
Società nel 1885 risulta di 153.2, nel 1894 di 142 . 3, nel 1904 di 145 .
9. Il numero dei soci è aumentato in tutti i compartimenti
dell’Italia settentrionale, escluso il Piemonte: è aumentato anche nell’Emilia,
nella Toscana, nell'Umbria e nella Sicilia; ed è diminuito in tutti gli
altri compartimenti. Nel periodo 1895-1904 il numero medio dei soci è
aumentato in Liguria, Emilia, Campania, Sicilia e Sardegna, si è
mantenuto eguale in Lombardia ed è diminuito negli altri compartimenti.
Sopra 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904, la diversa composizione
numerica di esse è indicata dalle cifre seguenti: Sino a 99 soci .
— 53 . 6 Con soci da » » da » » da »
» da » » da » » da b b da 1000 a 1500 — 0 .
5 b b oltre . 1500 0.3
100 a 199 — 27 . 6 200 a 299 27 . 3 300 a 399 4.5 400 a 499 2.3 500 a 699 1.2 700 a 899 0.8 In complesso, in tutti i
compartimenti, esclusa 1’ Emilia ove se ne ha il 43 . 2 per 100 e la
Lombardia ove se ne ha il 46 . 0 per 100, più della metà delle Società
conta meno di 100 soci; ed in generale un quarto circa delle Società conta un
numero di soci da 100 a 200. La statistica del 1904
discrimina anche i soci secondo i sessi. Dei 926,026, soci, 849,418 sono
uomini, 76,608 sono donne. Sul movimento economico dqlle Società
di mutuo soccorso si possono fare raffronti con la statistica del 1885; quella del
1895 non contiene alcuna notizia sul patrimonio sociale. Ecco i dati
riferentisi alle due date: Entrata. Spese .
Patrimonio L. 7. L. 14,632.425 .404.205 »
11.790.028 1.200.840 » 72.395.544 Il patrimonio medio per
ciascuna Società, che nel 1885 era di L. 9.147,97, nel 1904 ammonta a L.
12.-017,85. Volendo integrare le cifre per le Società, che nei due
tempi non diedero la indicazione del patrimonio sociale, assumendo come
criterio il patrimonio medio, si avrebbero le cifre seguenti: Con
lo stesso metodo si possono integrare le cifre afferenti alle entrate ed
alle spese. Secondo tali risultati,!che non si possono discostare
molto dalla ventarsi ha nel 1904 in confronto al 1885 un aumento di L.
4.919.727 nelle entrate, di L; 5.089.469 nelle spese; e di L 33.748 218
sul patrimonio, nella misura cioè del 75 . 13 per 100. t 9 o^? trata
media .nell’ anno per ciascuna Società risulta di L. 2,342,43, con un
mimmo di L. 861,63 per le Società degli Abruzzi e con un massimo di L.
3833,27 per le Società della provincia di Roma. La media delle entrate
per ciascun socio è di L. 16 con un Lombardia L ’ 8 ’ 3 ° Pei> la
Calabria e un massimo di L. 18,92 per la „ n +S„ el ^ m . e ^ Ì prÌ
- nc y? a À i .’ di cui si compongono le entrate sono tre: “SJ on ? dl ®
oc ì effettivi, contribuzioni di soci non effettivi, donazioni ed altro
(patronato), altre entrate. Sopra ogni cento lire di entrate nel 1904,1
tre elementi davano le cifre seguenti: Contribuzioni di soci
effettivi .... 68 80 Contributi di soci non effettivi, donazioni,
ecc 7 28 Altre entrate . . y . . . 29 * 47 Il cfflpite inabor
6 di entrata è dovuto, come abbiamo già notato, alle contribuzioni dei soci
effettivi. E la proporzione diventa maggiore quando si consideri che le
altre entrate slno in malsima dei fondi impiegati, i quali alla
loro volta derivano dalle contribuzioni dei soci. La media delle
entrate 1eT3 V 9 ate 5 8 da nn ^urioni dei Soci effettivi Varia da^
SSmo Liguria 58 P °° m Basillcata ad un mas simo dall’82 per 100 in
Si hanno notizie più particolareggiate sulle entrate delle Società
riconosciute ; ma queste, desunte dai loro rendiconti, si riferiscono al
1903. Le percentuali di queste entrate sono le seguenti: Redditi
patrimoniali Contribuzioni di soci Introiti lordi Redditi
straordinari Rendita di beni immobili ... 1. 69 ( Interessi
attivi.17. 13 (effettivi.38.60 ^ non effettivi.0. 99
l di Magazzini di consumo 27. 58 1 di aziende
sociali.6.85 .7.16 Anche per queste Società, nella media generale
del Regno, il maggiore delle entrate deriva dalle contribuzioni dei soci
effettivi, esclusi però il Piemonte, la Toscana e la Calabria ove
proviene dagli introiti dei magazzini cooperativi, e la Sicilia ove la
maggior parte delle entrate sono dovute alla assunzione da parte di due
Società di Palermo, quella fra la gente di mare e l’altra dei capitani
marittimi, di appalti di carico e scarico di merci. In Lombardia le
contribuzioni dei soci effettivi eguagliano quasi i redditi patrimoniali; ivi
infatti sono le Società più antiche e con patrimonio più rilevante.
Le contribuzioni dei soci non effettivi variano dal 2. per 109
nell’Umbria, al 0. 5 per 100 nelle Puglie, perchè appunto nelle Società di
questa regione è minimo il numero dei soci non effettivi. La spesa media
per ciascuna Società nel 1904 risulta di L. 1902,84 e per socio di lire
13. Nelle medie per Società della spesa si va da un minimo di lire 679,30
per le Soc età degli Abruzzi ad un massimo di lire 2925.51 per quelle
della provincia di Roma; il minimo ed il massimo delle spese si
riscontrano quindi nelle stesse regioni nelle quali si hanno il minimo ed
il massimo delle entrate. La spesa per ciascun socio oscilla fra un
minimo di lire 6-,67 negli Abruzzi e un massimo di lire 16,51 in
Liguria. Nello insieme delle Società non è riuscita possibile una
minuta discriminazione delle spese: si è dovuto star paghi alle due
grandi divisioni: spese per sussidi, altre spese. Nel 1904, rispettivamente
ad ogni 100 lire di entrata, si hanno per il Regno le cifre
seguenti: spese per sussidi.51.4 altre
spese.29.7 Le spese superarono le entrate dell’1.8 per 100 soltanto
in Liguria: nelle altre regioni le spese furono inferiori alle entrate.
Nelle Società della Basilicata, della Calabria, della Sicilia la proporzione
delle altre spese alle entrate è superiore a quella delle spese per
sussidi ai soci e alle loro famiglie, indizio di non buono e parsimonioso
ordinamento amministrativo ; nel resto del Regno la parte maggiore delle
spese fu assorbita dai sussidi ai soci e alle loro famiglie. Come
per le entrate così per le spese si hanno più minuti ragguagli nelle spese
delle Società riconosciute, erogate durante l’anno 1903. Nelle cifre
seguenti si dà la ripartizione di 100 lire di spesa Spese di malattia j
f^^se '. ! : Sussidi di cronicità ed impotenza al lavoro Sussidi di
vecchiaia. Soci defunti Altri sussidi l Onoranze
funebri Sussidi alle famiglie 19,45 3.01 4,40 10
87 0.75 2.62 1.34 03 ( Magazzini di consumo . < Altre aziende sociali . ’S g ( Altre
spese. Spese di amministrazione Spese straordinarie. .
. Le spese per sussidi assorbono il 42.44 per cento del
totale delle spese e vanno da un minimo del 14.21 per cento in Sicilia ad
un massimo del 69.57 per cento nell’ Umbria. In tutte le regioni, esclusa
la Lombardia, si nota che la maggior parte delle spese per sussidi va nei
sussidi di malattie, col massimo del 50 per cento nell’Umbria. In Lombardia
invece hanno prevalenza i sussidi di vecchiaia. Le spese pei magazzini di
consumo sono rilevanti nel Piemonte (56.02 per cento), nella Toscana
(43.51 per cento), in Calabria (39.97 per cento). Le spese di
amministrazione variano dall’ 8.02 per cento in Piemonte, al 33.47 in
Basilicata. . 28.78 . 7.05 . 2.6S .
13.14 . 5.91 La sostanza patrimoniale delle Società al 31
dicembre 1902 che come abbiamo veduto, è di lire 72.395.544. ragguagliata
per Società e per soci e distinta fra Società registrate e Società non
registrate, dà le cifre seguenti: patrimonio medio.
per ciascuna Società Società riconosciuta 24.267,00
Società non riconosciuta 7.887,67 Riconosciute e non
riconosciute 12.017,85 per ciascun Sòcio 123.32 60,16
82,50 È più alta la media nelle Società riconosciute; e ciò
non dimostra che il riconoscimento giuridico sia stato per quei Sodalizi
elemento di singolare prosperità, ma che i sodalizi più forti meglio dotati e
quindi più evoluti hanno sentito e voluto tutti i vantaggi della
personalità giuridica. Dalla media generale del patrimonio per
Società si discostano, nel massimo la Lombardia con lire 20.655,70, nel
minimo la Calabria con lire 4 391,09; gli stessi scarti si riscontrano
nella media del patrimonio per socio : 122.97 in Lombardia, 40.15 in Calabria.
Si hanno i dati della composizione del patrimonio soltanto per le
Società riconosciute, e si riferiscono al 31 dicembre 1903. A quella data
il patrimonio delle Società riconosciute ammontava a lire 35.976.981 ed era
cosi composto. Beni stabili L. 3.580.079 10,0 Titoli pubblici
e privati 15.239,047 42,6 Mutui e depositi a risparmio . « 14.648
374 40.7 Altre attività.» 2.50S.461 6,9 La misura
massima di impieghi in immobili è nelle Società delle Calabrie ove si ha
il 33.5 per cento, il minimo si riscontra in quelle della Campania col
2.5 per cento. Negli investimenti in titoli pubblici e privati il massimo è
nella provincia romana col 70.3 per cento. Nelle Marche invece si ha il
massimo in mutui e depositi a risparmio con 1’ 81.9 per cento ; la Liguria
presenta invece in questi impieghi il minimo col 13.8 per cento. Hanno speciale
importanza le cifre che discriminano le Società di mutuo soccorso secondo
la entità del patrimonio da esse posseduto. Riferiamo qui le cifre assolute e
proporzionali del numero delle Società per entità patrimoniale, al 31
dicembre 1904. Numero delle Società che hanno un
patrimonio: Da L. 0 a 999 Cifre assolute
1.517 Su 100 Società 23.6 11 1000 a 4999
2.117 35,3 » 5000 a 9999
9S9 16.5 n 10.000 a 49.999 1.239 20.6
n 50.000 a 99.999 156 2.6
n 100.000 a 249.999 60 1.0 ii 250.000 a
49.1,999 12 0.2 n 500.000 a 1.000.000
5 0.1 Oltre un milione 4
tu Senza indicazione del patrimonio 535 Di 5999 Società
che hanno comunicato 1’ ammontare del loro patrimonio, solo 81, delle quali 54
riconosciute, hanno un patrimonio superiore a lire 100,000 ossia circa 1'
1.10 per cento. 11 23.6 per cento delle Società ha un patrimonio
inferiore a lire 1000; il 35 3 per cento un patrimonio da lire 1000 a
5000, il 16.5 per cento un patrimonio da lire 5.000 a 10.0000 ; il 20.6
per cento un patrimonio da lire 10.000 a lire 50 000 e il 2.6 per cento
un patrimonio da lire 50.000 a 100.000. Le federazioni.
Nelle norme preparate dal Consiglio di Previdenza per il riconoscimento
giuridico delle Società composte di non operai è ammessa la costituzione di
consorzi fra Società riconosciute per formare un fondo di riserva consorziale,
per assumere impiegati comuni, per stipulare contratti con medici e farmacie,
per mettere in comune alcuni servizi, o anche alcune assicurazioni. Si
può stringere anche un accordo fra Società non tutte legalmente
riconosciute per esercitare un controllo sui soci sussidiati o per
regolare il passaggio dall’uno all’ altro sodalizio di quei soci che cambiano
resiTa legge francese del 1898 sulle Società mutualiste consente la
costituzione di unioni fra le Società, conservando ciascuna la propria
autonomia, aventi per oggetto principalmente : l’organizzazione a favore
dei membri effettivi delle cure e dei soccorsi indicati nella legge e
specialmente la instituzione di farmacie nelle condizioni stabilite dalle
leggi speciali sulla materia ; l’ammissione dei membri effettivi che
abbiano cambiato residenza; il regolamento delle pensioni di vecchiaia; 1’
organizzazione di assicurazione mutua pei rischi diversi a cui le Società
debbano provvedere, specialmente la fondazione di Casse di pensioni e di
assicurazioni comuni a più Società per le operazioni a lunga scadenza e
le malattie di lunga durata; il servizio del collocamento gratuito.
La statistica ufficiale non registra la esistenza in Italia di
Consorzi o d Unioni costituiti per gli scopi predetti, che hanno
alquanta analogia eon quelli indicati nelle norme. In recenti Congressi
regionali di Società di mutuo soccorso fu deliberata la costituzione di
unioni regionali, ma ancora non possiamo dire se furono costituite e per
quali scopi. Nel primo Congresso nazionale delle Società di mutuo
soccorso tenuto a Milano il 29 giugno 1900 fu deliberato «d'organizzare
fra m loro tutte le Società operaie di mutuo soccorso in
federazione nazionale, salvo studiare il modo di organizzarle
razionalmente, con a nomma di una Commissione esecutiva provvisoria »,
fissando intanto a Hi n^ ta 1 o annUa dl, pre,. 5 per le Societ à aventi
non più di 100 soci t pe f <3 £ e i e dl - un numero superiore; e «di
indire un mprf Ha] lavnnn Fede n azl one delle Società operaie, quelle
delle CaLa fnlliìl! 6 ?r e Ì Ie delle Cooperative per un’intesa comune ».
con?t^ a aduna " za deI 5 settembre dello stesso anno 1900,
Essa G ha S «Tintento F ri? e n aZ10D H SOn ° P reyaIen temente d'indole
morale. Società federate ed?,?^ ed - ere . alla tutela de ^ interessi
delle nomico delle classi i a JÌ,!f + lb - U ^ re a miglioramento morale
ed ecoraS ungeretei intenti ^ per mezzo delIa Previdenza ». Per
aggiungere p ento la Federazione si propone in modo speciale:
previdenza e cooperazionp A n< ?I 6 i ment + ) d '^ istituti di mutualità,
di Sano effettì^SX*teoon P«r Chè ris S°" fare opera di
solidarietà con tutte le li“,QM . de ! lavoratori; e,SC ° P0 .iirftr 1 "
t‘la<i'asse lavoratrice; “ P6r slazione che valga a
svfiunnare^Am 6 dÌ U ° . si,f tema completo di legia tutelare le ragioni
deMavoro “ p pi . u 1 . bene . fiz i dell’associazione, sulle classi
lavoratrici; 6 ad alIeviare i tributi che gravano nella m^deUo^
ifm^ 00Ì ^ Società federate, intervenendo mediante
pubblicazionrco^fere^ze 0 ÒQWe CÌ * ZÌOn - e 6 di P revid enza, meZ
SelK^ UÌ Ia C ° n tUttÌ 1 mutuo soccorso rTcoifosS^e Sf parte tutte
le Soc ietà italiane di siano inspirate ai5? f a „ 08,? ute 0 di fatto -
P^chè videnza. P p l0 ndamentali della mutualità e della pre di iirc
5 se hanno^^numero^i^ff 1 - 6 UDa quota annua anticipata: se hanno da 100
a 500 soci di k p ® non superiore a 100; di lire 10 ài lire 20 se hanno
più di ìooo^om' 1 86 hann0 da 500 a 1000 soci ’ 6 «5dfott federa a
e hano diritt0: consigli ed aiuti morali^ ^ oinn: n ss mne esecutiva
in ogni circostanza teresse generale- 1 " 81 d<J1 seryizl
che la Federazione stabilirà nell’in àana, monitore della 6 P^derazton^^d^
giorna l e La Cooperazione ItaCongresso; ^aerazione, ed una copia degli atti di
ogni « d) di ottenere gratuitamente consulti legali e pareri di
indole amministrativa; « e) di valersi del giornale La Cooperazione
Italiana per trattare quelle questioni che si riferiscono agli interessi
della mutualità e della previdenza. Gli organi della Federazione
sono: il Congresso delle Società federate; il Consiglio Generale composto
di 50 consiglieri eletti dal Congresso fra i soci delle Società federate;
la Commissione esecutiva composta di nove membri scelti fra i soci delle
Società federate e residenti in Milano; i Comitati regionali, secondo le
circoscrizioni stabilite dalla Commissione esecutiva; il Collegio dei
Sindaci composto di tre sindaci effettivi e due supplenti, nominati dal
Congresso fra i soci delle Società federate residenti in Milano; le
Commissioni di consulenza, di statistica, di propaganda, ecc. quando ne
fosse reclamata la costituzione. La Federazione ha organizzato tre
Congressi nazionali: quello di Milano nel 1900; quello di Reggio Emilia
nel 1901; quello di Firenze nel 1904. Le Società federate sono andate crescendo
nei cinque anni 1901-1905 nella proporzione seguente: 1901 548 1902
573 1903 720 1904 733 1905 745 In un Congresso
internazionale e nel chiudere questa relazione la quale dimostra quale sia la
condizione delle organizzazioni mutualiste in Italia, io non credo che si
possano presentare, come epilogo dei fatti osservati, voti e proposte che
abbiano riferimento alle particolari condizioni delle nostre Mutue ed al
loro avvenire. Credo soltanto possibile esprimere un voto il quale
ha necessario legame con la proposta costituzione di una Federazione
internazionale della mutualità, che sarà vanto di questo III Congresso,
poiché, a mio giudizio, una Federazione internazionale deve trovare il
suo principale fondamento nelle organizzazioni federative nazionali.
Ed il voto è il seguente: Che si promuova in Italia la
costituzione di Federazioni od Unioni regionali di mutuo soccorso, le
quali si propongano i fini additati dalle Norme e meglio specificati
dalla legge francese, in quanto siano applicabili alle particolari
condizioni e funzioni delle nostre Società ; Che le
Federazioni regionali facciano capo ad una Federazione Nazionale, la
quale, pure esplicando l’azione d’indole morale che è nel programma
dell’attuale Federazione, compia anche alcuni uffici propri delle
federazioni regionali, specialmente quello di sovvenire i soci dei
sodalizi aggregati alle regionali, i quali, per ragioni di lavoro o per
altre ragioni, si trovino fuori del territorio nel quale la Federazione
regionale esplica la sua azione. Uo spirito cooperativo. Se il
tracollare di tante impresa o società sorrette da grossi capitali
aggiunge nuove pa^ne ai volume delle nostre afflizioni, è bello invece
vedere per virtù popolana sorreggersi liberi e sicuri nel loro corso anche
in Italia i sodalizii dèlia previdenza e* del mutuo soccorso.
Animati nelle loro operazioni dal sentimento della pietà, e non mossi da
studio di soverchio guadagno, finiscono col raccogliere anche la
ricchezza, come premio della loro virtù e col dare un'alta pro\a di
quella verità che gli affari più cauti ed onesti sono sempre in (in dei
conti i più lucrosi. Così queste società nuove di operai e di piccoli
indaslriali, svincolale dai vecchi rancori, amiche deirordiiie e della
liherlA, v:inno sempre meglio disegnando ed aiiargaiido i contorni dell'
azione, c creando una buona Speranza per l'avvenire della nostra patria.
Fatta Tltalìa, è d'uopo per fare gP italiani che alle vecchie e cascanti
passioni di un popolo per secoli torpido e povero, sì sostituisca la fede
energica nel lavoro e neir associazione. Occorrono a ciò quelle
tempre d^ uomini gagliardi ai quali nulla di onesto e di utile pare
impossibile, e che nel meditare al proprio, tornaconto non dimenticano
quello degli altri. Occorre che in tutte le citlà^ d'Italia sorgano
e iiros|u'rino gli spirili benevoli, i quali sappiano inlendere l' iiulirizzo
del nostro secolo, e prodighino le opere buono a quello stesso modo, e
sto per dire, con quella spensieratezza, colla quale i più le stemperano
nella cascafigine e nelT ozio. E queste qualità cominciano appunto a ravvivarsi
nei gruppi de' nostri cooperatori, le quali, mef^lio di tanti
discorsi accademici che entrano ed escono dalle orecchie 0 di certi
volumi di economia politica, senza lettori, valgono a provare colla evidenza
dei fatti, che la maggiore delle industrie è l'onestà dei costumi, e che
il lavoro e r associazione non accrescono soltanto la nostra
fortuna materiale, ma ben di più» il patrimonio dei nostri affetti
e delle virtù nostre. Di fronte al movimento d'associazione che si
estende da tutte le parti, è. necessario stabilire i cardini su cui
s' aggiri ben definito l' oggetto e lo scopo dell' associazione. Fino ad oggi
te società di commercio e dMndostrla avevano per unica mira il guadagno
di coloro che le dirigevano. Questo guadagno talvolta eccessivo, aveva
per motore l'egoismo, c per mezzi i tranelli, la speculazione
e r aggiolag!2Ìo. E pur troppo mezzi così odiosi hanno fatto colossali e
scandalose fortune con desolazione c rovina di una falange di creduloni e di
delusi. Le società cooperative hanno invece per ragione la fraternità, per
principio l'eguaglianza, per mezzi l'onore, la probità e il lavoro dei
cooperatori associati ; e per ìscopo r emancipazipoe di tutti ; la
cooperazione dà aispiaiTo d' associazione. r uomo il mezzo di amministrare
e di gestire da sè stesso ciò che gli appartiene, ed a ciascun
cooperatore accorda la facoltà di aver parte air amministrazione delle
cose comuni. Còsi la cooperazione sorretta dall' intelligenza, vi*
vificata dair amor fraterno, rivela air uomo T arcano della sua forza e
della sua potenza. Ma peicliè giunga agli sperati e (Te ili senza deviare
dai principii che sono fondamenlo di ogni rigenerazione sociale, si addomanda
ai cooperatori vigilanza attiva e studiosa, saggezza, aniiegazione e
virtù; nè, per evitare gli scogli contro cui ruppero tanti, cessino di tenersi
in guardia contro i funesti allctlamenli, i desiderii ambiziosi, le
passioni egoistiche e gelose. Bando sopratutto ai sistemi esclusivi! essi
contengono i germi di discordia e di dissoluzione che bisogna sradicare dalla
loro prima comj)arsa. Quanto allo socielà cooperative formate lìnora in
Italia, mentre dobbiamo conoscere la devozione, il disinteresse dei
loro fondatori ed aderenti e i risultati abbastanza felici, tenendo calcolo
delle difficoltà che erano da superare, converrà sìeno impiegate maggiori forze
e sieno sbandite tutte quelle mezze misure che conducono facilmente air aborto.
Si ha bisogno di uscire al più presto dalie vecchie abitudini, dai
sistemi restrittiyi, e rendersi p^puasi che un progresso non è realmente
buono se non m quanto possano tutti parteciparvi; che T eguaglianza è T
anima della cooperazionc, come d'ogni giustizia; che il genio
cooperativo nel suo oggetto, nel suo scopo e nelle sue conseguenze
sociali, ha una missione immensa da compiere, e che deve penetrare come il
sole, tanlo nelle campagne quanto nelle grandi città. Ma perchè le
società di credito e di produzione possano agire senza ostacoli deesi sgombrare
il terreno dell' industria dall'impiccio delle tante braccia strappate
alle campagne e fioriate nelle città a far una disastrosa concorrenza
cogli operai. Per togliere dallo stato precario e dalla miseria, ove si
trovano, lutti questi campagnoli che disertano la gleba per cercarsi
lavoro nelle manifatture » bisognenibbe procurare la loro emancipazione
col mclterli anch'essi in grado di partecipare alla propriclà
territoriale per mozzo delle associazioni cooperative. Al che
condurrebbero quando si formassero de' sodalizii agricoli c industriali,
abbastanza potenti per oHrirc un asilo a coloro che non hanno una via
aperta alla loro aUivilà. Con questo mezzo il commercio e l’industria si
troverebbero al riparo dalia concorrensa industriaJi superflui, poiché
ove le società cooperative non propagassero ia loro azione nelle
campagne, e restassero nelle sole pitià, subirebbero i maggiori
disinganni. Ed oltre a questa concorrenza dannosa, aggiunge
quella che i lavoratori si fanno fra essi e che forma reggette dMndebite
lagnanze. E infatti coltivatori, affitjtaìuoli, proprielarii si lamentano
troppo spesso dr questa concorrenza che, a detto loro, impedisce di
vendere i frulli del campo e del lavoro a buon prezzo, e non pensano
intanto che la concorrenza de'' produttori coi prezzi moderali suscita
un'altra concorrenza, quella de' consumatori; non pensano che se essi hanno
quelle vanghe, quelle zappe, quei martelli, quelle seghe a buon patio,
e appunto per la concorrenza delle fucine che procura a minor
prezzo il ferro di che hanno bisogno per gli isirumenti de' tgro mestieri ; che
è la concorrenza dei tessitori e de" granaiuoli che fa comperare ad essi
con modici valori il vestito e il nutrimento, e tutto quanto entra nei
bisogni della vita. Ma quando l’equilibrio si rompe anche la
concorrenza diviene dannosa; le braccia divelle dai campi e intrecciate
agli ordigni de^ mestieri devono rompere Tarmonia che è il supremo
beneficio d^ogni sociale interesse > ed è appunto un gran prezzo dell’opera
il far in modo che ì campagnoli restino nelle campagne, nò depongano
la marra e il sarchiello pel maglio o pel telaio. La
concorrenza è ìm gran motore delle attività umane, e trova la sua
perpetua alimentazione nelP interesse individuale. Essa non e che il risultato
dello sforzo che fa ciascuno pel proprio interesse, e porta poi come
ultima conseguenza il bene generale. Essa è dunque il principio deir
esistenza Jelle società, poiché dalla concorrenza degli uni e degli altri
promana il vantaggio di lutti; nè permeile ad' alcuno di predominare a scapito
degli altri, è una compensazione che ci facciamo a vicenda. Senza
la concorrenza dei produUori i consumatori pagherebbero tutto ad una
esorbitanza di prezzi, e senza la concorrenza clie i consomatori si fanno
tutto cadrebbe a prezzo sì abbietto che nessuno sarebbe più
sollecitato alla produzione. E chi sconoscerà il vantaggio che ne
trae l’emulazione « che è uno stimolante prezioso per T intelletto e per
Fattività deir uomo, e ne sorregge ne^ suoi lavori la meditazione e i sudori
per trionfare sui competitori suoi. Per studiare a tale intento, e trovare
nuovi processi di produzione più economica e più abbondante per
accorciare il tempo e conseguire Y esito migliore, e per soggiogare
le forze delia natura, decuplicando e centuplicando la forza deir
uomo? Chi teme la concorrenza è solo colui che non sa far
meglio degli altri, o clic vagheggia guadagni più ghiotti; egli sa che il
consumatore si rivolgerà al fabbricatore che lavora meglio, e al venditore
che spaccia a minor prezzo; e chi invoca misure restrittive, chi domanda
ai governi la proibizione d' introdurre merci forestiere, attenta
alla liberti, ed è un egoista che vuoi prelevare a suo profitto la
differenza tra i suoi prezzi e quelli degli stranieri. Ha quando l’equilibrio
delle classi si rompe allora la concorrenza conduce diviato alla ruina. E
pur troppo vediamo i giovani campagnoli non rare volte dalla mal tollerata loro
condizione sospìnti a quella delP artigiano delle città, perchè a questo
la giornata si paga più cara che ad essi, ed ogni sabato esce
dall'officina col suo salario alla mano. Queste braccia divelle dai campi
e iuirecciate agli ordigni degli opificii tolgono le larghe emanazioni
di quella occupazi.one che fin dai primi tempi alimentò l'uomo
«uila terra. Eppure l uomo della campagna quando pensa all'artiere della
città, dice: in (jual minor conto siamo ' noi tenuti! S'inganna esso a
partito; nessuno tiene in minor conto chi guida il solco e l’aratro, ed è
necessario che i contadini il sappiano, che abbiano ànch'essi le loro
istituzioni da cui sieno allettati, e che le provvide virtù camminino fra
i popoli agricoli » sotto i tetti di paglia, tra i novali e i vigneti, e
che la vanga e il sarchiello non restino mortificati dinanzi al maglio
ed al telaio. Nicola Coco. Keywords: mutuale prevalente, cooperativa,
impresa cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra,
giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto,
corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di
procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione,
sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico,
unica garanzia del contratto sociale, mutuo soccorso, la societa di mutuo
soccorso, le societa di mutuo soccorso, mutualita, mutualita prevalente,
contratto di carattere mutuale prevalente, lo spirito cooperativo,
considerazione sullo spirito cooperative. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco”
– The Swimming-Pool Library. Coco
Luigi Speranza -- Grice e Codronchi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del contratto -- giochi
d’assardo – contratto – gioco aleatorio – Ercole, l’Ara Massima, e il patto
comunitario – scuola d’Imola – scuola di Bologna – filosofia bolgnese –
filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Imola). Filosofo
bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Imola, Bologna,
Emilia-Romagna. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were
not for the fact that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see
conversation as: ‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do
confess to having been attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’
approach to conversation alla Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the
reason I give there for rejecting the view is valid, or strong enough! As for
‘games’ – of course conversation is a game – but I never took that too
seriously – perhaps because Austin was obsessed with games and rules of games –
and the subject was worn out for me – when Hintikka came along all he did was
talk about ‘dialogue games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract
bridge!” – such as ‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the
‘conversational game’ – and conversational ‘players’ – “Only this or that
‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la
laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto dal padre. In
seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con
Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue
saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità
l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue in tre classi di
contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è noto il rapporto
tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un secondo contrato
nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario è fondato
sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel
quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario si basa su una
legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time, I was
attracted by the idea that observance of the CP and the maxims, in a talk
exchange, could be thought of as a quasi-contractual matter, with parallels
outside the realm of discourse. If you pass by when I am struggling with my
stranded car, I no doubt have some degree of expectation that you will offer
help, but once you join me in tinkering under the hood, my expectations become
stronger and take more specific forms (in the absence of indications that you
are merely an incompetent meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit,
characteristically, certain features that jointly distinguish cooperative
transactions: 1. The participants have some common immediate aim, like getting
a car mended; their ultimate aims may, of course, be independent and even in
conflict-each may want to get the car mended in order to drive off, leaving the
other stranded. In characteristic talk exchanges, there is a common aim even
if, as in an over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each
party should, for the time being, identify himself with the transitory
conversational interests of the other. 2. The contributions of the participants.should
be dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding
(which may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being
equal, the transaction should continue in appropriate style unless both parties
are agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start
doing something else. SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI
D'AZZARDO. C. Sor's incerta vagatur, Fertque refertque vices. Lucan. FIRENZE PER
GAETANO CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO
LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI
TOSCANA &c. &c. etc. Questa operetta che sottopone il CONTRATTO—cf.
Grice, quasi-contratto -- d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per
fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea
bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati
tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il
vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la
felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi
all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non
sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio,
penetrato del la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose
beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali
desidero con tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi
forſe negli uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di
arricchire. L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi
necessari a sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha
voluto che ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo
stimola, gli ha inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore;
acciocchè se dalla propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi
della vita, riconosca però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e
l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma sempre operosa accende
talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che se medesimo, o un
piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa sovranamente in
un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che non sian vaste e
sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi dell’uman genere ecco i
grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i
lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato.
Quindi è che sempre nuove vie si spianano al commercio, nuovi mezzi si studiano
per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano per dilatarlo. Questo ardore
medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre inventando un nuovo
contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e più estese forme. Chi
avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili società, quando altro
contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi dell’armento in
cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un giorno uomini,
che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente, sicura, e da
esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta, la soggetta
al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane dei mori
che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale colla
polvere d’or, che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si appoggia
solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della fortuna? Il
moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli pare che il
negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente quantità l'a
preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite delle loro
sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e questo
contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo determinati,
o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria a render
giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di uguaglianza in
tale contratto aleatorio giova maravigliosamente quell’utilissima scienza che
arditamente calcola le probabilità e si rende soggetti, per così dire, i sempre
vari accidenti della fortuna. Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica
politica perchè è stata ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte
a 2 del commercio e di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi
veglia alla pubblica felicità. Ma io crederò di potere con parità di ragione
chiamarla “aritmetica del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra
il certo presente e l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato
quel seme fecondo che ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee
produr nulla meno la sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce
dell’onesto e del giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil
cosa se io cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una
sì vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su
di essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al contratto
aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia possibile
investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura, più o meno
esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne determini l’uguaglianza,
é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia. Contratto aleatorio io
chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un diritto, o vogliam dire di
una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei separatae), il buon esito
della quale è affidato all’incertezza della sorte (cfr. Grice, “Intenzione e
incertezza”). E quì si osservi che si può nel medesimo contratto considerare
l’aleatorio relativamente ad ambedue i contraenti. (parola chiave: “ambedue i
contraenti”). Quello, il quale talvolta per far guadagno di una tenue somma di
denaro ma certa, vende la speranza incerta di un gran guadagno, sottopone
all'aleatorio tutto quel di più che avendo buon esito la ceduta speranza,
supera la tenue somma in cui la cambio. L'uguaglianza che dopo fissato dalla
legge o dalla consuetudine il prezzo della cosa ricercasa nel contratti perchè
sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata la cosa che ne forma l'oggetto,
ritrovisi in Vedasi più sotto ove si parla del contratto di alii curazione un
vero senso egualmente pregevole ciò che danno nel contratto e reciprocamente
ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che l'avere un diritto o una
speranza è molto più valutabile che il non averla? E se ciò è vero, è manifeſso
che questa speranza puo dirsi avere un vero e real prezzo nel commercio degli
uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere un prezzo diverso, questa
speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per conseguen prezzo calcolarsi in
guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello per cui alcuno desideri di
farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad una vera uguaglianza.
Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo tale TEOREMA. Nel
contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza, che gli
caratterizzi per giusti. ng Too vorrei potere esporre con la maggior precisione
e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone per cui si
puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si parla. Il
soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi l'opportuna
applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti
osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a
dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello
o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità
che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per
cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per
nome di premio si può intendere, e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo
più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò
ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i
o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più
stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che
io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra
parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di
estrinseco valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore
secondo che è maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento
rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che
gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera
tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento separatamente e
senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto*
del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’
contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire
la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10
bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione
dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una
speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi
favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della
umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una
speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei
sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario
che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio*
del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del
valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà,
che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto
all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità
del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola
infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando
in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se
si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore
estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente*
l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza
di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato
numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri.
In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e
la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo
considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però
queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della
speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111
(a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di
ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del
premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già
sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per
punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se
il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di
tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto
farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della
speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza
necessaria converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo
caso il prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e
quindi li puo universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle
speranze sono in ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o
reale sperato (res sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto
aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà
l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de contraenti stia al premio,
come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei
contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la porzione che si
lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per
quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo
rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero
dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e
de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si istituisce il
paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei contrari: e così
dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente
corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i
prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro, come i numeri dei caſi ri
ſpettivamente favorevoli. Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che
per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente,
qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza; quali ſiano i
veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che
convenga alla naturą del contratto in queſtione. Conſiderando at; tentamente la
natura e le leggi dei diverſi contratti di azzardo, mi è parſo che preſen tino
una facile e natural diviſione, per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi
li pof ſono comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura, e
dalle diverſe leg gi che gli coſtituiſcono, ne naſce una diverſa maniera di
fiſſare i rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri. A tre
fi poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e
quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo.
Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura, e le leggi del
contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle
ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza, numero
determinabile, e ragioni certe, e ſicure. Il ſecondo è quello nel quale per la
natura del contratto, non ſi può fondare il rapporto, ſe non che ſulla
ſperienza, e ſulle oſſerva zioni eſatte perd, e molte volte replicate; e ſopra
cagioni incerte, e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e
dei fi niſtri, non può mai eſſer certo, determinato, e ſicuro. Terzo metodo è
quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione, parte alla conſiderazione
di leggi certe e ſicure, e par te alla ſperienza del paſſato, e a circoſtanze
incerte ', e di numero indefinito. Nei contratti adunque della prima fpecie,
conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire
ſull'oggetto del contratto, ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali poſſono
combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei caſi
favorevoli ai finiftri. La ſcienza delle combinazioni, e permu tazioni è ſtata
nel noſtro ſecolo così illuſtra ta, e dall ’ Ugenio, e dal Bernullio, e dal
Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa, che vo lendo io trattarne a lungo, non
potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione,
e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe, che non laſciaffero
un neceffario deſiderio di molte più, intorno alle quali l'intertenermi, oltre
paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio; e tanto più, che
ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura
trattare tutti i caſi par ticolari. Nel venire però eſaminando la na tura dei
diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi, ſi vedranno di
trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati, ed indicata la
maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto,
e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed
aſtruſi. Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima
claſſe debbonſi riferire. Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo
Bernulli, per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il
numero dei caſi favorevoli e dei contrari, i vantaggi reſpettivi dei giocatori,
e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi
ſenza rinunziare alla miglior condizione, in cui l'hanno già poſto alcuni colpi
favorevoli. So che eſſendo la probabilità, o ſemplice, o compoſta, ne ha queſto
gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una
curva logaritmica, o di queſta con una pa rabolica, e così ſucceſſivamente
aſcendendo alle curve dei gradi più alti. Ma laſciando da parte i profondi
calcoli, e i miſteri della fublime Geometria, i quali però ben pene trati
ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo, piacemi in
quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi
del gioco, per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo, come ſi poſſa in eſſo e
dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori, e in tal guiſa applicare a
queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi. Il gioco di pura ſorte è una
ſpecie di con tratto, nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di
certe leggi, e condizio ni, ſi diſputano un premio, che ſi rilaſcia a chi ſarà
più felice, per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per
ve run modo dalla loro induſtria. E quì cade in acconcio fare una rifleſſione
comune a tutti i contratti di azzardo. Il dire che una coſa accada caſualmente,
non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta; e che
non vi abbiamo alcuna volontaria influenza. Per altro quan do fiegue in natura
un determinato effetto, qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea
ſeguire. Che due dadi gettati ſu di una tavola, ſcoprano piuttoſto un numero,
che un altro; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue
per le noſtre mani medeſime il tratto. E perd ugualmente vero, che dato quel
tal moto alla mano che gli getta, dato quel tal grado d'impeto, e non più nè
meno, data la mole dei medefi mi, e il piano ſu cui ſi aggirano, devono
neceſſariamente preſentar quel tal dato nu mero e non altro. Così dicaſi dei
giochi di carte le combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di
meſcolarle, e di dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante; anzi
pure non ſolo del gioco, ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di
azzardo, e generalmente di qualunque evento fortuito (a ), (a) Non ſolo ne'
contratti ove ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura
diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente marcati, ma anche in tutto il tenore
di una vita diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il
premio. Le fatiche, gl'incomodi, le priyazioni dei piaceri formano il primo.
Nella gloria, nell'autorità, negli onori, nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo,
che molte volte defrauda le meglio fondate ſperanze, o almeno ad effe
perfettamente non corriſponde; onde può dirlig.Varie ſono le ſpecie principali
dei giochi di pura ſorte, ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il
premio.O due giocatori eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective
porzioni di depoſito con la legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il
quale felice mente s'incontra prima dell'altro in un fa vorevole accidente, che
ambi ſi ſono propoſti d'incontrare; o a quello, che in ugual nu mero di faggi,
ſotto le medeſime leggi, di pendentemente dalle medeſime condizioni, 6 2 che
così in queſte ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui
s'inſtituiſcono e ſi celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile
divinità creata dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe, e
del compleſſo delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi, ma che in tutti
i caſi ſuol chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere
pertinax. Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli
attributi della fortuna, o del caſo, quando ſono uſate dal Filoſofo, hanno un
fenſo di verſo da quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia, e il volgo
che non ragiona. << tro, così dire nega incontra quelle combinazioni che
preſen tano una maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco, e
alla quale è at taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco
è tale che un ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto
certe condizioni, d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di
altri ' compoſto, e quale non incontran do, la ſorte s'intende aver deciſo per
l'al la ſperanza di cui per tiva, non ha altro oggetto che l'eſito infe lice
delle mire dell'avverſario, non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente
ve run colpo di gioco. Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i giocatori
azzardare una egual fomma, o prezzo, altrimenti reſterebbe manifeſtamente tolta
di mezzo la neceſſaria uguaglianza. E' chiaro che allora il prezzo con cui ſi
acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell' oggetto; poichè il
primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori e il ſecondo
è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il totaledepoſito.Ma co me
trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli uguale a quello dei
ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria? E certamente ſe fi conſiderino i
caſi favorevoli, ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei giocatori; non ſi
potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque. E' queſta una
evidente verità, ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco, per le quali
dipendendo la ſorte di un giocatore, non dai ſuoi colpi ſolamente ma da quelli
ancora dell'avverſario, i ter mini della proporzione ſaranno ſempre rela tivi,
e per conſeguenza variabili. Eſaminata però più maturamente la natura del gioco
di cui ſi tratta, fi dee riflettere, che il nu mero dei caſi favorevoli a un
giocatore, è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di rettamente, ma dei
caſi altresì all'avverſario contrarj; e al contrario il numero dei finiſtri,
altro non è che la ſomma degl'infauſti a lui, e dei favorevoli all'avverſario.
Ma quando fi giochi con condizioni eguali, queſte due fomme fono eguali: dunque
anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il canone della ſtabilita
proporzione, e i prezzi ſtare fra loro come i caſi favorevoli ai finiſtri. Da
ciò ne ſegue, che ſe due giocatori proponganſi di incontrare la medeſima favo
revole combinazione o la medeſima ſomma di accidenti; ma che uno voglia far più
ſaggi del gioco, o cercar con più mezzi quelle combinazioni che preſentino
maggior ſomma degli elementi del gioco, nella guiſa di ſopra accennata; l'altro
in tal caſo dovrà eſami nare di quanto il numero delle combinazioni a ſe
favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre, ed eligere che la porzione di
depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione quella che egli conferiſce
nel gioco. Sia concertato per eſempio, che abbia il premio del gioco quello che
fa più numeri con i dadi, ed uno voglia gettarli più volte, o in ugual numero
di volte gittarne un mag gior numero, è manifeſto, che dalla natura, e dalle
leggi di queſto gioco, ſi potrà con le note regole delle combinazioni ricavare
in che proporzione debba egli eſporre all'azzardo ſomma maggiore. Che ſe poi
trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata, che è allor.quando uno ſolo
dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più favorevoli combinazioni, in un
dato numero di faggi, e ſotto certe leggi, e l'altro guadagna full infauſto
eſito dell'avverſario, ſenza tentare egli di per ſe alcuna forte di gioco, è
più difficile allora, ed è più operoſo il fiſſare gli opportuni termini della
noſtra proporzione. L'intenzione e l'oggetto dei giocatori in tal caſo può
eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione, o di eſporla diverſa. Nel
primo caſo il giocatore che intraprende, e faminata la natura del gioco, e le
leggi chę a lui propone l'avverſario, potrà ricavarne il numero dei caſi
favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni nelle quali
queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi quelle condi
zioni nelle quali, il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto quello dei
contrari, di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella dell'altro, o al
contrario. Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera che ſi ſcuopra la
faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una ſol volta, ſiccome
ha cin que combinazioni contrarie, e una ſola fa vorevole, converrà, che
l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore, altrimente la proporzione
reſta alterata. Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da entrambi i
giocatori, e ſi voglia più volte ricominciare, erinovare il gioco, converrà
oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero dei caſi
favorevoli, ſia uguale a quel lo dei contrarj, del che, e relativamente al
noſtro addotto caſo, e ai fimili, ne da una eſtefa tavola il gran Bernulli alla
propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti tolato ars conje
&tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta proporzione è facile
a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla prima apparenza, ſenza
internarſi profondamente nelle fue leggi. Diffi, quan do fi voglia più volte
ricominciare, e rino vare il gioco, per le ragioni addotte dal Ber nulli nel
loco citato; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente, egli è evidente che
chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6. per eſempio, ed
azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario, do vrà chiedere di gettare
il dado tre volte; e cid col patto che non s'intendano in queſto numero
compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima faccia del dado
già ſtata ſcoperta. Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi di più, e ſi
conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei giocatori, e
l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione, e ſi vedrà che non
reſta punto terata la noſtra teoria, benchè coll’eſporre una determinata ſomma
ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero dei giocatori (a ).
Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di gioco, ridurli ai ſem
plici dei quali è compoſto, ed eſaminare in ciaſcuno di effi le ſovra ſtabilite
maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a) Vedi il Corollario del
Teorema III. che i vantaggi, che ha in alcuni giochi il banchiere, per eſempio
nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima carta, ed altri che ha
ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono l'uguaglianza, perchè tur bano
la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi medeſimi nei quali il premio che
dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata dal puntatore, il numero dei caſi
favorevoli al primo è maggiore del numero dei favo revoli al ſecondo; o in
ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo azzarda più del primo. Si pretende
nonoſtante, che ſe ſi conſideri, non la relazione che ha ciaſcun giocatore in
particolare al banchiere ma bensì tutto il ſiſtema del gioco, vi ſiano molti
rifleſſi che giuſtifichino queſto vantaggio di condizione. Una ſplendida ſomma
ſottopone egli alla cie ca ſorte, e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo.
Il puntatore per lo contrario può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa
for tuna, che tenta in vano di placare; o aven dola provata propizia può
aſſicurare i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua volubilità. Oltre 1 1 27 di ciò la
ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari giocatori, delle quali alcune per
dendo può il banchiere rimanere ftremo, ed eſauſto, ſenza ſperanza di tirar
profitto dalla incoſtanza della fortuna; le altre ſe vin ce appena gli recano
un tenuiſſimo guada gno; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere
medeſimo poſſono baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte
ma del gioco. Io preſcindo dall' eſaminare quale, e quanta conſiderazione
eſigano le accennate circoſtanze. Due coſe ſolo aſſeri ſco. E che alcune di
queſte ſono quantità non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a
circoſtanze facilmente alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par
te dei puntatori relativamente al banchiere, come par certamente debbaſi
conſiderare, la alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in
iſvantaggio dei primi, e in manifeſta utilità del ſecondo. Non voglio perd
omettere, che eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi
del banchiere per ogni pofta femplice, cominciando dalla ſuppoſizione che vi
ſiano 52. carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano
dell'iſteſſa figura, ſi è rilevato che la media, è il 5. per 100. Ma in tutto
un giro quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle
paci la forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte, allora la
media diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono
compenſa zione non variano in modo da efigere que Ita differenza (a ). Non ſi
ha dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com
penſazione delli ſvantaggi del banchiere. Bi ſognerà dunque per ottenerla, o
fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra, e fotto de' quali non
poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta: 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile
una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di
ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno, onde
ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo. 29 effendo un di più
della poſta medeſima, ma conoſciuto, non altererà le giuſte proporzioni fra il
prezzo ed il premio: o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra i con
tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge leggi
vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità
luſinghiera, ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure, alle dotte
occupazioni, ed al domeſtico reg gimento delle famiglie, alle quali recano sì
di frequente irreparabile ruina; che non è già sì di rado, che una carta di
gioco, o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di molti
infelici. Si aggiunge a queſto, che la dura legge del biſogno, e la ſevera
faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno oneſte,
e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo; talchè ſi verificano di troppo i
celebri verſi di Madama Deshouliers. Le deſir de
gagner qui nuit &jour occupe Eft un dangereux aiguillon; Souvent quoique
l'eſprit, quoique le coeur foit bon, On commence paretre dupe, On finit par
etre fripon. E
quanto il gioco di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi
oſſervi le Leggi Romane al tit. De aleatoribus, e nei digeſti, e nel codice, e
legga i dotti commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre
riguardata come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione di que
gl’incauti quos praeceps alea nudat. Io però e nel gioco, e in tutti i
contratti di azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra
eſpoſta neceſſaria ugua glianza, preſcindendo affatto da qualunque carattere
che poſſa rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi, e ai
retti coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo,
che chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri; cinque dei quali ſi
eſtraggono da un vaſo, e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza, che eſcano
31 dall'urna miniſtra della fortuna, azzarda una data ſomma di denaro. Troppo
ſon note le leggi di queſto contratto, e troppo è facile il conoſcerne e
combinarne gli accidenti, per poter francamente aſſerire che non vi è forſe
contratto di azzardo nel quale, e più nota bilmente e più ſolennemente la
ſtabilita pro porzione reſti alterata. Sempliciſſimi elemen ti formano il
ſiſtema di queſto contratto, e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è
baſtevole per far conoſcere, che ſebbene una tenue ſomma di denaro può
cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro, pure a fronte di un caſo favorevole ve
ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di gua
dagnare da quella di perdere, che non la ſomma azzardata dal promeſſo premio
per ricco e grande che poſſa parere. Per ſalvare la giuſtizia di queſto gioco,
non giova il dire, che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta libertà a
queſta diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella convenzione,
che ſarebbe al trimenti tanto leſiva. Queſto argomento proverebbe troppo in genere
di contratti, e per ciò deve conſiderarſi di neſſun vigore. Sareb be queſta
maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e la difeſa di infiniti
illeciti guadagni. Oltre di ciò la maggior parte di quelli che giocano al lotto
neppure ardiſce di ſoſpet tare, che ſiavi a loro ſvantaggio una sì di chiarata
ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come generoſa e prodiga quella mano
che premia i vincitori, come ſe foſſe un gratuito dono ciò che non è ſe non una
piccola parte di un debito. Più ſolida difeſa potrebbe recarſi riflettendo
doverſi in queſto contratto dal padrone del lotto impiegare molti miniſtri, e
fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può eſigere ragionevolmente un
riſarcimento; ma tutto ciò ancora non baſta a rendere giuſto queſto contratto
fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia ridotto. Troppo anche più enorme
era la diſugua glianza, prima che con lo ſtabilito aumento foſſe migliorata la
condizione dei giocatori; condizione però, che tuttora è aſſai inferio re a
quella del padrone del lotto. Quì però fa d'uopo dileguare un inganno comune a
moltiſſimi che hanno le vedute corte, e limitate dalla prima ſuperficie delle
coſe. Altro è l'aſferire, che il lotto conſide rato ſemplicemente come un
contratto è in giuſto; altro è il dire che un Principe giuſto non poſſa
ammetterlo nel ſuo ſtato, e debba toglierlo affatto, e ſradicarlo come un mal
nato germe della rovina di tanti ſconſigliati. Il lotto può conſiderarſi come
un tributo, che viene impoſto a chi ſpontaneamente con fente di pagarlo;
cangiandoſi così in vantag gioſo al pubblico, ciò che potrebbe eſſer tan to
pernicioſo al privato. Non ſi può deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a
cercare in queſta guiſa un propizio ſguardo della for te; nè ſi può immaginare
quanto ſia pungen. te lo ſtimolo che ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con
una tenue ſomma di denaro, che azzardi, può guadagnare di che ſoſten tare una
languente e numeroſa famiglia, o pur talora dilatare i confini del proprio luf
ſo, o accreſcer anco tal volta un nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri. Quindi è
che tanti, e 34 tanti ſi affollano a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati
dall'idea, e ſedotti dalla luſinga di (a) Non può negarſi per altro, che
riccome tutte le cofe hanno un grado di valore e di eſtimazione ri Spettiva che
naſce dall' uſo che può o vuol farne chi ne è padrone: può conſiderarſi ſotto
l'iſteſſo aſpetto anche il denaro. Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal
rapporto che egli ha alla maſſa delle coſe che ſono in commercio, può dirſi che
un altro egli ne abbia privato e ſpeſſo mutabile, che naſce dalla qualità
e quantità deibiſogni, o reali, o di opinione che à nelle date particolari
circoſtanze, chi lo poſſiede; Può darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto,
levato da una gran quantità, fia una piccola por zione di eſſa, relativamente
ſuperflua; onde il ſuo valore ſia ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma
ragguardevole che rappreſenta un gran numero di comodi e di piaceri benchè
fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado di probabilità, che detto valore nella
eſtimazione di chi lo gioca ſia conſiderato come zero, o come una quantità più
o meno ad eſſo approf. fimante, formandoſi perciò, per così dire, una nuova e
riſpettiva proporzione, ſecondo la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla
ſua parte. Queſto ſe non baſta, come ognun yede manifeſtamente, a render giuſto
il contratto ſerve a render qualche ragione del traſporto, che hanno a tentar
la forte in queſto gioco tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni, e
calcolar le ſperanze. 35 quel bene che ſperano, non penſano a mi. ſurare i
gradi della ſperanza medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero,
getta ſugli occhi loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio
filoſofo, e il più freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno
che poſſa reggerlo, e non legge che poſſa vincerlo. Se un Principe tol ga dal
proprio ſtato queſto oggetto dei co muni voti, la ſconſigliata avidità ad onta
delle più fagge leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi
precipiterà in altri ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il
lotto ſia proibito ed eſcluſo. Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a
queſto torrente, accid non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi
tutto a pubblico vantaggio, e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano
follemente alla loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli
per il medeſimo, e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio,
neſſun nocumento però ne venga alla Repub blica. Così facendo il faggio
Principe, e non 1fi attira la taccia di ingiuſto, e merita tutta la lode di
prudente, di politico, di difenſore e cuſtode della pubblica felicità. Di
queſta verità ne conoſcono per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial
maniera quei popoli, che hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani
e benefici, che per l'uſo che fanno del loro erario, anzichè pof ſeſſori, ſe ne
moſtrano piuttoſto amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio. Havvi
un'altra ſpecie di lotti nei quali non è un ſolo il premio, nè un ſolo il colpo
fa vorevole della forte, ma molti ſono i premi, come molti e vari i caſi
propizi; e ſecondo l'ordine dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na, o ſecondo
altre leggi convenute in pri ma ſi decide del maggiore, o minor premio. Tale è
il lotto che ſi è fatto in Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia,
nella quale occaſione ſiccome ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità, e
penetrazione di ſpirito di chi ha ideato il progetto della grand'ope ſi è
diſtinta non meno la finezza, e il di ſcernimento di chi ha regolato il metodo
di ra;. 2 37 accumulare le gravi ſomme di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo
diſpendio. In queſto contratto come nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare, che
varie ſono le ſperanze e molte, perchè vari e molti ſono i premi, e che la
ſomma di tutti reſta come venduta a quelli che hanno comprati i viglietti.
Sicco me queſti hanno sborſato un ugual prezzo, così devono avere fra loro
ugual numero di caſi favorevoli e finiftri relativamente ai di verſi, o
maggiori o minori premi; quali eſſendo per lo più vitalizj, l'uguaglianza fra
gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de dalle regole, ſecondo le quali
ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj. Ma non ſi troverà mai eſatta queſta
uguaglianza, poichè una parte notabile del denaro che contribuiſcono gli
azionarj, non già nel numero o nel valore dei premi ſi impiega, ma ſi deſtina
alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe. In queſto di Murcia però così ſono
ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj, e ſono ſtati così grada tamente
formati i premi, e in tal numero, e così bene è ſtata regolata l'economia di
queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato mai un'altro lotto, in
cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma ne ceſſaria alla
deſtinata opera, e ſia ſtata me no alterata la proporzione a ſvantaggio de gli
azzionarj. Troppo ſon note le lotterie, che con al tro nome chiamanſi dai
Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le qualità, e i
caratteri di tale contrat to. Dall'economo del gioco ſi mette in un vaſo un
certo numero di viglietti, dei quali alcuni ſon bianchi ed altri neri, e ſi
vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo eſtraſſe
il guadagno di un premio del valore che è notato ful viglietto medefimo. Ognun
vede, che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla regola mede ſima, che
ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere pubbliche, avuta anche quì
in conſiderazione la fatica, e il diſpendio dell'economo del gioco, e riflettendo
che in queſto caſo i premi non ſono vitalizj. Questo è un CONTRATTO – cfr.
Grice, quasi-contratto -- della natura di quello che dai 39 latini chiamavasi
olla FORTVNAE. In simil guisa OTTAVIANO (vedasi) dilettavasi al riferir di SVETONIO
(vedasi) di compartir doni ai suoi cortigiani, chiamando così la sorte ad esser
ministra della sua beneficenza. Talora un solo è il premio che si disputa fra
quelli che giocano alla lotteria, e allora se il premio non è denaro ma un
altra cosa qualunque che abbia prezzo, si giustifica più facilmente, giusta
l'opinione di Barbeirac, la notata disuguaglianza: e l'economo del gioco può
vendere non solo tanti viglietti quanti corrispondono al valore del premio, ma
ancora in maggior numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera sua,
e il dispendio, quando ve n'ha. Questi lotti si riducono, dice Barbeirac, ad
una specie di compra che si fa in comune, a condizione che la sorte decida a
chi debba appartenere la cosa comprata. Se ſiavi adunque dell'alterazione nella
proporzione, ſi potrà conſiderare come se si fosse comprata la cosa ad un
prezzo un poco più alto del corrente; penſando che ciaſcuno tra 1 ! fcuri
queſto di più che in altra fpecie di con tratto gli parrebbe forſe notabile,
ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più o meno fondata a proporzione che
uno ha comprata maggiore, o minor quantità di viglietti. Queſta mallima, che
non è certamente di ri goroſa giuſtizia, non ſi potrebbe eſtendere
perfettamente a quei lotti nei quali, e molti e di vario prezzo ſono i
viglierti, e molti e di vario valore i premi; a tutti quelli in ſomma, nei
quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli poſſeſſori di
ciaſcun viglietto, benchè lo ſia riſpettiva mente. Prima di paſſare ad altri
contratti giovami riflettere, che anche quando il padron del gioco, o qualunque
altro che ne abbia di ritto pretende, che ſiano valutate le ſue fa tiche e il
ſuo difpendio, non tanto ſi può dire che v'intervenga una compenſazione; quanto
che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra proporzione, giacchè quel di
più che fi paga, non è a titolo di compra della speranza, ma bensì a titolo
dell'altrui di 41 ſpendio, e fatica; e per conſeguenza eſſendo una quantità
eſtranea alla detta proporzione non la può in verun modo alterare. Si poſſono
ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente a queſta claſſe le ſorti ancora
propriamente dette. La ſorte, dice l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria
degl'ora coli, è l'effetto dell'azzardo, e come la deci fione, o l'oracolo
della fortuna; ma le ſorti fono gli ſtrumenti di cui uno pud valerſi per ſapere
qual ſia queſta deciſione. Le ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più antichi
popoli; e la forte s'interrogava, o col gettare i dadi colle proprie mani, o
col gettarli da un urna: e ai caratteri, ed alle parole che ſu i dadi erano
ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che ne contenevano la ſpiegazione. Altre
molte erano le maniere di tentare la ſorte, e di a ſcoltarne gli oracoli. E'
incredibile poi quan iti, e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di
queſta cieca divinità. Baſta leggere gli autori che trattano dei voti che ſi
offe rivano a Preneſte, e ad Anzio, e che parlano diffuſamente delle forti
Omeriche, e Virgiliane. I verſi dell'immortale Epico Greco, nei quali dipinge
con sì vivi tratti l'impeto, e il furore dell'indomito Achille, ritrovati a
caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione della
rovina delle più floride città, e della deſolazione d'intiere Provincie. E ſe
per lo contrario, aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli amabili
colori coi quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d' Anchiſe,
gli animi tutti non reſpiravan che pace, e quei pochi verſi baſtavano per dar
fine alle guerre più ſanguinoſe. Aleſſandro Severo, ſalito al foglio dei Ce
fari, credette di averne avuto un preſagio, quando privato ancora, anzi odioſo
all'Im peratore Eliogabalo, aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di Virgilio,
s'incontrò in quel tratto, ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e piange
i'immatura morte di Marcel lo, e preciſamente gli ſi preſentarono quelle parole
fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris. Ma io non parlo propriamente di
queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei monumenti più ſolenni
dell'umana fol lìa. Io quì parlo delle ſorti, che chiamanlı elettive, diviſorie,
attributorie, e ſimili delle quali brevemente eſporrò la natura e le qua lità,
ed applicherò alle medeſime i più volte enunciati Teoremi. Due, o più perſone
han diritto ad una coſa medeſima; eſaminato il valore del lor diritto lo trovano
uguale; non vogliono gettare, nè tempo, nè denaro in ſuſcitare queſtioni;
aſcoltano anzi ſentimenti più miti, e commettono alla ſorte la deci fione
dell'affare, anzichè affidarlo alle lun ghe, e diſaſtroſe vie dei Tribunali.
Conſe gnano i loro nomi all'urna diſpenſatrice della forte, e quello è
giudicato favorito dalla me deſima, del quale vien eſtratto il nome; e vien
dichiarato pacifico, e ſolo padrone di quella coſa alla quale avea con gli
altri ugual diritto. Che ſia lecito commettere in talguiſa alla ſorte un affare
dubbioſo o controverſo non v'ha dubbio alcuno, giacchè non vi è ra gione per
cui non polfa uno obbligarſi ſotto una condizione tale, che il purificarſi la
mede fima dipenda dall'incerto, e vario evento della forte. Ora ſe i diritti
ſono uguali, ſe quanti fono i concorrenti tanti ſono i nomi che ſi conſegnano
all'urna, ecco che i prezzi che vengono rappreſentati dai diritti che ſi az
zardano, ſtaran fra loro come i numeri dei caſi favorevoli ad uno, al numero
dei caſi favorevoli a ciaſcuno degli altri riſpettiva mente; ed ecco ſalvata
l'uguaglianza di pro porzione fra i favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i
riſpettivi prezzi della ſperanza, la ſomma dei quali è l'oggetto della medeſima
nel caſo di cui ſi tratta. L'iſteſſo può dirſi a proporzione, quando uno abbia
un diritto, per eſempio doppio di quello degli altri; e baſterà che in tal caſo
due volte ſi affidi il ſuo nome all' urna fata le; e così dicaſi di altri
ſimili caſi. E di fatto queſto contratto a farne una giuſta analiſi ſi riduce
ad un gioco di pura forte, in cui molti depoſitando ugual por zione un ſolo
guadagna tutte le porzioni de poſitate, del quale ſi è di ſopra parlato; e
ſi è detto, che uno depoſitando maggior
por zione, pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe. L'iſteſſe
maſſime regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano, quando molti avendo un
privato diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole dignità,
troncano ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte, L'iſteſſo dicaſi
delle ſorti diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap
poggiano ai medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la
proporzione che coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti, Fin quì fi è
parlato di quei contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar
tengono. In effi fra la ſperanza che ſi acqui ſta, e il prezzo con cui ſi
acquiſta ſi può fif fare un eſatta, inalterabile, e matematica proporzione.
Note fono tutte le cagioni che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto
evento della ſorte, ſi conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le
varie combi nazioni, e ſi fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo
dei quali queſte fi forma no. E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa
applicare lo ſpiritoſo Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota
della fortuna, e ſopra di eſla una ſemicirconferen za di cerchio, che con le
ſue diviſioni ſerve a regolare quei capriccioſi giri, che ſono l'og getto di
tanti voti, e la cagione di tante vi cende dei mortali. Chi intraprende queſti
contratti pud, direi quafi, venire alle preſe con la ſorte, e conoſcendone la
forza e l'ar mi bilanciare il deſtino della lotta fatale. Non è così certamente
nei contratti che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono, ne' quali il rapporto
neceſſario a formare l'uguaglianza fra i contraenti, ſi appoggia alla ſola
ſperien za del paſſato, e a cagioni incerte, e varia: biliffime. lo ſo bene che
ſi ſono pur trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe. La
prima, che nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono
fortunoſi e irregolari, ſiavi un ordine coſtante, eun'originale diſegno per cui
dirette da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate
leggi, eſcano a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del mondo.
La ſeconda, che l'irregolarità, che non agli eventi medeſimi e alle vicende, ma
alle noſtre cortę vedute deveſi attribuire, ſcom parirà finalmente, e replicate
l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita, e ſi
conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che
regolano con sì bella armonia l'intero univerſo. Da queſte due propoſizioni
argomentano, che dunque dopo un dato tempo, ſiccome cre ſcendo il numero delle
ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un
evento, che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la
regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza. Ecco
ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni FILOSOFI, alla testa dei quali
è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi
penetrali l'ordine della NATURA, e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto, che
non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego
lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo. Egli è
veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel
grande impulſo, che poi la mantiene in moto coſtantemente, e dal quale come da
prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima, benchè
immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono, e
le dan forza. Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa
per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano
di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele. Le grandi vedute di un
politico illumi nato, che formano il ſoſtegno e la forza del Trono, non ſono
agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute
cure di un ſelvaggio, dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita, e a
difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni. Che poi l'Eterna mente che tutto sà e
49 za, o del tutto regola, abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la
ſerie delle umane vicende, e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi
ſiavi un rapporto più che un altro, un tal'ordine e non un altro, queſto è
quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai. Che dopo un certo periodo
ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento, chedopo certe rivoluzioni torni
l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien
potere eterno, e ſovrano? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le
idee, che noi abbiamo di ordine, e conneſſione. O non vi è relativamente agli
occhi divini ordine e regola; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta; o
tutto deve dirſi averla ugualmente. Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di
coſe infiniti altri pof fibili, vede un punto che non è ſuſcettibile di quei
rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite; o ne vede infiniti
altri, per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che
noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione. Ma non è forse neppur vero essere
più vantaggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta
regolarità. Fra le infinite vedute, che l'occhio im menſo ha preſenti per il
vantaggio delle ſue creature, chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza
dell'altre? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe
che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione,
e ad allontanarne l'orgoglio: e ſe un padre, ben chè benefico fa l'iſteſſo
co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto, che ad animarne la cieca
confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore. Non vi è
dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi
fogliono chiamare fortuiti, e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu
che fondamento ſi aſſeriſca, che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta
comparir chiara, e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che
alla ſcarſezza delle noſtre notizie, e alla mancanza di eſperien ze, in tale
ipoteſi deveſi attribuire. SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un
evento, oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce, le circoſtanze che lo
accom pagnano, e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni.
Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in
quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare. Da queſto ap punto
argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a
ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a
ſenſo loro dalle noſtre corte vedute, e la regolarità che eſiſte di fatti
nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le
varie vicende. Replicando adunque le eſperienze, rinovan do le offervazioni, ſi
potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza; e a ſquarciare del tutto
quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità. Di fatto
ſoggiungono, che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è
una parte? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà
arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto: ed ecco fiſſata la
certezza di quegli eventi, che ſi fo no ſempre creduti giochi, e capricci di
una irregolare fortuna. E' egli per altro evidente queſto diſcorſo?
Potrebb'egli un animo, che non voglia ar renderſi ad altra forza, che a quella
della ve rità, dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno
hanno tenuto per certo? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei
quali ricompariſce l'evento medeſimo, convien riflettere di non notare ſe non
quelle volte, nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze. Se
così è, e ſe queſte ſono preſſo che infinite, e in finitamente variabili, ne
verrà per conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento
farà sì vaſta, e il circolo che la rappreſenta sì ampio, che o non ſi potran no
da chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote, o sì poche ſe ne
po tranno fare, e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai
arrivare al grado di confonderſi colla CERTEZZA – Grice, UNCERTAINTY. Tra=
laſcio di oſſervare che un evento può com parire a noi accompagnato dalle
medeſime circoſtanze, ed eſſervi nulladimeno tanta va rietà, che ſe foſle da
noi ben conoſciuta fa rebbe sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno
le oſſervazioni, dovrebbeſi ri chiamare. Si conſideri ora ſeriamente qua lunque
di queſti eventi che fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire,
e queſte in quante maniere poſſano combi narſi; e vedremo, ſe per quante ſi
vogliano replicate ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle
circoſtanze che altre volte fi videro accompagnare un evento, la eſiſtenza del
medeſimo. Quelle ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi
fortuiti hanno conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote, che
innumerabili ſono ancor eſſe, e capaci di innumerabili gradi di alte razione. E
quì potrei ricorrere a tante fiſiche teorie, le quali dimoſtrano, che un gran
fe nomeno può avere la ſua prima ſorgente, tam 54 lora sì rimota che per
infiniti giri, e tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare; talvolta sì
piccola, che dopo averla conoſciuta, ap pena ſi può credere che da eſſa derivi.
E la ragione, e la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al
pen fiero l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di
offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me, (ſe vogliano porſi
in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono, è relative ad oggetti ſimili ) e
l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità. Di quì deriva,
che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima, che la probabilità di
queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza. E quì fa d'uopo
riflettere, che la proba bilità, e la certezza ſono due atti eſſenzial mente
fra loro diverſi, come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità
che arrivi un evento, e la certezza, vi è di mez zo una ſerie infinita di
poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına probabilità e
viene eſcluſo dalla minima cer tezza, è una barriera inſuperabile, per cui non
ſi poſſono giammai fra loro confon dere, ed è quello appunto che le rende (ſia
mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale
ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili. Le prime
oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento, non poſſono dargli
che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della
irregolarità, e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di
verſi, che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo. Siccome adunque
per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto moltiplicare
per l'in finito, così queſto grado di probabilità do vrebbe ricevere infiniti
aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi poſſa chiamare ridotto
al carattere della cer tezza. Parlo di caſi nei quali la ſerie dei poſſibili,
che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza, è compoſta di cauſe,
che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere, e poterſi in infinite maniere
combinare. Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render certe, o almeno
eſcludenti un pru dente dubbio, alcune ſempliciſſime leggi della natura, dove
tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre cagioni poſſibili, che
anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi deduce non eſſervi luogo
a ſoſpettare che altre ve ne ſiano. E' ben diverſo il caſo noftro ove trattaſi
degli eventi che danno occaſione ai contratti di azzardo; e riguardo a quali ſi
pretende ſolo di mettere in diffidenza la maſſima che promette che ſi abbia a
cangiare in una aſſo luta e rigoroſa certezza, quella che è mera probabilità, e
forſe capace di creſcer ſolo pochi gradi. Che non pud fare l'amor di ſiſtema?
Lo ſpirito calcolatore avvezzo a portar lume ai più aſtruſi miſteri della
geometria, e ad ana lizzare le coſtanti leggi della natura col più felice
ſucceſſo, ſi lancia ardito dal gabinetto $ 7 di un filoſofo, e prefume di porre
in mano ai mortali un filo che ſegni la traccia co ſtante degli eventi più
incerti, e di aſſoggets tare alla ſua eſattezza ed uniformità, quan to v'ha di
più vario, e mutabile. Non ſolo hanno cercato alcuni di ſcoprire un'ordine
conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne riſpettato dai morbi, e dalla ineſorabil
morte; ma hanno fperato di poterlo tro vare anche in quegli eventi che più
dipen dono da cauſe morali e libere, le quali agi ſcono certamente, non perchè
così voglia un ordine e non un'altro, ma perchè così vo glion eſſe, e non
altrimenti. Si è perfino tro vato chi ha propoſto le tavole degl'incendii,
delle cadute fatali da un precipizio, e di molti altri ſimili fortunofi
accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in eſſi a ſuo tempo regola, ed
ordine. Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi fiche cauſe trovarſi una
conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie concatenate, in guiſa che debbano
in un dato tempo produrre un effetto più che un'altro; non ſi potrà mai dire 1
1. $$ altrettanto quando vi abbia luogo una libera volontà che non ſiegue
ordine, o conneſ fione, e che può produrre un'atto ſenza rap porto a verun'
altro che abbia altre volte prodotto, o che ſia per produrre in appreſſo. E ſe
è vero, che negli eventi, e nei caſi preſi in compleſſo di tutte le loro
circoſtanze, e in quelli ſpecialmente che ſono il ſoggetto dei contratti di cui
parliamo, qualche o più proſſima, o più rimota influenza vi hanno le cauſe
morali; che ſi può egli penſare di più ſtravagante che il volergli ridurre
eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro babilità in certezza? E
chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e confuſe foglie, che
contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer dotella di Cuma? Ma
quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero l'impoſſibilità di
arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in qualche certezza la
probabilità, pro vano almeno, che per noi, e per ben mol te generazioni queſta
farà una ſterile ricer 59 ca; giacchè per molti, e molti ſecoli, (ac cordando
anche più di quello certamente, che ſi può ) non ſi potrà vincere quel diſordi
ne, e irregolarità almeno apparente, che of ſervaſi nelle umane vicende, e che
in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto, che pud conſiderarſi come
infinitamente diſtante. Dal fin quì detto per altro non ſi può ra gionevolmente
inferire, che dunque dal com mercio degli uomini ſi debbano eſcludere i
contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle ſopra indicate clafli.
Per provare la verità di queſta aſſerzione convien fiſſare due maſſime conformi
alla ragione, e che ſe non erro ſono il fonda mento al quale ſi appoggia la
giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza fra i contraenti che è sì
neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine vago, e che non ha affiffa
alcuna idea, ſe allo ſtato di natura vogliam rimon tare. Il prezzo delle coſe
introdotto o dalla legge, o dalla conſuetudine che imitatrice della legge la
vince di autorità, ecco ciò che ha chiamata l' uguaglianza a preſiedere ai
contratti. Alla ſocietà dunque, e alle fire maſſime deveſi attribuire. Si
eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che nelle ſue maſſime
generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello ſpirito della medeſima
l'eſcludergli, e l' eccettuarli. Si riduce al lora la queſtione, ad eſaminare
ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e ſe nelle bilance del
pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che recano, o la preciſa
offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti, che è tanto neceſſaria
generalmen te alla quiete, e felicità degli individui, e al buon ſiſtema, e
conſervazione di queſto cor po morale, e politico. Pochi elementi, e poche idee
ſciolgono il problema. Induſtria eccitata, commercio invigorito, circolazione
ampliata. Vantaggi fono queſti generalmente procurati da tali contratti ben
regolati, come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo ſpirito, e le
conſeguenze. Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo rifleflo. In
queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta ugua glianza di
condizione, perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro forte. Ma ciò che
manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi. Ad entrambi è egualme ite i
gnoto per chi debba eſſere il vantaggio, e per chi il diſcapito, potendo
ugualmente nel caſo noſtro, e l'uno, e l'altro a ciaſcun di loro arrivare; e
queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale, la quale pud ſupplire a
quanto manca alla perfetta uguaglianza. Diſli alla perfetta uguaglianza, perchè
le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate, vacil lano ſoltanto, perchè oltrepaſſano
certi li miti, dentro dei quali rinchiuſe provano moltiſſimo, rapporto alla
uguaglianza che deve eſſere nei contratti della ſeconda claſſe. Inteſe le
maſſime con la dovuta moderazio ne, è veriſſimo che eſtraendo da un'urna ove
ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti neri, quante più eſtrazioni
fi anderan no facendo, tanto più creſcerà la conoſcen za del rapporto che hanno
fra loro: è verif fimo che le oſſervazioni ſegnate in tavole danno ai giovani
la prudenza dei vecchi: ed è incontraſtabile che quanto più ſpeſſo ac caderà in
natura un evento, tanto più ſi po tranno attrappare le circoſtanze che lo ac
compagnano, e farà meno irragionevole l'in duzione che dalla eſiſtenza di queſte,
ſi farà della futura eſiſtenza di quello. Si potrà dun que avere un qualche
dato per eſaminare la probabilità di un'evento, e proporzionargli il prezzo con
cui ſe ne acquiſti la ſperanza. Per formare una ſerie dei diverſi gradi di tale
probabilità gioverà eſaminare un qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti
dai quali la ſerie ſi parte; poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una
giuſta analiſi, o alme no egualmente chiara, ſe fi conſideraſſero le idee in
aſtratto, e ſenza applicarle ad un de terminato ſoggetto. Fra tutti i contratti
che ridur ſi poſſono a queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere
diſtintamente eſaminata l'aſſicurazione, Efla è un contratto per cui uno dei
contraenti ſi obbliga a riparare tutti i danni che può un altro ſoffrire nelle
ſue merci per naufragio, o altre convenute cagioni; e queſti ſi obbli ga a
pagarli una determinata mercede in com penſo del pericolo al quale
volontariamente ſi eſpone. 1 Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio
per tutto il Levante aveano fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di
lo devole induſtria, e fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno
ſtato, e che fu ſempre del loro carattere, furon quelli che riduſſero a certe
leggi queſto contratto, e gli diedero for ma e credito. Inſegnarono così alle
altre na zioni commercianti a tirarne quel profitto, che il profondo, ed
illuminato Melon aſſe riſce dover eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di
eſperti, ed avveduti aſſicuratori. Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb
bonſi i primi capitoli di aſſicurazione che furono diſteſi negli anni 1523., e
1525. A queſti ſucceſſero negli anni 1563., e 1570. le ordinazioni di Olanda.
Non è ſtata queſta l'unica occafionein cui abbiano, gareggiato in fatto di
commercio queſte due nazioni, la prima delle quali ha faputo ſempre profittar
pienamente delle fe lici fue circoſtanze, e la ſeconda compenſare ognora in
mille modi i danni della infelice ſua ſituazione; e inſultar quaſi alla natura
di ayerla in eſſa collocata. Gli ſcrittori che hanno trattato di queſto
contratto lo diſtinguono in due ſpecie. La prima chiamano eſſi aſſicurazione
propria mente detta, ed è quando le merci che ne ſono l'oggetto appartengono di
fatto a quello che ne chiede l'aſſicurazione; e queſto è ciò che intendono
ſotto il nome di riſico dell' aſſicurato; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog
gette a pericolo, o com'eſſi dicono a ſiniſtro. Per la validità di queſto
contratto ricercaſi la coeſiſtenza del riſico, e del ſiniſtro; ed è quanto dire,
che l'aſſicuratore non deve pa gare la ſicurtà, nè l'aſſicurato la mercede, ſe
le merci avean corſo già il loro deſtino quan do fi ftipulò il contratto, o ſe
non apparten gono all'aſſicurato. Per maggior comodo poi, e dilatazione di
commercio fu introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle merci o proprie,
ma non nella ſomma che ſi afferiſce, e che cade ſotto l'aſſi curazione: o
appartenenti affatto ad altra perſona. In queſto contratto il fondamento
conſiſte nella fola eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo ravviſare
un'apparenza di Scommeſſa della quale però gli mancano ſe condo molti, alcuni
caratteri. Anche in queſta ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le merci
ſiano in pericolo ancora quando ſi fa il contratto; benchè in alcune piazze ſi
ſoſtenga anche nel caſo che le merci aveſſero già corſa la loro forte quando ſi
ſti puld il contratto, purchè però queſto non foſſe a notizia dei contraenti.
Per ridurre pertanto in qualche vero ſenſo il contratto di aſſicurazione alla
Teoria ſopra eſpoſta regolatrice della uguaglianza neceſ faria nei contratti di
azzardo, fa d'uopo con ſiderare due fatta di caufe che influir poſſono
full'evento incerto, che ne forma l'oggetto. Altre ſono le cauſe fiſiche che
per un puro meccanico impulſo della materia agiſcono in dipendentemente da
qualunque libera determinazione di una cauſa ſeconda; il mare cioè più o meno
ſparſo di pericoli, agitato da vortici, terribile per gli ſcogli; il vento che
tormenta più un ſeno di mare che un altro, e domina più in una ſtagione, che in
un altra; la qualità del naviglio, più o me no capace di reſiſtere agli urti, e
di inſul tare gli Aquiloni; e finili altre che a que ſte ridur ſi ponno, anzi
con queſte confon derſi. Più incerte affai, e più indocili all'eſat tezza del
calcolo ſono quelle cagioni che mo rali ſi chiamano, perchè o conſiſtenti nella
libera determinazione di un ente creato, o da quella dipendenti almeno
mediatamente. La deſtrezza, e la buona fede del capitano: l'abilità dei
marinari e dei piloti: il nume ro, e la gagliardìa dell'equipaggio: la mag
giore o minor frequenza dei pirati che infi diano fraudolenti, e poi attaccano
rapaci; o dei nemici armatori che appoggiano le fan guinoſe loro infeſtazioni
ai tremendi diritti della guerra, ſono o le uniche, o le più con ſiderabili di
queſte cauſe morali. i Se il fondare un
calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è impoſſibile: il fondarlo che
ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo: lo ſarà molto più l'appoggiarlo alle
cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione di mo vimenti, e d'impulſi
che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che operano per una mera
libera determinazione, che per qualunque congettura la più apparentemente
probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul momento abbandonarſi,
per cangiarla in una affatto diverſa, e talora dia metralmente oppoſta, e
contraria. Un canone perd univerſaliſſimo, e da non preterirſi giammai in
queſto contratto, parmi quello di non conſiderare neſſuna cauſa, o fiſica, o
morale, ſeparatamente o iſolata dalle altre; ma di oſſervare l'influenza reci
proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra, e quella non meno che
hanno ſulle morali; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto alle fiſiche. Il
momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente è combi nata, o
temperata colle altre. Per conoſcere però quanto poſſano queſte cagioni, e
ſingolarmente preſe, e in complef ſo, è neceſſaria una lunga ſperienza. In
queſto contratto, per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte quelle
combinazioni, che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore, e perder la nave,
nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili violenze, la
confe gnano al ſoſpirato porto. Fatta una tavola di accurate, e frequenti
oſſervazioni, e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze ſiaſi perduta
la nave, e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine; la ſomma delle
prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri; e quella delle ſe conde ſi tiene
per il numero dei favorevoli; e ſu queſti dati ſi forma la proporzione da noi
ſtabilita nel III. Teorema. Queſta è la ſpecifica differenza che paſſa fra i
contratti del primo genere, e queſti che al ſecondo appartengono. Nei primi
entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini ſtri, e favorevoli,
perchè ſi fanno tutti, e ſe ne conoſce perfettamente il numero; noi 1 69
ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto, che dopo una lunga ſperienza ſi ſono
oſſervati; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri pof ſibili, i quali
perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in proporzione di no tati.
La proporzione ſi accoſta tanto più al vero, quanti più ſono i caſi oſſervati,
come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto numero di palle bianche e
nere: delle quali con tanto minor pericolo di errore ſi può fiffare la
proporzione, quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione. In una parola, nei
primi è incerto l'eſito della ſorte; nei ſecondi è incerto anche ciò che può
determinarlo. Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti perfettamente
delle medefine circoſtanze. Fa d'uopo adunque per formare la propor zione
ricorrere alle diverſe tavole, ove ſono notate le circoſtanze preſe
ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti i
dati della proporzione. Scioglie una nave dal Porto, e veleggia per un mare
tranquillo, e placido; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione
da ſtabilirſi fra il valor delle merci, e il prezzo dell'aſſicurazione; e la
tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe
queſta nave corra un pericolo di pirati, o di nemici che le altre navi facendo
il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai, nel formare la proporzione vi
entra anche queſto elemento, la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre
naviga zioni benchè fatte in altri mari, e ſi compone il minor pericolo che ha
queſta veleggiando per un mare tranquillo; col pericolo che cor ſer altre per
la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com
poſte di varj elementi, il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole,
non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca
loro influenza. Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far
conoſcere i gradi di probabi lità dell'eſito lieto, o infauſto. Monta per la
prima volta un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato
naviglio alcuno: infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche
ſcoglio che alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei
quali ignoraſi per anco il numero, ed il valore, o a meglio dire la violenza
della eſecrabile loro ſete dell'oro e del ſangue; chi potrà miſurare i gradi
dell'influenza che ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo, e
ſull’infauſto l'ardire, e la forza dei ſecondi? In tal caſo per quanto vogliaſi
dare un va lore anche a queſte circoſtanze nuove; fon dandolo ſu qualche
piuttoſto appreſa, che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però
che ſenza una più volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione
di cui ſi calcolino i gradi, e ſi nume rino i valori; e ſenza di eſſa non ſi
può for mare una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali
contratti. Tutto alla fine ci conduce a riflettere, che una e fatta proporzione
nei contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai; che in molti caſi ſi
potrà avere meño lontana dall' eſattezza; in altri ſi troverà dalla medeſima 72
più rimota, come dal fin qui detto chiara mente appariſce. Ma forſe gli
aſſicuratori interrogano que ſte tavole, formano calcoli, e ſciolgon pro blemi?
Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni
degli uomini e le bilancia, conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a
ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi
otterrà facilmente, quanto più ſiano frequenti queſte tavole, e numeroſi i caſi
che ad eſſe, come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi
accorto ed illumi nato le conſulta, o le deſidera; l'indotto, e meno avveduto
ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore, o minor frequenza de' fini ſtri
nelle date circoſtanze ſeguiti, e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo
giudicio più o meno eſatto, e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio
dell'incerta forte. In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore, è
il valore delle merci, che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all' aſſicurato;
quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga all'aſſicuratore in
compenſo di queſto azzardo medeſimo. Ma ſiccome fatto il contratto di aſſicura
zione, l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare all'aſſicuratore la
convenuta merce de, pare a prima viſta che per l'aſſicurato non ſiavi azzardo
alcuno; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa la ſua forte; o a
dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo alcuno la forte.
Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal contratto, per vedere che
anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della ſorte ſicco meancora
l'infauſto. Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende il contraente pago,
e contento di aver fatto il contratto; talmente che ſe aveſſe pre veduto
l'eſito, conſultando ſolo il ſuo van taggio, l'avrebbe nonoſtante fatto, anzi
con tanto maggiore alacrità. Per lo contrario infauſto può dirſi quello che in
qualche modo gli dà occaſione di pentimento, in guiſa che ſe aveſſe previſto
l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora quantunque 74 l'aſſicurato,
fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare la mercede, qualunque ſia
l'evento; quando però la nave giunga a ſal vamento, è in caſo di pentirſi del
ſuo con tratto; poichè ſe non lo aveſſe fatto, e avreb be avuta ſalva la nave,
e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita mercede. In queſto ſolo
ſenſo, e non in altro, che ſareb be troppo contrario all'umanità, poichè ſi
riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no, che neppur ridonda in proprio
vantaggio, ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del ſalvamento
della nave; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere di una vera
ſcommeſſa, di cui è eſſenziale ſe condo alcuni, che l'avvenimento favorevole ad
uno dei contraenti, ſia per l'altro infau ſto, e ſiniſtro. Conchiuſo il
contratto, l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità, deſi dera che ſi falvi
la nave, ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto. Quello che
non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo, ſi è nella perdita di una na ve,
la minore, o maggior quantità di merci, ! 75 che ritoglier ſi potranno
all'ingordigia dell onde, e ritrarre al lido; lo che ſuccede mol te volte, e fa
che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere egualmente
dannoſo; ma diverſi, a miſura, che più o meno delle aſſicurate merci, ſi perde,
e ro vinafi. Il poter prevedere, e calcolare in a vanti tal quantità
influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te. Ma chi
potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile
accidente? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di
combinazioni; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore? I principj
fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto, quando ha per oggetto merci
affidate al pericoloſo traſporto di mare, pof ſono facilmente adattarſi alle
merci traſpor tate per terra; anzi alle merci, o ſituate nei magazzini, o in
altra maniera cuſtodite. Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal accidente,
e per quello perire, o deteriorarſi, fi fa eſſere oggetto di queſto contratto.
Anzi il guaſto di un incendio divoratore, le ruine 70 di un turbine procellofo
che abbatte caſe, porta la deſolazione per le campagne, la vio lenta incurſione
di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e alle tenebre della
notte dalle timide mani infidiatrici, ed altri pericoli di tal fatta, che a
prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di divinazio ne,
ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con la ſorte, ſenza
che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo e colla maggiore
ineſattezza, miſurarla. Un'altro contratto non meno intereſſante, e che
appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi vitalizio. Gli
uomini non contenti di affidare la loro forte a tante, e sì varie combinazioni
che alterano, e modificano sì ſtranamente gli ef Teri inanimati; hanno voluto
che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili, ed hanno fatto sì che un
uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo tempo sì prezioſo dono
del cielo. La vita iſteſſa è venuta tal volta in bilancia con un tenuiſſimo
guadagno. Il vitalizio altro non è che l'annuo interesse di un capitale
collocato a fondo per duto. Chi colloca in tal guiſa il ſuo capitale lo fa ad
oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello che riſerbandoſene il
dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con tratto e a coloro che non
avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di ſangue o di amicizia, o che non
curando le veci dell' uno, o dell' altra, non hanno nulla che gli ritragga dal
provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei biſogni che ſono figli del più
molle, e faſtoſo luſſo; e a quegl' infelici, che ſenza queſto compenſo condur
dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno all'inopia, e allo ſqual lore. Il
vantaggio di liberarſi da tante fre quenti, e penoſe cure della domeſtica eco
nomia luſinga molto, ed è talor neceſſario, a chi trovandoſi in un'età cadente,
accom pagnata per lo più da una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie
mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi, rendergli un frutto di gran
lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci
domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un
frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di fare in un colpo l'acquiſto
di una ragguardevole ſomma, ma di vedere la vita di quello a cui lo paga non
oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca il
capitale, e la ſomma degli inte reſſi ordinarj, che egli ne ha ritratti. Aipri
mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la ſomına
delle an nuali rendite vitalizie, queſta ſuperi il fondo perduto e di più le
rendite ordinarie del medeſimo. Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi affretti a
troncare prima di tal termine i giorni dell'altro. Ecco lo ſpirito di queſto
contratto. Per rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza, e per
verificare i noſtri teore mi è neceſſario riflettere, che sborſato il ca pitale
che ſi perde, e fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria, vi ſarà un certo
nume ro di anni, per il corſo dei quali ſopravi vendo, la ſomma degli ecceſſi
della rendita vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capitale. Se quello
adunque che perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal corſo d'an ni,
non potrebbe eſiger di più di queſta de terminata rendita vitalizia. Ma ſiccome
quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un determinato numero d'anni;
per poter rendere eguali le condizioni dei contraenti, è neceſſario fiſſare un
tal numero d'anni, che la probabilità di ſopravivere ſia uguale a quella di
premorire, e che al caſo che uno ſopraviva o due o tre anni, o qualunque altro
numero, ſi poſſa con ugual probabilità contrapporre il caſo che muoja un egual
nu, mero d'anni prima. Quando dunque ſi tratta di formare un vitalizio,
conviene eſaminare quanto abbia ſopraviſſuto un gran numero di perſone, per
eſempio mille, all'età di quello che vuol farlo. La ſomma di tutti gli anni che
tali perſone hanno ſopraviſſuto di viſa per il numero delle medeſime, dà un
numero, che ſi chiama l'età media. Trovato queſto, ſi ſuppone che chi fa il
vitalizio deb ba ſopravivere fino a tal termine, e ſi fa il diſcorſo che ſi è
detto di ſopra, quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe ſicuro di vivere
nè più nè meno un determinato numero d'anni. Nel fiſſare la media ſi ſono
conſide rati gli eventi che poſſono favorire il caſo della ſopravivenza eguali
in numero a quelli che vi ſi oppongono; uguaglianza che ſi ac coſterà tanto più
al vero quanto ſarà mag giore il numero delle vite dalle quali ſi ri cava la
media. Ecco dunque, come in queſto caſo la ſpe ranza può dirſi uguale al timore,
e per con ſeguenza può aver luogo l'azzardo ſenza op porſi alla giuſtizia, ed
ecco finalmente ridot to il contratto ai termini dei noſtri teore mi. La ſomma
del capitale più le rendite ordinarie, che è il prezzo eſpoſto da chi perde il
fondo, deve ſtare alla ſomma delle rendite vitalizie che formano il prezzo
eſpoſto dall' altro contraente, come il numero dei cafi favorevoli al primo, al
numero dei caſi fa vorevoli al ſecondo; i quali ſupponendoſi moralmente uguali
per l'accennata ragione, ne ſegue che la ſomma del capitale, e delle rendite
vitalizie dovrà eſſere eguale alla fom 81 ma del capitale, e delle rendite
ordinarie computando tal ſomma fino al termine del la vita media, che per
ipoteſi ſi dà ſtabilito per l'indicato calcolo. Si ridurrà dunque l'uguaglianza
di queſto contratto a diſtribui re per detto numero d'anni queſta ſomma; o ſia
a rendere anche più ſemplice l'eſpreſ fione, ſi tratterà di aggiungere alle
annue rendite ordinarie il capitale diſtribuito per detto numero d'anni.
E'evidente che per rendere in queſto contratto le condizioni più eguali convien
pigliare un grandiſſimo nu mero di vite per formar la media. E quì ſi oſſervi
che ſe poteſſe la probabilità della du rata di una vita fino a un dato numero
d'an ni cangiarſi in certezza, ſarebbe tolto affatto l'uſo di queſto contratto:
lo che dee dirſi di tutti i contratti di azzardo. Si penſa a can giare la
probabilità degli eventi in certezza. Se queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto
bandita quella cieca divinità alla quale ſi abbando nano gli uomini per
formarne un ramo di commercio. Vogliamo adunque miſurar la forte, non
eſpellerla. f 82 Tanto più farà facile in queſto contratto fiſſare la media,
quanto più ſaranno ridotte a claſſi diſtinte le perſone delle quali ſi ſom mano
le età. Qualità di profeſſione, carattere di temperamento, indole di clima,
eligono ſeparate oſſervazioni. In fatti, ſiccome per cali favorevoli
s'intendono quelli per i quali ſi prolungano le vite, per contrari quelli che
le abbreviano; e i ſecondi, nel fillarſi l'età media vengono conſiderati
moralmente ugua li di numero ai primi; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla
vera, quanto maggiore ſarà la parità di circoſtanze. Se abbiaſi però riguardo
non ſolo alle an nue rendite vitalizie, ma al frutto delle me deſime, potendoſi
eſſe, e il frutto loro cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera; fic come
quello che paga l'annua rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello
che ritrae; dovrà a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia
ſull'ordinaria. Queſto però non ſi oppone alla verità del teorema terzo; poichè
in tal caſo il prezzo che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non farà
più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull' ordinaria, che naſcerebbe dalla
fillata proporzione; ma ſarà un ecceſſo tanto mino re, quanto è la differenza
del frutto della rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente, e per ferie
cangiato in forte fruttifera, dal frutto della rendita ordinaria conſiderata
nell'iſteſſa maniera, e così cangiandoſi pro porzionalmente le eſpreſſioni dei
due prezzi, non ſi cangerà l'analogia. Non farà difficile il perſuaderſi
dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che chiamata la ſorte totale per
eſempio A, e una di lei porzione C, alla quale corriſponda l'annuo frutto B,
ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve ogni anno
nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte, eſpreſſa dalla ſeguente formola.
(C + B ) A,(B ) A (C (C + B С N o ſia eſprimendo per Nil numero degli anni
ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando il N frutto non ſi cangia in ſorte fi
avrà una ſe C_A f 2 rie aritmetica il di
cui primo numero cor riſpondente al primo anno farà il capitale col frutto; il
ſecondo il capitale col doppio del primo frutto; il terzo il capitale col tri
plo del primo frutto. Il valore adunque del frutto del primo anno ſarà la
differenza dei termini di queſta ſerie. Siccome poi nel caſo dell'ultima
ipoteſi, tanto la rendita ordiną ria, quanto la vitalizia ſi cangiano in forte;
fatte le due ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula, e ridotte ai termini
individui del caſo di cui ſi cerca, ſi conoſcerà il valore della ricercata
differenza. Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj ſtabiliti in quello
dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi favorevoli, altro non
s'intende, che il numero di quelle per ſone che in parità di circoſtanze hanno
ſo pravviſſuto un dato numero d'anni, per ſi niſtri poi il numero di quelle che
ſono man cate prima; che queſta parità di circoſtanze vien compoſta talora da
molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte no tato; e che la
vita dell'uomo dipendendo da cagioni fiſiche e morali, fa di meſtieri riflet
tere al diverſo loro carattere, e alla recipro ca influenza delle medeſime.
Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole, o regiſtri, nei quali ſi notino la
naſcita, la morte, e gli altri accidenti della vita umana; poichè queſte ſole
appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti vantaggioſi con tratti; ed
elle ſole danno la miſura delle forti, e delle aſpettative dei contraenti.
Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun medico regiſtraſſe privatamente
le qualità, e gli accidenti dellemalattie che egli tratta; ſiccome quelle del
temperamento di ciaſcun malato, che egli libera, o che non può ritrarre dalle
prepotenti fauci di morte. Queſte ridotte in ſiſtema, e reſe pubbliche
riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne molte formate da indotti
oſſervatori, anzi fovente farebbero neceſſarie; poichè l'imperito regiſtratore
omettendo tutte le circoſtanze, o alcuna almeno delle eſſenziali, rende inutili
le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione all'altrui errore, o irri
fleſſione. Benchè e da quali tavole ſi potrà mai rica vare la giuſta miſura
della vita d'un uomo? Quot non ſunt caufae, dice S'graveſand intro duft. ad
Phil. a quibus vita hominis pendet? Una di queſte tavole forſe la più eccel
lente, perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e provincie, è quella di
Pietro Süſmlich da lui intitolata: La divina providenza nelle vicende
dell'umana ſpecie, dimoſtrata dall'or dine delle naſcite, morti e
moltiplicazioni. Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le
annue penſioni vitali žie, e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra.
Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre
nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria, e di
curioſità, che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre
con la vera, ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche,
ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla
luce un libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte í per un lungo corſo d'anni. Più palpabile
però, per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo Filoſofo, e più immediata
ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla. Vi è tutta la ragione di
aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità, ed efficacia dei noſtri Italiani
oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente. Già dai regiſtri
delle na ſcite, che la noſtra fanta religione rende neceffari, ſonoſi ricavate
delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione: ficcome dalle oſſervazioni
delle frequenti morti dei bambi ni, ſi è preſa occaſione di rintracciarne la
cauſa, e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi, che sì
facilmente foc combono anche ad un leggiero urto, e ad una tenue ſcoſſa. Al
genere dei vitalizj appartiene quella convenzione, che dal ſuo oggetto
chiamaſi: la dote della figlia. Un provido padre sborfa una determinata ſomma
di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi
prima dell'età nubile, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che
l'ha ricevuta; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una
ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro, e al pericolo in cui ella
è ſtata di morire in tal intervallo, e di per der così la ſomma dal padre
sborſata. Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo, che sborſa il
padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno
prefiffo; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata
ſomma, e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita.
Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino
alprefillo termine, ſta ai ſiniſtri (a), o fia ai favorevoli all'altro; così
ſtare la ſom ma sborſata dal padre, più le rendite ordi narie, all'ecceſſo
della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma
sborſata più le rendite ordinarie. Havvi un'altro contratto per cui un par
ticolare, che vuol comprare una conſidera (a) Anche in queſto contratto i caſi
favorevoli, e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89
bile carica; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una
famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla
deſolazione, e all'inopia; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo
di anni, pagando, o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore, che ſi
obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto
della carica, ſe egli muoja prima del termine ſtabilito. La eva luazione della
vita, si in queſto, come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab
baſtanza commendate tavole. Si oſſervi, che in queſto contratto quello che
riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della
vita di chi la sborſa, al contrario di ciò che accade nei vitalizj, e negli
altri contratti ad eſſi analoghi. Nel for mare adunque la proporzione cangian
nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del
reſto non vi è dif ferenza veruna. E' queſto un contratto di cui tanto meno
importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1
1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo.
Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo
inven tore chiamaſi Tontina. Non differiſce que fto dal vitalizio, ſe non in
ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui, che collocò
il ſuo capitale a fondo per duto; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che
appartengono alla medeſiına claſſe, e che hanno fatto un ſimile contratto col
padro ne della tontina. L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo
capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua
claffe. A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età. E' celebre la
Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni, e godeva
35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire. Dalle tavole
di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite
coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga. Da ciò il padrone della
tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le
ren dite; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto, val lo ſteſſo
per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere, che hanno quelliche
ſopravvivono, pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre.
Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni. Si è in
oltre trovata la formola che eſpri me, dato qualunque numero di vite coetanee,
il tempo in cui uno, o due, o più manche ranno, la formola per il caſo che più
perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono, da
dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo
praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi durante
la ſua vita; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione che
devono preſtare. E faminate queſte formole, ed avuto in conſi derazione il
metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj, ſi ritrova facilmente
la medeſima anche per le contine. 1 1 E'
oltre ogni credere benemerito dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre,
che ha trovate, e applicate le anzidette, e molte altre formole, che ſi trovano
nella incomparabile ſua opera intitolata la dot trina degli azzardi. Io non le
ho riportate perchè il far ciò e troppo lungo ſarebbe, e devierebbe dallo ſcopo
fin da principio pro poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’
eſaminare i contratti d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi
fonda l'uguaglianza perchè ſian giuſti; voglio rammentare, che i più illuminati
politici hanno deteſtato l'a buſo di queſte pubbliche rendite, come ap punto
ſono le tontine, ed altre di fomi gliante natura. E' troppo chiaro che queſte
tendono a ſoffocare i germi dell'induſtria, e ad appreſtare alla parte ozioſa,
e indolente della ſocietà armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che
co'ſuoi ſudori dà moto, ed anima al ben eſſere dello ſtato; oltre di che ſi
oppongono alla propagazione, allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale
il 1 I generar figli ſarebbe
un'accreſcere il numero degl’infelici. En fin je ne me
plaindrai plus De l'etoile qui me domine; Il me reſte encore cent ecus Que je
vais mettre a la Tontine: O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars
eſſuyé le orages, Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages, Je ferai ſur
l'etat, et j'aurai penſion. Così cantò un elegante Poeta Franceſe in
tendendo così di far la ſatira delle tontine; e pare di fatto che il Poeta
potrebbe ora viver quieto ſu queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate, e
andate in diſuſo, benchè non così gli altri contratti del genere di cui
parliamo. Ma d'altra parte eſſendo utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben
dello ſtato il poter ſollecitamente raccogliere una grandioſa ſomma di denaro,
ſenza imporre perciò nuo ve contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini,
le circoſtanze dei quali rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen
94. fioni vitalizie ſi potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni, per
fare un eſame regolato dell'età, e delle circoſtanze di quelli che doveſſero
eſſere ammeſſi alla compra delle azioni, e con i neceſſari regolamentipreveni
re gl ' inganni, che in queſto articolo intereſ fante poteſſero deludere le
pubbliche vedute. Per eſaminare i contratti della terza claſſe ne quali il
rapporto su cui ſi fonda l ' ugua glianza fra i contraenti ſi appoggia in parte
alla conſiderazione di leggi certe, e ſicure, e in parte alla ſperienza del
paſſato, e a cir coſtanze incerte e di numero indeterminato, ſi ripigli
l'eſempio dell'urna, nella quale ab biavi un determinato numero, per eſempio di
go. palle. Se la ſperanza dell'eſito felice è affidata all'eſtrazione di una
palla; per la natura di tal contratto, o gioco che voglia chiamarſi, e per le
ſue leggi, il numero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia
chiamando il numero totale m farà il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri
come 1: m - 1 e per conſeguenza l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia
-112 Ma ſe ſia vero che la palla alla
quale è affidata la ſperanza eſca più frequentemente dall'urna che qualunque
altra, e l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle altre ſia Þ; il numero dei
caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp; e quello dei ſiniſtri eſſendo m =
1, la probabilità della ſperata eſtrazione farà Xp L'addotto eſempio è la norma
coſtante di tutti i contratti che poſſano mai cadere for to queſta terza claſſe,
come comprendenti le condizioni che ne formano il carattere. Di fatti la
probabilità dell'eſtrazione della palla fatale dipende dalle leggi del
contratto certe, e ficure che danno il rapporto di e dalla ſperienza, ed
oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della medeſima, che danno l'ecceſſo di
p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre palle nell' urna rinchiuſe, la
quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I: m; Non è neceſſario che io offervi
che per quanto ſiaſi oſſervato queſto ecceſſo p, non 96 dimeno non è ſicuro e
certo che piuttoſto eſca tal palla, di quello che ne eſca un'al tra. E queſta è
una di quelle circoſtanze che io chiamo incerte e variabili. Che ſe ſi
trattaſſe di paragonare la pro babilità dell'eſtrazione fra due palle, ſicco
rapporto che naſce dalle leggi certe e ſicure è lo ſteſſo per tutte due,
eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe attendere ſolamen in te la diverſa
frequenza dell' eſtrazione di queſte due palle. A queſto eſempio ſi poſſono
ridurre fpe cialmente le offervazioni dei giocatori di lotto, e di quelli che
ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi moſtrino più ſovente, o quali facce
del volubil dado, ad avvicendare nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la
triſtezza. Ben' è vero però che per quanto fiano replicate le eſperienze, in
moltiſſimi caſi non apparendo neppure in confuſo una minima conneſſione di tal
frequenza con una vera cauſa da cui derivi, non potranno giam mai meritare che
le abbia in viſta, chi ragiona ſu dati veri, e non fa caſo di mere e vaganti
accidentalità. Se ſi aveſſe a queſte riguardo, molti di quei contratti, che
nella prima claſſe ho eſa minati, a queſta terza dovrebbonſi riferire. Ma io
per le indicate ragioni, a quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico i
mede ſimi appartenere. Anche in tali caſi perd vi ſono inolti che credono
doverſi fare ſcrupo lofo conto dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora
approverebbero la mia diviſio ne; eſſendo queſta terza claſſe da me confi
derata in modo che può, ſe vogliaſi, compren dere le medeſime, anche quando non
appa riſca la ſopra indicata conneſſione. Che ſe il numero delle offervazioni
ſia grande, e i riſultati coſtanti, ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito
della ſperanza, ed una cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di
oſſervazioni, allora non v'ha dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta
terza claſſe, e la diſtingue dalle altre. Vi ſono in fatti molti giochi, nei
quali l'eſito fortunato dipende in parte dalla pro g. 98 pizia ſorte, e in
parte deveſi alla propria in duſtria o deſtrezza nel combinare gli elemen ti
del gioco, e rendergli coſpiranti al termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del
premio deſiderato. L'induſtria però di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola
avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del
gioco, che ſi vanno ſuccefliva mente preſentando, e la replicata ſperienza
delle quali porge la norma ai caſi avvenire; o nella deſtrezza maggiore di
combinare gli accidenti medeſimi del gioco, di dedurre, di ſcuoprire gli
artificj dell'avverſario; e in qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi
l'induſtria, è ſempre vero che i giochi che di effa, e della forte ſi chiamano
miſli, hanno un filo non traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle
dei contratti di azzardo, In un gioco miſto è molto difficile che tornino per
appunto le medeſime circoſtan ze; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re
lative ſono della natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe
appartenenti; in certe cioè, e incapaci di rendere indubitato e ſicuro l'evento,
ma fiſabili quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua glianza,
acciò il contratto ſia giuſto. Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi ſono
dati ſicuri dipendenti dalle loro leggi inva riabili; quindi è che eſſi
appartengono alla terza claſſe, perchè regolati in parte da tali leggi, e in
parte da cagioni incerte e inde terminate, e dalla ſola ſperienza. Siccome però
poſſono eſſere o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito
medeſimo, a miſura che queſte ſono in maggiore o mi nor numero, prevale nei
giochi miſti l'in duſtria o la ſorte. Inoltre la deſtrezza di combinare, di de
durre, di rammentarſi gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite
ſucceſſivamente dalla malla totale delle medeſime nel decorſo del gioco, è
variabile, come può ognuno of ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a
nimo neceſſaria, la perfetta diſpoſizione di ſa lute, e per conſeguenza
l'agilità degli ſpiriti, l'elaſticità delle fibre; in una parola l'atti vità
neceſſaria per ben riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di
mente, e attuazione di fantasia. Conſiderate queſte come cauſe incerte ed
indeterminate, e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni
fatte giocando col medeſimo avverſario ridurre a calcolo, e quanto alla loro
frequenza, e quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco; ecco anche in
ciò un motivo per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi
miſti, dipende, e dalle invariate e ſicure leggi del gioco, e da circoſtanze
incerte, e indeter minate, Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar
profitto dai colpi della ſorte, e il gioca tore avveduto, dice la Bruyere,
imita in queſto un gran generale, e un abile politico. Al valore del primo, e
alle vedute del ſe condo è miniſtra la forte. Arrivano entrambi francamente al
loro intento per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo; e che là metton
capo, ove forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati, e i
piùmeditatiprogetti. Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di
cui ſi parlò trattando dei giochi di puro azzardo. O i giocatori tentano con
eguali condizioni l'evento medeſimo; o un folo tenta la ſorte del gioco, e
l'altro ſta ozioſo ſpettatore, e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto
eſito dell'avverſario. Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e
dei ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco, è l'iſteſſo per ambidue, ſi
riduce a calcolo l'eſperienza ed induſtria, la quale ſi oſſerva nelle medeſime
circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco; calcolo
che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte. Giacchè farebbe d'
uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario; eſſendo la deſtrezza,
e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario; e
potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno, o reſtar coſtante ſecondo i
progrelli, o uguali, o proporzionali, o di verſi, che l'uno, o l'altro facciano
nel gio co. E' vero però non meno, che trattandoſi di rapporti, poſſono in
qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità di un giocatore
riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia
quella dell'avverſario. Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva,
ma aſſoluta; e fi riduce a calcolo con l'offervare, nelle medeſime combina
zioni, o in non molto diffimili per la natura del gioco, quante volte
l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto, fotto le date
condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale per otte nere
il premio dovea pervenire. Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi
favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del gioco, in parte
dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva, e afloluta induſtria, converrà
diſtinguere, e calcolare queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi
favorevoli, e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema
III.', e nel Corollario. Se non due, ina più ſiano i giocatori, ſi rammenti la
regola di ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti, e di eſaminare in
103 ciaſcuno a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto; ſe
io voleſſi ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe, e
in quelli della feconda. Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove
trattaſi dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe
e ſicure del contratto, convien ricorrere ai priini; ove poi fia queſtione di
offervazioni, e di cauſe indeterminate, conviene eſaminare i ſecondi; non
omettendo mai di riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli
uni, ſu gli altri, e la varia loro com binazione. Stabilite così le leggi ſulla
ſcorta delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque
claſſe di contratti di azzardo; non devo diffimulare, che uno dei più grandi
Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro
babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani. Accid, dic ' egli,
queſto cal colo foſſe applicabile, ſarebbe neceſſario, che tutti i caſi che
ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di
fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario, che gettata infinite volte in
alto una moneta, ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca, per
eſempio palle, e ſull' altra una diverſa, per eſempio croce, foſſe ugual mente
poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle, o croce; e che ſi ſcopriſſero
alternativamente queſte due diverſe marche. Ma benchè ciò ſia ugualmente
poſſibile matematicamente parlando, non lo è fiſicamente. E queſta di verſità
appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità, non è
applicabile ai caſi fiſici. Anzi non ſi potrà mai fissare il numero delle volte
per il quale duri la possibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia
della moneta, e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità,
durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo, ed oltre qualunque
aſſegnabile numero di getti, la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi
della medeſima faccia.: Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per
certa: che non è in natura, che un effetto ſia ſempre, e coſtantemente il mede
fino; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi, ſi raſſomiglino fra loro.
Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro babilità di una
combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone accader più vol te, in
parità di circoſtanze è tanto più pic cola, quanto queſto numero di volte è più
grande, di modo tale che quando queſto è maſſimo, la probabilità è
aſſolutamente nulla, o quaſi nulla; e all'incontro quando queſto numero è aſſai
piccolo la probabilità non ne reſta che poco, o punto diminuita per queſto
riguardo. Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la ſua aſſerzione, e
conclude che i re ſultati della teoria dei probabili, quand'anche ſiano fuori
di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica, ſono ſuſcettibili di molta reſtri
zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura. Alle ragioni però
ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque arrenderſi, e diſperare
della cauſa del noſtro calcolo dei probabili? Parmi che ben'inteſi i noſtri
principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non ſiano at taccati da tali
oppoſte difficoltà, o le mede fime reftino ſciolte. Prima di tutto ſi oflervi
che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di probabilità nei caſi nei quali
ſi ſuppone po terſi efla rinvenire. Se diaſi dunque un caſo, che non cada in
modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente poflibili, e che per con
ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità; io dirò che queſto non è
oggetto delle mie teorie; ma non concederò mai che per queſto non ſi poſſano
eſſe applicare perfet tainente ai caſi, che ſiano di fatto filica mente
poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le combinazioni fiſicamente
poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria una fre quente e
replicata oflervazione. Che ſia fiſicamente impoſibiie (ſe pure ſi può uſar
queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un infinito numero di
volte la ſtella faccia, donde ſi ricava, fe non dall'avere offervato che una
tale continuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade, ma che al contrario
ſi vanno alter nando, e cangiando di tanto in tanto le facce della moneta?
Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il caſo in cui per un
infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia, a meno che non vi
ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò non permetta. Se ſi
concedeſſe ancora (benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato ) che ſia fiſicamente
impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad un altro, non che,
come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert, che ſi raſſomiglino tutti gli
alberi fra di loro; non correrebbe la parità, per dedurne che nel caſo di un
infinito numero di getti di una moneta, l'uniforme ſcoprimento di una fac cia
della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile. Poichè vi corre una notabiliflima
di ſparità. Tutte le combinazioni le quali fanno, che una coſa non ſia fimile
all'altra, danno tanti ios riſultati fra loro diverſi. Dalle diverſe com
binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A non ſia perfettamente
ſimile all'albe+ ro B, naſceranno tanti alberi fra loro diverſi; o altri corpi
dei quali ſi conoſcerà la diffe renza. Ma dalle diverſe combinazioni che
poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia palle della
moneta; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili, cioè croce; poichè
ogni volta che non ſi ſcopra palle, ſi ſcoprirà croce. Queſto prova che le
combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due coſe, formano
infi niti rapporti, infiniti riſultati dei medeſimi, infinite diverſe
compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni delle particelle
della materia di infinite poſſibili diverſe velocità, figure ec.: coſe tutte
che nel caſo noftro non ſi verificano. Di fatto gli elementi che formano la com
binazione, che per infinito numero di volte preſenta palle, ſono tutti ſimili
fra di loro, ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto. Di modo che ſe
ſi ſupponeſſe mutato l'ordine col quale eſce prima la infinita ſerie di palle,
e ſi ricominciaſſe il getto, e ritor naſſe di nuovo a ſcuoprirſi infinite volte
la faccia che preſenta palle, ne verrebbe un or dine fimiliſfimo al primo,
potendoſi dire, che l'iſteſla relazione ha il primo ſcoprimento di palle al
milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo, e così dicaſi di tutti. Talmentechè
a rigor parlando, non ſi può dire, che fra queſti getti vi ſia ordine che formi
fra effi un rapporto piuttoſto che un altro. Non così degli elementi che
formano un dato fiore, o albero; eſſendo combinabili fra di loro con infinite
varietà di ſopra ac cennate. Gli elementi fiſici adunque delle combinazioni nel
caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove nell'eſempio addotto dal Sig.
d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene, che la parità non corre; e dalla
fiſica impoſſibilità (ſe fi ammetta ) di trovare mol te, o anche due coſe fra
loro ſimili; non ne viene la fiſica impoſſibilità che una monetan gettata in
aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia. La diſparità compariſce
più chiara, fe li rifletta che qualunque vedendo in un dato ſpazio tutte le
particelle più minute compo nenti i corpi; e riflettendo alle variazioni
poſſibili della velocità, e della figura delle medeſime; e vedendone in un
ſimile ſpazio un altro ſimile numero, avrebbe ſubito infe rita l'impoſſibilità
di una combinazione ta le, che ne riſultaſſero due alberi ſimili. Laddove
vedendo una moneta, e ſapendo che ſi deve gettare in aria infinite volte, non
avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non ſi ſarebbe un infinito
numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia, e di credere tal combinazione
fiſicamente impoſſibile, come la pretende, fondato ſulle addotte ri fleſſioni,
il Sig. d'Alembert. In una parola della impoſſibilità (ſe tal vo glia chiamarſi
) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a colpo d'occhio una
fiſica meccanica ragione; lo che non può dirſi dello ſcoprimento della faccia
di una moneta. Lo stesso a proporzione dicaſi delle diverſe, III combinazioni
delle lettere che formano la parola Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà
al caſo, dice d'Alembert, che ſi combinino in modo tante lettere che formino
queſta pa rola? chi vorrà crederlo poſſibile? Dunque conchiude egli ſarà
ugualmente impoſſibile il continuo per infinite volte ſcoprimento della faccia
medeſima di una moneta. Queſto eſempio è molto ſimile a quello dei due al beri
fimili; e ſi riſponde anche a queſto, che ciaſcuna lettera può variare rapporto
a tutte le altre, e che ciaſcun riſultato ſarà diverſo. La Luna, aggiunge il
Ch. Filoſofo, gira attorno al ſuo alle in un tempo preciſamente uguale a quello
che ella impiega nel deſcri vere la ſua orbita intorno alla terra; e queſta
eguaglianza di tempo produce ammirazione, e ſi vuol cercare qual n'è la cagione.
Se il rapporto dei due tempi foſſe quello di due numeri preſi all'azzardo, per
eſempio di 21: 33, niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo, e non ſe ne ricercherebbe
la cagione; e pure il rap porto di uguaglianza è matematicamente parlando
ugualmente poſſibile, che quello di 21:33; perchè dunque ſi cerca una cagione
del primo, che non ſi cercherebbe del ſe condo? Lo ſteſſo dicaſi della
ſituazione dei pianeti e del rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe
le orbite loro, alla sfera. Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to
del caſo? perchè queſta combinazione, benchè matematicamente poſſibile al par
dell'altre, ſi riguarda.come effetto di un diſegno, e di una regolarità? E non
ſi crederà poi, che il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la
quale la moneta ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi
crederà queſta fiſicamente impoſſibile, benchè abbia una matematica poſſibilità
eguale a quella delle altre combi nazioni? Ma io riſpondo, che di fatto le com
binazioni dei citati eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella
di tutte l'al tre combinazioni; che non vi è forſe argo mento che provi che il
caſo non le aveſle po tute produrre; ma che anche ſe ſi vogliono LI3
fiſicamente impoſſibili al ſolo caso; ciò è per chè ſon compoſte di elementi
infinitamente variabili; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a
conſiderare le diverſe cagioni, e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon
far sì che i tempi dei due giri lunari non ſia no uguali; e che la zona delle
orbite plane tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha
infatti; cagioni tutte fi fiche, e meccaniche. Di più dico, che l'uguaglianza
dei corſi della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di
uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la
differenza che fra eſſo, e gli altri paffa, non è che metafiſica; e nulla po ne
di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre. Lo
ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus. Queſta combinazione di
lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola, e che al ſuono
della medeſima abbia mo legataunidea; non così a un Turco idio ta il quale non
col nome di Coſtantinopli ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare la
ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano. Non contento Monſieur d'Alembert degli
eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione, l'appoggia ad altre due
rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo, contando dal
giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni; ſi è pure conoſciuto per
mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più
ome no è di 32 anni; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata
dei regni di ciaſcu na parte d'Europa, che la durata media di ciaſcun regno è
di circa a 20 in 22 anni. Si può dunque dic' egli, ſcoinmettere non ſolo con
vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non
vive-, ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno
più di 640 anni in circa; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a 420
anni. Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27. anni la durata
media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare, o non dalle di
32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni; oppure portaſſe che 20
Re ſucceſſivi regnaſſero, o molto più, o molto meno di 420 anni, non ſarebbe
fiſicamente poſſibile; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando. Dal che
riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili, che ſi
denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della natu ra.
Dunque la combinazione in cui, o infi nite volte, o un gran numero veniſſe
ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta, benchè di matematica
poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione, dev’ eſſere
rigettata. E' nell'ordine naturale, ché un banchiere di faraone, che ha dei
caſi favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo. Di
fatti ſi oſſerva coſtantemente, che non vi è banchiere, che non accumuli groſſe
fomme di denaro. Queſto prova, che quelle combinazioni, che hanno più caſi
contrari che favorevoli, ſono alla fine di un certo tempo, meno fiſicamente
poſſibili che le al tre; quantunque matematicamente parlando tutte le
combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili. Dunque conclude egli, la combina
zione, la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la
ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa. Per riſpondere a queſti due
eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità, che
con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo
diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando
il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle, o
aſſai maggiori, o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni; dun que tale
combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo
dicafi di quella, per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal
gioco medeſimo ri dotto all' inopia; caſo che non è poi sì in frequente ad
accadere. Dicafi piuttoſto che l'una, e l'altra di queſte combinazioni con
tenute nei due eſempi addotti dal chiarillimo d'Alemberţ ſono molto difficili,
e tanto più, quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni medeſime
ſupera il numero dei favorevoli; lo che conviene appunto con li da me ſtabiliti
principj. Venendo poi al caſo noſtro dico, che fo no varie, e moltiſſime in
numero le cauſe vere, e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli uomini. Ma
trattandoſi del getto della mo neta, non vi ſono principj fiſici diverſi, e
tali, che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una, che l'altra
delle combi nazioni, che a rigor parlando non ſono che due, come più ſopra ſi è
offeryato. L'ordine delle umane coſe, e le fifiche qualità, e coſtituzioni
dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita, ſon con ſultati nel
primo caſo; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa conſultare a
formare il preſagio. Dunque fi pud predire, che ioo o maggior numero di uomini
avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di altri 100 uomini;
benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal corſo file ſare;
così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni, conoſciuto il ſiſtema del
gioco del faraone ſi può predire che un numero molto maggiore farà quello dei
banchieri che arric chiſcono, che non ſarà quello degli altri che ſi rovinano.
E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche cagioni che portano a for mare
queſto preſagio, e cagioni che naſcono dal ſiſtema del gioco. Ma chi sà dire
qual fi fica ragione addur voglia uno, che vedendo gettarall'aria una moneta,
aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che o per un maſſimo, o anche infinito
numero di volte, pre ſenti ſempre la ſteſſa faccia? Varie poſſono eſſere le
maniere di gettare in alto la moneta. Si può gettare a una gran de altezza, e a
una piccola; con poca forza, e con molta; con tale direzione che la baſe faccia
angolo retto con l'orizzonte; o che lo faccia obliquo; oppure in modo che ſia
ad eſlo parallela. Si può anche gettare in ma niera che ſomigli quaſi il
laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo. Fermiamoci ad eſaminare queſt'
ultima ipoteſi; e ſi vede, che laſciandola in tal modo cadere, ſpecialmente a
piccola altezza, anche in finite volte, non vi è ragione di preſagire, che non
poſſa eſſere coſtante lo ſcoprimen to della faccia medeſima. La impoffiſibilità
di queſto uniforme ſcoprimento, la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto
ca ſo, o negli altri caſi? Se la intende in queſto caſo, come dunque ſi
verifica, che il ſolo or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme
ſcoprimento? Se poi non la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica uni
verſalinente la ſua maſſima? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito
delle ragioni del Sig. d'Alembert, che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in
cui non altro appunto, che un non sò quale fatal ordine della natu ra,potrebbe
cagionare la preteſa variazione. Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi,
dico che nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto,dell'altezza,
della direzio ne; queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere fiſicamente
impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte va 120
riabili combinazioni, non ſono che due; o lo ſcoprimento di palle, o lo
ſcoprimento di croce; e non ogni variazione, e combinazione di tali cauſe
influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad
dotti dal Sig. d'Alembert, nei quali trattan doſi di rapporto, o di diverſa
conſociazione di parti, ognun vede, che ogni variazione influiſce a produrre un
effetto diverſo. O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti; e negli
addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che due non
potendoſi voltare, che palle, o croce; o ſi ri guardi la diverſità nelle
cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe
infinite, giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa; nel caſo
della moneta non è così, potendoſi dare moltiſſime combinazioni di forza,
altezza, direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto; potendoſi anche
dare che in infiniti getti, o in un numero aſſai grande, ſi man tenga l'iſteſſa
direzione, benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande; l'iſteſſo im 1 1
pero, benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto. Parmi adunque che e
queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con quello della
moneta; o al più provano una no tabile difficoltà nella combinazione che presenti
sempre l'iftessa faccia della moneta; verità che s’accorda perfettamente con gl’esposti
principj; poichè le osservazioni me deſime ce lo fanno conoscere,ed io suppongo
nell'applicargli, il caso probabile [GRICE, PROBABILITA E DESIDERABILITA], e
con la scorta dei medesimi ne cerco il grado di probabilità; dal che ne viene
che la teorìa non è applicabile ai casi ove o nessuna o quasi nessuna
probabilità del buon esito apparisca, per poterne formare la proporzione.
Quando poi cominci il numero in cui non sia sperabile un continuo discoprimento
di una sola faccia della moneta, le osservazioni, e non altro, possono mostrarlo.
Quelle osservazioni io dico, che io medesimo ho prefe per scorta in moltisimi
casi appartenenti alla materia dei CONTRATTI d’azzardo. E' poi tanto evidente
che la proposizione d’Alembert non atterra l'uso del CALCOLO DELLA PROBABILITA
O CREDIBILITA E DEL CALCOLO DELLA DESIDERABILITA, che anzi in qual che caso se
ne possono tirare delle conseguenze che lo conferinano. Chi gettando un dado
intraprende di scuoprire per esempio il 6 non vorrà gettarlo una sol volta,
quando debba azzardare una fom ma eguale a quella che azzarda l'avverſario; ma
vorrà gettarlo più volte. La ſua ſperan za è,che non voltandoſi ſempre
l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi ſcuopre, e che può non eſſere il 6,
arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6; altrimenti ſe non fcopren doſi alla
prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in tutti i tratti ſucceſſivi quel numero
che ſi ſcopre il primo, la ſua perdita ſarebbe ſicura. La ſperanza dunque di
queſto gio catore acquiſta tanto maggior fondamento quanto più è vero che ſia
impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero che alla prima fi ſcoprì;
impoſſibilità, che reſta compreſa nel la impugnata opinione del Sig. d'Alembert.
Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123 glianza nei contratti d'azzardo,
e difeſane l'applicazione non reſta che a deſiderare, che uomini di ſublime
ingegno, e di pro fondo ſapere ſi applichino in gran numero ad eſtendere ſempre
più l'uſo di una dottri na sì utile. Quanto a me, mi pare di aver ottenuto il
mio intento, ſe poſſo luſingarmi di aver formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia
in un articolo per una parte sì arduo, e per l'altra sì intereſſante. C. nasce
in Imola il ed alla patria e al casato accrebbe lustro e decoro: perchè già
rapidamente corsi gli studii delle amene lettere e della eloquenza sotto la
disciplina de’gesuiti, e con pubblico saggio nelle materie di filosofia
sperimentatosi, puo dallo stesso genitore nelle matematiche, delle quali è egli
peritissimo, essere ammaestrato. E col magistero di quella scienza sublime,
illuminando la mente già ordinata a diritti giudizii e scorto da precetti
delibati dalla scuola non fallibile degl’antichi esemplari, comforma la scrittura
alla altezza del pensiero, alla cultura dello spirito ed al candore dell'animo.
Nè i gravi studii della giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato
(insegnatore monsignor Giovannardi concittadino di lui, e fiore de
giureconsulti) gli tolge di coltivare la poetica, alla quale sentesi per tal
guisa inclinato, che basta a dettare alcuni componimenti i quali resi pubblici
con le stampe trovano grazia e lode somma ne cultissimi, e sì pure tra
gl’ARCADII alla cui accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono
ne gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori
poeti, onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono
degni verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver
egli con arte maestra saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei
modi sceltissimi onde le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano
parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di
Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil
lo, muove in C. con quella spontanea e nobile sempli cità che t'invaghisce nel
Canti; 282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che Zappi infioriva le
soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato della croce di Santo
Stefano, e nella Imolese accademia deg’INDUSTRIOSI di cui è socio si mostra
erudito ed elegante oratore e poeta. D'indi a non molto passato per le caro
vame a Pisa ha colà lezioni di pubblico diritto da quell'alto spirito di Lampredi,
che il tenne in istima d'ingegnoso e di colto, e che lo ha sempre carissimo.
Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo gli confere la carica di ispettore delle
carovane, e ad un tempo la cattedra di etica; intorno a che compone un trattato
quasi corso di lezioni, degno per fermo d’essere fatto di pubblica ragione: ed
a quel principe intitola C. una eloquente e dotta orazione composta eletta, per
incarico da lui avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed
i fasti dell'ordine, che è pubblicata pel Cambiagi in Firenze, dai torchi del
quale usce altro grave e prezioso volume col titolo di Saggio sui CONTRATTI e
giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di pubblico economista e di FILOSOFO;
ed ove la materia gravissima, e che diresti poter so lo dimostrarsi col
soccorso del calcolo, per la chiara sposizione pia ma e facile si mostra alla
intelligenza comune, Corse intanto tal fama del sapere di lui alla corte di
Ferdinando di Napoli, che con reale decreto, il nomina membro del supremo consiglio
di Finanze; nel qual tempo venne ad egual carica eletto quel sommo ingegno di FILANGIERI
(vedasi), cui C. è poi sempre stretto con vincoli di reciproca stima e di
amicizia tenerissima. E ben di questo è prova il parere da FILANGIERI (vedasi)
proposto al re intorno all'enfiteusi del così nomato Tavoliere di Puglia che
leggesi negli opuscoli di lui pubblicati per Silvestri in Milano ove egli da
maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega
consigliere C. proposto, quando a questo fine per sovrano volere ha a recarsi
in quella provincia. Del quale importantissimo servigio ha onore da maestrati
quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il provvedimen to
del principe ed il nome del benemerito consigliere in latina epigrafe eternano;
e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio: imperciocchè gli di grado di
consigliere effettivo con voto, e di sopra-intendente alle dogane ed alle
zecche del regno; nel che adopera a maniera, che sommo vantaggio m'ha lo stato
per la retta amministrazione di quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te
lettere di mano della stessa regnante Carolina onorevolissime lodi. Segue C. la
real corte a Palermo quando dovè colà ri fuggirsi: e con essa lei torna al suo
impiego in Napoli. Salito al trono il re Giuseppe, volge tosto gli sguardi ad
esso lui come a specchio di sapiente reggimento e di non comune interesse, e
gli confere la carica di consiglier di stato, di cavaliere del nuovo ordine del
le due Sicilie da esso lui istituito. Ma la mal ferma salute che gli vietò
continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolge a quel regno ove lascia
fama durabile del suo merito, procaccia alla patria il conforto di vederlo
tornare fra' suoi concittadini de quali è desiderio e delizia: e ben l'hanno
eglino zelantissimo della pubblica morale, e civile istruzione a quali col più
potente dei precetti, l'esempio, è di bel la guida e di stimolo; e per
l'importante buon regime delle acque operoso; e di quant'altro puo interessare
il pubblico vantaggio studiosissimo: nè mancano ai mendici dalla mano benefica
di lui generosi soccorsi i quali seppe providamente elargire, anzichè ad
alimento dell'ozio, a meritato sollievo della vera indigenza. Illi bato del
costume e per la esquisita erudizione della quale è fornito nella sociale
consuetudine piacentissimo, con la serena calma del giusto vide giungere l'ora
estrema del vivere, che a suoi cari ed alla patria il rapì: e della acerba
morte di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per la perdita
irreparabile di quest'uomo chiarissimo nel quale si ammirarono congiunte a
sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lettere, integrità di vita e
dovizioso corredo di ogni bella virtù. Whoever has
glanced through the pages of any text-book on mercantile law will hardly
deny that CONTRACT is the handmaid if not actually the child of
Trade. Merchants and bankers must have what soldiers and farmers seldom
need, the means of making and enforcing various agreements with
ease and certainty. Thus, turning to the special case before us, we
should expect to find that WHEN ROME IS IN HER INFANCY and when her free
inhabitants busied themselves chiefly with tillage and with petty
warfare, their rules of sale, loan, suretyship, were few and clumsy.
Villages do not contain lawyers, and even in tdwns hucksters do not
employ them. Poverty of Contract was in fact a striking feature of the
early Roman Law, and can be readily understood in the light of the rule
just stated. The explanation given by Sir Henry Maine is doubtless
true, but does not seem altogether adequate. He points out 1 that the
Roman household consisted of many families under the rule of a Ancient
Law. B. E. paternal autocrat, so that few freemen had what we
should call legal capacity, and consequently there arose few occasions
for Contract. This may indeed account for the non-existence of Agency,
but not for that of all other contractual forms. For if the
households had been trading instead of farming corporations, they must
necessarily have been more richly provided in this respect. The fact that
their commerce was trivial, if it existed at all, alone accounts
completely for the insignificance of Contract in their early Law.
The origin of Contract as a feature of social life was therefore
simultaneous with the birth of Trade and requires no further explanation.
It is with the origin and history of its individual forms that the
following pages have to deal. As ROMAN CIVILISATION progresses we find Commerce
extending and Contract growing steadily to be more complex and more
flexible. Before the end of the Roman Republic the rudimentary modes of
agreement which sufficed for the requirements of a semi-barbarous
people have been almost wholly transformed into the elaborate
system f of Contract preserved for us in the fragments of the Antonine
jurists. At the most remote period concerning which statements of
reasonable accuracy can be made, and which for convenience we may call
the Regal Period, we can distinguish three ways of securing the
fulfilment of a promise. The promise could be enforced either by the
person interested, or by the gods,
or by the community. When however
we speak of enforcement, we must not think of what is now called specific
performance, a conception unknown to primitive Law. The only kind of
enforcement then possible was to make punishment the alternative of
performance. Self-help, the most obvious method of redress in a society
just emerging from barbarism, was doubtless the most ancient protection
to promises, since we find it to have been not only the mode by
which the anger of the individual was expressed, but also one of the
authorised means employed by the gods or the community to signify their
displeasure. This rough form of justice fell within the domain of
Law in the sense that the law allowed it, and even encouraged men to
punish the delinquent, whenever religion or custom had been violated. But
as people grew more civilized and the nation larger, self-help must
have proved a difficult and therefore inadequate remedy. Accordingly its scope
was by degrees narrowed, and at last with the introduction of surer
methods it became wholly obsolete. Religious Law, as administered by
the priests, the representatives of the gods, was another powerful
agency for the support of promises. A violation of Fides, the sacred bond
formed between the parties to an agreement, was an act of impiety
which laid a burden on the conscience of the delinquent and may even have
entailed religious disabilities. Fides was of the essence of every
compact, but there were certain cases in which its violation was
punished with exceptional severity. If an agreement had been solemnly
made in the presence of the gods, its breach was punishable as an act
of gross sacrilege. The third agency for the protection of promises
was legal in our sense of the word. It consisted of penalties imposed
upon bad faith by the laws of the nation, the rules of the gens, or
the by-laws of the guild to which the delinquent belonged. What the
sanction was in each case we are left to conjecture. It may have been
public disgrace, or exclusion from the guild, or the paying of a
fine. And as some promises might be strengthened by an appeal to the gods, so
might others by an invocation of the people as witnesses.
Agreements then might be of three kinds corresponding to the three kinds
of sanction. They might consist of an entirely formless compact, a
solemn appeal to the gods, or a solemn appeal to the people. A formless
compact is called pactum in the language of the twelve Tables. It was
merely a distinct understanding between parties who trusted to each
other's word, and in the infancy of Law it must have been the kind of
agreement most generally used in the ordinary business of life.
Such agreements are doubtless the oldest of all, since it is almost
impossible to conceive of a time when men did not barter acts and
promises as freely as they bartered goods and without the accompaniment
of any ceremony. Compacts of this sort were protected by the universal
respect for Fides, and their violation may perhaps have been visited
with penalties by the guild or by the gens. But intensely religious
as the early Romans were, there must have been cases in which conscience
was too weak a barrier against fraud, and slight penalties were
ineffectual. Fear of the gods had to be reinforced by the fear of man,
and self-help was the remedy which naturally suggested itself. In the
twelve Tables pactum appears in a negative shape, as a compact by
performing which retaliation or a law-suit could be avoided 1 . If this
compact was broken the offended party pursued his remedy. Similarly
where a positive pactum was violated, the injured person must have had the
option of chastising 1 GELLIO. Auct. ad Her. n. 13. 20. the
delinquent. His revenge might take the form of personal violence, seizure
of the other's goods, or the retention of a pawn already in his
possession. He could choose his own mode of punishment, but if his
adversary proved too strong for him, he doubtless had to go unavenged ;
whereas if the broken agreement belonged to either of the other classes,
the injured party had the whole support of the priesthood or the
community at his back, and thus was certain of obtaining satisfaction. It
is therefore plain that though formless agreements contained the
germ of Contract, they could not have produced a true law of Contract,
because by their very nature they lacked binding force. Their
sanction depended on the caprice of individuals, whereas the essence of
Contract is that the breach of an agreement is punishable in a particular
way. A further element was needed, and this was supplied by the
invocation of higher powers. II. At what period the feshion was
introduced of confirming promises by an appeal to the gods it would
be idle to guess. Originally, it seems, the plain meaning of such appeals
is alone considered, and their form is of no importance. But, under the
influence of custom or of the priesthood, they assume by degrees a formal
character, and it is thus that we find them in our earliest
authorities. Since religion and law – [“as H. L. A. Hart so well knows,
since he is a jew” – H. P. Grice] -- are both at first the monopoly of
the priestly order, and since the religious forms of promise have their
counterpart in the customs of Greece and other primitive
peoples, whereas the secular form is PECULIARLY Roman, the religious
form is evidently the older, and formal contract therefore has a religious
origin. Fides being a divine thing, the most natural means of
confirming a promise is to place it under divine protection. This may be
accomplished in two ways, by ius iurandum, or by sponsio -- each of
which is a solemn, Austinian-type performative declaration placing the
promise or agreement under the guardianship of the god, notably GIOVE. Each
form has a curious history, and as this is are the earliest specimen of a
contract, we should discuss them, and we might! Another method, and one
peculiar to the Romans, which naturally suggests itself for the
protection of agreements, is to perform the whole transaction in view of other
people. This publicity ensures the fairness of the agreement, and places
its existence beyond Cartesian – or Berkeleyian -- dispute. If the transaction is
essentially a public matter, such as the official sale of some public
land, or the giving out of a public contract, no formality seems ever to
have been required, so that even a formless agreement in in that
case is binding. The same validity may be secured for a private
contract, by having it publicly witnessed, and the nexum is but one
application of this principle. In testamentary law – “How my father,
Herbert Grice, inherited the property on the High Way of Halborne” – Grice -- it
seems probable that the public will in comitiis calatis is also
formless, whereas in private the testator may only give effect to his
will by formally saying to his fellow-citizens testimonium mihi
perhibetote. Thus the two elements which turned a bare agreement
into a contract were religion and publicity. The naked agreements (pacta)
need not concern us, since their validity as contracts never
received complete recognition. But it will be the object of the
following pages to show how agreements grew into contracts by being
invested with a religious or public dignity, and to trace the subsequent
process by which this outward clothing was slowly cast off.
Formalism was the only means by which Contract could have risen to an
established position, but when that position was folly attained we shall
find Contract discarding forms and returning to the state of bare
agreement from which it had sprung. Ivsivrandvm is derived by some
from Iouisiurandum 1, which merely indicates that Jupiter was the god by
whom men generally swore. To make an oath was to call upon some god
to witness the integrity of the swearer, and to punish him if he
swerved from it. This appears from the wording of the oath in LIVIO,
where SCIPIONE says: Si sciensfalloy turn me, Iuppiter optime maxime,
domum familiam remque rneam pessimo leto afficias" and from the
oath upon the Iuppiter lapis given by Polybius and Paulus Diaconus, where
a man throws down a flint and says : " Si sciens /alio, turn
me Dispiter salua urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc
lapidem" A promise accompanied by an oath was simply a unilateral
contract under religious sanction. And it would seem that the oath was in
fact used for purposes of contract. CICERONE remarks 8 that the
oath was proved by the language of the XII Tables to have been in
former times the most binding form of promise ; and since an oath was
still morally binding 1 Cf. Apul. de deo Socr. 5. a xzii.Off. ni.
31. 111.in the time of CICERONE, though it had then no legal force, the
point of his remark must be that in earlier times the oath was legally
binding also. From Dionysius we know that the altar of ERCOLE (called ARA
MASSIMA) was a place at which solemn compacts (ovvdfjtcai) were often
made 1, while Plautus and Cicero inform us that such compacts were
solemnized by grasping the altar and taking an oath 2 . It would seem
probable that the gods were consulted by the taking of auspices before
an oath was made. Cicero says that even in private affairs the
ancients used to take no step without asking the advice of the gods 8 ;
and we may safely conjecture that whenever a god was called upon to
witness a solemn promise, he was first enquired of, so that he might have
the option of refusing his assent by giving unfavourable auspices. The
terms of the oath were known as concepta uerba, at least in the
later Republic, and like the other forms of the period they were strictly
construed 4 . Periuriv/m did not mean then, as now, false swearing. It
meant the breach of an oath 5, the commission of any act at
variance with the uerha concepta There is some dispute as to what were the
exact consequences of such a breach. Voigt 7 thinks that it merely
entailed excommunication from religious rites, but Danz 8 is clearly
right in maintaining that its consequences in early times were far more
serious ; 1 Dion. i. 40. 2 Plaut. Rud. 5. 2. 49. Cio. Flacc. 36.
90. 8 Div. 1. 16. 28. 4 Seru. ad Aen. 12. 13. 6 i.e.
8ciem fallere, Plin. Paneg. 64. Seneca, Ben. in. 37. 4. 6 Off. in. 29.
108. 7 Ius Nat. Ram. RG. n. § 149. they amounted in fact to
complete outlawry. Cicero says that the sacratae leges of the
ancients confirmed the validity of oaths. Now a sacrata lex was one
which declared the transgressor to be sacer (i.e. a victim devoted) to
some particular god 1, and sacer in the so-called laws of Seruius Tullius
2 and in the XII Tables 8 was the epithet of condemnation applied to the
undutiful child and the unrighteous patron. So likewise it seems
highly probable that the breaker of an oath became sacer, and that
his punishment, as CICERONE hints, was usually death. The formula of an
oath given by Polybius 6 is more comprehensive than that given by
Paulus Diaconus, for in it the swearer prays that, if he should
transgress, he may forfeit not onry the religious but also the civil
rights of his countrymen. This shows that the oath-breaker was an
utter outcast; in fact, as the gods could not always execute vengeance in
person, what they did was to withdraw their protection from the
offender and leave him tolhe punishment of his fellow-men. The drawbacks
to this method of contract were the same as those of the old English Law,
which made hanging the penalty for a slight theft ; the penalty was
likely to be out of all proportion to the injury inflicted by a breach of
the promise. So awful indeed was it, that no promise of an ordinary
kind could well be given in such a dangerous form, and consequently
the oath was not available for the 1 Festus, p. 318, s.u. sacratae.
2 Fest. p. 230, s.u. plorare. 8 Seru. ad Aen. 6. 609. 4 Leg. n. 9.
22. B in. 25. 6 p. 114, s.u. lapidem. 7 Liu. v. 11. 16. common
affairs of daily life. The use of the oath therefore disappeared with the
rise of other forms of binding agreement, the severity of whose
remedies was proportionate to the rights which had been violated;
while at the same time the breaking of an oath came to be considered as a
moral, instead of a legal, offence, and by the end of the Republic
entailed nothing more serious than disgrace (dedecus). In one instance
only did the legal force of the oath survive. As late as the days of
Justinian^ the services due to patrons by their freedmen were still
promised under oath 1 . But the penalty for the neglect of those services
had changed with the development of the law. At and before the time
of the XII Tables, the freedman who neglected his patron, like the
patron who injured his freedman 2, no doubt became sacer, and was an
outlaw fleeing for his life, as we are told by DIONISIO. But in
classical times the heavy religious penalty had disappeared, and the
iurisiurandi obligatio was enforced by a special praetorian action, the
actio operarum*. By the time of Ulpian the effects of the iurata
operarum promissio seem indeed to have been identical with those of the
operarum stipulatio*, though the forms of the two were still quite
distinct. We may then summarise as follows our knowledge as
to this primitive mode of contract : The form was a verbal
declaration on the part of the promisor, couched in a solemn and
carefully 1 38 Dig. 1. 7. a Sera, ad Aen. 6. 609. 8 n. 10. 4
38 Dig. 1. 2 and 7. 5 Cf. 38 Dig. 1. 10. 1 worded 1 formula
(concepta tierba), wherein he called upon the gods {testari deos)*, to
behold his good faith and to punish him for a breach of it.
The sanction was the withdrawal of divine protection, so that the
delinquent was exposed to death at the hand of any man who chose to
slay him. The mode of release, if any, does not appear.
In classical times it was the acceptilatio*, but this Was clearly
anomalous and resulted from the similar juristic treatment of operae
promissae and operae iuratae. Though the point is contested by
high authority, yet it scarcely admits of a doubt that there existed from
very early times another form, known as sponsio, by which agreements
could be made under religious sanction. This method, as Danz has
pointed out, was originally connected with the preceding one. It was
derived from the stern and solemn compact made under an oath to the
gods. But Danz goes too far when he identifies the two, and states that
sponsio was but another name for the sworn promise. The stages
through which the sponsio seems to have passed tell a different
story. The word is closely connected with airovSij, tnrivSeiv, and hence
originally meant a pouring out of wine 8, quite distinct from the
convivial \ocfirf or libatio 6, so that " libation " is not its
proper equivalent. The other derivation given by Dig., fr. Plant. Rud.
Dig. 4. 13. 4 Danz, Sacr. Schutz Festus s.u. spondere. 6 Leist, Greco-It. R. O.
, note o. Varro 1 and Verrius from
sports, the will, whence according to Girtanner 8 sponsio must have meant
a declaration of the will, savours somewhat too strongly of
classical etymology. This pouring out of wine, as Leist 4 has shown,
was in the Homeric age a constant accompaniment to the conclusion of a sworn
compact of alliance (optcia iriara) between friendly nations. The
sacrificial wine seems originally to have added force to the oath by
symbolising the blood which would be spilt if the gods were insulted by a
breach of that oath. In this then its original form sponsio was
nothing more than an accessory piece of ceremonial. The second stage was
brought about by the omission of the oath and by the use of
wine-pouring alone as the principal ceremony in making less
important agreements of a private nature. In the Indian Sutras for
instance a sacrifice of wine is customary at betrothals 5, and comparison
shows that the marriage ceremonies of the Romans, in connection with
which we find sponsio and sponsalia applied to the betrothal and sponsa
to the bride 6, were very like those of other Aryan communities 7 . We
may therefore clearly infer that at Rome also there was a time when
the pouring out of wine was a part of the marriage-contract; and thus our
derivation of the word receives independent confirmation. In the third
and last stage sponsio meant 1 L. L. Festus, «. u. spondere. Stip
Greco-It. B. G. . 8 Leist, AlUAr. I. Civ. 8 Gell. iv. 4. Varro, L.
L. Leist, loc. ciu nothing more
than a particular form of promise, and it is easy to see how this came
about. At first the verbal promise took its name from the ceremony
of wine-pouring which gave to it binding force; but in course of
time this ceremony was left out as taken for granted, and then the
promise alone, provided words of style were correctly used, still
retained its old uses and its old name. Sponsio from being a
ceremonial act became a form of words. Such was the final stage of its
development. The importance attached to the use of the words
spondesne ?, spondeo in preference to all others 1 thus becomes clear.
Spondesne ? spondeo originally meant " Do you promise by the
sacrifice of wine V "I do so promise," just as we say, "I
give you my oath," when we do not dream of actually taking
one. Another peculiarity of sponsio, noticed though not
explained by GAIO, was the fact that it could be used in one exceptional
case to make a binding agreement between Romans and aliens, namely,
at the conclusion of a treaty. Gaius expresses surprise at this
exception. But if, as above stated, a sacrifice of pure wine {airovhal
a/cprjTot) was one of the early formalities of an international compact
(op/cia mard), it was natural that the word spondeo should survive
on such occasions, even after the oath and the winepouring had long since
vanished. Sponsio being then a religious act and subsequently a
religious formula, its sanctity was doubtless protected by the pontiffs
with suitable penalties. What these penalties were we cannot hope to
know, 1 Gai. in. 93. 2 in. 94. though clearly they were the
forerunners of the penal sponsio tertiae partis of the later
procedure. Varro 1 informs us that, besides being used at betrothals the
sponsio was employed in money (pecu/nia) transactions. If pecunia
includes more than money we may well suppose that cattle and other forms
of property, which could be designated by number and not by weight,
were capable of being promised in this manner. Indeed it is by no means
unlikely 2 that nexum was at one time the proper form for a loan of
money by weight, while sponsio was the proper form for a loan of coined
money (pecunia nwmerata). The making of a sponsio for a sum of
money was at all events the distinguishing feature of the afibio per
sponsionem, and though we cannot now enter upon the disputed history of
that action, its antiquity will hardly be denied. The account
here given of the origin and early history of the sponsio is so different
from the views taken by many excellent authorities that we must
examine their theories in order to see why they appear untenable. One great
class of commentators have held that the sponsio is not a primitive
institution, but was introduced at a date subsequent to the XII TABVLAE. The
adherents of this theory are afraid of admitting the existence, at so
early a period, of a form of contract so convenient and flexible as
the sponsio, and they also attach great weight to the fact that no
mention of sponsio occurs in our fragments of the XII Tables. While it
would doubtless be an anachronism to ascribe to the early 1
L. L. a Karsten, Stip. p.
42. J sponsio the actionability and breadth of scope which it
had in later times, still it may very well have been sanctioned by
religious law, in ways of which nothing can be known unless the
pontifical Commentaries of Papirius 1 should some day be discovered. As
to the silence of the XII Tables on this subject, we are told by
Pomponius that they were intended to define and reform the law rather
than to serve as a comprehensive code 2 . Therefore they may well
have passed over a subject like sponsio which was already regulated by
the priesthood. Or, if they did mention it, their provisions on the
subject may have been lost, like the provisions as to iusiurandum, which'
we know of only through a casual remark of CICERONE’s, The early date
here attributed to the sponsio cannot therefore be disproved by any such
negative evidence. Let us see how the case stands with regard to
the question of origin. (a) The theory best known in England, owing
to its support by Sir H. Maine, is that sponsio was a simplified form of
neocum, in which the ceremonial had fallen away and the nuncupatio had
alone been left 4 . This explanation is now so utterly obsolete
that it is not worth refuting, especially since Mr Hunter's exhaustive
criticism 5 . One fact which in itself is utterly fatal to such a theory
is that the nuncupatio was an assertion requiring no reply 6,
i Dion. in. 36. 2 1 Dig. 2. 2. 4. 8 Off. in. 31. 111. *
Maine, Am. Law, p. 326. 5 Hunter, Roman Law, p. 385. 6 Gai. n.
24. B. E. 2 whereas the essential thing about the
sponsio was a question coupled with an answer. (6) Voigt
follows Girtanner in maintaining that spondere signified originally
" to declare one's will," and he vaguely ascribes the use of
sponsiones in the making of agreements to an ancient custom
existing at Borne as well as in Latium 1 . He agrees with the view here
expressed that the sponsio was known prior to the XII Tables, but thinks
that before the XII Tables it was neither a contract (which is
strictly true if by contract we mean an agreement enforceable by action),
nor an act in the law, and that its use as a contract began in the
fourth century as a result of Latin influence 2 . In another place 8 he
expresses the opinion that its introduction as a contract was due to
legislation, and most probably to the Lex Silia. The objections to
this view are that the etymology is probably wrong, and that the
inference drawn as to the original meaning of spondere iuvolves us in
serious difficulties. An expression of the will can be made by a
formless declaration as well as by a formal one. And if a formless
agreement be a sponsio, as it must be if sponsio means any declaration of
the will, how are we to explain the formal importance attaching to
the use of the particular words " spondesne ? spondeo. This view ignores
the religious nature of the sponsio, which I have endeavoured to
establish, and (4) it forgets that sponsio, being part of the marriage
ceremonial, one of the first subjects 1 Rom. RG. Ius Nat. to be regulated by the
laws of Romulus 1, is most probably one of the oldest Roman
institutions. Again (5), as Esmarch has observed 2, the legislative
origin of the sponsio is a very rash hypothesis. We only know that the
Lex Silia introduced an improved procedure for matters which were already
actionable, and had a new formal contract been created by such a
definite act we should almost certainly have been informed of this by the
classical writers. (c) Danz also derives sponsio from sports,
the will; but he takes spondere to mean sua sponte iurare, and
thinks that the original sponsio was exactly the same as iusiurandum,
i.e. nothing more than an oath of a particular kind 3 . . His chief
argument for this view is to be found in PAOLO DIACONO, who gives
consponsor = coniurator. But why need we suppose that Paulus meant more
than to give a synonym ? in which case it by no means follows that
spondere = iurare. For such a statement as that we have absolutely no authority.
Moreover, as we saw above, iusiurandum was a one-sided declaration
on the part of the promisor only. How then could the sponsio,
consisting as it did of question and answer, have sprung from such a
source ? especially since the iusiurandum, though no longer armed
with a legal sanction, was still used as late as the days of
Plautus alongside of the sponsio and in complete contrast to it
? Girtanner, in his reply to the "Sacrale Schutz" of Danz
4, maintains that sponsio had nothing 1 Dion. n. 25. 2 K. V. filr G. u. R. W. 3 Sacr. Schutz, p. 149. 4 Ueber die Sponsio, p. 4 fif. to do with an oath, but was a simple
declaration of the individual will, and that stipulatio had its
origin in the respect paid to Fides. This view however is even less
supported by evidence than that of Danz. Arguing again from analogy
Girtanner thinks that, as the Roman people regulated its affairs by
expressing its will publicly in the Comitia, so we may conjecture that
individuals could validly express their will in private affairs, in other
words could make a binding sponsio. But this, as well as being a
wrong analogy, is a misapprehension of a leading principle of early Law.
For, as we have seen, no agreement resting simply upon the will of
the parties (i.e. pactum) was valid without some outward stamp being
affixed to it, in the shape of approval expressed by the gods or by the
people. In the language of the more modern law, we may say that
such approval, tacit or explicit, religious or secular, was the original
causa ciuilis which distinguished contractus from pactiones. Now a
popular vote in the Comitia bore the stamp of public approval as
plainly as did the nexum. But the sponsio, requiring no witnesses, was
clearly not endorsed by the people ; therefore the endorsement
which it needed in order to become a contractus iuris cvuilis must have
been of a religious nature, and that such was the case appears plainly if
we admit that sponsio originated in a religious ceremonial such as I have
described. To recapitulate the view here given, we may
conclude that sponsio was a primordial institution 1 See
Windscheid, K. F. fiir G. «. R. W. i. 291. of the Roman and Latin peoples,
which grew into its later form through three stages, It is
originally a sacrifice of wine annexed to a solemn compact of
alliance or of peace made under an oath to the gods. (b) Next it became a
sacrifice used as an appeal to the gods in compacts not made under oath
such as betrothals. Just as iusiurandum for many purposes was
sufficient without the pouring out of wine, so for other purposes sponsio
came to be sufficient without the oath, Lastly it becomes a verbal
formula, expressed in language IMPLYING the accompaniment of a
wine-sacrifice, but at the making of which no sacrifice was ever actually
performed. In this final stage, which continued as late as the days of
Justinian, Its form was a question put by the promisee, and
an answer given by the promisor, each using the verb spondere. Filiam
mihi spondesne? Spondeo? Centum dari spondes? Spondeo. Throughout its history
this is a form which Roman citizens alone may use, in which fact we
clearly see religious exclusiveness and a further proof of
religious origin. Why they use question and answer rather than plain
statement is a minor point the origin of which no theory – except
Grice’s-- has yet accounted for. The most plausible conjecture seems to
be that the recapitulation by the promisee was intended to secure
the complete understanding by the promisor of the exact nature of his
promise. Its sanction in the early period of which we are
treating was doubtless imposed by the priests, but owing to our almost
complete ignorance of the pontifical law we cannot tell what that
sanction was. Having now examined the ways in which an
agreement could be made binding under religious sanction, let us see how
binding agreements could be made with the approval of the
community. There is reason to believe that this secular class of
contracts is less ancient than the religious class, because nexum and
mancipium were peculiar to the Romans, whereas traces of iusiurandum and
sponsio are found, as Leist has shown, in other Aryan civilizations.
Nexvm. There is no more disputed subject in the whole history of Roman Law than
the origin and development of this one contract. Yet the facts are
simple, and though we cannot be sure that every detail is accurate, we
have enough information to see clearly what the transaction was like
as a whole. We know that it was a negotium per aes et libram, a
weighing of raw copper or other commodity measured by weight in the presence
of witnesses 2 ; that the commodity so weighed was a loan 8 ; and
that default in the repayment of a loan thus made exposed the borrower to
bondage 4 and savage punishment at the hands of the lender. We know
also that it existed as a loan before the XII Tables, for it is mentioned
in them as something quite different from mancipium. To assert, as
Bechmann does, that since nexum included conveyance as 1 Alt Ar. I. Civ. I« e Abt.
pp. 435-443. 2 Gai. in. 173. 3 Muciu* in Varro, L. L.. 4 Varro, L. L. Clark, E. R. L. well as loan " mancipiumque "
must therefore be an interpolation into the text of the XII Tables 1, is
an arbitrary and unnecessary conjecture. The etymology of nexwm,
and of mancipium shows that they were distinct conceptions. Mancipium
implies the transfer of mami8, ownership ; nexum implies the making
of a bond (cf. nectere, to bind), the precise equivalent of
obligatio in the later law. It is true that both nexwm and mancipium
required the use of copper and scales, to measure in one case the price,
in the other the amount of the loan. But this coincidence by no
means proves that the two transactions were identical. A modern deed is
used both for leases and for conveyances of real property, yet that would
be a strange argument to prove that a lease and a conveyance were
originally the same thing. Here however we are met by a difficulty. If,
as some hold 8 and as I have tried to prove, we must regard
mancipium as an institution of prehistoric times distinct from the purely
contractual nexwm, how are we to explain the fact that nexwm is
used by Cicero 8 and by other classical writers 4 as equivalent to
mancipium, or as a general term signifying omne quod per aes et libram
geritur, whether a loan, a will, or a conveyance ? Now first we must
notice the fact that neamm had at any rate not always been
synonymous with mancipium, for if it had been so, there could have been
no doubt in the minds of 1 Kauf f Mommsen, Hist ad Fam. 7. 30 ; de
Or. ; Top. ; Parad. . ; pro Mwr. 2. 4 Boethius lib. 3 ad Top.
5. 28 ; Gallus Aelius in Festas, s.u. nexwm ; Manilim in Varro, L.
L. Scaeuola and Varro that a res nexa was the same thing as a res
mamipata. This Scaeuola and Varro both deny, and we must remember that
Mucius Scaeuola was the Papinian of his day. Manilius 1 on the
other hand, struck perhaps by the likeness in form of the obsolete nexum
to other still existing negotia per aes et libram, seems to have made
nexum into a generic term for this whole class of transactions. In this
he was followed by Gallus Aelius. The new and wider meaning, given by
them to that which was a technical term at the period of the XII
Tables, apparently became general in literature, partly for the very
reason that nexum no longer had an actual existence, partly because need
liberatio, the old release of nexum, had been adopted by custom as
the proper form of release in matters which had nothing to do with the
original nexum, namely in the release of judgment-debts and of
legacies per damnationem. One peculiarity mentioned by Gaius in the release of
such legacies seems altogether fatal to the theory that mandpium
was but a species of the genus nexum. Gaius says that nexi liberatio
could be used only for legacies of things measured by weight. Such things
were the sole objects of the true nexum, whereas res maricipi
included land and cattle. Therefore if mancipiwm were only a species of
nexum we should certainly find nexi liberatio applying to legacies of res
mancipi, but this, as Gaius shows, was not the case. The view
that nexum was the parent gestum per 1 Varro, L. L. vu. . a Festus,
s. u. nexum. 3 Gai. . aes et libram, and that mancipium was
the name given later to one particular form of nexum, is worth
examining at some length, because it is widely accepted 1, and because it
fundamentally affects our opinion concerning the early history of an
important contract. Bechmarm 2 thinks it more reasonable to suppose
that nexum narrowed from a general to a specific conception. But it is
scarcely conceivable that nexum should have had the vague generic
meaning of quodcumque per aes et libram geritur when it was still a
living mode of contract, and the technical meaning of obligatio per aes
et libram when such a contractual form no longer existed. What
seems far more likely is that nexum had a technical meaning until it
ceased to be practised subsequently to the Lex Poetilia, and that its
loose meaning was introduced in the later Bepublic, partly to
denote the binding force of any contract 4, partly as a convenient
expression for any transaction per aes et libram\ Even in CICERONE
(vedasi) we find ‘nexum’ used chiefly with a view to elegance of style in
places where mandpatio would have been a clumsy word and where 7 there
could be no doubt as to the real meaning. But when Cicero is
writing history, he uses nexum in its old technical SENSE (Grice, Do not
multiply senses beyond necessity) and actually tells us that it had
become obsolete. Bechmann, Kauf, ; Clark,
E. R. L. Varro, I. c. Festus,. u. nexum. Cf. nexu uetu&ti " in
Ulpian, 12 Dig. . 5 Cic. de Or. 6 Uar. Resp. vn. 14; ad
Fam.; Top. As in pro Mur. 2; Parad. 8 de Rep. and cf. Liu. mi. Rejecting then as untenable
the notion that nexum denoted a variety of transactions, let us see
how it originated. The most obvious way of lending corn or copper or any
other ponderable commodity, was to weigh it out to the borrower,
who would naturally at the same time specify by word of mouth the terms
on which he accepted the loan. In order to make the transaction
binding, an obvious precaution would be to call in witnesses, or if
the transaction took place, as it most likely would, in the market-place,
the mere publicity of the loan would be enough. Thus it was, we may
believe, that a nexurn was originally made. It was a formless agreement
necessarily accompanied by the act of weighing and made under public
supervision. It dealt only with commodities which could be measured with
the scales and weights, and did not recognize the distinction between res
mancipi and res nee mancipi, a strong argument that nescum and
mandpium were, as above said, totally distinct affairs. Its sanction lay
in the acts of violence which the creditor might see fit to commit
against the debtor, if payment was not performed according to the terms
of his agreement. Personal violence was regulated by the XII Tables, in
the rules of manus iniectio, but before that time it is safe to
conjecture that any form of retaliation against the person or property of
the debtor was freely allowed. The fixing of the number of witnesses at
five 1, which we find also in rnancipium, . is the only
modification of nexum that we know of prior to 1 Gai. hi. the XII
Tables. Bekker 1 suggests that this change was one of the reforms of
Seruius Tullius, and that the five witnesses, by representing the five
classes of the Servian ceruma, personified the whole people. This
is a mere conjecture, but a very plausible one. For we are told by
Dionysius 8 that Seruius made fifty enactments on the subject of Contract
and Crime, and in another passage of the same author 8, we find an
analogous case of a law which forbade the exposure of a child except with
the approval of five witnesses. But here a question has been raised as
to what the witnesses did. The correct answer, I believe, is that given
by Bechmann 4, who maintains that the witnesses approved the transaction
as a whole, and vouched for its being properly and fairly
performed. Huschke, on the other hand, claims that the function of the
witnesses was to superintend the weighing of the copper, and that before
the introduction of coined money some such public supervision was
necessary in order to convert the raw copper into a lawful medium of
exchange 5 . This view is part of Huschke's theory, that neacum had
two marked peculiarities: (1) it was a legal act performed under public
authority, and it was the recognised mode of measuring out copper money
by weight. The first part of Huschke's theory may be accepted
without reserve, but the second part seems quite untenable. We have no
evidence to show that nexum was confined to loans of money or of
1 Akt. 4 Kauf. Nexum, p. 16 ff. copper. Indeed we gather
from a passage of CICERONE (si veda) that far, corn, may have been the
earliest object of nexum 1, while GAIO (si veda) states that anything measurable
by weight could be dealt with by neari solvtio. No inference in favour of
Huschke's theory may be drawn from the name negotium per cms et
libram, for this phrase obviously dates from the more recent times
when the ceremony had only a formal significance, and when the aes
(ravduscvlum) was merely struck against the scales. If then we reject
the second part of Huschke's theory, and admit, as we certainly
should, that nexum could deal with any ponderable commodity, it is
evident that his whole view as to the function of the witnesses
must collapse also. The very notion of turning copper from
merchandise into legal tender is far too subtle to have ever occurred to
the minds of the early Romans. As Bechmann 8 rightly remarks, the
original object of the State in making coin was not to create an
authorised medium of exchange, but simply to warrant the weight and
fineness of the medium most generally used. The view of Buschke
seems therefore a complete anachronism. There is also another
interpretation of neawm radically different from the one here advocated,
and formerly given by some authorities 4, but which has few if any
supporters among modern jurists. This, view was founded upon a loosely
expressed remark of Varro's in which nexus is defined as CICERONE
(si veda) de Leg. Agr. Kauf. 4 See Sell, Scbeurl, Niebuhr, Christiansen,
Puchta, quoted in Danz, Rom. RG. n. 25. a freeman who gives himself
into slavery for a debt which he owes The inference drawn from this
remark was that the debtor's body, not the creditor's money, was the
object of nexwm, and that a debtor who sold himself by mancipium as a
pledge for the repayment of a loan was said to make a nexum. Such a
theory does not however harmonize with the facts. The evidence is
entirely opposed to it, for Varro's statement, as will be seen later on,
admits of quite another meaning. Neither nexum nor mancipium is ever
found practised by a man upon his own person. Nor could nexum have
applied to a debtors person, for the idea of treating a debtor like
a res mancipi or like a thing quod pondere numero constat, is absurd.
Again, if nexum = mancipium, the conveyance of the debtors body as a
pledge must have taken effect as soon as the money was lent,
therefore by thus becoming nexus he must have been in mancipio long
before a default could occur, which is too strange to be believed, and
(2) being in mancipio he must have been capite deminutus, which
Quintilian expressly states that no nexal debtor ever was 4 . Clearly then
mancipium was under no circumstances a factor in nexum. Thus it
would seem that the theory which regards nexum as a loan of raw copper or
other goods measurable by weight, is the one beset with fewest
difficulties. Such goods correspond pretty nearly to what in the later
law were called res fungibiles. VARRONE (si veda), L. L. nexum inire,
Liu. vn. Paul. Diao. u. deminutus. Decl. The borrower was not
required to return the very same thing, but an equal quantity of the same
kind of thing. And this explains why neanim, the first genuine
contract of the Roman Law, should have received such ample protection. A
tool or a beast of burden could be lent with but little risk, for
either could be easily identified ; but the loan of corn or of
metal would have been attended with very great risk, had not the law been
careful to ensure the publicity of every such transaction.
lusiurandum or sponsio might no doubt have been used for making
loans, but they both lacked . the great advantage of accurate
measurement, which neanim owed to its public character. It was the
presence of witnesses which raised neanim from a formless loan into
a contract of loan. This general sketch of the original neanim
is all that can be given with certainty. The details of the picture
cannot be filled in, unless we draw upon our imagination. We do not know
what verbal agreement passed between the borrower and the lender,
though it is fairly certain that payment of interest on the loan might be
made a part of the contract. We cannot even be quite sure whether
the scale-holder (libripens) was an official, as some have
suggested, or a mere assistant. Our description of the contract may then
be briefly recapitulated as follows: The form consisted of
the weighing out and delivery to the borrower of goods measurable
by weight, in the presence of witnesses, (five in number, probably
since the time of Seruius Tullius), whose attendance ensured the proper
performance of the ceremony. The ownership of the particular goods
passed to the borrower, who was merely bound to return an equal quantity
of the same kind of goods, but the terms of each contract were
approximately fixed by a verbal agreement uttered at the time. The
sanction consisted of the violent measures which the creditor might
choose to take against a defaulting debtor. Before the XII Tables
there seems to have been no limit to the creditor's power of
punishment. Any violence against the debtor was approved by custom and
justified by the notoriety of the transaction, so that self-help was more
easily exercised and probably more severe in the case of nexum than in
that of any other agreement. The release (nexi solutio) was a ceremony
precisely similar to that of the nexum itself, the amount of the loan
being weighed and delivered to the lender, in presence of witnesses. We
have now examined three methods by which a binding promise could be made
in the earliest period of the Roman Law. The next question which
confronts us is whether there existed at that time any other method. The
other forms of contract, besides those already described, which are
found existing at the period of the XII Tables, were fiducia, lex
mancipi, uadimonium, and dotis dictio. Did any of these have their origin
before this time ? Fiducia is doubtful, and lex mancipi, as we
shall see, owed its existence to an important provision Gai. \.t
of that code. As to the origin of uadirnonium, we cannot be certain, but
judging from a passage in Gellius 1 we are almost forced to the
conclusion that uadimonium also was a creation of the XII Tables. Gellius speaks of •' uades et subuades et XX V asses et taliones omnisque
ilia XII Tabhlarum antiquitas. We know that
twenty-five asses was the fine imposed by the XII Tables for cutting
down another man's tree, therefore it would seem from the context
that uades had also been introduced by that code. The point cannot be
settled, but since the XII Tables were at any rate the first
enactments on the subject of which anything is known, we may
discuss uadimonium in treating of the next period. The only contract of
which the remote antiquity is beyond dispute is the dotis dictio. DOTIS
DICTIO. Dionysius 8 informs us that in the earliest times a dowry was
given with daughters on their marriage, and that if the father
could not afford this expense his clients were bound to contribute. Hence
it is clear not only that dos existed from very early times, but that
custom even in remote antiquity had fenced it about with strict rules.
From Ulpian 8 we know that dos could be bestowed either by dotis dictio,
dotis promissio, or dotis datio. The promissio is a promise by
stipulation, and the datio was the transfer by mancipation or tradition
of the property constituting the dowry ; so that these two are easy to
understand. But dotis dictio is an obscure subject. It is difficult to
know whence it acquired its binding force as a contract, Reg. since in
form it was unlike all other contracts with which we are acquainted. Its
antiquity is evidenced not only by this peculiarity of form, but
9,lso by a passage in the Theodosian Code which speaks of dotis dictio as
conforming with the ancient law 1 . An illustration occurs in Terence,
where the father says, Dos, Pamphile, est decern talenta" and
Pamphilus, the future son-in-law, replies, "Accipio"; but we
need not conclude that the transaction was always formal, for the above
Code 8, in permitting the use of any form, seems rather to be
restating the old law than making a new enactment. A further peculiarity,
stated by Ulpian 4 and by Gaius 5, was that dotis dictio could be
validly used only by the bride, by her father or cognates on the
fathers side, or by a debtor of the bride acting with her authority.
Dictio is a significant word, for Ulpian 6 distinguishes between dictum
and promissum, the former, he says, being a mere statement, the latter a
binding promise. This distinction should doubtless be applied in the
present case, since dotis dictio and dotis promissio were clearly
different. The following theories seem to be erroneous : Von Meykow
7 holds that dictio was adopted as a form of promise instead of sponsio
for this family affair of dos, in order not to hurt the feelings of the
bride and of her kinsmen by appearing to question their bona fides. That
theory would be a plausible explanation, if dictio could ever have meant
a 1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And Reg. Epit.Dig. Diet. d. Rfim. Brautg. p.
5 ff. B. E. 3 promise, but from what Ulpian says, this can hardly
be admitted. Bechmann 1, again, connects dotis dictio with the
ceremony of sponsio at the betrothal of a daughter. The dos, he thinks,
was promised by a sponsio made at the betrothal, so that the peculiar
form known as dotis dictio was originally nothing more than the
specification of a dowry already promised. The dotis dictio would
therefore have been at first a mere pactum adiectum, which was made
actionable in later times, while still preserving its ancient form.
The objection to this theory is tKat it lacks evidence : indeed the only
passage (that of Terence) in which dotis dictio is presented to us with a
context goes to show that this contract was in no way connected
with the act of betrothal. (c) Another explanation is given by
Czylharz, ie. that dotis dictio was a formal contract. His view is
based on the scholia attached to the passage of Terence, which say of the
bridegroom's answer: "Mle nisi dixisset ' accipio' dos non
esset." Czylharz therefore looks upon the contract as an
inverted stipulation. The offer of a promise was made by the promisor,
and when accepted by the promisee became a contract. Though such a
process is quite in harmony with modern notions of Contract, it
would have been a complete anomaly at Rome. And we cannot believe that,
if acceptance by the promisee had been a necessary part of the
dotis dictio, we should not have been so informed by Gaius, when he
has been so careful to impress Rom. Dotalrecht. 2 Abt. a Z.f. R. G.
upon us that the dotis dictio could be made nulla interrogatione
praecedente. Thus the view of Czylharz besides being in itself improbable
is almost entirely unsupported by evidence. Even the scholiast on
Terence need not necessarily mean that ‘accipio’ is an indispensable part
of the transaction. He may merely have meant that the bridegroom at this
juncture could decline the proffered dos if he chose, and this
interpretation is borne out by Iulianus 1 and Marcellus 8, who give
formulae of dotis dictio without any words of acceptance. A
satisfactory solution of the problem seems to have been found by Danz. He
looks upon dos as having been due from the father or male
ascendants of the bride as an officium pietatis 4, and quotes passages
from the classical writers in which they speak of refusing to dower a
sister or a daughter as a most shameful thing 5 . The source of the
obligation lay in this relationship to the bride, not in any binding
effect of the dotis dictio itself. But in order that the obligation
might be actionable its amount had to be fixed, and this was just
what the dictio accomplished. It was an acknowledgment of the debt which
custom had decreed that the bride's family must pay to the
bridegroom. In this respect the dos was precisely analogous to the debt
of service which a freedman owed as an offidum to his patron, and which
he acknowledged by the iurata operarumpromissio. The dos and the
operae were both officio, pietatis, but Dig. Dig.
Rom. RO. I. 163.Dig. 3. 2. 5 Plaut. Trin.; Oic. Quint. it became
customary to specify their nature and their quantity. In the one case
this was done by an oath, in the other by a simple declaration, and
in both cases the law gave an action to protect these anomalous
forms of agreement. What kind of action could be brought on a dotis
dictio is not known. Voigt 1 states it to have been an actio dictae
dotis, for which he even gives the formula, but formula and action are
alike purely conjectural. We can only infer that the dotis dictio was
action- able since it constituted a valid contract. How or when
this came to pass we cannot tell. A further advantage of Danz' theory, and
one not mentioned by him, is that it explains the capacity of the
three classes of persons by whom alone dotis dictio could be performed.
(1) The father and male ascendants of the bride were bound to provide a
dos under penalty of ignominia; the bride, if sui iuris, was bound
to contribute to the support of her husband's household for exactly the
same reason; and a debtor of the bride was bound to carry out her
orders with respect to her assets in his possession, and supposing her whole
fortune to have con- sisted of a debt due to her, it is evident
that a dotis dictio by the debtor was the only way in which this
fortune could be settled as a dos at all. Thus the hypothesis that the
dos was a debt morally due from the father of the bride, or from
the bride herself, whenever a marriage took place, completely explains
the curious limitation with XII Taf. ii. § 123. 2 24 Dig CICERONE (si
veda), Top. FORM OF D0TI8 DICTIO regard to the parties who could perform
dotis dictio. The nature of the transaction may then be summarized
as follows : Its form was an oral declaration on the part of
the bride's father or male cognates, of the bride herself, or of a debtor
of the bride, setting forth the nature and amount of the property
which he or she meant to bestow as dowry, and spoken in the
presence of the bridegroom. Land as well as moveables could be settled in
this manner No particular formula is necessary. The bridegroom
might, if he liked, express himself satisfied with the dos so specified ;
but his acceptance does not seem to have been an essential feature of the
proceeding. Most probably he did not have to speak at all.
Its sanction does not appear, though we may be sure that there was
some action to compel perform- ance of the promise. This action, whatever
it may have been, could of course be brought by the bride's husband
against the maker of the dotis dictio. Perhaps in the earliest times the
sanction was a purely religious one. Art. 6. Now that we have
seen the various ways in which a binding contract could be made in
the earliest period of Roman history, we may con- sider briefly the
general characteristics of that primi- tive contractual system. The first
striking point is that all the contracts hitherto mentioned are
unilateral: the promisor alone was bound, and he was not entitled, in
virtue of the contract, to any counterperformance on the part of the
promisee. Gai. Ep. The second point is that the consent of the
parties was not sufficient to bind them. Over and above that
consent the agreement between them was required to bear the stamp of
popular or divine approval. Even in dotis dictio, as we have just
seen, a simple declaration uttered by the promisor was invested
with the force of a contract merely because the substance of that
declaration was a transfer of property approved and required by public
opinion. Thirdly we notice that the intention of the con- tracting
parties was verbally expressed, but that the language employed was not
originally of any impor- tance (except in the one case of sponsio),
provided the intention was clearly conveyed. We must
therefore modify the statement so commonly made that the earliest
known contracts were couched in a particular form of words. For how did
each of these particular forms originate and acquire the shape in
which we afterwards find it ? By having long been used to express agreements
which were binding though their language was informal, and by having
thus gradually obtained a technical significance. Conse- quently
the formal stage was not the earliest stage of Contract. The most
primitive contract of all was not an agreement clothed with a form, but an
agree- ment clothed with the approval of Church or State. Nicola
Codronchi. Niccola Codronchi. Keywords: Su i contratti e giochi d’assardo, contratto,
tre tipi di contratto, contratto epistemico, contratto empirico, contratto
misto, concordato puo essere informale o formale. tre tipi di concordi formali
nell’eta regale, il giuramento per giove, il sponsio (il vino come simbolo del
sangue dei vittimi) e il nesso. Il giuramento per Giove e lo sponsio sono ambi religiosi
in natura. Solo il ‘nesso’ e secular – e chiede o necessita la presenza della
comunita come testificatore – e una forma tipicamente romana e consequentemente
piu tard ache le forme religiose che vediamo in altre comuita arie. Il nesso si
manifesta nel templo publico – ara maxima per Ercole – e invoca la regola del
primo re Romolo, contratti bilaterali, forma dialogica, A esprime la
proposizione e B risponde assentendo alla comprehension e all’accettazione di
p. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The Swimming-Pool Library. Codronchi.
Luigi Speranza -- Grie e Colazza: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – scuola
di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma).
Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma,
Lazio. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into
‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much
different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito
agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle
dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro
con l'antroposofia C. apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di
concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la
«via del pensiero cosciente». Altre
opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni
Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur. A strong anthroposophical influence came from C.
and Duke Giovanni Colonna di Cesard. Close to the group,
which adopted the name UR, were Kremmerz, founder of the Fraternity of Myriam. Sedute
spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico C., e che talvolta si
protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA
DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE. Il saggio l’Iniziazione mi fu
consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da
tenere sempre presente come guida.
L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo
dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti
estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui
siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere
alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare
che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso,
che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile,
se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la
pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente
quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi. Si dice che è importantissimo cominciare
sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto
di venerazione con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento
che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o
sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da
riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima.
L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di
nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore
di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali
rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con
atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del
cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la
gerarchia. Tale stato di nostre anime
destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali,
ai quali siamo debitori. Astenersi dalla
critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la
qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia
perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità
dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo
sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore,
soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla
sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da
cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima.
Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare
immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando
nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni.
Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli,
senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le
concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano
esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale
ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel
nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un
perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione
su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali
esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la
nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un
grande nemico. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti
i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo
gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi.
Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola.
Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente tradurla in concetti
con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. Altra cosa importante da
fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la
differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di natura vegetale
o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il
rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una diversa
manifestazione delle forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo prolungare in
noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio
dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in silenzio il sorgere di
qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come
avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne
la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi
percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo
se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni
immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad
impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione
soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è
affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come
manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico,
genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità
che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene
in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico
ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel
mondo spirituale come una ripetizione più sottile delle forme del mondo fisico.
Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna sviluppare
sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e sensibilità
per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL TIROCINIO. Spesso
il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti dagli
esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una
direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza
accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra
direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre
e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di
colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi
all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di
colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi,
nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver
avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il
sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine
percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è
un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o
lemurico). È un primo passo verso il
riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in
completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli
occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò,
occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del
seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi
chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera
pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la
quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente
contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla
nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di
crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione:
radice, fusto, fogliame, fiori, frutto.
Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa
manifestazione, la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente
delle forze insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva
è l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo
vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e
percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad
esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita,
dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà
in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di
piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la
vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare
una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa
immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme,
realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella
sintesi della forma della pianta stessa. In un certo senso, è come se dalla
pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o
Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi
sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa
pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi
tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante.
Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna
sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che
appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta
morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare.
Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della
pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione
personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da
una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta,
solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare
la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il
modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo
di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo
contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un
evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti
di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi
quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale
sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare
obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno
diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi
inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza
spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza
stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o
intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente
protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale
qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse
verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia
in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da
evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso
immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una
specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita,
distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del
mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un
naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono
l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa
paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente
spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare,
come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce
solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGL’ESERCIZI.
Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità
del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso
particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose:
si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se
si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo,
casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi
antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La
mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo
fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico,
avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate
come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema
osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli
come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare, quale
moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra coscienza
sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il sistema
circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il centro
del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di esso si
percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il sistema
nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si ha poi la
percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli organi
interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come attaccati al
nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro il mondo
esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di gusto,
odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile ritrovare
la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione dell’etere
cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è l’involuzione di un
organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la percezione dell’armonia
delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico Saturno. La vista ci
permette di percepire la manifestazione dell’etere di luce. Un sintomo evidente
dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa viene man mano a perdersi,
per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica non fondata come questa su
ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero
serbatoio della memoria non è il cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa
viene registrata, racchiusa e conservata. Procedendo dal presente a ritroso,
rievocando stati d’animo sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi
dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza
di Spirito: abituarsi ad una grande autodeterminazione, imparando a decidere
con immediatezza, senza esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di
non tradire il mondo spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche.
Il comunicare insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa
assumersi anche la responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il
buono o cattivo uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve
significare darsi arie misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto
ciò che ci porta alla nostalgia del nostro passato, è una tentazione
luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi
senza risultati nella disciplina. La parola chiave è Pazienza. L’impazienza
rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per potersi rivelare, per aprirsi
un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo calma attesa, per potervisi
riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali sono in continuo fermento,
in perenne attesa per poter essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste
condizioni che glielo consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista,
trepidano nella fremente attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori.
Più che anelare di muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via
giusta è sapersi aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano
purezza interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza,
a connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva,
l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di
avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva,
paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla
collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza
del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé:
dominio dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei
rapporti con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una
barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio:
positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto
dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in
mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il
manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera
così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia:
si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre
chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e
se si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale
libertà agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE
ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte volte occorre
chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi sul fisico, da
purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso miglioramento. Per la salute
del corpo occorre sopratutto coltivare la chiarezza del pensare e del
discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo esterno. Prima di parlare o
di esporre una propria considerazione o un’opinione, occorre stabilire con
chiarezza il pensiero da formulare in immagini: non è bene difatti cercare a
tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la figura d’insieme da cui
partire. È l’immagine che deve far scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi
un arto della vita universale, una parte di questa, superando ogni senso di
separazione. La sostanza divina è solo apparentemente e necessariamente
ripartita nel cosmo: lo scopo finale dell’evoluzione è comunque ricostituire
un’unica entità spirituale. Bisogna aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli
altri fossero. 3- Si deve divenire consapevoli che i pensieri e i sentimenti
hanno la stessa valenza e importanza che le proprie azioni: il movimento del
pensiero e dei sentimenti è altrettanto concreto quanto le azioni fisiche
operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità per il circostante
ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si diffondono, comprendendo
nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare secondo i puri impulsi
dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve prendere coscienza che il corpo
fisico, nel quale solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un arto
dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una decisione presa; il
rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è
mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o
fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda di un moto passionale o
di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti, grati al mondo esterno e
allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di Saturno, Tutto era Uomo, e
che solo grazie al frutto del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri
fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato possibile configurare
l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento giornaliero. Considerare la
vita e agire in essa, secondo la direzione enunciata nelle precedenti
condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata alla vita facendo in modo
che le finalità delle proprie azioni siano determinate dalle attitudini sopra
descritte. Molte cose devono essere abbandonate, e molte altre acquisite per
porsi al servizio del divino. LA POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa
perpendicolarmente e orizzontalmente da correnti, che possono favorire o
ostacolare la meditazione. Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre
pertanto avere la colonna vertebrale verticale rispetto alla superficie
terrestre. La posizione distesa, supina, invece accoglie le correnti
orizzontali dirette alle specie animali, inducendo automaticamente ad un tipico
stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il corpo eterico è percorso da
innumerevoli correnti che muovono in senso longitudinale o circolare radiale.
Durante la veglia, il corpo astrale rimane connesso spazialmente al corpo
fisico; quando si apre nel discepolo la coscienza spirituale, il corpo astrale
si espande in proporzione dello spazio che può essere percepito, ossia diviene
grande quanto il suo campo di percezione. Non si parla diffusamente del loto a
due petali, fra gli occhi, perché esso è connesso con il risveglio di forze che
appartengono alla chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni
di sicurezza, del loto della zona basale kundalini e del loto1000 petali, sul capo. In un lontano passato, i fiori di loto erano
attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro
metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a
muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci
petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore.
IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione
tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo
delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine
delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità
di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le
condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo
dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno,
prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività;
le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse
all’argomento; ogni gesto e atto deve
essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare,
pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità
e la giustezza delle proprie aspirazioni;
imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita; la giornaliera meditazione per interrogarsi
sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È
di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità
promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo
interiore. A volte non è molto
altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza.
Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’
E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità:
anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione
sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a
due rami, con il compito di portare fuori il corpo eterico. Per mezzo di tale
centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il
cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio
reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione. Bisogna suscitare un rispettoso silenzio
riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre
accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni. Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a
trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta
incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle
forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la
percezione delle forme. Come gli altri,
anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni da
realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad ogni
petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema o da
un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente, distaccandosi
così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di persone che
parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non intervenire
correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri deformi e
correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé. Controllo
delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato dagli
istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai movimenti, in
modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate da impulsi
inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica della
Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando sempre
a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le
determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei
motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori
altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre
far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli
o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica
dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che
ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose
da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità,
equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere
le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina
certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un
buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente
importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con
un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici
PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri
le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo
sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma
piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera
condotta di Vita. Occorre considerare la
totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee
spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la
coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse
risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono
alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato
tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare
interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente
impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o
simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si
immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno
dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri
spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e
spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire
immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e
insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza
molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo
dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare
e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni
tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di
sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE
PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre
in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente,
seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da
localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono
agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale
imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della
testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono
congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di
rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un
centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore
condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto
stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà
venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di
concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella
testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione.
RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il
vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi
fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA
INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie
di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per
qualche cosa. E’ relativamente facile
contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però
realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella
vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo
l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo
può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente.
L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA. Il corpo eterico è di
per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di
sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o
di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui
generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate.
Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di
fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego. Si ha la percezione che tutto che era la
nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro
dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo
astrale. Il praticare esercizi in modo
non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida
base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme
ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e
anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però
indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che
comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia
quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale).
L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2
petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali. Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue
tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello
spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà
rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri
immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva,
passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è
rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir
sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà
spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo
apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano
nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere:
costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale
esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene:
il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la
sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più
indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di
quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di
veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno
ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La
coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà
percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si
percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la
sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in
noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio:
sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di
aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire. Poi, i rapporti con gli esseri spirituali
assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una
voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita
esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno,
ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al risveglio,
questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare nella vita di
veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante la notte: si
instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di sonno senza
sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà portata dal
discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la stessa pienezza
del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione indispensabile per
tale realizzazione è la pratica della concentrazione, meditazione e
contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in meditazione, durante
lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno senza sogni: ciò è
l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero scopo dell’Iniziazione
consiste nell’instaurare la continuità della coscienza. Ciò è una mèta assai
lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere degli sprazzi di luce
che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza. LA SEPARAZIONE DEL
PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il discepolo ad esperienze
inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione delle tre facoltà umane
è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi spirituali. Sono tre i
pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare: divenire astratti
teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e indifferenti nei confronti
dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel proprio pensare in
solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può sentirsi trasportata
in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un estremo godimento
del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del Volere: divenire
super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il mondo esteriore,
lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO
ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in modo immediato,
istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve distaccarsi da tale
automatismo innato, predisposto in lui.
Il fatto di poter dominare le reazioni e i sentimenti conferisce a tutto
l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché le emozioni non hanno
autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si deve fondare su di una
nuova personalità morale, il quale deve conferire al discepolo la coscienza di
ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo spirituale e a ciò a cui deve
la ragione della propria esistenza. La Libertà prevede che si sia superato
l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di moralità e di equilibrio da
poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma per l’umanità.Il discepolo
diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori, con la libera decisione
di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in tal modo si può parlare di
una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui stesso e agli altri. IL
GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato pensare, sentire e volere è
possibile accedere all’esperienza del guardiano della soglia. LA SOGLIA. Il liberare
le facoltà dell’anima significa assumersi direttamente la responsabilità delle
proprie azioni. Avendo liberato il corpo eterico e il corpo astrale dagli
automatismi del pensare, sentire e volere, si avvicina l’esperienza del
guardiano della soglia: si rende obiettivamente visibile il grado a cui si è
pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano diviene un essere indipendente,
al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era intessuti con lui, ovvero con
ciò che rappresenta cosmicamente il nostro essere, ora si presenta esteriormente
la nostra interiorità. I propri moti interiori si traducono nella figura
esteriore di questo essere. Il guardiano si presenta all’improvviso, appena i
chakras cominciano ad attivarsi: è la prima esperienza soprasensibile. Tale
esperienza, può suscitare terrore. Molti, al cospetto del guardiano, che palesa
il grado di imperfezione e purezza da noi raggiunto sinora, riconoscono la
propria inadeguatezza, la propria immaturità nel sopportarne la visione, quindi
retrocedono. Si ravvisano le proprie limitazioni: i difetti assumono un
carattere obiettivo. Solitamente questo essere si presenta per la prima volta
al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato, tanto da suscitare
terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo che un uomo con il
viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto specchiarsi; quale
sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando per la prima volta vedrà
la sua deformità? Prendere coscienza della propria figura interiore è
l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo all’esterno. IL
GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il nostro karma; la sua
figura riassume il nostro passato vivente con tutte le cause di dolore e gioia.
Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare in volto il guardiano, da
quel momento ci si assume coscientemente la responsabilità di pagare i propri
debiti karmici, quasi andando incontro a questi. Ci si accorge che ogni
tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del proprio karma, provoca un disastro
nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza si riflette assumendo forma
demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò, quali discepoli, superare il
sentimento della paura. Il coraggio di
affrontare il guardiano è contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio
destino nelle proprie mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può
causare dolore, rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che
offre minore resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di
più difficile e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano
muterà di forma in modo direttamente proporzionale al nostro adempimento
karmico, sino ad assumere figure luminosissime nella misura in cui ci saremo
purificati. Fino al momento dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e
quanti pesi portiamo nel nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi
di prima, dopo aver visto la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più
possibile ingannare sé stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio
karma, non si può dire di essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida
delle Potenze del karma per prendere noi stessi la responsabile guida di tale
compito, solo allora si comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora
le forze del Cristo si sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI
CONFRONTI DELLE GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito
di popolo nel quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi
animici che condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente
spirituale, nel quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo.
Il riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo
che ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a
scorgere nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere
appieno la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi
a quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini
inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di
conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se
vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende
qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale
nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato
durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e
dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del
mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di
Adonai a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza
risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti
dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione
dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo
nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire:
offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente
proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA.
Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le
regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra
veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare,
sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa
stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La
vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in
coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande
tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato
dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non
detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura. L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale
seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel
mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento
egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa
da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato
partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti
gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali
porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha
compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo. Breno. Kur. Giardino
di Maturità, chiamano certi antichi saggi il luogo, in cui pone
piede l'uomo allorchè gli divengon palesi gli arcani del mondo. Secondo
quei saggi in quel giardino non ci sarebbe fiore, che non recasse il suo
frutto, non uovo, che non portasse .a maturità la vita in esso
germinante. Ma come oscure e- pericolose vengono al tempo stesso
descritte le vie che menano alla = Porta Stretta , la quale appunto
chiude quel giardino. Si assicura, però, che quell'oscurità diviene più chiara del
sole e che quei pericoli non hanno potere contro le forze di cui
ferve l'anima di colui, al quale queste vie sono mostrate con provvida
mano da un mistico da un niziato. Tutto ciò come puerile concezione di un'
epoca, in cui nulla si sapeva delle scienze dei giorni nostri, viene
ripudiato dall’ i/luminato, che crede di saper distinguere fra i
vaneggiamenti di una fantasia brancolante e le ponderate vedute
d'un intelletto scier- i So ca |
oggi tificamente disciplinato E chi, ciò nonostante, parla oggi di
coteste concezioni, può Al star certo di vedere sul volto di molti
dei È, suoi contemporanei un sorriso, se. non di di : ll sprezzo,
per lo meno di compassione. Ta Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci
sono I alcuni che, come quegli antichi saggi, parMAS lano del rondo dell'anima, e della paN Cuina 7a dello spirito . Costoro vengono
riputati | fe AMA ì È 3 | persone che parlano di un mondo immagifa
nario, figurato loro soltanto dalla propria Sbrigliata fantasia. Si
deplora perfino che essi, LA in mezzo a un mondo che ha raggiunto i
tanto grandiosi risultati, grazie alla pura e i, now austera logica,
vadano brancolando come ebbranco ‘@& bri, cui ad ogni momento viene meno
la li sicurezza, perchè non si attengono a ciò È che esiste positivamente,,.Ora, che cosa dicono questi
edbri stessi i a codesti contradittori ? Quando si sentono f
arrivati all'alto punto, in cui è loro conferito il diritto di parlare di
sè, allora dalle loro È labbra si odono uscire le parole seguenti. È Noi comprendiamo benissimo voi, ‘che
dovete essere i nostri oppositori. Sappiamo che molti di voi sono persone
da bene, che senza riserva si pongono al servizio del Vero e del
Buono; ma sappiamo altresì che Bee a), jr er => voi non ci potete
capire, fin tanto che pensate come appunto pensate. Sulle cose, delle
quali noi abbiamo da ragionare, potremo diiscorrere con voî, soltanto quando vi
sarete presi voi stessi la pena di apprendere il linguaggio nostro. Dopo
questa nostra dichiarazione molti di voi, certo, non vorranno più oltre
occuparsi di noi, perchè crederanno di aver riconosciuto che al
farneticamento della nostra fantasia si accoppia in noi anche un
immedicabile orgoglio. Noi però comprendiamo voi anche in siffatta
affermazione e sappiamo al tempo stesso che dobbiamo essere non già
superbi, ma modesti. Per incitarvi a tentare di entrare nel nostro ordine
di idee non ci resta che una cosa da dire: Credeteci, noi non
riconosciamo un vero diritto di parlare delle nostre conoscenze se non a colui,
il quale sia capace di sentire con voi ciò che vi costringe alle vostre
asserzioni, e che conosca a fondo la forza, la potenza convincente e la
portata della vostra scienza. Colui che non reca in sè la sicura consapevolezza
di poter pensare ponderatamente, scientifica mente, come l’
astronomo o il botanico 0 lo zoologo più obbiettivo, costui in fatto
di vita spirituale, di conoscenze mistiche do9 e =
e Re vrebbe contentarsi di apprendere, e non già volere
insegnare. Ma non ci si frain‘tenda: noi parliamo soltanto di
insegnanti, non di studiosi, Studioso di misticismo può: divenire
chiunque, giacchè nell’ anima di ogni persona si trovano le
facoltà, i poteri presaghi, che si schiudono al ‘Vero. Il Mistico
dovrebbe parlare in modo comprensibile, anche pei più indotti; e a coloro,
ai quali, secondo il grado del loro intendimento, egli non potrebbe
dire un centesimo della verità, ne dirà ‘solo un millesimo. Costoro
oggi riconoscono questa millesima parte ; domani riconosceranno la
centesima. Tutti possono essere
sfudiosi,, ma insegnante,,
non dovrebbe voler diventare nessuno, che sia incapace di assoggettarsi
alla disciplina del più austero intelletto e della scienza' più
severa. Sono veri insegnanti di misticismo soltanto coloro che sono stati
precedentemente rigidi cultori della scienza, e che sanno perciò che cosa
viga nella scienza. Anche il vero mistico ritiene visionario,
inebriato, chiunque non sia capace di deporre in qualunque momento il
solenne paludamento del mistico per indossare la modesta tunica del
fisico, del chimico, del botanico e dello zoologo , sitori ;'
con la massima modestia li assicura ‘che intende il loro linguaggio e che
non si arrogherebbe il diritto di essere un mistico, se si sapesse
ignaro del loro linguaggio. Allora, però, egli può anche aggiungere di saf
|pere, e di saperlo come si sanno i fatti della Ù vita esteriore, che,
qualora i suoi Opposi® \tori imparassero il suo linguaggio, cesserebbero di
essere suoi oppositori. Egli sa que sto come chiunque, il quale abbia
studiato chimica, sa che, date certe condizioni, dall'ossigeno e dall'
idrogeno si forma l' acqua. Che Platone non volesse ammettere ai
gradi superiori della sapienza nessuno che > mon
conoscesse la geometria, non significa già che egli facesse suoi alunni
soltanto i li Y T Così parla il vero mistico ai suoi oppoA
9 U L dotti in geometria, ma significa che quei
suoi alunni dovevano essersi educati alla severa, rigida, ed esatta
investigazione, prima che venissero loro schiusi gli arcani della
vita spirituale. Una tale esigenza ci appari sce nella sua giusta luce se
‘riflettiamo che nelle regioni trascendentali viene meno l'elemento di fatto,
a cui si saggia e corregge ad ogni piè sospinto l' investigazione ordinaria
del mondo. Se il botanico si forma concetti erronei, subito i suoi sensi
lo illu n conci Da (UR IZA minano circa il
suo errore. Tra lui e il mistico corre il rapporto stesso che intercede
fra chi cammina su strada piana e chi ascende una montagna: il primo può
cadere a terra, ma solo in casi eccezionali potrà causarsi la morte
; all’ altro, invece, questo pericolo sta sempre dinanzi, E certamente
nessuno che non abbia imparato a camminare può ascendere una
montagna. Poichè ; fatti spirituali non correggono i concetti allo stesso
modo che li correggono i fatti del mondo esteriore, un pensare
rigorosissimo e degno della massima attendibilità è un ovvio presupposto
per l'investigatore mistico. Quando ci si dà tutti a pensieri
siffatti, si riconosce che cosa intendevano dire quegli antichi saggi,
allorchè parlavano dei pericoli che minacciano chi voglia penetrare negli
arcani del mondo. Se alcuno si appressa a questi arcani con mente
indisciplinata, essi determinano nella sua anima deplorevoli disordini.
Divengono pericolosi come una bomba di dinamite nelle mani di un
fanciullo. Perciò da ogni investigatore mistico si esige rigorosamente che la
normalità del suo pensare, di tutta, anzi, la sua vita psichica, abbia saggiato
le proprie forze SE E attorno a problemi gravi e spinosi,
prima che egli si appressi ai compiti più elevati. Valga ciò come
accenno a quel che il mistico intenda dire, quando parla dei primi gradi
della Iniziazione nelle verità superiori. Moltissimi, i quali reputano di
starsi SUI Mrfica| più alti gradi della cultura moderna, stimano che sano
pensare e misticismo siano due termini incolta sano che una
illuminata educazione scientifica debba estirpare dall'individuo qualunque
| tendenza mistica. E costoro trovano in par- b cora di tali
tendenze chi conosca gli impor tantissimi risultati della moderna scienza
na| turale. Se avesse ragione chi la pensa così, | si dovrebbe allora,
certo, concedere che la Mistica non abbia nel nostro tempo se non |
piccola probabilità di trovare accesso alle anime dei nostri
contemporanei; giacchè nessuno, il quale abbia intendimento dei bisogni
spirituali di questa nostra età, può dubitare che siano pienamente giustificati
i trionfi della scienza naturale già conseguiti. e ancora da
conseguire in avvenire. Biso- vi MER Na bilmefite antitetici.
Essi pen- K pate ticolar modo incomprensibile che abbia an)
"fi LI Peli so Naturalistici
itreprimibili do u + Con una certa tr ‘ zione cotesti
insoddisfatti <j O Opère dei mistici, e ]} trovand ciò, I cui
le oro anime han Sete: ]ì gj affaccia loro ino Copiosa vena IÒ, di
cui il loro Cuore ha bj. Sogno: una effettiva aura di vita Spirituale!
Si In contatto con e Sa costoro sentono | Propria Crescere; ivi tr
aNo ciò che ] uomo | eve incessanternente ce vino! D’
rcare: l’ali Ta parte, Però, essi sj Petere ;l ito
diate a monito: Bj ‘formarvi,
mediante Ja cie rale, un pen | non vj chiappanuvole vai
monito, l’anima loro sj inaridisce, econdita, . tò, in fondo all’
an ogni individuo Verità, e i che grande maestra dell’uomo è
la ] mande AIR Chi potrebbe non
dare, per intimo consenso, ragione al Goethe, allorchè dice che
dagli errori e dalle disarmonie degli uomini egli si ritira sempre
con rinnovato contento, rivolgendosi alle eterne necessità della natura? E chi
potrebbe leggere senza incondizionato consenso quelle parole, con le quali il
grande poeta descrive i sentimenti che lo assalirono in una
solitaria meditazione sulle ferree leggi, secondo le quali la natura
forma le montagne? Seduto su di un’ alta e nuda vetta,
e spaziando con l'occhio su di una vasta sottostante regione, io posso
dirmi: qui tu poggi immediatamente
su di un suolo, che ‘arriva fin giù ai più profondi strati
della terra. In_questo istante, in cui le eterne forze di
attrazione e di movimento della terra quasi direttamente agiscono
su di me, in cui più presso a me aliano e mi avvolgono gli
influssi del cielo, vengo come sospinto a drizzare l'animo mio a studi
più alti sulla natura.... Così, dico fra me e me, mentre da questa
cima nuda volgo lo sguardo in giù, così sentesi solitario chi voglia
schiudere l'anima propria unicamente ai più primordiali, più antichi e più
profondi sentimenti del vero. Sì, egli può dire a se stesso: SONG).
pe Qui, sull'antichissimo ed eterno altare, immediatamente eretto
sul punto più basso della creazione, offro sacrifizio all'Essere di
tutti gli esseri. E' pur naturale che questa disposizione d'animo, per
cui si resta reverenti dinanzi alla grande istruttrice Natura, si
trasferisca sulla scienza ‘che ne discorre. Non deve esistere
antinomia fra i sentimenti che pervadono l'anima, quando essa si
approssima alle austere e
profondissime verità primordiali, circa la vita spirituale, e
quelli che v'irrompono, quando l'occhio si posa sull'attività
costruttrice della natura. Manca forse intelletto al mistico per
cotesta armonia della natura coi sentimenti più sacri all'anima umana?
Tutt'altro; giacchè al di sopra dell’altare, sul quale il vero mistico
offre i suoi sacrifizi, in ogni epoca, in cui può spingersi l'indagine
umana, stette scritto a lettere di fuoco fiammante, come legge.
suprema: Natura è la grande guida al divino, e la conscia ricerca umana
delle fonti del Vero deve seguire le orme della sua recondita,
volontà. Se i Mistici seguono questa loro norma suprema, nessuna antitesi
dovrebbe sussistere fra le vie loro e quelle su cui camminano gli investigatori
della Natura. E tanto meno tale antitesi dovrebbe determinarsi
in un'epoca, che tanto deve alla scienza naturale. Per
intendere bene quest’ ordine di de occorre domandarci: In che, dune ue consistere l’ accordo
fra la Scienza*fi Lie e il Misticismo ? E in che potrebbe, invece,
aversi un'antitesi? Ebbene, l'accordo non può venir cercato | se non nel
fatto che le rappresentazioni che ci facciamo intorno alla entità
dell’ uomo ‘non siano estranee a quelle che abbiamo in| torno agli altri
esseri della natura; nel ravvisare, quindi, nel ’opera della natura e nella
vita dell'uomo uno stesso e unico tipo di
ordine retto da leggi,. L Un'antitesi, invece, si avrebbe, se si
volesse vedere nell’uomo un essere di specie "completamente diversa
dalle creature naturali. Coloro che vogliono un' antitesi in tal senso si
sbigottirono fortemente quando, più di 40 anni fa, il grande scienziato
Huxley, informandosi allo spirito stesso della scienza naturale moderna,
sulla base della somipigliante struttura anatomica, concluse la stretta
parentela fra l’uomo e gli animali supeori con queste parole: Possiamo prendere in esame un sistema di
organi qualsiasi; l'esame comparativo di essi nella serie delle scimie ci
conduce sempre a questo me- È desimo risultato: che le diversità
anatomiche, per le quali l’uomo è distinto dal gorilla e dallo scimpanzè, non
sono tanto grandi quanto quelle che separano il gorilla dalle altre
scimie inferiori. Una. tale asserzione può, però, sbigottire solamente
quando la si riferisca in modo errato all’ essezza dell'uomo. Certo ne
può. facilmente rampollare il pensiero:
Ma come è vicino, dunque, l’uomo alle bestie |, Questa stretta
affinità non suscita però nel mistico nessuna preoccupazione, giacchè per
lui ne balza subito anche l' altro pensiero: | A quali fini superiori,
però, possono ser\vire gli organi che ritrovansi nelle bestie, allorchè
sono trasformati in organi umani! Il mistico sa che l'occulta volontà della natura
muta la percezione animale in percezione umana cofì lo sviluppare in altra
forma gli-organi animali. Egli segue le sicure orme della natura e
ne continua l'operato. Per lui i l'opera della natura non è punto
terminata con ciò che essa gli ha donato. Egli diviene un fido
discepolo della natura per il fatto appunto di portarne l’opera a
maggiore al 1 toi tezza. La natura lo ha portato fino
al pensare e al sentire umano; egli, però, non prende questo pensare e
questo sentire come qualcosa di fissato, d'immobile; ma li rende
capaci di attività superiori. Avviene per opera della sua volontà ciò,
che nell'ambiente naturale esteriore avviene indipendentemente da essa.
Gli occhi, come sono ora in lui, attestano che gli organi visivi sono
capaci di ben altro ufficio di quello che compiono ® © nelle
scimie. Così l’ occhio può venir trastormato. Le facoltà psichiche del
mistico evoluto sono, rispetto a quelle dell’ uomo non evoluto,
nello stesso rapporto in cui sono gli occhi umani rispetto a quelli
delle scimie. Si capisce che chi non è mistico.in- pelende tende
l’anima del_ mistico nella stessa scarsa 64 liel misura, in cui l’animale
può intendere il, mote pensare dell’uomo. E come alla creatura non
pensante si schiuderebbe tutto un nuovo mondo, se potesse svolgere in sè
la facoltà del pensare, così il mistico, dopo lo sviluppo delle sue
facoltà superiori acquista la visione di un altro mondo. In questo altro mondo,, egli è iniziato,. Chi_non di- Re Yiene Mistico
rinnega la natura. Ègli non È a progredire ciò che essa ha prodotto
senza di lui con la propria volontà occulta. Per di mati
Vella lastare Mor pTa ene dPR ULOPY CELL. PI | Peg) AM e? lug las }
"El n fe fest NL Los ; mid : ni gd ed deli è y villa mM ni
collo i fiat 1a CA di (ANI it pece iò egli si pone in contrasto con
la natura, giacchè questa trasmuta continuamente le
proprie forme: dal vecchio essa crea eterna mente il nuovo. Ora,
chi, conformemente %@. alla moderna scienza naturale, crede a
que sta trasmutazione, crede a questa evoluzione n) e, ciò
nonostante, non vuole trasmutare se esso, costui riconosce, sì, la
natura, ma A; nella sua propria vita si pone in
contradi &l-zione con essa. Non si deve soltanto ricenoscere
l'evoluzione, si seno ivato Non si limitino, dunque, le facoltà
della nostra vita ;, col tener conto esclusivamente della
nostra ‘ parentela con gli altri esseri. A chi per edu cazione
mistica diviene un fido alunno della natura, si schiude il senso
per la superiore evoluzione. A proposito di questi cenni
sulla Mistica e sulla /riziazione molti diranno: Ma che
ci giova questo discorrere di facoltà a noi sconosciute!
Dateci queste facoltà, e vi cre deremo !,. Nessuno, però, può dare a
un altro cosa che questi rifiuti. E il più delle volte
ciò che incontrano i nostri mistici è . un brusco rifiuto. Al
presente essi non pos sono fare. molto .di più che raccontare le
loro cognizioni mistiche a quelli che vo gliono prestare ascolto.
Ciò, naturalmente n nt x IE RAIPAT cn potima tl C j Pa ENTI OT le ero Art 1 er?
che, I,, a . = ì \ wr / a) i e. e 7 pederntdt
hern ci tCAns4- 1 È à a tutta prima un volersela cavare col
RE ce raccontare che cosa c'è in America a chi ci dicesse: Ajutatemi ad andarci!,,. Ma pare, non è
realmente una scappatoja, perchè i processi dello spirito sono
diversi da. quelli fisici Molto tempo prima che l'uomo sia in grado
di fissare la verità im piena luce, egli ha la possibilità di
intravederla, e di accoglierla nel suo sentimento. E questo sentimento
stesso è una forza, che lo può condurre più avanti. E' questa una
fase per cui è necessario passare Chi segue con ricettivo abbandono la
narrazione del Mistico, già calca il sentiero che mena alle
verità superiori. Solo l' Iniziatof'comprende completamente l’Iniziato:
ma angie per vero rende anche il non iniZiato ricettivo alle parole
del Mistico. E questa sua ricettività è strumento con. cui egli lavora a
schiudere i propri organi mistici. Ciò che prima-, mente occorre è che si
abbia questo senso | della possibilità di conoscenze superiori: al-
| lorà not si passa più incurantemente accanto alle persone che di queste
conoscenze superiori tengono parola. E' stato già detto che
anche al presente ci sono persone che si adoperano a rinnovare la vita
mistica. Up irene Kona diteou@ crt u pe ud)
fasi cl fa ine piftae 1 Om? eudere } fnmmale tri
rautwews i E Qui vi voglio intrattenere di due esempi
di tal genere, cioè del libro //
Cristianesimo esoterico, (o i Misteri minori),,, di Annie Besant, (1), e
su / grandi Iniziati el
geniale pensatore e poeta francese Edoardo Schuré (2). Ambedue queste
opere gettano luce sulla natura della così detta Iniziazione. Annie
Besant, mostra come il Cristianesimo debba venire compreso quale
risultato di codesta Iniziazione. Edoardo Schuré tratteggia le figure dei
massimi duci spirituali della umanità, fondandosi sulla convinzione
che le grandi confessioni religiose e le grandi filosofie
cosmologiche da quei duci dispen sate all'umanità, celano verità eferne,
che si possono cercare e re soltanto in quelle dottrine filosofiche
e religiose. Ambedue queste opere trovano la propria giustificazione
unicamente nel campo del Misticismo. Esse traggono la loro origine da
quella corrente spirituale dei tempi nostri, che è destinata ad elevare
l'umanità da un incivilimento puramente esteriore all'altezza
Traduzione Italiana di D. e O. Calvari, Roma. Traduzione Italiana edita da G.
Laterza, Bari, suh Tor ella Vea dii Conti | RA fOdeth4,
nu pori? IU) di vedute spirituali. Verrà tempo, in cui il pensiero
scientifico,, non potrà più contrapporsi _ostilmente a questa corrente.
La scienza naturale riconoscerà allora che non si comprendé lo spirito
col.negarlo, e che | non si contr lle leogi naturali col_cerre Treo © x
iii dpi uelle spirituali. Non si designeranno iù i Mistici come
oscurantisti, giacchè si saprà che soltanto pei loro avversari il
campo di cui essi ragionano è oscuro. E non s'irriderà più l'
Iniziazione, come i non si irride l'esigenza, che chi vuole inda- pla
2 gare la vita dei microrganismi deve prima 4, tyoex94
imparare a userei. microscopio. | "I vv trvalta L'indagine
implica la necessità di adem- ' 3 piere a certe condizioni
preliminari. Queste P** ic; condizioni per l'aspirante mistico non
consistono, naturalmente, in pratiche di tecni- | cismo esteriore, bensì
na osservanza di un determinato orientamento della..vita si- È ‘
chica. Grazie a tale A si dischiude Tide il senso per certe verità, le
quali non contemplano ciò che è FARA, ma ciò, di, A cui, secondo le
parole de Goethe ib.tran-\ itori v
Bi n_simbolo . In_s sid | oe alla esistenza umana giacciono capacità,su-
| CRA i GIONO CA \periori, come il frutto giace.in grembo al
fiore. E perciò nessuna creatura dovrebbe TI YOMOMono wu € 0kL Lia
UT E E I ipa ln Leno el muyert Sace caprata farvi vtuel' fa P
even ord LISI (NE presumere di dire che nel suo mondo vi i è qualche cosa di
esauriente, di compiuto . Il Se un uonio ha tanta presunzione, assomii
glia al verme che ritiene_come orizzonte i | della esistenza il mondo dei
suoi sensi. Li Giardino di maturità Chiamasi quel IR luogo, dove
divengono palesi gli arcani del mondo. Per accedere a tal luogo
bisogna tI che l’individuo stesso. tenda la sua volontà AU x al
raggiungimento della propria maturità. Ù" qultan Vé Bisogna che tu
rompa e getti via da te È, È quse: Vle 1 gusci del tuo essere quotidiano,
e svegli | see $ ÎN te la vita intima nascosta, se vuoi enn
trare per la Porta stretta Nel Giardino È di maturità,. TAR Come
molti uomini insigni, anche il p Goethe espresse numerose verità dalla
profonda vena del suo intuito, enunciandole non già in diffusi e
circostanziati discorsi, bensì in brevi e spesso enigmatici
accenni. sr Uno di tali accenni è in questo periodo: dg Nelle opere dell’ uomo, come in quelle
n e della Natura, sono le intenzioni, che meri / tano specialmente la
nostra attenzione. E' questo un aforisma che verrà compreso in
tutta Ia sua profondità quando lo Î si applichi ai più importanti
fenomeni della vita spirituale umana. Giacchè, come possiamo acquistarci
senso e comprensione per le azioni di un singolo individuo soltanto
quando ne veniamo a conoscere le_intenzioni, così ci accade anche per la storia
dell'intiero genere umano. Ma che abisso intercede fra l' osservazione degli
atti che si svolgono palesemente alla luce del giorno, e il
riconoscimento delle intenzioni che giacciono nelle regioni occulte dell'anima!
Si può essere addirittura rudimentali quanto a intuito e a
intendimento rispetto ‘a un altro uomo, ed essere tuttavia capaci di
osser varne le azioni; ma bisognerà avere almeno un po' delle sue
qualità di spirito e della sua levatura psichica, se si vuole penetrarne
le intenzioni. Senza di ciò la sorgente del suo ! agire rimane
un arcano, un enigma, alla cui soluzione ci manca la chiave, Non
accade diversamente con i grandi fatti della storia spirituale
dell'umanità. Questi fatti stessi son lì aperti davanti agli occhi dello
storico; ma le intenzioni giacciono in profondità molto recondite.
In queste profondità deve penefrare colui, che vuol procurarsi la chiave
per la comprensione. Orbene, l'iptenzione di un’azione giacerà tanto più
profondamente recondita, quanto più questa azione avrà importanza e quanto più
ampia sarà la sua portata. L'intenzione di un atto della vita
quotidiana non è difficile a penetratsi. Ma non può essere così,
naturalmente, di azioni, la cui portata abbraccia una serie di
secoli. Chi a ciò pon mente giunge a presentire che cosa siano i
Misteri: giacchè in cotesti Misteri sono riposte le irzfezzioni dei
grandi fatti dell’ umana evoluzione, involgenti il mondo intero
nella loro portata. E coloro che conoscono queste intenzioni e posseno
con ciò conferire alle proprie azioni stesse \ quel peso che le rende
realmente efficaci per lunga serie di secoli, sono gli /niziati.
Solo chi nella storia del mondo scorge unicamente una mèra successione di
casi fortuiti, può negare l'esistenza dei Misteri e degli Iniziati.
In tal caso non c'è che da attendere che un uomo siffatto si ponga
un bel giorno a studiare con occhio amorevole i fatti della storia.
Allora un po’ per volta albeggerà al suo sguardo un significato, un
nesso, ed egli finirà per non più considerare Tortuiti quei fatti storici, come
non considera automa un individuo che veda muoversi ed agire. Giungerà così
nella sua investigazione là, donde gli Iniziati dirigono il progresso
umano, secondo le conoscenze the sono avvolte nell'ombra dei
Misteri. AA vila AATZzat fer, i 40 dad x x £ > it hu
v da ORI ig tivfeco Vellar11W; 7 Di cotesti Misteri parlano i testi
religiosi di tutti i tempi. E ad essi vengono condotti coloro, che
non si fermano alla vita estrinseca dei fondatori delle varie religioni,
nè alle vicende storiche del propagamento delle loro dottrine; ma
che, invece, cercano di elevarsi alle intenzioni di quei fondatori di
| religioni. Non dovrebbe eccitare stupore il fatto che queste
intenzioni rimangano avvolte in arcana oscurità e vengano comunicate soltanto a
degli eletti entro le scuole di sapienza, che sono appunto i
Misteri; giacchè si fa opera saggia solo quando a un individuo si
comunica ciò che egli può capire, o, con altre parole, quando gli
si comunica qualcosa, soltanto quando egli si sia messo in
condizione di capirla. Per compiere azioni che abbiano peso e valore occorre
possedere un’alta sapienza, e per appropriarsi un'alta sapienza bisogna
passare per un periodo lungo e arduo di preparazione. Così avviene nei
Misteri. L’ evoluzione spirituale dell'umanità procede innanzi per
opera delle varie religioni e cosmologie. Chi co-opera a questa
evoluzione mette in movimento le forze spirituali degli uomini. Bisogna
che egli conosca le leggi da cui dipende questo movimento, DE:
pri come deve conoscere le leggi della chimica chi
vuol mescolare le sostanze con effettuale risultato. Néi Misteri vengono
insegnate le . leggi supreme della vita spirituale; viene insegnata la
chimica dell'anima. E bisogna cercare di penetrare nella natura di
queste leggi, se si vogliono sorprendere, o anche solo
presentire, i moventi che stanno alla i A base delle azioni dei grandi
Istruttori della umanità. All'unisono con tutti coloro che
cercano di schiudersi per tale visione gli occhi spi rituali,
Annie Besant parla nel suo libro Cristianesimo esoterico, (0 I
Misteri mino ré) , di un lato
occulto delle religioni, A lea Nell’analisi dei mistici arcani del
Cristiane 1% simo, del così detto suo contenuto esoterico, ne. essa
luminosamente si addentra e trascina. d il lettore nell'intimo
della questione relativa sperato! scopo delle religioni. ‘a questo pro-
| Posito l'autrice così scrive. Esse ven gono date al mondo da
uomini più saggi delle masse etniche, alle quali le
religioni Stesse sono dispensate e hanno appunto lo Vedi pure
Il Cristianesimo come fattore mistico di
Rudolf Steiner. (Deposito presso l'Ed. Bem- 7 porad, Firenze). Lolo
scrullo du fevomeri sia Pe i Dul th h Ha DI ire eSleeml
J > Uibftsore Sé Lap
de scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità. Per
conseguire ciò effettivamente esse deb- di bono giungere fino agli
individui e avere influenza su loro. Orbene, gli uomini non sono î tutti
allo stesso livello di evoluzione, anzi i l'evoluzione potrebbe venire
rappresentata come una scala ascendente di gradi, su ognuno asLelo
api dei quali si trovano uomini. I massimamente evoluti
stanno di un gran tratto più su dei meno evoluti, sia in intelligenza che
in ca- A rattere; ad ogni grado varia la capacità di 4 ..
comprendere egualmente che quella di agire. } E' perciò vano dare a tutti
ii medesimo in- FE segnamento religioso; quel che gioverebbe
all'uomo d'intelletto resterebbe inintelligibil all'uomo ottuso, laddove
ciò che leverebbe e in estasi il santo lascerebbe del tutto indif-
Ì ferente il delinquente...2 LE La religione deve essere graduata
con l’e- = voluzione, altrimenti essa manca al suc scopo SI UGANB:
Es. Chr.): ; Il modo, dunque, in cui il maestro di religione parla a uomini
di grado evolutivo i . diverso, dipende dai bisogni dello spirito e (1 .
del cuore di coloro, ai quali egli vuol giun- N | gere. Per riuscirvi
bisogna che egli stesso | porti nell'anima propria il nocciolo della sa-
"i | pienza, per mezzo della quale egli ha da
START. agire; e il modo come egli porta in sè questo nocciolo deve essere
tale da renderlo capace di parlare ad ognuno secondo la sua
comprensione. Perciò chi studia i discorsi degli Istruttori religiosi dal
loro lato esteriore, conosce soltanto un lato e precisamente quello più
estrinseco della loro sapienza. Acutamente accenna a questi fatti Edoardo
Schuré nel suo libro sui Grandi
Iniziati,. Ivi egli descrive i grandi Maestri di sapienza: Rama, Krishna,
Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora, Platone, Gesù, da quello
investigatore intuitivo, da quel nobile artista dei pensiero, da
quell'anima satura di profondo sentimento religioso ch’ egli è. Così
nell'introduzione al libro egli espone il suo. modo di vedere
: Tutte le grandi religioni hanno una storia esteriore ed una interiore;
l'una visibile, l'altra nascosta. Per istoria esteriore sono da
intendersi i dogmi et i miti pubblicamente © insegnati nei fémpli e nelle
scuole, riconosciuti nei culti e nelle superstizioni popolari. Per
istoria interiore è da intendersi la scienza profonda, la dottrina
segreta, l’occulto agire dei grandi Iniziati, profeti o riformatori
che hanno istituite, sorrette e propagate le religioni predette. La prima
la storia ufficiale, quella che si legge dovunque, si svolge alla vista
di tutti, ma non per questo è meno oscura, complicata, contradittoria. La
se‘conda, che io chiamo la tradizione esote- |, rica, o dottrina dei
misteri, è difficilissima € Î a districare dai veli che l’avvolgono. Essa
infatti si svolge nei penetrali dei templi, nelle segrete confraternite,
e i suoi drammi più appassionanti hanno intieramente per iscena
l’anima dei grandi profeti, che non hanno mai nè fissato in pergamena, nè
confidato ‘a nessun discepolo le proprie crisi più acute, o le
proprie estasi più paradisiache. Questa seconda storia vuole essere
indovinata, ma non appena si è scorta, apparisce luminosa,
organica, sempre in armonia con se stessa. Potrebbe essere anche chiamata
la storia della religione eterna e universale. In essa le cose
mostrano il loro rovescio e la coscienza umana il suo diritto, mentre la storia
non ne offre che il faticoso rovescio. In SD questa seconda storia
cogliamo il punto ge-N netico della religione e della filosofia, che si
ricongiungono all’ altro capo dell' ellisse 9/8, per mezzo della Scienza
integrale. Cotesto \T} unto è costituito dalle verità trascendenti.
N vi troviamo la causa, l'origine e il fine del tene prodigioso
lavoro dei secoli, l'azione della RES 1; RARO provvidenza
mediante i suoi agenti terrestri.,, Questi messaggeri terreni, lavorano
nell'officina Spiritualistica, nel laboratorio spiritualistico della umanità.
Ciò che li abilita a questo lavoro sono le leggi imperiture della
chimica spirituale ed i processi chimici spirituali che esse operano: vale a
dire i grandi prodotti intellettuali e morali della storia del
mondo. Ma ciò che fluisce dalle loro labbra è soltanto simbolo, immagine
della sapienza superiore dimorante nella profondità delle loro
anime, immagini e simboli proporzionati all'intendimento di coloro, che ad
essi porgono orecchio. Soltanto a coloro che adempiono alle
condizioni, che garantiscono la comprensione e il reffo uso
della sapienza superiore, questa può venire dischiusa. E allora.
nella Iniziazione mistica sentono l'immediato contatto coi primordiali
motivi spirituali, con le potenze genitrici della esistenza. Ascoltisi
ciò che dice un uomo tutto compenetrato di siffatti sentimenti: Clemente
Alessandrino, lo scrittore cristiano del 2° e 3° secolo della nostra èra,
il quale prima del suo battesimo fu un
Misto,, ossia A EE un alunno dei Misteri, esalta
questi con le seguenti parole : O veramente santi Misteri! O
purissima luce! Una face viene portata dinnanzi a me allorquando rimiro
il Cielo e Dio; io sono santificato, allorchè ricevo la consacrazione.
Gli arcani però me li rivela lo spirito primordiale e suggella in me
l’Iniziato con l'illuminazione; iniziato nella Fede mi presenta al
Tutt'Uno, affinchè io vega ser= bato in grembo all’eternità. Tali sono le
cerimonie iniziatiche dei miei Misteri! Se tu vuoi, fatti iniziare tu
pure, e con le forze spirituali dell'esistenza tu chiuderai la
santa carola attorno all’ increato, all'imperituro, al tutt'uno
spirito dei mondi, e la favella che a te dal Cosmo viene inspirata
intonerà gl'inni di lode a questo Tutt'Uno,.. Si comprende la
descrizione che fa Annie Besant dei Misteri, se si riflette che gli
Iniziati devono parlare di sè come lo fa Clemente Alessandrino con le parole
suriferite: I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano il vanto
di quella vetusta contrada e i più nobili figli della Grecia, come ad
esempio | Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi | iniziare
nei Misteri dai maestri della sapienza | iniziatica egizia. I Misteri
Mithriaci dei Per. IDO. JIA siani, i Misteri Orfici e quelli
Bacchici, e i posteriori pseudomisteri di Eleusi in Grecia, i Misteri di
Samotracia, della Scizia, della Caldea, sono universalmente noti, almeno
di nome, come le parole d'uso familiare. Persino nella forma estremamente
attenuata dei Misteri eleusini il loro valore viene altamente magnificato
dai più eminenti uomini della Grecia, come Pindaro,
Sofocle, Isocrate, Platone e Plutarco. E nei Misteri non si mira soltanto
all’ ampliamento del sapere, alla sola spiegazione di cose
ignorate, ma alla elevazione di tutta la natura umana, di modo ch’ essa si
compenetri di quella sacra disposizione iniziatica, che pone in grado di
comprendere le fonti e principi del Cosmo. Il mistico non solo
conosce le cose superiori, ina oltre a ciò la sua propria natura si fonde
con esse. Egli deve quindi essere preparato al fine di potere accogliere
come si deve le fonti di ogni vita che in lui affluiscono. Appunto nel
nostro tempo, in cui si vuol riconoscere come attendibile soltanto ciò
che è scientifico in senso materiale, diviene difficile il credere
che, circa le cose supreme, quello, che imV. Esot. Chr., a porta
veramente è una disposizione d° animo. Per tal modo si fa della
cognizione un fatto intimo dell'anima umana: e tale essa è per il
Mistico. Si dica a qualcuno la soluzione di tutti gli enigmi del
mondo: Il Mistico troverà sempre che una siffatta esposizione è
vuota risonanza, che sfiora l'orecchio e svanisce, se |’ anima non. è
stata prima preparata ed innalzata ad un livello superiore; egli
troverà che il sentimento non ne resta affatto toccato, se non è staîc
disposto a sentire l'accoglimenio della sapienza come un Sacramento,. Solo chi intende ciò
conosce atmosfera spirituale dal’ alto della quale discendono certe
espressioni del Mistico, come quelle di Filone: Sovente, allorchè mi_riscuoto dal
sopore della corpo-4% reità e rientro in me, distogliendomi dal
mondo esteriore, e penetro dentro me stesso, . scorgo una mirabile
bellezza ; allora io sono certo di essermi internato nella parte migliore
di me; metto in attività la vita vera, sono unito col divino e in lui
fondato, e conseguo la forza di trasferirmi nel mondo
trascendentale. Quando, poi, da codesta contemplazione dell’ Altissimo, e dopo
questo riposo nell’ elemento spirituale del mondo, discendo
nuovamente alla consueta formazione di pensieri, allora mi domando come
potè avvenire che l’ anima mia si impigliasse nel vivere quotidiano,
posto che la sua patria è pur quella dove testè mi sono soffermato ! Chi sa
quale grado di purificazione del sentimento e della funzione intellettiva
sia necessario per arrivare a sentire così conosce anche le ragioni per
cui la sapienza mistica, la sapienza consacrata non può essere
oggetto della vita consueta quotidiana, nè dell’ insegnamento
ordinario, nè dei documenti della storia esteriore; e perchè essa
stia chiusa nell'anima dei divini messaggeri e debba costituire, come
dice Schurè, il riservato oggetto della iniziazione in fratellanze
appartate. Ma, quantunque questa immediata comprensione della verità
rimanga un fatto d’ insegnamento del tutto intimo, pure tutti gli uomini
partecipano dei benefici della sapienza. Come i benefici delle ferrovie
elettriche ricadono su tutta la popolazione, pur restando monopolio
degli elettrotecnici la conoscenza delle. leggi Pe così avviene,
quanto ai frutti, ella efficacia e della sapienza dei Misteri, E
come il beneficio delle cognizioni tecni che si traduce nelle istituzioni
esteriori della civiltà. così quello della sapienza dei Mistici si
esprime e distribuisce nel contenuto spirituale della vita dell'umanità:
cioè nei suoi miti, nei concetti informatori delle sue credenze e
delle sue religioni, nel suo mondo di leggende e di fiabe, non solo, ma
altresì nelle sue idee di morale e di diritto, e da ultimo anche
nella sua attività artistica, nelle sue scienze e nelle sue filosofie. Il
Mistico mostra che la sapienza più profonda della umanità è la
radice di tutti questi vari contenuti della vita, rendendosi ben conto
che essi tutti possono trovare la loro vera spiegazione soltanto in
quella sapienza. Clemente Alessandrino parla del fatto che un uomo può
avere la fede seriza possedere eru Izione,, ma al tempo stesso proclama essere
impossibile che un uomo senza sapienza comprenda gli oggetti che
vengono spiegati nella fede, (v. Besant, Esot. christ.). Ogni
Mistico conosce questo vero rapporto fra Fede re e sa che tra i due non
può esistere contraddizione j ma anche alla Mistica egli può fare
riconoscere valore unicamente sulla base della vera scienza. Anche di ciò
parla Clemente. Alcuni che si ritengono favoriti da natura, non desiderano di
occuparsi nè di filosofia, nè di logica; anzi essi non desiderano di studiare e
imparare la scienza naturale; essi richiedono nuda fede soltanto. Io, pertanto,
chiamo dotto veramente colui che tutto mette a contributo per la
verità, così che traendo dalla geometria e dalla musica, dalla grammatica
o dalla filosofia stessa, ciò che è utile, difende la fede da ogni
assalto. Quanto è necessario per chi desidera partecipare dei poteri di Dio il
trattare filosoficamente soggetti intellettuali! Lo gnostico (Mistico) si vale
del rami dello scibile vene di esercizi ausiliari vreparativi. (A. B. Es.
Chr.). Chi ha colto questo profondo accordo della Fede col Sapere si
trova costretto a rilevare sempre di nuovo una caratteristica peculiarità della
nostra civiltà moderna, la quale ha invece scavato un abisso tra Fede
e Scienza. E. Schurè accenna a questo abisso fin dai
periodi introduttivi del suo libro. Il peggior male del nostro tempo è il
mostrarsi la Scienza e la Religione come due forze nemiche e
irreducibili. Infermità intellettuale questa tanto più perniciosa
in quanto che deriva dall'alto e furtivamente s' infiltra, ma
sicuramente, in tutte le membra, come un veleno sottile che si respiri
nell’ aria. Orbene ogni infermità dell’ iritelligenza diviene a lungo andare
infermità dell'anima e in conseguenza un male sociale.
Fintanto che il Cristianesimo non fece che affermare ingenuamente la fede
cristiana in seno a una Europa ancor semibarbara, come era nel
medio evo, esso fu la più grande delle forze morali, e ha plasmato
l’anima dell'uomo moderno. Fin tanto che la scienza sperimentale,
apertamente ricostituitasi nel secolo 16°, non fece che rivendicare i
legittimi diritti della ragione e l’ illimitata sua libertà, essa fu la
più grande tra le forze intellettuali; essa ha cambiato faccia al mondo,
liberato l’uomo da secolari catene, e fornito la mente umana di
fondamenta incrollabili. Non meno energicamente Annie Besant accenna a
questa peculiarità della civiltà spirituale moderna. Per ognuno che studi
l’ultimo immediato quarantennio del secolo passato è chiaro che persone
meditative e morali sono in gran numero esulate dalle chiesé perchè gl’
insegnamenti che vi ricevevano urtavano, offendevano la loro intelligenza e il
loro senso morale. E' vano pretendere che l’agnosticismo
così ue. largamente diffuso in questi tempi abbia ra: dice solo nella
mancanza di moralità o in È; una deliberata involuzione della mente.
ChiunA que attentamente studi gli esposti fenomeni, ammetterà che uomini
di forte intelletto sono stati allontanati dal seno del
Cristianesimo per via della rude goffaggine delle idee religiose loro
presentate, delle contradizioni negli insegnamenti delle varie autorità,
nelle vedute circa Dio, l'uomo e l’universo, idee n che nessun
intelletto colto e metodicamente ; disciplinato potrebbe di leggeri
accettare . a (A. B. Cris, esot.). Alla domanda: Che cosa è da farsi in questa direzione
?, Annie Besant risponde inspirandosi alla veduta che anche la
radice del Cristianesimo giace in una sapienza occulta e che la Fede
deve, quindi, per susI sistere risospingersi a questa radice. Se il
Cristianesimo vuol continuare a vi i co vere, deve ricuperare il sapere
che ha e riad | vere la propria Mise € l propri insegnasd cculti; deve di nuovo
erigersi come. un istruttore autorevole di verità spirituali, ma
rivestito della sola autorità meritevole. Me, ù Mes di
essere alquanto apprezzata, l' autorità, cicè, della conoscenza. Se
questi insegnamenti ‘verranno recuperati, la loro influenza sarà subito
constatabile nelle più ampie e più profonde vedute che si avranno
circa la verità, dogmi che ora sembrano meri gusci ed impacci, saranno
riconosciuti subito quali parziali presentimenti di realtà fondamentali.
In primo luogo il Cristianesimo esoterico riapparirà nel /uogo santo, nel
Tempio, così che tutti i capaci di riceverlo possano seguirne le linee di
pensiero palese, e secondariamente il Cristianesimo occulto ridiscenderà
nell'adito celato dietro la Cortina che custodisce il Sancta Sanctorum, in cui può entrare l’
iniziato soltanto. (A. B. Es. Chris.). Mediante il senso della vista
l'uomo percepisce la natura con cento e cento sfumature di luce è di colore.
Sono i raggi della luce solare che, riverberati dagli oggetti, ne
determinano gli aspetti cromatici variamente sfumati. Sebbene per tal
fatto la percezione della luce solare sia una funzione abituale
dell'occhio, tuttavia questo non può impunemente fissare la fonte stessa de a
luce: Sole; esso viene accecato dal contatto immediato, diretto, dei
raggi solari. Ciò che 0° néi suoi effetti è adeguato al compito
quotidiano dell'occhio, dà occasione a una sofferenza, quando, come causa in
sè, colpisce l'organo sensorio. Chi sa applicare nel giusto modo questa
immagine alla vita spirituale dell'uomo, comprende perchè coloro che sanno parlano di
pericoli della Iniziazione ai Misteri. Cotesti pericoli esistono
innegabilmente; se non che, chi ne parla non va preso alla lettera,
interpretando la parola pericoli,,
nel senso usuale. La intelligenza e la ragione umana sono tanto
poco assuefatte a riconoscere le fonti del vero nel complesso totale del
mondo, quanto poco è capace l'occhio di fissare direttamente il
Sole. Come l'occhio sente a sè rispondenti gli effetti delia luce, così intelletto.
e ragione sentono a sè rispondenti gli effetti della sapienza
eterna nei fenomeni della natura e nel decorso della storia degli uomini.
Ma come l'occhio viene meno. di.fronte.alla sorgente stessa della
luce, così l'intelligenza umana vigne meno dinanzi alle fonti primordiali della
sapienza. Questo umano intendimento nel subito arretra, rinuncia. Or bisogna
assimilare nel debito modo ciò che allora succede nell’ uomo, al fatto
dell’ abbacinamento chel’ occhio.subisce dal sole. veg 3 fer: Poichè
l'uomo è assuefatto a scorgere nella Natura e nell'attività dello spirito
soltanto il riflesso della Verità, e non questa immediatamente, egli
viene meno di fronte alla verità stessa, quando questa gli si
presenta. Avvezzo a cogliere soltanto la realtà grossolana, che quotidianamente
I prnia, l'uomo sente le manifestazioni della sapienza superiore come
illusioni, come costruzioni di una fantasiosità irreale: esse non gli
possono dire nulla, sono per lui come forme aeree che svaniscono
quando egli le vuole afferrare, così come è solito afferrare gli oggetti
della realtà consueta. Questa lo avvince a sè con mille lacci; ciò
che essa gli può promettere egli lo conosce, lo ha imparato ad apprezzare
in mille modi. Chi qui vede giustamente, comprende che cosa intendano dire
le leggende religiose quando parlano del Tentatore, che promette tutte le
magnificenze di guesto mondo a coloro, i quali vogliono intraprendere il
sentiero della illuminazione superiore. Se noh è risvegliata in. loro la
forza di resistere a cotesto Tentatore, essi cadono inesorabilmente in sua
balia. Con ciò si accenna a quel che s'intende per pericoli della soglia,, che occorre
varcare, se si vuole calcare il
sentiero, della sapienza. Niuno può giungere a questo sentiero se
non intende valersi dell’ occhio spirituale, dell'intelletto e della
ragione, diversamente da come vengono adoperati) nella vita
quotidiana. L'uomo deve porre il piede sulla soglia come un trasmutato,
come "°° uno, il cni°occhio spirituale è stato rafforzato; ed è
singolarmente difficile nell’ età nostra attuale rinvigorire
così.quest'occhio, x giacchè appunto dalla nostra scienza esso
viene rivolto o a.ciò che è concreto li tangibile. Per compiere le sue
conquiste nel campo delle forze naturali esteriori que-, sta scienza dovè
rendere quest'occhio cieco alle potenze spirituali dell’esistenza. Non
si fraintenda tutto ciò, prendendolo per un rimprovero! Chi vuol
comprendere il mec-\l canismo di un orologio non ha certo biso i}
gno di risalire con l'indagine fino ai pensieri dell’ inventore dell’ orologio
; egli può mM bene attenersi a quanto ha imparato dalla
[RUN fisica; può comprendere l’ orologio dal suo stesso
meccanismo. a nessuno può com preridere come le forze e le cose che
coo perano nell’ orologio siano state originaria mente combinate, se
non va in traccia dello | spirito che le ha combinate e non
indaga le ragioni per cui esse sono state così comf frze
Tmnon © SEXI ma ) fe | fa meda; meo N el Mm NK ke bt re
e € o’ uc gi Riti fet rextore9 Lo
fel #0 A 0 è MT, ui gno PEA Vs. b- parte li (a È Logan Foe.
SP RTTO el ppartnzs ti dae binate. Il naturalista può comprendere
giustamente la Natura solo se in lei stessa ri- le cerca anzitutto le
forze con cui essa opera. Se afferma che queste si sono combinate | ®
cudl da sè, assomiglia a colui che non si perita Y0Me flat di
pensare che un orologio si sia congegnato da sè. S izione-è non il A | lo
spirito Ge Le cose, bensì il trasferirlo alla cieca me/le cose stesse.
Superstizioso è, non colui che cerca l'inventore dell’ orolo gio,
ma colui che nell’orologio stesso immagina ‘uno spirito, il quale manda avanti
Î le lancette. Soltanto quando in questo modo || sî fraintendono
coloro che vanno in traccia dello spirito dell'esistenza cosmica, si
può metterli in un fascio con quelli che a buon diritto sono
accusati di superstizione e che cen altrettanto buon diritto vengono
oggi riguardati come turbapace, perchè compromettono i benefizi, che la nostra coltura
scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio velato da. preconcetti saprà a
chi si vuol alludere nelle due categorie citate). Chi-pone il piede
sulla Sogliz che d accesso alla visione superiore,
se vuole riu i scire ad avanzare, deve essere provvisto della 2 sN forza
che mena ad avvertire il Reale là dov@mnn l'intelletto ordinario e la
ragione solita scor- x i T] x > l'intolegione I Lie ii
pai de Pe Pe Pietà sa desti Ann ie siii nc e a | na ta A in x gono
soltanto fantasticaggine ed illusione. Giacchè il perenne e l'eterno sono
appunto, là, dgye all'occhio rivolto soltanto al transi* torio e
temporaneo altro non appare che fantasticaggine ed illusione. Nessun
utile, dunque, risentirà un uomo che venga condotto dinnanzi alla
sorgente della eterna sapienza colgalo corredo.della.sua intelligenza
rdinaria. Perciò nei Misteri, il primo grado d Iniziazione non consiste
nell'impartire un nuovo sapere intellettuale, ma nella completa
trasmutazione delle forze conoscitive dell’uomo. Con fine intuito
pertanto, Edoardo Scuré descrive nei suoi
Grandi Iniziati, il cammino di chi tende al Sapere, mediante i Misteri:
ALE L’ iniziazione era a leaneno
r, le di futfo l'essere umano ad ascenlere le vette vertiginose dello spirito,
dall'alto delle quali si può dominare la vita. E più innanzi egli
dice: Per giungere a questa padronanza l’uomo ha bisogno di una
totale rifusione del proprio essere fisico, morale e intellettuale. Orbene,
questa rifusione non è possibile se non mediante |’ esercizio simultaneo
della volontà, dell’intuito e del raziocinio. Mercè il loro
completo accordo l’ uomo può svi } ;) I Fapiecinia TX.
iNalonta Ponso ; I he sli luppare le proprie
facoltà fino a limiti indefinibili. L’ anima ha sensi assopiti ; l' iniziazione
li risveglia. Mercè uno studio profondo e un'applicazione costante l’uomo può
mettersi in rapporto cosciente con le forze occulte dell'universo. Con
uno sforzo porentoso egli puo raggiungere la percezione spirituale
diretta, schiudersi i sentieri che portano. all’olt a, al superfisico, e
divenire capace di regolarvisi. oltanto allora può dire di aver vinto il
destino e di esSersi conquistato fin da quaggiù la propria tiliberi
divina. Soltanto allora l’iniziato può vi divenire inizi.tore, profeta e
teurgo, vale a dire veggente e formatore di anime. Infatti soltanto
colui, che comanda a se stesso può comandare agli altri, e soltanto chi
è libero può liberare . (Opera cit.). La missione
dei Misteri va intesa in tal senso, per quel che si riferisce al loro
primo grado. ‘Non si trattava solo fi una DUOSA scienza, ma della
produzione di nuove forze | pudore ‘L’individuo=doveva.
trasmutarsi, ivenire un altro, prima di venir condotto
al Sole spirituale, alla sorgente della sapienza. Colui, le cui
forze non sono temprate allorchè pone il piede sulla Soglia, non sente la realtà
dell’eterne. potenze spirituali, (}. che quivi gli si fanno incontro. In
luogo di entrare in rapporto con_un mondo superiore egli ricade nel mondo
inferiore. À questo pericolo trovasi esposto chi va in cerca delle
sorgenti della sapienza. Se egli soccombe, allora ha temporaneamente
ucciso in sè l'eterno germe. Questo era per l'innanzi dormente in lui,
ma, pur così dormente, era tuttavia ciò che nobilitava la passeggera,
inferiore natura e la trasfigura. Ingenuo ed inconsapevole, l' individuo
viveva con questo rudimento di spiritualità superiore. Dal mal riuscito
tentativo, di.iniziazione quel latente rudimento JÉne. distrutto. All'individuo
non resta che l'istinto di vivere nel transitorio, di yivere
Soltanto pel regno di guesto mondo. Per il fatto di. avere sentito
come_illusorio il divino spirituale,,
egli divinizza il sensibile_materiale,.
In tal modo, sulla Soglia,, può
andare perduto per l'individuo il suo più prezioso tesoro, la sua parte
immortale. Questo è il pericolo analogo all’ accecamento dell'occhio
nella similitudine su riferita. E' ovvio che coloro, cui nei
misteri incombeva l'ufficio d’iniziatori, erano per pro- .Wei Rito
fonda consapevolezza della propria responsabilità, estremamente esigenti verso
i discepoli, giacchè tali esigenze dovevano servire a temprare nel senso
indicato le loro forze spirituali. E. Schuré descrive la scala gra
duale della Iniziazion ‘a_praticata I riella scuola di Pitagora (a.
582-507 a. C.) e-la sua descrizione è tutta improntata di
geniale senso d’arte e di mistica profondità. Mi appoggerò appunto ad
essa per parlare di quei gradi iniziatici. Erano ammessi
all’Iniziazione soltanto coloro che offrivano sicurezza di riuscita per
la costituzione appropriata della loro natura intellettuale, morale e
spirituale. Per costoro cominciava allora il periodo della Preparazione,. Per molti anni essi
diventavano itori. Nel tempo nostro, in cui ciascuno sf crede
autorizzato a giudicare e criticare mon appena abbia appreso qualche
cosa, 0, torse anche più sovente, quando non ha ancora imparato nulla,
non è punto facile rendere simpatica l’idea" quel lungo uditorato.
All'uditore era imposto il più assoluto silenzio, inteso non nel senso
esteriore di ‘ astinenza da ogni parola, bensì nel senso di |
astinenza da qualsiasi critica, STdoveva Accogliere del tutto
spregiudicatamente l’istru due crilica PESTO, gp
zione, senza turbare questa spregiudicatezza con una prematura analisi
critica. Il saggio sapeva, e gli uditori avevano fiducia; per un
certo tempo non_.era loro Jlecito..criticare, giacchè il sapere che
ricevevano era appunto ciò che occorreva per renderli maturi all
critica. Come è possibile che impari vera[mente chi vuole immediatamente
criticare \{ quel che apprende? Con questo metodo di ascoltare in
silenzio i Pitagorici hanno reso maggio a una massima, che sola può
fare ascendere i gradini della conoscenza. Chi ha percorso la via
della conoscenza lo sa. Egli non può che sentire pietà per coloro,
che si creano intoppi su tale strada coi loro giudizi prematuri e con le
loro critiche. Il nostro tempo è tutto pieno di questo_immaturo spirito
di critica: basta osservare intorno a noi ciò che i nostri oratori dicono
e ciò che i nostri scrittori scrivono.,Se vi fosse ai tempi nostri solo
un pò di spirito pitagorico, resterebbero. inespressi più dei nove
decimi di quanto vien detto e altrettanto rimarrebbe non stampato di quanto
vien pubblicato. Oggidì, chi ha messo insieme un paio di osservazioni, o si è
appiccicato in testa un paio d'idee, si crede autorizzato a sputar
sentenze e giudizi sui sel RARI TESE, soggetti più essenziali.
Invece un tale diritto spetta soltanto a chi abbia imparato a contenere
per anni il suo giudizio e a porgere ascolto spregiudicat ea quanto i
savi dell'umanità hanno detto.
Esaminate tutto e tenetevi il meglio,, è una fallace norma
dell'anima di chi non è maturo per esaminare. Il nostro giudizio non vale
proprio nulla, nulla affatto di fronte alla Verità, fin tanto che non lo
abbiamo fatto esaminare dalla verità stessa. Invece di dire. Io esamino tutto e
voglio tenermi il meglio, molti dovrebbero dire. Io voglio fare esaminare
me stesso dalla Verità, e quando io sia sufficientemente buono per
essa, allora ch' essa mi prenda! Chi non si è esercitato per anni ad
adattare, a inalveare la propria vita in questo illimitato abbandono al
giudizio delle sagge guide della umanità, non arriverà mai a formulare
giudizi che siano più che fumo e vacua risonanza. Pa Una norma
siffatta è certamente invisa in questo nostro tempo illuminato,, in cui dominano la
pubblica criticaglia, e lo spirito gazzettaio ; invece gli uditori
pitagorici si attenevano appunto a cotesta norma. Raggiunta la voluta
maturità, l' uditore vedeva | 4 iena: acli Neggiunto per lui
il giorno d'oro col quale cominciavano le rivelazioni sull'essenza
della natura e dello spirito umano. A poco a poco i gli si fa
comprendere la zomìa [I am a zoologist – a philosophical zoologist – Grice], le
leggi della esistenza corporea e psichica. Be" 1 Voglia afferrare
questa romia col non raffinato intelletto ordinario non ne comprende
nulla. Goethe una volta accennò a questo. Allorchè nel SUO VIAGGIO PER
L’ITALIA e per la Sicilia si era dato con tutta lena allo studio delle
piante, e si era formato quelle sue vedute tanto citate ma tanto poco
comprese sulla pianta archetipa, scrive in Germania che avrebbe
voluto fare un viaggio in India, non per scoprire qualche cosa di
nuovo, bensi per guardare a Suo..modo_.il già scoperto. Quel che importa,
appunto, non è il conoscere le leggi messe in luce dalla botanica intellettuale vi bensi il penetrare
coll’aiuto di queste leggi nell’intima essenza della vita vegetale.
Si fica essere un erudito professore di botanica e non capir nulla di
questa vita vegetale. | nostri scienziati hauno veramente delle strane
idee a questo proposito. Essi o credono che, in genere, non si possa
penetrare nell'intimo della natura, o affermano che la nosira
indagine non è ancora fanto avanzata. Essi non sospettano che con questa
indagine mediante i sensi e l'intelletto possono, sì, moltiplicarsi con effetto
benefico le nostre cognizioni, ma che per investigare (| interno,, è, invece, necessaria una maniera
di pensare tutta diversa da quella che essi mettono in pratica. Non
vogliono saperne dell’inventore dell'orologio mentre studiano l'orologio alla
stregua dei principi della fisica. Poichè non possono trovare nell'orologio
nessuno spiritello che spinge avanti le lancette, o negano lo spirito,
che ha congegnato le ruote, o asseriscono che esso è inaccessibile all’umana
conoscenza, 0 del tutto o fino ad oggi. Chi parla dello spirito della
Natura viene accusato di sbizzarrirsi in vane parole. Ma non è
colpa sua se gli accusatori non sentono in ciò altro che parole! I discepoli
pitagorici, al secondo grado della loro istruzione, venivano introdotti
nelloSpirito della Natura. Soltanto: dopo RARO al questo
grado, potevano venir condotti alla
grande Iniziazione . A questo punto erano maturi per accogliere in
sè i Segreti della esistenza; il
loro occhio spirituale era ormai sufficientemente vigoroso; oramai non
apprendevano più a conoscere soltanto lo spirito delia nai tura, ma anche
le intenzioni di questo spii rito. Da questo punto in poi non sì può più
i parlare dei Misteri col solito linguaggio, ma soltanto per via d'immagini,
giacchè il no(a stro linguaggio è tutto adeguato all'intelletto e non ha
parola adatta alla conoscenza superiore, di cui qui ci occupiamo. In
questo È senso va inteso pure quanto segue. Prima di ogni altra cosa
l'individuo apprendeva a spingere lo sguardo oltre la propria esistenza
personale. Da ciò traeva l' esperienza che quella sua vita era la ripetiiS .
zione di vite anteriori a un nuovo gradino dell'esistenza. Si poteva
convincere che quel i che è lecito chiamare anima, nel giusto senso
della parola, si rincarna ripetutamente, e che le capacità, le vicende e
le azioni della Me sua vita presente erano da interpretarsi come
effetti di cause reperibili in quelle sue vite antecedenti. Egli si
rendeva anche conto che i fatti e gli eventi di quella sua vita
presente dovevano produrre i loro effetti in esistenze 1 avvenire.
i ; Su ciò bastino qui questi pochi cenni, da perchè ho intenzione
di parlare in altro luogo esaurientemente delle grandi leggi della rincorporazione,
e della legge cosmica, ovvero, in altre parole, della rincarnazione, e del
Karma. Queste verità potevano divenir convinzioni per il discepolo dei Misteri,
come è verità per l'uomo comune che 2 x 2-4; perchè al terzo grado il
discepolo era a ciò maturo. Ma anche a questo grado si può avere un
giudizio completamente sicuro su queste conoscenze, unicamente perchè si
è ormai acquistata la capacità di comprenderne giustamente il
significato. Anche oggi, come in ogni tempo, molto si criticano tali
concetti ;, ma ciò che viene criticato in realtà sono soltanto le
arbitrarie, concezioni dei critici stessi, che non hanno alcuna importanza.
Del resto, però, si deve anche pienamente convenire che pure molti
seguaci della idea della rincarnazione non hanno di essa concetti
migliori di quelli dei suoi oppositori. Non tutti coloro che oggi
difendono queste dottrine, le comprendono veramente. Anche tra questi
difensori ce ne sono molti che sono troppo scansafatiche 0
troppo.... consci di sè per apprendere in silenzio prima di far da
insegnanti. 0° Cfr. dello stesso autore gli scritti maggiori Teosofia Scienza occulta e i minori Azione del Karma. Rincarnazione e
Karma come leggi naturali. Ora, se non forse presso i Pitagorici, c'era,
però, in altri Misteri, dopo la grande
Iniziazione rivelatoria,, il grado della vera iniziazione mistica. In
essa non soltanto l'osservare e il pensare, ma tutto il vivere
conscio veniva esteso oltre l'immediata personalità dello individuo. Per essa
il discepolo non diveniva soltanto un sapiente, soltanto un
veggente. Egli ormai non percepiva l'essenza delle cose, ma la viveva con
esse. Molto arduo è dare una idea di ciò, di cui qui si tratta. Il
veggente non ha soltanto la sensazione degli oggetti, bensì sente regoli
oggetti stessi, trasferendosi nel loro interno; egli non pensa circa la
natura, bensì esce di se medesimo e s'interna, pensando, re//a
natura. (E' questo un procedimento noto al Teosofo, il quale lo chiama.
lo schiudersi dei sensi astrali. L'uomo intellettuale non bada ai
veggenti: essi debbono esser per lui dei visionari, se non peggio. Chi,
invece, ha senso per le loro doti, li ascolta con pio rispetto,
giacchè sente parlare in loro non più una persona umana, bensì la stessa
Saggezza vivente. Essi hanno fatto olocausto delle Cfr. dello stesso
autore: Come si acquista conoscenza dei mondi trascendentali
v. EA proprie inclinazioni, simpatie, opinioni personali per poter
prestare la propria bocca all’eterno Verbo, mediante il quale furono
fatte tutte le cose. Giacchè dove parla ancora l'opinione umana, dove
campeggiano ancora inclinazioni’e interessi, ivi tace la sapienza eterna.
E quando questa giunge all'orecchio di coloro che non ‘hanno ancora
sentimento per essa, appare loro soltanto come personale parola
umana, per quanto in essa possa chiudersi una forza divina. Ma dai
veggenti stessi, gli uomini ‘potrebbero imparare ad ascoltare, giacchè il
veggente fa tacere la sua umana personalità quando a lui parla la voce della
Verità. Il suo giudizio tace, i suoi interessi, le sue inclinazioni gli
stanno dinanzi altrettanto insignificanti quanto il tavolino che ha davanti
a sè: egli è tutto assorto nel| l'ascoltazione interiore. Solo il veggente
ascenderà al grado successivo, che gli antichi chiamavano del teurgo e
che nella nostra lingua può venire designato come quel grado, in cui
si opera una completa riversione, delle facoltà umane. Forze che, di
solito, affluiscono nell'individuo da/ di fuori, ora si effondono da /uîi. In
certi campi, nei quali 5 RS a l’uomo è soltanto un servitore,
diviene un dominatore colui, le cui facoltà sono trasmutate. E poichè
solo il veggente è in grado di giudicare la portata e la maniera a
d’'agire di coteste forze, l'uomo che ne verrà Ti in possesso senza aver
raggiunta la purità del veggente, ne farà mal uso. E questa do sapienza senza purità,, è possibile a
causa w di un cencatenamento di circostanze, di cui <a qui non è
il caso di tener discorso. Sulla Iniziazione superiore, a proposito dei
Pitagorici, E. Schuré ha il seguente magnifico passo : 1 i BRANO
Abbiamo, seguendo Pitagora, toccato la cima della iniziazione antica. Da
dr questa vetta la terra apparisce come im- cf ersa nell'ombra, come un astro
morente. Di lì si schiudono le prospettive sideree e eri dispiega nel
suo meraviglioso complesso. Le Scegatao ii a n 1 la vista dall'alto,
l'epifaria dell'universo. Ma \\®s4* scopo dell'insegnamento non era
l’assorbire VITA l'individuo nella contemplazione o nell'estasi.
È le regioni incommensurabili del Cosmo, li UH aveva tuffati negli
abissi dell'invisibile. I veri pauroso pellegrinaggio fatti migliori, più
forti e meglio temprati pei cimenti della vita. I, Il Maestro
aveva condotto i discepoli per iniziati dovevano ritornare sulla terra da
quei î =Sf ia Alla iniziazione della intelligenza
doveva seguire quella della volontà, ed era di tutte la più ardua,
giacchè ora per il discepolo si trattava di far discendere la verità
nelle profonde latebre dell’ esser suo, e di porla in azione nella
pratica della vita. Per raggiungere questo scopo ideale occorre
secondo Pitagora riunire tre perfezioni: avere realmente la verità
nell’intelletto, la virtù nell'animo, la purezza nel corpo.
Un'igiene sapiente, una regolata continenza dovevano serbare al corpo là
purezza che si richiedeva non come scopo, ma come mezzo. Ogni eccesso
corporeo lascia una traccia e quasi un imbratto nel corpo astrale,
vivente | organismo dell’ anima, e per conseguenza anche nello
spirito. A questa altezza l'individuo diviene un adepto, e, se possiede
bastante energia, entra in possesso di facoltà e di poteri novelli. Si
schiudono i sensi interni animici, e la volontà si riversa radiosa negli
altri sensi (vedi Schuré). Di tutto ciò che l'uomo compie prima di
raggiungere questo grado, le cause sono da ricercare in regioni a lui
completamente sconosciute. Lo sguardo del teurgo, invece, | spazia in
coteste regioni, e in perfetta consapevolezza, egli irradia da sè
quanto nell'uomo dorme di solito
inconsciamente, nelle più profonde latebre dell'anima, Egli
trovasi a faccia a faccia con la sua Guida, che per l’innanzi lo aveva
diretto invisibilmente da tergo. Col sussidio di siffatti pensieri si
dovrebbero leggere periodi come il seguente, tratto dall'antico testo di
sapienza chiamato il Mundakopanishad: Quando il veggente vede l'aureo
Creatore, il Signore, lo Spirito, il cui grembo è Brahman, allora il savi
o, dopo che ha gettato via merito e demerito, raggiunge immacolato
l'unione suprema. Alle vette, dunque, che vengono così con-.
quistate drizza lo sguardo E. Schuré; e la mistica fede nella fulgida
forza di codeste vette gli conferisce la capacità di trapassare.
alcuni dei nebulosi veli che nascondono la. vera natura delle grandi
Guide dell'Umani tà. Ciò lo rende capace di descriverli, questi grandi iniziati,:
Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora di CROTONE, Platone e Gesù.
A grado a grado da coteste Guide sono state irraggiate nell'umanità le
forze a_ seconda della maturità raggiunta dal genere umano nelle
diverse epoche. Rama condusse alla porta della sapienza; Krishna ed
Er-.ai mete ne misero le chiavi nelle mani di alcuni; Mosè, Orfeo e
Pitagora additarono l'interno, e Gesù, il Cristo, presentò il
Sancta Sanctorum, l'intimo sacro penetrale. Sarebbe sciupare tutto
il singolare incanto del libro dello Schuré il volerne raccontare il contenuto,
nel quale, così com'è ognuno dovrebbe profondarsi da sè. Ed, Schurè
accenna al fatto che pel tramite del Fondatore del Cristianesimo le forze
della sapienza dei Misteri sono state riversate nelle vene spirituali
dell’ umanità in forma tale, che le orecchie dell’ umanità hanno
potuto udirla. E anche in questo terreno la verità deve essere cercata pei
sentieri che E. Schurè ci presenta. La forza. che s' irradia dalla
personalità di Gesù, è forza vivente nei cuori di tutti coloro, che
la lasciano fluire in sè stessi. Comprendere la vivente Parola che in
questa forza agi| sce, può solo colui che se ne procaccia la chiave,
mercè la comprensione della sapienza dei Misteri. E a ciò fornisce, per
quanto è possibile, il fondamento Besant col suo cristianesimo esoterico. E'
questo un libro, per mezzo del quale l'occulto | significato delle parole
bibliche si svela al lettore che tutto vi si abbandona, Sg
VI Siffatti libri-chiave sono necessari ai no. stri giorni.
L'umanità era in condizione del F tutto diversa dall’odierna, quando
ricevè l’Evangelo, l'annunzio gioioso. Oggidì l’intelletto ha ben altro
allenamento che non ne avesse 19 secoli fa. Oggi l’uomo ‘può
trasmutare in vita propria la forza vivente della parola palese soltanto
se riesce ad afferrare cotesta forza mediante la propria facoltà
ragionante. Ma ciò che è vero, resta $ vero eternamente, anche se il modo
come i l'uomo deve afferrarlo si cambia nel corso i dei tempi. Che
oggi l’ intelletto e il raziocinio facciano valere i propri diritti è una
necessità ; chi conosce l’evoluzione umana sa che deve essere così. E
perciò egli dà oggi all’intelletto, ciò che secoli addietro è stato
dato ad altre forze dell'anima. Da que sta e da nessun’ altra cognizione
dovrebbe scaturire l'attività del vero teosofo, e così vuole essere
interpretato il Cristianesimo
esoterico, di Besant. Il teosofo sa che nel Cristianesimo c'è la Verità,
e sa altresì che Gesù, nel quale s'incarnò il Cristo, non è un Duce di morti, bensi un Duce di vivi,.
Il teosofo intende la grande parola del Maestro. Io sono con voi
tutti i giorni, sino alla fine,,. Alla Guida viven- Bla: £ @ÈS
te, non a quella dei ragguagli storici, si rivolge anzitutto chi, come
A. Besant, vuole spiegare il Cristianesimo. Ciò che la Parola vivente, ancora oggi,, annunzia
all'orecchio che vuol porgerle ascolto, è ciò che poi proietta la sua
luce sul racconto evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore della
Parola è rimasto qui fino ad oggi e può dirci come dobbiamo intendere la
lettera dei ragguagli intorno ai Suoi atti e ai Suoi discorsi.
Le buone novelle debbono
essere intese esotericamente cioè,
bisogna, prima, che sia svegliata dentro di noi la forza vivente, che
imprime su di esse il sigillo di . Gò che è Santo,,. E poichè l'intelletto e il
razigcinio sono i grandi strumenti della civiltà d’oggi, bisogna ch’essi
vengano liberati dai lacci dell’ intendimento puramente sensistico, della
comprensione meramente positiva,
della realtà. L'intelletto stesso dell'umanità presente deve tuffarsi nel
mare che lo riempie di vera religiosità, giacchè non è esatto che
l’assennato intelletto non valga che a distruggere le illusioni, di cui il sentimento
religioso avvolge le cose. Ciò è opera solo dell'intelletto abbagliato
e inceppato dai successi riportati nella nozione ALI: 000
e nel dominio delle forze puramente materiali della natura. Gli uomini
del presente e con essi i nostri fisici, i nostri biologi e i
nostri storici, si credono Ziberi nel loro mondo intellettuale unicamente
edificato sul fatto positivo. In Verità essi vivono sotto l’azione
di una Suggestione dominante su tutto. Liberi, fino a un certo punto,
potreste diventare voi fisici, biologi e storici di oggi, se voleste
riconoscere che i vostri concetti di rea/tà anzi di materie e di forze
del mondo, di sforia umana e di evoluzione della civiltà, non sono
altro che sugge\stioni collettive,. Un
giorno vi cadrà la benda dagli.occhi, e allora soltanto sperimeénterete
fino a qual punto è verità e non errore quel che voi pensate dell'elettricità
e della luce, della evoluzione animale ed umana; giacchè, notate
bene, anche i teosofi riguardano le vostre asserzioni non come errori, ma
come verità. Infatti anche la vostra interpretazione della natura è per loro
una professione di fede, e quando
essi dicono di volere cercare il nucleò
della verità in tutte le religioni,, fanno ciò non solo riguardo a
Buddha, Mosè e Cristo, ma anche riguardo a Lamark, Darwin ed
Hickel, ay ( (A E opere come queile citate di Schuré e di
Besant sono destinate a togliervi la benda dagli occhi, debbono
insegnarvi a veder chiaro nelle
vostre suggestioni. Conseguentemente, in libri siffatti quel
che importa non è tanto il loro contenuto letterale, quanto le occulte
forze che mossero la penna dei loro autori e che si trasfondono nelle
vene dei lettori, così che questi vengono tutti pervasi da un nuovo
senso della verità. 1 lettori che subiscono il giusto effetto di tali
libri ricevono sotto un certo rispetto una /riziazione di tipo, diremo
così, intellettuale. Chi a questa frase mon arriccia il naso, come alla
asserzione di un miracolo, chi è in grado di scorgervi, invece,
qualche cosa di più che una vacua frase, potrà anche comprendere, come —
libri siffatti gli vengano presentati non già per allettarlo a fare una
delle solite letture, ma con l’altra ben diversa mira ch' essi,
per virtù delle forze con le quali sono stati scritti, debbono
suscitare in lui forze dormenti, anche se a tutta prima coteste forze
possano essere soltanto quelle dell'arimia intellettiva. Al nostro tempo,
peraltro, non c’è vera Iniziazione, che non passi per l'
intelletto. Chi vuole in oggi condurre agl’arcani superiori, evitando
di passare per l' intelletto, mon capisce nulla dei segni dei tempi, e non può
far altro che porre sugsa gestioni nuove al posto delle antiche. Grice: “Of course, Austin thought that the Saturday mornings should be
held on Wednesday midnights at Parson’s Pleasure – we were into
initiation!” Giovanni Colazza.
Keywords. dell’iniziazione, rito di passagio, rito di iniziazione, iniziazione
nel misterio, iniziazione, l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia, il sacrifizio
di Bacco, sacrifizio come dolore e piacere, Prosimno, iniziazione di Bacco, la
reazione della religione romana al mistero bacchico, iniziazione, iniziazione
del giovane romano, la toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colazza” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Colecchi: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di
Pescocostanzo –filosofia aquilese – filosofia abruzzese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Pescocostanzo). Filosofo aquilese.
Filosofo abruzzese. Filosofo italiano. Pescocostanzo, L’Aquila, Abruzzo. Grice:
“What I love about Colecchi is that while he was a bad Kantian, he was an
excellent Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse perquisizioni da
parte dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli ideali
rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare della Nunziatella. Venne
mandato in missione in Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al
ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant.
Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a
Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli
Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello
di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo kantiano in Italia. Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo
d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La legge del pensiere;
L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della ragione; “Se il
raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se nell'invenzione
eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li giudizi necessari
sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del raziocinio sia
valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio misto?”; “Il
principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e quando istruisce”;
“Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una logica mista”; “Se
una idea soggettiva non altro sia che una idea di un rapporto, L’idea dello
spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di filosofia: se la sensazione sia
esterna di sua natura, o tale diventa in forza del giudizio abituale? Alcune
quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia, Logica applicata, Ideologia,
Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche
storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia della filosofia italiana
dal Genovesi al Galluppi, Firenze; Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a
cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F.
Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi
filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa,
Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di
letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura,
filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis,
La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema
filosofico di C. (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, C., in «Atti
della Accademia Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti,
Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, C.
filosofo e matematico: nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese
di storia e d'arte», Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al
Galluppi, II, Milano); Pedagogisti ed
educatori, Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo a C., in
«Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: C., in «Archivio storico per la
Calabria e la Lucania», A. Cristallini, C., un filosofo da riscoprire, Padova, G.
Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari; Garin, Storia
della filosofia italiana, III, Torino; F.
Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche,
Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di C., Centro di studi
vichiani; Io e C.. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore,
L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta
italica, tenendo dietro alle origini dell’antica lingua del Lazio – la lingua
romana -- trasse fuori VICO queste divine idee; ha lello forse BRUNO ancora,
perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella scienza
nuova, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la
sola opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di VICO rimane
nello stesso stato in cui avealo lasciato ENEA. Devono le divine idee
rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la
sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre
scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per
conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa
filosofia, appoggiata all’induzione, si dispone VICO a crear il diritto
universale della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre
delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma,
si risolge in fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella
storia, della mitologia, nelle lingue, nel blasone, e pe’ feudi pur anche del
medio evo deesi Roma ripelere, e la romana giurisprudenza diventar quel la di
tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per
ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia,
tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto,
a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale,
educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione
de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il
senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le
ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia
positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del
poeta vera immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con
la sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati,
di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi
ridurre in fine ad una tortura, per isforzare tutt’imonumenti della storia e
delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione
che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di VICO,
pieghi sempre al modello DI ROMA, NO DI KOESINGBERGA, e la sua civiltà a poco a
poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento delle
lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner il
dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato. Essendo
si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.VICO, dobbiamo pur dirlo a
Gloria d'Italia,VICO è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua
Storia dell'umanità parla pur anche dell'origine e del progresso della civiltà
de’ popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del
Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga scala,
va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. VICO, seguace di Platone e
non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo
nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra
l'immaginazione, la sintesi di VICO sembra lalmente falla l'intelligenza
per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della
strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della
sua filosofia. Niuno più originale di VICO, e pare che l’originalità
dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel VICO spenta. De’ suoi principii
intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre,
che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render
l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che
sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor
militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque,
considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e
trasmuta in quello che esser deve. La massima di VICO pertanto, ben lunga
dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone
l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da VICO stesso tolgo
le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per VICOla
virtù del vero. E chiama virtù del vero l’umana ragione -- la vernunft di Kant
-- la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto
regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe;
ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità
privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è
labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione;
ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è
cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un
corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari,
con questi pochi molli del VICO, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre
detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la
legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose
che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina
provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa
spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere
socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio
per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione*
di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un
padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti
– l’eguale è tra fratelli ROMOLO E REMO o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e
Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice
ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione
geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della
giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone.
L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression
aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta
giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro --
-- ed ba luogo in ogni società eguale.
Nè osta punto (come crede Grozio, il quale dital L'occasione poi, per la
quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide,
trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente
ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non
fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco
Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del
bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli
uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale.
qua. Siegue da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice
hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale:
conseguenza importautissima, dedotta dal VICO da vero suo priocipio, e sfuggita
al positivista CARMIGNANI, il quale fa della morale e del diritto due cose
talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del
giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La
prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della
la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la
libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La
tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che
gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio
della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e
oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma
venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la
schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose
del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii
introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla
potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione
siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo,
prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di
lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che
li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso,
se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su
iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo
secondario, e dal PORTICO conseguenti della natura. Rimontiamo col VICO all’origine
di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la
sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva
del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui
vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere
agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi
quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode
col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire
le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle utili,
e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con
seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di
cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita:
diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di
respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione
de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo
conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della
natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli
uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto
domina la prima: di guise che quando POMPEO, impedito dalla tempesta a partire,
disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo
dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar
rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la
ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che
comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile
ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi,
non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora
imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel
principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro
di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma:non
esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e
giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli
stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che
nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo.
Ma bisogna un VICO per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare
a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale
primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto
naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario
è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto
dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle
viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della
legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla
legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la
mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per
altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della
legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori,
per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir
non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè
data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta
al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio
ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può
l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero
leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità,
la qual, dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della
libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza
per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio
sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza
del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura
mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità,
seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto
non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta
o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale
variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge
al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di
vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè qualche ragione
non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt
Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale
na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela,
nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della violenza.
Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle
genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si
stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri
numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei
delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la
città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che
vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi. Pare a VICO che
tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono
patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero,
e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto
delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che
gli uomini, senz’alcun freno di legge, toglievano con la propria mano, ed
usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e
con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per
mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni,
usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso,
come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti,
usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine
dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si
manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano
che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale! per tre nolti
continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero
in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della
ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due
cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque
stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come
che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne’ governi divini ed
eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col diritto
delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè dicemmo,
si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si ollenevano,
con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza frequenta
risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e poco
fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural pudore,
conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore disordine
in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente
trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad
essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse
certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa
formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata
volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non
per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà
o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di
privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla
via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e
distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte
ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto
naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e
della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in
moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose
insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori
vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del
diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori,
coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la
terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio,
la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il
privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col
quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore
si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende;
all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita
questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani
Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama VICO il romano diritto un
serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni,
delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta
il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le
mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la
liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione
del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la
usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto
significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con certo
legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani
con una paglia, dellaper. Ciò da GELLIO festucaria. Pernon diral la fine di tanteal
tre, l’azione personale chiamata “condictio” non più e l’andar unito il
creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia.
Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede
il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di
Anfione vero. Ella è questa, secondo VICO, l'origine ed il progresso dell’universale
diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di VICO stesso, in
istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti
questo gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù
universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano
alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla
temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza,
che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non
appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio
diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più
il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità
della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor
della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer
anche meglio l’accordo della filosofia di VICO con la legge morale, basta
osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo
in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente
nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo VICO, una sola virtù,
e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli,
che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto
alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a
latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come
particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di tutte le
virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde VICO,
v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica giustizia, e unico
diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il
principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata
del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo
nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se
quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o
vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa
non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto
civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti
maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che
quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio
dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di
violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica
e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella
dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo
certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente
diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè
stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato
di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle
alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve
l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere
morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno
di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione,
qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe
egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere
in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del
primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra
per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero
il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era
semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor
coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne
seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli
strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo
e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono
con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon
l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che
prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la
monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero
della legge. Sollo queste forme di governo lulla si spiega la moralità
dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta
mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio
figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò
famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita
l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il
fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto
grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar
colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero
quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo
in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi
osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri
della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal
puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e
consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce
la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero
amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo
delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta
all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso
gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.
Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo VICO, nei quattro stati su indicati
noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca
egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua
salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con
la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua
salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio,
ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico, in
ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da altriche
dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la familiare,
l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si facevano
nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano
gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’
goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa
o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la
ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il
senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo,
tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia;
secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di
tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati
non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico
si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano
egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della
provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del
giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla
norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica
degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue
forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il
civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle
genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la
re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle
palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per
regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione
che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che
ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per
paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune
de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso
comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la
nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano:
che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò VICO, seguendo GAIO,
chiama diritto civile comu. de il diritto comune di ogni popolo. Perchè GAIO,
ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e
da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune
diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la
stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la
loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto
spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio,
dalla libertà nacquero, secondo VICO, tre pure forme dello stato. Quella DEGL’OTTIMATI,
la regia, e la libera. FONDAMENTO DELLO STATO DEGL’OTTIMATI È LA TUTELA
DELL’ORDINE, con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gl’auspicii,
il campo, la gente, i connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso legenti i sacerdoti.
La regia risplende pel dominio di un solo, ROMOLO, e pel sommo e formisura libero
arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata
dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale
adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda
un solo,o come vuole TACITO: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare
con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico
reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico
non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno
da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta
allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere
risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë
parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni
stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose
corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma
sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il
prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono
i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi
stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge
all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di
civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’
sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato
dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe ROMOLO si
vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione
dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede,
diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad
onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di
guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e
li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero
dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo,
il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della
parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc chè I primi
imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo
passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel
lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella
casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende
sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome
però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion
naturale per le cause di certo diritto, così l'ordine civile per natura sua fa
parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza,
ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene
conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso,
altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre
una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte
falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La
parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i
suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere
Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza
de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual
cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino
sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il
quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò
che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E
come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa
mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa
da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del
popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con
particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di
chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini.
Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola
sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi
ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con
giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e
per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine
concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e
da GAIO DIRITTO COMUNE a tutti i popoli,
altro non è ch e il diritto naturale, il quale h aperto della parola, o che
torna lo stess, non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della legge
stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano ed è
necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader ancora
che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per ignoranza
si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e quello
stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine o
secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si
conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si
cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano.
Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi.
Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla
legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può
darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che VICO
distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione,
questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più
della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani
governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera
elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione.
Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le
diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro
autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i
più prudenti, come vuole VICO, non si propongano per i scopo il diritto vero e
che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione
infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si
conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di
perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar
l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà:
nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli
scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli
considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di
lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso
giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui
occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella
solamente, nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere;
di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli
anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio,
e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè,
prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già
erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso
diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il
legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo
non era ancora. La libertà del diritto,
dice VICO, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il
dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di
operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che,
ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del
tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che
tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli
in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si
dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche
ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il
quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione,
appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di
cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer
il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o
comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti
determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo
con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la
suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi
basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial
la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre
elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non può
avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di VICO si accorda perfettamente
con la morale. All natios bostna viSing to derive merit from the
splendonr of their original. And irhere history ii uleot, they fueiuenJiy
anpply the defect with fable, THE ROMANS were particnlaHy dcH^OB of being thought
DESCENDED FROM THE GODS, m if to hide the meaaDess of their real ancestry.
Mueas, the Bon of Veona AocUaei. having escaped ftvm the deitniotioii of Ttey,
after'11MU17 adventures and dangers, atrived octet a in Italy, where
Aeneas was kindly received by Latinus, king of the latins, who gave him his
daughter Lavinia in marriage. Italy was then, as it is now, divided into a
number of small states, independent of each other, and consequntly subject to
frequent contentions among themselves. Turnus, king of the Rutnti, is
the first who opposes Aeneas, he having long made pret^uions to Lavinia
himself. A war ensues, in which the Trojan hero is victorious, and Tornus
sfadn. In consequence of this, Aeneas built a city, which was eded Lavimnm,
in honour of his wife, and some time after, engaging in another war against
Hezentius, one of the petty Ungs of the country, he was vanquished in turn, and
died in battie, after a reign of four years. Ascanius, his
son, succeeds to the kingdom, and to him Silvius,
a second
son, ^lom be had by lAvioia. It would be tedious
and unninterealing to recite a dry catalogue of the kings that
followed, and of whom we know little mtae than the names. It
will be sufficient to say, that the
sacoesnoD coatiDiied for near four hundred years
in the family, and that Numitor, the
fifteenth from Aeneas, is the last king of Alba. Numitor, vho took posseBsitHi of the kingdom
in consequence of his father's
will, had abrpther named Amnlius, to whom are
left the treasures which had been brought from Troy. As riches but too
generally prev^ against right, Amolins made use of his wealth
to supplant his brother,a nd aooo foDod means top ossess himself of the kingdom,
ot content with the crime of usurpation, he added
that of murder also. Nnmitor's sons
first fell a sacrifice to his suspicions, and to remove all
apprehensions of being one day distorbed in his ill-gotten power, he caused
Rhea Silvia, his brother's only daughter, to become a
vestal virgin, which office obliging her to perpetual celibacy,
made him less uneasy as to the claims of posterity. His precautions, however,
are all frustrated in the event; for
Rhea Silvia, going to fetch wator frqip a
Qeighbopring grove, was met and ravished by a man, whom,
pei^tqw to palliate her offence, she avers to be MARTE, the
god of war. Whoever this lover of hers was, whether
some person had deceived her by assuming so
great a name, or Amnlins himself, as some writers are pleased to a£Srm,
it matters not.Certain it is, that, in due time she was broug:lit to bed
of two boys, who were no sooner bom than devoted by the usurper to destmction.
The mother is condemned to be buried alive -the usual punishment for vestals
who had violated their chasti^, and the twins are ordered to be flung into tbe riverTiber.It
happens, however, at the time this
rigorous sentence was put into eieculion,
that the river had more than usually
overflowed its banks, so that the place where the children
are thrown, being at a distance from thei main cnirent, the water is
too shallow to drown them. In this ntoation, therefore, they
continued without harm; and that no
part of their
preservatioD might want
its wonders, we are told,
that they were for some time suckled there by a wolf, until Fanstulos, the
king's herdsman, finding
ihem exposed, brought them
home to Acca Laurentia, his
wife, who brought them up as her
own. Some, however, will have it; that the nurse's name was Lupa, which gave
rise to the stoijr vt their being
nouriihed by a wolf; but it
is needless to
vfad Do,l,,-cdtyS oirt a
iwglH MBpg«b«ba% fian
'venevntB vbtfe die
vkote « omgrowB with
ftUe. Boraoloa and
Bemna, Ae twins
thtu strangely prcwcved.
Memed eariy to
diacover afai)iti«i uid
desiret above the
me«i- noH of
thor aapposed origiiuL
The ahepkenl's life
be^an to di^leaae
them, aod fnaa
tending the flock,
or hantiag wild
beasts, they soon
tnmed their strength agsinst
the robben lonnd the eonntry,
whom they efien atfipt of their [daader to share it among their feUew-shepherds. In one
of these ezcmnons
it was that
Remus is taken priaoner by
Nvmttor's berdsmen, who bring him before the
king, and aoensed
him of the
very crime which he bad ao t^tea attempted to sappresa. Bomnlaa, bowerer, beii^ informed 1^
FaiiBtaliu of his real birth, was
not remisa in
assembling ft munber
of hia fbllow^epherds, in
order to resooe
bis brother from
posoD, and foroe the kingdtmi from tbe
bands of tbe nsnrper.
Yet, being too feeble to act openly, he direcs bis followers to assemUe
near the place by different ways, while
Beniiis with eqnal
vigilaooe gm&ed npon
tbe dtiuua within. AmalioB, tfans
beaet on all sides, and not knowing iriiat expedient to thinkof for bit seoiuity, was,daring hia amasenent
and distraotion, taken
and daio, while Numitor who had been deposed forty-two years,
recognised bis grandscns, and is restored to the throne. Nnmitor
being tints in
qvet posiewion of
the kingdom, hot
grandaou resolred to
bnild a eify
npoo those hills whoe they had
formerly lived as aheiriierda. The king had
too many oUigations
to them not to approve their
des^; he appointed
tbem lands, and
gave pennisnoB to
.snoh of hia
subjects a» thoo proper
to settie in
their new colony.
Many of the
neil^draariiig shejdierda also,
and sncb as
were fond of
change, lepabed to the
intended dty, and
prepared to raise.
For the more speedy oarrybg
on this
work, the people were
divided into two parts, each of whioh, it was sapposed, woidd
indoatriondy emnlate the otfaer. Bat what
was designed fi»
an advantage proved nearly
fatal to this
infimt oolony: it gives birth to
two factions, one preferring Romulus, the other Remus,who themselves arenot agreed upon the spot where
the city shonld stand. To terminate this difference, they are recommended by
the kingto take an omen from the flight of birds; and that be, whose ome should
be most favoorable^ afaonld in
all reepeots direct die odier. In
ooatflSaaoe wiOl this advice,thej both take their stations
npon diffra«nt hilk. To
Remus appear six
vultures, to Romulus,
twice that number,
to ttwt each
party thongfat itielf
viotoriovi, the one
tiaviog the *first*
omen, the other
the most nnmeroiu.
Tbifl prodnoed a
contest, whitdi ended
ui a batde, wherein Bemoa is slain,
and it is even said, that he was kiUed by his brother, who,
facingprovoked at his leaping contemptnoasly over the city wbU,
itrack him dead upon tbe
qrat, at the same time proKssio^, that nooe shonld
ever inanlt his walla withim punity.
Romoltu, being now sole
coHunuider, and eighteen yean of age,
b^an the fonndation of acity, that was one day to give laws to the
woild. It was called Rorne after the uaaie of the founder, and bnilt npon the
Palatine hill, on which he had taken lus ancceflsfol omen. The city was at first almost square, oontaining «bont a
tlwiisand houss. It was near a mile in compass,
and commanded a small territory
ranod it of
about eight miles over.
However, smallas it
appears, it was,
ootwithstandiiy, vone inhabited;
and the first
method made uae
of to increase
its numbers vaa
the opemng a
sanctosry for all
male&otors, slaves, aod
snch as wm«
desirons of novelty.
These came in great
multitudes, and cootibated
to increase the
number of our legtslatoi'B
new subjects. To have a just
idea ther^re of Rome in its infant stale,
we have only to
iwsgine a coUec-
tion o( cottages,
sairotinded by a
feeble wall, rather
built to serve as a military
retreat, than for the
purposes of civil
>o- cie^, rather filled
with a tnmoltuoas
and vicious rabble,
thaD with subjects
bred to obedience and
control.We have only to conceive men bred to rapine,
Iwing in a
place that merelj seemed calculated for
the security of
plonder; and yet,
to our astonishment, we shall
soon find this
tumulbioas coocouise unit>
ingin the strictest
bonds of sode^;
this lawless rabble putting OB the most sincere regard for
religion; end, thouf^
composed of the
dr^s of mankind,
setting examples, to all
the worid, of valour
and riitne. Doiii,,ih,. WWLOU
SoARGB mm tbe
city rnsed abore iti
&niid«tioB. vhen Hs
rade mhalulsBtB hegaa
to tfauik of
gmag some fonn
to their. MoslitBtioii. Their first
object was to
unite lifoer^ and
empire; to fonn
a kiod of
mixed monncby, by
irfaicfa all power
vw to be
dividad between the
prince and the
peopte. Bo- nlna, by an act
of great geoeromtf, left them
at liberty to dwose whom they wonld for dieir king, and
tliey in gnrtitiide
eoBcmred to elect their founder;
be was accordingly acknowledged as
chief of dieir religion, sovereign magistrate of
Rorne, md geoeral of Ae army. Beside a guard to attend his person,
it was agreed that he should be preceded wherever be went by tweW e mCT, armed with axes tied
op in a
bnadle of rods, who were to serve
as execntioners of the law,
and to impress hii new subjeots with an idea of his authority.
Yet stUl
tUa aKiboriQr was ondw very great
restriotii»ig, as his whole power CMisisted in
caQing the THE SENATEsenate togedier,
in assembling the
peo tMibstont and
fierce as the first
Romans, it was
wise to enforce obedience
t &6 most
reqnidte dnty. lie first care of the new-created king is to
attend to the
interests of religion,
and to endeavour to hnmantse his
subjects, by the notion of
other rewards and pnnishnients
than diose of hnman law. The
precise form of their worship
is nn- known; bat die greatest
part of the
religion of that
age con- siMed in
a firm relianoe
upon Ae credit of
their soothsi^ers, irito fvetended, from
observations on the flight
of birds and
the entrails of
beasts, to direct
the present, and
to dive into fntmrity. This pioos fhrad, wbich first
uvse from ignorance, soon became
a most usefnl
machine in the hands
of government. Romnlns, by
an express law,
commanded, that no
election should be
made, no enterprise undertaken,
witfa- flat first
conaolting die soothsayers. With equal
wisdom he ordained, that no new
divinities should be
introdoced into pnhlic
worship, that the
priesthood should continue
for fif, and that Aone shonM be
elected into it before
the age of
fifty. He fort>ade
them to mix fable witb
the masteries of
their reUgion; And,
timt they mi^t
be quaKfied to teach others, he ordered
Aat tiiey should
be tiie iHstoriographns of
tiie times; so
tiia^ while instructed
by priests Bk^ these,
the people cordd never
degenerate into total
barbarity. Of his other
laws we have
but few fragments remmnii. In these, however, we
learn, that wives were
forbid, upon any
pretext whatsoever, to separate from tbeir
husbands; wUle, on the
contrary, the husbaod
was empowered to repudiate the wife, and
even to put
her to death with the consent of hef retatioQB, inc ase
she was detected in adultery,
in attempting to poison,
in making false
keys,. or even of having drunk
too much
vine. His laws between children and
their parents w«'e
yet sdll more severe;
the father had
entire power over his offspring, both
of fortune and
fife; he conid
ell them or
imprison them at
any time of
their lives, or in any ttations
to which they were arrived. The
father might expose
his clnldren, if
bom witii any
deformities, having previoasly eommunicated bis
intentions to his five
next of kindred. Our lawgiver seemed moze
kind even to
his enemies, for his subjectswere
prt^hited from killing
them after they
bad surren- dM«d,
m even from
sdling them: his
ambition only aiaied at .,Coo many
endeaToiiTs to inoraase
bia BnbjeotBi aad
m mmy Inra
to r^nlate them,
he next gave ordeis to
ascertna tbeir numbers.
Tbb whole amoanled
bat to three
tbooMnd foot, and about as
many bnndred horsemen,
capable of beari^
arms. These, therdbre were
divided equally into
three tribes, and to
each he asiigaed
a different part
of the taty. Each
of these tribes
were sabdivided into
ten cmin or
compame, consiBting of an hundred
men each, with
a oentnrioB to
command it, a
priest c^ed curio
to perform the
sacrifioes, and two of
the principal inhatntants, called
duumviri, to distribute jnstioe. Aocordijigly to the number
of ooriv he divides the
lands into thirty
parts, reserving one
portion for public
uses, and another
for religiaus ceremonies.
Tbo «m- phaty and
fingality of tha
times will be
best iindeistood by
observing, that dach citizen had not
id>ove two ictea of
ground for his owB
subsistence. Of the
horsemen mentioned above,
dtere were chosen ten
from eei^ curia;
tfaey were particularly
appointed to fi^t
round the person
of the king;
of them hU
gaud was composed, and from tbeir
alacrity in battle, or
fhuB the >ame
of their first commander, ^ey
were called ceUrat,
a word equivalent to our light horsemen. A goremmcot thus
wisely instituted, it may be suppoaed, nduced numbers
to come and
live under it: each day added to
its strength, maltitudes
flocked in from
all the adjacent
towns, and it
only seemed to
waqt women to
ascertain its duration. In
this exiaeiatx, Romulus,
by the advice
of the senate, sent deputies among the Sabines, his
neighbours, entreatingtheir alliance,
and upon these terms-
ofiering to cement the
most strict confederacy
with them. The
Sabines, who were then considered as the
moat warlike people of
Italy, r^ected the proposition with disdain, and
some even added
raillery to the
refusal, demanding, that
as he had opened
a sanctuary for
fugitive slaves, why he
had not also opened
another for prostitute
women. Tbis answer quickly
raised the indignation
of the Rpmans; and the king, in
order to gratify
their resentaient, while
he at the
same time should
people hb ci^,
resolved to obtain
by force what
was denied to intrea^. For this
purpose he proclaimed
a feast, in
honour of N^tane,
diron^ut all the
nMghboitring villagea, and made
the meet KAPB OF THK BABINBS. t
mmgaiAMat pnftamtkmi for
it Tbets feuta
wen guan^ preceded
by sacrifices, and ended in shows
of wreeden, ^ft-
diaton, and chariot-^onrses.
The Salnnes, as he
had expected, were among the
foremost who came
to be spectalon^
fannging their wives
and daughters with
them to share t^
pkasore of the
sight. The inhabitants
also of maaj
of tht ueig^hoariDg
to^os came, who were
received by the RomaM
with marks of the
most cordial hospitality. lo the mean
time the games began, and
while the strangers
were most intent
upon the spectacle,
a number of the
Roman yonth rushed
la mnoag them
wiUi drawn swords
seized the yotingedt
and meet beaatilid
women, and earned them off
by violence., In
vain the parents
protested against this
bre&cfa of hospitali^;
in vain the
virgins themselves at
first opposed the
attempts of th^
raviBfaers; perseverance and
caresses obtained those
&• TOWS which
timidi^ at firstdenied: so that
the betrayera, frma
being objects of aversion,
soon became partners
of their dearest
affections. But however the afiront might have been botne by them, it
was not
BO easily pnt up by
their parents; a bloody
war ei^ sued. The
cities of Cenioa, Antemna,
and Cnutuminm, wen
the &at who
resolved to revenge
the common cause,
which the Salnses
seemed too dilatory
in pursuing. These,
by making aeparate inroads,
becamea more easy
conquest to Romulus,
who first ovothrew
the Ceoinenses, slew
dieir king Acron
in sio combat, -and made an
offering of the royal spoils to Jupiter Feretrius, on the spot
where the capitol
was afterwards built
The Antemnates and
Crustuminians shared the
same. fate; their
armies were overthrowu, and their cities takes. The
conqueror, however, made the
most merciful use
of las victny;
for instead (rf destroying their towns,
or lessemi^l tbent
nnmbeis, he only
placed colonies of Romana
in them, to. serve
as a frontier to repress
more distant invasions.Tattos, king
of Cures, a
Sabine city, was
the last, althou^
the most formidable who undertook to cevuige the
disgrace his country
had suffered. He
entered the Roman
territoriea at the head of twenty-five thousand men| and not content with
a superiority of
forces, he added
stratagem also. Tarpeia, who was
daughter to the
commander of. the
Cajutolme hill, happened to
&11 into his hands, as
she went without
4>e walls of
the city to
fetch water. Upon her he
prevailed, by meant
of hrga pttuSaet,
to bebrajr aae
of the ^^ates
to his army.
Tlie i«<irwd she
eagdgei for was
vfaat the soldiers
wore on their
atteB, by vfaich
the meaot their bracelets. They,
however, cotber miataking^
her meaning, or
wiUing to panish
her peifidy, ttvew
tlieir bncklera upon
her as they
entered, and crushed
ber to death beneath them. The
Sabines, being thus possessed of
the Capitoline, had the advantage
of continning the
War at tbeir
pleasure; and for
some time only
slight enconnters passed
between them. At
length, however, the
tedionsness of this
contest began to
weary out both
parties, so that
each wished, but neither would stoop to
sue for peace.
The desire of
peace ofteii gives
vigour to measures
in war ; wherefore
boUt sides resolving
to terminate their
doubts by a
detMsive action, a general engagement ensued, which
was renewed for
several days, with
almost equal success.
They both fon^t
for all that
was vEduable in
life, and neither
could think of
submitting: it was in the
valley between the Capitoline
and Qui- rinal
hills, that the
last engagement was
fought between the
Romans and the
Sabines. The engem«it
became general, and
the slaughter prod^ioua,
when the attention
of both sides
was suddenly turned from the scene of
horror before them,
to (mother infinitely
more striking. The Sabine women,
who h^
been carried off by the
Romans, were seen
with their hair loose
and iheir ornaments
neglected, fiying in
between tbe combatants, regardless of their own
danger, and with
loud outcries only
solicitous for that
of their parents,
their husbands, and
their cUIdren. "
If," cped ihey,
" you are resolved upon
daughter, turn your
atma upon us,
since we only
are the cause <tf
your animosity. If any must
die, let it
be us; since
if oar parents
orour husbands faU,
we must be
equally miserable in
being the surviving
cause." A spectacle
so moving could
not be resisted
by the combatants;
both sides for
a wtiile, as if
by mutual impulse, let fall their
weapons, and beheld
the distress -
in silent wnazement
The tears and
entreaties of thdr
wives and daughters
at length prevaUed;
an accommodation ensued,
by which it
was' agreed, that
Romulus and Tatius should
t«ign jointly in Rome, with equal power and
prerogative; diat an
bailed Sabines should
be admitted into
the senate; that
the city should
still retain its
farmer name, but
that As citizens
should bctdled Qnirites,
after Cures, the
principal town of
the Sabines; and that both nations being thus united. 11
•aoh of the
Sabtees u i^ose
it shoiM be
sdnAted to Bniad
eDJoy all the
privilegea of citizens
oi Rome. llaH
erery •torm, vhich
seemed to threateo
this growing empire,
only served to
increase itvigour. That army,
wfaich in die
mondug had resolved
upon its destruction,
came in the
evetlin^ with j(^
to be enrolled
uiDoag the number
of its ctttzens.
RomfoloB saw his
dominions and his
sul^ects increased by
more then half
in the space of
a few hours; and, as if fortune meant every way to assist his
greatness, Tatins, his
partner in the
govem- ment, was
killed about five
years after by
the Lavinians, for
having protected some
servants of his,
who had plundered
them and slain
their ambassadors; so that by this accident Romulus once more saw
himself sole monarch of Rome. Rome being
greatly strengthened by
this new acquisition
of power, began
to grow formidable
to her neighbours ;
and it -aiay be supposed, that pretexts
for war were
not wanting, when
prompted by jealousy
on their ride,
and by ambition on
that of the
Romans. Fidena and
Cameria, two oe^hbonring
cities, were stibdoed
and tAken. Veii also, one of the most power Ail states
of Etruria, shared nearly the same fate;
after two fierce engagements tiiey
sued ftM* a
peace and a league, which was granted upon giving np the seventh
part of tbev dominions, their salt-pits near the river, and hostages for greater security. Successes like
these produced an equal share of pride in the oonqneror. From being contented
with those limits which had been wisely fixed to his power he began to affect absolute sway, and
to govern those laws, to which he had himself formerly professed implicit
obedience. The senate was particularly displeased at his
conduct, finding themselves
only used as
instrom^its to ratify
the rigour of his commands. We are not told the precise manner which
they made use of to get rid of the
tyrant: some say that be was torn in pieces in the senate botise;
otiters that he disappeared while reviewing
his army: eertain
it is, that
from the secrecy
of the fact,
and the concealment of the body, tbey took occasion
to persuade the multitude, that he was taken np into heaven; thus him whom they
oonld not bear as a king, tbey were
contented to worship as a god: Romnlns
reigned tlnrty-seven yean, and after his death bad a temple
built to turn under the name
of Quirinus, one of the Hwrton wilwMly vffiiniaff, that be had
appeared to hm, and desired to be isTtAed by that tide. We see little more in
the obaraeter of this princ, than vhat mi^t be expected in andk an a^, great
temperance and great valour, wbich
generally make np
the catalt^e of
sar^^e virtues. Howeva,
the
gnndenr of an empire, admired by the whole irorid, creates
in u an adnuration of tiie founder, viftoat mnch raamimng'
hia. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy
enough to check his references to other Italian philosophers – not just Vico,
as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and
perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!”
-- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore,
Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima,
first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il
kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario
kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio
necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno,
Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di
Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto,
la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione,
l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la
rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di
Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la
virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia
distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrico – progression arimmetica,
progressioe geometrica, la base matematica della filosofia di Colecchi, l’amore,
amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo, padre e figlio, uomo
come cittadino, il genere umano, la massima universalisabile, l’onesto,
fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il vero versus il certo, la
nascita della morale dal ordine agglomerazione sociale, la potesta naturale, il
dominio, la tutela, la liberta, libero arbitrio e passione, autorita e ragione,
forza, autorita e raggione, l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo
dell’avo, la societa di equali, il modello della societa romana antica, la
societa dell’amicizia, Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come
requisite del patto sociale, la parola e il concetto, la formola della parola,
verbum/res, res pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine:
primo stato dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di
inequali, padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo,
il paese di Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant,
Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Colletti:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei curiazi,
ovvero, politica romana – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Colletti
– he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the
Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma.
“Partito Socialista Italiano”. Altre saggi: “Il marxismo e Hegel, in Lenin,
Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, Ideologia e società, Bari, Laterza,
Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o
sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica,
con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il
"crollo" del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo
e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a
oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari,
Laterza, Crisi delle ideologie. Intervista politico-filosofica, Il marxismo, Le
ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e
politica, Milano, Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza,
Marco, Fine della filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche.
Con Kant, alla ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto C. voce
"contro" di Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo
Parlamentare di Forza Italia, Ricordo di C., Roma, Stampa e servizi, Orlando
Tambosi, Perché il marxismo ha fallito C. e la storia di una grande illusione,
Milano, Mondadori, Ministero per i beni e le attività culturali, C.: il cammino
di un filosofo contemporaneo, Roma, Essetre, Pino Bongiorno, Ricci, C. scienza
e libertà, Roma, Ideazione, Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma,
Manifesto libri. C., LaTreccani L'Enciclopedia Italiana. C. su Camera XIII legislatura, Parlamento
italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura, Parlamento italiano. La
storia di C. di Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza
Italia”. Il saggio di C. Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di
alcuni temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left Review”, e
pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più esattamente Colletti
si propone di chiarire la «differenza tra opposizione reale (la Realopposition
o Realrepugnanz di Kant) e contraddizione dialettica. Si tratta di opposizioni
radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione (ohne Widerspruch)», la
seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch). La opposizione
dialettica è espressa dalla formula A non-A, nella quale ciascun opposto è solo
la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e per sé. I poli
dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente ciascuno è la
negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro. Quindi
«entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali, non-cose
(Undinge), ma idee». Ciascun opposto ha la sua essenza fuori di sé, nell’altro
di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e della stessa
dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton genon.
L’opposizione reale è espressa dalla formula A e B, nella quale ciascun opposto
sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più
importante è che Biscuso. Opposizione reale, contraddizione logica e
contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà
(Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga
indicato come il contrario negativo dell’altro. Questo accade ad esempio quando
ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione
contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo
qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di
contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso
che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè
come non-essere». Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc,
proprio perché sono senza contraddizione (dove è già implicito, come sarà
confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo
non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di
opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente
rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica
delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che
è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta
attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero,
segue il modello della contraddizione A non-A. Fuori l’uno dell’altro, cioè al
di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali, e
l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto
finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero
infinito. Dunque, commenta C., «dov’era la cosa è ora subentrata la
contraddizione logica (– si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si
attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver
«ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per
una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era
volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio
a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente
muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di
apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo). Avvertiti di questa
difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali
cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come
contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne
Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di
conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a
dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta
con la scienza. Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di Volpe:
a costo di liquidare gran parte dell’opera filosofica di Engels in quanto fonte
del Diamat, sembrava però legittimarsi l’aspirazione del marxismo a costituirsi
come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società. In
realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare
con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione
dell’astratto, filosofia-italiana.net l’inversione di soggetto e
predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della
logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava nella
struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa. Vi sono
dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico
dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa
lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il
difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo
è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del
crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria
della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia
di risultare il progetto di una soggettività utopica. Dunque per lo stesso Marx
le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì
contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle
Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti
che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente) C.
conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti reali, pur non
essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità
per sé irreali seppur reificate. Teoria dell’alienazione e teoria della
contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria. la contraddizione
nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del lavoro, pur
essendo intimamente connessi, si danno un’esistenza separata. È la
contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata dai
maggiori analisti della società civile borghese del Settecento. «La società
moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un
tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’“unità originaria”
dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo, dove l’unità, essendo data, non
deve essere spiegata, mentre è da spiegare la divisione. «Seppure modificato,
riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E questo, ci si
scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello scienziato,
naturalista e empirico. Hegel versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik
(im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die
Logik in einer Weise zu erweitern (sog. dialektische Logik), die den Satz vom
Widerspruch außer Geltung setzt. Damit versuchte Hegel, die Kantische
Widerlegung des sogenannten Dogmatismus in der Metaphysik zu umgehen. Der
Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert: „Diese Widerlegung Kants
betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die metaphysisch in seinem engeren
Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen Rationalismus, der die
Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb Widersprüche nicht zu
fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in dieser Weise umgeht,
stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das zur Katastrophe
führen muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den
Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen führen. Dies
gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke aus dem Gesetz
vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die dieses Gesetz
akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von Widersprüchen zu sein.
Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das meinige, das bereit
ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein dialektisches System.‘ Es
besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen Dogmatismus von äußerst
gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu
fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede
Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche
Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer
Theorie und irgendwelchen Fakten. Logisches Quadrat Das logische Quadrat
Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind,
bestehen zwischen den unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene
Beziehungen: Zwei Aussagen bilden einen kontradiktorischen Gegensatz
genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein
können, mit anderen Worten: Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben
müssen. Das wiederum ist genau dann der Fall, wenn die eine
Aussage die Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für die syllogistischen
Aussagentypen trifft das kontradiktorische Verhältnis auf die Paare A–O und I–E
zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau dann, wenn sie zwar
nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein können. In der
Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei
Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide
zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik
steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den
Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht ein
Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im
logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P
sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h.,
wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese
Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches
Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte
Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen
Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben. Orazi e Curiazi
figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg
Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orazi e Curiazi
(disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono figure leggendarie della Roma antica.
Il giuramento degli Orazi, di David, Museo del Louvre Leggenda Secondo la
versione riportata da Tito Livio (Hist.), durante il regno di Tullo Ostilio. Roma
e Alba Longa entrarono in guerra, affrontandosi con gli eserciti schierati
lungo le Fossae Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al confine fra i loro
territori. Ma Roma e Alba Longa condividevano attraverso il mito di
Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa guerra, perciò i
rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di rappresentanti le sorti
del conflitto fra le due città, evitando ulteriori spargimenti di sangue.
Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli figli di Publio Orazio, e per
Alba Longa i tre gemelli Curiazi, che si sarebbero affrontati a duello alla
spada. Livio afferma che gli storici non erano concordi nello stabilire quale
delle due triadi fosse quella romana; propende per gli Orazi perché la maggior
parte degli studiosi sceglie quella versione. Iniziato il combattimento,
quasi subito due Orazi furono uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo
lievi ferite; il terzo Orazio, che non avrebbe potuto affrontare da solo tre
nemici, trovandosi in difficoltà, pensò di ricorrere all'astuzia e finse di
scappare verso Roma. Come aveva previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel
correre si distanziarono fra loro, perché, feriti in modo differente,
inseguivano a velocità differenti. Per primo fu raggiunto dal Curiazio
che non era stato ferito e, voltandosi a sorpresa, lo trafisse. Riprese a correre
e fu raggiunto da ciascuno degli altri due, che a causa delle ferite erano
sfiniti, e gli fu facile ucciderli uno alla volta. La vittoria dell'Orazio fu
la vittoria di Roma, cui Alba Longa si sottomise. Camilla Orazia, sorella
dell'Orazio superstite, era promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi e
rimproverò violentemente del delitto il fratello, tanto che questi la uccise
per farla tacere. Per purificarsi dovette passare sotto il giogo del Tigillum
Sororium, che da allora i Romani festeggiavano come rito di purificazione dei
soldati ogni 1º ottobre. Inoltre, per il processo al delitto di perduellio
(delitto contro le libertà del cittadino, reato che in realtà fu istituito dopo
la fase regia di Roma), di cui si era macchiato uccidendo Camilla Orazia, la
cui vita - essendo ella estranea al duello pattuito - era sacra per legge,
Tullo Ostilio istituì, secondo la leggenda rielaborata nel tempo, dei giudici
appositi: i duumviri perduellionis (anch'essi da ricondurre, in realtà, alla
successiva fase repubblicana). Le parentele fra Orazi e Curiazi erano
ulteriormente intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo
Sabina - nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia sorella di uno dei
Curiazi sia moglie di Marco Orazio. Realtà storica Il cosiddetto Sepolcro
degli Orazi e Curiazi ad Albano Laziale Nell'antica Roma si trovano
testimonianze di età augustea attinenti alla leggenda, come una colonnadel Foro
alla quale sarebbero state appese le spoglie dei Curiazi e il Mausoleo degli
Orazi al sesto miglio della via Appia. Ad Albano Laziale, lungo l'attuale
via della Stella, si trova un sepolcro tardo-repubblicano detto degli
"Orazi e Curiazi", ma si ipotizza che sia tomba di altri
personaggi. Nella realtà la guerra fra Roma e Alba Longa fu cruenta e il
re della città sconfitta, Mezio Fufezio, venne squartato. C'è chi indica
San Giovanni in Campo Orazio, nel territorio di Poli, come luogo dove avvenne
la cruenta battaglia. Orazi e Curiazi nelle artiModifica Gli eroi di
questa disfida sono citati da Dante (Che i tre a' tre pugnar per lui ancora,
Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala degli Orazi e Curiazi del
Campidoglio. TeatroModifica Sulla vicenda degli Orazi e Curiazi si basano
alcune opere liriche: Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa, opera
in tre atti su libretto di Antonio Simeone Sografi, la cui prima esecuzione
ebbe luogo al Teatro La Fenice di Venezia Orazi e Curiazi di Saverio
Mercadante, opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, eseguita per
la prima volta al teatro San Carlo di Napoli. The Horatian - Three Songs di
Heiner Goebbels Orazi e Curiazi è anche uno dei drammi didattici scritti da
Bertold Brecht. CinemaModifica Orazi e Curiazi, cortometraggio muto. Orazi e
Curiazi, film di Ferdinando Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi, film-rivisitazione
in chiave farsesca del mito. Curiosità La vicenda dello scontro tra gli
Orazi e i Curiazi viene rievocata nella miniserie "L'ombra nera del
Vesuvio" di Steno con Massimo Ranieri, Carlo Giuffré e Claudio Amendola.
Molto evidente il riferimento al mito quando, per regolare i conti tra due
clan, si scelgono tre rappresentanti per ciascuna delle due organizzazioni
criminali: i fratelli Carità, figli del boss Don Peppe Carità, e i tre fratelli
Sposito per il clan di Gaetano Bonanno. Uno dei fratelli Carità è sposato con
la sorella degli Sposito, e la stessa sorella dei Carità era promessa come
sposa al più giovane degli Sposito. Anche le dinamiche del combattimento e le
relative conseguenze sono identiche. Livio, Ab Urbe condita libri, Is
quibusdam piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti Horatiae tradita
sunt, transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub iugum misit
iuvenem.Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di
Bernardo Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale romana in età
regia, di Bernardo Santalucia, Orazi e Curiazi, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma Portale Mitologia
Tullo Ostilio terzo re di Roma Gens Horatia famiglie romane che
condividevano il nomen Horatius Il giuramento degli Orazi dipinto di
Jacques-Louis David Grice: “Colletti takes negation more seriously than
Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s
distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical
contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the
principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian
language allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s
the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in
modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or
strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have
the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek
‘anti’ – so that ‘apo-phasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate
with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with
‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if not with ‘vocation’ – cf. my extended use of
‘utterance’ to include the characterization of something that need not be
linguistic or conventional but a characterization of a deed or a product which
may be a ‘sound’ among others. The Germans deal with the ‘widerspruch’ but
that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero,
the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then
pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’
and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and
I, allow for the good old tilde ‘~’ being all we need!” Lucio Colletti.
Keywords: curiazi, ovvero, filosofia romana, opposition, negazione, la
contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian,
“Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das
Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter –
anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario, l’opposto,
contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio, dialettica
ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colletti” – The
Swimming-Pool Library. Colletti.
Luigi Speranza -- Grice e Colizzi: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Norcia –
filosofia perugina – filosofia umbra -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Norcia). Filosofo perugino. Filosofo umbro. Filosofo italiano. Norcia, Perugia,
Umbria. Grice:“By focusing on ‘desire,’ focuses Collizi on Thales who famously,
for fixing on the stars, de-fixed from the ground!” Grice: “If I had to chose
one philosophical word I adore is ‘desideratum,’ and Collizi tells it right –
while Short and Lewis doubt it, to desire is like to consider – and the ‘sidus’
is involved!” Compone
il saggio “De amore fundamenta mundis ac ethicae”. C. si è appreso attraverso i
riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale dela sua filosofia consiste
nell'unione dell'idea di dio come amore con uno spunto, totalmente ri-adattato,
di derivazione platonica, secondo cui il reale è emanazione, a partire da
livelli di purezza e deità più elevati. Facendo dell'amore la caratteristica
principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che il reale coincide con l'amore,
in forme più o meno degradate. Da questo concetto fa derivare una forte istanza
di svelamento. Nonostante l'apparente neutralità emotiva del reale, il vero
fondamento divino, e quindi dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue
quindi applicando questo principio ad una apparenza fenomenica, in modo da
svelarne il vero essere, cioè il principio di amore – Grice: “Not to be
confused with my principle of conversational self-love!” -Il suo passo più
celebre, tuttavia, riguarda l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che
collega all'espressione “de sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e
qualcosa che percepiamo con i sensi, ma senza potere esperire direttamente
l'amore che da loro scaturisce, così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la
quale si cela un bisogno. Il “de-siderio,” questo tendere all'apparenza,
scompare completamente solo una volta compreso fino in fondo il fondamento
dell'essere, nella “mystica copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia.
La sua filosofia quindi, sembra unire una forte istanza metafisica a
un'altrettanto forte istanza etica, cercando nel reale una fondamentale armonia
di senso che è compito di ogni uomo, scopertala, riprodurre e preservare. Cf.
Bruno, “De l'infinito, universo e mondi,” Bruno,“Praxis descensus seu
applicatio entis,”D.Cantimori,“Storia ereticale” (Laterza). Bolgiani,
“Ortodossia ed eresia : il problema storiografico nella storia e la
situazione ortodossia-eresia agli inizi della storia (CELID). A compimento di
questo settimo Libro ed in osservanza alla regola fin qui seguita, rimanci di
far menzione di que'nostri Concittadini, che per meriti di santità, o per
dottrina, ovvero per singolare valore nelle scienze,se ne resero meritevoli. E
primo ci si presenta il Ven. Fr. Agostino da Norcia della famiglia C., emulo
delle virtù del suo zio Fr. Giustino da noi ricordato Degl’eroici furori di
Bruno Letteratura italiana Einaudi Edizione di riferimento: Bruno
Nolano, De gli eroici furori.Parigi, appresso Baio, in Dialoghi filosofici
italiani, a cura di Ciliberto, Mondadori, Milano Letteratura italiana Einaudi
Sommario Argomento del Nolano Avertimento a’ lettori Iscusazion del
Nolano de gli Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo Dialogo Dialogo
Dialogo Seconda parte de gli Eroici Furori Al molto illustre et eccellente
cavalliero Signor Filippo Sidneo Bruno De gli eroici furori ARGOMENTO DEL
NOLANO sopra GLI EROICI FURORI: scritto al molto illustre SIGNOR FILIPPO SIDNEO
È cosa veramente, o generosissimo Cavalliero, da basso, bruto e sporco ingegno,
d’essersi fatto constantemente studioso, et aver affisso un curioso pensiero
circa o sopra la bellezza d’un corpo femenile. Che spettacolo (o Dio buono) più
vile et ignobile può presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo
cogitabundo, afflitto, tormentato, triste, maninconioso: per dovenir or freddo,
or caldo, or fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di
perplesso, or in atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di
tempo, e gli più scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del
cervello con mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi monumenti,
quelle continue torture, que’ gravi tormenti, que’ razionali discorsi, que’
faticosi pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una
indegna, imbecille, stolta e sozza sporcaria? Che tragicomedia? che atto, dico,
degno più di compassione e riso può esserne ripresentato in questo teatro del
mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi
suppositi fatti penserosi, contemplativi, constanti, fermi, fideli, amanti,
coltori, adoratori e servi di cosa senza fede, priva d’ogni costanza, destituta
d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza riconoscenza e gratitudine alcuna,
dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che trovarsi possa in una
statua, o imagine depinta al muro? e dove è più superbia, arroganza, protervia,
orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine, avarizia, ingratitudine et altri
crimi exiziali, che avessero possuto uscir veneni et instrumenti di morte Bruno
De gli eroici furori dal vascello di Pandora, per aver pur troppo largo ricetto
dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in carte, rinchiuso in libri,
messo avanti gli occhi, et intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un
fracasso d’insegne, d’imprese, de motti, d’epistole, de sonetti, d’epigrammi,
de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estremi, de vite consumate, con
strida ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli antri infernali,
doglie che fanno stupefar l’anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir
gli dèi, per quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco,
per quel vermiglio, per quella lingua, per quel dente, per quel labro, quel
crine, quella veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella
pianella, quella parsimonia, quel risetto, quel sdegnosetto, quella vedova
fenestra, quell’eclissato sole, quel martello; quel schifo, quel puzzo, quel
sepolcro, quel cesso, quel mestruo, quella carogna, quella febre quartana,
quella estrema ingiuria e torto di natura: che con una superficie, un’ombra, un
fantasma, un sogno, un circeo incantesimo ordinato al serviggio della
generazione, ne inganna in specie di bellezza. La quale insieme insieme viene e
passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; et è bella cossì un pochettino a
l’esterno, che nel suo intrinseco vera e stabilmente è contenuto un navilio,
una bottega, una dogana, un mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni
abbia possuti produre la nostra madrigna natura; la quale dopo aver riscosso
quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a paga d’un lezzo, d’un
pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza, d’un dolor di capo, d’una
lassitudine, d’altri et altri malanni che son manifesti a tutto il mondo; a fin
che amaramente dolga, dove suavemente proriva. Ma che fo io? che penso? son
forse nemico della generazione? ho forse in odio il sole? Rincrescemi forse il
mio et altrui essere messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a non raccòrre
quel più dolce pomo che può produr l’orto del nostro terrestre paradiso? Son
forse io per impedir l’instituto santo della natura? Debbo tentare di suttrarmi
io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo la divina providenza?
Ho forse da persuader a me et ad altri, che gli nostri predecessori sieno nati
per noi, e noi non siamo nati per gli nostri successori? Non voglia, non voglia
Dio che questo giamai abbia possuto cadermi nel pensiero. Anzi aggiongo che per
quanti regni e beatitudini mi s’abbiano possuti proporre e nominare, mai fui
tanto savio o buono che mi potesse venir voglia de castrarmi o dovenir eunuco.
Anzi mi vergognarei se cossì come mi trovo in apparenza, volesse cedere pur un
pelo a qualsivoglia che mangia degnamente il pane per servire alla natura e Dio
benedetto. E se alla buona volontà soccorrer possano o soccorrano
gl’instrumenti e gli lavori, lo lascio considerar solo a chi ne può far
giudicio e donar sentenza. Io non credo d’esser legato: perché son certo che
non bastarebbono tutte le stringhe e tutti gli lacci che abbian saputo e
sappian mai intessere et annodare quanti furo e sono stringari e lacciaiuoli,
(non so se posso dir) se fusse con essi la morte istessa, che volessero
maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar il mio caldo non penso
che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or vedete dumque se è la
raggione o qualche difetto che mi fa parlare. Che dumque voglio dire? che
voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio conchiudere e dire,
o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare sia donato a Cesare, e quel
ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne, benché talvolta non
bastino gli onori et ossequii divini, non perciò se gli denno onori et ossequii
divini. Voglio che le donne siano cossì onorate et amate, come denno essere
amate et onorate le donne; per tal causa dico, e per tanto, per quanto si deve
a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non hanno altra virtù che
naturale, cioè di quella bellezza, di quel splendore, di quel serviggio: senza
il quale denno esser stimate più vanamente nate al mondo che un morboso fungo,
qual con pregiudicio de meglior piante occupa la terra; e più noiosamente che
qualsivoglia napello o vipera che caccia il capo fuor di quella. Voglio dire
che tutte le cose de l’universo, perché possano aver fermezza e consistenza,
hanno gli suoi pondi, numeri, ordini e misure, a fin che siano dispensate e
governate con ogni giustizia e raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomona,
Vertunno, il dio di Lampsaco, et altri simili che son dèi da tinello, da
cervosa forte e vino rinversato, come non siedeno in cielo a bever nettare e
gustar ambrosia nella mensa di Giove, Saturno, Pallade, Febo et altri simili:
cossì gli lor fani, tempii, sacrificio e culti denno essere differenti da
quelli de costoro. Voglio finalmente dire che questi furori eroici ottegnono
suggetto et oggetto eroico: e però non ponno più cadere in stima d’amori
volgari e naturaleschi, che veder si possano delfini su gli alberi de le selve,
e porci cinghiali sotto gli marini scogli. Però per liberare tutti da tal
suspizione, avevo pensato prima di donar a questo libro un titolo simile a
quello di Salomone, il quale sotto la scorza d’amori et affetti ordinaria,
contiene similmente divini et eroici furori, come interpretano gli mistici e
cabalisti dottori: volevo (per dirla) chiamarlo Cantica. Ma per più caggioni mi
sono astenuto al fine: de le quali ne voglio referir due sole. L’una per il
timor ch’ho conceputo dal rigoroso supercilio de certi farisei, che cossì mi
stimarebono profano per usurpar in mio naturale e fisico discorso titoli sacri
e sopranaturali; come essi sceleratissimi e ministri d’ogni ribaldaria si
usurpano più altamente che dir si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini
oratori, de figli de Dio, de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspettando
quel giudicio divino che farà manifesta la lor maligna ignoranza et altrui
dottrina, la nostra simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et
instituzioni. L’altra per la grande dissimilitudine che si vede fra il volto di
questa opra e quella, quantunque medesimo misterio e sustanza d’anima sia
compreso sotto l’ombra dell’una e l’altra: stante che là nessuno dubita che il
primo instituto del sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di
presentar altro; perché ivi le figure sono aperta e manifestamente figure, et
il senso metaforico è conosciuto di sorte che non può esser negato per
metaforico: dove odi quelli occhi di colombe, quel collo di torre, quella lingua
di latte, quella fragranzia d’incenso, que’ denti che paiono greggi de pecore
che descendono dal lavatoio, que’ capelli che sembrano le capre che vegnono giù
da la montagna di Galaad. Ma in questo poema non si scorge volto che cossì al
vivo ti spinga a cercar latente et occolto sentimento: atteso che per
l’ordinario modo di parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi
communi, che ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mettere in
versi e rime gli usati poeti, son simili a i sentimenti de coloro che parlarono
a Citereida, a Licori, a Dori, a Cinzia, a Lesbia, a Corinna, a Laura et altre
simili: onde facilmente ogn’uno potrebbe esser persuaso che la fondamentale e
prima intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m’abbia dettati
concetti tali; il quale appresso per forza de sdegno s’abbia improntate l’ali e
dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivoglia fola, romanzo,
sogno e profetico enigma, e transferirle in virtù di metafora e pretesto
d’allegoria a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a
stiracchiar gli sentimenti: e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in
tutto disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace,
ch’alfine o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire
come l’intendo e definisco io, non io come l’intende e definisce lui: perché
come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo
che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dichiarar che lui se fusse
presente; cossì questi Cantici hanno il proprio titolo ordine e modo che nessun
può meglio dechiarar et intendere che io medesimo quando non sono absente.
D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che io mi essagito
in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi eccellente
Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli, sonetti e
stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto vituperoso e
bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai delettato o
delettasse de imitar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una donna in vita,
e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno: se a pena la stimarei
degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di quell’istante del
fiore della sua beltade, e facultà di far figlioli alla natura e dio; tanto
manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti in far trionfo d’una
perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì pertinace pazzia, la qual
sicuramente può competere con tutte l’altre specie che possano far residenza in
un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella vanissima, vilissima e
vituperosissima gloria, che non posso credere ch’un uomo che si trova un
granello di senso e spirito, possa spendere più amore in cosa simile che io
abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mia fede, se io
voglio adattarmi a defendere per nobile l’ingegno di quel tosco poeta che si
mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Valclusa, e non voglio
dire che sia stato un pazzo da catene, donarommi a credere, e forzarommi di
persuader ad altri, che lui per non aver ingegno atto a cose megliori, volse
studiosamente nodrir quella melancolia, per celebrar non meno il proprio
ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato amor volgare,
animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato delle lodi della
mosca, del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie de quali son
coloro ch’han poetato a’ nostri tempi delle lodi de gli orinali, de la piva,
della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martello,
della caristia, de la peste; le quali non meno forse sen denno gir altere e
superbe per la celebre bocca de canzonieri suoi, che debbano e possano le
prefate et altre dame per gli suoi. Or (perché non si faccia errore) qua [non]
voglio che sia tassata la dignità di quelle che son state e sono degnamente
lodate e lodabili: non quelle che possono essere e sono particolarmente in
questo paese Britannico, a cui doviamo la fideltà et amore ospitale: perché
dove si biasimasse tutto l’orbe, non si biasima questo che in tal proposito non
è orbe, né parte d’orbe: ma diviso da quello in tutto, come sapete; dove si
raggionasse de tutto il sesso femenile, non si deve né può intendere de alcune
vostre, che non denno esser stimate parte di quel sesso: perché non son femine,
non son donne, ma (in similitudine di quelle) son nimfe, son dive, son di
sustanza celeste; tra le quali è lecito di contemplar quell’unica Diana, che in
questo numero e proposito non voglio nominare. Comprendasi dumque il geno
ordinario. E di quello ancora indegna et ingiustamente perseguitarci le
persone: perciò che a nessuna particolare deve essere impreparato l’imbecillità
e condizion del sesso, come né il difetto e vizio di complessione: atteso che
se in ciò è fallo et errore, deve essere attribuito per la specie alla natura,
e non per particolare a gl’individui. Certamente quello che circa tai supposti
abomino è quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni
spendervi, de maniera che se gli fanno servi con l’ingegno, e vi vegnono a
cattivar le potenze et atti più nobili de l’anima intellettiva. Il qual intento
essendo considerato, non sarà donna casta et onesta che voglia per nostro
naturale e veridico discorso contrastarsi e farmisi più tosto irata, che
sottoscrivendomi amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell’amor nelle
donne verso gli uomini, che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le
donne. Tal dumque essendo il mio animo, ingegno, parere e determinazione, mi
protesto che il mio primo e principale, mezzano et accessorio, ultimo e finale
intento in questa tessitura fu et è d’apportare contemplazion divina, e metter
avanti a gli occhi et orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori,
impiegati in due parti: de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi.
argomento de’ cinque dialogi de la prima parte Nel Primo dialogo della prima
parte son cinque articoli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e
principiii motivi intrinseci sotto nome e figura del monte, e del fiume, e de
muse che si dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma
più tosto come quelle che più volte importunamente si sono offerte: onde vegna
significato che la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama
e batte a le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive:
come pure è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: En ipse stat
post parietem nostrum, respiciens per cancellos, et prospiciens per fenestras.
La qual spesso per varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa
fuori e trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti,
oggetti, affetti, instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e
prende il possesso nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la
converta in Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e determinazione che fa
l’anima ben informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la guerra
civile che séguita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponimento; onde
disse la Cantica: Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia
fratres mei pugnaverunt contro me, quam posuerunt custodem in vineis. Là sono
esplicati solamente come quattro antesignani: l’Affetto, l’Appulso fatale, la
Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante coorte militari de
tante, contrarie, varie e diverse potenze, con gli lor ministri, mezzi et
organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una naturale
contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l’amicizia: o
per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e contemperamento, o per
qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla concordia, ogni diversità
a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi d’altri
dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente descritto l’ordine et
atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa composizione del
furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di contrarietà: la
prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove son le speranze fredde e
gli desideri caldi; la seconda de medesimi affetti et atti in se stessi, non
solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando ciascuno non si contenta
di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama et odia; la terza tra la
potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e si suttrae. Nel secondo
articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi contrari appulsi in
generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e subalternate
contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta o scende:
anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son nelle
diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesime, viene
insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad
allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre
circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto
quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola
appartiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella
Cantica: Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber
abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit. Questa
somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima specialmente
quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol volere, e gli
piace che voglia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non vuol quel che
vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto
approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli
definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si
esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal
efficacia, secondo che (per consequenza de l’affetto che le attira e rapisce)
le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de
vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa
in aere, vapore et acqua; e l’acqua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma. In
sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’impeto e vigor de
l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del
furioso composto, e delle passioni de l’anima che si trova al governo di questa
Republica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il cacciatore,
l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca,
la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì
travaglioso conflitto. Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in
questo mentre, et è mostro l’ordine, raggione e condizion de studii e fortune.
Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che si fa
scarso di sé. Nel secondo quanto al continuo e non remittente concorso de gli
affetti. Nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti. Nel
quarto quanto al volontario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e forti
ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condizion di sua
fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le
antitesi, similitudini e comparazioni espresse in ciascuno di essi articoli.
argomento de’ cinque dialogi della seconda parte Nel Primo dialogo della
seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato
dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello
sotto la ruota del tempo. Nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile
occupazione et indegna iattura della angustia e brevità del tempo. Nel terzo
accusa l’impotenza de suoi studi gli quali quantunque all’interno sieno
illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad essere
offoscato et annuvolato da quelli. Nel quarto è il compianto del sforzo senza
profitto delle facultadi de l’anima mentre cerca risorgere con l’imparità de le
potenze a quel stato che pretende e mira. Nel quinto vien rammentata la
contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa
intieramente appigliarsi ad un termine o fine. Nel sesto vien espresso
l’affetto aspirante. Nel settimo vien messa in considerazione la mala
corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira.
Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazzion dell’anima, conseguente
della contrarietà de cose esterne et interne tra loro, e de le cose interne in
se stesse, e de le cose esterne in se medesime. Nel nono è ispiegata l’etate et
il tempo del corso de la vita ordinaria all’atto de l’alta e profonda
contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della
complessione vegetante, ma l’anima si trova, in condizione stazionaria e come
quieta. Nel decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore tal’or ne assale,
fere e sveglia. Nell’undecimo la moltitudine delle specie et idee particolari
che mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, mediante le
quali vien incitato l’affetto verso alto. Nel duodecimo s’esprime la condizion
del studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume prima che vi
s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi s’ingolfa e vassi più verso il
profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di presunzione, vegnono relassati
i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli pensieri, svaniti tutti dissegni, e
riman l’animo confuso, vinto et exinanito. Al qual proposito fu detto dal
sapiente: qui scrutator est maiestatis, opprimetur a gloria. Nell’ultimo è più
manifestamente espresso quello che nel duodecimo è mostrato in similitudine e
figura. Nel Secondo dialogo è in un sonetto, et un discorso dialogale sopra di
quello, specificato il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro, et il
rese sotto l’amoroso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vigilanza,
studio, elezzione e scopo. Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro
risposte del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è dichiarato l’essere e
modo delle potenze cognoscitive et appetitive. Là si manifesta qualmente la
volontà è risvegliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e
reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e ravvivata dalla volontade,
procedendo or l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio se
l’intelletto o generalmente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della
cognizione, sia maggior de la volontà o generalmente della potenza appetitiva,
o pur de l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto quello ch’in
certo modo si desidera, in certo modo ancora si conosce, e per il roverso; onde
è consueto di chiamar l’appetito cognizione, perché veggiamo che gli
Peripatetici nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in gioventù, sin
a l’appetito in potenza et atto naturale chiamano cognizione; onde tutti
effetti, fini e mezzi, principii, cause et elementi distingueno in prima,
media, et ultimamente noti secondo la natura: nella quale fanno in conclusione
concorrere l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita la potenza della
materia, et il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza vana. Laonde
cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è infinito et
interminabile l’atto della cognizione circa il vero: onde ente, vero e buono
son presi per medesimo significante, circa medesima cosa significata. Nel
Quarto dialogo son figurate et alcunamente ispiegate le nove raggioni della
inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e potenza apprensiva
de cose divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è notata la raggione
ch’è per la natura che ne umilia et abbassa. Nel secondo cieco per il tossico
della gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e concupiscibile che ne
diverte e desvia. Nel terzo cieco per repentino apparimento d’intensa luce si
mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto che ne abbaglia. Nel
quarto, allievato e nodrito a lungo a l’aspetto del sole, quella che da troppo
alta contemplazione de l’unità, che ne fura alla moltitudine. Nel quinto, che
sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è designata
l’improporzionalità de mezzi tra la potenza et oggetto che ne impedisce. Nel
sesto che per molto lacrimar have svanito l’umor organico visivo, è figurato il
mancamento de la vera pastura intellettuale che ne indebolisce. Nel settimo cui
gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è notato l’ardente affetto che
disperge, attenua e divora tal volta la potenza discretiva. Nell’ottavo, orbo
per la ferita d’una punta di strale, quello che proviene dall’istesso atto
dell’unione della specie de l’oggetto; la qual vince, altera e corrompe la
potenza apprensiva, che è suppressa dal peso, e cade sotto l’impeto de la
presenza di quello; onde non senza raggion talvolta la sua vista è figurata per
l’aspetto di folgore penetrativo. Nel nono, che per esser mutolo non può
ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata la raggion de le
raggioni, la quale è l’occolto giudicio divino che a gli uomini ha donato
questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non possa mai gionger più
alto che alla cognizione della sua cecità et ignoranza, e stimar più degno il
silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né favorita l’ordinaria
ignoranza; perché è doppiamente cieco chi non vede la sua cecità: e questa è la
differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli ociosi insipienti: che
questi son sepolti nel letargo della privazion del giudicio di suo non vedere,
e quelli sono accorti, svegliati e prudenti giudici della sua cecità; e però
son nell’inquisizione, e nelle porte de l’acquisizione della luce: delle quali
son lungamente banditi gli altri. argomento et allegoria del quinto dialogo Nel
Quinto dialogo, perché vi sono introdotte due donne, alle quali (secondo la
consuetudine del mio paese) non sta bene di commentare, argumentare, desciferare,
saper molto et esser dottoresse per usurparsi ufficio d’insegnare e donar
instituzione, regola e dottrina a gli uomini; ma ben de divinar e profetar
qualche volta che si trovano il spirito in corpo: però gli ha bastato de farsi
solamente recitatrici della figura lasciando a qualche maschio ingegno il
pensiero e negocio di chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar
overamente tòrgli la fatica) fo intendere qualmente questi nove ciechi, come in
forma d’ufficio e cause esterne, cossì con molte altre differenze suggettive
correno con altra significazione, che gli nove del dialogo precedente: atteso
che secondo la volgare imaginazione delle nove sfere, mostrano il numero,
ordine e diversità de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta,
nelle quali e sopra le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che
secondo certa similitudine analogale dependono dalla prima et unica. Queste da
Cabalisti, da Caldei, da Maghi, da Platonici e da cristiani teologi son
distinte in nove ordini per la perfezzione del numero che domina
nell’università de le cose, et in certa maniera formaliza il tutto: e però con
semplice raggione fanno che si significhe la divinità, e secondo la reflessione
e quadratura in se stesso, il numero e la sustanza de tutte le cose dependenti.
Tutti gli contemplatori più illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o
parlino per raggione e proprio lume, o parlino per fede e lume superiore,
intendano in queste intelligenze il circolo di ascenso e descenso. Quindi
dicono gli Platonici che per certa conversione accade che quelle che son sopra
il fato si facciano sotto il fato del tempo e mutazione, e da qua montano altre
al luogo di quelle. Medesima conversione è significata dal pitagorico poeta,
dove dice: Has omnes ubi mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus
evocat agmine magno: rursus ut incipiant in corpora velle reverti. Questo
(dicono alcuni) è significato dove è detto in revelazione che il drago starà
avvinto nelle catene per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A cotal
significazione voglion che mirino molti altri luoghi dove il millenario ora è
espresso, ora è significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito,
ora per una et un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si
prende secondo le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le
diverse raggioni delle diverse misure et ordini con li quali son dispensate
diverse cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie
de particolari non son medesime. Or quanto al fatto della rivoluzione, è
divolgato appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de
spiriti sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse et oscure
regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza
che di queste anime che vivono in corpi umani siano assumpte a quella eminenza.
Ma tra filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente come tutti teologi
grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti, né sempre: ma una volta. E tra teologi
Origene solamente come tutti filosofi grandi, dopo gli Saduchini et altri molti
riprovati, have ardito de dire che la revoluzione è vicissitudinale e
sempiterna; e che tutto quel medesimo che ascende ha da ricalar a basso: come
si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella superficie, grembo e ventre
de la natura. Et io per mia fede dico e confermo per convenientissimo, con gli
teologi e color che versano su le leggi et instituzioni de popoli, quel senso
loro: come non manco d’affirmare et accettar questo senso di quei che parlano
secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni e sapienti. L’opinion de quali
degnamente è stata riprovata per esser divolgata a gli occhi della moltitudine;
la quale se a gran pena può essere refrenata da vizii e spronata ad atti
virtuosi per la fede de pene sempiterne, che sarrebe se la si persuadesse
qualche più leggiera condizione in premiar gli eroici et umani gesti, e
castigare gli delitti e sceleragini? Ma per venire alla conclusione di questo
mio progresso: dico che da qua si prende la raggione e discorso della cecità e
luce di questi nove, or vedenti, or ciechi, or illuminati; quali son rivali ora
nell’ombre e vestigii della divina beltade, or sono al tutto orbi, ora nella
più aperta luce pacificamente si godeno. All’or che sono nella prima
condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la qual significa la omniparente
materia, et è detta figlia del sole, perché da quel padre de le forme ha
l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con l’aspersion de le acqui, cioè
con l’atto della generazione, per forza d’incanto, cioè d’occolta armonica
raggione, cangia il tutto, facendo dovenir ciechi quelli che vedeno: perché la
generazione e corrozzione è causa d’oblio e cecità, come esplicano gli antichi
con la figura de le anime che si bagnano et inebriano di Lete. Quindi dove gli
ciechi si lamentano dicendo: Figlia e madre di tenebre et orrore, è significata
la conturbazion e contristazion de l’anima che ha perse l’ali, la quale se gli
mitiga all’or che è messa in speranza di ricovrarle. Dove Circe dice: Prendete
un altro mio vase fatale, è significato che seco portano il decreto e destino
del suo cangiamento, il qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima
Circe; perché un contrario è originalmente nell’altro, quantunque non vi sia
effettualmente: onde disse lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma
commetterlo. Significa ancora che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il
firmamento che acciecano, e superiori, sopra il firmamento che illuminano:
quelle che sono significate da Pitagorici e Platonici nel descenso da un
tropico et ascenso da un altro. Là dove dice Per largo e per profondo
peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi regni, significa che non è
progresso immediato da una forma contraria a l’altra, né regresso immediato da
una forma a la medesima: però bisogna trascorrere, se non tutte le forme che
sono nella ruota delle specie naturali, certamente molte e molte di quelle. Là
s’intendeno illuminati da la vista de l’oggetto, in cui concorre il ternario
delle perfezzioni, che sono beltà, sapienza e verità, per l’aspersion de
l’acqui che negli sacri libri son dette acqui de sapienza, fiumi d’acqua di
vita etema. Queste non si trovano nel continente del mondo, ma penitus toto
divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano, dell’Amfitrite, della divinità, dove è
quel fiume che apparve revelato procedente dalla sedia divina, che have altro
flusso che ordinario naturale. Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine
intelligenze che assistenti et amministrano alla prima intelligenza, la quale è
come la Diana tra le nimfe de gli deserti. Quella sola tra tutte l’altre è per
la triplicata virtude, potente ad aprir ogni sigillo, asciòrre ogni nodo, a
discuoprir ogni secreto, e disserrar qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la
sua sola presenza e gemino splendore del bene e vero, di bontà e bellezza
appaga le volontadi e gl’intelletti tutti: aspergendoli con l’acqui salutifere
di ripurgazione. Qua è conseguente il canto e suono, dove son nove
intelligenze, nove muse, secondo l’ordine de nove sfere; dove prima si
contempla l’armonia di ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra;
perché il fine et ultimo della superiore è principio e capo dell’inferiore,
perché non sia mezzo e vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de l’ultima per via
de circolazione concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più
chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso,
infinita potenza et infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi
in altri luoghi. Appresso si contempla l’armonia e consonanza de tutte le
sfere, intelligenze, muse et instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’
mondi, l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion
della mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano
l’alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle
superiori, cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che la
divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita
bontà infinitamente si communiche secondo tutta la capacità de le cose. Questi
son que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad essere
addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io non vegna
a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti altri
fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo et il
specchio ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano raggioni
con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un poeta; la
filosofia si mostre ignuda ad un sì terso ingegno come il vostro; le cose
eroiche siano addirizzate ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate
dotato; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli ossequii ad un
signor talmente degno qualmente vi siete manifestato per sempre. E nel mio
particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne
gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbiano seguitato. vale.
avertimento a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore
d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti che si trovano nel primo dialogo
della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che
sono nel medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli
suoi tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor, giongete in fine: Onde
di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival
d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi, giongete in fine:
Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et èmmi a lato, farammi
illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di trovar, giongete al
fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che lemmi a
lungo infortunato amante. alcuni errori di stampa piùurgenti Piacciavi, benigno
lettore, prima che leggere di corregere. Da A in sino a Q significano gli
quinterni; il numero seguente quella lettera, significa la carta; f significa
la faccia prima o seconda; l significa la linea. A 1, f 2, l 2: correte a’ miei
dolori; A 2, f 1, li 12: ritenendolo da cose; f 2, li 30: homerica poesia; A 4,
f 1, li 15: illustre mentre canto di morte cipressi et inferni; A 7, f 1, li 4:
la gelosia sconsola; li 11: di regione; B 1, f 2, li 7: potran ben soli con sua
diva corte; C 2, f 1, li 2: sappia certo che se quei; lin 4: seguite che
parlino; li 23: son divini; C 7, f 2, l 15: suspicientes in; D 8, f 1, [l 26]:
Alti, profondi; f 2, l 10, compagni del mio core; E 6, f 1, l 21: intrattiene
in quel essere; F 1, f 1, li 16: dice quell’altezza; G 8, f 1, l 2: che fa
volgar; I 2, f 1, li 17: per quanto mi si diè; K 5, f 2, li 19: Del gratioso
sguardo apri le porte; L 6, f 2, li 21: XII, Cesa; L 7, f 1, l 10: da cure
moleste; M 4, f 1, li 15: ergo; Cor.; N 5, f 1, lin penultima: Deucalion; O 3,
f 1, li 14: hammi si crudament’ il spirto infetto; O 4, f 2, li 10: Il Nil
d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13: intromettea la luce; O 7, f 1, li 6: Aspra
ferit’ empio ardor; li 13: appresso Dite; f 2, li ultima: in quello aspira per
certo più; O 8, f 2, li ultima: alli quali si mostra, non proviene con misura
di moto et tempo, come accade nelle; P 6, f 1, li antepenultima: quale chiumque
have ingegno; P 7, f 1, li 12: Siam nove spirti che molt’anni; Q 1, f 1, li 10:
Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l 1: De le dimore alterne. ISCUSAZION DEL
NOLANO alle più virituose e leggiadre dame De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e
Belle, non voi ha nostro spirt’ in schif’, e sdegna; né per mettervi giù suo
stil s’ingegna, se non convien che femine v’appelle. Né computar, né eccettuar
da quelle, son certo che voi dive mi convegna: se l’influsso commun in voi non
regna, e siete in terra quel ch’in ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà
sovrana nostro rigor né morder può, né vuole, che non fa mira a specie
sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole, dove si scorge l’unica Diana,
qual è tra voi quel che tra gli astri il sole. L’ingegno, le parole e ’l mio
(qualumque sia) vergar di carte faranv’ossequios’il studio e l’arte. DE GLI EROICI FURORI Bruno De gli eroici
furori DIALOGO PRIMO interlocutori Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori
dumque, atti più ad esser qua primieramente locati e considerati, son questi
che ti pono avanti secondo l’ordine a me parso più conveniente. cicada
Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse che tante volte ributtai,
importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole ne’ miei guai con tai
versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi mostraste mai, che de mirti
si vantan et allori; or sia appo voi mia aura, àncora e porto, se non mi lice
altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o fonte ov’abito, converso e mi
nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo, avviv’, orno, il cor, il
spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in vita, in lauri, in astri
eterni. 1. È da credere che più volte e per più caggioni le ributtasse, tra le
quali possono esser queste. Prima perché, come deve il sacerdote de le muse,
non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può trovarsi là dove si combatte
contra gli ministri e servi de l’invidia, ignoranza e malignitade. Secondo, per
non assistergli degni protectori e difensori che l’assicurassero, iuxta quello.
Non mancaranno, o Flacco, gli Maroni, se penuria non è de Mecenati. Appresso,
per trovarsi ubligato alla contemplazion, e studi de filosofia: li quali se non
son più maturi, denno però come parenti de le Muse esser predecessori a quelle.
Oltre perché traendolo da un canto la tragica Melpomene con più materia che
vena, e la comica Talia con più vena che materia da l’altro, accadeva che l’una
suffurandolo a l’altra, lui rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato,
che comunmente negocioso. Finalmente per l’autorità de censori che ritenendolo
da cose più degne et alte alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il
suo ingegno: perché da libero sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una
vilissima e stolta ipocrisia. Al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli
quali incorse, è avvenuto che non avend’altronde da consolarsi, accettasse
l’invito di costoro, che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con
quali non si mostraro ad altri: perché in quest’opra più riluce d’invenzione
che d’imitazione. cicada Dite: che intende per quei che si vantano de mirti et
allori? tansillo Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano
d’amori: alli quali (se nobilmente si portano) tocca la corona di tal pianta
consecrata a Venere, dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi
d’allori quei che degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici
per la filosofia speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per
specchio exemplare a gli gesti politici e civili. cicada Dumque son più specie
de poeti e de corone? tansillo Non solamente quante son le muse, ma e di gran
numero di vantaggio: perché quantunque sieno certi geni, non possono però esser
determinate certe specie e modi d’ingegni umani. cicada Son certi regolisti de
poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovidio,
Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in numero de versificatori,
esaminandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo,
fratel mio, che questi son vere bestie: perché non considerano quelle regole
principalmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in
particolare; e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e
non per instituir altri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori,
equali, simili e maggiori, de diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo
geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a
coloro che son più atti ad imitare che ad inventare; e son state raccolte da
colui che non era poeta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di
quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in serviggio di qualch’uno che
volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma
scimia de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da
le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le
poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie
de veri poeti. cicada Or come dumque saranno conosciuti gli veramente poeti?
tansillo Dal cantar de versi: con questo, che cantando o vegnano a delettare, o
vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi dumque serveno
le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero, Exiodo, Orfeo et
altri poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver propria musa, vuolesse
far l’amore con quella d’Omero. cicada Dumque han torto certi pedantacci de
tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino
favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri e canti
conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di
far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con l’altra, o
perché [non] finiscono gli canti epilogando di quel ch’è detto e proponendo per
quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per censure e regole in
virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere che essi loro a un
proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono gli veri poeti, et
arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi
che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e
stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per
propria virtude et ingegno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto,
per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar là donde l’affezzione n’ha
fatto alquanto a lungo digredire: dico che sono e possono essere tante sorte de
poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti et invenzioni umane,
alli quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo da tutti geni e specie
de piante, ma et oltre d’altri geni e specie di materie. Però corone a’ poeti
non si fanno solamente de mirti e lauri: ma anco de pampino per versi
fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sacrifici e leggi; di pioppa,
olmo e spighe per l’agricoltura; de cipresso per funerali: e d’altre
innumerabili per altre tante occasioni. E se vi piacesse anco di quella materia
che mostrò un galantuomo quando disse: O fra Porro poeta da scazzate, ch’a
Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni, busecche e cervellate. Letteratura
italiana Einaudi 27 Giordano Bruno De gli eroici furori cicada Or
dumque sicuramente costui per diverse vene che mostra in diversi propositi e
sensi, potrà infrascarsi de rami de diverse piante, e potrà degnamente parlar
con le Muse: perché sia appo loro sua aura con cui si conforte, ancora in cui
si sustegna, e porto al qual si retire nel tempo de fatiche, exagitazioni e
tempeste. Onde dice: O monte Parnaso dove abito, Muse con le quali converso,
fonte cliconio o altro dove mi nodrisco, monte che mi doni quieto aroggiamento,
Muse che m’inspirate profonda dottrina, fonte che mi fai ripolito e terso;
monte dove ascendendo inalzo il core; Muse con le quali versando avvivo il
spirito; fonte sotto li cui arbori poggiando adorno la fronte; cangiate la mia
morte in vita, gli miei cipressi in lauri, e gli miei inferni in cieli: cioè
destinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di morte,
cipressi et inferni. tansillo Bene, perché a color che son favoriti dal cielo,
gli più gran mali si converteno in beni tanto maggiori: perché le necessitadi
parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la gloria
d’immortal splendore. cicada E la morte d’un secolo, fa vivo in tutti gli altri.
Séguita. tansillo Dice appresso: In luogo e forma di Parnaso ho ’l core, dove
per scampo mio convien ch’io monte; son mie muse i pensier ch’a tutte l’ore mi
fan presenti le bellezze conte; onde sovente versan gli occhi fore lacrime
molte, ho l’Eliconio fonte: per tai montagne, per tai ninfe et acqui, com’ha
piaciut’al ciel poeta nacqui. Or non alcun de reggi, non favorevol man
d’imperatore, non sommo sacerdot’, e gran pastore, mi dien tai grazie, onori e
privileggi; ma di lauro m’infronde mio cor, gli miei pensieri, e le mie onde.
1. Qua dechiara: prima qual sia il suo monte, dicendo esser l’alto affetto del
suo core; secondo, quai sieno le sue muse, dicendo esser le bellezze e
prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno gli fonti, e questi dice esser
le lacrime. In quel monte s’accende l’affetto; da quelle bellezze si concepe il
furore; e da quelle lacrime il furioso affetto si dimostra. 2. Cossì se stima
di non posser essere meno illustremente coronato per via del suo core, pensieri
e lacrime, che altri per man de regi, imperadori e papi. cicada Dechiarami quel
ch’intende per ciò che dice: il core in forma di Parnaso. tansillo Perché cossì
il cuor umano ha doi capi che vanno a terminarsi a una radice, e spiritualmente
da uno affetto del core procede l’odio et amore di doi contrarii; come have
sotto due teste una base il monte Parnaso. cicada A l’altro. tansillo Dice:
Chiama per suon di tromb’ il capitano tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna;
dove s’avvien che per alcun in vano udir si faccia, perché pronto vegna, qual
nemico l’uccide, o a qual insano gli dona bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì
l’alm’i dissegni non accolti sott’un stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2)
Un oggetto riguardo, chi la mente m’ingombr’, è un sol viso, ad una beltà sola
io resto affiso, chi sì m’ha punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco
m’ardo, e non conosco più ch’un paradiso. 1. Questo capitano è la voluntade
umana che siede in poppa de l’anima, con un picciol temone de la raggione
governando gli affetti d’alcune potenze interiori, contra l’onde de gli émpiti
naturali. Egli con il suono de la tromba, cioè della determinata elezzione,
chiama tutti gli guerrieri, cioè provoca tutte le potenze (le quali s’appellano
guerriere per esserno in continua ripugnanza e contrasto) o pur gli effetti di
quelle, che son gli contrariia pensieri; de quali altri verso l’una, altri
verso l’altra parte inchinano: e cerca constituirgli tutti sott’un’insegna d’un
determinato fine. Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna chiamato in vano a farsi
prontamente vedere ossequioso (massime quei che procedono dalle potenze
naturali quali o nullamente o poco ubediscono alla raggione), al meno
forzandosi d’impedir gli loro atti, e dannar quei che non possono essere
impediti, viene a mostrarsi come uccidesse quelli, e donasse bando a questi:
procedendo contra gli altri con la spada de l’ira, et altri con la sferza del
sdegno. 2. Qua un oggetto riguarda, a cui è volto con l’intenzione. Per un
viso, con cui s’appaga ingombra la mente. In una sola beltade si diletta e
compiace; e dicesi restarvi affiso, perché l’opra d’intelligenza non è
operazion di moto, ma di quiete. E da là solamente concepe quel dardo che
l’uccide, cioè che gli constituisce l’ultimo fine di perfezione. Arde per un
sol fuoco, cioè dolcemente si consuma in uno amore. cicada Perché l’amore è
significato per il fuoco? tansillo Lascio molte altre caggioni, bastiti per ora
questa: perché cossì la cosa amata l’amore converte ne l’amante, come il fuoco
tra tutti gli elementi attivissimo è potente a convertire tutti quell’altri
semplici e composti in se stesso. cicada Or séguita. tansillo Conosce un
paradiso: cioè un fine principale, perché paradiso comunmente significa il
fine, il qual si distingue in quello ch’è absoluto, in verità et essenza, e
l’altro che è in similitudine, ombra e participazione. Del primo modo non può
essere più che uno, come non è più che uno l’ultimo et il primo bene. Del
secondo modo sono infiniti. Amor, sorte, l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna,
content’e sconsola; il putto irrazional, la cieca e ria, l’alta bellezza, la
mia morte sola: mi mostr’il paradis’, il toglie via, ogni ben mi presenta, me
l’invola; tanto ch’il cor, la mente, il spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha
refrigerio, ha salma. Chi mi terrà di guerra? Chi mi farà fruir mio ben in
pace? Chi quel ch’annoia e quel che sì mi piacefarà lungi disgionti, per gradir
le mie fiamme e gli miei fonti? Mostra la caggion et origine onde si concepe il
furore e nasce l’entusiasmo, per solcar il campo de le muse, spargendo il seme
de suoi pensieri, aspirando a l’amorosa messe, scorgendo in sé il fervor de gli
affetti in vece del sole, e l’umor de gli occhi in luogo de le piogge. Mette
quattro cose avanti: l’amore, la sorte, l’oggetto, la gelosia. Dove l’amore non
è un basso, ignobile et indegno motore, ma un eroico signor e duce de lui; la
sorte non è altro che la disposizion fatale et ordine d’accidenti, alli quali è
suggetto per il suo destino; l’oggetto è la cosa amabile, et il correlativo de
l’amante; la gelosia è chiaro che sia un zelo de l’amante circa la cosa amata,
il quale non bisogna donarlo a intendere a chi ha gustato amore, et in vano ne
forzaremo dechiararlo ad altri. L’amore appaga: perché a chi ama, piace
l’amare; e colui che veramente ama non vorrebbe non amare. Onde non voglio
lasciar de referire quel che ne mostrai in questo mio sonetto: Cara, soave et
onorata piaga del più bel dardo che mai scelse amore; alto, leggiadro e
precioso ardore, che gir fai l’alma di sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù
d’arte maga ti torrà mai dal centro del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco
vigore quanto più mi tormenta, più m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e
raro, quando del peso tuo girò mai scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal
diretto? Occhi, del mio signor facelle et arco, doppiate fiamme a l’alma e
strali al petto, poich’il languir m’è dolce e l’ardor caro. La sorte affanna
per non felici e non bramati successi, o perché faccia stimar il suggetto men
degno de la fruizion de l’oggetto, e men proporzionato a la dignità di quello;
o perché non faccia reciproca correlazione, o per altre caggioni et impedimenti
che s’attraversano. L’oggetto contenta il suggetto, che non si pasce d’altro,
altro non cerca, non s’occupa in altro, e per quello bandisce ogni altro
pensiero. La gelosia sconsola, perché quantunque sia figlia dell’amore da cui
deriva, compagna di quello con cui va sempre insieme, segno del medesimo,
perché quello s’intende per necessaria conseguenza dove lei si dimostra (come
sen può far esperienza nelle generazioni intiere, che per freddezza di regione,
e tardezza d’ingegno, meno apprendono, poco amano, e niente hanno di gelosia),
tutta volta con la sua figliolanza, compagnia e significazione vien a perturbar
et attossicare tutto quel che si trova di bello e buono nell’amore. Là onde
dissi in un altro mio sonetto: O d’invidia et amor figlia sì ria, che le gioie
del padre volgi in pene, caut’Argo al male, e cieca talpa al bene, ministra di
tormento, Gelosia; Tisifone infernal fetid’Arpia, che l’altrui dolce rapi et
avvelene, austro crudel per cui languir conviene il più bel fior de la speranza
mia; fiera da te medesma disamata, augel di duol non d’altro mai presago, pena,
ch’entri nel cor per mille porte: se si potesse a te chiuder l’entrata, tant’il
regno d’amor saria più vago, quant’il mondo senz’odio e senza morte. Giongi a
quel ch’è detto che la Gelosia non sol tal volta è la morte e ruina de
l’amante, ma per le spesse volte uccide l’istesso amore, massime quando
parturisce il sdegno: percioché viene ad essere talmente dal suo figlio
affetta, che spinge l’amore e mette in dispreggio l’oggetto, anzi non lo fa più
essere oggetto. cicada Dechiara ora l’altre particole che siegueno, cioè perché
l’amore si dice putto irrazionale? tansillo Dirò tutto. Putto irrazionale si
dice l’amore non perché egli per sé sia tale; ma per ciò, che per il più fa
tali suggetti, et è in sugetti tali: atteso che in qualumque è più
intellettuale e speculativo, inalza più l’ingegno e più purifica l’intelletto,
facendolo svegliato, studioso e circonspetto, promovendolo ad un’animositate
eroica et emulazion di virtudi e grandezza, per il desio di piacere e farsi
degno della cosa amata. In altri poi (che son la massima parte) s’intende pazzo
e stolto, perché le fa uscir de proprii sentimenti, e le precipita a far delle
extravaganze, perché ritrova il spirito, anima e corpo mal complessionati, et
inetti a considerar e distinguere quel che gli è decente da quel che le rende
più sconci: facendoli suggetto di dispreggio, riso e vituperio. cicada Dicono
volgarmente e per proverbio, che l’amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli
giovani savii. tansillo Questo inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel
conveniente a tutti giovani; ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal
complessionati quest’altri. E con questo è certo, che chi è avezzo nella
gioventù d’amar circonspettamente, amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso
e riso è di quelli alli quali nella matura etade l’amor mette l’alfabeto in
mano. cicada Ditemi adesso, perché cieca e ria se dice la sorte o fato?
tansillo Cieca e ria si dice la sorte ancora, non per sé, perché è l’istesso
ordine de numeri e misure de l’universo; ma per raggion de suggetti si dice et
è cieca: perché le rende ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. È
detta similmente ria, perché nullo de mortali è che in qualche maniera
lamentandosi e querelandosi di lei, non la incolpe. Onde disse il pugliese
poeta: Che vuol dir, Mecenate, che nessuno al mondo appar contento de la sorte,
che gli ha porgiuta la raggion o cielo? Cossì chiama l’oggetto alta bellezza,
perché a lui è unico e più eminente, et efficace per tirarlo a sé; e però lo
stima più degno, più nobile, e però sel sente predominante e superiore: come
lui gli vien fatto suddito e cattivo. La mia morte sola dice de la gelosia,
perché come l’amore non ha più stretta compagna che costei, cossì anco non ha
senso di maggior nemica: come nessuna cosa è più nemica al ferro che la
ruggine, che nasce da lui medesimo. cicada Or poi ch’hai cominciato a far
cossì, séguita a mostrar parte per parte quel che resta. tansillo Cossì farò.
Dice appresso de l’amore: Mi mostra il paradiso; onde fa veder che l’amore non
è cieco in sé, e per sé non rende ciechi alcuni amanti, ma per l’ignobili
disposizioni del suggetto: qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon
ciechi per la presenza del sole. Quanto a sé dumque l’amore illustra,
chiarisce, apre l’intelletto e fa penetrar il tutto e suscita miracolosi
effetti. cicada Molto mi par che questo il Nolano lo dimostre in un altro suo
sonetto: Amor per cui tant’alto il ver discerno, ch’apre le porte di diamante
nere, per gli occhi entra il mio nume, e per vedere nasce, vive, si nutre, ha
regno eterno; fa scorger quant’ha ’l ciel, terr’, et inferno; fa presenti
d’absenti effiggie vere, repiglia forze, e col trar dritto, fere; e impiaga
sempr’il cor, scuopre l’interno. O dumque, volgo vile, al vero attendi, porgi
l’orecchio al mio dir non fallace, apri, apri, se puoi, gli occhi, insano e
bieco: fanciullo il credi perché poco intendi, perché ratto ti cangi ei par
fugace, per esser orbo tu lo chiami cieco. Mostra dumque il paradiso amore, per
far intendere, capire et effettuar cose altissime; o perché fa grandi almeno in
apparenza le cose amate. Il toglie via, dice de la sorte: perché questa
sovente, a mal grado de l’amante, non concede quel tanto che l’amor dimostra, e
quel che vede e brama, gli è lontano et adversario. Ogni ben mi presenta, dice
de l’oggetto: perché questo che vien dimostrato da l’indice de l’amore, gli par
la cosa unica, principale, et il tutto. Me l’invola, dice della Gelosia, non
già per non farlo presente togliendolo d’avanti gli occhi; ma in far ch’il bene
non sia bene, ma un angoscioso male; il dolce non sia dolce, ma un angoscioso
languire. Tanto ch’il cor, cioè la volontà, ha gioia nel suo volere per forza
d’amore, qualunque sia il successo. La mente, cioè la parte intellettuale, ha
noia, per l’apprension de la sorte, qual non aggradisce l’amante. Il spirito,
cioè l’affetto naturale, ha refrigerio, per esser rapito da quell’oggetto che
dà gioia al core, e potrebbe aggradir la mente. L’alma, cioè la sustanza
passibile e sensitiva, ha salma, cioè si trova oppressa dal grave peso de la
gelosia che la tormenta. Appresso la considerazion del stato suo, soggionge il
lacrimoso lamento, e dice: Chi mi torrà di guerra, e metterammi in pace; o chi
disunirà quel che m’annoia e danna, da quel che sì mi piace et apremi le porte
de cielo, perché gradite sieno le fervide fiamme del mio core, e fortunati i
fonti de gli occhi miei? Appresso continuando il suo proposito, soggionge:
Premi (oimè) gli altri, o mia nemica sorte; vatten via, Gelosia, dal mondo
fore: potran ben soli con sua diva corte far tutto nobil faccia e vago amore.
Lui mi tolga de vita, lei de morte; lei me l’impenne, lui brugge il mio core;
lui me l’ancide, lei ravvive l’alma; lei mio sustegno, lui mia grieve salma. Ma
che dic’io d’amore? se lui e lei son un suggetto o forma, se con medesm’imperio
et una norma fann’un vestigio al centro del mio core? Non son doi dumque: è una
che fa gioconda e triste mia fortuna. Quattro principii et estremi de due
contrarietadi vuol ridurre a doi principii et una contrarietade. Dice dumque:
Premi (oimè) gli altri, cioè basti a te, o mia sorte, d’avermi sin a tanto
oppresso, e (perché non puoi essere senza il tuo essercizio) volta altrove il
tuo sdegno. E vatten via fuori del mondo, tu, Gelosia: perché uno di que’ doi
altri che rimagnono potrà supplire alle vostre vicende et offici; se pur tu,
mia sorte, non sei altro ch’il mio Amore, e tu Gelosia, non sei estranea dalla
sustanza del medesimo. Reste dumque lui per privarmi de vita, per bruggiarmi,
per donarmi la morte, e per salma de le mie ossa: con questo che lei mi tolga
di morte, mi impenne, mi avvive e mi sustente. Appresso, doi principii et una
contrarietade riduce ad un principio et una efficacia, dicendo: Ma che dich’io
d’Amore? Se questa faccia, questo oggetto è l’imperio suo, e non par altro che
l’imperio de l’amore; la norma de l’amore è la sua medesima norma; l’impression
d’amore ch’appare nella sustanza del cor mio, non è certo altra impression che
la sua: perché dumque dopo aver detto nobil faccia, replico dicendo vago amore?
tansillo Or qua comincia il furioso a mostrar gli affetti suoi e discuoprir le
piaghe che sono per segno nel corpo, et in sustanza o in essenza nell’anima, e
dice cossì: Io che porto d’amor l’alto vessillo, gelate ho spene, e gli desir
cuocenti: a un tempo triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo, son muto, e colmo il
ciel de strida ardenti; dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo
e muoio, e fo ris’e lamenti: son vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli
occhi ho Teti, et ho Vulcan al core, altr’amo, odio me stesso: ma s’io
m’impiumo, altri si cangia in sasso; poggi’altr’al ciel, s’io mi ripogno al
basso; sempr’altri fugge, s’io seguir non cesso; s’io chiamo, non risponde: e
quant’io cerco più, più mi s’asconde. A proposito di questo voglio seguitar
quel che poco avanti ti dicevo: che non bisogna affatigarsi per provare quel
che tanto manifestamente si vede, cioè che nessuna cosa è pura e schetta (onde
diceano alcuni, nessuna cosa composta esser vero ente: come l’oro composto non
è vero oro, il vino composto non è puro vero e mero vino); appresso, tutte le
cose constano de contrarii: da onde avviene che gli successi de li nostri
affetti per la composizione ch’è nelle cose, non hanno mai delettazion alcuna
senza qualch’amaro; anzi dico, e noto di più, che se non fusse l’amaro nelle
cose, non sarrebe la delettazione, atteso che la fatica fa che troviamo
delettazione nel riposo; la separazioLetteratura italiana ne è causa che
troviamo piacere nella congiunzione: e generalmente essaminando, si trovarà
sempre che un contrario è caggione che l’altro contrario sia bramato e piaccia.
cicada Non è dumque delettazione senza contrarietà? tansillo Certo non, come
senza contrarietà non è dolore, qualmente manifesta quel pitagorico poeta
quando dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras respiciunt,
clausae tenebris et carcere caeco. Ecco dumque quel che caggiona la composizion
de le cose. Quindi aviene che nessuno s’appaga del stato suo, eccetto
qualch’insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel maggior grado
del fosco intervallo de la sua pazzia: all’ora ha poca o nulla apprension del
suo male, gode l’esser presente senza temer del futuro; gioisce di quel ch’è e
per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di quel ch’è o può essere,
et in fine non ha senso della contrarietade la quale è figurata per l’arbore
della scienza del bene e del male. cicada Da qua si vede che l’ignoranza è
madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa medesima è l’orto del
paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi de la Cabala del
cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: chi aumenta sapienza,
aumenta dolore. tansillo Da qua avviene che l’amore eroico è un tormento,
perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del futuro e de
l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto e timore.
Indi dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vicini: Giamai fui tanto
allegro quanto sono adesso gli rispose Gioan Bruno, padre del Nolano: Mai fuste
più pazzo che adesso. cicada Volete dumque che colui che è triste sia savio, e
quell’altro ch’è più triste, sia più savio? tansillo Non, anzi intendo in
questi essere un’altra specie di pazzia, et oltre peggiore. cicada Chi dumque
sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo è colui ch’è triste?
tansillo Quel che non è contento né triste. cicada Chi? quel che dome? quel
ch’è privo di sentimento? quel ch’è morto? tansillo No: ma quel ch’è vivo,
vegghia et intende; il quale considerando il male et il bene, stimando l’uno e
l’altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine
(di sorte ch’il fine d’un contrario è principio de l’altro, e l’estremo de
l’uno è cominciamento de l’altro), non si dismette, né si gonfia di spirito,
vien continente nell’inclinazioni e temperato nelle voluptadi: stante ch’a lui
il piacere non è piacere, per aver come presente il suo fine. Parimente la pena
non gli è pena, perché con la forza della considerazione ha presente il termine
di quella. Cossì il sapiente ha tutte le cose mutabili come cose che non sono,
et afferma quelle non esser altro che vanità et un niente: perché il tempo a
l’eternità ha proporzione come il punto a la linea. cicada Sì che mai possiamo
tener proposito d’esser contenti o mal contenti, senza tener proposito de la
nostra pazzia, la qual espressamente confessiamo; là onde nessun che ne
raggiona, e per conseguenza nessun che n’è partecipe, sarà savio: et infine
tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non tendo ad inferir questo, perché dirò
massime savio colui che potesse veramente dire talvolta il contrario di quel
che quell’altro: Giamai fui men allegro che adesso over: Giamai fui men triste
che ora. cicada Come non fai due contrarie qualitadi dove son doi affetti
contrarii? perché, dico, intendi come due virtudi, e non come un vizio et una
virtude, l’esser minimamente allegro, e l’esser minimamente triste? tansillo
Perché ambi doi li contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar su quel
più) son vizii, perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno a dar
sul meno, vegnono ad esser virtude, perché si contegnono e rinchiudono intra
gli termini. cicada Come l’esser men contento e l’esser men triste non son una
virtù et uno vizio, ma son due virtudi? tansillo Anzi dico che son una e
medesima virtude: perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarietade
è massime là dove è l’estremo; la contrarietà maggiore è la più vicina
all’estremo; la minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son
uno et indifferente: come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo et il
più freddo; e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né
caldo né freddo, senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente contento
e minimamente triste, è nel grado della indifferenza, si trova nella casa della
temperanza, e là dove consiste la virtude e condizion d’un animo forte, che non
vien piegato da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dumque (per venir al proposito)
come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente parte, è differente
da gli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma come un vizio ch’è
in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in un suggetto più
ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo gli suggetti e
modi differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada Molto ben posso
da quel ch’avete detto, conchiudere la condizion di questo eroico furore che
dice gelate ho spene, e li desir cuocenti; perché non è nella temperanza della
mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha l’anima discordevole: se
triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri; è per l’avidità
stridolo, mutolo per il timore; Sfavilla dal core per cura d’altrui, e per
compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne l’altrui risa, vive ne’
proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri ama, odia se stesso:
perché la materia (come dicono gli fisici) con quella misura ch’ama la forma
absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava la guerra ch’ha l’anima
in se stessa; e poi quando dice ne la sestina ma s’io m’impiumo, altri si
cangia in sasso e quel che séguita, mostra le sue passioni per la guerra
ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver letto in Iamblico, dove
tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: Impius animam dissidentem
habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum aliis. tansillo Or odi un
altro sonetto di senso consequente al detto: Ahi, qual condizioni natura, o
sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto (ahi lasso) di tal morte,
che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene, d’inferno a le porte, e
colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi contrarii eterno, bandito
son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene triegua, perch’in mezzo di due
scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra mi scuote, qual Ixion convien mi
fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan lezzion contraria il sprone e ’l
morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto e distrazione in se medesimo:
mentre l’affetto, lasciando il mezzo e meta de la temperanza, tende a l’uno e
l’altro estremo; e talmente si trasporta alto o a destra, che anco si trasporta
a basso et a sinistra. cicada Come con questo che non è proprio de l’uno né de
l’altro estremo, non viene ad essere in stato o termine di virtude? tansillo
All’ora è in stato di virtude, quando si tiene al mezzo declinando da l’uno e
l’altro contrario: ma quando tende a gli estremi inchinando a l’uno e l’altr di
quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è doppio vizio, il qual consiste
in questo che la cosa recede dalla sua natura, la perfezzion della quale
consiste nell’unità: e là dove convegnono gli contrarii, consta la
composizione, e consiste la virtude. Ecco dumque come è morto vivente, o vivo
moriente; là onde dice: in viva morte morta vita vivo. Non è morto, perché vive
ne l’oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso: privo di morte, perché
parturisce pensieri in quello; privo di vita, perché non vegeta o sente in se
medesimo. Appresso è bassissimo per la considerazion de l’alto intelligibile e
la compresa imbecillità della potenza; è altissimo per l’aspirazione
dell’eroico desio che trapassa di gran lunga gli suoi termini, et è altissimo
per l’appetito intellettuale che non ha modo e fine di gionger numero a numero;
è bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sensuale che verso
l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente poggiar e descendere, sente ne
l’alma il più gran dissidio che sentir si possa; e confuso rimane per la
ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la raggion l’affrena, e per il
contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella seguente sentenza dove la
raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso risponde in nome di Pastore,
che alla cura del gregge o armento de suoi pensieri si travaglia; quai pasce in
ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è l’affezzione di quell’oggetto alla
cui osservanza è fatto cattivo: fileno Pastor. pastore Che vuoi? fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno Che fai? Doglio. Perché? Perché non m’ha
per suo vita, né morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel rio. Dov’è? Nel centro
del mio cor se tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te? Sì. Con che? Con gli
occhi de l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé? Mercé. Da chi? Da chi
sì mi martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che, se cotal follia a
l’alma piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché ardir tant’onestà
mi tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. pastore Temo il suo sdegno, più che miei
tormenti. Qua dice che spasma: lamentasi dell’amore, non già perché ami (atteso
che a nessuno veramente amante dispiace l’amare), ma perché infelicemente ami:
mentre escono que’ strali che son gli raggi di quei lumi, che medesimi secondo
che son protervi e ritrosi, overamente benigni e graziosi, vegnono ad esser
porte che guidano al cielo, overamente a l’inferno. Con questo vien mantenuto
in speranza di futura et incerta mercé, et in effetto di presente e certo
martìre. E quantunque molto apertamente vegga la sua follia, non per tanto
avvien che in punto alcuno si correga, o che almen possa conciperne dispiacere;
perché tanto ne manca, che più tosto in essa si compiace, come mostra dove
dice: Mai fia che dell’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’esser
felice. Appresso, mostra un’altra specie di furore parturita da qualche lume di
raggione, la qual suscita il timore, e supprime la già detta, a fin che non
proceda a fatto, che possa inasprir o sdegnar la cosa amata. Dice dumque la
speranza esser fondata sul futuro, senza che cosa alcuna se gli prometta o
nieghe: per che lui tace, e non dimanda, per téma d’offender l’onestade. Non ardisce
esplicarsi e proporsi, onde fia o con ripudio escluso, overamente con promessa
accettato: perché nel suo pensiero più contrapesa quel che potrebbe esser di
male in un caso, che bene in un altro. Mostrasi dumque disposto di suffrir più
presto per sempre il proprio tormento, che di poter aprir la porta a
l’occasione per la quale la cosa amata si turbe e contriste. cicada Con questo
dimostra l’amor suo esser veramente eroico: perché si propone per più principal
fine la grazia del spirito e la inclinazion de l’affetto, che la bellezza del
corpo, in cui si termina quell’amor ch’ha del divino. tansillo Sai bene che il
rapto platonico è di tre specie, de quali l’uno tende alla vita contemplativa o
speculativa, l’altro a l’attiva morale, l’altro a l’ociosa e voluptuaria: cossì
son tre specie d’amori; de quali l’uno dall’aspetto della forma corporale
s’inalza alla considerazione della spirituale e divina; l’altro solamente
persevera nella delettazion del vedere e conversare; l’altro dal vedere va a
precipitarsi nella concupiscenza del toccare. Di questi tre modi si componenti
altri, secondo che o il primo s’accompagna col secondo, o che s’accompagna col
terzo, o che con correno tutti tre modi insieme: de li quali ciascuno e tutti
oltre si moltiplicano in altri, secondo gli affetti de furiosi che tendeno o
più verso l’obietto spirituale, o più verso l’obietto corporale, o equalmente
verso l’uno e l’altro. Onde avviene che di quei che si ritrovano in questa
milizia e son compresi nelle reti d’amore, altri tendeno a fin del gusto che si
prende dal raccòrre le poma da l’arbore de la corporal bellezza, senz’il qual
ottento (o speranza al meno) stimano degno di riso e vano ogn’amoroso studio:
et in cotal modo corrono tutti quei che son di barbaro ingegno, che non possono
né cercano magnificarsi amando cose degne, aspirando a cose illustri, e più
alto a cose divine accomodando gli suoi studi e gesti, a i quali non è chi
possa più ricca e commodamente suppeditar l’ali, che l’eroico amore. Altri si
fanno avanti a fin del frutto della delettazione che prendeno da l’aspetto
della bellezza e grazia del spirito che risplende e riluce nella leggiadria del
corpo; e de tali alcuni benché amino il corpo e bramino assai d’esser uniti a
quello, della cui lontananza si lagnano, e disunion s’attristano, tutta volta
temeno che presumendo in questo non vegnan privi di quell’affabilità,
conversazione, amicizia et accordo che gli è più principale: essendo e dal
tentare non più può aver sicurezza di successo grato, che gran téma di cader da
quella grazia qual come cosa tanto gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi
del pensiero. cicada È cosa degna, o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni
che quindi derivano nell’umano ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar
un simile amore: ma si deve ancora aver gran cura di non abbattersi ad
ubligarsi ad un oggetto indegno e basso, a fin che non vegna a farsi partecipe
della bassezza et indignità del medesimo; in proposito de quali intendo il
consiglio del poeta ferrarese: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi
ritrarlo, e non v’inveschi l’ali. tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la
bellezza del corpo non hav’altro splendore, non è degno d’esser amato ad altro
fine che di far (come dicono) la razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di
tormentarvici su; et io (per me) mai fui più fascinato da cosa simile, che
potesse al presente esser fascinato da qualche statua o pittura, dalle quali mi
pare indifferente. Sarebbe dumque un vituperio grande ad un animo generoso, se
d’un sporco, vile, bardo et ignobile ingegno (quantunque sotto eccellente
figura venesse ricuoperto) dica: Temo il suo sdegno più ch’il mio
tormento. tansillo Poneno, e sono più
specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non
mostrano che cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino
insensato; altri consistono in certa divina abstrazzione per cui dovegnono
alcuni megliori in fatto che uomini ordinarii. E questi sono de due specie
perché: altri per esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et
operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e
tali per l’ordinario sono promossi a questo da l’esser stati prima
indisciplinati et ignoranti, nelli quali come vòti di proprio spirito e senso,
come in una stanza purgata, s’intrude il senso e spirto divino; il qual meno
può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de propria raggione e senso,
perché tal volta vuole ch’il mondo sappia certo che se quei non parlano per
proprio studio et esperienza come è manifesto, séguite che parlino et oprino
per intelligenza superiore: e con questo la moltitudine de gli uomini in tali
degnamente ha maggior admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili alla
contemplazione, e per aver innato un spirito lucido et intellettuale, da uno
interno stimolo e fervor naturale suscitato da l’amor della divinitate, della
giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio
dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade
accendono il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente: e questi
non vegnono al fine a parlar et operar come vasi et instrumenti, ma come
principali artefici et efficienti. cicada Di questi doi geni quali stimi
megliori? tansillo Gli primi hanno più dignità, potestà et efficacia in sé:
perché hanno la divinità. Gli secondi seri essi più degni, più potenti et
efficaci, e son divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li
sacramenti: gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si considera e vede in
effetto la divinità e quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si
considera e vede l’eccellenza della propria umanitade. – Or venemo al
proposito. Questi furori de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in
esecuzione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son
negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono con cui si procure
farsi perfetto con transformarsi et assomigliarsi a quello. Non è un raptamento
sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezzioni: ma un
impeto razionale che siegue l’apprension intellettuale del buono e bello che
conosce; a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della
nobiltà e luce di quello viene ad accendersi, et investirsi de qualitade e
condizione per cui appaia illustre e degno. Doviene un dio dal contatto
intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pensiero che de cose
divine, e mostrasi insensibile et impassibile in quelle cose che comunmente
massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per
amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de
la vita. Non è furor d’atra bile che fuor di consiglio, raggione et atti di
prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordinata tempesta;
come quei ch’avendo prevaricato da certa legge de la divina Adrastia vegnono
condannati sotto la carnificina de le Furie: acciò sieno essagitati da una
dissonanza tanto corporale per sedizioni, ruine e morbi, quanto spirituale per
la iattura dell’armonia delle potenze cognoscitive et appetitive. Ma è un calor
acceso dal sole intelligenziale ne l’anima et impeto divino che gl’impronta
l’ali: onde più e più avvicinandosi al sole intelligenziale, rigettando la
ruggine de le umane cure, dovien un oro probato e puro, ha sentimento della
divina et interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria
della legge insita in tutte le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va
cespitando et urtando or in questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a
quell’altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa or in quell’altra
faccia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né materia di fermarsi e
stabilirsi. Ma senza distemprar l’armonia vince e supera gli orrendi mostri; e
per tanto che vegna a dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi
instinti, che come nove muse saltano e cantano circa il splender
dell’universale Apolline: e sotto l’imagini sensibili e cose materiali va
comprendendo divini ordini e consegli. È vero che tal volta avendo per fida
scorta l’amore, ch’è gemino, e perché tal volta per occorrenti impedimenti si
vede defraudato dal suo sforzo, all’ora come insano e furioso mette in
precipizio l’amor di quello che non può comprendere: onde confuso da l’abisso della
divinità tal volta dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la
voluntade verso là dove non può arrivare con l’intelletto. È vero pure che
ordinariamente va spasseggiando, et or più in una, or più in un’altra forma del
gemino Cupido si trasporta; perché la lezzion principale che gli dona Amore è
che in ombra contempla (quando non puote in specchio) la divina beltate: e come
gli proci di Penelope s’intrattegna con le fante quando non gli lice conversar
con la padrona. Or dumque, per conchiudere, possete da quel ch’è detto
comprendere qual sia questo furioso di cui l’imagine ne vien messa avanti,
quando si dice: Se la farfalla al suo splendor ameno vola, non sa cb’è fiamm’al
fin discara; se quand’il cervio per sete vien meno, al rio va, non sa della
freccia amara; s’il lioncorno corre al casto seno non vede il laccio che se gli
prepara: i’al lum’, al font’, al grembo del mio bene, veggio le fiamme, i
strali e le catene. S’è dolce il mio languire, perché quell’alta face sì
m’appaga, perché l’arco divin sì dolce impiaga, perché in quel nodo è avolto il
mio desire: mi sien eterni impacci fiamme al cor, strali al petto, a l’alma
lacci. Dove dimostra l’amor suo non esser come de la farfalla, del cervio e del
lioncorno, che fuggirebono s’avesser giudizio del fuoco, della saetta e de gli
lacci, e che non han senso d’altro che del piacere: ma vien guidato da un
sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che
altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che altra
libertade. Perché questo male non è absolutamente male: ma per certo rispetto
al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio Saturno ha per condimento
nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne
l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a
quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose divine, questa
saetta è l’impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci
son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla prima verità: e le
specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso
io m’accostai quando dissi: D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio beltà
m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù convien ch’io goda, fugga
la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal ch’io m’ard’e non mi sfaccio,
el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi gela timor, né duol mi snoda; ma
tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo tant’alto il lume che m’infiamma,
el laccio ordito di sì ricco stame, che nascend’il pensier, more il desio.
Poiché mi splend’al cor sì bella fiamma, e mi stringe il voler sì bel legame,
sia serva l’ombra, et arda il cener mio. Tutti gli amori (se sono eroici e non
son puri animali, che chiamano naturali e cattivi alla generazione, come
instrumenti de la natura in certo modo) hanno per oggetto la divinità, tendeno
alla divina bellezza, la quale prima si comunica all’anime e risplende in
quelle, e da quelle poi o (per dir meglio) per quelle poi si comunica alli
corpi: onde è che l’affetto ben formato ama gli corpi o la corporal bellezza,
per quel che è indice della bellezza del spirito. Anzi quello che n’innamora
del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama bellezza;
la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli determinati
colori o forme, ma in certa armonia e consonanza de membri e colori . Questa
mostra certa sensibile affinità col spirito a gli sensi più acuti e
penetrativi: onde séguita che tali più facilmente et intensamente s’innamorano,
et anco più facilmente si disamorano, e più intensamente si sdegnano, con
quella facilità et intensione, che potrebbe essere nel cangiamento del spirito
brutto, che in qualche gesto et espressa intenzione si faccia aperto: di sorte
che tal bruttezza trascorre da l’anima al corpo, a farlo non apparir oltre come
gli apparia bello. La beltà dumque del corpo ha forza d’accendere; ma non già
di legare e far che l’amante non possa fuggire, se la grazia che si richiede
nel spirito non soccorre, come la onestà, la gratitudine, la cortesia,
l’accortezza: però dissi bello quel fuoco che m’accese, perché ancor fu nobile
il laccio che m’annodava. cicada Non creder sempre cossì, Tansillo; perché
qualche volta quantunque discuopriamo vizioso il spirito non lasciamo però di
rimaner accesi et allacciati: di maniera che quantunque la raggion veda il male
et indignità di tale amore, non ha però efficacia di alienar il disordinato
appetito. Nella qual disposizion credo che fusse il Nolano quando disse: Oimè
che son constretto dal furore d’appigliarmi al mio male, ch’apparir fammi un
sommo ben Amore. Lasso, a l’alma non cale ch’a contrarii consigli umqua
ritenti; e del fero tiranno, che mi nodrisce in stenti, e poté pormi da me
stess’in bando, più che di libertad’ i’ son contento. Spiego le vele al vento,
che mi suttraga a l’odioso bene: e tempestoso al dolce danno amene. tansillo
Questo accade, quando l’uno e l’altro spirto è vizioso, e son tinti come di
medesimo inchiostro, atteso che dalla conformità si suscita, accende e si
confirma l’amore. Cossì gli viziosi facilmente concordano in atti di medesimo
vizio. E non voglio lasciar de dire ancora quel che per esperienza conosco, che
quantunque in un animo abbia discuoperti vizii molto abominati da me, com’è
dire una sporca avarizia, una vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza
di ricevuti favori e cortesie, un amor di persone al tutto vili (de quali vizii
questo ultimo massime dispiace perché toglie la speranza a l’amante che per
esser egli, o farsi più degno, possa da lei esser più accettato), tutta volta
non mancava ch’io ardesse per la beltà corporale. Ma che? io l’amavo senza
buona volontà, essendo che non per questo m’arrei più contristato che allegrato
delle sue disgrazie et infortunii. cicada Però è molto propria et a proposito
quella distinzion che fanno intra l’amare e voler bene. tansillo È vero, perché
a molti vogliamo bene, cioè desideramo che siano savii e giusti: ma non le
amiamo, perché sono iniqui et ignoranti; molti amiamo perché son belli, ma non
gli vogliamo bene, perché non meritano: e tra l’altre cose che stima l’amante
quello non meritare, la prima è d’essere amato; e però benché non possa
astenersi d’amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il suo
rincrescimento: come costui che diceva, Oimè ch’io son costretto dal furore
d’appigliarmi al mio male. In contraria disposizione fu, o per altro oggetto
corporale in similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse:
Bench’a tanti martir mi fai suggetto, pur ti ringrazio, e assai ti deggio,
Amore, che con sì nobil piaga apriste il petto, e tal impadroniste del mio
core, per cui fia ver ch’un divo e viv’oggetto, de Dio più bella imago ’n terra
adore; pensi chi vuol ch’il mio destin sia rio, ch’uccid’in speme, e fa viv’in
desio. Pascomi in alta impresa; e bench’il fin bramato non consegua, e ’n tanto
studio l’alma si dilegua, basta che sia sì nobilment’ accesa: basta ch’alto mi
tolsi, e da l’ignobil numero mi sciolsi. L’amor suo qua è a fatto eroico e
divino, e per tale voglio intenderlo: benché per esso si dica suggetto a tanti
martìri; perché ogni amante ch’è disunito e separato da la cosa amata (alla
quale com’è congionto con l’affetto, vorrebe essere con l’effetto) si trova in
cordoglio e pena, si crucia e si tormenta: non già perché ami, atteso che
degnissima e nobilissimamente sente impiegato l’amore; ma perché è privo di
quella fruizione la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual
tende: non dole per il desio che ravviva, ma per la difficultà del studio ch’il
martora. Stiminlo dumque altri a sua posta infelice per questa apparenza de rio
destino, come che l’abbia condannato a cotai pene: perché egli non lasciarà per
tanto de riconoscer l’obligo ch’have ad Amore, e rendergli grazie, perché gli
abbia presentato avanti gli occhi de la mente una specie intelligibile, nella
quale in questa terrena vita (rinchiuso in questa priggione de la carne, et
avvinto da questi nervi, e confirmato da queste ossa) li sia lecito di
contemplar più altamente la divinitade, che se altra specie e similitudine di
quella si fusse offerta. cicada Il divo dumque e vivo oggetto, ch’ei dice, è la
specie intelligibile più alta che egli s’abbia possuto formar della divinità; e
non è qualche corporal bellezza che gli adombrasse il pensiero come appare in
superficie del senso? tansillo Vero: perché nessuna cosa sensibile, né specie
di quella, può inalzarsi a tanta dignitade. cicada Come dumque fa menzione di
quella specie per oggetto, se (come mi pare) il vero oggetto è la divinità
istessa? tansillo La è oggetto finale, ultimo e perfettissimo; non già in
questo stato dove non possemo veder Dio se non come in ombra e specchio, e però
non ne può esser oggetto se non in qualche similitudine; non tale Lequal possa
esser abstratta et acquistata da bellezza et eccellenza corporea per virtù del
senso: ma qual può esser formata nella mente per virtù de l’intelletto. Nel
qual stato ritrovandosi, viene a perder l’amore et affezzion d’ogni altra cosa
tanto sensibile quanto intelligibile; perché questa congionta a quel lume
dovien lume essa ancora, e per conseguenza si fa un Dio: perché contrae la
divinità in sé essendo ella in Dio per la intenzione con cui penetra nella
divinità (per quanto si può), et essendo Dio in ella, per quanto dopo aver
penetrato viene a conciperla e (per quanto si può) a ricettarla e comprenderla
nel suo concetto. Or di queste specie e similitudini si pasce l’intelletto
umano da questo mondo inferiore, sin tanto che non gli sia lecito de mirar con
più puri occhi la bellezza della divinitade: come accade a colui che è gionto a
qualch’edificio eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa per
cosa in quello, si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia; ma se
avverà poi che vegga il signor di quelle imagini, di bellezza incomparabilmente
maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto et intento a
considerar quell’uno. Ecco dumque come è differenza in questo stato dove
veggiamo la divina bellezza in specie intelligibili tolte da gli effetti, opre,
magisteri, ombre e similitudini di quella, et in quell’altro stato dove sia
lecito di vederla in propria presenza. – Dice appresso: Pascomi d’alt’impresa,
perché (come notano gli Pitagorici) cossì l’anima si versa e muove circa Dio,
come il corpo circa l’anima. cicada Dumque il corpo non è luogo de l’anima?
tansillo Non: perché l’anima non è nel corpo localmente, ma come forma
intrinseca e formatore estrinseco; come quella che fa gli membri, e figura il
composto da dentro e da fuori. Il corpo dumque è ne l’anima, l’anima nella
mente, la mente o è Dio, o è in Dio, come disse Plotino: cossì come per essenza
è in Dio che è la sua vita, similmente per l’operazione intellettuale e la
voluntà conseguente dopo tale operazione, si riferisce alla sua luce e
beatifico oggetto. Degnamente dumque questo affetto del eroico furore si pasce
de sì alta impresa. Né per questo che l’obietto è infinito, in atto
simplicissimo, e la nostra potenza intellettiva non può apprendere l’infinito
se non in discorso, o in certa maniera de discorso, com’è dire in certa
raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che s’amena a la consecuzion
de l’immenso onde vegna a constituirse un fine dove non è fine. cicada
Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine, atteso che non sarebe
ultimo. È dumque infinito in intenzione, in perfezzione, in essenza et in
qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il vero. Or in questa
vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa appagar il
desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: Bramando è lassa l’alma a
Dio vivente, et in altro luogo: Attenuati sunt oculi mei suspicientes in
excelsum. Però dice: E bench’il fin bramato non consegua, E ’n tanto studio
l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa: vuol dire ch’in tanto
l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere in cotal stato, e
che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto uomo di questa
condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo. cicada Mi par che
gli peripatetici (come esplicò Averroe) vogliano intender questo quando dicono
la somma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione per le scienze
speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in questo stato
nel qual ne ritroviamo, non possiamo desiderar né ottener maggior perfezzione
che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante qualche nobil
specie intelligibile s’unisce o alle sustanze seperate, come dicono costoro, o
a la divina mente, come è modo de dir de Platonici. Lascio per ora di raggionar
de l’anima o uomo in altro stato e modo di essere che possa trovarsi o
credersi. cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può trovar l’uomo in quella
cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà mai perfetta per quanto
l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto l’intelletto nostro possa
capire: basta che in questo et altro stato gli sia presente la divina bellezza
per quanto s’estende l’orizonte della vista sua. cicada Ma de gli uomini non
tutti possono giongere a quello dove può arrivar uno o doi. tansillo Basta che
tutti corrano; assai è ch’ognun faccia il suo possibile; perché l’eroico
ingegno si contenta più tosto di cascar o mancar degnamente e nell’alte
imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che riuscir a perfezzione in
cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una degna et eroica morte,
che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito feci questo sonetto:
Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il piè l’aria mi scorgo,
più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e vers’il ciel
m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi, anzi via più
risorgo; ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita pareggia al morir
mio? La voce del mio cor per l’aria sento: Ove mi porti, temerario? china, che
raro è senza duol tropp’ardimento; Non temer (respond’io) l’alta ruina. Fendi
sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì illustre morte ne destina. cicada
Io intendo quel che dice: basta ch’alto mi tolsi; ma non quando dice: e da
l’ignobil numero mi sciolsi, s’egli non intende d’esser uscito fuor de l’antro
platonico, rimosso dalla condizion della sciocca et ignobilissima moltitudine;
essendo che quei che profittano in questa contemplazione non possono esser
molti e numerosi. tansillo Intendi molto bene; oltre, per l’ignobil numero può
intendere il corpo e sensual cognizione dalla quale bisogna alzarsi e disciòrsi
chi vuol unirsi alla natura di contrario geno. cicada Dicono gli Platonici due
sorte de nodi con gli quali l’anima è legata al corpo. L’uno è certo atto
vivifico che da l’anima come un raggio scende nel corpo; l’altro è certa
qualità vitale che da quell’atto resulta nel corpo. Or questo numero
nobilissimo movente ch’è l’anima, come intendete che sia disciolto da l’ignobil
numero ch’è il corpo? tansillo Certo non s’intendeva secondo alcun modo di
questi: ma secondo quel modo con cui le potenze che non son comprese e
cattivate nel grembo de la materia, e qualche volta come sopite et inebriate si
trovano quasi ancora esse occupate nella formazion della materia e vivificazion
del corpo; tal’or come risvegliate e ricordate di se stesse riconoscendo il suo
principio e geno, si voltano alle cose superiori, si forzano al mondo
intelligibile come al natio soggiorno; quali tal volta da là per la conversione
alle cose inferiori, si son trabalsate sotto il fato e termini della
generazione. Questi doi appolsi son figurati nelle due specie de metamorfosi
espresse nel presente articolo che dice: Quel dio che scuot’il folgore sonoro,
Asterie vedde furtivo aquilone, Mnemosine pastor, Danae oro, Alcmena sposo,
Antiopa caprone; fu di Cadmo a le suore bianco toro, a Leda cigno, a Dolida
dragane: io per l’altezza de l’oggetto mio da suggetto più vil dovegno un dio.
Fu cavallo Saturno, Nettun delfin, e vitello si tenne Ibi, e pastor Mercurio
dovenne, un’uva Bacco, Apollo un corvo furno: et io (mercé d’amore) mi cangio
in dio da cosa inferiore. Nella natura è una revoluzione et un circolo per cui,
per l’altrui perfezzione e soccorso, le cose superiori s’inchinano
all’inferiori, e per la propria eccellenza e felicitade le cose inferiori
s’inalzano alle superiori. Però vogliono i Pitagorici e Platonici esser donato
a l’anima ch’a certi tempi non solo per spontanea voluntà, la qual le rivolta
alla comprension de le nature, ma et anco della necessità d’una legge interna
scritta e registrata dal decreto fatale vanno a trovar la propria sorte
giustamente determinata. E dicono che l’anime non tanto per certa
determinazione e proprio volere come ribelle declinano dalla divinità, quanto
per certo ordine per cui vegnono affette verso la materia: onde non come per
libera intenzione, ma come per certa occolta conseguenza vegnono a cadere; e
questa è l’inclinazion ch’hanno alla generazione, come a certo minor bene.
(Minor bene dico per quanto appartiene a quella natura particolare, non già per
quanto appartiene alla natura universale dove niente accade senza ottimo fine
che dispone il tutto secondo la giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi
(per la conversione che vicissitudinalmente succede) de nuovo ritornano a gli
abiti superiori. cicada Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spinte dalla
necessità del fato, e non hanno proprio consiglio che le guide a fatto?
tansillo Necessità, fato, natura, consiglio, voluntà, nelle cose giustamente e
senza errore ordinate, tutti concorrenti in uno. Oltre che (come riferisce
Plotino) vogliono alcuni che certe anime possono fuggir quel proprio male, le
quali prima che se gli confirme l’abito corporale, conoscendo il periglio
rifuggono alla mente. Perché la mente l’inalza alle cose sublimi, come
l’imaginazion l’abbassa alle cose inferiori: la mente le mantiene nel stato et
identità come l’imaginazione nel moto e diversità; la mente sempre intende uno,
come l’imaginazione sempre vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà
razionale la quale è composta de tutto, come quella in cui concorre l’uno con
la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto col stato, l’inferiore col
superiore. – Or questa conversione e vicissitudine è figurata nella ruota delle
metamorfosi, dove siede l’uomo nella parte eminente, giace una bestia al fondo,
un mezzo uomo e mezzo bestia descende dalla sinistra, et un mezzo bestia e mezzo
uomo ascende da la destra. Questa conversione si mostra dove Giove, secondo la
diversità de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori, s’investisce
de diverse figure dovenendo in forma de bestie; e cossi gli altri dèi
transmigrano in forme basse et aliene. E per il contrario, per sentimento della
propria nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso eroico
inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l’ali de
l’intelletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la
forma de suggetto più basso. E però disse: Da suggetto più vil dovegno un Dio,
Mi cangio in Dio da cosa inferiore.
tansillo Cossì si descrive il discorso de l’amor eroico per quanto tende
al proprio oggetto ch’è il sommo bene; e l’eroico intelletto che gionger si
studia al proprio oggetto che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel
primo discorso apporta tutta la somma di questo, e l’intenzione: l’ordine della
quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dumque: Alle selve i
mastini e i veltri slaccia il giovan Atteon, quand’il destino gli drizz’il
dubio et incauto camino, di boscareccie fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui
il più bel busto e faccia che veder poss’il mortal e divino, in ostro et
alabastro et oro fino vedde: e ’l gran cacciator dovenne caccia. Il cervio
ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi più leggieri, ratto voraro i suoi gran
cani e molti. I’allargo i miei pensieri ad alta preda, et essi a me rivolti
morte mi dan con morsi crudi e fieri. Atteone significa l’intelletto intento
alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Costui
slaccia i mastini et i veltri: de quai questi son più veloci, quelli più forti.
Perché l’operazion de l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma
questa è più vigorosa et efficace che quella: atteso che a l’intelletto umano è
più amabile che comprensibile la bontade e bellezza divina, oltre che l’amore è
quello che muove e spinge l’intelletto acciò che lo preceda come lanterna. Alle
selve, luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però
dove non son impresse l’orme de molti uomini, il giovane poco esperto e
prattico, come quello di cui la vita è breve et instabile il furore, nel dubio
camino de l’incerta et ancipite raggione et affetto designato nel carattere di
Pitagora, dove si vede più spinoso, inculto e deserto il destro et arduo
camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la traccia di
boscareccie fiere che sono le specie intelligibili de concetti ideali, che sono
occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s’offreno a
tutti quelli che le cercano: Ecco tra l’acqui, cioè nel specchio de le
similitudini, nell’opre dove riluce l’efficacia della bontade e splender
divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l’acqui superiori
et inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; vede il più bel busto e
faccia, cioè potenza et operazion esterna che vedersi possa per abito et atto
di contemplazione et applicazion di mente mortal o divina, d’uomo o dio alcuno.
cicada Credo che non faccia comparazione, e pena come in medesimo geno la
divina et umana apprensione quanto al modo di comprendere, il quale è
diversissimo, ma quanto al suggetto che è medesimo. tansillo Cossì è. Dice in
ostro, alabastro et oro, perché quello che in figura nella corporal bellezza è
vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa l’ostro della divina
vigorosa potenza, l’oro della divina sapienza, l’alabastro della beltade
divina, nella contemplazion della quale gli Pitagorici, Caldei, Platonici et
altri al meglior modo che possono, s’ingegnano d’inalzarsi. Vedde il gran
cacciator: comprese quanto è possibile, e dovenne caccia: andava per predare e
rimase preda, questo cacciator per l’operazion de l’intelletto con cui converte
le cose apprese in sé. (cicada Intendo,
perché forma le specie intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua
capacità, perché son ricevute a modo de chi le riceve. tansillo) E questa
caccia per l’operazion della voluntade, per atto della quale lui si converte
nell’oggetto. cicada Intendo: perché lo amore transforma e converte nella cosa
amata. tansillo Sai bene che l’intelletto apprende le cose intelligibilmente,
idest secondo il suo modo; e la voluntà perseguita le cose naturalmente, cioè
secondo la raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri,
que’ cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la beltade, la fiera
boscareccia, et in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di
sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e
s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad
essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era
necessario di cercare fuor di sé la divinità. cicada Però ben si dice il regno
de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato
intelletto e voluntade. tansillo Cossì è: ecco dumque come l’Atteone, messo in
preda de suoi cani, perseguitato da proprii pensieri, corre e drizza i novi
passi: è rinovato a procedere divinamente e più leggermente, cioè con maggior
facilità e con una più efficace lena a’ luoghi più folti, alli deserti, alla
reggion de cose incomprensibili; da quel ch’era un uom volgare e commune, dovien
raro et eroico, ha costumi e concetti rari, e fa estraordinaria vita. Qua gli
dan morte i suoi gran cani e molti: qua finisce la sua vita secondo il mondo
pazzo, sensuale, cieco e fantastico; e comincia a vivere intellettualmente:
vive vita de dèi, pascesi d’ambrosia et inebriasi di nettare. – Appresso sotto
forma d’un’altra similitudine descrive la maniera con cui s’arma alla ottenzion
de l’oggetto, e dice: Mio pàssar solitario, a quella parte ch’adombr’ e
ingombra tutt’il mio pensiero, tosto t’annida: ivi ogni tuo mestiero rafferma,
ivi l’industria spendi, e l’arte. Rinasci là, là su vogli allevarte gli tuoi
vaghi pulcini omai ch’il fiero destin hav’espedit’il cors’intiero contra
l’impres’, onde solea ritrarte. Và, più nobil ricetto bramo ti godi, e arai per
guida un dio che da chi nulla vede, è cieco detto. Và, ti sia sempre pio ogni
nume di quest’ampio architetto, e non tornar a me se non sei mio. Il progresso
sopra significato per il cacciator che agita gli suoi cani, vien qua ad esser
figurato per un cuor alato, che è inviato da la gabbia in cui si stava ocioso e
quieto, ad annidarsi alto, ad allievar gli pulcini suoi pensieri, essendo
venuto il tempo in cui cessano gli impedimenti che da fuori mille occasioni, e
da dentro la natural imbecillità subministravano. Licenzialo dumque per fargli
più magnifica condizione, applicandolo a più alto proposito et intento, or che
son più fermamente impiumate quelle potenze de l’anima significate anco da
Platonici per le due ali. E gli commette per guida quel dio che dal cieco volgo
è stimato insano e cieco, cioè l’amore: il qual per mercé e favor del cielo è
potente di trasformarlo come in quell’altra natura alla quale aspira o quel
stato dal quale va peregrinando bandito. Onde disse: E non tornar a me che non
sei mio, di sorte che non con indignità possa io dire con quell’altro: Lasciato
m’hai, cuor mio, e lume d’occhi miei non sei più meco. Appresso descrive la
morte de l’anima, che da Cabalisti è chiamata morte di bacio figurata nella
Cantica di Salomone dove l’amica dice: Che mi bacie col bacio de sua bocca,
perché col suo ferire un troppo crudo amor mi fa languire. Da altri è chiamata
sonno, dove dice il Salmista: S’avverrà, ch’io dia sonno a gli occhi miei, e le
palpebre mie dormitaransi, arrò ’n colui pacifico riposo. Dice dumque cossì
l’alma, come languida per esser morta in sé, e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o
furiosi al core: ché tropp’ il mio da me fatto lontano, condotto in crud’e
dispietata mano, lieto soggiorn’ove si spasma e muore. Co i pensier mel richiamo
a tutte l’ore: et ei rubello qual girfalco insano, non più conosce quell’amica
mano, onde per non tornar è uscito fore. Bella fera, ch’in pene tante contenti,
il cor, spirt’, alma annodi con tue punte, tuoi vampi e tue catene, de sguardi,
accenti e modi; quel che languisc’et arde, e non riviene, chi fia che saldi,
refrigere e snodi? Ivi l’anima dolente non già per vera discontentezza, ma con
affetto di certo amoroso martìre parla come drizzando il suo sermone a gli
similmente appassionati: come se non a felice suo grado abbia donato congedo al
core, che corre dove non può arrivare, si stende dove non può giongere, e vuol
abbracciare quel che non può comprendere; e con ciò perché in vano s’allontana
da lei, mai sempre più e più va accendendosi verso l’infinito. cicada Onde
procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso s’appaga del suo tormento?
onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre quel che possiede? tansillo
Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’intelletto divenuto all’apprension d’una
certa e definita forma intelligibile, e la volontà all’affezzione commensurata
a tale apprensione, l’intelletto non si ferma là: perché dal proprio lume è
promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni geno de intelligibile et
appetibile, sin che vegna ad apprendere con l’intelletto l’eminenza del fonte
de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade. Indi aviene che qualunque specie gli
vegna presentata e da lei vegna compresa: da questo che è presentata e
compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore e maggiore, con ciò sempre
ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera. Perché sempre vede che quel
tutto che possiede è cosa misurata, e però non può essere bastante per sé, non
buono da per sé, non bello da per sé; perché non è l’universo, non è l’ente
absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad esser questa specie, questa
forma rapresentata a l’intelletto e presente a l’animo. Sempre dumque dal bello
compreso, e per conseguenza misurato, e conseguentemente bello per
participazione, fa progresso verso quello che è veramente bello, che non ha
margine e circonscrizzione alcuna. cicada Questa prosecuzione mi par vana.
tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né tansillo cicada tansillo conveniente
che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi finito: percioché non sarrebe
infinito; ma è conveniente e naturale che l’infinito per essere infinito sia
infinitamente perseguitato (in quel modo di persecuzione il quale non ha
raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisica; et il quale non è da
imperfetto al perfetto: ma va circuendo per gli gradi della perfezzione, per
giongere a quel centro infinito il quale non è formato né forma). cicada Vorrei
sapere come circuendo si puo arrivare al centro. Non posso saperlo. Perché lo
dici? Perché posso dirlo, e lasciarvel considerare. Se non volete dire che quel
che perséguita l’infinito, è come colui che discorrendo per la circonferenza
cerca il centro, io non so quel che vogliate dire. tansillo Altro. cicada Or se
non vuoi dechiararti, io non voglio intenderti. Ma dimmi, se ti piace: che
intende per quel che dice il core esser condotto in cruda e dispietata mano?
tansillo Intende una similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si
dice crudele chi non si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in
desio che in possessione; onde per quel che possiede alcuno, non al tutto lieto
soggiorna, perché brama, si spasma e muore. cicada Quali son quei pensieri che
il richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa? tansillo Gli affetti
sensitivi et altri naturali che guardano al regimento del corpo. cicada Che
hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli, né
favorirgli? tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la quale essendo
troppo intenta ad una opra o studio, dovien remissa e poco sollecita ne
l’altra. cicada tansillo cicada sanno. Perché lo chiama qual insano? Perché
soprasape. Sogliono esser chiamati insani quei che men tansillo Anzi insani son
chiamati quelli che non sanno secondo l’ordinario, o che tendano più basso per
aver men senso, o che tendano più alto per aver più intelletto. cicada
M’accorgo che dici il vero. Or dimmi appresso: quai sono le punte, gli vampi e
le catene? tansillo Punte son quelle nuove che stimulano e risvegliano
l’affetto perché attenda; vampi son gli raggi della bellezza presente che
accende quel che gli attende; catene son le parti e circonstanze che tegnono
fissi gli occhi de l’attenzione et uniti insieme gli oggetti e le potenze.
cicada Che son gli sguardi, accenti e modi? tansillo Sguardi son le raggioni
con le quali l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa presente; accenti son le
raggioni con le quali ci inspira et informa; modi son le circonstanze con le
quali ci piace sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor che dolcemente languisce,
suavemente arde e constantemente nell’opra persevera; teme che la sua ferita si
salde, ch’il suo incendio si smorze e che si sciolga il suo laccio. cicada Or
recita quel che seguita. tansillo ch’uscir volete da materne fasce de
l’afflitt’alma, e siete acconci arcieri per tirar al versagli’ onde vi nasce
l’alto concetto: in questi erti sentieri scontrarvi a cruda fier’il ciel non
lasce. Sovvengav’il tornar, e richiamate il cor ch’in man di dea selvaggia
late. Armatevi d’amore di domestiche fiamme, et il vedere reprimete sì forte,
che straniere non vi rendan compagni del mio core. Al men portate nuova di quel
ch’a lui tanto diletta e giova. Qua descrive la natural sollecitudine de
l’anima attenta circa la generazione per l’amicizia ch’ha contratta con la
materia. Ispedisce gli armati pensieri che sollecitati e spinti dalla querela
della natura inferiore, son inviati a richiamar il core. L’anima l’instruisce
come si debbano portare perché invaghiti et attratti dal oggetto non facilmente
vegnano anch’essi sedotti a rimaner cattivi e compagni del core. Dice dumque
che s’armino d’amore: di quello amore che accende con domestiche fiamme, cioè
quello che è amico della generazione alla quale son ubligati, e nella cui
legazione, ministerio e milizia si ritrovano. Appresso li dà ordine che
reprimano il vedere chiudendo gli occhi, perché non mirino altra beltade o
bontade che quella qual gli è presente, amica e madre. E conchiude al fine che
se per altro ufficio non vogliono farsi rivedere, rivegnano al manco per
donargli saggio delle raggioni e stato del suo core. cicada Prima che
procediate ad altro, vorrei intender da voi che è quello che intende l’anima
quando dice a gli pensieri: il vedere reprimete sì forte. tansillo Ti dirò.
Ogni amore procede dal vedere: l’amore intelligibile dal vedere
intelligibilmente; il sensibile dal vedere sensibilmente. Or questo vedere ha
due significazioni: perché o significa la potenza visiva, cioè la vista, che è
l’intelletto, overamente senso; o significa l’atto di quella potenza, cioè
quell’applicazione che fa l’occhio o l’intelletto a l’oggetto materiale o
intellettuale. Quando dumque si consegliano gli pensieri di reprimere il
vedere, non s’intende del primo modo, ma del secondo; perché questo è il padre
della seguente affezzione del appetito sensitivo o intellettivo. cicada Questo
è quello ch’io volevo udir da voi. Or se l’atto della potenza visiva è causa
del male o bene che procede dal vedere, onde avviene che amiamo e desideramo di
vedere? Et onde avviene che nelle cose divine abbiamo più amore che notizia?
tansillo Desideriamo il vedere, perché in qualche modo veggiamo la bontà del
vedere; perché siamo informati che per l’atto del vedere le cose belle
s’offreno: però desiderano quell’atto, perché desideriamo le cose belle. cicada
Desideriamo il bello e buono; ma il vedere non è bello, né buono, anzi più
tosto quello è parangone o luce per cui veggiamo non solamente il bello e
buono, ma anco il rio e brutto. Però mi pare ch’il vedere tanto può esser bello
o buono, quanto la vista può esser bianco o nero: se dumque la vista (la quale
è atto) non è bello né buono, come può cadere in desiderio? tansillo Se non per
sé, certamente per altro è desiderata, essendo che l’apprension di quell’altro
senza lei non si faccia. cicada Che dirai se quell’altro non è in notizia di
senso né d’intelletto? come, dico, può esser desiderato almanco d’esser visto,
se di esso non è notizia alcuna, se verso quello né l’intelletto né il senso ha
esercitato atto alcuno, anzi è in dubio se sia intelligibile o sensibile, se
sia cosa corporea o incorporea, se sia uno o doi o più, d’una o d’un’altra
maniera? tansillo Rispondo che nel senso e l’intelletto è un appetito et
appulso al sensibile in generale; perché l’intelletto vuol intender tutto il
vero, perché s’apprenda poi tutto quello che è bello o buono intelligibile: la
potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile, per che s’apprenda poi
quanto è buono o bello sensibile. Indi aviene che non meno desiderano vedere le
cose ignote e mai viste, che le cose conosciute e viste. E da questo non
séguita ch’il desiderio non proceda da la cognizione, e che qualche cosa
desideriamo che non è conosciuta; ma dico che sta pur raro e fermo che non
desideriamo cose incognite. Perché se sono occorre quanto all’esser
particulare, non sono occolte quanto a l’esser generale: come in tutta la
potenza visiva si trova tutto il visibile in attitudine, nella intellettiva
tutto l’intelligibile. Però come ne l’attitudine è l’inclinazione a l’atto,
aviene che l’una e l’altra potenza è inchinata a l’atto in universale, come a
cosa naturalmente appresa per buona. Non parlava dumque a sordi o ciechi
l’anima, quando consultava con suoi pensieri de reprimere il vedere, il quale
quantunque non sia causa prossima del volere, è però causa prima e principale.
cicada Che intendete per questo ultimamente detto? tansillo Intendo che non è
la figura o la specie sensibilmente o intelligibilmente representata, la quale
per sé muove: perché mentre alcuno sta mirando la figura manifesta a gli occhi,
non viene ancora ad amare; ma da quello instante che l’animo concipe in se
stesso quella figurata non più visibile ma cogitabile, non più dividua ma
individua, non più sotto specie di cosa, ma sotto specie di buono o bello,
all’ora subito nasce l’amore. Or questo è quel vedere dal quale l’anima
vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri. Qua la vista suole promuovere
l’affetto ad amar più che non è quel che vede; perché, come poco fa ho detto,
sempre considera (per la notizia universale che tiene del bello e buono) che
oltre li gradi della compresa specie de buono e bello, sono altri et altri in
infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo informati de la specie del
bello la quale è conceputa nell’animo, pure desideriamo di pascere la vista esteriore?
tansillo Da quel, che l’animo vorrebbe sempre amare quel che ama, vuol sempre
vedere quel che vede. Però vuole che quella specie che gli è stata parturita
dal vedere non vegna ad attenuarsi, snervarsi e perdersi. Vuol dumque sempre
oltre et oltre vedere, perché quello che potrebe oscurarsi nell’affetto
interiore, vegna spesso illustrato dall’aspetto esteriore: il quale come è
principio de l’essere, bisogna che sia principio del conservare.
Proporzionalmente accade ne l’atto del intendere e considerare: perché come la
vista si riferisce alle cose visibili, cossì l’intelletto alle cose
intelligibili. Credo dumque ch’intendiate a che fine et in che modo l’anima
intenda quando dice: reprimet’il vedere. cicada Intendo molto bene. Or
seguitate a riportar quel ch’avvenne di questi pensieri. tansillo Séguita la
querela de la madre contra gli detti figli li quali, per aver contra
l’ordinazion sua aperti gli occhi et affissigli al splendor de l’oggetto, erano
rimasi in compagnia del core. Dice dumque: E voi ancor a me figli crudeli, per
più inasprir mia doglia, mi lasciaste; e perché senza fin più mi quereli, ogni
mia spene con voi n’amenaste. A che il senso riman, o avari cieli? a che queste
potenze tronche e guaste, se non per farmi materia et essempio de sì grave
martir, sì lungo scempio? Deh (per dio) cari figli, lasciate pur mio fuoco
alato in preda, e fate ch’io di voi alcun riveda tornato a me da que’ tenaci
artigli. Lassa, nessun riviene per tardo refrigerio de mie pene. Eccomi misera
priva del core, abandonata da gli pensieri, lasciata da la speranza, la qual
tutta avevo fissa in essi; altro non mi rimane che il senso della mia povertà,
infelicità e miseria. E perché non son oltre lasciata da questo? perché non mi
soccorre la morte, ora che son priva de la vita? A che mi trovo le potenze
naturali prive de gli atti suoi? Come potrò io sol pascermi di specie
intelligibili, come di pane intellettuale, se la sustanza di questo supposito è
composta? Come potrò io trattenirmi nella domestichezza di queste amiche e care
membra, che m’ho intessute in circa, contemprandole con la simmetria de le
qualitadi elementari, se mi abandonano gli miei pensieri tutti et affetti,
intenti verso la cura del pane immateriale e divino? Su su, o miei fugaci
pensieri, o mio rubelle cuore: viva il senso di cose sensibili e l’intelletto
de cose intelligibili. Soccorrasi al corpo con la materia e suggetto corporeo,
e l’intelletto con gli suoi oggetti s’appaghe: a fin che conste questa
composizione, non si dissolva questa machina, dove per mezzo del spirito
l’anima è unita al corpo. Come, misera, per opra domestica più tosto che per
esterna violenza ho da veder quest’orribil divorzio ne le mie parti e membra?
Perché l’intelletto s’impaccia di donar legge al senso e privarlo de suoi cibi?
e questo per il contrario resiste a quello, volendo vivere secondo gli proprii
e non secondo l’altrui statuti? perché questi e non quelli possono mantenerlo e
bearlo, percioché deve essere attento alla sua comoditade e vita, non a
l’altrui. Non è armonia e concordia dove è unità, dove un essere vuol assorbir
tutto l’essere; ma dove è ordine et analogia di cose diverse; dove ogni cosa
serva la sua natura. Pascasi dumque il senso secondo la sua legge de cose
sensibili, la carne serva alla legge de la carne, il spirito alla legge del
spirito, la raggione a la legge de la raggione: non si confondano, non si
conturbino. Basta che uno non guaste o pregiudiche alla legge de l’altro, se
non è giusto che il senso oltragge alla legge della raggione. È pur cosa vituperosa
che quella tirannegge su la legge di questo, massime dove l’intelletto è più
peregrino e straniero, et il senso è più domestico e come in propria patria. –
Ecco dumque, o miei pensieri, come di voi, altri son ubligati di rimanere alla
cura di casa, et altri possono andar a procacciare altrove. Questa è legge di
natura, questa per conseguenza è legge dell’autore e principio della natura.
Peccate dumque or che tutti sedotti dalla vaghezza de l’intelletto lasciate al
periglio de la morte l’altra parte di me. Onde vi è nato questo malencolico e
perverso umore di rompere le certe e naturali leggi de la vita vera che sta
nelle vostre mani, per una incerta e che non è se non in ombra oltre gli limiti
del fantastico pensiero? Vi par cosa naturale che non vivano animale et
umanamente, ma divina, se elli non sono dèi ma uomini et animali? È legge del
fato e della natura che ogni cosa s’adopre secondo la condizion de l’esser suo:
per che dumque mentre perseguitate il nettare avaro de gli dèi, perdete il
vostro presente e proprio, affligendovi forse sotto la vana speranza de
l’altrui? Credete che non si debba sdegnar la natura di donarvi l’altro bene,
se quello che presentanearnente v’offre tanto stoltamente dispreggiate?
Sdegnarà il ciel dar il secondo bene a chi ’l primiero don caro non tiene. Con
queste e simili raggioni l’anima prendendo la causa de la parte più inferma,
cerca de richiamar gli pensieri alla cura del corpo. Ma quelli (benché al
tardi) vegnono a mostrarsegli non già di quella forma con cui si partiro, ma
sol per dichiarargli la sua ribellione, e forzarla tutta a seguitarli. Là onde
in questa forma si lagna la dolente: Ahi cani d’Atteon, o fiere ingrate, che
drizzai al ricetto de mia diva, e vòti di speranza mi tornate; anzi venendo a
la materna riva, tropp’infelice fio mi riportate: mi sbranate, e volete ch’i’
non viva. Lasciami, vita, ch’al mio sol rimonte, fatta gemino rio senz’il mio
fonte. Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga? Quand’avverrà
ch’anch’io da qua mi tolga, e ratt’a l’alt’oggetto mi sulleve; e insieme col
mio core e i communi pulcini ivi dimore? Vogliono gli Platonici che l’anima,
quanto alla parte superiore, sempre consista ne l’intelletto, dove ha raggione
d’intelligenza più che de anima: atteso che anima è nomata per quanto vivifica
il corpo e lo sustenta. Cossì qua la medesima essenza che nodrisce e mantiene
li pensieri in alto insieme col magnificato cuore, se induce dalla parte
inferiore contrastarsi e richiamar quelli come ribelli. cicada Sì che non sono
due essenze contrarie, ma una suggetta a doi termini di contrarietade? tansillo
Cossì è a punto; come il raggio del sole il quale quindi tocca la terra et è
gionto a cose inferiori et oscure che illustra, vivifica et accende, indi è
gionto a l’elemento del fuoco, cioè a la stella da cui procede, ha principio, è
diffuso, et in cui ha propria et originale sussistenza: cossì l’anima ch’è
nell’orizonte della natura corporea et incorporea, ha con che s’inalze alle
cose superiori, et inchine a cose inferiori. E ciò puoi vedere non accadere per
raggion et ordine di moto locale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra
potenza o facultade. Come quando il senso monta all’imaginazione,
l’imaginazione alla raggione, la raggione a l’intelletto, l’intelletto a la
mente, all’ora l’anima tutta si converte in Dio, et abita il mondo
intelligibile. Onde per il contrario descende per conversion al mondo sensibile
per via de l’intelletto, raggione, imaginazione, senso, vegetazione. cicada È
vero ch’ho inteso che per trovarsi l’anima nell’ultimo grado de cose divine,
meritamente descende nel corpo mortale, e da questo risale di nuovo alli divini
gradi; e che son tre gradi d’intelligenze: perché son altre nelle quali
l’intellettuale supera l’animale, quali dicono essere l’intelligenze celesti;
altre nelle quali l’animale supera l’intellettuale, quali son l’intelligenze
umane; altre sono nelle quali l’uno e l’altro si portano ugualmente, come
quelle de demoni o eroi. tansillo Nell’apprender dumque che fa la mente, non
può desiderare se non quanto gli è vicino, prossimo, noto e familiare. Cossì il
porco non può desiderar esser uomo, né quelle cose che son convenienti
all’appetito umano. Ama più d’isvoltarsi per la luta che per un letto de
bissino; ama d’unirsi ad una scrofa, non a la più bella donna che produca la
natura: perché l’affetto séguita la raggion della specie (e tra gli uomini si
può vedere il simile, secondo che altri son più simili a una specie de bruti
animali, altri ad un’altra: questi hanno del quadrupede, quelli [del] volatile;
e forse hanno qualche vicinanza, la qual non voglio dire, per cui si son
trovati quei che sono affetti a certe sorte di bestie). Or a la mente (che
trovasi oppressa dalla material congionzione de l’anima) se fia lecito di
alzarsi alla contemplazione d’un altro stato in cui l’anima può arrivare, potrà
certo far differenza da questo a quello, e per il futuro spreggiar il presente.
Come se una bestia avesse senso della differenza che è tra le sue condizioni e
quelle de l’uomo, e l’ignobiltà del stato suo dalla nobiltà del stato umano, al
quale non stimasse impossibile di poter pervenire; amarebbe più la morte che li
donasse quel camino et ispedizione, che la vita quale l’intrattiene in quel
essere presente. Qua dumque quando l’anima si lagna dicendo O cani d’Atteon,
viene introdotta come cosa che consta di potenze inferiori solamente, e da cui
la mente è ribellata con aver menato seco il core, cioè gl’intieri affetti, con
tutto l’exercito de pensieri: là onde per apprension del stato presente et
ignoranza d’ogni altro stato, il quale non più lo stima essere, che da lei
possa esser conosciuto, si lamenta de pensieri li quali al tardi convertendosi
a lei vegnono per tirarla su più tosto che a farsi ricettar da lei. E qua per
la distrazzione che patisce dal commune amore della materia e di cose
intelligibili, si sente lacerare e sbranare di sorte che bisogna al fine di
cedere a l’appulso più vigoroso e forte. Qua se per virtù di contemplazione
ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli affetti naturali, onde con più puro
occhio apprenda la differenza de l’una e l’altra vita, all’ora vinta da gli
alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto; e benché viva nel corpo, vi
vegeta come morta, e vi è presente in atto de animazione et absente in atto
d’operazioni; non perché non vi operi mentre il corpo è vivo, ma perché
l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e come dispenserate. cicada
Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al terzo cielo, invaghito da la
vista di quello, disse che desiderava la dissoluzione dal suo corpo. tansillo
In questo modo, dove prima si lamentava del core e querelavasi de pensieri, ora
desidera d’alzarsi con quelli in alto, e mostra il rincrescimento suo per la
communicazione e familiarità contratta con la materia corporale, e dice:
Lasciami vita corporale, e non m’impacciar ch’io rimonti al mio più natio
albergo, al mio sole: lasciami ormai che più non verse pianto da gli occhi
miei, o perché mal posso soccorrerli, o perché rimagno divisa dal mio bene;
lasciami, che non è decente né possibile che questi doi rivi scorrano senza il
suo fonte, cioè senza il core: non bisogna (dico), che io faccia dei fiumi de
lacrime qua basso, se il mio core il quale è fonte de tai fiumi, se n’è volato
ad alto con le sue ninfe, che son gli miei pensieri. Cossì a poco a poco, da
quel disamore e rincrescimento procede a l’odio de cose inferiori; come quasi
dimostra dicendo: Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga? e
quel che seguita appresso. cicada Intendo molto bene questo, e quello che per
questo volete inferire a proposito della principale intenzione: cioè che son
gli gradi de gli amori, affezzioni e furori, secondo gli gradi di maggior o
minore lume di cognizione et intelligenza. tansillo Intendi bene. Da qua devi
apprendere quella dottrina che comunmente, tolta da’ Pitagorici e Platonici
vuole che l’anima fa gli doi progressi d’ascenso e descenso, per la cura ch’ha
di sé e de la materia; per quel ch’è mossa dal proprio appetito del bene, e per
quel ch’è spinta da la providenza del fato. cicada Ma di grazia dimmi
brevemente quel che intendi de l’anima del mondo: se ella ancora non può
ascendere né descendere? tansillo Se tu dimandi del mondo secondo la volgar
significazione, cioè in quanto significa l’universo, dico che quello per essere
infinito e senza dimensione o misura, viene a essere inmobile et inanimato et
informe, quantunque sia luogo de mondi infiniti mobili in esso, et abbia spacio
infinito, dove son tanti animali grandi che son chiamati astri. Se dimandi
secondo la significazione che tiene appresso gli veri filosofi, cioè in quanto
significa ogni globo, ogni astro, come è questa terra, il corpo del sole, luna
et altri, dico che tal anima non ascende né descende, ma si volta in circolo.
Cossì essendo composta de potenze superiori et inferiori, con le superiori
versa circa la divinitade, con l’inferiori circa la mole la qual viene da essa
vivificata e mantenuta intra gli tropici della generazione e corrozzione de le
cose viventi in essi mondi, servando la propria vita eternamente: perché l’atto
della divina providenza sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore
e lume le conserva nell’ordinario e medesimo essere. cicada Mi basta aver udito
questo a tal proposito. tansillo Come dumque accade che queste anime particolari
diversamente secondo diversi gradi d’ascenso e descenso vegnono affette quanto
a gli abiti et inclinazioni, cossì vegnono a mostrar diverse maniere et ordini
de furori, amori e sensi: non solamente nella scala de la natura, secondo gli
ordini de diverse vite che prende l’anima in diversi corpi, come vogliono
espressamente gli Pitagorici, Saduchimi et altri, et implicitamente Platone et
alcuni che più profondano in esso; ma ancora nella scala de gli affetti umani,
la quale è cossì numerosa de gradi come la scala della natura, atteso che
l’uomo in tutte le sue potenze mostra tutte le specie de lo ente. cicada Però
da le affezzioni si possono conoscer gli animi, se vanno alto o basso, o se
vegnono da alto o da basso, se procedono ad esser bestie o pur ad essere
divini, secondo lo essere specifico come intesero gli Pitagorici, o secondo la
similitudine de gli affetti solamente come comunmente si crede: non dovendo la
anima umana posser essere anima di bruto, come ben disse Plotino, et altri
Platonici secondo la sentenza del suo principe. tansillo Bene. Or per venire al
proposito, da furor animale questa anima descritta è promossa a furor eroico,
se la dice: Quando averrà ch’al alto oggetto mi sulleve, et ivi dimore in
compagnia del mio core e miei e suoi pulcini? Questo medesimo proposito
continova quando dice: Destin, quando sarà ch’io monte monte, qual per bearm’a
l’alte porte porte, che fan quelle bellezze conte, conte, e ’l tenace dolor
conforte forte chi fe’ le membra me disgionte, gionte, né lascia mie potenze
smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale vale, s’ove l’error non più
l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve l’alto oggett’ascende,
ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per cui convien che tante
emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto predice dice. O destino, o
fato, o divina immutabile providenza, quando sarà ch’io monte a quel monte,
cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi faccia toccar transportandomi
quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno evidenti e come comprese e numerate
quelle conte, cioè rare bellezze? Quando sarà, che forte et efficacemente
conforte il mio dolore (sciogliendomi da gli strettissimi lacci de le cure,
nelle quali mi trovo) colui che fe’ gionte et unite le mie membra, ch’erano
disunite e sgionte: cioè l’amore che ha unito insieme queste corporee parti,
ch’erano divise quanto un contrario è diviso da l’altro, e che ancora queste
potenze intellettuali, quali ne gli atti suoi son smorte, non le lascia a fatto
morte, facendole alquanto respirando aspirar in alto? Quando, dico, mi
confortarà a pieno, donando a queste libero et ispedito il volo, per cui possa
la mia sustanza tutta annidarsi là dove forzandomi convien ch’io emende tutte
le mende mie; dove pervenendo il mio spirito, vale più ch’il rivale, perché non
v’è oltraggio che li resista, non è contrarietà ch’il vinca, non v’è error che
l’assaglia? Oh se tende et arriva là dove forzandosi attende; et ascende e
perviene a quell’altezza, dove ascende, vuol star montato, alto et elevato il
suo oggetto: se fia che prenda quel bene che non può esser compreso da altro
che da uno, cioè da se stesso (atteso che ogn’altro l’have in misura della
propria capacità; e quel solo in tutta pienezza): all’ora avverrammi l’esser
felice in quel modo che dice chi tutto predice, cioè dice quella altezza nella
quale il dire tutto e far tutto è la medesima cosa; in quel modo che dice o fa
chi tutto predice, cioè chi è de tutte cose efficiente e principio: di cui il
dire [e] preordinare è il vero fare e principiare. Ecco come per la scala de
cose superiori et inferiori procede l’affetto de l’amore, come l’intelletto o
sentimento procede da questi oggetti intelligibili o conoscibili a quelli; o da
quelli a questi. cicada Cossì vogliono la più gran parte de sapienti la natura
compiacersi in questa vicissitudinale circolazione che si vede ne la vertigine
de la sua ruota. cicada Fate pure ch’io
veda, perché da me stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per
quel ch’appare esplicato nell’ordine (in questa milizia) qua descritto.
tansillo Vedi come portano l’insegne de gli suoi affetti o fortune. Lasciamo di
considerar su gli lor nomi et abiti; basta che stiamo su la significazion de
l’imprese et intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma
del corpo de la imagine, quanto l’altra ch’è messa per il più de le volte a
dechiarazion de l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco qua il primo che porta
un scudo distinto in quattro colori, dove nel cimiero è depinta la fiamma sotto
la testa di bronzo, da gli forami della quale esce a gran forza un fumoso
vento, e vi è scritto in circa At regna senserunt tria. tansillo Per
dichiarazion di questo direi che per essere ivi il fuoco che per quel che si
vede scalda il globo, dentro il quale è l’acqua, avviene che questo umido
elemento essendo rarefatto et attenuato per la virtù del calore, e per
conseguenza risoluto in vapore, richieda molto maggior spacio per esser
contenuto: là onde se non trova facile exito, va con grandissima forza, strepito
e ruina a crepare il vase. Ma se vi è loco o facile exito d’onde possa
evaporare, indi esce con violenza minore a poco a poco; e secondo la misura con
cui l’acqua se risolve in vapore, soffiando svapora in aria. Qua vien
significato il cor del furioso, dove come in esca ben disposta essendo
attaccato l’amoroso foco, accade che della sustanza vitale altro sfaville in
fuoco, altro si veda in forma de lacrimoso pianto boglier nel petto, altro per
l’exito di ventosi suspiri accender l’aria. – E però dice At regna senserunt
tria. Dove quello At ha II. tansillo Appresso è designato un che ha nel
suo scudo parimente destinto in quattro colori, il cimiero, dove è un sole che
distende gli raggi nel dorso de la terra; e vi è una nota che dice Idem semper
ubique totum. Giordano Bruno De gli eroici furori virtù di supponere
differenza, o diversità, o contrarietà: quasi dicesse che altro è che potrebbe
aver senso del medesimo, e non l’have. Il che è molto bene esplicato ne le rime
seguenti sotto la figura: Dal mio gemino lume, io poca terra soglio non parco
umor porgere al mare; da quel che dentr’il petto mi si serra spirto non scarso
accolgon l’aure avare; e ’l vampo che dal cor mi si disserra si può senza
scemars’al ciel alzare: con lacrime, suspiri et ardor mio a l’acqua, a l’aria,
al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’, aria, foco qualche parte di me: ma la mia
dea si dimostra cotant’iniqua e rea, che né mio pianto appo lei trova loco, né
la mia voce ascolta, né piatos’al mi’ardor umqua si volta. Qua la suggetta materia
significata per la terra è la sustanza del furioso; versa dal gemino lume, cioè
da gli occhi, copiose lacrime che fluiscono al mare; manda dal petto la
grandezza e moltitudine de suspiri a l’aria capacissimo; et il vampo del suo
core non come picciola favilla o debil fiamma nel camino de l’aria
s’intepidisce, infuma e trasmigra in altro essere: ma come potente e vigoroso
(più tosto acquistando de l’altrui che perdendo del proprio) gionge alla
congenea sfera. cicada Ho ben compreso il tutto. A l’altro. cicada Vedo che non
può esser facile l’interpretazione. tansillo Tanto il senso è più eccellente,
quanto è men volgare: il qual vedrete essere solo, unico e non stiracchiato.
Dovete considerare che il sole benché al rispetto de diverse regioni de la terra,
per ciascuna, sia diverso, a tempi a tempi, a loco a loco, a parte a parte; al
riguardo però del globo tutto, come medesimo, sempre et in cadaun loco fa
tutto: atteso che, in qualunque punto de l’eclittica ch’egli si trove, viene a
far l’inverno, l’estade, l’autunno e la primavera; e l’universal globo de la
terra a ricevere in sé le dette quattro tempeste. Perché mai è caldo a una
parte che non sia freddo a l’altra; come quando fia a noi nel tropico del
Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico del Capricorno; di sorte che è a
medesima raggione l’inverno a quella parte, con cui a questa è l’estade, et a
quelli che son nel mezzo è temperato, secondo la disposizion vernale o
autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li venti, gli calori, gli
freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse in un’altra parte, e non
la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse lasciato d’iscaldarla da
quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere, io intendo quel che
volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona tutte le impressioni a
la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte: cossì l’oggetto del
furioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto passivo de lacrime, che
son l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de suspiri quai son certi
vapori, che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a l’acqui, o partono da
l’acqui e vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica appresso: Quando
declin’il sol al Capricorno, fan più ricco le piogge ogni torrente; se va per
l’equinozzio o fa ritorno, ogni postiglion d’Eolo più si sente; e scalda più
col più prolisso giorno, nel tempo che rimonta al Cancro ardente: non van miei
pianti, sospiri et ardori con tai freddi, temperie e calori. Sempre equalmente
in pianto, quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E benché troppo m’inacqui
et infiamme, mai avvien ch’io suspire men che tanto: infinito mi scaldo,
equalment’a i suspiri e pianger saldo. cicada Questo non tanto dechiara il
senso de la divisa come il precedente discorso faceva: quanto più tosto dice la
conseguenza di quello, o l’accompagna. tansillo Dite megliore, che la figura è
latente ne la prima parte, et il motto è molto esplicato ne la seconda; come
l’uno e l’altro è molto propriamente significato nel tipo del sole e de la
terra. cicada Passamo al terzo. III. tansillo Il terzo nel scudo porta un
fanciullo ignudo disteso sul verde prato, e che appoggia la testa sollevata sul
braccio con gli occhi rivoltati verso il cielo a certi edificii de stanze,
torri, giardini et orti che son sopra le nuvole, e vi è un castello di cui la
materia è fuoco; et in mezzo è la nota che dice Mutuo fulcimur. cicada Che vuol
dir questo? tansillo Intendi quel furioso significato per il fanciullo ignudo
come semplice, puro et esposto a tutti gli accidenti di natura e di fortuna,
qualmente con la forza del pensiero edifica castegli in aria, e tra l’altre
cose una torre di cui l’architettore è l’amore, la materia l’amoroso foco, et
il fabricatore egli medesimo, che dice Mutuo fulcimu: cioè io vi edifico e vi sustegno
là con il pensiero, e voi mi sustenete qua con la speranza: voi non sareste in
essere se non fusse l’imaginazione et il pensiero con cui vi formo e sustegno,
et io non sarrei in vita se non fusse il refrigerio e conforto che per vostro
mezzo ricevo. cicada È vero che non è cosa tanto vana e tanto chimerica
fantasia, che non sia più reale e vera medicina d’un furioso cuore, che
qualsivoglia erba, pietra, oglio, o altra specie che produca la natura.
tansillo Più possono far gli maghi per mezzo della fede, che gli medici per via
de la verità: e ne gli più gravi morbi più vegnono giovati gl’infermi con
credere quel tanto che quelli dicono, che con intendere quel tanto che questi
facciono. Or legansi le rime: Sopra de nubi, a l’eminente loco, quando tal volta
vaneggiando avvampo, per di mio spirto refrigerio e scampo, tal formo a l’aria
castel de mio foco: s’il mio destin fatale china un poco, a fin ch’intenda
l’alta grazia il vampo in cui mi muoio, e non si sdegn’ o adire, o felice mia
pena e mio morire. Quella de fiamme e lacci tuoi, o garzon, che gli uomini e
gli divi fan suspirar, e soglion far cattivi, l’ardor non sente, né prova
gl’impacci: ma può ’ntrodurt’, o Amore, man di pietà, se mostri il mio dolore.
cicada Mostra che quel che lo pasce in fantasia, e gli fomenta il spirito, è
che (essendo lui tanto privo d’ardire d’esplicarsi a far conoscere la sua pena,
quanto profondamente suggetto a tal martìre), se avvenisse ch’il fato rigido e
rubelle chinasse un poco (perché voglia il destino al fin rasserenargli il
volto), con far che senza sdegno o ira de l’alto oggetto gli venesse manifesto,
non stima egli gioia tanto felice, né vita tanto beata, quanto per tal successo
lui stime felice la sua pena, e beato il suo morire. tansillo E con questo
viene a dichiarar a l’Amore che la raggion per cui possa aver adito in quel
petto, non è quell’ordinaria de le armi con le quali suol cattivar uomini e
dèi; ma solamente con fargli aperto il cuor focoso et il travagliato spirito de
lui; a la vista del quale fia necessario che la compassion possa aprirgli il
passo et introdurlo a quella difficil stanza. IV. cicada Che significa qua
quella mosca che vola circa la fiamma e sta quasi quasi per bruggiarsi, e che
vuol dir quel motto: Hostis non hostis? tansillo Non è molto difficile la
significazione de la farfalla, che sedotta dalla vaghezza del splendore,
innocente et amica va ad incorrere nelle mortifere fiamme: onde hostis sta
scritto per l’effetto del fuoco, non hostis per l’affetto de la mosca. Hostis
la mosca passivamente, non hostis attivamente. Hostis la fiamma per l’ardore,
non hostis per il splendore. cicada Or che è quel che sta scritto nella
tabella? tansillo Mai fia che de l’amor io mi lamente, senza del qual non
vogli’ esser felice; sia pur ver che per lui penoso stente, non vo’ non voler
quel che si me lice; sia chiar o fosch’il ciel, fredd’o ardente, sempr’un sarò
ver l’unica fenice. Mal può disfar altro destin o sorte quel nodo che non può
sciòrre la morte. Al cor, al spirt’, a l’alma non è piacer, o libertad’, o
vita, qual tanto arrida, giove e sia gradita, qual più sia dolce, graziosa et
alma, ch’il stento, giogo e morte, ch’ho per natura, voluntade e sorte. Qua
nella figura mostra la similitudine che ha il furioso con la farfalla affetta
verso la sua luce; ne gli carmi poi mostra più differenza e dissimilitudine che
altro: essendo che comunmente si crede che se quella mosca prevedesse la sua
ruina non tanto ora séguita la luce quanto all’ora la fuggirebbe, stimando male
di perder l’esser proprio risolvendosi in quel fuoco nemico. Ma a costui non
men piace svanir nelle fiamme de l’amoroso ardore, che essere abstratto a
contemplar la beltà di quel raro splendore, sotto il qual per inclinazion di
natura, per elezzion di voluntade e disposizion del fato, stenta, serve e
muore: più gaio, più risoluto e più gagliardo, che sotto qualsivogli’altro
piacer che s’offra al core, libertà che si conceda al spirito, e vita che si
ritrove ne l’alma. cicada Dimmi, perché dice: sempr’un sarò? tansillo Perché
gli par degno d’apportar raggione della sua constanza, atteso che il sapiente
si muta con la luna, il stolto si muta come la luna. Cossì questo è unico con
la fenice unica. V. cicada Bene; ma che significa quella frasca di palma, circa
la quale è il motto: Caesar adest? tansillo Senza molto discorrere, tutto
potrassi intendere per quel che è scritto nella tavola: Trionfator invitto di
Farsaglia, essendo quasi estinti i tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n
battaglia sorser, e vinser suoi nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del
ciel s’agguaglia, fatto a la vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma
disdegnosa spenti, le fa tornar più che l’amor possenti. La sua sola presenza,
o memoria di lei, sì le ravviva, che con imperio e potestade diva dóman ogni
contraria violenza. La mi governa in pace; né fa cessar quel laccio e quella
tace. Tal volta le potenze de l’anima inferiori, come un gagliardo e nemico
essercito che si trova nel proprio paese, prattico, esperto et accomodato,
insorge contra il peregrino adversario che dal monte de la intelligenza scende
a frenar gli popoli de le valli e palustri pianure. Dove dal rigor della
presenza de nemici e difficultà de precipitosi fossi vansi perdendo, e
perderiansi a fatto, se non fusse certa conversione al splendor de la specie
intelligibile mediante l’atto della contemplazione: mentre da gli gradi
inferiori si converte a gli gradi superiori. cicada Che gradi son questi?
tansillo Li gradi della contemplazione son come li gradi della luce, la quale
nullamente è nelle tenebre; alcunamente è ne l’ombra; megliormente è ne gli
colori secondo gli suoi ordini da l’un contrario ch’è il nero a l’altro che è
il bianco; più efficacemente è nel splendor diffuso su gli corpi tersi e
trasparenti, come nel specchio o nella luna; più vivamente ne gli raggi sparsi
dal sole; altissima e principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì
ordinate le potenze apprensive et affettive de le quali sempre la prossima
conseguente have affinità con la prossima antecedente, e per la conversione a
quella che la sulleva, viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime
(come la raggione per la conversione a l’intelletto non è sedotta o vinta dalla
notizia o apprensione et affetto sensitivo, ma più tosto secondo la legge di
quello viene a domar e correger questo), accade che quando l’appetito razionale
contrasta con la concupiscenza sensuale, se a quello per atto di conversione si
presente a gli occhi la luce intelligenziale, viene a repigliar la smarrita
virtude, rinforzar i nervi, spaventa e mette in rotta gli nemici. cicada In che
maniera intendete che si faccia cotal conversione? tansillo Con tre
preparazioni che nota il contemplativo Plotino nel libro Della bellezza
intelligibile: de le quali la prima è proporsi de conformarsi d’una
similitudine divina, divertendo la vista da cose che sono infra la propria
perfezzione, e commune alle specie uguali et inferiori; secondo è l’applicarsi
con tutta l’intenzione et attenzione alle specie superiori; terzo il cattivar
tutta la voluntade et affetto a Dio. Perché da qua avverrà che senza dubio
gl’influisca la divinità la qual da per tutto è presente e pronta ad ingerirsi
a chi se gli volta con l’atto de l’intelletto, et aperto se gli espone con
l’affetto de la voluntade. cicada Non è dumque corporal bellezza quella che
invaghisce costui? tansillo Non certo, perché la non è vera né constante
bellezza, e però non può caggionar vero né constante amore: la bellezza che si
vede ne gli corpi è una cosa accidentale et umbratile e come l’altre che sono
assorbite, alterate e guaste per la mutazione del suggetto, il quale sovente da
bello si fa brutto senza che alterazion veruna si faccia ne l’anima. La raggion
dumque apprende il più vero bello per conversione a quello che fa la beltade
nel corpo, e viene a formarlo bello: e questa è l’anima che l’ha talmente
fabricato e infigurato. Appresso l’intelletto s’inalza più, et apprende bene
che l’anima è incomparabilmente bella sopra la bellezza che possa esser ne gli
corpi; ma non si persuade che sia bella da per sé e primitivamente: atteso che
non accaderebbe quella differenza che si vede nel geno de le anime, onde altre
son savie, amabili e belle; altre stolte, odiose e brutte. Bisogna dumque
alzarsi a quello intelletto superiore il quale da per sé è bello e da per sé è
buono. Questo è quell’unico e supremo capitano, qual solo messo alla presenza
de gli occhi de militanti pensieri, le illustra, incoraggia, rinforza e rende
vittoriosi sul dispreggio d’ogn’altra bellezza e ripudio di qualsivogli’altro
bene. Questa dumque è la presenza che fa superar ogni difficultà e vincere ogni
violenza. cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire La mi governa in pace, Né fa
cessar quel laccio e quella face? tansillo Intende e prova, che qualsivoglia
sorte d’amore quanto ha maggior imperio e più certo domìno, tanto fa sentir più
stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al contrario de
gli ordinarii prencipi e tiranni, che usano maggior strettezza e forza, dove
veggono aver minore imperio. cicada Passa oltre. VI. tansillo Appresso veggio
descritta la fantasia d’una fenice volante, alla quale è volto un fanciullo che
bruggia in mezzo le fiamme, e vi è il motto: Fata obstant. Ma perché s’intenda
meglior, leggasi la tavoletta: Unico augel del sol, vaga Fenice, ch’appareggi
col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice: tu sei chi fuste, io son
quel che non fui; io per caldo d’amor muoio infelice; ma te ravviv’il sol co’
raggi sui; tu bruggi ’n un, et io in ogni loco; io da Cupido, hai tu da Febo il
foco. Hai termini prefissi di lunga vita, et io ho breve fine, che pronto
s’offre per mille ruine, né so quel che vivrò, né quel che vissi. Me cieco fato
adduce, tu certo torni a riveder tua luce. Dal senso de gli versi si vede che
nella figura si disegna l’antitesi de la sorte de la fenice e del furioso; e
che il motto Fata obstant, non è per significar che gli fati siano contrarii o
al fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e l’altro; ma che non son medesimi, ma
diversi et oppositi gli decreti fatali de l’uno e gli fatali decreti de l’altro:
perché la fenice è quel che fu, essendoché la medesima materia per il fuoco si
rinova ad esser corpo di fenice, e medesimo spirito et anima viene ad
informarla; il furioso è quel che non fu, perché il suggetto che è d’uomo,
prima fu di qualch’altra specie secondo innumerabili differenze. Di sorte che
si sa quel che fu la fenice, e si sa quel che sarà: ma questo suggetto non può
tornar se non per molti et incerti mezzi ad investirsi de medesima o simil
forma naturale. Appresso, la fenice al cospetto del sole cangia la morte con la
vita; e questo nel cospetto d’amore muta la vita con la morte. Oltre, quella su
l’aromatico altare accende il foco; e questo il trova e mena seco, ovumque va.
Quella ancora ha certi termini di lunga vita; ma costui per infinite differenze
di tempo et innumerabili caggioni de circonstanze, ha di breve vita termini
incerti. Quella s’accende con certezza, questo con dubio de riveder il sole.
cicada Che cosa credete voi che possa figurar questo? tansillo La differenza
ch’è tra l’intelletto inferiore, che chiamano intelletto di potenza o possibile
o passibile, il quale è incerto, moltivario e moltiforme; e l’intelletto
superiore, forse quale è quel che da Peripatetici è detto infima de
l’intelligenze, e che immediatamente influisce sopra tutti gl’individui
dell’umana specie, e dicesi intelletto agente et attuante. Questo intelletto
unico specifico umano che ha influenza in tutti li individui, è come la luna,
la quale non prende altra specie che quella unica, la qual sempre se rinova per
la conversion che fa al sole che è la prima et universale intelligenza: ma
l’intelletto umano individuale e numeroso viene come gli occhi a voltarsi ad
innumerabili e diversissimi oggetti, onde secondo infiniti gradi che son
secondo tutte le forme naturali viene informato. Là onde accade che sia
furioso, vago et incerto questo intelletto particolare; come quello universale
è quieto, stabile e certo, cossì secondo l’appetito come secondo l’apprensione.
O pur quindi (come da per te stesso puoi facilmente desciferare) vien
significata la natura dell’apprensione et appetito vario, vago, inconstante et
incerto del senso, e del concetto et appetito definito, fermo e stabile de
l’intelligenza; la differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né
discrezion de oggetti, da l’amor intellettivo il qual ha mira ad un certo e
solo, a cui si volta, da cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne
l’affetto, s’infiamma, s’illustra et è mantenuto nell’unità, identità e stato.
VII. cicada Ma che vuol significare quell’imagine del sole con un circolo
dentro, et un altro da fuori, con il motto Circuit? tansillo La significazion
di questo son certo che mai arrei compresa, se non fusse che l’ho intesa dal
medesimo figuratone: or è da sapere che quel circuit si referisce al moto del
sole che fa per quel circolo, il quale gli vien descritto dentro e fuori; a
significare che quel moto insieme insieme si fa et è fatto: onde per
consequenza il sole viene sempre ad ritrovarsi in tutti gli punti di quello.
Perché s’egli si muove in uno instante, séguita che insieme si muove et è
mosso, e che è per tutta la circonferenza del circolo equalmente, e che in esso
convegna in uno il moto e la quiete. cicada Questo ho compreso nelli dialogi De
l’infinito, universo e mondi innumerabili, e dove si dechiara come la divina
sapienza è mobilissima (come disse Salomone) e che la medesima sia
stabilissima, come è detto et inteso da tutti quelli che intendono. Or séguita
a farmi comprendere il proposito. tansillo Vuol dire che il suo sole non è come
questo, che (come comunmente si crede) circuisce la terra col moto diurno in
ventiquattro ore, e col moto planetare in dodeci mesi; laonde fa distinti gli
quattro tempi de l’anno, secondo che a termini di quello si trova in quattro
punti cardinali del Zodiaco; ma è tale, che (per essere la eternità istessa e
conseguentemente una possessione insieme tutta e compita) insieme insieme
comprende l’inverno, la primavera, l’estade, l’autunno, insieme insieme il
giorno e la notte: perché è tutto per tutti et in tutti gli punti e luoghi.
cicada Or applicate quel che dite alla figura. tansillo Qua, perché non è
possibile designar il sol tutto in tutti gli punti del circolo, vi son
delineati doi circoli: l’un che ’l comprenda per significar che si muove per
quello; l’altro che sia da lui compreso per mostrar che è mosso per quello.
cicada Ma questa dimostrazione non è troppo aperta e propria. tansillo Basta
che sia la più aperta e propria che lui abbia possuta fare: se voi la possete
far megliore vi si dà autorità di toglier quella e mettervi quell’altra; perché
questa è stata messa solo a fin che l’anima non fusse senza corpo. cicada Che
dite di quel Circuit? tansillo Quel motto, secondo tutta la sua significazione,
significa la cosa quanto può essere significato; atteso che significa che volta
e che è voltato: cioè il moto presente e perfetto. cicada Eccellentemente: e
però que’ circoli li quali malamente significano la circonstanza del moto e
quiete tale, possiamo dire che son messi a significar la sola circolazione. E cossì
vegno contento del suggetto e de la forma de l’impresa eroica. Or legansi le
rime. tansillo Sol che dal Tauro fai temprati lumi, e dal Leon tutto maturi e
scaldi, e quando dal pungente Scorpio allumi, de l’ardente vigor non poco
faldi; poscia dal fier Deucalion consumi tutto col fredd’, e i corp’umidi
saldi: de primavera, estade, autunno, inverno mi scald’ accend’ ard’ avvamp’in
eterno. Ho sì caldo il desio, che facilment’ a remirar m’accendo
quell’alt’oggetto, per cui tant’ardendo, fo sfavillar a gli astri il vampo mio:
non han momento gli anni, che vegga variar miei sordi affanni. Qua nota che gli
quattro tempi de l’anno son significati non per quattro segni mobili che son
Ariete, Cancro, Libra e Capricorno, ma per gli quattro che chiamano fissi, cioè
Tauro, Leone, Scorpione et Aquario: per significare la perfezzione, stato e
fervor di quelle tempeste. Nota appresso che in virtù di quelle apostrofi che
son nel verso ottavo, possete leggere mi scaldo, accendo, ardo, avampo; over,
scaldi, accendi, ardi, avampi; over scalda, accende, arde, avvampa”. Hai oltre
da considerare che questi non son quattro sinonimi, ma quattro termini diversi
che significano tanti gradi de gli effetti del fuoco. Il qual prima scalda,
secondo accende, terzo bruggia, quarto infiamma o invampa quel ch’ha scaldato,
acceso e bruggiato. E cossì son denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il
studio, l’affezzione, le quali in nessun momento sente variare. cicada Perché
le mette sotto titolo d’affanni? tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina
luce, in questa vita è più in laborioso voto che in quieta fruizione: perché la
nostra mente verso quella è come gli occhi de gli uccelli notturni al sole.
cicada Passa, perché ora da quel ch’è detto posso comprender tutto. VIII.
tansillo Nel cimiero seguente vi sta depinta una luna piena col motto Talis
mihi semper et astro. Vuol dir che a l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è
tale, come si mostra qua piena e lucida nella circonferenza intiera del
circolo: il che acciò che meglio forse intendi, voglio farti udire quel ch’è
scritto nella tavoletta. Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e
tal’or piene svalli, or l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei
monti le valli fai lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e
di Libia le spalli. La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è
mai sempre piena. È tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende,
che sempre tanto bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella:
questa mia nobil face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia
dire che la sua intelligenza particulare alla intelligenza universale è sempre
tale: cioè da quella viene eternamente illuminata in tutto l’emisfero; benché
alle potenze inferiori e secondo gl’influssi de gli atti suoi or viene oscura,
or più e meno lucida. O forse vuol significare che l’intelletto suo speculativo
(il quale è sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et affetto verso
l’intelligenza umana significata per la luna, perché come questa è detta infima
de tutti gli astri et è più vicina a noi, cossì l’intelligenza illuminatrice de
tutti noi (in questo stato) è l’ultima in ordine de l’altre intelligenze, come
nota Averroe et altri più sottili Peripatetici. Quella a l’intelletto in
potenza or tramonta, per quanto non è in atto alcuno, or come svallasse, cioè
sorgesse dal basso de l’occolto emispero, si mostra or vacua or piena secondo
che dona più o meno lume d’intelligenza; or ha l’orbe oscuro or bianco, perché
talvolta mostra per ombra, similitudine e vestigio, tal volta più e più
apertamente; or declina a l’Austro, or monta a Borea, cioè or ne si va più e
più allontanando, or più e più s’avvicina. Ma l’intelletto in atto con sua
continua pena (percioché questo non è per natura e condizione umana in cui si
trova cossì travaglioso, combattuto, invitato, sollecitato, distratto e come
lacerato dalle potenze inferiori) sempre vede il suo oggetto fermo, fisso e
constante, e sempre pieno e nel medesimo splendor di bellezza. Cossì sempre se
gli toglie per quanto non se gli concede, sempre se gli rende per quanto se gli
concede. Sempre tanto lo bruggia ne l’affetto, come sempre tanto gli splende
nel pensiero; sempre è tanto crudele in suttrarsi per quel che si suttrae, come
sempre è tanto bello in comunicarsi per quel che gli se presenta. Sempre lo
martòra, perciò che è diviso per differenza locale da lui, come sempre gli
piace, percioché gli è congionto con l’affetto. cicada Or applicate
l’intelligenza al motto. tansillo Dice dumqueTalis mihi semper, cioè per la mia
continua applicazione secondo l’intelletto, memoria e volontarie (perché non
voglio altro rallentare, intendere, né desiderare) sempre mi è tale, e per
quanto posso capirla, al tutto presente, e non m’è divisa per distrazzion de
pensiero, né me si fa più oscura per difetto d’attenzione, perché non è
pensiero che mi divertisca da quella luce, e non è necessità di natura qual
m’oblighi perché meno attenda. Talis mihi semper dal canto suo, perché la è
invariabile in sustanza, in virtù, in bellezza et in effetto verso quelle cose
che sono constanti et invariabili verso lei. Dice appresso ut astro, perché al
rispetto del sole illuminator de quella sempre è ugualmente luminosa, essendo
che sempre ugualmente gli è volta, e quello sempre parimente diffonde gli suoi
raggi: come fisicamente questa luna che veggiamo con gli occhi, quantunque
verso la terra or appaia tenebrosa or lucente, or più or meno illustrata et
illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente illuminata; perché sempre
piglia gli raggi di quello al meno nel dorso del suo emispero intiero. Come
anco questa terra sempre è illuminata nell’emisfero equalmente; quantunque da
l’acquosa superficie cossì inequalmente a volte a volte mande il suo splendore
alla luna (qual come molti altri astri innumerabili stimiamo un’altra terra)
come aviene che quella mande a lei: atteso la vicissitudine ch’hanno insieme de
ritrovarsi or l’una or l’altra più vicina al sole. cicada Come questa
intelligenza è significata per la luna che luce per l’emisfero? tansillo Tutte
l’intelligenze son significate per la luna, in quanto che son partecipi d’atto
e di potenza, per quanto dico che hanno la luce materialmente, e secondo
participazione, ricevendola da altro; dico non essendo luci per sé e per sua
natura: ma per risguardo del sole ch’è la prima intelligenza, la quale è pura
et absoluta luce come anco è puro et absoluto atto. cicada Tutte dumque le cose
che hanno dependenza, e che non sono il primo atto e causa, sono composte come
di luce e tenebra, come di materia e forma, di potenza et atto? tansillo Cossì
è. Oltre, l’anima nostra secondo tutta la sustanza è significata per la luna la
quale splende per l’emispero delle potenze superiori, onde è volta alla luce
del mondo intelligibile, et è oscura per le potenze inferiori, onde è occupata
al governo della materia. IX. cicada E mi par che a quel ch’ora è detto abbia
certa conseguenza e simbolo l’impresa ch’io veggio nel seguente scudo, dove è
una ruvida e ramosa quercia piantata, contra la quale è un vento che soffia, et
ha circonscritto il motto Ut robori robur. Et appresso è affissa la tavola che
dice: Annosa quercia, che gli rami spandi a l’aria, e fermi le radici ’n terra:
né terra smossa, né gli spirti grandi che da l’aspro Aquilon il ciel disserra,
né quanto fia ch’il vern’orrido mandi, dal luog’ove stai salda mai ti sferra;
mostri della mia fé ritratto vero qual smossa mai stran’accidenti féro. Tu
medesmo terreno mai sempr’abbracci, fai colto e comprendi, e di lui per le
viscere distendi radici grate al generoso seno: i’ ad un sol oggetto ho fiss’il
spirt’, il sens’e l’intelletto. [tansillo] Il motto è aperto, per cui si vanta
il furioso d’aver forza e robustezza, come la rovere; e come quell’altro,
essere sempre uno al riguardo da l’unica fenice; e come il prossimo precedente
conformarsi a quella luna che sempre tanto splende, e tanto è bella; o pur non
assomigliarsi a questa antictona tra la nostra terra et il sole in quanto ch’è
varia a’ nostri occhi: ma in quanto sempre riceve ugual porzion del splendor
solare in se stessa. E per ciò cossì rimaner constante e fermo contra gli
Aquiloni e tempestosi inverni per la fermezza ch’ha nel suo astro in cui è
piantato con l’affetto et intenzione, come la detta radicosa pianta tiene
intessute le sue radici con le vene de la terra. cicada Più stimo io l’essere
in tranquillità e fuor di molestia che trovarsi in una sì forte toleranza.
tansillo È sentenza d’Epicurei la qual se sarà bene intesa, non sarà giudicata
tanto profana quanto la stimano gli ignoranti; atteso che non toglie che quel
ch’io ho detto sia virtù, né pregiudica alla perfezzione della constanza, ma
più tosto aggionge a quella perfezzione che intendeno gli volgari: perché lui
non stima vera e compita virtù di fortezza e constanza quella che sente e
comporta gl’incommodi: ma quella che non sentendoli le porta; non stima compìto
amor divino et eroico quello che sente il sprone, freno o rimorso o pena per
altro amore, ma quello ch’a fatto non ha senso de gli altri affetti: onde
talmente è gionto ad un piacere, che non è potente dispiacere alcuno a distorlo
o far cespitare in punto. E questo è toccar la somma beatitudine in questo
stato, l’aver la voluptà e non aver senso di dolore. cicada La volgare opinione
non crede questo senso d’Epicuro. tansillo Perché non leggono gli suoi libri,
né quelli che senza invidia apportano le sue sentenze, al contrario di color
che leggono il corso de sua vita et il termine de la sua morte. Dove con queste
paroli dettò il X. tansillo Guarda in quest’altro ch’ha la fantasia di
quella incudine e martello, circa la quale è il motto Ab Aetna. Ma prima che la
consideriamo, leggemo la stanza. Qua s’introduce di Vulcano la prosopopea: Or
non al monte mio siciliano torn’, ove tempri i folgori di Giove; Giordano Bruno
De gli eroici furori principio del suo testamento: Essendo ne l’ultimo e
medesimo felicissimo giorno de nostra vita, abbiamo ordinato questo con mente
quieta, sana e tranquilla; perché quantunque grandissimo dolor de pietra ne
tormentasse da un canto, quel tormento tutto venea assorbito dal piacere de le
nostre invenzioni e la considerazion del fine. Et è cosa manifesta che non
ponea felicità più che dolore nel mangiare, bere, posare e generare, ma in non
sentir fame, né sete, né fatica, né libidine. Da qua considera qual sia secondo
noi la perfezzion de la constanza: non già in questo che l’arbore non si
fracasse, rompa o pieghe; ma in questo che né manco si muova: alla cui
similitudine costui tien fisso il spirto, senso et intelletto, là dove non ha
sentimento di tempestosi insulti. cicada Volete dumque che sia cosa
desiderabile il comportar de tormenti, perché è cosa da forte? tansillo Questo
che dite comportare è parte di constanza, e non è la virtude intiera; ma questo
che dico fortemente comportare et Epicuro disse non sentire. La qual privazion
di senso è caggionata da quel che tutto è stato absorto dalla cura della
virtude, vero bene e felicitade. Qualmente Regolo non ebbe senso de l’arca,
Lucrezia del pugnale, Socrate del veleno, Anaxarco de la pila, Scevola del
fuoco, Cocle de la voragine, et altri virtuosi d’altre cose che massime
tormentano e danno orrore a persone ordinarie e vili. cicada Or passate oltre. qua
mi rimagno scabroso Vulcano: qua più superbo gigante si smuove, che contr’il
ciel s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi studii e varie prove; qua trovo
meglior fabri e Mongibello, meglior fucina, incudine e martello. Dov’un pett’ha
suspiri che quai mantici avvivan la fornace, u’ l’alm’a tante scosse
sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran martìri; e manda quel concento che
fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si mostrano le pene et incomodi che son
ne l’amore, massime nell’amor volgare, il quale non è altro che l’officina di
Vulcano: quel fabro che forma i folgori de Giove che tormentano l’anime
delinquenti. Perché il disordinato amore ha in sé il principio della sua pena;
attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di noi. Si trova in noi certa sacrata
mente et intelligenza, cui subministra un proprio affetto che ha il suo
vendicatore, che col rimorso di certa sinderesi al meno, come con certo rigido
martello flagella il spirito prevaricante. Quella osserva le nostre azzioni et
affetti, e come è trattata da noi fa che noi vengamo trattati da lei. In tutti
gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano: come non è uomo che non abbia Dio in
sé, non è amante che non abbia questo dio. In tutti è Dio certissimamente, ma
qual dio sia in ciascuno non si sa cossì facilmente; e se pur se può esaminare
e distinguere, altro non potrei credere che possa chiarirlo che l’amore: come
quello che spinge gli remi, gonfia la vela e modera questo composto, onde vegna
bene o malamente affetto. – Dico bene o malamente affetto quanto a quel che
mette in esecuzione per l’azzioni morali e contemplazione; perché del resto tutti
gli amanti comunmente senteno qualch’incomodo: essendoché come le cose son
miste, non essendo bene alcuno sotto concetto et affetto a cui non sia gionto o
opposto il male, come né alcun vero a cui non sia apposto e gionto il falso;
cossì non è amore senza timore, zelo, gelosia, rancore et altre passioni che
procedono dal contrario che ne perturba, se l’altro contrario ne appaga.
Talmente venendo l’anima in pensiero di ricovrar la bellezza naturale, studia
purgarsi, sanarsi, riformarsi: e però adopra il fuoco, perché essendo come oro
trameschiato a la terra et informe, con certo rigor vuol liberarsi da impurità;
il che s’effettua quando l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani
essercitandovi gli atti dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che
si riferisca quel che si trova nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore da
la madre Penìa ha ereditato l’esser arido, magro, pallido, discalzo, summisso,
senza letto e senza tetto: per le quali circonstanze vien significato il
tormento ch’ha l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì è,
perché il spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri distratto,
martellato da cure urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato da spesse
occasioni: onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad essere men
diligente et operosa al governo del corpo per gli atti della potenza
vegetativa. Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha difetto de
sangue, copia di malancolici umori, li quali se non saranno instrumenti de
l’anima disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, menano ad insania,
stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e dispreggio del
esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi discalzi. Va
summisso l’amore e vola come rependo per la terra, quando è attaccato a cose
basse; vola alto quando vien intento a più generose imprese. In conclusione et
a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è travagliato e tormentato di sorte
che non possa mancar d’esser materia nelle focine di Vulcano; perché l’anima
essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma signora della materia
corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che volontariamente serve al
corpo, dove non trova cosa che la contente. E quantumque fissa nella cosa
amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad essagitarsi e fluttuar in
mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli, conscienze, rimorsi,
ostinazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli mantici, gli carboni,
l’incudini, gli martelli, le tenaglie, et altri stormenti che si ritrovano
nella bottega di questo sordido e sporco consorte di Venere. cicada Or assai è
stato detto a questo proposito: piacciavi di veder che cosa séguita appresso.
XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamente, con diverse preciosissime
specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice Pulchriori detur. cicada La
allusione al fatto delle tre dee che si sottoposero al giudicio de Paride, è
molto volgare: ma leggansi le rime che più specificatamente ne facciano capaci
de l’intenzione del furioso presente. tansillo Venere, dea del terzo ciel, e
madre del cieco arciero, domator d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial per
padre, e di Giove la mogli’ altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che
squadre de chi de lor più bell’è l’aureo muno: se la mia diva al paragon
s’appone, non di Venere, Pallad’, o Giunone. Per belle membra è vaga la cipria
dea, Minerva per l’ingegno, e la Saturnia piace con quel degno splendor
d’altezza, ch’il Tonante appaga; ma quest’ha quanto aggrade di bel,
d’intelligenza, e maestade. Ecco qualmente fa comparazione dal suo oggetto il
quale contiene tutte le circonstanze, condizioni e specie di bellezza come in
un suggetto, ad altri che non ne mostrano più che una per ciascuno; e tutte poi
per diversi suppositi: come avvenne nel geno solo della corporal bellezza di
cui le condizioni tutte non le poté approvare Apelle in una, ma in più vergini.
Or qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna che tutti si troveno in
ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca sapienza e maestade, in
Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in Pallade è pur notata la
maestà con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una condizione supera le
altre, onde quella viene ad esser stimata come proprietà, e l’altre come
accidenti communi, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina in una, e viene
ad mostrarla et intitularla sovrana de l’altre. E la caggion di cotal
differenza è lo aver queste raggioni non per essenza e primitivamente, ma per
participazione e derivativamente. Come in tutte le cose dependenti sono le
perfezzioni secondo gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma nella
simplicità della divina essenza è tutto totalmente, e non secondo misura: e
però non è più sapienza che bellezza, e maestade, non è più bontà che fortezza:
ma tutti gli attributi sono non solamente uguali, ma ancora medesimi et una
istessa cosa. Come nella sfera tutte le dimensioni sono non solamente uguali
(essendo tanta la lunghezza quanta è la profondità e larghezza) ma anco
medesime: atteso che quel che chiami profondo, medesimo puoi chiamar lungo e
largo della sfera. Cossì è nell’altezza de la sapienza divina, la quale è
medesimo che la profondità de la potenza, e latitudine de la bontade. Tutte
queste perfezzioni sono uguali perché sono infinite. Percioché necessariamente
l’una è secondo la grandezza de l’altra, atteso che dove queste cose son
finite, avviene che sia più savio che bello e buono, più buono e bello che
savio, più savio e buono che potente, e più potente che buono e savio. Ma dove
è infinita sapienza, non può essere se non infinita potenza: perché altrimenti
non potrebbe saper infinitamente. Dove è infinita bontà, bisogna infinita
sapienza: perché altrimenti non saprebbe essere infinitamente buono. Dove è
infinita potenza, bisogna che sia infinita bontà e sapienza, perché tanto ben
si possa sapere e si sappia possere. Or dumque vedi come l’oggetto di questo
furioso, quasi inebriato di bevanda de dèi, sia più alto incomparabilmente che
gli altri diversi da quello. Come, voglio dire, la specie intelligibile della
divina essenza comprende la perfezzione de tutte l’altre specie altissimamente,
di sorte che, secondo il grado che può esser partecipe di quella forma, potrà
intender tutto e far tutto, et esser cossì amico d’una, che vegna ad aver a
dispreggio e tedio ogn’altra bellezza. Però a quella si deve esser consecrato
il sferico pomo, come chi è tutto in tutto. Non a Venere bella che da Minerva è
superata in sapienza, e da Giunone in maestà. Non a Pallade di cui Venere è più
bella, e l’altra più magnifica. Non a Giunone, che non è la dea
dell’intelligenza et amore ancora. cicada Certo come son gli gradi delle nature
et essenze, cossì proporzionalmente son gli gradi delle specie intelligibili, e
magnificenze de gli amorosi affetti e furori. XII. cicada Il seguente porta una
testa, ch’ha quattro faccia che soffiano verso gli quattro angoli del cielo; e
son quattro venti in un suggetto, alli quali soprastanno due stelle, et in
mezzo il motto che dice Novae ortae Aeoliae; vorrei sapere che cosa vegna
significata. tansillo Mi pare ch’il senso di questa divisa è conseguente di
quello de la prossima superiore. Perché come là è predicata una infinita
bellezza per oggetto, qua vien protestata una tanta aspirazione, studio,
affetto e desio; percioch’io credo che questi venti son messi a significar gli
suspiri; il che conosceremo, se verremo a leggere la stanza: Figli d’Astreo
Titan e de l’Aurora, che conturbate il ciel, il mar e terra, quai spinti fuste
dal Litigio fuora, perché facessi a’ dèi superba guerra: non più a l’Eolie
spelunche dimora fate, ov’imperio mio vi fren’e serra: ma rinchiusi vi
siet’entra’a quel petto ch’i’ veggo a tanto sospirar costretto. Voi socii
turbulenti de le tempeste d’un et altro mare, altro non è che vagli’
asserenare, che que’omicidi lumi et innocenti: quelli apert’et ascosi vi
renderan tranquilli et orgogliosi. Aperto si vede ch’è introdotto Eolo parlar a
i venti, quali non più dice esser da lui moderati nell’Eolie caverne: ma da due
stelle nel petto di questo furioso. Qua le due stelle non significano gli doi
occhi che son ne la bella fronte: ma le due specie apprensibili della divina
bellezza e bontade di quell’infinito splendore, che talmente influiscono nel
desio intellettuale e razionale, che lo fanno venire ad aspirar infinitamente,
secondo il modo con cui infinitamente grande, bello e buono apprende
quell’eccellente lume. Perché l’amore mentre sarà finito, appagato, e fisso a
certa misura, tansillo cicada tansillo Giordano Bruno De gli eroici furori non
sarà circa le specie della divina bellezza: ma altra formata; ma mentre verrà
sempre oltre et oltre aspirando, potrassi dire che versa circa l’infinito.
cicada Come comodamente l’aspirare è significato per il spirare? che simbolo
hanno i venti col desiderio? tansillo Chi de noi in questo stato aspira, quello
suspira, quello medesimo spira. E però la vehemenza dell’aspirare è notata per
quell’ieroglifico del forte spirare. cicada Ma è differenza tra il sospirare e
spirare. tansillo Però non vien significato l’uno per l’altro come medesimo per
il medesimo: ma come simile per il Simile. cicada Seguitate dumque il vostro
proposito. tansillo L’infinita aspirazion dumque mostrata per gli suspiri, e
significata per gli venti, è sotto il governo non d’Eolo nell’Eolie, ma di
detti doi lumi; li quali non solo innocente, ma e benignissimamente uccidono il
furioso, facendolo per il studioso affetto morire al riguardo d’ogn’altra cosa:
con ciò che quelli che chiusi et ascosi lo rendono tempestoso, aperti lo
renderan tranquillo; atteso che nella staggione che di nuvoloso velo adombra
gli occhi de l’umana mente in questo corpo, aviene che l’alma con tal studio
vegna più tosto turbata e travagliata: come essendo quello stracciato e spinto,
doverrà tant’altamente quieta, quanto baste ad appagar la condizion di sua
natura. cicada Come l’intelletto nostro finito può seguitar l’oggetto infinito?
Con l’infinita potenza ch’egli ha. Questa è vana, se mai sarrà in effetto.
Sarrebe vana, se fusse circa atto finito, dove l’infinita potenza sarrebe
privativa; ma non già circa l’atto infinito, dove l’infinita potenza è positiva
perfezzione. cicada Se l’intelletto umano è una natura et atto finito, come e
perché ha potenza infinita? tansillo Perché è eterno, et acciò sempre si
dilette, e non abbia fine né misura la sua felicità; e perché come è finito in
sé, cossì sia infinito nell’oggetto. cicada Che differenza è tra la infinità de
l’oggetto et infinità della potenza? tansillo Questa è finitamente infinita,
quello infinitamente infinito. Ma torniamo a noi. Dice dumque là il motto Novae
partae Aeoliae, perché par si possa credere che tutti gli venti (che son negli
antri voraginosi d’Eolo) sieno convertiti in suspiri, se vogliamo numerar
quelli che procedono da l’affetto che senza fine aspira al sommo bene et
infinita beltade. XIII. cicada Veggiamo appresso la significazione di quella
face ardente, circa la quale è scritto Ad vitam, non ad horam. tansillo La
perseveranza in tal amore et ardente desio del vero bene, in cui arde in questo
stato temporale il furioso. Questo credo che mostra la seguente tavola: Partesi
da la stanz’il contadino, quando il sen d’Oriente il giorno sgombra; e quand’il
sol ne fere più vicino, stanc’e cotto da caldo sied’a l’ombra; lavora poi, e
s’affatica insino ch’atra caligo l’emisfer ingombra; indi si posa: io sto a
continue botte mattina, mezo giorno, sera e notte. Questi focosi rai ch’escon
da que’ dei archi del mio sole, de l’alma mia (com’il mio destin vuole) dal
orizonte non si parton mai: bruggiand’a tutte l’ore dal suo meridian l’afflitto
core.cicada Questa tavola più vera che propriamente esplica il senso de la
figura. tansillo Non ho d’affaticarmi a farvi veder queste proprietadi, dove il
vedere non merita altro che più attenta considerazione. Gli rai del sole son le
raggioni con le quali la divina beltade e bontade si manifesta a noi. E son
focosi, perché non possono essere appresi da l’intelletto, senza che
conseguentemente scaldeno l’affetto. Doi archi del sole son le due specie di
revelazione che gli scolastici teologi chiamano matutina e vespertina; onde
l’intelligenza illuminatrice di noi, come aere mediante, ne adduce quella
specie o in virtù che la admira in se stessa, o in efficacia che la contempla
ne gli effetti. L’orizonte de l’alma in questo luogo è la parte delle potenze
superiori, dove a l’apprensione gagliarda de l’intelletto soccorre il vigoroso
appulso de l’affetto, significato per il core, che bruggiando a tutte l’ore
s’afflige; perché tutti gli frutti d’amore che possiamo raccòrre in questo
stato non son sì dolci che non siano più gionti a certa afflizzione, quella
almeno che procede da l’apprension di non piena fruizione. Come specialmente
accade ne gli frutti de l’amor naturale, la condizion de gli quali non saprei
meglio esprimere, che come fe’ il poeta epicureo: Ex hominis vero facie
pulchroque colore nil datur in corpus praeter simulacra fruendum tenuia, quae
vento spes captat saepe misella. Ut bibere in somnis sitiens cum quaerit, et
humor non datur, ardorem in membris qui stinguere possit; sed laticum simulacra
petit frustraque laborat, in medioque sitit torrenti flumine potans: sic in
amore Venus simulacris ludit amantis, nec satiare queunt spectando corpora
coram, nec manibus quicquam teneris abradere membris possunt, errantes incerti
corpore toto. Denique cum membris conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam
praesagit gaudia corpus, atque in eo est Venus, ut muliebria conserat arva,
adfigunt avide corpus iunguntque salivas oris, et inspirant pressantes dentibus
ora, nequicquam, quoniam nibil inde abradere possunt, nec penetrare et abire in
corpus corpore toto. Similmente giudica nel geno del gusto che qua possiamo
aver de cose divine: mentre a quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo
aver più afflizzione nel desio che piacer nel concetto. E per questo può aver
detto quel savio Ebreo, che chi aggionge scienza aggionge dolore, perché dalla
maggior apprensione nasce maggior e più alto desio, e da questo séguita maggior
dispetto e doglia per la privazione della cosa desiderata; là onde l’epicureo
che séguita la più tranquilla vita, disse in proposito de l’amor volgare: Sed
fugitare decet simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque alio
convertere mentem, nec servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim virescit
el inveterascit alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna gravescit. Nec
Veneris fructu sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt sine paena
commoda sumit. cicada Che intende per il meridiano del core? tansillo La parte
o region più alta e più eminente de la volontà, dove più illustre, forte,
efficace e rettamente è riscaldata. Intende che tale affetto non è come in
principio che si muova, né come in fine che si quiete, ma come al mezzo dove
s’infervora. XIV. cicada Ma che significa quel strale infocato che ha le fiamme
in luogo di ferrigna punta, circa il quale è avolto un laccio, et ha il motto
Amor instat ut instans? Dite che ne intendete. tansillo Mi par che voglia dire
che l’amor mai lo lascia, e che eterno parimente l’affliga. cicada Vedo bene
laccio, strale e fuoco; intendo quel che sta scritto: Amor instat; ma quel che
séguita, non posso capirlo, cioè che l’amor come istante o insistente, inste:
che ha medesima penuria di proposito, che se uno dicesse: questa impresa costui
la ha finta come finta, la porta come la porta, la intendo come la intendo, la
vale come la vale, la stimo come un che la stima. tansillo Più facilmente
determina e condanna chi manco considera. Quello instans non significa
adiettivamente dal verbo instare, ma è nome sustantivo preso per l’instante del
tempo. cicada Or che vuol dir che l’amor insta come l’instante? tansillo Che
vuol dire Aristotele nel suo libro Del tempo, quando dice che l’eternità è uno
instante, e che in tutto il tempo non è che uno instante? cicada Come questo
può essere se non è tanto minimo tempo che non abbia più instanti? Vuol egli
forse che in uno instante sia il diluvio, la guerra di Troia, e noi che siamo
adesso? Vorrei sapere come questo instante se divide in tanti secoli et anni; e
se per medesima proporzione non possiamo dire che la linea sia un punto.
tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in diversi suggetti temporali, cossì
l’instante è uno in diverse e tutte le parti del tempo. Come io son medesimo
che fui, sono e sarò; io medesimo son qua in casa, nel tempio, nel campo e per
tutto dove sono. cicada Perché volete che l’instante sia tutto il tempo?
tansillo Perché se non fusse l’instante, non sarrebe il tempo: però il tempo in
essenza e sustanza non è altro che instante. E questo baste se l’intendi
(perché non ho da pedanteggiar sul quarto de la Fisica); onde comprendi che
voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il tempo tutto: perché questo
instans non significa punto del tempo. cicada Bisogna che questa significazione
sia specificata in qualche maniera, se non vogliamo far che sia il motto
vicioso in equivocazione, onde possiamo liberamente intendere ch’egli voglia
dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest d’un atomo di tempo e d’un
niente: o che voglia dire che sia (come voi interpretate) sempre. tansillo
Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi contrarii, il motto sarrebe una
baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso che in uno instante che è atomo
o punto, che l’amore inste o insista non può essere: ma bisogna necessariamente
intendere l’instante in altra significazione. E per uscir di scuola, leggasi la
stanza: Un tempo sparge, et un tempo raccoglie; un edifica, un strugge; un
piange, un ride: un tempo ha triste, un tempo ha liete voglie; un s’affatica,
un posa; un stassi, un side: un tempo porge, un tempo si ritoglie; un muove, un
ferm’; un fa viv’, un occide: in tutti gli anni, mesi, giorni et ore m’attende,
fere, accend’e lega amore. Continuo mi disperge, sempre mi strugg’e mi ritien
in pianto, è mio triste languir ogn’or pur tanto, in ogni tempo mi travagli’ et
erge; tropp’in rubbarmi è forte, mai non mi scuote, mai non mi dà morte. cicada
Assai bene ho compreso il senso: e confesso che tutte le cose accordano molto
bene. Però mi par tempo di procedere a l’altro. tansillo Qua vedi un serpe ch’a
la neve languisce dove l’avea gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo
acceso in mezzo al fuoco, con certe altre minute e circonstanze, con il motto
che dice Idem, itidem, non idem. Questo mi par più presto enigma che altro,
però non mi confido d’esplicarlo a fatto: pur crederei che voglia significar
medesimo fato molesto, che medesimamente tormenta l’uno e l’altro (cioè
inentissimamente, senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o
contrarii principio, mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che
richieda più lunga e distinta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete la
rima. [tansillo] Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai,
sullevi, inondi; e per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or
quella parte ascondi; s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che
propona o che rispondi, credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo
piatoso al tuo tormento. Io ne l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo,
avvampo; e al ghiaccio de mia diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova
loco: lasso, per che non sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue
cerchi fuggir, sei impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie
forze richiami, elle son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé
chiedi al villan, odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta.
Fuga, luogo, vigor, astro, uom o sorte non è per darti scampo da la morte. Tu
addensi, io liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami
questo mal, io quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti
a bastanza del fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per
il camino vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene. interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino
Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto
l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stimano allor che
tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essendo che quello de l’ottava sfera
ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro
zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che abbiano loco quando domina
la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno
le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal contrario a l’altro. La
revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da
abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al
medesimo: come veggiamo ne gli anni particolari, qual è quello del sole, dove
il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di
questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle
scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della
feccia de gli costumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a meglior
stati. Giordano Bruno De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel mio, che
questa successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma al nostro
riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più ne afflige
che il passato, et ambi doi insieme manco possono appagarne che il futuro, il
quale è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder designato in
questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che fêrno cotal
statua che sopra un busto simile a tutti tre puosero tre teste, l’una di lupo
che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia volta in mezzo, e la
terza di cane che guardava innanzi; per significare che le cose passate
affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che in effetto ne
tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là è il lupo che
urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che applaude. cesarino Che contiene
quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra il lupo è Iam, sopra il
leone Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni che significano le tre
parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella tavola. maricondo Cossì
farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di chiar, al vespr’oscuro
quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si die’, si dà, può dare.
Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al presente et al futuro,
mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel soffrir, nell’aspettare. Con
l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i frutti, la speranza mi
minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che vivo, ch’avanza mi fa
tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e lontananza. Assai,
troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso m’hann’in timor,
martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un furioso amante;
quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualunque maniera e modo siano
malamente affetti; perché non doviamo né possiamo dire che questo quadre a
tutti stati in generale, ma a quelli che furono e sono travagliosi: atteso che
ad un ch’ha cercato un regno et ora il possiede, conviene il timor di perderlo;
ad un ch’ha lavorato per acquistar gli frutti de il amore, come è la particular
grazia de la cosa amata, conviene il morso della gelosia e suspizione. E quanto
a gli stati del mondo, quando ne ritroviamo nelle tenebre e male, possiamo
sicuramente profetizar la luce e prosperitade; quando siamo nella felicità e
disciplina, senza dubio possiamo aspettar il successo de l’ignoranze e
travagli: come avvenne a Mercurio Trimigisto che per veder l’Egitto in tanto
splender de scienze e divinazioni, per le quali egli stimava gli uomini
consorti de gli demoni e dèi, e per conseguenza religiosissimi, fece quel
profetico lamento ad Asclepio, dicendo che doveano succedere le tenebre de nove
religioni e culti, e de cose presenti non dover rimaner altro che favole e
materia di condannazione. Cossì gli Ebrei quando erano schiavi nell’Egitto e
banditi nelli deserti, erano confortati da lor profeti con l’aspettazione de
libertà et acquisto di patria. Quando furono in stato di domìno e tranquillità,
erano minacciati de dispersione e cattività. Oggi che non è male né vituperio a
cui non siano suggetti, non è bene né onore che non si promettano. Similmente
accade a tutte l’altre generazioni e stati: li quali se durano e non sono
annihilati a fatto, per forza della vicissitudine delle cose, è necessario da
’l male vegnano al bene, dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da
l’altezza alla bassezza, da le oscuritadi al splendore, dal splendor alle
oscuritadi. Perché questo comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se
si ritrova altro che lo guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne,
perché non raggiono con altro spirito che naturale. maricondo Sappiamo che non
fate il teologo ma filosofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino
Cossì è. Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante
turribolo che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Illius aram; et
appresso l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un
ossequio divin credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei
nel tempio de la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai
che men convegna ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora
tanto et ama? Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi
pace. Perché volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace?
Dite di me piatosi: Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di
quella face sei vago sì? Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo
tormento. maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un
rimagna fisso su una corporal bellezza e culto esterno, può onorevolmente e
degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e
splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad
inalzarsi alla considerazion e culto della divina bellezza, luce e maestade: di
maniera che da queste cose visibili vegna a magnificar il core verso quelle che
son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto son più
rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde, fosca,
corrente, depinta nella superficie de la materia corporale, tanto mi piace e
tanto mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che riverenza di
maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira, ch’io non
trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’appaghe: che sarà
di quello che sustanzialmente, originalmente, primitivamente è bello; che sarà
de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la natura? Conviene
dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi amene mediante la
ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e participazione di
quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi unisca: perché son
certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti gli occhi, e mi ha
dotato di senso interiore, per cui posso argomentar bellezza più profonda et
incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso vegna promosso a
l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che il mio vero nume
come me si mostra in vestigio et imagine, voglia sdegnarsi che in imagine e
vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il mio core et
affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: atteso che chi può esser quello
che possa onorarlo in essenza e propria sustanza, se in tal maniera non può
comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di eroico spirito
tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della cattività in
frutto di maggior libertade, e l’esser vinto una volta convertiscono in
occasione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellezza corporale a color
che son ben disposti non solamente non apporta ritardamento da imprese
maggiori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali per venire a quelle: allor
che la necessità de l’amore è convertita in virtuoso studio per cui l’amante si
forza di venire a termine nel quale sia degno della cosa amata, e forse di cosa
maggiore, megliore e più bella ancora; onde sia o che vegna contento d’aver
guadagnato quel che brama, o sodisfatto dalla sua propria bellezza, per cui
degnamente possa spregiar l’altrui che viene ad esser da lui vinta e superata:
onde o si ferma quieto, o si volta ad aspirare ad oggetti più eccellenti e
magnifichi. E cossì sempre verrà tentando il spirito eroico, sin tanto che non
si vede inalzato al desiderio della divina bellezza in se stessa, senza
similitudine, figura, imagine e specie, se sia possibile: e più se sa arrivare
a tanto. maricondo Vedi dumque, Cesarino, come ha raggione questo furioso di
risentirsi contra coloro che lo ri- prendono come cattivo de bassa bellezza a
cui sparga voti et appenda tabelle; di maniera che quindi non viene rubelle
dalle voci che lo richiamano a più alte imprese: essendo che come queste basse
cose deriva- no da quelle et hanno dipendenza, cossì da queste si può aver
accesso a quelle come per proprii gradi. Queste se non son Dio son cose divine,
sono imagini sue vive: nelle quali non si sente offeso se si vede ado- rare:
perché abbiamo ordine dal superno spirito che dice Adorate scabellum pedum
eius. Et altrove disse un divino imbasciatore: Adorabimus ubi steterunt pedes
eius. cesarino Dio, la divina bellezza e splendore riluce et è in tutte le
cose; però non mi pare errore d’admirarlo in tutte le cose secondo il modo che
si comunica a quelle: errore sarà certo se noi donaremo ad altri l’onor che
tocca a lui solo. Ma che vuol dir quando dice Lasciatemi, lasciate, altri
desiri? maricondo Bandisce da sé gli pensieri, che gli appresen- tano altri
oggetti che non hanno forza di commoverlo tanto; e che gli vogliono involar
l’aspetto del sole, il qual può presentarsegli da questa fenestra più che da
l’altre. cesarino Come importunato da pensieri si sta con- stante a remirar
quel splendor che lo disface, e non lo fa di maniera contento che ancora non
vegna forte- mente a tormentarlo? maricondo Perché tutti gli nostri conforti in
questo stato di controversia non sono senza gli suoi di- sconforti cossì grandi
come magnifici son gli conforti. Come più grande è il timore d’un re che
consiste su la perdita d’un regno, che di un mendico che consiste sul periglio
di perdere dieci danaii; è più urgente la cura d’un prencipe sopra una
republica, che d’un ru- stico sopra un grege de porci: come gli piaceri e deli-
cie di quelli forse son più grandi che le delicie e piace- ri di questi. Però
l’amare et aspirar più alto, mena seco maggior gloria e maestà con maggior
cura, pen- siero e doglia: intendo in questo stato dove l’un con- trario sempre
è congionto a l’altro, trovandosi la mas- sima contrarietade sempre nel
medesimo geno, e per conseguenza circa medesimo suggetto, quantunque gli
contraria non possano essere insieme. E cossì pro- porzionalmente nell’amor di
Cupido superiore, come dechiarò l’epicureo poeta nel cupidinesco volgare e
animale, quando disse: Fluctuat incertis erroribus ardor amantum, nec constat
quid primum oculis manibusque fruantur: quod petiere premunit arte, faciuntque
dolorem corporis, et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfigunt, quia
non est pura voluptas, et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum,
quodcumque est, rabies, unde illa haec germina surgunt. Sed leviter paenas
frangit Venus inter amorem, blandaque refraenat morsus admixta voluptas, namque
in eo spes est, unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore
flammam. Ecco dumque con quali condimenti il magistero et arte della natura fa
che un si strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento in mezzo
del tormento, e tormentato in mezzo de tutte le conten- tezze: atteso che nulla
si fa assolutamente da un paci- fico principio, ma tutto da contrarii principii
per vit- toria e domìno d’una parte della contrarietade; e non è piacere di
generazione da un canto, senza dispiace- re di corrozzione da l’altro: e dove
queste cose che si generano e corrompono sono congionte e come in medesimo
suggetto composto, si trova il senso di de- lettazione e tristizia insieme. Di
sorte che vegna no- minata più presto delettazione che tristizia, se aviene che
la sia predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso. III.
cesarino Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una fenice che
arde al sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di quello, dal
cui calore vien infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile, nec par.
maricondo Leggasi l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol s’accende, e a
dramm’a dramma consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo stassi,
contrario fio al suo pianeta rende: perché quel che da lei al ciel ascende
tepido fumo et atra nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti lassi e
quello avvele, per cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin splendore
accende e illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel pensiero,
manda da l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando, mentre mi
struggo e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol di foco infosca
col suo stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile. cesarino Dice dumque
costui che come questa le nice venendo dal splendor del sole accesa, et
abituata d lu- ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo quel fu- mo che
oscura quello che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et illuminato
furioso per quel che fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli have acceso
il core e gli splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che
ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si
risolve la sustanza di lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e
comparazione gli studi di costui, torno a dire quel che ti dicevo l’altr’ieri,
che la lode è uno de gli più gran sacrificii che possa far un affetto umano ad
un oggetto. E per lasciar da parte il proposito del divino, ditemi: chi co-
noscerebbe Achille, Ulisse e tanti altri greci e troiani capitani, chi arrebe
notizia de tanti grandi soldati, sapienti et eroi de la terra, se non fussero
stati messi alle stelle e deificati per il sacrificio de laude, che nell’altare
del cor de illustri poeti et altri recitatori have acceso il fuoco, con questo
che comunmente montasse al cielo il sacrificatore, la vittima et il canonizato
divo, per mano e voto di legitimo e degno sacerdote? cesarino Ben dici di degno
e legitimo sacerdote; perché de gli appostici n’è pieno oggi il mondo, li quali
come sono per ordinario indegni essi loro, cossì vegnono sempre a celebrar
altri indegni, di sorte che asini asinos fricant. Ma la previdenza vuole che in
luogo d’andar gli uni e gli altri al cielo, sen vanno giontamente alle tenebre
de l’Orco: onde fia vana e la gloria di quel che celebra, e di quel ch’è
celebrato; perché l’uno ha intessuta una statua di paglia, o insculpito un tronco
di legno, o messo in getto un pezzo di calcina; e l’altro idolo d’infamia e
vituperio non sa che non gli bisogna aspettar gli denti de l’evo e la falce di
Saturno per esser messo giù: stante che dal suo encomico medesimo vien sepolto
vivo all’ora all’ora propria che vien lodato, salutato, nominato, presentato.
Come per il contrario è accaduto alla prudenza di quel tanto celebrato
Mecenate, il quale se non avesse avuto altro splendore che de l’animo inchinato
alla protezzione e favor delle Muse, sol per questo meritò che gl’ingegni de
tanti illustri poeti gli dovenessero ossequiosi a metterlo nel numero de più
famosi eroi che abbiano calpestrato il dorso de la terra. Gli proprii studii et
il proprio splendore l’han reso chiaro e nobilissimo, e non l’esser nato
d’atavi regi, non l’esser gran segretario e consegliero d’Augusto. Quello dico
che l’ha fatto illustrissimo, è l’aversi fatto degno dell’execuzion della
promessa di quel poeta che disse: Fortunati ambo, si quid mea carmina possuni,
nulla dies unquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile
saxum accolet, imperiumque pater Romanus habebit. maricondo Mi sovviene di quel
che dice Seneca in certa epistola dove riferisce le paroli d’Epicuro ad un suo
amico, che son queste: Se amor di gloria ti tocca il petto, più noto e chiaro
ti renderanno le mie lettere che tutte quest’altre cose che tu onori, e dalle
quali sei onorato, e per le quali ti puoi vantare. Similmente arria possuto
dire Omero se si gli fusse presentato avanti Achille o Ulisse, Vergilio a Enea
et alla sua progenia; perciò che, come ben suggionse quel filosofo morale, è
più conosciuto Domenea per le lettere d’Epicuro che tutti gli megistani satrapi
e regi, dalli quali pendeva il titolo [di] Domenea, e la memoria de gli quali
venea suppressa dall’alte tenebre de l’oblio. Non vive Attico per essere genero
d’Agrippa e progenero de Tiberio, ma per l’epistole de Tullio. Druso pronepote
di Cesare non si troverebbe nel numero de nomi tanto grandi, se non vi l’avesse
inserito Cicerone. Oh che ne sopraviene al capo una profonda altezza di tempo,
sopra la quale non molti ingegni rizzaranno il capo. Or per venire al proposito
di questo furioso il quale vedendo una fenice accesa al sole, si rammenta del
proprio studio, e duolsi che come quella per luce et incendio che riceve, gli
rimanda oscuro e tepido fumo di lode dall’olocausto della sua liquefatta
sustanza. Qualmente giamai possiamo non sol raggionare, ma e né men pensare di
cose divine, che non vengamo a detraergli più tosto che aggiongergli di gloria:
di sorte che la maggior cosa che far si possa al riguardo di quelle, è che
l’uomo in presenza de gli altri uomini vegna più tosto a magnificar se stesso
per il studio et ardire, che donar splendore ad altro per qualche compita e
perfetta azzione. Atteso che cotale non può aspettarsi dove si fa progresso
all’infinito, dove l’unità et infinità son la medesima cosa; e non possono
essere perseguitate dal altro numero, perché non è unità, né da altra unità
perché non è numero, né da altro numero et unità: perché non sono medesimo
absoluto et infinito. Là onde ben disse un teologo che essendo che il fonte
della luce non solamente gli nostri intelletti, ma ancora gli divini di gran
lunga sopraavanza, è cosa conveniente che non con discorsi e paroli, ma con
silenzio vegna ad esser celebrata. cesarino Non già col silenzio de gli animali
bruti et altri che sono ad imagine e similitudine d’uomini: ma di quelli, il
silenzio de quali è più illustre che tutti gli eridi, rumori e strepiti di
costoro che possano esser uditi. maricondo Ma procediamo oltre a vedere quel
che significa il resto. cesarino Dite se avete prima considerato e visto quel
che voglia dir questo fuoco in forma di core con quattro ali, de le quali due
hanno gli occhi, dove tutto il composto è cinto de luminosi raggi, et hassi in
circa scritta la questione: Nitimur in cassum? maricondo Mi ricordo ben che
significa il stato de la mente, core, spirito et occhi del furioso; ma leggiamo
l’articolo: Questa mente ch’aspira al splendor santo, tant’alti studi disvelar
non ponno; il cor, che recrear que’ pensier vonno, da guai non può ritrarsi più
che tanto; il spirto che devria posarsi alquanto, d’un moment’al piacer non si
fa donno; gli occhi ch’esser derrian chiusi dal sonno tutta la notte son aperti
al pianto. Oimè miei lumi con qual studio et arti tranquillar posso i
travagliati sensi? Spirto mio, in qual tempo et in quai parti mitigarò gli tuoi
dolori intensi? E tu, mio cor, come potrò appagarti di quel ch’al grave tuo
suffrir compensi? Quand’i debiti censi daratti l’alma, o travagliata mente, col
cor, col spirto e con gli occhi dolente? Perché la mente aspira al splendor
divino, fugge il consorzio de la turba, si ritira dalla commune opinione: non
solo dico e tanto s’allontana dalla moltitudine di suggetti, quanto dalla
communità de studii, opinioni e sentenze; atteso che per contraer vizii et
ignoranze tanto è maggior periglio, quanto è maggior il popolo a cui
s’aggionge: Nelli publici spettacoli DICE IL FILOSOFO MORALE, mediante il
piacere più facilmente gli vizii s’ingeriscono. Se aspira al splendor alto,
ritiresi quanto può all’unità, contrahasi quanto è possibile in se stesso, di
sorte che non sia simile a molti, perché son molti; e non sia nemico de molti,
perché son dissimili, se possibil fia serbar l’uno e l’altro bene: altrimenti
s’appiglie a quel che gli par megliore. – Conversa con quelli gli quali o lui
possa far megliori, o da gli quali lui possa essere fatto megliore: per
splendor che possa donar a quelli, o da quelli possa ricever lui. Contentesi
più d’uno idoneo che de l’inetta moltitudine; né stimarà d’aver acquistato poco
quando è dovenuto a tale che sia savio per sé, sovvenendogli quel che dice
Democrito: Unus mihi pro populo est, et populus pro uno; e che disse Epicuro ad
un consorte de suoi studii scrivendo: Haec tibi, non multis; satis enim magnum
alter alteri theatrum sumus. – La mente dumque ch’aspira alto, per la prima
lascia la cura della moltitudine, considerando che quella luce spreggia la
fatica, e non si trova se non dove è l’intelligenza; e non dove è ogni
intelligenza: ma quella che è, tra le poche, principali e prime, la prima,
principale et una. cesarino Come intendi che la mente aspira alto? verbigrazia
con guardar alle stelle? al cielo empireo? sopra il cristallino? maricondo Non
certo, ma procedendo al profondo della mente per cui non fia mistiero massime
aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al tempio, intonar
l’orecchie de simulacri, onde più si vegna exaudito: ma venir al più intimo di
sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé, più ch’egli medesimo
esser non si possa; come quello ch’è anima de le anime, vita de le vite,
essenza de le essenze: atteso poi che quello che vedi alto o basso, o in circa
(come ti piace dire) de gli astri, son corpi, son fatture simili a questo globo
in cui siamo noi, e nelli quali non più né meno è la divinità presente che in
questo nostro, o in noi medesimi. Ecco dumque come bisogna fare primeramente de
ritrarsi dalla moltitudine in se stesso. Appresso deve dovenir a tale che non
stime ma spreggie ogni fatica, di sorte che quanto più gli affetti e vizii
combattono da dentro, e gli viziosi nemici contrastano di fuori, tanto più deve
respirar e risorgere, e con uno spirito (se possibil fia) superar questo
clivoso monte. Qua non bisognano altre armi e scudi che la grandezza d’un animo
invitto, e toleranza de spirito che mantiene l’equalità e tenor della vita, che
procede dalla scienza, et è regolato da l’arte di specolar le cose alte e
basse, divine et umane, dove consiste quel sommo bene. Per cui disse un
filosofo morale che scrisse a Lucilio: non bisogna tranar le Scille, le Cariddi,
penetrar gli deserti de Candavia et Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti:
perché il camino è tanto sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia
possuto ordinare. Non è dice egli l’oro et argento che faccia simile a Dio,
perché non fa tesori simili; non gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la
ostentazione e fama, perché si mostra a pochissimi, e forse che nessuno lo
conosce, e certo molti, e più che molti hanno mala opinion de lui; non tante e
tante altre condizioni de cose che noi ordinariamente admiriamo: perché non
queste cose delle quali si desidera la copia ne rendeno talmente ricchi, ma il
dispreggio di quelle. cesarino Bene: ma dimmi appresso in qual maniera costui
Tranquillarà gli sensi, mitigarà gli dolori del spirito, appagarà il core e
darà gli proprii censi a la mente, di sorte che con questo suo aspirare e
studii non debba dire Nitimur in cassum? maricondo Talmente trovandosi presente
al corpo che con la meglior parte di sé sia da quello absente, farsi come con
indissolubil sacramento congionto et alligato alle cose divine, di sorte che
non senta amor né odio di cose mortali, considerando d’esser maggiore che esser
debba servo e schiavo del suo corpo: al quale non deve altrimente riguardare
che come carcere che tien rinchiusa la sua libertade, vischio che tiene
impaniate le sue penne, catena che tien strette le sue mani, ceppi che han
fissi gli suo piedi, velo che gli tien abbagliata la vista. Ma con ciò no sia
servo, cattivo, invecchiato, incatenato, discioperato, saldo e cieco: perché il
corpo non gli può più tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce; atteso che cossì
il spirito proporzionalmente gli è preposto, come il mondo corporeo e materia è
suggetta alla divinitade et a la natura. Cossì farassi forte contra la fortuna,
magnanimo contra l’ingiurie, intrepido contra la povertà, morbi e persecuzioni.
cesarino Bene instituito il furioso eroico. V. cesarino Appresso veggasi quel
che seguita. Ecco la ruota del tempo affissa, che si muove circa il centro
proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che intendete per quella? maricondo
Questo vuol dire che si muove in circolo: dove il moto concorre con la quiete,
atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il proprio mezzo
si comprende la quiete e fermezza secondo il moto retto; over quiete del tutto,
e moto secondo le parti; e da le parti che si muoveno in circolo si apprendeno
due differenze di Nazione, in quanto che successivamente altre parti montano
alla sommità, altre dalla sommità descendeno al basso; altre ottegnono le differenze
medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e del fondo. E questo tutto mi par
che comodamente viene a significare quel tanto che s’esplica nel seguente
articolo: Quel ch’il mio cor aperto e ascoso tiene, beltà m’imprime et onestà
mi cassa; zelo ritiemmi, altra cura mi passa per là d’ond’ogni studio a l’alma
viene: quando penso suttrarmi da le pene, speme sustienmi, altrui rigor mi
lassa; amor m’inalz’e riverenz’abbassa allor ch’aspiro a l’alt’e sommo bene.
Alto pensier, pia voglia, studio intenso de l’ingegno, del cor, de le fatiche,
a l’ogetto inmortal, divin, inmenso fate ch’aggionga, m’appiglie e nodriche; né
più la mente, la raggion, il senso in altro attenda, discorra, s’intriche. Onde
di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival
d’Endimion si duole. Cossì come il continuo moto d’una parte suppone e mena
seco il moto del tutto, di maniera che dal ributtar le parti anteriori sia
conseguente il tirar de le parti posteriori: cossì il motivo de le parti
superiori resulta necessariamente nell’inferiori, e dal poggiar d’una potenza
opposita seguita l’abbassar de l’altra opposita. Quindi viene il cor (che
significa tutti l’affetti in generale) ad essere ascoso et aperto; ritenuto dal
zelo, sollevato da magnifico pensiero; rinforzato da la speranza, indebolito
dal timore. Et in questo stato e condizione si vederà sempre che trovarassi
sotto il fato della generazione. VI. cesarino Tutto va bene; vengamo a quel che
séguita. Veggio una nave inchinata su il onde; et ha le sarte attaccate a lido
et ha il motto: Fluctuat in portu. Argumentate quel che può significare: e se
ne siete risoluto, esplicate. maricondo E la figura et il motto ha certa
parentela col precedente motto e figura, come si può facilmente comprendere se
alquanto si considera. Ma leggiamo l’articolo: Se da gli eroi, da gli dèi, da
le genti assicurato son che non desperi; né téma, né dolor, né impedimenti de
la morte, del corpo, de piaceri fia ch’oltre apprendi, che soffrisca e senti; e
perché chiari vegga i miei sentieri, faccian dubio, dolor, tristezza spenti
speranza, gioia e gli diletti intieri. Ma se mirasse, facesse, ascoltasse miei
pensier, miei desii e mie raggioni, chi le rende sì ’ncerti, ardenti e casse,
sì graditi concetti, atti, sermoni, non sa, non fa, non ha qualumque stassi de
l’orto, vita e morte a le maggioni. Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi
splend’, e accend’, et emmi a lato, farammi illustre, potente e beato. Da quel
che ne gli precedenti discorsi abbiamo considerato e detto si può comprendere
il sentimento di ciò, massime dove si è dimostrato che il senso di cose basse è
attenuato et annullato dove le potenze superiori sono gagliardamente intente ad
oggetto più magnifico et eroico. E tanta la virtù della contemplazione (come
nota lamblice) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli atti
inferiori, ma et oltre lascie il corpo a fatto. Il che non voglio intendere
altrimenti che in tante maniere quali sono esplicate nel libro De’ trenta
sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazzione. De quali alcune
vituperosa, altre eroicamente fanno che non s’apprenda téma di morte, non si
soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimenti di piaceri: onde la
speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore siano di tal sorte
intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da
dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è quella da cui
richiede che mire a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti, compisca gli suoi
desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende sì casse?
maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa
presente; atteso che veder la divinità è l’esser visto da quella, come vedere
il sole concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato dalla
divinità è a punto ascoltar quella, et esser favorito da quella è il medesimo
esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri incerti e
certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse: secondo che
degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto, affetto et
azzioni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o
salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da quella
trovasi absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimento ruina e
salva la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o
suttrae se non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con questa
dumque mi par ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura seguente, dove
son due stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto che dice: Mors
et vita. cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì farò: Per man
d’amor scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie pene; ma tu perché
il tuo orgoglio non si affrene et io infelice eternamente reste, a le palpebre
belle a me moleste asconder fai le luci tant’amene, ond’il turbato ciel non
s’asserene, né caggian le nemiche ombre funeste. Per la bellezza tua, per
l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è forse uguale, rèndite a la pietà diva
per dio. Non prolongar il troppo intenso male, ch’è del mio tanto amar indegno
fio: non sia tanto rigor con splender tale. Se ch’io viva ti cale, del grazioso
sguardo apri le porte: mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il volto in
cui riluce l’istoria de sue pene, è l’anima, in quanto che è esposta alla
recepzion de doni superiori, al riguardo de quali è in potenza et attitudine,
senza compimento di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada divina.
Onde ben fu detto: Anima mea sicut terra sine aqua tibi. Et altrove: Os meum
aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua desiderabam. Appresso, l’orgoglio
che non s’affrena è detto per metafora e similitudine (come de Dio tal volta si
dice gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la quale egli
fa copia di far veder al meno le sue spalli, che è il farsi conoscere mediante
le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le palpebre, non
asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via l’ombra de gli
enigmi e similitudini. – Oltre (perché non crede che tutto quel che non è non
possa essere) priega la divina luce che per la sua bellezza la quale non deve
essere a tutti occolta, almeno secondo la capacità de chi la mira, e per il suo
amore che forse a tanta bellezza è uguale (uguale intende de la beltade in
quanto che la se gli può far comprensibile), che si renda alla pietà, cioè che
faccia come quelli che son piatosi, quali da ritrosi e schivi si fanno graziosi
et affabili: e che non prolonghe il male che avviene da quella privazione; e
non permetta che il suo splendor per cui è desiderata, appaia maggiore che il
suo amore con cui si communiche: stante che tutte le perfezzioni in lei non
solamente sono uguali, ma ancor medesime. – Al fine la ripriega che non oltre
l’attriste con la privazione; perché potrà ucciderlo con la luce de suoi
sguardi, e con que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce a la morte con
ciò che le amene luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol dire quella morte
de amanti che procede da somma gioia, chiamata da Cabalisti mors oscuri? la
qual medesima è vita eterna, che l’uomo può aver in disposizione in questo
tempo, et in effetto nell’eternità? maricondo Cossì è. VIII. cesarino Ma è
tempo di procedere a considerar il seguente dissegno simile a questi prossimi
avanti rapportati, con li quali ha certa conseguenza. Vi è un’aquila che con
due ali s’appiglia al cielo; ma non so come e quanto vien ritardata dal pondo
d’una pietra che tien legata a un piede. Et èvvi il motto: Scinditur incertum.
E certo significa la moltitudine, numero e volgo delle potenze de l’anima; alla
significazion della quale è preso quel verso: Scinditur incertum studia in
contraria vulgus. Il qual volgo tutto generalmente è diviso in due fazzioni
(quantumque subordinate a queste non mancano de l’altre), de le quali altre
invitano a l’alto dell’intelligenza e splendore di giustizia; altre allettano,
incitano e forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi, e
compiacimenti de voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene far voglio, e non
mi vien permesso; meco il mio sol non è, bench’io sia seco, che per esser con
lui, non son più meco, ma da me lungi, quanto a lui più presso. Per goder una
volta, piango spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco; perché veggio
tropp’alto, son sì cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso. Per amaro
diletto, e dolce pena, impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio; necessità
mi tien, bontà mi mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio mi
sprona, et il timor m’affrena; cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual
dritto o divertiglio mi darà pace, e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi
scacce, e l’altro invite? L’ascenso procede nell’anima dalla facultà et appulso
ch’è nell’ali, che son l’intelletto et intellettiva volontade, per le quali
essa naturalmente si riferisce et ha la sua mira a Dio come a sommo bene e
primo vero, come all’absoluta bontà e bellezza. Cossì come ogni cosa
naturalmente ha impeto verso il suo principio regressivamente, e
progressivamente verso il suo fine e perfezzione, come ben disse Empedocle; da
la cui sentenza mi par che si possa inferire quel che disse il Nolano in questa
ottava: Convien ch’il sol d’onde parte raggiri, e al suo principio i
discorrenti lumi; e ’l ch’è di terra, a terra si retiri, e al mar corran dal
mar partiti fiumi, et ond’han spirto e nascon i desiri aspiren come a venerandi
numi: cossì dalla mia diva ogni pensiero nato, che torne a mia diva è mistiero.
La potenza intellettiva mai si quieta, mai s’appaga in verità compresa, se non
sempre oltre et oltre procede alla verità incomprensibile: cossì la volontà che
séguita l’apprensione, veggiamo che mai s’appaga per cosa finita. Onde per
conseguenza non si riferisce l’essenza de l’anima ad altro termine che al fonte
della sua sustanza et entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è
convertita al favore e governo della materia, viene a referirse et aver
appulso, a giovare et a comunicar de la sua perfezzione a cose inferiori, per
la similitudine che ha con la divinità, che per la sua bontade si comunica o
infinitamente producendo, idest communicando l’essere a l’universo infinito, e
mondi innumerabili in quello; o finitamente, producendo solo questo universo
suggetto alli nostri occhi e comun raggione. Essendo dumque che nella essenza
unica de l’anima se ritrovano questi doi geni de potenze, secondo che è
ordinata et al proprio e l’altrui bene, accade che si depinga con un paio
d’ali, mediante le quali è potente verso l’oggetto delle prime et immateriali
potenze; e con un greve sasso, per cui è atta et efficace verso gli oggetti
delle seconde e materiali potenze. Là onde procede che l’affetto intiero del
furioso sia ancipite, diviso, travaglioso, e messo in facilità de inchinare più
al basso, che di forzarsi ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese basso
e nemico, et ottiene la regione lontana dal suo albergo più naturale, dove le
sue forze son più sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si possa
riparare? maricondo Molto bene; ma il
principio è durissimo, e secondo che si fa più e più fruttifero progresso di
contemplazione, si doviene a maggiore e maggior facilità. Come avviene a chi
vola in alto, che quanto più s’estoglie da la terra, vien ad aver più aria
sotto che lo sustenta, e conseguentemente meno vien fastidito dalla gravità;
anzi tanto può volar alto, che senza fatica de divider l’aria non può tornar al
basso, quantunque giudicasi che più facil sia divider l’aria profondo verso la
terra, che alto verso l’altre stelle. cesarino Tanto che col progresso in
questo geno, s’acquista sempre maggiore e maggiore facilità di montare in alto?
maricondo Cossì è; onde ben disse il Tansillo: Quanto più sott’il pie l’aria mi
scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e verso il
ciel m’invio. Come ogni parte de corpi e detti elementi quanto più s’avvicina
al suo luogo naturale, tanto con maggior impeto e forza va, sin tanto che al
fine o voglia o non bisogna che vi pervegna. Qualmente dumque veggiam nelle
parti de corpi a gli proprii corpi, cossì doviam giudicare de le cose
intellettive verso gli proprii oggetti, come proprii luoghi, patrie e fini. Da
qua facilmente possete comprendere il senso intiero significato per la figura,
per il motto e per gli carmi. cesarino Di sorte che quanto vi s’aggiongesse,
tanto mi parrebe soverchio. IX. cesarino Vedasi ora quel che vien presentato
per quelle due saette radianti sopra una targa, circa la quale è scritto Vicit
instans. maricondo La guerra continua tra l’anima del furioso la qual gran
tempo per la maggior familiarità che ha con la materia, era più dura et inetta
ad esser penetrata da gli raggi del splendor della divina intelligenza e spezie
della divina bontade; per il qual spacio dice ch’il cor smaltato de diamante,
cioè l’affetto duro et inetto ad esser riscaldato e penetrato, ha fatto riparo
a gli colpi d’amore che aportavano gli assalti da parti innumerabili. Vuol dire
non ha sentito impiagarsi da quelle piaghe de vita eterna de le quali parla la
Cantica quando dice: Vulnerasti cor meum, o dilecta, vulnerasti cor meum. Le
quali piaghe non son di ferro, o d’altra materia, per vigor e forza de nervi;
ma son freccie de Diana o di Febo: cioè o della dea de gli deserti della
contemplazione de la Veritade, cioè della Diana che è l’ordine di seconde
intelligenze che riportano il splender ricevuto dalla prima, per comunicarlo a
gli altri che son privi de più aperta visione; o pur del nume più principale
Apollo, che con il proprio e non improntato splendore manda le sue saette, cioè
gli suoi raggi, da parti innumerabili tali e tante che son tutte le specie
delle cose, le quali son indicatrici della divina bontà, intelligenza, beltade
e sapienza, secondo diversi ordini dall’apprension dovenir furiosi amanti,
percioché l’adamantino suggetto non ripercuota dalla sua superficie il lume
impresso: ma rammollato e domato dal calore e lume, vegna a farsi tutto in
sustanza luminoso, tutto luce, con ciò che vegna penetrato entro l’affetto e
concetto. Questo non è subito nel principio della generazione quando l’anima di
fresco esce ad esser inebriata di Lete et imbibita de l’onde de l’oblio e
confusione: onde il spirito vien più cattivato al corpo e messo in essercizio
della vegetazione, et a poco a poco si va digerendo per esser atto a gli atti
della sensitiva facultade, sin tanto che per la razionale e discorsiva vegna a
più pura intellettiva, onde può introdursi a la mente e non più sentirsi
annubilata per le fumositadi di quell’umore che per l’exercizio di
contemplazione non s’è putrefatto nel stomaco, ma è maturamente digesto. –
Nella qual disposizione il presente furioso mostra aver durato sei lustri, nel
discorso de quali non era venuto a quella purità di concetto che potesse farsi
capace abitazione delle specie peregrine, che offrendosi a tutte ugualmente
batteno sempre alla porta de l’intelligenza. Al fine l’amore che da diverse
parti et in diverse volte l’avea assaltato come in vano (qualmente il sole in
vano se dice lucere e scaldare a quelli che son nelle viscere de la terra et
opaco profondo), per essersi accampato in quelle luci sante, cioè per aver
mostrato per due specie intelligibili la divina bellezza, la quale con la
raggione di verità gli legò l’intelletto e con la raggione di bontà scaldògli
l’affetto, vennero superari gli studi materiali e sensitivi che altre volte
soleano come trionfare, rimanendo (a mal grado de l’eccellenza de l’anima)
intatti; perché quelle luci che facea presente l’intelletto agente illuminatore
e sole d’intelligenza, ebbero facile entrata per le sue luci (quella della
verità per la porta de la potenza intellettiva, quella della bontà per la porta
della potenza appetitiva) al core, cioè alla sustanza del generale affetto.
Questo fu quel doppio strale che venne come da man de guerriero irato, cioè più
pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo innanzi s’era dimostrato
come più debole o negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato et
illuminato nel concetto, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è detto:
Vicit instans. Indi possete intendere il senso della proposta figura, motto, et
articolo che dice: Forte a i colpi d’amor feci riparo quand’assalti da parti
varie e tante soffers’il cor smaltato di diamante; ond’i miei studi de suoi
trionfare. Al fin (come gli cieli destinaro) un dì accampossi in quelle luci
sante, che per le mie sole tra tutte quante facil entrata al cor mio ritrovare.
Indi mi s’avventò quel doppio strale, che da man di guerrier irato venne, qual
sei lustri assalir mi seppe male: notò quel luogo, e forte vi si tenne, piantò
’l trofeo di me là d’onde vale tener ristrette mie fugaci penne. Indi con più
sollenne apparecchio, mai cessano ferire mio cor, del mio dolce nemico l’ire.
Singular instante fu il termine del cominciamento e perfezzione della vittoria.
Singulari gemine specie furon quelle, che sole tra tutte quante trovaro facile
entrata; atteso che quelle contegnono in sé l’efficacia e virtù de tutte
l’altre: atteso che qual forma megliore e più eccellente può presentarsi che di
quella bellezza, bontà e verità, la quale è il fonte d’ogn’altra verità, bontà,
beltade? Notò quel luogo, prese possessione de l’affetto, rimarcollo,
impressevi il carattere di sé; e forte vi si tenne, e se l’ha confirmato,
stabilito, sancito di sorte che non possa più perderlo: percioché è impossibile
che uno possa voltarsi ad amar altra cosa quando una volta ha compreso nel
concetto la bellezza divina. Et è impossibile che possa far di non amarla, come
è impossibile che nell’appetito cada altro che bene o specie di bene. E però
massimamente deve convenire l’appetenzia del sommo bene. Cossì ristrette son le
penne che soleano esser fugaci concorrendo giù col pondo della materia. Cossì
da là mai cessano ferire, sollecitando l’affetto e risvegliando il pensiero, le
dolci ire, che son gli efficaci assalti del grazioso nemico, già tanto tempo
ritenuto escluso, straniero e peregrino. È ora unico et intiero possessore e
disponitor de l’anima; perché ella non vuole, né vuol volere altro; né gli
piace, né vuol che gli piaccia altro, onde sovente dica: Dolci ire, guerra
dolce, dolci dardi, dolci mie piaghe, miei dolci dolori. cesarino Non mi par
che rimagna cosa da considerar oltre in proposito di questo. Veggiamo ora
questa faretra et arco d’amore, come mostrano le faville che sono in circa, et
il nodo del laccio che pende: con il motto che è, Subito, clam. Giordano Bruno
De gl’eroici furori maricondo Assai mi ricordo d’averlo veduto espresso ne
l’articolo; però leggiamolo prima: Avida di trovar bramato pasto, l’aquila
vers’il ciel ispiega l’ali, facend’accorti tutti gli animali, ch’al terzo volo
s’apparecchia al guasto. E del fiero leon ruggito vasto fa da l’alta spelunca
orror mortali, onde le belve presentando i mali fuggon a gli antri il famelico
impasto. E ’l ceto quando assalir vuol l’armento muto di Proteo da gli antri di
Teti, pria fa sentir quel spruzzo violento. Aquile ’n ciel, leoni in terr’e i
ceti signor’ in mar, non vanno a tradimento: ma gli assalti d’amor vegnon
secreti. Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che femmi
a lungo infortunato amante. Tre sono le regioni de gli animanti composti de più
elementi: la terra, l’acqua, l’aria. Tre son gli geni de quelli: fiere, pesci
et ucelli. In tre specie sono gli prìncipi conceduti e definiti dalla natura:
ne l’aria l’aquila, ne la terra il leone, ne l’acqua il ceto: de quali ciascuno
come dimostra più forza et imperio che gli altri, viene anco a far aperto atto
di magnanimità, o simile alla magnanimità. Percioché è osservato che il leone,
prima che esca a la caccia, manda un ruggito forte che fa rintonar tutta la
selva, come de l’erinnico cacciatore nota il poetico detto: At saeva e speculis
tempus dea nacta nocendi, ardua testa petit, stabuli et de culmine summo
pastorale canit signum, cornuque recurvo tartaream intendit vocem, qua protinus
omne contremuit nemus, et silvae intonuere profundae. De l’aquila ancora si sa
che volendo procedere alla sua venazione, prima s’alza per dritto dal nido per
linea perpendicolare in alto, e quasi per l’ordinario la terza volta si balza da
alto con maggior impeto e prestezza che se volasse per linea piana; onde dal
tempo in cui cerca il vantaggio della velocità del volo, prende anco comodità
di specular da lungi la preda, della quale o despera o si risolve dopo fatte
tre remirate. cesarino Potremmo conietturare per qual caggione, se alla prima
si presentasse a gli occhi la preda, non viene subito a lanciarsegli sopra?
maricondo Non certo. Ma forse che ella sin tanto distingue se si gli possa
presentar megliore o più comoda preda. Oltre non credo che ciò sia sempre, ma
per il più ordinario. Or venemo a noi. Del ceto o balena è cosa aperta che per
essere un machinoso animale non può divider l’acqui se non con far che la sua
presenza sia presentita dal ributto de l’onde: senza questo, che si trovano
assai specie di questo pesce che con il moto e respirar che fanno, egurgitano
una ventosa tempesta di spruzzo acquoso. Da tutte dumque le tre specie de
principi animali hanno facultà di prender tempo di scampo gli animali
inferiori: di sorte che non procedono come subdoli e traditori. Ma l’Amor che è
più forte e più grande, e che ha domìno supremo in cielo, in terra et in mare,
e che per similitudine di questi forse derrebe mostrar tanto più eccellente
magnanimità quanto ha più forza, niente di manco assalta e fere a l’improvisto
e subito. Labitur totas furor in medullas, igne furtivo populante venas, nec
habet latam data plaga frontem; sed vorat tectas penitus medullas, virginum
ignoto ferit igne pectus. Come vedete, questo tragico poeta lo chiama furtivo
fuoco, ignote fiamme; Salomone lo chiama acqui furtive, Samuele lo nomò sibilo
d’aura sottile. Li quali tre significano con qual dolcezza, lenità et astuzia,
in mare, in terra, in cielo, viene costui a (come) tiranneggiar l’universo.
cesarino Non è più grande imperio, non è tirannide peggiore, non è meglior
domino, non è potestà più necessaria, non è cosa più dolce e suave, non si
trova cibo che sia più austero et amaro, non si vede nume più violento, non è
dio più piacevole, non agente più traditore e finto, non autor più regale e
fidele, e (per finirla) mi par che l’amor sia tutto, e faccia tutto; e de lui
si possa dir tutto, e tutto possa attribuirsi a lui. maricondo Voi dite molto
bene. L’amor dumque (come quello che opra massime per la vista, la quale è
spiritualissimo de tutti gli sensi, per che subito monta sin alli appresi
margini del mondo, e senza dilazion di tempo si porge a tutto l’orizonte della
visibilità) viene ad esser presto, furtivo, improvisto e subito. Oltre è da
considerare quel che dicono gli antichi, che l’amor precede tutti gli altri
dèi; però non fia mestiero de fingere che Saturno gli mostre il camino, se non
con seguitarlo. Appresso, che bisogna cercar se l’amore appaia e facciasi
prevedere di fuori, se il suo alloggiamento è l’anima medesima, il suo letto è
l’istesso core, e consiste nella medesima composizione de nostra sustanza, nel
medesimo appulso de nostre potenze? Finalmente ogni cosa naturalmente appete il
bello e buono, e però non vi bisogna argumentare e discorrere perché l’affetto
si informe e conferme; ma subito et in uno instante l’appetito s’aggionge a
l’appetibile, come la vista al visibile. XI. cesarino Veggiamo appresso che
voglia dir quella ardente saetta circa la quale è avolto il motto: Cui nova
plaga loco?. Dechiarate che luogo cerca questa per ferire. maricondo Non
bisogna far altro che leggere l’articolo, che dice cossì: Che la bogliente
Puglia o Libia mieta tante spiche, et areste tante a i venti commetta, e mande
tanti rai lucenti da sua circonferenza il gran pianeta, quanti a gravi doler
quest’alma lieta (che sì triste si gode in dolci stenti) accoglie da due stelle
strali ardenti, ogni senso e raggion creder mi vieta. Che tenti più, dolce
nemico, Amore? qual studio a me ferir oltre ti muove, or ch’una piaga è fatto
tutto il core? Poiché né tu, né altro ha un punto, dove per stampar cosa nuova,
o punga, o fóre, volta volta sicur or l’arco altrove. Non perder qua tue prove,
per che, o bel dio, se non in vano, a torto oltre tenti amazzar colui ch’è
morto. Tutto questo senso è metaforico come gli altri, e può esser inteso per
il sentimento di quelli. Qua la moltitudine de strali che hanno ferito e
feriscono il core significa gl’innumerabili individui e specie de cose, nelle
quali riluce il splendor della divina beltade, secondo gli gradi di quelle, et
onde ne scalda l’affetto del proposto et appreso bene. De quali l’un e l’altro
per le raggioni de potenzia et atto, de possibilità et effetto, e cruciano e
consolano, e donano senso di dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto
intiero è tutto convertito a Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose
intelligibili la mente viene exaltata alla unità super essenziale, è tutta
amore, tutta una, non viene ad sentirsi sollecitata da diversi oggetti che la
distrahano: ma è una sola piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che
viene ad essere la sua medesima affezzione. Allora non è amore o appetito di
cosa particolare che possa sollecitare, né almeno farsi innanzi a la voluntade,
perché non è cosa più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che la bellezza,
non è più buono che la bontà, non si trova più grande che la grandezza, né cosa
più lucida che quella luce, la quale con la sua presenza oscura e cassa gli
lumi tutti. cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si possa
aggiongere: però la volontà non è capace d’altro appetito, quando fiagli
presente quello ch’è del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque posso la
conclusione, dove dice a l’amore: Non perder qua tue prove; perché, se non in
vano, a torto (si dice per certa similitudine e metafora) tenti ammazzar colui
ch’è morto. Cioè quello che non ha più vita né senso circa altri oggetti, onde
da quelli possa esser punto o forato; a che oltre viene ad essere esposto ad
altre specie? e questo lamento accade a colui che, avendo gusto de l’optima
unità, vorrebe essere al tutto exempto et abstratto dalla moltitudine.
maricondo Intendete molto bene. cesarino Or ecco appresso un fanciullo dentro
un battello che sta ad ora ad ora per essere assorbito, da l’onde tempestose,
che languido e lasso ha abandonati gli remi. Et èvvi circa lo motto Fronti
nulla fides. Non è dubio che questo significhe che lui dal sereno aspetto de
l’acqui fu invitato a solcar il mare infido; il quale a l’improviso avendo
inturbidato il volto, per estremo e mortal spavento, e per impotenza di romper
l’impeto, gli ha fatto dismetter il capo, braccia, e la speranza. Ma veggiamo
il resto: Gentil garzon che dal lido scioglieste la pargoletta barca, e al remo
frale, vago del mar l’indotta man porgeste, or sei repente accorto del tuo
male. Vedi del traditor l’onde funeste la prora tua, ch’o troppo scend’o sale;
né l’alma vinta da cure moleste, contra gli obliqui e gonfii flutti vale. Cedi
gli remi al tuo fero nemico, e con minor pensier la morte aspetti, che per non
la veder gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun soccorso amico, sentirai
certo or or gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e curiosi studi. Son gli miei
fati crudi simili a’ tuoi, perché vago d’Amore sento il rigor del più gran
traditore. In qual maniera e perché l’amore sia traditore e frodulento
l’abbiamo poco avanti veduto: ma perché veggio il seguente senza imagine e
motto, credo che abbia conseguenza con il presente; però continuano leggendolo:
Lasciato il porto per prova e per poco, feriando da studi più maturi, ero messo
a mirar quasi per gioco: quando viddi repente i fati duri. Quei sì m’han fatto
violento il foco, ch’in van ritento a i lidi più sicuri, in van per scampo man
piatosa invoco, perché al nemico mio ratto mi furi. Impotent’a suttrarmi, roco
e lasso io cedo al mio destino, e non più tento di far vani ripari a la mia
morte: facciami pur d’ogni altra vita casso, e non più tarde l’ultimo tormento,
che m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo di mio mal forte è quel che si
commese per trastullo al sen nemico, improvido fanciullo. Qua non mi confido de
intendere o determinar tutto quel che significa il furioso: pure è molto
espressa una strana condizione d’un animo dismesso dall’apprension della
difficultà de l’opra, grandezza della fatica, vastità del lavoro da un canto; e
da un altro, l’ignoranza, privazion de l’arte, debolezza de nervi, e periglio
di morte. Non ha consiglio atto al negocio; non si sa d’onde e dove debba
voltarsi, non si mostra luogo di fuga o di rifugio; essendo che da ogni parte
minacciano l’onde de l’impeto spaventoso e mortale. Ignoranti portum, nullus
suus ventus est. Vede colui che molto e pur troppo s’è commesso a cose
fortuite, s’aver edificato la perturbazione, il carcere, la ruina, la summersione.
Vede come la fortuna si gioca di noi; la qual ciò che ne mette con gentilezza
in mano, o lo fa rompere facendolo versar da le mani istesse, o fa che da
l’altrui violenza ne sia tolto, o fa che ne suffoche et avvelene, o ne
sollecita con la suspizione, timore e gelosia, a gran danno e ruina del
possessore. Fortunae an ulla putatis dona carere dolis? Or, perché la fortezza
che non può far esperienza di sé, è cassa; la magnanimità che non può
prevalere, è nulla, et è vano il studio senza frutto; vede gli effetti del
timore del male, il quale è peggio ch’il male istesso: Peior est morte timor
ipse mortis. Già col timore patisce tutto quel che teme de patire, orror ne le
membra, imbecillità ne gli nervi, tremor del corpo, anxia del spirito; e si fa
presente quel che non gli è sopragionto ancora, et è certo peggiore che
sopragiongere gli possa: che cosa più stolta che dolere per cosa futura,
absente, e la qual presente non si sente? Queste son considerazioni su la
superficie e l’istoriale de la figura. Ma il proposito del furioso eroico penso
che verse circa l’imbecillità de l’ingegno umano il quale attento a la divina
impresa in un subito talvolta si trova ingolfato nell’abisso della eccellenza
incomprensibile, onde il senso et imaginazione vien confusa et assorbita, che
non sapendo passar avanti, né tornar a dietro, né dove voltarsi, svanisce e
perde l’esser suo non altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare,
o un picciol spirito che s’attenua perdendo la propria sustanza nell’aere
spacioso et inmenso. maricondo Bene: ma andiamone discorrendo verso la stanza,
perché è notte. fine del primo dialogo mariconda Qua vedete un giogo
fiammeggiante et avolto de lacci, circa il quale è scritto Levius aura; che
vuol significar come l’amor divino non aggreva, non trasporta il suo servo,
cattivo e schiavo al basso, al fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il magnifica
sopra qualsivoglia libertade. cesarino Priegovi leggiamo presto l’articolo,
perché con più ordine, proprietà e brevità possiamo considerar il senso, se pur
in quello non si trova altro. mariconda Dice cossì: Chi femmi ad alt’amor la
mente desta, chi fammi ogn’altra diva e vile e vana, in cui beltad’ e la bontà
sovrana unicamente più si manifesta; quell’è ch’io viddi uscir da la foresta,
cacciatrice di me la mia Diana, tra belle ninfe su l’aura Campana, per cui
dissi ad Amor: Mi rendo a questa; et egli a me: O fortunato amante, o dal tuo
fato gradito consorte: che colei sola che tra tante e tante, quai ha nel grembo
la vit’e la morte, più adorna il mondo con le grazie sante, ottenesti per
studio e per sorte, ne l’amorosa corte sì altamente felice cattivo, che non
invidii a sciolt’ altr’uomo o divo. Vedi quanto sia contento sotto tal giogo,
tal coniugio, tal soma che l’ha cattivato a quella che vedde uscir da la
foresta, dal deserto, da la selva; cioè da parti rimosse dalla moltitudine,
dalla conversazione, dal volgo, le quali son lustrate da pochi. Diana splendor
di specie intelligibili, è cacciatrice di sé, perché con la sua bellezza e
grazia l’ha ferito prima, e se l’ha legato poi; e tienio sotto il suo imperio
più contento che mai altrimenti avesse potuto essere. Questa dice tra belle
nimfe, cioè tra la moltitudine d’altre specie, forme et idee; e su l’aura
Campana, cioè quello ingegno e spirito che si mostrò a Nola, che giace al piano
del orizonte campano. A quella si rese, quella più ch’altra gli venne lodata da
l’amore, che per lei vuol che si tegna tanto fortunato, come quella che, tra
tutte quante si fanno presenti et absenti da gli occhi de mortali, più
altamente adorna il mondo, fa l’uomo glorioso e bello. Quindi dice aver sì
desta la mente ad eccellente amore, che apprende ogni altra diva, cioè cura et
osservanza d’ogni altra specie, vile e vana. – Or in questo che dice aver desta
la mente ad amor alto, ne porge essempio de magnificar tanto alto il core per
gli pensieri, studii et opre, quanto più possibil fia, e non intrattenerci a
cose basse e messe sotto la nostra facultade: come accade a coloro che o per
avarizia, o per negligenza, o pur altra dapocagine rimagnono in questo breve
spacio de vita attaccati a cose indegne. cesarino Bisogna che siano arteggiani,
meccanici, agricoltori, servitori, pedoni, ignobili, vili, poveri, pedanti et
altri simili: perché altrimenti non potrebono essere filosofi, contemplativi,
coltori degli animi, padroni, capitani, nobili, illustri, ricchi, sapienti, et
altri che siano eroici simili a gli dèi. Però a che doviamo forzarci di
corrompere il stato della natura il quale ha distinto l’universo in cose
maggiori e minori, superiori et inferiori, illustri et oscure, degne et
indegne, non solo fuor di noi, ma et ancora dentro di noi, nella nostra
sustanza medesima, sin a quella parte di sustanza che s’afferma inmateriale?
Come delle intelligenze altre son suggette, altre preminenti, altre serveno ed ubediscono,
altre comandano e governano. Però io crederei che questo non deve esser messo
per essempio a fin che li sudditi volendo essere superiori, e gl’ignobili
uguali a gli nobili, non vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine delle cose,
che al fine succeda certa neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in
certe deserte et inculte republiche. Non vedete oltre in quanta iattura siano
venute le scienze per questa caggione che gli pedanti hanno voluto essere
filosofi, trattar cose naturali, intromettersi a determinar di cose divine? Chi
non vede quanto male è accaduto et accade per averno simili fatte ad alti amori
le menti deste? Chi ha buon senso, e non vede del profitto che fe’ Aristotele,
che era maestro de lettere umane ad Alessandro, quando applicò alto il suo
spirito a contrastare e muover guerra a la dottrina pitagorica e quella de
filosofi naturali, volendo con il suo raciocinio logicale ponere diffinizioni,
nozioni, certe quinte entitadi et altri parti et aborsi de fantastica
cogitazione per principio e sustanza di cose, studioso più della fede del volgo
e sciocca moltitudine, che viene più incaminata e guidata con sofismi et
apparenze che si trovano nella superficie delle cose, che della verità che è
occolta nella sustanza di quelle, et è la sustanza medesima loro? Fece egli la
mente desta non a farsi contemplatore, ma giudice e sentenziatore di cose che
non avea studiate mai, né bene intese. Cossì a’ tempi nostri quel tanto di
buono ch’egli apporta e singolare di raggione inventiva, iudicativa e di
metafisica, per ministerio d’altri pedanti che lavorano col medesimo sursum
corda, vegnono instituite nove dialettiche e modi di formar la raggione: tanto
più vili di quello d’Aristotele quanto forse la filosofia d’Aristotele è
incomparabilmente più vile di quella de gli antichi. Il che è pure avvenuto da
quel che certi grammatisti dopo che sono invecchiati nelle culine de fanciulli
e notomie de frasi e de vocaboli, ban voluto destar la mente a far nuove
logiche e metafisiche, giudicando e sentenziando quelle che mai studiorno et
ora non intendono: là onde cossì questi col favore della ignorante moltitudine
(al cui ingegno son più conformi), potranno cossì bene donar il crollo alle
umanitadi e raziocinio d’Aristotele, come questo fu carnefice delle altrui
divine filosofie. Vedi dumque a che suol promovere questo consiglio, se tutti
aspireno al splendor santo, et abbiano altre imprese vili e vane. mariconda
Ride si sapis, o puella, ride, pelignus (puto) dixerat poeta; sed non dixerat
omnibus puellis: et si dixerit omnibus puellis, non dixit tibi. Tu puella non
es. Cossì il sursum corda non è intonato a tutti, ma a quelli ch’hanno l’ali.
Veggiamo bene che mai la pedantaria è stata più in esaltazione per governare il
mondo, che a’ tempi nostri; la quale fa tanti camini de vere specie
intelligibili et oggetti de l’unica veritade infallibile, quanti possano essere
individui pedanti. Però a questo tempo massime denno esser isvegliati gli ben
nati spiriti armati dalla verità et illustrati dalla divina intelligenza, di
prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su l’alta rocca et eminente
torre della contemplazione. A costoro conviene d’aver ogni altra impresa per
vile e vana. Questi non denno in cose leggieri e vane spendere il tempo, la cui
velocità è infinita: essendo che sì mirabilmente precipitoso scorra il
presente, e con la medesima prestezza s’accoste il futuro. Quel che abbiamo
vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel ch’abbiamo a vivere non è
ancora un punto, ma può essere un punto, il quale insieme sarà e sarà stato. E
tra tanto questo s’intesse la memoria di genealogie, quello attende a
desciferar scritture, quell’altro sta occupato a moltiplicar sofismi da
fanciulli. Vedrai verbigrazia un volume pieno di: Cor est fons vite, nix est
alba: ergo cornix est fons vitae alba. Quell’altro garrisce se il nome fu prima
o il verbo, l’altro se il mare o gli fonti, l’altro vuol rinovare gli vocaboli
absoleti che per esserno venuti una volta in uso e proposito d’un scrittore
antico, ora de nuovo le vuol far montar a gli astri; l’altro sta su la falsa e
vera ortografia, altri et altri sono sopra altre et altre simili frascarie, le
quali molto più degnamente son spreggiate che intese. Qua diggiunano, qua
ismagriscono, qua intisichiscono, qua arrugano la pelle, qua allungano la
barba, qua marciscono, qua poneno l’àncora del sommo bene. Con questo
spreggiano la fortuna, con questo fan riparo e poneno il scudo contra le
lanciate del fato. Con tali e simili vilissimi pensieri credeno montar a gli
astri, esser pari a gli dei, e comprendere il bello e buono che promette la
filosofia. cesarino È gran cosa certo che il tempo che non può bastarci manco
alle cose necessarie, quantunque diligentissimamente guardato, viene per la maggior
parte ad esser speso in cose superflue, anzi cose vili e vergognose. – Non è da
ridere di quello che fa lodabile Archimede o altro appresso alcuni, che a tempo
che la cittade andava sottosopra, tutto era in ruina, era acceso il fuoco ne la
sua stanza, gli nemici gli erano dentro la camera a le spalli, nella
discrezzion et arbitrio de quali consisteva de fargli perdere l’arte, il
cervello e la vita; e lui tra tanto avea perso il senso e proposito di salvar
la vita, per averlo lasciato a dietro a perseguitar forse la proporzione de la
curva a la retta, del diametro al circolo o altre simili matesi, tanto degne
per giovanotti quanto indegne d’uno che (se posseva) devrebbe essere
invecchiato et attento a cose più degne d’esser messe per fine de l’umano studio.
mariconda In proposito di questo mi piace quello che voi medesimo poco avanti
dicesti, che bisogna ch’il mondo sia pieno de tutte sorte de persone, e che il
numero de gl’imperfetti, brutti, poveri, indegni e scelerati sia maggiore: et
in conclusione non debba essere altrimenti che come è. La età lunga e vechiaia
d’Archimede, Euclide, di Prisciano, di Donato et altri che da la morte son
stati trovati occupati sopra li numeri, le linee, le dizzioni, le concordanze,
scritture, dialecti, sillogismi formali, metodi, modi de scienze, organi et
altre isagogie, è stata ordinata al servizio della gioventù e de’ fanciulli,
gli quali apprender possano e ricevere gli frutti della matura età di quelli,
come conviene che siano mangiati da questi nella lor verde etade: a fin che più
adulti vegnano senza impedimento atti e pronti a cose maggiori. cesarino Io non
son fuor del proposito che poco avanti ho mosso: essendo in proposito di quei
che fanno studio d’involar la fama e luogo de gli antichi con far nove opre o
peggiori, o non megliori de le già fatte, e spendeno la vita su le
considerazioni da mettere avanti la lana di capra o l’ombra de l’asino; et
altri che in tutto il tempo de la vita studiano di farsi esquisiti in que’
studii che convegnono alla fanciullezza, e per la massima parte il fanno senza
proprio et altrui profitto. mariconda Or assai è detto circa quelli che non
possono né debbono ardire d’aver ad alt’amor la mente desta. Venemo ora a
considerare della volontaria cattività, e dell’ameno giogo sotto l’imperio de
la detta Diana: quel giogo, dico, senza il quale l’anima è impotente de
rimontar a quella altezza da la qual cadìo, percioché la rende più leggiera et
agile; e gli lacci la fanno più ispedita e sciolta. cesarino Discorrete dumque.
mariconda Per cominciar, continuar e conchiudere con ordine, considero che
tutto quel che vive, in quel modo che vive, conviene che in qualche maniera si
nodrisca, si pasca. Però a la natura intellettuale non quadra altra pastura che
intellettuale, come al corpo non altra che corporale: atteso che il nodrimento
non si prende per altro fine eccetto perché vada in sustanza de chi si
nodrisce. Come dumque il corpo non si trasmuta in spirito, né il spirito si
trasmuta in corpo (perché ogni trasmutazione si fa quando la materia che era
sotto la forma de uno viene ad essere sotto la forma de l’altro), cossì il
spirito et il corpo non hanno materia commune, di sorte che quello che era
soggetto a uno possa dovenire ad essere soggetto de l’altro. cesarino Certo se
l’anima se nodrisse de corpo si portarebe meglio dove è la fecondità della
materia (come argumenta Iamblico), di sorte che quando ne si fa presente un
corpo grasso e grosso, potremmo credere che sia vase d’un animo gagliardo,
fermo, pronto, eroico, e dire: O anima grassa, o fecondo spirito, o bello
ingegno, o divina intelligenza, o mente illustre, o benedetta ipostasi da far
un convito a gli leoni, over un banchetto a i dogs. Cossì un vecchio, come
appare marcido, debole e diminuito de forze, debba esser stimato de poco sale,
discorso e raggione. Ma seguitate. mariconda Or l’esca de la mente bisogna dire
che sia quella sola che sempre da lei è bramata, cercata, abbracciata, e
volentieri più ch’altra cosa gustata, per cui s’empie, s’appaga, ha prò e
dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni tempo, in ogni etade et in
qualsivoglia stato che si trove l’uomo, sempre aspira, e per cui suol spreggiar
qualsivoglia fatica, tentar ogni studio, non far caso del corpo, et aver in
odio questa vita. Perché la verità è cosa incorporea; perché nessuna, o sia
fisica, o sia metafisica, o sia matematica, si trova nel corpo; perché vedete
che l’eterna essenza umana non è ne gl’individui li quali nascono e muoiono. È
la unità specifica (disse Platone) non la moltitudine numerale che comporta la
sustanza de le cose; però chiamò l’idea uno e molti, stabile e mobile: perché
come specie incorrottibile, è cosa intelligibile et una, e come si communica
alla materia et è sotto il moto e generazione, è cosa sensibile e molti. In
questo secondo modo ha più de non ente che di ente: atteso che sempre è altro
et altro, e corre eterno per la privazione; nel primo modo è ente e vero.
Vedete appresso che gli matematici hanno per conceduto che le vere figure non
si trovano ne gli corpi naturali, né vi possono essere per forza di natura né
di arte. Sapete ancora che la verità de sustanze sopranaturali è sopra la
materia. – Conchiudesi dumque che a chi cerca il vero, bisogna montar sopra la
raggione de cose corporee. Oltre di ciò è da considerare che tutto quel che si
pasce, ha certa mente e memoria naturale del suo cibo, e sempre (massime quando
fia più necessario) ha presente la similitudine e specie di quello, tanto più
altamente, quanto è più alto e glorioso chi ambisce, e quello che si cerca. Da
questo, che ogni cosa ha innata la intelligenza de quelle cose che appartegnono
alla conservazione de l’individuo e specie, et oltre alla perfezion sua finale,
depende la industria di cercare il suo pasto per qualche specie di venazione. –
Conviene dumque che l’anima umana abbia il lume, l’ingegno e gl’instrumenti
atti alla sua caccia. Qua soccorre la contemplazione, qua viene in uso la
logica, altissimo organo alla venazione della verità, per distinguere, trovare
e giudicare. Quindi si va lustrando la selva de le cose naturali dove son tanti
oggetti sotto l’ombra e manto, e come in spessa, densa e deserta solitudine la
verità suol aver gli antri e cavernosi ricetti; fatti intessuti de spine,
conchiusi de boscose, ruvide e frondose piante: dove con le raggioni più degne
et eccellenti maggiormente s’asconde, s’avvela e si profonda con diligenza
maggiore, come noi sogliamo gli tesori più grandi celare con maggior diligenza
e cura, accioché dalla moltitudine e varietà de cacciatori (de quali altri son
più exquisiti et exercitati, altri meno) non vegna senza gran fatica
discuoperta. Qua andò Pitagora cercandola per le sue orme e vestigii impressi
nelle cose naturali, che son gli numeri li quali mostrano il suo progresso,
raggioni, modi et operazioni in certo modo: perché in numero de moltitudine,
numero de misure, e numero de momento o pende, la verità e l’essere si trova in
tutte le cose. Qua andò Anaxagora et Empedocle che considerando che la
omnipotente et omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto minima
che non volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le raggioni,
benché procedessero sempre vèr là dove era predominante et espressa secondo
raggion più magnifica et alta. Qua gli Caldei la cercavano per via di
suttrazzione non sapendo che cosa di quella affirmare: e procedevano senza cani
de dimostrazioni e sillogismi; ma solamente si forzaro di profondare rimovendo,
zappando, isboscando per forza di negazione de tutte specie e predicati
comprensibili e secreti. Qua Platone andava como isvoltando, spastinando e
piantando ripari: perché le specie labili e fugaci rimanessero come nella rete,
e trattenute da le siepe de le definizioni, considerando le cose superiori
essere participativamente, e secondo similitudine speculare nelle cose
inferiori, e queste in quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e la
verità essere ne l’une e l’altre secondo certa analogia, ordine e scala, nella
quale sempre l’infimo de l’ordine superiore conviene con il supremo de l’ordine
inferiore. E cossì si dava progresso dal infimo della natura al supremo come
dal male al bene, dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al puro atto, per
gli mezzi. Qua Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii impressi di
posser pervenire alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol amenarsi a
le cause. Benché egli per il più (massime che tutti gli altri ch’hanno occupato
il studio a questa venazione) abbia smarrito il camino, per non saper a pena
distinguere de le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in alcune de le sette cercano
la verità della natura in tutte le forme naturali specifiche, nelle quali
considerano l’essenza eterna e specifico sustantifico perpetuator della
sempiterna generazione e vicissitudine de le cose, che son chiamate dèi
conditori e fabricatori, sopra gli quali soprasiede la forma de le forme, il
fonte de la luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui tutto è pieno
de divinità, verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come cosa
inaccessibile, come oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile: però a
nessun pare possibile de vedere il sole, l’universale Apolline e luce absoluta
per specie suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana,
il mondo, l’universo, la natura che è nelle cose, la luce che è nell’opacità
della materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De molti dumque,
che per dette vie et altre assai discorreno in questa deserta selva, pochissimi
son quelli che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono contenti de
caccia de fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte non trova da
comprendere avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani piene di mosche.
Rarissimi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser
contemplar la Diana ignuda: e dovenir a tale che dalla bella disposizione del
corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’ doi lumi del gemino
splendor de divina bontà e bellezza, vegnano trasformati in cervio, per quanto
non siano più cacciatori ma caccia. Perché il fine ultimo e finale di questa venazione
è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il
predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte le altre
specie di venaggione che si fa de cose particolari, il cacciatore viene a
cattivare a sé l’altre cose, assorbendo quelle con la bocca de l’intelligenza
propria; ma in quella divina et universale viene talmente ad apprendere che
resta necessariamente ancora compreso, as- sorbito, unito: onde da volgare,
ordinario, civile e populare, doviene selvatico come cervio, et incola del
deserto; vive divamente sotto quella procerità di selva, vive nelle stanze non
artificiose di cavernosi monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove
vegeta intatto e puro da ordinarie cupiditadi, dove più liberamente conversa la
divinità, alla quale aspi- rando tanti uomini che in terra hanno volsuto gustar
vita celeste, dissero con una voce: Ecce elongavi fugiens, et mansi in
solitudine. Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone,
facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati
sensi, libero dal carnal carcere della materia; onde non più vegga come per
forami e per fenestre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglia a terra, è
tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come
uno, non vede più per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sensi,
come de diverse rime fanno veder et apprendere in confusione. Vede l’Amfitrite,
il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Monade,
vera essenza de l’essere de tutti; e se non la vede in sua essenza, in absoluta
luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché
dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura,
l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole nella luna,
mediante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emisfero delle sustanze
intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente
che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensibile, in cui
influisce il sole et il splendor della natura superiore secondo che la unità è
destinta nella generata e generante, o producente e prodotta. Cossì da voi
medesimo potrete conchiudere il modo, la dignità, et il successo più degno del
cacciatore e de la caccia: onde il furioso si vanta d’esser preda della Diana,
a cui si rese, per cui si stima gradito consorte, e più felice cattivo e
suggiogato, che invidiar possa ad altro uomo che non ne può aver ch’altretanto,
o ad altro divo che ne have in tal specie quale è impossibile d’essere ottenuta
da natura inferiore, e per conseguenza non è conveniente d’essere desiata, né
meno può cadere in appetito. cesarino Ho ben compreso quanto avete detto, e
m’avete più che mediocremente satisfatto. Or è tempo di ritornar a casa.
mariconda Bene. fine del secondo dialogo interlocutori Liberio, Laodonio.
liberio Posando sotto l’ombra d’un cipresso il furioso, e trovandosi l’alma
intermíttente da gli altri pensieri (cosa mirabile), avvenne che (come fussero
animali e sustanze de distinte raggioni e sensi) si parlassero insíeme il core
e gli occhi: l’uno de l’altro lamentandosi come quello che era principio di
quel faticoso tormento che consumava l’alma. laodonio Dite, se vi ricordate, le
raggioni e le paroli. liberio Cominciò il dialogo il core, il qual facendosi
udir dal petto proruppe in questi accenti: Prima proposta del core a gli occhi
Come, occhi miei, sì forte mi tormenta quel che da voi deriva ardente foco,
ch’al mio mortal suggetto mai allenta di serbar tal incendio, ch’ho per poco
l’umor de l’Oceàn e di più lenta artica stella il più gelato loco, perché ivi
in punto si reprima il vampo, o al men mi si prometta ombra di scampo? Voi mi
féste cattivo d’una man che mi tiene, e non mi vuole; per voi son entro al
corpo, e fuor col sole, son principio de vita, e non son vivo: non so quel che
mi sia ch’appartegno a quest’alma, e non è mia. laodonio Veramente l’intendere,
il vedere, il conoscere è quel che accende il desio, e per conseguenza, per ministerio
de gli occhi, vien infiammato il core: e quanto a quelli fia presente più alto
e degno oggetto, tanto più forte è il foco e più vivaci son le fiamme. Or qual
esser deve quella specie per cui tanto si sente acceso il core, che non spera
che temprar possa il suo ardore tanto più fredda quanto più lenta stella che
sia conchiusa nell’artico cerchio, né rallentar il vampo l’umor intiero de
l’Occano? Quanta deve essere l’eccellenza di quello oggetto che l’ha reso
nemico de l’esser suo, rubello a l’alma propria, e contento di tal ribellione e
nemicicia, quantunque sia cattivo d’una man che ’l dispreggia e non lo vuole?
Ma fatemi udire se gli occhi risposero e che cosa dissero. liberio Quelli per
il contrario si lagnavano del core, come quello che era principio e caggione
per cui versassero tante lacrime. Però a l’incontro gli proposero in questo
tenore: Prima proposta de gli occhi al core Come da te sorgon tant’acqui, o
core, da quante mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni giorn’al bel sol rinasce e
muore? A par de l’Amfitrite il doppio fonte versar può sì gran fiumi al mondo
fore, che puoi dir che l’umor tanto surmonte, che gli fia picciol rio chi
Egitto inonda scorrend’al mar per sette doppia sponda. Die’ natura doi lumi a
questo picciol mondo per governo; tu perversor di quell’ordin eterno, le
convertiste in sempiterni fiumi. E questo il ciel non cura, ch’il natìo passa,
el violento dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e compunto fa sorger lacrime
da gli occhi, onde come quelli accendono le fiamme in questo, quest’altro viene
a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì forte exaggerazione per cui
dicono che le Nereidi non alzano tanto bagnata fronte a l’oriente sole, quanta
possa appareggiar queste acqui; et oltre agguagliansi all’Oceano, non perché
versino, ma perché versar possano questi doi fonti, fiumi tali e tanti, che
computato a loro il Nilo apparirebbe una picciola lava distinta in sette
canali. liberio Non ti meravigliar della forte exaggerazione e di quella
potenza priva de l’atto; perché tutto intenderete dopo intesa la conchiusione
de raggionamenti loro. Or odi come prima il core risponde alla proposta de gli
occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere. liberio Prima risposta del core a
gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal s’alluma, et altro non son io che
fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina, s’infuma, e veggio per mio incendio
il ciel fervente; come il gran vampo mio non vi consuma, ma l’effetto contrario
in voi si sente? Come vi bagno, e più tosto non cuoco, se non umor, ma è mia
sustanza fuoco? Credete ciechi voi che da sì ardente incendio derivi el doppio
varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan abbian gli elementi suoi, come tal
volt’acquista forza un contrario, se l’altro resista? Vede come non possea
persuadersi il core di posser da contraria causa e principio procedere forza di
contrario effetto, sin a questo che non vuol affirmare il modo possibile,
quando per via d’antiperistasi, che significa il vigor che acquista il
contrario da quel che fuggendo l’altro viene ad unirsi, inspessarsi, inglobarsi
e concentrarsi verso l’individuo della sua virtude, la qual quanto più
s’allontana dalle dimensioni, tanto si rende efficace di vantaggio. laodonio
Dite ora come gli occhi risposero al core. liberio Prima risposta de gli occhi
al core Ahi, cor, tua passion sì ti confonde, ch’hai smarito il sentier di
tutt’il vero. Quanto si vede in noi, quanto s’asconde, è semenza de mari, onde
l’intero Nettun potrà ricovrar non altronde, se per sorte perdesse il
grand’impero; come da noi deriva fiamma ardente, che siam del mare il gemino
parente? Sei sì privo di senso, che per noi credi la fiamma trapasse, e
tant’umide porte a dietro lasse, per far sentir a te l’arder immenso? Come
splender per vetri, crederai forse che per noi penétri? Qua non voglio
filosofare circa la coincidenza de contrarii, de la quale ho studiato nel libro
De principio et uno; e voglio supponere quello che comunmente si suppone, che
gli contraria nel medesimo geno son distantissimi, onde vegna più facilmente
appreso il sentimento di questa risposta, dove gli occhi si dicono semi o
fonti, nella virtual potenza de quali è il mare: di sorte che se Nettuno
perdesse tutte l’acqui, le potrebbe richiamar in atto dalla potenza loro, dove
sono come in principio agente e materiale. Però non metteno urgente necessità
quando dicono non posser essere che la fiamma per la lor stanza e cortile
trapasse al core con lasciarsi tant’acqui a dietro, per due caggioni: prima
perché tal impedimento in atto non può essere se non posti in atto tali
oltraggiosi ripari; secondo perché per quanto l’acqui sono attualmente ne gli
occhi, possono donar via al calore come alla luce: essendo che l’esperienza
dimostra che senza scaldar il specchio viene il luminoso raggio ad accendere
per via di reflessione qualche materia che gli vegna opposta; e per un vetro,
cristallo, o altro vase pieno d’acqua, passa il raggio ad accendere una cosa
sottoposta senza che scalde il spesso corpo tramezzante: come è verisimile et
anco vero che caggione secche et aduste impressioni nelle concavitadi del
profondo mare. Talmente per certa similitudine, se non per raggioni di medesimo
geno, si può considerare come fia possibile che per il senso lubrico et oscuro
de gli occhi possa esser scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la quale
secondo medesima raggione non può essere nel mezzo. Come la luce del sole
secondo altra raggione è nell’aria tramezzante, altra nel senso vicino, et
altra nel senso commune, et altra ne l’intelletto: quantunque da un modo
proceda l’altro modo di essere. laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì,
perché l’uno e l’altro tentano di saper con qual modo quello contegna tante
fiamme, e quelli tante acqui. Fa dumque il core la seconda proposta: Seconda
proposta del core S’al mar spumoso fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il
cieco varco vien impregnato, ond’è che da voi lumi non è doppio torrente al
mondo scarco che cresca il regno a gli marini numi, scemando ad altri il
glorioso incarco? Perché non fia che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa
Deucalion ritorno? Dove gli rivi sparsi? Dove il torrente che mia fiamma
smorze, o per ciò non posser più la rinforze? Goccia non scende a terra ad
inglobarsi, per cui fia ch’io non pensi che sia cossì, come mostrano i sensi?
Dimanda qual potenza è questa che non si pone in atto; se tante son l’acqui,
perché Nettuno non viene a tiranneggiar su l’imperio de gli altri elementi? Ove
son gli inondanti rivi? Ove chi dia refrigerio al fuoco ardente? Dove è una
stilla onde io possa affirmar de gli occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma gli
occhi di pari fanno un’altra dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core Se
la materia convertita in foco acquista il moto di lieve elemento, e se ne sale
a l’eminente loco, onde avvien che veloce più che vento, tu ch’incendio d’amor
senti non poco, non ti fai gionto al sole in un momento? per che soggiorni
peregrino al basso, non t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla non si
scorge uscir a l’aria aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o adusto,
né lacrimoso fumo ad alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di fiamma è
raggion, sens’, o pensiero. laodonio Non ha più né meno efficacia questa che
quell’altra proposta: ma vengasi presto alle risposte, se vi sono. liberio Vi
son certamente e piene di succhio; udite: Seconda risposta del core a gli occhi
Sciocco è colui che sol per quanto appare al senso, et oltre a la raggion non
crede: il fuoco mio non puote alto volare, e l’infinito incendio non si vede,
perché de gli occhi ban sopraposto il mare, e un infinito l’altro non eccede:
la natura non vuol ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a tanta sfera.
Ditemi, occhi, per dio, qual mai partito prenderemo noi, onde far possa aperto
o io, o voi, per scampo suo, de l’alma il fato rio, se l’un e l’altro ascoso
mai potrà fargli il bel nume piatoso? laodonio Se non è vero, è molto ben
trovato: se non è cossì, è molto bene iscusato l’uno per l’altro, se stante che
dove son due forze de quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna che cesse
l’operazion di questa e quella: essendo che tanto questa può resistere quanto
quella insistere; non meno quella ripugna, che possa oppugnar questa. Se dumque
è infinito il mare et inmensa la forza de le lacrime che sono ne gli occhi, non
faranno giamai ch’apparir possa Cavillando o isvampando l’impeto del fuoco ascoso
nel petto; né quelli mandar potranno il gemino torrente al mare, se con
altretanto di vigore gli fa riparo il core: però accade che il bel nume per
apparenza di lacrima che stile da gli occhi, o favilla che si spicche dal
petto, non possa esser invitato ad esser piatoso a l’alma afflitta. [liberio]
Or notate la conseguente risposta de gli occhi: Seconda risposta de gli occhi
al core Ahi per versar a l’elemento ondoso, l’émpito de noi fonti al tutt’è
casso; che contraria potenza il tien ascoso, acciò non mande a rotilon per
basso. L’infinito vigor del cor focoso a i pur tropp’alti fiumi niega il passo;
quindi gemino varco al mar non corre, ch’il coperto terren natura aborre. Or
dinne, afflitto core, che puoi opporti a noi con altretanto vigor: chi fia giamai
che porte il vanto d’esser precon di sì ’nfelice amore, s’il tuo e nostro male
quant’è più grande, men mostrarsi vale? Per essere infinito l’un e l’altro
male, come doi ugualmente vigorosi contraria si ritegnono, si supprimeno; e non
potrebbe esser cossì, se l’uno e l’altro fosse finito, atteso che non si dà
equalità puntuale nelle cose naturali, né ancora sarebbe cossì se l’uno fusse
finito e l’altro infinito: ma certo questo assorbirebbe quello, et avverrebe
che si mostrarebbono ambi doi, o al men l’uno per l’altro. Sotto queste
sentenze la filosofia naturale et etica che vi sta occolta, lascio cercarla,
considerarla e comprenderla a chi vuole e puote. Sol questo non voglio
lasciare, che non senza raggione l’affezzion del core è detta infinito mare dall’apprension
de gli occhi: perché essendo infinito l’oggetto de la mente, et a l’intelletto
non essendo definito oggetto proposto, non può essere la volontarie appagata de
finito bene; ma se oltre a quello si ritrova altro, il brama, il cerca, perché
(come è detto commune) il summo della specie inferiore è infimo e principio
della specie superiore, o si prendano gli gradi secondo le forme le quali non
possiamo stimar che siano infinite, o secondo gli modi e raggioni di quelle,
nella qual maniera per essere infinito il sommo bene, infinitamente credemo che
si comunica secondo la condizione delle cose alle quali si diffonde: però non è
specie definita a l’universo (parlo secondo la figura e mole), non è specie
definita a l’intelletto, non è definita la specie de l’affetto. laodonio Dumque
queste due potenze de l’anima mai sono, né essere possono perfette per
l’oggetto, se infinitamente si riferiscono a quello. liberio Cossì sarrebe se
questo infinito fusse per privazion negativa o negazion privativa de fine, come
è per più positiva affirmazione de fine infinito et interminato. laodonio
Volete dir dumque due specie d’infinità: l’una privativa la qual può essere
verso qualche cosa che è potenza, come infinite son le tenebre, il fine delle
quali è posizione di luce; l’altra perfettiva la quale è circa l’atto e
perfezzione, come infinita è la luce, il fine della quale sarebbe privazione e
tenebre. In questo dumque che l’intelletto concepe la luce, il bene, il bello,
per quanto s’estende l’orizonte della sua capacità, e l’anima che beve del
nettare divino e de la fonte de vita eterna, per quanto comporta il vase
proprio; si vede che la luce è oltre la circonferenza del suo orizonte dove può
andar sempre più e più penetrando; et il nettare e fonte d’acqua viva è infinitamente
fecondo, onde possa sempre oltre et oltre inebriarsi. [liberio] Da qua non
séguita imperfezzione nell’oggetto né poca satisfazzione nella potenza; ma che
la potenza sia compresa da l’oggetto e beatificamente assorbita da quello. Qua
gli occhi imprimeno nel core, cioè nell’intelligenza, suscitano nella volontà
un infinito tormento di suave amore, dove non è pena, perché non s’abbia quel
che si desidera: ma è felicità, perché sempre vi si trova quel che si cerca; et
in tanto non vi è sazietà, per quanto sempre s’abbia appetito, e per
conseguenza gusto: acciò non sia come nelli cibi del corpo il quale con la
sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che guste, né dopo ch’ha
gustato, ma nel gustar solamente: dove se passa certo termine e fine, viene ad
aver fastidio e nausea. – Vedi dumque in certa similitudine qualmente il sommo
bene deve essere infinito, e l’appulso de l’affetto verso e circa quello esser
deggia anco infinito, acciò non vegna talvolta a non esser bene: come il cibo
che è buono al corpo, se non ha modo, viene ad essere veleno. Ecco come l’umor
de l’Oceano non estingue quel vampo, et il rigor de l’Artico cerchio non tempra
quell’ardore. Cossì è cattivo d’una mano che il tiene e non lo vuole: il tiene
perché l’ha per suo, non lo vuole perché (come lo fuggesse) tanto più se gli fa
alto quanto più ascende a quella, quanto più la séguita tanto più se gli mostra
lontana per raggion de eminentissima eccellenza, secondo quel detto: Accedet
homo ad cor altum, et exaltabitur Deus. – Cotal felicità d’affetto comincia da
questa vita, et in questo stato ha il suo modo d’essere: onde può dire il core
d’essere entro con il corpo, e fuori col sole, in quanto che l’anima con la
gemina facultade mette in esecuzione doi uffici: l’uno de vivificare et attuare
il corpo animabile, l’altro de contemplare le cose superiori; perché cossì lei
è in potenza receptiva da sopra, come è verso sotto al corpo in potenza attiva.
Il corpo è come morto e cosa privativa a l’anima la quale è sua vita e
perfezzione; e l’anima è come morta e cosa privativa alla superiore
illuminatrice intelligenza da cui l’intelletto è reso in abito e formato in
atto. Quindi si dice il core essere prencipe de vita, e non esser vivo; si dice
appartenere a l’alma animante, e quella non appartenergli: perché è infocato da
l’amor divino, è convertito finalmente in fuoco, che può accendere quello che
si gli avicina: atteso che avendo contratta in sé la divinitade, è fatto divo,
e conseguentemente con la sua specie può innamorar altri: come nella luna può
essere admirato e magnificato il splendor del sole. Per quel poi ch’appartiene
al considerar de gli occhi, sapete che nel presente discorso hanno doi ufficii:
l’uno de imprimere nel core, l’altro de ricevere l’impressione dal core; come
anco questo ha doi ufficii: l’uno de ricevere l’impressioni da gli occhi,
l’altro di imprimere in quelli. Gli occhi apprendono le specie e le proponeno
al core, il core le brama et il suo bramare presenta a gli occhi: quelli
concepeno la luce, la diffondano, et accendono il fuoco in questo; questo
scaldato et acceso invia il suo umore a quelli, perché lo digeriscano. Cossì
primieramente la cognizione muove l’affetto, et appresso l’affetto muove la
cognizione. Gli occhi quando moveno sono asciutti, perché fanno ufficio di
specchio e di ripresentatore; quando poi son mossi, son turbati et alterati;
perché fanno ufficio de studioso executore: atteso che con l’intelletto
speculativo prima si vede il bello e buono, poi la voluntà l’appetisce, et
appresso l’intelletto industrioso lo procura, séguita e cerca. Gli occhi
lacrimosi significano la difficultà de la separazione della cosa bramata dal
bramante, la quale acciò non sazie, non fastidisca, si porge come per studio
infinito, il quale sempre ha e sempre cerca: atteso che la felicità de dèi è
descritta per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per il gustare non
per aver gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo et alla bevanda,
e non con esser satolli e senza desio de quelli. Indi, hanno la sazietà come in
moto et apprensione, non come in quiete e comprensione, non son satolli senza
appetito, né sono appetenti senza essere in certa maniera satolli. laodonio
liberio laodonio Esuries satiata satietas esuriens. Cossì a punto. Da qua posso
intendere come senza biasimo ma con gran verità et intelletto è stato detto che
il divino amore piange con gemiti inenarrabili, perché con questo che ha tutto
ama tutto, e con questo che ama tutto ha tutto. liberio Ma vi bisognano molte
glose se volessimo intendere de l’amor divino che è la istessa deità; e
facilmente s’intende de l’amor divino per quanto si trova ne gli effetti e
nella subalternata natura; non (dico) quello che dalla divinità si diffonde
alle cose: ma quello delle cose che aspira alla divinità. laodonio Or di questo
et altro raggionaremo a più aggio appresso. Andiamone. fine del terzo dialogo
interlocutori Severino, Minutolo. severino Vedrete dumque la raggione de nove
ciechi, li quali apportano nove principii e cause particolari de sua cecità,
benché tutti convegnano in una causa generale d’un comun furore. minutolo
Cominciate dal primo. severino Il primo di questi benché per natura sia cieco,
nulladimeno per amore si lamenta, dicendo a gli altri che non può persuadersi
la natura esser stata più discortese a essi che a lui; stante che quantunque
non veggono, hanno però provato il vedere, e sono esperti della dignità del
senso e de l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti orbi: ma egli è venuto
come talpa al mondo a esser visto e non vedere, a bramar quello che mai vedde.
minutolo Si son trovati molti innamorati per sola fama. severino Essi (dice
egli) aver pur questa felicità de ritener quella imagine divina nel conspetto
de la mente, de maniera, che quantunque ciechi, hanno pure in fantasia quel che
lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua guida, pregandola che
lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre orrido spettacolo del
sdegno di natura. Dice dumque: Parla il primo cieco Felici che talvolta visto
avete, voi per la persa luce ora dolenti compagni che dei lumi conoscete.
Questi accesi non furo, né son spenti; però più grieve mal che non credete è il
mio, e degno de più gran lamenti: perché, che fusse torva la natura più a voi
ch’a me, non è chi m’assicura. Al precipizio, o duce, conducime, se vòi darmi
contento, perché trove rimedio il mio tormento, ch’ad esser visto, e non veder
la luce, qual talpa uscivi al mondo, e per esser di terra inutil pondo.
Appresso séguita l’altro che morsicato dal serpe de la gelosia, è venuto infetto
nell’organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la gelosia per scorta:
priega alcun de circonstanti che se non è rimedio del suo male, faccia per
pietà che non oltre aver possa senso del suo male; facendo cossì lui occolto a
se medesimo, come se gli è fatta occolta la sua luce: con sepelir lui col
proprio male. Dice dumque: Parla il secondo cieco Da la tremenda chioma ha
svèlto Aletto l’infernal verme, che col fiero morso hammi sì crudament’il
spirto infetto, ch’a tòrmi il senso principal è corso, privando de sua guida
l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede altrui soccorso, sì cespitar mi fa per
ogni via quel rabido rancor di gelosia. Se non magico incanto, né sacra pianta,
né virtù de pietra, né soccorso divin scampo m’impetra, un di voi sia (per dio)
piatoso in tanto, che a me mi faccia occolto: con far meco il mio mal tosto
sepolto. Succede l’altro il qual dice esser dovenuto cieco per essere
repentinamente promosso dalle tenebre a veder una gran luce; atteso che essendo
avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli avanti gli
occhi una beltà celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli è stemprata
la vista e smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a l’alma (perché
gli occhi son come doi fanali che guidano la nave) ch’accader suole a un
allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito immediatamente affiga gli occhi
a sole. E nella sestina priega che gli sia donato libero passagio a l’inferno,
perché non altro che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso. Dice dumque
cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il gran pianeta di repente a un uom
nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de la cimmeria gente, onde lungi
suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume gemino splendente in prora a
l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur mie luci avezze a mirar
ordinarie bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché morto discorro tra le genti?
perché ceppo infernal tra voi viventi misto men vo? Perché l’aure discare
sorbisco, in tante pene messo per aver visto il sommo bene? Fassi innanzi il
quarto cieco per simile, ma non già per medesima caggione orbo, con cui si
mostra il primo: perché come quello per repentino sguardo della luce, cossì
questo con spesso e frequente remirare, o pur per avervi troppo fissati gli
occhi, ha perso il senso de tutte l’altre luci, e non si dice cieco per
conseguenza al risguardo di quella unica che l’ha occecato; e dice il simile
del senso de la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo che
coloro che han fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli
strepiti minori: come è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde
il gran fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura.
minutolo Cossì tutti color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più difficili
e grandi, non sogliono sentir fastidio dalle difficultadi minori. E costui non
deve essere discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si dice
volontario orbo, a cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come l’attedia
col divertirlo da mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in questo
mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar male per
qualche mal rancontro, mentre va sì attento e cattivato ad un oggetto
principale. minutolo Riferite le sue paroli. severino Parla il quarto cieco
Precipitoso d’alto al gran profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento
de Cataduppi al popolo ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento
alla più viva luce ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento:
or mentr’ella gli splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose.
Priegovi, da le scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e
se si scende o sale: perché non caggian queste misere osse in luogo cavo e
basso, mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il molto
lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può
stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente
per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta
vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma
abituale, et al tutto privativa; perché il fuoco luminoso che accende l’alma
nella pupilla, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et oppresso
dal contrario umore: de maniera che quantunque cessasse il lacrimare, non si
persuade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et udirete quel che dice
appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare: Parla il quinto cieco
Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che del raggio visuale la
scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e vegna tale, che possa
riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce male? Lasso: credo che
sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa e vinta. Fate passar il
cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon gli altri tutti uniti e
gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo lo rende ch’un de miei
occhi un Oceàn comprende. Il sesto orbo è cieco, perché per il soverchio pianto
ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto umore, fin al ghiacio et umor
per cui come per mezzo diafano il raggio visuale era transmesso, e
s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che talmente fu
compunto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de tener unite
ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta l’amorosa
affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato per la
vittoria de gli altri elementi, et è rimasto consequentemente senza vedere e
senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli circonstanti
quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi; fonti, non più
fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il spirto e l’alma
gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a l’alma conti,
sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso speco vo menando i
miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi pronto andar, di me
piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio pianto m’appagando ho
sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio datemi il passo.
Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal intenso vampo che
procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso a leccar
tutto il rimanente umore de la sustanza de l’amante, de maniera che tutto
incinerito e messo in fiamma non è più lui: perché dal fuoco la cui virtù è de
dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in polve non
compaginabili, se per virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi se
inspessano e congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è
privo del senso de l’intensissime fiamme; però nella sestina con questo vuol
farsi dar largo da passare: ché se qualch’uno venesse tócco da le fiamme sue,
dovenerebbe a tale che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa
calda, che come di fredda neve. Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà
che per gli occhi scorse al core formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì
prima il visuale umore, sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando
ogn’altro mio liquore, per metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non
compaginabil polve, chi ne gli atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male
avete orror, datemi piazza, o gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se
contagion di quel v’assale, crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de
l’inferno. Succede l’ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta
che Amore gli ha fatto penetrare da gli occhi al core. Onde si lagna non
solamente come cieco, ma et oltre come ferito, et arso tanto altamente, quanto
non crede ch’altro esser possa. Il cui senso è facilmente espresso in questa
sentenza: Parla l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma,
punt’acuta, esca edace, forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma,
stral, fuoco e laccio di quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor,
legò l’alma, e femmi a un punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia
piaga, incendio e nodo, ho ’l senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e
dèi, che siete in terra, o appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come
e dove provaste, udiste o vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra
oppressi, tra dannati, tra gli amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor
muto: perché non possendo (per non aver ardire) dir quello che massime vorrebe
senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa.
Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la quale, per
esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida
del nono cieco Fortunati voi altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal
spiegate: esser possete, per merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e
grate; di quel ch’io guido, qual tra tutti quanti più altamente spasma, il
vampo late, muto forse per falta d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo
tormento. Aprite, aprite il passo, siate benigni a questo vacuo volto de tristi
impedimenti, o popol folto, mentre ch’il busto travagliato e lasso va
picchiando le porte di men penosa e più profonda morte. Qua son significate
nove caggioni per le quali accade che l’umana mente sia cieca verso il divino
oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le quali: La prima,
allegorizata per il primo cieco, è la natura della propria specie, che per
quanto comporta il grado in cui si trova, in quello aspira per certo più alto
che apprender possa. minutolo Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo
certificarci de stato più eccellente che conviene a l’anima fuor di questo
corpo in cui gli fia possibile d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo
oggetto. severino Dici molto bene che nessuna potenza et appulso naturale è
senza gran raggione, anzi è l’istessa regola di natura la quale ordina le cose:
per tanto è cosa verissima e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo
umano (qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa
apparire in questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa regione,
perché aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello che
viene a proposito e profitto della sua specie. La seconda, figurata per il
secondo cieco, procede da qualche perturbata affezzione, come in proposito de
l’amore è la gelosia, la quale è come tarlo che ha medesimo suggetto, nemico e
padre, cioè che rode il panno o legno di cui è generato. minutolo Questa non mi
par ch’abbia luogo nell’amor eroico. severino Vero, secondo medesima raggione
che vedesi nell’amor volgare: ma io intendo secondo altra raggione
proporzionale a quella la quale accade in color che amano la verità e bontà; e
si mostra quando s’adirano tanto contra quelli che la vogliono adulterare,
guastare, corrompere, o che in altro modo indegnamente vogliono trattarla: come
son trovati di quelli che si son ridutti sino alla morte, alle pene et esser
ignominiosamente trattati da gli popoli ignoranti e sette volgari. minutolo
Certo nessuno ama veramente il vero e buono che non sia iracondo contra la moltitudine:
come nessuno volgarmente ama, che non sia geloso e timido per la cosa amata.
severino E con questo vien ad esser cieco in molte cose veramente, et affatto
affatto secondo l’opinion commune è stolto e pazzo. minutolo Ho notato un luogo
che dice esser stolti e pazzi tutti quelli che hanno senso fuor et estravagante
dal senso universale de gli altri uomini; ma cotal estravaganza è di due
maniere, secondo che si va estra o con ascender più alto che tutti e la maggior
parte sagliano o salir possano: e questi son gli inspirati de divino furore; o
con descendere più basso dove si trovano coloro che hanno difetto di senso e di
raggione più che aver possano gli molti, gli più, e gli ordinaria: et in cotal
specie di pazzia, insensazione e cecità non si trovarà eroico geloso. severino
Quantumque gli vegna detto che le molte lettere lo fanno pazzo, non gli si può
dire ingiuria da dovero. La terza, figurata nel terzo cieco, procede da che la
divina verità, secondo raggione sopra naturale, detta metafisica, mostrandosi a
que’ pochi alli quali si mostra, non proviene con misura di moto e tempo, come
accade nelle scienze fisiche (cioè quelle che s’acquistano per lume naturale,
le quali discorrendo da una cosa nota secondo il senso o la raggione, procedono
alla notizia d’altra cosa ignota: il qual discorso è chiamato argumentazione),
ma subito e repentinamente secondo il modo che conviene a tale efficiente. Onde
disse un divino: Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum. Onde non è
richiesto van discorso di tempo, fatica de studio, et atto d’inquisizione per
averla: ma cossì prestamente s’ingerisce come proporzionalmente il lume solare
senza dimora si fa presente a chi se gli volta e se gli apre. minutolo Volete
dumque che gli studiosi e filosofi non siano più atti a questa luce che gli
quantunque ignoranti? severino In certo modo non, et in certo modo sì. Non è
differenza quando la divina mente per sua providenza viene a comunicarsi senza
disposizione del suggetto: voglio dire quando si communica, perché ella cerca
et eligge il suggetto; ma è gran differenza quando aspetta e vuol esser
cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi ritrovare. In questo modo
non appare a tutti, né può apparir ad altri che a color che la cercano. Onde è
detto: Qui quaerunt me invenient me; et in altro loco: Qui sitit, veniat, et
bibat. minutolo Non si può negare che l’apprensione del secondo modo si faccia
in tempo. severino Voi non distinguete tra la disposizione alla divina luce, e
la apprensione di quella. Certo non niego che al disporsi bisogna tempo,
discorso, studio e fatica: ma come diciamo che la alterazione si fa in tempo, e
la generazione in instante; e come veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre,
et il sole entra in un momento: cossì accade proporzionalmente al proposito. La
quarta, significata nel seguente, non è veramente indegna, come quella che
proviene dalla consuetudine di credere a false opinioni del volgo il quale è
molto rimosso dalle opinioni de filosofi: opur deriva dal studio de filosofie
volgari le quali son dalla moltitudine tanto più stimate vere, quanto più
accostano al senso commune. E questa consuetudine è uno de grandissimi e
fortissimi inconvenienti che trovar si possano: perché (come exemplificò
Alcazele et Averroe) similmente accade a essi, che come a color che da puerizia
e gioventù sono consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a tale, che se gli
è convertito in suave e proprio nutrimento; e per il contrario abominano le
cose veramente buone e dolci secondo la comun natura. Ma è dignissima, perché è
fondata sopra la consuetudine de mirar la vera luce (la qual consuetudine non
può venir in uso alla moltitudine come è detto). Questa cecità è eroica, et è
tale, per quale degnamente contentare si possa il presente furioso cieco, il
qual tanto manca che si cure di quella, che viene veramente a spreggiare ogni
altro vedere, e da la comunità non vorrebe impetrar altro che libero passagio e
progresso di contemplazione: come per ordinario suole patir insidie, e se gli
sogliono opporre intoppi mortali. La quinta, significata nel quinto, procede
dalla improporzionalità delli mezzi de nostra cognizione al cognoscibile;
essendo che per contemplar le cose divine, bisogna aprir gli occhi per mezzo de
figure, similitudini et altre raggioni che gli Peripatetici comprendono sotto
il nome de fantasmi; o per mezzo de l’essere procedere alla speculazion de
l’essenza: per via de gli effetti alla notizia della causa; gli quali mezzi
tanto manca che vagliano per l’assecuzion di cotal fine, che più tosto è da credere
che siano impedimenti, se credere vogliamo che la più alta e profonda cognizion
de cose divine sia per negazione e non per affirmazione, conoscendo che la
divina beltà e bontà non sia quello che può cader e cade sotto il nostro
concetto: ma quello che è oltre et oltre incomprensibile; massime in questo
stato detto speculator de fantasmi dal filosofo, e dal teologo vision per
similitudine speculare et enigma; perché veggiamo non gli effetti veramente, e
le vere specie de le cose, o la sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e
simulacri de quelle, come color che son dentro l’antro et hanno da natività le
spalli volte da l’entrata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non
vedeno quel che è veramente, ma le ombre de ciò che fuor de l’antro sustanzialmente
si trova. – Però per la aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa,
un spirito simile o meglior di quel di Platone piange desiderando l’exito da
l’antro, onde non per riflessione, ma per immediata conversione possa riveder
sua luce. minutolo Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà che
procede dalla vista riflessiva: ma da quella che è caggionata dal mezzo tra la
potenza visiva e l’oggetto. severino Questi doi modi quantunque siano distinti
nella cognizion sensitiva o vision oculare, tutta volta però concorrenti in uno
nella cognizione razionale o intellettiva. minutolo Parmi aver inteso e letto
che in ogni visione si richiede il mezzo over intermedio tra la potenza et
oggetto. Perché come per mezzo della luce diffusa ne l’aere e la similitudine
della cosa che in certa maniera procede da quel che è visto a quel che vede, si
mette in effetto l’atto del vedere: cossì nella regione intellettuale dove
splende il sole dell’intelletto agente mediante la specie intelligibile formata
e come procedente da l’oggetto, viene a comprendere de la divinità BRUNO
(vedasi) l’intelletto nostro o altro inferiore a quella. Perché come l’occhio
nostro (quando veggiamo) non riceve la luce del foco et oro in sustanza, ma in
similitudine: cossì l’intelletto in qualunque stato che si trove, non riceve
sustanzialmente la divinità, onde sieno sostanzialmente tanti dèi quante sono
intelligenze, ma in similitudine; per cui non formalmente son dèi, ma
denominativamente divini, rimanendo la divinità e divina bellezza una et
exaltata sopra le cose tutte. severino Voi dite bene; ma per vostro dire bene
non è mistiero ch’io mi ritratte, perché non ho detto il contrario: ma bisogna
che io dechiare et expliche. Però prima dechiaro che la visione immediata, detta
da noi et intesa, non toglie quella sorte di mezzo che è la specie
intelligibile, né quella che è la luce; ma quella che è proporzionale alla
spessezza e densità del diafano, o pur corpo al tutto opaco tramezzante: come
aviene a colui che vede per mezzo de le acqui più e meno turbide, o aria
nimboso e nebbioso; il quale s’intenderebbe veder come senza mezzo quando gli
venesse concesso de mirar per l’aria puro, lucido e terso. Il che tutto avete
come esplicato dove si dice: Spicche fuor di tanti e sì densi ripari. Ma
ritorniamo al nostro principale. La sesta, significata nel sequente, non è
altrimenti caggionata che dalla imbecillità et insubsistenza del corpo, il
quale è in continuo moto, mutazione et alterazione; e le operazioni del quale
bisogna che seguitino la condizione della sua facultà, la quale è consequente
dalla condizione della natura et essere. Come volete voi che la immobilità, la
sussistenza, la entità, la verità sia compresa da quello che è sempre altro et
altro, e sempre fa et è fatto altri et altrimenti? Che verità, che ritratto può
star depinto et impresso dove le pupille de gli occhi si dispergono in acqui,
l’acqui in vapore, il vapore in fiamma, la fiamma in aura, e questa in altro et
altro, senza fine discorrendo il suggetto del senso e cognizione per la ruota
delle mutazioni in infinito? minutolo Il moto è alterità, quel che si muove
sempre è altro et altro, quel che è tale, sempre altri et altrimente si porta
et opra, per che il concetto et affetto séguita la raggione e condizione del
suggetto. E quello che altro et altro, altri et altrimenti mira, bisogna
necessariamente che sia a fatto cieco al riguardo di quella bellezza che è
sempre una et unicamente, et è l’istessa unità et entità, identità. severino
Cossì è. La settima, contenuta allegoricamente nel sentimento del settimo
cieco, deriva dal fuoco dell’affezzione, onde alcuni si fanno impotenti et
inabili ad apprendere il vero, con far che l’affetto precorra a l’intelletto.
Questi son coloro che prima hanno l’amare che l’intendere: onde gli avviene che
tutte le cose gli appaiano secondo il colore della sua affezzione; stante che
chi vuole apprendere il vero per via di contemplazione deve essere
ripurgatissimo nel pensiero. minutolo In verità si vede che sì come è diversità
de contemplatori et inquisitori per quel che altri (secondo gli abiti de loro
prime e fondamentali discipline) procedeno per via de numeri, altri per via de
figure, altri per via de ordini o disordini, altri per via di composizione e
divisione, altri per via di separazione e congregazione, altri per via de
inquisizion e dubitazione, altri per via de discorso e definizione, altri per
via de interpretazioni e desciferazion de voci, vocaboli e dialecti: onde altri
son filosofi matematici, altri metafisici, altri logici, altri grammatici;
cossì è diversità de contemplatori che con diverse affezzioni si metteno ad
studiare et applicar l’intenzione alle sentenze scritte: onde si doviene sin a
questo che medesima luce di verità espressa in un medesimo libro per medesime
paroli, viene a servire al proposito di sette tanto numerose, diverse e
contrarie. severino Per questo è da dire che gli affetti molto sono potenti per
impedir l’apprension del vero, quantumque gli pazienti non se ne possano
accorrere: qualmente aviene ad un stupido ammalato che non dice il suo gusto
amaricato, ma il cibo amaro. Or tal specie de cecità è notata per costui, gli
occhi del quale son alterati e privi dal suo naturale, per quel che dal core è
stato inviato et impresso, potente non solo ad alterar il senso, ma et oltre
l’altre tutte facultadi de l’alma, come la presente figura dimostra. Al
significato per l’ottavo, cossì l’eccellente intelligibile oggetto have
occecato l’intelletto, come l’eccellente sopraposto sensibile a costui ha
corrotto il senso. Cossì avviene a chi vede Giove in maestà, che perde la vita,
e per conseguenza perde il senso. Cossì avviene che chi alto guarda tal volta
vegna oppresso da la maestà. Oltre quando viene a penetrar la specie divina, la
passa come strale: onde dicono gli teologi il verbo divino essere più
penetrativo che qualsivoglia punta di spada o di coltello. Indi deriva la
formazione et impressione del proprio vestigio, sopra il quale altro non è che
possa essere impresso o sigillato; là onde essendo tal forma ivi confirmata, e
non possendo succedere la peregrina e nova, senza che questa cieda,
conseguentemente può dire che non ha più facultà di prendere altro, se ha chi
la riempie, o la disgrega per la necessaria improporzionalitade. La nona
caggione è notata per il nono che è cieco per inconfidenza, per deiezzion de
spirito, la quale è administrata e caggionata pure da grande amore, con lo
ardire teme de offendere; onde disse la Cantica: Averte oculos tuos a me, quia
ipsi me avolare fecere. E cossì supprime gli occhi da non vedere quel che
massime desidera e gode di vedere; come raffrena la lingua da non parlare con
chi massime brama di parlare, per téma che difetto di sguardo o difettosa
parola non lo avvilisca, o per qualche modo non lo metta in disgrazia: e questo
suol procedere da l’apprensione de l’excellenza de l’oggetto sopra de la sua
facultà potenziale, onde gli più profondi e divini teologi dicono che più si
onora et ama Dio per silenzio, che per parola; come si vede più per chiuder gli
occhi alle specie representate, che per aprirli: onde è tanto celebre la
teologia negativa de Pitagora e Dionisio, sopra quella demostrativa de
Aristotele e scolastici dottori. minutolo Andiamone raggionando per il camino.
severino Come ti piace. fine del quarto dialogo DIALOGO QUINTO interlocutori
Laodomia, Giulia. laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai quel che
apporta tutto il successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove
bellissimi et amorosi giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del
vostro viso, e non avendo speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e
temendo che tal disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal
terreno della Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la
tua beltade giuròrno di non lasciarsi mai sin che avessero tentato tutto il
possibile per ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che
scuoprir si potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si
trovava nel vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico
rimedio che divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno
dopo la lor sollenne partita, passando vicini al monte Circeo, gli piacque
d’andar a veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove
essendo gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose
rupi, del mormorìo de l’onde maritime che vanno a frangersi in quelle cavitadi,
e di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione, vennero
tutti come inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito espresse queste
paroli: Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse presente, come
fu in altri secoli più felici, qualche saga Circe che con le piante, minerali,
veneficii et incanti era potente di mettere come il freno alla natura: certo
crederei che ella, quantunque fiera, piatosa pur sarebbe al nostro male. Ella
molto sollecitata da nostri supplichevoli lamenti, condiscenderebbe o a darne
rimedio, o ver a concederne grata vendetta contra la crudeltà di nostra nemica.
A pena avea finito di proferir queste paroli, che a tutti si presentò visibile
un palaggio, il quale chiumque have ingegno di cose umane, possea facdmente
comprendere che non era manifattura d’uomo, né di natura: de la figura e
descrizzion de la quale ti dirò un’altra volta. Onde percossi da gran
maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che qualche propizio nume (il qual ciò
gli mise avanti) volesse definire il stato de la lor fortuna, dissero ad una
voce che peggio non posseano incorrere che il morire, il quale stimavano minor
male che vivere in tale e tanta passione. Però vi entraro dentro non trovando
porta che fermata gli fosse, o portinaio che gli domandasse raggione; sin che
si ritrovano in una richissima et ornatissima sala, dove in quella regia maestade
(che puoi dire che Apolline fusse stato ritrovato da Fetonte) apparve quella
ch’è chiamata sua figlia; con l’apparir de la quale veddero sparire le imagini
de molti altri numi che gli administravano. Là con grazioso volto accettati e
confortati, si fero avanti: e vinti dal splendor di quella maestade, piegaro le
ginocchia in terra, e tutti insieme con quella diversità de note che gli
dettava il diverso ingegno, esposero gli lor voti alla dea. Dalla quale in
conclusione furono talmente trattati, che ciechi, raminghi et infortunatamente
laboriosi hanno varcati tutti mari, passati tutti fiumi, superati tutti monti,
discorse tutte pianure, per spacio de diece anni; al termine de quali entrati
sotto quel temperato cielo de l’isola britannica, gionti al conspetto de le
belle e graziose ninfe del padre Tamesi, dopoi aver essi fatti gli atti di
conveniente umiltade, et accettati da quelle con gesti d’onestissima cortesia,
uno tra loro, il principale, che altre volte ti sarà nomato, con tragico e
lamentevole accento espose la causa commune in questo modo: Di que’, madonne,
che col chiuso vase si fan presenti, et han trafitt’il core, non per commesso
da natur’ errore, ma d’una cruda sorte ch’in sì vivace morte le tien astretti,
ogn’un cieco rimase. Siam nove spirti che molt’anni, erranti, per brama di
saper, molti paesi abbiam discorsi, e fummo un dì surpresi d’un
rigid’accidente, per cui (se siete attente) direte: O degni, et o infelici
amanti. Un’empia Circe, che si don’il vanto d’aver questo bel sol progenitore,
ne accolse dopo vario e lungo errore; e un certo vase aperse, de le cui acqui
insperse noi tutti, et a quel far giunse l’incanto. Noi aspettand’il fine di
tal opra, eravam con silenzio muto attenti, sin al punto che disse: O voi
dolenti, itene ciechi in tutto; raccogliete quel frutto, che trovan troppo
attenti al che gli è sopra». Figlia e madre di tenebre et orrore – diss’ogn’un
fatto cieco di repente, – dumque ti piacque cossì fieramente trattar miseri
amanti, che ti si fero avanti, facili forse a consecrart’il core?» Ma poi ch’a
i lassi fu sedato alquanto quel subito furor, ch’il novo caso porse, ciascun
più accolto in sé rimaso, mentr’ira al dolor cede, voltossi alla mercede, con
tali accenti accompagnand’il pianto: «Or dumque s’a voi piace, o nobil maga,
che zel di gloria forse il cor ti punga, o liquor di pietà il lenisca et unga,
farti piatosa a noi co’ medicami tuoi, saldand’al nostro cuor l’impressa piaga;
se la man bella è di soccorrer vaga, deh non sia tanto la dimora lunga, che di
noi triste alcun a morte giunga pria che per gesti tuoi possiam unqua dir noi:
tanto ne tormentò, ma più ne appaga». E lei soggiunse: «O curiosi ingegni,
prendete un altro mio vase fatale, che mia mano medesma aprir non vale; per
largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti i numerosi regni:
perché vuol il destin che discuoperto mai vegna, se non quando alta saggezza e
nobil castità giunte a bellezza v’applicaran le mani; d’altri i studi son vani
per far questo liquor al ciel aperto. All’or, s’avvien ch’aspergan le man belle
chiumque a lor per remedio s’avicina, provar potrete la virtù divina: ch’a
mirabil contento cangiand’il rio tormento, vedrete due più vaghe al mondo
stelle. Tra tanto alcun di voi non si contriste, quantumque a lungo in tenebre
profonde quant’è sul firmamento se gli asconde: perché cotanto bene per
quantunque gran pene mai degnamente avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui
cecità vi conduce, dovete aver a vil ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un
gran piacere; che sperando mirare tai grazie uniche o rare, ben potrete
spreggiar ogni altra luce». Lassi, è troppo gran tempo che raminghe per tutt’il
terren globo nostre membra son ite, sì ch’al fine a tutti sembra che la fiera
sagace di speranza fallace il petto n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai
siam (bench’al tardi) avisti ch’a quella maga, per più nostro male, tenerci a
bada eternamente cale; certo perché lei crede che donna non si vede sott’il
manto del ciel con tanti acquisti. Or benché sappiam vana ogni speranza, cedemo
al destin nostr’e siam contenti di non ritrarci da penosi stenti, e mai
fermando i passi (benché trepidi e lassi) languir tutta la vita che n’avanza.
Leggiadre Nimfe, ch’a l’erbose sponde del Tamesi gentil fate soggiorno, deh,
per dio, non abiate (o belle) a scorno tentar voi anco in vano con vostra
bianca mano di scuoprir quel ch’il nostro vase asconde. Chi sa? forse che in
queste spiaggie, dove con le Nereidi sue questo torrente si vede che cossì
rapidamente da basso in su rimonte riserpendo al suo fonte, ha destinat’il ciel
ch’ella si trove. Prese una de le Ninfe il vase in mano, e senza altro tentare,
offrillo ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima: ma
tutte de commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il riferivano e
proponevano per rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non tanto
per far pericolo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il soccorso
di questi infelici, mentre dubbia lo contrattava, come spontaneamente s’aperse
da se stesso. Che volete ch’io vi referisca quanto fusse e quale l’applauso de
le Nimfe? Come possete credere ch’io possa esprimere l’estrema allegrezza de
nove ciechi, quando udiro del vase aperto, si sentiro aspergere dell’acqui
bramate, apriro gli occhi e veddero gli doi soli; e trovarono aver doppia
felicitade: l’una della ricovrata già persa luce, l’altra della nuovamente
discuoperta, che sola possea mostrargli l’imagine del sommo bene in terra?
Come, dico, volete ch’io possa esprimere quella allegrezza e tripudio de voci, di
spirto e di corpo, che lor medesimi tutti insieme non posseano esplicare? Fu
per un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso di color che credono
sognare, et in vista di quelli che non credeno quello che apertamente veggono:
sin tanto che tranquillato essendo alquanto l’impeto del furore, se misero in
ordine di ruota, dove: Il primo cantava e sonava la citara in questo tenore: O
rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti, o piani, o valli, o fiumi,
o mari, quanto vi discuoprite grati e cari, ché mercé vostra e merto n’ha
fatt’il ciel aperto: o fortunatamente spesi passi. Il secondo con la mandòra
sua sonò e cantò: O fortunatamente spesi passi, o diva Circe, o gloriosi
affanni; o quanti n’affligeste mesi et anni, tante grazie divine, se tal è
nostro fine dopo che tanto travagliati e lassi. Il terzo con la lira sonò e
cantò. Dopo che tanto travagliati e lassi, se tal porto han prescritto le
tempeste, non fia ch’altro da far oltre ne reste che ringraziar il cielo
ch’oppose a gli occhi il velo, per cui presente al fin tal luce fassi. Il
quarto con la viola cantò: Per cui present’al fin tal luce fassi, cecità degna
più ch’altro vedere, cure suavi più ch’altro piacere; ch’a la più degna luce vi
siete fatte duce: con far men degni oggetti a l’alma cassi. Il quinto con un
timpano d’Ispagna cantò: Con far men degni oggetti a l’alma cassi, con condir
di speranza alto pensiero, fu chi ne spinse a l’unico sentiero, per cui a noi
si scuopra de Dio la più bell’opra: cessi fato benigno a mostrar vassi. Il sesto
con un laùto cantò: Cossì fato benigno a mostrar vassi; perché non vuol ch’il
ben succeda al bene, o presagio di pene sien le pene; ma svoltando la ruota, or
inalze, ora scuota: com’a vicenda il dì e la notte dassi. Il settimo con l’arpa
d’Ibernia: Come a vicenda, il dì e la notte dassi, mentr’il gran manto de faci
notturne scolora il carro de fiamme diurne: talmente chi governa con legge
sempiterna supprime gli eminenti, e inalz’ i bassi. L’ottavo con la viola ad
arco: Supprime gli eminenti, e inalza i bassi, chi l’infinite machini sustenta:
e con veloce, mediocre e lenta vertigine dispensa in questa mole immensa
quant’occolto si rende e aperto stassi. Il nono con una rebecchina:
Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o non nieghi, o confermi che prevagli
l’incomparabil fine a gli travagli campestri e montanari de stagni, fiumi,
mari, de rupi, fossi, spine, sterpi, sassi. Dopo che ciascuno in questa forma
singularmente sonando il suo instrumento ebbe cantata la sua sestina, tutti
insieme ballando in ruota e sonando in lode de l’unica Nimfa con un soavissimo
concento canta- rono una canzona, la quale non so se bene mi verrà a la
memoria. giulia Non mancar (ti priego, sorella) di farmi udire quel tanto che
ti potrà sovvenire. laodomia Canzone de gl’illuminati «Non oltre invidio, o
Giove, al firmamento,» dice il padre Oceàn col ciglio altero, «se tanto son
contento per quel che godo nel proprio impero; Che superbia è la tua? Giove
risponde, alle ricchezze tue che cosa è gionta? o dio de le insan’onde, perché
il tuo folle ardir tanto surmonta?» «Hai,» disse il dio de l’acqui, «in tuo
potere il fiammeggiante ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui l’eminente coro de
tuoi pianeti puoi vedere. Tra quelli tutt’il mondo admira il sole, qual ti so
dir che tanto non risplende quanto lei che mi rende più glorioso dio de la gran
mole. Et io comprendo nel mio vasto seno tra gli altri quel paese, ove il
felice Tamesi veder lice, ch’ha de più vaghe ninfe il coro ameno. Tra quelle
ottegno tal fra tutte belle, i per far del mar più che del ciel amante te Giove
altitonante, cui tanto il sol non splende tra le stelle»; Giove responde: O dio
d’ondosi mari, ch’altro si trove più di me beato non lo permetta il fato; ma
miei tesori e tuoi corrano al pari. Vagl’il sol tra tue ninfe per costei; e per
vigor de leggi sempiterne, de le dimore alterne, costei vaglia per sol tra gli
astri miei». Credo averla riportata interamente tutta. giulia Il puoi
conoscere, perché non vi manca senten- za che possa appartener alla perfezzion
del proposito; né rima che si richieda per compimento de le stanze. Or io, se
per grazia del cielo ottenni d’esser bella, maggior grazia e favor credo che mi
sia gionto: perché qualumque fusse la mia beltadel è stata in qualche maniera
principio per far discuoprir quell’unica e di- vina. Ringrazio gli dèi, perché
in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose fiamme non si posseano
accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia quanto semplice et
innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere incomparabilmente grazie
mag- giori a’ miei amanti, che altrimenti avessero possute ottenere per
quantunque grande mia benignitade. laodomia Quanto a gli animi di quelli
amanti, io ti as- sicuro ancora, che come non sono ingrati alla sua ma- ga
Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et aspri travagli, per mezzo de
quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno di te esser poco ben
riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. Grice: Agostino
da Norcia used to quote from Benedetto da Norcia’s emblematic maxim, praise the
lord AND WORK – it rymes in Italian: ORA e LABORA --. Not to be confused with “Benedetto da
Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino da Norcia. Norcia. Agostino Colizzi.
Giovanni Colizzi. Colizzi. Keywords: implicatura, “De amore fundamenta mundis
ac ethicae”, eretici italiani, ortodossi italiani, dell’infinito, universo e mondi, praxis
descensus application entis, amore – l’amore come fondamento del mondo, l’amore
come fondamento dalla morale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colizzi” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Colli: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’espressione – scuola
di Torino –filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese.
Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I love Colli
– his ‘filosofia dell’espressione’ is much more serious than my ramblings, well
meant, though, on Peirce! I was only trying to be fashionable! At Oxford, they
loved my lecture on ‘meaning,’ which got me into ‘implying,’ and eventually,
‘expressing.’ – My unity developed – Colli was born with it!” Insegna a Pisa. Di
una facoltosa famiglia, il padre amministra “La Stampa”, incarico dal quale fu
poi estromesso all'indomani della marcia su Roma, su ordine di Mussolini.
Studia a Torino, laureandosi sotto Solari con “Politicità ellenica e Platone”.
Scorse nella tradizione filosofica classica greco-romana l'autentico
"logos" a cui ritornare. Lo stile di scrittura, profondo e
costellato di aforismi taglienti, si caratterizza da un'attenzione maniacale
alla musicalità del discorso. Questa dote musicale emerge con chiarezza dalle
letture di alcuni passi di Colli recitati da Bene. Il suo saggio principale è
“Filosofia dell'espressione” che fornisce, mediante una complessa teoria delle
categorie e della deduzione, un'interpretazione della totalità della
manifestazione come “espressione” di qualcosa (l'immediatezza) che sfugge alla
presa della conoscenza. Comunque, ritiene che sia possibile riguadagnare il
fondamento metafisico del mondo portando il discorso filosofico ai suoi estremi
limiti e "(di)mostrando" la natura derivata del logos. Importante il
suo contributo su i filosofi italici Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di
Bacco ed Apollo, dismisura e misura. Al tentativo di interpretare gli enigmi di
questi culti a-logici, fra i quali quelli oracolari, viene fatta risalire
l'origine remota della dialettica. Altre opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi,
Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La nascita della filosofia.
Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo,
Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Epimenide, Ferecide,
Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza
greca”; “Eraclito” (Adelphi, Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione
errabonda” (Adelphi, Milano); “Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi,
Milano); “La Natura ama nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi,
Milano); “Gorgia e Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni
su Diofanto di Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone
politico” (Adelphi, Milano); “Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e
dionisiaco” (Adelphi, Milano); “Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta
dello spirito per la potenza, Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi,
Torino); Organon, Einaudi, Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di
Giorgio Colli, Einaudi, Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e
paralipomena” (Adelphi, Milano); Nietzsche (Classici Adelphi) Scritti giovanili; La nascita della tragedia;
Considerazioni inattuali; La filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti
postumi; Wagner a Bayreuth; Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano,
Aurora; Idilli di Messina; Così parlò Zarathustra; Al di là del bene e del
male; Genealogia della morale; Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce
homo; Nietzsche contra Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume;
Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità e il danno della storia per la vita
(Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle nostre scuole” (Adelphi, Milano); La mia vita (Adelphi, Milano); La nascita
della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di fede e lo scrittore, Adelphi,
Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di Mazzino Montinari, Adelphi,
Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il servizio divino dei greci”
(Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo, Bari); Dizionario
biografico degli italiani, Implicazioni estetiche
in C.; Misura e dismisura. Per una rappresentazione di C., ERGA, Genova);
L’enigma greco; Apollineo e dionisiaco in C., in Clemente Tafuri e David
Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, vol II,
AkropolisLibri, Genova); I Greci: annotazioni su alcune traduzioni, in
"Episteme", Mimesis Edizioni, Milano); Il Girgentu di Colli, Luca
Sossella Editore, Roma. Wikipedia Ricerca Prosimno pastore della
mitologia greca Lingua Segui Modifica Prosimno o Polimno (Πρόσυμνος/Πόλυμνος)
nella mitologia greca era un pastore che viveva nei pressi del sacro lago di
Lerna (in Argolide, sulla costa del golfo di Argo), reputato essere senza fondo
e pertanto assai pericoloso per tutti quelli che vi si volevano avventurare in
acqua. Quando il dio del vino Dioniso andò nell'Ade per salvare sua madre
Semele, Prosimno lo guidò verso l'ingresso - conducendolo nella sua barca a
remi - posto al centro del lago. Il premio richiesto da Prosimno per questo
servizio sarebbe stato il diritto a giacere con il giovane Dio. Tuttavia,
quando Dioniso tornò sulla terra per una strada diversa, trovò che Prosimno era
nel frattempo morto. Dioniso volle comunque mantenere la sua promessa;
intagliò un pezzo di legno di ficus a forma di falloutilizzandolo per adempiere
ritualmente all'accordo che aveva in precedenza stipulato con Prosimno: si
posizionò sulla sua tomba e ci si sedette sopra, auto-sodomizzandosi. Questo,
si dice, è stato dato come spiegazione della presenza di falli di legno di fico
tra gli oggetti segreti che venivano "rivelati" nel corso dei Misteri
dionisiaci. Questa storia non è raccontata in pieno da una delle consuete
fonti di racconti mitologici greci, anche se molti di loro accennano ad essa.
Il fatto si è ricostruito sulla base di dichiarazioni di autori cristiani;
questi devono essere trattati quindi con riserva in quanto il loro obiettivo
era essenzialmente quello di screditare la mitologia pagana[1]. Riti
notturni annuali hanno avuto luogo presso il lago sacro, sulle rive della
palude alcionia, ancora in età classica; Pausania il Periegeta si rifiuta però
di descriverceli. Il mito di Prosimno è stato studiato da Bernard
Sergentin "L'omosessualità nella mitologia greca", ristampato nella
sua "Omosessualità e iniziazione tra i popoli indo-europei". Questo
mito è comunque considerato essere il risultato dell'importanza del simbolismo
fallico all'interno del culto dionisiaco. Igino, Astronomy; Clemente di Alessandria, Protreptikos; Arnobio, Against
the Gentiles; Dalby, Pausania, Guide to Greece; Plutarco, Iside e Osiride 35;
Dalby, Dionisio-Baco, su geocities.com Mitos del cielo: Dioniso, su
mitosdelcielo.iespana. Susana Quintanilla, Dioniso en México o cómo leyeron
nuestros clásicos a los clásicos griegos. De op. cit.:
Calasso "Las bodas de Cadmo y Harmonía", Barcelona, Anagrama( PDF )
[collegamento interrotto], su redalyc.uaemex. Dalby, The Story of Bacchus,
London, British Museum Press, Pederastia Pederastia greca Temi LGBT nella
mitologia FontiModifica Arnobio, Contro i pagani, Clemente di Alessandria,
Esortazione ai Greci (Protrettico). Igino, Astronomia. Pausania, Descrizione
della Grecia, Plutarco, Iside e Osiride. Portale LGBT Portale
Mitologia greca Dioniso dio greco del vino, della vendemmia, dei teatri, della
fertilità e dell'ubriachezza Canopo (mitologia) Pederastia tebana. Che
l'esclusione di queste potenze ben presenti e Bi distinte dalla comunità
delle figure dominanti, ed .il sus É sistere della loro venerabilità, pur
tacendo .la vastità É e profondità loro e più ch’ogni altra cosa,
l’orrendo fi mistero del loro essere, provengano da una particola
rissima valutazione e da una volontà risoluta, si app* lesa evidentissimo
nella figura dominante di tutto que sto ciclo: Dioniso. La sua virilità,
come osserva .J. J. Bachhofen in modo eccellente, trascina
irresistibilmente seco. l’eterno femminino di questa sfera e ne
rimane assolutamente presa. Il suo spirito s’arroventa nell’inebriante
beveraggio, che venne chiamato il sangue della terra. Istinti elementari,
frenesie, dissolvimenti della co- scienza nello sconfinato, assalgono
tempestosamente i suoi adoratori e agli estasiati si schiudon i tesori
del regno. terrestre. Anche intorno a Dioniso accorrono i morti,
che lo seguono a ‘primavera quand’egli porta i fiori. Amore e
selvaggia ebbrezza, gelidi brividi e beatitudini si ten- gon per mano e
gli fan corteo; ciascuno degli antichis- simi tratti essenziali della
divinità della Terra son in lui accresciuti a dismisura," ma pure
infinitamente ap- profonditi, Questa figura divina che tutto trascina
con sè è ben nota ad Omero, che chiama il dio « forsennato >, e
ha vivo davanti agli occhi l’andar selvaggio delle sue accompagnatrici
che agitano il tirso. Ma tutto. ciò non è che similitudine, come quando
paragona ad una Menade Andromaca, la quale presa da oscuro presentimento
si precipita fuor dalle sue stanze (Iliade; cfr. Inno Omer. a
Dem.), come pure quando occasional- mente narra memorabili storie
(Iliade.; Odissea). Nel vivo mondo di Omero le Menadi non trovan posto e
pure invano si cerca Dioniso, che non vi ha parte veruna. Dioniso «
dispensator di gioia » (Esio- do, Erga 614) gli è altrettanto estraneo
quanto l’uomo doloroso annunziatore dell’al di là. L’eccesso, che gli
è proprio, non s’accorda con la chiarezza che contraddi- stingue
qui tutto ciò ch’è realmente divino. Da questa chiarezza sono assai
lontane anche le al- tre figure del ciclo della Terra. Sian pure
intessute. di dolcissimo incanto, e portin sulla fronte la più
sublime gravità. Il sapere e la sacra legge stanno loro al fianco.
Ma sono.legate alla materia terrestre e partecipano della sua oscura
pesantezza e necessità. La loro benevolenza è quella dell’elemento
materno, ed il loro diritto ha la rigidità di tutti i legami del sangue.
Tutte arrivano nella notte della morte, o meglio: la morte ed il
passato risalgono grazie a loro nel presente e nell’esistenza dei
viventi. Non v'è un ritrarsi dal teatro del mondo, nè il trapassare
dall’esistenza oggettiva in una sfera inferiore nè una liberazione del
campo di vita e d’azione da ciò che una volta fu. Tutto ciò che fu rimane
per sempre, ed. eleva la sua esigenza, sempre con la medesima ron.
cretezza, dalla quale non c’è via di scampo. Ed è solo una conferma di
codesto carattere, il predominio ch’'ha nel mondo delle divinità di
questa sfera, il sesso femmi. nile. Nella cerchia celeste della religione
omerica invece sì trae in disparte in modo tale, che non può essere
casuale. Gli dèi che dominano colà, non solo: son di sesso maschile,
sibbene rappresentano decisamente lo spirito virile. Ed anche quando
Atena si unisce ad Apollo e-a Zeus in suprema trinità, è lei a rinnegare
esplicitamente il femmineo e a farsi genio del mascolino. I -m
Dirisioti ^LT^b !-' 0' 25outonV %tt^^\t Hitiratp. THE ELEUSINIAN AND BACCHIC MYSTERIES. A DISSERTATION. TAYLOR, TXANSL4TOH
OF PLATO. PLOTINTJS," POEPITIllY," lAMBLICHCS."
"PEOCI-nS,' ABISTOTLE," ETC., ETC. EDITED, WITH INTRODUCTION,
NOTES, EMENDATIONS, AND GLOSSARY. WILDER. Ev Tats TEAETAI2 KaOapcrei';
rjyoyi'Tai (cai ncpip- pai'TTjpia (Cat ayviiTfjiOL, a nof (v aTTOpprjToi;
Spuiixeviav, (tat TT)! TOD Oeiov |U.€T0U(rias yviJifauiiaTa etaiv.
Pkoclus ; Manuscript Commentary upon Plato, I. AMbiadet. WITH 85 ILLUSTRATIONS
RAWSON. by BulI TDN. The DeVinne Press. TO MY OLD
FRIEND ^cniarti OSuatitcl) THE GREATEST BOOKSELLER OF
ANCIENT OR MODERN TIMES CbiB Dolttme is reBpcctfuIl?
Jeiiicateli BY THE PUBLISHER Bacchic Ceremonies. Bacchus ami
Nymphs. Pluto, Prosevpiua, aud Furies. Eleusinian Prieatesses. Bacchante
and Faun. Faun and Bacchus. Fable is Love's World, Poem by Schiller. Eleusinian
Mysteries. Bacchic Mysteries. Hymn to Minerva; Orphic Hymns. Hymn of
Cleanthes Klensiiiiiiii Mj'steriea. '"Tis not merely The human
breing's pride that peoples space With life and mystical
predominance, Since likewise for the stricken heart of Love This
visible nature, and this common world Is all too narrow ; yea, a deeper
import Lurks in the legend told my infant years That lies upon that
truth, we live to learn, For fable is Love's world, his home, his
birthplace ; Delightedly he dwells 'mong fays and talismans, And
spirits, and delightedly believes Divinities, being himself divine.
The intelligible forms of ancient poets. The fair humanities of Old
Religion, The Power, the Beauty, and the Majesty, That had their
haunts in dale or piny motmtain, Or forests by slow stream, or pebbly
spring. Or chasms or wat'ry depths;
all these have vanished. They live no longer in the faith of
Eeason, But still the heart doth need a language ; still Doth the
old instinct bring back the old names. Schiller : The Piccolomini Apollo autl
Muaes. ITolM.'tll.MlS. In offering- to the public Taylor's admirable
treatise upon the Elensiidan and Bacchic Mysteries, it is proper to
insert a few words of explanation. These observances once represented the
spiritual life of (Ireeee, and were considered for two thousand years and
more the appointed means for regeneration through an interior union with
the Divine Essence. However absurd, or even offensive they may seem
to us, we should therefore hesitate long before we venture to lay desecrating
hands on what others have esteemed holy. We can learn a valuable
lesson in this regard from the Roman philosophers, who had learned to
treat the popular religious rites with mirth, but always considered the
Eleusinian Mysteries with the deepest reverence. It is ignorance
which leads to profanation. Men ridicule what they do not properly
understand. Alcibiades was drunk when he ventured to touch what
his countrymen deemed sacred. The undercurrent of this worhl is set
toward one goal; and inside of human credulity call it human weakness, if you please
is a power almost infinite, a holy faith capa))le of apprehending the
siipremest truths of all Existence. The veriest dreams of life,
pertaining as they do to " the minor mystery of death," have in
them more than external fact can reach or explain; and Myth, however much
she is proved to be a child of Earth, is also received among men as the
child of Heaven. The Cinder- Wench of the ashes will become the Cinderella
of the Palace, and be wedded to the King's Son. The instant that we
attempt to analyze, the sensible, palpable facts upon which so many try
to build disappear beneath the surface, like a foundation laid upon
quicksand. " In the deepest reflections," says a distinguished
writer, '' all that we call external is only the material basis upon
which our dreams are built; and the sleep that surrounds life swallows up
life, all but a dim wreck of
matter, floating this way and that, and forever evanishing from sight.
Complete the analysis, and we lose even the shadow of the external
Present, and only the Past and the Future are left us as our sure
inheritance. This is the first initiation,
the vailing [mnesis] of the eyes to the external. But as epo])fm,
by the synthesis of this Past and Future in a living nature, we obtain a
higher, an ideal Present, comprehending within itself all that can
be real for us within us or without. This is the second initiation in
which is uuvailed to us the Present as a new birth from our own life.
Thus the great problem of Idealism is symbolically solved in the
Eleusinia. These were the most celebrated of all the sacred orgies, and
were called, by way of eminence. The Mysteries. Although exhibiting
apparently the features of an Eastern origin, they were evidently copied
from the rites of Isis in Egypt, an idea of which, more or less correct,
may be found in The Mefamotyhoses of APULEIO and The Epicurean by Moore.
Every act, rite, and person engaged in them was symbolical; and the
individual revealing them was put to death without mercy. So also was any
uninitiated person who happened to be present. Persons of all ages and
both sexes were initiated; and neglect in this respect, as in the
case of Socrates, was regarded as impious and atheistical. It was
required of all candidates that they should be first admitted at the
MiJo'a or Lesser Mysteries of Agree, by a process of fasting called
^j«f/'/ficafion, after which they were styled mysfce, or initiates. A year
later, they might enter the higher degree. In this they learned the
aporrheta, or secret meaning of the rites, and were thenceforth
denominated ephori, or epoptm. To some of the interior mysteries,
however, only a very select number obtained admission. From these
were taken all the ministers of holy rites. The Hierophant who presided
was bound to celibacy, and requii'ed to devote his entire life to his
sacred office. Atlantic Monthly, He had three assistants, the torch-bearer, the lierux or crier,
and the minister at the altar. There were also a hasileus or king, who
was an archon of Athens, four curators, elected by suffrage, and ten to
offer sacrifices. The sacred Orgies were celebrated on every fifth
year; and began on the 15th of the month Boedromiau or September. The
first day was styled the agurmos or assembly, because the worshipers then
convened. The second was the day of purification, called also alacU
mystaij from the proclamation : ''To the sea, initiated ones ! " The
third day was the day of sacrifices; for which purpose were offered a
mullet and barley from a field in Eleusis. The officiating persons were
forbidden to taste of either; the offering was for Achtheia (the
sorrowing one, Demeter) alone. On the fourth day was a solemn procession.
The JcalafJios or sacred basket was borne, followed by women, ciske or
chests in which were sesamum, carded wool, salt, pomegranates,
poppies, also thyrsi, a serpent, boughs
of ivy, cakes, etc. The fifth day was denominated the day of
torches. In the evening were torchlight processions and much
tumult. The sixth was a great occasion. The statue of
lacchus, the son of Zeus and Demeter, was brought from Athens, by the
laccJiogoroi, all crowned with myrtle. In the way was heard only an
uproar of singing and the beating of brazen kettles, as the votaries
danced and ran along. The image was borne " through the sacred Gate,
along the sacred way, halting by the sacred fig-tree (all sacred, mark
you, from Eleiisinian associations), where the procession rests, and
then moves on to the bridge over the Cephissns, where again it
rests, and where the expression of the wildest grief gives place to the
trifling farce, even as Demeter,
in the midst of her grief, smiled at the levity of lambe in the
palace of Celeus. Through the 'mystical entrance ' we enter Eleusis. On the
seventh day games are celebrated; and to the victor is given a
measure of barley, as it were a
gift direct from the hand of the goddess. The eighth is sacred to
^sculapius, the Divine Physician, who heals all diseases; and in
the evening is performed the initiatory ritual. " Let us
enter the m3\stic temple and be initiated, though it must be supposed
that, a year ago, we were initiated into the Lesser Mysteries at Agrae.
We must have been mystm (vailed), before we can become epoptce
(seers); in plain English, we must have shut our eyes to all else before
we can behold the mysteries. Crowned with myrtle, we enter with the other
initiates into the vestibule of the temple, blind as yet, but the Hierophaut within
will soon open our eyes. But first, for
here we must do nothing rashly, first we must wash in this holy water;
for it is with pure hands and a pure heart that we are bidden to
enter the most sacred enclosure [(xu(rTuoff (f-nxog, tnusfijios seJcos].
Then, led into the presence of the Hierophaut, In the Oriental countries the
designation nns Peter (an interpreter), appears to have been the title of this
personage; and he reads to us, from a book of stone [jreTpajfjia,
petroma]^ tliiuii's which we must not divulge on pain of death. Let
it suffice that they fit the place and the occasion; and though you might
laugh at them, if they were spokiMi outside, still you seem very far from
that mood now, as you hear the words of the old man (for old he he
always was), and look upon the revealed symbols. And very far, indeed,
are you from ridicule, when Demeter seals, by her own peculiar utterance
and signals, by vivid coruscations of light, and cloud piled upon cloud,
all that we have seen and heard from her sacred priest; and then,
finally, the light of a serene wonder fills the temple, and we see the
pure fields of Elysium, and hear the chorus of the Blessed; then, not merely by external seeming or
philosophic interpretation, but in real fact, does the Hierophant become
the Creator [(hi-^'ovpyo;, demiourgos] and revealer of all things; the
Sun is but his torch-bearer, the Moon his attendant at the altar, and Hermes
his mystic herald * [>c7]pu|, kerux]. But the final word has been
uttered ' Conx Om pax.' The rite is consummated, and we are vpoptit
forever ! " Those who are curious to know the myth on which
the petroma consisted, notably enougli, of two tablets of stone.
There is in these facts some reminder of the peculiar circumstances of the
Mosaic Law which was so preserved; and also of the claim of the Pope to
be the successor of Peter, the hierophant or interpreter of the Christian
religion. * Porphyry. Introduction. 19 the
" mystical drama " of the Eleusinia is founded will find it in
any Classical Dictionary, as well as in these pages. It is only pertinent
here to give some idea of the meaning. That it was regarded as profound
is evident from the peculiar rites, and the obligations imposed on every
initiated person. It was a reproach not to observe them. Socrates was
accused of atheism, or disrespect to the gods, for having never been
initiated.* Any person accidentally guilty of homicide, or of any
crime, or convicted of witcihcraft, was excluded. The secret doctrines,
it is supposed, were the same as are expressed in the celebrated Hymn of
Cleanthes. The philosopher Isocrates thus bears testimony : " She
[Demeter] gave us two gifts that are the most excellent; fruits, that we may
not live like beasts; and that initiation
those who have part in which have sweeter hope, both as regards
the close of life and for all eternity." In like manner, Pindar also
declares : " Happy is he who has beheld them, and descends into the
Underworld: he knows the end, he knows the origin of life." The
Bacchic Orgies were said to have been instituted, Ancient Sijmhol-Worsliip.
"Socrates was not initiated, yet after drinking the hemlock, he
addressed Crito : ' We owe a cock to ^sculapius.' This was the peculiar
offering made by initiates (now called kerJcnophori) on the eve of the
last day, and he thus symbolically asserted that he was about to receive
the great apocalypse. See, also, " Progress of Religious Ideas,"
by Child; and " Discourses on the Worship of Priapus," by
EiCHARD Payne Knight. or iiy)re probably reformed T)y Orpheus, a
mythical personage, supposed to have flourished in Thrace.* The
Orphic associations dedicated themselves to the worship of Bacchus, in
which they hoped to find the gratification of an ardent longing after the
worthy and elevating influences of a religious life. The worshipers
did not indulge in unrestrained pleasure and frantic enthnsiasni, but
rather aimed at an ascetic purity of * Euripides : Ehaesns.
"Orpheus showed forth the rites of the hidden Mysteries."
Plato : ProUifforas. The art of a sophist or sage is ancient, but
tlie men who proposed it in ancient times, fearing the odium attached to
it, sought to conceal it, and vailed it over, some under the garb of
poetry, as Homer, Hesiod, and Simonides : and others under that of the
Mysteries and prophetic manias, such as Orpheus, Musseus, and their
followers." Herodotus takes a different view ii. 49. "Melampus, the son of
Amytheon," he says, "introduced into Greece the name of
Dionysus (Bacchus), the ceremonial of his worship, and the procession of the
phallus. He did not, however, so completely apprehend the whole doctrine as to
be able to communicate it entirely : but various sages, since his time,
have carried out his teaching to greater perfection. Still it is certain
that Melampus introduced the phallus, and that the Greeks learnt from him
the ceremonies which they now practice. I therefore maintain that
Melampus, who was a sage, and had acquired the art of divination, having become
acquainted with the worship of Dionysus tln-ough knowledge derived from
Eg>ijt, introduced it into Greece, with a few slight changes, at the
same time rhat he brought in various other practices. For I can by no
means allow that it is by mere coincidence that the Bacchic ceremonies in
Greece are so nearly the same as the Egyptian. y r^isi
Etruscan Kleusiniau Ci-renionies. life and manners. The worship of
Dionysus \yas the center of their ideas, and the starting-point of all
their speculations upon the world and human nature. They believed
that human souls were confined in the body as in a prison, a condition
which was denominated genesis or generation; from which Dionysus would
liberate them. Their sufferings, the stages by which they passed to
a higher form of existence, their lafharsis or purification, and their
enlightenment constituted the themes of the Orphic writers. All this was
represented in the legend which constituted the groundwork of the
mystical rites. Dionysus-Zagreus was the son of Zeus, whom he
had begotten in the form of a dragon or serpent, upon the person of
Kore or Persephoneia, considered by some to have been identical with
Ceres or Demeter, and by others to have been her daughter. The former
idea is more probably the more correct. Ceres or Demeter was called
Kore at Cnidos. She is called Phersephatta in a fragment by Psellus, and
is also styled a Fury. The divine child, an avatar or incarnation of
Zeus, was denominated Zagreus, or Chakra (Sanscrit) as being
destined to universal dominion. But at the instigation of Hera* the
Titans conspired to murder him. Ac * Hera, generally regarded as the Greek
title of Juno, is not the definite name of any goddess, but was used by
ancient writers as a designation only. It signifies doniina or lady, and
appears to be of Sanscrit origin. It is applied to Ceres or Demeter, and
other divinities. cordingly, one day while he was contemplating a
mirror,* they set upon him, disguised under a coating of plaster, and
tore him into seven parts. Athena, however, rescued from them his heart, which
was swallowed by Zeus, and so returned into the paternal substance,
to be generated anew. He was thus destined to be again born, to succeed
to universal rule, establish the reign of happiness, and release all
souls from the dominion of death. The hypothesis of Mi-.
Taylor is the same as was maintained by the philosopher Porphyry, that
the Mysteries constitute an illustration of the Platonic *
The mirror was a part of the symbolism of the Thesmophoria, and was iised
in the search for Atmu, the Hidden One, evidently the same as Tammuz,
Adonis, and Atys. See Exodus xxxviii. 8; 1 Samuel ii. 22; and Esekiel
viii. 14. But despite the assertion of Herodotus and others that the
Bacchic Mysteries were in reality Egyptian, there exists strong
probability that they came originally from India, and were Sivaic or
Buddhistical. Core-Persephoneia was but the goddess Parasu-pani or
Bhavani, the patroness of the Thugs, called also Goree; and Zagi'eus is
from Chakra, a country extending from ocean to ocean. If this is a
Turanian or Tartar Story, we can easily recognize the "Horns"
as the crescent worn by lama-priests : and translating god-names as
merely sacerdotal designations, assume the whole legend to be based on a
tale of Lama Succession and transmigration. The Titans would then
be the Daityas of India, who were opposed to the faith of the northern
tribes; and the title Dionysus but signify the god or chiefpriest of Nysa, or
Mount Meru. The whole story of Orpheus, the institutor or rather the
reformer of the Bacchic rites, has a Hindu ring all through. FILOSOFIA.
At first sight, this may l)e hard to believe; but we must know that no
pageant could hold place so long, without an under-meaning. Indeed,
Herodotus asserts that " the rites called Orphic and Bacchic are
in reality Egyptian and Pythagorean. The influence of the doctrines
of Pythagoras upon the Platonic system is generally acknowledged. It is
only important in that case to understand the great philosopher correctly;
and we have a key to the doctrines and symbolism of the Mysteries.
The first initiations of the Eleusinia were called Telefce or
terminations, as denoting that the imperfect and rudimentary period of
generated life was ended and purged off; and the candidate was
denominated a mijsfa, a vailed or liberated person. The GreaterMysteries
completed the work; the candidate was more fully instructed and
disciplined, becoming an epopta or seer. He was now regarded as having
received the arcane principles of life. This was also the end
sought by philosophy. The soul was believed to be of composite nature,
linked on the one side to the eternal world, emanating from God, and so
partaking of The Divine (IL DIVINO). On the other hand, it was also allied to
the phenomenal or external world, and so liable to be subjected to
passion, lust, and the bondage of evils. This condition is denominated
genemtion; and is supposed to be a kind of death to the higher form of
life. Evil is inherent in this condition; and the soul dwells *
Herodotus: ii. 81 in the body as in a prison or a grave. In this state,
and previous to the discipline of education and the mystical initiation,
the rational or intellectual element, which Paul denominates the
spiritual, is asleep. The earthlife is a dream rather than a reality. Yet it
has longings for a higher and nobler form of life, and its
affinities are on high. "All men yearn after God," says Homer.
The object of Plato is to present to us the fact that there are in the
soul certain ideas or principles, innate and connatural, which are not derived
from without, but are anterior to all experience, and are developed and
brought to view, but not produced by experience. These ideas are the most
vital of all truths, and the purpose of instruction and discipline
is to make the individual conscious of them and willing to be led and
inspired b}^ them. The soul is purified or separated from evils by
knowledge, truth, expiations, sufferings, and prayers. Our life is
a discipline and preparation for another state of being; and resemblance
to God is the highest motive of action.* * Many of the early
Christian writers were deeply imbued with the Eclectic or Platonic
doctrines. The very forms of speech were almost identical. One of the
four Gospels, bearing the title " according to John,'''' was the evident
product of a Platonist, and hardly seems in a considerable degree Jewish
or historical. The epistles ascribed to Paul evince a great familiarity
with the Eclectic philosophy and the peculiar symbolism of the Mysteries,
as well as with the Mithraic notions that had penetrated and
permeated the religious ideas of the western countries. Proclus does
not hesitate to identify the theological doctrines with the mystical
dogmas of the Orphic system. He says : '' What Orpheus delivered in
hidden allegories, Pythagoras learned when he was initiated into
the Orphic Mysteries.; and Plato next received a perfect knowledge of
them from the Orphean and Pythagorean writings." Mr.
Taylor's peculiar style has been the subject of repeated criticism; and
his translations are not accepted by classical scholars. Yet they have
met with favor at the hands of men capable of profound and
recondite thinking; and it must be conceded that he was endowed
with a superior qualification, that of
an intuitive perception of the interior meaning of the subjects which he
considered. Others may have known more Greek, but he knew more Plato. He
devoted his time and means for the elucidation and dissemination of the
doctrines of the divine philosopher; and has rendered into English not
only his writings, but also the works of other authors, who affected the
teachings of the great master, that have escaped destruction at the hand
of Moslem and Christian bigots. For this labor we cannot be too
grateful. The present treatise has all the peculiarities of
style which characterize the translations. The principal difficulties of
these we have endeavored to obviate a
labor whicli will, we trust, be not unacceptable to readers. The
book has been for some time out of print; and no later writer has
endeavored to replace it. There are many who still cherish a regard,
almost amounting to veneration, for the author; and we hope that this
reproduction of his admirable explanation of the nature and object of the
Mysteries will prove to them a welcome undertaking. There is an
increasing interest in philosophical, mystical, and other antique literature,
which will, we believe, render our labor of some value to a class
of readers whose sympathy, good-will, and fellowship we would gladly possess
and cherish. If we have added to their enjoyment, we shall be doubly
gratified. A. W. V'euus ami Proserpina iu Hailes. Rape
of Proserplua. As there is nothing more celebrated than the Mys- ^l\^
teries of the ancients, so there is perhaps nothingwhich has hitlierto been
less solidly known. Of the trnth of this observation, the liberal reader
will, I persnade myself, be fully convinced, from au attentive perusal of
the following sheets; in which the secret meaning of the Eleusinian and
Bacchic Mysteries is unfolded, from authority the most respectable, and
from a philosophy of all others the most venerable and august. The
authority, indeed, is principally derived from manuscript writings, which
are, of course, in the possession of but a few; but its respectability is
no more lessened by its concealment, than the value of a diamond
when secluded from the light. And as to the philosophy, by whose
assistance these Mysteries are developed, it is coeval with the universe itself;
and, however its continuity maybe broken by opposing systems, it will
make its appearance at different periods of time, as long as the sun
himself shall continue to illuminate the world. It has, indeed, and may
hereafter, be violently assaulted l)y delusiv^e opinions; but the opposition
will be just as imbecile as that of the waves of the sea against a
temple built on a rock, which majestically pours them back,
Broken and A^anquish'd, foaming to the main. Pallas, Venus, aud
Diaua. THE ELEUSINIAN AND BACCHIC. Dionysus as God of the Sun.
a. SECTION I. SJ WARBURTON, in Ms Divine
Legation of Moses, has ingeniously proved, that the sixth book of
Virgil's ^neid represents some of the dramatic exhibitions of the
Eleusinian Mysteries; but, at the same time, has utterly failed in
attempting to unfold their latent meaning, and obscure though important
end. By the assistance, howevei", of the Platonic philosophy, I have
been enabled to correct his errors, and to vindicate the wisdomof
antiquity from his aspersions The profounder esoteric doctrines of the ancients
were denominated wisdom, and attevwnrd philosophy, and also the
[piosis or knowledge. They related to the human soul, its divine
parentEleiisinian and by a genuine account of this sublime
institution; of which the foUowing observations are designed as a
comprehensive view. In the fii'st place, then, I shall
present the reader with two superior authorities, who perfectly
demonstrate that a part of the shows (or dramas) consisted in a
representation of the infernal regions; authorities which, though of the last
consequence, were unknown to Dr. Warbiu'ton himself. The first of these
is no less a person than the immortal Pindar, in a fragment
preserved by Clemens Alexandrinus : ^' 'A/J.a %at IJtvoapo^ Trspi xcov sv
EXsaacvt {Jiua'CTjpuov Xsycov STrcrpspsL OXpcoc, oart? But Pindar,
speaking of the Eleusinian Mysteries, says : Blessed is he who,
having age, its supposed degradation from its high estate by
becoming connected with " generation " or the physical world,
its onward progi-ess and restoration to God by regenerations, popularly
supposed to be transmigrations, etc. A.
W. " Stroma la, book iii. Bacchic Mysteries. seen those common
concerns in the underworld, knows both the end of hfe and its divine
origin from Jupiter." The other of these is from Prochis in his
Commentary on Plato's Politicus, who, speaking concerning the sacerdotal
and symbolical mythology, observes, that from this mythology Plato himseK
establishes many of his own peculiar doctrines, " since in the
Phcedo he venerates, mtli a becoming silence, the assertion
delivered in the arcane discourses, that men are placed in the body as in
a prison, secured by a guard, and testifies^ accordlny to the
mystic cerem^onies, the different allotments of purified and unpurified souls
in Hades, their severed conditions, and the three-forJicd path from the
pecidiar places where they tcere; and this was shown accordiny to
traditionary institutions; every part of which is full of a symbolical
representation, as in a dream, and of a description which treated of the
ascending and descending ways, of the tragedies of Dionysus (Bacchus or
Zagreus), the crimes of the Titans,, the three ways in Hades,
and Eleusinian and the wandering of everything of a
similar hind.^^ "Ar/Aot 5s sv
<l>7.too)vt xov ts sv 6'. avi^pcoTTOi, aiyirj xtj Trps'iro'jar^
cs^3(ov, xai ■:7.c -csXsrac (lege y.7.o %7.-'y. -ac tsXs-c/.)
(JLCtp-:'jpo{Ji£voc xcov ^La'^optov Xr^^scov -r^; ^^T^'^
%£%ai)-ap|i.£VTj; TS %7.c a^a^aptoy zic, o/joo rj.lZirjOQ1]Z, r.rjX
ZIQ ZS GySGSlC, WJ, V:7.C Xa? xpio^oDc 7.7:0 x(ov ooGKov 7,7/. x(ov
(lege %ai %7.x7. t(ov), Traipi^cov {)-£a{i(ov ':£7,{i7.ipo[icVOc. a
5'^ z-qc, ao{JL[3o)d%7jc dTuavta ^stopta; sari {xsara, 7,7.L t(OV
7C7.p7. TOIC TZOl'flZrjlC, {)-p'jXXo?J{J.£V(OV rj.yo^my zs 7.7.t
7,ai)-ooo)v, tcov ts $iovyai7.7C(ov 3'jvi)"^{Ji7.tcov, y.rj.1 xcov
TiTy-vizfov onxapiYjixa -(OV XSYOJXSVCOV, 'X.7.1 X(OV sv 4^^'->
TpCOOCOV, 7,7.!. XT^C TZKrjyr^C, Y,rjx X(OV T&tOUTCOV
d'7L7.VXa)V." * Ha^dllg iDremised thus much, I now proceed to
prove that the th'amatic spectacles .of the Lesser Mysteries f were
designed by the ancient theologists, their founders, to signify
occultly the condition of the unpurified soul * Commentary on the
Statesman of Plato, page 374. t The Lesser Mysteries were
celebrated at Agrse; and the persons there initiated were denominated Mi/sta:
Only such could be received at the sacred rites at Eleusis. Bacchic
Mysteries. invested with an earthly body, and enveloped in a material and
physical nature; or, in other words, to signify that such a soul in
the present life might be said to die, as far as it is possible for a
soul to die, and that on the dissolution of the present body, while
in this state of impuiity, it would experience a death still more
permanent and profound. That the soul, indeed, till purified by
philosophy,* suffers death through its union with the body was obvious to
the philologist Macrobius, who, not penetrating the secret meaning
of the ancients, concluded from hence that they signified nothing more
than the present body, by their descriptions of the infernal
abodes. But this is manifestly absurd; since it is universally agreed,
that all the ancient theological poets and philosophers inculcated the
doctrine of a future state of rewards and punishments in the most
full and decisive terms; at the same time occultly intimating that the
death of the soul was nothing more than a profound union with the
ruinous bonds of the body. FILOSOFIA here relates to discipline of the
life. Eleusinian and Indeed, if these wise men believed in
a future state of retribution, and at the same time considered a
connection with the bodyas death of the soul, it necessarily follows,
that the soul's punishment and existence hereafter are nothing more than
a continuation of its state at present, and a transmigration, as it were, from
sleep to sleep, and from dream to dream. But let us attend to the
assertions of these divine men concerning the soul's union with a
material nature. And to begin with the obscure and profound
Heracleitus, speaking of souls imembodied: "We live their death, and
we die their life." Z(o{j.£v tov sxslvcov i)-7.v7.':ov,
TsO-vT/Aajisv OS xov £%£lv(ov jiLov. And Empedocles, deprecating the condition
termed " generation," beautifully says of her : The
aspect changing with destruction dread, She makes the Uv'okj pass into
the dead. Ex \i.z\i yx^ Cojtuv zv.%-1'. VcXpa siOi
a|JLj'.j3ojv. And again, lamenting his connection with this
corporeal world, he pathetically exclaims: Bacchic
Mysteries. 37 For this I weep, for this indulge my woe,
That e'er my soul such novel realms should know. KXauaa te
v.ai xiuxuaot, lowv «afjv*r]i)'sry. ytupov. * Plato, too, it is
well known, considered the body as the sepulchre of the soul, and
in the Crcifijlus concurs with the doctrine of Orpheus, that the
soul is x>^niished through its union with body. This was likewise
the opinion of the celebrated Pythagorean, Philolaus, as is evident from
the following remarkable passage in the Doric dialect, preserved by Clemens
Alexandrinus in Strom at. book iii. " Map-cupsovra 5s %c/.t oi
TcrjXaifx. tJ-soXoyoc IS y.r/.i \w,vzzic., 6)C, ^la ziyac,
xqj-copiac, £V a(o{i7.ic XGIJ-Ki) zzd-aizza.i.^' i. e. " The
ancient theologists and priests also testify that the soul is
united with the body as if for the sake of punishment; f and so is buried
in body as in a sepulchre." And, lastly, Py * Greek it-ayxsiq
mantels more properly proi)hets, those
filled by the prophetic mania or eutheasm. t More correctly '* The soul is yoked to the body as if by
way of punishment," as culprits were fastened to others or even
to corpses. See PauVs Epistle to the liomans Eleusinian and
thagoras himself confii'ms the above sentiments, when he beautifully
observes, according to Clemens in the same book, " that wild fever
tee see when airali'e is death; and when asleep,- a dreamt brj^rxio;^
sa-rcv, oxoaa But that the mysteries occultly signified this
sublime truth, that the soul by being merged in matter resides among
the dead both here and hereafter, though it follows by a necessary
sequence from the preceding observations, yet it is indisputably confirmed, by
the testimony of the great and truly divine Plotinus, in Ennead I., book
viii. ''When the soul," says he, '*has descended into
generation (from its first divine condition) she partakes of evil, and is
carried a great way into a state the opposite of her first purity
and integrity, to he entirely merged in ivhich, is nothing more than
to fall into dark mire.^^ And again, soon after. The soul therefore dies
as much as it is possible for the soul to die : and the death to her is^
while Mptized or immersed in the present Bacchic Mysteries.
39 hocly^ to descend into matter * and he wholly subjected hy
it; and after departing thence to lie there till it shall arise and
turn its face away from the abhorrent filth. This is what is meant
hy the falling asleep in Ifades, of those who have come there.''''
j * Greek ^^>^'<], matter supposed to contain all the
principles the negative of life, order, and goodness. tThis
passage doubtless alludes to the ancient and beautiful story of Cupid and
Psyche, in which Psyche is said to fall asleep in Hades; and this through
rashly attempting to behold corporeal beauty : and the observation of
Plotinus will enable the profoimd and contemplative reader to unfold the
greater part of the mysteries contained in this elegant fable. But, prior to
Plotinus, Plato, in the seventh book of his Republic, asserts that such
as are unable in the present life to apprehend the idea of the
good, will descend to Hades after death, and fall asleep in its
dark abodes. 'Oq av |n-r] syrj o'.op:::aj9'a', xto Xo-|'to, c/.tzo twv
aXXtov Ttavxojv a-^jXiuv ttjv too a-irj.x}oj) torav, v.r/'. inzr.zp £v
It-'^'/'fJ 5oa Tcavtcov sXsY/tuv o'.tt,nuy, jj.s v.ata oo^av aXka v.ax'
ouatav npofl'U^oofjLsvo? eXeY/s'.v, £V Traat. xooto'-c anxcoT: x«) Xo'^w
oioi-opsufjxa'., ooxs awzo xo cnY'/O'CiV rj'jozv cpYjas'.^ e'.osva: xov
o'ixiui^ s^ovxa. oozz aWo o.-^rj.^-rr^ ooojv; a),),' s: TC'f] ^iocuXo'j
x'.vo; fiiaz.xz'Z'j:., ooJ-/j o'jy. £i:'.-rf|iJ.-(^ c'^aTiXja&ai;
xoci xov vjv fy.vj ovsipciTCoXouvxa, v.ao ijiivtoxovxa, Tip'.v jvO'ao'
E^spY''^^'*' 5 ^-^ aocio TipoxEpov acp:y.o|Ji.svov xsXscoi;
ETTixaxaSapO-aviiv; ». e. "He who is not able, by the exercise of
his reason, to define the idea of the good, separating it from all other
objects, and piercing, as in a battle, through every kind of argument;
endeavoring to confute, not according to opinion, but according to
essence, and proceeding through all these dialectical energies with an unshaken
reason; he who can not
40 Bacchic Mysteries. TLVojisvcp 5s Yj [i£taAT;'|L;;
rjjjxrjj^ Fcrpvciac yap '^lavta^raacv sv ^(p rr^c avc/{xoco-Y^T;oc
zotzco, evd-rj. ooQ BIZ r/jizr^y siz 'p^ij^o^joy axorstvov SGzrji
'jisacov. A'JToD-VTjay.cc o'jv, (o;;
'j'''>Z''i '^•'^ iJ-avof xctL 6 ^avoLTO? ao'Tj, xai szl sv ^(o
GOiixazi p£J37.7uua{JL£VY^, sv 6Xy^ sarc y-c/.-aoovac, 7C/.C
7tXYjai)"^vac aozr^Q. Kai si^s/a^oaaYj; sxst %£iai)'7.L, £(oc
av7.opa{ji'(j y,c/.t rj/^2kr^ tzcoc, xy^v G?J;tv £% ZOO fiopjSopo'j. Kac
to'jto sb-'. to sv 4*^00 sXiJ-ovra sTzi'/.rj.za SapiJ-stv. Here the
aeeomplisli this, would j^ou not say, that he neither knows the
good itself, nor anything which is pi'operly denominated good? And would
you not assert that such a one, when he apprehends any certain image of
reality, apprehends it rather through the medium of opinion than of
science; that in the present life he is sunk in sleep, and conversant
with the delusion of dreams; and that before he is roused to a vigilant
state he will descend to Hades, and be overwhelmed with a sleep perfectly
profound." Henry Davis ti-anslates this passage more critically:
"Is not the ease the same with i"eference to the good ? Whoever
can not logically define it, abstracting the idea of the good from
all others, and taking, as in a fight, one opposing argument after
another, and can not proceed with unfailing proofs, eager to rest his
ease, not on the ground of opinion, but of true being, such a one knows nothing of the r/ood
itself, nor of any good whatever; and should he have attained to any
knowledge of the (jood, we must say that he has attained it by opinion,
not by science {sKizzfiiirj); that he is sleeping and dreaming away his
present life; and before he is roused will descend to Hades, and
there be profoundly and perfectly laid asleep." vii.
14. Bacchic Mysteries. 43 reader may observe that the obsciu'e
doctrine of the Mysteries mentioned by Plato in the Phcedo^ that the
nnpurified soul in a future state lies immerged in mire, is beautifully
explained; at the same time that our assertion concerning their secret
meaning is not less substantially confirmed.* In a similar manner
the same divine philosopher, in his book on the Beautiful, Ennead^ I.,
book vi., explains the fable of Narcissus as an emblem of one who rushes
to the contemplation of sensible (phenomenal) forms as if they were
perfect realities, when at the same time they are nothing more than
Uke beautiful images appearing in water, fallacious and vain. "
Hence," says he, " as Narcissus, by catching at the shadow,
plunged himself in the stream and disappeared, so he who is
captivated by beautiful bodies, and does not depart fi'om their
embrace, is precipitated, not with his body, but with *
Phcedo, 38. " Those who instituted the Mysteries for us appear to have
intimated that whoever shall arrive in Hades unptirified and not initiated
shall lie in mud; but he who arrives there purified and initiated' shall
dwell with the gods. For there are many hearers* of the wand or thyrsus,
but few who are inspired." 44 Eleusiniari and
his soul, into a darkness profound and repugnant to intellect (the higher
soul),* through which, remaining bhnd both here and in Hades, he
associates with shadows." Tov T(ov, Tcai [j--^ ojjfiEiQ^ 00
t(o (j{\)\w-i.^ zr^ os '\'y/ri -iX.rjXOL^O'jezrM^ BIC, axOTTStVa
7.rj.l azsrj'K'fj TO) vco [5ai)-Tj, SvO-a T'JCpXo? SV O^d^JJ {JL£V(0V,
/.oll sv taoi^a %q:x£t a%iat? oovsaTL And what still farther
confirms our exposition is that matter was considered by the Egyptians as
a certain mire or mud. " The Egyptians," says Simplicius,
" called matter, which they symbolically denominated water, the
dregs or sediment of the first life; matter being, as it were, a
certain mire or mud.f Aco xat AiyuTTtioi TTjV Z'qc, xpcoxr^c C(t)'^/C,
y^v 'jdcop Gtj\i|5oAt%(oc sxaXofjv, 67roaxai)-{jLT;v rr^v 'jXtjv sXsyov, oiov
ihjv ziya ooaav. So that fi*om all * Intellect, Greek vouc, nous,
is the higher faculty of the mind. It is substantially the same as the
pncH))ia, or spirit, treated of in the New Testament; and hence the term
'^ iiifcUectual," as used in Mr. Taylor's translation of the
Platonic writers, may be pretty safely read as spiritual, by those
familiar with the Christian cultus. * A. W. t Physics of
Aristotle. Bacchic Mysteries. 45 tliat has been
said we may safely conclude with Ficinus, whose words are as express
to our purpose as possible. " Lastly," says he,
"that I may comprehend the opinion of the ancient theologists, on
the state of the soul after death, in a few words : tlieij
considered^ as we have elsewhere asserted, things divine as the
only realities^ and that all others were only the images and shadows
of truth. Hence they asserted that prudent men, who earnestly
employed themselves in divine concerns, were above all others in a
vigilant state. But that imprudent [/. e. without foresight] men, who
pursued objects of a different nature, being laid asleep, as it
were, were only engaged in the delusions of dreams; and that if they
happened to die in this sleep, before they were roused, they would
be afflicted with similar and still more dazzling visions in a future
state. And that as he who in this life pursued realities, would,
after death, enjoy the highest truth, so he who pursued deceptions would
hereafter be tormented with fallacies and delusions in the extreme : as
the one Eleusinian and would be delighted with true objects
of enjoyment, so the other would be tormented with delusive
semblances of reality." Denique ut
priscormn theologorum sententiam de statu animae post mortem paucis
comprehendam : sola di\ina (ut alias diximus) arbitrantur res veras
existere, rehqua esse rerum verarum imagines atque umbras. Ideo prudentes
homines, qui divinis incumbunt, prae ceteris vigilare. Impmdentes autem, qui
sectantur alia, insomniis omnino quasi dormientes illudi, ac si in
hoc somno priusquam expergefacti fuerint moriantur similibus post
(hscessum et acrioribus visionibus angi. Et sicut emn qui in vita veris
incubuit, post mortem summa veritate potiri, sic eum qui falsa
sectatus est, fallacia extrema torqueri, ut ille rebus veris
oblectetur, hie falsis vexetur simulachris. But notwithstanding this important
truth was obscurely hinted by the Lesser Mysteries, we must not suppose
that it was gen *FiciNUs: De ImmortaL Aniin. book xviii.
Bacchic Mysteries. 47 erally known even to the initiated
persons themselves : for as individuals of almost all descriptions
were admitted to these rites, it would have been a ridiculous
prostitution to disclose to the multitude a theory so abstracted and
sublime.* It was sufficient to instruct these in the doctrine of a
future state of rewards and punishments, and in themeans of
returning to the principles from which they originally fell : for
this * We observe in the Netv Testament a like disposition on the
part of Jesns and Paul to classify their doctrines as esoteric and
exoteric, ''the Mysteries of the kingdom of God" for the apostles,
and "pai'ables" for the multitude. "We speak wisdom,"
says Paul, "among them that are perfect" (or initiated), etc. 1
Corintliians, ii. Also Jesus declares : "It is given to you to know
the Mysteries of the kingdom of heaven, but to them it is not
given; therefore I speak to them in parables : because they seeing,
see not, and hearing, they hear not, neither do they
understand." Matthew xiii.,
11-13. He also justified the withholding of the higher and interior
knowledge from the untaught and ill-disposed, in the memorable Sermon on
the Mount. Matthew vii. : Give ye
not that which is sacred to the dogs, Neither cast ye your pearls to the
swine; For the swine will tread them under their feet And the dogs
will turn and rend you." This same division of the Christians
into neophytes and perfect, appears to have been kept up for centuries;
and Godfrey Higgins asserts that it is maintained in the Roman
Cliurch. A. W. Eleusinian and
last piece of information was, according to Plato in the PJuedo,
the ultimate design of the Mysteries; and the former is necessarily
infeiTed from the present discourse. Hence the reason why it was obvious
to none hut the Pythagorean and Platonic philosophers, who derived
their theology from Orpheus himseK,* the original founder of these
sacred institutions; and why we meet with no information in this
particular in any writer prior to Plotinus; as he was the first
who, having penetrated the profound interior wisdom of antiquity,
delivered it to posterity without the concealments of mystic
symbols and fabulous narratives. VIBGIL NOT A PLATONIST. Hence
too, I think, we may infer, with the greatest probabihty, that this
recondite meaning of the Mysteries was not known * Herodotus,
ii. 51, 81. "What Orpheus delivered in hidden allegories
Pythagoras learned when he was initiated into the Orphic Mysteries;
and Plato next received a knowledge of them from the Orphic and
Pythagorean writings." Bacchic Mysteries. 49
even to VIRGILIO himself, who has so elegantly described their
external form; for notwithstanding the traces of Platonism which are to
be found in the ENEIDE, nothing of any great depth occurs throughout the
whole, except what a superficial reading of Plato and the dramas of
the Mysteries might easily afford. But this is not perceived by
modern readers, who, entirely luiskilled themselves in Platonism,
and fascinated by the charms of his poetry, imagine him to be deeply
knowing in a subject with which he was most hkely but slightly
acquainted. This opinion is still farther strengthened by considering
that the doctrine delivered in his Eclogues is perfectly that of
THE GARDEN (L’ORTO), which was the fashionable philosophy of the age of
OTTAVIANO; and that there is no trace of Platonism in any other part
of his works but the present book, which, containing a representation of
the Mysteries, was necessarily obliged to display some of the
principal tenets of this FILOSOFIA, so far as they illustrated and made a
part of these mystic exhibitions. However, on the supposition that
this book presents us with, Eleusinian and a faithful view of some
part of these sacred rites, and this accompanied with the utmost
elegance, harmony, and purity of versification, it ought to be considered as an
invaluable rehc of antiquity, and a precious monument of venerable mysticism,
recondite wisdom, and theological information. This will be
sufficiently e\ddent from what has been already delivered, by considering
some of the beautiful descriptions of this book in their natural
order; at the same time that the descriptions themselves will
corroborate the present elucidations. In the first place,
then, when he says, faeilis descensus Averno. Noetes atque
dies patet atra janua ditis : Sed revoeare gradum, superasqiie
evadere ad aiiras, Hoe opus, hie labor est. Pauei quos sequus
amavit Jupiter, aut ardens evexit ad sethera virtus,
Dis geniti potuere. Tenent media omnia silvae, Cocytusque
siuu labens, circumvenit atro 1 * Ancient Symhol-Worship, page 11,
noie. t Davidson^s Translation.
" Easy is the path that leads down to hell; grim Pluto's gate
stands open night and day : but to retrace one's steps, and escape to the
upper regions, this is a work, this is a task. Some few, whom favoring
Jove loved, or illustrious virtue Bacchic Mysteries. is it
not obvious, from tlie preceding explanation, that by Avernus, in this place,
and the dark gates of Pluto, we mnst understand a corporeal or
external nature, the descent into which is, indeed, at all times
obvious and easy, but to recall our steps, and ascend' into the
upper regions, or, in other words, to separate the soul from the body by
the purifying discipline, is indeed a mighty work, and a laborious
task ? For a few only, the favorites of heaven, that is, born with the
true philosophic genius,^ and whom ardent virtue has elevated to a
disposition and capacity for divine contemplation, have been enabled to
accomplish the arduous design. But when he says that all the middle
regions are covered with woods, this hkewise plainly intimates a material
nature; the word silva^ as is well known, being used by ancient
writers to signify matter, and implies nothing more than that the
passage leading to the barafh advaneecl to heaven, the sons of the gods,
have effected it. Woods cover all the intervening space, and Cocytus,
gliding with his black, winding flood, surrounds it." *
/. e., a disposition to investigate for the purpose of eliciting truth,
and reducing it to practice. Meusinian and rum [abyss] of
body, /. e. into profound darkness and oblivion, is throngh the medium of
a material nature; and this medium is surrounded by the black bosom of
Cocytus,* that is, by bitter weeping and lamentations, the necessary
consequence of the soul's union with a nature entirely foreign to
her own. So that the poet in this particular perfectly corresponds with EMPEDOCLE
DI GIRGENTI in the line we have cited above, where he exclaims,
alluding to this union. For this I weej), for this indulge my
icoe, That e'er my soul such novel realms should know.
In the next place, he thus describes the cave, through which ^neas
descended to the infernal regions : Spelunea alta fuit,
vastoque immanis hiatu, Scrupea, tuta lacu nigro, raemorumque tenebris
: Quam super hand ulla? poterant impune volantes Tendere iter
pennis : talis sese halitus atris Faueicus effundens supera ad eonvexa
fevebat : Unde locum Graii dixerimt nomiue Aornum 1 *
Coeytus, lamentation, a river in the Underworld. \ Davidson’s
Trnnslation. "There was a cave
profound and hideous, with wide yawning mouth, stony, fenced by a black
lake, Bacchic Mysteries. 53 Does it not afford a
beautiful representation of a corporeal nature, of which a cave, defended
with a black lake, and dark woods, is an obvious emblem *? For it
occultly reminds us of the ever-flowing and obscin*e condition of such a
nature, which may be said To roll incessant with impetuous
speed, Like some dai'k river, into Matter's sea. Nor is it
with less propriety denominated Aornus, i. e. destitute of birds, or a
winged nature; for on account of its native sluggishness and inactivity,
and its merged condi and the gloom of woods; over which none of the flying
kind were able to wing their way unliurt; such exhalations issuing from
its grim jaws ascended to the vaulted skies; for w^iich reason the
Greeks called the place by the name of Aornos" (without birds).
Jacob Bryant says: " All fountains were esteemed sacred, but
especially those which had any preternatural quality and abounded with
exhalations. It was an universal notion that a divine energy proceeded
from these effluvia; and that the persons who resided in their vicinity
were gifted with a prophetic quality. The Ammonians styled such fountains
Ain Omphe, or fountains of the oracle; o|j,<pY], oniphe, signifying '
the voice of God.' These terms the Greeks contracted to Nofj-'fY],
numphe, a nymph." Ancient
Mythology. The Delphic oracle was above a fissure, (jnnnous or
hocca inferiore, of the earth, and the pythoness inhaled the vapors. A. W. Eleiisinian and tion,
being situated in the outmost extremity of tilings, it is perfectly
debile and languid, incapable of ascending into the regions of
reality, and exchanging its obscure and degraded station for one every way
splendid and divine. The propriety too of sacrificing, previous to
his entrance, to Night and Earth, is obvious, as both these are emblems
of a corporeal nature. In the verses which immediately
follow, Ecee autem, priini sub limina solis et ortus, Sub
peclibus mugire solum, et juga eaepta movere Silvarum, visaque canes
ululare per umbram, Adventante dea * we may perceive an
evident allusion to the earthquakes, etc., attending the descent of
the soul into body, mentioned by Plato in the tenth book of his Republic;\
since the * " So, now, at the fii-st beams and rising of tlie
sun, the earth under the feet begins to rumble, the wooded hills to
quake, and dogs were seen howling through the shade, as the goddess
came hither " i Republic, x, 16. "After they were
laid asleep, and midnight was approaching, there was thunder and
earthquake; and they were thence on a sudden carried upward, some one
way, and some another, approaching to the region of generation like
stars." Bacchic Mysteries. 55 lapse of the
soul, as we shall see more fully hereafter, was one of the important
truths which these Mysteries were intended to reveal. And the howling
dogs are symbols of material * demons, who are thus denominated by the
Magian Oracles of Zoroaster, on account of then" ferocious and
malevolent dispositions, ever baneful to the felicity of the human
soul. And hence Matter herseK is represented by Synesius in his first
Hymn, with great propriety and beauty, as barking at the soul with
devoimng rage : for thus he sings, addressing himself to the Deity
: Maxap 6c x:c popov oImc, npacpUY^JV o\r/.'(ixa, v-w. yxc,
AvaouCj a/.p.«tt xoo'^po) lyyoc, £? t^sov v.xo.vjzi. Which
may be thus paraphrased : Blessed! thrice blessed! who, with winged
speed, From Hyle's t dread voracious bai'kiug flies, *
Material demons are a lower grade of spiritual essences that are capable
of assuming forms which make them perceptible by the physical
senses. A. W. t Hijle or
Matter. All evil incident to human life, as is here shown, was supposed
to originate from the connection of the soul to material substance, the
latter being regarded as the receptacle 56 EleMsinian
and And, leaving Earth's obscnrity behind, By a light leap,
directs his steps to thee. And that material demons actually appeared
to the initiated previous to the lucid visions of the gods themselves, is
evident from the following passage of Proclus in his manuscript
Commentary on tlie first Alcibiades : sv zaic rj.-(iozazaic tcov
tsaskov Tzrjo zr^z GoO'j Tcapo'jaia? daqiovov /iS'Gvuov £%poAat
xpocpacvov~ry.t, -Ani rxr.o aov aypavtcov ayai^cov zic zr^v ohriy
7ipoy,i7.Xou{JLSvaL /. e. In the most interior sanctities of the
Mysteries, before the presence of the god, the rushing forms of earthly
demons appear, and call the attention from the immaculate good to
matter." And Pletho (on the Oracles), expressly asserts, that these
spectres appeared in the shape of dogs. After this, ^neas is
described as proceeding to the infernal regions, through profound night
and darkness : Ibant obscixri sola sub nocte per iimbram,
Perque domos Ditis vaciias, et inania regna. of everything evil.
But why the soul is thus immerged and punished is nowhere explained. A. W. Bacchic Mysteries.
Quale per ineertam lunam sub luce maligna Est iter in silvis : ubi cfehim
condidit umbra Jupiter, et rebus nox abstulit atra colorem.*
And this with the greatest propriety; for the Mysteries, as is well
known, were celebrated by night; and in the Republic of Plato, as cited
above, souls are described as falling into the estate of generation at
midnight; this period being peculiarly accommodated to the darkness and
oblivion of a corporeal nature; and to tliis circumstance the
nocturnal celebration of the Mysteries doubtless alluded. In
the next place, the following vivid description presents itself to our
view : Vestibulum ante ipsum, primisqiie in faiicibus Orei
Luctus, et ultrices posuere eubilia Curte : Pallentesque habitant morbi,
tristisque senectus, Et Metus, et mala suada Fames, ac turpis
egestas; *" They went along, amid the gloom under the solitary
night, through the shade, and through the desolate halls, and empty
realms of Dis [Pluto or Hades]. Such is a journey in the woods beneath
the unsteady moon with her niggard light, when Jupiter has enveloped the
sky in shade, and the black Night has taken from all objects their color."
Eleiisinian and Terribiles visu forraje; Lethumque Laborque;
Turn consanguineus Lethi Sopor et mala mentis Gaudia, mortiferumqiie
adverso in limine bellum Ferreique Eumenidum thalami et Discordia
demons, Vipereum crinem vittis inuexa cruentis. In medio ramos
annosaque braehia pandit Ulmus opaca ingens : quam sedem somnia
vulgo Vana tenere feruut, foliisqlie sub omnibus ba?i'ent. Multaque
prseterea variarum monstra f erarum : Centauri in foribus stabiilant,
Scyllseque biforines, Et centumgeminus Briareus, ac bellua Lernse,
Horrendum stridens, flammisque armata Chimgera, Gorgones Hai'pyigeque, et
foi'mo tricorpoi-is umbrae.* ^ And surely it is impossible to draw
a more lively picture of the maladies with wliich a *
"Before the entrance itself, and in the first jaws of Hell, Grief
and vengeful Cares have placed their couches; pale Diseases inhabit there, and
sad Old Age, and Fear, and Want, evil goddess of persuasion, and
unsightly Poverty forms terrible to
contemplate ! and there, too, are Death and Toil; then Sleep, akin to
Death, and evil Delights of mind; and upon the opposite threshold are
seen death-bringing War, and the iron marriage-couches of the Furies, and
raving Discord, with her viper-hair bound with gory wreaths. In the
midst, an Elm dark and huge expands its boughs and aged limbs; making an
abode which vain Dreams are said to haunt, and under whose every leaf
they dwell. Besides all these, are many monstrous api^aritions of various
wild beasts. The Centaurs harbor at the gates, and double-formed Scyllas,
the hundred-fold Briareus, the Snake of Lerna, hissing dreadfully, and
Chimasra armed with flames, the Gorgons and the Harpies, and the shades
of three-bodied form." Bacchic Mysteries. material natui'e is
connected; of the sonl's dormant condition tlirougli its union with
body; and of the various mental diseases to which, through such a
conjunction, it becomes unavoidably subject; for this description contains a
threefold division; representing, in the first place, the external evil
with which this material region is replete; in the second place,
intimating that the life of the soul when merged in the body is nothing
but a dream; and, in the third place, under the disguise of multiform and
terrific monsters, exhibiting the various vices of our iiTational and
sensuous part. Hence Empedocles, in perfect conformity w^th the first
part of this description, calls this material abode, or the realms of
generation, a-c£p:r£.oc /(opov,* a
'^joyless region^ "Where slaiighter, rage, ami countless
ills reside; EvO'a <povo5 Ts %0'zoc, tj v.rv. rj^Xtuv sftvsa
llYjpWV and into which those who fall, This and the other
citations from Empedocles are to be found in the book of Hieroeles on The
Golden Verses of Pythagoras. Bacchic Mysteries. Through Ate's meads
and dreadful darkness stray." And hence lie justly says
to sncli a soul, that "She flies from deity and heav'nly
light, To serve mad Discord in the realms of night." iSf.v.ti
ij.a'.vo,asv(t) -tGOvo;. Where too we may observe that the Discordla
demens of Virgil is an exact translation of the Nsixst {iaivo{j.£vco of
Empeclocles. In the hues, too, which immediately succeed,
the sorrows and mournful miseries attending the soul's union with a
material nature, are beautifully described. Hinc via,
Tartarei quae fert Aeherontis ad nndas; Turbidus hie caeno vastaque
voragine gurges ^stuat, atque omuem Coeyto eructat arenam. And when
Charon calls out to ^neas to "Here is the way whieli leads to the
surging billows of Hell [Acheron]; here an abyss turbid boils up with
loathsome mud and vast whirlpools; and vomits all its quicksand into
Cocytus." IJiaua auct Calisto.
Bacchic Mysteries. 63 desist from entering any farther, and
tells him, " Here to reside delusive shades
delight; ''F.or nought dwells here but sleep and drowsy night. Umbrarum
hie locus est, Somni Noctisque soporse nothing can more aptly
express the condition of the dark regions of body, into which the soul,
when descending, meets with nothing but shadows and drowsy night : and by
persisting in her course, is at length lulled into profound sleep, and
becomes a true inhabitant of the phantom-abodes of the dead. ^neas
having now passed over the Stygian lake, meets with the three-headed monster
Cerberus,* the guardian of these infernal abodes : Tandem
trans fluvium incolumis vatemque virumque Informi limo glaueaque exponit
in ulva. The presence of Cerberus in the ROMAN description of the underworld
shows that the ideas of the poets and mythologists were derived, not only from
Egypt, but from the Brahmans of the far East. Yama, the lord of the
Underworld, is attended by his dog Karharu, the spotted, styled also
Trikasa, the three-headed. Meusinian and Cerberus haec ingens
latratu regna trifauci Personat, adverse recubaus immanis in antro. By
Cerberus we must understand the discriminative part of the soul, of which a
dog, on account of its sagacity, is an emblem; and the three heads
signify the triple distinction of this part, into the intellective [or
intuitional], cogitative [or rational], and opinionative powers. With respect f
to the three kinds of persons described as situated on the borders
of the infernal realms, the poet doubtless intended by this enumeration
to represent to us the three most remarkable At length across the
river safe, the prophetess and the man, he lands upon the slimy strand,
upon the blue sedge. Huge Cerberus makes these realms [of death] resound with
barking from his threefold throat, as he lies stretched at prodigious
length in the opposite cave." tin the second edition
these terms are changed to dianoietic and doxastic, words which we cannot
adopt, as they are not accepted English terms. The nous, intellect or
spirit, pertains to the higher or intuitional part of the mind; the
dianoia or understanding to the reasoning faculty, and the doxa, or
opinionforming power, to the faculty of investigation. Plotinus, accepting this theory of mind,
says: "Knowledge has three degrees opinion, science, and
illumination. The means or instrument of the first is reception; of the
second, dialectic; of the third, intuition." A. W. Bacchic
Mysteries. characters, wlio, though not apparently deserving of punishment, are
yet each of them similarly im merged in matter, and consequently require
a similar degree of purification. The persons described are, as is well
known, first, the souls of infants snatched away by untimely ends; secondly,
such as are condemned to death unjustly; and, thirdly, those who, weary
of their lives, become guilty of suicide. And with respect to the
first of these, or infants, their connection with a material nature is
obvious. The second sort, too, who are condemned to death unjustly, must
be supposed to represent the souls of men who, though innocent of
one crime for which they were wrongfully punished, have, notwithstanding,
been guilty of many crimes, for which they are receiving proper
chastisement in Hades, i. e, through a profoiuid union with a material
nature.* And the third sort, or suicides, though ap * Hades, the
Underworld, supposed by classical students to be the region or estate of
departed souls, it will have been noticed, is regarded by Taylor and
other Platonists, as the human body, which they consider to be the grave
and place of punishment of the soul.
A. W. Eleusinian and parently separated from the body,
have only exchanged one place for another of similar nature; since
conduct of this kind, according to the arcana of divine philosophy,
instead of separating the soul from its body, only restores it to a
condition perfectly correspondent to its former inchnations and habits,
lamentations and woes. But if we examine this affair more profoundly, we
shall find that these three characters are justly placed in the
same situation, because the reason of punishment is in each equally
obscure. For is it not a just matter of doubt why the souls of
infants should be punished? And is it not equally dubious and wonderful
why those who have been unjustly condemned to death in one period
of existence should be punished in another? And as to suicides,
Plato in Ms PJicvdo says that the prohibition of this crime in the
aTzorjfjrfa {aporrheta) is a profound doctrine, and not easy to be
Aporrheta, tbe areaue or confidential disclosures made to the candidate
undergoing initiation. In the Eleusinia, these were made by the
Hierophant, and enforced by him from the Book of InterpretatInterpretation,
said to have consisted of two tablets of stone. This was the petroma, a
name usuallj' derived from j^e^ra, a rock, Bacchic Mysteries.
understood.* Indeed, the true cause why the two first of these
characters are in Hades, can only be ascertained from the fact of a
prior state of existence, in surveying which, the latent justice of
punishment will be manifestly revealed; the apparent inconsistencies in
the administration of Providence fully reconciled; and the doubts
concerning the wisdom of its proceedings entirely dissolved. And as
to the last of these, or suicides, since the reason of their punishment,
and why an action of this kind is in general highly atrocious, is
extremely mystical and obscure, the following solution of this difficulty
will, no doubt, be gratefully received by the Platonic reader, as the
whole of it is no where else to be found but in manuscript. Olym or
possibly from iflD, J)eier, an interpreter. See //. Corinthians. A. W. PJuedo,
The instruction in the doctrine given in the Mysteries, that we human
beings are in a kind of prison, and that we ought not to free ourselves
from it or seek to- escape, appears to me difficult to be understood, and
not easy to apprehend. The gods take care of us, and we are theirs."
Plotinus, it will be remembered, perceived by the interior faculty
that Porphyry contemplated suicide, and admonished him accordingly. A. W. Eleusinian and
piodorus, then, a most learned and excellent commentator on Plato,
in his commentary on that part of the PJuedo where Plato speaks of
the prohibition of suicide in the aporrhefa, observes as follows:
"The argument which Plato employs in this place against suicide is
derived fi^om the Orphic mythology, in which foui" kingdoms
are celebrated; the first of Uranus [Ouranos] (Heaven), whom
Ki'onos or Satm^n assaulted, cutting off the genitals of his father. But
after Saturn, Zeus or Jupiter succeeded to the government of the
world, having hurled his father into Tartarus. And after Jupiter,
Dionysus or Bacchus rose to light, who, according to report, was,
through the insidious treachery of Hera or Juno, torn in pieces by
the Titans, by whom he was surrounded, and who afterwards tasted his flesh
: but Jupiter,enraged at the deed, hurled his thunder at the guilty
offenders and consumed them to ashes. Hence a certain matter beIn the
Hindu mythology, from which this symbolism is evidently derived, a deity
deprived thus of the lingam or phallus, parted with his diviue authority.
Bacchic Mysteries. ing formed from the ashes or sooty vapor
of the smoke ascending from their burning bodies, out of this mankind
were produced. It is unlawful, therefore, to destroy ourselves, not
as the words of Plato seem to unport, because we are in the body, as in
prison, secured by a guard (for this is evident, and Plato would
not have called such an assertion arcane), but because our body is
Dionysiacal,* or of the nature of Bacchus : for we are a part of him,
since we are composed from the ashes, or sooty vapor of the Titans
who tasted his flesh. Socrates, therefore, as if fearful of
disclosing the arcane part of this narration, relates nothing more of the
fable than that we are placed as in a prison secured by a guard :
but the interpreters relate the fable openly." Koci z^zi zo
{j.'ji>c7,ov s-jrc/sijOT^pioL TGCOUtov. Ilapa tcp Oprpst
xsaaaps^ paaiXsiat 'juapa^c^ovxaL Ilptor^ [jisv, rj xo'j Oopctvoy,
Tjv 6 Kpovoc Sis^s^axo, sxtsij-cov xct atSota zoo 'irairpoc. Msxa qt^ tov
Kpovov, 6 * From Dionysus, the Greek name of Bacchus, and usually
so translated. 70 Elensinian and Ze'jc
£p7.3'J.£'j3£v '/.c/.-aTapxapwaac 'uov 7:7.zz[j^j.. Vjizrj. -ov Ac7. ^Ls^scato
6 Atov'jaoc, 6v (paac '/.at' £i:c[io'jAY^v rr^? 11^7.^ todc :r£pi
a'jto'j TtTavac STrapaTrstv, %7.c tcov aapxtov a'jtcj
£7,cp7.'JV(03£, X7.t £7, "T^? 7.Cl)-7.AY^C '^03V 7.i:{J-C0V
'(OV 7.V7.50i)-£Vr(OV £s 7.'J':C0V, 6aT^s Y£V0{J-£VY^^ YEVEGil-a^ lO'JC
7.V\)-p(OTrO!JC. Ou 0£l GOV ECa^frj. Y£CV Y/^i.7.;: £7'J-0'J^, O'J/ OZl 0)^ 5o%£l }v£Y£'.V Y^ Xe^iQ,
5io-'. £v Tiv: 5£C[X(o £a{j-£v xc;3 a(0|X7.rr TO'JTO Y'^-I^ 5y^).0V
£C"^ y.7.l 0'J% 7.V 'ZO'JZO 7.7:0pP(J.-0V £X£Y£, 7./X OZl O'J OSl
£^7.Y7Y£LV Y^{J.7^ ka.OZ'j'JZ MC, ZO'J (jO)\XazrjC, Y^{X(0V
5i0V'J3C7.%0U OVrO:;' 'jX£pO^ Y'^-P '^-'J''^'J £3[1£V, £rj'£ £%
tYjC al^•'yXr^z xwv Ti':7.vcov a'JY/.£qJL£i)-7.
y^'->^''^-1^*~ V(OV ZiOy a7.p7,(0V XOrjtOy. '0 {JL£V O'JV
]^(07,p7XY;C £pY^!^ '^'^ 7.7U0pp'^I0V 5£l'X,V'JC, XO'J {J-'Ji)-0'J
0'jo£v 7rA£ov TupoaxiiJ-jxat xoo (o? £v xivi
rppo'jpa £a(JL£v. 'Oi 5£ £^YjYYjT;7.i xov jx'jO-ov xpoaxiO-£7a:v
£|(oi)-£v. After this he beautifully observes, " That these four
governments signify the different gradations of virtues, according to
which oui^ soul contains the symbols of all the qualities, both
contemplative and purifying, social and ethical; for it either
Bacchic Mysteries. 71 operates acoording to the
theoretic or contemplative virtues, the model of which is the government
of Uranus or Heaven^ that we may begin from on high; and on this account
Uranus (Heaven) is so called irctpa TOO la avco 6pc/.v, from beholding
the things above : Or it lives purely, the exemplar of which is the
Kronian or Satiu^nian kingdom; and on this account Kronos is named
as Koro-nous, one who perceives through himself. Hence he is said to
devour his own offspring, signifying the conversion of himself into his
own substance : or it operates according to the social virtues, the
symbol of which is the government of Jupiter. Hence, Jupiter is styled
the Demiurgus, as operating about secondary things : or it operates according to both the
ethical and physical virtues, the symbol of which is the kingdom of
Bacchus; and on this account is fabled to be torn in pieces by the
Titans, because the virtues are not cut off by each other."
Aiyozzoyzai (lege aLVL-ctovtat) 5s zo'jc, ocarpspofjc '^jrj.^\i.o'jc, x(ov
apsxtov v.rj.d-' ac, -ri fj{X£xspa ^^yji ayjApoXa e'/oo:ja Bacchic
Mysteries. iraawv tcov apsKov, icov tis O-scopYj'iL'jctov, otat
yap ')C7.-a xa^ {^SfoprjitTca? svspyst cbv Tza^jo.^sr^xc/. Tj xo'j
oopavotj pctaLAsta, lv7. avoiii-sv ap^a{j.£i)-a, 5io y,at orjp7.voc
sipr^'a: irapa xo'j T7. av(o opcjLV. 'H '/c^i^apTi^o)? C'^j? '^jC
'irapaSstyjxa Y; Kpovsia jiaacXstc/., oio %at Kpovoc stp'Ajtai OLOv xopovofjc
tic 03V 5ia zo s7.ytov 6pav. Aio y,7/w xaxamveiv ta ocxsia ysw/){laxa
Xsysta^ (o? a'jro^ 'jrpoc saozov sTutatpscpcov. 'H 7,7.1:7. X7.C TcoXtttxac tov
arj{j.|3oAov, T) XOU AlOZ ^7.aLX£t7., OLO %7.t $Tj{J.tGfJpYOC 6
ZstJt;, (0? TuspL t;7 $£'jr£p7. svspYcov. 'H %at7 tac
r^^'l %aC %7C CpDa:7,7.? 7.p£'C7.C, tOV aUV^oXoV, Tj tou
A'.ovfjaou paatXsca, 5co y-ai a^apa-Tsrai, 5wti O'JT, aviate-
AooO-o'jaiv aXXr^Xatc 7.t 7.p£X7.i. And thus far Olympiodorus; in which
passages it is necessary to observe, that as the Titans are the
artificers of things, and stand next in order to their creations, men
are said to be composed from their fragments, because the human
soul has a partial life capable of proceeding to the most extreme
division united with its proper natiu'e. And while the soul is in a state
of servitude to Kleusinian Mysteries. Bacchic Mysteries. the body,
she hves confined, as it were, in bonds, througli the dominion of this
Titanical life. We may observe farther concerning these dramatic shows of
the Lesser Mysteries, that as they were intended to represent the condition of
the soul while subservient to the body, we shall find that a
liberation from this servitude, through the purifying disciplines,
potencies that separate from evil, was what the wisdom of the ancients
intended to signify by the descent of Hercules, Ulysses, etc., into
Hades, and their speedy return from its dark abodes. ' '
Hence," says Proclus, " Hercules being purified by sacred
initiations^ obtained at length a perfect estabhshment among the gods:"*
that is, well knowing the dreadful condition of his soul while in
captivity to a corporeal nature, and purifying himself by practice
of the cleansing virtues, of which certain purifications in the mystic
ceremonies were symbolical, he at length was freed from the bondage of
matter, and ascended beyond her Commentary on the Statesman of
Plato. Meusinian and reach. On this account, it is said of
him, that He dragg'd the three-mouth'd dog to upper day;
intimating that by temperance, continence, and the other virtues,
he drew upwards the intuitional, rational, and opinionative part of
the soul. And as to Theseus, who is represented as . suffering eternal
punishment in Hades, we must consider him too as an allegorical
character, of which Proclus, in the above-cited admirable work, gives the
following beautiful explanation : " Theseus and Pirithous,"
says he, " are fabled to have abducted Helen, and descended to the
infernal regions, i. e. they were lovers both of mental and visible
beauty. Afterward one of these (Theseus), on account of his
magnanimity, was Hberated by Hercules from Hades; but the other
(Pirithous) remained there, because he could not attain the difficult height
of divine contemplation." This account, indeed, of Theseus can by no means
be reconciled with VIRGILIO’s: sedet, seternumque sedebit,
Infelix Theseus. There sits, and forever shall sit, the unhappy Theseus. Bacchic
Mysteries. Nor do I see how VIRGILIO can be reconciled with himself, who,
a httle before this, represents him as hberated from Hades. The
conjecture, therefore, of Hyginus is most probable, that VIRGILIO in this
particular committed an oversight, which, had he lived, he would
doubtless have detected, and amended. This is at least much more probable
than the opinion of Dr. Warbm^ton, that Theseus was a living
character, who once entered into the Eleusinian Mysteries by force, for
which he was imprisoned upon earth, and afterward punished in the
infernal realms. For if this was the case, why is not Hercules also
represented as in punishment? and this with much greater reason, since he
actually dragged Cerberus from Hades; whereas the fabulous descent
of Theseus was attended with no real, but only intentional,
mischief. Not to mention that Virgil appears to be the only writer
of antiquity who condemns this hero to an eternity of
pain. Nor is the secret meaning of the fables concernmg the
punishment of impure souls 78 Eleusinian and
less impressive and profound, as the following extract fi'om the
manuscript commentary of Olympiodorus on the GORGIA DI LEONZIO of Plato
will abundantly affirm:
"Ulysses," says he, " descending into Hades, saw,
among others, Sisyphus, and Tityus, and Tantalus. Tityus he saw
lying on the earth, and a vulture devouring his liver; the liver signifying
that he lived solely according to the principle of cupidity in his
natiu'e, and tln^ough this was indeed internally prudent; but the
earth signifies that his disposition was sordid. But Sisyphus,
living under the dominion of ambition and anger, was employed in
continually rolling a stone up an eminence, because it perpetually
descended again; its descent implying the vicious government of himself;
and his rolling the stone, the hard, refractory, and, as it were,
rebounding condition of his hf e. And, lastly, he saw Tantalus
extended by the side of a lake, and that there was a tree before
him, with abundance of fruit on its branches, which he desired to gather,
but it vanished from his view; and this indeed indicates, that he
lived under the dominion Bacchic Mysteries.of phantasy; but his
hanging over the lake, and in vain attempting to drink, imphes the
elusive, humid, and rapidly-ghding condition of such a hfe." '0
O^uaasa? xaxsX^wv sec cf'^o'j, oiQZ zoy Slgo^'ov, y.rji z^jV
Tcc'jov, '/otc xov TavraXov. Kc/.t tov {xsv TtTuov, st:'. xt^c yrj?
£t§s %£L[X£Vov, vcat oxc xo r^Trajj aoxoo r^aO-tsv Y'j'|. To {JL£V GOV
T^Tuap GTjiJ-aLvst oxt ya-cct xo STTtiJ'DJJL'/^XL/.OV fJ-SpOC
sCTjaS, XOLl §17. XOfJXO £C3(0 cppovxiCs'co. 'H 5s Y'^j OYjiJiaLvst
xo yO-ovtov a'jxoy '-ppovrjiia. 5s -Itaocpoc, 7,axa xo cp^XoxqjLov, y.7.t
O-ujJLOscSsi; C'^aa? sy-uXis xov Xcr)-ov, %at TuaXtv %ax£cp£p£v, £7U£i5£
T:£pi afjxc/. xaxap p£C, 7,7.7,(0^ 'jroXtX£00{JL£VOC. AtO^OV 0£
£7,oXt£, hirj, XO axXrjpov, %ac avxixuTcov xyjc auxoa
C<'>''JCTov o£ T7.vx7.A0v £t.5£v £v Xt{JLV (lege Xqj.virj)
%7.l OXt £V 5£v5pOtC '^a7.V 07:(0p7.'., ■X,7.L T^{)'£X£
xpuyav, X7.t wj^rjyziQ ^^^v/o^zo ai o^copat. TOUXO 5£
arj{X7.CV£t XTjV 7,7x7. (p7.VX7.ai7.V Cto'^v. Aox'/j 5£ aTj[j,7.v£t
xo oXiaO-'/jpov 7,7.t ^lopyov, %7t i9'7.xxov7. 'jLO'!77.yo|jL£vov. So
that according to the wisdom of the ancients, and the most sublime
philosophy, the misery which a soul endures in the present life, when
giving itself up to the dominion of the irrational 80
Elensinian and part, is nothing more than the commencement, as it
were, of that torment which it win experience hereafter : a torment
the same in kind though different in degree, as it will be much
more di'eadful, vehement, and extended. And by the above specimen,
the reader may perceive how infinitely superior the explanation which the
Platonic philosophy affords of these fables is to the frigid and trifling
interpretations of Bacon and other modern mythologists; who are
able mdeed to point out their correspondence to something in the
natui'al or moral world, because such is the wonderful connection of
things, that all things sympathize with all, but are at the same time
ignorant that these fables were composed by men divinely wise, who
framed them after the model of the highest originals, from the
contemplation of real and permanent heing, and not from regarding the
delusive and fluctuating objects of sense. This, indeed, mil be evident
to every ingenuous mind, from reflecting that these wise men
universally considered Hell or death as commencing in the present
life Baccldc Mysteries. 81 (as we have already abundantly
proved), and that, consequently, sense is nothing more than the
energy of the dormant soul, and a perception, as it were, of the
delusions of di'eams. In consequence of tliis, it is absurd in the
highest degree to imagine that such men would compose fables from
the contemplation of shadows only, without regarding the splendid
originals from which these dark phantoms were produced : not to mention that their harmonizing
so much more perfectly with intellectual explications is an
indisputable proof that they were derived from an intellectual [noetic]
source. And thus much for the dramatic shows of the Lesser
Mysteries, or the first part of these sacred institutions, which was
properly denominated xsXst-r] [telete^ the closing up] and [vrrpiz
Muesis [the initiation], as containing certain perfective rites, symbolical
exhibitions and the imparting and reception of sacred doctrines, previous
to the beholding of the most splendid visions, or ETuoTutsta \epopteia,
seership]. For thus the gradation of Bacchic Mysteries. the
Mysteries is disposed by Proclus in Theology of Plato, book iv. "
The perfective rite [rsXsrrj, telete],^^ says he, " precedes in
order the initiation [\xorpiQ, muesis], and initiation, the final apocalypse,
epopteiay npoY^yst STzoiizziaQ.* At the same time it is proper to
observe that the whole business of initiation was distributed into five
parts, as we are informed by Theon of Smyrna, in Matliematica, who thus
elegantly compares philosophy to these mystic rites : " Again,"
says he, " philosophy may be called the initiation into true
sacred ceremonies, and the instruction in genuine Mysteries; for there
are five parts of initiation : the first of which is the previous
purification; for neither are the Mysteries communicated to all who
are wilhng to receive them; but there are certain persons who are
prevented by the voice of the crier [%Tjpu^, herux^, such as those
who possess impure hands and an inarticulate voice; since it is necessary that
such as are not expelled from the Mysteries * Theology of
Plato. Bacchic Mysteries. 85 should first be refined by certain
purifications : but after purification, the reception of the sacred rites
succeeds. The third part is denominated epopfeia, or reception.*
And the fourth, which is the end and design of the revelation, is
[the investiture] the binding of the head and fixing of the crowns. The
initiated person is, by this means, authorized to communicate to others
the sacred rites in which he has been instructed; whether after
this he becomes a torch-bearer, or an hierophant of the Mysteries, or
sustains some other part of the sacerdotal office. But the fifth,
which is produced from all these, is friendship and interior commtmion
with God, and the enjoyment of that felicity which arises from
intimate converse with divine beings. Similar to this is the
communication of political instruction; for, in the first place, a
certain purification precedes, * Theon appears to regard the final
apocalypse or epopteia, like E. Poeocke to whose views allusion is made
elsewhere. This writer says : " The initiated were styled
ebaptoi," and adds in a foot-note
" Avaptoi, literaWj obtaining or getting." According to
this the epopteia would imply the final reception of the interior
doctrines. A. W. Eleusinian
and or else an exercise in proper matliematical discipline
from early youth. For thus Empedocles asserts, that it is necessary to be
purified from sordid concerns, by drawing from five fountains, with a
vessel of indissoluble brass : but Plato, that purification is to be
derived fi'om the five mathematical disciplines, namely from arithmetic,
geometry, stereometry, music, and astronomy; but the philosophical
instruction in theorems, logical, pohtical, and physical, is similar
to initiation. But he (that is, Plato) denominates zTzoizzzirj, [or the
reveahng], a contemplation of things which are apprehended intuitively,
absolute truths, and ideas. But he considers the binding of the head, and
coronation, as analogous to the authority w^hich any one receives from
his instructors, of leading others to the same contemplation. And
the fifth gradation is, the most perfect fehcity arising from
hence, and, according to Plato, an assimilation to divinity^ as far as is
possible to mankind." But though s'jroTrTS'.a, or the rendition of
the arcane ideas, principally characterized the Greater Mysteries, yet
Bacchic Mysteries. 87 this was likewise accompanied
with the [j.uyjGLc, or initiation, as will be evident in the conrse of
this inquuy. But let US now proceed to the doctrine of the
Greater Mysteries : and here I shall endeavor to prove that as the dramatic
shows of the Lesser Mysteries occultly signified the miseries of
the soul while in subjection to body, so those of the Grreater obscurely
intimated, by mystic and splendid visions, the felicity of the soul both
here and hereafter, when purified from the defilements of a
material nature, and constantly elevated to the realities of intellectual
[spiritual] vision. Hence, as the ultimate design of the Mysteries,
according to Plato, was to lead us back to the principles from which we
descended, that is, to a perfect enjoyment of intellectual
[spiritual] good, the imparting of these principles was doubtless one part of
the doctrine contained in the airoppTjia, aporrheta, or secret discourses;
* and the different purifica * The apostle Paul apparently alludes to the
disclosing of the Mystical doctrines to the epopts or seers, in his
Second Epistle to the Corinthians, xii. 3, 4: "I knew a certain man, whether in Eleusinian and
tions exhibited in these rites, in conjunction with initiation and
the epopteia were symbols of the gradation of virtues requisite to this
reascent of the soul. And hence, too, if this be the case, a
representation of the descent of the soul [from its former heavenly
estate] must certainly form no inconsiderable part of these mystic
shows; all which the f ollomng observations will, I do not doubt,
abundantly evince. In the first place, then, that the shows
of the Greater Mysteries occultly signified the felicity of the
soul both here and hereafter, when separated from the contact and
influence of the body, is evident from what has been demonstrated in the
former part of this discourse : for if he who in the present life
is in subjection to Ms irrational part is truly in ITades, he who
is superior to its dominion is liheivise an inhahitayit of a place
totally different from Hades* If Hades therefore body or
outside of body, I know not: God knoweth,
who was rapt into paradise, and heard appv]xr/. pYjfxata, tilings
ineffable, which it is not lawful for a man to repeat."
*Paul, Epistle to the PhlUpjnans, iii, 20: "Our citizenship is
in the heavens." Bacchic Mysteries. 89 is
the region or condition of punishment and misery, the purified soul must
reside in the regions of bhss; in a hf e and condition of purity
and contemplation in the present life, and entheastically,* animated by
the divine * Medical and Surgical Bejiorter Those who have
professed to teach their fellow-mortals new truths eoncerning immortality, have
based their authority on direct divine inspiration. Numa, Zoroaster,
Mohammed, Swedenborg, all claimed communication with higher spirits; they
were what the Greeks called eniheast
'immersed in God' a sti'iking
word which Byron introduced into our tongue." Carpenter
describes the condition as an automatic action of the brain. The
inspired ideas arise in the mind suddenly, spontaneously, but very
vividly, at some time when tliinhing of some other topic. Francis
Galton defines genius as " the automatic activity of the mind, as
distinguished from the effort of the will,
the ideas coming by inspiration." This action, says the editor of
the Reporter, is largely favored by a condition approaching mental
disorder at least by one remote
from the ordinary working day habits of thought. Fasting, prolonged
intense mental action, gi-eat and unusual commotion of mind, will produce it;
and, indeed, these extraordinary displays seem to have been so preceded.
Jesus, Buddha, Mohammed, all began their careers by fasting, and visions of
devils followed by angels. The candidates in the Eleusinian Mysteries
also saw visions and apparitions, while engaged in the mystic orgies.
"We do not, however, accept the materialistic view of this subject.
The cases are enftieasHe; and although hysteria and other disorders of
the sympathetic system sometimes imitate the phenomena, we believe with
Plato and Plotimis, that the higher faculty, intellect or intuition as we
prefer to call it, the noetic part of our nature, is the faculty actually
at work. "By reflection, Eleusinian and energy, in the
next. This being admitted, let us proceed to consider the
description which Virgil gives us of these fortunate abodes, and
the latent signification which it contains, ^neas and his guide, then,
having passed tlu^ough Hades, and seen at a distance Tartarus, or the utmost
profundity of a material nature, they next advance to the Elysian
fields : Devenere locus Isetos, et amaena vireta
Fortunatoi'uin nemorum, sedesque beatas. Largiov Me campos
gether et lumine vestit Purpureo; solemque suum, sua sidera norunt. * Now the secret meaning of these joyful places is
thus beautifully unfolded by Olympiodorus in his manuscript Commentary on
the Gorgias of Plato. "It is necessary to know," says he,
" that the fortunate islands are said to be raised above the sea;
and self-knowledge, and intellectual discipline, the soul can be
raised to the vision of eternal truth, goodness, and beauty that is, to the vision of God."
This is the epopteia. A. W. They
came to the blissful regions, and delightful gi'eeu retreats, and happy abodes
in the fortunate gi'oves. A freer and purer sky here clothes the fields
with a purjile light; they recoguize their own suu, their own
stars." Bacchic Mysteries. 91 hence a
condition of being, which transcends this corporeal hfe and generated
existence, is denominated the islands of the blessed; but these are
the same with the Elysian fields. And on this account Hercules is said
to have accomphshed his last labor in the Hesperian regions; signifying
bythis, that having vanquished a dark and earthly life he afterward hved
in day, that is, in truth and light." Asc 5s st^svai ozi w. Yfpoi
uTTspxu'jrxGoaiv zt^q i)-aXaaa'rj? avco-cspw otjoai. Tt;v oov
Tzokizsiay XTjV 67:£|v7,u^0Laav too fjioo if.rji z'qc, ysvY^ascoc,
{jLa7,7.p(ov VTjaouc '/.''jXo'JOI. TaoTC/v $£ saxi vcc/.t xo ^qkocjiw
TtS^iov. Airy, zoi zoozo xat 6 'Hpay,Xtj^ zeXeozaioy alJ-Xov sv xo:;;
saTTspcocc {xspsatv s'jTorr^aaxo, 7.vxi xax'^jYcovcaato xov
axoxstvov jcai yO-oviov pwv, xai Xotirov sv '^^t^spcf., oaxiv sv
rjXrid-sio^ %rxi rp(oxi sC'^- So that he who in the present state
vanquishes as much as possible a corporeal life, through the
practice of the piu'ifying virtues, passes in reahty into the Fortunate
Islands of the soul, and lives surrounded with the bright splendors of
truth and wisdom proceeding from the sun of good. 92
Bacchic Mysteries. The poet, in describing the employments
of the blessed, says : Pars in gramineis exereent membra
paleestris : Coutendunt ludo, et f ulva luctantur arena : Pars
pedibus plaudunt choreas, et carmina dicunt. Nee non Threicius longa cum
veste saeerdos Obloquitur uumeris septem discrimina vocum: lamque
eadem digitis, jam pectiue pulsat eburno. Hie genus antiquum Teucri, puleherrima proles, Magnanimi heroes, nati
melioribus annis, Illusque, Assaracusque, et TroJEe Dardanus
auctor. Arma
procul, currusque virum miratur inanis. Stant terra defixse hastse,
passimque soluti Per campum pascuntur equi. Quae gratia curruum
Armorumque fuit vivis, quae cura nitentis Pascere equos, eadem sequitur
tellure repostos. Conspicit, ecee alios, dextra laevaque per herbam
Vescentis, Isetumque choro Pgeana eanentis. Inter odoratum lauri nemus :
unde superne Pliu'imus Eridaui per silvam volvitur amnis. Some exercise their limbs upon the grassy field, contend in play
and wrestle on the yellow sand; some dance on the ground and utter songs.
The priestly Thracian, likewise, in his long robe [Orj^heus] responds in
melodious numbers to the seven distinguished notes; and now strikes them
with his fingers, now with the ivory quill. Here are also' the ancient
race of Teucer, a most illustrious progeny, noble heroes, born in happier
j-ears, II, Assarac, and Dardan, the founder of Troy, ^neas
looking from afar, admires the arms and empty war-cars of the
heroes. There stood spears fixed in the ground, and scattered over
the plain horses are feeding. The same taste which when alive
•'i%^!^mm^ Eleusiuiau Mj'steries.
Bacchic Mysteries. 95 This must not be understood as
if the soul in the regions of fehcity retained any affection for material
concerns, or was engaged in the trifling pursuits of the everyday
corporeal life; but that when separated from generation, and the world's
life, she is constantly engaged in employments proper to the higher
spiritual nature; either in divine contests of the most exalted wisdom; in
forming the responsive dance of refined imaginations; in tuning the
sacred lyi'e of mystic piety to strains of divine fury and
ineffable dehght; in giving free scope to the splendid and winged
powers of the soul; or in nourishing the higher intellect with the
substantial banquets of intelligible [spiritual] food. Nor is it without
reason that the river Eridanus is represented as flowing through
these delightful abodes; and is at these men had for chariots and
arms, the same passion for rearing glossy steeds, follow them reposing beneath
the earth. Lo! also he views others, on the right and left, feasting on
the grass, and singing in chorus the joyful pteon, amid a fragrant grove
of laui'el; whence from above the greatest river Eridanus rolls
through the woods." A peeon was chanted to Apollo at Delphi every
seventh day. 96 Eleusinian and the same time
denominated plurimus (greatest), because a great part of it was absorbed
in the earth without emerging from thence : for a river is the symbol of
hfe, and consequently signifies in this place the intellectual or
spii'ituaJ life, j)roceeding from on liigh, that is, from divinity
itself, and gliding with prolific energy through the hidden and profound
recesses of the soul. In the following lines he says :
Nulli eerta domus. Lucis habitamus opacis, Riparumque toros, et
prata recentia rivis Incolimus.* By the blessed not being
confined to a particular habitation, is implied that they are perfectly
free in all things; being entirely free from all material restraint, and
purified from all inclination incident to the dark and cold
tenement of the body. The shady groves are symbols of the retiring of
the li ' No one of us has a fixed abode. We inhabit
the dark groves, and occupy couches on the river-banks, and meadows fresh
with little rivulets." Bacchic Mysteries.
97 soul to the depth of her essence, and there, by energy
solely divine, establishing herself in the ineffable principle of
things.* And the meadows are syin])ols of that prolific power of
the gods through which all the variety of reasons, animals, and forms
was produced, and which is here the refreshing pastui'e and retreat of
the hberated soul. But that the communication of the
knowledge of the principles from which the soul descended formed a part
of the sacred Mysteries is evident from Yirgil; and that this was
accompanied with a vision of these principles or gods, is no less certain, from
the testimony of Plato, Apuleius, and Proclus. The first part of
this assertion is evinced by the following beautiful lines :
* Plato: BepiihUc, vi. 5. "He who possesses the love of true
knowledge is naturally carried in his aspirations to the real principle of
being; and his love knows no repose till it shall have been united with
the essence of each object through that jiart of the soul, which is akin
to the Permanent and Essential; and so, the divine conjunction having
evolved interior knowledge and truth, the knowledge of being is
won." 98 EleiiHinian and Prineipio cfelum
ac tei-ras, eamposque liquentes Lucentemque globum luuas,
Titauiaque astra Spiritus intus alit, totumque infusa per
artus Mens agitat molem, et magno se corpore miscet. Inde
hominum peeudiimque genus, vitseque volantum, Et qu£e marmoreo fert
monstra sub sequore pontus. Igneus est oUis vigor, et cselestis
origo Seminibus, quantum non uoxia corpora tardant,
Terrenique hebetant artus, moribundaque membra. Hinc metiiunt
cupiuntque : dolent, gaudentque : neque auras Despieiunt clausa
tenebris et carcere csecc* For the sources of the soul's existence
are also the principles from which it fell; and these, as we may
learn from the Thnams of Plato, are the Demiurgus, the mundane
soul, and the junior or mundane gods.f Now, of * "First
of all the interior spirit sustains the heaven and earth and watery
plains, the illuminated orb of the moon, and the Titanian stars; and the Mind,
diffused through all the members, gives energy to the whole frame, and
mingles with the vast body [of the universe]. Thence proceed the race of
men and beasts, the vital souls of birds and the brutes which the Ocean
breeds beneath its smooth surface. In them all is a potency like fire,
and a celestial origin as to the rudimentary principles, so far as
they are not clogged by noxious bodies. They are deadened by
earthly forms and members subject to death; hence they fear and
desire, grieve and rejoice; nor do they, thus enclosed in darkness
and the gloomy prison, behold the heavenly air." \
Timceus. xliv. "The Deity (Demiurgus) himself formed the divine; and
then delivered over to his celestial offspring [the Bacchic
Mysteries. these, the mundane intellect, which, according to the ancient
theology, is represented by Bacchus, is principally celebrated by
the poet, and this because the soul is particularly distributed into
generation, after the manner of Dionysus or Bacchus, as is evident
from the preceding extracts from Olympiodorus : and is still more abundantly
confirmed by the following curious passage from the same author, in
his comment on the Plicedo of Plato. " The soul," says he,
" descends Corically [or after the manner of Proserpine] into
generation,* but is distributed into generation Dionysiacally,t and she is
bound in body PrometheiacallyJ and Titanically: she fi'ees herself
therefore from its bonds by exercising the strength of Hercules; but she
subordinate or generated gods], the task of creating the mortal.
These subordinate deities, copying the example of their parent, and
receiving from his hands the immortal principles of the human soul,
fashioned after this the mortal body, which they consigned to the soul as
a vehicle, and in which they placed also another kind of a soul, which is
mortal, and is the seat of violent and fatal passions."
* That is to say, as if dying. Kore was a name of Proserpina.
t /. e. as if divided into pieces. X I. e. Chained
fast. 100 We US in km and is collected into one
through the assistance of Apollo and the savior Minerva, by philosophical
discipline of mind and heart purifying the nature." i)zi /.opr^toc {j.sv
sic ysvE^tv 'jTzo zT^z Ysvsascoc' npojXY^O-suo? "^s, v.rj.1
Tiza AttoXXcovoc %ol^ rr^c acorrjpac A\)*T;va?, ':r7.{)-a(vT:L'^(oc -(0
oyzi r5'.Xoaorpo'ja7.. The poet, however, intimates the other causes of
the soul's existence, when he says, Igneiis est ollis vigor, et
coelestis origo Semiuibus * which evidently alludes to the
sowing of souls into generation, t mentioned in the Timmus. And fi'om
hence the reader will * "There is then a certain fiery
potency, and a celestial oi'igiu as to the rudimentary principles."
/. e. Restored to wholeness and divine life. tl Corinthians,
xv. 42-44. "So also is the onafitaHis of the dead. It is sown in
corruption [the material body]; it is raised in incorruption : it is sown
in dishonor; it is raised in gloi-y : it is sown in weakness; it is
raised in power : it is sown a psychical body; it is raised a spiritual
body." Bacchic Mysteries. 101 easily
perceive the extreme ridiculousness of Dr. Warburton's system, that the
grand secret of the Mysteries consisted in exposing the errors of
Polytheism, and in teaching the doctrine of the unity, or the existence of
one deity alone. For he might as well have said, that the great
secret consisted in teaching a man how, by writing notes on the works
of a poet, he might become a bishop ! But it is by no means
wonderful that men who have not the smallest conception of the true
nature of the gods; who have persuaded themselves that they were only
dead men deified; and who measure the understandings of the ancients by
their own, should be led to fabricate a system so improbable and
absurd. But that this instruction was accompanied with a
vision of the source from which the soul proceeded, is evident from the
express testimony, in the first place, of Apuleius, who thus
describes his initiation into the Mysteries. " Accessi
confinium mortis; et calcato Proserpinse limine, per omnia vectus
elementa remeavi. Nocte media vidi solem. 102 Meusinicm
and candido coniscantem kimine, deos inferos, et deos
superos. Access! coram, et adoravi de proximo." *
That is, "I approached the confines of death : and having trodden
on the threshold of Proserpina returned, having been carried
through all the elements. In the depths of midnight I saw the sun
glittering with a splendid light, together with the infernal and supernal
gods : and to these divinities approaching near, I paid the tribute
of devout adoration." And this is no less evidently implied by
Plato, who thus describes the fehcity of the holy soul prior to its
descent, in a beautiful allusion to the arcane visions of the Mysteries.
Ka/.Ao? 3s TOIS Y^V tOStV X7.[JLirpOV, OTS GOV £UOaL|J,OVt
)^op(p {j-ay,7.pcctv o^iv zz xac O-sav £:ro{jL£vot jjis'La [jLsv
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T£X£t(ov YjV 0-£|j.ic Xb^biv {i-7.%a pKOXW.TYjV YjV 0pYl7.C0[J-£V
oXoX^Y^pOL {JL£V 7.010^ OVr£C, y,7.l 7.'Jr7.^£tC %7.'5t(OV 037. Y^|X7.C
£V 63r£p(p /p<5V(j) 67C£{X£V£V. '0X07cXy^P7. $£ 7,7.1 TLTiXa
%7.C aTp£(J.Y^ %7.t £u5aqJL0V7. rp7.a{J.7.-7. JJLyG'J{JL£VOt T£
7,71 £TC0TCT:£U0V'C£C £V auyTJ %7.9-7.pq: %7.l)-7.pOl * The Golden Ass.
xi. p. 239 (Bohn). Bacchic Mysteries. 103
TTSpLrpspovrs? ovofxaCopisv oarpsoa xpo':rov 5s d£3{jL£ujj-£V0L
That is, " But it was tlien lawful to survey the most splendid beauty,
when we obtained, together with that blessed choir, this happy
vision and contemplation. And we indeed enjoyed this blessed spectacle
together with Jupiter; but others in conjunction with some other god; at the
same time being initiated in those Mysteries^ which it is lawful to
call the most blessed of all Mysteries. And these divine Orgies*
were celebrated by us, while we possessed the proper integrity of
our nature, we were freed from the molestations of evil which
otherwise await us in a future period of time. Likewise, in consequence
of this divine initiation, we became spectators of entire, simple,
immovable, and blessed visions, resident in a pure hght; and were
ourselves pure and immaculate, being hberated from this surrounding
vestment, which we denominate body, and to which we are now bound *
The peculiar rites of the Mysteries were indifferently termed Orgies or
Labors, teletai or finishings, and initiations. 10-i Bacchic
Mysteries. like an oyster to its shell."* Upon this
beautiful passage Proclus observes, "That the initiation and
epopfeia [the vailing and the reveahng] are symbols of ineffable
silence, and of union with mystical natures, through intelligible
\dsions.t Kocl yap -q {xor^zic, v.ai r^ * Phcedriis, 64.
t Proclus : Theology of Plato, book iv. The following reading is
suggested : "The initiation and final disclosing are a symbol of the
Ineffable Silence, and of the enosis, or being at one and en rapport with
the mystical verities through manifestations intuitively
comprehended." The ixv>'f\z<.z, muesis, or initiation is
defined by E. Pocoeke as relating to the "well-known Buddhist
Moksha, final and eternal happiness, the liberation of the soul from the
body and its exemption from fvirther transmigration." For all mystcB
therefore there was a certain welcome to the abodes of the blessed. The
term cTTOTrcjioi, epopteia, applied to the last scene of initiation, he
derives from the Sanscrit, evaptoi, an obtaining; the epopt being
regarded as having secured for himself or herself divine bliss. It
is more usual, however, to treat these terms as pure Greek; and to render
the mnesis as initiation and to derive epopteia from STCOrtTopiat.
According to this etymology an epopt is a seer or clairvoyant, one who
knows the interior wisdom. The terms inspector and superintendent do not, tome,
at all express the idea, and I am inclined, in fact, to suppose with Mr.
Pocoeke, that the Mysteries came from the East, and from that to deduce
that the technical words and expressions are other than Greek.
Plotinus, speaking of this enosis or oneness, lays down a spiritual
discipline analogous to that of the Mystic Orgies : " Purify your
soul from all undue hope and fear about earthly things; mortify
tl'^ £leii8iiiiau Mysteries. Etruscan.
Bacchic Mysteries. 107 TYjC iTpoc xa {jLoatixa
"^ta t(ov vo'/^xcov cpaajjiaxtov svcoascoc;. Now, from all tliis, it may
be inferred, that the most sublime part of the zTzrj'Kisirx
\epoptei(i\ or final revealing, consisted in beholding the gods themselves
invested with a resplendent hght; * and that this was symbohcal of those
transporting visions, which the virtuous soul will constantly enjoy in a
future state; and of which it is able to gain some ravishing
glimpses, even while connected with the cumbrous vestment of the
body.f the body, deny self,
affections as well as appetites,
and the inner eye will begin to exercise its clear and solemn
vision." " In the reduction of yonr soul to its simplest
principles, the divine germ, you attain this oneness. We stand then in
the immediate presence of God, who shines out from the profound depths of
the soul."- A. W. Apuleius: The Golden Ass. xi. The candidate
was instructed by the hierophant, and permitted to look within the cistn
or chest, which contained the mystic serpent, the phallus, egg, and
gi-ains sacred to Demeter. As the epopt was reverent, or otherwise,
he now "knew himself" by the sentiments aroused. Plato and
Alcibiades gazed with emotions wide apart.
A. W. t Plotinus : Letter to Flaccus. " It is only now and
then that . we can enjoy the elevation made possible for us, above the
limits of the body and the world. I myself have realized it but
three times as yet, and Porphyry hitherto not once."
108 Bacchic Mysteries. But that this was actually the case,
is evident fi'om the following unequivocal testimony of Proclus : Ev
airaac zaic, zsXszaic TzpozEiyoo(ji [xoryfj.Q^ TToXXa $s G'/r^iiaza
s^aXazzoyzzc, rpctcvovroir %ru zoze {j.£v azoizMzov a'jrcov xpojBsjBXrjtac
«:p(oc, xors 5s sec c(v{J-pcoTTStov {j-opY'/jv £a/'/j{j.axta[JL£vov, ':o':£ os
stc dXXotov trjTTov ';:po£XY|XfjG(o?. /. ^. " In all the
initiations and Mysteries, the gods exhibit many forms of themselves, and
appear in a variety of shapes : and sometimes, indeed, a formless light ^
of themselves is held forth to the view; sometimes this hght is
according to a human form, and sometimes it proceeds into a different
shape." f This assertion of divine visions in the Mysteries,
Porpbyiy afterward declared that he witnessed four times,
when near him, the soul or " intellect " of Plotiiius thns raised
up to the First and Sovereign Good; also that he himself was only
once so elevated to the enosis or union with God, so as to have glimpses
of the eternal world. This did not occur till he was sixty-eight years of
age. A. W. * I. e. Si
luminous appearance without any defined form or shape of an object.
\ Commentary upon the Republic of Plato, page 380.
Cupids, Satyr, aud statue of Priapua. Bacchic Mysteries. Ill
is clearly confirmed by Plotinus.* And, in short, that magical
evocation formed a part of the sacerdotal office in the Mysteries,
and that this was universally believed by all antiquity, long
before the era of the latter Platonists,t is plain from the testimony of
Hippocrates, or at least Democritus, in his Treatise de Morbo Sacro.X For
speaking of those who attempt to cure this disease by magic, he
observes : st yap csayjvtjv ts %aGac Xaaaav arpovov 7.7.1 yqy, zat z'rjXka
ta zoiotjzo zpOTzrj, TTOLVca zizi^z/ovzrji sxiataaO-ai, slis 7cac
STc TEAET12N, scxs xoll Ss aXhric, zivoq yvtofj-Tj? {xsXsrr^^ cpaatv ocot
xs scvai 01 zrjjjza btzizt^^sooyzec, ^uaspsstv sjj-oi ys 5oy.£oaaL y,. X. /.
e. " For if they profess themselves able to draw down the
moon, to obscure the sun, to produce stormy and pleasant weather, as likewise
showers of rain, and heats, and to render the sea and earth barren, and
to accomplish *Ennead, i. book 6; and ix. book 9. t
Plotinus, Porphyry, lamblichus, Proclus, Longinus, and their
associates. X Epilepsy. 112 Eleusinian and
every thing else of this kind; whether they derive this knowledge
from flie Mysteries^ or from some other mental effort or
meditation, they appear to me to be impious, from the study of such
concerns." From all which is easy to see, how egregiously Dr.
Warburton was mistaken, when, in page 231 of his Divine Legation^
he asserts, " that the light beheld in the Mysteries, was nothing
more than an illuminated image which the priests had thoroughly
purified." But he is likewise no less mistaken, in
transferring the injunction given in one of the Magic Oracles of
Zoroaster, to the business of the Eleusinian Mysteries, and in perverting the
meaning of the Oracle's admonition. For thus the Oracle speaks : Myj
'puocojc y.akto'f\c, aoxonxoy a-^aKiw., That is, " Invoke not
the self -revealing image of Nature, for you must not behold these
things before your body has received the initiation." Upon which he
observes, " that Bacchic Mysteries. 113 the
self-revealing image ivas only a diffusive shining light, as the name
partly declares^ * But this is a piece of gross ignorance, from
which he might have been freed by an attentive perusal of Proehis on the
Timceus of Plato : for in these truly divine Commentaries we learn,
" that the moonf is the cause of nature to mortals, and the self
-rev eating image of the fountain of nature.^^ "^.zXriyq {isv
acrca zoic, O-vyjzoi? zr^c, ^fO(jSo:)C, to ayioTitCiV rj^^rjX\i.a. o'j37.
xT^c 'izr^'^fr/.iac, 'f'jasco^. If the reader is desirous of knowing what
we are to understand by the fountain of nature of which the moon is the
image, let him attend to the following information, derived from a long
and deep study of the ancient theology : for from hence I have
learned, that there are many divine fountains contained in the essence
of the demiurgus of the world; and that among these there are three
of a very distinguished rank, namely, the fountain of souls, or
Juno, the fountain of virtues, or
Minerva and * Divine
Legation, p. 231. t /. e. The Mother-Goddess, Isis or Demeter,
symbolized as Selene or the Moon, 114 Eleusinian
and the fountain of nature, or Diana. This last fountain too
immediately depends on the vilifying goddess Rhea; and was assumed
by the Demiurgus among the rest, as necessary to the prohfic reproduction of
liimself. And this information will enable us besides to explain
the meaning of the following i3assages in Apuleius, which, from not
beingunderstood, have induced the moderns to believe that Apuleius
acknowledged but one deity alone. The first of these passages is in
the beginning of the eleventh book of his MetamorpJioses, in which the
divinity of the moon is represented as addressing him in this
sublime manner : " En adsum tuis commota, Luci, precibus, rerum Natura
parens, elementorum omnium domina, seculorum progenies initialis,
summa numinum, regina Manium, prima cai^litum, Deoruni Dearumque facies
uniformis : quae cseh luminosa culmina, maris salubria flamina, inferorum
de plorata silentia nutibus meis dispenso : cu jus numen unicum,
multiformi specie, ritu vario, nomine multijugo totus veneratur orbis.
Me primigenii Phryges Pessinunticam nominant Bacchic
Mysteries. 115 Deum matrem. Hiiic Autochthones Attici
Cecropiam Minervam; ilhiic fluctuantes Cyprii Paphiam Veiierem : Cretes
sagittif eri Dictjninam Dianam; Sicuh trihngues Stygiam Proserpinam;
Eleusinii vetustam Deam Cererem : Junonem ahi, ahi Bellonam, alii
Hecaten, Rhamnusiam ahi. Et qui nascentis dei Sohs inchoantibus radiis
iUustrantur, ^thiopes, Ariique, priscaque doctrina pollentes ^gyptii
cserimoniis me prorsus propriis percolentes appellant vero nomine
reginam Isidem." That is, " Behold, Lucius, moved with
thy supphcations, I am present; I, who am Nature, the parent of things,
mistress of all the elements, initial progeny of the ages, the highest of
the divinities, queen of departed spirits, the first of the celestials,
of gods and goddesses the sole hkeness of all : who rule by my nod the
luminous heights of the heavens, the salubrious breezes of the sea,
and the woful silences of the infernal regions, and whose divinity, in
itself but one, is venerated by all the earth, in many characters,
various rites, and different appellations. Hence the primitive Phry
116 Bacchic Mysteries. gians call me Pessinuntica, the motlier
of the gods; the Attic Autochthons, Cecropian Muierva; the
wave-siUTOunded Cyprians, Paphian Venus; the arrow-bearing Cretans,
Dictynnian Diana; the three-tongued Sicilians, Stygian Proserpina; and the
inhabitants of Eleusis, the ancient goddess Ceres. Some, again, have
invoked me as Juno, others as Bellona, others as Hecate, and others
as Rhamnusia; and those who are enlightened by the emerging rays of
the rising sun, the Ethiopians, and Aryans, and likewise the
Egyptians powerful in ancient learning, who reverence my divinity with
cerenioaies perfectly proper, call me by my true appellation Queen
Isis." And, again, in another place of the same book, he says of the
moon : " Te Superi colunt, observant Inferi : tu rotas orbem,
luminas Solem, regis mundum, calcas Tartarum. Tibi respondent sidera,
gaudent numina, redeunt tempora, serviunt elementa, etc." That
is, " The supernal gods reverence thee, and those in the realms
beneath attentively do homage to thy divinity. Thou dost make the
universe revolve, illuminate Bacchic Mysteries the sun, govern the world,
and tread on Tartarns. The stars answer thee, the gods rejoice, the houi's and
seasons retui*n by thy appointment, and the elements serve
thee." For all tliis easily follows, if we consider it as
addressed to the fountain-deity of nature, subsisting in the Demiurgus,
and which is the exemplar of that nature which flourishes in the
lunar orb, and throughout the material world, and from which the deity
itself of the moon originally proceeds. Hence, as this fountain
innnediately depends on the life-giving goddess Rhea, the reason is
obvious, why it was formerly worshiped as the mother of the gods : and as
all the mundane are contained in the super-mundane gods, the other
appellations are to be considered as names of the several mundane
divinities produced by this fountain, and in whose essence they are
likewise contained. But to proceed with our inquiry, I shall,
in the next place, prove that the different purifications exhibited in
these rites, in conjunction with initiation and the epopteia were symbols
of the gradation of disciplines 120 Eleusinian and
requisite to the reascent of the soul.* And the fii'st part,
indeed, of this proposition respecting the purifications, immediately
follows from the testimony of Plato in the passage already adduced, in which he
asserts that the ultimate design of the Mysteries was to lead us
back to the principles from which we originally fell. For if the
Mysteries were symbohcal, as is universally acknowledged, this must
likewise be true of the purifications as a part of the Mysteries; and as inward
puiity, of which the external is symbolical, can only be obtained by the
exercise of the virtues, it evidently follows that the
purifications were symbols of the pimfying moral virtues. And the latter
part of the proposition may be easily inferred, from the passage
ah'eady cited from the Phmdrus of Plato, in which he compares initiation
and the epopteia to the blessed vision of the higher intelligible
natures; an employment which can alone belong to the exercise of
contemplation. But the whole of this is rendered indisputable by the
following re */. e. to its former divine condition. Bacchic
Mysteries. 121 markable testimony of Olympiodorus, in his
excellent manuscript Commentary on the PJuedo of Plato.* "In the
sacred rites," says he, "popular pui4fications are in the
first place brought forth, and after these such as are more arcane.
But, in the third place, collections of various things into one are
received; after which follows inspection. The ethical and political
virtues therefore are analogous to the apparent purifications; the
cathartic virtues which banish all external impressions, correspond to
the more arcane purifications. The theoretical energies about
intelligibles, are analogous to the collections; and the contraction of
these energies into an * We have taken the liberty to present the
following version of this passage, as more correctly expressing the sense
of the original: "At the holy places are first the public purifications.
With these the more arcane exercises follow; and after those the
obligations [-jozzaizz'.z) are taken, and the initiations follow, ending
with the epopiic disclosures. So, as will be seen, the moral and social
(political) virtues are analogous to the public purifications; the
purifying virtues in their turn, which take the place of all external
matters, correspond to the moi'e arcane disciplines; the contemplative
exei'cises concerning things to be known intuitively to the taking of the
obligations; the including of them as an undivided whole, to the
initiations; and the simple ocular view of simple objects to the epoptic
revelations." 122 Eleusinian and
indivisible nature, corresponds to initiation. And the simple
self-inspection of simple forms, is analogous to epoptic vision."
'On QZIQ. Etra ZTZl ZnjJZrjXZ aTZOrjfjr^ZOZZrjrjr ^xszfj, 5s
za'jzac, QOGzaaeic, Tzarjzhr^x'^jrjyrjyzrj, y-ai siri zaozruQ
ixorpBiQ- £v TsXst 5s siroirrscc/i. xVvc/AoyooaL TGCV'JV ai [J-sv TjO-^xat
7,7.^ 7:o/dziY.'y,i apsxa^ XGtc s[xcpavsai y,7,i)'7.p{j-occ. Ai 5s
%7.i)"7pii 7,7^ 0371 77C0a7.SU7.C0Vt7t TZaVZO. Zrj. kY.ZOC,
ZOIQ aTTopp'^ro-spoic. Ai 5s xspt ':7 voriza r^scopYpt%7c TS
svspYSi7.i zai^ GOGzaoeaiy. Ac 5s to'jtojv G'jya.irjSJsiQ sec "co
ajispiarov X7cc \vyqGZGiy. Ai 5s CLTZkr/l
X(OV 7.7rAC0V SC5(0V 70X0'V.7C t71C s7U07ursc7t?. And here I can
not refrain from noticing, with indignation mingled with pity, the
ignorance and arrogance of modern critics, who pretend that this distribution
of the virtues is entirely the invention of the latter Platonists,
and without any foundation in the writings of Plato.* And among the
supporters of such ignorance, I am sovry to find * The writings of
Augustin handed Neo-Platonism down to posterity as the original and esoteric
doctrine of the first followers of Plato. He enumerates the causes which
led, in his opinion, to the negative position assumed by the Academics,
and to the con Bacchic Mysteries. 123 Fabricius, in his
prolegomena to the hfe of Proclus. For nothing can be more obvious
to every reader of Plato than that in his Laws he treats of the social
and political virtues; in his Phcedo, and seventh book of the
RepiibUc^ of the purifying; and in his Thceafetus, of the contemplative
and sublimer virtues. This observation is, indeed, so obvious, in the
Phcedo, with respect to the purifying virtues, that no one but a
verbal critic could read this dialogue and be insensible to its truth :
for Socrates in the very beginning expressly asserts that it is the
business of philosophers to study to die, and to be themselves dead,* and
yet at the same time reprobates suicide. What then can such
eealment of their real opinions. He describes Plotinus as a resuscitated
Plato. Against the Academics. Phcedo, 21. Kivoovjooos: y^P o'^o- TOY/_otvou-iv
op&to? «t:to|j.evo'. (pcXoaocp'.a? XsXfj^cVai la? aWooc^, bv. odgsv
aXXo aoxo'. ziz'.x-ffitiionz'y Y) aTCofl-VYjoxstv zt xa: TsS-vava:. /. e.
For as many as rightly apply themselves to philosophy seem to have left
others ignorant, that they themselves aim at nothing else than to die and
to be dead. Elsewhere (31) Socrates says : " While we live, we
shall approach nearest to intuitive knowledge, if we hold no communion
with the body, except, what absolute necessity requires, nor suffer
ourselves to be pervaded by its nature, but purify ourselves from it
until God himself shall release us. Eleusinian and a death mean but
symbolical or philosophical death ? And what is this but the true
exercise of the virtues which purify '? But these poor men read only
superficially, or for the sake of displaying some critical acumen
in verbal emendations; and yet with such despicable preparations for
philosophical discussion, they have the impudence to oppose their puerile
conceptions to the decisions of men of elevated genius and profound
investigation, who, happily freed from the danger and drudgery of
learning any foreign language,* directed all their attention
without restraint to the acquisition of the most exalted truth.
It only now remains that we prove, in the last place, that a
representation of the descent of the soul formed no inconsiderable part
of these mystic shows. This, indeed, is doubt * It is to be
regretted, nevertheless, that our author had not risked the " danger
and drudgery " of learning Greek, so as to have rendered fuller
justice to his subject, and been of greater service to his readers. We
are conscious that those who are too learned in verbal criticism are
prone to overlook the real purport of the text. A. W.
Bacchic Mysteries less occultly intimated by Yirgil, when speaking of the
souls of the blessed ui Elysium, he adds, Has omnes, ubi
mille rotam volvere per annos, Lethaeum ad fluviiim deus evocat agmine
magno : Scilicet immemores supera ut convexa revisant, Eursus et
incipiant iu eorpore velle reverti.* But openly by Apuleius in the
following prayer which Psyche addresses to Ceres : Per ego te
frugiferam tuam dextram istam deprecor, per Isetificas messium
cserimonias, per tacita sacra cistarum, et per famulorum tuorum
draconum pinnata cuiTicula, et glebae. Siculae fulcamina, et currum
rapacem, et terram tenacem, et illuminarum Proserpinse nuptiarum
demeacula, et caetera quae silentio tegit Eleusis, Atticae sacrarium;
miserandse Psyches animse, supplicis fuse, subsiste.f That is,
"I beseech thee, by thy fruit-bearing right * " All
these, after they have passed away a thousand years, are summoned by the
divine one in great array, to the Lethfean river. In this way they become
forgetful of their former earth-life, and revisit the vatilted realms of
the world, willing again to return into bodies." t
Apuleius : The Golden Ass. (Story of Cupid and Psyche), book
vi. Bacchic Mysteries. hand, by the joyful ceremonies of
harvest, by the occult sacred rites of thy cistae,* and by the
winged car of thy attending dragons, and the furrows of the Sicilian
soil, and the rapacious chariot (or car of the ravisher), and the dark
descending ceremonies attending the marriage of Proserpina^ and the
ascending rites which accompanied the lighted return of thy
daughter^ and l)ij other arcana which Eleusis the Attic sanctuary
conceals in profound silence^ reheve the sorrows of thy wretched
suppliant Psyche." For the abduction of Proserpina signifies the
descent of the soul, as is e^ddent from the passage previously
adduced from Olympiodorus, in which he says the soul descends Corically;
f and this is confirmed by the authority of the philosopher
Sallust, who observes, " That the abduction of Proserpina is fabled
to have taken place about the opposite equinoctial; and by this the
descent of souls [into earth * Chests or baskets, made of osiers, in which
were enclosed the mystical images and utensils which the uninitiated were
not permitted to behold. t /• €. as to death; analogously to the
descent of Kore-Persephone to the Underworld. Ceres lends lier ear to
Triptolemus. Proserpina and Pluto. Jupiter augry.
Bacchic Mysteries life] is implied." Tlepi ^(oov x'ajv svaviiav
lo^q {)-ac, 6 5'^ /.^.O-oSoc soTt tcov '|y/cov.* And as the
abduction of Proserpina was exhibited in the dramatic representations of
the Mysteries, as is clear from Apuleius, it indisputably follows, that this
represented the descent of the soul, and its union with the dark tenement
of the body. Indeed, if the ascent and descent of the soul, and its
condition while connected with a material nature, were represented in the
dramatic shows of the Mysteries, it is evident that this was implied by
the rape of Proserpina. And the former part of this assertion is manifest
from Apuleius, when describing his initiation, he says, in the passage
already adduced : "I approached the confines of death, and having
trodden on the threshold of Proserpina, / returned^ having been carried
through all the elements.^'' And as to the latter part, it has been
amply proved, fi'om the highest authority, in the first division of this
discourse. De Diis et Mundo Meusinian and Nor must the reader be
distiu^bed on finding that, according to Porphyry, as cited by Eusebius,*
the fable of Proserpina alludes to seed placed in the ground; for this is
likewise true of the fable, considered accordingto its material explanation.
But it will be proper on this occasion to rise a httle higher, and
consider the various species of fables, according to their philosophical
arrangement; since by this means the present subject will receive an additional
elucidation, and the wisdom of the ancient authors of fables will
be vindicated from the unjust aspersions of ignorant declaimers. I
shall present the reader, therefore, with the following interesting
division of fables, fi'om the elegant book of the Platonic philosopher
Sallust, on the gods and the universe. " Of fables," says he,
" some are theological, others physical, others animastic (or
relating to soul), others material, and lastly, others mixed from
these. Fables are theological which relate to nothing corporeal, but
contemplate the very essences of the gods; such as * Evang. Prcepui
Bacchic Mysteries the fable which asserts that Saturn devoured his
children : for it insinuates nothing more than the nature of an
intellectual (or intuitional) god; since every such intellect returns
into itself. We regard fables physically when we speak concerning the
operations of the gods about the world; as when considering Saturn
the same as Time, and calhng the parts of time the children of the
universe, we assert that the children are devoiu'ed by their
parent. But we utter fables in a spiritual mode, when we contemplate the
operations of the soul; because the intellections of our souls,
though by a discursive energy they go forth into other things, yet abide
in their parents. Lastly, fables are material, such as the
Egyptians ignorantly employ, considering and calling corporeal natures
divinities : such as Isis, earth, Osiris, humidity, Typhon, heat •
or, again, denominating Saturn water, Adonis, fruits, and Bacchus, wine.
And, indeed, to assert that these are dedicated to the gods, in the same
manner as herbs, stones, and animals, is the part of wise men; but to
call them gods is alone the province of fools and Eleusinian
and madmen; unless we speak in the same manner as when, from
estabhshed custom, we call the orb of the sun and its rays the sun
itself. But we may perceive the mixed kind of fables, as well in
many other particulars, as when they relate that Discord, at a
banquet of the gods, tlu'ew a golden apple, and that a dispute
about it arising among the goddesses, they were sent by Jupiter to take
the judgment of Paris, who, charmed with the beauty of Venus, gave
her the apple in preference to the rest. For in this fable the banquet
denotes the super-mundane powers of the gods; and on this account they
subsist in conjunction with each other : but the golden apple denotes the
world, which, on account of its composition from contrary natures,
is not improperly said to be thrown by Discord, or strife. But again,
since different gifts are imparted to the world by different gods, they appear
to contest with each other for the apple. And a soul living according to
sense (for this is Paris), not perceiving other powers in the universe,
asserts that the apple is alone the beauty of Venus.
Bacchic Mysteries. 133 But of these species of fables, such
as are theological belong to philosophers; the physical and spiritual to
poets; l)ut the mixed to the first of the initiator i/ rites (ze'kszal(;);
since the intention of all mystic ceremonies is to conjoin us with the
world and the gods.^'' Thus far the excellent Sallust :
from whence it is evident, that "the fable of Proserpina, as
belonging to the Mysteries, is properly of a mixed nature, or
composed from all the four species of fables, the theological [spiritual
or psychical], and material. But in order to understand this divine
fable, it is requisite to know, that according to the arcana of the
ancient theology, the Coric * order (or the order belonging to
Proserpina) is twofold, one part of which is super-mundane, subsisting
with Jupiter, or the Demiurgus, and thus associated with him
establishing one artificer of divisible natures; but the other is
mundane, in which Proser * Coric from KopY], Kore, a name of Proserpina.
The name is derived by E. Pococke from the Sanscrit Goure EJeiisinian
and pina is said to be ravished by Pluto, and to animate the
extremities of the universe. *' Hence," says Prockis,
"according to the statement of theologists, who dehvered to us
the most holy Mysteries, she [Proserpina] abides on high in those
dwellings of her mother which she prepared for her in inaccessible
places, exempt from the sensible world. But she likewise dwells
beneath with Pluto, administering terrestrial concerns, governing the
recesses of the earth, supplying life to the extremities of the universe,
and imparting soul to beings which are rendered by her inanimate and
dead." Kai yap yj twv iJ-soXoytov "^'^{J-yj, xwv tac aytcoxata?
Y/^iiv £V EXsaacvt tsAs-ca? 7rry.pry.o£0(oy,Gxtov, avco, ji£v OL'jr/jV sv xocc
{X'ffrjOQ owoic JJLSV8CV cp'^acv, O'j^ Yj (J-'^r/jp aur^
y-arsaxsuaCsv sv a[57'0L? £(;Y^pY;{ji£voac too tz^vzoq. Katco §£
{i£'ca nXoD-covoc xcDV yO-ovuov eizapyeiy^ v.rj.i zooQ ZTiQ YQC, \Loyofjc
£':it'cpo7U£U£tv, vcat Cf«^Y^v £xop£Y£tv ZOIC eyrj.zoic ^oo xavToc, %at
^^/''i^ {ji£ta5i5ovat rote Trap £rjjjzo)y aj^oyoic, 7.ai V£xpot?.* Hence
we may easily perceive that * Proclus: TJieology of Plato Bacchic
Mysteries this fable is of the mixed kind, one part of which relates to
the super-mundane estabhshment of the secondarj^ cause of life,* and the
other to the procession or outgoing of life and soul to the farthest
extremity of things. Let us therefore more attentively consider the
fable, in that part of it which is symbolical of the descent of souls; in order
to which, it will be requisite to premise an abridgment of the
arcane discourse, respecting the wanderings of Ceres, as preserved
by Minutius Felix. " Proserpina," says he, " the
daughter of Ceres by Jupiter, as she was gathering tender flowers, in the
new spring, was ravished from her dehghtful abodes by Pluto; and
being carried from thence through thick woods, and over a length of
sea, was brought by Pluto into a cavern, the residence of departed
spirits, over whom she afterward ruled with absolute sway. But
* Plotiuus taught the existence of three hypostases in the Divine
Nature. There was the Demiurge, the God of Creation and Providence; the
Second, the Intelligible, self-contained and immutable Source of life; and
above all, the One, who like the Zervane Akerene of the Persians, is
above all Being, a pure will, an Absolute Love " Intellect." A. W. Bacchic Mysteries. Ceres,
upon discovering the loss of her daughter, with hghted torches, and begirt with
a serpent, wandered over the whole earth for the purpose of finding
her till she came to Eleusis; there she found her daughter, and
also taught to the Eleusinians the cultivation of corn." Now in this
fable Ceres represents the evolution of that intuitional part of
our nature which we properly denominate intellect'^ (or the unfolding of
the intuitional faculty of the mind from its quiet and collected condition
in the world of thought); and Proserpina that living, self -moving,
and animating part which we call sonl. But lest this comparing of
unfolded intellect to Ceres should seem ridiculous to the reader,
unacquainted with the Orphic theology, it is necessary to inform him that this
goddess, from her intimate union with Rhea, in conjunction with whom she
produced Jupiter, is Also denominated by Kant, Pure reason, and by
Cocker, Intuitive reason. It was considered by Plato, as not amenable to the conditions of time
and space, but in a particular sense, as dwelling in eternity : and
therefore capable of beholding eternal realities, and coming into
communion with absolute beauty, and goodness, and truth that is, with God, the Absolute
Being." Proserpina. Greek. Bacclius. India. Ceres.
Roman. Demeter. Ktruscan. Bacchic Mysteries evidently of a Saturnian
and zoogonic, or intellectual and vivific rank; and hence, as we are
informed by the philosopher Sallust, among the mundane divinities she is
the deity of the planet Saturn.* So that in consequence of this, our
intellect (or intuitive faculty) in a descending state must aptly
symbohze with the divinity of Ceres. But Pluto signifies the whole of a
material natui'e; since the empire of this god, according to Pythagoras,
commences downward from the Gralaxy or milky way. And the cavern
signifies the entrance, as it were, into the profundities of such a
nature, which is accomplished by the soul's union with this
terrestrial body. But in order to underderstand perfectly the secret meaning of
the other parts of this fable, it will be necessary to give a more
exphcit detail of the particulars attending the abduction, from the beautiful
poem of Claudian on this subject. From * Hence we may perceive the
reason why Ceres as well as Saturn was denominated a legislative deity; and why
illuminations were used in the celebration of the Saturnalia, as well as
in the Eleusinian Mysteries Bacchic Mysteries. this elegant
production we learn that Ceres, who was a&aid lest some violence
should be offered to Proserpina, on account of her inimitable beauty,
conveyed her privately to Sicily, and concealed her in a house built
on purpose by the Cyclopes, while she herself directs her course to
the temple of Cybele, the mother of the gods. Hej:'e, then, we see
the first cause of the soul's descent, namely, the abandoning of a life
wholly according to the higher intellect, which is occultly signified by,
the separation of Proserpina fi*om Ceres. Afterward, we are told that
Jupiter instructs Venus to go to this abode, and betray Proserpina from
her retirement, that Pluto may be enabled to carry her away; and to
prevent any suspicion in the virgin's mind, he commands Diana and Pallas
to go in company. The three goddesses arriving, find Proserpina at
work on a scarf for her mother; in which she had embroidered the
primitive chaos, and the formation of the world. Now by Venus in this
part of the narration we must understand desire^ which even in the celestial
regions (for such is the Venus, Diana, and Pallas visit Proserpina Bacchic
Mysteries residence of Proserpina till slie is ravished by Pluto), begins
silently and stealthily to creep into the recesses of the soul. By
Minerva we must conceive the rational power of the soul, and by
Diana, nature^ or the merely natural and vegetable part of our
composition; both which are now ensnared through the allurements of
desire. And lastly, the web in which Proserpina had displayed all
the fair variety of the material world, beautifully represents the commencement
of the illusive operations through which the soul becomes ensnared
with the beauty of imaginative forms. But let us for a while attend to
the poet's elegant description of her employment and abode :
Devenere locum, Cereris quo tecta nitebant Cyclopum firmata manu.
Stant ardua f erro Msenia; ferrati postes : immensaqiie nectit
Claustra elialybs. Nullum tanto sudore Pyracmon, Nee Steropes, eonstruxit
opus : nee talibus unquam Spiravere uotis animge : nee flumine
tanto Incoctum maduit lassa fornaee metallum. Atria vestit ebur :
trabibus solidatur aenis Culmen, et in eelsas surgunt eleetra
eolumnas. Ipsa domum tenero mulcens Proserpina eantu Irrita texebat
rediturje munera matri. Hie elementorum seriem sedesque pateruas
144 Eleusinian and Insignibat aeu : veterem qua lege
tutmiltum Diserevit natiira parens, et semiua jiistis Diseessere
locis : quidquid leve fertiu" iu altum : 111 medium graviora caduut
: incaiiduit tether : Egit flamma polum : fluxit mare •. terra
pependit Nee color uuus inest. Stellas accendit in auro. Ostro
fundit aquos, attollit litora gemmis, Filaque mentitos jam jam cfelantia
liuctus Arte tumeiit. Credas illidi cautibus algam, Et raucum
bibiilis inserpere murmur arenis. Addit quinqiie plagas : mediam
subtemine rubro Obsessam fervore notat : squalebat adustus Limes,
et assiduo sitiebant stamina sole. Vitales utrimque duas; quas mitis
oberrat Temperies habitanda viris. Tum fine supremo Torpentes traxit
geminas, brumaque perenni Fgedat, et a3terno coiitristat frigore
telas. Nee non et patrui piugit sacraria Ditis, Fatalesque sibi
manes. Nee def nit omen. Prasscia nam subitis maduerimt fletibus
ora. After this, Proserpina, forgetful of her parent's
commands, is represented as venturing from her retreat, through the
treacherous persuasions of Venus : Impulit Joiiios pra?misso
lumine fluetus Nondum pura dies : tremulis vibravit in iindis
Ardor, et errantes ludunt per cferula flammfe. Jamque audax animi,
fidseque oblita parentis, Fraude Dioiifea riguos Proserpina saltus
(Sic Parcse voluere) petit. Bacchic Mysteries And this with the greatest
propriety: for obhvion necessarily follows a remission of
intellectnal action, and is as necessarily attended with the allurements of
desire.* Nor is her dress less symbolical of the acting of When the
person turns the back upon his higher faculties, and disregards the
communications which he receives through them from the world of unseen
realities, an oblivion ensues of their existence, and the person is next
brought within the province and operation of lower and worldly ambitions,
such as a love of power, passion for riches, sensual pleasure, etc. This
is a descent, fall, or apostasy of the soul, a separation from the sources of divine
life and ravishment into the region of moral death. In the
Pluedras, in the allegory of the Chariot and Winged Steeds, Plato
represents the lower or inferior part of man's nature as dragging the
soul down to the earth, and subjecting it to the slavery of corporeal
conditions. Out of these conditions there arise numerous evils, that
disorder the mind and becloud the reason, for evil is inherent to the condition
of finite and multiform being into which we have "fallen by our own
fault." The present earthly life is a fall and a punishment. The soul is
now dwelling in ''the gi-ave which we call the body." In its
incorporate state, and previous to the discipline of education, the
rationalelement is " asleep." " Life is more of a dream than a
reality." Men are utterly the slaves of sense, the sport of phantoms
and illusions. We now resemble those " captives chained in a
subterraneous cave," so poetically described in the seventh book of
The Republic; their backs are turned to the light, and consequently
they see but the shadows of the objects which pass behind them, and
" they attribute to these shadows a perfect reality." Their
sojourn upon earth is thus a dark imprisonment in the body, a dreamy
exile from their proper home."
CucJcer's Greek Philosophy, Eleiisinian and the soul
in such a state, principally according to the energies and promptings of
imagination and nature. For thus her garments are beautifully described
by the poet : Qiias inter Cereris proles, nunc gloria luatris, Mox
dolor, sequali tendit per gratnina passu, Nee membris nee honore minor;
potuitque Pallas, si clipeum, si ferret spieula, Phoebe. CoUeetsB
tereti nodantur jaspide vestes. Peetinis ingenio nunquam felicior
arti Coutigit eventus. Nullse sic consona telae Fila, nee in tantum
veri duxere figuram. Hie Hyperionis Solem de semine nasei Fecerat,
et pariter, sed forma dispare lunam, Aurora} noetisque duces. Cunabula
Tethys Praebet, et infantes gremio solatur anhelos, Cseruleusque
sinus roseis radiatur alumnis. Invalidum dextro portat Titana
laeerto Nondum luce gravem, nee pubescentibus alte Cristatum radiis
: prime clementior sevo Fiugitur, et tenerum vagitu despiiit ignem.
Lseva
parte soror vitrei libaraina potat Uberis, et parvo signatur tempora
cornu. In which description the sun represents the
phantasy, and the moon, nature, as is well known to every tyro in the
Platonic philosophy. They are likewise, with great propriety, described in
their infantine state : for Bacchic Mysteries. 147
these energies do not arrive to perfection previous to the sinking
of the soul into the dark receptacle of matter. After this we behold her
issuing on the plain with Minerva and Diana, and attended by a beauteous
train of nymphs, who are evident symbols of world of generation,* and
are, therefore, the proper companions of the soul about to fall
into its fluctuating realms. But the design of Proserpina, in
venturing from her retreat, is beautifully significant of her
approaching descent: for she rambles from home for the purpose of
gathering flowers; and this in a lawn replete with the most
enchanting variety, and exhahng the most dehcious odors. This is a
manifest image of the soul operatmg principally according to the natural
and external life, and so becoming effeminated and ensnared through
the delusive attractions of sensible form. Minerva (the rational faculty
in this case), likewise gives herself wholly to the *
Porphyry : Cave of the Nymphs. lu the later Greek, v'j|i.'f rj sigaified
a bride. EJeusinian and dangerous employment, and abandons
the proper characteristics of her nature for the destructive revels
of desire. All which is thus described with the utmost elegance by
the poet : Forma loci siiperat flores : eurvata tumore Pai'vo
planities, et moUibus edita clivis Creverat in eoUem. Vivo de pumice
fontes Roscida mobilibus lambebant gramina rivis. Silvaque
torrentes ramonim fi"igore soles Temperat, et medio brumam sibi
viudicat sestu. Apta fretis abies, bellis
aecomoda eomus, Quercus arnica Jovi, tumulos tectura cupressus, Hex
plena favis, venturi pra?seia lanrus. Fluctuat hie denso crispata
cacumine buxus, Hie ederae serpunt, hie pampinus indnit ulmos. Hand
proeul inde laciis (Pergum dixere Sioani) Panditur, et nemorum frondoso
margine cinetus Vicinis pallescit aquis : admittit in altum
Cernentes oculos, et late perviiis humor Ducit inoflfensus liquido sub
gurgite visus, Imaque perspicui prodit secreta profundi. Hue elapsa eohors gaudent per florea rura Hortarur Cytherea,
legant. Nunc ite, sorores, Dum matutinis prsesudat solibus aer :
Dum meus humectat flaventes Lucifer agros, Rotanti praevectus equo. Sic
fata, doloris Carpit signa sui. Varios turn cjetera saltus Invasere
eohors. Credas examina fundi Hyblagum raptura thymum, cum cerea
reges Baccliic Mysteries. 149 Castra movent,
fagique cava demissus ab alvo Mellifer electis exereitus obstrepit
lierbis. Pratorum spoliatur honos. Hac lilia fuseis Iiitexit violis
: banc mollis amaraeus ornat : Heec graditur stellata rosis; haec alba
ligiistris. Te quoqiie flebilibus mserens, Hyacintbe, figuris,
Narcissumque metunt, nunc inclita germina veris, Proestantes dim pueros.
Tu natus Amyclis : Hunc Helicon genuit. Te disci perculit error :
Hune fontis decepit amor. Te fronte retusa Deluis, hiinc fracta Cephissus
arundiue luget. j3^]staat ante alias avido fervore legeudi
Frugiferte spes una Dese. Nunc vimine texto Eidentes ealatbos spoliis
agrestibus implet : Nunc sociat flores, seseque ignara corouat.
Augurium fatale tori. Quin ipsa tubarum Armorumque potens, dextram qua
fortia turbat Agmina; qua stabiles portas et msenia vellit, Jam
levibus laxat studiis, hastamque reponit, Insolitisque docet galeam
mitescere sertis. Ferratus lascivit apex, horrorque
recessit Martins, et cristse pacato fulgure vernant. Nee quae
Parthenium canibus scrutatur odorem, Aspernata clioros, libertatemque
comarum Injecta tantum voluit freuare corona. But there is a circumstance relative to the narcissus which must
not be passed over in silence : I mean its being, according to
Ovid, the metamorphosis of a youth who fell a victim to the love of
his own corporeal form; the secret meaning of which most admirably
accords with the rape of Proserpina, which, according to Homer, was the
immediate consequence of gathering this wonderful flower.* For by
Narcissus falling in love with his shadow in the limpid stream we
may behold an exquisitely apt representation of a soul vehemently gazing on
the flowing condition of a material body, and in consequence of
this, becoming enamored with a corporeal life, which is nothing
more than the delusive image of the true man, or the rational and
immortal soul. Hence, by an immoderate attachment to this unsubstautial
mockery and gliding semblance of the real soul, such an one becomes, at
length, wholly changed, as far as is possible to his nature, into a
vegetive condition of being, into a beautiful but transient flower, that
is, into a corporeal life, or a life totally consist * Homer: Rymn
to Ceres. "We were plucking the pleasant flowers, the beauteous
crocus, and the Iris, and hyacinth, and the narcissus, which, like the
crocus, the wide earth produced. I was plucking them with joy, when the
earth yawned beneath, and out leaped the Strong King, the Many-Receiver,
and went bearing me, grieving much, beneath the earth in his golden
chariot, and I cried aloud. Pioseipiua gathering Flowers.
Pluto carrj'iiig off Pioserplna. Bacchic Mysteries,
153 ing in the mere operations of nature. Proserpina, therefore, or
the soul, at the very instant of her descent into matter, is, with
the utmost propriety, represented as eagerly engaged in pkicking this
fatal flower; for her faculties at this period are entirely occupied with
a hf e divided about the fluctuating condition of body. After this,
Pluto, forcing his passage through the earth, seizes on Proserpina,
and carries her away with him, notwithstanding the resistance of Minerva
and Diana. They, indeed, are forbid by Jupiter, who in this place
signifies Fate, to attempt her deUverance. By this resistance of Minerva
and Diana no more is signified than that the lapse of the soul into a
material nature is contrary to the genuine wish and proper
condition, as well of the corporeal hfe depending on her essence, as of
her true and rational nature. Well, therefore, may the soul, in
such a situation, pathetically exclaim with Proserpina :
154 Bacchic Mysteries. O male dileeti flores, despeetaque
matris Consilia : O Veneris deprensse serius artes ! * But,
according to Minutius Felix, Proserpina was carried by Pluto tlu-ough
thick woods, and over a length of sea, and brought into a cavern,
the residence of the dead : where by 'woods a material nature is plainly
implied, as we have already observed in the first part of this
discourse; and where the reader may likewise observe the agreement of the
description in this particular with that of Yvngil in the descent of his hero
: Tenent media omnia silvce Coeytusque sinuque labens,
cireumvenit atro.t In these words the woods are expressly
mentioned; and the ocean has an evident agreement with Cocytus,
signifying the outflowing condition of a material nature, and the sorrows
and sufferings attending its connection with the soul. Oh flowers fatally
dear, and the mother's cautions despised : Oh cruel arts of cunning Venus
! t " Woods cover all the middle space and Cocytus gliding
on, surrounds it with his dusky bosom. Bacchic Mysteries Pluto hurries
Proserpina into the infernal regions : in other words, the soul is
sunk into the profound depth and darkness of a material nature. A
description of her marriage next succeeds, her union with the dark
tenement of the body: Jam siius iuferno processerat Hesperus orbi
Ducitur in thalamum virgo. Stat pronuba juxta Stellautes Nox
pieta sinus, tangensque cubile Omina perpetuo genitalia federe
sancit. Night is with great beauty and propriety introduced as
standing by the nuptial couch, and confirming the oblivious league.
For the soul through her union with a material body becomes an
inhabitant of darkness, and subject to the empire of night; in
consequence of which she dwells wholly with delusive phantoms, and till she
breaks her fetters is deprived of the intuitive perception of that which
is real and true. In the next place, we are presented with the
following beautiful and pathetic description of Proserpina appearing in a dream
to Eleusinian and Ceres, and bewailing her captive and
miserable condition : Sed tunc ipsa, sui jam non ambagibus
ullis Nuutia, materna faeies ingesta sopori. Namque videbatur
tenebroso obtecta reeessu Carceris, et ssevis Proserpina vineta
catenis, Non qualem roseis nuper convallibus ^tnae Suspexere Dete.
Squalebat pulchrior auro Csesaries, et nox oculorum infeeerat
ignes. Exhaustusque gelu pallet rubor. Die superbi Flamineus oris
honos, et non cessura pruinis Membra eolorantur pieei caligine
regni. Ergo hanc ut dubio vix tandem agnoseere visu Evaluit : cujus
tot p«n£e criminis ? inquit. Unde hsec infoi'mis
macies ? Cui tanta f acultas In me ssevitisB est? Eigidi cur vincula
ferri Vix aptanda f eris molles meruere lacerti ? Tu, mea tu proles
I An vana fallimur umbra ? Such, indeed, is
the wretched situation of the soul when profoundly merged in a corporeal
nature. She not only becomes captive and fettered, but loses all her
original splendor; she is defiled with the impurity of matter; and the
sharpness of her rational sight is blunted and dunmed through the
thick darkness of a material night. The reader may observe how
Proserpina, being represented as confined in the dark recess of a Bacchic
Mysteries prison, and bound with fetters, confirms the explanation of the
fable here given as symbolical of the descent of the soul; for such, as
we have ah*eady largely proved, is the condition of the soul from its
union with the body, according to the uniform testimony of the most
ancient philosophers and priests. After this, the wanderings of Ceres for
the discovery of Proserpina commence. She is described, by Minutius
Fehx, as begirt ^dth a serpent, and bearing two hghted torches in
her hands; but by Claudian, instead of being gu^t with a serpent, she
commences her search by night in a car drawn by dragons. But the
meaning of the allegory is the same in each; for both a serpent and a
di'agon are emblems of a divisible hfe subject to transitions and
changes, with which, in this case, our intellectual (and diviner) part
becomes connected : since as these animals put off their skins, and
become young again, so Manteis, /jLavisic, not bpE'.;;. The term is more
commonly translated prophets, and actually signifies persons gifted with
divine insight, through being in an entheastic condition, called also
mania or divine fury. Bacchic Mysteries. tlie divisible
life of the soul, falling into generation, is rejuvenized in its
subsequent career. But what emblem can more beautifully represent the
evolutions and outgoings of an intellectual nature into the regions of
sense than the wanderings of Ceres by the hght of torches through
the darkness of night, and continuing the pursuit until she
proceeds into the depths of Hades itself ? For the intellectual part of
the soul,* when it verges towards body, enkindles, indeed, a light in its
dark receptacle, but becomes itself situated in obscurity : and, as
Proclus somewhere divinely observes, the mortal nature by this means
participates of the divme intellect, but the intellectual part is
drawn down to death. The tears and lamentations too, of Ceres, in her coiu'se,
are symbolical both of the providential operations of The soul is a
composite nature, is on one side linked to the eternal world, its essence
being generated of that ineffable element which constitutes the real, the
immutable, and the permanent. It is a beam of the eternal Sun, a spark of the
Divinity, an emanation from God. On the other hand, it is linked to the
phenomenal or sensible world, its emotive part being formed of that which
is relative and phenomenal."
Cocker. Bacchic Mysteries. intellect about a mortal nature, and the
miseries with which such operations are (with respect to imperfect souls
like oui's) attended. Nor is it without reason that lacchus, or
Bacchus, is celebrated by Orpheus as the companion of her search : for
Bacchus is the evident symbol of the imperfect energies of
intellect, and its scattering into the obscure and lamentable dominions
of sense. But our explanation will receive additional strength
from considering that these sacred rites occupied the space of nine days
in their celebration; and this, doubtless, because, according to
Homer,* this goddess did not discover the residence of her daughter
till the expu-ation of that period. For the soul, in falling from her
original and divine abode in the heavens, passed through eight
spheres, Hymn to Ceres. "For nine days did holy Demeter
perambulate the earth . . and when the ninth shining morn had come,
Hecate met her, bringing news. Apuleius also explains that at the
initiation into the Mysteries of Isis the candidate was enjoined to
abstain from luxurious food for ten days, from the flesh of animals, and
from wine. Golden Ass, book xi. p.
239 (BoJin). Eleusinian and namely, the fixed or inerratic
sphere, and the seven planets, assuming a different body, and
employing different faculties in each; and becomes connected with the
sublunary world and a terrene body, as the ninth, and most abject
gradation of her descent. Hence the first day of initiation into these
mystic rites was called agurmos^ L e. according to Hesychius,
eM'Jesia et '^rav to ayscpoiJ-svov, an assembly^ and all collecting
fogefher : and this with the greatest propriety; for, according to
Pythagoras, "the people of dreams are souls collected together in
the Gralaxy.* Atj[jlo^ 5s ovstpcov 7.a.za noO-ayopav Jcav.f
And from this part of the heavens souls first begin to descend. After
this, the soul falls from the tropic of Cancer into the planet Satm'n;
and to this the second day of initiation was consecrated, which
they called AXol5s (j-uarai, [" to the sea, ye initiated ones !
"] because, says Meui'sius, on that * Only persons taking a
view solely external will suppose the galaxy to be literally the milky
belt of stars in the sky. t Cave of the Xymphs. Bacchic Mysteries day
the crier was accustomed to admonisli the mystte to betake themselves to
the sea. Now the meaning of this will be easily understood, by
considering that, according to the arcana of the ancient theology, as may
be learned from Proclus, the whole planetary system is under the
dominion of Neptune; and this too is confirmed by Martianus
Capella, who describes the several planets as so many streams. Hence when
the soul falls into the planet Saturn, which Capella compares to a
river voluminous, sluggish, and cold, she then first merges herself
into fluctuating matter, though purer than that of a sublunary
natiu'e, and of which water is an ancient and significant symbol. Besides,
the sea is an emblem of purity, as is evident from the Orphic hymn to
Ocean, in which that deity is called {^swv ayvtajxa {xsy^^'^^v,
tlieon agnisma megiston^ i. e. the greatest purifier of the gods :
and Saturn, as we have already observed, is pure [intuitive] intellect.
And what still more confirms this observation is, that Pythagoras,
as we are informed by Por * Theology of Plato Bacchic Mysteries.
pliyry, in his life of that philosopher, symbolically called the sea a
tear of Saturn. But the eighth day of initiation, which is
symbohcal of the falhng of the soul into the lunar orb,* was
celebrated by the candidates by a repeated initiation and second sacred
rites; because the soul in this situation is about to bid adieu to
every thing of a celestial natui'e; to sink into a perfect obhvion of her
divine origin and pristine felicity; and to rush profoundly into the
region of dissimilitude,! ignorance, and error. And lastly, on the
ninth day, when the soul falls into the sublunary world and becomes united with
a terrestrial body, a hbation was performed, such as is usual in sacred
rites. Here the initiates, filling two earthen vessels of broad and
spacious bottoms, which were called irX'^fj-o/oat, plemokhoai^ and
y-G-cuXoaTcoL, JcotuIusJioi, the former of these words denoting vessels
of a conical shape, and the latter small bowls or The Moon typified
the mother of gods and men. The soul descending into the lunar orb thus
came near the scenes of earthly existence, where the life which is transmitted
by generation has opportunity to involve it about. t The
condition most unlike the former divine estate. Goddess Night.
Three Graces Bacchic Mysteries cups sacred to Bacchus, they placed one
towards the east, and the other towards the west. And the first of these
was doubtless, according to the interpretation of Proclus, sacred
to the earth, and symbolical of the soul proceeding from an orbicular
figure, or divine form, into a conical defluxion and terrene situation :
* but the other was sacred to the soul, and symbolical of its celestial
origin; since our intellect is the legitimate progeny of Bacchus.
And this too was occultly signified by the position of the earthen vessels;
for, according to a mundane distribution of the divinities, the eastern center
of the universe, which is analogous to fire, belongs to Jupiter,
who likewise governs the fixed and inerratic sphere; and the
western to Pluto, who governs the earth, because the west is allied
to earth on account of its dark and nocturnal nature. f
Again, according to Clemens Alexandrinus, the following confession was
made by * An orbicular figure symbolized the maternal, and a cone
the masculine divine Energy. t Proclus: Theology of Plato Eleusinian
and tlie new initiate in these sacred rites, in answer to the
interrogations of the Hierophant : "I have fasted; I have drank the
Cyceon; I have taken out of the Cista, and placed what I have taken ont
into the Calathns; and alternately I have taken out of the Calathus and
put into the Cista." Kcj^a-cc xo a'jv^r^{xa EXsoaivLcov
{xoax-r^puov. EvYja-cwaa* xtatY^v. But as this pertains to a
circumstance attending the wanderings of Ceres, which formed the most
mystic and emblematical part of the ceremonies, it is necessary to adduce
the following arcane narration, summarily collected from the writings
of Arnobius : " The goddess Ceres, when searching through the earth
for her daughter, in the course of her wanderings arrived at the
boundaries of Eleusis, in the Attic region, a place which was then
inhabited by a people called Autochthones, or descended fi'om
the Homer: Hymn to Ceres. "To her Metaneira gave a cup of sweet
wine, but slie refused it; but bade her to mix wheat and water with
pounded pennyroyal. Having made the mixture, she gave it to the
goddess." Bacchic Mysteries earth, whose names were as
follows : Baubo and Triptolemus; Dysaules, a goatherd; Eubulus, a keeper
of swme; and Eumolpus, a shepherd, from whom the race of the Eumolpidse
descended, and the illustrious name of Cecropidse was derived; and who
afterward flourished as bearers of the caduceus, hierophants, and criers
belonging to the sacred rites. Baubo, therefore, who was of the female
sex, received Ceres, wearied with complicated evils, as her guest, and
endeavored to soothe her sorrows by obsequious and flattering attendance.
For this purpose she entreated her to pay attention to the refreshment of
her body, and placed before her a mixed potion to assuage the vehemence
of her thirst. But the sorrowful goddess was averse from her
solicitations, and rejected the friendly officiousness of the hospitable
dame. The matron, however, who was not easily repulsed, still continued her
entreaties, which were as obstinately resisted by Ceres, who
persevered in her refusal with unshaken persistency and invincible firmness.
But when Baubo had thus often exerted her endeavors Bacchic
Mysteries. to appease the sorrows of Ceres, but without any
effect, she, at length, changed her arts, and determined to try if she
could not exhilarate, by prodigies (or out-of-the-way expedients), a mind which
she was not able to allure by earnest endeavors. For this purpose she
uncovered that part of her body by which the female sex produces children
and derives the appellation of woman.* This she caused to assume a
purer appearance, and a smoothness such as is found in the private
parts of a stripling child. She then returns to the afflicted goddess,
and, in the midst of those attempts which are usually employed to
alleviate distress, she uncovers herself, and exhibits her secret parts;
upon which the goddess fixed her eyes, and was diverted with the
novel method of mitigating the anguish of soiTow; and afterward, becoming
more cheerful through laughter, she assuages her thirst with the mingled
potion which she had before despised." Thus far Arnobius; and
the same narration is epitomized by Clemens Alexandrinus, who is very
indignant * FuvT), (June, woman, from y^juvo;, gounos, Latin
ciodiks. Cupifl auil Veuus. Satyr and Goat. Baubo, Ceres, and Nymphs.
Bacchic Mysteries at the indecency as he conceives, in the
stoiy, and because it composed the arcana of the Eleusinian rites.
Indeed as the simple father, with the usual ignorance of a
Christian priest, considered the fable literally, and as designed
to promote indecency and lust, we can not wonder at his ill-timed abuse.
But the fact is, this narration belonged to the aiuoppYjxa,
aporrheta^ or arcane discourses, on account of its mystical meaning, and
to prevent it from becoming the object of ignorant declamation,
licentious perversion, and impious contempt. For the purity and excellence of
these institutions is perpetually acknowledged even by Dr. Warburton
himseK, who, in this instance, has dispersed, for a moment, the mists of
delusion and intolerant zeaLf Besides, as lamblichus beautifully
observes, t "exhibitions of this kind in the Mysteries were designed
to free us from hcen Uneandidness was more probably the fault of which
Clement was guilty. t Divine Legation of Moses, book
ii. I "The wisest and best men in the Pagan world are
unanimous in this, that the Mysteries were instituted pure, and proposed
the noblest ends by the worthiest means. Bacchic Mysteries.
tioiis passions, by gratifying the sight, and at the same time
vanquisliing desire, through the awful sanctity with which these
rites were accompanied : for," says he, " the proper way
of freeing ourselves from the passions is, first, to indulge them mth
moderation, by which means they become satisfied; hsten, as it
were, to persuasion, and may thus be entirely removed."* This doctrine is
indeed so rational, that it can never be objected to by any but
quacks in philosophy and rehgion. For as he is nothing more than a quack
in medicine who endeavors to remove a latent bodily disease before
he has called it forth externally, and by this means diminished its
fuiy; so he is nothing more than a pretender in philosophy who attempts
to remove the passions by violent repression, instead of moderate
comphance and gentle persuasion. But to return from this
disgression, the following appears to be the secret meaning of this
mystic discourse : The matron Baubo may be considered as a symbol of that
pas * Mysteries of the Egyptians, Chaldeans, and Assyrians. Bacchic
Mysteries. 177 sive, womanish, and corporeal life tlirongh
whicli the soul becomes united with this earthly body, and through which,
being at first ensnared, it descended, and, as it were, was born
into the world of generation, passing, by this means, from mature
perfection, splendor and reality, into infancy, darkness, and
error. Ceres, therefore, or the intellectual soul, in the course of her
wanderings, that is, of her evolutions and goings-f orth into
matter, is at length captivated with the arts of Baubo, or a corporeal hf
e, and forgets her sorrows, that is, imbibes oblivion of her
wretched state in the mingled potion which she prepares : the mingled
hquor being an obvious symbol of such a life, mixed and impure, and, on
this account, liable to corruption and death; since every thing pure and
unmixed is incorruptible and divine. And here it is necessary to caution
the reader from imagining, that because, according to the fable, the
wanderings of Ceres commence after the rape of Proserpina, hence
the intuitive intellect descends subsequently to the soul, and separate from
it. Eleusinimi and Notliing more is meant by this
circumstance than that the diviner intellect, from the superior
excellence of its nature, has in cause, though not in time, a priority to
soul, and that on this account a defection and revolt (and descent
earthward from the heavenly condition) commences, from the soul,
and afterward takes place in the intellect, yet so that the former
descends with the latter in inseparable attendance. From this
explanation, then, of the fable, we may easily perceive the meaning of
the mystic confession, / have fasted; I have drank a mingled
potion, etc.; for by the former part of the assertion, no more is
meant than that the higher intellect, previous to imbibing of oblivion
through the deceptive arts of a corporeal life, abstains from all
material concerns, and does not mingle itself (as far as its nature is
capable of such abasement) with even the necessary delights of the
body. And as to the latter part, it doubtless alludes to the descent of
Proserpina to Hades, and her re-ascent to the abodes of her mother Ceres :
that is, to the outgoing and return of the soul, alternately falhng
into generation, and ascending thence into the intelhgible world, and
becoming perfectly restored to her divine and intellectual nature. For the
Cista contained the most arcane symbols of the Mysteries, into
which it was unlawful for the profane to look : and whatever were its
contents, we learn from the hymn of Callimachus to Ceres, that they
were formed from gold, which, from its incorruptibihty, is an evident
symbol of an immaterial nature. And as to the Calathus, or basket, this,
as we are told by Claudian, was filled with spoliis agrestibus^ the
spoils or fruits of the field, which are manifest symbols of a life
corporeal and earthly. So that the candidate, by confessing that he had
taken from the Cista, and placed what he had taken into the
Calathus, A golden serpent, an egg, and the phallus. The epopt looking
upon these, was rapt with awe as contemplating in the»symbols the deeper mysteries
of all life, or being of a grosser temper, took a lascivious impression.
Thus as a seer, he beheld with the eyes of sense or sentiment; and the
real apocalypse was therefore that made to himself of his own moral life
and character. A. W. Eleusinian
and and tlie contrary, occultly acknowledged the descent of
his soul from a condition of being super-material and immortal, into one
material and mortal; and that, on the contrary, by hving according to the
purity which the Mysteries inculcated, he should re-ascend to that
perfection of his nature, from which he had unhappily fallen. Exiled from
the true home of the spirit, imprisoned in the body, disordered by
passion, and becloixded by sense, the soul has yet longings after that
state of perfect knowledge, and purity, and bliss, in which it was first
created. Its affinities are still on high. It yearns for a higher and
nobler form of life. It essays to rise, but its eye is darkened by sense,
its wings are besmeared by passion and lust; it is ' borne downward until it
falls upon and attaches itself to that which is material and sensual,'
and it flounders and grovels still amid the objects of sense. And now,
Plato asks: How may the soul be delivered from the illusions of sense,
the distempering influence of the body, and the disturbances of passion,
which becloud its vision of the real, the good, and the true?"
" Plato believed and hoped that this could be accomplished by
philosophy. This he regarded as a grand intellectual discipline for the
purification of the soul. By this it was to be disenthralled from the
bondage of sense, and raised into the empyrean of pure thought, 'where
truth and reality shine forth.' All souls have the faculty of knowing,
but it is only by reflection and self-knowledge, and intellectual
discipline, that the soul can be raised to the vision of eternal truth,
goodness, and beauty that is, to
the vision of God." Cocker:
Christianity and Greek Philosophy Bacchic Mysteries It only now remains that we
consider the last part of this fabulous narration, or arcane
discourse. It is said, that after the goddess Ceres, on arriving at
Eleusis, had discovered her daughter, she instructed the Eleusinians
in the planting of corn : or, according to Claudian, the search of Ceres
for her daughter, through the goddess, instructing in the art of tillage
as she went, proved the occasion of a universal benefit to mankind. Now
the secret meaning of this will be obvious, by considering that the
descent of the superior intellect into the realms of generated existence
becomes, indeed, the greatest benefit and ornament which a material
nature is capable of receiving : for without this participation of
intellect in the lowest department of corporeal life, nothing but the
irrational soul* and a brutal life would subsist in its dark and
fluctuating abode, the body. As the art of tillage, therefore, and
particularly the growing of corn, becomes the greatest possi *
" It is linked to the phenomenal or sensible world, its emotive part
(sTitf)ujj.Y)Tixov) being formed of what is relative and phenomenal. Elensinian
and ble benefit to our sensible life, no symbol can more
aptly represent the unparalleled advantages arising from the evolution and
procession of intellect with its divine natui^e into a corporeal life,
than the good resulting from agriculture and corn : for whatever of
horrid and dismal can be conceived in night, supposing it to be
perpetually destitute of the friendly illuminations of the moon and
stars, such, and infinitely more dreadful, would be the condition
of an earthly nature, if deprived of the beneficent irradiations [irfioo5o J
and supervening benefits of the diviner hfe. And this much
for an explanation of the Eleusinian Mysteries, or the history of Ceres
and Proserpina; in which it must be remembered that as this fable, according to
the excellent observation of Sallust already adduced, is of the mixed
kind, though the descent of the soul was doubtless principally
alluded to by these sacred rites, yet they hkewise occultly signified,
agreeable to the nature of the fable, the descending of divinity
Bacchic Mysteries. 183 into the sublunary world. But
when we view the fable in this part of its meaning, we must 'be
careful not to confound the nature of a partial inteUect like ours with
the one universal and divine. As everything subsisting about the gods is
divine, therefore intellect in the highest degree, and next to this
soul, and hence wanderings and abductions, lamentations and tears, can
here only signify the participations and providential operations of these
in inferior natures; and this in such a manner as not to derogate
from the dignity, or impair the perfection, of the divine principle
thus imparted. I only add, that the preceding exposition will
enable us to perceive the meaning and beauty of the following
representation of the rape of Proserpina, from the Heliacan tables of
Hieronymus Aleander. Here, first of all, we behold Ceres in a car drawn by
two dragons, and afterwards, Diana and Minerva, with an inverted calathus
at their feet, and pointing out to Ceres her daughter Proserpina, who is
hurried away by Pluto in his KiRCHEB : Obeliscus Famjyhilius Meusinian
and car, and is in the attitude of one struggling to be free.
Hercules is likewise represented with his club, in the attitude of
opposing the violence of Pluto : and last of all, Jupiter is
represented extending his hand, as if wilhng to assist Proserpina in
escaping from the embraces of Pluto. I shall therefore conclude this
section with the following remarkable passage from Plutarch, which will
not only confirm, but be itself corroborated by the preceding
exposition. 'Ozi [xey o'jv y^ TzaXata ^uaio/voyca, xai Trap EWrpi xai
Bappa Tcporpoc, %r/x ix'jaz'qpiMOfic, GooXoyca. Ta ts XrjXo'j[j,£V7. Tcov
arj'cojxsvcov Gr//fe::ze[jrj. zoic, izoXXoic syovza. Kat zr/. arj'cojisva tcov
AaXoy|jLSV(ov UTTOTrrorspct. AyjXov sart, pergit, £v tolc OpcptY.01Q
s-i^sac, y,ac tote Ar^'oirrtaxoic %ai (j^prrfirjiQ XojoiQ. MaXcara 5s of
'Jispt try.c xsXszac opytaa{j,oc, y,7.c 1:7. $po){X£V7 a'j|x[BoXi%(oc sv
zaiQ cspoapycaie, xyjv tcov TzrjXrjKov sjxrpacvat $iavoirjy.^ i. e.
" The ancient physiology,! both Plutarch : Euseh. i I. e.
Exposition of the laws and oi^erations of Nature. Bacchic Mysteries of the
Greeks and the Barbarians^ was nothing else than a discoiu'se on natiu^al
subjects, involved or veiled in fables, conceahng many things
through enigmas and under -meanings, and also a theology taught, in
which, after the manner of the Mysteries,* the things spoken were
clearer to the multitude than those dehvered in silence, and the
things delivered in silence were more subject to investigation than
what was spoken. This is manifest from the Orphic verses^ and the
Egyptian and Phrygian discourses. But the orgies of initiations^ and the
sumbolical ceremonies of sacred rites especiallij, exhibit the
understanding had of them by the ancients,'''' MuaxYjp:tuoTj?,
mystery-like. A.IB^ Psyche Asleep in Hades. River
Gortrtesses. :::? THE Dionysiacal sacred rites
instituted by Orpheus,* depended on the following arcane narration, part
of which has been already related in the preceding section, and the
rest may be found in a variety of authors. "Dionysus, or Bacchus
[Zagreus], while he was yet a boy, w^s engaged by the Titans,
through the stratagems of Juno, in a variety of sports, with which that
period of Whethei' Orpheus was an actual living person has been questioned
by Aristotle; but Herodotus, Pindar, and other writers, mention him.
Although the Orphic system is asserted to have come from Egypt, the
internal evidence favors the opinion that it was derived from India, and
that its basis is the Buddhistic philosophy. The Orphic associations of Greece
were ascetic, contrasting markedly with the frenzies, enthusiasm, and license
of the popular rites. The Thracians had numerous Hindu customs. The
name Kox-e is Sanscrit; and Zeus may be the Dyaus of Hindu story. His
visit to the chamber of Kore-Persephoneia (Parasu-pani) in the form of a
dragon or na(ja, and the horns or crescent on the head of the child, are
Tartar or Buddhistic. The Eleusinian and life is so vehemently
allured; and among the rest, he was particularly captivated with
beholding his image in a mirror; during his admiration of which, he was
miserably torn in pieces by the Titans; who, not content with this
cruelty, first boiled his members in water, and afterwards roasted them
by the fire. But while they were tasting his flesh thus dressed,
Jupiter, roused by the odor, and perceiving the cruelty of the
deed, hurled his thunder at the Titans; but committed the members of
Bacchus to Apollo, his brother, that they might be properly interred. And
this being performed, Dionysus (whose heart during his laceration was
snatched away by Pallas and preserved), by a new regeneration again
emerged, and being restored to his pristine life and integ name
Zagreus is evidently Chahra, or ruler of the earth. The Hera who
compassed his death is Aira, the wife of Buddha; and the Titans are the
Daityas, or apostate tribes of India. The doctrine of metempsychosis is
expressed by the swallowing of the heart of the murdered child, so as to
reabsorb his soul, and bring him anew into existence as the son of
Semele. Indeed, all the stories of Bacchus liave Hindu characteristics;
and his cultus is a part of the serpent worship of the ancients. The
evidence appears to us unequivocal. A. W. Bacchic Mysteries rity, he
afterwards filled up the number of the gods. But m the mean time, from
the exhalations arising from the ashes of the burning bodies of the
Titans, mankind were produced." Now, in order to understand
properly the secret of this naiTation, it is necessary to repeat the
observation already made in the preceding chapter, "that all
fables belonging to mystic ceremonies are of the mixed kind " : and
consequently the present fable, as well as that of Proserpina, must
in one part have reference to the gods, and in the other to the human
soul, as the following exposition will abundantly evince : In
the first place, then, by Dionysus, or Bacchus, according to the highest
conception of this deity, we understand the spiritual part of the mundane
soul; for there are Various processions or avatars of this god, or
Bacchuses, derived from his essence. But by the Titans we must understand
the mundane gods, of whom Bacchus is the highest; by Jupiter, the
Demiurgus, or artificer of Plotiuus regarded the Demiurgus, or creator,
as the god of providence, thought, essence, and power. Above him was
the Eleusinian and the universe; by Apollo, the deity of
the Sun, who has both a mundane and supermundane establishment, and by
whom the universe is bound in symmetry and consent, through
splendid reasons and harmonizing power; and, lastly, by Minerva we must
understand that original, intellectual, ruhng, and providential deity,
who guards and preserves all middle lives* in an immutable condition,
through intelhgence and a selfsupporting life, and by this means sustains
them from the depredations and inroads of matter. Again, by the infancy
of Bacchus at the period of his laceration, the condition of the
intellectual natui^e is imphed; since, according to the Orphic theology, souls,
under the government of Saturn, or Kronos, who is pure intellect or
spirituality, instead of proceeding, as now, from youth to age, advance
in a retrograde progression from age to youth.t The arts employed
by deity of " pure intellect," aud still higher The One.
These three were the hypostases. Lives which are not conjoined with
material bodies, nor yet elevated to the lofty state which is the true
divine condition. t Emanuel Swedenborg says: "They who are in
heaven are Bacchic Mysteries. 191 the Titans, in
order to ensnare Dionysus, are symbolical of those apparent and
divisible operations of the mundane gods, through which the
participated intellect of Bacchus becomes, as it were, torn in pieces;
and by the mirror we must understand, in the language of Proclus, the
inaptitude of the universe to receive the plenitude of intellectual or
spiritual perfection; but the symbolical meaning of his laceration,
through the stratagems of Juno, and the consequent punishment of the Titans, is
thus beautifully unfolded by Olympiodorus, in his manuscript
Commentary on the PJi(edo of Plato : " The form," says he,
" of that which is universal is plucked off, torn in pieces, and
scattered into generation; and Dionysus is the monad of the Titans.
But his laceration is said to take place through the stratagems of
Juno, continually advancing to the spring of life, and the more
thousands of years they live, so much the more delightful and happy is
the spring to which they attain, and this to eternity with increments
according to the progresses and degrees of love, of charity, and of
faith. Women who have died old and worn out with age, yet have lived in
faith on the Lord, in charity toward their neighbor, and in happy
conjugal love with a husband, after a succession of years, come more and
more into the flower of youth and adolescence. Eleusinian and
because this goddess is the supervising guardian of motion and
progression; * and on this account, in the Iliad, she perpetually
rouses and excites Jupiter to providential action about secondary
concerns; and, in another respect, Dionysus is the epJiof^us or
supervising guardian of generation, because he presides over life and
death; for he is the guardian or epliorus of life because of generation,
and also of death because wine produces an enthusiastic condition. We
become more enthusiastic at the period of dying, as Proclus indicates in
the example of Homer who became prophetic [[xavxcxoc] at the time of
his death.f They likewise assert, that tragedy and comedy are
assigned to Dionysus : comedy being the play or ludicrous representation
of life; and tragedy having relation to the 'By progression
[7rpoo5oc] is here signified the raying-out, or issuing forth of the soul;
having left the divine or pre -existent life, and come forth toward the
human. t See also Plato : Phcedrus, 43. " When I was about
to cross the river, the divine and wonted signal was given me it always deters me from what I am
about to do and I seemed to hear a
voice from this very spot, which would not suffer me to depart before I
had purified myself, as if I had committed some Bacchic
Mysteries. 193 passions and death. The comic writers,
therefore, do not rightly call in question the tragedians as not rightly
representing Bacchus, saying that such things did not happen to Bacchus.
But Jupiter is said to have hurled his thunder at the Titans; the thunder
signifying a conversion or changing : for fire naturally ascends; and
hence Jupiter, by this means, converts the Titans to his own
essence." ^TzapazzEzai §£ to xa^oXoo si^oQ £v zTj ysvsasi, [xovctc
5s Ttxavcov 6 Aiovo aoc. Kctr ZTzi^oohqy ^s zriQ 'Hpac ^lozi
-/.i vrpetoc, et^opoc, y; ^-boq %at 'Epoo'^o'j. Aio v.ru aov£'/(o^
£v TTj Wirj.Gi si^avcaTTjatv aozrj, %ai OlE^fOpSl TOV 5t7. eiQ
TZrjCiyrjirjy XCOV SsOXSpCOV. Kat ysvsascoc aXX(o? srpopoc sartv 6
AcovDao?, 5wrt %ai Cw^js ^^-t tsXsfjTYjC. Zcc/j? |j-sv yap srpopG?,
STTsid'^ .7,at z^qz ysvsaswc, xsXsutTjC 5s 5^0X1 svO-ouacav 6 otvoc
ttocsl Kat ';r£pt xyjv TsXsuTTjV 5s svO-Guatcta'ccxcotspc/t YtvoiJLSxJ'a,
coi; offense against the Deity. Now I am a prophet, though not a
very good one : for the soul is in some measure prophetic."
See also Shakspere : Henry IV. part 1. " Oh I could
prophesy, But that the earthy and cold hand of death Lies on my
tongue." 194 Eleiisinian and StjXol 6 Trap
'OiJi'/jpco UpOTcXoc, (JLavTC%oc ys T'/jv {i£v 7,(o[JL(o5tav Tuaiyvcov
o'jaav to'j [3tov TYjv dc Tpayco^^av 5ca xa 7ta{)-rj, %7.t xr^v
xsXs'jI'^v. O'jy, apct %aX(oc of y,co{it7,o^ xoi? xpayLy-oi? syxaXoaacv,
(o:; \rq AtovoataTcoic oyar.^, Asyov Tsc otc oD^sv zwjzrj, xpo? TGV
AiovDaov. Kspau VOt §£ TO'JtOl? 6 ZSD^, TOO %£paOV0'J $TjXoaVZ05
X'^v STiiatpo'fSV xupyap stcl xa oivco zivo'J[X£Vol' S'lriatpsrpsL
O'jv aoroa^ zpoc saoTOv. But by the members of Dionysus being first
boiled in water by the Titans, and afterward roasted by the fire,
the outgoing or distribution of intellect into matter, and its subsequent
returning from thence, is evidently implied: for water was considered by
the Egyptians, as we have ah*eady observed, as the symbol of matter;
and fire is the natural symbol of ascending. The heart of Dionysus too,
is, with the greatest propriety, said to be preserved by Minerva; for
this goddess is the guardian of hfe, of which the heart is a symbol. So
that this part of the fable plainly signifies, that while intellectual or
spiritual Bacchic Mysteries. 195 life is
distributed into the universe, its principle is preserved entire by the
guardian power and providence of the Divine intelligence. And as Apollo
is the source of all union and harmony, and as he is called by
Proclus, " the key-keeper of the fountain of life," * the
reason is obvious why the members of Dionysus, which were buried by this
deity, again emerged by a new generation, and were restored to their pristine
integrity and life. But let it here be carefidly observed, that
renovation, when apphed to the gods, is to be considered as secretly
implying the rising of their proper hght, and its consequent appearance
to subordinate natures. And that punishment, when considered as
taking place about beings of a nature superior to mankind, signifies
nothing more than a secondary providence over such beings which is
of a punishing character, and which subsists about souls that deteriorate.
Hence, then, from what has been said, we may easily collect the
ultimate design of the first part of this mystic fable; for it appears to
be * Hymn to the Sun. 196 Bacchic
Mysteries. no other than to represent the manner in which the
form of the mundane intellect is divided through the universe; that such an intellect (and every one
which is total) remains entire during its division into parts, and that
the divided parts themselves are continually turned again to their
source, with which they become finally united. So that illumination
from the liigher reason, while it proceeds into the dark and rebounding
receptacle of matter, and invests its obscurity with the supervening ornaments
of divine light, returns at the same time without interruption to the
source or principle of its descent. Let us now consider the
latter part of the fable, in which it is said that our souls were
formed from the vapors emanating from the ashes of the burning bodies of
the Titans; at the same time connecting it with the former part of
the fable, which is also applicable in a certain degree to the condition
of a partial intellect * hke ours. In the first * Partial, as
being parted from the Supreme Mind. Etruscan Kleusiuiaus.
Bacchic Mysteries. 199 place, then, we are made up
from fragments (says Olympiodorus), because, through faUing into
generation, our hf e has proceeded into the most distant and extreme
division; and from Titanic fragments^ because the Titans are the
ultimate artificers of things,* and stand immediately next to whatever
is constituted from them. But further, our irrational life is
Titanic, by which the rational and higher life is torn in pieces.
Hence, when we disperse the Dionysus, or intuitive intellect
contained in the secret recesses of our nature, breaking in pieces the
kindred and divine form of our essence, and which communicates, as
it were, both with things subordinate and supreme, then we become
Titans (or apostates); but when we establish ourselves in union with this
Dionysiacal or kindred form, then we become Bacchuses, or perfect
guardians and keepers of our irrational life : for Dionysus, whom in this
respect we resemble, is himself an epJiorus or * The Demiurge or
Creator being superior to matter in which is concupiscence and all evil,
the Titans who are not thus superior are made the actual
artificers. Meusinian and guardian deity, dissolving at his
pleasure the bonds by which the soul is united to the body, since
he is the cause of a parted hfe. But it is necessary that the passive or
feminine nature of our UTational part, through which we are bound in
body, and which is nothing more than the resounding echo, as it
were, of soul, should suffer the punishment incurred by descent; for when
the soul casts aside the [divine] peculiarity of her nature, she
requires her own, but at the same time a multiform body, that she may
again become in need of a common form, which she has lost through
Titanic dispersion into matter. But in order to see the perfect
resemblance between the manner in which our souls descend and the
dividing of the intuitive intellect by mundane natures, let the reader
attend to the following admirable citation from the manuscript
Commentary of Olympiodorus on the Phcedo of Plato : It is necessary,
first of all, for the soul to place a hkeness of herself in the body.
This is to ensoul the body. Secondly, it is necessary for her to
sympathize with the image, as being of hke idea. For every external
form or substance is wrought into an identity with its interior
substance, through an ingenerated tendency thereto. In the third place,
being situated in a divided nature, it is necessary that she should
be torn in pieces, and fall into a last separation, till, through the
action of a life of puiification, she shall raise herself from the
dispersion, loose the bond of sympathy, and act as of herself without the
external image, having become established according to the first-created
life. The like things are fabled in the example. For Dionysus or Bacchus
because his image was formed in a mirror, pursued it, and thus
became distributed into everything. But Apollo collected him and brought
him up; being a deity of puiification, and the true savior of
Dionysus; and on this account he is styled in the sacred hymns,
Dionusites." sauto'j £v TO) a(ojiatc. Tooxo yap sait f^yycooai
TO awjjict. Asorspov 5s afjjJLiraO-stv x(p £l5(oXcj), xctxa z^(]v ojiosL^stav.
Ilav yap stSoc sTust Eleusinian and xcti £Lc Tov ZT/az^jy ST.'JTsastv
{j.£{jLa[xov. 'Eco? av oat TT^i; 7,a{>a[>xiT^%'r]v; C^otj?
aavaystpat {xsv eaoTTjv aiTo xou avcop:rta[xo'j, Xoa'/^ gs tov Ssajj-ov
XYji; a^j{iYj7:7.i8'£iac, xpopaXXsiai §£ xvjv avso xou £co(oAou, xctx)-'
Erjjjzr^y iaxtoaav iipcoTO'jpYOV C(OYjV. 'Oxi ta 6{JL0ta [xuO-sosxai,
'>c7.i sv xcp Tzarjaciei'^ixrj.zi. '0 yap Aiovaaoc, on zo scocoXov
svsO-'^xs T(o saoTuTTpto XGU-cp scpsairsto. Kac ouxd)? eiQ zo Tifjy
sjispiaiJ-Yj. ""0 5s AttoXXwv aovaystpst t£ aozoy 7,ac avaysi,
xavJ-apiwoc (ov ^£oc, 'x.ai xo'j AcGvoaoD aojxY^p (oc aXcoO-m?. Kat
5l7. xodto AcovoaoxY^? av'j(j.£tx7.L Hence, as the same author
beautifully observes, the soul revolves according to a mystic and
mundane revolution : for flying from an indivisible and Dionysiacal hfe, and
operating according to a Titanic and revolting energy, she becomes
bound in the body as in a prison. Hence, too, she abides in punishment
and takes care of her partial and secondary concerns; and being purified
from Titanic defilements, and collected into one, she be
Bacchic Mysteries comes a Bacchus; that is, she passes into the
proper integrity of her nature according to the divine principle ruhng on
high. From all which it evidently fohows, that he who hves
Dionysiacally rests from labors and is freed from his bonds; * that he
leaves his prison, or rather his apostatizing life; and that he who
does this is a philosopher purifying himseK from the contaminations of his
earthly life. But farther fi'om this account of Dionysus, we may perceive
the truth of Plato's observation, " that the design of the Mysteries
is to lead us back to the perfection from which, as our beginning, we
first made our descent." For in this perfection Dionysus himself subsists,
establishing perfect souls in the throne of his father; that is, in the
integrity of a life according to Jupiter. So that he who is perfect
necessarily resides with the gods, according to the design of those
deities, who are the sources of consummate perfection to the soul. And lastly,
*"We strive toward virtue by a strenuous use of the gifts
which God communicates; but when God communicates himself, then we can be
only passive we repose, we enjoy, but
all operation ceases." 204 Bacchic Mysteries.
the Thyrsus itself, which was used in the Bacchic procession, as it
was a reed full of knots, is an apt symbol of the diffusion of the
higher nature into the sensible world. And agreeable to this,
Olympiodorus on the Pluedo observes, " that the Thyrsus * is a
symbol of a forming anew of the material and parted substance from
its scattered condition; and that on this account it is a Titanic
plant. This it was customary to extend before Bacchus instead of his
paternal scepter; and through this they called him down into our
partial nature. Indeed, the Titans are Thyrsus-bearers; and Prometheus
concealed fire in a Thyi'sus or reed; after which he is considered as
bringing celestial light into generation, or leading the soul into the body,
or calling forth the divine illumination, the whole being
ungenerated, into generated existence. Hence Socrates calls the multitude
Thyrsus-bearers Orphically, as hving according to a Titanic life." 'On 6
vapO-rj^ aa[x[5oXov ZQZi zriz svaXo'j $7j{xtC(0pYtac, %ai {xsptatYjc, 5ta
* The word thyrsus, it will be seen, is here translated from
vapd'Yj^, a rod or ferula. Bacchic Mysteries TY]v [laXtaxa
StsaTCapiJ-svYjv aovs/scav, o^sv %at Tixavtxov xo cprjxov. Kat yap t(p
Aiovoacp Tupoxscvooatv aoto), avcc too 'irarpty.oo axY^irxpofj. Kai
xauTTj irpoxaXoovxai a'jxov zic, xov {xspcxov. Kat {isvcoi, 'jcc/.i
vapi^TjTcocpopooacv oc Tixavs?, %at g ITpGIJLTjiJ'SaC, £V
VapO-YjT.l' 'AkZlZZl TO 'EUp, SLTS XO oupaviov cp(oc see x'A^v
ysvsatv xaxaaTucov, stxs xr;v 4^yX'/jV £1? xo a(0[jLa xpoaycov, stxs xtjv
o^scav £XXa{i-'];tv oXt^v aysvvTjXOv ouaav, see xtjv ysvsatv
TTpoxaXouiisvGC. Ata 5s xorjxo, %at 6 -coy-pax'^C xorj:; ttoXXo'jc
"JcolXsl vapi)"f]%ocpopoy? Opcpt7,(oc, co^ C^'^vxac
Ttxry.vcy.(oc. And thus much for the secret meaning of the fable,
which formed a principal part of these mystic rites. Let us now proceed
to consider the signification of the symbols, which, according to
Clemens Alexandrinus, belonged to the Bacchic ceremonies; and which
are comprehended in the followingOrphic verses : M7]Xa to )(po-ca
y,aXv. trap egtcj^wiuv Xi-p^oivcov. That is, A wheel, a
pine-nut, and the wanton plays, Which move and bend the limbs in various ways
: Eleusinian and With these th' Hesperian golden-fruit
combine, Which beauteous nymphs defend of voice divine. To
all which Clemens adds saoTU'pov, esoptroii, a mirror, i:oy.oCj polios, a
fleece of wool, and aa-payaXoc, asfragaios, the anMe-bone. In the
first place, then, wdth respect to the wheel, since Dionysus, as we have
already explained, is the mimdane intellect, and intellect is of an
elevating and convertive nature, nothing can be a more apt symbol of
intellectual action than a w^heel or sphere : besides, as the laceration
and dismemberment of Dionysus signifies the going-forth of intellectual
illumination into matter, and its returning at the same time to its
source, this too will be aptly symbolized by a wheel. In the second
place, a pine-nut, from its conical shape, is a perspicuous symbol of the
manner in which intellectual or spiritual illmnination proceeds
from its source and beginning into a material nature. " For the
soul," says Macrobius,* "proceeding from a round figure, which
is the only divine form, is extended into the form of a cone in going
forth." * In Somnid Scijnonis, xii. Bacchic
Mysteries. 209 And the same is true sjrmbolically of the
higher intellect. And as to the wanton sports which bend the limbs, this
evidently alludes to the Titanic arts, by which Dionysus was
allured, and occultly signifies the faculties of the mundane intellect,
considered as subsisting according to an apparent and divisible
condition. But the Hesperian golden-apples signify the pure and
incorruptible nature of that intellect or Dionysus, which is possessed by
the world; for a golden-apple, according to Sallust, is a symbol of the
world; and this doubtless, both on account of its external figui'e, and
the incorruptible intellect which it contains, and with the
illuminations of which it is externally adorned; since gold, on
account of never being subject to rust, aptly denotes an incorruptible
and immaterial nature. The mirror, which is the next symbol, we have
already explained. And as to the fleece of wool, this is a symbol of
laceration, or distri])ution of intellect, or Dionysus, into
matter; for the verb o'jrapattco, sparaffOy diJanio, which is used in the
relation of the Bacchic discerption, signifies to tear in pieces
210 Bacchic Mysteries. like wool : and hence Isidoinis
derives the Latin word laua, wool, from Janiando, as velliis from
vellendo. Nor must it pass unobserved, that Xq^jz^ in Greek, signifies
wool, and Xtjvo;, a wine-press.* And, indeed, the pressing of
grapes is as evident a symbol of dispersion as the tearing of wool; and
this circumstance was doubtless one principal reason why grapes
were consecrated to Bacchus : for a grape, previous to its pressure,
aptly represents that which is collected into one; and when it is pressed
into juice, it no less aptly represents the diffusion of that which
was before collected and entu'e. And lastly, the aarpotyaXoc, astragalos,
or anJiJehone, as it is principally subser\dent to the progressive motion
of animals, so it belongs, with great propriety, to the mystic
symbols of Bacchus; since it doubtless signifies the going forth of
that deity into the department of physical existence : for nature, or
that divisible life which subsists about the body, * The
practice of punning, so common in all the old rites, is here forcibly
exhibited. It aided to conceal the symbolism and mislead uninitiated
persons who might seek to ascertain the genuine meaning. i\v>'-
.../Mm Hercules Reclining. Bacchic Mysteries and whicli is productive of
seeds, immediately depends on Bacchus. And hence we are informed by
Proclus, that the sexual parts of this god are denominated by
theologists, Diana, who, says he, presides over the whole of the
generation into natural existence, leads forth into light all natural
reasons, and extends a prolific power from on high even to the
subterranean reahns.* And hence we may perceive the reason why, in the
Orphic Hjjmn to Nature, that goddess is described as " turning
round silent traces with the anklebones of her feet. ^^ And it is
highly worthy our observation that in this verse of the hymn Nature is
celebrated as Fortune, according to that description of the goddess in which
she is represented as standing with her feet on a wheel which she
continually turns round; as the following verse from the same hymn
abundantly confirms : Asvao) axpo'-paXiYY- S'oov po/xa o'.vsooooa. Commentary
upon the Timceus Meusinian and The sense of which is, "moving
with rapid motion on an eternal wheel." Nor ought it to seem
wonderful that Nature should he celebrated as Fortune; for Fortune in
the Orphic h}Tnn to that deity is invoked as Diana : and the moon,
as we have observed in the preceding section, is the aoro'iriov
ayaXjia rpyasto?, fJie self-revealing emblem of Nature; and indeed the
apparent inconstancy of Fortune has an evident agreement with the
fluctuating condition in which the dominions of nature are perpetually
involved. It only now remains that we explain the secret meaning of
the sacred dress with which the initiated in the Dionysiacal Mysteries
were invested, in order to the GpovLajxo^ (fhromsmoSy enthroning) taking
place; or sitting in a solemn manner on a throne, about which it
was customary for the other initiates to dance. But the particulars
of this habit are thus described in the Orphic verses preserved by
Macrobius : Scojxa ti-£00 ji"/,aTT£'.v s^'.a'j-fooq r^zX'.o'.Q. *
Satunialia Bacchic Mysteries flpwxct;j.Ev ap-p'f :«:? evaXcYxcov
«xTtvsaa:v IIsttUv cpo'.vtxjpov (lege -^otvtxjov) -pottxjXov
a^cp-paAEO^oc-. ii'Jxocp 67ispa-j vsi^poio TiavatoXoo sJpu
xa*«-|a'. ^^plxrx Kfjhjzxi-Azrrj ^vjpoc xaxa Sa^tov Jjjulojv,
Aatpoiv o«-5aXftov;j.i|uh;jl' bpoo xz nolo'.o. Eka r
6;.jp,<).s vs^pY)? xpt>asov UoxY^pa pocXeaS-at n«;A'favoaiVTa
irsp-^ oxspvuiv cpopjj-v fxsya arj|jia Eo9-u5 ox' EX Ttspaxwv
Tac-r]? (paja-wv avopouaiov Xpoasiai? axxcat,3(x>.-/j poov
Oxsavow, Auyv] o' atjjTjxo? -f], ava S' Spoaoj
a;jLcpt;xtYE:aa Mapixrxirj-fj o'y-rpvj A:zar>iitY(] maxfj.
xoxXov, Ilpoci&s ^£00. Z(ovf] o' ap OTTO axjpvuiv a/ji£xp7]xu>v
<I>aovjx' ap' ily.zrj.wo Kov.Uq, iityx Oau^' ecowsa^ac.
That is, He who desires in pomp of sacred dress
The sun's resplendent body to express, Should first a vail
assume of purple bright, Like fair white beams combin'd with fiery
light : On his right shoulder, next, a mule's broad hide
Widely diversified with spotted pride Should hang, an image
of the pole divine, And dfBdal stars, whose orbs eternal
shine. A golden splendid zone, then, o'er the vest He
next should throw, and bind it round his breast; In mighty token,
how with golden light. The rising sun, from earth's last bounds and
night Sudden emerges, and, with matchless force, Darts
through old Ocean's billows in his course. A boundless splendor
hence, enshrin'd in dew, Plays on his whirlpools, glorious to the
view; While his circumfluent waters spread abroad, Full
in the presence of the radiant god : Eleusinian and But
Ocean's circle, like a zone of light, The sun's wide bosom girds,
and charms the wond'ring sight. lu the first place, then, let us
consider why this mystic dress belonging to Bacchus is to represent
the sun. Now the reason of this will be evident from the following
observations : according to the Orphic theology, the divine intellect of every
planet is denominated a Bacchus, who is characterized in each by a
different appellation; so that the intellect of the solar deity is called
Trietericus Bacchus. And in the second place, since the divinity of the
sun, according to the arcana of the ancient theology, has a
super-mundane as well as mundane establishment, and is wholly of an exalting or
intellectual nature; hence considered as supermundane he must both produce and
contain the mundane intellect, or Dionysus, in his essence; for all
the mimdane are contained in the super-mundane deities, by whom
also they are produced. Hence Proclus, in his elegant Hijmn to the
Sun, says : Bacchic Mysteries. 217 That is,
" they celebrate thee in hymns as the illustrious parent of Dionysus."
And thirdly, it is through the subsistence of Dionysus in the sun
that that luminary derives its circular motion, as is evident from the
following Orphic verse, in which, speaking of the sun, it is said of him,
that " He is called Dionysus, because he is
carried with a circular motion through the immensely-extended
heavens." And this with the greatest propriety, since intellect, as
we have already observed, is entirely of a transforming and
elevating nature : so that from all this, it is sufficiently evident why
the dress of Dionysus is represented as belonging to the sun. In the
second place, the vail, resembling a mixture of fiery light, is an
obvious image of the solar fire. And as to the spotted muleskin,* which
is to represent the starry heavens, this is nothing more than an image
of Nehris is also a fawn-skin. The Jewish high-priest wore one at
the great festivals. It is rendered *• badger's skin " in the Bible.
In India the robe of Indra is spotted. Bacchic Mysteries. tlie
moon; tMs luminary, according to Proclus on Hesiod, resembling the mixed
nature of a mule; " becoming dark through her participation of
earth, and deriving her proper light from the sun." T-qz [isy s/ooaa
xo a%o So that the spotted hide signifies the moon attended with a
multitude of stars : and hence, in the Oi'phic Hymn to the Moon,
that deity is celebrated "as shining surrounded with beautiful
stars " : v.rjXoic, aaz^jOiGi ppyooarj., and is likewise called aaxpap/Tj,
astrarche, or " queen of the starsy In the next place, the
golden zone is the circle of the Ocean, as the last verses plainly
evince. But, you will ask, what has the rising of the sun through the
ocean, from the boundaries of earth and night, to do with the
adventures of Bacchus ? I answer, that it is inpossible to devise a
symbol more beautifully accommodated to the purpose : for, in the first
place, is not the ocean a proper emblem of an earthly nature, whirling
and stormy, and perpetually rolling without admitting any periods of
repose ? And is not the sun emerging from its boisterous deeps a
perspicuous symbol of the higher spiritual nature, apparently rising from
the dark and fluctuating material receptacle, and conferring form and
beauty on the sensible universe through its light ? I say apparently
rising, for though the spiritual nature always diffuses its splendor with
invariable energy, yet it is not always perceived by the subjects
of its illuminations : besides, as psychical natures can only receive partially
and at intervals the benefits of the divine irradiation; hence fables
regarding this temporal participation transfer, for the purpose of concealment
and in conformity to the phenomena, the imperfection of subordinate
natures to such as are supreme. This description, therefore, of the
rising sun, is a most beautiful symbol of the new birth of Bacchus,
which, as we have already observed, implies nothing more than the
rising of intellectual light, and its consequent manifestation to
subordinate orders of existence. Eleusinian and And thus
much for the mysteries of Bacchus, which, as well as those of Ceres,
relate in one part to the descent of a partial intellect into matter, and
its condition while united with the dark tenement of the body : but
there appears to be this difference between the two, that in the fable of Ceres
and Proserpine the descent of the whole rational soul is considered;
and in that of Bacchus the scattering and going forth of tliat supreme
part alone of our nature which we properly characterize hy the
appellation of. intellect* In the composition of each we may
discern the same traces of exalted wisdom and recondite theology; of a
theology the most venerable for its antiquity, and the most
admirable for its excellence and reahtyo I shall conclude this
treatise by presenting the reader with a valuable and most elegant
hymn of Proclusf to Minerva, which I have Greek, wn;;, nous, the Intuitive
Eeasoii, that faculty of the mind that apprehends the Ineffable
Truth. t That the following hymn was composed by Proclus, can
not be doubted by any one who is conversant with those already extant of
this incomparable man, since the spirit and manner in both is perfectly
the same. Bacchic Mysteries discovered in the British Museum;
and the existence of which appears to have been hitherto utterly
unknown. This hymn is to be found among the Harleian Manuscripts,
in a volume containing several of the OrpJiic liymns^ with which, through
the ignorance of transcriber, it is indiscriminately ranked, as
well as the other four hymns of Proclus, already printed in the
Bihliotlieca Grmca of Fabricius. Unfortunately too, it is transcribed in
a character so obscure, and with such great inaccuracy, that, notwithstanding
the pains I have taken to restore the text to its original purity, I have
been obUged to omit two hues, and part of a third, as beyond my
abilities to read or amend; however, the greatest, and doubtless the most
important part, is fortunately intelhgible, which I now present to
the reader's inspection, accompanied with some corrections, and an Enghsh
paraphrased translation. The original is highly elegant and pious, and
contains one mythological particular, which is no where else to be
found. It has likewise an evident connection with the preceding fable of
Bac EJeusinian and chus, as will be obvious from the
perusal; and on tins account principally it was inserted in the present
discoui'se. Ek aohnan. KATOI fJLcU a'.'(lO/0{.0 OiO?
TJXO?' Tj Y£VETY]pO(; IlTjYf]? oY.Tzpo9-opoooa, v.a'. wxpoxaxY,?
ano asipa? Apo£vod'0|j.3- cpspa^iLf jj.cY«-3'2V;5*
o,3p:|i,07tarrjp,* KiV.Xo&r ov/yozo 3' u;xvov £0'f pov: Tioxvia
i)'U^uj 'H aO'^'.Tj? ViZXrj.Zrj.ir/. ^iZOZv/^trxC,]
TTuXjUlVa;;. Ka: "/^O-ovuuv orj.^r/.zrj.zrx Oj(ojxaya
(p'j)>a •j-'-Y* '11 %pa3'.r|V saawaai; ajj-UGXiXsutov J
rjyrj.v.xo^ Ai&jpo? sv YU«Xc'-a'. p-ipiCo/J-svoo TcatJ Bav-^ou
l\xav(uv oTzo X.'p"-, TiopcC oj 2 Tiaxpt '|)4po'Joa Ocppa VEOi;
^ouX'rjatv wtt' appYjxo:at xov.yjo?, Ev. ScJuisXt]? TCcpt xoa^aov
avY]^f]av] Alovuooo?. 'Hi; ttsXsx'.? § 6-rjpiu)V xafjivcuv TCpo^£Xu|Jt.va
%apv]va Ilavojpy.ou? sy.oir^; ir«t)£u>v T|VUOj 'iz'^tifK-qv 'H
v.paxQC 'Hpar Oc|xvov eY'P"^- ppcixoiv apjxa'iov H jjioxov v.QajJLTjaoti;
oXov uo/.ojiSi';: zz/yrj.'.c, Azix:oof'^:xry ojprjv || '{^'j'/at-t
^aXXouaa* 'II Krj./ZQ rxv.pOTZo\'.r/. So|JLpoXov
axpoxarq? ixs'(rj.\-r^q azo ixoxvia 0£tpf]?' * Lege
oPptjULOTraxpT), t Lege f)joaj,3Eia?. t Lege a|j.oax'. Xuxoo.
§ Lege tceXexu?. II Lege Op;jL-r]v. BaccJiic
Mysteries. 225 'H x8-ova,3coT:ccvE.pa tpt^aa? fxvjtjpa?
p-^Xoiv. K/.oa-: ixEU Y| <pao? ay^ov aiiaoTpaTrxooaa
TrpoatououAo? OS;i.oi oXptov op;j.ov aXiuo/xsva rspo yacav. Ao? -]/ox-/y
Y^-oc, GtYvov air' eo^pjiuv oso |jio{).uiv Ka: ao-^iY]v -/.at jpcoxoc-,j.svoc
S's/J-Tivsoaov jpwTi, Toaaattov, xac towv, oaov /&ov:ojv ajio
xoXttojv A'^spv-r],rpoc OXd|xkov s? Yjf^sa Traxpo^ £o:o, Ei5j Ttc
«/j.T:Xax:-r];x£* xocx-r] f.tototo Sa/uiaCs;. IXa9.-
/x£:X:xo,3ooXj- aao/i,3potj- /Ji7]5s/JL£aoY)? f Trcjoavat?
TOivatacv eXtup xot: xop/xa Ysvsaaot, KstfAsvov Ev 8aTT:s5otatv,
61: TcO? so/o/jiac swxr KsxXofl-: xjxXoO-- xa:;xol iitCu^yiv 00a?
6tox£C. TO MINEEVA. Daughter of aegis-bearing Jove,
divine, Propitious to thy votaries' prayer incline;
From thy great father's fount supremely bright, Like fire
resounding, leaping into light. Shield-bearing goddess, hear, to
whom belong A manly mind, and power to tame the strong!
Oh, sprung from matchless might, with joyful mind Accept this
hymn; benevolent and kind ! The holy gates of wisdom, by thy
hand Are wide unfolded; and the daring band Of
earth-born giants, that in impious fight Strove with thy fire, were
vanquished by thy might. Once by thy care, as sacred poets
sing. The heart of Bacchus, swiftly-slaughtered king, Lege
a|xirXaxY]|ULa. t Lege iKiy: t^C tr^zr^^^. Eleusinian
and Was sav'd in ^ther, when, with fnry fired, Tlie
Titans fell against his life conspired; And with relentless rage
and thirst for gore, Their hands his members into fragments tore
: But ever watchful of thy father's will, Thy power
preserv'd him from succeeding ill. Till from the secret counsels of
his fire, And born from Semele through heavenly sire,
Great Dionysus to the world at length Again appeared with
renovated strength. Once, too, thy warlike ax, with matchless
sway, Lopped from their savage necks the heads away Of
furious beasts, and thus the pests destroyed Which long all-seeing
Hecate annoyed. By thee benevolent great Juno's might
Was roused, to furnish mortals with delight. And thro' life's
wide and various range, 't is thine Each part to beautify with art
divine : Invigorated hence by thee, we find A demiurgic
impulse in the mind. Towers proudly raised, and for protection
strong. To thee, dread guardian deity, belong. As
proper symbols of th' exalted height Thy series claims amidst the
courts of light. Lands are beloved by thee, to learning
prone. And Athens, Oh Athena, is thy own ! Great
goddess, hear! and on my dark'ned mind Pour thy pure light in
measure unconfined; That sacred light, Oh all-protecting
queen. Which beams eternal from thy face serene. My
soul, while wand'ring on the earth, inspire With thy own blessed
and impulsive fire : And from thy fables, mystic and divine.
Give all her powers with holy light to shine. Bacchic
Mysteries. 227 Give love, give wisdom, and a power to love,
Incessant tending to the realms above; Such as unconscious of base
earth's control Gently attracts the vice-subduing soul : From
night's dark region aids her to retire, And once moi'e gain the palace of
her sire. O all-propitious to my prayer incline ! Nor let those
horrid punishments be mine Which guilty souls in Tartarus confine,
With fetters fast'ned to its brazen floors. And lock'd by hell's
tremendous iron doors. Hear me, and save (for power is all thine
own) A soul desirous to be thine alone. It is very remarkable in this
hymn, that the exploits of Minerva relative to cutting off the
heads of wild beasts with an ax, etc., is mentioned by no writer
whatever; nor can I find the least trace of a circumstance either
in the history of Minerva or Hecate to which it alludes.f And from hence,
I * If I should ever be able to publish a second edition of
my translation of the hymns of Orpheus, I shall add to it a
translation of all those hymns of Proclus, which are fortunately extant;
but which are nothing more than the wreck of a great multitude
which he composed. t If Mr. Taylor had been conversant with
Hindu literature, he would have perceived that these exploits of
Minerva-Athene were taken from the buffalo-sacrifice of Durga or Bhavani.
The whole Dionysiac legend is but a rendering of the Sivaic and
Buddhistic legends into a Grecian dress. A. W. Bacchic
Mysteries. think, we may reasonably conclude that it
belonged to the arcane Orphic narrations concerning these goddesses,
which were consequently but rarely mentioned, and this but by a few,
whose works, which might afford us some clearer information, are
unfortunately lost. Musical Couference.Venus Kisiiig troni the
Sea. Since writing the above Dissertation, I have met with a
curious Greek manuscript entitled: "Of Psellus, Concerning DcBmons^*
according to the opinion of the GreeJiS " : zoo WeWoo xivct Tuspt
^aqiovcov So^aCooacv 'EXXtjvs? : In the course of which he
describes the machinery of the Eleusinian Mysteries as follows : 'A oe ys [lo^jzr^iAa xooT(ov, oiov aaxi^a ta
EXsuatvia, xov [xod-i^ov OTUOTcpivsrac 3ia {i^iyvo^ASVov xifj Stjgi, t]
"cyj Atjix'/jx£pL, xctt XT] OoYatspsL Tc/.ux'A]? Ospas^axxTj xt]
xctt Kop'^. Etcsiotj 5s sjjisXXov %7.t acppoStaiot sict XT] {JiaYjGst
ytvsa^at aujJi'jrXoxac, avaSostat iro)? Y] ArppoScx'rj airo xtvcov
'jrsTuXaajj.svwv (JL'rjSs * Daemons, divinities, spirits; a term formerly
applied to all rational beings, good or bad, other than mortals.
229 230 Appendix, (ov TusAayw^. Etta 5s
yafJiYjXioc S'Jrt 'Ctj Kopifj 6[JL£vaio?. Kat s'^a^ouatv of t£Xou{i.£VOC,
sx to[jlTuavou scpayov £% %o{Ji[57.X(ov sttiov, sxtpvo'fop'^aa (lege
s^spvocpopr^cc/.) utto tov xoLarov siasouv. TTroT-pcvstaL $£.%at ta^
Stjooc (o^iva?. Ttat xapocaXytaL Erp' otc ^oii tpaYoa^sXsc
{Jtt{x-^{ia TTOLO-atvojxsvov xspi roi? ^l^'jjxo^c' otc xsp TSpayou
(lege Tpayou) opyscc aTrorsjKov, to) x-oXiro) xauxT^c xaxsO-e'co, (oairsp
5yj y,7.c saotou. Etc^ xaatv c/i xoy AtovoaoD xqiat, y,at yj
xrjauc, y,ai T7. iroXyoix'-paXa TuoTrava, ^ai of x(o }:^apa CtCO
XSXO'JJXSVOC, %X'^50V£C '^2 ^^-^ {XC{J-aA(OV£C, %at zic, rf/iny
XsfJr^Q O£a'jrp(ox£toc y-^M A(o5(ovctcov yaXv.ziov, -/.rji KopyjBctc
aXXo? xai 7,0'jp'rj^ £X£poc, 5at{JL0V(ov {xc{JLYj|jL7.xa. Ecp' ot? Yj
Bapfoxooc (lege Y^ Baupfo xo^c) {J-'^pooc avaaopojj.£V7j, xat 6
yovaixo? %x£ic> oozio yap ovo{xaCoDaL xy^v ai5(o aia/ovo[JL£VOL Kai
ouxco? £v ata/pco xy^v x£X£X7]v %7.xa)jjo'jacv. /. e. " The
Mysteries of these demons, such as the Eleusinia, consisted in
representing the mythical narration of Jupiter mingling mth Ceres and her
daughter Proserpina (Phersephatte). But as Appendix.
231 venereal connections are in the initiation,* a Venus is
represented rising from the sea, from certain moving sexual parts :
afterwards the celebrated marriage of Proserpina (with Pluto) takes
place; and those who are initiated sing : Out of the drum I have
eaten, Out of the cymbal I have drank, The mystic vase I have
sustained, The bed I have entered.' The pregnant throes
likewise of Ceres [Deo] are represented : hence the supphcations of
Deo are exhibited; the drinking of bile, and the heart-aches. After this,
an effigy with the thighs of a goat makes its appearance, which is
represented as suffering vehemently about the testicles : because
Jupiter, as if to expiate the violence which he had offered to
Ceres, is represented as cutting off the testicles of a goat, and placing
them on her bosom, as if they were his own. But after all this, the
rites of Bacchus succeed; the Cista, and the cakes with many bosses, Uke
those of a shield. Likewise the /. e. a representation of
them. mysteries of Sabazius, divinations, and the mimalons or
Bacchants; a certain sound of the Thesprotian bason; the Dodonsean brass;
another Corybas, and another Proserpina, representations of Demons.
After these succeed the uncovering of the thighs of Baubo, and a woman's
comb (lie is), for thus, through a sense of shame, they denominate the
sexual parts of a woman. And thus, with scandalous exhibitions, they
finish the initiation." From this curious passage, it appears
that the Eleusinian Mysteries comprehended those of almost all the
gods; and this account will not only throw hght on the relation of
the Mysteries given by Clemens Alexandidnus, but likewise be elucidated
by it in several particulars. I would willingly unfold to the
reader the mystic meaning of the whole of this machinery, but this can
not be accomphshed by any one, without at least the possession of all the
Platonic manuscripts which are extant. This acquisition, which I
would infinitely prize above the wealth of the Indies, will, I hope,
speedily and fortunately Jupiter disguised as Diana, and Calisto. Hercules,
Deianeira and Nessus. Appendix. 235 be mine, and
then I shall be no less anxious to communicate this arcane
infoiTQation, than the liberal reader will be to receive it. I
shall only therefore observe, that the mutual communication of energies among
the gods was called by ancient theologists c'spo^ yafiGc, hieros
gcimos, a sacred marriage; concerning which Proclus, in the second
book of his manuscript Commentary on the Parmenides, admirably remarks as
follows: TaUTTTJV $£ tTjV 7.0tV(l>VtaV, TTOrS {1£V £V ZOIQ
GO Gzor^oic, 6p(oac d-zoic, (oi {^ooXoyot) %at vcaXooat Ya{j.ov 'Hpoic
y-^J-i Aloc, Ojpavoo %ac TqQ, Kpovoo v.0.1 Tsac* '7L0ZS §£ ttov T-ara^ssarspcov
TzpOQ xa xpsLtto), %ai v^aXooGi ya^ioy Aco? y-ac AtjjxtjTpac* irors 5s
xai £{jL'3r7.Xtv xcov xpsiTiKovcov xpo? xa 6rp£t[j,£V7., %7.i Xsyouat
Atoc %ct: KopTj? Ya{xov. Etcsl^'A] tcov 0£(ov aXXat jj-sv staiv af
irpoc X7. GDGZoiya 7,oiva)vi7,c, 7.XX7.1 5s at 'jrpoi; xa xpo 7.'jx(ov'
aXXat 5s 7.c xpo? xa |X£X7. xa^)xa. Kai dsL XYjV £%7.axTj? i5lgxyjx7.
/,7.xavo£iv y,7C {j.£ XaY£tV 7.7r0 X(OV 0£(OV £Xt X7. £C57J X'^V XCiC7.0X7]V
dta'jiXoxYjV. /. ^. " Theologists at one time considered this
communion of the gods in divinities co-ordinate with each other;
and 236 Appendix. then tliey called it the
mamage of Jupiter and Jiino, of Heaven and Earth [Uranos and Gre],
of Saturn and Rhea : but at another time, they considered it as
svibsisting between subordinate and superior divinities; and then they
called it the marriage of Jupiter and Ceres; but at another time, on the
contrary, they beheld it as subsisting between superior and subordinate
divinities; and then they called it the marriage of Jupiter and Kore. For
in the gods there is one kind of communion between such as are of a
co-ordinate nature; another between the subordinate and supreme; and
another again between the supreme and subordinate. And it is
necessary to understand the peculiarity of each, and to transfer a
conjunction of this kind froin the gods to the communion of ideas
with each other." And in Tim (mis ^ book i., he observes : y.rj.i zo
rrjv wjzr^v (supple /. e. '' And that the same goddess is
conjoined with other gods, or the same god with many goddesses, may
be collected fi'om the mystic discourses, and those marriages which
are called in the Mysteries Sacred Marriages.''^ Thus far the
divine Proclus; from the first of which passages the reader may
perceive how adultery and rapes, as represented in the machinery of
the Mysteries, are to be understood when apphed to the gods; and that
they mean nothing more than a communication of divine energies, either between
a superior and subordinate, or subordinate and superior, divinity. I only
add that the apparent indecency of these exhibitions was, as I have
already observed, exclusive of its mystic meaning, designed as a remedy
for the passions of the soul : and hence mystic ceremonies were
very properly called a%£7., akea, medicines, by the obscure and noble
Heracleitus. Iamblichus : De Mijsteriis. Saciifice of a Pig. Hercules
Drunk. ORPHIC HYMNS. I shall utter to whom it is lawful;
but let the doors be closed, Nevertheless, against all the profane. But
do thou hear, Oh Musseus, for I will declare what is true. He is the One,
self -proceeding; and from him all things proceed, And in them he himself
exerts his activity; no mortal Beholds Him, but he beholds all.
There is one royal body in which all things are enwombed, Fire and
Water, Earth, ^ther, Night and Day, And Counsel [Metis'], the first
producer, and delightful Love, For all these are contained in the great
body of Zeus. Zeus, the mighty thunderer, is first; Zeus is
last; Zeus is the head, Zeus the middle of all things; From Zeus
were all things produced. He is male, he is female; Zeus is the depth of
the earth, the height of the starry heavens; 238
Appendix. 239 He is the breath of all things, the force of
untamed fire; The bottom of the sea; Sun, Moon, and Stars; Origin
of all; King of all; One Power, one God, one Great Ruler.
HYMN OF CLEANTHES. Greatest of the gods, God with many
names, God ever-ruling, and ruling all things ! Zeus, origin
of Nature, governing the universe by law, All hail ! For it is right for
mortals to address thee; For we are thy offspring, and we alone of all
< That live and creep on earth have the power of imitative
speech. Therefore will I praise thee, and hymn forever thy power.
Thee the wide heaven, which surrounds the earth, obeys : Following where
thou wilt, willingly obeying thy law. Thou boldest at thy sei'vice, in
thy mighty hands, The two-edged, flaming, immortal thunderbolt.
Before whose flash all nature trembles. Thou rulest in the common reason,
which goes through all. And appears mingled in all things, great or
small, Which filling all nature, is king of all existences. Nor
without thee. Oh Deity, does anything happen in the world. From the
divine ethereal pole to the great ocean, Except only the evil preferred
by the senseless wicked. But thou also art able to bring to order that
which is chaotic. Giving form to what is formless, and making the
discordant friendly; So reducing all variety to imity, and
even making good out of evil. Thus throughout nature is one great
law Which only the wicked seek to disobey. Poor fools ! who long
for happiness. But will not see nor hear the divine commands. Greek,
Aaifxov, Demon. [In frenzy blind they stray a\v;iy from good,
By thii'st of glory tempted, or sordid avarice, Or pleasures
sensual and joys that fall.] But do thou, Oh Zeus, all-bestower,
cloud-compeller! Ruler of thunder ! guard men from sad
error. Father ! dispel the clouds of the soul, and let us follow
The laws of thy great and just reign ! That we may be
honored, let us honor thee again, Chanting thy great deeds, as is
proper for mortals, For nothing can be better for gods or men
Than to adore with hymns the Universal King. Rev. J. Freeman Clarke,
whose version is here copied, renders this phrase "the law common to
all." The Greek text reads: " 7] xoivov a;c vojAciv £v v.-A-Q
u/ivstv," the term vojj.oc:, nomos,
or Law, being used for King, as Love is for God. A. W. Proserpina Enthroned in
Hades. Nymphs and Centaurs. AporrJieta, Greek aiioppTjTa The instructions given by the
hierophant or interpreter in the Eleusinian Mysteries, not to be
disclosed on pain of death. There was said to be a synopsis of them in the
i^etroma or two stone tablets, which, it is said, were bound together in
the form of a book. Apostatise
To fall or descend, as the spiritual part of the soul is said to
descend from its divine home to the world of nature. Cathartic Purifying. The term was used by the
Platonists and others in connection with the ceremonies of purification
before initiation, also to the corresponding performance of rites and
duties which renewed the moral life. The cathartic virtues were the
duties and mode of living, which conduced to that end. The phrase is used
but once or twice in this edition. Cause The agent by which things are generated or
produced. Circulation The
peculiar spiral motion or progress by which the spiritual nature or
"intellect" descended from the divine region of the universe
into the world of sense. Cogitative
Relating to the understanding: dianoetic. Conjecture, or
Opinion A mental conception that can be
changed by argument. Core
A name of Ceres or Demeter, applied by the Orphic and later
writers to her daughter Persephone or Proserpina. She was supposed to
typify the spiritual nature which was abducted by Hades or Pluto into the
Underworld, the figure signifying the apostasy or descent of the soul
from the higher life to the material body. CoricaUy After the manner of Proserpina, i. e., as if
descending into death from the supernal world. D(emoii A designation of a certain class of
divinities. Different authors employ the term differently. Hesiod regards
them as the souls of the men who lived in the Golden Age, now acting as
guardian or tutelary spirits. Socrates, in the CratyJus, says " that
daemon is a term denoting wisdom, and that every good man is dsemonian,
both while living and when dead, and is rightly called a daemon."
His own attendant spirit that checked him whenever he endeavored to do
what he might not, was styled his Daemon. lamblichus places Daemons
in the second order of spiritual existence. Cleanthes, in his celebrated Hymn,
styles Zeus oatfiov (daimon). Demiurgiis The creator. It was the title of the;
chief-magistrate in several Grecian States, and in this work is applied
to Zeus or Jupiter, or the Euler of the Universe. The latter Platdnists,
and more especially the Gnostics, who regarded matter as constituting or
containing the principle of Evil, sometimes applied this term to the Evil
Potency, who, some of them affirmed, was the Hebrew God. Distrihuted 'SiQ(hxc&^ from a whole to parts and
scattered. The spiritual nature or intellect in its higher estate was
regarded as a whole, but in descending to worldly conditions became
divided into parts or perhaps characteristics. Divisible Made into parts or attributes, as the mind,
intellect, or spiritual, first a whole, became thus distinguished in its
descent. This division was regarded as a fall into a lower plane of
life. Energise, Greek z^z^^-^zw
Ho operate or work, especially to undergo discipline of the heart
and character. Glossary. Energy
Operation, activity. Eternal
Existing through all past time, and still continuing.
Faith The correct conception of a
thing as it seems, fidelity.
Freedom The ruling power of one's
life; a power over what pertains to one's self in life.
Friendship Union of sentiment; a
communion in doing well. Fury
The peculiar mania, ardor, or enthusiasm which inspired and actuated
prophets, poets, intei'preters of oracles, and others; also a title of
the goddesses Demeter and Persephone as the chastisers of the
wicked, also of the Eumenides.
Generation, Greek Y^^'^t?
Generated existence, the mode of life peculiar to this world, but
which is equivalent to death, so far as the pure intellect or spiritual
nature is concerned; the process by which the soul is separated from the
higher form of existence, and brought into the conditions of life
upon the earth. It was regarded as a punishment, and according to Taylor, was
prefigured by the abduction of Proserpina. The soul is supposed to have
pre-existed with God as a pure intellect like him, but not actually
identical at one but not absolutely the same. Good That which is desired on its own
account. Hades A name of
Pluto; the Underworld, the state or region of departed souls, as
understood by classic writers; the physical nature, the corporeal
existence, the condition of the soul while in the bodily life.
Herald, Greek y.7]po4 The crier at
the Mysteries. Hierophant
The interpreter who explained the purport of the mystic doctrines
and dramas to the candidates. Holiness, Greek ooioty]? Attention to the honor due to God.
Idea A principle in all minds
underlying our cognitions of the sensible world.
Imprudent Without foresight;
deprived of sagacity. Infernal regions Hades, the Underworld.
Instruction A power to cure the
soul. 244 Glossary. Intellect, Greek voo? Also rendered j)?^re reason, and by
Professor Cocker, intuitive reason, and the rational soul; the
spiritual nature. " The organ of self-evident, necessary, and
universal truth. In an immediate, direct, and intuitive manner, it
takes hold on truth with absolute certainty. The reason, through
the medium of ideas, holds communion with the world of real Being. These
ideas are the light y^\\\(^\i reveals the world of unseen realities, as
the sun reveals the world of sensible forms. ' The Idea of the good is
the Sun of the Intelligible World; it sheds on objects the light of
truth, and gives to the soul that knows the power of knowing.' Under this
light the eye of reason apprehends the eternal world of being as truly,
yet more truly, than the eye of sense appi'ehends the world of
phenomena. This power the rational soul possesses by virtue of its having
a nature kindred, or even homogeneous with the Divinity. It was '
generated by the Divine Father,' and like him, it is in a certain sense '
eternal.' Not that we are to understand Plato as teaching that the
rational soul had an independent and underived existence; it was created
or 'generated' in eternity, and even now, in its incorporate state,
is not amenable to the condition of time and space, but, in a peculiar
sense, dwells in eternity : and therefore is capable of beholding eternal
realities, and coming into communion with absolute beauty, and goodness,
and truth that is, with God, the
Absolute Being." Christianity and
Greek Philosophy, Intellective Intuitive;
perceivable by spiritual insight. Ititelligihle Eelating to the higher reason.
Interpreter The hierophant or
sacerdotal teacher who, on the last day of the Eleusinia, explained the
petroma or stone book to the candidates, and unfolded the final meaning
of the representations and symbols. In the Phoenician language he was
called ins, peter. Hence the petroma, consisting of two tablets of stone,
was a pun on the designation, to imply the Glossary. Interpreter continued. wisdom to be uiit'olcled.
It has been suggested by the Rev, Mr. Hyslop, that the Pope derived his
claim, as the successor of Peter, from his succession to the rank and
function of the Hierophant of the Mysteries, and not from the
celebrated Apostle, who probably was never in Rome. Just Productive of Justice.
Justice The harmony or perfect
proportional action of all the powers of the soul, and comprising equity,
veracity, fidelity, usefulness, benevolence, and purity of mind, or
holiness. Judgment A.
peremptory decision covering a disputed matter; also o'.avoLa, dianoia,
or understanding. Knowledge
A comprehension by the mind of fact not to be overthrown or modified by
argument. o Legislative
Regulating. Lesser Mysteries
The TsXeia:, teletai, or ceremonies of purification, which were
celebrated at Agrae, prior to full initiation at Eleusis. Those initiated
on this occasion were styled fJLuaxai, mystcB, from (xoto, muo, to vail;
and their initiation was called (jiuYjat?, muesis, or vailing, as
expressive of being vailed from the former life. Magic Persian mag, Sanscrit maha, great. Relating
to the order of the Magi of Persia and Assyria. Material
do'mons Spirits of a nature so gross as
to be able to assume visible bodies like individuals still living on the
Earth. Matter The elements
of the world, and especially of the human body, in which the idea of evil
is contained and the soul incarcerated. Greek oXt], Hule or Hyle.
Muesis, Greek iinrioiq, from ixotn, to vail The last act in the Lesser Mysteries,
or rsXtza:, teletai, denoting the separating of the initiate from the
former exotic life. Mysteries
Sacred dramas performed at stated periods. The most celebrated
were those of Isis, Sabazius, Cybelfe, and Eleusis. Mystic Relating to the Mysteries: a person initiated
in the Lesser Mysteries Greek
jj.u3Totu Occult Arcane;
hidden; pertaining to the mystical sense. Orgies, Greek opY-'^' The peculiar rites of the Bacchic
Mysteries. Opinion A hypothesis or
conjecture. Partial Divided, in
parts, and not a whole. Philologist
One pursuing literature. Philosopher One skilled in philosophy; one disciplined in
a right life. Philosophise
To investigate final causes; to undergo discipline of the
life. Philosophy The
aspiration of the soul after wisdom and truth, " Plato asserted
philosophy to be the science of unconditioned being, and asserted that
this was known to the soul by its intuitive reason (intellect or
spiritual instinct) which is the organ of all philosophic insight. The
reason perceives substance; the understanding, only phenomena. Being (xo
ov), which is the reality in all actuality, is in the ideas or
thoughts of God; and nothing exists (or appears outwardly), except
by the force of this indwelling idea. The word is the true expression of
the nature of every object : for each has its divine and natural name,
besides its accidental human appellation. Philosophy is the recollection
of what the soul has seen of things and their names." (J. Freeman Clarke.)
Plotinus A philosopher who lived
in the Third Century, and revived the doctrines of Plato.
Prudent Having foresight.
Purgation, purification The
introduction into the Teletce or Lesser Mysteries; a separation of the
external principles from the soul. Punishment The curing of the soul of its errors.
Prophet, Greek \i.rj.^x'.c, One
possessing the prophetic mania, or inspiration. Priest Greek \xrjyz'.c, A prophet or inspired person, ispjuc a sacerdotal person. Revolt A rolling away, the career of the soul in its
descent from the pristine divine condition. Science The knowledge of universal, necessary,
unchangeable, and eternal ideas. Shows The peculiar dramatic representations of the
Mysteries. Telete, Greek tjXext]
The finishing or consummation; the Lesser Mysteries.
Theologist A teacher of the
literatiu-e relating to the gods. Theoretical Perceptive. Torch bearer A priest who bore a torch at the
Mysteries. Titans The beings
who made war against Kronos or Saturn. E. Poeoeke identifies them with
the Daittjas of India, who resisted the Brahmans. In the Orphic legend,
they are described as slaying the child Bacchus-Zagreus.
Titanic Eelating to the nature of
Titans. Transmigration The
passage of the soul from one condition of being to another. This has not
any necessary reference to any rehabilitation in a corporeal nature, or
body of flesh and blood. See I Corinthians, Virtue A good mental condition; a stable
disposition. Virtues
Agencies, rites, inflluences. Cathartic Virtues Purifying rites or influences.
Wisdom The knowledge of things as
they exist; " the approach to God as the substance of goodness in
truth." World The
cosmos, the universe, as distinguished from the earth and human existence
upon it. Eleusinian Priest and Assistants. Fortune and the Three
Fates. LIST OF ILLUSTRATIONS. Drawm from the antique. A. L.
RAWSON. A DESCRIPTION of tlie illustrations to this volume
properly includes the two or three theories of human life held by the
ancient Greeks, and the beautiful myth of Demeter and Proserpina, the most
charming of all mythological fancies, and the Orgies of Bacchus, which
together supplied the motives to the artists of the originals from which
these drawings were made. From them* we learn that it was
believed»that the soul is a part of, or a spark from, the Great Soul of
the Kosmos, the Central Sun of the intellectual universe, and therefore
immortal; has lived before, and will continue to hve after this ''
body prison " is dissolved; that the river Styx is between us
and the unseen world, and hence we have no recollection of any
former state of existence; and that the body is Hades, in which the soul
is made to suffer for past misdeeds done in the unseen world.
Poets and philosophers, tragedians and comedians, embellished the myth
with a thousand fine fancies which were List of Illustrations woven into
the ritual of Eleusis, or were presented in the theaters during the
Bacchic festivals. The pictures include, beside the costumes of
priests, jiriestesses, and their attendants, and of the fauns and satjrrs,
many of the sacred vessels and implements used in celebrating the
Mysteries, in the orgies, and in the theaters, all of which were drawn by
the ancient artists from the objects represented, and their work has been
carefully followed here. Frontispiece. Sacrifice to Ceres. Denhndler,
sculptur. The goddess stands near a serpent-guarded altar, on which
a sheaf of grain is aflame. Worshipers attend, and Jupiter
approves. Decoratinq a Statue of Bacchus Bom. Campana. The priest wears a
lamb-skin skirt, the thyrsus is a natural vine with grape clusters, and
there are fruit and wine bearers. 3. Bacchantes with Thyrsus and
Flute 4 Two fragments. Bom. Camp. Symbolical Ceremony.Bom.
Camp Torch and thyrsus bearers and faun. See cut No. 40, and page for reference
to pine nut. Bacchus and Nymphs Pluto, Proserpina, and Furies 5
Galerie des Peintres. The Furies were said to be children of Pluto
and Proserpina; other accounts say of Nox and Acheron, and Acheron was a
son of Ceres Avithout a father. Priestess with Amphora and Sacred Cake
Priestess with Musical Instruments 6 9. Faun Kissing
Bacchante. Bourbon Mus Faun and
Bacchus. Bourbon Mus List of
Ilhistrations. Etruscan Y A^Y^.MilUngen See drawings on page lOG. Mercury
Presenting a Soul to Pluto Pict. Ant. Sep. Nasonion, pi. Mystic Rites. Arhniranda, tav. Eleusinian Ceremony. Oes^. Benk. Alt. Kimst, Bacchic Festival.
JSarto?*, Admiranda, Probably a stage scene. The cliaracters are the king, who
was an archon of Athens; a thyrsns bearer, musician, wine and fruit
bearers, dancers, and Pluto and Proserpina. A boy removes the king's sandal. Apollo
and the Muses. Florentine Museum The
muses were the daughters of Jupiter and Mnemosyne; that is, of the god of
the present instant, and of memory. Their office was, in part, to give
information to any inquiring soul, and to preside over the various arts
and sciences. They were called by various names derived from the places
where they were worshiped : Aganippides, Aonides, Castalides,
HeUconiades, Lebetheides, Pierides, and others. Apollo was called
Musagetes, as their leader and conductor. The palm tree, laurel,
fountains on Helicon, Parnassus, Pindus, and other sacred mountains, were
sacred to the muses. Prometheus Forms a Woman Visconti, Mus. Fio. Clem. Mercury,
the messenger of the gods, brings a soul from Jupiter for the body made
by Prometheus, and the three Fates attend. The Athenians built an altar
for the worship of Prometheus in the grove of the Academy. 18.
Procession of Iacchus and Phallus 16 Montfaucon. From Athens
to Eleusis, on the sixth day of the Eleusinia. The statue is made to play
its part in a mystic ceremony, typifying the union of the sexes in generation.
Attendant priestesses bear a basket of dried flgs and a phallus, baskets of
fruit, vases of wine, with clematis, and musical and sacrificial
instniments. None but women and children were permitted to take part in
this ceremony. The wooden emblem of fecundity was an object of supreme
veneration, and the ceremony of placing and hooding it. was assigned to
the most highly respected woman in Athens, as a mark of honor. Lucian and
Plutarch Illustrations. say the
phallus bearers at Rome carried images (phalloi) at the top of long
poles, and their bodies were stained with wine lees, and partly covered
with a lamb-skin, their heads crowned with a wreath of ivy. From Etruscan
Vases Florentine Museum. Human sacrifice
may be indicated in the lower group. Venus and Proserpina in Hades
28 Galerie des Peintres. The myth relates that Venus gave
Proserpina a pomegranate to eat in Hades, and so made her subject to the
law which required her to remain four months of each year with Pluto in
the Underworld, for Venus is the goddess who presides over birth and
growth in all cases. Cerberus keeps guard, and one of the heads holds her
garment, signifying that his master is entitled to one-third of her
time. 23. Rape of Proserpina. Carried Down to Hades
(Invisibility) Flor. Mus, Pallas,
Venus, and Diana Consulting Gal. des Peint. Jupiter ordered these
divinities to excite desire in the heart of Proserpina as a means of
leading her into the power of the richest of all monarchs, the one who
most abounds in treasures Dionysus as God op the Sun 31 Pit. Ant.
Ercolmio. Dionysus Bacchus symbolizes the sun as god of the seasons;
rides on a panther, pours wine into a drinking-horn held by a satyr, who
also carries a wine skin bottle. The winged genii of the seasons attend.
Winter carries two geese and a cornucopia; Spring holds in one hand the
mystical cist, and in the other the mystic zone; Summer bears a sickle
and a sheaf of grain; and Autumn has a hare and a horn-of-plenty full
of fruits. Fauns, satyrs, boy-fauns, the usual attendants of
Bacchus, play with goats and panthers between the legs of the larger
figures. Herse and Mercury Pit. Ant. Ercolano. A fabled love match
between the god and a daughter of Cecrops, the Egyptian who founded
Athens, supplied the ritual for the festivals Hersephoria, in which young
girls of seven to eleven years, from the most noted families, dressed
in List of Illustrations. Pwhite, carried the sacred vessels
and implements used in the Mysteries in procession. Cakes of a peculiar
form were made for the occasion. Narcissus Sees His Image in Water
P. Ovid. Naso. The son of Cephissus and Liriope, an Oceanid, was said to
be very beautiful. He sought to win the favor of the nymph of the
fountain where he saw his face reflected, and failing, he drowned himself
in chagrin. The gods, unwilling to lose so much beauty, changed him into
the flower now known by his name. Jupiter as Diana, and Calisto. P. Ovid. Naso The supreme deity of the
ancients, beside numerous marriages, was credited with many amours with
both divinities and mortals. In some of those adventures he succeeded by using
a disguise, as here in the form of the Queen of the Starry Heavens,
when he surprised Calisto (Helice), a daughter of Lycaon, king of
Arcadia, an attendant on Diana. The companions of that goddess were pledged to
celibacy. Jupiter, in the form of a swan, surprised Leda, who became
mother of the Dioscuri (twins). 29. Diana and Calisto. Ovid. Naso, Neder 62 The fable
says that when Diana and her nymphs were bathing the swelling form
of Calisto attracted attention. It was reported to the goddess, when she
punished the maid by changing her into the form of a bear. She would have been
torn in pieces by the hunter's dogs, biit Jupiter interposed and
translated her to the heavens, where she forms the constellation The
Great Bear. Juno was jealous of Jupiter, and requested Thetis to refuse
the Great Bear permission to descend at night beneath the waves of ocean,
and she, being also jealous of Poseidon, complied, and therefore the
dipper does not dip, but revolves close around the pole star.
Bacchantes and Fauns Dancing A stage ballet.
Bom. Campana Hercules, Bull, and Priestess. Bom. Camp 74 Bacchic orgies.
32. Fruit and Thyrsus Bearers.
Boiir. Mm Torch-Bearer as Apollo.
Bourbon Mits Eleusinian Mysteries.
Florence 3Ius List of Illustrations. Etruscan Mystic Ceremony. i?oH«.
Camp 94 36. Etruscan Altar Group. JPtor. Mus 106 The
mystic cist with serpent coiled around, the sacred oaks, baskets,
drinking-horns, zones, f estoou of branches and flowers, make very pretty
and impressive accessories to two handsome priestesses. Etruscan
Bacchantes. JfiZZm^en 106 These two groups were drawn from a vase
which is a very fine work of art. The drapery, .decoration,
symbols, accessories, and all the details of implements used in the
celebration of the Mysteries are very carefully drawn on the vase, which
is well preserved. This vase is a strong proof of the antiquity of the
orgies, for the Etruscans, Tyrrheni, and Tusci were ancient before the
Romans began to build on the Tiber. 38. Etruscan Ceremony.-
m7fo><r/m 106 39. Satyr, Cupid and Venus. ilfo>i?/a«cow;
SculpUre . 110 Some Roman writers affirmed that the Satyr was a
real animal, but science has dissipated that belief, and the monster
has been classed among the artificial attractions of the theater
where it belongs, and where it did a large share of duty in the Mysteries.
They were invented by the poets as an impersonation of the life that animates
the branches of trees when the wind sweeps through them, meaning,
whistling, or shrieking in the gale. They were said to be the chief
attendants on Bacchus, and to delight in revel and wine. 40.
Cupids, Satyr, and Statue of ^niwvs^.Montfaucon The many suggestive emblems in
this picture form an instructive group, symbolic of Nature's life-renewing
power. The ancients adored this power under the emblems of the
organs of generation. Many passages in the Bible denounce that worship,
which is called " the grove," and usually was an iipright
stone, or wooden pillar, plain or ornamented, as in Rome, where it became
a statue to the waist, as seen in the engraving. The Palladium at Athens was a
Greek form. The Druzes of Mount Lebanon in Syria now dispense with
emblems of wood and stone, and use the natural objects in their mystic
rites and ceremonies. 41. Apollo and Daphne, Galerie des Peint
118 The rising sun shines on the dew-drops, and warming them
as they hang on the leaves of the laurel tree, they disappear,
254 List of lUiisfrations. Page. leaving
the tree; and it is said by the poet that Apollo loves and seeks Daphne,
striving to embrace her, when she flies and is transformed into a laurel
tree at the instant she is embraced by the sun-god. 42. Diana
and Endymion. Bourbon 3Ius 118
Diana as the queen of the night loves Endymion, the setting sun.
The lovers ever strive to meet, but inexorable fate as ever prevents them
from enjoying each other's society. The fair huntress sometimes is
permitted, as when she is the new moon, or in the first quarter, to
approach near the place where her beloved one lingers near the Hesperian
gardens, and to follow him even to the Pillars of Hercules, but never to
embrace him. The new moon, as soon as visible, sets near but not with the
sun. Endymion reluctantly sinks behind the western horizon, and
would linger until the loved one can be folded in his arms, but his duty
calls and he must turn his steps toward the Elysian Fields to cheer the
noble and good souls who await his presence, ever cheerful and benign.
Diana follows closely after and is welcomed by the brave and beautiful
inhabitants of the Peaceful Islands, but while receiving their homage
her lover hastens on toward the eastern gates, where the golden
fleece makes the morning sky resplendent. 43. Ceres and the Car op
Treptolemus 127 P. Ovid. Naso, Neder. Triptolemus (the word
means three plowings) was the founder of the Eleusinian Mysteries, and
was presented by Ceres with her car drawn by winged dragons, in which he
distributed seed grain all over the world. 44. Pluto Marries
Proserpina 127 P. Ovid. Naso, Neder. Jupiter is said to have
consented to request of Pluto that Proserpina might revisit her mother's
dwelling, and the picture represents him as very earnest in his appeal to his
brother. Since then the seed of grain has remained in the ground no
longer than four months; the other eight it is above, in the regions
of light. In the engraving a curtain is held up by bronze figures.
This seems conclusive that it was a representation of a dramatic scene. (See
pp. 159, 186.) 45. Proserpina, according to the Greeks. Heck... 138 46. Bacchus after the
Visit to India. Heck 138 A
Roman Figure of Geres. Heck 138 Demeter, from Etruscan Vase.
IfecZ; 138 49. Venus, Pallas, and Dlana Inspecting the
Needlework of Proserpina. Galerie des Peini . 142 50.
Proserpina Exposed to Pluto 152 Ovid. Naso, Neder. There may
have been a mild sarcasm in this artist's mind when he drew the maid as
dallying with Cupid, and the richest monarch in all the earth in the distance,
hastening toward her. He succeeded, as is shown in the next
engraving. 51. Pluto Carrying Off Proserpina 152 P.
Ovid. Naso, Neder. Eternal change is the universal law. Proserpina must
go down into the Underworld that she may rise again into light and
life. The seed must be planted under or into the soil that it may
have a new birth and growth. 52. Proserpina in Pluto's Court. Montfaucon 156 As a personation
she was the "Apparent Brilliance" of all fruits and
flowers. 53. Ceres in Hades.
Montfaucon 162 54. Bacchus, Fauns, and Wine Jars. Montfaucon .... 168 55. Tragic
KQTOn.^Bourhon Museum 168 56. A Group of Deities. Heck 168 Pan and Dionysus,
Hygeia, Hermes, Dionysus and Faunus, and Silenus. 57. Night
with Her Starry Canopy. Heck 168
58. The Three Graces. Heck
168 59. Cupid Asleep in the Arms of Venus 174 Galerie
des Peint. 60. Prize Dance between a Satyr and a Goat
174 Anticld. 61. Baubo
and Ceres at Eleusis. Galerie des Peint.
174 See page 232. 256 List of Illustrations. Page.
62. Psyche Asleep in Hades 186 From the ruins of the Bath of
Titus, Rome. See page 45. 63. Nymphs of the Four Rivers in
Hades 187 Tomb of the Nasons. "It was easy for poets
and mythographers, when they had once started the idea of a gloomy land
watered with the rivers of woe, to place Styx, the stream which mates men
shudder, as the boundary which separates it from the world of Uving
men, and to lead through it the channels of Lethe, in which all
things are forgotten, of Kokytos, which echoes only with shrieks of pain,
and of Pyiyphlegethon, with its waves of fire." Acheron, in the
early myths, was the only river of Hades. 64. Etruscan Vase
Group. MilUngen Dancers,
ETRUscANS.~i¥i//M?, 1 pJ. 27 198 66. Greek Convivial Scene. Millin, 1 ^9^ 38 198 67. Faun and
Bacchante. Bour. Mus 206 68.
Thyrsus-Bearer. Bourbon Museum 206
69. Bacchante and Faun. 5o«r. Mus 206 These three verj'
graceful pictures were drawn from paintings on walls in
Herculaneum. KiN<T, Torch, Fruit, and Thyrsus Bearer 212
71. Hercules RECLiNiNG.^.^oe5f«, Bassirilievi, 70 212 Here is
an actual ceremony in which many actors took parts; with an altar,
flames, a torch, tripod, the kerux (crier), bacchantes, fauns, and other
attendants on the celebration of the Mystei'ies, including tlie role of
an angel with wings. Marriage (or Adultery) or Mars and Venus 220
Montfaucon. See pages 231-2.37. If this is from a scene as played at
the Bacchic theaters, those dramas must have been very popular, and
justly so. To those theaters, which were supported by the government in Athens
and in many other cities througliout Greece, we owe the immortal works of
^schylus and Sophocles. Page. 73, Musical Conference
(Epithalamium) 228 S. Bartoli, Admiranda, pi. 62, Written
music was evidently used, for one of the company is writing as if
correcting the score, and writing with the left hand. Venus Rising
from the QEA.Ovid. Naso, Verburg.This goddess was called Venus Anadyomene, for
the poets said she rose from the sea
the morning sunlight on the foam of the sea on the shore of the
island Cythera, or Cyprus, or wherever the poet may choose as the favored
place for the manifestation of the generative power of nature, and
wherever flowers show her footprints. The loves bear aloft her
magic girdle, which Juno borrowed as a means of winning back
Jupiter's affection. The rose and the myrtle were sacred to her. Her
worship was the motive for building temples in Cythera and in Cyprus at
Amathus, Idalium. Golgoi, and in many other places. (See engravings, Jupiter
Disguised as Diana, and Calisto Ovid. Naso, Neder. The gods were said to
have the power, and to practice assuming the form of any other of their train,
or of any animal. In these disguises they are supposed to play tricks on
each other as here. Diana is the queen of the night sky, Calisto is
one of her attendants, and many white clouds float over the blue ether
(Jupiter), and are chased by the winds (as dogs). 76. Hercules,
Deianeira, and Nessus 234 Ovid. Naso, Neder. The sun nears
the end of the day's journey; he is aged and weary; dark clouds obscure
his face and obstruct his way, but stUl Hercules loves beautiful things,
and Deianeira, the fair daughter of the king of ^tolia, retires with him
into exile. At a ford the hero entrusts his bride to Nessiis the Centaur,
to carry across the river. The ferryman made love to the lady, and
Hercules resented the indiscretion, and wounded him by an arrow. Dying
Nessus tells Deianeira to keep his blood as a love charm in case her
husband should love another woman. Hercules did love another, named lole,
and Deianeira dipped his shirt in the blood of Nessus the crimson' and scarlet clouds of a
splendid sunset are made glorious by the blood of Nessus, and Hercules is
burnt on the funeral pyre of scarlet and crimson sunset clouds.
Illustrations. The Sacrifice.
Herculaneum, Hercules Drunk. Zoegciy BassirilievU tav. Proserpina
Enthroned in Hades- Archdol. Zeit.
240 The principle of growth rules the Underworld. 80.
Bacchante and Centaur. Bourbon Mus
.Bacchante and Cbntauress. Bourbon Mus Eleusinian Priest and Assistants
247 83. The Fates. Zoeya,
Bassirilievi, tav. 46 248 84. Supper Scene 258 85.
Bacchic Bull. Antichi Ou
cover. Suppei- Scene. The Eleusinian and
Bacchic mysteries. Princeton Theological Semmary-Speer
Library PHALLIC WORSHIP: A DESCRIPTION OF THE MYSTERIES OF THE
SEX WORSHIP OF THE ANCIENTS WITH THE HISTORY OF
THE MASCULINE CROSS AN ACCOUNT OF PRIMITIVE SYMBOLISM,
HEBREW PHALLICISM, BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND THE
MYSTERIES OF THE ANCIENT FAITHS, LONDON. The present somewhat slight sketch of
a most interesting subject, whilst not claiming entire originality, yet
embraces the cream, so to speak, of various learned works of great cost, some
of which being issued for private circulation only, are almost
unobtainable. During the past few years several philophical have been written upon ancient Roman Phallicism
in conjunction with other kindred matters f but not devoting themselves
entirely to one ancient mystery y the writers have only partially
ventilated the subject. The present work seeks to obviate this failing by
confining its attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of
the ancient world. Many of the topics have received only slight
treatmenty being little more than indicated; but the work will enable
the reader to understand and possess the truth concerning the
Phallic Worship of the Ancients . Those who desire to know more, or
to authenticate the statements and facts given in this book, should
consult the large and important works of Payne Knight, Higgins,
Dulaure, Rolky Inman, and other writers . It was intended to
give with this volume a list of works and miscellaneous pieces written on
the subject, but the length of the list prevented its being added. Sex
Worship has prevailed among all peoples of ancient times, sometimes
contemporaneous and often mixed with Star, Serpent, and Tree Worship. The
powers of nature were sexualised and endowed with the same
feelings, passions, and performing the same functions as human
beings. Among the ancients, whether the Sun, the Serpent, or the
Phallic Emblem was worshipped, the idea was the same the veneration of the generative principle.
Thus we find a close relationship between the various mythologies
of the ancient nations, and by a comparison of the creeds, ideas, and
symbols, can see that they spring from the same source, namely, the
worship of the forces and operations of nature, the original of which was
doubtless Sun worship. It is not necessary to prove that in primitive
times the Sun must have been worshipped under various names, and
venerated as the Creator, Light, Source of Life, and the Giver of
Food. In the earliest times the worship of the generative
power was of the most simple and pure character, rude in manner,
primitive in form, pure in idea, the homage of man to the supreme power,
the Author of life. Afterwards the worship became more depraved,
a religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a priesthood who were
not slow to take advantage of this state of affairs, and inculcated with
it profligate and mysterious ceremonies, union of gods with women,
religious prostitution and other degrading rites. Thus it was not
long before the emblems lost their pure and simple meaning and became
licentious statues and debased objects. Hence we have in Rome the depraved
ceremonies at the worship of BACCO, who became, not only the
representative of the creative power, but the god of pleasure and
licentiousness. The corrupted religion always found eager votaries, willing
to be captives to a pleasant bondage by the impulse of physical bliss, as
was the case in among the Romans. Sex worship personifies became the supreme
and governing deity, enthroned as the ruling God over all; dissent
therefrom was impious and punished. The priests of the worship compelled
obedience. Monarchs complied to the prevailing faith and became willing
devotees to the shrines of VENERE on the one hand, and of BACCO and
PRIAPO on the other, by appealing to the most animating passion of
nature. This is the worship of the reproductive powers, the sexual
appointments revered as the emblems of the divine creator. The one male,
the active creative power; the other the female or passive power; ideas
which were represented by various emblems in different countries.These
emblems were of a pure and sacred character, and used at a time when the
prophets and priests spoke plain speech, understood by a rude and
primitive people; although doubtless by the common people the
emblems were worshipped themselves, even as at the present day in
Roman Catholic countries the more ignorant, in many cases, actually
worship the images and pictures themselves, while to the higher and more
intelligent minds they are only symbols of a hidden object of worship. In
the same manner, the concealed meaning or hidden truth was to the
ignorant and rude people of early times entirely unknown, while the
priests and the more learned kept studiously concealed the meaning of the
ceremonies and symbols. Thus, the primitive idea became mixed with
profligate, debased ceremonies, and lascivious rites, which in time
caused the more pure part of the worship to be forgotten. But Phallicism
is not to be judged from these sacred orgies, any more than
Christianity from the religious excitement and wild excesses of a
few Christian sects during the Middle Ages. In a work on
the Worship of the Generative
Powers during the Middle Ages,” the writer traces the superstition
westward, and gives an account of its prevalence throughout Southern and
Western Europe during that period. The worship was very prevalent
in Italy, and was invariably carried by the Romans into the countries
they conquered, where they introduced their own institutions and
forms of worship. Accordingly, in Britain have been found numerous relics
and remains; and many of our ancient customs are traced to a Phallic
origin. When we cross over to
Britain,” says the writer, we find
this worship established no less firmly and extensively in that island;
statuettes of Priapus, Phallic bronzes. pottery covered with obscene
pictures, are found wherever there are any extensive remains of Roman
occupation, as our antiquaries know well. The numerous Phallic
figures in bronze found in England are perfectly identical in character
with those that occur in France and Italy.” All antiquaries of any
experience know the great number of obscene subjects which are met with
among the fine red pottery which is termed Samian ware, found so
abundantly in all Roman sites in our island.
They represent erotic scenes, in every sense of the word,
with figures of Priapus and Phallic emblems. The Phallus, or Lingam,
which stood for the image of the male organ, or emblem of creation, has
been worshipped from time immemorial. Payne Knight describes it as
of the greatest antiquity, and as having prevailed in Egypt and all over
Asia. The women of the former country carried in their religious
processions, a movable Phallus of disproportionate magnitude, which
Deodorus Siculus informs us signified the generative attribute. It has
also been observed among the idols of the native Americans and
ancient Scandinavians, while the Greeks represented the Phallus
alone, and changed the personified attribute into a distinct deity,
called Priapus. Phallus, or privy member ( membrum virile ),
signifies, he breaks through, or
passes into.” This word survives in German pfabl, and pole in English.
Phallus is supposed Phallic Worship ii
to be of Phoenician origin, the Greek word pallo> or phallo, to brandish preparatory to throwing a
missile,” is so near in assonance and meaning to Phallus, that one
is quite likely to be parent of the other. In Sanskrit it can be traced
to phal> to burst,” to produce,”
to be fruitful ”; then, again, phal is a ploughshare,” and is also the name of
Siva and Mahadeva, who are Hindu deities. Phallus, then, was the ancient
emblem of creation : a divinity who was companion to Bacchus.
The Indian designation of this idol was Lingam, and those who
dedicated themselves to its service were to observe inviolable
chastity. If it were discovered,”
says Crawford, that they had in any way
departed from them, the punishment is death. They go naked, and
being considered as sanctified persons, the women approach without
scruple, nor is it thought that their modesty should be offended by
it.” SYMBOLS OR EMBLEMS The Phallus and its emblems were
representative of the gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris,
Baal, and Asher, who were all Phallic deities. The symbols were
used as signs of the great creative energy or operating power of God from
no sense of mere animal appetite, but in the highest reverence. Payne
Knight, describing the emblems, says: Forms and ceremonials of a religion
are not always to be understood in their direct and obvious sense,
but are to be considered as symbolical representations of some
hidden meaning extremely wise and just, though the symbols themselves, to
those who know not their true signification, may appear in the highest
degree absurd and extravagant. It has often happened that avarice
and superstition have continued these symbolical representations for ages after
their original meaning has been lost and forgotten; they must, of course,
appear nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant.
Such is the case with the rite now under consideration, than which
nothing can be more monstrous and indecent, if considered in its plain
and obvious meaning, or as part of the Christian worship; but which will
be found to be a very natural symbol of a very natural and
philosophical system of religion, if considered according to its
original use and intention.” The natural emblems were those
which from their character were most suitable representatives; such
as poles, pillars, stones, which were sacred to Hindu, Egyptian,
and Jewish divinities. Blavalsky gives an account of the Bimlang
Stone, to be found at Narmada and other places, which is sacred to
the Hindu deity Siva; these emblem stones were anointed, like the stone
consecrated by the Patriarch Jacob. Blavalsky further says
that these stones are identical in
shape, meaning, and purpose with the ‘ pillars ’ set up by the several patriarchs
to mark their adoration of the Lord God. In fact, one of these
patriarchal lithoi might even now be carried in the Sivaitic processions
of Calcutta without its Hebrew derivation being suspected. The Pole was
an emblem of the Phallus, and with the serpent upon it, was a
representative of its divine wisdom and symbol of life. The serpent upon
the tree is the same in character, both are representative of the tree of
life. The story of Moses will well illustrate this, when he erected
in the wilderness this effigy, which stood as a sign of hope and life, as
the cross is used by the Catholics of the present day; the cross then, as
now, being simply an emblem of the Creator, used as a token of
resurrection or regeneration. iEsculapius, as the restorer of
health, has a rod or Phallus with a serpent entwined. The
Rev. M. Morris has shown that the raising of the May-pole is of Phallic
origin, the remains of a custom of India or Egypt, and is typical of the
fructifying powers of spring. The May festival was carried on with
great licentiousness by the Romans, and was celebrated by nearly all
peoples as the month consecrated to Love. The May-day in England was the
scene of riotous enjoyment, very nearly approaching to the Roman
Floralia. No wonder the Puritans looked upon the May-pole as a relic
of Paganism, and in their writings may be gleaned much of the
licentious character of the festival. Philip Stubbes, a Puritan
writer in the reign of Elizabeth, thus describes a May-day in England
: Every parishe, towne, and
village assemble themselves together, bothe men, women, and children,
olde and younge even indifferently; and either goyng all together, or
devidyng themselves into companies, they go some to the woods and
groves, some to one place, some to another, where thei spend all the
night in pleasant pastymes; and in the 14 Phallic
Worship mornyng they returne, bryngyng with them birch bowes
and branches of trees, to deck their assemblies withall. But their
cheerest jewell thei bryng from thence is their Maie pole, whiche thei
bryng home with great veneration, as thus : thei have twentie or fortie
yoke of oxen, every oxe havyng a sweet nosegaie of flowers placed
on the tippe of his homes, and these oxen drawe home this Maie pole (this
stinckyng idoll rather), which is covered all over with flowers and
hearbes, bound rounde aboute with strynges from the top to the
bottome, and sometyme painted with variable colours, with two or
three hundred men, women, and children, folio wyng it with great
devotion. And thus beyng reared up, with handekerchiefes and flagges
streamyng on the top, thei strawe the grounde aboute, binde greene
boughes aboute it, sett up sommer haules, bowers, and arbours hard
by it. And then fall thei to banquet and feast, to leape and daunce
aboute it, as the heathen people did at the dedication of their idols,
whereof this is a perfect patterne, or rather the thyng itself.” The
ceremony was almost identical with the Roman festival, where the Phallus
was introduced with garlands. Both were attended with the same
licentiousness, for Stubbes gives a further account of the depravity
attending the festivities. PILLARS Another type of
emblem was the stone pillar, remains of which still exist in the British
Isles. These pillars or so called crosses generally consist of a shaft of
granite with a carved head. In the West of England crosses are very
common, standing in the market and receiving the name of The Cross.” These stone pillars
were first erected in honour of the Phallic deity, and on the
introduction of Christianity were not destroyed, but consecrated to the
new faith, doubtless to honour the prejudices of the people. These
monolisks abound in the Highlands, they are stones set up on end, some
twenty-four or thirty feet high, others higher or lower and this
sometimes where no such stones are to be quarried. We learn
that the Bacchus of the Thebans was a pillar. The Assyrian Nebo was
represented by a plain pillar, consecrated by anointing with oil.
Arnobius gives an account of this practice, as also does Theophrastus,
who speaks of it as a custom for a superstitious man, when he
passed by these anointed stones in the streets to take out a phial of oil
and pour it upon them and having fallen on his knees to make his
adorations, and so depart. In various parts of the Bible the Pillar
is referred to as of a sacred character, as in Isaiah, In that day shall there be an altar to
Jehovah in the midst oi the land of Egypt, and a pillar at the border
thereof to Jehovah, and it should be for a sign and a witness to the
Lord.” The Orphic Temples were doubtless emblems of the same principle
of the mystic faiths of the ancients, the same as the Round Towers of
Ireland, a history of which was collected by O’Brien, who describes the
Towers as Temples constructed by
the early Indian colonists of the country in honour of the Fructifying
principle of nature, emanating as was supposed from the Sun, or the
deity of desire instrumental in that principle of universal
generativeness diffused throughout all nature. According to the same author
these towers were very ancient, and of Phoenician origin, as similar
towers have been found in Phoenicia.
The Irish themselves,” says O’Brien, designated them ‘ Bail-toir,’ that is the
tower of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and the
priest who attended them ‘ Aoi Bail-toir ’ or superintendent of Baal tower.”
This Baal was worshipped wherever the Phoenicians went, and was
represented by a pillar or stone or similar objects. The stone that
Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship, became
afterwards an object of worship to the Phoenicians. The earliest
navigators of the world were the Phoenicians, they founded colonies and
extended their commerce first to the isles of the Mediterranean, from
thence to Spain, and then to the British Isles. Historians have
accorded to them the settlements of the most remote localities. They formed
settlements in Cyprus, and Atticum, according to Josephus, was the
principal settlement of the Tyrians upon this island. Strabo’s testimony
is, that the Phoenicians, even before Homer, had possessed themselves of
the best part of Spain. Where the Phoenicians settled, there they
introduced their religion, and it is in these countries we find the
remains of ancient stone and pillar worship. LOGGIN STONES, ETC.
Loggin stones are by Payne Knight considered as Phallic emblems. Their remains,” he says, are still extant, and appear to have
been composed of a crone set into the ground, and another placed upon the
point of it and so nicely balanced that the wind could move it,
though so ponderous that no human force, unaided by machinery, can
displace it; whence they are called * logging rocks * and * pendre
stones/ as they were anciently * living stones * and 4 stones of God/
titles which differ very little in meaning from that on the Tyrian
coins. Damascius saw several of them in the neighbourhood of Heliopolis
or Baalbeck, in Syria, particularly one which was then moved by the wind;
and they are equally found in the Western extremities of Europe and the
Eastern extremities of Asia, in Britain, and in China.”
Bryant mentions it as very usual among the Egyptians to place with
much labour one vast stone upon another for a religious memorial.
Such immense masses, being moved by causes seeming so inadequate,
must naturally have conveyed the idea of spontaneous motion to ignorant
observers, and persuaded them that they were animated by an emanation of
the vital spirit, whence they were consulted as oracles, the
responses of which could always be easily obtained by interpreting the
different oscillatory movements into nods of approbation or
dissent. Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and
many other places, even in modern times. A physician, writing to Dr.
Inman, says : I was in Egypt last
winter (1865-66), and there certainly are numerous figures of gods
and kings, on the walls of the temple at Thebes, depicted with the male
genital erect. The great temple at Karnak is, in particular, full of such
figures, and the temple of Danclesa likewise, though that is of much
later date, and built merely in imitation of old Egyptian art. The
same inspiring bas-reliefs arc pointed out by Ezek. I remember one scene
of a king (Rameses II) returning in triumph with captives, many of whom
were undergoing the process of castration.” Obelisks were
also representative of the same emblem. Payne Knight mentions several
terminating in a cross, which had exactly the appearance of one of those
crosses erected in churchyards and at cross roads for the adoration
of devout persons, when devotions were more prevalent than at present.
Stones, pillars, obelisks, stumps of trees, upright stones have all the
same signification, and are means by which the male element was
symbolised. TRIADS The Triune idea is to be found in the
system of almost every nation. All have their Trinity in Unity, three
in one, which can be distinctly recognised in the cross. The Triad
is the male or triple, the constitution of the three persons of most
sacred Trinity forming the Triune system. In the analysis of the subject
by Rawlinson, we find the Trinity consisted of Asshur or Asher,
associated with Anu and Hea or Hoa. Asshur, the supreme god of the
Assyrians, represents the Phallus or central organ or the Linga, the
membrum virile . The cognomen Anu was given to the right testis, while
that of Hea designated the left. It was only natural that
Asshur being deified, his appendages should be deified also. Beltus,” says Inman, was the goddess associated with them, the
four together made up Arba or Arba-il, the four great gods,” the
Trinity in Unity. The idea thus broached receives great confirmation when
we examine the particular stress laid in ancient times respecting the
right and left side of the body in connection with the Triad names given
to offspring mentioned in the scriptures with the titles given to
Anu and Hea. The male or active principle was typified by the idea of
solidity ” and firmness,” and the
females or passive by the principles of
water,” softness,” and other
feminine principles. Thus the goddess Hea was associated with water, and
according to Forlong, the Serpent, the ruler ot the Abyss, was sometimes
represented to be the great Hea, without whom there was no creation or
life, and whose godhead embraced also the female element water.
Rawlinson also gives a similar conclusion, and states as far as he
could determine the third divinity or left side was named Hea, and he
considered this deity to correspond to Neptune. Neptune was the presiding
deity of the deep, ruler of the abyss, and king of the rivers. As
Darwin and his coadjutors teach, mankind, in common with all animal
life, originally sprung from the sea; so physiology teaches that each
individual had origin in a pond of water. The fruit of man is both solid
and fluid. It was natural to imagine that the two male appendages had a
distinct duty, that one formed the infant, the other water in which
it lived, that one generated the male, the other the female offspring;
and the inference was then drawn that water must be feminine, the emblem
of all possible powers of creation. It will be seen that the
names and signification of the gods and their attributes had no ideal
meaning. Thus in Genesis xxx. 13, we find Asher given as a
personality, which signifies to be
straight,” upright,” fortunate,” happy.” Asher was
the supreme god of the Assyrians, the Vedic Mahadeva, the emblem of the
human male structure and creative energy. The same idea of the
creator is still to be seen in India, Egypt, Phoenicia, the
Mediterranean, Europe, and Denmark, depicted on stone relics.
To a rude and ignorant people, enslaved with such a religion, it
was an easy step from the crude to the more refined sign, from the
offensive to a more pictured and less obnoxious symbol, from the plain and
self-evident to the mixed, disguised, and mystified, from the
unclothed privy member to the cross. The Triad, or Trinity, has been
traced to Phoenicia, Egypt, Japan, and India; the triple deities Asshur,
Anu, and Hea forming the tau.”
This mark of the Christians, Greeks, and Hebrews became the sign or type
of the deities representing the Phallic trinity, and in time became
the figure of the cross. It is remarked by Payne Knight that The male organs of generation are sometimes
found represented by signs of the same sort, which properly should
be called the symbol of symbols. One of the most remarkable of these is a
cross, in the form of the letter (T), which thus served as the emblem of
creation and generation before the Church adopted it as a sign of
salvation.” Another writer says,
Reverse the position of the triple deities Asshur, Anu, Hea, and
we have the figure of the ancient tau of the Christians, Greeks, and
ancient Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of the
cross. It is also met with in Gallic, Oscan, Arcadian, Etruscan, original
Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and Pelasgian forms. The Ethiopic form of
the * tau ’ is the exact prototype and image of the cross, or rather, to
state the fact in order of merit and time, the cross is made in the
exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf, having three lobes to
it, became a symbol of the triad. As the male genital organs were held in
early times to exemplify the actual male creative power, various
natural objects were seized upon to express the theistic idea, and at the
same time point to those parts of the human form. Hence, a similitude was
recognised in a pillar, a heap of stones, a tree between two rocks, a
club between two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with
two ribbons with the two ends pendant, a thumb and two fingers, the
caduceus. Again, the conspicuous part of the sacred triad Asshur is
symbolised by a single stone placed upright the stump of a tree, a block, a tower,
spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while eggs, apples, or
citrons, plums, grapes, and the like represented the remaining two
portions, altogether called Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name
which seems designed to perpetuate the triad, since it signifies c
my Lord the Trinity,’ or ‘ my God is three.’ ” We must not
omit to mention other Phallic emblems, such as the bull, the ram, the
goat, the serpent, the torch, fire, a knobbed stick, the crozier; and
still further personified, as Bacchus, Priapus, Dionysius, Hercules,
Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal, Asher, and
others. If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as
Asshur, Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was in his
day not symbolically used, but actually employed; for he bluntly says whoredom was committed with the images
of men/’ or, as the marginal note has it, images of a male (Ezek.). It was with this
god-mark a cross in the form of
the letter T that Ezekiel was
directed to stamp the foreheads of the men of Judaea who feared the Lord
(Ezek. ix. 4). That the cross, or crucifix, has a sexual origin
we determine by a similar rule of research to that by which
comparative anatomists determine the place and habits of an animal by a
single tooth. The cross is a metaphoric tooth which belongs to an antique
religious body physical, and that essentially human. A study of some of
the earliest forms of faith will lift the veil and explain the
mystery. India, China, and Egypt have furnished the world
with a genus of religion. Time and culture have divided and
modified it into many species and countless varieties. However much the
imagination was allowed to play upon it, the animus of that religion was
sexuality worship of the
generative principle of man and nature, male and female. The cross became
the emblem of the male feature, under the term of the triad three in one. The female was the unit;
and, joined to the male triad, constituted a sacred four. Rites and adoration
were sometimes paid to the male, sometimes to the female, or to the
two in one. So great was the veneration of the cross among
the ancients that it was carried as a Phallic symbol in the
religious processions of the Egyptians and Persians. Higgins also
describes the cross as used from the earliest times of Paganism by the
Egyptians as a banner, above which was carried the device of the Egyptian
cities. The cross was also used by the ancient Druids, who
held it as a sacred emblem. In Egypt it stood for the signification of
eternal life. Schedeus describes it as customary for the Druids to seek studiously for an oak tree,
large and handsome, growing up with two principal arms in the form
of a cross, besides the main stem upright. If the two horizontal arms are
not sufficiently adapted to the figure, they fasten a cross-beam to it.
This tree they consecrate in this manner : Upon the right branch
they cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’; upon
the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius 9; upon the left branch
* Belenus *; over this, above the going off of the arms, they cut the
name of the god Thau; under all, the same repeated, Thau ”
YONI There is in Hindostan an emblem of great sanctity, which
is known as the Linga-Yoni.” It consists
of a simple pillar in the centre of a figure resembling the outline
of a conical ear-ring. It is expressive of the female genital organ both
in shape and idea. The Greek letter
Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a
house. Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means the
vulva, the womb, the place of birth, origin, water, a mine, a hole, or pit. As
Asshur and Jupiter were the representatives of the male potency, so
Juno and Venus were representatives of the female attribute. Moore, in
his Oriental Fragments,” says
: Oriental writers have generally
spelled the word, * Yoni/ which I prefer to write ‘ IOni/ As Lingam
24 Phallic Worship was the vocalised cognomen of the
male organ, or deity, so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight : The female organs of generation were
revered as symbols of the generative powers of nature or of matter, as
those of the male were of the generative powers of God. They are
usually represented emblematically by the shell Concha Veneris, which was
therefore worn by devout persons of antiquity, as it still continues to
be by the pilgrims of many of the common people of Italy ” ( On the
worship of Priapus,” p. 28). If Asshur, the conspicuous feature of
the male Creator, is supplied with types and representative figures of
himself, so the female feature is furnished with substitutes and
typical imagery of herself. One of these is technically known as
the sistrum of Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the
fenestrum> or opening, are bent so that they cannot be taken out, and
indicate that the door is closed. It signifies that the mother is still
virgo intacta a truly immaculate
female if the truth can be strained to
so denominate a mother . The pure virginity of the Celestial Mother
was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted Virgin Mary now
adored was born. We might infer that Solomon was acquainted with the
figure of the sistrum, when he said,
A garden enclosed is my spouse, a spring shut up, a fountain
sealed ” (Song of Sol. iv. 12). The sistrum, we are told, was only used
in the worship of Isis, to drive away Typhon (evil). The
Argha is a contrite form, or boat-shaped dish or plate used as a
sacrificial cup in the worship of Astarte, Isis, and Venus. Its shape
portrays its own significance. The Argha and crux ansata were often seen
on Egyptian monuments, and yet more frequently on
bas-reliefs. Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the
Father, the Trinity; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam, Esau, Edom, Ach,
Sol, Helios (Greek for Sun), Dionysius, Bacchus, Apollo, Hercules,
Brahma, Vishnu, Siva, Jupiter, Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor,
Oden; the cross, tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of
others; while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno,
Venus, Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele, Ceres, Eve, Frea,
Frigga; the queen of Heaven, the oval, the trough, the delta, the door,
the ark, the ship, the chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit.
Celestial Virgin, and a number of other names. Lucian, who was an
Assyrian, and visited the temple of Dea Syria, near the Euphrates, says
there are two Phalli standing in the porch with this inscription on them, These Phalli I, Bacchus, dedicate to my
step-mother Juno.” The Papal religion is essentially the feminine,
and built on the ancient Chaldean basis. It clings to the female
element in the person of the Virgin Mary. Naphtali (Gen. xxx. 8) was a
descendant of such worshippers, if there be any meaning in a concrete
name. Bear in mind, names and pictures perpetuate the faith of many
peoples. Neptoah is Hebrew for the
vulva,” and, A1 or El being God, one of the unavoidable renderings of
Naphtali is the Yoni is my God,” or I worship the Celestial
Virgin.” The Philistine towns generally had names strongly connected with
sexual ideas. Ashdod, aisb or esby means
fire, heat,” and dod means love,
to love,” boiled up,” be agitated,” the whole signifying the heat of love,” or the fire which impels to union.” Could
not those people exclaim, Our God is love? (John). The amatory drift
of Solomon’s song is undisguised. 26 Phallic Worship
though the language is dressed in the habiliments of seeming decency. The
burden of thought of most of it bears direct reference to the Linga-Yoni.
He makes a woman say, He shall lie
all night betwixt my breasts ” (S. of S. i. 1 3). Again, of the Phallus,
or Linga, she says, I will go up
the palm-tree, I will take hold of the boughs thereof ” (vii. 8).
Palm-tree and boughs are euphemisms of the male genitals. The
nations surrounding the Jews practising the Phallic rites and worshipping
the Phallic deities, it is not to be supposed that the Jews escaped their
influence. It is indeed certain that the worship of the Phallics was
a great and important part of the Hebrew worship. This will
be the more plainly seen when we bear in mind the importance given to
circumcision as a covenant between God and man. Another equally
suggestive custom among the Patriarchs was the act of taking the
oath, or making a sacred promise, which is commented upon by Dr.
Ginsingburg in Kitto’s Cyclopadia. He says : Another primitive custom which obtained in
the patriarchal age was, that the one who took the oath put his
hand under the thigh of the adjurer (Gen.). This practice evidendy arose from
the fact that the genital member, which is meant by the euphemistic
expression thigh, was regarded as the most sacred part of the body, being
the symbol of union in the tenderest relation of matrimonial life, and
the seat whence all issue proceeds and the perpetuity so much coveted by
the ancients. Compare Gen; Exod.; Judges. Hence the creative organ became
the symbol of the Creator, and the object of worship among all
nations of antiquity. It is for this reason that God claimed it as a sign
of the covenant between himself and his chosen people in the rite of
circumcision. Nothing therefore could render the oath more solemn in
those days than touching the symbol of creation, the sign of the
covenant, and the source of that issue who may at any future period
avenge the breaking a compact made with their progenitor.” From this we
learn that Abraham, himself a Chaldee, had reverence for the Phallus as
an emblem of the Creator. We also learn that the rite of
circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From Herodotus we are
informed that the Syrians learned circumcision from the Egyptians, as did
the Hebrews. Says Dr. Inman : I do not know anything which
illustrates the difference between ancient and modern times more than the
frequency with which circumcision is spoken of in the sacred books, and
the carefulness with which the subject is avoided now.” The mutilation
of male captives, as practised by Saul and David, was another custom
among the worshippers of Baal, Asshur, and other Phallic deities. The
practice was to debase the victims and render them unfit to take
part in the worship ?nd mysteries. * Some idea can be formed of the esteem
in which people in former times cherished the male or Phallic emblems of
creative power when we note the sway that power exercised over
them. If these organs were lost or disabled, the unfortunate one
was unfitted to meet in the congregation of the Lord, and disqualified to
minister in the holy temples. Excessive punishment was inflicted upon the
person who had the temerity to injure the sacred structure. If a woman
were guilty of inflicting injury, her hand was cut off without pity
(Deut.). The great object of veneration in the Ark of the Covenant was
doubtless a Phallic emblem, a symbol of the preservation of the germ
of life. In the historical and prophetic books of the
Old Testament we have repeated evidence that the Hebrew worship was
a mixture of Paganism and Judaism, and that Jehovah was worshipped in
connection with other deities. Hezekiah is recorded in 2 Kings xviii. 3,
to have removed the high places,
and broken the images, and cut down the groves (Ashera), and broken in pieces
the brazen serpent that Moses had made, for unto those days the children
of Israel did burn incense to it.” The Ashera, or sacred groves here
alluded to are named from the goddess Ashtaroth, which Dr. Smith
describes as the proper name of the goddess; while Ashera is the
name of the image of the goddess. Rawlinson, in his Five Great Monarchies
of the Ancient World, describes Ashera to imply something that stood
straight up, and probably its essential element was the stem of a tree,
an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the Tree of Life of the
Scriptures. This stem, which stood for the emblem of life, was probably a
pillar, or Phallus, like the Lingi of the Hindus, sometimes erected in a
grove or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi. We read in 2
Kings xxi. 7, that Manasseh set up a
graven image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older
reading is in 2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image or pillar.
During the reigns of the Jewish kings, the worship of Baal, the Priapus
of the Romans, was extensively practised by the Jews. Pillars and
groves were reared in his name. In front of the Temple of Baal, in
Samaria, was erected an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which e ven
survived the temple itself, for although Jehu destroyed the Temple
of Baal, he allowed the Ashera to remain (2 Kings x. 18, 19; xiii. 6).
Bernstein, in an important work on the origin of the legends of Abraham,
Isaac, and Jacob, undoubtedly proves that during the monarchial
period of Israel, the sanguinary wars and violent conflicts between
the two kingdoms of Judah and Israel were between the Elohistic and
Jehovahic faiths, kept alive by the priesthood at the chief places of
worship, concerning the true patriarch, and each party manufacturing and
inserting legends to give a more ancient and important part to its
own faith. It is not at all improbable that the conflict was
between the two portions of the Phallic faith, the Lingam and Yoni
parties. The cause of this conflict was the erection of the consecrated
stones or pillars which were put up by the Hebrews as objects of Divine
worship. The altar erected by Jacob at Bethel was a pillar, for
according to Bernstein the word altar can only be used for the
erection of a pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or pillar
of stone, in Gilead, and finally he set one up upon the tomb of
Rachel. A great portion of the facts have been suppressed by
the translators, who have given to the world histories which have glossed
over the ancient rites and practices of the Jews. An instance
is given by Forlong on the important word
Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the Jews addressed their
devotions. He says, It should not be, but I fear it is, necessary to
explain to mere English readers of the Old Testament that the Stone or
Rock Tsur was the real old god of all Arabs, Jews, and Phoenicians,
that this would be clear to Christians were the Jewish writings
translated according to the first ideas of the people and Rock used as it
ought to be, instead of ‘ God/ * Theos/ ‘ Lord,’ etc., being written
where Tsur occurs . Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s
worship of Baal in Israel, where praises, addresses, and adorations
are addressed to the Rock, instance, Deut. xxxii. 4, 18. Stone pillars
were also used by the Hebrews as a memorial of a sacred covenant, for we
find Jacob setting up a pillar as a witness, that he would not pass over
it. Connected with this pillar worship is the ceremony of anointing
by pouring oil upon the pillar, as practised by Jacob at Bethel.
According to Sir W. Forbes, in his Oriental Memoirs, the pouring of oil upon a stone is
practised at this day upon many a shapeless stone throughout
Hindostan.” Toland gives a similar account of the Druids as
practising the same rite, and describes many of the stones found in
England as having a cavity at the top made to receive the offering. The
worship of Baal like the worship of Priapus was attended with
prostitution, and we find the Jews having a similar custom to the
Babylonians. Payne Knight gives the following account of it in
his work : The women of every rank
and condition held it to be an indispensable duty of religion to
prostitute themselves once in their lives in her temple to any
stranger who came and offered money, which, whether little or much,
was accepted, and applied to a sacred purpose. Women sat in the temple of
Venus awaiting the selection of the stranger, who had the liberty of
choosing whom he liked. A woman once seated must remain until she
has been selected by a piece of silver being cast into her lap, and the
rite performed outside the temple. Similar customs existed in Armenia, Phrygia,
and even in Palestine, and were a feature of the worship of Baal
Peor. The Hebrew prophets described and denounced these excesses which
had the same characteristics as the rites of the Babylonian priesthood.
The identical custom is referred to in 1 Sam. ii. 22, where the sons of Eli lay with the women that
assembled at the door of the tabernacle of the congregation.”
Words and history corroborate each other, or are apt to do so if
contemporaneous. Thus kadesh, or kaesb, designate in Hebrew a consecrated one,” and history tells
the unworthy tale in descriptive plainness, as will be shown in the
sequel. That the religion was dominating and imperative is
determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous refusal to listen to the
priest was death to the offender. To us it is inconceivable that the
indulgence of passion could be associated with religion, but so it was.
Much as it is covered over by altered words and substituted
expressions in the Bible an example of
which see men for male organ, Ezek. xvi. 17 it yet stands out offensively bold. The
words expressive of sanctuary,” consecrated,” and Sodomite,” are in the Hebrew
essentially the same. They indicate the passion of amatory
devotion. It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and
Italy of classic times; and we find that
holy women ” is a title given to those who devote their bodies to
be used for hire, the price of which hire goes to the service of
the temple. As a general rule, we may assume that priests who
make or expound the laws, which they declare to be from God, are
men, and, consequently, through all time, have thought, and do think, of
the gratification of the masculine half of humanity. The ancient and
modern Orientals are not exceptions. They lay it down as a
momentous fact that virginity is the most precious of all the
possessions of a woman, and, being so, it ought, in some way or
other, to be devoted to God. Throughout India, and also through the
densely inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a class
of females who dedicate themselves to the service of the deity whom they
adore; and the rewards accruing from their prostitution are devoted to
the service of the temple and the priests officiating therein.
The temples of the Hindus in the Dekkan possessed their
establishments. They had bands of consecrated dancing-girls called the
Women of the Ido/, selected in their infancy by the priests for the
beauty of their persons, and trained up with every elegant accomplishment
that could render them attractive. We also find David and the
daughters of Shiloh performing a wild and enticing dance; likewise we have
the leaping of the prophets of Baal. It is again significant
that a great proportion of Bible names relate to divine,” sexual, generative, or creative
power; such as Alah, the strong one ”;
Ariel, the strong Jas is El”;
Amasai, Jah is firm”; Asher, <c the male ” or the upright organ ”; Elijah, El is Jah ”; Eliab, the strong father ”; Elisha, iC El is
upright ”; Ara, the strong one,” the hero ”; Aram, " high,”
or, to be uncovered ”; Baal
Shalisha, my Lord the trinity,”
or my God is three ”; Ben-zohett,
M son of firmness ”; Camon, the erect
One ”; Cainan, he stands upright ”; these are only a few of the many
names of a similar signification. It will be seen, from what has
been given, that the Jews, like the Phoenicians (if they were not the
same), had the same ceremonies, rites, and gods as the surrounding
nations, but enough has been said to show that Phallic worship was much
practised by the Jews. It was very doubtful whether the Jehovah-worship
was not of a monotheistic character, but those who desire to have a
further insight into the mysteries of the wars between the tribes should
consult Bernstein’s valuable work. EARTH MOTHER The following interesting
chapter is taken from a valuable book issued a few years ago
anonymously: Mother Earth ” is a legitimate expression, only of the
most general type. Religious genius gave the female quality to the earth
with a special meaning. When once the idea obtained that our world was
feminine, it was easy to induce the faithful to believe that natural
chasms were typical of that part which characterises woman. As at
birth the new being emerges from the mother, so it was supposed that
emergence from a terrestrial cleft was equivalent to a new birth. In
direct proportion to the resemblance between the sign and the thing
signified was the sacredness of the chink, and the amount of virtue
which was imparted by passing through it. From natural caverns being
considered holy, the veneration for apertures in stones, as being equally
symbolical, was a natural transition. Holes, such as we refer to, are
still to be seen in those structures which are called Druidical, both
in the British Isles and in India. It is impossible to say when
these first arose; it is certain that they survive in India to this day.
We recognise the existence of the emblem among the Jews in Isaiah li. i,
in the charge to look to the hole
of the pit whence ye are digged.” We have also an indication that chasms
were symbolical among the same people in Isaiah lvii. 5, where the
wicked among the Jews were described as
inflaming themselves with idols under every green tree, and
slaying the children in the valleys under the clefts of the rocks.” It is
possible that the hole in the wall
” (Ezek. viii. 7) had a similar signification. In modern Rome, in the
vestibule of the church close to the Temple of Vesta, I have seen a
large perforated stone, in the hole of which the ancient Romans are
said to have placed their hands when they swore a solemn oath, in
imitation, or, rather, a counterpart, of Abraham swearing his servant
upon his thigh that is the male
organ. Higgins dwells upon these holes, and says : These stones are so placed as to have a hole
under them, through which devotees passed for religious purposes.
There is one of the same kind in Ireland, called St. Declau’s stone. In
the mass of rocks at Bramham Crags there is a place made for the devotees
to pass through. We read in the accounts of Hindostan that there is
a very celebrated place in Upper India, to which immense numbers of
pilgrims go, to pass through a place in the mountains called The Cow’s Belly.” In the Island of
Bombay, at Malabar Hill, there is a rock upon the surface of which there
is a natural crevice, which communicates with a cavity opening below.
This place is used by the Gentoos as a purification of their sins.
Phallic Worship 35 which they say is effected by their
going in at the opening below, and emerging at the cavity above born again.” The ceremony is in such
high repute in the neighbouring countries that the famous Conajee Angria
ventured by stealth, one night, upon the Island, on purpose to perform
the ceremony, and got off undiscovered. The early Christians gave them a
bad name, as if from envy; they called these holes Cunni Diaboli ” (. Atiacalypsis)
BACCHANALIA AND LIBERALIA FESTIVALS The Romans called the feasts of
Bacchus, Bacchanalia and Liberalia, because Bacchus and Liber were the
names for the same god, although the festivals were celebrated at
different times and in a somewhat different manner. The latter, according
to Payne Knight, was celebrated on the 17th of March, with the most
licentious gaiety, when an image of the Phallus was carried openly
in triumph. These festivities were more particularly celebrated among the
rural or agricultural population, who, when the preparatory labour of the
agriculturist was over, celebrated with joyful activity Nature’s
reproductive powers, which in due time was to bring forth the
fruits. During the festival a car containing a huge Phallus was
drawn along accompanied by its worshippers, who indulged in obscene songs and
dances of wild and extravagant character. The gravest and proudest
matrons suddenly laid aside their decency and ran screaming among
the woods and hills half-naked, with dishevelled hair, interwoven with
which were pieces of ivy or vine. The Bacchanalian feasts were celebrated
in the latter part of October when the harvest was completed. Wine
and figs were carried in the procession of the Bacchants, and
lastly came the Phalli, followed by honourable virgins, called canephora,
who carried baskets of fruit. These were followed by a company of men who
carried poles, at the end of which were figures representing the organ
of generation. The men sung the Phallica and were crowned with
violets and ivy, and had their faces covered with other kinds of herbs.
These were followed by some dressed in women’s apparel, striped with
white, reaching to their ancles, with garlands on their heads, and
wreaths of flowers in their hands, imitating by their gestures the
state of inebriety. The priestesses ran in every direction shouting and
screaming, each with a thyrsus in their hands. Men and women all
intermingled, dancing and frolicking with suggestive gesticulations.
Deodorus says the festivals were carried into the night, and it was then
frenzy reached its height. He says, In
performing the solemnity virgins carry the thyrsus, and run about
frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god; then the women in a body
offer the sacrifices, and roar out the praises of Bacchus in song as if
he were present, in imitation of the ancient Maenades, who accompanied
him.” These festivities were carried into the night, and as the
celebrators became heated with wine, they degenerated into extreme
licentiousness. Similar enthusiastic frenzy was exhibited at the
Lupercalian Feasts instituted in honour of the god Pan (under the shape
of a Goat) whose priests, according to Owen in his Worship of Serpents,
on the morning of the Feast ran naked through the streets, striking the
married women they met on the hands and belly, which was held as an omen
promising fruitfulness. The nymphs performing the same ostentatious
display as the Bacchants at the festival of Bacchanalia. The
festival of Venus was celebrated towards the beginning of April, and the
Phallus was again drawn in a car, followed by a procession of Roman women
to the temple of Venus. Says a writer,
The loose women of the town and its neighbourhood, called together
by the sounding of horns, mixed with the multitude in perfect
nakedness, and excited their passions with obscene motions and
language until the festival ended in a scene of mad revelry, in which all
restraint was laid aside.” It is said that these festivals took
their rise from Egypt, from whence they were brought into Greece by
Metampus, where the triumph of Osiris was celebrated with secret
rites, and from thence the Bacchanals drew their original; and from the
feasts instituted by Isis came the orgies of Bacchus. DRUID AND
HEBREW FAITHS It seems not at all improbable that the deities
worshipped by the ancient Britons and the Irish, were no other then the
Phallic deities of the ancient Syrians and Greeks, and also the Baal of
the Hebrews. Dionysius Periegites, who lived in the time of Augustus
Csesar, states that the rites of Bacchus were celebrated in the
British Isles; while Strabo, who lived in the time of Augustus and
Tiberius, asserts that a much earlier writer described the worship of the
Cabiri to have come originally from Phoenicia. Higgins, in his History of
the Druids, says, the supreme god above the rest was called Seodhoc
and Baal. The name of Baal is found both in Wales, Gaul, and Germany, and
is the same as the Hebrew Baal. The same god, according to O’Brien,
was the chief deity of the Irish, in whose honour the round towers
were erected, which structures the ancient Irish themselves
designated Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers, xxii, will be
found a mention of a similar pillar consecrated to Baal. Many of the same
customs and superstitions that existed among the Druids and ancient
Irish, will likewise be found among the Israelites. On the first
day of May, the Irish made great fires in honour of Baal, likewise
offering him sacrifices. A similar account is given of a custom of the
Druids by Toland, in an account of the festival of the fires; he says
: on May-day eve the Druids made
prodigious fires on these earns, which being everyone in sight of some
other, could not but afford a glorious show over a whole nation.”
These fires are said to be lit even to the present day by the
Aboriginal Irish, on the first of May, called by them Bealtine, or the
day of Belan’s fire, the same name as given them in the Highlands of
Scotland. A similar practice to this will be noticed as mentioned
in the II Book of Kings, where the Canaanites in their worship of
Baal, are said to have passed their children through the fire of Baal,
which seems to have been a common practice, as Ahaz, King of Israel, is
blamed for having done the same thing. Higgins in his Anacalypsis y says
this superstitious custom still continues, and that on particular days great fires are
lighted, and the fathers taking the children in their arms, jump or run
through them, and thus pass their children through them; they also
light two fires at a little distance from each other, and drive
their cattle between them.” It will be found on reference to Deuteronomy,
that this very practice is specially forbidden. In the rites of Numa, we have
also the sacred fire of the Irish; of St. Bridget, of Moses, of
Mithra, and of India, accompanied with an establishment of nuns or
vestal virgins. A sacred fire is said to have been kept burning by the
nuns of Kildare, which was established by St. Bridget. This fire was
never blown with the mouth, that it might not be polluted, but only
with bellows; this fire was similar to that of the Jews, kept
burning only with peeled wood, and never blown with the mouth. Hyde
describes a similar fire which was kept burning in the same way by the
ancient Persians, who kept their sacred fire fed with a certain tree
called Hawm Mogorum; and Colonel Vallancey says the sacred fire of
the Irish was fed with the wood of the tree called Hawm. Ware, the Romish
priest, relates that at Kildare, the glorious Bridget was rendered
illustrious by many miracles, amongst which was the sacred fire, which
had been kept burning by nuns ever since the time of the
Virgin. The earliest sacred places of the Jews were evidently
sacred stones, or stone circles, succeeded in time by temples. These
early rude stones, emblems of the Creator, were erected by the
Israelites, which in no way differed from the erections of the Gentiles.
It will be found that the Jews to commemorate a great victory, or
to bear witness of the Lord, were all signified by stones : thus, Joshua
erected a stone to bear witness; Jacob put up a stone to make a place
sacred; Abel set up the same for a place of worship; Samuel erected a
stone as a boundary, which was to be the token of an agreement made
in the name of God. Even Maundrel in his travels names several that he
saw in Palestine. It is curious that where a pillar was erected there, sometime
after, a temple was put up in the same manner that the Round Towers
of Ireland were, always near a church,
but never formed part of it. We find many instances in the Scriptures of
the erection of a number of stones among the early Israelites,
which would lead us to conclude that it was not at all unlikely that the
early places of worship among them, were similar to the temples found in
various parts of Great Britain and Ireland. It is written in Exodus xxiv.
4, that Moses rose up early in the morning, and builded an altar
under the hill, and twelve pillars, according to the twelve tribes of
Israel, were erected. It is also given out that when the children of
Israel should pass over the Jordan, unto the land which the Lord
giveth them, they should set up great stones, and plaster them with
plaster, and also the words of the law were to be written thereon. In
many other places stones were ordered to be set up in the name of the
Lord, and repeated instances are given that the stones should be
twelve in number and unhewn. Stone temples seem to have been
erected in all countries of the world, and even in America, where, among
the early American races are to be found customs, superstitions,
and religious objects of veneration, similar to the Phoenicians. An
American writer says : There is
sufficient evidence that the religious customs of the Mexicans, Peruvians
and other American races, are nearly identical with those of the ancient
Phoenicians. We moreover discover that many of their religious terms
have, etymologically, the same origin.” Payne Knight, in his Worship of
Priapus, devotes much of his work to show that the temples erected at
Stonehenge and other places, were of a Phoenician origin, which was
simply a temple of the god Bacchus. STONEHENGE A TEMPLE OF
BACCHUS Of all the nations of antiquity the Persians were the
most simple and direct in the worship of the Creator. They were the
puritans of the heathen world, and not only rejected all images of God
and his agents, but also temples and altars, according to Herodotus,
whose authority we prefer to any other, because he had an
opportunity of conversing with them before they had adopted any foreign
superstitions. As they worshipped the ethereal fire without any medium of
personification or allegory, they thought it unworthy of the dignity
of the god to be represented by any definite form, or circumscribed to
any particular place. The universe was his temple, and the all-pervading
element of fire his only symbol. The Greeks appear originally to have
held similar opinions, for they were long without statues and
Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built by Adrastus who lived in an age before the Trojan war
which consisted of columns only, without wall or roof, like the Celtic
temples of our northern ancestors, or the Phyrcetheia of the Persians,
which were circles of stones in the centre of which was kindled the
sacred fire, the symbol of the god. Homer frequently speaks of
places of worship consisting of an area and altar only, which were
probably enclosures like those of the Persians, with an altar in the
centre. The temples dedicated to the creator Bacchus, which the Greek
architects called hypathral, seem to have been anciently of this kind,
whence probably came the title ( surround with columns ”)
attributed to that god in the Orphic litanies. The remains of one
of these are still extant at Puzznoli, near Naples, which the
inhabitants call the temple of Serapis; but the ornaments of grapes,
vases, etc., found among the ruins, prove it to have been of Bacchus.
Serapis was indeed the same deity worshipped under another form, being
usually a personification of the sun. The architecture is of the
Roman times; but the ground plan is probably that of a very ancient one,
which this was made to replace for
it exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland, published in
Stukeley’s Itinerary. The ranges of square buildings which enclose it are
not properly parts of the temple, but apartments of the priests, places
for victims and sacred utensils, and chapels dedicated to the subordinate
deities, introduced by a more complicated and corrupt worship and
probably unknown to the founder of the original edifice. The portico,
which runs parallel with these buildings, encloses the temenss, or area
of sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was
circular, but is here quadrangular, as in the Celtic temple in Zeeland,
and the Indian pagoda before described. In the centre was the holy of
holies, the seat of the god, consisting of a circle of columns raised
upon a basement, without roof or walls, in the middle of which was
probably the sacred fire or some other symbol of the deity. The
square area in which it stood was sunk below the natural level of the
ground, and, like that of the Indian pagoda, appears to have been
occasionally floated with water; the drains and conduits being still to
be seen, as also several fragments of sculpture representing waves, serpents,
and various aquatic animals, which once adorned the basement. The
Bacchus here worshipped, was, as we learn from the Orphic hymn above
cited, the sun in his character of extinguisher of the fires which once
pervaded the earth. He is supposed to have done this by exhaling the waters
of the ocean and scattering them over the land, which was thus supposed
to have acquired its proper temperature and fertility. For this reason
the sacred fire, the essential image of the god, was surrounded by the
element which was principally employed in giving effect to the
beneficial exertion* of the great attribute. From a passage
of Hecatasus, preserved by Diodorus Siculus, it seems evident that
Stonehenge and all the monuments of the same kind found in the north, belong to
the same religion which appears at some remote period to have
prevailed over the whole northern hemisphere. According to that ancient
historian, the Hyperboreans inhabited an island beyond Gaul, as large as
Sicily, in which Apollo was worshipped in a circular temple considerable
for its si^e and riches. Apollo, we know, in the language of the
Greeks of that age, can mean no other than the sun, which according to
Caesar was worshipped by the Germans, when they knew of no other deities
except fire and the moon. The island can evidently be no other than
Britain, which at that time was only known to the Greeks by the
vague reports of the Phoenician mariners; and so uncertain and obscure
that Herodotus, the most inquisitive and credulous of historians, doubts
of its existence. The circular temple of the sun being noticed in such
slight and imperfect accounts, proves that it must have been something
singular and important; for if it had been an inconsiderable structure,
it would not have been mentioned 44 Phallic
Worship at all; and if there had been many such in the
country, the historian would not have employed the singular
number. Stonehenge has certainly been a circular temple,
nearly the same as that already described of the Bacchus at Puzznoli,
except that in the latter the nice execution and beautiful symmetry of
the parts are in every respect the reverse of the rude but majestic
simplicity of the former. In the original design they differ but in the
form of the area. It may therefore be reasonably supposed that we
have still the ruins of the identical temple described by Hecataeus, who,
being an Asiatic Greek, might have received his information from
Phoenician merchants, who had visited the interior parts of Britain when
trading there for tin. Anacrobius mentions a temple of the same
kind and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated to the
sun under the title of Bacchus Sebrazius. The large obelisks of stone
found in many parts of the north, such as those at Rudstone, and near
Boroughbridge, in Yorkshire, belong to the same religion; obelisks
being, as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they
represented both by their form and name .
Payne Knight* s Worship of Priapus. BUNS AND
RELIGIOUS CAKES Says Hyslop :
The hot cross-buns of Good Friday, and the dyed eggs of Pasch or
Easter Sunday, figured in the Chaldean rites just as they do now. The
buns known, too, by that identical name, were used in the worship of
the Queen of Heaven, the goddess Easter (Ishtar or Astarte), as
early as the days of Cecrops, the founder of Athens, 1,500 years before
the Christian era.” One species of
bread,” says Bryant, ‘ which used to be
offered to the gods, was of great antiquity, and called Bonn. 9
Diogenes mentioned they were made of flour and honey. It appears
that Jeremiah the Prophet was familiar with this lecherous worship. He
says: The children gather wood,
the fathers kindle the fire, and the women knead the dough to make cakes
to the Queen of Heaven (Jer. vii., 18). Hyslop does not add that the buns ” offered to the Queen of Heaven,
and in sacrifices to other deities, were framed in the shape of the
sexual organs, but that they were so in ancient times we have abundance
of evidence. Martial distinctly speaks of such things in two
epigrams, first, wherein the male organ is spoken of, second,
wherein the female part is commemorated; the cakes being made of
the finest flour, and kept especially for the palate of the fair
one. Wilford (Asiatic Researches) says: When the people of Syracuse were sacrificing
to goddesses, they offered cakes called mullot, shaped like the
female organ, and in some temples where the priestesses were probably
ventriloquists, they so far imposed on the credulous multitude who came
to adore the Vulva as to make them believe that it spoke and gave oracles.”
We can understand how such things were allowed in licentious Rome,
but we can scarcely comprehend how they were tolerated in Christian
Europe, as, to all innocent surprise we find they were, from the second
part of the Remains of the Worship
of Priapus ” : that in Saintonge, in the neighbourhood of La Rochelle,
small cakes baked in 46 Phallic Worship
the form of the Phallus are made as offerings at Easter, carried
and presented from house to house. Dulare states that in his time the
festival of Palm Sunday, in the town of Saintes, was called le fete des
pinnes feast of the privy
members and that during its continuance
the women and children carried in the procession a Phallus made of
bread, which they called a pinne, at the end of their palm branches;
these pinnes were subsequently blessed by priests, and carefully
preserved by the women during the year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be
remembered, is a euphemism of the male organ, and it is curious to
see it united with the Phallus in Christendom. Dulare also says
that, in some of the earlier inedited French books on cookery, receipts
are given for making cakes of the salacious form in question, which are
broadly named. He further tells us those cakes symbolized the male, in
Lower Limousin, and especially at B rives; while the female emblem
was adopted at Clermont, in Auvergne, and other places. THE ARK AND
GOOD FRIDAY The ark of the covenant was a most sacred symbol in the
worship of the Jews, and like the sacred boat, or ark of Osiris,
contained the symbol of the principle of life, or creative power. The
symbol was preserved with great veneration in a miniature tabernacle,
which was considered the special and sanctified abode of the god.
In size and manner of construction the ark of the Jews and the sacred
chest of Osiris of the Egyptians were Phallic Worship
47 exactly alike, and were carried in processions in a
similar manner The ark or chest of Osiris was attended by the
priests, and was borne on the shoulders of men by means of staves.
The ark when taken from the temple was placed upon a table, or stand,
made expressly for the purpose, and was attended by a procession similar
to that which followed the Jewish ark. According to Faber, the ark
was a symbol of the earth or female principle, containing the germ of all
animated nature, and regarded as the great mother whence all things
sprung. Thus the ark, earth, and goddess, were represented by common
symbols, and spoken of in the old Testament as the ashera.” The sacred emblems
carried in the ark of the Egyptians were the Phallus, the Egg, and the
Serpent; the first representing the sun, fire, and male or generative
principle the Creator; the second,
the passive or female, the germ of all animated things the Preserver; and the last the
Destroyer : the Three of the sacred Trinity. The Hindu women, according
to Payne Knight, still carry the lingam, or consecrated symbol of the
generative attribute of the deity, in solemn procession between two
serpents; and in a sacred casket, which held the Egg and the Phallus in
the mystic processions of the Greeks, was also a Serpent. The ark,”
says Faber, was reverenced in all
the ancient religions.” It was often represented in the form of a
boat, or ship, as well as an oblong chest. The rites of the Druids, with
those of Phoenicia and Hindostan, show that an ark, chest, cell, boat, or
cavern, held an important place in their mysteries. In the story of
Osiris, like that of the Siva, will be found the reason for the emblem
being carried in the sacred chest, and the explanation of one of the
mysteries of the Egyptian priests. It is said that Osiris was tom to
pieces by the wicked Typhon, who after cutting up the body, distributed
the parts over the earth. Isis recovered the scattered limbs, and
brought them back to Egypt; but, being unable to find the part
which distinguished his sex, she had an image made of wood, which was
enshrined in an ark, and ordered to be solemnly carried about in the
festivals she had instituted in his honour, and celebrated with certain
secret rites. The Egg, which accompanied the Phallus in the ark
was a very common symbol of the ancient faiths, which was
considered as containing the generation of life. The image of that which
generated all things in itself. Jacob Bryant says : The Egg, as it contained the
principles of life was thought no improper emblem of the ark, in
which were preserved the future world. Hence in the Dionysian and in
other mysteries, one part of the nocturnal ceremony consisted in the
consecration of an egg.” This egg was called the Mundane Egg. The
ark was likewise the symbol of salvation, the place of safety, the secret
receptacle of the divine wisdom. Hence we find the ark of the Jews
containing the tables of the law; we find too that the Jews were ordered
to place in the ark Aaron’s rod, which budded, conveying the idea
of symbolised fertility : showing that the ark was considered as the
receptacle of the life principle
as an emblem of the Creator. With the Egyptians Osiris
was supposed to be buried in the ark, which represented the disappearance
of the deity. His loss, or death, constituted the first part of the
mysteries, which consisted of lamentations for his decease. After
the third day from his death, a procession went down to the seaside
in the night, carrying the ark with them. During the passage they poured
drink offerings from the river, and when the ceremony had been duly
performed, they raised a shout that Osiris had again risen that the dead had been restored to
life. After this followed the second or joyful part of the mysteries. The
similarity of this custom with the Good Friday celebrations of the death
of Jesus, and the rejoicings on account of his resurrection on Easter
Sunday, will be at once observed. It is further said that the
missing part of Osiris was eaten by a fish, which made the fish a
sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good Friday brought
together, also the Egg, for the origin of the Easter eggs is very
ancient. A bull is represented as breaking an egg with his horn, which
signified the liberating of imprisoned life at the opening or spring
of the year, 'which had been destroyed by Typhon. The opening of
the year at that time commenced in the spring, pot according to our
present reckoning; thus, the Egg was a symbol of the resurrection of life
at the spring, or our Easter time. The author of the Worship of the Generative Powers,”
describes the origin of the hot crossbun at Easter, which is a further
parallelism of the Christian and Pagan festivals. The author also draws a
further conclusion that the cakes
or buns have in reality a Phallic origin, for in France and other parts,
the Easter cakes were called after the membrun virile. The writer
says : In the primitive Teutonic
mythology, there was a female deity named in old German, Ostara, and in
Anglo-Saxon, Eastre or Eostre; but all we know of her is the simple
statement of our father of history, Bede, that her festival was
celebrated by the ancient Saxons in the month of April, from which
circumstance that month was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or
Eostermona, and that the name of the goddess had been frequently given to
the Paschal time, with which it was identical. The name of this goddess
was given to the same month by the old Germans and by the Franks, so that
she must have been one of the most highly honoured of the Teutonic
deities, and her festival must have been a very important one and deeply
implanted in the popular feelings, or the Church would not have sought to
identify it with one of the greatest Christian festivals of the year. It
is understood that the Romans considered this month as dedicated to
Venus, no doubt because it was that in which the productive powers of
nature began to be visibly developed. When the Pagan festival was adopted
by the Church, it became a moveable feast, instead of being fixed to
the month of April. Among other objects offered to the goddess at
this time were cakes, made no doubt of fine flour, but of their form we
are ignorant. The Christians when they seized upon the Easter festival,
gave them the form of a bun, which indeed was at that time the
ordinary form of bread; and to protect themselves and those who ate
them from any enchantment or other evil
influences which might arise from their former heathen character
they marked them with the Christian symbol
the cross. Hence we derived the cakes we still eat at Easter
under the name of hot cross-buns, and the superstitious feelings
attached to them; for multitudes of people still believe that if they
failed to eat a hot cross-bun on Good Friday, they would be unlucky all
the rest of the year.” ARCHITECTURAL PILLARS DEVISED FROM THE
LOTUS The earliest capital seems to have been the bell or
seed vessel, simply copied without alteration, except a little expansion
at the bottom to give it stability. The leaves of some other plant were
then added to it, and varied in different capitals according to the
different meanings intended to be signified by the accessory
symbols. The Greeks decorated it in the same manner, with the
foliage of various plants, sometimes of the acanthus and sometimes of the
aquatic kind, which are, however, generally so transformed by excessive
attention to elegance, that it is difficult to distinguish them. The most
usual seems to be the Egyptian acacia, which was probably adopted
as a mystic symbol for the same reasons as the olive, it being equally
remarkable for its powers of reproduction. Theophrastus mentions a large
wood of it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so
that we reasonably suppose it to have been employed by the Egyptians in
the same symbolical sense. From them the Greeks seem to have borrowed it
about the time of the Macedonian conquest, it not occurring in any
of their buildings of a much earlier date; and as for the story of the
Corinthian architect, who is said to have invented this kind of capital
from observing a thorn growing round a basket, it deserved no credit,
being fully contradicted by the buildings still remaining in Upper
Egypt. The Doric column, which appears to have been the only
one known to the very ancient Greeks, was equally derived from the
Nelumbo; its capital being the same •eed-vessel pressed flat, as it
appears when withered and dry the only
state probably in which it had been seen in Europe. The flutes in the
shaft were made to hold spears and staves, whence a spear-holder is
spoken of in the Odyssey ” as part
of a column. The triglyphs and blocks of the cornice were also derived
from utility, they having been intended to represent the projecting
ends of the beams and rafters which formed the roof. The Ionic
capital has no bell, but volutes formed in imitation of sea-shells, which
have the same symbolical meaning. To them is frequently added the
ornament which architects call a honeysuckle, but which seems to be
meant for the young petals of the same flower viewed horizontally, before
they are opened or expanded. Another ornament is also introduced in this
capital, which they call eggs and anchors, but which is, in fact,
composed of eggs and spear-heads, the symbols of female generation
and male destructive power, or in the language of mythology, of Venus and
Mars. Payne Knight . BELLS IN RELIGIOUS WORSHIP Stripped,
however, of all this splendour and magnificence it was probably nothing more
than a symbolical instrument, signifying originally the motion of
the elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of Cybele, the
bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have overcome the
Titans with his aegis, as Isis drove away Typhon with her sistrum, and
the ringing of the bells and clatter of metals were almost universally
employed as a means of consecration, and a charm against the destroying
and inert powers. Even the Jews welcomed the new moon with such noises,
which the simplicity of the early ages employed almost everywhere to
relieve her during eclipses, supposed then to be morbid affections
brought on by the influence of an adverse power. The title Priapus y by
which the generative attribute is distinguished, seems to be merely a
corruption of Briapuos (clamorous); the beta and pi being commutable
letters, and epithets of similar meaning, being continually applied
both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many Priapic figures, too,
still extant, have bells attached to them, as the symbolical statues and
temples of the Hindus are; and to wear them was a part of the worship
of Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find them of
extremely small size, evidently meant to be worn as amulets with the
phalli, lunulas, etc. The chief priests of the Egyptians and also the
high priests of the Jews, hung them as sacred emblems to their sacerdotal
garments; and the Brahmins still continue to ring a small bell at the
interval of their prayers, ablutions, and other acts of devotion; which
custom is still preserved in the Roman Catholic Church at the elevation
of the host. The Lacedaemonians beat upon a brass vessel or pan, on
the death of their kings, and we still retain the custom of tolling
a bell on such occasions, though the reason of it is not generally known,
any more than that of other remnants of ancient ceremonies still existing
. 1 It will be observed that the bells used by the Christians very
probably came direct from the Buddhists. And from the same source are
derived the beads and rosaries of the Roman Catholics, which have been
used by the Buddhist 1 The above description is from Payne Knight's
"Symbolical Language of ancient Art and Mythology." monks
for over 2,000 years. Tinkling bells were suspended before the shrine of
Jupiter Ammon, and during the service the gods were invited to descend
upon the altars by the ringing of bells; they were likewise sacred
to Siva. Bells were used at the worship of Bacchus, and were worn on the
garments of the Bacchantes, much in the same manner as they are used at
our carnivals and masquerades. HINDU PHALLICISM The following
curious fable is given by Sir William Jones, as one of the stories of the
Hindus for the origin of Phallic devotion : Certain devotees in a remote
time had acquired great renown and respect, but the purity of the
art was wanting, nor did their motives and secret thoughts correspond
with their professions and exterior conduct. They affected poverty, but
were attached to the things of this world, and the princes and nobles
were constantly sending their offerings. They seemed to sequester
themselves from this world; they lived retired from the towns; but their
dwellings were commodious, and their women numerous and handsome. But
nothing can be hid from their gods, and Sheevah resolved to put them to
shame. He desired Prakeety (nature) to accompany him; and assumed
the appearance of a Pandaram of a graceful form. Prakeety was herself a
damsel of matchless worth. She went before the devotees who were
assembled with their disciples, awaiting the rising of the sun, to
perform their ablutions and religious ceremonies. As she
advanced the refreshing breeze moved her flowing robe, showed the
exquisite shape which it seemed intended to conceal. With eyes cast down,
though sometimes opening with a timid but tender look, she approached
them, and with a low enchanting voice desired to be admitted to the
sacrifice. The devotees gazed on her with astonishment. The sun
appeared, but the purifications were forgotten; the things of the Poo j
ah (worship) lay neglected; nor was any worship thought of but that of
her. Quitting the gravity of their manners, they gathered round her
as flies round the lamp at night
attracted by its splendour, but consumed by its flame. They asked
from whence she came; whither she was going. ‘ Be not offended with
us for approaching thee, forgive us our importunities. But thou art
incapable of anger, thou who art made to convey bliss; to thee, who
mayest kill by indifference, indignation and resentment are unknown. But
whoever thou mayest be, whatever motive or accident might have
brought thee amongst us, admit us into the number of thy slaves; let us
at least have the comfort to behold thee.’ Here the words faltered on the
lip, and the soul seemed ready to take its flight; the vow was
forgotten, and the policy of years destroyed. Whilst the devotees
were lost in their passions, and absent from their homes, Sheevah entered
their village with a musical instrument in his hand, playing and
singing like some of those who solicit charity. At the sound of his
voice, the women immediately quitted their occupation; they ran to see
from whom it came. He was as beautiful as Krishen on the plains of Matra.
Some dropped their jewels without turning to look for them; others
let fall their garments without perceiving that they discovered
those abodes of pleasure which jealousy as well as decency had ordered to
be concealed. All pressed forward with their offerings, all wished to
speak, all wished to be taken notice of, and bringing flowers and
scattering them before him, said ‘
Askest thou alms ! thou who are made to govern hearts. Thou whose
countenance is as fresh as the morning, whose voice is the voice of
pleasure, and they breath like that of Vassant (Spring) in the opening
of the rose I Stay with us and we will serve thee; nor will we
trouble thy repose, but only be zealous how to please thee/ The Pandaram
continued to play, and sung the loves of Kama (God of Love), of Krishen
and the Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. But the
desire of repose succeeds the waste of pleasure. Sleep closed the eyes
and lulled the senses. In the morning the Pandaram was gone. When they
awoke they looked round with astonishment, and again cast their
eyes on the ground. Some directed to those who had formerly been remarked
for their scrupulous manners, but their faces were covered with their
veils. After sitting awhile in silence they arose and went back to
their houses, with slow and troubled steps. The devotees returned
about the same time from their wanderings after Prakeety. The days that
followed were days of embarrassment and shame. If the women had failed in
their modesty, the devotees had broken their vows. They were vexed
at their weakness, they were sorry for what they had done; yet the tender
sigh sometimes broke forth, and the eyes often turned to where the men
first saw the maid the women, the
Pandaram. But the women began to perceive that what the
devotees foretold came not to pass. Their disciples, in consequence,
neglected to attend them, and the offerings from the princes and nobles
became less frequent than before. They then performed various penances;
they sought for secret places among the woods unfrequented by man;
and having at last shut their eyes from the things of this world, retired
within themselves in deep meditation, that Sheevah was the author of
their misfortunes. Their understanding being imperfect, instead of
bowing the head with humility, they were inflamed with anger; instead of
contrition for their hypocrisy, they sought for vengeance. They
performed new sacrifices and incantations, which were only allowed
to have effect in the end, to show the extreme folly of man in not
submitting to the will of heaven. Their incantations produced a
tiger, whose mouth was like a cavern and his voice like thunder among
the mountains. They sent him against Sheevah, who with Prakeety was
amusing himself in the vale. He smiled at their weakness, and killing the
tiger at one blow with his club, he covered himself with his skin. Seeing
themselves frustrated in this attempt, the devotees had recourse to
another, and sent serpents against him of the most deadly kind; but on
approaching him they became harmless, and he twisted them round his neck.
They then sent their curses and imprecations against him, but they
all recoiled upon themselves. Not yet disheartened by all these
disappointments, they collected all their prayers, their penances, their
charities, and other good works, the most acceptable sacrifices; and
demanding in return only vengeance against Sheevah, they sent a
fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at this attempt,
turned the fire with indignation against the human race; and mankind
would soon have been destroyed, had not Vishnu, alarmed at the
danger, implored him to suspend his wrath. At his entreaties Sheevah
relented; but it was ordained that in his temples those parts should be
worshipped \ which the false doctrines had impiously attempted to
destroy.” THE CROSS AND ROSARY The key which is still
worn with the Priapic hand, as an amulet, by the women of Italy appears
to have been an emblem of the equivocal use of the name, as the
language of that country implies. Of the same kind, too, appears to
have been the cross in the form of the letter tau> attached to a
circle, which many of the figures of Egyptian deities, both male and
female, carry in their left hand; and by the Syrians, Phoenicians and
other inhabitants of Asia, representing the planet Venus, worshipped by
them as the emblem or image of that goddess. The cross in this form
is sometimes observable on coins, and several of them were found in a
temple of Serapis, demolished at the general destruction of those
edifices by the Emperor Theodosius, and were said by the Christian
antiquaries of that time to signify the future life. In solemn
sacrifices, all the Lapland idols were marked with it from the blood
of the victims; and it occurs on many Runic ornaments found in Sweden and
Denmark, which are of an age long anterior to the approach of
Christianity to those countries, and probably to its appearance in the
world. On some of the early coins of the Phoenicians, we find it
attached to a chaplet of beads placed in a circle, so as to form a
complete rosary, such as the Lamas of Thibet and China, the Hindus, and
the Roman Catholics now tell over while they pray. Beads were
anciently used to reckon time, and a circle, being a line without
termination, was the natural emblem of its perpetual continuity; whence
we often find circles of beads upon the heads of deities, and enclosing
the sacred symbols upon coins and other monuments. Perforated beads
are also frequently found in tombs, both in the northern and southern
parts of Europe and Asia, whence are fragments of the chaplets of
consecration buried with the deceased. The simple diadem, or
fillet, worn round the head as a mark of sovereignty, had a similar
meaning, and was originally confined to the statues of deities and
deified personages, as we find it upon the most ancient coins. Chryses,
the priest of Apollo, in the
Iliad,” brings the diadem, or sacred fillet, of the god upon his
sceptre, as the most imposing and invocable emblem of sanctity; but no
mention is made of its being worn by kings in either of the Homeric
poems, nor of any other ensign of temporal power and command, except
the royal staff or sceptre. The double sex typified by the Argha and
its contents is by the Hindus represented by the Mymphcea ” or Lotus, floating like a boat
on the boundless ocean, where the whole plant signifies both the earth
and the two principles of its fecundation. The germ is both Meru
and the Linga; the petals and filaments are the mountains which
encircle Meru, and are also a type of the Yoni; the leaves of the calyx
are the four vast regions to the cardinal points of Meru; and the leaves
of the plant are the Dwipas or isles round the land of Jambu. As
this plant or lily was probably the most celebrated of all the
vegetable creation among the mystics of the ancient world, and is to be
found in thousands of the most beautiful and sacred paintings of the
Christians of this day I detain my
reader with a few observations respecting it. This is the more necessary
as it appears that the priests have now lost the meaning of it ; at least
this is the case with everyone of whom I have made enquiry ; but it is
like many other very odd things, probably understood in the
Vatican, or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the
different plants which ornament our globe, there is not one which has
received so much honour from man as the Lotus or Lily, in whose
consecrated bosom Brahma was born, and Osiris delighted to float. This is
the sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in oriental
mythology, and in truth not without reason, for it is itself a lovely
prodigy. Throughout all the northern hemispheres it was everywhere held
in profound veneration, and from Savary we learn that the
veneration is yet continued among the modern Egyptians. And we find
that it still continues to receive the respect if not the adoration of a
great part of the Christian world, unconscious, perhaps, of the original
reason of this conduct. Higgins’s Anacalypsis. The following
is an account given of it by Payne Knight, in his curious dissertation on
Phallic Worship : The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant grows
in the water, among its broad leaves puts forth a flower, in the centre
of which is formed the seed vessel. shaped like a bell or inverted cone,
and perforated on the top with little cavities or cells, in which the
seeds grow. The orifices of these cells being too small to let the
seeds drop out when ripe, they shoot forth into new plants in the
places where they are formed : the bulb of the vessel serving as a matrix
to nourish them, until they acquire such a degree of magnitude as to
burst it open and release themselves, after which, like other aquatic
weeds, they take root wherever the current deposits them. This
plant, therefore, being thus productive of itself, and vegetating from
its own matrix, without being fostered in the earth, was naturally
adopted as the symbol of the productive power of the waters, upon which
the active spirit of the Creator operated in giving life and
vegetation, to matter. We accordingly find it employed in every
part of the northern hemisphere, where the symbolical religion,
improperly called idolatry, does or ever did prevail. The sacred images
of ihe Tartars, Japanese, and Indians are almost placed upon it, of which
numerous instances occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat,
etc. The Brahma of India is represented as sitting upon his Lotus
throne, and the figure upon the Isaaic table holds the stem of this plant
surmounted by the seed vessel in one hand, and the Cross representing the
male organs of generation in the other ; thus signifying the
universal power, both active and passive, attributed to that
goddess.” Nimrod says : The Lotus is a well-known allegory,
of which the expansive calyx represents the ship of the gods floating on
the surface of the water ; and the erect flower arising out of it, the
mast thereof. The one was the galley or cockboat, and the other the mast
of cockayne ; but as the ship was Isis or Magna Mater, the female
principle, and the mast in it the male deity, these parts of the flower
came to have certain other significations, which seem to have been as
well known at Samosata as at Benares. This plant was also used in the
sacred offices of the Jewish religion. In the ornaments of the temple of
Solomon, the Lotus or lily is often seen.” The figure of Isis
is frequently represented holding the stem of the plant in one hand, and
the cross and circle in the other. Columns and capitals resembling
the plant are still existing among the ruins of Thebes, in Egypt,
and the island of Philce. The Chinese goddess, Pussa, is represented
sitting upon the Lotus, called in that country Lin, with many arms,
having symbols signifying the various operations of nature, while
similar attributes are expressed in the Scandinavian goddess Isa or
Disa. The Lotus is also a prominent symbol in Hindu and
Egyptian cosmogony. This plant appears to have the same tendency with the
Sphinx, of marking the connection between that which produces and that
which is produced. The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the
blue Lotus, which plant is acknowledged to be the emblem of
celestial love so frequently seen mounted on the back of Leo in the ancient
remains. The following is a translation of the Purana relating to the
cosmogony of the Hindus, and will be found interesting as showing the
importance attached to the Lotus in the worship of the ancients : We find
Brahma emerging from the Lotus. The whole universe was dark and covered
with water. On this primeval water did Bhagavat (God), in a
masculine form, repose for the space of one Calpho (a thousand
years) ; after which period the intention of creating other beings for
his own wise purposes became predominant in the mind of the Great Creator . In
the first place, by his sovereign will was produced the flower of
the Lotus, afterwards, by the same will, was brought to light the form of
Brahma from the said flower ; Brahma, emerging from the cup of the Lotus,
looked round on all the four sides, and beheld from the eyes of his four
heads an immeasurable expanse of water. Observing the whole world
thus involved in darkness and submerged in water, he was stricken with
prodigious amazement, and began to consider with himself, ‘ Who is it that
produced me ? whence came I ? 9 ' and
where ami? Brahma, thus kept two hundred years in contemplation, prayers, and
devotions, and having pondered in his mind that without connection of
male and female an abundant generation could not be effected again entered into profound meditation
on the power of the Supreme, when, on a sudden by the omnipotence of God,
was produced from his right side Swayambhuvah Menu, a man of
perfect beauty ; and from the Brahma’s left side a woman named Satarupa.
The prayer of Brahma runs thus : O Bhagavat 1 since thou broughtest me
from nonentity into existence for a particular purpose, accomplish
by thy benevolence that purpose.’ In a short time a small white boar
appeared, which soon grew to the size of an elephant. He now felt God in
all, and that all is from Him, and all in Him. At length the power
of the Omnipotent had assumed the body of Vara. He began to use the
instinct of that animal. Having divided the water, he saw the earth a
mighty barren stratum. He then took up the mighty ponderous globe
(freed from the water) and spread the earth like a carpet on the face of
the water ; Brahma, contemplating the whole earth, performed due
reverence, and rejoicing exceedingly, began to consider the means of
peopling the renovated world.” Pyag, now Allahabad, was the first
land said to have appeared, but with the Brahmins it is a disputed point,
for many affirm that Cast or Benares was the sacred ground. MERU
The learned Higgins, an English judge, who for some years spent ten
hours a day in antiquarian studies, says that Moriah, of Isaiah and
Abraham, is the Meru of the Hindus, and the Olympus of the Greeks.
Solomon built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which
because mounts of Venus, mons veneris
Meru and Mount Calvary each
a slightly skull-shaped mount, that might be represented by a bare head.
The Bible translators perpetuate the same idea in the word calvaria.” Prof. Stanley denies
that Mount Calvary ” took its name
from its being the place of the crucifixion of Jesus. Looking elsewhere
and in earlier times for the bare calvaria, we find among Oriental women,
the Mount of Venus, mons veneris > through motives of neatness or
religious sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see
Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of a priest. The
priests of China, says Mr. J. M. Peebles, continue to shave the head. To
make a place holy, among the Hindus, Tartars, and people of Thibet,
it was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni, or
Arba. LINGAM IN THE TEMPLE OF ELORA This marvellous work of
excavation by the slow process of the chisel, was visited by Capt.
Seeley, who afterwards published a volume describing the temple and its
vast statues. The beauty of its architectural ornaments, the
innumerable statues or emblems, all hewn out of solid rock, dispute with
the Pyramids for the first place among the works undertaken to display
power and embody feeling. The stupendous temple is detached from the
neighbouring mountain by a spacious area all round, and is nearly 250
feet deep and 150 feet broad, reaching to the height of 100 feet and in
length about 145 feet. It has well-formed doorways, windows, staircases,
upper floors, containing fine large rooms of a smooth and polished
surface, regularly divided by rows of pillars ; the whole bulk of this
immense block of isolated excavation being upwards of 500 feet in
circumference, and having beyond its areas three handsome figure
galleries or verandas supported by regular pillars. Outside the temple
are two large obelisks or phalli standing, of quadrangular form, eleven feet
square, prettily and variously carved, and are estimated at forty-one
feet high ; the shaft above the pedestal is seven feet two inches, being
larger at the base than Cleopatra’s Needle.” In one of the smaller
temples was an image of Lingam, covered with oil and red ochre, and
flowers were daily strewed on its circular top. This Lingam is larger
than usual, occupying with the altar, a great part of the room. In
most Ling rooms a sufficient space is left for the votaries to walk round
whilst making the usual invocations to the deity (Maha Deo). This deity
is much frequented by female votaries, who take especial care to keep it
clean washed, and often perfume it with oderiferous oils and
flowers, whilst the attendant Brahmins sweep the apartment and attend the
five oil lights and bell ringing.” This oil vessel resembled the Yoni
(circular frame), into which the light itself was placed. No symbol was
more venerated or more frequently met with than the altar and Ling,
Siva, or Maha Deo. Barren women
constantly resort to it to supplicate for children,” says Seeley. The
mysteries attended upon them is not described, but doubtless they
were of a very similar character to those described by the author of
the Worship of the Generative Powers
of the Western Nations,” showing again the similarity of the custom
with those practised by the Catholics in France. The writer says: Women
sought a remedy for barrenness by kissing the end of the Phallus ; sometimes
they appear to have placed a part of their body, naked, against the
image of the saint, or to have sat upon it. This latter trait was perhaps
too bold an adoption of the indecencies of Pagan worship to last long, or
to be practised openly ; but it appears to have been innocently
represented by lying upon the body of the saint, or sitting upon a
stone, understood to represent him without the presence of the energetic
member. In a corner in the church of the village of St. Fiacre, near
Monceaux, in France, there is a stone called the chair of St. Fiacre,
which confers fecundity upon women who sit upon it ; but it is necessary
nothing should intervene between their bare skin and the stone. In
the church of Orcival in Auvergne, there was a pillar which barren women
kissed for the same purpose and which had perhaps replaced some less
equivocal object.” The principal object of worship at Elora is the stone,
so frequently spoken of ; the
Lingam,” says Seeley, and he apologises for using the word so often, but
asks to be excused, is an emblem
not generally known, but as frequently met with as the Cross in Catholic
worship.” It is the god Siva, a symbol of his generative character,
the base of which is usually inserted in the Yoni. The stone is of a
conical shape, often black stone, covered with flowers (the Bella and
Asuca shrubs). The flowers hang pendant from the crown of the Ling stone
to the spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the same as
the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly used in the worship at
the symbol, or one lamp with five wicks. The Lotus is often seen on the
top of the Ling.VENUS-URANIA. THE MOTHER GODDESS The characteristic
attribute of the passive generative power was expressed in symbolical
writing, by different enigmatical representations of the most
distinguished characteristic of the female sex : such as the shell or
Concha Veneris, the fig-leaf, barley corn, and the letter Delta, all of
which occur very frequently upon coins and other ancient monuments in
this sense. The same attribute personified as the goddess of Love, or
desire, is usually represented under the voluptuous form of a
beautiful woman, frequently distinguished by one of these symbols, and
called Venus, Kypris, or Aphrodite, names of rather uncertain mythology.
She is said to be the daughter of Jupiter and Dione, that is of the male
and female personifications of the all-pervading Spirit of the
Universe ; Dione being the female Dis or Zeus, and therefore associated with
him in the most ancient oracular temple of Greece at Dodona. No other
genealogy appears to have been known in the Homeric times ; though
a different one is employed to account for the name of Aphrodite in
the Theogony ” attributed to
Hesiod. The Genelullides or Genoidai were the original and
appropriate ministers or companions of Venus, who was however, afterwards
attended by the Graces, the proper and original attendants of Juno ; but
as both these goddesses were occasionally united and represented in
one image, the personifications of their respective subordinate attributes were
on other occasions added : whence the symbolical statue of Venus at
Paphos had a beard, and other appearances of virility, which seems
to have been the most ancient mode of representing the celestial as
distinguished from the popular goddess of that name the one being a personification of a
general procreative power, and the other only of animal desire or
concupiscence. The refinement of Grecian art, however, when advanced to
maturity, contrived more elegant modes of distinguishing them ; and, in a
celebrated work of Phidias, we find the former represented with her
foot upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of Scopas,
the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an androgynous
animal, was aptly chosen as a symbol of the double power ; and the goat
was equally appropriate to what was meant to be expressed in the
other. The same attribute was on other occasions signified by
a dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the polypus, which
often appears upon coins with the head of the goddess, and which was
accounted an aphrodisiac, though it is likewise of the androgynous class.
The fig was a still more common symbol, the statue of Priapus being
made of the tree, and the fruit being carried with the Phallus in the
ancient processions in honour of Bacchus, and still continuing among the
common people of Italy to be an emblem of what it anciently meant :
whence we often see portraits of persons of that country painted
with it in one hand, to signify their orthodox elevation to the fair sex.
Hence, also arose the Italian expression far la fica, which was done by
putting the thumb between the middle and fore-fingers, as it appears in
many Priapic ornaments extant ; or by putting the finger or thumb into
the corner of the mouth and drawing it down, of which there is a
representation in a small Priapic figure of exquisite sculpture, engraved
among the Antiquities of Herculaneum. LIBERALITY AND SAMENESS OF THE
WORLD-RELIGIONS The same liberal and humane spirit still prevails
among those nations whose religion is founded on the same
principles. The Siamese,” says a
traveller of the seventeenth century,
shun disputes and believe that almost all religions are good
Journal du Voyage de Siam. When the ambassador of Louis XIV asked
their king, in his master’s name, to embrace Christianity, he
replied, that it was strange that the
king of France should interest himself so much in an affair which
concerns only God, whilst He, whom it did concern, seemed to leave
it wholly to our discretion. Had it been agreeable to the Creator that
all nations should have had the same form of worship, would it not have
been as easy to His omnipotence to have created all men with the same
send- merits and dispositions, and to have inspired them with the
same notions of the True Religion, as to endow them with such different
tempers and inclinations ? Ought they not rather to believe that the true
God has as much pleasure in being honoured by a variety of forms and
ceremonies, as in being praised and glorified by a number of different
creatures ? Or why should that beauty and variety, so admirable in the
natural order of things, be less admirable or less worthy of the wisdom
of God in the supernatural ? The Hindus profess exactly the same opinion. They would readily admit the truth of
the Gospel,” says a very learned writer long resident among them, but they contend that it is perfectly
consistent with their Shastras. The Deity, they say, has appeared
innumerable times in many parts of this world and in all worlds, for the
salvation of his creatures ; and we adore, they say, the same God,
to whom our several worships, though different in form, are equally
acceptable if they be sincere in substance.” The Chinese sacrifice
to the spirits of the air the mountains and the rivers ; while the
Emperor himself sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom
all these spirits are subordinate, and from whom they are derived.
The sectaries of Fohi have, indeed, surcharged this primitive elementary
worship with some of the allegorical fables of their neighbours ; but
still as their creed like that of
the Greeks and Romans remains
undefined, it admits of no dogmatical theology, and of course no
persecution for opinion. Obscure and sanguinary rites have, indeed, been
wisely prescribed on many occasions ; but still as actions and not as
opinions. Atheism is said to have been punished with death at
Athens ; but nevertheless it may be reasonably doubted Phallic
Worship whether the atheism, against which the citizens of that
republic expressed such fury, consisted in a denial of the existence of
the gods ; for Diagoras, who was obliged to fly for this crime, was
accused of revealing and calumniating the doctrines taught in the Mysteries ;
and from the opinions ascribed to Socrates, there is reason to
believe that his offence was of the same kind, though he had not
been initiated. These were the only two martyrs to religion among
the ancient Greeks, such as were punished for actively violating or
insulting the Mysteries, the only part of their worship which seems to
have possessed any vitality ; for as to the popular deities, they were
publicly ridiculed and censured with impunity by those who dared not
utter a word against the populace that worshipped them ; and as to
the forms and ceremonies of devotion, they were held to be no otherwise
important, then as they were constituted a part of civil government of
the state ; the Phythian priestess having pronounced from the
tripod, that whoever performed the rites of his religion according to
the laws of his country, performed them in a manner pleasing to the
Deity . Hence THE ROMANS made no alterations in the religious
institutions of any of the conquered countries ; but allowed the
inhabitants to be as absurd and extravagant as they pleased, and to
enforce their absurdities and extravagances wherever they had any
pre-existing laws in their favour. An Egyptian magistrate would put
one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora monkey ; and
though the religious fanaticism of the Jews was too sanguinary and too
violent to be left entirely free from restraint, a chief of the synagogue
could order anyone of his congregation to be whipped for neglecting
or violating any part of the Mosaic Ritual. The principle underlying the
system of emanations was, that all things were of one substance, from
which they were fashioned and into which they were again dissolved,
by the operation of one plastic spirit universally diffused and expanded.
The polytheist ot ancient Greece and Rome candidly thought, like the
modern Hindu, that all rites of worship and forms of devotion were
directed to the same end, though in different modes and through
different channels. <c Even they who worship other gods, says Krishna,
the incarnate Deity, in an ancient Indian poem ( 'Bhagavat-Gita ), c<
worship me although they know it not. Knight. Giorgio
Colli. Colli. Keywords: espressione, L’Apollo
romano, L’appollo d’etruria, La mesura d’Apollo, la dismisura di Bacco;
l’enigma filosofico, Bacco, Nietzsche, Girgentu, Velia, Crotone, Gorgia, Zenone
di Velia, l’implicatura di Prosimno, l’implicatura di Bacco e Prosimno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colli: l’implicatura di Bacco e Prosimno”,
misterio bacchico, bacchic mystery, the fig tree branch, phallus,
self-sacrifice, self-sodomisation, not without pain, even with pleasure –
Higinus., symbolism, the old shepherd erastes eromenos, Bacchus eromenon, the
symbolism of the promise, to rescue her mother from hell the role of the widow,
female widow, Bacco’s duty to keep his promise. The echo of the sentence, ‘you
probably passed it’ – ‘the lake’ the grave. Colli.
Luigi Speranza -- Grice e Collini: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del naturismo -- naturalismo
e naturismo – scuola di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo
fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “If you love birds, you love Collini –
he loved ‘pterodattili,’ though and made nice drawings of them, as they fought
with ‘uomini’!” Discendente
di una nobile famiglia, studia a Pisa. Si trasferì a Coira. Collini venne
descritto come scontroso, spesso in litigio. A lui si deve la descrizione dello
pterodactylus, un rettile volante, o pterosauro o pterodattilo. Denuncia il
fanatismo durante le guerre rivoluzionarie francesi in Europa. Grice: “I often wondered why the conte would flee his family seat in
lovely Tuscany for the darker landscapes of the North – till I found out the
reason: he had helped one of his noble friends (Ottavio) to do some evil-act on
a nobile gentildonna (Malspina): so he had no choice!”. Altro Italiano non
ricordato dal Lucchesini, forse perchè assai più tardi aggregato all'Accademia,
è C. Narra il Denina che, mentre ea Pisa, aiuta a Domenico Eusebio Chelli, da
famglia civile di Livorno, nel ratto della marchesa Gabbriella Malaspina,
sicchè dovette fuggirsene. Dopo essersi fermato a Coira, va a Berlino
raccomandato da una signora M. (egli stesso non ne dà che l’iniziale) abitante
in Firenze, amica di famiglia e sorella della Barberina. Accolto da questa,
ormai signora Coccei, con molta benevolenza, attesea studiare, e con baldanza,
quando Voltaire venne a Berlino, si presenta a lui, che lo riceve amorevolmente
dicendogli, la Toscana è stata una nuova Atene e i toscani sono stati i nostri
maestri. Gli si raccomandò per trovare un'occupazione e n’ebbe lusinghiere
promesse. Ma il tempo scorreva e il conte ha fretta, sicchè pensa di valersi,
oltre che della ballerina, anche di una celebre cantante, l’Astrua, che gli
ottenne il posto di segretario dello stesso Voltaire. Stette con lui copiando i
suoi lavori e leggendogli la sera il Boccaccio e l'Ariosto – l’uno pienamente
con tento dell'altro. “Mon secrétaire», scrive il
Voltaire al Thiriot, “est un florentin, très-aimable, tres-bien né, et qui
merite, mieux que moi, d'être de l'Académie della Crusca. È compagno al FILOSOFO
poeta anche nella sua fuga dalla Prussia e nelle sue pe regrinazioni e
vicissitudini per la Germania, la Francia e la Svizzera. Ma nper una lettera
nella quale scherzava su mad. Denis, si separa da Voltaire, che tuttavia
continua a volergli bene e a corrisponder con lui; e sulle raccomandazioni del
Voltaire passa al servizio dell'elettor palatino, che lo fece suo bibliotecario
e segretario dell'Accademia di Mannheim. Scrive saggi sulla storia della
Germania e su quella del Palatinato, ma più ch'altro di mineralogia. È lodato
anche un suo volume di Lettres sur les Allemands, pubblicato anonimo a
Mannheim, cui un altro dove seguirne sulla letteratura tedesca. E là dove aveva
trovato una seconda patria e una onorevole residenza, mori nel 1806.
All'Accademia,alla quale forse furono ascritti anche altri Ita liani oltre
quelli ricordati qui e più addietro,e cui è da aggiun gere G. B. Morgagni (3),
si riferisce questo brano di lettera del [C. stesso nel suo Mon séjour auprès
de Voltaire et Lettres inédites que m'écrivit cet homme
célèbre,ecc.,Paris,Collin, confessa la fuga dalla patria e dalla famiglia, m a
ne dà per m o tivo una giovanile vaghezza di conoscere il mondo e gli uomini. L'esemplare
tipo dell'animale ora conosciuto come Pterodactylus antiquus è stato uno dei
primi fossili di pterosauro scoperti e il primo ad essere identificato. Il
primo esemplare di Pterodactylus fu descritto dallo scienziato italiano C.,
sulla base di un scheletro fossile, portato alla luce dai calcari di Solnhofen,
di Baviera. C. è il curatore della Naturalien Kabinett, o camera delle
meraviglie -- l'antenato del moderno concetto di Museo di Storia Naturale -nel
palazzo di Carlo Teodoro, elettore di Baviera, a Mannheim. Il campione è stato
affidato alla raccolta, dal conte Friedrich Ferdinand zu Pappenheim, dopo
essere stato recuperato da un calcare litografico nella cava di Eichstätt, La
data effettiva della scoperta e l'ingresso del campione nella collezione è
sconosciuto. Non è stato menzionato in nessun catalogo della collezione, quindi
deve essere stato acquistato nell’anno della descrizione di C.. Ciò potrebbe
rendere il fossile il primissimo pterosauro descritto. È descritto una seconda
specie chiamata Pterodactylus micronyx -- oggi conosciuto come Aurorazhdarcho
micronyx --- che però è stata inizialmente scambiata per un fossile di
crostaceo. Ricostruzione di Wagler su uno stile di vita acquatico per
Pterodactylus C., nella sua prima descrizione del campione di Mannheim, conclude
che si tratta di un animale volante. In realtà, C. non riusciva a capire di che
tipo di animale si tratta, ma lo accosta ad uccelli e pipistrelli, per via di
alcun affinità anatomiche. Più avanti lo stesso C. ipotizzò addirittura che
potesse trattarsi di un animale acquatico. Tale ipotesi non venne avanzata su
rigori scientifici ma su una supposizione di C. che pensa che le profondità
dell'oceano potevano ospitare animali stravaganti. L'idea che gli pterosauri sono
animali marini persiste ancora in una minoranza di scienziati tra cui Wagler,
che pubblica nel suo "Anfibi", un articolo che vede gli pterosauri
come animali marini con ali disegnate come pinne, ispirandosi ai moderni
pinguini. Wagler si spinse fino a classificare lo Pterodactylus, insieme ad
altri vertebrati acquatici (come plesiosauri, ittiosauri e monotremi), nella
classe “Gryphi”, tra uccelli e mammiferi. Prima ricostruzione di uno pterosauro
al mondo ad opera di Hermann. È Hermann che per primo dichiara che il lungo
quarto dito della mano dello Pterodactylus vienne usato per sostenere una
membrana alare. Hermann è allertato da Cuvier dell'esistenza del fossile di C.,
che è stato catturato dagl’eserciti di occupazione di Napoleone e inviato alle
collezioni francesi a Parigi, come bottino di guerra. In seguito alcuni
commissari politici francesi sequestrarono i tesori d'arte e gli oggetti di
valore scientifico. Hermann in seguito invia una lettera a Cuvier, dove vi è
scritta la sua interpretazione del fossile (anche se lui non aveva esaminato
personalmente), dichiarando che l'animale dove trattarsi di un mammifero, e
invia anche una bozza di come doveva apparire in vita l'animale. È la prima
ricostruzione per uno pterosauro. Hermann disegna l'animale con una membrana
alare che si estendeva dalla fine del quarto dita fino alle caviglie e
ricoperto da pelliccia -- all'epoca il fossile non presenta ne segni di
membrana alare ne di pelliccia. Hermann nel suo schizzo aggiunge anche una
membrana tra il collo ed il polso, come quella presente oggi nei pipistrelli.
Cuvier d'accordo con questa interpretazione, e su suggerimento di Hermann,
pubblica questa nuova descrizione. In uno scritto Cuvier dichiara che non è
possibile mettere in dubbio che il lungo dito serve a sostenere un membrana
che, allungandosi all'estremità anteriore di questo animale, forma una buona
ala. Tuttavia, contrariamente a Hermann, Cuvier è convinto che l'animale fosse
un rettile. In realtà l'esemplare non è stato sequestrato dai francesi.
Infatti, dopo la morte di Carlo Teodoro, il fossile è portato a Monaco di
Baviera, dove Moll ottene un'esenzione generale della confisca per le
collezioni bavaresi. Cuvier chiede a Moll il permesso di studiare il fossile,
ma è informato che il pezzo non è trovato. Cuvier pubblicò una descrizione un
po' più a lunga, in cui l'animale vienne chiamato "Ptero-dactyle" e
confuta l'ipotesi di Blumenbach, che sostene che l'animale è un uccello
marino. Ricostruzione inesatta di P. brevirostris, da parte di Von
Soemmerring. Contrariamente a rapporto di von Moll, il fossile non è mancata;
fu oggetto di studio da parte di Samuel Thomas von Sömmerring, che tenne una
conferenza pubblica sul fossile il 27 dicembre 1810. Nel mese di gennaio del
1811, von Sömmerring scrisse una lettera al Cuvier deplorando il fatto che era
da poco stato informato della richiesta di Cuvier per informazioni. La sua
conferenza fu pubblicata nel 1812, e in essa von Sömmerring diede alla creatura
il nome di Ornithocephalus antiquus. Qui l'animale fu descritto come un
mammifero simile ad un pipistrello ma con caratteristiche da uccello. Cuvier in
disaccordo con tale descrizione, lo stesso anno fornì una lunga descrizione
nella quale ricordò che l'animale era in realtà un rettile.[24] È rinvenuto un
secondo esemplare di Pterodactylus, ancora una volta a Solnhofen. Questo
esemplare rappresentato da un giovane fu descritto nuovamente da von
Soemmerring, come Ornithocephalus brevirostris, per via del muso corto, avendo
tuttavia capito che si trattava di un esemplare più giovane (oggi si sa che
questo fossile appartiene ad un altro genere di pterosauro, probabilmente un
Ctenochasma). Von Sommerring fornì anche uno schizzo dello scheletro[9] che in
seguito si rivelò essere sbagliato e impreciso, in quanto von Soemmerring aveva
scambiando il metacarpo per le ossa del braccio inferiore, il braccio inferiore
per l'omero, il braccio superiore per lo sterno e lo sterno per una scapola. Tuttavia
Soemmerring rimase per sempre fedele alla sua idea dello Pterodactylus. Lo
avrebbe sempre immaginato come un animale simile ad un pipistrello, anche se a
seguito di alcune ricerche nel 1860 ammise che l'animale era un rettile.
Tuttavia l'immaginario collettivo dell'animale rimaneva quello di una creatura
quadrupede, goffa a terra, ricoperta di pelo, a sangue caldo e con una membrana
alare che si attaccava alle caviglie.[26] In epoca moderno alcuni di questi
elementi sono stati confermati, alcuni smentiti, mentre altri rimangono ancora
oggi in discussione. Paleobiologia Classi d'età Esemplare giovane
di P. antiquus Come molti altri pterosauri (in particolare il Rhamphorhynchus),
l'aspetto degli esemplari di Pterodactylus varia a seconda dell'età e in base
al livello di maturità. Le proporzioni di entrambe le ossa degli arti, le
dimensioni e la forma del cranio e le dimensioni e il numero dei denti possono
stabilire a quale classe di età appartiene l'animale. In passato queste differenze
morfologiche hanno portato a credere che si trattassero di specie distinte con
caratteristiche anatomiche differenti. Recenti studi più dettagliati e che
utilizzano nuovi metodi per misurare le curve di crescita degli esemplari noti,
hanno stabilito che in realtà vi è un'unica specie di Pterodactylus ritenuta
valida ossia, P. antiquus. Il più giovane e immaturo campione di P. antiquus
(da alcuni interpretato come facente parte di una seconda specie chiamata
Pterodactylus kochi) possiede pochi denti e i pochi che possiede hanno una base
relativamente ampia. I denti di altri esemplari di P. antiquus hanno denti più
stretti e numerosi (fino a 90).Tutti i campioni di Pterodactylus possono essere
suddivisi in due diverse classi di età. Nella prima classe, rientrano gli
esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 15 ai 45
millimetri di lunghezza. Nella seconda classe, invece, rientrano gli esemplari
i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 55 ai 95 millimetri di
lunghezza, ma sono ancora immaturi. Questi due primi gruppi di dimensione erano
a loro volta classificati come giovani e adulti della specie P. kochi, fino a
che un nuovo studio ha dimostrato che anche quelli che si credevano
"adulti" erano comunque esemplari immaturi, e probabilmente
appartengono ad un genere distinto. Una terza classe è rappresentata da
esemplari specie tipo P. antiquus, così come un paio di grandi esemLplari
isolati, una volta assegnati a P. kochi che si sovrappongono P. antiquus per
dimensioni. Tuttavia, tutti i campioni di questa terza classe mostrano anche
segni di immaturità. L'aspetto degli esemplari completamente maturi di
Pterodactylus esemplari rimane tuttora sconosciuto, oppure potrebbero essere
stati erroneamente classificati come un genere diverso. Crescita e
riproduzione Bacino fossile di un grande esemplare, riferito alla dubbia
specie P. grandipelvis Le classi di crescita degli esemplari di P. antiquus
mostrano che questa specie, come il contemporaneo Rhamphorhynchus muensteri,
probabilmente allevava i piccoli in determinate stagioni e questi crescevano
costantemente durante tutta la vita. Quindi la riproduzione e il conseguente
allevamento dei cuccioli avveniva ad intervalli regolari e probabilmente in
ogni stagione. Molto probabilmente poco dopo la nascita i cuccioli erano già in
grado di volare ma dipendevano ancora dai genitori per la nutrizione. Questo
modello di crescita è molto simile a quello dei moderni coccodrilli, piuttosto
che alla rapida crescita dei moderni uccelli. Stile di vita Dal confronto tra
gli anelli sclerali di P. antiquus con quelli di moderni uccelli e rettili si è
scoperto che lo Pterodactylus aveva uno stile di vita diurno. Questo
coinciderebbe con la sua nicchia ecologica, che lo vedrebbe come un predatore
simile all'odierno gabbiano, evitando inoltre la competizione con altri
pterosauri suoi contemporanei che in base agli anelli sclerali sono stati
giudicati notturni, come il Ctenochasma e il Rhamphorhynchus. Paleoecologia
Durante la fine del Giurassico, l'Europa era un arcipelago asciutto e tropicale
ai margini del mare Tetide. Il calcare fine, in cui gli scheletri di
Pterodactylus sono stati ritrovati, è stato formato dalla calcite delle
conchiglie e degli organismi marini. Le varie aeree tedesche dove sono stati
ritrovati gli esemplari di Pterodactylus erano lagune situate tra le spiagge e
le barriere coralline delle isole europee Giurassiche nel Mare Tetide. I
contemporanei di Pterodactylus, includono l'avialae Archaeopteryx
lithographica, il compsognatide Compsognathus, svariati pterosauri come
Rhamphorhynchus muensteri, Aerodactylus, Ardeadactylus, Aurorazhdarcho,
Ctenochasma e Gnathosaurus, il teleosauride Steneosaurus sp., l'ittiosauro
Aegirosaurus, e i metriorhynchidi Dakosaurus e Geosaurus. Gli stessi sedimenti
in cui sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus hanno riportato alla
luce anche diversi fossili di animali marini quali pesci, crostacei,
echinodermi e molluschi marini, confermando l'habitat costiero di questo
pterosauro. L'enorme biodiversità di pterosauri presenti nei Calcari di
Solnhofen, indica che quest'ultimi si erano differenziati tra di loro occupando
ogni possibili nicchia ecologica disponibile. Fischer von
Waldheim, Zoognosia tabulis synopticus illustrata, in usum praelectionum
Academiae Imperialis Medico-Chirurgicae Mosquenis edita. Schweigert, G.,
Ammonite biostratigraphy as a tool for dating Upper Jurassic lithographic
limestones from South Germany – first results and open questions, in Neues
Jahrbuch für Geologie und Paläontologie – Abhandlungen, Bennett, S.
Christopher, New information on body size and cranial display structures of
Pterodactylus antiquus, with a revision of the genus, in Paläontologische
Zeitschrift. Bennett, S.C., Year-classes of pterosaurs from the Solnhofen
Limestone of Germany: Taxonomic and Systematic Implications, in Journal of
Vertebrate Paleontology, Bennett, S.C., [Soft tissue preservation of the
cranial crest of the pterosaur Germanodactylus from Solnhofen], in Journal of
Vertebrate Paleontology, Jouve, S., Description of the skull of a Ctenochasma
(Pterosauria) from the latest Jurassic of eastern France, with a taxonomic
revision of European Tithonian Pterodactyloidea], in Journal of Vertebrate
Paleontology,Frey, E., and Martill, D.M., Soft tissue preservation in a
specimen of Pterodactylus kochi (Wagner) from the Upper Jurassic of Germany, in
Neues Jahrbuch für Geologie und Paläontologie, Abhandlungen, Cuvier, G.,
Mémoire sur le squelette fossile d'un reptile volant des environs d'Aichstedt,
que quelques naturalistes ont pris pour un oiseau, et dont nous formons un
genre de Sauriens, sous le nom de Petro-Dactyle, in Annales du Muséum national
d'Histoire Naturelle, Paris, Taquet, P., and Padian, K., The earliest known
restoration of a pterosaur and the philosophical origins of Cuvier's Ossemens
Fossiles, in Comptes Rendus Palevol, Cuvier, (Pterodactylus longirostris) in
Isis von Oken, Jena; Kellner,"Pterosaur phylogeny and comments on the
evolutionary history of the group", in Buffetaut, E. and Mazin, J.-M.,
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the phylogeny and evolutionary history of pterosaurs", in Buffetaut, E. et
Mazin, J.-M., Evolution and Palaeobiology of Pterosaurs. Geological Society of
London, Special Publications, London, Bennett;2 Juvenile specimens of the
pterosaur Germanodactylus cristatus, with a review of the genus], in Journal of
Vertebrate Paleontology,Vidovic e D. M. Martill, Pterodactylus scolopaciceps
Meyer (Pterosauria, Pterodactyloidea) from the Upper Jurassic of Bavaria,
Germany: The Problem of Cryptic Pterosaur Taxa in Early Ontogeny, in PLoS ONE, Vidovic
e David M. Martill, The taxonomy and phylogeny of Diopecephalus kochi (Wagner)
and ‘Germanodactylus rhamphastinus’ (Wagner), in Geological Society, London,
Special Publications, Unwin, The Pterosaurs: From Deep Time, New York, Pi
Press, Brougham, Dialogues on instinct; with analytical view of the researches
on fossil osteology. Knight's weekly vol. Ősi, A., Prondvai, E., et Géczy, B.
The history of Late Jurassic pterosaurs housed in Hungarian collections and the
revision of the holotype of Pterodactylus micronyx Meyer (a ‘Pester Exemplar’). Geological Society, London, Special Publications, C. Sur quelques Zoolithes
du Cabinet d'Histoire naturelle de S. A. S. E. Palatine et de Bavière, à
Mannheim." Acta Theodoro-Palatinae Mannheim 5 Pars Physica, Wagler,
Natürliches System der Amphibien Munich, Cuvier, G., [Reptile volant]. In:
Extrait d'un ouvrage sur les espèces de quadrupèdes dont on a trouvé les
ossemens dans l'intérieur de la terre, in Journal de Physique, de Chimie et
d'Histoire Naturelle, von Sömmerring, Über einen Ornithocephalus oder über das
unbekannten Thier der Vorwelt, dessen Fossiles Gerippe Collini im 5. Bande der
Actorum Academiae Theodoro-Palatinae nebst einer Abbildung in natürlicher
Grösse im Jahre 1784 beschrieb, und welches Gerippe sich gegenwärtig in der
Naturalien-Sammlung der königlichen Akademie der Wissenschaften zu München
befindet", Denkschriften der königlichen bayerischen Akademie der
Wissenschaften, München: mathematisch-physikalische Classe, Cuvier, G. (1812).
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bat-winged pterosaur. Typological taxonomy and the influence of pictorial
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the Natural History Museum of Los Angeles County. Natural History Museum of Los
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Wellnhofer, Die Pterodactyloidea (Pterosauria) der Oberjura-Plattenkalke
Siiddeutschlands. Bayerische Akademie der Wissenschaften,
Mathematisch-Wissenschaftlichen Klasse, Abhandlungen, Schmitz, L.; Motani, R.,
Nocturnality in Dinosaurs Inferred from Scleral Ring and Orbit Morphology, in
Science, Weishampel, D.B., Dodson, P., Oslmolska, The Dinosauria (Second ed.). University
of California Press. Biografia Steve Parcker John Malam, Dinosauri e altre
creature preistoriche. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
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Pterosauri. Syncretism and Style Hypnerotomachia Poliphili and the
Italian Renaissance Garden. Most of the history of Western philosophy and
theology from Parmenides through H^el has attempted to resolve the inherent
contradictions between sensation and cognition, \Tsibih- ty and ideahrt'.
However, the paradoxes, antinomies, and incon- gruities that arise in this
quest f)erennially inform numerous paradigms that underUe the history of art
and ideas. This study promenade through the landscapes and gardens, paintings
and poems that have inspired meproposes a sketch of the implications of such
poh'semic and equivocal conventions as the\- relate to the histor)' of
landscape architectiu-e. The origin of modem European landscape architecture
vs-as contemp>oraneous with the rediscover)' of the beaut)' of nature in the
early Renaissance. In The Civilization of the Renaissance in Italy, Burckhardt
describes this paradigm shift in the perception of the external world, the
moment in which the distant Wew, the "land- scape" proper, was first
valorized: But the unmistakable proob of a deepening effect of nature on tbe
human spirit began with Dante. Not only does he awaken in us by a few \-igorous
lines the sense of the morning airs and the trembling light on the distant
ocean, or of the giandeur of the stoim-beaten torest, but he makes tbe ascent
of k)fty peaks, with the only possible obfect of en^vying the viewthe first
man, peihaps, since the days of antiquity who did so.' This appreciation of
natural beauty, couched in the poetry of the sublime, was further instantiated
in the work of PETRARCA, often cited as the first humanist, indeed the first
"mod- ern" man. His relation to the landscape was intense and
manifold, poetic and practical, as he was a gardener whose favorite site of
med- itation was his own gardens at Fontaine-de-Vaucluse. He describes them in
one of his letters: I made two gardens for myself: one in the shade,
appropriate for my studies, which I called my transalpine Parnassus; it slopes
down to the river Sorgue, ending on inaccessible rocks which can only be
reached by birds. The other is closer to the house, less wild, and situated in
the middle of a rapid river. I enter it by a litde bridge leading from a
vaulted grotto, where the sun never penetrates; I believe that it resembles
that small room where CICERONE some- times went to recite; it is an invitation
to study, to which I go at noon.^ Two gardens, one for each side of his
temperament, inspired either reverie or melancholy; two gardens, one for each
extreme of nature, extensive and picturesque or protective and chthonic; two
gardens, one leading towards the empirical, the other towards the spiritual.
For PETRARCA, as for CICERONE, his predecessor in literature and garden- ing,
the landscape was a major source of inspiration, both literary and empirical;
for while these gardens evoked the great sites of clas- sic culture, they also
constituted a rudimentary botanical laboratory and collection, where Petrarch
experimented with different varieties of plants according to meteorological and
astrological conditions, geographic placement, seasonal growTih, and so forth.
He also used these gardens to amass collections of rare plants. As Gaetane
Lamarche-Vadel demonstrates in Jardins secrets de la Renaissance, such secret
gardens, "appertain to the double register of the fictive and the real,
the physical and the mystic; they echo with the adam- ic garden, the
paradigmatic place and origin from which gardens draw their spiritual energy. It
is precisely for this reason that the study of gardens necessitates formal,
cultural, and psychological analyses: the symbolic significance of any garden
is derived from, yet surpasses, its formal characteristics, and can only be
grasped in relation to the artistic works that both inspired and were inspired
by the site. Petrarch's most celebrated consideration of the landscape is the
description of his ascent of Mont Ventoux, recounted in a letter to Dionisio da
Borgo San Sepolcro, written in 1336. In this text, he explains the reason for
this difficult ascent: "My only motive was the wish to see what so great
an elevation had to offer."4 Though inspired by literary
motivesspecifically, the tale in Livy's History of Rome^zx recounts Philip of
Macedon's ascent of Mount Haemus in Thessaly, with its attendant viewsthe
experience shifted from the literary to the sensory, where revelation becomes
visual. Indeed, the subsequent history of landscape architecture often reveals
mythical tales, literary inspirations, and pictorial models behind the creation
of gardens; here, Petrarch's visionis already predisposed to concep- tual
density by being couched in myth and history. "At first, owing to the
unaccustomed quality of the air and the effect of the great sweep ofviewspread
out before me, I stood like one dazed. I beheld the clouds under our feet, and
what I had read of Athos and Olympus seemed less incredible as I myself
witnessed the same things from a mountain of less fame."^ The force of the
poet's vision surpasses all previous literary descriptions. Is it the poet's
unique, hyperbolic sensibility, or the inherent magnificence of nature, that is
at work here? Or is there a third term that mediates the poetic imagination and
the natural world? The letter continues with a detailed appreciation of the
mul- tiplicity and uniqueness of the natural world Petrarch witnessed, until
the moment he realizes, in a flash of intuition, that the ascent of the body
must be accompanied by a concomitant ascent of the soul. Thus, opening a copy
of Augustine's Confessions he had with him, he felicitously chanced upon the
following passage: "And men go about to wonder at the heights of the
mountains, and the mighty waves of the sea, and the wide sweep of the rivers,
and the circuit of the ocean, and the revolution of the stars, but themselves
they consider not."^ This is the ironic moment of revelation, where
experience becomes allegory and visibility becomes a metaphor for spirituality:
I dosed the book, angry with myself that I should still be admiring earthly
things who might long ago have learned from even the pagan philosophers that
nothing is wonderftil but the soul, which, when great itself, finds noth- ing
great outside itself. Then, in truth, I was satisfied that I had seen enough of
the mountain; I turned my inward eye upon myself, and from that time not a
syllable fell from my lips until we reached the bottom again. The three major
realms that informed early humanist sensibility were thus interwoven in an
allegory of spiritual revelation: inspira- tion from antiquity, sensitivity to
nature, and salvation within Christianity. Certain technical, mathematical, and
financial consider- ations would be added to these preconditions to localize
and system- atize such apperceptions in the creation of the Italian Renaissance
garden. The consequent transmigration and intercommunication of symbols and
allegories would henceforth enrich all the arts, radical- ly impelling some of
them towards their modern forms.^ Within these rubrics, the major influences on
the Renaissance transformation of man's relation to nature could be schematized
as follows. The theological revolution of Francis of Assisi redeemed nature's
state of grace. His "Canticle of Creatures"indeed, every act of his
lifeexpressed a mystical rela- tion to a cosmos in which all nature was a
reflection of God; thus nature itself was the foundation of spiritual values.
As Cassirer explains in The Individual and the Cosmos in Renaissance Phibsophy,
a book that will serve as a metaphysical guide to the current study: With his
new. Christian ideal of love, Francis of Assisi broke through and rose above
that dogmatic and rigid barrier between "nature" and
"spirit." Mystical sentiment tries to permeate the entirety of
existence; before it, barriers of par- ticularity and individualization
dissolve. Love no longer turns only to God, the source and the transcendent
origin of being; nor does it remain confined to the relationship between man
and man, as an immanent ethical relation- ship. It overflows to all creatures,
to the animals and plants, to the sun and the moon, to the elements and the
natural forces. In this unscholastic "nature mysticism" we find one
of the origins of Western ecological and environmental thought. (Indeed, Pope
John Paul 11 proclaimed Francis the patron saint of ecologists.) Yet, more
immediately, he not only redeemed the state of nature in a postlapsarian world,
but praised naturespecifically the picturesque and fertile central Italian
landscape of Umbriawith a glorious and beatific lyricism that has inspired
those who would transform nature according to human desire and volition into a
new form that would become the "humanist" garden. Yet the major
paradigm at work in establishing new ways of experiencing and re-creating the
landscape did not stem from theo- logical transformations; rather, they arose
from the rediscovery of antiquity and the consequent valorization and
appropriation of pagan mythology. This is especially the case insofar as
such myths express a profound connection to the natural world, as evidenced
most notably in OVIDIO (si veda)’s Metamorphosis, Apuleius's The Golden Ass,
Virgil's Eclogues and Georgics, and the writings of Pliny, Cicero, and Horace,
with the latter's crucial notion of ut pictura poesis. The rise of a new
literary scenarization accounted for the expression of a spe- cific sense of
place within nature such that the genius A?a would once again have a voice, as
in ALIGHIERI (si veda)’s Inferno, BOCCACCIO (si veda)’s Decameron (describing
the Villa Palmieri near Florence), Erasmus's Convivium religiosum, and
especially in Petrarch, for whom, as Cassirer notes: "The lyrical mood
does not see in nature the opposite of physical reality; rather it feels
everywhere in nature the traces and the echo of the soul. For Petrarch,
landscape becomes the living mirror of the Ego."^° If one were to
formulate this sensibility in relation to the his- tory of landscape
architecture, it might be said that the new form of garden is no longer
delimited by either cloister walls or restricted cosmological symbolism (the
latter allegorically corresponding to the medieval hortus conclusus, or closed
garden), but rather by the limits of the imagination responding to the very act
of human per- ception. Rather than serving as a static allegorical form, the
garden reveals the dynamic, creative relation between humanity and nature. The
view shifts from the interior (the cloister, the soul) to the exte- rior,
encompassing not only the ambient scene, but also distant views; space is no
longer treated as metaphoric, but is revealed in its localized and
particularized reality. Nature incarnate, in its vast mul- tiplicity, offers
sites of pleasure and wonder, terror and aweprefig- uring the fiiture aesthetic
distinctions of the picturesque, the beau- tifiil, and the sublime. Coincident
with this new sensibility was the development of a system of pictorial
representationthe quattrocento rediscovery and refinement of linear perspectivethat
both drew upon and informed the multifarious Renaissance modes of appreciating
the landscape." The intersection of mathematics, technology, and aes-
thetics in perspectival representations constitutes a major structure that
articulates the reciprocal influences between landscape, garden, literature,
and painting, one that marlcs the subsequent history of landscape architecture.
Here, the varied and often incompatible beauties (ancient and modern) of nature
and painting interacted and enriched each other's iconographies. Specifically,
three works of ALBERTI (si veda) codified the intricate interrelations between
perspective and vision, pictorial representation and landscape architecture:
Delgoverno delta famiglia (c. 1430), a treatise on family life that celebrated
the advan- tages of country living, thus instilling a taste for gardens and the
landscape; Delia pittura (1436), which codified the system of linear
perspective; and De re aedificatoria, which, in establishing
"rational" architectural rules based on ancient models (notably
Vitruvius), necessarily dealt with the question of gardens and sites, with a
particular attention to and fondness for the Italian land- scape.^^ For
Alberti, the most important aspect of choosing a build- ing site was a sloping terrain
with open perspectives from which the countryside could be seen. Though the
view into the garden was protected by enclosures, the slope of the terrain
established views of the distant landscape. Furthermore, the garden was
conceived in direct relationship with the villa as a sort of prolongation of
the architecture, thus bringing the outdoors in, all the while linking the
cultivated garden with the wild spaces beyond to establish an archi- tectonic
continuity between the natural and the human realms. Such strategies, both
structural and narrative, offer a dynamic, com- plex synthesis linking the
constructed, geometrized spaces of habita- tions with the non-geometric,
organic realms of the natural world. Alberti's text proffers many of the
characteristics of the humanist gardens of the Italian Renaissance:'^ the use
of perspective in the deployment of objects and space, grottos and the
"secret garden," symmetrical plantings, groves, clipped and sculpted
plants (topiary and espalier), architectural details, and statues of mytho-
logical figures as invocations of ancient culture, surprise effects caused by
both perspectival and technical means, and especially the myriad uses of
waterfountains, pools, canals, panerres, troughs, water staircases and theaters,
hydraulic organs and automata, even artificial rain and water jokes {giochi
d'acqua). It was through the use of water that both illusion and motion were
introduced into land- scaf)e architecture, creating the sort of instability,
surprise, and evanescence that would become central to the baroque sensibility,
with its taste for motion, dematerialization, dissimulation, and
contradiction.'** This irmiijdng of artifice, theatricality, and nature was
well expressed in that epoch by the sixteenth-century philosopher JacofK)
Bonfadio, influenced by Petrarch: "I have done much that nature, combined
with an, has turned into artifice. From the two has emerged a 'third nature,'
to which I can give no name."'' Such a "third nature" might well
be a synonym of the garden itself, for how- ever "natural" a garden
may be (as in the ideal of the eighteenth-cen- tury EngUsh garden, where the
desire to dissimulate all artifice estab- hshed a simulacrum of wild nature),
its forms always evince aesthetic, even painterly, paradigms (even true for the
notion of "vir- gin" nanire in the North American landscape, as will
be explored in a subsequent chapter). Yet this "third nature" is
never a purely for- mal artifact: it is always enmeshed in both philosophical
and narra- tive systems, as exemplified by Petrarch's appreciation of the land-
scape. Henceforth, the history of landscape architecture will entail the
intertwining and hybrid histories of poetry, literature, philoso- phy,
painting, sculpnire, architecture, surveying, hydrauhcs, and botany. In order
to grasp the conceptual and cultural systems that influenced the sensibilities,
as well as the forms, that underlie the Italian Renaissance humanist garden, a
synopsis of the philosophical trajectory of the Platonic ACCADEMIA of Florence,
found- ed by FICINO under the auspices of the Medici, is in order. The
principal foundational tenets of Renaissance ontology and epis- temology were
expressed by Nicholas Cusanus in De docta ignorantia, the initial systematic
philosophical study that began to modify the relatively rigid and often
dogmatic closure and hairsplitting of medieval scholasticism. According to
medieval thought, the closed, ordered, hierarchical universe, that "great
chain of being" of ecclesiastic Aristotelianism, was one with a moral and
religious systemof judgment and salvation in which the role of epis- temology
was a ftmction of man's limited place in that system.'^ Though Cusanus's
writings never called the theological foundation of this system into question,
they did entail a radical epistemologi- cal shift, insofar as the relation
between absolute divinity and finite humanity was no longer taken as
dogmatically posited, but was rather analyzed according to human limitations.
This revision of the ontological ratio between the absolute and the empirical
implies an indeterminable conceptual relation to infinity. Cusanus's key
princi- pleexpanding on certain nominalist analysesis that there exists no
possible proportion between the finite and the infinite, thus loos- ening the
bond that had held together scholastic theology and logic within a homogeneous
system. As a result of this separation of realms (human from divine, relative
from absolute infinity), the syl- logistics of speculative theology and
metaphysics would henceforth become disciplines distinct from logic and
mathematics, prefiguring the materialistic quest for a universal
systematization of knowledge that culminated in the ideal of the Cartesian
mathesis universalis. The amor Dei intellecttmlis (the intellectual component
of the love of God, prefiguring the notion of "Platonic love" that
inspired the neoplatonism of the Florentine Academy) established a new mystical
theology. Yet, by strictly delimiting such mysticism to its proper the-
ological domainthe ultimately unknowable realm of the dens absconditus, the
hidden godthe ftiture development of the worldly sciences would not be impeded.
Theology and mathematics would henceforth proffer incompatible yet
complementary worldviews. Central to this speculation is the principle of the
docta ignorantia, a "learned ignorance" based not on passive mystical
con- templation but on active mathematical thought, revealing the unknowable
nature of divinity, which can only be expressed in con- tradiction and antithesis.
This results from the unfathomable nature of God, such that the maximal
ontological conditions of existence are constituted by a qualitative, not a
quantitative, determination whence the cognitive paradoxes that result from all
intellectual attempts to resolve the divine mysteries. All human thought oper-
ates according to finite determinations, generating predicable and measurable
differences; yet beyond any given determination, an absolute term can always be
postulated, even if it is not deter- minable. However, between the finite and
the infinite there is no common term, thus no possible predication. This is a
metaphysics of maximal contradiction, of complicatio, not explicatio. The
infini- ty of the godhead is unpredicable and inexpressible. Whence the necessity
of differentiating between the infinite and the indefinite, wherein the
mutually exclusive relation between the ideal, uncondi- tioned, indeterminable
realm of the divine and the empirical, con- ditioned, determinable realm of the
human. Where the axiomatic knowledge of mathematics fails, the limits of
comprehensibility end, and the realm of negative theology begins. Knowledge,
for Cusanus, was the progression of thought towards its incomprehensible
limits, in the attempt to understand the fundamental ontological contradictions
of existence. Whence the notion of the coincidentia oppositorum, the
coincidence of oppo- sitesthe very form of such ignorancewhich is the outcome
of this new metaphysical speculation, revealing the limits of the ancient philosophical
dichotomy of immanence and transcendence, thought and being. The infinity of
the godhead is indeterminable yet appar- ent to human knowledge precisely in
terms of our "learned igno- rance," which evolves an intuition of
what surpasses the limits of human cognition. As Jaspers explains:
"Speculative thinking must remain the thinking of the unthinkable, it must
preserve an unresolvable tension. The fundamental concept remains paradoxi-
cal."'7 Thus the docta ignorantia establishes a worldly, human domain of
knowledge, apart from theological speculation, differen- tiating the calculable
and operable mathematical infinity from the impenetrable infinity of God. Here,
knowledge becomes an active function of the dynamics of attempting to connect
the impercepti- ble universal to the sensible particular, with its attendant
concrete symbolizations. Not only did this system offer a foundation for modern
science and mathematical speculation, but it also estab- lished the grounds for
a new, "rationalized" aesthetics, as explained by Cassirer: The De
docta ignorantia had begun with the proposition that all knowledge is definable
as measurement. Accordingly, it had established as the medium of knowledge the
concept of proportion, which contains within it, as a condi- tion, the
possibility of measurement. Comparativa est omnis inquisitio, medio
proportionis uteris. But proportion is not just a logical-mathematical concept:
it is also a basic concept of aesthetics Thus, the speculative-philosophical,
the technical-mathematical, and the artistic tendencies of the period converge
in the concept of proportion. And this convergence makes the problem of form
one of the central problems of Renaissance culture.'^ In the arts, this is most
apparent in the relation between theory and practice in VINCI (si veda) and ALBERTI
(si veda), the latter of whom had direct links with Cusanus, utilizing
Cusanus's specula- tions in his own work. Yet while Cusanus was mainly
preoccupied with mathematical and cosmological issues, the philosophers of the
Platonic Academy of Florence were especially concerned with the role of beauty
as a spiritual value and so extended his studies into other realms. Following
Cusanus, beauty was deemed an objective value determined by measure,
proportion, and harmony. Beauty might exist as an intelligible sign of God, but
it is gauged according to human proportions, values, and limits. A year before
his death, Cosimo de’ MEDICI (si veda) wrote, in a letter to FICINO (si veda). "Yesterday
I arrived at my Villa Carreggi, not to cultivate the fields, but my soul.
"'9 This sentimentwhere inner and outer nature exist in reciprocal
symbolic resonancewas fully in accord with FICINO (si veda)’s philosophical
temperament, as it was in the Medici's Villa Carreggi in Florence where Ficino
founded his famed Academy. Here, the gardens provided a site of retreat.
inspiration, meditation, and discourse, while the villa ofifered a ver- itable
compendium of the arts, with its library, music room, and gal- leries of
artworks. This would suggest not only that nature and its aesthetic simulacrum,
the garden, played a major role in Ficino's philosophy, but also that a
consideration of his philosophical system might bear upon our understanding of
the landscape and develop- ments in landscape architecture of the period. On
the basis of an expanded model of the principle of the coincidence of
opposites, Ficino demonstrated the central place of man in the universe. In his
cosmology, the soul is the privileged midpoint between the intellectual and the
sensible world, mediating the higher and lower realms, dynamically embracing
the universe through the process of knowing and self-determination. The soul is
the means by which the universe reflects upon itself through a dynamic unity,
as opposed to the static hierarchy posited by scholas- ticism. Whence the new
status of the dignity of man, who is seen (following Plato's tripartite
schematization of the soul) to share attributes with both the lower and the
higher beings, midway between the cosmic mind and the cosmic soul above, and
the realms of nature and of pure, formless matter below. As the terms of this
hierarchy are emanations of God (following Plotinus's mystical read- ing of
Plato, and hardly distant, either intellectually or geographi- cally, from
Saint Francis's nature mysticism), all cosmic zones par- ticipate in, and
somehow symbolize, divine creation. All realms of existence are therefore
interconnected, and the cohesion of the cos- mos is reflected in the microcosm
of human intelligence. As Cassirer writes of a Ficino dialogue between God and
the soul: God says: "I fill and penetrate and contain heaven and earth; I
fill and am not filled because I am fullness itself. I penetrate and am not
penetrated, because I am the power of penetration. I contain and am not
contained, because I myself am the faculty of containing." But all these
predicates claimed by the divinity are now equally attributable to the human
soul}° As such, fact becomes truth, and the world becomes meaningful, through
the ^rf of cognition; symbols can be effectively derived from all facts,
objects, and events; thought is liberated to become a cre- ative, and not
merely reflective, activity. Inspired by the theory of love developed in
Plato's Symposium and Phaedrus, FICINO (si veda) places mystical love (in a
manner very differ- ent from that of Saint Francis's more immediately sensual
and intu- itive mysticism) at the center of his system, as a cosmological, and
not a psychological, principle. Erwin Panofsky elaborates: Love is the motive
power which causes God—or rather by which God caus- es Himself—to effuse His
essence into the world, and which, inversely, caus- es His creatures to seek
reunion with Him. According to Ficino, amor is only another name for that
self-reverting current {circuitus spiritualise from God to the world and from
the world to God. The loving individual inserts himself into this mystical
circuit.^' Whence the much misunderstood notion of ;he highest form of love,
"Platonic love," that "divine madness" which is the source
of poetic inspiration and genius as introduced by Plato, enriched by Plotinus,
Augustine, and the twelfth-century Neoplatonists, and transformed by Ficino.
Such love entails a desire guided by cogni- tion, which seeks as its ultimate
goal the beauty diffused throughout the universe. The contradictory and
oppositional totality of love is symbolized by the two Venuses, celestial and
natural, representing sacred and profane love: beauty as supercelestial,
intelligible, and immaterial, and beauty as particularized and perceptible in
the cor- poreal world.^^ Within this context, three sorts of love are possible:
amor divinus (divine love, ruled by the intellect), amor humanus (human love,
ruled by all the other faculties of the soul), and amor ferinus (bestial love,
which is tantamount to insanity). Love is the factor that mediates the higher
and lower worlds, transcendence and immanence, cognition and perception.
Cassirer stresses the import of this theory for an incipient humanism: This
contradictory nature of Eros constitutes the truly active moment of the
Platonic cosmos. A dynamic motif penetrates the static complex of the uni-
verse. The world of appearance and the world of love no longer stand simply
opposed to each other; rather, the appearance itself "strives" for
the idea. Love is both psychological and theological, human and divine, con-
templative and active, intellectual and passional; it achieves a central
epistemological status due to its vast, synthesizing function; it is
ontologically all-encompassing precisely because of its profoundly paradoxical
nature—a complex scenario that will be dramatized, in a manner crucial to the
subsequent history of landscape architecture, in Francesco Colonnas
Hypnerotomachia Poliphili, discussed later in this chapter. In this context,
the entirety of creation is an emanation of God, therefore the realm of nature
is no longer deemed evil, for only nonbeing is evil. Panofsky: Thus the Realm
of Nature, so full of vigour and beauty as a manifestation of the "divine
influence," when contrasted with the shapelessness and lifelessness of
sheer matter, is, at the same time, a place of unending struggle, ugliness and
distress, when contrasted with the celestial, let alone the super-celestial
world.^ The human soul is the site of the reflection and expression, if not
quite the resolution or synthesis, of these universal antinomies and
oppositions. The spiritual is present in the natural world, such that, a
fortiori, nature offers itself for human expression in terms of what Panofsky
terms zpaysage moralise {moraliTjed landscape). As such, the- ological and
cosmological symbolism is not at all obviated by the real- ism and
perspectivalism of quattrocento art. Quite to the contrary, it offers a
supplemental semiotic layer to imagery and allegory, adding the realm of
"perspective as symbolic form," as Panofsky stated it, to previous
symbolic systems. In fact, within this theological cosmology, all symbols and
objects are simultaneously moralized and humanized. This transformation of
vision and knowledge holds great promise for the arts, and especially for
landscape architecture, insofar as the benevolence of the natural world is now
theorized as a modality of divine love, and thus connected to what will later
be subsumed under the rubric of the sublime through the human act of
contemplation. In this theory of Platonic love, the artists of the Renaissance
found a system that expressed their most profound aesthetic con- cerns, notably
that the eternal values of beauty and harmony they sought need be expressed
through material forms. Thus the artist is necessarily a mediator of the
spiritual and the sensible realms. The very nature of artistic creativity, in
all its complexity, paradox, and multiplicity, was expressed therein. Cassirer
delineates what is aes- thetically at stake: The enigmatic double nature of the
artist, his dedication to the world of sen- sible appearance and his constant
reaching and striving beyond it, now seemed to be comprehended, and through
this comprehension really justified for the first time. The theodicy of the
world given by Ficino in his doctrine of Eros had, at the same time, become the
true theodicy of art. For the task of the artist, precisely like that of Eros,
is always to join things that are sepa- rate and opposed. He seeks the
"invisible" in the "visible," the "intelligible"
in the "sensible." Although his intuition and his art are determined
by his vision of the pure form, he only truly possesses this pure form if he
succeeds in realizing it in matter. The artist feels this tension, this polar
opposition of the ^5 elements of being more deeply than anyone else. This new
metaphysics of art was in great part based upon the notion of the representable
order of nature. The subsequent imaging of the world became a function of the
profound affinities between mathe- matical research and aesthetic production,
insofar as they both share a sense of form, based on the newly representable
order of the cos- mos. Cassirer: "For now, the mathematical idea, the a
priori' of pro- portion and of harmony, constitutes the common principle of
empirical reality and of artistic beauty. "^^ And as Cassirer insists,
regarding the primacy of form in the Renaissance poetry of writers such as
Dante and Petrarch, such lyricism does not express a preex- istent reality with
a standard form, but creates a new inner reality by giving it a new form:
"stylistics becomes the model and guide for the theory of
categories."^'' This claim may be generalized for the textu- al arts (philosophy,
rhetoric, and dialectics) and extrapolated for the visual arts. It was, indeed,
a model for the new nature of thought, where style is not a formal effect
bounded by the limitations of sheer representation, but rather where
representation itself is a creative act. Within this context, the garden would
no longer be conceived as merely a microcosmic or Edenic symbol, nor as a
theological alle- gory of the body of the Virgin. In a sense, every theory of
the micro- cosm is a theory of mimesis, of levels of representation.
Henceforth, there would be a reciprocal relationship between the mimetic activ-
ity of art and the perception of nature, such that, concurrently, art would
attempt to represent nature, and nature would be seen according to the work of
art. Consequently, mimesis would play a decreasing metaphysical role in the
light of the new theories of human creativity and productivity. Mediating this
reciprocity, the garden would be a "third nature," simultaneously
patterned upon the idealizations of art and reinventing the way that the
landscape was experienced. This aes- thetic was summed up by Giordano Bruno in
Eroicifuroi: "Rules are not the source of poetry, but poetry is the source
of rules, and there are as many rules as there are real poets. "^^
"Nature" had always been, and would always be, invented. But now, the
verity of this perpetual reinvention, its cultural inexorability, was
recognized and thematized as a function of artistic creativity. The ultimate
extrapolation of this mode of philosophical specula- tion was achieved by
Giovanni Pico della Mirandola (1463-94), a disciple of Ficino who joined the
Florentine Academy a quarter of a century after its inception. ^9 Xhe radical
aspect of Pico's thought was the reversal of the relation between being and
becoming or acting in the cosmic hierarchy, aproblem predicated on the role of
freedom. In the scholastic universe, every being, including the human being,
had a fixed place in the cosmic hierarchy; the sphere of human voli- tion and
cognition was strictly delimited and conditioned. For Ficino, to the contrary,
though man's role in the universe was to rec- ognize and celebrate the entirety
of creation, human difference and dignity consisted in man's role as a
metaphysical mediator between the higher and lower realms. Pico radicalized and
potentialized this mediative role by positing the entirety of the cosmic
hierarchy as man's proper place. Thus man, endowed with no essential particu-
larities, no longer had a fixed place in the cosmic hierarchy: the placement of
each person within the cosmos was a function of indi- vidual activity, so that
man could degenerate towards the beasts or ascend towards God, according to the
value of his acts. Human nature consisted precisely in not having a predefined
nature or form. In this proto-existentialist philosophy, man's being is defined
as becoming; man's essence is constituted by the unique trajectory of each
individual existence. In this system, where existence precedes essence,
coincide the roots of both Pascalian anguish and existential optimism; the
origins of both a theological anxiety at the eclipse of God and the joys of a
radical liberation of the human soul. Though the system still operated within a
Christian ethos, it established the preconditions for a secular realm of
thought. This openness towards the world implied that human volition and
knowledge must traverse the entire cosmos in order to achieve individual
spiritual fiilfillment. As Pico wrote, concerning the creation of man, in his
Oration on the Dignity ofMan, At last the best of artisans ordained that that
creature to whom He had been able to give nothing proper to himself should have
joint possession of what- ever had been peculiar to each of the different kinds
of being. He therefore took man as a creature of indeterminate nature and,
assigning him a place in the middle of the world, addressed him thus:
"Neither a fixed abode nor a form that is thine alone nor any function
peculiar to thyself have we given thee, Adam, to the end that according to thy
longing and according to thy judgment thou mayest have and possess what abode,
what form, and what functions thou thyself shalt desire. The nature of all
other beings is limited and constrained within the bounds of the laws
prescribed by Us. Thou, con- strained by no limits, in accordance with thine
own free will, in whose hand We have placed thee, shall ordain for thyself the
limits of thy nature. We have set thee at the worlds center that thou mayest
from thence more easily observe whatever is in the world. We have made thee
neither of heaven nor of earth, neither mortal nor immortal, so that with
freedom of choice and with honor, as though the maker and molder of thyself,
thou mayest fashion thyself in whatever shape thou shalt prefer. Thou shalt
have the power to degenerate into the lower forms of life, which are brutish.
Thou shalt have the power, out of thy soul's judgment, to be reborn into the
higher forms, which "'° This self-transforming, metamorphosing nature is
ever-changing, establishing no fixed form. In the aesthetic realm, Pico's
theory of total potentiality and mutability justified a renaissance of artistic
cre- ativity, with a newfound juxtaposition and inmixing of forms, styles, and
symbols. This metaphysics of action and creativity is at the ori- gin of an
aesthetic lineage leading to the baroque and culminating in romanticism. It is
interesting to note that Pico's philosophy was dramatized by the Spanish
humanist Juan Luis Vives (1492-540) in Fabula de homine (c. 1518), where the
full mimetic powers of protean man are acted out on the stage of the Roman
gods. After imitating the gamut of natural forms, man achieves a
quasi-apotheosis: "The gods were not expecting to see him in more shapes
when, behold, he was made into one of their own race, surpassing the nature of
man and relying entirely upon a very wise mind Man, just as he had watched the
plays with the highest gods, now reclined with them at the banquet."^' But
this theatricality did not end with the allegori- cal staging of theology in a
mythical setting; Vives also considered the implications of this apotheosis,
entailing newfound powers of human creativity in relation to the observation of
the natural world, claiming, all that is wanted is a certain power of
observation. So he will observe the nature of things in the heavens in cloudy
and clear weather, in the plains, in the mountains, in the woods. Hence he will
seek out and get to know many things about those who inhabit such spots. Let
him have recourse to garden- ers, husbandmen, shepherds and hunters ... for no
man can possibly make all observations without help in such a multitude and
variety of directions.'^ This protean ontology was not lost on the natural
sciences. The specificity of landscape would be determined with increasing
preci- sion following the development of the new sciences of geography,
astronomy, meteorology, botany, zoology, etcetera; furthermore, the physical
sciences would increasingly serve the arts, with all their the- ological and
metaphysical symbolism, however archaic or obscure. Already in this epoch, the
hortus conclusus, the enclosed clois- ter gardens of the medieval monasteries,
gave way to the secret gar- dens of the Renaissance, and later to the more
systematically orga- nized botanic gardens, initiated in Venice in the
fifteenth and sixteenth centuries, with their increasingly open collections of
in- digenous and exotic plants. When the first public botanic garden was
created in Padua in 1545, the secret garden gave way to the pub- lic garden. As
explained by Gaetane Lamarche-Vadel, The secret garden henceforth became a
laboratory of minutious observations of all the states of plants' growth, of
their reactions to the seasons, climates, and adoptive soils. Petrarch already
gave himself over to such scrupulous experimentations and annotations in his
gardens at Vaucluse, The attempts at transplanting pursued a century later
accelerated and changed in scale: the '' exchanges were no longer local but
intercontinental. Unknown roots from the New World arrived to be planted in the
ancient earth of the Old World; new names of plants abounded; exotic herbs,
spices, and produce transformed cuisine; old maladies found cures; the eye
received novel pleasures. What arrived to incite mystery and wonder slowly gave
way to knowledge and order: the notion of the world as a closed microcosm was
replaced by the con- cept of an infinite universe, open to sensory observation
and increas- ingly rational classification. Each new botanical discovery
demand- ed a place on the cosmic great chain of being; as the examples became
more and more numerous, and less and less coherent with the previously
contrived system of botanic knowledge, the old cate- gories became insufficient
to the task, forcing both a new system of classification and ultimately an
entirely new conception of the cos- mos (coherent with analogous discoveries in
the other sciences, notably those of the great Copernican and Galilean
astronomical revolutions). Under the stress of an increasingly heterogeneous
empirical field of objects collected, beginning in the fifteenth centu- ry,
from the corners of the earth—including all the orders: animal, vegetable,
mineral—the old system of classes was subverted and transformed. These objects
decorated both cabinets of curiosity and gardens (living, outdoor cabinets of
curiosity), radically transform- ing the order of nature—including the
aestheticized reordering of nature that is the garden—in a scenario of
hybridization beyond any adequately totalizing knowledge. Hybrid species gave
rise to hybrid thoughts. However, as this process of demythification was a slow
one (evolving over the centuries), each epoch bore a particular ratio of the
inmixing of myth and science—a ratio that would remain crucial to all aesthetic
representations and transformations of the landscape. Ficino's notion that all
of creation is divine and beautiful opened the way for the historicizing of
knowledge, which is one of the key tenets of humanist thought, no longer
restricted to the Christian limitations of scholastic scholarship. For if all
cosmologi- cal levels of the universe participate in divine goodness and
beauty, then by extension all historical moments of thought participate, albeit
partially, in universal truth. The result was a new syncretism, most
immediately effected by Ficino in a reconciliation of Platonic and Aristotelian
systems, but also extending to the positive recon- sideration of such thinkers
as Plato, Moses, Zoroaster, Hermes Trismegistos, Orpheus, Pythagoras, Virgil, and
Plotinus. Further- more, the implications of this intellectual openness and
mobility were vast for both philosophical historicism and a theory of natural
religion: the fact that consciousness must survey the entirety of the universe
implied the necessity of discerning the truth value of every system of thought.
Christian or otherwise, insofar as they all partake of a vaster universal
truth. Pico's syncretism was even greater than that of Ficino, including not
only Ficino's sources but also the Greek, Latin, and Arabic commentators of
Aristotle, as well as the Jewish Cabalists. Furthermore, and crucial for modern
hermeneu- tics, Pico went beyond the medieval scheme of interpreting scripture
at four different levels—literal, allegorical, moral, and anagogical according
to a hermeneutic centered on the master narrative of the Bible. Rather, he
argued for a multiplicity of meanings to scripture, as heterogeneous and
polyvalent as the complexity of the universe to which they pertained. In Pagan
Mysteries of the Renaissance, Edgar Wind discusses the implications of Pico's
conceptual revolution for art and aesthetics. The notion of the deus
absconditus, the hidden God, implies that no single symbolization of God can be
adequate, for God is fundamen- tally nonrepresentable. Witness Cusanus's
discussion, in De docta ignorantia, of the many names of the pagan gods: All
these names are but the unfolding of the one ineffable name, and in so far as
the name truly belonging to God is infinite, it embraces innumerable such names
derived from particular perfections. Hence the unfolding of the divine name is
multiple, and always capable of increase, and each single name is related to
the true and ineffable name as the finite is related to the infinite.^'* As
Wind suggests, "Poetic pluralism is the necessary corollary to the radical
mysticism of the One. This polytheistic, or at least poly- morphic, vision of
the deity achieved the reconciliation of theologi- cal opposites in the hidden
God, necessitating an application of the intellectual syncretisms of Ficino and
Pico. Yet those irreconcilable opposites, w^hich previously could only have
been united within God, could now be provisionally reconciled in human
conscious- ness. But insofar as this central theological doctrine could only be
stated in the form of a paradox, its manifold expressions, whether conceptual,
symbolic, pictorial, or ornamental, needed to share the conceptual and
ontologicaJ equivocation of its foundation. This would be the source of a new
iconographic richness in the arts. Pico was intimately familiar with the
ancient pagan mystery religions being rediscovered during his time, as well as
with the role of initiation in the acquisition of knowledge; indeed, he had
planned to write a book on the subject entitled Poetica theobgia. He discerned
the various formal levels of these mysteries—ritualistic, figurative, and
magical—all of which were continuously intermin- gled during the Renaissance.
Within these systems, truth was always hidden, to be revealed only to the
initiated through hieroglyphs, fables, and myths. The dissimulation of truth
was a protection against profanation; revelation was thus a function of
disguise, dis- simulation, concealment, equivocation, and ambiguity. Wind's
analysis of the much-admired Renaissance maxim, ^^- tina lente (make haste
slowly), which originated in Aulus Gellius's Nodes Atticæ, is a concrete case
in point. This oxy- moron simultaneously sums up, at a poetic level of
understanding, the metaphysical principle of divine totalization, the
epistemological principle of the limits of human comprehension, and a certain
eth- ical principle for regulating one's earthly existence. Here, the meta-
physical is reduced to representable (and thus apparently compre- hensible)
oxymoronic hieroglyphs or emblems—such as a dolphin around an anchor, a
butterfly on a crab, an eagle and a lamb, and countless others—all intended,
"to signify the rule of life that ripeness is achieved by a grovi^ih of
strength in which quickness and "^*^ steadiness are equally developed.
Metaphysics is thus expressed in the realm of popular imagery by reducing
philosophy to the emblematic. The result of this reduction of the cognitive to
imagery is that while aesthetics always implies a metaphysics, metaphysics is
no longer the prime guarantor of aesthetics. This is apparent, for example, in
a seminal^'' book in the his- tory of Western gardens, Francesco Colonna's
Hypnerotomachia Poliphili (The Strife of Love in a Dream). Here numerous
versions oifestina lente are illustrated; each one provides a unique nuance to
the idea, specifically attuned to the demands of the narrative. As Wind
explains, these emblems in fact serve as part of the initiatory mechanism of
the allegory. The plan of the novel, so often quoted and so little read, is to
"initiate" the soul into its own secret destiny—the final union of
Love and Death, for which Hypneros (the sleeping i,rosfuneraire) served as a
poetic image. The way leads through a series of bitter-sweet progressions where
the very first steps already foreshadow the ultimate mystery oi Adonia, which
is the sacred mar- riage of Pleasure and Pain.^^ The coincidence of opposites
is revealed through sundry conjunc- tions, such that not only the marvels and
miracles of the world, but also its most commonplace objects, reveal human
destiny. Needless to say, if basic imagery is thus manipulated, the most
complex forms of expression—the arts, including landscape architecture—^will
bear witness to similar metaphysical formations and deformations. These
techniques lead to the realm ofwhat, as Cassirer reminds us, Goethe referred to
as an "exact sensible fantasy,"^^ where science, nature, and art
coalesce in an empirical realm that utilizes its own standards, paradigms, and
forms; where abstraction and vision merge; and where fantasy and theory,
literature and metaphysics, share a com- mon ground of expression. If poetry
and images were but a veil upon the truth, they nev- ertheless offered an
alternate entry into the theological system, a means of circumventing the
obvious social restrictions of a more the- ological approach. This syncretism
was reciprocal: "An element of doctrine was thus imparted to classical
myths, and an element of poetry to canonical doctrines. Thus there obtained a
hybridization of elements within imagery; theological connotations were granted
to secular figures, and, conversely, sacred scenes evinced secular and
contemporary truths. What Wind termed a "transference of types'' was in
fact more than a stylistic feature of Renaissance art; it estab- lished an
epistemological overture that indicated the metaphysical foundations of a major
lineage of subsequent art and aesthetics. This syncretism was not lost on the
arts. Though earlier hybrid works were evident in both pastoral dramas and
mystery plays, the first Gesamtkunstwerk proper, in the contemporary sense of
the term, was the opera, developed at the end of the sixteenth century, with
the appearance of Peri's Euridice created in Florence in 1600, and Monteverdi's
Orfeo created in Mantua in 1607. Monteverdi utilized all the resources of the
art, ancient or new. This distinc- tion between old and new, most honored
around 1600, held little value for him. Thus on every page one finds archaic
connections of tunes, traditional procedures of writing and orchestration, as
well as modulations, dissonances, enharmonics, and chromaticisms engendered by
tonality, by Greek metrics, and by the rhythmics of declamation. But what
pertained uniquely to Monteverdi was his knowledge of gauging, choosing,
blending, and ordering all these elements to create a moving and animated work
with great lyrical inspiration."*^ Beginning with Orfeo, Monteverdi
established a musical synthesis of court airs, madrigals, recitative, canzone,
and arioso; this entailed a corresponding scenographic synthesis of the varied
arts. As the Cartesian mathesis universalis sought the synthesis of the
sciences in a unified theory, so would the opera syncretize the arts on the
spatially homogeneous, but stylistically heterogeneous, stage of baroque drama.
And yet, structurally speaking, it might be argued that the humanist garden of
the Italian Renaissance is the major precursor of the totalizing artwork,
insofar as it already served as the ground, synthesis, and scenarization of all
the other arts. “Hypnerotomachia Poliphili” of Colonna was published in Venice
in 1499."^^ The tale consists of the phantas- mic quest of Poliphilus,
presented as an initiatory erotic drama couched in the form of a dream,
recounting the protagonist's expe- riences and tribulations as he searches for
his beloved Polia. Beginning in the anguishing soHtude of a wild, dark,
labyrinthine forest, he finally emerges, by invoking divine guidance, into a
beau- tiful, sunny landscape of absolute perfection. Here he discovers a world
filled with gardens and palaces, containing enigmatic and emblematic monumental
sculptures and ruins representing the arts of the ancient cultures of Egypt,
Greece, and Rome, such as pyra- mids, obelisks, and temples, all evincing a
perfection lost in the con- temporary epoch. The archaic is brought into the
service of the arcane. The allegory then thickens as Poliphilus continues his
Neoplatonic quest towards love and truth, encountering five girls representing
the five senses, a queen symbolizing free will, and final- ly two young women
symbolizing reason and volition. After visiting the palace, guided by the
latter two women, he is taken to the three palace gardens, which are ultimate
expressions of human artifice: gardens of glass, silk, and gold. This passage
is worth quoting at length, as the descriptions of gardens in the
Hypnerotomachia Poliphili are of inestimable importance in the subsequent
history, imaginary and practical, of landscape architecture. When we arrived at
the enclosure of orange trees, Logistic said to me: "Poliphilus, you have
already seen many singular things, but there are four more no less singular
that you must see." Then she led me to the left of the palace, to a
beautiful orchard as large in circumference as the entire dwelling where the
queen made her residence. Around it, all along the walls, there were parterres
planted in cases, intermixing box-trees and cypresses, that is to say a cypress
between two box-trees, with trunks and branches of pure gold, and leaves of
glass so perfectly imitated that they could have been taken for nat- ural. The
box-trees were topped with spheres one foot high, and the cypress- es with
points twice as high. There were also plants and flowers imitated in glass, in
many colors, forms and types, all resembling natural ones. The planks of the
cases were, as an enclosure, surrounded with slides of glass, gild- ed and
painted with beautifiil scenes. The borders were two inches wide, trimmed with
gold molding on top and bottom, and the corners were cov- ered with small
bevels of golden leaves. The garden was enclosed with pro- truding columns made
of glass imitating jasper, encircled by plants called bindweed or morning glory
with white flowers similar to small bells, all in relief and of the same
colored glass modeled after nature. These columns rested against squared and
ribbed pillars of gold, sup- porting the arcs of the vaulting made of the same
material. Underneath, it was trimmed with glass rhombuses or lozenges, placed
between two moldings. Upon the capitals of the protruding columns were placed
the architrave, the frieze, and the cornice in glass, figures in jasper, as
well as the moldings around it, golden rhombuses with polished and hammered
foliage, such that the rhombuses were a third as wide as the thickness of the
vaulting. The ground plan and the parterre of the garden were made of
compartments composed of knotwork and other graceftil figures, mottled with
plants and flowers of glass with the luster of precious stones. For there was
nothing nat- ural, yet there existed, nevertheless, an odor that was pleasant,
fresh and fit- ting the nature of the plants that were represented, thanks to
some compound with which they were rubbed. I long gazed upon this new sort of
gardening, and found it to be very strange.^^ The brilliance and genius of this
pure artifice invokes Poliphilus's admiration and wonder; the inherent
artificiality of mimesis is revealed. While this garden was never imitated in
its totality, it established a certain sensibility, and many of its elements
have served as models for both details and major elements throughout the his-
tory of landscape architecture—as well as in the subsidiary art of pastry
making, with its parallel history. Poliphilus's discovery of these artificial
wonders continued: "Let us go to the other garden, which is no less
delectable than the one which we just showed him." This garden was on the
other side of the palace, of the same style and size as the one made of glass,
and similar in the disposition of its beds, except that the flowers, trees, and
plants were made of silk, the col- ors imitating those of nature. The box-trees
and the cypresses were arranged as in the preceding garden, with trunks and
branches of gold, and underneath were several simple plants of all types, so
truly crafted that nature would have taken them for her own. For the worker had
artificially given them their odors, with I know not what suitable compounds,
just as in the glass garden. The walls of this garden were made with singular
skill, and at incredible cost. They were assembled with pearls of equal size
and value, upon which was spread a stalk of ivy with leaves of silk, branches
and small creeping runners of pure gold, and the corymbs or raisins of its
fruit of precious stones. And, equidistant around the wall were squared
pillars, with capitols, architraves, friezes and cornices of the same metal,
resting upon it as ornaments. The planks that served as slides were made of
silk embroidered with gold thread, depicting hunting and love scenes so
surprisingly portrayed that the brush could not have done better. The parterre
was covered with green velour resembling a beautiful field at the beginning of
the month of April. 45 They then enter a third garden, in which is located a
golden trian- gular obelisk, decorated on its three sides: Logistic turned
towards me and said: "Celestial harmony consists of these three figures,
square, round, and triangular. Know, Poliphilus, that these are ancient Egyptian
hieroglyphs, which have a perpetual affinity and conjunc- tion, signifying:
'the divine and infinite trinity, with a single essence.' The square figure is
dedicated to the divinity, because it is produced from unity, and is unique and
similar in all its parts. The round figure is without end or beginning, as is
God. Around its circumference are contained these three hieroglyphs, whose
property is attributed to the divine nature. The sun which, by its beautifiil
light, creates, conserves, and illuminates all things. The helm or rudder which
signifies the wise government of the universal through infi- nite sapience. The
third, which is a vase full of fire, gives us to understand a "4°
participation of love and charity communicated to us by divine goodness. The Neoplatonic
resonances are worth noting. Continuing his quest, Poliphilus is confronted
with three doors, representing the major paths of life, leading towards either
the glory of God, the plea- sures and wonders of the world, or love. As
Poliphilus chooses the last—justifying the text's extreme voluptuousness—he is
led to the most perfect garden of all, Cythera, residence of the goddess of
Love (and historic site of the Greek cult of Aphrodite): "That region was
dedicated to merciful nature, intended for the habitation and dwelling of
beatified gods and spirits."47 The description of the gar- dens of Cythera
is so complex as to escape precise visualization and defy synopsis, yet it has
inspired much of the Western imagination of landscape architecture. Here, the
new Renaissance sense of nature combines with the contemporary exigencies of
the arts: cosmic symbolism is reflected in architectural detail, the fecund
sensuality of nature is circumscribed by the most rigorously geometricized
geography, and the beauty of the landscape is accentuated, or even simulated,
by the most refined artifice of the artisan's craft. Each aspect of this site
inaugurates a type of perfection later to become stereotypical. The island is
circular, with crystalline earth, beaches surrounded with ambergris, and its
circumference is defined by ordered plantings of cypresses and bilberry bushes
trimmed to perfection every day. The island's river has a shore adorned with
sand mixed with gold and precious stones, and banks planted with flowers and
citrus trees. The island's major divisions are mathemat- ically organized and
separated by porphyry enclosures of artificial foliage and knotwork decorations
interspersed with marble pilasters; each of these divisions delimits a
different sort of planting: oak, fir, shrubs formed into figures representing
the powers of Hercules, pine, laurel and small shrubs, apple and pear, cherry,
heart-cherry and wild-cherry, plum, peach and apricot, mulberry, fig, pomegran-
ate, chestnut, palm, cypress, walnut, hazelnut, almond and pista- chio, jujube,
sorb, loquat, dogwood, service, cassia, carob, cedar, ebony, and aloes. In what
appears as a prototypical version of Michel Foucault's "Chinese
encyclopedia"—where the introduction of fantastic ele- ments shatters
empirical taxonomy—the animals to be found there are no less diverse, so as to
maintain the Utopian aspect of the site: satyrs, fauns, lions, panthers, snow
leopards, giraffes, elephants, griffins, unicorns, stags, wolves, does,
gazelles, bulls, horses, and an infinity of other species (excepting only those
that are poisonous or ugly). Furthermore, the decorations within the sundry
orchards, prairies, and parterres offer nearly the entire gamut of what shall
become the standard features of Western landscape architecture: trellises,
bowers, altars, decorative bridges, topiary, sculptural and architectural
features, and fountains. There are herb gardens con- taining a variety of
medicinal plants as vast as that of medieval clois- ter gardens, including absinthe,
birthwort, mandragora, fiimitory, devil's milk, sumac, betony, calamint,
lovage, St.-John's-wort, night- shade, peony; and also aromatic and edible
plants such as lettuce, spinach, sorrel, rocket, caraway, artichokes, chervil,
peas, broad beans, purpura, pimpernel, anise, melons, gourds, cucumbers.
chicory, watercress, etcetera. The flowers in the prairies, whose description
evokes the millefleurs backgrounds of medieval tapestries such as the unicorn
cycles, are no less varied, and the parterres, plant- ed with extremely
complex, interlaced, and varied patterns of flowers and other plants, have
become classic models for subsequent gardens. Finally, there is the veritable
"source" and destination of the quest, the mystical fountain ofVenus
(which, most tellingly, remains unillustrated, but for a schematic ground
plan), with columns made of precious stones, detailed carvings, and zodiacal
and mythological symbols. The source of the water could itself be seen as an
allegory for the "third nature" that characterizes the art of
gardens: The cover of this marvelous fountain was made of a rounded vault like
an overturned coupe without a foot, all of a single piece of crystal, whole and
massive, without veins, flaws, hairs, kerfs, or any macula whatsoever, purer
than the water spouting from the solid, artless, raw, unpolished rock, just as
nature made it."** The Italian Renaissance produced copies, however
flawed, of certain aspects of these gardens. Henceforth, mathematics and
mythology would join within the art of landscape architecture. Yet, however
imperfect the imitation, an entire worldview was evident in these gardens. As
Gaetane Lamarche-Vadel remarks, The visions freed by the reveries are not
always images of paradise lost; they also sometimes prefigure models of a
perfection yet to come. The island where Poliphilus ends his journey is one of
those: Venus, in concert with mathe- matical reason, conceived the plans for
this garden. Fecundity is allied with order, measure, and proportion."*?
The metaphysical allegory is always upheld by the most extreme sen- suality and
preciosity. Indeed, one of the inscriptions on the foun- tain may serve as an
epigraph for the entirety of the Hypneroto- machia Poliphili: "Delectation
is like a sparkling dart. No synopsis of the Hypnerotomachia Poliphili can
satisfy, for it is precisely due to the eccentricity of its quasi-encyclopedic
char- acter—through the heterogeneous allusions and evocations of each object,
and the symbolic interrelations between these objects—that the nature of this
synthesizing, moralizing, and aestheticizing sym- bolic system appears. The
heterogeneous enumeration shatters the effects of mimesis, giving rise to art
as an activity of the autonomous imagination. Such a pluraUstic mode of Usting
and narrative para- taxis operates as a conceptual expansion of horizons,
utihzing pre- vious symbols, forms, and taxonomic schemes retrospectively to
recreate their classic origins; proleptically, they create a modern aes-
thetic.^' Here, a vast syncretism rules the combination of botanic (Egyptian,
Cypriot, Greek, Syrian, etc.), architectural (ancient Greek, Roman, Italian,
Gothic, monastic, etc.), and textual (Pliny, Virgil, Dioscorides, Theophrastus,
etc.) elements, establishing a totality imbued w^ith the most extreme, and
fruitful, anachronisms. And yet, it is perfectly coherent with the Neoplatonic
metaphysical speculation of the epoch; for all classicism is inherently
revisionis- tic, transfiguring ancient forms according to contemporary motives.
It is precisely here that we can appreciate the allegorical weight of ruins in
landscape architecture: signs of an ideal and ide- alized past now disappeared,
symbols of a creative consciousness that recuperates and transforms, indices of
an aestheticization that combines and refines. Hypnerotomachia Poliphili thus
offers not only specific details and general models—based on a synthesis of the
contemporary arts—for the subsequent history of landscape architecture; it also
proffers an aesthetic of complexity, contradiction, and paradox that will
inspire, both consciously and unconsciously, the most profound garden
creations. Its style, plot, and characterizations are complex and
heterogeneous; ancient, medieval, and Renaissance objects are contemporaneously
juxtaposed and overlaid with both sacred and profane symbols; multiple
discourses interweave myth and rational- ism, erotic drama and mundane
description, fantasy and utility, nature and geometry; varied, often
contradictory, ideals of beauty are interwoven. Furthermore, the metaphoric
dimension of artifacts is always apparent, revealing the landscape itself as an
emblematic, symbolic, or allegorical space parallel to the mental state of
Poliphilus, in 2i psychomachia that organizes the dynamic principle of the
narrative, as Gilles Polizzi explains: "Such is the book of Colonna
that—in the problematic conjunction of its books and its subjects, science and
desire, the Apuleian weave of its mysteries and the experiment with natural
hieroglyphs—it opens to a polysemy that makes it a world-book or a
monster-book. Crucial for the present study is the fact that Hypnerotomachia
Poliphili stresses the central importance of narrative in establishing the
structure and significance of gardens in general. For not only is the garden a
reflection of mental states, but its allegorical structure is based upon the
active, and not merely mimetic, aspect of vision as a creative, dynamic,
mutable process. This pertains to the garden's visible and mathematical forms
as well as to its visionary and mytho- logical dimensions. Thus the
"objective" geometry and sciences behind these inventions, the
"third nature" realized from combining artifice and nature, are
instantiated or activated, as it were, by the narrative phantasms of those who
created the gardens, and subse- quently by the phantasms of those who enter
them. In Hypneroto- machia Poliphili, the garden is literally a dream; the real
gardens of the world, conversely, are sites that evoke reverie. The liberated
plas- ticity of the imagination—a major consequence of the new meta- physical
system elaborated by Cusanus, Ficino, and Pico—corre- sponds to the historic
relativity and alterability of truth in its manifold and often contradictory
manifestations. For the conditions of the possibility of any work of art
include not only the material and spiritual traditions of the period, but also
all the conceivable phantasms, misreadings, variants, and heresies—all the
paradoxes and paralogisms—of the arcane and often unstated traditions that are foundational
of an epoch. Contradiction, complexity, and paradox are fundamental principles
in both the genesis and the structure ofWestern landscape architecture. The
coherence, formalism, and stylistic closure all too often sought by historians
of gardens in fact dissimulates the inco- herence, heterogeneity, and
conceptual intricacies that underlie most great gardens. The organic, dynamic,
chaotic space of nature is always at odds with the geometric, static,
mathematical space of conceptual form. "Worked through by the Demon of
Time whether in its human and historical manifestations as narrative, fan-
tasy, and destiny, or in its natural manifestations as seasonal change, growth,
decay and death—the garden is a fortiori a dynamic, syn- thetic, syncretic entity,
escaping all formalist definition. Syncretism and Style 1 Jakob Burckhardt, The
Civilization ofthe Renaissance in Italy, vol. 2, trans. Middlemore; New York:
Harper et Row), PETRARCA, Lettres familihes et secrkes (Paris: Bechet); cited
in Vadel, Jardins secrets de la Renaissance : Des astres, des simples, et
desprodiges (Paris: L'Harmattan), This book is an excellent study of the secret
garden, from the medieval hortiis conclusus through the Italian Renaissance
giardino segreto to the jardin hermetique. 3 Lamarche-Vadel,Jardinssecrets,11.
4 Francesco Petrarch, "The Ascent of Mount Ventoux," n.t., in
Introduction to Con- temporary Civilization in the U^if (New York: Columbia
Petrarch, "Ascent," 562. 8 Two classic texts on the trading, inmixing,
and syncretism of symbols are: Baltru^aitis, Le moyen dge fantastique:
Antiquites et exotismes dans I'art gothique (Paris: Flammarion); and Rudolf
Wittkower, Allegory and the Migration of Symbols (London: Thames and Hudson). 9
Ernst Cassirer, The Individual and the Cosmos in Renaissance Philosophy, trans.
Mario Domandi (; Philadelphia: University of Pennsylvania)
Asthisisprobablythemostanalyzedtopicinarthistory,alonglistofreferences would
here be both inadequate and superfluous. As an introductory note, consider
several classic texts: John White, The Birth and Rebirth ofPictorial Space
(London: Faber et Faber); Pierre Francastel, La figure et le lieu: L'ordre
visuel du Quattrocento {?2ins: Gallimard); Samuel Y. Edgerton, The Renaissance
Rediscovery ofLinear Perspective (New York: Harper et Row; and Hubert Damisch,
L'origine de la perspective {Vaus: Flammarion). The most recent translation is
Leon Battista AJberti, On the Art ofBuilding in Ten Books, trans. Joseph
Rykwert, Neil Leach, Robert Tavernow (Cambridge, MA: MIT). For example,theVillaLante
(Bagnaia),theVillad'Este(Tivoli),theBoboli Gardens of the Palazzo Pitti
(Florence), and the various Medici Villas (Rome, Castello, Poggio, Pratolino,
and Fiesole), only to name some of the most typical and famous. The literature
on the Italian Renaissance garden is vast. For a fine introduction, see
Catherine Laroze, Une histoire sensuelle des jardins (Paris: Olivier Orban;
Terry Comito, "The Humanist Garden," in Monique Mosser and Georges
Teyssot, eds. The Architecture ofWestern Gardens (Cambridge, MA: MIT Press);
and John Dixon Hunt, Garden and Grove (Princeton: Princeton University Press,
1986), especially 42-58 ("Ovid in the Garden") and ("Garden and
Theatre"). Among the many fine illustrated books and guides, very usefiil
is Judith Chatfield, A Tour ofItalian Gardens (New York: Rizzoli). Cited in PUPPI
(si veda) Nature and Artifice in the Sixteenth-Century Italian Garden," in
Mosser and Teyssot, Architecture ofWestern Gardens, 53. 16 This section on
Cusanus is based on Cassirer, Individual and Cosmos. On the great chain of
being, see Lovejoy, The Great Chain of Being New York: Harper et Row). 17
KarlJaspers, Anselm and Nicholas of Cusa, trans. RalphMannheim(NewYork:
Harcourt, Brace, Jovanovich. The present essay presents only the broadest
schematization of these complex philosophical issues—^just enough, it is hoped,
to situate their interest in relation to the development of the Italian
Renaissance garden, and thus to inspire the reader to further investigations. Cassirer,
Individual and Cosmos, 51. On the extension of these issues as they relate to
aesthetics in the seventeenth-century debates between the Cartesians and the
Pascalians, see Allen S. Weiss, Mirrors ofInfinity: The French Formal Garden
and 17th-century Metaphysics (New York: Princeton Architectural Press), Cited
in Raymond Marcel, Marsile Ficin (Paris: Les Belles Lettres) Cassirer,
Individual and Cosmos, 190-1; see . On FICINO (si veda), see also Kristeller,
Renaissance Thought and the Arts, Princeton. Panofsky, The Neo-platonic Movement
in Florence and North Italy, Studies in Iconology, New York: Harper et Row. Cassirer,
Individual and Cosmos. Panofsky notes that the vast influence of the notion of neo-platonic
love is effected in both direct and indirect manners, much in the manner that
psychoanalysis is influential for the history of modernism in the arts, even
when inadequately understood. This idea is useful in considering the relations
between theoretical systems and artistic production, where partial readings and
misreadings in no way obviate the efficacy of influence or affinities. Bloom's
The Anxiety ofInfluence, Oxford, remains the most subtle analysis of the role
of misprision in artistic creation. In relation to the experience of the
Italian garden, Hunt, in Garden and Grove, makes a parallel claim, referring to
a study by Bruno of an allegory of art and nature in the Villa Lante. Iconographical
studies usually consider, as does this, only meanings inscribed in an art work,
rarely how such meanings is read by a later visitor. The great value of Hunt's essay
is that it accomplishes both feats. Cited in Hauser, The Social History of Art,
New York: Vintage Books). See Kristeller, PHILOSOPHERS OF THE ITALIAN
RENAISSANCE, Stanford. Pico, Oration on the Dignity of Man, in Cassirer,
Kristeller, and Randall, THE RENAISSANCE PHILOSOPHY OF MAN, Chicago Vives,
Tabula de homine, in Cassirer, Kristeller, and Randall, Renaissance Phibsophy. Vives,
cited in Hale, The Civilization of Europe in the Renaissance (New York:
Athenaeum), Lamarche-Vadel, Jardins secrets. On the transformations of
epistemology, natural classes, and botanic knowledge, the locus classicus of
the subject remains Foucault, The Order of Things, New York: Vintage. Cited in Wind,
Pagan Mysteries in the Renaissance, New York: Norton. Perhaps the most familiar
contemporary example of this dictum is Alls, float like a butterfly, sting like
a bee. The erotic poetics of the Hypnerotomachia Poliphili speddcaWy justifies
the use of this adjective. Cited in Cassirer. Roux, cited in Roche, Monteverdi
(Paris: Le Seuil/Solftges. Although the identity of the author of
Hypnerotomachia Poliphili is not absolutely certain, it is now almost always
attributed to COLONNA (not to be confused with COLONNA), a dominican friar of
the monastery of SS. Giovanni e Paolo in VENEZIA. There is one theory that “HYPNEROTOMACHIA
POLIPHILI “ is written by ALBERTI (si veda), which, whatever its veracity,
reveals the profound affinities perceived between the two philosophers.
Hypnerotomachia Poliphili is published, with illustrations, in Italian in VENEZIA
by Manutius. An abbreviated translation by Martin appeared, published by Kerver
as “Le songe de Poliphile” (Paris: Imprimerie Nationale, ed., and prefaced by
POLIZZI). Another translation, “The Strife of Love in a Dream”, appeared in
London. The contemporary Italian edition of Hypnerotomachia Polophili is edited
by Pozzi and Ciapponi, PADOVA. On the influence of HYPNEROTOMACHIA POLOPHILI in
France, see Blunt, The Hypnerotomachia Polophili in France, The Warburg.
Blunt’s is an important early study flawed, however, by a less-than-
rudimentary comprehension of Renaissance philosophies. The importance of the
engravings in the HYPNEROTOMACHIA POLOPHILI for considerations of the landscape
are briefly discussed in an essay that is, in its breadth and depth, a model of
scholarship on gardens and landscape: Schama, Landscape and Memory (New York:
Knopf. For an idiosyncratic and suggestive allegorical reading, see Gomez,
Poliphilo, or The Dark Forest Revisited, MIT. We find here the origins of
Astroturf. Lamarche-Vadel, Jardiru secrets. On the epistemological problem of lists,
see Weiss, The Errant Text, The Aesthetics of Excess (Albany: University of New
York). Such usage evokes the sensual and critical aspects of Rabelais (who was
directly influenced by Hypnerotomachia), the phantasmic and non-utilitarian
inventions of Roussel, and the simulacral metaphysics of Borges. Polizzi,
"Presentation," in Colonna, Songe de Poliphile. Abram, The Spell
ofthe Sensuous: Perception and Language in a More- Than- Human World. New York:
Pantheon; Adams, The Education of Adams. New York: The Modern Library; Adams,
Nature Perfected: Gardens Through History. New York: Abbeville. ALBERTI (si
veda), On the Art of Building, MIT. Amrhein and Conley,
Robert Smithson. New York: Pierogi Gallery. Apostolides, Le roi-machine:
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Seduction, Princeton, Bauduin and Weiss, Lieux et liens. Paris: Editions Lahumiere, Berque, Les Raisons du paysage: De la Chine antique
aux environnements de synthhe. Paris: Hazan, Bonnet, Careme,
or the Last Sparks of Decorative Cuisine, in Allen S. Weiss, ed. Taste,
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Civilization in the West. Columbia, Buci, La folie du voir: De I'esthitique
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Renaissance. New York: Norton, Wittkower, Rudolf Allegory and the Migration
ofSymbols. London: Thames and Hudson. Grice: “Measles is natural, dying from it
is not! Dahl’s daughter died from complications of measles – unnaturally so –
poor child – God bless her soul.” -- Il conte Cosimo Alessandro Collini. Keywords: naturalismo,
naturismo, pterodattilo, filosofia, pisa, Firenze, nobilita, coira. Pterodattilo.
Polemica filosofica, Domenico Eusebio Chelli, marchesa Gabbriella Malaspina, Voltaire
e la Toscana, “Firenze come una nuove Atene”, Collini su Ariosto e Boccaccio,
Collini makes fun of Voltaire’s daughter. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Collini” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Colombe: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Galilei – Aristotele
e la stella nuova – scuola di Firenze – filosofia fiorentin – filosofia toscana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze,
Toscan. Grice: “If you love stars, as any philosopher must – vide Thales! – you
LOVE Ludovico who refuted Kepler’s idea that the thing next to the serpentary’s
foot was a ‘star,’ never mind ‘nova’!” Noto per essere stato uno strenuo
avversario di Galilei. Non si sa quasi
nulla della sua vita, ma restano diverse sue saggi, nelle quali difende la
dottrina aristotelica con un particolare disinteresse sia verso le nuove
osservazioni sia verso la coerenza logica.
Scrisse un discorso sulla nuova stella apparsa sostenendo che si tratta
di una stella non nuova, ma esistente da sempre. Scrisse un discorso Contro il
moto della Terra. Per conciliare le
osservazioni di Galilei sulle irregolarità della superficie lunare con la
concezione aristotelica della perfetta sfericità dei corpi celesti sostenne che
le valli e gli spazi tra i monti della luna sono colmati da un materiale
perfetto e invisibile. Contrario all’idrostatica archimedea recuperata da
Galileo, nel suo Discorso apologetico, sostenne che il galleggiare o l’affondare
dei corpi dipendesse dalla loro forma. Nella conclusione del discorso usa anche
una metafora di questa teoria, affermando che le ragioni dell'avversario per
essere troppo argute e sottili vanno a fondo senza speranza di ritornare a
galla, mentre quelle di Aristotele, per essere di forma larga e quadrata, non
possono affondare in nessun modo. Sono rimaste anche lettere tra C. e GALILEI che
stima pochissimo il suo avversario, che soprannominato “Pippione”. Vari accenni
a questo personaggio sono nella corrispondenza tra Galilei e i suoi amici. Dizionario
Biografico degl’Italiani, Amici e nemici di Galilei, Milano, Bompiani. Aristotelismo.
by Drake DIALOGO DE CECCO DI RONCHITTI Da
Brvzene. IN PERPVO Sir O De La Stella Nvova. Al Loftrio e
Rebelcndo Scgnor Anruogno Squerengodegneriflemo Calonego de Paua, so
Paròn. C&n alcune ottave d' Incerte, per la medejlma Stella,
centra Arjlotel^. ls3 *9 «3 te te te In
Padova, g£Ì Apprcflb Pietro Paulo Tolzx. M.dc.v. H ikSk tk^s
skfjh «^EsS*«JbJU (?X:§(s P AL LOSTRIC. EREBELENDOPÀUO EL
SEGNOR Antuogno fquerergo Dennett fimo Calone o de Vjua, Vedifleo,
RebelédoSegnor Paròn, s'a vee&è on voftro puouero feruiore,que
no fé me altro, che la boaria, e'1 mefticro de pertegar le
cam pagne, ade-fio, que el la toleflfe co* vn Dottore de quiggi da Paua,
per via de desbuta ? no ve pareraela na botta da ri re ? mo oncaièj
e lì Tè vera, "j a mentre fé conto c'hò fatto con fèquellù, che le
mef fé la vefta, que n'iera foa,per parer elio dottore. L'è vera, que
inchinda da tofatto, ci A 2 me nuTnfaua el me {naturale a~guardare in
cito, e fi a g'haea gran piafere desfeguranto la boa ra, le falce,
i biron, la chiocca, e'1 carro,con tutto ; mo gnan per quefto a no ghe
n'harae iTapiofaellare, s'a no v'haeffe fentù vù mille,
emilliantabotteadire mona confa, mò n'altra a ftoperpuofito • E fi de fta
Stella nuoua, que dà tanta fmcrauegia a tutto el roeflb mondo ; per
conto de dire on la fea, a ghe n'hì, per muò de dire, fatto lotomia
j faellanto, edesbutanto co quanti difea, che la n'iera in Cielo
que fé ben a no ve n'adaui,mendecao a me ve cazzaua in le cofte mi, efia
vefentia,efi(femiga a n'ho vncelibrio fpelucatiuo,com 5 hà de gì akri)a tegnia
mcn te a zò cha difiui. Tonca mò, per que adef
foagihòfmeffiètutteavno in iti fcartabieg gi, fé conto cha m'ho mettù el
voftro gabban, fe'l parerà bon, a ghe n'harì vù Thanore. ma fé, pre mala
defgratia, el ghe foeffé qualche fcagarello(cha no'l crezo) que olefle
sbregarmelo,el ve toccherae mo anche a darme alturio,fipiato che l'è
voftro. Caro Paron habbieme per recomadò,cha prieghe lè pò fempre
an rni, Domenedio, que ve daghe vita longa, e fanitè. Da Paua a
l'vhimo de Feueraro, del mille > e fie cento, ecinque^.
Seruiore della voftra Segnorra Cecco di
Ronchitti, Quiggi, che Rafona. Matthio. Nale. Ootta de
chi me fé 5 mo que feccura, que brufamento e que fio ? a sè> che
no vuolpiouere mi, bon ctt aqua. Mo no difegi, que a le Vegniefìe
l'è a man a manfute le lagune? Penfeue^elfe ven ape inchin da a
slarilafofina. <td pojfon ajpiettar de belo, que i fromintinafcira. i
nafcìra condife zJldafchio. N A. a dio, a dio, Adatthio.
quefaellamento el to ? iejliefl sì fora de ti an\ MA. ben ve gnu Naie 5
mo caro fretto > a no se mi. a m'andafé a lambì canto el celtbrio, per que
no pio uè mi, que fin parfefire de Ht timpt? gtiè pligoloy che gi
ardere del Gordon fé rompa % rompa, per le pine ? NA. Ver
canto de quello, l'è ongrétn dire y que tant ciòtte el s'ha veZjU
nunole "pìoììolèX^itagr Ò ba da,e fi gi è torne indrio fenz^a
bagnare el fabbton gnan tanto co harae fatto on pijfar de rana. //
evèrtè < que fé l <và drto così a feron al finimondo mi I p> è
e tutti brusè y le campagne fecebe a muo noffo \ tanto que a longo
andare, nu elbe Hiame a nopofsonfe lome farla m alarne tre. MA.
Tirate on può fottofla vogara 3 in t* agno muo el gtie pi dvnhora a fera,
da quecrito mo cheU fprociedafo fccume an ? NA. mo nheto vezju quel
la Stella, chesberlufea la fera \k tn mifi, que laparea nogio de z^ostta) e fi
adello la fé <vè la mattina con fé <và a bri*. fare, que la fa on
[pianare belettfèmcì no t'acuorì^to, che la xè vegnua da fre(co ? e que
no la s*ha velati a me pi inan%o d adejfo ? mo tè ella cafon de
Hefmera uegie, e de Hi ficchi ^fegondo.che dtfe ori \ dottore da
Paua. AIA. Cu in feto ti, que la no shablne me pi ve&ua ? NA,<*si
fen- % ^fentìf altro dial^o vrió,che lez^ea on certo slibraT^uolo.efiel
dì fé a, que la fé fornente a desfegurare lomè a gì otto del me fé
d'ottubrwpafsc. E (i quel librai^ zjtolo el l' haea fatto on lettran da
Panai chel contatta, pò afe con fé. MA. *Doh cancaro a i fcagarieggi da
Patta, faosfìy per che cjuefììt no l'ha ve&ua ello > il
vuole, che tutti ghecher&a, que me pi la noghefuppifta ? -Guari mi a
n ho mi *vezM le Toefcarie, e fi leghe xe. NA. Jidopre conto de
quello, el me par pure aria mi, che la fé a nuova. AIA. qlA no dighe
a ì incontragio mi^ tè, che 3 1 so rnuò de fae Ilare ne ben \fe miga
elfoejfeper gramego, NA. ^4 fé confagòn tonca, que te nuoua. AIA.
Sì, mofeando tanto lunz^i el no pò faere &g que lafippia, per dire,
che la xe ella, que no laga pione re. NA. ^liedio, lim^i, la n'è
gnan fora a la Luna, per quanto dfea quelli- braz>z*uoia. À4A. Chi
eloquellù, e' ha O] fatto l ItbraZjZ^uolo ? elo pertegaort^ ? NA. Nò, che
te Filuonco. <&1A. Lì Filuo Fituorico ? e ha da far e
lasoflluorìa col mefurarc ? No feto, que on
z>auattin no pòfaellar de fibbie ? El he fogna
crerc a gi fmet amatichi^que gi è pertegaore de t aire,fegondo y
che an mi a per t ego le e a pagne, e fi a pofjò dire, a rafion 3
quanta le xe longhe 9 e larghete così an iggi. NA. El dìfea ben
aponto quel libraz^T^uolo 9 che ì Smetamaticht ere, que lafippia
elta de bebi ma che i no l'intende. A4 A. mo per que no
l'intendegi? me truognelo, o me falò l'amore ? NA. Eldtfi, que i
Si f^ maghina, chel Cielo fea fiorrotttbele, e z^enderabele in quato
a onpuoco a la hot taf e mtga elno poeffe gender ar fi, e fior
romper fé tutto in t'vn fio. quefegi mi ? MA. On faellegt de fiere fon
tfmet ama fichi an ? S'i Ftà lomefulmefurare>quc ghefa quello a
igg* fi'lfuppi? z^enderabi le, ò nò. Selfoejfean de Polenta,nopo m
raegi ne pi, ne manco tuorlo definirà ? mo el tne fa ben da rire, con
Hefuò sba *~T già fari. NA: Ah te bella, que e Idifi confi de Ha fatta in
pur afise luoghi de quel quel libra^ZjUolo.sZMÀ.
Que vnctu mì> ^*jj cha ghe faghe mi, fé l'è \oene ? Uga cheH " p
" u s'in caue la vuogia. NA. Eldifea,que fé lafoejfe sbenderà
da nuouo in lo C/c lo, el boqnerae anche, que rì altrz Stella, o
qualcl) altra corifa fé fo?fje fcorrotta in so fc ambio liueluondena, h
vefinaqueL la 5 e fi no fé ghe ve negotta de manco. Ai A. TV
parfeche'l faelle con gifmeta rnatichi ? tamentre l'è tanto
fcapu^ZjUa, cha no poffot afere, mettamofegura>que onpuoco de
Cielo chiue, e n altro puoco li uè, s'habbi combino a vno^ el
s'acuorz^era elio on el manche ? quando fé fa le nu noie, e le piozje,
onfevèelfegnale, que le fé a He tolte per mettrele wfembrefmo
digamo de la [Iella, on s'è (chi ano L*agie re, perche el "vuole,
che lafappi incende ra line elltk? Epos'imaghinelo (la ferae ben da
dire al preue ) que tutte le felle che xè in Cielo fé pofia vere r el ne
pos fibule. Eperz^uontena chi me tèn, cha no pvjfa dire* que trè>o
quattro, e ari pi [ielle de quelle menore, che no fé <vea,fe xe
B amucchìh e sì gi ha fatto Ha bei) a <iran~ de? No porae an
efifere,que la fé foejfe penderà in Papere, e pò, chefempre pi
lashaejje alz^a ì tamentre a no vubdi^ refie con/e, per que la ne me
firefesfion, no me ri mudatomi-, bafia > que gnan elo noparlaben.
N *d. E fi el 'vuole polche quefiofea el neruo de la rafon de Stotene.
MA. Toncafipiando così me fero el neruojutto el so Zjenderamento.e
fcor rompimento ander a in broetto. NA. S'i nìeruìe sì debole, la
carne fera benfroL la. Eldife, quefe'lfepoeffe Xepderare in Cielo
de le ftekenuoue, el befognerae y que da tanti befecoli m qua/ in foejfe
fcor rotta qualcuna de quelle >che fempre me xe Ha vez^ue : que
gì è : a no m arecuordo quante : bafagt eparegie\£ fmoghin manca gnegima,
que el lo difettatene. MA. Pìivh, mo queHa firen%s benfen l^a
penale, chi diambarne ghkndttto che Jìa Bella nuoua fea na [iella He Ha ?
Ce ben on fpianXare, mo no na [iella. E fi mt a thè wchtndamo
chiama [itila > per que que la in par e, fé
ben la rì e, corri e le altre. NA. One eia torte a ? zZ^lA. Que fé
gì mi ? bafa.che la riè na [iella purpiamen. e file altre fi elle
no fé xè me ftorrotte,per que vi è [Ielle, e fi el Cnloghe riha debefogne
dt f Atti fuo : mo no de quefìa, che fipìanto vegnua, l'è anche ti
deuere,quc la vaghe via. E per conio de dire, que no s'ha me ve&uHelle
afeorromperfe^ re [pundime on può. La terra ( che xè menoredele [ì elle )
s* eia me flramua tutta in fona botta ? NA. Mo, copeforinfe la
terrafefeambiafea Ho muo^ riandaf fangi tutti a fca&z>afaJfo ì
<£WA. ^A cherXo ben de sì. tamentre apuoco,a può coel
fefa,efiporae effere,che'lfefaeffe anche de le [ielle, que xè [ielle.
Pure > a domanderae enti era a queliti dal librai z^uolo, a
comuo el sa, que gneguna fella no fé fa mèfeorrotta de fatto, che per
di re> que nogh'è me fio homo, che fé rihabli ado, e (jue el Cha ditto
Stoterte $ le me par noellemi. NA. el dife>cjuefefia [lei T „ rf t
x làfoefje m Cielo>tutta la fluori fnatu- cap ' r C 2
tale raleferae na bagia $ E que Statene ten \ que arZjOnz^antofe na
Bella in Cielo.no l porae muouerfe. AIzA* Cancaro, l'ha bìo torto
Bd Bella, a deroinare così la filuorìa de que fioro. s'afoefiè in iggi a farae
e et aria denanz^o al Poe fio mi, e fi a ghe darae na quarela
depujfefsion tmba t a, e fi a torrae na cedola reale >e per fona
le incontra de ella, per que te casòn, que f ?&c ni " e
Cielo nofemuoue^ tamentre quello Te manco male^ che el ghe nepancchiie
an di buoni) que cricche* Ino fé muoua.lSlA. ^j; Mo rì altra,
con que re fon (difelo) quei Cielo de fora xelo da manco de gì altri
? que elvegniraea ejfer da manco fipiandofcorrottibele,e naffan doghe de
le (leU lenuoue, e no in gi altri, eh* è pi baffi. IAA. Cancabaro,
da quello a zi altri, el gtie defenientia, per conto de macre, pt %
che né dal monte deB.ua a on gran de me gio ; ep?rz*>ontena elio
fipianto sì grande^ el pò haere de le altre Belle da nuouo^mo nò fi
altri, que gì ha afse dcvnapervno>e phfclghe nafajje anche in iggi
quàl che che flelletta, s'ìmaghinelo, que tutti la verde
defatto f 'o te cottora. NA. Eldi fé, que per fare el mondo Fptefetto,
bogna> che ghefuppì qualconfa incenderàbete, e incorrottibele, e fi la no pò
e [fere altro, chel Cielo. <z7l y fA. El Cielo ? per que mò cosi
el Cielo ? E mi a divenne el Parafo, che xe defora dal Cielo, xe
elio così puro, co 3 ldife 7 Ho dottore. JSfA. La ghepar na confa
imposfibole^que na biella così gran de tifj^e ma poffa de fatto borir
fuor a in tvna preuifta. MA. E a mi nò. Quando na Vacca fa on Veello,
alt» hora % che te lomenafìi, te maored'vn ^Agnello que fé a crefsu
inchinda in cao. per que mo? per que la mare delVeello, don
belpeXzjatto, tè maore, que riè na Piegora. Fa mo tò conto, che Uà
Stella despetto a tutto el Cielo, no ven a ejfere gnentepì, con
farae onLion^ò n jn Lefan te defletto ala terra, te parfe mò, que
tè nagranfmerauegia ? N<tA. zslAofe tè così, a comuò calelajn pè de
crefcere, la Bella adejjo? AIA, ^dcherXo.quela e p.
4. qjavhe maghe dagnora pi in su mix, e que % l para] che la
cale, per que la ne <va lun&i.NA. Pian, che el libraÌQUolo
df>que i primi di, che la fé vele la crejcè on btlpuocofe
l'andejfe in su, la no ghe porae tntrare $ per que fempre la ferae cala.
MA. &4l l'hora quella dal libraz^z^uolo difea ef fere fen&a
occhiale. Perche mi a se, que la prima botta eh a la <vitila me par
[egra denijjema, e que fempre la xè cala, per muo de dire de grand
eXz^a. tamentrefie refon no me per du fé ami >e fi afaello,per
che quellu dal libral^uolo va majfafuo ra del fentiero, e fi a ora pure
tcgnirloin carezza. Orbentena>fìnti an quella. eldìfe,que no fé pi)
z^enderargnente in lo Cielo, per que {di feto) el befognerae, che'l
ghe foeffe di contragi, e che ino ghe pò e fere, f piando que tè ria
quinta /una ^t, òfoHantta\ quefegi mi? A1 A Mo sì ceole. gi è de
quelle boi te de S toetere quefle> edifuo bri^hente ; ch'i ?io sa
s'i feaviui,e fi 1 1 noi fat Ilare de Culo. A cher%o,que in Cielo
ghe fuppi cosi ben cai do de, e fé r do, e mogio, e fn?o %
corni an chine mi. per que? no fé ne, eh ci gh'è del fi e f fo,e del
chiarore dei Inferitele dei feuro? che eggi quìggi ? i né tutti vnfi a
l'inco tragio de l'altro ne no \ mo vuotutà? Ha [iella ghe poca
cffere,e fi no glfiera, e fi adeffo la ghe xe. ri eh rotfso quejìo
? moa, l ar uè la boccale fi laga egmrftora quel, che 7 vuole. E pò
elio el fa conto de desbuta^e confi f net amatichi,e fi \ar lega de
He re fon ? on fita halo catto, que onmefuraore vaghe Jfelucato
sufìenoel le ? chi ghe l'ha ditto a elio ? NA. Mo cane aro, el gti
arz^onz^e, que fé in Cielo ghefoeffe terra, aqua, aire^e fuogo elno
fé porae Hrauete con fé fa, franto, che el doenterae tyejfo, e f curo.
AIA. Si fé qui leminti foejfe della fatta di nuofiri $ mo gì è pi
[prefetti,fegondo, ch\i fentì na botta adire al mèparon.que el difea.che
Tianton eldifea. N A.Ei dtfe anche 3 que a fio muo,el Cielo noporae anar
a cerca <via>fianto, che i lemìnti r oa tutti in sii, in
z>o, mo no attorno. <±7ldzA. E fé mi a diejfe Io
di C nico a àiejfe a rincontralo, que ìvaanthe attorno ? El
gh' amanca i sletranique di pinfon ~y£j
terra [e <vol\c a cerca,con fa na ^! pe " muoia da molin.
penfate mo ti de gi altri con la va a faellare, tutti sa frettare > NA
Eldife pò, que la fi ella xe ape la Luna, ma de fot toghe-, e che Ime el
no che pò efserfuovo.1 A..L'ha fatto ben adire* que no gh'èfuogo,
per pi re fon. NA. E così el tèn, qùe'l fipìa air e, quello, che lecca ci
culo (a vuos/idire, el Cielo) de la Luna. <&MA. moa> moa,elpoea
ben dire an quejìasì. NA. E (diftlo) el u Cielo no pò e fi ere de
fuogo,per que fan to così grande el bruferae tutti gì altri leminti. MA.
<z5fy'lo me vegna e l morbo, che queTiufeanto dottore fe'l fé caejfe
la yeti a^el parerae ri homo, dime oupuc^na fa! tua fola no
bajìeraela a tmpigiare on paviaro, e pò anche a brufare quanto levitarne
fé catta ? NA. A cher%o de sì mi. MA. E fi quante fornafexe atmen
do, le no porae brufare on Cecchin, che foefje d'oro, per que mò ? feto
per quei mo que loro no fé pò brufarc. e così anche fé gì altri
lemintipoejfe brufarfe, baJìeræ onpucco de fuogo, f?r e far l'effetto-, fenXa
tanto co Idi fé elo. NA. Lavhe va la, quanto de quello 5 mo crito pò
ù fremamèn, chel Cielo fea fuogo? AIA. oA no dt eh e così mi.Uè
che'l dottore ciga alturio fenica perpiiofuo ; e fi el le dife fenz^a
metreghe su volto, gnefale. NA. aPklo finti ti altra, que la ne miga
da manco no. El difè ì que i fmetamatichi ha de boni ordigni, e de
le re fon freme y ma i no le sa u onerare^. ^IA. <*A comito fé ri elo
adb elio ? feraelo me fr elo de la t or dal Bo? aldime mi. fé on
fmetama fico egmra chiueluondena^e fi el fedirà: Naie, mi a vub
faerte dire quanto gh 'è per aire da lì a nogara a l'arare; e fi el
lo mefurera co ifuo ordigni fenz^a muouerfe 5 e col l* babbi me furo, e quelite
/'babbi ditto y an ti te 9 l mefureriefì co'vnfi lo, b a qualcti altro
muò, e [ite cattertefi que tè così 5 no che r de reto, che Vvouere
ben ifub ordigni ì NA. Alo sì mi, que C cade ? cip. r.
p.l C. tap.f.cade ? MA. Perche toncaquandoel me fura na Bella
(per muo de dire ) ogiongi dire y quel no sa fare ? e pò fé 7 falla,
chel falle de millanta, e de milion de me giara ? fe'l dteffe
donpuoco,confarae a dire, quattro dea, b na fpana,a taferae. mo de
tanto ? l'è maffagnoca. N A. Setopo, querefon de i fmetamatichi^el ven a
contare? MA. T>ì mo. NA. Vnaxè de tagiar via (di fé lo) on peX^o don
cer cene, e que la Stella, così a no la pofsan vere, per pi de
mezjhora. E n altra de anarghe fottoapiombm, caminantoghe al ver fa
vinti dìt me gì ari. e fi ti dife.que le no fa aperpuofìto, fianto>
che gì è amo frare, que la fella fea pi in su de diefe amegia-y e
fan elio di fé, che l'è on belpezZjO pi elta. zZPIA. Cane aro, l'è
aguti*Zj>o dal cao groffo 5 mofelcrè,floChriBian, que la Bella vaghe pi in
su de diefe megiarì, e fian quelle refon eldife^ tè fegnale que le riha
da far con elio 5 perche tonca mettrele fui so slibr aiuolo, e pò dir e ^
que le riè a perpuo/ito ì Ste re fori jfo# Ufo fatte (per quanto ì
dìfea a Vaua 7^k buoni di) con tra on inasprente di filuorichi de S tot e
ne, que althora tegnta duro, e fremo, che la rìiera pi alta de die
fé amzgta 5 e perz^uontena queliti dallibraZj^uolo die a lagarle Ilare > que
le no ghe daea fall ilio. NA. orbentena, ghe ne pi? diJJ'e que lù,
eh e e attratta iporcieg gi. an, sì> sì. gianduJfa>mo elgh'e on
brut to intrigo de Prealajfe, e de vere, e de Luna. que fegimt ? p
rifate, che quellù, che le\ea la diffe 9 e fi la defehiarè p\ de
tre botle.efi gneguno no l'intende. Ad A. £1 die haerla intriga a polla
elio, perpa vere n homo da 2^0, e da palo, e fi la fera pò a n
altro muo, perche a se ben mt,que de la Prealajfe el no pò haèr rafon.
che l'è on muo de me furar e per agiere,maffa feguro. NA. Lagame mo
vere sa me rìarecuordejfe onpuoco. eldifeprimamen 9 che no fé pò guardare
de meXpfuora a na lì e Ha 5 e que fiaganto così da /unzji, el
nèposfibole e aitar ghe elme%p,masfimamentre,per que t 'è na confa, (ondale
que. e 2 ma. cap, *7ldA. c Fafi 9 tafìonpub 9 che te ghe
ne ditto pareggie in fon groppo. chi è quel lu, che cherZja de
poerfmirare de me%o via a no, ftella,fianto> que l'è tanto grof
fa? che cane ab aro de filatuoriefe vaio a imaghinare ? gh' in falò de pi
belle ? que Ha fera lacrima. V altra, a comuo e attenevo miegio el mez^o
d’vn criuello j mettantoghe gi voce hi ape > ostarganto^
iTb" d et te on belpitoco? NA. zZkfò, fagan toghe E b uctc et t' ^ a
lttnz>i>per que s'aghe foejje a ve sin, a no porae gna desfegurarlo
que flejfe ben. MA, Guarda mo toncafe tè el vera 9 que no fé pofa
cattar el melo^ de le Ftelle \ per che gièlun^i ? %A l'altra. in che
dariflo pifremamen in lo mez^o % con na occhia Jn quel d*ona ballalo d'on
gamiero? NA. CancabxrOi aona balla iper que co a l'effe giti fi a
infdhverfò, la férae giù fra in tutti. M A>E pure elio el dt fé a l tn
con tr agio. NA. Mo elgh'arZjOn&e que gi è {al noffro parere) majfa
pècchemneyper cattargheel meZj0.MA. sì> el dtfe an §uefta ? e quattro
tonca, in) t'onboccon. dime onpuotì. a comuòportfto fallar pi > a dar
in mez^o Confondo da ttnaz^ZjO, o d*on taglerò ? a dighe de
mofìrarlo. NA. Fotta, a por ae fallar don belpuocopì in f ti fondo da
tinaXr z^o, che in t el tagiero. A4 A. Efielbon dottore dal
libraz^z^uolo dife a l'incontra, gio. Va modriOy de fa Trealaffe.
NA. Aio no fé podanto fmirare de mtXof r uora a le. fi elle, no fé pò
[aere on le fìppia ( dif lo) perche no fé ve elluogade drioghe.
esPI<*A. Ste mettisfi elto gabban fu ngraile de la me fiala da manie
chel lo f con d effe tutto ffaertfo e at tarme su quale elfoeffe?
NzA*Poo,tè Qn granfa re. a fiomenZjerae a dire 3 vno, e du, e
tr)> inchinda > chafoeffe Ime, e quando heffè ditto, con far a e a
dire 9 nuoue> e e ha veeffe 9 che in su quell'altro ghe foffè el
gabban, a dirae, que l'è fui die fé mi. no vaia così ? AdoA Mo la no pò
efsere altramen ella, e così anche fi vena far e in lo CielOifeben
quel letr anello non s'in sa adare. Uè benpìgrofso, che né
elto raT^Q cap. tf. «ap Cip. 6 razzo de Cremona vè$
che ì dtfie> que l'è • s\grandentfisemo.N<tA. Quando aguar don in
la Luna, el noflro vere fé ghe ficca entro (dtfielo) e perz^uontena ho fé
pò fare la prealafiftLJ. <&dA. Chel me fio che elio (fqua
fio eh a thò ditta) a veefiskn te Belle de fora, chelfiarae on pia/ere,
fé lafioejfe così. NA. Pian, e ha novorae fallare, el me par pure, che'l diga,
que no fé pò vere mela la Luna, negna mele le He Ile, filanto, che le xe
grande % e'I noflro desfegurameto tira mafifaftret to, fie ben
elfie va pò slargamo. <&14A. ^yPlade imaginete pure 9 que
chiappela da che cao te vuofi, l'impegola. che me fa mi quello, fé
mtga a no pò fio vere tut ta la Luna, ne gnan tutta na Bella? no
bafla eh a la vegga on puoco, e cha la me fkrefegondo quello? NA
Aloafìomuò> te na bagia la que fi a. doh mal drean$ el fie
fafiea pò bello, d'haer catto na fpelucation fiottile per fiarghe Bare i
fimeta mattchi. IMA. Seto que le na confia > che no gtìì me fio
penso ? mo per la mare re ib. T' re di can, que inchinda on Veelo
thàfk pia inanXo yfegondo ch'ha gh'hò fentu a [X. dire ajfe botte
al me paron. E fi el no fé %'"££ riha te gnu tanto in bon. NA. vuotu
y ' 1 ;. i ctì andagamo inanXp ? <^/aA. Sì y di \ 28 ° Fr ' NA.
F rello te te fari s fi fcompifso da rifo y Whaisfi fentio vn batibugio, que
ghe Xèy de <lA> By Ny Oy ^ figì liti f Ì >afl ^, 1? »»
talea offerire, che la Prealaffe e bona, mo i fwetamatichi no la sa
vouerare ; que flaghe ben. <&14A. Elnodie intendere gnan elio
zj> y cheldifi^. Tirate on può in qua mo 5 vito Hofalgaretto y
che apèfiofofsà ? NA. Sì mi. MA. *Uito mo quell'albaray che xe lialuon
detta vefin a tar&erz_j ? N<tA. Quale? la grande, la pigola ? MA.
Lapec chenina. N$A. Sì mi eh a la "veggo. MqA. Orbentena,
guarda mo benderto $ qual te pare, che fea a bo da man de Ho falgaretto, e de
queltalbara ì NA. Staganto così, el me pare mu que talbara egnirae
a ejfere a bb da man. M$A» Tirate mo da ft altro lo. NA.
ave a njegno. M<tA* F remate chine, e ade/ fi ?
N<tA- Mo cane abaro, a jlo muo el fato aretto farae elio a bo da man,
e l' aibara a bo da fuor a. zsllzA. ^rue te fa mo a ti 3 fé miga te no
<vi de meZjOfuora el falgaro, ne l'albaraf e que danno te da,
-per che te nopuofivere anche elio de drìo, de tutti du ? N$A. ^Mo gnente,
per que afmirofegondogi *vri de le fiorz^e mi, e no figondo a quello, cha no
veggo. <&dA. Elfi fa così anche in agiere <ve, e que Ha xè na
forte de Prealajfe. Torna mo chiue on a fon mi. NA <±A ghe fon
<vegnu mi. a^kttA. Cjuardanto de cima via aflo
falgaretto.puotuvere queltalbara, cha te difia, fi ben la ghe xè
per mie ? N<tA. Lagame mo guardare.pùuh$ mono mi. AlzA. Stefuùfl mo
tanto lunl^, che guardanto de cima fuor a alfalgaretto, te credlsfi
definiràre derto a mez^alama.e te t o facuorz^tf fi d'aliar gì vogi 5
qual diritto y che fot fi fi pi elto de /li du. N<t/1. $A fi ietta
cha ghepenfe on puOco : %A dirae defatto, que t albata foejfe
pi baffa> t*l falgaret io pi etto mi 5 per que el me parerae così*
anche no /tanto elvera. Ad A. Fa ori può ri altra con fa. va su fi a nogara,cha
fagiere mi. NA. One vuotufare ? zZl'IA. vaghe, e Po te fenttnefi.
NA. <td gtiandere, fda che te vttò così. Qt&fA. Pian, chete
no te f aghi male. NA. Ta de mi; mo a mefongifquafo fcapogio
riongia> e mondò vn z^enuogio. Ai A. G hefìto ancora ben fremo? N
A. Sì mi. que gtie mo ? ^PIA. Torna a fmtrare quell'albara, che te
guardaci an chi de [otto. NA* E pò ? <&dA. S mirato a quella
dertamen,puotu vere ftofalgaretto > co te fafìui flpiato de fot
to ? NA. Mo nò mu efìsafoejfe da lu Xi. così a telta> a dirae,
queelfalgaret tofoefepì bajfo mi. Ad A. Vie tonca locha te contere de
belo. NA. E l gif è puocafatga a f aitar z^ofo. Al A. S intime mò.per que
quando te gì eri ab affo, elfalgaretto tepareapì elto delialbara\ e
ftpianto su la nogara, el te parea a T> l'in
'tincontragìo j perXuontena àn queHo xe ri altro muo de Prealaffe^j.
que Prealaffe ven a dire, con far ae a dire,
defenientiadeguardamento. Fa moto conto, che fé t'andiesfìsìt quel
moravo, che xe Ime, elfalgar elio tepareraepì baf fo dei'albara,
eabo da man 5 ettetorniesfipo da IV altro lo,elfalgaretto te ve gnirae a
parere pi elto de l’albata., e et bo da
fuor a. e an. queHo xe ri altro muo de Prealaffe ^fegondo, che me
defchiarlna botta el meparon. ttntindito mo? NA. Pootta, mo Te pi chtar-a
% que riè on gratto da vacche, a me fmeravegìo a comuo quelli dal
IibraXZjUolo,ri ha fapio faellay e lome d'ona forte de Prea laffe
> Jipiantoghene tre mi A4 A. Elfa •rae Ho anmafa, fel, ri keffe fatilo
con fé die. Orbentena ?fa mo to conto, que fé la He Ha nuoua,e la
Luna ne foeffe ve sin co èflofalgaretto,a por non, le fisi le de
fora nefarae don bel peXzjOpilim ZJ> cheriequell'albara. e fi farae
popibolo >que no ghe foeffe da ì Spagnaruolt h ci e i
Toifcbì, ei Ptditani^ deferitemi de guardamento ? e pure tutti la *ve in
lo rftèdìerno luògo, api k quelle [ielle, che i ghe di fé. quel da
la baie [Ira > o che ghe fita del bolzfon : q ne fé gì mi ? NA.
A/lo el tòfaellamento rièbon,perque nepof Jìbolofaerc quanto la
Luna fé a lun\i $ che elio di fé anquellu dal libralz^uolo a AIA.
Nò al so muò de elio, el no fé pò faere. mo i fmetamatichi chela
catta, beri gì. NA. oA no fé qui d'irte mi,fe lome, che the refon
da vendere. MA. Crito mò,chequellu d al libr aiuolo di rae cosìan e
lo ? NA. Se'l lo diefe elfa raeben 5 tamentre elporae efjere tanto
depinion, queeltegniffe duro. cinque in vin. Ad A. Che'l tegna pur fremo,
e chel metta a me conto. NsA. ^A no se miga,a comuòfea Ho
posfibole, che'l diga (l'altra, que te fentirè adeffo. ino no Ic,m
dtfelo, che in gnegìm luogo,fe tome, on el ghe xè fora dertamhì > e
apiombw,na fepòfare lafcoridaruola del Sole? a thò purvezjua mi,
eh' al so. MA. Si'O/tu 2) 2 brio, IfrOTCII,
apèrto, che ven (fé i cuorui no ghe magna gi vogi) el fé por a chiarir
e,che, per yuan to a he fentìt a dire, la fé farà. Aio con que
rafonfaellelo a Ho muo ? NA. La Luna fé va volz^anto (difelo) e
filano fé pò vere dert amen dome quando la xe in Z aneto.
<&14A. Tornami) adire. NA. El dife elo, che nofipianto la
Ltt na in Z aneto, no la pò fondere tutto et Sole. ^MA. c Doh
giandujfa, fio puòuerhomocrhque la Lunafea nafritag già elio. Con cane
arOychefìanto ella reo da 5 quiggi, che Ha in Zaneto, gtitnpò
"V ere pi de nu ? ghe ne d altre ? NAl Sì. que vuol dire Grafalta?
&WA. eA comuo, Grajfalia ? NA. El di fé elio, que l'ina nuuola
a muo latte, vesin a la Luna, e que la ne altramen in Cielo. <£WA. Oò,
a tendendo adejjò. l'è laflrà de %flwa. NA. <*An sì sì, la fra
de Roma. sOMA. Efìeldife 3 cjue la ni in Cielo ? N$A. <£Mo, no,
difelo. MA. Con cane abaro ghe dijjangi tonca nù P Hra de Roma, che
vuol dire, Hrk del Par affo, fé la no foefse ti fufof ]
NA. Cjuarda ti. e sì elfapo delle sbraofarì contra onFUuorico(eben
an divieggi) che no crea,quelafoeJfe in Cielo, per che ellodifea
Stotene > che la gh'iera. Ad A. Ofsu andagamo inuerfo e a, que
te fera, in f agno muo a pò fon benfael larecaminanto sì. NA.
Vapurlà.cha ve gnomi, pooh, el ghe ne que Ut puoche ancora. el di
fé, che la ftella nuoua la trema>per que la fé va
suentolato,quan do la va a cerca. ^lA. Ghe'lcritotì? JMA. <*A
ghe'l crerat,fe'l noghinfoef fé paregte delle flette, que va a cerca,
e fi no trema mi. e fi el trema tome quellechexe elle, elte>perque a
nopofsonfremarle de vifta, che paghe ben. e anque fi a Ir emanto la de
efler li uè. aPkfdd: Àdò va, che te sì on Rolando. NaA. Tamentre
que, nofapianto queHù, on la fé a fi a Bella > elnopo gnanfaere comuo
la flpia incenderà 5 e sì le venaej fere tutte filatuorie, quelle, che 3
Idi fé a \flo perpuo/ìto 5 ne vera ? <z?J4A. Ala el ni elle
fogna ben > que la fea così. NA. Orbentena, avuo^cbaft togamo
onpuo dt Fpajfo con gifuo fprenuoBtchi mi i loren. ^ ^/^. $,
q Ue dlfcio ? NzA* El dìft, que la Beila durerà afte s afte, /e
s'imbatte j, che L Sole no la desfaghe, elio. At^sL El poca an dire, que
la durerà inchinda, que elio va a romprela 5 in t* avno rnub, con
la (e a anda via, el para tegnir fremo, que te fio eilo>cbel'hà rotta.
N<t4. <z?tfo gbe vegna el mal drean $ quejìa
farae ben de porca ! El \ di fé po> eh e* l fera abondantia d*
agno confa, e que l'è na Bella de quelle bone. J\d<zÀ.
Inchindamb la va ben, quanto de quello, mofe la tegmffe mo fremo
con Bi ficchi 9 a que ftjfangi ? crila purea tomuo. NtA. T>e
gihuomini pò? quel le puoche con fé. M<t4. Con farae a di
^; re ? NtA. Con far a a dire^ quei doentera inz^egnofi, e facente-^ e
quei fé testura a la verite. AisA. Vete> che'l se fchiano el
fyrenuoBìco inelo.no vito a comno te agnino \ el ne amposfibolo %
chel cup. li. chel viua, habbìanto tanto e dibrio da Xoene^j.
N^4. T^e me sbertez^à nero ? dì pìprefto, que el fprenuoUuo è Ho ve
ro in nìi, que a s'haon tegnu a la verite, fé ben elio voi e a archiaparneght^j.
zTkfo/l. T'irà, che f he vento. iVW. El dife pò anche * que Ha Bella
ca7z, \ ra via le giottonarì, le rabbie 5 quf /igi mi ? oJldtA. Sì >Sì, così
noJìejfcle in perorare, le nuollre carte > mo ano me fmerauegio
difuofprenuoHichi,que tutto el so libr alinolo me pare onfpre
nuoflico mi 5 e que fempre el fraghe a indiuinare^. N^4. El dife ben,
che el ghe nha vn altro per le t tra da far C1F ' [lampare^.
zsì4<iA. Che l foghe preflo,per que feanto vesjn Li ^Marefèma-, e l
farà bon da qual confa an etto.ftgon do, che que fio n ha fatto rire
adejjò y que l'è da Carleuare_j. N-*A. E quelìlt, che le&ea
diffe, che'l creapurpiamen, que el l'haefje fatto flambare per venderlo,
e gu agn ar qualche marchetta eU lo M$A> Che'l U&re tene* a
tfazy Zjargi, Lorerc cap. f. 6.
sgargi, e fé ghe nauanZjeffe qualchuno, chellofagbe in fon
reuoltclo y e chelfel caXjZjt, on fé ca%z^è Tofano le Jp tette 3
che l farà ben meffo in conerà. N<tA. Lagoni a line, àfebn a cà.
<vuotu Rare a cena con mi ? a fin dare ontiera ve. Alzs4.
<$Al so, mo a nopojfo^ue la Afe nega rri afptetta 5 tamentre a fin
def grati. AV/. $A T>io tonca. MzA. sA 'Dio. IIMII
asS a£$5 * 1^/7 >" r»1 ; <rli u TU
1 JL a. Grice: “If I had to choose between Colombe-Aristotle to
Galiei-Plato, I chose the former!” -- Colombo. Colombe.
Ludovico delle Colombe. Ludovico Colombo. Keywords: the irregular surface of
the moon is filled by an invisible substance, the earth does not move, the
‘nuova’ stella is a misnomer: it has always existed; bodies float or sink
according to their shape. Aristotle’s reasons never sink because they are
square. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombe” – The Swimming-Pool Library. Colombe.
Luigi Speranza -- Grice e Colombo:
l’implicatura conversazionale dell’idealismo toscano – scuola di Milano –
filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo
milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I
love Colombo as I love Wilde – I mean, the sponsor of the Wilde Lectures on
Natural Religion! Colombo wonders, ‘can ‘theologian’ be written under
‘profession’? Surely, like me, Colombo distinguishes between theologian and
philosophical theologian – if there is no such distinction, and I’m not sure
there is – perhaps there shouldn’t be, Colombo would say, the ‘philosophical’
in my ‘philosophical eschatology’ is totally otiose and anti-Griceian!” Insegna a
Milano. Si è occupato di antropologia, metafisica e la filosofia italiana --
Rosmini, Martinetti, Volpe, ad Aosta. Altre opere: “Senzo e atto” (Studium,
Roma). La morale communitaria (CUSL, Milano); “Pietra angolare: l’chiesa
d’Inghilterra” (CUSL-Centro Toniolo, Milano-Verona); “Antropologia” (Massimo,
Milano), “L’immanente e il trascendente”; “La correttezza del nome nel Cratilo
– il nome corretto -- in L’origine del
linguaggio (Celestian Milani), Demetra, Verona; Il ri-ordino dei cicli
scolastici, in "Quaderno di Iter", “Filosofia come soteriologia:
L'avventura di Piero Martinetti (Vita e Pensiero, Milano); “Il giusto prezzo
della felicità, -- reasonable or rational? -- Edizioni ISU-Università
Cattolica, Milano); “Antropologia ed etica (EDUCatt, Milano). Forme e modelli
del pensiero filosofico. Introdurre alla comprensione e
uso dei linguaggi e degli strumenti specifici
della metafisica, dell’antropologia, dell’etica;- all’acquisizione di
abilità critiche e analitiche per comprendere le dinamiche del vissuto, della
società edella storia contemporanea dell’uomo occidentale. Salute
e salvezza dell’uomo.
Il senso della cura e dell’educazione. Una sfida per
la ragione e per la fede.Valutazione critica del rapporto metafisica-antropologia-soteriologia
in tre momenti della storia dell’Occidente. Il mondo
antico-classico greco-romano. Il mondo nuovo Cristiano. Il mondo moderno e
post-moderno. C., I Greci e l’amore incerto: grandezza e aporia dell’eros
platonico: il Simposio, ISU-Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Kierkegaard,
La malattia mortale (qualsiasi edizione, purché completa): ai
fini della prova d’esameè richiesta la conoscenza della sola
Prima parte: La malattia mortale è la disperazione; J. p. Sartre,
L’esistenzialismo è un umanismo, Armando, Roma (o altra edizione, purché
completa). DIDATTICA DEL CORSO. Lezioni in aula, ricerche e percorsi
personalizzati. METODO DI VALUTAZIONE. valutazione di eventuali elaborati
scritti o relazioni orali. AVVERTENZEIl docente è a disposizione degli studenti
per ogni chiarimento didattico e contenutistico, per l’assegnazione delle tesi
di laurea e l’assistenza necessaria alla loro elaborazione.Il docente riceve
durante il periodo di lezione presso lo studio, Cap. I. AIIO A. AoxdZ (loi ikqI
iov jtw&avtt 1ft$ ovx d(is- 17i kiztjTos slvca. xcd y«Q lxvy%av ov
tcqcoijv sis u6zv o foco- 4 oh <s3 poi* Stallb. Facit, inquit, Plato
Apollodorum inter epulas versantem et convivis narrantem ea, quæ hoc libro continentur. Sed neque epulæ commemorantur,
nec convivæ Apollodori, ut sane mireris, Stallbaumium in re dubia et
incerta certum iudicium exhibuisse. Platonis voluntatem declarant verba. C., quæ
primus Sydenh. corrupit. Eius
couiecturam cum codd. auctoritate probatam reperirent ceceutiores, ad unum
omues “taUta” pro “tautA” ediderunt* Verissima autem lectio vulgata est: “ovxoa
8rj iovreS apa xovS AoyovS itepl avt&v lizoiovpE$a y dkxs,oitEp
dpxopevoS EtnoVy ovh ape- Æ xtjxodS d ovv 6 « nai vptv
6i7]yij<5a6$ai, xavxa XPV 7toutv”. Apollodorus nimirum cum domo
relicta Athenas proficisceretur, sermones in Agathonis convivio habitos ei
repetierat, qui ipsum tum temporis comitabatur. Brevi post redeuntem, ut
videtur, ex urbe cum alii rogarent, ut eosdem sermones ipsis
repeteret: accinctum se paratumque ad rem ostendit ita, ut qui
vellet, quando iuberent, quod brevi ante fecerit, idem nunc facere,
h. e. inter eundum narrare. (p. 178. C. “ovtoo 8? IoyxeS apa xovS
AoyovZ TtEpi avroov ItcoiovpeScx”) TtvvScivEd Se. Vulgo
additur “nun” quod nec codices habent exceptis paucissimis, nec FICINO
in conversione agnoscit, neque vero sententiæ ratio exigit, merito omiserunt Belck.,
Stallb., alii. Præ ter codd. optimorum fidem “notheias” suspicionem movet
ipsa sedes “nun” particulæ, qua sede effcitur, ut nescias, ad
antecedentia pertineat, an ad sequentia temporalis particula.
Schieierm. relata ad “itwBdvetiBE” particula verba convertit: Ich
glaube anf das, wonach ihr ietzt fragt, nicht unvorbereitet zu
sein. Hoo quoniam dici nequit nisi respecta habito alius temporis,
quod præ senti tempori opponatur, otiosam particulam ietzt censebis
rectissime. Nam priori tempore non exegisse viæ comites sermonum [“Sttv avicbv
(frahjQo&sv. twv ovv yvaglfiav tig oM 6&sv xatiduiv fis
xotftfa&sv ly.uX.t6B, xal xaLfcav a (ice ry xXy6tt, '0 <PaX.ijQtvg,
k<py, ovrog, uXoXXoSwqos, ov xbqi-“] narrationem, cor disertis
verbis indicetur, caussam non video. Nou rectius alii cum
Wolfio: letet bin ich vorbereitet, euerea Wunsch zu erfullea. Quid
euim? Tempore aliquo non præ meditatum Apollodorum fuisse ut per se
intelligitor, ita non erat verbo posito indicandum. Ceterum,
ut clarior fiat totius loci ratio, tenendum est, *in medias res* lectores
abripi, ut, cum Apollodori comites dixisse fingantur: Narra, si
lubet, Apollodore, orationes illas nobis, Apollodorus
contra respondeat: Videor equidem mihi ad rem, quam exigitis,
optime instructus. $ a\e poS ev. Phalernm navale Atheuiensium
fuit haud procul ab urbe distans. Aunotat Schol. ad h. 1. $d\7jpoy
6ijpoS AlavriSoS, IB, ov AnoWo&GopoS, Quia autem, inquit
Hiickertus, ad mare situm Phalerum, ex veterum more dvikvai positum est de
eo, qui in urbem tendebat, uti ex urbe Piræ eum petens xccxapaiyeiv
dicitur, cf. Plat, de rep. I. init. xal itai?,GDV dpa ry
xXjjdei. locum queudam inesse verbis insequentibus, addito
itaigcov participio declaratur. Variæ autem doctorum hominum
sententiæ sunt dubitantium,
ubi iocus lateat. Wolfius in festiva (paXypevS vocis pronuntiatione
iocum deprehendisse sibi videtur, Schiitzius de formula judiciali
cogitandum censet, quæ addito pagi
nomine conspicua allocutionem festiva quadam gravitate ornaret. Sed non
efficitur nisi superaddito patris nomine formula judicialis, v. c,
^ypod^EYTfS JijpoCSivovS, TlaiaviEvS, quo exemplo usus est Sebo), ad
Plat. LEONZIO (si veda) Adde Aristoph. Nubb, v.134., M. xls £d$’
6 xoipaS tt/v Bvpav ; 2rp. # siScovoS 1 v\oS 2rpeif)id8?fS,
KiJivvv6$£r. Non minus a vero aberrat huius loci interpres in
Scbilleri Nova Thalia T. II., p. 170. # quem Stallb. laudat: Ile
da, gestronger Herr, Biirger und Ziinftcr von Phaleron. Satis lepida hæ c
sunt, sed ab interprete ficta, non facta a Platone. Ordo verborum mutatus
est, atque hominis nomini nomen, quod a demo derivatur, præ positum;
scin’quam ob caussam? Plato cum scribere debuisset ^TroAAodeapoS"
ovzoS o $a\7jpEvS, illum verborum ordinem exhibuit, ut, qui Apollodorus
vocandus esset proprie, idem a7roAAodc*>pot; epitheto, quod hominis
opportunitatem exprimit, ornaretur. Scribendum igitur est: 6
<Pa\7jpEvS, Eqxrj, ovros, obroAA od&pof, commate p6at ovrof posito, ut
nominis per iocum dati potestas elficacius eluceat. OvroS enim in
allocutione cum nomine proprio coniungi solet, ut in Protag. 193. D., quem locum Stallbaumii industriæ debeo, scribitur: onat lyco ttjv
tpoavrp' yvovs av-TOV 'imtOHpOLTlfi t Iqxrjv, OVTOf, pi) n
vEODtEpov ayyzXXziS; Sed I more Homerico nunc disputamus, r STEpov
npoTEpov, Quin statim revertimur ad explicandum, qui in ficto nomine
proprio latet. /isviig; Kayu bntixag niQii^uva. Kal og, 'AitolXodcoQS,
S<prj, xal fiTjv xal Evay%os as Itfpcow, fioviofievos
8uatv&i<S&<u xi}v 'Ayu&uvog Igvvovoiav xal Za- E iocnm
lepidissimom? '0 $>ot\r)pevi rectissime ut cpaXijpiS pronuntiandum
censet Astius, non, ut calvitium carpatur Apollodori, quod nullum
fuisse pari iure contendimus nos, atque luisse Astius suspicatur, sed ut
vana Socraticorum morum imitatio notetur. Consentaneum nimirum est,
et verbis probatur ov XEpipEVEif, Apollodorum ad Socratis
modum festinasse, corporis habitu pedumque positu e longinquo ( [nopfico
Sey') conspicuum. Ut igitur Socrates ob incessum (IpivSov in-star fipEvSvedSai
dicitur Aristoph. iN ubb. v* 361, et Syrap. B., ita Apollodorus
$aXrfpis appellatur, quæ vox eiusdem
fere significatus atque fipivSoS, avem aquatilem denotat altissimis
pedibus superbam. Sine dubio autem multo iucuudior erat, quam Astianum
illud calvitium, Apollodoro anoXXo^oapov epitheton, quando quidem ipse
Socrates, cui ille aimilliuius videri gestiebat, datum se donatumque
civitati a deo præ dicare solebat, cfr. Apol. Socr, p.30. E., iav yap.ipk
anoXTEivrfZE, or> jup&UoS aXXov toiovtov Evpr/dETE aTEXVGof, ei
xal yshoioTEpov einely, npoSxeLpevov xy noXei vno tov Zeov
x.t.X. ov X E p l fl£V ElS. Ilæ c est Stephanianæ lectio editionis, quam Stallb. in textum
recepit, Bekk., Dind., Riickert. nepiplveiS ediderunt ex auctoritate
codicum. Utraque lectio bona eat i utra verior sit, alii videant. Unum hoc
certum esse puto: in interpunctione et in accentu codicum fidem perparvam esse
aut nullam. Futurum tempus in textum recepi sensu quodam veri
ductus, non ratione. Ad idem fortasse recurrit, futurum an præ sens tempus
probuveris, neque est, uisi pronuntiatio verborum, quæ alterutro recepto tempore iminntatur. xal
prjv xal £v ayx 0 ^ ^post pr/Y in vett. cditt. omissum Platoni redditum
est e codicibus. De voculæ veritate consentiunt viri docti, de eius
explicatione non item. Riickert. xal ErayxoS esse censet neu 1 i c
h sch n, xal prjY autem, inquit, ne quem offendat in orationis principio
positum, non esse moneo in principio, sed respicere præ cedens membrum ov
itEpiplvetS, hoc sensu: Tu non exspectas? Et tamen ego nuper iam
te quæ sivi. Quid? Tu non recte explicas, Riickerte, hanc particulam?
Et tamen ego cius significatum ium diu quæ ro. Satis est, exemplum laudasse
unum e multis, quo exemplo Riickerti explicatio reprobetur.
Protag. 310. A., 22. navv plv ovy . xal XapiY ye siti opan, lav
axovi/re. Et. xal pijv xal rj/ieis daX, iav XiyyS. Stallb. xal
pijv xal ad notissimum comparandi genus revocat, quo
utrnmque comparationis membrum addito xal augetur, e. g. xal
ivayxof de i&jtovv, c osnep xal yvv de %7]TG). Dubito, num
recte. Ut exemplo utar Protag. supra laudato, certum est, amici non
hanc sententiam esse: Uti tu no-XQazovg xal 'AlxifittxSov xal zwv nV.ov
tav toti Iv r a Owditxva auQaysvojiivav jrfpl zav Iqcouxuv 16yav, rivis
z\Octv. «AAog yag zig (ioi diqyiizo, «xijxo ag •bolvixos zov 0Mx aov‘
£<pij di xal Os lidivai. cllkcc yaq ovdlv el%B Oarptg iiyuv. Ov ovv (ioi St^ytjOak' bis, ita nos tibi, si
dicas, gratias habebimus. Sed ipste videtor sententiam suam
mutasse Stallb. ad Protag. 309. B., 2. ev Vpotye ido&v ( sc.
SiaxeitiSai d 3 AXxi(5id8r}S itpoS i pe) ovx rpaSta 6e xal xfi vvv
7 ) pipa • xal ydp 7toXXd vTikp ipov ehte, ftorjSaov i pol, xal ovv
xal apxi an baivov £pXO/iai f convertit enim rectissime: und duher komme ich
aoch eben erst von ihm. Videtor igitor xal ZvayxoS, xal qpels, xal
apri cett. in hoc genere loquendi cum gravitate quadam dici, quæ
cum affirmatione coniuncta sit. Prius xal autem in initio positum
particulis pr/v, pev t dr/, ovv, xoi ita inservit, ut easdem ia initio
enuntiatiouis ponendas, quoniam per se non possunt euapte vi exordium
enuntiatorum esse, suffulciat atque quodammodo in principem locum
orationis in ducat. Exempla permulta huius xal expletivi reperiuntur,
cfr, Symp. C. xal p7fy 9 eo 3 Epv~ £>ipaxe, ehteiv x ov 3
ApiSroq>dv7j t aXXy yh tctj iv vqj 2xgo Xeyeiv x. r. A. Ibid. 199. C. xalpjjv t o o (piX e UydBoav,
xolXgA poi £$o£,a$ xa$T/y7/6ad5ai xov hoyov. Adde 220. D. xal ydp
SipoS xoxe rjv y quo loco cum gravitate caussæ indicium in prima
sede enuntiatiouis positum est;< die Ursache vnr, es war damals
Soromer. Contra in verbis 220. A. beivol ydp avroSi x ei M c
»vif. vis epitheti quoniam caussæ gravitatem superat, ab initio Setvol
positum est. Cratyl.. B. itaXaid itapoipia, oti x d xaXa Isxiv dity
$X £t paSelv • xal 8j} xal xo itepl x tav ovopatGDv ov dptxpur xvyxavei
ov pa$ypa. Iam nostri loci verba convertenda sunt; Und er
sagtet Apollodorus, in Wahrheit, bucIi neulich schon suchte
ich dich. a\\oS ydp xis poi 8trjyeixo. H. e. Alius mihi iam fuit
harum rerum narrator, quem Phoenix edocuit, Philippi filius; te quoque rem
compertam habere dixit; verum euimvero nihil certi narrare potuit;
iam tu igitur narra. Proprie ita disposita singula membra exspectaveris: drAAo?
ydp xis poi fterjyeixo aXXa ydp ov6lv
elxe 6a<pls Xiyeiy t<pr\ de
xal 6h eiSivai tfv ovv poi dvfyrjdat. Invertit, ut videtur, Plato
ordinem enuntiatorum, ut Glauconis audiendi studium et festinationem vividius
exprimeret. dixaioxaXoS yap el . Minus apte in conversione FICINO:
te enim interest sermones amici tui narrare; neque Stallb. satisfacit
convertens; te eniih maxime decet, amici h. e. Socratis, magistri
tui, sermones referre. Verba sic reddam potius: Convenit enim tibi in
primis, qui Socrs- Sixonbtaxog yag tl zovg rov balgov Koyovg
anayyllluv. ngbttgov 6e pot, ij 6’ og, tini, Ov avtbg nagtyhov tjj
evvovela zavzrj fj ov; Kaya tlnov, ori II uve a- C nctoiv Iones eoi ovdev
diiyytie&ai ecupig 6 Sit]yob(iE- vog, d vmazl qyet vtjv Owove lav ytyovivai
tairtjv; tis, amici tui, sermone» referas. Ceteram ut snpra
<pa\rjpis et deodatns Apollodorus vocatur, ita nunc kxaipoS 2 ah
xpccxovS audit. In verbis insequentibus r/ d* OS legitur; non male. Aptius
fortasse est f/6o$, de quo Schol. ad Piat. Phæ don, a.v. 17 6* 'Eav
plv, inquit, # dvo piprj A oyov, Hsxai £<p?j oSy xovxiSxiv
£<pi] 81 ovxof. oi Sb Xeyovdxv, ort auro pavor drjpaivei xo
£<p 7 /. iav $ £r pepoS XoyoVf tsxai <pi\ot f aif f ASrjvatoi
t r) u<pe\oS rir Aiyi- vffxaix. T. A. Bekkerus e contraria ratione 205. C. oAA* opd>S 7/6?/ scribendum
vidit pro oAA* opcoS 7} 6* ip oddkv diijyet 6$ai.
Ficin.: Revera, inquam, certi nihil retulisse tibi ille videtur. Cum
emphasi dicitur diijyeid^ai ac non sine acerba irrisione eius, de
qno supra dicitur » diTfyeixo. 9 Nimirum cura Glauco dixisset: oAAo? yap
xiS pot dujytixo t Apollodorus ovSlr St ijyetxo dacptS satis
malitiose responsurus erat, quod in orat, obliq. conversum audit:
£oix£ 6ot od&v di7fyEi6$ai. Riickert. infinitivum præ sentis
dtr/yetd^ai censet, malim imperfecti iuterpretari. Exempla si requiris
infinitivi imperf., cf. 176. A.
l<prf da 'avddt xe 6<pds Ttovrf 6a6$at xal $6 arx as xdv $eov xal
xaXXa xct vopiZopeva z pine 6$ oct npds xov notor, quo loco quæ momentaneæ actiones eunt, aoristo, durantes
imperfecto tempore descriptæ sunt.
Adde 174. D. xoiavx* axxa 6<paS £<prj
dia Æ xSirra? Uva* et q. seqq. Ceterum addito 6a<p&S adverbio
indicatur, Phoenicem narrasse quidem, sed narrationem non ita
instituisse, ut res narrata penitus ab auditore percipi posset. Ilinc
paullo supra dicitur fiovXoperoS dia 7tv$iti$a$ b. e. cupiens rem
omnem, quomodo gesta ait, accurate descriptam audire. De præ positione did cum
verbo composito vid.174. A. jpks yap avxov diifpvyov h. e. heri
fugi ipsum ac vitavi feliciter,SIS. C* aAAa diepijxocvifda), onatS
..., sondern du setztest es durch, dafs Phæ d. 97. C. oot apa
vovS Isxiv 6 diaxodpcov xe xal navxw alxioS t ubi diaxo tipdov est: omnia
excepta re nulla exornans. iyroye drj . Bekk. in textum
recepit £y& drj annotans, in quinque codd, iyaye S 1 ) reperiri*
Videtur igitur vir doctissimus codd. auctoritate motus esse plurimorum,
ut lyco di) reciperet. In servanda lectione vulgata nobiscum consentit
Riickertus, in explicanda non itera. Ph dij
enim, inqoit, quod caute et cum restrictione affirmat, ut Phæ dr. 242.
D, Theact. p* 145. D. cum maxime h. 1,
aptum esso censeo. E Ruckerti eenijv IqukJ. 3, togrs xal Ifii
xagaytved&ai. Eyeyys fli}. Iloftiv, >)v 6 J lya, ta ttavxcjv; ovx olaft,
on xoA,icov iroav ’AyaQ ov Iv&aSe ovx Ixidedqfirjxev ; dtp ov d’ iya
2 .'oxqutei GvvdiatQlfia xal inifuA.es XEXoljjpat ixdattjs rjptQas
tldzvai 8 n ctv Xiyy y nQcctry, ovSeneo 173 tQuc izi) larlv. n qo toti 6e
utQirQt%uv oxy Tv%oifu, 1*1 • tentia scriptam esse debebat
rfyov fxal ye Stj ovxgjZ. Contra iyooyt 6t) sc. ?}yovpai ovxooS } cum
gravitate quadam, quam vocare indignationem possis, affirmat: Nun
freilich dachte ich, aucb da seist dabei gewesen. 7Xo5ev cd
rXavxcov ; Stallb. distinguendum esse docet a Glaucone,
fratre Platonis, Glaucouem hunc, de quo Apollodorus 173. A. ita
iudicat, ut divitem quidem hominem fuisse, sed a philosophiæ studio alienissimum recte coniicias.
ixoScv cum vi negandi ita semper adhibetur, ut ad præ cedens verbum
finitum referatur. Dixisset igitur, explicatius si loqui voluisset,
Apollodorus: TCoStEV r/yst 6v, rjv 6* iyco f eo rXavHcov, atque sic, li.
e. explicatins, Plato locutus est ia Cratyl. 398. fin.: 6v
ix^S elneiv; EPM. it o$ev, do 9 yo&b, Uxoo; Adde Menex.
C. M. vvv fibreoi ol/iai iyoo xov alpeSsvxa ov itavv evitoprjCeiv 2.
zoZev sc. olet . . . do ’ya$E ; iitid e Sr/pr/xev.
Scbol. s. v. *Ay<&<ovoS xal npoS lApx&aov xdv
fja6iXea gj*£to, coS MaptivaS vEooxEpof, Verisimile est, ut Stallb.
ad h. 1. annotat, Agathonis in Macedoniam peregrinationem hic tangi.
Quoniam apud Archelaum tyrannum tam laute vivebatur, ut qui cum
eo essent, lautitiis quasi sepelirentur, tectius quidem, sed
iocosius, ut solet, Aristoph. in Ranis v. 83. idem poetæ apud Archelaum diverticulum notat: *H.
UyaSaoy dbxov 'fxtv; d* oacoTancdv p anoixexoci. 'H. 7Coi yfjS 6
xXrjpoov; J. is fiaxapoov evaoxfxcS. Errarem quod attinet
Glauconis, qui rEGoSxi celebratum Agathonis convivium arbitrabatur:
facillime potuit, cum multos iam annos Agatho abesset, vel obiter
facta temporis computatio meliora docere. Sed non curasse videtur
homo Xpyp<xn£ TIMOS virorum illustrium sive absentiam sive præ sentiam,
nequo studiose secutus osse nisi quæ divitias manifesto augerent.
iiei pe\\s it eitoirj pai. Sensus est: Seit ich aber mit
Socrates verkehre, und es roir zum Gesetz gemacht habe, jeden Tag
zu wissen, was er irgeud spricht oder tlint,' sind noch nicht drei
Jahre verlaufen. OTCXf xvxotpt. Scriptam exstat in aliquot
codicibus otcoi t. Sermo est de eo, qui, quo veniat errando, nqn
curat. Hinc convertenda verba sunt: temere, ubicunque versarer,
oberrans. Minus recte, ut videtor, Ficinus, ad cuius conversionem
Stallbaumiana comparata est : antea vero, quocunqua continge i xa\
olnfitvig rt itoniv, a&luoligos 17 orovovv, ol>x rjctov y <Sv
vvvl, olofuvog Sslv navia. (t/Mov xqutthv ij <piXo<Soiptiv. Kai fig, Mi]
/Sxibjct, tqitj ' uXX’ ilxe (to i, nate lybvtx o r) 6vvov6la avrrj.
Kayixt thtov, ore JlaiSav ovtcov Tftiav Iri, ots ry tCqixtt]} igciycoSlq
iviKtfitv 'Ayatiav, ty vCxiQulq y y r a hnvUux. &!vtv bat, oberrans,
cfr. Piat. Pbæ d. D. toiyapioi rovroiS ptv \alpnv clxovres avtois,
coi ovx eiSodiv, 0X7} gpxortat. aSXicor e pos r\ orovovv.
Schol, ad Gorg. ap. Bekk. 847 s, t. a^t]\arovi aSAiof o xdSt6iv dvtjxistoiiivujxopcvoi. Pro 7jv
volgato o codd. auctoritate 7/ Platoni restituerunt recentiores editores. Eam
lectionem scholion Bodl, cod. comprobat s.
/ : 'Attlxov roveo, axo tov ta (Swypypirov • dj/paivt i rd
(a rd vxf/pxov ' Iu ydp axo tov TfV Tiara SiceAvtiiv ‘icoyixjjy *
"OpTjpoS • rj rore xovpoS la, vvv 5’avri fle yrjpas bearet. Do 7/ et ijv discrimino Herm. egit ia præ f. adS. Oed. T. VII*
jt a id cov ovx cov rj pcov it i. Inverso ordine vulgo hæ c edi
«olent rtoddeov r)pcov orreov hi* Recte fortasse. Ceteram ambigue hæ
c verba dicta sunt,, ac non «ine magna Socraticæ disciplinæ laudatione. Nimirum itoudctS
vocat h. e., non pueros, sed homines pueriles Apollodorus cos, qui
Socratica disciplina non imbuti huc illuc eircumferantur., Verba igitur
TCaidojv ovxcov j}pcov hi de eo tetnpore intelliguntur, quo expers fuit
Socraticæ disciplinæ Apollodorus.
Et quoniam tertius annus erat, ex quo Socrati «ese ndiunxerat, tempus
convivii definit ita, ut qui his proximis annis tribus convivium
Agathonis celebratum neget. Definitione hac non sufficiente neque
accurata Apollodorus pergit: ore ry 7tpcdxy zpaycodiit ivlxrj6ev ’Ayd%cov
ry vSrtpaUr, rj y rd imvtraot l^vev avtuS ts xal ol x°~ pevraL. ore
t y rt pcdxy r p ay codice. Riickert. ad h. 1.: Non integra trilogia, sed
prima e tribus fabula; nam singulis etiam fieri poterat, ut quis victor
existeret. Recte. De tempore, quo prima tragoedia Agatho victoriam
reportavit, vid. Alhen. Deipn. V. p, 217. ore ydp UyaScov ivixa y
IlXarcov tjv 8exate66dpoov iteov 6 p\v ydp litt d pxovzoS Evtprj
fiov S ecp ccv ovtcii ArjvaiotS. h.e. Olymp, 90, 4. Hoo temporis indicium
perutile quidem est inprimis iis, qui in vitam Agathonis inquirant et in
historiam rerum, quod solertissime fecit Fr. Ritscbl in Comm. de
Agathonis vita, arte et tragoediarum reliquiis, llalis Sax.: frustra
eo utuutur lectores in opusculo Platonis, qui ipse pro scripti sui
cousilio nullam eius rationem habuit. licivixia USvev. Solebant poetæ victoria
reportata festum diem parare iis, qui susceptis chori partibus, ut
populo fabula placeret magis, effecerant. Quo die quoniam diis sacra
fiebant ob victoriam, factam est, ut ad euni significandam Græ ci
formula uterentur td iitivixia Svav. avios tb xa l o t yogivtuL Tlaw,
i<pt], aga naXai, wg 1 'oixtv. dkku rlg 601 diyyeito ; fj cevrog
Zkaxgdrrjg ; Ov (icc xbv Ala, i)v 6’ ly <a, akk’ vgxig <Po Ivixl’
’Agi&c6di](iog r\v rig, Kvda&rjvcaBvg, Cfuxgog, dwxoSrjros de l'
itagayeyovec 6’ iv ry Ovvovela 2k<axgdxovg tguCTijg wv iv zolg (idhora tav
zort, tog i(ioi doxei. rj avrds 2. Unus cod. Vat, ?/, quam lectionem
merito reiecerunt editores. Schleiermacberus 7/ part. potestatem non
satis assecutus convertit: etwa Socrates selbst? Quamquam eadem vox
manet, sive y sive ? f scripseris, tamen hæ formæ inter se discrepant vehementer, y posito
omissum cogitatur alterum enuntiati membrum a Ttorepov particula instituendum
v. c. notEpov dXXoS xiS 7/ avxoS 2coxpdxyS; et quoniam in huiusmodi
enuntiato bimembri, ubi ab indefiuito ad definitum transitor,
loquentia ludicium simul involvitur, consentaneum est, omisso
quidem, sed subintelligendo membro priori quæ stionis alterum vi
quadam augeri, quam verisimilitudinem vocari licebit. Igitur y non tam
corrigendi vim habet, ut Stallb. et Hiickert. iudicare video, quam
probabilitatis. Contra quando 7/ exhibetur, prius illud
interrogationis membrum prorsus evanescit, ut, quoniam neque huc
neque illuc interrogationis momentum declinare possit, interrogatio admodum
temperetur. Igitur 7/ particula qui utitor, suum iudicium ab
interrogatione secludit, et sive negarit sive affirmarit, qui rogatur, ad
utrumvis audiendum paratissimus est. Exemplum ut afferam, fiunt enim
leges linguæ luculeutiores
exemplis, legitur vulgo in Platonis Menon. 71. B. 3 py oiSa,
itais&v, oitoiov yi xi, el&dyv; y Sonet 6oi olov te
eIvcu, oStiS Mkvcovct py yiyrcStixEi, xonaparcav osxis isti, tovtov
eldivai, eUte xaXoS 7 i. t. A.* Viderunt interpp. scribendum esse y
Somei, eorumqne iudicium codd, aucto/itate probatur. Nihil enim certius
est, quam Socratem ita instituere interrogationem, ut simul indicet,
Menonem non posse negare rem interrogatam. Ad nostra verba ut revertar,
Glauco, cum Apollodorum htaipov 2<*mpaxovS indicavisset 6upra, y avxoS 2ao xpaxys dixit admixta probabilitatis notione:
am Endo doch wohl Socrates selbst. Iam patet, opinor, cur tanta
gravitate, quanta potuisset, Apollodorus responderit: ov pd xov Jia.
Graviora enim negatione opus est in responsis, ubi ita instituta præ cedens
interrogatio est, ut quæ vera non sunt, ea vera putare, qui
interrogat, videatur. Kv6 a 5 yvaievS. Vulgo legebatur KvdaSyvsvS,
quod Fischeri industria correctum est. Steph. Byz.: KvdaSyvatov. SfjpoS
ryS riaydioridoS <pvXyS' o dypoxyS KvSa&yvatevS. Eandem formam reperies apud Aristophanem, quem ad h. 1. laudat
Riickertus, Vesp. tiptxpoS, arvicoSytoS a ei* Hæ c epitheta
commemorantur eo consilio, ut quibus ov fiEvtoi alka xai ZkoxQartj
y£ ?vta ijdi] avtjQoptiv m> Ixsivov ijxovda, stat' (io i (ofioloyu
xa&axtQ Isceivog dttjyeito. Tl ovv; Etprj • ov diqyqaco (tot; sravrog
tj odog V £t’s atfrt» fautqSda n opEwoftsvotg stat Asystv stat
dxoveiv. Orna di] lovteg a(ta rovg Aoyoug Jt£gt
avtav Aristodemus tanqnam homo Socratis amantisaimus indicetur*
Nempe solent ita iudicare imperitiores, ut ab externo habita corporis ad
ingenia concludant* 2 pvxpoS est, quod nos dicimus : untersetzt. Apud Xenophontem Aristodemus pixpoS audit M* I. 4. 2., ibique
deos esse negat. Festis diebus blautis Socrates usus, est, ut
videre licet e 174. A., Aristodemus ut
semper ctyvTCodtftoS fuisse censeatur, addito atl edicitur, quod in
ahi ex plurimorum codd. auctoritate Ruckert. mutavit. Utrum
recte fecerit, nec ne, alii videant. iv zois pdXisra rc
ov Ture. h. e. Convivarum illorum, qui Socratem maxime
amaverint, acerrimus amator. Latiore significatu verba tuiv rore
Schleierra. accepit* der war bei der Gesellschaft zugegen gewesen und
einer der eifrigsteu Verehrer des Socrates damaliger Zeit, wie mich
dunkt. ov yievtot aXXa. xai, Adhiberi hæ c dicendi
formula solet, ubi commemoratum est, quod iam satis videri possit
ad rem, quæ paratur. Apprime
respondet LATINORUM: nihilo minus tamen. Interdum xai omittitur,
quo omisso edicitor, ut id, quod ante commemoratum sit, minus
probari iodicetur aliudque addatur illo multo probabilius, cfr* Piat»
Meuen. 86. B, n dw ptv ovv* ov pkvxoi, gj 2&>HpateS, aXX’
iyooye ixelvo av r/dLSta, Zltep TjpOflTJV TOTtp&JTOV, Hai
Cxetpaijxijv xcti dxovdcujn. Eodem plane
modo xai omittitur in formula dicendi ov fiovov dXXitj de qua vide sis, quæ annotata sunt ad p* 180*
A. ovdiyyr/cco poi. Ut Græ ci, ita nos: erziihltest du mir
das nicbt? quod ita dictum est, ut explicandum sit: scio te
nolle narrare, quaro exorandus es mihi. Alia plane ratione Stallb*
hanc dicendi figuram explicat: Ilæ c interrogatio, inquit,
alacritatem qtiandam animi et aviditatem sciendi indicat, fere ut LATINORUM:
quin tu mihi narres? Alia ratio est Verborum 2 12. D.
rtaiStf, $<py t ov tixeipetiSe, ubi ad lectionem codd. trium
(SxeifsadSe Riickertus annotavit: Aoristum ut non admittendum, ita
non omni ex parte spernendum duxerim. Male. Vid.annot. Ceterum T i
ovv ab inseqncntibus verbis maiore interpunctione disiunxi, nam non
possunt, ut videtur, in una cademqne interrogatione ri ovv ov
couiungi. - itdvxoot 7 } J 6 o f. particulam, veritus Bekkeri auctoritatem, e
textu semovi, quamquam Riickerti exemplis edicitur, ut certum iudicium de
eadem edere dubites. Laudat enim ille Piat, de Legg. I* 625.^
A. ftposdoxdi ovx av dt}8&> rjpd? C irtoiov(ie&cc, i vgte,
otcbq ccQ%o^evog tfotov, ovx dfistezrjxcog I '//a. el ovv dei xa l vfilv
dirjyytiacfftac, ravra ^937 iioielv. xal yaQ fyutys xal dXXag, otav [Uv
twag % egi <ptXo 6 ocpiag Xoyovg rj avtog nouafiai y ccXXcov
axovcoy flebis tov 0 ie< 3 ftca tocpeXelti&at, vTteQtpv wg cSg
%ccIq(j' otav 6 s aXXovg zivag, aXXag te xal tovg vfietBQovg tovg tav
itXovtilcov xal xqtjimxxlGxlxcov, avxog te a r&oiiat, vpag te tovg
ixaigovg l?.eco, on oceG&e n D Ttoielv ovdev % OLOvvteg.
xal icspt re xoXireiaS xd vvv xal vopcjv xrjv 8iaxpi/5?jv
XiyovxaS re xal axovovxas apa nara Trjv nopdav rfonjdetiScti.
7tavtgX 6 9 rj ye ix KvooGov odds oo$ axovopev, ixavtj x.x.X . Adde
Apol. S. 33. D. xi ptj avxol ySei-OV, xgjv olxeioov xivds tqjv ixsivcov,
itaxipaS xal adeAcpovS xal aXXovS rovZ itpoST/xovraZ, eiitep vn ipov
xi xaxov litEitovSEfSav avxdtv ol olxslot, vvv pEpvijdSaz.
TcdvtooS Se 7tdp£i6iv ocvxqdv tcoXXoI lvxavSoi, ovS iyco opta x. x. A*
Ceterum convertenda verba DOstra sunt: Wie nun? sagte er, wolltcst du mir
nicht erzahlen? jedcnfalls ist der Weg in die Stadt gecignet fiir eine
gcgenseitige Unterhaltung wiihrcnd dea Geliens. Picinus habet: apta
quidem via est, quæ ducit iu
urbem, et ad audiendum pariter et ad dicendum. xovSXoyovSrtEpl
ClvxgSy, Nota vim articuli, quo absente ecnsus existeret hic: Sic
igitur inter eundum de his collocuti eumus. cfr. 207* A. xavxa
X8 ovv Ttdvta iSldadxi p£, oxoxs nept xc ov iptDXixdjy Xoyovf
nounxo x . A. Addito articulo sententia hæ c est: Sic inter eundum, quæ verba fecimus, de his Icag av
v[ie lg i[ie yyeiti&e fecimus, cfr. 216« C* aAAa di pov
dxovdzxxe t aoi opoioS xi iStiv ols iyco eixa6a avxov xal xrjv
Svvapzv, Savpadiav lx?i h, e. et vim, quæ ipsi est, quam admirabilem habet.
ei ovv Sei xcqieiv . De his verbis vide quæ annotata sunt ad 172. A. Docet
autem hic locus, qui dilferaut Sei et Xpi}, de qua differentia
verborum jam a Ruckerto est ad h. 1. 'annotatum. dei necessitatem
exprimit, XP 1 ? voluntatem necessitati inservientem, cfr, Æ sch. Or. c.
Tim. 29. 6 vopo^ixijS aTtadsi^Ev, ovZ
XPV 6rjp7jyoptiv xal ovf ov Sei Xiyszv iv xaa dijpoo h. e.
Manifesto legislator declaravit, qui velle debeant coram populo
verba facere et quibus orationem habere non liceat. v iC8p
cpv&S co S xalpv* Orta est hæ c dicendi formula ex
vitEp<pvGjf x a ip°° et Xatptof quod cum non intelligerent, qni
describendis libris occupati essent, factum est, ut coS sæ pius
omitteretur. Seusus est totius loci : lam si etiam vobis narrandum est,
volo equidem, quod feci nuper, idem nunc facere lubentissime.
Namque æque nunc atque alias sive ipse instituam, xccxodaifiova
slvai, xal oto^icu vfiag dhjfrij oi&tJ ' iyco [dvtot vfiug ovx
olo/uu, uiX tv olda. Cap. II. ET. 'AH ofioiog st, tn 'AnoXXodoQB' ail
yag 6ctvtov rs xaxt]yoQUs xal rovg dXl.ovg, xal Soxng fioi aTE%v wg
ndvtug d&Xlovg tjysi6&ttL xlijv EaxQccrovg, ano (Savrov
aglifievog. xal ono&cv aozl rav tijv tfjv vive narratos audiam
philosophicos sermones, præter quod augeri me scientia puto» impense
etiam lætor» Xprj paxi^x ix gjv. Stallb.ad h. 1, a
Vulgo XPWonrti&v- Illud aptius hoc loco recte indicavit
Fischerns. Præcedit enim n\ov61gov.» Recte xpVf £0LTt StixtaY receperunt
editores non satis recta de caussa» Licuisse enim contendo Græcia dicere:
ol it\ovdioi xal XPV paziSxad, ut Latinis licuit fures ^et malefici
dicere, neque dubito, quin lectio vulgata B. xovS q>i\ov$ xal x
ovS itoXtpiovS recipienda sit» Nostro contra loco, quoniam non de
certo quodam hominum genere sermo est, h. e. de foeneratoribus, sed
homines indicantur quovis modo lucro inhiantes, XpTJpocTtftiXGov
unice verum est. l6ooS av vpeiZ, Schleierm» convertit:
Vielleicht nuo haltet ihr wieder eurerseits (lafiir, dafs ich
iibel daran bin, und ich glaube, ihr mogt ganz richtig glauben, ich
aber glaube es nicht von euch, sondern weifs es. Oh6Sai> aXtjSf}
. o letiSat ( opSd SoZdctsiv) eldivai, vocabula Socratica sunt,
quibus Apollodorus uti videtur li. 1», ut Socratis discipulum se
probet. Ceterum laudaro Plauti versus lubet petitos c Cas.
initio: Clcostr» Face, Chaline, certiorem me, quid meus me vir
velit» Chal. Ille edepol videre ardentem te extra Portam Metiam,
Clcostr. Credo ecastor velle. Chal, At pol' ego haud credo, sed
terto scio. dei
o fio io S it\r)v 2? X p dtx O v?» Vario modo hæc verba ab
interpretibus explicantor. Wolfius Iv pbv yap xoiS XoyotS dictam esse
censuit pro aX \d yap iv xotS \6yoiS . Frustra. Astius convertit:
unde tandem nomen pavixoS acceperis, non perspicio: namque in
dmnibus tuis sermonibus tantum abest, ut pavixoS sis h, e. nimius
et vehemens in laudando, ut et te et alios præter Socratem
cum acerbitate quadam reprehendas. Apoll. Et merito
pavtxoS a vobis audio, de me et vobis ita sentiens. Hanc
conversionem nemo probabit. Nam neque usu qnodam loquendi probatur,
pavtxoS inprimis de laudatorum studiis valere, neque ex kxaipov
verbis colligitur satis, pavixov nimium in laudando significare. Quid
dicam de responso Apollodori, quod ex Astii conversione iit
languidissimum? Pessime do fitavvfiiav UXafltg, ro /icevtxog
xaXiUs&ai, ovx oida sycryt ' Iv /jiv y«Q rolg Aoyotg «fi roiovzog fi'
tiav roi T6 xai zolg aXXoig dyQiatveig xXt)v Zaxgcczovg. ATIO
A. * Si q>lXzccz£, xai dfjXov ys dij, on ovtw diavoov(iBvog xai xeqi
Ifuctrcov xai x£qI vfuav (ictCvo(icu xdt xaQaxcaOi nostro loco meritu.
est Ruckertus, qui, cum non posset, quid kratpoS sibi voluerit his
verbis, intelligere, scilicet e codd. yahaxoS pro jxavixo? in textum
recepit. gUnde tandem mollis appellatus sis, equidem non intelligo; in
sermonibus enim semper talem te exhibes : et tibi et aliis
succenses præter Socratem.» Hæc ut pugnant cum sequentibus, ita ut
ne pugnare videantur, Riickertus, in verbis Gqlvxqj re xai roiS aWoif
dypicdveiS insaniæ latentem notionem deprehendit, ad quam respiciens,
quamque augens in maius per indignationem Apollodorus dixerit: o5
<piXtave, xai dfjXoy ye 6rj x. r, A. Artificiosa hæc suut, non
vera, Neque Plauti auctoritate nunc movemur, qua uti Riickcrtus
potuisset in re sua. Legitur nimirum in Menuechra. Both.
Insanit hic quidem, qui ipse maledicit sibi. Nam tu quidem berclo
certo nou sanus satis, Menæchme, qui nunc ipsns maledicas
tibi. 8tallb.,
quoniam Apollodori ingenium ad morositatem proclive fuerit, etiam pavixoS
de ingepii * tristitia et morositate intelligendum indicat. Deinde
supplendum ccnsfet opS&S 6h doxeis Xapeiv avTjjy ante verba iv
plv yap totS XoyoiS æl roiovroS ei. TotovroS autem interpretator
/um xof> tristis et morosus. Ut libere dicam, quid mihi
videatur, Apollodorus et ad tristitiam et ad hilaritatem
propensissimus erat ita, ut sive tristis sive hilaris suarum rerum
modum haberet nullum. Nimium ia tristitia Apollodorum icperimus Pbæd.
p, 117. D. in risu atque in mærore Phæd, 59* A. in vitnperio Symp. 178*
C.etD.» et quo animo hominem in magistri laude fuisse censes,
qui præter Socratem omnes mortales infelices indicabat? Ia quo
indicio ut ro fjLcrvixov eluceret magis, Plato dypiaiveiv verbo usus est,
quo verbo animi summa commotio exprimitur. Idem cadit in
uvccfipvxqGduevoS participium, quod quo exquisitius, eo aptius est ad
turbas animi exprimendas. Iam patere arbitror, fxavixoS h. 1. neque de
immodica laudo neque de nimia morositate dici, sed de laudis
vituperiique immoderatione. Rectissime autem Stallb, vidit, ante
verba iv y\v yctp roiS A. aliquid supplendum esse. Solet enim
yap particula ita adhiberi, ut sententia quædam, quum facile e cogitationum
serie supplere possis, omissa indicetur. Stallb. supplendum censet op^djS
81 doxeis \afieiv avrjjv. Nobis placet ei /i?} lx rcov A oycov. Totius loci conversio hæc est: Immer bist du derselbe, o
Apollodorus, Immer klagst do ET. Ovx a£iov xig l r ovtcav, a
'AxoiioSags, vvv IqI&iv' di A’ Sxeg ideofieftu <Sov, (itj
&iiag xoi-qffjjg, aiid diyytjdtti rtvsg tj6av ot ioyoi. • AIIOA. r
IJ<Sav tolvvv Ixuvoi roioiSs tivk g. fidiiov d’ UdQZVS v/uv, dff ixeivog
diijyeito, xcd lyw xu- . gadofiat dirjyrjdaa&au, 'dich and die andern an,
and scheinst mir ohne weiteres, aufser Socrates, alie fur
ungliickselig za halten, indem da mit dir selbst den Anfang
maclist. Und woher da in aller Wclt den Beinamen da hast, dafs man
dich den Tollkopf netfnt, das weifs ich nicht, Ermufstedenn aut deinen Æufserungeu
herstammcn. In diesen zeigst da dich wirklich so; da
ziirnst dir and den andern, und zollst allein dem Socrates ein
unmafsiges Lob. o3 (piXtate 7tapa • naico. His verbis, quæ de
f ia vi xoS nomine annotavimus, confirmari videntur perpulere. 'Ezcu~ poS
nimirum cum non nisi to jaclyihoS xaXiitiSai commemoras se t, consueta
vehementia usus Apollodorus paivopat xal 7tapaitaioa dixit. Hæc verba
optime transtnlit summus Schleierm. : 0 Liebster, so ist es jaklar,
wenn ich so denke von mir und euch, dafs ich toll bin and von
Sumen. Inest tamen aliqaid his verbis, quod male me habet. Nimirum
amicas dixit: E dictis tuis illud cognomen ortum est, aut eius
originem et caussam ignoro. Ad hæc verba nnm quadrare tibi
videtor Apollodori responsum? Quid quæris ? res acta est scilicet, sævio
et mente captus sum. Si quid video, ol pavixoi at exaggerant res,
ita rixari amant, ad utrumque nutura ducente. Ad rixas autem se compos^js
se Apollodorum etiam verba amici docent: ovx a£>iov nepl
tovtgdv, 'AtcoXXoScopE, vvv ipi&iv. Quid multis? Posito post napaitaico
signo interrogandi verba convertenda sunt: O Liebster, ist es
denn nqn schon so ausgemacht, da fs ich toll bin und von Sinnen,
wenn ich so denke uber mich and euch? toioiSs rivi?,
Additur indefinitum pronomen, ut indicetur, sermones non verbo tenus
ab Apollodoro referri. Recte Stallb. ferehuinsmodi convertit.
Sic paullo infra 174. D. roiavt arra <5q>dS i(p7j
SioXexSevra? Uvau Schleierm.: so ohngeflihr ... Adde A. Adyov roiovtov rivo?
xatdpxEtv. 180. C. &ai8pov fikv roiov rov riva Xoyov £q>rj eItceIv
. MaXXov 8i eius est, qui ipse se corrigit. Habet FICINO (si veda)
; immo vero a principio eodem ordine, quo Aristodemus retulit,
vobis ipse nunc recensere conabor, cfr. 188. D. ovra. ) jroAA?/V
xal fiiEyctXrjv, fi.aXXov 8h nd6av Svva/nv x. t . A. adde 193.
E. Vva xal rd>v X oixcov dxovdajjiev ti ExaCroS ipely pdXXov 8h
rt kxdtspo ? * UydSGor yap xal 2aoxpdr7]S Xoiitoi. 194. A. si 8h
yivoio, ov vvv iyoo tlpiy yaXXov 81 i'8a>? ov Stio/iai x t r.
A.*Eqsr) yuQ of ZkoxQcm) ivrv%m> leXov/ibov ts xal tag (Skavrag
vxoSeSefdvov, a Ixtivog bliydxig biolti, Mul iQt6%cu avrov, onoi fot ovta
xcdbg yByEvrjiiivog. xai rbv datlv, oti 'Em, delavov dg
'Aya&covog. yaQ avrov ddcpvyov roig huvixloig, ipofirj^ilg rbv
Zyhov' 6fiol6yri<5u d’ dg vifoiEQOv mQiGttiftai,. tavta $ij
$q>7) yup ol Scoxpatif, E nostra cogitandi ratione verba si
spectas, scriptam exspectaveris : lepr) yap 2cDxpdt£i Ivtvx&v.
Illud genus dicendi ex objectivitate enatum est, qua pro ingenio suo Græci
utebantur in narratione. Eo autem efficitur dicendi genere, ut
Socratis loti calceisque ornati imago oculis obversans lectorum, ut
Apollodoro, ita quæstionem moveat lectori l oitoi tot ovtgj xaXoi
yeyevTjplvoS. Sexcenties hoc dicendi genus reperias apud Græcos
scriptores, unum exemplum ut laudem, cfr. 174. E. ol phy yap evSvf nalSa
riva SvdoSev ditavzr\6avta ayetv n. t .A. taS fiXavt
a£. Schol. habet : v4t o 8r} par a.ol fiXavtia, 6av8dXuz l6xvd. Satis notura
est, Socratem perraro calceis usum esse, id quod nostro loeo colligitur e
verbis a ix£ivoS oXiyaxiS iitoiet. Quod raro fecit Socrates, ut calceis
uteretur, idem Aristodemus nunquam fecisse perhibetur 173. B.
*ApiStoSrjpoS yv nSj Kv8a$7]Yai£vZ i dpixpof, dvvxo Srjt oS a e
i. X^^S yap avrov 8 iir tpvyov . De 8iacp£vy£iv verbi
potestate vide quæ annotata sunt ad 7* Ceterum brevius quidem Socrates
loquitar, non item obscurius. Sententiarum ordo hæc est: Iam
heriAgatho me vocavit, sed non im petravit a me, utfaoerem, quod
juberet. Odiosa enim erat concitatiorum hominum turba
strepens. Promisi autem ei hodie ad coenam, tavta 8i }
ixaXXcon rtdaprjv. Rostius V. Cl. %d verba ixaXXoDTtiddprjv, Iva £g a
annotat: ornavi me (et nunc orna tns sura) ut accedam. Vide Stallb.
ad Piat de rep. V. 472. C., qui laudat Rost. Gramm.
§. 122. not 4. b. Herm. ad Viger. p 850. Buttra. 126. i. Tavta
8ij interpretes positum esse censent pro 8ia tavta 8 t} } de quo
usu loqueudi vid. Matth. Gramm. pl. §. 470. 7. 873* Rectius
opinor, tavta de ornatu intelligitar, ut verba convertenda sint: Hoc
igitur, quem miraris {ovta» xaXof y£y£vr/p£vo$), ornata ornavi me et nunc
ornatus sum, ut pulcher ad pulcrum accedam, Si dictam esset supra
ortoi for VJ/pepov ovteo xctXoS ysyevTjp^voS, unice probaremus iuncturam
hanc: promisi autem ei hodie ad coenam, atque eius rei gratia
ornavi mo cet. TtpoS t 6 i$&\eiv dv livai a Stephani hanc
emendationem, inquit Riickertns, librorum lectionis aviivai a Bekkero,
Dindorho, Astio, Sommero, Stallbanmio receptam, admodnm dubitanter
retinui. Quod enim in sequentibus simpl, Uvat po9 ixaXAaxiodfitjv,
ivu xaXog xaga xakov ia. t?A<la Ov, tj 6’ og, ntUs H £l S XQog t 6
l&iXuv dv livai axhytog Ixl B Sslnvov} Kciyco, Itpr}, th tov, ori
Ovrag, Sxwg dv Ov xtfav]jg. "Ex ov rolvw, fqpi?, Ivu jc «1 rtjV
xagoifilav Siarp&dgafttv (itra^dXXovrtg, ag aga xal dya&iov
liti Saltas laOiv avtoparoi aya&ot. "0(irjgog (itv ydg xivsitom
*st, «t eo non «equitor, ut etiam h* 1. debeat. Imino si locus, e
quo Socrates cum Arislodemo profecturus erat, inferior fuit quam is, ubi
Agatho habitabat, nonne tum primo loco poni licuit aviivai,
sufficiebat in seqq, simplex verbum?», Hia verbis contra eos
dispotatum est rectissime, qui e sequentibus { a6iv et Urat de dv
levat iudicarunt. Atqpe sic Stallb. iudicasse miror annotantem: Codd. et
vett. editiones omnes £$i\eiv aviivai, quod de Stepbani contectura
mutavimus præeunte Astio et Bekkcro, JSimirum sequitur deinde la6iv
et livai de eadem re dictum . Cæcutiisse videntur interpretes, ubi
scriptor verborum positu studiose fecit, nt clare videre
potuissent, *Enl deinvov et ad livai pertinet et ad axXrjXot) nam
ut xaXeiv ini deinvov recte dicitur, ita axXrjtot ini deinvov he ne
habet; rursum livai arctius cum dxXrjxot coniungendum est, et est in
hac coniunctione enuntiati acumen. Verba convertenda sunt: Konntest
du dich wohl entschliessen, obgleich uneingeladen, doch zu kommen
zum Gasttnahl. lam concedamus necesse est Riickerto, aviivai ini
deinvov recte dici, si in altiore loco Agathonis domicilium fuisse
constaret, non recte dici aviivai axXrjxot Ruckerti æquitas
concedet nobis. C. axXrjxov inoirjdev i X 5 d v x a tov
MeviXeoav ini xrjv Soivrjv, ubi rursum indicare licet e posito verborum de
scriptoris voluntate. Adde 174. D. iyoo plv ovx dpoXoyrj6cn
axXrjxot tj x e i v, aXX' vno 6ov xexXr^pivot. Ceterum ndot Mystt
npdt x 6 iSiXeiv dv verba respondent nostratium: Wie steht es bei
dir mit der Lust ... pro Hattest du wohl Lust diopat vpcov dxovdai,
nd)S fet npds td ipfi&dSai niveiv 'AyaS gjv. Iva xal tijv
napoipiav pex aftaXXovx et» Socrates haud raro poetarum versus
immutabat, ut mutati contrariam sententiam funderent. Tangit liuuc
morem Appulei. Flor, 6. ed. I. Bosschæ: Nec ista re cum Plautino
milite congruebat, qui ita ait: Pluris est oculatus testis
unus, quam auriti decem. Itnmo enimvero hunc versum ille (sc.
Socrates) ad examinandum homines converteret: Pluris est auritus
testis unus, quam oculati decem. Editores fere omnes e codd
plurimorum auctoritate pexaftaXovtet receperunt. Prætulit pexapaXXovxet
Bastius, quod et codd, nonnulli iique melioris notæ exhibent. Couveitit
Stallb. mutatione corrumpamus, participio in 2 dvvivst ov (iovov
duttp&eipcu 9 aXXa scccl vpQldat e!$ tavvfjv rijv rcaqoiplav.
noirjdccg rov 'Aytqdpvova C diacptQovTOG ecyadcv ccvdQa
substantivum converso, quo substantivo temporum discrimen velatur. Unice rectum
est pxxctfiaXXovteS. Nam qui mutat, eo ipso, quod mutat, proverbium
corrumpit. Vides igitur, 'eiusdem actionis esse et 6ia<p$sipe iv
et fterapdXXetv, cuius actionis et obiectum et effectus h.l.
commemorantur. Hoc autem videtur doctis viris' fraudi fuisse, ut
putarent, de duplice actione, quæ temporis discrimen in se
susciperet, Platonem egisse, eo £ dpa xal dyaScvv. Schol. ad hnnc
locnm : avtoparot 8* ayctSoi 8«Ac3v ini dcnraS la6iv. xavxtjv 81 X
iyovdir tiprjtiSat ini 'HpaxXei, o$ ott kfStidovto ro3 Kj/vxi £,lvoi
iniCxrj* KpaxtvoS 81 iv IJvXcda jiEtaX* Xti%a$ avTtjv ypdtpti
ovtoof. otd’ av2r’ ijpnS, w? 6 itaXaioS A Jyot, avxopdxovS aya&ovS
Uvai xoptpdjv ini douxa 3 eaxav . xal EvnoXiS iv Xpvtitk 3
yivtu E schol. verbis facile colligitur, vario modo hoc proverbium
immutatum fuisse a Græcis, vid, Athen. Cal, De primaria autem
proverbii forma, quam Schol. indicat, Schleierm. hæc disputat in den
Anmerk. zur Uebers. Eiu sonderbarer Gedanke ist es von* dem
Scholiasten, dass er uns an das zweite Spriichwort des Athenæos
verweiset, welches von Tapfern und Feigherzigen handelt
(aya$ol SeiXgov), wahrscheinlich in dem kriegerischen oder
feindseligen Sinn, dass dic Tapfern ungeladen erscheinen und, die
Feigherzigen vertreibend, sich selbst an die ra
scoXffUxa, xov di Mtvt Sehiisseln setzen. Sondern Socrates meint aya$o\
dyaSajv ini Scuraf, und aagt nor acherzvreise, sic wollten es durch
eias Umdrehung eiumal verderben, iudem sie niimlich den Agathon und seine
Gnate ayc&ovf nannten. .... Der Homerische Fall lrisst sich auf das
ayaSot ini 8 e iXoHv gar nicht anwenden, weil, wenn nur eine
Anwendung uberhaupt da sein soli, Agamemnon rousste ein 8nXoS sein.
Sondern «ras Socrates dem Homer vorwirft, ist, dass er auf das Spruchwort,
ais sei es alter, anspielend den Menelaus einen ayaSoG nenn». Hæc
subtilius, quam verius disputata sunt. Primaria proverbii forma ea est,
quam Scholiasta laudat, quæ quomodo mutata sit et ab Homero et a
Platone, iam videamus. Nam etiam ii interpretes, qui Schol. formam ut
primariam proverbii agnoscunt, de mutationis et corruptionis ratione male
indicarunt. Legitur apud Homer. II. /5, 408. ctvxoparoS di oi ?/A3«
floTjv ayaSoZ MtviXaoS, de quibus verbis Plato ita videtur
iudicasse, ut fiotjv aya$oS voce non virtute fortem interpretaretur, idqne
verbis ayaSov ra jCoXejxixa ac. ipya opponeret. Assumto deinde
Apollinis iudicio, quod legitor II. p f 588., aperte eloquitur! ignavum
ad fortem accessisse &xX rjxov h. e. invocatum. Proverbii
primitiva forma si est, nt diximus, avxopocxot 8 9 ciya 3oI8£iAcJt' ini
daitai iadtv, facillime agnoscas licet homcricæ hov fia}.9axov
alxfirjrtjv, Qvalav itoiovfiivov xret tOruovrog tov 'styafisfivovos axhjxov
ixolrjatv IX&ovxu rbv Mtveltav Isi t>)v Qoivtjv, %dga ovr a Isi rt)v xov
« yeivovog. poeæoa superbiam, qaæ iisdem verbis eodemqne usa
verborum ordine sententiæ innocentiam ita pervertit, nt proverbium
audiat : avxoparot 6*' dya^cor 6 et Aoi ini Saltat ladiv* Iam
quod Homerus fecit, idem licere sibi, ut proverbium corrumperet,
Socrates putabat, Neqæ tamen pro SeiXdiv, quod in primitiva proverbii
forma legitur, ad Agathonis nomen alludens dyaSdir scripsit, ut
Stallbauraium judicantem video, r forma
enim proverbii elficeretur hæc: avtopatoi 6* ayaSoi dya^av, qui
verborum ordo non reperitur nostro loco, neqæ xai part., ut
Riickert. censet, hoins mutationis indicium facit, pertinet enim vocula
ad totam enuntiationem, eoius exemplum habes Symp. 193, C, ei Se rotiro
ctpt6tov t dvayxalov xai zcov vvv naporroor ro xovxov iyyvtdtca
dptdxov elvai. Adde 206, A. dtp ovr, iq>rj, xai ov povor elvai,
aXXa xai dei elvat, sed Homericum SetXoi in ayaSoi mutavit, minus,
ut videtur, Agathonis nomen (dyaSdiv), quam Aristodemi laudem (ayaSol )
respiciens ; avxopaxoi 6 * ayaSdtv dyaSol 'ini Saltat fadtr.
Comprobatur hæc explicatio nostra perpulere Aristodemi modestissimo responso :
IdoDt pivrot xirdi ryevdod xai iy o> ovx tiv Xiytit, <w
2oSxpaxet, aXXa xa%’ "Oprfpov cpavXo t oSv ini dotpov avSpot
Urat SoirrjY dxXrjto t, Ceterum ad Homericam illam proverbii
corruptionem, non ad primariam formam eius Socratem a. Platonem
respexisse, etiam ex ordine verborum colligitur, qui est apud Platouem. Homerum
enim ex avropaxoi 6’ ayaSoi SeiXcov fecisse consentaneum est: avxopaxot
5* dyaSdiv SeiXoL nihil mutata verborum sede, et tamen
mntata sede subiecti. Iam servato, qni apud Homerum est, verborum
ordine Plato scripsit: dyaSwr avxopaxot aya~ fiaXZaxov
alxjiTfTijr. Fortem et strenuum bellatorem Menelaum fuisse, e
multis Homeri locis colligitur. Semel apud eundem vocatur paXSaxot
alxprjr/fS II. p f v. 588., ad quem locum Platonem respexisse multi
fuere, qui annotarunt. Utitor autem illis verbis deus Græcis
infestus atque rerum bellicarum minus peritus, Apollo, non, ut
ignaviam Menelai notaret, sed Hectoris euimurn nt excitaret et
augeret. Si displicet igitar, quam supra commemoravimus, malitiosa
fiotjY aya$ot verborum interpretatio, (licere autem interdum
poetarum versiculos psr iocum falso interpretari, quis negabit}: quibas
tamen displiceat, iis dictum esto: Menelaum paXSctXOY appellari, ut
Agamemnone inferior, non ut' ignavus ffcisse indicetur Quid, quod
Aristodemus paullo infra dicit 174. C. "I6&S pevxoi xiv$v~
yevdco cpavXot axv ini 6o<pov dr8p dt Uvai Soivijr dxXrjxot, num
revera hominem nequam 2 • Tavz uxovOaq ilitnv £<pt]'
*I<Stas pivtot xivSwivOu xal iyd ov% ag 6v Xtynq, a ZdxQare g, aXla
xo&’ " OfiijQOV, tpctvkoq m> ini <5o<pov avSQOg Uvai
tooivrjv D KxXrjtoq. atj ovv aytov (ii ti axoXoytjGu; uiq lyto fiev
ox>x b[io).oyTj<Sa axXr t roq ijxeiv, a/U’ vxo aov xzxXttfd- foisse
putas, aot ita moratum, ut qui ipse tpavXov se esse confiteretur? Si quid
video, nihil aliud indicare Aristodemus voluit addita tpavXoS
vocula, quara se cum Agathonis sapientia comparatum Agathene inferiorem
esse. ovv aytov pe naxoXoyrjdei; Verba difficillima sunt ad
explicandum. Faciendum igitur est, ut, antequam sententiam qualemcunque
nostram aperiamus, quid alii de hoc loco consuerint, videamus.
Levissima accentus mutatione Astius scribendam coniecit : dp* ovv
aytov pe ti aitoXoyjfdei. Sed duplex interrogatio ab hoc loco
alienissima videtur. Creuzer. Leet. Piat, ad Plotin. de pulcritud. 5l8.
ay aytov coniecit, quod sæpissime scribarum incuria in ayccv mutatum
reperies. Ea coniectura Stallbaumio probatur, qui verba convertit:
Nam igitur aliqua ratione excusare poteris, quod me adduxeris? Addit
autem, non quærere Aristodemum, ecquam h abiturus sit excusationem,
dum ipsum adducat, sed num futurum sit, ut possit excusari
aliquo modo, quum ipsum ad epulas secura duxerit* Non male. Nihil coniectura opus est. Ut rectius verba intelligantur, ab
Aristodemi responso exordiendum est, quod legitor 174. B. ovttoS (
sc. 2x?> ) OTttoS av Cv neXevys h, e. ibo, manebo, prout
iusseris. Hæe eo consilio dicuntur, ut Aristodemus, quod invocatus veuisset, a
nemine posset, utpote qui vocatus esset a Socrate, rusticitatis
accusari. Socrates contra, ut. hominem ad suscipiendum iter
dulcedine quadam pelliceret simulque itineris suscepti excusationem a se
amoveret, Aristodeme, inquit, dic, si placet, Agathoui, quod
Homerus fecerit, at verba proverbii corrumperet : avtopatoi 6* dyaSok o
6eiX<uv ln\ daitaS iadiv, idem te experiri voluisse, atque eius
rei gratia ad ^AyaSt&v Saltas venisse avto patov d y a3 6 v.
Aristodemus autem quum vereretur, ne q>ax>XoS potius ad
normam Homerici proverbii, quam dyc&oS ad Agothonem profecturus sit,
a Socratica proverbii mutatione adventus excusationem petitum iri negat,
atque iturum se fastidit, nisi a Socrate vocatus esse dicatur. Iam quo
facilius hominis animam obfirmatum perspicias, aytov scriptum est
non ay aytov in interrogatione, quam nunc interpretaturi sumus.
Nimirum præsentis temporis participium eam vim habet, ut de Socratis
actione intelligendom simul Aristodemi voluntatem involvat manifesto: ei ayoiS
pe. Sensus est : Wenn i c h mich von dir fiihren lasse d
wollte. Spreta autem dulcedine illa, quæ in Socratica proverbii mutatione
continetur, et vog. £vv te dv, iq)tj y Iq%ou.Ivg3, tcqo 6 tov
fiovXev dujlt&u 0 XI iQOVptV. ctiX t&piV. Toiavx arra
(Upccg Itptj dtalex^tvvccg livai. tov ovv ZkoxQUxrj iatrup it&g
stQogtyovzct tov vovv xccra ti/v o6ov itoQEvsti&cci VTtoteizopevov,
xal stEg^aivovtog qua dicitur ad bonam accedere invocatus
ayaSof, aliam iam exigit excusationem uon sibi, quod accesserit
invocatus, sed Socrati, quod se vocaverit* Hæc verborum explicatio
sequentibus verbis perpulere probari videtur. Schleierm. convertit:
Wirst da inich also uuch etwas entschuldigeu, weun du mich
einfiihrst? Rectior verborum conversio hæc est ; Num ig>tur, si
duci me a te patiar, aliud quid habes, quo possis to, quod me
vocaveris, excusare? Quod ad me, ovx dpo\oyi} 6 a) anArjxoi ?jxttr,
aXX viro 6 ov H&HXrjfJL&voS. Tl pro rl
aXXo positum reperies haud *aro upud scriptores Græcos, cfr. Piat,
de rep. I. 8S2. C. atXXd t i oiei ; £<pij. Sed quid aliud tu
censes Mallem tamen b. 1. legere olKKo tl olti ; Adde Piat. Crit. 50. C. cap. XI. fin., ad quem locum Stallb. laudat Lanib.
Dos. de Ellips, 27. ed. Schæf. Ut unum locum o
Latinis scriptoribus laudem, apud Terent, legitor Heuut. Act. I. 8c. L v.
17« Nunquam tam mane egredior, neque tam vesperi domum revertor^
quin to in fundo conspicer fodere aut arare ant aliquid facere denique,
<jvr tl 8 v, seqq. An notat Stallb. ad h. 1.2 a Alludit ad
II. X. v* 224.," unde suum hausit Ruckertus scribens satis
negligenter: Hom. II. x • 224. Pro Xpo o tov,
qua^iFischeri confectura est, libri exhibent ad unum omnes itpo ddov,
'O tov antiquitus disiunctim scriptum cui% seriore tempore
coniunctim, ut lit, ederetur, ad mutationem aapte figura pellexit.
Ceterum Xpo o tov nou debebat Stallb. convertere alter altero
melius. Socrates controversiæ pertæsus, et sibi et Aristodemo excusatione opus
esse concedit. 'Sibi, quod invitaverit, illi, quod audiens
luerit vocauti. Sensbs est: Inter eundum tu milii, ego tibi, quid otrique
dicendum sit, prospiciamus. naxa xijv o 8 o'v iroptvEoSai. Habet
Ficinus: Socratem cogitabundum lento nimis passu gradie ntem
exspectasse sæpius, tandem iussisse Socratem, ut præiret. Enarratio hæc est,
non conversio verborum. Ficini verba qui accuratius examinaverit,
mecumj& ^a\ suspicabitur fortasse, Græcira po -3 verbis oliro
infuisse, quod O r/J ce uti orum cura sublatum, magna»? ;&
££ molestias Ficino excitaverit. i it e 181 } Sh y evs 6
$ Stephanus iyiveto scribendum coniecit, Wolf. do ellipsi 6
vvi{Stt verbi cogitavit. Ut irttidr? yevidSai, ita panllo
infra ei&vf 8 * ovr &>> I 6 etv. Hæc structura virtus
admirabilis est Græcæ orationis, qna efticitur h. 1., ut et de
prioris narratoris vivaci- ^ tato, et de alterius narratoris
• >* ov xeXevuv ngoiivai tlg to XQoOdev. htubr t ds
ytvlo&ai hd t)j olida rrj 'Ayaftavog, dvcayfuvt/v xatæ Xafi flavetv xrjv
&vqciv, xal u Mtpij ccvzo&i ytloiov naftuv. ol (llv yag tvdvg naiSa uva
IvSo&cv dzavti/ fide, aliena, non sun, exhibentis, lector
admoneatur. Exempla huius structuræ plurima iuterpp. ad li
I. laudant v. c. Piat, de rep. X. 617 . D. d (paS ovv,
iiteidi/ d<prx£d^ai, ev$vS 6elv ikrai itpds ttjv Aaxtdiv. 619.
C., 620. D, 621. B. Ceterum in tota hnc enuntiatione infinitivi
imperfecti 'et aoristi alternant ita, ut aoristicum tempus actiones
momentaneas, imperfectum durantes actiones denotet. ol p$v ydp.
lloc legitur in Bodl. aliisque codd. non paucis. Inceptæ stmeturæ
potestatem, de qua modo dictum est ad ijteidt } yivkdScti, misere
turbant rov plv verba, quæ olitn pro ol yiev edebantm. Facere autem
non potnit Apollodorus, ut, cum Aristodemum paullo ante loquentem induxisset,
nunc desubIto ipse in sc reciperet illius orationem, id qnod X 6 V
piv scriptura efficitor. Recte igitur editores ol piv Platoui
vindicarunt, quod et Photius præbet in Lex. s. v. ol. Habet enim:
ol itepidTt&fi&vcoS dvrl t ov kccvxdr dZvTuvcoZ di ouroz*
dvpTtodiov ol plv ydp ev S vS itaibd riva luv ivSor (?)
ujTocvtijdetvta. xal xaxaXapfidvetv. tToc loco ne quis cum
Ruckerto arbitretur, quod in antecedente orationis membro obiectum
sit, Sn hoc subiectum esse yiaraXapftdvsiv verbi : aytiv abso1ute
positum eat. Structura verborum hæc est. ?.<prj ol ditavxj)riavTa «ruida
dytiv, h. e : dixit, puerum, qui obviam venisset sibi, ducem
fuisse udeurn locum, ubi ceteri cousedissent, et £<prj
xaTaXapfidveiv t/Stj Ceterum solebant Græci
verbi transitivi infinitivo, qui idem snblectum habeat, atque
verbum fiu tum, e quo peudet, subiectum nou addere ea fortasse de
caussa, nc dupliciter posito accusativo (subiecti et obiecti)
ambiguitas oriretur sententiæ, atque ut facilius obiectum aguosceretur.
cfr. Enrip. Piioeu.
v. SI. TCudiv ittUtoi TEhiir, ubi non addi potest pronomen personale,
quiu ambiguitatem sententiæ efficiat. Huius loquendi normæ adeo severi
arbitri Græci eraut, ut ne in intransitivis quidem verbis, quæ e dicendi
verbis penderent, accusativum pronomiuis casum iuiiuitivo oddi
paterentur. Ubi autem pronomen ponendam erat necessario, ut in Piat.
Parra, 127. 1). nominativum posuerunt, nou accusativum : .at>roV re
ETteifeXStir $<prj o IloSodupoS xal rov ILxppevlSrfy.
evSvS 6* ovv. Mtv et 6e particulæ ita plerumque adhiberi
soleut, ut duorum verborum, quibus apponantur, mutuum relationem iudiccnt.
Relatio hæc esse liequit nisi inter verba, quæ suapte natura
possont alterum ad alterum referri. Adhibentur itaqne, ubi nomen
nomini, verbum verbo, particula particulæ respondet. Igitur nostro
loco scriptum exspectaveris, quoniam ol vocuU nominis» proprii locum
obtinet xrMnozioM. 23 ilavxa cfyuv au xaxixuvxa
oi aMoi, xai xutakaujia vuw y8rj (ittlovtas deutvBiv. tv& i>s 6’
ovv tog Iduv tov ’Jya&a)va, tpctvcu, '^iQiaxuSyfis, elg xa/.ov
yxeig, Zlxeog evvdunvijOjii' sl 8’ aXXov xivog evexa
yX&ig, ei ulv xur Si 'AyaSava.
DeIlex isse autem scriptor a consueto harum particularum usu
videtur, quod enuntiatio itu conformanda «rut, ut non solum ol
responderet sequenti xdv 'AyaSuvct, sed «tiam evSvS ad sequens
tv$vS referretur. Duplicem hanc relationem indicare tantummodo scriptor
potuit, revera exprimere non potuit. Scripsit itaque ol pkv U'3 vS 6£. Sed quoniam hac di«endi ratione nou
sublata quidem et prorsus deleta, sed turbata tamen atque imminuta
est vis relationis utriusque ol pty roV 'AyaSooya et rvj&vV ptr r— tvZvS
6£l ne singula totius «•nuntiati membra dissoluta viderentur, OVY
particulam scriptor adiecit, quæ ut contiouandi part cula est, ita
membrorum hiatum explet commodissime. Simili ratione scriptum reperies
Apol. 8ocr. init, ott p\v vpeif, oj avSpeS ’A$7/vatoi,
xexovSaxs vxd xc ov £/i6jv xaxr/ydpav, ovh ol6a * £ y o> 6’ ovv
xat avxo$ xnt auioov oXiyov ipaviov £xeAxxSopJfy. Qno loco non
vptlS ptr £yoj 8£ Plato
scripsit, quod inceptæ enuntiationis ratio «tiam o xt ptv dsivotaxor
8t flagitabat. OvY priori particulæ additum reperies Symp. 176. B. £y co
plv ovy \£yoo vplv dxt reo ovxi rtdyv jtfÆ*rcJf 1'xo* vxo x ov
xoxov y* a$ 6iopm dvaipvxy* xtvuf, olfiat 6* xa\ vpaiv tovS
«roAAoirf, quo loco chiasmi ratio, qui plerumque in Uuiosrundi locis
reperitur, iyoo non ad A iyes docet sed ad ^aAtTrciiS’ ^gj referendum
esse. interdum ovy particula omittitur in hoo dicendi genere de
industria, ut repugnantia quædam voluutatis exprimatur, verboruraque
relatio minus sibi respondentium deuotet id, quod apud Homerum Cst
Ixc Jy atxovxl ye Sv/igj. E.g. Piat. Ep. VII. $25. A. TtaXiv 61 fi
p a 8 v x ep ov plv,El\x8 8 £ pe ojucof 7 } 7iip\ xd TtparxEiv xd
xoiva >t<x\ noXixixd txiSvpla. Adde Soph. Oed. C. v. 521. i/YEyxoY
xax6xax\ (u B,ivot, ijveyxov, dxaov plv, $£C>V ioxeo, xovxgjy 6
* avSaipETOv ovStr, quo loco Reisig. axojy pav scribendum couiccit,
Dubito, unm rect'. Pessime autem alii docuerunt, supplendam esse
post ukgov ptr IxaJy 6k oi/. Ceterum huius structuræ exempla
permulta rcperiuntur, quibus ellectura est, ut scribæ interdum 8 * ovy
ponerent, ubi y ovy a Platone exhibitum est. E is xaXov 7/ X EI S, d X G0> 6vy 6et7tY i/ 6y$. Fortasse
e Dawesiana illa lege, quæ cum couiunctivo aor. I. vetat oXgjS
couiungi, Bekk. v* tivvSet XYt/dEiS coi rexerunt. Frustra.
Stallh. nnnotut ad h. 1.: Vulgatum dx coS 6vv8ti7tvrj6ff>
mutari, non quo coniunctivum aoristi primi soloecum putaverim, quæ
fuit Grammaticorum quoruudaro opinio, sed quod luturum rei ipsi m a g
i s accommodatum sso videbAter. Continet «eim klgccvft ig AvuftccAov
' cog nccl %$zg {tytcSv (Jfc, i-va xctAadccifu, oi?£ olog ** ^ Idslv. aM.cc
IkaxQcctr] 7j(iiv icdig ovtc aysig; Kal lyu\ iq >rj
fisra<5TQEq)6pEvog, ovdafiov uqcS UaxQatT] iitofievov. eItcov ovv, ott
xal avtog Utra UcoTCQatovg ijxoifju, xXrj&elg iri Ixrivov Sevq
Ini cohortationem Aristodemi, ut epulis iuteresse' velit, adeoque
indicat, Agathonem persuasum habere, hoc ab eo factum iri. Nam in
invitandi formulis Qræci sempcr post O7CG0S iuferuut futurum
tempus, nunquam coniunctivum aoristi. Scripsit autem V, D. elS
xaXov fjxetS* oxqjS 6vr&£i7tv?j6EiS. Efficitur autem hac verborum
disjunctione, ut Agatho, ceteroquiu homo elegantissimus, parum
honeste nunc egisse videatur. E Stullb. sententia convertenda sunt Agathonis
verba: Schon, dass du gekommen bistj •peise nun mit! Hoc non
tam est vocare aliquem ad coenum, quam exprobrare alicui tecte
adventus temeritatem; quasi non per se intelligatur, eum, qui advenerit,
una couvivari. Rectior explicatio hæc est : Du kdmmst gerade noch
zur rechteu Zeit, um mit uua zu essen: hoo modo præposteræ
invitationis odiosa commemoratio vitatur feliciter et rectius simul verba
explicantur : Hi xaXov rjxeiS. Scidas habet: ds xaXov ' evxaipaS. Recte,
cjS xal Urbanitatem Agathonia ex his verbis coguoscas licet.
Sensus eat: Si alius, rei gratia huc profectu» es, in posterum di f
fer; idem enim et ego facere coactus eram heri, cum te quæreiem,
ad epulas ut‘lnvitarera, te nusquam terrarum conspiciens.
ovx olo S t ij 18 eir. Stallb. addito verbo nullo f\Y edidit,
quæ vulgata lectio est, pro rf . Acute Ruckertus: confirmare V
lectionem videntur etiam libri i»» qui plane omittunt verbum,
quod fieri non potuisset, nisi v abesset, ut interire rf in sequente
r posset. Vide quæ annotata sunt ad 9. dXXa Swxpdtij &yeiS,
Rogat propterea, quod scit, eum semper cum Socrate esse, R iickert Vide
ad 173. B. quæ annotata sunt. Ut illic ex epithetis, ita h. 1. ex
Agathonis interrogatione colligere licet, Aristodemum Socrati amicissimum
fuisse, xal lyv,l<prj fieradt pe<pu pevoS, X, t. A. Comma
potu i mas post peraCfpetpoperoS, delevimus, quod in omnibus edi*
tionibus exstat, post i<prf, quo deleto sententiæ vigorem auctum
habebis, et errorem Aristodemi descriptum vividius. Sensus est :
uud ich, sagte er sich mndrehend, / sehe nirgends den Socrates mir folgen. Si
qui snnt, qui post Hqtff interpurfetionem flagiteut, /iiprjpacToS
gratissimi severi osores, non repugnabimus quidem: hoc certam est
tameu, nostra interpunctione lepidiorem Ari»todemi orationem fieri.
Ceteium lineolam post pe%adtpe<po ETMI10EI0N. dst Jtvov.
Kctliog y', %<p?l, nouov <Sv ' «Aia srou Itiuv ovzog ;
Om6&bv ifiov &q n dgyu. alXa ticcuud^a xal avxbg xov av eti]. Ov
axitpu, H<pr), itai, cpcivai 175 zbv 'Ayaftava, xal tlga^BiS
Saxffavtj; Ov 8’, rj 8’ os, 'AQiazvdrftis, 7ta(j 'Eov&tiaxov
xaxaxllvov. peroS ponendam cnra?imns, nam per aposiopeain
xal iyco verba posita sunt. Dicturus nimirum' Aristodemus erat: xal
iyoo ijxco avxoS pera ScaxpdxovS, converso autem ipsi inter
loquendum, quoniam Socrates nusquam comparebat, præ stupore lingua hæsit*
Paullo post animo resumto, ut orationem interruptam expleret, xal iyco
repetit ita : ehtov ovv, oxi. xal avxoS //era 2co~ xpaxovS rjxoipi
h e. : ich sagte nun, dass ich ja anch gekouimen ware, ich
rait Socrates* Male Stallb,, quem Riickertus secutus est, xal
avxoS verba arctius coniungenda censet atque convertenda : dass ich j a e
b e n mit dem Sotrates gekommen ware. Ceterum aikxo-S pexa 2arxpaxovS h.
1. dicitur, ut sexcenties alias v* c. in Xeuoph. H* Gr. 2. 2. 17.
scriptum legitur: psxaxavxa ypi$Tf npedfievxtjs is Aaxedatpova
avxoxpdxcapfd exaxoS avxoS. Numerus ordinalis, quem vocant,
StvxEpoS nou additus est nostro )oco, quod addito Socratis nomine plane
otiosus erat atque inutilis. xXijSelS vit ixeivov .
Facit Aristodemus, quod facturum se esse indicaver.it 174. D. ooS
iyoj phv ovy opoXoyijdta dxXrjxoS ijxeiv dXXd vito do v xexXrj pkv
oS. xaXcoS y\ £<ptj, rtoitov dv * aXXa x. r. A. Octo
Bekkeri codd. yi omittunt; qnf qno sunt melioris notæ, co
studiosiores editores in expungenda purticula fuerunt. Fi
particulam Platoni restituit doctissimus Stallb., quem Riickertus
secutus est, motus Uterqne constanti usu yi particulæ in hac dicendi
formula apud Platonem. Lundat Stallb. ad h. 1. Charmid. 156.
A. xaAcSff ye dv, ipr 8* iyoS, ir otior. Hipp. M. iuit. xaXcoS ye
dv voplZoov. Lnchet. 192. B. op-\
&<oS ye dv X iyajv. Theæt., D. o p$coS ye XeycjY.
Lysid, p, 204. A. xaXtoSy, tjy 8*iyco f itoiovrxeS, quibus adde si
placet exemplorum congeriem, quam addidit Riickertus in edit. Symp, 17* Convertenda verba sunt: Bene quidem, inquit, factam a
te, sed abigentium est ille? xal avtoS. Addito xal iudicatur,
magnopere mirari etiam Agathonem ( aXXd nov edxtr OVXOS ;")
absentiam Socratis, Minus igitur placet, quod in uno cod. Paris, legitur
aAAa xal $avpd$a>, neqne videre possum, cur id in textum receperint
Astius et Reyuders. . Ficinus habet . * quare ipse qnoque
miror, nt eundem legisse suspiceris < aXXd xal avxoS SabpaZ co-,
quod cum correxisset, serior manna xal avxoS ponendo post
SavpaZa> f factum est fortasse, ut 4 xal remaneret ante
$avpd?,ca. ov dxllf>€l. Futurum cum Cap. III. Ka\ 2
fiiv Scprj dnovltuv tov aalSa, T va xaxaxloito' aV.ov is uva tajv naiSav tjxuv
dyyUkovta, negatione iu interrogationibus adhiberi solet liaud
raro pro imperativo, Potest adiuncta esse huic dicendi formulæ
indignatioliis* iræ, clementiæ notio, prout verba pronuntiaveris.
Servitutem clementem apnd Agathonem fuisse servis, verba docent p,
175» B. itccvTcoS icapaxi^ETt oxt av ftov XrfOSe, iytstdctr ns vuir
MV ifpeSttjxy • d iyv ovSencdxoxs iirobj6a et q. sqq. Verba
convertenda sunt igitur nostri loci: Wil 1 s t du nicbt einmal
nachseheu, •agte er, habe Agatbon gesagt, and den Socrates hereinfiibren
? xrrl J?jukr x.t.\."E p£v Bastii cprrectio præclara
scriptnræ Vulgatæ xa\ ifif, quam hodie nemo explicabilem indicabit.
Probatur his verbis, quod supra annotavimus 22., ad evitandam
ambiguitatem Græcos personale pronomen omittere solere In transitivorum
verborum infinitivis, qui e dicendi verbis peudeant idemque, atque illa,
sublectum habeant. Efficitur autem hæ loquendi norma h, 1., ut puer
Aristodemum abluisse dicatur, non vice versa puerum Aristodemus, quod Græce
audiret; xal leprj axorifieir ?ov Konda. Puerum li e. servum quod
attinet ; fitallb. toV itaidct videlicet, inquit, quem antea
compellaverat. Riickert. : 6 itaiS est h. 1. is 6errus, a quo supra
Aristodemum introduci vidimus. Neuter satis recte h. 1. articuli
vim rnlerprtUtar. 'O raif «t petius servus, cui pedum lavandarum
officium mandatum erat. SVa xax axioix o.
Modus optativus cum particulu finali couiuuctus satis demonstrat,
duoruteir non præsentis tempuris, sed præteriti infinitivum esse.
Vide ud p/ 7. quæ annotata sunt. Imperfecti participium habes 174. E.
&•£oxal t ur (>£ iva xaXcdtxifji x. r. A. In vett.
editionibus scriptum exstat ira 7Cov xaxotxioixoy quod nullo modo
lcrri potest. Depravatiouia fontem felicissime Stallb. indagavit. Cod.
nimirum Flor., littera a apud Stallb. insignitus, 0 7 tov.
habet ty a xaxaxeotxo. i r x gJ t cor ysixor o»r
npoSvpu). Vitruv. Arcli. libr* VI. 10. 7Cp6$vpa, inquit, Græco dicuntur,
quæ sunt ante ianuam vestibula. Addendum est, itpdSvpcc non nisi
privatarum ædium vestibula esse, publicarum ædium vestibula
TtponvXaia Græce vocari, Minus apte igitur Schlcieriu. npdSvpor con
vertit : Vorhof, quo verbo npoTtvXaia indicantur. Narrationem quod
attinet Aristodemi: Socrates inter proficiscendum meditatus, cum prius
itiucris, quam cogitationum fiuem reperis— •et, ad vestibulum vicinæ
domus deverterat. xapov xaXovvxoi. Ilacc est vulgata
lectio. Codd. non pauci xal 6ov habent, Eekk. ex optimorum
auctoritate codicum edidit xen or>j caiot patt«eini«na ot* SmxQcttTjs
ovtos «vajjopjJtfas Iv xta xiov yutovav ZQofrvQip tOtrjxe, xaftov
xukovvxog ovx i&tte tlsi&vtu. "Atoxov y', s<pi], kiyug '
ovxovv nutes uvtov xul (tri utprjGBis; Kal og 'iqirj tlittiv, MijSufica
s, ukX iuts uvtov. B suscepit !n Epliem. Litt. Ienens. Jul.
1852, N. 1SS. censor Riikkert. editionis : a Fragt es sicli, ob hier g er
ad e Red e odor abhan£ i g o besscr sei, so ziemt die Jelztere mehr darum,
weil sie das i 11 den Vorder- und das iu den Ilintergruud der
Uuterhaltung Gebdrige schon abstuiend die das Gesprach der
lJuuptpei*soueu unterbrecheude Meldung des Sclaven glcichsum
episodisch zuriickstcllt. Und gleichwie diese Form auch iu dem
Uebrigeu hervortritt, indein 'kein H<pjj einfiilirt, so sprechen fur xa\
ov, aul' welches wir schon durch innere Griinde hiugewiesen werdeu (?) i
auch enlscliieden dio besteu llandschriiten, welcben llekker mit
Ilecht gefolgt ist. Dcnn auch das Einzige, woran cin Vertheidiger
des xdfiov sich konute halten wollen, das ovxoS bei ^LtDxpdcxrfS
vertragt sicli auch mit ungerader Rede : dass Socrates hier iu der Niihe
stehe.w llæc speciosius sunt, quam verius disputata. Quid, si ipsa
pueri verba scriptor exhibuit, ut, ad quæ omnes convivæ aures
arrexisse consentaneum est, eadem jm»e ceteris etiam emineant? Non
dispiciendum est autem, quid obstet, quominus xa/iov scribatur, præsertim
cum hac scriptura totius loci vigor augeatur incredibiliter. Iluc
accedit, quod Agatbonis verba atOTtov y\ &<pr}, Xkyttt et q.
seqq. ipsis nuntii verbis apprimo eoaveniant. Verba conrertenda
sunt: Eiu anderer aber von Agathon's Sclaven sei gekommen und habe
berichtet: Socrates der * steht beiseit am Hofraum des Nachbarn,
und ich rief ilin mehrmals, aber er will nicbt heroinkommen. ato*or
y, £<PV> XeyttS* Suut fortasse, qui scribi iubeant axoitov yk
xt, E<prj, XkyuS. Utrumque geuus dicendi in usu erat Græcis. Iu
formula axoxov yk xi y l<pT), XkyuS, XkytiS verbum transitivum est, ex
ecquo xl pronomen exaptatur, cui aroXoy est additum. Omisso t\
pronomiue atoxov adiectivum adverbii vices obtinet, XLytii absolute
pouitur ut nostratium sprechen; exempla si quæris huius usus, vide
sis Indices. Eadem dicendi formula explicatius perscripta audiret:
axoitov y, 2<p V, Xuyov Xiyetf, Felicissimo Si hleierm verba
convertit : Wundorlicher Bericht! habe Agathon gesagr. ovxovv
xaXetS aifrov * xal fu) a(pi/ <$iiS ; Vulgo male xotXel legitur,
paoci r.odd. etiam soloece exhibent u<pi]6yi pro aqtijOEiS*
Ovxovv vocem quod attinet, usu loquendi factam est, ut iu
interrogatione non ovxow, qnod ratio exigit, eed ovxovv
scriberetur. Igitur interrogationi conclusionem additam habes, quæ
voluntatem iubentis certissimo describit. Ceterum non possa I
fdos y&Q ti tovx' X%u‘ Ivioth dnoOtag, Znoi, 3v rvffl,
itSTtjxtv. $u Si avxixa, cog fyw olpcu. fir) ow nivtite, aAA’
lare. ’AkX ovxco %VV mas huius dictionis nisi hac ratione assequi
potestatem, ut convertamus: Du rufst ilio aiso uud lasseat uicht ctwu
von ihm ab. Mi/ particula quopiam non ea, quæ revera fiunt, sed rei
alicuius nonnisi possibilitatem, veuia sit verbo, cogitatam negat,
additis nicht etwa verbis commode redditur. Recte Hermauuus ad
Soph. Aiæ. /at/ sic positum dubitativdm esse docuit. l$o? yap xt
tovx* Cave otiosum censeas x\ pronomen. Priscian. XVIII. 1208.
costro loco exemplo utitur, quo demonstret, Atticos scriptores interdum
x\ pronomen abundanter adhibuisse Iu Platon. Hipp. M. V* 287. B., quem
locum Stallb. laudat, eandem enuntiationem reperies verbo immutato
nullo. Facit inprimis ad agnoscendam xt additi potestatem Thuc. 1. 132.
*ApyiXio? Xvet x ds inidxoXa? vnovof/da? xt x oiovx ov
TtposeitedraXSat x. r. X % h. e. Argilius cum suspicaretur, harum rerum
aliquid imperatum esse et q seqq. Adde Pl. Syrop. 191. A.
fX<AY XI TOlOVtOY OpyUYpY, olor vl dnvxoxopoi. 194. E.
onoio? di xi? av roV oav xavra id&pi/daro. Gorg. 472,C. idxi
pbv ovv ovxoS xt? tpoito $ iXiyxov, ei? 6v xt olet nat aXXot noXXoi
. Hom. II. 9. . 11. xovxo xl /tot xaXXidxav M <ppedlv
eldexat tlvat. Verba nostra convertenda sunt: dat ist «o teiue
Art; okoliIv, il <Joi Soxu, (pavas ort ot av rv XV H. e. d« • istens interdum, ubicunque
locorum est, ibi consistere solet. Quando iudelinite loquuntur Græci,
cum' verbo finito quietem significante, non quietis sed motus
uotiouem coniungere amant. Ut igitur de certo loco dictum supra est
Sdfij7<EY lv rcJ TCOV ytlXOYt&Y 7CpOSt Logo, ita nunc, quoniam
certus locus Aristodemi animo non obversatur, Znoi non Znx/
rectissime scribitur. Illud meliorum codd. auctoritnte confirmatur,
hæc vulgata lectio est, quæ etiam rvxp habet pro rvxot. Ali. ratio
eat verborum c, I. 173. A, X po rov Se xeptrpexuv oxy rvxpipt
(«c.. xepirpixuv ) ubi posito rvXOipi sc. xeptrpexuv, verbo motum significanti
admugitur notio quietia. Adde Piat. Phæd. 113. B. ov hcA oi fivotxf
s anoOxdSparadvacpvSuSiv, ot iy av rvxarfi rrjs yyS, quo loco ad
Tvxatdtv supplendum est e præcedente verbo finito participium motum in
aliqnem locum sigivJA ficans ararpv Purus. Aiioch. 365 C. artioxet
61 SioS :n ti otfpypopai roSSe rov <puroi xai ruv dyaSur, ætSti/S
te xa l axvPtoS dxoixote xeioopai Orproftevos, eis evids nat
xruSa.la perafiaMuv. de repi IX. 589. A. uste t^xeOSai oxy dv
ixdvuv oxorepor dyp. Ibid, VI. 492. C. qtepopivtjv nata (Sovv, y av
ovro s <pepy. prj ovv xivelxe, aAA’ iaxe avrd v. Valgo
xivffte exhibetur, quod Grammaticorum tov 'Aya&ava. ukX fjpccs, eo xaiStg, rovg
aM.ovg £< Jtt « T8 ‘ Ttavtas xccqcitI&stb S u ixv ffoviija&s,
Ixudav t ig v/iiv fifj hpte vtjxu' o iya ovSeikoxotb ixohjoa. vvv,
præceptis repugnat. Aristodemo* autem cum supra dixisset aAA* idxe
ccvxov, eadem verba nimo repetit cuqj vi maiore, quod servos Agathonis,
dicto heri audientes paratos adhuc ad vocandum Socratem animadvertebat.
Ceterum e xtrnr verbo facili negotio Socratis meditabundi imaginem lingere tibi
possis. AftreidScn nimirum dicitur, quod ipsum se non movet. Ad Socratem
adhibitum, hominem ostendit sine motu dantem atque rerum externaruimoblitum,
qualem, descriptum legimus infra 220. C. cfr. 218. C. xal
eheov xtrt/daf aVxcrr, quæ verba de eo dicuntor, qui sine motu
iacet atque somno quasi sepnltns. Adde Pl. de rep. I. 829. D.
xal iyoj aya6Se\s ctvrov einorxoS ravxa, fiovXo piros hi
Xkytir avxor ixirovr xal ditor x.x.X. Consentaneum est, Cephalum^ finita oratione, rem, de qua dixisset, secum
reputantem, sine motu sedisse, qua propter ixivow avxor Socrates
ait. a XX ovrct) XPV • v *d. 9,, ac annotata sunt 12.
Addendum est h. 1., discrimen, quod ad p.* 178. C. inter XPV et cx
” stare annotavimus, non dbique apud Platonem exemplis
probari. Reperiuntur enim loci, obi Sii pro XPV et vice versa XPV
pro 6sl adhibetor. Ne igitur Prodici sophistæ instar nimia sedulitate usi
esse videamur in indagando verborum discrimine: hoc certissimum est:
nusquam reperiri in una eademque enuntiatione verbnm ntrumqne, quin
alterum necessitatem exprimat, alterum inservientem necessitati voluntatem
denotet.' navtcoS it apaxiSets. * IlapaxiSedSai dicitur de
cibis et mensis, ut Lat. apponere monente Stallbaumio in
annot. ad Piat. Pol. 854. B. In aliquot codd. reperitur xovS aXXovS
idxiaxe ndvxaS xal itapaxi$ixc % * quod, Thierschio, Reyudeisio,
Ruckerto, probatur. Male. Nihil enim languidius xovt aXXovf ndvxaS verbis } correxerunt autem olim
ita, qui de narxoaS vocis explicatione desperarent. IJdrxaiS 9
inquit Riickerlos, habet, quod offendat. Quid enim sibi vult ly 1.
omnino, iiberhaupt? Cogitatione arctius couiungendum est izarxwS
cum oxi ar fiovXv6$£ f ut respondeat nostratium; Thut ganz, wie ibr
wcllt, setxt vdlJig vor, V.U3 euch beliebt. iieeiddv xi s
vp.tr pif iipedxtjxy . Satis colligitur e lectiouis varietate,
doctos homines iam antiquitus do huius loci explicatione admodum
dubitavisse. Vix commemorandum est vpir, quod in aliquot codd.
reperitur pro vpir: gravior varietas est in verbo i<pEdxt}xy. Pauci
sed optimæ notæ codd. iq>idtrjxei exhibent, tres atpe6xtfX7f, unus
itpetdxijxu, alius itpidtrpiE commendant. Stallb. convertenda verba
censet; quum nemo vobis præpositus sit, id quod ego nunquam
feci, In Scliieierm, conversione 30 ijaatqnoz
ovv vofitgovxis xal l/ii v<p vficov «fxX fjo9ai ixl dtZC xvov, *«l
rovgSs rovg u/J.ovg Qtgaxeutts, iva viiag httuvaftev. Mtxu xavxa iqyrj
oepcic; (iiv dunvtlv, rov di ZcoxQocnj ovx slgdvau xov ovv 'Aya&ava
ita/j.uxiq xilivetv aaaxlii^ttOdM xov ZtoxQtxit], X di ovx iav.
legitor 889.; trogt aof, was ihr wollt, wenn euch doch
Niemand Befehl erthcilt, was ich noch n i e • mnis g e t h a n habe.
Riickertus verba convertit : Apponito quæcu nque vultis, quam nemo
vobis est præpositus. Ficinus, cuius maxime conversio probabilis:
Ceterum vos, o pueri, aliis epulas afferte, et, quodcunque
lubet, apponite: vobis si quidem nullus præsidet. Sed nmn credibile
est, herum, qui revera neminem servis suis præposuerit, dixisse: si
quidem nemo vobis præsidet? Plato scripsit fortasse iitt i, 'r av, x\S i
' ptv MV t*P E ’ tSrjjxp h. e. nam, pueri, aliquis vobis ne sit præpositus.
Atque ne cui maior videatur huius s'cripturæ audacia: scriptum exstat in
omnibus codicibns 174. D. itpo odov, ubi manifestum est, Platonem
vtpo 6 xov exhibuisse. Ceterum pro ppdtii cum vi ponitur h. 1. r\S jJ7j ita, ut r is per euphenismum dicatur. Sententia est: diros aliquis homo vobis ne sit præpositus. vvv
ovv vopi£ovteS seqq. Laborat hic locus ex interpunctione mala, quam ut
ceteri editores, ita huius libri iaterpres celeb. Schleierm. immutatam
retinuit: Denkt also, auch ich wiire von euch tum Gastmahl
geladen, so wie (?) die Andern, uud bedient uus so. Commate post
xovS aXXovS deleto et posl ini Selnvcv posito sententia verborum hæc est
: nunc igitur me quoque ad coensm vocatum existimantes, me et ceteros,
voa ut laudare possimus, curate. Ac ne cui mira videatur ijti
pronominis omissio, dicturus Agatho erat: vvv ovv vofiigovxsS xal
ipk v <p vpavV%KexXrj6$ai ini Setnvov Sepanewxe sc. ijifc Sed
quonium non tam se, quam convivas servis commendaturus erat, ea
dicendi ligurii utebatur, quæ omisso ipi pronomine inprirois convivas
curandos ostendet et. Haud dissimilis est nostro loco Piat, Pol. I. 329.
D. xal iyoo fiovXupEvoS Exi Xi~ yeiv avx 6 v ixivow xal tutov
x. x. X.£ 61 ovx iav. Bekk. ex aliquot codd. d intextum recepit,
qua lectione oppositionis ratio turbatur, vid, Malth. Gramm. pl. f.
536. 1054. annot. Ut hoc, ita t spernendum est, quod non recepisse
in textam frustra Bekkerum piguit. Equidem Ruckerti iudicio subscribo,
qui in aunotatione ad h. 1,; Egit, inquit, de hoc ignoto nominativo
pron. pers, Buttm. Gr. pl. I. 291. T. II. 413. seqq. allatis testimoniis
grammaticorum, quibus id quidem edicitur, ut vix liceat dubitare,
quin exstiterit ea forma apud Atticos scrl- fytiw ovv avtov ov nokvv xqovo
v, cag da&n, HuccqIipctvtcc, dlka (iah6xa 8(pa$ peOovv dHitvovvtag*
xov ovv 'jiyafravcc, tvy%ccvuv yccQ £<fyarov xazaxei[iBvov t (iovoVy
sdtvQ, %(pij q)uvcu> ZaxQccreg, 7tag ips xatdxBuJo, tvu xal tov
fSotpov [ajtxofuvog tSov ] c#oAav<fo, o tfot D ptores, Ternra nt
recipere liceat alio loco, ubi codd. desit auctoritas, non
efficitur. Quare cum in tot scriptis Platonis ne uno quidem loco,
quod sciam, ullo in codice hæc forma occurrat, haud scio, an recte
inde colligatur, ab hoc certe scriptore eam prorsus alienam esse. Ad
verba izoWaxiS xeXtvetv annotatum est ia Symposii ediiione Wolfiana
Lips. 1828, 13.2 TtoXXdxtf xeXevur xnuss vom bJossen Wollcn
genommen werden, wie das Folgende zeigt. Male, Sensas est: Agathoa habe
wirklich oftcr den Befehl gegeben, den Socrates herbei zu scbaifen,
er aber habe es nicht gestottet. xov ovv’AydS<avct,
rvyXceveiv ydp x. r. A. Haud raro apud Græcos scriptores ea pars
orationis*, quæ caussam continet alicuius rei, ei orationis parti
præfigitur, qua res ipsa continetur. Huius usus exempla ai quæris,
adi Mattii. Gramm. pl, $. 615. 1242. Exemplo est etiam hic Jocus,
quo prius commemoratum est, cur Agatho Socratem vocaverit, quam id ipsum
dictum sit, Agathonem ad se Socratem vocasse. Nollem tamen huius
loquendi usus severior art biter exstitisset Riickertus,* qui ad h. 1. hæc
annotat: c Quod nemo, cui vehementiorem dederit natura
animum, non, ut ego opi* nor, experitur, scribendo exprimere omnes
verentur, Græci, quorum nondum regulis esset adscriptas stilus, licere sibi
putabant, nt inchoatæ sententiæ aliam insererent mediam, qua illam
vel explicarent vel probarent priusquam totam legisset audivissetqne, ad
quem dirigeretur. Quamquam apud Herodotum, apud quem exsurgens prosa
oratio nullodum freno tenetur, frequentior hic usus, quam apud seriores
prosarios scriptores. » Quem, quæso, nostratium offendet Platonicorum
verborum conversio hæc : • Agathon nun denn zufal liger Weise habe et
allein am letzten Tische seinea Platz gehabt hatte gerufen: Hierher,
o Socrates u. s. w . Hdxatov xat OLxtiptv ov 9 pQYOV,
Interpunctionem ponendam curavimus post xatocxttps.yoy, ut, qui ultimæ mensæ
accubuisse dicitur, idem significantius* solus fuisse perhibeatur. Festis diebus pluribus mensis utebantur Græci, singulis autem
non nisi ties convivæ accumbere solebant. Hinc nomen triclinium
ortum. Iva. xal tov 6o<pov [aitto pevoS Oov] aito A pcv 6ao, Ia
paucis sed melioris notæ codd. v, c. in Bodl. omittuntur verba
ctittoptvds 6ov, quibus negari nequit, orationem paullo rigidiorem
fieri atque incomiorem. Nam duobus geni- jrpog&frij totg jrpoO-upoig.
djjAov yap ott tvpsg auro KKt i^Etg • ou.yap «v nQoaxiattjs. Kal rov
EcJXQiaij xa&t&6&at xal ilitslv, on Ev uv fyoi, tpavox, m
’Aya&cov, tl xowvtov rfij rj Gorpla, togr’ bt rov nk^oiortoov lis tw
xivwtQov quv •fjfibv, lav ciTtzojju&cc akh)Xav, tivis divertas
relationis inita positis facile fiet i possit» ut verba falso
construantur: tov do<pov dntdpEvoS dov ano • Xavdoo. Omuia
bene haberent, ai scriptum exstaret: tva anxopevoS 6ov tov dotpov
anoXavdco, o doi nposidxy x. r. A. Videlicet Agatho dnxEdSai xivoS
tropico sensu h. e. de sedis vicinitate intelligeret, Socrates autem
verbum premeret pro more suo satis festive, atque de contactu materiali
intelligeret. Fortasse anxopevoS dov verba e Socratis responso huc
translata sunt, atque in sede minus apta posita. Uncis eadem
compegimus, ut quibus deletis Agathouis sententia plane non mntetur,
et flumen orationis minus retardetur. Verba convertenda sunt:
Hierher, Socrates, zu mir lege dich nieder, damit ich zugleich der
W e i • -heit froh werde, welche vor dem Hofr&um ‘der N a ch b
a rs chaf t dir beikam. Iam quo sapientiæ laudem in Agathonem
converteret, Socrates posito pro xaxaxEidSai napct xiv a verbo
dnrsd^ai rivos, respondit, ut Fiemus quidem verba convertit: Bene se
res nostræ haberent, Agatho a si sapientia talis esset, ut in
vacuum hominem ex pleniore ipso contactu proflueret, quemadmodum «qua ex
pleno calice io vacuum per lanam influens. Si enim
sapientia ita se habet, permolli facio, quod apud te se* dto,
repleri quippe abs tc uberrima et præclara sapientia puto. oti yap npo anedxyS. Sensus est; non enim ah eo investigando
abstinuisses prius, quam id reperis se 3 .^ Supplendum igitur est: y
EvpeS avxo, non ut Stallbaumio visum. est, ei py EvpES avxo . Negari
nequit, interdum npo præpositionem comt veibis consociatam temporis
rationem eum indicare, qua aliquid prius fiat, quam aliud quid
evenerit, cfr. Piat. Gorg. 454. C. onep yap Xiyco y tov k%yS
Ivixa nspaiysGSat tov \6yov i pando, ov dov ZvExa y aX A* Zva py
ZSiZojptSa vnovoovvxeS npo apnaZeiv dXX.yX.cov td Xtyopeya x. r. A.
Possis hoc modo explicare etiam notissimum versum Hom. II. a,
$. noXXds A* ixpSipovS iftvxaS dtdi npotaipev ?}poocov,
quo loco npoidnxeiv significet aliquem prius, quam exigat natura,
in Orcum demittere, validum florentemque ætate necare. Vides, quam bene
huic notioni conveniat Z(p$ipoS epitheton, quod proprie ad ypcooov
referendum est. Adde II. XI., 55. f noXXaS ltp$ipovS xe<paX.aS
a£6t vpoidipeir- Priore versu usos es,t Luciun. in epigr. 24»
Anthol. Gr, lacobs. T, II, 25» medicis :w $
&SMQ zi Iv zaig xvh!-iv &8 g>q zoi (5«? zov IqLov Qtov lx ttjs
irbjQSiStsQas eis tfjv xtvarsQav. d yaQ ovzcog fyu xal tj Gotpla, nollou
ziuiofiai r rjv xaQ« Coi xazct- E X/UGiv’ olfiat, yaQ fie naga Gov noli
fjs xal xabjg Go~ tpiag nXrjQa&rjGEG&ai. rj fitv yaQ ifiri
tpavltj ztg av illudens adeo festive, ut mihi non
obtemperem, quin totum epigramma hic perscribam: 9 Iijtrjp xi i i
pol xov lov tplXov v\6v IrCEjnpEV, coite pa$elv nap' i pol
xccvxa x d ypapparixd. c oS Sfc to pijviv æi8e noti aXy&a
pvpi HSrjxev lyvco, xal xo xpitov xoi68 9 axoXovSov Inoi,
noXXai 6 * ItpSipovi ipvX a S et 'i 6 i n potarfi ev, ovnhi piv nipnei
npoi pe paSrjdopevov. aXXa p idcjv 6 narrjpj 2ol plv Xapiij
einev, hraipe • avxap 6 notii nap e pol xavxct paSeiv dvvarai
• xalyap iyoo noXXai rpvxdi didi npoYantaj xal npoi xovt
ovdev ypappatixov 8iopai . e ii xov xev ojxepov. Hano Wolfii
coniecturam nonnullis codicibus probatam editores receperunt ad unum omnes
excepto Itiickerto, qui eli xo xevcoxepov retinuit, annotans :
Platonem non de homine, sed de hominis mente cogitasse, ut eli xo x
% ifpGov esset id, quod inanius est in alterutro nostrum Artificiosior
est quam verior hæc explicandi ratio, qua nemo non videt nativam
orationis pulcritudinem corrumpi» 8ia xov ipiov fi io v. Horum
verborum explicatio recta Geelio debetur, qui hæc annotat in Bibi. Crit,
Nov. T. H. p, 274.: a 8ocratcs filum laneum significat» Nam verum
hoc eat, quum duo pocula sibi proximo adiunguntur, quorum
alterum aqua repletum sit, alterum vacuum, ac filum laneum madefactum
contiguis horum marginibus ita impouitur, ut pars immergatur aquæ, pars in
vacuum fundum immittatur, fore, ut aliquid liquoris tanquam per canalem
transeat. Hic lusus institui non potest nisi cum poculis» Hinc apta
eius mentio inter convivas. Eundem lusum
scriptor noster in animo habuisse videtur Menon, 70. B. J fl Mivcov
t npd xov plv QextaXbl evduxipot jjtiav iv xoii n E7iXv6i xal
i$avpagovxo icp * \nnixy xe ?cal nXovxcp, vvv 81, coi ipol Soxei,
xal ini docpia. iv$d8e 8e 9 co tplXe Mivooy, xo ivavxioy
nepiidrrjxev • doin e p avxpoS xts xiji dotplai yiyove, xal xiv 8vv
evei ixtdov8e tgov xoncov nap 9 vpai oixedSai tj 6o<pia.
X 7fv napd 6ol xataxXi <$tv. Pro xaxaxXi6ii alio nomino scriptor
usus esset, eoque quidem a xaxatxeidSai verbo derivato, si id in
liogua Græca exstitisset» Comparata enim nostra verba sunt ad
Agathonis adhortationem nap 9 ipe xataxeido, quæ, quoniam contrario seusu
Socrates % l tYt] xctl, tjg xl 9 ovaQ
ovda' t] de <Srj X auTtQti *£ y.cd jtoXXrjv laldodiv %oi>o«,
rj ye naga dov viov ovtrog ovtcj GepodQU i^tXaiupe xcu exepuvtjg
iyeveto TtQtonv Iv (i£.qtxhH tcSv 'EXXtjvav icliov rj TQigfivgioig.
'rfctdTrjs li, a<pq, m ZaxQtnes, 6 'Aya%av. dXXcc ravta fitv xul
dXiyov vcStiqov diadixadofie&a lyio ts xai 6v xsqi rrjs dcxpiag
dixadrtj %Qtxi(itvoi rep Aiovvdta • vvv 17C <5 e xqos to dtlnvov ngoxa
xgizov. ntinc cxliibet, ippiitr/i vocator putillo infra 175«
E. oluat ydp pe itapa dov nXtf pcaSy <fed$ ai* Scriptum
exspectaveris ex lege grammatica, de qua supra dictum est 22. olpai
nXijpcD^yded^ai 'itapa. dov. Interdum tamen additur personale pronomen
oppositionis gratia, quæ nostro loco manifesta reperitur. Socrates
enim ad Agathonis adhortationem respiciens, quæ p, 175. D. legitur,
dicturas erat: ut ego a tc, non tu a me accipias adinirabileni quandam
sapientiæ abundantiam, cfr. Symp. 175. fi. xov ovv *Ayd5a>va
icoWiimS xeXeveiv peta7t£jJipa6Saz xov 2(a>xpdxy, 'i 8 l ovx
iav, Adde 220. E. fin. avxoS izpoSvpoxepoi iyivov xcov dxpaxyydov
iph Xafielv y davxov, qoo loco avxoS pro davxov scribi etiam præcedens
avtoS non patitor. 223. B. xov plv ovv 3 Epv&ipaxov —o
*Apidxo ftyuoS oixed^ai diciovxaS, e Ztcvqv Aafieiv xoii
xaxadapSeiY x. r. A. 6oq>laS. Wolfium audi ad hoc
verbum laudantem Sydenh. annotationem: Den Ausdruck docpla braucht Platon
sehr oft, und in »wei verschiedenen allgemeinen. Bedeutungen, lOTOn die
eino znr pliilosopbischen Sprache ge— hnrtj und da bedeutet docpla
dio Wissenschaft von der Natur und den ersten Grundursachen
der Dinge. Io der andern gemeinera heisst es iede Vortrefllichkeit
in irgend einer besonderen Wisænschaft oder Kunat, irgend eia
vorziigliches Talent, Kenntnisa, Geschicklichkeit, wie es hier vom
Agathon dem Dichter gesagt wird. S* Piat. Theag.
vom herein und Arist. Eth. ad Nicom. VI* 7* iv papxvdi xcov
*EWyYcoY.y h, e. coram spectatoribus. Satis nota est hæc signikcalio iv
præpositionis, quæ unde orta sit, facile intelligitur. Ut Latini dicunt
in oculis versari, esse in conspectu alicuius, ita etiam Græcos arbitror
primitus dixisse: iv oppadi papxvpoov, deinde cogitasse tontumraodo ita,
scripsisse autem iv papxvdiv . Sic reperiea sexcenties iv orjpoo,
iv dixadxai iv 3 eoiS, alia* 7tep\ xyS docpla?. Delevimus comma,
qnod post docpla? in omnibus editionibus reperitur, non ut verba
arctius coniungantur nepl trjS docpla? dixadxy Xpcopevoi diovvdu), sed ut
XP°^~ pevoi 8. d. ad præcedens 8ia8ixadopeSa pertinere clarius
in Cap. IV. Mera zctvra, Sq>t), xaraxhvlvrog tov
EaxQaroyg xul HeinvrjGavrog xul xav aMcov, GjtovSdg te G<pug
nocfoaG&at, xul aGuvtug tov &tov, xul ralla tu voptgofiEva, TQtnsGftai
XQog tov Ttorov- Tov ovv ITavCuvlav £tpij loyov xoiovrov tivbg xuraQxsiv. Eltv
} uv- dicetar. Tlepl rr/S dotplaf autem verba explicando xavxa
pronomini inserviant* Sensas est .* Hieriiber wollen wir nach einer
kleinen Weile entscheiden, ich tmd du, narolich iiber die Weisheit, nnd
Dionysos soli Ricbter sein. Continetur his verbis festiva
adhortatio ad bibendam, quod quo fiat iucundius, rerum seriarum, curæ
Bacchi indicio subiiciendæ esse censentor» xai x 66v aXXav ac.
d«7tV7]6avTG)V, nam ad alterum participium xaxaxXtvkvxoS hæc verba
non referenda sunt. Habet Ficinus; Post hæc, inquit Aristodemus, Socrate
simul et aliis discumbentibus, libare invicem et degustare vina sacrificantium
ritu. xal xaXXa x a vopiZofjLBva . Magna est horum verborum
difficultas. Sive spectas structuram, nescias, quid id sit, ad quod
verba referas xal xaXXa tol vojiiZopEva, sive ad significatum animum
advertis, voluntatem scriptoris explicata difficillimam reperias. Astius
scribendum coniecit Marce xa vopigopsva. Censor in Ephem» Littcr. Ien, Iuli
1832. N. 52. xal &6avxaS xor $edv xa YOjj.iZ6jj.Eva commendat.
Audacias uterque, ut videtur. Stallb. absolute posita verba ceoset hoc
sensu: et quæ alia suat usitata. Non male. Melius Riickertus
participium aCavxaS ad accusativum utrumque pertinere contendit, nt convivæ et
hymnum in deum et quæ præterea cani soleant, cecinisse dicantur. Restat, ut explicemus, quid sit id, quod præter hymnum in
deum cecinisse convivæ perhibentur. Pro adsiv alind verbum ponitur in
Sympos. Xenoph. II, 1. G oS 6’ dep%peS?j(jav ai xpa xtEZai xal
idTCeitjavxo xal in aiavitiar, kpxexai ns h. x . A. Adde Athen.,
qui ad nostrum locum respexit. &S7tEp xal nXdxoDv <pvXa66Et
ieaxd x 6 dvjixodiov pexa ydp xo bmtvrj6ca tfitovSdf xk cprj6i
itoirjtiui xal xov Seov xaicovi6avx aS xois vopiZojikvoiS yk padiv. Colligi ex
his locis potest, verba xal xaXXa xa vojuZopeva addita esse a scriptore,
ut a8eiv vocis simplicitatem explerent atque notionem efficerent
itaiGoviZEiv verbi. Paullo infra legitur 177. A. aXXoiS pkv Xi6i
Segov vjjvovf xal 7tutu>vaS tivat X. T, A., ad quæ verba schol.
hæc annotat: xaiavaS * tj xovS XEyojikvovS 7taidvaS f
vjjvovS eis UxoXXojva iirl xa 3 * SQtg, <puvcu, riva tQoitov qu<Stu
xiofiefra ; iya jisv ovv Xtya vfiiv, otl ra ovci navv %aXeitas £z a vito
tov ^i>£S izotov, xal deocca dvcaln>xijs tivog, ot(iai de xal
B vfimv zoiig noXXovg. xaQrjte yccQ yfitg. axomtO&e ovv.
ranavdei Xoi/tov’ y Tlomjora tdv tcov Sediv iatpov * rj nauo- vaS t
coi vvv, cJSaS ini evtvxip xal vlxy, 8id tov gj, iB, ov xal
nauovl^Eiv. Est in hoc scholio, alienam manam quod prodat, hoc
tara^n certum esse reor, naiGovigeiv significare et hymnum in
laudem Apollinis aliusve dei canere, et carmen canere ini £vtv~ Xia
xal vixy. cfr. Xenoph, Hell. IV* 7. Bdetder 6 $eof xal 61 jJ.lv
Aaxedaijiovioiy apZapivGOV toov ano dajiotiaS, navtsS vjuvrjdoev tov nepl
tov IlodEidco naiava. Alterum verhis expressum est adavtaS tov
Seov, alterum in verbis continetur xal taXXa ta vopi^djiEra. In conviviis
igitur primam libatio fiebat poculis, ut Schol. lluhnk. habet, tribus:
ixipvdovto yap iv avtcdS ( tais dvvovdiaiS') xpatypeZ tpeiS * xal
tov plv npGDtov Jids 9 OXvjiniov xal Segov ’OXvjtni(ov iXeyov
• tov 51 Sevtspov 'Hpcooov' tov 61 tpitov 2a)t?jpo£.
Libatione oblata illud facere solebant, quod naUkJvL2,£iv vocatur.
Hoc rite peracto vino se invitabant» tpinedSai npoS tov notov . Præcedente
tempore aoristo infinitivas imperfecti positus est, ut esset, quo possent
momentaneæ, quas vocamus, actiones, a duraturis discerni»
Tphcsd&ai enim npoS notov ipsam bibendi actionem exprimit, quæ
ad multam usque noctem extenditur. Ceterum articulus additas est, ut
certa quædam potatio, ad quam convivas poeta invitaverat,
denotetur. bIev, av8p£S, (parat. Schol. ad Politic. annotat:
eJbv ay£ 5rj' rj dvyxatdSedtS jikv tcov ElprjfiivGQVj 6wa<p?)
6'e npos ta piWovta, rj ava<panrt]jia ofioiov tov aWa. Utnntur
hac voce ii, qui aliis facile aliquid concedunt, quo facilius
possent, illis pacatis, quid ipsi sentiant, aperire» Iam qui
assentituc, is habeat necesse est, cui assentiatur» Igitur dicta alicuius
præcedant necesse est elsv voci; quæ quoniam non comparent, supplenda
sunt. Videtnr autem Agatho dixisse : aWa tpenGQjieSa vvv npoS tov
notov, quæ adhortatio Agathonis .facile eruitur e verbis dcpaS tpinedSai
npoS tov notov. Agathonis dictum Pausanias cum audisset, bene
hoc quidem, inquit, o viri, hoc dictum ab Agathone, - sed qua
ratione bibemus suavissime? Ut nostro loco, ita etiam in Phædon» 117.
A» supplemento quodam opus est ante eiev. Verba hæc sunt : xal 6
nais iHeASojv xal dvyvov xpuvor diarptyaS yxev dyajv tov jiiXXovta
dcodeiv td epappaxov, iv xvXixi epipovta tEtpijifj&vov.
I8z>v 61 d 2?coxpatyS tov avSpcjnov elev f Utprj, d> f SeXrtdte, dv
yap rovrojv inidtlj/icov • ti xpy notEiv Patet, hominem cum poculum
afferret, virus a se parati vim laudasse ita, ut eius haustui
celerrimam mortem adseriberet. Respondit tlvt tQoTtcp kv c5g
QaCta xtvoiusv. 'tov ovv 'AqiGzotpavrj ihttlv ' Tovzo fiiinoi ev Ityus, ca
FlavGavla, zo xavxl ZQOTtcp mxQaGMvdGaG&ai qccGuovijv uva zijs
Jto Oecus- sc u\ yag avzo$ Eifii tcov z&es
@E(icaizc0/iEvav. Socrates: Gnt, o Bester, das xnasst da ja wissen.
Was muss ich non thua? vide quæ annotata sunt ad 204. C. cap. XXIV.
init, . fi a 6 x a itio /ie$ a. Hæc est optimorum codd.
lectio, quam in textum receperunt Bekk., Stallb., alii. Vulgo
7/8i6ra ntoofie$a exhibetur. Bene Riickertus od h. 1, Futurum, inquibj
propterea h. 1. præferendam est, quod non, quid debeat neri,
Pausanias rogat, sed quomodo, quod futurum sit, fieri possit
commodissime. Indicativum habes etiam infra 21 4. A. tov 6’ ’Epv%l/iaxov,
Uc 5? ovv f cpavaij <J * A7oafiid8r\, Koiovfiiv ; ovtcof ovte ti
Xeyofiev ini tf/ xvXixt ovt indSofiev, » a\\* atexv doSrtep ol
8n}>d)vtES itiofie^a ; Ceterum Schol. ad h. 1. fiadta r 6 ?j
diota ivtavSa dTjpalvet, quæ verba laudo, nt facilius intelligatur, unde
vulgata lectio rjdidta fluxerit* lydo fi sv ovv \eyao.
Proprie dicendum erat: Xiyco fiev tjjjIv olfiet i 6i. De addita ovv
particula, qua Jliv et 66 particularum positara excusatur, qnæque
minus sibi respondentia orationis membra, quoad eius fieri potest,
inter se conciliat, vide quæ annotata sunt ad 22. vfi&v
tov S noWovS sc. S£id^ai dvaipvxyZ* Prorsus eodem modo cap. IV* initio
neti t6jv dWoov positum reperies. Laudat Stallb. ad h. 1. V).
Apol* Socr, £5. E. tavra iyco doi ndSoficn, oj Ml\r}te f
olfica 81 ovde aX\ov dySpooitcov ovdiva ac. iteidedSai Coi.
Eutyphr. S. E. a) Wa Cv re vara vovv dyaviei rr)v 8lxr\v, olfiat 81
xal ifik tijv i/irjv ac. dycov induat. 7ta padxeva dad
^ai.Belk., quem Riickertus secutus est, e codd. non paucis in textum
recepit itapadxevdB,ed^ai. Recte fortasse, quamquam etiam aoristi
infinitivus habet, quo se commendet. Ceterum ne quis forte seri-, •bendum
censeat itapadxevadad$at 8eiv atque cum Riickerto convertcudum : Hoc
recte dicis, omni modo esso parandam commoditatem :
Aristophanis voluntas hacc est: Das erachtest du in der That ganz
recht fiir nothwendig, dass man namlich sich auf allc Wcise das
Trinken angenehm zu machen suche, Nimirum in huiusmodi enuntiatis
verba Xeyeiv, fjyeidSai, Soxelv, dB,iovv, vo/ii^etv al.
significant: æquum ceosere, suadere alieni, necessarium putare,
vid. Ilcind* ad Piat. Prot. p* 346, Stallb. ad Phæd. 95. B« et ad
Polit. VI. p, 504. E., ubi laudat Ilom. II. IX. 626. ov yap fiot
8oxiei j,iv$oio teXevtrj rySs y 68 (y npaviedSat, xal
yap avtoS. Valgo legitur xal yap xal avtoS. Bodl. uliique codd. non paoci
alterum tcai omittunt, omiserunt Bekk. Stallb. alii. Ac Stallb.
qoidem, Videtur, iuquit, 7tal additum esse ab iis, qui nat yap non
solum 'AxoviSavra ovv ttvrav £<pij 'Ego^liiaxov rov 'Axovfitvov, *H xafaos,
tpavai, ilyftt. xal t'n hos Siofiai vfiav axoveai, Xcog fjrei xgog r 6
t§§&09ca ittvsiv ’AyaC 9av; OvSapas, <pavai, ovd’ ccvtds tooatiat.
"Egfiaiov av tb) rifitv, q 6’ os, »s htxs, i(ioi rtjtai
'Agiaxodqfuo 0ten!<n, sed etiam nam et, nam etiam significare
ignorarent* Non repugnandam est codicum auctoritati, minus tamen
Stallbaumii sententia placet existimantis xal yap h* 1. esse nam et. Id
nimirum si exprimere voluisset Plato, scripsisset, opinor, tuxi yap iyco
el/n, uti scriptum exstat apud Homerum lliad.IV, 58. xal yap
iyoo tlfu h. e., denn auch ich biu eine Gottin. Nostro loco
malim xai putare expletivum, cuius exemplum infra habes 198.
C. xal yap pe ropyiov 6 XoyoS drepipyyjdxev, ofere x. x. A.
Eodem modo interpretor verba Pl. Pol. V. 468* D. ’JAXct pijv xal
xa$* r/ Oprjpov xolS xotoisde dlxaiov xtpdv tcjv yLcov 0601 ayaSoi
. xal yap "OpilpoS x . r. A., quo loco, quoniam præcedit Homeri
commemoratio, xal yap^OpjjpoS verba significant: nam Homerus.
fiefi anxi6 pkv Conve nit perfecti temporis participium cum præcedente
Pausaniæ dicto: tcolyv ^aAfTrooS* Ex& vito xov tzotov.
Beftanxi6pevodv verbi significatum explicat Iacobs* ad Eueni Epigr.
XV* v. 6., ubi legitur : ftaitxiZei d’ vrtvcp yeixovi tgj Savaxo )
. tt Clem. Alex. Pæd, II. 1 82. 29., V7CO p&ijs (5a
TlTlB,6ptVOS tlSVTZYOY. fia7CTi<>£(5$at enim et ii dicuutur,
qui se largius invitarunt vino. Lucian. a Iacobsio laudatus habet
T. III. 8t. 41. xaptjfiapovYTi xal fteftanti6pivcp loixev .
Apud Plautum Ps. V, 2, 7* reperitar: madide madere* xal
Exi IvoV* Ficinus in conversione exhibet: Probe dicitis, atque hoc
insuper a vobis audire desidero. Rectius Schleierznach. : Nur von e in em
nuter euch xnochte ich noch horen, wie er bei Kraften ist zura
trinken. Ceterum idveiv hoc loco idem videtur esse atque tcoXvv
niveiv olvov, quod paullo infra positum reperitur; respondet igitur
nostratium zecheo* " E ppatov dv eZrj yj piv ei vpets yvv
aTceiprjxaxe . Ein unverhoflter Gewinn wiire es uns, wenn ihr, die
tapfersten Zecher, dieses Mal das Trinken im Ernst aufgæbet. Nescit
nimirum Eryximachus, utrum ioci caussa, au serio Agatho ante
locatus sit. Indicat autem illatus post optativum cum el part.
coniunctum indicativus, de obiectira alicuius rei veritate agi,
quam verbis exprimere solemus: im Ernste, wirklich, in Wahrheit. Exempla
si requiris huius structuræ, vide Stallb. ad Apol. Socr. c. 12,
annotationem. Adde Symp. 177* D. el ovv Zwdoxei xal vpiv, ykvoix
dv i)piv iv A oyoiS IxavtJ Siaxptftif Apol. S. 35. A. ei ovr
xjpcHv ol Soxovvxe? 6ia(p&peiy ehe tiocpLqi etx8 avdput ei'xe
dAAp xal &al8pa xal tolgde, ei Vfiets ot 6vv'm<&taxoi it
Lieiv vvv diieiQr\xctxe' ijfiei 'g (ilv yag dei advvaroi.
StaxQttttj 8’ lt,aiQC3 Xoyov ' Uavog y«(J xal dp.rpuxtQa, agt i^ccQxetisi
avrta qxoxeq av itouofiev. ineidrj ovv fioi doxei ovSeig rmv itaQovxcov
itQodvnag %%eiv xgog ro itokvv tfnviovv (Sorpiit roiovroi S6ovrat,
al6xpoy av sfrf. b, e. Wenn nun die anter ench, welche fiir weise,
tapfer oder soust tugendbegabt gehalten werden, wirklich s o sich zeigen
sollten, so ware daa aller Verachtnng werth. iB,aipw Xoyov,
Vulgo i^cdpoj rov Xoyov legitur. Articulum plurimi codd. omittunt,
quem ut minus desideremus, exempla faciunt Phædr. 242. B., de Rep,
VI. 492. E. alia, et similium locutionum analogia. Legitor v. c. in
Rep. PJat. L. II. 357. A. o oprjv Xoyov dnrjWdxScLi, quo loco
articulas in uno tantummodo Paris, cod. comparet. Neque seriorum
scriptorum auctoritatem nunc curamus, qui articulum addiderunt; hoc
fecisse constat, qui nostrum locum imitatus est, Aristidem Orat.
II. Tom. II. p, 269. TlXatcjva 8* lt,aif)oo rov Xoyov ixecvoS yap
apupotepa. Articulum addidit, quem non abesse posse putaret, xcd omisit,
quod non intelligeret. Kal autem ita positum est, ut indicium primitivæ
conformationis verborum ait: ixavoS xalrovro xal ixava, pro quibus
verbis cum per compendium loquendi dixisset Plato dp<p6TEj}a, xcd
remansit. dist ££> apx e6 ei avT(p. Stallb. rectissime :
ut satis habiturus sit, ut ei satisfacturum sit, utrumcunque
faciamus, ovSelf rcor xaportcor. H. e. Nemo eorum, qui hio
adsunt in convivio. Admoneor his verbis de loco quodam Apol. Socr. p 22. B, c.
7., quem hucusque nemo videtur recte interpretatus esse.
oXiyov avr cov anavTES ol icapovisS av fttXnov UXeyov xepl gjv
avrol inenoripiEtiar. Convertit hæc verba
Stallb.: omnes, qui aderant, melius istis de carminibus solebant
indicare, quæ illi ipsi composuerant. Addit autem, non sine vi
repetitum esse pronomen avtol, quo graviter significetur poeta»
ipsos de suis ipsorum carminibus peius iudicasse., quam alios homines,
qui illos carmiua recitantes audierint. Melius in explicandis his verbis
versatus est WoIUus: a Nam prope dixerim omnes pæne, qui hic
adsunt, istis meiins dicerent Ue iis, quæ isti composuerant; «
quamquam ne hic quidem Platonis voluntatem agnovit. Non verisimile
euiin, homines fiavavoovS, qui nuuc arbitri sunt iu iudicio,
melius potuisse de carminibus iudicare, quam poetas. Sensus est
totius loci: Ich schame mich nnn, ilir Miinner, ench die Wahrlieit
zu sageu, Dennoch muss es heraus. Alie, die hier anwesend
sind, wurden fast besser, ais jeue uber ihre Werke, uber das
sprechen, vas sife irgend selbst gemacht hiitten (h.e. si qui ex
sua qnis f itlvuv qIvov, l'dog av lym tcbqI tov
(U&vtixeQftai, olov D ictiy raXri%^ Xiyav rjtrov av eirjv ajjdtjg.
ifiol yccg di] tovro ys oiuca xcctadrjl ov yeyovivai ix tijg Icctqlxijg,
ott %ateitbv tolg (iv&QcoTioig 7] (ilfhj loti, xai ovre ctvxbg bxcqv
rivca xoqqqj l&riyfiaitu av iti&iv, ovxs akkco qtxt arto
aliquid fecissent, vid. Matth. Gr. pl, {.599. 119S.) idcjS av
ifri ~ 7/ xx ov Av eiijv. Repetita est av particula in eadem
enuutiatione non negligentia scriptoris, at olim multi
arbitrabantur, nequo explendæ orationis caussa, sed at loquentia
modestia elaceat magis, qui sperat fore, ut de ebrietatis natura quæ sit,
si verum dixerit, minus fortasse molestus convivis videatur. Tari
cuuctatiouo et modestia, quæ tum io verborum modesto significatu,
tam ia singularum orationis partium dispositione cernitur, Cie. de
oificiis loquitur L. I. Nam pkilosophaudi scientiam concedens multis,
quod est orationis propriam, apte, distincte ornateque dicere,
quoniam in eo studio ætatem consumsi, si id mihi assumo, videor id
meo iare quodam modo vindicare. ort xaXeirov 7 / JIES 7
/ idxty . Adiectivom haud ruro neutro genere poni seqoente
substantivo, ad quod pertinet, femini masculinive generis, satis hodie
notum est. vid. Matth. Gr. plen. §, 437. 815. Sed non perinde esse,
utrum genus nominis in se suscipiat necne, ndiectivum, Rdckertu» ad h. 1.
docuit. Puto autem, inquit, nd7 4oetiva sabiccti genus tum sequi, quum
res aliqua, qualis sit, quæ que attributa habeat, describatur,
omnino quum do certa re certi quid pronuntietur} contra neutrum
locum habere, quoties vel de certa re, cui generi adnumeranda sit,
prædicetur, vel de re in universum cogitata aliquid pronuntietur.
Equidem sic statuo! Adiectivum substantivi genus in se suscipiens
substantivo subiungi ita, ut, qnod singulæ alicui rei conveniat,
significet, contra nentro genere positum, substantivo non
subiunctum esse, sed ad idem æquiparatnm. cfr, Lach. 192. ovh dpa
zi)v ys roiavtyv xaprepiav drdpiocv opoXoyi)otis elvat, bceidfptep ov
xccXij idttv, 7/ avdpia xaXov idttv . Adde Ilipp. Mai. 288.
B. StjXsia imtoS xaXr) ov xaA ov; Ibid, p, 288. C. Xvpa xaXrf ov xaXov;
xvrpa xaXi) ov xaXov ; kxcov elvai, Addito infinitivo hominis
alicuius liberrima voluntas significatur ita, ut simul coerceri
posse atque minui libertas illa indicetur, cfr. Phædon, 80. E. idv phv
xaSapa (sc„ V fax ?}- ) dnaXXdtTJftai p?/6lv Tov doopatoS i(peXxov6a
dre ovdtv xoivGjvovda avxai iv rea fiUp kxovda elvat; utpote
quæ nullam suscipiat, quoad eius fieri potest, quantum in eius potestate
est, cum corpore cdmmercium. Addendam hoc est atque beue tenendum, non
adhiberi Ixojv GvfifiovXivScani aXXag te xal XQcuTCaXaivra tzi hi
rijg TtQOtiQciiag. ’AXXa [irjv, Hq)ij cpuvai vTtoXa^itvta (balSqov tov
MvQQivovelov, eyays Ooi sia&a xti&eodca aXXcog te xai cczz’ av
mqI IcaQixijs As/?;g' vvv 6’ av fiovXovzcu xal oi XomqI. Tavzcc drj
axovSavzag Ovy- E I tlvai nisi in iis
enuntiationibns, quæ actionem quandam contineant sive revera additaxn,
sive mente supplendam. Idem cudit iu omnes figuras dicendi, quæ
nostræ consimiles sunt, v. c. to vvv elvai. cfr. Lach. cap, SI*
fin, zo 5h vvv elvai ttjv dvv ovdiav SiaXvdGJjuev h. e. wir vrollcn aber
fiir jetzt, d. b. vas nns fiir jetzt uur zu th uu iibrig bleibt,
nns treuneu, Finitus nimirum dies erat, noctisque adventas in proximum
diem differri disputationem iubebat;' quare Socrates aXXct
Ttoir/doo, inquit, gj Avdtpaxe, tama, xal tf £<0 Ttapd. dl
aypiovj iav Seo* i&4 Xy. Male autem
Mutth. in Gramm. plen. $. 546. 1071. g liuc trahit Piat, Protag. p,
317. A. eycj t ovtoiS dnadi xaxa rovro elvai ov
B,vji<pkpojiai, neque recte, opinor, Stallb. verba convertit in
Protag. ed. p, 45. : mihi yero cum his omnibus, quantum quidem ad
hoo attinet, non convenit. Kata tovro eodem prorsus modo h.
1. positum est, quo in Apol. Socr. 17. B. legitur: el jtev
yap tovto A eyovdiv, opoXoyoiyv av lycoye ov x at a rovro vs
elvai fitjzcap. Itaque certum esse reor, Protagorara dicere 1.1. i
mihi vero cum his omnibus hac ratione sophistæ esse non conducit*
Explicatius paullo infra S17* B. eandem sententiam Protagoras prot
fert : iyco ovv xovtgjv xrjv ivavxiav aitadav oSov iAh/XvSa, xal
o^ioXoy gj xe docpidxrjS elvai 7ial xaideveiv av$pGJ7tovS* x. r. A.
dXXcoS xe xal xpantaX&vxa £xi. Exspectaveris XpantaXojvxi,
Infertur interdum post dativum casum accusativas augendæ gravitatis
caussa. Nam vis quædam est in anomalia habetque, quod præter
exspectationem fit, proprium suum acumen. Ceterum nou poni solet
dativo præcedente accusativus, nisi infinitivus adsit ut nostro loco
Ttieiv y cura qno arctius coniungatur. Similiter iu Pl, Criton. p, 51.
D, ofiojS Tcpoayopevopev xgj i£ovOiav TtETtoupiivai f A$7jyaLcj v
xco povXojikvcp,\ . . igeivai Xafiovxa xd avrov aitievai OTioi av
ftovXr/rar. Lex nimirum Attica, quæ cum gravitate h. 1. laudatur ajti$i
Xapojv xd ddvrov x. X. A. audisse videtur. Symp. p, 188. I). ovroS
(sc. o"Ep(&S') xyv jiEyidXTjv 8vvajuv kxei xal nadav y/dv
evdcxipoviav 7tapadxevd?,ei xal dXXyXoiS dvvapkvovS oj.uA.elv xal
<pi\o elvai x. x. A., ad quæ verba vide annotationem.
lyooys do l el&Sa xel$ed$ai. Interpunctionem post 'XefædSai
vulgo positam expungendam curavimus ; verborum enim dXXojS xe xai ea
ratio est, ut antecedentia cnm sequentibus arctissime coniungant.
Eodem %toQtZv mxvrag firj Sia iil&rjs itoir]<Su<s9ai zrjv l v tm
itaifovri OvvovUtav, aXX’ ovta, xivovza g XQog iidovtjv. Cap.
V. ’Exh8t\ tolvw, cpavca rov ’EQvi,liitt%ov, tovto fiiv
deSoxtai, xlvuv '6<Sov av ixaotog (Sovfojzca., Ixavayxeg modo in
superioribus comma delevimus post 6 vp( 5 ovXev 6 aipi et post itielv, ut
ne esset, quod obstaret, quominus xpainaXarvxa participium ad
infinitivum præcedentem referatur. Ceterum
recte Stallb. monet, art * av XiyrjS cum gravitate dictum esse pro iav rl
XiyyS. vvv 8 * av fiovXovxai xal ol A oixzol, Vulgo
post av legitur ev, idque probant codd. plcriquc. Pro av noa
paucis in codicibus av reperitur; tredecimcodd. ^ovAcj^tarihabcnt.
lia.stius cum intelligeret, ol AorJ rol non de iis intelligi posse, qui
assensum suum declarassent in præcedentibus, neque vero ad ceteros
convivas relatum, commode cum insequentibus verbis conciliari : xavxa 87}
axovSarxaS tivyxcoptlv navxas x. r, A., scribendum coniecit Spec.
erit, 12.: vvv 8’ av iv fiovXevGovxai xal ol Xontoi, hoc ut esset :
modo ceteri quoque bene sibi consulant. Eodem fere
modo Ficinus in coiit. : nunc si militer, modo ceteri quoque
consentiant. Tliierscli. in Spcc. edit. Symp. Piat. 8. vvv 8 * av
ftovXotvx * av xal ol X olito i verbis locnm sanare studnit. Astius
vvv avxa (iovXovxai xal ol X ontoi exhibuit. Orell. ad Isecr. de
Antidos. maluit 324. : vvv 8* el ftovXovrai xal ol Xontoi.
Wyttenbach: vvv 8* opa ei vel vvv 8' av et fiovXovxai, quod
Reyndera. In textum recepit. Riickertus Platonem scripsisse suspicatur :
xal vvv 8* av, iav fiovXovxai xal ol Xontoi: Consueri in omnibus tibi
obtemperare, quæ dicis de arte medica, et nunc quoque (sc. tibi
pbtemperabo) modo velint etiam reliqui, Stkllb. verbis nihil
mutatis nisi quod ev post av positum omitteret, hæc exquisita, inquit,
brevitate dicta sunt hoc sensu: uunc vero rursus idem fiet,
quando quidem etiam ceteri^convivæ volunt. Quam exquisitam boc loco
Stallb. laudat dicendi brevitatem, equidem licentiosam appellare malim atque
insolentem. Sed pone, verba vvv 8* av jiovXovXat significare posse
nunc vero rursus idem fiet, quando q ni dem volunt, num verisimile
est, Phædrum dixisse : Soleo tibi credere cum alias, tum potissimum
disserenti super rebus e medica arte depromtis, nunc vero rursum tibi
credam? Nihil coniectura opus est, ut rectissime Stallb. censet,
neque quicquanx præter ev vnlgo post av posi • tum expungendum.
Indicat autem av prægressæ alicuius rei actionisve repetitionem,
manifestoque declarat hoc loon, ftovXovrat per prolepsin pro
itei&ovxai positum esse. Verba convertenda sunt: Nunc vero rursus
etiam ce- Si yrjSiv iivut, ro fi era rovro tlsrjyoviuu rr/v fiiv agri
tlgeX&ovSav avlyrgtSa %algeiv tav, «vlovaav lavry -rj, lav /JouAijt
at, raig yvvai^l raig tvSov, yyag 8's Sue Aoj/cw «AAijAots (Svvuvcn ro
ryyegov. xal Si oiav A oyav, tl (iovAca&E, l&tXa vy.lv
slgyyySaS&ca. &avca teris (fidem habentibus tibi) libitara est
(sc. quærere potatio-* uis qu and ara moderationem.) Hoc dictum ut
intelligatur, quam bene cum insequentibus verbis conveniat : Phædrus verba
vvv 6 * av fiovXovxai xal ol Xoiitol dixisse cogitandus est vultu
ad convivas converso quasi rogitaturus: Rectene loquor atque de sententia
vestra? fi 1 } did Nota huno usum dia præpositionis.
Optime Scliieierip* convertit: Ilier au f also waren alie
iibereingekommen, es bei ihrem diesmaligen Zusammeusein nichtauf den
Rausch anzulegen. Paullo infra p.176. E. eodem modo 8ia Xoyav d/
1XijXoiS dvveivai. Apposite Stallb. laudat Piat, de Legg. I, 640.
B. 1.6X1 8£ ys xoiavxrj <Swov6ia, tbttp tdxai Sia 2r}$, ovx
dSopvfioS. Plura exempla si quæris huius dicendi usus, adi Klattli.
Gramm. plen. d XX* bvx a, 7t lv o y x ai jxpos ijSovrjv.
ctXX* ovxa sc. Ttotf\6a65ai. Ceterum ovxa accuratius definitur
verbis inseqoentibus itivovxaS 7tpoS ySovrjv, Male Stallb. coniungenda
censet ovxa itpoS TfdovTfy. nur so zum Vergniigen. cfr. Symp.
193- C, oxi ovtodS av rjpav ro ykvoS evSaipov yivoiro, tl
£xx eX& tiatpev rov £ para x. x. X. Adde 215. A. 2 coxpaxTj 6* iya
htaivetv, cJ avdpes y ovxcoS ticixtipytia. Si bIxqy av . Exempla
huius dicendi usus plurima reperiuntur, quibus possis adnumerare
quale reperitur in Alcib. I. 105. cap. 4. oxi avxov 6£ Sei
dt>Vadxevsiv £v ry Evpdiry, quo loco indefinitum avxov præfigitur
accuratiori indicio £v xy Evpany • Ad nostrum locum ut revertar,
Ttpo S' ?}5ovijv apprime respondet nostratium : nach Wohl-#
gefallen. Probatur hæc verbi notio verbis sequentibus : nlvtiv o6ov
dv txa6xoS ftovXi/xai, bcavayxeS 6 e prjdlv elvai. £tz dv ayxeZ
pySlr tlvai. Solebaiit regem (tftyi7C06iapxov') eligere convivæ,
qui bibendi leges daret, quibus convivæ ad bibendum cogerentur. cfr.
Symp. 213. E. apxovza ovv alpovpai zijs no 6egqS y taC dv vpuS
IxavaS Tityre, ipavxov *ro perci rovro yovpai. Tope ra rovro
cum gravitate dietnm significat: quod attinet ad id, quod post hæc
sequitur. Recte autem annotatum est a Riickerto: verba hæc nunquam
temporis solam consequentiam denotare, sed ubique internum aliquem nexura
inter præcedentia et sequentia designare. ElSrfyovpai verbum quod
177 bt] itavtuq xcd flovXiaft ai xat xsltvuv airov elgijytL6&cu. Elnslv ovv
zbv ’Egv!;ltitt%ov, on 'H (ih> ftot aQyjj tov f.oyov lari xara rr/v
EvqmISov MtXavlitittjV ov yaQ ijibs 6 pv&os, tt/U« <PuldQov tovSs,
ov fitiZa attinet, Hcsycli. interjpretator elft]yeldSai •
dv/ifiovXtveiv h. e* suaclere, censere, aliquid faciendum esse. Apprime
verbo respondere videtur nostratium : etwas zum Vorschlag
bringen, x i)v yev • av Xrj x p iS a Xaipeiv lav, Tibicinam
dimitti Eryximachus iubet, ut 8id Xdycov aXX?jXoiS dvveivai convivæ
possint. Notari autem h. 1. Xenophontem, qui in convivio suo
tibicinæ locum dedisset, hominum quoruudam liodie satis explosa opinio
fuit, vid, Boeckh, de simultate, quæ Platoni cum Xenophonte
intercessisse dicitur 8, seqq. cfr. Protug. 347. C, Tiocl ydp 8oxei
poi xo 7Cepl 7Coir]decoS diaXtyeCSai opoiuxarov dvai xoiS dvpitodloiS
xoi$ xgjv q>avXa>Y TtctL ayopaicDV dvSrpGJTtGDY. xal ydp
ovxoi, 8ia ro pj) SvrctdSai aXXj}XoiS 8i iavxcZv tivv&Lvai iv
tg5 itoxco pr}8\ 8id xijs kavxcov (pcovijs holi xoov Xoycov xcoy
kavxcov vito ditaiSsvtiiaS, xipiaS noiovdt xds avXrjxpidaZ, rcoAAov
piOSoiytEvoi aAXorpiav cpcovifY xijv xqjy avXaiv, 7ia\ 8id xifi
ixeivaov qxxvifi aXXijXoiS dvveidtv. onov 8e xaXol xayaS ol dvurcoxai xal
TCuraihtvpirui elo \v, ovh dv l SotS ovt avXr r xpidai ovxe
opx*/dxpi8aS ovza ipaXrpias, «AA* avcovZ avxolS \xavovS ovxaS
dvvtivai dvtv xu)v Xi/pav xe xal ItlXlhlddV xovxcov dia xijs
avx&v (pwpS, A lyovxaS xe xai dxovoyxas Iv pipet lavxojy
xodplooS, nav 7tdvv itoXvy oivov itioodiv. Perscripsi hunc locum,
quo non Platonis sententia Socrati adseripta contineri videtur, sed
ipsius Socratis iudicium exprimi, ut clarius intelligatur, etiam in
minutioribus rebus Platonem ad Socraticos mores scriptionem suam
accommodavisse. xait yvyaiZi talZ Ev8ov, cfr, Corn. Nep. præf. $.
7. Neque sedet (ac. mulier) nisi in interiore parte ædium, quæ
gynæconitis appellatur. Ceterum ut paullo supra 8ia pi$TjS, fla
nunc 8ta Xdyojv positum est adhærente, ni fallor, notione temporis,
quasi dicere voluerit Eryximachus: 8ia Xuyor 8iax pipeiv xtjv tj
ylpav . ei p ovXe 0% e, i^iXoo. Differre inter se videntur hæo
verba eodem modo, quo inter se differaut verba et XPV* Nimirum eam
voluntatem i$£A eiv verbum denotat, quæ cousilio nititur atque intelligentia,
PovXedSai contra adhiberi selet, ubi aliquis impetu quodam animi fortuito
abripitur. D. avAovday kavtij, rj, lav PovXrjxai, xaiS yvvat £,Lv h • r,
A. h. e.,' oder wenu sie Lust liat. Adde 179. B. xa\ p?/v vjrEpaito$V7}dx£iv
ye povoi ESlXovdiy ol ipaovxeS. Symp. 190. A. lito pEVETO 8t> Op$6v,
GjSTZEp YVYf uTtorlpcjdf povXjfSeitj h. e. nach welchcr Seite
es ihn hintrieb, cr Lust liattc. Igitur conMysiv. OaiSpog yuQ sxætots
xqus (t£ aynvaxztSv Xeyzi • Ov 8uv6v, (prjGiv, u’Eqv^m%e, kXXol g [iiv
ruti &iav vfivovg xal ncamvag sivca vico tiov itoirjtdiv
kejcoirjjiivovg, ta di 'Eqciu, rijXixovtcj ovu xal xoGovtto
vertenda snnt verUo nostra : Mit welchen Reden wir non den Tag
hinbringen wollen, bin icb, so ihr LUST habt, each vorati schlagen
entschlossen. Prorsus eoden# modo Syrap. 199. A, a\Xd rd ye aXrj$i}
% el fiov X b6$e, iSiXoj linetv xar ipavrdv. cpavai drj
rtdvra? seqq. h. e. Es hatten nun alie ja gesagt und sie urollten es and
hatten in ihn gedrungeft, er mochte ihnen die Eroflnung machen.
Coacervatis verborum infinitivis satis vivide turba describitur'
convivarum strepenti clamore sermonum materiam exigentium. Ttard r?}v Ev
ptniS ov MsXav innyv. Versus Euripideus est: ovx i/ioS 6
pv$oS, aXX’ ipij? pi/rpo? Ttdpa, ad quem alludens
Eryximachus dicit ov ydp ipoS o' pv$o?, aXXd $ai8pov rovSe. cfr.
Alcib. I, 113. C. rd r ov EvpiniSov apa ZvpftaivEi, co
AXxifiiddtj, dov rade xiv8vv ev ei?, aXX 3 ovx ipov axrjxoevai,
ov8* tya/ eij.il d ravra Xkycov, aXXd 6v. Adde Apol. Socr. 20. E.
xal poi, a> avSpe? ’A5?jvaioi, jn) SopvfirfirjrE, prj8\ dv dd%Go n
vplv /xkya Xeyeiv, ov ydp ip dv ipcd rov Xoyov x. r. A. Ad
amovendam dictorum invidiam hoc Euripidis versu veteres usos esse sæpenumero,
et ab interpretibus passim annotatum est et exempla docent, quorum
ex numero Apol. Socr. 20. E. Nostro loco Eryximachus versum
Euripideum laudat, non quo dicti magnificentiam excuset, aut
sententiæ insolentiam, qoibus invidia auditorum interdum excitotur, sed
suum cuique tribuendi studio. Initium orationis, inquit, ad
Euripidis Melanippen accommodandum est, nam non mcasant, quæ
dicturas sum, sed Phædrus, qui hic assidet, eadem excogitavit.
vpvovS xal Ttai co v a Tlaidva? codd. nonnulli habent et
scliol. Verba schol. laudata 35. in hunc modum restituenda sunt
fortasse: rraidiv aS' ij rovS Xeyopkvov? naiavas, vpvovS Ei?
'JnoXXava htl xaranavdsi Xoipov. [rj Ilatr/ova r dv tcov $£gov iarpdv •]
7} naicova? 00? vvv, cddds ini evrvxia xal vtxy, 8rd rov &j, i%
ov xal natcoviSjEtv. Verba rj Tlanjova rdv rcov Seiuv larpov uucis
inclusimus, quod aut abaliena raauu addita sunt, aut casu quodam a
sede sua in alienam translata. rrjXtxovrtp ovrt xal ro6ovrcj
J Ficinus habet: tantum talem ve deum, Ast. verba convertit talem tantum q ne. Stallb. tam multorum bonorum auctori
et tam potenti. Exhibet in conversione Schleicrm.: dem Eros aber,
eiuem so grossen und herrlichen Gotte, Optime Riickcrt. rrjXixovro ?
essa tam vetustus annotavit. Addit idem, Eryximachum querelam B
&£a, firjSh £W ndxoTE toCovtav ytyovotov xoiijrdv jttTKnrjxivca
(irjdiv iyxco/uov; tl d£ fiovlu uv axi$a6&ai tovg ZQijGrovs
tiotpxitas, 'IlQuxktovg (iiv xtd uklav Phædri referre, qtil in
oratione sua hoc ipso nomiue vel maximo honore dignam amorem prædicet,
quod omnium deorum sit vetustissimus. Iloc igitur ei indignum videri,
quod Hercules quidem, recens donatus immortalitate, laudatores repererit,
Amor autem, omnibus ipse prior, suis laudibus careat.
prjSlv iyxwpi ov. Valckenar. Diatr. iu Eurip. Reliqq. 157.
scribendum coniecit prjSk iyxooptov 9 quam scripturam ut ardori
loquentia apprimo convenientem probaremus, si lyxcopiov verbum latiore
potestate careret. Complectitur autem iu se vfivovj xal TtaidSvaS,
ut Ilgen. ad Scolia XXXVII* docuit. Queritur igitur Phædrus,
quod, cum in ceteros eosdemque Erote multo inferiores deos poetæ
hymnos composuissent et carmina pro salute et felicitate suscepta,
e tanto eorum numero ne unus quidem in Erotem carmen conscripserit.
sl SI ftov\et av tixlipa65ai dvyyp d <pei v. Ficiuus habet : atqui, si
vis, inquit, o Eryximache, quærere, invenies profecto Sophistas
disertos soluta oratione Herculem aliosqne laudasse, quemadmodum
peritissimus Prodicus, quamquam hoc minus alicui mirum videri
debet, sed etc. Hac conversione motus Stallb. Platonem scripsisse
censet : EvprjdetS 'HpaxXeovS plv xai aXXxay i ivyypdtpeiv (sc. avt
ovS.) Dubito, num recte. Nam illud invenies additamentum est, ut videtur,
Ficini, qui concitatioris hominis verba apta brevitate reddere
desperaret, Riickert. interpunctione post doxpxdxaS deleta et posito post
6x&rpadSai commate sensum vetfborum ait esse; porro optimos
sophistas. Etenim formula, inquit, ei Se ftovXst, cui plerumque non ndditor
infinitivus, quem h. 1. appositum videmus, ita adhiberi solet, ut novum
inducat vel exemplum vel argumentum. Accusat. rovS
<So<px<$xds propter hanc, quam indicavimus, formulæ vim
nou putem obiecti casum esse ad tixhpatiSau, quamquam supplendus
hic ipse erit ad hunc infiuit., sed subiecti ad seq. dvyypdtpeiv. Inde patet,
usque ad SvyypacpEiv omnia pendere e verbis ov Seiyov. Displicet
hæc interpretatio tribus de caussis. Primum tl Se ftovXet nusquam reperitur cum
infinitivis verborum coniunctum, ut novum exemplum commemorari
denotet; deinde mireris post 6xtif)a6Sai interpunctionem, qua
efiiciatur, ut xovS XPV^ ^ovS 6o~ xpidtds non cum dXEiftadSoct
conjungatur, ad quod verba illa supplenda sint tamen. Postremo
verba tovS xpijdtovS dotpxdxds e præcedente ov Seiyov apta
tortuosam atque hiulcam sententiam efficiunt. Si quid video, Phædrus
diettirus erat: si 8h ftovXei av <5xiif>a6$ax rovf XPV~
6rovS 6o(pi6rfx?yHp<xxXEOvS ptv xaldXXa>y iizaivovS (sc,
avTovf) xataXoydSrfY 6vyypd<pe3Y> tZsxoxahoyaSriv tivyyQacpEiv, 6
pUufStog Tlgodixos xai tovto fisv
ytrov xai ftavfiad rov alX kyaye ?jdrj nvi lvttv%ov (hpttcd ccvdQog
Cocpov, Iv (p ivrjdav ateg i iCEp O fttXtltftOS Tlp6SlX0S?E p
G>t oS 8h ov, tovz ov 5 a vy fiadx (Sx axov ; Facit nobis* cum in
hac reFiciuus, qui paullo infra addit in conversione: cui non
gravissimum videatur? Sed cum nondum ad finem enuntiationis
pervenisset loquendo Phædrus, . in mentem ipsi venit salis quædam
laudatio» qua minus etiam mira Herculis aliornmque encomium
indicari debeat. Igitur suppressis verbis "Epc&ti dfc ov,
xovx ov Savfioc dTGnaxoY, statim pergit; xai tovto puv ytTOY xai
Savfia(Stoy, aAA’ fycoys x. r. A. xovS XP ydTovS. Ironice hoc
dictum esse y ut mox 6 /JeAxtdtoS ITpodtxoS, Stallb. docet. Sohleicrm.
verba convertit: und willst du dicli auch untcr den edlen Sophisten
umsehen, dass sie auf den Herakles und Andero in ungebundener Rede
Lobschriften verfertigen, vie der vortrelfliche Prodicus. Riickert. ad h.
1.: XpydToi, inquit, sunt boni, optimi, die guten. Adhibetur enim hæc
vox iq derisione. TovS xpyfaovS 6o<pi6raS nou Socratis verba sunt
Sophistis infestissimi, sed Phædri, hominis a studio sophistarum non
alieni, ut laudatio Erotis docet sophia stica arte composita 178.
seqq. Vehementius autem quam iu poetas, Phædrus in sophistas invehitur,
utpote qui, cum siot rerum utilium laudatores strenui, inprimis Erotem
laudare debuerint. Sententia est totius loci ♦ Ist es nicht achreck
licii, dass andere Gotter von den Dichtern gefeiert werden, dem
Eros abfcr, dem altesten und segenreichsten Gotte auch vou koinem der vielen
Dichter ein L«ed dargebracht worden ist? Willst du nuu aber die
praktischeu Sophisten ins Auge fassen : dass sie uber Hercules uod
andere Lobschriften abfassen, wie der tuchtigate uuter ihnen,
Prodicas und das ist weniger noch xu bewundern, aber mir kam
sogar eiumal ein Ruch zu Handen, in dem der Nutzen des Salzes auf
bewundernswerthe Art erhoben war. xa\ tovto filv yTTOY xcl\ S av pa6 T ov. Unus cod. Vindob.
et Vatican, liber alterum hoc xai omittunt probantibus Bastio atque
Thierschio. Sed recte servant illud ceteri codices. Pertinet autem
ad ?/ttoy, ut sensas hic sit: atque hoc minus etiam mirum est, quam
hoc, quod in librum qu*udam incidi etc. Nec mirum est 7/ttoy præmitti
voculæ, quum t ovcodtY habeat. Quam* quam non in promtu sunt alia
huius collocationis exempla, Stallb. Iy cj ivrjdav aA,£f,
Apto comparari iubet Stallb. Isocr. Helen. Laud. 304. tvy
fily yap TovS /5oppv\tovS xa\ xovS aXaS' xai xd xoiavxa
floyXySivTtoY iitaiveiv ovdeis 7too7fore XoyaY T]7c6p7jdEY. Cic.
Brut* $. 47. Singularum rerum laudationes vituperationesque cou*
scripsit, quod iudicaret hoc lora* C titaivov davfiuGiov i'xovres xqos
w(fi/.uav • y.at aXXa Toiavta (5v %va XSoie Sv iyxexMiuaGfieva. r 6 ovv
xoiovrcov fiev ittQi noXXrjV GxovStjv itoirjOaG&cu, "Egma Se
Hijdtva Tta av&Q dxav ter otyiyxivca tls ravxrjvl xrjv tjpi toris
esse propriom, rem angere posse laudando viluperandoque rursus
affligere. Vid. Wolf, Prolegg, ad Demostii. Lept. XXXV* Restat, ut indicemus, cur Prodicus
Ceus hoc loco fiii lr idxoC audiat. Multam operam posuisse perhibetur in
verborum discrimine explicando, quæ 8iaipfdtff rcov ovopdxcov
vocator Prolog, 358. A. Iloc studium acerrime perstringitur Prot.
337. A., D. et C, laudatur Piat. Lach* 197. §• 26. Hæc
StalpedtS quamquam summopere a Prodico exculta, tamen Phædro tanti
esse nou potuit, ut fiiXtidrofi Prodicum appellandum esse putaret.
Satis notum est, Prodicum lucri caussa Epicharmi versum in ore
gessisse: d 81 X £ ^P tc * v X&P a viP,£i. 8oS n xal Xapi n.
vid, Axibch. 366. C. Sed ne hoc quidem
satis caussæ est, cur fiiA XidxoS appelletur. Videtur potius, ut
ita piAxiCxoS de eo valere, qui rerum laudem non nisi ex
earum utilitate exaptat. Prodicus autem ne a diis quidem rationem
utilitatis cohibere solebat, ut videre Jicet e dicto eius servato apud
Sext. Empir, adv. Mathcm. 9. 18. i/Aiov xai defajnjr na\ Ttoxapovf
xal xpTjvaS xat xaSoAov itdvta r d cocpsXovvxa xov ftiov rjpwv ol
itaAaiol Seov S ivo puSctv 8ia X7}v ait avxcOv coepi- Anav f KciSditEp ol
AlyiJitxioi xov NeiAov t xa\ 8id xovxorov Mtv dpxov Ji/prjxpav
vopidSijvat xov 8h oivor Jiovvdov nal x d 8h vSaop Ilodsidcova, to
6h TXu p n Ilepaidxov xal ehee rcov evxprjdovxcov ditavxa.
Addo Cic, de N. D* I, 42. m Quid Prodicus Ceus, qui ea, quæ prodessent
hominum vitæ, deorum ia numero habita esso dixit, quam tandem
religiouem reliquit?» Iam quod Prodicus fecit, ut iu deorum
laudatione non deos, sed rerum utilitatem laudaret divino nomine
insignitam, idem fero iu Erotis eocomio a Phædro factum. Nou in
indolem inquirit atque iu naturam dei, sed rerum, quarum auctor
Eroa esse perhibetur, utilitatem exponit j quo maiorem illam
videt, eo maiore honore deum exornat nullo veritatis respectu
habito* Non mirum igitur, si Prodicum maxime laudandum Phædrus
censuit, ad cuius exemplar ipse laudationem Erotis composuit. Ceterum quod
Herculis laudationem attinet, Riickertum audi ad h. 1. annotantem:
Herculis laudationem scripserat (sc, Prodicus) in libro, coi oopai
titulus, ex quo notissimam de Hercule in trivio fabulam mqtuatus est
Xcnoph* Mem* II*, 20. Prodici quippe admirator usque adeo,
ut, quum in Boeotia vinctus esset, quo tempore ibi sophista
versabatur, vade dato ad audiendum eum o carcere prodiret auctore
PJiilostr. vit. soph. I, 12. ro ovv x oiovtov seqq*
Vulgo post -dpvij<5<xi comma positum reperitur, punctum post
Wyttenbach* Qttv a^ltog i(twj<Sai - ukX ornag tffilbftcu
toGovtos S-eos ! Tavxa 8tj poi SoxtZ ev tiyuv ®ccZ8qos. eyui ow
Int&vfico a fi a (ilv tovra iqctvov elgeveyxeZv xal ^txQiSao&cu,
afict de tv tc3 xccqovti itQ&nov jioi 8oxeZ Bibi. Crit.^T. I. YoL,
ra. 10. oti ante ovxcoS inferciendam cenanit ; Steplianus coniecit
a\\’ ovxcaS TjpsAijdSai xodovxoy Seov. Non mirum,
lumines doctos in verborum structura admodum hæsisse, in qua
componenda ipse, qui loquitor, impeditum se atque implicitum sentiebat, Addita
ovv particula manifesto indicatur, verba superioribus annectenda esse; sed
quoniam omissa sunt illic, e quibus hæc exaptari potuissent, xovx
vv SavpadxaSxaxoy; factum est, ut quædam structuræ ambiguitas oriretur,
et dicenti, et audienti molestissima. Ex hac structuræ difficultate ut se
extricaret Eryximachus, dissecto inceptæ structuræ filo pro infinitivo
indicativum posuit. Hinc bene habet exclamandi * signum, quod post
&eoS positam est ab interpretibus, minus probem post vpvijdai, Verba
convertenda sunt: Dass, sage ich, an solche Dinge viele Miihe
verschwendet wird, den Eros aber Iceiner noch wiirdig zu feiern
versucht hat, sondern so vernachlassigt wird ein so segenreicher
Gott! a^icoS v pvrf dat. Wolfiu» ad verba tc3 6b "Epooxi
ptj6bv iyxoopioy annotavit: Man muss annehmen, und dies scheint mir
das wahrste, dass Platon vorsatzlich seinen Phædrus etwas sagen lasst,
das nicht gegrundet war. Viro doetissimo concedimus, Eroti laudatores
vix deesse potuisse ; sed cavendum est, ne Phædro aliquid imputemus,
quod nec cogitavit nec dixit. Negat tantummodo repertum esse adhuc, qui
laudem deo dignam ediderit, non negat, prorsus neglectum iacerc atque
contemtum a poetis sophistisque deum, Iam quid sit laudem deo dignam edere
s. dB,iooS vpvijdai (roV Seoy), infra paullo explicabitur.
ipavov elfey eyxetv h, e.' symbolam dare. Non caret lepore in
symposio philosophico hæc dictio, de cuins tror pico usu conferri iubet
Stal». Casaub. ad Theophr. Charact, c. XV. xo dpijdai
xov Seov. Minus qusfcrendum h. 1. est, quid omnino xodpEiv significet
et aB,iooS v/ivelv, quod paullo supra legitur, quam qua
significatione hæc verba adhibuerit Phædrus. Socratem ipsum
interpretem sume 198. E. x 6 dk apa (sc. ro iyxcopia^Eiv') ov xovxo
jjy xd xa\co$ ixaivEHy oxiovv, aAAcz xo aZs pkytdxa av axt$ iv at x
ai itpaypaxi xal co S xdWidx a iav x e y ovxgdS iav xe prf'
el dfc TfiEvdrj, ovdbv ap yv izpayjxa x. x. A. Atque eodem
fere modo ipse Eryximachus 177. D. Soxei
yap poi t inquit, Xpijyai txadxov ypoSv Adyov eItzeiv Inaivov
*EpooxoS cJ S av Svvyxat xaWidx ov. v rj ptv iy \6yoiS .
Wolf* convertit : eine reichhaltige, weit 4 tlvui rjuiv toig
xuqovOi xoOfiijtiai rov &tov. tl ow D £ vvdoxei xai vfilv, ytvoiv’
civ rjfiiv iv koyoig ixavi) dictTptfir). doxei yaa fioi yjirjvca
Zy.utirov i^fiwv kbyov tiiteiv htaivov "Eqmos 1% i dsha wg av
Svvtjrai xakkidrov, a$yuv 61 QcuSqov icgtotov, inudrj xai arpsJrog
xaraxuzai xai 1'tiuv cifia xarr/Q rov koyov. OvStlg Coi, o3 ’EQv£lntt%£,
(favea zbv Eoxqcizi), ivavzla iprjcpitilauftige Materio zum Reden. ypiv iv X oyotS idem fero est, atque yperipoiS Ir A oyoiS. Sensus est.* Wenn nun auch euch wirklich so diinkt, so
hatten wir in aasern Reden sattsame Unterhaltung» De structura
huius enuntiati vide ad 176. C. Minus probabilis Stallb.
ratio explicandi est hæc: tl ovv %vv- xai vjuiv, ovtco Ttoicoptv
yevoiro yap av ypiv iv Aoyoi$ ixavy biarpifty. i tz\ btB,ia. Sic
Bekk» Stallb* alii; Riickertns veterum editionum lectionem imbLB,ia
in tettum recepit usu Homerico nixus, quem Plato haud raro imitatus sit*
Vid. F»uttm. Lexil. 173» seqq. Fortasse recte habet iitibiByia^ ubi
narratur, quo ordine aliquid factum sit; contra quo ordine aliqnid
fieri debeat, ubi indicator, rectius ini 6e%id exhibetur, v. c.
in Piat, de rep, IV, p, 420. £. xai rovS xtpapia?
xaxaxXlvavraS t inibi%ia Ttpoi ro itvp btanivovrds Tt xai
tvcDXovpivovS H . T. A. De xPV y Cct verbi
potestate J es miisse wolleu, vide annot. ad 176. E. narrjp
rov Xoyov . J7anyp vocis insolentiam Stallbaum* leniri posse arbitratus
est addito exemplo Phædri 257* B* &aidp6s re xai iyco
Avdiav rov rov Xoyov nazipa alxioo pevoS. Fortasse
EryxtfBachus rursus ad Euripideum illum versum respexit ovx ifioS o
javSoS, aXX* ipffS jirjrpo S napa, atque a se quidem profectum sermonem
negat: patrem eius Phædram esse contendit* y ra i p anxa. De
his verbis vide Commentat. de Piat» Symp, Certissimum autem
esse existimo, Platonem his verbis lectoris animum ad futuram Socratis
orationem tanquam ad caput libelli dirigere voluisse. Ceterum ne mireris, cur,
cum Socrates ra ipoxixa initizatiSat dicatur, Aristophanes Bacchi
Venerisque cultor nomiuetur, Agatho et Pausanias indicio addito
nullo ad Erotis laudem celebrandam promti perhibeantur: Schoi.
habet s. v, f Aya$QDVoS rpa yaSt ini paXaxia
zaby . yv b* ovtoS ... itaiSj 'ASyvaioS .... naibixa
JJavbaviov rov r pay ixov, x. r. A. Qui mutuo amore se
complectebantur, iis nihil iucundius contingere potuisse consentaneum
est, quam laudationem Erotis. Non commemoratur autem h. 1. Pausaniæ
et Agathonis amor mutuus disertis verbis, quod tum temporis notissimus
erat. ovbh pyv 9 Api(StO(pdvTjS. ovbh fiyv illatam post ovre
ap t rta. ovts yaQ av xov lya c<ito<p>j<5aiui, og ovdiv
gtijyt alio IniGtotGxfai rj ra Igatixa, ovts xov Aya&av xal e
ITavUuviag, ovds yrjv ’AQiOTu<pdvr t g, a xsqI AwvvGov xal 'AtpQoSktjv
xdoct tj diatQcjli), ovds allog ovdelg tovtavl av lya oQa. xal r oi ovx
l| iGov ylyvstai 7jy.lv Tolg vGtcctoig xataxstfdvoig ' ali’ Idv oi
xqogQsv txavu g xal xal wg sYxaOiv, IgaQxtGst r}yZv . alia tvxu
prime respondet Latinorum neque vero etiam, quibus verbis res quædam
induci solet, quæ maioris momenti est, quam res paullo ante per
simplex neque commemorata. Igitur cum gravitate Aristophanes totus
perhibetur cura Baccho et Venere occupatus esse. De Baccho liquet, nam
res scenica, inquit Stallb., Baccho erat sacra, vid. Casaub. de
Satyr. poesi 9. ed. llamb. Venerem autem commemoratam h. 1. censet
Riickertus, quod plenæ sint ve n eris Aristophanis comoediæ.
Wolfius ad h. 1. annotat : In wiefern er mit der Venus zu thun gehabt habe,
bezieht sich vielleicht auf einen Umstand, der der Gesellschaft bekaunt
sein konnte, fiir uus aber verloren gegangen ist, vielleicht auf
die Sitten ' des Dichters. Aliter nobis videtnr de hoc
loco statuendum esse, quamquam in hujusmodi tenebris quis clare
videre se audeat dicere? Ilaud raro Socrates nomina propria facili
quadam litterarum mutatione corrumpere solebat atque ita immutare, nt nomen
existeret, quod aive laudem sive vituperium exprimeret. Exemplo est 198,
C., quo loco Gorgiæ Gorgnsque nomina inter se conferuntur lepidissime.
Adhibita accentus mutatione in ’Ayd$oov et dya~ Scov nominibus ludit 174. B. Quid, si
etiam hoc loco in Aristophanis nomine lusit? Significat 9
Api6xo<pd.V7}S cum, qni optimum prodit. Optimam autem, veteri
proverbio, vinum et venus est, quod Græce audit: dptdxov diovvdoS
xal *A(ppo~ dlXTf . x ai x oi ovx i B, Id ov —<*AA.
Magnopere se torquent in huius loci explicatione, qui xal xoi
conianctim exhibuerunt. Ut gravior esset xoi port. affirmatio, vocula ex
scriptoris sententia initio enuntiationis ponenda erat. Id quoniam vetant
fieri linguæ leges, xai expletivum præpositum est, do quo 6.
diximus. Latine reddenda sunt verba: Pol non æqua couditione, qui ultimi
consedimus, utimur. Quæ sequitur aWa particula, ita commode explicatur, nt
omissum cogitetur, quod facillime suppleri potest: 7 j/ieiS ovv ovx
ipovfiev^ «AA* idv iBiapxidei Locus nostro simillimus est Parmenid.
128. C. xai xoi GJSnep ye æl Adxatvai dxvXaxeS ev pexaSeiS xe xal
IxveveiS td \£X$ivx a. aXXd npuxov fiev Ce xovxo Aay$dvet, oxi x.
x. A,, quo loco ante aWd facillimo suppletur ovx zvpeZ xrjv
afa/Seiav. 4 * ! aya9y xaTaQ%itto OtauSpog xtu
lpta[HCc£ha rov "Egona. Tavta S>) xal ot nXHoi xaw Eg uqu £
we<p«<Sav t e xal 178 helevov axtg 6 Zuxqkti] g. ndvrav ylv ovv a
exadros tfotev, ovre navv 6 'AgiOroSyyog lu.iy.vyto oirt av tyto «
helvos Ueye mxvtct. « ydliGta xal av l<5o£e fioc d^ioyvrjfiovevtav
sivca, tovttov v/iiv iga exdtStov xov loyov. tffiiv to iS v6tdx 01 $ xax an eipkv o tS. Dictam supra est 175.
C. xov ovv 3 'Ayd Saova, x vyxdveiv yap kdxotxov naTaxalpevov, povov *
Jevp cpctvai, oo 2ooxpaxeS f nap iul xaxaxeido. Sunt igitur
ol vdxaxoi xataxeipevot Socrates ct Agatho. xv XV
dyaSy. Formula erat, qua feliciter succlamare Græci solebant iis, qui aut
navem conscendebant, ant ad bellum proficiscebantur, aut aliud negotium
suscipiebant, cuius incertus eventus esset, cfr. Griton. 43. D, dW\ gj
Kpitcov, xvxy aya$y. navxeS dpa £vvk<pa6 av. Wyttenb.
scribendum coniecit dpa pro dpa t qua contectura efficitur, ut omnes uno
ore consensisse dicantur. Hoc consentaneum est convivas fecisse.
Sed quoniam non sine turba et clamore hoc fieri poterat •* nt
quietius convivæ egisse viderentur, dpa non dpa Plato scripsit. De hi^ius particulæ significatu vide Heisigii annot. ad Oed.
Coi. Enarr. CCVIH.
Ortum dpa est ab apeo, soletque adhiberi, ubi ab argumentorum
enarratione oratio ad finem tendit, h. e. ad conclusionem. Et cum
singulos convivas Socrates nominasset ita, ut simul, cur ad laudem
Erotis prædicandam parati essent, caussam adderet: ' om nes
igitur consensisse perhibentur. Minus
apte Schleierm. in conversione: Hierrait nun stimmten dann anch die
Uebrigen alie uberein, ovre navv 6 *Api6t o et 1 J' poS. De
horam verborum fine^ vide quæ dicta sunt in Commentat. de Piat. Sympos.
Minut placet, quod Stallb. attulit ad ad hunc locum: Caute,
inquit, hæc interposuit, ne legentes in eam inciderent opinionem,
ut has orationes revera habitas, non ab ipso cuiusque ingenio
convenienter fictas esse putarent. a^topvypovevtcov elvai.
Codd. plerique a£,io pYTjpovevxoY j Bodl. omisso elvai 00
habet dZtopvrjpovevxov; in Paris, uno, Vindob. duobus pancisque aliis
d&iopvijp6v£vta exstat, quod Bekk. in textum recepit, quem Stallb,
Riickert. alii secuti sunt. Videlicet docti viri negant,
a^topvripovevxovS oratores vocari posse, atque non nisi orationes illo
epitheto recte Insigniri. Aliter nobis de hoc loco statuendum
videtur. Verba xovxoov vpiv ipoo kxadtoy xov Xoyov ad præcedentia
referantur drv UoB,k poi dZiopvypovevxcov elvai: verba a pa\idra nihil habent,
quod ipsis 9 I Cap. VI. Flgarov
(ih> y«Q, Cstuq Xiya, Irpi) &ui8qov aQ^dftivov tv&ivdt xo&tv
ktyuv, ori filyag &tos ut) 6 ”Equs xal fravfiaatos Iv av&Qthitoig
re xal &Eolg, sroA Aa%jj fiiv xal aXXy, ov% rpiMtd de xatd rtjv
yivEdiv. rd 'yuQ Iv tolg XQtafivzcccav tlvcu tbv &eov, tlyuov, ij 8’
os' tex/iq- B respondeat. Igitur dubitari nequit de xai voculæ
potestate, Kctl nimirum auget corrigendo sigoificatque atque
potius. Exempla si requiris huius usus, vide Stallb. ad
Apol. Socr. 23. A. Convertenda autem verba sunt: Was mir nun am
meisten oder besser, welche Redner
mir am wichtigsten und merkwiirdigsten zu scin schienen, deren Keden will
ich euch einzelu darstellen. Proprie dicendum erat oi E8o£dv poi
p <x\i6xa a.B,iopvjjpovevxoi elvai, xovxarv .... Genitivi e præcedente
d exapta ta sunt, quod xai addito quoaiam pæne evanescit, infra
positum habes xovxgov vplv ipdb kxa6tov xov Xoyov. Ceterum ex his
verbis iodicnri licet de Apollodori ingenio, qui orationes non tam ex
orationum rationibus, quam ex auctoritate et celebritate oratorum
indicabat. Simili ratione paullo infra 180, C. non orationum, sed
oratorum oblitus esse dicitur Apollodorus his verbis: $al8pov p\v
xoiovzov riva \6yov Z<pij tinuv, pera $at8pov aAAovS’
tivaf, (li. e. oratores non orationes,) elvat, ojy ov jtavv
dispvt]liovev ev. icp&xov p\v yap. Phædrus demonstrare studet,
Erotem deum antiquissimum et honoratissimum esse, atque summorum
bohorum, virtutis atque felicitatis benignissimum auctorem. Vide Comment. de Piat. Sympos. Ceterum de Phædro, Pythoclis filio,
quem Socratis æqualem fuisse negat Athenæus XI, p, 505. F., et qui
in Protag. 315. C. inter Calliæ convivas memoratur, rectissime Stallb, m
Erat inquit, homo mollis ac delicatus, <Soq>oS T a ipGDZixd
vid, Phædr. 227* A, Sectatus autem rhetores Siculos, iuprimis Tisiam et
Lysiam, mirifice sibi placebat in oratione comenda et calamistris
ornanda» vid. Phædr, p, 227.» 273** al. Itaque oratio, quam
Tlato hic ab eo habitam facit, habet nescio quid fucati coloris et
ornamenti, ut facile appareat, hominis ingenium et mores ut ceterorum
convivatum, q Platone ad ipsam veritatem esse expressos. rd
yap iv xoiS iep£6fivr xaxov. Sic optimi codd. Legebatur olim iv roiS
TtpetipvtdXoiS sequente elrat xc ov Segov. Non dubium est, quin
dixerint antiquitus Græci iv xoiS itpstipvtdtoiS Tipedftvtarov et
iv raiS nps6pvrdxaiS itpstipvtaxr\v\ sed usu loquendi factum
paullatim est, ut non solum iv xo U ltpE6fivtaxoS dicaretur, sed
qiov de tovtov' yovijg yc<Q "Eoatog ovz elolv ovre ktyovrcu vtc ovdevog
ovre ISiutov ovre TCoitjzov, aAA’ 'HaioSog xquwv filv %aog yeveO&ca
(ptjOlv, ' avtdp inerra etiam iv Toi? rtpedfivtdry, Videlicet
ea amplitudine verba £ v toi? esse voluerunt, ut quæ generis discrimen
non suscipiant, quasi dicas, omnium rerum, quæ cogitari possint,
antiquissimam, maximum, pulcherrimum. Exemplum huius structuræ est 173.
B. napayeyovei 8* iv ry dvvovdine 2ooxpdrov? ipetCrrj? cov iv toi?
paXidra tcor rore. Adde Symp, 178. C. iv xoiS 7tpedftvraro?
elvai. tifiiov, i / 5* o? . In upo Vindob. exstat eido? pro y
8’ d?, ex qua scriptura, dupliciter posita rifiiov vocis syllaba
finali, rijiiov ovetSo? effinxit Creuzerus ad Plotin, de Pulcritud.
p, 146. Consentire videtur nobiscum vir doctissimus, tlpior verbum
hoc loco "admodum frigere, neque nilo modo præcedentibus
dei epithetis ^avpadro? et piya? respondere. Exspectaveris
potius superlativum, qui exstat apud Aristot. Metuph. 1. 3.
rifUQora* rov yap rd Ttpedftvrarov, Non mutandum est y 8 1 5?,
quibus verbis ipsissima Phædri verba premi manifesto indicatur. Phædrum
nutem dixisse reor: r o yap iv rot? nptdfivrarov eivat rdr 3coV ov
rifuov . Addita negatione et interrogatione instituta efficitur, ut"
orationis vigore vis superlativi compensetur. Ceterum eo facilius
scribæ passi sunt negationem a præcedentis verbi syllaba finali
absorberi, quo minus iotelligerent, interrogandi signo forte, ut fit,
oblitterato, qui possit non honorifica esse laus
antiquitatis. T EXfltf ptov 8 £ TOVTOV. Hacc verba si abessent, a
nemine desiderarentur, et facilius suaviusque flumen oratiouis procederet.
Cui euim non arrideat, enuntiatorum iunctura hæc : rd yap iv t 61?
7fp£(jpvraxov elvai rov Stov ov xt/uov; ?/ 8 9 u?, yovy? 8e,”Eporo?
x, r.A. Cave tamen otiosum additamentum T exuypiov tovtov verba
cen seas. Nimirum orationis continuitatem ita intercidunt h. J., ut
gravior fiat caussæ commemoratio; simulque indicant, quoniam oratorum, ut
videtur, propria sunt, Phædri orationem verbo tenus referri,# Huius
rei, h. e. accuratissimæ repetionis, iudicium sunt etiam ?/ 8 ds
verba, quæ Apollodorus posuit, ut clarius indicetur, iuitium
orationis non nisi Phædri sententias, Aristodemi, non ipsius Phædri
verbis descriptas ( ap^dpevov iv$£v6e itoSiv') contiuere, nunc autem ita
pergi in repetenda oratioue Phædri, ut etiam ipsa eius verba
repetantur. Ceterum perraro xexpypiov 8i, paprvpiov 8i, similia ponuntur,
quia in subsequentihus yap part. reperiatur, v. c. Plat, de Legg.
VII. 821. E. r expypiov 8i, iycd tovtov ovre vio? ovre itaXat
axyxoa depov. ovx eld\v ovte i.iyovtaiy II. e. neque sunt
revera parentes Erotis, neque esse a Vat £vpv6xspvo?, Ttdvtcoy e8o?
a<5(paX\? aiei f ’H8’ "EpoS. &rj(Sl {ietcc ro
%aog 6vo rovta yeviti&cu, yrpv re 'Aoi "Eqch tcl. IIccQpsvldr (
g 8e trjv ttvttiiv liyzi, quoquam perhibentur. Non esse
revera parentes Erotis, non probator; non dici a quoquam ita tantummodo
confirmatum liabes, ut allatis versibus quibusdam, quid Hesiodus et
Parmeuides de Erotis ortu tradiderint, edoceare. Notabis
igitur, quam Plato carpit, levitatem argumentandi. ovxe i 8 1 cozov
. ’l8iarr?]f latissimi significatus verbum est, quod plerumque ex
opposito accuratius definitur. Igitur non placet Ficini conversio:
Id autem ex eo c o 11 s t at, q u o d parentes Erotis a
nullo vel poeta vel alio quovis descripti sunt. Nec prosarium
scriptorem cum Stallb. interpretari velim Idiooxi]?
vocem. Antiquiores enim philosophi, ut Parmenidis exemplo
docemur, prosa oratione non usi sunt, cfr. Olympiod. ad Phædon» p,
65« E* izoiTjxaS XeyEi ( sc. o JlXd ro ov) llapjiEvL8?fv f
'EpTttdoxXiot, *Entxappov* ovxoi ydp x. t\ A. Consentaneum est
autem, philosophos et poetas ibi tangi, non poetas et prosarios
scriptores, tibi in Erotis originem inquiritur» Convertit
Schleierm.: von irgend cinem Dichter oder andern Erzahler» Exempla
si quæris IduaXTj? vocis ex opposito explicandæ, legitur infra 178.
D. ovxe tcoXiy ovxe ISiqjxtjy h. e* vreder ein ganzer Staat nocli
ein einxelner Biirger. Prot. 322. *C» ei? Ixooy laxpixijv
itoXXoiS IxctvoS l8icoxatS x* x. A. tprjdl pexa ro x^oS x a i ”E p m r a. Hæc verba quoniam cum
autecedentibus nullo modo consociari possunt, Ileindorf., quem Schleierm»
secutus est, post Iloio8oS pronomen relativum o? ponendam ceusuit,
Wolfins <pij6\ 67 scribendum existimavit. Ileynius, Astins,
alii, verba glossema censent, quod iudfcium Riickertus probaret, si
Socratis hæc verba essent, non Phædri hominis inepti* (?) Sed ipsum
audi Kiickcrtum: In Phædri, inquit, oratione nihil decerno, quæ
tota tam inepta ei/, ut ii tollere velis omnia t quæ displiceant,
haud scio, an nullum versiculum sis incolumem habiturus . (!?) Plato poetarum versus laudare solet
duplici modo» Aut nudos versus afiert, aut commemorat aliquid,
quod idem in sequentibus versibus continetor iisque
comprobatur. Atque huius quidem rationis exemplum occurrit p, 195.
D. n OytjpoS ydp *Ax?}v Seoy xe <pj]6iv ejvcn xa\ ditaXr/v'
xovt yovv 71 6 8 a S avxij? dita~ Aou? Etv at, XlycoY
Tij? piv$' djraXol TiddeS* ov ydp iit ov6eoS niXvatai y aXX’
apa 1 ) ye xax* dv8poav xpdaxa fiaivei. Prioris rationis exemplum
est 197. C. Nusquam, quantum scio, poetarum versus laudat
ita, ut prolatis ipsis eorum prosariam explicationem addat.
Fortasse cum Riickerto foedidam quandam Phædri sedulitatem Platonem
notaturum fuisse contendis. Audio, / f » npoitititov pkv *
Epcora Itetur pijritSato xavrojv. C Htitodu 81 xal ’Axov<slk ag
ofiokoyti. ovta itolkct%6&tv neque probo tamen. Nam hoc certe negari
nequit, Phædrum recte loqui potuisse, ut non credibile sit, eundem hoc
loco balbutientium instar locutum esse. Scribendum videtur esse:
dAA’ 'Hdlodof xpturov plv xdoS tp?j6l yevidSat avtap
Ixeixa tpj]6l yai’ ev pv 6t epv oS, nav tcov 28oS
adqxxMs alsi rj 8 * "EpoS. Repetitum tprjdlv est, quo
magis pateret, ab obliqua oratione ad ipsa poetæ verba trausiri.
Factum autem videtur esse casu quodam, ut tprjdiv a sede sua in eo
loco, quo id codd. exhibent, collocaretur, ubi ansam dedit nescio
cui sciolo Hesiodeos versus prosaria oratione explicandi. De
tprjdi verba ipsa poetæ indicante A. $al8poS yap b«xQTore itpoS pe
dyctvcottoov Aiyet* ov 8eiv6v, tprjdiv x.r. A. Adde p, 202. C. Tcal iyco
eluor, TtCOSTOVTO, 2<pTjv, \iyeiS. Alcib. II, p, 142. c. 8. A iyei
8i xooS tu8i * Zev fiocdikev, r a plv a, <prj6i, xai
evxopivoiS Ttotl avevHTOiS ctppi SiSov, rcc di 8eiva xa\ evxopivoiS
axaA dB,eiv yteXe-vei. Tlap pevidrjS 81 tcov, Hæc quoque verba sunt, qui
expungenda censeant. Omisit ea cum superioribus tprfdl pera ro xdoi
8vo zovzgo ' yevidSai, yrjv re xal " Epcora, Stob. in Kclog,
phys. I. 154. Verba sanissima esse iam colligere possis e præcedentibus
verbis ov8l idtturov ovre icotrjtov,
Quibus ! commemoratis et poetarum et philosophorum certe
unum exemplum laudari debebat ; si Hesiodum solum Phædrus laudare
volebat, philosophorum mentionem facere non debebat. Verba
sanissima esse etiam e rectius explicato TevidecoS verbo patebit.
Sic statuo: Duæ sunt in Mythologia Græcorum Veneres, quarnm altera
maior, altera minor ætate, Atqne minor quidem dea, *Aq>poSirrjS nomine
insignita, a poetis celebrabatur, a populo colebatur. Maior natu dea,
quam numen rectius voces, iis tantummodo nota erat, qui omne
studium in coguo&cendis rerum caussis ponebant, b. e. viris
philosophicis, Factum autem videtur philosophorum inter se dissentientium
industria, ut plus minus divinæ dignitatis dea maior nata particeps
haberetur, et cum vario modo spectaretur, ne certo quidem nomine
insigniretur. Tivediv eam vocarunt, et $i\lav f et XaoS ; æque,
qui fons est magnæ confusionis, ab A<ppo8l r rjS nomine abstinuerant,
quin maiori illi deæ interdum attribuerent. Sic Plutarch. Erot, 756. F. UtppoSityv posuit pro Tevedet,
sed addita Ipycav voce, qua nominis mutatio satis excusatur: 8io
IIappevl8ijS plv axotpcdvei r ov "Eptura rtuv ’AcppoSirrjS ipycov
xpetifivrocrov iv zy xodpoypacpia ypdtpcav * xpoSzitirov plv * Epoota h.
r. A. rive 6iv autem Parmenidei versas subiectum esse, etiam
Aristotelis verbis probatur Mctaph. 1. 4. xal ydp ovroS (sc. fla p
pe opoAqgtirtu 6 *Eqc>s iv rofe XQE<S(Svtatos tlvai. XQtaflvtorros ol tw
ptybSxsov &ya9mv ij ftw a?ttos itfrtv. ou viSrfS)
xctxadxEvdZoov rrjv tov navxoS yivediv' npcvxidxov p&v, tprjdiv
f "Eparxa Sevtv pr/xldaxo ndvxcov. Notasset enim, si revera abesset,
sabiecti absentiam philosophus. Satis notus autem Græcismus est»
quo dicitur trjv Ovediv Xiyei
nptoxidxov x. r. X, pro Akytt * npoSxidxov ptv rj rivEdiS
*Epooxa Segqy pTjxidctxo ndvxoov. Iam patere opinor, Hesiodeos
versus cum Parmenidis testimonio optime convenire. Nam quod Xaos
apud illum est, ttyedis Parmenidi vo catur, Igitur nullo modo probanda
est ea evplicandi ratio, qua Phædrus callide dicitur subiectum versiculi
reticuisse, ne quod testimonium pro sua sententia afferat, quod idem
contra ipsum testari nimis manifestum sit. Verendum nimirum erat,
ne quis convivarum, qui Parmenidis versum memoria teneret,
erroris atque fraudis loquentem accusaret, aut, si non teneret, e
vestigio subiectum rogaret. Ceterum quod terram simul Hesiodus
commemorat, (videlicet ut esset, quo incedere Eros posset), id ei
non officit, qui deorum antiquissimum Erotem probaturus est. Addere
placet Simplicii ad Arist» Phys. 9. revidecaS definitionem. Indicat
nimirum, Parmenidem habuisse $eg5y alxiav Scripovct iv pido» ndvxarv, T]
navxct Hvftepra, quam 3 Avdyxrjv s. xrjy xAydovyov Stallb.
minus accommodate interpretatur, xal *Axov diXe uf o /iodo y
e 2. Suidas habet; *Axov~ diAaoS, Kafia vlof 9 ‘ 'ApyeioS ano
KepxdSoS noÆaS, ovdtfi AvAiSoS nXrjdiov, IdxopixoS npedftvxaxoi *
iypanpe <5£ yeveaAoyiaS ix 6iXx oov ds XoyoS evpelv tov naxipa
avxov opv&avxd riva xonov xrjS oixiaS avxov . Hinc de Clem,
Alex, testimonio iudicabis, qui Strqm. VI, 629. A. Acusilanm nihil
nisi Theogoniam Hesiodeam in prosam orationem convertisse docet. Phædrum
Acusilai auctoritate temere usum esse contendit Stallb. Habet,
inquit, hominis oratio, ut iam supra dictum est, nonnihil
sophistici acuminis et tumoris. Aliter nos, atque fecit Stallb,, de
Acusilai testimonio indicamus. Videtur Acusilaus Argivus non
Hesiodi solum mythos collegisse atque in prosam orationem
convertisse, sed etiam aliorum poetarum narrationes addidisse, ut
fecisse constat omnes eos, qui Logographorum nomine insigniuntur. Iu
tanta autem, quanta erat antiquitatis farrago mythorum, critica abhibita
sedulo caverunt, no discordia etinter se pugnantia colligerent. Fieri
igitur poterat, nt Acusilaus interdum ab Hesiodo discreparet; igitur
illius testimonio Phædrus uti potoit satis commode, cfr. Otfried Mulier
ia den Prolegg. zu einer *isseuschaftlichen Mythologie 13.:
Iudcssen hatten sie (die Logographen) zugleich die Absicht, die Mythen zu
ordnen und io Zusammenhang zu briugen, woriu ihnen auch schon die
kyklischeu und geueslogischen Epiker vorangegangen wareo. Bel
diesem yuQ %yay typ tlxsiv o zi fieltov louv ccya&otUtov&vs
vtco uvzt, ij iQætijS * Kt tQCKSzi] ncadixu « yag Ordnen mussten
natiirlich oft Mythen vorgezogen und aufgenommen, andere
zuriickgestellt und iibergangen, es mnsstc eiue gewis.se Kritik
geubt werden. ovtcj 7t oWaxoSev opoXoy
eiTai. Parmenidis Tersum delere dubitarunt interpretes non pauci
ideo, quod ridiculum e&set, solo Hesiodi et Acusilai testimonio
laudato ita pergi : ovzca xoXXaxfaty opioXoyEitau Hæc verba
num excusabiliora censes testimoniis allatis tribus? Speciosius quam
verius annotat ad h. 1, Wolf, : Er braucht, wiewohi er nur drei
Gcwahrsmanner on-gefiihrt Hat, TtoXXaxo^EV, weil em jeder von diesen das
Haupt einerSekte war, au deren Gruudsatzen sich eine Menge anderer
bekannten. Quid tandem? Num ad Phædri confugiendum est sophisticum
illum tumorem? Non, placet. Ovtgd seiungendum est a tfoXXaxb$EY
verbo, non arctius cum eodem coniungendum, quod interpretes ad unum
omnes fecisse video. Ovtcj est, ut alias sæpissime, hac, qua dixi,
ratione, hoc modo. Scbleierm, verba convertit: Von so vielen Seiten
her wird dem Eros zugestanden, unter die altesten zu gehdren» Phædri hæc
potius mens est: Auf diese Weiao wird noch von vielen andern
zugestanden, dass Eros der alleralteste i st. Ovtcj vocis sic positæ si exempla quæris, cf. Piat. Menex. 240. A., ubi commemorata Persarum regum
felicitate hæc leguntur: ai di yvwpai dedov- i Xcjpivai
a7tocvtcov dv&pujecay ?]dav • ovtcj noXAd xal peyaXa xal pdxipa ykvij
narotdEdovXojpkyrf t/v Tf TJtpdcoy dpxrf t h. e * hac ratione
factam est, ut multæ et magnæ atque fortissimæ olim nationes Persa-
4, rum potestati subiicerentur. Adde Symp. 188. D. ovtcj KoXXr t
y nat piydX?jy, paXXov 6£ itdtiav dvvapiv ix Et HvXXt/PSrjr
p\y 6 7CaS "EpojS, quo loco e» sententiarum nexu patet, ovtcj
esse hac ratione, hoc modo. itpEdftvTaToSdecjy peyidTcoy ct y
a $ gj y ijplv aftloS IdtlY, Ficini, ut videtur, horum verborum
conversione motus: Cum vero talis sit, maximorum bonorum nobis est
caussa, Bastius scribendum coniecit: irpoS dfcrouro» tmr % peyidtcov h.
t. A. Frustra. Transitur his verbis ab altera oratiouis parte ad
alteram, h. e. ab ætatis ad beneficiorum commemorationem. Non omni
ex parte Græcis verbis respondet conversio Stallb. ; Quem ad modum
autem est deorum antiquissimus, ita idem nobis est auctor maximorum
bonorum. Est enim, quam ille non reddidit convertendo, species
argumentationis verbis admixta, quam sophistarum sectatores captare
solebant. ov yap iycoy noti ipadxjj tc aiStxd.
Riickertna ad h. 1. annotat: Non accurate hæc disposita sunt; quum
enim esiet dicendum: nullum est maius bonum homini, XQrj
ctv&Quxoig yyEi6&ccc itavros rov (Uov toTg t-dlhivGt, Aul cos
(hmOst&ttt, tovto ovte fcvyyivsuc ola re tfinotuv quam A PRIMA
IUVENTUTE probus AMATOR, et postea AMANTI PUER similis, sic
eloquutus est, quasi otrumque ad verba evSvS vico ovxi esset referendum,
Quod fieri non potest, nec voluit cogitari orator. Notandum hoc duxi,
sicut alia multa in hac oratione, quo magis fiat perspicuum, quam
multis ea vitiis laboret in omnibus, quæ ad sententias earumque cohærentiam
pertineut. Quod quum perspectum fuerit, qua cautione in textu
talium locorum castigando utendum sit, plane iotelligetur. Cur de uno
eodemqne homine accipienda sint hoc loco, non DE DUOBUS HOMINIBUS
MUTUO AMORE se amplectentibus, vioS et ipatitijs verba, equidem
caussam nou video. Ruckerto non rectius Sdfileierm, verba
interpretatas est: Dean ich meiues Theiles weiss nicht zu ssgen, was
ein grosscres Gut ware fur eiuen Iiingling, ais gleich ein wohlmein
en der Liebhaber oder dem Liebhaber ein Liebling. Ad xaiStxa
repetendum interpretes censent jf/aj/dta. Minus apte, ut videtur. Nam
nihil melius esse iuveni quam probum amatorem, Phædrus ita
profert, ut iureni opus esse indicet homine aliquo, cuius præceptis
et exemplo melior fiat. Non potest autem is, qui melior
reddendus est, eius, qui meliotem reddit, h. e. AMATORIS epitheto
ornari. Si igitur XPV& *oS nomen repetendam est, ad ipadty referendum
est, non ad kaidixa. Ceterum Riickerto assentimur de structuræ molestia
querenti, qua et ad AMATOREM et ad amusium verba non referri non possint: ev$vS
vico ovrt, de lectionis veritate non assentimur; sedulo enim cavendum
est, ut nimio studio servandæ alicuius lectionis ne iniusti simus
atque vitia v alicui imputemus, qui nulla commisit. Ne multis, scripsisse
Plato videtur: o v yap iyooy &X& sIxeiy, oxi pst£ov itixiv dyaSov
ev$vf vico ovxi, Tjipadrrjs xal ipadtjj, (sc. XPV&&)
V ^ou6txei 0 Sententia verborum hæc est: Denn ich kenne kein Gut,
das eiuem gleich von dea friihesten Iahren an dienlicher ware,
ais ein verstiindiger Liebhaber, und das diesem ( dem
verstaiidigen Liebhaber} dienlicher ware, ais ein Liebling.
avSp cotcoiZ rjyzi6$ ail De jjyEidSai verbi structura vide
sis Indices. Ceterum interpositis verbis pluribus a verbo, ad quod
pertinet, seiunctum est xoiS piXXovdi xaXdoS fttQo6E62ou, ut vis maior
esset enuntiati. Sensus est: deno was den Menscheu ein Leitstern sein
muss des ganzen Lebens, nam licii denen, welche recht zu lebeu
wunschen, cfr. p» 198. E. ro 81 apa, (gJs’ Hoixey, ov tovto rjv x 6
xa~ XcoS iit ot.iv eiv otiovv x. T. X. f ad quem locum vid.
ann.ad 202. C. tj xoXprj6aiS dv tiva. pij <pavai xaXov x e xal
svdaipova $ Eooy elvca ; tovto ovtE Hvyyivsia x, t. X. Pro
Hvyyiviia Wyttenb, Epist. erit, p, 9. evyiveui D ovta jeaAros ovts tifial
ovts nlovtog oi W «AAo ovSiv (o S £qo S . tiya 8's 8rj il tovto ; rijv
iarl fisv totg cdaxQocs al6%vvT[v, Ixl de totg xaloig tpiXoufilav. ov yuQ
Zauv avtv tovtav ovts ttoXiv ovts Idiatqv (isyaA.cc xal xcda %Qya
QtQya&GSai. tolwv lyio avdgcc ostig Iqcc, scribendam coniecit, quod
fuerunt, quibus magnopere placeret* Stallb. gvyykvEiav gratiam
esse contendit et auctoritatem, qua quis propter hominum
potentium affinitatem apud alios valeat. Rectioris explicationis
gloriolam mihi præreptam vides a Riickerto, qui B,vyykvEiav de ipsis
necessariis accipit, de eorum disciplina, maxime autem de pudore,
quo horum cogitatio iuvenem afficiat. l)icit enim, Riickertus ait,
in sequentibus, nec matris nec patris tantopere, si quid peccet,
pudere, quam eius, quem amet, pariter que AMATVM AMATORIS AMANTE
AMATO. Conferri iubet præterea Legg, I. 627. C, nxeo vtgjv jj.Iv
xoor itovifpdjv {j te olxia xal 7} B,vyykreia avrij 7ta6a ytrcov havtfjS
Xkyoix av. V, 320. B. itoXiv te xal <pi\ovZ xal B,vyykvEiav,
Adde Alcib. I. 105. cap. V, xal ov t inixponoS ovte dvyysvijf ovte aAAoS'
ovdels IxavoS rtapaSovvai ttjv dvvapiv x., T. A. Restat, ut de
verbis dicamus ovtco naAoiS, quæ a viris quibusdam impugnata
sunt ac permutata, Reyndersius nimirum pro ovtcj xa\<jj£
scribendum censuit ovte xaWoS infarcto ante IpitoiEiv verbo ovtcjS.
Iacobsius legendum proposuit : ifutottiv ovtcjS 9 ovte xaXAoS
x . r, A. Ovtcj xaAcjS verba Phædrus addidit, ut indicaret, aliquid
conferre ad corrigendos mores tara parentum admonitiones tum honorum divitiarnmque
faturam possessionem : sed his maiorem esse atque validiorem amorem.
Igitur mutationi non locus est, neque satisfacit Stallb, dicens.;
quamquam pulcritudinis mentio in talibus frequens est, tamen non
ita necessaria videtor, ut libris invitis aliquid inferciendum sit y præsertim
quum addantar hæc: ov t aKKo ovSkv, quibus verbis cetera | quæ
vulgo bona habentur, significari manifestum est. Verbis ov x aAAa
ovdkv amicorum favor, gloriolæ dulcedo, alia hoc genus subintelligi
possunt, pulcritudo non potest. Patet enim, non nisi de bonis
sermonem esse, quæ recto vitæ modo servantur augenturqne, cadunt malo.
Polcritudo autem non metuendam est, ne malefactis imminuatur;
igitnr ea non movetur, qui pulcher est et malus, malos mores ut
corrigat. Igitur ab hoc loco pulcritudinis commemoratio alienissima
est. Bene FICINO: hæc natem nobis neque genus neque divitiæ neque
honores præstare citius ac melius quam amor possunt. \kyta 81
81} ti tovto; Scriptum 'est in aliqnot codicibus: A kyo 81 6jj ti tovto
\ quod Bastius recepit. Iniuria. Sententia enim foret nostro
loco minime conveniens: Num est aliquid id, quod dico? et ti
al<S%Qov itouov xcadSijlog ytyvoixo rj itdoyav vito tov, di avavdQiav
(irj iqivvoyitvog, ovt av vito itaxgog offntivxa ovrag dlyijiScci ovts
vnb halpuv ovts vit ailov ovdtvog ag vit 6 itaidixiZv. xavtov Ss tovto
xal E xov iQcofiivov oQajisv, Btt SiatpeQovtag tovg tQu6tag
aut demto interrogandi signo j Est autem revera aliquid, quod dico.
Sexcenties apud Platonem rcperies mediæ orationi interrogationes
interseminatas, quibus efficitur, ut ad rem, quæ proferatur,
lectores attentiores reddantur. Vid. A st. ad Piat, de P* 29.
Heusd. spec. erit, 87. cfr. Sympos. 206. E. itavv pkv ovv, £<pj
/ • xi 8 ?) ovv TTjS yevvtjdeooS; Ceterum Stallb. hæc verba
explicat: zi de 8?} tovto idxiv, o XiycD, Commodior videtur explicatio hæc,
ut, cum primitus dicatur A iyco di) tovto, interposito
interrogandi verbo ti, verba illa immutata maneant Xiyco 8?) - ti tovto.
Ad huius dictionis exemplar verba Phædon, p, 73. C. emendanda sunt:
ap ovv xal to8e 0 // 0 A 0 yov/iev, dzav ixidn/pr/ itapa yiyvr/rai rpoxeo
toiovto), ava/ivi/div alvai ; Xeyoj 8e tiva Tpoxov tovtov . In codd.
aliquot bonæ notæ riva pro tiva reperitnr. Stallb, scribendum vidit esse
Xeyco dfc riva Tpoxov; Tovtov*, neque tamen ipse sibi satisfecit. In verbis,
^juæ interrogationi præcedunt, cave credas, Tpoxov verbum ita positum
esse, ut quod in sequente interrogatione qxplicandum proponatur.
Scripsisset enim Plato, hoc si, edicere voluisset, A iyco 6h Tpoxov
tiva tovtov; Scripsisse videtur autem: A iyco 6} riva rpoxov tovto; sc, t
6 dva~ pvr/dw eivai zo Ixidn/pr/v i totpayiyvEdSca. <prip\ toivvv iy<o . h. e. Meino Meinuug ist also nun.
Quæ brevius ante dicta erant, ea nunc a Phædro
referuntur explicatius. In sequentibus cum Astio et Riickerto comma
ponendum curavimus post vxo tov, ut 8i avavSpiav artius cum pi/
apvvopevoS couiungendum esse indicetur. Verba ovt av vxo xarpoS
o<p$evTct Ruckerti explicationem £,vyyi~ vtiav præcedentis
confirmant. MV a fivv opev of, Nam viri fortis esse potabatur
iniuriam acceptam ulcisci et punire. Stallb. zavtov 81 tovto.
Duplicem structuram hæc verba admittunt. Aut enim absolute posita
cogitari possunt, aut ab in- equente opaopev apta. Prior explicandi ratio rectior. Sed audi Stallb. annotantem
ad hunc locum: In his, inquit, tavtdv Tovto absolute positum est.
Cf. Phileb. 37. IX pdov ovx op$rjv ptv do£av ipovpev, av dpSoTrjxa
itixXh tovtov 81 7/8 ovr/v; ubi Tavrov 8i absolute accipiendum:
pariterque voluptatem. Cratyl. 404. E, tavrov 6h xal xspl tov
'AxoAAgq. Protagor. 344. D. xal yscopyov x&tenv &pa
ixeXSovdat dpr/xavov av Seir/ xal laxpdv zavzd tocvta. Menon, 90.
D, «2 ai<fywET«i, otav 6(p&y iv cdtixQV tLVl
et v - d ®w %avrj rtg yivoLto, cagre noXiv yeveg&ai xj
axgccxoxeSov tQaOxav Ti xal nui8ucdv, ovx k'<Sxiv oitag av cc/iavov
olxfcsiav xxjv sccvtdv jj axE^uficvoi xiavxav xdv aia%gdv xccl
xpdounovpevot xgdg dMqiovg. xul (iccxoftivoi y av ovxovv xoc\
7txp\ CCVfofySeOOf xal ruv aWaov ravxa xavxa icoWi / avoict ItiTiv,
ftovXajiivovS x. x.X. Demosth. Midian. 526. extr. cd. Reisk. fæiS*
6 nXrjyeif ht&voS vito xov TIo\v$i/\ov ravto xovxo iStoe
dtocXvodyeroS ovd’ elSijyays tov IIoXvZijXov. Loquendi genus tum alibi,
tum hoc loco viros doctos fefellit. iv aidxpfi ttvt cov. *
Ev a . X. eIvoci est defixum ^sse in re turpi, versuuken scin im
B6sen, im Argen seinj hoc dicendi genus breviloquentia quædam est,
supplendumque mente verbum est, quod cum iv præpositione commode consocietur.
Pro iv oddxpd* xtvl a)V primitus di xisse videntur Cræev iv
al6xp<fi rivi xtijuevoS, ut iv fiopfiopu) xeidExoci legitur Pl.
Phæd. 69. C« De similibus dicendi formis : iv olva> £ivai t iv
xy x iyyy elvai y iv itoztjdEi ylyvedSai ai. vide Matth. Gramm.
pien. J. 577, 1140. el ovv p7jx av V Xl * Y&voixo .
Sensus est: Wenn es sichnuumachen 1iesse, dass ein Staat
entstunde oder eine Kriegsgesellenscliaft aus Liebhabern und
Lieblingen, so konnten sie ihren Staat nicht besser verwaltea, ais owenn
sie sich alles Hiisslicheu enthielten und ei ner dea an dem zam Best cn
aufmunterte. His verbis aliquid iuesse videtur, quod minus cum sententiæ
ratione conveuiat. Etenim civitatem non melius administrari posse,
quam si a turpibus abstineant chrcs, bonis studeant, hoc non tam in
amantes et amasios cadit, quam in homines universos. Debebat potius
ita loqui Phædrus: neminem, si civitas existerct AMANTIVM AMANTE AMATO, melius
civitatem administraturura esse, quam AMANTES AMANTE AMATO. Non dubium est, quin vitium verba contraxeriut, quod ubi lateat, quis
audeat, codicibus tacentibus, fidenter dicere? Videtur nobis apEivov vox
tanquam scioli additamentum expungenda esse, qua deleta verba
convertenda sint: Wenn nun ein Staat von Liebenden und Geliebten
entstunde: so konnten dies e deuselben gar nicht an-» ders
verwaltea, ais so, dass sie das Hassliche ver abscheueten und das
Gute rait gemcinsamer Anstrengung zu vollbringen s \\q h t e n . Iam
admireris licet MVTVI AMORIS utilitatem. Ut enim nunc in civitatibus
multa pessime geruutur, turpia laudantur, honesta expelluntur, ita
in civitate cx amantibus composita Eros efficeret, ut cives ne
possent quidem male aliquid agere, sed nt optime h. e. malarum rerum
fuga, bonarum studio, civitatem administrarent. (itr aXXyXmv o l xovovxoi
vmcoev av, okiyoi ovrsg, cog &rog BfouZv, itavxag dv&Qcort ovg.
bqcjv ydg dvr/g vnb TZcadixcov oyftrjvca ij Xiticqv xa%iv q OTtXa
a7tof}(tffl>v r\ txov av dtjrtov Si^acxo rj V7to Ttavrcov xcov aXXcov,
xal 7cgb xovxov x i&vdvai av TCokXdiug ikoixo * xai (irjv ly
• 7tct\ /jotxo fiev oi y*. ITæc propter antecedens ?/ 6xpar6ize8ov
adiiciontur, quo effectum etiam est, ut in præcedentibus additum
habeas xijv tavTGov; nam verbis his uou opus erat, si alio loco
posuisset aut prorsus omisisset rj 6xpax6Tt(.8ov verba scriptor.
Ceterum certam 'quandam txcnpiav Phædrum in mente habuisse, v. c. sacram
Thebanorum cohortem, haud credibile est propterea, quod antecedit el
ovv pi 1X av V tl y yivotto. Significant autem hæc verba, poni,
aliquid fieri posse, quod revera aut nequeat fieri aut quod adhuc factum
non sit dtS litof Etieeiv. Phædrus ne nimius in laudando
videatur esse dicens, paucos facile superaturos esse homines omnes,
cdS titoS eItceiv addit, quibus verbis vis iudicii paullisper imminutur.
Pertinent autem non solum ad 7cdvxaS dv5pc>SjtovS, ut Stallb.
iudicantam video, sed etiam ad d X.iyovf, ut alteri verbo addatur
aliquid, alteri dematur. Vide quæ de £icoS eiiceiY verbis annotata sunt
ad 215. I). Xiitriv ait o ftaXoov
. Nam \EiitOTa£,ict turpissima .habebatur., Lex Attica, cuius meminit
Lysias Or. xaxd <Pl\covoS Compadia? T, V. 887. ed. Rcisk, et
Demosth. adv. Neær. T. II. 1353. roy kiicovxa tijv td&iv
d7C£Xrt$ai 4 ayopaS pijxe dxecpctvovdScn prjt eISiIvcu sl$ t
d Ispd ra St/poxEXtj. Nec minor erat infamia eorum, qui arma turpiter
nbiecissent: de qua re fuse disputavit Klotz. ad Tyrt* 10, 27. cfr.
’de Rep. B., de Legg. XII. 945. Stallb. Adde Arist. de Morib. V. 3.
TtpOSXGtXXEl l) YO/IOS, Xal ra rov dvdpeiov Ipyct icouly, olov pi}
XeiitEiY t i/y rdt,iv, /irjSk tpevyELY, pr/61 filxtnv xd oitXa .1 }
vico 7t d yt oo v rcov aAXcjy. IIctYTES ol dXXoi inprimis parentes suut,
fratres, amici, vide ann. ad 178. C. tovto ovtE ZvyyivEia ola te
ipnotEiv ovv oo xaXdoS ovte xipai ovte nXovxos eqS ZpvS. JJpd
xovxov sc. 7t po rov 6<p$fjvai V7CO iroadixdov. t e$ v dv at dtv TtoXXdmS, Schleierm. convertit: und dafiir
wiirde er lieber oftmals sterbeu wollen. Græci ut nos : und dafiir wiirde
cr lieber hundert Mal todt sein wollen. Videlicet adeo invisum omnibus
est ro oraro$vr}dxEiv, ut pro eo Græci te Svavai dixerint, nostrates dicant
todt sein. Huius temporis usus ita iuvaluit, ut id adhiberent Græci etiam, ubi
proprio præsens tempus ponendum erat. Sic Criton. init, legitur: if
t d icXmoY a<pixtai, ov 8 eI aq>t - 4 xopkvov Te$vdvai ps,
Vide Stallb, anaot* ad Apol. Socr, Ixardbxiiv ys r a xaiSixa i} (iij
porj&rjOai xivSvvevovu oi3d£t$ ovta xttxog, 3 vtiva ovx av avtog 6
"Epag Iv&iov xotrjæio itQog uQitijv, ugtB ofiowv dvai tu B
fhji6tip xpvOu. xal aTi%vag, o tqn) "OfiijQog, (itvog iftjcvivaca Ivioxg
tnv yQauv rov &tav, tomo 6 "Epug tolg IquOi naQijtt, yiyvofitvov
xaQ avtov. SO. B. Igitur non asseutiendum Buttmanno ia
Gramm. pleo. j, 114. 161. «D«* Streben nach Nachdruck
hat deo Perfektbegriff ale entechiedener uod gewisscr Jautcnd au dia Stella
des Præsens gebracht.» xal pt/v iyxaraXixeiv y e. Non
sine magna animi commotione hæc a Phædro proferuntor, qui vix cogitari
nedum fieri posse contendit, nt AMATOR aut deserat amasinm, aut periclitanti
auxilium non ferat. Hac commotione animi, quam indignationem vocare
possis, factum est, ut aposiopesis orta sit, quam oculis legentium
addita lineoia indicavimus. Non nliter Astios in «nuet, ad Convers.
Symposii 279.: Der Text ist unverderbt; xal yt/v yt ist ja auch, d. h. in diesem
Zusamxnenhange v o 1 i e n d s, und die ubgebrochene Rede, die mit
einem allgemeinen Satze endet ( OVOllS ovia xaxoS x. r. X . )
charakterisirt treffend deu Phædros ais leidenschaftlichen Erotiker,
den der Gedanke, dass der Liebhaber den Geliebten verlassen und
ihm in der Gefahr nicbt beisteben solite, empdrt und fast
ausser sich setzt. Ceterum xal pr/Y yt particula» Astius, ut modo indicavimus, vo
lien da, Schleierm. gar converterunt. Apta oobis visa est »d Phædri
exprimendum ardorem utriuaqua vocis coni unctio, nt verba convertenda
sint: \ olleuds gar den Liebling im Stiche lasseu, oder ihm
nichl bcispringen in der Noth. cfr. Symp, p 196. C. xal fitjv
eis yt aySpetay ’ Epcort ovSi “jtprjS avSioxaxai. Alia ratio est
particularum 202. B. xal pi}v, T)V S tyoo, opoXuytirai ye napa
xdvxooy peyaS StoS tivcct, ad quaa verba vide annot.
xtvSvvevovti »c. av reo. Nimirum xaiStxd verbum non nisi unum
amasium significat. Laudat Ruckert. Phædr. 2S9. A. ovre 657 xpeixxa
ovtc ItSovptvov Ixtuv ipadxrjS xat&ixu aveSexai, rjxxa> 61 xal
V7IOStiiSxtpov ad dxepydderat. Phædr. 240. A. • Ixi roiwr ayapoY,
axatSa, aotxov on xXtitSxov xp°yov xaiStxa ipadxrjs evSatxo av ytvtaSot.
Vide sis de generis mutatione Theæt. 146. B. a\Ad xwy
fittpaodcov xwa xtXevt dos dxoxplredUca. Prot. 315. D. xxjv 6’ ovy
iSear xdvv xaXoS, ubi papdxtov præcedit, avxo S <%E
P gj S. Phædrus neminem adeo mala indole cen' set esse, quin ab ipso
Erote ad virtutem propelli possit. Quæritor, quid sibi velit avroS
pronomen hoe loco? Fischerns commode explicari censet, si opposita existimentur
præcepta virtutis, leges, educatio atque quæ Cap. m Kai fftjv
viriQcoto&vrjaxuv yi fiovoi l&iXovGw ol tQavreg, ov (lovov ou
&vdQsg y dUa xal cd ywaTxeg. præterea ad virtutem adducere
possint. Hac explicandi ratione num minas otiosum pronomen censes $
Stallbaumio visum est ita frigere, nt corruptam censeret atque in ovxgdZ
immutandum; verba convertit idem : Nemo adeo malus est,
quem AMOR non possit tanto incendere virtutis studio, ut vel optimo
nihil cedat. Sed ipsi huic sententiæ inest, quod admodum
displiceat. AMATOREM AMASIUM periclitantem deserere posse Phædrus præfracte negavit.
Eius rei argumeutum nura credibile est eundem Phædrum hoc addidisse: Nemo
adeo malus est, quem non possit AMOR tanto incendere
virtutis studio, ut vel optimo nihil cedat ? Dicendam potias erat:
neminem adeo malum esse, quem AMOR non revera incendat. Nihil mutandum
est, et omnia beno habent. Abstractum pro concreto positum est, h.
e., dei nomen pro re, cui ille præpositus est. Sensus est verborum. Nemo,
QVI AMAT, adeo mala indole præditus est, quin IPSO AMORE suo fortissimus fiat
atque iis simillimas, qui optima indole gaudent fortissimique sunt
non amore, sed natura ad virtutem docente. Annotat Riickertus
ad h. 1.: ttvtoS o"Ep<oS f ipse Amor, h. e, hoc ipsum,
quod amat, etiamsi sit alioquin ignavus. Virum doctiss. in huius
loci rectiore explicatione nobiscum consentire magno cum gaudio
vidimus. Ceterum monemur hoc loco de verbis Alcib. II. 1 88. B. : Ovxovy
doxei <5ot sroAA^f 7Cpop7]$daS ye 7tpoCdti65ai y uncos pjj XrjtSet xis
avtov eijxopevoS ptydXa xaxa, doxoov 6 ayaSa ; oi £fol
tvxgoGiy iv xccvxy ovxeS xy ££ei, iy y diSoadiv avxol a xif
evxopevoS xvyxdvei; Frustra Buttra. ad h. 1. libenter, inquit, carerem
voce avxoi . Sensus est: Nonne igitur magna cautione tibi opus esse
videtur, ne forte aliquis bona precari opinatus, maxima mala sibi expetat?
diique ita morati sint, ut qui ipsi, h. e., nullis precibus moti,
faciles, mittant, quod quis sibi expetat? o Uqnj "OprjpoS* Laudavit Fisch. ad h. 1. Hom. II. x.
482. r&5 6’ tpnvEvtiz pivoS y\avx£>*A5Tjv7j. et II. o, 262. cj
$ tirtaor Hpjtvevtie pevoS pkya. itoipkvt A ocoSy. Iu
sequentibus Orell. ad Isocr. Or. Ttepl arxtS. . 825. ob præcedens
ivioiS xqjy yptooav scribendum coniecit toiS ipcodi ita6i i tap£x
et * Frustra, Non enim quæritur, utrum omnibus an paucis quibusdam
hoc præstet Eros, ut fortes fiant, sed de ratione agitur, qua ad virtutem
AMANTES impellantur. Neque verum est, omnes AMATORES ad VIRTUTEM
[andreia] impelli AMORE etiam ii AMANT, qui natura fortissimi sunt,
tovtov 6's -mu tj lltXiov dvyarrjQ "JXxtjUne Lxavriv
fiaQ ut illo Erotis impetu lucile indigeant. y ty v apev ov
rcap avtov. Omisit hæc verba Schleierm. in conversione: Ia gewisa
was Homeros sagt, dass c inige der Helden eiu Gott mit Muth beseelte, das
leistet Eros den Liebenden. Neque aliter FICINO: hoc AMOR AMANTIBUS efficit.
Verba non otiosa sunt, indicant euim, eam vim esse atque potestatem
avxov tov ipdv, ut ignavos virtute augeat. Pertinent uutem ad præcedens
Tovto, a qua voce scriptor eadem seiunxit, ut eorum vim augeret, vid. ad.
p.,178,- C* d yap Xprf av 5 peon 01S ?}yeb 6Scn navroS xov (iiov
xolS piXXo vtil xaXaiS (iicStie6$ai> Adde Pl. Cratyl. 423« fin.
el xiS avxo xovto pipeitfSai Svvaito, kxaCxov t^v ovdiav h. e. venn
jemand es selbst nachabmen konnte, ich mei ne, die Wesenheit von
iedem. Convertenda verba nostra sunt : Das gewahrt Eros
den Liebenden, and zwar unmittelbar aus sich. xal pyv vn epan
o%vy 6xeiv ye. De nat pyv yk particularum potestate supra dictam est ad 64.
Solent eædem adhiberi, ubi commemoratur, quod aut præter exspectationem
accidit, aut qnod fidem superat hominum, aut in rebus summæ
gravitatis* Apprime igitur commotiori animo conveniant Phædri, qui has maluit,
quam consequentiæ particnlas adhibere, quarum usum orationis conformatio
flagitare videtur. Debebat nimirum Phædrus, laudata Erotis vi, sic
pergere proprie; Hinc £eri solet plerumque, ut soli AMANTES.
clXXcl xal ai yvv atxeS . Hanc lectionem, quam verissimam
ducimus, Clark, exhibet aliique codd. non pauci. Satis notum est,
Græcos substantivis duobus, quæ pariter definita atque per ov povov
a\\d xal, ovx oti aXXa xal sim. coniuncta sunt, aut addere
articulum duplicem, aut demere. Sic in Protag. 342. D. legitor! eidi iv
zavxaiS xaiS noXediv ov povov avdpef ini naidevdet peya tppovovvxes, aXXa
xal ywatxtS h. e. ut viri, ita mulieres «... scribere etiam
potuisset Plato nullo sententiæ discrimine ov povov ol avSpeS aXXa
xal ai yvvaixtS. Xenopli. Mem. II, 9. 8. ovx^oti povoS 6
Kpixcjv iv 7/dvxia rjv, aXXa xal ol qjiXoi avxov. Ad
huiusmodi exempla H. Stephanus respiciens, cum legeret aXXa xal al
yvvaixeSy nostrum locum hoc modo emendandum censuit: ov povov oi
avSpeS, aXXa xal ai yvvaixtS, qua coniectura sanissimus locus corrumpitur
manifesto. Sive addis sive demis in huiusmodi locutionibus duplicem
articulum, eiusdem dignitatis, pretii, ponderis substantiva esse
indicantur, quæ per ov povov, ovx oxi aXXa xal coniunguntur. Sed quoniam
feminæ viris multo debiliores sunt, Phædrus, quo gravius vim Erotis
extollelet, feminarum nomen pondere prævalere hic voluit ita, ut
non viri solum, sed quod mirere magis, feminæ quoque dicantur
voluntariam mortem oppetere. Hoc efficitur addito ai articulo.
Eodem fere modo alteri substantvqiclv inlg rovds tov A oyov etg xovg
"EX tivo articulas additus est, omissus in altero Alcib. I. 104.
B. cap. IV. iav 6* ivSdde piyi6xoS y ?, xal iv xols dXXoiS n EXX7/6iv *
xal ov pdvov iv "EXX 7 / 61 V, aWa. xal iv x 01 S fiapfidpoiS,
0601 iv xy avxy 7 /ptv olxovd iv yneipcp. Amplissimas terras barbaros
habitare, satis notum erat eo tempore, quo Alcib. I. conscriptus est. Ut
igitur regnandi cupido, qua Alcibiades teneretur, validius
emineret, præcedentibus iv "EA\r\6iv verbis barbarorum nomini
articulum scriptor adiunxit. Sensus est: Wenn da aber in Attica der grdsste
warest, meintest du es auch uuter den iibrigen Griechen zu werden,
und nicht allein unter Griechen, sondern was noch viel mehr
sagen will, auch unter deu Barbare», rfb viel deren mit uns
dasselbe Festland bewohnen. Adde Ælian. Var. H. II, 41. 181. ed.
Abr. Gronov. KXeigo, cpa6iv, eis dpiXXav lov6a ov yvvaiBX povaiSy
aXXa xai xois dvSpadi ro!> dvpitdxaiS detvoxdxr/ itiziv 7/v xai
ixpdzei itdvxcov h. e. Kleio, wird erzahlt, konnte ausserordeiitlich
trinken und wetteiferte hierin nicht blos mitWeibern, sondern, was weit
mehr sagen will^ mit Mannern, die mit ihr dem Zechen ergeben
waren, und ubertraf sie. xovxov vitip xovde xov A oyov,
Schleierm. convertit : und dessen giebt una schon Alkestis». die
Tochter des Pelias, hinlanglichen Beweis fur diese Wahrheit ... Recte V. D. verba servavit, quæ frustra sunt, qui expungenda
censent. Heind. ad Protag, * locum sic interpretatur: ut
huic dicto fidem faciam. Heindorfio Stallbaumius assentitur.
Riickertus ad h. 1. Nos sic, inquit, statuimus, si Socratis hæc oratio esset,
intolerabile hoc additamentum nobis appariturum; quam Phædri sit,
ineptum quidem esse et languidissimum, attamen consulto posse a PJatone
adiectum esse. Si scriptum exstaret xovxo di xai 7 } TleXiov Svydxr/p x.
r. A., sedulo interpretes tantum non omnes annotarent: inceptæ
stru cturæ Phædrum oblitum esse/ liuiusmodi confusionis
exempla plura reperirij Platonem h. J. satis eleganter non præmeditatæ
orationis indicium edidisse. Ao possit sane commodius
rotrro explicari, quam xovxov l sed etiam xovxov bene habet.
Revocandum nimirum hoc dicendi genus est ad oratorum consuetudinem post
apodosin prægressam protasin repetendi. Vide quæ annotata sunt ad p,
186. B. Ut v. c. in Apol. Socr, 20. C. dicitur: ov ydp
di/nov tiovye ovdiv xcov aXX&v itepixxoxepov itpaypax ev
opiv ov, inetxa xoCavxrj tpt/pr/ xc xolI XdyoS yiyovEv> e I
xi £ 7cpaxteS aXXoiov fj oi TtoXXoiy ita nostro looo quidni
liceat oratori xovxov præcedens verbis interpositis pluribus ita
repetere, ut simul accuratius definiat anctiusqne exponat? Verba convertenda
sunt: Hiervon giebt auch des Pelias Tocher, Alkestis, einen
hinlanglichen Beweis liber das eben Gesagte. Ceterum non
nisi oratoribus, quorum interdum oratio altius exsurgit,
neque vulgaribus prosæ dictionis re- 5 • JLijvasi
i&sh}(Ja(la (lovq vniQ tov avvqg <xv8qo s anoC &uviiv, ovxav ccvta
nccrgog te xal firjtQog' ovg ixrfvt) toOovtov vxBQtficdtTo ty tfiXLq dia
tov "Equxcc, iSgre anodilgai avtoi/g allotQlovg ovtag tgj viti xal
ovognlis tenetur, hoc loquendi genu» largiendum, a ceteris
scriptoribus prorsus seiungeudum est. *AXxif6ttf* Schol. ad
h. 1. ?} nepl rrjs * A\xrjdxi8oS vnoSediS TOUXVTTf T is idttv •
'AxoXXgoy pxrjdaxo napa xcov Motp&v, onatS d' v A8ppxoS
xeXevxav peXXcjv napadxp tov V7ilp tavxov 1x6 vr a xeSvrjiiopeYov, ira
idoy xgj npoxipa) xp6vov &i6Q' xal St) v AXxijdxiS 7] yvn)
xov x ov ineScoxer kavxt/r, ov8e xepov tcor yoricov SeXpdavioS vix
ep xov naiSoS dnoSavelv. Stalibaumius laudat Senec. ad Hei 7. c.
17. Nobilitatur carminibus omnium, quæ se pro conioge vicariam dedit»
eis xovS "EXArjvaS. Vulgo ad sequentia hæc verba
trahuntur» Male. Pertinent ad præcedens papxvpiav . Ceterum non
assentimur Stallbaumio ad h. 1. annotanti: Neque vero eis pro iv dictum
putari debet, sed cum vi pro dativo positum est, ut Latine reddi
possit coram. Nimirum eis præpositio quoniam motum indicat ad finem
qucndam, cum verbo transitivo primitus coniuncta, id agit, uth.l,
actionem simul involvat eius, qui clarus esse dicitur. Sic inidffpoS
elS Stjpov eum denotat, qui se clarum insiguemque coram populo
fecit, contra inidrjpoS Iv Stjpat is est, quem clarum populus
existimat atque laude dignum. Hinc intelliges, h. 1. de actione
Aleestis sermonem esse, quæ dou tam populi laudibus inclaruerit,
quam voluutaria morte immortale virtutis testimonium ipsa populo
dederit» Exempla si quæris huius usus, e Stallbaumii penu depromam hæc
Menex, p 239. A. noAXa 81 xal xaXd ipya dne<pt)vavxo elS navxaS
drSpainovS xal idiot xal Srjpodiqt, ad quem locum vid. Engelh.
anuot» ed. 260. Protag. 312. A, dv 8± ovx dv aidxvvoio eiS rovS "EXXrjvaS avxov
dotptdxpr napeX&v i Gorg» 526. C. eis 81 xat navv iXX oytpoS
ytyore xal eis xovS a\XovS "EXXrfvaS ’Aptdxei8ijS 6 Avdipaxov,
quo loco yiyove cum eiS præpositione coniunctum est eodem modo, quo
8id præpositio cum dvveivat verbo coniungitur 176. D, ijpaS 81 8ici Xoyatv aXXrjXoiS
dvreirai pro rjpaS 8 i 8ia Xoyatv Siatpifirjv noieid^ai. vid. ad 43.
aunot* l&eXjj dada povrj . De ISeXeir potestate verbi
dictum supra est ad 44. De re ipsa cf. Eurip. Alc. v. 15.
narras 8* iXeyZaS xal 8ie£,e ASgdy tpiXovS naxipa yepaiar 7 } dtp
irixxe prjxtpa, ovx evpe nXrjr ywaixoS, yriS
7/$eXe Saveir npd xeivov . » rp tptXiqe, 8ia w
Epoora. Perperam minuscula littera exhiberi solet ipeoxa. Hoc enim AMANTIBUS
Eros præbet idque Bigitizdd bfCjodgFe : pati povov
itQosrjxovras. xal tovx’ iQyaOaflivrj x 6 Zoyov ovxu xctkov i'So£ sv
IpyatSati&ai ov fiovov av&Qcbjtoig, akku xal Qeois, Se t£ itokkSv
nokka xal xaku tQyaCapivav EVttQi&nijtoig di \ ritiiv tdoGav xovxo ytQU g
oi quidem ex «e profectam, ut soli mortalium alter pro altero
voluntariam mortem oppetant, quod neque %vyy£veicc efficere potest, ut
Admeti exemplo docemur, neque honos et divitiæ, quarum summam facultatem
regi fuisse, quis negabit? Restat, ut de
<piXiqt dicamus, quæ vox non nisi feminis convenit et amasiis. Epav
dicuntnr omnes non feminæ, sed VIRI, qui amant. Feminæ contra, ut
alias, ita in amore viris debiliores habitæ, et amasii, ætate iuniores, quam
AMATORES, tpiXovdt tantummodo, capi se ac teneri patiuntur. Sic
Antig. Sophocl. t. 523. ov x oi Gxxvki&eiY aXXa dvpqnXeiv
itpvr • Amasii qnXlaS si requiris exemplum, 182, C. legitur oyap
jipidtoyeiroYOS £pooS xal rj \ Ap /xoSLov <piXla /UficaoS yeropivTj
TtareXvdey avr&v xr\y apxV v * Adde 183. C. xal xu ipav xal x 6
q>lXov$ yiyvedSai xolS ipadxaiS. AMATORIS esse to ipav patet e
verbis 180. A, Al6x v A oS 61 (pXvapei qxxdxaoY faiXA ia UaxpoxXov ipar, 0 *
r\y xaXXicoy x, x. A. oj$xe artodeiZai avxovt
dXXoxpiavS, Ut ostenderet, illos n fflio alienos esse et nomine tantum
cogn atos, h. e, ut efficeret, ut flHftiderentur tantum esse
cogtlJPPfacta comparatione eius umorft, quem ipsa illi probavisset, et
cognatorum, qui noluissent pro eo mori, t» t ai 1 b. Iuvat laudare
Scolion incerti auctoris, quod in lacobsii Anthol. Gr. T. I. 90.
reperitar et quo iuvenis admonetur, ut non nisi forti amatori sese
tradat: \A8pijtov XoyoYj cJ ’xaipe, paScuv [tovS]aya$ovS
<p(X.ei, [teUv] 8eiiA 6’ dxexov yvovS oxi 8eiXoiS oXlytf x a P lSt
xovxo yepaS. Articulum addiderunt Fischerus, Wolfius, Astins.
Frustra, Tovxo sublectum est, yepaS prædicatum, cfr. Apol. Socrat. 18. A.
5xxadxov plv, yap avxrj aperi}, ptjtopoS 81 xaX.ij$ii Xeyeiv. Piat,
de Legg. p, 683. B. vvv 81 8rj xttdptij xiS rjfUY avtij itoXif, ei
81 fiovXetiZe, &voS ?/xei xaxoixiZdperoy. Ib, VIII. 829. D. rovro
aTio8i8dvxQov avtois yepaS. de rep. I. 331* U» ovx dpa ovtoS o poS
Idxl dixaiodvvris x. x. A, (3 ST s 7toXXcjy itoXXcc x,
r.A. Rursum habes oratoriæ dictionis exemplum, quod^ prosæ orationis leges h.
e. ad logicen examinatum summopere displiceat. Scriptum enim
exspectaveris: Atque hoc facinus cum patrasset, adeo pulcrum visum est
non solum hominibus. sed etiam diis, ut, quod alias npu uisi
paucissimis, qui præclaras res gessissent, tribuerent honoris loco, idem
admiratione commoti facinoris huic concederent, # Sed si sententiæ Otol,
ii "AlSov TCahv uvtlvai ttjv 4>v%t]v, aXX.a zqv Ixti0 vr/s aveiUav
dyaO&ivze g Ttp ovra xal &eoi xr/v xcsgl x ov "Egena
Gnovbijv re xal agexrjv (laXiGxu ufiaOiv. exprimendæ ratio, quæ Phædro
placuit, cum lodicis regulis minas convenit, habet contra, e rhetorica
arte rem si iudicas, quo se vehementer commendet auditoribus, Cave igitur,
hoc loco quicquam mutandum censeas. Pro alpyadpEvtoY, quæ vulgata
lectio est, codd. melioris notæ ipya Capkvtov habent, quod a Bekkero,
Stallbaumio, aliis receptum est. Recte, Aoristicum enim tempus
perfecto tempore multo aptius hoc loco. dWa xrjv ixeivrjS
avet6av, Vulgo post aAAa legebatur xal, quam voculam ex XXII, codd.
auctoritate recentiores editores omiserunt. Addidit autem eandem aliquis
olim, ut loco mederetur, quem uos quoque corruptissimum censemus. Quid
enim? Censent dixisse Phædrum: X)eos paucas quasdam animas ex Orco
remisisse honoris loco, sed Alcestidem remisisse cum admirati o affari n
oris ? Quid diiferuut inter onoris loco et eam admiratione
facinoris, re- misisse et remisisse? Neque satisfacit Stallb, ad h.
1, annotans: Ipondus huic sententia a addunt verba ay a6$
£vxeS xp Epyto, ut tota verborum comprehensio possit explicari
sic: Hoc facinus eius diis adeo '. probatum est, ut cum non
nisi paucis quibusdam cx inferis redire concesserint, huic non solam
tribuerint hoc beneficiam, sed cum admiratione tantæ animi
magnitudinis concesserint. E duplice vitio locus laborat, sed
facillima mutatione utramque emendatur. Alterum vitium in avewai
latet, pro quo dvikvat scribendam est. Sensas est: Paucas animas
passi sunt dii ex Orco redire, sed Alcestidem ex Orco remiserunt,
Alteram iu dya6$ivreS participio reperitur, quod, verissime annotante
Ruhnkenio ad Tim. L. V. Pl. p, 9, si nostrum locum excipias, nusquam apud
Platonem cum dativo coniunctum reperitur. Scriptum antiquitus erat
aveitiavavayxatiSivTeS, Syllaba nltima aveitiav verbi cum sequens
av absorbuisset, editum esse videtur: aveldav ayxaCS&vxeS, ex
quo enatum est aveidav aya CSlvxeS. Haud absimili ratione Phædon, 78, A.
cum'scripsisset Plato 5xt av svxatpdxEpov dvaXldxoixe, scribarum
incuria exhibitum est dveyxaipoxepov et dvayxaipdxepov. Serior
manus ut uostro loco x, in hac forma p expunxit, habentqne Bas. 2.
Bodl, Tub: Venet. avayxaiQxepov, Ad nostrum locum ut revertar, sensas est
verborum : Wenigen, die viel Schones vollbracht hatteu, gestatteten
dieGotter, um sic za ehren, das, dass sie wieder insLeben %
zuriickk e h r e n konn t e n, a b e r diese sendjjfepn sie,
gezwangen d^Rn ihre herrliche That, an das Licht zuriick.
Avayxa65kvx& confirmari videtur schol. verbis! 'HpaxXiovS
lni8r}pr]6avxoS Er ?1 OQ<pla di tbv Olayoov ArtXrj
aitintpiiav Zrfitiou, <p<x(S[icc dellzccvteg zrjg yirvaixog, l(p
ijv ipav> ccvzijv 61 ov dovztg, o ti iKtXftaKi&dftcn tdoxei, ars
av xi^agadbg, rg GertaXla SiaGcS&rat fiia6 ap iv ov xovS jfioviovS
$eovs ned depeXofievov xi)v yv~ vaina. Nimirum Phædrus hunc mythum
pro consilii sui ratione interpretatus est ita, nt Alcestidis virtutem
cum Herculea virtute compararet, alteramque alteri substitueret* ov
t o nal Seol. Convertit Schleierm, : So wollen auch die Uotter den
Eifer und die Tiichtigkeit in der Liebe vorziiglich ehren. lloc foret ovt
cd nal ol $£oi, sed nusquam articulus reperitur. Sensus est potius:
Sic etiam ipsi dii summo honore virile studium amantium
dignum censent. 1 Optpia 81 xor Oldy pov. Stallb.
annotat ad h. 1.: Etiam iu hac narratione de Orpheo quædam
insunt a vulgari fabula discrepantia, quæ Phædrus aut ipse pro
consilii sui ratione immutavit aut repetiit ab iis, qui rem ita memoriæ
tradideraut, ut facile omnia possent accoihmodari præsenti disputationi.
ndXitir a T ifioS 6 iv, nam^ ut cum Terentio loquar, quod habuerunt
summum, pretium persolveruut illi. (p u6 fi a 6 el&avT£$ xijS yvv aixoS. OVIDIO (si veda)
Metomorph. Hanc simul et legem Rhodopeius accipit heros Ne
flectat retro sua lumina, donec Avernas Exierit valles, aut irrita doua
futura Carpitur ucclirus per muta silentia trames, Ardnus,
obscurus, caligine densos opaca Nec procul abfuerunt telluris margine
summæ. Hic, ne deficeret, metæns, avidusque videndi Flexit
amans oculos: et protinus illa relapsa est Bracliiaque intendens,
prendique et prendele captans Nil nisi cedentes infelix
arripit auras. i q> tjv f/nev.
Abest a codicibus longe plurimis, c^uod vulgo legitur hxoov post dtp
i/v positum. Qui factum sit, ut iu textum irrepserit hoc
verbum, aliis indagandum relinquo. dxe dSv hi$ apa>8 6 S. Cithara
non paucarum chordarum instrumentum nativa hormoniaram varietate aures
audientium permulcere quidem putabatur, sed animorum robur paullatim
infringere atque quasi colli quefacere. Igitur quod de arte
tibicinum dicitur iu Piat, Gorg. 501. E, xijv ijSovtfV porov
Sidtneiv, aAAo o Jdb' q>povxi2,eiv, idem io citharam
cadit. Qua
cum usus esset in Orco Orpheus, Nasone teste Metamorph. 10,
41, Exsangues flebant animæ, nec Tantalns undam Captavit
refugam, stupuitque Ixionis orbis, IJec carpsere iecur volucres, urnisquo
vacarunt Belides, ioque tuo sedisti, Sisyphe, saxo. 1 xcd ov roAfuev
Evtxu xov "Egenos djto9vrjOxuv, ogafp Alxt]<SXig, ulla
6iu[iTi%av&6&(H £<»v tlgiivcu elg "Aidov. xotyagtoi 8uc
xuvra dtxqv avrtS tntftsclav, xul InoiTjaav xov ftavurov avxov vxb yvvaix
wv ytvt(S&cu, ov% d>gmg Tum primam lacrymi* victarum carmine
fama est fcumenidum maduisse genas, nec regia coniux Sustinet
oranti, nec qui regit ima, negare. Igitur non mirum, paXSaxlge6$at
visum esse eum, qui citharæ adhibitis sonis alios delenire maluit, quam ipse
fortis animi specimen edere atque Zvtxa x ov "EparcoS mortem
oppetere. Ceteram maiuscula littera Erotis nomen scribendam
curavimus, nam ut supra 179* A. ovziret ovx av avroS 6 "EpcoS
ZvSeov XOtTjtiete x. t. X. abstractum pro concreto positum est, ita
non intelligitur, cur non idem in nostrum etiam locum cadat.
xiSikvai eis n Ai8 ov. Quoniam qui in Orcum se conferunt, e
superiore loco in inferiorem descendunt, pro eisitvai positum
exspectaveris eundi verbum cum xata præpositione coniunctum. Sed
miuus h, 1. 1 regionis ratio habetur, quam versus proficiscuntur, qui
Orcum appetant, quam xei, quæuxn veteres Orcum comparare solebant. Petita
nimirum a sepulcris imagine, quæ ædes sunt mortuorum, Zv "
'Aidov sc. Sopois et eis r Aidov sc. dopovS dixerunt. Ædium autem
notioni tiSikvai et ZS,ikvai verba apprime conveniunt. Igitur
nostro loco nulla ratioue habita regionis subterraneæ tisikvoa
dicitur fis Aidov sc. dopovS. Simili ratione paullo supra legitur
areXrj ait Zite pip av Aidov sc. 66pcov ; contra. C. Z&
a Atdov dviivai reperitur et dveitiav sc, ZB, n Aidov. Adde Piat, de rep.
I. 527. xaxkfiijr aiS Ileipaid, et paullo infra 7tpoSEv%dpevot anypey
itpoS zq a6rv. xoiyapxot dia xavxa. Hæc verba ita posita
sunt, ut sive xotyapxoi sive dia ravra omiseris, sententiæ ratio
prorsus non mutetur. Cave tamen prorsus otiosum alterutrum verbum
existimes. Nimirum Græci accuratiori alicuius rei indicio præmittere amant
verbum latioris significationis, tum orationem ut expleant grata
quadam ubertate verborum, tum, ut adsit, cui facilius sequentia
annectantur. Verba convertenda sunt: Dahcr legten sie ihm
denn also wegen dieser Schwache eine Strafe auf. Idem dicendi genas
paullo infra reperitur 184. A. ovrcj df/ vito xavtijS xrjS xtixiaS,
. xai Zitoirjdav xov $dvaxov. Nota vim xov articuli, de qua
supra dictum est ad 12. ovxgj Srj iovxeS dpa xovS XoyovS itepl avxdjv
ZitoiovptSa. Noluit dicere Phædrus, deos morte poetam puniisse, sed
tantummodo effecisse, ut eo tempore, quo tempore Orpheo moriendum
esset, poeta a mulieribus interficeretur. Rectissime Schleierm.: Deshalb
haben sie ihm Strafe aufgelegt, nnd veranstaltet, dass sein Tod
durch Wtiber cr £itif e a£y ^CTu *A%i Xlka rov tijg Qitidog viov
ItlprjfSav xal elg fiaxagav E i rijtiovg aitETtEprpccv, ort jtETivtipEvog
itaga tijg {irjtgog, cog ttttofta.voZto aTtoxTELvag "Extoga, (irj
%ou]6ag di xovxo o”xccd’ iX&cov yiiQcuog xeXsvrrjGot,, ItoXprjdEv
Elt<5&ai folgte. Addo Symp. 195. E. iv ydp 7 }$e6iy
xtjy oixrjdiv ZSpvxau ovx <vfit£p *Ax^XXia i xi p 7/ 6 a y
. Hauc brevilo quentiam, quam vernaculo sermone assequimur,
Schleiermach. aspernatus est in couversione : 9 Deshalb anch
habeo, sie ihra Strate aofgelegt nicht ihu, wie den Achilleus, deo
Sohn der Thetis, geehrt und in der Seligen Inselu gescbickt. Recte
Stallb. orationem hoo modo explendam esse censuit : aAA* ovx
ixtprjdccY avtoY £>S7tEp ^zAA^or, dv xal ei f paxapcov vijdovS
dnirrepipav, ori x. r. A. Legitur paullo infra p, 189. C. ipol 8
oxov6iy avSpooitoi SvtiLaS dv rtoiEiv pEyidxaS, ovx coSnep yvy rov
tqjy ovSey yiyvsxai itepl avxov. Exempla plura
huius structuræ Stallb. collegit ad h. 1., Heind, ad Gorg. 592. A. et ad Frotag. 841. A. eis paxdpGov vydovf* De
insulis beatorum vide Hesiod. "Epy. xal 7/. v. 170. xai
xo\ piv valovOiv axrjSia Svpov UxOYTtS iv paxapoov vi]6o%6i rtap
'Elxia YOY fta^vSivTfY oA fi tot rjpoJEf, zoloi peXi
tjdiat XCLpTtOY rpiS SxeoS SdXkovxa (pipet
SiDpoS apovpa Multi fuerunt, qui in insulis beatorum Achillem
versari narrarent. Aliter Hom. Od. XI, 487., obi Ulysi felicitatem
Pelidæ prædicanti respondet Achilles: pr} 6rj poi Solyccxov
ysrtapavSa, <pai8ip 'O6v0dev, fioyXotprjv x indpovpos Igov
STfXEVEpEY aXXcp ecvdpl rtap* dxXrjpcp, co pr} filo* xoZ izohvS
eItj i} itadiv yexve66i xaxacpSipivoi6i olv&6<$eiy % Ad hos
versus ætate Phædri haud dubie notissimos ille nunc non respexit,
sed aliorum testimonia prætulit, quæ rem suam melius probarent.
rtsitvdpivoS 7tapd x rjS prjXpoS. Hæc cum Homero conveniunt,
vel ex eodem potius depromta sunt^ cfr. Il.. ojxvpopoS 8rj jxaiy
xixoS, iddeai. oj^dyopEveis* ocvxtxa ydp xoi Actito.
peS* n 'Europa 7tdxpoS hxolpoS. p?} rtoirjdax 8b xovxo.
Hæc est lectio vulgata, quam ex VIII. codicum auctoritate in pif
artoursivaS Sb xovxoy immutarunt Bekkerus, Astius, Stallbaumius. Hoc certum
est, verisimilius esse, ad explicandum p?) noir/daS dk xovxo margini
adscriptum, post in textum receptum esse pr} drcoxXElvaS 8b Xpvxov f quam
vice versa ad hoc explicandam glossema fuisse pr} itoirjdaS dfe
xovxo. Fidenter igitur vulgatam lectionem in textum recepimus.
fiprjSr)<$a$ fw ipadxy Jlax po x\<jp xal Xtpaprj
180 (SoqQqiSas no tQaOTij TlarQoxkw xal rifiUQTjaces ou! ftovov vxEQUxo&aveCv,
ulXa [xal] inaxoftavuv titeÆvtijjtor i. o9ev St] ) ud vxtQayttO&Evug oi
frsol St-atpiQotncog 6 aS, Wolfias ad h. 1. annotavit: Es kann
fioySydaS nicht vou einer wirklichen Hulfe in der Schlacht
verstandeu werden : deim da Patroclus umkam, war seiu Freund noch
nicht wieder ira 8chlachtfelde, uud er erfuhr die Nachricht davon
erst durch den Antilochus. Recte. Kai igitur ante xipOJpljdaS
explicativum est, cuius exemplum paullo supra reperitur. xoiydpxoi
Sia xavra 8ixyv~ avxcp ineSevav na\ ixoiydctv n. X. A. Adde p, 179. E.
ovx doSxep *Axi AA«x tov xyS GixtdoS vldv ixipydav na i eis
pandpcov vrjdovS aniittpipav. Nostra verba convertenda sunt: indem er dem
Patroclus beistand, d. h. ihn rachte. Argutius quam verius de
his verbis Riickcrtus iudicavit exsulto Phædrum (ioy$EtV verbo usum esse
censens. Quum enim, inquit, non tulisset opem Achilles, quamvis
prope abesset a certaminis loco, ne quid probri iude videretur
in ' eum, quem laudaret, redundare, abducendi erant ab hac
cogitatioue quantum heri posset auditores, id quod hoc ipso verbo factum
esse puto. dXXd na\ iitcritoSccvetY» Vitii aliquid hæc verba
contraxerunt nat addito, quod nullo modo explicari potest. TitepanoSaveiv
adhibetur, ubi aliquis pro aliquo eoque vivente moritor, ut Alceste
mortua esse dicitur pro Admeto 179. C. &$e\y6a6a povy vitep
tov avxyS dvdp6*i dnoSav ilv . ETtaico^aveiv est : mori pro aliquo,
qui iam mortuu*, est. Ficinus verba convertit: nec pro illo mori solum,
sed et peremto illo interfici. Igitur utrnmquc fecit, et mortuus est pro
Patroclo superstito Achilles, et mortuo illo morti se dedicavit. Phædrum
aliud quid dicere voluisse certissimum est. Expungendum est nat, quod uncis includendum curavimus nimiæ
audaciæ crimen fugientes. Est autem ov povov aXXd eius, qui
alterum membrum orationis, quod per ov juovov commemoratur, negat, alterum
probat se ipsum corrigendo. Sensus est: non dicam vitepa itoSavetv, sed
potius Inarto Savelv. Vide 11. de ov pevroi
aXXd et ov pivxot aXXa nat .cfr.
Alcib. II. 142. A. 61 61 apidxa 6onovv
xeS avxoov rtpdxxeiv, 6ia 7roAXqjv mvdvvoov iXSuvxeS ncA yjoficjy, ov pov
ov iy xavry xy Cxpuxyyict, a A A*, iitei eis xyv tavzajv naryXS ov,
varo xgjv (SvnocpavxGbv rtoXiopnovpevot itoXiopniav ovSiv iXaxx
a> xyS vrto xdov rtoXepiaav 6ie.xeXetiav, vSre n. x. A. o2e v 6?}
na l iitoielto. Hæc verba si abessent, nemo opinor desideraret.
Nihil enim coutineut aliud, quam præcedeutium verborum meram
repetitionem. Sed de industria hæc repetiit orator, ut quanti a diis æstimetur
virtus amatoris, durius eluceret» Eadem de caussa, atque ut exemplo
demonstretur, avtov Irliitjcsccv, oti xov lQaOtr\v ovtbj xbqI
itoXXov ixoiuto. AlCyvXog d's cplvuQU cpcctSxav ’A%Mtcc JJoxqoxAou iquv,
fig r\v xaXtiuv ov (iuvov IlatQoy.Xov, aXkce amasiorum quam amatorum
virtutem maioris æstimari, paullo infra dicitur 180. B. : dia.
xctvxct xcti tov *AxiMict xrjS 'jJbtrjtiTiSoS paWov
ixLptjOav, eis paxccpav vrjtiovS dnonepiltavxeS, ovtco itepl
rtoXAov. Dupliciter ovzcj vocula in huiusmodi euuntiatis adhiberi solet,
atque aut præfigi præpositioni aut eidem postponi. Nou perinde est,
utram sedem occupet. Præpositioni ubi præmittitur, aut ad præcedens
dictum respici significat, quod eandem rem, quæ nunc commemoretur,
enarratam contineat, aut hominum opinionem tangit memoriamve auditorum,
qui bene/ teneant id, da quo nunc agatur. Sic nostro loco ovxcd
nepl noXXov explicandum est: quod amatorem, ut supra dictum est,
tanti fecisset. Adde Piat, de rep. III. 391. D. fiy toivw, 7 / v 6*
£ya), p^re rade neiSaopeSa, pyx' idjpev Xiyeir, qjS QrjtievS
Uo6ei6wYoS vlds IletplSovS te JioS (SppijGav ovzcoS ini deivcis apitayaS
x. r. A., quo loco ovxaoS manifesto significat: ut hominum opiuio est, ut
vulgo putant. Minus recte igitur Stallbaumius ad h. 1.
annotasse videtur: ovzcoS ini 6eivds apitayaS h. e. i<p ovxco
detrds apnayds. Non aliter explicandus est tovus Xeuoph. Cyrop. II.
2. 13» fin. opcoS ovzcoS iv TtoWii dzipia ijpdS ixeiS, ubi ovzgoS
convertendum est: ita, ut nunc facis, ut facientem te videmus, cet.
Contra præpositioni postposita ovzcoS vocula proximum verbum ita
extollit, ut additamento opus sit, qno illud accuratius
definiatur.AitixvXoS cpXvapei . Phædri oratio ad eum finem tendit, ut
Achillis allato exemplo probetur, deos amasii amore magis delectari, quam
amatoris fide. Factum autem tragicorum fabulis erat, ut homines
illo tempore Achillem amatorem non amasioui Patrocli
putarent. Priusquam igitur eo, quo tendebat, Fhacdri oratio pervenire
poterat, illa hominum opinio corrigenda erat et emendanda. Hino verba
Aidx^XoS. 6e "OprjpoS necessaria ad rem censenda sunt,
/ruslraque fuerunt, qui ea expungenda censuerunt,Valckenarius ad
Euripidis Rell. 13., Wolfius, Beckius, alii. xal iri ayivetoS.
Pulcherrimum omnium Achillem fuisse discas ex Iliad. p, 673.
NipevSy ds xaXXiGzoS avijp vno "IXiov tjASe Z(2v aXXcov
docvaoov, per dpvpova IhjXelcova, Patroclo iuniorem verba indicaut
Iliad. A, 787. x ixvov ipoy, yevey p\v vn apte poS idziv
'AxiXXavS, TtpeGfivtepoS 61 6v l66i, ' Adde Od. A, 469.
AXotvxoS oS dpidzoS itjv eidos re Sipas re rcov dXXcov
davadiv, pex apvpovcz IbjXeloova . Imberbem adhuc fuisse
"nusquam apud Homerum indicatam repe- M xal t(ov fjQcbav ccjtavxuv, xal ta uytvuos,
Ixtita vttaTEQOS Itolv, <3g CptfiLV "OjllJQOS. ctkKu yaq xcj ovxi
(iukiOta (itv ravxijv xi)v doeri/v ot 9col UficSoi zijv xeqI B xbv
"Eqara, fid/J.ov fttvxot ftuviux^ovat xal ayavxat xal ries. Hinc
factnra est, opinor, ut Riickertus lectionem vulgatam revocaret
atque in textum reciperet d\ X dpa xai. Colligebatur enim, inquit, magis ex
Homero, omnium pulcherrimum Achillem fuisse (atque adhuc imberbem)
quam ut disertis verbis ab eo dictum esset . Sed facile dpa voce caremus,
quam optimæ notæ libri non agnoscant. Efficitur enim verbis (*>S
<pr\6iv "OfirjpoS, quæ cum præcedentibus htEixa vearcepoS itoXv
arctius coniungenda sunt, ut Phædrus non nisi de ætate Achillis
poetæ testimonio usus esse videatur, pulcrum autem imberbemqne eum vocet
©x artilicum statuis indicium capiens. Hæ statuæ imberbem, ut
constat, Achillem repræsentabant, barbatos heroes ceteros, v. c.
Hectorem, Agamemnouem, Ulixem, alios. Ceteram ne otiosa verba censeas
xal Ixt dyivEiof; amasius non nisi imberbis pulcher habebatur. Verba
convertenda sunt: Æschylus aber faseft, wenn er sagt, dass Achilles
der Liebhaber des Patroclus sei. Er war nicht blos schoner,
ais Patroclus, sondern auch schoner, ais alie Helden, und
noch bartlos, dann um vieles jiinger, wie Homer es ausdrucklich bezeugt.
% aWa yap rcu ovxi. Rectissime Stallb. monet, verbis deletis
Aldxvtos, di Owpof, non aXXa yap, sed xal yap ponendum
fuisse. Indicatur autem aAAtr yap particulis, Æschylum ne ita
quidem Homericam narrationem pervertisse, ot Achillis laudem augeret
facinusque eius clarius redderet. Nam deos laudare quidem et admirari
virtutem AMATORUM, magis tamen admirari et laudare amasios, qui pro
AMATORIBUS mortem voluntariam oppetierint. 1 r i)v Ttepi t(jv w
EpGoxa. Haud raro accuratiores definitio*ues verborum a verbis, quæ
definiunt, seiunguntur plurimis interpositis verbis augendæ gravitatis caussa.
Vide quæ ad 66. annotata suut. Convertenda verba sunt : Dic
Gotter eliren diese Mannhaftigkeit ganz ausserordentlich, ich
meine die, welche der Liebhaber zu haben pflegt ; cf. Piat. Hipp.
M. 294. A. 7/pEiS yap nov ixuro igrjxovjxev, go n dvxa xa
xaXa. Ttpdypaxa xa\a t itixiv, ooSTtep c5 jectvxa ta peyaXa itixl
pxyaka> xqo v7C£pix oyr u $av paZovd i x al dy artat xal ev
itoiov 6iv sc. xavr rfv xrjv dpex-qr tijv 7tepl xor "Epwxa. Ceterum
ayadSai ita a SavpaZEiv verbo differt, ut admirationem cum laude
coniunctam exprimat. Bene Schleierraacherus in conversione verba t
reddidit • weit mehr jedocb bewundern und loben und vcrgelten
sit es dyarttji . Quoniam in sup«~ zr Ninos ion.
77 IV xoiovdiv, orav 6 inwatvog tov iQa<St)]v uyanu i}
OZCiV 6 BQCtOTTjS TU XCUdtXtt. &SIUXBQOV yccQ (QUOTTIS Ttcadixmv ‘
iv&eog yaQ ion. dia xavta xal tov 'AydXia tijs 'AXxrjOndos palXov
itifir^av, ds (luxaQav Mjtfovg an o rioribus de significata
verborum diximus ipav et <pi\tiv, iam videamus etiam de notione
aya rtav verbi. Mediæ est autem, quod vocant, significationis verbum,
maiorem quam (piXEiv, minorem, quam ipav potestatem habens. Hinc raro
adhibetur, ubi de vero amore sermo est. Legitor autem apud
Xenoph. Mem. I, 5. 4. x a S” TtopvaS dyanoovxa pdXXov t) xovS
kxaipovS. Piat. Dion. 4. 175. itpiXt/daXE CtVXOY <*)$ TCCttEpOC
xal i/ y a 7Cij doct e gjS ev e p yijxrjv. Symp. 181. C, ro <pv6ei
ipficopEYEdXEpoY xal vovv paXXov %x ov dyan&vTE?* Videtur
ayaitav verbum circumscriptum esse iu Simonidis dicto, quod legitur Piat.
Protag. 345* D. mxvT aS 81 Inalvrjti i xal tpi\hx> irtwv oSTtS
f.pSy /vjSlv al^xpov. Nostro loco Phædrus hoc verbo usus est, quia
neque <pi\eiv neque ipav ad ntruraque enuntiati membrum h. e. ad
AMATOREM et ad amasium referri poterat. $ siot e pov ydp ipa6tyj S
itai8txd>v. De neutro genere StiotEpov verbi vide quæ annotota
sunt ad 176. D. ott XaXEito v xoiS dvSpcoiroiS 7/ idxlv. Sententiam
quod attinet, cfr. 179. A. ov8e\S ovxod xaxoS, ovxiva ovx dv
avtoS d "EpoaS ivSeov itoirj6Ete xpoS dpETtjv, dpoiov slvai
tc5 dpidxcp <pv6ei, quæ verba in amatores tantummodo, non
item in amasios dicuntur. Ce terum otium nobis fecit Riickerti
unnotatio ad h. 1., ed. 46. : Phædrus sic est ratiocinatus : qui
amat, non suo, sed divino impulsu agit, est enim ZySeoS; contra qui
amatur, eo caret, Iam qui alieno et quidem divino impulsu agit, ei
facilius est, magna perpetrare, præsertim amanti, qui non potest
non subvenire amdto, quam ei, qui huiusmodi incitamento caret .
Atqui quo difficilius cuique est præclare agere, eo maior virtus
est, si fecerit i igitur qui non amat, maiore dignus est admiratione,
quam qui artiat * Sola enim caritate facit id, quod amatorem
ut faciat, vis divina impellit, tov 'AxtXXea xrjs 'AXxi]6xi8o$. Interdum
ipsas feminas Erotis auxilio gaudere, cap. VII. initio Phædrus docuit.
Recto igitur scripsisse nobis videmur 179. C. ovS ixElvtf
xo6ovxov vnepEffdXexo xy ipiXint 8id xov w Epoora, c oSXE x. X. A.
Alcestis enim et ipsa UvSeoS. Minoris autem a diis Alcestis
habebatur, quam Achilles, nam illa Erote ad mortem ducente mortua
est, hic pietate erga Patroclum motus, mortem oppetiit.
ovxoo Srf HyatyE. Aliquot codd» habent ovxui 81 ) xal fyooye
Mple. Iu sequentibus ter positum est xal, ut epitheta Erotis, quæ dei
laudem efficiunt, significantius extollantur. Comparari potest cum
nostris verbis 180. B. paXXuv pivxoi $avpd%ovd7 jr i[i4'avTeg. o vtco drj iycyys cprjfu
*EQ(oza %mv xccl ttqeC^vtcctov xal r ipidt azov xal xvQudtarov uvai slg
aQETrjg xa l Bvdatjioviag xr rjow av&QaTtotg xal £c5oi xal zeÆv%r}<Sa(Siv.
xal ayavxcn xal ev iroiovdiv . Sensas est: Hac igitnr, qua
dixi» ratione equidem contendo, Erotem et antiquissimum deorum esse
ct honoratissimum et ad virtutis felicitatisque assequendam frugem et
viventibus et mortuis auctorem potentissimum. Sed ipsa hæc verba
mirum est, quam male cum præcedentibus conveniant. Etenim Phædrus
cum dixisset : maioris æstimandam esse virtutem eorum, qui
nullo Erotis auxilio adiuti fortes se præbuerint, quam quorum
virtus non nisi divino quodam instinctu quasi excanduerit, num
recte ita perrexit: ovxco 87) iycoyi (prjpi n Epcoxa $£gov xal
npedfvxazov xal xvp iGoratov elvai eis a pexi} 5 xxrjdiv x, x.
A. roiovroV xiva Xoyov. Vide ann. ad 15. Sequentia
verba aXXovS xivaS tlvat convertenda sunt: nach Phædrus wiiren
einige andere an der R e i h e gewesen. Pactum nimirum erat, ut eodem
ordine, quo sederent, convivæ placita sua proferrent, cfr. 177. D.
80xel poi xPV vat exadxov \6yov etostr inauror "EpcoxoS ini 8eBtiu apxeir
8\ <Pai8por npcoT or. Sed non verisimile est, inter Phædrum Pausaniamque
locum habuisse omnes eos, quorum orationes ab Aristodemo prætermissæ
sunt, vel quas Apollodorus, quippe memoria non dignas, oblitus erat.
(cfr. 178. A. nav Tcav pkr ovr, a ZxacdxoS elnev, ovxe navv 6
*Apidxo8ij fioS iyiyvT^co, ovx 9 av lyco t o IxeivoS iXeye,
Ttavxa). Igitur Riickertus in uberiore expositione convivii §61. quæsivi,
inquit, doctus videlicet nihil negligere zn Eia tonis libris, in
quibus haud raro res gravissimæ ad perspiciendum scriptionis
consilium ex istiusmodi minutis vestigiis eruendæ sunt, cur hoc loco
omissionem Aristodemus indicasset, ceteris reticuisset . Et olim quidem
mihi risus sum reperisse, aliter tum etiam statuens de ipsis
orationibus, in quibus temporis quendam ordinem observari putabam, quo
singulæ, quarum placita proferret, sectæ sese excepissent philosophorum .
Post, mutata sententia rursus eo deductus sum, ut nescirem . Commode
possis hac ratione hanc rem tibi explicare, ut Aristodemus quidem, qui
Symposio interfuit, accurate locos indicaverit, quibus locis et aliorum
et suam ipsius orationem omiserit, ut Apollodorus autem satis
habuerit memoriæ mandare, quid convivæ dixissent, nou item mente
tenuerit, quo loco quorum orationes ab Aristodemo non repeterentur. Ut tamen
aliqno modo commemorandarum orationum paucitatem excusaret, Phædri
relata oratione alios quosdam fuisse nniversim narrat, quorum
orationes Aristodemus non retulerit. De sua ipsius memoria tacet,
quamquam panllo supra 178. A. in minatis rebus debiliorem
confessas. Cap. VIU. #>«[(5(301' fiiv toiovtuv riva Ivyov
hfn) tlxuv, fi Era c Ss 9 uISqov aXkovg uvas iivca, uv ov nciw
die^vtj^i tuv ov itavv 8 1 tfivi; fi 6vevev. Comparari cum his potest
Piat. Lacii, p, 189. C. iav 81 fiitaB,v dXXoi Xoyot yiv covxaiyOv ndvv
jiiyvTjycn, ad quem locum Engelhardtus de oi3 itayv vocularum
potestate disserens h. e., inquit, plane non recordor. Sic ov ndvv
sæpissime} cfr. Theæt. 156. C., Phædr. 228. E,, ul,, nec non in responsis, v. c.
Xeooph. Mem. S. III' i, 12. Eodem modo latinum non sane sæpe idem
siguificat, quod ov ndvv i. e. plane noni de quo vide
Heindorfium ad Horat. sat. II. 3. 138., S04 Ov ndvv xi autem non
satis, non sane multum explicandum esse videtur, cfr. Locian»
Contempl» I, 506. elni pot, Ct8?/poS tpvExai £v Avdiot ; ov ndvv xi
i. e. non sane multum. Piat. Eutyphr. init, ovd avxoS ndvv x i
yzyvcodxco, to EvSveppov, r ov av8pa i. e. neque ipse hominem satis novi.
Pronomen indefinitum quod attinet, certum equidem esse reor, xi in
huiusmodi enuntiatis non ad ov ndvv pertinere, sed ad verbum
finitura. Quis enim neget, ut ad Eutyphronis locum modo laudatum
revertar, Græce dici yiyvdrfxEiS xi x ov avdpa, ut rectius Platonis
verba convertenda sint: ne ipse quidem magnopere usquam hominem
novi. Luciani verba ov ndvv x t converterim: non sane usquam sc*
reperitur. Rectissime autem Stallbaumius io annotat, ad verba ApoL Soc^ 41.
D. 95. ed.: 8id rovxo xal £ph ovSapov dnixptipe x 6 tiijfiEiov, xal
Hyaoye xoiS xaxarl>r}(pi<jajAbvoiS pov xal r oiS xaxtjyopoiS
ov ndvv X a ^~ natvcd h. e. haud sane, non magnopere, nicht
eben, qua formula nos qooque cum Elpcoviict loquentes gravius negare
solemus. Hæc, quam Stallbaumius laudat, ov ndvv vocularum uotio
apprime ad nostrum locum quadrat. Apollodorus nimirum alios quosdam
fuisse narrat, qui Erotis laudationem edidissent, factum autem esse
illarum laudatiounm mediocritate, ut earum non magnopere recordaretur,
Earum autem prorsus oblitum ne fingere quidem tibi Aristodemum possis,
qui Phædri, Pausaniæ, aliorum orationes memoriter recitarit. Restat,
ut dicamus de Lachetis loco supra laudato, qui sane docere videtur, ov
ndvv significare prorsus non. Verba sunt hæc : iycj ptv yap xal
iniXavSdvopai 7/6 tj xd noXXa 8ia xrjv rjXvtlar (Zv dv 8ictvo7j^d>
£p£6$aij xal av d dv axov6a). iav 81 ptxat,v aXXoi Xoyot yi - *
vgoyxoci, ov ndvv pipvrjpau Nonne frigidissimam conversionem censes hanc:
Ich pflege namlich Alters halber immer das meiste zn
vergessen, was ich im Sinne habe, sie zu fragen, and so auch, was
ich hore (h. e., was sie antworten)* Falleq aber noch qndere
Erdrterungen dazwischen, so erinnere ich mich vevev * ovg TtccQELQ
tov Jlavdavlov Ao yov dirjyeixo. slitelv d’ av toVy ot l Ov
fcaktog f 101 6oxtl y o5 <&ai$QE, XQOpEpXijO&cu 7jgiZv 6 nicht
eben leicht des Vorigen? Multo nptins lectores censebunt Lysimachi verba
converti: Fallen aber noch andere Erdrterungen dazwischen, so ist
es mit mei nem Gedachtniss g a n zlich aus. Sed neque Hæc conversio recta
est, neque omni ex parte Platonis verba recte exhibentur. Maior
interpunctio post axovdco poni solet, pro qua si comma posueris,
optime sibi respondentia verba habebis irtiXav^dvopai ra itoWa et ov
itavv fiipytffiat . Lysimachi sententia hæc est: Denn ich vcrgesse
Alters halber das Meiste von dem, was ich im Sinne habe sie zu
fragen, und erinnere mich wicderom nicht an das, was ich hore, d.
h. was sie auf meine Fragen antworten, besonders wenn anderweitige
Gesprache dazwischen fallen» tov JJavdaviov Xoyov. Phædrum,
qui iracrj/p tov A o; yov vocatur, Pausanias vituperat, quod nihil accuratiore
definitione usus Erotem laudandum proposuerit. Etenim ut duplicem
Aphroditen, ita Erotem duplicem esse, ut Phædrus, si recte atque ordine
habendarum orationum materiam edere voluisset, anto indicasset, uter
Eros laudandus sit. His præmissis Pausanias in utriusque dei
naturam inquirit, ac Pandemum quidem h. e. vulgarem minus laudabilem iudicat,
contra summis laudibus extollendum Uraniam existimat. Idem iudicium
optimarum civitatium legibus, quæ sint de AMORE, probari
censet. Athenienses enim et Lacedæmonios Erotem per se spectatam neque
laudandum censere nequo contemnendum, sed accurate semper cognoscere
studere, virtuti» an voluptatis studio AMATOR AMASIUM AMET, AMASIUS AMATORI
se tradat, atque eum solum AMOREM admittere et probare et
laudare, qui homines ad virtutem impellet. De Pausania paucissima
sunt, quæ scimus. AMATOREM Agathonis fuisse Pausaniam e Protag. p.S15. E.
colligas. Adde Xenoph. Symp. c. VIII. §. 32. Scholiasta, cuius
verba laudavimus, Agathonem amasium fuisse tradit Pausaniæ tragici. Ælian.
Var. Hist. II. cap. 21. narrat, Pausaniam una cum Agathone apud
Archelaum regem vixisse : tls *Apx £ Aaou icotk ctcpixovto o te ipadtrjs
xoci 6 iprifiEvoS ovtoi ; de quo diverticulo vide annot. 8. Dixit
autem Ælianus 1. 1. eIs *Ap x £ Xaov eodem dicendi compendio,
quo eif *Ai6 Ov dici solet, quæ ratio dicendi Aristophanis ætate ^
fortasse usitatissima ansam dedit comico diverticulum illud eludendi Ran,
v. 83- Ceterum non minus, quam Agathonem, Pausaniam mollitiei atque luxuriæ
deditum fuisse, ex eius apud Archelaum tyrannum diverticulo coniicere
possis* r 6 «jrAca? ovtu) yt . r. A. b. e. definitione addita
nulla, tam simpliciter, sine ulla explicatione accuratiore. Quæritur,
stru loyos, ro ecxAag ovra xceQyyyel&ai lyxmfuaguv “Egcora! fl
filv yaQ tlg yv 6 "Eq0 g, xaXug av sl%s. vvv SI ov yag louv tlg- prj ovzog Se Ivog,
6q&6z£qov Ioti ctnram verborum quod attinet, utrum
nominativo an accusativo casu posita hæc verba rectius accipiantur.
Ut verba vulgo exhibento?) nihil certius esse reor, quam nominativum
casum unice probari posse. Efficiunt enim X 6 anXcoZ ovtcoS verba
præcedentium verborum appositionem: Nicht gut scheiut mir, o Phædrus, die
Aufgabe gestellt zu sein, namlich so schlechthin aufzuge1 ben, den Eros
zu loben. Neque probaverim accusativum casum, qui Riickerto placet»
Caussam enim, inquit, proponit, cor non recte proposita dicendi
materia sit, quatenus cet. Nimirum hac structuræ ratione
frigidiorem orationem effici censemus atque sedatiorem, quam quæ Pausaniæ,
homini inprimis ipcoxixfi, conveniat. Fortasse hoc modo Pausaniæ verba
scribenda snnt, ov xaXc jS poi Soxei, gj $alSp £, 7tpofi£ft\f/6$cti
ijjiiv 6 XoyoS • ro anXoaS ovtoo napr\yyiXScci iyxcopia^eiv " Epcoxa
! qua verborum distinctione quantopere vi augeatur totum enuntiatum,
sponte apparet. Habes enim vituperationem Phædri coniunctam illam
cum indignatione summa, quam per me licet etiam irrisionem interpretari:
Wie kann man nur so schlechthin die Aufgabe stellen, den Eros zu
loben ! Atque, si quid video, hæc natis malitiose a Pausania proferuntur
ita, ut ad præcedens Phædri dictum comparentur, C. io ovv xoiovtov
phr itkpi TtoXXjjv (xxovdrjv noirjtia- 6$ai y"Ep(oxa&k
pT}8ha ita> av - SpQOItCDV TEToXflTjxlvai tfe XCCVTtfvl xrjv rjpkpav
aZlooS vjuvtj Coa! Ceterum iu aliquot codd* non malæ notæ ovtgo?
exhibetur, quam formam h. 1, unice probamus» Sed fusius de ovrvt et
ovtgdS formis infra disputaturi sumus. vvv 8h ov yap l6xiv
sis* Hæc verba sunt, qui nno tenore pronuntianda censeant; v» c.
Engelhardtus ad Apol» Socr* 83* B. 221. ita iudicat, nt nullam
prorsus omissionem verborum Græcos sensisse statuat» Sed neque hoc
indicium probaverim, neque vero iis accesserim, qui vvv dh ov yap verba
lineola apposita disiungunt, vide licet ut esset, quo legentium oculis
«aposiopesis* indicaretur. Aposiopesis enim non nisi in iis locis
reperitur, in quibus aliquis ita commoto animo loquitur, nt pauca
verbis exprimat, cetera legentibus divinanda relinquat. Non igitur
aposiopesin agnosces in verbis : Hoc vidi, neque vero illud, æd
omissionem præcedentis verbi finiti, quod, quoniam facillime e præcedentibus
suppletur, ne nimia abundantia oratio laboret, lectoribus supplendum
relinquitur, Idem in nostrum locum cadit, ubi, cum præcedat xaXcoS av
£?££, facillime post vvv da suppletur ov xaXcoS $X ei - I an * quid
differat aposiopesis ab omissione verborum, quam 'ellipsin vocari
licet, statim apparet. Aposiopesis reticentia P •xaotEQOv xgo^QTj&rjvai
vxolov det Ixcavuv . lya ovv nu» p«(Jof(«t tovto ixavoQ&uOaO&aL, xqutov
fiiv "Egara eorum est, quæ aliquis additurus rebatur potius, uter
eorum laucrat, sed propter ammi comraodandus esset, quam qualis esset
tionem disertis verbis non ex- is, quem laudari oporteret. R ii Impressit;
ellipsis contra elegantem kert. verborum omissionem indicat,
inavopSudatiSat. Huquæ in præcedentibus leguntor, ius yerbi potestatem Ficiui
conet quorum repetitio foedam quau- versio non satis assequitur: hoc dam
abundantiam dictionis eifi- itaque emendare conabor, ceret. Ad nostrum
locum ut re- Ea nimirum ini præpositionis vertar, lineolam post vvv 8e
cum verbis compositæ vis est, verba ponendam curavimus, ut ut aliquid
post aliquid fieri e præcedentibus verbis aliquid significet, cfr. 180.
A. oti supplendum esse clarius indicetur. nenvdpivoS napa tijS
prjxpoS Simillimus nostro loco est Lachetis ais’ dn o$ av olxo ixoXprfp.
200. E. el fikv ovv iv xols tfev •— ov jiovov vnepanoSaSiaXoyoiS xols apxi iyco
plv veiv aXXa inanoS av elv, Itpdvqv elSooS, xooSe 81 p?) quo loco quid
differant anoelSoxe, Sixatov av rj iph / ia - $av&65ai et inanoSctvtiv,
Xidxa ini xovxo x 6 ipyov na - sponte intelligitur. Adde Protag.
paxaXeiv' vvv 81 opoicof 328. E. vvv 81 nbteidpai * ydp itavxeS iv
ctnopia iyevo- nXr,v dpixpov xi poi ipnoScdv, pe$a, quo loco post vvv Se
o 8f/Xov oxt TlponayopaS (ictsupplendum esse ratio loci docet: 8la>S in ex 8
18 dB,ei, ineiSi} ovx ig>dv7fv eISojS. nal xa noXXa xavxa
it,e8l 7t poxepov n po ij - 8a%ev. xal yap el piv xiS vai . Hæc.
verba ex abundantia nepl avxdov tiityyevotxo oxojovv quadam posita sunt,
quam etiam xdiv Srpirjyopoiv, xa% dv xal Latini adamarunt dicentes :
prius xoiovxovS XoyovS axovdeiev ij præfari. Simili modo supra
IlepixhiovS i) dXXov xivoS xoov p* 177. D. dicitur: apx £ ^v 8h Ixavcov
elneiv * el inave4?al8pov n pdixov, neque no- poixo xiva xi, Gjfi tep
(iifiXia strates ab Jmiusroodi diccudi ge- ovSev i'xov6iv ovxe
dnoxpivanere abhorrent. Quem enim of- 6$ai ovxe avxol ipidSai, aAA*
fendat conversio hæc: Phædrus iav rtS xal dpixpov inepta hahe zuerst den Anfang
gemacht? Xrj6y x i xtav prjSivxtav, Ssnep Nostra verba Schl ei erm ac
heras xa x a hxela nXrjyevxa paxpov convertit: dasi zuvor bestiramt rfx £
1 xdl anoxeivei, iav prj werde. Græcis verbis magis re- imXdfirfxai xiS,
xal ol fiijxopeS spondet: dass zuvor vorausbe- ovxta dpixpa iptaxrjS
ivxes 8ostimmt werde. Xixdv xaxaxelvov6i x ov Xoyov. 6 nolo v 8 el
in aiv £iv ., Perscripsi totum hunc locum, ut Nondum licebat oitoxepov
dici, lectores e vestigio de Stallbaumii s quia quot Amores essent,
nondum sententia iudicare possent. Jn erat definitum ; accedit v
quod, his, inquit, vereor, ne vitium alietinmsi esset, tamen non id quæ- quod
lateat. Quum enim in av t i ' i (pQtzGcu ov 6tl Inaivtlv, insita
Inaivioai a^tcag tov &sov. navzss yag Zapsv, on ovx isziv civiv
"Egazos p £ 6% a i sit interrogare aliquid præter illa,
quæ ipsi oratores dixerunt, haud scio an deinde parum accurate
dicatur In e p cj Ti) 6 Tfl. Equidem scriptum malim av EpGDtrj dp, h, e .
interrogando denuo attingat, Quamquam codices veterem lectionem tuentur
omnes. -Nihil mutandum est, et omnia bene habent. f Enav£pid%ai est
alienius rei, de qaa paollo ante dictam sit, caussam et rationem
sciscitari. Enepcoxdv contra eius est, qni audita quadam oratione
alicuius sententiæ sire repetitionem sive enarrationem flagitat. Sensus
verborum est: lefzt aber glaube ich es, Nur eine Kleinigkeit ht mir
noch im Wege, die Protagoras ^ gewiss nachtraglich recht gut
beseitigen wird, da er iiber so Vieles mir Belehruug gab. Wenn
freilich Iemaud iiber denselben Gegenstand mit eiuem der
gewdhnlichen lledner sich bespriiche, so mdchte er leicht solclie
Reden horen, sci es von Pericles oder von irgend einem andern, der
zu reden versteht. Fruge dagegen Iemand nachtraglich nach Grund und
Ursache irgend eines Satzes, so haben sie, wie die Biicher, keine
Antwort und bleiben stnmm ; biito Iemand aber um die Wiederholuug nur
eines kleinen Satzes, so sind diese Redner vrie Erz, das lange klingt
und tont, wenn man es nicht anfasst, und geben ia solcher Weise
(vide ann. 58, nam ut illic ovxgj noXXaxoSEV, Protag. loco ovxco
dpixpa positam est) auf eine kleine Frage einen unendlichen Sermoo»
Ad nostrum locum ut revertar, verba convertenda snnt : ich
will nun versuchen, diesen Fehler nachtraglich zu berichtigen.
npootov 'jtlv " E p coxa. <p p a 6 cci . Ne quis forte
xoci particulam desideret, qua hæo verba præcedentibus
commodius annectantur: Sol ent Græci, verissime notante Stallbaumio
ad Apol. Socr. 22. A., eas sententias, quæ aliis sub iiciuutur explicationis causia, ita
addere, ut particularum et conjunctionum vincula omittant. Effici autem
videtnr hoc asyndeto, ut gravitate quadam oratio augeatur, quæ addita xai
particula prorsus evanescat. Hoc dicendi genus tam simplex est atque omnis
expers artis, ut non mirum, idem iam apud Homerum reperiri, cf. II.
a, 504. seqq. coS zco y dvxifiioidi pax^ddapeveo inktddiv
dvdtT/tTjy • Xvdav 6 * dyopt/v napa vsvdlv Axaiar. IJqXeiSqS psv
ini xXidiaS xal vijaS ildaS rfie, dvv re Mtvoixiu.br) 7ca\
oli Ixcepoidiv * 9 Atptibr)i 6 * upa vija $or)v aXabe
npoipvddtv, is 6* ipirai i-xpivsv x. r. A. Adde Phædon, 91.
B. XoyiB,opai ydp, oo <piXe Ixcfipe. xal Sioedoa gjS nXeovexTixtiS •
tl pev tvyxdret dXrjSrj ov xa cc Xiyoo, xaXcoS 6t { xo
nei dSrjvai* eI bl prjbbr idxi xeXttrxijdavxiy dXX ovv rovxov yt x
ov xpovov avxdv tov itpd tov Savatov ijxxoY xoiS na-6 * .
’Aq>Qo6ltt]. (tiag (ilv ovv ovGtjs ttg av Tjv “Egag' hct 1 dt 8q 8vo
Igtov, 8vo dvayxrj xal "Eqqhb tlvav. xag 8' ov povdiv u7j6i}
5 Idopoa. odvpoptVOf. c tB,loo S tov 5eov. Hæc verba vario
modo interpretari licet. Possunt de elegantia laudationis intelligi, de
sinceritate laudatoris» de laudationis veritate cett. Sed horum
nihil Pausanias in mente habuisse videtur. ’A£UgjS tovSbov esse:
ita deum laudare, ut nihil omittas eorum, qnæ deo conveniant atque
ad prædicandam eius laudem pertineant, verbis indicatur 180. E. a 8 ’ ovv
huctrepoS eTlKtjxe, itEipaxkov Elireiv. TtdvTsS ydp
tdpEV* Omne s, inquit, s c i m u s, Aphrodite n' non esse sine
Erote. Sed quod omnes scire dicuntor, idem fieri interdum potest,
ut scire se opinentur tantummodo, revera non sciant. Eandem igitur
argumentandi sive levitatem sive audaciam habes hoc loco, qua Phædrus
in oratione sua usus est 178. B. yovijs ydp KpcDToS ovt sidlv ovte
Xiyovxai vit* ovSevoS ovte iSicorov ovte noirjTov f ad quæ verba
vide ann. 55. Cur Aphrodite sine Erote non sit quærentibus variæ
caussæ se offerunt, quarum aut una vera est aut nulla. Eas nunc
recensere eo facilins omittere possumus, quo minas ipse ^Pausanias de
caussis rei cogitasse videtur, quam rem omnes compertam habere narrat.
Ceterum ut TtdvtES ydp Idpsv h . t. A. Pausanias dicit, ita
Socrates dissimulato ingenii acumine 202. B. neti jnjv, inquit, ?jv
6* iycd 9 opoAoyeirai ye napd ndvxoov pty/US etvai.
« ptciS p\v ovv ovdtj S*. Veteres editt. habent TavrrjZ
8\ pia* phr ovdrjS, quod fuerunt, qui probarent. Sed non
dubium est, verissime notante Stallbautnio, quin id grammatico
alieni debeatur. Bekkerns e codd. non pancis piaS p\v ovdtjS
edidit, quod sane habet, quo magnopere se commendet. Tantnm
enim ponderis enuntiationi, quæ quasi fundamentum eat totius disputationis,
infert, qnantnm eidem apprime convenire videtor. Sed codd. optimorom
auctoritas respicienda est, qui coniunetivam particulam exhibent.
Probatur eadem nobis etiam propter duplicem relationem, quæ hoc
loco manifesta est, et de qua fusins disputavimus p, 22. et 2$.
Proprie dicendum erat: pia? p\y ovdrjSf sii av ijv^Epwg' Svolv 8^
8r) ovt o iv, 8vo dvayjcrj xal EpcoTe slvaiy sed eandem enuntiationem
etiam hoc modo cogitari Pausanias voluit, E i p\v pia Tfv, eU dv
t/v^EpcoS- insl <$?/ 8vo idTov, 8vo dvdyxrf v.a\ "Epare
elvai. Duplicem hanc et nominum et particularum relationem mutuam
indicare Pausanias tantummodo potuit, non item disertis verbis
exprimere* Indicatur autem ea, pkv vocnla ad prius nomen apposita,
8s autem cura posteriore particula coniuucta ptaS p\y iitEi
dL Sed hac scribendi ratione repugnantia quædam exoritur singularum
orationis partiam, quæ addita alterutri sive nomini sive particulæ
ovv particula mitigatur atque lenitur. Riickertus ad h, I* ita disputat,
ut Pausaniæ 6vo Tio &ea; rj (iiv yk loti itQEOjivztQa x«l
afi^rap, OvQavov &vyutr]Q, tjv Srj xal OvQavlav l%ovo(iatfiiiiv
' Teri) a corruptissima ceuseat atque non nisi verborum
mutatione sananda. Videtur enim, inquit, hæc ipsa varietas, quod
alii tavTTjS 8 i, alii ovv addiderunt, argumento esse, antiquius
hic vitium latere, quod variis modis sarcire stpduerint librarii. Itaque
in mentem mihi venit olim, essetne Platonis manus hæc ;
*Aq>po8ixrf % j]S ytiaS plv ovdTjS, Cui si quando accidisset, ut
negligens librarius pro *Aq> poSitjj ?fS scriberet *Acppo~ 6 It
rj S, Jieri postea non potuit, quin ~6 abiiceretur, quo facto alias
coniungendi verba rationes iniri oportebat, quarum ad nos duæ
pervenerunt. Perscripsijhæc verba, ne deesset, quibus nostra
displicerent, quo commodius Pausaniæ verba explicarent. 7t 65 i 8 *
ov 8 vo x oo $ ea. Vulgo xa $ed; sed miuus usitatum hoc apud Atticos ex
præcepto Grammaticorum. Eodem xnodo reperitur rcJ 68 co in Piat,
Gorg. 524. A» Plura huius loquendi usus exempla Matth.
congessit Gramm. ampl. $. 456. 1. 812. Ceterum hæc interrogatio ex eo
genere est, de quo diximus ad verba c.VI. 60. Xkya 8tf xi xovxo;
Mediæ orationi interrogationes immisceri haud raro, ut vigor
orationis structuræ mutatione augeatur, satis notum est. Hoc vigore,
quem oratorium vocare licet, Pausanias ita utitur, ut argumentorum
absentiam obtegat, quibus duplex deæ numen probandum erat, ?}
pkv yk itov Ttptd flvtkpat, Riickerto yk particula videtur non
argumentationi, sed expositioni ante dictorum inservire. Frustra. Quod
modo annotatum est ad præcedentem interrogationem, optime cum huius
particulæ vi, quæ est vis argumentationis, convenit. Rectissime Buttmanni
præceptum ad Dem, Mid. 46. laudavit Stallbaum: Quum quis uno
argumento,vel exemplo aliquid probat, potest hoc ut suiliciens
afferre : quod fit particqla ydp ; potest etiam significare, plura
quidem posse desiderari, sed hoc unum satis grave esse : quod fit
addito yk, certe, saltem. Restat, ut de tcov particula dicamus,
cuius potestatem non satis recte Riickertus interpretatus est. Annotat
nimirum ad h. 1.; Addita part. itov urbanitatis declaratio est, '
qua speciem exhibet qui dicit ' etiam de re certissima dubitationis atque
ad lectoris assensum provocationis . ' Non aliter
Buttmannus de eadem vocula indicat in Indic, ad Piat, Dial. IV. Berol.
MDCCCXXII, Sed quam hi urbanitatem dicunt, equidem in Pausaniæ
oratione arrogantiam interpretari malim. Nimirum 7tov vocula e
dicendi genere ov xl Tt ov depromta est, atque iu interrogatione positum
significat, mirari atque indignari eum, qui interroget, si quis
aliter atque ipso de aliqua re indicaturus sit» IIov vocula igitur
non tam wol convertenda est, quam doch wol, doch sicher, doch
gewiss. Usu loquendi factum paullatim est," ut nov
particula significet, notissimum aliquid esse ita, ut de eo
dubitari nequeat. 5ic in ij 8e vecotIqcc Aioq xai Aicovrjgy yv 8%
ITavdrjfiov xæ Xovusv. avayxaiov 8rj xai * 'Eqcotcc tov (iiv ty hijpqc
jfrvSQybv IIdvdypov 6 q$ ag xcUsid&ac, zov di Ovq&vlov. Alcib. I* 129.
C. 'O di XP°^~ pEvoS xai (L xpip ai °vx aXXo ; TIgoS A eyeiS ; "fhSTtEp
tixvtoxojioS xipvei itov tojjeI xai d/it\y xai aXkoiS opydvoiS.
Adde Criton. 44. A. IIuSey rovro TExpatipg ; EyoS Coi ipaj. x\f
yttp ttov vCxspaia Sei pe ditoSvijCxeiv, if v dv Z\$oi to tcKoiov
h. e. den Tag darauf mus» ich, wie du weisst, sterben, wenn das
SchifF zuriickgekommen sein wird, xai Ov p avia. De
Venere Urania atque Vulgivaga secundum Platonis sententiam disputarunt
Apulei. Apolog, 281* cd. Oudend., Io. Lydus de mentibus 89. seqq. Alios
laudavit Astius ad h. 1. Qudd autem illa dicitur dprjxcap 7 pro
magna deorum laude haberi solere, quod alterutro parente careant,
docte demonstravit Wesseling, Obserr. II, 10, p, 177. seqq.
De Venere Vulgivaga ex Iove et Dione nata v. interpp. ad Cic. de Nat.
Deor. III, 23. Elmeuhorst, ad Apulei, 328. seqq. et quos
laudat Bach. ad Xenopb. Symp. VIII. 19. Ceterum vix est, quod
moneam, totum hoc argumentum a Pausania ita tractari, ut fabulas de
Amore et Venere pro consilio ano mutaverit eique accommodaverit.
Stallb. iit aiv eiv piv ovv det itavtaS SeovS. Vario
modo sollicitarunt hæc verba interpretes. Bastius scribendum
couiecit inaiYEiv pkv ov dei itavxa (sc. w EpGDxa ). Orsilius ad Isocr. de Antidos. p.326. iitaiveiv juv 3cod 5* expungenda censuit. Riickertus Astio
assentitur, qui vel superstitionis caussa vel propter metum verba addita
esse iudicat, videlicet ne Pausanias deos contemnere videretur.
Stallbaumius, ne Pausanias sibi contradicere rideatur, facto inter
litaiveiv et iyxajpidpEiv discrimine verba convertit ; Omnes deos
cum honoris significatione commemorate pietatis est; non
autem omnes encomio digni haberi possunt, Hanc verborum interpretationem cave
probandam censeas. Non yerum est enim, quod Stallbaumius inter
hcaiveiv et iyxwpidpEiv discrimen statuit, neque idem scriptorum locis
probatur, cfr. Piat. Menex. 235. A. yorjxevovdiv T\pdtv ras ipvxaS
xai xrjv ito\iv iyxoopidpovxeS xaxd itavr aS xpoxovS xai xovi
texeXevTTjxoxaS iv x<p noXipw xai TovS TtpoyovovS ?}pcjv dnavxaS
tov f ipitpoCSsv xai avxovf TjfiaS xovS Zxi ZrivxaS Ijtaivovvxss x. r.
A., ad quem locum Engelbardtus verissime annotavit 241. ed.: irtaiv
ovvr e$ nihil est nisi repetitio quædam præcedentis iyxcopidP,ovx
eS ob enuntiati longitudinem adiecta. FICINI conversio, ne verbo tenus
quidem facta, audit : laudare quidem deos omnes decet, sed utriusque AMORIS
opera distinguenda Pausaniæ mens hæc estx Male ’ Enaivilv yh> ovv dei fiavtag ftsovg' «
et ovv txattQog *’i hj%B, XBiQceriov tlitilv. Uda a yag
ngd^ig <od’ fyti' aixrj hp avtijg figar- Phædra» nihil definitione
nccuratiore usus Erotem laudandam proposuit. Duo enim sunt Erote». Duo
igitur (ovv) nunc Erotes laudandi sunt, quoniam omnes dii, ut dii,
non possunt non laudari. Ea laudatio ut recte fiat atque digne
deis, quid utri** que Eroti datum sit muneris, iam dicendum est.
Pausanias igitur, quod in laudatione Erotis a Phædro proposita duos E
rotes commemoret, alterum Ovpdviov, alterum ndvSypov, eius rei
excusationem petitum iri putat et a negligentia Phædri, qui Erotem
laudandum propovicrit dei naturam duplicem non respiciens, et a
pietate quam diis omnibus mortales præstare debeant. Restat, ut de ovv particula dicamus, quæ h. 1. dupliciter posita est. Prior
part. continuandæ orationi inservit, de ulterius potestate dictam
supra est 22. et p, 84, o(vt fj i<p avtyS itpatropivy.
HpatTopevy participium adeo suspectum visum est hominibus quibnsdum
doctis, ut tanquam inutile additamentum expungendum censerent.
Neque his assentimur, nec Stallbaumio credimus, quod annotat ad h.
1.: Poterat omitti participium, fateor: et omisissent fortasse alii, qui
non haberent Pausaniæ ingenium, Ficinus in convers.participium non
expressit, cuius tamen parva in huiosmodi rebus auctoritas. Quid? quod
Gellius, verba græca laudans N. A, XVII, 20. participium edidit, idem in
latina conversione omisit. Participii vis hæc est: itatict yap
itpct%iS c o6 9 ix*f avty avtrjS TtpdB,iS o v 6 a ... h, e,. Mit • aller Handlung verhiilt es sich so: so fern sie
an und'fiir sich Handlung ist,ist sie weder gut uocli^
schlecht. Haud raro Græci scriptores verbis transitivis utuntur ita, ut
addito obiecto nullo, non aliquam actionem denotent, sed meram
verbi notionem exprimant. cfr. Symp. p, 184 . B, av t eu epyetovpevoS eis
XPVpara. p y nata<p povij 6y h. e,, wenn er in Beziehung auf
Geldgeschenke oder auf Befdrderungen im Staatsdienste s e i n e
Verachtung niclit zeigt. Pl. Gorg. p, 489, D. y olei pe Xeyeiv, idv
CvpqtetoS 6v\ Xepy 6oi> Xcov 9tal 7tocYto8ot7td)V avSpcoitGQV pySevoS
d£,ia>v rtXyv iocj? tc 3 dajpazi itixvpfcaOSai, xal ovroi
<pd>6 iY t avia tavuc elvat vojptpa; in his verbis, cum prægnantem,
quam vocant, g>dvai verbi siguifteationem non perspicerent,
Heindoriius, Buttmannus, lleusdius, ad coniecturas ingenii confugerunt,
xal ovtoi <poo6iv est: und (wenn) diese das Wort nelimen,
ihre Stimme erheben. Protag. 384. D, coSicep ovv dv el ItvyXOLVOV
VltOXGDtyOS cov, <5ov av xP 7 } yai t tlnep epeXXis /tot
diaXkZetiBai, pelP t ov cp$tyyeCSai y itpoS tovS dXXouS, ubi pei2,ov
positum est pro pdA181 TOfiivtj ovzs xcdrj ovzs ale^Qa. olov 8 vvv tfftus holov
ptv, nlvsiv Tj aSuv rj duxkeyto&cu, ovx i'<J n zovzay, >
avzo xafr’ ccbzb xaXov ovSlv, ai. A’ Iv zy sipaiju, a ; av nqayfiy,
tocovtov «jrifJij* xcdas (itv yaq nqaxzb fiivov xal oq&w s xcdbv
ylyvszai, prj OQftas de alctyQOv . ovza 8rj xal zo Iquv. xal 6 “Equis ov
nas eOn xaXbi; ovdi agto<; lyxujiui&<5%at,, aiX b xaXw$
nQOZQtnuv Iqcxv. Aor, ut esset, quod verbis q>$oyyov itapexeiv
(b. e. tpSiyye 6Sai) conveniret. Adde Apol. S. 80. D. idv ipl
ditanteivrjxe ovx ijj.1 pel^QD fiXaifrete rj vpaS avzov$ t quo loco ad
utrumque dicendi genus respicitur. Hac significatione verborum prægnanti factum
est, ut multa verba cum genitivo couiungi soleant, ubi quartum
casum exspectaveris cfr. Protag. 851. E* itorepov ovv, rjv 5* iyc
et, tfti fiovXei ijyepovevEiv (h. e. 7jysjj.Gov elvat) xrjs dnhpeooSy rj
iyco ijydopai ; JixaioS, £<prj f 6v TjyeiG$ai' 6v yap xal xaxdpx
xov Xoyov. Ne præteritum pro xorcdpXEtf exigas, sensus est; da bist
ia auch der Urheber der Rede. Menex* 237* cap. 6* xijS 8* Evyereiaf
icpcoxov vxrjp^e toiSSe i} tgoy Ttpoyovaov ylve^ 6i$ tu T, A. h. e.
war die Ursache* Adde e latinis scriptoribus, apud quos rarior hic usus,
Plaut. Asia. v. 256. Both. Ætatem ego velim servire (h. e. servus esse),
Liburnum ut conveniam modo. roiovrov ditiftTj* Tropum
aliquetn in mente Pausaniam habuisse, certum est* Fortasse proverbium
erat, ad quem allusit: talem farinam prodire solere, qualis in mola parata
sit* ovtoo 8ij xal to ipav. Post ipav nulla interpunctio reperitur
neque in codicibus uequ s in libris editis ; graviorem posuimus nos,
qualem sententiarum ratio exigit. Pausaniæ mem hæc est: ut quævis
actio per se spectata neque turpis est nec pulchra: sola ratioue
agendi cognomentum accipit: ita nitiii in se habet % Q ipay per se
spectatum, qnod veli vituperes vel laudes: ex sola amandi ratione
indicatur. Quod sequitur xai non mera copula est, sed fortiorem
significatum habet, quo apud Latinos poni constat adhærento consequentiæ
notione atque pro atque igitur* Verba convertenda sunt: So verhalt
es sieh auch mit dem hieben, Und ist also nichtieder Eros
schon und eines b esonderen Lobes wiirdig, sonderu nur der, welclier auf
eiue schone Weise zur Liebe treibt. ooS dXySooS Ttav 8 rj
jio Quid sibi velit goS «A?;3o3s', a nemine demonstratum video.
Significat autem, propria potestate adhiberi, h. e. adieotivum esso
non nomen, 7tdv8rjjioS. Recte igitur aliis in locis mihi videor K
t 'O (Tsv ovv Ttjg HavSy/iov 'AcpQoStzrjg eos aArj&cog
JtavSrifiog eOzc xul itiegya&tai o xi av xv%y xal ovxog B lozt/v, ov
ot tpavAoi xmv dv&Qtltxcov igatiiv. £ga( H 6s ol xoiovxoi ngdhov (iiv
o&% fjxxov yvitcaxav i} itaiSav, IWf hxa, eoi/ jcal tQcoGi, zov
Gufiuzav puAA ov xj zav m«inscnla littera UdvSyfioS «eripsisæ.
iZepyagexat 3 xt «Y xvxy^ Vett. edd. pro xvXQ exhibent xvyoi,
Male. Ad xvxy •imple* verbum e præcedentibus repetendam est, uon
compositam i&pya$Qp£YQf, ut visum est Stalibaumio, Sensos est:
und was irgend noter seine Hande Itomnrt, das henutzt er oh
ne vr e i ter es fur seinen Zweck. Huius structuræ exempla permulta
reperiuntur. cfr. Phædon. P- ( 64, C. 6H(ij!<ti St}, <J
dyaSl, £av apa xal dol %w8oxy, aixep Xal £fio\ (ac. doHtl,') Pari
modo affirmativum verbum repetendum est præcedente verbo
negativo Platon. LEONZIO (si veda) <ft A' iav Ttepi zov dfupidftnxtjdatdi
xal prf <pfj o exepos x ov Sxe(>ov opS/wS Aiyuv fj fit } o'atptaS JC.
tpy, Sententiam ipsam quod attinet cfr. Piat. Prot*g- P- 353. A. xi SI,
o! 2aS~ HpccxcS, §ei ?) licis 0xoixei6$ca T?jy tgm* 7toXXcov Sdfcctv
ctv~ Spomtaiv, o'{ oxt av xvxoodi, xovxo Uyovdiv, Adde Piat,
Criton. p, 44, O. xal ovxoS idxxv, ov x. X, A. Pausanias si
brevius loqui voluisset, verba audirent xal tovzov ipwdtv, Illam
oratoriam dicendi figuram etiam infra reperies 182. A. ovxot yap cldiv ol
x. x. A,, 186. C. xal xovxo idxxv, fi ovofia %o iaxpiHov et alias
sexcenties. Ceterum ipdv coniunctum cum quarta essu verbum
transitivum esse, cum genitivo, prægnanti, quæ vocatur, potestate
adhiberi, ut idem sit, atque amatorem esse alicuius, supra
annotatum est 88. Hinc nostra verba convertenda sunt; und das ist
der, welchen die minder Gebildeten unter den Menschen lieben.
Liebhaber aber «ind solebo zuerst, nicht minder von Weibern ais von
Knaben, cos av Svvatvxai avotjxoxaxoov. Stallbaumii ad h. 1,
annotatio hæc est: Tribus partibus ait constare diiferentiam inter
asseclas Amoris coelestia atque vulgivagi, primum sexu, qui ametur,
deinde parte, quæ ametur, postremo amandi modo. Itaquo mutavimus
lectionem vulgatam avo7/XQxdxa>Y Schiitaio obsecuti, cuius coniecturam
firmant codd. aliquot non malæ notæ (Paris, et duo Vindobb.) Satis
speciosa est, neutiquam tamen vera hæc verborum interpretatio. Tantum euim
abest, ut temeritate tanquam argumento Pausanias utatur, quo
tpavAovS il'v%ibv, htuxu m g av Svvavtai' avorjxoxazmv, jrpog
ro ' diangdl-aO&ai fiovov fi /.{novies, a/eel ovvteg de xov xaAcJg ij
[trj. o&ev 6rj %v[ifiatvu avrols o rt, av xvfjaGi, xovxo ngdxxuv,
opotcos pev ccya&i>v, opoias Si xovvavC riov. laxi yag xal ano xijs
&eov vecoxega g xe ov6t]S nolv rj xijs exigas, xal pexe%ov<3ris Iv
rjj yeviæi xal I • tu>v avSpcdnoDy Pandemum amaro
quam pueros, deinde corpus magis probet, ut potius allatis argumen-
quam animum amant, postremo tis tribas Pandemi amatores te- natu
minores» mernrios esse doceat intempe- icpdf x 6 Siart pd£,a6Sai. raritesque
atque eorum, in quos* Ut paullo supra i^epya^ed^at, cunque inciderint,
ineptissimos ita hoc loco dianpaB,ad%ai verbi corruptores. Nullo enim,
inquit, di- latissimo significata turpissimæ scrimine facto etmulierum
etpue* rei notio obtegitur. Schleierrn. rorum AMATORES sunt, deinde sire
in conversione habet: indem sie mulierem amant sive puerum, cor- nur auf
die Befriedigung sehen, poris quam animi pulcritudinema- unbekiimmert, ob
auf sebdne gis delectantur, postremo, quain Weise oder nicht. Ceterum perfieri
maxime potest uum i ne- pulcre hoc additamento explicatio p tis simo m od
o Pausaniam di- nostra dyoj/xotdxcjy verbi proxisse censes? quid ineptius in
bari videtur. Ætate enim pro amore cogitari potest, quam cor- vectiores
cordatique homines haud pore magis quam animo delectari? facile ab iis
corrumpi possunt, K evocanda lectio vulgata est avorj- quos temerarios
libidinososque ToxarcDYy quam Riickertus quoque amatores esse
intelligOnt. Contra, in textum recepit, minas tamen quorum ætas prudentia
caret, recte verbom interpretatus. Avorj- quo facilius fraudi obnoxia
est, j oraro i enim h» 1. non stuleo cupidius ab illis tissimi
sunt, sed infirmio- Edti ydp jcai ris ætatis. Hinc verba ex- 5 eov. Cave
Riickerto crcda» plicabis 181. D. xp V v dk xal annotanti ad Jianc locam,
davo/iov tdvctt pyj ipay it a i 8 cov t riorem omissionem verborum esse
fya pjj eis adfjXoy tcoAAtj dirovdi/ o "EpGOS ovtoS, nulla videlicet
arrjAitixero ' x. r. A., ad quæ in proximis præcedente Erotis verba vide
annot» Quid? qivH, mentione. Brevior Pausanias esse quæ his verbis præcedunt,
no- maluit atque, quæ facillime supetram explicationem apertissime pleri
possint, eadem -audientibus probant: aXX* ovx i^anarf/day- supplenda
relinquere, quam oraxe£, iy aq> p o dv y y Xaftov - tionera exhibere nimia
verbositate x eS cis* viov x. T, A» Pausa- laborantem. Proprie euim dtniæ
igitur voluntas hæc est: cendum erati eidi ydp xal and Pandemi
amatores non nisi e ge- xovxov rov "EpaxoS, oS idxtv nere
temerariorum hominum sunt; and xi/S Seov x . T» A. Similiter quorumcunque ipsis potestas est, Pausanias brevitatis
studio dixit eos Amant, non miuus feminas 181. C. ol ix tovxov xov
oppetitur. and x ii s ahjtaos xal aQQtvog. o 61 tijg
OvQccvtag tcqStov ftlv ou (izxzyovdijg &t]A.sog, a A A’ ctQQBvog
ftovov xal Igxlv ovtog o tojv italdav Eqco g 1'sr utk itQEGfivttQcig,
yfigcag CC(lolQOV. 0&BV 6tj iJU tO UQtjBV TQZTCOVXai 01 £x
XOVtOV rov “Ego rog Mxvoi, ro <pv6e i iggauBvzdtzgov xal
vovv fiuMov Myov ayuTtavttg. xal ng av yvotrj xal tv avry
EpGDToS hnnvoi pro ol ix tovTOV TOV^EpcuroS tov <X 7 CO xavTtjS rijS
iitiitvoi. Cetcrnm ne mireris itoXv voculæ post comparativum
posituram, ita loquuntur interdum Græci, ut sedis insolentia verborum
potestas augeatur» Exempla huius locutionis non rara • supra
reperitur 180. A. xal itt aykvEioS, hcEira VEooTEpoS 7to\v, <2s
<prjdiv "OprjpoS. Adde Piat. Gorg. p» 488. E. ol yap
xpEixxovf fisAxiovS itoXv xaxa rov dov 4 \ 6 yov. Plura exempla
Stallbuumius laudavit ad h. 1. ed. 50. xal ^rfX^os xal a?/3/5eYOf,
Ilis verbis explicatur, qui fiat, ut TlarSjJpov asseclæ et femineo
et masculo sexu delectentur. Hoc quamquam disertis verbis non
commemoratum est a Pausanid, tamen colligere licet ex iis, quæ
paullo infra leguntur: aW afifisvof povov xal idxir ovxos 6 xwv itaiScjv
"EponS quæ verba immerito tanquam glossema expungenda
censuerunt Wolfius, Schiitzius, Astios. Sensus est: und darauf beruht das
W e s e n der Knabenlicbe. OvxoS autem pronomen positum est e
generis haud rara assimilatione prorotiro. vfipscoS a/ioipov
. In his asyndeton improbantes Astios et Orellios alter xk
inseruit, alter apoipoS scribendum existimavit. Frustra.
Solent addita eopola nulla ens partes orationis enumerare Græci, quarum
suam quæque pondus habet, cf. Symp. P 17 3. B. ’Apt<5To8t//toS
7/y xiS, KvSaSijvauis, apixpoS, dv vnoSijroS dei. 175. C. rov ovv
AyaScava, xvy x dvctv ydp ?d X arov xaxaxclperor, yiivov. Ceterum vfiptaS
d/ioipos Urania dicitnr ita, ut simj|,* 0 P a „demon Aphroditen oratio
dirigatur, cuius Swepyos perfidos et cavillatores asseclas reddit, cf. 181.
D. aAA^ ovx iSoxaxijCavxeS, iv dtppo6vvy XapoVTtS cjV viov,
xaxayeXddavxes oi x ji d £ d $ ct i ije \ccX\oy djzo xpi X ovx£S x. x. A. oSev 8xf trixinvoi.
Hæc accuratiori explicationi inserviunt præcedentium xal Hdxiv ovxos o
xtiv itaiSov *Epa>s. quæ verba quoniam ita exhibita snnt, ut pro
concreto, quod vocant grammatici, abstractum positum sit, nostro loco
concretum ha^es h. e. masculi generis amatores in abstracti nomiuis
locum substitutos. Cave igitur h. 1. de inutili præcedentis «licti
repetitione cogites, "Exixvoi vocem qnod attinet, cfr. Piat. Menon.^p. 99.
D. cpaipiv civ Seiovs xe tLvai xal IvSovtiidZetv, inlTtvovS ovxaS xal
xar£ X opevovS ix xov Seov. Adde etiam Phædri verba. Br xal dxeXvdiS, S
£<pi) ” Opi/pof, pivoS Ttj muSigatitla tovg tUtxgivcSs vno
xovtou tov * 'Egatog D oQiirjfdvovs. ov yag igmat nalfa iv t «M* ix$Ldav
rjdq i/iitvevdai Mot$ xgjv ypcocjv TOV jSfoV, TOVTO 6
"EpGOS T OlS i paxSi Ttapixei yiyvo/ieyoy itap
avxovx tq cp vdet ififxu/isyidTepov x. r. 'A. cfr. Piat, de
rep. V. 455. D. ovdb' dpa idxir, c 5 <pi\s, imxtfSevpa tgov
noXiv dioixovvTGDY yvvaixoS Stoxi yv vy), ov8 * avdpoS 616x1 dvtjp,
aX A* 6/1 oie os 6iEditap/iEvai ai cpvdtiS iv a/jypoiv xoiv
Z&oiv, xai icdvroov plv pexexsi yvvrj faixjfdevpdtGrv naxa
cpvdiv, irarxGJY 6 l ayijp, in\ icadi 6h adSevidxepw yvvjj
avdpoS. Ceteram came h. 1. Pausanias dyanwvxeS participium
exhibuit, tie forte aliquis, si ipcovXES dixisset, rei iutelligentiam
perverteret explendæ voluptatis notio* nem simul adiungenx.
nat tiS av yvoiij xal iv avxy xy icai8 spadxia » Inest his
verbis, quod male me habet. Nullum in codicibus vestigium est
deprationis, igitur commendanda tantummodo lectoribus, non item in textum
inferenda scriptura hæo est: xai tiS av xai yvotrj iv avxf/ ty
izaidepadxioc K. x. A, Nihil frequeutiua apud scriptores Græcos dicendi
genere xai T\S xal, xal Tivef xal, similibus. Unum huius dictionis
exemplum nt commemorem, in Piat. Criton. p,4$. A. legitur; ZvvrjSrjS.
JjSrj jaoI idxtv, <y 2 &lx parces t 6id xo jr oXXaxiX Sevpa
q>oixdv’ xal ti xai evepyeretxai vk i/iov, quo loro Stallhnumia
rectius Buttniauuuf edidit evepyexelxat, ille evepyhrjxca in textum
re cepit. Sensus est; Er kennt mich scliou, o Socrates, da
ich oft hierher komme \ dann uud wann bekommt er aufch etwas
von mir. Ad
nostram locum ut revertar, certissimum esse reor, Platonem non
scripsisse xai far aruxy xy ica\8epadxla. Satia enim erat dixisse
far* avxy xy itaiSepadxlq. aut addita xal vocula xa\ iv xy
TCcaSepadxla. elXixpiy dt X k Etymol. M. 298, 56. Sylb..
elXixpivrjS' 6 xaSapoS hqi\ d/Mtfifc kxepov. icapd xo eXv, 1 }
Sep/iadia, xal xo xpivGOy q iv xy £Xtf xexpi/ævoS. Alii aliter hanc
vocem explicare studuerant; nobis, unde hæc vox depromta sit, quærentibus
sponte se obtulit salia comparatio, quod coquendo purius fit et clarius.
Salinatoribus igitur vox antiquitus propria fuisse videtur; deinde,
ut fit, ia quotidiauao vitæ consuetudinem ita abiit, ut propria
eius significatio prorsus evanesceret, cfr* Symp. 211. E* xi 8rjxct,
iqrq, olopeSa, el xoo ykvQixo avxo xo xaXov 18eiy elXixpivls,
xa$ a pov, a/iixxov, dXXd. /xi} avaicXecov dapxcov xe av$ p coTziv-ojv
xal xpGopdxGov xal aXXyS itoXXi}? <pXvaplaS $vrjxrjS, aAA* avxo xo,
Seiov xaXov 6vvaixo jaov o$i8hS xaxi8e\v ; Adde Piat. Menex. 245. cap. 17^ 8ia xo eiXixpivdoS elvca h
£X\7/yeS xal dpiy&ls fiapfidfiGJY. Sunt igitur, Riickertus inquit, ol
eiXixpivcaS vico Xovxov xov "EpooxoS capptjpivoi, qui pure,
sincere, ab hoc Amore aguntur, nec admistum habent agxavtcn vovv
”6%uv • roxho Ss itlijOuc&i t< 3 yivuadxuv. XKQBOxsvccOfievoi yuQ,
olfiat, tlalv ol ivrev&tv agxu/iE qnicquam de viliore illo et vulga
ri.^ ov ydp i p oj 61 it ai8 cov, «AA* ineiSav x. x. A. Hæc
est librorum omnium lectio, quam H. Stephaniis primus ita
immutavit, ut aAA’ iitsiddv verbis 7 voculam interponeret. Ea scriptio
tum aliis tum Stallbsomio adeo probabilis visa est, ut eam in textum
reciperet. Constat autem, aAA* ?/ voculis duplicem rationem, quæ proprie
non nisi duabus enuntiationibus exprimi potest, in una euuntiatione
coniunctam indicari. Sic nostro loco dicere possis ov ydp
(npoxepov) ipcodt naidcov 7 iiteidav jjSrj apx&vxai vovv $6X
£lv t dicere possis etiam ov ydp ipcooi izaldGov, aAA’ (ipu>~
6iv avtoov) insidar 7/67 apX<&vt ai vovv 1 l6x £ iv ’ His enuntiatis in
unum couflatis dicendi genus efficitur hoc : ov ydp ipdodi
nalScov, aAA* 7 / iiceiSdv X. t. A. Hoc per se spectatum, cur
reprehendas, non habebis. Nam quod Riickertus ad h. 1, dubitare se
ait, num recte jral8tS dici possiut ii, qui iam pubescant, eo quidem
argumento lectores non admodum movebuntur. Quæritur autem, an Pausanias
ita locutus sit. Certi quid equidem statuere non ausim, verisimile tamen
mihi videtor, Pausaniam, cum paullo ante AMATORES nominasset, qui eo
delectentur, quod validius natura sit atque intelligentia emineat,
nostro loco non nisi oppositionis rationem habuisse, Ttald&v
nomen autem ita posuisse, ut idem sit atque dvorjxoxdxav. B.
reperitur. Eodem SIGNIFICATV paullo infra dicit: XPV y ^ vopov elvat jn)
ipav naiS 00 v ( h. e. pueros immaturos ), ivct p7) elS dd?jAov
iroAAr) freovSt/ dv7]At6xEro. xo ydp xdov n acida) v xiAoS aSr/Aov, ol xeÆvtcc
xaxlaS xal dpexi/S. Ceterum ellipticam enuntiationem habes, quam
cave per aposiopesin explicandam censeas. Expletior enuntiatio audit: ov
ydp ipcodt icaiScov, aAA* ineiddv ?/8 tj dp Xcovxai vovv l6x £iv y r dxe
ipdj6iv avxGJV. Sensus est: Sio sind nicht Liebhaber von noch
unausgebildeten Knaben, sondern zeigeu sich ihnen erst dann ais
selche, weun iene anfangen Verstand zu bekommcn. Schleiermacheri conversio:
Dean sic Heben nicht Kinder et q. seqq., ea -de caussa minus nobis
probatur, quod illud nomen de utroque sexu intelligitur, h, 1,
antem non nisi de masculo sermo est. Noluit autem Pausanias dicere: orAA*
7/67 vovv {(Sxovxcov, quia significantius indicatura» erat, amato ies
id agere, ut ea ætate, qAMASIOSua
intelligentia efflorescere posset, omni studio excolerent, consilio
adiuvarent, exemplo meliores reddereut. Hinc apx £ <S$ctt verbum
appositum habes temporis momentum significans, quo tempore amasiorum
ingenia excoli possint, atque 7toXAy 6itov8y amatorum, quæ<, 181.
E. commemoratur, erudiri, porro iireiddv finali particula Pausanias usus est,
tardum maturitatis proventum depingens, x g 5 yeveidtixeiv. Ne
hoc quidem, inquit Stallb., Pausaniæ roi igav cog tov filov Szavra
gvvetfofitvoi xal xoivy OvfijiiaOofisvoi, alf! ovx t^cczccrrj 6 avrig, iv
dtpQotivvr/ J.ajiovzig wg viov, xazuyiluGavtts olxrfitQ^ai lz’
aliov ingenio indignam est, quod ætatem illam adolescentium
diligentias indicat, qua perveniant ad maturitatem quandam rationis,
et qua iam liceat veris illis, quos dicit, amatoribus eorum uti
consuetudine, Nimirum pubertas est {/fit} ^nyjzetfrnr//, ut ait Nom.
Od. X. 279. De hoc loco vid. Comm. de Symp. Platonis.
itape6xEvct6 pivoi ydp, olpat, Eidiv seqq. Verba hæc
Stallbnumius convertit: Nam qui inde ab hoc tempore amare
incipiunt, ii se ita comparaverunt, ut velint per totam vitam cum amasio
suo versari, non quum eum, quippe quem deprehenderint iuvenem, imperitum
et imprudentem fefellerint ac deceperint, cum risu et contcmtu ad
alium aufugere. Participia igitur ita posita censet Stallbaumius, ut ad
præcedentis participii explicatiouem sequens fucer® existimet. Sic iv
dfppotivvy A afidvTEf toS viov. quæ verba Orellius in £zr' dtppo6vvy
XafidvttS mutanda censuit, ovx iB,anati}6avTES verbis explicaudis
inservire arbitratur. Nostro arbitratu non dubium est, quin
i^axarrj(javTcS participium verbis supra lectis tcov datpdtcav fiaXXov v
T&jy rpvx&v, iv drppo 6vvr? XafiovtES o oS viov, intifbc cjS dv
dvvGovtai dvoTjzoTarajv respondeat. Igitur hoc loco participia propriam
ac suam potestatem habent, id quod Orellius Eix pro iv scribendo
indicaturus erat. Verba convertenda sunt: Deno entschlossen sind,
meino ich, die, welche das mannliche Gesclilecht von diesem
Alter aa zu lieben beginnen, die gauze Lebenszeit mit ihm zusammen
zu sein nud ein gemeinsames Leben zu fuhren, nicht Betrug an
ihm zu dben, nicht es in seinem Iugendunverstande zu iiberlisten,
nicht mit Hohn davon zu gehen, indem sie zu einem andern
abspringen. Ceterum participia cu mulari solent vinculis nullis colligata,
quando loquens inducitur, qui est animo commotiore, cfr» Gorg. 471.
B. favidaS xal xarapESvdaS avrov re xal tov viov avrov ’A\i%av6pov,
dveifnov avrov, cfredoV r/A ixigjttjv, i p fiaXodv e 1$ ltpaB,av 7
vvxrcop i^ayaycjv ani6<pa£,Ev x. t. A. Adde Symp. 2 1 0 . D . xal fiXiiearv 7tpo$ noXi)
7/677 ro xaXov, prjxin r 6 itap Ivi
dyanuv x. r, A. i 71 dXXov dxor p i x° y T E S.
Aliquo modo hoc loquendi genus vernaculo sermone assequimur quidem, sed
repugnante plerumque dicendi usu. Aliena enim a nostræ linguæ
indole illa facilitas est, quam felicitatem vocare possis, qua scriptores
Græci complurium actionum rationes in una enuntiatione coniunctas
exhibuerunt. Schleicrmacherus habet in convers.: und von ihm zu einem
cmdern zu entlaufeu. XPV v ^ xal vdpov tlvat x . r.A.
De XPVVU 1 verbi notione supra dictum est 12 . dncrtQiyovtu;. XQ, 1
V vofiov ilvai firj igdv mxiScav, ivcc fitj tls aSrjkov xolfo)
Onovdij dvr t liaxtxQ. zo ydg zwv e Ttaldav zti.og udrj?.ov ol Tlievza
xaxiag xal ctgctqs Significat autem: Debere aliqnem aliquid
facere ita, ut, si id omiserit, officio suo defuisse censeatur. Imperfecto
eiusdem temporis exprimitur: Debuisse aliquem aliquid facere, quod revera
non fecerit olTicium suum male exsecutus. Iam nostro loco quoniam
non comparet, cui male servati officii crimen imputare possis, verba
hoe modo convertere licet ; Eigentlich hiitte, wenn es nach Fug und Recht
gehen solite, ein Gesetz da^seiu miissen etc. Ceterum cave av
particulam XP*j y verbo adiungendam censeas. Ea enim si adderetur,
particulæ potestas esset, ut, quod olim fieri oportuisse dictam sit, idem
nunc non opportere fieri indicetur. Sed oflicii quovis tempore
eadem conditio est, ut nou possit aliquo tempore officium esse,
quod idem alio tempore non officium ait. Alia ratio est Selv
verbi, quod quoniam necessitatem indicat extrinsecus illatam h. e. certis
quibusdam de caussis ortam, £8ei dv commode dicere possis ita, ut
cedentibus iliis caussis vetere proverbio effectus cessisse cogitetur; 18
ei dv autem significat, olim necessarium fuisse, nunc autem non
amplios necessarium esse. Et quoniam sæpissime contittgit; ut non
amplius necessarium videatur præsenti hora, quod olim maxime necessarium
fait, non mirum est, $8ei av crebro opud veteres scriptores reperiri ;
contra XPV V nusquam, quantum scio* occurrit apud veteres,
coitis rei argumentum est, quam supra commemoravi, officii
constantia. tva ut) eis aSrjXov avTj XioxET o. Codices aliquot
dvaMoxoixo exhibent, quæ lectio bene haberet hoc loco, si Pausanias non
nisi de possibilitate, quam vocant, xov dvaXi -' tiHEdSca ageret.
Indicaturus autem ille aperte erat, sæpe iam factum esse, ut AMATORES
AMASIOS frustra ad virtutem propellere studerent, ut unice rectum
censendum sit avtjXLoHETO . Optativi modi exemplum est Alcib. I. p„
105. E. YEGOXtpGD filEV OVV OVXl doi xal itplv xodavxrjS iXxidoS
yipEiv, gj £ ipoi doxEiy ovx sia. 6 5eoS diaXayeoSai, iva prj
fxaTTjv StaXey oiprj v. Optativo autem modo Socrates hic utitur, quod
revera non expertus erat, ut in erudiendo Alcibiade frustra operam
consumeret. Adde Menon, 89. B. ouff TjptiS dv TtapaXaftovxEf
ixtivoov djzoepijvdvxcDV icpvXaxTopEV Iv dxpotcoXei ivot pij8 eis avxovS
8lE<p$EipEV, aXX ETtElS)} dtpLXoivxo eis xijy 7/Xixlav xp*jCipoi
ylyvoivxo xals itoXtdiv. Plat. Criton. 44. D. ti yap dxpEXov f cJ
KpitcQV, oIoIxe eivat ol noXXol x d piyi6xa xaxdf.£ep~ yd&CSau
tv u oloixs i)6av xal aya$d xd pkytdxa. vid r Rostii Gramm. §. 122.
12. to yap x&v 7tai8wv xkXoS x. x.'X. Duplici significata
TtaiSajv nomine Pausanias utitur, ut id aut masculum genus denotet cfr. 181.
C. xal idxiv 4’vxrj s te jrtot xal 6ca(iaros. ot (uv ovv ccya9ol
rov vopov tovtov avtol avrolg exovteg ri&Evraf x9V v ^
ovtoS 6 tcov itai§Gdv w EpcoS oSev 8 rj
ini to afifiev tpinovtat x. t • A., «ut veootipovS significet, ut hoc loco.
Schleiermacheriis hæc verba convertit: Denn bei den Kinderji ist
der Ausgang ungewiss, wo es hineus will, ob zur Schlechtigkeit
oder Tugend der Seele und des Leibes. Ut V. D. convertendum
censuit, h. e. virtutem a vitiositate disjungendam, non conjungendam cum eadem,
ita Græca verba scribenda sunt; nullo enim modo ferri potest, quod
in omnibus editionibus exstat xccxlaS xal apErrjS . Constat autem sæpissime
xal pro r/ et 7} pro xal exhiberi in libris, ut non audacias agere
censeri queat, qui sensu flagitante verborum alteram vocem in
alterius locum substituat. Scribendum igitur h. 1. puto esse xaxiaS r/
apEtijs. Genitivos quod attinet xaxiaS et apEtrjSy qui e præcedente
loci adverbio pendent, vide Matth. ampl. $. 324. 632.
avtol avtols %xovxeS tiSEVtai» Media forma Pausanias usus est
TtSivat verbi, quod qui legem scribunt, iidem illi legi sese
subiiciunt. Eodem modo apud Xenoph. Oecon. 9. 14. scriptum
reperitur iv tatS EvvopovpivaiS noXsdtv ovx ap* XEIY SoXEt TOtS XoXltaiS,
7 JY vopovS xaXovS ypa~ if> cjy t at, quo loco Pausaniæ
verba abundantia quadam exhibita esse doceare. Satis erat dixisSe r ol
plv ovv dya$ol tOY YOpOY TOVtOY ixOYtES tlSevtai. Addidit autem
avtol avtolS 9 ut æquitas illorum ama torum clarius eluceret, qui
ipsi nulla necessitate nrgente, sed liberrima voluntate {biovtES') illam
legem scribant. tovtovS tovS itavStfpovS ipadtaS, OvtoS pronomen
nominibus præponi solet ita, ut significet, de aliqua re sermonem
esse sive landanda sive turpi, quæ alias iam innotuerit* Igitur et
laudis et ignominiæ exprimenda* notioni inservit. Ac nostro quidem
loco non obscuram esse potest, quo significatu pronomen accipiendum sit,
et recte Stallbaumius annotat, ovtoS cum contemtu dici. Exempla huius usus ubivis obvia sunt. Laudat Stallbaumius Piat.
Criton. 45. A. ovx opacS
tovtovS x ovS 6vxog>dvtaS coS EvTeXeiS, quilus verbis occasionem
datam video, de Sycophantarum nomine quid mihi videatur, aperiendi.
Admodum enim displicet, quod Schol. annotat, ad
Piat, de rep. I. apud Bekk. Comment. Crit. T. II. 397* dvxotpavTTjS XkyEtat d iffEvSddS ti
xtv oS xatTjyopdiv. XExXijdSai 8* ovra> nap ./ISi/vaiotS TCpdrtov
EvpESivtoS rov t pvxov rtjS dvxtjf, xal 8ta tovto xgoXvoytcjy
iZayeiv ta dvxa, tc ov dk (paivoYtGJV tovS i£dyovtaS dvxoq>avtcoY
xXr]^h'-~ TGJVy dvviftrj xal t ovS 6na>So\jr xarrjyopovvtaS
ttvurv tptXane X^TfpovooS ovtoj npoSayops->j $ijvai % Duplex schnl. eat
ad Aristoph. Plut. 37. Alterum ctim Platonico convenit, alteram hæc
habet : Xipov yEvopivov iv r y 9 Attixy tivls Xa$pp taS dvxxS taS
atpiEpcopivaS toiS SeoiS ixapicovvtOy pera 8h rav:at xui rovtovg
tovg navdrjfiovg tgatixag itQogavayxa&iv to roiovrov, wgittQ
xal tc5v EvSrjviaS ' yevope vtjS xanjyopovv TOVZGDV rivis, xcti
£xel$ev dvxocpctvrai Xiyovzai, Mæ narrationes non dubium est, quin
fictæ sint, qnibus 6vxoqxxvr&v nomen explicetur. Percit schol. Aristopli,
evpijrai 61 itepl tovto v xcd hvepct Idropia itavv ipvxpd, Sed ipsa
illa schol, explicatio admodum friget, 2vxo<pavTcov nomen a
6axxv<pavT7jS descendit, dc qua voce Pollux habet X. 192. otav
drj jLiodS&vrjS Eiitrf GaxxvcpdvTaS, rovS itXixovraS rctiS
ywcnBX XEXpvcpaXovS axovovdiv, Hoc genus hominum consentaneum
est loquacissimum fuisse et curiosissimum nequitiaque refertissimum, atque in
omni re tonsoribus, obstetricibus, aliis simillimum, Factum est autem usa
„ loquendi atque, ut in Piat, Cratyl. est p, 421. C. dia ro navraxy
GrpicpedSai ra ovo para, ut nomen 6vxxo<pdvnjS audiret, ex quo
6vxo<pdvTi\S enatum, it poSav ay xd2,tiv to roiovrov .
Pauci libri pro t d roiovrov habpnt rdHv roiovroov. Exspectabas, inquit
Stallbaumius, oldyitep idrl tovto, ori xal ro ov iXEv^Epoav y . it .
avtovS p?) ipav. Sed nihil mutandum. Annotat Riickertus ad h. 1,:
Spectat pronomen ad snpra lecta verba pyj ipav itaidoov. Neque habet
duplex accusativus huic verbo iunctus quicquam, quod offendat. Alia
ratione nobis hic locus explicandus videtur, Pausanias nimirum cum
prædicasset eorum amatorum iustitiam et æquitatem, qui^ipsi tibi lu
ite v&igav ywaixav xqos beatissime illam legem imponant, nunc id
agit, ut non cogendos Pandemi AMATORES AMANTE AMATO censeat, ut
eandem legem sibi scribant, atque ab immaturis pueris abstineant, sed statim ad
rationem cogendi abit, modumque indicat, quo modo viles isti AMATORES
AMANTE AMATO ab immaturis retineri possint. Sententia igitur verborum hæc
est. Die guten Liebhaber legen sich dieses Gesetz aus eigenem Antriebe
aufj non muss man eigentliph auch deo Anhiingern des Pandemos dieses
Gesetz aufdringen, ganz in der Weise, wie wir sie nach Kraften
nothi gen, freigebornen Frauen ihro Liebe nicbt zu widmeu.
Pronomina generis neutrius cum articulo coniuncta haud raro sic adhibentur, ut
absolute ponantur atque adverbii vices obtineant. Sic in Piat. Phædone
legitur 65. B. olov ro roiovde XeycD, quo loco to towv6e
absoluto positam est, vehementerque differt a verbis, quæ leguntur
Eutyphr. 13. B. olov toiovds se, Xiyco. Symp, 178. E., ad qnem
locum vide annotat, 61., t avrdv 6e tovto xcd rdv ipeo pevov op&fiEV,
on x. T. A. ubi T avrov tovto est : ganz auf diesflbe Weise. Adde Piat,
de Tep„ X. 605. B. t avrdv xal rdv piprjrixov itotfjrr/v
(pyjdopev ipitoieiv x . r. A. Prorsus eodem modo ro roiovrov
positum est nostro loco. De plv ov v Si particulis vide aunot. p,
22» r qoy £Xev$& pcov ywai xgjv prj ipav. Liberæ mulieres ex
hominum conspecta quam heri potuit maxime remo 7 182
avayxatofiev ccvrovg, xa&’ 5 Oov dwapi&a, fiif igav. ovroi yag
tlaiv oi xai to oveidog ntnoirpimtg, ujtftt rivas toAj iiav kiytw, co$
aloxgov jjK(x'£tC0ai IgaOralg. X iyovai 5a sl$ rovrovg unofiXbiovns,
ogwvrig avrdv rrjv axuigiav xai ddixlav' htd ov Sr/ xov xo6(Uas yi
vehantur, cfr. Symp. 176. E. tals yvvailA raiS IvSov, ad
qnera locum Nepotis præfat. $. 7. laudavimus 44. Mens Pausaniæ
hic esse videtor: Debete, si heri posset, pueros immatoros domi manere
absconditos, ut liberæ mulieres domi maneant, hominum adspectum fugientes,
ne amatorum prava sedulitate corrumpantur. ovxoi ydp eidiv oi
xai x* t. A. Pronomen sequente articulo cum contemtu positum est,
ut supra tovrovS r ovf TtavSifpouS. Sic 181. B. non sine adhærente
ignominiæ notione dicitur xai ovtoS idtiv, ov ob cpavXoi rcov
dv^pcditcov ipdodiv,, Kal vocula hoc modo explicanda est: Isti enim
cum aliorum malorum, tum etiam auctores illius rumoris sunt, quoad quidem
nonnulli dicere non dubitant, torpe • esse amatoribus gratificari.
Pro < Sire TivdSf quæ optimorum codicum lectio est, vulgo tuSre
rtvd legitur. Sed singularis numerus minus aptus hoc loco, non
quod sequitur pluralis numerus Xiyovdi 81 x. r. A., sed ne forte
lateat lectorem, non certi cuiusdam viri, sed populi rumorem hic
tangi. Ad to oreiSoS Riickertns annotavit: Græci, quamvis frequentissimus
usus sanxisset quodammodo hunc amorem, tamen ut probarent eum, nunquam
induxerunt animum, immo turpitudinis nota erat, non quidem amasse
pueros amatoribus, sed pueris amori eorum satisjecisse . Aliter, atque Riickerto visum est, super puerorum amore
iudicarunt Græci. Vide Commentat. de Symp. Platonis. avrcov
tTjy axaipiav xai aSixiav. cf. 181. D. i&aKazrjdavreS, iv
dtppodvvy XafiovreS coS viov, xatayeXadavtts olxytfedScu iit aXXov
dnotplxovxES. Ibid. 1. B. itpoS to 8ianpd£>ct65ai pdvov fiXeitovTtS,
dpeXovvteS 61 tov xaAcuff ?/ firj et q. seqq, i x el ot) Srjxov yi
. Hæc est optimorum codicum lectio; vulgo male ov Srjitov re exhibetur, ri ad verba pertinet, quibus
appositum est, et conditionem indicat ita, ut apprime Latinorum si
quidem respondeat. 8tjxov voculam quod attinet, supra de itov
particulæ significatu dictum est ad 180. D. Eius significatus vis
8tf accedente, cui ironica potestas est, ut in Piat. Menone 86. D.
iireiSij 6h dv davxov pkv ov8' imxetpeis apxtiv, tva 8 rj iXevSepoS tjS,
maximopere augetur. Ficiuus verba convertit satis frigide, ut videtnr:
nihil autem, quod n\odeste etlegitime fit, vituperare decet.
Verba convertenda sunt potius: Dena es ktnn doch offenbar wol
irgend eine Handlung, wenn anders sie mit Maass und Fug unxai vofilfiag orwvv
Ttgayucc nQuvcbtitvov i poyov av Sixaiag tptQoi. Kul 8rj xal 6 xcgl
tov tgcoza vvfiog iv fiiv ra is ctM.cug itoktGt, vorjecu gudiog' anXag
yag SquStcu ' o 6’ iv&dds xal v iv AaxtSulyiovi TtoixUog. iv "HXiSi
B ternommen wird, tiicht mit Recht getadelt werden. Prorsas
eodem modo dicitor in Apol. Socr. notissimo loco 20* C. o v ydp
djfrtov dovye ovdev xcov aAA.Gov nepixxoxepov npaypaxevopivov,
t7TF.iT a toGavxij tprjpTj xe xal AoyoS yiyovev x. r. A.., quo loco
interpunctionem post dovye delendan^ curavimus» Sensus est: Denn es
hatte doch offcnbar wol, vvenn auders du nichts weiteres gethan
hiittest, ais die andern, eia solches Gerede und Geschwatz nicht
entstelien kdnnen» xal 8?) xal . Harum particularum notionem
Sehleiermacherus in conversione non reddidit, neque Ficinus easdem
convertendo expressit. Exhibet enim: lex utique de AMORE et q,
seqq. Biickertus ad h. 1. hæc annotat Particulæ coniunctæ xal 6r}
xai ibi locum habeut, ubi a generaraliore sententia ad specialem
transitur, h. e., quum id, quod in universum disputavimus, etiam de
certa aliqua re valere dicimus, quo in nexu semper aliquid conclusionis
est. Habet igitur harum vocum quævis vim suam nativam; quarum prima
copulat cum prioribus, altera vel conclusionem indicat, vel rem pro
certa ponit, quam particulæ 8rj vim velim ostensivam appellare,
tertia adiungit, fierique subsumtioriera docet»
Negari nequit, xal 8rj xai particulas interdum ita a
scriptoribus adhibitas esse, ut iis transiri significent ail ea,
quibus, quæ antea in universum dispntata essent, probentur. Cave tamen, omuibus
in locis hanc particularum SIGNIFICATIONEM VERAM habeas. Ac nostro quidem
Joco Pausanias ad novam rem, b. e. ad civitatium leges transit ita,
ut, cum coramemorusset p 182. A. duplex de AMORE iudicium
Atheniensium, quorum alii ipsum laudent, alii vituperent, aliorum
civitatium iudicia annectat, et quomodo inter se differant, exponat.
Ad eum rem commemorandam aditum patefacit 8rj particula, quæ quo
magis emineat, initio enuntiati ponenda erat, atque eidem xai
expletivum, quo suffulciatur, præfigendum, vide annot, 5* an
ydp <2 pitixa i. E recta ditA&S vocis explicatione sequentis
verbi itoixiAoS recta explicatio sequitur. Illud denotat actionis reive
alfeuius simplicissimam conditionem, qua efficitur, ut facile possis et quasi
primo obtutu, quid sit actio sivo res inspecta, cognoscere. Jlot. xi\oS
contra de plurimarum rerum inprimisque de colorum compositione valet, quæ
ita comparata est, ut nequeas dicere statim, cuius coloris sit id,
quod noixiXov vocatur. Hinc ad hominem relatum noixiXoS eum
significat, quem non tam versicolorem, quam varium appellafiev yaQ kcc I Iv
Boiorolg, xal ov firj docpol Alysiv> ca tAiJg vEvqfio&itrjtai
xalov eo %aQl£E6ftcci Ipatiraig, xal ovx av ug tlxoi ovts veog ovts
itcdcuog d>g alti iQQVy iva, olfiat, ^XQaypcn? t%atit Aoyco «stgi»rnnt et
versipellem ROMANI. No //oS"; iroixiXoS est igitur lex, quao ex
ambiguitate sententiæ laborat. Eius ambiguitatis in Atheniensium et Lacedæmoniorum
lege Erotica exemplum explicatius enarratam habes 182* D. seqq.
iv "IIAiS i plv yap\ seqq. Triplex apud Græcos de AMORE lex
obvaluit. In Elide et in Rocotia atque in iis civitatibus omnibus,
quæ eloquentia carebant, obsequi amatoribus pulcrum habebatur. Apud Iones
eosque, qui barbaris subiecti erant, ut philosophicæ gymoasticæque
exercitationes, ita obsequium erga AMATORES dedecori erat. Ambigua lex
erat apud Athenienses et Lacedæmonios, ambiguumque indicium.
Nimirum ro xapl<Sa<$$ai ipadralS et pulcrum et turpe
habebatur. vEvopo^irrjrai. Sydenh. annotat, ad h, 1, laudatus
u Wolfio :• Dies Wort, wie das vorhin nnd mehrmals gebrauchte vopoS, muss
man nicht von einem geschriebenen Gesetz, von einer positiven
Satzung in ausdriicklichen Worten verstehen, sondern von Gcwohnheit und
Gebrauch, der nach und nach das Ansehn eines Gesetzes gewiunt. D.
rjyrjdair av •xaXiv altixtdrov ro roiovrov ivSaSe v o pi^ed^ai. In
Piat. Cratyl. 384. v. 16. Bekk. ov ydp tpvtiei kxddrca
necpvxivat dvopa ov8hv ovdevi, dPiA.cz v o pep xal rc ov
iSitidrtarv te xal xaAovvtcDV, Ib. 388, Hermogenes
interrogatus a Socrate, quis nominum usum suppeditaverit, cum id nescire
se confiteretur, ille ap ovxl, inquit, d vopoS doxei doi tlvat 6
xolpadidovS av ia i Iva prj Ttpaypar x. r. A. His verbis
Pausaniæ indicium continetur demonstrantis, qui factum sit, ut
cautione adhibita nulla pæderastia in Boeotia et in Elide pulcra indicaretur,
Sed ex ambiguitate quadam hoc indicium laborat, de qua interpretes nihil
annotarunt. Aut enim licere obsequi amatoribns dicit, ut impetrent
amatores, quod lege prohibente iuvenibus nunquam persuadere
possint, ut ipsis concedant, aut propterea legem illam latam
censet, ut iuvenes, quos Boeoti atque Elidenses admonitione non possent, AMORIS
vi ad virtutem impellerentur. Utra explicatio rectior sit, in Commcnt* de
Symp. Platonis explicatum habes. r 7 } S 8 h 9 IcDviaS xal «AXoSt n
oAAaxov. Quid Pausanias dicere voluerit, ut facillime intelligitur, ita
difficillima structuræ ratio est, quam nemodum sati3 explicavit.
Plerique interpretes ad coniecturas ingenii confugerant, quarum
numero pon minus turbatum te senties, quam ipsa difficultate
Platonici loci, H. Stephanus scribendum coniecit rrjs 81 IooviaS
jroAAafitvoi ntiftuv rovg veovg, Sn aSvvcttoi Ikyuv. r rj$ di 'I avias
xal aklo&i xoXku%ov altSxQov vtvo[u<Stai, cicJot vito fiaQfiuQoig
olxovGi. rotg yag fiæfidQOi s Sicc rag TVQawidus aloxQo v tovxo ys, xal %
yt <pdo<Soq>la r.al C ' x°v xal aAAoSz x. r. A.;
Thier«chias ty 6i luriæ, Astius rois 6 h 'iGDviaS conieceruut. Ut
elios silentio præteream, ingeniose Riickertns scribendam duxit
rijS * IcarlaS xal aAAoSt #oAAaXov al6xpov vevopidzat, pa\i6xcl 6 * o6ql
vno fiapfidpois olxov6iv. Stallbaumius, vide, inquit, ne
genitivas pendeat e pronomine vdoi vel potius e pronomine demonstrativo
ante 0601 intelligendo. Nemo enim olTenderet in his TrjS 61 'iooviaS
xal dXXuv noXkuv x^pdjy 0601 vno fiapfidpois oixovdt, napd t
ovroiS ai6xpov vevopidrat. Quum autem orator post r 7/S 61 'iuvlaS
posuisset adverbia <*A~ Ao.9i noXXaxov, addidit statim
aldxpovvevopidTcti, quæ sic non poterant commode alio Joco collocari,
atque deinde demum ad inchoatam structuram, quam in mente habuit,
reverti putandas est. Hæc explicatio impeditissimæ structnræ et ipsa
impeditior est. Riickerti ingeniosa quidem sed audacior
coniectnra est, atque cura veritate rei non satis conveniens. Ceteræ
coniecturæ omnes ita comparatæ sunt, ut intelligere sane non possis,
qui factam sit, ut lectio ad sensum facilior in difficiliorem sit
mutata. Ut meam, qualiscunque est, sententiam proferam,' cum in præcedentibus
Pausanias iv*H\i8i pev yap xal iv BoiutotS xal ov pi) Cocpoi XiyEiv
dixisset, pev particula adhibita, verba secutura esse indicavit, quæ
illis verbis opponerentur, Ilæc oppositio ut validius emineret, ita
instituta est, ut altero membro oppositionis ad ulterios exemplar
comparato adhibitoque chiasmo gratissima varietate delecteris. Igitur cum
proprie dicere debuisset Pausanias iv 61 zy 'ioDviot, ut supra legitur
iv v H\i6i xal iv BoiuzoiS, dixit
rif 'luvlat, nomen ad præcedens ov comparans; pro aXXoov TtoXXuv x<*
opuv, quod optime cum sequente otioi olxovdiv conciliaretur, «AAo3t
^roAAa^ov posuit, ut esset, quod præcedentibus dativis cum iv præpositione
coniunctis respouderet. Iam certam est, genitivum r rjS *Iuvia5 per
se spectatum non esse explicabilem ; excusabilem autem indicabis, si
ad prius oppositionis membrum respexeris. xal i} ye tpiXodo
epia. Gymnasia philosophorumque scholas matres fuisse et altrices pæderastiæ,
a multis vantiquitatis scriptoribus traditum Cst. Unum ut laudem,
cfr, Cic, Tuse, Q, IV. 53. Mihi quidem hæc in Græcorum GINASSIO nata
consuetudo videtur l in quibus isti liberi et concessi sunt AMORES. Bene
ergo Ennius: Flagitii principium est nudare inter cives corpora,
Persecuti autem esse barbari dicuntur pari vehementia et filiam et
matres, quia elatiores animos hominibus ingignerent, novarumque rerum
studio pectora incenderent. t) (pUoyvfivaarla. ov yag, olfiat,
<Sv/uplgsi roig SqXOVOi tpQovrjfiaTa fttydXa lyylyvs<s9at rav
ag%ofievcov, o«(5e tpiltag loxvgctg xai xotvmvLag, o drj fuelusxtt tpthi
tu re ulla narra xai 6 "Egcog ifinoieiv. igya 6h tovto Pfia&ov
xai oi tv&uSe xvgavvot' 6 ydg 'AgiGxo ov y <x p, olfiat.
Olfiat rerbam haud raro modestiæ indicium est, indicatque, qui eo utitur
se nnimi iudicium pro opinione haberi velle. Nostro loco non sine acerba ironia adhibitum est, cuius usus exemplum
est Piat, de rep. I. 337. A., ad quem locum vide Stallbaumii annot.
<p po vrj pax a peydXa fc 5 v
upxopiroor. Minus apte Sdileierroacherus convertit: grosse
Einsichten. Amore efficiuntur potius atque procreantur elatiores animi h.
e. grossartige, kiihue Gedanken. cfr. Mejæx.p.239. fiu. cj v 6 ptr np&XoS,
KvpoS, l\£v$FpGo6aS TllptiaS rovs avrov TtoXlzaS tgj avrov <p
povr)fLaTi cepa xai rot)? diuitoTaS MifiovS idov Xoodaxo x. r. A. Pro tgjv
apXOpivoov io aliquot codd. reperitur r diS apxopirotS, quo casu Plato
non usus est, ut duplicis dativi vel ambiguitatem vel simplicitatem
vitaret. Ne mireris autem lyylyvt6$ai verbum siæ dativo positum esse:
paullo infra legitur o 81} paXiOxa cpiXu 6 *EpcoS ipzou.lv. Adde,
quem locum lluckertus laudat Piat, de rep. V. 464. D. tjSovdt re xai aX
yijBovas ipzoiouvtaS }$la>v ovxoov idlaS. o 8 1 } pdXi6x a
epiXei, Adhiberi solet singularis numerus pronominis relativi,
quando ad plura nomina refertur, quæ plurali numero posita sunt.
Ultra pluralem numerum egredi non licuit, igitur singularis
repertus est generis neutrius, quo præcedentia comprehenderentur,
ra re dXXa narra. Annotat ad hæc verba Schleierroacherus: Dieses andere
al les kann doch nur Philosophia
tmd Gymnastik sein, uud fur diese wenigeu Falle ist der Ausdruck etwas zu
reich. Allein, wo so viele Biicher alie schweigen, und
die Nothweudigkeit nicht sehr dringend ist, da ist andern
vorwitzig. Eine solche Nothwendigkeit scheint aberwobl vorhunden zu
scin. Igitur pro narra V. O. scribendum censuit xavxa, quam
couiecturam Riikkertus vulgatæ scripturæ præfert. Monet contra Astius: sensum esse verborum: præ ceteris omnibus maxime
amor. Hoc explicandi genus et Stallbaumio placet, et nobis probatur.
Pausaniæ mens hæc est: nihil esse, quod non odium moveat tyrannorum,
philosophiam, gymnasticam, musicam, poesin alia hoc genus: nihil
autem mugis illis invisum esse, quam puerorum amorem, quo iuprimis
elatiores animi, firmæ amicitiæ atque contubernia efficerentur.
xax iXv6 ev avrcov rrjv dpx V v ' Pausaoiam h, 1. in historia
Pisistratidarum errasse primus, ut videtur, Abrah. Gronoytltovog Hq<os xcu
tj 'Jgfiodlav tpMu filfiaiog ytvofiivt/ xctttXvOtv avrdv xfjv KQ%i)v. ovuog,
ov fiiv al6%Qov tte&i] xaQi&e&ai £Qct<Staig > naula rdv
ftipivav xuxcu, xdv fitv aQxovxov it Xtovd-ia, rdv Si ciQxofiivav avav-
W 8(/ia' ov dg xaXov aitldg Ivouia&rj, Sia xyv rdv 9e- vins
rectissime docuit in annotat, ad Ælian. V. H. XI. 8. Tantam eaim abfuit,
at interfecto Hipparcho libertas civibus Atheniensibus redderetur, ut
potias Hippiæ tyrannis durissima secuta sit. cfr, Thucyd. VI. 54.
Neque hic error solius Pausaniæ fuit, sed Atheniensium fere
omninra, qui ob libertatem restitutam Harmodium et Aristogitonem
summopere colebant. Sic in spolio nobilissimo, quod apud Athenæum exstat
XV. 695. B. dicitur: Ev pvptov xAordl to BiitpoS (pOf)lf Ogj
&SitEpApp68ioS x *Api6xoyeircav, ore rov xvpavvov
xxavlxj/v ItiovopovS r *A$ tjvaS licoirj6dxrjv. Nihil igitur
mutandum, neque interpretatione xataAveiv verbi potestas mitiganda
est, qua aperte indicatur, Pisistratidarum dominationem funditas eversam
esse. Restat, at paucis dicamus de verbis fiifiatoS yerdfiim/, quæ
opposita esse videntur xaxeAvOev verbo. Minus placet Schlciermacheri
conversio : denn des Aristogeiton und Harmodius zu einer festen
Freundschaft gedieliene Liebe zerstorte ibre Herrschaft.
Converterim equidem potias: Denn so wie die Liebe des Aristogeiton and
die Neigung des Harmodius Halt und Festigkeit gcwonneu hatte,
stiirzten sie die Herrschaft der Tyrannen. Ka xeAvdev autem dictam
est, non xoneAvdar, at significantius indicetur, nou viros ipsos,
sed animum elatiorem, qui EX MUTUO AMORE natus sit, interitas auctorem
fuisse. xaxiac rc ov 5 epiv cov. ol Siperotf ut sequentia
docent, et tyranni sunt, et ii, qui tyrannis sublecti sunt.
KetdSai, de tabulis solenne, quibus leges inscribebantur, de more
dicitur, qui hominum pectoribus intixus est atque quasi innatus. rijs
i>vxy S apyiav. Sapra dictum habes: tva f oipai, pr) npaypax ixatit A
oya> nei pcopevoi TCeiSnv xovS viovS. Recte igitur apyiav xijS
tyvxijS converteris: Tragheit, Stumpfheit des Geistes.
'Ey$ vpTjSivzi y ctp. Hia verbis quid respondeat in proximis, non
reperies. Igitur Pausaniam inceptæ verborum structuræ oblitum recte
existimaveris, ut Stallbaumias censet, qui Ex hoo loco, inquit, Pausaniæ
ingenium plane cognoscas, qui plurimis sententiis coacervatis magooque
cnm studio collectis deinde inchoatæ structuræ adeo obliviscitur, ut
videatur ia alia omnia abiisse, donec ad extremum in memoriam eorum
redeat, de quibus ab initio coepe rat dicere. Nos Stallbaumio
clementiores oratori nou præmeditato largiendum esse ceu I fdvcav TTjS *l>vxrj$ agylav. Iv&ude Sl
itokv tovxcav xctkXlov vevofio&iTijTcu xal, SjtEQ tlxov, ov {tudiov
xatavoijCui. Cap. X. 'Ev&vfirj&Evu yccQ, ott
Ityecat. xaXkwv r 6 tpavE* ptag Iq&v rov lu%Qa, xal fuxfooxa vav
yEwmotatav semus hoc, at interdata, sententiarum accedente mole, quæ
meditatione in ordinem non digesta sit, ab incepta structura oratio
deflectat. Æstu
sententiarum refrigerato Pausanias ad orationem suam revertit p, 183.
C. rauxy plv ovv otySeirt av xi$ x, T. A. ut eum dicturum
fuisse colligas : <pi\odo<pla$ xd piyidta xapnotx dv oveldrj,
ndyxaXov 6 o£eiev av vopigedSai iv xy8e xy ndXei xal xd ipdv xal
rd <pi\ov$ yiyvedSai xois ipadxcaS. rd q>avEp&$
ipdv rov XdSpa. Aperte amare pulcriua esse, quam tecte amare
nusquam, si lionc locum exceperis, apud Platonem commemoratur.
Consentaneum, est autem, Athenienses sic consuisse, ut ab improbo bonus
amator facilius discerneretur. Convenit cum nostris verbis, quod infra
legitur 184. A, rovrovs 87} ftovXexai o ypitepoS vopos eu xal xaAdoS
fiatdavi^Eiv x, r. A. In sequentibus yervaidraroi iuvenes intelliguntnr
nobilissimo loco orti ; aptdxoi sunt, qui optima indole gaudent,
aldxlovS autem epitheton de corporis, non item de animi habitu
accipiendum est. Sententia verborum est; Dicitur h, e. censetur (
nara Xiytxai eiusdem h. 1. significationis est atque
vopi^exat, neque dubiam est, quin hominum iudiciam tangatur, quod vopoS a
Pausania vocatur, vid. annot* 100.), dicitur igitur pulcrius esse
aperte quam tecte AMARE iubetnrque AMATOR AMARE quam maxime fieri potest,
nobilissimos atque optima indole præbitos, etiamsi minus formositate
excellant. ovx &S tl aidxpdv 7CoiO vvxi. Stallbanmius hæc verba
arctius cum præcedentibus coniungenda censet, quæ hanc in se . »
h sententiam contineant: xal oxt 7) napaxtXzvdiS rrJ ipdUvxi
napdt itctvx&Y ylyvtxai ok $ av p a dxov xi itoiovvxi,
Displicet hæc explicatio duabus de caussis } primum aliud quid
sensisse Pausanias perhibetnr, quam qaod verbis expressit, deinde si
ponas, cum ita sensisse, admodum frigent sequentia xal itpoS xo ini
XEipelv i^ovdiav 6 vopoS 6 £8 coxe rej ipadxy Savpadxa Ipya ipyaZopevcp
iitat VEitiSaif de quorum verborum sensu mox dicetur. ' Verba ovx
<yf xi aidxpov 7Xoiovvxi ad rc3 ipwrxi pertinent, apposita autem
sunt propter napaxeXevdiX padxtf verborum ambiguitatem. JJapaxiXsvdiS enim et iis fit, qui aliquid facere jubentur, et
iis, qui aliquid ut ne faciant, admonentur. Possit igitur li. 1.
xal agldtav, xav al6%iov g cUrav wGi, xal ori au tj xagaxblevG ig ta
igairu maga jcavtav davfiaGz!] ov% ag %i al6%gov itowvvxi xal eXovti te
xculor Soxtl ilvai xal (it/ slovri alti%g'ov, xal ngog ro etii^uqhv
e tkuv i^ovGlav 6 vouog dlSaxt tcj iga&ty &av(ia6ta %gya
Igyaifiiiiva tnaivEiG&ai, a ei ng roXfup// tcoleiv aXti Iruovv diaxav
xal povXuuevog biaitgalaa&ai icXr/y 183 re» ipiUvTi xapaxiÆvdiS
etiam ita intelligi, at uoa amplius AMARO AMANS iubeatur. Sed ne hæc verba
sic intelligerentar, Pausanias ovx fifr xi aldxpdv noiovvxi verba
apposuit* Sententia totius loci hæc est: Si quis reputat apud
se, ingentem ab omnibus cohortationem fieri amapti non quasi turpe
aliquid faceret et q. seqq, xal kXovxi xe xaXov, K
venatione repetuutur verba in re amatoria usurpari solita; qui amat,
duaxei, si res succedit, alpel XOV ipcopevov, AMATUS aXtdxexai.
Riickert* N 011 sine caussa iisdem venatoriis verbis Plato etiam de
vero indagando utitur, cuius usus exempla non rara sunt. cf.
Stallbaumium ad Piat, Phædon, C6. A. Ceterum cum eodem Stallbaumio
e præcedentibus verbis dxi particulam repetere nolumus; etenim iam
his verbis Pausanias ab incepta structura verborum deflexisse videtur. xal
7tpoS x 6 iittxei pstv ZitaiveidSai, Non caret hic locus
difficultate. Stallbaumius
verba convertenda censet: et quod attinet ad studium amasii capiendi
etiam laudari licere quamvis AMATOREM mira lacientem. Quæ conversio
e duplici vitio laborat, quorum alterum est in male intellecta 7CpoS præpositione,
de altero paullo iufra dicetur. Certissimum hoc est, atque xal ante „ xe xal
vocula posita probatur, verba kXovxi xe xaXov 8oxel elvat, xal p?}
kXovxt aldxpoy posita essp, ut confirmentur præcedentia ovx ri aldxpoy
Ttoiovvxi. Interdum enim Græci, qnæ addita caussali particula
proferenda sunt, præcedentibus copula adhibita annectunt. Possis
igitur verba convertere: nicht, ais vena er etwas hassliclies
tbate, denu wer Beute fing, dem wird Lob zu Theil, dem
beutcloseu folgt Sclimach. Recte igitur post Savpadxri et post
aldxpoy lineolas posuisse nobis videmur, quippe quibus legentium oculis,
quæ enuntiationes arctius coniungendæ sint, indicetQr. Iam non
dubium est, quin verba ori av rj TzapaxtXivdi? rw tpajpxi napa
ndvxQjv Savpecdxij de studio amasii dicantur, quod infra vocatur xo
imxsipEiv kXetv. Non verisimile igitur, Pansaniam cum cohortationem
amatoris commemorasset h. e. cius, qui cupiendi amasii cupidus est, itu
perrexisse: xal itpd? xd iiti Xeiptir kXetv et quod attiuct ad studium amasii
capiendi» Desideratur nimirum rovro, [(piXotSoyiag'] ra (ityiata kccqi
rott av ovsidrj. tl yag »; X9W a ra fiovlofiBvos i tagd rov lafieiv fj
ccQxr/v ag^ai i j tlv akXrjv dvvctiuv idtloi xouiv ola neg ol
yi particula, qua respici indicetur ad id t de qno iarn sapra
dictnra sit: xai TtpoS ye x 6 Imxetpety ?(. x. A. Non parvi æstimandum
Astii evpTjftat, quo illud desiderium mitigatur: xal npoS x<p
tjnxnpuy kXeiv x. x. A. Cave, tamen coniecturam aliquam probes, ubi
codd. lectio commode explicatur. Rectissime autem Ficinus verba
convertit : Ad AMATUM sibi conciliandum; codcmque modo Schleierm
icherns: u m den Versuch z 0 ' m a i- heu, ob er i'lin gewinnen
konue. Quod verba attinet t&ovtitay 6f.6g. ixf lucuveraSctij mira
Stallbaumiana explicandi ratio, qua lex permittere dicitur AMATORI AMANTE
AMATO, ut laudetur. Quamquam satis
intelligitur quidem, quid sit, quod dicitur permittere alicui, ut
laudetur, tamen non laudabilem hanc dictionem merito censeas. Non autem id
agit h\x ad augendum amasii capieudi studium, ut, quamvis mira faciat
amator, tamen eundem Inudandum censeat, sed ea sine dedecore facere
permittit, quæ si quis alius h. e. non amans facere auderet,
summopere vituperaretur. Positura igitur participium pro' infinitivo est,
infinitivus participii Jocum obtinet notissimo Græcorum usu, qui iam apud
Homerum haud infrequens. oS xenia rroAA* Ip6e6xtv t'5ci)v pro oS itoAAa
xaxd ipGuv Proprie igitur Pausanias dicturus erat: xal TtpoS x 6
litixtipcty kXely iZovdlccv 6 YopoS SlSwce xg> lpa6xy $avpa<$td
Mpya i py agetiS ai xai ( sc. dldooxe ) litatvFitiSai lit\ xovtcj .
Ad 816coxf e præcedentibus ne l£,6v6iay nomen addendum
censeas, videunnot. 89. [ip i\o 6 oq>iaS] x a plyi~ 6ta
xapitotx’ dv oyeidtj. Uncis inclusimus <pi\o6oq>iaS nomen,
quod nullo modo ferri potest. Idem Bekkerns fecit rectissime.
Stallbaumius, ut veritatem illius nominis probaret» verba convertenda
censuit; quæ si quis faceret alias, eruditorum maxima acciperet
opprobria. Sed agitur hoc loco non tam de eruditorum indicio, quam
de totius populi existhnatioue, neque aliud tangit Pausanias, nisi
roV TtEpl XOY "EpeJta vdpor, ad quem con•titiieuduin eruditorum
iudicia aliquid conferunt tantummodo, non omnem constituunt.
Iam quæritur, quo modo hæc vocula iu textam irrepserit.
Diximus de hære in Commentat. de Syrapos. Platonis, ad quam lectores ablegamus. 7 / t iv* aX \ tj v
&v vapiv. Uniusmodi zeugmata non rara sunt
apud scriptores Græcos, quotidiani sermonis indicia, non præmeditatæ
orationis ornamenta. Idem dicendi genus ROMANIS in usu fuit, siquidem
apud Terent, exstat in Andr. Quod plerique omnes faciunt adu '
lesccntuli ; tQtttiTtti ngog ra naiSixd, Ixttflag te xtd
dvTifioXriOug iv Tcclg dirjdiCt noiov/itvoi, xal opxovg 6 /ivvvrcg, xal
xoifu/O sig in i frvQtug, xal i&iXovtag SovXtiag dovXeveiv Ut
animam ad aliquod studium udiungaut, aut equos Alere, aut canes ad
renandum, aut ad philosophos, Horum ille nihil egregie præter cetera
Studebat. Idem dicendi genus patillo infra recurrit: xal xoipr)6etS
ini 5vpai$, quo loco frustra xotpGopEvoS Bastius addendum, Riickertus
transponenda verba esse censuerunt. Alia ratio est Piat. Apol. S. 23. D.
xccvxa Xlyovdiv, oxi x a /.UTc&pa xal ra vno jniS, xal SeqvS
/«?} vopi?,Eiv xal xuv yxxo 0 A oyov xpeixxGO n oze/K, quibus
verbis variæ hominum susurra** tiones ielicissime depinguntur
adiuncta simul temporis, quo edebantur, diversitate. Ac temporis quidem
diversitatem mutatio structuræ indicat, fiuitorum verborum omissiones
hominum opinantium, hæsitantium, aliquid aut nihil scientium
sermones depiugunt. Brevius de eadem re et significantius, adde sis
lepidius, Socrates loquitur Apol. S. 18, B. ipov yap ttoAAoi
xaxrjyopot ytyoradi npo 1 » vpds, xal naXai itoXXa 7/drj Hxtj xal ovSlv
aXeA eyovTES7 quibus verbis et multos iam annos accusatores
exstitisse dicuntor nihilqoe veri dixisse; his tertium additur, quod
verborum sono Socrates assecutas est. Dixit nimirum itaXai jcoXXayjSijecrj,
quod sonat ut natJcdXtj, atque vanos accusatorum susurrationes
rumoresque lepidissime describit. xal o p no vi d j-ivvvte?.
Num iureinrando non nisi amanti uti licuit? Quid, si quis pecuniam ab
aliquo sumsit, non debere censendus est ad reddendum se inreiorando
obstringere ? Aut qui rei publicæ administrandæ præponendus
est, eine cives se iniurato subiicient? Non dubium est, quin upxovS
dpvvvtES de periurio inteliigendum sit, quod iu quavis alia re
turpissimum, IN AMORE, e Pausaniæ certe sentent a, maxime excusabile est. Quæritur
autem, qui possit opxovS o/.ivuvteS periurare significare, Pluralis
numerus upxovS indicat, ut videtur, iusiurandum semper in ore gerere, at,
quicquid dixeris, eodem confirmes. Hoc qni faciunt, iurmuraudi
sanctitatem non magui æstimare solent, eodemque haud raro
confirmare, quod est fulsissimnm. Iliuc factum, ut upxovf oprvvrfS
haud raro peri uros significet. xal xoipijdeis ini 3*JpaiS.
Amatores pernoctare solebaut ante fores amasiorum, ut severitatem eorum
misericordia adhibita/ infringerent. Notum Nasonis præceptura
est: Auto fores iaceat; crudelis ianua! clamet»
xal eXoyt af 5oijA eiaS 8 ovXevetr, Vulgo l$£\ovtdS legitur, quod
immerito Astius in iSeXorxai immutandum cenauit, Recentiores edi* tores
ad unum omnes /SeXoi'T£S probaverunt, quod plurimorum
”3*. olag ot56’ av dovlog ovdelg, l/ixoSt£oito av ftrj it patii thv ovtci
tjjv XQcrhv xal vito (pD.av xal vtcd effipav, t(5v [tfv vveidi^ovrcov xo
kaxdas xal KveÆv&epias, tav de vov&etovvtuv xal ala^wo/ilrm’ vnep
avtcaV ra 6’ fpuvn navta tuita noiovvu %a.Qi s iitedti, xal dtdotai
codicum auctoritate confirmatur, u Stullbaumio autem ita
explicatur, quasi positum sit pro xal iSeXovzl SovÆiaS 8ov~ ÆvovxaS.
Eius videlicet loquendi normæ memor est, de qila diximus p 106. Præplacet
nobis i%eAov~ xaS, quod arctius cum dovXevetv iuhnitivo coniunctum
notionem c ilicit iSeAoSovÆUtS, quæ infra commemoratur p* 1S4. C.
avtjf av i/ i5tAo8ovÆla ovx ai6xpd tlvai ov8s xoAaxda. Adde præterea
i84. B. c Zsnep ini xolS ipadxaiS fjy dovAtvetv iSeAoYxa ifYTivovv
SovÆiav x. r. A. ijnt o 8 igoiT o av pj) 7 T pdx r eiv
Impediendi verba vel cum solo infinitivo exhiberi soleut, vel
addito infinitivo, qui cum jn} couianctus est, si impediri significant,
ne quid t‘i a t. Contra ubi cautio indicanda est, ne fiat, quod iam
sæpius factum sit, infinitivus cum prj et articulo* exhibetur.
Exemplo e$t Thuc. III. 1., quem Incani Riickerti industriæ debeo,
flpyw xo J17J TtpOE^lOVlLXS XWV OitAojy xd iyyvS rijS 71 u ÆcoS
Xtthovpytlv. xal aldyvv o ji iveay vnlp (xvttv y- lTep\
ovtcHv B ii cicer to videtur non ad actiones referendum esse, quas
aliquis commisit, sed ad homiuem, a quo sunt patratæ, Habet hæc
explicatio, quo so commendet, neque oilicit eidem pluralis numerus,
ad quem a singulari numero Græci solent interdum transire, Præplacet
tamen nobis ea explicandi ratio, quam cum ceteris interpretibus
Schleicrtnaclierus recepit. Verba convertit: indem dieso ihm
Schmeichelci und INiedrigkeit vorwerfen, ieue ihn zurecht weisen und sich
dariiber acharnen wiirden. xal Sedoxat t )ico rov r 6
jio v dvev 6 v e 18 ovS np . Prorsus eodem modo, quamquam verbis
paullisper immutatis, 182. E. xal iZovdiav 6 vdpoS 8i8coxe rc3
Ipadxjj Savjiadra ipya ipya? t opeva) iitaiveidSai. Iu sequentibus
pro bianpaxxopLvov veteres editt, codicesque pauci
8ianpaxropiv(p ex 'libent, quæ scriptio quoniam ad explicandum
facilior est, quam illa, minus est hoc loco probanda. Possis
conferre cum nostris verbis, quæ leguntur 182* C,, xal oxi av 1 } napaxiÆvdiS
rc3 ip&vri napd ndvxoov Savjxac ni} ovx <*jS xi aidxpov
noi OVYTl. o 8 e 8 eiYoxaxov x, t. A. Rarior hæc
structura, eademque oratorio dicendi generi apprime couveiiieus ;
vide Matth, Gramm, ampl. 482, 806, Verba
convertenda suntvQ uod autem gravissimum est, h o p est, quod cet.
Quæ sequuntur verba, &S ye Akyovdiv ol noAA ol et ad præcedentia
referri vxo tov v6(iov ccviv oveiSovg xquvcuv, wg xayxttXbv. u
jtQayfi a SiaXQcmofiivov. o di duvbtarov, Sg yt XtyovGiv oi jtoXXol, on xal
opvvvti fiova Ovyyvatfii] naga &ec5v ixfidvrt jwv oqxov ' utpQodiGiov
yctQ opxov ov (fdGiv elvcu. ovto xal vi &eol xal o i av&gazoi
xaGav possunt, et ad sequentia; quæritor, utra relatio rectior sit
Ruckertus ad h. 1. Verba, inquit, gjS yt Atyovdiv ol itoXKol non ad seqq.
referenda sunt, quasi dicat: quod vulgo dicunt veniam esse cett.,
hoc enim ipse sentit Pausanias pariter atque vulgus, in eo autem
discrepat, quod vulgus hanc rem gravem, admirabilem putat esse,
qnipJ| quod caussam ignoret; ipse auten^ gnarus caussæ, non
admiratur. Pertinent igitur hæc verba ad adiect. 8tivotaxov\ Quod
autem gravissimum est ex vulgi quidem sententia, hoc est, quod cet.
Rectius quam Ruckertus f fecit, Schleiermacherus et Astius de horum
verborum explicatione censuernnt. Verba nimirum ojS yt Xkyovdiv ol
TtoXXol ad sequentia trahenda esse, ipsius Pausaniæ verbis, quæ
insequuntur, demonstratur. Dicit nimirum d<ppo8i6iov yap opxov
ov <p ceti iv elvccij a quibus verbis, quoniam suum indicium Pausanias
secludit, satis apparet, eundem de impunitate periurii certe dubitavisse.
Quid, quod Pausanias 183. E. turpis amoris indicium censet, si quis
amasium ætate provectiorem relinquat, jcoWovS A oyovS
xalvnodx&<> £1 * xqraidxvvaS, umn verisimile est, eundem
periurii impunitatem credidisse? Certissimum igitur est verba cjS
yt Aiyovdtv ol zoAAol ad se quentia pertinere, quibus ea præposita sunt,
ut clarius appareat, vulgus, non Pausaniam sic iudicare*
ixfidvti t gj v opxoov. Stnllbaumius FJekkerum secutus ut
exquisitius tov opxov in textum recepit, quæ lectio Vindobb* duorum est ;
eadem apud Cyrillum adv. Iulian. VI. 187. reperitur. Sed minus placet numerus
singularis, (vid. 107.) et genitivi, quem plurimi codd* habent,
certissimum exemplum Ruckertus suppeditat de rep. I* 538. E. tov
tovtov ixfialvovra xoAd^oudir, Vix iutelligitur autem, cur Plato hoc loco
exquisitiorem verborum structuram admiserit, alio loco eandem probaverit
minus. dcppo8 i diov y a p opxov. Schol. habet ad h. U d(ppo8idtoS
opxoS ovx Ipnoi vipaS, ikl ttav 6i Hpt&TOt dpvvvtgjk itoXAaxis xal
intopxovvtcov ptpvrfxai 81 tavti/S xal 'IldioSoS Aiyarv, ’Ex
tovS’ opxov £St/xev aptivova dvSpcoxoidt, vod(pi8laov ipyoov ittprl
Kvitpi 8oS. xal TIA.d.toav iv. Svputodicp. cfr* Aristænet.
II. 20. 105. tov£ 8h opxov? avrol (parh p?} itpoSTtikd&iY zois g )dl
tgov Secor. Adde Epigr. Callim. IX. v. 3* in Anthol* Gr. Iacobsii.
C llovtilctv ntJtoirjxatii tu tQavn, wg o v6(iog (prjdv o ivftads. rccury
[ilv ovv ohftdrj av ng nayxaXov vofiiet 0 &cu iv ryde rij ndXu xal ro igav
xcc i ro xplXovg ytyv£0&ai toig igaOtaig. insidav da naidaycoyovg ini
CryOav rsg oi narigsg tolg igcsuevoig firj ico6i diaXsyeti&ca xolg
igaCralg, xai ra naidayaytp rctvta ngogre- tofioCev' aXXd Xlycvtiiv
aXifiia, ita aggressos est, ut 183. D. rovS iv ipcoxi diceret: eif
xavxa xiS av dpxovS pij Svvetv ovar is aSa- fiXitfuxS» His verbis ioest
autem, 4 h * vutgjy. quod minos bene habere videtor.
ovtcd xa\ ol 2 eoi. Si Constat quidem, 5i purtjcnlam non
addita essent verba coS 6 adhiberi sæpenumero, ut ad vdfioS (pjjolv
d ivScide, ncmi- præcedentia orationem recurrero nem esse puto, qui
Pausaniæ eaqoe quasi resumere indicetur, argumentationem non rideret. sed
ita tamen noster locus com Colligeret nimirum ille e vulgiJkuratus est, ut
foitiorem partide periurio sententia, eoius ve-^Ptulam desiderare videatur.
Eauritatem ipse addubitare se osteu- dem in lectione vulgata habes : dit,
d«*os revera summam agendi eis 6r t xavxa XiS av ftX itpaS, • licentiam AMANTIBUS
concessisse. quam recepissem in textum, si Addito autem d)S d vdpoS
(ptj6iY plurimorum codicum auctoritas 6 ivSade nihil, quod
reprehen- non obstaret. De pædagogis, das, habebis. Ceterum discas
ex qui puerorum et puellarum doliis verbis, qua potestate vofioS ctores fuerunt
atque doctores, nomen Pausanias exhibeat. Si- Stallbaumius laudavit
Piguorium gniiicat enim nihil aliud, quam De Servis 116. seqq.
rulgi opinionem. ftif ico6i SiaXeyetiSai xavxy /ilv ovv
olrj^eitf x otS i p a6x ais . Ad senten av xiS. Si quis igitur reputat
tiam quod attinet, nihil est in apud se, pulcrum haberi xd ipdv bis
verbis, quod reprehendas, ita, ut, qui amet, potitus amasii Dicuntur
nimirum patres familias laudetur, eidemque iurato periurii pueris præficere,
qui prohibeant, poena apud deos nulla esse ere- no cum amatoribus
congrediantur datur, is dubitare non potest, quin coufabulenturque.
Sed si ad iu hacce civitate pulcherrimum cen- conformationem
enuntiationis reæatur et amatorem puerorum esse spicis, duplici dativo
offenderis, et amatpri amasium gratificari, quem Græci scriptores
perraro iiteiddv 51 7t ai6 ay co - admiserunt, quippe osores acerbo vS.
Plenius si dicere Pausa- rimi fortuitæ ambiguitatis. Unum nias voluisset,
verba audirent exemplum huius rei ut afferam, ineiddv de xiS opii, oxi
ine6xy- Plato insolei^iorem verborum 6av ol natepeS tjyijcaix' dv
structuram admittere maluit, quam x. x. A. Sed ipsam rem h, e,
duplici dativo ambiguam oratio xo i7tt6xTjvat xovS TtaxipaS x. nem edere
atque e nominum s^ x. A. non intercedente upa verbo millima terminatione
laborantem tayniva y, rjfoiudtTai de xccl eraigoi dveidl£co6iv, euv
xi ogatii roLovro yiyvofievov, xcd rovg 6 veidi£ovtag .av oi 7tQS0pvtfQ0i
(i?'j 6ucxco?.vcoCt prjdh koidoQcoCtv cdg ovx D OQftug Myovrag, elg de
ravta ng av fiAi^ag rjyyCcxLx av naXiv td6%i6xov ro tolovtov ivftade
vopltecftai. Td de, oluca, cJd’ ov% ccTthovv iouv, onsg. C. OV
tivjupfpu TOlS a pxov 6 1 tppovijpaxa peydXa iyylyve6$cti zoS v
dpxopevcov, ad quem locum vide annotationem 102. Nostra verba quod
attiuet, videtur duplicem dativum Flato admisisse* ne nescias, amasios an
amatores confabulandi facultate privare dicantur amasiorum patres.
Quoniam autem amatorum proprium erat, ut loquendi cum amasiis initium
facerent, non amasiorum, ut cum amatoribus: optime Orellius pro
xaiS ipa tirc&S scribendum esse vidit xovS ipadxds, z 6
6^, oi/utt, To 8i poni solet, ubi ab opinionum falsarum mentione ad
id, quod rectius est et verius, tranaitur. Hinc re vera autem
verborum SIGNIFICATIONEM esse Biickertus censet. Recte. Principium,
inquit, hic usus duxisse videtur, ab eiusmodi enuntiatis, quale hoc
nostrum est, ut ro 8i revera esset illud autem, subiectique vim haberet
suo in membro, quod deinde alterum exciperet d<5vv8ixG)X, at h.l.,
postea contracta sunt in uuum duo hæc membra, et quidem vel sic,
ut td maneret subjectum, quod ad rem, de qua sermo esset,
respiceret, suumque haberet subsequens prædicatum, vel at subiecti vim plane
amitteret. xal ro3 naidaycoycp r avxa xpoSxezaypera y. h. e. and
dem Fiihrer dies ausdriicklich xur Pflicht gemacht ist sc. fttf idr xotS
Ipcouf.voiS 6ia- } AiyttiSaci xovzipatixdr. Iu sequentibus libri ad unum
omnes ixepoi exhibent, quod præennte Heiudorfio ad Piat. Pbædr. 210.
plerique editores in ixalpoi immutaverunt. Schleiermacherus, quem
Riickertas secutus est, uimia cura, ut videtur, JVepot retinuerunt.
Adnumerandus hic locus iis est, quos summa constantia male exhibuerunt
codd. Vide p 21. annot, ad verba npo 6 xov. ovx anXovr
l6x\v y oizep seqq. Respicit Pausanias ad verba cap. VIII. TcaCa
ydp' itpa£,iS gj6* avtt) lq> ccvxijs TtpatTopkvTj ovxe xaXjj ovxe
aiCxpd d\\’ iv ry npa£ei, d>> av npax^ift xoiovxor dnifir/.
Fuerunt, qui uegutionem ante nr^Aotiv positam uncis includerent tanquam
ineptum scribarum additamentum; alii alia ratioue locum sanissimum emendare
studuerunt, v. c. Astius eivoct omisso, quod in codd. aliquot non
comparet, scribendum censuit: ovx chzXajS idxlr, onep IB, apXyS
&\&x2V > ovxe xaAov avtd xa$*avx6 ovxe aitixpov . Qoo
minus recte verba intelligerentur, interpunctio impedimento fuit,
quam post iXix$V * n omnibus £* aQxrj s IA s%fhj ovts xakov ilvca avxo
xa&' atrto (wtb cdaxQov, dXka xakug fisv ngccrrofievov xukbv,
altSxQag 6i cdtSxQuv. cdOxQajg (itv ovv iorl tcovj]qc 5 re xal itovrjQhig
%uQit,t d9ai, xakidg i5s jjpjjffroj te xal xæ koog. novrjQog d’ itsnv ixtivog 6
IgaOrr/g 6 itavdtjiiog, o rov (Suficcrog fidkkov yj rijg ilwpjg eqdjV xal
ydg obSi /luvLjiog iauv, ars ovdi (lovlfio v Igav ngayfiarog' ccfia yag
tcS rov Gcjjiarog av&Et foyyovti, ovjreji editionibus repertam
delevimus. Subiectum enuntiati est ro <ptXelv s . ro x a pfe*i 1$oci
ipatizaif, SensOs est: Gratificar i amatori uoo simplex actio est,
quoad quidem stat i m ab initio actio per se spectata nec pulcra
esse nec turpis dicta est, sed pulcre acta pulcra, malo acta
mala est. cti(S XP&Z p\v ovv * Hæc est codd. plurimorum
lectio, quam cum olhn io sequentibus KOtXov 8s legeretur, in
aldxpov pev ovv immutavit II Stcphanus. Nunc illud codd. consensu
probatur, igitur xaXajS 6e scribendum est etiamsi non in quatuor codd. exstaret.
Ceterum non recte Stallbaumius ad al6xp&$ et xaXcjS censet e
superioribus intelligeudum esse TcpazT6iv . Nimirum iu superioribus 181.
B. seqq. Pausanias cum de ipav actionis ambiguitate locutus esset, nunc
eo orationis finem direxit, ut et de amasii amore h. e. de tpiXtiv,
quid videretur, ediceret. Sensus est: 'Hassliche Liebe nun ist beim
Liebling, wenn er sich einem Schlechten auf schlehte Weise e r
giebt. ixtivoS o ipa<5z?jS. Ille, de quo dictum est 181.
B. Collocata verba ita sunt, ut necessaria articuli repetitio conteintum
qnendam exprimat, quo maliim amatorem Pausanias atFiciat. Padem articuli
repetitio honorifica est. E. xal ovtoS itiziv o' xaXoSf 6 OvpdvioG,
o t rjs Ov pavias Mov6rjS "EpcaS* Igitur neque honorifica
neque IGNOMINIOSA SIGNIFICATIO ixeivoS verbo cum duplici articulo
conjuncto eilicitur, sed extollit tantummodo verba, quibus apponimur, quæ
verborum sublatio pro sententiæ ratione in bonam aut in malam
partrm accipienda est» offerat ukotcz a pzv os. Hæc verba ex Homero II. ^,71* depromta sunt, ut primus Fischerus
vidit. Reperiuntur eadem haud raro apud poetas serioris ævi, ut
apud Mare, Argentar. 1. opvi, zl fioi cpiXov vvtzov acptfp 7ca6a$ ; ?}8v
6h II vfifijjS EidcDXoy xoizjjS (&x £Z dnonza.pevov. Ceterum
quam bene Homerica dictio rei describendæ conveniat, iam vide. AMATORIS
am^siique coniunctio cum mimæ et corporis conjunctione comparatur, quæ
nisi coniuncta sunt, esse non possunt. Amator igitur amasium
deserens levitate sua, quæ azco- I i tjQct, ot %tT<u
a7CoitT<x[isvoSj itollovq Zoyovg xal vitotf%E<SEig xcaai<S%vvug. 6 8 e
rov ij&ovg %Qr}6 rov ovrog egatirrig duc p Lov [ievel, ars iiovifico
Gvvray.ug. rov rovg 8ij povlezca o rmitEQog vofiog ev xal jccdiug paGavltuv,
xal roig ]itv %aQL($cc<sftcu, rovg 8s 8tcc<psv yuv. 8ta recura ovv tolg
fuv duoxeiv itaQaxEXBV&caiy roig $£ (pEvyEiv, ayavo&etdjv xcd
Patiavl^cov jtoztQav 7toxs iGnv 6 eq&v xcd jrotEQav 6 6QcZtiEvog.
alita 6q ittdyevoG participio expressa. Umbræ imaginem repræsentat;
amasius ab amatore derelictas miserrimam conditionem ostendit quasi
corpus sine anima iacens. Sensus est totius loci : Denn er (o
itdrdijfioS ) ist nicht treuhaft, da er nichts dauerndes liebt.
Denn mit dem Verwslkon der \ Bliithe des Korpers, die er
Jiebte, schwindet er fiatternd daron nnd xnacht viele Worte'
nud viele Versprechungen z u ni chte . r ovrovS 6 rj
fiov\ st ai seqq. Verba convertit Schleierm.: Diese also will
unsere Sitte, dass man wohl and rccht priif j, nndden einen
gefallig sci, die andern aber meide. Iisdem fere verbis in convers.
Symposii usas est Scbnlthessius 75 Riickertus verborum sensum esse
ait: Velle legem explorare amatores, facta autem exploratione
pueros aliia obsequi, alios vitare. Aliter atque doctissimis viris
visum est; nobis de his verbis statuendum videtur; sed ut Pausaniao
voluntatem fucilins cognoscamus, brevi repetitione opus est sententiarum,
quæ in eius oratione continentur. Athenis nimirum legimus fuisse de
amore legem ambignam, cfr. 182. B. Eius rei caussam esse, quod quævis
actio per se spectata et pulcra esse possit et turpis. Actionem
enim non cx actione sed ex agendi ratione recte iudicari. » A. Hinc BONVM
AMATOREM AMANTE AMATO, qui BENE AMAT, malam, qui male. A. fin. Pari modo
amasium malum vocari, qui male se tradat AMATORI AMANTE AMATO, bonum, qui
bene, cfr. 183. D. AMATOREM,
Pausanias pergit, ad persequendum amasium omni modo impelli lege
Attica. D., amasium contra ab eius congressu retineri. % cfr* 183.
C. Hoc quo consilio fiat, iam dicendam est. Utrosqæ videlicet, h. e,
et amatores et amasios, lex Attica explorare studet, atque bonis
amatoribus araasiisque favere, malos pellere. Huic explicationi Græca
verba optime respondent excepto uno,quod de legis efficacitate
dictum admodum friget, Atacptvyeiv, si quid video, depravatum
est, scripsitqæ Piato (pvyaSeve iv. 8ict roruta ovv toiS
iikv seqq. Totam hanc enuntiationem delendam censuerunt
Schiitzius et Astius. Mitto aliorum coniecturas commemorare, quibus
non 8 vxo rav tijs tijg atrius XQtarov [liv ro aXlGxtG^ai ta%
v altSxgov vtv6(u<Srai, iva %qovos iyyivrytai, og Srj Soxti tu xo Xka
xahas fieafavl£eiv ' ixura ro vito %qj]B [turav xal vxo xoXvttxav Svva/iitov
aitovai (iIg%qov, luv rs xaxcos xa6%cov xryfy xai /irj xaQtipyGy, av
t tviQyetov(iEvo$ elg ZQijfiara i) eis Sucxga^ei, g xohuxas
sonatur, sed corrumpitur locus sanissimus. Mens Pausaniæ hæc est:
Um nun die Sinnesart der Liebenden kennen zu lcrnen, mnntett das
Gesetz die Liebhaber znr Verfolgung derLieblinge, die Lieblinge zur
Fluclit vor den Liebhabern auf, und ^ichtet nun and priift,
wes Geistes RinderLiebhaber uud Lieblinge sind, ob sie zu den
schlechten oder zu den guten gelid • ren. Eodem fere modo in
conversione Ficinus : et hos quidem sequi iubet, illos fugere, diiud icar, s et
examinans, quæ quis amet et quæ in quovis amentur, Nam ex iis, quæ
quis amat, cognoscere possis, utrum bene amet necne,
ovtej 8 rf vxo x avxrjS xyS aixiaS, Hac igitur, qua dixi,
ratione atque ea de caussa sc. ut amantium ingeuia accurate
examinentur, vide annotat, ^ xpcoxov p\v xo aXl6x£~ 6^ at. Statim
capi atque teneri amasio dedecori est, quod intercedente tempore nullo
amasius de amatore indicare non potest, fierique potest, ut malo se
tradat. oS 8rj 8 o x ei. cfr, Meleagri Epigr, LXII. in
Iacobsii Authol. EItte AvxatviSi AopxaS' F6’ ok £xixr)xta
tptXovda "HXgqZ. ov xpvxret xXaCrov ipeota xpovoS.
xo vxo XPV t 1 *** cov aXdjvat. Divitiis atque potentia in civitate
capi, h. e. si quis invenis diviti viro et potenti se tradat, non
qao mores probet, sed quia* divitem eum esse videat atque
poteotem; quod quibus modis heri possit, in æqq. statim exponitur}
membra enim, quæ seqnuntnr, iuueta particulis iav xe av xe, non nova quædam continent, quæ
ubi locum habeant, torpe sit amati obsequium, quem sensam Astii
versio exprimit, sed duplicem viam indicant, qua - possit heri, ut
divitiis aut potentia quis capi se patiatnr, si aut male tractatos
ab amatore præpotente reformidet, nec audeat fortiter resistere,
immo metu se submittat, aut beneficiis pellectus non contemnat, sed
tradat se homini, qn» pecuniam det, in reboa publicis gerendis adiuvet,
Riikkert. De xaxa(ppov?/6y verbi significatu supra dictum est ad 87.
vxo noXtx txGov 8vydpec ov. h. e. spe magnæ in civitate
auctoritatis et potestatis, vid. Wyttenbach. ad Plut. de Ser. Num.
Vind. 58. StaUb. Eodem modo
posi- prj xctTCKpQovrjtffl, ovdlv yap 'SoxeZ rovtav ovrs fiiflcaov
OVTE fLOVLflOV ElVUl %dQl$ tOV fMfdi 7tE(pVxlvai ai£ CiVTCDV
yEwalav tpiklav. pia 8rj Ieltcstccl r<3 ^psziQtp vopcp oSog, et
(iskkeo nakng %ctQieZ<5&cu iQa&rjj jcaidwa. fifrt yaQ rjpZv
vopog, &Q7UQ Irii roZg iQaCtaZg ijv dov Xevuv i&tkovra qvtwovv dovkeiav
icaidu&olg pfj xoka- C tam habet 178. D. ovxe xipal ovte
irkovxoS h. e, neqæ honoram neqæ divitiarum futara possessio, vid.
annot. 60. iav te xax&S zadx oav X. X. A. Expressit hæc
Phædrus p* 178. D. hoc modo* ei xi alOxpov zoidZv xaxaSf/koZ
ylyvoixo 7f 7tCt6XG>V VICO xov 6i avavdpiav prj dpvYopEYoS, ad
quæ verba vide annot, 61. XMpif xov pijdl 7tE(p vxkvai . Recte
Stallbaumius: præterquam quod ne oritur quidem inde generosa
amicitia. Eadem dictio reperitur Symp. 173- C. xgo/jI? xov ofedSai
QotpEktidSai vnep<pvooS c oS X a tp°°* Exempla plura huius dictionis
Stallbaumius congessit ad Apol. Socr. 35. B. fin, : x&P^S et r V s
8o5y*> cJ dvdpES, ovSl Sinaiov fioi Soxei elvai x, r. A $ikiav
cave latiore sensu dictam putes $ non enim valet nisi de amasii
erga amatorem benevolentia, vid. annot. 69. ' %6xi yap ijpiY
vopoS seqq. Hæc Verba, ut vulgo disppsita sunt, non nisi per anacoluthiam
explicari possunt. Dicere debebat Pausanias : l6xi yap rjpiv vopoS,
Ssicep iitl xoiiS ipadxalS tjy SovÆveiy ovtgo xal uWtjy piav iiovrjY
6ouA eiav kxovdiov tivai x. x. A. Acquiescentem, in anacoluthi*
Stallbaomium video, quæ in huius enuntiationis brevitate satia
molesta est. Displicuit eadem et aliis, qui vario modo locum sanare
studuerunt. Aliquid vitii verbis inesse videtur, sed non mutauda
verba sunt pia poY7f 9 de quibus Thierschius egit Spec. Crit. 47. seqq. et Schæferus Melett. Cr. 19. Plura exempla
attolitStallbRumius ad h. 1. Rectissimum est, quod in uno Bekkeri codice
legitur, oSitep pro daSzep\ verba hoc modo disponenda sant: £ 6 xi
yap i}piv vopoS t oSnep inX xoiS kpadxalS 7 }V • dovkeveiv kSkXoYta
ifvnvovY dovXeiaY itaidixols p?} xoXaxeiav elvat pr/de £zoYEi 6 t 6
xoY * oyxeo 87 } xal aXkrj x, x. A. Sensus est: Lex nimirum nobis
est, quam AMATORUM esse supra diximus: Si quis quolibet modo serviat
amasiis, eam servitutem non ignominiosam esse, lam nt amatori, ita
amasio etiam lex est eaqne sola, quæ serviri amatori concedit
quidem, sed non nist ita, ut id fiat virtutis ergo. Iutelligent
prudentiores, quid homo sibi velit. Apprime huc pertinet Xenoph. Symp. c. VIII.
$ 32. xaixot TLai) 6 aviaS ye, 6 *Aya Sgovo? xov TtoiTjxov £pa 6
xijS 9 dzokoyovpEYoS vnlp tgjv axpadia dvyxvXiYdovpEYODv, eZpijxev, coS
xat dtpaxEvpa cifoa8 • xdav dvv.i pijdl iitovtiduS tov, ovtco drj xcct
alit] pia povq Sovlda ixovdiog Idrttrai ovx htovdSitixog. avri] di
iduv rj xeqI zqv ccQBttjv.NsvopiGtca ya.Q drj fjpiv, idv ng t&ily uva
&£QttJtevtLV rjyovpsvog 8i ixelvov apelvav HcBti&at, rj xcczcc
(iocplav riva ij xaza cillo oxiovv pigog dgszfjg, ccvrq au %
l&Elodovltla ovx cdo%Qd tlvai o vdb xolaxela. ficorarov dv ykvotzo in
nauSi xojv te xal ipadzcov. i} nata dotpiav riva. De latiore
tiotpicxS significatu, quæ qn\o6ocpia. paullo infra vocatur, vide annot. 34.
Satis autem erat dixisse: y Maza. 60rpitxv riva ij holS* onovv fiipoS
dpEZrjS, Sed haud raro Græci iu rebus, quæ genere non differunt,
specie discrepant coniungendis vtWoS nomeu -addunt, quod qua
ratione fiut, infra docebitur. Exempla sunt huius usus Symp. 188.
A. civ$pGj7toiS "Hat zotS aAXoiS ZqjoiS T£ HCtl (pvzoiS. Gorg.
p, 473. C. ZtjXgdtuS qqv nat cvdaipovt%dpevoS vi zo zaiv itoXtzdjv
xai z<yv aXXcov gtva) v. Alcib, I. 112. B. xal al paxen ye xal
oi Sdvazot dux zavryv trjv dicupopav toiS ze 'AxaioiS tux\ to2s
aAAoiS Tpco6iv iyivovro. %v /tftaleiv cis tavto. Bene
Riickertus, duæ, inquit, hæ leges in unum quasi locum conferendæ
sunt, h. e. cura agenda est/ ut harum legum utraque valeat atque
observetur, quoties amatori puer se dedut, ut ille nihil recuset facere
atque pati, quo dilecti gratiam consequatur, hic eo flagret sapientiæ
atque virtutis studio, ut cum fugiat, qui ad hanc nihil conferre possit,
contra qui virtutis auctor sit, ci se tradat, nihilque, quo gratus
illi sit, facere recuset. ro ipadty itaibrxa x a ~
pitiatiScei. Plerumque solet duobus nominibus hoc modo iunctis articulus
demi, si in universum de toto genere sermo est cfr. Piat. Eutyphr. cap.
IV. dvodiov yap etvai zo vi 6 v itazpi <dovov I xe&iivai.
Symp, 1 84. B. cl ftiXXei xaXcvS x a ~ pul6$ai ipa&cy naidixet.
Tw ipcttizy autem, quamquam sensu nou cassum est, tamen,
quoniam sententiæ rationi minus convenit, præ pauciorum codd.
lectione zo ipa6zy postputandum est. Etenim non dispicias, cur suo
quisque amatori amasius rectius dicatur, quam iu universum amatori amasius
gratificari. otav yap e Is zo avzo l f Sensus
verborum est: Weun uumlich Liebhaber and Liebling den eincu
Zweck vpr Augen haben, velcher sicli aus der Vercioigung ihrer
hei- 6e Z Sfi xa vufia xovta ^vfificduv elg ruito, xov re itegl
t>)v mu8iQu6tiuv xal xov % egi t>)v epdotiotplav r t 1J xal rijV
aU.ijv dgtzijv, el fisXXn ^vafir/vai xaXov ytveOftcu xo IgaOrfj xtcadixu
xagl<Sa(SQai. otav yag elg r 6 tcvx o iX&coOiv iguGxrjg xe xal
naiSixcc, vo/xov %% cov ixaxtQOg, 6 (i iv %aQ(J5ayLtvoig xcadixoig
vxi/geuav ouovv Stxulag av v7tt]QBTBLV, 6 de xa xoiovvu avtov
Corpov xe xal aya&ov Sixaiag av ouovv av vnovgyelv, xal 6 (itv
dvvafiivos elg tpQovrjOev xal xrjv aAXijv dgextjv £i\u(iaXXeO&ai, 6 Se
Stotnvog elg nalSevOiv xal xijv aV.rjv e derseitigen Gesetze
ergiebt. Copiosius paullo infra 1S4. E» dicitur: rore rodrmv ZvvioYtc av
eIs x avtov xgjy ropcav. Minus recte RiickertusJ Quum enim
conveniunt. na l ti}v &XXrfv d p ex ?}y Bivfi{jdXA.e6$ai.
Verba transitiva, quæ vi quadam pronuntianda sunt, ut iis seutcntiæ caput
contineatur, haud raro absolute ponuntur. Verba convertenda sunt*, indem der
eine in Beziehung auf Weisheit und Tugend Befordcrer zu seiu
verraag, der anderc in Bezieliung auf Bildung und Weisheit Besitzer
zu sein verlangt ... Vide, quæ de absoluto usu verborum supra
annotata sunt p, 87. Eius usus ut unum exemplum hic addam, legitur
Symp. 175. A. napov naXovYtos ovn fæXei eisiEYca, quo loco, quid
differat naXe.lv et naXeiY xivd, edocearis; rectius igitur, quam factum a
me est 27., verba convertenda sunt: und ich rief mehrmols, h.
e, liess mehrmals den Ruf ergehen. xox e 61 / eis xavxovX gdy
YvpGDY. Wenn dann, sage ich, dicse Gesetze zu einem Zweck sicli
vereinigen. di/ particula positu est, ut filum orationis
interpositis verbis abruptum rursum anuecteretur. Prorsus eodem modo 183. D.
t.is 61 } xavtd xiS av (IXtipaS, ad quem locum vid. anuot. 110. Pertinet autem b. 1. tore Stj n. x. A. ad, præcedens
otocv }'dp eIs tu avxo £A $a> 6 iv n. r. A. Coniecturis verba frustra sollicitarunt Astius et Bastius. B,v
p it i nx Et xo naXoY elvai . Phavoriuus : 6t>j.iitl Ttt E iy
XiyErai nal xo tivpftaiveiy et s. v. 6v/iftE<SeiY : <5tyiiriittEiY • opov
yEvk6Sai • oi /uS? "Oprjpov trjY Æfciv nal inz xi’xypd>Y
aTtofiaGEWY tiSeadiY. Stallb. tovxcj. Convertit Schultbessius
: Selbst sicli hieri n getauscbt zu finden, briugt keine Sebande.
Schleiermaclicrus, cuius verba Riickertus probat, exhibet in convers. : i
n diesem Falle. Ficinus verba reddidit; in hoc utique falli
turpe non est. Unice vera Stnllbaumii interpretatio est: quum
sic a f- ' fecti sunt animo. Errat 'autem Ruckeitus, xo
ititcutaxu- <3o<piav maci&ca, r6te Srj tovtcov kvviovrav tlg
xavrov xav vofiav (iova%ov Ivrav&a fcv/ixlserei to xaX ov elvai
XcuSixk IqccG xjj %aQlQa6&UL, aAXofrc de ovda/iov. ini zovToy xal
Hganaxqfrijvai ovdiv alaxQoV ini fis rotg «XXoig nceifi xal i^anarafiiva
alo%vvr t v tpiqa xal fitj. ei 185 yecQ «S tQaarjj ag nXovdicp nXovxov
evexa xaQiQa^ievog htanaxri&eiri xui ur/ Xafioi XQVf lccta )
ivcupuvivxog tov d$ai ad solam amasium pertinere censens, non item ad AMATOREM
AMANTE AMATO. Etenim quæ sequuntur exempla, quamquam non nisi de
amasio loquuntur, tamen simul amatoris imagiuem involvant, qui vel
amasium frustratur falso amore, vel ipse amasii studio falsissimo
decipitur. Verba convertenda sunt: Bei solcher Absicht ist selbst
die Tauschnng deseinenoder des a"n dem nichtschimpflich. Bei ieder
undern Absicht dagegeu bringt Lieben undLiebling sein
Sebande, mag nun einer getauscht werdea oder nicht. lB,cntaTi\% elrj xal jxy Xdftoi. Si quis spe excideret h. e. si
non acciperet. Igitur xal h. 1 . explicativum est, de qua vide sis
Indices, cfr. Alcib. II, 143- c. 10. xaxov apa idrlv rf tov fieXxidxov dyvoia xal xo
dyvoelvSo fie Axidxov. Dc iusequentcava^nrW*'TOS Riickertas <K
ava<paive6$ai f inquit, verbum proprie significat ex inferiore
loco emergendo apparere $ hinc subito apparere, dicitarque haud raro de
iis, quæ cum speciem quandam habuissent antea, falsam illam,
subito, qualia revera sunt, se ostenderunt,» Displicet hoc subito,
quod ne quis, verum habeat, videat Piat, de rep. VI. 484. A. oi pty di}
<piXodocpoi xal ol /ii} dux /laxpov xivoS dieZeXSovtoS Xoyov /loyiS it
co s dve<pavTj6av olol eldiv a/ii poxepoi . Neque debebat Riickertus
exemplum putare, quo sententiam suam probet Symp. 213. C. eicSSeiS
l€,aCpvi)S ava<paived$ai onov iyoj di/u/v r/xidxa de idedSat,
quo loco neutiquam abundat i%al<pv7jS verbum, XO y e
avxov: quod ipsum qttinet, quantum quidem in ipsius potestate
est. Wolfius verba convertit: seinen Charakter, seine Gesinnnug, quod
quamquam ferri potest, tamen propter iusequens to xa$ avxov etiam
aliis minus probatur. ovdiv jjxxov aldxpov h. e, non
minus turpe est, quam si AMATOR revera dives esset, AMASIUS igitur
non deciperetur atque pecuniam acciperet. xav ei' xiS <ȣ
dyaSai. De xav el particularum significatu disseruit Buttmaunus ad
Demosth, Mid. p, 33. Nimirum quoniam non nisi ad modum verbi
alicuius referri potest dv particula, conseutaneum est in fdr- Igadrov
xlit/ros, ovdhv qzzov alexQov. Coxsl yng o toiovtos xo ye avxov budet%eu,
oxi svBxa %gyiia xav oxcovv av oxaovv vxtyQtxoi' xovxo Se ov xakov.
xaxd xov ctvzbv 6r/ luyov xav el ug ®g aya&m jragvSafUvos xai
oevxos wg dfidvcav toofuvo g Sia X rjv epiHav xov tQaOzov
i^aitazri&tlT}, dvcupavevxos Ixdvov xaxov xal B ov XExxijfiivov
ccQtzijV, oncas xcdtj rj dxaxtj. doxei ydg mula xav ei, av
particulam ad alterum post ei verbum pertinere, Igitur recte dici
Battmannos ait xal, ei xovxo itoioirjv, ev av itoioirjv et 6oxco
jiot xav t ei xovxo noioirjv, ev itoieiv, Interdum præcedente xav, quod
od apodosin refertur, verbo in apodosi posito av superadditur, ut
recte dicatur Græce tioxm jxoi, xav, ei tovro itoioirjv, ev av
Ttoieiv . Nostro loco quoniam apodosin uon habes, ad quam av particulam
referas, caput enuntiati esse xai ei i£ait axrj $ eirj censendum est. Et
quoniam xal el conditionem exprimit, qua revera fieri posse
significatur illud, quod in couditione continetis, haud abs re
visum est scriptoribus av particulæ in hoc dicendi genere
additamentum, quo possibilitatis, notio in verisimilitudinis notionem
immutetur, Sensus est: Anfdieselbc Weise nun, wenu einer, indem er einem
sich ergiebt, ais einem guten, um selbst. besser eu wenlen,
getcuscht wird (and das kann gar leicht gescliehen and ist schon
oft geichehen), s. Gesetzt nun, es wiirde einer wirklich betfogeu,
indem er cett. 6ia rrjv qnXiav xov l pati tov. Deerat
olimroti ar ticulus, quem ex octo codicibus addiderunt interpretes.
In annotatione Riickertus habet : s u am
caritatem erga amatorem, Schleiermacherns : durch die Freuudscliaft
'seines Liebhabers. Scbulthessius: durcli seine Fren,ndschaft. Amasius,
qui AMATORI sededtrrat, quem bonum putaverat, ubi frustra id se
fecisse videt, non caritate erga amatorem deceptus est, sed malo
amdre amatoris. Verba 6ia xrjv <piMav xov ipatixov prorsus repuguare
videntur iis, quæ de (piXiaS notione supra annotavimus. Neque tameu illic non recte iudicare nobis videmur, et commodissime
huius loci verba explicantur. Satis notum est, viros, quarum
ignavia notunda sit, feminas interdum appellari. Exemplo est huius
usus notissimam Homeri dictum 'jixatdeS ovx ix* *Axcuol. Nou
minore, ut videtur, cum acerbitate virorum ignavia notatur addito, quod solis
feminis laudi est. Quis feminas dou laudet in nendo subtemine
diligentes? at Herculem colo assidentem quis uon vituperet atque
derideat? tpiXiav Achillis, Patrocli amasii, summis laudibus eilert
Phædrus 180, B. Alcestidis laudat 179. C., nam et amasiis et mulieribus propria
<pi\ia\ vide anai xal ovzog t o xa& avrov StStj Xaxtvai, on
uQEtijg y svExa xal tov jleXztav yEVE<S#ai ndv av navtl
tzqo%vfi7]&ehj ' zovzo Sb av nuvzav xakhdzov. ovzco itavrog ys xaXov
dpiZTjg ivexa %uqI%e<5%(U. ovzog Idriv 6 tijg OvgcivLag &eov
"Eqoq xal OvQaviog xal noXXov utjiog xal xoXei xal USuircug, xoXXijv
tx^iXetav, dvay not., nostro loco amatoris <pi\ia ita
commemoratur, ut malam, effocminatum, turpem amorem siguificet. Similiter
feminis a serioribus præcipue scriptoribus ipcoS nomen attribnitur adhærente
ignominiæ notione. Caute igitur Phædrus, Alcestidis laudans in
amore virtutem, non 8i ipeaxa dixit, quo verbo omnis laudatio
misere periret in licentiæ crimen conversa, sed (pi~ "kicLY
commemorat, qua parentes superarit mulier fortissima 8 ia
x6v*EpGJxa* xal o v x exxTjpiv ov dpexrjv. Prorsus eodem
modo supra dictum est 185. A, i£anazTjSehj xal prj Xaftot XPV~ /
iaxa, ad quæ verba vide uunot. Adde 185. C; apexijS y £v£xa xal xov fieXxiaov
yevitiSaz X. t. A. In sequentibus o/idoS xdAjJ tj anati} verba
convertenda sunt: tamen non ignominiosa fraudatio est, ignominia cum
fraudatione amasii non coniuncta est. Sic 184. E. ini tovto) xal
i%aitat?]$jjvai ovdlv aidxpov. Soxez yap av xal ovtoS*. Kai
scriptor posuisse censeri potest ita, ut ad præcedens 8oxet yap 6
toiovxos Im8tlB,at x, T. A. respexerit. Habet tamen hæc dictio, quod mihi
quidem admodum displicet. Quid, si scripsit Plato Soxel yap av xal
ovz gjS? h. e. videtur eoim etiam hac conditione i. e. etiam si hoc
ei contigerit, nt ab amatore deciperetur, quantum in ipsius
potestate est, declarasse satis et q. seqq. ndvrcos: ye xaXov
ape xij$ ivexa h. e. Hac igitur ratione in universum pulcrum virtutis
ergo amatoribus gratificari. In permultis codd. yi legitur post
dpetrfi, quam particulam recentiores editores delerunt Riickerto excepto,
qui eandem in textum recepit. Particulam non exhibent Bodl., Vatie.
Vindob., quorum librorum tanta auctoritas est, ut recipienda particula
sit, si hi eandem exhiberent contra ceterorum auctoritatem. Ut
res nunc se habet, particula delenda est. ovroS’ l6tivot
ijSOvpav ia$ $ eoi)”Ep gdS. Ut ovxa haud raro significat: hac ra tione,
qua dixi, ita ovtoS h. 1. convertere possis: Ecce talis est, qualem
descripsi, Uraniæ Eros, Quod sequitur OvpavioS nomen maiuscula
littera scribendum curavimus, nomen enim revera est, non
adiectivum. Minus apte Schleiermaclierus verba convertit : Dieses Ist der
Eros der himmlischen Guttin und scibst himmlisch. v
t£iki xatov, MlBltS&ai 3CQ0 S ttQEtifV TOV TS Iq 10VTU‘ ttVTOV C
ctvrov xal tov igcoftevov' oi 6’ ersgoi navus T ^S Btiqus, rijjs
ITavSrftiov. Tama <joi, iipij, cog ix tov nuQu%Qrj[ia, (o <PaiSQB, nsgii
"Egenos OvfifSuklofiai. TlavOctviov Se navGafiivov didatSxovSi
yag fis Ida Xtyuv ovtadl ot Oocpot Igpjj 6 ^QiOzodrjfios
Alia ratio ndvSjjfiof verbi, qnod supra 181. B. ut adiectivum
positam est : d fib' ovv t ljs Ilcevdtjftov 'AfppodhijS coS a\?/~
itctv Si] fxo S idziv x.t.X. Perfacile autem fieri potuit, ut
aliquis cum ovpavioS littera minuscula scriptum exstaretin codd., xat
adderet, quo orationem, quam censeret mutilatam, expleret. In codd,
nullum vestigium depravationis est, igitur ne uncis quidem voculam inclusimus,
nimiæ audaciæ crimen fugientes. tov te ipcovta xa\ tov'
i poS fievov . Post roV ipco/ievov rursus iutelligas avzdv
avtov. Frustra Bastius et Astius tov ipcopkvov scribendum putarunt: quod
si ab ipso Platone esset profectam, ordo verborum hic, opinor, foret:
tok ipajvxct avtov te avtov xal tov ipoo pkvov. Nunc sententia liæc
est: Eros Uranius utrumqæ, et amatorem et eum, qui amatur, impellit
et cogit, ut omnem coram ponat in studio virtutis et sapientiæ.
Stallb. Eodem modo verba intellexit Scbleiermacherus in convers. 405. *. indem er den Liebenden nothiget
viel Sorgfalt auf seine eigene Tugeud zu weuden, und auch den
Geliebten. coS ix tov itctpaxpT/ fia. Schol. habet:, ix tov
avxopatoVf ix tov itpoxeipov. Apposite Stallbaumius ad h. 1. Xenoph, laudat
Hell. I. 1. 21. A £yeiv ta p\y anu tov nctpaxprjpof, ta 6h
fiov\ev6atp£voi'S* Non dubiam est autem, quin additis his verbis
Pausauias excusare voluerit orationem suam, quam elegantiorcm atque
politiorem edere potuisset, si ad eam rem aliquid otii datum
fuisset. Ilavdaviov 8e tfavdapkvov. De sophistarum irrisione hic
agi, qui similes sonos verborum studiose quæsiverint, iisque
orationem suam exornaverint, conseutiens iudiciom est interpretum omnium.
9ed non verisimile est, Apollodorum TIavdavlov 81 7Cav6af.ie.vov
verbis ita usum esse, ut ad Pausaniæ orationem non respiceret, in
qua illius studii sophistici nullum vestigium reperitur. Præcellit
autem hæc oratio præ ceteris verbositate, ut non videam equidem, quid
obstet, quominus in hanc verbositatem Tlavdavlov navdapkvov verba
directa esse censeamus. Fuerunt, ut ipse Apollodorus indicat
sequentibus verbis, magistri dicendi, qui similitudines verborum
discipulis commendarent. Sed commendarunt eas ita, ut quibus aliquid efficeretur,
quod modo indicatum est esse h. 1. iuanis cuiusdam verbositatis
satis acerbum vita- 6'siv fiiv Agiarorpccvij Xiyuv, t v%dv 8e avta uva
rj vno srAijfffiov^s rj vito rivos allov A vyya liaitmraxvlav xal ov%
olov re elvat Xiyuv, aAA’ tliteiv avii tbv iv z)j xarto yag avrov rov laxgbv
’E(>v!;!pa%ov xcaccxeia&ai r £l ’EQv%l(ia%s, d mulos d ij
itavOai pcriiim. Non igitur illos dicendi magistros
Apollodorus carpere voluisse censendus est, ad quorum præceptum ipse verba
sua composuit, sed eos commemoravit tantummodo, ut eorum auctoritate
dictionis iusolentiara excusat et. Restat, ut de conversione verborum
Tlavdavlov Sl navdapivov dicamus: Schleiermucherus exhibet; Ais nun
Pausanias ausgesugt hatte. Schulthessius habet: Nachdem ntm
Pausanias pausirt hatte. Astius verba reddidit: Nachdem Pausanias
eudlich geendet, quæ couversio Orellio displicet, quod nimis longa oratione
Pausanias usus esse dicatur. Sed ea ipsa de caussa Astiaua illa
conversio r.obis magnopere placet. Est tamen nobis, qnod Græcis
verbis mugis respondeat, quod si durias videbitur atque minus
elegans, non magnopere dolebimus, quippe exhibituri, quod revera
excusatione indigeret tg ov dotp&vx Ais Pausanias nuu
ansposaunt hatte, ovTGodl oi do <pol . TovS tiocpouS
dicendi magistros esse, supra indicatum est. vide quæ de docplaS
notione annotata sunt $4.
SI avrcp riva ii vyya. Scbol, ad h. 1. varias singultus
caussas laudat eiuaque sanandi modos studiosissime refert, quos hic
repetere longum est. Unum hoc ex eius annotatione depromam, quo prndentiores de
Aristophanis voluntate certiores fieri possunt: zo rov A vypov
dvpnzcopa irtiylvezat tgj dtopaxoo Sta 7t\ij pojdtv rj xiv od div
r) if>v % iv, iviote xal dia 8rj£,iv Spipe arv vypo)V xal
(pappaxoaS&v zalS noidztdiv. Pluribus de Aristophanico singultu
dicturi sumus in Commeut. de Symp. Platonis, ad quam lectores
ablegamus, iv x y xdteo. Hæc est lectio codicum plurimorum.
Vulgo iyyvtdzcD legitur, quam lectionem Astius retinendam censuit.
Frustra. Non enim de vicinitate hic agitor, sed de ordine sedentium;
quandoquidem Eryximachus præcepit: Zxadrov \6yov eltceiv hcaivov
"EpcjroS ini 8e£,id. Sæpissime autem ivzoS, iyyvS, iv x\j xdra>,
iyyvrdzco, similia, commutata reperiuntor in libris, ut non
defuerint, qui etiam Lachetis loco ditficiliimo 187* $• 13.
iyyvzata vocem mutandam censerent. Beue tamen id habet eo loco. Verba
sunt hæc: ov poi Saxeis elSivai, dzi ds dv iyyvzata 2a)xpdzovS
y A oya>, c Zsnep yivet, xal n\r/— Qid^y SiaXeyopevoS, quæ verba
quoniam nullo modo explicari possunt, in hunc modum emendanda suut: ut;
poi SoxeiS eiSirai, ori ds av' iyyvzata 2iuxpdzovS ift A oyoj, &snep
yvvatxl nXrjdid^et SiaXeydpevoS, fis xijg Ivyyog, q liysw vxig Itiov, smg
av iyd xavCafiai. Kal xov ’Egv£liia%ov slntiv, 'Alia xoiqe a dfitpoTSQa
tavxa. iyd fiiv ycig igd iv xd <5(5 fiigsi, 6v 6’ insUlav xavtiy, iv r
a ifid' iv a S’ av iyd liyca, idv fi iv <Soi iftihj dxvtvOxi l%ovxi
aolvv %go xa\ dvdyxij av ro3 x.r.X, Agitnr autem satis lepide de
mulieribus, qui severissime in virorum suorum vitam inquirunt, neque prius ab
interrogando atque explorando desistunt, quam omnem vitam, quomodo
gesta sit geraturque, cognoverint. Verba convertenda sunt : Du scheinst
mir nicht zu wissen, dass wer dem Socrates zu Leibe geht,«
der gleichsam mit einem eifersuchtigeo Weibe anbindet, und er muss,
wenn er auch vorher -von etwas ganz andcrm zu reden^begonnen hat, ohne
Aufhdren sich von ihm im Zirkel herumfiihren lassen, bis er sich
endlich vervrickelt, und gesteht, wie er ietzt lebt und wie er geiebt
hat. dixaio? el rj navtial pe x. r. X. De SlxaioS vocis
significatu supra dictum est 6, Male Ficinus in conver», exhibet: O
Eryximache, tua tunc (nunc?) iuterest. Ceterum dixaio? h, 1, Eryximachus
dicitur duabus de caussis. Nam medicus erat, ut siugultui mederi
posset atque a dextra sedebat, ut ad eum perveniret dicendi munus, si
Aristophanes, quominus ipse loqueretur, singultu prohiberetur. Quæ
sequuntur verba, eoo? av iyco itavdoofiai abundantia quadam laborare
videntur, quandoquidem personali prouoraine facillime carueris. Cave
tamen id mutandum censeas aut delendum. Dicturus Aristophanes erat; Dicere tnte
debes, donec ego possim. Sed inter dicendum factum est et hic et
alias haud raro, ut, cum structura verborum ad verbnm comparata sit, qnod
scriptor iu mente habuisset, pro illo verbo subito aliud poneretur,
quod cum incepta structura verborum mions Cfcuveniret. Optime igitur
se haberet scriptura hæc: 7/ Xlyetv vnlp ijiiov 7 Eoo? av iyoo
Xiyeiv dvvoopai, sed non minus bene dicitur Ego? av iyoo rfau(S oo fica. idv ftiv 6o i
i$iXp el /i r/. idv fiiv præcedente scriptum exspectaveris idv 8i
y ut legitur iu Piat, Protag. 848.
A. idv fisv fiovXy Exi epoo rav, Etoipo? elpi 6ot napiXeiv anoxpivopevo ? •
idv fiovXy, 6v Ipol ndpa6x£y nepl co v petaS,v inctv6ape$a 6ie
B,wvxe?, rovroxs’ reWtf iniSelvai. Passim annotatura est ab
interpretibus, el interdum poni idv præcedente, eiusque rei caussam
indicare studuit Engelhardtus ad Piat. Menex. 237, ed. non satis, ut
videtur, veterum scriptorum voluntatem assecutus: particulæ idv, inquit,
inest notio exspectationis manifestum fore, sitne id, tjuod hypothetice ponimus,
necne. Si ergo duæ res hypothetice opponuntur, iam tufjicit, semel
hanc notionem additan¥ esse, et quidem priori membro, quia id prius po
- vov ituviGftai v) Avyl' tl 51 (ilj, vScezi uvaxoyxvllæ Oov. d S’ aga
itavv lo%vga Idziv, avaXujiijv zi zoiovzov, oim xivfacus av zqv (uva, itzagt'
xal lav zovzo nere solemus, quod nostra magis interest ;
superflua hæc notio in altero membro est.* Nos sic statuimus. Ubi idv phy idv
6e ponitur, duæ enuntiationes hypotheticæ sibi æquiparantur, in
quibus, quod fieri ponitur, idem facile fieri posse certis quibusdam de
caussis exprimitur. In æquiparandis enuntiatis veteres te T £ particulis
sæpius utuntur, quam fiiv - 8£ t igitur sæpius idv TE idv te
reperias, quam idv phv idv 8£. Exemplum habes Symp. 184. B, init.
Pro altero iav veteres scriptores etiam si posuere. Sic legitur noatro loco idv
phv sl Si, nusquam cutem £dv te eX te reperias. Colligitur inde, el
post idv positum non eiusdem potestatis esse atque iav præcedentem
particulam, sed alius, quæ cum 8£ adversativo commode consocietur, non
item cum te vocula, de cuius potestate supra diximus, conveniat. Ut
paucis dicam, iav poni aliquid signiiicat,H|uod fieri posse cogitatur
certis quibusdam de caussis, el cum adversativa particula coniunctum
exprimit id poni, quod contra exspectationem revera contigerit. Ad
nostrum locum ut revertamur, dicit Eryximachus : Vide, an tibi ditvtv Cz
l ixovTi h. e. animum reprimenti aliquod tempus singultus abeat, (et
credo, fore, ut abiturus sit, experientia edoctus) sin vero minus h. e.
wenn dcrSchlucken aber gegen ali es Erwarten wirklich nicht
weiclit..cf.Plat*derep, C. pvypeta 5* avTOlf XOLL Svtiiotf
TJ/V Tt6\lV 8ypo6la jtoieiv, idv xal ?} TIv$ia B,vvavaipy (neque
dubito, quin id factura sit Pythia) coS daipodiv’ ei 8h py
(&z.£,vvaivaipEi h. e. contra exspectationem non, revera non) eoS’
EvSatpoCi te xal SeoTZ, Hoc dicendi genus quid diflerat ab eI eI oh pi/ sponte intelligitnr. cf.
Piat. Churmid. c, 14. Heind. ed. 190. eI ovv Coi <pt\ov, i$£X co
Cxoieeiv pera Cov • ti d£ p ?/, idv. Adde quem
Stall— baumius laudat ad PJat. Piiacd. p v JB8. ed. Isocrat.
Archid. 44. #11. ed. Lang. idv phv yap iSiXcopEv djtoSvjjCxEiv
vithp t&v dixalcov aCtpaXdjS yplv iZtCTai r,ijv m tl 6h
<pofiySyCope$a tovS xivbvvovs x. T. A, Ceterum post y Xvy% supplendum
censent ev %X £t Minus nobis placet hoc explicandi genus; meliorem
explicationem iu conversione huius loci dedimus. v 8 aTt av axo
yxvXladov. Schol. habet: dvaxoyx vXiuCai t 6 xXvtiai ryr cpdpvyya } d Xiyopsv
avayapyapiCat . oXoo x ivyC aiS dv Tyv piva ♦ Vulgatum
xivyCaiS, quod codd. omnes exhibent, et Athenæus servat V. 2. 187*
iv 8h Tofis xnto&yxaiS tov xap tpovS > tva Tyv piva xivy6a$ TtTapy,
itapiypt % mutatum in xvyCaiS apud Stob., Florii. Tit. 98. 542.
reperitur. Eam lectionem cum aptiorem censerent Wyttenbachius, Creuz. ad
Plot. 2 noirj6]iS «Jfal ij 5lg, xal sl itaw 1 <S%vqu t<Sn,
3iav~ (Sectu. Ovx av cp&avois liyav, cpavai xov ’A QKScocpavi
j' ly w di Tttvra noti^a. Einuv 6rj tov ’Eqv!-!iikxov' de palent,»,
Astius, alii, nemo luit excepto Riickerto,. qui vulgatam lectionem
defendere atque in textum revocare auderet, Riickerto autem tutius visum
est retiuere, quod libri darent, a a tque nisi bonum, at. non
absurdum esset. Aliud nobis de vulgatæ lectionis præstautia iudiciutn est.
Kivei v nimirum nou SIGNIFICAT solum movere, sed movere ita aliquid, ut id se
moveat. Sic iu AMORE verbum usitatissimum, adhibeturque, ubi aliquis
ad nequitias allicitur, Pari modo in proverbiali dictione dicitur
pijxiVEiv, tov ev 'heIjievov videlicet, ne is, qui moveatur, ubi
motum se senserit, moventi molestias paret» Iam vides xiveiv r?/V f)lva
esse, movere nasum atque -excitare ita, ut se moveat h. e. ut
oriantur nxappoi, Bekkerus xvjfdaio habet, quod apud Stobæum legitur.
Sternutatione mota pelli singultum probatur Mippocr* Aphor. VI. 13-
t; 7to Xvypov £*opivaj ittapfiol iitiyEvopEvoi Auov6i xov Xvypov.
xal eI 7tavv l6xvpa idxiv . De xal el et eI xai part. ita
disputavit Heind, ad Platon. Gorg. p, 509. A., ut negaret,
couditionulis enuntiati seutentiam mutari, sive xal eI sive ti xai
scripseris. Consentit cum Heindorfio Matth. Gr, ampl. T, II. 1252.
Nostra verba etiam t um, si vel maxime pervicax sit, cessabit
Eugelhardtus interpretator 5 rectissime idem de xal el et el xal
purticularnm discrimine disserit ad Apol. Socr. pag. edit. 196. Ex eius
annotatione hæc laudare iuvat: el xai rem aut ponit, aut indicat
fieri posse, ut ait, ita ut latiue reddendum sit quamquam, etsi vel
quamquam fortasse. Kal eI semper de incerta hypothesi usurpatur, quam
sive ponit aliquis sive non ponit, tamen id fieri oportet, quod in
apodosi ponitor. ovx av q> 5 av o tG Xiyoov. Schol. habet: ini
ccor eIg 5 T$paG ayovTGJV aZioatilv tivoG //>/7 tcj nipas iiei^EvxoS avx\j.
Proprie verba significant: Mit dem Reden kannst du nicht zu frxih
komme^ h. e. quin statim loquere. Hæc annotavi, ut liqueret, interrogandi
signum ab hac dicendi formula non abesse non posse, quod in Phædone
positura est apud Stallb. p, 100. C. akXa prjv, l(pr\ o KifirfG,
coG 8 i86vtoG 601 ovx av cpSavoiG itepaivav ; eIkeiv 8\
tov 9 Epv%l/ iaxov . Eryximachus medicus, qui nunc dicturas est,
Acumeni medici filius, Hippiæ auditor ana cum Phædro aliisque
fuisse traditur Piat. Protag. 315. C., Phædro AMICUM fuisse discas
e Piat. Phædr. 268. A., ubi Socrates cum Phædro colloquens el xiG,
inquit, 7tpoGE A$qjv t (3 kraipfp 6ov ’Epv%ifjiaxcp V ‘&^ 7tar P' t
&VXQV ! 'Ahqv /.ievco tircW x.t. A. Cap. xn. AoxeZ roivw fio i
ccvayxcaov tivca, timSi/ Tlav186 6avlag OQ^rfias htl rov kbyov xabag ov% txuvas
aiteteXeGe, 6 s Zv ifis XEigaGftai teAos htifrElmn rc5 Aoj/gj. tb fisv
yag Saikovv tlvai xbv "Egara SoxeZ [ioi xaxaXco ? ov x Inavco?. Ex
Eryximachi sententia Pausanias rectissime disseruit de duplici
Erote atque de utriusque dei natura, minus recte de erotica vi locutus
est, quæ vis latius pateat, nec solum in animis mortalium, sed etiam ia
universa rerum natura eillcacissima conspicietur. Respicit autem, Stallba umius
ait, Eryximachus haud dubie ad nobilissimam illam et inultis, ut
videtur, posteris temporibus probatam sententiam vetferum quomndam FILOSOFI, qui
statuerunt elementa totius rerum universitatis inter se pugnantia per
concordiam et amicitiam ( tpiXiav ) esse inter se conciliata et in
ordinem redacta, vid. Arist. Metaphys. I.
4. et quos laudant interpp. ad Aristopli. Avv. v. 695. seqq.
zcAo? iniSslvai rc3 Ad' y<*>» * EitiSEivcti ex artificum
officinis depromtura est, qni eam reliquum corpus sive
hominis sive animalis arte elaborassent, capite ad postremum
elaborato caput imposuisse dicantur simul atque opus ad finem
perduxisse. IJæc formula iam apud Homerum reperitur II. r, 107.
tfjEv6xrj6Ei? ovd* av re xiX o? /iv$cp imSfoeiS. Adde Piat. Alcib.
I. l^D. xov Tccv yap Ooi arfJthov xcov Siaro?/juarGjy x JX o?
inite^r/vat avev i/iov advvaxov. Cratyl. S95. A. xivSvvEvei yap
xoiovroS xi? tlvai 6 'Ayapkpvcav, olo?, a av dcZeiev avufj 6ia7iov£i6$cn
xal jtapTEpEtv, riXo? inniStl? xol? SoZatii di’ a pEtrjv. oxi
< 5 £ ov /iovov &6xlv seqq. Schleiermacherus convertit: dass er
aber nicht a Ilein iiber die Seelen der “Menschen w altet in Beziehung
auf die schonen, sondern auch auf vieles Andere and auch in
allen andern Dingen Quæri potest primum, quid sit id,
ad quod, præter pulcros homines Eros in animis hominum
insitas pertineat. Deinde si Schleiermacherianæ conversionis sensum
Eryximachus exprimere voluisset, haud dubium esse potest, quin
dicere debuisset ov /iovov idrlv in\ tat? Tpvxai? xcov av^peoTtcov ctXXd
yioct iv xol? aX~ Xoi? Quoquo modo verba specte*, distorti
quid enuntiationi huic inesse senties, quod deleto xai post rtoXXa
posito optime removeri potest. Verba nimirum per chiasmum explicanda
censeas, nt non solum in animis hominum formosæ iuven— tutis, sed
etiam aliarum rerum multarum Eros in aliis rebus habitare
dicatur. kag SicXla&KL' on 8s ov (tovov Ifiriv ini taig cjivya lg tav
av&Qconav jrpog rov$ xcdovs, dii-cc xal tiqos «AAa 3Coi-i.cc xal iv
tolg ai.i. 0 tg, rolg re Oci^aGL tui/ ndvrav %d>uv xcd tols iv ry yy
tpvofievois, xal, mg fjtog tlntlv, iv nccGc tols ovGl, xa&toQuxtvaL
ycoi 8oxa ix vfjs luTQLxrjs, rijs ryitxiQag TeyvySt wg (dyas xal
&av{ia<St6$ xcd ini ndv 6 fttog ttLvu xal xaz’ B Posses
etiam hac ratione verba emendare: ort ov [IOVOV ini x aiS
ifwxcfis tgjv txvSfjQQitoav xaz 7 tpos xov? JutXuvS', a XX a xal
npo? aXXa noXXa xal iv toiS aXXoiS x. r. X. Hæc olim scripseram.
Sed neutra mutandi ratio nunc placet et omrfSa bene habent, modo Moi
post itoX Xa positum non und sed aach interpreteris. / co?
Eno? elneiv, vide annot* 63- Schol. ' autem hæc verba explicat: gg?
maivExai, cbs iv Xoycp sinetv, addmjue: xovxo dxVM ar ^ £taz Kapa
xois na A aioi? xal cJ s e in st v EnoS xal eo? inoS einetv xal co?
ino? (pavai xal guS’ opavai inoS, Exi dfc xal Sia pia? Xi~ %egoS
ixtpcoveixai, olor goS <pavai xal as slneiv. drpial vei 81 x 6 avxo . ol 8s
<pa(5iv av xi xov co ? <p aiv ex ai xeiC$ai i f avxl xov ooS iv A
oycp e in Eiv . Converterim verba : in den Korpern aller 1 ebenden
Wesen und in den Erzeugnissen der Erde, und, ich vage es zu be
haupten, in alleu Dingen, Adhibentur nimirum verba ilia, ubi
aliquis aliquid dicturus est, quod fidem hominum superare, ipse
sentit, go? ftiyaS xal 6x 6 5. Stallbaumius in his, in quit, ~co? significat nam, quippe, usu
haudquaquom infrequenti. Male. Præcedenti protasi, cui apodosin
Eryximnchus præmisit, altera apodosis additur, alterius
potestatemquæ amplificat et auget. Hæc verborum structura ex
oratorio genere dicendi depromta est. cfr. Apol. Socr. p, 20. C. o t; y
ce p 8 rj nov dovye ov8ev xgov a XXgov n eptxx ox e pov np ay /xax ev
opivov, ixetra xo6avx?j (pqprj te xal Xdyo? yiyovtv, e i /ir/ xi
Enpaxxs? aXXotov rj ol noXXoL Compara cum his verbis Symp. 211. E.
xi 8i)xa, iq>7j,oio[iE§a, sl xod yivoixo avxo x 6 xaXov i8slv
eIXi xptvE?, xa$ a pov, agtxx ov, aXXa /n) dvdnXeaov uap xgov te avSpoDnivGDV
xal XP&p areor xal dXXi)? noXXijS epXvapia? $V7]T7] ?, a A A* avxo xo
Seiov xaXov Svvaixo pov oei 81? xaxt8 Etv, Adde Cicer. Orat, pro
Rose. Amer, e. V, §. 14. Atque ut facilius intelligere possitis,
ludie#*, ca, quæ facta sunt, indigniora esse, quam hæc sunt, quæ dicimus,
vobis exponemus, quo facilius et huius hominis innocentissimi miserias et
illorum audaciam cognoscere possitis et rei publicæ
calamita- av^gajuva xal xara &na jigdyfiaza. ccq^oucu Se airo
rijg Icczgixfjg ktyuv, iva xal ngta^eva(iev zr/v zt%vi]v. 'H yag
(pvGig rcov Oafirczav zbv Sutkovv "Egena zovzov ex,ei. ro yag vyiig
tov tidfiazog xal ro voCovv buo7.oyoviii.vag ezegbv re xal avvftoiov eozi. ro
Se dvopoiov avofiolmv izci&vfiei xal ega. akkog fiev ovv o eztl za
vyieiva egag, akkog 6 e b tjtl ra voOibSei. eCzi Si ), dgneg agzi JIavOaviag
ekeys zoig tem. Huic loquendi generi non adnumeranda sunt
verba Alcib. II* 138. B., quæ sunt, qui corrupta censeant ; sed ut
clarius videas, corruptelæ indicia ipsis nulla inesse, hoc modo
disponenda sunt : ooSKEp TOV OiSlnovv avzlxa (padiv ev&ad$ai xoAxgj
8ie-> A sdSai rd narpifia rovS vleiS’ l£,6v OVTCk) TC OV
TZCtpOYTGDV aVTGJ xaxoov anozpomjv riva tv£,a~ ti$cu, crepa npoS
roiS vitap * Xov6i xaxypdzo. xal ini nav o5£o?. Ne
forte ad SavpadxoS supplendum censeas idriv et scribendum xal cjS
ini nav, tria dei epitlieta sunt: magnus, admirabilis, late potens.
Dicitur cutem ini nav xeivet pro ini nav teIvov idriv vid. annot. 87. Sensus est totius enuntiationis: Dass er
aber uicht blosden See1en der Menschen in Beziehung auf das Schonc,
sonderu auch i u Beziehung auf vules indere auch den anæren
Dingen einwohnt, sowohl den Leibern der gesammten Thierwelt ais den
Erderzeugniss e n and, ich wage es z u sagen, a 11 en nur
vorhandenen Dingen, glaube ich aus der Medi cin, meiner
angestammten Kunst, ersehen zu haben, dass ^ros s nnd wunderbarund ei n flus s
reich auf alles der Gott ist, so in mgnschlichen, so in
gottlichen Ange1eg en h eiten. Ut n(#tro loco ab hominibus ad animalia, ab
animalibus ad mineralia transitur, hæc tria autem verbis comprehenduntur
: ndvra z d ovra, eodem modo in Riædon. 70. D. legitur : prj toivvv
xar avSpGoncov dxonei povov rovro, aWa xal nara Zwgdv navrojv xal <pv
tgov xal BtvWiffidrjv. odanep ix& yivediv, nept navtcov ideafiev, ap
ovzojdl yiyvetat ndvra. iva xal n p ed fiev gdjjlev .
Explicat Schol. ad h. 1. npe— dfiEvcopev npozipeopev, peyaXvYGOpEV.
npEdfieveiv riva est aliquem ut senem venerari, alicui ut seni primum
locum attribuere. Non iniuria Phædrus dixit Symp. 178. B. zo yap iv
rols npedfivrarov slvai [ov]
rifiiov ; Eryximachus autem dicit: ut simul primi loci honorem nostræ arti
attribuamus. Kai enim ita explicandum est, ut proprie verba audire
dicantur: iva xal A eycopsv nepl xovzcdv xal npEdfie.voDfj.Ev x. z.
A. (i\v clyadoig zcdov xaQl&Gftai rtdv kv&qcojt av, roig c di
axolaOtoig alOxgov, ovra xal Iv avroig roig GcSftadi roig fiiv dyadoig exkGtov
tov Ga fiarog xai vymvoig xcdov yaol^iGxTui xai dii, xai rovro iGnv a
fivo/ta r 6 iatQixov, rois di xaxoig xai voGadiGiv alGxQov r e xai dii
dxaQiGrtiv, it iiii.Xu ng nxvixog tivai. tori yctQ latQixtj, tag Iv
xiipaXaia ilmiv, ixiGr^i] rav rov Otoiiurog igamxav nQog xXtjGfiovTjv xai
xivuOiv, Itepor re xal avopotov. Rectissime annotatum est ab
Astio et Stallbaumio, Thierschium frustra scribendum coniecisse
PrzpoY ti xal avopoiov. Nimirum Zxzpov h. 1, non alind sed
diversum est, quæ verbi signi' ficatio non rara apud Platonem, cfr.
Alcib. I. 11 4. B. xorzpoy 81 ravrd i6ri 8lxaia rz xal
<Svp<pkpovra, y erzpa. Adde Piat. Protag. 833. A. notepov Xvdcopev rcJ v Xoycoy; ro fy M juoror
Ivavtiov zlvai, y ixetvov, iv cp iXkytro at ep ov etvai
daxppotivvyC do<pia : xal irpoS rep trzpov zlvai xal
avopoia x. r. X. xaXov x a pineti Sai tgoy txvS pant oo y.
Verba rdov ay SpconcoY seiuncta snnt ab iis rerbis, e quibus pendet rolS
p\v ayaSoiS, ut pondere augerentur. Huius exemplum structuræ
verba aunt 178. C. o ydp XPV av~ $pG07toiS yytZ6$ai nayroS
rov piov rolS pkXXovdi xaXcuS pia$<5e<5$ai x.r.X. Urgendum
autem prounntiando est tgjy dySpeoTteoY ideo, quod, cum Pausanias
in hominnm tantummodo animis dixisset Erotem versari, Eryxixnachus
contra etiam in corporibus habitare deum narret, indicandum erat atque
demonstrandum auditori, quibus modis ab illius oratione medici
oratio, diflerret. xal rovro Idrtv gj uvopa ro larptxdv h. c.
und darin besteht das Wesen dessen, was wir das Medicinischo
nennen. Prorsus eodem modo 185. B ovrco nccynoS yz xaXoy apztyS y Zyejicc
xapiZe6$ at. Ovr 6 S itirtY 6 fijs OvpctvictS SzoxPEpaoS xal Ovpd YtoS X
. T. A.’ Ad ea, quæ insequuntur, apte laudatur ub interpp. Hippocr. De
morbo sacro sub Cu. Xpy py avZziy
r d vov6ypara, aXXa <5 iczv8ziy rpvxztv, 7rpoS<pzpovtaS ry yovCco
to' itoXepicoraroy kxatfry, pt) r 6 epiXoy xal 6vvySZS * vn 6 ptv ydp
T7/S' CvYijSEiaS SdXXzi xal aij&z-, rai f vito 81 rov noXzplov
<p$lvzi xal apavpovrai . %6rt ydp larpixy. Hippocr. de flatibus
: r d IvavricL rc oy irarrloav itiriy Irjpara. larpixy ydp
i<Sn xpoCSeCif xal d(pa{pz(itS‘ dg>aipzOiS plv rooY v 7f
zppaXX oYroyy, 7tpo6$f6iZ dlroor iXXzin ovrco v' o Ss xdXXidra rovro
noizcov apitiroS lyrpoS. Articulum ne desideres, omittitur, ubi per
se positum spectatur nomen, cfr. Piat. Lach. 191. c. 18. rovro r
oiyvv alriov iXeyoY, das also 9 130
riAAT&NOZ xui 6 Siayiyvmoxav iv zovzoig zov xakov re xal
D aioxQov " Egaza, ovzog lottv 6 lazgixdzazog' xai 6 jitrajidlkuv noicdv,
dgze dvri zov tzigov "Egeor og zov tregov xzrjOtta&cu, xal ot<j
[irj bveOuv "Egcog, dii <5’ lyytviafrcu, IxiOzo^itvog i/XTeoiijOai xai
ivovra ifcksiv, aya meinte icli mit dem Worte altiov. Alcib. I. 133.
c. 57* o 87 } xal xo pijv xaXovjtev : Was wir auch mit dem
Worte xop7j bezeichnen ; Symp. 196* C* civai ydp opoXoyEitai
6a><pp 0 6VY7J tO XpOLTElY IjdoVGJY xal iirt^vjiuav, dcun unter
der Be/.eichnnng: 6coq>po6v V7j wird allgemein yerstaaden
Itaque hoc Eryximachus dicit: Es ist namlich, was wir * iatpi X 7/
» neunen, der Hauptsache n a c h cet* xal o diaytyvcSdxcov iv
tovtoif. Difficillimam esse atque gravissimam morborum e symptomatis
petitam cognitionem, quam diagnosin medici vocant, iutelligunt etiam ii,
qui artis medicæ imperiti sunt* xal 6 yi Et a ft aXXeiv
not djv. sc. td i porrixa tcov (jayiaTCJV j hinc post cJsre supplendum
est td tioopata. Cavendum est enim, ne quis tov £T£pov subiectum esse censeat
enuntiationis» Quæ sequuntur verba a xai incipientia, præcedentium verborum
explicationem eflicinut. Sensus est : Wer die Neig u «
gen der Kdrper so umaodert, dass sie anstatt der einen Neigung die
andere erlangen d. h. wer es verateht, Korpern eine Neigung
einzupflanzen, die ihnen nicht einwolint, aber ihnen c i n w o hnen muss, und
die einwohnende, die nicht einwohnen darf, heraus zu treiben, iitidtapEvoS
i/iTtoiif 6ai xal ivovta IB,eXeiy. > Quod de
duplici Erote hic dicit Eryximachus, Socrates de morbo profert in
Piat, de rep. I. 333* E. ap * ovv xal vodov o6tiS 8eiyoS <pvXatia65ai
xal ptj Xa~ $etv, ovtoS deivotatoS xal iyutoirj6ai, quem locum
interpretes propter xal jutj XaSeiv verba vario modo sollicitarunt.
AaSeiv,
quæ vulgata lectio est, rectissime e duorum codd. auctoritate in TtaSitv
mutaverunt. Non est autem assentiendum Stallbaumio xai ante pnj TtaSetv
delenti. Nodov <pvXd%a6$ai positum habes propter antecedentia :
ap * ovx o natabat SeivotaroZ iv pdxy ritE nvxtixy tltE tivl
xal dXXy, ovtoS xai <pvXaB,aOSai, quæ si non præcederent, pro
<pvXd£,a6$ai Socrates alio verbo usus esset, quod cum YOtioS
nomine melius consociaretur, Veritus autem, ne quis yotiov tpvXdgatiSai
non satis iutelligeret, accuratiorem explicationem verborum statifei
addidit, quæ in verbis xal yirj TCo&EtY continetur. Kai igitur explicativum est, atque hoc est, id est, significat.
a y aS 6 Z dr 8 tj p tov py 6 i. Ad 8 yfiiovpyoS
Stallbaumius i .e. ttog 'Sv rft] drjiaovQyos. SsT yag Si/ rn SjftuSut
mna iv tcj Softari fpD.a olov t ilvcn noteiv xal Igiiv akfo)>.av.
?< ito lybiOta tcc Ivavxudtara' 4 'vzqov itio fio), zixgdv
ykvxtl, $>]quv vyQtjj zavra rcc roiccvra. roinoig • ime uj9elg
"Egma iyzoiijeai xal oydvoiav d TjfikcQog E inquit, iarpof. Sed /admodum
hæc verba languerent, si præcedente superlativo sequeretur dyaSoS larpof.
Eryximachus ab artis medicæ theoria ad praxin transit ita, ut, cum
larptxuraror appellasset eum, qui malum et bonum Erotem in corporibus
dignoscere posset, aya J3oV drjpiovpyor practicum medicum vocet, qui medicina
adhibita malum Erotem e corpore removere, bonum in corpus immittere
possit. <pi\a olovr elvai notat v xal i par aWijX&v
. Sublatum discrimen vides in Eryximachi oratione, quod intef (piXt~ir
t <piMa f q>i\o$ et Spei S*, ipdr exstare supra annotavimus p.69,quibuscumcf.annot
p.lS2. Docemur autem hoc exemplo, qui Hat, ut vocabulorum significationes
vergente ætate sæpius immutatæ sint. Verba nimirum quasi
alSaXa sunt cogitaudi rationis, quæ ratio ubi mutatur, corrumpi necesse
est atque perverti verborum significationes. narra rar otavr a.
Wolfiu* asyndeto offensus xai ante narra ponendum coniecit. Possumus nos
quidem in eiusmodi dictionibus copula non carere, qua propter
Schleiermachenis ia conversione und a lies dergleichen exhibuit.
Verum non solum Græci sed etiam Romaui copulam omisere,
quippe efficatius eo indicantes, verba narra ra rotavra
eiusdem potestatis et iuris esse, atque præcedentia, quæ dOvrSercjS
enumerantur, exempla, cfr. Gorg, 503* E. olor tl fiovhet idatr rovS
ZwypaqjovZf rovS oixodo povS f rods* ravnrjyovS, rov£ dXXovS ndrraS
SrjpiovpyovS ortiva fiovXai avrdUr. Demosth. Orat, pro corona c. 74.,
quem locum Stallbaumianæ industriæ debeo: para ravra
dvdrdvroov olf ?}r impeXlS iph xax&S notetv, xal ypacpds,
tvSvva?, tlsayytXlaS, narra rotavra inayovrt&r x. r.
A.Verba mxpur yXvxti a sciolo quodam addita censent, præsertim
quum in nostri loci repetitione non reperiantur 188. A.,
Astiua Stallbaumius, Riickertus. Atque Riickertus quidem, quatuor hæc,
inquit, frigidum, calidum, siccum et humidum t sæpius in
corpore esse diversasque eius mutationes procreare dicuntur : at
ntxpoV et y Xvxv in corpore huntano quid sibi Velint, non intell
igitur. Accedit, quod injra p, 188. A. ipse E ryx irn achus
repetens huius loci dicta cætera enumerat, haec omittit . Cavendum
est, ne quia his assentiatur. Nimirum 188. A., ubi nixpor yXvxal
verba non reponuntur, ne poterant quidem apte poni, quoniam anui
mutationibus, de quibus illic sermo est, neque cum acerbo neque cum
dulci qnicqunm commercii XQoyovos 'Aoxkijjuoe t <Zg <pa6tv
oTSe o i xoiijtcu xal iyu mi&ouat, 0vvt<Sti]6E rr/v ijfUztQav
ze%vt)v. est. Nostro contra loco verba i['t'Xf)6v Seppry, itmpov
yXvxtt, Bypov vypcp, Ttavxa rd xoiavxa nou corporis conditioni
describendae, sed explicando inserviunt praecedente verbo xa
ivavxiaoxctxa. Sensus est totius enuntiationis ! Er muss namlich das Feindlichste
ira K d rper sich befreunden lasse n u n d zu gegenseitiger Neigung
umstimmeu kdnnen. I c h verstehe ab er «n ter dem Worte iv av xt cjxaxa
(ride anno't. 129.) dic reinen Gegensiitze: kalt und warm, bitter
nud suss, trockan und feucht, und alles dergleichen* Ceterum
ne quis forte putet itavxa xa xoiavxa verba rectius poni, ubi duo
exempla aliata sint, quam ubi tria posita repenantur: legitur in Piat*
LEONZIO (si veda)., quem locum Heiudorfius laudat. D. ixitopi&w, iar
plv xeivy xa doipata yjpcov, dixia idv di fnyco, Ipaxia, dxpGopaxa,
vxoStjpaxa, aXXa, gjv epxsxai CoSpaxa eis imSvpiav. Dubito autem,
num reperiatur locus, in quo duobus tantum exemplis laudatis zdvxa
xa xoiavxa, dXXa t simileve sit positum* zovxoiS Itci dxtjS
e/f seqq. xovroiS ad tu ivavxtcdxaxa referendum est, non ad singula
xoov iyavxiooxdxcDV exempla, quae non nisi ad explicandam
vocem xa ivavxuoTaxa apposita sunt. E p coxa i pno irj d ai
xal 6 pov oiav . Supra iam annotatum est ad verba cptXa olov x
iivaixal ipdv dWr/Xcjv, signi» beatum verborum (ptXelv et €pav
t <piXia et £poj£, similium, in Eryximachi oratione prorsus
mutari, "EpeoS igitur nostro loco nihil alind siguificat, qn
<m rerum sibi repugnantium concordiam. Huius nominis vim ipse
Eryximachus additis xal 6 povoiav verbis declarat, ubi xai rursus
explicativum est: Liebe d. h. Einklang. Si quaeris autem, cur
amandi verbis •> nominibusque Eryximachus utatur, memineris velim,
laudandi Erotis cQUssa orationem ab Eryximacho haberi, atqna eundem
statim ab initio orationis suae ita censuisse, ut etiam artes ab
Erote regi atque per cum esse contenderet, cfr. infra 187* C. xi]v
81 opoXoyiav nadi xov zoiS, GjS7tEp ix£i rj ieexpim }, lvzav$a j/ povdix? }
IvxiSrjdiv, *EpGDxa xal 6 povoiav aXXijXoav ipxon'/dada.
o?8e ol TtoiTjtai dicitur propterea, quod adfuerunt Agatho et
Aristophanes : wie die Dic hterzunft da behauptet» Testantur autem
poetae, Aesculapium medicorum npoyovov esse: artem medicam euudem
constituisse, ut qui res in corpore contrarias sibi conciliant, non
testantur. Igitur minus apte verba Schleiermacherus convertit :
Dass diesen Liebe und Wolwollca unser A h n herr Asclepios einzuflossen
verstand, dadurch hat er, wie die Dichter hier sageu und ich es
glaube, unser e Lunst gegriindet. ”H te ovv laxQMTj, <og
itEQ liya, ituOa dut TOV 9eov tovtov 'xvfiegvutai, agavrag 6'e xai
yvfxvaOttxlj 7f' t s ov v lar pixr}, o)S 71 £ p Xiy cd seqq. Si
scriptam exstaret rj x e ovv latpvkr}, cofnep Xiyoa, nuda. dia xov
$eov tovtov xvfiepvaxai xai yvpvatitiXT] xai yeoDpyia, nihil esset, quod
lectorem olleuderet. Nam et medica ars, et gymn.<stice dicerentur
atque agricultura dei ope gubernari. Accedentibus verbis coSccvxcdS
di, manente Te particula, dicendi genus eilicitur, quod certe minus
usitatum est. Non nescimus quidem, xe di sibi respondere
saepeuumero, sed tum scriptum exspectamus : i/ xe ovv iaxpixi] ....
xvpepvaxai, yvptatixixi) xai yeoipyia GjSavTGoS. Huc accedit,
quod post xi Graeci scriptores di «on admittunt nisi in rei, quae
praecedentem gravitate superat, commemoratione, ut Lutiue convertendum sit: et
vero, et vero etiam. Ea gravitas nostri loci verbis convenire
frustra docet Stallbaumius ad Piat, de rep. II, 367. C. Cave tamen,
quicquam mutarum censeas. Eryximachus in^Hae structurae oblitus, quasi
dixissset ?/ /ikv ovv principio enuntiationis, coSaiixcoS di dixit.
Vide de piv ovv di voculis annot, 23.
Alia ratio verborum est Piat, de rep. III. 494. C. iv xe xy
xmv &K& v x oirjdei itoXAaxov de xai a\Ao$i, ubi plus
ponderis in altera] enuntiati parte est, quam in altera, ut ti * di
apprime respondeat Latinorum cum tum. Adde Piat, de rep. VI. 489. C. ix di xoivvv tovxqov xai iv
xovxoiS ov fiadiov evdompelv TtoXv dfc peyidxy xai Idxvpoxdxtf
dtafioXrf yiyvexat xy tpi\o6ocpioc x. t, A. wSitep A iy<a.
Praesens tempus A iyeiv verbi de sententia loquentis valet,
praeteritum ad praecedentia eius verba lectorem revocat cfr. Apol.
Socr. 17. B. ovxoi piv ovv, cofnep iyco Ai^or^ut mihi videtur)
y xi y oidlv aXySl* elpi]xa6iv. Adde Symp, 221. D. ei ^ prf
apa oh iy oj A iyoo diteixa^oi TiS avxpv . yv pvatix ix?} xai
yecop yia . Articulum haud raro omitti in artium nominibus,
Schaeferus, Ileindorfius, alii docuerunt. Nostro quidem loco eum omitti
eo magis etiam mirum, quod antecedit fj TE ovv iaxpixi] . Si quid video, non piomiscue veteres artium nominibus aut
addiderunt articulum aut demserunt. Addidisse videntur, ubi de re sermo
est, quae omnibus nota est, vel qbae definitione praemissa nunc innotuit.
Demseruut articulum, ubi de re nondum explicata, aut in universum
de aliqua re dixerunt. Nostro loco artis medicae definitionem
Eryximachus dederat in superioribus, ut de huius artis natura certiores
facti auditores intelligerent, quomodo per Erotem ars medica
dicatur gubernari. Hinc iaxpixi ] verbum articulo insignitum est
utpote definitum atque notura, non insignitae sunt yvpvadtixif et
yecopyia, quotam uon explicatae sunt atque accuratius de-finitae: Die
Arzncikunst nua wird mei ner Ansiclit nacli gunz dur ch diesen
Gott 187 xul yeagyiu. fiovGix!/ de xal navxi xurciSijAog ra xcd
Gfuxoov oJtqogtypvti zov vovv, ori xazct zavza lyei zovtois, ogneQ iGcog xal
'IlguxXei zog (iovXerca Xtyiiv, g f 1 e i t e t, ani gleiche
Wcise auch das, vas Gymnastike und Georgia g en u n n t wird. Ceteram
Sydenliainium audi laudatum a WolGo; Per E u d z w e c k der Arzlieikuust
i s t Gesundheit, und der GymnastikStarke des Korpers. Ab er in deu
Mitteln, lvodurch b e i d e K u n s t e ihren Ziveck zu erreiclien
suchen, indem sie der g u t e u korperlicheu Anlage uachgeben, und
der schlechten e n t gegen liandeln und sie verbessern, sind sie ei nande
i- ganz aualog. So hat auch die Eigenschaft des Bodens Analogie mit
dem Tempcrament des Kdrpers und die vershiede*? lien Gattungen von
D ii n gung mit deu Nahrungiund Anzueimittelu* Eia guter Boden
gewinnt durch eine homogene B e handlung, ein schjechter wird durch
eine entgegenr gcsetzto Bchandluugsart bosser, und iindert se i
ne Icatur. Was iibrigens die M etaphcr von der L i e b e
lietfifit, so brauclit mao diese in d e r Land wirth-r"
scliaft auch h e u t zu Tage* Auch wir sagenreinBaum, einePflanze
liebtdiesen, 1 i e b t j e n Boden. naxa tavxa £xet xovXoiS h. e,
arti medicæ et iis, (|uæ gymnastice et georgia appellantur. Pe xaxpc præpositionis
significatu vide annot. 41. Paullo infra eodem modo 187. E. xal iv
pov6ix\ \j 6t) xal iv iaxpixy Xal iv xoiS p:AA oiS itd6i sc. artium
nominibus sive terrestrium sive divinarum. cjSirep iticoS xal
'Hpa~ x\f ix o S. Heraclitus Ephesius Ut morum asperitate, ita
orationis dura quadam obscuritate insignis, Schol. ad Piat, de rep.
VI. habet 'HpdxXeiroS, BaSiurvoS, 9 EcpeOioSy pef'QtA.p<ppGDV yeyovwS
xal v7tepo7txrjS Ttctp oyxiyovy. Orationis obscuritas cum ex brevitate
quadam dicendi, tum e neglecta singularum orationis partium iunctura orta est,
ut Aristoteles narrat Rhet. III. 6. Videtur ea ipsa de caussa Heracliti
oratio cum maris fluctuatione comparata esse, qnæ cum innumerabiles undas
exhibeat, ut sententiolas illa, neqoe finem neque initium undarum discerni
patitur. Lectorem igitur Heracliti, ne mole seutentianyn quasi
fluctu undarum immergatur ( fl? xd p?} (tnojtviyfjvai iv avfcS),
djjXiov XoXvpfit/TTfv esse debere Socrates censuit, Ut quqsi
brachiis validis, fi. e. interpunctione posita, continuum tenorem
discerneret ac disiuugeret verborum, jJtjAioi XoXvpfirjxai
celeberrimi erant plurimumque natando pollebant, vide Wachsmuths
Alterthumsk. II. 1. p, 404., qui laudat piog. Lært. %y 22. 9,
11, Ipterpunctionem omissam, nop verba ipsa obscuritatem illam effecisse,
ut clarius appareat, fragmeptum laudabo Heracliti, quod in dissert.
txel tois ys QTrj/iuatv ov xaAw? Atyfi. ro Sv y«P, qn]al, StawEQo^ov avrb
«fap tvficpiQSO&ai, &&*<) ««f/ V iav roiov re x«l fi»» S'e
™AA>7 aAoyt'« «r de Samo -Thraces nnminibns explicare studnit
Schellingios: iV to dorpov povvov MyedSai ovx tiitet xal i&fAtt
Z)/ro? ovopa.
ro i \y yap, <pi]di, Statpep&pevov seqq. Caute distinguendum est, quid Heraclitus o CxuzilvoS his verbis
exprimere voluerit, et quomodo Kryximachus eius verba explicaverit. Medicus
nimirum de musica loquens verba illa laudat ita, ut non nisi de re
musica dicta intelligeret, i. q. ex additamento perspicitur, quo
Siatpcpd piva explicat 187. B. rov o Sio s xal ftapioS atque
e subiecti mutatione. Appoviav nimirum reo ivi Eryximachus substituit.
Heracliti autem voluntas hæc videtur esse: Das Eins ist in sich
selbst entgcgengesetzt Eins, wie die Eiuheit des Bogens und der Lyra h.
e. das Eins ist nicht absolut Eins, sondern momeutan zusamrængeseut
aus Gegensatzeu, wie die Eine Kraft des Bogens (Schuss)
momentane Verschmelzung ist xwreier Gegensiitze, oder der
Eine Klang (Accord) der Lyra momentane Verschmelzung mehrerer Uissouanzen.
Non recte autem, ut videtur, 'interpretes to fV totam rerum
universitatem significare censucruut, neque recte Simplicii
testimonio ntuutur ad Aristot. Pbys. 11» A. iveSeixwxo Si (sc.
HpaxXtiroS') ti}v iv ty ytvidu ivapfioviov piSiv tuiv ivavuurv, quæ
senteutia ex enuntiato illo derivata est, atque eidem, tan quam in
basi, innititor. Probatur hoc Plutarchi testimonio Do animi procreat, 1026.
^B. 'IIpdxteiToS SixaUvxponov appovhjv xodpov, oxgdS xep AvpijS xal
ToSov. Erostra autem in dicto Heracliteo aliquid mutandum censuerunt
Astius, Bastius, alii. Ad Hcracliteæ dictionis exemplum supra laudatum ut
revertamur, videtur Schellingio interpunctio ponenda esse post
ovxiSiXei; nobis hæc verborum dispositio placet: ir 10 dotpov
povvov AiyedSai ovx ISitei xal l$i\n ZtjyoS ovopa. Absolut Eins ist
nur das W e i s e, Absoluta unitas nostræ rationi repugnat, eam
repugnantiam ita expressit Heraclitus, ut diceret: es will nicht
und will Eins genannt sein der Name des Zeus. Audi Goethii
nobilissima verba, quæ similem rationis repugnantiam felicissime describunt
AVer darf ihn nennen? Und wer
bekenncn: Ich glaub’ ihn? Wer empfinden Und
sich unterwindcn Zu sagen; ich glaub’ ihn rycliU.
yiyovcv V7t d TrjS pOVdtxijS tixrV*- Vulgo additur V dppovia, quod
additamentum per se spectatum non_ habet, quo offendat. Sæpius enim
subiectum e præcedentibus repetitur, non tam augendæ gravitatis caussa,
quam perspicuitatis. Sed non agnoscunt nostro loco XXI. codd. 7/ dppovia
verba, fioviav ipdvca SiaiptQfGftai jJ ix dtatptgofilvav $n tlvcu.
aX£ 1'aag toSe ipovksto Xiyuv, on ix diacptB gofiivav xgotegov, rov 6 |eog xal
ftagtog, 1'xuru vOteqov onoXoyrjedvrcov yiyovev vito zijg (lovaixrj g
xi%vrfi, ov yag 8g xov Ix Siaq>sgo[iEvav ye izi tov oj-iog xal fiagiog
agfiovla av ity. rj yag agfiovla evfupavla lari, Cvfupuvla ds ofioXoyla
zig' f>(ioXoyiav ds Ix Sux,<pego[isvav, sag av Siacpigavzai, advvarov
tlvai' dta(ptgoiitvov ds av xal firj ofioXoyovv advvaxov uQuoOai.
igitnr cnm Bekkero, Stallbaamio, Rukkerto delenda curavimus. De
verbis insequentibus ov yap 8tf nov vide annot. p, 85 et 98«
rj yap ap povia* Bene Schleiermacherus in conversione: Denn
Harmonie ist Zusammenstimmuug, Zusammcnstimmang aber Eintracht; Eintracht
aber kann unter entzweitem, solange es entzweit ist,
nnmoglich sein ; und das entzweitenicht e i n t r a c htige kann wieder
unmoglich ausammeiutimmen, dZfnep ye xal 6 fivSpof* 8ensus
est verborum : quemadmodum, ut hoc unum exemplum commemorem, rythmns. Indicat
igitur yk particula, plura exempla afferri potuisse, quibus res
probari posset, unum sufficere, vid. annot. 8ievrjvey pkv wy
xtpoxepov. Ante 8 levrfveypkvoov omnes \ fere codices ix præpositionem
habent, quam cum tacide omisissent interpretes, Riickertus solus exstitit,
qui in verborum ordinem revocaret. Sed dubito, num aliquo modo excusari
possit. Aut repugnandum est codicum auctoritati, atque ix e verborum
or $ \ a dine tanquam inutile additamentum
expellendum, aut scribendum est ojsxep ye xal 6 /5uSpoS 6 ix tov rorato?? xal
fipa* 8 ioS, ix 8 iEV 7 ]ytypkvojv itpoxepov, vtixepov 61
6po\oyrj0dv toov ykyovev. In sequentibus codd. non pauci
habent "Epasta xal opovoiav aAA^Aozf, quæ lectio unde orta
sit, haud difficile est ad intelligendum. Nimirum scribæ seducti sunt vicino
ipnoieiv verbo, ut dativum pfo genitivo exhiberent, quem nunc novem
tantummodo codd* exhibent. tyAozf autem, ut et Riickertus vidit,
non satis commode explicari potest; aut igitur «AAr/Aiwv scribendum
est, quod in textum recepimus (de ipnoieiv vid, annot.) aut exhibendum avxoiS y cuius vocis ne unum quidem in codicibus
vestigium apparet. xal iv pkv ye ctvty ty 6v6x a 6 et x, r.
A, Stallbaumius ad h. 1. annotat: Jn ipsi* rationibus musicis, h, a. in
harmonia et rhythmo t nullo negotio ait cognosci et animadverti
posse X a i p a) x ix d, h. e, quæ sint consona et congruentia :
simplices enim illas esse et quæ non patiantur discrepantiam aut diver-
t s itate m ullam i sed in usu et ex r a' /
&gitzg ys xal o $v&[wg ex zov ta% zog xal (fgadzos
dievtjVCyfiBvoiv itgoxzgov, v6zsg ov 5 e of loloyrjOdvzav yt- c yovs.
rrjv SI ofiokoylav ituOi zovzoig, agxf g IxeI fj latQLxrj, lvzav%a y
(lovtSixrj EvrlftrjGLv, "Egazu xal 6ftovoiav akkrjkav l(i]tou]Oa<Sa'
xal lazw av fiovtSixt] nzgl agfioviav xal gv&jj-bv Igertixcav
Imazyfirj. xal Iv fitv ys avxy rjj tivOzadEt. agfiovias te xal
gv&fiov ovdev Xakenov ra iganixa Siayiyvbi6xuv, ov Se 6 SiTtXovg
'Egag ivzccv&u ncog ttinv’ ak£ inziSuv Sky itgog z oi>s
dv&gwercitatione musices -plurimum in ter esse, quo modo illis utaris,
atque hic cerni vim duplicis illius Amoris, coelestis et vulgivagi* Mira est
sententia, fateor : sed non sine caussa Eryximacho tributa* Ineptit
enim nunc acerrimus iste Heracliti cavillator adeo, ut propter inanem
illam sophistarum imitationem misere vapulet . Perperam igitur
Schiitzius hæc : ovSh 6 $iit\ov S *E p oo S ivi av$ a irtuf idtiv
delenda iudicavit. Isimirum non intellexit vir acutissimus hominis
ineptias. Non rectius Platonis verba Schleicrmacherus interpretatas est io
eonvers. 408. Und in dem Aufstellen des Wollautes und des Zeitmaasses
selbst ist es wol nicht schwer, die Liebesregungen zu
erkennen, noch findet sich hierin jener zwcifache Eros. Hoc si
dixisset Eryximachus, merito vituperaretur» at vituperandus
est Riickertus ad h. 1, annotans: Ego nescio, quo hic stupore
tenear, cui, ut ineptias videam, plane non contingat. Nihil mutaudum
est, neque quicquam e verborum ordine expellendum, sed rectiore
explicatione opus est enuntiati, quam a nemine hucusqde repertam esse
miror. Verba nimirum ovSh o 8in\ovs"Epoo$ iviccvSci
yrooS 1 idtiv elliptice posita 'sunt, atque supplendum e præcedentibus
est £tfA£7roV. Mens Eryximachi hæc est: In derblos schematischen
Aufstel1ung der Harmonie und des Rhythmus ist es nicht schwer, die
erotischen Elcmente zu erkennen, noch macht der zwiefache Eros
'hier irgend Beschwerden. Quæ sequuntur, optime cum hac verborum explicatione
conveniunt. a\X' iiteidav 6iy itpoS rotis 1 ctv$ ptortovS x.
r. X. Schleiermacherus exhibet in conversione: Allein wenn man vor
den Menschen Wollaut und Zeitmaass in Anwendung bringen soli; quæ si mens
fuisset Eryximachi, scripsisset haud dubie iv dvSpooitoiS. Ficinus
non satis explicate, sed Schleiermachero rectius, ut videtur, verba
interpretatur: sed tunc demum, cum ad alios rhythmo et harmonia est
utendum. Nobis Eryximachus de rhythmi' atque harmoniæ usu eo loqui
videtur, qui hominum utilitati inserviat. Rectissime Matth. Gramm.
plen. J. 591- 1180. seqq, ita de ifpoS
præpositionis potestate disputat, ut D jrovg xara-/Q^<S^ca Qv&fiai
te xal ccq/iovm tj noiovvtu, o &rj fuloTtouav xcdovtiiv, rj
%qc!>hsvov 6q&(5$ roig 7iejro»;fi£votg ( uiketii re xal fierpoig, 3 bi)
ncudeia Ixlq&rj, Ivrav&cc dt] xal %oÆnhv xal dyct&ov
SrjfuovQyov dei ncihv yuQ ijxei 6 aviog loyog, o« rofg n'tv
xodfiioig plerumque dxoftEiv verbi notionem loquentia animo
obversari diceret. Possis igitnr nostro loco 7 t poS TovS
avSpodirovS Græce explicare: itpoS ti/V xgjv av Spamwv utpiXeiav
dxoitovvtfc. o 81 } peXoit oit a v x a Xov 6 iv . His verbis
exemplo usas est Mattii. Grarom. plcn. §. 475. C. p, 891», quo
probaret, pronomina relativa iu explicativis enuntiatis haud raro
ad præcedentium nominum genus conformari. Interdum ad sequentis nominis genus
effingi pronomen, notissimum est. Utroque dicendi genere, quorum
alterum accuratius, alteram elegantius est, Latini quoque usi sunt Vide
sis Kriiger, de Attractione Lat. Liug. $. 56. 129. o
Si) TtaiSeia cfr. Piat, de rep. If. 376. E. c. XVII. TiS ovv ?}
naiStla ; T/ x a Xt7t6v evpeiv piXtico ryS vito tov noXXov xpovov
EvpijpEvrjS; i.6tt Se 7tov 7 } p\v ini yv/tvcttitix?/, ij 8 ini
vxf/ povdVHjj. Adde de 7tai- StiaS notione verba Waclismuthii in
libro; Hellenische Alterthuraskunde Th. II. Abth, II. 4. Recte ad h. 1.
Riickcrtos, Omnis, inquit, institutio liberalis apud Græcos duas
habebat partes, y v/iv adnxijv et povdixijv, quarum illa ad corpus
pertinebat, hæc ad animi culturam, atque in poetarum maxime carmi nibus
legendis ediscendisque versabatur, addita sonorum modorumque arte . Ceterum ne
offendas in temporis mutatione, cum supra o 81 } xaXovgev, nostro
loco o 81 } ixXy&rj dicatur: illud est: vias man nennt; hoc
significat: was man gewohnlich nennt s, Mas man zu nenuen pflegt.
ivT otv 5 a 87 } xotl £aA£7 t o y x. r. A. se. ta ipootixa 8
iayiyvoS 6 xeiv. Scriptum exspectabam equidem ivxavSa 81 } xat goAaroV,
ut ad verba respiceretur ou<$£ o SiicXovS EpoiS ivravSa ncoS itirtv.
Nam ro SiayiyvGjdxEiv theoriæ, quam vocant, ut medicæ (vid. 186.
D. init,} ita poeticæ artis couvenit. Nostro autem loco non de theoria
poeseos sermo est, quam Eryximachns tetigit verbis iv piv ys avty
ry dvdraCEi X. T, A., sed de eius usu hominum utilitati accommodato,
ut haud sciam, an non et aliis probabilis videatur verborum conversio hæc:
Aber weun man Rhythmus und Harmonie zum Nutzen der Men&chen in
Anwendung bringt, da macht der zwiefache Eros grosse Beschwerde,
und es bedarf eines tuclitigcu Pruktikers. naXtr yap yxei 6
avroS X oyoS, Riickertus ad Pausaniæ verba liic respici docet,
quibus præcipiatur: iis tantum AMATORIBUS obsequium præstanziov
av&Qwxmv, xal ag ccv xoafueyzeQOz ylyvoivro oi (hjjtm ovze g, Sei
xaQifea&cu xal (pvXctzzuv zov zovtav "E(iaxtt, xal ovzog i6ztv b
xaXbg, b Ovquvios, b rijg OiiQavlag MovOrjg "Egcog 6 Se Ilokvfiviag,
b IlccuSt]- E ( tog, ov Sei evkaflov[ievov TZQOgtptguv otg «v
TtgogqiiQij, dum esse ab amasiis, qui et ipsi virtutem
colaut, et ad eam colcudam amasios adhorteutur. Hioc factum, ut
Eryximachi contortiorem censeret et obscuram et subineptam orationem.
Certissimum est autem, præceptum medicorum ab Eryxiraacho tangi,
quod legitur p, 186. C. lv ctvrolS tols 6oopaoi, rols ply dyaSol?
ixddrov tov dooparoS xal vyutroiS xaXov x a ptfe6$ ai *dl xal tovtq Idxiy
y co ovopa tu laxpixuy, %oiS 61 xaxols xal YodcoSedty fddxPOY re
xal 6ti dx<xpidT£iv> ei yeXXei ris texyixoS. elvai. Mens
Eryxituaclii hæc est- ut illic medicus corpori, ita nunc poeta sive
magister consulere debet animo ADOLESCENTIUM, atque bene moratis, et quo
liant meliores, ita prospicere, ut nulla res, cuius laude corrumpi
possent, laudetur, o trjs Ov parias Mov-r 6t]S "E paS .
Hæc verba cave ad præcedens "Ep&ta verbum referas.
Pertinent potius ad ro Xapi&dSat et x 6 cpvXdtTEiv, quæ nomina
e prægressis facillime eruuntur. Ov%oS autem e generis haud rara
assimilatione, de ‘qua vide annot. 129. positum est. Sensus est :
Gutgearteteliinglinge zu beriicksichtigen und ihre naturliche Neigqng zu
bewahre», darin besteht das Wesen des Eros der Urania* Vide etiam
auuot. 126. o' Sfc TloXvpviaS. Poly-, hymniam Musam cum
Pandemo Aphrodite comparari ab Eiyximacho nemo non videt. Iam quæritur,
quo iore id fiat. Polyhymnia vulgo cantuom multitudinem sili i fica t;
possis igitur ea de caussa illam comparationem institutam putare,
ut cum AMASIORUM multitudine, quæ a Pandemi asseclis ametur, illa
carmiuum multitudo comparetur. Possis etiam, quæ Riickerti sententia
est, ita judicare, ut numero abunda ntiora rarioribus viliora censeas.
Neutra explicandi ratio nobis nunc placet, neque credimus, Polyhymniam
nostro loco carminum multitudinem denotare. Agitur de Jiarmoniæ atque
rhythmi motatione, quæ iusto sæpius in carminibus admissa TloXvpviaS nomine
insignitur. Ut igitur Ilar6)jpov asseclæ ab uno amusio ad alterum
transeunt, non virtutis, sed LIBIDINIS ergo, quæ e varietate amatorum
oritor, ita poiitæ, asseclæ llav6i)pov, qui HoXvpviaS £,vvtpy6$
est, siguificautur harmoniæ atque rhythmi varietatem captare, aurium,
non animi oblectamenta. npoScpipEiv oU dv 7tpos~
(pepXJ. Vulgo male olS ar TtpoSiplpoi. Minus accurate hæc verba Ficinus reddidit ! cui summa cautione
indulgendum est, ut voluptatem quidem homines hauriant, incontinentiam
vero devitent,, Sensus est: quem, qui*? 1 twreg av zyv /xev
ySovyv avzov xagjtd<S7]zai, dxoluclav 6e (lyStfiiav tftsronjtf}/, tog xtg iv
ry yy, triga xi%vy fiiya 1'gyov raig jitgl z yv oiponouxyv ri%vyv
imftvfitaLS xaXtag XQyOScu, togr’ ctvtv voOov zyv ydovijv
xagnddao&a*. xal iv yovOr/.y Sy xal iv lazgixy xal iv rotg ctlXoig
ndai xal roig dv&gaittiotg xal _ toig &tiotg, xu\r' ot Sov
Jtagdxti, tpvXaxztov ixdztgov xbv’'Egcoxa’ 188 ivtazov yug. bus
adhibetur cunque, magna cum cantione adhiberi oportet, nt suavitate
quidem eius fruatur, qui eo ntitnr vel poeta, vel lector, sed
turbas devitet atque ordini* corruptionem. Harmoniæ autem atque
rhythmi commutationes legibus artis poeticæ probantur ita, ut paucis quibusdam
in locis, quibus conducere possint, modice admittantur v. c. in
exprimendis animi allectibus. Iu sequentibus ad xapjtGjdrjxat
pronomen indefiuitnm subintelligendum est, qnod et ad poetas et ad
lectores referatur. Ad poetas refertur ita, ut artis poeticæ opera
componendo, ad lectores, ut eadem legeudo sibi cavere moneantur, ue
rhythmorum atqne harmoniæ ordinem concinnitatemque turbent, vel non satis
recte agnoscant. Clarior res fit exemplo, quod Eryximachus statim
addit. Nimirum artis coqninuriæ delicias medicis in universum probari
negat. Interdum tamen licere ait eas delicias
hominibus commendare, quæ et delectent et damni nihil
aderant. xa& o6ov itapeixei. Convertit hæc verba Stallbaumius:
quoad eius fieri potest. Recte. Laudat idem nostrum locum in annot. ad
Piat. Polit. II., 574. E. 6p 6* uvx anobtiTaatkov, o6oy y av
bvvapiS irapeixq. Ceterum verba sunt non pauca, quæ omisso subiecto
suo transitivam vim amittunt, atque ut verba impersoualiu adhibentur.
Quem usum huius verbi cqm non notum haberent librarii, factam est, ut
in eius scriptura libri non consentirent. Bodl. enim aliique codd,
itapijxEt exhibent. Ceterum conferri iubet Riickertus ad h. 1. Thucyd.
III, 1, TCpoSfioXcA iyl yvovxo TG7Y * A^i}v cxxqdv inithov, onxf
icapeixoi. Soph. Philoct. 1048. ic6\X av Xiynv ix ol M l TCpoS ta
xovd’ hcr\ eE, pot itapeixot. xa\ rj tcov eo p cov tov Iviavxov
6v6x adiS, Schleiermacherus exhibet in convers. 409. Die Anordnung der Iahres zeiten und
der Witterung. Ficinus verba convertit ; Anni temporum constitutio. Neutra
6vOxadiS nominis conversio nobis nunc placet satis ; verbum desideramus
potius, qno significantius exprimatur, de finibus atque de initiis
anni temporum hio agi. Nimirum consentiunt medici, nihil perniciosius
esse corpori humano animalibusque et plantis, quam subitas coeli
mutationes. '/Sarti arcti rj twv wQiav tov Iviaircov OvtSraOig
/is 6tf) laziv IXtUpOtfQUV TOVTCOV, 5 tttl ixSlSaV fllv ICQOg a
IX>;?. a tov xoOfiLov tv%\) "EQcnog 8 vvv St] lyu tk tyov,
za re &EQ(itc xal tu ilrv%Qcc xal |i;p« xul vyga, xal cpl toviav xal xqkClv
AajSy CwcpQovu, jjjactc yigovTu tvetij v. c. si frigus acerbissimum
sequatur subito æstus ferventissimus. Patet igitur, Eryxiinucbum .medicum
non tum / de ipsis anui temporibus, quam de eorum finibus iuitiisque apte
coniungendis agere, ut tivtiratiiS nomen convertendum sit: Verkuiipfung,
Verbiudung. xal dppovLav xal x pati iv. Vulgo omittitur xal
ante apporiar positum, quo omisso atque commate post vypa
deleto sententia verborum hæc evadit : Si calida et frigida
houesto amore consociantur, porro si sicca et humida harmoniam et
mixturam aptam admittunt.*. Hæc quominus probemus, vetant a rvr 8tf
iXeyov verba, quibus t d re Seppa xal rd ipvxpd xai £,r}pu xal vypa
arctius couiungenda esse docemur. Ceterum ad ea hæc comparata sunt,
quæ de musica arte supra dicuntur. Ut illic xo dS,v xal fiapv, tq tax v
xal fipadv commemorantur, uostro loco habes rd Seppa xal rd if/vxpa t
rd £rjpa xal rd vypa. Kpatiif tiojippoov autem in re rhytii
mica evpv^plar gignit, quæ eodem modo iuvenum moribus erudiendis
inservit, quo, modo sanitatem generis humani auimaliumque et plantaram
progignit eve rrjpia. Apte Stallbaumius comparari iubet Piat. Phileb. 26*
B. ovxovr ix rovrcov copai re xal otia xaXd narra rjptv yiyove, rcor re
dnelpcjv xal rcbv nepas ixorroav £,vppiXSerrar ; tico cppova.
Substantiva haud raro a verbis, e quibus pendeant, seiungi, ut gravitate
exhibeantur auctiora supra indicavimus 59. et 66. Pari modo a
substantivis adiectiva disjunguntur, cuius usus noster locus
exemplum est. Sensus est: Wenn das Warme and das Kalte, Trocknes und
Feuchtes gegenseitig des geordneten Eros sicli erfreut, und es einer
Harmonia und einer Mischung, namlich einer ganz zweckmdssigen,
theilhaft wird ... xal ovSlr ?jdixtjtiev. Aoristicum tempus præcedente
tempore præsente i/xei ne quem offendat, habet præteriti fere
potestatem yxeiv verbum, cfr* Piat. Crit. 43* A. apri
6h jJxeiS 7f naXai ; kamst da eben erst oder schou lange? Igitur
ijxei epepovta idem fere est atque ijve^xev. Proprium aotem
aoristicum tempus in rebus, quas experientia docuit, recteque præcipiunt
grammatici, haud raro giav TE xai vyiuav av&Qcoicoig xai xoig aklotg
tcootg te xai cpvxoig y xcd oijScv xjStxijdEV" oxav Ss o uncc
xijg vPgsiog "Egag byxQaxiexEQog ntgi xag xov Iviavxov agag B
ysvtjrai, 6d(p&EiQS x e xokka xcd •fjdtxrjtlEV. oi! xe yag koiftoi
gidovOi ylyvEO^ca 1% xav xocovxav xcd ak£ uvojioitt 7to?J.a
[vo<3>juaxa ] xai xoig fhjgloig xai tofcf aoristum usurpari,
ubi indicetur, aliquid fieri solere. Eodera modo
explicanda verba sunt, quæ paullo infra leguntur; 8 i e cp$ e ipe v, 7f8
ixrj6ev . Alia ratio est Piat. Phædon, 84. D. xai Ss 1 axovdaS iyeXa6i
re 7 jpepa xcd qn\6iv .. etenim ab aoristico tempore ad præsens
subito transitur, quoniam nunc non narratur, quid Socrates dixerit, sed
ipsa eius verba afferuntur: Hoc audito ille cum subrisisset: Væ,
inquit, o Sim mi a. Adde Piat, de rep. VI* 508. D. otav per, ov
xataXapnei ab/ $ eia. re xai ro ov, tls rovto dnepeior/rai (ac. ?j if>
vx/f) evoi\6e re xai Eyveo avxd xai vovv If^erv (paLverat . Quo
loco quid anima facere soleat, aoristo, loqucntis de animæ conditione
iudicium præsente tempore exprimitur. Ne plura huiusmodi exempla afferam,
lioc in universum tenendum est, aoristo et præbente in eadem enuntiatione
positis non eandem potestatem esse, sed aoristum quod fieri soleat, aut
quod factum * sit indicare, præsens tempus vel facti veritatem
exprimere, vel aliquod iudicium loquenti? in se continere. xai d XX
dv 6 pota TtoX* \u v o pax a 4 Hæc verba Corrtipta esse multi
fuerunt, qui annotarunt eademque emendaro studuerunt, Ficiuus
habet: Testes siquidem ex /iis oriri consueverunt, aliique morbi
permulti et vani brutis ac plantis infia sci. Igitur legisse eum Stallbunmius
censet xa\ aXXa noXXa )xal nocytola vodijpara* Schiitzius scribendum
couiecit xai aXX’ opota, Orellius ad Isoctf. do Antid. 330. : ciXX’
dv opoia. Astius aXX * axr opoia, quod Stallbaumio probari video.
Fateor, harum mutationum nullam mihi placere. Olim scribendum
putabam xai aXX * dvopa noXXci [ vo6rj pacta .] Ac v 067 ) para quidem
etiam nunc persuasum habeo glossema esse eius, qui, cum recte
intellexisset avopoia t ut et alii intelligerent, verbi explicationem
margini adseripserit* Memor autem Eryximachus verborum erat p* 186. B. ro
81 dvopotov dvopoloDV huSvpei xai ipa, ad quæ respiciens
avopoia dixit, ut simul ad in tGDV X OtovTGOV supplendum sit
avopoioov xov iviavx6v (opcSv . xai tols $tjpiotf' t xai toiS
epVtolS . Eryximachus cum supra dixisset dv^pcbnoii xai xoli aXXoiS
ZgjoiS re xai cpxnoiS, humani generis nunc videtur esse oblitus* Verum
licet medicis de re medica loquentibus homines animalibus adnumerare :
den thierischen und vegetabilischen Korpern, xai ipvdifiat» Timæus
iu L, V, Pl. : ipvtiifiai piXxoa - cpvrolg * xal yag ita%vat xal %aXat,ai xal
iQVtiSfiai ix Tckeovs^lag xal axodplag Jtsgl aXXijXa zwv zolovzuv
yi~ yvezca sp&zixcov, av iitufziyfiq adzgav re q)ogag xal
IvLavztiv agag adzgovopta xaXzlzai. %xi roivvv xal ftvdiai itadai xal olg
[lavuxij htidrazel zavza 69 l6zlv rj negl fteovg ze xal dv^gtbnovg jcgog
t&XXiqXovg C drfS Spodos • itax y V SpodoS
XiovqoStjS. Hesych. ipvdiftrf. vo 6oS riS æpoS iitiyevopivT} toiS
cpvtotS xa i xapnoiS. Pro yi~ yverai pluralem numerum exhibet Stobæus,
quem numerum Fischerus et Wolfius reposuerunt. Frustra. Naturæ phænomena
quoniam verbis impersonalibus exprimi atque describi solent, substantiva
etiam, quæ cum his cohærent, ut infinitivi, quibus deest subiectum
certum, tractantur. Vide Astii annot. ad Flat» Polit» 400. Adde
Matth. Gramm. plen. $. 303- 603* ojv ire tdnj p.7j xaXetr
at. Fuerunt, qui hæc verba delenda censerent; alii eadem
coniecturis teutarunt» Primus Astios monuit, meteorologiam et astrologiam
veteribus astronomiam appellatam, neque meteorologiam antiquitus ab
astronomia disiunctam fuisse» Id factum ideo, quod astrologorum non
solum erat, sidera observare, sed etiam tempestatis mutationes, quæ
siderum indicari solent vel ortu vel obitu, prædicere. Quod autem,
Stallbaumius ait, Eryxijnachus hanc defiuitionem astronomiæ addit, atque mox
etiam defiuitionem pavrixi}S\ id nemo inepte aut temere fieri
arbitrabitur, qui reputaverit, hominem sophistarum artibus
assuefactum ridicule captare inanem quandam doctrinæ speciem atque
umbram. Aliter nobis videtur de his verbis iudicandum esse.
Solebat vulgo astronomia definiri ita, ut imdri/prf adrpu>v re
{popoiv xal iviavtcov copcov vocetur. Hanc definitionem veram
esse Eryximachus negat, astronomiam inidtTjfirjy ip GJtixoJV itepl
adrpav re q>opaS xal ivi avt air copaS esse contendens.
iri roivvv xal Svdiai TCadai . Hæc est xneliornm codd.
lectio, quorum iu numero primus est Clarkianus. Probatur ea lectio
fiekkero, Astio, Stallbaumio. Alii habent xal al SvdLai aitadai ; minus
apte, ut videtur» Non enim ita de sacrificiis loquitur Eryximachus, ut
singula quæque sacrificia significet intelligcnda esse, sed in
universum sacrificiorum mentionem facit Convertenda verba sunt :
Ferner auch alie Arten von Opfern und das, woriiber die Mantik
gesetzt ist. Memorabilis hic locus est, quo veterum de religione
iudicium continetur. Dupliciter cum diis agi Græci censuerunt, eorumque
numina aut sacrificiis adhibitis placare studuerunt propter vitæ anteactæ
scelus, aut pavtixg usi sunt, cuius auxilio de deorum voluntate
certiores fierent, futurainque viam ad eandem dirigerent» Vide
Wachsmuthium, qui nostrum locum laudavit ia libro; Helleniiche
Al** xoivavta ov xepl «AAo xi lotiv tj xeqI "Egcrtog tpvXaxyv te y.cd
TaOiv. tcccGcc yciQ ij aGtfiua tpiktZ ylyvEGfrai, tuv fiTj tls toj xoGpla
”Equti ittQltfiTcu (irjdh ripa tcrtliumslunde II. T. II. 222. In
sequentibus xavxa non solum ad verba pertinet ols pavxixi }
iitidxaxel, sed cliam ad Svdiai itadat. Recte igitur Schleiermacherus in
conversione: denn dies insgesammt ist die Gemeinschaft der Gotter und
Mcnschen unter einonder. Ceterum ut melius intelligas, verba X avxa
6* idxlv i } nepl $eov* xe xal dvSpcJnovS npoS dXXTfXovS xoi VGQvtac
immerito a Schiitzio in suspicionem vocari : Eryximachi mens hæc
est: Ferner sind pun auch alie Opferungen und das, wortiber die
Mantik gesetzt ist dies zosatmnen aber ist nach der gewohnlichen Meinung
fiir' den vrecbselseitigen Verkehr zwischen Gottern und Menschen
cigentlich nichts anderes, ais die Bewahrung und Htilung
des Eros, Epi*Epa>xoS tpvXaxrjy xe xal tadiY. "EpcjS hoc loco generaliter positum significat et malos et bonos
affectus- Pluralem numerum paullo infra liabes 188. C. fin. a 61 }
nposHxaxxai xfi /tavxixp ini Cxoniiv x ovi " EpcoxaS xal larpeveiv. Adde
p, 188. D. ubi 6 naS *EpG>$ legitur. nuda ydp 1 } adi fi
eia. Nihil in his verbis comparet lectionis varietatis. Mallem
tamen abesset articulus, ut de impietate in universum, non de
impietate in certis quibusdam actionibus Eryximachus loqueretur,
cfr, p* 188 . D, fidXXov 61 nddav 6v ra/nv fyei x. x. X. Paullo infra
nadccv ij/itY eVdaipoviaY. Restat, ut de cpiXeiv verbi potestate dicamus,
qtfam vulgo non satis accurate interpretantur docti homines.
Annotant enim, Græcorum (piXetY atque Latinorum amare haud raro rebus
actionibusque ita apponi, ut quibus esse fierive solere res
actionesque indicentur. Merito autem quæritur, quid differat hic
qnXeiv verbi significatus ab aoristorum temporum usu, de quo 142«
diximus, et quibus itidem solere aliquid fieri significatur. cfr. Eugelliardtus
ad Piat. Menex. 240. ed., Stallbaumius ad Plat, de rep.
VIII, 650. B., ed. 183. Matth. Gramm. plen. J. 602. 3 > 954.
Aoristum poni adhærente notione s oIere verbi, ubi de actionibus sermo
ait, quæ iam sæpius factæ sint, satis notum. $iXeIy contra adhiberi solet
de rebus, quæ non tam factæ sunt iam sæpius, sed quibus vim quandam
inesso indicatur, qua necessario fiant. Et quoniam quæ necessario
fiunt, sæpias iam facta esso possunt, multis in locis perindo est,
utrnm aoristicum tempus, an tpiXeiY cum præsentis temporia
infinitivo coniunctum posueris» Sic nostro loco, quoniam pestis
Atticam terram sæpius invasit, Eryximachus etiam dicere poterat: ol xe
ydp Xotjiol iyi rOYXO ix T(k)Y TOIOVXCDV x.r. A, Adhibito 9»iÆiV verbo hæc
eius voluntas est: Nam pestis ea natura est, nt quæ facillime ex
hie zs tevrov xal TCQEBpEvy Iv Ttavr l fpy», «Ala rov eteqov, xal
7tEQi yoviag xal t,avtag xal xtTtltvzrjxbtag xal xeqI foovg. a 6 tj
TtQogxiraxtai zy (uxvuxrj inuSxontlv zovg exoriri possit et
qaæ seqq. Conferri potest cum hoc <ptXeir verbi usus iStXeiv et
fiovXedSat verborum in rebus inanimatis ; sic v. c. legitur in Piat. Phæd.
p.74. D. ovxovv opoXoyovpEv, oxar x iS xi idcjy ivroijdy, oxt
fiovXexai plv xovxo, o vvr iydo opcj, elvai olov dAAo xi XGQV
OVXQDY, Mei 8h XCtl OV dvvaxai xoiovxor elvai x. x. A., quo loco
non dubium est, quin eadem rerum natura, quam cum instincta
animalium comparari licet, tangatur, ad quam etiam cpiXeiv verbum
referendum est. iav fiif x iS seqq. Notabis hic usum
Græcorum in collocanda negatione a nostro discedentem. Nos enim, cum non
ipsam sententiam negamus, sed partem aliquam sententiæ, curam
agimus diligentissime, ne negationi» particulam collocemus ita, ut cum
verbo possit coniungi, recte facientes, ut opinor. Sic nostro loco
non x 6 x a P^ £ ^ at negatur, sed asseritur aliquis X a P^ m c>ed$ai
quidem, at non ta xod/iioo sed fc3 hxepa "Epcoxi. Id nos sic exprimimus: Wenn Iemand nicht dem gesitteten Eros
folgt, sondern dem andern. Contra Græci ita amant negandi particulam cum
coniunctiouibus ei, iav, oitGDS aliis, arte coniungere, nt perspicuitatis
illa lego neglecta breves certe voculas, ante illam ponendas, post eam
reiiciant. Quod in pronomine indef. xis maxime fit. cfr. Crat. 453*
C. ei jirj xi xaXaS ixe&q dictum pro et n firj xoXgjS Xenoph. Hell.
VI. 4. % ei pij xiS iaorj avtovopovS xaS noXeiS elvai. Non negatur
ibi ro id v riva, sed affirmatur xo prj iav. Pariter ante xal
Tbucjrd. VI, 60. collocat: hceidev avxov cuf XPV el jxjj xal
6e6paxev x.x.X. pro ei xal prj didpaxer. Quin etiam ante ipsam
coniunctionem ib. VI. 18. xov yap xpovxovxa ov jiovoY
iitiovxa xis ayvvexai, a?iAd xal prj oitaS iiteidi itpo xazahafifidvei.
Riickert. d XXa xov Zxepov. Vulgo aAXct nepl xov ixepor, quod
ferri potest nullo modo. Illud in Vindob. 2. et apud Stobænm reperitur
Ecl. phys. 24. Memorabile exemplum, quo probatur, interdum falsum esse,
quod codd. fere omnium consensu exhibetur. d 6 r) 7tpo
Sxlxaxrai. Schulthessios: Desshalb ist es eben das Amt der
Wahrsagekunst. Astius habet: qua in caussa. Schleiermacherus : w o
r i n eben der Wahrsagekunst obliegt. Care * scribendum censeas,
quod olim mihi in mentem venit: d dij icpoSxhaxxai xy pavxixy
inidxoiceiv xal xovS *Ep coxas ia rpevei >o. d enim est: in welcher
Beziehung s. und in dieser Beziehung liegt es der Mantik ob, die
Neigungen zu betrachten und Heilung anzuwenden. xal idxtv av i )
fiiavxixj}* Spectat av 'ad 188. C, xavxct o idxlv ?} Titpl $eovS te
xal dvSpooTtovS izpoi aAXyXovS xoi varia. Definitur autem 7 f yarZixrj
nane ita, ut dicatur conci10 $ Ega zag xal largtvuv, xal %6nv
ccv f\ (mvzzxrj tpMag I) ftttZv xal dv&gnxav 8t](uovgyog za
htiGzuGfrai za xazu av&ga>7tovg igaztxa, o6u ztivu ngog depiv xal
a<Stjleiav. orto xokXrjv xal (isydX rjv, fiaMov 81 naGciv 8vvu(uv
%vM.rjf}8tiv (itv 6 xag "Egcog, 6 81 sr egi tcc «ya&d atra
<Saq>go<3vvr]g xal Sixai oGvvqg caiozeAovptvos xal xag xal itagd.
&solg, ovzog zrjv (liyiazrjv 6vva[uv iysi xal xaOocv ‘tjixiv
tvSaifiovlav itagadxeva&i, xal «AA>]Aotg Sirvafilvovg ojuXelv
xal (pllovg uvai xal zoZg xgelzzoGiv ijfiuv &eoZg. "iGag E
utv ovv xal lya zov * 'Egaza txaivcov xoXXce naga-kdxa, ov (itvzot, kxav
yf liatrix esse amicitiæ inter deo* et homines eo» qaod
sciat, quid ad procreandam et pietatem et impietatem habeant in
homines Krotes potestatis. Auctor definitionum 4l4. B. habet: parXIX}],
iltltiTljuTJ $EG)ptjTtxf/ tOV OVTOS XOtl ptXXoYTOS Zgjgj $V7]tgo. Yerior
hæc definitio illa, quam Eryximachus profert, quæ ad duplicis
Erotis naturam hominibus inhabitantem comparata est. ovtu 7 Co\\t}y xal
peyaAljn' seqq. Convertit Schleierxnachcrus : So vielfache and grosse
oder vielmehr alie Kraft besitzt Eros iiberhaupt... Errat iisdem pæne
verbis usus Schulthessius» Ovtgj seiungendum est a verbis
insequentibus et ad totam enuntiationem referendum : Hac ratione multam habet
magna m q u e potestatem Eros» vide ad p* 58. Sequentia verba
ZvXXrjfidrjV p\v 6 7taS "EpuS clare docent, Eryximachum, quoad
eius fieri posset, se accommodare Phædri proposito voluisse: iyxco
pia&iv " Epcata . Idem Pausaniam fecisse annotavimus ad p»
180» akX (X tt i^sXuiov, Oov £q~ E. htaivnv ptv ovv dei
tcolvx aS SeovS. xal aXXrjXot^ dvvapikvovS opiXeir, vid,
adp.4l., ubi dvvaplvovS pro SvvatiScti rjpaS dictum esse censuimus.
Igitur participii accusativam accomdatum censeas ad ?}pdS pronomen, quod ad
opiXeiv supplendam est. Non assentimur autem Buckerto, qui xai ante tolS
xpeitto6iv rfpeov SeoiS expungendum putat. Cohærent inter se xal
aXXrjXoiS xal xoiS xpeitrodtY tjjic&v SeolS, atque ea cohærentia
horam verborum ut, emineret magis, dwapevovS a Platone scriptam
est, non 6vvapkvoit. xal iyco. Ut Pausanias, ita fortasse
etiam ego multa intacta relinquo. Tempore præsente Eryximachus
ntitnr, ut ad auditorum sententias oratio comparata sit magis, qui forte
censeant, oxi noXXa itapaXeixet ’Epv%ipaxoS, De insequendum
verborum explicatione liteidq xal rjjs Xvyyos xatavCai audias Fiyov, c S
'AgiGtocpctVES, avaxXr]Q<3(Sai' Jj ll stas alias iv va %xns
lyxaftid&iv rov 8eov, lyxa/iltt&, Insidr/ xal rtjs Ivyyos
ninavaca. jExfcfaftEi/ov ovv £q»] shniv rov 'AQiGToyttvt] on
180 Kal {iaX htu.v6u.to, oi5 fihvtot scyfo ys rov straQ/iov
stQOSEvtx&rjvai avry, agts fie &avfia£uv, el r 6 xo<S[uov rov
amfiaxos htfovfiil rotovrcov s^ocpav xal yuyycch6[iuv, olov xal 6 straQfios
ItSti. stavv yay ev9vs istavGato, htEtZSrj avra rov strayfiov
stgosrjvEyxa. Kal rov 'Eqv^iiuxov, r £l 'ya&E, cpavat,
'JyiGzocpuvEg, oya tl stottlg ; yElarostouis (isllav liytiv, xal tpvlaxa
(te rov loyov avayxatfivs yiyvEG&ai rov esavrov, scherum: Particula
xal a Stephano ciici non debebat . Nam Eryximachus ostendit, partes
disserendi iam Aristophani susciiendas esse non modo propter ordinis
rationem, sed etiam propter ea, quod singultibus non impediretur, quibus
sedatis promisisset se verba esse 'de Amore facturum . Prorsus eodem
modo dicitur paullo infra olov xal 6 7trappoS idrtv, ubi xai
addito indicatur manifesto, non solum sternutationem hic tangi,
sed cetera etiam, quæ Eryximachus præscripsit, remedia
singultus, ov fisvtoi itpiv ys itpof ev ex$V v ai ccvtji i.
Dixerat Eryximachus. E. tl d’ apa itavv Itiyvpd idnv,
dvaXaftdv n toiovrov, oVfp xivijoaiS av rijv f)iva, nrdpe. Vides igitur,
cur articulum Aristophanes adhibuerit rov ittapfiov . h. e.
sternutationem eatn, quam præcepisti. (3sre pe £ avfidd,szv .
Hæc est lectio codd, omnium. Bekkeros, Astius, alii, ia textum
receperunt «stf lp\ SccvftaZetv ea opinor de caussa, quod præcipi
solet, particulas non pati iuxta se positam encliticara formam
pronominum. Huius regulæ rationem quoniam neque nos perspicimus, neque ab
aliis satia explicatam reperimos, codicum auctoritati, quam mutandi
libidini obedire maluimus. Sententiam quod attinet, Stallbaoinias
ad h.l. ridet, inquit, quæ Eryximachus disputavit supra 187. D. et
E, Audi Riickerti annotat, ad h. 1,: habet etiam Eryximachus,
quod respondeat, non r 6 xod fiiov illud appetere, verum r d
axo 6fiov hac ratione expellendum esse. Id non facit respondentem
Eryximachum, ne urbanitatem violaret i lectori reliquit inveniendum, erant que
inventuri f qui mores hominis nossent, facillime, nec potest latere
attentum lectorem, qui totum hoc episodium de Aristophanis singultu
quorsum spectet, secum reputaverit » Vide Comment. de Sympos.
Platonis, ijtstdq avrdi . Ia aliquot 10 iav n yeXoiov
tixys, ll,ov Ooi Iv tlffrjvy Xlytiv. Kal tov ’ AQiOtoipavr] ytXcKSavta
tlntiv, Ev Xiyug, a ’Egv£l(ia%£, v-al fiot, t6ta aggr/tu tu fifnjfiLva. aXXa
fir/ fis tpvXatts' tog fy 0 * (pofiovfiat ntgl twv fisXXovtav
QjjftijOttSfrcu, ov n, fiij ysXoZa sYxa, tovto fisv yag av xigdos tfij
xal tijg r/fistsgag MovOrjs truxagiov, clXXa fir/ xatayiXuGui. BaXav y£,
giavai, a ’Agi<Sto<pacodd. avnj repentur, quæ lectio 'eorum sedulitati
debetur, qui pronomen ad trjv Xvyya referendum censuerunt,
Riickertus ad h. 1.: Non habet, iuquit, neutrum hoc, ad quod reteratur. Nolim
avtdj neutrum putare. Quamquam enim Eryximachus r ijS A vyyoS
nomine usus est, tamen hoc loco quasi tov Xvy/iov dixisset, pOSUit
CtVTGJ. iav ti yiXoiov etayS, Sensus est: Vide v, quid agas.
Rides sententiam meam, qui ijiso nunc dicturus es, meque custodem
esse iubes orationis tuæ, ai quid ridiculum forte proferas, cum
tamen liceret tibi securo tutoque orationem habere.
i£,ov 601 iv elprfvy Xiysiv Grammatici in i&ov, 6iov, aliis
participiis nominativam absolutam agnoscant. Hæc participia, quoquo modo
explicaveris, nam certa explicandi ratio non reperietur in dicendi
formis, quæ quotidiano usu loquendi quasi sancitæ cum linguæ
legibus minus conveniunt, recte cum nostratium formulis
comparantur: vorausgesetzt, dass; angenommen, dass. ov ti,
ilt} yeXoia efarm. Stalibanmius ad h. 1. rectissime: Hoc ov 1 1,
inquit, connectas cum cpofiov fiat. Nam sententia hæc est : Noli me
custodire: nam ego vereor de iis, quæ nunc dicturus sum, non
quidem, ne ridicula proferam hoc
enim lucrum foret et comicæ Musæ nostræ consentaneum, sed ne
deridenda. Revocandum est ov Ti aXXa ad notissimam formulam loqudbdi ov
Xiyco oti aXXa, de qua vide annot. 66. Verba convertenda sunt:
Gieb auf mich uur nicht so genau Aclit, dena ich iiirchte
mich, liber die gestellte Aufgabe sprechen zu miissen, nicht etwa,
dass ich durch meiue Worte Laclien erregto, sondern dass ich Thdrigtes
vorbringen konnte, ^ ytXoxa
xaray iXa6ra* a Dicitur yeXoia ex mente Aristophanis, qui narrat
de aliis, quæ risum moveant, vel omnioo res alienas in partem
profert ridiculam. Qua in rp quum nonnihil sit artificii positum, totaquc
comici professio in co vertatur, ut moveat risum audientibus, non timet hoc,
immo in lucro .ponit, si contigerit. At ‘KaxaykXa6xa qui dicit, sui
ingenii fatuitatem prodit, sunt enim deridenda. Est igitur verum
discrimen, quod hic a poeta ponitur, in ipsaque fundatum ety- vf g, o Xsi
htxpsvfcsaftcu; nXXa TtQogsys tov vovv xcci ovtGf$ Isye dos dcoOcov
loyov. iGas (isvtol> av 86 C ffOt, U(pTj(JCO as. Cap.
XIV. Kal \Lrp>> iS *Eqv%Iim%s > slittlv tov
'jiQUStoyavrj, SXly yk ity Iv vtp Ikyuv y y Cv re xal JlavGa
mologia, at vulgari in usu non observatam, cai xaxaykXadra quidem
semper sunt deridenda. C. ivEVorjda tote apa xaxaykXatfxoS c ov.
Apol. 28. D. tva pi) iv$a8e pkvco xataykXadxoS icapct vrjvdl
xopcovidi. Ibid. S5. B, xa9ykXadxov xrjv noXxv noiovv teS ; ysXolov vero est
quodcunque risum movet, sive consilio eius, qui facit dicitve, sive
imprudentia. cfr. iufra 199. D. yeXoiov ipcoxijpa i. c. xaxayk Xadxov 213.
C. ubi Aristophanes yeXoioS dicitur h. e. dedita opera risum excitans.» Hæc Iliickerti verba sunt optimo de discrimine yeXoiof ct
xaxaykXadxo? verborum disserentis. Minus bene V. D. addit: Itaque,
et quum minime sit huius loci vocum discrimina explicare, neminem esse
puto, quin Prodici in his agnoscat disciplinam, modo sit memor
eorum, qnæ de hoc homine discimus e Protag. A., 341. A., Crat. 384.
B., Euthyd. 277. E», Lacii, 197. B.Vide Conuncnt. de Piat. Symposio.
fiaXcov y e oZei kxcp e v~
B,e6%ai; Suidas ed. Kiist. ftaXcov tpEvgsdSai oZei ; itpoS tovS xctxov xi
8pa davtaS xol\ olopkvovS lx(psvyetv. IIoc proverbium e rc militari petitum
est, uh! aliquis misso in hostes telo tela hostilia vitaturus
recedit. Riickertus proverbium hoc modo reddendam censet: Ia,
nachdem du abgcschloss en, denkst du davou zu kommen. av 8 6
B,xi po t. Si videbi0 tur h. e. si rationem reddideris, qnæ' satis mihi
et sufficiens esse videbitur. xal /u}r >elxeiv tov 9
Api6r o cp dvtj. Aristophanem intelligi comicum poetam, comoediarum
lepidissimarum auctorem, extra dubitationem positum est. Eius oratione
recreabuntur, qui Pausaniæ Eryximachique orationes legerint. Nam et a
dictionis elegantia pulcherrima est, et ad rem si respicis, tanta referta
venustato, ut dubitari nequeat, quin multam studii in ea conscribenda
Plato consumserit. Orditor autem Aristophanes a prædicanda Erotis
laude, cuius naturam non cognoscere possit, nisi qui prius in
hnmauam naturam inqnisiverit atque in 7ta $i}f.ictTa eius. Aliam, atque
nunc sit, olim fuisse narrat, quatenus quidem non duplex fuerit,
sed triplex antiquissimis temporibus genus humanum *Av8p6ywov
enim, cuius non nisi nomen reliquam sit idque ia igaominia
IIAATSINOE vias tlnirriv. i/iol yag 8oxov6lv av&Qcoitoi it
avraitatSt rtjv rov ’ 'Eqozos Svvafuv ovx ijO&fjti&ai., litti
cdoftav 6 positam, tertiam genas exstitisse viribas pollens,
felicissima integritate gaudens atque tanto animorum superbia præditum,
ut ipsos deos aggrederetur. Iovcra autem ceterosque deos dia hæsisse
inopes consilii, neque, quomodo eius superbiam infringerent, habuisse. Tandem
lori in mentem venisse Androgyni dissectionem, qua eftecta Androgynum
periisse, neque remansisse nisi segmenta hominum, quæ amissæ
integritatis desiderio vehementissimo agerentur. Huic desiderio AMOREM
nomen, eiusque tantam vim esse, ut, ubi partem suam pars repererit, ab
eodem nunquam discedat. Igitur summorum bonorum hominibus auctorem Erotem
esse, ntpote qui ad pristinæ integritatis felicitatem homines
perducat. xal /i 7} y 9 co ’Epv Zlfiaxe* Male ad h. i.
Ruckertus : Videntur, inquit, ad Eryximachi verba respicere xal prjv
particulæ, ut oppositionem contineant . Quum enim spem faciat
Eryximachus, fore, ut dimittat Aristophanem, hic tale quid videtur
dicere : Cupio equidem me dimitti, sed tamen vereor ut fiat, sam
enim aliam viam a vestra diversam ingressuras* cfr. Menex. 234. cap. 2. init, xal prjv, co
IMevIUeve, TtohXaxv xivSvvevei X. t. A., quem locum laudo, ut
lectores tutius de Ruckerti explicatione 7tal pijv vocularum iudicent. Ut
nostro loco, ita ia Menexeno xal pjjv nihil nisi gravem affirmationem
exprimit. Astios habet: ac nimirum, quod nullo modo probari
potest. Unice rectam particularum interpretationem Schleiermacherus
exhibet in conversione: Allerdings. KaL expletivum
est; vide annot. 6. et 38, elrtitTjv. Bekkerns, quem
secutus est Astius, eliterov edidit. Stallbaamius cum audaciam eorum non
probaret, qui secandam personam dualem nunquam a tertia diversam fuisse
docerent (Elmsl. ad Arist. Acharn. v. 773» ad Eurip. Med. v. 104
1., Monk. ad Eur. Alcest. v. 282. ), hrc certum esse annotat: apud
sciW ptores veteris dialecti Atticæ secundam personam sæpenumero in
ttjv terminari. Schæferas, quem laudat Stallbaamius ad Schol.
Apoll. Rh. annotat: prisca græcitas
dualpm certe activi in his temporibus videtor bifariam flexiss e etoy, et
ov et kxr\Y, itrjy, sed posteriorum usus temporum, grammatica
subtilius an argutius exculta, terminationem in oy assignasse
secundæ personæ, in tjv tertiæ. Secundæ personæ in Ttjv terminatio
sæpius reperitur apud Platonem, exempla collegit Stallbaamius ad h.
1. cfr. præterea Duttm. Oraram, plen. Vol* II, 417. Matth. Gramm.
T.I. $. 195. n. 1. 347. itavt anadt ovx y 6$ijat. Negat
Aristophanes, Erotis vim hominibus satis notam esse, atque aperte
indicat, prorsus aliter, atque Phædrus, Pau-i. i (itvol ys (liyiOz
av avtov lega xmttGMvaOtti xul (ta )(lovgy xai &v<Ji<x$ av sioiuv
(ityiorus, ov% agnig vvv sanias, Eryximachus dixerint, de
deo sese dicturam esse. Idem paullo supra disertis verbis expressum est :
&AAy yk Tty, in quibus verbis nou urbanitate, ut Hiickerto
videtur, sed ironia Attica factum est, ut aAAu verbi austeritas addita
7ty voce mitigaretur? ejn weuig anders. Hac ironia Socrates haud
raro usus est, ut summam rem tanquam minutam exilemquc proferret. Exemplo
est PJat. Prot. 828. E. vvv itkitttdpat,
7tfo/v (Spixpov ri jnoi ijixoSaoy, d 8ijAov, oti tlpooxayopas
fiqtSkoS I7cex8i8d£,et f iiteidr} xai td noXAa xavxa i%E$ida%Ev,
ipol ydp 6 oxov div ctv-. SpooTtoi. Hæc est codd. lectio
plurimorum, Wolfius e tribus ol dv^pcJ7COi in textum recepit, ©e
gerere in universum hic ar poortoi dictum putari sententiæ ratio non
patitur, neque vero cum contemtu homines commemorantur h, 1. Nihil
igitur esse vides, quo possis articuli defectum explicare.
Fortasse scribendum est dv^pco7toi eodem modo, ut avSpcDTCoi nunc
haud raro apud Platonem reperitur. cfr, Symp. p, 206. A. ooS ovSkv
ye aXAo i6x\v f ov ipdUtitv avSpcojcoi, ad quæ verba Stallbaumius
annotat; Non opns articulo, cuius omissio admodum usitata est in eiasmodi
vocabulis, qualia sunt avjjp, adeAtpos, yvvrj, yij, aliis, quum de
genere posita sunt. Vigiuti codd. articulum addunt. Fortasse et 1».
1., quoniam degenero humano verba non putamus accipi posse, av$p<*)itoi
scri bendum est. De formæ huius veritate vide Apollonium iu Bekkeri
Anecd» gr. II. 495. 24. apeivov ovv. itapa8k%a6$ot.i dtoptxrjv peraSEtiiv
xov J eis xo a, xal gjS' 6 avijp dvrjp y o «y* $pGD7TOS aV$pG)7COS
9 OVXCJS XO ixepov Sdxspov idxiv. ixel altiSavd fiev ol
ys. Aptissimus hic locus, ad quem de ItieI vocis natura et
potestate, quid videatur, dicamus. Satis
notum est, atque exemplis ubivis obviis probatur, etCel nou solum
consequentiæ, verum etiam caussæ notionem habere. Eius notionis origo est
liteita vox, quæ loquendi usu, ut fit, iu breviorem formam mutata
ita adhiberi solet, ut temporis notio cum consequentiæ caussacve notioue
commutetur. Iu vernaculo sermone eodem modo e temporalibus daun et wann factum
est caussale d e n n, et coqditionalo nv e u n . Sic cap. XIII,
initio ijtsl XOLl 7} TGJV GOpcZv XOV iviavxov 6v6ta6iS jtE6tij
idxiv dpfporkpcov xovtoav x, x. A,, quo loco eadem ixei vocis
potestas est, atque iitEixa . Eryximachus nimirum cum dixisset, in arte
musica et in medica duplicem Erotem reperiri, ita pergit : Hernach ist
auch die Yerknupfung der Iahreszeiten voli von diesca beiden. Non
repugnabimus autem si quis verterit; Denu auch die Verkniipfung
cet., quoniam in omnibus artibus et rebus duplicem Erotem reperiri
dictam erat, quibus verbis procedentibus efficitur, ut quod postea sequi
dicatur, idem illius HAA TS&N02 tovtcov ovdtv ylyveua
itsgl avtov, Siov itavtav (laAidta D ylyvs<S&ai. €<fn yug
&Eav tfnlav^ganotatos, Ixlxovgog te uv tav avftganmv xal largos
tovttov, av la&ivtcov (isylOTTj av Ev6cu[iovla rei av^gamla ytvEi
eitj. lyto ovv xugaOouai vytlv ElsrjytjOaO&ai tyv 8vvay.iv
avtov, v(itls 8s rav aXkav 8i8d<SxaXoi ttiEC&E. 8eI Se itgatov
vyag fia&elv tffP dv&gazivjjv qwOiv xal ta xa~ ftrjyazu
avTjjg. dicti veritatem, ut caussam veritatis, comprobet, cfr. Apol.
Socr. 26. D. jua At, c5 av8peS 6ixa6ta \, inel rov p\v t/Xior
XiSov (prj6\v etvai, r i}v 8\ d£A rjvrjv yifv. In Alcib. II. 143. C.
ixeidr) ovtoa 6ot 8oxti 6<po 8pa Seirov Elrai ro jtpaypa, Ssre x, r.
A., imi pro litEi8r\ scribendum est; scribæ enim inei vocis
significatum non percipientes 6jj addidisse videntor. Battm. ad h. 1.
bteiSij 86 scribendum censuit» Dubito, num recte. Adde Prot. 334. B. ei 6
f i$6\oiS hti xovS mopSovS xal tovff viovS TcXtavaS InifiaKkeiv
(sc. TTjY 'H07tp0V) TtOVXCL dnoXA v6iv iitel xal r d iXaioy roiS plv
<pvxoiS anadiv Itixi ituyxccKOV x. r. A. Adde. C. d St rfjs
OvpccriaS rtpdSxov f-tlv ov pexexovdtfS StjA-eoS, aAA* dfifieroS
fiovov xat idnv ovxoS 6 rcor TtalScov " EpcoS in e ix a
izpetifivxipaS, vfipEGDS dpolpov, quo loco iittira consequentiæ notionem
habere videtor. Dieser aber gehort zur Urania, welche zuvorderst
nicht Theil hat am Weiblichen, sondern bloss am Manolichen welche
folglich die Æltere und ohne Uebermuth ist. Antiquissimis eoim temporibus
illis masculum genas exstitit tantummodo, non item femininam» Adde 180.
A. S! r\v xdWiov ov povov JlaxpoxXov aA\’ apa xal xoay rjpcdcjv
dnavXGtv, xal iri ayivEiof, ineixa vecotEpoS Ttohv, <2s (p7]6iv
n OpiipoS. Ad nostram locum nt revertamur, litei temporalem
potestatem habet, quo simul effectum est, at sequentes infinitivi e præcedente
finito verbo 8oxov6iv exaptarenrentor. Sensus est: Denn mir scheint, dass
die Menschen durchaus des Eros Bedeotung nicht verstanden haben, hernach, dass
sie, wenn sie dieselbe verstanden hatten die grossten Heiligthiimer
erbaut haben wiirden... Simillimus nostro
loco est Xenophontis, quem Stallbaumias laudat, Hell. VII. 1. 38» 7
tpoS dfe rovroiS xal ro rcor XPV~ lid.XGov7t\i}$oS dXaZoveiar
avxcp doxEiv slyai iqnj, in si xal rijy vfivovpbrqv av xpv6rjr
itXdxavov ovx Ixavrjv elrai rkxnyt tfxtccv napix^y* fitiy t6r
av avrov lepa. Wolfius ad h. 1. annotat: Schoo aus diesen Worten
hatten manche Sammler von Mythologien lernen konnen, dass Amor
keine Gottheit war, die der Volksglaube zu cincm Gegenstaud der
eingefiilirten Religion gemacht, son- 'H yuQ xaXai yficov cpvOig ov% avtrj rjv
Sjiteg vvv, dXX’ dXXoia. xqiBtov [ilv yuQ rgla fjV ta yevrj ta.
TtZv dv&QUXMV, OVI «S**0 vvv 8vo, u$Qtv xal frijlv, ctXXa xcd tqItov
xgogijv xoivov ov d[icpottQow tovtarv, E ov vvv ovofia Xoatov, avto 81
^tpavuStai. dvdgoyvvov yciQ tv tore [ilv ryv xal sidog [xal Svo[ia ],
autpotegav xoivov, tov te ccQQevog xal frqXeog, vvv 8’ ovx Sotiv aXX’ y
iv oveidei ovo[ia xeljxtvov. exeircc ilern mehr ein Abstractam,
das den Dichtern seinen Platz im 01} rap zu danken hatte.
Ceteram xaxadxev adai aoristicum tempus positam est sequente
itottlv imperfecti infinitivo, at actio præteriens, qualis est
templorum ædificatio, a sacrorum ferendorum consuetudine discerneretur. Vide
Engelhardtum ad Meocx. pag. 234. c. 2. xal yap tacpf/S xaXrjS xe
xal fieyaXonpeitovS rvy^ayn, xal iav rtivrjS xiS uiv xeJLevxrfdp,
xal iitaivov av itvxe, xal idv <pav\oS j} x. x. A. ovx
vSrtsp' vid. ad 179. E. annotat. Oratio plenior foret «AA*
ovx av litoiow, usitep vvv, o xi xovrarv ovSlv yly vexat. Nvv autem
Tocula non solum de præænte tempore intelligenda est, sed etiam de
veritate rei. De verbis insequentibus 6 eov 7 tavTGDV paXidxa yiyvedSai, vid.
ad 131. i%ov doi iv elpyvy A kyeiv. litlxov poS x £ &v.
Addito elvat verbi participio epitheti veritas indicatur, ut
convertenda verba sint: denn er ist unter den Gdttern des
menschenfreundlichste and der walirhaftige llclfer der Menschen and
Arzt der Uebel, deren Heilung dem Menschengeschlechte zur
grossten Gliickseligkeit gereichen miisste. vjjieiS 61
xoHvdXXcDV 8i- ' 8a6xaXoi i&edSe, Hæc verba vario modo
explicari possunt. Fortasse Aristophanes vulta ad serenitatem composito,
tanquam summæ veritatis rem probaturas satis festive, ut comicum decet,
doctoris formam imitatus Vobis, inquit, ego, vos ceteris præceptores
eritis. ovx avxrj rjv, rjitep vvv. Bekkerus, quem
secuti sunt Astius et Reyudersius ex Euscbii Præpar. Evang. XII. 585. C.
i) avxrj in textum recepit. Fiemus habet: neque enim, qualis
nunc est, olim erat, sed longe diversa. Nihil mutandum est. Verba proprie
audiunt generis assimilatione omissa: 7} ydp Ttakai rjpcov cpvdiS
ov tovto ijv, Zizep vvv, aAA* aAA owv xt. Sed minus adamatum hoc
dicendi genus fuit Græcis; quamquam enira rectius censeri potest,
atque exprimendæ sententiæ convenientius, tamen minus elegans est atque
durius. Hinc factum, ut generis assimilatione adhibita scriberetur
ovx avtrj tjxEp . Diximus de hoc genere dicendi 139. «Aov rjv
hiouSt ov tov &v9q<6xov to slSog, GtQoyyvA ov, vojtov y.al kXevqus
xvxXa %ov. %HQas Si xtrtaQas tljE, xui Gxibi tu %6u tuis X e Q^' *«*
Xqosuzu Svo avdpoyvvovydp e v r ote y\v rjv xal eido S [xal
ovo/ia.] Ficinus Tcrba convertit: Androgynum quippe tunc
erat et specie et nomine, ex maris et feminæ sexu commixtum. Eum secutus est in conversione Schultliessius: Deuu dazumal war das
Mannweib wirklich wie im Namen, so in der Gestalt vorhatiden.
Stallbaumius od h. 1. deest, inquit, ev in multis codicibus, itidem apud
Stobæum ct Eusebium. Quod vide, ne omittendum sit. Riickertus %v
verbo servato verba convertit : Androgynum enim tunc unum erat non minus
genus quam nomen, ex utroque conflatum, virili et muliebri ; nunc non est
nisi nomen opprobrii caussa inditum, Displicet hæc conversio eo nomine, quod
repetitionem iuutilem continet præcedentium verborum : crAAoc xal
rpixov (sc. yivoS) itposijv xoivov « 7 / 90 xipCDv rovx&v x. t. A.
Porro caussam frustra quæsiveris, qui fiat, ut commemorato in
prueee-» dentibus yevo$ verbo nunc elSoS idem significet atque
yivoS. Postremo male se habet: Tore h. e. tum temporis unum fuisse et
genus et nomen avdpoyvvov, quasi non et Platonis ætate unum nomen
avdpoyvvov fuisset. Ev voce deleta sententia hæc est verborum:
Mannweib war damals in Beziehung auf Gestalt uud Numen aus beiden,
dem MannJichen. u. Weiblicheu ausatnmen gesetat. Sed rursnm quæras, nuin
Aristophanis ætate Androgyni nomen ex ntriusqne generis nomine non
compositum fuerit? Si qnid video, ineptum scioli additamentum est
xal ovo/ia, quod præcedentibus verbis ov vvv ovofia A ontov nullo
modo explicari potest. Deleto eo optime huius loci verba se habent.
Aristophanis mens hæc est : sed et tertium genus insuper erat utriosque
generis et masculi et feminini particeps, cuius nunc nomen superstes, ipsum t
periit* Videlicet androgynum (ut nunc nomen, ita) tum temporis
nnum erat etiam eldoS utriusque particeps generis, masculi
femineiqne. v v v d’ ovx tdxiv aAA* rj i v 6 v eide t ovo y a
xeiy evov. Ietzidagegen istes (das Androgynum) niclits auderes, ais ein
schimpflicher Name. Scripsi aAA pro vulgato aAA*. * Vide Engelliardtum ad
Piat, Apol. Similiter scribendum est LEONZIO (si veda). A. trAA*, 7/,
xo Xeyoyevov, xaxomv hopxijS rfxo pev xal vdxepovjiEV \ Non ubivis autem
scribendum <*A A ?/ esse, Phædonis Jocus docet 81. B. goSte
yt/dlv dAXo doxelv BLVCLi aAijSlZ aAA* ij xo dcojiaX oeideis x. t. A,, ad
quem locum Stallbaumius rectissime: Orta est,' inquit, hæc locutio
ex coniunctione duarum loqnendx formularum, quarum altera
oppositionem altera comparationem indicat. Hcrmannus disiungendas esso
has particulas iocet atque 7J cum altero 7/, quod in me mbro
orationis supplendo comparcat, In' av%ivi xvxXoteqcT, ouoicc itavty
xscpceXrjv 8 ' In 190 aiKpoxiaous rovg ngoganoig ivavxloig nEx/ihoig
[ilav, xai coxa xlxxaQa, y.al alSola 8vo, xal talla navxa ug iungen
xal talla navxa ug iungendura. Nimiram expletiorem orationem
esse, ut v. c. nostram locum ad Hermanni præceptum exornemus: vvy 8
’ ovx l 6 xiv d\\’ V et v dvelSei oyopa xei/isvov r) ovx ol 8 a iv
ct xsixai. Sed falsam esse, Ed. Hænischius ait in annot. ad Amat.,
hanc explicandi rationem, hinc maxime apparet, quod, si yera esset,
nemo sic diceret, nisi qui aut ipse se rem suam parum compertam habere
profiteretur, aut id, quod certo sciret et eloqueretur, ita afiirmaret,
ut, si non verum id esset, se de suo ipsius indicio desperaturum
esse significaret. Pro dXX ?/ interdum 7 tX?}v r/ reperitur, neque rarum
Tt\f\v olK X ?/, quibus formulis similes sunt formulæ nostratium ausserals, uls
nur, ausser ais nur. De xsiG$at verbi potestate dictum est ad 100.
Ut de legibus civitatis, ita de usu loquendi recepto sæpissime apud
scriptores reperitur. Ceterum Riickerto non assentimur, ovopa iv ov
sidet xsiuevov eodem modo dictum censenti, atque Xafislv iv
cpipvy ^Svpiav y Syriam dotis loco accipere. Ut Homerico J
SsgUv iv yovvadt xsixai fatura inflexibile significatur, ut iv
ftop” popeo xsidSai in Phædon, 69. B. de æternitate vitæ miserrimæ
dicitur, sic ovopa iv oveiSst xsipsvov usus recepti constantiam
exprimit. dvdpoyvvov . v. Suid. s. r* dvdpoyvvoS et Muson.
Fragm. p« 208. ed* Peerlk* Alter habet: 6 xa avdpoS rtoiGov
X&l xd ywcnxwv TzaoxGDv. Alter: ol ys dvkxovxat avdpoyvvoi
xal yvvaiXG) 8 etS opatiSai ovxe ? 9 onsp s 8 ei (pevysiv iB,
anavxoS, si 87 ) roi> dvxi avdpss 7/tiav, Urtsixa. Præcedente
irp<atov psv, quod male Ficinus convertit a principio,» htsixa 8 s scriptum
exspectaveris. Sexcenties autem iizsixa reperitur omissa 8 i
particula, quoniam htsita tantæ gravitatis est, ut ipsum possit, hoc est, non
adhibita dfc particula, oppositionis pondus sustinere. Unum e multis exemplum
ut laudem, 194. E. legitur! iy<d 81 87 } (iovXopai xtpooxov p\v
tlittiv, y XPV M e elrtEtv, IneiXOL shtsiv . In se quentibus Ruckerti annotatione factum est, ut post xo
EiduS comma poneremus. Riickertus autem. Me oppositio, inquit, quæ
hic adest pristinæ integritatis et insecutæ postea dissectionis
admonuit, ut oXov prædicatum esse censerem, quam interpretationem haud
scio an commendet etiam vocis locus ante 7/v y quem vix teneret, si cum
sldoS esset conuectenda. Dicit igitur hoc: Deinde iutegra
erat hominis figura, rotunda, dorsum et latera circa habens
(non,* ut nunc, dorsum, latera et pectus.} xEEpaXrfY 8
* plav. Quis non Iani meminerit, Latinorum dei antiquissimi, quem
uno capite, facie duplici insignem venerabantur? Erat autem Ianus dito
rovtcov &v rig tlxdaniv. litoQtveto 51 6q9ov, agitSQ vvv, oitoztQaOs
fiovXq&ilt] ’ xal ditor e xu%v oq(itjGut &siv, iSgittQ ot
xvfiiatavrig slg oq&ov tcc Oxalrj itsQitpsQOfisvot xv)3 MJtiutft
xvxha, oxuo Tore ov<5t tolg fitXs~ Civ aitEQEid6[iEvoi xa^v Itpiqov to
xvxlco o yv da Sia taura pacis dens, nt verba Aristophanis iu Erotem
directa et Iano conveniant: l6xi Seoov cpiXotv^pcoTtQTCtTOS, $7tlxOVp6f TE G$V
XGOV dvSpdiccdv 7 (ai laxpoS xovxgdy, cor IocSevxcjv psyidrr/ av
evSaipovioc rc5 dv^pcjTteiw ykvEi fi?;. Adde 191. D. $6xi 6?} 17/ f dpxalaS q>v6£GDS 0vvaycoyevf, xal
inixEipivv 7Xoiijdai 'ev lx Svotv xal latiadSai xrpr tpvtiiv x tjv
dvSpGDTtivTjv. Quid, quod ipsum nomen Iani aliquam haberevidetur cum
{aivco verbo cohærentiam? Romaui bellorum quam amoris intentiores
rixis, CONCORDIÆ AMANTIVM AMANTE AMATO pacem pacisque conditiones
videntur substituisse. ijtOpEVEXO OpSor, GjSrXEp rvr. Koti
vulgo ante vpSov positum deest in codd. non paucis, Bekkerus vocem
in textum recepit, uncis Stallbau» mitis et Dindorfius incluserunt.
Ficini conversio hæc est: Incedebat hoc tunc et
rectus, ut nunc, in utram vellet partem. Kai vocis tuemluc
provinciam suscepit Ruckertus his verbis usus: Duplex
incessus pristinorum hominum narratur, erectus, quem nunc etiam
habent, eo tantum ab hodierno diversus, quod tum, utram in partem
vellent, pariter præcedebant, /z. e, prorsum et retrorsum, alter
rotationi quam meatui similior • Sequentia igitur verba hoc modo
exhibere voluit : Jtal, dxots xaxv oppyjdEie $Etv, ooSTtEp ol
7wfhCxdvreS x, X. X., nam in eius editione comma post Ttai
non comparet. Sensos est: Er ging aber aufrecht, wie jetzt,
nach welober Seite hin er wollte, und, wenu der eine oder der
andere schneller sich bewegen wollte ete. Vulgo pro opfiJjdeu
legitnr opprfCei pro %eiy verbo IXSeiy, Male. <k)S7XEp ol
XVfildXGOYXES* Derivatur hoc verbum a xv(bj > quod idem
aotiquitus significasse perhibetur, atque XEqjaXij. Igitur primaria
xvfit6xdv verbi significatio videtur esse: capite insistere, se præcipitem
dare, cfr. Hom. XElpOYX lyx^Xvk? x e hclI Ix^veS,, o*l xotra Sivaf
ol xotra xaXa fissSpa xvfiidxcor $v$a xcii $vSa. Erat
autem apud Græcos saltationis genus, quo qui utebantur, caput deorsum,
pedes sursum proiicere solebant, non nisi pedibus solum attacturi.
Summa corporis atque inprimis spinæ mobilitate opus erat
saltantibus, quare Patroclus Kebriouc, Hectoris auriga, iuterfecto,
satis acerbe II. 16* 745. hæc profert <L nbxoi> r\ pdX
9 iXatppoZ dvrjp, fisla xvfhtixd et v. 749. <6$ vvv Iv txeSIgj
IB, itctcoov pEta xvptdxd r) fia xal iv TpdedCi xv(h6xqrr/peS
iadiv.tqlcc ra ylvr) xal roiavta, on r 6 fitv kqqiv rjv r ov rjXtov B t
rjv «QXV V Pxyovov, to Se %rjXv Trjs yijs, to Se aiupoTSQC3V iitzs%ov vfjs
OiXrjvrjs, ori xal rj Gelrjvtj a[i<poreQatK yiEzl%u. TtEQirptQrj Se Sr) yv
xal avrcc xal rj noQsia avrav Sia zo rotg yovevOiv ofioia elvai. rjv ovv
xrjv Tangit fortasse hoc saltandi genos Herodotus 6, 129. 6'btizoxÆiSyS ixiÆvdi
oi riva tpanaZav iSevEtxai * iASovtiyS 8h ryS rpaTtE&jS n patra
plv in avrijs oopxyoaro Aaxaovtxd &XV~ paria’ pera. 81 a\Aa
*Arnxd • to rpirov t ?/ v xecpaArjv ipeidaS ini r rjv
rpane%av roidi 6xiXe6i ix «ipovopyde. Schol, ad nostrum locum iusto
brevius : xvfiidryp 6 opxydryS xal xvfiidtav to opXsiGSai.
eis opSov ra dxiAy n. Ante eiS in plerisque codd,, quatuor
exceptis, xai legitur, quæ depravatio textus est manifesta.
Omiserunt voculam editt. omnes. Orta ea lectio est e mala intelligentia præcedentium
verborum, quæ intellexit, quisquis fuit, qui xai interposuit, hoc
modo : ino pevsro 81 opSov (3snep vvv, xal, sc. (inopsvero) ditare tax
t) opprjdeie Seiv, ooSnep ol xvftidravrsS ’ xal eis opSov x. r.
A. oxtgj tore ovdi. Vulgo legitor rore oxrcJ x. r, A. Transposuit
verba, qui putaret, rore ad præcedens onore pertinere. Probari
posset vulgatus verborum ordo, si scriptum exstaret: rore rolS
uxtgd piÆdiv anepEiSope voi x.t. A. Sed non addito Articulo, ovdiv autem
participio adhibito, cur is ordo verbornm unice probandus sit, quem
cdd, omnes probarunt, facile iutelligitur. 7/v dk Sia Tavta
Tpla Ta yivy xal toiavra. Ad certam quandam philosophiam
comicum poetam respexisse, quam- quam a multis annotatum est, tamen ut
credamus, animum inducere non possumus. Vulgatum euim hoc erat, et vero
etiam nominum terminatione firmatum, TfXiov, solem, virili
potestate esse, yyv, tellurem, feminea, qua propter etiam rerum
mater vocata est. Fieri igitur facillime potuit, ut philosophia advocata nulla,
mera vulgi opinione nixus solis prolem masculum genus vocaret, terræ
femineum Aristophanes. Restat ut de Androgyni origine dicamus,
quod cur Lunæ prolem dixerit, disertis verbis indicatum est; ori xal
?} dsAyvy dptporipoov perixei. Atque ipso nomioe deXyvyS hæc coniunctio
terræ ac solis indicata est. Dorica forma est (?£A avaia, quam convertere
possis Glauzerde. Solebant autem veteres novam quandam in huiusmodi
rebus opinionem prolaturi, argumentorum loco er ipsa rerum natura
petitorum, alias res conquirere, quibus illam probarent, Sic Pausanias,
ut duplicem Erotem esse probaret, ad duplicis Aphrodites mentionem
confugit, quarum suum utrique Erotem assignaret, n epitpepij
8h 8?) yv. Non gkreisformig,» quod in Astii et S chleier
macheri Itfrvv 8 uva xal xijv qcoiiijv, xal xa tpQovrniWK (itycda
tl%ov, lnt%dqvfiav de zoig &eolg, xal o kiyu "OfitjQos 3 csqI
Ecpiccltov xs xal ”ilrov, jtejh Ixdvav Xeyixai, xo C ds tow ovgavov
dvafiaGiv im%UQelv noielv, ag Ixi&iy Gofiivav xoiig
tteois. versionibns legimus (adde etiam Schulthessii
conversionem 88. ed. Orellii,) quis enim circuli formam
corpori tribuat, sed kugclformig. Riickert. In sequentibus
8ia to opoia eivai verba Schleiermacheros convertit: um
ibren Erzeugern ahnlich zu sein. Rectius Ficinus: quia parentum
similia. xal ta (ppovrfiiaT a pe* ya\a elxov.
Schleiermacherus: nnd hatten auch grosse Gedanken. Minus accurate. Articulo enim addito efficitur, ut sensus sit: und der
Hochmuth, den sie hatten, ging ins Un* geheuere. vide annot. 12.
Articulo non addito supra legitur 182. C. ov yap, olpai, dvptpipei toiS
apxovdi tppowjpara peyaXa lyyiyvedSai, quem laudo locum, ut de
nostri loci articulo facilius certiusque iudicari possit a lectore.
MeyaXa <pporj}para dicuntur autem habere, qui contra dominos conspirant,
cfr. 182. C. ov, yap, olfiat,
dvpq>epei toiS apxovdi (ppovrjpata fieydXa lyyiyvedSat tgjv dpXoiUvoov
ad quem locum ' vide annot*. 102. Comparativum exspectaveris, non
positivum ; ille tameu in hac formula solennis. o Xkyei "O prj
poS. Od. 11. Sl4. "Oddav iic OvXvjiitto pe*
padav SepEY, avtap £tz "Oddy JlrfXiov elv o
diq>v\\ov,lv* ov pavos apfiaxoS etr/. ooS litiSr] 6 o pkv
gjy roiS SeoiS. Riickertus iungenda hæc, inquit, cum Ttepl ixeivGOV,
quæ structura propter interiectum membrum to tcoieiy, in quo
avxovS subiectum est, aliquid incommoditatis habet. Ad
l7Ci$t]6op£vcjv supplendum est potius avTCDY. Exhibetur autem
genitivus participii cum gjS, ubi aliquis refert quod aut ex aliorum
opinione depromtum est, ant quod ab aliis vult cogitari, ut in Piat.
Apol. Socr. 30. B. itpoS lavra, (pocbpr av, cJ av— 8 pes *A%r]vaioi,
rj nelSedSs *Avvxcp rj pjj oj S ipov ovk av itoiijdovroS «AAo
x, T. A., h, e. de me ita cogitate, me nunquam quicquam
facturum esse aliud. *0 ovy Z evS xal ol a AAot $ 80 i. Omnem
hanc narrationem de deorum consultatione et quid facerent, dubitatione,
nt cupierint quidem punitam humani generis protervitatem, sed
nec severitate uti ausi fuerint, quam læsa maiestas exigere
rideretur, nec aliud invenerint remedium, quo et illi poenas darent
et suus honor salvus maneret, donec ad postremum Iapiter ægre
aliquid excogitaverit, hanc,, inquam, a d deorum derision em
comCap. XV. 'O ovv Zevg xa l ol «A Aoi 9iol Ijiovltvovto o «
%(M} avtovg 'MHrjtScu xal TjXoQow. ovte yag onag axo positam esse neminem
poto non videre. Riickert. Male; vide Comm. de Piat.
Symposio» oti XPV ctvtovS rtOtij6 at. Ne quis pro indicativo
optativum reponendum censeat, quod Astius olim fecit, post
infectum, voluit: Græci ingenii tanta est vivacitas, ut structuras
verborum doas, quarum ntraque suam quandem iucunditatem habet,
confunderent atque commiscerent, videlicet ne, cum alteram prætulissent alteri,
alterius gratias simul amitterent. Igitur oxi XPV avtovS rtoii}6ai
compositum est ex oratione obliqua oti XP E ty avtovS it. et ex
oratione recte ti XPV ocvtovS Xotijtica xal ojSitep, rovS
ylyav taS xepavrccHj arreS. Stallbaumius, intellige, inquit, post
yiyavtaS tfq>avi6otv ex proximo ctqxxvldEiEV, cuius breviloquentiæ
exempla collegit Wyttenbachius od Selecta Princip. Hiator. 364. Riickertns
verba sic inngenda esse censuit : ovte yap eIxov ortcoS drtoxTEtvcæv
(sc. avtovS) xal ro ylvoS dtpa . vldaiEv, XEpavvGotiavtES GDinep rovS
yiyavtaS . Neutra explicandi ratio nobis placet. cuV itep h. 1, non
similitudinem indicat, sed agendi rationem describit, ylyavteS autem
homines vocantor illi ipsi, qui e masculo et fenrineo genere compositi
viribus freti ac robore, elatiores animos alebant. Sensus est: Sie
wussten iiberhaupt weder einenRath, dass sie sie todteten, und besonders w i
e sie, nach Erlegung der Riesen durch den B 1 i t z das ganze
Geschlecht verdiirb e n . Disertis verbis
ylyavtES commemorantur, ut esset, quod sequenti ykvoS opponeretur.
Quoniam autem homines nondum dissecti erant, fieri non potuit, quin cæsis
hominibus illis totum genus hominum misere periret, atque nemo remaneret, qui
deos veneraretur. ai tipal yap avtolS 7/ <p
avi$£t o. cfr. Symp. 198. C. vit ai6xvvr]S oXiyov artodpaS <px^PV v ?
KV MX 0V Nemo Stallbaumio melius de indicativo huius loci explicando
disseruit. Eius verba hæc sunt: * Aoi istas et imperfectum sine av
particula positum in talibus SIGNIFICAT certo et haud dubie aliquid
fuisse futurum, pr opter ea quod habeat obiectivam, quam dicunt,
necessitateniy ut Lat^ futurum erat: accedente autem av particula etsi pæne
idem significatur, tamen conditionis et mudalitatis, quam vocant
philosophi, accedit notatio, ab hoc loco, pæne prorsus aliena . Quocirca
non tantum XPV V > £5 Et, npoSijxEV, ut Lat, oportebat, decebat,
debebam, ita usurpatum est, sed multa alia verba, irtprim slvaiEV ii%ov
xal 'cos it£Q, tovg ylyavzag xsgawdeavreg, to ytvog oxpavLaaitv, al rifial yag
avroig xal rcc tfQcc ra naga rwv av&Qamov rjtpavl&ro ov&
oitag latv aCilyaivuv. fioytg 8rj 6 Zsvg IworjtSag Xlyu, ore zloxd
fioi, %<pi], %%uv iiTjiavijv, wg av iliv te uv&gaicoi D xal
xavOaivro t ijg axoAaOlag aG&tvtGztQoc ycvofuvou vvv (iiv yag
axnovg, £cprj mis ea, quæ natura sua continent aliquam obiectiuæ
necessitatis significationem. Indicativo in hypothetica enuntiatione Latini osi
sunt plerumque ita, ut non tam obiectivæ necessitatis, qoam temporis
rationem haberent, quo tempore aliquid, quominus fieret, impeditum esset, cfr.
Tac. Histor. II. 46. iamquo castra legio-^ dum exscindere
parabant, ni Mucianus sextam legionem opposuisset, h. e. achon waren
sie daran, das Lager der Legiouen zu veruichten, hatte niclit zur rechten
Zeit noch Mucianus die sechste Legion entgegen geworfeu. Adde
notissimum Horatii locum Od. II. 17* 28. Me truncus illapsus cerebro
sustulerat, nisi Faunus ictum dextra levasset h. e. Mich
hatte der auf mein Haupt stiirzende Stamm getodtet, hatte
niciit noch zur rechten Zeit Faunus durch seine llechte die
Kraft der Wucht gebrocheu. Temporis hanc notionem quando assequi
volunt Græci scriptores, eodem dicendi geuere utuntur quidem, sed
non nisi addita iv3v$ particula temporali, cfr. Thucyd. VIII. 86.,
quem locum Stallbaumins laudavit iv gj datpidxaxa 'looviav neti
'i&U?/dtarenco $i%a exadtov, xal difovtov evSvS’ eTxov ol ito
TUfiioi, doxdj fioi, £<PVt Quod supra annotavimus 159.
ad verba o n XPV olvtovS itoitjdai y id iis vehementer displicebit, qui omnino
duas verborum structuras confundi atque commisceri neguut. Negant
autem, qui non intelligunt structuræ originem. Etenim rem
animo suo ita informant, ut censeant, scriptores positis dnabus
verborum structuris artificiose ex utriusque quibusdam fragmentis tertiam
composuisse. Nobis persuasum est, hoc structuræ genus non e scriptorum
officina prodiisse, sed e quotidianæ vitæ sermone iu scriptorum libros
immigrasse. Pertinet huc noster locus, ubi præmisso ott, quod
indicium est orationis obliquæ, ipsa alicuius verba laudantur. Patet
autem, proprie dicendum fuisse Aristophani : \iyet, ori domi ol Ixew prjx ay yv
r. A. Factum autem Græci ingenii facilitatemne dicas an
felicitatem, ut servato obliquæ orationis indicio rectam orationem
retinerent, atque orationis suspensæ continuitatem cum rectæ
orationis vigore coninngerent. De hac structura vide etiam
Mattii. Gramm. plen. $. 623. 2. b. p* 1270. a
«pa fiev &0&svl<3teQOi $<Sovzai 9 apia %Q7]diu6TEQoi Tjfilv
dia ro irXEtovg tov dgi&ndv ysyovEvai' xal fia- * diovvtai O 0 #oi
liti dvoiv dxsXoiv. lav d 9 Htt, doxaCiv aGzXyuivEiv xal firj e$eXco0iv
i]0v%iav ayeiv, itdXiv 'av, %(pr] 9 refiu dl%a, wgz’ Ecp kvdg xoQEvdovzai
OxtXovg doxcoXia^orreg. ravza thtcov Sze^vs rovg dv^Qunovg di%a,
&g%EQ oi za da zipivovzEg xal (isXXovzEg zapixsvsiv, ij E xal ajia n'ev
adSeri6tepoi idovz ai. Sensas est: nane eos dividam bifariam, at et
debiliores homines sint et utiliores nobis, quippe nam ero
auctiores. Amant Græci, quæ de certissimo eventa actionis præcedentis
dicantur, ea xal addito superioribus annectere. Paullo infra
legitur naXiv av te/ico 8ixa, Sst iq> kvoS nopsvdovtai x.T.X., ubi
bene haberet xai pro gjSte positum ; hoc tamen scriptor prætulit,
quod reiterata divisio cogitatur tantummodo, non tanqaam actio, quæ
hat aliquando certissime, proponitur. 7tdA.iv av t Zcptf,
teji c 3 Sixa. Rursum exemplum habes verbi, quod casu suo
spoliatum ita exhibetur, ut notio verbi prematur magis, quam vis
actionis, Minus recte Schleiermacherus iu conversione: So will ich
sie, sprach er, noch einmal zerschneiden. Rectior conversio liæc est: So wiederhole ich die Theilung
noch einmal. Atque obiter ut hoc moneam, ut Græci naXiv av, ita
nos nochmals wiederliolen, pleonastice loqui solemus.
txdxcoXt ccZoyteS. Schol; ad h. 1 . a<jKG)\id?,Eiv xvpicoS
filv tu ini tovS adxovS aAA« d$an dXrfXippkvovS, iq>* ovS
in7fdc.iv yaXoiov ivsxa • TivlS xal ini tcoy Cvf.tnE(pvx6<5i
zotS dxkXEdiv dXXo/ikvcDV. . ?fdrf 61 TiSkadi xal ini tov aAÆ69 ai to
YEvpov (Bekk. legendum censet roV Sr Epov ) took noddUv avkxovTa^ rj
a>S vvv ini OxkXovS kvoS fiaivovTa. %6ti 61 xal to x^XatYEiv. E
Schol.' ad Aristophan. Plut 1130., ubi complures ddXGoXtdgEtv
verbi explicationes reperiuntur, male autem adxcoXia vocatur
iopTtj tov Jiovvdov, nisi fortasse latiore significatu accipiendum
est hopTif verbum, ex huius, inquam, Schol. annotatione selegi hæc :
xvpioS ddxciXidZbiy iXEyov to ini tciy ddxoov aXXEdSai ZvExa tov yk
Acoro: noiEtv • iv /ikti& 61 tov $sdrpov ZtISeyto adxovS
ns(pvdifpkvovS xal aAijXififikvovS, fis ovS ivaXXufiEvoi ivaXiOSaivov
xaSansp EvftovXoS cpifdi • xal npoS ys tovto ctdxov elS fikdov
xazaSkvTES, EtsdXXedSa xal xayxd&Te ini rols xarafifikovdtv . ddxooXia^Eiv
'eXeyov To ivdXXsdSai tois doxols, ?/ to ini ivds nodos dXXedSat. Hæc
satis de significatu adxcjXia&iY verbi. Non dubium est autem, quin h.
1. doxa>XutP,EiY uno pede saltare significet» Ut, cum humanum
genus primi11 162 II AA TSINOE wgmo ot
tu (bu xaTg ovrtvu fie rifioi, rov 'Aitbkha ExtktVE T 6 TE TtQO gtOJCOV
flETU0TQEtpElV XUt TO TOV ClVyivog ijfiiGv tcqos Ttjv rofiijv, tvu
&Etbfiivog rtjv avxov TfirjGiv xoC/ucoTEgog d'rj 6 av&Qmnog, xal
tukka ia6&at IxiklVE V. O 61 TO TE KQogUltOV liETEtiTQEqiE, XUt
GVVtkxaV tos nvfiuStav dicatur, post ln\ Svoiv dHeXoiv
fiaUiZEiv, futoro tempore ddxooXiddEtv dicatur. Uno pede
etiam hodie saltari in Helvetia, Italia, Græcia, satis notum
est. &S 7t ep ol r d da xkpy ovtf? nal pkXXoy x eS xapiXeveiv.
Lectio vulgata est c oa, quam merito interpretes recentiores improbarunt.
Nimirum legitur in L. V. PJ. Timæi: da dxpodpvojy eldoS pr/XotS pixpois
iptpepis. Colligitur inde, Platonem hoc verbum commemorasse in scriptis.
Ilaud facile autem locum Platonis invenias, cui vox illa magis
conveniat. Interpretantur, qui harum rerum periti sunt, da sorba
(Arlesbeeren, quæ condita esse, nt diutias conservarentur, non pauci
sunt, qui tradidere; cftvVarr. de re rust. I, 69. ( Putant manere) sorba
quidam dissecta et in sole macerata, ut pira, et sorba per se
ubicunque sint posita, in arido facile manere. Quæ sequuntur verba,
spuria censuerunt Sydenhamius, Bastins, Astius. Frustra. Quamquam
enim prorsus nescimus, cur in ovis dissecandis crinibus usi sint
veteres, hoc certum est: duobus allatis exemplis Aristophanem
et facilitatem et artificium dissectionis indicare voluisse:
ao Jexcbt, wie man Arlesbeeren zum Einmachen spaltet, so fein
und kunstlich, wie man Eier mit Ilaaren theilt. Eodem modo
explicanda sunt verba Plut. Amat, 770. B. ojSittp cdov avrtdv Tpify
Siaip&tiSai t rjv cpikiav. Male igitur Rtickertus ad h. 1. Hoc
quidem, inquit, concedimus, languidiusculam esse alteram comparationem,
concedimus, fieri potuisse, ut ab alio adderetur; sed additam esse tantum
abest, ut contendamus, ut facetiarum captatori Aristophani recte tributam
esse censeamus. Ceterum coniicio equidem, ovornm per crines
dissectionem ludi genus fuisse; fortasse ex ovorum dissectione per crines
facta convivæ futura prædicere solebant. 7t p o 5 xr)y xoprjv.
Ut in præcedd. ad xa cJa supplendum est e proximis xiproyxeZ, ita
h. 1. psxa6xpl<peiy recte repetieris. Toprf significat proprie
'id, quod ex aliqua re abscissum est ; nostro loco corporis eam
partem denotat, quæ dissectionem passa est. Similiter topi j apud
Hom. II. a, 234. positum repentur: va\-pa rode dxijnxpov, To
p\y ov%ot e (pvXXa xa\ d £ov? $>vdei, iiteidr} TCpddxa t
opijy iy opeddt XeXoi7tev, quo loco truncum denotat, ex quo
sceptrum abscissum erat. In sequentibus pro Trjy avxov xpijdiy, quod
recentiores editores omnes habent, plurimi codd. avxov exhibent.
Non male, si 3 iuvtct%ofttv r 6 SsQjia Ixl xrjv yaCtiga vvv xaXov(ikvi]v,
SgntQ ta eioxaUxa (iaXavtuc, tv 0 x 6 ( 1 « xoicov ankSh xaxce (ii(St]V xrjv
yaOxtQa, .0 Srj vvv 6 (upcd 6 v xaXovOi. xal rag (iiv aXXag Qvxldag xag
xoXXag igtlLcuve, xcd xa 191 Gzrforj dujp&QOv, ijrcw n xoiovxov
ogyavov, olov ol Cxv avrov pro avxoSi positum accipius ; melius tamen
illud habet. xalraAAa ladSai ixeA evev. Schleicrmacherus ia
conversione habet ; u n d das ubrige beiahl er ihm auch zu hei 1
en. Scriptum quidem exspectaveris xa\ navxa iadSai ixiXcvEv ;
addita auch particula insolentia verborum non mitigatur. Ficinus
verba convertit: reliquis autem mederi iussit. Alia nobis
explicandi ratio placet. xaXXa a sequente infinitivo seiungendnm
est, iddSai absolute positum est : und iibrigens befahl er ihm Heilung
an. De hoc usu verborum sæpius iam annotavimus, vide anuot. 22.,
27* al. Paullo \ v infra eodem modo 8ioatavEd$ai positum, ut non
actio, sed notio verbi exprimatur tva ittojdpovi) yovv yiyvoiTo xi}$
6wovdiaS xal dianavoivro h. e. ut satietas
esset amplexandi et quies. ln\ xr)v yadrepa vvv xaXov
pivrjv. Schlciermacherus : tiber das, was wir jetzt deu Bauch
nennen. Non satis accommodate, ut videtur. Cum vi pronnutiandum est
yadripa, ut ne vernaculo quidem sermone articulus recte addi possit. Structura
verborum primaria hæc est: ItzI to yadz?'fp vvv xaXovpsvov, quam
structuram ut minus elegantem incomtioremque ætas Græcorum excultior nou
tulit. <3 Sirsp ra dvdnadxa ftaXavxia. Poli. V. Si. in
recensendo venatorio apparatu xv» vovxof, inquit, 8ipya podx^ov t
lis o brciSexai ro Sixxvov, rcJ 6XVP<* XI TCHlOnjpbvOV, (3 Sit E
p xa dvdnadxa ftaXavzia. Ficinus convertit: tanquam contracta
marsupia. Articulo addito effici videtur, ut sententia sit: in Form von
zusammengezogenen Beutcln, -wio ihr sio ja kennet. o 6 7 vvv
o ptpaXov xaA ovdi. Codd. omnes habent o 8i) xov u/i<paXov xocXovdi,
idque editores in ordinem verborum receperunt. Male ;
urgenda est vox ojutpaXof, atque vi quadam pronuntianda, quæ vis addito
articulo funditus perit. Similiter Sjrmp. 180. E. ov 8?} ndvdtjfiov
xaXovpev, de rep. I. 332. C. r) xidiv ovv xi dito8i8ovda xixyrj
iarpixj) xaXEixai 191. B. o 8?} vvv yvyaixa xaXovpev. Menon, 81-
B. o 8tj artoSvyjdxEiv xaXovdiv. Alcib. II. 140. B, ovS 8ij
xaXovpEv iaxpovS. ib« p; 187. D. o 8jf pEXonottav xaXovdiv., Ibid.
*L 382. D. yj x idi x i ano8i8ovda xixrv payEipixrj xaXtixai. vide
annot. 129 et 130. xi xoiovxov op yavov. De indefinito pronomine
supra dictum est 28. ad verba £3 o r yap xi xovx £*«. 11
* IUAT&N02 rotofiOi, xiqI rov xaXccnoda Xeatv ovreg rag
tav dxvrmv QvrlSccg' b Xlyag 6 e xaxlXmi, rag mqI avrrjv n)v
yaStega mu rov ofitpaXov, (m/ftaov dvca rov nctXcaov xa&ovg.
'Enubi] ovv r; (pviiig Sixa no&Ovv exaGrov ro t}fu6v ro
avrov tvvfai, xai neo^aXXovre.g rag %UQug xal £v[inXex6/i£V0i uXXt/Xoig,
em&vfiovvrsg Ovfirpvvai, aneto 9 tn] 6 xov vnb Xiuo v xai rrjg aXXijg
agyiag dea ro (iTjdev e&iXuv %w@ls aXXijXtov noielv. xai onore ri
ano%avoi Quibus verbis ut respondere annotavimus nostratium J d
as so sfeine Art, ita verba nostra convertenda videntur esse:
indeift er etwa ein soKchesWerkzeug hatte, wie die Lederschneider,
Creuzerus Lect. Piat* 525. censet, ut 185. E. dicatur dvaXaftobv xi
roiovtov, ita h. 1* satis esse l 'x&v n roiovtov. F rastra*
nepl rov xaXditodot XsaivovtsS. Pes ligneus videtur fuisse, super quem
coria extendebantur, quo facilius et explicarentur et ad pedis formam
adaptarentur. Etym. habet xaAoVovV XvplooS o ZvXivoS itovS* xaXov ydp xd
B,vXov. Suid. s. v. xdXaf xaXov ydp rd B,vXoy % ig ov xai
xctXoTrovS, 6 gvXivoS itovS. E Pollucis auctoritate, qui habet X.
l4l. rd dxvrordpov dxevij uaXd/tovS, iv rc J dvpitodicp y Bckkerus,
Stallbaumius, alii dederunt xaXditoda, codd. non pauci xctXo7Co8ec
exhibent. Fortasse utra^ue forma Græcis scriptoribus usitata fuit*
rov itctXaiov itdSovS . h, e. rjLitfacjf, ?/v titaSsv o dv~
SpGoitoS iv r<ji TtdXaicp xpovoo. cfr, p* 189* D. insidi)
ovv 7} tpvdiS. Annotat Riickertus ad h* I. : Offendit Astium nude positum
vocabulum, post quod avrdov vel rjfi&v excidisse putat. Offendit nos quoque $ sed putamus ipsius Platonis peccatum esse
posse . Etiam Stallbaumius ad h. 1. avt&v supplendum esse
censet. Aliter nos statuimus de hoc loco; Articulum exhibuere
veteres scriptores haud raro, ut ’ indicarent, de re sermonem esse,
quam in præcedentibus iam tetigerant. cf. 189. D. ?/ ydp TtdXai ij/tcov
<pv6i$ ovx avnj 7jv rjitsp vvv x. r. X. Mens Aristophanis est;
Da non die urspriingliche Einheit der Korper, vou der oben
gesproclien worden ist, gelosst war cet. Exem* pia si quæris huius
usus articuli, vide anuot. 12., vito Xipov xai rrjs aXXt}S
apyiaS. Vulgo
vito rov Xiuov legitur, quæ lectio cur ferri nequeat, e prægressa
annotatione colligitur. Ceterum aX AoS 1 rebus apponi, quæ genere non
differant, specie discrepent, supra annotatum est 116. Restat, ut
dicamus, quo iure id fiat. Riickertus ad h. 1. Videtur, inquit,
aXXrf alia verti non posse, neque negare licet aAAo? non nunquam
ita dictum esse græce, ut propriam hanc vim neutiquam exerceret, de
qua ffi>v yfiteeav, t 6 81 lutp^sit], zo letcp&ev aXko IfiJ
tu xai avvmkixezo v eize yvvcuxog tijg o ki/g hrcv%oi Jjfiian, o
Sr/ vvv yyvcuxu xakovfi sv, iit’ avSgog' xai ovroig attiiiXkvvto.
ekerjSag Se 6 Z evg cckhjv [ij]%avt}v xogltexai, ■ xai fuzazt&rjtiiv
avzuv tu aldoia elg ro jtgoO&ev zeag yag xai zavza exzog (l%ov, xai
lylvvcov xai Izixxov ovx elg akkijkovg, akk’ elg yfjv, agxsg ol zexziyeg.
fiezi&rjxt C re ovv ouzag avta elg ro XQod&ev] xai Sta
zovxav re non est, cor hic pium dicam, qui nostrum locum, ex
hoc numero excipiendum esse censeam. Nam cxpyla non segnitia est, sed
cessatio, vacatio a re quacunque, sicut ager dicitur <£pyo$ t
dum cessat a cultura. Jam igitur Aifivv in genere xfjf ctpyiaS esse
apparet, est enim cessatio a capiendo cibo, licuitque dicere, homines
illos, cessantes et a cibo capiendo et ab omni opere suscipiendo emortuos
esse. Ridiculi aliquid inest his verbis; quis enim ferat cibi
capiendi cum ipyoo comparationem? Deinde male Ruckertus posteriori
nomini tantam vim tribuit, ut ad id dirigeretur prius. "AAAoS
semper ita adbibetur in huiusmodi dicendi genere, ut priori nomini
addatur, quod cura eodem cohæreat, quod ex eodem genere sit, quod
cognatum sit cum eodem. Primitus autem dixisse arbitror veteres, ut ad nostrum
locum revertar, vito Aipov xai tov dAAov, li. e, fame et ceteris,
quao cum ea cohærent. Accedente autem appositione ad verba tov
dAAov, ne incomtius existeret atque inelegantius dicendi genus, tov
aAA.ov, apyiaS, admissa generis assimilatione xrjs dAAi]S, apyiaS edictum
eat. Sic com mode explicatur Piat. Gorg. 473. C. etyAcoxoS tov xai evbaipovi?,6fuvoS
vito t<Sv icoAixgjv xai xgov dAA.Gov (sc. ) HevQov. Alia
exempla, quibus nostram explicandi rationem probare possis, laudavimus iu
aunot, 116, ooSitep ol xixxiy eS. Audi Wolfti ad h. 1. annot.
: Sie thun dieses vermittelst eines Stacbels, den das Weibchen aui
Hintertheile luit, and der eiu Dritttbeil der Langte des gauzen
Thieres Husmacht. Damit bohren sie in die E«de, dDnen ihu und
lasseu die Kier in deu Sand fallen, wo sie vou der Sonne
ansgebriitet werden. cfr. Ælian. H. A. II, 22, tals acpvaiS o*
itijAoG yiveais id xi' bi aAAi/Acov 61 ov xtxxovdiv avbh iniyivovxai
x.x.A. f.t£T i ^ TJX i X E OVV OVtGOf avxtov elS xo it.
OvtgjS iu multis codd. non comparet, quare id uncis inclusit
Dindorfius, Reyndersius expunxit. Idem Stallbaumius servandum censet
rectissime, Plerumque enim hæc vox ita adhiberi solet, ut ad
aliquid respici significetur, quod in præcedentibus est conteuturo.
Spectat autem nostro loco ovtcoS ad verba iXEijdaS bl 6 ZsvS, et
convertendam est: hac ratione» qua dixi, vide annot. i ryv yhvtOiv iv aXXyhnq IxolyGB,
dia rov UQQtvos Iv Tqj ftrjXei, tuvSi tvBxa, iva Iv ry GvfixXoxy afia
fiiv ei avrjQ yvvaixl ivzvioi, yivvaiv xal yiyvouzo to ytvog,
63- et 146. Deinde qninqæ melioris notæ libri pro avtcov
exhibent avta, quod a Stallbauroio, Astio, aliis io verborum ordinem receptum
est. Audacias fortasse quam rectius. Avta verbi avToov correctio
est, avxdov autem scribæ alicuius sedulitate e prægressis olvtgjv
ta al8ola eis to izpoCSev huc translatum est. llectissime, ut
videtur, Ruckertus ad h. 1.: Mihi, inquit, Plato videtur
scripsisse: fi £T £te ovv ovtcoS eis to itpodSev. FICINO (si veda) verba
convertit : cum vero ad anteriora transposuisset, ut legisse eum censeas,
quod Riickertus dedit, e( nos unice probamus. Ceterum verba fisti2yxe te ovtGoS
eis to itpodSev repetiit Aristophanes, ut cum sequentibus artias
coniuugerentur: 8ux tovtoov trjv yevediv Iv aXXyXoiS irtolydev, quæ
couiunctio per ti xal particulas instituta quam vim habeat, nunc
dicendum est. Coniunguntur duæ hæ actiones ita, ut eodem fere tempore
gestæ esse dicantur: Simul atque ea ad anteriora transposuit,
per da tyv yevediv effecit. cfr. Flat. Phædon. 73. D., qui locus
huius SIGNIFICATAS luculentissimum exemplum est: iyvoodav te trjv Xvpocv xal iv
trj Siavolqt iXaftov to eldoS tov iraiSoSj ov tjv rj A vpa. Ad hæc
verba Stallbaumius aoristi, inquit, indicant, rem identidem fieri
solitam. Essent ex hoc præcepto verba convertenda: Sie pflegen die
Lyra ru erkennen und das Bild des Geliebten, dem die Lyra gehorte,
in der Seele aufzufasseu» Verum tenendum* est accurate, quod in
superioribus Cebes dixit: Reminisci non solum eius esse, qui aliquid
agnoscat, sed qui aliud, ab illo diversum, mente simul complectatur, ut hoc non
ex eadem perceptione animi h. e. e perceptione animi præsente, sed
ex alia eaque priore ( ov y v y Xvpa) pendeat. Probatur hæc
sententia imagine amasii, quæ AMATORIS animo statim obversetur, simul
atque hic lyram conspexerit, quam amasii esse iam dudura observaverat. Non
ingratum lectoribus erit exemplum e Taciti Hist. petitum I. 76, quo
doceatar, quomodo illam dicendi normam Romani sint imitati: Primus Othoni
fiduciam addidit ex Illyrico nuntius, iurasse in eum Dalmatiæ ac
Pannoniæ et Moesiæ legiones. Idem ex Hispania allatam : laudatusque
per edictum Cluvius Rufus et statim cognitam est, conversam ad
Vitellium Hispaniam., nal ylyvoito to yivoS. In his verbis Riickertus hæsit
non immerito; Iovem enim fecisse, quæ fecisse narratur, nt nasceretur
genas humanum, (Astius habet: ct progenies existeret) quis probet?
Schleiermacherus in conversione exhibuit» und Nachkommenschaft
entstiind e. Id dicturus vide licet erat Aristophanes. Fortasse afia 6’ tl
xal u^qy/v ilpoivt,, itl^apovij yovv yiyvoiro rrjg GwovOtus, xal
diaitavoivzo xal htl rd fpya rpsTtoivto xal xov dXXov /3i'ov tmiiiXoivro. 'idn
drj ovv ix aliquid vitii verba contraxerunt, lluckerto
scribendum videtur xal iti yiyvovto to yivoS. Facilior, ut videtor hæc
coniectura est : holI yiyvoiro yovoS. Facillime nutem demonstrari
potest, qui factum sit, ut manus Platonis corrumperetur. Incuria nimirum
scribarum syllaba finali yiyvoiro verbi dupliciter posita erat:
yiyvoiro r 6 yovoS, Quod cum seriore tempore alii mendosum esse
intelligerent, ro ye voS scribendo locum emendare atque sanare
stndueruut. a // a 8 9 ei n a l a /3 f>tjv
afifievi. In quatuor codd. Flor, ct apud Stobæum afjjiev
legitur pro afifajv, quod plurimi libri habent. Illud Stallbaumius
in textum recepit ut exquisitius. Masculinum genas neutro prætulimus
propter præcedens et avijp yvvaixi. Reddidit verba Schleiermacherus
: Wenn aber ein Mann dem andern.,., omissa xai particula, de cuius
significatu interpretes ad h. 1. nihil annotarunt. Schulthessius habet:
zugleich aber, wenn Mann und Weib sich einten . ... vitio, ut
videtor, typothetarum. Sententia est totius loci: damit in der
Umarmung, wenrf dem Weibe ein Mann zu Theii wiirde, sie der
Zeugung sich ergiiben und Nachkommenschaft entstiinde, -wenn aber
dem Manne auch (h. e. wieder) ein Mann, wenigstens et quæ
seqq, 7t\ij <$ p ovr} yovv . Postquam dissecta corpora
fuerunt, parte» dimidiæ amplexari se adhuc non desierant, immo
mutuis in amplexibus deperibant. Ut igitur plane abstinerent a
complexa, non potuit Iupiter efficere, nimium enim urgebat vis naturæ.
Itaque quum totum consequi non posset, novo instituto, quantum
potuit assequi, molitus est, ut satietate caperentur coeundi
intervallaque facerent. Hinc yovv cnr positum sit, intelligitur,
Riickert, na\ Siartavoivto. Hæc codicum est lectio. Vulgo
8ux— vcntcivoivxo, quod unde ortum sit, facile intelligitur.
^Margini enim interpres aliquis avoc7tccv~ oivxo .adseripsit, ut
8ia.7t<xvb6%oii verbi raritatem explicaret. Post alius nimia sedulitate ductus in ava textq
posuit 8icc7tavoivxo t ex quo factum est 8iavanavoivxo. Ceterum non
opus est ad 8iol Ttavoivxo suppleas avtijS. Verbum absolute positum est:
und sie Ruhefanden und sich der Arbcit zuwendeten und Sorgo
triigen fur ibren weiteren Unterhalt, ini rd ipya. Hæc verba
de agricultura intelligcnda sunt noa minus, quam quod supra legitur
191 . B. vno Xipov xal ttjs aXXr/S dpyiaS. O ftioS in se res omnes
complectitur, quæ ad vitam sustentandam necessariæ sunt. De
scriptura imytXolYTo cfr. Thomas M.: impiXopai xaXXtoy >j
inipeXovpai. Adde Buttm. Gramm. ampl. T. II. I- 187. : Die
C DtoOov o "Eqcxs tyywos aXXrjXav xolg ccv&qkmois
xcd rijg agyaiag cpvGmg Gvvayayevs, xal Imysigav xoiijacu. 'iv ix
dvolv xal laGaoftcu zljv tpvOiV trjv txv&gaxivqv. Cap.
XVI. "ExaG rog ovv rjfiwv iGzlv kv&qq irtov fcvfijioXov,
are Formen des Compositi imjJEX?}Copai etc. werden
gewohnlich za i7ti/i£\ei6$ai gestcllt, welches eiue ganz
gleichbedeutende Nebeulbrm von iitiftiXedSca ist, die aber von den
Atticisteo fiir xninder gut erkliirt wird. Beide Formen sind iudessen in
nnsern fiucliern so haufig, dass wenigstens an den einzclnen Stel' len
sicli nicht entscheiden lasst, ob wirklich der Schriftsteller so
geschrieben. Doch ist kein Zweifcl, dass lnifi£\E6$cti das altere ist,
ond die Flexion von faipeXijdopai urspjiinglich dazu gehurt. wSitEp
al Tpijttai. Piscium genus iprjrtai Græcis notissimum, quandoquidem
Callonice in Aristoph, Lysistr. v. 116. dicit: ' fyo$ 6i y <* v
> uSitEpeX tprjtrav 8ox65 dovrat av ipaxrcfjs xapra/tovdoc
Srjpidv ad quem locum male Schol. iprjrtot, inquit, opYEOv
rerprjpEvov nata ro pidov cJ S oi 6q>ij x e S. XeyEi ovv, ori xav
dvpfifi ripvE6$ai ro ijju6v jiov ftovTiopoci. Rectius Schol. ad nostrum
iocnm annotat: ix$v8iov n rcov irXocriw 7 } ipijrra £x Svo $
Ep parco v 6vyxEi6$ai rrjv idEav doxovv, o rives davSdTaov uaXovdWf oi
6'e fiovyXGod<Sov, xaxooS 8 e. dXXa yap idti ravta. Colligitor px bis
verbis, Tfxrjrrav cum in altera corporis parte os, oculos, nares
posita habere, tum ca corporis figura esse, ut dissecta censeri
queat, atque non integra nisi cum altera couiungatur. Facit igitur
nostro loco ifxrjrrta v mentio ad describendam figuram androgyni
dissecti, contra ' ZvpfioXov nomen nataram et conditionem eins exprimit.
&vpfioXov nimirum tessera hospitalitatis est, annuli, astragali,
alius cuiusvis rei pars altera, quam hospes hospiti conr credere solebat,
ut alter ad alterum veniens haberet, qno agnosceretur familiariterque
exciperetnr. Hoc facto uterqne a fraude tutus erat. Nam si quis
peregrinus ficticia hospitalitatis tessera prolata sibi exposceret, quæ
non nisi amicis amici præstare solebant, receptaculum, cibi ac
potus facultatem, alia hoc genus, tessera admota tesseræ rem veram
aperiebat. Zr/ret 8?) ro avtov %xa6roS £,v p$ oXov. In
aliquot codicibus 8£ legitur pro 8t}. Illud, minus aptum hoc loco, ut
ia sententia communi; nam d?j apud nostrum ceterosqne prosæ
orationis scriptores haud raro eiusdem potestatis est, atque r oi
particula apud tragicos poetas, quamquam etiam huius particulao
frequens est apud illos usus. cfr. Matth. Gr. plen. $. 627. 1281.
" ExatitoS cum Bekkero et StolltBT{it]iilvog mgxEQ at i’rjrrai, i£ e vos
Svo. Srj ad 1 6 avrov exaiSTog £vti(iokov. ooot (iiv ovv r tov
dvSgcov tov xoivov t fiij/xa sltSiv, o di] tore avSgoywov ixaÆlto,
(piXoyvvaixtg te eIoI xal ot sroAAot rcov fioi%tav ex tovtov rov yivovg
ytydvaOt • xal oOat av yvvalxig £ rpikav&Qoi te xal (ioi%EvtQiat, Ix
tovtov tov ytvovg yt~ baumio ex codicum auctoritate in textu
posuimus pro vulgato 2xa6xov, quod Iluckertus frustra reposuit.
Ficinus verba convertit: quærit autem sui quisque dimidium. Nam ut mittam geuus
masculinum, quod et præcedit et insequitur, ut exa6xov vix ferri posse
videatur: etiam ambiguitas quædam exoritur vulgata scriptura admissa,
cuius vitandæ Græci studiosissimi erant. Certum est enim,
verba non hoc modo intelligenda esse: ixa6xov £,vfi(joXov etyXEt a
e i To ccutov. Sententiam quod attinet, homines dissecti cum peA
egrinis comparantur* qui habent tesseram hospitalitatis, sed hospitem
reperire non possunt, illam qui agnoscat, ipsosque comiter
excipiat, eaque, quibus opus sit, ipsis suppeditet, o 6 t}
tore av 8 p 6 yvv ov ixaXsixo, h. e. quod tum temporis androgynum
vocari diximus. De genere neutro relativi pronomiuis vide annotat. 138. Ceterum
dicendi, indicandi, similia verba in huiusmodi enuntiatis sæpissime
reticentur ita, ut infinitivi, qui ex iisdem penderent, id tempus
assumant, quo tempore dicendi verba proterenda erant. Exempla huius usus
permulta reperiuntur. cfr. Piat. Alcib, I. 106, D, ovxovr xavxa povov ottiSa, a
Ttap’ aXXcov £fia$eG t V ovtqS l&Evpe£ ; nbi oldSa
dictum est pro eldivai XiysiS. Ibid. p, 111. E. Ti 8* eI povXtjSdrjfUv
Eivat jjt} povov noioi avSponol Eidiv, aXX* onotoi vytEivol rj
voGc&dsiS, apa \xavol jxv rjfj.lv tfCav (pro i-cptjfisv av Eivat )
8i8d(jxaXoi ol itoXXoi; Adde Piat. Crit. 47. D. cp eI ftrj
axoXovSrjdofiEV, 8ia <p$ EpovjJEY ixEtvo xal XajfiijdojJESa, o tg3 Sixaitp
fiiXrtov iyiyvsxo, xcp 81 d8lx(p a7tGoXXvr o, Vide præterea Engelhardtura
ad Piat. Lachetem 185. ed. 28., qui ad locum modo laudatum
verissime hæc annotat: Quamvis disertis verbis hæc sententia
nondum sit dicta, continetur tamen quodammodo in præcedentibus. Postquam
enim recta exercendi ratione corpus melius reddi, prava perdi ostendit,
sic pergit Socrates : ovxovv xal xaXXa, co Kpl zooVf ovtgjZ, Iva prf itavxa 8ii
Qjfjtv, xal 8 j) xal nEpl rcov Sixaie&v xal adlxcav x. t. A.,
ubi verbis xal xaXXa TCavxot omnia complexns iam id sibi concedi
vult Socrates, animam iniustitia et pravitate perdi; quare pergere
licuit: o tgj jj\v 8ixaicp fieXxiov iyiyvsxo, rc3 ddiHoo
anaXXvxo. Eodem modo, h. e. supplendo dicendi verbo explicandus
versus est Me* leagri in epigr. XII, 5« T* 1» 6, ed. Iacobsii.
yvovzca. odæ di zcbv yvvcax&v yvvccixog Z(irj(id sidiv, ov 7tdvv
avzai zolg avdQadc zov vovv itQogiyovdiv, dXXa pdXAov itpbg zag yvvalxag
zErpappivca tldi, xai ?/ taxet xovvop’ %x £t tavxov povov,
ipya 81 xpedd cov, ubi Ixet positum est pro ixetv XeyeiS*
Malimi tamen ix 01 legere, quod positum esset pro. ?/ taxet
tpairjS. xai bdai av yvvaixeS yiyvovtai. Av plerumque ita
ponitur, ut eadem alicuius actionis reive conditio indicetur, quæ in prægressis
reperitur» Hinc fit, ut av posito sæpissime verba omittantur, quibus
conditio illa exprimatur. Expletior oratio hæc foret: xai odai yvvaixeS
tov xoivov xpijpa eldiv % 6 8tj tote avdpoyvrov ixacXetto, tpiXavSpol t* eidi
xai al noXXoil xgjv jioixsv tpicbv ix tovtov tov ytvovS yeyovadiv. Sed
nemo non videt, e nimia verbositate hæc verba laborare ; quapropter
av vocula adhibita, qua ea, quæ in præcedentibus continentur,
suppiendaque esse siguificantur, nostro loco omissa sunt. Et quoniam præcedit
ix tovtov tov yivovS yeyovadiv, haud scio, an non insiticia verba
sint ix tovtov tov yevovS yiyvovtai ; quibus omissis neque sententiæ
vigor minuitur et comtior fit elegantiorque oratio. Sed nihil mutaudum
contra codicum auctoritatem, qui ad unum omues verba illa exhibent, EaMem
etiam Ficini conversio probat: Rursus quæ cunque mulieres virorum cupidæ
moechæque sunt, hac stirpe nascuntur, ov navv ciXXd paX
Xov. Dictam supra est de ov navv vocularum significatu io annotat. 49*
Recte ibi contra Engelhardtum monuisse nobis videmur, ov navv non esse
plane non, sed non magnopere, non sane. Exemplorum, quæ illic laudavimus,
nullum esse puto, quod probandæ huic sententiæ magis inserviat,
quam nostrum locum. Addito nimirum paXXov comparativo statim
intelligitur, Aristophanem dubitanter loqui, atque illarum mulierum
erga viros amorem non prorsus negare. xai al htaip idtptai.
Timæus 123. Itaipidtpiai' al xaXovpevai xpifiadeS, ubi Bnhnkenius :
tales crissantes, in™it, mulieres, quæ aliis nominibus Lesbiades, tribades,
frictrices et subagitatrices vocantur, in telligi t Clemens Alex.
Puedag, II, 264. yvvaixeS avSpi%ovteS napd. <pvdiv. Stallb, Tetigit
nostrum locum Wachsmuthius in libro: Hellenische Alterthumskunde T, II. Abth.
H, 48 et 49, bdoi 8h
dflpevoS tpijpa. Ut concinnitati singularum partiam orationis cousoleret,
Bastius scribendum coniecit odoi afifreveS afifævoS tpijpa el dtv.
Recte fortasse, neque audacior hæc coniectura censenda est. Factam est enim
scribarum incuria haud raro, ut, ubi scriptor duo verba iuxta
posuit, quæ inter se aut plane non differrent aut non multum,
alterum at iTaigldTQiai Ix tovtov tov ytvovg yiyvovrca. oGoc iis
k$qsvos tfirjiia d<St, rcc a§§iva SuoxovGi, xal Tiag fihv av accidis
u<Hv, are Tcicu%ca orna tov aggivog. chartæ mandarent, alteram
omitterent. Hoc modo depravatas est v* c. locus pulcherrimus
Platonis, Crit. p.45 A et B.; verba hæc sunt: 2. apri 81 Tjxet S 7
) TtakcLi; Kp. iniExxooS itdXai. 2. sita 7tdo? ovx evBrvS
iitjjyeipaS pe, aXXd diyy itcrpaxdSjjtiou ; Kp. ov,pd tov di\ <0
2ojxpattS i ov8* dv avToS ?/3eAov iv to~ davrp te ay pv it vi at
xal Xi >7ty elvai • aXXa xal dov naXai $av pa^Go al.dSavopevoS,
co? t/SegoS xa$ £V 6 EiS . Faoit Stallbaumius in annot. ad h. 1, ed.
p» 102. Critonem loquentem : Ne ipse quidem vellem in tanta
insomnia tantoque moerore versari, in' quo revera sum, tibi autem,
* cui tam gravis imminet calamitas, hæc tua quies non
videbatur turbanda esse. Cur Socratem e somno non excitaverit
Crito, caussam justissimam habes * placidissima quies non videbatur
turbanda esse. Cur tacide consederit (diyjf 7tapaxaSt/dat), ei quæstioni
quid respondeat in Critonis responso, frustra quæras. Tantum
enim abest, ut verba; ne ipse quidem vellem in tanta insomnia tantoque
moerore versari aliquo modo cum Socratis quæstione illa conciliari
possint, silentiumque excusent, ut potius ipsa inepti quid habeant atque
excusatione indigeant* Verba Critonis depravata sunt* atqne eo
modo, quo Bastius nostrum Symposii locum emendare studuit, corrigenda.
Satis notum est, summam animi anxietatem eam esse, quæ silentium
non patiatur. Quid multis? Scripsit Plato: ov pd tov di*, oi*S*
av avTvft avav8o? iSeXor x. t. X. Hæc verba scribarum incuria
in hunc modum depravata sunt: Ov8 9 dv avroS avavToS, ut scripserunt
Symp. 174. D. itpo o8ov pro t tpo o rov ; post alii, cum dv avroS
verba male repetita esse putarent, pro dv av ToS avavroS scripserunt dr av toS,
Sensus est totius loci ; Socr. Warum wecktest du dann (quæ vox
quomodo cum d e n n cognata sit, dixi.) mich nicht sogleich auf, soudern
setztest dich schweigend ' neben lier? Krit. Ceim Zeus, o
Socrates, ich selbst vermochte es bei so grosser Unruhe and
Traner nicht uber mich 2 u bringen (vide, quæ de iSeXsiV verbi
potestate dicta sunt ia annot. 44.) ganzlich lauti os zu sein; und
doch bewundere ich dich schon lange, indem ich bemerke, wie sanft
du schlafst. Emendatione nostra quantum gratiarum Critonis responso
accedat, prudentiores persentiscent. .1 xal TiajS plv dv itat 8 e?
G)di. Memorabilis hic locas, quo relativa potestate tegjS positum est.
Astius præter nostrum locum cum nullum in Platonicis scriptis reperisset,
qui eadem potestate exhiberet tIgoS vocem usurpatam, egoS
scribeudum coniecit. Tego? in textu tpilovOi xovg av$QKg xal %aiQovGi
dvyxcttcixtlfiivoi 192 xal avpKtxltyulvot roig dvdQccGt • xal d6iv ovroi
(itXttOrot tau nalScov xal [itigaxCcov, uve dvdQuozaroL ovrtg tpvOU’
tpaol 6 'e dy rivtg ainovg dvaiOyvvrovg Eivai, . ipEvdouEvoi ' oi5 yccQ
vit dvatOyvvxlag zovro dgwOtv, dXX’ vito &<x$Qovg xal dvdQtiag xal
ccQQEvaposuit prudentissime Stallbaumius, cuius silentium aliter, atque
Riickcrtum fecisse video, ego interpretor. Ipsum Riickcrtum audit Tacet, inquit, de h. I. Stallbaumius,
sed mallem dixisset, si quid haberet, quo defenderet T iooS relative
usurpatum. Si repcritur in veterum libris, quod contra consuetum
dicendi usum est, codd. autem auctoritute probatur, a mutando abstinendum
notauduque est, si eo opus •it, novitas rei. Nostro loco T tcoS non
idem atque MgoS esse, quem lateat? sed quo id defendat, quis
habeat? cpiXovtil to v 5 d v 8 p a S x ots avS patii v .
$iXttv verbum feminis amasiisque plerumque convenire supra annotatum est
p* 69. Ceterum præcedente XOvS dvSpaS in sequentibus scriptum exspectaveris
fortasse pro xoiS avdpatii pronomen avroif, quod cur non posuerit Aristophanes,
caussa in prompta est. Solent enim interdum veteres præcedente
aliquo nomine non pronomen exhibere, sed ipsum illud nomen
repetere, nt id significantius emineret lectorumque animis maiore
cum gravitate insinuaretur. Igitur nostro loco pueri, quatenus segmenta
sunt integrorum VIRORUM, VIROS AMARE dicuntur, atque cum VIRIS
lubentissime congredi, ut io universum significetur, PUEROS illos non nisi
VIRORUM societate delectari. In sequentibus pro xai tltiiv ovroi
fUXtitiroi scribendum coniioio na i tltiiv ovroi oi (iiXntiroi. Articulus finali syllaba ovroi verbi absorptus est, ut factum est
haud raro. Unum depravationis huius exemplum ut laudem, in
plerisque codd, male exhibetur 179. B. ov ftovov ori avSptX, aXXd
xal yvvaixtS. Alio loco de superlativo vel cum articnlo vel sine eo
exhibendo dicemus, quam rem nemo Grammaticus, quautum scimus, adhuc satis
accurate tetigit. ars avSptiotar oS ovXtS (pvtitl. Alludit
Aristophanes lioc loco ad avSptioX nominis ambiguitatem. Significat enim
et fortem ct eum, qui cum VIRIS aliquid habet coniunctiouis, similitudinis,
commercii. Neque dubium est, quin ARISTOFANE illam nominis significationem
ex hac derivatam esse censuerit. Verba couvertenda sunt: Et sunt hi
quidem OPTIMI PUERORUM ET IUVENUM, quo AD MASCULO SEXU DELECTANTUR MAXIME
ideoque natura fortissimi sunt* tpatil St} tivsS x. x. A,
Eandem rem Pausanias tetigit 182. A. his
verbis: ovroi ydp tltiiv ol xal to ovtidoS ntitoirjxottS, cafr e xivaS
roXpav Xtytiv, o)S* altixpov x a P^ etiSai ipatitouS, Ceterum etiam
hoc xi 'as to fifiotov cnrroig acsxa^o/iivoi. (liyct di te
x/iiigiov xal ydg xckEa&svxsg fiovot ccxopatvovGiv clg xu itohxtxd
avdgs g oi xoiovzoi' enstdav de avdgca&aiGi, mudegaOxovOi xal itgog
ydgovg xal itutdoitouag ov B itgogi%ov6t rdv vovv cpvtiu, dk).d vnb xov
vu { uov dvayxu^ovxui ' ulk’ tgagxsi avxotg ft£t’ dkkrjkav xaxagijv
loco Riickerti sententia de Græ-corom saper PÆDERASTIA iudicio,
quam supra exposuimus iu annotat satis reprobatur. TiveS enim h. 1., ut
illic x iva$, quamquam de populi quodam rumore accipiendum est, tamen
non omnium Græcorum constans de PÆDERASTIA indicium exprimit 3
d fi fi ovS xal dvSpstaG xal dfifiEvaitiaS» Opponuntur hæc tria nomina præcedenti
avat 6 xvrtiaS nomini oratorie» ut indicetur» quantum numero superent præcedens
nomen hæc tria nomina tantum etiam ei prævalere significatus
potestate. Tantum
enim abest ut pudore illi PVERI careant»
ut potius VIRILI sua indole ducti AD VIROS se convertant.
Ceterum illa nomina haud multum inter se differunt siguificatu.
'AfifiercDitia enim VIRILEM INDOLEM significat non minus quam dv 8 peia t cuius
indicium est Sctfifiu$ h. e. fiducia audacia; animi fortitudo Laudat
Fischerus Etym. M., in quo d fi fiev coniaS notio sic explicatur:
afifievcDitds ix x ov ufifiijv dfifi&voS xal r ov
d)if> oonoS, o tiijpaivti rd itpoSco7 ior, dfifisvcojtds 6 afifievoS
jtpoScoitov 8 x ojy > xaxd dvVExSoxi / y . yyovv o dvdpelo S xal
idxvpdf xal dvvdpevoS it poS cx$pdv dvTvrax$fiyai. idxi xaxd 6vvexSoxy v
ano pipovs rd oXov. xal yap xe\e&%evxeS —avS pES ol xotovtoi, Picinus
verba convertit: Iluius evidens argumentum est, quod cum adoleverint, soli
ad civilem administrat ionem conversi, viri præstantes evadunt. Nou
rectius Schleiermacherus in conversione: dass wenn sie voll kommen
ausgebildet sind, solclie Manner vorziiglich fur die Angelegenheiten des
Staats gedeihen. Unice vera Orellii explicatio verborum est in
Scbulthessii convers. 92. : Deutlich eihellet dies daraus » dass solchc
allein » wenn sie heran wacbseu» in den Angelegenheiten des Staates sich
ais Mauner beweiscn. Eodem modo verba intelligenda esse docuit
Rtickertus ad h. 1. vito xov vdpov av ay xagortai * Apud Stohacum
Serm. 65. 4 10. legitur: *Znapriatav rd/ioS rdxxEi ZypiaZ, ryv ptv
npcdxyv dyaptov xfiv SevXEpav uiptyaplov xyv rpixyv 8 \xaxoyapiov. Utrum
apud Athenienses ayapiov lex exstiterit, necne, in incerto est*
Vide Wuch&muthii librum: Hellenische Altcrthumskunde T. II.
Abth. I* §. 98. 266., Meier u. Schom. Att. Proc. £87. Cuvendum
est autem, ne quis forte nostro ioco probari ceuseat, legem dya piov
Athenis latam fuisse. Nam vdfioS ambigua significatione apud
Platonem adhiberi solet, ut et legem, et morem receptum» ccyafiotg.
stuvTug fitv ovv 6 toiovtog 3tai$SQcc6r>']g re xcd <pt2cga<STt)g
yiyvtrat, au r 6 igvyytvtg aO}ttt^6[icvog. orctv fitv ovv xai avrtp
Ixdvcct Ivtv%iq tu ccvtov y/ilttu xcd 6 naLSegaOtrig xal cckkog xag, rore
xcd 9av(ia0td C lx7tfo'iTTOvrcu cpckict re xcd olxuoTrytc xcd Hquti,
ovx i&D.ovttg, ug Enog tbteiv, %UQi&6&ac aAAjjAov ovSb
consuetudinem, exemplum significet. Vide annotat, 100.
nai8epa6xr}S xe xal <piXepadxi/S. Non de pueris hic sermo est,
sed de viris, qui integri viri segræuta sunt. Merito igitur roirere it ai8 £
patiit/ S verbi cum cpiXtpatiTtjS coniuuctionem. Interpretes verba
convertunt: Knabenliebhaber und LiebhabertVeund, ut alterum verbum
ad viros, alterum ad amasios pertineat» Sed fac, hanc ARISTOFANE mentem
fuisse, quæritur, cur ordinem verborum inverterit, adraiseritque vdxepov
itpuxepov, quod rectissime etiam a Riickerto not.itur. Sed quam hic
verborum illorum explicationem exhibuit, eam fateor mihi neutiquam
probari. Eam, inquit, rationem inii, ut tpiXepaOxj/v dictum hoc
loco putarem amicorum amatorem ad analogiam naiSt patir/fS, quasi non a
cplXeco, sed a (piXoS petita esset pars prior nominis. Jam idem est,
ac si dicat it a i 8 cov X £ xal cpiXoov i padxi/v. Sensus hic est: Ex
hoc genere qui est, js semper AMATOR est, sive PUERI sunt,
quos AMAT, sire AMICI Quos enim PUEROS AMAVIT, eosdem amicos habet,
postquam adulti sunt, ita ut horum etiam AMATOR magis, quam AMICUS sit,
Displicet hæc explicatio duabus de caussis. PUERI enim, qui AMANTVR, non
minus AMASII sunt quam AMICI AMATORVM. Deinde non dicitur Græce cplXoov
ipadxqS sed posito ipadxijS nomine itaideS s. itaiSixa adiungautor necesse est,
coutra cpiXcov ubi ponitur, non ipadxrfv sed qiiXov adiungi usus
loquendi flagitat. Possis itai8epa6x?}s xe xal qnXepa6tr}s: ita
explicare, ut VIRVM inlelligi censeas, qui neque alios vituperet AMATORES puerorum,
et ipse pueros amet. Dubito tamen, num hæc significatio cum tptXepadxtj S verbo
satis conveniat. Supra annotavimus p» cpiXeiv adhiberi haud raro, ubi de
actione sermo sit, cui vis quædam, qua necessario fiant, inesse
indicetur. Eadem significatio interdum in iis nominibus obtinere videtur,
quæ cum cpiXeiv verbo composita sunt. Sic in Alcib. I. 122. C
nod dubium est, quin de indole Lacedæmoniorum jfrmo sit, qua ad
labores suscipiendos, ad æmulationem summam et ad honores consequendos
ferantur. Verba sunt: ei 8* av iSeXt/tieiS elS (ScjippodvvTjv xe
xa\xo6piu>ri]ict aitofiXeifiai
xal (piXonoriav xal (piXoveixiav xal tpiXoxipiaS xaS
AaxeSaipoviaiv x. x. A. Eodem modo verba 189. D. intelligenda sunt: l6xi yap
Secor tpiXavSpGHioxaroS quæ ita de Erote dicuntur, ut deus sua
natura perhibeatur homines maxime AMARE. Adde verba. Giuy.qov xquvov. xccl
ot SucraiovvTtg fiiz’ dlXylav Sm .fiiov ovzol tlOiv, ot ovS’ av %%oitv
dmiv, o zi (3owXovzai 6<pl<5i 7 ta</ ccV.t) Xav ylyvt6&ai. ovdh
yctQ av So^hb tovz’ ilvai r/ zav utpQO&iolav tivvovoia, tog
ciga tovtov iviy.a. ezegog iztQca %aigu ‘gvvcov ovz ag ini fuyaXzjg
6mvdijg' «AA’ SXXo zi flovAofitvi] tua C. (piXoyvvaixe?, 191. E.
qxiXavdpoi, quæ de naturali quodam instinctu dicta esse, etiam e verbis
paullo infra positis colligitur: aXXa paXXov npos raS yvvaixat t et p a
ppkv a i eltflvy quibus verbis qnXoyvvaixeS nomen manifesto explicatur.
Ad nostrum locum ut revertar, <pzÆpadr/jS idem est, atque
ipadn}S tpvdet, quo nomine supra utitur ARISTOFANE B. itat depadtovdi xal
itpoS yctpovS xal 7tai8o7ZoitaS ov tc poSexovdt tov vovv cpvdti
Igitur ARISTOFANE mens hæc est: Omnino igitur talis puerorum AMATOR est
atque naturali quodam insctinctu, quippe integri VIRI segmentum, ad pueros
AMANDOS fertur. xal aXXoS it ai. Valet, quod hic do solis iis dicit,
qui ex integro VIRO dissecti suut, de ceteris quoque, mulierum et
androgynorum segmentis } de quibus quum nolit copiosius dicere, solis
hisce verbis additis ad hos quoque id pertinere significat,
Riickert . tpiXia te xal olxeiotiftt xal i p coti. Exspectabas
ordinem nominum inversum, quoniam priori loco positus est itat depadrr/i, ad
quem Ipcoi nomen referendum est. Vide annotat. Sed minus veteres in
huiusmodi rebus accurati fuisse videntur. Ceterum olxeiotqS
Ad androgynum referri possit, ad integram feminam cpiXia. Sed dubito, num
id recte fint. Tria potius nomina ARISTOFANE adhibuit amoris, ut esset,
quod cum præcedentibus verbis Sav/iadta ixTcXrjttovtai
conciliaretur, atque recuperatæ integritatis gaudio responderet,
xal ol SiateXovvr ei ovtoi e id iv,
oi x.t.X. Picinus verba convertit : jitque hi sunt, qui per omnem vitam
amare pergunt: neque quid potissimum a se vicissim expetant, exprimere possunt.
In conversione Schleiermacheri exstat: und die ilir gunzes Leben lang
mit einauder verbunden bleiben, diese sind es, welche auch nicht einmal
zu sagen wiissten, was sie von einander wollen. Non aliter
Schulthessius verba convertit» Sed admodum languent j si quid
video, probata hac verborum explicatione ovtol eldiVy oX verba, Aristophanes
hoc potius dicturus erat: Mirum esse in AMORE hoc, quod AMANTES,
cum veliut per totam vitam conioncti esse, i id em huius voluntatis
ne caussam quidem habeant satis gravem, quippe nescientes, quid
alter ab altero sibi fieri velit. Est igitur, quod fugisse VV. DD.
miror, diateX ovvtei non præsentis, sed futuri temporis participium. D
ztQov y 4>v%r] StjXri idziv, o oi3 Svvarcci tlnuv, aJUa f lavztvtzai o
fiovkezai, xa i ulvizztzcu. xca tl avtoig iv zm avrcj xcetdcxtifuvoie
imazag 6 ”H<pui<Stos, lyav zd OQyavcc, Iqolzo ' „TL £o&’ o
(SovkiQ&E, o av&gcomoi, vfilv na(i’ dkb'jXwv y« >la&cu; n xal tl
anoqovv gJ ? a pa rov rov Uvexa. Tovtov pronomen generis neutrius ad præcedentia
verba tg3k d<ppo8i<jlcov 6vvov6iot referendum est. Soiet autem
neutrum genus pronominis relativi et demonstrativi jexhiberi, si præcedit
v tota enuntiatio, ad quam pronomen pertinet, vel si præcedens
nomen e pluribus verbis compositum est, velut nostro loco rj tgjv
cteppo8i6icov 6wov6ict. LATINI eodem modo neutro genere pronominis
interdum utuntur; sæpius aliquod nomen latissimi significatus pronomini addunt:
quæ res* Adde Piat, de rep, I. 329. C. it&S, £q>n, <J
^otpoxXeiS, fyetS’ itp&S za(ppodloia xai oS, JEiv<pTjfi£t y to
avSpvne' dtipavaizazac pivzoi avzo diticpvyov x . r. A., ad quem
locum rectissime Stallbaumius monet, pronomine singularis numeri etiam
contemtum rerum Venerearum exprimi, ut gd£ dpec tovtov Zvaxa
convertendum sit: dass dieser Armseligkeit halber cet. In sequentibus
ovzcoS, latioris significatus verbum accuratiori deliuitioni, uti solet,
præmittitur. cfr. 192. E. ixal av iv AiSov. Adde Alcib. I. 105. c.
4. dzt ocvtov 6e 8el 8vva6zevtiv iv zf/ Evpojxy. Vide anuot. 43- Censet
Riickertus ad li, 1. ovrooS ix\ payaXijS' <Sxov8fj$ pro l<p’
ovtcj paydXrjS tfxovdi/S positum esse. Eam metathesin verborum Græci
admit ty * tuntin verbis xaw, xoXXv, aliis; num in ovzcoS verbo
admiserint, vehementer dubito. o o v dvvazai sixelv x. T. X .
Vis amoris hæc est, ut amantes impellat ad aliquid, quod quid sit,
ipsi f qui amaut, prorsus ignorant. Quod autem petvravec 1$ai atque alvizzefBai
dicuntur, hoc est, diviuare atque cæco quodam animi præsagio
sentire id, quod sibi fieri velint, idem Margarethæ verbis notissimis in
Faustio Goethii pulcherrime expressum est. ixidz as o "Hpatdz
o f, rdopyavax.x.X. Si germina duo salicis aliusve arboris, aut
fructus 4uo mali, piri, pruni, filo adhibito ita colligantur, ut alterius
latus cum alterius lateri .firmissime connexum sit, fieri solet haud
raro, ut e duobus germinibus fructibusve prodeat unum. Hæc res, nostris temporibus PUERIS satis nota, non dubium est,
quin et Græcis innotuerit. Ad eandem ARISTOFANE fortasse allusit. Iam
iutelliges, za opyava verbis cuius generis instrumenta significantur.
Vincula sunt et compages, quibus adhibitis duo homines ita
colligantur, ut germinum frnctuumve instar firmissime connexi alter ab altero
discedere nequeat atque duo in unum concrescant. Minus apte
Riickertus ad h. 1. Semper mihi, inquit, visus est Elato his, qu-ac de
Fui - rag ccvrovg staXiv Zqoito' -J-Aqu ys tovSs Ixi&vpuxe, Iv tc 5
avuS ytviG&ca ou (icchti tu txXXyXoig, wgxs xal vvxra xal rjutQav
fii) rxxofainMS&ai alhjkav ; sl yccQ tovtov ixt&vfieiTE, tQiXa
vaag Ovvrjj^ai. xal E <Svpcpv6ttt, tlg xo avxo, ugxs 6v bvtag sva
ysyovivav, £ cano dicentem facit Aristophanem, Homericam
fabulam respicere de Martis ac Veneris amoribus, Odyss . VIII, 266. seqq.
maxime propter Mercurii verba } quibus ille, etiam si ter tantis vinculis
constringi debeat, omnesque deos deasque spectatores haberi, tamen se
Veneris fructum vel hoc pretio emturum fore profitetur . apa
y e xovSs irtiSvpstx e. *Apa peponi solet, quando is, qui interrogat,
veram esse opinatur, quam rem sciscitatur, cfr. Piat. Polit. 1, 328. A.
xal o USeipavToS, Apa ye, rj 8 oS, ov 8 9 Xdxs, ori XapitaS
idxai rtpoS kdnkpav acp 9 Initoov xjj 5c<y; Nescire revera
Socratem ceterosquo Adimantus suspicatur r ij£ Xapzd 8 o?
celebrationem, quod abitum parantes conspiciebat. Adde Piat. Crit. 44. E.
apa ye pr/ ipov npop-q^et xal rcbv dXXcoY ijCiX 7 j 8 eia)Y ; ubi
supplendum est: aliam certe recusationis caussam non reperio* Alcib. II. 138.
A. apa. ye xpoS rov Seov 7 tpo<rev£ 6 pevof Tcopevei ; ubi verba
quædam omissa sunt, ad quæ yk particula referenda est : Coronatum
te certe conspicio sacrificantium ritu. Nostro loco Vulcanus cum
animadvertisset, SxepoY hxkpqo Xaipeiv B,vv 6 vxa ini peydXTjS
ditov 8 ijS, yk particula usus lianc cogitationem interrogationi
admiscet; Videmini certe velle al ter alteri se artissime adiungere.
' dvvr rjZat xal dvptpvdai, 'ZwxrpiEiv verbo Plato supra usus
est 183* E. o 8h rov rjSovS xPV^ t0 ^ ovroS ipa dtrjs Sia fiiov pkvei axe
povl pqu dvvxaxeis. Proprium est do fabri ferrarii arte, qui
metalla colliquefacit, ut ca artissime couiungat. Vide Ruhukenii
an— not. ad Tim. L. V. Pl. 139« Pro dvptpvdai codd. non pauci
6vp<pv6ijdai exhibent, quorum in numero sunt Bodleianus, Vaticani duo,
alii. Hinc non mireris, dvptpvdrjdai a Reyndersio atque Riickerto in
ordinem verborum receptum esse, præsertim cum fabri ferrarii opificio
verbum apprime conveniat. Nobis cur unice probetur, quod Bekkerus et
Slallbauraius dederunt, dvp<pv(ftxi, ex annotatione imdxaS 6 r
'H(pai6toS f Ix&v ta opyava verbis subiecta patebit. Sio in Piat.
Epist. VI. 323. C. legitur: oipott yap 8ixxi xe xal al8oi xovS itap 9
fjpdoY ivxev$ev iXSovxaS XoyovS, el pr\ xt r 6 XvSlv pkya xvxoi yev
operor, inqoSr/S xjsxivosovv pdXXM dv dvptpv 6ai xal dvP&tf6 at
TtaXiv elS njv itpotitidp^ Xovdav tpiXotrjxd xe xal xotYGQviaY. Ad
nostrum locum LIZIO videtur respicere De rep* II, 4.; xaSanep iv toiS
ipoorixoiS Idpev XkyoYta roV *Apidxoqxivrjv, ooStuv ipwvxGOv 8id 12
xal eco$ t av ZijtSy wg evoe ovtet, xoivtj dfitpmsQovg £rjv, xal httidav
dno^avrjtB, IxeZ av iv "Aiiov dvtl dvslv tvet tlvai XOtvfj
TE&VEWTE. cUA’ OQatE, M TOV tov eqccze xal e^ccqxel vpiv, av rovtov TvyrpiE
ravta dxcvOag ttifiEv, on ovd’ av tlg i&Qvq&Eit], ovd’ &XXo,tt 1
6 (SepuSpee (piXtiv i7Ci$vpx>vrrcor 6vptpvvai xal yeveOBat ix 5t;o
ovtg>v dpcpoxepovS ira, cjS ira arra. Valgo pro ovxa
igitur brraS, qoæ lectio non nisi tribas Belkeri libris
confirmatur. Non dubium est, quin brraS in textum irrepserit
scribarum errore, quj, qum paullo supra legerint &Sxe 8v *
ortas, etiam hoc loco pluralem numerum admiseruut. Quamquam autem non
falsum est c bs ira urraCy tamen ipsa oppositionis ratio, quæ inter o oSxe 8v
uvxaS ct cdS ira orta manifesta reperitur, singularem numerum exigere
videtur. ixei av iv Aidov era elrai. De verbis ixei iv
Aidov supra dictum est 43* " Era elrai e præcedente <3ffre
particula pendet, quæ non opus est, ut hoc loco repetatur. Quæritur
autem, qui possit "HcpcatiToS ix&v X( * opyara corpora AMANTIVM
AMANTE AMATO ita coninngerc atque colligare, ut et in Orco manes codiuncti maneant.
Explicanda hæc res est e veterum de animorum post mortem
conditione* Man^s enim quasi umbræ erant ad similitudinem hominum
mortuorum accuratissime conformatæ, qua propter apud Homerum haud raro fipoTOJV
efScoXa vocantur, cfr. Odyss. 11. 475. Adde II. 23. 65.
yXSe 8' in\ ipvxp TlaxpoxXrjoS SeiXoio itarx* avxcj,
piyeSbs te xal bpuara xaX* elxvta -v xal tpannjr, xal xola nepi
xpot ei pax a e6xo. Ex veterum igitur opinione qui in
vita breviorem alterum pedem liubebat, etiam in Orco solebat claudicare,
monocolos non nisi unius oculi lumine gaudere. Sequitur inde, qui
in vita ita colligati fuerint u Vulcano, ut in unum corpus
concreverint, eosdem etiam in Orco coniunctissimos esse. Pro arxl Svoir /
quæ lectio vulgata est, arxl Sveir edidimus cum Bekkero et
StallFaumio, Bodleiani codicis auctoritatem secuti. Jvoir præter Riickertum etiam Matth. verum habet in Gramm, f. 138.
262. Annotat tamen ille ad nostrum locum: minime, inquit, dubium
nobis est, quin a Platone usurpata fuerit hæc forma ( 'Sveir ), cuius sat multa
vestigia in codd . reliqua . el tovtov i pax e. Ilæc brevius
dicta sunt; expletior oratio audiret: orAA* opaxe, et tov to idxir, ov ipdte ..
Sequentibus verbis tavxa axovCaS Io per dxi ovS * av eis x. r. X.
apodosis efficitur ad verba 192. E. init, xal ei ecvToiS ir tqH av toj
xaxaxeipiroiS exi6tds x. r. A. Annotant autem interpretes,
Aristophanem avTolS pronominis in protasi positi non amplius memorem,
simularem numerum ia uv cpavett) povXiftsvos, &XX’ axt%vag olo it’
ccv axtjxo Lvtxi tovto, S icaXai ccqu 6vvtX\nltv xal Ovvzaxtl $ zu
iQMjjLtVtp IX dvELV EIS yEVtO&al. Tovro yaQ ttfr i zo alziov,
ozi r] &Q%aia cpvOi g f/iuov i]v Kvzrj xal yixtv oXou tov oXov ovv
ztj lici apodosi posuisse, atque eum proximo ov8 av efc
accommodasse. - ov8* av eIs. Ov8h sis ita differt ab av8ets, ut hoc
nullum significet, illud, quoniam interposita av vocula vis negationis
augetor incredibiliter, neminem denotet ne uno quidem excepto. Unum
exemplum huius usus ut laudem, Piat. Hiæd. 100. C. cpaivExai ydp
pot, eX tL Itiriv aXXo xaXov nXrjv aveo x 6 xaXov, ov8e 8* ev
dXXo xaXov elvai rj 8 l6xi JdETEXtl ZxeLvOV TOV TioXoV. l J iura
exempla Stallbanmius congessit in aonot. ad Piat, de rep. I. 353.
D. «AA* 'Atexv&S verbum apud Platonem sæpissime
reperitur, ibique vario modo explicandum est. Primaria verbi significatio
est, ut etymologia docet, anXadrcji?, aSoXcoS, a qua reliquæ verbi
significationes facili negotio derivantnr. Nara quæ sine artificio
dicuntur aguuturve, ea clare a per te que, certissime, ad<paXco£ 9
lucidissime, tpavspmS, simplicissime, anXcoS j sum -n matim, naScinat,
pronuntiantur. Nosftro loco possis etiam de tempore voculam dictam
intelligere, ut conversio audiat verborum : und ieder wird so gleich, oh
ne Weiteres das gehort zu habeu vermeinen, woruach cben er lange schon
strebte. Scboliasta ad Eutyphronem habet apud Bekkerum,
Comment, critt. in Platonem T: II 325. atEx y d>S‘ xavreXcoS' ?
axXcoj tj xaStarraZ, IfavpCDS, rj teXIgdS. ol 81 iv l6(p xgj ovxi,
xal aXrj$eiqc* ol 81 SrfXovv xo itapa xav xal xaSoXov, xax * aXtj Ssiav.
oloi x* av axi} xokv cti + Ad ofozr’ av ex præcedento ovdfc
eU intellige Zxa6xoS. De rep, II. 366. D. xojv ye «AXcov ov8e\s Ixcov
8ixcnoS, aAA* rxo avavSpiaS
ifriyet xo aSixEiv, aSwaxcov avxo 8pdv. Horatii Serm. I. 1, 1, Qui fit, Mæcenas, ut nemo, quam sibi
sortem Seu ratio dederit, seu fors obiecerit, illa Contentus
vivat, laudet diversa sequentes h. e. sed quisque laudet cet. Stallb
. Comparari potest cum hoc dicendi genere ea verborum structura,
qua haud raro e præcedente verbo negativo affirmativum repetendum est; eam
indicatam reperies iu Indicibus, Ceterum Riickertus censet non
ZxatixoS sed 6 dxovoaS subintelligendum esse. tovto yap xo
alxiov. FICINUS verba convertit: Huius caussa est, quia prisca
hominum natura hæc erat integrique eramus. Eodem modo Sclileiermacherus :
Hie v o n ist sun dies die Ursache. Neque 12 * 193 dvfita xal
tficog u "Eqos ovofia. xal xqo tov, SgJtCQ liya, tv tjfLiv • wvi Swc
rrjv adixltxv diaxtofhjfuv ixb tov &eov, xa&aTtcQ 'AqxccSe $ vito
AaxEdcafiovUov. defuerunt, qui tovtov pro rot>to in verborum
ordinem inferrent. Si pro yap legeretur Si particula, ut in Piat. Apol.
Socr. 31. C„ ipsi tovtov scribendum censeremus: yap part. genitivam
pronominis non admittit. Referenda autem canssalis particula est ad præcedens
idjuv: Scimus ne unum quidem eorum, qui hæc audirent, ea
recusaturos esse in caussa enim h/ic est, quod natura nostra
primitus talis erat integrique eramus. Epeo S ovopa. Erotis nomen
maiore cum vi hoc loco pronuntiandum est; igitur, quo validius
emineat, articulo caret. Exempla si quæris nominum sine articulo
positorum, vide annotat, 129. Fortasse etiam eadem de caussa in
Piat. Gorg. 448. E. lectio vulgata vera est, quam codd. lectioni
posthabuerant interpretes. ov yap azExpivdprjv, ori sXrj xaXXidrij.
Codd* plerique articulum exhibent 7} xaXkidTT}. Ceterum hoc loco
interrogandi signum in punctum mutandum censemus, quod ironicæ dictioni
convenit apprime. Polus enim hoc dicit; Videlicet
non respondebam eam xa\ XidTJjv esse. Quæ sequuntur verba, xal Ttpo
tov ev qptv, meram repetitionem sentiæ supra probatæ continent, ut
uemo ea desideraret, si abessent. Hanc repetitionem perspicuitatis
caussa admisSam ne quis ægrius ferat, <2fæp Xiyco verba addita
sunt, de quibus diximus in annot. 133. ad verba 7/ re ovv laTpiHt),
doSiup Xiyco, icada x. T. X. ' xa$ ait s p 'Apxa&eS
vxo AaitsSa ipor Igov, Ad quam rem Aristophanes Arcadum Lacedæmonumque
laudato exemplo alluserit, notum est atque ab interpretibus satis indicatum.
Laudant Xenoph. Hell. V. 2. 7. ix 81 tovtov xa^xfpV^V J&v to
teixoS, SiajxldSrf 8 "k 7} MavTiveu TEtpaxv • Aristid, Orat. T. II. 287.
ed. Iebb. SiaoxidSTjdav Si ye MamvEiS vno AaXESaipovicov rjSrj rijs
eipt/vjjS opoopodpivrjS, Alios Riickertus laudat ad h, 1. Adde Wachsmuths HeUeniscbe Alterthnmskunde. : Vor alleu war
Mantinea eiutrachtig und kriiftig. Aber auch gegen diese Stadt
machte Sparta mit emporeuder Ge wa 1 1 die Sat/ung des Friedens geltend;
sie wurde Olymp. 98. 3, 386 v. Chr, in Ortschaften aufgelbst, aus
denen sie vor etwa einem Iahrhundert entstanden war. Constat autem, eo
tempore, quo Mantinea a Lacedæmoniis eversa est, plcrosque convivas
symposii, quod et ipsam celebratum est Olymp. XCVIII* 4. h. e. 386.
a Chrt n., iam fuisse morfruos, Anachronismum igitur h. 1. Platonem
admisisse interpretes annotant simulque Symposium post Olymp. XCVIII. 4.
conscriptum docent. Comparationem ipsam quod attinet, frustra tertium,
quod vo- tpojlo s ovv Iotlv, lav ftij xoOfiioi tj/isr xgdg rovg deoiig,
vTCag (irj xai av&ig xca xe ql ifiev £’z°vzes wsxeq ot Iv tulg etijla
tg xctta yQcccprjV ca»t, comparationis quæsivi. Vellem annotasset
aliquis interpretum, quo iure hominum dissectionem cum Mantineæ
eversione comparatam putet. Non dubitarem equidem, xc&aitep
ApxdSef vno AaxtSoupovicav insiticia putare, nisi præcederet dtooxi
< iSijfisv verbum, quod aperte ad hæc verba comparatum est. Prætervidit
hoc Cornarias, qui di£6xi6^Tffi£V scribendum coniecit. Sed nec hoc nos
prohibet, quominus certe depravationis aliquid verbis, inesse censeamus;
vide Excors., ubi fusius de hoc loco disputabimus.
<poftoS ovv $6xiv, Vulgo ivetixiv legitur, quod ne Græcum qoidem
censuerim in huiusmodi enuntiatione. Sequentibus verbis xo6f.no ? icpoS
xovS SeovS ad primævum hominum genus respicitur, quod iu ipsos deos
impetum fecit. Ex quo genere quoniam, qui nunc vivunt, homines orti sunt,
cavendum est, ne forte natura ad impietatem ducente illis similes sint,
eandemque, quam illi, corporis dissectionem experiantur»
GjSnep ol iv rctiS 6x?jXcCtS IxXEtVTtGDflk V O l. Annotat
Stallbaumius ad h. 1. : Locus videtur hoc modo explicandus esse. Veteres
-artifices vasa, signa, alia, ita cælabant, ut ea ostenderent
figuras extra prominentes, interdum totas, interdum dimidiatas. Et hæ
quidem vocabantur itpoSxvica, illæ vero nepupavij et ixtpavij.
v. Salinas, ad Solin. Quum igitur ixxvjc ovv omnino sit cælare
adeoque de figuris utriusque generis dici soleat, perspicuitatis causa additur
xaxii ypacpjjv, picturæ s. tabulæ pictæ modo, quo additamento efficitur,
ut cogitandum sit necessario de xpoSxvicoiSs. crustis.Hanc verborum
xaxu ypaqnjv explicationem fateor mihi noli placere, neque omnino
video, quomodo clariua fiat illis verbis additis, de c rastis sermouem
esse. Schleiermacherus verba xaxd ypcupffV plane non expressit: Dass
wir nicht noch cinmal zerspaltet werden und so herurngehen miissen,
wio die auf den Grabsteineu ausgeschnittenen,die m i t ten durch
die Nase gespalten sind. Atque fortasse
interpres doctissimus de figuris cogitavit ab impia incultæ plebeculæ
manu violatis. Quis enim alias unquam de dissectis figurarum naribus
in veterum monumentis quicquam audivit ? # Altera explicatio est, qua
dicuntur homines in monumentis non a facie tota, sed a parte faciei
altera efiormati esse atque ideo dissecti vocari. Si hoc modo
rem animo suo informarunt VV» DD. : potuisse cuiquam huiusmodi artificia
intuenti dissectionis cogitationem in mentem venire, constanter negamus.
Quid enim? Rem quamque ut in operibus cælatis, picturis, aliis, ita
in rerum natura ex altera tanIxrervmofilvoi, SunXE7CQi6fiivoi xuru rus
&vag, yeyovotss SsitEQ Xlanui. akku rovrav svtxa nuirc’ uvSgu tummodo
parto conspicimus, totam uno obtutu non comprehendimus. Nara cuiquam in mentem
venit de dimidiatis vel monte, vel domo, vel alia quavis re cogitare? Ut
in rerum natura alteram tantummodo rei cuiusvis partem conspicimus,
alteram supplemus meute, ita etiam in artis operibus ex altera parte effictis,
quæ uon videmus, mente supplere solemus. Alia verborum explicatione opus
est, atque, si quid video, litterulæ unios mutatione. Vulgo legitur
xccxaypciupijv, quod primus Ruhnkenius vidit in annot. ad Timæi L. V. Pl.
175. in xaxa ypa.~ (pyjv mutandum esse. Ortum nobis illud est ex
xocxctjfyatpiiv, scripsit autem Plato xccxa fiatprjv . Hæc scriptara quam
bene conveniat Aristophanis sententiæ, iam vide. 2x7/\7j est Suida
teste lapis in altum erectas, figura quadrata, idemque figuris
haud raro exornatns. K Pa(pr\ compages est laterum duorum, angulum
efficientium. Iam patere opinor, figuras in statuis quadratis xaxa
fitCL<pvv IxxEXvnwpiva^ non aliter intelligi posse, quam in ipsa
duorum luterum compagine positæ. Eo loco dissectione figuræ opus erat, ut
altera eius pars iu altero, altera in altero latere poneretur.
Uckermanni, viri humanissimi industria factum est, ut quadri effigies
tabulæ lapideæ incisa apponi posset, qua clarius redderetur lectoribus, quid
Aristophaues verbis xaxa jbcupijv adhibiti* intelligi
voluerit. XQrj taucvtu xagaxtievsa&ai tvatfitlv xegi btovg, iva
B rct itiv ixqwyea(iev, rmv di rt faca/uv, tov 6 "Eqcos
qfiiv Habes duornm virorum segmenta duo, quorum alteræ partes non
conspiciuntur quippe positæ in statuæ lateribus, quæ cum hoc latere
cohærent, sed ab hac parte statuæ non comparent* Vide autem, quam
bene hæc segmenta conveniant cum verbis supra lectis 190. D. idv 6
* Mxi 8 o?tGo(5 iv doEXyctivtiv ndXtv av x ejxai dixct, gqSx' i<p
hvoS no pevtiovr at 6xi\o vS ddKGoXidZovT eS. Adde dissectarum
narium narrationem, quam optime repræsentatam habes jiorum segmentorum effigie;
Ne autem de veritate figurarum xaxa fiatpi/v effictarum dubites, ipsi
veterum monumenta sepulcralia vidimus, in quibus huiusmodi
dissectiones admissæ erant. Eas admisisse videntur artifices ea de
caussa, ut fabulæ, quam figuris describerent, continuitatem,
continuo figurarum ordine certius assequerentur. Quod autem
artifices plastici sibi licere arbitrati sunt, figuras ut
dissecarent, idem haud raro poetæ in versuum finibus imitati sunt»
Nullus enim dubito, quin verba, quæ et ipsa sunt figuræ artificiosæ
et quasi imagines rerum, in versuum finibus recte dissecari possint.
8ianen pi6 fiivot xaxd tds fitvetS. Ne qnem offendat hoc loco
8iaKE7Epi6fxivot verbum, depromptum est e comparatione sequente dfertep A
Idnai, Tali enim serra dissecari solebant. Prorsus eodem modo 193.
A. de hominum dissectione dicitur dtuJxltfStfftfv, quo' loco
CSrjfLEY Cornarium frustra coniccisse supra monuimus. Aitiltott
autem vocem Schol. ad b. 1. explicat : al A eiat xai bctsxpt/i- pivai xai
dnvyot A lar, xai ol diaizEnpuSfdvoi d6xpdyaXoi . ol te *A5i/vaioi
Xitinoi xaXovrrat Teo £JC Ttjs iv TGJ XGOXTjXctTElY dwEXovS iepidpaS
avzovS aito yXovxovS elvat, Stallbaumios ad li, 1. oi 8ian£npi6fUvot,
inquit, aCxpdyaXoi quid sibi velit, inlelligitur e Scholiis Euripideis ad
Medeam v, 610.: ol t imB,EYOVfiEYoi xi6tv, adxpayaA ov xaxocxipvovxES,
SaxepoY jur ocvroi xocxeixov pipoS, $aTEpor 8h TCaXtXipTtOCVOY TOlS
vno&E%apkvoiZ, Iva, si 8ioi naXiv avrovS jj T ovS IxeIyqoy
.irtiZtruvuSai npds dXXtf\ovj> 9 inayofuvoi to fjju6v adxpayaX tov,
dvaviolvxo Ttjv Zeviav. EvflovXoS &ov$oir x i not idxiv azavxa
8iartEitpi<Sptva 7}pi6EQoS, dypifio jS nep ete xa CvpfioXa.
ovxooS 'EXX d8ioS. Non dubium quidem est, quin
Aristophanes ad hospitalitatis tesseras respexerit, quæ A i(5nai vocabautur,
verum, ni fallor, eadem tessera etiam modus dissectionis indicatur. Tali enim
non in medio dissecari solere consentaneum est, sed ab imo angulo - ad
alteram versus. [ cjy o"EpcoS 7 } fity ifyeft oo y, Vulgo
legitur oaS pro tiov, quod in ordiuem verborum recipiendum esse
primus vidit H. Stephanus. Eum secuti sunt Bekherus, Stallbaumius,
alii. Riikkertus ooS reposuit motus codicum auctoritate, qnortun exiguus
numerus oov exhibeat. Sed no- ijyEfiwv vml aTQttvriyos- « ftijfielg Ivuvrta
jtQcmtra' jtQccttu 6 ’ Ivavtia, ogTis &tolg rpUtu yaQ
yEvofiivoi xcu SiaXXayivtEs zcy &tta igtVQyGo^iEV ' «•
lait dicere Aristophanes, faciendum esse, ut eo modo, quem Eros
indigitet, pristinæ integritatis participes fieri studeamus ; (alio enim
modo eam nemo assequi potest); sed ut eorum compotes fieri studeamus, ad quæ
Eros ducat. Necessario autem b)V ponendum est etiam ideo, quod
x&v 8i t cum ra pkv satis explicetur præcedentibus, non eatis
explicatum est atque definitum. Ceterum TjyEjuoov xal GxpaxyyoS
abundanter dictum est ornatus gratia, quod moneo, ne quis forte
maiorem ipsis vim tribuat, quam qua Aristophanes eadem exhibere
Voluit, /iTjSelf ivCLVtlct ItpCLX* texo). Hæc verba prorsus eadem gravitate dicta sunt atque verba p, 189. D,;
iyoa ovv Tttipadouai vffiv ElSyyydocdSai xyv dvvapiv avxov y vjæiS
8h - x eo v a A Xayv 6 1 5 d d xaXo i %ded$£. Vide anuot. p,
153. iZevpy dopkv xe xa\ Ivxev&,6jme% a, Latinis
non licet diversæ etrnetaræ verba ita coniungere, ut sequentis
nominis terminatio tantummodo accommodetur ad unius verbi naturam. Neque
Græce licet, accurate si rem spectas, huiusmodi structuras verborum
adhibere. Nam nostro loco re xad particularum ea vis est atque
potestas, ut prioris verbi finiti pondus imminuant, posterioris
adaugeant, quasi si dixisset Aristophanes IB,evp y d oyxeS ivx£vB,6 p.£%
a.. Haud raro etiam nominibus, quæ a verbis diversæ structuræ
derivantur, conjungendis, re xa\ particulæ solent apponi, v, c. 147.
E. icapadxaxyS xe xal doozyp' In nominibus quidem harum
particularum non constans usus, ac facile quidem iisdem, ubi non
comparent, caremus, nullum autem apud veteres scriptores locum repereris, ubi
verba diversæ structuræ adiuuctoque aliquo nomine per simplex
noci coniuncta sint. XolS y jæx e p oiS avz&Yt
Ingeniosa quidem est, sed minime probauda Bastii coniectura : xoiS
yfiitojioiS avz65r . Exempla non rara sunt, quæ avxoS pronomen cum
possessivo pronomine coniunctum exhibeant. Idem usus iam apud
Homerum obvaluit, v. c. Odyss.1. v. 7. avxoov yap
dq>£xkpydiv axaCSaXiydiY oAovro* Alia exempla Motth. congessit
in Gramm. plen. §, 466. Verba nostra convertenda sunt:
unsern eigensten Lieblingen. o XG)V vvy oXiyoi noi OvdiY h. e.
quod eorum, qui nunc vivunt, faciunt pauci. IToieiy interdum, ut
Latinorum facere, non actionem describit, sed vitæ conditionem,
quare recte Schleiermacherus verba convertit : Was ietzt nur w c
nigen begegnet. Invaluit hic 7COIEIV verbi usus ideo, quod vitæ
conditio talis plerumque esse solet, quales fuerunt actiones præcedentes. ib
xal ivttv£6(iB&a rolg xca8t,xo Tg toig ^fwtlpotg avrav, S rav vvv 6Uyoi
noiovoi, xt£ (ir/ (ioi vnoi.d(ig ’Eqv^ax og xoficoScov tov koyov, cog
IlavGavluv xal jirj pol vitoXa ftp . Hæc est Bodleiani
aliorumque nonnullorum lectio, quam receperunt Bekkerus Slallbuumius,
alii. Vulgo legitur xal Jiu} / iov vito \ctfiy, quod unice probans
Riikkertus : Reposuerunt, inquit, dativum casum recentiores editores omnes,
Cuius rei necessitatem ego nullam me confiteor videre . Est enim
hyperbaton pov ad roV Xoyov referendum, sicut haud raro Græci pronominis
casum obliquum in principio ponunt sententiæ ita t ut 9 regens vocabulum
in fine demum sequatur. Speciosa hac annotatione cave seduci te patiaris.
Non negamus quidem, pronomina aliusque generis verba interpositis
quibusdam voculis ab iis verbis sæpissime seiungi, ad quæ
proprie pertineant, tenendum autem est, huiustnodi verborum
disiunctionem non admitti a scriptoribus, nisi ita, ut vi quadam
augeatur vel prbnomen vel aliud quivis verbum a verbis suis
disiunctum. Igitur nostro loco si scribitur 7 ta\ prj fiov vnoXafty
9 EpvB,ijtaxoS xcopipScov tov Xoy ov, sententia existit næc; Ac ne
meam suspicetur Eryximachus orationem ridens, me Pausaniam et
Agathonern tangere ; sed hoc neque potuit neque voluit Aristophanes
dicere. .Unice verus dativus casus est, quem ethicum grammatici
vocant; explicatur is commodissime hac I Ne mihi accidat 1
ximaclius orationem meam ridens suspicetur, me Pausanian! atqæ
conversione^ )c, s ut EryAgathonem hic tangere. Exempla dativi
ethici Matth. congessit Gramm. pleu. $. 389. 713.
XG>p.u)Sd)V tov Xoyov. Stullbaumius ad Piat. Apol, Socr. 31. D.: oxi pot Selov r i xal Saupdvtov
yiyvtrctif o hi) xal iv ry ypoupy iitixcopcodcov Mf\?}ToS dypaxfwtTO,
Fischeri annotationem laudat hanc, ed. 61»: ln:iHU>pcjdu.v est ridere,
notare, nt HopooSeiv et 6iaxcoftcaSelv idem valent, quod dux- '
dvp&0r, dUCOTtTElY, X^ £v< x% aiy » v. Poll> IX. 148. Caussa
est, quia in comoedia vetere vitia hominum describebantur et
homines quasi notabantur. Quid igitur de Aristophanico Socrate
iudicabis in Nubibus? Num ibi vitia hominis sanctissimi notantur? Non
credo, neque milii satisfacit Fischeriana xcopooSetY verbi explicatio.
KopcpdEtv non eius solum est, qui vitia notat, sed etiam, qui res
serias in ridiculam partem ' interpretatur. Quo consilio ct modo id
Aristophanes in Nubibus fecerit, alio loco explicabimus. Nostro
autem loco, quoniam Eryximachus medicus censorem se fore minitatus
erat orationis 189. B., Aristophanes vereri se simulat, ne forte ea, quæ
hucusque dicta essent, in ridiculam partem interpretaretur atque in
Pausaniam Agatlionemque orationem directam explicaret.
Ida $ plv yap apjtBveS. Quod fortasse dicantor bonoram illorum b* e. pri-
y.ctl Ayafrava llya ' Xaog ' [ikv, yctg xal ovzot rovzav Cxvy%uvov6cv
ovzeg xal tlalv dficpuzEgoi rrjv cpvSiv ct$$ivtq, Ityu 8e ovv iycoyE xe.&'
citavrav xal dvSgiov xal yvvaixav, uzi ovzag civ fjtiwv zo yevog
tvdcdfiov yivoizo, ii ixztltGaitxiv zov Igaza xal zcov naiScxav zcov
auzov exaOzog xv%oi elg zrjv ag%aiav dxEi&ov cpvGiv. ii 81 iovzo
agiGxov, avctyxa tov xal zcov vvv nagovzav zo rovzov lyyvzdzco dgiGzov
ilvai. zovzo 8 ’ iGzl mu8ixcov zvyeiv xazci vovv avza xscpvxoxcov. ov 8t) tov
acU zcov &eov vfivovvzig Scxaiag dv vfivoifisv "Egcoza, og ev te
tcp xagdvzt y[idg xteiGza ovlvyGcv elg zo oIxelov stinæ felicitatis
integritatisque participes cssc, id satis spinosum Fortasse alterius
figura altero procerior erat, ut ne cogitari quidem potuisset, alterum
alterius partem esse. De altera parte huius enuntiati xai eldiv
d/upuTSfJOL Ti)v cpvfSiv afifieveS vario modo interpretes iudicarnnt.
Bastius pro dppeve G scribendum coniecit dfjpevoG, Orellius ad
Isocr. loco mederi cen» suit scriptura afifitvoS kvo G,
Stalihaumius ad h. 1. appevtG idem esse censet atque dfifievoS bvuS.
Videtur appeveG cum emphasi positum esse, ut supra 192, A. dvdpeG
nomen, Moititiein autem utriusque poetæ notat .Aristophanes, atque
ad porum nomina respicit, ut, cum Fausaniam et Agathoncm summorum
bonorum compotes atque revera viriles dicat, 3 laixSapivovG rcov
dyaSav intelligi velit, h. e. homines parum virilitate gaudentes, sed
elumbes, nominatos, enervatos. Probatur hæc nostra verborum
explicatio verbis sequeutibus : ei txrekidai/tev tov £ parta. Tetigimus
hunc locum in Gemment, de Sympos. Platonis. rcov vvv 7t apo
vrcov. Td
vvv napovra sunt, quæ in præsenti nostra conditione fieri possunt, nostraque
sunt in potestate. Quum enim illud assequi non possimus, ut plaue
coalescat natura nostra, cum altera nostri parte, sicut omnino in rebus
Jiumauis, ita bac quoque iu re optimum illud est habendum, quod ad
idealcm illum, in quo olim fuimus, statum quam proxime accedat.
Riiclcer.t* naxa vovv avt gj. Iu permultis codicibus pro avrcp
legitur avtGJf quæ lectio ab iis reperta est, qui frustra quærerent, ad
quod avr<o referrent. Subtectum cum alias haud raro oroit-titur, tum boc
loco omissum facillime feras, quod præcedit : xal rcov 7caidixoov r gov
avrov 2xa6r oG rvx°i A. Ceterum xara vovv avrco it. apprime respondet
nostratium; seiuem Gesclimack entsprechend, 9 eli ro olxeiov
&yoov . Do thyeiv verbi usu absoluto suctymv, xal ilg *<>
bttvta etotftag /icylazag ituQtytxai, Tjuiov nttQixofdvcov XQog 8tov g
tvtskfiticcv, xazccdzi/aag ffflag tlg zt/v doyalav q>vGt,v xal
luadfievo g f taxuQwvg xai evSalfiovag xoiijeau Cap. XVII.
Ovtog, ?yt/, ta ’Egvl!na%E, 6 iftog Xbyog i<su xbqi Effatos,
tMolog »; o Oog, xaficpdr/dyg avzbv, Tva xal exaozog (qu, (uxkXov
5e r l ZaxQa rtjg XolxoI. pra diximus annot. 22. Quid
significet x 6 obedor, frustra io Ficiui conversione quæras: dum in
suum igniculum quemque conducit. Recte
Schleiermacheras verba convertit: indem er uns zu dem verwandten
hinfuhrt. Ne qais autem scribendum censeat eis Xov olxtiov, quo
significentur 7tai8ixd xara rovv izetpv: xota : AMANTgenus neutrum seri-
1 ptores adhibere in sententiis» quæ in universam
proferantur. l\7ti8aS jieyltiraS TtapiXBtai xax a6xr\ daS
rtoiij 6 ctl. Participium xaxa 0xr^6aS post iXxiSaS 7tapiXtxai ponitor,
quia/AjrfdaS’ izap&X& eiusdem fere significatus est atque
dtixvvpi, SrjXoGD, quæ verba participium adsciscunt. Vide de hac
verborum structura Mattii. Gramm. plen. 549* 6. 1077. De
7C0iij<Scti aoristi infinitivo vide Heindorfium nd Piat. Phæd. 48.,
Stallbaumium ad Piat. Phileb. 204« Ceterum eodem verbo Aristophanes usus
est in couditionali enuntiato xapexexcu, ypcov «rap wgjciQ ovv ISeifotjv
Gov, /ii/ zav Xoixaiv dxov6<o/uv zl lxdzsQ 0 $ • ’Aya%av yccQ
xal E exo/tivar nt efficacior ev«- derct via conditionis.
ovtoS, ttprj, c v ’Epv£iM a X e i d d/jo s XdyoSx.
r.X. Respicit Aristophanes ad verba 189. C. xal fti/r, <«
’Epv£lfiaxe &XXr) y£ it; £r va> Xiysiv i) y 6v te xal TlavOaviaS
ilntnjv. OvtoS hic SsixttxiuS positam est. at verba convertenda
sint: Ecce talis est oratio mea. cfr. Mattii. Gramm. plen, 471.
12. 875. 'O ifioi autem cnra vi
pronuntiandam est. significat enim : oratio, quam habere debni.
firj xa> fiu>8r/<Sij S uvtdv. vide annotat, 185-
"ClSxep £8e7/$z/v uov verba
spectant ad p, . 189. B. aXXa fu/ fis tpvXazts, tds iycv
ipofjoviiai iccpl xoov. fieXXdvtwv fyi/ST/iSsd^ai x.
t. X, et 19S. B. xai ftij fioi vitoXcifl’,1 ’Epv£ifiaxoS
xcofttaStiv roV Xoyov, tvS llaviaviav xal 'jiyaScova Xsyu. De
verborum fidXXov 8s significatu vide anuot. 15. Alia neldoftal 601,
l'<pij tpavai rov ’Eqv%1(iccxov' nui j mq uoi 6 loyo s Jjdl ag 9
'?#'?• xal el fir) gwjj Seiv Zmjxqutu te xal Aya&ave Seivoig ovdi negl
ta egcotixa, na w av icpoftovfiijv, [i/tj anogydadi loyav Sia
xa\ yap poi 6 \6yoS yj 8 i gdC i fi fi7j,$7j. Spectant hæc
verba ad 189. C. idcoS p&vTOt dv 8oB>xf yoi, a<p?}da> de.
Eryximachus igitur vel ipsa Aristophanis oratione pacatus vel motus
verbis Iva xal tgov Xoindov thiOvdoDjxEv, nolle se iam promittit iuiuriam
sibi illatam 189. C. ulscisci.
’Efifij/$?j scripturam quod attinet, vulgo ififii$7} legitur, quam formam
Buttroannns in Gramm. plen. p, 121. iis scriptoribus tribuendam censet,
qui non sint attici. Annotat enim: Aus den Werken alterer Sr.hriftsteller ist
diese Form durch die Autoritiit der Handschrifteu ietzt vielfaltig
entfernt. vide Lob. ad Phryn. 447. Bekk, ad Æsch. 2. 34, 124.
ISicht selten steht sie aber auch grade in den bessern
Ilaudschriften. ei pn} %vvy 8 etv Sei voiS ovdiv . Rariore
usu dvveLSevai rivi ri ponitur hic pro uliquid de aliquo scire»
Isocr. Archidam. 229. dvveiSozef *A$rjvaioiS IxXiicovdi rrjv %cdpav vitkp
x t}$ ru )v uXX.gov i\ev$epiaS. Id.
Arcopagit. dvvoiSa re r otS xXeltixoiS avrvv ?padra x a ^P ox) 8iv.
Piat. Phædon, 92. D. lyuid^roiS Xoyoifv B,vvoi8a ovdiv a\a?,dCiv. Stallb. Alia
huius stru-* cturæ exempla Matth. laudat in Gramm. plen. 548. 2. 1075.,
quibus adde, quem Riickertus locum laudat Piat. Protag, $48. B.
aXX* rftoi SiaÆyedSco rj ehcerao, ori ovx iStlei 8 1 aXiyedSai, iva r
ovraj ptv rocvta dvveiSdopev, prj a.7t o p ?/ d co 6 1 .
Coniunctivi modi post præteritum positi exemplum habes 174. A. fio. ravra
8rj ixaXXGoniddfxyv, fva i'co, ad quæ verba vide unnot. 16. Nostro
loco artificio quodam dicendi et non timere se significat
Eryximachus, ne non habeant, quippe maxime erotici, Socrates et
Agatho, quod dicant, et rursus timere propter ingentem præcedentium
sententiarum a convivis prolatarum copiam, ne oratione sua uterque et
philosophus et poeta indigeat, Possis hæc verba etiam hoc modo
interpretari: nitvv av £<po~ fiovprjv (aXX* ov cpofiovpai vvvl f pi)
dicoprfOGo6i, ut magis ad sententiæ efficaciam dicatur scriptor orationem
direxisse, quam ad verborum grammaticam conformationem. Eam
explicationem verba, quæ insequuntur, probare videntur vvv 8 ’
op&S Safipai, Sed non dubito equidem, quin liæc verba etiam cum
priori struturæ explicatione conciliari possint. naXcdS yap avroS
yy condar, Schleiermacherus verba convertit : l)u hast eben
deine Sache gut bestanden. Schultliessius: da hast deine Rolle
gliick licii nusgespielt. Rukkertus jtaXaS riihmlich convertendum censet.
Ficiuus in zo itoU.cc xal jtavtodana dQijo&ai' vvv df ofiag ^aggco.
Tov ovv ZaxQurr] tlxuv, Kalag yccQ avtbs TjycovLOctt, a ’EQvi-![itt%s. d 6s
ytvoio ov vvv lyco dui, fiallov ds lOtog ov t do ficu, hcudav xal 'Aya&av
drtij, iv conversione exhibet: strenne et ipse certasti. Aliud quid
Socrates xa\ds verbo adhibito videtur exprimere voluisse, quod quid sit,
e præcedentibus et insequentibus facillime colligitur. In præcedentibus
enim Eryximachus vereri se dixerat summopere, ne non habeant
Socrates et Agatho, quod proferant, quoniam a plerisque iam multis modis
de Erote dictum esset, non vereri se dixerat, ne non bene uterque
locuturus sit. In sequentibus Socrates non dubium est, quin verbis
ov vvv lyd elfiiiy ftaXXov 5k IdcjS ov Idojicti x, x. A. ordiuem
sedentium significaverit, quo factum sit, nt sibi de Erote dicturo
nihil, quod proferret, relictum sit. Sequitur inde, Socratem
Eryximacho non dixisse: bene enim ipse dixisti. Hinc verba ita disponenda
esse censebam : xaXds yap t (sc. SafifSEi?) avxoS ijydvidai, G)
EpvB,lfiax& h. e. Du kannst ganz guten Muthes seiu: deine
Rede ist vorviber. Sed scripsisset, si hoc voluisset exprimere.
Flato: xaXds ydp, cj ’EpvB>t/iaxe‘ avxoS tjyojvidai. Igitur nunc xaXaS
de tempore accipiendum esse autumo, ut idem hæc vox significet atque slS
xaX6v y de quo diximus annotat, 24.
Socrates hoc dicit: Du hast gut von Muth reden, (vide de supplenda
enuntiatione quadam ante ydp particulam quæ annotata sunt 14.) zu
guter Zeit hast du deine Rede gehalten, warest du aher
wo ich ietzt bin oder vielmehr wo ich nach Agathons Rede sein
werde cet. Ceterum iam supra sedis inopportunitatem notatam habes a
Socrate 177. E. xal r ot ovx Zdov ylyvExai i)filv xo'iS vdxdxoiS
xaxaxuf.ii.voiS «AA* idv ol xpodSev ixavcoS xal xaXcoS tincodiv .,
lUapxiGei 1/f.ilv. Ceterum patet, Socratem Eryximachi verba aliter
interpretari, quum medicus ea intelligi voluit. Dicturus enim erat: nunc non metuo, ne non habeaut Socrates et
Agatho, quod proferant. Socrates contra ita respondit, qua^i ille dixis,set:
Nunc mihi securo esse licet, ne, quod proferam, nOn habeam. Sed
solent, qui cum acerbitate loquuntur, interdum non ad sententias
respicere, sed singula verba captare iisque ad suam sententiam coutorsis
responsa accommodare. el ykvoio, ov vvv lydi e i fit . Eandem
fere sententiam hoc modo expressit Terentius in Andr. Act. II. S. 1. 9.
Facile omnes cum valemus recta consilia ægrotis damas» Tu si hic
sis, aliter censeas. De insequentibus verbis xal Iv icavxl e1lr)S vide annotat.
62.
Recte ea Stullbaumius interpretatur: in summa consilii inopia, in
summo timore versari. Deinde ev xal fidXa rarior dicendi formula
est, pro consuetiore ev fidXa . Addiderant interdum veteres
seri- xal fiaJ.’ av cpofioZo, y.al Iv mxvrt tcqs, Sgmg lyco vvv.
(PagfictTTHV fiovÆi fis, co Ikoxgcatg, tlntiv rov ’Ayaftava, iva
Qtogvjiri&m dtcc ro ohti&ca r 6 ftiargov ngogSoxi av neyukr t v i%uv,
tog sv igovvrog luov, 'EniXtfiimv fdvt’ av tl'tjv, w ’Aya%uv, tlntiv r bv
Zwxgdry, d id uv ptorcs Taxi particulam, qua significarent, cum vi maiore
et ev et puXct pronuntiandum esse. Non mate Riickertos ad h. 1,
Ttai addito effici censet, ut eadem fere cogitatio bis ad animum
afferatur. Huic dicendi generi apprime respondet nostratium gat und g e r
r», quibus verbis utuntur, qui animi sui sedulitatem ostensuri
sunt. cpappatteiv fi ovX st jus. tpappaxrEiv fascinare
significat herbarum adhibito succo, deiude etiam de aliis remediis
valet, inprimis autem de magniloquentia, qua aliquis ita sui impos reddi
posse credebatur, ut nihil eorum, quæ vellet, neque facere posset
nec dicere. Sic in Piat. Phædon, 95. B. legitur: IA ’ya$l t Utpi/ 6
2?cjHpdxr/S^, pi/ piya A iye, p)} xt? Tjp&v fia< ixaviot
7tfpiTpeip?j rov Xdyov xov plXXovxa XiysdSai. Ceterum nihil aliud voluit
Socrates laudato Agatliouis nomine efficere, quam ut accuratius locus definiretur,
quo sibi esset dicendum. Poterat enim iud« loquendi difficultas expendi.
Igitur notabis, quain manifesto Plato hic carpit, vanitatem Agathonis
verba Socratica in suam virtutem dicoudique artem directu
censentis. ro Siarpov ev £ puvvroS ipov. ro rpov
h. 1. de convivis intelligendum est. Eius vocabuli
insolentiam ne mireris, adhibitum est t Platone, recte monente Wolfio
? ad h. 1., ut sceuicum poetam hic loqni lectores ^oneantur.
De gdS cum genitivo participii coniuncto vide anuot. 158.
EiiiXi) 6 pcav pkvx* av siijv. Recte monet Riickertus ad. h,
1., pivTift interdum nnd adversandi, sed asseverandi potestate adhiberi.
Eandem significationem xai xoi habet, quod disiunctim scribendum esse
supra monuimus 51. Fortasse etiam pivxoi, ubi asseverandi vi
positum est, scribendum est piv xoi t neque dubito, quin Græci,
quos studiosissimos fuisse constat verborum recte pronuntiandorum,
pronuntiando discreverint •ptvx dv et piv r* av. 'EitiXijtipeov
verbum quod attinet, senum decrepitorum constans epitheton est, »ut et
oblivionis atque ridiculæ stultitiæ significationem habeat» Schleiermacherus
in conversione exhibet: Sehr vergesslich miisste ich dann sein. Eodem modo
Ficinus verba reddidit: Nimis, o Agatlion, obliviosus essem. Neutra nobis
ItxiXijtipGDV . ^ocis explicatio arridet, seque tamen facile verbum
repertum iri concedimus, quod ilii vocabnlo satis respondeat.
T7/v 6i) v dv $ p tiav dv a fiaiv
ov x o S n. x. A. Laudat hunc locum Mutth. in Gramm. ampl. J. 466.
1. 864., t))v cijv uvSqsmv mu nsyaXoqiQoavvrjv avctfialv ovtos hd
11 tbv vxQifitxvta (liza tcSv vitoxQLuav i tal (tttipavrog ivcivcla
toSovtu (liXXovzog esudEi^ttj&ai Cav um kuyovg, xul ovd’ bnagnovv
IxTcXaytvzog, vvv o lr r Stlrjv oe %oQv(irj9>;OtG&ao evExa i/fubv,
oXiyav uvftQcaxwv. ub i complura Innas structuræ exempla congesta sunt. e.
c. Arist. Ach.93. ixuoipeii ye xopaB, itazaZaS tov yt 6 ov
(ocpSaXpov') tov n p i 6 (i e cjS . Ceterum dubitari nequit, quin
Socrates Agatlionis virtutem animositatemque prædicet ironia consueta
usus; pauli o infra enim ipsum pugnare secum ostendit, ut, ni Phædrus
eius pudori succurrisset, hominem misere turbatum eiusque
animum elatiorem prostratum humi cerneres. Hoc ironiæ artificium,
quo eximia laudatio acerrimæ notæ præmittitur, videlicet ut
elatiores cadant miserius, ex epicorum arte depromptum est, qui heroum
solent, quorum cædes narranda est, ipsi huic narrationi summam
laudationem virtutis, magnanimitatis, pulcritudiuis præmittere. x
iitt tov oxpift Civ x a . Schol. ad h. 1. oxpifiavxa, in-/ quit, r
6 Xoytiov, i<p ov ol xpaycoSol jjyoovi^ovxo’ tivt ? Se xiXXifiavxa
tpidxeXrj (padiv, i<p’ ov iCtavxai ol vxoxpixal xai xa ix
peteojpov Xeyovdiv. Adde Fhotii verba : oxpifiaS ’ to X oytiov,
i<p’ cj ol xpaya)8ol tfy<k)vi£ovto. xcti nXdteov 6
tpiXo6o<poS Svpitodioo x£XPV rca T ai ovopaxi. Timæus hæc habet :
oxpipaS' nijypa to lv xa 5 $e axpeo TiSipevov, iq> 9 ov idxavto
ol xa Sr/podia AcyovteS * SvpiXy yap ovSinos tjv. Hesychios exhibet;
fi&Xtwv tpavat to Xoytiov, £<p* ov i&xavxo
ol tpaycpSol i/ ol, vnoxpixoLl ix pexeoSpov xal iXeyov. fiXirJ;
avxoS ivavxia to 6ovtcj $ e at pco . 9 EvavtUt > fiXiittiv de
bellatoribus dicitur, qui intrepidi hostem adventantem intuentur. Pro
TOdovTCJ Searptpy quæ plurimorum optimorumque codicum lectio est,
vulgo rodovxov Scarpov legebatur, id quod in hac loquendi formula
usitatum fuisse Stallbaumius rectissime negat. Iu sequentibus davxov A
oyovS ne quis articulum desideret, quem, si in codicibus exstaret,
nemo non probaret: Socrates hoc dicturas est: iudem du im Bpgriif
standest, eigene Compositioueu bekaunt zu macheu. T L Sal. Codicum
baud exiguus numerus ti Se exhibet. Multis in locis, nbi xt Sai scriptum
reperitur, de lectionis,veritate dubitari potest. Nostro loco
nihil certius est, quam tl Sai bene se habere. Miratur enim,
Riickertus inquit, quem consentire nobiscum gaudemus, Agatho
Socratis orationem, qui multitudinis se nimio studio teneri insimulet;
verissimum autem illud est, quod Stallbaumius ad Fhilebum 6. notavit,
xi Sai locum habere, ubi admiratio quædam esset exprimenda. Quoniam autem
admiratio ulicu- Ti dal, to ZdxQccTBS, tov 'Aya&avcc <puvca, ov
tfij itov fit ovra StaTQOv (itOtbv fjyu, dgts xa\ ayvotlv, oti vovv
i'%ovu oXlyoi %nq>QOVES xolXdv dipQovuv (poftlQUtcgoi' C Ov fiivT av
xa/.dg itoioltjv, tpdvai tov ZaxQdrrj, ol ’Ayudav, xbqI Oov ti iyd
aygoixov do^utuv. ciV.’ tv olScc, uti, ti tiOiv Iv xv%oig, ovg yy oio
Cotp ovg, (idXXov ins re! hand raro cum quadam indignatione
coniuncta est, quæ e rei alicuius insolentia, quam dtoniav vocant
Græci, enascitur, zl 8aL plerumque ita exhibetur, ut rem aliquam veram
esse neget is, qui illis voculis utatur. Exemplo est Piat. Gorg. 461.
B. zi Sal, 2 cox p dzrj S ; ovzoo xcti dv xepl zij ? pijtopixfjs
8oB,a?>EiS, &S7tEp vvv XtytiS ; ov 8 y 7COV/.IEOVTG3
seqq. Hæc est codicum lectio, quam Themistius confirmare
videtur Orat. XXXVI. Sil- B., qui nostra verba imitatus est:
ov 8r} Ttov pe za Siazpa ovzooS dyandv i/ysid^E, qjSze
ayvotlv, ozi oXlyoi lyuppovES noXXcov aqjpuvcjv rc5 A kyovzi
cpofjtpcJTEpot . H. Stephanus scribendum coniecit dv 8? ) itov jxe x.
r. A., quam scripturam verissimam c«nserem, si iu sequeutibus
scriptum exstaret: ozi vovv ^xovxi oAiyoi itoXX&v
(popepootEpoi. Hidiculum enim foret, si Agatho quæreret de re, quæ
Socratico dicto pro certa iam posita esset. Dixerat nimirum Socrates,
fieri noa posse, ut Agatho paucorum homiuum præsentiam
extimesceret, cum coram ingenti multitudine animatum se ostenderit atque
intrepidum. Ad quæ verba pessime responderetur ab Agathone: Profecto non
ita me spectatornm applausu elatum indicabis, ut qui nesciam, prudenti
paucorum hominum, quam multitudinis iudicia timenda esse magis.
Additis autem verbi* ipqypovE? et cttppov av nihil certius est,
quam Platonem ov Srj itov pE scripsisse. De 5 ? / 7tov verborum
siguificatu vide annot. 98. Verba convertenda sunt: Da wirst micli
doch olTeubac vvohl nicht so vom Lobe der Zuscliauer eingenommen
halten, dass ich nicht wusste-, dass das Urtheil weniger Besonneuer
weit melir zu furchten ist, ais der Uuverstnnd der Mengef iCEp\
dov ti iyco. Nota vim pronominum 1, quorum ordine hoc exprimitur} de
te, viro tanto tamque insigni ego, homo vilis. Ceterum
Ruckertum audi, annotantem ad h* 1. : aypoi xov. fcSic dedi cum edd.
rec. inde a Wolfio, vehementer licet dubitans de Grammaticorum illo
præcepto, quod inter aypoixoS et aypoixoS hoc discrimen poni iubet,
ut dypoixoS eam denotet, qui rusticis moribus sit, aypoixoS t qui
ruri habitet. Timæns : dypoixoS dxXrjpoS xal anai** SevzoS, rj 6 iv
aypoi xatoixcov* Esse accentuum discrimen nolumus negare, sed utrum
idem etiam significationis sit, an potius dialectorum aut ætatum,
dubitamus, « A A a p?} ovx ovrot ijpels cjfiev Alio loco
dicturi sumas de usu prj ov ne- av tt&rav (pQOvd^oig y xwv noXlav.
ulla f ti? oi% ovT 01 tjflSLS 10UEV. TjlUlS y-EV yCiQ XCtl IxtL TtUofjfltV
XCil jjfuv rdv xoXXiSv. el Si ailoig lvTv%oig 6o(poig, xk%
itv alOyvvow avrovg, t” ti 16 cos o toto alaygov ov noiiiv. rj
Ttcog kiyi ig; 'AXrftry tiyug,' cpavca. Tov g Si xollovg ovx av
alo%vvoco, t" rt oioco aldygov D gationura Nuperrime de iis
egit Bellermannns ia Commeat, de græca verborum timendi structura,
censetque esse apud Græcos eandem et cavendi et timendi verborum structuram,
qua, quicquid molesti instare sibi arbitrentur, præmissa indicent
fxrj particula, cui alteram insuper addant negationem ov, si
quod exspectent malum, in eo contineri dicant, quod quid non sit
eventurum. Hæc sententia cur nobis non probetur prorsus, alibi
dicemus. Ad nostrum locum ut revertar, convivas ex ordine tgov
i/Kppovcov esse, Socrates non negat quidem disertis verbis, sed vereri se
tantummodo ait, ne non aint tales, quales esse ab Agathone
perhibeantur. si aWotS ivtvxoiS doepotS. 2o<poiS nomen
a verbo, ad quod pertinet, sejunctum est, ut sensus sit: si aliis
iidnne sapientibus, de qoo vernorum dispositione sæpius iam diximus
; vide aunot. 59* 129* al. Ne autem scriptum exspectes pro
doq>otS verbo docpGOtepoiS rjfiaov: Socrates et se et ceteros convivas
multitudinis imprudentiæ prorsas æquiparat, ixl quod etiam
colligitur V verbis : 7 plv neti ixel napjj- fXEV TCCti 7Jfl£V T(OV
TtoXkwv* e£ rt tdeoS oloio al dxpor ov rtoieiv. Stallbaumius
ad hunc locum, non est, inquit, quod ov participium cum Astio
delendum putes, si quidem sententia hæc est: si quid facere
te putares, quum tamen turpe esset, sc. tcoteiv . Participium revera in
Stallbauxniana textus recensione omissum miror. Ceterum ponderosior
est eius explicatio ov participii. Si abesset, nemo, opinor, id
desideraret. Addito eo nihil nisi rei veritas exprimitur, ut verba
convertenda sint: si qnid forte facere te opineris, quod revera sit
turpe. na\ tov $ a 18 p o v, £ q> 77, VTtoXafiovx a. Supra
iam dictum est, Agathonem, cum non haberet, quo se posset
Socraticis retibus extricare, pudore suffusum obmutuisse, Phædrum autem
miserrimæ eius conditionis miseritum, atque ut finis esset silentii
ingratissimi, <pt\e *Aya$GOV et quæ sequuntur verba
protulisse» Ut igitur esset, quo etiam oculis legentium illa Agathonis
reticentia indicaretur, post aidxpov iroieiv lineolam ponendam
curavimus* lav (X7tOKpivv ^co reparet h, e. si pergas respondere.
Amant enim Græci) ut vim augeant verborum, ipsa verba ponere pro
eorum infinitivis cum aliquo finito verbo 13 noiiiv; Kal t dv
&aid(>ov I tpr} vitolajiovTa timiv, r Si cpli Ie 'Ayuft ov, lav
anoxglv]) ZkoxQaru, ovdlv eu dwiGei avra, dxrjovv tov ivdude otlovv
yiyveaftta, lav fiovov h'%y ora diaXtytjTaz, cilkag te xal xakcii.
iya de ydeco s (itv ccx ova ZJaxQaTovs d caley ofievov, dvayxalov de fiot
eMfuhj&yvat tov iyxafiCov za "Egau, xal uTCodt^aG&æ nag’
evds txuGzov vumv tov coniunctis. Diximus de hoc genere dicendi in aunot. 169«
Sic in Piat. Phædr. A. legitur axap, <J Ixaipe, petaZv ta)Y
Xdyarv 9 ap* ov rode i\v tu 8/v6pov, i<p’ uitep yyeS i)fict9 }
quo loco ijyeS cum vi positum est pro ayeiv IflovXov. Adde
Engelhardtum ad Platonis Lachetem ed. 29* Meus autem Phædri hæc est :
Cave Socrati respondere pergas» nam ubi perrexeris» nihil
ipsius intererit, quomodo ea, de quibus dicere constituimus,
peragantur, dummodo ipse habeat, quocum colloquatur. Magnam fuisse
constat Socrati aviditatem colloquendi, quæ haud raro apud
Platonem descripta reperitur. cfr. Apol. Socr. 38. A. idv x* av
Xiyco 9 oxi xal xvyxavei piyi6xov dyaSov ov avS pedit (p
xovxo, kxdtixtjf ijpipaS itepl dpexijs xovS XoyovS noieuSSat xal
xcov dXX cov x . r. A. Adde Phæd. 61. E. xi yap av xi9 xal
Ttoiot dXXo iv r&5 pexpi ijXlov 8v6pdov XP° V( ? 8C * V poSoXoydv te
xoCl diadxoiteiv nepl x. r. A. De more Socratico a^tem abeundi a
proposito atque alips ab eo abducendi vidp Piat. Lachetem 187* 13*
ov poy foxeif eldiyai, Zxt o? av ly. r yvxaxa ZEooxpaxovS Xy
A oya 9 $Snep yvvaixi Tc\r\6idZ,ii 8ia A eyopevoS xal dyayxrj avx<p
9 idv dpa xal itepl aWov X ov it potepov d p Ztjx a i
SiaXiyedSai, prj i tavetSSrat vito xovxov nepiayopevov tg j A oyaj
9 itplv dv ipnitiy eis x d didovai itepl avxov Xoyov x, X. A., ad
quem locum vide quæ annotata sunt 122. d AAgj> te xal xaX(S. De his verbis, quæ cave falso interpreteris,
vide Commeat» DE SYMPOS. PLATONIS, xal ano SigatiSai itap*
kvo9 kxatixov. Dixerat Eryximachus 177. D. Soxel yap poi XPV V at
adtovijpGov Xoyov eineiv inaivov ” EpcoxoS ini SeZtd cj 9 dv
bvvrjxai xaXXidxovx. x. A., quod dictum cum probassent convivæ ad
unum omnes, unumquemque Erotis laudatione habenda obstrictum recte
censeas. Igitur
non mirum, quod Phædrus hoc loco anoSeXetiSai verbo utitur; id enipi
de debito accipiendo solenne. Cum vi autem Phædrus anodeB,ct6$ai et
paullo infra anoSovS verba adhibet, ut commoneatur, Socrates, super
alia re non disputandum esse prius, quam debita Erotis laudatio exsoluta
sit. Apposite Stallbaumius ad h* 1. «t Zoyov.
dnodoiig ovv txdrtQog ra fhu oikag r\8rj diaZeyc69a. AUm v.ahZg kiyug, d
<H>cci8qs, tptcva i rov E 'Aya&avcc, xal avdtv fie xaZvu
Ztyecv' 2axQuzu yut> xal av&ig tOxat, nolldxi g
&ux).tyt(Sft<u. ’Eyd de < 5 >} (Sovkoficu tcqwtov (iiv
einelv, r) %q>] laudat Piat. Politic, 173* B. xa \coS xal xa$
ait e p eI xpz&S ditidcoxaS poi rov Adyov, ovtcjS ?/8 7} diaXeye6$a).
Ovzcd haud raro ita in veterum scriptis positum reperiri, ut aliquam
conditionem in universum insigniat verbisque insequentibus
accuratius definiatur, supra indicavimus p, 43Contra ubi accurate descriptæ
actioni postponitur, illam vim prorsus amittit; ridiculum enim foret
atque inutile, si quis iu universum id describeret, quod accurate
descriptum præmiserit, Aliam igitur vim habet, de qua solertissime, uti solet,
disseruit Engelhardtus ad Piat. Lachetem ed. 52-: Ovrcj, inquit, repetit
notionem participii tanquam cum sequente actione (h, 1* SiaÆyetiSai)
caussæ, conditionis, rationis ineundæ similiqne notione coniunctam,
Exempla si quæris huius structuræ, cf. Piat, Apol, Socr. p, 29. B. xal ei
8ij ra> (Soparepos rov <pait)V slvat, rovrco dv 9 ori ovk el8coS
IxavcoS it epi raiv iv n Ai8ov ovrco xal oiopai ovk sldivai. Piat.
Phæd p, 61. D. xal apa Asycov ravra xaSrjxe ra 6xiArf ano rijS
xAivrj? iitl Trjv yijr, xal TiaSeZopevoS ourcoS ?j8?] ra Aonta 8iEÆyEZo>
Piat. Protag, 314, C. tv* ovv pi} drsXifS ysvoiro ( sc, d
Aoyo?) a A Ad dianepavdpEvot ovtgjS’ elsioiptv x. r. A. Piat, do rep. IX.
576. E, xaradvvreS eis diradav (r rjv itoAiv) xal iSovref ov ra
8o£av anocpaiveops^a. xal ovSiv pe xcdAvei A kysiv. Atytiv h.
1, est orationem habere atque deum laudare. Qui paullo ante obmutuerat,
cum, quod respouderet, non haberet, nunc eifugiQ opportunissimo
usus, recuperata animi audacia, Socrati, inquit, etiam posthac sæpe
erit respondendi facultas, iycd d £ Si} povAopai* Queritur in
ipso orationis initio Agatbo, quod omnes, qui ante % se dixerint, non
Erotem laudaverint, sed homines felices prædicaverint ob bona, quorum
ipsis Eros sit auctor. Omne autem encoraium' pergit esse debere
ita comparatum, ut priori loco eius natura describatur, cuius
encomium exhibendum sit, posteriori loco bona commemorentur ^quæ ab
illo proficiscantur, His^Pæmissis ad ipsam dei laudationem abit,
tantosque honores in ipsum confert, ut in Agathonem potissimum verba
Socratica directa videantur, quæ infra leguntur 198. D. r d 81 apa, (sc. rdArj$i\ AJysiv x*r.
A.) toS ioixev, 13 * [is ehtuvy Inuret dnuv . doxovGt, yctQ poi
narres oi nQoGftev, elgqxoTsg ov tov %eov eyxG vpi&fciv, alXa
tovg av&Qi&novg tvdacftovl^BLV teov ayaftcov 9 av 6 &ebg « 5
tolg aluog. onolog de ug avtog dtv ravta edoQrjGazo, 195 ovdelg eX
prjxev. elg dh tQonog oQ&og navxog Inaivov neQi navxog > koyco
diekfteiv olog oicov cuuog av xvy ov tovto f?v ro xa\ goS lituiveiv
oxiovYy aXXa ro gjZ /ilyi 6xu dvaxi%Evcti r& npd/jxati xat oJs’
yidX\.i6xa > lav xe y ovtoai ix oy xu > Idiv re pr). Nam
beatissimum Erotem vocat omnium deorum et pulcherrimum et
fortissimum» Hæc epitheta tum ut firmentur, tum ut augeantur, alia multa
accedant, quæ singula enumerare nunc non labet. Altera pars
orationis, in qua dei dona recensentur, ita referta est antithetis
aliisque ornamentis orationis, ut Gorgiæ discipulum invenili ardore
exsultantem facile agnoscas. Ut autem auditores Aguthonis finita
eius oratione hominem summopere admirati esse narrantur p» 198. A», ita
universis Atheniensibus ipse GORGIA acceptissimus erat atque
iucutidissimus, ut teste OlympiocToro, quem Stallbaumius laudat ad
Piat. GORGIA p, 447» B. eos dies, quibus artem suam publice ostentabat
spectandam, festos (hopxaS) et orationes ipsas lampades vocarent. Hoc
nomen quam bene conveniat oppositioni bm^jipepissime repetitis,
antithetis Captatis, cincinnis orationis delicatulis, patere opinor.
AapitabeS enim faces intelliguntur, quæ certis quibusdam festis diebus
per nocturna spatia huc illuc -circumferebantur. Ut hæ faces in
Xa/maSovxiu, quæ et ipsa Xajmds vocabatur et \ujx itaSoSpojiia, mox
hunc, mox illum locum campi illustrare solebant, ita illis orationis
artificiis adhibitis sententiæ oratoris splendidæ reddebantur atque luce
clariores. XP 7 ? P E eliteiv. Sio editores omnes præter Ruckcrtum,
qui e codicum plurimorum auctoritate gjS XPV ordinem verborara recepit.
Addit idem, noo minus recte habere gjS quam y, utramque enim vocem
exhiberi, ubi quomodo quid fiat aut fieri debeat, oblique rogetur. Interest
tamen aliquid, utrum goS an y posueris. Exemplo ut clarior res fiat, y XP
V M E ehteiv est, qua ratione dicendum sit 5 verbum autem XP 7 ?
non nisi expletivum est, ut qna ratione ego debeam dicere nihil
aliud siguificet, quam qua ratione dicendum sit. Contra cJs’ XP 7 ?
M E eliteiv significo t accentu orationis in scqnens postea? verbum transmisso,
quo modo debeam dicere. Pari modo explicandus est locus Piat.
Eutbypbr. 4. E. xuxgoS eiSoreS ro Seiov as $x El T °v oCiov re
itkpi HCti tov dvo6iov . Adde Polit, 304. E. it o\e prjrkov htu6roiS oli
av itpoe XtopeSa icoXejiEiY» Protag. 338. D. 7t£ipado/iai avrcp 6eZ— B,ai y
coi iyoj (pypi XP 7 / ya 1 roxr ditoxpivopevov <x7toxpive6^at 9
Legg. A. in srA eiaa yavti ntgl ov
av 6 ).oyog f/. ovta Stj zov "Egavct xal Tjfxug Slxaiov htcuviGca
ngatov avzov ol6g tGtiv, Intuta xag SoGtig. (ptjjxl ovv lya navum v
&t mv tvSatjiov av ovxav "Egaxa, ii 9t(ug xal avtiitGtytov 1 1ntlv,
tvdai[iovtGzazov tlvat «vxav, xaUMixov ovta xal agiGtov. ti!
av ctnoi nepii ya/uav, ai 5 Xp)} ycepslv. Quibas exemplis male ita
usus est Riickertus, ut probaret, oJ? prorsus eadem potestate atque y
usurpari» Agit autem nostro loco Agatlio cum vi de ratione dicendi,
ut rectius y scribatur, nou item, quomodo debeat dicere, indicaturus est; certa
enim quædam dicendi ratio non præscripta est ab iis, qui Erotem
laudandum convivis præceperunt, Eryximachus et Phædrus. De HitEiza
verbo præcedente npcoxov jxkv aAAa xovS av% p(ditov$ ev8ai/. toviZEiv
Urgendum est pronuntiando EvSaipovl^eiv verbum. Sensus est: Alie,
dio vorher gesprochcn haben, sclieinen mir nicht den Gott zu loben,
sondern die Menschen den Gdttern gleich zu stellen. Sequentem
genitivum casum quod attinet, notum est, verba, quæ affectum animi
exprimant, geuitivo casu eas res adiunctas habere haud raro, quæ allectus
caussæ nominantur. Laudat BiickertU8 ad h. 1. Thucyd. VI. 36. xovS
ayykXkovxaS roiavta xa\ itepupopovS vjiiiz rtoiovvtaS x i)S ptv
zoXprfi ov $avjidel(*>, xfjS 8$ a&i>vE(jiaSy eI fxrj
olovxai £v8y\oi elvai. Piat. Crit. p.43- B. itoWdxiS dssvSai jxovida tov
xpoicov. Adde Piat. Phæd. 68. E. ev8aip.uv yctp yioi avrjp ifpaiveto
• xal tov xpoicov xal xojY Xoycov x. r.A. Alia huius structuræ
exempla Matth. congessit in Gramm. ampl. §. 368. 681. Plerumque
illo casu ponuntur res inanimatæ. Dubito, num eadem structura usi sint
scriptores, ubi homines affectuum auctores narrantur. olo i oicjv
alxioi <uv, Frequentissimum hoc genus dicendi est, quo adhibito et
graviorem reddiderunt et ornatiorem orationem Græci. Laudat Stall—
baumius Eurip. Alcest. v. 145. oiaS oloS dpapxavEiS. Soph. Trach.
olaiS oloS qdv IXavvEzai. Ceterum ut recte intelligantnr iCepl
icavxuS verba, mens Agathonis hæc est: Iu quavis laudatione
dei liomiuisve unam tantummodo laudandi rationem esse, ut explicetur,
qualis sit et quorum bonorum auctor is, qui laudetur.
ovxcj 8y x ov " Epcota xalffpdZ. Exspectaveris scriptum ovxgj
8)j xal xov y Epcoxa. Respicit autem Agatho nunc magis ad laudandi
rationem, quam, qui ante ipsum locuti sunt, ser» vaverunt, quam ad
rem laudandam. Hinc factum, ut advocato 7 ifxacS pronomine xal cum
pronomine, non cum Erotis nemiue coniungeretur. svdaipo
vkdxaxov stvat avtGJY . Apud Stobæum Serm. "Eeu de
xaXhdzoe ov toiogSe. xgatov fuv vtoB taxos v, m Oatdge. fteya Se texpfawv tta
loyn av%og Ttttgex neu, cpevyav (pvyy zo yijgag, za%i) ov StjXov LXI. S96.,
quo loco tota Agathouis oratio repetita est, pro clvt&v legitur
avtov. Sed nihil mutandum est. Stallbaumium audi hæc annotantem ad h. 1.
: Sic avtoS sæpius post nomen substantivum vel pronomen per'
redundantiam quandam infertur. Infra 200. A. XotEpov 6 £pa>S
ixeivov htiSvpEi avtov. Xenoph Cyrop. I. 3 • 15. itEipa (Sopaci tcp xditn&,
ayaSdjy \nItEGOV xpatuStoS gjv ixXEvS, advppaxElv avt(£. Ibid. I,
4. 5. al. Ceterum Agatho non minore, quam Pausanias providentia (v.
180. E. InaivEiv jiEY ovv 6 ei xavxas SeovS) hic agit Omnes enim
deos excepto nullo beatos esse præfatur, deinde cautione hac præmissa
omnium beatissimum vOcat, si quidem ita dicere liceat,
Erotem. VECDtat o S Segdy, gj $ai6 pe. Ne mireris, cur Phædrum
alloquatur Agatho, Erotem deum nutu minimum dicens: Phædrus Erotem
iv toti xpsdfivtatov esse dixerat 178. B. Igitur ad eum potissimum
oratio dirigitur, cui maxime ab Agathone contradicitur. Apertius
paullo infra poeta iyaj 81, inquit, 8pcp TtoXXd S\Xa
opoXoycijv tovto ovx dpoXoyaj, &s"EpeoS Kpovov xa\
*Ia7tEtov apxcnorepoS iotiY, aXXct q)Tjpi veotatatov avtov sivai x. t. A.
ep ev y gdy cpvyy ro yy p a* h. e.
summa contentione, quam fieri potest maxime, fugiens senectutem.
Magnopere augetor notionis alicuius gravius, si dua verba eiusdem radicis
iuxta ponuntur, ut hoc factum est nostro loco. Quæ sequuntur verba
taxv ov drjXoYoti itposkpXEtai Bastius delenda censuit motus, ut videtor,
(jctoxla sententiæ. Recte autem servantur ab editoribus, quippe Agathonis
ingenio, apprime convenientia. Ceterum vulgo drjXoYOTi legitur, quam
scripturam Stallbaumius ex optimorum codd. auctoritate in df/XoY otl
immutavit. Recepimus nos drjXovoti Buttmanni iudicium probantes, quod in
Indicibus continetur ad Platonis Dial. IV. Berol. MDCCCXI. Servari,
inquit, forma diaiuncta solet, ubi commode et solenni modo otl vocula
sequentibus se adaptat, scriptura autem continua adhibetur, ubi pars saltem
eorum, quæ ex otl pendent, iam præcessit. Snut vero alia etiam exempla,
ubi integra, quæ ex ort particula pendet, f)rj6LS præmissa est, ut in
fine locatum sit dtfXoYoti. Legitimam autem esse etiam ad
antiquorum mentem scripturam coutiouam, inde apparet, quod etiam in
structura, quæ fit per accusativum cum iufinitivo, formula illa
servatur, ubi dissolvi nequit v. c. Alcib. II. B. tov yap $eqy ovx
lav drjXovuti. ov8 * ivtoS xoXXov xXtjdict%EiY+ Libri ad
unum omnes exhibent ov8 ovtoS xoXX ov itX}]6id?,EiY, quam lectionem
exstiterunt, qui tueri atque 6tt • ftdtxov yovv xov dsovzos rjfuv
7tQogEQ%etat. 8 drj nitpvxsv "Eq&s fudstv, xal ovd’ ivxos^coAAov
xAt]Gux&iv. [iBra 6h vicov dei fcvvetit i ts xal itizw' 6
yccQ explicare studerent, Apud Stobæura legitur, ovd’ ivtoS, quod
hodie ab omnibus in verborum ordinem receptum est, atque Thucydidis
loco confirmatur, qui Astii industriæ debetur, II 77. EvxoS yap
itoAXov x™p{°v xijS rtoÆuS ovx ijv iteAdtiai. Ad jtoAAoi; autem
nostro loco neque x<&ptov, neque, quod Stallbaumio placet,
dia6xrpiaxoS % supplendum est, licet id in huiusmodi formulis haud raro additum
reperiatur docente Lamb. Bos. de ElJips» 103» seqq ; non video
enim, quid obstet, quominus neutro genere positum per se multum
spatii significet. Pro itAytfia&iv in aliquot codicibus legitur
7tAT}6id£ei f quod nullo modo probari potest. Proprie dicendum erat o Si)
7ri<pv xev"EpcoS fiidstv goSx’ ovd* ivxoS noAAov 7tArj6id8,eiv ; sed
sn-< pra iara monuimus sæpius, Græcos haud raro, quæ per caussæ
consequentiæve particulas proferenda essent proprie, copnla addita præcedenti
actioni annectere, lam cum mens Agathonis sit*: quam natura' Eros
odit, ut ne eminus quidem accOd a t, patere opinor et odium et
fugam senectutis cx Erotis indole atque natura exaptanda esse, id quod
efficitur itAi/did*S,eiv scriptura. Ceterum Stallbaumius ad li. 1. Ad
irArfdid&iVt inquit, intelligas <xv rc5. Id præceptum cur
improbemus, haud difficile est ad explicandum. 37A;/6id&iv absolute
positum est, prorsus ut nostralpLinT Welches Eros seiner
Nator nach hasst ohne sich die entfernteste Annalieruag zu gestatten.
/ n •fiExd dfc vicov dei Hvvedti re xal idxiv* Et in
his et in præcedentibus verbis reddendis negligentissimus fuit
Ficinus: eamque (sc. senectutem) Amor natura odit fu gitque, iuvenibus
vero se miscet. Bastius tautologia offensus verborum ZvvEdxi re xal
Idxiv scribendum censnit pexa 8's vicov B,vve6xi x b xal dei idxiv,
cuius conjecturæ ipsnm postea pocnituit» Schleicrmacherus verborum quæsita
similitudine verba convertit: Mit der Iugend aber gesellt er sich
und gefallt sich* Schulthessius In conversione exhibet : Pagegen naht er
sich (?) der Iugend und weilet bei ihr. Aliud quid Agathonem nostris verbis exprimere voluisse
certissimum est. Laudat Stallbaumius ad h» 1. Fjutarchi locum, quem
cum nostris verbis Wyttenbacliiua comparavit ad Plut. de Ser.
Num. Vind, 5G. > dc Is. et Osir. 352. A. nap’ avxij xal pex ctvxijf orta
xai Gvvovxa; quo docemur, simplicis verbi potestatem sequente composito
interdum augeri, sed ad npstri loci insolentiam mitigandam nihil
sane confert. Negamus autem, Græcos ita locutos esse, ut præmisso
composito verbo simplex verbum adderent, quod cudi illo eiusdem
actionis notionem describeret» Nos ellipticam enuntiationem
essecen- i 4 iV xcdaiog luyog tv £%h, ag
opoiov opola dcl mXd% u. iyib SI QfalSga jroAAa ulla bpoloyav rovro ov%
opoXoyto, ug ’Ega g Kguvov xal ’Iccm rov dgycaurcQvs ttSuv, C «A A«
qitjpt vEtbtKt ov avzov elvca &b<op xal dii vtov, semus, quæ
hoc modo supplenda est: pera 81 vicov dei Zvredrl re xal æl veoS
i&tlv h. e. ut semper cum iuventute est, ita ipse æterna
iuventute gaudet. Ellipseos simillimæ exemplum infra habes 213. C. oiao& et nS aXXoS yeAoioS* l6xi re
xal fiovXetai sc. yeXoloS elvoci. Ceterum cum hac nostri loci
explicatione quam bene conveniat insequentis proverbii mentio, nemo non
videt. Ne autem dubites de verborum structura pera nvoS
Zwelvai, laudat Stallbaumius ad Piat, dc rep. V. 464. A.
ovxovv per a rovro v rov 8 6 y p ar of re xal /)?} paroS iq>afxev
&vvaxo Xo vSeiv ras re ?}8ovaS xal rds XvnaS xoivp, præter
nostrum locum Piat, de legg. I. 639. C. pera xaxcov apxovroov
dvvovdav. opoiov opoicj æl iteXd?,ei. Laudat versiculum
Schol. quo et Plato usus est: ojS ai e l rov 6 poiov a yez
$eoS coS rov 6 poiov > quibus verbis hæc adduntur: ini rdSv
rovi, tponovS napaTtXrjtiicov xal dXXtjXoiS æl 6vvdiayorreov, iB, 'Opijpov
Xafiovda r rjv dpxr/v. pipvrjrai 8h avrrjS nXarcjv xal iv AvdiSi
xal iv 2vpno6ioj, xal Mivav 8poS 2vwcovUt» Satis nota Tullii conversio est
huius proverbii in libello de Senectute 3. pares cum paribus (
veteri proverbio ) facillime congregantur. coS^EpcoS Kpovov
xal 9 Ianerov ap^atorepof. Ridet Agatho allatis Crooi Iapetique
nominibus Phædri sententiam censentis, omnium deorum antiquissimum Erotem
esse. Quid enim antiquius cogitari potest Iapeto, cuius vetustate
Suida et Ilesychio testibus usi sunt veteres ini Siativppcf ), aut
Crono, h. e. ipso tempore, cuius ille deus esse putabatur? cfr.
Moe-r ris, quem Stallbaumius laudat, 200. 'laneroS' dvrlrov yipojv. xal
TiScovos xal KpovoS ini rejv yepovrojv, a*H6io8oSxal
Ilappevi8i]S, Stallbaumius ad h. 1. Nomen, inquit, Parmenidis
Astius mutandum censet in 9 Enipevi8ijS propterea, quod de
theogonia Parmenidea nihil memoriæ traditum est. Quid vero? si Parmenides
in altera carminis parte, nunc deperdita, vulgi opiniones de diis
eorumque rebus gestis exposuerit? Quod si veram esse ponimus nam pro vero affirmare nemo audeat in tanta
certorum testimoniorum penuria manifestum est, Agathonem præ nimio doctrinæ
ostentandæ stadio, quid inter Hesiodi atque Parmenidis narrationes
in'teresset, prorsus non vidisse adeoqne nane dissimillima temere inter
se confundere ac miscere. Viri doctissimi iudicio adstipuIflnlui
Kuckertus et Schleiermaza. Ss ctu7.tt.ia ccqdyfiara xsqi &tov$, a 'Hotodos
xal IlaQ{lividijg UyovGiv, ’Avayxy xal ovx "Eqcotc ytyovivcu, d
ixdvot d7.rj&f] tktyov. ov yccQ av ixxofia 1 ovdh drti/ioi uX7.y7.uv
lylyvovxo xccl ci.7J.tt tcoa/.cc xcd fUaia, d "Eqwg cheras. Equidem sic
statuo: Parmenidis versiculum esse a Phædro laudatum 179. B.
præter Phædrum etiam alii testantur, v» c. Aristot. Metapli. 1. 4.; quo
iure auctorem Empedoclem Goeltliugius narret ad Hesiodi Theog. v. 120.,
non reperio. Ipse autem ille Parmenidis
versus, quippe theogouiæ alicuius fragmentum, testis est,
theogoniam Parmenidem conscripsisse. Utrumque autem et Hesiodi et
Parmenidis versum Phædrus J* c. ita laudat, ut quibus probetur,
Erotem deorum antiquissimum esse, atque pareutibus carere. Recte ad
eam rem probandam versus adhibitos esse, neque, quæ virorum doctorum
opinio est, Hesiodum atque Parmenidem inter se pugnare, supra demonstare
studuimus annotat, 57. Sed tertiunl est, quod allatis Hesiodi atque
Parmenidis versibus Phædrus videtur probare voluisse. Cogitasse nimirum
censendus est ita: Nisi indicaturi fuissent Hesiodus atque Parmenides,
omnia, qbaccutique gesta sint usque a principio rernm, Erotis
auxilio gesta esse, Eroti non primum in theogonia sua locum
concessissent. Hinc verba Phædri recte explicabis : itpEOftvxaxoS cor
pEyidxcov dyaSgov rjylv ccLTioS idxiv. Sed cani ipse sentiret, antiquis
temporibus gesta esse, quæ cum Erotis natura ncutiquam conciliari possint,
ad bonorum descriptionem subito confugisse videtur, quæ ex mutuo amore et
amasio et amatori enascantur* Ad Agathonem ut revertar, poetam non latuit
Phædri artificium, atque ut ille autiquissimum depm vocaverat i deo
que summorum bonorum auctorem, ita hic et natu minimam laudat et
necessitati, quod fatum interpretari licet, adseribit, quæcunque Homerus et
Parmenides e Phædri certo sententia per Erotem facta esse dixerunt.
Elliptico igitur dicendi genere usus est Agatho. Expletior oratio audit:
xd itaAata npdypaxa, d 'HdioSos neti FlapjjEvidr/S Aiyovdiv *EpGoxi yey
ov kv cli, *Avdyxy xal ovx "Epcoxi yEyovkvai. e i
ixsivoi dXrj^rij ZÆyo v. Ficinus verba convertit: Si modo illi vera
narrarunt* Exhibet Schleiermacherus : wenn iene anders wahr erzahlt
haben. Iisdem fere verbis Schnlthessius usus est in Symposii
conversione, quam Orellias denuo edidit 100. Dixisset opinor Agatho, si hoc
exprimere voluisset, eI ixsivoi dXtfStf Elpijxadi s. Akyov-i div. Quis porro
ferat hauc sententiarum coniuuctionem : vetera illa facinora Necessitati,
non Eroti patrata suut, si vera illi dixerunt. Ut paucis fungar,
aliud quid Agatho dicturus erat, quod quid sit, quoniam tectius
locutu* est atque brevius, interpretes non perspexerunt. Sensus verborudi
hic est: veteres deorum rixas, quas per Erotem factas
narrant iv ftvroig rjv, cpMa xal tlgrjvt], tognt Q vvv, tfc ov
"Egcog «ov &Btov (iatiitevu. Neo s filv ovv edn, ngog Se ra
vtca aitaXog. itoii]D tov S’ k'ouv Ivdeijg, olog r t v "Opygog itgog x 6
ImSet^cu 9eov «xcdonjra. "Onijgog yag ”Axi]v &eov te
cprfiiv Hesiodus atque Parmenides, dixissent, opinor, si vera dicere
voluissent, Necessitate non Erote factas esse. Noluit autem dicere Agatho
a Xiy ov 6tv, iXeyov av 'Avayxtj xal ovh * Epcon yeyovivai, ei
aAr/Sr/ iXeyov, ne ter posito Xiytiv verbo oratio incomtior fieret
atque inelegantior. Possis etiam lianc primitivam verborum conformationem
putare: ra di ita Xaid 7tpdypattx, a'H6io$oS xal Jlappevi&rjS ÆyovtSiv
(Epcuri yeyovivai ), 5 'Avdyxyf xal ovx E pari yeyovivcu, ( d
ixelvoi IXeyov av,) ei dXrjSij iXeyov. i xx opal ovSh 6 e 6
fio i. Conferri iubet Stallbaumius ad li. 1. Piat. Euthypbr. c. 6.
avrol yap ol avSpanoi tvyxdvovdi voptiefav teS rov 4 ia zcov
Sfoov dpiorov xal 6ixaiozarov, xal rovrov dpoXoyovdi rov
avrov itaripa dijdcu, on tovS vieiS xarimvev ovx iv 6 lxtj,
xaxelvov ye av rov avrov itaripa ixrepeiv 8i* irepa roiavra; his
adde, quæ paullo infra leguntur xal itdXepov apa i/yel 6v elvai rd>
dvn iv r ois SeotS itpoS aXX rjXovS xal iffipaS ye 8eivds xal
/xaxaS xal dXXa roiavra itoXXa, ola Xiyerai re imo rc5v
itoirjx&v x . r. A. cfr. Hesiod. Theog, 164 seqq. xoiyjro
v 6 * idriv iv 8 B 7) S x, t* A» Huius looi Terb* Bekkerns et
Stallbaumius ita disposuerunt, ut comma ponerent post "OpijpoS,
Efficitur hac interpunctione, nt arctius coniungantur verba itoirjrov
tdnv iv8et}s itpoS ro imdeiZai $eov ditaXorifra, quæ iunctura
sane molesti quid habet atque spinosi. Ficinus verba convertit: Opus autem est tali quodam poeta, qualis
Homerus exstitit, ad teneram Amoris mollitiem demonstrandam . Sed hæc
verba non satis respondent Græcis, Quis, quæso, probaret
dicendi genus hofc : Ad demonstrandam dei mollitiem deus poeta
eget, qualis Ilomerus fuit?, Omnis hæc orationis difficultas
removetur commate post "OpijpoS deleto, posito post ivde )/S,
quæ verborum dispositio etiam RLickerto placuit. Seusus est: Tali
autem poeta Eros eget, qualis Homerus fdit ad divinam mollitiem
describendam. Videtur autem se ipsum poeta tangere, utpote qui mollitie
atque teneritate in carminibus componendis ne Homero quidem cedat,
tovS yovv ito8aS av TrjSaitaXovS elvai • Addidit hnec verba Agatho, ne
quis aut 1 imprudentia aut fraude factum opinetur, ut * Attf
ditaXij dicatur, exemplo allato non nisi pedum mollities probetur*
Frustra Orellius ad Isocr. 330. verba TovS yovv ft alvei censuit
expungenda esse. Stallbautlvai xul uitaXrjV * rous yovv xodag Kvvtjs axalovg
uvta, Xiycov Tijs pivS’ aitaXot xoScS' ov yap iit’ ovSa
niXvoctui, aXX ’ dpa r) yt nat ’ avSpcor npdtata fiodret. KttXta
OVV SoXEL fiot TEXtVJQLlp t»)v aXaloTTJXCt uxotpaimius ad h. 1. : Ista, Inquit,
versuum Homericorum recitatio non indigna est Agathonis ingenio,
quem iam antea vidimus inani quadam se iactare doctrinæ ubertate
atque elegantia. Vide annotat 200. Diximus autem de hoc versuum
recitandorum more annotat, 55. Ceteram Homerici versus leguntur II.
XIX. 92. qui, ut mollissimi sunt atque exquisita elegantia compositi, ita
Agathonis ingenio maxime conveniont. Pro ov8eoS f quæ plurimorum codicnm
lectio est, apud Homerum ovdtt legitur. Illud eorum sedulitati debetur,
qui versuum fines similiter cadentes non ferendos censuerunt. Versus
similiter cadentes veteribus mollitiei indicium fuisse videntur. Apprime
igitur convenit ovSei lectio nostro loco, ubi mollissimis versibus
allatis Agathonis ingenium describitur. Similiter cadeutium versuum
exemplum, quod apud Persium legitur, acerbissimum efleminatorum poetarum
osorem, hic laudare iuvat petitum e Sat. Torva Mimalloneis implerunt
cornna bombis Et raptum vitulo caput ablatura
superbo Bassaris, et lyucem Mænas flexura corymbis Evion ingeminat:
reparabilis adsonat Echo. Qni his versibus præcedit: Quidnam igitur
tenerum, et laxa cervice legendum et qui sequuntur: Hæc
fierent, si testicnli vena ulla paterni Viveret in nobis?
Persii iudicium continent, qnod idem fuit totius antiquitatis,
Alio loco Persius Sat. I, v. 93. dicit de enervato aliquo
poeta: Claudere sic versum didicit: Berecyntius Attin Et qui
cæruleum dirimebat Nerea Delphin TCal 7}flElS
Riickertus ad h. 1. annotat: Bekkerus, Dindorfius, Astius, S tali—
baumius > utamur. Quos cur sequar, non video j licuit enim hoc quidem
Agathoni, ut semet ipse eohortabundus conianctivum poneret ; at non minus
licuit, quid facere vellet, indicare: eodem igitur nos argumento utemur. Et
coniunetivo et futuro uti licet in huiusmodi dictionibus, neque
facile dignoscas, ubi utrumque libris commendatur, coniundtivnm an
futurum scriptor exhibuerit. Coniunctivum plurimi codices
exhibent, pauciores sed optimæ notæ libri futurum habent. Inprimia
codex Bodleianus nominandus est, ex quo rectissime Stallbaumius
XpTjtiobfieSct in ordinem verborum recepit. vuv, ou ovx ini OxhjQov fiatvei,
aXX ini fiaX&axov. E xa ax ha 8>) xal ryitlg xQxjOaiie&a
xcxfit]QCq) mgl ’ 'Egaxa ort ccnalog. oi5 yaQ ini yijg jS aivu ovb ’ in
i xqaviav, a idxuv ov naw /icdaxa, ctkX’ iv xolg palaxaxaxoig xav ovxcov
xal ficrivu xal olxu. Iv yaQ xj&cdi xal xpv%aig ftecov xal
av&Qanav x rjv oixyaiv idQvua, xal ovx av e£ijg iv nuGcag raig
xfn>%aLg, cllV xjtlvl av OxlrjQov xfiog l%ov<5r) lvxv%y, antQXitai,
y 8’ av fictkaxov, olxifcxai. anxoptxfov ovv ad xal noal xal navxy iv
/laAaxtoxaxoig xcov (laXaxmaxaxv, anaXuixaxov avay- 196 xrj uvai. veuxaxog
(iiv oini xpaviav, a idxtr ov naw pa\axa. Hoc loco confirmatam habes, quod supra de ov naw
vocularum potestate monuimus 79. Nam prorsus non mollia
virorum capita hic intelligi nullo modo possunt. Sed et rectius explicata
hæc verba ita comparata sunt, ut non possis non mirari
inconstantiam Agathonis, qui modo laudata Homeri in describenda divina
mollitie peritia nunc eundem corrigit atque capita virorum non
admodum mollia censendo auditorum risui poetam exponit. r xal
ovx av k%i}S, Ficinus i» convertit : neque tamen in quibuslibet
animis. 'E5)}€ significat continua serie; dicitur igitur non
promiscue in omnibus animis habitare, sed selectu facto eas
tantummodo .! sibi eligere, quarum mollis sit ac tenera
indoles. xal 7todl xal itdrtfl* Fedum mentio fit propter
comparationem cum Ate homerica, cuius non nisi pedes teneros fe 8tj
lau xal anaXaxaxog' cit poeta. Riickert. Qnao sequantur verba, iv
paXaxcatdtoiS tq5v paXaxcotdtcDV, ana XcJraroVf ipsius Agathonis mollitiem
describunt, quæ si audiret Persius Flaccus, rursus diceret : Hæc
fierent, si testiculi vena ulla . paterni Viveret in
nobis? vypoS to eidoS *TypoS verbum est latissimæ
significationis. Primitus videtur li umidus, madidus significasse. Qnod
autem madidum, idem etiam lubricum est atque haud raro splendore
quodam insigue* Hinc apud Homerum sexcenties legitur vypa xiXevSa,
quod non minus de splendore undarum dicitur, quam de earnm flexibilitate;
utramque autem notionem micandi verbo expresserunt Latini. Qaarn
notionem nostro loco habeat, e dxXrjpoS nomine colligitor, quod
paullo infra positum illi opponitur. Recte Stallbaumius monet, vypoS sæpe
de rebus lubricis, lentis, flexibilibus, mollibus dici atqæ
frequenter ngog is Tovroig vygog ro tISog, ov yag av olog r’ rjv
Ttdvzy itiQi7trv66ia%ai ovds Sia itdayg ipv%ijs xai tigudv to ngcotov
Xav&aVBiv xai i^iav, fl tSxlygdg yv. dvfiiiiTQOv 81 xal vygag ISiag
jitya ttxjirjgiov y svC%t]fio6vvt], o St/ duaptQovrag i» nuvrav
djiokoyovfiivcog "Egag %%u' a<fp/fio<Svvy ydg xai "Egeni
ngbq aU.rji.ovg «si Ttouaog. %goa g 8s xaUog y xar’ av&y SLaira
tov fteoi 5 ayfiaivH ’ avav&e i ydg xal ihtyvfty-. xori xai (Suijiati
xai ipvx\ j xai aUn oraovv ovx lvl£ei B "Egag, ov 8’ av tvav&yg
te xai tvuStig zoitog y, Iv rav&a xai i£ei xal (i&ve a ad
Amorem transferri. Apposite Riickertus Piat. Theæt. laudat 162, B.
/n) SXxeiy itpos xo yvpradiov dxXjjpov rfdrj orta (h. e. ætate
provectiorem atque corpore robustiorem) rc5 8 fc 61 } vecoxipoo re
xal vypotipcp ovxi TCaXaUiv . 6 vppixpov 8 i x&l t5 y p
aS 18 iaS. Acute vidit Astius, dvppetpoY referendum esse ad
7tepi7Ctv66E6$ai, Amor enim, quia potest itav xq itEpiitxvddE C$ai, recte
dvppsxpoS vocatur. Itaque ne hic quidem
audiendus est Orellius, qui dvppEXpoS pro (Svjijiixpov legendum
putabat. Aristænet. I. 1. 4. ed. Abr. ov xcd pivxoi dvppsxpa xal xpv
pEpci. xrj5 Aat8oS xa plX 7, coS vypo<pvcZs avxtjf XvyiZEdSai ta
odxa ro3 7CEpi7txv66opivcu. Stallb. Ficinus habet in conversione: aptæ
vero t compositæ jlexibilisque formæ, vitio, ut videtur,
typothetarum. Non dubium enim est, quin scripserit: apte vero compositæ
et quæ •eqq. o 8rj diatpepovTGoS Pronomina relativa
haud raro præcedentis nominis, ad quod grammatice referenda
sunt, genus non sequuntur, ut indicetur, nomen collectivum, quod
vocant, ipsum illud nomen esse, atque complures notiones in so
continere, quæ genere neutro pronominis relativi consummentur. cfr.
Matth. Gramm. ampl., ubi et noster locos laudatur, sed addita auto
SiaqjepOYXojS vocula xai t quam ex optimorum codicum auctoritate
Stallbaumius expunxit, Riickertns uncis inclusit. Eandem prorsus delere
Y. D. noluit, quod vim habeat h. 1., quæ ad rem pæne necessaria
videatur. Etiam Bekkerus xai expungendum curavit, neque idem in Ficini
conversione expressum est: qua (sc. figuræ concinnitate) Amor
omnium maxime procul dubio decoratus est. ?/ xax * aY$ij 8 ia ix a.
Notabis levitatem argumentabdi, quasi non cogitari possit, ejun,
qui deformis sit, pulcra amare, turpia fugere. Respexisse videtur Agatho
ad proverbium, quo Cap. XEX. IIcqI /J-lv ovv xdklovg tov
&bov xal tccvru txavcc, xal l'rc itoXka Xtfottzai. Jlcgl ds agsrijg
"Egarog (X£t« similis simili gaudere dicitur. Verum noti probatur
tamen eo, quod probandum erat hoc loco. Sequentia verba quod attinet,
ov 6* dv ivavStS te xal evo odtjS roitot y), ivxavSa xal i£ei
xal pavet, cfr. Soph. Antig. v. 781 seqq. "EpooS dvixaxE
pdxctv *EpcoS y o? Iv xxypadi niitTEiS o? iv paXaxalS napsialS
r e dy id o S ivvvxzv eiS • Adde Aristæueti Platonicorum verborum
imitationem II. 1. 73. Abr. avavSet yap
xal anrjv^ijxoxi dojpaxi ov netpvxe TtpoSulavEiv 6 "EpcoS,
nspl Sh dpetijS x. r. A. Laudat Agathio AMORIS virtutes ita,
ut,eius iustitiam, temperantiam, fortitudinem, prudentiam ordine celebret
j quæ quidem virtutum cardiualium, quas vocant, recensio et ipsa habet
nescio quid inanis ostentatiouis atque redolet ingenium hominis, qui præter
poesin etiam philosophorum sapientiam degustaverat, sed fortasse nonnisi
primis labris degustaverat. Observes præterea, quam artificiose
Agatho verba composuerit, quara lepide paria paribus retulerit et ut
similiter caderent, elaboraverit, S tali b. otid’ afiixei. Prorsus
repugnant hæc cum aliorum poetarum sententiis, tum iis, quæ apud Sophocl.
leguntur in Antig v« 191« dv xal dtxaiav aShtovS (ppevaS napadnaS
ini Xcofict dv xal zo6e veixoS dvdpcov B,vvatpov %x £l S
rapd£aS. ov te y a p avtoZ piet 7t uCxti* xi re a <Sx £t ‘
Hæc verba Schleiermacherus convertit : Denn weder widerfahrt ihm
selbst gewaltsam, weon ihm etwas widerfahrt. In Schulthessii conversione
exstat: denu er selbst leidet nie Gewalt, es wi- ' derfalire ihm,
was da woile. Ficinus verba interpretatur: non enim ipse vi patitur, si
quid patitur. AvxoS pronomen ita explicandum est, ut oppositum
1 cogitetur verbo cuidam, quod nunc non comparet,
quoniam structuram verborum, quam in mente habuisse videtur,
Agatho immutavit. Dicturus videlicet erat : ovxe yap avxoS
pia na<Sx £l > Xl itddxsi' ov r* d A A o s oSxiS ovv
pia nadxtt x. x. A. Structuræ verborum ita mutatæ, ut cogitatam
structuram singula verba sequantnr, quæ cum structura revera posita
uon satis conveniant, exempla non rara sunt atque a grammaticis ita
explicantur plerumque, ut ad sententiam, non ad verba directa esse
dicantor. Verba pia icadx^i quod attinet, quæritur, qui fieri possit, ut
aliquis patiatur aliquid, neque tamen plexv experiatur. TlaSoS
enim ne cogitari quidem potest nisi coniuuctum cum vi quadam exruvTu
Æxteov. to fiiv [ityiOrov, ou "Egag ovt’ dSixEi • oik’ udixEitai
ov&’ imo 9eov ovte &eov, ov&’ vn av %QUitov ovte
av&Qonov. ovte yaQ avrog (Ua nuOyEi, si' n ita<S%ET m (ila yaQ
"EgaTog ov% uxtetcu ' ovte xouiiv jtoiEi onag yccQ ixav "Equu
ndv vji)}$eteZ' cc 6’ pv C trinsecas illata. Ov ftitt jradxEl
contradictio est in adiecto, quam rocant, quam hic admissam esse ab
Agathone admodum dobito. Aliud quid poeta videtur exprimere voluisse illis
verbis, quod quid sit » e rectius explicatis et T i 7tadx £t verbis
patebit. Supra monuimus annotat, 169. Græcos haud raro, ubi
infinitivus verbi alicuius ponendus esset proprie cum finito aliquo
verbo couiunctus, omisso hoc verbo infinitivum eo tempore
collocare, quo finitum verbum ponendum erat. Sic legitur Piat.
Alcib. I* . c. 7. ovxovv Tctvrct fiovov oldSa, a netp* aWcov
ipaSeZ rj avtoS i%evpeS, quo loco iam supra monuimus, oidSct positum
esse pro eldevat AfyeiS, Eodem modo Agatho nostro loco ad fubulas quasdam
respiciens, in quibus rtdSrj Erotis narrantur, et r i itauSx El posuit pro et
xi itadxsiv A eyerai. Hinc sententia verborum existithæc: Weder er ist
es, der etwas erleidet, wenn man gexneinlich sagt, dass er etwas
erleidet, cett. filet autem positum est, ut eo 7cddx £iy verbi potestas
augeotur, ad utrumque autem negatio præcedens tanquam ad notionem unam
refertur. ov re itoidov Ttoiel. In paucis quibusdam
codicibus, in Vindob. uno et Paris, uno itoidov participium non
comparet, hinc Bvickertus ad h. 1.: habet, inquit, primo adspectu speciei
nonnihil hæc omissio, quid enim iucundius procedit, quam hæc oratio:
ovte avtoS fila Ttddxsi, ovte itoiei ? neque tam necessaria est h. 1.
conditionis additio, quam altero iu membro; agere enim Amorem
aliquid nemo dubitat, utrum patiatur an minas, incertum. Attamen non
puto n Platone omissam vocem esse, sed solam duarum similium
viciniam hanc lectionem peperisse. De hoc genera corruptionis vide quæ
annotavimus. Præterea codices nonnulli exhibent ovte filet noiGDV noiei,
quod ab iis additum est, qui bene sentirent, fila nostro loco e præcedentibus
repetendum esse. Sed ut clarius videas, fila non Platonis manum
esse, posita vox est in loco ineptissimo, eodemquo modo se habet,
quasi supra scriptnm exstaret ovte yap avroff Ttddx&f st Ti fila
Tta6x E t* naS yap kxcov. Si dixisset poeta b<Gjy dixovrl ye
SvjMp, nemo eius verbis offenderetur. 'Exgdv nude positum multorum poetarum de
sævitia Amoris querentium refutatur exemplo. Moneo hæc, ut habeas,
quorsum referas verba Socratica 198. E. to dpa OV TOVTO 1}V TO ■HOLXgjS
htOLl veiv ltiovv y aXXci to coS peyidxa dvctTiSlvcti tgj
npdypart xat oo» HaWtdTUp idv te y ixmv Ixovtt ofioAoyydy, cpadlv ot
itoAtag padiAijg vopoc dlxaia tlvca . itgog ds ry dixaiotivvy daxpgodvvyg
hÆItizyg iitxk%u. ilvai yag opoAoyElzæ dGJtpgodvjnj r 6 xgpr elv ydovav xal
lsu9v(uav 9 "EQCozog $6 [lydsutav ydovi]V xqeizzco uvæ. eI 6e ytzovg,
xqozolvz’ av vtc "Egorog, 6 de xgaz ot. xgarcov dh ydovtdv xal Irtidv/iuav
6 "Egeog diacpEQovrcog av Gcocpgovoi. xal fiyv stg ys dv~ D
dgsiav "Egooze ovde "Agyg dvftlGrarai. ov yag e%el "Egeor
a * 'Agyg, dAA’ "Egeog "Agtj, 'Atpgodlryg, wg Aoyog.
xgeizzcov ovtajf $xovTO£ f iav re fiTf' el tpevSrj, ovdtv dp
* tjy Ttpay pa. Nostro loco Erotis æquitas probanda erat, quod quibus
fieret argumentis, verisne au falsis, non magnopere curabatur. fn
sequentibus verbis d 6 * dv Ixojy e paucissimorum codicum auctoritate tiS
ante kxcov positum servarunt Bckkerus, Stallbaumius, alii.
Riickertus, quem secuti sumus, voculam expunxit. Qui factum sit, ut
in ordinem verborum irrepserit, per æ intelligitur. ol
noXeco? /SadiXijS vdpoi. Hæc Bodleiani codicis lectio est. Florentini
quatnor fiadiXixrjS habent, vulgo ftadiX ilS legitur. Bastius conferri
iubet Arist. Rhetor. III. 5tqdy ndXecov fiadiÆlZ vdpovS. In Piat. Gorg, 484.
B. dictum Pindaricum laudatur: vdpoS 6 ndvTcjy ftadi\f.vS Svcctqjy
te xal dSavdtGJV. elvai yap opoXoy eit ai 6<o<p p
o dv vt) . In Definitionum libello 'Platoni vnlgo ad•cripto 412. A. legitur:
do>tppodvvTf o perpidtrjS ttjs i>vxrf$ irepl tds iv avr?j xata
<pvdiv yiyropevccs &m$vpias te xal ySovaf.
eficep/iodrla xal eutaB,ia ipvxyS xpds rds xatei tpvdiv ijdovd? xal
Xviraf. Adde Aristot. Rhet. I. 9. ~GD(ppodv~ vrj dpetr}y 6i' ijv
npoS taS 7/<5ovaS tov dajpatoS ovta>S %X ovdiVy goS d vopo£ xeXtvei.
Neque aliter monente Stallbanmio ad h. I. da)(ppodvv7]Y definit
ipse Plato, cfr. Phædon, 68. C. de rep. IV. 431» A.
xpat&v i}8oygjv. Facta conclusione hac nemo non videt, in
dwtppodvvjjy aperte illudi ab Agathone, homine huius virtutis, ut
videtur, expertissimo eodemque Pausaniæ amasio, quem non puduit Xenophonte
teste Symp. c. VIII. 32. dnoXoyeldSai vitep tgjk dxpadia
dvyxvXivdovpevcDY. Sed non dubium est, quin ipse Agatho behe
senserit, huiusmodi nugas sophisticas auditoribus minimo probatum
iri. Ut igitor haberet, quo posset futuræ convivarum reprehensioni
sese subtrahere, in fine orationis suæ hæc apposuit: ovto? o nap *
ipov XdyoS tca 3eoj avaxeioSco, rd p\v Ttaidids ta 81 ditov
8ijs petplaS perlxoJY. xal pyv - eZs ye . De *
/ ds 6 ffccav rov ixofiivov. rov d 9 dvdgBioxdtov rcov
&U.C3V xgaztov stuvrav dv dvdgEiorarog sYrj. xsgl fiiv ovv
dixcuoOvvrjg xai OcocpgoOvvyjg xai dvdgelag rov fteov BiQqtca, TtEQt de
Oocpiag teliterai. o6ov ovv dvvcctov, nugaxeov f vi ) Ikteinuv. xai
TtQwtov pav, iv 9 av xai iycb x t\v fj^Exigav xeyyr\v n^6co, agneg 9
Egvlzt[ia%og rqv iccvxov, Ttotrjrtjg 6 {#£05 6o(pog ovxcog, Sgts xai
dklov E %oii\dai % ndg yovv itoirprig yiyvEtai, xuv cl[iov6og $ ro
xgiv, ov av "Egcos aiptjtau to drj ngirtu Tjpag pug Kai fiijv ye
voculis vide annotat. 64. Patet autem, Homericam narrationem hic taugi,
quæ legitur Odyss. VIII. v, 267» seqq. Ceterum non opus est, ut ad
A<ppo8ixt 7? nomen, quod fiaullo infra legitur, nomen appellativum
ipaS suppleatur. Dei enim nomen sæpissime appellativum nomen simul
exprimit. Unum exemplum ut laudem, legitur 197. B. o$er 6r) xai
xaxstixEvddSrj 'xeov $eojv tot itpdypaxa "EpcoroS iyysyopi vov
8t]\ov ori xaAAovf. it Etp ariov ptf l\\ei7 tEiv. ÆiitEiv verbum
cum iv præpositione compositum iis verbis adnumerandum est, quæ
amissa vi transitiva non actionem aliquam exprimunt, sed absolutam verbi
notionem indicant ; iXXflitElv icitur idem significat atque
iXXEiieoyra elvai . Hinc accedente indicio rei, quam aliquis prætermittit
s. negligit, genitivus casus exhibetur, non accusativus. Vide, quæ de
hoc genere verborum diximus 87» tv* av xai iy cJ. Tres
Bekkeri codices exhibent 7va ri xai iyoo. Non male. Sed nihil
videtur mutandum esse. Etenim av vocula reiterationem
significat actionis, quæ indicata est 186. B. tva xai TtpEoflevoofiey r
tjv xtxvrjv ; xai autem pronomini additur, ut significantius indicetur,
aliquem olim fuisse, qui idem fecerit. Verum inest tamen nostro
loco, quod attentiorem lectorem merito offendat. Nimirum notum
satis est atque a nobis commemoratum annotat, 5., Græcos scriptores
comparationis membra ita exhibere, ut nat iu posteriore
comparationis membro ponant, quando idem in priore positum sit,
contra id illic omittant, si in priore comparationis membro non
comparuerit, Iam nostro loco, quoniam &$7tEp vocula duæ
actiones indicantur inter se comparari, Platoni scribeudum erat vel
dicendum Agathoni ex præcepto supra laudato : iv av xai iyoj t?/V
r/jiExspav xix v V y Tl ~ ptjdco y GD^TtEp xai 9 EpvB,ipaxoS t 7}v
kavxov sc. ixiprjdev. Potuit etiam hoc modo hæc enuntiatio proferri : tr
* av lyco x tjv rjpexipav xkx v7 l v Xtptjdoo, u tS7Up 9 Epv£i/j.axoS
xtjv kavxov. Exemplum est xai in comparatione dupliciter positi Piat. Phædon.
64. G. tixiipai 8ij, <3 14 ^ - A xv (fla
xofi<S%ai, 3« xoiTjttjS o ”Eqg>S «yafrog lv xecpcclala ituGciV
noiri<5iv rt]v xaxct (lovOutrjV « yciQ ng i} flfj ?J(El 1 J fd/ oldtv,
OVt’ Sv BTEQCp SotT] OVl' CCV «AAoV ’ya$h, <fav apa xarl 601
E,vv doxy, a«rtp wai. i/io/. Alia huius structuræ exempla Stallbaumius
laudat nnnot. ad Piat. Apol. Socr. 22. D. Nam præter nostrum locum
aliud exemplum apud veteres scriptores reperiatur, quo in priori
comparationis membro xai positum, in altero omissum sit, vehementer
dnbito.i ita 5 yovv nonjxifS y iyvEtat x. X. A. Audi Stallbaumium
annotantem ad h. 1.: Alludit iudice Valckenario Diatrib. in Eorip* Fragm.
207* ad versus Steneboæ Euripideæ : iroiTjxtjv 8* dpa.
*EpGo£ 8t8d6xei xdv apovdoS y xo npiv . Quæ sequuntur verba, aliquid
vitii contraxerant, quod facta verborum incisione duplici optime sanari
videtur. Annotat Stallbaumius : Ne quid desideres in verbis sequentibus,
rtuoav noiy- 6iv X7jv xata povtiixyv arcte connectas cum ctyaSoS.
Perperam enim in vett. editt. post ayaSof interpungitur. Addit vero
xj)v naxa jiovdixtjv propterea, quod deinde TtoirjtitZ et itoirjxyS
latiore sensu de cuiusvis generis procreatione et generatione dicit.
Itaque nunc de poesi, quæ in carminibus pangendis cernitur, cogitari
cupiens, commemorat jcoltjdiv rrjv xaxd povdixtjv Exhibet
Schleiermacherus in conversione: Uml zucrst nun, damit auch ich uusere Konst
ehre, Vtie Eryximachus die seinige, ist der Gott so
knnstreich (dotpoS o vxgoS') ais Dichter, dass er uuch andere dazu
macht. Iedcr wenigstens vrird ein Dichter» war er
auch den Musen frerad vorher, den Eros triilt. Was wir also wohl
koonen ais Beweis brauchen dafiir, dass Eros ein trefdicher Kiinstler ist
( [itotij X7/S ayaSoS) iedes hervorzubringeu, was zur Konst der Musea
gehort. Ut Schleiermacherus, ita ceteri interpretes non satis accurate
interpretati sunt verba docpoS noiyxyS et dyaSoS noiyxyS, quorum verborum
rectio^ explicatio viam aperit totius loci rectius explicandi.
Eryximachus medicos, ad cuins exemplum Agatho suam artem
celebraturas est, de theoretico et de practico medico {xexyixoS,,
iaxpixcotaxoS et dyaSoS SypiovpyoS) disseruit 186. C. et D, ; vide
annotationem Puri modo nuno Agatho de theoretico et de practico
poeta agit ita, ut docpov itoltjTljv vocet eum, qui poeticæ artis theoriam
calleat, dyc&or Ttonjtyv practicum poetam nominet. Mens Agathonis
igitur hæc est : Die Theorie der Dichtkunst liat der Gott so iune,
dass cr auch andere iu Dichtern macht. Ieder wenigstens wird
ein Dichter, den Eros ergreift» wenn er vorher der Dichtkunst auch
nocli so fremd war. Quæ sequuntur, revocata post ayaSoS
interpunctione vulgata hoc modo scribenda sunt : co 8y TtpETtEt ypdS
papxvplcp XPV O^ai, oxt tcoiyxyS o^EpooS ctyaSik, lv xz~ vSida^nc. xccl
[ilv di] zijv ye rav £aa v holt]6iv nuvzmv 197 rtg lvavtt(i}<Stzai
]iij ov%i "Eqotos tivca 0o<plav, y yiyvtzat te xai cpvEzai navza tu
£wa; aXka zyv rav zr/vuiv qraXaioo Ttaticcv xohjdiv, rrjv, Tiarcc
povdixijv. Sensus est: Dies raag uns zum Beweise dienen, dass Eros
practischer Dichter ist, wie iiberhaupt in aller Kunst, so in der, welche
sich auf Poesie bezieht. Sed ne hoc quidem modo verba Platonis satis
recte se habere videntur. Fortasse scriptor exhibuit ordinem verborum hunc
: iv xecpaA aleo nadav noitfGiv, xata trjv /iovtiixijv. a yap
riS i} fi rj 7 ) firj ol 8 ev. Præcedentium verborum explicationi favent
ix £ltr et eidevai verba, quorum alterum ad artis- usum, alterum ad
eius theoriam refertur. Idem ia sequentia verba cadit didovai et
SiSdtixeiv. Ceterum cavendum est, ne quis ovre dv præcedente ovte
av minus elegans iudicet aut rei exprimendæ non satis conveniens,
ideoque facillima litterulæ unius mutatione scribat ovre av:
frequentissima est, Stallbaumio annotante ad Plat. Apol. Socr. 81,
E. in huius modi dictionibus dv particulæ repetitio. Sic in Apol.
Socr. loco laudato legitur ndXai
av anoXdoXr) xal jovt’ dv vfidf cocptXijHTf ovSev ovr* dv ifiavrov.
Addit Stallbaumius Piat. Fhileb. p, 43. A. SrjXov 61 } tovro ye, do
Saoxpdrrff, coS ovre ijdovj) ytyvoix* dv iv r<w xoiovrco itork,
ovr* dv ns XvTtT}. Xenoph. Hier. V. 3 . dvsv yap tijS tzoXeodS ovr* dv
6qjZs6 $ at Svvairo, ovr * av evdaiftoveiv .xal p.\v 81} tTfv ye. Picinus in conversione:
Quod utique per Amoris sapientiam animalia cuncta gignautur atque
nascantur, quis dubitet? quod sane negligentius est interprer tandi
genus, quandoquidem xai ftlv 87 } yk vocularum potestas delitescit.
Fischerus scribendum censuit xa\ ftijv 6?/, quæ nonnullorum codicum
hodie ab omnibus editoribus improbata lectio est. Kal ftkv 8rj yk
eadem prorsus potestate adhiberi videtur atque xal firjv yk, do quo
vide annotat, 64. ; utrumque enim ita ponitur, ut commemorari significet, quod
aut præter exspectationem accidit, aut quod fidem superat
hominum, aut in rebus summæ gravitatis. aXXa ovx t dfiev. Lenis ironia htiic dicendi
generi inest, quæ adhiberi solet, ubi plane fieri nequit, quin
nesciant, quod nescire confitentur, qui ita loquuntur. De
aitofialveiv verbi tropico usu vide annot. p, 88. Aoristicum autem
tempus positum est de re, quam experientia docuit, cfr. annotat, p,
144. Ceterum Hesycluus, quem Stallbaumius laudat, habet: tpavov'
'(pcoreivox xal XafLTCpov . Apte Schleicrmucherus: in Ruhm und
Glanz . ' % r o&ixijv ye ft?}v. ri particula argumentatioui
inservit ita, ut indicetur, alia multa exempla ailerri posse, sed
pauca nunc sufficere. Diximus de hoc osu yk particulæ anuot.
di/f uovpyluv ovx ttf/uv, on ov uiv av o deos ovto$ 616i«5xcdos ylvrjtai,
iXA.6yi(ios xal (pavos axe^rj, ov 6’ av "Epa s (irj iyayrjtai,
Gxozuvog ; to\ixi { v ya f irjv xal latpixrjv xal pavtixqv 'AxoXXaiv
uvevpev, ixidv(ilas xal "Epotos rjyefiovevGavtos, dgte xal ovtos Ii
"Epotos av iitj (la&tjtris, xal MovOtti fiovGixrjs xal
"HtpaiOtos %«A)££ia:s xal 'Adrjva iOtovpyias xal Ztvg xvfieQvijGEos
&edv te xal avdpdxov. < o&ev 61 ] xal xatsOxEvdadi] tdv de ov
tu xpayiiata "Epotos eyye et 1S6, In seqnentibns ma. iuscula littera scribendum curavimus Erotis nomen, ut alibi sæpe, nal
enim h. 1* explicati vum est, de quo vide anuot» ISO. 132. «1, De
ijyti<53«i, verbi absoluto usu supra dictum est annot» 59.
nal Movtiai ftovdinr,^. Magnopere in explicanda horum verborum
structura interpretes se torserunt. Astius eam ita expedire studuit, ut
nominativos casus ad avevpev referendos censeret et ad pc&rjxijS av
ebj, genitivos autem casus e verbis imSvplaS nal "EpootoS
ijyepovavdavxoS e præcedentibus repetendis exaptaret. Annotat Riickertus ad h.
1. : Simplicissimum hoc esse videtur, ut proxime præcedens membrum
GdfXB fiotSrjTTjs plane negligi in seqq» dicamus et quasi in’
parenthesi positam, de reliquis autem sic statuamus, sensisse
Agatliouem, AMOREM illum, quo duce Apollinem dixisset artium
inventorem exstitisse, non esse alius rei, quam ideæ artis, apud
mentem couceptæ et spectatæ; quum igitur dicendum esset Mov6ai
pQvtiiHtfv avtvpov"EpGotos ijys povev6avroS 9 quia povtiinrjS
ille AMOR esset, contrahentem omnia hæc, quæ plene posuisset
de Apolline, unum in membrum, subiectum posuisse, omisisse prædicatum
ex superioribus repetendum, suo cum accusativo supplapdo illo ex genitivo,
quem apposuit, quique ab ’'Epa>Ti aptus est, quod et ipsum
supplendum. Stallbaumius ad nominativos e superioribus mente repetendum censet
EpcotoS av elrjxSotv paSrjxai, ut genitivi pov6ixi}S, goAxela? cet, a
nomine jia^rftai peodeant. Et Astii et Riickerti contortior est
explicandi ratio. Quam Stallbaumius laudat, ea proxime ad verum accedit»
Nollem autem, genitivos jiovdtxf/S, xodneiaS cet. cum paSrftai
coniungendos ceosiiisset. Nihil certius est, quam pov6i HfjS ceterosque
genitivos ab Erotis nomine regi, quod in verbis supplendis "EpaxoS
av elrj6av pa% 7 }Tcti continetur. Musica autem ut xoB,vnr} 9 laxpinr},
pccvxi Tcrf . inventa est imSvpiaS nal EpcotoS (sc. povtSinijS xo^tni)S
f iaxpintjf, cet.) rjyepovEvtiavxoS. Ut igitur Apollo, illarum
inventor artium, paSijXrfi vocatur Erotis, ita Musæ, musicæ artis
inven tSTMnomoN. vousvov dijkov ori xakkovs' ai6yti yag ovx
l'mdriv "Egeas- n go xov 61, togjr tg tv cegxfi tinov, jroAla xal duva
fnois lylyvsto, tog Uyttai, dia rfjv rrjs 'Avceyxrjg pcctidttciV Inudi)
6’ 6 &eo$ ovtog %<pv, ex rov igccv zav xcdeav navi’
aya&ct yiyove xal C ^ £0 r S xal txvftguTtois. orneas fftol 6oxu,
<J 6gs, ’ 'Egeas ngeotos avros uv xalXmos xal agi «jtos fj.tr et
rovto tois akkois akkeov zoiovxeav ainos elvai. trice», hoc loco
diicipulæ vocantor "Epatot /jovOixfjS, Vulcanus discipulus EpGaTOS X a
^-~ xelaS x. r. A. xa i -ZevS xi ipepvg tSea>S. Mira
lioc loco codicum varietas repentur, cuius originem caussamque frustra quæsivi.
Undecim libri Bekkeri exhibent: HVfispvdv pro HvfiEpvi/dEGoS, tres alii
apud eundem HvfiEpvdv xa habent, in uno xvfitpvwv repentur.
xqdy S ecvv xa itpaypax a. Iutelliguntur rixæ illæ, quarum iam supra
Agatlio mentionem fecit 195. C. : xa S\ TtaXaia npaypaxa nepl
ScovSf et quæ paallo infra verbis insigniuntur: noWa "nat
Stiva StolS iyiyvEXO. In sequentibus "EpooxoS
iyyevopivov Sijlov art TidXXovSj rursus nomen proprium ita positum
habes, ut simul appellativi nominis potestatem obtineat. Hinc xff AAouf
genitivum explicabis. aldx Y*P ovh iite (St iv *EpoS . In Basii, uno
legitur ivEdtiv pro SltEdxiv. Unus Paris, paucissimique ulii libri
exhibent idtiv ; Porsonius Advers. p, 58. tvi scribendum coniecit,
qua coniectnra facile caremus. Ut supra dicitur. U. ovh ini
dnXrjpov fialvEi aAA Ini paXSaHoi ), ita quidni hoc loco dicatur:
aXdxti ovh inedxiv ? Neque audieudus est Astius, qui collitis verbis
201. A. al 6xpMV ydp ovh Eli] " EpGJf scribendum esse ceusuit
aXdxovS ydp ovh Idxiv "Epcof. JlpdjxoS avxoS «jv
ndX\ldxoS. Ficinus habet in conversione l Ila mihi videtur, o Ehacdre,
AMOR ipse primum pulcherrimus optimusque esse, Legisse igitur videtur
npcZzov pro npoozoS. Illud etiam apud Stobæum reperitur, atque
WolHo adeo placuit, ut in ordinem verborum recipiendum duceret. Frustra.
Agathonis mens hæc est: Ante natum Erotem pulcrum non erat; ille
omnibus et diis et hominibus pulcritudinis auctor; ipsuna igitur deum
prius, quam omnes, alios, pulcherrimum et optimum fuisse necesse
est: nam quæ quis ipse nou liabet, alii haud facile largiatur
(vide p, 196. E. fin.) iitlpxeta* V 01 k' *•
«ubit me dicere, valetque IxipXitiSai de ea memoria, quam no«
verbo unwillkuhrlich ’ 'E7ciQ%eTttt, SI fioL n xal lymttQOV tlneiv,
ott, ovzog bsziv o xoicSv elprjvrjv fiev iv dvSpaSicoif, iteXdyei Sh
yaXrjvrjv, vrjvepiav dvifjoov xoizrjv, vicvov z’ ivi xijdeu
insignimus. Ceteram nt versas 195. D. ita laudati sunt, ut sua
mollitie, quæ cum in ipsorum verborum placidissimo quasi flumine, tum in
finibus similiter cadentibus conspicitur, Agathonis ingenium ad mollitiem
proclire depingant, ita nostri loci versus non dubium est, quin
habeant in se, quo Agatho notetur. De qua re nemodum' interpretum
quicquam annotavit. Notatur autem, •i quid video, in bis versibus
artificium, quo siugula verba carundem litterarum repetitione iuter
se comparantur. Sic pijvrjv ykv iv av $ p QJitoiS positum ita
habes, ut inverso ordine, quæ litteræ in verbo eipijvrjv
continentur p et r, easdem habeas in dv^JScoiCoiS nomine positas;
idem cadit in sequentia verba iceXdtyst 81 ya %l}vijv. Idem artificium in
verbis VTjvepiav dvejiGDY conspicitur, sed auctius et clarius, quod verba
sunt eiusdem radicis. Restat, ut de xoIzt\v vicvov z 3 ivi xr\8ei
dicamus, in quibus videmur equidem nobis aliquid vitii deprehendisse.
Lectio vulgata ivi jajSei a Bekkero, Stallbaumio, aliis iu ordinem verborum
recepta est, ac Stallbauraius quidem ivlxijSei ita explicat, ut esse dicat iv
zols xtjdopevoiS, Accuratius opinor verba ivi XjjSei explicantur zt6lv
ivi xr\8ei ovtfiv. Sed sire hanc, sive illam explicationem probes,
certum hoc est, hominum, maris, ventorumque præcedente mentione non bene
commemorari zovS x?]8o/.iivov£ s. zivds iv xrj8ei 6vraS t et cum
eipijvrjv iv dv$poJ7toiS non aliter intelligi possit, quam iv
xijfiop.lv oiS, hoc loco iv x?j8ei admodum friget. Ac ne quis cum Stallbaumio
censeat, non offensurum ess^ queroquam iu sententiæ ratione parum
diligenter expressa, qui meminerit, Agathonem hos versiculos ludere
a Platone iussum esse, ut sibi ipse quasi illuderet: alio loco de
consilio Platouis dicemus, excusationem autem Stallbaumianam quod
attinet, vide, ne probata ea, ne manifestissimum quidem in huiuscemodi
versiculis vitium mutando tollere possis. Quicquid euim
vitiosum ibi deprehenditur, poetæ, non scribarum negligeritiæ vel
ignorationi imputabitur. Magna autem est in codicibus varietas
lectionis. Ero vicvov Z 3 ivi xi/Sei Vindob. unus habet vicvov ze
vtxrj8et . Quatuor Flor, aliique non pauci vicvov ze vrfxijSij s.
vicvov zevijxi]8ij exhibent. Hinc variæ doctorum hominum coniecturæ.
Dindorfius scribendum censuit: vijve/dav dvipoiS, xoiry
vicvov vrpoj8ij. quæ coniectura verissime monente Stallbaumio
propter zi alieno loco positum improbanda est. Vix commemorandum Bastii
commentum est vicvov z 3 ivi yij^tt, Ficinus, quem veram Platonis muovtos
ds rjficcg dJJoTQioTijtog fiiv xtvoi, olxetoTTjtoe D fia nJrjQol, rag
TOiagde |j woSovg (itr’ dZJ.Tjt.av natiag u&tlg £vvi tvai, iv toQTatg,
Iv %oQolg, Iv Ovoiaig yi~ yvojuvog rjyifiav ’ jrpaorijra [ilv x oql^ov,
aygwTTjra nam habuisse suspicor, versiculos sic convertit: qui pacem
largitur hominibus, qui mari tranquillitatem, qui ventis requiem, cubile
viventibus omniumque ( Stallbaumius somnumque rectissime censuit
legendum) securum. Viventibus autem verbo adhibito animalia, ut
videtur, exprimere voluit, quæ videtur et ipse Agatho in mente
habuisse, sed more poetarum adhibito unius animalis nomine expressisse, ad quod
nomen reperiendum ultro duxit TteXayovS commemoratio. Scripsit enim
Piata: : KoitTjvvitvov r * irlxtjte t Ut autem melius intelligas,
quam facile xtftEi in xijSst mutari potuerit: Hesychius xijtei
affert pro dTEprjdEif iprjpla, dicens xrjroS esse non solum
«Snr\ol66iov ix$vv nappEye^rjy sed etiam ait o piar . Iam
aliquis olim Platonis commentator non indoctus, cum xjjtEi de fero
marino non intelligi posse opinaretur, dc ait opia verbum dictum
intellexit, atque, ut intelligentiæ faciliori versiculorum
consuleret, xffiEi scripsit. Ut autem præcedentia verba earundem
litterarum reiteratione inter se comparantur, ita nunc Sioiirjv et xrjTEt
eodem ornatu gaudent. raS roids 8 e b,vv 6 8 ov S fitz* aWijXtoy,
His verbis conventus significantur similes Agatlionis convivio. Ilinc
uiiuus accurate legitur iu, Schulthessii conversione: indem er
manclierlei Vereine und Zusammenkiinfte stiftet. Schleiennacherus verba
convertit: Und dieser eben entlediget uns dea Fremdartigen und
sattiget uns mit dem Angehorigen, indem er nur solclie
Vereinigungen uns unter einander anordnet cet. Non reddidit V. D. itddaS vocem, quæ et nobis molesta est. Si
quid video, vitium liis verbis iuest, quæ hoc modo emendari
videntur: raS toiasSs gvvodovS juet' d\Xi}Acjy narras ti$e\s B,vvikvai.
Ne quis autem hanc scripturam iusto audaciorem censeat, facile fieri
potuit, ut scribarum aliquis, cum præcederet feminini generis
substantivum, ad id dirigendum censeret itavraS verbum, idque in itatiaS
mutaret. Sensus est: Hic solitudinem a nobis cohibet,
familiaritatis studio nos implet, quippe huiusce modi conventibus omnes inter
se conciliari iubens. Quæ sequuntur nopi^Go^, i&opiZooy participia
optime a Schleiermachero conversa sunt : Mildheit dabei verleihend,
Wildheit aber zerstreuend. Captat enim Agatho et hoc loco et in
sequentibus syllabarnm similes sonos. qn\o 8 <n p oS ev psr
siaS x. r. A. Hæc verborum structura, rarior apud prosæ orationis
scriptores, propria est tragicorum poetarum, vide Matth. Gramm.
ampl. §. 339. 647. ubi præter alia laudantur Soph. Oed. C. 6’ 1!-oqI%cov'
(pMSaQOS «vft tvuag, uS&qos dvgtit vsictg’ iliag dyaSolg, Statos
6oq>oT§, ayaot og Seoig' iijXatos dfiOiQOts, xtrjtos tVfioiQOig ‘
TQVcprjs, afigo TJJTOg, JjAlfljjg, JJKpfcwv, IflSQOV, XO&OV JtaTlJjJ ’
SJU,. drrfve/tos xbcvtwy xafiajrcav, Eurip. Med, 671. ovx idjuby evvrjs
&%vysS yapjjXiov. Eur. Phocn. 834. axex\oS (pocpioov .
fAsca? ayctSotS. Consentiant codices in scriptura! quam FICINO in
conversione expressit: propitias, beneficus, spectandas sapientibus. Sed nemo
non videt, aya 2uS scriptura probata singaloram huius enuntiati memborum
concinnitatem turbari, qaam studiose ab Agathone quæsitam esse supra annotavimus.
Rursam igitur exemplum habes corruptelæ, quæ omnium codicam
consensa tuetur. Apud Stobæum ayc&o~i$ legitur, quod primas
recepit Wolfias, quem ceteri editores secuti sunt. Mollities,
deliciæ. Derivatum nomen est a #1 /m verbo, calore solvo, mollio,
deliciis frango. Stallb. Timæus habet Lex. V. P1 . x A 1 8 V *
ZxXvdif yal paXocxUx. tiprytai 8 e arro rov IxkictvSai a6$tvzia
xov Sepjiov, ad quæ verba vide annotationem Ruhnkenii p, 176
. i V 7t 6 Y6J, iy (pofiMy lv Tioyco x. t . A. Magno
iugenii acumine de his verbis egit Schutsias in Ltct. Platon. Specitn.
I. 4. Quam ibi verborum emeodationem profert, quamquam ut eliis,
ita nobis minas probatur, tamen ita egit V. D., ut non sine fructu
et delectatioue lectorum eius dissertatio repeti videatur. Sententiarum,
inquit, iuter se relatarum oppositionem turbatam esse, nullo negotio
perspicitur. Primum enim inter nova et A oyoj prorsus nulla est relatio,
quæ inter (poficp et noSw satis clara intercedit, deinde qnorsnm
omnino hic iy A oyco pertineat, aut quam vim habeat, intelligi vix
potest; denique quatuor illi nominativi xvfiepvijrrji, imfiaTTji,
napadrdtrff xai deorijp quomodo ad quatuor dativos iv itovGO, iy <pofiax y
iv no * £ca, iv A oyoj referantur, ut singula singulis ad sententiam
respondeant, haud apparet. Itaque cum vix credibile ait, Agath^uis
operam in concinnitate sententiarum assectanda positam extrema in parte
claudicasse, librariorum culpa nonnulla hic turbata esse arbitamur. Ut
paucis defungamur, ita nobis Plato videtur scripsisse : iv (poficp,
iy itoScpy iy itovep, iv poyoo, xvfispvT/T inifjdxifi, TtapadrarrjS xcci
6cor ijp dpi6roS . Iam primum totam imaginem e re nautica petitam
esse existimamus. Nautis eoim sæpe timor naufragii, desiderium terræ, 1
abor in difficultate navigandi, ærumna nauseantibus, fame
periclitantibus, cum tempestatibus conllictantibus accidere solet. In timore
igitur illo quid guberuatore, in desiderio t fitXfjS
aya&av, dfieAys xaxcov' iv nova, iv (popa, iv no&to, iv Aoyta
xv^egvi/ttfg, inifiarijs, n«QaOta- e zrjg *s xa\ (Jot?)p aptoroc,
gvfindvrav ts %ciav xal dv&QojTcav y.udfios, t)yeiiav xdXhtito $ xal
cptSroff. a quid socio itineris et comite ( irtifidry ), in labore
quid auxiliatore (xapadxdxp) in ærumua quid sospitatore (Gartij pt)
optabilius? Hæc igitur officia uuum Amorem omnia præstare amantibus
docet. Deinde hac unius litteræ mutatione uniusque vocabuli
transpositione hoc efficitur, ut 'singula singulis ad amussim
respondeant. Ut enim iv q>of$Gp ad malorum, sic iv arJad bonorum
exspectationem refertur; ut itovoS molestiam iu agendo, sic poyoS molestiam
in patiendo designat; tandem xufiepv?jtrj3 ad tpuflov, ixifiarijS ad
noSov ( quis enim flagrantis desiderii sensum melirfs lenire
possit, qnam socias itineris, qoicam colloqueudo horas tardius euntes
fallere possis?) itapadtdT rjS ad icovoVf similitudine a remigantibus ducta,
deniqne 6corr/p ad poyov aptissime refertur. Hæc Schutzii ingeniosa et
periucunda explicatio ideo non probanda est, quod codicum lectioni
adversatur, quæ et ipsa commode explicari potest. Neque tamen Asthma
verborum explicatio placet, quam Stallbaumio probari video. Censet
nimirum Astius, Xdyov h. 1. bene habere, quod nouuisi inanes
verborum similitudines Agatho quæsiverit; ad negamus nos, quamvis
o* fxv$oS ICqd^tj, o XdyoS djtajXeto apnd Platonem sæpe reperiatnr.
Verba iv ito vgj, iv iv xoSgo, iv Xoyw e * j AMATORIA depromta
sunt, affectusqne amatorum exprimunt, donec congrediendi confabulaudique cum AMATIS
potestate fruantur. JIovoS curam denotat, quam quis animo coucepit AMASIO
conspecto; tpoftoS timorem, quo cruciatur, qui AMAT, ne ab alio AMASIUS
sibi præripiatur, indicat; jr 6$oS DESIDERII summi indicium est, A
J-» yoS confabulandi cum AMASIO potestatem quæsitam describit. Atque A
ofov 7iv (jEpVTjzijS Eros dicitur, ut qui ilumen orationis
largiatur idque ad optatum finem dirigat, izoSov irtifidtTjS Eroa
audit, quod cupienti se adiungit, itapadrdrrjS iv <p 6(i&, quid
significet, sponte intelligitur, dc ux ifp autem iv itovcp nc quis
opiuetur non recte dicr: periret amans, nisi Eros accederet animosque ac
spem potiundi amasii adderet» eu XPV Sittd&ott. Hæc,
est codicum plurimorum lectio. Vulgo dei tnedSai exhibetur. Recte
illud recentiores editores probarunt. Non enim de necessitate quadam hic sermo est, quam propter non possit
nou sequi, quisquis est humana conditione natus, sed de lege agitur,
quem quisque ipse sibi imponere debeat. Vide de 6el et XPV verborum
significata auuot.» Recte verba Ficinus convertit: quem profecto
sectari debet præclarisque hymnis venerari vir quisque cantilenæ
illius parti %Qrj iittG&ca nrxvTu &v8qk itpvjivovvxcc xakag,
xalrjg adi]s jiBxejjovta, ijv i xSet ndvxav &tav te xal
dvxtQbjTtcov vorj(ia. Ovzog, tcpij, o jt ag’ ifiov /16yog, (o 0c/.l8qb, x aj
&eoi dvuxu6&(j, xd jj.lv
itat8idg, x a de 67tov8ijg jiixQLtxg, xad’ voov lyo J dvvajicu,
jiixlxav. 8 Efot&v tog de xov Ayd&avo g nuvxug l'<pt] 6
’Aql exoSrjjiog dvu&OQv(lijatn xovg tcuqov xag, wg icqizovceps, qaam
Amor ipse concinit, mentem deorum horainumque permulcens. KaXijS post
xaXojS positam permulti codices non habent. Potuit facillime,
cum præcedat xaXdoS, scribarum incuria vel addi vel omitti xaXijS,
ln textum id receperunt Bekkerus et Stallbanmius,. Astius scribendum censnit
xf/S a o8?jS /iexeXovta y Orellius scribere maluit nati rfjS oodijs
/iexExovxa y Riickertus verbum uncis inclusit* Sed neque uncis opus est,
neque mutatione verbi. ‘7fv
^stXyoov pro rjr ddcov SeAysi positum est, de qua verborum
structura vide Indices. ta /ilv itaiSiaS. Si quæris, quo consilio hæc
verba ab Agathone proferautur, vide annotat. 208. dv aS o pv
firj <3 av. Prorsus eodem modo in Piat. Protag. 334. 6. eItcovxoS ovv xavxoc avxov ol
TCapovxeS aveS opvfSijoav goS ev Xiyot, Ut 1. 1. nudus optativus, ita nostro
loco genitivus participii opinionem exprimit eorum, qui magno cum
clamore exsurrexisse narrantur, vide annot. 158. fiXlty avxa
EiS xov *Epv Zipaxov. cfr. 198. E. 7t(Xi El /17} B,VV7j8ElV
^GJTfpdxEl xe xal ’Ayd3covi dtivols ov6i TtEp\ xd ipcorixd.,
itdvv av i(poftov/i7jv, /n) aitopi}<5<M)6i Ao'ycov 8ta rti noXAd
xal itavxoSana eipt/CSai, vvv o/igdS $a fi ad quæ verba
Socratis allocutio nunc refertur. aSs^S TtaXai 8ioS 5«'SiEVai.
Suid. laudatus a Stallbaumio habet T. I. 48. ddtlS 8e8ias 8eoS Xeyo/iEvov
n £oxi ini xgov xd /n} q>o(jEpa <pofiov /livcov. JldXai exprimendæ
præteriti temporis notioni ita inservit, st cum perfecto tempore
coniunctum plusquamperfecti temporis notiouem efficiat, quæ cum præsente
tempore aliquam habeat couiuuctionem : Nuni frustra metus,
quem habeo, fuerat meus? Convenit cum hac notione Ammonii explicatio 8eoS
verbi: ÆqS xal q)6(ioS 8ia<pipet. AioS /itv ydp i axi
ito\i>xpovioS xaxov vicovoia, cpufioS 6 i i} napavxixa 7CX07}6iS,
8io7tep t Hpo8oxoS iv xy xexapxy • ' H/ilaS ex « cpoftoS xe xal
8eoS. Contra nbi cum præsente tempore naXai coniongi. rmg tov vsavtOxov
ilgrjxoTog xal ctvtcS xal r<u &Ba. Tov ovv 22axQa.Tr) ilntiv
(iAhparna tlg tov 'Egv^ifia%ov, ’Aga Ool Soxa, (pa vca, a nal ’Axov(tevov,
adiig ituAai Sto g deddvca, a AI’ ov (luvuxag, « vvv 8rj £Æyov, ilrtstv,
ori ’Ayd&av %avpuGTug Iqol, lya 8’ dxogqGoifu; To fiev etiqov, tpavai
tov Egvli)ia%ov, HavrLxdg Soxtlg (ioi rfgtjxiva*, on ’Ayct& av iv
Igel' to di oi ajioQijOuv, ovx oiuat. Kal jtdg, to (laxagtE, B '
tlntlv tov 22axQurr), ov gula ctxogeiv xal lya xal aAAog ogugovv, fitAAav
Ai\uv gixd xaAov xal nuv totar, perfecti notio efficitur, at in Piat.
Apol. Socr. 18. B. ipov yap itoXXol xaTt/yopoi yeyovatit itpds
vpd$, xal ndXai noXXa tjStj Itrj xal ovSlv dXrj^tS XiyovreS, quo loco
izaXai XiyovxeS idem est atque ei prjxoreS . Noluit autem ipsum perfecti
temporis participium exhibere Plato, ut significantius et præsenti hora
accusatores meras nugas proferre dicantur atque credularum anicularum
inanes susurrationes. vide aonot. 107 Ceterum schol. ad h. 1. habet:
dSete 8iof M tav rd prj a%ia tpofiov SeSioxuv. opoiov xovxo xal to
ijtofpoberjs avSpconos. d vvv 81 } iXeyov . Nvv 8 r} sæpissime
a librariis confunditur, neque pauci loci exstant, ubi pro vvv 8 tj
scriptum reperitur 6j} vvv, et pro 8 rf vvv vice versa vvv 8 f\.
Utraque verborum compositio propriam potestatem habet, ac 8 ?)
vvv quidem in adhortatioue soleune, atque nostratium also nun
apprime respondet, aut ad rem præsenti tempore notissimam refertur cfr. 191.
A. o 8 /} vvv optpaXov xaXovOiv 191* B. I o St} vvv yvvaixa xaXovpev, Nvv 81 }
autem de tempore accipiendum est, ut signiheet nunc igitur. Vide
Boechhiuui ad Piat. Min. 90. et Stallbaumium ad Piat. Phileb. 105
seqq. on 'AydScov $ av pati t cos ipoi. V ulgo legitur ipei,
quod ferri nequit propter insequentem modum optativum; accedit huc Bodleiani
aliorumque optimæ notæ codicum auctoritas, qui ipoi optativum reprææntaut.
In sequentibus dnopijtiaipi vulgo edebatur. Recte Bekkerus, Stallbaumius, alii,
futurum in ordinem verborum receperant., xal Tt&Sj cJ paxdpie
. Kat h. 1. mere expletivam est, de quo vide annot. ai. MaxapioS
nomen quod attinet, haud raro apud Platouem ita reperitur, ut blaudæ
appellationi exprimendæ inserviat. Interdum id apud eundem, docente Stallbaumio
ad Piat, de rep. I. 335. E., ad ingenii sapicutiæque præstantiam
refertur, cfr. Piat. Menon* 70. B. xlvSwsvcj tioi Soxeiv paxapioS xiS
elvai, dpextjv yovy f site SiSaxrov, t Sccnbv ovto
Aoyov gq&ivTa ; %a\ ra piv aXla* ovy ouolcog &avpcc<5Tu; zb de
In l zetevzijg zov xaXXovg fl'3’ oxrp xputfcp irapayiyvetai,
eidevat. Adde Piat. Menex. 249. D. M.
N?) Ai ', cj 2d■xpaxeS, paxaplav ye A eyeiS ttjv 'A6na6i(xv, ei yvm)
ov6a toiovtovS A oyovS oia z' l6x\ 6vvri%ivai. xal
rtOLvroS artov ovxcj. Apud Bckkerum legitur pera xa\ov ovxco xal
7tavxo8ait6v A. /5» Uterque verborum ordo codicum non paucorum
auctoritate nititur» Equidem non dubito, quin ovxco vocem ei verbo Plato
apposuerit, quod maiora cum vi pronuntiandum est; igitur 7tavxo8a7tuv
ovxco in verborum ordinem recepi. Recte autem Stallbaumius ad verba
xal TtavroSartov ovxcd annotat ‘Multiplicem vocat Agathonis orationem
quippe quæ videatur omnia attigisse et percurrisse, quæ ad laudem
Amoris pertineant» xa\ xa p\v aWa ovx 6 poicoS $ av pa6x a\
Sic Beltkeriis et Stallbanmius omisso piv] quod post opoicoS in
omnibus fere codicibus reperitur. lliickertus ad li. 1.: Habet
sane, inquit, quod mireris, piv particula in eodem orationis
membro repetita. Attamen hoc ipsum cautionem imponit critico,
cni nihil magis est mctnendnm, quam ne librariorum vel
grammaticorum' correcturas in textam recipiat. Quos quum multa hic illic
correxisse constet ex iis libris, in quibus ipsa correctoris manus
cernitur, quid est magis consentaneum, quam iis quoque in locis,
ubi insolentius dictum aliquid pars codd. non agnoscat, omissionem
ab antiquiore critico institutam in libros receutiores receptam
esse. Quam ob rem, ut ratio reddi nullo modo possit repetitionis,
servandam tamen particulam equidem existimo. Sed vide, an possit sic
defendi, ut prius pev membrorum oppositioni, alterum sententiæ inservire
dicas; et cetera quidem, non sunt illa quidem similiter admirauda. Si
recte Riickertura intellexi, eius explicandi ratio nullo modo probari
potest; non perspicio enim, quomodo membrorum oppositio non item
sententiæ oppositio esse possit. Ceterum exempla nonnulla laudavi supra (
cfr. annot. 21. et 216.), quibus probatur, interdum falsum esse,
quod omnium codicum consensu coniirmetur. Nostro loco duo Bekkeri codices
piv post opoicoS positum omittant, ex quorum auctoritate id recte
omiserant Bekkerus et Stallbaumius. Ceterum male post SavpaOxa
punctum ponitur. Schleiermacherus verba convertit : und wemi auch
das Uebrige wol liiclit alles eben so bewundcrnswerth gewesen
ist; aber die Schonlieit der Worter und Redcnsarten am Ende,
welcher Horer ist nicht- uber diese erstaunt? Hæc quamquam cum oratione
Agathonis apprime conveniunt, tamen quoniam vitoperium continent prioris partis
orationis, præter consuetudinem Socraticam sunt, de qua vide annot. 191 Signo
interrogandi post $avpa6xa posito locus sanatur. Sensus est : Et cetera
qui tiov ovoficciav xal Qijuatav tlg ovx av it-utXcc ytf axovav; ixu
syays Iv Sv[iovjisvog, on avios ov% ol6$ dem nnm non pari modo præstantissima
sunt? to Sh iitl xrjXevti) S rov ndXXov 5 . Hæc verba
Riickcrtns ita explicat, utro' de voculas censeat cum sequeDte rov
xdXXovf genitivo arctius cooiungeudas esse. Addit idem, genitivum nominis
alicuius coniunctiim cnm nominativo articuli genere neutro positi prorsus
non differre ab ipso nomine, quod cum suo articulo
exhibeatur; perinde igitur esse, utrum to rov xaX XovS, an to
xdXXoS scribatur. Idem præceptum Matthiæus dedit in Gramm.
ampl. 285. 574., quod ta-, men neutiquam probari potest. Nominis
periphrasis effecta illa per articulum neutro genere positum semper
aliquam nominis adjuncti conditionem indicat, quæ e verborum
contextu facillime eruitur. Posses igitur nostro loco, y scriptor
ro' 6e tov xaXXovS arctius coniungi voluisset, verba convertere l Vim
autem pulcritudinis et verborum et dictionum cet. Non aliter, quam
Riickertus, verba converterant Schleiermacberus in conversione 427.
et Schulthessius 106. ed. Orellii. Persuasam nobis est, to 61 irci t
eXevTrjS ita positum esse, at, cum præcedentia verba Ta plv dXXa reliquam
ab initio orationem denotent, hoc nihil aliud denotet, qqam:
verba posita sub finem orationis» Tov xaXXovS autem genitivus e
verbo oi^enXdytf pendet, de quo genere structuræ vide annotat, 197»
et Matth. Gramm. ampl. $. 868. 681« Sensas est; Quod autem verbaattinet
snb finem orationis posita, quis pulcritudinis verborum
dictionumqne non summa admiratione tenebatur audiens? Ceterum aoristo tempore Plato usus est temporis rationem habens, quo
Agatbonis audita est oratio. Rarissimo verba magnum animi affectum
indicantia alio, quam aoristo tempore ponuntur. In caussa boo est, quod
animi commotio maior, ut subitanea, ita fugitiva est, non dnrans,
ut iam præterierit necesse sit eo tempore, quo qnis eius mentionem
facit. Perfectura tempus infra babes«p» 211. D, ad
quem locum vide annotat. T&v ovopaxcov xa\ farfp d T os v . *
Ptjpctxa sententiæ ' sunt, ovopata singula verba» Hinc
Eryximachus non singala Heracliti verba, sed integram sententiam
vituperans male verbis expressam 187. A. dicit J coSTtep tdcoS xal
'JIpdxXeiTof ftov Xexat XeyeiVj inel t ois ye fir}padiv ov xaXwS Xeyei.
Infra legitur 221. E. Toiavxet icotl ovo pax a. xal fjTjpara
i&<vBev itepiapnix°vTai x. r. X. Adde Piat. Apol. Socr. 17. H.
ov pev t ot } pa dt\ avdpeS 'ABp vaioi, xexaXXieTtrfpkvovS ye
AoyovSj (Ssxep ol Tovxoovy fitjpa6 i Te xal ovopadiv ovde xexodprjpevovS x. T.
A. Piat. Cratyl. 899. A. otov 4il < piXoS * tovto iv a avzl fiijpar oS
ovopa rjpiv yhnjrai, ro te Vxepov avxoBev iooxa igiiXoper x. t.
A. ixel iycoye ivBvpov psvoS x. r, A. Pe ixei vocis C t’
iaouca <rv8’ lyyvg rovxav ovStv xttXov elnelv, v% a.ia%vvr/g oXlyov
dxoSgdg cjj%6fit/v, sl xr/ tl%ov. xal yuQ f ib Togylov 6 loyog
dvE(ii(ivt]6xsv, agtE drejrvag rd tov 'Ofit/Qov EJiHcov&rj'
i<fojioi\u>]v, fit/ /ioi xiktv caussali. potestate atque de
eias origine supra diximus annotat. 151. Ad verba, quæ sequuntur, oXlyov
dnobpaS qtxoprjv Stallbaumius rectissime aunotat; ne quis scribendum
suspicetur oXi* yov dnodpaS ar Gajfppijv, €en ~ tenti a verborum hæc est
: ego præ pudore pæne aufugeram, siqua potuissem. Vide præterea
annotationem 159. et ny elxov. Vulgo legitur 71 oi pro ny»
Hoc optimi plurimique codices præbent* Atque videtur, Riickertus
inquit, ny etiam verius est; non tam enim, quem in locum
fugeret, curandum Socrati fuerat, quam quæ fugiendi ratio et via
esset, possetue an non. Utrumque licet, sententiam si spectas, in
sermone familiari, et locum, quem versus aliquis fugam parat, et
rationem, qua fugi possit, sine maguo sententiæ discrimine commemorare,
neque nostratium vituperaretur, qui diceret: ich war schon halb auf der
Fiucht, vrenn ich nur wusste, wohin aut wenit ich nur wusste, wie.
Sed araatrt ' Græci, ut supra indicavimus annotat. 28., verba motum
in aliquem locum significantia cum quietis notione coniuugere;
hinc non dubium est, præsertim cum codd. optimi, quorum in numero
Bodieiunus est, ny exhibeant, quin Plato Ttoi non exhibuerit, Ceterum
dnodidpatixeiv verbum de servis soleune, qui, quod hero debent, id
non solvunt aufugientes. Debent autem hero servitium. Apte igitur ano6
paS h. 1. Socrates dicit, quod claucnlum aufugiendo, quam promiserit, non
præstiturus esset Erotis laudationem. xal ydp pe Topy io v
o XoyoS. Gorgiæ Leontini celeberrimi sophistæ et dicendi magistri
illius ætatis, cuius omne artificium in verborum ornatu et
magnificentia (Xap.nd. 8 eS, vide annotat, 196 ) constabat, id quod
abunde discimus ex Phædro Platonis. Duæ declamationes, quæ eius nomine
feruntur, Helenæ encomium et Palamedis defensio quibus de coussis suspectæ
fidei habeantur, nescio ; id scio, proprietatem Gorgianæ eloquentiæ
in iis reperiri. Riickert* cfr. Pliilostratus de Vit. Sophist. I.
xat 'AyaScov dt 6 rijs tpaya)6 iaS noitjzi}s, ov 77 xoipcpSla Cotpdv re
71 al xaXXienij olde, noAXaxov tg5v lapfieicjv yop yidZei. in
enbvSrq * Hanc formam Atticis usitatam cum parum notum habuissent
librarii, factum, est, nt sæpe mutarent. Vulgo legitur InenovSeiv.
Bodleianus codex inenovSet exhibet, cfr. Matth. Gramm, ampl. J.
198. 4. 360 Buttmanni Gramm. uropl. T. I. 432. Rem extra
dubitationem ponit Eustathius ad Ilom. Odyss. 1946. ed Rom., quem
Stallbaumius laudat: napaStdcodi ydp 'HpaxXeidTjS, ori 'AttihoI tcov
6 'Aya&cov rogytov XEcpakrjv dsivov liyuv Iv r tp Xoyca ini rov iftov
koyov nipt^ocg ccvtov pe At&ov ty atpavl-a itomtius. xal ivsvorjOa
tote aget xocrayii.a<5rog coV, 7 jvlxu ifiLV cS [toAoyovv iv rui pigti
pE&’ vp& v tOVS TOlOVtOVt V7tEp6wte\lXOVi iv
rui ijra povcp icepazov6iv f TfSrj Aiyovzef xal ivero/fxrf
XoA i 7t£7COirfX7f HOLI OVZGD tprjoi llavaizios ex £ tv
ypettpaS Ttapa IlXdzoavi' xal &ovxi8i8?}S 8h xixPV rat X( p toiov zrp *Aztix<j)
cfr. Stallbau mius ad Piat, de rep. I. 329* B. ubi eadem eiusdem
verbi forma in omnibus fere codicibus depravata reperitur.in
ijC£7t6v$£iY, Fopyiov he < p aXtjv 8et v o v Kiytiv . Annotant
interpretes, ad Homeri Odyss. A. 632. respici, ubi hæc leguntur:
’Ejje 81 jkmtpov 6ioS yp£i, 'Mt/ poi ropyeujv HEtpaXrjv
6ci VOIO TtEXttpQV. *E% at8ov 7tijitl>£i£v ayavrj
Il£p de<p6v£ia. Gorgus adspecto capite mortales in lapides
mutari, veterum opinio erat» Iam vide, quam lepide Socrates in LEONZIO
(si veda) Gorgusque nominibus lusit. Tanquam conspecto Gorgus capite,
audita Agathonis oratione, ue in lapidem mutaretur h. e» lapidis
instar avavSoZ sederet, veritum se esse dicit. Ceterum quod apud
Homerum est 8£ivolo neAcopov nunc satis festive Seivov Aiyeiv
dicitur adhærente notione monstruosæ dictiouis. ini rov ipov A
oyov. AoyoS hoc loco orationem significat, quam Socrates habiturus
est ; igitur verba convertenda sunt: io faturam orationem
meam. Rependit autem Socrates satis festive, quæ ab Agathone
dicta erant 194. A, qtappdxzeiv fiovA-El /i£, cJ StOXpaztS
Uva $opvfiri$(Z. Pro A faov zy atpcovia consuetius dicendi
genus est p?) pl dfpaovov noi rjCEitv
aSTTEp A i$ov, sed multo lepidius est atque præcedenti comparationi
convenientius Ai$ov zy dgxovia. xal iv ev 6 t} 6 a zoze apa
xazayiAadxoS gjv, Aoristicum tempus positum habes tempore præcedente
imperfecto, ut momentanea actio a durtua discernatur, de quo
significatu temporum vide annot. 36. xaxayekadxoS nominis
siguificatum supra tetigimus annot. p» 148. Ceterum cave zoze cum
iv£vo7fda coniuugendum censeas, pertinet enim ad sequentia verba
tempus accurate exprimens, quo tempore Socrates deum laudare
promiserit. "£lv imperfecti par* ticipium est : oratio enim
recta audiret: zoze apa xazay iAatfzoS 7)V i/vixa x. z. A. Respicit
autem Socrates ad 177. D. ovSeiS doi, gj *Epv£,lpaxe, ivavzia
< pielxai . oirze ydp av itov iyoo (iizoLpaidaipt, o£ ovdiv
cptpit «AAo InidxadSai i) za ipeozixd x . r. A. iv reo pipet
pe$’ vpdSv. Socrates sibi ridiculus videri sc simulat, non tam,
quod Erotem laudare promiserit, quam quod iis promiserit, quibus
nemo elegautiorem et pulcriorem Ero D iy%(d[iucCs6ftat rov "Epota
xctl l(pr\v ilvcti dsivos tu iCQOtuccc, ovdlv Side os cepa tov npciy
fiatos, os edsi iyxa(ucc£uv btiovv. iyd (ilv ydp vit dfieXreplas
(S(i?]v detv tdXq&ij kkyuv sceql exccGtov rov lyxo(ua^0(iivov 9
nat tovio (ilv vitdp%eiv, avxdv 81 xovxov tu xaU.i<Sza ixktyo(iivovs &s
evxQSTt&Ctaza ttdivau xal itavv tis laudationem exhibere
possit. Vides igitur» accentum orationis in verbis ponendum esse iv
roa fxipEi vficjv, quo facto ironiæ acerbitas
incredibiliter angetur. Quæ sequuntor verba .xai tcpr\v eivai
betvoS xd ipeo» nxd non satis cum Socratico dicto 179. D.
conveniunt. Modestius euim illic Socrates locutus est. Ne mireris igitur,
quid sit, quod vehementius Socrates hic t se vituperet : omne
vituperium in convivas convertitur, qui non veriti sint, coram Socrate,
homine maxime erotico, rerum eroticarum imperitiam suam pro sapientia
vendidisse. iyd p\v ydp vn* dfte ArepiaS x.
r. A., Hi* verbis auditis verisimile est, erubuisse, qui de Erote verba
fecerunt. A(i£\xeptocS teste Stallbaumio Bodleiani codicis lectio est
aliorumque plurimorum librorum. Riickertus non nisi in Bodleiano,
Vaticano ono, Angelico uno, ct(iE\tepiaS reperiri annotat. Iloc certum
est, codices permultos afiefarjpiaS præbere, quæ lectio unde
originem duxerit, haud dif-" ficile est ad explicandum. Librarii
enim cura non ad etymologiam respicerent df\eX.TEpia nominis, sed ad
analogiam vocabulorum in ?jpta desinentium, ad dfieXxrjpia lormam
recipiendam proclives erant. KEp\ kxccOxov rov IYt xcj
yidS,oy iv ov. Ficinushæc verba convertit: Putabam equidem ob ruditatem
meam, do quocunque quod laudatur a nobis, vera oportere referri; quod si
verbis exprimere voluisset Plato, scripsisset haud dubie o
iyx&judZExai. Schleiermacherus exhibet in conversione; Ich duchte namlich
in meiuer Einfalt, man miisse die Wahrheit sagen in iedem
Stiick von dem zd preis senden, quam conversionem verborum nemo facile
probaverit* Kiickertus idem esse contendit Zxatixov x o
iyxa>yiaZ6j.ievov 'atque xo æl iyxa>/ucu}6y£vov f sed exemplis hic
loquendi usus probandas erat, quod V. D. facere omisit. Vulgo legitur :
Ttipi Ixa <Sx ov xoov lyxooptctZofiivGDv, quæ lectio Schleiermacliero
placuisse videtur. Nobis ea- non est, nisi coniectura eorum, qni
TCepl bcatixov xov iyxGopiaZoflivov explicari posse diffiderent. Scripsit
fortasse Plato : TCepzkxdOtov iyxG>yta£o/i£rov h. e. de omni re, si
laudatur; fortasse etiam verba xov iyxGDj.uaZo pivov glossema sunt, quo
facillime, si abesset, careremus. Nam cum præcedat ovbtv eISgjS dpa
xov itpdyyaxoS, cJ? ibtt iyHGoyid?,Elv oxiovVf satis patere opinor,
izepl kxaoxov per se positum rem laudandam significare. dfj (ieya
IqiQovovv m$ tv Iq<ov, wg flStd g ti/v ftuuv xov ixaiveiv ouovv. xd de
ccqb, cog Houctv, 01J tovxo rjv xo xakmg htcavelv ouovv, dlXcc xd tog
(ii- E yufxa uvaxitiivtu xa Ttodyuait, xal d>s xedhaxet, iav xe
y ovxag £%ovxa iav xe (irj. ei Se 4>tvSij, ovSiv «p’ tjv XQayfia.
XQOv^Qtjdy yaQ, mg foexev, uxiog exuOtog xal tovto fitv vnapXBtv,
Bastius paru*n perspecta VTtapxetv verbi potestate 7tal tovto npdotov pkv
rei pkyiStov fikv vnapx&y scribendum couiecit. Frustra. Rectissime
Stallbaumius xal tovto plv vnap inquit, est: et hoc debere orationi
subiectum esse argumentum. Nam verissime Scbneiderus ad Xenoph.
Oecon. XXL 11. vnap X&iy dicuntur a Platone quæc ungue fundamenti loco
adesse debent, ubi quis quid exsequi voluerit, to SI a, pa,
cjsHoihev, ov tovto 7/r x, t. A. De xo 6 k vocularum significatione
vide annotat, 111. Adde Stallbanmium ad Flat. Apol. S. 23. A. " Apa conclnsivæ notionis
particula hoc loco ironiæ augendæ inservit. Præteritum tempus falsam opinionem
aut spem fuisse indicat, quam aliquis olim susceperit atque per
aliquod templis veram habuerit. Utuntur autem hac formula satis cum
dolore aut acrimonia ii, quos eventus docuit, aliter atque antea
putaverint, rem se habere. Eodem modo paullo infra legitur 199. A. aAAa ydp
iyco ovx ydij apa tov tpoxov tov inai•vov x . T. A. Egit de hoc
genere dicendi Stallbaumius ad Piat. Phæd. p* 68. B., ibique Homerum
laudat, Odyss. XVI, v. 418, 'Avtlvo', vfipiv £x gdv *
xaxopkjXav&, xal 61 6k tpa6iv iv Stjpoo 'l$axi]S pe$ *
optjXixtxS ippev' dpidtov fiovXy xal pvSotdi * 6v 6 *
ovx apa toios hjdSa. Pro irpporfccto interdum in hoc
dicendi genere præsens tempus reperitur, v. c. in Piat. Gorg. 469-
E. t /2 'ScoxpaxE5 i ovtgj pkv navtES av pkya Svvaivto, IkeI
xav ipnpjjdSEirj olxla rodtqo ra5 tponoo rjytiv' av 6oi do - / xrjy
xal ta yE 'ASrjvaicov vsapia xat rpii/pEiS xal ta nXoia navta xal ta
drjpotiia xal xd idta. aAA’ ovx apa rovt* l6ti xd pkya Svva6$ai, to
not eiv d Soxei avtqj, DiiTert a præteriti præsentis temporis usus
ita, ut illo posito evento aliquis indicet se edoctum esse, rem aliter se
habere, atque olim existimaverit, præsente autem tempore indicatur, indicare
aliquem ita, ut iudicium eius adhuc uoa probatum sit eventu.
aAAa to goS pkyitira avatiSkv ai t& npdypa ti. *Avaxi$kvai
verbum solenne est de donis, quæ diis ab hominibus consecrantur» Idem
etiam eum significatum habet, quo aliquis alicui aliquid attribuere
dicitor. Neutra verbi notio ad nostrum locum satis quadrat. Nimirum
ironia consueta Socrates usus et pietatem d£ia diis 15 ijfiwv
xbv "Eqcotu lyxauiateiv dot-ei, oi>% ortas lyxa(uaGtxai. 8ia xavxa 8i),
olfiat, rtavxa kbyov xivovvxcg avati&exs xa "Epazi, xal ycczt avxbv
xoiovxov rs 109 tivcu xal xoGovxav aixwv, orta$ av (patvtjxai tbg
xakliOrog xal olqiCxos dijkov oxi xoig M yiyvuGxov- consecrantiam et
mentientium impudentiam notaturus est. Deest vernaculo sermoni
verbum, quod utramque notionem exprimat; nam quod mihi nunc in
mentem venit, aufhiingen, de fore suspendendo intelligas facilius, quam
de corouis, quibus templorum parietes exornabant veteres. Sed pone,
vernaculum illud Græcorum verbo dvaxpEfxairvvvai apprime respondere, alteram
notionem adde, qua dicimus : i e mandem etwasaufhiingen, et expressum
habebis avariSivai verbum. In Latina liugua verbum est, quod Græcorum verbo
ad unguem respondeat: imponere alicui aliquid»
iepovf$f>i}$7}ydp,G)Sgoixtv. Socrates ex orationibus, quæ
hucusque habitæ erant, conclusionem facit ad Eryximachi medici
voluntatem. D», eiusque verba ita interpretatur, ut non veram Erotis
laudationem, sed arbitrariam, hoc est, vel veram vel falsam laudationem
exegerit. Hinc verba explicabis coS UotxsVf quæ ita proferuntur a Socrate, ut
ad convivarum orationes respici significetur. Sensus est: Deun die
Aufgabe war, wie aus den gehaltenen Hedeu crhellt cet. iy xoo
fiiaZeiv 8o%ei t ovx 0 7tQ3s: iyxooj^iiddETat. Fiemus bæc verba
convertit : Nihil ‘fenim referre, faisaue an vera sint, cum
propositum sit, non quomodo Amor ipse laudetur, immo ut quisque AMOREM
laudare quam maxime videatur. Indicativo futuri rei veritas indicatur, quæ
arbitrio opponitur, quo quis Erotem laudandum censent, Paullo
obscurius Socrates loquitar. Verborum sensus hic esso videtur: Convivas
non Erotem, sed se ipsos landasse ita, ut suam sententiam de Erote
laudando maxime celebraverint» xavxa Xoyov xivo-vvxeS avaxiSe te x
&"Ep gdxi. Ruckertus ad h. 1. XoyoS 9 inquit, utrumque SIGNIFICAT,
orationem et orationis materiam, xtveiv Xoyov, excitare sermonem vel
excitare, de quo dicatur» Hinc sensus est, nihil, quod dici possit
ullo modoy prætermittitis, quin AMORI tribuatis. IldvTot Xoyov
xiveiv neque de oratione neque de materie orationis accipiendum est, sed
de genere dicendi ac de modo res animo concipiendi; verba
converterim: iedo mogliche Rede- und Be- trachtoqgsweise auwenden. cfr.
Piat, Phileb. 15. -E. o 8 l xpcotov avrov yevodpevoS hxddTOTE XGOV VECJV
tfd$ElS ttfS* XlYCt dofpiaS EvprjHooS Sqdavpdv vq>* ijSovrjG
ivBovdia te xal xavxa mvtt Xoyov h. t. A. Adde Piat. Theæt. 163. A
* tovxov *aptv td xoXXa xal arojta rav-<Siv' ov yaQ av otov xotg ye e16o6l
xal xctAag y' £%ei %al asfivag o htatvog. uM.it yaQ lya ovk ydq
figet rov x qotcov xov BTtctLVOv, ovd’ eidas vfilv c o^oAoyijtia otul ainog iv
% c3 hbqu ineat ve<SE6&au y yXdrta ovv viti6%ETO, fi (pgqv ov.
drj. ov yitQ ra ijiivrjdctjJTjv . Piat. de re pub. V. 450.
A. o6ov Aoyov itaAiv, QjSXEp apxy$> xivsixe zepl rijs noAixtlaS. Ad
avatLSeze cogitando repetendum cenæt Riickertus navia A ayov vel
supplendum avxov, quod ad jtavxa Aoyov referatur. Frustra,
*Avazi%kvai hoc loco absolate positum est, ut idem sit atquo
txvd%i6iv itoeltiSat. t oiovtov xe elv cti xa\ r o 6ovx av ah
iov . His verbis indefinite positis et natura Erotis et utilitas dei
vario modo in convivarum orationibus descriptæ insigniuntur. Igitur
roiovtov talem significat, qualis a convivis diversis modis
descriptus est, lodovicjv talium auctorem tantorumque, qualium et
quantorum auctorem illi Erotem prædicaverunt. xal xaAas y * $\eix.
r.A, Eadem fere ironia Socrates utitur in Plat. Apol. Socr. 20. C.
xai iyco i ov Eutfvov ipaxdpitfa, ei aS aArjS&S lx £l T<xvrr,v
xifv xix v V y Ka ' L °vxcjS cpptXdii 8i8a6xei. lyd yovv noti avios
ixaAAvvo/njv te xa\ JjftpVV OflTfV <XV y eI 7/7tl(jxdp7fY xavra
* «AA* ov ydp initira/ tat, ($ uvdpES ’A$rjvdioi. Cave igitur, serio dicta censeas verba xdi xaAd>S y ’ tx £L
tepraf o Zrt aivoS. a A A d ydp iydf. Duæ cogitationes insunt
in sequentibus : Promisi me verba facturum esso de Erote ;
Ignaras eram rectao laudandi rationis, quam vos secuti estis. Ad olterum
cogitationem yap refertur, ud alteram aAAd. Huiusmodi cogitatione*
quoniam sæpius in nna enuntiatione comprehenduntur, aAAd ydp haud raro
coninnctum reperitur. Quod sequitur ov8 ’ e1dtuS' Latine expressum audit r
Sed enim ego non noveram buuc modum laudationis, non scieus autem
vobis promisi, ut ceteri, ita et ego ipse dei laudationem. Positum
igitur habes ovd’ eido oS pro ovk e16gj£ 86. Efficitur autem illa scriptura, ut
accentus orationis, proprie in ovh lidcoS 8i ponendus, in sequens
finitum verbum transeat. ?} y A arra ovv v it e 6 x £ to, 7 ) 8 fe
tppTrjv ov. Legitur apud Euripidem, ad quem Socrates respicit li, 1.,
Hippolyt. v. 612. 7 } yAc566 * ojjgSjjqx’, 6t tppi} v
avapox oi Haud raro in Platonicis scriptis ad hunc versum alluditur,
v. c, Theæt. 154, D. EipiitlSeidv xi HvpjpijdEiai' tf plv ydp
yAdoxxa aviAtyxxoS ijpiv forat, 7 } cppifv ovx avEÆyxxof. Adde
etiam Cicer, de ofif, 111, 29* 108,: Nou enim falsum iurare
periurare est, sed quod ex animi tui senteutia iuraveris, sicut verbis
concipitur more nostro, id 15 *ftt lyxafua£<o rovtov rov rgoxov ov yag
av Swalfiijv' ov (iknou akka ta ye dkqdq, el fiovkte&e, non
faceie periariam est. Scite enim Euripides: Iuravi lingua,
mentem iniuratam gero. Ad Socratem nt revertamur, Euripideis
verbis laudatis hoc efficere voluit: Promisisse sese quidem Erotis laudationem,
sed non talem, qualem ediderint, qui ante 6e locuti sint. Aut
igitur tacendum sibi esse, quippe promisso suo ad Erotem illa ratione laudandum
non obstrictus, aut eam laudationem proferendam esse, qualem, cum
promiserit, in animo habuerit., ov ydp kri iyxapiaZa xovxov tov
tporcov. Breviloquentia est : hæ enim sententiæ verbis insunt: laudaturus
eram, at non amplias laudaturus sum, si huuc in modum laudatio
instituenda est. Riickert. *EyxoopidS,co absolute positum est, ut
non tam actionem, quam ipsam verbi notionem cum vi repræsentet :
iyxcjpia^cov el/ii. Hinc facile intelligitnr, quid sibi velit
hi hoc loco. ov ydp av dvvaiprjv . ov /jLevxoi . Admodnm
dubitant viri docti de horum verborum iuterpunctione recte ponenda » alii
punctum post ov f.Uvtoi ponendum, alii omnem prorsus
interpunctionem post ov fievtoi delendam censent. Atque sic
Bekkerus verba edidit, quem Riickertus secutus est annotans ad hunc
locum: tftraque verba interpuogendi ratio vera est grammatice; sensum si
spectes, roirere, quid sibi velit tam fortis ac vehemens negatio,
qualis fatura sit, si ov pkvtoi cum præcedentibus iungatur. Contra si
iungas ov pkvtoi aXAa, multo lenior erit oratio, sensumque præbebit
hunc: Vestro isto modo AMOREM laudandi consilium plane abieci, non possim
enim, etiamsi forte velim. Attamen hoc ita accipi nolo, quasi
dicere omnino recusem, immo vera quidem cet, Equidem non dubito,
quia Ov pevtoi verba per anadiplosin rectissime ab Stallbaumio
explicata sint, cuius exempla si quæris, adi Stallbaum. edit. Sympos. 97»
Quod autem scire se negat Riickertus, quid sibi fortis negatio velit h.
1., exprimendæ veritati enuntiatiouis negativæ inservit, ut verba
convertenda sint : ich konnte es auch nicht, wirklich nicht,
ei ^fiovXedSe, i$k X oj xa x 9 ifiavxov . De (5ov Af6%at et kSkXeiv verborum significatu vide aunot. 44. Ka T a præpositionem
quod attinet, vide Piat. Apol. Socr. 17. B, el phv ydp tovro
Xiyovtiiv, opoXoyoiyv av iycoye ov nata. xovtovS elvai jirjtcop.
Piat. Prot. p, 517- A. iyd 8e tovtoiS aita6i xaxet tovro elvai
ov Hvp<pepopai t de quo loco supra diximus 41. Adde præterea
annotat. 134. n Iva prj ykAo ota o(p\cD . cfr. Apol. Socr. 17. C. ov ydp av di/ itov Ttpk - 7Toi, cj
dvdpeS, tp8e ry uda toSjzep psipaxlaj TtXatTovti A dyovS eis vpaS elsdvai,
quem locum eo aptiorem hic censebis, l&tfaa tljteiv xcct’
Ifiatnov, ov itqos rovg v(istigovs B koyovg, ivu (lij yikattu. ocpfao.
oga ovv, cj <X>aidQt, {I > i qno certius est,
Socratem ætate provectiorem fuisse eo tempore, quo Agatho ItuyIxuk
celebravit, h. e. 412. a, Cfi. Ceterum ocpXt o cum quadam ironia in
malam partem dicitur, ut supra 183. A, a
ei xiS toXpoSrj itotetv aXX oxiovy nXrjv tovto, za piyidxa xotpnoiz
9 av oveidrj. Eodem modo d.7ZQXav£iv verbd Græci utuntur, cfy*
Piat, dc legg. 910. B. xal itada ovtgdS f\ TtoXiS aitoXavxf xgdv
adefi&v zpoitov riva dixcdcof. opa ovv, <u $ai8pe t
ei xi xal zotovzov Xdyov 6iei 7tep\ "Epcox os . Stallbaumius
per epexegesin verba addita censet zdXifSif Xeyopeva dxoveiv, cuius
structuræ permulta exempla reperiuntur. Unum exemplum ut laudem, cfr.
Piat. Phæd. 103. A. cap. 51. xal ziS eh te xdov xaporxcov dxov 6aS
itpoS Secjv, ovx iv roiS XpodSev r\piv XoyoiS avxo to ivavxlov xdbv
vvvl Xeyouivcov copoXoyeiro y ix xov iXaxxovoS zo pei2,ov yiyvedSai
xal ix xov pdZovoS xo tXaxxov, xal axeXv&$ avxTj elvai j/ yivedi?
rots ivavxioiS, ix xoov ivavxi&v; Ceterum male rerba disposita
sunt, quandoquidem comma non post diei ponendum est, quo loco id
posuerunt editores ad unum omnea, sed post "EpGoroS. Sensus est: Vide agitur, o Phædre, num forte tibi etiam
huiusmodi Erotis laudatione opua sit, ln e. vera, non mendaciis
cuiusvis generis referta. ovopadi 81 xal Sidet firf/idxGov roiavtg. *Ovopara et fi?jpaxa quo significatu poni soleant, supra dictum est
annotat, 221. Sententiam quod attiuet, duo suut, quæ a Socrato in
orationibus couvivarum vituperantur : sententiarum falsitas, verborum
enuntiationumque nimius ornatus. Igitur seri' ptura non opus est uqius
codicis Vindob., quæ magnopere placuit Schæfero (ad Dionys. de
compos, verb. 28.), ovopadei 81 xal Sidet fcrjpdruv toiavXXf* In
sequentibus ditola av tiS XVXV iiteXSovda additum reperitnr in permultis
iisque pptlmæ notæ codicibus di particula, quæ nullo modo ferri potest. Admissa
ea sententia verborum existit hæc: Vere dicta pudire, nominibus
autem et positu enuntiationum tali (b. c. vero) et qua lis cunque
forte «eæ obtulerit loquentl. Fortuitum b. e. non exquisitum sententiarum
verborumque positam facile probes, verum positum quamquam cum veritate
rei convenientem interpretari possis, tamen minus probabilem h, 1. indices.
Igitur di post ditola collocatum, quo efficitur, ut zotctvxy ad præcedentia
non ad sequentia verba referatur, atque ut commemorata posituras
veritate simplicitatis notio adiungatur verborum atque dictionum, ex ordine
verborum semovimus. Idem fecerunt Bekkerus, Stallbaumiua, alii. Ficinua
verba convertit: Vide itaque, Phædre } Xi xal toiovtov Xbyov diti
'Egcotog, Talr^si] Xi yufiwu uxovt iv, vvofiaGi 8s xai &i<Ssi
gtjfiatav roiavry, inoia &v ns hul»oS6a. Tbv ovv QaidQov
tcprj xai rov S cckkovg xtkivuv Uyuv, bny aixbg ot 'oiro Sstv ilnsLV,
rctvry. "En roivvv, tpavuv, a <I>aldQe, xaQig fiot Aya&mva
a/iwg’ arta Igia&ca, tva, «voC fioXoynHansvoe ««?’ «vtov ovtag r/St] Uya.
’AU« TUiQiyi-u, tptxvca tov OcuSqov' ulk igata. Msza tavra brj rov
2axgdrg hv Lvd&vSe xoftlv aglaGftca. utrum vobis 'placeat
orationem fiuiusmodi nunc audire, quæ de Amore vera duntaxat
enarret, verborum nominumque, utcunque accidit, compositione
procedens. Uri roivvv, tpavai, <a $ai8pe, TtapeS pou
Car ad Phædrum potissirauih et hoc loco et sapra Socratis eratio
se convertat, si quæris, vide 197* D # iyco 8} rjSioos; pkv
axovat ^SooxparovS 8ia\eyojitvov, dvayytaiov 8i poi ImipeXqSijvai
rov iyxcopiov ro5 "Epcon xal amo SeZadSai nap* bvoS
txutixov vjigdv rov Xoyov. o it q avro? olotro 8 si v elmeiv,
ravty. Commode abesse posset ravtft, quæ vox e præcedente on rg
suppleri solet alias haud raro. Posita nostro loco est, atque in fine quidem
totius enuntiati collocata, ut significantias Phædri ceterorumque
convivarum verba red-r de ren tu r, quæ obliqua oratione liunc
exhibentor. Dixerunt autem illi: omjf avtoS olei 8tiv Xeyeiv, ravry
elnk. ovrcoS rj8 tj Xeyco. vide annotat, 195* Schleiermacheras
verba convertit: damit icli mit ihm eioverstanden a 1 s d n n n
welter rede. Recte } displicet ta* men vocula w ei ter, qua rectius
carueris. Nam X£yco t ut XoyoS in præcedentibus sexcenties de
Erotis laude, vide annot. 187., de laudatione incipienda intelligeudum
est : Damit ich, wenn ich mit ihm mich verstandigt habe, alsdaun
den Eros au loben beginne* iv$£v$e Xo%kv. Vide annotat. Stndiose id
agit scriptor, ut lectores seraper admoneantur, orationes
convivarum non accurate neque verbo tenus referri, quod quo
consilio fecerit, in Comment* de Syrapos. Platonis
indicavimus. xa\a>£ poi lt8o%a$'KCC$TjyijtiatiSai rov
Xoyov, li, e. disputationem exorsus esse. Deest, quod mea culpa
potius factum puto, quam quod onmino nullum sit, sed deest mihi
exemplum verbi ita usurpati cum genitivo. Non desunt, ubi accusativus
sequatur, velat Thcæt. 200. E. 6 xaSrjyovptvos rov notapSv.
Riickert* Verba transitiva haud raro ita adhiberi, ut non tam
actio, quam verbi notio urgeatur, sæpius annotavimus, v. c,p. 22.
p» 59. Cap. XXL Kal ftijv, e» (pile 'Aya&av, xalwg fios
tdofcg xadyyrjtiaB&ai zov Ivyov, Isyav, 3« xqwzov tt£v 6'tot
ccvzov iTaStL^ai vnoiog zig iotiv 6 “Encog, vBztqov Ss tu k'pya avzov. zavzrjv
zr;v uQX>i v naw aya[itu. Xfh ovv uoi tcsqi "Eqsazog, insidi; xal ralla
xalag xal peyal07tQS7iu g 6iijl%sg olog ia ti, xal %6i$s D tizi'
jcotSQov iau zowvzog Hoias usa» ut unum tantummodo exemplum
laudem, legitur p, 178« C. o ydp xpi? dv^poonoiS?/yeuSSai navxoS x
ov filov xcdS ptAAovdi xaXwS fiicooetiSai, quod idem valet, atque o
ydp XPV tOtS CtV%pC£> 7 tOlS &mp ffl'EyGOV elvca navxoS x ov
fiiov. Sic no«tra verba posita sunt pro xaAo? fioi £doB,aS xaSrjyijxtjs elvat x
ov Xoyov. oxt np doro v p\v S eoi. cfr. Cic v de ofF. I.
c, 2. $. 7* Placet igitur, quoniam omnis disputatio de officio futura est
y ante definire, quid sit officium, quod a Panætio prætermissum
esse miror * Omnis enim y quæ a ratione suscipitur de aliqua re
institutio, debet a definitione proficisci, ut in !el ligatur quid
sit id t de quo disputetur * Ad hanc instituendæ disputationi»
legem Socrates etiam in Menone respiciens 77* E. docet: ante
dicendum esse, quid sit id, quod virtus appelletur, quam possit,
utrum doceri queat necne virtus, diiudicari. tavtrjv trjv
apxrjv navv aya pax. y Aya<S$ai verbo utuntur, qui et AMARI et laudari
a se rem aliquam indicaturi aunt. olog eivcd nvog o
Egag cfr. Piat. Protag. 935. D.Vl rtal 1 IititoviHOVy ct
ptkv Zycoyl tiov trjv <pi\o6oq>iav ayajiai, axap xal vvv
inaivdo xal cpiXco x. t. A. h. c. quod s em per facio, tuam sapientiam ut
amem laudemque, idem etiam nunc mihi contingit. Minus probem
Stallbaumii annotat, ed. 97. Haud cio, inquit, an alicui scribendum
videatur axap vvv xal btaivdr xal tpiXdo, quo clarius appareat
ratio oppositionis. Sed nihil mutandum, siquidem xal non cum vvv, sed cum
atdp arcte connectendum, ut significent voculæ: quin etiam .
olof etvai ttvoS o "EpcoS lp oo . Repentur hic verborum ordo apud
Bekkerum, Astinm, Stallboumium, qui Bodleiani codicis «t Vindobb. doorara
auctoritatem seguti sunt. Eum verborum ordinem Riickertus frustra
impugnat, dicens, minus bene habere subiectum inter prædicatum et
pendentem inde genitivum insertum. Nam huius structuræ artificium
et apud Græcos et apud Romanos acriptores æpennmero reperitur. Suspectum
autem fit mutatione sedfe $pa>S nomen j nam vulgo verba inverso
ordine exhibentor oloS 1 m f ovStvog; Ipcota 6’ ovx, tl
{v>itq6s rivos % noxios iou yiloiov yap av th] xo igatrjua, tl
"Epias bsxlv 1’gag scapos rj [irjtQos «AA’ to $jctp &v tl cnko tovto
xcatQa jpdrov, uqu 6 xarijp iaxt xarqp w ilvai nvof IpaS 6 "EptsaS,
Uodecim codices ipcoS nomen prorsus omittunt. Verbum omisimus nos, quia
sive ante J *Epa)S ponatur, sive eidem postpouatur, cum sequentibus nullo
modo convenire videtur. Etenim si scripsisset Plato oloS elvai nvoS ipGoS
6 "EpcoS s. rivos 6 *EpooS HpoaS, nemini auditori ac ue ipsi quidem
Socrati in mentem venire potuisset patris matrisve cogitatio, quæ verbis
sequentibus continetur. Iam cum omisisset SpoaS nomen, ambiguaque
potestate posnisset "EpaoS nomen propriam, ne interrogatio, ut potuit
male intelligi, ita revera male intelligeretur, verba statim
addidit: ipanco 6 * ovx, el prjrpoS t tro$ 7} natpos idxtv,
yeXoiov yap etrj to\ £ p oj r ?}/i a, Socrates Erotis nomine
ita posito in præcedentibus, nt non deum sed dei vini iutelligi vellet,
additoque vituperio eius, qui interrogationem sio interpretaretur, ut de
Erote deo, non de amore sermonem esse censet, satis acerbe
incu-r rium eorum vituperat, qui dei nomine adhibito tum deum,
tuut vira eius expressissent non indicantes, utra potestate nomen
proprium accipi voluerint» Aliter Ruckertua de his verbis indicat, cuius verba
hæc sunt; Id nihil, inquit, habet ridiculi, rogare, Amorne patrem vel
matrem habeat, id quod infra rogat ipse SOS, A, At ita rogare,
ut prædicatum ponas ZpcoS, ac deinde genitivi sensum velis
esse lionc, quem negat esse, id vero ridiculum est. Ridiculum igitur
hoc quoque, si quis, quod recte interrogatum sit, ac ne male accipi
possit, addito prædicato ipooS præcautum, tamen ita accipiat aut
accipere simulet. Pertinet igitur hoc ad sophistarum captiones fraudesque
deridendas, babetque vim hand exiguam ad firmandum io præcedentibus positum
IponS contra libros eos, qui id omittunt* ei avto tovto
itatkpet iJpojtGDV . Imperfectam cum el particula coniuuctum in
hujusmodi enuntiatione aliquid sumi fieri indicat, quod revera nou
fiat ; aoristus addita av particula actionem exprimit, quæ sine
dubitatione futura esset, si fieret illud, quod fieri tantummodo sumitur.
Paullo aliter Stallbaumius ad h. 1. : Imperfectum, inquit,
indicat id, quod nunc fieret, si fieret: aoristus autem SIGNIFICAT rem
ita esse comparatam, ut e vestigio possit perfici et abaolvi. Avto tovto
icatipa minus recte Stallbaumius censet idem plane esse, atque
natipct avto tovto, oitep l6tw. Neque recte Schleiermacherus verba
convertit: Wie wenn ich nach ei nem Vater selbst fragte. Schulthessius
eodem fere modo: wie wenn ich grade vom Vater ftagte. Avto tovto
sequente uomine articulo tuo destituto significat, vog, ov; tfæs av
6>'j xov (iot, d IfiovXov xa%w$ axoxQlvaO&at,, oti t&ziv visos
ys V dvyccTQo s 6 xatrjQ ittttrjQ • ij ov ; ITavu ys, tpuvca rov
'Ayafrwvtt. Ovxovv xai rf /tijtijQ ascevras; OfwkoysiOftut xai E
V verbum, quod in superioribus commemoratum sit, nunc materialiter,
ut verbo hoc utar, usurpari, «t conversio audiat : Aber gleichwie wenn
ichdas Wort Ttaxrjp selbst aufnehmend fragen wollte cet. Plura exempla si
quæris verborum materialiter positorum, indicata reperies in Indicibus*
tlitet av Stj itov poi, el iftovXov* Ei ifiovXov positum est b. e.
imperfectum tempus fiovXe6$cn verbi, quod ponitur velle Agathonem respondere,
sed revera non fieri, ut voluntas illa respondendi se ostendat proptserea, quod
responderi nequit, ubi interrogatio nulla proposita est. EhceS av
rursus eodem modo positum est, ut paullo supra, significatque,
Agathonem haud dubie dicturum esse, si interrogatus a Socrate respondere
vellet* xai 7) pptpp gdS avtGD$ . !i* e. Stallbaumius inquit,
ovxovv xai nepl pjjtpos ooSavtaS %X £L ? dubito, nam recte. Nam ut
taceam articuli ante prjxpoS ponendi omissionem, quo carere non
possumus io huiasmodi enuntiat io ne, expletior oratio audit potius:
ovxovv xai r\ prjrrjp vlioS ye rj SpyarpoS prjtpp. o
poXoy ai6$ai xai tov ro* Hæc tredecim Bekkeri codicum lectio est, mups apud
eundem opoAoysid&a habet, tinus &>poAoyai6$ rursum unus
oi yel<$$& poAoyeidSaz. Editores excepto
Riickerto, qui opoXoyetdSai dedit, vulgatum opoXoyijdai in ordinem
verborum receperunt. Hiickertus ad h. 1* aut opoXo yEioScti scribendum
esse censet aut 6fioXoyti6$G). Posterius, inquit, propterea
improbandum, quia addi debebat, si hoc Piato dedisset, <pavai
vel alius dicendi verbi infinitivus, vpoAoyetdSai autem non habet, quod
offendat, modo passivum esse teneas: concessum esse, immo commendationis
aliquid ex eo. habet, quod in sequentibus quoque
præsentis infinitivus opoA oysfa- et infra p* 20 1. A* «wpoXoyat imperfectum
non aoristus legitur, Dedimus opoA oyau5%at codicum auctoritate moti, nou
quod præsens tempus magis nobis placeat, quam aoristicum tempus, neque
magnopere curamus præsentis atque imperfecti usum in sequentibus,
nam et imperfecti et floristi infinitivus in huiasmodi
enuntiatis frequentissimus est. Neque admodum probamus illud conces-
# sum esse, quod haud scio, an cuiquam satis probaturus sit
Riickertus, Alia de caussa in textu posuisse opoAoyatdSai libnit,
videlicet quia proxime ad PJatoaia manum accedere videtur, atque
viam aperit genuinam lectionem restituendi* Etenim scripsisse Platonem
arbitramur opoXoyatv nat tovto, quæ scriptura quam fa- tovto. "En
rolvvv, slnslv xov ZaxQ&xrj, dxoxgivca oUym itltiu, Zvu fiaXXov
xaxa/ice&ijg d |SovAof«a. si yuQ ipotftijv, Ti 6i; ddsbtpbg avxb
tovto oxsg %6nv, ioxi xivog a$iX<pog, ij ov; Oavai slvai. Ovxovv
aStlyov ij ddsAtpijg; ' OfioXoysiv. JTugdi Si/, cpdvai, xal xbv”Egaxct slnslv.
o "Egtog tgag ioxlv ovbsvog SOO ij xivog ; Tldw [isv o vv
’i<Sxiv. Tovxo /ihv xolwv, slnslv xbv Zu xguxrj, rpvka^ov nagd tiavztp
fisg.v>]fitvog cile potuerit xai, ut fit, incuria
scribarum dupliciter posito in opoXoyeTtiSai mutari, e
verbo maiusculis litteris perscripto patebit, Scriptum nimirum olim
exstabat: OMOAOrEINKAI KAITOTTOy ex quo factum est OMOA OrElCQAlKAI
TO TTO, ei yap ipoiprjv, ti 8e; d8e\<po $ avtu tovto oitep
iZdtiv* Optativo modo coninucto cum ei particula iubetur boc loco Agatho
sibi cogitare ea, quæ revera fiunt, tanquam si fieri possint. Utuntur
autem hoc dicendi genere ii, qui interrogare aliquem aliquid cupiunt,
neque tamen interrogationem cautione adhibita nulla proferre audent. Nostrates
dicere solent: Denke dir einmal, ich fruge, quibus verbis
interrogationem ipsam annectunt. Hinc vides, ipsa interrogatione
posita facil4 lime abesse posse supplementum, quo in huiusmodi dicendi
genere opus esse interpretes passim annotare solent: ti av tpaitjS
; Ipsi autem interrogationi, h. e, non suspensæ ex aliis verbis,
apprime convenit interrogandi signnm post ti de; Riickertus edidit ti dk
adeXtpoS duabus de caussis, quas nullius momenti eise existimo:
quod, postquam de matre dictum sit ovxovv ?/ pi\trjp cjSavtGoS;' ad ea
commodius adiungi videatur interrogatio ti de a8e\(p6s ; quid porro
frater, quam ti de; d8e\g>oS, . . quid autem ? frater ., « qua
novi quid, non tertium exemplum proferri videatur, deinde, quod ea
distinctio esse videatur librorum omnium. Alterum nobis argumentum, quo
probemus ti 86; scripturam, hoc est, quod adeA(poS arcte cum
insequentibus verbis coniungendumest; nam adeA<po$ avto tovto oTtep £($tiv
nobis est: Das Wort a8t\(pu$ in seiner absolutesten Bedeutung. Hinc
ne comma quidem post adeXfpoS posuimus, quod in iis editionibus
comparere videmus, in quibus posito interrogandi signo, ti de; a
sequentibus verbis disiunctnm est. Restat, at de
8ad vocula dicamus, quæ h. 1. et apud Bekkerum et apud Stallbaumium
in di particulæ locum substituta est. Aai non ponitur, nisi ubi
maior animi commotio indicanda est, ut admiratio, indignatio, ira ; vide
annotat 191* Merito igitur mireris, duumviros criticos eandem retinuisse
in tam quieto disputandi genere, quale hoc loco est manifestissimum, CODEX
BODLEIANVS exhibet aliique libri non otov ' roOovSe Se elice, itoregov 6 v Eg
uq ixelvov, ov $Onv 1’otog, exirtvfiel avrov, rj ov; Tlavv yt, (pavæ.
Tlvtegov iyav avro, ov iiudv/tei re xal iga, elrcc bu&vfiEL re xal
iga, rj ovx lycov; Ovx iyav, costo elx og ye, tpavai. Uxoitet S>), ebttlv
tov Zaxgar>] t avrl tov elxvrog, el dvayxq ovrag, ro liri&vfiovv
ha&v(iecv ov ivSeeg lOnv, rj perj eici^vuilv, iav iu ) iv~ deis r].
ifiol fiiv yag &av/ia0 rug dumi, co Idya&av, B pauci ; non
dubitavimus igitur iu ordinem rerborum id recipere* Idem Riickertus
fecit. c pvXagov itotpd davrc 5 fi£ pvrjpiv oS otov. Ilæc
verba hodierni editores plane non distinguunt interpunctione,
iunguntqne Astius certe et Schlei-ermacherns sic : <pv\a5,ov itapd
0avT(fi nefivrjfiivoS tovto otov *c. itiriv. Sed in hac interpretatione
displicet nimis magno intervallo a tovto pronomine, quocum cohæret,
divulsum otov eo magis, quod, si a /iSfivTjfiero$ seiungendum est, sic
nude ac sine ulla vicina voce, quacum coniungatur, vix ullus
bonus scriptor collocaverit* Addidisset Plato, si ita verba
accepisset, idriv. Accedit, quod tovto h. 1. vix ad sequens
aliquid, immo ad præcedentem concessionem, Amorem alicuius umorem
esse, referendum est. Quibus de caussis veterem distinctionem verborum,
qua ante /.leyvipUvof comma ponebatur, revocavi. Est igitur sensus : hoc igitnr
apud animum serva ( sc. alicuius esse,) atque cuius sit, memento. Hanc Riickerti
ad h. 1. annotationem integram perscripsi, ut mclins possent, qui hoc
libello ntuntur, de ca iudicaro. Mihi non persuasit V. D.
Optime Platonis verba convertit summus Schleiermacherus :
Dieses nun, habe Socrates gesagt, lialte nocli bei dir fest
in Gedauken, wovou sie (er) Liebe ist. iit l$V fXEl OtVTOV.
Dc pronomine repetito vide annotat* 198* oJs ro' elxoS
y £ * Agatho finem Socraticæ institutionis atque stragem futnram rerum
suarum odoratus, nt haberet, quo posset rebus perditis salvus elu-»
bi, quæ non poterant non concedi, e verisimilitudine dnntaxat concedenda
censuit* Hinc ojS ro sixoS ys satis astute addit. Sequentibus
docemur, quam male ei hæc res cesserit. Nam aVrl tov eIhotoS,
Socrates inquit, videamus, eI avdyxrj ovtcjS x. r. A. Ceterum verba
dvx\ T ov sixoToS brevius quidem dicta sunt, neque tamen
obscurius. Sensus est: 2xoJt£i Si) av tI tov A iyeiv d>5
ro elxof ys, eI avdyxij ovtco S*. Convertenda verba sunt accentu orationis
in dxoitet verbo posito: Untersuche nun lieber, anstatt dass du sagst,
«wie es den An•chein hat,® ob nothwendiger \Vei&c es sich so
verhiilt* S av/Ltadrdjs 6oxei, cJ 'AyaZtov, wS dvdyxrj
tl* «6g dvdyxt] tlvca. <Jol dt noog; Kdftol, cpavai, doxel. Kcd
ag Xiysig. ciq’ ovv (iovXoit’ av tig fieyag av fityccg tlvca, ij
1<>%vq6s av la%VQog ; 'ASvvmov Ix ruv afioXoytjfiivcav. Ov yuQ xov
ivdtijg av th) xovtav o yt av. 'Alrj&tj Xiyug. EI yaQ xal
lG%VQog av PovXolto IcJyvQo g tlvca, cpavai t ov ZkoxQuzij, xal xa%vg av
za%vg, xal vyirjg av vyujs, S yaQ 3v zig tavza oItj&uij xal nuvxa tu
xocavta v Oii, Non sine ironia quadem, et quo gravius se
opponeret Agathoni in re apertissima gqS to eIxoS ys dicenti^ Socrates verbis
utitor SavpaQtGoS Soxei, goS avdyxtj x. X. A. Ceterum Stallbaumius
ad h. I, Ne quis, inquit, miretur, tanto intervallo ab juaoTcoS remotam,
alia huius ge* neris exempla notavimus Piat. Phned, 95. A. Bastius
Spec. Crit. 139. $av/iadT<oSi ooS verborum seiunctione a$eo
offensus est, ut de loci veritate dubitaret. Diximus de coS cum
aliquo adverbio coniuncti structura apnotat, 12., cuius structuræ originem qui
reputaverit apud se, is mirabitur magis adverbii cum ai? artissimam
conjunctionem, quæ epud Platonem veteresque scriptores Græcos sæpissime
reperitur. Unum exemplum ut laudem coS ab adverbio suo disiuncti, legitur
in Piat. Theæt. p, 157. D. Savpad Tt£( (paiyexai cos fynr Xdyov
. ix r&r oa poXoyrj /livar. Respicit Agatho ad verba ro
iiti Svpovv iitiSvpelv, 'ov IvdsiS idriVy ij fi?) iittSvyeiv, iav
p?) ivdelf y. Patet igitur, præsenti tempori dpoXoyovpivoov hio non
locum esse, quod vulgo edebatur.
eI yap xal idxvpos < 3 * fi ov \oit o . Socrates ad eum
iinem tendit, ut Erotem omni ornatu privet, quo eum, qui ante se
locuti essent, donaverint. Et cum iu superioribus esset judicatum, Amorem
alicuius rei appetitum esse, cardinem rei nunc in eo versari vides, ut,
neminem id appetere posse, quod possideat, atque vice versa non
possidere, si quis, appetat, quod appetat, probetur. In qua re ne
sophistico quodam artificio circumveniretur, Agathoque ad indoctiorum hominum
sermonem confugeret, qui cum alia male, tum etiam hoc sibi indulgeant, ut
dicant iycj vyiaLvoav fiovXopai xal vyiaivEiv, ipsum hoc dicendi
genus Socrates nunc adit, atque quid sibi velit, exponit. Singula
verba quod attinet, anuotftt Riickertus ad h, 1. rectissime: Protasin ponit
auctor, cui deinde parenthesin subiungit, qua rationem reddat eorum, quæ
in protasi dicta sunt, atque cur liceat ea ponere, ostendat.
In qua quum plura fuissent dicenda, ita ut etiam periodi complures
existerent, non potuit simpliciter reddere protasi apodosin, sed novam
instituit: aAA* Ztav tiS Xiyy } quam deinde sequitur apodosis, qua quid
tali ho- zovs ovras ta tolovtovs xai iyovxag ravta rovrov, C ancg $x
ov(Sl > tTCL&v^iuv. iv’ ovv (irj e^axart]d‘d (uv, rovrov tvtxa
Xtya. rovtovq yccQ, w 'Ayaftav, d Ivvodg, £%Uv fiiv exaOrov rovrmv Iv rai
naqovri, avctyxrj, a %ovtftv, lav re fiovXavtai tav re p 17, xai
rovrov ye 6 rj tcov rts av haftvfirjætsv ; aXX’ orav ng Xiyy, ori ’Eya
vyiuLvcov fiovXouat xai vyialvuv, xai aXov tav fio vXofiai xai xXo
vreiv, mini respondendam sit, demonstratur. Est autem inter
utramque protasin hoc discrimen, ut» in priore ponatnr aliquis hoc dicere
simpliciter atque sic, ut plane non quæratur, fiatue id rerera aut
fieri possit, necne, in posteriore autem, postquam demonstratum est,
fieri posse, res pro certa' et vere eveniente perhibeatur.
rovrovS yap, 0 0 'Aya$gjv, ei kvvoeiS. Hæc est vulgata lectio, quam
præter Riickertum omnes editores improbarunt. Pauci sed ii optimæ
notæ codices rovtoiS exhibent» Utrumque ferri potest atque commodissime
explicap, sed magis placet accnsativus casus, ei ivYOErS Ruckertus cum
nostratium formula comparat: verstehst du wohl? quæ formula cum Græca nihil
commune habet, quam verbi finiti usum absolutum, ei iv- YoeiS potius est:
si sapis, wenn du verstandig sein willst. .xa\ rovrov y e dij
itov r is av litiSv p.rj6eiev . Sic in omnibus editionibus
legitnr, neque quicquam verbis inest, quo offendaris. Sed quæritur,
an non facillima accentus mutatione scribendum sit: »al rovrov ye 6
r} nov us av ixi&vjLt?j(Seiev, quo xai eni9v[ia avriav
rovrov, Scriptura orationis accentus in ijttSvpijtieiev ponitur,
significantiusque indicatur, ne cogitari quidem posse, ut aliquis,
quod possideat, id possidere cupiat. Ceterum Stallbaumius annotat
ad hunc locum : Refertur rovrov ad prægressum exadrov rovrajv,
a ix.ov6tVy ita ut iu universam intclligendum sit o Rectius,
opinor, Mxetv suppletur, quo facto luculentior fit insania eorum, qui et
habent atque illud ipsum habere concupiscunt» iytA vyiaiveiv
(iov\opai jcal vyiaiveiv. Vulgo Tccci deest ante vyiaiveiv et ante
irXovreiv. Idem Ficinus in conversione non agnoscit: At ego, sanus
dum sum, volo equidem sanus esse, et dives dum sum, esse dives. In
ordinem verborum voculam recepit Stallbaumius Bodleiani codicis
aliorumque non paucorum librorum auctoritate motus. Frustra Riickertus ad
h, 1. : Profecto dubitare, inquit, aliquis possit, an Platonis manus xai
particulam addiderit. Kat enim ut aliquem sensum hoc loco habeat,
addendi vim habere Oportet. Iam quod additur, non potest esse
to vyiaiveiv et ro likovreiv, quis enim ferat dictum; Ego qui
sa- a i%a, £xoijisv av avta, ori Zv> to avdpmxe, n).ovD tov xtxTTjtuvos
'Ma vytuuv xcd l(S%vv (iovXu xal ilg rov ibici ra %qovov rubra
xexrij<f&cu ' insl Iv roJ ys VVV XttQOVTl, tltl (iouXu £LTB
flT], fjJStg. (SXOXEl OVV, OTUV tovto Xiytjg, ori Esn&v^ito
rixiv naQovrcov, ei ccXXo n Xiyus V toSe, ori BovXofiai ra vvv xaQovru
y.cd tig tov Zituzu xqovov TtccQtZvai. aXXo n ofioXoyoi av; X vptpavai
¥qnj rbv Aya&ava. Ebttlv 6tj tov 2koxQutt], nos sum, copio
etiam sanus esse? Immo hoc licet: Ego qui «ura sanus, etiam cupio
ut sim. Quod igitur additur, To (iovAt6$ai est. Iam quæritur,
liceatne sic post illam vocem, cui additur, xai particulam
collocare, Addita xai particula optime habet hoc loco, quo id agitur, ut
error eorum clarius appareat, qui huiusmodi dictione utantur.
aWo ri o/ioAoyol av; o ti cum vi hoc loco ponitur, cum in præcedentibus
iam eo usus sit scriptor Cxotcei ovv ei «AAo ti XfyetS rj
tovto. Non raro autem Græci r/ cum suis verbis omiserunt in
interrogationibus brevitatis studiosi atque nolentes, quæ facile ab
auditore suppleri possent, eadem disertis verbis commemorare. Sic
nostro loco expletior oratio uudiret: «rAAo ti ?} tovto d/*oA oyoi av ;
Factum deinde est usu loquendi, ut etiam in eiusmodi interrogationibus
aAAo ti ponerent Græci, in quibus nihil cogitari potest, quod cum
?] supplendo suppleretur* *w4AAo ti igitur, recte annotante Matthiæo
Gramm. ampl. 487. 9. 914, interrogativæ
particulæ vices obtinuit, ut cum vi ex* pvimeretur, rem nou aliter
se habere, atque in interrogatione expressa sit. cfr. Piat.
Hipparch. 226. E* <rAAo ti ovv oiyi <piXoxep8iiS <pi\ov6i
to xipdoS; Piat. Charmid. p, 167. B. aAAo ti ovv s tavta Tavra av
elrj fiia TiS iitldTlj/irf ; Vide præterea Hensdium Specim. Crit. in
Piat. 59«, Stallbaumium ad Euthyphr, 104, Paullo infra 200. E. aAAo ti S&etv 6 "Epcof
Itp&TQV p\v TlVCJVf httlTCL TOV tgdv, G)v av iv8nct rtapij avtw
; ovxovv tovto y * &6x\v ixeivov ipav. Vulgo post
ovxovv 6 1 / particula additur, quæ cum iu plerisque codicibus non
reperiatur, e textu semota est a EeLkero, Astio, Stallbaumio.
Btickertus, ne parum verecundus videretur librorum auctoritatis,
uncis 8 7f includendum curavit, quod nisi codicum auctoritas obstaret, in
ordinem verborum recepturus fuisset, u o viteo itoijiov
avTtjj i6tiv ov8h Sanissi mam horum verborum distinctionem deleto
post Zxett posito poat &6tiv commate Kiickertus corrupit. Negat autem
V. D., to iis tov hteita xpovov tu vvv Ttapovra esse posse
tovto pronominis defiuitionem accuratiorem, quod ipav ixeivov
non Ovxovv tovto y’ l6rlv ixelvov Igdv, o ovito eroipov avrei Itiriv
ovde S%u y ro elg rov Situra %gbvov ravra tlvai cwtc 5 Oco^opsva r a vvv
itagovra; Tlaw ye, cpa- E vai .Kal ovrog aga xal aklog itdg 6
hu&v[uov rov pr] iroipov liudvfjLSL xal rov [irj itagovrog, xcd o
/u?) Syei xal o [it] Sdriv avzog xal ov tvderjg i<5n y roiavz
arra iti tlv cov 7] hnftvpta rs xal 6 Sgcog Itiri. Tlaw y, elituv. *Iftt
di]\ tpavat rov 2koxgazr] y dvopoAoyrjtiarespondeat, tat elvai, sed r»
fiov \s 6$ a i elvai ravra avrc o 6co%6fUva. Fugit autem Riickertum e verbis præcedentibus
fiovXopai ra vvv itapovra xal cis rov Mneita xpovov xapcivai nostri
loci verba petita esse ita, ut, quoniam proxime præcedat fiovXopat
verbum, id ipsum e præcedentibus facillime supplendum omitteretur.
Conversio verborum hæc est: Also bedeutet dies eben, namlich ( vide
annot. 59.) (dass auch fiir die Zukunft der gegenwartige Besitz
crhaltcn werde, das bcgehren, vas cincm nicht zu Gebote steht und
er nicht liat. Ceterum ut apud nostrates, ita apud Græcos pronomen
relativum et subiectum est et oblectum enuntiatiouis, cuius rei
inde petitur excusatio, quod sive accusativum sive nominativum posueris,
forma pronominis eadem manet. xal ovtoS dpa xal aAX.oS it a S o* i
7Ci$ v /x at v rov p t} kzoipov IkiSv pcl x. T. A. Ne loquacitatis
Socratem nccoses, qui commemoratis rov pr) kzoipov verbis
insequentes definitiones reticere debuisset: hoc agit vir
providentissimus, ut ancoras penitus præcideret, quibus peritura
Agathonis navis teneri atque servari possit., Sy, (parat tor Sco*
xparrf. Utitur nunc Socrates ad refutandam Agathonis
sententiam hac argumentatione: Quæ cupimus, inquit, ea nondum possidemus.
Amorem autem cum dixeris pulcritudinis cupiditate teneri, necesse
est, eam ille non habeat. Alioquiu enim non cuperet. Quum autem pulcrum
atque bonum idem sit, caret Amor etiam bono. Stallb» av
opoXoyijdoops^a ra clprj pev a h. e. repetamus, quæ hucusque dicta
sunt ita, ut eodem modo, atque hoc factum est paullo supra, de iis
inter nos conveniat. Haud raro Græci scriptores brevitatis studio
verba ita commutant, ut pro verbo linito cum aliquo adverbio vel
adiectivo coniungendo verbum ponant eiusdem atque adverbium
radicis. Sic paullo infra 202. A. legitur prj roivvv avdytca^e, o
pi) xaXov idtiv, alCxpdv £tvai x. r. A., ad quem locum vide
annotat. dXXo n l6nv 6 *EpfoS. De trAAo ri significata atque
de jj particula omissa vide annotat, 238. iit e ira rovratr*
His verbis accuratior continetur definifu &a ru dQtjjikia. iikko n ItStiv 6
'Epos xqotov (ihv SOI TLvdv, Ibuira tovtuv, av av SvStia rtaQy avta; Neu,
tpavui. ’Enl Si] tovtoig dvafivrjG&Tjri, Tivav tcpyO&a iv tiS
koya tlvcu rbv ’ 'Egma . d Se fiovkti, iyd Ge avuiivijGa. oinai yaQ
<Se ovrwaL itag dntZv, ou roig &eolg xatsGxBvuG&r] ra
XQuyfiata Si "EQana xakdv’ mlo%Qav yotQ ovx Biy 'Epcog • ov% ovtaxsi
mog Hkeytsf Ehtov yuQ, cpavai rov 'AyaQavcu Kut limixdg ys kiysig, d izaiQB, qtuvai
tbv ZaxQazr]. xal tl tovto ovxag cikko w 6 "Eq os xalkovg av
tiij tio eornm, qnorom Amor amor i, desiderium est. Sensos est :
Erstlich ist Eros Liebe eu etwas (vide 200. A.) uud das ist zweitens das, vroran
es ihm gebricht. Ceteram ne mireris, cum ia superioribus Socrates
simplici verbo semper usos esset idtiv in eiusdem sententiæ efformatjone,
cur nunc compositum 7tapy exhibeat: itapeivai hoc loco non
attributum describit, sed aliquam Erotis conditionem internam, sine
qua ille ne cogitari quidem possit: ein Mangel, der ei ne fiedingung ist seines
Wesens, ei dfc povXei* Duplici modo consilii mutatio apud
Platonem indicatur, aut enim pix AAok di ponitur, de quo supra diximus annotat,
p* 15., aut ei Sl fiovXei. Multum interest autem, utrum hac an illa
dicendi forma utaris» MixXXov 6i poni solet, abi res e loquentis
iudicio apta est, qui vel ipse se corrigit, vel alium, nt se
corrigat aut aliquid mutet, adhortatur. El dfc fiovAu autem non nisi ita
usurpatum reperies, nt loquens suum iudicium ab re prorsus
secludat, omnem alius voluntati liberrimæ subiiciat» Sic
nostro loco Socrates, quicquid Agathoni placuerit» id se facturum
profitetur. Contra 173* r\6av roivvv rota de* paXXov di apxtjS vfiiv itEipa.6op.ai
StTfyTjdad^at. Apollodorus mutato consilic rectius se acturum censet, si
ab initio rem narrare studeat. aidxp^y y&P ovx elrj
v EpajS, Dixerat Agatho p, 197B. oSev 6t) xal xaredxevddSrf tgov $egjv x
a 7tpdyjiata ”EpGQ~ roS lyyevofikvov 6rjA.ov ori xaAXovS. aldXEt
yap ovx htedriv "EpcoS. Hæc Socrates cum minus accurate repeteret,
verba addidit ovteodi TtcoS, Ceterum scriptum exspectaveris:
aldxp&v yap ovx eivai "Epcora* Optativo posito scriptor aliquid
indicare voluisse videtur, quod ad^ missa accusativi cum infinitivo
coni aucti struetnxa prorsus periret atque evanesceret. Hac nimirum
structura verborum nihil indicat scriptor, quam sententiam eins, qui priori
tempore locutus sit, nunc referri* Optativo contra, qui præcedenti
accusativo cum iufinitivo conjuncto annectitur, etiam verba il- ?gag, ai(S%ovg
d’ ov; 'Slf/Myti. Ovxovv ofioluyijTca,
ov tvdcijs t<5u xal Ifca, rovtov Iguv; Nal, ihtilv. 1 'EvSsrjg &Q* xal ovx %%u 6
'Egcog B xaXXog. ’Avdyxr}, epuvui. Ti 8 b; to tvStlg xdXkov e xal
(iijCufiy xsxTtjfdvov xaXXog aget XiyEig 6v xaXov tlvai ;Ov Sijra. "Eu
ovv onoXoyd g "Egatcc xaXov Eivca, d reditu ovrag Kal rbv ’Aya&ava dittZv, KevSvvevco, to
ZXbxQareg, ovdhv sidi T t r ~T7~ \ s . . T f T vai ov tore
euzov. n.ca prjy ’Ayuftov. alXa tiptxQov lius referri
significat, ant si hæc non repetantur revera, tanquam talia, qualibus
ille usus esset, referri. Ubi autem ipsa verba laudantur, aut
tanquam ipsa, consentaneum esse videtnr eum, qui ita loquatur,
illis verbis malus, quam aliis, pondus tribuere* Jam si reputamus,
Socratem id agere, ut ostendatur, Erotem polcro bonoque prorsus carere,
eam potissimum Agathonis sententiam ab eo tangi consentaneum
est, qnæ huic consilio maxime officeret: aldxp &Y Y<*P ovx
^7t£6riv M EpcoS. Verba convertenda sunt: Denn ich meine, dass du
ohngefahr folgender JMaassen sprachst : dass die Angelegenheiten der
Gotter dnrch den Eros znm Schonen vollkomxnen in Ordnung gebracht worden
waren, denn des Ilasslichen wiire kein Eros. Eadem prorsus verborum
structura apud Xenophontem repentur Hell. III. 2, 23. dxoxpivafjiivcov 6e tc3 v
* HMdajy, ori ov 7tovj<Seiar xotvra • iittXrjtS aS y a. p i
xoi&v r a S tiqXeiS* <ppovpav iqnjvav ol upopoi. Dixerunt autem,
ut videtur, Elidenses: imXrjidaS yap Uxopev yt umg, <puvcu,
o thd • rayccfta ov udi C x aS 7Co\eiS. Adde Hell. VT*.
5. 36. o 6e itXndroS ijv XoyoT, cJ? xara xovS upxovS fiorjSriv
dioi. ov ydp ddixj/tidvTGyv 6(pd>y ijttdparevotey ol 'Apxadss
xal ol ptr * avrcjy xoiS AaxeSaipoyiotS • Præter hos Jocos alios
nonnullos Riickertns laudavit anmotat. ad h. 1., quam vide. ov
ivSeijs idri xal pi) Non opus est, ut accusativum pronominis relativi
repetas e prægresso ov genitivo; verba enim xal p?j ixei posita
sunt usu Græcorum liaud infrequenti pro wSre p?j Ixziv; p?} IjttV autem
absolute positum est, atque nihil nisi meram verbi ZxttY notionem
negat xal prjy xaXco $ ye el7teS. Annotat Riickertus ad b. ]*: Et
tamen pulcre quidem dixisti. Laudaverant omnes convivæ Agathouem, ut qui
pulcre et præclare dixisset, nec minorem, ut videtur, ipse de se habuerat
opinionem. Quare quum postremo eo sit deductus, ut nihil se scire
confiteatur eorum, quæ tum dixerit, hæc subiicit Socrates; quibus
quanta sit- ironia, qua et ipsius Ag?thooi« fa16 f y.uMi
Soy.EL aoi ilvai; 'E/ioiyt. EI ccqci 6 "Eq ® g rcSv xaJhov IvdsrjS
^OTl, tu di ayn&cc xaXu, xav tuv riyuftuv ivdltjS sttj. Eyd, (pctvca,
oJ EdxQOlig, 6oi ova av Svvcdfirjv uvrdiynv, ais.’ ovtwg ^trra, dg
Gv tiyug. Ov fiiv ovv ty dhftilu, qjavai, d tpUov/iEvs ’Ayaft av,
dvvaGat. civuliyHV Inii Ecoxqutu yc oudiv %ttkiit6v. stus et
amlitornm vani opplansos perstringantur, etsi nemo non debet sentire,
tamen locum plane non intellectum video a Schleiermacliero, qui
verterit : Gur recht m a g s t du daran wohlhaben. Tmrao vertendam
: Und da hast ia doch tchoo gesprochen. Socrates acerrimus haud
raro eorum cavillator, qui fasta maguiloquentiaque vanitatem suam
obtegere studebant, mitem iis statim sesc ostendere solebat, qui
errores suos confiterentur. Quod cum præter exspectationem subito fecisset
Agatho, homo alioqnin pollens ingenio, xai fxt}v xa\wS ye elzeS verba
Socrates ita exhibuisse consentaneam est, ut id remissa omni ironia
atque cavillatione fecerit» Rectissime igitur Scbleiermacherus verba
cepit, ad quem Riickertus recurret, quando desierit nat fitjv et tamen
interpretari. Vide annotat, 6» rdya$d ov xat x aXd x. r. A. Habes
syllogismum per inversionem, quo qui utantur, id agunt, ut alterum
membrum enuntiationis, quod priori loco positum atque in
conclusione repetitum est, præ ceteris verbis extollatur vique augeatur.
Ilem quod attinet, concessa pulcri bonique æqualitate Agatho gravissimam
stragem suæ orationi ipse intulit, eiTecitqne, ut ne bonus
quidem Eros esse diceretur. Xam mireris vel inertiam Agathouis, qui
noluerit, quod argumentis non confirmatum sit, id itnpuguare, vel
Socratis negligentiam, qua non argumentis probarit, quod ab Agathone
impugnari posset facillime: bonum idem esse atque pulcrum» Sed
monendum est, Græcos boni pulcrique notionem ita animo conceptam
habuisse, ut alteram ab altero seiuuetum non cogitarent. Quod pulcrum,
iisdem et bonum fuit, neque bonum iudicatum est ab iis, quod nou et
pulcritudine gauderet; Ilinc Socrati uon metuendum erat, ne forte Agatho
negaret, bonum idem esse atque puierum, adeoque argumentis sententiam
confirmare supersedere poterat, ut si addidisset, nimia sedulitate
id factum auditores existimaturi fuissent. i y co do i ovy<
dv 8 v • vaiyLi}v dvxiXkyziv, Utrumque et non pulcrum et non bonum
Erotem esse, Agatho concessit sed diverso modo. Non pulcrum, sincere et
candide, non bonum, adhibitis sophistarum artificiis, ut non rem ita esse
concederet, sed suam disputandi imbecillitatem confiteretur. Igitur
accentus orationis in vocalis €yoo et doi ponendus est, quns *cri~
I Kal fl£ n&v ye tfdrj hx<Sa> • tov 6s Xbyov rov xtfA
D tov "Eqcjtos, ov jcot’ jjxovect yvvcaxbg Mavttvtxrjg zhotlfiag, ?}
tccvtu te <Socpr) i] v y.al aU.a aro Xla, v.al ’J%qvaloig note
dvaafUvotg arpo rov Xoifiov Stxa foj ptor, quo validius præ
ceteris verbis eminerent, ipso enuotiati initio collocavit» Sensus
est: Mea imbecillitate, non falsitate sententiæ meæ factum est,
ut ego a te, homine peritissimo disputandi vincerer. Verborum
conversio hæc est: Ego, (homo imbecillis), tibi, (peritissimo disputandi)
(etiamsi vellero,) contradicere non possem, sed (vincerer, st
contradicerem, igitur) res se habeat, ut tute dicis. Ad verba ovx ar
bwaipjjV supplendam est, ut in conversione indicavimus, ei xal
fiovXoifitjri soletque haud raro in enuntiatis conditionalibus
alterum enuntiati membrum omitti; exemplum huius omissionis si quæris,
vide annotat, p, 201. Pro aXXa particula aliam exspectaveris, quæ
non oppositioni, sed conclusioni indicandæ inserviat. Ni fallor,
brevitate quadam dicendi Agatho usus edt, quam commotiori eius animo
apprime convenire arbitror. In loci conversione indicavimus, quomodo verba
expleri possint atque a\Xa præpositionis usus excusari. ov ovv tp aXtj$
eip h. e., Stallbaumius inquit, imo vero cobtra veritatem non
potes disputare: nam con tra Socratem tibi facile est. Ov f.ibr ovv voculis Socrates ita
utitur, ut indicet, recte quidem Agathonem negasse, sed non in re
negationem adhibuisse, quæ revera necanda esset. Exprimunt igitur ov fikv ovv voculæ lenem correctionem h. e.
rectiorem
interpretationem prægressæ sententiæ, quæ aliquid veri contineat, sed cum
veritate non prorsus conveniat. Das heisst also, lieberAgatho, du
Jcannst der Wahrheit nichtentgegen sprechen, deun dera Socrates ist es
keine Schwierigkeit* xai p£vyei/8y£d~ ($<o. Respicit
Socrates ad 199. B. Uri xoivvv n apeS fioi ’Aya$&iva dpi?cp *
artet £p£~ 6$ai X. r. A. > ut verba nostra significent: Ac te
quidem, quem pauca quædam interroga rp me velle supra
indicavi, nunc mittam.,o rror* rjxovdaywaixo S MctvtivixijS. Vulgo pavttxr/S
legitur; illud pauci sed optimæ nolæ codices commendant. Vulgatæ scripturæ
originem solertissime indagatus est Stallbaumius: Vocatur, inquit,
Diotima Mavtixi } ut infra 211. D., quum proprie deberet Mavtivif
* 16 avu(ioXr)V Inolrfii rrjg votiov, rj drj xcd Ifie r a tgat
<x« Ididafcev, ov ovv Ixtivtj PXtye Xoyov, nugaOoaude factum est opinor, ut
grammatici scriberent / lavxixijS. At enim solent nomina possessiva
liaud raro occupare locum nominum gentilium, de quo loquendi genere vide
Davis* ad Max. Tyr. \ p, 588* et Fischerum ad Welleri Gramm. Non recte
autem addit V. D. : Neque eatis ad rem accommodatum est, quod vu/go lege
batur, f.tctvziH7}. Quæ enim Viotirna de amore disputasse narratur, ea non
vaticinandi arti debuit y sed ingenii sui præstantiæ ac virtutis. Eodem
enim iure cogitare possis pavxiKt) positum eæe, quo scriptum
legitur paulio infra dvaftoXrjv inolyde tijS vodov, neque
necessariam est, ut, cum dicatur orationis auctor fuisse mulier fatidica,
vaticinandi arte orationem compositam censeas. Porro mulieri eique
peregrinæ datam esse orationem hanc, ut convivæ rideantur, qui, quum divinioris
amoris vim et naturam plane non caperent, tamen in dei laudibus
celebrandis mirifice cxsultareut, Stallbaumio non credimus. Quem
enim pudeat a femina meliora doceri, cuius sapientia præclaro facinore, h. e.
dvaftoXy TtjS vodov probata sit, et quam ipsius Socratis,
sapieutissimi hominis, magistram fuisse, huius loci verba testantur. Num
Periclem autipsum Socratem puduit Aspasiæ Milesiæ præceptis edoceri
? Addit Stallbaumius: Cur Diotimæ potissimum has parte* Plato tribuerit,
neque Aspasiæ aut alii chidam nobili feminæ illius ætatis, id quidem
exquiri nullo modo potest propterea, qnod a scriptoribus æqualibus
aut snpparis ætatis de ea nihil memoriæ traditum est. Quæ autem seriores scriptores de eadem narrant, ea maximam partem ex
hoc ipso loco hausta, aut temere conficta-esse, exploratum habemos.
Quæ quum ita sint, hoc uuum tenendum putamus, quod, ex hac oratione
discimus, fuisse eam mulierem prudentia et vaticinandi arte
nobilem, quæ quum diutias Athenis esset aliquando commorata, magnam nacta
esset sapientiæ famam. Diximus de Diotima Mantineensi in Comment. de
Symp. Platonis, ubi, curStallbaumii iudicio non adstipulemur, indicatum
reperies. xal 'AStjv aioiS 7torh $vdap£voiS repo rov X.o tr
pL o v . Pestis
Atticam terram invasit Peloponnesiaci belli anno secundo h. e. a» 450.
Impetum in eandem fecisse etiam a, 440» ex hoc loco colligi possit;
cfr» Thucydidis L» II. c. 47* p* 214. ed. Haæk. xod ovtoov avtcjv
(sc. tcov Aaxedcujuovlcor) ov noXXds 7 Cgj rjpepaS iv xy *Axxttc\}
ij vodoS Ttpcoxov ypBfCtxo yevkd^at toiS *A$rjvaioi$ Xey o/t ev ov xa\
icpotE pov it oWaxo 6'E iyxotra.d x f/il* a i xal 7tspl Aijpvov nai
iv dXXoiS Pro $v dajiivoiS H. Stephanus scribendum coniecit Svdapevy,
videlicet ut esset, quo explicetur ratio et modus xrjS avaftoArjS.
Frustra, Suspicari licet, quo l wa vpXv dtfXfttlv l x tav dfioKoyrjfihov
Ifioi xctl 'Ayaftcovt, avtog l%* ificcvtov, oncog av dvvofiat.
d'ec modo retere* pestem abigi potaisse crediderint, mutare verba eo
minus licet, quo certius est, .Platonem ipsum xijs avafioArjS modum
indicare noluisse. ov ovv ixeivrj £\eyev . Redorditur
abruptum sermonis filnm ita, ut, quæ illustrationis caussa addidit,
ca nunc paucis comprehendat illata particula ovv. Nam omitti
poterant hæc: ov ovv ixeivjf £A eye Aoyov. Sta11b. avxoS ix *
ijiavx ov. Vulgo legitur avxoS an* ipavxov ; illud Bastii coniectura est,
quam præter Riickertum editores omnes iu textum receperunt.
Riickertus autem avxoS an* ipavxov ita explicat, ut nolle Socratem
contendat reliqua ex alio elicero per colloquium, sed quæ audierit, ex se
ipso proferre ano jAVTjfiTjS. Sed aligd est an* ipavxov, aliod avroS an*
ipavrov t atque illis verbis concedimus sensum, quemRuckertus ait, inesse
posse, verbis contra avxoS <x7t* ipavxov nihil aliud exprimitur, atque
mea sponte, AvtoS in* ipavxov legitur io Piat. Alcib. I. p 114. A.
el p\v fiovÆi, ipoox&v pe, Ssnep iyco 6 e, ei 61 xal avxoS ini
6avtov, \6ycj 8ie&e A£e, quo loco ex oppositis colligitur, avxoS
ini (jctvxov esse: disputatione remissa, continua oratione aliquid
proferre. Probatur hæc verborum significatio etiam Piat, Soph, 217.
C. itoxepov elcoSaS fjSiov avroS ini davxov paxpti A oytp dteSttvai Æyajv
topro, o av iv8ei%a6$al xcp ftovAjjSpS, rj 6t* ipcjx?f(jeaov,
x. r. A. Igitur hoc loco cum ceteris editoribus avxoS in* ipavxov
in ordinem verborum posuimus. Schleiermæberns verba convertit: vou
dem ausgehend, woriiber ich mit Agathon iiberein gekommen bin,
sonst aber ganz fiir mich allein, s o gut ich eben kanu. Sensas es* potias:
N&chdem ich mit Agathon iibereingekommen bin, werde ich
versnchen, Diotimas Rede in einer zusamrænhangeuden Darstellung euch
iviederzugeben. Verba autem ona>S av Svvcduai excusantis sunt
orationem minus elegantem atque incultiorem; quæ verba, quoniam Socratis
dictio bona est et recta, in eorum orationes convehuntur, qnæ nimia cura
elaboratæ sunt atque inutili ornatu condecoratæ. &snep dv
dirjyrjd co . cfr. 195. A. ovrco 6rj z6v"EpGoxa xal ijpds
dixaiov inaivedai npdoxov avxov, olds idxiv, innixa xaS doOeiS.
Eiepa xotavta iÆyov. n ExepoS vocis significatio primaria est:
alter: respicit igitur ad alterum, qui alteri vel similis est vel
dissimilis. Hinc iit, nt ixepoS diversum denotet, cuius
notionis exemplum est Sp mp. 186. B. Zxepov xe xal pcvopoiov i6xiv
. Nostro contra loco, ubi similitudinem inter alteram et alterum exstare
comparatio instituta docuit, ixepoS verbum fere idem siguificat.
Recte Stallbaumius verba con- 6>), m 'Ayct&av, agntg Gv
8iryyi)&», 8uX%t tv ainbv jB ngatov, xlg iGuv 6 "Egeo g xal nolo
g ng, Inura xa igycc ccvtov. Soxst ovv fioi gnGxov tivai ovrca ditXSftlv,
as xtox' kfie rj £,tw) avaxgivovGa Snju. GytSbv yag xi xal lya ngog
avrfjv triga toutvta D.tyov, olccntg vvv ngos (fit ’Ayd9av, as &>1
w *Egas ptyas &toS, ili) 8t zav xaXav. koyoig, olgntg
iya rovtov, vertit : itidem talia. cfV. Gorg. 482. A, vo/iige
toiwv xa l nap* ifiov xPV y0( * £xepa rotavta dxoveiv % Adde
Protag. 3^6. A. Interdum comparatione admissa nnlla exepoS novæ rei accessionem
denotat, at in Alcib, II. p, 138. C. tcepot rtpoS xoiS vnapxovdi
xaxijpd ro, h. e„ nova mala præsentibus addidit precando. Ibid. 149.
evprjdEiS de xal nap 9 t Opijp<p &c£pa itapanXijdioc xovxoiS
elpr/pfra, p£yaS SeoS, Sydenharaius dyctSoS $£of scribendum
esso censuit. Nisi fallor, minus est «pitheton, quo omnia
continentur,. quæ ab Agathone Eroti attribuuntur, quam 5eoV substantivum
urgendum, Quamquam enim in proximis de epithetorum veritate agitur, tamen
de iisdem iam disputatum est in superioribus, Nunc retractantur eadem, ut
facilius ad sententiam eam aditus pateat, qua deum esse Erotem
Diotima negat. Insequentia verba rectissime Stallbaumius interpretatus
est: KaXcjv, inquit, pendet ex "Epeo? t quod etiam hio positum
est, ut Ip6. D. Adde præterea 204. D. l<$n /ily ydp 6tj Toiovroi
nal ovtcoS yeyorwi q "Epca*, $dxt 8k xooy rjXtyyt di)
fit Tourotg rotg ag ovxt xaXog tii ) xatci xaXcSy. cfr.
annot. 209. Verba convertenda sunt: Dass Eros ein prosser
Gott, und dass er die Liebe des Schdnen sei. ovx ev deis .
Rii ckertus ad hæc verba h. e. inquit; bona verba, quæso. Dubito, nuru
recte. Bona verba apprime respondet nostratium : Nur gemacli, nicht
za liitzig, iisque verbis utuntur, qui iratos, minitautes, iuiuste
accusantes illudunt. Sic Davns in Andr. Ter. Act. I. Sc, II, v. 33.
cum herus dixisset; ubivis facilius passus sim, quam in hac re, me
deludier, Bona verba, quæso, respondit. Cui herus rursum; Inrides, inquit, nil
me fallis. EvqxtjpElv verbo respondet Latinorum favere linguis, utrumque autem
dicitur, ut sibi caveat aliquis, no mali ominis verba pronuntiet. Sic in
Piat, de rep. I. 329. C. f cum aliquis Sophoclem ætate provectiorem
iuterrogasset Ixt oloS X * el yvyaixl dvyyiyvedSat, respondisse ille
fertur; LvcpijpEt, qj avSpGD1 te. Adde Alcib, II. 143. C. *A\x. Evipiput
npoS JioS, gj 2o oxpocfEf,, JS, ot; xoi roV A iyovxa, gJ UXxifipadtf, goS
ovx dv iS&ots: dot xavxa TtEnpd.XSaij Exxprjpeiv det de
xeXeveiv, d\Kd pdXX ov noXv ei xts tei ' . ETMnOEION.
24 ? tov 1/J.ov koyov ovxs dyu^og. xul iyui, /7ws ktytig,
k'(fr]v, a z/tortfta ; cda%Qo g uga 6 ’Ega g loxl xcd xaxog; Kal i/, Ovx
tvtpTjyyOtis ; £<PV' V olet, <" xi av fijj xakbv y, avuyxatov
avxo uvul alaygov, Md- £oi h&ca ye. *// xal dv yy <Soq>ov
ctyaDig ; y ovx yO&yOai, on latt n yuxu.lv <Soq>tæ xul
aua&lag; Ti xovxo ; To 6 q9cc do|«£av
xal civiv tov I^hv loyov Sovvai ovx oi<J&’, irpy, on ovx e hititix
aGftui ivavxla Xiyoi' iitel (67) ov' toj doi Soxei (jtpoSpa
8 e iv 6 v elvai r 6 7t p a y fM)C f &ST 9 OUfifi f>7fTEOV
tlvai ovzcdS elxij x.x.X. 7 / xal av fxrj docpov df.ia3
Astios ij, qucd vulso legitur, servandom duxit, ut quod ad præcedens
tj ^ *• 1,0 tn fortasse censes, referendum sit. Frustra.
Illic male vulgo 7 £ exhibetur, uostro contra loco 7 plena
interrogatio est: Num etiam censeas . vide annot. Ceterum frustra huno locum
vitiosum censuerunt viri docti. Stephanus ori post 1 / inferciendum
censuit, Wolfium ossentientem habuit. Stallbaumio e superioribus zi
repetendum videtur. Nos deleto post do(pov commate pleniorem
orationem audire arbitramur: 7) xat av otoio ’/«/ docpov
apaSis ; vide quæ dicta sunt 10. Probari
autem vides, quæ illic de r/ et 7 / dillercntia disputavimus; num 7
/ 0 U 1 cum veritatis specie profertur, quam reddere latine possis fortasse. Ea
veritatis species, ut mutata particula remaneret, ad verbum post 7 supplendum
dv additum est. xal dv£v tov ix etv ^oyov Sovvai. Stallb. HCCf
deleto, quod ab inepto grammatico additura censet, sententiam
verborum ait haac esse: llccte indicare ita ut iudiciitui non
possis reddere rationem, nonne putas esse neque scientiam neque inscientiam?
Cum eo Sclileierm. consentit verba convertens: Weun mau richtig
vorstellt, ohue iedoch Ilechenschaft davon gelren zu lednnen.
Stallb. addit præterea si xal verum esset, reliqua haud dubie sic
se habereut : xai 0*'X £xeiv Xoyov Sovvai. Multo deterius Huchertus in
explicandis his verbis versatus est : AoB,a2,eiy u/jSa xal dvev tov
%x £iv yov Sovvai h. c. : vel ita, ut non possit, aucli ohne
Reclienschaft gebeu zu kounen. Qu« in sententia quum bene habeat
part. xai, nolim eam deleri, quæ Stallbaumii coniecturafuit. Num
fieri posse censes, ut recte opinetur aliquis ita, ut rationem reddere
possit? Non
credo equidem. Quid igitur sibi vult vel ita, ut non possit rationem
reddere? Aov,a apprime respondet Latinorum opinioni, 8o&a?,eiv
igitur opinari est. Diilert autem opinio a iudicioita x ut hoc cum
ratioue iudicii couiuuctum sit. Qui opinionem habet, nationem reddere uon
potest. $6uv ctioyov yctQ nguyiui nas «v eYij ; ovtt auccxHu'
t o yaQ tov ovxos x vy%uvov nas «v &1 ccfta&lu; taxe 6i 6y nov
xolovxov fj uq&i) 56|a, fiexa^v (pQovrjGtas y.cu duu^dlug.
’A?.7]&fj, xyv 6 ’ eya, Jitytig. B Mtj xoLvw dvdyxage, o fiij xaXov laxiv,
alaygov eheu, False et recte opinari aliquis potest, ut
iudicare eum crederes, si haberet sententiæ suao rationem. Fieri potest
autem interdum, ut aliquis, qui rationem reddere non possit, tamen
interrogatus rationem reddat forte fortuna repertam, non mente atque
iutelligentia quæsitam. Iam agnosce Platouis voluntatem, quæ
clarior fit suppleto ad roy infioitivo \6yov 6ovvai." Sensusest: D i
e ( zu f a 1 1 i g) ri chtigeMeinung and d i e ( z ufcillige) Angabe des
Grandes, ohne eigentlich einen Grund augebeu zu konnen, das weisst
du doch, sagte sie, dassman diese weder wahrhafte
Wissenschaft, nochganzliche hn wissenheit nenn en kaun. d\oyov ydp
^pctypct, h, e. Denuein Gegenstand, derwirklich ohne Hechenschaft
ist, (wenn gleich dieselbe aus Zufall einmal gegebeu wird), wie
kdnnte der Wissenschaft sein? Nam qui recte opinatur aliquid,
rationem interdum reddere postest, sed quæ aliis sufficiat, 1 non
sibi, ntpote quam mente atque jntelligentia non teneat. ro yap tov
ovroi xvy Xdvov, To ov SIGNIFICAT id, quod revera est} id quoniam
opponitur ei,, quod esse videatur tantummodo, revera noo sit, factum est,
ut ro ov absolutam veritatem denotet. Recte igitur Stallbaumius ad h. ].
ro ov idem esse monet, atqne ro' aXijSte, atque ne quis de ideis
dictam accipiat, caveri iubet. To tov bvroS r vyxctvov autem non
tam eum animi habitam describit, qui veri compos fiat, quam eius,
cui forte fortuua accidat, ut veri sit compos» £drt 61
8r} irov toiovtov, Convertit Schleiermacherus : Also ist offenhar»
Astius exhibet: Est igitur nimirum. Riickcrtus, qui de addendo post
ToiovTov o v participio cogitat : immo est, qu.um talis sit, vera opinio
inter scientiam et inscitiam. aJ£
particula neque conclusioni indicandæ inservit, neque est 6)j itov
immo. Nescio, cur noluerint interpretes verba convertere: Es ist
aber doch offeubar wohl cet., quæ verba ita dicta sunt, ut præcedenti
ovts - i<$Tiv, ovte $6riv cum vi
quadam opponantur. Ac ne forte, quod Riickerto acc disse video, t
i ante toiovtov additum desideres-, toiovtov nude positum accuratissime
alicuius rei notionem describit, ut prorsus tale aliqnid esse dicatur,
quale insequentibus verbis esse significatur» Ti addito pronomine
indefinito vis ilia minuitur, neque prorsas talo aliquid esse
indicatur, quæt (njSs o (irj
aya&ov, xaxov' ixtidi] avros ujiokoyug (irj (itjdiv tl liakXov
oYov dsiv rivai, aXXa n fiera^v, itprj iya, ofioXoyuTal ye
ttaQa le sit aliud, sed ita comparatum, ut fere tale esse æstimetur,
cfr* Piat, de rep. I. S40. E, xoiovxov ovv drj 601 xai iph
VTCuXafte vvv ye drtoxpivcttiSai, quo loco falsum foret
atque Thrasymachi sententiæ contrarium roiovro»' n. Adde ib. IX. 590. E. Jrj\oi de ye, rjv o iyoo, xai 6
vopos, oxi xoiovxov fiovÆxai, tcu 6 i xoiS iv x y noA ei KvppaxoS
gjv. y,i} xoivvv av ayxaS,e, Supra diximus annotat. de
verbis, quæ ex adiectivo proprie cum elvat verbo aut ex adverbio
cum dicendi verbo coniuugendo conformantur. Mrj xoivw avayxage igitur positum
est pro prj xoivvv avayxalov elvat A eye. Minus apte Schleiermacherus verba convertit: Folgere also
nicht, neque recte Astius exhibet: Ne igitur coutendas.
Possis etiam alia ratione avayxa^etv verbum explicare, quæ
tamen nobis minime probatur, ut avay xageiv cogendi potestate rebus
adhibeatur, quæ cogi ifequeunt, quasi cogi possent : Zwinge doch
also Dinge nicht, die uicht sclion sind, hasslich zu sein. Inverso
ordiue Agatho, cum neque turpem neque malum Erotem esse intelligeret,
pulcherrimum optimumque deum esse censuit. Ceterum o prj xaAov i<$ xiv
idem fere est, atque d pij xaA.ov elvca opoAoyovpev, de quo di
ovtfo da xai rov "Eqcoto: rfvcu ayaftbv firjSi xaXov, av rov
aitJxQov xai xaxov tovroiv. Kal fiijv, r\v d’ ttccvzav [tsyag
&ebs rivat. cendi genere vide, quæ annotavimus 207.
ovxcj dl xai x 6 v "E p gj X a. Legitur ia nonnullis libris 6
rf pro de, neque confiteri dubitamus, illud quam hoc nobis multo magis
placere. Sed rectissime ad h. 1. Riickertus ouXoj d?f, inquit, per se non
male. Nam quum a generali sententia nd certum et deiiuitum aliquod
subicctum transimus ita, ut,' <£uod ia universum valeat, ad hoc
quoque pertinere doceamus, colligimus aliquid et concludimus, idqne licet
conclusiva particula significare. At non est hoc ita opus, ut tam
exigua librorum auctoritate mutari quid liceat, immo sufhcit etiam
addidisse signum transitus ab una re ad aliam, quod fit de
particula» ceAXa xi pexaB,v, %(prj, xovx oiv . M E<prf
si abesset, nemo desideraret. Cave tamen, id otiosum censeas. Solet
enim dicendi verbum verbis apponi, quæ ab eo dicta sunt,
cuius oratio refertur. Diximus de hoc usu dicendi verborum
annotat, 56. Hinc non mireris dicendi verbum duplex positam v. c.
in Sympos. 177. A. <PaidpoS ydp kxddxoxe 7 tpoS pe dyavaxx&v
Akyei’ ov deivov, qjffdlv, eo ’Epv£ipaxe, aAAotS plv et quæ
sequuntur Phædri ipsa verba. Eodem modo 202. C. legitur xai iyoo
ebtov, vcgdS t i
Tia v f ii ) eldotoVj »7ravTG)v” Xtyeig /J suet tujv etdv rcuv;
Sv^avrov {liv ovv. Kal i) yeAdOafSa, Kcd Ttvog Sv, B(p)j, w IkixQCCTtg,
vfioXoyoiro {ityccg fteog uvai C TtCCQGC TOVtOV, 01 (pCCOtV CCVTOV
Ovtil &EOV llVCi l \ TL~ Vtg qvtoi; y\v d’ tyfp- Elg (iiv,
t<prj, <Sv, pice d’ iycu. rovro, itptjr, XlysiS j Ac ne forte,
L r (p7 ? cet. verborum inediæ oiationi immixtorum significatum
minus recte a nobis indicatum censeas, si interdiim alicuius verba non
verbotenus repetita auimadverteris, nam liuiusmodi exempla reperiuntur,
tenendum est, eum, qui illo genere dicendi utatur, si revera alicuius
verba non repetierit, tamen eo nnimo fuisse, ut ipsa verba proferre
voluerit idque addito dicendi verbo indicaverit. TGJV f.nj HSo ZGDV,
e<pv, andvroov XeyeiS. Verba ita disposita sunt, ut ex eorum
ordine facillime possis Diotimæ voluntatem agnoscere. Nimirum ( pm
dixisset in proxime præcedentibus Socrates: maguum deum Erotem vocari 7C
apd itdvtGov, Diotima istud jxdvtaiv, inquit, Citrum de iis
intelligenduin est, qui rei,non periti sunt, au etiam de sapientibus.
Urgendum igitur pronuntiando est rtavTcov, quod quo fieret facilius,
ndvTGJV «nite A iyeiS positum est. Genitivum autem casum Diotima retinuit
non tam propter antecedentem irapd præpositionem, quam quod vocabuli,
quod aliquis pronuntiando urget, ea forma repeteuda est, quam, qui
antea locutus est, exhibuit. Uiuc ne iucomtior existeret oratio hæc:
rovS fir) clduTOtS y £<ptf 9 TtdvXGDV XeyetS x. x. A„ xqvS fitj
ecduras verba eodem casu posita habes, quo lictvTCDVt
’ S,v fX7Z d vx w psv ovv . Ovv particulam in
responsione adhibent ii, qui obfirmate aliquam rem affirmant, quam
sunt iuterrogati. Eius notionis origo hæc est, quod, qui
interrogantur, ut fortius respondeant graviusque affirment, ita statim se
comparant, quasi rem negasset Ss, qui interroget, atque huiusmodi
interrogationem proposuisset; OVH OVV %V).l7cdvtGDV fibV i Ad hæc verba
igitur respicientes, iisdemque utentes excepta negatione, non nisi mutato
verborum ordiue respondent : B,vpndvrcov pdv ovv. Schleiermacherus verba
convertit: Von allen iusgesammt. Sed neque hæc couversio Græcis
verbis satis respondet, neque scio, an orouino dicendi genus in
vernaculo sermone reperiatur, quo illius via responsionis commode
reddatur. x al ?/, fi a 6 i cj S £ q> ij. h. e,,
Stallbaumius inquit, facile ac uullo negotio rem tibi explicabo.
Aliter uobis de huius adverbii explicatione statuendum videtur. Eo docemur,
qua potestate dicta sint verba 7tdSs rovro A lyeiS. Sbcrates
nimirum summopere miratus Diotixnæ sententiam, qua et ipse Erotem dicatur deum
negare, hacc profert: ndtS rovro A iyeiS li. e. Wie k anu st du das
sagen? Vide de hac verborum potestate Kal iyu airov, Ilag rovro,
Srptjv, liytig; Kal rj, 'PaSiag, $<py. Xiye yag fiot, ov itavxag ftiovg
cpijg tvSaifiovag tlvca xai xaXovg; y roliiyOaig ccv uva fiy tpavai xaXuv
xs Kal ivtSalaovc: &cuv elvai; Mu xli', ovx i'yay ’, 'iyyv. EvScdfiovug
Se Sy Xiyug ov xovg annotat, 169. Ad hæc Diotiroa: perfacile, inquit, sc.
hoc dicere possum. xaXov te xal ev Saiji ov a. $e&v
elvai, Vulgo legitur 3eoV, quæ lectio, umle orta sit, neminem latere
potest. Nobis rectissimum videtur SeGoV t quod Bodlcianus exhibet
aliique libri non pauci, Etenim, si Seov probaveris, riva prouoræn
indefinitum mirum quantum displiceat : An auderes aliquem negare pulcrum atque
beatum esse? Ssaiv contra a verbo, ad quod pertinet, verbis
interpositis nonnullis disiunctum, quanta vi ponatur, ex annotatione patebit 59. Sensus est: An aude res aliquem bonum
beatumquo negare deorum? Respicit autem Diotima quæstione hac
proposita ad vulgarem de diis opinionem, quos nemo fuit, quin
felicissimos beatissimosque prædicaret. Eius .opiniouis et se,
antequam cum Diotima disputaverit, Socrates narrat participem fuisse; hinc
graviorem negationem explicabis Ma di, ovm iyoayB» Veritum euim se
ostendit, ne negata re deorum iram odiumque excitaret, ev 5 a
i j.i o v aS 8 8ij Aiyei$ x. T. A. Annotat Mattii* Gramrn. ampl. Ilaud
raro ov negationem in interrogatione verbo finito postponi atque verbis præfigi
iis, quorum canssa tota interrogatio suscepta sit. Præter nostrum locum
idem laudat Piat, de rep. IX. 590. A. jj 8’ avSaSeiec xal 8v6xo\ia ovx
urav X d 'A.eovx6o8eS te xclL o(pc(a8ES <xv%7jxai; Caussam huius
strncturæ Riickertns censet esse, quod incepta sit enuntiatio ita,
ut nulla iuterrogundi voce opus sit. Licuisse enim dicere evSaljiovaS 8l
8tj A iyeis rovs xexxyffiEYOvS salvo
tenore sententiæ. Media autem iu sententia loquentem paullulum substitisse,
quasi exspectet, ut addat reliqua interlocutor; quod quum uon fiat
statim, perrexisse ov xovS xctyaSa. xal xa\d xexx ?/fxkvovS ; Nobis ita
statuendum videtur. Cum in præcedentibus id ageret Diotima, ut dii pnlcri
beatique esse concederentur, in sequenti enuntiatione id verbum iuitio posuit,
quod beatitudinis notionem exprimeret, ratiocinantium videlicet exemplum
secuta, qui semper ab eo verbo enuntiationem ordiri solent, de quo
iu proxime præcedente enuntiatione ab adversario concessum est. Migravit
banc ratiocinandi normam Plato 201. C. t quo loco cum præcederet
pulcritudinis notio, Socrates hoc modo perrexit: rnfya%a ov xal xa\u 8oxel
6oi elvai; Illud verbum autem cum plerumque penderet e finito
verbo, ut nostro loco Ev8<xiiiovaf D tayafra xal xa?.ci
xextyfiivovg ; Tlavv ye. 'A).fo'<
/irjv "Egesta ye wfioloyjjxag St' evSnav ttov ayadcov xal xakav Im&vfitiv
avtiov tovttov, tov tvtier/g iotiv. ^ijiokoytjxa yag.Ilcog S’ Sv ovv fteog ety o
ye nov xaiav xal aya&wv aftoigog; OvSafiag, Sg y’ ioixev. ;
'Ogag ovv, ?<p »;, ori xal Gv "Egcrca ov frtov vo(it£eig;
XkyeiS, non mirum videri potest, si id statim assumitur
negationi præpositum. ov t ov S xdyaSa xal xaXa.
Bodleianus ftalii nonnulli codices xayaSa xal x d xaXa exhibent,
quam scriptaram Bekkerus et Stallbaumius receperunt in ordinem verborum.
Annotat lliickertus ad h. 1. rectissime : t dya$d xal xa xaXd res
bonæ sunt et res pulcræ, quæ diversæ esse declarnnturj contra r dyaSa xal
xaXa res bonæ et pulcræ. cfr. 202, D. 6i’ £vSetav zaiv ayaSaiv xal
xaX&v et Trois 6 * av ovv SeoS efy o ye tgov xaXcov xal ayadcov
ayoipoS. 203. D, iniftovXoS idxi xols dyaSoiS xal xoiS xaXoiS x. t.
X. Aliam legem in articulo nominibus substantivis præfigendo Græci scriptores
secuti sunt, de qua fusius disputavit Engeihardtus ad Piat. Menex, 237. B. $. 6. ed. 252. ojyo
Xoyr/xd ye. Assensus Socratici vestigium in præcedentibus reperitur
nullum. Erotem earum rerum, quæ appeteret, expertem esse, Agatho concessit 201.
B. *Ev6er)s ap * £dxl xal ovx k'xet o " EpcsS xccXXoS. 'Avdyxtj,
tpavai. Iam cura Socrates eadem fere Diotimæ se dixisse dicat 201.
B. ( dxedoy yap ti xal iyco itpoS avtrjv £xepa xotavxa l\tyov,
oldnEp vvv npds £/il *Ayd$GDV ) quæ Agatho sibi dixerit, verisimile est,
Socratem, eadem Diotimæ concessisse, quæ Agaibo Socrati. Hinc
opoXuyrfxa positum explicabis. ov 6 apeo S, &>S y *
Eoixtv. Socrates Erotam deum non esse' ita tantummodo concedit, ut
e Diotimæ ratiocinatione id colligi posse dicat. Piuribus disputavimus de
verbis (Ss y* £oixev a Socrate hic adhibitis in Comm. de Symp.
Platonis. Opds ovv, oxt xal tft) "Epoox a ov $ e 6 v v o
pi^eiS; Stallbaumius laudat ad h. 1. Piat. Apol. Socr. 24. D. xov
61 6rj fieXxiovS noiovvxa tSi eiitk xal pjjvvdov avxolS xis
idxiv. opiis, oJ MiXexe, ori dtycis xal ovx £x El $ elicelv; Piat.
Menon, 80. E. yavSavGo, olovflovX et Xkyeiv, dt Mtvouv * 6paS
xovxov cos ipidnxov Xoyov xaxayeiS ; Verissime addit: In his locis
omnibus opaS ita præmittitur reliquis verbis, ut alterum rei præsentis
statum et conditionem ipsum iam perspicere indicet, non sine aliqua
admirationis vel etiam irrisionis significatione. x i ovv av,
£tprjv, eirj 6 "EpmS . *Av particula a modo verbi, ad quem
pertinet, haud raro seiuncta reperitur. Scriptum Cap. XXIII.
Tt ovv clv, Sq>tjv, drj 6 "Eqcos ; &vt]t6g ; "HxiOra
ys. 'AXka r l firjv ; "Slgneg za xgozega, iuza£v tivrjxov xal
d&avazov. TL ovv, u Aiotljia ; Aciliiuv (liyag, a Eaxgazig. xal yag
itav zb Sai autrm exspectaveris ti ovv, Etpyv, ehf dv 6
"Ep&S. Non perfode est, ntro loco dv particulam posueris, neque
ti ovv dv, £<prjv> ii?f idem prorsus siguificat atque ti ovv,
iqnjv, eXrj av. Iam videamus, quid inter se hæ dictiones differant. Optativus
modus aliquid fieri posse indicat ita, ut non addita sit vel
probabilitatis vel dubitationis notio, "Av particula adiuncta
efficitur, ut, quod fieri posse fodicatur optativo modo, id certis
quibusdam de caussis fieri posse significetur adhærente notione
verisimilitudinis. Iam patere opinor, ti ovv eXrj o "EpuS eius esse,
qui de Erotis natura incertissimus nesciat prorsus, utrum ait
aliquid necne Eros, fieri tamen posse opinetur, nt sit aliquid,
idque nunc sciscitetur. Contra ti ovv iXt] av 6 "EpwS eius
verba sunt, qui compertum habet, Erotem aliquid esse, idque quid
sit, iam quærit. Ad nostrum locum ut accedamus, av positum
quidem habes, sed disiuoctum ab optativo modo, quo dicendi genere
scriptor exprimere voluisse videtur aliquid, quod medium esset inter ti
eitf et ti bXtj av . Socrates nimirum Diotimac argumeutatione captus necdum
liberatus a popularis superstitionis vinculis huc illuc vergit
plenissimus dubitationis, atque revera aliquid esse Erotem potat et
rnrsnm aliquid esse posse dubitat. Verba convertenda sunt: Wasware
denti nun also wobl, sagte icb, wenti er etwas ware, Eros.
Eodem modo explicandus est locas Piat, de rep. A. ttpoS ys
vnodrfpdtaiv av, olpai, <paijjS xtijdiv, h. e. (palrjS av, ei
<pair}$. . A. quo loco cave, indicium tuum impediri patiaris
verbo addito 60 x 01 : *I 6 ooS yap dv, Xcprj, 60 x 01 ti Xiyeiv 6
tavta Xtyoov. Adde Protag. 312. D. X6co5 dv, i/v 6 * iyoj, dXrjSij
Xtyoipev, ov pivtoi IxavooS ye, Gj? 7 tep ta itpotepa, $<prj.
Hæc verba convertit Schleiermacherus: Wie oben, sagte sie, zwischen dem
sterblichen and nnsterblichen. Recte. Sapplendum autem est ex prægresso
ti ovv dv eXrj tempus præsens X. 6 ti, nt verba explicatius
perscripta audiant tovto, o l 6 tiv wSitep ta 7 tpotepa (cfr. 202»
A. % 6 tt 6) j tcov toiovtov rj opSr) 6 o£a, pEtagv d/taSiaf
xal ppovr/tieoDS ) petant) Svijtov xal dSavatov. xal
yap 7tav x 6 6 aipo viov ♦ b. e. denn die gesammto Damouen welt liegt ZWISCHEN
GOTTHEIT UND MENSCHHEIT raitten foue* Ad nostram locum multos
fuisse seriores scriptores, qui respice- r E poviov
[isra^v ititi ftsov te xal ftvrj tov. - TLva, rjv 6 i lydt^ dvvccfuv
%%ov; 'Equtjvevov xal 6ia7ioQ%ptvov •O £olg ta xaQ 9 avftQconcov xal
dv&Qciiioig rd Ttccpcc 8ewv, x cov (iiv xag dEifieig xcd ftvtilag,
xdjv 61 xag faixat-Big te xccl d(ioi($ccg xav &v<2l(5v. iv piceo
61 ov rent, Stallbaumius ad h. 1. annotat. Addit idera: Quid quod
a Proclo in Parmenid. ap. Rentlei. Epist. ad Millium 455. ed.
Lips. hæc omnia e doctrina Orphicorum repetita esse narrantur ? Quæ quidem
sententia quum confirmetur quodammodo eo, quod carminis Orphici
fragmentum ap. Clem. Alcxaudr. Strom. V. 724. fere eadem coutiuet, quæ Diotima
hoc loco Socratem docuisse narratur; eo minus de huius narrationis veritate
dubitamus, quo certius exploratum habemus, Platpncm non raro ad
Orphicorum doctrinam allusisse et respexisse. hpfxrjvevov xa\
8ia*> 7t O p$ /.l£VOV $EOlS tCCTtap* dvZpaJrtGOV X. r. A.
Satis notum est, Græcos in formulis, quæ ex articulo et nomine
aliquo cum præpositione coniuncto compositæ sunt, præpositionem haud
raro mutare atque eam poiiere, quæ cum verbo enuntiati principe conveniat,
cfr. Fischerus ad Platonis Phæd. c. 22. Stallbauroius ad Piat. Apol.
Socr. ed. 63* et 64. Mattii. Gramm. $. 596. a. b. p, 1193*
Engelhardtus ad Piat. Lachet. ed. 23. Huiusmodi formulæ ubi per se
spectantur, plerumque præpositionem quietem significantem repræsentant, ut
nostro loco rd nap* dv^pconoiS et t d napa Accedente enuntiati
principe verbo, quod motum siguiiicot, illa præpositio aut in præpositionem
motura exprimentem mutatur, aut, ut id factam est nostro loco, cum
eo casu coniungitnr, qui motum exprimat. Non satis recte autem napa præpositionem
cum genitivo coniuuctam putant propter antecedens SianopSuevov,’
non item propter kppj/vevov, neque satis placet Schleiermacheri
conversio: zu verdolmet— schen und zu iiberbringen. Non rectius
apudFicinum legitur: interpretatur et traiicit. Non dubium est, duplicem
itineris rationem indicari illis participiis, atque kppTjvsvov quidem,
quod cum verbis consociandum est dv%pG)itoiZ tartapa $Ecby t
viam describit, quæ a diis ad homines ducit, diaitopSpevov autem
de via dicitur, qua proficiscitur, quicquid ab hominibus nd
deos se confert. AiaitopSpEvov nimirum cum Gharonte cohæret, qui
itopSrfiEvS a Græcis vocatus est, et qui animas solebat c terra ad
sedes deorum transvehere 5 £ppifvevor eiusdem est, &tx\ucEppr/S
radicis, qui deorum iussa hominibus obnuntiabat, non vice versa ad deos
transferebat, quod ipsi ab hominibus mandatura esset. Significat igitur
Mercurii instardeorum iussa obnuntiare. Iam patere opinor, non solum
propter StanopS/iEvov, sed etiam 'propter kpprjvtvov cum genitivo
coniuuctam esse Kapa præpositionem. Hinc non d/i<poTsgm’
avfinbjQol, i3gre ro xav avto avrq) £w8sSeO&cu. Sici rovtov xal rj fiavuxi]
xdau %uqu, xal ?/ rav ieQtuv xiyyrj rmv re xeni rag ftvaiug xal rag
relerag xal rag tnipSag xal rr\v (tavtelav ndoav xal 203 yorpceiav.
&eog Se dvQQaxco ov jxLyvvrui, alia Sia placet Stallbaumii annotatio
ad h. 1.: J&eoiS' td it ap* av S p cJ it cd v . Non dixit it a
p* dvSpciitoiS et ita pa SeolS : nam alteram constructionem
requirebat verbum SianopS/f sii ov. CvpitXif poiy (Ztxe ro
itdc v x. r. A, Ficiuus liabet ia conversione : In utroqnc medio
constituta (sc. dæmonum natura) totum complet, ut universum secum ipso
tali vinculo connectatur. His verbis seduci se passi sunt Keynderslus)
qui td o\ct dVfUtAl/poi scribendum coniecit, et Orellius nd Isocr. 331*»
ubi (SvpitXripoi ro itdv, dista avto avroj &vv5c8i<j$ai manum
Platonis esse suspicatus est. Sed nihil mutandum est, neque
quicquam supplendum. Sensus ?st: indem er aber in der Mitte sich
befindet von beiden, bildet er die Ausfiilluug, Vermittlung, s.
fiillt es aus ; nam nostra quoque lingua transitiva verba in terdum ita
adhiberi patitur, ut non actio, sed notio verborum urgeatur. Vide
de hoc usu verborum transitivorum apud Græcos annot. 230* xal i)
ftavrim } itd6a Xoo p ei. Duplici potestate hæc verba intelligi
possunt, ut aut de felici successu, qui dæmonibus debeatur, aut de spatio
viæ, quod eundo superetur, accipiantur, Ficioas verba convertit: Per
hanc (sc. dæmonum naturam) vaticinium omne procedit cet., ubi verborum
ambiguitatem servatam habes, neque dubium videtur, quin eandem et
Plato de industria admittere voluerit ea de caussa, ut de
felici successa et de meatu per medium inter coelum et terram
locum verba accipiantur, SeoS 6 e dvSpfoitM ov piyvvr ai x. r.
A. Articulum omissum habes in utroque huius enuntiati nomine, ut
indicetur, sententiam proferri generalem quam vocant. Vide Indices
s. v. Artic. Ceteram dæmont medium inter coelum atque terram
locum obtinere dicuntur ita, ut per eos esse atque meare artes
perhibeantur omnes eæ, quæ; homines cum diis arctius coniungant. Hæc
coniunctio quoniam potior est eo, quod homines deorum iussa exsequuntur, quam
quod dii hominum precibus obtemperent, recte ponitur h. 1. ?} SidXsxtoS
SeoiS irpoS dvSpGdrtovS, non item avSpdmoiS itpoS Seov?, quod
Heusdius in verborum ordinem inferciendum censuit, ut esset, quorsum
referrentur verba sequentia xal lypijyopodt xal xaSevSovtiiv.
Annotat Stallbaumius ad h. 1. : Defendi potest lectio vulgata ita, ut verbo-
' rum constructionem dicamus couformatatu esse potius ad sententiam
ipsam, quam ad grammati- « tovvov naOu iativ i } byuliu xal %
Sudexrog dsoig itgog av&QixiKovg, xal lyQijyoQo 61 xal xa&ev 8 ov
6 t. xal o f ilv xcqI tcc Toiavxu 6 oq>os 8 ca[ibviog avrjQ, b 81
cclXo tl tiotpog coV rj' jrfpl r(%vug rj %UQ 0 VQyLag uvag, fiavav6 og.
ovtoi dr; oi Salfiov eg nokXol xal nurrcoSanot tl 6 iv' slg 81 tovtqv
J<Srl xal 6 "Egag. Iluigog Si, t)v 8 ’ lye>, tivog Itfrl xal
[ir^Qog; Muxqotiqov (iiv, %<pr], d^yr/Oa cam subtilitatem ac
diligentiam. Quum enim dicatur opiXslv rivi et diaXeyeCSai rivi,
etiam opiA ia xal didXsxroS rivi recte dici potuit» Et quum antea
non dixisset: 7ta6ct idri SeqI? tj opiXia xal 7 ) didXExro?
avSpcS7COi?, sed perspicuitatis caussa usus esset præpositione
TtpoS addito casu accusativo, nunc ad legitimam constructionem
revertens, neglecta grammatica diligentia, dativum post accusativam recte
inferre potuit. iiuiusxnodi grammaticæ diligentiæ negligentia si ullo loco
ferri potest, huic loco apprime convenit, ubi Socratis sermonem non præmeditatum
illam, sed ano rov tiro paro?, ut Græci dicunt, habitum refert Apollodorus.
Verum est tamen aliquid in hac verborum explicatione, quod displiceat.
Negligentem esse structuræ grammaticæ verborum licet quidem interdum in
sermone familiari, sed ita, ut verisimilitudo adsit negligentiæ, h. e. ut
verba ita remota sint ab iis, quorum structuram sequi debeant, ut
eius revera obliti esse,, qui loquantnr, videantur. Nostro loco verba
proxime adiuncta sunt f verbis, quorum structuram sequi debent, ut
saue intelligi nequeat, cur dativum maluerit, quam accusativum scriptor
exhibere. Cer tissimum est, aliquid exprimere voluisse'
scriptorem structuræ mutatione, quod quid sit, iam videamus. Si
scriptum exstaret iyprjyopipiozaS xal xa$evdov~ ra? t interpunctio
delenda esset, quæ post avSpGoitov? in omnibus editionibus posita
reperitur, unoque tenore legendum esset $Eoif rtpof dvSpwitovS
iypTjyoprjxora? xal xaSsvSovtaS. Dativo admisso participia a præcedentibus
verbis seiunguntur ita, ut verba 7 } opiXia xal 7 } SiaXexToS $eoi$
rtpo? avSpaSTtov S unam notionem efficiant, quam cum uno verbo
exprimere non posset’, structura verborum Plato assecutas est.
Verba convertenda sunt: Gottliches be ruhrt das Menschliche nicht,
sondern alie gottliche Offenbarung wird Wachenden und Traumenden
vermittelst des Dani on is oh en zu Theil. 7 ) xstpov pyla?
riva?, fiavav6oS . Schol. ad Theætetum in Bekkeri Comment. Critt.:
fiavav6ov'‘ ol kdpaloi ZExyirai xal 7(apde fiavvcp, o ion xapivaj
tl £pyov dianSipEvoi, ol 6 e fiavav6 ov rov anavSp&ndv xal vtce pr\<pavov. bnoi 61 fiavav6ov XEipds
zijs vfipi6xixij? f) rsxyt 0%at' 0 /nag 8b Gol Ipw. ote yap lytvtxo 7j
'AtpQoblrr;, ttotiaino oi &£ot, oi ts aXIoi jmm 6 trjg MijtiSos
vios IIoqos. trcEiSrj 6s iSiijivrjGav, XQoqaiTqGovOa, olov iva%La$
ovaris, mpixeto rj IJtvia xal rjv jiiqI rag dvQag. 6 ovv IIoqos fiidvGfrels
r.6v vextuqos oivog yag ovjto tjv tls *ov tov Alos xijrtov dscl&tov
(Sepugr]litvos rjvStv. rj ovv Ihvia iiCi^ovIevovGa dia ttjv av StjXoi dk
tovS’ x 6l Porixv<x£ xal drjpiovpyovS. Diotimæ mens hæc est:
virum dæmoniam recte appellari eum* qui cognoscendi* diis deorumque
consiliis operam navet coniuuctionis illius gnarus, quæ inter deos
atque homines per dæmones exstet; contra j SavavOov vocari,
qui terrestribus rebus intentas deorum consilia minas curet. <
o tf ydp iyiveto. Quæ hucusque narrata sunt a Socrate, Erotem
cx senteutia Diotimæ e dæmonum ordine esse, h. c. medium inter deos atque
homines, atque pulcro carere quidem, sed yehementissimo eius
appetita teneri, ea nunc repetuntur in mytho insequenti, quem vario
modo FILOSOFI interpretati sunt. Hac narratione mythica
certissimum est, Diotimam s. Socratem non confirmare voluisse, sed
explicate potius atque illustrare tamquam imagine sententiam suam. Satis
notum est autem, Græco ram iugeqium ita comparatum fuisse, ut facilias
iutelligerent, cupidius arriperent, memoria melius tenerent, quæ mythica
aliqua narratione, quam quæ nuda demonstratione exposita essent.
Pluribus de huius mythi fine diximus in Commeat, de Sympos.
Platonis. olv oS ydp orjTCco 7/ v . Adduntur hæc, ut tempus
indicetur, quo facta sint, quæ hic narrantur. Vinum antiquissimis
temporibus Græcis notum fuisse, Homerus docet atque Hesiodus. Hinc
iudicabis de rei narratæ vetustate. Ad nostrum locum respexit
Porphyr. A. A. c. 16. ni? itapd nXdr&vt d TIcpoS tov rhirapoS
7tX?]6$tis • ovnto ydp olvos ?}v. eis tov tov AioS
H7J7COV e lseX^GJ v. Cave credas meta pho ricam significationem h.
1. verba habere A 10 S xi}7Cov t Horti mentionem Diotima
fecit vitæ quotidianæ usam imitata. Hortam enim hospitis convivæ
bene poti adire solebant atque loca frigidiora sibi eligere, ubi
hausti vini calorem mitigarent animosque concitatiores somno
compescerent. Adde Stallbaumii annotationem verissimam : Quæ de
hortis, inquit, lovis hic narrantur, non solius ornatas gratia adiecta
sunt, sed properaodum necessario commemorari debuerant. Qaum eDira
Pori atqæ Peniæ natura et ingenium tantopere discreparent, per se parum
verisimile videri debuit, illum cum hac potuisse habere consuetudinem.
Itaque quo narratio maiorem nancisceretur similitudinem, poeta
philosophus 17 C r jjg txxoQlav stcaSlov xoirjGaGftca
Ix toti JJoqov, xataxXlvEtcd te scccq’ avtcp xcd ixvt]GE % ov "Eqmtcc. Sto
Srj xcd ri ~js 'AcpgoSiTijg 'dxoXov&og xcd &EQcc3icov •yeyovcv
o 'Egag, yewtfteis iv roig ixslvqs 'ysff&Xioc g, xcd d(ict tfvOtc
iQtt6Ti)g uv jceqI to xuXdVj xcd r>]s ’A(pQ0SultjS xaXijg ovdrjg. ktb
ovv Ilogov xcd Ilevtag viog i ov 6 *Egag iv roiauzi/ tv%]/ xu&l6xr t
xE. tcqutov filv nivtjg ini sdn, xcd xoX/.ov Sei ol itoXXol
oiovTcu, txXXcc Pornm finxit in convivio illo in Veneris
honorem instituto ebrium factum se in hortum Iovis contulisse, ibi vero
Peniaxn, quæ ei struxisset insidias, sine arbitris convenisse. Vides,
quam necessaria sit hæc fabulæ particula: nt profecto miranda sit
operosa industria eorum, qui de istis Iovis hortulis splendida quædam
commenti sunt mendacia^7 Ci ftovXev ovd a 8ia xyv avxijs ano piav .
’EirifiovXevelv verbum sequente infinitivo eam potestatem habet, nt
studium significet cum insidiis coniunctum. Prorsus eodem modo legitnr in
Xenoph. Symp, IV. 52. ald^avopai yap rivaS i7tifiov\£vovtLXS
SiaupSelpai avTov. Adde Piat, de republ. VIII* 566. B. idv di ddvvaxoi
ixfidWeiv avxov gqoiy t} ditoxxiivai biafidWoYteS xy rt 6A ei, fiiaia) 8ij
Savaza iitifiov A evovdtv areoxtivvvvai A aSpac. Plura huius structuræ
exempla si quæris, adi Stallbanmium ad Piat* Protag. p, 343. C. «d. 119* 8ia rr/Y avtrjS areo pia
f'. Indicatur his verbis, anccXog te xcd xcdog, olov
CxXijgog xcd avftiijpog xcd cur Fenis mater esse cupiens, e
Poro potissimam concipere voluerit. Etenim qaoniam ipsa, quod futuro
filio daret, non habebat, ut minus olim sentiret puer maternam egestatem,
Porum, deum omnium ditissimum, patrem ei esse voluit. Minus explicate
Schulthcssius in conversione Symposii exhibuit; Nun sann Penin ihrem
Mangel zn steuetn, anf die List cet* dio 8 1 ) xal tij S 'A
<ppoSixyS dxdXovSof . Veneris comes
ac minister Eros dicitur, quod est pulcri amator, et quod Venus
pulcra est. Minus clara verba sunt yevvrjSeiS iv xols ixELvyS
yEYE$\ioiSj ad quæ verba 8io præcedens spectat præcipue. Nam si quis ipsis
alicuius natalitiis oritur, non sequitur inde, eundem comitem esse atque
ministrum illius. Videtur autem mens Diotimæ hæc faisse: Erotem
Veneri ortum debere; nam si ad huius natales celebrandos non convenissent
dii, Peniam nunquam e Poro concepturam fuisse. Igitur
factura esse cura pulcri appetita naturali, tum pietate, nt Eros se
Veneri adinnxerit. uwxodTjtog xal aoixog, %a[iai7UTrig asl uv xat
a6re>m- D ros, t7cl ftvQaig xal Iv odoig vxai&Qiog
xoip.cou.Evog, t ijv tijg firjTQog <pvOiv £%av, dii Ivdiice. ^vvouog.
xara Si av xov xaxtQu ixlflovXvg late xoig dyu&oig xal xoig
xcdoig, avSgdog av xal Xxtjg xal Ovvxovog, &)f Qiirxijg Suvog, ad
xivag xkbxav [ir^avag, xal cpQoinjCiag tm^viirjxtjg, xal xuQtuog, xpiXcGoxpav 6
ut navxog xov §lov, Suvog yorjg xal (paQpaxivg xal CotpKSxrjg' xal
ovxb tbg a&avaxog nitpvxBV oilte ag Qvtpbg, E axe ovv Ilopov
xal IIsvlaS vloS. Erotis nator», qoaiem sibi Socrate* effinxerat, factum est,
at Porum atque Peni am parentes putaret. Inverso nunc ordine a parentum
iudolo ad blii naturam concludit, ut, quod in illis conspicias, id
coniunctim in se habeat filius. Probatur igitur et his verbis, et sequentibus
p, 203.,C. xard 81 av xov naxepa, quod supra annotavimus 257.,
mythicam hanc narrationem ideo proferri a Diotima, ut imagine
quadam proposita indoles atque natura Erotis illustretur. In
sequentibus Erotis epithetis xal habes quater repetitum, quod, ut
molestiam quandam parat audienti, ita epithetorum indicandæ multitudini
apprime inservit. ini SvpaiS xal iv o*dois’ vn aiSpioS
xotpcope- oV o f. Paullo supra de matro Erotis dicitor, 203* P-
a<pi7MTO xal r)v nepl xds paSy quapropter nostris verbis ap-*
positum habes trjv xijs ptjtpoS (pv&lY 'ixatv, quæ verba cave
epitheti loco posita ceuseas $ caussam enim indicant præcedentium
epithetorum. Ceterum pro vitafa pioS, quæ optimorum codicum
lectio est, vulgo edebatur vitateploiS, Male. av 6 p eioS c ov xal
Ixrji . Schol. habet: IxrjS' Hdx&p, ini 6X7}jj.c*)Y> <aV
ivxai>$a. flaverat 61 xal ini xov ixapov xal SpatieaS, Nisi forte
aliunde hoc scholion depromtum est, sane mireris verba oJs’
ivravSa, quæ rectissime haberent, si post verba legerentur:
Xapfldvexai xal. Hesychius, 1'ti/S, inquit, IxajioSy $pa6vS. rj
Xtixcop tj initixi/pav . Cum dvSptioS nomine couiunctum legitur
KtrfS etiam Piat. Protag. 349. E. noxepov xovS dvSpelovS
SafiflaXiovS XiyeiS r\ dXXo xi; Kdtl
l'xaf ye t Eqnj, Itp* d ol xoXXol qjoflovvxat iivat h. e. xal ixas
ye ini xavxa, l<p’ et x . r. A.
Ceterum haud scio, an non vitii aliquid in his verbis lateat, quod
xal ante tivvrovoS posito removeatur. Nam ut sequitur STjpevxijs
6etvo>, ita fortasse melius habeat xal ItrjS (SvvxovoS, quam xal itifl
xal tfvvxovoSi xal tppovi} 6ecoS iiei$v» firftrj i f
xal nopipot. Riickertus ad h, 1. deleto post iiti * $vpi \xrfi
commata: longo, ia* 17 *, aU.lt tots ficV Trjs crinrjs ftakXti
rs xal %y, orav ivitOQyOy, tots fis azo&vrjiSxu, itai.iv fis
avapiaCxEtca duc rijv tov itargo $ cpydiv. rd 6s itogigo/ievov a£t vzexqh,
c&grs ovre. ccjtoQti ”Eqb>s zots ovt e zlovttl. Oocpictg te av xal
a[ta9lag Iv fuflw idziv. quit, liæc cumDindorfio in unum, ut
hæc sententia prodeat: Amorem et cupidum esse prudentiæ et ad parandam
idoneum. Astius 7 topt/ioS esse censet: opibus et co piis affluens;
Recte 8nidas Ttopi/ioS, inquit, 6 dvvdiv 7j htivdiav ££<»k. Quæ
sequuntur verba rpi\otio<pGJV 8ia rtavzoS tov fjiov, præcedentis
epitheti caussam continent, et ipsa epitheti vices obtinent. Sensus
est itopipoS vocabuli: der alie s durchsetzt, iiberall durchkdmmt, dem
u11es, vas er uuternimmt, von Statten geht. d eiv o S y
d rj S n a\ q> a ppaxevS xal 6o (pKSrjj $ . Neminem fugiet, quam
prudenter philosophus hoc loco vulgares de Amore opiniones et fabulas
coniunxerit cum suis ipsius placitis. Stallb, a\\ct x 6 1 e.
ptv orav e vir opi} 6ij h, t. A.
Ficinus verba convertit : neque immortalis omnino secundum naturam
neque mortalis: sed interdum eodem die pullulat atque vivit,
quotiens exuberat, interdum deficit cet» Sic interpretes ad unum omnes
Platonis verba explicaverunt, neque quicquam eos, quod miror, in iis
offendit. Pugnant autem hacc verba cum iis, quæ. A. seqq. de Erotis natura
dicta sunt. 'Docuit illic Socrates s. Diotima: Erotem non esse AMOREM
h. e. DESIDERIUM nisi eius rei, quam ipse nou possideat. Iam quæritur,
qui hoc loco dici possit 3-aAAn re xal ?,jj, ozav tv7topr}6xf.
Nullus dubito, quin pro orav evitopt}<$rf Plato scripserit orav
aitoprfoTf. Ad sequentia autem rore dizoSvijtixei e præcedentibus
supplendum est '-orav et hropytiVf qaod supplementum quum aliquis forte,
ut fit, margini adscripsisset, scribarum incuria vel imperitiorum
Platonis interpretum industria pro aitopijdp in ordine verborum
tvTtoprjo^f positum est. Id fieri potuit eo facilius, quo magis in hac re
a ceteris dæmonibus diisque differt Eros. Solent enim Erote excepto
omnes, quo maiorem rerum suarum evito picer experiantur, eo magis, ut cum
Platone loquar, efflorescere atque vigere. AMOR contra rerum
expetitarum potitus perit, sed paullo post rursum emergit .novarum
rerum, quas possidet pater, DESIDERIO reviviscens. 5 1 a r ifv
tov it a r pos <pv6 iv. Ilæc verba quid -sibi velint hoc loco, a nemine
interprete explicatum reperio. Scriptoris mens hæc esse videtor: Erotem
mori, ubi ea sibi comparaverit, quorum desiderio antea Eros fuerit. Quoniam
antem Poros, h, e. deos divitiarum atque omnium rerum summæ
ab t%u yctQ aSi. 9u ov ovSeIs tpd.oeotpti ovS’ Soi
Coipos ytvtOftcu. tori yaQ. ov3’ ti rtg aAAog Goipbg, ov
<piXoGocpti . ovS’ c.v oi afia&Eig ipikoOoipovOiv ovb’
lm9v(iov6i Gotpol yevtO&ca • cevro yaQ rovr 6 ion [ lalizov ]
„d/itt&ia,” xo ptj bvta xalbv xaya&bv fnjdi cndantiæ finem non
habeat regni sui, sed aliis alia semper addat, rerumque facultates
in infinitum augeat, fieri solere, ut Eros, ubi desiderio expleto
perierit, novarum reruta desiderio tangatur atque reviviscat* dei
vitEKpei. 'VjtExpciv verbi significatio hæc est, ut exprimatur,
abire aliquid atque evanescerfe ita, ut nescias prorsus, quomodo id
fiat ant quo abeat. Apprime respondet Græco verbo nostratium: es
gelit ihm nuter den Hiinden verloren. Schleiermachcrus verba convertit:
Was er sich aber acbafft, geht ihm immer wieder fort.
«uro' yap tovto id ri IxttXettov] ajuaSta, Hæc verba non
recte sc habere, iam pridem ab interpretibus annotatum est. Sydenhamius
a/taSiqt scribendum coniecit vel «urco Tovtgj ; illud in cod.
Veneto reperitur agnosciturque a Ticino: JJoc enim habet ignorantia
pessimum, quando qui nec pulcher et bonus est neque sapiens, sufficienter
hæc habere se censet, Attius corrigendum vidit: amo yap tovto idn
^«Acjr ov d/utx ov fit) ovtcl xa\ov naya$ov pj/de (ppovtpov Soxtiv auro ixavov,
Idem etiam fyet verbis Platonis inferciendam ceusuit vel scribendum
apaSiaS pro apaSla. Annotat Stallbaumius ad hunc locum: Hæc ne cui
in posterum sollicitanda videantur amo tovto absolute positum
est, ut idem sit, quod 5i amo tovto : quæ autem sequuntur: ro pi)
bvxa ixavov, ea per appositiouem, quam
vocant grammatici, addita sunt. Nec Sydenhamii neque Astii verborum medelæ
placent, neque satisfacit verborum explicatio Stallbaumiana. Concedo
quidem, quod permultis locis probari potest, «uro' tovto ita dici,
ut significet 81 * avro tovto, nusquam autem ita positum reperias,
ut non sequatur particula finalis. Deinde ne Græce quidem
dici videtur: auro tovto idn ^aÆTtdv apaSlot pro amo tovto idn
xarAftfoV ?/ dpaSia. Differt enim subiecti forma a prædicato suo ita, ut illud
articulo insignitum sit, hoc articulo careat. Sententiam autem quod
attinet, merito quæras, cur de difficultate quadam molestiave rei
maluerit Socrates, qcain de ipsa re dicere? Si quid video,
XolXe7Cov inutile est otiosumque scioli alicuius additamentum, quo
enuntiati facilitas admodum impeditur. Auget voSiiaS suspicionem sedis mutatio,
quandoquidem in duobus codicibus F>ekkeri pro £aA«roV dpaSict legitur dpaSia
£« A ejcov et dpaSitt XaXEnov . Igitur uncis inclusimus x«A ETtov, quod
neque cum verborum structura satis conveniat, neque, dialecticum
acumen <Pq6vi[iov Soxuv avrc : > tlvai txavov. ovx ovv
ixudvfiit 8 (iij oiouevog Ivdpjs tlvcu ov av fiy oirpzæ
hudttti&eu. Ttvcg ovv, %cptjv iya, to Acoztfia, o t
epiloCoepovvxts, B ll (l/jzs o£ Cocpol /lyre ot ttfiu&Hg ; Afjlov Srj,
fg np, Tovzd y£ fjSij xai jtaiSl, ori o i fiezal-v zovzav dpiq)otsq(ov,
tov av xal 6 "Eqi ag. l&u yaq dtp tcov xcdHCzcov i) Coepta,
"Eqcos 8’ Icrlv iprag mgl zo xakov, agzs avuyxalm "Egaza
tpilbaoepov uvæ, qnXoGoepov •S respicis, quo Socrates hic utitur, sententiarum
consecutione probatur Sensus est verborum : Dena das eben ist ia,
was vir Amathia nennen, vide annotat. dass einer, der nicht schdn
und gut noch verstandig ist, •ich selbst geuug zu sein vermeint.
6i/\ov Stf, Icpyjy rovxo ye 7/677 xat xaidl. Hæc prorsus
conveniunt cum nostratium: das kann ja schon eia *Kind einsehen. Utitur
autem hac formula Diotima, non tam, quod res ipsa intellecta
facillima ait, sed quod, qui præcedentia vecte ceperit, is adhibita
analogia possit verum reperire. Hinc additam habes: oov av xa\
6 Epeo?. Sæpius enim in præcedentibus præpositis rebus duabus vera
neque altera fuit neque altera, sed tertia quædam, media inter utranique,
reperta est Anget autem narratæ rei verisimilitudinem Diotimæ hæc indignatio,
quandoquidem et lectores Socraticam inertiam (quam care non simnlatam
habeas) non possunt non mirari. oov av xal 6 ’Epaf, Vulgo
legitur oov av xal o"E-s poDS ; quod cum nullo pacto hic ferri
posset, Brkkerus e duobus libris dedit av, quod præter Riickertum
editores recentiores in ordinem verborum receperunt, Biickertus
autem annotat ad h* 1 . ; Ne huic quidem, inquit, particulæ satis
commodus videtur locus esse. Qua re suspicatus sum, essetne Jorte
neutrum verbum (av, av) a Platone scriptum, sed av quocunque modo ortum
ex oov, inde autem in ctv mutatum. Quapropter voculam, ut dubiæ
fidei, uncis inclusimus. Frustra. Sæpissime av particula ponitur in enuntiatis
iis, qnæ minus accurate exposita ad prægressæ alicuius
enuntiationis formam effingenda erant. Nostro igitnr loco quoniam
præcedit ori ol ptxa£,v rovrcjv apepoxipoov, av particula indicat,
av av xal 6 "EpaS proprie sic proferendum fuisse: per a&,v cuV
xal 6 "EpooS idriv. <pi\o 6 o(p ov 6k ovxct
apaSovC. Sequitur hoc ex iis, quæ supra disputata sunt. Nimirum qui
cupit aliquid, is non potest, quod cupit, idem habere. $i\odoq)OS igitur,
quoniam est appetens sapientiæ, sapientiam non habet, neque vero
ignorantiæ addictas est; nam qui ignorat aliquid, is id ipsum, quod
ignorat, non appetit* de Sirtct (lEtalv elvca docpov Y.cil d K
uct&ovg. alrla de avrco xal tovrov f} ylvedig' iturgog fikv yag
docpov Idn xai evxogov, fiyrgbg de ov docpijg xal dxogov. i\ ftlv
ovv (pvdtg r ov daipovog, co (pile 2?o r/.gcctsg, ccvxi]. ov de 0v
wq&qg "Egeor a elvca, a YavpacSzbv ov - C dev eituft eg.
cirjfojg de, cog ifiol doxec texficagofievj/ *£ cov dv leyeig, ro
Igcopevov ''Egeor A elvca, ov ro Igcov. dea renixu doi, o l^ca,
Ttuyxcrf.og lepedvexo o alrla 81 avt cJ xal r ovr cdv i / y iv e 6
iS . Vide quæ supra annotavimus ad verba 203. C, ed. 259. ov Se dv cjtj
$i]S*Ep ait a tlvai, Savfiadrov x. r, A. Frustra in horum verborum
explicatione Rtickerti industria versata est censentis, dv pro uti
roiovtov poni non posse; id enim Plato si exprimere voluisset, non dubium
esse, quin scriptum exstet olov Se dv gJt}$7/£. Addit autem Riickertus:
Mihi cogitationum seriem iutuenti sic res se habere videtur, quod mirum esse
negatur^ non esse illud præcedentibus verbis contentum, sed verbis
quidem non expressum, humauitatis caussa, ex iis autem, quæ et dixit
Agatho et statirn addit Diotima, facillimum ad intelligendum sc. ori
icdyxaXoS oo i i<podr£To, cuius erroris caussa prior error est, quod AMOREM
cum AMATO confudit. Certo sic omnia bene videntur cohærere. Quem autem tu
opinatus es AMOREM esse, nhiil tibi mirum accidit (quod pulcherrimum
esse putabas.) Opinatus autem es AMATUM AMOREM esse, non AMANS. Ea
de caussa videlicet pulcherrimus tibi AMOR videbatur. (Id autem non est
mirum), Nam cet. Semper meminerint lectores, orationem hanc tanquam
vere habitam coram convivis Agathonis hic proponi, ut interdum aliquid
etiam pronuntiationi singulorum verborum tribuendum sit, qua assequuntur
haud raro loquentes, quod verbis positis non indicatum est,
"Ov igitur relativum ubi pronuntiando argetur, uti Diotimam hoc
lecisse consentaneum est, tantum abest, ut pronominis relativi potestatem
solam obtineat, ut ei rei indicandæ inserviat, de qua præcipue
agitur. Quam autem tu opinabaris est igitur accentu orationis in
pronomine relativo posito: Quod autem talem tantumque deum esse
ominabaris. Vide de hac relativi pronominis significatione Mattii. Gramm,
arapl. §, 480. 3. 899. seqq. Sia x aio x a. doi, oipai,
7 t dyx aXo ff l<paivero. cfr. 201. E. dxeddv yap ri xal iyco
itpoS avtjjv t.ttpa xouxvtoc HXtyov, oldntp vvv rcpbs iph 9 Ayd$cov,
caS etrj 6 "EpcjS peyaS J9coV, eiij Se t&v xaXcov, r 6 rcS
ov tt xaXov xal afipov. Mirum est, StallbauEqcos. xai yccQ Etfw ro
IguCtov tb Ta bvtt xa kov xal ajigbv xccl ttltov xal . (laxagiGtbv•
tro 5s ys igav aU.7jv ISiav zoiavrtjv £%ov, oiccv lym
Svijl&ov, mias inquit, istud dppov, quod suspicor ia ayaSov esse
mutandum. Neque enim DE AMORE nunc sermo est, sed indicat Diotima in
universum, quid illud sit, quod ab hominibus soleat summo studio expeti
ct desiderari, videlicet ipsum pulcrumpcr se spectatum (ro t<o
ovxi xaX ov) ct quod supra dixerat cum pulcro artissime co ni
unctam esse, ipsum per se bonum. Hinc addit deinceps xal xIXeov xal
jxaxapitixdv, Non dubium est, quin verissimum sit appov verbum. Quamquam enim
concedi potest, pulcro per se spectato melius convenire propter aute
commemoratam cum bono coniunctionem dyaSov nomen, quam appov
epitheton : tamen boc maluit Plato pro illo exhibere, ut clarius indicetur
verisimiliusque videatur, quod 201* E. legitur, 6 o cratem idem fere de
Erotis indole atque natura Diotimæ dixisse, quod Agatho supra
protulerit. Vidimus autem, poetam mollitiei teneritatisque laudem
{dnaXoXTjxa') Amori attribuisse, ut verisimile «it, Diotimam appov
epitheton ita exhibuisse, ut consensisse olim cum Agathone indicaretur Socrates,
simulqne Agathonis illa sententia leviter carperetur. Addit antem
Diotima, ne qnis posito dppov nomine de veri pulcri natura dubitaret,
commemorarique forte indicaret aliud quid, quam ipsam illam pulcri
ideam, tiXeov et /laxapitirov. aXXrjv i$£ar x
oiavxrjv ix° v sc. i<Sxiv . Cave dXXoi xoiovxoS confundas
cum £r epoS xoiovxoS', de quo supra diximus annot. 245. Sensus est
verborum: Contra id, quod AMAT, aliam naturam habet et i n d,o 1 e
m atque talem quidem, qaalem ego descripsi. ele v 8 i) 9 co xa AoS?
yap XeyeiS^ Diximus de elev verbi potestate annotat. p r 36-,
ibiqne annotavimus, hac voce uti eos, qui facile aliis aliquid
concedant, quo facilius possent illis pacatis, quid ipsi sentiant,
aperire. Non prætermittendum est autem, elev verbo adhibito ita seraper
concessionem fieri, ut nesciæ prorsus, utrum persuasum sit necne •i, qui
aliquam rem concedit, de ipsius huius rei veritate. Hinc additum
habes nostro loco xaXcoS yap \iyeiS t quibus verbis indicatur aperte,
Socratem Diotimæ sententiam probare. Recte Fictuus verba convertit:
Esto, ut ais, hospes, præclare enim loqueris. Non igitur
audiendus est Stallbaomius docens annotat, ad Piat, Phæd., A. ed.,
caassale enuntiatum, quod post elev positum reperiatur, non tam ad
$lev pertinere, qnam ad insequentia verba, quibus præpositum sit. Specie non
caret hoc % •* Cap. *xrv. Kdt lym
sTnov, Elev Srj, « fa»j’ xcdcog yag Hyeig. toiovtog <Sv 6
"Eqg>s xlvcc xQstav ijrK xolg præceptam, si ad verba
respicis. Piat. Phæd. 117. A., quorum rectiorem explicationem dedimus annot. 36.
Restat, ut dicamas de verbis 213* E. ineidi) St ■yiaxtnXivTj, ih
telv * Ehv Srj, avSpt$, Soxeixe yap fioi vrjtpeiv . Rursus enim
etiam in his verbis, ut supra 176. A*, supplemento quodam
opus est, quoniam non comparet, quorsum Alcibiadis
assensionem referas, habeat autem necesse est, quiassentitur,
dictum aliquod, cui assentiatur. Neque supplementum illud diu quærendum
fuit» Consentaneum est enim, couvirarum aliquos, cum consedisset
Alcibiades, hominem rogitasse: Nam liabes, qui hilariores esse
possimus te præsente? Ad qnæ ille, ehv Srjt inquit, Soxelts ydp pot
vtj<peiv. Possis etiam ita rem tibi informare, ut statuas,
Alcibiadem, cum consedisset, vulta subtristi circumspexisse specumque edidisse
eius, qui magno alicuius rei desiderio teneatur. Quod cum
animadvertissent convivæ, Alcibiadem rogarunt : Num quid est, quod minus
apud nos tibi placeat? Ad quæ ille, id vero, inquit, sit revera,
videmini enim mihi nimium vino abstinere. t OlOVtOS GJV O
*£pGOt' II. Stephanus post toiovxoS inferciendum censuit 6£
particulam, quæ res documento esse potest, eum prorsum eandem verborum
interpunctionem habuisse, quam nos unice probamus. Riickiertus quum ehv Sij
nihil nisi transitum denotare censeret, elev Sr/, xoiovxoS gjv
convertit ; Age iam, hospita, quum talis sit. Nos neque H.
Stephaui commentum probamus, neque Riickerti conversionem verborum
laudabilem censemus. Asyndeton autem quod attiuet, notandus usus
est Græce loquentiuto, quo post €i£V Si), cui caussale enuntiatum additum
est, Si particulam aliamve copulam omiserunt. Neque ratione caret hic usus loquendi, quandoquidem satis constat, asyndeta
gravitate quadam augeri. Ei gravitati autem inprimis locus est ibi, ubi
aliquis aliquid facile concedit, ut ant suam sententiam celerius
proferre possit, ut pl 213. E., aut ad novam quæstionem studiosius
abeat, ut hoc fit nostro loco, et Piat. Phæd. A. ehv, $cprj> et fttXxitixe,
6i) ydp xovxgov iititixtjjtGJV. ti XPV xoietv. Ceterum gjv participium
quod attinet, supra annotavimus ad p» 174. D. dp* ovv dyojv p£ ti
aTtoXoyijdei, participiis ita interdum scriptores Græcos uti, ut
obiectivam veritatem cum subjectivo loqæntis indicio coniunctam exprimant.
Nostri igitur loci sententia est; Si talis est, et credo talem
esse, qualem descrip si st i, natura Erotis: quam utilitatem affert
hominibus? av&Qcoitoig ; Tovto di] ]itvd rccvt 9, ?<p;, cJ
Z*5x(>aDTfg, 7tELQ<x<5o}iccL 6s didcc^cu. e6ti (ilv ydg dt) t oiovrog
wxl ovzcsg ysyovag 6 EQag, %0 xl, oh xav xcd&v, ioc 6v qpyg. ei de ng
'tjixug Iqolxo ' TL rc5v y.cdcov 10 xlv o*Eqg>s 9 w 2Ti oKQdttg re xai
Aiotipcc; c ode dh 0ayictEQov lga> '0 bq(5v tcov xak&v xi iga ; Kcd
riva xpelctv Ox £t * cfr. 201. IT dei 67 /, cJ Uyd^ajv,
&67tep 6v 8 17] y i)(5gj, 8ie XSeiv \ r av7ov icp&xov xis ioXIV
O*EpG0S ycal noloS xiS, hteixa xd Opyct itvtov. Quæ sequunt u e
verba tovto 8t) pexa xavxa x. r. A\, rernacolo sermone expressa
audiunt: das ist nun der zweite Punct, den ich dir auseinaoder zn
setzen versuclien will. 0 . 6 x 1 pev yap 81 } x,oiov roS n. X. A.
Socratica sciendi aviditas cum tanta esset, ut percepta priori
disputationis parte nimio impetu ad alteram ferretur, id quod asyndeto
expressum est : xoiuvxoS qdv o "EpwS riva Xpciav xols
dvSpanoiSj Diotima, ut impetum illum paullisper retardet, ac ne
inceptus ordo dispatatiouis turbetur, veretis, verba adhibet: 06xi
jxhv ydp 8t} xoiovxoS u. r, A., quibus cum gravitate positis Socrates
admonetur, ut et quietius cum Diotima agat, et partes disputationis
memoria teneat studiose. Tecte autem ipsis ' his verbis carpitur Agatho,
qui cum in ipso orationis exordio recte indicasset, quo ordiue
Erotis laudatio procedere debeat, ordinem disputationis male
turbavit, 7 (a\ ovxa>$ y ey ov qjS . Dindorfius,
Stallbaumius ovxcoi, quam Florentinorum librorum lectio uem esse
accipimus. Sed caussam hic, cur ovxcoS' scribatur medio in commate et
sensu, non videmus. Riickert. Iam supra annotatum est a nobis,
non omnino nobis probari præceptum eorum, qui omnibus in locis ovTco
ante consonam scribi iubeant, neque ovx&f probent, nisi id
verbo cum vocali incipiente præpositum sit. Satis docemur haud
infrequenti consensu codicum meliorum, Ovxgj? etiam subsequente consona
Græcis in usu fuisse ibi, ubi aut ipsum ovxcoS not enuntiati
particula, in qua ovxcjS’ collocatum sit, cum vi quadam proferatur.
Hoc in nostrum locum cadere nequit negari, igitur recte ovxoai servasse
nobis videmur, cfr. præterea Stallbaumius ad Plat. Gorg. 516. C., 522*
C. ad Protag, p* 351. B. el 80
tiS r}pa$ Opoiro. Omissæ apodoseos exemplum habuimus 199. F. el
yap ipoiprjv, Ti 80; dBeXcpoS avxd rovxo oitep l6xiv, 06xi
xivoS aSeXtpoS rj ov ; $dvai el vat f ad quæ verba vide annotat. 234. Nobis
pari modo præsertim in familiari sermone loqui licet: Wenn uns aber
ie— mand friige : In wiefern eigentlich ist denn, o Socrates und
Diotima, Eros die Liebe zum Scbduen ? ich will es aber deutlicher so
ausdrucken : Einer, der tyit turov, oti Ftvia^ai avtcji. ’Al\’ in
no&u, iyrj, ?; cjroxpwJtg tQCDtt]( J lv toluvSb' TL i&tui
txtivcp, <J ct.v yivtjtai tu xala ; Ov ndw itpijv in i%nv lyco
ItQUS tttVTl]V tljV igattjOlV TCQOXcLQCJS dxOXQlVUCS&Ul.
'AI /i, itp>], bjgxfQ uv ii ng fitzapuldv, dvzl zov xu- E lov
zcj dya&cS %Quynvog, hvviHxvolzo' (frige, a 2.(6- . das Schone liebt,
was liebt dena der eigentlich? ori Fer id $ a i a v reo
. Mecum fatebuntur lectores*, se haud facile responsuros
fuisse, si Diotimæ illa quæstio sibi proposita esset, quod Socrates
respondit, mirarique licet, Socratem, cum alias fatuitatem quundam simularet,
ut et infantem ca videre posse Diotima censeret, quæ ille non
videre se simulabat. D., tam feliciter ac subito respondisse. Sed quæstio
Diotimæ revera facillima est ad expediendum, si ipav verbi
potestatem accurate perpendas, et si accentum orationis non in xi ponas,
sed in ipet verbo. Diximus. de
ipav et <pi\tiv verborum discrimine, illud viris hoc feminis
atque amasiis attribuimus. Atque ut illic annotavimus, (piXelv
eorum tantummodo esse, qui capi se ac teneri patiantur, ita h. 1.
addendum est, ipav non nisi eos dici, qui capere atque tenere concupiscant.
Haud multum igitur differt ipav ab ixiSvpeiv; tantum modo ab eo
discrepat, quod, qui ipav dicitur, h, e. stadio cupiuudæ alicuius
rei teneri, is virili robore gaudere cogitatur atque viribus,
quarum auxilio possit, quod amet, eo potiri, cfr. 200. E. xal ovro?
apa xoii «AA oS itaS o ixi$vpd>v tov prj ktoipov ini$vpel xal
roO pij i rapovroS xai o pj/ £*« xal 8 )i?) icJnv avcoS xal
ov ivdeyS icriv, rotavi arra itiriv, cov 7j lxi$ v pia te xal 6
"EpcoS iOziv. a A A* ixi xo$ei, £(pij. Bodi.,
Vat., Vindob, Angel. habent «AA* ixixo$il. ceteri d\X* 7 ... i iri
XO$ti. Hoc præstautius illo est. Suspicor tamen, quod et Riickerto
in mentem venit, utramque lectionem coniungendam esse Platonemque
scripsisse: aAA*^ri ixixo$Ei f præsertim cum legatur in Piat. Protag. 329, D. rot>r itirtv, o in ixixo$<» f h. e.,
das ist es, was ich noch hinzuwunsche. Paullo infra p» 205. A. xal
ovxin x poSvei ipi<5$ai x. t. A. Ceterum x o$£iv s. ixixo$Eiv de rebus
inanimatis dicitur, ut i$i\etv 9 fiov\e6$ai, (fiiXeiv, ut vis quædam
describatur rebus illis iuhabitans, quæ cum instinctu animalium comparatur.
Diximus de hoc usa verborum annotat, 144. < oSxep av
ei tiSp.£tafia Aalv. llecte Ficinus participium convertit: mutatis vocabulis.
Nimirum cum 201. C. concessum esset ab Aguthone, pulcrum idem esse
atque bonum, in pulcri locum substitui iubet Diotima bonum, ut
Socrates, cum viderit, quid futurum sit ei, qui bono potitus sit,
deinceps dicat, i TCQceas, 6 iodv tav dycc&eiv zL
Iqu-, rtvio&ai, r\v d' iya,
aurei. Kal n ttizcu ixtiveo, « av yivryzai 05 V nycc&cc; Tovz’ evzoqcotcqov i]v d’ iyio, 'tya dn
oy.QivaG&ca, ozi Eudalfim’ tazeu. Kzr/SEi yag, leprj, dya&cov oi
EvdalfiovEs tvdcdfiovEg. Kai ovxizi ngogdei .tQiG&cu, ‘ "Iva xi
di pwltzai svSalficav sivai 6 (iovXu[ttvog; cilia zU.og do xtl zyziv r/
dnoxQKSig. 'Alrftrj liyug, linov lyde.
Tavzijv dij zijv (iovlijdcv y.cd zov quid ei eventurum sit, qui
pulcri facultate gaudeat. Ceterum cur hoc loco aofisti participium
probrmus, 174. B. nou nisi præseutis participium admiserimus, ratio in
propatulo est. Illic enim de actione, quæ lutura sit, agitur; hoc loco
conditiouale enuntiatum habes, in quo exemplum continetur, quoil noti
tanquam fiat, proponitur, sed quasi factum revfera Socratis
animo inducitur, 2tnx paxeS, q t{>VY rcDY dy aS ojy . Hæc
est unius Bekkeriani codicis lectio, quam et Bekkerus et Stalllaumius in textum
receperunt; undecim codices apud eundem habent (jcoKpaxtS i pii o
ipcov, in uno tiatxpctref ipd iptor comparet. V ulgo 6conpaxeS
ipcj p ipGOY legitur, quod Rticker- r tus iu textum recepit
convertens: Feriude ac si quis mutatis vocabulis roget ^«ic,
age Socrates, dicam, qui amat cet. Epeo autem ea de caussa non
spernendum censet, quod iu familiari sermone sæpius dicendi verbum præter
necessitatem mediis verbis iuscratur. Sed illud præter necessitatem
minime nobis p lucet ; vide annotat, neque ipeo ad dicendi genus revocari
potest, quale est C. 7 <ou iy<o funoY, n&S rovto,
i<ptjv, \iyetS ; quæ sententia Ruckerti est. Nara ut ne commemorem
quidem, quod Ipeiv nusquam inseritor hoc modo, sed (pdvai verbo
scriptores semper utuntur, etiam prima persona ipeS verbi, quæ in
tertiam mutanda erat, Riickerti sententiæ officit. Postremo ridiculum
foret, inserto dicendi verbo ipsa alicuius rerba indicare eo Joco,
ubi præcedentibus oaSlttp av ei verbis satis demonstratur, certi
alicuius hominis verba non afferri. Restat, ut dicamus, qui factum
sit, ut in tara multos codices ipeo verbum irrepserit. Scribarum aliquis
cum iutelligeret, bono in pulcri locum substituto eandem quæstionum seriem nunc
repeti, quam iu præcedentibus Diotima Socrati proposuisset, atque verba o
ipcov jcov ayaScov xi ipd apprime respoudere præcedentibus o’
ipdjv Tcoy xaXcov xi ipd, factum est, cum alteram quæstionem
cum altera compararet, atque illic ipoj præpositum reperiret, nt
id verbum vel negligentia vel imperita quadam sedulitate iu nostrum locum
transferret. HXtjdei yap oi evdaiiQttta TOVTOV 3t&t£Q« XOLVOV
tXtt tlVtXl ItUVTOV (IVftQcbitav, xal ltavzag t aya%u flou/.eOftca avroig
arca Kfi, ij nag liyug ; Ovtag, rjv 8’ tyto' xoivov ilvai
navTCJV.TL 8rj ovv, Scpr/, ai ZkbxQateg, ov ndvtag egav (pttfilv, si 'juq
ye itavTf g twv avrav £qg>Oi xal B ubi, «Ua nvag (pauev egav, tovg d'
ov; 0avfiaia i, f t v 8’ lyd>, xal avrog. ’yJ/.ka fit] &av(iat;’,
Stptj’ cttpeXovxeg yaQ ccqu tov fparog tv eidos 6vo(ii£o[iev xo lioveS . Hæc Terba
ita conformata sunt, at Etprj non addito ea facillime putare possis uon
Diotimæ sed Socrati aduumerauda esse. Neque opus est, ut affirmandi
vocabulum supplendum censeas, ad quod yap rereferatur. Diotimæ verba arctius
cum præcedentibus coniungenda sunt, ut perinde esse indicetur, quis dicat,
Socratesue an Diutima, modo veritas dicendo eruatur. Iluiusmbdi
dicendi generis permulta exempla aperiuntur. cfr. 200. B. dp’ ovV
fJovXotz* dv x is pfyas cdv jtiya? elvai, ij idxvpoS wv idxypoS ; f A8vvaxoy ht xcdv cJ- s poXoyjpuvojv.
Ov yap z ov ivSei)? dv eiij tovtaov o ye &v. Piat. Gorg. 492.
E. 2?. ovx dpa opSoHS Xtyovtai ol pi]8evoS deopevoi evSaipove? elvai
. K. ol A i$oi yap dv ovtao ye TiOLi ol v ex pol
evSaipovidxaxoi elev . xv a x i de (i ovÆt ai. Dicitur ira xi
ilermauno annotaute ad Viger. 849. per ellipsin. Plene, inquit, in
constructione præsentis temporis iva xl yivrjxai, in constructione præteriti
Hva xi yivoixo. Sclileiermamacherus verba convertit: Und hier bedarf es
nun keiner weitern Frago mehr, w e s ha1b docli der gliiclcselig
sein will, der es virili. Haud facile vernaculam dictionem reperias, quæ
Uva xi verbis respondeat. Ceterum ut recte huius Idci sententiam percipias,
(iov\E6$at et hic, et paallo infra ftovXl]6i5 nomen ad
significandam eum vim, quæ hominibus innata est atque cum oatura eorum
couiunctu, adhibetur : der Trieb. Vide qnæ <1& fiovÆOSai
verbi potestate, atque quomodo id differat ab iSeÆiv, diximus 44.
Igitur xo fiovke6$at tvdal/tayv ELvai caussam primariam describit studii
beatitudinis, ultra quam caussam progredi nemo possit. xi 6l)
ovV. Sententia liæc est: Si omnes homines eiusdem rei, h. e.
beatitudinis sempiternæ AMATORES sunt, mirum videri potest, cur alios
amare dicamus, alios non dicamus. Sed explicator hoc eo, quod a
notione xov ipdv seiungimus partem aliquam, qua pariendi et
generandi studium exprimitur, idque xov ipdv atque xov
"EpcoxoS verbis insignimus, aliis nominibus ad ceteras tov ipdv
partes describendas utimur. xiv ds q> apev xov? 8* ov.
Scriptura exspectaveris xov? ) uev
xov? 6 ov . Positum tov
oXov htitiXtivng ovo/ia rpcorce, ta Ss &XXa aXXots xaTayguixs^a
ovofiaGiv.''SlgxEQ rt; ijv d’ lya. "SlgittQ tads. oiO^ oti itolrjOig
iori n TtoXv. ?; yag ZOL EX TOV fit] OVTOg ctg TU OV loVTl OTlpOVV
ahtU XatStt iGtl jioir\Gig, «gr£ xal cd vno xaScag rafg rlyyai g C
igyaoiai xoujtiu g tlol xal o i tovtcjv SrjtuovQyoi itavTig itoitjzaL 'AXiftij Xeyeig. AXX’ o[ia g, j; d’ ij,
olo&’ autem habes pro TovS jiev, quibus verbis uequa conditio
prioris atque posterioris membri indicatur, TivuS, ut lector moneatur,
pauciores esse, qui amatores et amare nominentur, inulto plures, qui et
ipsi AMATORES AMANTE AMATO sint, aliis nomiuibus insigniri. dtp
e\oyt e £ ydp d p a. In permultis codicibus dpa omittitur, velut' in
Bodleiuuo, Vaticano uno, Vindob., aliis. Rectissime Riickertus ad b. 1. : Ægerrime,
inquit, caream dpa particula, qua id efficitur, ut sententia hæc non . pro
certa et explorata ponatur sic simpliciter, sed colligi tantum ex aliis
videatur hunc fere in sensum: si recte ego observavi, noiqGis
s6ri r i 7toXv h. e. scis id, quod itotydiv vocemus, latioris
significationis esse notionem ( ein weitschichtiger Begriff).
Quicquid euim, cura nihil fuerit antea, post ita movetur, ut sit aliquid,
huic caussam ortus fuisse dicimus noit}6iv. Apte laudant interpretes ad
h„ ]. Piat. Soph. 219- B. ritiv dreep dv prj npoTepdv TiS uv
vtizfpov ds oixuiav dyy, tov /ikv dyovxa noielv, t 6 dyojævov 7toiei6$ ai
tcov tpapev . Rodem modo, quæ latissimi signi ficatus verba sunt,
adhibentur a nobis ita, ut certum quondam, eamque artioribus
finibus circumseptam -actionem exprimant. Sic dichten de arte poetica, w i rken de textoria, handeln de
mercatura usurpari quem fugiat? it oirjtiiS ydp tovto poyoy. Ad
tovto repetendum est e superiroibus ro 7(Ep\ r ijv jnovdl W/v xai td
fihpa. In sequentibus exovteS tovto eodem supplemento opus est, quod ne minus
convenire censeas cum £ xoy rtfparticipio poetæ enim non habent id, quod
dicitur ro' 7tepi tjjv f. iov6iw)v H. r. A., sed eius periti sunt
ita, ut in carminibus paogeudis eo utantur, tenendum est: Ix&v verbum
haud raro idem significare atque cognitum habere, ea de caussa,
quod qui aliquid animo percepit atque ita mente tenet, ut eo recte
uti possit, idem id etiam habere dici possit commodissime.
ovtgj Toivvv Tiai rtepl Tov £p G>xa. Hæc brevios sunt
dicta, non item obscurius. Diotimæ mens hæc est:
Quod de poesi modo dictum est, idem in amorem cadit. Poesis proprie
de omnium rerum caussa efficiente dicitur, sed usu loquendi factam
est, ut pQcseos nomen ou ov xcdavvTM n oirjrctl, alia alia tyovGiv ovo
fiam aito 6s TtnarjS xijg itoirjGsag %v (toQiov ucpoQia&iv rb
jrfpi rtjv fiovGix tjv xal xa fiixQci x ra xov oAov bvbaaxi xCQogayoQtvixca.
noi^Gig yag tovxo (tovov xaltixca, xal o t k'%ovx£g xov to x b uoqlov
xljg noitjGtag noirycai. kiyug, ttpijv.Oura xolvvv xal niQi
xov Squtk ' xo jitv wtpuktubv £<J« nuGa rj rcov aya- D
noii niii ad eam poi-seoa particulum describendum adhibeatur, quæ in re
musica et metrica versetur. Iam ad verba accedamus to fihv xEtpaXaiov ipoaS
Ttctvziy quæ ad hunc usque diem interpretum studia misere eluse*
runt. Stallbaumius expungenda censuit verba o piyidTof te xal
'HoXepoS SponS itavxi. Riickertus contra se ita semper
sensisse annotat, quoties vel secum hunc locum tractaverit, vel cum
aliis, miro eum ornatu spoliatum iri, si vel una hic litterula
sublata aut mutata foret. Recte igitur Lticiauus ait epigr. V, v.
3. Antholog. Iacobsii . * ovdlv iv ctv^pGDrtoiui SiaxpiSov
idn voTjfia, aAA * o dv $avj.id%EiS, rovt kxepoidt
yiXaS, Ratio verba tractandi, quæ Stallbaumio placet, ut audacior,
ita miuus commendabilis est. Riickertus autem totius loci sententiam
plane non perspexisse videtur: Ut particulam tantummodo eorum hic repetam,
quæ in eius annotat, ad h. 1. ed. 169. leguntur: Quod vos de vestro
soletis Amore prædicaro, maximum deum esse et callidissimum, qui neminem
non decipiat y id multo valet magis de beatæ vitæ cupiditate,
qua omnes omnino homines velint nolint plane irretiti sunt du
-* cunturque naturali quadam necessitate non aliter, ac si magicis
artibus sint delimti. Quo sensu ipse supra 203- -D. $£tvof yoyS xal
tpappaxEvS xal doq>idTtj$ audit. Diolimæ voluntas hæc est; Loquendi usum
ut in poesi, ita in amore nomine insigniendo versatura esse,
atque amorem et amare et nomen amatorum iis tantummodo tribuisse,
qui amoris particulam unam sequantur. Summam autem amoris omnem
bonorum cupidinem esse, atque beatitudinis quidem cupidinem esse maximum
doXcpoy) amorem (iravtl). Vides igitur, to /xk v xEtpaXaiov et tov
svbaipovtiv sc. T tjv &itl$vp'iav sublecta enuntiati e$e. To XEcpdXaiov
autem primariam alienius rei notionem describit ut in Piat. Gorg. 453.
A, hiystS, otl izeiSovS drj/uovpyoS Idxiv ?/ fnfxopixi } y xal 7 }
7tpaypaxdot avxijS aitada xal to xecpdAaiov eIS tovxo TEXevxa h. e.
Stalhbaaraio interprete : dicis rhetoricam esse persuadendi
opificem omnemque eius operam atque summam ad hos tanquam ad finem
suum referri, ut aliis persuadere possimus, quod volumus. Iam nostra
verba convertenda sunt: Der Grundbegriff &av hiitivula xal tov
tvSaipovsiv, 6 lilyctitog re xal SoIiqos %qg>s navtL • <x)J.’ ot
fiiv ciXbj rgexofiivoi. ltoX}.a%rj in’ avtov, rj xaxcc xgr^auGfiov tj
xaxcc qii}.oyvava6rLav ij xaxcc cpti.oGocpiav, ovt’ igav xaXovvT at, ovt
IgaGtai, oi de xaxcc tv n elSog tinnis rs xai IcSnovSaxoTig ro tov oXov
livocia ia%ov<Uv, agaxd re xai iQuv xal igccGzaL KcvSvvevus dh]&rj
Xiyuv, hcpijV lya. Kal Xiyetai fiiv ye ug, icprj, Xoyos, co$
der Liebe ist iedes Streben nach dem Guten, and das Strebcn nacli
dem liochstcn Gute, d. i. nach Gliickseligkeit, ist die
grosstc Liebe. Restat, ut dicamus de verbis xal doÆpoS TtOLVXly quæ
nou dubium est, quin corrupta sint. Antiquitus scriptum fuisse suspicor:
KAIKOIKOCEPflCTIANTI, in qua scriptura tripliciter peccatum est a
librariis. KOI enim, quod haud fere multum discrepat a KAI, omissum
videtur ab cq esse, qui xai dupliciter posituin putaret. Hinc enata
est, cum forte, ut fit (vide annot, p* 170.) J$F£IC duplicaretur, hæc
scripturæ forma: KAI NOCE mCErflC ITANTI i ex qua dictum est, una lineola in
littera N deleta, ut non nisi A figura remaneret: xal Sodtpt HpGDf
Tiartl. Ex hoc autem sciibam aliquem, qui callidum Erotem sciret,
fecisse verisimile est xal doXepof ipoot itavxi. Ut autem
couiecturam nostram xal Xoivds^EptoS itavxi ipsi probemus > præcedentibus
verbis efficitur 205. A. rort;t 7jv Sl Tt}v ftovXvdtv xal tov i p cata
tovtov itotepa xoiyoy oi n . etvai izdvrayv dv^pcjitcov xal navtaS
xayaSa fiovÆoSai avtolS tivai adi, ?)' tzcjS Æ yeiS ; OvtcoS, jjv d
* iyco et quæ sequuutur, quibus verbis accurate examinatis
doceberis, nostro loco xoivvS nomen vix abesse posse. In
Schleiermacheri conversione legitur: Soauch vas die Liebe betrifft, ist
im allgemeinen iedes Begehren des Guten and der
Gliickseligkeit die grossle und heftigste (?) Liebe fiir ieden. Iu
Schnlthessii conversione edita ab Orellip 123. exstat: Im
Allgemeinen niimlich ist iegliches Yerlangen nach dem Guten und
nach Gliickseligkeit fur iedeu die grbsste, ihn bestrickende
Liebe* Ficinus verba convertit^ Nam summatim quidem omuis bonorum
felicitatisque appetitio, maximus et insidiator amor est
cuique. aXX* ol p\v ot-Wy x. x. A. UAXd particula adhibita, a
rei commemoratione, qualis revera est, ad loquendi usum
traositur, quo non res integra suo nomine vocatur, sed rei alicui
parti inintegræ rei nomen attribuitur, cfr. 204. A. £n. rl 8if ovv,
gJ ^GonpaTtS, ov izdvxaS ipdv (paptYy eh zep ye itavxeS xcav avtaiv
ipcAoi xal æl } dXXa xivaS epapev ipdv, xovS 6 * ov; Tpenopevoi de
indole atque naturali quodam instinctu dici— ot av to
SfoutSv iumav fyjTuGiv, ovroi IqucSiv ' 6 6’ E ifiog koyos ovxs ^fiiæog
<pt]6iv ilvcu tov £q(otcc cirts olov, eav fit] xvy%ctv]] yi xov, m
Itcciqe, ayaQov ov' ix fi avrav ye xal xodag xal x^Qctg tfttlovOiv axot
tftveiS&ca ot «v&qcjxoi, iciv avtoig doxjj r a iavtav XovtjQa
efoai. ov yaQ ro iavtcSv, otfuu, txaGtoi aona£ovtai, tl fit] i'i ng to fiiv
aya&ov olxtiov xaXil mi eavtov, to 61 xaxov akkotQiov. ag ovdiv ys
aUo tor, at 191. E. udat Si tdcrv yvrauaSy ywaixoS
d (5iv y ov Ttavv ctvxai xols av~ Spa6i tov vovv TtpoSexovdiv,
d\Axx pctWov itpoS xaS yvval xaS xexpajupivai eidlv. Pro ol ptv a\Ay vulgo legitur non male
oi ptv aWoi f quæ scriptura quoniam codicum optimorum auctoritate
improbatur, e verborum ordine expellenda est. Minus nos movet
Ruckerti argumentum dicentis, ol piv et ol Si sibi opposita esse.
Quem enim fugiat, præsertim cum æqualitate quadam careaot, oppositionis
membra interdum verborum numero et conditione non apprime sibi
respondere. xal Xeyexai jxiv ye, Miv ye particularum cognoveris vim
et potestatem, qnando xal Xiyexat ykv et xal Xiyexai ye seorsim
utrumque posueris. Altera particula efficitur, ut Diotimne sententia
hominum quorundam opinioni opponatur, qnam Aristophanes protulit, altera
vis oppositionis augetur atque extollitur. ovxot ipaititv. Sæpias
iam diximus de transitivorum verborum usu absoluto, cuius ea natura
est, ut casu adiuncto nullo non actio quædam, sed notio prematur verbi.
Positum igitur hoc loco habes ovxot ipadiv pro ovxot IpcovxiS
\tidiY, Ceterum Wolfius annotat ad h. l.j Was Aristophanes liber die Trennung
derMenschen sagte, wendet Socrates hier zu einer ernsteren Absicht
an. Alles, was iener vorgebracht hatte, beruhte anf einem falschen
Gebrauch eines Ausdrucks, der damals beinaho spriichwortlich gewesen za
seia scheint, dass Liebhaber ihre aaderen Ilalften aufsuchen.
&itel avxcvr ye xal noSaS xal xelpaS x. r. A. Do iitil
potestate vocabuli supra dictum est annotat. Ceterum adhibito pedum manuumque
exemplo, qnas sibi abscindi iubeant, qni illas non bonas esse
cognoverint, Aristophanicao orationis argumentum concidit* Fieri
enim nequit, ut dissecti homines tanto ardore, qnantom Aristophanes
descripsit, alteram sui partem expetant, cnm et ex altera, cuius
ipsis potestas sit, exscindi patiantur, quæcunque vel mala sint,,
h. e. morbosa et doloribus afiecta, vel ad usum parum idonea.
ei / 11 } ei rtf. De ii particula post ei jujj repetita M&t18
206 i&tlv ov igoldiv av$Q€Oitoi r) tov aynftov. rj dol 80xovdr, Ma At
ovx &iiovy£, yv 6* lyeo. *Ag ovv> y S’ ijy ovtcog aizlovv It Iri
Xeyeiv, ori ot av&QGMot tov i fcc&ov igcSac; 2 Val, Zcprjv. TL
de; ov XQog&et&ov, iqrrji ori xai eivai 1 6 dya&o v avtotg
egco6i ; IJpog&8TSOV. r Ag ovVy
%<p*h xcu ov (tovov eivai, akka ual dei uvcu\ *— Kcd tovxo
itQogftexiov» "Edtiv thiæns egit in Graram. ampl. $.
617. d. 1249., obi laudantur Thucydides I. 17. inpa%Sjf di z* ctvteHv ov6\v
ipyoY dZioAoyov, ei fit} ei xi npdt tteptoiHovS tovS avtdSv
kxdOtoiS. Piat, de rop. IX. 581. 1 ). tl ftt/ ei nS ckvtqSy dpyvpiov
Ttoiei. Prorsus eodem modo LATINIS id usu est nisi si. Ditfert autem
el fit } ab ei fit/ el Ita, ut el fn} nihil denotet, nisi
exceptionem, quæ ad id refertur, quod sequentibus verbis expressum est;
el fit} el autem, exceptionem per se poni indicam videtur ciqne
conditionem quandam subiuugi, ut si nliquid fiat aut non fiat,
exceptionem revera adesse docearis. ov Ipcodiv avSpcjirot, jj tov
dyaSov. Aliquot libri ol dv^pamoi, Sed non opus articulo, cuius omissio
admodum usitata est in eiusmodi vocabulis, qualia snnt dvt/p, d8eA(pot
f yvvtj t yij, alia, quum de genere posita sunt. Stallb. De
genitivo, qui in verbis continetur ?/ tov aya&OV Mnttbiæus disseruit
in Gramm. ampl. $. G31» 2. 1299., ibiqnc ?/ r ov acya *' 3ou
positum esse monet pro t) tq ayaSov. Nominativum incepta verborum
structura exigit quidem, sed cave, tov aya $ov minos recte habere
censcaa aut loqueudi usui parum accommodatum. Nam verba, quorum
terminatio ad præcedentium verborum structuram conformanda sunt, loquendi
usus iubet, ubi duplex structura in præcedentibus reperitur, ad eorum
verborum structuram accommodari, quæ vi quadam præcipue emineaut.
Cum gravitate nutem h. 1. dictum est ipaidiv, quandoquidem nou
de actione verbum accipiendum est, sed de efficacia notionis, quæ
verbo finito expressa est. Vide de liac verborum transitivorum potestate
annotat. Positum igitur est ov ip&idv arSpooTtoi pro ov ipadrai
el6iy ar^pooicoi. Ad geuitivum autem relativi pronominis, cum
deberet proprie ad verba d)S ov~ 6iy ye dXXo Idxiv referri, relatum
censent interpretes i/ tov Ctya^ov. Recte, Possis
fortasse t/ cum genitivo etiam ad id diceudi genus referre, quo
ponitor haud raro præcedente aliquo comparativo ?/ cum genitivo,
cfr. Mattii. Gramm, ampl. §. 450. 2. 844. t ) 6 vi 6
oxovdiv sc.dAAov TtvoS ipadtai eivai i/ rovxov. Tf vulgo edebatur
olim, quod primns fuit Astios, qui in y mutandum censeret. aga
fcuZAyjldi/v, fqyij, 6 1'gog rov to ayccdov avxw elvai de L
'Jhj&etixaxa, ErpijV 4yw, liyet-g. Cap. XXV.
"Oxe d>j rovxov 6 Eqoj g eOxlv, rj 6’ i}, ruv riva, xqo- B
xov duoxovtav avxo xal Iv xLvi xgdfei tj Cxovdrj xcd ap 9 ovVy rj
8* 7/ 1 ovroaS anXovv, Vulgo legebatur i/6rj pro 7} 8* rjt quod
Bekkero debetur. Illud potest ferri quidem, sed
hoc non dubium est, quin sit rectius atque verius. OvtooS ditkovv
est: non addita accuratiore definitione, tam simpliciter» Non
perinde est autem, utrum præponatur an postponatnr ov^goS vocabulum
verbo, ad quod pertinet. Ubi postpositum est eidem, ovtooS ad præcedentia
verba respicit signiilcatque .* hac, qua diximus, ratione; contra suo
verbo præpositum, quamquam illum SIGNIFICATVM non amittit, tamen notionem
aliquam adiungit, quam dubitativam interpretari possis» Eo nimirum animo
est, qui verbis ovtgdS aitXovv utitur, ut qui aibi rem non plane probari
indicet. Hinc mireris simplicem Socratis assensum val, £<p7jv 9
qui documento est, Socratem fatuitatem quandam simulare, de qua supra
diximus annotat. xal ov jiovov elvai t exXXd xal æl elvai.
Vulgo ctXXdc oiel elvai legebatur omisso Hod vocabulo, quod hb iis
deletam est, qui putarent, xal iam in præcedentibus positura esse xal ov
povov elvai. Frias istud nui autem non du bium est, quin ad totam
enuntiationem pertineat, additumque sit, ut significetur, aliquid,
quod in præcedentibus contineatur, hoo loco repetendum esse, ut
expletior oratio audiat: ap’ ovv, Hqrtf ov xal 7tpo6Seriov a ov
povov elvai y aXXa xal dei elvai . Diximus supra annotat, p» 74. de
ov povov dXXa xal et oi * povov aXXa. Hectissime autem Stallbaumius
ad li, 1. ov poyov aXXdj^ inquit, omisso xal Tion nisi iis dicitur
locisy quibus alterum orationis membrum tantam habet vim et gravitatem,
ut quod in priore membro dictum erat, id corrigatur et quasi prorsus
tollatur . ore dr) rovrov o $pv)S idriv. Additur vulgo
dei post ititiv, quam voculam suspicor eidem deberi, qni 204E. scripsit
$epe, cJ ZSoZxparef, ipdo, Toiy dyaScov rl ipa. Vide annotat, p
268. Explicabilem tamen voculam censuit atque iu ordinem verborum
recepit Riickertus, qui et vulgatum rovro, quod Bastio praccunte
editores fere omnes' iu rovrov immutarunt, probavit annotans ad h.
1. Dejendi librorum structura posse videtur . Quamquam enim
quid vulgari in usu rebusque humanis amor vocetur, nondum est
probatum, tamen quid esset, 18 * jj Cvvradiq egas Sv xctXoito ; tl
tovto tvy%dvu ov r o £gyov;' £%hs tlxiZv ; Ov plvz *&v <5s, Bgnjv
iya, ut AwtlffM, tfrav[iaf:uv tnl (Sotpia xal tcpokav tcuqu ai avta
tuvra iia&rjaofievog. ’slXX’ lyco tfot, h<p>J, iQu>lati yciQ tovto
tonos *v xaXa xal naxa to Odifitt xal xctta tt/v ipv%7jv. Mavtilus, tjv
8’ iyco, SsCtat o tl affatim docuere, quæ præcedunt. Si
igitur statuamus huiusmo di hic Jieri • transitum: quandoquidem AMOR
hoc est sernper (bonorum sc. sempiternæ possessionis appetitio), age iam
quid vulgo AMOR appellatur ? quis est, qui reprehendat? At hunc ipsum
sensum verba fundunt, si tovto legitur ♦ Becte tovto lUickertus
retinuisse videtur, quamquam minus recte enuntiationis totius
sententiam explicavit. Non enim commemorata erotis natura quæritur,
quid vulgo amor appelletur, sed a theoria, quam vocant, erotis ad
praxia transitur ita, ut cui studio Erotis et cuius rei appetjtui erotis
nomen conveniat, Diotima sciscitetur. Ceterum perinde est, utrum
dicoxovtoov avto scripseris, an 8icdxovtcov ccvtov y adest enim in præcedentibus,
quorsum utrumque referri possit. Vulgatum hoc est, illud codices
optimi præbent, idque a nobis in verborum ordinem receptum est,
quod sane Sigjxeiv commodius ctyn re aliqua, quam quis
persequitur, quam cum Erotis nomiue consociatur. rt tovto
tvyxaY&i <> v ro tpyov ; txeiS elrcelr; Post tpyov
interposui signum interrogandi, quo maiorem haberet oratio vigorem et
alacritatem, Qna in re secutus sum auctoritatem Heindorfii ad Piat. Charmid.
p.l62.B. nbi hæc leguntur : tl ovv dv elt) nort td rd tavrov npdrteiv;
txetS dnetv ; Infra 207. B. rd Sc Sijpla r/S ahia ovrutS iputnxutS
SiariSe6$ai ; A tyciv ; S t a 1 1 b. ov pevr’ dv di, tcppv
lycd, ut dioripa, iSavpa^ov irci dotplqi. De altero conditionnlis
enuntiatiouis membro omisso vide quæ supra annotavimus annotat, 242.
Ceterum Græci accuratiores quam nos Savpapeiv riva irci rivi dixerunt
pro Savpd&iv tl nvoS. Illius structuræ exemplum est Tlat. Menon, 70.
B. co Mtvutv, rtpd tov ptv fltrraXol evSdxipoi rjeav iv rois KAA 77
Qi xal iHavpdSovio iip’ Inmxy re xal nXovrut, vvv St, cos i pol Soxei,
xal ini doqtiqc. tPoitdv verbum frequentativum est, atque ire et
redire significat, cfr. Plat. Critou. 43- A. SvvifiqS t/Sij pol idrty, ut
2utxpateS, Sia rd no XX a XIS Sevpo qtoitdr. Hinc solenne est de
discipuli» scholam frequentantibus. Iam expendas Socraticæ modestiæ acumen, quo
ille etiam alias haud raro utebatur, ut sententias aliorum facilius
eliceret. Diotima autem missis ceteris verbis, quæ ad rem non
pertinerent, quasi nihil aliud, quam ovx olSa iyatye Socrates dixisset,
trAA iyut iput respondit. xors Xlyeis, xal ov fiav&ava. 'AIX'
lya, y 8’ i}, Oatpi- C Crepor £pta. xvovCi yccQ, Ecptj, w Xaxqcxxes,
narres av&qaxoi xal xara ro (Sapa xal xara rrjr xtyw/fl», xal
baiSccr Er rivi j/Atxta ytvcavxca, rlxreiv badvpsi rpiav rj < jniGig .
xixxtiv d"s iv fuv alc%Q<p ov Hin) cacti, Iv 6h rcy
xaltS. xal ov par Sarto. Interdum Græci, quæ per caussalem
particulam proferenda erant, copula adhibita cum præcedentibus coniunxerunt.
Sic hoc loco pro xai ov pavSava), quibus verbis caussa continetur,
cur dicat Socrates pavxsiaS delxat, o ti 7tote XlyeiS, ex nostra
certo Latiiiorumque dicendi consuetudine scriptum exspectaveris: ov
yap fjiavSttVGd. Exempla non rara sunt huius dicendi osus. Unum ut
aderam, in quo vis illa xal vocabuli præcedentis verbi significatu
tectiore panllisper obscurata est, legitur in Plat. Lachete 194. c. 22. 2.
jjxovtias, do AapjS ; A.*Ey<oye* xal ov (jtpodpa ye pavSdvcj D
Xfyei, quæ verba rectissime explicata suut a Ribbekkio, quem
Engelhardtus laudat ad Lachct. ed. 60. Annectitur, ille inquit, ov
yavSavcj ver iis fycoye axtjxoa non ut oppositum, sed ut effectus,
Minus id quidem sentitur, quia negativum enuntiatum sequitur, sed
inest ei affirmativum • SavpaZoo (ov ydp pavSdvGo o ti Tfyti) Sic nos
optime diceremus: Ia ich habs gehort und wundre inich, wie er so
etwas sagen kann. Displicet in hac verborum explicatione uuum hoc,
quod affirmativum verbum negativo enuntiato inessc dicitur.
Illud 3 « vfictdjiiv inest potius iji Socratica interi ogatioue
i/HOvdaS', co Aaxqti quæ verba 8ocratfcm protulisse
consentaneum est vultu summam Critiæ admirationem exprimente:
Eodemne, quo ego, o Laches, stnporo atque hominis admiratione verba
hæc audisti? Cui ille, audivi, inquit, nam haud æque, quid sibi
velit, i ntelligo. tjpdov rj tpvdif, Cum præcedat itdvxeS
avSpaoitoi, scriptum exspectabas avxcov rj <pv<5iS. Nihil ad hunc locum
annotatum reperio ab interpretibus, ut mirer, neminem in verbis
rjpdtv 7 ) tpvdiS offendisse. Schlciermacherus verba convertit : Alie
Menschen namlich, o Socrates, sprach sie, sind fruchtbar sowol dem Leibe
ais der Seele nach, und wenn sie zu einem gewissen Alter gelangt
sind, so strebt unsero Natur zu erzeugen. Mitigata est Platonicæ
dictionis durities Ficini couversione hac: Omnium, o Socrates, hominum prægnans
et gravidum corpus est, prægnans et anima; et cum primum ad certam ætatem
per venerimus (ysvcjyXOLi ), parere 'nostra natura cupit, Illam duritiem, quæ
mitigata est, ut dixi, Ficini conversione, non item excusata, quomodo ego
excusem, non habeo, nisi fortasse in 6crmone familiari, qualis hoc loco
refertur, dicendi quamlam licentiam at'r 'H yag avSgog xal yvvruxbg Svvovala roxog
idrlv, ?<m da tovto &uov to ngdyy,a, xal tovto Iv
&vrjrc3 ovn tc 5 %com afravarov Ivtativ, t/ xvrjdtg xal rj
yivvrj<5ig. ravra 8’ iv ta avaguoStm ddvvarov yevtci&ai. D
avdguoOrov 8’ fOrt to alo^gov navrl rta ftdip, ro di xalbv dgjiovcov.
Moiga ovv xal ElXtl&via rj xakXovi} quo negligentiam concessam
esse credideris. ?/ ydp avtipdf xal yvvaiHoS 6vv ovdia xoxof
Itiriv. His verbis adeo offensi sunt Astius et Ruckertus, ut delenda
censueriut. Hiickertnm audi annotantem ad h. 1« : Verba hæc qui
legat, nec ceteram Platonis rationem perspectam habeat, non potest is aliter
existimare, quam unicum Platoni eum amorem esse, qui utriusque
sexus mutua consuetudine contineatur, Neque enim aut præter
cetera hunc quoque significat partum esse, requireretur tum
xal semel vel bis positum, aut primum se hunc amorem tangere
velle indicat, ac deinde de ceteris generibus, immo in sequentibus de universo
amore agit ita, ut nihil in præcedentibus de singulari quodam eius
genere dixisse videatur. Atque Plato tantum abest, ut solum illud commercium
amorem putet esse, ut in hoc ipso congruat vel maxime eius Tatio
cum ceterorum Græcorum ratione, quod nec solum existimat, nec potissimum
hunc amorem immo ad vilius hominum genus eum putat pertinere. Hæc
verba licet habeant aliquam speciem veritatis, tamen non ita nobis
persuasit V. D., ut cum eodem verba delenda censeamus. Neque
probumus, quæ Stallbauinio placuit, verborum 'explica tionemhanc: Nam nt
primum dicam de viri mulierisque coitu, is nihil aliud est nisi
ToxoS, In quo protecto cernitur divina quædam vis, ut hominum
genus propagetur atque nanciscatur immortalitatem. Diotimæ mentem verba
declarant xvovdi ydp itdvreS avSpcoitoi xal xara ro deupa xal xard
tt)v iftvxVYy quibus aperte indicatur, disputationem de partu in
duas partes divisum iri, atque in altera parte de corporis, in
altera de animi partu sermonem futurum esse. Ac de corporis quidem
partu disserens aliud exemplum laudare non potuit, quam viri mulierisque
conjunctionem, neque opus erat additis quibnsdam voculis indicare, etiam
alterum genus esse toxov, quod hæc indicatio satis manifesta facta
est verbis xal xatd njv fvxqv. xal tovto er SvTjTa
orriTu{uffi dSavazov Ir edriv h. e. xal o Iv $v7/r<jS orti roJ
Zcitp d 3 rixar ov {veOtiv, tovto iOT iv, 7} XVT/Sif xal ij y
tvY7]<Sl5, Sententiam quod attinet, cfr. Piat, de legg. IV, 721.
C. yap&v SI Siar 0 T/S>cvTa, a )S iOrir, y to drSpooTtivov ycvoS qiv6et
Ttrl ptxdhjiptv dSavadiaS • ov xal trttpvxey ImSvpiav idxzry
ttuCar. 46 ydp yevcOZtai xAti itft* rj/ yevldsi. 6ux taura ototv [tiv
xaXeS jr&o&ieia$y xo xvovVj ilscov x s yiyvsxai xal
evq>Qaiv6fUvov dutis Itat xal tlxxu ts xal yiwa * otav ds
cdOxQMy tixv&Qaaov ts xal Xvnovfisvov CvtinuQaxca xal anotQhtsxat xal
avelXXsxai xal ov yswa, «AA* Xti%ov xo xvytia xalenws qp£$£t. d&ev 6
i] zcp xvouvxi xs xal vdv, xal jxp dvdovvnoY xeidSai ter eÆvtjjxdxa,
xov xoiovxov idrlv imSvyfa. yivoS ovv dv^pdmaov itiri • xi
%vft<pvh& x ov navtoS xpovov t o 8ia te AovS aura) dvvenetat xal
6werpetcti, xovtw xo5 x poncp d$avaxov ov' xoo xaidaS naiSoDV
xaxaXiitopevov, xavtdv xal %r ov dei yevetiei, rijs aSavadlaS 4
iexetXytpevca. xovrov 8rj anoeSxepelv bcdvxa kavtov, ovSenore odior. ix
npovoiaS 8* dxodtepel oS* dv naldcov xal yvvatxds dpeXy. Adde. A.
xal 8r/ xal 3 rd, fynpodSev tovtcdv fnjSlvxa, ds Xpy Xfjt
deiyevvovS (pvdsajS dvxtxxGScti, rci5 TtaldaS jratS&iv xaxaÆiitovxi
dei r<f> Stco vnt/ pexaS JvS’ avtov napadi8orai. Motpa ovv xal ElXei
3 vt a ?} xaAAovj} x. x. A. Quia dv8poS xal yvvaixd S dvv ov 6 i a est
divinam quiddam, divinum autem non nisi cum pu1cto habet
couionctionem; proptcrca pui erit udo est qnasi qvædam
obstetrix et conservatrix (?) vitæ. Stallb. Non mirum, Moipocv
una cum Ilithyia hic commemorari. Nam ut apud Homerum sexcenties cum Morte
coniuncta repentur, tTl numen SIGNIFICATVR, quod fiocm vitæ
adduxerit, ita eadem h. 1. propter iuitium vitao laudatur. Convertit
verba Schleierraacherus: Eine einfiihrende und geburtshelfende Gdttin also
ist die 8chbnhcit der Erxeugwng. iÆojv te yiy vexat. Repentur
post xe particulam vulgo 8ij additum, quod sane habet, quo se
lectori commendet; verura qaoniam in codicibus plurimis optimisque non
comparet, ex ordino verborum expellendum fuit. 8iax^lxai verbum, quod
paullo infra legitur, summam animi liilaritatcm indicat, qua prueeprdia
quodammodo explicantur atqno dilVunduntur. 8ut][ii(j$at verbo nostratium
aus gelassen sein apprime respondet. E coii; trario vernaculum Angst
ab angusto Romanorum derivatum eam animi conditionem describit, qua præcordia
contra huntur atque nimio sanguinis confluxit premuntur. Hinc
explicabis dvdneipdxai verbum, quod paullo infra occurrit, et quod
Scbol. explicat: dvdn Elptixai • tfvdtpetpexat. xal dvelAAtrai.
Summa exstat apud Grammaticos discrepantia in scribendis verbi
ftMfct* A td$ai formis. Nostram scripturam, quæ et apud Bekkerum et
Stallbnumium reperitor, Bodkianus exhibet, adde Vimlobb. tres,
Florentinos duos •liosque non paucos. Vido lltrfuikenium «d Tim. L» V,
Piat. E fjdrj Citapywvn itoXlrj rj
Ttrotydig ylyovs nsgl xo xaXov dia xo psydXijg codivog dnoXvtw xov Inorna.
Idti •yccQ, cJ ZaxQares, ignj, ov zov xaXov 6 tpcog, tSg dv oXh.
AXXa rl iirjv; Tijg yswijdBGig xal tov
roxov Iv r« xaXa. Elsv> v\v d’
kyej. JIaw plv ovv, &pi]. Tl
drj ovv tijg yswqasag; "Ort
dsiyBvig Idzt xal d&avazov cog &v7jza rj yewrjdig.
dftavaoiag 207 dh dvayxalov itudvjuZv (iszd dyaftov Ix zav «S /toAo
69. In uno Bekkeri codice aViXXexai legitur, quod Atticum esse censet
Astius ad h. 1. Apud Phrynichum exstat : dvetXeiv fitfiKior 81 * IroS X
xaxidzov «AAa 8ia r qjy duo avdXXEir, ad quem locum vido
annotat. Jjobeckii 29* «AA* tdxov zd xvypa X& Xs7C
gjS '<pep£i . Notabis Jioc loco Græcæ linguæ idiotismum, quo verbum
finitum est, quod participio Expressum esse oportuit, participio
expressum est, quod verbum finitum esse nostra dicendi consuetudo
exigit. Proprie igitur verba scribenda erant: <*AA ?<?£« z o xvypa
xaX£7tu>S tpipov. Vido Indices» o&by 8 y t<jj
xvovvxt T 8 Hal y8y dTtapycjYTii apyuvxt quid significet, schol. ad
li. !. explicavit: oppcoYXt, opyoovxi, zapaxxopivoD, y av~ Sovyzi.
XapfldvEroci 81 xal in i zgjy padS&iv TCinXypoapkyody ydXaxtoS. Timæus
habet: dnapvcSda • zapatxofikvy vito 2A iif>£G)S xal 8eopivy
IxxpiCtooi tiyoS. Coniuncta participia habes za5 xvovvxt zs xal fj8y
dnapytavxt ita, ut posterius prioris notionem contineat quidem, sed
eandem impense augeat. Describit autem dnap - yacv verbum ad
philosophiam translatum eius hominis conditionem, qui ardenti
cupiditate sciendi ductas haud procul a sciendo se abesse sentit,
idque iam ia eo est, ut consequatur* Iu sequentibus vulgo
legitur itoXXt) y itolydiS, quæ scriptura nullo modo ferri potest.
Felicissime Abreschius io Dilucid. Thucyd. 420. scribendum esso
vidit itoXky ?} ictolydiS. Jlxoly6 iS animi
commotionem exprimit, qua efficitur, ut aliquis impos sui reddatur.
Hacc nominis notio quam bene cum dnapyntv verbo conveniat, neminem
non videro arbitror, 8 ia zd peyaXyS foV IXOYza h. c. quod sciant magnis
doloribus se liberatum iri, si phlcro potiantur. Repetendum igitur est ad
Ixovxa participium avzo. doS dv oIei. cfr. p, 201. E. dx^dv
yap zi xal iyoo npoS avxyv izspa zoiavxa. iXeyoY, car efy d "EpooS
piyaS SeoC, ely 81 zcoy xaX&Y. Paullo ante ne mireris i<py
additum esse in enuntiato, cui oou præcedant alius personæ, sed Diotimao
verba, vide annotat, 249. Verba nostra
convertenda •uot : Es iit nam licii, oSo- $ ytjiiivav, dbtSQ
rov raya&ov £ correo tivat as i 5 sgas iozlv. dvccyxaiov 8fj Ix
zovrov rov ioyov xal zijg u&avaoiag rov Spara slvat. Cap.
XXVI. Tavta ts ovv navta IdlSaOxs fis, bnvts ftegl riov tgauxcav
Xfryovg jrotoiro, xal aors ijgsro' TL oi'st, u crate», waren
IhreWorte, die Liebe nicht das Streben nacb dem Schdnen. Quibas auditis
Socrates sciendi motus aviditate, quo celerius, cuius rei Eros
esset, edoceretur, verbo eo usus est, quod Diotimam proprie adhibere
oportuit: dWdc, Stallbaumius post ri pyv supplendum esse censet
aAAo, de cuius verbi haud infrequenti post T i omissione supra
diximus annotat. Nostro loco minus hanc aXko verbi omissionem probaverim
j accentus orationis nou in ri, sed in prjv ponendus est ;
respondent autem Socratis hæc verba apprime nostratium: •ondern was
d e n n f Elert yy 8 9 iyco. Lineolam posuimus post iyoS, qna
indicetur, Socratem nimis impatientem disputationis tardius procedentis,
coucessisse quæ audisset, inconsiderantius, ut celerius cetera
perciperet. Sed priusquam novam suam quæstionem institueret, Diotima
gravitate rem . rursum affirmavit quasi admonitione hac usa; Hem
accuratius perpende, neque quod non aatis perceperis, concedere
noli. Diximus de fikv ovv voculis annotat. 250. rt 8y ovv tyt
ytvrr} 6eoof; Haud dubium est, quia aliam quandam quæstionem in
mente habuerit Socrates, cum elev responderet. Admonitus autem 9t
Diotima, ut consultius rem examinaret, rl St) ovv TtjS yevvygoS dixit. Nihil
auteih ad xrfi ysvvjjdeooS genitivum supplendum est. Petitum enim r
yS ytvyjjOscoS verbum esuperioribua est ita, ut indicetur, hoc
potissimum in Diotimæ enuntiato præcedente accuratiore explicatione
indigere. Ceterum 5?/ ovv et ovv 8y ita diilerre ait Stallbaumius
annotat, ad Piat* Critonem ed. 128., ut differant vernacula also nun
et n[un also. wf Svyto) h. e. quantum eius fieri
potest in eo, quod per se spectatum morti obnoxium est. Recte igitur Riickertus ad hunc locum, verbis $vf]T(k) limitationem
quandam inesse censuit. cfr. Matth. Gramm. ampl. §. S88. a. 710*,
ubi Sophoclis laudatur Oed. C. v. 2Q. jxctxpdv yap, oot yipovxi
t npov6rd\yi o8ov . Piat. Soph. 226. C. r ax&ocv, coS ipoi,
tixhpiv licixdxxzis, elitEp rov rdyaSov kcrvza) elvai asl d
HpatS i 6 X i v . Sic Bekkerus et Stall2koxQcct£s, vtTttov tlvat xovxov
tov iourog xai xijg tiudufiiag; y ovx alo&dru tog dsivwg diaxt&sxai
navxa xa &yqLu, Insidar yswav im9vity6jj, xai xa ns£a xai xa B nxyyu,
voSovvrd rs navxa *ori igauxws diaxi9i(iBva tanmius locum
emendarunt, qui vario modo depravatus repentur* Vulgo legitur
elitep tov ctya$ou. In Vindob, ono rayaSov comparet, hinc
emendationis illius præstautiam expendas. Sed etiam, Biickertus inquit,
vulgata lectio, quam plurimi libri tuentur, proba est. Construe : ehtep
Toi) dyaSov EpaS idtiv, quibus iZyyTftiXGoS addita sunt verba
iavtco tlvat dei. In quibus supplendum est subiectum 6 EpcoS, quod adest
EpcoS, prædicatum est, nisi forte mavis cum Bekkero, Dindorfio, Astio,
Stallbaumio inserere 'sine libris articulum, quo fiat, ut subiectum adait, prædicatum
supplendum relinquatur. OltOZS Tt£p\ ZGJ n ipGDtl xtxdUv
\6yovS noiolxo* Sæpius igitur Diotima de rebus eroticis cum Socrate
disputabat, id quod etiam colligere licet e verbis 206- B.* ov
pAvx* dv dfe iSavpafiov iic\ docpu* xal iipoircov irapd de aind
ravra paSr/dopevoS. Ceterum ne forte scribendum censeas esse
xovS XoyovS Ttoiotro, vide quæ annotavimus 12. Fingit autem Socrates hoc
loco, factum esse aliquando, ut, cum iu eroticas res disputatio
incidisset, Diotima et alia, et hoc quæsivisset: xl ohi altiov eivat
zovtov TOV EpCJZoS hol tijS liti3t yilaS ; -, v f V
ovH.aidSacvei cu s det rc &S x. t. A. Non statim patet, qui
fiat, ut Diotima animalium mentionem faciat hoc loco* Commemorat ea ideo,
opinor, ne fortasse A oyidpov caussam eroti a Socrates dicat Paullo infra
habes : z ovS pkv ydp av^pamovS oXoiz * dv ziS bt Xoyidpov zavxa Ttoielv
xa 61 Sjjpia z ii ahia qvxgdS iputixoaS 6 tariS e6$ai; quæ verba lmic quæstioni
præmisisset Diotima haud dubie, si accuratius loqui voluisset*. Sed et hæo
cogitationum series ferri potest iu sermone familiari* 8eivgoS
explicatur insequeutibus vodovvzd re -jcdvxoc xai ip&TixcoS
SiaziSe/ieva. litcnim magno dolore afficiuntur, ut indicatum est supra p*
206. E.» omues, qui procreare gestiunt* Optime Schleiermacherus
verba convertit: in ivelchem gewaltsamen Zustande sich die Thifero
befinden* Ceterum vodeiv verbum rectissime annotante Stallbaumio ad Piat.
Phacdr. 228. B. aTtavTvda? rrJ rodovm 7Ctp\ Aoycoy axoi/v, ut
Latinorum ægrotare dc vehementioribns cupiditatibus poni solet, quao
homines vclut morbo quodam afficiunt. xat Et oi pd idziv vnl-fy r o v T a> v . Cave post 7tai o
superioribus cjS particulam repetendam censeas, quæ etsi possit suppleri,
tamen, qui Græci ingenii volubilitatem compertam hubet, structuram
verborum hoc itQtotov filv 71 fq\ ro | vftfuyfjvai dlhjXoig, httira n tgl
ttj v rgorprjv to£f ycvofihov, xal ixoifia tdtiv vn I q tovtov xal
du<(iux£(}&ott, tu da&ivsercna zoig l<J%vQOTceTOig xal
vxepanodvfoxsiv, xal ama roi Xiiiio xciQuzuvuatva [<3sr’J loco motatam
non ægre feret. Neque sine caussa huiusmodi mutationes structurao a
scriptoribus admittuntur. ."Negari enim nequit, suspensam orationem,
quæ longiuscula sit, languidi quid habere atque molesti, quod mutata
structura felicissime removetor. Deinde inesse senties ipsis ocrbis, quæ
ab incepta structura recedant, gravitatem, quæ nostro loco apprime
convenit, ubi amoris vis atque potestas describitur. Exempla huiusmodi
structuræ mutationis ubivis obvia sunt. C. Zv$v/nrjSel5 cJs* SeiyojS
SiaxEivtai Spaoti tov ovojiadtol ytvkd^ai xal xXkoS eis tov irceita
Xpovov aSdvatov xata&kdSat xal vn\p tovtov xivdvvovf te
xivdvveveir Ztoi/ioi eidi x. r. A. Nos eodem modo loqui possumus: Oder
weisst du etwa nicht, in welchem gewaltsameu Zustande sich
alie Thiere betinden, wenn sie zu erzengen streben, sowohl die
ungefliigelten uls die gelliigelten, nud wie sie sammtlich krank
und von Schnsuclit geplagt sind zuerst in Beciehung auf die Begattung,
dann wegen der Nahrung des Erzeugten, und sie sind bercit, fur
diese zu kampfen, die Schwacheren mit den Starkereu, und fur sie zti
sterben. Ceterum ne (^nem oilendat pluralis numeras viil.p rovtaov
præcedente singulari tov ytropkvov, 1 6 ytvoftevov e genere est collectivorum |
quæ post se positum singularem numerum rarius admittunt. xal avta t o5 Xipcj
itapateivo pexa [cJsV] ixeiva ixt pkcpeiv. Hæc verbA non dubium esse
arbitror, quin labem contraxerint. Namque qui totius loci
structuram accuifftius examinaverit, eum non fugiet, opinor, verba
xal avtci rc5 Azp<j> 7tapateiv6peva x. r. A. b præcedente xal
Ztoipa Zdtir pendere. Huius structuræ non intelligentes grammatici,
ut loco mederentur, <juem depravatam censebant, ufcr textui
intulerunt, quod vocabulum nostro quidem arbitratu inutilissimum
est. Ficinus verba convertit j et j>ro illis occumbere parata sunt,
ac fame dejicere, modo filios nutriant, et aliud quodlibet audacter
aggrediuntur. In Schleiermacheri couversione exstat : u m nur ienes zu
ernabren. Sed coSte particula nunquam ita adhibetur, ut consilii
notionem exprimat, quin potius necessitatem consequcutiæ describit
et alicuius rei couditiouem eam, quæ alia propter ante commemorata
esse nequeat. Hiuc vides, quam male habeat præcedente xal avta tep Xipd*
napateivofieva verba gjS t Zxelva Zxtphpetv. Ridiculum enim est: animalia
Fame ita extenuari, ut liberos nutriant atque educaut. Ferri toSte posr.et hoc
loco, si scriptum exstaret (ySt * kxfiva ix Ixuva IxtQitpuv, xccl aU.o
nav noiovvzct ; rovg f ihi yag uii&Qchjcovg, ecptj, oeoiz’ av rig ix
AoyiGfiov ravra C noetiv • t« de &rj()ia ri g ahia ornas tgarexag
Suxti- o&£tf&eu ; *3C £1 S Æyecv; JSfai iyd av D.tyov, ou
ovx bIScltjv. "II 8’ dite " Aiavoil ovv 8uvog Xotc
yivrfizC&cu, ra iQauxa, lav rccvrce f ir/ tvvoijg ; AXXa 8 ea rccvTtt
m, <b Æozi(iu, oxeg vvv Srj tlt iov, nagee <Je fjxa, '
J Tpi<pe6$at, quamquam etiam verbis in hanc modum conformatis
inesse senties, quod admodui# displiceat. Hinc factam est, at &SX£
insiticium censerem, idque uncis includerem, ne, si ex ordine
verborum reiecissem, audacias egisse censear. Sensas est : et parata s
d*n t ipsa fame pæne enecta illa nutrire et educare. Quæ
sequuntur verba: holi aXXo nav •noiovvxoL, artius ea cum verbis avx
d tgj Xifi. c3 itapaxetvopeva coniungenda nihil habent in se
offensionis, tgS Xipd i. Supra 191. B. legitur: ank5v7\6xov
vito Xipov xal xfjS olXXtj? apyiaS x. x. A., ad quæ verba
Stalibaumius, inepte', inquit, vulgo vito xov Xi/iov, Quæritur, cur
illic damnaverit articulum, hoc loco ne verbo quidem tetigerit? Mallem
etiam hoc loco articulas abesset,- quem certissimnm est a nemine
desideratum iri, si revera non compareret. o vxgoS i p goxixgoG . OvTcuS
h. 1. significat, eo modo,* quo in superioribus indicatum sit,
nmore affectum esse. Vide uuuot. 58. De
interrogationis genere tis alxla, UxeiS tiTtslv ; supra diximus annotat, 276.
xal iyoo av ZXeyov. Vulgo legitur av pro av ; hoc Bekkerus et Stalibaumius ex
optimis codicibus receperunt. Merito Ruckertum mireris, qui,
cum constet, av et av sæpissime commutata esse in libris,
tamen av iu textu posuit. Ut bene, inquit, haberet av, si sæpius
sibi exposita narraret Socrates, ut respondere sæpius posset se nescire,
ita, quum semel tantum hæc disputata perhibeat, av ineptum videtur, av vero
eo aptius, quod in prioribus iam suam ignorantiam confessus est* At
superest tamen, ut minus iiic dicas Platonem curasse, quod semel tantum hæc
dicta fingeret, indeque av posuisse negligentius quam verius» Qua
de caussa probatis licet av nihil tamen mutare volui. Hoc argumentum
fateor mihi prorsus videri nullum. Est autem, cur rursum se nou habuisse
Socrates confiteatur, quod responderet» Simulat enim, ut sæpius iam
annotavimus, fatuitatem quatidam animi, qua facilius atque tutius aliorum
seuteutias elicere possit. yvovg, oxi SiScaSxdXav 6eo pai. ccXla
(ioi Xlyt xal xovrav xfjv cdtiav xal xav ctf.lav xi5v xegl xa igcoxixa. EI xol
vvv, %xpi], iu<5xtvug Ixtivov tlvai cpv6ti xov tgaru, ov xoXkdxig
«SftoA oytjxafitv, fiy &av(ia&. tvxav&u yag xov avxbv txuva Xoyov y
ftvytrj qjvtiig D fyftti xaxa xo Svvaxov ad xs tlvai xal
d&avatog. dvvaxai 81 xavxy (ibvov xrj yivtGti, ou dtl xaxaXtiSiavoet
ovv 8eivo? itote. Haud raro apud Græcos et Latinos continuandi
alinsque potestatis particulæ ita adhibentur in interrogatione, ut
indignationem quaudam interrogantis exprimant. Mutata
interrogatione in quietius dicendi genus verba audirent: Lass dir
nur nicht einfallen, irgend Erotischer Dilige kundig zu werdeu, wenn du dessen
dir nicht bewusst bist. Sic tlta. reperitur in Piat, Critone p, 43»
B., quo loco Socrates postquam iam diu Critonem in carcerem
intrasse audivit, elta, inquit, n&S ovx evSvS inijyeipaS pe. Hæc
verba recte intelligent, qui cum indignatione dicta arbitrabuntur: Wie
kommt es denn nur nun, dass du mich nicht sogleich wecktest,
ciWd 8id tavTct. Elliptica et hoc loco, ut plerumque in
responsionibus oratio ita supplenda est, ut addas cogitando: non puto,
aute aWct, quod est immo convertendum. Videtur autem hoc, quod de
responsiouibus dixi, repetendum esse a summa Græci ingenii
alacritate et in cogitando celeritate, qua fiebat, ut cum mens
longe præcurreret linguam, in dicendo etiam, quæ ullo modo possent,
omitterent vel in unam contraherent, Riickert . Oitep vvv 8t) etirov
• cfr. 206. 11. ov / tivt ’ av iqnjv iya>, <y Aioxiya,
i$av— jiaZov ini Coepio. xal icpolx gjv itapd avrd xavra
paSTjtiopevoS. el roi vvv, £<py, ittdteveiS x. t. A. In
omnibus editionibus legitur xoivvv pro toz vvv, quod nobis
placet. Apud Ficinum verba conversa sunt: Si credis, illius natura
amorem esse, cuius sæpe iam diximus, ne mireris, Schleiermacherus
exhibet: Wenn du also glaubst, sprachsie, dass die Liebe von Natur
auf das gehe, woriiber wir uns oft schon eiuver— standen haben, so wundre
dich nur nicht. Socrates rem, quæ in superioribus sæpius
tractata est, memoria non teneBs, eandem rogatus a Diotima, obmutuit non
habens, quod responderet, Eadem res igitur, quoniam hic repetitur,
Diotima hominis memoriæ, ut videtur, illudens, Noli mirari, inquit,
si nunc firmiter tenes memoria, caussam naturalem AMORIS esse
eandem, de qua supra sæpius inter nos convenit, r)
Svtjti} epvCiS Zytti xatd r o 8vv atov. Vide annotat, ad verba 206,
E» net eicQov vaov dvzl zov
italaiov' htu xal Iv to tv sxaarov rav £iocw £ijv xaXslzat xal tlvca zo
avzo, olov Ix naiSaglov 6 avzug llytzai eas «v xgeofiuzrjg
ori aayevis l6xi xal aSavazov tus 2vijrc3 r) yivvr)6iS. ravzx!
yovov x-jj yevi6ci. Caminate post yovov posito Riickertus sensum verborum
esse ait: liac sola ratione, per procreationem. Dubito, num recte
interpunctionem adhiberi liceat ibi, ubi scriptor advocata generis
assimulatione arctiorem demonstrativi pronominis cum insequente nomino
substantivo coniunctionem admisit, Hoc certum est, verba proprie audire:
tovtoo novor, ty yevidei, sed ab huiusmodi dicendi genere utpote
incomtiore, excultior Græcorum actas abhorruisse videtur.
Assimilutionis exemplum est 190. E, noti dweXxGov 7tavraxo5ev zo
6epfiet ini r?jv yadzipa vvv xaXov pivTfv, ad quæ verba vide
annotat, p, 163, Nemini, autem Riickertus persuadebit, tavxy h. 1.
adverbii vices obtinere, quo ratio describatur, qua quid possit, quod
mortale sit, immortalitatem adipisci. inel xal iv gj Sr ix
actitor ZGOV %GO GJV X. T. A, Nam etiam eo tempore, quo unumquodque
animal vulga* i opinione vivit atque seraper idem est, nullam
que experiri mutationem partium suarum putatur, veluti quum quis,
inde a pueritia usque ad senectutem idem semper esæ dicitor, tantum
abest, Qtiumper unum idemque maneat, nt aliis partibus quasi de nuo
iuvernescat, aliis privetur et orbetur. Verborum
sententiam per se minime obscuram paullulum impeditam reddit structuræ
insolentia . Quum enim pusi TCpedfivTTjf yivtjrai subiici deberent hæc:
ojigoS ovdinote zd avzd ix El et avrcJ, a\Xd td pkv dei vior
yiyvtzat, zd anoAAvdiv, quæ referrentur ad primariam sententiæ
partem: ab inchoato orationis tenore sic deflexit, ut reliqua omnia ad
eam accommodaret particulam enuntiati, quæ continet exempli rei clarius
illustrandæ gratia interpositi commemorationem. Itaque nihil mutandum censemus Stallb, Hæc Stallbaumii explicatio et a
difficultate structuræ nobis improbatur et a sententiæ incommoditate.
Exemplo nimirum Socrates explicaturus est, quo sensu æl elvai dicatur atque
dsdvatzov elvai T7}V Svi/xr/v <pvdiv, ut non verisimile sit, exordium
huius enuntiati esse posse: inel xal iv g5 ev Sxadzov zgjv
P.oocjv S, i}v xakzLxea xal elvai zo avro . Astius huius rei
iutelligens, scribendum coniecit: iv cj tv Zxadzov tgov
Zcjgdv xa\eizai xal elvai zd avzd, quam scripturam ipse post improbavit.
Nobis scribendum videtur inel xal iv d> ' ev txaoxov xd)v Zidcjv
$f/v xaXtlzai, xaA etzai xal elvai fd avzo. Neque audaciorera censemus
hanc coniectux&m iudicatum iri, cum yknjtai ' ovrog (ibroi
ov&tnots, zu ccvra tyav Iv iavto), ofwog 6 ttvzos xaXilrat, akla vio g ad
yiyrofitrog, xot bs ai roUvg, -/«l scaia rag ep^trg jtal Capxa «c«l
satis constet, Verba dupliciter posita haud raro librariorum incuria
simpliciter exhibita esse, et vice versa dupliciter interdum posita
esse, quæ simpliciter a scriptore posita essent. Exempla si quæris huius
rei, vide quæ annotavimus 171* et 254. Qoac sequuntur verba
otov ix izcuSaplov 6 avxoS Xeykxeti ( sc. tIs" ) x % r. X. optime
cum nostra præcedentium verborum scriptura conveniunt. ovxoS pkvxoi
ovSkxox 8 xa. avxtf $X a,v «vtcj x. x. A. In FICINO (si veda) conversione
legitor: JZnimvcro eo ipso in tempore, quo animalium unumquodque vivere
dicitur, idemque esse, (ut a pueritia ad senectutem) quamvis idem dicatur,
nunquam tamen in se ipso eædem contine t, sed novum semper efficitur et
vetera exuit. Sic etiam ceteri interpretes ovSbtoxs negationem ad
verba trahunt ta avxct V.xoov iv lavtoj f quæ verboroui struendorum
ratio propter insequens aXXot vtoS asl ytyvopevoS minimo nobis none
probatur. Inepto enim loco positum habebis hoc, ai illam explicandi
rationem probaveris. Neque defueruut, qui de verborum transpositione
cogitarent hoc loco. Facilior verborum struendorum ratio hæc est, ut
ovSiitoxE negatio a'd primarium enuutiati verbum xateixai referatur. Verba
autem boc modo scribenda censemus: ovx oS pkvxoi ovd£7roxc, rcr
cxvxa iioav iv avia?, u/ici?5 6 avioS xaXslxai, aXXa vkoS æY
yvyva/ ievoS x. x. A. Sensus est : Dieser iedoch wird nietnals, w e i 1
er ein unddasselbe au uitd in’ sich hatto, gleichermaassen
derselbo geuannt, sondern (er wird in dem Sinue dersclbe
genaunt,) wreil er sicli immer ver iiingt, iudera er das Veraltete
abwirft. Ut boc loco, ita etiam in Piat. Euthyphr. B. c. 2. opooS in
o/idoS mutandum est: xcu ipov yotp xot, oxocv xi Xkytm iv xy
ixxXr/6ict 7tEp\ xcov SeIgov, itpoXeyGor auXotS xti pkXXovra,
xixxaytAdo<xiv gdS’ jiaivoitEvov* xai xot ov8lv o xi qvh aXrj^es
sVpiptet GOV 7tpOEl7COV. aXX* dpooS (p$o— vovfov 7/piv Ttdoi xdis xoiov
xuiS. Minus aptum est, quod vulgo edi solet, opwZ : Nihil nisi vera
dixi, tamen nobis omnibus vera dicentibus invident. Qain potius
commemorans Euthyphro, quid ipse perpeti soleat, cum vera dicat,
Socratis exemplo præmisso, communi vera dicentium iufortuuio sc
consolator. Iam ut Diotimæ sententia melius perspiciatnr, rem
breviter repetam ; Quod supra de hominum AMORE dictum est, idem in
animalia cadit et in omnem naturam rerum Vult nimirum natura, quoad eius heri
possit, semper vigere» atque immoTlalis esse idque generatione
assequitur. Neque hoc ita inteljigeudnm est, ac si singula quæque res
immortalis esse dicatur: sed ut homo aliquis a pueritia usque ad
se- E 6q za xal al[ia xal %u[ixav zo GiJfia. xal (iij ori xara to
(Scotia, aAA a xal xarcc rrjv ‘tyvxftv ot zqoxoi, za tj, dofci,
htcdvjilai, rjdovai, Xvxai, tpufioi, rovtav exutSta ovdexoze za avra
xuQeaziv sxaGzcp, «AAa za (itv ylyvszai, za de axdilvzai. xoiv de
xovrnv azoxdzegov In, on xal at extOzfjiiui (i>) ori at
208 ftw' ylyvovxai, at de axolXvvrai yiiiv, xal ovdexoze of avzoi icS/iev
ov de xara rus kxiGztjtias, a AAa xal f ita txuGrrj ziov eXLGzrjiudv
zavzov nu6%u. o yag xai.eizai (leltzav, u>s l^wvOris heri zrjg exiGxrjfirjs'
tiftrj ydg exiGrr^firjs ifcodos, fieXirij Ss xui.LV xaivtjv t/xnectatem
idem Tocatnr, non nt qui habeat in se setnper easdem corporis partes, sed
quod eas mutando, inveteratas abiiciendo quasi novus semper existit, ita
etiam animalium genus rerumque natura partium renovatione immortalitatem
consequuntur. rd 6h drtoWvS. His verbis, quibus non præcederet
rd p.iv, multi interpretes offensi aunt. Wolfius rd plv
nposXajj,fidvoDV vel simile quid addendum censuit, Bastius ad ra de addi
iubet itaXaia. Alii
alio inodo locum, -in quo librariorum peccatum reperisse sibi viderentur,
sanare studuerunt. Stalibaumius aWa vkoS de\ yi~ yvofievoS idem
valere censet quod aX\d rd pkv vkoS æl yiyvojievoS. Maluerim ita
statuere, ut Græcis licuisse contendam quotidianæ vitæ sermone utentibus
interdum omittere, quæ e sequentibus facillime suppleri possint, eque ra
fiiv supplendum esse videtur, sed ra /ikv aAAa. xal
ptij ori aXXd xaL Ne forte ante oAAa' xal requi ras prj povov,
efficitur povov omisso sententia hæc: At quo ut mittam ea, quæ
ad corpus pertinent, etiam quæ animi sunt, consuetudines, mores,
opiniones, cupidines, gaudia, tristitiæ, metus, hæc omnia nemini eadem
manent, sed alia oriuntur, alia depereunt. Ceterum apposite ad h.
1. Riickertus : Noli, inquit, ex his colligere aliisve similibus iu
iis, quæ sequantur, Platonem sibi non constare, quod, quum alibi natura ‘
sua immortalem animum dicat humanum, hic eatenus duntaxat ei
immortalitatem tribuat, quatenus et ipse, quas sui partes amiserit,
assamtis aliis suppleat. Non ipsum enim animum, naturam divinam, hic iu
mente habet, sed ea tantum in animo, qualis in hisce terris est, quæ
ex coniunctione cum corpore enata cum eodem intereunt. Ex quo
genere omnia sunt, quæ deinceps recensentur. Quas enim mox
liti(Sripxa£ affert, earum vel unus pluralis numerus satis est
argumento, non loqui Platonem tioiovtia dv rl xrjg diuovGxjs (ivrjfiyv
(Scissi x yv IrnCtrjiiTjv, SgtE xyV avxyv Soxelv elvca. xovta yag xc>
XQoitcp xtav x 6 dvytov ov x<5 TtavxdrtaGi xo avxo dzi elvat,,
SgxtEQ xo fteiov, dM.cc xc) xo ditirbv xal xaAaiovfievov bxeqov vtov
lyxata- b Mbtuv y olov avxo yy. xavxy xy ffl%ctv y, co 2Jc6 XQctteg, Zcpy,
%vyxbv d&avaolag (iEze%eiy xal Gcopa wa xaM.a itdvxa, aftavaxov Se
&M.y. yy ovv &avpafey el xo avxov ditofyXaGtyya rpvtiei ndv xi\La'
d&avatilag yuQ %ccqiv ttavzi avxy y Gzovdy xal 6 tgcog 67csxau
de ipsa scientia, quæ nna est eademque semper, quamqoe non
potuit animo informare nisi perennem et immortalem, quin ipse sui
oblivisceretur. Immo notitiæ sunt rerum in sensus cadentium, quæ nec
affuerunt animo prius, quam vitam hanc ingrederetur, neque ultra eius termiuos
apud eum permanebunt. itoXv xovxcjv aro itaSxEpov Irt. Pro £tt, quæ
Bodleiani aliorumque paucorum codicum lectio est, vulgo i6xiv legitur.
Illud Bekkerus et Stallbaumius in ordinem verborum receperunt, hoc tuetur
Riickertus. * Eri, inquit, ut vulgato melius esse concedam, attamen
tam paucorum fide recipere eo minus ausim, quod quam sæpe liæ voces
intfr se permutentur haud sum ignarus. Utor his Riickerti verbis,
quibus £ti recte habere probem. Nam si melius est sententiæque
convenientius, quod in melioribus codicibus reperitur, id verum est haud
dubie. In ceteros autem plurim osque libros irrepsit id, quod facillime
cum illo permutatur. 6 ydp xaXeltai pe\e rav cof i ZiovtirjS
id t\ xyS ixidxy /iy $ . Vide de hoc placito Piat. Phæd. 72. E. xal
prjv, iqyq o KiftyS VTtoXafidrv, xal xax* ixelvov ye x ov Ao'yov, cJ
SwxpaXEff, si dXy^yS itixiv, ov 6v ettoSaS $a/ia MyeiVy on ypiv r\
paSydiS ovx a\Xo XI 7j dvapvr]6iS x vy- Xctvet ov6ot, xal xata
xovrov avayxy itov rjfiaS iv xpoxipaj xivl xpovw pEpaSrjxivat a
vvv dvapipvytixopeSct x. t . A. vSiCEp xo Ssiov, Auctor
Definitionum 411. A. J GteoV, 2,ajov dsdvaxoVf ctvxctpxsS npoS
EvSaiuoriav, ov6ia dtSio?. ’At8iov, xo xctxa ndvxa. xpovov xal TtporEpov
ov xal vvv prf 6iE(p$otpp£vov. a$ avatov dfc ct\Ay,
Displicent hæc Verba ideo potissimum, quod modo indicatum est, quomodo
id, quod immortale est, h. e. ro Seiov, immortalitate gaudeat. Hinc
factum est, ut Creuzerus Lect. Piat. 528. scribendam couiiceret: aSv vaxov
aAA#. Recte, ut videtur, Riickertus existimat Platonem, si hoc exprimere
voluis- Rui iya uxovaag rov tiryov Iftavuuacc re xal ihtov' Ehv,
rfi’ 8’ lydi, a Ooqxxnatr] Aiotlfiu ' ruvra C Sg db]&w$ ovuog l%u ;
Rui ij, cSgnsQ ot xtktoi tfo set, haud dubie tzAAp 81 dd vvaxov
scripsisse. Sed de veritate verborum aSdvazov 81 «AA r} nobis non convenit curo
eodem. Stallbaumius od liunc locum annotat: Hæc, inquit, addita videntor
propter verba extrema xal TaAAa itavxa, quæ ne falso intelligerentur,
sane cavendum fuit. Num credibile
censes, quemquam esse posse, qui cum verba legeret xal 6(n/ta t in
sequentia xal TaXAa ndvxa male intelligeret atque ro Stiov
admisceret, quo de paullo ante dictum est? Sed pone fieri posse, ut
aliquis verba illa falso iutelligat: num recte sibi opponi hoc loco
censes Svrjxoy et a$drazov, ubi Svjjxoy adiectivi vices habet, atque cum
insequenti xal dco/ia xal xctXAa rtavxa arctius couiungitur? Huc
accedit, quod ne ipsum quidem aSavarov, pro quo Selor scriptum
exspectaveris, satis recte habere videtur. Scribendum est, si quid video,
$dr ax ov 81 afAA#, qnæ coniectura et a
corruptiouis verisimilitudine, cum præcedens verbum in a desinat, et
a sententiæ veritate sese commendat. Ceterum ne mireris accusativum
casum, cum præcedat aSavadlaS fxtX ix ei: solent interdum Græci e
præcedentibus, in quibus compositum verbum contiuetor, noa compositum
repetere, sed simplex. Diximus de lioc loquendi ysu «uuotat. 89. eItxov
EleVf tjv 6 * lydi. De dicendi verbo in huiusmodi enuntiatis
dupliciter posito vide quæ annotavimus 249. Ehv verbum quod
attiuet, vide annotat. 86. et 264. liisequetis interrogatio xavxa d>S
aAr/SdiS ovxqdS lx ei > fatuitatis indicium esse arbitramur,
quam Socrates cum Diotima de Erote disputaus constanter simulat.
Nimirum quum, adhibito thv vocabulo quasi ad alia quædam quærenda
abiturus, confestim concessisset, quæ a Diotima dicta essent,
rursum ad eadem redit quærens : num revera hæc ita sese habeant?
gSstjt ep ol zlÆoi 6o<pid xal. Stallbaumius minus recte: Ridet,
inquit, sophistas, de quibuslibet rebus ita disputantes, ut videri
vellent earum veritatem prorsus habere perspectam atque exploratam. Neque
Wolfianæ ed. explicationem probamus Lips. 1828. 97 : die bei ihreu
philosophischen Vortriigen nicht ia dem zweifelnden Tone des
Socrates sprachen, sondern in dem entscheidrtiden Tone des Orakels
ihre Meinungen fur unuinstdssliche Wahrheiten ausgaben. Eadem sententia
etiam Schleiermachero probatur, ut ex eius conversione huius loci
videre licet: Und sie, wiedie rechten Meister im Wissen pflegen, sprach,
Das sei nuu versicliert, o Socrates. Quid Socrates ad <pi6Tal, Ev IWt,
H<pi], cj EdxQtttes' IntL ye xttl zav uvdQioitav ei i&eÆig tig
ttjv <pdon(ilav (i/.iipcu, &av[ia£oig av rrjs uXoyiag hiqi a lya
eipryxa, tl (irj Ivvoeig Iv&vfiij&elg ag deivag Euxxuvtai
%otc rov ovofiaOTol yevee&ai. bibitis illis verbis
efficere voluerit, optime e Protagoræ loco cognoscitur 328. E. seqq.
’«ft xai AjtoWoSoopov, a 's xaptv tioi ix&\ uti tcpovxpeifrd?
pe tvSe agtixkdSau noXXov ydp 7i oiovpai axyxokrai a dxijxoa
TIpGDTayopov' iyoj pkvydp kvxco ZfiTcpooStv xpoveo yyovpyy ovx
elvai dy^pconlyjjv iizipiXetav, y ol ayctSoi ayaSoi yiyvovtoa, vvv
8\ itiicet6jicn. nXyv 6pixpov ri poi kpizoSdbv, o 8ijXov t oti
Tlpojxayopa? fiaSlcj? heex8i8dB,u, inei8y xai xd noXXa xavxa iutdidafe.
xai ydp el pkv xi? nepi avx&v xovxgjv dvyykvoixo oxeoovy xaov
8ypyyopcov, xax* ay xai xoiovxov? Xoyov? dxov6£iev y IJepixXkov? 7}
dXXov xivoi Tcjy Ixavcov eliteiv * ei 8 e inavlpoixo xivd xi t S?7tep
fiipXla ovdiv ixovdiv ovx e altoxpiva6$ai ovx e avxo i ipitSSrai, a
XX* lav xi? xai Cptxpov lite p coxi)6y vide annotat.xi xaoy
prj$£vxgoy, d)?XEp xd x a Xxela nXyy kvx a paxpdv yx £ * xai a 7t 0 x eiv
e 1, kav jiy i rtiXa fiy x ai xi ?, xai ol pyrope? ovxcj
dpixpa i p coxi] 5 kvx e? 80X1x0 v xa •z ax e tv ovdi xov
Xoyov, Ipse autem orationis longitudini Socrates illudit, quod facere
solent, qui alicuius vitii alienam, reprehensionem evitaturi sunt. ei
iSkXeiS Savpd£01? av • II . Stephanus, ut verba usitatiori generi loquendi
adaptaret, iSkXoi? scribendum coniecit. Frustra. El iSkXei? CxkipaL
idem fere est atque el Cxk^aiS, differt tantummodo ab illa dicendi
forma optativus modus, quod hic cogitati alicuins possibilitatem, quam
vocant, exprimit, quæ et ipsa cogitata est, non ducta e veritate rei.
Illa contra aliquid fieri posse indicat, iit prorsus ex alius
arbitrio psndeat, utrum fiat revera necne. Exempla haud rara sunt el
particulæ coniunctæ cum præsente tempore iSkXeir s. fiovXe6$aL
verbi, cui adiectus est infinitivus cum optativo et «v. Legitur paullo
infra 221. E. el ydp kSkXet xi? r gjy ZZ&xpd* xov ? axoveiv
Xoycov, 1 pdyuev dv 7tdvv yeXoloi xo Ttp&xov. Cum hoc dicendi
genere care commutes exempla ea, quæ el particulam cum præsente
alicuius verbi tempore coniunctam exhibent et optativum av particula adhærente
$ cfr. A pol. Socr, 25. B. TtoXXr) ydp dv xiS ev8aipovla efy 7tepi
xov? vkov? y el el? pkv povo? avtov? 6 1 a <p 3 elp et . Adde Piat.
Symp. p, 176» C. *Eppaiov av efrj yptv el vpel? vvv dneipyxate, ad
quem locum vide annotat, 38. Ceterum x&v dvBpcj7ca>y in
alieno loco positum videtur, quem ne mireris atque ut Platonis
voluntatem perspicias, Riickertam audi anno 19 * nai xAioS eis
tov æ\ xpovov aSavatov xaraS&SSiu, xai vniQ rovrov wvdvvovg ts >
uvSwevuv ttoifiol dii xdvras En iiallov jj vntQ ruv xcdSav,
xai tantem ad h. 1. i Qnod hic TGoy avSpGJrtaw addidit, idque
loco posuit illustrissimo omnium, propterea factum, quod ia præcedentibus
de bestiis non minus, immo magis fere, quam de hominibus disputatum est,
quanta cura esset sobolis tuendæ conservandæque. Quæ euim de humano
corpore animoque disputata sunt, nonnisi probandæ sententiæ inserviebant,
non esse alinm immortalitatis adipiscundæ rationem naturæ mortali,
quam per propagationem. Itaque iam de
solis hominibus locuturus recte lioius rei indicem in fronte
posuit. $ av paZoiS dv xrjt aXoyiaS Ttepl x. x. A. Verba FICINO
convertit: Etenim si gloriæ stadium', quod hominibus inest, considerare
volueris, admiraberis ruditatem tuam, quod ea, quae dixi, non
satis comprehenderis. Hoc sane mirum. Schleiermacherus exhibet; Denn
wenn du auf die Ehrliebe der Menschen sehen willst, «o miisstest du dich
ia uber die Unvernunft wundern in dem, was ich schon angefiihrt,
wenn du nicht bedenkst cet. Schulthessios verba reddidit : denn fassest
du nur der Menschen ehrsiichtiges Bestreben ins Auge, so kannst du ihre
Unvernunft in Beziehung auf das von mir angedeutete durchaus nicht
begreifen, wenn du nicht erwagst cet. Negari nequit, paullo impeditiorem
verborum structuram esse atque gravitate quadam inepta
affectam, qua usus esse sophistas consentaneum est, qui ad ante dictorum
explicationem atque enarrationem transirent. Sic tg oy dv$ poATtcoy,
principe enuntiationis loco positum, de quo Riickcrti indicium modo
retulimus, quid aliud est, rem si accurate perpendens, quam vanae
gravitatis indicium? Adde el iSiXeiS verba, wenn du dich
entschliessen, es iiber dich bringen kaunst (vide annotat, 44.) et
parnm definitura illud : xepl d iyoi eTpijxa y nonne haec plena suut
sophisticae artis? Proprie verba hoc modo dispouenda suut : eu Ixel
ye xa \, el £$iXeiS el£ x rc oy av^peonoov gnXoxiplav pX iipai,
Savpdgoi? dr x ijs aXoylaS ( b. e. Savpd Ce av ix ot rt J s
dXoyiat') xovxcdv, d iyoj elprjxa. Sensus est: Da gieb recht acht, o
Socrates ; denn auch, wenn du dea Ehrgeiz der Menschen ins Auge za
fassen gesonnen bist, koou— test du dich wohl iiber die Ungrtindlichkeit
dessen wundern, woriiber ich gesprochen habe, wenn du dir nicht
vergegenwar— tigest, indem du cet. (»s detvooi
Sidxtivr ai % Haec et sequentia ad eandem dicendi normam conformata snnt,
qua verba legnnter 207. A. r/ ovx aiCSdveiy aoS SeivdoS SiaxlSexai
Ttctvta xd Sijpia x. r. A., ut adeo idem valeat de structura
verborum xal viup xovrov (tara dvccXfoxsiv ml itovovg xovuv ovgnvagovv xai
D v7tEQcacoftvt]<Sx£Lv * ijtel o Xu 'Adprpov ajto&avEcv ccv,
ij vitEpcntoSvrjdxEiv, quod de verbis monuimus 207. B. xai Ftoipa
idtiv VTtkp xovxov XUL vTCEpaieoSvrftixeiY x. r. A. Ac de industria
quidem iisdem paene verbis Diotima usa est eademque mutatione structurae,
quo facilius et illius loci auditor recordaretur, et clarius videret,
de eodem et illo et hoc loco Erote sermonefti esse. xai
x\ io 9 elS tov d e l xat a$ £d$ ai h, e. Immortalem gloriam posteritatis
memoriae tradere conservandam. Nam xaxati$Ed$at est deponere custodiendum
s. servandum tradere, vide Valcken. ad Herodot. VI. 73. Stailb.
Ceterum neminem latet, hexametrum versum esse verba xai xXloS xataSedSai, quae a praecedentibus atque
insequentibus verbis seiungenda curavimus. Unde hic versus petitos
sit, nescire confitemur, hoc tantummodo comperti habemus, depromtum eum
ex carmine esso alicuius poetae, ad cuius auctoritatem atque testimonium
Diotima auditores ablegavit, xai vitip tovtov xivdvy ovS xivdvvEveiv.
Dicendi formulae, in quibus nomen aliquod cum verbo eiusdem radicis
coniunctnm reperitur, ita plerumque adhiberi solent, utrem, de qua sermo
est, quam heri possit maxime, angeant atque extollant. Jwy6vvovS
xiy&vyeveiv est igitur summa atque gravissima 6v, AkxtjOriv
vitlg Ayilkia IJarQoxkto tnaitopericula a^Hire, Igitur cum Riickerto
pro 7 tavta? 9 quod Bekkerus et Stallbauraius in ordine verborum
posuerunt, codicum meliorum auctoritatem secuti, vulgatum nuvttS
recepimus. Nam TtavtaS xivdvvovS xixSvyeveiv inutile additamentum
continet, quo non augeri sed minui senties rei augendae potestatem,
TldvtES autem etiam eo nomir ne nobis probatur, quod omnes haud
dubie a Diotirha significantur laudis atque gloriae studio teneri cfr. 205.
D. xd plv xetpakaioY idxi xtada 7 } xcjv dyaScox l?tiSvpia xai tov
tvdaifioveiv 6 /.liyidxds te xai xoivoS HpoyS Ttavti. Adde 208. D.
du IA*, olpat, vntp dpsxi/S aSaxcttov xai xoiav xij$ do&rjS evxAsovS
7t dxxeS itdvta itoiovdtx . Nostrae verborum explicationi Schleierma
cheri conversio favet : u n d d ieserhalb sind alie bereit, die grdssten
Gefaiiren zu b este lien. In sequentibus xdxovS itovEiv ovSXixaSovv
est : labores suscipere quam velis gravissimos, ubi ovStivaSovx non
nisi de iis laboribus intclligendum est, qui snnt gravissimi. Contra
minus probem Plot. Apol, Socr. 22. A. &ec &if vpix xtjv
ipijy nXxxvijv ixiSel&ai Gjsrttp itdvovS xixds noiovvroS, quo
loco pro xixaS scribendum esse videtur tixds. "AXxiidxiv
vnip *. 'A6p ?/• tov x.x.X. Exhibentur eadem, quibus Phaedrus usus
est, exem4 8 avtiv, TCQoaxo&avuv rov vfisreQov Kodgov vxlg rijs
(i aci 1 Atiu$ rov ncddav, (irj olofiivovg aSavcctov pvypTjv
apertis «£ qI avtav Etisadcu, yv vvv tjfius J'j£0{t£v; IIolAov
yt dtt, Stprj, uAA’, olycca, vittg ctQttfjg a&avazov y.al roitwtt ] g
So^rjs evxAsovs navus itccwtt xoiovOiv, 0 Oa Sv E afitivovs tofo, xocSovrcp
(idAAov * rov yag d&avdrov pla ; ut respici indicetur etiam ad
eas orationes, quae ante Socratis atque Agathonis orationes habitae
essent. Sed quoniam Diotima loquens inducitur, quae orationes in
Agathonis convivio habitas non audivit, ut casu vi-, cieatur
exemplis illis usa esse, tertium adiungitur, Codri regis
interfectio. Audi Scholiastam, qui de Codro haec tradit t oS nal V7t\p xijS narpidoS
attiSave t porca) roupde. voXepov roiS JcopievdiY qyxoS itpoS 3
J5tjyaiovS, ixpt}6ev 6 $eo$ totS JatpievfSiY aiprj6eiv xds ’A5ij*
vaSy ei Ko8pov rov fta6iXia / it} q>ovev6(M>6f yvovS 8k xovxo
6 Jjfodpo? 6xeiXaS kctvxdv evreXei tixevy coS ZvXidtTjv xal
SpertavoY XafioaVj izl rov xdpctxa rdov 7toXepicjY icpoyei, 8vo Sk
averi d7tctYxy6dvxcdv 7 toXepicoy tov pkv &va 7tardB,aS
xarifta^ Xev, V7td 81 rov hxepov dyvotf SeiS, otixiS 7 /y t * Xtjyc\S
dvi$avc, yaraXivcoY Xtjy dpxtfY Medovxt xri vpetifivxipoa xgoy T
taidcoY v. x. X . Hutus facinoris memoria superbiise Athenienses
videntur, ut si quis peregrinus ipsis adulari vellet, rov v pete pov
Kodpov diceret. Male vulgo rov yphepov legitur, quæ lectio prorsus
aliena ab hoc loco est, ubi Diotima, mulier peregrina, loquitur*
vvlp apextjS aSctYcctov . Hæc verba cum non satis apta reperiret Diotima
ad mentem suam exprimendam, alia addidit, quibus hæc explicarentur.
Kai igitur explicativum est, cuius exempla laudata habes in Judicibus.
Verba convertenda sunt: der unsterblichen Tugend balber d. h* wegen des
herrlichen Ruhms der Tugend. Nou licere igitur opinor aperi} S
nomen hoc loco virtutis laudem interpretari, quæ Riickerti sententia est,
qui frustra annotat: Non magnum discrimen esso inter dpexijS d^avaxov et
60 Ep]S EpxXeovS, sed aliquod tamen, quodque maius etiam videri potuisset
Platoni propter alterius vocabuli sensum latiorem* d$dv axov
pvypr\Y apeTtjS. Hæc verba, hexametri versus fragmentum a ceteris verbis
seiungenda curavimus» . Hv vvy rpieiS t x°P €v i ta dictum est, ut
aliquid supplendum sit, quod his verbis opponatur; futuro tempore
posteriores habebunt» Paullo iufra etiam verba eis rov iiteixa XP°vov a
prosa oratione secludenda curavimus, quod quo iure fecerimus, io
propatulo est» IquSiv. ot fiiv ovv lyxvfiovtg, stata Ouficaa ovtcg
XQog tag yvvalr.ag pallov tQinovzai xui tavtg tQomy.oi d<Si, Sia
stuiSoyoviag u%uvu6lav scca pvrj(iT]y suci tvdai[iovlav, wg oiovtca,
avtoig iis x oV bcetta xpovov xcivta xogi^ofiivoi' ol Se scuta tyv
^vfl\v tloi yaQ £09 ovv,
'£<pri, di iv xaig il>v%aig scvovtiiv eu ftaAAov scal ev 8
axfioviar, c is olovtai . Cornarius pro coS oloviat scribendum esse
censuit coS olov xe t quam coniecturara Iliickcrtus, quamquam in
textu coS olovxat posuit, probare videtur. Nobis non dubium est,
quin Plato co? olovxai scripserit, quo adhibito Uiotima indicatura fuit:
eroticos, qui liberis procreandis immortalitatem sibi comparare
studeant et felicitatem æternam, falli posse sæpenumero. Non iniuria. Nam
moriuntur interdum patribus superstitibus liberi, interdum impietate parentes lædunt,
ut illi pro immortalitate exoptatissima magnum malum sibi
acquisivisse videantur. eidi ydp ovv, rdp ovv
particularum eadem pæne SIGNIFICATIO est atque ydp apa particulis, quæ exempli
causa. B. reperiuntur: dq>eXovxtS ydp apa xov ipcotds x i eldoS
oYopd^of.iEY x 6 rot> oXav iirizi$ivxeS ovopct Spooxa. Non promiscue
autem his particulis Græci scriptores usi sunt. Ubi demonstratum
aliquid est exemplo, ydp dpa poni solet ; ubi non nisi indicatum est, yap
ovy particulis locns datur. Nostro loco simpliciter
commemorator in præcedentibus : esse, quixaxa ipvxijv procreare
cupiant, contra B, poeseos exemplum affertur, ad quod, quæ deinceps
dicuntur, diriguntur. €eterum quæ post eidi yap ovy leguntur, inceptam
verborum structuram nou mutaut, sed prorsus destruunt. Nibil enim reperitur
in sequentibus, quod cum illis verbis consociari possit. Iucepta
sententia verbis absolvitur; x ou* xoav 6’ av oxaY xiS h.x.A., quæ
verba cum illis nullo modo couiungi possunt. Sunt autem huiusmodi
figuræ dicendi, gratæ uegligeutiæ indicia, præcipue in familiari sermone
haud infrequentes. o? lv iai$ ipvxaiS xvov6 iv. KvovdiV valgo
legitur; aliquot Bekkeri codices xvavdiv Labent, quod ipsi Bekkero
probatur et Dindorfio et Riickerto. Illud Stallbaumius aliique in
textu posuerunt. Buttmanni indicium in Gramm. arapl. 177., quod
ct Stallbaumius probandum censuit, ( lioc est: Den Gebraucli
festzusetzen von hvcj und xveco ist scliwer, da es in den hauligst
vorkommeudcn Forinen nnr eino Accentverschiedenheit ist, tvie xvei,
xvil u. s. w, Bei Flato indessen, wo der Accent sonst in allen
Handsclmfteu schwankt nud Tbeæt, 151. B. auch dic Schreibart xvoYta
und Hvqvy- TJ Iv Tols Gt0[ic(6iv, a Ipv%ij XQOgrjxa xai xvijGai xai
xveiv. zl ovv XQogrjxu ; qQovrjdiv %e xai rf/v cekbjv u qeztjv' dv S>j
eidi xai oi jcoiijzai xavtes yewf/votpes xai zav StjfuovQycjv 0601
Xtyovzai bvqezixoI tlvai. nolit de (leyiGzjj, eqirj, xai xaV.iGzt] trjs
tpQovytieas f\ %a, itt an folganden Stellen in allen
Handschriften Theæt. 210. A. xvovftev
Symp. 206. E. xvovvxij 209. C. ixvei, wodarch, wie mir scheiut,
fiir diesea Schriftsteller dei: Aus scMag gegebeo wird.
itpo Zyxet xai xvijdai xai xveiv . Ficinas verba convertit :
Hi sane concipiant ea, quæ animæ et concepisse et concipere
convenit. In Schleiermacheri conversione legitur: was der Seele ziemt z u
er-» zeugen and erzengen za w o 1 1 e n, Schulthessius yerba
reddidit: dena fiirwahr, es giebt solche, die rælir mit dem Geiste
ais dem Deibe zeugen und erapfangen, Haud dignoscas ex bis verborum
conversionibus, quo iare boc loco et aoristi et præsentis temporis
infinitivi ponantur eiusdem verbi. Aoristus autem non nisi notionem
exprimit actionis in universum spectatæ j præsens tempus actionem
cum efficaciæ notione coniunctam describit. Sensus est verborum:
quorum procreationem animus et cupere debet et revera efficere. ti
ovy itflQfjjxet; De interrogationibus medio sermoni interpositis, quibus
ad rem attentiores auditores redderentur, supra diximus annotat, 60.
xq\v' 51 peyiGtr] xai
yaWiixr) Xv s q>povrjGegjS. Hæc e Græcismo quodam dicta sunt, ut
adiectivo præmisso sequatur substantivum nomen com illo proprie per
nominativum casum coniungendum, casu genitivo. Vis huius structuræ hæc
est, ut adiectivnm extollatur atque potestate augeatur,, Verba convertenda
sunt: Die grosste und schonste Erscheinnng der YVeisbeit,
diaxotfpifdeif. Vulgo 6iaXodfirjdi^, quod ab eo profectum yidetur
atque in textum illatam esse, qui insequens pronomen relativum ad
præcedens nomen pertinere censeret. tovrcov 6 ’ av qxav
rts Xx t. Magna est difficultas horum verborum, quæ vario modo a
viris docti» sollicitata sunt. Quæritur %£iq£ cov verba atrum cum
præcedente %l}v ipvxqv coniungi oporteat necne, deinde ipsum jllud SeioS
miram quantam displiceat. Quod sequitur xai t eo melius careremus.
Primus H, Stephanus n)v Ipvxtfv $eio$ &v coniungendum Censuit.
Contra Stallbamniq* monet, tyxvficpY rrjy Tpvxrjv hic dici
oppositionis ergo, cum eorum i& superioribus mentio facta sit, qui
corporis auxilio immortales fieri studeant, SeioS V>v rrjy i/ivxijv
nos etiam eo pomine improbamus, quod SeioS Jtfpl rag Tav itoltav te
xal olxy&Eav diaxoa/iyUsig, y Stj ovoua lott, CatfQodvvy te xal
dixatoOvvrj. tovr cov 6’ ai orav ug Ix vtov lyxifiarv y TijV ilwpjv, B
ftuog <3v xal yxov6tjg rijg yfoxiag xixtuv te xal yEvvav ySy
Itcl&vueL famil Sn, oi[ica, xal ovrog uspudv to tvv to dcopa
ne cogitari quidem possit. Heusdius scribendum censuit Tovtcov 8* ctv
orctv r iG ix riov iyxvpcov y rr}v ipvxyv, tr/v <pv6iv
j&cZoS’ qjy x, r. A., quibus verbis verborum difficultas non
removetur. Kai ante 7/xovdr/S positum Stallbaumio videtur non
copulandi, sed intendendi potestatem habere, neque ad participium
tantummodo, sed ad totam enuntiationem pertinere. Sensum ait totius
loci esse: Horum fgitur si quis a puero prægnans est ad
animum, quippe divinus, etiam appropinquante ætate, quæ 'pariendo
et generando idonea est, parere gestit atque generare. Alia via II.
Stephanus xai explicandum censuit scribens iitiSvpy* qua coniectura
efficitur, ut apodosis non a tovtgjv 8 av terbis incipiat, sed ab
insequrnte enuntiatione; etyTEi 8i/ x. r. A* Probatur hæc
explicandi ratio Astio et Riickerto. Ficinus verba reddidit: Quisquis
ergo virtutum huiusmodi natura plenus et gravidus est ideoque divinus, ætate
debita imminente parere iam generareque affectat. In Schleierroacheri
conversione legitur : fFer 7 iun diese ais ein gottlicher schon von
lugend an in seiner Seele trdgt, der wird auch, wenn die Zeit heran
kommt, Lust haben zu befruchten und zu erzeugen. Nobis xai
indicium est, ante ijxovdr/S aliquid excidisse, quod quid sit,
facilius indicatur, quam qui factum sit, ut exciderit, cfr. 208. E. ol jtkv ovv iyxvfioveS, icpr/ f
xaid 6 capax a ovteS npoS taS yvy alxaS pdXXov xpkTtovrai xal ravty
ipcotixol tldiv, quibus verbis edocearis, quid sit id, quod nostro
loco .exciderit. Dicuntur enim, qui ad corpus præguantes sunt,
iidem ad femineum sexum natura ferri, atque corporis auxilio immortalitatem
sibi quærere. Qui ad animum prægnantes sunt, num verisimile est, eos ætate
appropinquante tam nude dici et pariendi et geoeraudi cupidissimos esse.
Nonne dictum oportuit; eos etiam ad animam ferri atque animi auxilio
immortalitatem sibi quærere? Scribendum igitur coniicio : tovtcoy 8 av oxav tiS
ix vtov iyxvpcov y tt/y ‘ibvxrjv, g ov, xal xara rt/v tf)v xf}Y
yxovdi/S r jjs yXixLaS tixrciv TE xal yEvvdv i/8 ?] ixi^v/tEl,
Sensus est: horum, inquam, si quis est a puero prægnans ad animum,
is, quippe divinus, etiam animo, si ætas advenerit, pariendi atque
generandi c upidus est. Verba autem xara ipvxtfY
nou intellexerunt, qui xai copulandi potestate positum censerent. Hinc ea
expunxerunt. 298 HA A TS1N02 xcdov iv tp
uv ytvvtjautv’ Iv t<p yuQ aiGxQtp ovSi-^ XOTE ylwijOH. tu TE ovv 6
wuuta tu xuXu (luV.OV Ij tu cd6xQu uexut,txai ats xvav, xul luv Ivtvxy
4'vxij xuXy xul ytvvulu xul ivrpvH, nuvv Sy uSTta&tui tb
fcwtXUtpotlQOV, xul 3CQ0S tovtov tov aV&Q(07t0V EV&V? tvxoQU
Xbyav Mgl uQttfjs xal jciqI olov xQ’l ^ val C tov uvSqu tov
ayu&ov xul XuiSeveiv. amo/ievo g yug, P,rftit St) to
xuAov, Iv m x. T. A. Primo obtutu sciiptum exspectarem Spjrei
6// xaAuv ti, Iv oj av yevvijdeiev. Sed optimo habet TO xa\bv
% Sensus est: Quærit igitur etiam hic (ut alius, qui ad
corpus prægnans est) multo cnm studio pulcrum illud, quod aptum esset,
in quo procreare at^ue generare possit, it a v v 8 rj d
6 Tt d% et cti. Tum rero plane utrumque, et corpus et animum
pulcrum amplectitur. Neque enim 87 } in his est scilicet, nempe, ut putabat
Astius, sed positum est nt in formulis iv$a 8 r), ivravSa 87 /, rore
8 rf, atque refertur ad prægressa illa £dv hvtvjft ipvx y
7ta\y* 8 tali b . xal Ttepl olov XPV vat tov av 8 pa.
H. Stephanus vitii aliquid in his verbis odoratus scribendum esse censuit
xal nepl tov olov XPV vat x. T. A. Bekkerns præpositionem nucis inclnsit,
Astius etiam xai vocula adeo odendit, ut eiiciendam censeret.
Stallbauraius olov non masculinum, sed neutrum genus esse contendens
ver u BTUtqdsvHV, na i hti%UQ& oi[iat,, tov mlov nal
opi /horum sensum hunc esse ait: quale sit, in quo tractando versari
debeat is, qui boni viri nomen et dignitatem ohtinere velit.
Riickertus improbata hac explicandi ratione Bekkeri exemplum secutns itepi præpositionem
uncis inclasit. Nostro arbitratu neque delendum aliquid est neque addendum.
Articulum solent quidem haud raro scriptores in hulusmodi enuntiatis addere,
sed necessitas additionis nostro loco nulla est* Proprie Diotima
dictura erat: Ttepl apeti/S xal olov xfiV tlvai x. r. A.,
quibus verbis nihil inest, quo offendaris. Sed noluit ea hoc modo
exhibere, ne parum explicatam sit, utrum de uno an de duplici
disputationis argumento nunc agatur. Præpositionem igitur repetiit,
liberiore dicendi genero usa, quod in familiari sermone excnsabile
censebis. In hoc nimirum dicendi genere aliquyl tribuendum est pronuntiationi
verborum, quatenus consentaneum est, Diotimam prolatis verbis Ttepl
dpetijS xal Ttepl linguam paullulum repressisse, post verba olov xprj
elvai tov av8pct x. r. A. ita pronuntiasse, ut auditor
intelligeret, eflicere ea unum argumentato disputationis, et qaasi luiv
ctvttp, a italai Ixvei, r Ixtei xal yewa, xal itagcbv xal dxdv
(isfivypivog, xal r 6 yswTjfrsv tivvtxTQttpzi xoi~ vrj fiet’ Ixeivovy
Sgre tcoXv xowmrlav tfjg rc5v Ttaidcov rtQog ccAkrjAovg ol xoiovxoi
ifjxovtii xal cpiHav fofiaLOTeQav, dts xakhovcov xal d^avatatigcov ncddov
XBxoLvavrjxotBg. xal ndg dv depacto iavtq) r oiovtovg itaidag paXlov yeyovevai
rj tovg av&Qanlvovg, xal D $lg "0(itjQOV ccTtofitiipag, xal
'Htiiodov xal xovg al- unam notionem ut præcedens
dperfjs. xal 7tapa>v xal aitcjY /i Epvij /x£roS .
Neminem fugiet, alterum participium, napcov, superfluum esse. Cave id prorsus otiosum censeas. Etenim au-? gendo orationis vigori
inservit. Satis notum est Latinorum nolens, volens; quo iure, qua
iniuria, simii. Paullo infra legitur, 215. C. T a ovY ixelvov idv
re dyaOroS av\ Ti)s avXy. iav te tpavXr) avArjtpif, pova xatkxE6%ai
noiEi xal SijAol x. r. A. Huius dictionis vim nou assecutus est
Astios, qui xal expungendum censet, quod in duobus codicibus
ante to yEvvijSiv omittitur. Eidem ' Kiickertus adstipolatur.
Quid enim, inquit, sibi vult pulcri invenis recordatio dum præsens
est? At procreati in eius pectore fetus, recte mentionem faciat,
cuius facile potest fieri ut obliviscatur, certe si voluptati
magis quam virtuti sit deditus. trfi T dSv naiScov sc.
xoivcoviaS. Frustra Bastius scribendum ceusuit tg&v naiSovS vgov vel 7 Cai
8 o 67 c 6 paov. Stallbauraius xoivcoviav tqjy rtaldoov esse censet
coniunctionem ex liberorum procreatione oriundam, Respici
consentaneum est ad maris femiuacque coniunctionem, quam sæpias Diotima
tetigit in præcedentibus, v. c. 208. E. ol plv ovv iyxvpovEf, £<prj,
xard dcopara ovte* icpoS taS yvval xaS fiaAXov rphtovrai x. t. A.,
ut h. 1. consentaueura sit coniunctiouem commemorari, quæ procreandorum
liberorum caussa inita post, procreatis liberis, auctior atque firmior
evadit. ola Ixy ov a havtdjv xa~ r aA$iit ovdir. Olo ? et 060
S haud rjjiro pro on T oiovtoS, oti T odovtoS poni, exemplis demonstravit
Mattii. Gramm.
ampl. $. 480. 3. P* 899. Pronomeu relativum o S in sermone
familiari eadem potestate adhiberi interdum, supra annotavimus 263.
xal eis “Opijpov djco /3 A hf)aS
ZijAujv. Participia interdum exhiberi copula addita nulla, sapra
indicavimus annotat, 94. Ibidem, qua po-^ testate participia
ddvrSETcHit ponantur, explicatum ieperios. Ea potestas quoniam hoc loco
non exprimitur, admodum nobis displicet participiorum ratio. Neque tamen
Astii medelam verXovg itoirpcag Tovg aya&ov g fyXiUv, ola ixyova iavtljv
xataXiMvrSiv, a ixtivoiq a&uvaxov xXiog xal fivijfujv 'Xttfjiyira.i
ama roiamu orna' el 81 flovXsi, icpij, olovg Avxoiifyog n alSag
xarsXixsTO Iv AkxeSaifiovi. OaxiiQag trjg AaxeSa!(iovog xal, ag Img. d7 tdv,
Trjg 'ElkaSog. ti/«os 8s tcccq’ vyiiv xctl EoXcov E Sia rtjv Tuv vo(i(OV
yivvrjOiv, xal aXkoi aXXo%i xoXf.axov uv&Qtg, xal iv "EXXrjOi. xal iv
(iag^agoig, %oXXa. xal xaXa axorpyvauevoi iQya, yevvrjtSavrsg Xav%qiav aQitrjv'
(Jjv xal uqci icoXXu rjSi] yiyovB Sia tovg Eorum probamus, qui
Sr/Xolr) pro S,r)X(Sv soribendum couiecit. Stallbaumius verborum
structujram ait esse: TtaS av SiUaiTO t avtd j xoiovtovS itai8aS jj.cc
AJtoy ytyoyivoLii r t rovs avSpa)nivov* Zrjk&Y xal r ' Ofirjpoy xal '
Hi>io8oy xal x ovS aAAo.v? 7totrj T uS xovS ayaSovS, eIs ixelvovS (tizofiXaipaS,
ola Ixyoya kavTgjy xata\Eiitov<$iY' Nemo negabit, hæc Yerba optime se habere
} sed nura eo ordine, quo PlntQ ea exhibuit, eum sensura habere
possint, quem StalJbuumius putat, alia quæstio est, quam certe addubitare
licet. Ruckertus commate post 'JitilodoY posito prius membrum
enuntiati esse censet xal elS "Ojityjov d7tofi\h{>aS xal 'Hoto8ov,
alterum xal xovS dXXovS 1 taij]T<}s tqvS dyaSov? Z?jXd>v.
Quamquam hæc explicandi ratio admodum nobis placet, tameu esse
aliquid censemus, quod merito vituperetur. Non recte enim dici arbitramur
xal eIs" O pijpov ct7tof3XixJxaS xal 'Htiiodoy pro xal Eis
"Ojirjpov ccTtoftMipaS xal .tls 'HtiioSov* Igitur post aito~
(3A.£lJ>a$ comma ponendum curavimu«, quo efficitur, ut cum
admiratione aliquis dicatur ad Homerum respicere, atque Hesiodum
ceterosque poetas bonos cum invidia quadam prosequi» ei 8 e
fiovXei, Hcprj,o?ovS Avxov pyoS . Brevius hic locuta est Diotima
quippe supplenda auditoribus relinquens, quæ facillime suppleri
poterant: ei 8 ftovXei, ZjjXtkiy Avxovp yov, otovS nalSaS x. r. A.
Ceterum assimilatiouem generis, dc qua supra dictum est annotat, p»
286., hoc loco admissam arbitror. Primitus neutrum genus relativi Flato
in mente habuit, cui TcalSaS odiungeret appositionem. Post elegantiæ
studio genus relativi mutavit, idque ad sequentis nominis genus
direxit» Pro xaxeXbzexo vulgo xate~ fehzEzo legitur. Recte illud
recentiores editores e codicum auctoritate in verborum ordinem
receperunt. &y xal lepd TtoWd. cfr» Wachsmuths Hellen.
Altertbumsk» xavxa p\v ovv
xdv 6 v pvTj $ elrjS h. e. quæ hucnsqne dicta sunt de
roiovtovs nalSaq, Sia de rovs uv%Qani^ovg ovSe* vog na. Cap.
XXVIII. Tavra (ilv ovv ru iganxa ”<Saq, m Xaxgarig, xav Ou
fivtj&ihjs ' tu da relta xai Inontixa, av tve* 210 xct xai Tavra lonv,
luv rig og&us fisruj, ovX oid \ tl olo s t’ av tfys- iga fiiv ovv,
£<pr ), iyiS x al ngo* Qvfiiag ovdcv unoldipa' nuga SI txiaftca, av
o!o$ ta ys- dat yag, rov og&ag lovra ini tovro Erote, cornm tu
quoque mysta iactus es fortasse* Iam iis, quæ Diotima
protulit, t d reXsa xai izontixd opponuntur, ut facillime
intelligatur, quid sub verbo Tavra intelligendum sit. Nimirum cum
illa verba ipsa arcana significent, ad quæ spectanda, qui mystæ
esse cupiant, non admittuntur, nisi ante quinquennali purificatione, quam
xaSapCiv Græci vocant s. xaSappov, ad rem idonei facti sint, tavra
ipsam illam xaSapdiv denotare consentaueum est. Qninque autem
fuerunt, ut Theo Smyrnæus narrat Mathem. p, 18. initiationis gradus,
quorum primus xaBap~ f.ioS vocatus est, secundus tJ rijS teXerr/S
napaSoCiS, tertius inonreia, quartus avaSetiif xai Crappareov btiSsCiS,
quintus ro' SaocpiXls xai Seotf Cw8iairoS evSaipovla. Harum
graduum verisimile est singulum quemque annum unum sibi
exegisse, ovx ol8* s el olo St* av eItjS. Hic quoque e
mysteriis similitudo petita est. Haud raro enim, qui mystæ fieri cuperent
atque arcana spectare, ^priusquam quinquennium præterlapsum esset, impatientes
moræ consilium mutabant atque a proposito abhorrebant, cfr. Piat*
Phæd. p, 69. C. eIcI ydp 6tfr <padv ol Ttepl rat r eXard? y
vap%rjxoq>6poi plv izoXXol, paxXoi Se re rcavpou Ut autem melius
intelligas, quo iure doctrinam de Erote Diotima cum mysteriis comparet,
pergit Socrates 1. c. : ovroi 8 ’ elcl Xard t tjv i/iTjv 6u£av ovx dXXoi
ij ol 7tE<piXo6o(pyxoTES Op3(ZS. gjv 6jj xai Sycaye xara ya
ro dvvaruv ovSlv dniXinov iv rui pico, dXXa itavrl t porceo npovSvpijSiiY
yevtCSat. eL 6 e opSdiS TTpov^vpij^tfV xai rl 7fvv6a/i?fv, IxeICe
IXSovteZ ro Cæpi S aldupaSa, idv SiuS ISeXy, oXiyov vdrapov, coS i
pol donat. Comparat igitur Diotima rei iosequentis difficultatem
cum quiuqueunii illius molestia, atque, ut mystæ impatientes moræ, ita ne
Socrates difficultate rei ab audiendo deterreatur, vereri se
indicat. TCEip GJ 8\ E7C SC$ ctl. "&71E CSat verbum sæpissime
adhibet Plato, ubi auditores excitari siguifieaturus est, ut attentius
aurb xgayfia %q%e6&iu (ilv vsov ovra levui 1x1 x « xala CtoftarK, xal
XQatov y.iv, luv oq&ws fjy^rai 6 xjyov/isvog, ivog avxbv Cioftarog
igav xcel ivzuvda diant accuratiosquo, quæ doceantur, percipiant. Petitum
autem hoc verbum est e mysteriis, ubi ducentibus ad arcana spectanda iis,
qui itept t aS te\er aS erant, mystæ sequi iubebautur. p\v v e ov
oV“ ra. Hecte Ficiuns verba reddidit: Oportet eum, qui ad hoc recto
sit tramite progressuras, statim ab adolescentia pulcra corpora
contemplari, et primum quidem, si modo recte ducatur, unum corpus
amare. Ceterum Sydenhamius, quem Wollius laudat, optime annotat: Der
Grund hiervon ist der, weil das innere Auge sich zur E mpfindung
der Schonheit eben so offnet, ais zur Erkenntniss der Natur. Unsere
Seele fangt immer bei einem einzelnen sinnlichen Gegen stande an,
geht da nn zu einem andern fort, vergleicht beide, und
siehtiniedem das, was beidegemein haben, So fiihrt sie fort,
sammelt und vergleicht mehrere andere Individuen dieser Gattung,
bis sie in allen diesen Individuen einerleildee, eine und
ebendieselbe Natur wahrniinmt, So gelangt sie endlich zu einem vo11standigen
Begriffe dieser sowohl de ii Arten ais der Gattung selbst gemein
schaf tlichen Natur, iener ewigen und un veriinderlichen Idee, die eine
und ebendieselbe in allen ist. Inseqnentibus singuli gradus percensentur, quibus initiari debeat is,
qui ceteram pulcri ideam concepturus sit. Itaque Diotima,
Stallbaumius inquit annotat, ad b. 1., primum ait initiationis
illius gradum esse, quo ad unum nos applicemus corpus pulcritudiiie
insigne, ex eoque virtutem et bonorum sermonum fructum procreare
studeamus. Secundum esse hunc, ut non unum aliquod corpus amemns,
sed omnia, quæ emineant pulcritudine, corpora amore complectamur.
Tum progrediendum esse ad consectandam animi pulcritudincm, præ qua
corporis forma omnino contemnenda sit atque id agendum, ut, quod iu
moribus, legibus, institutis pulcrum sit, id animadvertatur atque diligatur.
Denique perveniri ad sapientiæ atque philosophiæ studium et
amorem, quo qui incensi sint, eos demum ait intueri pulcritudinis
veræ, constantis atque æternæ divinam formam atque imagiuem. hv 6 S
avtOV dcbpLCtTOS ipav. Bekkerus e quinque codicibus edidit b>o$
avt&v yiaroS Ipav, quæ scriptura, nt Stallbaumius atque
Ruckertus iam monuerunt, nullo modo ferri potest. Pronominis
repetitio primo obtutu molesti quid habere videtur in verbis iittiTCt
ouroV x. T. A., re accuratius perpensa repetitam videbis, quo vaycwav Xoyovg
xcdovg' Exuta 6tl avtov xotavoijaui, ori to v.aXXog zo ixl ougovv Gci/ian
ra> Ixl triga B 0Bfiau aStXqjov lari, xcd tl bu dicoxuv to Ix’
lidias graduum enumeratio emineret, alterque ab aitero significantius
discerneretur. Et quum in huiusmodi singularum rerum, quarum altera
ab altera accurate seiungcnda est, usitata prope sit verbi finiti
repetitio non dubitavimus præclaram Stallbaumii conjecturam, quæ et a
facilitate commendatur, in ordinem verborum recipere, atque dei pro
de exhibere: ineita dei avtov Xatavoijdai. Verba autem quod
attiuet: kvoS avtov CcdpazoS £pav, quoniam præcedentibus adiuuguntur,
nontanquam novi gradus SIGNIFICATIO iisdem opponuntur, avtov pronomen nobis
quoque admodum displicet, ut Bekkero displicuit, ex cuius scriptura
eruimus, quod unice verum esse videtur: kvoS av toiv dcopazoov
ipav. Av particula, ut supra indicavimus annotat, 209., e
superioribus aliquid supplendum esse docet, ut expletior oratio
audiat: rtpajtov /Av dei rov op$qqS lovta ini tovto td npdypa ivoS zcdv
(jojpdtcjv ipdv. ori t d y d XX o S ad e A(p 6 v i6tt.
AdeXqjov rarius cum dativo casu coniunctura reperitur, quam cum genitivo
; in caussa hoc esse arbitror, quod rarius tropico, quem vocant,
quam proprio sensu exhibetur. Substitutum h, 1. est ddeXqjov nomen in
opioiov s. d/ioiotazov verbi locum ideoque eius casum adscivit. /
to in eldei xaXov. Wytteubachius ad Eunap, Yol, II, 247* h. 1. dicit to in* eT8ei xaA ov
dialectice dici pulcrum in specie, quæ generi opponatur. Gai assentitur
Stallbaumius. Male, si quid video. Est enim pulcritudo, quæ in
forma est atque sensibus percipitur» Hinc etiam ei dei dicSxeiv
dictum vnoSezixdiS. Ruckert. Schleiermacherus verba reddidit : und
es also, wenn er dem in der Idee schdnen nachgehen soli, grosser
Uuverstand wiire cet, Schulthessius ; uud weil doch das Schdne der
Gesummtgattung angestrebt werden miissecet. Recte Wyttenbachius et
Stallbaumius verba ceperunt. Ficinus habet : Et si sequi
decet, quod in specie pulcrum, absurdum est cet, yai eI det
diGJXEiv X a AA o S . His verbis tertius gradus
continetur, ut quinque etiam eroticæ initationis gradus nominentur.
Vide annotat, p, 3f)l* Sed hæc verba tauquam alicuius gradus
significationem Flato non attulit, ne nimia, opinor, singulorum membrorum
similitudine oratio laboraret. Proprie scribendum erat; eneixa dei avtov
Zv te xai tavtov ?}yei6$ at to ini niidi toiS dot/tadi xaXXoS xai
dicjxeiv avto ov in* eldei xaXov. Sed quoniam hoc gerius dicendi præcedeut|
enuntiato simillimum est, verens scriptor, ne nulla varietas esset
orationis, condilionali particula addita id genus dicendi exhibuit,
qi/od in libris comparet. Quæ uutem sequuntur > tovto 6* £v~
1 tiSst xalov, x oXlf/ avo icc (irj ov% tv re xal r avrov
cjyeiG&ai ro Icci ctaGi roig GiojiaGt xalAog • rovro 8 ’
IvVoijGccvrcc xaraOtfjvai ctavtav rav xaiwv Gafiarcov iQaOrrjv, hos 8 e
ro GqjoSga rovro %a)JcGai xaracpgovrjGavra xal G/uxgov tjytjGafiBvov ' ftsra da
ravta ro Iv raig pv%ais xaAlog ti/ucattgov rjyyGaG&ai rov iv
tfii Gajiau, agre xal, av btcuxrjg cov rqv us VOtjdavttt xara6ri]Vai
rursuni ad verborum præcedentium bt etra det avrov xarctvoij6ai exemplar
conformata sunt, quartum gradum eroticæ initiationis exprimentia, ut
expletior oratio audiat : httira 6ei avrov ivvorj-> Cavra
xara6ri]Vai x. t. A. bvos db ro dtpodpa rovro. 'EvoG sc. xaXov
tiooparoG. Sensus est: nimium autem illum unius corporis amorem,
(quo de supra dictum est 210. A. xal TZpcorov pbv IvoG av r cov 6copdxcov ipctV et quem
qaotidie videre licet,) cum contemtu remittere oportet. Minus apte
Ruckertus annotat ad b. 1.: quod autem rovro posuit, eo factum f quia cum
> Socrate loquitur Dio tima f est enim eadem ilpoove.iA t quam ubique
Socrates usurpat Platonicus j ut ad amorem puerorum propensiorem se esse
simulet. Tantum enim abest, ut propensiorem Socrates se ostendat Diotimæ
bis verbis laudatis ad puerorum amorem, ut potius cur non sit, et
esse nolit, eius rei rationem indicatam habeas. Prorsus autem rei
intelligeutiam Riickertus pervertit, de puerorom fimore hic cogitans,
*EvoG ro 15<po Spa rovro potius ad utrumque sexum pertinet, atque sive
femina sit sive puer qui ametur, unius amor (die ausschliessliche
Liebe ei nes Gegenstandes) vituperatur c Ii Sr e xal dv xal 6 pixpd v
avSoG i XV’ Vulgo iav additor ante Cpixpov. Annotat Stallbaumius ad
h* 1* : Horum verborum constructio quam valde laboret, etiamsi non
observaverint interpretes, tamen vel mediocri animi attentione neminem
potest latere. Quum enim doGre Xai referendam sit ad igapxetv avrqj,
apparet eorum verborum, quæ interiecta sunt, rationem iav bis
illato mirifice perturbati. Neque tamen medicina longe petenda est.
Deleto enim altero iav omnia sarta tecta erunt. Nam ita xal tipixpoV
positum, ut Piat. Criton, c. V. extr. et n xal 6pixpov ypcoV
ocpeXoS 7/v et sexcentis aliis locis. Idem de hoc loco nnper visum
esse Astio non sine animi lætitia video, Sententia igitur hæc
est: si quis proba sit animi indole et vel tantillum
pulcritudine corporis floreat, Multo probabilior et,verisimilior hæc coniectura
est, quam Sommeri commentum, qui cov participium in y immutandum
censuit. Pro iav, quod ante irtietxjjG positum reperitur inultis in
codicibus, vulgo txv legitur, quod Bekkerus iu oidi— nem verborum
recepit, quem xnl [lav] 6juxQov av&og lyy, eiagy.nv avrco xal
tgttv C xal xijdiaitca xal xlxxuv koyovg r oiovrovg xcd t^ryriiv,
omveg jtoiijaovOi fiO.rlovg rovg veovg, Uva avayxaod fi av
&taoua&ui ro iv rolg ixirrjdevfiatii xal rolg vofioig xakoi', xal
zovto ISnv, ort jcav ai no avu5 fcvyytvig tduv, tva to siegl ro Ouaa
xa/.ov tiiuxguv n %yrfii]rai uvca ' (tstic 6« ta tTti,xr t Sivy.ara Isti rccg
ixiOrrjfias secuti sumus, nt esset, cnr acribæ uon intelligentes
huius vim particulæ ante tijuxpov idv inseruerint. xal
t Ixxeiv \6y ovS t oi OvzovS x al ?,7/z etv. Verba xal ZtjzeIv Astius
ineptnm glossema habet, neque quiequam post rixxsiv \6yovs xoiovtovS
locum habere arbitratur, quam xat ix T pl<pEir, Quod verbum si
compareret in libris, a nemine non probaretur; sed habet etiam # 7teiv,
quo sese lectori commendet. Stalibaumius ctTjxsiv verbi patrocinium
suscipiens, Diotima, inquit, hoc dicit: talem amatorem uon modo ipsum
parere quasi et ex se procreare, sed etiam aliunde quærere et
investigare eiusmodi sermones, qui iuvenes reddant meliores. Quibus
verbis significatur maxima hominis contentio et stndium, qni niteri
omnibus rpodis prodesse cupiat. Recte. oltiVES It Oli}
dovtfl. Iland raro Græci scriptores futuro tempore utuntur, quo
significent, aliquid haud dubie futurum esse atque fere necessaria
de caussa : welche die Iiingliuge besser rnaclien m ii s s e n .
tva dvayxa.6$i/ ivct x 6 n spl x. x. A. "iva particulæ
repetitio hoc loco sutis molesta est. Huiosmodi repetitiones admittuntur quidem
a scriptoribus, sed eo fiue, qui a nostro loco alienissimus est. Nimirum quando
cum gravitate singulæ alicuius rei actionisve partes enumerandæ
sunt, haud raio scriptores voculis npdoxov pkv insita s. insita 64 utuntur. Hæ partes,
ubi per Runles particulas inferuntur, haud raro etiam illæ voculæ
omittuntur, atque particula finalis repetitur. Vide lud. s. v.
Repetitio. Quam aliena hæc dicendi ratio a nostro loco sit, sponte
intelligitur. Hinc Astio assentimur, ivct posterius expungenti, quod
quomodo ia ordinem verboium irrepserit, facillime potest indicari*
J*rnecedit enim idti, quod»' itpsAxioxixov dnte interpunctionem assumsit,
cuius vocabuli syllaba huulis iucuria scribarum duplicata ansam dedit
corruptioni. Totum Jocum Astius sic scribi iubet: iva avayxa6$EiS
av SsacSaCSai to iv tois Inixr}Qsvpatii xal rois vopoiS xaXov xal
xovt* i6slv, oxt ndv avxo avxcp ZvyysvsS i6xi, ro mpl to 6 copa
xaXov 6/Jtxpov . xi tjyjjorjxai slvau Neque probamus Stallbauraianum
argumentum, quo dicitur admissa conjectura Astii totius sententiæ ratio
perversa esse. Quippe ita, Stati 20 t t,
uyayuv, f 'vct TSy av ixusrtjfuSv xaiUos, xal fifJxav D XQos nohv
fjdrj r. 6 xaKov, (irjxtri ro xuq evi, montq olxttrjs, uyaxwv, xutduyiov
jkUAos V uv&qwxov uv os banmius inquit, ea par* enuntiati, quæ
continet rei longe gravissimæ significationem, participio indicatur,
altera, quæ rem minoris momenti denotat, per verbum finitum
exprimitur. De hoc verborum structura vide ludiccs 8 . v.
Participium, pera 8i x a kn iXTf Ssv para ay ay eiv, Hic ut taceam tot verbis
interpositis denuo novam periodum ab illo detV in principio posito
suspensam, nonnihil offensionis habere, illud vix excusare possum,
quod sublectum etiam mutavit Plato, atque ab eo, qui ducitur, transiliit ad eum,
qui ducis et magistri personam agit. Est enim plena sententia: Ssi Xov
7/yovp£vov dyayeiv avxov x. r. X. Hoc Riickerti iudicium est, quod
esse suspicor qui probaturi sint. Nobis neque 8« verbi omissio
incommoda est, neque vero sobiecti mutatio excusatione indigere videtur. Suut
enim verba magis ad sententiam, quam ad grammaticam subtilitatem
conformata, Atque mirari non possumus, hoc loco pro eo, qui initiandus sit, eum
commemorari, cui iuvenilium animorum initiation sit commissa, cum idem
etiam in præcedentibus commemoretur* cfr. p 210. A. 8ei yap,
£<prj, xov opSdfc lovxa btl rovro ro irpaypa apxtdSai piv
veov ovra levat irci ra xaXa 6(dpata r xal npcorov piv, iav opScoS
7\yr}tai 6 r\yox>pevof, kvoS av x. x. A. prjxixt xo 7tap * ivido Sf
tep oixirrfS dyandov. His verbis inesse quod minus bene habeat,
statim lectores inteliigent. Bastius SovXevgov ineptum glossema habet,
quod oixkxTjS verbi explicandi caussa margini olitn adseriptum post
in ordinem verborum irrepserit. In aliquot codicibus pfo ptpte xt xo
legitur pyjxit* ha), uude Bekkerus atque Schleiermacherus
scribendum ceusuerunt pTjxezi rw. Astius scribendum couiecit: prjxexi
xo 7 tap* ivi, QoSnep olxixifS, dyartGov xaXXof, y avSptanov xivoS 7?
ijtitTjdsvpaxo $ IvoS, x, r. A. Vulgo verba hoc modo interpunguntur
: 7£poS noXi) ijSjj ro xaXuv, prptkxi xo nap - ivi, ddsnep oIxext}?
ayandov naibapiovy xdXXoS, t} dv$pGD7tov x 1 YOS X. X. A. Stullbaumius ad
h. 1. Nihil, inquit, mutandum videtur præter interpunctionem, quam
nbi emendaveris in hanc modum: xal (iXincov npds noXv 7/drj xo
xaXdv, pTjxizt xo nap’ ivi, doSitep oixixTjS, ay vendor itaibapiov
xaXXoS x . r. A., haud scio au omnia satis expedita futura sint. Nara ad
ro nap* ivi, quod connectendum est cum dyaitdov, rursum intelligas
xaXov, Apto vero additur c Zsnep oixknfiy quoniam, qui unius tantum
admiratur polcritudinem, is ei tanquam servus quasi emancipatus videtur.
Porro nihil habent offensionis, quæ deinceps sequantur: naiSapiov XaXXoS
iittXTfSEvpaxo » ivoS, quæ nemo est, quin videat, apposita
esse *o \ y imTTjdlvfiaros {vug, dovktvmv (pavXog y xal 0
/jixqqkoyog, cAA’ tal ro nokv nikayog xecQamiivog rov xakoii xcd &taQdov
xolkovg xcl uaXovg ivyovg uai (it præcedenti ro nap* kvl explicationis
gratia, ita ut pro to xaX uv nunc dicatur nuiverse xaAAoS\ Denique nec
participiorum cumnlatio quidquam habet, quod ab loquendi
consuetudine alienum sit. Nam fiXbroDV npoS noXv ro xaXov arcte cohæret
eam pipiETi ro nap * kvl dyanckiv f atque indicat modum et rationem, qua
fiat, ut amator non amplius unius tantnm admiretur pulcritudiuem,
4ov\evgjv autem reiereudum est ad q>avXo$ y xal 6p ., ita ut
idem sit, quod dia Tu BovXeveiv* Quocirca sententiam verborum sic fere
reddiderim: post studia illa ad scientiæ genera adducendus est, ut
sapientiæ intueatur pulcritudioem, atque eo, quod latissimum puteri
campum spectat, non i a m unius, sicuti servns, admiretur
pnlcritudinem eaque servitute vilis existat et pusillus, sed ad immensum
pulcritudinis.mare conversus etc. Iloec egregia verborum explicatio
est, qua et codicum lectionem servatam fet Platonis ingenio haud
indignam gententiam repertam habes. Unum tantummodo est, quod in
hac verborum explicatione minus nobis placeat, oixBTt}? nomen. Satis
apertam esse reor, Platonem, si servilem conditionem eius
describere voluerit, qui unios hominis vel rei udmiratidne atque AMORE captos
teneatur, 6 o d\oS non oixittjS nomen ad hibiturum fuisse. Sic infra 219. E. xctTatdefiovXayiEro? re
DfCO TOV CtV$(XO7t0V G)S OvStlf V7t ovSeyqS d\Xov icfpiya . k, cui
innumeros alios locos addere possemus, quibus proburetur, ad servilem
conditionem describendam Platonem nusquam o fxkxyjS vocabulo nsum esse.
Scribendum est autem pro oixixtjS nomine 6 IxitrfSy quæ vocabula
passim confusa esse Iacobsins monuit annotat, ad Meleagri epigr.
XXXII. v. 2. De Initr/S vocabulo amatorem unius hominis
describente, vide Excurs. &it\ to noXv niXayoS tet
pappivoS rov xaXov . Picinus verba convertit: verum in profundum
pulchritudinis se pelagus mergat. Stallbaumius exhibet: sed ad immensum
pulcritudinis mare conversas. Videtur nemo ioterpretum verbis offensus esse to
noXv niXayoS, qoæ sane, præsertim cura præcedat xal ftXbtcov xpuS
noXv ydij to xaXov t nimis ponderose prolata snnt. Satis erat
dixisse ini to niXayoS rov xaXov vel ini ro noXv r ov xaXov
Utrumque verbum h* 1. adhibetur prorsus eodem modo, quo aX AofT cum nomine
aliquo coniungitur. Ceterum apte conferri iubet> Stallbaumius Plut. Quæst,
Piat. 1001. E. ro piyi6rov y ccdtoS iv Svpnodtco Sidatixoov, rttoS 6si toIs
ipoarixoir xpydZaij perdyovra rrjv i>vyt)v ano tcov afoSyrcov xaXdjv
ini ra votjrd, napeyyvd pijrs CooparoS tivoff pyz’ im20 • ‘yaXoitQtxtig rixrij xccl duevotjfuna tv
rpiioGotplct atpftovto, eag av ivrav&a QGXS&alg xal avfy&fls
xattSij tiva bu&truirp (ilav Toiavrrjv, fj loti xaXov toiovSt.
E IlHQa 6s ftot, hffj, tov vovv XQogt%uv tSg olov r t
(laXitita. Cap. XXIX. "Og yuQ av (lifflt
ivruv&a XQog t « iQatixa xaiSaya tijSev/icttoS fitjr’
btttirijftriSxaXAft fiids v7totErdx$cn xal 8ov~ A eveiv, aXX* dnoOtdvxa
xij$ itepl xavta pixpoAoylaS ini xo noAv tov xaAov itiAayoS
xpi7te<$$ai. $e&)pG)v
rixrxj xal 8 tay 01 } p at a x. t, A. ricina* exhibet ia
conversione : abi ipso iutaita multas præclaras atque magnificas
rationes intelligentiasque in philosophia abunde pariat. Attius, dqiSovGQ
verbo oifeusas | acpSova scribendam eoniecit. Nobis
transpositione verborum opus esse videtur propterea, quod præcedens
3en>pcjy participium sequente accusativo, qui ad id non pertineat, satis
inepto loco positam videtor. Supplendum censent ad $£(u)p(k)V interpretes avzo,
sed supplemento illo ordo verborum ^eoopGjy noAAovS xal xaAovS A
oyovS xal peyaAonpeneiS haud excusabilior redditur. Scribendum igitur
videtur esse: aAA* btl td noAv nekayoS ZExpappeyoS rov xaAov xal
SEwpobv zoAAovS xal xaAovs AdyovS xal 8iocvoi}pata xixxy iy
<piAo6ocpia dq>$ovaa. Seusus est: sed ut conrsrs o s a d 'im m e n
sam pulcritudiui.s copiam atque intuens pulcrorum atque præclarorum
lermonnm immensam materiem (vide annotat, 333.) pariens sit in
philosophia ditissima. De verborum transitivorum absoluto usu, quo nostro
loco xi~ XTQ dicitur pro tixxoDV y, sæpius iara diximus. Vide
Indices. tiva initixrfprfv piav x oiavtrjv h. c. scientiam
eam, quæ est ideæ pulcritndinis, ad quam cognoscendam Socratem Diotima
adhortatur ut animo attento essa studeat. Ceterum xazidy miuus apte
Schleiermacherus reddidit: bis er erblicke; xaxiSel-y est potius:
mit dem Blicke erfassen, agnoscendique notionem videndi notioni
addit. Sic 172. A. legitur roJv ovv yycopipooy r/J oxiCSe xatidcSy
pe xdfipcj&ty ixoÆde x. x. A. h. e. : einer meiner Bekanntcn, der
mich von hiuten sali and erkannte. Paullo infra 210. E npds riAuS
ySff icoy t&jy ipasTixcdy i^aitpyr/S xaxdip ex ai xi
SctvjiaCxov x. x. A. piypi iytav£a. Sic libri meliores
omnes pro vulgato //iXptS, Quod enim Phrynichtu 6., Herodian. Philet. 451., alii
grummatici veteres, pdxp* el axfn tanquam Atticam
probant, fttG>ntvo$ i<pt*fjs ts xal oq9& s ra xaXa, srpog
riAog fjdy iwv zuv igauxiJv t^alcpvyg xazvipizui n ftav(iciGzov tijv tpvGiv
xaXov, tovto txiivo, a £ioxQccceg, ov 8rj tvcxEv xal o£ ZfixQoo&iv
zcavzig novot zjaccv, ngarov (tiv ccei ov xal ovts yiyvofisvov ovts
utzoX!.v(1£- 211 vov, ovts av^avofisvov ovts qp&ivov, ezcaza ov zy (ilv
tcaAuv, zy 8’ alOxQov, ovds rora [ilv, rora 6 ' ov’, ovds arpog (ilv ro
xcdov, sgog da rd uIoxqov, ovd' Ev&a filxpiS antem et axpiS
improbant, id verissime dictum esso testantur Platonis codices meliores
omnes, qui tanto consensa tuntaque constantia ea de ro consentiunt,
ut vix sex septemvo apud Platonem loci' reperiantur, obi altera
forma communi firmetur librorum consensione. Nam quæ Heindorfius ad Piat.
Gorg. collegit, ea nunc omnia ex codicibus emendata suat.
Stallb. Secj/isv o$ i<pe£ijs re pcal opS-d)? h. e. die
Grado des Schdnen in seiner 1'olgp und Richtigkeit. De tl pronomine indefinito, adiectivis nominibus vel præfixo
vel postposito, Matthiæus disseruit Gramm. ampl., ubi et noster locus laudatus
est. iCpoS tiXoS y$tf ioov. TIpoZ tiXoS ikvcti dicebantur
ii, qui superatis gradibus tandem ad spectanda arcana
admittebantur. Hinc factam esse videtor, ut ipsa illa arcana,
quorum caussa multi labores suscipiendi erant, TfiSv teXcov nomine
insignirentur. Rectissime Wachsmuthius Hellen. Alterthomsk. I, 1. $24.
annotat: Die Grnndbedeutnng des vielsagenden VVortes tiXoS ist
niclit die des Endes, ais der eintretenden Nichtigkeit voo etvas
Vorhandenera, des Eintritts einer Leere statt der friiheren Fiille,
sondern vielmehr, kraft der Ableitung von tiXXca (zum Dasein
kommen, hervorwachsen, reifen) der Bcgriff, dass etwas •ich
verwirkliche, eu dem Stande der Reife kumme, sein Ziel erreiche, seinen
Zweck crfuUe, rouro ixeivo sc, idrlr. Diotima nunc de pulcri
idea locutura, cuius caussa tota oratio suscepta est, rouro pronomine
demonstativo recte utitur. Exeivo addit, ut significet, eiusdem pulcri
ideæ iam prius mentionem factam esse. Hinc
rjdav explicatur, imperfectum tempus. Significat enim : cuius caussa
esse diximus labores omnes. Ut Græci tovto Ixeivo, ita
Latini hoc illud adhibent hand raro, atque interdum satis cum
acrimonia; cfr. Terent. Andr. A. I. sc. 1. . Quæ sit, rogo.
Sororem aiunt esse Chrysidis. Percussit illico animum.
Atat hoc illud est, Hæc illæ lacryinæ, hæc illast
misericordia. it pdotov æl ov xat o t’tfi x. X. X. Satis notum est,
atque eti«uu vernaculi sermonis (ilv xcdov, iv9a 8s alcSynov, <5g rtfil
(ilv ov xcekcv, ual Se alexQoV ovS’ av q>avxa09^<Stvai avxo [16
xalov] olov TtQoganov tt ovfis jjfipfj ovfis alio ovStv ov (Swfia
[itte%sL, o vd£ xtg koyog oi)6a xtg btasximij, ovSi jtov ov ev iteQa nvl,
olov Iv £w<a rj Iv yjj rj Iv B ovgava > jj l'v xtp aXXtp, alia avxo
avxo fit& ttinov (iOVOuSeg a et ov, r a fia alia navra xala
Ixeivov (texixovxa xqoxov uva xotovxov, olov ytyvofievav te xov allav wtl
dzollv(dvav p/Siv exetvo (ii/xe te probatur exemplis, duas res,
quarum altera alterius explicatio sit, copula adhibita haud raro
arcta couiungi. Huius usus exempla si quæris, ludices adi 8. r.
xat explicativum. Sententiam quod attinet, cfr. Cic. Orat, c. 8*
Has rerum formas appellat ideas Plato, easque gigni negat, et ait
•emper esse, ac ratione et intelligeutia coutiueri, cetera nasci, occidere,
fluere, labi, nec diutius esse uno et eodem statu. ovdfc npoS plv T
6 xa \6v. Hæc verba ut vulgo ex*” bibentur, articulo gravi iusignito, aliquid
iucommodi habent} quis est enim, qui non censeat, si ro nocXoy
exhibitum est, articulum cum nomine subsequente coniungendum esse? Idem
cadit in verba to aidxpov, quæ paullo infra leguntur. Gravem igitur
ia acutum immutavimus, quem etiam exigit pausa, quæ, si recte bæo
verba recitaveris, post ovSfe TtpoS plv ro comparebit. Ceterum
TtpoS plr to, npoS TO duplicem rationem indicant, qua res
terre* strea spectari licet, ideam pulcrl spectari non licet,
ot>d* av <p avta<$$7j de *• tat avxo [r o xaXov].
Bekkcius, quem Dindorfiu* et Riickertus secuti supt, e codicibus, ut
videtur, avT(fi pro avxo edidit, Hoc avTcJ, Stsllbaumius inquit, probare
uoli. Idtelligitur enim ipsa puteri species et forma. Recte; sed mious
nobis placet To xaXov, quod, quam facile potuerit ab eo, qui avro
recte iutelligeret, in ordinem verborum inferri, statim apparet. Avxo
nutem prorsus eodem modo positum esse videtur, ut 210, E.
TOVTO IXEIVO, OV 6f) £VEHEV xat ol tyjcpo6$Ev TtavTES no voi
rfiiav. Uncis igitur inclusimus verba ro' xaXov, a XX' avxo xu$*
avxo peS* avtov. Apte Schleiermacherus verba reddidit : sondern an und
fur sich und in sicb liberali dasselbe seiend. t a Sb aXXa
narra 7cadx et y ptfdiv* Dicuntur emuia, quæ in terris pulcra vocantur,
sensibusque subiecta sunt, non ipsa ideam esse pulcri, sed cum ea
cohærere tautummodo, ut cum hæc oriantur atque intereant, illa neque augeatur,
neque minuatur, neque ulli ' mutationi obuoxia sit. Hæc pizijf ideaS
quomodo intelligenda sit, a Stallbaumio explicatum habes annotat, ad h.
i.; 4 nXiov (irjtt (Xctrrov yiyveidai (it]d's natixuv (itjdtv.
orav bt/ rts ano rmvSe dia r 6 oq&us naiScgaoniv Inaviav Insivo to
xaXov aQ%i}un xaQoQciv, 0%eSbv civ ti antoiro tov reXovg. tovto ' yrcQ
Sr) ian ro bgftug c ini ra iganxa livai $ vn aXXov uyso&a i,
ciqxoiibvov ano ravds tav xaXwv ixeivov tvixa tov xaXov clil
inavdvai, togneg tnavafia&ftolg XQwficvov, uno tvog ini 6vo, xal uno
dviiv Ini narra ra xaXa edficcra, xal ano tav xalav Oafidzav Ini ra '
xaXa InmjSsv- Quæ bona, pulcra, honesta sunt, ea putabat Plato bona,
pulcra, honesta facta esse eo, quod referrentur ad ipsam bonitatis,
pulcriludinis atque honestatis speciem, eiusque quasi partem
aliquam in se continerent. olor yiyvopevoov re tcov aXXoov x.
r. X. Dc olor sequente infinitivo vide Matth. Gramm. atnpl. $. 535.
Laudat Btallbaumius Piat. Apol. Socr c. 18. iyoo rvyxtxfc* tov
toiovtoS, oloS vTto tov Seov r y itbXei 8e8o6$ai. Adde Piat.
Protag. 1 >. 330. C. Msttv apa toiovtov t} SixaioOvvy olov
Sixaiov lirat. Ibid. n. 330. D TCoTtpov tibvtovto avto ro itpdypd (pate
toiovtov tCKpvxlvat olov avodiov elvat y olov ouiov ; ibid. 831. A.
ovx apa icSzlv odtorrj $ olov Sixaiov elvat rcpaypa, ad quem locum
Stallbaumius rectissime, li. c inquit, toiovtov Ttpdypa, olov
dixatov elvat, Pro ixtlVOf quæ optimorum .codicum lectio est, vulgo
exeivoo legitur, quod et Ficinus tuetur: cetera vero omnia, quæ
pulcra sunt, illius participatione pulcra, ea scilicet conditione,
ut nascentibus et intereuntibus alus nihil subtrahatur "illi
aut addatur y neque passionem ullam incurrat . Beue dativus
haberet ixeivoo y ai verba abessent py8h nadxetv pySiv, quibus
additis pleonasmus oriretur hoc loco non ferendus. Igitur Ixeivo
Unice probandum ducimus. ozav 8y ziS asto zdovSe Vulgo
legitur ozav 61 St} nf, quod Biickertus retinuit, quia defendi
posse videatur» Illud Bodleiani Codicis lectio, Vatie, unios, Vindobonens.
unius, quam Bekkerus, Stallbaumius, alii intextum receperunt. Rem hic
tangit Diotima, quæ iam in superioribus commemorata est, cfr. p 210.
E., ut nullo modo ferri possit Se particula. *dteo tcdvSe autem
ad præcedentia respicit yiyvopk voov ze tcov aXXcov xal ctnoX Xvpsvosv,
resque describit, quarum natura mortalis cum immortali idea pulcri aliquam
communionem habet. tovto yap 8 y itinv. His et sequeutibus
verbi* ratio agendi summa lim repetitur, qua uti «debeat, qui verus
AMATOR esse velit. Eam agendi rationem cum scala comparat Diotima,
qna ab imis ad suprema ascenditur. Hinc enaviivat verbum
positum et draPaH poiS nomen. Iu Flo(itera, scal ano x av xaXiov
Inixtjdev/idxatv in l ta scala (ia&y(iccta, igr’ av ano xav
(ta9t](idxav ts t ixtivo x 6 (idditfia xtievxytfy, o laziv ovx
dlXov y avxov ixelvov xov scaloti (id&tyia, scal yvoi auro xeXevxmv
o D Voti, scalas/, tvtav&a xov (iiov, a qitte Zcoxgarfg, itptj
rj Muvuvixr) | ivij, el' n I q jcov aXXoth, 0mo xov ctv&Q<ancp,
9eco(itv(p auro xo • scaldv. a tdv stors ’ftys, rentinis aliisque
libris non paucis avafiad/iOiS reperitur, quam scripturam etiam Phrynichi
iudicio probatam habes, qui 824.
fiaSfxoS, inquit, ' IotKov 8ict *ov 5, 8td xov 6 *Axtixov. Sed ut
vulgatum retinuerimus, Lobeckii annotatione factum ad !• c. Prorsus
igitur asseutimur S tali— baumio et Biickerto, qui ava fiaS/xoiS in textu
posuerunt. Ceterum ne parum accurate et initium, a quo exordium facere,
et finem, ad quem teudere debeat verua amator, descriptum
atque explicatum indices : numeri diversitate verborum aico xoav6e
tg ov xaXcov ixtivov i vena xov XaXov efficitur, ut de Diotiroæ
voluntate vix dubitare possis. Quæ enim in terris pulcra habentur,
quoniam multa sunt, plurali numero, contra, quoniam una est eademque
semper, idea pulcri singulari numero descripta est. $$t’ av rtXsvTt/dp»
Primus Stallbaumius monuit, nostrum locum si exceperis, nullam esse Platonis,
iu qno &V* av reperiatar Hinc sane oritor aliqua voStiaS suspicio, quæ codicum
nonnullorum auctoritate augeri videtur. Etenim Rodlciatitts, Florentini,
aliique libri m»u pauci pro £ft av habent xai, quam voculam u«
propter sequentia minus aptam iudices, pro teXevxiJujf in aliquot
codicibus TtXtvxiftSei legitur. Hinc Stall- baumius scribendum esse
suspicatur, xal ano xc5v fiiaSijudxoov in * ixetro xo jiaSrjua xtXtvxrjdtt. Sed
cum hac scriptura prorsus nou convenire videntur, quæ sequuntur: xal yvoS
avxo xtAtvxdUv o l6xi xaXov, quæ si velis in xal yvoSdtxat avxo x,
o l6xi xaXov immutare,, monendus es, ne iu uno quidem codice aliquam yvo o
scriptnræ varietatem reperiri. Verba convertit Stallbaumius: atquo
ad extremum cognoscat ipsam pul critudinis id e av, quod præcedente xal xtXtvrijdei qui probare potuerit, non
video. Licet igitur ist* av præter nostrum locum nusquam apud
Platonem reperiatur, tamen iu textum recipiendum est. KaL autim,
qaod pro iSx* av in aliquot codicibus comparet, ab iis profectum esse
putandum est y qui ist* av alias apud Platonem non reperiri
intellexissent. Ut nostro loco £sx* av, ita 191. E. T ioof relative
usurpatum habet, quo offendat; neutrum exceptis Jouis illis 'apud
Platonem reperitur, utrumque autem servandum est. quo magis a Platonica
dictione alienum < st, co studiosius. Ceterum xtXevtuv ov xtrccc
%qv6iov te xal ia&rjrct xal tovg xakovg xal6dg te xal veavicSxovg 56 |ei
eoi tlvai, ovg vvv vgav ixxixfojgca, xal eroiuog el xal 6v xal aU oi
xoUol, ogcovteg ta xacdud xal twovreg æl avtoig, tf ncag oiov t’
r/V, (itjte ia&ieiv [irjte xlveiv, aU.a fHdo&at fiuvov xal
jiweivac. xl drjra, Irprj, ' olo(it9a, el tat ytvoLto avto xo xakov ISe
Iv elhxQiveg, xa&agov, E < '.ni tt enatam est tx
Epxc<S3ai tcXtvruvia ini Tt, quod contractionis genus apud Græcos
scriptores irequeiitissimum, SeGopivaj avto xo xaXov. Recte hæc
verba a præcedentibus addita interpunctione seiunguntur, continent enim
accuratiorem ivravSa x ov /5iov verborum explicationem. Sensus est:
Si usquam alias vita vitalis. eat homini, tum est, quum ipsum illud
pol* erum in tuetur. ov naxa XP vtiiov h. e. non ad
aurum, vestimentum, al. comparandum illud iudicabis. Nam nata præpositio
ia talibus similitudinem indicat. Vide Piat. Apol. Socr, init. opoXoyohjv
av ty <*• ye ov nata xovxovS elvai (bjta>p. Stallb. Diximus
supra de hoc nata præpositionis SIGNIFICATV annotat, 4l. Ceterum
memorabilis locus est propter verba TtaiSaS xe nai veavidxovf.
TIaidcov enim nomen Attico usu loquendi sufficiebat ad pueros iuvenesque
significandos. Nemo autem mirabitur, veaviCnovS etiam commemorari, qui
reputaverit, Diotimam, feminam peregrinam, hic loqui. Eadem quæri potest
cur x di yvvalnai taS naXaS non commemoraverit. Ot)f VVV O p
GJ V ix7t£Verba eflectum animi judicantia aoristo tempore plerumque
ponuntur, de quo usu vide annotationem. Alia tempora admittuntur
tum, quum non de re vere facta sermo est, sed animi commotio
inmmaita tautummodo commemoratur, ut fieri posse vel solere indicetur.
Hoc in nostrum locum cadit, ubi præcedente oparv participio conditio expressa
est: quos ut nunc res* se habet, si vides, animo percelleris
atque paratus es et to et alii multi, amasios semper videre semperque
cum iis esse, si unquam id fieri possit, neque edentes neque
bibentes cet. Vides igitur, participia infinitivorum loco, infinitivos
participiorum loco positos esse, cuius dicendi usus. exempla indicata reperies
in Indicibus s. v. Participium. a\\a $ ea 6 Sai fiovo t nai B>w
eiv ai. Hæc verba grammaticam verborum juncturam ai spectas, e præcedente
na\%tot• po$ el nai dv nai aXXoi sroAA oi apta sunt; quibuscum, si ad
sententiam respicis, minus ea cotiveoire senties. Non enim amatores
parati promtique sunt tolo amasiorum adspectu atque eorum societate
delectari, Sed ¥ I1AAT&N02 afuxrov, «/Urc
(irj tivanlmv «JorpxiSi» re avftQaittvtav xal % Qcofidrcov xcd aXk.rjg
Ttoklijg tpXvaQlas rjg, ukk’ avto ro &ciov xukov dvvairo
(xovoudis xazideiv; aatis est ipsis amasiorum societas et adspectas.
Igitur liberiorem verborum stracturam Plato hic admisit, quam et alias ia
familiari sermone haud raro reperias. Eius originem putare possis
participiorum usum opaovteS xal HwoyxeS, de quo modo diximus. Nam cum
dictum esset xal ixoipoS el xal 6v xal aAAoi 7 C 0 XX 0 I opdSvxtS
xal B,vv6vxe5 M 7 h £
i-GSieiv pi/XE itivEtv f illaque participia pro opdv ct Zvveivai
posita essent, facillime scriptor infinitivis uti potuit SeadSai et
B,wiivai in dictione, quæ præcedentibus infinitivis itiSUiv et
itivEiv opponitur. Ceterum de illorum verborum absoluto usu vide
Iudices. d\\a py dv ttitXzwY . Astius aWa abesse cupit.
Contentus esset, opinor, ai xal ptj scriptum esset. At Græci, ubi
nos dicimus and uiclit, ita ut prædicatum prædicato opponatur,
pariter xal ovh et aAA* ovh usurpant. Riickert. cfr. Piat. Protag. 841.
D. 7 roAAod ye 6 eI, £<py, ovxcoS $x Blv ' et IJpoSixe. aXX iyoa ev
016 dxi xal 2 ipovi 8 ijS xo *«A«roV E\eyev onep ypiit ol dWot, ov
to xaxov, aXX o dv py jbdSiov y, d\\d 8ia zoAXcov icpaypa -• Tvv
yiyvyxai. xal dWyS noWijs q>\vcr p laS 3 v tj x i} S’. I 11
Piat. Phædone, quem Stallbaumius laudat annotat, ad h. 1. 66.
C. legitur: ipojxoov xal £ict2v- picov xal epoftcor xal
eA8ooXgov itavxoSaizMV xal q>AvapiaS ipninXyCtv rjp&S jroAAt/f,
ubi Olympiodorns : cpXvaplaSxaA el 6 TJAdxcov nav to it£pixxdv t ov povov
xo iv \6yois, aA Ad xal xo iv IpyoiS. Convertit Schleiermacherus
(pAvapiaS nomen: nnd andern sterblichen FJitterkrames. Aliter nobis de
huius vocabuli significatione statuendum videtur. Schol. ad Apoll.
Rhod. 1. 275. habet: cpAv ?,E iv xvplcDS xovS Aifirjxds cpaptv
xaiopivovS avafidAAsiv xo vdop. Duplici igitur significatu tpAvapla, quod
cuui illo verbo cohæret, videtur a scriptoribus adhibitum esse, ut
aut rem significet, quam aliquis, qui commotiore animo est vel vesanus
pvofert, aut nugas denotet resque expertes veritatis, quæ strepitu vel
splendore quodam insignitæ sint. Priore significatu ipsum (pAv&iv
usurpatum habes iu Meleagri epigr. 119. 5. iroAAd 5 ’ 0
TtixpoS aloxpd xaS 9 ypExipyS i<pAvde nap^EviyS
'ApxtXoxoZ. Adde Piat. Apol. Socr. 19. C. xavxa ydp
tapdxe xal avxol iv t?J *Api6xo(pavovS xcopcpdto ; 9 2 cjxpdxy xivd
ixtl itEpzpepopevov (pcxdxovxd te dipafiaxeiv xal dAAyv 7to\ Ayv q>Avapiav
q>\vapovvxa, quo loco non nugæ commemorantur, sed vesaui hominis
deliramenta. Altem significatu positum habes £q’ oTst, tcprj, tpavXov
ptov ylyvt6&itl Ixtids (Ittxov- 212 x o$ avdQtoxov xal ixuvo Srj
fteafievov xal £vvovxog avta ; ij/ ovx Iv&vfisi, icprj, ou ivxav&a
aura Piat, de rep. IX. 581. D. h ctTtvoY xal
(pXvapiav. d AA* auro xo Setov xaA d v 6v v air o pov o eidis
H. X. A. Abesse posseut sine a! Ia sententiæ mutatione verba
fitVairo et xariSetv, quia præcedit cf rw yivotxo ISeiv, Posita autem
sunt haud dubie, atque si ita dicere licet, e præcedentibus repetita,
quod præcedentia a nostris verbis interposita aliqua enuntiatione nimis
remota sunt. Sed mireris, si particulam non item repetitam esse,
cuius abseutiam nemo interpres aliqua excusatione indigere ceusuit. El
Platonem revera omisisse certissimum est. Iluiusmodi autem omissiones in
sermone familiari haud infrequentes sunt, ubi et pronuntiatione
verborum et habitu loquentis excusantur. Ceterum Sydenhamius
annotat ad h. 1. laudatus a Wolfio : So lange der Mensch in dieser
Welt lebt, und noch die Fesselu des Korpers an sich tragt, ist
er selbst nach Platons Ideen uicht fahig, sich zu einem so
erhabenen Anblick in die Geisterwelt erapor zu schwiugen. xal ix e
tvo 8 f} $ e GD/iev ov. Vulgo legitur xal ixeivo u 6ei $£QOpkvQV i
quæ lectio, quamquam non prorsus inepta est possis eoim de necessitate
dictam interpretari, qua, qui via a Diotima monstrata incedat, divinum
pulcrum non possit non videre,
tamen admodum languet frigetqæ. In codice Bodle t
ia no pro o Sei reperitur oj Sei; hinc Astius, quem
Stallbaumius secutus est, oj 6ei scribendum coniecit. Speciosissima
fit hæo coniectura verbis intra positis opaUvti gj opaxov: sed ut
gj dei scribatur, qnoniam opajvxi oj opaxov paullo infra legitur,
necessitas nulla est. Vulgatum autem o, quam facile oriri potuerit
syllaba finali ixeivo vocabuli forte, ut fit, duplicata, facile
iutelligitor. Id in cj immutavit, qui iutelligeret, o admodum frigere ;
correxit fortasse etiam, quod in sequentibus legit opdovxi oj opaxov .
Iam pro Sei in tribus codicibus, Paris., Vatie., Palat. Vat.,
legitur fit/, quæ formæ sexcenties commutatæ reperiuntur. Hinc
Schleiermacherus scribendum coniecit xal ixuvo Srj $£GJ/i£vov,
verbaquo convertit: Me in st duwohl, dass das ein schlechtes
Lcben sei, wenn einer dorthin sieht und ienes erblickt und damit
umgeht? Hæc coniefctura Bekkero adeo placuit, ut in ordinem verborum reciperet.
Id et nos fecimus eius exemplum secuti. In Ficini conversione
legitur: Jtfum vitant huiusmodi parui facis ? hominis videlicet ipsius
t qui illuc suspicit, qui tam præclarum spectaculum contuetur, qui
illi cohæret . Ex quibus verbis colligi, potest, Picinum quoque 6rj
t non Sei, legisse. ( f iova%ov ytvtjOtTiu, Sqcjvti a 6q<xtov to
xuXov, zlxzuv ovx tiSala agetijs, ars ovx tiSm^ov hpaxzofiivco, akV
dky&rj, et re zov dfoftovs iqiamoftiva, zexovzi £s dgcTtjV
ahftij xai Qg^a^iiva vitaQ%ii %£ 0 <pi?.ti yevto9tu xai, eixeg toj di.ho
av&Qunav, d&avazn xai Ixelva ; B Tavzu Srj, <J
Oax&gi zs xai ol dXloi, Hcprj (tiv Aiozifia, 3 linueuat, d’ iyu'
Tttnuaatvog di iteigafica xai rovs aXJ.ov s ittiftEiv, ozi -zovzov zov
xzqfiazos are ovx eiSeSXov Itpasrtopev co x. r. A. Prorsus eodem
modo Pausanias 183- E. xai ydp ov6h povipoS i6tiv y axe ovdh
porlpov ipcov npdyfiatoS. 6 rov t/SovS Xprj6Tov dvroS ipatiti}*
dia fiiov pivei, are povipoa 6vv taxeis. Ceteram colligere licet e
nostri loci verbis, quomodo Diotima vel Socrates Orphei mytilum sibi
explicaverit, cui ex Orco redeunti <pa6pa ostenderant dii. cfr. p,
179. D. aAA’ d\rj$ij t Sæpias iam monuimus in superioribus,
repetendum esse haud raro e præcedentibus verbis, in quibas compositum verbum contineatur,
non compositam, sed simplex. Vide annotat, 89. et 290» Eadem
dicendi norm^ etiam in nominibus interdum admittitur ea lege, ut ex prægresso
nomine, quod rei notionem cam epitheti alicuius notione coninnctam
repræsentet, sola notio rei repetatur. Cave igitur eldoaXa et ttXrfSi}
sibi opponi censeas hoc loco, ut somniis falsisque imaginationibus, quæ
uno verbo cldooXcov comprehenduntur, veræ sc» imaginationes opponantur.
Hinc explicabis pluralem numerum aXrj^ij verbi, quem Plato nou
fuisset admissurus, si illam dicendi normam adhibere coluisset. Sed alia etiam
explicaudi ratio adest, qua ccA. 77 .Sj 7 singularis numeri accusativum
interpretari possis atque e prægressi» apettjv supplere; futuros
esse iam prævideo, qui illam explicandi rationem inclumaturi, neque oisi
faciliorem hanc probaturi sint. Utraque explicandi ratio nostro arbitratu
vera est; utra verior sit, dijudicari nequit. Res ex accentu
orationis judicanda est, quo singula verba Diotima exornavit. Si
pronuntiando £i'8cj\a extollitur, prior explicandi ratio verior est
hand dubie; contra posterior rectior erit, si accentum orationis ita posueris,
ut et eid&Xa et apetrjS præ ceteris verbis emineant. Quamquam sequitur infra apetrjv aXrj$ 1 7, tamen inconsultius cave indices
atque præpostera cara alterum genas explicationis alteri præferas.
tiitep rc 0 dXXoj arSpo')7(0) v. Ex huinsmodi locis satia docemur,
Græcos accuratissimos fuisse verborum pronuntiandorum, - t' rf/ uvftganda <pv<su
ewcgybv cciidva "Egenos ovx av rCg gaSUag lafioi. Sib Si/ ?yays
(prjfii ygijvai narra avSga rov "Eguxa npav, xal avrog rigui ra
tgatixcc xal Siaftgovtag aOxto, xal roig «AAotg xagaxilivofiaiy xal rvv
rs xal a*l iyxcofiulta tijv Svvag.iv xal dvSgdav rov *Egenog xafr’ odor
olog t’ tlfil. Tovrov ovv rov Xoyov, «J 0cuSgt, tl (ilv jiovXu,
0 ibg lyxcofuov tlg Egena vofiioov tlgrjo&ai, d 61, 3 rt xal
oxi j x a ‘Q £L G bvofiatav, rovro ovofiafe. quandoquidem toj a A Aoo et
roo ctAAcp pronuntiando discreta esse certissimum est, Pro
aVS-ptJTtoov, quæ omnium fere librorum lectio est, vulgo dvSptdiu * >
edebatur. Falso. Nara sententiæ gravitati gravior verbi fornia
convenit magis. Ceterum haud raro huiusmodi enuntiationes, qualis
est Einsp rea aAÆa dvSfjcjxcov, Græci scriptores adhibere solebant, quibus
sententiarum prolatarum vim augerent atque quodammodo
amplificarent. Sic supra reperitar 211. D. ivrotvSct rov
/UoVf ElTttp itov aAXoSi, fiioarov avSpcanea x. r. A.
lq>r)
jt\v n in ei6 jiai 6 * i y eu' h.
c. utilia dixit. Ita ego credo. Quæ sequuntur ite7iei<5p&.voS 6 l
neipco jxai xal tovS dAAovS nei^Eiv cum Aristophanis verbis couveniunt 189.
D. iyo» ovv 7tEi~ pdoojiai vjj.lv ElSr/y/fGa<S$ai n}v .Svvajuv
avrov, vjleIs 61 rdiv aAAaor 6i6a6xaA.oi ioEtiSe. ry av$ p
con eiot q>v6ei. Sæpius iam annotatum est in superioribus,
<pv6iS cum adiectivo aliquo couiunctum nominis periphrasin efficere,
quod eius dem est atque adjectivum radicis, Ty dv^peansia tpv6n igitur
idem fere sigmificat atque xoiS avSpeoitoiS. Ceterum cuna gravitate
dictum existima ty avSpaamlx q>v6si, ut humanue naturæ debilitas,
noa solum humana natura, periphrasi illa significantius
indicari significetur. ei ‘61, o rt xal oity £a/petS. Consuetius
dicendi genus præcedente sl jiiv est eI 61 jirj, Quod cave hoc loco
ponendum censeas ; neque perinde est, utrum eI 6e an eI jtrj
legatur. Exhibetur autem ei 6i h. 1. ita, ut utrum Phædrus facturus sit,
hoo Socrates sibi placiturum esse promittat, quasi diceret: sive
pro laudatione Erotica orationem meam acceperis, sive non
acceperis, perinde est. Si accipis, laudationem eam nomina, si noa
accipis, quo libuerit nomine appella. Ceterum conferenda cum nostro loco
verba sunt Piat* Protag. 358. A. site yap yjSO elre rspTtvuv AiyeiS
sire %aptov, e ite oitoSsv xal oxgoS X°d~ psiS ra rotavta ovopa^oav
rovro jiot jcpoS d (1 ovAojioa dxoxptrixu t . - Cap.
XXX. Elxiytog 5h zavta xov Ecaxgatovg rovg fisv txacvtlv, zov dh
'AQuJxocpavTj J.iyuv ri hu%uguv, on rovS fi\v drttitretr. Hæo
et sequentia rursus obliqua oratione proferantur, quod ab Aristodemo relata
finguntur. Supplendum est igitur etpij 'Apidxd677 / 10 ?. t ov 61
*Api6xo<pdvrj x. r. A. Cum Socrates Aristophanicum mythum tetigisset vel
«otasset potius verbis 205 E.,xa\ Xiyercct pev ye rtf, £<pij, XoyoS,
cJ? ot dv x 6 fjjttdv tctvzpjv Zrfxu>6tv, ovxot iftoodiv x. T. A.,
nihil certius est, quam Aristopliauem aliquid contra monere voluisse, quo
vel suam de Erote sententiam tueretur, vel Socraticæ orationis
veritatem impugnaret. Quo . consilio quid proferre* -potuerit aut
voluerit, prorsas nescimus ; neque ipse scriptor habuisse videtur,
quo loquentem Aristopliauem induceret, Cur igitur illam Aristophanis
voluntatem commemoravit? In huiusmodi locis Platonis artem scenicam admirari
licet, qua hic efficitur, ut tpvrjS verbi notio non solum verbo
posito indicetur, sed re ipsa vividissime exprimatur. Vides enim,
Aristophanem iam indicasse externis quibusdam signis,, se aliquid contra
Socratem,djctqrum esse ; ium paratos convivarum animos j^abes ad eius
rverba percipienda: cum subito .pulsatæ fores sonitum
ederent, tibicinæ clangor audiretur, tujnultus strepitusque quasi
comissaturum oriretur. trjv avXeiov Svpav. j
Harpocr. s. v. avXeioS 7 dito xijS 060 v npuixrj Svpa xijS
oixtaS, ad qnem locum Valesii annot. laudat Bremius ad Lysiam 9.;
avXeioS $vpa sunt fores vestibuli, quæ aulam clauduut versus viam; aulam
autem si quis permea rat, veuiebat ad pixavXov Svpav, per quam
ex aula introitus erat in ipsam domum. Qu; igitur domo exibat, ei
primum erat per /xixavXov Svpav transeundum, tum per aulam et per
avXeiov Svpav la viam. Svpav xpox ov pivtj, Hæc vulgata
lectio «st, quam codicum lectioni Svpav xpovo plvjjv potiorem ducimus.
Schol. ad Aristoph. Nubb. v. 133. xis €($$’ 6 xoipaS xrjv Svpav ;
docet : ini jikv xcov ££a)Sev xpov ovx gov xonxeiv Xiyovdiv^ ei 6 fc idc
o$ev (sc. xpovovdiv ) tyo<peiv. Ex his verbis patere opinor, xpoveiv xijv
Svpav de utroque pulsandi genere obvaluisse, Niiiil igitur habet,
quo displiceat hoc loco xpoveiv verbum. Sed num ideo rectius sit et
verius, quain xpotetv, quod h. 1 . vulgo legi supra indicavimus, alia quæstio
est. Quid, si verbo insolentiori ( xpoveiv ) pulsandi insolentiam
qualis est comissatorum, scriptor indicare voluit ? cfr. Meleagri
Epigr. CXXV. v.3. apti yap idnepioi vvptpaS ini
dixXidtv dxew Aturo!, xal SaXd/AGov inXatayevvxo Svpa t
31 « avrov kiyuv 6 2,'<axp«rj?s xeqI tov loyov,
xcci t$cti(pv>js rrjV kvXelov Qvqov XQOrovpivyV itoXvv fo
(pov xacMtildv «as xafucCuiv, uv. tov ovv 'slyu&uva,
ad qnem locum Iacobsius annotat Comment. Vol, 1. 1. 140. ixXatayevvto de saltantium ad fores
strepitu accipiendum, qui proprie xpoxoS. Hesychitis nXaraytiv idem esse docet,
atque xporelv. Igitur nostro loco tantum abest, ut xpoTovpivyv
minus aptum censeamus, ut potius' verissimum iudicemus atque rei descriptæ
apprime conveniens. Sensus est verborum I Pldtzlich sei an die
Thiir angedonnert worden, und sie habe gedrdhnt, ais wenn
nach11ich e Schwar mer davor waren. Ceterum Stallbaumio praceunte post
itapa6x&y comma delevimus, quod Bekkerus in textu posuit. Illo
annotat ad h*. 1. a»? xcopa6 1 <3 v connccteudum est cum itoXvv
ifjocpov napa hoc sensu; vestibuli ianuam pulsatam ingentem fecisse
strepitum quasi comissatorum n. e. quasi comissatores eum
excitarent. Recte. Prorsus conveuit etiam cum h. 1. Schol* Aristophanis
ad Plut. v. 1097. ed. Bekk. Vol. II. 256.: xontEiv; jpotpely xal
xXavouir ri}v $vpav 6ia<pip£i‘ xortteiv plvyap Xsyerai, oxav eistiroct
ris pi\Xy yta\ njv Bvpav iB>( j$ev nXytxy cos* rit i6$’ 6 xd^aS
xijv Svpotv ; ifMxpeir orrav iZtpxontv 6s nf au* x t}r vicaroiyoi xal
yx<>v % ira oltc o xeXy. o rotovx os yap VX oS iJj 6 <pos nancti
avlytgidog cpcovyv axovdeg> qtccvuL, ov (Sxeiptti&s ; D
Xeixai, Zxctv 81 vx' dvir uov xirijxai portj xal ?}*oi' riva,
ix rovrov artor eXi), o roiovtoS i /xoS i} r pitipuS xXavOiav A
eyexau xal avXyx pl 8oS tpcovifv dxov £iv . cfr. Melcagr.
Epigr. LXIV. v. 1. w A6xpot xal r) q>i\£poo6i xaXdv
(palvovda SeXtfvy xal NvB,, xal xodpcoy 6vpnXavov dpydviov, . . .
ad quem locum Iacobsius: Sivo tibiam, iuquit, sive facem
iutelligit. IIoc probabilius,, Lectis nostri loci verbis itate animatum
seutias, ut de tibia poetam cogitasse censeas. Ceterum recte Stullbaumius
eos vituperat, qui <ptay?ir hoc loco de tibicinæ voce iuterp
retarentur. Certissimum est enim, tibicinam tibiæ souos edidisse, quibus
se* commendaret intus sedentibns. Ceterum miro modo 7tapa<$x£v
præcedente, quod subiecto suq non caret, positum sine subiecto legitur
axoVElVFacit autem subiecti omissio ad describendas turbas, quas,
qui ante fores vestibuli starent, excitant ut. Neque r tr£s
supplendum est, uam omnes sonitum tibino audierunt, neque itetvzaS
satis aptum videtur, qno hic supplemento utaris. Sed indefinite dicitur
dxQveiv ita, ut Latinorum respondeat auditum esse, ov
(SxiipadSei Aoristum, quem iu dictione r/ OW O v ytjOco
vidimus p» 173» R» ut non xal lav ptv rtg rav Intrrfidav y, xalelrs • el
(ir/ t ktysTE, on ov tcivouev, a).lu dvanavofit&a ySrj. Kal OV
Jtoltl VOTEQOV ’AXxifluxdoV X>jV tp(OVt]V dxovuv Iv xy avly OtpodQU
lU&vovxog xal fiiya fioavzos [ £(wo admittendam, ita non omni
ex parte spernendum ducit Rtickertus. De aoristo cum
negatione coniuncto in interrogationibus supra diximus annotat, p 11.,
ibique eius usum a nostro loco alienissimum indicavimus. Male igitur in aliquot
codicibus ov 6xiif;a6SE ; Vario autem modo futuro tempore veteres in
interrogatione usi sunt, ut indignationem, iram, clementiam exprimerent. Vide
annotat, 26. Hoc loco quo sensu verba dicantur ov <5xeif>e6$E f
dictu haud difficile est. Agatho enim audita ante fores turba ut
illico Irent, videreut, vocarent vel remitterent, servis mandat.
Verba igitor convertenda sunt: seht sogleich nach.
xal iav plv xaXeixe. KaXsixs hoc loco absolute positum est nt 175.
A. xctpov xaXovvxoS ovx iSeXei tlsikvai. Exstat autem hoc et illo loco
aliquid discriminis inter xaXaiv et xaXalv. Nam in verbis xa/iov
xaXovrxoS verbum illud nihil aliud significat, quam quod nos
dicimus rufen : ond ais ich rief. Nostro loco xaXalv invitandi notionem
habet, de qua vide annotat. 17. ad verba axXrfXoS ini Ssinvov. De iav eI
prj vide annotat, 128. ct 124. Verba convertenda sunt: Und solite
es etwa einer der Erennde sein, so ladet ein, wo nicht, so
sprecht, dass wir nicht trinken cet. xal ov noXv vdxe
pov-. Servi Agathonis dicto obedientes statim ubiisse cogitandi
snnt, atcjue aula superata xrjv avXttOY Svpav aperuisse. Quo
facto illico clamor Alcibiadis audiebatur. xal pkya
fio&vxo?, [ ip <w r gjv rof]. Vulgo legitur piya (iodjvzoS xal
ipGzxajvr oS. Copulam e melioribus codicihus interpretes fere omnes
expunxerunt. Sed hac ratione non ab omni labe hunc lorum liberatum
putaverim. *Epa>xd5vX OS enim participium, quomodo probem, non habeo;
quin magna suspicio adest depravationis, siquidem facillime fieri
potuit, ut aliquis, quo fioGovxoS verbum paullo insolentius a Platone
positum explicaret, IpGdXgjvxoS margini adseriberet, quod deinde nimia
scribarum sedulitate in ordinem verborum receptum est. Haud raro fioav vino
gravatis ita attribuitur, nt addito quodam eorum dicto dicendi vel
iuterrogandi verbum non præmittatur. Sic legitur in Asclcpidæ
Epigr. XIX. v. 5. xy 6s xo0ovx’ ifioijtia fiefipeypivoS' axpi xivoS, Z ev
; Z sv tpiXs, 0iyrj6ov, xavxoS Ipav ijiaSEf. quo
fidelicet loco non potnit metri caussa aliquid inferciri, quod
ip6r}6a verbi significatum illustraret. Ad nostrum locum ut
revertar, sunt alii quoqne vel færunt potius, quibus ipurtcov
ZTMI10ZI0N. 321 tavxog ], oitov ‘Ayd&av, xcd xe&evovtog
dyuv nag ’Ayafrava. dyuv ovv avxov netoa <5<pdg rijv ts a vXtjtglSa
vitoXafiovtiav xal aklovg tivcig rav axolovfttov, xal tmazfjvcu bil rag.
dvyccg iotupavcj/xtvoV avxov rot participium displiceret. Certe dao
(iotnvxoS, ipcjtcjvro^ participia iuxta posita displicuere iis, qui xal,
quod vulgo legitur, interponendum censuerunt. Quominus ipcDXGJvxoS participium
prorsus expungeremus, recentiorum editorum auctoritas impedimento
fuit, quorum ne uni quidem depravationis suspicio in mentem venit. Igitur
uncis verbum inclusimus. oxov 'AyaSav > xal x&Xevo vx o S dy
e iv n a p* A yaStnra, De industria hoo loco Agathonis nomen
repetitum est. Scia’ quam ob caussam? Infantes, quod concupiscunt, id
unum solent variis membrorum gestibus appetere, neque hilo unquam
ab eo abstrahi» Infantibus ebrii cum aliis nominibus, tum etiam eo
similes, quod rem, quam desiderant, vario modo proloqui solent,
neque ab ea nominanda prius absistere, quam ipsam sint consecuti.
Itaque Alcibiades vino plenus, magno clamore, heus, inquit, ubi est
Agatho, ducite ad Agathonem. Ceterum cave xeXevovxoS arctius cum sequente
ayhV infinitivo coniungendum censeas. Plato enim rem ita proponit, ut
quasi ipsa Alcibiadis verba tradere videatur.* oxov *Ayoi S gdV;
ayEiV (h. e. ayere) xap* 'AydSoova. KeXevoVtoG StyEiv igitur non
convertendum est : ducliussitad Agathonem, sed servis imperavit! u dncite
«d Agathonem** l vn o
Xaftovda y, vxoXa/ipdveiv est sublevare, brachio supposito sustentare
cfr. Piat, de rep. V. 453. D* ubi e codicibus hodie legitur: ovxovv
xal ijtiiv vevGxeov xal XEipatior dGjgetiSai ix rov XoyoVf lftoi
dsXqjivd xlv * &xi^ovxai 7}paS vxoXapsly ar oi) xtva aXXrjy dxopoy
<Storiy piav. Ruckort. xal litt6trjy at ixl raS
SvpaS, Hæc verba convertit Schalthessius J und stellten ihn eu
ihnen vor die Saalthiir hin. Minus apte. Fores
enim, quæ hic commemorantur, fiiravXoS $vpa sunt, qua de re supra
dictum est adnotat. p» 318. Io Schleiermacheri conversione
legitur: Er sei aber in der Thtir stehen geblieben. Ut accuratius
reddatur Platonicum ; ix l ra$ SvpaC, verba convertenda sunt i er
habe sich aber ia (s. an) die Thiir gestellt. Sic haud raro
rectiore verborum conversione præpositionum casuumque cum illis
coniunctorum structura commodissime explicatur. Pari modd Grammatici
Latini præcipiunt, ponendi collodandique verba in præpositionem cum
ablativo coniungendam assumere, cetera verba motum io aliquem locum
significantia in præpositionem et accusativum casum requirere* Prioris illius
præcepti neque ipsi tradunt, necjue lectores iutelligont rasionem. Ea
optime o recta collocandi ponendiqne verborum conversione
perspicitur. E xmov x i xtvi Gtirpava) dadst xai fmv, xai taivlag
rovxa ini rijs xcqiaXrjs naw noklas, xai tinuv • “Avfiofg, jraiptrs '
fie&vov ra tivSQct adw Otpodga dt&adt Ovyndxjjv, tj dn.iay.tv
dvadtjOavxtg yovov ‘Aya&ava, Ponere enim et collocare non
significat, quod nos vocamus : setzen, stcllen, logeo ; ridicula enim foret, si
hacc ipsis significatio esset, i n præpositionis atque ablativi casus
couiunctio ; sed denotant: fest ste1len, fcstsetzen, befesti* g e n. Quæ
significationes ubi discipulorum animis inhærebunt, haud verendum
erit, nc 'quis nuquam in ponendi collocandi ve verbis in præpositionem
cum accusativo casu coniungal, xai raiviat %x° yr01 * Timæus
s. V. r aiviaS avaSovpivoi * toiS vixijtiadi ara Srjtiat ratvlaS. Annotat
Stallbaumius nd h. 1, : Mos erat, incinit, capita hominum vel publice bene
meritorum, veluti victorum, vel amicorum et familiarium lætis diebus ac
solcmuitatibus coronis, vittis, tæniis redimiendi et ornandi, vide Ruhnkenium
ad Tim. Gloss. 246 seqq. "ArdpsS, xaiptte. Alio loco de
hac salutandi formula dicturi sumus. Huiusmodi formulæ ex quotidiana vita
petitæ si accuratius spectantur, mirum quantum faciant ad populi,
qui iis utitur vel usus est, ingenium, mores, naturam oranemque
habitum cognoscendum. Eodem modo præcipue de bis formulis Goethios
egit io Opp. Tom. 27* 125. Guto Nncht! So konnen vrir Nordlamler zu
jeder Stunde sagen, wenn wir im Finstcrn seheiden: der Italianer
sagt : felicissima notte! nur einmal, und ewar, wenn das Licht in
das Zimmer gcbracht wird > indem Tag und Nacht sich seheiden
$ und da heisst es denn ganz etwas auderes : So uniibersetzlich
siud die Eigenheiten jeder Sprache: denn vom hochsten bis eum tiefsten
Wort bezieht sich ulles auf Eigentluimlichkeiten der Nation, es sei nuu
in Charakter, Gesinnung oder Zuslauden. biSiEdSt 6v J.i7t
utrjv. Ilæa Bodleinui codicis lectio est aliorumque paucorum librorum.
Vulgo 8£Za6$E legitur posito post 7}\$OfXEV puncto pro v. signo
interrogandi. Illud recentiores editores ad unum omnes probant. Quod ne
male se habere censeatur: sententia est: Einen Mann, der schon getiunken
hat, miisst ihr, wenn er mit euch triuken soli, recht freundlich
aufnehmen, oder cr gcht wieder fort, wenn er nur den Agathon bckrauzt
hat, wozu er gekommen ist. ardpa haud raro poni pro pronomine
personali ipi, tragicorum potissimum poetarum lectoribus notissimum.
Tragicis avrjp ote, avSpoS tovSe x. t. A. pro iyo&i ipov
admodum usitatum est. iyco yctp roi. Cum nemo responderet
Alcibiadi, neque ipsum, ut accederet accubaretque, vocaret, omnesque
tacide hominis erroniav admirarentur, illo adventum suum excusaturus loqui
per }rp’ oitSQ “il9ojitv ; lya yczQ roi, (pdvca, jjQts (i'ew ov%
olvg t’ lytvoatjv dq>tXB6&cu, vvv da yxm tnl ty xecpaly lyav rclg
xcavlag, iva thto rljg fuiys xtfpalijg tt]v tov Gocpardrov xai xa/.Udzov
xitpaXyv iav git. Heri vocato sibi ab Agnthotie, quominus veniret,
certa quædam impedimenta fuisse. Venisse se nuuc Agathouem tæniis
ornaturum. Ilisu exorto consivnrum Alcibiades excusationem suntn quasi
fictam derideri putans vera se loqui affirmat. Post interrogatione illa satis impatienter atque inclementer
repetita abitum paraturus erat, ni omnes convivæ consurrexissent,
atque ut maneret, ipsum rogassoat. . iav ei7tco ovt
u>dl. Ilæc non dubito, quin corrrupta sint ab imperitis
librariis. Nam quod Wolfius ea dixit significare ut ita dicere
liceat, itu ut Alcibiades putandus sit ceterorum convivarum invidiam his
verbis amoliri voluisse, eam interpretatiouem non fert loquendi
consuetudo, quæ postulabat ovtgd6\ tlneiv. Itaque Astius scribendum
ccnsuit : TtetpaXTfv dvadijdcj. dpa, iav £LitcJ ovioj6i t
naxayeXcttietiSE pov n. x, A., qua tamen coniectura vereor, ut omnes
tollantur difficultates. Certe quidem
transpositionis audaciam nemo probaverit, qui meminerit, divam criticen ferrum
et ignem odisse. Quid mihi de hoc loco
videatur, iam satis declarare opinor uncos illos, quibus hacc verba u
reliquis seclusimus. Nam quum grammaticus aliquis ca in margine aut inter
versus adseripsisset, quo explicaret proxima illa : dpa HaxceyE\d6E6$E
ueSvoyTOS ; postea temere in conteitadi orationem recepta, et, ut
fit, alieno loco interposita sunt, 8 t p 11 b a u m. Rene quidem
Vir doctissimus de aliorum, quos laudat, vel interpretatione vel
emendatione egit, sed quam ipse iniit sanandorum verborum rationem,
ea milii quidem prorsos displicet. Perscripsi nutem totam eius
annotationem,, ut facilius lectores de ea iudicare possent. In libris
nulla varietas est lectionis præter quod Vindob, et Plorent, unus
inverso ordine verba exhibent: ovxcd6l n&pcikxjv avet6 t}6gj, qua mutatione
doceare satis, ctiara librarios iuhisce verbis offendisse, eaque transpositione
adhibita aliquo modo explicare studuisse. Risisse convivas verbis indicatur apa
naxaye\dtfe(j5i pov cJf f.te$vovxoS j quam risus caussam Alcibiades
sibi finxerit, supra diximus et verbis indicatur fiov cJff
//ej&tforToS, h. e. quasi ego ebrietatis caussa meras nugas narrem.
Hinc addit iycJ Sij Ttdv v/fEtS yeXdxE, ojivti ev ot8 *, oxi
trA?/3j/ X6y&> Veram risus caussam nemo interpretum aperuit.
Videamus primum huius loci conversiones. Ficinns habet : Heri
quidem interesse nequivi J hodie veni vittas ferens, ut a meo
capite sapientissimi pulcherrimique caput, si ita prædixero, circumligarem,
an me quasi ebrium deridebitis ? In Schulthessii conversione exstat: Denn
gestem koimte icit micli nicht einl/ndcn J jetzt aber bin ich da 30
mit Bin21 * ' E tinca ourool dvadycJa. ctQtt
xcttaytAdcSed&i jiov d>s 213 (is&vovrosi lydi de, xdv v/tag
yeldte, oucag ev o'S\ on dAijfty Xeyca. dU.a f coi Uytxt ccvrotiev, h tl
<5>;tofg tisico, y M j <J vy.itlt6&£, y ov ; Hamas ovv
dva&ogvpycSca xcd xiitvuv tlsdvai xcd v.uxaxXiveciitat,, xal xdv
'Aydftava xciXuv ctvtov. xcd xCv levat dyofisvov vnn xdv dv&QCJTtGiv,
xal j tegiaiQOVfisvov ana tus *«»via s tog uvaSydotna, InhtQod&tv x m>
drp&cdficav exorna dcn nmwnnden, damlt icli voti meinem
Haupte her daa Ilaopt " des nllerweisesten uml schonsten wenn
ich so sagen darf bekrauze. Lacht ihr
etwa meincr, weil ich tranken bin ? Mecum iutelligaut lectores, nihil in
laudatis Fucini Schulthessiique verbis contineri, quo, cur convivæ
riserint, explicetur. Neque apud Schleiermacherum explicatam illam
caussam reperies : Denn gestern, habe er hinzugefiigt, war es mir
nicht moglich za kommen; jetzt aber bin ich da, aul' dem Haupte die
Rander, um von meinem Haupte das Huopt dieses weisesten und
schonsten Mnnncs, wenn ich so sagen darf, eu uimvinden* Wollt ihr
mich auslachen ais truuken? Causam putare possis, quod
Alcibiades bene potus ab bibendum veniat, sobriosque ebrius ad
vinum hauriendum excitet. Uoc sane est aliquid, neque tamen nobis
nuno sufficit. Ridiculum latet iu verbis iav eIltcco ovroodt, quæ
miro modo depravata sunt. Verba hoo modo scribenda sunt: iav elnov,
ovtcjOI ayad/fdco. Quæ correctio ne audacior censeatur, prO iav facillima
accentus mutatione acriba aliquis edidit iav, quod cura alius
deinceps legeret iav elrcov ovroaol avadtjdco, corruptura habuit
rectissime, sed vitium in verbo sauissimo deprehendisse sibi visus, tinov
in ebeoo mutavit. Nimirum cum ad iostar ebriorum Alcibiades,
quod facturum se esse ostendit, id gestibus expressurus esset, sustentari
se a tibicina servisque noluit, qoo facilius, quod veJIet, faceret*
Igitur iav Etnov dixit hoc sensu: Dixi iam sæ pius, mitti me velle
liberum a vestris manibus* Servi autem dicto audientes, cnm herum
misissent, qui itn vino plenus erat, <Zste pjfdl toiS idioiS
itodiv idxadSai (vide Athen. )
lactum est, ut verba proferens ovtcodl avaStfdcj vel concideret vel
titubando ridiculos gestus ederet. aXXa poi A kytxE avtoSey.
De his verbis iam supra dictum est annotat, 3^3* AvtuSev autem
dupliciter adhiberi solet, partim de loco, partim de tempore, ac de
tempore quidem, quoniam loci temporisque ratio haud raro commutatur*
Recte igitur h* I. interpretes avro^Ev stati m, illico significare
annotant* ini fitjrolf. Spectant hæc verba ad 212. R.
pB^vovrd dvdfja tcavv 6<po$pa 6a- i ov xanSuv rw SaxQiat],
cfvUa xa&l&a&cu nuQti tov Ayd&covu Iv pioio Suxqutovs ts
xal Ixilvov • itaQuXaQificu yuQ tov ZaxQaxri c5g IxeZvov xu9ifciv. nctQa-
B xa&e^ofuvov 6 s ccvruv denatea&at te tov 'Aytxftcova. xui
dvaSclv. ilnuv ovv tov 'Ayuftava ‘ 'TnoAutre, aaidtg, 'AUxiftiddijv, Zva
ix tqitcov xaraxttjrai. Jlaw yt, (hceZv tov ’AXxi(iuZ8t]v' d.Xkd xtg
i)(tiv oSs tqitos pvpjiozus ; t£ai app fUTuatQEtpditivov avTov ogav
tov SedSt 6v finoTTiv, tj ait icar ptv H, X. A.
Siguificaut enim: Sed illico mihi respondete: Vulti • n e mciutroiro sub
conditione supra indicata, an non? Atque no quis se male intelligat
conditionis illius haud memor, statim addit : <jv/i7rl£6%B y ov
; Male Ruckeitus ad h. 1. Reddunt, inquit, sub ea conditione, quam dixi,
At nullam dixit adhuc \ videtur que omnino hoc dicendi genus
ita usurpari, ut sequatur conditio, non ut præcedat, quæ h. 1 .
incst interrogationi subiectæ Ovji7[U(j2e y ov ; tj;ro‘ xdov
avSpGJTtGDY. Intelliguutur servi, a quibus sustentatus Alcibiades ad Agathouein
venit. Miro modo autem horum verborum pluralis numerus convenit cum
nostratium loquendi; usu, quo dicimus: die Lcute, ministros atque
ancillas significantes, ov x axid eiv tov Scoxpaxy, Vide de
xaxiSeiv verbi significato annotat. Aute oculos habuit ct vidit
Socratem, sed eum non agnovit. vjcoXvaxr fvct&nxpix cov xaxaxkyt at. cfr.p.
175. A. xal E plv F.(py dnoviZEiv xov nou6a, tva naxaxloixo.
lilio xo inoXvitv, hoc loco r 6 anoriPyeiv omissum est,
neque videntur ullo loco scriptores utrumqua verbum
ndbibuis&e. Unum enim ad utramque uctiouem indicandam satis erat.
Ceterum non nisi ea de caussa ira ix xpiTGor commemorasse videtur Agutho,
quam ut Alcibiades statim eum agnosceret, qui iusta ipsum tertius
sederet. Sed alia etiam caussa est illius dicti. Veteres euitn non
sedebant ad rneusam, sed eidem occumbebant. Ubi duo convivæ mensæ
accumbebant, illa calceorum solvendorum pedumque lavandorum cura minus
necessaria erat. Poterant
enim ita duo convivæ mensæ accnmbere, ut neuter neutrum pedibus
tangeret. Tertio accedente conviva, qui, quorsum pedes protenderet, versus
unum convivarum non potuit non pro tendere, uecessaria erat, ut
calcei solverentur pedesque lavarentur, ne forte aliquis convivarum
macularetur. aAAti xis ypiv xpltoS u 8 fi. Hæc vulgata
lectio, quam in ordinem vcrboium recipere non dubitavimus ideo,
quod Alcibiades præcedente Agaliionis iliclo atqnu præcipuo verbis ix
Xpiroov commonefactus r p ix o £ JOaxQnrr ], ISuvta avaXTjdfjGai xa\
thtilv' '£l r HqaxA«g, zovzl zl rjv ; 2ZaxQccTt]s ovzog lAi lo^tov av fis
<? Ivzav&a xaztxtiGo, tZgxtQ thl/ftus i^alcpvt] g avatpalvtG&ai
qtcov tyd (pfirjv ijxusza Ge HotG&ca. xal rvv tL Tjxsig ; xal ti av
ivzav&a xaztyJ.lv/js, <og ov na qd nomen priori loco
collocare de- diiti. De ovroS pronomine in buit: tertius iste, quem
allocutione liaud infrequente viile commemoras, qnia est? annotat, 4.
Quæ sequuntur In Bodleiano codice aliisqne per- verba : (Zsnsp eltoSeif
i£ai(prJ/S paucis legitur vpuv ude xpixoS, quem verborum
ordinem Bekkcrus, Stallbaumius, alii probarunt. *- *i2 *H p a x\e i S,
xovxlri ? /v. Alcibiades averro vultu do eo, quod modo oculis
conceperat et quod non videt umplius, quid vidi ? exclamat. Huius
dictionis vim atque imperfecti quidem potestatem non expressit in
conversione Scldeicrmacherns 2 W as ist nun das? quibus verbis prorsas
deleri senties exclamationis illius vigorem omnem. Cur Herculem nominet
Alcibiades Socratis adspcctu quasi attooitns, haud facile nesciri potest.
Veteres enim eum deum semper nominare solebunt, cuius auxilio
maxinie indigerent. Herculem scimus fortitudinis atque roboris deum esse
$ robore autem ac virtute ei opus est maxime, Cuius animus inopinato
subitoque adspecta percellitur. Ceterum sex codices Bekkeriani pro xovxl
xi tjy exhibent xovr ehteir, quod moneo, ut intelligatur,
interdum etiam complurium codicqm consensu, quæ falsissima sunt,
tueri. -2Sgj xpatijS ovroS tAAoX&v otv
xare xeitio. Magna cum acerbitate participium præponitur
verbo finito in allocutione; Nempe rursus mihi iuaidiatus hio c 0 n t, e
- dva<palv£6$cct x. r. A. satis docent, iu præcedentibus ivxavSa
vocem orationis accentu insigniendum esse. Schleiermacherna adhibito
interrogandi signo post £6£<5$a.i verba convertit : Da Socrates,
liegst du mir auch hier schon wieder auf der I.nuer, wia du immer
pflegst plotzlich zu erscheinen, wo ich atn weuigsten glaube, dass du
sein wirst ? Sed minusplacet propter interrogationes insequentes imec
ratio explicandi, Alcibiades enim cum non sine acerbitate Socratis
studia illa convivis aperuisset, non tanquam rerum suarum incertus
sequentes interrogationes profert, sed ut vera se dixisse Socratis
responso convivæ docerentur. Igitur VVY in verbis xal vvV xi f/XtiS
eam vim habet, ut quæstio explicatior audiat:. Atque nunc responde,
quid veneris? Av vocula, qiintri sæpius iam annotavimus supplementi
alicuius iudicium esse, (vide Indices,) hunc sensum fundit: Et nunc
confitere, Uie quid consederis cet, ov itctp a *Api0x o
(parti. Stallbaumius ad h. 1. inquit, est quippe, nam, ut mox in
verbis cJs' » ipol o xovrov HpoaS ov (pavXov itpdy pa yeyovtv, et <&S
lyco x i/v 'AgiOtotpuvH obi5 ' h
ug «AAog ytXoiog Fort re xai fiovAttai ; akka dicfitjxavtjau, ojrog nayu
tm xcdXlOup ttov Hvdov xaraxelaci. Ku\ rw ZaxQaxti, '& 'Ayccn>MV,
cpavui, oQct, fi' (ioi bcapvvtls' ug fjuoi 6 xovxov fpug roi5
af&gusrw ou tpccv Aov HQccyfia yeyovev. an tovrov parcar 1
ufifiooSao. Nobis iuterrogaudi signo, quod post TtarexXirTjS legitur,
transposito post (iovÆrat verba hoc modo convertenda esso videntur
: Uhd nuu sage, warum setztest du dicli grado dahin, ais zum
Bcispiei nicht nebeu Aristophanes, aocli niclit nebeu irgend eineu
undern, der uitzig ist and witzig au scio Lust liat ? Ad fiovÆrat supplendum est yeAdioS tlvai. Vide annotat, 200.
Ceterum J Miror t Riickertus inquit, /i. /. yf.Aol.ov et H(xAAi6tov
tibi opponi. Attamen vereor, ne sit audacias, de Aristophanis forma
inde aliquid colligere. Nihil hia verbis oppositionis iuest.
Miratur autem et indignatur Alcibiades, quod non apnd alium
Socrates consederit, v. c, apud Aristophanem, hominem plenum
festivitatum, sed dedita opera ex pulchris pulcherrimo se adiunxerit.
a A Ad biapT}X ay V^ 'JAAit vocabulo magna est vis ironiæ; id
cave cum præcedente ov negatione cohærere censeas. Per se enim
positum est, atque veram rei statum describit. 4tap?}x<xvd(S5ai
verbum fortunæ notioni opponitur, qua quis vel hunc vel illum socium
biaosciscitur. Sensus est : Aber naturlich, da hat deiue Schlauigkeit es
so einznleiten gcwusst, dass da nebeu den Schonsten von allen, die
Lier siud, dicli setzcn masstest. opa, ei poi fatapw Valgo opa, tf
pot inapvvetS legitur; quod quamquam non falsum est a t-rnen band scio,
au «ion rectius sit atque verius, quod reuentiores editores, si
Riickertum exceperis, de H. Stephani confectura dederunt ihtapvveiS. Probatur
idem Ficini conversione; vide, ai quo pacto mihi succurrere potes.
Riickertus autem concedit quidem, ia huiusmodi dicendi genere faturam
tempus usitatum fuisse Græcis, neque omnino negat, Platonem id tempus h. 1.
adhibuisse : verum necessarium non esse existimat; cur enim, inquit,
non possit præsens tempus adhiberi, frustra quærimus. Latini : vide, an me defendas. Nos : Sieh zu, ob du micl)
vertlieidigst. Lecta hac V. D. annotatione mireris, ipsum apvvetS
in texta posaisse tamen. Nobis autem præsens tempus in hoc dicendi
genere ita a futuro videtur dillerre, ut illo adhibito de voluntate
agatur eius, qui alicui opitulari rogatur, futuro tempore ad eventum
illius actionis respiciatur. Vides igitur, futurum longe gravius
esse in illa dictione, quam præsens tempus. Illud est: Vide,
an mihi opitulari velis. IIoc est: Vido, an possis mihi
opitnlirri, h, c. omni virium contentione mihi o p i t n 1 a r o.
ov (pctvAov itp&ypa. txilvov yctQ xov %qovov, dtp' ov xovxov
^qdo^t/v, oi5xD In lt,iOxl (loi’ ovxs TtgosftJ-Eipca ovxe
diatez&ijvai xcif.iS ovSivl, i) ovxool fcr^.oxvTtdiv fts xal
tp&ovuv &av(ia0xa tgyd&zcti xal koitjoguxal x( xal xd
%hqb ( toyig axi%t uti. oQa ovv, ut/ tl xal vvv ipydot/xai, ctXXu
diaXXa |ov tj/iag, tj, idv lm%EZQy fhtx&G&cu, htd~ pwE, <x>s
lyd xr/V \qvzqv /laviav tj xal q>UEQaoxiav Ficinui: Amor quippe hoiuj
ho~ mini* haud iove quiddam mihi exsistit, Schleicrmæherus :
Deno dieses Menscheu Liebe hat mir tchoo zu gar uicht wenigem
Ver** druss gereicht. Schulihessius ; Demi die Liebe dieses
Meoschea ist fur mich kein kleines Leideo. De hac notione npaypa
verbi etiam in aliis dictionibus vide lodices s. v.
jtp&ypa, r) Q$%o6\ grj \QTV7t(k) v s Prorsus eodem modo
nos Joqui solemus. Recte Stallbaumins H. e., inquit, aut, si id
facio, præ æmulatione et i n t Y idi&cet. Conferri iubet Riickcrtns annotat, ad h. i. Piat, Theæt. p f 173.
E. xov%6 ye 6 <po6pa v? ntiyveixo leavzGov 8iaq>£peiv avxoS. 2. Nt)
dia, gj • rj ovdsfa y * av <xvx<3 &ietey$xo r
tijr xovtQv paviar re fca\ <pi\$ patitiav. Schleiertnacherus ;
denn seine Tollheit ' nnd veriiebtes Wesen, soloeca pro und sein v.
Wesen. De tpifapatfxlaS significatu vide annotat, p, 174, Mavlay
antem eius esse 1,, qui nimius sit in amando, annotatio docet
verbis subiecta 173* D. xal ohq * $ev itoxl xavxtjv trjv tnwvpiav iXafttf,
ro pavtxoi naleuSSai r, A, p, U, Ceteram vix o'pns est, qt moneamus,
fiidZe6%ai verbuin, quod in superioribus legitur, absolute positum esse, ut
significet; vim adhibere, >. jr dw O fi fi 60 6 o3, Ex
schol, Aristoph, ad Plut. v, 122, liate depromam: o fi fico 8 do
itdvv, ofifioodd) Xeyexai xo <pofiovpai £x pexaqjopaS xo ov
Zgogoy xgov 8td x ijS ovpaS detxvvvxcov x d deoS, efoSe yap xavxa
<pofirjSevxa 6wayttv % rjv ovpdv tvX oS xcov pijpcov. Ridiculum autem ac ne
verum quidem est, quod sequitur: 1 / oxi rc5y <poftov->
pivcov efaSev d dfifios TtpcoxoX l6po\)v. Aliis iudicandum relinquo, nam
verum sit, quod apud eundem scholiastam legitur: xal xvpicoS pkv
i#l xov rdiY a\oycoy dfovS, d\A* ovx l6xiv. Cogitandum est,
Agathonem ad resistendum se parasse; qood cum animadverteret Alcibiades memor
fortasse proverbii, quo ne Hercules quidem duobus aptus esso dicitur,
futuro tempore, ubi rursum peccaverit, etiam buius criminis poenas Socratem
Initurum Osse profitetur. trjv x q v % o v xavtrjvl T7jv.
Iteratio hacc articuli non caret idonea ratione. Nam verba aio
connectenda sunt; Xtjv xov mxvv <5<5(5raflw. 'Ali’ ovx ton, (f avea rav
'AlxiflidStjv, Ijiol xal Coi diallayrj. cilia zovvojv fiiv elgav^tg
as nfioQC/aofiai' vvv di fioi, 'Ayd&av, cpdvat, [istuSog tcov
zaiiH mv, iva avad ifia Steel rrjv rovrov ravrtjvl E TTjv &av(iaatijv
x«palr)v, xal fuj /tot [d[i<piytai, ore ea /isv avidrjOa, avtdv ds
vlxiovtu iv loyoig mxvzaq avVgazovs, ov fidvov ZQuajv, agztQ Ov, «Aii’ «ai,
Inuxa tov xetpaljjv Sav/iadrrjy. cfr, Mattii, Gramm. $.278,
Stallb, Flora huius structuræ exempla StallbaUroius collegit ad
Piat. Gerg. 502. B. : rl 81 7$ tiepvr) avt)f xal %avpa6xr\ 1
} t i}S rpaya)8LaS nolrjtiiS. Herodot. VII. 196. o' vavxixds 6 xcov
papfiapoov (SxpaxoS. Thucyd. I. 25. xal 7 } ovx X}xi6xa fi\aipaocr 7j
AoipGo67]£ vdtioS, Piat, de rep. V1JI. 565. D. xo iv 'ApxaSia xo x
ov dwS xov Avxalov lepor. Hoc autem 11011 prætermittendum est, edici
hoo geuere dicendi, ut quicquid verbis contineatur, id gravitate quadam
augeatur. Atque nostro quidem loco articuli repetitione summus Alcibiadis araor
indicatur ita, ut verba cum Latinorum comj arari queant; te volo,
tc ipsum, vir admirabilia, coronare. avxoy dfc
vix&vt a i v jidyotf. Libri Florentini aliique avxoy t quod in textum
recepit Ruckertus, crvXQV hic non logeum habere contendens. Frustra.
Illud Bekkerus atque Stallbaumius exhibent. Ac Stallbaumius quidem Non
dixit, inquit, awtov, sed avxoy propter oppositionis rationem.
Nobis ita videtur statueudum esse, nt indicium Alcibiadis de
Socrate etiam tauquam em ipsa Socratis mente proferri
dicamus, qui ita rem cogitare posse fingitur : ixeivov pbr dviStfCy&v,
i ite dfc riKavxa ovx dvi8rf6ev. Quam sententiam Alcibiades si e Socratis
tantummodo animo proferre voluisset, dixisset opinor: xal fnj poi
pifitptftat, oxi tfk piv dvad?}6iupi t avxov 8h vixcorxa iv Tioyois
icuvxaS avSpGOTtovS ovx ava8ij6aipi. Si ex sua tautumtnodo sententia
eandem rem idem edicturus fuisset, non avtov, sed avxov exhibere
debuit. Habes igitur hoc loco coufusionem structurarum duarum, quæ
quantum habeat in se venustatis, eos non fugiet, qui hunc locum
satis accurate examinaverint. Ineixa ovx av e8i]6 a • Eiteixa
in hainsmodi dictionibus semper ad præcedens participium refertur,
atque proprie præmittitur ei, quod /actiouein, quæ participio continetur,
sequi debeat. Usu loquendi deinde factum est, ut satis cum
ironia consequentiæ notio cum contrario, h. e, cum eo, quod actioriem
participii nou sequi debeat, coniuugeretur. Et cum latior sit participiorum
significatio, fieri potest, nt e, c, vt xcovxa sit postquam vicit ac
vincit; possis igitur inttta tamen convertere. 330
nAATaNO£ ovx avcdijOa. Kai ccya avtov laftwna x tav tcaviwv
avadeiv xuv 2J(oy.Qatrj xctl xttTuxkivEG&cu. InuSq di xaxtxkivt],
ibcilv. Cap. XXXI. Eltv Srj, 6v$Qeg ' dozftrs y&Q
po* rijgxiv o ovx btiTQtnxlov vtiiv, ct/Aci ntrtiov ' (5poA<5)fijTai
ycip xav&’ iiy.lv. clcQ%ovza viiy (xltjovym xjfo jtoGeag, iug $v
vytis ef er 61 /, avSpeS, So~ xeixe ydp. Hiximas de hoc loco
annotat, 265., quam ride. Verba quod attinet GjpoXdyTfxat ydp x
av$' ijpiv, cfr. 215. A. a\ Aa poi A iyere ccvxoSet, ini fiyxotS
eIsIgo, tj jiTj ;, 6 v/i 7 tls 6 $E t ?/ qv ; navxaS ovv
dvaSopvfli}-* Oai xat xeXeveiv eIsieycci x. T. A. In æqueutibus
post ovx intxpEnxiov vulgo legitur ovv . Recte id ex optimorum
codicum auctoritate delerunt Bekkerns, Staltbaumius, alii. Eo
addito sententiæ vigorem admodum refrigescere senties atque propemodum
evanescere. d pxovta ovv alpovpai tifS n 6 6 E ga S. Vide
annotat, 43. Adde Wachsmulhs Hellen. Alterthumsk. II. 2. 28. et 29.»
ubi Christius laudatur de magisteriis veterum in poculis. 1745. Non elegerunt
autem, Stallbuumius inquit, antea convivæ regem, qui bibendi leges
ediceret, sed constituerant, ut suo quisque genio, quantum vellet,
iudulgeret. aXXd <pipE t nat, (pavat, xdv ipvxxij pet
ixEiv ov ^ Schol. ad h. L $vxxi}p, inquit, OxevoS' IvSac diavlctovtii
xci noti} pia, i) noxrjpiov eiSoS, g*s E vpinidrjS TrjXiqxa.
Timæus ed. Ruhukenii 278. habet ipvxxrfp • noxT/pwr fiiya xai
nXaxv e Is rjjvxportotiiotv rtapEOxevaOpivov, Laudat præterea Ruhnkenias
Gramm. Ms. : xxijp* OxevoS, iv (o xdv olvor Hipvxov t x 6 xoiygjS
XeyofiEvov .upvcoxijpiov. . Vides, TpVHXTfpec vas nominatum fuisse,
quod usui convivarum non ita destinatum erat, ut ex eo vinum
haurirent. Hinc non mireris, Athenæum huius loci respectu habito
IV. 27. dixisse: napd rc3 nXaxcovt xovxgov ovSlv iifijiExpov,
aXXd ttivovdt p\v xodovxov, coSxe fi7/8k xols IdimS noOlv
l6xct6$ai. dpa ydp *//A xifitdSrjv o>? dOxtfpovEi, ol 61 «AA oi
xdv dxxaxdxvXov rf> vxxijpa nivovOt npocpaOEGoS XafiofiEvoi, in
tine p avxovS npoEiXxvOsv UXxtfiui6i/S. l8ovxa avxov nXiov
i} X. x. A. Alcibiades Agasonem rogat, ut maius poculum
atterrr iubeat, post, conspecto aliquo vasi, quod refrigerando vino
inserviebat, magnitudine eius delectatus sententiam suam mutat,
idque afferri iubet. Ad verbum xoxvXaS Schol. anuotut : rplzov
faavco g jchjzi, l(i«vzdv. dkka qtgiza ’Ayd9av, ff zi lOziv (xxu(iu [itya,
iiakkov 81 ovSiv Sei, aAAa q>£gt, nai, tpavcti, zdv tlivxzijQa
IxiZvov, ISovza avzdv xkpov 214 ij dxza xozvkag yaqovvza. zovzov l(ixkr]6d(iEvov
zcgazov filv avzdv Ixititlv, licaza za EaxgatEi xeXevelv lyyfiv,
xal aua eiittiv ITqos [Uv Saxgdzq, cS avdgeg, zo C.6q>i6(td (ioi ovSiv
' bitoGov ydg av zikevg zig, zoGovzov IxTtimv ovStv fiakkov (iij jrors
(iidvG&rj. Tdv (ilv ovv ZoxQurrj iy^tavzog rov ttcudog xLvuv ' zov 6’
‘Eqv fiepoS 7/ xoxvXrj trjS xoivwoS. Yido Wachsmuths Hell.
Alterthum.sk. II. 1. 78. Annotasse liic suilicit, immensa muguitudiue
ifkVXTrjpa fuisse. i pnX7/ 6 d per ov. FICINUS: Cum vas
implevisset. Astius : implevisse. Immo implendum curasse. Quæ vis
est medii; neque verisimile, ipsum fecisse Alcibiadem, quod
statim post, ut Socrati fiat, imperantem audimus. Riickert. Tu 6 6
q>i6 n a jiot ovd iv. h. c. in Socrate ars mea inutilis. Ludit
Alcibiades ia dofpidpa nominis cum if}7j<pidpa t ut videtur,
similitudine. Hoc enim dicturus est : Bibendi magister frustra se
exercebit, ut Socratem ceteris convjvis similem reddat h. e. ebrium
atque Baccho plenum. Quantum ipsi
aliquis imperet, tantum bibens non metuendum, ne unquam magis ebrius
factus sit. Pro xeXsvfl, quoil Bekkcrus et Stnllbauinius in textum
receperunt Bodleiani codicis oliorumque pauciorum auctoritatem secuti,
vulgo xeXevtiy legitur, quod Riickertus edidit. Utraque lectio bona est
sentontium si spectas, quam Alcibiades prolaturos erat. Certe non
dispiciendum est, cur dicere non potuerit : quantum ipsi aliquis
imperaverit cet. Difficillimum igitur ad diiudicundum, quid Plato
scripserit. Sed tnnta tamen nobis, qnanta debet, Rodleiaui codicis
auctoritas fuit, ut non dubitaremus, præsertim cnmVV. DD., Bekkero
et Stallbanmio placuerit, xeXevtj in coutextam orationem recipere.
Sententiam' quod attinet, cfr. 220. A. iv r* av xaif EvGoxUn?
puro* anoXaveiv oloS t * 7jv, x d x* aXXa xal iclveiv ovx
i$£Xmr, 6 nox 9 dvayxa6%ei7j, ndvtaS ixpaxei xal o navzGDV
3avpadxoxaxov, ^cjxpdxr/ vovxa ovdelS nojitoxe ieopaxev
dv$poo7ta)v. x ov 6 * 'EpvZipaxor t II(£s ovv noiov/iEv.
Cur Eryximachos potissimum hic prodeat, statim intelliget, qui loci
meminerit 177. B. C. atque inprimis ibid. D. i/iol yap dt) tovto ys
olpat xcctd8tjXov yeyovkvai ix xijS latpixijS, ori XaXenov
xotSdvSp&noiS t) pc$rj itizi* xal ovxe ctvxoS iScXrjdaipt dv itielv, ovxe
dX X<p CvpfiovXEvdatpi, dXXcjS te xai m
jfyiOKOVj Ilag ovv, g?<ma, cS 9 AAxc{$ux6r], noiovfiev. B ofrrog ovr$
rt Æyopev htl xy xvkixi ovr* Inadops v; &IA' &xe%vag c3 gneg ol
diipcovTBg Ttiout&a j Tov ovv ’AA oapiudtjv elnelv, *&l 'EQV^tfiaxB, /3
HxlGtb fieXxlOxov naxgog xal (SacpQOVBOtatov, %cdpe. Ketl yap 6v,
<pdvai zdv 1 EQV%iyM%ov * cUAa r£ noicopev,* w cv <5i)
itjxpoS ydp avijp xoXXojv avxd£io$ dWoov. Intreme ovv o tt-
fiov/Ly, yfxovdov §rj, dntiv xbv xpctntaXdvxa Ixi ix xijs
rtpoxepaictS. Do verbi* Eryximachi medici h. i. laudatis : tigoS ovv,
tpdvai, cj 'AXxifiiddtj, xoiov ptv uon recto Stallbaumius : JSt quis,
inquit, coniunctivum requirat, qui est deliberantis: eodem modo nos
: IV i e nun thun wir, habe Eryx ima c/ius gesagt?
Eryximachut cum bibendi molestam necessitatem feliciter evitasset.
B., ne nuuc ad bibendum cogeretur, et Alcibiadis immoderatione indignatus, quam
omnino pestiferam hominibus supra ceusuit, Quid nunc facimus verba
ita profert, ut explicatius andiant: qua insania nuuc agimur,
tantumque abest Eryximachu», ut, quid faciendum sit, roget, ut potius præsentia
satis acriter reprehendat, Quod qno facilius appareat, interrogaudi
signum in puuetum immutavimus. ovtoS ovxe ti Xiyopev ixi xy xv
X ixi, OvxgjS, at in præcedeutibus redis, plenum indignationis
atque acrimoniæ. Sensus est: liac igitur ratione, b. e. hac igitur
insania allectis neque sermo ullus . neque cantus iuler pocula
erit? Ceterum ixd6optv ia textu posuimus, quæ Bodleiani codicis lectio
est. Valgo ovte xi adojMY. xov ovv
yaipE. Alcib i a(|ls Eryximaclii admonitione tactus cum statim,
quod responderet, uon haberet, ut non negaret id, cui contradicere non posset,
neque probaret, quod probare nollet, Eryximuche, inquit, optime fili
optimi patris atque sapientissimi, salve. Sed non delinitus hac re
Eryximachus, salve tu quoque, respondit, nam et iu te cadunt omnia
ea, quæ super me modo dixisti, sed quid vis faciamus ? His auditis
Alcibiades satis gratiosus omnem rem ex Eryximachi arbitrio iudicandam
propinat, IrfXpoS ydp ctvr} Versas Homericus est petitus ex
II, A. De scriptura insequentium verborum ini di£>id, vide
annotationem p. 50. Vulgo enim etiam li. 1. et paullo infra imSiB,ia
legitur. Structuram autem quod attinet verbornin xctl XQVIQV xal
OOTGO TOVS dXA jOvS, Stallbaumii indicio subscribendam est annotanti V:
Accusativus ponitur, ac si præcessisset dixaiov i<Snv, huquc
'EqvUimxov yfitv y jiQtv ah dgtlfitiv, Wo|« XQ^cu Ini ds|t« exaGtov iv
ftion koyov sicgl "Erjazog tlnsiv rag c dvvraro xdkkiGTOv, xal
lyy.au.wGai. ol fitv ovv cckkot xarzts VfitTs thppwfuv ' Gv 8’ ixsiSij
ovx eiQrjxct; xal mximaxag, 8ixaiog tl tlnuv, tlnav 8’ imrce^ai
ZaxQatu o tl av (iovhj xal Tovtov ro Ini 5t£ut, xal ovr a rot)g
akkovg. 'Akkd, tpuvai, u ’EQV$ifict%e, rdv 'AktupidStjv, xakug fitv kiyuq,
(ttOvovt a 8h uvSqcc } tagcl vytpovtav kuyovs izaQctftdkkuv fit) ovx 1%
Igov y. xal afia, a verba sic interpreteris : nai tovtov dixaiov itfnv
intrdUat T(b ini 6 e£,kx. Structuræ variatio nec per se ingrata
est> et per sententiæ rationem pro— pemodum necessaria. ol p\v
ovv aXXoi. Apollodorus, nt ipsius verbis docemur p. 180. C» quoruudam hominum
orationes, quas memoria non teneret, non retulit. Hoo moneo, ne
quis miretur, non nisi sex orationibus relatis Eryximuchum nunc loqnentem
induci : ol piv ovv dXXoi nav TeS elpijxapev, aXXd, gravat, ca *Epv%lpax
e, t 6 v ! 'AXHifiiadrjv, Vefba aXXd
oJ *EpvB,ipax& xaX6oS
piv XiyeiS dubitanter Unguntur ab Alcibiade pronuntiata esse, qui verebatur,
ne hominis ebrii oratio sobriis auditoribus satis displiceret vel
etiam ridicula censeretur. Indicium est huius rei verborum dispositio, quæ
ita comparata est, nt intermixtis gravat et tdv AXxipidSrjv verbis
orationis initium co modo distraheretur, quo ab Alcibiade
pronuntiatum est. Simile huius artificii exemplum reperitu» p. 175.
E. vftptdT7j€el, tgnj, eJ 2 coxp aTEt, 6 AyaScov, quæ verba AgathoUem ita
pronuntiasse consentaneum est, ut illudi sibi magno cura pudore sentiat
eumqne pudorem atque confusionem animi iuterrupta voce prodat, ÆSvovTa
6i dvdpa nap d vrjgrovTtov X 6 y o v S. Vario modo sanissimum hunc
locum viri docti couiectnris tentarunt. Eas hic repetere longum.
Astitis verborum sensum esse contendit: Æquum non fuerit
homineme— bnum cogere, ut inter sobriorum hominum sermones habita
oratione fiat ridiculus y quam verborum conversionem nemo probabit,
Stallbaumius verba hoc modo interpretatur: Ebrium virorum componere cum
sobriorum orationibus haud sane æquum, (quod breviter dictum est
pro) ebrium virum provocare, ut æmuletur sobriorum orationes, haud æquum
fuerit. Sed ne hæc quidem interpretatio satis nobis nunc placet. Notum
est Homericum illud xopai Xapitsddiv opoiai, quæ dicendi brevitas haud
rara apud veteres scriptores. Exemplo noster locus est, ubi pro
pe&vovros dvdpos Xoyov dicitur D fiauuQis, xtt&e i xl 6»
Zcixquttis u>v vQtt ilitzv ; ?} oitsQa, oxi xovvavxlov Igt'i itciv i)
o iisyev ourog ydg, hxv riva lyw InaivLaco xovxov jtagovxog q &sov ij
dv&Qcoxcov dU.ov rj xovxov, ovx utptiixai fiov xio %£iqe,^ Ovx
evtpijtiijoiig ; (pava t toti Eoxgdxrj. Mu xdv IIoouda, dntlv xdv 'Akxifiiddijv,
(iqdht liys xgdq xavxa, / tcSvovxa avSpa. Sensu» esi: Aber
die H e d e ei nes trnnkcnen M an nes in e i no R e i h e mit den
Reden niichterner Manner zu stetlen, mochte wohl nicht nns
dem glcichen h. e. nicht passe nd se in. Iliickertus eodem fere modo:
vereor, no parum sit æqua conditio, si homo ebrius cum ora*
tione sua sobriorum cum orationibus componatur. Ceteram cum hoc
loco conferri potest Piat. Gorg. 455. E. oltiSat ydp 8rf nov, ori
ra yego~ pia ravra xai ra reixy rddv f A^7]vaicDV xai t} rdov
Xiyevcov xaradxev?) bc r rjS OepidroxXeovS dvpfiovXrjS yeyove, ra
d’ ix rijS TlepixXiovS, d X X* ov x ix r g5v 8r) yiovpy 6ov y quo
loco consentiens vox esc codicum omnium in verbis ix rdov dijpiovpydov.
Buttmannus et Heindorfias scribendum coniecerunt ix tijS djjpiovpydov 5
Schæferus ed Apoll. Rhod. Tom. II. 141. ix rrjs rdov 8rjpiovpyd/v
maluit. Sed nihil opus esse mutatione, instituta cam Symposii loco
comparatio docebit. Adde, quæ verbo infra legantur 217. D. dvenavero ov v
iv ry ixopevy ipov xXivy h. e. in lecto, qui meo lecto proximus
erat. xal aua, cJ paxapts, xelSet ri di x. r. X.
Alcibiades verbis prolatis xat dfut proprie dicturns erat : Et simul ne
possem quidem, etiamsi vellem, Erotem laudaro Socrate præsente. Sed
mutr.to consilio ita perrexit: Num tibi quid quam eorum, quæ modo
locutus est, Socrates persuasit? Sensit enim homo sagacissimus, verbis contra
Socratem directis fidem prorsus defuturam esse, nisi illius dictum aute
oppugnatum sit, atque in mendacii suspicionem vocatam. Recte igitur
Stnllbaamius annotat. ad b. 1. Alcibiadis interrogationem ita interpretator,
nt sensum eius este dicat: Noli quid quam eorum credere, quæ
modo dixit Socrates: nam plane contrariam verum est. Ceterum ad verba hic
respici consentaneam est 213- C. T jfa 'AyotS cov, dpa, el poi
iitapvvEiS. cos i/ioi d rovrov ipcoS rov dvSpoonov ov <pavXov
npaypa yeyovev. an* ixeivov yap rov xpdvov, aq> ov rovrov
ijpddSyv, ovxexi i&edti poi ovre npoSfjXeipat ovre SiaXexSffvai xaXdi
ovSevi, i} ovrodl ZrjXorvrtdoy //£ xai tpSovGov Sav/iadra ipya<$erai
jcal X oidopeltai re xai reo x&f J£ jidyiS anlxEtai x. r. A.
Satis lepide autem iisdem fere verbis hic utitur Alcibiades, tog
lyio ovd’ c'v svn ulhav fauuvt<Sruju Oov JtaQuvtog. owrca ao In,
gravat rov ’EQv£lpa%ov, el fiovlei' Ecoxqcixt] InaLvtOov. litos Atyttg {
dxtiv rov ‘AXxt(iuxdijv' doxei XQ*i vttl > ® 'Egv^ifiaxt ; ijci&cofiai
rei E kvSqi xal Tt[iugT]6to[iai vfiav Ivavtlov ; Ovtog,
tpuvcu zov EcoxQa.tr], 1 1 h> va £%h$ ; Ini tu yiXoiotEQti fit
quæ Socrates 1.1. exhibuit, <*oepi&eral pov tca X^P £ ovx
ei) epij ptj det$ $ Negatio cum futuro tempore couittncta quam potestatem
habeat, supra dictum est annotat, 26. Eveprjpetv verbi significatum quod
attinet, explicatum reperies annotat, 246. taS’ iyco 0v5* av iva a
AXov h. e. nam dc me ita cogitato, ut qui te præsente prorsas
neminem alium laudaturus sim. tctoS XiyetSj doxel Xpr/rat, oJ
*Ep v^ipax^i Supra 21B. D. Alcibiades impediebatur, quominus iniuriam,
quam a Socrate sibi illatam putabat, ulscisceretur j nunc data ultionis
occasione magna cum animi lætitia atque huius rei necopinatam
opportunitatem miratus, Quid ais? inquit, censen’ me etiam debere hoc
facere? Accentus oratiouis in Xpijyca verbo ponendus est, quo
facto, quod antea, ut faceret, non licuerit Alcibiadi, id nune idem
etiam d e b e re facere judicatur. iit i rei yeXo tore pa pe
i Ttcx.iv id eiS ; Duplici modo Rtickertus putat yeXoiotepa
compafativuiti explicafi posse, tfel ut admissa dicendi brevitate dictas
sit pro za yeXowzepa 7 } aXi/SedzepeZj vel ut significet: ita
laudare, nt quo sint quæque magis ridicula, ro laudanda sumas studiosius.
Neutra comparativi explicatio probari potest. Stallbaumius ad h. 1,, ifi
talibus, inquit, quæ sit vis et significatio comparativi, neminem, opinor,
fugiet. Neque sane difficile est indicatu, quid significer. Primum loci
meminisse iurat 189. B„ ubi Aristophanes hæc profert: coS' iyco epo pov
pexi Ttepl tgov /teXXdvzaov firjSj/dedSext ov n, p?) yeXolot
eiitea), rovzo p\v yexp av xip 60S eii} xal zijs rj perspexi Mov OrjS
ijtixodptov, «AAa pi) xa~ rayiXadza. Ad quem locum cum annotatum sit 149.
> yeXoia ea significare, quæ risum moveant, xazayiXadza
contra fatuitatem denotare eius, cui xaxexyiXexdta convenire
dicantur, dubitari nequit, quin nostro loco comparativus yeXoiov vocabuli
nihil aliud exprimat, quam quod illo loco xazayk Xadta vocetur. Ceterum
Bekkerus edidit: ini rit yeXoio X£p(t pe iitctiv&det, quuo scriptura
ex errore euata est olim disseminato : iitaivelv verbi faturum tempus noa
iitaivedco sed iitaivedopcei audire. tmavidng ; rj x l
jron}<Jj(-g ; TuXrj&rj Igm. aXX’ 5p«, tl magiris. ’AXXu fitvroi,
qxtvca, x& ye aXrj&rj n agfajfU x«l xeXeva Xlyuv. Ovx Sv ip&avoifu,
tlnslv rov 'AXxi^iddryv. xal fitmoL ovxaol molt]6ov‘ idv tt fu)
dXrj&es Xkyar, /.ata^v h tiXafiov, av fiovXtj, xal 215 tlju, uri
zovto tl’Svdofiai. extnv yag tlvai ovbtv feveofiau idv (itvroi
dva(u[iv>]0x6iuv os dXXo lilXofttV ov yag tl §ud iov xryv
Otjv xaXrjSij ipc J, Vide de his Verbis Comment. de
Platonis Symposio. Quæ sequuntur verba, aXX' opa, el izapb/f,
ludibrii caussa addita suut, quasi rogari oporteat virum eum, qui
per omnem vitam veritatis amorem profitebatur, utrum vera dici
velit necue. Monemur autem hoc loco de verbis Piat. Apol. Socr. 17*
C. ; xal piv tot nat rtavv y G) avdpes *A^i]vaiot > xovro vpc ov
diopai xal napie pai. Phavorinus napisoBai rov to, inquit, Soxel rov napai
xtldSai dvvapiv £*«*'. Timæus L. V. Pl. 207. napisiACti'
napaitovpai, ad quem locum Ruhokenius: Huius rarissimæ, inquit, notionis
ratio nondum, quod aciam, explicata pendet ex indole mediorum. Ut
irjpi et itphjpt est mitto, %Epat et itpiepat mitti mihi volo, i.
e. cupio, peto, sic napirjpi admitto, napiepat ad me admitti volo SIGNIFICAT,
h. e, precor, deprecor. Speciosa quidem est, sed, quoniam usu
ioquendi non probatur, neutiquam probabilis rtapiepat verbi explicatio.
Neque Socratis ingenio, qui, ut virum sapientem decet, fortiter atque
viriliter iudicibus' respondit, rogandi verbum duplex positum satis Convenire
videtur. Significant potias verba xovto vpcov diopeti nat xapiepat : hoc
vos rogo mihique indulgeo. ovx av q>5.dv oipu De signo
interrogandi post hæc verba non admittendo, atque de huius dictionis
significatu supra diximus annotat, p, 125. Quæ sequuntur verba, xal
pivxoi ov TOJdl noir/dov, aliquid vitii contraxerant, quod miror a nemine
interprete deprehensam esse. Schleiermacherus verba convertit: nnd da
thue so, quod ita dicitur, ut, dum Alcibiades dicat, si qaid forte
minus recte dixisset, Socrates iubeatur id corrigere, lloc modo
etiam ceteri interpretes verba acceperunt. Sed duo sunt, quæ displiceant.
MSVXOI CUm OVTGOdl noirfdov vix videtur commode ooniungi posse.
Deinde 6v pronomine haud careas in enuntiatione, qua quid Socrati
faciendam sit, præcipitur. Facillime unius litteræ mutatione locus
sanatur. Scribendum est xal pivxoi ot$x cedi noitjddov idv x i pij
aXrjXiyco, pera%v iniXaftov x. x. A. Sensus est: Et si hac, qua
dixi, ratione acturas, falsi quid forte dixero, interpellu, si
placet, 1 orlromav ud’ ?yovu tvnogag y.al Itpt^fjg xccraQt9(iyaat. ZcoxQuxy 6’
iyu htcuvtiv, oj ardqtg, oiitag iTtiyuqt]dco, 8t’ dxov av. ovxog jiev ovv ’i6ag
olyasxcu tirl rcc ytXotaxtQa, taxat, 8’ y tlxcov xov aAi;&ovg tvty.a,
ov xov ytkolov. Cap. XXXII. yaq 8rj ofiototcnov
avxov tlvat xotg UstJLijvotg qoentem atque falsa narrantem
redargue. kxav y<*p elvoti, Dc infinitivo in huiusmodi
dictionibus vide annotat, 40. Sensus est:
quantum ex me pendet, mendacium non dicam. ov yap xi j)
adiov. Cave pronomen indelinitum cum fa(idzov aTCte counecteudum censeas.
Pertinet id ad negationem atque ov tt apprime respondet nostratium:
denn es ist gar nicht etwa leicht. Quæ sequuntur verba cjd* ix^YXi
duplici modo explicari possunt. Aut enim ad Socratem referuntur aut
ad Alcibiadem» Ad Socratem relata Alcibiadem ita animatum ostendunt, ut
qui diflicillimum esse putet, Socratici ingenii miras virtutes coram
Socrate sobrio expedite atque ordine quasi in digitis enumprare. Jl 18 '
%x ov ~ roS", quod fortasse sunt, qui desiderent, prorsas alium
sensum funderet, atqoe axonictS Socraticæ inserviret veritati describendæ
; esset enim idem cj 8 $x ov ~ XoS atque xtjv 6i}v axoniav gqS £££
1 ?. Sed possunt etiam coS 1-XOYXi verba ad Alcibiadem referri,' ut
homini ebrio Alcibiades dilficillimum esse censeat Socratis axoTtlav expedite
atque ordine referre. Quamquam eadem via est sententiæ, hoc an
illud explicandi genus magis probaveris, tamen cum recentiorihus
interpretibus de Alcibiade verba coS" Ixoyxi dicta accipiam.
ovx gdS St* £ 1x6 v cov. Addita verba habes 61 * elxovoDVy
quibus quod præcedit ovxcdS vocabulum accuratius defluitur. Vide annotat,
43., ubi et hic locas laudatus est. Ad sequentia oltjdexat iizl x a
yeXoioxepa Stailbaumius supplendum censet: me ipsum laudaturum
esse. Non recte. Meliora docent sequentia verba H6xai 8* 1} e XOJV
XOV aXl]^OVS LVETiCL X. x. A., ut igitur ad illa verba suppleudum
sit: 81* eixov cov pe imxEip&Y htaweiY. Fortasse etiam plaue nihil
supplendum est, siquidem cogitari potest, Alcibiadem iici xa yeXoioxepet verba
quodammodo ex sententia Socratis repetiisse. Verba igitur convertere
possis: Er wird wahrschcinlich bei sicli denken )t inl xa ye\owxepa
lc : des Bildlichen bediene ich roich indess nur der Wahrheit wegen,
nicht um zu verhdhnen. xoiS 2 ei\l]v olS rouxoiS xots iY x
01S k p /t o y\v<peioiS xaSTjpeYoiS. Schol. nd h. 1 . 2i\tjvo\
Jio22 B tovtoiq tolg Iv tolg tQUoylvcftiotg xadypivotg y ovg
rtvag lgyut,ovtca ot drjfu&vQyol Ovgiyyag y avkovg l%ovtag'’ di
ftgadfi dtOL%&tvr£g tpaivovtat tvdofrtv vtyak vvdov xopfvral napa ro
rftAAofivttv y u l6xt 6xojitxeiv Atyopevoi [jtapd xovS TtotovS].
Adde Schol. ad Aristoph. Nobb. xi pe xaÆiS, g) '<p>}~ pepe. gj
avSpcDire. iXiyeto 6i d Stoxpdrr/ff xrjv uifuv 2etArjvcp itapeptpodveiv.
6 1 po S xs y dtp tux \ (paAaxpd $ i)V. xepieSyxev ovv ctvxcp olov
xov napo. JJtvddpop SetXtfvov cpcov)}Yx. x. A. Patet autem o uostro
loco, nam nusquam «lias rem commemoratam reperias statuarios capsulas,
quibus artificia reconderent, ad Silenolum formam effinxisse,
eorumque sedentium quidem, nt latius intus spatium artificiorum recondendorum
daretur. Hæ capsulæ felicissime cum Socrate comparantur etiam eo, quod
externo cultu minus conspicuæ erant atque negligentius elaboratæ Athenæus
L. I. c. 15. C. statuam Thebis exstitisse narrans Cleonis cantoris hæc
addit : vito xovxov xov dvSptavxa, oxe AAiZardpoS x cis
QtjfiaS xaxe(Sxanxsy <ptfC\ noÆparv, <pevyovxa xtva xpv6iov eis x 6
ipaxiov xotXov ov ivSitiSai • xal 6vvoixt2,oplvr}? xffS itoÆaS
ixaveASorxa evpeiv ro' xP v< *i° v pexa hy Xpiaxovxa. Sed nihil
habet hæc narratio, qnod aliquo modo possit cum nostri loci verbis
comparari. Hoc tantummodo ex ea discimus, magna religione illis
temporibus homines artium operibus pepercisse. o? 6ixa8e
8ioix$£y*£f. H. Stephauus 6ixa6e verbo offensus, quod nusquam alias
apud Platouera reperiatur, 8ix<* scribendum couiecit, quæ
correctio fuerunt quibus admodum placeret. Recte receiitiores
editore! 8ixa8e reposuerunt. Verba converterant Ficinas : qui si bifariam
dividantur y reperiuntur intus imaginem habere deorum. Schleiermacherus;
ia dei, en man uber, wenn man die eine Halfte wegnimmt, Bildsaulen
von Gdttern erblickt. Schulthessius ;. Schiebt man sie auseinander,
so erblickt man inwendig Gotterbilder. Rem intellecta facillimam fecerunt
interpretes difficiliorem. Res sic se habet: In contrariis Silenorum
lateribus duobus duo foramina erant, quæ epistomio quodam claudi
poterant. Iam si qnis artificia intus j^econdita spectare vellet,
non opus erat, ut singulæ partes Sileui solverentur. Ex
altero enim Sileni latere, ex utro aliquis vellet, per alterum
foramen spectatio erat, ex altero lateris parte per alteram, quod
in cg erat, foramen lux incidebat. Sensus est verborum: Di ese zeigen, da
sie auf beiden Seiten nach deu Durchschnittspuncten hin OefTnungen haben,
in ibrem Innem die Gestalten von Oottern. Ceterum non sino
magna vi ultimo enuntiati loco positum hahes $£G)v ‘nomen, nt
significantius indicetur, res summæ gravitatis vili atque pæne ridiculo
tegumento h. e. Socratici cojpoiis turpitudine ob\i I ftam
fyovtes ftecov. v.a.1 cprjfii av loitdvai ccvtov rtp 2.'ax vQip, ra
Magaba. ou fiiv ovv xo ye eidos fifioiog tl tovtois, a Ewxqox fg, ovd’
avrog dij xov d(upLCj}ri vnlutas esse. Nostrum locum imitatus est
Iulianus Orat. VI. 184. A., sed memoriter atque mitius accurate, ut
carendum sit, no quis ad eius exemplar Platonis verba emendare
studeat: <pypl yap dy njr xwtxrjv <piAooo<piav opoioxdxyv
eivai xolS 2 eiAtjyoiS xolS iv xolS EppoyAvqjeioiS naSypEVoiZ,
ovSxivaS ipyaZovxai ol dypiovpyoi 6vpivyaS rj ariAoris Exovxas, o? 61?
dioix^Evxes Evdov tpaivovxai dydApaxa ExovxeS SecZv.
xai tptfpt xcri 2 ar ripa), tcj Map6vot. MapcriaS, Schol. inqnit,
otriArjtl /ff, ’OAvpitov vloS, oS xoris ariAoris *A$yvaS /jnpddt/S dia xd
iva6xypovEiv avxoiS drtAoptvoS rjpt (Siv 3 AitoAAcovt itspl pov6txijS t
xal y xxy$y, xal itoivyv didcoxe x 6 dlppa dapetS. Docemur hac Schol.
narratione, Marsyam formam faciei minus curasse, utpote qui tibiis canendo
excelluerit, quas, quoniam faciem deturpant, repudiavit Minerva,
cfr. Appulei. Florid. I. 8. Eo (Hyagni) Marsyas cnm in artificio
patrissaret tibicinii, Phryx cetera et barbaros, vultu ferino,
trux, h spidus, illutibarbus, spinis et pilis obsitus fertur pro nefas
cum Apolline certavisse. Thersites cum decoro, agrestis cum
erudito, bellua cnm deo. Ceterum quid Marsyæ mytho veteres exprimere
voluerint, statim intelligitor. Musica nimirum orte hominum
ferocitas deliuilu morumque asperitas- deposita est, sicut pellis Mursyæ
spinis atquo pilis obsita, quam Musarum indicio Satyrus deposuit,
orid 9 ari ro ? dy itov dp<pt6fiijxi/dais. Ilæc est lectio vulgata,
quum duorum auctoritate codicum- in dpqjiCftyTr/tiElS immutarant
interpretes» Ac potuit quidem Plato' ita scribere, non scripsit revera.
Etenim quæ certissimu sunt atque 11 * luce clariora Alcibiadi, ea
idem quasi dubia ex Socratis mento aptat, non ut incertus esse
rei, sed ut simulare tantummodo videatur irooiæ caussa aliquam
dubitationem. Unius optativi exemplum, quo satis acerbe aliquis aliquid, quod
compertam habet atque perspectum, tamquam dubium ex alius mente
aptat, apud Meleagrum reperitur Epigr. LXIII.
"Eyv&v, ori p* EA a$£S. r i Seori?-, ori yap pe ÆA
yBaS. "Eyv&v * prjxixt vvv opvw irdvx* EpaSov.
Tavx yv, xavx iitiopxe ; povy 6v itaAiv, povy vitvoiS t oApyf
xal vvv, Vvv Ext tpydl povy. Aliud exeipplum a Reisigio
laudatum reperies in Commentat. de vi et usu av particulæ 131. *
Theocr. Idyll. XVII. v. 60. <prjs poi navxa douev *
xax& 6 * v6x epov orid * dAa doiyS> quæ verba a puella
pronuntiari Reisigius censet, quæ AMATORI AMANTE AATO 22 o 1
3-WI T^dBig • uig de xal ralla Eoixt/g, fina rovzo axovs.
'rfiguirr/s et ' ’>] ov ; irtv yccQ f uj oito loyjjg, (iitQrvottg
nKQtto[icn. all’ ovx Kvh]rrjSi noli) ye Sw/ttttftcorfpog C Ixtivov ' o
fitv ye dt ogycivav exijlu rov g av^ganors tij r< jio zoy CTofiazos dvvujiei,
xai En vvvl og ccv r a Dinlta pollicito hyperb<pl i cum fere
aliquid et incredibile imputare lepide confiteatur. Ilis verbis, Reisigius inquit, si uv vel xe adderes y vah, quantum
periret Veneris . Lasciva
puella, quod ipsa minime credit, loquitur, nec vult videri serio se
credere, sed tentat dissimulare tanfum : qua ironia eo fit amabilior, et
auget amoris flammam. Tale fere quiddam est in nostratium more, ubi
dicimus; am Ende : v eluti, am Ende giebst du mir gar
nidus. SimiMus Reisigianum exemplum Platonis verbis est, quam quod
supra laudavimus exemplum Meleagri, quamquam id accuratius examinatum
eadem dicendi ratione gaudero iutelliges. v fip 1 6 r y S ei' y o v ; Hæc verba Schleiermaclierus reddidit
: . Rist du ubermiithig, oder niclit? Sed magnopere
displicet, quam V, D. secutus est, verborum interpunctio, neque
verisimile est, eum, qui testes adhibere possit, quibus rei prolatæ
veritatem probet, sic locutum esse: vfipi6ti)S el y y ov ; Sententiam
verborum quod attiuet, prorsus eodem modo Socrates vfipuStyS vocatur ab
Agathone 175. E.: TppitiztjS el, £<py, gj ScjxpateS 9 d *Ayd$(ov.
'TfipiOx&v autem nomine omnes insigniuntur, qui aliquam rem ita
torquent atque volvunt, ut aliam vel speciem vel notionem potestatemque
repræsentet, eatnque quidem contrariam ei, quæ primitus ipsi inest. Sic et vfipiS,eiv verbum de Homerica pioverbii corruptione adhibitum
legitur 174. B. "OpypoS jttv yap mvSvvevEi ov puvov Sta
<p$ttpO(.iy d\\a xai v fi pluat f.ls ravryv tyv napoiplav, ad quæ
verba vide annotat, 19. Ut autem Sileni in artificum oiricinis sedentes
aliud in se habmt, aliud externa forma ostendunt, quod illi maxime
contrarium est, ita Socrates haud raro cogitationes suas obtegens aliud
quid, quam quod sentiret, verbis -exprimere solebat. Hinc institutæ
comparationis et, Socratis ct Silenorum expendas veritatem. i av yd
p fii } o poXoyy Tdp particulæ potestatem recte intclligcut, qui
interrogationis præcedentis significatum cognoverint. * II ov ;
enim verba ita proteruntur ab Alcibiade, nt rem a Socrate negari
posse negaret quasi diceret: Rem negare non potes. Paullo
aliter Stallbaumius de yap particula disseruit annotat, ad h. 1. :
Particula yap t inquit, referenda est ad sententiam ex reliqua
oratione facile supplendam : el fikv ovv. Utra rectior sit atque naturæ Joci accommodatior explicatio, lectores ipsi
videant. crAA* ovx avXyzy S- t Re Ixtlvov ttvXjj. a yag
"OXvfixog ij vXei, MuqOvov liyco, rtivtov didcct-avTos. r a ovi)
ixtlvov, iav re dya&og avXtjrrjs ciiiky, edv re qiavXrj avXtjrglg, (
wva xcccij reti&at itoLSL, xal Sijloi rovs tcov &ecov te xal
reXeroJv dtofiivo v$ 6 ut to &tla etvau oi> d’ ixtlvov
roOovrov ctissime H. Stephanus, quod ia editt. valg.
omittitur, post avXvrtjs signum interrogandi posuit. AAAa autem e licto
Socratis responso repetitum est, qui vfipi6xijv quidem se esse
confiteatur, avAtftfjv se esse non concedat : vfiptuTJ/S y* tipl,
Oj IA* ovx avAtjxrfc, xal ixi vvvl oS ctv x u ixtlvov
avAy. Docemur his verbis, Olympi harmonias etiam Platonis ætate
superfuisse, quibus tantum veneris attribuitur, ut sane pulcherrimas
fuisse inde couiicias. Phrygias harmonias fuisse ivSovdiafyiov
procreantes Boeckhius docet ad Piat, Minocm 26. M apCvov Mycoj xovi ov 8 i5a£, av x uS. Consentit Schol, «d
Aristoph. Eqq. v. 9. &vvavAux. ZwavAla xaXtixai, otav 6vo
avXi/Tixl to avro Ai-. ycjdtv. 6 ” OXvpTtoS povCi xoS Tfv, Mapdvov
pa$7)rifi. iypcnjxt Sk avXrjrtxovS xal $p?/vyxixovf vopovS. Yopoi
8e 7 ( 0 tXovvxat oi tis $toi>S vpvot x. x. A. iav
te aya$uS aJA i/rpis. Etiam tibicinarum cur hic mentionem faciat
Alcibiades, si quis quærat, nihil ab interpretibus annotatum reperict.
lloc certissimum, neminem olferisurum esse iu verbis iav xt uya5uS
avXt/xj/S avAf/y iav te ipav Ao?. Ut nunc verba se habent, de artis
dexteritate dicta accipere possis, ut non nisi viri in arte tibiciuaria
boni dicantur, mulieres autem artis expertes tibicinariæ non nisi
mediocritatem quandam teuere. Sed hanc non fuisse scriptoris
voluntatem, nobis quidem persuasissimum est. Alcibiades proprie dicturus
erat : iav xs avAr/r ?/?, iav re av A ijxpiS y iav re ayaSuZ ns,
iav xt tpavAoS, sed brevitatis studio oppositionem ita instituit, ut non
substantiva solam sed etiam adiectiva sibi opponantur. Ceterum vide
annotat. ubi huuc locum landavirnus. pova xaxexz6S at xal d
ij Aoi. Frustra hæc verba emendare studuit Orellius ad Isocratem 333*
Scribendum enim coniccit puvovS xarix^d^c ri 7ruit2 xal xtfAtt. Hæc
correctio cum alia de caussa, tum co nomine nobis improbatur, quod
harmoniarum Phrygiarum vim admirabilem minuit atque urctioribus finibus
iucludit. JMovvt plane eiusdem potestatis est atque (tvxd, eamque illarum
harmoniarum præstantiam describit, quæ sua vi emergit, neque ullo
artiiicum adminiculo indiget, quo emineat magis elficaciorque evadat. Recte
inde colligas, simplicissimas illas harmonias luisse. (torov SittcpiQt
ig, on avsv 6 gyccvav, ipdotg loyoig ravD tov rovro noieig. r/fiug yovv orav
fitv rov ullov dxovcoI uev Ityovrog xcd itavv dya&ov grjtOQog cA kovg
Xoyovg, ovdlv ftfAft, ag £'xog tlxtlv, ovoivl' inuSuv 5e fiov avev 6
py a v ody, rptXol? Xoyoi?, Comma posuimus post opyaycoYt quo
tautologia verborum facillime vitatur* IFiAol Xoyoi enim h. 1. ajipositum
est, ut clarius indicetur, quid significent veitoa : avev dpydvoav
TavTuv rovro notel?. Ceterum notandum est, alteram etiam
significationem Alcibiadem tecte indidisse verbis iJnXoi? X oyoi?,
WiXoi? enim idem fere sonat atque diXXoi?, ut satis lepido ad
Socraticam illam ironiam alludatur, qua virum sapientissimum usum esse
acerbissima nemo nescit. ov 6% v jiiXei 9 oa? in o?
eineiv, ovSevl. De vario ordine, quo Græci gJs - ino? el~ Ttnv
verbis usi sunt, vide annotat. 127. Significatum quod attinet huius
dicendi figuræ, annotationem adi 63- Latiore autem significutu serioribus
temporibus, ut videtur, hanc formulam adhibebant Græci, angustiore, quem ipsa
verba exprimunt, antiquioribus. Nam si quis autiquitus verbo aliquo usus
esset, quod rei describendæ minus convenire intelligeret, ut id
intelligere videietur, verbique veniam peteret, illam diceudi figuram adhibuit.
Perinde autem erat, utrum Q)? ino? eineiv diceret, an &S eineiv Itio?,
Utroque enim verborum ordine uti licuit in dictione, quæ nihil
aliud significabat, quam quod ipsa verba exprimebant. Serioribos
temporibus loquendi usu factum est, ut scriptores eadem
dicendi formula adhibita veniam peterent uou unius verbi minus
accurate usurpati, sed complurium, ueque verborum solum, sed etiam
seutentiarum. Iam quo magis nptio, quam usus loquendi alicui formulæ
indidit, a proprio verborum significatu recedit, eo debiliora verba fiant
necesse est, nt quasi torpore quodam teneantur, qui ordinis mutationem
non facile admittat. Exemplo proverbia snnt, quorum verba singula eodem
ordine plernmque recitantur, Exemplo etiam formula est d>? Ino?
ehteiv, quæ simulatque latiore significatu adhiberi coepit, liberiore
verborum ordine gaudere desiit. xdv navv q>avXo? %f
o A eycov. Potuisset etiam h. 1,, si oppositionem adhibere
voluisset, Alcibiades dicere xdv ndw aya$o? o} xav ndvv <pavXo? 6 Xiycov,
de quo dicendi genere supra diximus annotat, 299., et cuius exemplum paullo sapra
legitur, 215. C. Idv re dyaSo? avXrjr?}? avXy, idv re (pcwXrj
avXrjTpi?. Quod moneo, ut recte varba explicata credas 209. C.
dnropevo? yap, oipai, rev xaXov xal opiX&v av roJ, d ndXat
ixvei, rixrei nui ysvVijc, xal n aped v xal anco v pejivjfpivo?, xal r 6
x, r. A, idv re yvvrj - xareXopeSa. Omnes Socraticis dictis
percelli ait Alcibiades atque teneri quasi vinculis sive fe- ug axovfj fj
zb5v GiSv k&y av, akkov kiyovzog, xav tzuvv q>avkog y 6 ktyav, la
v te ywtj dy.ovtj lav tt arrjff i dv t» ftuijaxuw, lx7Ujtkrjy(itvoi
i<5fihv xal xaTE%6(i.Eda. lyety ovv, <x> avdffEg, ti p} Sfukkov
xofuSy du£uv (u&velv, eimina sit, quæ ea audiat) sive vir, sive
adolescens. Hæc dicta quoniam comparantor cum Olympi harmoniis, quæ
addito artificio nullo, ipsa per se animos audientiam capiant, merito
verba mireris illic addita: xal SrjXot xovS xcov Sedov te xal
xeXcxcjv beopivovS 8ui x 6 2 Eia elvai . Neque placet, quod Riickertus
annotat ad hæc verba : Non omnes hac harmonia ad divinum furorem
excitati sunt; qui autem essent, cos ad divina mysteria
percipienda factos esse hoc ipsum declarat* Nolo pluribus huius
sententiæ axoniav y quæ manifestissima est, perstringere ; persuasum
autem habeo, verba Platonica vitio aliquo laborare. Pro 8i]Xoi xovS
xt ov $egjv scribendum esse videtor: SrjXoi SvijtovS xav Segov, quæ
scriptura quam apte hoic loco conveniat, statim intelligitur. Quid enim
aptius est, quam mortales una commemorari, ubi sermo est de arctiore cum
diis per initiationes coniunctione? Neque carent verba corruptionis
verisimilitudine. Primæ enim ONHTOTC vocis litteræ quam facile in
OI mutari potuerint, apparet. Cum autem 8ijXot verbum, quod proxime
præcedit, in OI exeat, fieri facillime potuit, ut ulterunl OI
absorberet alteram. H autem expunctum ab iis est, qui ACCADEMIA scripsisse
arbitrati sunt, quod hodie in omnibus editionibus legitur: 6?jXoi r
ovS. Eyooy' ovv, cJ av6peS. Iiæc vulgata lectio est. Iu tribus
Bekkeri codicibus paucisqur aliis iyco yovv comparet, quod haud
scio, an non probandum sit. Nam si io priore alicuius enuntiationis
parte aliqui commemorantur, quibus, qui ia posteriore enuntiationis membro loquens
inducitur, non est adiunctus, iyoj 6* ovv vel lywy' ovv poui solet,
utrumque pio oppositionis vel exceptionis ratione, quam scriptor indicare
voluit. Contra ubi in priore particula enuntiationis alicuius aliqui
commemorati suat, quibus adiunctus est, qui ia altera particula loquitur,
uou lycoy ovv sed ly<6 yovv locum habet. Iloc Bekkerus probat
Comment. Cril. in Piat., idem A&tio placuit atque Riickerto.
Stallbaumins in altera Symposii editione lycoy* ovv reposuit. el
/i)} HpeXXov xopi8y 66 B, E tv. Schol. ad h. 1. wopi8q, inquit, xvplooS
pev xo impeXuS, o$ev xal opEoxopoS xal yEpovxoxopoS * i 6 o 8 v v
ajx ei Sfc xal x c3 6 <p 6 8 p a xal xeX£a)S t xopi8y
dpixpd 6(po8pa 6pixpa. Ceterum sensus est verborum huius loci:
Ego certe, o viri, nisi viderer præ nimia ebrietate meras nugas narrare,
dicerem vobis loramento interposito, quæ mala in me ab huius
orationibus pervenerunt et quæ
rtov vftocag av vfilv olcc Srj nticov&a avzog vito zmv zovtov
J.vyav xal ndayco Ixi xal vvvl. ozav ydg axovo), itokv E fioi (idllov tj
tcov xoQvfiavzicovrav ij tb xagdla irtjda xal ddxgva lx%tizai vi tb zav
l.oyuv zav zovzov. oga de xal akkovg ita/utoXXovg zcc avza itdayovzag.
Ilegixbeovg de axovcov xal akbcov uya&cov grjzoQav ev fiev tjyovfirjv
beyeiv, zoiovzov d ’ ovdev ixaGyov, ovdi zttiogvfiryzb fiov % t^vyrj ovd’
rjyavaxzei ag dvdgano perveniant etiam nunc. Annotat Riickertas:
Non dicerem tantum, uti nunc dico, sed iusiurandum adderem. Satis nobis
liæc explicatio displicet. Quasi si quia mira narret ebrias, addito iuramento
ebrior esse, indicetur. E hcov ojjodaS av nihil aliud SIGNIFICAT
quam: dicerem dictu mque iuranænto interposito confirmarem, Ut autem
rectius Alcibiadis verba intelligas r homo ebrius, quæ perpessus
sit, ea ita mira esse sentit, ut a nemine facile credantur* Igitur
ne vino prorsus immersus indicetur, ai illa retulisset atque eorum
Veritatem affirmasset, rem silentio præterire apud se constituit.
Post autem non tam mutato consilio, sed quod res ita ferebat atque
loquacitatis, quam vini vis indidit, libidine ductus, quicqui^l
perpessus sit, aperuit tamen. V * &v no pv fi av x i oov~
tcov. Annotat Schol. ad h. l.j iv$Ol)6lG)VXGt)V ?/ riva opX7}6iv
ippctv)}' opxovpivcov, ano tgoy K opvfidvxcov, oi xal x potpeiS xcu
(pvXccxsS xal 8i8ddxaXoi xov 4ioS eivat pv$oXoyovvTai, TiveS 8 e
rovS avxovs roiS Kov ptjtiiv etvai tpadiv. elvai 8e xal x ijf ‘PeaS
vnadovZ, ano xgjv xov JioS Saxpvcov yeys~ vrjpEvovS’ ojv apiSpov ol
ptv 3*, ol 81 i Xkyovdiv. Timæus habet xopvfiavxtav'
7tapepj.iaiv£6$at xal ivSovtiiadxiHuS xi~ YEtdSai. IldSoS autem rcov xo
pvfiavticovxcov vocabatur xopvfiavriadfioS, Quo morbo qui correpti erant,
tibiarum cantum audire sibi videbantur ad saltationem excitantem, neque
temperare sibi poterant, quin saltarent. Vides igitur, quam apta hoc loco
sit xciov xopvfiavxicjvxcov commemoratio, cum Socrates cum Marsya tibiis
canendi peritissime comparetur, cfr. Piat. ‘Crit. 54. D, xavta, ai
(piX& ttaipE [ Kpixcov ], ev ?b3z, oxi iyco Saxei) axovEiv,
&)Szep ol xopvfiayriGivTES tcov avX&v <$o~ xovdiv
axovEiv. Adde Piat. Phædr. p.227. B. dzavtijdas 8h rd v o 6o v vx i
zspl Xoycov dxorfv, iScov phv, 18 odv 7/<537/, ori eB,ei xov
dvyxopvfiavxicovTa x. x. X. ev jtlv xjyovfirfv Acyetv. Piæterito
tempore Alcibiades bic utitur, quod Pericles eo tempore iam obmortuus
erat, quo Agathonis ixivixia celebrata sunt. Ceterum ipsa verba
docent ev pbv rjyovpijv Xeyeiv, quam necessaria lormala coS EizoS
'irillgteed /\r «•' • Sadwg dtaxEiplvov. cxXX’ vito
tovtovX rov MciqOvov stoXXaxig drj ovta Ster idrjv 9 Sgrs poc do^ca prj
fiica- 212 rov elvat l%ovn log 1%©. xal ravtcc, o Uiaxga reg, oix
Iqels cSg ovx aAq&ij. xal Eu ye vvv £vvoid 9 Ipavrq>, ori, ei l%i). oipv
TtaQeyew tu ara, ovx av xaQtSQTj<faipi> cMa tuita av itdG%oipt .
dvayxd&i yaQ pe opoXoysiv, ori vtoXkov tvde^s av avtdg En
Ipavtov fikv dpeXc5 > tu 6 9 'Afojvuiav itQaztco. fila ovv,
agitEQ elneiv verbis sit 215, D. ijpeis yovv otav pev rov
aAXov dxovtopev Xiyovzos xal navv ayaSov /)7fzopoS aAAouS’ A 6yovS
t ov8ev pe\ei ovSevl. De pov pronomine nomini sao prælixo,
quo dativi commodi, quem vocant, vel incommodi notio exprimitur, vide Quttmanni
annotat, in Indic, ad Piat, Dial, IV. BeroI, 1822. •$X oyrt
Satis usitata hæc dicendi ratio tragicis poetis, quam rov
evtprjpelv ergo adhibebant miserrimam vitæ conditionem indicaturi. Sensus
est: Ut mihi miserrime viventi vita non amplias vitalis
videretnr. ovh ar xapr epij C atpi. Conscios mihi sum,
Alcibiades ait, me etiam nnnc, si vellem aures præbere illi, eius
illecebris non restiturum esse, sed eadem, quæ antea, experturum h.
e. dySpano8co8d)S diaxEiCeCSat. dvayxd^ei yap pe opoA o y eiv x. r.
A. Argumentum his verbis expressum habes eius libelli, qui Alcibiades
primos inscribitur. Eum libellum negant hodie viri docti a Platone
conscriptum esse. Ac lieri potuit facillime, ut aliquis ACCADEMIA AMATOR AMANTE
AMATO, qui hæc verba legisset, de hoc argumento ad ACCADEMIA dialogorum
exemplar dialogum conscribere apud so constitueret. Quæ autem verba
infra leguntur . B. ?}rrrfpiva> ti)S npijs rijs vito,rojv jroAXgjv,
comparari possunt cum Alcibiade I. 1S5. fin. ftovXol prjv dv Ce xal
8iaxeX/:Cai' o’/3ficjScj 6l, ov n xyj 6ij cpvCet aniCrcSv, aAAa rr}v rfjs no\
ecoS fiuprjv, pi) ipov re xal Cov xpan/Cy. fiiot ovv,
cosnep ano z&v Setpijvcav x. r. A. Abreschius Lect. Aristæn. 147.
cum fiict commode explicari posse diffideret, fivcov scribendum coniecit
: (Uvoav ovv dsnep ano r&v Seipijvoov iniCxopevot ra tora
oixopat tpEvycov . Recte Stallbaumius hauc correctionem improbat
etiam ea de canssa, quod illa odmissa verborum iunctura existeret legibus
elegautiæ orationis coutraria. Quis enim, Stallbaumius iuquit,
ferat ita loquentem: Obstruens aures, tanquam ab Sirenum canta cohibens
aures, fugio virnra. hia cum olxopai tpevycov Stallbaumius
coniungendum censuit, quæ verborum iunctnra nullo modo probari potest. ano
uSv Uuprjvav, tni<3%o(itvo$ rct iura, ofyofiat qjtv•yav, iva (irj axrtov
xa&ijyivog napa rovuo xaraytjQaB Oa. ntnov&a ds ngog rovrov fiovov
av&gconav, o ovx av rig oiot.ro Iv Ipol Ivtlvat, ro alojfvveo&ai
ovnvovv. iya da rovrov /rovov alo^vvoficu. | vvoiAa yttQ Satis
notum est exemplisque per multis probatur, oixopat tpev ycov eam fugiendi
rationem describere, quæ celerrima sit atque subitanea. Iam cum hac illius
dicendi formulæ notione quomodo (5i(t conciliari possit, equidem
non video* Nam quæ fihp aliquis facit, h. e. ut apud Homerum
legitur btriv æxovzl ye is cunctanter agit at que animo minus
obfirmato. Dubitari nequit, quin / Via ad liti CxoptVoS referendam sit, ut
Alcibiades vix ac ne vix quidem a Socrate quasi a Sirenum cantu
dicatur aures cohibere posse, eo facto autem in celerrimam fugam ee
couiicere. Ceterum' ad Hom. Odyss. hoo loco respicitur M.
v. 59. et sqq. iva ni) avxov xa$rj utros itapa tov rw
xazayripdooj. Summam laudem hia et præcedentibus verbis contineri
Socraticæ facundiæ, nemo non videt. Eam enim Socraticæ orationis vim esse
Alcibiades contendit, ut omnes ea audita per omne vitæ tempus eius
auditores esse cupiant. Eius laudis eo maior vis est, quod ab homine
proficiscebatur, de quo Nepos in Vita Alcib. hæc tradit: disertus (fuit),
ut in primis dicendo valeret, quod tanta erat commendatio oris
atque orationis, ut nemo ei posset dicendo resistere. His, adde verba illa, quibus Pericle Socrates dicitur plus in dicendo
valuisse. Periclem autem peritissimum dicendi fuisse accipimus, cfr* CICERONE
(si veda), de Orut. III., 54* In eius labris veteres comici,
etiam cum illi maledicerent, leporem habitasse dixerunt, tantamque
in eo vim fnisse, ut iu eorum mentibus, qui audissent, quasi aculeos
quosdam relinqueret. o ovx av xi$ otoixo iv Ipol iveivoti.
Probatam habes bis verbis levitatem Alcibiadis supeibiainque eam, quam
scriptores Veteres passim tradunt Ceterum cave eodem significatu dici
censeas iv rivi ivttvai et elvai Zivi. Conferri
possunt hæ dicendi formulæ cum LATINORVM: alicui inesse vel in
aliquo inesse et esse alicui. Ut elvai zivi ita Latinorum esse alicui adhiberi
solet, cuhi alicui aliquid esse dicitur non addita, quæ inter possidentem et
rem, quæ possideatur, intercedat, ratione. Evtivat contra iv rivi et
Latinorum in aliquo inesse de eo plerumque dicitur, cui aliquid est,
quod cum ipsius naturu, ingenio, indole artissime sit coniunctom.
Platonis verba Schleiermacherus reddidit : w os einer nickt in mir
suchen solite. Hæc nostratium dicendi formula apprime respon- tfiuvTtp
avullyuv fih> ov Svvafilvcp, mg ov Bel noaiv u ovtog xsXevh, £xh8ccv
8's &sc£l& cj, tijg Tifiijs t% vtio zav tzqVjSv. dQajzsrsva
ovv avtov xal qisvya, xal ozav Z8a, alGyyvouai za wfiokoytj^iva.
xal itoXXay.Lg fiiv IjfSiag av i'dotiu avtov uij ovza Iv C det ACCADEMIA
sententiæ, sed verbi ivetvat iv tivi nativam vim non exprimit. Ea
ut emineat magis, verba sic reddiderim: Was einer wohl nicht leicht
meinem Wesea eigentliiimlich glauben mochte. xij 5
ttftijs xrj s v it 6 xgjv 7t o X Xco v. Nequis forte scribendum censeat
trjS aito xeov 7toX~ A cor, ut honor signiiicctur, qui a populo
proliciscatur : amant Græci substantivorum passivam, quam vocaut,
notionem ab activa discernere atque, ut exemplo utar XifiijS
vocabulo, accurate disiuugere honorem, qui ab aliquo in uliquein
confertur, ab honore, quo aliquis aliquem dignatur. Ti/S xiji)}S igitur
idem significare atque tov XifiadSat addita vjto præpositione indicatur.
Sed liberior etiam huius præpositiouis usus est. Haud raro enim cum
verbia neutris coniungitur, quæ verba possuut aliquo modo,
quoniam per se spectata neque actionem indicant, neque itaSoS
aliquod exprimunt, cum nominum ambiguitate comparari. Hæc nomina enim utrumque significare possunt et actionem et
itaSoS, ut recte dicautur per se spectata neque hanc neque illam
uificarc. Sed ita ditfert vn 6 præpositiouis usus in
nominibus substantivis et in neutris verbis, ut illis addita
notionem, quæ ipsis inest, extollat, cum his coniuncta notionem novam
quasi pariat, quæ notio no utris verbis proprie non inest. cfr, Hora,
II. 319. iv$a xtv avxe TpdoeS dpifi(piXoov vtc
*Ax<xtG>v " IXiov eiSavEfiTjticcv avaXxeiXfit Sajievxs? Adde
II. S36. cridooS pkv vvv ySe y dp?ftqjiXoav vn *Axai(vv "IXiov
eteavafiijvoa, avaXxeiy6i SafievxaS. His locis, quibus
alia addi possunt innumerabilia, edoceare, liberiore vno præpositionis
usu elfici dicendi brevitatem, quæ sane gratissima est et
venustissima. Ad nostrum locum ut revertar, statim intelligitur,
quid Alcibiades confiteri cogatur a Socrate, et cuius rei pudor
illum hoc conspecto subeat. Nimirum qui rtoXXov ivdei/S convincitur
esse (vide 216. A.), is se percolere debet, non administrare civitatem,
quod fecit Alcibiades populi aura delectatus. ij 8 £o)S dv i8
oipt h. e. rfSoifi7\v dv avtov ISqjv. Vides igitur, magis ad
adverbium, quam ad optativum modum IStiv verbi av particulam pertinere.
Id probatur etiam eo, quod omisso adverbio dictio existeret prorsns
non ferenda: xal izoXXaxiS ptv i&oifi dv avtov pp
ovxa avftQQMtois' tl 6* av rovto yivoito, sv old\ on itokv fiel^ov
clv «%9olgif]v, cj^tb ovx b%g) S xi XQrjGttpa t Tovtcp r (3 dvftQcina.
xcd vito piv di] xav ccvArjfidtav itat lyco occa dAAoi itoXAot xoiavxa it
BTtov&aOiv vnu tov 8 b rov 2 <xxvqov. iv dvSpcditoiS.
Nulla enim adest caussarum cohærentia, per quam fieri possit, ut
Alcibiades Socratem inter vivos non videret. Adest, ubi gavisurum
se esse Alcibiades dicit, si non videret Socratem inter vivos. Itaque quid de Platonicis verbis rfdicjS UV VSoifii statuendum
sit, iam vide. Brevitatis studio t/SkcoS i8oif.it ita positum est,
ut duo liæc verba unam notionem efiiciant, quacum av particula commode
consocietur. Simul supplendum aliquid relinquitur, quod quid sit, ex
ipsis jjSkcDS av iSojfii verbis elicitur. Oratio enim expletior
audit r tjSkcoS dv i'8oiftlj tl idotfit. Similis verborum structura in
Piat. Lachete occurrit 182. c. V. fin. AaXtjtoS 8’, tl n napa
xavxct Akyei, ndv avxoS ijdkool cotovCaifUy quæ verba explicatius
enarrata audiunt : ndv avxol ?}6kcoS dnovdatju, tl dxovuaifii AaxrjxoS,
tl r i Ttapd Tama Afyti. Satis autem docet hæc enarratio verborum, quæ tl
dupliciter atque diversa potestate (wcnn, ob) posito satis ingrata est,
quantum orationi admiss? illa verborum structura suavissimæ brevitatis
accedat. no Ai) pti2,ov dv dx$oi* fiijv. Pro fitigov
scriptum exspectaveris fiacAAov. Iliickertus nd
h. 1. : ut piyotj inquit, verbis iuuctum est valde, v. c, Hom.
II. /i. 2u. A.oS 81 roi ayytXol et/u oS avtvSev £aj v,
fit}' a 7tjj6ezai 7] 8* lAtaipu et v. 333. gjS icpccc.
*Apytioi 81 ftty iaxov K t r. A. sic etiam fiei^ov magis, vehementius.
Dictum pro fitiZov dv &x$oS txoifu, Frustra rationem quæras, cur apud
Homerum fikya verbis iunctum valde significet, et cur nostro loco fitigov
dv dx$oiftrjv non tam positum sit pro fitigov dv dx^oifiijVy quam potius
idem atque illud significet. In caussa hoc esse reor, quod Græci
haud raro verba co significatu adhibebant, quem satis inepto nomine, vocant
Grammatici prægnantem. MkyaK w)8txea igitur non tam est : v ai 1 d
o providet saluti tuæ, quam magnam tui curnm agit. Eodem modo
9 Apyttot fiky Iaxov explicandum est : Sie schrieen gross h.
e. sie erboben grosses Geschrei. Plura huius usus exempla laudata
reperies anuotat. 87, coite ovx ott XPV dcofiai. Pro
xPVoMfiai libri omnes XplfeOfLat exhibent, quam lectionem
lluchertus, nimis rcli^ giose, ut solet, in textum recepit. Sed quid
facias in contexta oratione scriptura, quam ipse, qui eam recepit,
explicaCap. XXXIII. "AXkct de epov axovGccre, tyto aixatiu
avrov, xal ryv oSg 3 (loiog re tCziv otg dvvcc[uv io s
%avpc(Oiav bilem atqne rei describendæ accommodatam negat ? Certum
quidem est, scriptores haud raro formula dicendi nsos esse gjSts ovh
Hxv oti xPV^o^ioctj cuius exempla Stallbaumius laudavit ad Piat.
Gorg* edit. 85 ( ., sed haud perinde est, coniunctivo an futuro
utaris. Ac nostro quidem loco si xPV<S°M<xi scribitur, nescire se
præsenti hora Alcibiades confitetur» quid cum Socrate faciat,
facturum autem aliquid sese esse uua promittit* Quæ sententia quam
inepta sit atque ab huius loci .sensu aliena, nemo non videt. Contra
coniunctivo adhibito penitus nesciri ab Alcibiade, quid in
universum dc Socrate consilii capiendam sit, quæve eligenda ratio
hominem tractandi, exprimitur. Quæ sententia, quoniam aptissima est
huic loco, quid xpfo&M&i vel contra omnium auctoritatem codicibn
non recipiatur, XPV^°M°^ autem ineptæ sententiæ lectio non
reiiciatur, caussam equidem non reperio. neti vito j.tlr 8 y
tcov av\y p dz w V7C 6 tot j Se tov Sazv pov. Av Xypaxa Socraticos
sermones significare, Satyrum Socratem, nemo mirabitur, qui Socratis cum
Marsya comparationem legerit. Ordinem verborum quod attinet,
proprie dicendum erat xai V7cd ply Si } tgov otvArjpdrcov tov tov
tov 2£aTi>pov. Sed de industria Alcibiades hacc verba verbis
compluribus interpositis seiunxit, ut maiore vi afficiantur verba
rovSe tov Scnvpov . Vide de hac seiunctione verborum annotat,
59., 129., al. Ceterum imo præpositionem
non sine vi repetitam habes. Nam cnm ea eius potestas sit, nt cum
Ttd $ovS notione plerumque couiungatur, ideoque ipsa quasi colore imbuta
sit notionis illius: dupliciter posita haec praepositio non quidem 7td$oS
duplex exprimit, sed ndSov ST vehementiam,- qualis descripta est 215* E.
noXv pot paXkov y td>v xopvfiavTicdyrcjv y re xapSia nySqi xal Sdxpva
ixxeltat. aWa 5 et i pov ctxov6 at e. Vulgo aAAa Sy legitur;
praeterea codices nou pauci pov pro ipov exhibent. Riickertns inde
di pov edidit annotaus ad h. 1. Nobis, inquit, nulla in pronomine
vis esse visa est, propter quam codicum lectionem mutaremus. Itaque
Si pov dedimus : Miror, Biickcrtum
ita iudicare potuisse. Etenim qnao hucusque narrata sunt ab
Alcibiade, ea, siquidem homini fides habenda est, et aliis acciderunt* Ea
igitur satu nota esse Alcibiades contendit, adeoqne nihil facere ad
Socratis indolem accurate cognoscendam, nt prae- i%H. tv yag la ts,
ori ovdilg vficov r ovtov yiyvaOy.u' D dXXu tyco drjZadn, tjielxsQ vgaxs
yag, on ter Re neminem censeat ipsam cognitam perspectamque
habere. Quod igitur none Alcibiades probaturus est, id se
tautummodo expertum' docet atque se esse unum, ex quo audiri possit
vera Socraticae indolis atque naturae descriptio. Nihil igitur
certius est, quam ipov scribendum esse, non fiov. Et quoniam mala
modo commemorata etiam alii perpessi sunt, haud dubiam est, quin nova
quaedam relaturus Alcibiades dXXct dixerit, non aX.Xci ; ea autem mala,
quoniam malis supra commemoratis opponuntur necessario, etiam di
recte habet, non 8t}, Nobis quidem de scripturæ veritate aXXa
6k ipov y vel aXAct 8* ipov, quod Bekkerus habet, ita persuasum
est, ut etiamsi omnium codicum deesset auctoritas, verissimam censeremus.
Sed adminiculo suo non eget scriptura illa. Florentiui enim codices
aliique libri pauci quidem sed non mulæ notæ eam repræsentant.
ev yap idxe. Qui ad verha 208. C. xal r/, u>S7tep ol xeXeoi
dotpidxcA, Ey tdSi, iqrrj sophisticum orationis colorem, quem Plato
verbis cu Sittp ol do<pidxctl indigitavit, in verbis ev id$i
deprehensisse sibi visi sunt, Wolfius, Astius, Schleiermacherus, ii in
verbis ev Idxe nihil, quo Sophisticam artem odoratos esse
coniicias, annotarunt. Concedimus quidem, heri potuisse, ut sophistæ 1
insto sæpius illa dicendi formula uterentur, sed non ideo sophista
sit vel sophisticam artem imitetur, qui hanc formulam exhibet in
oratione, præsertim cum id facit, ut fecit Diotima . semel,
d XXd iyta dyXcodco, $neinep ij p&a prjv. Cum emphasi verba
pronuntianda sunt dXXa iycj 8yXGD6co sc. oloS id nv atque inprirais
iyoS pronomen, quod ue exhibuisset quidem Plato, si in præcedentibus scripsisset
aXXa de pov axovdaxe, Ceterum supra annotavimus ad verba 2 15. D. iycj
yovv, co ctvdpeS, ei p>) ipeXXov xopidy 8o£,eiv peSvetv, eiTtov opodaS d v
vpiv olat 8?) jciitovScL X. T. A*, Alcibiadem noluisse primum, quid
ipse perpessus sit atque adhuc patiatur Socrate auctore malorum,
enarrare, post consilium mutasse loquendi lubidine abreptum. Ea consilii
mutatio ne forte artiheiosior videatur atque minus ex humanæ naturæ
indole petita: omnium rerum difficillimum esse solet initium. Eo superato
gaudium cor subit, quia superareris atque animus olterius progrediendi.
Post ne infectum relinquatur, iu quo aliquid operæ consumseris,
totum opus perficiendum suscipitur. Subit animum dulcissima memoria
versuum e Goethii Fausto petitorum, quos cnm Platonis verbis iiteiitep
ijpBtdprjv comparare possis: Das Mogliche soli der
Entschluss Beherzt sogleicb am Schopfe fasseu Er
will cs dann nicht fahren lasse n Und wirket w ei ter,
tveil er must. HaxQatyjs (gauxtog diaxtirai rav xctXi 5v xai «eI
x&ql rovrovg EOzl xai butiickipam., xai av ayvotl mxUz a xai
i/jmrixojf Sidxeirat roov xa\djv. Annotat Ruckertos ad h. 1.:
Genitivus tgdv xa\65v pendet ex ipooTtxdjS e more Græcorum vocibus
derivatis eundent casum addendi, quem verbum secum habet . Eodem modo de
hoc structuræ genere Matthiæus disseruit Gramm. ampl. Possis etiam ita
tibi rem explicare, ut ipeoxixvS SidxEttiSai unam notionem if^xv verbi efficere
censeas atque eius structuram assumere. Ceterum nemo non videt,
ipeoTixcoS StaxEitiSai multo graviore SIGNIFICATV esse, quam ipav verbum.
Apprime enim Latinorum perdite amare respondet, qua formula dicendi
inprimis comici Latini usi sunt. Mirari autem licet Græcæ illius et
huius formulæ diversitatem. Nam quod Latini adverbio, Græci verbo
expresserunt, quod Græcis adverbio, LATINIS verbo indicatum est,
xai av ayvoel itavxa xai ovdhv o 16 e v, coS 1 6 uXVM a a vx
o v. Vulgo hæc verba ita edebantur, ut nulla post avrov
interpunctione posita verba r 6 6xi)f*ct avrov ad subsequentia
traherentur. Quibuscum ut aliquo modo convenirent, H. Stephaniis
scribendum coniecit : ci? x 6 <$X*/M a avrov ov deiXffYGoSeS, Hæc
scriptura Fischero probata est et Bastio et Wolfio; recentioribus
interpretibus merito ea displicuit» Longum est, omnes ingenii coniectnras
repetere, quibus hunc locum docti viri sollicitaruut. Stallbaumius
omnes loci difficultates sublatas putat recepta, quam Bekkerus et
Schleiermache rus post avrov posuerunt, interpunctione. Videlicet,
vir doctissimus ait, csf xo <$XVl l0C carro v significat;
quemadmodum eius forma et habitus est h. e, queoadmodum ipsa eius
forma et habitus prodit. Eadem Riickerti sententia est, quæ
cur nobis non placeat, paullo infra dicetur. Priusquam enim singula
verba adeamus, totius loci sententia paullo accuratius examinanda est.
Omnis Alcibiadis oratio in duas partes dividitur: altera res
continet convivis satis notas, sed quæ ad cognoscendum Socratis ingenium
haud multum faciunt, in altera commemorantor, quæ ex Alcibiade solum audiri
possunt fefr. 216. C. «?AA a 81 ipov axovdars) e® quibus solis ad
Socratici ingenii indolem cognoscendam auditores ducuntur. Ac de posteriore
illa orationis parte infra dicetur; prioris initium verba sunt
opaxe yap. Quæ verba præcedentibus opponuntur ; tv yap fdtE, oxt
ov8e\s vpdov rovx ov y ty y ai 6x Et. Tangi igitur videtur opdxE verbo
incogitantia convivarum, qui, quod oculis cernant, id credant, cum
non debuissent credere, contra quod debuissent, nou videaut. Iam ad
particula, quæ in verbis repentur xai av ayvoEiy indicatur et hæc et
subsequentia verba eadem conditione, quam præcedentia, poni, ut
expletior oratio audiat: xai o par e, oxt ayvoE i x. r. A. de qua
vi av particulæ vide annotat. Nura cum hac orationis confm(XvSlv ocdsv,
log to (>XW a ocvtov. tovto ov Gcifoivcj* 6sg; Gqjodga ye. tovto yag
ovrog negLpapAyTcxi, cogiteg 6 tykvppivos 2J6ifa]v6$' kvdo&ev
6s avorfitig n otiijg, ofetfte, ysuti, iJ ccvdgtg <5 v[ix6tcu,
aacpgodi Jmationc satis convenire censes verba cjS to <SXVl ia clvtov,
quemadmodum ipsa eius forma et habitas prodit? Sed hoc ut mittam,
turpi vultu protervoque Socratem fuisse accipimus, fatuo a nemine
scriptore traditum est. Neque cura turpitudine atque protervitate
vultus fatuitatem coniunctam esse necesse est. Recte autem
inspectis Platonicis locis, ubi inscientium Socrates et vero etiam
fatuitatem quandam animi ostendit ( cfr. annotat, 290.)» doceberis,
verbis atque libera rei confessione, non forma et habitu vultus
corporisque id fieri. Nemo igitur oculis cernere potnit, sed auribus
tactum percipere inscitiam Socratis, ut male xal av (opdTf)gd$ to 6XVM a
ccvtov verba coniungi censeas. Verba autem ayvoei TCavia xal
ovSev oldev etsi aliquo modo defendi possunt, tameu habere, quod
offendat, prudeus lector intelliget* Deleta autem litterula una et
tautologia nobis quidem ingratissima removetur, et commodiore sensu coS
To 6xtyM a ocvtov verba afficiuntur. 'Scribendum nimirum esse
censeo : xal av ayvoei navTa xal ovSh oldev, cJs" to (
5XVM a ocvtov. Iam sensus est totius loci: Oculis vestris videte
(atque credite), Socratem iuvenes pu1cros perdite amare semperque iis se
adiungere eorumque summa admiratione teneri, et rursas omuia nescire,
ac ne scire quidem, qui ipsi sit habitus externus h, e. ne curare quidem
corporis cultum et vestitum. Olim coS to 6XW& avrov
convertendum censebam: wie cr sich das Ansehen^giebt, quæ conversio
optime conveniret cum opdre verbo. Sed Alcibiades hoc loco
narraturus, qqge in Socrate oculis cernantur, cum pulcrorum iuvenum studium
commemorasset, quod revera simulabat Socrates, et inscitiam, quam
interdum vel gloriabatur, incuriam corporis, quapi immunditiem vocare
possis, nullo modo silentio transire potuit. Satis notum enim fuit,
Socratem raro lavasse, rarius capillos compsisse atque omniuo
ceteram corporis curam adeo neglexisse, ut v. c. Aristodemus cum lotum
conspexisset atque calceatum Socratem, insolentiam rei meratus ex
eo quæreret: quonam iret ovteo xaXoS yeyevrj pivoS . Vide Sympos. A.
Ceterum dxt/poc vocabulum de cultu corporis atquo de vestitu significando
Græcis in usu fuisse, satis docere possunt Plauti verba Amphitr.
Prol. V* 116.: Nunc ne hunc ornatum vos xneum
admiremiui Quod ego huc processi sic cum servili
djjqpa Veterem atque antiquam rem novam ad vos perferam: Propterea
ornatus in novum incessi modum. v>;g; iGxe, oxi ovx’, tl rtg xaAos loxi,
jitXti avxaJ ovSev, kU.u xatacpgovtZ xoOovxov, o6ov ovd’ av tlg
olrj&tit], e ovx’ tl xi s irkovOLog, ovx’ tl alXr\v xivd xijirjv
iyav xuv vito itkrfiovg jxux.uQitoy.ivav. ijyuxat 8i itdvxa
Sequentia verba rovto ov (SeiXtjvc38eS ambigua potestate dicuntur, ut iis ad
alteram partem orationis paratum aditum habeas, qua verum de
Socratis ingenio iudicium continetur. ^SsiXrfVco8eS enim de externa figura
ita dicitur, ut Socratis vultum indicet similem fuisse Silenis; et
ad cetera, quæ præcedunt, verba tractum Socratem similem Silo
norum perhibeat. Iam iudicare possis de verbis (Sqpodpa ye, quibus
titramque 6ei\ijvaoe5 vocabuli relationem Alcibiades sibi probari
indicat. Sed alteram tantummodo verbis sequentibus exprimit hoc
agens, opinor, ut subita novæ rei commemoratione, ud quam rem
audiendam animi convivarum minime parati essent, acutissimi iudicii
admirationem et gloriam certius atque celerius assequeretur.
rovto ydp 7tepifl&pXijrat, rdp
particula duplici relatione hoc loco posita est, ut et ad rovto
GeiXtjvg)8eS pertineat et, ad notaudum convivarum errorem, qui Socratem
talem esse putaverint, qualem oculis viderint, ad verba referatur 216. C. ev
yap fore, Zri ov8elS v/uav rovtov yiyvojtixeu Sensus est: Namque
miram hanc Silenorumque protervitati atque immunditiei consimilem formam
ille induit Silenorum instar, in artificum officinis sedentium, qui
intus reconditas statuas deorum pelle x sua contegunt.
7to6rj^ f oVe6$e t ye/tei. Haud raro mediis interrogationibus
verborum interponuntur secundæ personæ singularis atque pluralis numeri,
quibus provocantur, qui rogantor, ut ipsi uua rem interrogatam iudicent,
atque quid ipsis videatur, aperiant. Hic dicendi usus Græcis haud infrequens, neqæ a nostratium more
alienus est. Duo autem snnt, quæ verbis hoc modo interpositis
efficiuntur: gravitas augetur interrogatæ rei, et alacritas interrogationis
amplificatur. Compluria huius structuræ exempla apud Græcos scriptores
Stallbaumius attulit ad h. 1., Ruckertus ad Piat. Symp. 202. B. d A. A a nat
aqxpovEi oX. r. A. Hæc proYsus conveniant cum Diotiinæ præcepto
laudato a Socrate . B. &vo? ro CcpoSpa rovto^arXdtjoti
xauxppuvijdavra xa\ tfptxpov 1 /yTfddj.iErov. Quæ insequuntur verba ovd
av tiS scribæ alicuius imperitia in ot;dfl? dv mutata sunt, quam
lectionem unus exhibet codex Bekkeri. Alibi notavimus ovSs tls
significare prorsus nomo, de quo significatu sub v. ou6£ ei?. Hæc verba etiam ibi
exhibere amant scriptores, ubi allectatam orationis gravitatem rejvacsenUut.
Possis ea 23 ravrcc t d xzyfiaza ovtisvdg «|t« xal qpag ovdlv
tlvat, tlgavEvi^uvog Se xal icai^av nonna w filov itQog tovg av&ganovg
duratei. tSxovSaOavzog de avzov xal avo iZ&tvzog ovx olda, fi ug e ai pax e
tu ivzog dyalfiaza' a te' lyto ijdi] noz’ tldov, xal fioi 1'do^ev ovza
titia xal SI 7 jjpvtfa «&>» xal ndyxala xal tiavfiudza, Sgzt
nouy h. 1. convertere: nemo gentium. Verba convertit Stallbaumius:
quantopere nemo quis quam crediderit. xal i/fiaS ovSlr
elvat, Ileusdins Spec. Crit. pro r/puS scribendum censuit XlpaS.
Non recte t neque placet verborum conversio Stallbaumiana :
atque nos, qui talia appetamus» nullo in numero habendos censet.
Verba convertenda sunt potius : atque nos, qui talia possideamus,
flocci pendit. Loquitur enim Alcibiades, homo ditissimos atque oxnoium
rerum honore, quas multitudo admiratur, abundans. Qui cum se contemtum a
Socrate vidisset (cfr. 219. A. seqq.), insuetæ rei experientia
motus verba proTert xal rjpaS ovSkv elvat. Sed ne ingenuitatem
Al-, cibiadis forte non agnoscas, animique nobilitatem, TjpaS ovdlv
tlvcn verborum magis etiam, quam nos fecimus supra, lenienda est
interpretatione asperitas. Significare igitur contendimus: omnes, qui talia
possideamus iisque gloriemur, flocci pendit. tlpovevopevoS Si
xal 7t algor, cfr. Cic. de Orat. 2. Urbana etiam dissimulatio
est, cum aliter sentias ac loquaris. In hoc genere Fannius in
annalibus suis hunc Æmiliaoum fuisse et cum Græco verbo appellat eYpojya, sed
uti ferunt, qui melius hæc norunt, Socratem opinor in hac tlpoveia
dissimulautiaque longe lepore et humanitate omnibus præstitisse. Adde
Cic. de off, I. c. SO : de Græcis autem dulcem et facetum festivique sermonis
atque io omni oratione simulatorem, quem rfpoora Græci nominaverunt,
Socratem accepimus, v ta £vt of dyaXpata. Respicit Alcibiades
ad Silenos in artificum officinis sedentes, quos idem dixit 215. B.
8tj (aSe 8totx$ivraS ostendere ayaXpaxa J&ecav. Hinc explicatur
facillime, qui fiat, ut cum drtovSctuai verbo avoix$yvai verbum coniungatur.
Sileni eaim cum aperiuntur, fraus detecta est Silenique nihil nisi
capsulæ esse reperiuntur rerum divinarum. Recte Ruhnkenitis ad. Timæi
L. V. Pl. ayaXpa proprie dici monet quodeunque grata sui specie
oculos delectet. Recte igitur Stallbanmins annotat : ra ivtoS ay aXfiat
a intelligi species illas virtutis in animo Socratis conspicuas. Præter
alios, qui Platonis locum imitati siut, scriptores, idem Ciceronem
laudat Legg. I. 22. Qui se ipse norit, aliquid se sentiet habere
divinum mgenium xiov elvai Iv Pqcc%bl o n xelsvoi EaxgdtrjS-
yyov[itvos de avrov ionovSaxivai iit l r y Ifiy aga Sgficuov yyyadfnjv
tlvai xtu £vTv%Tffia Ifiov &avfiaUTov, cjg vxdg%ov [tot %ttQiaa[iiv<j
Etoxgdrct nave’ ccxovGai, oGan cg ovrog fjdct. itpgovovv yccg drj ini ty i aga
&av(idoiov ocJoi/. zavxa ovv diavoy&als, ngo tov ovx que i
n N s e sunm sicut simulacrum aliquod dedicatum putabit. nai jioi
ido£ev. In aliquot codicibus pro pol legitur Ipoi, quod Bekkerus in
ordinem verborum recepit* Iniuria, ut videtur. Ey g> pronomen in præcedeutibus
verbis necessaria de caussa positum esse, videlicet ut aliis, qui
forte dyaXpaxat io Socrate latentia spectaverint, Alcibiades se
opponeret, extra dubitationem positum est. Sed ideo non necessarium est,
ut et in sequentibus verbis pari gravitate pronomen exornetur. Plane
alio verbo accentus orationis ponendus est, quem si tenaciter in
pronomine posueris atque ipoi scripseris, vide, ne sensus efficiatur ab
huius loci natura alienissimus. Diceret enim Alcibiades holi ipoi i6o&£Y
non alio sensu, ac si opinaretur, esse posse illorum dyaXpdxoov
spectatores, quibus ea non divina, aurea, pulcherrima et summa
admiratione digna videantur. <2sta itoirjr kov o tt xaXevoi 2ajxpdtrjS h. e., ut
illico Socrati me emancipatum censerem, neque quid ego, sed quid
ille vellet, faciendum putarem. Pro xehevot vulgo xetevst legitur. Illud
ex optimis codicibus recentiorum editorum consensa receptam
est. Zppaior fiyrjtfd prjv elV au De Zppdtov vocis significatu
vide annotat. 88. Ceterum Schol. Bodl., quem Kukkertus laudat, hæc habet :
ippaiov ru dnposdowfxor nipdoS ano xcov ir xalS oSoi X anapX&r t aS
ol odoinopot xare65lov6i t 7ta\ yap iv xaiS odols ZSoS ijv ISpvoSai tov *
Eppijv, itap o xa\ ivodioS \iyexai. Quod sequentia attinet noti
evrv Xrjpct ipov SavpadTov, ud hæc verba Riickertas, Duplicem, inquit,
video pronominis explicandi rationem y vel ut in ipov vim inesse dicas,
quod Alcibiades sibi hoc, non aliis contigisse gaudeat j Socratis ut
amorem excitaret: eximiam meam fortunam; vel ut pronomen possessivum pro dativo
usurpatum interpreteris: eximia mihi hoc fortuna contigisse . Quarum
utram præferam, nescio. Neutra nobis placet. EvTV£ipACt ipov eodem
modo dictum est, quo nos dicere solemus: meiu gutes Gluck.
v itppov ovr yap St/. Pro Sij vulgo
r/drj legebatur. Illud fiekkero debetur, qui id ex optimis codicibus
restituit. De ironica 6rj particulæ potestate vide Indices sub v. 6i/.
Rem quod attinet, iuprimis conferendus est locus Piat. Alcib. 1, 104.
A. xa yap vndpxovxd tSoi peyaAxt 23 * EiaQcog ccvtv
axol.ovftov fiovog fisz’ avtov ylyvEG&ai, tote dzozk^zav tov
axbkovftov fibvog (SwEytyvof tyv. B Ssi yap zgog vpag zuma r
afai&ij eItcelv. alia ZQoge%ete tov vovv' neti tl ipEvSofiai, ZwxQccTEg,
l£tisy%sCWEyLyvo^rjv yap, avdgtg, pbvog povco, xal (pjirjV avTLxet
diakli;E<f&at, avtov poi, cczeq dv Igatityg zaiducolg iv igrjpla
diaXz%%Elri, xcd tyaiQOV. tovtov 6’ oi3 pdl.cc lylyvETo ovdiv, alti uszeq
zlvjftzi, Scateri vai, gq$T£ jiijSevoS SettiSaif ano tov dcopazos
dp&apsva xsÆvtgovtci eis xrjv iftvxrfy ' olei ydp 8 i/ elvat npootov
per xaXkitixoS te xal pkyi6xoi* xal xovxo fic v 8 ?} navxl drjXov
iSalv, uxi ov ipevSy. 07 *x eImSgoS dv ev cixoXovSov povos per*
awxov y. Hæc verba ne falso interpreteris) Alcibiudemqæ forte statuas
solum Socratem ita convenisse, nt semper tertius adesset: Athenienses ditiores
domo non exibant, quin servam sccum ducerent, qui, si quid opus
esset in via, id curaret. Hinc factum est, ut Alcibiades quoque tum
ad alios, tum ad Socratem nunquam solus accederet, sed semper
pedisseqnunt una adduceret. ansp.dv
SiaXsxS Opinabatur Alcibiades, Socratem talia sibi dicturum
esse, qualia soleat, ubi solus sit cum amasio, umator dicere, atque
vehementer gaudebat. Gaudii caussam expressam habes verbis p, 217. A. 6
j? vndpxov poi x<*pitiapkvco 2coxpdz£i it dive axov dat, udanep ovxoS y8et.
Solebant enim amasii amatoribus gratificaturi obsequii præmia sibi
expetere, neque se dare, nisi, quicqnid expetiexint, consecuti
t essent. Cfr. Piat. Menon, 76. B., ubi hæc
leguntur: M. aXX f insi8dv uot <Sv tovt 9 tinyS, oo 2rixpateS,
ipdS 6oi. 2. xdv xaxaxExaXvppkvoS nS yvotr/, oJ Mevgjv,
StaXeyo pkvov 6ov, oti xaXoS ei, xal ipadxal 6oi hi eldiv . M. tl
8?}; 2. oti ovdlv aXX* rj inirarteiS iv roiS XoyoiS' unsp
noiovdiv ol t pv<p<5vTES, UTE tvpavvEvuviES, ccdS dv iv g opa
&)6iv. aXX* c SfnEp eIgjSei, 8ia\£X$£ } iS [av] poi ctmc ov. Annotat Stallbaumins ad h. 1.
: Pertinet, inquit, dv particula ad universam sententiam
ideoque connectenda est cora verbo principe enuntiati coxeto, ita ut
indicet actionem sæpius repetitam: solebat identidem discedere, de quo
loquendi genere optime disseruit Rostius Gramm. Itaque non est quod
cum Astio corrigamus arra poi, aut cum uno cod. Yiudob. dv
deleamus. Perscripsi
integram viri doctissimi annotationem studioseque legendam Symposii lectoribus
commendo. Nobis quid do sr. jrfolg [ av ] fwi 6vvt]{iiQtv<Sag
(yycro (\xiav. (itra ruvra GvyyvfivafcGdcu trgovxaj.ov/ujv avzov xai G
wt- c yi>y,va£6[t>]v, Sg x t ivrav&a mouvcov.
Gvvcyv(ivatcro ovv (io i xai XQogimi/.aic itoXlaxis ovSsvog
nuQovzog. xca tl Su kiyuv ; ovSev yccQ /tot itltov ijv. InuSi/ dh
ovSccfiij ravTij tjvvtov, ido^i /tot tzi&txiov eivctt rei ctr6pt xaza
ro xagzeQov xca ovx avtttov, lnu6i)xtQ iy/.iyiiQr[xr}, akka iaziov IjSt],
ti ian ro 7CQayua. tcqo o hoc loco videatur, si quæris, hoc est: Contra
Alcibiadis voluntatem contendimus esse istud : solebat identidem
discedere, quem haud verisimile est, cum, quod speraret, sæpius non
evenisset, quoties cura Socrate congrederetur, toties exspectasse
avtixa SiaXeZedSai avrov x. t. A. Etenim quem sæpius spes frustrata
est, is sensim sensimque ei diffidere solet atque lætissimam, quam antea
habuit, exspectationem ex animo removere. Igitur si sæpius rem illam
factam accipias, vereor, ut etiam xai ixaipov verba satis bene
habeant. Verborum ordinem quod attinet, dv particulam eo loco positum
habes, quo minime exspectaveris, Iam cum necessarium non sit, ut res ab
Alcibiade narrata sæpius facta esse cogitetur, eius autem
repetitio cum singulis ALCEBIADE verbis no conveniat quidem satis,
nihil veriti codicum auctoritatem, quos in falsissimis interdum
consentire vidimus, av particulam uncinis includendam curavimus.
tivyyvfivacledS at itpo vHaXov pijv avrov . Vide quæ annotavimus ad
verba xai 7 } ye <ptXo 6 o q> ia ed.p. 101’. Rem quod
attinet, semel fastam esse contendimus. Nam quod paullo infra
legitnr TtpoZfitu.A ais ito7(\axiS ovdevoS napovroS, ita intelligendum est,
ut, dum GYMNASTICA cxerceicnt Socrates atque Alcibiades, sæpius non
aff uisse docearis, qui una se exercerent aut luctantes spectarent.
xai ti deiXiyBiv, IJac formula dicendi uti solent, qui sunt
animo commotiore, remque sibi injucundissimam quam fieri potest
paucissimis verbis enarrare cupiunt. Accentus autem orationis in Xkysiv
verbo ponendus est, quod prægnanti significatu positum idem fere denotat atque
doXtxov xataxtl VBiv tdv A oyov. Quæ sequuntur verba ovdlv yap poi :
nXiov rjy, recte Stallbaumius interpretatur: nihil enim pro
ficicbam. xa\ ovx iit e tSijit e p lyx£X&ipVxy. Hæc
prorsus conveniunt cum verbis supra lectis 216 0 aAXa iym 6yXadcJ,
izeinep i/pbdptjr, ad quæ verba vide auuotut. S50. aXXd idt
iov IjSrj ti idti to itpayya. Solent haud raro Græci scriptores
commemorato eo, quod faciendum sit, additoque, quod non faciendum
sit, 358 nAATSINOS xcriLovfiai Stj
ccvtov ftQog zo GvvSukvhv, dzc^yag togitCQ ipadzrjg itaidixoig ImflovtevQV. xat
fioi ovSe D zovzo za%v vnfjxovGtv, ofiag S ’ ovv %Qova indaftrj.
ixudrj da atplxtzo to xquzov, Semv/jGag andvai Ifiavltzo. xal tote fiav
ai6xvv6iuvog dcprjxa avzov. av&ig da ijctflovAtvGctg, httiSt]
idcdiixvyxu, SisXsyofitjv 7 to(i$o) ztZv vvxzav, xcii IzEiStj tfiovhEzo
ajrta quasi, quid faciendum sit, non commemoraverint, id verbis
paullisper immutatis atque aXXa particula adhibita oppositionis augendæ gratia
repetere. Idem igitur significant verba £8o£ii pot iniSexkoy elvai
rw avdpl xat a to xapzepoy et IdxkoY i)8tj t L idn to itpaypa,
Exemplum est huius structuræ 210. O. pexa Sk toL imrrfdsvpocxa hei
xaS iiet6xt}paS ayayeiv, %ya i6y ctv imdTrjpcjy xaXXoS xai
fiXkncov itpos txoXv i/Stj to xaXdv pijxkrt to nap M Qtyanory d A A.* liti to txoXtj itkXayoS
xexpappkvoS x. T, X . Wyttenbachius Bibi. Crit. V. I. I. scribendum
coniccit aXX Itiov hti to itpaypa, quafc scriptura eo nomine nobis
improbatur, quod cuiu præcedentibus verbis, quibuscum convenire debet,
poi iitiSerkoy eirat rcJ dvdpl xaxa rd xaprepov, multo minus,
quam aXXa IdxkoY t/St}, tI idn to itpdypa f consociutur. Idtkoy verbum
quod attinet, ub Idtiv derivatum esseceoseut iulcrpretes, ut seusus sit;
videndum est, explorandum est. Vide Butttnuiini Grarnm. ampl. Nobis «b
tidkycn semper derivandum cs»e videtur, neque tamen sciendum e * t recte
converti. sed faciendum est, nt sciam. Vide annotat, 207«, 169.
al. vSitep ipadxijS 7 t aid txojs kitiPovXevcov. cfr. 213.
C. xal xov 2coxpaTTjj do 'Aya^cov, cpavai, opa, et pot InapwiiS' ce? ipdl
o TOVT0V ipcoS xov av^pooitov ov (pavXoy Ttpaypct ykyover x.
T. X. t quæ verba nostris expiicautur. Xpoyco, quod sequitur est: multo
tempore præterlapso. rd TTpdoxov, dsinvifdaS. Olim posita
ante T o TtpdxTOY distinctione hæc verba cum sequentibus iungebantur . Quod
ita recte fieret, si semel venisset Socrates atque tum initio
quidem abire post coenam voluisset, postea vero a proposito destitisset
. Quum autem tum revera discesserit, fuit utique ita distinguendum, ut
Jactum est inde a Bekkero, llitckert. It 6 (i f> 00 TQOV Y v X T
00 V h. C. in multum usque noctem* cfr. Piat. Protag. 310. C.
xai Ixi per iyextlprjda evSvS napd dh levat, 'intixd poi Xiav
nopfacd £8o£e zdoy vvxxuv elvai, ad quem locum Stallbuumius laudat p, ed.
24.1 Æschinem adv. Ctcsiph. $. 122. for} 6h 7tO{5()u rijS r)pkpa$
ovdrjS* Ceterum ne vcu, <Sxt]m6(iEvos, ou otiis tirj,
XQOSTjv&yxaGa avtov fiiveiv. avtnavtro ovv iv rjj ixo/iivy ijiov xMvy,
iv yitfQ IStinvu, xai ovSslg iv ta olxrjfiau tiklog xa9tjijSsv rj ijfis
ig. ^XQ 1 ovv Sij Ssvqo tov bbyov E xaXas ccv %ot xai tcgog ovuvovv
Xtytiv tb 8 ’ ivttv&ev ovx av nov rjxovGcns Ityovxog, tl (ir/ xqwtov
( iiv, tb Xsyofievov, otvog avsv ts acudcov xai fisxa pluralem
numerum mireris, vvhteS non noctes sunt, sed horæ nocturnæ, de quo significatu
vvxxeS yocis vide Stullbaumii annotat, ad Piat. Phileb. 158. Quod
sequitur xai inEtdi) ifiovXexo dnikvat, eodem modo, ut præcedens amkvai
ifiovkEto non convertendum est: abire volebat, sed velle se abire
dixit. Vide annotat., * t dxrjnx optv of, ori eXrj. Timæus
habet L. V. Pl. ^MjittOfiEvoS. npoq>adi^6pevoS. Kecte. Etenim
qui ipse non habet in se, quo aliquid probet aut excuset, eum niti
oportet in re extrinsecus petita, h. e, npotpadet rivi iv ty lx»
/tcvy l)iOv xXivjf. De horum verboram SIGNIFICATA supra dictum est
annotatione. ct 334. Præter locos illic commemoratos confer etiam R. Kubnerum
ad CICERONE, TUSC. DISP., ubi laudantur Pind. Olymp. I. init. prjd'
'OXvpniaS ayaya (pkpxepov avdddopev ibique Boeckhii annotat, 104., CICERONE
(si veda) T. D. I. 1. $. 2. : quæ tam excellens in omni genere
virtus In ullis fuit, ut sit cum maioribus nostris comparanda
? xaXtiS aif A kyetv. Scriptum exspecta veris primo obtutu
naXdjS av Hx<n ojSte npoS ovuvovv Acxxkov elvai, Kai pro gjSxb posito
vario modo verba explicari possunt. Facillima explicandi ratio videtur ea,
qua post xai, Eivat verbi optativus subintelligitur. Optativum autem sty
recte omitti posse contendimus tura, quum antecedit, ut hoc loco,
alius verbi optativus modus, ex quo ille facillime eruitur.
Explicatius igitur enarrata verba audinnt: pkxpt pev ovv 8r) Ssvpo tov
Xuyov xaXdtS dv %x ot C° iX eyov) xai eltj npoS ovxtvovv Xkyeiv
. itp&xov filv, olvoi avev x £ naid&v xai pexa
ital8a)V r/v «A tj $ r}$. Vetus proverbium : olvoS xai aXjfSeia, ad
quod hic respicit Alcibiades, Cfr. Athenæus II. 37. E, $i\6xopo$ 8k
tprjdLV, oxi ol niyovxeS ov pdvov havxovS kpipavlB,ov6tv ol xivkS eldiv,
aXXa xai xgjv dXXoav txadxov dvaxaXvitxovdi, na/ifiqdiav ayovxes. oSev
Oivof xai d\?}$eia Xkyexai . Idem II. 38. B. Anr tiphanis versus
laudat hos: Kpvtyai, $eidia, anavxa xaXXd xiS dvvatx* dv,
nX?}v Svoiv olvov xe nivoav eis ipoora t*
kpitEdQJV. 1 itaiSav jv dXy&js, imita &<pa V l<Sai
ZaxQutovs %ov vKQfoavov el s imuvov U&ovza &6ix6v fiot
tpalvezui. apcporspa fiTjvvEi ydp dito tc2v (3\EUpd.TGDV
7ca\ to5v A oyaov rav$\ g)$te tovs dpvovpivovS fia\l($TGL
roVTOVS XatCKpaVEiS avrovs iroieiv . Schoh præter notissimum oivo
S Tioci aXrjSsia, quod dici ait £n\ t<uy iv fteSj/ x t}v
ciXt/Seiav Acyovrcov, alterum proverbium laudat : ro £v ry xapSine rov
v?jq>ovroS ini ry yXd>66y rov pt&VOYTOS, Illud proverbium nostro loco
ita laudatur, ut verba addita sint dvtv re naldcov xal pexa
Ttotidooy, quod additamentum vera crux fuit interpretum omnium, Ficinus
habet: Vinum «t cum pueritia et sine pueritia est veridicum. In
conversione Schleiermacheri legitur : Bis hierher nnn kdnnte man die
Sacho noch unbedeiiklich iedermann ersahlen ; das folgeude aber
wiir— det ihr wohl nicht von mir Jioren, tvcnn nicht zuerst
nach dem Spriichwort der Wein mit o d e r ohoe Kinder die
Wahrheit redete. Prorsus eodem modo Schulthessius verba reddidit hoc
tantum a Schleiertnacheri discrepans conversione, quod naidoov nomen
Knaben convertit. Stallbauniius verborum sensura esse ait: vinum
efficit, ut verum dicatur, sive PUERI epuli s intersint, sive noa
intersint; h. e, virium non pueros tantum, sed alios omnes n d
verum proloquendum s uC1 tnt. Aliter nobis videtur de limus loci
explicatione statueudum'esse. Accurate tenendum quæ hio narret
Alcibiades, ea ita proferri f ut errores exponantur auditoribus, in quos
ille olim inciderit, et quibus præsenti tempore non amplius obnoxius sit;
Colligitur hoc cum ex «diis locis, tum e verbis p, 217. A.
yyovpevoS 8'e av rov £<jnov8axivai fnl ry £py d/pa Bppaiov
?}yrj6dp?/v elvat x. r. A. fieri autem solet haud raro, ut aliquis,
quem dirus error olim vexabat, ubi ab eo 'liberatum se sentit, ipse
in errorem illum quodammodo illudat. Neque pugnat hoc cum æstimatione ea,
quam, qui nunc vivant, significantius quam rectius, egoismum
vocant. Nam qui erravit, errorem autem agnovit atque correxit, is magna
cura hilaritate animi alium, atque fuerit antea, se nunc esse intelligit.
In errorem igitar illudens aliquis, cui olim obnoxius fuit, non tara in
se illudit, quippe ab errore liberato, quam alteri illi, qni errore
devinctus fuerit atque qaasi obcæcatus. Non mireris igitur, Alcibiadem
ipsum sibi illudentem induci verbis 217. A. Itppovoyv yap 8 rj ini ry copæ
5avpadtov u6ov y neque mirum, eundem etiam verbis olvoS av ev re 7t ai 8
cov x al pera itai 8 cjv tjv uXrjSpS gravius in se invehere. Respicit
enim ad errorem illum Alcibiades, quo existimabat, fore, ut servo
remisso, quem secum habere solebat, Socrates opportunitate loci
gavisus ad AMATORUM modum secum colloqueretur. A. ravra ovv
SiavojjSets, xpd rov ovx eIgjS&S avtv axoXox>$ov pavos pet
avrov yiyvEdSai, tore unant pnw %av dxoXovSov poht bl to rov
8q%&tvtog vito rov cos sea9og v&\£i t%u. (patii yaQ itov rcvcc
rovzo itu&ovza vix iftiktw voS Cweyiyv6f.n]v. tivveyiyvoprjv
yap, jiovoS juovWfXal difirpr avxlxa StaAl^euSai avxov ficn aizEp ctv
ipatinjt naidixoiS iv iprjpia diaXexSeirj, nat Hxaipov. Ad hanc
igitur rem respicieus, cumque errorem tatis lepide taugeus,
Nunquam, inquit, hoc ex mc audituri essetis (j&v vxovtiart)
si proverbio illo vinum, quod neque præsentiam neque
absentiam servorum curat, non esset veridicam. litEixa a<p av
l6ui epalv erat. Cum præcedat eI pi} Trpwzov pev r\v, scriptum
exspectaveris btElxa aStxov /tot
itpaivero. Cavendum est autem, ue quis loquentis scribentisvc
uegligentiæ imputet, quod augendi sententiæ yigoris caussa commissum est,
ut incepta verborum structura relinqueretur. IlpGJTov plv iVrczxcl hoc
loco Lat. vim habet: c u m tum potissimum, istud potissimum autem
mutatione structuræ efficitur. Ceterum dtpavidai verbum minus
«apte 8ch)eiermacheras reddidit: verbergen, neque rectius Scholthessius:
verhehlen. Aliud quid Alcibiades atpavidoti verbo expressurus erat.
Facinus illud nemini nisi Alcibiadi atque Socrati notum, neque verisimile
erat, Socratem quidem cuiqnnm eius narrationem facturum esse. Intolligit
igituf Alcibiades, rei memoriam prorsus perituram esse, nisi ipse
eam divulget. Iam dcpavtunn verbum quid significet, inteliiges. Est enim,
quod nos dicimus, etwas der Kenntniss der Welt giiuzlich s entziehen.
Ad V7CEprj(potvov Uuckcrtus ; vnepij<pctvov, inquit, voci h* 1.
grata quædam ambiguitas est ab eaque persona, quam hic Alcibiades agit,
minime aliena. Homo enim, qui sentiret quidem veritatis vim, quæ ad morum
honestatem spectat, at uon agnosceret, ne se cogeretur accusare, nonne
Socratis hoc facinus poterat pro superbissimo habere? immo debebat, qui
tantam suam pulcritadinem tam foede contemaisset. Ne multis hanc
sententiam perstringam, quæ meo quidem iadicio falsissima est, ct
qua prorsus pervertitur scriptoris consilium, verba laudare sufficit 217. A.
i<pp6vovy ydp tir) ini xjj &poL Savjiddwv odov.
iri 6'e r 6 rov drjxSirXoS x. x. A. Triplex caussa est, cur
Alcibiades cum convivis impertiendum censet, quibus modis Socrati sit
insidiatus. Vini hausti vim veridicam iu superioribus commemoratam habes
atque augendæ Socraticæ laudis studium. Tertio loco viperæ morsus
commemoratur, quo ct sd laborasse Alcibiades narrat. Nescimus quidem,
quid facere soleant atque loqui, quos Vipera momordit. Non dubium est
autem, quin Alcibiades eos iusuniu quadam corripi significet, qua
circumacti et agant et loquantur, quod sanis hominibus non possit
non mirum videri. Et qneniam ipsum se gravioris viperæ morsu 218
Uyuv olov r\v itXrjv roig SiSr^y^ivoig, wg f. tovois yvaOofitvo Jg ze xal
OvyyvatSoutvois, el itixv izoXfia &quv rs xul Xiyuv vito rijs odvvtje
• ly® ovv Stdtjyu,tvos ts vito ttXyuvoziqov xcii ro aXyuvozczzov wv av
ttg Sij%9sli] z rjv xaqdtav yug r; ipv^tjv tj o zt Sei avzo
vvouaOta xXtjyels zs xal S>ix&tls vad zmv Iv (fiXoColæsuro indicat,
vehementiore insania se circumactum describit, qua fecerit atque locutus
sit, quod paullo infra exposituro habes. Morbo igitur, cui obnoxius
fuerit, facta et dicta excusatum iri sperat convivis, quippe qui
eosdem illius morbi dolores perpessi sint. Qui si non perpessi essent,
nunquam se commissurum fuisse, ut ipsis illorum narrationem exponeret,
iyoS ovv SeSijy pivoS" x. r. X. Stallbaumium audi
egregie de horum verborum structura disserentem : Anacoluthia,
inquit, prorsus egregia et rei ipsi accommodato, quippe quæ
loquentia impetum animique commotionem, qua de illo dolore loquitur, plane
exprimat et veluti imagine aliqua repræsentet. vxo dXyetvor ipov
xal ro dXystror arov, Suspecta nobis est xai vocula, quæ quamquam
explicari potest, tamen, quod vehemeutissimæ orationis impetum paullo
impeditiorem reddit, huic loco minus convenire iudicamus. Amant autem
veteres commotius loquendi genus edituri copula addita nulla verba
iuxta ponere, qualia sunt vno aXyeivozepov ro dXyeivozazoY. Interposuit,
si quid video, >caL, qui desiderabat, quorsum præcedens re
referret. Dicturus autem Alcibiades erat: iya o&v 6e6rfy pevos re xal
nenXtiyplroS vno dXyeivozepov ro dXyeiYOtazov X. r. X.j sed mutata
inter loquendum voluntate xal nenXijypevoS vetba reticuit, atque iis
sequentibus exhibuit nXrjyeis re xal An fortasse rectio rem verborum
juncturam censes esse : iyco ovv bedrjypevoS re xal nXi/yeis re xal 8rjx$ets ? Non crfdo
equidem, ideoque, ut quid rectius esset, interpunctione rectiore
legeutium oculis indicatum sit, post ovopadai comma ponendum
curavimus, xi] y xapdiav y a p ovo patiat. Sensus est: Die Worte des
Socrates erregen einen unerklarbaren, heftigen Schmcrz : man weiss nicht,
ob mati korperlich oder geistig oder wie sonst leidet: gewiss ist
nur das Geftihl der Verletzung und der Zerrissenheit,
o*l ^ovrat x. r. X.*Exovrat verbum ne careret casu suo, Rostius V.
D. comma delendum censuit post dyptcozepov, idque post aqwovS
ponendum curavit. Quo facto vide, ne orav XdfiooYtat verba' admodum
frigeant. Neque necessarium esse contendimus, ut Ex £( 5$ at verbum,
ubi firmiter inhærere SIGNIFICAT, rem, cui inhærere aliquid
dicitur, semper adiunctam habeat. Græci eodem modo atque nos :
Welcheschreck(pia Uyav, o'l fyovm i%i8vt]s aygiditEgov, vlov Iwyjs (ii]
acpvov s oxav Adfiavtcu, xal itoioiiai i)gdv te xal Hyuv ortovv xal ogcSv av QcdSgovs, ’Jya9covas,
’EQv£iud%ovg, JlavGavlas, 'jQiazodrjuov? te xal ’Aqi- u crocpuvag' EaxQar
rj fil avrov r t SeI xal Xiyuv, xal oooi aAAoi ; xavces yag XEXOWavqxcnS
xrjg qwloOocpov lichcr ais Nattern haften, w e d n sie einmal orst
an einem iugendlichen Herz e n Anhalt gefunden habe n .
xaVApidxoqxxv aS. Vulgo 'ApidxotpdvEtS legitur. Illud cod.
Bodl. habet, idque cum Grammatici præcepto convenit in Bekheri Anecdot. III. 1131^1
81 xal xovxo yirudxEiy, Zti ol \ Axxixol iiti xd)V Eis 7/?, eis ovs
i*oVr cor x ?}v yEvixrjy, xal iic\ xqdv xcqjct x 6 E$oS 8ia x ov a
icoiovdi tfjr alxiaTixrjv xooy nXrj^vyxixcoy, olor 6 Ar\yLOd^brt\S, x ov
drjpod^ivovS, xovS drjpiodSiyaS, o ’Aptdxo<pdvrfS, xov *Apidxotpa
yot;?, xovS *Aptdxo<pdvaS .Nomina propria prorsus eodem modo plurali
numero poni censet Engelhardtus ad Piat. Menes', ed. 204., quo nostrates
haud raro de singulis viris loquentes plurali numero utantur.
Hoc recto quidem annotatum, sed inde nou iuteliigitur, qui factum
sit, ut et Græci et nostrates singulorum hominum nomina plurali numero
exhibeant. Neque tamen diu quærenda est huius dicendi usus caussa.
Brevitatis enim studio ut Græci, ita nos pro: indem ich Manuar
sehe, wie Agathon, Eryximachu» cet. dicimus omisso verbo, quod
plurali numero positum est, atque ipso illo uumero ad nomina propria
translato : indem Ich Agathone, cet., sehe, Scoxpdxrj 8%
avtovXiysiY. Ne mireris, cur Socratem hic commemoret Alcibiades, nbi non nisi
eorum mentio erat facienda, qui eodem modo atque Alcibiades
Socratici sermonis aculeis læsi sunt : Alcibiades hoc agit, ut ostendat,
se nou nisi cum iis mala, quæ perpessus sit, impertire, qui ipsi
iis obnoxii fuerint. Iam cum recenseret omnes, quos sibi socios putaret
morbi illius, Socratem forte conspiciens, quid istunc, inquit,
commemorem, morbi auctorem? Ceterum versus laudare iuvat petitos ex
epigrammate Meleagri, quibus Diopysii alicuius amator non nisi eos
alloquitur, qui ipsi amoris flammam senserint ; Meleagr. Epigr,
"WvXpOTtOtai 6vSEpCOXES, vdoi <p\oya x r/y
cpik6%ai8a of3are, xov mxpov yevda. flEVOl flijLlXOS, Ipvxpoy
vdcop yiipaif ifryxpoy, xaxoS t ctpxi xccxEidrjS lx zioroS xy ‘MV æpl
xpaSiy. Quibas auditis omnes, qui non auiant, hominis insaniam
ridebunt videlicet frigidam sibi circa præcordia circumfundi
iubentia. tijS <pi\o6oipov pavias XE xal ftaxxdaS. Hæc
verba fiavlag te mu (iety.ydag' Sio ftdvtES uxov6e<S9e.
avyyvioOEO&E yaQ Toig rs tote tcqc<x9eIoi xat roig vvv
Xeyo[tivoig. ot da olxircu, xcil il' r tg «AAos toti /ti-fiqP.og te ) icti
dyQoixog, avlag nuvv fisyteXag roig wtfiv
fatl&tif&t. 'EheiSi] yaQ ovv, io kvSqeq, o ts kvyv og C xei,
xal oi nalSsg a|(u rfiav, ?do|s' ftoi XQtjvai fit/div xomU.Eiv noog avzov,
akV tAao^aowg eixeiv d f wi præcedentibus explicantur.
A. nXrfyeis re xal fo/jfSeis' vito rav iv <pi\o6o(pioL
Xoycov, ol SI ohikx cli x. r. A. Cum in superioribos dixisset
Alcibiades. E, vinum veridicum esse sive servi narrationi intersint, sive
non intersint, nunc rursum servos iubet aures occludere, ut ne verbuqi
quidem audiant, Num forte sibi contradicere censes hominem ebrium ? Non
credo, # quamquam contradictionem verbis inesse non negamus. Notum euitn fuit
Alcibiadi quoque, quod Ovidius ait: Nitimur in vetitum semper cupimusque
negata, atque ut magis pateat, vinum etiam servis præsentibus
veridicum esse, servos, quos tibi finge arrectis auribus adstitisse
cupidissimos audiendi, ne audire velint iubendo, ad audiendnm alacriores reddit
atque paratiores. IIoc efficitur etiam eo, quod ad versum Orphicum
Alcibiades respexit : cpSeyZopai ols SifiiS fori • S vpotS S*
iitiSetiSt (tiftrjAoi, qua re animadversa quantam omvuiuin ctuses luis .e
exspectationem futuræ narrationis ? yijSlv TtOtxiXXElY itpoS
avtov. Vide annotat, tibi de icoixiXoS nominis significatu dictum est.
Possis itotxiXA elv li. 1, explicare : non obscure, quod Stallbaumio probator,
sed ambigue loqui, quaudoquidem varii coloris oratio ita comparata est,
ut quem colorem habeat, nescias, et quouiam huiusmodi oratio comploret
colores, qui cum significationibus comparantur, repræsentat, complures
significationes habere h. e. ambiguam esse recte dixeris. Facile autem
iotelligi potest, qui colorem cum Significatione orationis veteres
comparaverint. Ad consuetudinem enim respexerunt AMANTIUM, qui
floribus arte consertis sibique invicem missis exprimere solebant,' quod
claris verbis indicar metus prohibuit aut pudor. Non obscure anlem
floribus missis, sed ambigue, quid vellent, exprimebant, vel nihil
omnino, ut videtur, exprimebant, sed e modo atque ratione, qua, cui
miserunt, is flores exciperet, missos 'm idoxn. xal UTtcrv xivyGag
avzov. UtixQaz tg, xcc% tvdn$ ; Ov
drjza, ?; d’ osOlo&cc ovv a (101 6 tSoKica ; Ti (laluSza ; i'ipy. £v ijiol doxus, >}v
d’ iyto, ifiov igaOrris a^tog ytyovivai (lovog, . xal (ioi (palvu
oxvstv /avt;(>&t]vtu xqos fic. lyd> 81 ovxaoi i/to' mxvv
dvoryzov yyov(iai tlval 601 fiij ou xal zovzo XaglfcO&ai xal tl' xi
alio fj xtjg ovGiag xrjs tuijs dtoto y xav (pllav xav Ifiav. ifiol (ilv yccg
ovdtv lou, xge- D GjivxeQov xov a>s oxi fiilx usxov ifis yivLo&ai,
zovxov 8 ’ olfiul (io 1 OvllrjitzoQa 0 vSivu xvquozcqov ilvui Gov.
iya 8y xolqvuo avdgl itolv (idllov dv (iy %uql£6[ie qæ interpretaretur,
voluntatem eius explorare solebant» xal einov xivf/das avxov.
De xiveiv verbi sicnificata vide annotat, 29., ubi etiam hic locus
laudatus est. xi paXidx a ; Itpr/. Ma Xtdxa interrogationi additum
efficit, ut is, qui interroget, curiositatem prodat sciendi, quid sit id,
quod modo audiverit, aut quo sensu dicatur, cfr. riat, Menon. D. 2.
7tcf vovpyoS e 1, cS Mlvcjv t xal 6X iyov iZTjTtdxrjtiaS pe. M. xi
pdXidxa, c3 2ooxpaxt5 ; xai poi tpaivei oxvelv pvT/dSijv ai
icpds pe. cfr* Alcibiad. I. init. 2. nai KXei viovy olpaL <Se
SavpaZeiv, oxi 7rp(Zxo's ipadx?js dov yevope~ voG y xcjy aAAcov
nexccvplvcDVy povoS ovx ctnaXXdxxopai, xal oxi ol plv dXXot 8t
o^Aot» iyevovxo 6ot SiaXeyopevoi, iyaa xodovuov ixcov ov8l irpoZ~
einov. iy co 81 ovxcodl 7t:dvv avo?/ xov . Præclare
Stallbaumius ad h. I. : Quæ inserviunt, inquit, explicandis verbis ovxcodl
&X 60 j ea de more advvSixcoS adduntur. Quam loquendi
rationem, quum nou tenerent grammatici, pro scripserunt, quod in
vett. editt. migravit. 6v8iv Idxt xpedfl vxep ov . Mihi
nihil antiquius est, proprie : nihil, cui malim primi loci honorem
concedere, quam huic. Vide annotat, 128. xovxov 8’ olpal
pot dvXXi/itxopa x. x. X. Sensus est : neminem esse rcor, qui
mihi integræ huius reiadiutor te sit potior. In oinuibus fere
codicibus pov legitur pro poi, quod Stallbaumio unice probatur
propter structuram dvXXtxpfiavEiv verbi* Coniongitur enitn plerumque
cum genitivo rei atque cum dativo personæ. Hiickertus dativum
pronomidis cum elvai verbo cohærere censet. Dativus pronominis commodi potius,
quem vocant, dativas est, atque recte ad totum verborum complexum
refertur. Apposite Stallbaumius vog al6yvvotfirjv tovg (pgovipovg, rj
%agi^6pBvog tovg tb itoXXovg xal acpgovag. Kal ovtog axovdag pdXcc
tlgovtxmg xal Gcpodga lama slco&otag IXb^bv * f Sl {pile ’AXxifhadr]
9 xivdvvivug ta ovrt ov (pavXog dvai 9 E bixeq abj&ij tvy%avsc qvxcl
a A iysig xegi epov, xal t ig i(tv* iv ipol dvvaptg, <5V qg dv dv
ytvoio dfislvav, dfirjxccvov tb xaXXog ogarjg dv Iv Ipo i xal vijg
xaga dol BvpLOQ(plctg itapnoXv dcafpegov. il dfj xa&ogriiv avto
xoivaGadftai %b poi im%eigeig xal aXXd£aGftai xaXXog dvxl xiXXovg y ovx
oXiycp pov xXbovbxvbiv diavoeZ, iXX laadat Xenoph. Memor. II. 2.
12* ira ctyaSov doi yiyvrjxca dvAXt/nz&p* i
dprjxavov te xdWoC op gStjS a y . Locus admodum salebrosus, quem
sine novorum codicum accessione nunquam ita restitutum iri puto,
ut, quid Plato scripserit, legere tibi videare. Ia Bodleiano cod.
aliisque perpaucis pro re legitur roi, Aid. Bas. alii non pauci rl
exhibent, quod Bekkerus recepit colo post a/uivGov posito. Aliam rationem
Schleiermacherus iniit, qui dpijxavdv te cet. verba cum præcedentibus 8i’
rjS dv dv ykvoio ajxeivgdv connectenda censet hoc sensu: wenn das wahr ist, was da von mir sagst,
und es eine Eigenschaft in mir giebt, durch welche da besser werdea
konntest, und dann eine gar aonderbare Schonheit an mir erblicktest, die deine
Wohlgestalt um gar vieles ubertrifft. Stallbaumius veterem lectionem, h.
e. zl 9 retinendam ceoset eamque distinctionem singularum orationis
partium edidit, ut verba dpTjxavov te cet. e prægresso ehtep aptentur.
Sententiam verborum hanc esse ait: videris profecto non contemnendas
esse, si quidem vera sunt, quæ dicis de me, hoc est, si in me
vis quædam inest, quæ te reddat meliorem atque cernere in me potes
et conspicere immensam p ul cr i C ud i ne m tuaque formositate multo præstantiorem.
Recta Stalibauraium via incedere mihi quidem persuasissimum est, sed est
tamen, quod me male habeat; av particula cum ei potest quidem coniungi,
uti docueruut, quos /itallbaumius laudat, Schæferus Melett. Critt., Apparat. ad Demosth., Schneiderus in Addoud. ad Xenoph.
Politic. 472., Heindorfius ad Protag. 535., Hermannus ad Vig. 830., sed admodum
dubitari potest, num ea hoc loco Plato usus sit, ubi verba præcedunt
6i' tfS dv dv yivoio apeivov. Quis enim non videt, av particulam, quæ in
his verbis comparet, facillime ad nostra verba transferri potuisse
? avtl 6 6 $tjS aXr}$ eiav HtzXcovh. e., Stallbaumius inavr\
tioJ-rjg aAqfteiccv xuAcov xx aoftai iiti%siQBig, xal 210 tg) ovrt %qv
6sa xaAxetav dia{ts[ps6ftca voslg. &AA’, cS fiaXCiQLE,
ttflBLVOV tiXOTCEL, (ITJ 6 £ AavftaVG) Ov 6 iv G)V. ij rot rrjg
diavoiag oipig aq%ttai o£i fiAixsiv, oxav tj tixiv dppaziQV tijg dx^iijg
Aqyuv liuxsLQy* <5v di xovrav Hxi Jto$QCO. Kayco axo v<Sag> Tct fiiv
tcccq* Ipov, i(prjv, tttvz 9 Itixlv, ©i; ot5(5«> aAAag Bifnjxai tj cog
diavoovfuxi ' 6v di avxog ovxgj (IovÆvov, o n OoL xs &qi(5xov xal
ifiol rjyBt. *Ak A f y £cprj y xovxo ys sv AiyEig. Iv yCCQ
TG) IsUOVU ZQOVCp POVÆVOIIEVOL TCQa^OyLBV o Sv qnit, arx\ xaAdav,
a 8oxd xa * A a elvai, xxadSai imxeipels xa A*r, a l6xiv aJs aArfScoS.
In proximis alludit ad Ilom. II, «?. t. . m Ev$r* avte
FXavxcj KpoviSjjS (ppira* i&iÆxo ZevS ds npoS Tvdeidtfv 4i
o/u/Sea xevx** upsifie Xpvdea x a Axei&v 9
hxaxopfiot ivveapoicov. r\xot x ijs dtavoiaS oif>iS
X» X. A. Errant interpretes, qni potant, verbum reperiri vernaculum, quod
xoi vocabulo respondeat. Neque probem, quæ Stailbanmii sententia est,
ailirmandi vim et significationem habere xoi vocabulum in sententiis
communibus. Significat potius, sententiam, cni additum sit, communem
esse, eamque ideo et alias et nunc valere. Rectissime Schleiermacherus
spretis vocabulis, quæ xoi particulæ respondere arbitrati sunt
interpretes, j a, j a doch, aliis, verba reddidit: Das Auge des
Geistes f ii n g t erst an scharf zu sehen, wenn das leibliche
von seiner Schiirfe schon v e rlieren willj minus apte, quæ sequuntur,
hoc modo annectit: und davon tiist du noch welt entfernt. Fines enim
sententiæ communis hoc additamento sublatos habes atqne omnem seutentiam
cum reliqua oratione male commixtam. Recte in contexte oratione
colo præmisso scribitur 6v 81 xovxaov hi xoffyao. Restat, ut verbo
commemorem Rtikkerti opinionem censentis, xoi h. 1, argumentationi
inservire, cuius loco etiam ydp particulam poni licuerit. Qua
ratione Rtikjcertns vehementer errat, si Promethei verba in Æsch. Prom*
Vinct. r. 700. explicanda censet, A iy\ ixdidadxs' xois vodovdl xoi
yAvxv ( ro' Aotuov akyoS npovZeni(SradSat xopcoS. cZ>v
ovdlv a AA«? efpqxa ix. X . A. C. :UdoiU yoi xpijvat itoi xiAÆir xpos
avxov, aAA' iÆvSipcoS eindv a poi idonei. Sensus est: Dixi, quæ dixi, neque quicquam eorum aliter,
atque sentio, edictum est. 6v 8 i avxoS ovtoo ftov Ævov. Verba
convertit Fici-* B tpalvrjxai vav xcsqL ts xovtcov xal xeqi xdv
aU.uv uqlGzov. ’Eya (ilv 8t] xavtcc axovOas re x«l tlmav, y.al
dtpilg Sgnsg ficXt] xizgaG&at avxov Ojirjv. xal dvciGxdg ye, ovdh
Ixizgtipas rovtio tintiv ovdtv Ixi, K[icpd<Sas xo iy.dxLOV xo ipavxov
xovxo xal yug ijv nus : tu
autem ita dei i b era, ut et tibi et mihi m elius fore censes. AvxoS
vocabulum reddere omisit, iu qua positus est acceutns orationis.
Alcibiades enim cum dixisset, quid sibi videretur, ne ulterius
progrederetur atque nimiæ audaciæ crimeu fugiens : tu autem, inquit,
quasi meam sententiam non aperuissem, ad meam voluntatem prorsus non
respiciens, ipse te cum delibera. axov6aS re xal e Iit id
v. Exspectaveris fortasse inversum ordinem participiorum, quem
revera in conversione exhibuit Schleiermacherus ; Nach dieser E ede
und Antwort. Felicius rem expediit Schulthessius; Das
war die Antwort auf meiue Ucde. xal atpels &S7tep
fiiXy, ' Inteilige x ovS Xoyovf. Solent enim ^ verba
Stallbaumii sunt, quæ vel acute vel acerbe in aliquem dicuntur, cum telis
comparari. Similiter
Latini dicunt verba iacnlari, vibrare, torquere. cfr. Piat. Protag. 34-2. E. ei ydp
iScXei xiS Aaxedaipovi&v tc.l cpavXorccTcp tivyyevEtiSai, x d y\v
no\Arr iv xols XoyoiS evprjdEi avrov (paivvptvov, terra:, oitov av rvxv
tdSr A eyojiircoV, kvkfiaXe pijfia dt,iov Xoyov fipaxu xal dvvedxpappkvo
v ooSizep 8eivoS axortusi/js ; Similis Græcorum LATINORVMque dicendi
usui formula est, qua nostrates ntnntur de bullis paparum: deuBannstrahl
schleudern. Ceterum pauciorum codicum lectio est pkXij, vulgo fitXet
legitur, quod emendandum esse Abreschius Lect. Aristæn. 207. primus
vidit. d p <pti 6 aS rd Ipdxiov xo i p avxov xovxo.
Librorum plurimorum lectio est X ovxov j vulgo xovxo, quod et Ficiuus habet iu
conversione: surgensque ue verbum quidetn ulterius loqui permisi: et
hunc amictum, quem videtis, circumdans (erat enim liiems ) snb
strato huius pallio veteri recubui. Vulgatam lectiouem reieccrunt editores,
quod non verisimile esset, Alcibiadem eodem pallio usum esse, quod
aliquot annis ante gestasset. Sed vide, ue præpostera hæc sit
xovxo vocabuli interpretatio. De eodem quidem pallio verba accipienda
sunt Piat. Protag. 335. D. xal Itpa xavxa elncov avi6xdpt)v cd? dniGQY.
xal poo dvioxapivov iTuXapfitxvixai 6 KaXXiaS xi}S x&ipoS xy
6et,nx t xy 6’ dpidztpa dvzeXd/jtzo zuv zplficovoS zovzovl, xal
thcev w verba nostri loci non item. Tovio enim nihil aliud
significare videtur, qunm Alcibiadem tum trnipoiris simili pallio indutum
luisse, atque quo nunc utatur. Quiil igitur proh.bet,
quominus yU/lUV VICO TOV TQtfiaVK XOUCjtklViig TOV TOVTOvt,
TCiQijicdiov rta %£iQ£ tovup tu dcafiovico wg txb/9ag xai
&av(ia<STtp, xartxdfuiv tijv vv/.vce okt/v. sml ov&s C ravta w
Zoixgareg, Igdg ori lpivSofiai. 7 iou)okvrog de brj Tuvtce i/iov ovrog toGovtov
TCtgityLvtTo^ censeamus, pallio suo, quali hibertio tempore
uti consuesceret, iudutum Alcibiadem Socraticum tegumentum subiisse? Tovtov
autem lectionem ideo improbamus, quod dubitari nequit, quin alius verbi
participio usurus fuisset Alcibiades, si exprimere voluisset, se Socrati
in lectulo iacenti pallium superimposuisse, Sin forte statuas, Alcibiadem
eodem pallio, quo ipse esset indutus, etiam Socratem involvisse,
repugnantem ordinem verborum habebis, quatenus quidem scriptum esse
deberet: vito tov Tpiftoova xaraxXivels tov rovrovt, a/uputia? r o
ipatiov ro ipavzov tovzov x. r. A. vito tov Tpifiaova.
Schol. ad h. 1. Tplficjv, inquit, idrl (StoXij TiS foveto Grpitla
cj$ ypajiijiuzior Tpificovtov 81 l/tdtiov itaXatov xai
zezpip/iivov. Hoc scholion iam Fischerus impugnavit annotat, ad h. 1.
rectissime, Non est autem dubium, quin recta sit Stallbaumiana rpifSoov
vocabuli interpretatio: pallium longo usu detritum, quale solebant
gestare philosophi. Hinc iocum expeudus Aristophanicum in Nubb. v.
175. ed. Reisig. atque risum auditorum, qui cum audissent, Socratem
nocturno tempore lunæ vias atque cursum ore hiante spectantem a stellione
maculatum esse, iiuuc etiytra pallio illo detrito privatum
docerentur, quod ille inter docendam deposuerat. Versus Aristopliauici adhuc
non satis emendati, ut videtur, ab interpretibus hoc modo scribendi snnt
: M. ix$eS 6£ y* tjph> 8a7itvov ovx tjv hCntpaZ .
2. elev • zl qvv npos xa\<piz inaXapydaTO ; M.
xaxd xijs rpait&tyS xaranadaS Xenxijv t ecppctv xdutftaS ofteXidxov,
eira diafitfirjv XafSoovZx tiS itaXaidrpas Solpatiov
vipdXezo. Quoniam autem sentit Strepsiades, a discipulo aliquo
pallium ablatum esse, pa^TjTUVy inquit, h. e. discipulus esse cupio
Socraticus, ut eodem modo aliquid furari discam, xa\ o v 8 £
T a.v x a, do 2 coxpctx£& Bekkerus post zavza posuit au, quam voculam
vulgo edi solitam Stallbaumius ex plurimorum codicum ' auctoritate tacite
expunxit. Eam reposuit in texta Ruckertus. Iuiuria. Nam si scriptum
exstaret : xai ovx ipels av, gJ 2boxpaxa $, ozi zavza ifievSopat,
illa particula vix csrcre possemus. Oude zavza autem cum legatur,
ov6i vocabulum illam particulam in vicinia poni nullo modo patitur. todovtov
itepieyiv et o. Ia his rodoviov dictum est 8aixzixuS et per quandam
exclama- ts xa\ xaTS<pQ 0 VT]as xid xaxtyikaæ xijg l(t!jg agas
xu\ vfigioe' xaljteg ixsivo ye $(ir]v xi elvat, a SvSqis Sr/MOtai'
dixocaxal yag laxe xrjg Eaxgaxovg vxsgr t tpavictg. tv yag Xaxe, (id 9eovg, fid
&eag, ovSlv £ xtgixxoxegov ‘ xaradedagdxjxdg uvtaxqv fiexd Eaxgaxovg
ij tl (iexcc nsngbg xa&?jvdov ij &8ek<pov xgecsflvregov. tionem,
ut sigpificet: mirum quantum me vicit. S t a 1 1 b. Dubito, nura
huias structuræ exempla reperiantur apud scriptores. Ut nobis videtur,
aliam verborum structuram camque legitimam quidem Alcibiades in
mente habuit, qua altera quædam enuntiati pars per «oSfce particulam præcedentibus
annexa effectam tov iCeptysvid^at describeret. Fortasse ita dicturas erat
: noiydavxoS 8 'k x avtct ipot 1 ovxoS rodovrov leepieylvexo, <3
sxe xal xaxatppovydai xal xaxaytXdoai xrjS if.njs &paS xal %
'fipidai. AMAT autem interdum oratio concitatior legitimæ orationis
vincula spernere, atque prout in buccam venerint, verba verbis
adiungere, id quod nostro loco factum est. xalitep ixeivo <ppyv
n ttvai. cfr. 217. A. ig>pdvovv yap 8rj ixl xy upa $avpaOtov odor,
quibus verbis optime expositam babes, quid sit, quod nostro loco
adhibitum est rl slvai . Discas autem ex huius loci sententia
repetita, quanti olim Alcibiades formositatem suam uestimaverit, CeteTum
ne mireris, Ixetvo vocis neutrum genus positum esse, non femininum
: exeivyr nihil aliud denotaret, quam xyv cjpav> ixeivo coptra paullo
latioris SIGNIFICATAS est atque cum emphasi ad verba refertur : # ipy
wpat. f)v8lr itepixt ot£pov, Colon ponendum curavimus
post itepixxdxepov, quo vigorem oratiouis incredibiliter augeri senties,
atque quoniam fortiora sunt, quæ sunt breviora, sententiæ vim maguo
opere corroborari. Scitote etiim, Alcibiades inquit, nihil præterea. Quæ
sequuntur verba, præcedentibus verbis explicationis caussa addita, de
more adwdtXGjS annectuntur. y el pexa icatpoS. Nepos ad hunc locum
respiciens, Vit. Alcibiad. c. 2, In e ante, iuquit, adolescentia AMATVS
AMANTE AMATO est a multis more Græcorum, in eis a Socrate, de quo
mentionem facit Flato in Symposio. Nsmque eum induxit commemorantem, se
pernoctasse cum Socrate, neque aliter ab eo sarrexisse, ac filicfs
a parente debuerit. y aSeXipov it ped fivripov. Ne mireris, hoc loco
iratrem natu maiorem commemorari, cum possit sola fratris notio ad rem
sufficiens videri : npedftvxipov non ideo additum est, ut
significetur, quod de fra- . To St] (lixa rovr o riva o&is&e
fie Siavoiav £%uv, ^yovfuvov fiiv otjrifuxo&ai dyct/ievov de xi)v
rovrov tptioiv re xai eocpQoOwijV xai avdQilav, lvrtxv%riitbzct
dv&Qejncf) roLOVtu, oZ » eyw ovx av afirjv note Ivrv%elv tlg <pqom]0lv
xai elg xaQrtQMV ; wg re ovff’ oza>g tre natu maiore valeat, id
non item de fratre natu minore valere, sed ad Socratis ætatem
Alcibiades respiciens, cum cum patre atque fatre natu maiore
comparat. riva ofedS- £ jie 6ia voiav De
interroga tionibus mediæ orationi interpositis sæpius iara diximus.
Vide annotat, 60. Paullo supra eodem modo 216. D. legitur SvSoSev
8k aroLxStkk TCoOrjS ote6$e ykfiEi f a avtfJES Ovpnotat, 6<*)<ppo6vv?]S ;
Efficitur autem his dicendi formulis, ut attentiores ad rem auditores
reddantur, aut, quod in nostrum locum cadit, ut rei narratæ vis
amplificetur. xrjv xovtov (pvdiv. Verba convertit
Schleiermaclierus : und doch aucb an des Manues Natur mich
erfreute. Dubito, num vernaculum nomen Græco nomini satis respondeat.
Solent Græci commemorato nomine aliquo, quod totam aliquam rem in se
contineret, per xi Ticd nat eas eius partes annectere, quæ
inprimis extollendæ sint atque urgendæ. Igitur verba convertenda censuerim: da
icb mich verachtet glaubte, und doch des JY1 annes ganzem Wesen
besonders seiuer besouuenheit und Charakterfestigkeit mit aller Liebe
zugethan bin. olo) i yco ovh av gj p r) v nox\ iv xvxeiy.
Proprie verba hoc ordine proferenda erant: olco iyco cjprjv ovh av nox
E ivxvXElV, quod moneo, ut facilius iutclligas, quorsum av particula
referenda sit. AMANT autem Græci verbum dinitum, o quo alia quædam verba
apta sunt, mediis illis verbis interponere haud raro, quo ordine
verborum vis enuntiati magnopere augetur. Ceterum ut eximiam laudem
Socratis, ita non parvam æqualium vituperationem his verbis contineri
senties. on&S ovv 6 pyiZoiprjv. Prorsus eodem modo ovv IN
SVSPENSA ORATIONE reperitur in PJat, Protag. 322. G. ipeara ovv
*EpyfjS Aia, xlva ovv xponov doitf SbtTfv nal aioc 5 av$pco~ 7l0iS.
Noli, Stallbaumius inquit annotat, ad b. 1., Ovv sollicitare, quod
Stephanus vacare iudicabat. Indicat enim
ratiocinationem loquentis, qui quasi secum consilia pectore agitans
inducitur. Quippe ea est virtus linguæ græcæ, ut multa, quæ alii
populi nonnisi oratione recta possunt enuntiare, ea etiam oratione
obliqua exprimere valeat. Quod quid sibi velit, hoc uno
exem- * m ouv vQyt£ol(i>jV Ei%ov xai uaoan(jTjd'th]V
Ttjg tovrov <Swov6tug, ov$’ o Tty trQogttyayolftr/V avrov
tvxvgow. E tv yt':Q ySij, ori XQt//icc6i re Tto/.ii (tullov
rcrparog i]v Mivtuxij rj CidijQCJ 6 Aiug, «a te difiijv avrov
fluvio ixAcotiEO&cu, SiankpEvyi fit. tjnoQovv &>],
xaraSiSov^a(dvos ts vito tov dv^gunov us ovSels vn' ovdsvog p!o
satia patet. Recta enim oratione dici aic debebat ; irroS ovv opylgGjjjai
nat ctnuOzrpTj^co rijS rovrav dvvovtiaS ; quomodo igitur ei irascar
ei usque consuetudine mc abstineam? Quæ convertens Alcibiades in
suspensam orationem eleganter retinet voculam igitur, quæ animi consilia
agitantis gravius indicium facit, ov6’ ony itpoSayctyolfl 7J V ac V
TOV Evito p ovv . TlpoSctyeiv riva sensim sensimqne aliquem sibi
assuefacere, lente aliquem sibi conciliare prætentis quibnsdam
illecebris significat. Hinc iudicabis de <x7C0(Srepri^Eii]v
verbi significatu, quod illi oppositum est» Ceterum opyiZoifiTjv verbum
primo obtutu habet, quo ollendaris, quandoquidem haud verisimile
est, Alcibiadem ob repulsam a Socrate acceptam eidem non iratum
fuisse. Fortas sq o pyrgo iprjv xa\ dno6rep7f$eirjv positum
accipere possis pro dpyiZoptvos anodzepijSelrjv y nt sensus sit totius
loci : »o dass ich weder weiss, wie ich mich in hochster Aufwallung
seiuer ganz erledigen, noch wie ich mich seiner allgemach bemaclitigen
soli. His adde, quæ supra leguntnr 216. B. ^paicEttvco ovv avrov
xal <psvyco et quæ sequuntur. ev ydp ori xpy)padi re. Vulgo ye
legitur pro re, quod e septem codicum auctoritate, quorum in numero
Bodleianus est, Bekkerns, Stallbauxnius, alii iu ordinem vetborum
receperunt. Riickertus ye vulgatum reposuit annotans : Non hæc est
sententia: Et pecunia eum capi non posse mlellige banij et quo solo cet.,
iramo potius hæc: quomodo eum mihi conciliarem, non videbam, Probe
enim sciebam, pecunia quidem eum nullo jpodo capi posse ; quoque solo eum
captum iri putaveram, id ejju gerat . Vereor equidem, ut præcedente
Xpr/padi ye non w re o opyv ponendum fuerit, sed qj di, cuius scripturæ
nullum iu codicibus vestigium comparet. arpGoroS rjv
navraxy 7f dldlfpa) 6 AlaS . Aiacern Telamonis lilium
invulnerabilem fuisse, compluribus locis narratur. Vide Nitsch. mythol.
YVorterb. Ortam puto inde fabulam, quod in Iliade Aiux non vulneratur;
pugu&Ds licet fortissime cum fortiss.inis. Riickert. Ad rectiorem
verborum interpretationem navraxy verbum spoute ducere videtur, quo) verbo de
scuto immenso monemur, quod gerens Aiax ab omni telo tutus
erat, 8 tau i<p evy i //£. Hæc paucorum librorum lectio
est, i r iun 0110 a t . 373 rj.kov iteouja. 1 rartd rt ydg /toi
ctncivta Ttgovytyovu, xnl f utcI T.rtvTu (Irganiu tj/iiv dg JlotiSaiav
lyivvto Xvivrj } cal (JvvtffiTovfisv txd. Ugcoxov /ih' ouv
xou; itovoig ov fiorov fuoiT ittQtijv, tlkf.d stal tav iiXkav ujidvtav.
ojcote yovv avayxccO&dqftev axokeup&tvtes stov, ola 8tj dtQaxBtctg,
2Jo '« quam editores immerito reiecisse videntur. Plurimi
8iene<pevyei pe exhibent, quod Stallbaumius, unus Siatetpevyei
pe, quod Bekkerua iu textam recepit. Nolo, quod dedi, tanqaam
certum atque extra omnem dubitationem positum lectoribus commendare, dedi
tamen, quod Alcibiadis animo apprime convenire videbatur. Ille enim rem
actam neque quicquam spei sibi relictum esse docens hæc ait:
Experientia do ctas sum, eam pecunia inalto minas commoveri
posse, quum Aiacem, scuto immenso tectam i‘erro vulnerari, et qua re
sola eum capi putabam, eam eludeus elapsus est, tavtd te ydp
poi. Nemo
interpretum de ydp particula quicquam annotavit, quæ quo iure h. I,
posita sit, non statim intclligitur. Schleiermacliems in
conversione eam prorsus non reddidit: Dies nun war alles friilicr
gesebehen cet. Dubitari autem nequit, qnin verbis, ad quæ relationem
habet, præmissa sit, de quo usu loquendi vide Indices s. v. ydp.
Consuetior ver-*horum ordo foret, opinor: Jial pera tavta tavtd te ydp
poi uTtavta npovyeyovai <5tpateia ijfiiv eis Tloridaiav iyiveto n. r,
A. Potidæam urbem quod attinet fttqno bellum, quem contra
incolas eius gesserunt Atheniensis, andi Riickertum annotantem ad hunc
locum: Potidæa Corinthiorum colonia in Pallene pæninsula ad sinum Thermæum
postquam Atheuiensiuin dominationem pertulit cum ceteris illius oræ
civitatibus aliquamdiu, defecit 01. 86. 2. a* Chr, 435. belloque pressa
per quiuqueiHiiuni iterum in ditionem venit 01. . 3- a Clir. In horum
igitur aliquem amiuin incidunt, quæ hic ab Alcibiade
narrantur. o jr <5 r e yovv ar ay xct • 6 3 e i?j per. Rursum
locum habes, in quo edendo novorum codicum auxilium maxime desideratur. Quam
edidi, Stallbaumianæ editionis lectio est, quæ meliorum codicum auctoritate
nititur. Sed cum vulgo legatur ondtav yovv avayxatiSefo/pev, quis
audeat, præsertim cum exempla reperiantur apud bouos scriptores onotav
cum optativo coniuncti, vide Mattii. Giamm. ampl, $. 521. Aun. I. 1007.,
quis aipl eat, inquam, utra lectio verior sit, cum aliqua certe veritatis
specie dijudicare ? Tovv in codicibus melioribus, quorum auctoritate
nititur 6 itote lectio, omittitur. Quod, quoniam vix abesse potest,
si receperis, co ipso oitote lectionis auctoritatem infringes.
Optime autem yovv ciSiTBiv, ovdtv ijeav o£ (ikkoL n gdg tu xagregeiv. tv
r av r uls tvcoyfaig (i6vog dnokaveiv ottig r’ rjv, td % akl.a, xcd
nlvtiv ovx t&tkav, unor’ avuyxuGfrtlti, n dvrag IxQ&t ei, xal i 6’
ndvtav dav/xatirutarov, 2kaxgart] (itfrvovra ovSslg noinot’ icogaxtv
civftQoiJtav. rovrov fitv ovv it oi doxei xcu avrlxa 6 %ksy%og
i'<fe<S&ai. ngog 6 i av rdg rov %iL(iuvog xagregijGsig 0uvol
ydg av- Stallbnmnius explicat: Confir mat yovv, inquit, ut
Latinorum i certe quideui, antecedentia cum aliqua restrictione,
hoc est ita, ut indicet, hoc certe, quod nunc commemoretur,
veritatem s eorum, quæ antea dicta sint, satis testari ; sed nlia etiam
posse afferri^ quæ tamen nunc reticenda esse videantur. dn o\
e i cp % k v x sS 7tOV, Astius drtoArfipSiifxeS scribendum
coniecit, quod hodie ab editoribus omnibus ia ordinem verborum receptum est.
Sed codices miro consensu ditoÆi<p$ivxE$ exhibent, quod, quoniam
explicari posse arbitramur, in textu retinuimus. Rectum quid esset,
Heusdius vidit, qui scribendum coniecit dnoAsup^ivxES Cixov ; sed
mutatione nulla opus estj e sequente enim afStxetv infinitivo 6ltov
genitivus facillime ad ditoAtupSiv T£$ suppletur, FICINO habet ; et si
quo in loco, ut accideresolet i u bello, ccfro meatus
deficeret* iv r* av tais ev G>xiaiS. Ad hæc quoque verba
recte referuntur, quæ præcedunt; ola 6q ini dxpaxeiats, h. e. pro varia
fortuna belli. Militum enim ea fortuna, ut nunc omnium rerum
felicissima copia abundent, nunc no habeant quidem, quæ ad
sustentandam vitam necessaria suat. Huiu? rei fortunam nemo Socrate
melius perferre potuit. navxaS in patet. Rarior
structora est npatEiv verbi cum quarto casu ea de caussa, quod Græci
hoc verbum sæpius prægnanti, quem vocant, quam proprio significatu adhibere
solebant, Kpaxelv ttvoS enim idem fere est atque npaxovvxa elvai
XtvoS, victorem esse alicuius, de quo SIGNIFICATA vide annotat, 87.
KpcciEiv xivd contra proprio significatu adhibitum prorsus dicitur ut LATINORVM
vincere ali que ni. ov 8 eIs nd nox e hd pane v. Codicum
auctoritate motus, in quorum numero Bodleiauus est, Bekkerus kapdxei in
textum recepit, quæ lectio item Riickerto probatur. Non placet. Non
enim hæc est mens Alcibiadis, Socratem tum temporis a nemine 'visum esse
vino gravatum, sed nunquam gravari vino dicitur in universum, eiusque rei
luculentissimum indicium mox convivas habituros esse Alcibiades
promittit, Seivot yap avxoSi x ei ~ p dives. XEipwveS
articulo suo privatum latiore significatu accipiendum est, ut verba,
couver <S zo&> yup&veg ftav padia elgydteto xtx
te $ AAa, xai fs itote ovtog Tiayov oTov Suvmutov, xal xavtav y ovx
1'iiivtov EvSo&ev, >], d tis ittoi, i)p<piEOpivav xe
&av(icc6xa Sij ooct xal vxoSsSepivGni xai IvEikiypEvcov xovg xoSag
Eig xikovg xal uQvaxlSag, ovtog 6 Iv xovtoig 11] jei lyav [pclt iov ptv
totovrov, olov xeq xal XQortQOV eIoj&ei <poQUv, awnoSrycog Se Sia
tov xqvtcnda sint : denn W i n t e r in dortigcr Gegeud sind
fiirchterlich. ra te aXXa, xai itote. Hæc dicendi brevitas
etiam paullo supra in verbis conspicitur tu re dXX a, xal itlveiv
ovx Xgov, quæ explicatius audire Stallbaumius docet annotat.
ad lu 1. t a re aXXa, xal 8t} xab rovto, ori nireir itavta S
ixpdtei. Alias breviloquentiæ exemplum in sequentibus verbis
continetur xai itote ovtoS nayov olov 8 eiv ot dt ov, ubi. explicatius
verba enarrata sonant: xai note ortos itayov toiovroUy oluS biti 8eivbtatoS,
de quo loquendi genere vide Mattii. •Oranira. ampl. §. 473- Ann.
2. 885. Ceterum vulgo legitur ortoS tov nayov. Bodlciani cod,
aliorumque paucorum auctoritatem secuti Bckkerus, Stallbauinius alii articulum
e textu reiecerunt. Utramque lectionem commode explicari posse,
nemo dubitabit, atque sententiam si spectas, perinde tere esse
censemus, utrum addatur an omittatur articulus. In huiusmodi locis codicum auctoritas
cum maxime valere debet. Igitur et nos articulum omisimus, quem
Riickertus in textu reposuerat. t) ovx l Bti 6 v to)v £ v 6 o -$ev
«c. e tabernaculis, quorum notio facillimo mento suppletur. "Ev8oSev
Scliieicrmacherus convertit hinaus. Recte quidem e nostra loquendi
consuetudine; aliam Græcorum fuisse, H.v8o$ev vocabuli notio docet, Etenim Græci
quicquid scripserunt dixeruntve, eius quasi imagiæm quandam ante
oculos habuerunt prius, quam scriberent loquerenturve. Dicturus igitur
Alcibiades : neminem militum e tabernaculis exiisse, rdm ita
proponit, ut imaginem ante oculos habuisse coniicias militum o
tabernaculis exeuntium. Hinc HvSoSev vocabulum Explicabis, Convenit
cum nostro loquendi usu, quod legitur. E. ol y\v ydp evSvS n<n8d
uva IV8o$ev dnavti\6avta dytiv x. r. X. Innumerabiles autem loci
opud scriptores Græcos reperiuntur, quibus illa ingenii indoles probatur. Cfr.
præterea an ->notat, ad verba TLxpr\ ydp ofc ScoxpatTf . 16., eis
niXovS xal apruni 8 a S. Schol. ad h. 1. nlXoS Ipdtior IB» ipiov
ntXrjdecoS yivoperoVy eis vetav xal *«/*<»“ VGor afxwav . dpvccxideS
8e apvGov HotSia. Suidas, apvaxlS t inquit, ro' tov apvoS xqd8tov, to
pefd xvv ipicov 8eppa r. dra/.AOv quov Ijcoqbvsxo tj ol akkoi
vitoSstisfiivoL oi dl tiTQCCTUJTCCl VTttfikeitOV CCVtOV UQ
XCCZCC(pQaVOVVTCC c (Stpiuv. xai ravta plv drj tccvzcc.
Cap. XXXVI. Olov A’ av tu 8 ’ ipeUs xal ixX r/ xapTEpoS
avi/p Nostrum locum frustra, ut videtur, Valckenarius ad Herod.
III» 199. 95. Musonium imitatum esse censuit apud Stob. I. 17.
51., cuius verba laudare invat tamen : ov8a/icuS xaXov ovte
iuS/fusdi noAXai? xaTadxinEiv TO dGOpa ovts TOLlviaiS XOCXElXeiv ovre x f
tpttS te xal no8aZ nepiSidEt niXoov rj v<padpaTGyv tivgjv
paXaxvvsiv. Quod sequitur, ovtos 8* LATINORVM respondet: hic, inquam, quo
verbo pronomini addito, ut 8i particula, vis augetur pronominis et
filum orationis verbis interpositis compluribus dissectum
rediutegratur. V7Z £ fi\E7t OV CtVTOV (Di xotr atp pov
ovyt a d<pav . Limis oculis eum intuebafitur, quum eos suæ
ipsorum mollitiei puderet, odeo que Socratis p atieutiam et fortitudinem
moleste ferrent, quippe quem ipsos despicere opinarentur. Ceterum
Socratem algoris ct caloris fuisse patientissimum testatur etiam Xenophon
Memorab. ct I. 6. 2. al. Stallb* Conferri Riickertus iubet annotatione ad
h. 1» Piat. Criton. 53< B. xal odoi 7CEp XljdoVTOLl TtoV aVTGDV
TCUXeoov f vuopkbfrovTai Ce 8 ia~ tpSopta yyov/uvoi r uv vegov,
olov 8* a v l’ p £ £ e
X. t. A. Versus Homericus est, culus initium Alcibiades immutavit,
ut versus cum cetera oratione melius consociaretur. Legitur autem in Odyss, IV.
v. 245. dk A* olov to 8 * lpz£,E xal irXrf xapTEpoS
dvrjp SrjftGj ivi TpoSaov, uBi nu&X € T£ nt/par ’ Axaioi
. ixei ini drpar e laS, Solent Græci, quando cum gravitate
aliquam actionem descripturi sunt, huic præmittere vocabulum, quod actionis
rationem in universam indicaret, post actionem ipsam accuratius
definitam exhibere. Sic legitur p» 177. E. ndyrcfS /tt/ 8id piSr/S
nou/dad^ai Ti/v iv tgj napdvn dvvovdlav . dXX ovra>, nivovtaS TtpoS
?}6ov)jv, ad quæ verba vide annotat, 43. Idem valet de locis, quorum
mentionem graviorem ita faciunt scriptores, ut præmisso verbo, quod iu
universum locum aliquem significat, accuratiorem loci descriptionem exhibeant.
Sic igitnr hoc loco ixsl ini
drpaTtiaS legitur, quo docearis, ad Potidneam gestum esse, quod
nuuc Alcibiades narraturus sit. £vvv 07 } d ctS e\6t )/
xci 2,7/TCk jv, Socrates aliquid cum animo suo reputans a primo
maue narratur meditabundus constitisse, atque re non feliciter proccdeute,
quasi defatigationem exe! norh Eithjt (StQcctslag, fil-iov axovdca'
£wvcy<5ag yccQ avtofh Sa&bv n e[6x)]xei 6xojtcov, xai insidi} ov
xqov%(6qsi avtcS, oyx aviti, (Md efotijxti %7)t&v . xai rjdy f\v
iiEtirjuPQla, xai av&QCMiot, ycftavovtOy xai &av^d^ovtsg aXXog dkXco
tksyEV, oti Zcoxganjg iafhvov (fgovrltcov ti eOrrjTce . teXsvTMvzEg corporis
sentiret nullam, in stataria meditatione perstitisse. Huius consuetudinis
mentunem facit etiam Apollodorus, qui cum Agatho servos iussisset
Socratem vocare 175. B. laxe avxov, inquit, £3of yap n xovx*
£*«. ivloxe aitodxcis o7roi dv xvxv %6 xmiev. Quæ addit verba
ijtiei 81 ccvxlxa, &s iycjpat, non ita# accipienda sunt, quasi
Apollodorus revera opinatus esset, Socratem mox venturum esse. Qui enim
Heri potuisset, ut compertum habuisset Apollodorus, quo tempore Socrates
meditationum Unem reperturus sit ? Neque nesciebat, quippe doctus
experientia, Socratem, si constitisset semel meditabundus, iuterdum multum
temporis meditando consumere. Nihil igitur aliud voluit ij£,ei 8i avxixcc,
ck* iycfypæ verbis efficere, quam Socraticæ meditationi consulere, ne forte
servorum acclamatione turbaretur. icccl i} 8 r\ y6$ av ovxo.
Non verterim cum Stallhoumio: und schon war es Miltug, ais mau es er
st merkte ; corrumpitur enim, ut ego existimo, vera sententia addita voce
erst, quæ in Græcis non repentur; iromo »*nd schon war es Mittag,
und die Leute fingens on zu merken (malim: und den Leuten fiel
es auf ); non enim quautum temporis ante præterierit, quam sentirent
homines, ALCIBIADES SIGNIFICAT [cf. Grice: “What do you signify?”], sed quam
diu steterit, et quid acciderit, quod partim loco movere Socratem
debuerit, partim rei augeat miraculum. Idem verba significant, ac
si narret Alcibiades: Iam meridies erat; attamen perseverabat; iam
sentiebant homines; at non discessit. Hanc Riickerti annotationem, cum
idem indicare intellexissem, atque quod ipse seraper de huius loci
explicatione statuendam censerem, viri doctissimi assensu gavisus,
integram recepi. Zajxp axi]? l&> IgdSiv ov q> p ov
x l % a v xi $ d x tj x e . Hæc tanquam ipsa verba laudari censemus
hominum Socratis axoTclctv mirantium. Hoc colligere possis e structura
verborum, quum si forte ad firmaudam sententiam nostram facere
negas, ei certe non repugnare concedes. Hoc satis nunc nobis. Suhest enim
gravius aliquod argumentum, quo ipsa hominum illorum verba laudari
probemus, tppovxi^GJV participium. De quo quoniam pau!lo
fusius dicendum est, longiorem autem explicationem plagellæ huius angustiæ non
capiunt, in Comment. de Piat. Symposio disseremus. xeXe
vx g 3 vxeS 8k xtves Xt ov 'i&YGor. Consentaneum est, non
Athenienses, quibus mas «78 6i uves «w 'Javtav, htuSt)
ttiniga Suxvrfiavtts, D nal yctQ &{qo s rore yi rjv, yctutvvia
i£evtyxu[itvoi tlfia (itv iv Z(p i)v%Ei uct&ijvSov, a(ia 8s
ItpviatTov avzov, st xal njv vvxza t<5r>;|o4. 6 <5a e ianjy.cc
fitXQi eas lytvixo xal tjkioe dvioxtv hiutu c>xtz ’ amdv
ille Socraticus notissimus erat, nunc observatum ivisse e tabernaculis
atque sub dio lectulos stravisse; sed Ionum, qui una cum
Atheniensibus Potidæam obsidebant, aliqui narrantur, cum ex Atticis
militibus de more illo audissent, nt oculis viderent, quod fando
audissent, sub dio pernoctasse. xal ydp SipoS tote y$ T/r.
Annotatione SI* indicavimus, solere haud raro scriptores Græcos partem
orationis eam, quæ caussam alicuius rei contineat, parti orationis rem
ipsam describente præfigere. Exemplum est huius loquendi usus 175*
C. xov ovv 'AyaSojya, rvyxdveir ydp £6x aToy .xaxaHtipevov, jiovov * devp,
£<pt/ (parat, 2fcjxpattS x . r. A. Sed huuc locum cum nostri loci
conformatione non recte conferri, vel obiter instituta comparatio
docebit. Quæritur, quo pacto xal ydp StpoS tote ye i}v explicandum sit.
Tacent interpretes, quo silentio non nihil unimus commovetur mens.
Num verba tam plaua sunt, ut explicatione non indigeaut? Schleiermacherus
in conversione exhibet; Eudlich ais es Abend war und n an gespeiset
hatte, trngeii einige Ionier, denn dama Is war es Sommer, ihre
Schla fdecken hinaus, theils um im Kulilen zu schlafen cet., qua
couversione mitigatam habes mutato verborum ordine difficultatem loci, non
item explicatam, SchuUhessius vertendo; es war eben Sommer,
explicaudi genus admisit, quod sane levissimum est. Dillicultatem
enim vdp particulæ ita, ut ydp reddere omittas, noa expediveris. Scriptum
autem exspectabamus : 6ei7ivr t 6av teS xal, SepoS ydp tote
ye ip', 4Xapevvia i^evEyxdpEvoi. Sed cave non
rectum ceuseas verborum ordioem, quem libri exhibent. Participia §EWVi]($avT£Z,
l&tYEyxdpEVOi, de more advv6 etcjS posita suut, in verbis autem xal ydp
StpoS tote y£ ?/v, caussæ indicium præ ceteris verbis scriptor, eminere
voluit, idqirt) ideo in principe loco enuntiati posuit, h. e. in
initio. Cuius loci quoniam suapte vi non potest caussalis particula
sustinere gravitatem, xal explicativum præpositum est, quo illa eodem
modo susteutatur atque Latinorum enim, addito e t (etenim) fortius iit, atque
principi enuutiati loco idoneum. Vide de xal expletivo annotat 6. cfr. præterea
219. B. ap<pt?<SaS ro IpecTiov ro ipavtov tovto xal ydp 7/v x £l M
( et v r » A . Contra ubi verbum aliquod in enuiitiatione
parcuthetica continetur, quod significatus gravitate ceteris verbis
autecedit, id principe loco poni solet. Sic legitur 220. A.Seivoi ydp av
TuSt rtQogEvldtnvos rw yllco. tl SI
(iovktfi&e Iv retis f*«%aig ' tovto yceg Sij Sixcuov yt avrc5 dxoSovvat.
ort yctQ i) ftfczv 'h v i VS f/td xal zagiOreict 'iSoiSav oi
evQomjyot, ovSbIs aklog ifii laaow dv&gmxcav y ovrog, rs tgafuvov ovx
i&tkav azohntlv, a).ku GwSdauGe E eiSiffov \s<S$s iv ratS
/udxttiS. Bene Stallbmiroius orationem hoc modo explendam censet j
ei 61' (3ovA.e6$e axovCai, oloS iv x ais puxaii V v % ifjui xal x ov$*
vpiv. Nollem tamen per aposiopesiu verba explicanda esse dixisset. Certum
esse reor, tl particulam aposiopesin nunquam admittere» conditionalis enim
enuntiatio ex ordi e temperatiorum dictionum est» quæ cum aposiopeseos
vehementia non conveniunt. Possis etiam verba ad præcedentia referre 220. C. xal xavxa plv Si/xavccr oiov 6 ’
av x 68* £pt£,e xal izXrj XQtptepoS dvrjp ixel noxa iitl OTpaxtiaS,
aB,iov attovdai. Quæ verba cum Alcibiades hoc modo edixisse sibi
videretnr: ei (iovA e6$e dxoveiv, olor 8* av xo8 * UpeB,e xal £rA?/
xapxepos avtjp 9 nunc ita perrexit: ei 6fe fiov XetiSe (sc. dxoveiv,
olov 6* av x 68 * Bpe&e xal ix\rj xapxe - opo$ cevrjp ixel xoxh)
iv xal? paxaiS, (sc. ipa xal tov$’ vplv. y oxe yap fj
fiaxv V v - Hia pugna. Ponit euim rem pro certa otnnibusque nota.
Narrat, quorum hic meminit Alcibiades, Plutarclt. Alcib. p
194. C. F., sed ita, ut aut omnem materiem ex hoc loco hauriat, aut
studiose cum in narrando respiciat. Riickert, i B, ys i po i
xal xdp i6 X e ia. Ex præpositio hoc loco temporali potestate posita
est, quod moneo contra Riickertum, qui annotat ad h. 1. : Secundum
quam. Caussam euim pugna præbuit, cor darentur Alcibiadi virtutis præmia.
Sed bene monitos lectores velim, ne ix quovis loco temporali
potestate poni posse opinentur. Ponitur tum tantummodo, quum
temporis indicio simul adhæret notio quædam, quæ ix præpositioni
propria est. Minus accurate Schlciermacherus : hei welchem (
Gefecht ) mir die Heerftihrer deu Preis zuerkanuten ; non rectius
Schulthessius: dena in der Schlacht, wo mir cet.Restat ut de xal vocula
dicamus, quam u nemine interprete explicatam video. Supplemento
aliquo opus est, quo advocato, quid xal significet, statim intelligetur:
ure yap i/ paxv rjv, y avry, i£ r/S i/ioi xal xdpuS^ua
ISoOav. denn ais ieue Schlacht wnr, diesclbe, ais die, nach wclcher
die Heerfuhrer mir deo Preis zuerkannten. x ex pat fiiv ov
ovx i$iA cdv. Vulgo hæc verba inverso ordiue exhibentur) codices plurimi
atque optimi texpcofiivov ovx iSiXtov. Vehementer errant, qui uter
verboi*um ordo rectior sit, e sententiæ ratione dignosci posse
arbitrantur. Nam uterque, quo se commendet lectori, habet. Sola
igitur meliorum codicum au n a at a no r xai T a ZnXa xai avtov
l[it. xai tyul /xh’, w £(6xgrtTfg, xai T('m Ixtktvov Coi didovac zagtOzt ia
tovg Ozgazrjyovs, xai zovzo ys (ioi oiizt [itfiipH oiks igsig (In t
luvSojiai ' dkXd ydg tmv tizgazr/ywv xgog z<> i/wv iit ioifia
dzojV.ixuvzeJv xai (iov/.vulvcjv ifiol dtdovca ctoritas respicienda est,
quorara lectionem Bekkrrus, Stallbaumius alii in textam receperunt.
a A Ad tivv 8 ikC a> Ce xai t it onAa xai avTov i fi i. Priori
loco xd oicAa commemorautur ea dc caussa, quam expositam habes annotat, 63.
De verbrs cum 8ia præpositione confundit annotat, adip. 7* Verba
converterim; und er braclite WaflVn und Menschen, beides, retteod
hiudurch. Ceterum iucst aliquid his verbis, quod si abesset, omnes uno
ore Græcismum laudarent atque locis ex Homero inprimis petitis
confirmarent. Nullum in codicibus vestigium depravationis, nihil igitur
mutandum, præsertim cum negari nequeat, non minus Græce dici, quod
nunc legitur, quam quod milii in mentem venit dAAa CvvSikCcoCe xai
xd uxAct xai avtov. xai rore. Annotat Stallbaumius ad h. 1.
Ne quis, inquit, in his hæreat, xai «d universam sententiam, non ad
solum xoxe referendum est, at respondeat proximo xai in verbis xai
tovxd ys pot ovte fitjjipei. Veritatem huitu
sententiæ Ruckertus agnoscit; nobis aliter de explicandis ual tore verbis
statuendum videtur. Meus Alcibiadis hæc « st . Non solam præsenti
tempore se ita iudicare, ut Socratem dignissimum censeat ptæmiorum Hlornm, sed
etiam tum temporis ita se censuisse atque tussisse quidem, nt duces
Socratem pruefniis illis dignentur. Quæ sequuntur verba pepibei atque ovn
ipet* ijxi Tpf.v6opai nostrum explicationem confirmant. Mkptpei
enim ad præsens Alcibiadis iudicium referendam est, qno Socrate negatur
præmiorum illorum aliquis dignior esse, verba autem ovx ipEiS oxi
ijjEvSopai recte ad verba retuleris ixkÆvov Coi SiSovat rapior eia
x ovS CrpaujyovS. itpoS T 6 ipov dZi&pa. cfr. PJat.
Alcib. I. 104* B. Ineixa (sc. (p?}s elvai') veavixcDtdxov yivovS Iv xy
Ceovtov itoÆi ovCy pcyiCty xaSv 'EA^ArfvidcDV' xai ivxavSa itpoS
narpoS xk Coi (piAovS xai B,vyyeveis tcÆICxovS elvai xai dpi 6x ov£, ot, et xi
8kot, vmjpexoiev av Coi . xovtoov 81 Totif xpoS fitfxpoS ov8\v
xdpovS ot56* iAaxrovS ' Zvpitdvxarv 81 mv elnov ptiZoi) otei Coi Svvapiv
vitapTlepixAka xov AavShtnov, or 6 Ttaxrjp iitixponov xaxkAmk Coi,
oS ov povov iv xy8e xy icoÆi dvvaxai itpaxxeiv o n av fiovArjxaiy
aA A* iv naCy xy 'EAAddi, xai tqjv fjctpfidp&v iv noAAolS xai
peyaAoiS ykveCiv, Mutre nsus est Alcibiades Dinomache, Megaclis filia
celeberrima, patre Clinia, cuius virtus in pugaa ad Artemisium
pugnata zTMnozroN. 881 xdgtGxHa,
avxo g noo&vtioxiQog lyhttv xwv 0TQCtrr t y{Zv tui /.ajitiv jj
GavTuv. Ixi xoivw, <J avdgtg, cchov 9/i' tituGaGftca ZaxQclxtj, oxe
ano /JgMov qnyf/ ave- £21 Xoigei xo OxQCtronedov. £xv%ov yag
nagaytvofievog innov . l'zarv, ovtog <5 a onAa. dvtyoigu ovv
iaxtdaouivav f inclaruit. Non sine caussa igitur Socrates in
Piat. Alcibi&d. I. init. Alcibiadem allnquens dicit: ' 11 7tcti
KXetriov, Vide, quæ de dicendi formulis rtaxpoSev et nal? xivo?
docet Wachsinnthiua in libro: Hellen. Alteithumsk. L I. 320. Beil.
10. i ph Xafielv i} tiavxov. Nihil certius est, quam
Platonem aveo? scripsisse vel ovx avToS, uUi oppositionis
rationem habiturus fuisset, quæ quantopere angeatur tiCtVTo?
scriptura nemo est, quiu videat. Alio loco
de hac structura oppositionis augendæ caussa admissa locuti sumus.
Vide Indices s. v, Accus. prou. - uf£ ano J //Aio v tpvyy ct
r exGjpei. *Avaxeepeiy proprie est : in locum altiorem se conferre,
iuprimisque de piscatoribus obvuluit, qui undis ora superantibus celerrimu
iiiga altiora loca petierunt. Hinc ad rem militarem tranr.lutum verbum
lugam militum describit, qui e peregrina terra, tanquam undas mare,
hostes evomente quasi iu altiorem atque tutiorem locum, in patriam terram
fugif^es se conferunt. Deinde, quMnam, qui naves relinqniiut atque mare,
cum patriam terram petituri sunt, altiores regiones petuut, factum
est, ut redeundi verba plerumque cum ara præpositione coniungercutur. Schol. s. v. drjXtov • x Q opLov xjjS
LouaxiaS, Athenienses ad Delium urbem a Thebanis^prorfio victos
Thncyd. \ narrat IV. 76 seqq. Proelium scimus fuisse Ol., 1. Idem
proelium u Lachete commemorilnr in Piat. Lach. 181.B. xui ptjv, go Avtiipaxi,
p?} atpUoo ye- xavSpoS' gjS iyos &XX oSl ye avxov
iStacdptji' ov povov tov naxlpa dXXd xal xi)v Tzaxptda’ opSovvxa.
iv ydp xf/ and Jr/Xiov <f>vyy pix ipov cvvavexcjpiti xayaZ
<5ot Xiyco, oxi, ei ol aXXoi iJSeXov rotovxot tlveti, dp$j) av
ijpwv 7 } TtoXi? r,r xal ovx av initia tote xo xoiovxov nxdopa.
De re ipsa Engelhurdtus ad h. I. ed. 14 : Cum Boeotorum,
inquit, nonnulli imperium Lacedæmoniorum ægre ferentes ope Atheniensium
democr&tiam in Boeotiæ civitatibus instituere ctiperent, inter eos atque
Atheiiieusium duces Demosthenem et Hippocratem convenit, ut ipsi Atheniemibus
urbes Siphas ad sinum Ciisuenm, et Cbæroncam prope Orchomenum Minycum
traderent, Athenienses nutem eodem «lio Delium Apollinis sacrum iu
finibus Boeotiæ et Atticæ vernus Euboeam situm vi occuparent.
Sed ct Demostheni ad Siphas occupandas profecto res Boeotis iam
prodita infeliciter cessit, et Hippocrates, qui serius, quam
convenerat, Delium pervenit, postquam vallo præmunire atque præauliu
instruere contigit, Boeo- *t a 4 ijdrj tcov
av&Q(07tG)v ovtos n apa xal Aaxrjg * Xfti 2yw 7 teQitvy%dv et, xal
Ida tv ex>ftvg vtagaxefavopuL rs avTolv ftaQQeiv xal SXsyov, art oi5x
djtotefyco avzoj. Ivzavfta St} xal xdkXiov l&EaOuprjv EttXQazrj
?; JTozidala • avrog yap ^trtn/ Iv gro/xo 7} dia ro Ig^’ ' wnrou
£itm* jrpwrov juv otfov ntQiijv Aaxrjzog za B HpxpQCov sivat * Sjtsiza
Zpoiye idoxsi, oJ *AQi6zocpavsg to tfov 6'ij rovto xal .&cct
diajtoQ£v£<S&ai (Sgzeg xal tis fere omnibus interca ad Delium
collectis, turpi clade in fugam conversus est. Quos autem Delii
relinquerat Athenienses, castello die post proelium XVII. yi expugnato,
partim interfecti, partim capti sunt exceptis iis, qui ad naves
pervenerunt. xal iyco ns pixvy xdv p» Nota præsens historicum,
quo incredibiliter orationis vigor augetur. Exempla huius dicendi
usus Matthiæus collegit Oram ni. ampl. $. Eo tempore Alcibiades
etiam. C. utitur: npoxaXovpai 8t) avtov 7tpuS x 6 dvvdeizveiv, dxe~
Xv&S ooSTCEp ipa6xt/S nai8ixoii inifiovXevGov Hoc tempore utuntur,
qui narrant aliquid, non nt rem de industria tanquam præsentem
auditoribus exponant, sed narratoribus rei memoria abreptis res
tanquam præsens obversatur, tanquam præsentem igitur exponunt. Sed inter
loquendum sæpe ad se rursum redeunt et ad auditores, atque temporis
rationem agnoscunt, quo lacto ad præterita tempora verborum subito
recurrunt, ut hoc fit loco nostro: xal idcov ev$vS napaxeXEvopai te
avxolv Sapptiv xal £A syov. insita ipoiys idoxez ro* <Sov
6 7 } tovxo. Verba ro 6or 81 f xovto lineolia adhibitis a præcedentium
et nb insequentium verborum iunctura seclusimus, no quis forte
haco Verba ex i8oxei apta censeat. Ad iSoxst enim o JSa?xpdr?/f
supplendum est ; Xo 6ov 81} TovX O autem absolute positum est prorsus nt
ro' Af yopevov et aliao huiusmodi figuræ dicendi. Versus, ad quem
respicit Alcibiades in Nubibus Aristophanicis fcoutinetur 561.
oxi fipEvSvEi x iv xaitiiv 080IS xal XM<p$a\pGo napapaXÆiS,
ad quæ verba Schol. annotat: fipevSvEt * anotispvvvEiS 6eavxov iv ro3
6xppaxi xal xavpij8ov opaS. xopitdBftiS xal yjtEpoizxixuS fiaSifyiS. Idem
ad Aristoph. Pac. v. 25. xovxo 8* vito <ppovi]paxo£ ftpsvSvEtai
xe xal <payEiv ovx a£,ioi annotat: ro fipsvSvEXai
avii xov pkya (ppovEi. ol pb* ano (IpivSovS rosi cpvxov, ol
6f, (iique ialsisflpi quidem, ut patere opinor ex annotat, p.4. et
5.) pvpov E1S0S, c5 xpi ° v a 1 ywaixES xal in 9 avxcp piya
<ppovov6iv. Timæus L. V. Pi. fipevSvopevoS • yavpovpivoS xal
uyxvXopsvoS pexa fidpovS. Recte igitur Stalibaumis f ipev- Ivftads,
Poev&viifitvog xal t(3q>9ak(id> xaQafidlkov, ygifia
jrapafJjtojrcw xal tovg '<plkov g xal tovg xoki/ifovg, Sijlog <dv
ttavt l xal 3taw it6$ga&ev, ort, «l Tig atpetai xovtov rov dvdgog,
ftdXa i^gauivag apvvti tai. dio xal doqiaXag dstysi xal ovrog xal 6
etegog. a%t8bv ydg ti tav ovxa Siaxufttvav Iv tm ttoUfia ovdi axroytai,
dkbx tovg itQoigaxddyv ysvyovta g Siuxovo:. C xokld (uv otw L > tig
xal cikkcc typi Ecjxgaty Izm SveCBcn est, inquit, superbire maguoque
cara fastu i u » cedere. Minus recte, at videtur, tcotp^aXfito
napaftdX\oov esse ait torvo vultu oculos huc et illuo
coniiciens, Recte Scliol. x avpT/dov dpti?. Bobus torvum vultum
esse nemo concedet, qui huius animalis oculos accuratius inspexerit.
Tavpqdov autem Scliol. dixit, ut esset, quocum tranquillitas vultus
compararetur rov fipivSov. Exprimitur autem illa tranquillitas cum
incessu superbo, tum oculis iu obliquum conversis, quales iu ciconiis
persæpe auimad vertimus. Sententiæ nostræ verba favent t/pEpa
TtapatixoTzeiov, quibus manifesta continetur proxime præcedentium explicatio.
Miror autem, etiam Stallbaumiura probusso coniecturara Bekkeri, 7t
epitixoirdjv scribentis, quæ, si quid video, e Fichii conversioue hausta
est ; deinde mihi visus est> o Aristophanes, quod et ipse
ais, ibi non aliter quam hic incedere superbus, et o cpl is.
quiete omnia circumlustrans, cauteque examinans singula. Qui
circumspicit, non providentiam solum prodit, quæ ipsa apud probos scriptores
circumspectio audit, sed etiam timiditatem quandam animi quippe
undecunque do periculo vitæ metneif. Ceterum xal dupliciter posito in
comparutione: xal Ixel duxno peveOSai
wSnep xal £v$a8t, nihil frequentius apud scriptores Græcos.
xal rov? tpiXov? xal xov? ito\£ fiiovS. Eadem religio, qua scribæ
propter insoquens 7to\Efjlov? scripsere qnMov?, recentioribus impedimento
fuit, quominus, quod vulgo legitur, tpL\oi>? iu ordinem verborum recipereut.
Yide annotat, 13. 8f/Xo? cjv
itavv n J/3fia^Er, Similiter Apollodorus» qui Socratis incessura
imitatus est xgjv ovv yvGopljx oov xi?, inquit, OKl6$E xaxid GJV
p,E 710 P(J G0Sev ixaXs6Er, x. r. A. it por p ondbrjv . Annotat
Schol. ad h I. npoxpoitdSijv TtpoSvflGD?, dpEXadXpETtti, /lEXtZ
nporponij? r/ eI? xovpnpooHiY. Ficiuus verba convertit : Fer. ne
enim qui ita incedunt, nemo eos iuvadit, sed eos, qui efl isa fuga
deferuntur. Tt pronomen indefinitum ad perlinens, neque Latino neque
vernaculo sermone reddi potest satas commode. Efficitur autem eo,
ut ov verbi potestas paollisper imoiinuatur. Sensus est viocci xal
davfiatiia • akXa t Crv fdv aXXtov iitmjStvHurav t u% uv ug xal itigl ciXlov
rouzvra rfjtoi' ro de (itjStvl civ&Qu>ituv ofioiov tivai, (itjte
uxrv utaX.ttlMV UljTB TCOV VVV OVTCuV, TOVTO CC^LOV ftttV TOg
&aV- ficcrog. ciog yciQ ’A%iXlivg totius enuntiati ; Denn
es geschieht ia wohl, dass auf die, welche sich so im Kriege benehmen,
fast nicht einmal ein Angrili' gemncht wird, soudern nur die werdeu
verfolgt, welche ia wilder Hast iliehen. TtoXXa fi\v ov v av
xiS xal d XX a. E nostra loquendi consuetudine Alcibiadis verba
audirent: noXXci a\Xa Savpdtita'. Vieles audere wunderbare. II cctius Græci
xal vocula adhibita disiunxere verba, qua re edicitur, ut singulum
quodque verbum suum pondus habeat propriamque potestatem accipiat. Persæpe
Luiosmodi dictionis exempla reperiuntur; interdum tamen etiam, «]uue cum
nostro usu loquendi couveniant, reperias. cfr, Symp, 195. B, iyoa
81 <Pai8poj xoXXd a A Xa opoXoy&v xovxo ovx bjzoXoydi x . t. A.,
quo loco rovzo pronominis vis nou passa est, opinor, ut xai addito
7toXkct «AA a verba validius emineant. Jb. D. y xavxa te 6o<py yv xal dXXa 7toXXd. Cfr. præterea Matth.
Gramm, ampl. 22a>xpdxy inaiv e6 at. "Vulgatæ lectioni
2(*>xpdxouS præferendum ducimus meliorum librorum scripturam)
exquisita **uirn dictio est neque multo usu protrita inaivetv xivd
xi, quam recte comparavit Astiu3 cum formula A dyuv xiva xi. Etiam
io-tyivtxo, (i7C£ixcc(S£UV av tl$ fra 222. A. e melioribus libris
recepimus a iyta 2<axpdxy InaivGj. S t a 1 1 b. «AAa xdov p.\y
aXXcov littxydev p ctXGDV. Genitivus cum sequente xoiavxa cohæret;
quod quo sensu dicatur ut iotelligas celerius : expletior oratio
audit : aXXa x&v plv aXXcov Imxybevpdxwv a EÆyov, xdx civ
xiS xal 7tF.pl aXXov xoiavxa efjroi. Huius genitivi absoluti qui
quidem argumentum indicet sequentium verborum, multa exempla Matth.
collegit Grapnm. ampl., quæ quidem omnia ita comparata esso
videntur, ut e verbis facillime supplendis aptentur. Dubitari
igitur licet, num Græci genitivo casu ita usi sint, ut eo posito expresserint,
quod Latinis ia asu est: quod spectat ad, quod pertinet ad,
cet. roiro d£ibv 7cavroS SavfxaxoS. Ficiuus vei ba reddidit :
Verum illa præcipua io isto, per quæ nemini aliorum hominum neque
antiquorum neque novorum esse similis reperitur. Quam conversionem
si recte intelligo, Ficinus sensum verborum esse ait hunc: Præter
ea, quæ in Socrate, esse Alcibiades dixerit, alia nova esse, quæ cum
nemine comparari possint. Sed proreus aliud quid Alcibiadem dicere
arbitror. Agit nimirum de integritate hominis, quam Di
t>- «ai Bga6l8ccv xal aXXovg, xal otog av tlegixXijg, xai
NiiSxoga xal 'Avxrjvoga, dal 81 xal txtgot, • xai x&vg d aXXovg xara
ravx’ av ug djtBLxdfyi ' olog 8e ovxodl ytyovt. xrjv uxoidav
av&gamog, xai avxog xal ot Xoyoi avxov, ov8’ iyyvg av tvgoi ug ir/xuv,
ovxs xuv individualitatem vocant recentiores» Singala quidem ait,
quæ in Socrate sint, passim apud alios quoque reperiri, integrum
hominem autem si spectes, neminem esse, quocum Socratem comparare
possis» Bp adiS av, Brasidas rir Juvenis fortissimus, dux Lacedæmoniorum,
præmatura morte exstinctus in pugna ad Amphipolin. H. e. a.- Ceterum nota
iuversum nominum ordinem, quo in altero enuntiati membro Achilles
priori loco positus est, in altero posteriori Nestor et Antenor, quo
nominum ordine hoc, opinor, indicatur I Antiquitas viros habet, qui cura
nostrorum temporum hominibus quibusdam comparari possunt, rursum nostris
temporibus sunt et fuertfnt, qui antiquitatis viris similes esse
reperiuntur. oloS ovrodl ykyove xrjv dtonlav av$
pGoitoS, Ovxo 6 i paullo infra accuratius definitur verbis
avxoS" xccl ol Xoyoi avxov, quibus verbis additis Alcibiades aditum
paraturos est ad ea commemoranda, quæ in superioribus commemorare
omisit» Sic paullo infra eodem modo legitur : avxov, avxov xal XovS XoyovS. Laudat
Stallbaumius apposite Piat. Criton. 50. E. ovxl rpikxipoS rjtiSa
$ot>Aof, avxos te xal ol 601 izpoyoroi; Soph» Oed. Coi, v, 452*
iita&oS p\v OlSlitovf xaxoixtldai avxoS xe naidks $r*
aib*. et . xoiyap 6l, xocvtov xal yk "vo? ro 6ov
Becov d txavxa A evddojV "HXtos doitj filov
xoiovxov . In hoc genere dicendi quoniam copulam bis
posuisse videantar veteres, Riickerti industria etiam nostro loco
dupliciter poni iubet, atque revera edidit avxov xe xal xovS A
oyovSf quæ scriptura in aliquot codicibus comparet» Potuisse
Platonem copulam bis ponere nemo negabit, qui exempla supra laudata
legerit $ sed cur non item dicere licuerit Græcis avxov xal xov* A
6yovS> frustra rationem quæras. OVTE XGJV VVV OVXB X CQ V TCaXai
gj v. Suspicionem moverit hæc verba depravationis, quæ fieri potuit
facillime, ut e præcedentibus verbis 221. C. r 6 ptjdEvl
avSpoditGov opotov elvai pijtE xdrv itaXocuav fnjiE Xgdv vvv
ovxojp, huc transferrentur. Suspiciosa autem verba sunt, non, quod cum
rls pronomine indefinito coniungi debeant, tjuo facto sane sententia
existetet neUtiquam probabilis, neque, quod nimis remotum sit iyyvs
iromen, ex quo genitivi illi pendent,
tantam autem vim habet kyyvf principe enuntiati loco politum, ut
huiuamodi structuræ vvv ovte tm> a ahxiuv, fl /w/ uga olg ly o Xeya>
txxeixagoi rtg ttvxw, av^ganav fiiv /ir/devl, toij da 2,'ecXrjvolg xal
EatvQoig, avtov xal tov$ Xoyovg. Cap. XXX VII. ICal yag ovv
xal rovto iv roig XQoitoig nagtiutov. pondus facile sustineat, sed
Platonem scripsisse arbitror, si verba addidisset ovte rc ov vvv
ovte r&v tcaXaidctv : ovdiva ovd lyyvS dv evpoixiS ZtfXGor.
Ficinus exhibet in conversione: Sed qualis Socratis est qoalisque
eius mira dicendi ratio, nemo prope ad eius similitudinem accedet
neque veterum neque eorum, qui nunc sunt. el ptr) dpa. Post
dpa cod. Bodleianos aliique pauci ei habent, quod Bekkerus et
Stallbaumius in ordinem verborum receperunt. Atque hic quidem ad ei firj
apa e præcedentibus repetendum censet: evpoi xi$. Admodum dubito, num cuiquam
lentorum placere possit, quod hoc supplemento edicitur, dicendi genus
impeditissimum. Riickertus alterum hoc ei e textu semovit.
Recte, ut videtur. xal yap ovv xal. Duplex xal ne quem
offendat hoc loco : xal yap ovv xal ex eo dicendi genere esse
contendimus, de quo supra dictum est annotat, 5. et 6. Recte autem
nobis videmur ibi annotavisse, prius xal in liuiusmodi dicendi formulis
expletivum esse, atque particularum quarundam levitatem ita aggravare, ut
principis in enuntiatioue sedis gravitatem sustinere possint. In harum
particularum numero etiam particula caussalia est, quam veteres
nunquam in enuntiationis alicuius initio posuere. Alteram xal diximus
gravitate quadam verbum, cui præpositum sit, ornar j, quæ cum
aflirmatione sit coniuncta. Iatr» cum supra Alcibiades dixisset 215. A. iav pivxoi dvaut fivjjdxopevoS aWo
a\\o$ev A iycj, pTjStv Savpadyf, verisimile est, eundem nunc ad ea
respexisse, atque exemplo malam memoriam comprobasse. Kal yap ovv xal
verborum paullo dilficilior vernacula conversio est. In Schleiermacheri
conversione legitur l Und dies habe ich gleich zuerst noch ubergaogen,
quod cum Græcis verbis minus convenire arbitror. Mens Alcibiadis
respicientis, quod accurate tenendum est, ad verba. A., hæc est : Denn da
ist ja nun der Beweis, dieses habe ich zn Anfang ausgelassen.
T oiS dioiy ojiev oi$. Sæpius iam de usu verborum annotavimus, quo omittuntur
alia quædam verba, quorum additamentum, secundum nostram loquendi
consuetudinem si rem iudicas, ad rem necessarium est. Ut exemplo utar,
dioiyexai dicitur pro 8iolye65ai Svvaxai, dioiyojiivovS pro StoiyeGSai
dvvaptivovSy quibus exemplis statim edocearis, qua conditione hujuscemodi
omissiones Græci scriptores admiserint. Fusius (ie hoc dicendi genere
supra diximus annotat. ., al. ei yap t5e\ei zt$. Hæc ion xal
ot loyoi avxov otiowxaxot tlst xolg SuXrjvoTg xolg dwiyofiivoig. tl yag
IfthXet, xig ' xav Eaxgdxovg e uxoveiv Xoycov, qiavEitv av itaw ytkoloi x
6 xcgmov’ xoiavxa xal ovufiaxa xal gijfiaxa ^a&ev rtegia/ixe%ovxui
Zcetvgov av uva vfigiGtov dogav. ovovg yag plurimorum atque
optimorum codicum lectio est, præ qua multo deterius est, quod vulgo
edebatur ISlkoi, Diximus de ei particula cum indicativo coniuncta, præcedente
vel subsequente optativo et av 'annotat, 38. ibique potestatem huius structuræ
explicavimus. Supra Alcibiades dixit 216. A. xal In ye'rvv Hvvoid'
ipavzoo, ozi, ei i$6Xoifit itapexwv za atra, ovx av xapZ7fp//(Saipi x. r.
A. et panllo infra filat ovv oa?nep ano zdav 2 'eipjjvcov,
inidxopevo? za aræ oFxojuai tpevyoov x. z. A., quæ verba ideo
laudo, ut melius perspicias, qui fiat, ut Alcibiades potissimum dicat ei
yap iSehei T i? x. z. A, h, e, denn wenn einer wirklich das Ilerz hat,
die Reden des Socrates zu veroehroen. Quivis alius, qui non expertus
esset, quæ sibi accidisse Alcibiades narrat, non dixisset ei yap
i$£\et zi? x, z. A, 2azvpov av xivavfipt6tov 6opav, h. e.,
Stallbaumius inquit, ol A oyoi avxov totavza ovopaza xal firjpaza
ixovtiiv &snep av ei SZwSev 7tepiapn^x otyTO 2azvpov ziva
vfipidxov dopav : sermones eius talibus nominibus et verbis
compositi sunt, quasi Satyri quadam irrisoris pelle extrinsecus
amicti sigt. Porro ne quis av particulam suspectum habeat, verbo
omisso in oppositione po sita, sententiam hoc modo explicandam censet :
oia av efrf Sazvpov zi? ijfipitfzov 6opa .Ceterum quo magis pateat,
propriam dictionem cum tropica per elegantem quandara breviloquentiam
conflatam esse, interpunctionem post nepiapnlxovzai vulgo positam delevit*
Riickertus improbata hac omissione interpunctionis comparationis
significationem in ziva' pronomine indefinito deprehendisse sibi videtur
verbaque convertenda censet 1 talibus nominibus et verbis extrinsecus
involuti sunt, quasi Satyri quadam pelle» Ficinus habet in conversione;
Nomina quippe et verba exteriori aspectu Satyri cuiusdam
contumeliosi habitum præ se ferunt. Satis nobis displicet ziva pronomen
indefinitum, neque, quomodo interpretibus satisfacere potuerit istud:
Satyri quadam pelle, intelligimus; FICINO (si veda) pronomine
offensi liberior conversio: Satyri cuiusdam pelle; sed ne hoc
quidem, si in Græcis legeretur XiVot, setia bene habere videtur.
Respicitur enim ad Marsyam, cuius mentionem supra fecit
Alcibiades. Av autem particula admodum dubito, num recte explicari
possit* Pone recte a Stallbaumio explicatam esse: o£nf av eXrj
2a-> rvpov xi? vfipidtov &opd : hoc certissimum est,
enuntiationem addita hac av particulæ notione frigidiorem fieri
atque languinjATaNOs I xav&rjXiwe Afy» xal uvag xal
dxvroropoug xal (IvQGodtipæ, xai au dia dSorem.
Itaqne non dnbium eat nobis, quia verba dv ttva depravata sint.
Scribendum est: totavtct xal 6v6f.ta.ta. xal faijfiatct HZaoSev
7t£piafi7texovtai f 2arvpov avtixa vftptdtov 8opav . Quam facile avtixa,
cuius vocabuli usum non intelligereat librarii, in av tiva mutari potuerit,
ipse, lector, vides. Adhibuere autem illud vocabulum scriptores ia exemplis
argumentisque afferendis atque in comparatione haud raro. cfr.
incerti auctoris Alcib. II. 138. C, tSsnep tov OiSinovv avtixa
<pa6\v evB»a~ 6$ai SieXidZat ta na tpoHa tovS vlelS x . t. X.
Ibid. 189. B. navtaS ovv av <pdv reS, oj AXxifiidSrj, rovS a<ppo
vaS ftaivedSat, opSwS av (paitjpev. avtixa tc ov ddov 77 A 1 xtootcov et tiveS
tvyxdvovdtv acppovLS ovteS, &Snep eidi, xal tgjv iti
npedftvtipoov. Ibid. 144. C. ovxovv ol
firjtopes a yrixa, ytoi eldotes &vftfiovXevetv rj obfSevteS eldivai x. t.
A. Piat. Protag. 359. E. aXXd fikvtoi, i<prf, co 2c6xpateS,
ntiv ye tovvavttov idtlv ini a ol te deiXol ipxovtai, xal ol av
6peioi. avtixa eis tov noXeftov ol fiev iSeXovdiv levat, ol 0 61 ovx
iSiXovdtv. Piat. Gorg. 472. D. avtixa
npcotov,nepl ov vvv 6 Xoyos idrl, dv ?}yet olov te eivai, elvat
ftaxapiov avdpa adixovvta te xal d6txov, etnep x. r. X. fii loci accurate
inspecti satis docent, per avtixa vocabulum exempla afferri talia, qualia
loquentia animo illico offerantur. Quoniam autem exempla, tov avtav ta
avtct <paiquæ loquentis animo inter loquendum offeruntor, non semper
aptissima sunt neque omnium optima, quæ afferri potuissent : avtixa
vocabulum indicat, alia exempla reperiri posse fortasse, quæ
rectius nunc laudentur, sed loquentem, quod primum ipsi se
obtulisset, id exhibuisse, Inest simul caussæ indicium, cur exemplum
laudatum scriptoris animum primum subierit. Sic io Alcib. II. 139* B.
quoniam cum Alcibiade loquitur So-crates, rjXixidotai Alcibiadis
per avtixa vocabulum exempli caussa laudantur. In Piat. Prot. 559.
E. SelXqjv et avSpeicov nomina ultro ad bellum laudandum loqoentem
duxerunt. Rem extra dubitationem ponit, ut alios locos prætermittam, ACCADEMIA,
LEONZIO (si veda). D. avtixa npdotov, nepl ov vvv 6 XoyoS idtiv.
Neque mirum, Socraticos sermones cum Satyri pelle addito avtixa
vocabulo comparari, cum ipse. Socrates paullo ante cum Marsya comparatus
sit. Iam nostro loco avtixa pro dv ttva ubi posueris, verba vertenda
sunt: So1che (b. e. so litcherliche) Worte und Satze haogen
auswendig durum heram, eben eine wahresSatyrfell. Ceterum quod
Stallbaumius censet nOn opus fuisse in hac comparatione 00 S particula :
coS 2atv~ pov dv ttva vftptdtov dopav, quoniam et Græci, et
Latini scriptores haud raro eam appositioni vim tribuerent, ut haberet
simul comparatiqpis significationem : coS particulam nostro loco ne ferri
quidem posse con veta* leyuv, agrs SltEigog «ai dv<njTog Sv9qox og
zdg &v tuv f.6yav xcaayeXdaus. duuyopivwg 81 Id av av 222
Undtmn>. 'ili 2atvpan> Sopav foret : quasi Satyri peJle
amicti sint; 2axvpov Sopav autem similitudinem ita auget, ut Satyri
pelle r er er a amicti dicantur* Recte igitur a nobis in conversione
additam nomen: wahr. Eodem modo loci explicandi sont, quos
Stallbaumius laudat annotat, ed h. 1.: Aristopb. Aw. y. 169. et Plat. v. SI 4. dv 6* *ApidxvXXoS vitoxddxcov ipeiS t ad quæ yerba
frustra Scliol. X sinet 81, Inquit, to coS 6 *ApidxvXXoS aiCxpovpyiaiS
nexr}vo6s. Tibuli. ipse seram vites rusticus, quo loco illud
ipse æram quasi rusticus admodum ieiunum foret. Horat. 6erm.
I. 1. 99. hunc liberta • ecuri divisit medium fortissima
Tyndaridarum. ovovS yap xavSTjXlovS Scliol. s. v. navSrjXiovS
* xovS fipaSeiS, inquit, voijdai r) a <pvels ano navSavoS, oS
idxiv tvoS, elprjpkvoi, oS naXiv ano to ov xav^njXiGov, xcjv
inixiSefikvcov avtqS inindpnxcev B,vXa)v, xovxidxi daypdxoov, ovo paP t Exai
ovxcoS. Idem sub T, fivpdo8kif>aS* tovS xas fivpdaS ipyapopkvovS
nal paXazxov taS, Socraticum hunc morem, res vilissimas atque tritissimas
cum aummis miscendi multi loci Platonis repræsentant. Sic io Piat.
Euthyphr. p, 13. legitur: 2. nal naXdiS yk poi, cJ EvSvtppov,
<paiY£i Xkyeiv. aXXa dpixpov rivoS ht Mei/S elpi. xrjv yap
$epaneiav (sc. rc5v Seobv) oviccd G vritlfit rjvxiva ovopapaS. ov yap
itov Xkyeif ye, oleti nep nal ai nepl za aXX* Sepanetai eidi,
toiavxrjv nal nepl xovs SeovS. Xkyopev yap itov, olor (papev, innovS ov
naS inidxaxat Scpaneveiv, aXX’ d inmxoS. r\ yap; E. navv ye,
2. r\ yap itov Innixi} Inncov Sepaneia; E. vai. 2. ov8k ye nvvaS
naS inidxaxat Sepanev€iy, aXX* d xwipyenxds. E. ovxgos. 2. ij yap nov
nvvrjyexim } xvvgoy Sepaneia; E vai. 2. t\ 8k ye fiorjXaxim/} ^ocov
; E. navv ye. 2. rj 81 6 q odtoxnS re xal evdkfieia Segov c o
EvSvtppov ; ovxooS XkyeiS \ E. iycoye. nal dnvxoro fiovS cfr.
Piat. Gorg. 490. E. rov dxvtoxdpov IdcoS pkyidxa Sei vno Sijpaxa xal nXetdxa
vnoStSe pivov nepinaxeiv. K. nola vnoSipiaxa tpXvapeiS ix cor; quæ
Callidis verba optime transtulit Stallbaumius annotat, ad h. 1. ed. 157. Was liast du nur, dass du doch immer von Schuhen achwazzest. Quæ
seqnuntur verba xal dei 8id xcov avtcevxd avxa (paivezai Xkyeiv
optimo probantur Callidis verbis in Piat. Gorg. 490. E. cos dei
xavxa XkyeiS, gj 2cdxpaxeS. 2. ov po~ vov ye, cJ KaXXixXetS,
aXXa nal nepl xdev avzaov. K. vi} rovS Seovf, dxexy&s ye æl
tinvxkaS xs nal nvatpkaS nal payeipovS Xkycev nal ipcxpovS ov8lv
navet coS nepl xovxcoy rpiiv dvxa xov Xoyov. StotyopkyovS
dhiScev av xiS. Bekkerua pro av, quæ omnium librorum lectio est,
av in ordinem verborum recepit. Eum secuti sunt Astius et
Dindorhus. Recte Riickertus videtor ttg xccl fvrog «vrinv yiyvv/isvog ngcorov
pev vovv fyorrag l'vdov (iwovg tv(n]au rav koycov, inuta ftuotdtovg xal
nktloxa, ccycdjjiccta ugerrjg iv ctvrolg E%ovcag zcd Ini TtktiOtov
ttlvovcag, (idXlov di Ini jtav, oGov ngogr/xu GxonBcv tc 3 [liXXovu,
xcdco xayadqi iOECidcu. Tavt’ istiv, « avdgeg, a lya Evxgdr-q
incava’ pcv particulam etiam eo nomine improbare, quod, si eam exhibuisset
scriptor, alio loco popuisset : 8iozyo/.iivovs av idejy. Male autem
{Scov av explicat : idv TiS I8y: si quis forte viderit. Nihil enim
certius est, quam IScjv dv idem significare atque el fdot dv,
quam dicendi formulam frustra negantur scriptores Græcos interdum
adhibuisse, Alio tempore explicatius de idv TiS fd#, eI tiS I801
dv, Similibus dicendi formulis discemus, nunc hoc tantummodo annotare
iuvat, eI particulam cum optativo et ay coniungi, ubi heri aliquid
pouitur, quod vix heri possit, et quod si fiat, ex insperato
accidisse putatio dum sit. h# 1 irroS ccvzgjv yiyvopEvoS. Hæc
verba Schleiermacherus convertit: Wenn sie aber eiuer geoflhet sieht
und inwendighineintritt. Hecte quidem verba Græca conversa sunt, sed hæc
ipsa vehementer dubito, num bene se habeant. diotyojxevovS participium satis
docet, Alcibiadem ad Silenos respicere in artificum officinis collocatos,
Iam si quis (jtydXjiaux in illis recondita volebat intueri, epistomio ab
utriusque lateris foramine remoto ad alterum foramen propius accedebat,
non in concavum Silenum descendebat ; scribendum Igitur
videtur esse: xa\ iyyvS Ctvtcoy yiyvojievoS. De ivtoS, iyyvS, al. sæpissima
in libris commatatione vide aunotat. fiOYOVS evpjjaci TGOV X6ya)v.
MuvovS Statlbaumius eodem modo dici censet, atque . C, pova
HaTExzGSoti ItoiEi, h. e. eximie. Sed vide annotat, ad hæc
verba. Hoc potius Alcibiades dixisse censendus est: Solum Socratis
sermonem in se habere, quod vodv h. e. iutelligentiam fere divinam
prodat. Quod
ita dici ab Alcibiade nemo mirabitur, qui quidem legerit, quæ 215.
D. et E» de Socratico seiraone dicuntur. Ey8ov Ruckertus additum censet
propter oppositionem sophistarum, quorum orationes extrinsecus quidem
splendeant, magnamque veri speciem præ se ferant, intus autem, si
quis accuratius exploraverit, omni veritate careant. Dubito, num
hac ratione ivdov vocabuli potestatem satis recte explicatura habeas,
"Ev8ov potius additum, Ut lector moneatur significantius,
sermones Socraticos cum Silenis comparari, qui in artificum officinis
sedentes intus in se simulacra recondita habeant deorum. pdXXov 8 e
. MdXXoy 8e eius est, qui arctioribus finibus circamscrih^t, quæ
proxime præ- i by'Cyo<j[c zrMnosioN . 'acu ccv, 8
(lificpofifu <Svf lul^ccg, vfiiv ilitov a fis vj}gi6e. xal (dvtoi ovx
Itis fiovov ratha nsxolrjxev, alia xa i XccQfildtjv rov riavxuvos xal
EvftvSr]fiov rov a ho xltOvg xal allovg naw xollovg, ovg ovrog l^axarov
c5g sgaGTrjs xaiSixa fiallov avzbg xu&iozutcu, dvz’ Iqu6tov. a 6rj
xal Ool Isya, a ’Jyd&cn>, fitj locata cedentibus minus accurate
erant atque latius patentia enarrata. Vide annotat, 15.
tavx* £dtlv y qj avdpeS v (5 pld ev* Vulgo iuterpun ctio comparet
post pipqiopai, quam BekJcerus iu textum recepit, Stallbaumius delevit,
Riickertus post dvppi£>aS transponendam curavit. Nos et post dvp» pl&<xS et post av 3 quod cum inæquente eluor
arctius coniungeudum est, comma ponendum curavimus. Sensus est: Hæo
sunt, o viri, quæ mihi iu Socrate laude uda videntur et rursum dixi
vobis, laudationi vitupcrium adjungendo, quanta superbia necum egerit.
Quam Wolfins foci interpunctionem probavit : a iycj 2ooxpdxrf iitaivQa
t xal av a pkpcpopai. tivppl&ctf vfiiv eItxov, a pe vfipidav,
ea ne rectam quidem sententiam fandi t. X a ppiSijv rov
r\av xcdvoS. J)e Gharmidc. Glauco uis lilio, vide ACCADEMIA, Charmidem,
Xenopb. Memor, Sympos. III. 9-> IV. 29. coli. WyttenLach. ad Select.
Princip. Ilistor, 411. Iuvenis fuit et genere nobilissimo Gritiarum
oriundus et præclara animi indole præditus. Enthydemus intelligitur
Dioclis filius j idem est, qui cum Socrate colloquens inducitor
apud Xenoph, Mera. IV. 2. 40* Male eum Wolfius confudit cum
Euthydemo Sophista, cuius nomine Platonis dialogus Euthydemus inscriptus
est. Stallb. itaiSixa fiaXXov avr of. Socrates hominibus
pulcris ita insidiari solebat, ut eorum amore captum se simulans
ipsis vehementissimum amorem iniiceret sui. Respicitur ad hanc rem
iu Piat. Alcib. I. fin. A. xal itpoS tovxoiS psvxoi toSe XeyG i,
oxi XivdwEvdopEV fiExafiaXtiv xo 6]pjltu % g3 2<nxpocteS, ro
plv dor £y<v, dv Sk xovpov . ov yap Idxiv oncoS ov
itaidaya)yijdco ds ano xijsde trjS rjpipaS, dv 6* vit * ipov itaiSayayrjdEi. 2.
yevvale, iceXapyov apa 6 ipoS ipnoS ov6lv dioidei 9 si itapa dol £vVEaxxtvdaS
tpeoxa vitoitXEpov vito tovtov Ttakiv $Epa7tEVdsrau / a 8?j
pr) £Za7tatad$ai vico tovtov. Bodleianus codex, in quo interdum manifesta
indicia correctoris nou indocti reperiuutur, ttiaitaxa,dSe exhibet, quod
quamquam aptum est et bonum, tamen recte postponitur lectioni
vulgatæ. Per epexegesin enim pt } iZartaxadSeii verba præcedenti
relativo pronomini apposita sunt, idque genus dicendi, quoniam
i jiaathnoz raO&cn vito tovxov, ali' dxo rov fjpexiQav
Tca&yfiuxav yvovtct tvXaptj&yvai, xal (itj xotzd vqv 71uqoiuluv,
SgitEQ injTCiov, xu&bvrci yvuSvat. Cap. XXXVIII. C Ehtbvtog Srj
xccvvu xov 'Alxifhudov, yikma ysvlaftcu Ini xy na^Qyisla ccvxov, on idoxei in
Igcoxixws i%uv xov Suxquxovs. xov ovv Eaxqccxij, Ntj- suum quoddam pondus
habet, Græcia adamatam est magno opere. Eius ut unam exemplum alleram, legitur io Sophocl. An*ig. v.
446. 8v 8’ tini poi pfj pijxoS j aAAd dvvxopa ySyS xd
xrjpvx^ivxa, prj npatfætr r a8e ; Ceterum quod relativum
prono*, mea attinet, quod ad præcedens tia semper refertur
secundum præcepta grammaticorum, præclare Stallbaumius annotat, ad
b. 1. Plene, inquit, Alcibiades dicere poterat sicj ex quibus quæ
consequuntur, ea etium te moneo, videlicet ue ah hoc decipiaris, oxctxd
rtjy TC a p oiplpr. Respicit Alcibiades ad Hom, Il. aXKd d’
iytuy dvaxooptj* davxa xe\eva> IS nXr/^vv liycu, pt/8’
mV xioS tdxad’ i/tuo nplr xi xaxdv naSietv- fieX$tr di xe yi/nios
lyra, $cho]. nd Ii. 1. annotat; fiexShr Si Xf. vyttiQf iyvay
ini reo r peia xu naSelr dvviivxajy xd apaptrjpa. figd xd avxd
txipu papoipia' d «Atetifr n Ayyeis y ovy ipvdft. qxxGt ydp
aXiia ayxidxpevorxa, inei~ Sdy dnddtp xo 5 A Ivoo xov ix$vv, xtf x
n Pl npotayaydvxa xaxiXeir, ira prj <pvyg . xvvxo 61 dvrtjSatS
noiovyxa vno dxopxtiov icXr/yrjvat' xal tine onXtiyels yovv cpvdetS, xal
pr\yixt npoSayeiy ig ixetvov xtjv Xtipa. "E<Sxi xal xpixrj
opaloidv prj naSyS, ov prj p aSr/S. iXix^t/ 61 ini Tipatrof Xov
ptdavSptdnov ptjxhi npoStepirov x ovi xoXaxaS, Apud Hesiodum legitur,
quod propius etiam videtur ad Platonis verba accedere Opp, 216.
naStdy Si Xt vr/moS lyvat, ini xy nafi/tr/dlce avxov. Ipse
Alcibiades 217, E. xd 8' ivxtvSttv, inquit, ovx av pov tjxovdaxe
XiyovxoS, el ptj npdxor pb> xd A eydpeyov olyoS avev xe nalScov xal
pexa naiSatv r/v dXt/Btjs, quibus verbis napfttjdiay excusari manifestum
est. xdy ovv 2<» xpdrijt Mira arte, quæ sequuntur,
excogitata sunt atque præcedentibus annexa- Etenim cum orationem
Alcibiades finiisset^ quæ ingentem cautineret Socratis laudem, fieri non
potuit, quin Socrates aliquid responderet. Exspectabas urio fer«
quid responsurum esse, %
m q>t tv (ioi tipxs Ig, tpavai, <o ‘AhufiiaSri’ ov
yctg Sv nors ovza xouipcSg oxvxXty X£QifiaU.6[isvog utpavloai
ivt%siQu; ov evexa zavza navza dgtjxag, xal cSg tv uaQtQycp drj Uyov ixl
zetevpjs avxo Edjjxag, tog ov navza zovzov tvtxa elfnjxag, zov £(i'e xai
h fya&ava tiucpaXluv, olofitvog deiv tfii (itv Cov Iqav xal fitjSs-
o vog allov, 'Aya%ava 6'i vxo Oov iguodai xal ftijd’ i(p' tvog
aU.ov. alX’ ovx tXadtg, akla zo UazvQixov quale, qui laudantur,
edere solent, modestiæ documentum. Id si Socratem proferentem induxisset
scriptor, verendum 6aue erat, ne rerum ab Alcibiade expositarum fides
imminueretur vel vis atque vigor infringeretur. Contra si nihil
respondeutem fecisset ad laudes illas, neminem esse arbitror, qui
Socraticum silentium non superbiam et arrogantiam sit interpretaturus. Ne
igitur ad laudes Socrates respondeat atque ne superbire videatur, finem
Alcibiadeæ orationis aggredientem Piato fingit, atque a laudatione animos
auditorum feliciter deflectentem. Qua ratione id fiat, exponere nolo}
ipsi lectores verba examinent, studiose singula expendant, Platonisque
artificium, quod ipsi deprehenderint perse nserintque, admirentur. ovx a
xopip 00 ^ h. Stallbaumius inquit, tam scite artificiose. Idem
xo/iqfreve6$ca rectissime annotat. ad Piat, de rep, IV, 4 36. D. de
oratione festiva, arguta et ad capiendos auimos auditorum apta
interpretatur Timæi laudans L, V. Pl. p, 154. seqq. Verba *«kAo>7
nepifiacXXopevoS esse docet multis orationis ambagibus usus. Fortasse ad
Alcibiadis verba Socrates respicit. A. iav fUvxoi dvajJtipvTjtixopxvoS aWo
aWoSev XSyco, fiTjdlv SavpdtiyS' ov yap xi fipSiov xrjv (??jv
axoxiav gj< 5 ftovn evnopooS xai itpeZrjS xaxapi%pij6au De
a<pavi6ai verbi potestate supra dictum est annotat. 561. x.al cJ s iv itaptpyop tdi} particulæ ironicam
significationem. de qua vide Indices s. v. 6rj, etiam ex hoc loco
cognoscere possis. Sensus est verborum : Et scilicet quasi præter
propositum at* que consilium tuum, r ov ipl xal
'AydSoora § iap aWeiv . cfr. Piat. de. rep.. C. firj 6iafiaX\e, jjv
6* lyw, i/ih xal SpaQvpayov apxi (plXovX yeyovoxaf, Qvdfc Ttpq % ov
i%$pov$ ortas, oiofteros 6elr tfil. D. (Uiv verbi
potestate supra dictum est annotat, p, 12. Non sino acerbitate hoc
loco positam est, simulque vanitas opinandi Alcibiadea perstringitur:
indera du dir einbildest, ich miisse uuuragiinglich cet, Prorsus
eodem tpodo Alcibiades paullo infra 222- E, oiexai pov 6elv navraxi
KBpuwccu \ .* I Oov dQC!(ia tovto xal OeiXrjvixbv xataStjkov
lyivEto. ' bAA’, tJ <plle 'Ayaftuv, fitjdlv ‘nUov avttp
ytvrjtai, «AAa naoa<S>isva£ov, oxag ifih xal al [lydels 6ia(id
At; Tov ovv Ayd&uva. tlmlv, Kal firjV, i b ZdxQatEq, xivdwt vug
cckrj&rj i.tyuv ’ rtxfiatnouai, 5s xal «a g xateE xltvrj Iv pii 1(o sftou
rs xal tSo v, Zva %aq\q jj/iag 6iuJLufiy. ovdsv ovv xkiov avtcS Sotai, «AA’ lyd
xagd dAAa ro Sarvpixdv 6ov 8 p a p a tovto xal SeiXtjvixoy. Recte
intellipet hæc verba qui meminerit, non nisi ante actis fabulis tragicis
Spapaxa 2atvpixa edita esse. Duo autem sunt, quæ iis commemoratis
Socrates reprehendit. Alterum, quod in fine orationis Alcibiades
posuerit ea, quæ primarium locum obtinere debuissent, si apertius
sensa sua ille depromere voluisset. Alterum, quod Satyri
Silenorumque comparatio ea taatum de caussa instituta sit, ut
orationis finis Alcibiadisque consilium facilius tegi possit atque
velari. Satyricum illam poesin quod attinet, apud Zenob. legitur: tqvS
SazvpovSv6TEp6v 28o%tv ccvToiS npQEtsdyEiv, foce jit) 8ox&Giy
liti\avSavE(5Sai t od $eov. Probat hanc sententiam Wachsmuthius in
libro: Hellen. Alterthumslr.: Ais die Tragocdie des urspriinglichen voti
Dionysos haudelnden Inhalts sich entdussert hatte, und wie eia
freigewahltes und au den Dioliysosfesten nur ausserlich hinzugefiigtes
Kuustgcbilde erschien, vrurdp, man mogte sogen aus eiucr Art von
religiosem Bedenken tmd zur Eriuneiung an die an*fftnglichc
Beschafienheit des Chors das satyrische Drama eingefiihrt, das
freilich rait seineu StolTeu auch nicht nuf den Kreia dionysischer Mythen
beschrankt, und dessen iunerer Ton und Haltung tveder von dem
tragischen Ernste noch dem komischen Scherze streng gesondert war,
dessen eigenthiimliches Weseu daher wohl nnr in der Wiedereinfiihrung
des ehemaligen Satyrchors zu suchen sein mochte. pTjdlv
itXkor avTQj yk vrjxai, h. e, Stallbaumius inquit, opa, pt) te TcKtov
avTGj ykvijrai. Dubito, nui n hao ratione veiba recte explicata
sint. Scriptum certe exspectaveris : pt/8lv tc\Lqy atheo ykm/rai,
xal xapadxF.vdctov, oizgdS ipk xat Ce pt/SsiS 8iafid\y. Non
recte enim in eadem enuntiatione consociari videntur opa d A.A. d
itapaCxeva£ov> Mj/81y ykvr/xai in eum
potius cadere videtur, qui suarum rerum certissimus eloquitur, quod non
sit futurum: Oewinn soli er da von tilcht huben, \ Zvct
x&pl* vpds 8iaXdfty, Dictum hoc eleganter cum amphibolia qqadam, ut
et de spatio possit cogitari et do animorum disiunctione,
Stallb. a\X’ ei pt/ ti dAAo, g5 $ avpaCiE, Alcibiades
cum Socratem se potiorexn esse animadverteret in capiendis hominum
animi;, oj SavpdCu op ztmiiozion fi! iX&wv xccTaxhvfoofiai.
Tlavv yi, <pavcu rov HaXQattj, Sivqo vnoxata ifiov xataxlivov. 'SI Xtv,
cl~ mlv rov ’AXxi(iiadt]v, ola av na<S% co vxo rov uv&q<6jcov.
o’uzai fiov Sslv xavzayfi «SQiBtvca * aXX’ tl (itj n aXXo, o)
&avuc((hE, Iv pioco rj(i<av tu 'Ayu&avcc xataxslo&ca. 'A
XX’ aSvvazov, (pavæ, rov JkaxQanj. <Sv filv yccQ lui httjVEGas,
8b t fi’ i(i's av rov Ixc dt^ta pellatione usus est, cnias
potestatem aut non explicarunt interpretes, aut non satis recte*
Gav/iageiv verbum haud raro ita adhibetur, ut rem magicam
significari indicetur. Sio in Aristoph. Nubb. v. 180. ri 6t/t*
ixetvov rov QaXrjr Sav/HxZojxev 5 De Thalete præstigiatore
sermo est, quem axpov pr\xavix6v vocat Schol. ad hunc locum. Gavfiaxa præstigiæ
sunt. cfr. Plat. de rep. VII.p. 514. B. xap* 7jv (sc. 060 ^)
TEtxlov ita poDxodoppjnirov y coSTtep xolG $CtVpaTQ7tOlOlS 7CpO
XCk)V CLV$pGD7tG)v ifpoxeixai xd napa 1 ppaypaxa, vitlp gov t a 2avpaxa
SewvvaGiv. Sic etiam, opinor, SavpadioS hoc loco ita ab Alcibiade
adhibetur, 'ut præstigiatorem significet Socratem, quippe qui mira arte
hominum animos deliniat atque vel nolentes ad se trahat. figi
5* ij.th av rov iit\ 8 b£,zol. Vulgo avxov legitur pro av xoY, quod
de Bekkeri coniectura hodie omnibus probatur. Patet autem, a principio ita consedisse Agathonem atque
Socratem, ut hic ad Agathonis dextrum latus cubaret. Alcibiade
accedente, quem medium inter utrumque consedisse rrperimus, ordo
hic erat : Ad dextrum Alcibiadis latus consedit Socrates, ad sinistrum
Agatho. Iam cum laudasset Alcibiades Socratem, et hic quidem
Agathonem iuxta considere iussisset, patere opinor, ad dextrum latus
ipsum considere iussisse quippe hominem laudatione ornaturus. Iam
iutelligitur, «juid verba significent iv p&6a» 7JJ.IUV, Rogat
enim Alcibiades, ut Agatho ad sinistrum latns Socratis considat,
quo facto ille medius inter Alcibiadem atque Socratem consideret. Ilaic
Socrates: Vellera quidem, inquit, tibi obsecundare, si possem; sed
non possum ego. Etenim me laudando tu, qui es magister bibendi,
legem edidisti, secundum quam dextrorsus alter alterum
laudare debet. Necessitatem
igitur milii impositam vides Agathonem laudandi. Iam.si medius
inter nos Agatho consideret, me laudandi provincia ad eum abiret. Sed non
sperandum est, qui modo a te laudatus sit, eum alteram
laudationem ex Agathone auditurum esse. Sine igitur, Agatho ad
dextram iuxta me considat, eiusque laudationi ne invideas. QV
6?} 7tov i fih za\iv iitatv i (Sex at. Supra diximus *\ (o ixaivuv.
tav ovv ino <Joi xaraxhvy 'Ayaftav, ov 6rj nov ifih Ttctiw Incuvidtrox,
nglv in’ tfiov (iaU.ov inaivt&ijvau aM.’ EaOov, d datfi6vis, xal [l
t) <p&oS33 vrjdys *<? fiBigaxlco in’ ifiov Ixaws&rjvaL • xal
yag naw iniAtvudi avtov lyxafuaGeu. 'Iov Iov, cpavat rov
‘Jya&ava, 'AXxifiuxSrj, ovx Ead’ onag av Iv&ade (tilvaifu, akka
neturos (ia?.lov fiiravætTjOofiat, Zva ino JEaxgaxov g Inaivs&a.
Tath’ bulva, (pavæ rov 'AAxipucdrpv, ta elaftoza ' Zaxgarovg na.gov tog
rem da 67}7C0V Tocolarnm «ignifica dis fortunam commiseratos
dltione annotat, p, 98. Provocat xisæ videri possit: Wchc, vrehe, entem
plerumque ad alterius iu- armer Alcibiades, ich kann hier dicium, qni his
voculis utitur, nicht blciben, soodern muss um ita, ut rem extra
dubitationem alles den Platz wachseln, damit positam esse una significet.
Jif Socrates mich lobt. Diilicile est eutem voculæ irouica potestas ad
diiudicandum, utra explicatio satis manifesta est converti con- rectior
sit. Hoc unum certum tra eum, qui forte, quod certis* est, contra
Alcibiadem hæc omola simum sit, addubitare audeat vel dirigi, qui si
commiseratione manegare. MdXXov ante incagis commoveri censebitur, quam
veSijvat positum cohæret cum lætitia Agathonis, non dubium dicendi
formula ^idXXov 8£, quam erit, quin iov iov hoc loco sit eius esse, qui
ipse se corrigat, 6x*xXia6xtxdv inifjfiTjfia, xavxct ixeiva ra
tlaoSora, Diximus de xavxa i XEiva verbis annotat, p.309., ixeiva autem
dicitur, quia ad aliquid plerumque, quod prius est cum acerbitate
respicitur, curavimus licet commate sequente; ea enim vis est syllabæ
finalis, quæ accentus vigorem paullisper infringi non patiatur., %, IOV
iov Mfifana est eorum, Mn xovxo xo xaxov, quorum animus subito com-
0 ^ cctzoXqoXexev. inoretur, lætitiamque non mi- Sed perrara sunt xovxo
duplicinus, quam tristitiam exprimit. ter positi exetppla. Aliqua eaque
Interpretes lætitiam iov iov vo- perpauca exempla Matthiæus lanculis Agathonem
prodidisse nrbi- dat Gramm. anipl. §o471. 11. trantur, neque nos huius
expli- Ceterum non diu quæcatiouis veritatem negamus : hoc renda fuit vernacula
dictio, quatautummodo contendimus, etiam cum Græca verba comparare posde
contraria animi commotione sis : Da haben wir das alte Lied. boo loco
voculas accipi posse, Satis trita hæc hominum iuferioquatenus quidem Agutho
Alcibia- rem ordinum locutio, cui eadem l Ad præsentem rem
respicient Strepsiades in Aristoph. Nubb., ait ; supra annotavimus. Couvertenda igitur verba sunt:
ante quam a me potius (rectius) laudatus sit. ' iov iov t
tpdvai x 6 v 'AydSaova, *lov scribendum xaldiv petaXafciv
dSvvcnov Skhp. xai vvv, tj? evaoqo£ xal niAtavwi loyov evpev, ogTB n cap
uwr<p voviovi xaraxeuS&aa.. Tov (ilv ovv ‘Jya&ava tog
xtctaxuOoptvov stupa b ta HcoxQatei avhSrcca&ai' 'li-aifpvrjg 6s
xapcttitag ryxuv scap.stoD.ovg ixl rag fhjgag, xal ixixvyfivtuq
avtaypivaig, kfciovtog uvog tig to uvtcxpvq, scoQtveti&at scapi
atque Græcis verbis ironia plerumque admixta est. ojS
evitopcj$ xal itt vov Xoyov. Duo suut, quæ miratur Alcibiades, unum,
quod tam facile rationem invenit, alterum, quod tam probabilem et
ad persnadendum aptam. Riickert. Tov plv ovv i£al<pvrjf. Supra
iam diximus annotat. 318. de artificio, quo adhibito scriptor noster, quæ
subito gesta esse narrantur, noa solum igacicpvTiS vocabuli usu
exprimere, sed actionum felicissima iuuctura legentium oculis quodammodo
exponere soleat atque vividissime describere. Sio cap. XXX. initio
legitur: e/novxoS 61 ? ravta tov 2ojxpccrovS tovS jxlv inaivetVf tov
6& *Api6To<pavrf Xkyeiv tl liztxetpelv, oti ipvtj6^Tf avrov \£yoDV
6 2ooHpd T7/S izepi tov Aoyov, xal iZaitpvTjS %. r. A. Eodem modo hic
lB,cd<pvr\S vocabulo actionis alicuius narratio præmissa est, cuius
exitum eodem studio, atque illic Aristophanica verba, lectores
prosequuntur: cum subito factum esse commemoratur, quod illius actionis
tenorem illico interruperit. xoifiatitdf Ijxeiv TCajjt
froAAovf. Grex
comissatorum nemine vocanto poetæ cabicaluin ingressus
incredibiles turbas excitat ordinemque omnem convivii pervertit. Noli
mirari, quod aliqui ipsi se iuvitasse narrantur atque non vocati multo
cum strepitu in Agathonis domicilium' !r* rupisse. Lenæis enim
Dionysio sacris vino solebant largius se invitare homiues, ebriique
per plateas vagari atque intrare, ubicunque fores adopertas reperireut,
Neque erat, qui liuius rei miraretur insolentiam. Viui enim hausti
virtus hæc est, ut homiucs cum hominibus arctius coniungat, omnesque sibi
amicissimos reddat. Adde Agathonis liberalitatem, quam qui norunt, eo
minus dubitarunt invocati eius domicilium adire. £B,ioytoS tivoS
xo &v nxpvs, ico p ave 6$ at. Cum aliquis eorum, qui apud
Agathonem essent, exire vellet, pessulo retracto fores aperiebat,
atque per ens iam exiturus erat, cum continuo turba comissatorum intro se
coniecit. Dubitant interpretes, utrum ad sequentia an tui præcedentia
referenda sint verba eis to avTtxpvS. Sohleiermachcrus exhibet in
conversione: iodem einer hinaosgegaogen ih 6(pag xal xataxXivtG%ai, «ai
dogvflov ficata aavza elvai, «ai mixtu Iv xuGaco ovdcvl
avayxa&G&ai. nlvuv Ttafinolvv olvov. rbv fitv ovv, EgvlLy.ayov
xal tov OaldQov xal aU.ovg uvas %<pt] 6 'jQiatoSrjfios
oi%eG&ui aiubvraq, 2 <5 e vtcvov lafieiv, xal xataSag-. C ©e iv
navv xoXv, ats fiaxguv uov wxtuv ovabav, l^tygeG^ai 61 tcqos i/fiigav
fidi] aXixxgvbvav aSovtav l&ygbfitvos de ISciv rovs fiiv aXXovg
xa&evdov nen entgegen, waren sie eingedrungen. Apud Ficinum legitur:
nam pauIlo ante quis coutra exierat. Stnllbaumius contra elS z 6 dvnxpvS
cum TtopeveCSai conjungens verborum sensum esse ait: recta ad ipsos
accessisse, quod explicandi genus minime probamus, neque placet,
quod exhibuerunt, qui paullo supra laudati sunt. ’EZi6vroS nvoS eis
to avzixpvS imaginem proponit comissatorum, contra nitente eo, qui iam
exiturus erat, aditum vi expugnantium» Comma igitur, quod Riickertus post
i%idvzoS TivoS ponendum curavit, recte expunxisse nobis
videmur. dvayxd2e6$ ai ziveiv na pitoXvv olvov. Frustra
subiectum quæras, quod ad d~ vayxaZeGSai referas ; quare Riickertus
auuotat. ad h. 1. explicandum esse censit: Se et reliquos cogi coeptos
esse. In recta, inquit, oratione avay 9ide}£6$ai foret
rJvayxaZopsSa, Non se enim solum intelligere Aristodemum videmus ex
eo, quod aliorum statim mentio fit ita, ut lioc quoque ad eos
pertinuisse appareat; de solo coepto accipiendum esse item docent
sequentia, ubi, quibus quisque viis necessitatem aut eviturit aut pertulerit,
edocemur. Rectior loci explicatio hæc est: avayxa&6Sai verbum absolute
positam est, ut idem fere significet atque dvdyxyv elvai. Hæc
bibendi nova lex quibus displicebat, ii clanculum abierunt, quod
moneo, ne quis forte Ruckerti sententiam probet censentis : de solo
coepto dvayxd$e6$ai verbnm accipiendum esse. rov p\v ovv
'EpvgipaXOV . Eryximæhum et Phædram recte scriptor abeuntes fecit. Conf.
verba 176. D. /pol plv yap 8rj zovzd ye olpai xazaSyXov yeyovivai ix zijs
latpixijS, ori r oiS av^poS icoiS y piSy i6rl' xal ovte avzoS Ixcjv elvai
noppaa iSeXy6ctif.n dv itieiv, ovte dWoo 6vp($ov\ev6aij.n, d/.XcjS ze xal
xpaiTtaXaivza Izi ix zrjs nporepalaS . JXXd pyv, £<py cpavai vno\a
fiovza $aZ8pov rov Mvfifiivov6iov, iytayi 6oi etoSa nei$e6Sai ze xal azt r
av ftepl iatpixijs XlyyS. dttiovz at, 5? dfc
vtcvov Xafieiv, Vulgo legitur uitidvzas oUxaSe vtcvov Xaftelv, Optimi
codices illud habent. Ut iuter se conciliaret utramqne lectionem,
Comarius scribendam coniecit: aniovzaS oixade,,2 vtcvov Xafleiv.
Sed verisimillimum videtur, olxa8e glossema esse, quod ras xal
ol%ofitvovg, 'Ayaftava 8s xal 'Agiotoipavti xai 2-axQdtrj In fiovovg
iygrjyoQtvai, xal nuvtiv ex qnulrjg [leyubjg ini da| ia. rov ovv
Hay.Qazrj aviolg HialeyeG&cu. xal ra ixiv ulla 6 AgLGroSrjfiog ovx
iqyq (isfivi}6&at. rcov loycov ovre yag t| ag^ijg nagayevitfOttt,
vnovvGta^tiv re ’ x 6 {itvroi xeqxilaiov Etpij, 0 mgogavayxa&iv rov
Zkoxgattj 8(ioloyelv avtoiig, rov tcvrov avdgog elvca xofiipSiav xal
tgaycpSiav ini- sciolus olim margini ad scripserit, videlicet ut
intelligerent lectores, Eryximachum atque Phædrum •ivisse
domum. axe paxpcov rcor rvxxoor ovdair. cfr. Schol. ad
Aristoph. Nubb. v. 2, au Zev ftadi\e v, x 6 XPW a TGJY VVXTQdV
06OY. Aiorvdtaxov yap ortos xov 6 papctxoS dvredtaA^ai xaS rvxraS
avayxrj 6ux to xoiovxv xcnpcS xmoniitteir xd Aiorvdta. t/Stj
dXexx pvo va>r ddorxcor. Hæc ut recte intelligantur, tenendum est, incolas
terrarum versus Orientem sitarum ante solis ortum exsuscitari
solere, qui gallorum gallinaceorum cantu iudicatur. cfr. Aristoph.
Nubb. v. 4. xal pr\r TtaXai y dXexxpvo ros jjxovd ’ iyoj' ol 6
olxixai fiiyxovtiiy Igitur tardius se surrexisse Aristodemus narrat,
utpote qui, cum galli gallinacei iam cecinissent diesqne
illuxisset, somnum expulerit. iZeypoperos di idelr. De
nominativo participii vide annotat. 22., qua explicatum reperies, cur
participii structura non ad præcedens £ pronomen directa sit.
Positum autem illud pronomen est, quod obiectum est, non aubiectum
enuntiationis» xa^evSovtaS xal olxofilr ovS. Fipinus, quem
receutiores interpretes omnes secuti sunt, verba convertit:. Somno
excitum invenisse, quod alii quidem partim dormiebant partim
discesserant. Qui sciunt, quum sæpe xai et ?j in libris commutata
reperiantur propter scripturæ compendium, quo alterum vocabulum ab altero
interdum vix dignoscitur, nimiæ audaciæ eum non accusabunt, qui forte
scribendum censuerit : xaSevdorxaS rj ofrojxevovS. Cogitari potest etiam
xai prima xaSevSorxaS participii syllaba Absorptum esse, ut integra
verba audiant: xal xa$ev8orxaS xal olXouirovS . Sed nihil mutandum
videtur. Præcedente euim personarum distinctione, Græci quippe
orationis leniter ac leviter procedentis studiosi actionum distinctionem
non admiserunt. Quam si addideris, vah, qnautum moræ verbis
inferes! *Ay a5 cor a xai ' 'Api 6 x.o <p a rrj xal 2.
Egregie hæc Socratis temperantiam, moderationem et constantiam declarant,
qui quum per totam noctem cum hominibus epularum amant issimis bibisset,
tamen sobrius neque vino vigiliisque confectus a convivio discessit. Ne
talia quidem negligenda sunt iis, qui de dialogorum Platonicorum
<Sxa6dai stoieTv, xal xov xtyyr) XQayuSonoiov ovxct xai KU/iuSonoiov
tlvut, xavxa dq dvayxa£ofievovs ccvrov$ xal ot5 <S<po8Qa faopivov$
wOt xal hqcoxov ftev xaxadaQ&eiv xov ’AQi6roq>avri, ^8r/ 81
Tjiiegag yiyvo(jLtvt]g xov 'Ayddcava. xov ovv ZaxQaxt] xcczaxoLfirjdavx’
ixetvovg, avaiSxdvta aicdvai, xal avtog et gittQ eludet, foetidat, xal
eXdovxa elg Avxetov, axoviipaftevov, ugmQ dlkoxt xrjv akX-qv 7](ieQav
diaTQifhtv, xal o vra StaxQhpavta elg ttixigav olxoi
avanavetidau argumento et consilio prudenter iudicare volunt. S t a
1 1 b. xa> ptp Siar xal xpaytpSiar initixatiSai noielv.
Facillime intelligitur, qui factum sit, ut de hac materie Socrates
disputarit. Ipsa Lenæa aasam dederunt de poesi ac de variis eius
generibus disserendi, et quum Socrates cum Aristophane dissereret, comico
poeta suæ ætatis celeberrimo, et cum Agathone, qui tragoediarum
granditate nobilem se fecit, colloquium quasi ultro eo delatum est,
ut inprimis de tragoedia atque de comoedia quæstiones instituerentur. Ceterum frustra
Stallbaumius eorum sententiam impugnat, qui e Schol. ad Aristoph. Ran.
aliisque locis colligunt, Agathouem non solum tragoedias sed
etiam comoedias scripsisse. Nam quod etiam Agatho hoc loco
narratur Socrati oblocutus esse censenti, et comoedias et
tragoedias posse ab uno eodemque poeta scribi, id Iride, ne parum
validum rei argumentum sit. Quid, si Agatho comoedias scripsit revera,
quas ipse tragoediis a se scriptis multo deteriores esse
intelligeret, nonne fortius potuit quippe experientia doctus
Socraticam illam sententiam impugnare ? x p ay gj$ oit oiov ovxa
xal x a pu>8on oior elvau Vulgo TpayGoSionoiov et xgo/zcoSzoffotoV, quæ
formæ ab Atticorum usu alienissimæ sunt. Moeris habet:
xoDpcodoitoioS' ! 'Atxixg xcoptpdiojzoioS'
'ivi-\7fVlX(k>S> xal avxoS, toiitep slcoSei, exedSat. B.
xapayeyorei 6* iv xjj tivrov 6 i(f 2a)xpdTovS ipa6xj]^ dSv iv toti
/uxAtdta xdov xoxe, gJ S ipol 6oxet. xal ovxa eli Av Xtiov. DE
LYCEO, GYMNASIO extra urbem sito vide Wucbsmuthii librum ; Hellen. Alterthumsk.
II, 2. 56. Ibi Socratem versatum Stallbaumius annotat propterea, quod sophistæ in
eo scholas habebant, quorum inscitiam solebat couviucere, et quod
plurimos illic adolescentes nansciscebatur, quibuscum sermones instituere
posset. EXCURSUS Scribendam confecimus 179. C. : xa\ xovx*
ipyatictpivTj r<> ipyov ovxcj xaXov £8o£er ipyadatiSai ov povov
dr^pcaxoiC, a XX a kolL Scois, goSxe noXXdav itoX Xa -noti xaXa
ipyadctplvwv evapiSyr/xoiS 81} xi6iv ZSotiav xovxo yipaS ol 3eol, IB,
AiSov nctXiv dvikvat n)v ipvxyv, aXXa xijv ixeiyrjs ctveitiav avayxad$krx
e £ tgo Ipyco. Ad hæc verba Scholiastes annotat : *AXxrjdxiS 7 }
IleXiov Svycexrjp vnopcLvatiot vn\p tov l8iov av8poS XEXsvxydoct
'HpaxXkovS lni8r]pi)davroS iv ry ©ExxaXin. Stadco^sxai fiiadapkvov xovS
*5oviovS SeovS xal dcpeXofiEVOv xrjv yvvaixa. Hic mythus veras esse
videtur; quod Phædrus dedit, mythi artificiosa interpretatio est. Vix
intellexit autem Scholiastes, quam utilis ille mythus faturus esset
explicationi verborum supra laudatorum. Confirmat enim fiiadapkvov
participium avayxad^kvxES scripturam, Herculem autem quod attiuet, doceri
possis herois mentione, quomodo olim populi mythos genus hominum
eruditius interpretatum sit. Recte nobis annotatione indicasse videmur:
Phædrum hunc mythum pro consilii sui ratione ita interpretatum esse,
ut Alcestidis virtutem cum Herculea virtute compararet, alteramque Alteri
substitueret. Quo clarior res fiat atque ut simul iutelligas, artifices in
artis operibns haud raro eruditorum, quam populi iudicium secutos esse
magis, AMORIS imaginem gemmæ incisam infra addendam curavimus sub Nr. I,
Petita hæc imago est e Winckelmanni libro: Monumens inedits de l’antxquite,
Paris. Pellis leonina, qna Amor indutns est, et clava, quam gerit,
Herculis insignia sunt. Claves quid sibi velint,
iam videamus, Winckelmannus. hæc habet: L’Amour portait ces cies ou
pourouvrir qtfermer a son gre 1’appartement de Venus, ou pour designer les
plaisirs, dont il etait le dispensateur, On peut-dtre aussi pour faire al
Iasion aux cies portes» par les pr£tres et les pr£ tresses. Horum nihil
in nostram imaginem cadif, qnn« audaciam, constantiam, duritiem, non
dnlce risn» Cupidinis prodit. Rectius igitur « laves gerere AMOREM censeas
et clavam et leoninam pullem, quod Herculea vi inferos deos cogendo Orci p u r
t n s recludit. De altera, quam apposuimus. Imagine Winckelmannus sio
fodicat : Cette pierre gravie reprisente un petit amour avec un Jiam beau
allumi, hatant sa marche pour embrasser un jeune homme extriment afflige,
et dunt on aperpoit lea efforts pour fuir. Cette al ligor ie peut assur
ement a' interpreter de diverses mani eres, et prepare des torturcs a Vcaprit
des savans, Pour moi 9 j'y vois tout simplement l' expression de la
passion de l’amour dont le disespoir est temperi par un rayon d’esperance.
La jeune homme, abandonni par l’objet de ses tendres
affectione cherche d mettre fin d ses peines. Le monte au, dont il
s’enveloppe, annonce la froide humuditi de la nuit. L ’ attitude de son
corps plii en avant etait, selon Aristophane Lysistr. r. 1002, propre d
ceux qui, marclrant la nuit, portaient une lanterne, et tachaient d ’ empecher
le vent d J en eteindre la lumiere, Le rocher, qu'on aperpoit,
devient le symbole de V expedient 9 qiCil a choisi pour se donner la mort.
Loraque le jeune homme veut se livrer d son desespoir, L’Amour en arrete
/* ejfet sinistre en faisant briller Vcspirance d ses yeux ; son Jlambeau
allumi devient le symbole du coeur de sa maf tresse, qui, blessee par V
Amour, va brtcler pour lui du mime feu, dont il brhle pour elle. Les
deux passions contraires de V espirance et du desespoir sont
designees dans ce jeune homme, d’un cote, par l’attitude de son bras,
qu*il tient iloigne de son visage, et de l ’ aut re coti, par son
second bras, qui embrasse l’Amour. Habet hæc huius imaginis
explicatio, quo admodum sese com- mendet. Quæritur tamen, num
infertilissima illa rupes non etiam de vilitate unius rei amoris
intelligi possit; fax certe elata et me- dia in imagiue posita non spei
solius symbolum est, sed etiam my- steriorum, Iam cfr. 209, E. Tama p\v
oZv x a. Ipooxixa tdaP, gj oxpaxeS, xav 6x> pvrjSdt}?, xa xlXea xai litonrixd,
cov evena xcri xavxa Zdxiv, Iav xiS opSaiS per ovx 016’ el oloS r*
av eVtjS. A Et yap xov op^GoS lovxa liti xovxo xo itpdypa apx^d^ai pkv
vlov ovra levat lit\ xa xaXa dedpaxa, xal itpcoxov phv, iav opS goS ijyijxat d
ijyovpevoS, kvo£ av xgov Oaopa- xojv ipav xal ivravSa yevvdv XoyovP
xaAovS, liteixa Sei avxov xaxavorjdat, oxi xo xctXAoS xo liti oxgoovv
dcdpaxi xgj liti Ixipo) dofpaxi abeXtpov Idxi x. r. X. Etenim non sine
caussa duo Amores ab artifice exhibiti sunt, alter laterna, alter face
insignes. Necessitas autem illa nimium unius corporis amorem
remittendi quantos dolores amatoris animo afferat, amatoris effigie
vividissime i expressam habes» Iam ipse, lector* vide, atram imago
tibi proposita aliquid lacis e Platonis verbis laudatis accipiat necne.
Nos unam boc addendum liabemas, Magna virium contentiouc opus est,
•i quis primum initiationis gradum superare cupit. Quem ubi superaveri lætius,
liberius circumspectius incedet, id quod alterius AMORE AMANTI AMATO figura
repræsentatum est» Flamma autem facis ventis circumagitata, mox nimium
effulgens, mox pæne exstincta, superato primo initiationis gradu laternæ
inclusa temperatius quidem? sed æquabilius fulget. Legitur. A. xal
itpo x ov t wSitep \£ym, ev 7/pty * wvl 8& Sta xrjy dSixiay
SicpxiC^ifpey vito xov Seov, xctSditep 'ApxadeS vito
AaxedatpovicDy. Hoc loco utuntur interpretes ad definiendum tempus, quo
Symposium ACCADEMIA conscripserit. Alii post conscriptum censent, quo
tempore scimus Mantineam a Lacedæmoniis eversam esse, alii ante hoc
tempus compositum potant, sed denuo editum post 01» . 4. Concidet hæc
temporis definitio simulatque est demonstratum, verba depravata esse, ad
quæ illa defiuitio directa est» Age igitur primum de anachronismo
videamus verborum xa Saitep *Apxa8eS vito AaxedaipoyiGOV 9 quid statuendum sit.
Anachronismos passim admisit Plato, de qua ro vide Engelhardti doctissimi
annotationem ad Plat. Menex. 236. Eos cur admiserit, daplex caussa
cogitari potest. Aut negligentia fecit atque per obli- vionem, aut de
industria et assequendi alicuius finis studiosus. Atque iu Meuexeno quidem
Socratem de re loquentem inducens, quæ post huius mortem facta est,
anachronismum admisit, acer- bissimi ludibrii commodissimum vehiculum.
Etenim in oratores invehitor, scriptores laudationum locis communibus
refertarum quibus data occasione facili negotio atque satis leviter rei
adaptatis ntercutor. Ipsa audi ACCADEMIA verba cap. II. init,: xot\
fiijv, <a Me- y{£eve, itoXXaxV xiySvvevei xaXuy elrai r 6 tv noXi.fiw
dito- SrijtSxeiv. xal yap racpi/S xaXijS re xal peyaXoxpexovs
rvyxa- vn, xal iay xivtjS riS cov reXevrt/ey, xal inaiyov av
Ervx xal iav ipavXoS y vx’ dvSpcov 6oq>oiv re xal ovx elxy
ijtaivovvreor, aXXa Ix iroXXov xpoyov XoyovS xapedxev a<5 pev cor, o?
ooro xaXmS inaivo v 6 1 v, tSste xal ta hpoSoyra xal t a pij s tepl
txa'6rov XlyovteS, xaXXuSr d xai toti ovopou >t xoixlXXov- TtS,
yoqt evovdtr 1 } p <2v taS t/ivxaS x. t. X. Iam cam dixisset
Menexenus, oratoris electionem subito fieri, quo facto orator non possit non
subitaria oratione uti, Socrates omnibus oratoribas orationes, napepya otiosi
temporis, recondita facere conten- dit, atque ipse huiusmodi orationem,
h. e, sententiis communibus refertam profert, quam, quo acerbius
vituperiura sonet, ab Aspasia sibi traditam narrat. Intelliges, opinor,
anachronismi acumen. Ad nostrum locum ut revertar, nihil reperitur, quo
anachronismum excusare possis. Huc accedit, quod omnem verisimilitudinem
Platonicæ narrationis ita pervertit, ut et habitum revera sjmposinm docearis et
non habitum. Negligentiane igitur anachronismum adhibitam censeamus atque
maculam artificio præstantissimo additam? Credant, qui velint, nobis
nunquam persuadebitur. Sed mittamus anachronismum, comparatio per verba
xaSanep 'ApxaSeS vno AaxESaipoviatY instituta quid sibi velit,
videamus. Nolo ApxadtS nomen nimiam premere j fieri enim potuit, ut
avijp *A^rjvaloS de Mantineæ eversione illa loquens pro MavtireiS diceret
ApxaSsS, sed, si eodem modo propter iniuriam homines dissecti esfce narrantur a
deo, quo modo Mantineenses in varios pagos distributi sint a Lacedæmoniis,
merito tertiam, quod vocatur, comparationis quæras. Caussam dissectionis si
spectas: hominibus dissectis iniuria, qua ipsi utebantur, perniciei fuit,
Mantineen.sibus iniuria Lacedæmoniorum; diremtum ipsum quod attinet,
homines bifariam divisi sunt, Mantineenses Xenophonte teste Hell.
TETpaxi/ > auctores diremtus his dii, illis Lacedæmonii fuere, divisi hic
sunt omnes homines, illic Mantineenses. Una restat dissecandi dirimendique
ratio. Utrique et humanum genus et Manti- neenses vi et
ferro dissecti sunt. 8ed num verisimile est, eius rei describendæ gratia,
quam ia prægressis expositam habes, et quæ ipsa per se intelligitur,
allatam esse Mantineæ eversionem a Lacedæmoniis patratam? Ut paucis rem
absolvam, scripsisse Plato videtur: yvvl 8 £ 8ia tijv adtxiav 8ia>xi6^7]pEv
vno tov Seov, xa- Sdnep 'ApxabeS aito Aaxe8aipov}<aY. Arcadiam inter
et Lacedæmonctn scimus montes altissimos sitos esse, quibus utriusque terræ
arctior coniunctio prohibetur. Proverbialis autem dictio fuisse videtur
xaSansp *Apxd8eS ano Aaxa8aipovia)Y f quo utebantur, qui naturalem
firmitatem alicuius fissuræ describebant atque impossibilitatem, (venia sit
verbo,) restituendæ integritatis. Annotatione. Platonis verba, quæ
leguntur, hoc modo scribenda censuimus: pera 81 r a iititrj8&vpara iit i
ra( imCnjfiaS dycty&v, 7va {8y av bn&cijp&v xaAAo?, xa\
fiXiitcov npoS itoXv ydrf tu xaXuv, pi\xkxi tu irap ' lv \, wsnep 0
ixiryfi ctyaitcSv itaiSaptov xaXXoS ij av^pamov rivo 5 rj iittrrjdev/xaxoS
hrof, SovXevarv qiavXoS y xai opixpoXuyoS x. r. X. Constans omnium
librorum lectio est c ZsitEp olxkxT/S, quod Stallbaumius ceteroqnin optime de
huius loci explicatione meritas hoc modo explicandum censet, ut apte
additum dicat, quod, qui unius tantum rei admiretur pulcritudiuem, is ei
tanquam servus emancipatus rideatur. Sed scripsisset, opinor, Plato, si
hoc exprimere voluisset, ooSTttp dudXoS. JovXoS enim nomen proprium est de
contumeliosa servitute, quam hoo loco requirimus, et quæ explicatius descripta
est a Pausania. A. ei ydp iSlXoi rtoieir
olaxep 01 ipa6xecl itpoS x a iraidixd, ixexeiaS te xat
dvxipoXi/tiEis: iv tolis 6et/(5£(ji Ttoiovpevoiy xal opxovS opvvvxeS xal
xoifiijCEif iit\ SvpanS, xal iSkXovxaS SovXeiaS 8ov Xeveiv, oiaS ov8 av
8ov- Aof otldeif x. T. A. Olxixijf autem nomen apte cura LATINORVM familiaris
confertur, de quo Macrob. Satum.: nam et maiores, inquit, nostri omnem
dominis invidiam, omnem 6ervis contumeliam detrahentes dominum patrem
familias, servos familiares appellaverunt. Non ignoramus quidem, hoc nominum
discrimen hand raro Græcos scriptores neglexisse, atque multis io locis
olxixrjS posuisse, ubi douAo? nomen exspectaveris. Sed hoc fecerunt de
servis loquentes, non fecerunt io comparatione, qualis hoc loco
reperitur. Quoniam igitur oix&TijS nomini hic nou locus est, ultro ad
o lxk~ Tt/S scripturam ducti sumus, quæ et a corruptionis
verisimilitudine maxime commendatur ( vide Iacobsii Comment. ad Antbolog.
Gr. Melcagr. Epigr. XXXII, ) et ad significatum si respicis, ita
apta reperitur, ut haud sciam, an aliud verbum, quod magis ad rem quadret,
excogitari possit. Nota vis est amoris, Ea amatorum animi ita
percellantur turbanturqæ, ut vitam non vitalem putent atque da salute
desperent, si forte repnlsam tulerint. Quidvis igitur faciunt, fingunt, inveniant, at eius animum sibi concilient,
qnem amant, neque, ut propitium sibi reddant, a precibns abstinent et a
suppliciis, Quid multis? Huiusmodi AMATORE AMANTE simillimum esse reperimus
homini, qni in summa vitæ versans discrimine ad deorum aras confugit, auxilium
rogans, et vitam et salutem j apte igitur bdtTjy vocari censemus. Loci
desunt, quibus de AMATORE AMASIUM perdite AMANTE Ixforjv nomen melioris
«etatis scriptoribus in usu fnisse probemus, J Apud seriores sæpissime
reperitur, v, c, apud Meleagrum Epigr., Aathol, Gr. lacobsii quod
epigramma, quoniam falsissime a Iacobsio explicatum est, de rectiore
carminis explicatione et emendatione age, iam videamus. Versus hoc modo apud
Iacobsium leguntur; npoSoxai tfrvxv> tcoo^qov xrJvef, ailv £v ££$3
KvnpidoS otpSaXpol /JA ippaxa xptoptyoi, Tfpnadax 1 aAAov "Epoox,
apves Xvxor, ola xopoovrj dxopnloy, cJs - r kfppy nvp
vnoSocXnopeyoy. 6pa$' o xi nat fiovXedSe. r i poi ver oxtd pira
Sdxpva, itpos 6* Inkxijy avxopoXelcs taxos; onxadS Iv xctXXet,
xv<ped$‘ vnoxaiopiyox vvv, axpoS Inu ipvxyS idxl payeipoS
"EpwS. Argumentum epigrammatis Iacobsius ait esse hoc! Poeta in
oculos invehitur, novi semper amoris novique cruciatus auctores.
Rectius dixeris argumeutum epigrammatis esse; Invehi in oculos
poetam, qui, cum antea semper amasios petierint, uonc mutata
consuetudiuo amatoris animnm pellexerint. Probatur hoc inprimis disticho
secundo, quod huc modo scribendum est; i}pna0av 9 aXXoy
"Epoax* t apyes A vxov, ola xopo&rrj dxopnloy, c Js xktppij nvp
vnoSaXn operor. Non recte Iacobsius, apud quem x itppq legitur, sensum
verborum esse ceuset uovura AMOREM
rapuistis et excitastis veluti ignem sub cinere latentem; quæ explicatio
cum præcedente disticho, in quo naidcjy nomen xorcodir habet, prorsus non
convenit. Quid euim sibi vult hoc: Oculi, qui semper pulejis pueris
insidiari soletis, novum amasium rapuistis; nonne frigero sentis atque
languere ? AXXoS "EpooS haud dubium est, quin genus amandi mutatum
indicet, ut, qui antea AMATOR AMANTE fuerit puerorum, is nunc subito
amasius factus esse perhibeatur. Gopferri possis Æliani Var. Hist. II,
12. xal x <£> y p\r hxaip&y dnkdXTj (sc. 6 &epidxoxXijs ),
r/pa 61 ipGoxa Sxepor, roV xijs noXixeiaS xcov A^rfraiaur.
Insequentia exempla nostram interpretationem comprobant. ! ApveS Xvxor
enim nihil aliud siguiEcut, quam amasium pellexisse amatorem. Sæpissime
cum lupis amatores comparantur, cum ovibus amasii. Vido Stallbaumium ad ACCADEMIA.
Phædr.V., Iacobsium ad Anthol. Gr. Ad luporum atque ovium comparationem, quæ in
proverbium abiisse videtur, ceten^ exempla directa sunt ola xopoovtj
dxopniov et ooS xk<pprj nvp vnoSaXno/ievov. Vides enim, quod debilius
natura est, atque natu miuus, fortius e Y. x nata maius dlcl
superasse. Nihil aptius est his exemplis ad describendam infirmitatem eius,
qui, ot opud Platonem legitur, ro itap iv\ fiXbcoov contumeliosam
servitutem In se suscepit. Sequens disticlion Brunckius ex Bouherii coniectura
sio scribendum esse putat: 6pd5' ott xev fiov\jj<5$8. tl p .01
vevoti6peva xdxe daxpva, npoS 8* i\pxxr\v avxopoXelxe rdxce.
censetque, suos poetam alloqui oculos, quorum in amore ditXTjdxiay et
itoXvfiavlav incuset. Ingeniosa emendatio, Iacobsius inquit, et fortasse
vera; quamvis et sic aliquid relinquitor, quod palatum paullo morosius
offendat, cum e}px xi/S in hoc imaginum contextu vix satis apte mentio
fiat. Recte Iacobsius xey et sequentem coniunctivum improbat, non recte
pro ixlxrj v fortasse scribendum esse lipxiTjy putat. IxhrjS enim amator
est, ad quem, poiita frustra reluctante, oculi quam celerrime sese convertunt.
Iam intelligetur, quid sequens disticlion significet, quod sic scribendum
est: Gj7ttd65 *Iv xaXXei, tv<pe6^ t vnoxoLioptvoi rvv t axpoS ii
nl ipvxijs idx t pdyeipoS "EpcaS. Olim vobis ilammam attulit puerorum,
quibus insidiamini, pulcritudo, nunc fumum et lacrymas excitat admota flamma
eius, qui vobis insidiatur, nam sive amator sive amasius sis, animam Eros
mi- sere coqait. Pausania, do not multiply loves beyond
necessity – l’ambiguita di ‘amore’ – L’Afrodita celeste no participa della
natura femmina, solo della natura ‘maschile’. Pausania parla solo a maschi, ai
maschi virili, al maschio virile. L’amante o amatore e maschio virile, l’amato
o l’innamorato e maschio virile. L’amore celeste (ouranios) participa solo
della natura maschile. Criterio d’amabilita, l’amabile. Giuseppe Colombo.
Keywords: idealismo Toscano, atto, attualismo, actualism, actum, senzo, sensus,
sense, morale communitaria, pietra angolare, Chiesa d’Inghilterra, Cratilo,
origine del linguaggio, glossogenia, glossotesi, gossogenetic, semio-genesi, il
soteriologico, immanente/trascendente, aporia dell’amore platonico, eikesia,
‘Daddy wouldn’t buy be a wow wow’ true iff Daddy wouldn’t buy me a bow wow –
correctness of iconicity of ‘daddy’ and ‘bow wow’ --. Heteroerotismo – Il discorso di Alcibiade –
analisi del simposio, l’elogio dell’eros. Il discorso di Pausania. Ero demone, Ficino, il convito, convivium, Pausania,
Alicibiade, puerile, uomo puerile, Socrate, Agatone, Aristofane, il mito, il
maschio, il vocabolario dell’amore: amore, amare, amans, amante, amator,
amatore, amatum, amicus, amasium, amore mutuo. Desiderio, il vocabolario
latino, il vocabolario transliterato, erote, il vocabolario translato, il
vocabolario in Toscano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombo” – The
Swimming-Pool Library. Colombo.
Luigi Speranza -- Grice e Colonna: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Roma – filosofia
romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio.Filosofo italiano. Roma,
Lazio. There is already an entry for this; in Italian it is ‘Egidio Colonna’
-- giles di roma, Rome, original name, a
member of the order of the Hermits of St. Augustine, he studied arts at
Augustinian house and theology at the varsity in Paris but was censured by the
theology faculty and denied a license to teach as tutor. Owing to the
intervention of Pope Honorius IV, he later returned from Italy to Paris to
teach theology, was appointed general of his order, and became archbishop of
Bourges. Colonna both defends and criticizes views of Aquinas. He held that
essence and existence are really distinct in creatures, but described them as
“things”; that prime matter cannot exist without some substantial form; and,
early in his career, that an eternally created world is possible. He defended
only one substantial form in composites, including man. Grice adds: “Colonna
supported Pope Boniface VIII in his quarrel with Philip IV of Franc eand that
was a bad choice.” The Latin is EGIDIVS COLUMNA. The “Corriere” has an article
as his book being a bestseller of the Low Middle Ages!” Cosnisder the claims
here: ‘essence and existence are really distinct in creatures – and each is a
thing – prime matter cannot exist without substantial forml – eternal and
created world is not a contradiction – there is only ONE substantial form in
compostes, including man. Grice:
“Must say I LOVE Colonna, or COLVMNA as the printing goes – of course the
“Corriere della Sera” hastens to add that he wassn’t one! In any case, my
favourite of his tracts is of course the one on Aristotle!”. Egidio Romano, O.E.S.A. arcivescovo della Chiesa
cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di
un codice medievale). Incarichi ricopertiArcivescovo di Bourges
Nato Roma Nominato arcivescovo Roma. Manuale Egidio Romano, latinizzato
come Ægidius Romanus. Dopo la sua morte, gli furono tributati i titoli
onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps. Discepolo d'Aquino.
Insegna filosofia. Fu inoltre il tutore di Filippo il Bello al quale dedica il
saggio “De regimine principum”, sostenendo l'efficacia della monarchia come
forma di governo. Considerato tra i più autorevoli filosofi di ispirazione
agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un contesto
culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche sul
problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Generalmente
ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo
nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam di Papa Bonifacio VIII e per il
ruolo significativo che assunse il Mæstro degli Eremitani di Sant'Agostino
quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e
autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In Colonna rileviamo subito
una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico. Infatti è
possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il “De regimine principum”,
saggio dedicato a Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente
alla naturalità dello stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel “De
Ecclesiastica potestate”, invece, afferma la superiorità del “sacerdotium” rispetto
al “rex” o “regnum”, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia
papale. In seguito alle condanne di Tempier, difende la tesi d’Aquino, per
la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne
stesse, viene sospeso dall'insegnamento. Gli avversari del papato trovano in Aristotele
gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta in discussione la
sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente
speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale,
di compenetrazione fra stato e chiesa, all'interno del quale Agostino viene a
giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo “De
Civitate Dei” conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della “Civitas
Dei Cælestis” e il piano temporale della vita terrena che è “Civitas Peregrina”),
che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del
sacerdotium rispetto al rex e regnum, costituendo un vero e proprio “partito
del Papa”. Rivendica la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva
dell'auctoritas del Papa in quanto “homo spiritualis”. Sostituisce al concetto
agostiniano di “ecclesia” quello di “regnum” al fine di estendere gli ambiti
del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico, il Papa, dove
esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire
l'ordine mediante una forma di “dominium” che coincide con la sua stessa
missione spirituale. Atre opere: L'edizione critica dell'opera omnia è
stata intrapresa, per Olschki (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus
Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), da Punta. “Quaestio de gradibus
formarum” Ottaviano Scoto, Boneto Locatello. “In secundum librum sententiarum
quaestiones” Francesco Ziletti); Opere, Antonio Blado; “In libros De physico
auditu Aristotelis commentaria”; Ottaviano Scoto; Boneto Locatello, “De materia
coeli” Girolamo Duranti, “Quodlibeta”. Silvia
Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano, “Le opere
prima”; “I commenti aristotelici”, "Documenti e studi sulla tradizione
filosofica medievale", Dizionario biografico degli italiani. DEL GOVERNO
DI SÈ. Del sommo bene. Quale è la maniera di parlare nella scienza de're e de'
principi. Quale è l'ordinanza delle cose che si debbono dire in questo libro. Come
grande utilitate ei re e' principi ånno in udire e in intendere e in sapere
questo libro. Quante maniere sono di vivare e come l'uomo die méttare il
sovrano bene di questa mortal vita in queste maniere di vivere. Com'è grande
utilità e a' re ed ai principi che ellino conoscano il loro fine e'l loro
sovrano bene di questa vita mortale. I re ne i principi, non debbano mettere il
loro sovrano bene in diletto corporale. I re ne i principi non debbono mettere il loro
sovrano bene in avere ricchezze. I re ne
i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere onori. I re ne i
principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere gloria o gran rinomo
di bontà. Nè i re né i principi non debbono méttare il loro sovrano bene in avere
forza di gente. I re ne i principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle
uopere della prudenzia cioé del senno. Come ei re e' principi debbono méttare
el loro sovrano bene nelle opere della prudenza e del. Il prezzo e'l guidardone
dei re e dei principi bene governanti il loro popolo, secondo legge e ragione,
è molto grande. senno. Della virtù. Quante potenze à l’anima e in quali potenze
e la virtù di una buona opera. Come la virtù di una buona opera e divisa nella
volontà e nell’intendimento dell'uomo. Quante virtù di buone opere sono, come
l'uomo die préndare il numero di esse. Delle buone disposizioni che l'uomo à,
alcune sono virtů, alcune sono più degne che virtù, alcune altre sono
apparigliate a virtù. Alcune virtú sono più degne d'alcune altre e più principali.
Che cosa è la virtù dell’uomo ch'è chiamato senno, over prudenza, over sapere.
Ai re ed ai prenzi conviene es sere savi. Quanto e quali cose conviene ai re e
ai prenzi avere acciò che ellino siano savi. Come și re e i prenzi possano fare
loro medesimi savi. Quante maniere sono di drittura ed in che cosa è drittura e
come drittura è divisata dalie altre virtú. Senza drittura e senza iustizia ei
reami non possono durare, nè nulla signoria di città. I re e i prenzi debbono
intendere diligentemente acciò che essi siano dirilturieri e che drittura sia
guardata nelle loro terre. La forza di coraggio e. e quali cose ella die essere,
e come ei re e i prenzi le. possono avere. Quante maniere sono di forza e secondo
la quale ei re e i prenzi debbono essere forti. Che cosa è la virtù che l'uomo
chiama temperanza e in quali cose quella virtù die essere, quante parti a la
temperanza, come noi la potemo acquistare. Ched elli é più disconvenevole cosa
che l’uomo sia distemperato in seguire LI DILETTI DEL CORPO che in essere
paurioso. Il principe debbe essere temperato nel diletto di suo corpo. La virtù
che l'uomo chiama larghezza e'n quale cose cotale virtù de' essere, e come noi
la potemo acquistare. Che a pena può essere el re o'l prenze folle largo e come
è troppo sconvenevole' cosa che essi sieno avari e ch'ellino debbono essere
larghi e liberali. Che cosa è una virtù che l’uomo cjiama magnificenzia e'n
quali cose quella virtù die essere, e come noi potemo avere quella virtù. Come
è cosa isconvenevole che i re e i prenzi sieno di piccola dispesa e di poco
affare, e che maggiormente s'avviene a loro essere di grande spese e di grande
affare. Che condizioni à l'uomo che è di grande spesa e di grande affare, e che
conviene maggior mente averle ai re ed ai prenzi. Che cosa è una virtù che
l'uomo chiama magnanimità, cioè a dire virtù di grand'animo e in quali cose
quella virtù di essere e come noi potemo essere di gran cuore. Quante
condizioni à l'uomo che è di gran cuore, e che maggiormente si conviene ai
prenzi d'averle. Come ei re e i prenzi debbono amare onore, o quale è la virtù
che l'uomo chiama virtù d'amare opore. 68 Cap. XXV. Ca insegna che amare onore
ed èssare umile possono essere insieme e che quelli che è di gran cuore e di
grande animo non può essere senza umiltà. Che cosa é umiltà de la quale il
filosafo parla e in quali cose ella die essere e che maggiormente conviene ai re
ed ai prenzi essere umili. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama dibuonairetà,
ed in che cose la buonairetà die essere e che conviene ai re ed a i prenzi
essere dibonarie. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama piacevolezza, cioè di
sapere CONVERSARE PIACEVOLMENTE e in che cose la detta virtù die essere e che
si conviene che i re e i preozi sieno piacevoli. Che cosa è verità e in che
cosa ella die essere usata e come si conviene al principe ch'esse sia veritiero
o sincero. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama sollazzevole, quasi dica di
sapere sollazzare, e di essere allegro e gioioso, là ' ve si conviene, e per la
quale' l'uomo si sa avvenevolmente rallegrare nei sollazzi, come ei re e i
prenzi debbono essere allegri e sollazze voli. Conviene al principe avere tutte
le virtù, perciò che perfettamente l’uomo non ne può avere una senza le altre.
Quante maniere sono di buoni e adi malvagi uomini e quale maniera di bontà ei
re e i prenzi debbono avere. Delle passione. Quanti movimenti d'animo sono e
donde essi vengono. Quali movimenti d'animo sono principali che gli altri e
come essi sono ordinate. Come il principe debbe amare e quali cose debbe amare.
Come il principle debbe desiderare e che cosa debbe desiderare. Come ei re e i
prenzi si debbono portare ayvenevolmente in isperare e in disperare. Come
avvenevolmente ei re si debbono portare in avere ardimento. Che differenza elli
à intra corruccio e odio, e come ei te e i prenzi si debbono avvene volmente
contenere nei corrucci e ne le di bonarietà. Come ei re e i prenzi si deb bono
ayvenevolmente avere nei diletti. Come alcuni movimenti d'animo sono mantenuti
e ritornano ad alcuni altri movimenti. Ched ei movimenti dell'animo alcuni sono
da biasmare ed alcuni sono da lodare e come ei re e i prenzi si debbono
conferire nei movimenti detti dinanzi. Della costume. Quale costume e quale
maniere de giovani uomini fanno da lodare, e come il principe debbe avere essa
costume ed essa maniera. Quali costumi e quali maniere dei giovani uomini fanno
da biasmare, e come ei.re e i prenzi debbono ischiſare cotali maniere e cotali
co stumi. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da biasmare, come ei
re e i prenzi ei debbono ischifare. Quali costumi e quali maniere dei uomini
fanno da lodare. Che costume e che maniera ha il gentile uomo, e come il
principe debbe avere. Che costumi e che maniere anno l’uomo ricco e come ei re
e i prenzi ei debbono. Che modi e che maniere ánno coloro che sono possenti ed
anno signorie, e come li re e li principi si debbono avere in verso la gente
convenevolmente. Avere. DEL GOVERNO DELLA FAMIGLIA. Della moglie. L'uomo die
naturalmente vivare in compagnia, e che i re i prenzi il debbono sapere. Che,
acciò che la casa sia perfetta, si vi conviene avere quattro maniere di
persone, e come e' conviene questo secondo libro divisare in tre parti. Quella
casa è perfetta ove v'à assembramento di un uomo e di una femmina, un
figliuolo, e servi. L'uomo naturalmente si die ammogliare e che quelli che non
vogliono vivare in matrimonio, o elli posono bestia, o ellino sono migliori che
l’uomo. Ciascuno uomo e ciascuna femmina, e medesimamente ei re e i prenzi che
sono ammogliati, si debbono tenere in matrimonio senza partirsi o senza
divídarsi. A ciascun uomo die bastare una femmina, e che i re e i prenzi e
ciascun altro uomo si die tenere appagato a una femmina. Un uomo die bastare a
una femmina, e che una femmina si die chiamare contenta d'un uomo. L’uomo non
die prendare moglie la quale sia troppo presso a lui di parentato o di
lignaggio. Come le moglie dei re e dei prenzi e di ciascuno altro uomo debbono
avere abbondanza di beni temporali. Come nè i re né i prenzi, nė cia scuno
altro uomo non debbe chiėdare solamente ei beni temporali delle loro mogli ma
anco ei beni del CORPO e quelli dell'anima, e ciò e il bello e il casto. L’uomo
non die governare nė tenere la moglie nella maniera ch'elli die tenere e
governare il suo figliuolo. L’uomo non die tenere nė governare la moglie nella
manera che l'uomo die tenere e governare e fanti. Che elli non si conviene nė
ai re nè ai prenzi ned a nessuno altro uomo, ch'ellino usino il matrimonio in
troppo giovano tempo. L’uomo die piuttosto fare l'opera del matrimonio nel
verno che nella state. Come alcune cose sono nelle femmine che sono da
biasmare. Come ei re e i prenzi e ciascuno altro uomo die avvenevolmente
governare e addrizzare la moglie. Come gli uomini si debbono portare con le
loro mogli. Come la femmina maritata deb bono convenevolmente adornare il loro
corpo. Né I re ne i prenzi, nė li altri uomini, non debbano essere troppo
gelosi delle loro mogli. Che cosa è ' l consiglio della femmina, e che 'l suo
consiglio l'uomo non die credere se non in alcun tempo. Com’l’uomo non debbe
dire il suo secreto alla sua moglie. Dei figli. Il padre die essere curioso di
guardare il suo figliuolo. Che ciò s'avviene maggiormente ai re ed ai prenzi,
cioè ch'ellino sieno guardatori e curiosi dei loro figliuoli. Il padre governa
il suo figliuolo per L’AMORE ch'elli à in lui. L’AMORE NATURALE il quale die
essere da padre a figliuolo prova sufficientemente che il padre debbe governare
i suo figliuolo e il figliuolo debbe ubbidire il padre. Nel quale dice che i re
e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine insegnare la fede ai
loro figliuoli. I re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine
insegnare ed appréndare ei buoni costumi e le buone maniere ai loro figliuoli.
Il figliuolo del gentile uomo debbe apprendere le scienze della chericia, ciò
sono, morali, naturali e matematice. Quale arte il figliuolo di un gentile
uomini debbe apprendere. Quale die ėssare il tutore del figliuolo di un gentile
uomo. Il padre die insegnare al suo fanciullo a parlare e a vedere ed a udire. In
quante maniere l'uomo puó peccare in mangiare e come il garzone si debbe
contenere. Come il padre die insegnare al suo fanciullo acciò che si sappiano
portar avvenevolmente nel bere e ne' diletto della femmina. Come il garzone si
debbe contenere nel diletto del corpo. Come in giovanezza l'uomo die schifare
le malvagie compagnie. Che guardia l’uomo die avere de' figliuoli da che sono
nati, insino a’ sette anni. Che guardia l'uomo die avere de' fanciulli da sette
anni fino a quattordici. Che guardia l'uomo die avere del figliuolo da
quattordici anni innanzi. Che il padre non die insegnare al figliuolo uno
medesimo travaglio di corpo. Della casa e dei servi. L'uomo die diterminare e
parlare delle cose donde la vita umana può esser sostenuta, volendo governare
la sua famiglia e la sua casa. Il casino della villa del’uomo, die esser fatto
sottilmente ed in buon áire. Il casamento dei re e dei prenzi, e di ciascuno
altro uomo, die esser fatto in luogo dove abbia abbondanza di buona acqua e di
chiara. Naturalmente l’uomo die avere possessione in alcun modo e che quellino
che rifiutano le possessioni, non vivono come uomini, anzi sono migliori che
uomo. Elli è grande utilità alla vita umana, che l'uomo possa vivare della sua
propria ricchezza. Come l'uomo die usare dei beni temporali, e quale maniera di
vivare è buona e onesta. Nel quale dice che ciascuno uomo, e medesimamente ei
re ei prenzi, non debbono desiderare troppo grande abbondanza di ricchezze ne
di possessioni. Quante maniere elli sono di vendere e di comperare e perchè ei
denari fuoro prima mente fatti e trovati. L'usura è generalmente malvagia, e
ch'ei re ed i prenzi la debbono difendare ch’ella non sia fatta nella loro
terra. Nel quale dice ch’ei sono diverse maniere di guadagnare denari e che
alcuna di queste maniere è avve nevole ai re ed ai prenzi. Alcuna gente è serva
per natura e ch'elli è loro utilità ch'ellino sieno suggetti ad altrui. Nel
quale dice che alcune genti che sono servi per natura e per legge. Nel quale
dice ch’ellino sono alcune genti le quali sono serve per prezzo ed alcuna gente
che servono per l’amore ch’elli ánno ai suo signore. L'uomo die dare gli ufici
ai suoi fanti nelle case dei re e dei prenzi. Come ei re e i prenzi debbono
provvedere ai loro sergenti robe e vestimento. Che cosa é cortesia e ched e'
conviene ai fanti dei re e dei prenzi ched ellino sia cortese Nel quale dice
come ei re e i prenzi si debbono contenere inverso ei loro sergenti. Che quelli
che servono e quelli che mangiano alla tavola dei re e dei prenzi, e
generalmente che il gentile uomo non debbe molto favellare. DEL GOVERNO CIVILE.
Detti dei filosofi nel governamento delle città. Nel quale dice che la villa e
ordinata e stabilita per alcuno bene. Fu grande utilità alla vita umana che
colla comunità della villa e delle città, li uomini ordinassero la comunità del
reame. Nel quale dice ceme Platone e Socrate dissero che l’uomo dovea ordinare
e governare le città. Nel quale insegna che i re e i prenzi debbono sapere che
tutte le cose non debbono essere COMUNE siccome Platone e Socrate dissero. Nel
quale dice quanti mali avverrebbero se il figliouolo fusse comune. Nel quale
dice come la possessione debbe essere proprie, e come debbono essere comuni,
secondo l'utilità delle ville e delle città. I re ei prenzi non debbono
sofferire che una medesima gente duri sempre in una medesima signoria. Nel
quale dice che l'uomo non die cosi ordinare la città come Socrate disse, che
dovieno essere ordinate. Come l'uomo può trarre a buono intendimento le parole
che Socrate disse, al governa mento delle città. Come un filósafo, ch'ebbe nome
Fal lea, disse, che l'uomo dovea ordinare le città. Le possessioni non debbono
essere eguali, siccome disse Fallea. Come quelli che signoreggia alcuna città,
elli die più principalmente intendare a cessare le malvagie volontà e i malvagi
desideri e convoitigine, ched elli non die intendere a cessare la
disuguaglianza delle possessiono. Nel quale dice, come un filósafo ch'ebbe nome
Ippodamo, disse che l’uomo dovea ordinare le città. Nel quale dice quali cose
sono da riprendare in quello che Ippodamo disse del governamento della
comunità. Della migliore maniera di governare le città. Il quale insegna come
l’uomo die governare le città in tempo di pace, e quante cose l’uomo die guardare
in cotale governamento. Quante maniere sono di signorie e quali sono buone e
quali sono rie. Ched o' val meglio che le città e ' rea mi sieno governati e
retti per un solo uomo che per molti e che quest' è la migliore signoria che
sia quando un solo uomo signoreggia ed elli intende il bene comune. Nel quale
dice per quali ragioni alcuna gente volsero provare ched e’ valeva meglio che
le terre e le città fossero governale per molti uomini che per un solo e dice
in questo capitolo ciò che si die rispóndare a cotali ragioni. Ched e' val
meglio che le terre e le signorie e' reami vadano per redità per successione
DEL FIGLIOUOLO che per elezione. Nel quale dice quali sono le cose ne le quali
il re die sormontare gli altri, e che diversità elli à intra'l re 'e'l tiranno.
Nel quale dice che la signoria del tiranno è la peggiore signoria che sia e che
i re ei prenzi si debbono molto guardare ch'ellino non sieno tiranni. Quale dia
esser l'ufficio dei re e dei prenzi, e com’essi si debbono contenere in
governare le loro città e i loro reami. Quali sono le cose che’ l buono re die
fare, le quali il tiranno mostra di fare ma non le fa nèmica. Nel quale dice
per quante cautele il tiranno si sforza di guardare sė ne la sua signoria. Ched
elli è molto isconvenevole cosa ai re ed ai prenzi ched ellino sieno tiranni,
perciò che tutte le malizie che sono nell’altre malvagie signorie, sono ne là
signoria del tiranno. Nel quale dice che i re e i prenzi debbono molto ischifare
la compagnia del tiranno, perciò che per molte cose ei soggetti aguaitano ed
assaliscono il loro signore quand’elli é tiranno. Nel quale dice quali cose
guardano e salvano la signoria del re e ched e'conviene fare al re sed e' si
vuole guardare ne la sua signoria e nel suo reame. Quali cose fanno a
consigliare e di quali l'uomo die avere consiglio. Nel quale dice che cosa è
consiglio, e come l'uomo die fare ei consigli. Nel quale dice che consiglieri
ei re e i preozi debbono avere ai loro consigli. Nel quale dice quante cose
conviene sapere a quellino che consigliano ei re e i prenzi e in quali cose l’uomo
die préndare consiglio. Nel quale dice che tutte le cose donde l’uomo giudica, l'uomo
die giudicare secondo le leggi e che l’uomo die fare pochi giudicamenti e dare
poche sentenze per arbitrio o per credenza. Nel quale dice come l’uomo dic fare
ei giudicamenti: e ch’e giudici debbono vetare che li uomini che piateggiano
non dicano parole dinanzi al giudice che’l possa muovere ad amore nè ad odio
contra ad alcuna de le parti. Nel quale dice quante cose conviene avere
a’giudicatori a ciò ch’ellino giudichino bene e drittamente. Nel quale dice quante
e quali cose conviene riguardare al giudice, acciò ch’elli perdoni e sia più di
buonarie che crudele. Nel quale dice ched e’ sono diverse maniere di leggi e
diverse maniere di giustizia e che al dritto natu rale ed al diritto iscritto
tutti gli altri dritti sono ridotti e ramenali. Quali debbono esser le leggi
umane e ched elli fu grande utilità ai reami ed a le città a fare cotali leggi.
Nel quale dice che ciascuno non die némica istabilire nė ordinare le leggi; e
ched e' conviene che le leggi sieno publicate é fạtte sapere acciò
ch’ell’abbiano forza d’obbligare le genti. Quante opere e quali le leggi ch'ei
re e i prenzi istabiliscono ed ordinano, debbono contenere. Nel quale dice
quale vale meglio o che le città o i reami sieno governati per un buono re o
per una buona legge. Nel quale dice che co la legge naturale e co la legge
iscritta e' conviene che l’uomo abbia la legge di Dio e la legge del Vangelo. Come
l’uomo può, si die guardare le leggi del paese e ch'elli non è utile ch'elle si
rimutino ispesso. Nel quale dice che cosa è città e che cosa è reame e chénte
die essere il popolo ch’è ne le città e ne' reami. Nel quale dice che allora è
la città e’l reame trasbuono e 'l popolo trasbuono, quand’elli v’à molte di mezzane
persone. Nel quale dice ched elli é grande utilità al popolo di portare grande riverenza
al prenze ed al signore e ched ellino guardino diligentemente le leggi che i re
e i prenzi ánno ordinate. Come il popolo e generalmente tutti quelli che
dimorano nel reame, si debbono mante nere saviamente, acciò che’l re o’l prenze
non abbia corruccio nė odio contra loro. Come ei re ei prenzi si deb bono
mantenere, acciò ch'ellino sieno amati e temuti dal lor popolo. Ed insegna
questo capitolo che tutto debbiano ei re ei prenzi esser amati e temuti dal lor
popolo, ellino debbono maggiormente volere essere amati che temuti. Del governo
in tempo di guerra. Che cosa è cavalleria e da ch'ella é ordinate. Nel quale
insegna in quale terra sono e’migliori combattieri e quali l’uomo die iscegliere
per combattere dell’uomini che debbono andare a la battaglia. In quale tempo
l'uomo die acco stumare il fanciullo all' opere dela battaglia e per quali
segni l'uomo può conosciare ei migliori battaglieri. Nel quale insegna quante
cose e quali e' conviene avere a' buoni battaglieri, acciò ch'ellino si
combattano bene e giustamente. Nel quale insegna quali sono migliori
battaglieri o i gentili uomini, oi villani, o quellino che nel campo dimorano,
ciò sono ei lavoratori. Nel quale insegna ch’elli è grande utilità ai baltaglieri
chedellino sieno bene esercitati all'arme; e che l’uomo die ei battallieri
apprendare a correre ed a saltare ed andare ordinatamente. Nel quate insegna
ched e’si conviene appréndare ai battaglieri molte altre cose che quelle che
sono dette, cioè a córrare ed assaltare ed andare ordinatamente. Nel quale
insegna che l’uomo die fare nell’oste fossati e castelli. Ed insegna questo
capitolo come l’uomo die fare ei castelli e quante cose l’uomo die guardare in
farli. Nel quale dice quante cose l’uomo die guardare quand’elli vuole o die
imprèndare battaglia comune. Nel quale dice ch’elli è grande utilità ne le
battaglie di portare bandiere e gonfaloni: e che l’uomo die ordinare capitano e
maggiore a ciascuna ischiera. E so - nemici migliantemente questo capitolo
insegna quali debbono essere e banderari e i capitani di quelli a piè e di
quelli a cavallo. Nel quale dice che avvedimenti die avere e che die fare il
signore dell’oste acciò che la sua gente non possa essere gravata dai nemici
per la via. Nelquale dice come l’uomo die ordinare le schiere e le battaglie,
quando l’uomo si die combattere contra I Nel quale insegna che l'uomo die
ferire il suo nemico nello battaglia di puntone e non di ramata. Nel quale dice
quante cose fanno gli avversari più forte che quelli dell’oste é come l’uomo
die assalire ei suoi nemici. Nel quale insegna come ei battallieri si debbono
tenere quando vogliono ferire ei loro nemici, e com’ellino ei debbono inchinare
e come l'uomo si die trarre in drieto quando la battaglia non porta utilità. Nel
quale insegna quante maniere ei sono di battaglie; e in quanti modi l’uomo può
prendare le città e le castella ed in che tempo l’uomo le die assediare. Come
quelli dell'oste si debbono fornire e come l'uomo può vénciare le castella per
cava. Come per l’ingegni del legno che l'uomo può menare al muro del castello,
l’uomo lo può prendare. Come l’uomo può e die edificare le castella acciò
ch'elle non sieno leggermente prese ně come l'uomo può e die guérnire le
castella acciò ch'elle non possano esser prese. Nel quale dice come quelli che
sono nel castello assiso possono e debbonsi difendersi da la cava e dai tra
bocchi e dalli altri ingegni che quellino dell'oste vi fanno. Come l'uomo die
fare le navi, e come l'uomo si die combattere nell'acqua o nel mare, da che
cosa tutte le battaglie debbono essere ordinate assediate. Che cosa è una virtù
che l’uomo chia ma piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE piacevolmente con le
genti, e in che cose la detta virtù die essere, e che si conviene che i re e i
prenzi sieno piacevoli. Appresso ciò che noi avemo detto che cosa è debonarietà,
noi diremo d’un'altra virtù, che l’uomo chiama piacevolezza. E dovemo sapere che
le opere e le parole dell'uomo sono ordinate a tre cose, si come ad avere
piacevolezza e verità, ed avere diletti e giuochi nei solazzi e nelle
allegrezze. LA PRIMA RAGIONE: E la piacevolezza si è, in SAPERE BENE CONVERSARE,
unde quelli che sa onorare e riverire gli uomini convene volmente e secondo
ragione, si à la virtù della piacevolezza. La SECONDA ragione si è, che le
opere e le parole dell’uomo sono ordinate sie a verità che, per le opere e per
le parole dell'uomo può l'altro uomo conosciare chi egli è (“Conversation
maketh the man”). Donde, verità non è altro se non che l'uomo non sia vantatore
e che nè per parole nè per fatti elli non dimostri maggior cosa in lui che vi
sia, nè che l'uomo non si faccia ispiacevole nè per parole nè per fatti oltre
quello che ragione insegna, perchè elli sia gabbato ne dispregiato. La TERZA
RAGIONE a che l'opere e le parole dell'uomo sono ordinate, si è, acciò che
l'uomo sia sollazzevole convenevolmente, e si sappia bene portare nei giochi, e
nelle allegrezze e nei sollazzi. Donde, se l'uomo vuole CONVENEVOMENTE
CONVERSARE e' die essere giochevole e piace vole e veritiere. E di queste tre
virtù noi diremo partitamente, ma prima diremo della piacevolezza. E dovemo sapere
che, NEL CONVERSARE, alcuni si mostrano troppo piacevoli, si come sono e
lusinghieri, e quelli che’n ogne cosa vogliono piacere altrui, che acciò che
piacciano altrui, si lo dano tutti ei fatti è tutti ei detti di ciascuno uomo. E
alcuni sono, che anno troppo gran difalta NEL CONVERSARE co le genti, si come
sono ei malvagi e quellino che sono battaglieri, e tenzonieri; e questi fanno
contra a ragione. Chè neuno die volere essere si piacevole nè si compagnevole,
ch’elli ne do venti o ne sia lusinghieri, e piacere a tutti gli uomini, nė
neuno die essere si pieno di contenzione e di noia, che li con venga cessare
della compagnia delli uomini, ma quelli è da lodare che si sa mezzanamente
portare e secondo ragione, nel CONVERSARE. Donde la virtù che l’uomo chiama
piacevolezza cessa la contenzione dell'uomo e tempera il lusingare, e quello
per lo quale l'uomo vuole a tutti gli uomini piacere. E perciò che l'uomo è per
natura compagnevole, si come dice il filosafo, si conviene dare una virtù per
la quale ne le parole e nei fatti sappia CONVERSARE COOPERATIVAMENTE E
convenevolmente e secondo ragione. E questa virtù che l'uomo chiama
piacevolezza, tutto sie cosa che, tutti quelli che vogliono essere piacevoli e
vivare in cooperazione, compagnia ed in comunità con l’altro, conviene ch'elli
abbiano, acciò che siamo cortesi e piacevoli, non perciò debbiamo essere si
cortesi ne si piacevoli ad uno come un altro: chè la dritta ragione insegna,
che, secondo la diversità dei due conversatori, l'uomo si die portare in
maniera appropriata con l’altro. E perciò che troppa amistà e troppa gran
compagnia mostrare ad ogni uomo fa l’uomo ispiacevole e vile; il gentile uomo
si debbe più alteramente contenere che l’altro, acció che l'uomo lor porti più
onore e più reverenza, e che la dignità de la loro grandezza non sia abbassata
nè avvilata. Donde il filosafo dice che i re e i prenzi debbono mostrare
ch’ellino sieno persone degne d’onore e di reverenza. Chè si come noi vedemo
che alcuna vianda fuôra soperchio a uno infermo che non basterebbe ad uno sano,
cosi è nell'essere piacevole e cortese, che alcuna piacevolezza s’aviene a’re
secondo ragione, che non s’aviene cosi ad un’altra persona comune. L’Enciclopedia
italiana cura l’edizione critica del “Il regime del principe”, testimoniato da nove manoscritti, tra cui il
codice della Biblioteca di Firenze (sig, che si distingue sia per motivi
cronologici (nell’explicit reca la data) sia per la veste linguistica, in
prevalenza senese, verosimilmente molto vicina a quella dell’originale, ciò che
lo rende un documento di lingua privilegiato rispetto alle coeve attestazioni
di varietà toscane non fiorentine tra fine Due- e inizio Trecento. L’opera
discende dal “Il regime del principe”, composto da Colonna filosofo tra i più
autorevoli della sua epoca, nato a Roma. Dedicato a un principe, di cui Colonna
fu tutore e ispirato alla Retorica, la Etica, e la Politica di Aristotele, esuddiviso
in tre libri concernenti la “morale», ossia l’etica (disciplina dell’individuo),
l’oeconomia (della casa), e la politica (della città o reame o villa) - è il
più corposo trattato basso-medievale sul regime del ‘gentile uomo’ ed ebbe non
solo una straordinaria fortuna in Italia fino a tutto il XV secolo come elogio
della cavalleria. Esercita una notevole influenza sul Convivio, sul “De vulgari
eloquentia” e sulla “Monarchia” di Alighieri. “E lasciando lo figurato che di
questo diverso processo dell’etadi tiene Virgilio nello Eneida, e lasciando
stare quello che Egidio eremita [il filosofo appartenne all’Ordine degli
Eremitani di Sant’Agostino ne dice nella prima parte dello Regime del Gentile
Uomo. L’ampia Introduzione, oltre a tracciare il profilo biografico di Egidio
illustrando contenuto, fonti e storia della ricezione del suo capolavoro,
esamina nei dettagli il debito di Alighieri, la fortuna figurative o
iconografica del trattato (l’affresco giottesco della Cappella degli Scrovegni
di Padova, precisamente nella Virtù; l’Allegoria ed Effetti del Buono Governo
realizzata da Lorenzetti a Siena, specie nella particolare raffigurazione della
giustizia commutativa e la giustizia distributiva alla sinistra dell’affresco
-- i rapporti tra il De regime e il Livre dou gouvernement (una drastica
riduzione non sempre perspicua, di cui sono noti trentasei manoscritti) e tra
questo e il Livro del governamento, la prima traduzione, pur parziale, di opere
che solo successivamente furono volgarizzate nella loro interezza, ad opera di
un anonimo senese, come avevano già ipotizzato, tra gli altri, Segre e
Castellani. Inoltre si auspica - e intanto s’imposta in modo acuto e pregnante
- un commento dedicato alle fonti del “Regime”, ormai indispensabile alla luce
della ri-valutazione della filosofia nel vernacolare tra Medioevo e
Rinascimento portata avanti dalla bibliografia più recente. Grazie infatti agli
studi degli ultimi due decenni, siamo oggi più informati sui modi in cui la
cultura vernacolare interagì con quella antica, bolognese, tradizionalmente
ritenuta ‘più alta’, e sul diverso pubblico, dichiarato o reale, cui si
indirizzava la trattatistica filosofica dei secoli dal XIII-XIV in avanti. Infine,
si passano in rassegna le altre versioni del De regimine (quella senese è bensì
la più antica, ma non l’unica: se ne conoscono almeno altre cinque).
Nella parte prima della Nota al testo si dà conto della tradizione manoscritta
dei testimoni completi e dei testimoni parziali (descrizione esterna,
descrizione interna, bibliografia), offrendo dati preziosi sulla tradizione a
stampa del De regimine e sulle edizioni del Governamento. Nella parte seconda
si indicano i criterî di edizione e gli usi del copista. L’appendice
prima alla Nota al testo raccoglie le aggiunte inter-lineari e marginali al
Governamento del manoscrito fiorentino, mentre in una seconda appendice si
riportano alcune annotazioni sulle relazioni fra i testimoni del Governamento.
La prima e fondamentale caratteristica della tradizione è che tutti i mss.
paiono al tempo stesso testimoni molto vicini tra loro tanto che è dimostrabile
la presenza di un archetipo a monte della tradizione, ma non per questo
facilmente classificabili nei loro rapporti reciproci, principalmente perché
spesso contaminati dal ricorso alla versione nella lingua antica. Il secondo
volume è interamente dedicato allo spoglio linguistico sistematico sull’intero
testo, tendente per quanto possibile «all’esaustività delle allegazioni per
ciascuna forma»: grafia, fonetica, morfologia, sintassi. Chiudono il
volume un ricco repertorio bibliografico e gl’indici onomastico, toponomastico,
dei nomi e dei manoscritti. Grice: “Poor Ockham is known as Ockham – god knows,
but he is not telling, what his surname was, if any! On the other hand, the
rather pompous Romans have Egidio as a ‘Colonna,’ even if, as the Treccani notes, ‘the links with the
Roman family are unclear’!” -- Romano: Egidio Romano,
arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e
Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Template-Archbishop.svg Incarichi
ricopertiArcivescovo di Bourges Roma Nominato arcivescovo25 aprile 1295
Deceduto22 dicembre 1316, Roma. C., latinizzato come C., indicato anche come C.
(Roma), filosofo. Generale dell'Ordine di Sant'Agostino. Dopo la sua morte, gli
sono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum
princeps. È discepolo d’Aquino a Parigi, dove insegna, prima di diventare
generale degl’agostiniani e arcivescovo di Bourges. È inoltre il precettore di
Filippo il Bello per il quale scrive il trattato De regimine principum,
sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo. -- è considerato tra i più autorevoli filosofi
di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in
un contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre
polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale.
Questo filosofo è generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo VITERBO
(si veda), per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam
di Bonifacio e per il ruolo significativo che assunse il maestro degl’eremitani
d’Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico
famoso e autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In C. rileviamo
subito una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico. Infatti
è possibile rintracciare il De regimine principum, scritto per Filippo il Bello
e di ispirazione aristotelico-tomista (AQUINO (si veda)) inerente alla
naturalità dello stato italiano, erigendola a difensore della potestas regale.
Nel De Ecclesiastica potestate, invece, C. afferma la superiorità del
sacerdotium rispetto al REGNVM, distinguendosi quale rappresentante della
teocrazia papale. La riscoperta del LIZIO e l'agostinismo politico In seguito
alle condanne di Tempier. C. difende la tesi d’AQUINO, per la sua qualifica di bacca-laureus
BACCA-LAVREVS -- formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene
sospeso dall'insegnamento. Gl’avversari del papato trovano nel pensiero del
LIZIO gli strumenti per svolgere un'analisi politica che mette in discussione
la sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente
speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno di compenetrazione
fra stato italiano e Chiesa, all'interno del quale Agostino viene a giocare un
ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo De Civitate Dei
conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della Civitas Dei Cælestis
e il piano temporale della vita terrena che è ROMA CIVITAS PEREGRINA), che
ripropone la teoria delle due città e riafferma la superiorità del sacerdotium
rispetto al REGNVM, costituendo un vero e proprio partito del Papa. C. rivendica
la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva dell'auctoritas del papa in
quanto homo spiritualis. C. sostituisce al concetto agostiniano di ecclesia,
quello di REGNVM al fine di estendere gl’ambiti del potere del SOVRANO
ecclesiastico. Il SOVRANO ecclesiastico, il papa, dove esercitare la sua
sovranità anche sul POTERE TEMPORALE al fine di garantire l'ordine mediante una
forma di DOMINIVM che coincida con la sua stessa missione spirituale.
Opere: Frontespizio delle In secundum librum sententiarum quaestiones
L'edizione critica dell'opera omnia è stata intrapresa, per Leo S. Olschki,
(Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e
Studi), dal gruppo di ricerca di Francesco Del Punta. Quaestio de gradibus
formarum, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, In secundum librum
sententiarum quaestiones, 1, Francesco
Ziletti. In secundum librum sententiarum quaestiones, Ziletti, Opere, Antonio Blado, In libros De
physico auditu Aristotelis commentaria, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto
Locatello, De materia coeli, Girolamo Duranti, Quodlibeta, Domenico de Lapi. TreccaniEnciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Lambertini, Giles of Rome, Zalta, Stanford
Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information
(CSLI), Stanford,. Briggs e Eardley,
A Companion to C., Leiden, Brill,. Silvia Donati, Studi per una cronologia
delle opere di Egidio Romano: I. Le opere prima: I commenti aristotelici.
"Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale", Gian Carlo
Garfagnini, Egidio Romano, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero:
Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Francesco Del Punta-S.
Donati-C. Luna, C., in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Filippo Cancelli, Egidio Romano, in Enciclopedia
dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Papa Bonifacio VIII Teocrazia C.
su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ugo Mariani, C., in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio Romano, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. su ALCUIN, Ratisbona. Opere di Egidio Romano, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. su Egidio Romano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. C.,
in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Cheney, Egidio Romano, in Catholic
Hierarchy. Lambertini, Giles of Rome, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia
of Philosophy, Center for the Study of Language and Information, Stanford. Biografia a cura dell'associazione storico-culturale
S. Agostino, su cassiciaco. Predecessore Arcivescovo metropolita di
BourgesSuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Simone di Beaulie Raynaud de La
Porte. NUMISMATIC
NOTES AND MONOGRAPHS. ITALIAN ORDERS OF CHIVALRY AND MEDALS OF
HONOUR GILLINGHAM THE NUMISMATIC SOCIETY Wonr nl PUBLICATIONS
The Journal of Numismatics. With many plates, illustrations, maps and
tables. Less than a dozen complete sets of the Journal remain on hand.
Prices on application. The numbers necessary to complete broken
sets may in most cases be obtained. An index to the first fifty volumes
has been issued as part of Volume LI. It may also be purchased
separately. The American Numismatic Society. Catalogue of
the International Exhibition of Contemporary Medals. March. New and
revised edition. The Numismatic Society. Exhibition of Colonial
Coins. NUMISMATIC NOTES et MONOGRAPHS Numismatic
Notes and Monographs is devoted to essays and treatises on subjects
relating to coins, paper money, medals and decorations, and is
uniform with Hispanic Notes and Monographs published by The Hispanic
Society of America, and with Indian Notes and Monographs issued by
the Museum of the American Indian Heye Foundation. Publication
Committee Baldwin Brett, Chairman Russell Drowne Reilly,
Jr. Editorial Staff Noe, Editor Wood, Associate
Editor Earle, Assistant . Italy (savoy) Order of the Most Sacred
Annunciation Plaque ITALIAN ORDERS OF CHIVALRY AND MEDALS
OF HONOUR. GILLINGHAM. THE NUMISMATIC SOCIETY Press of The Lent et Graff
Co. ITALIAN ORDERS OF CHIVALRY AND MEDALS OF HONOUR Gillingham. Students
have always found the coinage of Italy of more than passing interest,
and the country of the early Romans is still a far from exhausted
field of numismatic research. Few sections of Europe have had such a
varied history. Few have been more ought over. Greeks, Romans,
Vandals, Goths, Franks, Germans, Normans, Spaniards, Austrians and the
Papal Authorities have had a hand in the mismanagement of
the country’s affairs, and all have left traces of their influence,
but nowhere more definitely than in the field of numismatics. The changing
coinage has always been interesting, and the publication of the
Corpus Nummorum Italicorum, undertaken by His Majesty, Victor Emmanuel
III, is a magnificent demonstration of the value of numismatic research.
In the time of OTTAVIANO, Italia is divided into sections. In the
feudal period many of these had been governed for centuries by
members of the same family. It is a normal condition for these clans
to wage war one upon the other, and this state of affairs exists
almost uninterruptedly until the middle of the Nineteenth
Century. The destinies of Italy were decided in the cabinets and on
the battle-fields of Northern Europe—a Bourbon at Versailles, a
Haps- burg at Vienna or a thick-lipped Lorrainer, with the stroke
of his pen, wrote off province against province, regarding not the
population who had bled for him or thrown themselves upon his mercy.” Through
it all, the Papacy has exerted a powerful influence. In the early
period such a shifting of control was not to the best interests of the
inhabitants. The Kingdom of Italy, as we know it today, did
not exist, of course, until 1870. With the fall of the French Empire
under Napoleon III, the assistance of France was no longer
available, and Rome came under the dominion of Victor Emmanuel. All
of that gieat mountainous peninsula was united and free. For over
seventy years the country has been governed by a Prince of the
House of Savoy. Its population has prospered more during that period than for
many preceding centuries. These changing conditions were not
without effect upon the organisations which we class as Orders of
Knighthood. Many of the Orders of Chivalry founded by the Ducal or
Princely rulers of Italy were named for their patron saints. It has
seemed expedient in this article to treat of the Orders and Decorations
of all of these changing principalities separately. Insofar as is
possible, any repetition which this course involves has been
avoided. Lucca, the most northern province of Tuscany, lies between
the Apennines and the Mediterranean Sea. Its principal city, Lucca,
on the River Sarchio, is famous for a remarkable bridge which is said to
have been built about 1000 A.D. From the time of the Narses, in the
Sixth Century, Lucca was an important city. Here and at Pisa, the
earliest Italian school of painting flourished in the Twelfth and
Thirteenth Centuries. Lucca became an autonomous commune from the
death of Matilda (1115). In 1314 Uguccione della Faggiola seized the
reins of Government, but later he was superseded by the powerful
Castruccio Castracani. Louis of Bavaria, after having occupied it
by his troops, sold it to a Genoese banker, Gherardo Spinola; it was
seized by John, King of Bohemia, pawned by him to the Rossi of
Parma, sold to Florence, relinquished to Pisa, nominally liberated by
Charles IV (Emperor of Germany, 1346- 1^78) and governed by his vicar.
Lucca, MEDALS OF HONOUR 5 subjected to endless
vicissitudes, managed first as a democracy and after 1628 as an
oligarchy, to maintain its independence, alongside of Venice and Genoa,
and painted the word “Libertas” on its banner until the French
Revolution. In 1805, Napoleon I gave Lucca to his sister Eliza, who
had married Bacciochi. It was occupied by the Neapolitans in 1814,
and from 1816 to 1847 it was the Duchy of Maria Louisa of Parma
(who married her cousin, Charles IV of Spain), and was ruled by her son,
Charles Louis. It later formed one of the provinces of Tuscany.
Under the rule of the Lombard Dukes, Lucca possessed a coinage of its
own. MILITARY ORDER OF SAINT GEORGE OF LUCCA. Duke Charles
Louis Ferdinand, a Spanish Bourbon, founded this Order on June 1, 1833.
It was called Or dine di San Giorgio per il Merito Militare, and
was awarded for military services to the Duchy. It was also issued to
officers and privates whose service exceeded three years. The
Decoration is a Maltese cross, enam¬ elled white. It is edged with gold
for the first class, with silver for the second, while for the third
class it is silver without the enamel. In the centre is a white
medallion, upon which there is a gold figure of St. George slaying
the dragon, surrounded by the words AL MERITO MI LI TARE on a green
band. The reverse shows the initials of the founder, C.L., crowned, and
the date 183J. The ribbon is bright red with a white stripe.
ORDER OF SAINT LOUIS. Founded on December 22, 1836, by Duke
Charles Louis, and awarded for civil merit. It was reorganized in
1849 by his son, Charles III, Duke of Parma, a Bourbon, for Civil
and Military service; it is, therefore, classed with the Orders of
Parma also. See page 19. The badge of the first class is a
white- enamelled cross, with heavy gold lines and with a large
fleur-de-lis at the tip of each cross-arm. The obverse bears a shield
upon which is an effigy of Saint Louis in golden armour; the
reverse has a shield bearing the Bourbon crest of three lilies. The
second class cross is of silver and white enamel, NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. 1
Parma Order of Saint Louis while the third is all
silver but without the crown. The ribbon is blue with a yellow
stripe on either side. MEDAL FOR MILITARY SERVICE. Created on
June i, 1833, for officers who had served over thirty years, and called
the Medaglia di Anzianita. The obverse bears a gilt Maltese cross
with the initials C.L. and a crown above; on the reverse are the
Roman figures XXX, denoting the years of service. The ribbon is
blue, with yellow stripes— four of the former and three of the
latter. CIVIL MEDAL OF MERIT. This Dec¬ oration was also
instituted by Duke Charles Louis. It is of silver and bronze. The
initials of the founder, C.L. intertwined, ap¬ pear on the obverse, and
the reverse has inscribed thereon the words, AI BEN EME¬ RITI DELLA
SALUTE PUBBLICA. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR. Mutina, as Modena
was then called, was a Roman colony. For more than twelve centuries
there were constantly changing rulers. In 1288 A.D. Obizzo II
(1240-1293), of the princely house of Este, received the lordship of
Modena. The Este family was one of the oldest of Northern Italy, dating
back to about 917 A.D. Through the marriage of an heiress of the
house of Welf, of Bavaria, with a younger son of the house of Este, this
family became connected with the houses of Brunswick and Hanover,
from which are descended the Sovereigns of England, through the house
of Guelph. At various periods, the Estensi received the
sovereignties of Ferrara, Modena and Reggio. The male branch of the
family lost the duchies of Modena and Reggio on the death of
Hercules Rinaldo, who died in 1803. His only daughter, Maria,
married Ferdinand of Austria, son of Francis I and Maria Theresa.
Their son, Francis IV, in 1816 became the first Hapsburg duke of
AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS Modena. He died in 1846,
and when his son Francis V died in 1875, the male line of the
Austrian Estensi became extinct and the title passed to Francis, son of
Archduke Charles Louis. Members of the Este family and their
descendants had held the Duchy of Modena almost continuously from 1288
until i860. In that year the territory by a plebescite was declared part
of the King¬ dom of Italy. ORDER OF THE EAGLE OF ESTE.
Founded by Francis V on December 27, 1855, and awarded for military and
civil merit. The number of the members of the Order was limited to
20 for the Grand Cross, 40 for the Commander Class and 120 for the
Class of the Knights. The decoration was surrendered on the death of the
Knight. The insignia is a gold Maltese cross with gold knobs at the
points, white-enamelled and edged with blue. Between the arms of
the cross are gold scrolls, and the letters E.S.T.E. are distributed in
the angles. On the blue medallion is the white-crowned eagle of the
house of Este, surrounded by a NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. J L
Modena Order of the Eagle of Este
white-enamelled band, inscribed PROXIMA SOLI MDCCCLV. The reverse centre
of white enamel bears the figure of Saint Con- tardo holding a cross.
It is surrounded by a blue-enamelled band bearing three stars and
inscribed S. CON TARDUS ATESTI - NUS. The ribbon is white, edged with
blue stripes. When awarded for military merit, the cross is
surmounted by a trophy of arms; for civil merit, by an oak wreath.
MILITARY MEDAL FOR LOYALTY. Francis IV, the first Hapsburg duke of
Mo¬ dena (1816-1846), caused a medal to be struck and awarded to
those of his troops who re mained faithful during the riot of
February 4, 1831. This disturbance was organized by Ciro
Menotti, and forced Francis IV to flee from his capital. It was thought
by some that the Duke was in league with Menotti, but as the Duke
caused Menotti to be put to death when the Revolution was
suppressed, this is doubtful. The silver medal given to his supporting
troops bears the inscription FIDELI MILIT 1 MDCCCXXXI. Within a
wreath of laurel, NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR 1
3 and below are two crossed swords. The reverse is inscribed
FRA NCI SC US IV DUX MUTINAE. The ribbon has three stripes, equal in
width; the middle one white, the side ones blue. CROSS FOR
SERVICE. Authorized by Francis V, May 16, 1852. This medal was
awarded to officers who had served 25 years under the banner of the house
of Este. It is a silver cross with a gilt edge. In the centre is
the white eagle of Este, surmounted by a crown and the letters F. V. The
reverse bears the Roma n figures XX V. The cross is surmounted
by the ducal crown, and the ribbon is white, edged with blue.
MILITARY MEDAL OF MERIT. This decoration was created in 1852 for
the junior officers and privates. It is silver. On the obverse
appears a bust of the duke facing left, and the legend FRANCESCO V
DUCA Dl MODENA EC. EC. ARCIDUCA D’AUS¬ TRIA ESTE EC. EC. On the
reverse, within a laurel wreath, PEL MERITO MI LI TARE. The ribbon
is blue, edged with white. AND MONOGRAPHS MEDAL OF FIDELITY.
Francis V ap¬ pears to have been in a struggle with his subjects
during most of the thirteen years of his reign. He was compelled to
seek refuge in Austria in 1849, but he returned to Modena after the
battle of Novara on March 24th of the same year. Ten years later he
was again forced to flee. In i860 Modena became part of United Italy. To
reward those of his subjects who had remained faithful to him
during his exile, he created the Medal of Fidelity in 1863. It is
bronze, 32mm. in diameter. On the obverse it bears the effigy of
the duke and the inscription FRANCESCO V AUST. ATESTENUS DUX MUT 1
NAE ; on the reverse, the words FI DELI TATI ET CONSTANTIAE IN
ADVERSIS MDCCCLXIIL surrounded by a wreath of oak leaves. The ribbon is
of blue and white horizontal stripes, edged with blue and
white. PARMA. Parma was the Eastern section of
Gallia Cispadane at the time of Constantine. It lies in the Lombard
plain, north of the Apennines, south of the River Po and west of
Modena. For the first fifteen centuries of the Christian era, the many
rulers of Parma were of various nationalities. The duchy came into
the possession of the Far- nese family during the early part of the
Six¬ teenth Century. Eight dukes of that family ruled over the
destinies of its people. From Antonio, who died childless in 1731,
the duchy passed to Charles of Bourbon (Don Carlos), Infante of
Spain, who became King of Naples in 1735. Both Austria and Spain
governed it at various times. At the Con¬ gress of Vienna in 1815, the
duchy was granted to Marie-Louise (daughter of Fran¬ cis I of
Austria), second wife of Napoleon I. She died in 1847. Spanish and
Austrian rulers again came into possession. Charles III, a Bourbon
and the grandson of Victor Emmanuel I of Sardinia, reigned until his
assassination. During the regency of his son Robert, Parma was
incorporated in the Kingdom of Italy. ORDER OF CONSTANTINE.
Authori¬ ties differ with regard to the date of the insti¬ tution
of this Order. It has been said that it was founded by Constantine the
Great about the year 313 A.D. Others give credit to thle Byzantine
Emperor Isaac II (Isaac Angelus Comnenus), and fix the year as
1190. This seems the more probable date. The Order is also called the
Order of Saint Angelus, the Order of the Golden Chevaliers, and the
Military Order of Constantine of Saint George, it being under the
patronage of that Saint and Martyr. Late in the Seventeenth Century
its control appears to have been sold to Francis I (Francis of
Farnese), Duke of Parma, who became the Grand Master. The Order came into
high repute because of the rules he observed in its distribution,
and also because of the large domains he conferred upon it, including
the church of the Madonna della Steccata at Par¬ ma. Clark
attributes its revival to Charles V. In 1734 or 1735, after the
extinction of the male line of the Farnese family, the heir to the
Duchy of Parma, Infante Don Carlos (son of Philip V of Spain and
Elizabeth Far¬ nese), became the Grand Master. He trans¬ ferred the
Order to Naples when he ascended that throne. It was abolished in
Naples by Joseph Bonaparte in 1806 but continued in Sicily. Revived
in 1814, it remained in existence until the unification of Italy.
Owing to its transfer to Sicily, it is fre¬ quently classed among the
Orders of the Two Sicilies. The members of the Order consist of
Senators, Commanders, Knights, Serving- brothers and Squires.
On August 8, 1922, the Count d’Caserta of the Austrian line of
Bourbons, and a dis¬ tant cousin of the King of Italy through the
female line, honoured one Michael Cangiano, the official Interpreter of
the Superior Court of Cambridge, Massachusetts. Signor Can¬ giano
was made a Knight of the Order of Constantine of Saint George of Parma
and of Sicily. This indicates that the Order has been continued as
a Family Order by the old rulers of those Duchies Pl. Ill
Parma Order of Constantine MEDALS
OF HONOUR 19 The insignia is a red-enamelled gold
cross, fleurv. On the arms are the letters I.H.S. V. (In hoc signo
vinces). In the centre is the Labarum, or Standard. Greek letters X
and P crossed,and A (Alpha) and et (Omega). Harold Bayley, in his book
entitled Lost Language of Symbolism, London, 1913, writes,—“The
Latin P has the same form as the Greek letter named Rho. One of the
most famous emblems of early Christianity— known as the Labarum,
the seal of Con¬ stantine, or the Chi-Rho monogram—is the letter X
surmounted by a P. The two letters Chi and Rho are assumed to read Chr,
a contraction for the name Christ, but the symbol was in use long
ages prior to Chris¬ tianity.” The first class members of the Order
wear a gold figure of Saint George slaying the dragon, suspended from
the cross. The ribbon is light blue moire. ORDER OF SAINT L
OUIS. Charles III, Duke of Parma, revived this order at Parma,
August 11, 1849, as an award of merit. His father Charles Louis (or
Charles II) had originated the order in Lucca in 1836. There
are five classes and the insignia is a cross, composed of four
fleurs-de-lis, bound together by their leaves. On the centre of the
obverse in a blue-enamelled shield are three gold lilies. On the reverse
is a figure of St. Louis, surrounded by the motto DEUS ET DIES (God
and light). The Grand Cross and that for Commanders and Cava¬ liers
of the first class have a gold figure of St. Louis surmounted by a gold
crown. The cross for the second class Cavaliers has a silver figure
with a silver crown, and the fifth class is of enamelled silver without
a crown. The ribbon is light blue and yellow. MEDAL OF MERIT.
Founded during the reign of Marie Louise. Marie Louise was the
mother of the Little King of Rome who, fortunately for Italy, never
reigned. The medal is silver, 20 mm., and bears on the obverse, AI
BENEMER- ENTI DEL PRINCIPE E DELLO STATO. On the reverse is the
head of Marie Louise and the inscription, M. LOUIS ARCID. D. D. AUSTRIA
DUCA DI PARMA PIAZ. E. GUAST. The ribbon is light blue and light
red. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR #
21 SAN MARINO. When Marinus, the Dalmatian
monk, and his companions settled in the Eastern Apennines, in the
third century, they little thought they were establishing a community
with such a future. For a long time San Marino was something like a
buffer state, between hostile Italian dynasties in that vicinity.
In 1631, the Independence of San Marino was acknowledged by the States
of the Church. Napoleon I preserved its sep¬ arate existence in
1797, and Napoleon III protected it from the designs of Pope Pius
IX in 1854. At the unification of Italy, 1859-1860, San Marino was still
allowed its independence, and today it is the smallest Republic in
Europe. ORDER OF CHIVALRY OF SAN MA¬ RINO. Sometimes called
the Equestrian Order of San Marino, created on August 13, 1859, by
the Council of the Republic, in commemoration of the fifteenth century
of its foundation. The purpose of its founda- AND
MONOGRAPHS ITALIAN DECORATIONS f Pl.
IV San Marino Order of Chivalry of San Marino
MEDALS OF HONOUR tion was to reward those who were
promi¬ nent in the welfare of the country and its people. There are
five grades: Grand Crosses, Grand Officers, Commanders, Offi¬ cers
and Chevaliers. The badge or cross, which is surmounted by a gold crown,
is a gold-edged, white-enamelled cross moline with a gold ball at
the end of each arm. Be¬ tween the arms are four gold towers. The
obverse centre bears the effigy of Saint Marino to left, surrounded by a
blue band, inscribed SAN MARINO PROTETTORE. The reverse bears on a
gold shield, in the cen¬ tre, the arms of the country—the three
towers. The shield is surrounded by a blue band bearing the words MERITO
CIVILE E MI LI TARE. The ribbon is of seven equal stripes, four of
blue and three of white. The writer has four specimens of this
cross. Two have full-faced busts of San Marino, with white hair and
beard. One has a younger face to the left, with black beard and
hair, while the fourth has a bust in gold, facing to the left, but on a
white-enamelled field. Two of the specimens bear on the reverse
MERITO CIVILE. Elvin and AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS
AND Lawrence-Archer give the inscription as “Merito
Militare,” while the Catalogue Musee de VArmte has it “Merito
Civile.” Cappelletti and Puca, the Italian authori¬ ties, give the
former wording, and the figure of San Marino facing to the left; and
this, no doubt, is correct. MEDAL OF MERIT. Instituted
on March 22, i860. This is octagonal in form and of gold, silver
and bronze, according to the importance of its award. In the centre
of the obverse is the Arms of the Republic, the three towers, within an
oak and laurel wreath, below which is the word LIBERT AS; around
this is, REPUBBLICA Dl SAN MARINO. On the reverse, within an oak
wreath, is the word ANZIANITA if the pur¬ pose of the reward is military,
or MERITO, if for civil award. The ribbon is light blue, edged with
red. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR 25
SARDINIA, SAVOY AND THE KINGDOM OF ITALY. Sardinia, one
of the islands of the King¬ dom of Italy, is known to have been settled
by the Carthaginians in 512 B.C. Thence¬ forward Romans, Vandals, Goths,
Saracens, and the Genoese ruled the island. In the year 1325 A.D,
the king of Aragon took pos¬ session. From that time until 1403
Sardinia was an Aragonese province. After the union of Aragon and
Castile, it became Spanish and so remained until 1713, when it was
ceded to Austria by the treaty of Utrecht. In 1720 it w r as given to
Victor Amadeus II (1666-1732), Duke of Savoy, in exchange for the
island of Sicily, and he became King of Sardinia; the title of King of
Savoy was con¬ ferred upon him the same year. This title of King of
Sardinia and Savoy continued until the unification of Italy in
1859-1860. MEDAL OF VALOUR. Created in 1793 by Victor Amadeus
III (1727-1796), King of Sardinia. It is of gold and silver, 38 mm.
AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS in diameter, and bears
on the obverse a bust of the king facing to right and VITTORIO-AM ADEJJS
III. The reverse has a wreath of oak leaves, within which is a tro¬
phy of arms and flags, and the words AL V A LORE. The ribbon is dark
blue. About 1404 Amadeus VIII, (the first Duke of Savoy),
extended his provinces. The teriitory over which he later reigned
extend¬ ed from the Lake of Geneva to the Mediterranean Sea, and from the
River Saone (in France) to,the River Sesia in Italy. The Duchy of
Savoy also included Nice. This section remained almost continually
in the possession of the house of Savoy until i860. It is
said that Napoleon III had a secret treaty with Count Cavour, the Italian
states¬ man, before the French army went to assist the Sardinians
to drive the Austrians from Northern Italy. At the Peace table,
Savoy, the cradle of the house of that name, as well as Nice,
was given to France. Of this set¬ tlement, Garibaldi is reported to have
said, “That man (Cavour) has made me a foreigner in my own
house.” Inasmuch as the Kingdom of Italy has
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR 27 been ruled by
princes of the house of Savoy, it seems proper to describe, in the
subsequent pages, the decorations generally known as Italian Orders
of Chivalry and Medals of Distinction. ORDER OF THE MOST
SACRED ANNUNCIATION. This Order is the high¬ est in rank and most
important of all the Italian Decorations. It ranks with the Golden
Fleece of Spain and the Garter of England. Authorities differ as to its
origin, though many of them give the year 1362 as the date of its
foundation. In that year, the Order of the Neck Chain 01 Order of
the Collar of Savoy was founded by Amadeus VI, Count Verde of Savoy.
His grandfather, Amadeus V, called the Great, assisted the Knights
of the Order of Saint John of Jerusalem at Rhodes, and compelled
the Turks, under Mahomet II, to abandon their siege of that island in
1310 or, as some state, in 1315. For this service Amadeus V was
presented with a collar, bearing the let¬ ters F.E.R.T. Fortitudo ejus
Rhodum tenuit (By his bravery Rhodes was held). He was also granted
for his Arms, the use of the white cross of the Crusaders, which
later became the Cross of Savoy (H. W. Finch- am’s “Order of St.
John of Jerusalem in England”). Although authorities differ as to
the exact meaning of these letters F.E.R.T., the above is the more
generally accepted explanation, and is that given by Bernardo
Giustinian, the Italian authority, in 1692. In 1518, new statutes were
formu¬ lated for the Order by Charles III, Count of Savoy. At that
time the name was changed to the Order of the Most Sacred Annuncia¬
tion. Several changes in the Order have been made by various Counts of
Savoy since that time, among whom were Victor Emman¬ uel II in 1869
and Humbert I in 1889. There is but one class of Members—Chevaliers
or Knights, whose number, exclusive of the Sovereign and Church
Dignitaries and Princes, is limited. They must also be of the Roman
Catholic faith. The insignia consists of a gold medallion on which is
a representation of the Annunciation, above which is a dove,
symbolising the Holy Spirit. This is surrounded by a group of symbolic
NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. Italy
(savoy) Order of the Most Sacred Annunciation 30
ITALIAN ORDERS knots of ribbon (lacs d’amour), on which
are numerous roses, a possible reference to the Mystic Rose. The
whole is suspended from a gold chain, composed of alternate knots
of ribbon and roses, with the letters F.E.R.T. interwoven. The
plaque, or star, is similar to the badge, surrounded by eight rays
of flame, with the letters F.E.R.T. on the sides. The ribbon is blue
moire. (Frontispiece.) ORDER OF SAINT MAURICE AND SAINT
LAZARUS. The Order of St. Mau¬ rice was instituted in 1434, at
Ripaille, near the lake of Geneva, by Amadeus VIII (13^3-1450),
Count and first Duke of Savoy. The Order took its name from the
patron saint of Savoy. Amadeus VIII conferred this Order on ten of
his courtiers when they accompanied him to his retreat at the
priory of Ripaille. He was elected Pope in 1439, taking the name of
Felix V, but he resigned in 1448 and retired to the solitude of
Ripaille, where he died in 1450. He is buried at Lausanne. Shortly
after his death, the Or¬ der became dormant. It was revived in
NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. Italy
(savoy) Order of St. Maurice and St. Lazarus
1572 by Duke Emmanuel Philibert of Savoy, to encourage the
Catholics to resist the Cal- vinistic reforms attempted in Savoy.
The Dukes of Savoy were Grand Masters. The Order of Saint
Lazarus was gen¬ erally supposed to have been founded about the
year 1060, during the earlier crusades, although there was a Fraternity
of Ecclesias¬ tical Knights who as early as 366 A.D. founded a
hospital at Jerusalem to care for the lepers. These were known as
the Knights of St. Lazarus. Elias Ashmole, in his “History of the
most noble Order of the Garter,” London, 1715, writes—“At length,
through the incursion of the Barba¬ rians, and Injury of Time, it (the
order) lay extinguished, but was revived when the Latin Princes
joyned in a Holy League to recover the Holy Land. . . . For in that
Time the Monks of this Order added Martial Discipline to their Skill in
Physick; and for their Services against the Infidels, begat a great
Esteem from Baldwin II, King of Jerusalem, and some of his
Successors.” The Order was inactive for a long period.
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR 33 In 1490 it
was united with the Hospitallers of St. John at Rhodes, but in 1565 Pope
Pius IV restored it and granted additional privi¬ leges. In September,
1572, Pope Gregory XIII, at the request of Emmanuel Philibert, Duke
of Savoy, restored the Order of Saint Maurice and united it with that of
St. Lazarus, under the title of the ORDER OF SAINT MAURICE AND SAINT
LAZARUS. Pope Gregory XIII also appointed the Dukes of Savoy
Hereditaries and Masters, and as Ashmole writes—“oblig’d them to
furnish out two Gallies for the Service of the Papal See, to be
employ’d against Pyrates.” There have been many changes in the
Or¬ der by the various sovereigns, but at present there are five
grades: Knights of the Grand Cross, Grand Officers, Commanders,
Officers and Chevaliers. The number of the last grade is unlimited.
Many foreigners have been decorated with this grade. The pres¬ ent
form of decoration was established by Duke Charles Emmanuel I (1562-1630).
The badge consists of a white-enamelled cross, treflee, of St.
Maurice, conjoined at the * AND angles with the green
Maltese cross of St. Lazarus, which is ball-tipped at the points.
The badges of the four higher grades are sur¬ mounted by a Royal crown,
the size of the cross and of the crown indicating the par¬ ticular
grade. It is suspended by a bright green watered ribbon. The eight-rayed
star of the Order is silver. In the centre is a reproduction of the
badge or cross, without the crown. MEDAL OF SAINT MAURICE.
Insti¬ tuted for Military services by King Charles Albert, 1 King
of Sardinia, on July 19, 1839. It was intended as further recognition
of those officials who had received the cross of the Order of St.
Maurice and St. Lazarus, and who had served under the flag 11 per
la durati di died lustri” (lustri meaning a five year enlistment,
and died lustri, therefore, fifty years). The Medal is gold, bearing
on the obverse the equestrian figure of the pa¬ tron saint of Savoy,
St. Maurice, holding the flag of the Order in his right hand.
Around this are the words S. MAURIZIO PRO- NUMISMATIC
NOTES MEDALS OF HONOUR TETTORE DELLE NOSTRE ARMI. The reverse
is inscribed as below, AL C A V A LI ERE MAU RIZIA
NO PER DIECI LUSTRI NELLA CARRIERA MI LI
TARE BENEM ERITO space being reserved for the name of
the recipient. There are two sizes of the medal. The larger, 55 mm.
in diameter, is for Gen¬ erals or Admirals who had received the
higher decoration of the Order of St. Maurice and St. Lazarus, and the
smaller, 39 mm., for officers who had received the lower grades of
the same Order. The ribbon is green, the same as for the Order.
ROYAL MILITARY ORDER OF SAVOY. Founded at Genoa, on August 14,
1815, by Victor Emmanuel I (1759-1824). Its pur¬ pose was to reward
acts of valour and magnanimity. The Order was modified on September
28, 1855, by Victor Emmanuel II, later king of Italy, who also changed
the decoration to the present form. There are five classes:
Knights of the Grand Cross, Grand Officers, Commanders, Officers
and Chevaliers. The cross, which is white- enamelled with
curvilinear tips, is edged with gold. It rests upon a wreath of
laurel leaves. On the red background of the medal¬ lion is the
white cross of Savoy, around which on a circular band are the words
AL M ER 1 TO MI LI T A RE. The reverse medal¬ lion of red enamel
has two crossed swords, points up, above which is the date 1855,
and on either side, the initials V. E. The cross of the first three
classes is surmounted by a Royal crown, that of the fourth class by
a trophy of flags and arms, while the fifth class cross has but the
suspension ring. The ribbon is blue moire, with a red band in the centre.
The star, which is of silver, has eight rays; in the centre is a
duplication of the obverse of the decoration, without the crown.
Prior to 1855, the star or plaque bore the motto AL MERITO ED AL
VALORE. CIVIL ORDER OF SAVOY. Founded at Turin, on October
29, 1831, by Charles Pl. VII Italy
(savoy) Military Order of Savoy 38 ITALIAN
ORDERS Albert (1798-1849), King of Sardinia and Savoy.
During most of his reign of eighteen years, he was at war with Austria.
Follow¬ ing the revolution of 1848 in France, he began war for the
Independence of Italy but was compelled to abdicate in 1849 after
his defeat by the Austrians at Novara. The object of the Order was to
rewaid ‘those of other professions, not less useful than that of
the army, who have become through long and profound study the ornaments
of the State to which they have rendered important service.’
There is but one class to the Order, known as Knights, and it is
seldom conferred on foreigners. The decoration is a light blue
Savoy cross edged with gold. The medallion on the obverse is white with a
gold rim; in the centre are the intials of the founder, C. A.
The reverse has AL MERITO CIVILE 1831, in gold lettering on a white
field, on the centre medallion. The moire ribbon is of three equal
stripes—light blue with white either side. ORDER OF THE CROWN
OF ITALY. Created on February 20, 1868, by Victor Pl.
VIII Italy (savoy) Civil Order of Savoy ITALIAN
ORDERS Emmanuel II (1820-1878), the first King of United
Italy, to commemorate the annexa¬ tion of Venice to that kingdom. This
is sometimes called the Order of the Iron Crown. Doubtless the
origin of the name arose from the fact that at the coronation of
Agilif, King of the Lombards (592-615), a crown was used, composed of
gold and precious stones, inset with a band of iron which was said
to have been forged from a nail of the true Cross. Tradition says
that this crown was kept in the Cathedral of Monza and removed to
Mantua in 1859. When Napoleon I became King of Italy in 1805, it is
said he was crowned with this crown. The Order of the Iron Crown of
Italy, founded by Napoleon I in 1805, was abolished in 1814, although
revived in Austria in 1816 by Francis I as the Austrian Order of
the Iron Crown. The first distribution of the Order of the
Crown of Italy, as founded by King Victor Emmanuel II, occurred on
April 22, 1868, when the heir-apparent, Humbert, married Princess
Marguerite of Savoy. There are five classes of the Order—Grand
Pl. IX Italy Order of the Crown of
Italy Cordons, Grand Officers, Commanders,
Officers and Knights. The grade of Knight or Chevalier is frequently
conferred on foreigners. The insignia is a white-enam¬ elled
cross-pattee edged with gold, and convex, with knots of gold cord
connecting the arms. In the blue-enamelled medallion is a gold
crown. On the reverse medallion is the crowned eagle of Savoy. On
its breast is a red shield, bearing the white cross of Savoy. The
ribbon is of red with a white stripe in the centre. The star of the
order, for the highest grade, is of eight silver rays, on the
centre of which is a gold crown on blue field, encircled by a white band,
in¬ scribed VICTORIUS EMMANUEL II REX I TALI A E MDCCCLXVI. This
device is surmounted by a crowned eagle bearing the Arms of Savoy
on its breast. The star of the Grand Officer is an eight-pointed silver
star, on which is a reproduction of the Cross. ORDER OF
INDUSTRY. By a decree of May 9, 1901, Victor Emmanuel III created a
Decoration called the “Cavalieri del Lavoro” (Knights of Industry). It
is awarded to those prominent or proficient in the
Industrial, Commercial or Agricultural work of the Kingdom or of its
Colonies. The decoration consists of a green-enamelled Savoy cross,
edged with gold. On the obverse is a white medallion, bearing the
words AL MERITO/DEL/LAVORO/1901 The reverse medallion bears the initials
of the founder, V. E., in gold on a white field. The rib¬ bon is
dark green with a red stripe in the cen¬ tre. There is but one class to
this order, and its award carries with it no particular privileges.
COLONIAL ORDER OF THE STAR OF ITALY. Founded in 1911 by King
Victor Emmanuel III. Its purpose was to reward those deserving of
especial recognition who were prominent in the work of the
Colonies. There are five classes to the Order: Knights of the Grand
Cross, Grand Officers, Com¬ manders, Officers and Chevaliers. The
decoration consists of a white-enamelled star of five points, edged with
gold and ball- tipped. On the obverse medallion of red, is the gold
monogram (V. E.) of the founder, with crown above. A green-enamelled
circle AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS has at the
bottom of it 1911. On the reverse red medallion are the words AL/ ;
MERI TO /COLO NI ALE in gold letters. The ribbon is red, with narrow
white and green bands on either side. All grades of the star have a
crown above, except that of Chevalier, which is plain. The plaque,
j which is worn by the first and second classes only, consists of
thirty-five silver rays, on which is the uncrowned star described
above. MILITARY CROSS FOR SERVICE. On November 8, 1900,
Victor Emmanuel III authorized a cross for long and faithful
service, called the “Croce per anzianita di servizio Militare.” It is of
gold for Officers, and of silver for the troops. The decoration is
a Maltese cross; on the obverse, a medallion bearing the Royal cipher V E
crowned, and on the reverse Roman characters, denoting years of
service —XXV for the Officers and XVI for the troops. If the officers
have served forty years and the troops twenty-five years, the Roman
characters vary accordingly, and the cross has a crown above. The ribbon
is green, with a wide white stripe in the centre. NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. X
Italy Colonial Order of the Star of Italy
46 ITALIAN ORDERS MILITARY MEDAL OF VALOUR. As
early as 1793, during the war between Pied¬ mont and France, Victor
Amadeus III, King of Sardinia (1727-1796), created a Medal of
Valour. This was awarded for individual acts of bravery, and was
struck in gold and in silver. Victor Emmanuel I revived the award
in 1815, at the time of the downfall of Napoleon I, but abolished it
in August of that year when he created the Military Order of Savoy.
When Charles Albert was King of Sardinia and Savoy, he reinstituted
the medal in 1833, for acts of valour not sufficiently important to
war¬ rant the M ilitary Order of Savoy. From the time of its
inception to 1887, it was always awarded in gold or silver, but in that
year Humbert I decreed that a bronze medal should be given for acts
of valour of a lesser degree. This medal ranks in Italy almost as
highly as does the Victoria Cross in Great Britain or the Medal of Honour
in this country. It is frequently called the Sar¬ dinian Medal of
Valour. The earliest model was 38 mm. in diameter, having on the
obverse the bust of the king facing to the NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. Italy (savoy)
Military Medal of Valour ITALI AN ORDERS AND right and the
words VITTORIO AMADEUS III. The reverse had a wreath of oak leaves,
within this is a trophy of arms and flags and the words AL V A
LORE. About the time of the Crimean war, the design was changed.
The size was reduced to 33 mm. The obverse has the Arms of Savoy,
surmounted by a crown in an oval. Below are a palm and laurel
branch, tied at base with a ribbon; and around the whole, the words
AL V A LO¬ RE MI LI TARE. The reverse has two laurel branches tied
with a ribbon, with a space in the centre for the recipient’s name.
The name of his campaign is placed on the outer edge. The ribbon
has always been a dark blue moire. Victor Emmanuel II caused a
number of these medals, in both gold and silver, to be given to the
British and French troops who took part in the Crimean war. Two of
these are in my collection, and have been awarded to Frenchmen. The
reverse has the name and title of the recipient en¬ graved at the
centre, while around the outer edge of one are the words SPEDIZIONE
D’ORIENTE 1855-1856, in relief. The second specimen has the same words
en- NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR
graved. The Musee de VArm'ee of Paris has a medal with the
recipient’s name engraved and GUERRE DTTALIE 1859 in relief. This
was for the war with Austria. Another has in relief CAMP A GNA DELLA BASS
A ITALIA 1860-1861 . Mr. C. S. Gifford, of Boston, has in his
collection a variant of this Medal of Valour. It is but 25 mm. in
diameter. The reverse has around the edge, outside the wreath, in relief,
the words GUERRA CONTRA VIMPERO D’AUS¬ TRIA. Many of
these medals have been awarded to the men of other countries who
have assisted Italy in her campaigns. It was a Military Medal of
Valour, of gold, which General Diaz placed upon the grave of the
un¬ known American soldier at Arlington on Nov¬ ember 11,1921, by
order of the King of Italy. CIVIL MEDAL OF VALOUR. Au¬
thorized by King Victor Emmanuel II on April 3, 1851. It was given in
gold, silver and bronze. Under a decree of April 29, 1888, Humbert
I authorized a bronze medal also. These are awarded to civilians for
per- AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND sonal
acts of courage and valour, such as rescues at fires and at sea. The
medal is 34 mm. in diameter, bearing on the obverse the Arms of
Savoy in an escutcheon, with a Royal crown above. Around this at
the top are the words AL VALORE CIVILE. The r everse has a
wreath of oak leaves, with space in the centre for the recipient’s
name. The writer’s medal is engraved D’ONOFRIO GIO. ANTONIO
CERVINARA (AVEL- LINO) 22 XBRE. 1868. The ribbon for this medal is
of the Italian National colours. Three equal stripes—red, white and
green. NAVAL MEDAL OF VALOUR. Insti¬ tuted in March, 1836;
modified in 1847, and again by Victor Emmanuel II in i860, to
reward the men of the Navy for heroism. In 1888, Humbert I established
three grades, gold, silver and bronze, according to the character
of the award. The obverse bears the Arms of Savoy on a shield, with a
crown above, and encircled by a palm and laurel branch tied at the
bottom; and round the outer edge is the motto AL VALORE DI MARINA.
On the reverse is an oak NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR wreath (less full than that of the Military medal of Valour)
with a reserve in the centre for the name of recipient and mention
of the act for which the medal is awarded. The ribbon is dark blue moire,
with one wide and one narrow white stripe at each side. MEDAL
OF MERIT FOR PUBLIC SAFETY. This decoration was first insti¬ tuted
on September 13, 1854, by Victor Emmanuel II and was called “La
Medaglia di Benemerenza per i Benemeriti della salute pubblica” Its
purpose was to reward the services of volunteers in epidemics of
contagious diseases and those who took part in other ways beneficial to
the health and safety of the public. It is given in gold,
silver and bronze. On the obverse is a bust of the King to left,
around which is inscribed UMBERTO I RE D'IT ALIA. On the reverse are
oak and laurel branches, surrounded by the words SALUTIS PUBLICAE
BENEMERENTI- BUS. A reserve at the centre is left for the name of
the recipient. On the earlier models the bust and title of Victor
Emmanuel AND MONOGRAPHS II appeared on the obverse, and the
reverse motto read AI BEN EMERITI DELLA SALUTE PUBBLICA . The
ribbon is light blue, edged with black. MEDAL FOR VETERANS
GUARDING THE TOMB OF THE KINGS. This medal was authorized on July
14, 1879, and altered on January 1, 1880. It was established to
honour the veterans of the war of 1848-1849 who guarded the tomb of
Victor Emmanuel II. It is 30 mm. in diameter and of silver. The
ribbon is blue with a white stripe in the centre, with one edge green and
the other red. The first model has on the obverse a wreath of
laurel with a superimposed, five- pointed star bearing at the centre the
bust of the King and the words UMBERTO 1° RE D’lTALIA; on the
reverse, VETERAN! 1848-49 / GUARDI
A D’ONORE / ALLA TOMB A DEL RE / VITTORIO EMA- NUELEII. After the death of Humbert
I, Victor Emmanuel III altered the medal. The obverse bore his own
bust and title, and the reverse read / AI/VETERA Nl 1848-1870
/GUARDIA D’ONORE / ALLE TOMBE NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XII Italy
Veteran Guard of the Tomb of the Kings 54
ITALIAN ORDERS DI RE / VIT TO RIO EM AN UELE II / E
UMBERTO I. A specimen of this design is in my collection.
LIFE SAVING MEDAL. Authorized by Royal Decree on March 8, 1888 .
This decoration is awarded to those, not in the Navy, who have
risked their lives to save others from drowning, or shipwreck, or
for other forms ot personal valour at sea. It is issued by the
Ministry of the Marine. The medal is in silver and in bronze only and
is not to be worn on the person. The obverse bears the effigy of
the King, facing left, and the inscription VITTORIO EMANUELE III RE
D J IT ALIA. The reverse has two circles, one within the other; in the
outer circle occur the words MIN1STERO DELLA MARIN A, while the
inner one is left blank for the name of the recipient, the date and
the statement regarding the occasion of the award. MEDAL OF
MERIT. Authorized by a Decree of May 6, 1909. This medal was
awarded to all persons, including many NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XIII
Italy Medal of Merit 56 ITALIAN
ORDERS AND foreigners, who from philanthropic or charitable
motives went to the relief of the inhabitants of Sicily and Southern
Calabria at the time of the earthquake of December 28, 1908. It is
34 mm. in diameter, and was issued in gold, silver and bronze. The
obverse bears the effigy of the King, facing left, and the words VITTORIO
EMA- NUELE III. On the reverse, the inscription TERREMOTO / 28
DICEMBRE 1908 /IN CALABRIA / E IN SICILIA, sur¬ rounded by a wreath
of oak leaves. The ribbon is green with a white stripe on either
side. A variation of this medal was issued, bearing on the obverse the
bust of the king surrounded by the inscription VITTORIO EMANUELE
III RE D’I TALI A. The reverse reads MEDAGLIA/COMMEMO- RA TI V A /
TERREMOTO / C ALABRO SICULO/28 DICEMBRE /1908. The ribbon for this
has 5 stripes, alternately white and green. The writer
possesses an interesting medal, for the official issuance of which no
authority has been found. It is of silver, 33 mm. in diameter. The
obverse bears the head of NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 57 the King of Sardinia and
Savoy, facing left, with A CARLO ALBERTO at the sides. Under the
bust, the letters S.J. (probably standing for Stephano Johnson). The reverse reads I VETERANI/ITALIANI
/IN/PELLEGRINAGGIO /ALLA SUA TOMB A /A SUP ERG A . The ribbon is dark blue
with a yellow stripe each side. It is believed that these medals were
given to the veteran soldiers of Charles Albert who made the
pilgrimage to his last resting place. The Abbey of Superga was founded
by Victor Amadeus III near Turin. In its church rest the remains of
the Princes of Savoy. Charles Albert (1789-1849) died at Oporto in
1849. His body was buried on the heights of Superga. Italy later
recognized his devotion, and pilgrims still journey to his tomb.
CRI MEAN M EDAL. Italy was not back¬ ward in awarding what are
commonly known as Campaign or Service Medals but which the Italian
authorities style “Medaglie Commemorative.” That for the Crimean
war was the first. It was authorized on October 22, 1856, and was
issued to the Piedmont AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS
AND troops serving during that campaign under General La
Marmora. The medal is of silver, 35 mm. in diameter. On the obverse
appears the effigy of the King, facing left, and the inscription VITTORIO
EM AN U ELE II. The reverse has in large letters, in relief,
CRIMEA/1855-1856. The ribbon is light blue with a narrow gold edge.
Some authorities assign a ribbon of the Italian National
colours—red, white and green. MEDAL FOR THE LIBERATION OF
SICILY. This medal was issued to com¬ memorate the dethronement of
Ferdinand II and the union of the ancient Kingdom of Sicily with
the Kingdom of Italy. As a result of that insurrection, Garibaldi
with his thousand troops landed at Marsala, and in three weeks was
master of Messina. The medal (30 mm.) is of silver and bronze. On
the obverse is the bust of the king and the words VITTORIO EM AN U ELE;
below the bust, the initials S.J., probably standing for Stephano
Johnson, the maker. The re¬
verse is inscribed IT ALIA / E CASA DI SA VOIA / LIBERAZIONE DI /
SICILIA NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR. The ribbon is red, with one
white and one green edge. STAR OF THE THOUSAND. Here
might appropriately be mentioned a unique dec¬ oration. On January
9, 1861, General Turr went to the island of Caprera to carry to
that great Italian patriot, General Giuseppe Garibaldi (1807-1882), the
Star of Honour which his famous thousand companions had offered
him. It is a gold star of seven points, loosely set with diamonds. In the
centre on a blue-enamelled field in letters of gold is ARTURO (a
star which is said to protect any one with an ideal). On this is
super¬ imposed a gold Trinacria, the emblem of Sicily. This is
surrounded by an enamelled band of white, green and red, inscribed
in letters of gold I MILLE AL LORO DUCE (The thousand to their
chief). This was the only decoration which that great General
consented to wear; and after his death at Caprera on June 2, 1882, the
star was given by his sons to the Quirinal Museum in Rome where it
may now be seen. AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS
MEDAL OF THE THOUSAND, or MARSALA MEDAL. Issued by the city of
Palermo, and authorized by the Italian government in 1865. It was
presented to the troops of Garibaldi who entered the City in i860,
and is called LA MEDAGLIA DEI MILLE. The obverse has in the centre
an eagle with raised wings, standing on a fillet inscribed S. P. Q.
R. Around this are the words AI PRODI CUI FU DUCE GARI¬ BALDI (To
the brave men who were led by Garibaldi). On the reverse within a
wreath of laurel is IL MUNICIPIO/PALERMI- TANO / RI VENDICA TO /
MDCCCLX. Around this, outside the wreath are the words MARSALA
CALATAFIMI PALERMO. The medal was issued in silver and in bronze.
The ribbon is bright red, with a gold stripe each side, and on the face
of the ribbon is fastened a silver Trinacria, the emblem of Sicily.
MEDAL OF ITALIAN INDEPENDENCE. This decoration was authorized in
1862. It is of silver, and 32 mm. in diameter. On the obverse is
the head of the king, to left, NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XIV
Italy Medal of the Thousand 62
ITALIAN ORDERS around which are the words VITTORIO
EMANUELE II RE D’I TALI A The reverse depicts a standing female
figure, symbolizing Italy, holding in her right hand a spear, and
in the left, a shield with the Arms of Savoy. Around the whole is
in¬ scribed GUERRE PER LTNDIPENDENZA E V UNIT A D’IT ALIA. The
ribbon is composed of six narrow stripes of the National
colours—green, white and red. Bars or barrets are issued in silver to
be attached to the ribbon, as follows: 1848- 1849 (war with
Austria), 1855-1856 (Cri¬ mean War), 1859 (war with Austria), 1860-
1861 (Garibaldi’s expedition in Sicily and the Campaign in central
Italy), 1866 (war with Austria), 1867 (Campaign against Rome), and
1870 (Capture of Rome). MEDAL FOR UNITED ITALY. This medal
was authorized in 1883. It is 32 mm. in size, and of silver and bronze.
On the obverse is the effigy of the King and the words UMBERTO I RE
D’lTALIA. On the reverse, within a laurel wreath the in¬ scription
UNITA/D’ITALI A/1848-1870. NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XV Italy Medal of
Italian Independence ITALIAN DECORATIONS Pl.
XVI Italy Medal for United Italy
MEDALS OF HONOUR 65 The
ribbon has a broad green stripe with a white and a red stripe on both
sides. Unlike the British campaign medals, few of the Italian
medals are inscribed on the edges. The writer has a group of three
medals, inscribed PHILIP FIGYELMESY COM ANDANTE USSERI UNGHERESI.
These are for the Campaign of United Italy, Liberation of Sicily, and for
Italian Inde¬ pendence. MEDAL FOR AFRICA. Created on
November 3, 1894; sometimes called the “Medal for Abyssinia.” It was
awarded to the forces of the Army and Navy which took part in the
operations in Abyssinia, especially in that portion bordering on the Red
Sea, called Eritrea. This included the campaign of 1887-1897
against Menelik II, who was the Negus of Abyssinia. The medal was
issued in bronze, 32 mm., and bears on the obverse the crowned head of
King Humbert I, facing right. On the reverse, within a laurel
wreath, are the words CAMPAGNE D } AFRICA. The ribbon is red with
blue borders. Silver bars, suitably inscribed, AND
MONOGRAPHS 66 ITALIAN
ORDERS were issued to the troops taking part in the
following expeditions, viz: Campagna 1887- 1888, Saati, Dogali Saganeiti,
Keren, Asmara, Adua, Agordat (1890), Halat, Serobeti, Agordat
(1893), Kassala, Halai, Coatit, Campagna 1895-1896 and Cam¬ pagna
1897. MEDAL FOR THE FAR EAST. Au¬ thorized on June 23, 1901,
and also known as the “Medal for China/’ or the “Medal for the
Boxer Uprising.” At the time of that unfortunate affair, when so many
of the Nations went to the relief of their lega¬ tions at Pekin,
Italy was among the first. To all those taking part in this
expedition, and to those who remained as guardians of the territory
until the end of the year 1901, this medal was given. It is of
bronze, 32 mm., and bears on the obverse the effigy of the King facing
left and the words VIT- TORIO EMANUELE III RE D’lTALIA; on the
reverse, within a wreath of laurel, CINA 1900 - 1901 . The ribbon is
yellow, with four dark blue stripes. Another medal for China is
exactly like the above, excepting NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XVII Italy Medal
for Africa ITALIAN ORDERS that the reverse bears the word
CINA only. This was given to the troops and sailors who served in
China from December 31, 1901 to April 1, 1908. The ribbon is
similar. MEDAL FOR THE TURKISH WAR OF 1911 - 1912 . But a few
years ago Italy and Turkey were fighting desperately for the
control of Tripoli, a section of Northern Africa which had been under
Turkish rule for several centuries. It was at this time that
Germany all but precipitated a Euro¬ pean war by insisting upon certain
methods of settlement. Fortunately conflict was averted by the
treaty of Lausanne. To commemorate the triumph over Turkey and to
honor those engaged there, a silver medal of 32 mm. was authorized on
November 21, 1912. The medal was issued to all men of the Army and
Navy who took part in the operations against the Ottoman Empire,
whether in Africa or in Turkish territory. On the obverse of the medal is
the head of the King, facing right, and the inscription, VITTORIO
EM A N V ELE. III. RE NUMISMATIC NOTES Pl. XVI 11
Italy War Cross ITALIAN ORDERS D* I TALI
A. On the reverse, within a wreath of laurel, the words GUERRA /
ITALO-TURCA,/ 1911 - 1912 . The ribbon is of six narrow blue and five
narrow red stripes of equal width. MEDAL FOR THE WAR IN
LIBYA. The treaty of Lausanne did not stop all war operations on
the part of Italy. The tribes of the newly acquired Colonial
possessions continued to make trouble. To reward the troops taking
part in such campaigns, a silver medal of 32 mm. was authorized on
September 6, 1913. This was identical with the Turkish war medal, except
that the re¬ verse bears the words GUERRA/IN LIBIA. The ribbon is
of the same design and colour. WAR CROSS OF ITALY. Authorized
in 1918. It was awarded to those worthy of official recognition
during the World War, but whose service was not of sufficient im¬
portance to warrant the Medal of Military Valour. The Decoration is of
bronze, 38 mm., in the form of the Savoy Cross. On the obverse is
inscribed MER 1 T 0 Dl NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XIX Italy Medal for
the World War 72 ITALIAN ORDERS GUERRA,
above which is the King’s crowned monogram, V. E. and III. On the
lower arm of the cross is an upright sword entwined with a branch of oak.
The reverse has a. star in the centre surrounded by rays. The
ribbon is dark blue with two white stripes. MEDAL FOR THE
WORLD WAR. Created on July 29, 1920 and made from captured Austrian
cannon. It is bronze, 32 mm. On the obverse appears the hel- meted
bust of the King, encircled by the inscription, GUERRA PER V UNIT A
D' I TALI A 1915-1918 and three branches of oak leaves. The reverse has an
allegorical figure of Victory, standing on a support borne by two
helmeted soldiers, and the inscription CONIT A NEL BRONZE N E- MICO
(Coined from enemy bronze). The ribbon has eighteen narrow stripes of
green, white and red—six of each colour. Bars were issued to be
worn on the ribbon to designate the years of service in the war.
These bear the dates of 1915, 1916,1917 and 1918 . NUMIS M
ATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. Italy Medal of
National Gratitude 74 ITALIAN
ORDERS VICTORY MEDAL. Created on De¬ cember 16, 1920, but
not issued until 1922. The medal is bronze, 36 mm. As with the
Victory medals of the other allies, the winged Victory is the dominant
feature. This figure stands facing on a triumphal chariot drawn by
four lions. The reverse shows a tripod above which two doves of peace are
to be seen. At top the inscription GRANDE- G VERRA-PER-LA-Cl VILTA
. In field, at each side of tripod MCMXIV-MCMXVIII, below, in two
lines, AI COMBATTENTI BELLE NAZIONI/ALLEA TE ED ASSO¬ CIATE. The
badge is suspended by the rainbow ribbon as are all the Victory
medals. MEDAL OF NATIONAL GRATITUDE. This medal is awarded to
mothers who lost sons in the World War. The obverse shows an
allegorical figure presenting a wreath to a fallen warrior. Standing alongside
is another female in an attitude of grief. The reverse has an
inscription in eight lines IL FIGLIO / CHE TI NACQUE / DAL DOLORE /
TI RINASCE “0 BEAT A” / NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. Italy
Victory Medal ITALIAN ORDERS AND NELLA GLORIA / E
IL VIVO EROE / “PIENA DI GRAZIA” / E PECO. The ribbon is grey with center composed of
narrow green, white and red stripes. MEDAL FOR WAR ORPHANS.
This medal has also been authorized but no information has been
received concerning it. ITALIAN UNITY MEDAL. This medal has
not as yet been distributed and details concerning it are lacking. It is
to be sold and the money received is to go to the widows and
mothers of those killed in the war. MEDAL FOR WAR VOLUNTEERS,
Notice has been received that a medal will be issued shortly to those who
volunteered in the World War. CROWN OF MERIT. At this
writing, and before any confirmation could be secured, advices have
come that the Councils of Ministers have proposed a decoration to
be awarded to clerks and workingmen who have remained faithful to
their employers for NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR twenty-five years or more. Presumably this medal is intended
to stimulate a spirit of co¬ operation between the employed and em¬
ployer. No decision as to the design has been announced.
Several of the municipalities of Northern Italy issued medals to
honor those who aided in the efforts to free that country during
the strenuous days of 1848-1849. None of these medals of the cities
are official medals, and consequently few if any of the authori¬
ties mention them. They are inserted here in order that the numismatist
may have some facts relating to them. Como had a medal inscribed on the ob¬ verse,
COMO LIBERATA NELLE GLORI- OSE GIORNATE 18-22 MARZO 1848 . The reverse bears the Arms of
the city and the words AL VALORE DEL CITTADINO. Bologna issued a medal inscribed VIT¬ TORIO
BOLOGNA 8 ./ 8 . 1848 . On the re¬ verse, QUANDA IL POPOLO SI DESTA
DIO SI PONE ALLA SUA TESTA. Livorno’s medal bears on the
obverse AI V A LOROSI DIFENSORI DI LIVORNO 10 E 11/5 18 49. The reverse bears the
AND MONOGRAPHS 78 ITALIAN
ORDERS AND Arms of the State and the words MUNICI- PIO DI
LIVORNO. The ribbons for the above medals are red and white.
Milano likewise had a medal to show her appreciation of the efforts
of her citizens for freedom. It bears on the obverse a figure of
Victory and the dome of the Cathedral. The reverse has the Arms of the
State and the inscription COMMUNE DI MILANO. The ribbon is red and
yellow. Cadore, Vicenza and Brescia are also said to have
issued medals, but a dependable description has not been
obtainable. During the war of 1848-1849 against Austria, and
the several Principalities of which Italy is now composed, Rome,
too, became involved. At the time of the Insurrection of 1848, Pope
Pius IX fled to Gaeta, where he remained until 1850. On February 9,
1849, Rome was declared a Republic. To those who took part in the Insurrection,
and who aided in the formation of the short-lived Republic, as well as
for connection with subsequent events, Rome awarded several medals.
As with the others, authentic information is difficult to obtain.
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR 79 MEDAL OF
MERIT. Issued for the battle of Vicenza on June io, 1848. This
medal was of both silver and bronze, and 30 mm. in diameter. On the
obverse within a wreath of oak leaves, the Arms of the city of
Rome—a crowned shield, bearing the letters S. P. Q. R. (Senatus Populus
que jRoman us —The Senate and the people of Rome). Around this
device is the inscription ALMAE VRBIS COSS BENEMERENTI. On a plain
reverse is the motto, P VGNA STRENVE / AD VICETIAM/PVGNA TA /
IV.EIDVS VINIAS / M.DCCC. XL VIII. The ribbon is of equal stripes of
magenta and yellow—the colours of Rome. MEDAL OF MERIT
(Rome). Issued in silver and bronze. The obverse has in the centre,
the she-wolf with Romulus and Remus. Around this is BENEMERITO
DELLA PATRIA, with an oak and olive branch beneath. The reverse has in
the centre a group of flags and a trophy of arms, surrounded by the
inscription INDIPEN- DENZA ITALIAN A 1848 . The ribbon is similar
to the preceding. AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS MEDAL OF
MERIT. Struck in silver and bronze, and is said to have been issued
by the Republic of Rome to those who dis¬ tinguished themselves during
the Insurrec¬ tion of 1848. It is 30 mm., and has on the obverse
the she-wolf with Romulus and Remus, standing on a pedestal, bearing
the letteisS. P. Q. R . The reverse reads AL MERITO, surrounded by
an oak wreath. The ribbon is magenta and yellow. Another
medal is described by one au¬ thority as a reward to the combatants
of 1848. It is 23 mm., bronze, and bears on the obverse an allegorical
female figure, holding a spear in her right hand and a cornucopia
in her left. At her feet is a globe surmounted by an eagle. Above is
a rayed .star. On the edge is inscribed REPUBLIC A ROM AN A. On the
reverse is the motto ALLA VIRTU CITTADINA within an oak wreath.
This is surrounded by the inscription LA P ATRIA RICONO- SCENTE. No
ribbon is described. According to Padiglione still another
Medal of Merit was issued in commemora¬ tion of September 20, 1870, when
Rome was NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS
Pl. XXII Rome. Battle of Vicenza Rome. Medal of
Merit 82 ITALIAN ORDERS AND admitted
into the Kingdom of Italy. Scul- fort, a French writer, says this medal
was given to commemorate the proclamation of the Republic of Rome
in 1848; although preference is here given to the Italian
authority’s version. The medal was issued in silver and bronze, 30 mm. in
diameter. On the obverse is a shield bearing the Arms of the City,
surmounted by the she-wolf with Romulus and Remus. This device
rests upon two crossed battle axes and an oak wreath. The reverse bears
within an oak wreath ROMA /RIVENDICA TA,/AI SUOI/LIBERATORI,
surmounted by a star. The ribbon has narrow alternating stripes of
magenta and yellow. Some rib¬ bons have nineteen stripes; others
have eleven. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR THE
TWO SICILIES Even more so than with Italy proper, Sicily has
been a battle-ground from the earliest times. And this condition, as
is usually the case, has made the numismatics of Sicily of great
importance. Before the period of coinage, the Sikels dwelt in the
land. Later the Carthaginians disputed with the Greeks for its control,
both yielding ultimately to the Romans. In addition to the
struggles between the Normans and the Spaniards for its possession, it
had to with¬ stand the onslaught of the Saracens. Sicily,
especially in the mediaeval period, has shared the fate of the kingdom
of Naples, or, as they came to be known, the Kingdom of the two Sicilies—a
title which in itself is a commentary of the relative importance of
Naples. After the Lombard rule in the nth century, the
Normans,under Count Roger, brought about a consolidation of Naples
and Sicily. The conquest dates from 1130 A.D., when he assumed the
title AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND of King
of Naples and Sicily. There were two periods of separation—1282 to
1442 and 1458 to 1504, but after the last-named year the two
kingdoms remained under one crown until the unification of Italy in
1861. It is unnecessary here to dwell upon the constantly
changing rule for the two king¬ doms more than to mention the
conflict between the House of Anjou and of Aragon through the 14th
and 15th centuries. Under Charles VIII (from 1494), the French
ruled, while between 1504 and 1707 the Spanish were in control.
They were followed by the Austrians (until 1720). After that date
Spanish Bourbons held possession. The Napoleonic rule on the
mainland dates from 1805, while Ferdinand IV con¬ trolled the
island of Sicily. The downfall of Napoleon at Waterloo saw the two
kingdoms again united under the Bourbons. The wars for the independence
of Italy, and the efforts of Garibaldi in 1859 and i860, finally
brought both sections into the Kingdom of Italy and under the rule of
the house of Savoy. NUMISMATIC NOTES
M EDALS OF HONOUR 85 ORDER OF THE SHIP. In 1269,
St. Louis founded in France the Order of the Ship or of the Double
Crescent. Upon his death in 1270, his brother, Charles d’Anjou,
established this order in the Kingdom of Naples. Owing to the design of
the collar, this order is sometimes given a third name— The Order
of the Sea Shell. The insignia was a gold collar of scallop shells,
alternating with double crescents. From this was suspended a medal
with a ship as its design. The motto is NON CREDO TEMPORI. Clark, an
Eng¬ lish writer, describes an order founded in 1382 by Charles
III, King of Naples, called the “Order of St. Nicholas,” while Elias Ashmole
styles it “The Order of the Argonauts of St. Nicholas.” Both give the
motto as NON CREDO TEMPORE Apparently, therefore, this is a
survival or a later form of the Order of the Double Crescent.
ORDER OF THE CRESCENT. Favine states that this order was founded in
An- giers, France, in 1464, by Rene, Duke of Anjou, King of
Jerusalem and Sicily. Ashmole quotes St. Marthes as giving 1448
AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND as the date for its
foundation. Rene was unable to hold his island kingdom very long.
The order was not popular, and those honoured with it were afraid to wear
the badge. The insignia consisted of three gold chains from which
is suspended a gold crescent, bearing three letters in red, L.O.Z.,
which signify, according to Favine, L’oz en croissant (Praise by
increasing). To the crescent were attached gold tags indicating the
battles and feats of honour in which the knights had been engaged.
2 Aragon controlled the Island Kingdom of Sicily from 1282 to
1442. In 1351 Louis I, King of Sicily, founded the ORDER OF THE
STAR to replace that of the CRESCENT MOON. This insignia was a
Maltese cross, in the centre of which is an eight- pointed star.
This Order seems to have been discontinued in 1394. Giustinian, the
Italian writer in 1692, gives a list of eighteen Grand Masters of the
Order of the Crescent Moon and of the Star from 1268 to 1667. This
would seem to indicate that the Orders described above were connected or
continued by the several rulers under different titles.
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR OO ^4
ORDER OF THE SPUR. Founded in 1266 by Charles d’Anjou, King of
Naples and Sicily, to commemorate his triumph over Manfred near Benevento.
The insignia is a white-enamelled cross, each of the arms having
double points. A spur is attached at the base. The Order was
shortlived. ORDER OF THE KNOT OF NAPLES. Created in 1351 by
Louis of Taranto when he married the Queen of Naples. This was also
termed the “Order of the Holy Spirit of the Right Desire.” It ceased to
exist after the death of the founder. The insignia is a knot of
cord entwined with i gold thread. ORDER OF THE REEL AND
LIONESS (Naples). This Order, of short duration, was instituted by
partisans of the house of Anjou, during the troubles of 1386-1390.
The insignia is a yarn reel and a lioness, the significance of which is
difficult to learn. Clark, writing in 1784, states that the
followers of Louis II, Duke of Anjou, were divided into two factions, one
of which wore AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND
on its arms an embroidered reel as a sign of contempt for Queen
Margaret, widow of Charles III, who desired to hold the reins of
government. This faction took the name of “Knights of the Reel.” The
other, the Knights of the Lioness, wore on its breast the figure of
a lioness with feet tied, indi¬ cating that it looked upon Queen
Margaret as one tied by the leg. ORDER OF THE ERMINE
(Naples). Founded in 1463, by Ferdinand I (1423- 1494) Aragon, King
of Naples, at the end of the war which he had been waging against
John of Anjou, Duke of Calabria. He was led into this war by his
brother-in-law, Marinus Marcianus, Duke of Sesso, who conspired to
murder Ferdinand. Marinus Was not only pardoned for his treachery
but was admitted into this Order. The motto was MALO MORI QUAM
FOEDARI (Death is preferable to dishonor), and the patron was St.
Basil. The badge is a gold ermine suspended from a gold chain. Au¬
thorities differ as to the exact date of both the creating and
discontinuance of this Order. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR 89 ORDER OF THE GRIFFIN (Naples).
Attributed to Alphonse by Perrot and by De Genouillac. The date of its
founding is given as 1489. As Alphonse died in 1458 and was
succeeded by his son, Ferdinand I, who reigned until 1494, it may,
therefore, have been instituted by Ferdinand. No description of the
insignia can be found. ORDER OF SAINT MICHAEL (Naples). This
Order is likewise attributed to Ferdi¬ nand I, and the insignia is
described by Ashmole as an oval, bearing the word DECORUM . No
other record has been found. ORDER OF SAINT JANUARIUS (of
the Two Sicilies). Founded on July 6, 1738, by King Charles of
Sicily (1716-1788), to cele¬ brate his marriage with Princess
Amelia, daughter of Augustus III of Poland. Charles was of the
Spanish Bourbons, and second son of Philip V. His army had
conquered Sicily, and he became its King in 1735 at the age of
eighteen, having previously borne the titles of Duke of Parma and
Grand-Duke AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS of
Tuscany. In 1759 he became Charles III of Spain, at which time he
resigned his Neapolitan and Sicilian Kingdom in favor of his son,
Ferdinand. Charles formed the Noble Order of the Immaculate
Conception of the Virgin Mary, often also called “The Order of
Charles III of Spain.” It was he who, as King of Spain, joined France
in sending assistance to the American Colonies in their war of
Independence. At the Peace Treaty following that conflict, he
recovered Florida for Spain from England, to whom it had been ceded
in 1763. Saint Januarius (San Genaro), for whom this Order is
named, was the Patron Saint of Naples. Relics of this Saint, to
whom miraculous cures are attributed, are pre¬ served in the
cathedral named for him in that city. When the French invaded
Naples in 1806, the Order was abolished in that country, though it
continued in Sicily, whither Ferdinand had fled. It was revived
after 1814. At the present time it is classed among the non-active Orders
of Italy. There are two classes: Knights and Honor¬ ary Knights.
The badge of the Order is a NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. Two Sicilies Order of Saint Januarius
ITALIAN ORDERS AND gold Maltese cross, enamelled red
with white edges; gold Bourbon lilies in the angles. The obverse
centre has a figure of the patron saint, San Genaro, clad in a red
robe and hat, with an open book in the left hand. The reverse shows an
open book and two receptacles partly filled with the mirac¬ ulous
blood of this martyr. The ribbon is bright red. The plaque is of silver,
the same design as the cross, and bears the words IN SANGUINE
FOEDUS (the Covenant in Blood). ROYAL MILITARY ORDER OF
SAINT CHARLES. Instituted by Royal Decree of October 22, 1738, by
King Charles, its purpose was to reward citizens and members of the
army and navy who had shown exceptional zeal and fidelity to the crown.
This Order supposedly never received the Apostolic confirmation of the
Pope, and according to an Italian writer, Ruo, was shortlived, all
record of its existence having been lost when Charles, its founder,
assumed the throne of Spain in 1759. The decoration is a
fou r-armed cross, each NUMISMATIC MEDALS OF HONOUR
93 arm terminating in the form of a lily, and the whole
surmounted by a royal crown. The centre medallion bears the image
of Saint Charles. No description of the reverse is given. The
ribbon is violet. ORDER OF SAINT FERDINAND and OF MERIT.
Founded on April i, 1800 by Ferdinand IV, King of Naples (also
Ferdi¬ nand III of Sicily and I of the Two Sicilies). It was
instituted in commemoration of his having been restored to his Kingdom
after the defeat of the French by the united forces of England,
Austria, Russia and I Turkey. The object of the Order was to
reward the Neapolitans who had remained faithful to the King and his
monarchy. Lord Nelson, Duke of Bronte, was one of the first
foreigners to have this Order bestowed upon him. He was made a
Knight of the Grand Cross. Like the Order of Saint Januarius, this was
suppressed in Naples when the French under Joseph Bonaparte
controlled that country. It was continued in Sicily until 1814 but is
said to have been definitely abolished in i860. AND
MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS There were three classes: Knights
of the Grand Cross, Commanders and Chevaliers. The cross of this
Order is a gold star of six branches, in the form of rays. In the
angles are Bourbon lilies. The whole is surmounted by a crown of
gold. The gold-centred medallion bears a figure of St. Ferdinand in
Royal robes and crowned, holding a laurel wreath in the left and a sword
in his right hand. The encircling blue-enamelled band is inscribed
FI DEI ET MERITO. The reverse centre of gold is inscribed FERD. IV.
INST. ANNO 1800 . The plaque of the Order is similar to the obverse of
the cross, without the crown. A dark blue ribbon with red edges is
used for suspension of the cross. MEDAL OF HONOUR. By a decree
of July 25, 1810, Ferdinand IV added a gold and silver Medal of
Honour. This was 33 mm. in diameter, with the obverse similar to
the cross. The reverse was inscribed FI DEI ET MERITO. This was worn
with a similar ribbon. Officers and privates of the Army and Navy
were awarded this medal for distinguished services.
NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. XXIV
Two Sicilies Medal of Honour 96 ITALIAN
ORDERS AND MEDAL OF MERIT FOR LOMBARDY. Ferdinand IV
instituted a medal of silver for the Neapolitan troops who assisted
him in the campaign in Lombardy against the French in 1796. This
was 38 mm., bearing on the obverse the helmeted effigy of the king
and the title, FERDIN. IV UTRI
SICILIAE REX P.F.A. ( P-Pio, devout, F-Forte, brave, A-Augusto,
august). On the
reverse, within a laurel wreath, FI DEI/ REGIAE DOM US / PA TRIAE /
PROPUG- NA TORI /OB / EG REGIA FACTA . In the exergue, E.
V.A/MDCCXC VI. MEDAL OF MERIT FOR SIENA. This medal was of
gold and awarded by Ferdi¬ nand IV to the troops who distinguished
themselves in the Siena campaign in 1797. On the obverse is the helmeted
effigy of the king and his title FERDIN AN DUS IV UTRIUSQ. SICILIAE
REX P.F.A. On the obverse is an allegorical figure of a woman
crowning a soldier with a laurel wreath. Surrounding this, an
inscription reads MI LI TIB US BENE DE REGE AC PATRIA MERIT 1 S. In
the exergue is NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR E.
V.A./MDCCXC VII. The ribbon is blue and white, edged with narrower stripes
of blue (Sculfort, p. 176). MEDAL OF HONOUR FOR THE
SIEGE OF GAETA. When Napoleon I sent his brother Joseph Bonaparte
to rule over the kingdom of Sicily, Ferdinand IV fled to Gaeta.
This fortress was gallantly de¬ fended in 1806 against the French
under Marechal Massena, but was finally forced to capitulate, and
Ferdinand fled to the island of Sicily. To reward those who
valiantly assisted him to hold his kingdom, Ferdinand IV instituted
this Medal of Honour. It is 35 mm., and was struck in both gold and
silver, and is suspended from a deep red ribbon. The obverse of the
medal has a bust of the king facing to right, the head wearing a
helmet, laurel wreathed and surmounted by a dragon. The inscription is FERDI-
NANDUS IV. D.G. SICILIARUM REX. The reverse has in the centre a view of
the fortress of Gaeta, surrounded by the motto, MERITO ET FI DEI
CAJETAE DEFENSORM AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND ROYAL
ORDER OF THE TWO SICI¬ LIES. Created on February 24, 1808, by
Joseph Napoleon, when King > of Naples It was issued in three
classes: Grand Officers, Commanders and Chevaliers. Joachim Mu¬
rat, when ruler, modified the Order in 1811; its purpose was to reward
those who had assisted in the conquest of the country. The
decoration is a red-enamelled star of five points, ball tipped and with
gold edges. Above this is the Imperial eagle surmounted by a crown.
In the centre medallion is the Arms of Sicily, a Trinacria or
Triquetra, having a face in the centre. This me¬ dallion is
surrounded by the title, JOS. NA- POLEO SICIL. REX INST 1 TUIT. The
reverse medallion bears a prancing horse, the Arms of Naples, encircled
by a blue- enamelled band inscribed PRO RENO V A TA PATRIA. The
ribbon is dark blue with a red stripe in centre. Following
the death of Murat on October 13, 1815, the Kingdom was restored to
Ferdinand IV, who changed the design of the above decoration. The star
was at¬ tached to the surmounting crown by a lily N U M I S
M ATIC NOTES MEDALS OF HONOUR 99 (replacing the
eagle). The obverse medal¬ lion contained the Arms of Sicily and of
Naples, surrounded by the inscription FERDINANDUS BORBONIUS UTRI-
USQUE SICILIAE REX P.F.A. (Pio Forte Augusta). The reverse medallion had
in the centre a Bourbon lily and the motto FELICITATE RESTITUTA X.
KAL.JUN. 1815 . The ribbon was changed to azure blue with a red
stripe in the centre. This Order was finally abolished in 1819 and
replaced by the “Order of Saint George of the Reunion.” MEDAL
OF HONOUR FOR THE PRO¬ VINCIAL LEGION. On March 29, 1809, Joachim
Murat, instituted this medal for the Provincial Legion. It is of silver
and bronze, and bears on the obverse the effigy of the King, facing
to left, encircled by the words GIOACCHINO NAPOL. RE DELLA DUE
SICIL. On the reverse is a group of fourteen flags and a royal
crown, the outer flags bearing, respectively, the words
SICUREZZA/INTERNA. Around this device is the inscription ALLE
LEGIONI AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND
PROVINCIALI 26 MARZO 1809 . The ribbon is light blue moire. Ruo,
the Italian writer, states that the inscription on the obverse is
Gioacchino Napoleone, but the previous description is taken from a
medal and various French authorities. MEDAL OF HONOUR FOR
NAPLES. Murat authorized another Medal of Honour on November i,
1814, to reward the guard of Naples for its devotion to his cause. It
is of gold and silver, in the form of a wreath of oak and laurel
leaves, tied with a ribbon and surmounted by a crown. Superimposed
on the wreath are two crossed flags, enam¬ elled in the colours of the
kingdom. On the obverse centre medallion of white is the bust of
the king, facing to left, and the title GIOACCHINO NAPOLEONE (or GIO¬
ACCHINO RE DI NAPOLI ). On the re¬ verse medallion are the words ONORE
ET FEDELTA. The ribbon is magenta. The Medal for Civil Merit is
similar to the above, except that the reverse is inscribed ONORE ET
MERITO. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR
IOI MEDAL OF HONOUR. After the death of Murat at Pizzo,
a medal of 38 mm. was authorized by Ferdinand IV. It was issued in
gold and silver, and worn with a bright red ribbon. On the obverse is a
crowned effigy of the restored king, facing to left, and the
inscription FERDINANDUS IV UTRI USQUE SICILIA E REX P.F.A. The
reverse has in the centre a large Bourbon lily, surrounded by the
inscription OB EGREGIAM URBIS PITH FIDELITA- TEM. In the exergue,
POSTRIDIE NO¬ NAS OCTOBRIS/ANNI R. S./MDCCCXV. MEDAL OF
HONOUR (Sicily). By de¬ crees of August 9 and 30, 1816, bronze
medals were authorized and awarded to soldiers and sailors who were
faithful to the cause of Ferdinand IV. This is a green- enamelled
Maltese cross with gold Bourbon lilies in each angle. The centre
medallion bears the effigy of the king to right, and the words
FERDINANDO IV INSTITUI 1816 . The reverse has in the centre a lily and
the inscription CONSTANTE ATTACCA- MENTO. This was worn with a red
ribbon. AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS SECURITY
GUARD MEDAL. Created on May 30, 1816, and issued in gold and
silver; it was worn with a Bourbon red rib¬ bon. The medal is surrounded
by a wreath of oak leaves and surmounted by a crown, attached by
laurel branches. On the obverse is the effigy of the king
surrounded by the title FERDINANDO IV RE DELLE DUE SI Cl LIE P.F.A.
The reverse bears a lily and the motto ALLA GUARDI A Dl SICUREZZA.
In the exergue, PER LA GIORNATA DE 22 MAGGIO 1815 . ROYAL
MILITARY ORDER OF SAINT GEORGE OF THE REUNION. This order was
created on January 1, 1819, by Ferdinand IV. It commemorated the
reunion of Naples and Sicily, and was awarded for valour, military
distinction and loyalty. There are four classes: Knights of the
Grand Cross, Commanders, Officers and Chevaliers, the decoration varying
in size according to the grade. This Order was discontinued in
i860, with the formation of the present Kingdom of Italy. The
insignia is a red-enamelled cross, fleuree, with i NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. XXV Two
Sicilies Order of Saint George of the Reunion ITALIAN ORDERS
AND concave arms. Two gold swords cross at the angles, and a
wreath of green-enamelled laurel connects the arms of the cross and
the swords. The medallion bears a figure of Saint George slaying the
dragon; around this is a blue-enamelled band inscribed IN HOC SIGNO
VINCES. The reverse is the same, with the word VIRTUTI above. The
ribbon is light blue moire. The decora¬ tion of the Knights of the Grand
Cross is distinguished from the other grades by a gold pendant of
St. George and the dragon. The Chevalier’s cross has no such
pendant; and on the reverse is the word MERITO. MEDAL OF ST.
GEORGE. In addition to the “Order of Saint George of the Re¬
union,” gold medals were awarded for heroism in war, and in silver for
continued service. These are 28 mm., bearing in the centre the
figure of St. George slaying the dragon, encircled by a wreath and the
words VIRTUTI or MERITO according to the purpose of the award. The
obverse and reverse are the same. The ribbon is blue with yellow
edges. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR ORDER OF
CONSTANTINE, (described on page 18). Instituted in Naples and
Sicily by Don Carlos in 1734. Joseph Bonaparte abolished it in 1808,
although it continued in the island of Sicily. Upon the return of
Ferdinand IV to Naples in 1814, it was restored in both Kingdoms.
ROYAL ORDER OF FRANCIS I. Francis I, upon the death of his
father, Ferdinand IV, became King of the Two Sicilies on January 4,
1825. He was of the Neapolitan branch of the Bourbon family. On
September 28, 1829, he founded the Royal Order of Francis I. Though
usually conferred as a reward for Civil Merit, the army was not
debarred from its honours. There are five classes: Grand Cross,
Com¬ manders, Officers, Knights and Chevaliers. The fourth and
fifth classes receive, re¬ spectively, the gold and silver medals,
described later. This Order was discon¬ tinued in i860 when the Kingdom
of the Two Sicilies became part of Italy, though, as a family
Order, it was continued for a while longer. The decoration is a
four-armed, AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND
double-pointed cross of white enamel with gold edges, surmounted by a
gold crown. Bourbon lilies of gold are in each angle. The medallion
is larger than in most of the other Orders. In the centre, on a field
of gold, appear the initials of the founder, F.I., with crown
above. These are surrounded by a laurel wreath of enamel. On the
blue encircling band are the words, DE REGE OP TIME MERITO. The
reverse bears the inscription FRANCISCUS PRIMUS IN- STITUIT
MDCCCXXIX, within a green wreath. The ribbon is bright red with
blue edges. The star or plaque of the order is a silver cross without the
crown, and with the same centre medallion. The gold and
silver medals, worn by the fourth and fifth classes, are 36 mm. in
diam¬ eter, bearing on the obverse the portrait of the founder,
within a laurel wreath, and the inscription FRANCISCUS I.D.G.UTRIUSQUE
SICIL. ETHIER. REX. The reverse has three Bourbon lilies in the centre
within a wreath, and the motto DE REGE OPTIME MERITO 1829 . The
ribbon is dark red with blue edges; not as wide as that for the
Cross. NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl.
XXVI Two Sicilies Order of Francis I
io8 ITALIAN ORDERS AND MEDAL OF CIVIL MERIT.
Authorized by royal decree of December 17, 1727. It is of gold and
silver and worn with a red ribbon. The obverse bears an effigy of
the king, and the title FRANCISCUS I.D.G. REGNI UTRIUSQUE SICIL. ET
HIER. REX. On the plain reverse is engraved the name, date and
cause of award. A medal similar to this was awarded during the
reign of Ferdinand II and may be found with either of the following
inscriptions: FERDI- N AN DUS II REGNI UTRIUSQUE SI CI¬ LIA E ET
HIERUS. or FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE.
Another MEDAL OF CIVIL MERIT was issued, 44 mm. in size. On the obverse
are busts of Francis I and Queen Maria Isabella, facing to right,
surrounded by branches of laurel. On the reverse is a Bourbon lily,
crowned. MEDAL FOR MESSINA. Francis I was succeeded in 1830
by his son, Ferdinand II, who died in 1859. Ferdinand II instituted
the Medal for Messina for troops faithful to him, in that city, during
the Revolution NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR
109 of 1847. It is of bronze, and 30 mm. On the
obverse, within a wreath of oak and laurel leaves, is the word FEDELTA
with one Bourbon lily. The reverse reads, MESSINA 1 SEPTEMBRE 1847
. The ribbon is light blue and white. A variant of this medal has
on the obverse the effigy of the king and the words FERDINANDO II
RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE; and on the reverse the word FEDELTA.
LONG SERVICE MEDAL. Ferdinand II also created a bronze medal for
Long Service. It is 38 mm. and bears on the obverse the king’s bust
on a pedestal, surrounded by implements of war and flags. Above is FERDIN ANDO II. The reverse reads
LODEVOLE SERVIZIO MI LI TARE DI 25 ANNI. The ribbon is red. MEDAL FOR THE SIEGE OF
MES¬ SINA. After the long siege of the citadel of Messina in 1848
by Ferdinand II which resulted in his reconquest of Sicily, a com¬
memorative medal was authorized by the king. This was to reward the
troops who AND MONOGRAPHS no ITALIAN ORDERS
had taken part in the campaign. The medal for the senior officers
was of gold and enamel, 35 mm. in diameter. On the obverse within a
green-enamelled laurel wreath, is a pentagonal fort; in the corners
are five bombs, the flames of which rest upon the wreath. In the centre
is the fleur-de-lis of the Bourbons, in relief. The reverse is
similar, except that in the centre of the pentagon is the legend,
ASSEDIOJ DELLA 1 CITTADELLA / DI MESSINA / 18 ^ 8 . The ribbon is
red. For the junior officers and soldiers the medal was of bronze
and of the same size, without enamel. Obverse and reverse are identical,
and the medal was worn with a red ribbon. A variant of this medal
has a plain reverse, no fort, or bombs, but with the same inscription in
relief. MEDAL FOR SICILY. Created for the troops who, under
the leadership of Filan- gieri, suppressed the Insurrection of
1848- 1849. This is of bronze-gilt, and displays the effigy of
Ferdinand II facing to right within a wreath of oak leaves. Outside,
the wreath are two draped flags, the whole is NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. Two
Sicilies Siege of Messina Long Service Medal, Ferdinand
II 112 ITALIAN ORDERS surmounted by a Bourbon
lily. The plain reverse has CAMPAGNA DI SICILIA 18 J/. 9, in
relief. The ribbon has three equal stripes of light blue and white.
MEDAL FOR CAMPAIGN OF 1860 . Francis II came to the throne of
Sicily in 1859, about the time of the Garibaldi campaign for the
Independence of Italy. His reign was short. The Medal for the
Campaign of 1860 was created by him for those troops who were loyal to
him and opposed to Garibaldi. It is bronze, 37 mm., and bears on
the obverse the effigy of the king, facing to left, within a wreath of
oak leaves. Surrounding this is FRANCESCO II RE DELLE DUE SI Cl
LIE. The reverse bears the words, TRIFRISCO, CAIAZZO, S.MARIA,S.
ANGELO, GARIGLIANO, sur¬ mounted by three Bourbon lilies. Around
this inscription appear the words, CAM¬ PAGN A DI SETT. OTT. 1860 . The
ribbon is red with a blue stripe in the centre. CAMPAIGN OF
EASTERN SICILY. Authorized in i860. It bears on the obverse
NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. XXVJ1I Two
Sicilies Medal for Sicily, Ferdinand II the effigy of
Francis II facing to right, and the words SICILIA OCCIDENT ALE/
APRILE E MAGGIO/1860. On the reverse, within a wreath of laurel, the
words AL V A LORE. This is bronze, and 27 mm. in diameter. A
variant of this medal was issued without the likeness of the king
on the obverse. MEDAL FOR THE DEFENSE OF CATANIA. The
obverse bears the effigy of Francis II, a trophy of arms, and the words
CATANIA 31 MAGGIO 1860; the reverse, within a wreath of laurel, the words
AL V A LORE. MEDAL FOR GAETA. Issued to the
refugees who fled to Gaeta with the Royal family in 1860-61 when
Garibaldi entered Naples. The medal is silver, 36 mm., having on
the obverse the jugated busts of the King and Queen Maria Sophia of
Bavaria and the words FRANCESCO II—MARIA SOFIA. The reverse shows a
view of the city of Gaeta, with GAETA 1860-1861 in the exergue. A
variation of this medal has NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl.Two Sicilies Medal for Gaeta, Francis
II on the reverse the fortress of Gaeta only,
with the same inscription in the exergue. After the Garibaldi
campaign of 1860- 1861 for the freedom of Sicily, and after the
Royal family had given up the Kingdom of Sicily, Francis II by a decree
dated March 12, 1861, authorized medals for all his soldiers who
took part in the second siege of Messina. It appears that dies were
made but only one medal is known to have been struck. That rests in
the famous Ricciardi collection in Naples. The writer is in¬ debted
to Sig. Guido de’Mayo’s article in the May-June 1922 issue of
Miscellanea Numismatica, which describes this medal. It is
silver, 35 mm., and bears on the obverse the jugated busts of the King
and Queen, facing to left (similar to the Gaeta Medal), and the
titles, FRANCESCO II— MARIA SOFIA. The reverse has a design of the
pentagonal fortress of Messina; in the corners of the pentagon are five
bombs, the flames of which rest on the wreath which surrounds the
fort. In the centre is the Bourbon fleur-de-lis. The exergue reads
CITTADELLA DI MESSINA. The ribbon is given as red with blue
stripes. MEDAL FOR SICILY. This is said to have been awarded
to those who took part in the uprising against Ferdinand II in
1848, in the movement for a United Italy, but the purpose of this
award cannot be verified from the several authorities consulted. It
was issued in silver and bronze, 30 mm., and suspended from a ribbon of
the Italian National colours—three equal stripes of green, white
and red. On the obverse is an allegorical figure of Sicily, armed with
a sword; at her feet is a shield with the Arms of Sicily, while in
the sky, a brilliant sun bears the Arms of Savoy. In the distance is
Mt. Aetna in eruption. The reverse has in the centre SICILIA/1848.
Around this is the inscription, INIZIO DEL RISORGIMBNTO
D’lTALIA. AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND
TUSCANY Tuscany, the ancient Etruria, lies south of the
Apennines. On the east it was bounded by the districts of Umbria and
the Marches, while to the south lay the section known in Classical
times as Latium, but which later, with the rise of the Church, was
usually known as the Papal States. None of these provinces had boundaries
that were fixed for any great length of time, and their
geographical history is very com¬ plicated. Between the ioth
and 16th Centuries, Tuscany was composed of several self- governed
communes or Republics, the most important of which were Lucca,
Pisa, Florence and Siena. The Medici family was a dominant factor
in the government for a long period. In 1735 the country came under
Austrian rule. Francis, Duke of Lorraine and afterwards Emperor of
Aus¬ tria (1708-1765), became Grand Duke of Tuscany. He succeeded
John Gaston, the last of his line, and thus the Duchy passed
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR from the control of the Medici and
into that of the Hapsburg family. This had been arranged by
treaty. The Hapsburgs continued in control until the entrance
of the French in 1799 under Napoleon I, though the battle of
Waterloo in 1815 brought back once more their rule in the domain.
Ferdinand III (1769-1824) was succeeded by his son, Leopold II, who
lost the Duchy of Tuscany when the constit¬ uent Assembly voted for its
inclusion in the Kingdom of Italy on August 16, i860. From that
time all the Orders of Tuscany have been discontinued. ORDER
OF SAINT STEPHEN. This Order was founded at Pisa in 1561 or 1562,
by Cosimo I de’ Medici, Duke of Florence, afterwards the first duke of
Tuscany, to commemorate his victory over the French at Siena. The
battle took place on St. Stephen’s day, August 2, 1554 (or August 6
accord¬ ing to some historians). The inhabitants of the city and
the troops under Henry II, after withstanding a siege of fifteen months,
finally capitulated. In 1567, Pope Pius V AND
MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS granted Cosimo the title of the
first Grand Duke of Tuscany. The Order was named in honour of
Stephen IX, Pope and martyr, once bishop of Florence, on whose
festival Cosimo de’ Medici gained his victory. It is said to have
been discontinued in 1565, but Elias Ashmole states that new
statutes were approved in 1590. He also lists it as one of the
Orders extant in 1715; though Hugh Clark informs us that the Order was
“revived in 1764 and put on a respectable footing.” Whatever its status
in the interval may have been, the Order was reorganized in 1817 by
Ferdinand III, Grand Duke of Tuscany (1769-1824), and its
regulations were altered by him at that time. The insignia is a
red-enamelled, gold- edged cross, similar to that of the Knights of
Malta. In the angles are golden fleurs- de-lis and above the cross is a
ducal crown of gold. The ribbon is bright red. ORDER OF SAINT
JOSEPH. Founded by Ferdinand III on March 19, 1807, when as Grand
Duke of Wurtzburg he was ad¬ mitted to the Confederation of the
Rhine. NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XXX Tuscany Order
of Saint Stephen Upon the downfall of the Napoleonic control
of Tuscany in 1814, Ferdinand restored the Order in Tuscany when he again
assumed control of the Duchy. The Order was for meritorious service
and was awarded to civilians, ecclesiastics and the military,
whether native or foreign. Generally the honour was confined to those of
the Roman Catholic faith. There are three classes: Grand Cross,
Commanders and Knights. The Decoration of the first class is
silver, a double-pointed, six-armed cross, with rays between the
arms. An oval medallion in the centre bears the figure of St. Joseph;
around this on the band, likewise of silver, is the motto UBIQUE SI MI
LIS (Everywhere the same), with a branch of laurel and oak. In the
lower centre of the band is the letter F. The cross of the second class
is gold, and similar to the star of the first class, though
smaller. It has white-enamelled arms, and the rays and the medallion
band are of red enamel. It is surmounted by a gold crown and a
suspension ring for the ribbon, which is bright red, with a white
stripe at each edge. The reverse medallion NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. Tuscany Order of
Saint Joseph AND has in the centre S.J.F .1807
(SanctoJosepho Ferdinando —Dedicated by Ferdinand to Saint Joseph).
The third class cross is smaller and worn with a narrower ribbon.
ORDER OF THE WHITE CROSS. Instituted by Grand Duke Ferdinand
III in 1814. This was a decoration solely for the military faithful
to him. It is sometimes called the “Cross of Loyalty.” A MEDAL OF
HONOUR was also founded in 1816 for those who had distinguished
themselves in the Duchy. No description of these two insignia is
obtainable from the several authorities consulted. MILITARY
MEDAL. Authorized in 1815 for distinguished service. It was awarded
only to junior officers and soldiers. This medal is silver, bearing on
the obverse a bust of the founder facing to right, and the title
FERDINANDO III.A.D.A.GRAND. DI
TOSCANA. The reverse has in relief AI PRODI E FED ELI TOSCANI 1815
. (To the brave and
faithful Tuscans.) The ribbon is half red and half white.
LONG SERVICE MEDAL. Founded in 1816 and issued to junior officers and
sol¬ diers. It is bronze, 37 mm., and bears on the obverse two
crossed swords, with a shield bearing the letter F superimposed.
Above this device is a crown, and below is 1816, the date of its
creation. The reverse reads, in relief, AL LUNGO E FED EL SERVIZIO.
The ribbon is half red and half white. MEDAL OF MILITARY
MERIT. This was founded by Leopold II on May 19, 1841, and bears
the effigy of the Duke and the words LEOPOLDO II GRANDUCA DI
TOSCANA. The reverse has in relief FI DELTA E V A LORE. The ribbon
is half red and half black. ORDER OF MILITARY MERIT.
In¬ stituted on December 19, 1853, by Leopold II. The decoration is
a five-armed white- enamelled cross of gold on a gold laurel
wreath, which is surmounted by a gold crown. The obverse medallion is
inscribed L II. surrounded by the words MERITO AND MONOGRAPHS ITALIAN
ORDERS MILITARE. On the reverse medallion, 1853 records the
date of its creation. The ribbon is of red and black in equal
stripes. MEDAL OF 1848 . Founded by Leopold II for the war of
Italian Independence. This was a service medal for his troops
taking part in that campaign. It is bronze- gilt, and bears on the
obverse the effigy of the Grand-duke and title LEOPOLDO II GRANDUCA
DI TOSCANA. On the re¬ verse within a laurel wreath is the
inscription GUERRA/DELLA/INDIPENDENZA / ITALIANA/18^8. The loop for
the ribbon is a wide bar-like affair, similar to that for many of
the Italian medals. The ribbon is blue, bordered with two red
stripes. MEDAL OF MERIT. Attributed by but one authority to
Ferdinand IV. Issued in five classes; gold, of 40 mm. and 30 mm.; silver,
of 49 mm. and 30 mm., and bronze, 45 mm. in diameter, according to the
impor¬ tance of the award. On the obverse is a bust of the
Grand-duke and FERDINANDO IV GRANDUCA DI TOSCANA. The re-
NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. Tuscany
Order of Military Merit, Leopold II verse bears the
inscription AL MER1T0 within a wreath. The ribbon is dark blue with
black stripes at the sides. LONG SERVICE MEDAL. Instituted by
Leopold II in December, 1850, for officers of the Army who had served at
least thirty years. It is 36 mm., a gilt Maltese cross, having in
the centre medallion of silver the head of Leopold II to left, encircled
by LEOPOLD II G. D. DI TO SC. On the reverse medallion is the word
ANZIANITA, with a crown above. No information concerning the ribbon
is obtainable. NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Plate Venice.
Defence of Venice Tuscany. Long Service Medal. At the time of Augustus, there
was no city of Venice, and Padua was the chief city of the district
which has since come to be known as Venetia. This district occupied
the Northeastern section of that country from the Alps on the North and
East to the Adriatic Sea, and to the River Po on the West. From the
Sixth and Seventh Cen¬ turies, after the foundation and the growth
of Venice, it developed a considerable com¬ merce with its island domains
and became a great maritime power. For many centuries an
independent Republic was maintained, governed by a Senate and a Doge,
elected by the people; his authority, however, was limited.
Constant wars with neighboring peoples and with the Turks did not
exhaust the wealth of Venice; and until the Eight¬ eenth Century
Venice wielded great in¬ fluence in European politics. The Republic
was unable to withstand the French army, however, and on October 17,
1797, was divided—one half of the territory going to
NUMISMATIC Austria and the other half to the Cisalpine Republic. The
Ionian Islands go to France. For years the Venetian Republic
maintains its independence, and exhibits a form of government which
commands universal admiration. GIUSTINIANO (si veda) states
that Leoni was the first Grand Master of the Ordine di San
Marco. He also lists a number of the Grand Masters from that date
to 1688, and gives several authorities. Other writers fix the date
of its origin as 828, when the remains of Saint Mark were taken
from Alexandria to Venice. No exact information is obtainable as to
the discontinuance of the Order, though Ashmole indicates its
existence in 1672, as does Clark in 1784. The insignia is a
gold chain to be worn around the neck. From this a gold medal¬ lion
is suspended. On the obverse is the Arms of Venice —the winged lion of
St. Mark, seated with a sword in the right paw, and with the
left paw resting on an open book, on which is the motto PAX TIBI
MARCE EVANGELISTA MEUS (Peace to thee, Mark, my Evangelist). The
reverse is believed to have been plain, although Ashmole asserts
that it had the name of the Doge then living as well as a portrait—if
that is what may be understood by his words “a particular impress.” This
Order was conferred by the Senate or by the Doge, and later was
called the Order of the Doge of Venice. On late forms, the insignia was
changed to a blue-enamelled cross, on the centre of which was a medallion
with the above described Arms. The reverse bore the effigy of the
reigning Doge, sometimes represented as on his knees receiving a
standard from the hands of St. Mark. All recipients of this Order had to
show records of noble birth and were known as the Knights of Saint
Mark. MEDAL FOR THE DEFENCE OF VENICE. This medal was issued
in 1849, during the second year of the short-lived Republic of Saint Mark —as
Venice was at that time called. It was of silver and bronze, 27
mm., bearing on the obverse the Arms of the Republic. Around this
are the words INDIPENDENZA ITALIAN A. On the reverse is the cross
of St. Maurice surrounded by VESSILLO DI VIT TORI A 18^8. The
ribbon is crimson with a narrow gold stripe at each side. (PI.
XXXIII.) MEDAL FOR BRAVERY. Also issued in 1849. It was of
silver and bronze, but 32 mm. in diameter. The obverse has the lion
of St. Mark and GOVERNO PROVISORIO. On the reverse, within an oak
wreath, are the words DI FEN SORE DI VENEZIA. The ribbon is red
with gold stripes at the sides. MEDAL FOR THE CIVIL
GUARD. Authorized. It was silver and bronze gilt, oval in form, 40
mm. by 34 mm. On the obverse appear two crossed flags and the words
GUARDI A Cl VIC A VENETA. The reverse reads VV/ VI TALIA. The
ribbon is yellow. OBSOLETE ORDERS The following Orders listed by the
several authorities consulted, as having been formed in Italy, have
long been discontinued. Order of the Golden Star of Venice, date not
given. Order of the Golden Stole, date not given. Order of the
Royal Crown of Mantua, was, according to Genouillac, created by
Prince Louis of Gonzaga (son of Witikind, King of Saxony), in honour of
his marriage with Adalgise of Lombardy, daughter of Gisulf, due de
Frioul. Order of the Eagle of Italy. Created February 15,941,
by Hugo II of Gonzaga, to perpetuate the memory of his marriage
with Princess Elizabeth of Gonzaga and Lombardy. New statutes were formed
for the Order in 968. Order of Holy Mary, Mother of
God. Founded in Italy in 1233. Its creation is attributed to
Bartholomew, Bishop of Vincenza. The purpose of its foundation was
to quell the discords which arose NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR between the Guelphs and the Ghibellines and also to defend
and support the Roman Catholic religion. It was approved by Pope
Martin IV, who placed the knights under the protection of St. Augustin.
It was called by some the “Order of the Brothers of the
Jubilation,” later the “Order of St. Mary of the Tower,” and the “Order
of the Chevaliers of the Mother of God.” Towards the end of the
Sixteenth Century the Order had entirely disappeared. Order
of the Black Swan of Italy, founded in 1350 by Amadeus VI and other
Italian Princes, for the purpose of preventing feuds, then so
prevalent. Order of St. George of Genoa. Founded by Frederick
III of Germany. It was to reward the Genoese for the reception he
received during his journey to Rome, where he received the Imperial
Crown. The Order was short-lived. The badge is a plain red cross
suspended from a gold chain. This Order is not to be confused with
the Order of St. George of Austria, founded by the Emperor
Frederick. and monographs Order of St. George of Ravenna. Founded
in 1534 by Alexander of Farnese (then Pope Paul III). Its award was
confined to those who defended the city and its vicinity from the
attack of the Moslems or Corsairs. On the death of its founder it
ceased to exist. Cappelletti says it was suppressed by Gregory. The
insignia was a red-enamelled star of eight points, over which was a
gold ducal crown. Order of the Lily. Founded in 1546 by
Alexander of Farnese. Order of the Lamb of God of Tuscany.
Founded in 1568 by John III. Order of the Redeemer or of the
Precious Blood of our Saviour. Founded by Vincent Gonzaga, Duke of
Mantua. It was in honour of the marriage of his son Francis
with the Princess Marguerite, the daughter of Charles Emmanuel I, Duke
of Savoy. The Order survived about a century and lapsed in 1708 on
the death of Ferdinando Gonzaga, Duke of Mantua. An attempt was
made to revive it but without success. The insignia was an oval
medallion, in the centre of which were two angels in adoration.
Around this was the motto NIHIL HOC TRISTE RECEPTO. Order of
the Conception. Instituted on September 8, 1617, by Ferdinand 1 of
Gonzaga, Duke of Mantua, in honour of the conception of the Virgin and
placed under the protection of St. Michael the Archangel. Like many
other Orders founded about this time, the members swore allegiance to the
Church and agreed to fight against the infidels. Order of the
Virgin or the Order of the Virgin Mary the Glorious. Created in
Italy by three gentlemen of Spella, named Peter, John the Baptist,
and Bernard, surnamed Petrignani. The Order was approved by Pope
Paul V in 1618, and placed under the protection of the holy Virgin. The
members agreed to defend and uphold the Roman Catholic religion and make
war on the in¬ fidels. No record has been found of the discontinuance
of the order. Order of Saint Rosalie of Palermo. Founded by
Alderon de Carreto. Charles Albert was of the line of
Savoy-Carignano which was founded by Thomas Francis, son of Charles
Emmanuel the Great. Carignano, a town in the province of Turin, was
bestowed by Charles Emmanuel I upon his son Thomas Francis, who was known
as the Prince of Carignano. The present reigning king of Italy is
of this house. Ency. Brit. At this Crescent was fastened as many'
small Pieces of Gold fashion’d like Columns and enamell’d with Red,
as the Knights had been engag’d in Battels and Sieges; for none could be
adopted into this Order unless he had well trod the Paths of
Honour.” Ashmole, E., Hist, of Order of the Garter. Ashmole. ‘‘It was
approved and confirmed by Pope Urban, and the Rule of St. Dominick
prescribed to the Knights.” Armani,
E. Insegne Cavaileresche e Meda- glie del Regno d'ltalia. Rome, Ashmole, Elias. The
Institution, Laws and Ceremonies of the Most Noble Order of the
Garter. London. Ashmole, Elias. The History of the Most
Noble Order of the Garter. London NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR Burke,
Sir Bernard. The Book of Orders of Knighthood and Decorations of
Honor. London Cappelletti, Licurgo. Ordini
Cavalle- reschi. Livorno 1904. Cibrario, Luigi. Descrizione e
Storica degli Ordini Cavallereschi. 2 vols. Torino Clark, Hugh A. A Concise History
of Knighthood. London.
Cuomo, Raffaele. Ordini Cavallereschi antichi e moderni. 2 vols.
Naples 1894. Elvin, C. N.
Handbook of the Orders of Chivalry. London 1893. Favine,
Andrew. The Theatre of Honour and Knighthood. London.—Translated
from a French Edition of Genouillac, H. Gourdon de. Diction- naire historique
des ordres de Chevalerie. Paris. Genouillac, H. Gourdon de.
Nouveau Dictionnaire des ordres de Chevalerie. Paris Giorgio, Florindo
de. Dellc cerimonie Pubbliche della
onorificenze della nobilta e de'Titoli e degli Ordini Cavallereschi net
Regno delle Due Sicilie. Naples Giustinian, Bernardo. Historic degli Ordini militari, etc.
Venezia. AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND J. S. The History
of Monastical Conventions and Military Institutions, etc. London.
Lawrence-Archer, Major J. H. The Orders of Chivalry. London. Mennenii,
Francisci. Deliciae Eqyestrivm sive Militarivm Ordinvm et Eorundem
Origines, etc. Coloniae Agrippinae Perrot, A.-M. Collection J Historique
des Ordres de Chevalerie. Paris.
Puca, Antonio. Gli ordini cavallereschi del Regno dTtalia.
Naples. Ricciardi, Eduardo. Medaglie delle due Sicilie.
Naples 1910 and 1913. Ruo, Raffaele. Ordini Cavallereschi instituti
nel regno delle Due Sicilie. Naples. Saint Joachim. An accurate historical
account of all the Orders of Knighthood, by an Officer of the
Chancery of the Order of Saint Joachim. London 1802. (Said to be by Sir
L. Hamon). Sculfort, Lieut. V. Catalogue; Decorations et Medailles
du Musee de VArmee. Paris Trost, L. J. Die Ritter- und Verdienst Or den,
Ehrenziechen und Medaillen aller Sou- ver'dne und Staaten. Wien et Leipzig
1910. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR
Lucca Civil Medal of Merit. 8 Military Service Medal.
8 St. George, Order of. 5 St. Louis, Order of. 6
Modena Cross for Service. 13 Eagle of Este, Order
of. Fidelity Medal. Military Medal for Loyalty.Military Medal of Merit.
13 Parma Constantine, Order of. 16 Medal of
Merit. 20 St. Louis, Order of. San Marino Medal of Merit.
24 Order of Chivalry. 21 Sardinia, Savoy and Kingdom of
Italy Africa, Medal for. 65 Boxer Uprising, Medal for
(Medal for Far East). 66 China, Medal for (Medal for
Far East). AND MONOGRAPHS Civil Medal of Valour. Civil Order of Savoy. Colonial
Order of the Star of Italy. Crimean Medal. Crown of Merit. Crown of
Italy, Order of. Far East, Medal for. Industry, Order of. Italian
Independence Medal. 60 Italian Unity
Medal. Liberation of Sicily, Medal for. Life Saving
Medal. Marsala Medal (Medal of the Thousand). Medal of
Merit. Medal of Merit (Battle of Vicenza). Medal of Merit
(Rome). Medal of Merit (“S.P.Q.R.”). Medal of the Thousand. Military
Cross for Service. Military Medal of Valour. Most Sacred
Annunciation, Order of. National Gratitude, Medal of. Naval Medal of
Valour. Public Safety, Medal of Merit. Royal Military Order of
Savoy. St. Maurice, Medal of. St. Maurice and St. Lazarus, Order of.
Star of the Thousand. NUMISMATIC NOT E S MEDALS OF
HONOUR Turkish War of 1911-1912. 68 United Italy,
Medal for. 62 Valour Medal. Veterans Guarding Tomb of the
Kings Medal. Victory Medal. War Cross of Italy. War in Lybia Medal.
War Orphans Medal. 7War Volunteers Medal. World War Medal. 72 See
also Obsolete Orders. 134 The Two Sicilies Campaign of
1860. 112 Civil Merit, Medal of. 108 Constantine, Order
of. Crescent, Order of the. Defence of Catania, Medal for the. Double Crescent
(Order of the Ship). Eastern Sicily, Campaign of. Ermine (Naples), Order of
the. 88 Francis I, Royal Order of. 105 Gaeta Medal.
Griffin (Naples), Order of the. Holy Spirit of the Right Desire (Order of
the Knot). 8 7 Knot (Naples), Order of. Lombardy, Medal of
Merit for. 96 AND MONOGRAPHS Long Service Medal. 109
Medal of Honour. 94 Medal of Honour Medal of Honour (Sicily).
Messina, Medal for. 108 Naples, Medal of Honour for. Provincial
Legion, Medal of Honour for the 99 Reel and Lioness, Order of.
87 St. Charles, Royal Military Order of. St. Ferdinand, Order of,
and Order of Merit. 93 St. George, Medal of. 104
St. George of the Reunion, Royal Military Order of. St.
Januarius, Order of. St. Michael
(Naples), Order of. 89 Security Guard Medal. Ship, Order of the.
Sicily, Medal for (Ferd. II.). no Sicily, Medal for (Nationalist). Siege
of Gaeta, Medal of Honour for the. . 97 Siege of Messina, Medal for
the. Siena, Medal of Merit for. 96 Spur, Order of the. Two
Sicilies, Royal Order of the. 98 Tuscany Long Service
Medal. ^5 Long Service Medal (Leopold II). NUMISMATIC NOTES
Medal of 1848. 126 Medal of Merit. 126 Military Medal.
Military Merit, Medal of. 125 Military Merit, Order of. 125
St. Joseph, Order of. 120 St. Stephen, Order of. White Cross,
Order of the (Cross of Loyalty). See also Obsolete Orders.
Venice Bravery, Medal for. 133 Civil Guard, Medal for
the. 133 Defence of Venice of 1848, Medal for the. . 132 St.
Mark, Order of. 131 Obsolete Orders Black Swan of
Italy, Order of the. 135 Conception, Order of the. 137
Eagle of Italy, Order of the. 134 Golden Star of Venice,
Order of the. 134 Golden Stole, Order of the. Holy Mary, Mother of
God, Order of the. . 134 Lamb of God of Tuscany, Order of the. Lily,
Order of. 136 Precious Blood of Our Saviour (See Order
of the Redeemer). 13b Redeemer, Order of the. AND MONOGRAPHS
146 ITALIAN ORDERS Royal Crown of Mantua, Order of
the. St. George of Genoa, Order of. St. George of Ravenna, Order of.
136 St. Rosalie of Palermo, Order of. 137 Virgin, Order
of the. NUMISMATIC NOTES Numismatic Notes and Monographs Noe. Coin
Hoards. plates. Newell. Octobols of Histiaea, plates. Newell. Alexander
Hoards Introduction and Kyparissia Hoard. 1921. 21 pages. 2
plates. 50c. 4. Howland Wood. The Revolutionary Coinage plates. Westervelt.
The Jenny Lind Medals and Tokens. plates. Baldwin. Five Roman Gold
Medallions. plates. Sydney P. Noe. Medallic Work of A. A.
Weinman. plates. Gilbert S. Perez. The Mint of the Philippine Islands. pages. 4
plates. 50c. 9. David Eugene Smith, LL.D. Computing
Jetons. plates. Newell. The First Seleucid Coinage of Tyre.
plates. Numismatic Notes and Monographs (Continued) 11.
Harrold E. Gillingham. French Orders and Decorations. 1922. no
pages. 35 plates. $2.00. 12. Howland Wood. Gold Dollars plates.
Whitehead. Pre-Mohammedan Coinage of N. W. India. plates.
$2.00. 14. George F. Hill. Attambelos I of Characene.
1922. 12 pages. 3 plates. Vlasto. Taras Oikistes (A Con¬
tribution to Tarentine Numismatics). 1922. 234 pages. 13 plates.
$3.50. 16. Howland Wood. Commemorative Coin¬ age of
United States. 1922. 63
pages. 7 plates. $1.50. 17. Agnes Baldwin. Six Roman
Bronze Medallions. 1. 39 pages. 6 plates. $1.50. 18.
Howland Wood. Tegucigalpa Coinage plates. Newell. Alexander Hoards—
II. Demanhur Hoard. 1923.
162 pages. 8 plates. $2.50. Egidio Romano. Egidio Colonna. Colonna.
Keywords: conversazione cortese, conversazione gentile, padre/figlio, amore
naturale, principe, cavalleria, cavaliere, cavalier attitude, cavalier
implicature. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Colonna” – The Swimming-Pool Library. Colonna.
Luigi Speranza -- Grice e Colonnello: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della voce di Boezio – vox
significativa – voce che e segno – parola usata metaforicamente – nome, voce
che e segno – significativa – scuola di Benevento – filosofia campanese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Benevento).
Filosofo
campanese. Filosofo italiano. Benevento, Campania. Grice: “I like Colonnello;
as a typical Italian philosopher, he has philosophised about ‘all,’ from,
first, of course, Croce, to the ‘tedesci’! – But also about ‘guilt,’ and my
favourite, the ‘transcendentale,’ which in Italian, for lack of ‘n’ becomes ‘trascendentale’
– how many? Colonnello thinks more than one, if the plural is of any
guide!” Insegna a Callabria. Privilegia l'arco tra criticismo
trascendentale e fenomenologia, esistenza, ermeneutica di Pareyson, storicismo
di Croce, Nicol, Dussel. La sua proposta è verificare l'interazione, in chiave
storico-critica, del kantismo, della fenomenologia e la filosofia
dell'esistenza. Altre opere:
“Esistenzialismo kantiano” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Croce e i
vociani” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Tempo e necessità” (Japadre,
L'Aquila-Roma); “Tra fenomenologia e filosofia dell'esistenza” (Morano,
Napoli); “Ermeneutica esistenzialista del concetto di ‘colpa” (Loffredo,
Napoli); “Percorsi di confine: esistenza e libertà” (Luciano, Napoli); Croce
(Bibliopolis, Napoli); “Ragione e rivelazione” (Borla, Roma); “Melanconia ed
esistenza” (Luciano, Napoli); “Storia esistenza liberta. Rileggendo Croce,
Armando, Roma); Martin Heidegger e
Hannah Arendt, Guida, Napoli); “Orizzonte del trascendente e dell’immanente,
Mimesis, Milano); “Inter-soggettivita riflessiva” L’itinerario dei corpi”
(Mimesis, Milano). Corpo, mondo, Fenomenologia (Mimesis, Milano); Fenomenologia
e patografia del ricordo, Mimesis, Milano Udine). Primum oportet
constituere, quid nomen et quid verbum, postea quid est negatio et adfirmatio
et enuntiatio et oratio. sunt ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in
anima passionum NOTAE et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce. et
quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. quorum autem
haec primorum NOTAE, eaedem omnibus passiones animae et quorum hae
similitudines, res etiam eaedem.de his quidem dictum est in his quae sunt dicta
de anima, alterius est enim negotii. est autem, quemadmodum in anima
aliquotiens quidem intellectus sine vero vel falso, aliquotiens autem cui iam
necesse est horum alterum inesse, sic etiam in voce; circa conpositionem enim
et divisionem est falsitas veritasque. Nomina igitur ipsa et.verba consimilia
sunt sine conpositione vel divisione intellectui, ut homo vel album, quando non
additur aliquid; neque Titulus ex nisi quod de gr. in lat.
om. hic, hahet in suhscriptione. enim adhuc verum aut falsum est. huius autem
SIGNUM hoc est: hircocervus enim significat aliquid, sed nondum verum vel
falsum, si non vel esse vel non esse addatur, vel simpliciter vel secundum
tempus. Nomen ergo est vox significativa secundum placitum sine tempore, cuius
nulla pars est significativa separata. in nomine enim quod est equiferus ferus
nihil per se significat, quemadmodum in oratione quae est equus ferus. at vero
non quemadmodum in simplicibus nominibus, sic se habet etiam in conpositis. in
illis enim nullo modo pars significativa est, in his autem vult quidem, sed
nullius separati, ut in equiferus ferus. secundum placitum vero, quoniam
naturaliter nominum nihil est, sed quando fit nota. nam designant et iuhtterati
soni, ut ferarum quorum nihil est nomen. Non homo vero non est nomen. at vero
nec positum est nomen, quo illud oporteat appellari. neque enim oratio aut
negation est, sed sit nomen infinitum. Catonis autem vel Catoni et quaecumque
talia sunt non sunt nomina, sed casus nominis. ratio autem eius est in aliis
quidem eadem, sed diifert quoniam cum est vel fut vel erit iunctum neque verum
neque falsum est, nomen vero semper; ut Catonis est vel non est, nondum enim
neque verum dicit neque mentitur. Verbum autem est quod consignificat tempus
cuius pars nihil extra significat, et est semper eorum quae de altero dicuntur
nota. dico autem quoniam consignificat tempus, ut cursus quidem nomen est
currit vero verbum, consignificat enim nunc esse. et semper eorum quae de
altero dicuntur nota est, ut eorum quae de subiecto vel in subiecto. Non currit
vero et non laborat non verbum dico. consignificat quidem tempus et semper de
aliquo est, differentiae autem huic nomen non est positum; sed sit in
finitum verbu, quoniam similiter in quolibet c.est, vel quod est vel quod non
est. similiter autem vel curret vel currebat non verbum est, sed casus verbi.
differt autem a verbo, quod hoc quidem praesens consignificat tempus, illa vero
quod conplectitur. Ipsa quidem secundum se dicta verba nomina sunt et significant aliquid.
constituit enim qui dicit intellectum et qui audit quiescit. sed si est vel non
est, nondum significat; neque enim esse signum est rei vel non esse, nec
si hoc ipsum est purum dixeris. ipsum quidem nihil est, consignificat autem
quandam conpositionem, quam sine conpositis non est intelleger. Oratio autem
est vox significativa; cuius partium aliquid significativum est separatum, ut
dictio, non ut adfirmatio. dico autem, ut homo significat aliquid, sed non
quoniam est aut non est, sed erit adfirmatio vel negatio, si quid addatur. sed
non una hominis syllaba. nec in eo quod est sorex rex significat, sed vox est
nunc sola. in duplicibus vero significat quidem, sed non secundum se,
quemadmodum dictum est. Est autem oratio omnis quidem significativa non sicut
instrumentum, sed, quemadmodum dictum est, secundum placitum. enuntiativa vero
non omnis, sed in qua verum vel falsum inest. non autem in omnibus, ut
deprecatio oratio quidem est, sed neque vera neque falsa.et ceterae quidem
relinquantur; rhetoricae enim vel poeticae convenientior consideratio est;
enuntiativa vero praesentis est speculationis. Est autem una prima oratio
enuntiativa adfirmatio, deinde negatio; aliae veroconiunctione unae. necesse
est autem omnem orationem enuntiativam ex verbo esse vel casu. etenim hominis
ratio, si non aut est aut erit aut fuit aut aliquid huiusmodi addatur, nondum
est oratio enuntiativa. quare autem unum quiddam est et non multa animal
gressibile bipes neque enim eo quod propinquedicunt ur ununi erit, est alterius
hotractare negotii. est autem una c. oratio enuntiativa quae unum significat vel
coniunctione una, plures autem quae plura et non unum vel inconiunctae. nomen
ergo et verbum dictio sit sola, quoniam non est dicere sic aliquid
significantem voce enuntiare, vel aliquo interrogante vel non, sed ipsum
proferentem. harum autem haec quidem simplex est enuntiatio, ut aliquid de
aliquo vel aliquid ab aliquo, haec autem ex his coniuncta velut oratio quaedam
iam conposita. est autem simplex enuntiatio vox significativa de eo quod est
aliquid vel non est, quemadmodum tempora divisa sunt. Adfirmatio vero est
enuntiatio alicuiusde aliquo, negatio vero enuntiatio alicuius ab aliquo.
quoniam autem est enuntiare et quod est non esse et quod non est esse et quod
est esse et quod non est non esse et circa ea quae sunt extra praesens tempora
similiter omne contingit quod quis adfirmaverit negare et quod quis negaverit
adfirmare: quare manifestum est, quoniam omni adfirmationi est negatio opposita
et omni negationi adfirmatio. et sit hoc contradictio, adfirmatio et negatio
oppositae. dico autem opponi eiusdem de eodem, non autem aequivoce et
quaecumque cetera talium determinamus contra sophisticas inportunitates.
Quoniam autem sunt haec quidem rerum universalia, illa vero singillatim; dico
autem universale quod in pluribus natum est praedicari, singulare vero quod
non, ut homo quidem universale, Plato vero eorum quae suntsingularia: necesse
est autem enuntiare quoniam ines aliquid aut non aliquotiens quidemeorum
alicui quae sunt universalia, aliquotiens autem eorum quae sunt singularia. si
ergo universaliter enuntiet in universali quoniam est aut non, erunt contrariae
enuntiationes. dico autem in universali enuntiationem universalem, ut omnis
homo albus est, nullus homo albus est. quando autem in universalibus non
universaliter, non sunt contrariae, quae autem significantur est esse
contraria. dico autem non universaliter enuntiare in his quae sunt universalia,
ut est albus homo non est albus homo. cum enim universale sit homo, non
universaliter utitur enuntiatione. omnis namque non universale, sed quoniam universaliter
consignificat. in eo vero, quod praedicatur universale, universale praedicare
universaliter non est verum; nulla enim adfirmatio erit in qua de universali
praedicato universale praedicetur, ut omnis homo omne animal est. opponi autem
adfirmationem negationi dico contradictorie, quae universale significat eidem,
quoniam non universaliter, ut omnis homo albus est, non omnis homo albus est
nullus homo albus est, est quidam homo albus; contrarie vero universalem
adfirmationem et universal negationem, ut omnis homo iustus est, nullus homo
iustus est. quocirca has quidem inpossible est simul veras essehis vero
oppositas contingit in eodem, ut non omnis homo albus est est quidam homo
albus. quaecumque igitur contradictiones universalium sunt universaliter,
necesse est alteram veram esse vel falsam et quaecumque in singularibus sunt ut
est Socrates albus, non est Socrates albus; quaecumque autem in universalibus
non universaliter, non semper haec vera est, illa vero falsa. simul enim verum
est dicere quoniam est homo albus et non est homo albus, et est homo pulcher
(probus) et non est homo pulcher (probus). si enim foedus (turpis, et non
pulcher (probus); etfit aliquid, et non est. videbitur autem subito
inconveniens esse idcirco quoniam videtur significare non est homo albus simul
etiam quoniam ut om. esfet est © (xat habent Arist. codices praeter duos) pro
v.aX6q et cctaxQos in editione prima posuit pulcher et foedus, in editione
secunda probus et turpis jiemo homo albus. hoc autem neque idem significat neque
simul necessario. Manifestum est autem quoniam una negatio unius adfirmationis
est; hoc enim idem oportet negare negationem, quod adfirmavit adfirmatio, et de
eodem, vel de aliquo singularium vel de aliquo universalium, vel universaliter
vel non universaliter. dico autem ut est Socrates albus, non est Socrates
albus. si autem aliud aliquid vel de alio idem, non opposita, sed erit ab ea
diversa. huic vero quae est omnis homo albus est illa quae est non omnis
homo albus est, illi vero quae est aliqui homo albus est illa quae est nullus
homo albus est, illi autem quae est est homo albus illa quae est non est homo
albus. Quoniam ergo uni negationi una adfirmati opposita est
contradictorie et quae sint hae dictum est et quoniam aliae sunt contrariæ et
quae sint hæ et quoniam non omnis vera vel falsa contradictio et quare et
quando vera vel falsa. Una autem est ADFIRMATIO et negatio quæ unum de uno
SIGNIFICAT vel cum sit universale universaliter vel non similiter, ut ‘OMNIS
HOMO ALBVS EST’ – Grice: (x) all --, ‘NON EST OMNIS HOMO ALBVS,’ ‘EST HOMO
ALBVS,’ ‘NON EST HOMO ALBVS’, ‘NVLLVS HOMO ALBVS EST, ‘EST QUIDAM HOMO ALBVS’ –
Grice : Ex: some (at least one) --, si album (‘shaggy’) unum SIGNIFICAT.
sin vero duobus unum Vel—singularium om. postremum vel om. T aliquis MT est
homo albus ed. II. Ar.: h. a. est codices (hæ) Mc locus in paucis admodum
codicibus exstat; habent lianc falsam versionem ex BOEZIO expositione
natam: Manifestum ergo quoniam una negatio uuius affirmationis est. quoniam
aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae et quae sint hae dictum est.
duplicem versioncm et superiorem veram et lianc falsamexhibent solam veram D,
falsam omisso initio: Manifestum — aff. est. E, veram in marg. Xsint edictum et
om. BE uel quoniam uel quando E est homp a. non est h. a. om. nomen est
positum, ex quibus non est unum, non est una adfirmatio, ut si quis ponat nomen
tunica homini et equo, est tunica alba haec non est una adfirmatio nec negatio
una. nihil enim hoc differt dicere quam est equus et homo albus. hoc
autem nihil differt quam dicere est equus albus et est homo albus.
si ergo hae multa significant et sunt phires, manifestum est quoniam et prima
multa vel nihil significat; neque enim est aliquis homo equus. quare nec in his
necesse est hanc quidem contradictionem veram esse, illam vero falsam. In his
ergo quae sunt et facta sunt necesse est adfirmationem vel negationem veram vel
falsam esse, in universalibus quidem universaliter semper hanc quidem veram,
illam vero falsam, et in his quae sunt singularia, quemadmodum dictum est; in
his vero, quae in universalibus non universaliter dicuntur, non est necesse;
dictum autem est et de his. in singularibus vero et futuris non similiter. nam
si omnis adfirmatio vel negatio vera vel falsa est, et omne necesse est vel
esse vel non esse. nam si hic quidem dicat futurum aliquid, ille vero non dicat
hoc idem ipsum, manifestum estquoniam necesse est verum dicere alterum ipsorum,
si omnis adfirmatio vera vel falsa. utraque enim non erunt simul in talibus.
nam si verum est dicere quoniam album vel non album est, necesse est esse album
vel non album, et si est album vel non album verum est vel adfirmare vel
negare; et si non est, mentitur, et si mentitur, non est. quare necesse est aut
adfirmationem aut negationem veram esse. nihil igitur neque est neque fit nec a
casu nec utrumlibet nec erit nec non erit, sed ex necessitate nomen
quod(quod est M) affirm. una una neg. differre et om. E dicere equus est MT est
autem MT6 veram esse vel falsam D Ar. omnia et non utrumlibet. aut enim qui
dicit verus est aut qui negat. similiter enim vel fieret vel non fieret;
utrumlibet enim nibii magis sic vel non sic se habet aut habebit. amplius si
est album nunc, verum erat dicere primo quoniam erit album, quare semper verum
fuit dicere quodlibet eorum quae facta sunt, quoniam erit. quod si semper verum
est dicere quoniam est vel erit, non potest hoc non esse nec non futurum esse. quod
autem non potest non fieri, inpossibile est non fieri; quod autem inpossibile
est non fieri, necesse est fieri. omnia ergo qua futura sunt necesse est fieri.
niliil igitur utrumlibet neque a casu erit; nam sia casu, non ex necessitate.
at vero nec quoniam neutrum verum est contingit dicere ut quoniam neque erit
neque non erit. primum enim cusit adfirmatio falsa, erit negatio non vera et
haec cum sit falsa, contingit adfirmationem esse non veram. ad haec si verum
est dicere quoniam album est et magnum, oportet utraque esse; sin vero erit
cras esse cras; si autem neque erit neque non erit cras, non erit utrumlibe, ut
navale bellum; oportebit enim neque fieri navale bellum neque non fieri
navale bellum. Quae ergo contingunt inconvenientia haec sunt et huiusmodi
alia, si omnis adfirmationis et negationis vel in his quae in universalibus
dicuntur universaliter vel in his quae sunt singularia necesse est oppositarum
hanc esse veram, illam vero falsam, nihil autem utrumlibet esse in his quae
fiunt, sed omnia esse vel fieri ex necessitate. quare non oportebit neque
consiliari neque negotiari, quoniam si hoc facimus, erit hoc, si veroho, non
erit.nihil enim prohibet in millensimum annum hunc quidem dicere hoc et quod
hnp. 1et cum liaec oportet esse cras ut est oportet E aHa om. affirmatio et
negatio oppositarumj oppositionem eorum quidem futurum esse hunc vero non
dicere. quare ex necessitate erit quodlibet eorum verum erat dicere tunc. at
vero nec hoc differt, si aliqui dixerunt contradictionem vel non dixerunt; manifestum
est enim, quod sic se habent res, et si non hic quidem adfirmaverit, ille vero
negaverit; non enim propter negare vel adfirmare erit vel non erit nec in
millensimum annum magis quam in quantolibet tempore. quare si in omni tempore
sic se habebat, ut unum vere diceretur, necesse esset hoc fieri et unumquodque
eorum quae fiunt sic se haberet, ut ex necessitate fieret. quando enim vere
dicit quis, quoniam erit, non potest non fieri et quod factum est verum erat
dicer semper, quoniam erit. Quod si haec non sunt possibilia: videmus
enim esse principium futurorum et ab eo quod consiliamur atque agimus aliquid
et quoniam est omnino in his quae non semper actu sunt esse possibile et non,
in quibus utrumque contingit et esse et non esse, quare et fieri et non
fier. et multa nobis manifesta sunt sic se habentia, ut quoniam hanc vestem
possibile est incidi et non incidetur, sed prius exteretur. similiter autem et
non incidi possibile est. non enim esset eam prius exteri, nisi esset possibile
non incidi. quare et in ahis facturis, quaecumque secundum potentiam dicuntur
huiusmodi: manifestum est, quoniam non omnia ex necessitate vel sunt vel fiunt,
sed alia quidem utrumlibet et non magis vel adfirmatio vel negatio, alia quare
quod quare quoniam praedicere habeat habeanfc E et si non ego: etiamsi non b:
uel si (om. non) codices neg. ille vero aff. G alt. in om. E habeatest erat
habere et in quibus sese ©Tincidetur — exteretur b: inciditur — exteritur
codices facturisque {om.cumque futuris quaecumque negatio uera est Tvero magis
quidem et in pluribus alterum, sed contingitfieri et alterum, alterum vero
minime. Igitur esse quod est, quand es, et non esse quod non est, quando non
est, necesse est; sed non quod est omne necesse est esse nec quod non est
necesse est non esse. non enim idem est omne quod est esse necessario, quando
est, et simpliciter esse ex necessitate. similiter autem et in eo quod non
est.et in contradictione eadem ratio. Esse quidem vel non esse omne necesse est
et futurum esse vel non; non tamen dividentem dicere alterum necessario. dico
autem ut necesse est quidem futurum esse bellum navale cras vel non esse
futurum, sed non futurum esse cras bellum navale necesse est vei non futurum
esse futurum autem esse vel non esse necesse est. quare quoniam similiter
orationes verae sunt quemadmodum et res, manifestum est quoniam quaecumque sic
se babent, ut utrumlibet sint et contraria ipsorum contingent necesse est
similiter se habere et contradictionem. quod contingit in his, quae non semper
sunt et non semper non sunt. borum enim necesse est quidem alteram partem
contradictionis veram esse vel falsam, non tamen hoc aut illud, sed utrumlibet
et magis quidem veram alteram, non tamen iam veram vel falsam. quare manifestum
est, quoniam non est necesse omnis adfirmationis vel negationis oppositarum
banc quidem veram, illam vero falsam esse. neque enim quemadmodum in bis quae
sunt, sic se habet etiam in his quae non sunt, possibilibus tamen esse aut non
esse, sed quemadmodum dictum est. Quoniam autem est de aliquo adfirmatio
signifi- ut add. b: om. codices necesse est post cras MT futurum quidem eorum A
omnes adfirmationes uel negationes codices et b (Arist.) oppositionum esse post
quidem illam autem hic ficans aliquid, hoc autem est vel nomen vel in nomine,
unum autem oportet esse et de uno hoc quod est in adfirmatione (nomen autem
dictum est et in nomine prius; non homo enim nomen quidem non dico, sed
infinitum nomen; unum enim quodammodo significat infinitum, quemadmodum et non
currit non verbum, sed infinitum verbum), erit omnis adfirmatio vel ex nomine
et verbo vel ex infinito nomine et verbo. praeter verbum autem nulla adfirmatio
vel negatio. est enim vel erit vel fuit vel fit, vel quaecumque alia huiusmodi,
verba ex his sunt quae sunt posita; consignificant enim tempus. quare prima
adfirmatio et negatio est homo, non est homo, deinde est non homo,
non est non homo; rursus est omnis homo, non est omnis homo; est omnis non
homo, non est omnis non homo. et in extrinsecus temporibus eadem ratio est. quando
autem est tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. dico
autem ut est iustus homo; est tertium dico adiacere nomen vel verbum in
adfirmatione. quare idcirco quattuor istae erunt, quarum duae quidem ad
adfirmationem et negationem sese habebunt secundum consequentiam ut
privationes, duae vero minime. dico autem quoniam est aut iusto adiacebit
aut non iusto, quare etiam negatio. quattuor ergo erunt. intellegimus vero quod
diciturex his quae subscripta sunt. est iustus homo, huius negatio non est iustus
homo; est non iustus homo, huius negatio non est non iustus homo. est enim hoe
loco et non est iusto et non iusto adiacet. haec igitur, quemadmodum in
resolutoriis dictum est, sic sunt innomine ego ex ed. II: in nominat Qm vel
innominabile codices item quodammodo significat et (ut add. S) non uerbum est
inf. nom. et uerbo erit MTES vel fit om.cons.—tempus om.consignificat T) ergo
erunt] enim sunt huius disposita. similiter autem se habet et si universalis
nominis sit adfirmatio, ut omnis est homo iustus, non omnis est homo iustus;
omnis est homo non iustus, non omnis est homo non iustus. sed non similiter
angulares contingit veras esse.contingit autem aliquando hae igitur duae
oppositae sunt, aliae autem ad non homo ut subiectum aliquid addito, ut est
iustus non homo, non est iustus non homo; est non iustus non homo, non est non
iustus non homo. magis plures autem his non erunt oppositiones. hae autem extra
illas ipsae secundum se erunt ut nomine utentes non homo. in his vero in quibus
est non convenit, ut in eo quod est currere vel ambulare, idem faciunt sic
posita ac si est adderetur, ut est currit omnis homo, non currit omnis homo;
currit omnis non homo, non currit omnis non homo. Non enim dicendum est non
omnis homo sed non negationem ad homo addendum est. omnis enim non universale
significat, sed quoniam universaliter. manifestum est autem ex eo quod est
currit homo, non currit homo; currit non homo non currit non homo.
haec enim ab illis difiPerunt eo quod non universaliter sunt. quare omnis vel nullus
nihil aliud consignificat nisi quoniam universaliter de nomine veladfirmat vel
negat. ergo cetera eadem oportet adponi. Quoniam vero contraria est negatio ei
quae est omne est animal iustum illa quae significat quoniam nullum est
animal iustum, hae quidem manifestum est quoniam numquam erunt neque verae
simul neque in eodem ipso, his vero oppositae erunt aliquando ut non omne
animal iustum est et est aliquod animal affirmatio sithaec ac uero non om. non
ullus T ergo et opponi apponi E ut E, om. ceteri et om. quoddam et est iustum
om.B c. iustum. sequuntur vero hae: lianc quidem quae est nullus est homo
iustus illa quae est omnis est homo non iustus illam vero quae est est aliqui
iustus homo opposita quoniam non omnis est homo non iustus. necesse est enim
esse aliquem. manifestum est autem, quoniam etiam in singularibus, si est verum
interrogatum negare quoniam et adfirmare verum est, ut putasne Socrates
sapiens est? non; quoniam Socrates igitur non sapiens est. in universalibus
vero non est vera quae similiter dicitur, vera autem negatio, ut lO putasne
omnis homo sapiens? non. omnis igitur homo non sapiens. hoc enim falsum est.
sed non omnis igitur homo sapiens vera est; haec autem est opposita, illa vero
contraria. Πρῶτον δεῖ θέσθαι τί ὄνομακαὶ τί ῥῆμα, ἔπειτα τί ἐστιν ἀπόφασιςκαὶ κατάφασις καὶ ἀπόφανσις καὶ λόγος. Primum oportet constituere quid sit NOMEN et quid
verbum, postea quid est negatio et ADFIRMATIO et ENVNITIATIO et ORATIO. First we must define the
terms 'NOMEN' and 'VERBVM, then the terms 'NEGATIO' and 'AD-FIRMATIO', then ‘ENVNTIATIO'
and 'ORATIO'. Ἔστι μὲν οὖν τὰ ἐν τῇ φωνῇ τῶν ἐν τῇ ψυχῇ παθημάτων σύμβολα, καὶ τὰ γραφόμενα τῶν ἐν τῇ φωνῇ καὶ ὥσπερ οὐδὲ γράμματα πᾶσι τὰ αὐτά, οὐδὲ φωναὶ αἱ αὐταί• ὧν μέντοι ταῦτα σημεῖα πρώτων, ταὐτὰ πᾶσι παθήματα τῆς ψυχῆς, καὶ ὧν ταῦτα ὁμοιώματα πράγματα ἤδη ταὐτά. Sunt ergo ea quæ sunt in voce earum quæ sunt in anima PASSIONVM NOTÆ,
et ea quæ scribuntur eorum quæ sunt in voce. Et quem admodum nec litteræ
omnibus eædem, sic nec eædem voces. Quorum autem hae primorum notæ, eædem
omnibus PASSIONES ANIMÆ sunt, et quorum hæ SIMILITVDINES, res etiam eædem. A spoken
word is the SYMBOL of a mental experience and a written word is the symbol of a
spoken word. Just as all men have NOT the same writing, so all men have NOT the
same speech sounds. The mental experiences, however, which these directly
symbolize, are THE SAME for all, as also are those THINGS (res – Locke, way of
things) of which our experience is the image. περὶ μὲν οὖν τούτων εἴρηται ἐν τοῖς περὶ ψυχῆς, ἄλλης γὰρ πραγματείας De his quidemdictum est in
his quæ sunt dicta de anima -- alterius est enim negotii. This matter has,
however, been discussed in the essay about the soul, for it belongs to an
investigation distinct from that which lies before us. ἔστι δέ, ὥσπερ ἐν τῇ ψυχῇ ↵ ὁτὲ μὲν νόημα ἄνευ τοῦ ἀληθεύειν ἢ ψεύδεσθαι ὁτὲ δὲ ἤδη ᾧ ἀνάγκη τούτων ὑπάρχειν θάτερον, οὕτω καὶ ἐν τῇ φωνῇ περὶ γὰρ σύνθεσιν καὶ διαίρεσίν ἐστι τὸ ψεῦδός τε καὶ τὸ ἀληθές. Est autem, quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus sine
vero vel falso, aliquotiens autem cum iam necesse est horum alterum inesse, sic
etiam in voce; circa compositionem enim et divisionem est falsitas
veritasque.As there are in the mind thoughts which do not involve truth or
falsity, and also those which must be either true or false, so it is in speech.
For truth and falsity imply combination and separation. τὰ μὲν οὖν ὀνόματα αὐτὰ καὶ τὰ ῥήματα ἔοικε τῷ ἄνευ συνθέσεως καὶ διαιρέσεως νοήματι, οἷον τὸ ἄνθρω↵πος ἢ λευκόν, ὅταν μὴ προστεθῇ τι• οὔτε γὰρ ψεῦδος οὔτε ἀληθές πω. σημεῖον δ’ ἐστὶ τοῦδε• καὶ γὰρ ὁ τραγέλαφοςσημαίνει μέν τι, οὔπω δὲ ἀληθὲς ἢ ψεῦδος, ἐὰν μὴ τὸ εἶναι ἢ μὴ εἶναι προστεθῇ ἢ ἁπλῶς ἢ κατὰ χρόνον.Nomina igitur ipsa et verba consimilia sunt sine compositione vel
divisione ↵intellectui, ut
'homo' vel 'album', quando non additur aliquid; neque enim adhuc verum aut
falsum est. Huius autem signum: 'hircocervus' enim significat aliquid sed
nondum verum vel falsum, si non vel 'esse' vel 'non esse' addatur vel
simpliciter vel secundum tempus.Nouns and verbs, provided nothing is added, are
like thoughts without combination or separation; 'man' and 'white', as isolated
terms, are not yet either true or false. In proof of this, consider the word
'goat-stag.' It has significance, but there is no truth or falsity about it,
unless 'is' or 'is not' is added, either in the present or in some other tense.
Ὄνομα μὲν οὖν ἐστὶ φωνὴ σημαντικὴ κατὰ συνθήκην ↵ ἄνευ χρόνου, ἧς μηδὲν μέρος ἐστὶ σημαντικὸν κεχωρι- σμένον• ἐν γὰρ τῷ Κάλλιππος τὸ ιππος οὐδὲν καθ’ αὑτὸ σημαίνει, ὥσπερ ἐν τῷ λόγῳ τῷ καλὸς ἵππος .Nomen ergo est vox significativa secundum placitum ↵sine tempore, cuius nulla
pars est significativa separata; in 'equiferus' enim 'ferus' nihil per se
significat, quemadmodum in oratione quae est 'equus ferus'.Chapter 2 By a noun
we mean a sound significant by convention, which has no reference to time, and
of which no part is significant apart from the rest. In the noun 'Fairsteed,'
the part 'steed' has no significance in and by itself, as in the phrase 'fair
steed.' οὐ μὴν οὐδ’ ὥσπερ ἐν τοῖς ἁπλοῖς ὀνόμασιν, οὕτως ἔχει καὶ ἐν τοῖς πεπλεγμένοις• ἐν ἐκείνοις μὲν γὰρ οὐδαμῶς τὸ μέρος ση↵μαντικόν, ἐν δὲ τούτοις βούλεται μέν, ἀλλ’ οὐδενὸς κεχωρισμένον, οἷον ἐν τῷ ἐπακτροκέλης τὸ κελης.At vero nonquemadmodum in simplicibus nominibus, sic se habet et in
compositis; in illis enim nullo modo pars significativa est↵, in his autem vult quidem
sed nullius separati, ut in 'EQVIFERVS' <'FERVS'>.Yet there is a
difference between simple and composite nouns; for in the former the part is in
no way significant, in the latter it contributes to the meaning of the whole,
although it has not an independent meaning. Thus in the word 'pirate-boat' the
word 'boat' has no meaning except as part of the whole word. ↵τὸ δὲ κατὰ συνθήκην, ὅτι φύσει τῶν ὀνομάτων οὐδέν ἐστιν, ἀλλ’ ὅταν γένηται σύμβολον• ἐπεὶ δηλοῦσί γέ τι καὶ οἱ ἀγράμ- ματοι ψόφοι, οἷον θηρίων, ὧν οὐδέν ἐστιν ὄνομα."Secundum
placitum" vero, quoniam naturaliter nominum nihil est sed quando fit nota;
nam designant et inlitterati soni, ut ferarum, quorum nihil est nomen.The
limitation 'by convention' was introduced because nothing is by nature a noun
or name-it is only so when it becomes a symbol; inarticulate sounds, such as
those which brutes produce, are significant, yet none of these constitutes a
noun. τὸ ↵ δ’ οὐκ ἄνθρωπος οὐκ ὄνομα• οὐ μὴν οὐδὲ κεῖται ὄνομα ὅ τι δεῖ καλεῖν αὐτό, —οὔτε γὰρ λόγος οὔτε ἀπόφασίς ἐστιν ἀλλ’ ἔστω ὄνομα ἀόριστον.↵ 'Non homo' vero non est
nomen; at vero nec positum est nomen quod illud oporteat appellari -- neque
enim oratio aut negatio est -- sed sit nomen infinitum.The expression 'not-man'
is not a noun. There is indeed no recognized term by which we may denote such
an expression, for it is not a sentence or a denial. Let it then be called an
indefinite noun. ↵τὸ δὲ Φίλωνος ἢ Φίλωνι καὶ ὅσα (16b.) τοιαῦτα οὐκ ὀνόματα ἀλλὰ πτώσεις ὀνόματος.'Catonis' autem vel 'Catoni'
et quaecumque talia sunt non sunt nomina sed casus nominis.The expressions 'of
Philo', 'to Philo', and so on, constitute not nouns, but cases of a noun. λόγος δέ ἐστιν αὐτοῦ τὰ μὲν ἄλλα κατὰ τὰ αὐτά, ὅτι δὲ μετὰ τοῦ ἔστιν ἢ ἦν ἢ ἔσται οὐκ ἀληθεύει ἢ ψεύδεται, —τὸ δ’ ὄνομα ἀεί,— οἷον Φίλωνός ἐστιν ἢ οὐκ ἔστιν• οὐδὲν γάρ πω οὔτε ἀλη↵θεύει οὔτε ψεύδεται.Ratio autem eius est in aliis quidem eadem sed
differt quoniam, cum 'est' vel 'fuit' vel 'erit' adiunctum, neque verum neque
falsum est, nomen vero semper; ut 'Catonis est' vel 'non est' -- nondum enim
aliquid neque rerum dicit neque mentitur.The definition of these cases of a
noun is in other respects the same as that of the noun proper, but, when
coupled with 'is', 'was', or will be', they do not, as they are, form a
proposition either true or false, and this the noun proper always does, under
these conditions. Take the words 'of Philo is' or 'of or 'of Philo is not';
these words do not, as they stand, form either a true or a false proposition. ↵Ῥῆμα δέ ἐστι τὸ προσσημαῖνον χρόνον, οὗ μέρος οὐδὲν σημαίνει χωρίς• ἔστι δὲ τῶν καθ’ ἑτέρου λεγομένων σημεῖον. VERBVM AVTEM EST QVOD
CONSIGNIFICAT TEMPVS cuius pars nihil extra significat. Et est semper eorum quæ
de altero prædicantur nota. A verb is that which, in addition to its proper
meaning, carries with it the notion of time. No part of it has any independent
meaning, and it is UN SEGNO of something said of something else. λέγω δ’ ὅτι προσσημαίνει χρόνον, οἷον ὑγίεια μὲν ὄνομα, τὸ δ’ ὑγιαίνει ῥῆμα• προσσημαίνει γὰρ τὸ νῦν ὑπάρχειν. καὶ ἀεὶ ↵ τῶν ὑπαρχόντων σημεῖόν ἐστιν, οἷον τῶν καθ’ ὑποκειμένου. Dico autem quoniam consignificat tempus, ut ‘cursus’
quidem NOMEN est, 'currit' vero VERBVM -- consignificat enim nunc esse -- ; et
semper eorum quæ de altero dicuntur nota est, ut eorum quae de subiecto vel in
subiecto. I will explain what I mean by saying that it carries with it the
notion of time. 'CVRSVS' is a noun, but 'is ‘CVRRIT' is a verb. For, besides
its proper meaning, it indicates the PRESENT existence of the state in
question. Moreover, a verb is always a sign of something said of something
else, i.e.,of something either predicable of or present in some other thing. τὸ δὲ οὐχ ὑγιαίνει καὶ τὸ οὐ κάμνει οὐ ῥῆμα λέγω προσσημαίνει μὲν γὰρ χρόνον καὶ ἀεὶ κατά τινος ὑπάρχει, τῇ διαφορᾷ δὲ ὄνομα οὐ κεῖται• ἀλλ’ ἔστω ἀόριστον ῥῆμα, ὅτι ὁμοίως ἐφ’ ὁτουοῦν ὑπάρχει καὶ ὄντος καὶ μὴ ὄντος. 'Non CVRRIT' vero et 'non LABORAT'
non verbum dico. Consignificat quidem tempus et semper de aliquo est,
differentiæ autem huic nomen non est positum. Sed sit infinitum verbum, quoniam
similiter in quolibet est vel quod est vel quod non est. Such expressions as 'NON
CVRRIT', 'NON LABORAT', I do *not* describe as verbs. For,though they carry the
additional note of time, and always form a predicate, there is no specified
name for this variety [cf. Grice, UN-PUBLICATION]; but let each be called an indefinite
verb, since it applies equally well to that which exists and to that which does
not. ὁμοίως δὲ καὶ τὸ ὑγίανεν ἢ τὸ ὑγιανεῖ οὐ ῥῆμα, ἀλλὰ πτῶσις ῥήματος• διαφέρει δὲ τοῦ ῥήματος, ὅτι τὸ μὲν τὸν παρόντα προσσημαίνει χρόνον, τὰ δὲ τὸν πέριξ. Similiter autem vel 'CVRRET' vel
'CVRREBAT' non verbum est sed *casus* verbi. Differt autem a verbo quoniam hoc quidem præsens SIGNIFICAT
TEMPVS, illa vero quod complectitur. Similarly 'CURRET' or 'CVRREBAT' is not a verb,
but a *case* of a verb. The difference lies in the fact that the verb indicates
present time. The CASVS of the verb indicates a different time which lies
outside the present. αὐτὰ μὲν οὖν καθ’ αὑτὰ λεγόμενα τὰ ῥήματα ὀνόματά ↵ἐστι καὶ σημαίνει τι, ἵστησι γὰρ ὁ λέγων τὴν διάνοιαν, καὶ ὁ ἀκούσας ἠρέμησεν, ἀλλ’ εἰ ἔστιν ἢ μή οὔπω σημαίνει• οὐ γὰρ τὸ εἶναι ἢ μὴ εἶναι σημεῖόν ἐστι τοῦ πράγματος, οὐδ’ ἐὰν τὸ ὂν εἴπῃς ψιλόν αὐτὸ μὲν γὰρ οὐδέν ἐστιν, προσσημαίνει δὲ σύνθεσίν τινα, ἣν ἄνευ τῶν συγκειμένων οὐκ ἔστι νοῆσαι. Ipsa quidem secundum
se dicta verba NOMINA sunt et SIGNIFICANDI aliquid -- constituit enim qui dicit
[Grice, UTTERER] intellectum, et qui audit [Grice, RECIPIENT] quiescit -- sed
si est vel non est non dum significat. Neque enim 'esse' SIGNVM est rei vel
'non esse', nec si hoc ipsum 'est' purum dixeris. Ipsum quidem nihil est, CONSIGNICANT
autem quandam compositionem quam sine compositis non est intellegere. A verb, in and by itself, is
substantival and has significance, for he who utters such an expression arrests
his addressee's mind, and fixes his attention. But iy does not, as it stands,
express any judgement, either affirmative or negative. For neither is 'ESSE' or
'NON ESSE' the participle 'EST' significant of any fact, unless something is
added. For it does not itself indicates anything, but IMPLIES a copulation, of
which we cannot form a conception apart from the things coupled. Λόγος δέ ἐστι φωνὴ σημαντική ἧς τῶν μερῶν τι σημαντικόν ἐστι κεχωρισμένον ὡς φάσις ἀλλ’οὐχ ὡς κατάφασις. ORATIO autem est vox SIGNIFICATIVA cuius partium aliquid
significativum est separatum -- ut dictio, non ut affirmatio. A sentence is a
significant voice, some parts of which have an independent meaning, that is to
say, as an utterance, though not as the expression of an affirmation. λέγω δέ οἷον ἄνθρωπος σημαίνει τι, ἀλλ’οὐχ ὅτι ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν ἀλλ’ ἔσται κατάφασις ἢ ἀπό↵φασις ἐάν τι προστεθῇ ἀλλ’οὐχ ἡ τοῦ ἀνθρώπου συλλαβὴ μία οὐδὲ γὰρ ἐν τῷ μῦς τὸ υς σημαντικόν, ἀλλὰ φωνή ἐστι νῦν μόνον. Dico autem ut 'HOMO'
significat aliquid -- sed non quoniam est aut non est; sed erit affirmatio vel
negatio, si quid addatur -- sed non una ‘HOMO’ -- 'HOMINIS' syllaba. Nec in hoc
quod est 'SOREX' 'REX' SIGNIFICAT sed
vox est nunc sola. Let me explain.
The word 'HOMO' [cf. Grice, ‘shaggy’] *has* meaning, but does not constitute a
proposition, either affirmative or negative. It is only when aother word is added
that the whole forms an affirmation or denial. But, if we separate one syllable
of the word 'HOMO' from the other – HO HO HO – Santa Claus – You called her a
prostitute three times --, it has no meaning. Similarly in the word 'SOREX',
the part 'REX' has no meaning in itself, but is merely a sound – cf. PIROT. – or the fart of a voice, as Occam prefers –
vocis flatus. ἐν δὲ τοῖς διπλοῖς σημαίνει μέν, ἀλλ’οὐ καθ’ αὑτό ὥσπερ εἴρηται. In duplicibus vero significat quidem sed non
secundum se, quem admodum dictum est. In composite words, indeed, the parts
contribute to the meaning of the whole. Yet, as has been pointed out, each part
has not an independent meaning. ἔστι δὲ λόγος ἅπας μὲν σημαντικός οὐχ ὡς ὄργανον δέ, ἀλλ’ὥσπερ εἴρηται κατὰ συνθήκην ἀποφαντικὸς δὲ οὐ πᾶς ἀλλ’ἐν ᾧ τὸ ἀληθεύειν ἢ ψεύδεσθαι ὑπάρχει οὐκ ἐν ἅπασι δὲ ὑπάρχει οἷον ἡ εὐχὴ λόγος μέν ἀλλ’οὔτ’ἀληθὴς οὔτε ψευδής. Est autem ORATIO omnis quidem
significativa non sicut instrumentum sed (quem admodum dictum est) secundum
placitum. Enuntiativa vero non omnis sed in qua
verum vel falsum inest. Non autem in
omnibus, ut deprecatio oratio quidem est sed neque vera neque falsa. Every
sentence has meaning, not as being the natural means by which a physical
faculty is realised, but, as we have said, by convention. Yet, every sentence
is not an enunciative sentence. Only such is a proposition as has in it either
truth or falsity. Thus, a prayer is a sentence, but is neither true nor false. οἱ μὲν οὖν ἄλλοι ἀφείσθωσαν, ῥητορικῆς γὰρ ἢ ποιητικῆς οἰκειοτέρα ἡ σκέψις, ὁ δὲ ἀποφαντικὸς τῆς νῦν θεωρίας. Et cæteræ quidem relinquantur
(rhetoricæ enim vel poeticæ convenientior consideratio est. ENUNTIATIVA vero præsentis
considerationis est. Let us therefore dismiss all other types of sentence but
the enuntiative sentence, for this last concerns our present inquiry, whereas
the investigation of the others belongs rather to the study of, not dialectics,
but rhetoric or of poetry. Ἔστι δὲ εἷς πρῶτος λόγος ἀποφαντικὸς κατάφασις, εἶτα ἀπόφασις οἱ δὲ ἄλλοι συνδέσμῳ εἷς. Est autem una prima ORATIO ENUNTIATIVA
AFFIRMATIO, deinde negatio; aliæ vero coniunctione unæ. The first class of simple
propositions is the simple affirmation, the next, the simple denial. All others
are only one by conjunction. ἀνάγκη δὲ ↵πάντα λόγον ἀποφαντικὸν ἐκ ῥήματος εἶναι ἢ πτώσεως καὶ γὰρ ὁ τοῦ ἀνθρώπου λόγος, ἐὰν μὴ τὸ ἔστιν ἢ ἔσται ἢ ἦν ἤ τι τοιοῦτο προστεθῇ οὔπω λόγος ἀποφαντικός διότι δὲ ἕν τί ἐστιν ἀλλ’ οὐ πολλὰ τὸ ζῷον πεζὸν δίπουν, οὐ γὰρ δὴ τῷ σύνεγγυς εἰρῆσθαι εἷς ἔσται, ἔστι δὲ ἄλλης τοῦτο πραγματείας εἰπεῖν.Necesse est autem omnem
orationem enuntiativam ex verbo esse vel casu. Et enim, HOMO hominis rationi si
non aut 'EST' aut 'ERIT' aut 'FVIT' aut aliquid huiusmodi addatur, nondum est
oratio enuntiativa. Quare autem unum quiddam est et non multa 'ANIMAL RESSIBILE
BIPES -- neque enim eo quod propinque dicuntur unum erit -- est alterius hoc
tractare negotii. Every proposition
must contain a verb or the tense of a verb. The phrase which defines the
species 'HOMO', if no verb in past (FVIT), present (EST), or future (ERIT) time
be added, is not a proposition. It may be asked how the expression 'a risible animal
with two feet' can be called single; for it is not the circumstance that the
words follow in unbroken succession that effects the unity. This inquiry,
however, finds its place in an investigation foreign to that before us. ἔστι δὲ εἷς λόγος ἀποφαντικὸς ἢ ὁ ἓν δηλῶν ἢ ὁ συνδέσμῳ εἷς, πολλοὶ δὲ οἱ πολλὰ καὶ μὴ ἓν ἢ οἱ ἀσύνδετοι. Est autem una oratio enuntiativa quae unum SIGNIFICAT
vel coniunctione una, plures autem quæ plura et non unum vel inconiunctæ. We
call those propositions single [ATOMIC] which indicate a single fact, or the
conjunction of the parts of which results in unity. Such a proposition, on the
other hand, is separate and comprises many an atomic proposition in number,
which indicate more than one fact, or many facts, or whose parts have no
conjunction. τὸ μὲν οὖν ὄνομα καὶ τὸ ῥῆμα φάσις ἔστω μόνον ἐπεὶ οὐκ ἔστιν εἰπεῖν οὕτω δηλοῦντά τι τῇ φωνῇ ὥστ’ἀποφαίνεσθαι, ἢ ἐρωτῶντός τινος, ἢ μὴ ἀλλ’αὐτὸν ↵προαιρούμενον. Nomen
ergo et verbum DICTIO sit sola, quoniam non est DICERE sic aliquid SIGNIFICANTEM
voce ENUNTIARE, vel aliquo INTERROGANTE [Grice: ?p] vel non sed ipsum
proferentem. Let us, moreover,
consent to call a noun or a verb an expression only, and not a proposition,
since it is not possible for a man to speak in this way when he is expressing
something, in such a way as to make a statement, whether his utterance is an
answer [?q] to a QUESTION [?p] or an act
of his own initiation. τούτων δ’ ἡ μὲν ἁπλῆ ἐστὶν ἀπόφανσις, οἷον τὶ κατὰ τινὸς ἢ τὶ ἀπὸ τινός, ἡ δ’ ἐκ τούτων συγκειμένη, οἷον λόγος τις ἤδη σύνθετος. Harum autem haæ quidem
simplex est ENVNTIATIO, ut aliquid de aliquo vel aliquid ab aliquo, hæc autem
ex his coniuncta, velut oratio quædam iam composita. To return: of propositions
one kind is simple, i.e. that which asserts or denies something (“shaggy”) of
something (“Fido”), the other composite [MOLECULAR], i.e. that which is
compounded of simple propositions. Ἔστι δ’ ἡ μὲν ἁπλῆ ἀπόφανσις φωνὴ σημαντικὴ περὶ τοῦ εἰ ὑπάρχει τι ἢ μὴ ὑπάρχει, ὡς οἱ χρόνοι διῄρηνται. Est autem simplex ENUNTIATIO
(“Fido is shaggy”) vox significativa de eo quod est aliquid vel non est,
quemadmodum tempora divisa sunt. A simple proposition (“Fido is shaggy”) is a
statement, with meaning, as to the presence of something (shagginess) in a
subject -- or its absence or privation --, in the past, present, or future,
according to the divisions of time. Κατάφασις δέ ἐστιν ἀπόφανσις τινὸς κατὰ τινός, ἀπόφασις δέ ἐστιν ἀπόφανσις τινὸς ἀπὸ τινός. Affirmatio vero est enuntiatio alicuius
de aliquo, negatio vero enuntiatio alicuius ab aliquo. An affirmation is a
positive assertion of something about something, a denial a negative assertion
(“It is not green” – Grice, “Negation”). ἐπεὶ δὲ ἔστι καὶ τὸ ὑπάρχον ἀποφαίνεσθαι
ὡς μὴ ὑπάρχον καὶ τὸ μὴ ὑπάρχον ὡς ὑπάρχον καὶ τὸ ὑπάρχον ὡς ὑπάρχον καὶ τὸ μὴ ὑπάρχον
ὡς μὴ ὑπάρχον, καὶ περὶ τοὺς ἐκτὸς δὲ ↵τοῦ
νῦν χρόνους ὡσαύτως ἅπαν ἂν ἐνδέχοιτο καὶ ὃ κατέφησέ τις ἀποφῆσαι καὶ ὃ ἀπέφησε
καταφῆσαι ὥστε δῆλον ὅτι πάσῃ καταφάσει ἐστὶν ἀπόφασις ἀντικειμένη καὶ πάσῃ ἀποφάσει
κατάφασις. Quoniam autem est
enuntiare et quod est non esse et quod non est esse et quod est esse et quod
non est non esse, et circa ea extrinsecus præsentis temporis similiter omne
contingit quod quis affirmaverit negare et quod quis negaverit affirmare; quare
manifestum est quoniam omni affirmationi est negatio opposita et omni negationi
affirmatio. Now it is
possible both to affirm and to deny the presence of something which is present
or of something which is not, and since these same affirmations and denials are
possible with reference to those times which lie outside the present, it is possible
to contradict any affirmation or denial. Thus, it is plain that every
affirmation has an opposite denial.Similarly, every denial has an opposite
affirmation. καὶ ἔστω ἀντίφασις τοῦτο, κατάφασις καὶ ἀπόφασις αἱ ἀντικείμεναι λέγω δὲ ἀντικεῖσθαι τὴν τοῦ αὐτοῦ κατὰ τοῦ αὐτοῦ, μὴ ὁμωνύμως δέ, καὶ ὅσα ἄλλα τῶν τοιούτων προσδιοριζόμεθα πρὸς τὰς σοφιστικὰς ἐνοχλήσεις. Et sit hoc contradiction (~p –
Grice, “Lectures on negation”), affirmatio et negatio oppositæ. Dico autem opponi eiusdem de
eodem, non autem æquivoce et quæcum quecætera talium determinamus contra
sophisticas importunitates. We will call such a pair of propositions a pair of
contradictories. An affirmative proposition and a negative proposition are said
to be contradictory which have the same subject (Fido) and predicate (‘shaggy’).
The identity of subject and of predicate must *not* be equivocal (He is in a
grip of a vice, but he is not in the grip of a vice). Indeed there are
definitive qualifications besides this, which we make to meet the casuistries
of sophists. Ἐπεὶ δέ ἐστι τὰ μὲν καθόλου τῶν πραγμάτων τὰ δὲ καθ’ ἕκαστον, λέγω δὲ καθόλου μὲν ὃ ἐπὶ πλειόνων πέφυκε ↵κατηγορεῖσθαι, καθ’ ἕκαστον δὲ ὃ μή, οἷον ἄνθρωπος μὲν τῶν καθόλου Καλλίας δὲ τῶν καθ’ ἕκαστον, ἀνάγκη δ’ἀποφαίνεσθαι ὡς ὑπάρχει τι ἢ μή ὁτὲ μὲν τῶν καθόλου τινί ὁτὲ δὲ τῶν καθ’ἕκαστον. Quoniam autem sunt hæc quidem rerum universalia,
illa vero singillatim (dico autem universale quod in pluribus natum est prædicari,
singulare vero quod non, ut 'HOMO' quidem universale, 'PEGASVS' vero eorum quae
sunt singularia, necesse est autem enuntiare quoniam inest aliquid aut non,
aliquotiens quidem eorum alicui quæ sunt universalia, aliquotiens vero eorum quæ
sunt singularia. Some things are universal, others individual. By universal I
mean that which is of such a nature as to be predicated of many subjects, by
individual that which is not thus predicated. Thus 'HOMO' is a universal, 'CICERO'
or ‘PEGASVS’ an individual. Our proposition necessarily sometimes concern a
universal subject, sometimes an individual. ἐὰν μὲν οὖν καθόλου ἀποφαίνηται ἐπὶ τοῦ καθόλου ὅτι ὑπάρχει ἢ μή, ἔσονται ἐναντίαι ↵ἀποφάνσεις, λέγω δὲ ἐπὶ τοῦ καθόλου ἀποφαίνεσθαι καθόλου οἷον πᾶς ἄνθρωπος λευκός, οὐδεὶς ἄνθρωπος λευκός ὅταν δὲ ἐπὶ τῶν καθόλου μέν, μὴ καθόλου δέ, οὐκ εἰσὶν ἐναντίαι, τὰ μέντοι δηλούμενα ἔστιν εἶναι ἐναντία, λέγω δὲ τὸ μὴ καθόλου ἀποφαίνεσθαι ἐπὶ τῶν καθόλου, οἷον ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος, οὐκ ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος καθόλου γὰρ ὄντος τοῦ ἄνθρωπος οὐχ ὡς καθόλου χρῆται τῇ ἀποφάνσει τὸ ↵γὰρ πᾶς οὐ τὸ καθόλου σημαίνει ἀλλ’ὅτι καθόλου. Si ergo universaliter enuntiet
in universali quoniam est aut non, erunt contrariæ enuntiationes (dico autem in
universali enuntiationem universalem ut 'OMNIS HOMO ALBVS EST', 'NVLLVS HOMO
ALBVS EST’). Quando autem in universalibus non universaliter, non sunt contrariæ,
quæ autem SIGNIFICANTVR est esse contraria (dico autem non universaliter
enuntiare in his quæ sunt universalia, ut 'EST ALBVS HOMO', 'NON EST ALBVS
HOMO’. Cum enim universale sit homo, non universaliter utitur enuntiatione; 'OMNIS'
namque non universale sed quoniam universaliter CONSIGNIFICAT. If, then, a man
states an affirmative and a negative proposition of universal character with
regard to a universal, these two propositions are contrary. By a proposition of
universal character with regard to a universal, such a proposition as 'OMNIS
HOMO ALBVS EST', 'NVLLVS HOMO ALBVS EST' are meant. When, on the other hand,
the affirmative proposition and the negative proposition, though they have
regard to a universal, are yet not of universal character, they will *not* be
contrary, albeit the meaning intended is sometimes contrary. As an instance of such
a proposition made with regard to a universal, but not of universal character,
we may take the proposition 'EST ALBVS HOMO', 'NON EST ALBVS HOMO'. 'HOMO' is a
universal, but the proposition is not made as of universal character. The word
'OMNIS' does not make the *subject* a universal, but, rather, gives the
proposition a universal character. ἐπὶ δὲ τοῦ κατηγορουμένου τὸ καθόλου κατηγορεῖν καθόλου οὐκ ἔστιν ἀληθές• οὐδεμία γὰρ κατάφασις ἔσται ἐν ᾗ τοῦ κατηγορουμένου καθόλου τὸ καθόλου κατηγορηθήσεται, οἷον ἔστι πᾶς ἄνθρωπος πᾶν ζῷον. In eo vero quod prædicatur universaliter universale
prædicare universaliter non est verum. Nulla enim affirmatio erit, in qua de
universaliter prædicato universale praedicetur, ut 'OMNIS HOMO OMNE ANIMAL'. If, however, both predicate
and subject are distributed, the proposition thus constituted is contrary to
truth. No affirmation is, under such circumstances, true. The proposition 'OMNIS
HOMO OMNE ANIMAL EST' is an example of this type. Ἀντικεῖσθαι μὲν οὖν κατάφασιν ἀποφάσει λέγω ἀντιφατικῶς τὴν τὸ καθόλου σημαίνουσαν τῷ αὐτῷ ὅτι οὐ καθόλου, οἷον πᾶς ἄνθρωπος λευκός—οὐ πᾶς ἄνθρωπος λευκός, οὐδεὶς ἄνθρωπος λευκός ἔστι τις ἄνθρω↵πος λευκός• ἐναντίως δὲ τὴν τοῦ καθόλου κατάφασιν καὶ τὴν τοῦ καθόλου ἀπόφασιν, οἷον πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος οὐδεὶς ἄνθρωπος δίκαιος. Opponi autem affirmationem
negationi dico contradictorie quæ universal SIGNIFICAT eidem quoniam non
universaliter, ut 'OMNIS HOMO ALBVS EST', 'NON OMNIS HOMO ALBVS EST' – Grice:
“(x), all” --, 'NULLVS HOMO ALBVS EST,' 'QUIDAM HOMO ALBVS EST' – Grice: “(Ex),
some (at least one)” -- ; contrarie vero universalem affirmationem et
universalem negationem, ut ‘OMNIS HOMO IVSTVS EST,’ ‘NVLLVS HOMO IVSTVS EST.’ ;An
affirmation is opposed to a denial in the sense which I denote by the term
contradictory, when, while the subject remains the same, the affirmation is of
universal character and the denial is not. The affirmation 'OMNIS HOMO ALBVS
EST' is the contradictory of the denial 'NON OMNIS HOMO ALBV EST, or again, the
proposition 'NVLLVS HOMO ALBVS EST' is the contradictory of the proposition 'QUIDAM
HOMO ALBVS EST'. But two propositions are opposed as contraries when both the
affirmation and the denial are universal, as in the sentences 'OMNIS HOMO ALBVS
EST', 'NVLLS HOMO ALBVS EST', 'OMNIS HOMO IVSTS EST’, ‘NVLLVS HOMO IVSTVS EST. Grice: “I used ‘body’ informally in my
‘Personal identity’, where I suggested, that “I fell down the stairs” could be
replaced by “MY body fell down the stairs” – there is yet an essential
indexical. Different if two wrestlers unison say, ‘Both our bodies are oiled” –
where again the dual “both our” is used. We have not the second person but the
FIRST PERSON dual. “Our bodies” “Both our bodies”. Pio Colonnello. Colonnello. Keywords:
la voce, rivista La Voce, Croce e i vociani, patografia, German for ‘body’
Lieb, cognate with ‘life’ so that ‘Das Leib ohne Leben’ would be odd. The
Anglo-Normans solved the problem with ‘corpse’, corpus, vita, corpore, vita,
vivere, German ‘leben’, ‘live’ meaning with ‘remain’, creature construction,
thing, living thing, living body, personal human living being. Bodily movement. Method in philosophical psychology,
manifestation in behaviour, bodily behaviour, brain state, different from
bodily movement, voce, ‘vox significativa’ ‘voce significativa’, voce che e
segno di… la voce dei animali, uso metaforico di ‘voce’ – the voice of Alighieri,
la voce di, la voce di Mussolini, la voce di, voice, etimologia di voce. phone,
phonic, suono – voce e suono – immagine acustica del suono, riconoscimento
della voce, voce come sinonimo di parola, o espressione – una ‘voce toscana’ --
‘la voce umana’ – ‘sine voce’ – the
voiceless – voce come schema distintivo – voiced and voiceless – nome come
voce, verbo come voce, predicamento. Voce come SIMBOLO dell’afezione
dell’animo, ma SCRITTURA come SEGNO della voce --. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Colonnello” – The Swimming-Pool Library. Colonnello.
Luigi Speranza -- Grice e Colorni: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della diadologia – scuola
di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese.
Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “To understand
the passion in Italian philosophy, as the pasdsion I experienced with Austin in
the postwar and with Hardie on the golfcourse in the good old days, one has to
understand Colorni – he was a socialist, and thus an empiriociritic! He found
opposition in the Gentileians. Oddly, Colroni’s main interest is the ‘monad,’
but he also explored what we would at Oxford call ‘science’ – rather than
philosophy. Lay the blame on his tutor at Milano!”. Promotore del federalismo
europeo. Mentre
era confinato a Ventotene, su saggio, “Manifesto per un’Europa libera e unita”.
Figlio di Alberto Colorni, di Mantova, e Clara Pontecorvo, milanese di famiglia
pisana (zia di Pontecorvo, del regista Gillo, del genetista Guido e del
giurista Tullio Ascarelli). Studia al ginnasio
di Milano. Si appassiona al Breviario di estetica di Croce. La sua formazione
adolescenziale, come raccontò egli stesso nella “Malattia filosofica”, fu
influenzata dal rapporto intrattenuto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio
Sereni, tutti più grandi di lui. Fu Enzo, che era un convinto socialista ad esercitare su di lui una forte influenza
ideale. Studia sotto Borgese e Martinetti. Si laurea sotto Martinetti con “Il
concetto di individuo”. Strinse amicizia con Guido Piovene, che però verrà
interrotta per via di certi articoli anti-semitici scritti da Piovene su
L'Ambrosiano. Partecipa nel gruppo goliardico
per la libertà di Basso e Morandi. Saggio sull'estetica d’Ardigò. Si
accosta alla divisione milanese del “Giustizia e Libertà”. Collabora in seguito
col nucleo giellista torinese, che fece capo prima a Ginzburg e poi a
Foa. Incontra Croce, con il quale conversa a lungo. Saggi per Il
Convegno, La Cultura, Civiltà Moderna, Solaria e la Rivista di filosofia di Martinetti,
e presso la società editrice "La Cultura" di Milano, uno studio
critico su L'estetica di Croce. Saggio sulla monada e la diada, vinse il
concorso per l'insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima
assegnazione al liceo Grattoni di Voghera, ottenne la cattedra di filosofia a
Trieste. Qui conobbe e frequentò, fra gli altri, Saba (ritratto poi in Un
poeta) ed anche Gambini, Pincherle ed Curiel. Nella collana scolastica
che Giovanni Gentile diresse per Sansoni, pubblica “Diadologia”. La diadologia lo
costrinse ad affrontare studi di logica e semantica. Riparte da Kant e dalla
problematica kantiana, e medita sulle conseguenze che la fisica quantica e la
psicanalisi potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche
tradizionali. Quando, come si legge in Un poeta,Saba gli domanderà, ‘Perché fa filosofia?’,
Colorni concluse che da quel giorno, ‘io non faccio più filosofia’. Non e la
filosofia che rifiuta, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano
seguaci Croce come Gentile e Martinetti. In occasione di un congresso di
filosofia a Parigi, incontra Rosselli eTasca. In quanto ebreo e rinchiuso a Varese.
I giornali pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli “di
razza ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti
in Italia e all'estero”. La
sottolineatura sul “complotto ebraico” serviva a giustificare la legislazione
anti-semita appena varata in Italia dal regime, per potersi così allineare alla
linea politica seguita dagli alleati nazisti. Confinato a Ventotene, dove
prosegue i suoi studi filosofici, e conversa intensamente con gli altri
compagni confinati, Rossi, Doria e Spinelli. Un'eco fedele di quelle discussioni
si ritrova in “Conversazioni di Commodo”. Risale a questo periodo la sua
adesione alle idee federaliste europee, stesurando il Manifesto per un’Europa
libera e unita. Saggio: Problemi della Federazione Europea, che raccoglieva il
Manifesto ed altri scritti sul tema. Nella sua "Prefazione" al
Manifesto, auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro “universalista”,
come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra. In
tale ottica, la creazione di una federazione di stati europei era da lui
considerata come condizione indispensabile per un profondo rinnovamento sociale,
anche per iniziativa popolare, che partendo dagli enti territoriali avrebbe
coinvolto tutta l’Italia e, quindi, l’intera Europa. Circa le dinamiche
che portarono alla stesura del Manifesto, è generalmente ricondotto ai soli
Spinelli e Rossi il contributo maggioritario del testo, sebbene, alcuni recenti
studi storiografici, abbiano seriamente rivalutato il suo ruolo. Di trinità si
tratta, e lo spirito santo della situazione è lui, che partecipa alle
discussioni preparatorie alla stesura del Manifesto assieme a poche altre
persone, ed ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo e
di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista, verso i due
autori del documento, fino al suo trasferimento a Melfi, benché comunque i
contatti non cessassero del tutto. Grazie anche all'intervento di Gentile,
riusce ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante
lo stretto controllo della polizia, riusce ad avere contatti con alcuni degli
anti-fascisti locali. Assieme con Geymonat, elabora il progetto di una
rivista di metodologia scientifica. Riuscì a fuggire da Melfi,
rifugiandosi a Roma, dove visse da latitante. Dopo la capitolazione di Mussolini
si dedica all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità
Proletaria, nato dalla fusione del PSI col gruppo del Movimento di Unità
Proletaria. Partecipò, assieme a Spinelli, Rossi, Doria, Braccialarghe e
Foa, in casa di Rollier a Milano, alla riunione che diede vita al Movimento
Federalista Europeo. Il movimento adottò come proprio programma il
"Manifesto di Ventotene". Svolse nella capitale un'intensissima
attività nelle file della Resistenza. Prese parte alla direzione del PSIUP e
s'impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione Socialista Italiana e
nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti. “Io ero da
poco stato nominato segretario della Federazione Socialista per suggerimento e
per decisione di Pertini, che era membro della segreteria del partito in
quell'epoca. Avevamo organizzato una chiamiamola brigata, anche se era un
gruppo armato che era comandato da Colorni che poi è assassinata alla vigilia della liberazione di
Roma. Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestine. Così Pertini ricorda il suo
impegno per la stampa del giornale socialista: «Ricordare l'Avanti!
clandestino di Roma vuol dire ricordare prima di tutto due nostri compagni che
a forte ingegno unevano una fede purissima, entrambi caduti sotto il piombo
fascista: C. e Fioretti. Ricordo come C., mio indimenticabile fratello
d'elezione, si prodiga per far sì che l'Avanti! uscisse regolarmente. Egli in
persona, correndo rischi di ogni sorta, non solo scrive gli articoli
principali, ma ne cura la stampa e la distribuzione, aiutato in questo da Fioretti,
anima ardente e generoso apostolo del socialismo. A questo compito cui si sente
particolarmente portato per la preparazione e la capacità della sua mente, C. dedica
tutto se stesso, senza tuttavia tralasciare anche i più modesti incarichi
nell'organizzazione politica e militare del nostro partito. Amava profondamente
il giornale e sogna di dirigerne la redazione nostra a Liberazione avvenuta e
se non fosse stato strappato dalla ferocia fascista, sarebbe stato il primo
redattore capo dell'Avanti! in Roma liberata e oggi ne sarebbe il suo
direttore, sorretto in questo suo compito non solo dal suo forte ingegno e
dalla sua vasta cultura filosofica, ma anche dalla sua profonda onestà e da
quel senso del giusto che ha sempre guidato le sue azioni. Per opera sua e di Fioretti,
l'Avanti! era tra i giornali clandestini quello che aveva più mordente e che
sapeva porre con più chiarezza i problemi riguardanti le masse lavoratrici. La
sua pubblicazione veniva attesa con ansia e non solo da noi, ma da molti
appartenenti ad altri partiti, i quali nell'Avanti! vedevano meglio interpretati
i loro interessi. Nella Roma occupata dalle forze naziste, in una tipografia
nascosta di Monte Mario, fece stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine
intitolato Problemi della Federazione Europea, contenente il "Manifesto di
Ventotene". Pochi giorni prima della liberazione della capitale,
venne fermato in via Livorno da una pattuglia di militi fascisti della
famigerata banda Koch. Tenta di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da
tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, muore sotto l’identità
di ‘Franco Tanzi’. Indomito assertore della libertà, confinato durante la
dominazione fascista, evadeva audacemente dedicandosi quindi a rischiose
attività cospirative. Durante la lotta antinazista, organizzato il centro
militare del Partito Socialista Italiano, dirigeva animosamente partecipandovi,
primo fra i primi, una intensa, continua e micidiale azione di guerriglia e di
sabotaggio. Scoperto e circondato da nazisti li affrontò da solo, combattendo
con estremo ardimento, finché travolto dal numero, cadde nell'impari gloriosa lotta.
Tre lapidi esistenti, una, posta dalla III Circoscrizione del Comune di Roma è
semilleggibile perché scurita dal tempo, un'altra, posta dal Partito Socialista
Italiano, è spaccata in due e un'ultima, posta sempre dalla III Circoscrizione
del Comune di Roma, contiene un errore. Foto delle tre lapidi. Altre opere: “Scritti, Norberto Bobbio, la
Nuova Italia, Firenze); “Il coraggio dell'innocenza, Luca Meldolesi, La Città
del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli); “Un poeta” (Il
Melangolo, Genova); “La malattia della metafisica” (Einaudi, Torino).
Dizionario Biografico degli Italiani. L'itinerario politico di C., in Id., Il
socialismo riformista tra politica e cultura, Il socialismo federalista di
Eugenio Colorni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze, Anno
Accademico, Gaetano Arfé, Eugenio Colorni, l'antifascista, l'europeista, in,
Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli,
Milano, Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e
dopoguerra. Piovene e C., Einaudi, Torino e Hoepli, Milano,. Geri Cerchiai,
L'itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di Storia della
Filosofia», Stefano Miccolis, C. e Croce”. Talvolta non si distingue debitamente
fra l’emergere originario di un testo nell’opera di un filosofo e il suo
riemergere, o diffondersi, in altri tempi o contesti. In tal modo, proprio la
tragedia del Novecento ha spostato spesso, rispetto alla composizione, la
diffusione di scritti intrisi di attualità. Poche volte, come nel Novecento, è
stato così vistoso il fenomeno delle letture differite. Ora, e al di là della
nota di polemica che affiora da un montaggio tendenzioso fino al limite delle
falsificazione – questo è quanto è all’incirca avvenuto per Colorni: scoperti
(o riscoperti), dopo la morte dell’autore, in quel particolare contesto del
quale si sono nutrite le due stesse riviste, “Analisi” e “Sigma” – che, insieme
con «Aretusa», li hanno per prime pubblicati, a tale contesto sono rimasti
giocoforza legati, venendo così ad essere proiettati all’interno di una
tradizione e di un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro, condotto in un
altro linguaggio. Si è parlato, a proposito di tale linguaggio, dello spirito
del ’45, e sovente si è visto in esso, da parte degli stessi animatori, una
vera e propria prosecuzione, in campo culturale, delle istanze portate avanti
dalla Liberazione. Alla “dittatura dell’idealismo”– il cui [Razionalismo e
prassi a Milano: La cultura milanese vive profondamente quello “spirito del
’45” fatto anche di semplificazione e di attivismo, di fiducia ingenua
nell’anno zero, nella svolta politico-sociale in corso, ma soprattutto di un
nesso inscindibile con la liberazione e la Resistenza. La dittatura dell’idealismo
è il titolo dato da Cantoni ad un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini.
Espressione di un comune sfondo sociale e di una comune struttura economica, le
filosofie di Croce e Gentile si sarebbero unite, nella prospettiva di Cantoni,
in una sorta di convergenza sociologica con il regime, riuscendo così a
rimediare una posizione di singolare monopolio per la cultura idealista.
Certamente, e una grossolanità speculativa e un errore storico identificare il
destini del fascismo col destino dell’idealismo, anche se questa identificazione
di fatto si verifica nella persona del maggior rappresentante filosofico dell’idealismo
italiano, Gentile. In realtà, molti idealisti, dal Croce al De Ruggiero,
staccarono, prima o dopo, le loro sorti da quelle del regime. Eppure, al di
sotto della dichiarata e sincera avversione, un filo, inconscio spesso ma
tenace, lega tra loro gli avversari e ne permetteva una, sia pure scomoda,
convivenza. Questo filo era costituito dal loro comune, e inconfessato carattere
*conservatore*. Lo spiritualismo idealista agì come una dittatura logica. Avendo
in mano cattedre e riviste, gli idealisti facevano il bello e il cattivo tempo
nella filosofia, facendo decadere al piano della non-filosofia gli avversari
positivisti ed logico-empiristi. Alcune opinioni sul crocianesimo che, oltre ad
essere meno drastiche, risultano per certi aspetti accostabili ad analoghi
spunti della critica colorniana. Vale la pena di rimettersi a una revisione
intelligente dell'idealismo italiano, rimanendo idealisti] filosofia viene
assimilata alla sorte del regime – si è così tentato di opporre una filosofia
più aperta al dibattito contemporaneo ed internazionale, fosse esso
identificabile con le correnti fenomenologico-esistenziali o con quelle più
strettamente epistemologiche ispirate al positivismo o empirismo logico del
Circolo di Vienna. Quest’ultimo, d’altro canto, viene in Italia presentato da
Geymonat con parole quanto mai indicative del clima che ne accoglieva i
principi. L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato è e
vuole essere un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla
ragione un valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantano
il medesimo nome. Gli è che il razionalismo deve essere ben più agguerrito e
penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati. Deve essere:
critico, ossia capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la
pura ragione dalla filosofia mistica e decadente; costruttivo, cioè in grado di
soddisfare le esigenze di ri-costruzione e di logicità caratteristiche della
nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la
scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano. Gli Studi per un nuovo
razionalismo, che raccoglievano le ricerche di un intero ventennio (il testo
più datato, Le idee direttive del neo-empirismo, era stato pubblica Ciò che si
può apprezzare in Croce, da questo punto di vista, è il suo tentativo di
sciogliere il pensiero dai legami colla filosofia metafisica per avvicinarsi a
una filosofia intesa come chiarificazione dell’esperienza, intesa cioè come
trapasso dalla metafisica alla metodologia. Croce si sarebbe in tal modo
inserito nella corrente più viva della filosofia, non riuscendo tuttavia (e in
questo consisterebbe il suo maggior limite) a rompere completamente i ponti con
la metafisica specuativa. Croce non ha quindi tanto combattuto la metafisica
speculativa quanto sostituito alla metafisica trascendente la metafisica
immanente. Per una ricostruzione più esaustiva delle diverse posizioni di
Cantoni su Croce, si rimanda a R. Franchini, Remo Cantoni critico di Croce, in
C. Montaleone e C. Sini (a cura di), Remo Cantoni, filosofia a misura della
vita, Milano, Guerini, Cfr. Bobbio, Introduzione, in C., Scritti, Firenze, La
Nuova Italia. Avviene la crisi dell’idealismo, cui segue la ricerca di nuove
vie, proprio ad opera della generazione di C. le vie battute per uscire dalla
crisi sono soprattutto due: quella che passa attraverso una riflessione sulle
trasformazioni avvenute in seno al sapere scientifico e che dà origine a una
filosofia scientifica, risolutamente anti-metafisica, qual è il positivismo
logico, cui aprono la strada gli studi di Geymonat; e quella che passa
attraverso l’esistenzialismo (Abbagnano, il primo Luporini)». Geymonat, Studi
per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore. Come ha fatto notare Mario Dal
Pra, e a conferma di quanto si scriveva di sopra, l’accostamento in questo
passaggio dei termini “ricostruzione” e “logicità” sembra diretto a far pensare
che «l’avversione alla metafisica del neoempirismo e l’avversione alla
dittatura fascista da parte del movimento di liberazione abbiano per Geymonat
una comune radice» (M. Dal Pra, Il razionalismo critico, in Bausola, Bedeschi
et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza. Geri
Cerchiai 4 to per la prima volta con il titolo Nuovi indirizzi della filosofia
austriaca), fu significativamente fatto uscire con la medesima data di stampa
del giorno della Liberazione di Milano; e in quello stesso mese di aprile
apparve il primo numero della rivista «Analisi» che, come si è accennato,
contribuì fra le prime, con la pubblicazione del frammento intitolato Filosofia
e scienza, alla diffusione dell’epistemologia colorniana9. Ed è proprio da una
lettura di «Analisi» e «Sigma» che è possibile sommariamente inquadrare il
contorno di quel periodo storico al quale si deve la prima scoperta
dell’epistemologia colorniana. Voluta da Fachini, «Analisi» fu stampata per
cinque numeri, mutando il nome, nel corso delle pubblicazioni, in quello di
«Analysis». L’«esperienza personale che io avevo fatto», racconta Fachini circa
la nascita della rivista, mi aveva convinto della necessità di una piattaforma
di incontro interdisciplinare. Allora in Italia mancava qualcosa di simile. La
guerra spezzò agli inizi i miei tentativi. Gli eventi bellico-politici stessi,
per conto loro, mi portarono a profonda solidarietà mentale con Gratton. Nasce così
l’idea di «Analysis»: con ambizioni editoriali infantilmente dissonanti col
momento. Trovammo poi nel Buzzati-Traverso un biologo “fisicalista” ma aperto
ad ogni esperienza. Tra i filosofi professionali (a formazione cioè
tradizionalmente filosofico-letteraria) Banfi, cui mi ero rivolto, mi indica
l’allievo suo Preti, come fornito di interessi e preparazione
fisico-matematica, allora rara nel filosofo. Per inciso, ricordo i miei
contatti con un altro filosofo con preparazione e interessi analoghi: C. I temi
portati avanti dalla rivista furono sostanzialmente due: l’interesse per la
metodologia delle scienze – attraverso la quale indagare la possibilità di un
fondamento comune alle diverse discipline – e la volontà di mantenersi
all’interno di un’impostazione strettamente antimetafisica. La collaborazione
fra 8 In «Rivista di filosofia». Cfr. C., Filosofia e scienza, in «Analisi». D’ora
innanzi si indicheranno gli scritti raccolti in questa edizione col solo titolo
seguito dal numero di pagina. Di «Analisi» e «Sigma», con specifico riferimento
alla figura di C., si è occupato M. Quaranta, La scoperta di C. nelle riviste
del secondo dopoguerra. Gli scritti sulla relatività, in Cerchiai e Rota (cur.),
C. e la cultura italiana fra le due guerre, Manduria-Bari-Roma, Lacaita.
“Analysis”: testimonianza di Fachini, in Analisi. Milano, riletta da Quaranta,
con testimonianze di Fachini, Ceccato, Geymonat, Gratton, Poli, Bologna, Forni.
Aggiunge Fachini, a proposito della sua formazione, che l’impulso a uno sforzo
collettivo interdisciplinare era sorto in me dai primi contatti con l’ambiente
mentale del neopositivismo logico», ma che la soluzione positivista, verso cui
ero in un primo tempo quasi costretto, mi si rivelò presto insoddisfacente per
l’irrigidimento formale, verso cui stava avviandosi. Il «periodico», si
affermava nel Programma pubblicato sul primo numero, era «inteso ad offrire un
luogo di libera discussione a quanti abbiano interesse ai problemi di
metodologia e di critica della scienza, nello sforzo di purificare ed
universalizzare il linguaggio Cinque scritti metodologici di C. 5
scienziati e filosofi fu uno degli aspetti qualificanti della pubblicazione, ma
fu anche d’impedimento ad un’armonica composizione delle sue diverse anime,
concorrendo in definitiva alla conclusione dell’esperienza. L’incontro con i
fondatori e la rivista, racconta a questo proposito Ceccato, avvenne per
chiamata gentile. Io mi trovavo in parabola positivistica o logico-empiristica
discendente. Il filone che comincia ad interessarmi era ormai piuttosto quello
di Bridgman e Dingler, comunque un filone operativo. Questo difficilmente
avrebbe permesso una intesa con i filosofi del gruppo, Geymonat e Preti. Una
collisione non poteva tardare anche con il più aperto filosofo ufficiale, Banfi,
più storico, più umanista. Un certo divario di lavoro si venne a creare anche
con gli scienziati in quanto per lo scienziato di discipline assestate e
floride, come la fisica, la biologia, l’anatomo-fisiologia, etc., la
metodologia si può aggiungere come ornamento, come divertimento. Ma non per me.
Così terminate le pubblicazioni di «Analisi», la sua eredità venne raccolta, in
quello stesso anno, dalla rivista romana «Sigma», fondata da Somenzi e Giuseppe
Vaccarino. Il periodico – che riporta il sottotitolo di «Conoscenza unitaria» –
si propone di riunire, come si legge nella seconda di copertina, una limitata
quantità di elementi atti a determinare una concezione unica della conoscenza. La
nota di presentazione della rivista precisava poi i confini all’interno dei
quali si intendevano muovere i curatori: «si va facendo evidente che esaurire
la scienza nel tecnicismo dello specialista è dannoso – non solo ai fini della
costituzione di un sistema unitario della conoscenza scientifica, ma anche nei riguardi
degli stessi progressi tecnici nei singoli settori. Da qui specialistico verso
una comune impostazione dei modi fondamentali, pur essi comuni, con cui si
edifica e modifica il sapere scientifico». Unico limite, in tal senso, era
quello di non «travalicare di là dalla metodologia in una sistematica della
scienza [per] fare della metafisica insaputa e inutile» (Il programma, in «Analisi»).
“Analysis”: testimonianza di Ceccato, in Analisi. Milano. In una lettera a
Vaccarino, Somenzi rilegge la storia di «Sigma»: “Sigma” è nata con la modesta
intenzione di pubblicare il vecchio materiale tuo, di C. e Cotone, mio. E di
esaurirlo coi primi numeri. Poi si è visto che, se non altro dato il costo
della carta e stampa, conveniva pubblicare un tentativo di sintesi organica,
sia pure provvisoria, del tuo – e limitare quello dei due C. e mio a ciò che può
avere ancora interesse dal punto di vista filosofico. Infine è sorta l’idea,
con la crisi di “Analisi”, di prenderne il posto con il programma serio di
Metodo. Già l’impostazione dei primi due numeri ci alienerà le simpatie dei
Castelli, Blanc, Fantappié ecc., ma anche dei Filiasi e Geymonat
(l’interessamento di quest’ultimo è condizionato alla possibilità di una nostra
conversione al materialismo dialettico/razionalista tipo “La Pensée”).
Attualmente spero solo nei Servadio e magari Spirito, Savinio e stop»
(“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo
Somenzi, Attività professionale, Carte di lavoro non organizzate,
Collaborazione con Vaccarino, b. 1, Vaccarino. Da ora in avanti, il Fondo sarà
abbreviato con la sigla “FS”, seguita dall’indicazione dei riferimenti completi
d’inventario. La conoscenza unitaria, in «Sigma». Scriveva Vaccarino a Somenzi
riguardo a questa nota. Rileggendo la tua edizione riveduta della conoscenza
unitaria penso che possa andare come presentazione anonima, specie se sarà
da Geri Cerchiai 6 avrebbe anche dovuto discendere il ruolo della ricerca
metodologica, che – comprendendo un discorso più largamente critico-filosofico
– avrebbe dovuto fissare le norme dirette ad unificare in sistema le scienze
particolari o la conoscenza in genere. Come «Analisi», anche «Sigma» ha però
vita breve, e dopo sei numeri una nota editoriale ne annunciava la confluenza
nella rivista «Methodos». Questo fu dunque lo sfondo culturale che vide nascere
l’interesse per la filosofia colorniana, un interesse che, attraverso la
pubblicazione di alcuni testi del filosofo milanese, richiamava alla
ricostruzione della filosofia empiristica italiana (come la proposta del
ebraico-britannico Ayer a Oxford) come tradizione anti-metafisica e
anti-idealistica e capace di attuare un profondo rinnovamento negli orientamenti
teoretici nazionali. D’altra parte, che il pensiero di Colorni fosse in certa
misura vicino alle posizioni espresse da «Analisi» e «Sigma» è testimoniato,
oltre che dalle singole scelte di politica editoriale delle due riviste, da
quanto raccontato dagli stessi protagonisti: «Ricordo con precisione», ha
scritto ad esempio Fachini sul secondo numero di «Analisi», le conversazioni di
quell’epoca: credo di poter affermare, per esperienza personale, che C. sia
stato tra i primi italiani di preparazione filosofica a tentare di accogliere e
di comprendere, in modo serio, le nuove affermazioni epistemologiche. La più
gran parte dei suoi saggi sono inediti: molte pregevoli cose egli ha lasciato:
e forse potrebbe indicarci vie nuove. Gli amici di «Analisi» auspicano di poter
far conoscere in cerchio vasto il suo lavoro, a vantaggio della ricerca
metodologica e in omaggio alla sua memoria Somenzi, a sua volta, scrivendo a
Vaccarino della pubblicazione degli scritti colorniani su «Sigma», afferma: Per
Sigma convinciti che i nostri scritti, incomprensibili per virtù proprie dalla
maggioranza dei competenti, l’hanno irrimediabilmente “condannata” e che quelli
di C. sono ancora i migliori che potessimo o possiamo esibire, oltre che i più
vicini al nostro ordine di idee. “Fisica teorica e filosofia” di Colornimerita
senz’altro la pubblicazione sul numero che spero di riuscire a dedicare a
questo argomento. Rievocando poi il Progetto di una rivista di metodologia
scientifica – da C. discusso fra gli altri con Geymonat durante gli anni della
guerra – ante ulteriormente ampliata. Effettivamente rileggendo il mo testo
subito dopo averlo scritto non avevo avuto una buona impressione. Ma ora mi è
piaciuto» (FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza
scientifica, gen. 28, 135, Vaccarino. La conoscenza unitaria. Cambi, Razionalismo
e prassi a Milano, G. Fachini, C., in «Analisi». Si tratta di C., Critica
filosofia e fisica teorica. Lettera di Somenzi a Vaccarino. Alcuni inediti
riconducibili a tale progetto sono presentati in M. Quaranta, La scoperta di C.,
cit., cfr. in part. le pp. 126-130. Per i testi di FS destinati alla rivista
metodologica. Saggi metodologici di C. 7
cora Somenzi ha sottolineato come esso corrispondesse «nella sostanza a molte
realizzazioni degli ultimi quarant’anni, da riviste come “Analysis” a collane
di volumi di filosofia della scienza e di storia della scienza quali quelle
impostate a Milano e Torino dallo stesso Geymonat e da Rossi. A partire da
queste premesse, appare evidente come la storia della riscoperta colorniana nel
dopoguerra possa concorrere a gettare luce su alcuni fondamentali aspetti dello
stesso pensiero dell’autore; essa ne evidenzia difatti la novità di prospettiva
e la conseguente, connaturata disposizione a dialogare coi più avanzati
ambienti filosofico-culturali del nostro Paese. Ciò che tuttavia rende affatto
esemplare la filosofia colorniana, concorrendo a fare di essa un importante
«contributo alla comprensione del travaglio della filosofia italiana al momento
del declino della preponderanza idealistica, non è soltanto la particolare
modalità della sua ricezione, ma anche la complessiva parabola intellettuale
seguita dal giovane studioso per giungere alle posizioni metodologiche degli
ultimi anni. C. è allievo di Borgese e Martinetti a Milano. Nel raccontare
della formazione universitaria di c., Tagliacozzo scrive. Va ricordata
l’influenza che sui suoi studenti ha allora una personalità come quella di
Borgese, che C. e compagni chiamano
scherzosamente G.A. Era uno di quei pochi professori che non disdegnano allora
di soffermarsi a discutere dopo la lezione con i propri studenti. Altra
influenza determinante per i suoi studenti quella dell’austero Martinetti che
spiega Kant alle otto del mattino. Martinetti avvia gli studenti al rigorismo
dell’etica kantiana, mentre il brillante G.A., più alla mano, discute di
estetica e letteratura comparata. I debiti con l’insegnamento di Borgese,
d’altro canto, sono resi espliciti dallo stesso C., che in un suo curriculum
universitario afferma: Durante i miei studi mi sono occupato specialmente di
problemi filosofici ed estetici e, sotto la direzione del Borgese, ho redatto
lavori su L’estetica d’Ardigò. 21 V.
Somenzi, C. filosofo della scienza, in «Filosofia e società», Bobbio, Introduzione, cit., p. VI. 23
Tagliacozzo, L’uomo C., in «Tempo presente». Prosegue poi Tagliacozzo nella
pagina seguente: «Martinetti indusse [Eugenio] ad approfondire Kant, amò
Spinoza dopo la prima infatuazione per l’idealismo italiano. E chi in quegli
anni non lesse Croce e Gentile, ma specie Croce? Eugenio conobbe Hegel, ma non è
mai hegeliano. Studiò dal punto di vista filosofico Marx, ma non fu mai
marxista. Dopo un’esercitazione sul positivismo – e si noti l’influenza
borgesiana nell’approfondimento dei problemi estetici – si indirizzò verso
Leibniz» (ivi, p. 54). Geri Cerchiai 8 gò e del positivismo italiano,
L’estetica bergsoniana e L’estetica di Croce. Quest’ultimo studio è stato
pubblicato più tardi a Milano dalla casa editrice “La Cultura”24. Più
complesso, e forse maggiormente studiato, è il rapporto di C. con Martinetti,
col quale l’autore si laurea su Sviluppo e significato dell’individualismo
leibniziano. Il primo, fondamentale impulso all’approfondimento di Leibniz;
l’introduzione alla filosofia di Kant; il rifiuto del metodo dialettico;
l’urgenza di rinvenire una nuova, diversa organizzazione del nesso fra
individuale ed universale, sono elementi che stringono C. al magistero
martinettiano e che risultano fondamentali per la più generale formazione del
filosofo milanese. Al di sotto di tutti è poi presente l’esigenza di
individuare il corretto rapporto fra l’analisi della realtà e la sua
organizzazione sistematica, esigenza il cui movimento e la cui parabola
all’interno della propria maturazione intellettuale sono così descritte, ne La
malattia filosofica, dallo stesso protagonista: 24 Curriculum vitae di Colorni,
s.d., in Archivio Hirschmann, Roma, citato in Gerbi, Tempi di Malafede. Guido
Piovene e C.. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra, nuova edizione
Milano, Hoepli. Cfr.: C., L’estetica di Croce. Studio critico, Milano, La
Cultura; Id., Ardigò, in «Pietre», firmato con lo pseudonimo di Carlo
Rosemberg; per una storia di questa pubblicazione rinvio ad Vigorelli,
Antifascismo: il caso di “Pietre”, in Eugenio C. e la cultura italiana, a cura
di G. Cerchiai e G. Rota); lo scritto sul bergsonismo è tuttora inedito. È lo
stesso C., ne La malattia filosofica, a raccontare come si svolgevano, durante
le lezioni di Borgese, le esercitazioni dalle quali è nato ad esempio lo studio
su Croce. All’università si dà continuamente battaglia contro Croce. Ogni
settimana, uno studente sale sulla cattedra per discutere coi compagni e col
professore. Salire anche lui su quella pedana, gli piacerebbe tanto: ma per che
dire? Tenterà, ad ogni modo» (C., La malattia filosofica). Sul rapporto fra C.
e Borgese rimando a Riosa, Borgese e C. tra letteratura e politica, in Cerchiai e Rota,
C. e la cultura italiana. Nello stesso periodo nel quale si laurea C., altri
due allievi di Martinetti, Barié e Gadda, venivano indirizzati dal maestro allo
studio del filosofo di Lipsia. Si veda, a mero titolo di esempio, quanto lo
stesso Martinetti scrive a Gadda: «Se fra tre o quattro anni Ella potesse
uscire con una bella esposizione di Leibniz (non tema d’avere concorrenti in
questo argomento!) la via dell’università (per storia della filosofia) Le
sarebbe aperta» (Lettera di Martinetti a Gadda; in Martinetti, Lettere a Gadda,
a cura di Lucchini, in «I quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani», Cfr.
anche: Cerchiai, Due inediti di Emanuele su Leibniz, in «Rivista di storia
della filosofia»; C. lettore di Leibniz, in C. e la filosofia italiana. Si veda
la testimonianza di Tagliacozzo riportata poco sopra. Per il clima nel quale
poteva essere riletto Kant durante le lezioni martinettiane (con particolare
riferimento alle vicende relative a C.), si rimanda a S. Gerbi, Tempi di
malafede, cit., p. 39. 27 Una delle poche citazione dirette di C. presenti nel
libro sull’estetica crociana rinvia proprio allo scritto di Martinetti
intitolato Il metodo dialettico,Rivista di filosofia, là dove C. scrive:
«perché, per quale forza o per quale principio questa implicazione dei contrari
debba presentarsi quasi come una generazione dell’uno da parte dell’altro, è
difficile a intendersi. Perché si deve dire che il Non-io, il quale è, per la
sua stessa definizione, inseparabile dall’Io, sgorga, si svolge, si origina da
esso? Che il particolare nasce dall’universale?» (C., L’estetica di Croce).
Cinque scritti metodologici di C.. Il problema che lo occupa è sempre il posto,
la collocazione delle facoltà nel mondo dello spirito. A un certo punto, gli
balena la possibilità che questi elementi di cui cercava con tanto accanimento
l’ordine e la collocazione, non patiscano alcun ordine: possano vivere così, separati,
paralleli, autonomi. L’idea lo entusiasma. Gli sembra di avere ora fatto
veramente un passo innanzi. E non pensa più tanto a definire e a ordinare,
quanto a descrivere. Ma questo procedere dovrà pure avere una sua
giustificazione teorica, dovrà pure inquadrarsi in una visione del mondo, avere
un suo nome che termina in -ismo. Pierino [alter ego di C.] si butta sui
pluralisti, sugli empiriocriticisti: studia Mach e Avenarius, si addentra nel
labirinto di Leibniz. Su queste basi, si può dire che quello che altrove ho
definito il “problema dell’ordine” divenga, talvolta anche solo per contrasto,
uno dei fili conduttori dell’intera riflessione colorniana: impostato fin da
L’estetica di Benedetto Croce, esso cercherà una prima, instabile sistemazione
nella filosofia di Leibniz, per trovare poi nella rilettura metodologica ed
epistemologica del criticismo kantiano una soluzione – o, come potrebbe dirsi:
dissoluzione – affatto originale. Al fine di seguire il movimento del pensiero
di Colorni da questo punto di vista, può essere utile rileggere le parole
dell’autore stesso. C., La malattia filosofica; cfr. anche ibidem, n. 19 del
curatore. Di Leibniz dirò in seguito, in questo stesso paragrafo. Per quanto
riguarda l’accenno agli empiriocriticisti, si rimanda a quanto scritto da
Guzzardi, il quale, esaminando precisamente la radice dei riferimenti
colorniani a Mach, Avenarius e Schuppe, ne ha riconosciuto l’origine proprio
nell’insegnamento di Martinetti. C., spiega Guzzardi, trova una valutazione
positiva di questo pluralismo, nonché delle filosofie dell’esperienza di
Schuppe, Avenarius e Mach, nell’Introduzione alla metafisica di Martinetti.
D’altra parte, M. indirizza allo studio di Mach, Avenarius e Schuppe, un allievo,
Pelazza. Tali circostanze, secondo Guzzardi, fanno ritenere», insieme con altre
che dovrebbero essere approfondite, che l’interesse originario di C. per
l’empirio-criticismo sia da collegare a Martinetti e Pelazza (Guzzardi, Lo
specchio della natura. C. e la cultura del suo tempo, in C. e la cultura
italiana, a cura di Cerchiai e Rota). Prosegue Guzzardi. Non solo Schuppe e
Avenarius vengono citati da C. nella recensione all’Introduzione alla
metafisica. Qui si trova pure accennato fra i meriti di Martinetti quel
concetto di esperienza pura e obiettiva che egli sembra indicare come via di
uscita dalle difficoltà in cui il pensiero moderno si trova impigliato” – e
l’esperienza pura [reine Erfahrung], attorno a cui Pelazza ha costruito la
propria presentazione dell’empirio-criticismo, aveva costituito il punto
d’approdo della filosofia di Avenarius. La recensione Sull’“Introduzione alla
metafisica” di Piero Martinetti si trova nell’edizione Einaudi degli scritti
colorniani. A tutto ciò si può aggiungere che C. accostò all’empirio-criticismo
anche la filosofia di Croce. L’individualismo del Croce non è necessariamente
in contrasto col suo idealismo: risolve piuttosto il principio dell’auto-coscienza
– che è essenziale all’idealismo – in una coscienza del pensiero nella
effettualità del suo pensare; identifica il punto di partenza soggettivo col
suo necessario correlato oggettivo, l’universale col particolare. In questo
senso si avvicina piuttosto a forme di contingentismo e di empirio-criticismo;
e in questo senso appunto è giustificabile il suo tenersi al dato e partire da
esso: in quanto questo dato non può essere inteso che come uno stato d’animo,
un’esperienza che debba essere vissuta intensamente, e da cui si debba trarre a
volta a volta l’assoluto. C., L’estetica di Croce. Cfr. Cerchiai, L’itinerario filosofico di C.,
in «Rivista di storia della filosofia, Cerchiai. Nel libretto su Croce, il
problema dell’ordine è inquadrato a partire dalla questione del rapporto fra la
«soprastruttura» 30 dialettica del sistema e l’effettivo valore delle singole
osservazioni: «Ciò che sta sotto l’organizzazione esteriore», scrive C., è nel
crocianesimo il vero sistema, non ancora chiaro e formulato, ma agile e ricco
di molteplici possibilità. Ricercare tale ricchezza sotto un’impalcatura in
gran parte insoddisfacente è il compito che s’impone a chiunque viva quel
pensiero come un’esperienza della propria vita. E seguirne la possibilità di
sviluppo anche di là dalla forma che ha dato a se stessa, ci pare il miglior
omaggio che si possa rendere a una filosofia31. Se il “metodo individualistico”
così identificato nella filosofia di Croce conduce C. a liberare le singole
osservazioni «dall’interpretazione che Croce stesso ne ha data allo scopo di
adattarle ad un suo schema presupposto di organizzazione», per cercare di
«renderle di nuovo pure» e «ravvisare» di conseguenza «in esse» un sistema «non
imposto in precedenza, ma derivante e identico coi dati stessi forniti»32, non
può stupire l’interesse teorico nutrito dal filosofo milanese per il secondo
dei suoi “auttori”, ossia per il pensiero di Leibniz. Quest’ultimo, infatti,
pare offrire precisamente la possibilità di chiudere in un circolo coerente
l’analisi empirica del particolare e l’organizzazione sistematica del tutto.
Scrive C. Leibniz non parte mai con l’intento esplicito di costruire un
sistema. La sua attività filosofica si presenta a tutta prima come una grande
raccolta di prese di posizione particolari. Eppure il sistema non manca in
esse: è anzi continuamente presente. I singoli problemi si mostrano a poco a poco
connessi l’uno all’altro; le soluzioni convergono, si giustificano e confermano
a vicenda. Il sistema non è una pura esteriorità, un concordanza sopravvenuta;
è anzi l’anima di ciascuno osservazione, attraverso cui tutto si spiega e si
giustifica33. Per tali motivi, Leibniz rappresenta quasi il contraltare dello
storicismo crociano o, meglio ancora, il rimedio alle sue lacune; «Leibniz»,
infatti, «differisce [proprio] in questo da altri pensatori, apparentemente più
coerenti e organizzati, ma la cui ricchezza va cercata al di là del sistema,
nelle varie formulazioni particolari: vi differisce cioè per il fatto che, come
si è visto, il suo sistema si C., L’estetica di CROCE (si veda), cit. Scrive
ancora C.: «chi parta dal mondo stesso e, rendendo eterno e universale ciascun
dato di questo, voglia costruire una scienza delle forme possibili di questa universalizzazione
e di qui giungere ad una visione complessiva dei modi eterni della realtà e
delle loro reazioni reciproche, non pone il sistema all’inizio, come premessa
della sua ricerca; ma ad esso giungerà al termine ideale del suo cammino. C.,
Nota bio-bibliografica, in G. W. von Leibniz, La monadologia, preceduta da una
esposizione antologica del sistema leibniziano, a cura di C., Firenze, Sansoni.
Il riferimento sembra rinviare precisamente alla critica della filosofia
crociana. Cinque scritti metodologici di C.11 sviluppa spontaneamente dalle
singole osservazioni e l’insieme si mostra nella sua completezza attraverso il
complesso dei suoi aspetti. E tuttavia, lo scacco della prospettiva leibniziana
giungerà a sua volta quando, muovendo da simili presupposti, Colorni dovrà
constatare il carattere prettamente soggettivo del tentativo di
sistematizzazione da quella realizzato: Leibniz, spiega così C. nel suo ultimo
scritto sull’argomento, applica all’ordine spirituale quella continuità, quel
passaggio ininterrotto, quel procedere da ogni legge ad una legge più vasta,
che egli crede di scorgere come l’essenza più profonda del mondo naturale. Che
questa stessa continuità e questo allargarsi sia, più che una legge della
natura, un’esigenza dello spirito nella considerazione della natura stessa,
egli non sospetta36. L’insuccesso del punto di vista leibniziano consentirà
però anche a C. di schiudere un più libero sguardo, sciolto ormai dai
condizionamenti delle diverse scuole filosofiche, sul criticismo kantiano e
sugli strumenti da questo forniti per lo studio dei meccanismi di funzionamento
del pensiero. C. aveva anticipa le due linee – leibniziana e kantiana – della
propria filosofia, là dove aveva scritto, in Di alcune relazioni fra conoscenza
e volontà, che la monade di Leibniz avrebbe dovuto completarsi con la dottrina
kantiana, di modo che l’«universalità della monade, intesa come realtà cosciente,
puo coincidere con la trascendentalità del conoscere, inteso come conoscenza
reale»37. L’effettivo passaggio ad un più maturo kantismo segna tuttavia per
Colorni un punto di svolta fondamentale o, come afferma l’autore stesso, una
vera e propria «operazione di cataratta»38, capace di conquistare una diversa
prospettiva sul mondo: esso, infatti, consente al giovane studioso di voltare
le spalle alla “conoscenza filosofica” e di approdare infine a quella
particolare metodica ch’egli presenta come conoscenza prettamente scientifica,
intesa cioè come padronanza di un processo. La domanda impossibile (senza
senso) della filosofia, spiega così Colorni, pur nella loro rigida formulazione
teoretica, sono sempre espressione di qualche tendenza, di qualche profonda
esigenza dell’animo. La risposta si dà dunque divenendo padroni del meccanismo
psicologico mediante cui la domanda viene posta; essendo capaci di riprodurlo,
di seguirlo nelle sue fasi, di variarlo all’infinto. Al problema della realtà,
si risponde fabbricando animi per cui l’expressione “realtà” non ha senso. Alla
domanda se esiste un mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo
non sia uguale a due angoli retti, si risponde costruendo una geometria in cui
tale somma sia effettivamente maggiore o minore di due retti, e mostrando che
tale geometria non è né più né meno vera di quell’altra; ma è, rispetto
all’altra, essenzialmente nuova C., Libero arbitrio e grazia nel pensiero di
Leibniz, C., Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà. C., Critica filosofia
e fisica teorica, C., Filosofia e scienza. C., Critica filosofia e fisica
teorica; Cerchiai 12 È in questo contesto, all’interno del quale Colorni
ritiene di essere definitivamente guarito dalla sua «malattia filosofica»41,
che vanno collocati i titoli di seguito trascritti e conservati presso la
“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo
Vittorio Somenzi. Di tali scritti, e degli altri pubblicati dalle riviste
«Aretusa», «Analisi» e «Sigma», è lo stesso Somenzi a raccontare la storia nel
già citato testo su C. filosofo della scienza. 3. La metodologia colorniana
negli scritti del Fondo Somenzi «Nel 1945», scrive difatti Somenzi, comparve
sulla rivista «Aretusa» un Ricordo di C. scritto dall’amico Guido
Morpurgo-Tagliabue, accompagnato da due inediti stimolanti: Il bisogno
dell’unità e Sul complesso di Edipo. Altri inediti mi pervennero attraverso la
rivista «Analisi» […], e di questi una parte venne pubblicata su «Analisi» e sulla
rivista romana «Sigma» che ad essa si affiancò per iniziativa di Giuseppe
Vaccarino e mia. Dal carteggio fra Vaccarino e Somenzi emergono altre
importanti informazioni sui dattiloscritti conservati in FS, che con ogni
evidenza i due fondatori di «Sigma» si inviavano in reciproca lettura. Di
quanto scriveva Somenzi a Vaccarino nel maggio del ’47 si è già reso conto nel
§ 1. Il 27 gennaio di quel medesimo anno, è Vaccarino a dire a Somenzi di
sperare «tra qualche giorno di inviar[gli] i C.»; il giorno appresso, e quello
successivo ancora, Vaccarino aggiunge poi quanto segue: Spero domani di
inviarti i Colorni. Molto interessanti e brillanti. Comincerei con i dialoghi
di “Commodo”, combinandoli in modo che abbiano tra di loro un certo legame.
Ieri sera ho riletto i C., che ti rimando tranne l’ultimo, che ti invierò tra
qualche giorno. “I dialoghi” si potrebbero pubblicare in 3 puntate – (La
seconda notevolmente più lunga delle altre 2) – Vi è una quarta puntata
sull’economia, che mi piace meno. Nel testo ho cambiato qualche parola a matita
(in modo che tu possa eventualmente ricorreggere). Ho creduto anche opportuno
evitare il “dialogo nel dialogo” nel primo n°, introducendo invece del “fisico
ribelle” il “Curiosus” del secondo n°. L’Apologo ed il Ritorno alla natura
vanno anche benissimo. Forse si potrebbero pubblicare unitamente al terzo
dialogo, che è molto breve. Le idee di Colorni mi sembrano meglio espresse nei
dialoghi che nel capitolo sulla fisica, data la forma brillante 41 La malattia
filosofica è per l’appunto il titolo che C. diede alla sua più completa
biografia intellettuale, già qui ricordata nelle pagine precedenti. Somenzi. Prosegue
poi Somenzi citando di fatto alcuni dei titoli dei quali si sta qui discutendo:
«La rivista doveva contenere articoli di fondo dedicati a problemi come: il
concetto di esperienza, costanti universali e unità di misura, l’illusione
finalistica nella fisica e nella biologia, l’illusione realistica nella fisica,
geometria ed esperienza, l’assiomatica dei principi della meccanica,
l’assiomatica della teoria della relatività e quella della meccanica
quantistica, fisica puntuale e fisica di campo, il concetto di istinto, la
polemica tra meccanicismo e vitalismo, la costruzione di una economia
indipendente da premesse psicologiche. dell’espressione. In quanto alle
opinioni espresse (l’io, la storia, l’amore, ecc.) non c’è coincidenza con la
metaconoscenza, anzi piena opposizione43. Su «Analisi», uscì Filosofia e
scienza44, mentre un più consistente numero di titoli apparve su «Sigma»; si
trattava, in particolare, dei testi seguenti: Apologo su quattro modi di
filosofare; Della lettura dei filosofi; Del finalismo nelle scienze; Dell’antropomorfismo
nelle scienze; Sugli idoli della scienza fisica; Critica filosofica e fisica
teorica; Il ritorno alla natura; Filosofi a congresso45. Oltre a questi – e
presumibilmente appartenenti al medesimo gruppo di testi del quale Somenzi
afferma di aver pubblicato solo una parte – in FS sono conservati altri
dattiloscritti, di cui sono qui trascritti quelli maggiormente compiuti46. I
primi tre scritti appartengono con ogni evidenza al gruppo di testi destinati
dall’autore alla rivista di metodologia scientifica progettata con GEYMONAT (si
veda). Questa, oltre a note di varietà, rassegne e recensioni, avrebbe infatti
dovuto ospitare una sezione dedicata ad «Articoli e saggi», fra i cui titoli C.
indica per l’appunto Geometria ed esperienza e Assiomatica delle leggi della
meccanica. Il testo intitolato II: Relatività generale è, come mostrato dalla
numerazione romana, il secondo paragrafo di Sull’assiomatica della teoria della
relatività (anch’esso menzionato nel Progetto di una rivista di metodologia
scientifica), il quale comincia proprio con l’indicazione di un paragrafo (I)
La relatività ristretta. Tutti e tre i testi fanno riferimento al discorso
intorno all’idea di esperienza che per C. discende dalla scoperta del carattere
relativo delle categorie: «la coscienza che abbiamo acquistato della nostra
possibilità di modificare [i] dati elementari»48 della conoscenza, infatti,
costringe secondo C. sia a riformare i concetti di a priori e di a posteriori,
sia a rivedere coerentemente la nozione di esperienza. «A priori», spiega così
C., «non significa più della ragione. A posteriori non significa più dei sensi.
Sia i dati della ragione, sia i dati dei sensi, ap43 Lettere rispettivamente
del 28 e del 29 gennaio 1947; quest’ultima è scritta di seguito all’epistola
del giorno precedente, sul medesimo foglio. Il 17 gennaio 1947, Vaccarino aveva
informato Somenzi del suo scritto sulla metaconoscenza, col quale confronta qui
gli scritti colorniani: «Avevo preparato uno scritto sui rapporti tra la
conoscenza e la religione, il quale in definitiva risultò troppo lungo ed
infarcito di considerazioni metagnosologiche. Ho pensato perciò che è meglio
direttamente attaccare la questione della metaconoscenza». Tutte le lettere
sono in FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza
scientifica, Vaccarino Giuseppe. Il “fisico ribelle” è probabilmente il Fisico
che Colorni inserisce quale interlocutore (appunto: quasi come dialogo nel
dialogo) in Del finalismo nelle scienze, e che nella stampa definitiva su
«Sigma» non viene poi effettivamente sostituito dal Curiosus interlocutore di
Dell’antropomorfismo nelle scienze. Il testo comprende parzialmente anche: Sul
concetto di esperienza e Intorno al principio di identità. Cfr. infra, la Nota del curatore. C.,
Filosofia e scienza. Cerchiai 14 paiono come elementi in cui il fattore
soggettivo e quello oggettivo si presentano mescolati, ma di cui è in nostro
potere, mediante un procedimento logico e psicologico insieme, modificare la
struttura»49. L’esperienza, a sua volta, «anziché rivelare leggi naturali»,
dovrà suggerire, secondo le contingenti necessità degli studiosi, «determinate
forme di definizione e di misura», utili a proseguire nel lavoro di ricerca
scientifica51. Siamo qui di fronte a quel progetto di “liberazione” della
fisica «dalle premesse realistiche-finalistiche» che deve per Colorni
rappresentare non solo «uno degli scopi essenziali della rivista»52, ma anche
il fine ultimo della sua stessa critica epistemologica. Di tale progetto il più
lungo e strutturato Programma contribuisce a tracciare ulteriormente i contorni
teorici. Il nucleo dello scritto ruota intorno alla considerazione secondo la quale
la «filosofia odierna dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in
mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine. Criteri che, ormai ciò è
chiaro a tutti, trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta che ci
fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato». La constatazione del
carattere condizionato della realtà diviene in tal modo, e nuovamente, il punto
di partenza – tutto kantiano – della metodologia di C.. Il criticismo
trascendentale, aggiunge però l’autore, «ha messo tutti sul chi vive», sì che
«la curiosità di vedere al di là del velo di Maja delle categorie si è fatta
sempre più intensa»; sarà tuttavia soltanto la capacità della conoscenza
scientifica di disubbidire all’«ammonimento di Kant» per trascurare «i limiti»
da questo imposti che consentirà, ancora una volta, di compiere il secondo,
decisivo passo lungo la strada già intrapresa dalla Critica della ragione pura:
«La domanda da porsi», chiarisce Colorni in un passo cruciale di Critica
filosofica e fisica teorica, Non [è]: “È il mondo del nostro pensiero, o non è,
quello reale?”; bensì: “Come potrebbe essere conformato un mondo di pensiero
diverso dal nostro?”. La prima domanda parte da quella esigenza di sicurezza e
stabilità che è sempre collegata col pensiero del reale [e che appartiene
all’atteggiamento filosofico]. La risposta che essa cerca è una risposta che
assicuri tale sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi; nel reale, o in qualche
cosa che lo sostituisca. La seconda domanda [propria dell’atteggiamento
scientifico] muove invece da una esigenza di novità […]. Si tratta qui del
secondo passo della rivoluzione copernicana. Il primo era consistito
nell’accorgersi che le leggi della realtà non sono che forme del nostro
intelletto. Il secondo consiste nel domandarsi se queste forme siano proprio
necessarie ed immutabili e irresolubili. Anzi, non 49 Ibid. A priori diviene
perciò il «nostro potere di modificazione che si riferisce sia agli oggetti
della nostra ragione, sia a quelli dei nostri sensi. Mentre poi «la geometria
definisce gli oggetti su cui opera mediante i suoi assiomi, la fisica definisce
quei medesimi oggetti mediante definizioni reali, cioè facendoli corrispondere
a determinati fenomeni naturali. Mentre dunque la prima gode di una completa
libertà nella scelta degli assiomi, la seconda è legata alle conseguenze
implicite nella scelta di quelle particolari definizioni; libera però di mutare
le definizioni, qualora le conseguenze non la soddisfacessero. C., Sul concetto
di esperienza. Cinque scritti metodologici di C. 15 nel domandarsi se siano
irresolubili (domanda che presuppone l’uso di quelle forme stesse) ma nel
tentare senz’altro di scioglierle53. In tal modo, spiega C. al termine di
Programma, è la conoscenza scientifica a raggiungere quell’“al di là” che alla
prospettiva kantiana era negato, ma l’“al di là” al quale essa perviene «non è
una negazione del “di qua”, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di
nuove categorie», un mondo al quale si viene portati, in primo luogo, dalla
consapevolezza che la «legge essenziale della natura è la ragione, e la ragione
è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto l’uomo non fa che
proiettare fuori di sé l’essenza della propria natura»54. L’ultimo testo qui
trascritto, Commodo a Ritroso, appartiene ad un gruppo di dialoghi, noto come
Dialoghi di Commodo, stesi a più mani durante il periodo del confino a
Ventotene55. Commodo, come ha spiegato la moglie Ursula Hirschmann in occasione
dei primi tentativi di pubblicazione integrale dei frammenti colorniani, è lo
stesso Colorni; Ritroso è Ernesto Rossi56. Lo scritto prende spunto da
argomenti economici per chiarire alcune questioni che, venendo a teorizzare una
sorta di “dilettantismo metodologico”, rendono conto della stessa natura
dell’indagine colorniana. L’«appartenenza professionale», dice C. all’amico
Ritroso/Rossi in uno dei dialoghi già [C., Critica filosofica e fisica teorica.
55 Racconta Altiero Spinelli nella sua autobiografia, ben descrivendo non solo
la genesi dei Dialoghi di Commodo, ma anche l’atteggiamento di Colorni nelle
discussioni: «Parlavamo ogni giorno delle cose più varie, di politica, di
geometria non euclidea, di nostri compagni di confino, delle nostre letture,
delle nostre storie personali, dei grandi della storia, ma sentivo che
[Eugenio] stava sempre attento a scoprire un qualche mio coperto punto malato,
che egli avrebbe messo in luce, curato e guarito – poiché la vocazione del
guaritore d’anime l’aveva proprio nel sangue. Mi affascinava la precisione
quasi infallibile con la quale scopriva il punto errato di un ragionamento, il
punto equivoco di un atteggiamento, il momento retorico di un’espressione.
Talvolta uno di noi, ripensando la sera alle parole scambiate durante il
giorno, le proseguiva scrivendo un dialogo nel quale diceva la sua e immaginava
quel che l’altro avrebbe risposto. Talvolta il dialogo aveva un seguito,
scritto dall’altro, prima di terminare a voce» (A. Spinelli, Come ho tentato di
diventare saggio, Il Bologna, Mulino). 56 Gli pseudonimi principali utilizzati
negli altri dialoghi sono i seguenti: Severo è Altiero Spinelli, Manlio
Rossi-Doria è Modesto, Ursula Hirschmann è Ulpia. Così scrive Landi a Hirschmann.
Penso che i tempi stiano maturando per
un’edizione in volume degli scritti lasciati da C.: come sono maturati, dopo
tanti decenni, per la ripresentazione ai lettori italiani di quelli diVailati,
che fu studioso per tanti versi affine ad Eugenio e che, rimasto quasi sepolto
fin da prima della Prima Guerra Mondiale, ricomparirà ora presso Laterza e
presso Einaudi su mia iniziativa». RossiLandi faceva poi riferimento alle
pubblicazioni di «Analisi» e «Sigma». Ho potuto prendere visione della
corrispondenza relativa ai diversi tentativi di pubblicazione degli scritti
filosofici di C. (prima presso l’editore Laterza e poi per la Feltrinelli)
grazie alla cortesia di Renata C., che ancora conserva una parte del carteggio
e che qui debbo ringraziare per la sua disponibilità. 57 Esso va dunque letto
insieme a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella ed. Einaudi alle pp.
322-342. Per una più precisa contestualizzazione dei frammenti economici
colorniani cfr infra, la Nota del curatore. Cerchiai 16 pubblicati da
«Sigma» nell’immediato dopoguerra, «comporta un legame così stretto con la
scienza e un interesse così diretto ai vari problemi particolari in cui la
ricerca si articola momento per momento, che è difficile avere la possibilità
di riprendere in esame i problemi iniziali e i principi fondamentali da cui si
è partiti»58; proprio per questo, secondo Colorni, i «dilettanti e gli
outsider», sono forse maggiormente in grado, attraverso l’esercizio di un
«tranquillo, pacato, spregiudicato esame dei punti di partenza e delle
definizioni iniziali»59, di «sconvolgere dalle fondamenta tutto l’edificio del
proprio sapere»60. Certo, dovendo rispondere all’accusa di «presumere di
rivedere i principî di tutte le scienze, senza averle mai praticate»61, lo
stesso C. – che alla scienza è giunto passando per la filosofia – parla in
qualche modo pro domo sua. E tuttavia, egli va anche a puntualizzare, in tal
modo, il «arattere pragmatistico del proprio pensiero, il quale deve giocoforza
confrontarsi con le più differenti discipline scientifiche. In Commodo a
Ritroso, C. riprende questi medesimi argomenti, insistendo però con maggior
vigore su quello spirito d’indipendenza – indispensabile ad un proficuo
sviluppo dell’opera scientifica e filosofica – il cui significato teorico è già
stato indagato in Programma. Scrive C.: «Anziché accostarmi a grossi trattati
con fare accogliente e passivo, io parto con la lancia in resta, pieno di idee
sbagliate e confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo, desideroso di
scontri e di battaglie». Emerge qui, accanto alla consapevolezza di un metodo
teorico ormai chiaramente precisato, una componente particolare del carattere
del giovane filosofo: quella irrequietezza, ironicamente descritta ne La
malattia filosofica, che contribuisce a rendere conto della stessa, febbrile
attività politica colorniana. Essa rivela una vivacità intellettuale che si
mostrò sempre incapace di fermarsi ai risultati volta per volta raggiunti e
che, trascorrendo dai primi studi storico-filosofici a quelli metodologici
degli ultimi anni, viene a costituire l’anima, per così dire, anche dei
dattiloscritti colorniani conservati nel Fondo Somenzi. C.,
Dell’antropomorfismo nelle scienze. Com’è noto, e a dispetto della sua
formazione umanistica (lit. hum.), Colorni si cimenta direttamente nella
ricerca fisica, con particolare attenzione alla teoria della relatività. Cfr.
nello specifico i titoli seguenti: Unités de misure et relativité; Le
trasformazioni di Lorentz come caso particolare e Deduzione del campo
elettromagnetico di una carica in movimento rettilineo e uniforme. 63 E.
Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Nota del curatore I testi di
Colorni in FS – tutti dattiloscritti – sono per lo più approntati per la
composizione a stampa, spesso con indicazione del corpo e della impaginazione
da utilizzarsi. Alcune correzioni e integrazioni, la segnalazione «a penna»
talvolta riferita ai titoli o alla firma, i commenti a margine sulla
opportunità o meno della pubblicazione, fanno supporre che ci si trovi per lo
più di fronte a trascrizioni battute a macchina dagli originali. Salvo che dove
diversamente segnalato (come ad esempio – per i motivi lì esposti a pié di
pagina – in Programma), ci si è generalmente attenuti al criterio di integrare
le eventuali sviste od errori ortografici direttamente nel testo, senza
ulteriore indicazione. Ugualmente ci si è comportati per le correzioni e gli
interventi a penna o a macchina. Il dattiloscritto di Programma presente in FS
conserva la conclusione, che risulta invece assente nelle precedenti edizioni
in volume. Oltre ai titoli qui riportati, e a quanto si dirà qui appresso, in
FS sono conservati anche i testi seguenti: Il bisogno dell’unità; Sul complesso
di Edipo; I primitivi e le categorie dello spirito; Filosofi a congresso; Sul
concetto di esperienza; Costanti universali e unità di misura; Sull’assiomatica
della teoria della relatività. I. Relatività ristretta, tutti già raccolti
nelle diverse edizioni dei frammenti colorniani. A partire da Sul concetto di
esperienza, le pagine sono numerate, a mano o a macchina, in sequenza, sì da
creare un complesso unico comprendente anche: II. Relatività generale (da
inserirsi dopo Relatività ristretta), e di seguito: Sull’assiomatica delle
leggi della meccanica e Geometria ed esperienza. In FS sono inoltre presenti
due ulteriori scritti di argomento economico: Batti, ma ascolta! e Ritroso a
Commodo: meno compiuti degli altri, essi saranno da me trascritti in un volume
di prossima uscita. Già nella nota introduttiva a Dello psicologismo in
economia, pubblicato nella edizione Einaudi alle pp. 322-342, si ricostruiva,
anche grazie agli elenchi dei titoli stesi da Ursula Hirschmann per Rossi-Landi,
la genesi degli scritti economici colorniani, che qui ci si limiterà dunque ad
integrare con quanto emerge dai titoli presenti in FS. Dello psicologismo in
economia risulta composto da tre blocchi. Il primo, intitolato È possibile
costruire una scienza economica indipendente da premesse psicologiche e
sociologiche?, è citato anche nel Progetto di una rivista di metodologia
scientifica fra i possibili «Articoli e saggi», e prosegue dall’inizio del
dialogo fino al terzo capoverso: sarebbe una differenza di grado e non di
natura. Del secondo (Robbins considera), che comincia subito dopo il primo e
termina in ivi, E m’invita a prendere tutto l’argomento non troppo sul serio»),
è conservato in FS il solo ultimo foglio, del quale così scriveva Silvio
Ceccato a Somenzi il 5 febbraio del 1943: «Ho guardato fra le carte di Colorni.
Spaiato trovo un foglio, numero 5, che mi sembra appartenere al dialogo fra
Commodo e Severo [che in effetti è l’interlocutore di quella parte del
dialogo]. Se vuoi te lo mando, o lo do a Vaccarino. Altro non c’è, mi sembra,
che possa interessarti. Stampa pure. Quando hai ben deciso, fammelo però sapere,
che, per cortesia, ne avvisi la sorella» (FS, sez. 3, Attività professionale,
1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e
progetti editoriali, 1, Sigma Analysis, b. 5, Analysis Methodos (Ceccato). Il
terzo blocco, Vedo che riprendi (cfr. C., Dello psicologismo in economia),
rappresenta il nucleo centrale e la con- Geri Cerchiai 18 clusione del dialogo.
Per quanto riguarda i titoli di FS: Ritroso a Commodo – come si evince dai
numerosi riferimenti a Vedo che riprendi – prosegue il dialogo già iniziato in
quest’ultima parte di Dello psicologismo in economia; Commodo a ritroso è la
risposta a Vedo che riprendi; Batti ma ascolta è l’«accluso foglietto»
menzionato in Commodo a Ritroso. Le note in calce ai testi sono tutte del
curatore. Desidero Ringraziare Giovanni Battimelli, Responsabile del Fondo
Vittorio Somenzi, e Libutti, Direttrice della Biblioteca del Dipartimento di
Fisica (“Sapienza” Università di Roma), per la disponibilità e cortesia che mi
hanno dimostrato durante la consultazione dell’Archivio. G. C. Cinque scritti
metodologici 19 II. Relatività generale1 Se vogliamo estendere quanto si è
detto per la relatività ristretta3 al caso di sistemi in movimento qualsiasi4,
il problema della relatività generale diverrà quello di determinare le misure
spazio-temporali per un osservatore in movimento qualsiasi rispetto ad un
sistema inerziale nel quale valga la geometria euclidea. La determinazione di
tali misure sarà fatta di nuovo assumendo come fissa la distanza fra due punti5,
e come costante la velocità della luce. In linea generale risulterà che la
geometria tridimensionale del sistema in questione non sarà euclidea. Viceversa
dovrebbe essere dimostrabile che se le misure assunte da un osservatore col
metodo di cui sopra, danno luogo ad una geometria non euclidea, si potrà sempre
trovare un sistema i cui punti siano mossi rispetto all’osservatore in
questione in modo tale che la sua geometria sia euclidea. In tale sistema non
vi sarà alcun campo gravitazionale. Una tale impostazione del problema
differisce un poco da quella classica della relatività generale. Non si tratta
qui di trovare una formulazione delle leggi di natura che sia invariante
rispetto a trasformazioni qualsiasi, e quindi di attribuire ad ogni sistema la
geometria richiesta dal campo gravitazionale in esso vigente, ma piuttosto di
trovare le trasformazioni che permettono di passare da un sistema ad un altro
qualsiasi6, avendo assunte per tutti i sistemi determinate convenzioni7
riguardo alle misure spazio-temporali; e questo senza fare alcuna ipotesi
riguardo alla forma delle leggi naturali. 1 FS, sez. 3, Attività professionale,
serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti
editoriali, Sigma Analysis, b. 6, Articoli, Il titolo è cancellato nel
dattiloscritto, così come è barrata la numerazione “5” (a penna) della pagina,
numerazione che, insieme con quella romana, segnava il foglio come seguito di C.,
Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta (cfr.
la Nota del curatore), del quale lo scritto è il secondo paragrafo. 2
All’inizio del dattiloscritto sono inserite a penna delle virgolette basse
(chiuse al termine del terzo capoverso), che spiegano l’intervento del quale si
rende conto infra, n. 4. 3 Il riferimento è a Sull’assiomatica della teoria
della relatività, che infatti è numerato: La relatività ristretta. A penna è
stato qui aggiunto: «prosegue C.». 5 Cfr. E. Colorni, Sull’assiomatica della teoria
della relatività. Anziché assumere come unità di misura fondamentali una
lunghezza o un intervallo di tempo per poi dedurne le altre grandezze
cinematiche, si potrebbe assumere come unità primitive la distanza fra due
punti dati e la velocità di propagazione di un dato fenomeno». 6 Si tratta qui
precisamente dell’idea di revisione del concetto di esperienza in relazione a
quello di definizione che costituisce uno dei nuclei del programma metodologico
colorniano. 7 Sono molti i riferimenti di Colorni al carattere convenzionale
della scienza e delle sue definizioni. Riporto, per il suo carattere
“generale”, quanto affermato nella Postilla al programma della rivista di
metodologia scientifica (in M. Quaranta, La “scoperta” di C.): «Si tratta, in
breve, di partire da una concezione “convenzionalistica” o “idoenistica” della
scienza; non limitandola però, come fa in sostanza la scuola di Vienna o anche
il Gonseth, alla interpretazione filosofica dei fatti scientifici; applicandola
invece ai concetti basilari su cui poggia l’edificio della scienza, e mostrando
come un chiarimento rigoroso delle ipotesi che sono implicite nell’assunzione
di tali concetti possa trasformare effettivamente e rendere più chiare molte
formulazioni scientifiche, e forse risolvere alcuni dei problemi più scottanti
della scienza moderna». C. 20 Formulando in questo modo il problema, si
giungerebbe probabilmente alle medesime conclusioni della relatività generale
riguardo alla gravitazione; ma la nuova impostazione permetterebbe forse di
aggredire in maniera diversa da quella consueta altri problemi (in particolare
quello dell’elettromagnetismo). Non si tratterebbe più in questo caso di
formulare le leggi del campo elettromagnetico in forma invariante rispetto a
trasformazioni qualsiasi, ma di rendersi ragione della loro struttura,
studiando sistematicamente il comportamento di cariche in movimento, mediante
“Transformation auf Ruhe”. Questo saggio si riferisce a studi ancora in corso e
ben lungi dalla conclusione8 ). 8 L’ultimo capoverso è barrato a penna nel
dattiloscritto. L’inciso fra parentesi riprende quello analogo – non riportato
nelle edizioni dei testi colorniani, ma presente nei dattiloscritti di FS –
posto al termine di Sull’assiomatica della teoria della relatività. I.-
Relatività ristretta, il quale recita nel modo seguente: «Questo saggio si
riferisce ad un lavoro già terminato, in cui lo sviluppo qui descritto viene
eseguito» (FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da
Vittorio Somenzi, Scatole grigie, 1, C. e Cotone, b. 3, C.). Sull’assiomatica
delle leggi della meccanica. Il principio d’inerzia è notoriamente una
definizione camuffata. Esso definisce come non soggetto ad alcuna forza il
corpo dotato di movimento uniforme; quindi come soggetto ad una forza il corpo
dotato di movimento non uniforme. È possibile considerare i principi della
conservazione della quantità di movimento e dell’energia come delle estensioni
del principio d’inerzia, cioè anch’essi come delle implicite definizioni della
forza? Crediamo di sì. Consideriamo infatti un sistema di due corpi. Diremo che
il sistema non è stato sottoposto all’azione di alcuna forza, non solo quando i
due corpi proseguono nel loro moto rettilineo ed uniforme, ma anche quando
hanno modificato tale loro moto dopo essersi urtati. Ciò che dovrà essere
rimasto immutato nel sistema non sarà dunque più il moto dei due corpi, ma una
funzione di tale moto; funzione che si tratta di determinare, ponendole delle
condizioni derivanti da esigenze plausibili. Anzitutto si può richiedere che il
mutamento provocato dall’urto nello stato di moto di uno dei due corpi sia
misurato dal mutamento provocato dal medesimo urto nell’altro corpo: cioè che
ciò che rimane costante nel sistema sia la somma delle funzioni in questione
riferite a ciascun corpo. Individuato poi ciascun corpo mediante una costante
caratteristica di esso (la sua “massa”), si può richiedere che il cambiamento
provocato in un corpo successivamente da due altri corpi di uguale massa e
uguale velocità, sia identico al cambiamento provocato da un corpo di massa
doppia e di uguale velocità: il che equivale a dire che la nostra funzione
dovrà essere della forma mf(v). Si potrà poi osservare che la funzione in
questione deve poter esprimere sia un mutamento nel valore assoluto della
velocità di ciascun corpo, sia un mutamento nella sola direzione: le funzioni
in questione devono cioè essere due, l’una vettoriale, l’altra scalare. Infine
si osserverà che, poiché due corpi in movimento uniforme rispetto ad un sistema
inerziale lo sono pure rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale, la
costanza delle nostre funzioni deve essere invariante rispetto a trasformazioni
di Lorentz. Tutte queste condizioni limitano la scelta delle nostre funzioni in
modo da determinarle univocamente; e ne risultano le espressioni relativistiche
della quantità di movimento e dell’energia. Ciò è stato mostrato da Langevin2,
il quale parte però da premesse un po’ diverse. Gli sviluppi precedenti possono
avere un’importanza per il seguente motivo: la teoria della relatività giunge alle
sue espressioni dell’energia e della quantità di movimento, partendo dalle
equazioni di Maxwell, che suppone assicurate dall’esperienza. Ma il controllo
sperimentale di tali equazioni suppone che si 1 FS, sez. 3, Attività
professionale, serie 1, Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole grigie, 1, C. e
Cotone, Nel dattiloscritto, le pagine riportano la numerazione, a penna in
rosso, da 6 a 7 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e la Nota del
curatore). Langevin e un fisico francese che, non diversamente da Eddington –
altro autore colorniano e griceiano – fu abile divulgatore scientifico. disponga
di una definizione dell’energia e della quantità di moto. Inoltre, quando si
siano definiti i principi fondamentali della meccanica indipendentemente
dall’elettromagnetismo, rimane aperta la possibilità di dedurre le leggi stesse
dell’elettromagnetismo servendosi di alcuni risultati della relatività, e
raggiungendo così una più profonda comprensione di quelle leggi. (Anche questo
articolo si riferisce a studi in corso, di cui la prima parte, riguardante la
relatività ristretta e l’elettromagnetismo, è terminata; ma avrebbe carattere
troppo tecnico per la rivista4.) 3 Assente nel testo. 4 Per un’analisi degli
scritti colorniani sulla teoria della relatività, si rinvia a M. Quaranta, La
“scoperta” di C. sulla teoria della relatività. Per l’inciso fra parentesi,
cfr. supra, II. Relatività generale. La rivista è la progettata rivista di
metodologia scientifica, sulla quale si rimanda ancora a quanto scritto supra,
§ 3. Cinque scritti metodologici 23 Geometria ed esperienza1 Gli assiomi della
geometria sono delle definizioni implicite, o meglio rappresentano delle
limitazioni imposte alla nostra libertà di definire gli oggetti ai quali essi
si riferiscono. Tali oggetti però possono essere di due tipi: o sono tali che
per ottenerne una rappresentazione concreta è necessario immaginarli realizzati
da un fenomeno fisico (p. es. la linea retta realizzata dalla traiettoria di un
raggio luminoso nel vuoto); in tal caso la definizione implicita negli assiomi
è una definizione “reale” (Zuordnungsdefinition2 ), e gli assiomi limitano il
numero degli oggetti o dei fenomeni che possono essere assunti per realizzare
fisicamente quel determinato ente geometrico. Oppure l’ente geometrico in
questione è tale da poter essere definito mediante un’opportuna combinazione di
altri enti precedentemente definiti (p. es. l’angolo uguale ad un angolo dato
può essere definito senza ricorrere ad alcuna sovrapposizione, quando sia stata
definita precedentemente la distanza fra due punti); e allora gli assiomi
limitano il numero degli accorgimenti che noi possiamo usare per definire quel
determinato ente geometrico. Agli scopi della costruzione fisica di un sistema
galileiano, è opportuno distinguere questi due tipi di definizione; e può
essere utile studiare da questo punto di vista le “Grundlagen” di Hilbert3. Non
è detto che si possa sempre trovare un insieme di fenomeni fisici capaci di
realizzare contemporaneamente tutti gli assiomi di una geometria. Per esempio,
se si vuol realizzare la geometria mediante raggi luminosi assunti co1 FS, sez.
3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole
grigie,1, C. e Italo Cotone, b. 3, C., . Numerato a penna 8 (cfr. supra, II.
Relatività generale, n. 1, e Nota del curatore). Il titolo è anch’esso
sottolineato a penna con l’indicazione: a mano. A margine, scritto a matita in
rosso e cancellato, alcune segnalazioni per il tipografo: «Corpo 10/10 tondo //
Giustezza 27». Scrive Colorni in Filosofia e scienza. Ora, mentre la geometria
definisce implicitamente gli oggetti di cui tratta, mediante gli assiomi, la
fisica li definisce direttamente, mediante definizioni reali
(Zuordnungsdefinitionen). Con queste parole, C. richiama il concetto
reichenbachiano di Zuordnungsdefinition, per cui cfr. H. Reichenbach, Axiomatik
der Raum-Zeit-Lehre, Braunschweig, Vieweg et Sohn Akt.-Ges.,; Id., Philosophie
der Raum-Zeit-Lehre, Berlin- Leipzig, W. de Gruyter et Co. In una lettera
firmata da Hirschmann (ma in realtà scritta da Colorni) e indirizzata a GEYMONAT
(si veda) per il tramite della moglie Virginia, l’autore afferma di possedere
il primo dei due titoli, e a questo rinvia per la comprensione del proprio
pensiero. Noi abbiamo qui l’importante saggio di Reichenbach, “Axiomatik der relativistischen
Raum-Zeit-Lehre”, che mette le cose da un punto di vista molto affine a quello
che Eugenio vorrebbe sviluppare. La lettera, conservata nel Fondo Geymonat
presso la Biblioteca del Museo civico di storia naturale di Milano, è citata da
M. Quaranta (La scoperta di Eugenio Colorni), il quale commenta: «Ora, se è
rintracciabile in Kant una nozione rigida dell’a priori, letture kantiane
sviluppate in quegli anni da Cassirer e Reichenbach, in Italia da Preti, vanno
nella direzione di accogliere la fecondità del “metodo trascendentale”; le
indagini epistemologiche di Colorni si inseriscono in questa linea di ricerca. Questo
capoverso, da Agli scopi fino a Hilbert, è cancellato a penna nel testo
dattiloscritto. Il riferimento è ai Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della
geometria) di Hilbert. me rettilinei e di velocità di propagazione uniforme,
non è detto che risulti verificato l’assioma di Euclide; e questo assioma, se è
verificato per il sistema costruito da un determinato osservatore,
necessariamente non è verificato per il sistema costruito da un altro
osservatore, dotato rispetto al primo di movimento non uniforme. Cinque scritti
metodologici Programma1 Supponiamo che l’uomo viva in un palazzo le cui porte
sono tutte chiuse. Egli non ha le chiavi. Cioè egli ne possiede un mazzetto, ma
non sa se esse si adattino alla serratura, né quale chiave a quale serratura.
Prova, riprova, si costruisce nuove chiavi nella continua speranza di potere un
giorno abitare tutto il palazzo. Lo scienziato è un uomo al quale è riuscito di
aprire una porta. Una chiave, per sua fortuna, o per sua abilità, ha girato
nella toppa. Egli apre, e trova nella camera immensi tesori, li utilizza3, li
mette a disposizione degli altri uomini che lo ringraziano ammirati. Da quel
momento4 la camera è accessibile a tutti. Entusiasmato, lo scienziato vorrebbe
aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe
aprire tutte le porte5. La chiave comincia a diventare uno strumento pericoloso
nelle sue mani. Egli la vuole usare dappertutto. Il risultato è che sfonda le
serrature. Ci vorrà6 poi una gran fatica per accomodarle e per trovare o
costruire una nuova chiave che permetta di aprirle (Fuor di metafora: p. es. la
medicina è stata rovinata per secoli dall’ossessione del metodo meccanicistico,
che aveva fatto meraviglie nel campo della fisica. E si è voluto risolvere
tutto a base di anatomia, di rapporti e di modificazioni di tessuti. Nella
maggioranza dei casi non si è cavato un ragno dal buco). Il filosofo, invece, cosa
fa? Egli non ha avuto la fortuna o l’abilità di aprire una porta, ma anche lui
è preso dall’ossessione di aprirle tutte. Con la chiave9 dello scienziato o con
un’altra di sua fattura. La sua ossessione è forte, meno pericolosa10 che
quella dello scien1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte
organizzate da Vittorio Somenzi, 1929- 2000, 2, Scatole grigie, 1, C. e Italo Cotone,
b. 3, Colorni. Nel dattiloscritto un primo titolo, barrato, recita come segue:
«SCIENZA E MATERIALISMO // È un caso che tutti gli scienziati tendano ad essere
materialisti? // PROGRAMMA». A margine, scritto a penna, il titolo è fissato
così: «SCIENZA E REALISMO». Un asterisco rimanda alla seguente nota manoscritta:
«(V[edi]. l’“Apologo su quattro modi di filosofare”, altro inedito di C., in
Sigma. Sempre a margine, si ha l’indicazione di stampa, a penna: «Corpo 10
tondo 11 // giustezza – 10 su 12. Poiché lo scritto si discosta spesso – nella
forma, mai nella sostanza – dalle precedenti edizioni (nelle quali esso risulta
per altro incompiuto), è parso utile indicare in nota le differenze fra le
diverse versioni. Per questo stesso motivo ho talvolta esplicitato le
correzioni e gli interventi sul dattiloscritto. La sigla FS rimanda al testo
presente fra le carte di Somenzi; la sigla E a quello dell’edizione Einaudi.
Benché sia barrato, e per consentire una più chiara identificazione, si è
preferito mantenere il titolo Programma. 2 per sua fortuna, o per sua abilità
FS: per sua fortuna o per sua abilità E. 3 immensi tesori, li utilizza FS: immensi
tesori. Li utilizza Di seguito nel testo di E. 5 lo scienziato vorrebbe aprire
tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte
le porte FS: lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte E. 6 le serrature. Ci
vorrà FS: le serrature, ma ci vorrà E. 7 (Fuor di metafora FS: di aprirle.
(Fuor di metafora E 8 Il filosofo, invece, FS: Il filosofo invece, E aprirle
tutte. Con la chiave FS: aprirla con la chiave E. 10 è forte, meno pericolosa
FS: è forse meno pericolosa E. Eugenio Colorni ziato, ma più intensa. Per lo
scienziato essa è necessaria accessoria11. Il massimo sforzo è già stato
compiuto12 nel trovare la chiave. Il tentativo di allargamento è spesso solo
abbozzato. Il filosofo, invece, è tutto fatto di questo bisogno. Egli è
abbastanza accorto per avvedersi che il correre da una parte13 all’altra con la
medesima chiave si risolve in un danno e in un disordine. Egli vuole soddisfare
alla sua esigenza in un modo sistematico, che non lasci residui. La sua
ossessione è che il palazzo sia completamente abitabile, aperto in tutte le
camere, dai saloni ai ripostigli. Che cosa fa per soddisfarsi? Si costruisce un
palazzo a suo uso e consumo, simile il più possibile a quello vero, in cui
tutte le serrature siano apribili con una sola chiave, o con le varie chiavi
che ha a sua disposizione. Lì si rinchiude; lì15 gli sembra di vivere
tranquillo. Ma il palazzo è di cartapesta. In poco tempo crolla. Le camere sono
identiche a quelle dell’altro palazzo, ma sono vuote. Il poterle aprire non dà
all’uomo maggior ricchezza e maggior17 potenza. A volte avviene che nel lavoro
di costruire, al filosofo venga fatto di scoprire o inventare una chiave nuova,
che gli altri uomini possono usare, e provare nelle varie serrature. In questo
caso egli sarà ammirato e studiato solo per questa invenzione fortuita o
strumentale, che nelle sue intenzioni non doveva essere che un dettaglio del
grande edificio. E il grande edificio scompare. Dopo un secolo nessuno ci crede
più, nessuno può più abitarvi dentro. Lo si considera come un bel rudero, come
l’interessante documento di un’epoca; lo si apprezza per un certo impulso che
indirettamente, nei coi suoi contorni, ha dato alle lotte e alle ricerche
dell’umanità. Gli storici, gli esegeti, cominciano a scuoterlo per vedere se,
non potendosene più servire in blocco, non si trovi del buono fra il materiale
della costruzione. E cominciano a distinguere “ciò che è vivo e ciò che è
morto” e a manipolare il sistema ai propri fini. Ne risulta che ogni pensatore
viene, di regola, apprezzato dai posteri per motivi che egli non avrebbe
immaginato e che sono estranei alle sue intenzioni fondamentali. Quello che
egli aveva creduto il suo vero apporto alla cultura e alla civiltà viene
considerato inutile. Il dispendio di energie è enorme. Vediamo gli uomini più
intelligenti dell’umanità dirigere tutti i loro sforzi per raggiungere mete che
andranno poi completamente perdute; e 11 necessaria accessoria. FS: accessoria,
sopraggiunta. E. già stato compiuto FS:
già compiuto E. parte FS: porta E. 14
sola chiave, o con FS: sola chiave o con E. 15 Lì si rinchiude; lì FS: Là si
rinchiude, là E. 16 di cartapesta. In poco tempo crolla. Le FS: di cartapesta,
non di mattoni veri. In poco tempo crolla, si disfa. Le E. 17 ricchezza e
maggior FS: ricchezza o maggior E. scoprire o inventare FS: trovare E. 19
possono usare, e provare nelle varie FS: possono usare nelle varie E. 20 rudero
FS: rudere E. 21 nei coi suoi FS: nei suoi E.
scuoterlo FS: smontarlo E. ogni pensatore viene, di regola, apprezzato
FS: ogni pensatore (come spesso anche ogni poeta) viene di regola apprezzato E.
24 immaginato e che FS: immaginato, e che E. Cinque scritti metodologici: 27
siamo costretti a racimolare con fatica alcuni residui del loro lavoro. Nella25
scienza le cose sembrano andar meglio. Siamo per lo meno nel palazzo vero, dove
le camere sono piene di ricchezze; e là dove la chiave ha aperto la porta, la
potenza dell’umanità ne è stata infinitamente aumentata. Ma se la porta non si
apre? Dai Greci al Rinascimento, per duemila anni, gli uomini si sono
affaccendati a costruir26 chiavi di tutti i generi e magnifici palazzi di
cartapesta. Ma nessuna porta dell’edificio vero si è aperta ai loro sforzi. Da
Galilei e Bacone27 in poi, alcune sembrano cedere. Una, quella28 del
meccanicismo fisico si è addirittura spalancata. Ma quante restano ancora
chiuse[!]?29 Quale sarà per esse la chiave giusta? L’abbiamo già in mano o
dobbiamo ancora costruircela? E come sfuggire alla continua tentazione di usare
per ogni porta quella che ha fatto una volta buona prova, col rischio di
rovinare tutto? La filosofia odierna, anziché costruire bei palazzi di
cartapesta, dovrebbe proporsi il compito di affacciarsi a questi problemi, e
tentare di mettere un certo ordine, allo scopo di evitare sforzi inutili e
raggiungere risultati il più possibile concreti. Dovrebbe anzitutto esaminare
le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine coi
quali noi affrontiamo il reale e cerchiamo di renderlo utile ai nostri usi.
Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano31 radicalmente la realtà,
operando una scelta che ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere
afferrato. Ciò che noi chiamiamo realtà è evidentemente condizionato non solo
dai nostri sensi, ma da tutto l’insieme delle forme, delle categorie, dei
criteri associativi e interpretativi senza dei quali non ci è possibile di
pensare e di percepire alcunché. Criteri che noi potremo studiare, scomporre,
modificare; senza però poter mai uscire dal campo di un’attività del soggetto
costitutiva della realtà stessa. Noi34 non possediamo, allo stato attuale delle
nostre conoscenze, alcun nesso mezzo per eliminare il sole lato35 soggettivo
della nostra nozione della realtà; anzi abbiamo seri elementi per propendere a
ritenere che la nozione di una realtà oggettiva, da noi indipendente,36 sia
un’ipostasi della nostra mente,37 do25 A capo in E. costruir FS: costruire E. Da
Galilei e Bacone FS: Da Galileo a Bacone E. Una, quella FS: Quella E. 29
Chiuse[!]? FS: chiuse! E. 30 d’indagine a penna nel testo FS: ermeneutici E. che,
ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano FS: che – ormai ciò è chiaro a tutti –
trasformano E. Queste righe, e quelle
immediatamente successive, rappresentano una sorta di compendio della filosofia
colorniana, ossia del ruolo essenzialmente critico-metodologioco che, muovendo
«dalla grande scoperta kantiana» (E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 240),
essa dovrebbe svolgere. A capo in E.Di seguito in E. alcun nesso mezzo per
eliminare il sole lato a mano nel testo FS: alcun mezzo per eliminare il polo
E. 36 oggettiva, da noi indipendente, FS: oggettiva da noi indipendente E. 37
mente, FS: mente E. C. vuta ad un nostro
fondamentale bisogno di contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci contro
qualche cosa, di polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un passivo
ed un attivo. Vedi Fichte (Trascendenza interna)38. Ciò che chiamiamo realtà
non è dunque né l’oggetto né il soggetto39, ma alcunché nella costituzione del
quale il soggetto, con i suoi criteri e le sue categorie, ha una gran parte e41
che noi, per comodità di studio, consideriamo per un istante come dato di
fronte a noi, coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi qualche cosa
cui partecipiamo noi stessi. Ora questo “qualche cosa” gli uomini si sforzano
di manipolarlo ai loro usi, di penetrare nella sua costituzione, di prevedere
il suo divenire, di costruire in base alle previsioni. A seconda che si accentui
il carattere oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo consideriamo un
“penetrare nelle leggi della natura” oppure un estrarre dalla natura un certo
numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, un cedere alla natura”
o un “farle violenza”, e si chiamano positivisti o pragmatisti. Ma questa
distinzione riguarda il significato metafisico dell’attività umana, non la sua
conformazione, i suoi procedimenti, il suo fine: che è ciò che c’interessa qui
di indagare per contribuire al progresso dell’umanità46. Lo scienziato non
conosce concretamente un problema del carattere pratico e teorico47 della sua
attività. Egli non si domanda mai, seriamente, se ciò che lo spinge alla
ricerca sia il “bisogno di sapere” inteso come fine a sé stesso, o la speranza
che gli uomini possano ricavare un utile dalla sua scoperta. Egli si dedicherà
secondo la sua attitudine ad un campo più vicino alla ricerca pura o più vicino
alle applicazioni. Ma nella sua mente ricerca e applicazione costituiscono un
tutto unico di cui solo per comodità di studio e per la necessità della
divisione del lavoro egli scinde a volte le parti. La scoperta si considera
come la naturale, evidente premessa dell’invenzione:51 l’invenzione come la
conseguenza della scoperta. L’antitesi positivismo-pragmatismo non ha senso per
lo scienziato, e non moVedi Fichte (Trascendenza interna) FS: (Vedi Fichte,
Trascendenza interna) E. Su questo aspetto della metodologia colorniana, si
legga quanto affermato da Ferruccio RossiLandi, che rileva fra l’altro, negli
scritti colorniani, la presenza di «quel disimpegno dalla visione realistica
del mond che è merito della migliore critica idealistica, soprattutto negli
sviluppi dell’attualismo» (Su i saggi di C., in «Rivista critica di storia
della filosofa né l’oggetto né il soggetto FS: né il soggetto né l’oggetto il soggetto, a mano nel testo FS: l’uomo parte
e FS: parte; e E. A capo in E. un estrarre dalla natura un certo numero di
elementi regolari per usarli a loro vantaggio, FS: un “estrarre dalla natura un
certo numero di elementi, regolarli per usarli a loro vantaggio”; E. 44 “un
cedere FS: un “cedere E. 45 violenza”, e FS: violenza”. E E. 46 per contribuire
al progresso dell’umanità FS: per raggiungere risultati utili e teorico FS: o
teoretico sé FS: se E. 49 dedicherà secondo la sua attitudine ad FS: dedicherà,
secondo le sue attitudini, ad E. Ma nella sua mente ricerca FS: Ma, nella sua
mente, ricerca dell’invenzione:
dell’invenzione; E. Cinque scritti metodologici: difica in nulla il suo agire.
Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che egli ha di fronte a sé e della
quale sono elementi costituenti alcune “forme” e “categorie” che provengono
dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela rendono comprensibile e
afferrabile. Di queste forme o categorie egli ne considera alcune come
appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di fuori di sé. Quali sono?
Sono quelle cui egli si sente necessariamente legato, di cui non può in alcun
modo fare a meno, senza le quali gli sarebbe impossibile vedere e pensare. Kant
ne ha elencato5 alcune: spazio, tempo, causalità, numero ecc. Egli ha
riconosciuto sì che esse vengono imposte alle cose dallo spirito dell’uomo; ma
col dare ad esse un carattere necessario ed a priori, ha ammonito gli uomini
sulla impossibilità di uscire da esse. Infatti gli uomini comuni, senza
preoccuparsi della loro provenienza e accontentandosi del fatto che di quelle
categorie non si può fare a meno, le attribuiscono senz’altro alla realtà. Ma
l’osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive; e la curiosità di vedere al
di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta sempre più intensa. Si può
dire che la filosofia si sia scissa a questo proposito in due opposte
direzioni, a seconda che l’ammonimento di Kant sia stato seguito o no. Fra
quelli che l’hanno seguito, gli scienziati60 hanno continuato a considerare le
categorie come reali, e a lavorare in un mondo costruito sulla base di queste
categorie, contentandosi a volte di mantenere nello sfondo l’ombra di un
inconoscibile (Spencer, positivisti), oppure62 di acquisire coscienza della
relatività dei loro sforzi, limitando63 il compito della scienza alla
costruzione di ipotesi semplici e maneggevoli (Poincaré, pragmatisti). Su
questa via essi hanno continuato ad ottenere un buon numero di successi,
proseguendo quell’indagine e quello sfruttamento della natura che era cominciato
con Galilei e Newton, e che consisteva nell’uso sistematico di quelle categorie
che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche tempo l’impressione che il campo
stia per esaurirsi e che non restino da fare in questa direzione se non
scoperte particolari di importanza ristretta. I filosofi invece, insofferenti
di qualsiasi dualismo o relativismo, e preoccupati di saldare l’unità del reale,
preferiscono eliminare la tentazione del52 A capo in A capo in E. 54
impossibile FS: assolutamente impossibile E. elencato FS: elencate E. spazio FS: Spazio E. numero
ecc. FS: numero, ecc. E. A capo in E. filosofico FS: filosofico scientifico E.
60 no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati FS: no. (I) Fra quelli
che l’hanno seguito gli scienziati E. categorie, contentandosi FS: categorie;
contentandosi positivisti), oppure FS:
positivisti); oppure E. sforzi, limitando FS: sforzi; limitando E. 64 Newton, e
FS: Newton e di FS:, di I filosofi invece, FS: (b) I filosofi, invece,
C. 30 la “cosa in sé” col negarne addirittura l’esistenza; e attribuire realtà
assoluta al pensiero nella sua forma universale68. In tal modo essi
soddisfecero contemporaneamente all’esigenza Kantiana69 di non uscire dalle
leggi del pensiero e al bisogno tipicamente filosofico di risolvere senza
residui il problema della realtà; incuranti d’altronde se questo loro sistema
li conducesse o no a un qualsiasi risultato apprezzabile che non si limitasse
alla soddisfazione del loro bisogno di completezza. Coloro invece71 che “hanno
disubbidito” sembrano a tutta prima disprezzare l’ammonimento di Kant e
trascurare i limiti da lui posti: ma in realtà sono essi suoi figli molto più
che gli ubbidienti. Quel limite, quella barriera appunto li ha eccitati ad
andare al di là: ha indicato loro la direzione verso cui rivolgersi
Cominciamo74 questa volta dai filosofi. a) - Il filosofo vuol gustare il frutto
proibito. Ma egli sa oramai che non potrà mai raggiungerlo con le categorie,
con75 le quali Kant gli ha indicato così chiaramente i limiti. Egli abbandona
per sempre le illusioni della metafisica e della teologia, cioè i tentativi di
afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed76 è alla
continua ricerca di un altro strumento che gli permetta di raggiungere il suo
scopo. Volontà, fede, intuizione, ispirazione: in una parola l’irrazionale è
ciò cui egli si affida. Ad esso egli attribuisce tutte le possibilità che
mancano alle categorie della ragione. Con esso egli afferma di poter aprire tutte
le porte del palazzo. Ma che garanzie gli dà la nuova chiave? Semplicemente di
non essere79 la vecchia. Ogni interpretazione irrazionalistica del mondo, là
dove non consista in esplosioni di entusiasmo, è una polemica contro
l’impotenza della ragione. Polemica spesso acuta e giusta, ma che non
costituisce un motivo bastante per accettare come criterio definitivo tutto ciò
che ragione non è. Le80 esplosioni d’entusiasmo81, invece, sono a volte più
interessanti e fruttifere. Esse ci permettono di penetrare, sia pure in modo
confuso, nella costituzione interna di queste attività irrazionali; di
conoscere un po’ meglio quali siano i loro procedimenti. Ciò che ha paralizzato
però tale indagine e non le ha permesso di dare finora se non scar e FS: ed E. Evidente
riferimento all’idealismo nei suoi diversi modelli. 69 Kantiana FS: kantiana E.
70 se FS: che E. 71 Coloro invece FS: (2) Coloro, invece, E. disubbidito” FS:
disubbidito”, E. appunto FS: appunto, E. 74 Di seguito in E. 75 categorie, con
FS: categorie delle E. 76 teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà
assoluta con gli strumenti della ragione; ed FS: teologia – cioè i tentativi di
afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione – ed E. 77 parola
FS: parola, E. 78 A capo in E. essere FS:
esser E. A capo in E. d’entusiasmo FS: di entusiasmo E. Cinque scritti
metodologici: 31 sissimi risultati,82 è che tali attività sono sempre state
descritte appunto col presupposto e con l’esigenza di attribuire ad esse un
valore assoluto, molto superiore a quello della ragione. Preconcetto il quale
ha naturalmente deformato la descrizione ed ha impedito qualsiasi seria
indagine sull’uso che di questi atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare.
Anche qui la fretta di chiudere il circolo e il bisogno filosofico di
rinchiudersi in un edificio abitabile in tutte le sue parti ha impedito di
compiere qualsiasi vero progresso. E le interpretazioni irrazionalistiche della
realtà si sono succedute l’una all’altra senza condurre l’umanità ad alcuna
conquista stabile. È questo un fenomeno che si ripete da secoli; ché la
constatazione delle insufficienze della ragione e il tentativo di affidarsi ad
attività irrazionali non data da Kant, ma è vecchio, si può dire, quanto la
nostra civiltà. E la massa di esperienze che si è venuta raccogliendo è83, se non
ordinata, pure imponente; e dà l’impressione di una grande miniera inesplorata85
in cui il materiale prezioso è unito con le scorie. Siamo qui ad uno stadio di
evoluzione e di sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo della ragione.
Il materiale della ragione è stato esplorato a fondo, inventariato, ordinato
dal pensiero greco e dalla scolastica. Con Galilei e Newton ha trovato il campo
cui applicarsi, conducendo ai vastissimi risultati che conosciamo. Kant
infine88 ne ha tracciato i limiti segnando insieme (forse un po’ in anticipo)
l’esaurirsi della miniera dal89 quale esso traeva ricchezze. Il campo
dell’irrazionale probabilmente comprende regioni infinitamente più vaste che
quelle della ragione, contenenti materiale dal carattere più eterogeneo, atto
agli usi più disparati. Il fatto solo che siamo abituati a classificarlo
secondo la rubrica negativa del “non rientrare nella ragione” ci mostra lo
stato disordinato delle nostre conoscenze al proposito. Ordinare questo mondo
in modo che ci possa servire, analizzarlo con mente tranquilla e senza
preconcetti entusiasmi od avversioni, liberarlo dal continuo incubo del
confronto con la ragione ed infine tentare se alcuni dei dati così ottenuti ci
possono90 servire come criterio per risolvere qualche problema, come chiave per
aprire qualche porta: ecco il compito che s’impone oggi alla nostra indagine91.
Va92 da sé che i metodi da usarsi non saranno i medesimi che si sono usati per
il mondo razionale: e che l’ordine ottenuto non assomiglierà neppure da lontano
a quello che noi conosciamo nel campo logico-matematico. La parola 82 risultati,
FS: risultati E. raccogliendo è, FS: raccogliendo, è, E. 84 imponente; FS:
imponente: E. 85 inesplorata FS: inesplorata, E. 86 unito FS: misto E. 87 A
capo in E. 88 Kant infine FS: Kant, infine, E. dal FS: dalla possono FS:
possano Nietzsche», afferma C. in Critica filosofica e fisica teorica aveva
indicato, con acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi lo seguì col pacato
distacco dell’indagatore, ove il riferimento è chiaramente al metodo
psicoanalitico. Di seguito in E. Eugenio Colorni stessa “ordine” non vuole
avere qui che un significato analogico. Si tratterà di attingere nel mondo
stesso dell’irrazionale per trovare in esso dei punti intorno a cui quella
materia possa coagularsi e offrirci dei punti di appiglio per essere da noi
usata. Sarebbe assurdo e avventato dare qui direttive e indicazioni. La
riuscita di questo lavoro dipenderà dalla fantasia e dal fiuto di chi lo compie,
dalla sua capacità di servirsi liberamente di esperienze fatte in altri campi
senza lasciarsene suggestionare, dalla mobilità e ricchezza della sua facoltà
di combinazione. Il risultato massimo sarà di mettere l’umanità in possesso di
una o più nuove chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale o, se
preferite, di costruire nuovi sistemi di concordanze che si offrano al nostro
uso e ci permettano di soddisfare alcuni nostri bisogni. b) - Lo scienziato che
dalla messa a punto kantiana ha ricevuto l’impulso ad andare al di là delle
categorie, non s’indugia però nella ricerca dell’irrazionale, che non offre,
finora, alcuna presa ai suoi metodi. La sua mentalità è ancora imperniata
completamente sul razionalismo logico-matematico, che ha permesso ai secoli
scorsi di compiere le grandi scoperte di cui vive la nostra civiltà. Ed il
superamento che egli vuol compiere non98 è un superamento di principio,
trasportandosi di un salto in un mondo completamente diverso, ma graduale,
volta a volta seguendo le esperienze che non sono giustificabili mediante le
leggi finora conosciute. Egli non si domanda quale sia la realtà assoluta che
si cela agli occhi degli uomini dietro il velo delle categorie; ma piuttosto
come sia possibile apprendere e organizzare il materiale secondo categorie che
siano diverse da quelle finora usate. In questo senso egli è molto meno
realista che il del filosofo idealista o mistico o che lo dello scienziato
positivista. E in questo senso si può quasi dire che egli porti una conferma
sperimentale, se non alla necessità a priori delle categorie kantiane, almeno
alla dottrina kantiana delle categorie. Lo scienziato di regola non ha letto
Kant. dei FS: quei E. campi senza FS:
campi, senza E. concordanze FS: concordanza E. E. logico-matematico, che FS:
logico-matematico che compiere non FS: compiere, non E. di un FS: d’un E. e FS: ed E. che il del FS:
che il E. 102 che lo dello FS: che lo E. Proprio in questo comune punto di
arrivo», scrive Colorni in Critica filosofica e fisica teorica trattando delle
diverse forme della filosofia e della epistemologia postkantiane, «in questa
medesima esigenza, in questa eguale preoccupazione di raggiungere una base
stabile cui si possa attribuire un valore obbiettivo, tali diversi modi di
procedere riconoscono forse tra di sé quella parentela di premesse e di fini
che permette loro di attribuirsi il nome comune di filosofia. La scienza, al
contrario, e precisamente perché figlia della rivoluzione kantiana, rifiuterà
al contrario di operare secondo il criterio delle affermazioni di verità per
muoversi attraverso un procedimento di composizione e scomposizione della
propria materia. sperimentale, se FS: sperimentale se E. 105 Kantiane FS:
kantiane E. Kantiana FS: kantiana E. Cinque scritti metodologici. Ma
l’atmosfera diffusa del Kantismo e la nozione stessa della categoricità del
reale gli suggeriscono di porsi, di fronte ad una nuova esperienza
inspiegabile, nell’atteggiamento di colui che attribuisce tale inesplicabilità
alla violenza che le categorie tradizionali operano sulla ricerca organizzando
ogni dato secondo le loro forme. Dal quale atteggiamento deriva direttamente il
tentativo di modificare le categorie e provarle di nuovo, così modificate, sul
metro della interpretazione scientifica. Modificare, ho detto, non abolire. Qui
si mostra la modestia dello scienziato, il suo voler provare una dopo l’altra
le chiavi, il suo volontario limitare il proprio orizzonte. Da quando egli si è
accorto di usare delle categorie nella formulazione delle sue leggi, è
continuamente tentato di provare che cosa avverrebbe se queste categorie
fossero fatte altrimenti. Come si comporterebbero i fenomeni in uno spazio che
non sia quello euclideo? Materia, energia, sostanza, causalità. Che aspetto
avrebbe un mondo in cui queste categorie si presentassero con caratteri diversi
da quelli che hanno finora avuto? L’elemento a priori del reale, divenuto
cosciente nell’uomo, comincia ad eseguire un gioco di spostamenti, di
retrocessioni, di modificazioni tale da trasformare completamente l’immagine
della realtà sulla quale gli uomini lavorano: come un obbiettivo che abbia imparato
ad aprirsi e a chiudersi, a mettersi a fuoco a seconda delle esigenze
dell’oggetto da ritrarsi. E se da un lato si può dire che questo accomodamento
delle categorie viene imposta dalle modalità della ricerca scientifica, cioè
dalle esperienze e dalle osservazioni che non è possibile far rientrare nelle
categorie finora usate (cioè quelle dell’universo newtoniano), d’altro lato è
avvenuto forse che gli scienziati, tratti dalla vaga sensazione di essere sul
punto di crearsi nuovi strumenti per l’apprensione del reale, fossero attratti
appunto da quelle esperienze che dei nuovi strumenti potessero aver bisogno.
L’esperienza non è mai evidentemente qualche cosa di puramente passivo, e vi è
sempre un motivo perché lo sperimentatore raccolga la sua attenzione su di un
fatto piuttosto che su di un altro108. Comunque se la conformazione delle
singole categorie è stata fortemente modificata dalla scienza moderna, non è
stata modificata, anzi è stata rafforzata la coscienza della categoricità del
reale. Il filosofo può giungere con ragione alla conclusione che le nuove
teorie fisiche non hanno intaccato la concezione Kantiana del mondo. Noi
diremmo che esse hanno tratto da quella concezione le uniche conseguenze che
aprono alla mente umana nuove indefinite prospettive di ricerca. Le quali non
consistono in una vaga e problematica evasione dalle categorie, ma in una
tranquilla accettazione del fatto che non è possibile prescindere da una
“categoricità”. Accettazione che permetta però la continua revisione delle esistenti.
Kantismo e la nozione stessa FS: kantismo e la nozione stessa E. Da questo
punto comincia la conclusione assente nelle precedenti edizioni del testo.
Sulla revisione colorniana del concetto di esperienza, cfr. supra § 3. 109 C.
non si astiene mai dal sottolineare, nei suoi scritti metodologici, «quanto
vantaggio derivi alla scienza stessa dall’eliminazione del suo substrato
metafisico-finalistico» (C., Del finalismo nelle scienze. Cfr. p.e. Id.,
Critica filosofica e fisica teorica. Non c’è miglior propaganda per un nuovo
atteggiamento intellettuale e morale che il fatto che esso si dimostri una
chiave capace di aprire molte porte nel campo della scienza e della
conoscenza». C. 34 categorie; cioè di quelle categorie dalle quali la mente
umana al suo stato attuale non può prescindere. Non è forse inutile precisare
che tale revisione non ha nulla a che fare con quelle discussioni sulle
classificazioni delle categorie di cui i filosofi così spesso si dilettano. Non
si tratta affatto di discutere se le categorie siano dodici o dieci, o quattro
o una. Se il “finalismo” costituisca una categoria a sé o rientri in un’altra.
Se l’“economico” e l’“estetico” siano modi autonomi o meno di considerare le
cose. Non si tratta di organizzare le forme conosciute del pensiero, e
accordarsi su quali si debbano considerare originarie, quali derivate. Il
lavoro da compiersi è molto più profondo e creativo. Si tratta di dare allo
spirito umano la possibilità di vedere le cose in modo completamente diverso da
quello usato finora; di fornirlo di un nuovo senso, mediante il quale egli
possa scoprire cose finora sconosciute, risolvere problemi finora insolubili.
L’atteggiamento “critico” in senso kantiano si mostra così come l’ultima fase
di tutta un’epoca e di un modo di prendere contatto col reale. La scienza messa
nella possibilità di prendere piena coscienza non solo dei propri metodi, ma
delle premesse necessarie di ogni sua costruzione, riceve da ciò l’impulso a
superare tale necessità ed a crearsi premesse nuove. Il lavoro che qui compie
lo spirito non ha solo i caratteri di una ricerca intellettuale. Ne fanno parte
alcuni atteggiamenti che possiamo raccogliere sotto il nome generico di morale.
Si tratta di uno sforzo violento contro un modo di considerare le cose cui
tutto ci tiene legati, di tendenze alla liberazione, di salti fuori dal mondo
cui si apparteneva. Si cerca di rifarsi una “nuova mentalità”, di vedere le
cose con occhi diversi, di ritornare semplici, di rifiutare le costruzioni già
fatte. Ci si affida alla fantasia, all’invenzione, all’intuizione, per
immaginarsi mondi diversi da quello che siamo abituati a vedere. Tutti questi
movimenti di conversione dello spirito, che siamo abituati [ad] attribuire al
mistico o all’uomo desideroso di purificazioni o di visio. È questo il tema
affrontato fra l’altro nel dialogo di Commodo dedicato a Dell’antropomorfismo
nelle scienze, là dove C., stabilendo la necessità di rovesciare l’umana
tendenza a ricreare una natura fatta a propria immagine e somiglianza,
distingue due differenti forme di antropomorfismo, a seconda che si sia o meno
consapevoli – e si sappia quindi controllarne i risultati – della nostra
impossibilità di prescindere dalla “categoricità del reale”: il primo
antropomorfismo è «una constatazione, o meglio una necessità, dalla quale non
siamo riusciti a uscire, l’altro è invece una esigenza. Ora io odio le
esigenze. Non ho nemmeno alcun motivo di amare le necessità, ma da queste non
vedo alcun modo per liberarci, se non illusoriamente. Evidente riferimento allo
storicismo crociano, su cui Si mostra qui, in tutta la sua originalità, il
senso più profondo che Colorni attribuisce al kantismo all’interno della storia
del pensiero filosofico e scientifico della modernità. C., Critica filosofica e
fisica teorica, ove si sottolinea il carattere essenzialmente morale che
caratterizza il primo impulso alla scoperta scientifica: «alla base di ogni
grande scoperta, di ogni rivoluzione nel campo della scienza, c’è una conquista
morale; l’abbattimento di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le
pieghe della nostra anima, di cui è estremamente difficile accorgersi,
estremamente doloroso liberarsi; idolo fatto per lo più di un cieco ed
infantile amore per noi stessi, di un bisogno di sentirsi circondati da forze a
noi congeniali, di veder ripetuto nell’universo, nella realtà oggettiva, ciò
che sperimentiamo nel nostro intimo». Cinque scritti metodologici: 35 ni, non
devono essere stati estranei a chi si è sforzato per il primo di immaginare la
terra rotonda anziché piana, o il sole immobile e non la terra in mezzo ai
pianeti, o lo spazio a quattro e non a tre dimensioni. Solamente che mentre il
mistico suole descrivere molto accuratamente il processo della conversione, ma
si ferma solo ad esso e non ci dà alcuna garanzia quando comincia a parlare di
ciò che egli trova “al di là”, lo scienziato invece compie la conversione
silenziosamente, spesso quasi inconsciamente; ma giunto al di à, cioè al nuovo
punto di vista, è sollecito ad occuparsi solo di ciò che sia non dico vero in
senso assoluto, ma usabile, cioè organizzabile in un ordine, in una legge. E
per giungere a ciò escogita esperimenti e controlli che gli diano la garanzia
di camminare su un terreno sicuro, sul quale sia possibile ai suoi strumenti di
far presa. L’“al di là” non è affatto una negazione del di qua, non è un
assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie che pretendono di
essere più vaste, di comprendere in sé anche le vecchie. Rotondo anziché piano,
meccanismo anziché finalismo, probabilità statistica anziché determinazione
causale. La validità delle nuove chiavi è determinata dal loro uso, cioè dalla
maggiore o minore possibilità che esse offrano di spiegare fenomeni, di risolvere
problemi, di formulare leggi. La maggiore difficoltà consiste nell’abituarsi al
nuovo modo di vedere. Non esiste neppure un vocabolario che permetta di
esprimere le cose nei termini delle nuove categorie, e si è comunemente
costretti a ricorrere a metafore tratte dal mondo vecchio. Gran parte del
lavoro, nei primi tempi, consiste nell’escogitare una formula di trasformazione
che permetta di passare agevolmente dai termini delle vecchie categorie a
quelli delle nuove. Come le leggi della prospettiva mi permettono di
rappresentare su un piano ciò che ha un volume nello spazio, così le
“trasformazioni di Lorentz” mi permettono di usare gli strumenti a mia
disposizione (calcolo, misura, ecc.) nello spazio normale, per il nuovo spazio
einsteniano; analogamente la psicanalisi tenta di tra Il dominio della natura è
divenuto così il prezzo dell’incredulità. È come se la grazia venisse a toccare
proprio colui che ha cessato di sperarla. Il coraggio di riconoscersi
abbandonato da Dio, di rinunciare ad essere il centro e lo scopo dell’universo,
apre immediatamente l’occhio agli uomini, li arricchisce d’un immenso
patrimonio. A bella posta abbiamo espresso queste cose in un linguaggio
mistico. Quando Kant parla di rivoluzioni dovute all’ardimento di un sol uomo,
di illuminazioni subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi brancolava alla
cieca, c’è in lui sicuramente la coscienza che una vera grande conquista
conoscitiva è sempre frutto – più che di uno sforzo logico o di uno sviluppo
dialettico – di un capovolgimento affettivo e morale; di una inversione di valori,
di una vittoria conquistata contro se stessi e contro ciò cui con più profondi
e tenaci ed inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per primo un
capovolgimento deve anzitutto combattere nel suo intimo una lotta non molto
diversa da quella che combatte l’uomo che voglia raggiungere lo stato di
perfetta passività ed umiltà di fronte al suo dio. Molinos diceva che non
bisogna chiedere nulla a Dio, neppure la propria salvazione. Lo scienziato deve
pure rinunziare all’idolo di una natura che parli il suo medesimo linguaggio,
di un mondo organizzato in vista dei suoi bisogni e dei suoi organi. Solo
questa assoluta vuotezza e purità, questa mancanza di anticipazione gli
permetterà di aprire gli occhi su se stesso e sul mondo». L’osservazione
rientra pienamente nell’antirealismo della metodologia colorniana. D’altra
parte, risulta di particolare interesse il tentativo di delineare le
caratteristiche che dovrebbero assumere le nuove categorie rispetto a quelle
che volta per volta si vanno ad abbandonare. Eugenio Colorni sformare in
termini della coscienza ciò che è inconscio. Mediante tali trasformazioni si
aiutano anche gli altri uomini a trasportarsi sul nuovo piano; si forniscono
loro, per così dire, gli occhiali che permettono di vedere con la nuova
illuminazione, finché non si sarà tanto avvezzi da poter fare a meno di occhiali,
ed usare un linguaggio diretto. Ma il linguaggio appunto serba sempre le tracce
di ciò, e le etimologie documentano spesso tali mutamenti di registro. Tale è,
presso a poco, lo stato delle cose attualmente. Si veda, fra i riferimenti
colorniani alla psicoanalisi e a mero titolo di esempio, quanto è dall’autore
affermato nel dialogo intitolato Della lettura dei filosofi. La psicanalisi è
una scienza ad uno stadio che corrisponde circa a quello dell’astronomia prima
di Copernico, e dell’alchimia prima della chimica. Ha individuato in modo vago,
mitico, pieno di pregiudizi e di troppo rapide generalizzazioni, delle relazioni
e dei rapporti finora inosservati. Ha abbozzato una parvenza di metodo di
ricerca: metodo talmente incerto e malsicuro che il più delle volte conduce a
risultati opposti a quelli che si volevano ottenere. Ma insomma, si muove in un
campo completamente sconosciuto, e il materiale che sta portando alla luce è di
un tale interesse, che il rifiutarlo solo perché non è stato ancora capace di
organizzarsi secondo gli aurei schemi del metodo scientifico mi sembra il colmo
del filisteismo professorale». L’accenno alla possibilità di una condurre una
vera e propria analisi categoriale attraverso lo studio del linguaggio è forse
uno degli aspetti più interessanti ed originali di queste pagine Cinque scritti
metodologici Commodo a Ritroso Vedo che non sei sazio di facili vittorie. Se il
tuo scopo era di dimostrare che tu sai l’economia e io no, l’hai raggiunto
pienamente, a tua perenne gloria e soddisfazione. Ma se io volessi ritorcere le
tue intimazioni sulla mia abilità nelle scienze di cui mi occupo, ti direi che,
con tutta la tua bravura, non sei stato neppure capace di chiarire il mio
dubbio. Non te lo dico, perché sono sicuro che ci saresti riuscito facilmente,
solo che ti fossi occupato di capire attraverso gli sbagli e le imprecisioni,
quello che ho cercato di dire, anziché limitarti a sfogare a tua rabbia. Se un
dilettante o un principiante di teoria della scienza mi viene a parlare di
corpo rigido in un senso errato e diverso da quello usato dai fisici, io cerco
di capire quale concetto egli cerchi di adombrare dietro al termine improprio;
e mi guardo dal cedere alla meschina soddisfazione di prenderlo in castagna ad
ogni parola. Il fare così, con tua buona pace, si chiama in italiano pignoleria.
Io non voglio prendere sul serio questo tuo modo di discutere che è
probabilmente solo una reazione alla mia aggressività, e il riflesso di
arrabbiature prese non in questa ma in altre discussioni. E non ho ancora perso
la speranza di trovare in te un esperto ed aperto iniziatore ai problemi
dell’economia, anziché un geloso e gretto sacerdote del tempio della scienza.
Questo metodo, hai ragione, è supremamente irritante e presuntuoso; ma a me è
molto utile, perché mi permette, fra l’altro, di appropriarmi i concetti
fondamentali con maggiore consapevolezza, senza subirli, e mantenendo rispetto
alle scienze quel certo distacco che è pur necessario al critico e al
metodologo. Una nozione si forma molto più salda nella mia mente, quando ha
resistito vittoriosamente ai miei ripetuti attacchi, che quando l’ho dovuta
imparare dalle pagine di un manuale. 1 FS, sez. 1, Carte personali, serie 2,
Documenti diversi, b. 3, Inediti di C. Per la storia di questo scritto in
relazione agli altri dialoghi economici colorniani, si rinvia alla Nota del
curatore. Così si rivolge Commodo a Ritroso in C., Dell’antropomorfismo nelle
scienze. Mi pare che tu sia un po’ troppo attaccato, o Ritroso, alle
prerogative professionali. Sei proprio sicuro che l’aver frequentato una scuola
ufficiale e aver letto molti trattati, e avere una lunga consuetudine coi ferri
del mestiere, sia una condizione assolutamente necessaria per capire qualche
cosa dei principî fondamentali di una scienza? Non vi è mai capitato di dover
dire a una persona una di quelle cose scottanti, dopo le quali non si ha più il
coraggio di guardarsi negli occhi? Ebbene, se voi scegliete il partito di
prenderlo in disparte con tono mansueto e fraterno, mostrandogli comprensione
ed affetto, e lo consolerete, e cercherete di addolcirgli in tutti i modi la
pillola; se farete questo, siete dei volgari istrioni, innamorati di voi
stessi, infatuati della vostra funzione, incapaci di comprendere e di amare
l’amico. Voi vorreste assestargli il colpo che darà inizio per lui a una
dolorosa lotta contro se medesimo, e in più avere la sua gratitudine, la sua
ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente basso e spregevole,
apparirgli voi come l’arcangelo liberatore, il puro, il disinteressato,
l’immacolato. Se vi prende a calci, è il meno che possa fare. Ditegli invece le
medesime cose in un accesso di rabbia, in una lite violenta, in cui voi avrete
almeno altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia queste verità come
veleno che schizzi dalla vostra lingua; dategli un appiglio per difendersi,
un’occasione di odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite come falso e
malvagio. Il vostro C. Non so se questo possa servire agli occhi tuoi da
giustificazione. Non credere che questo metodo sia in me qualche cosa di
cosciente e di voluto. Me ne accorgo oggi per la prima volta, cercando di
analizzare perché le tue accuse mi colpiscono e insieme non mi colpiscono.
Delle tue osservazioni incasso senz’altro la lezione sulla matematica; io non
avevo avuto altra intenzione che di riinventare per conto mio quell’ombrello; e
naturalmente l’ho inventato più brutto, più goffo e confuso di quello che c’è
già. Il solo punto che non mi è ancora chiaro è quello indicato nell’accluso
foglietto. Mi basta che tu risponda a monosillabi e credo che non ci perderai
più di un quarto d’ora. Da principio mi sono preso una solenne arrabbiatura, e
ti avevo già risposto una lettera piena d’insolenze. Poi, nel rileggere tutto
insieme a mente più calma, ho visto che in fin dei conti hai tutte le ragioni.
Ma, poiché le tue accuse mi toccano solo in un certo speciale modo, vorrei
spiegarti quanto segue a puro titolo di chiarimento personale: Da uno che si
avvicina ad una scienza che non conosce è giusto di pretendere che lo faccia
“con le ginocchia della mente inchine” pronto ad apprendere anziché a
criticare. Gli s’impone, e ben a ragione, un lungo e silenzioso noviziato, solo
finito il quale gli si potrà accordare voce in capitolo. Tutto questo è giusto
(e lo dico senza la minima ironia). Ma il risultato è che un uomo, di solito,
di questi noviziati ne fa uno solo, e vi resta legato per tutta la vita. Si
specializza in una materia, e da essa non esce, salvo che per excursus curiosi
e dilettanteschi. Ora a me questo non è concesso, giacché i miei interessi più
specifici si rivolgono alla metodologia delle scienze. E dato che mi farebbe
schifo risolvere il mio problema dall’alto, escogitando un paio di criteri
filosofici e applicandoli poi come chiavi capaci di aprire tutte le porte6;
sono costretto ad avvicinarmi a insegnamento allora penetrerà nel suo cuore in
modo umano, lieve, benefico. Egli sarà libero di accoglierlo come cosa sua, e
avrà modo di stimare se stesso per non avervi serbato rancore. Nella sua
accettazione ci sarà il senso di fare una conquista, di costruire qualche cosa.
Non vi temerà. Che sia questo il senso del mito di Nereo, l’indovino col quale
bisognava azzuffarsi perché si decidesse a profetare?». Su questa immagine del
mito di Nereo, rinvio ad A. Cavaglion, «Il mio poeta». Colorni, Saba e la
psicoanalisi, in G. Cerchiai e G. Rota, C. e la cultura italiana fra le due
guerre, Cfr. quanto spiegato nella Nota del curatore. Citazione a senso da
Vergine bella, che di sol vestita, dal Canzoniere di Petrarca. E. C.,
Giustificazione, Colorni disprezza coloro che chiamano filosofia l’aver trovato
una formula per interpretare il mondo. La metafora della chiave è spesso
utilizzata da Colorni per indicare precisamente l’errore di scambiare la
ricerca filosofico-scientifica con la scoperta di un criterio esplicativo unico
ed onnicomprensivo. Su tale metafora cfr. anche Programma. ciascuna scienza,
non per esserne genericamente informato, ma con l’impegno di osservarne con
occhio critico gli interni meccanismi e cavarne conclusioni non genericamente
filosofiche, ma che possono aiutare il procedere della scienza stessa. Se
voglio far questo è chiaro che non posso pretendere di sfuggire al noviziato
più severo, in ciascuna delle scienze cui mi avvicino. E non mi sogno di
sfuggirvi. Posso però cercare di rendermelo più piacevole. Il metodo che,
inconsciamente, ho trovato, è questo: Anziché accostarmi a grossi trattati con
fare accogliente e passivo, pronto ad imparare e ad adagiarmi nell’ordine della
loro esposizione, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sballate e
confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo, ed inventando ombrelli,
desideroso di scontri e di battaglie. Da ogni scontro esco ammaccato e contuso
(come da questo con te) ma con un’idea più chiara. Ogni knoch out subito mi fa
fare un passo avanti nella comprensione della scienza. Così non evito
naturalmente, lo studio; e della lettura dei trattati non posso certo fare a
meno: ma mi riesce più piacevole leggerli come appassionati combattenti,
piuttosto che come amorosi pedagoghi. A patto, s’intende, di non impuntarsi
mai, e di essere pronto a riconoscere la sconfitta. Laboratorio dell’ISPF. Geri
Cerchiai ISPF-CNR, Milano. Laboratorio dell’ISPF. Saggi di Colorni conservati
presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica,
Fondo Somenzi. In essi Colorni espone alcuni dei punti chiave della propria
metodologia, delineando una proposta epistemologica destinata ad essere
riscoperta e apprezzata dopo la caduta del regime fascista, nel secondo
dopoguerra. Carlo Rosenberg. ‘G.
Rosenberg’. ‘Agostini’. ‘Franco Tanzi’. Oggettivismo e armonia. - L a filosofia
leibniziana ha ai suoi inizi un carattere nettamente oggettivistico.
Intendiamo 'lire con questo che non si trova al cent ro di essa alcun
problema che riguardi la maggiore o minor validità della nostra conoscenza
delmondo esterno, nè in genere che tratti dei rapporti fra conoscente e
conosciuto. 11 relativismo che deriva al sofista dall’osservazione che «
l’uomo è misura di tutte le cose » è estraneo a Leibniz: egli studia il
reale in sè stesso, nella sua essenza divina od umana, secondo le sue
leggi razionali o empn iene. Egli parte dal dato di fatto del mondo in tutti i
suoi aspetti, che vuole scrutare, comprendere, ridurre a unità, a
formule semplici e facilmente apprendibili, trasportando nel campo
filosofico e metafisico l’atteggiamento onde i suoi grandi predecessori o
contemporanei, Copernico, Galileo, Newton, ave\uno improntato la loro indagine
del mondo fìsico: un tentativo di visione complessiva, armonica, coerente di
tutti i latti presi a studiare; una ricerca di ipotesi che diano
una spiegazione del tutto, quanto più omogenea e lineare possibile.
A un tale atteggiamento egli si avvicina, piuttosto che a quello di
Cartesio, il quale vuole dedurre il mondo con le sue leggi da un solo
principio posto inizialmente come unico valido. . me ! ltre con la
filosofia cartesiana molti saranno i rapporti di Leibniz nella
formulazione e nello sviluppo dei vari proficui 1, egli se ne differenzia però
fondamentalmente per la sua concezione essenziale del mondo come un
complesso a sè stante, di cui si debba ricercare un principio
unificatore, e non come qualche cosa di inizialmente problematico, la cui
esistenza e le cui leggi debbano venir dimostrate e dedotte. Se in
quest'ultimo atteggiamento si vuol far consistere la linea direttrice del
moderno gnoseologismo e in genere della filosofia moderna, bisognerà dire che
da tale direzione Leibniz si discosta, tenendosi piuttosto per questo
riguardo sulla linea del pensiero greco, in un atteggiamento che potremmo
avvicinare a quello di Aristotele. La filosofia (sapientia)
consiste essenzialmente nella conoscenza perfettissima della natura. E da che
cosa, se non dalla filosofia, sono dimostrate con tanta evidenza
non solo l'essenza e le funzioni della natura, ma la cura speciale che
essa ha per ogni singola cosa, e il fatto che essa non si è limitata a
creare ima volta le cose dal nulla, ma continuamente le crea e risuscita
? Devo dire che, quando ebbi compreso tutta la forza di questi
ragionamenti, esultai e mi rallegrai per la filosofìa, la quale sembra
finalmente volersi l’appacificare con la religione; con la quale,
non per sua colpa, ma per le opinioni e i giudizi temerari degli uomini,
o anche a causa di espressioni e termini mal scelti, sembrava male
conciliarsi. Cessino dunque gli uomini pii e accesi dallo zelo della
gloria divina, di aver timore della ragione; basta che si studino di
raggiungere la ragione retta.... E i filosofi, dal canto loro, tralascino
di riferire tutto all' immaginazione e a figure, e di accusare come
vanità o impostura tutto ciò che si oppone a quelle nozioni crasse e
materiali, nelle quali taluni credono di poter circoscrivere tutta la
natura. (Dialogo Pacidius Philalelhi). Questo studio
oggettivo della natura nelle sue leggi, e questo sforzo di una visione
unitaria del tutto, conduce Leibniz a complessi e armonici panorami, in
cui fede e ragione, mondo divino e mondo umano, scienze naturali e
scienze metafisiche si organizzano in un ordine omogeneo. L'arniomo è ciò
cui egli tende con tutte le sue forze di scienziato e di pensatore.
Fin dai suoi anni giovanili, il miraggio di un'armonia universale è al centro
dei suoi pensieri. L fisici dei nostri tempi, ricercando le cause
materiali delle cose, trascurano quelle razionali. E invece la
sapienza dell Autore supremo riluce principalmente nell’aver così
costruito I orologio del mondo, che tutto ne derivasse come per
necessità, per la suprema armonia dell’ universo. Vi è dunque bisogno li
filosofi naturali che non introducano soltanto la geometria nel campo
delle scienze fisiche (dato che la geometria manca di cause finali) ma
rendano anche manifesta nelle scienze naturali un’organizzazione,
per così dire, civile. 11 mondo è infatti come una grande repubblica in
cui gli spiriti corrispondono agli uomini liberi (cittadini o nemici) le
altre creature agli schiavi. (Lettera al Thomasius). In
questa su prema armonia tutte le scienze, tutti i modi di considerazione
del mondo si conciliano ed unificano. Risolvere inizialmente il labirinto
del continuo e del movimento, che avvolge nelle sue complicazioni tutti
gli ingegni, è impresa di grande importanza per stabilire i
fondamenti delle scienze e rintuzzare la vanagloria degli scettici ; per
dare una solida base alla geometria degli indivisibili e alla aritmetica degli
infiniti, generatrici di tanti e così importanti teoremi; per elaborare
un" ipotesi fisica di coerenza universale; infine, e questo è
l'essenziale, per arrivare a dimostrazioni assolutamente geometriche,
e finora mai raggiunte, sull intima essenza del pensiero e sull
eternità dello spirito (1) e sulla causa prima. Di qui sgorgano le fonti
della bontà e dell’equità, del diritto e delle leggi, così chiare e
limpide, così piccole d’estensione e insieme profonde di contenuto, da
poter valere come grandi volumi, e da poter bastare alla soluzione di
qualsiasi problema, con una compendiosita stupefacente per []. CON
LA PAROLA ‘SPIRITO’ TRADURREMO IL TERMINO LATINO “MENS”] chi ne faccia uso, e di
cui il volgo, io erodo, non ha neppure 1’ idea (1).
(Hgpothesis phyaica nova, T /noria motus abstracti, pref.). A quest’
idea della coincidenza di ogni forma di realtà e di ogni metodo d’
indagine nella suprema armonia e coerenza della natura, si riallacciano i
progetti, perseguiti da Leibniz lungo tutta la sua carriera, di
un’organizzazione sistematica delle scienze, di un’ Enciclopedia in cui
di tutto il sapere si desse una visione complessiva, concordante e
concaten antesi in tutte lo sue parti; progetti, questi, che richiamano
alla Pansofia eomoniana e per realizzare i quali Leibniz si fece
promotore di società scientifiche e fondatore di accademie.
Quest'armonia, però, come si è visto, non deriva in alcun modo da
un concepire tutte le scienze come prodotto dello spirito umano, quindi
soggette alle leggi di esso; essa è l’espressione di una realtà divina
oggettiva, a sè stante, con le sue leggi concordanti e armoniche. La
scienza scopre questa unità noi mondo, attraverso lo leggi dello spirito,
che corrispondono, in virtù dell armonia stessa, alle leggi del
mondo. Verità di ragione e di fatto. - Questa realtà
oggettiva può presentarsi sotto due aspetti : come verità di ragione
« verità di fallo ; anno questi i due modi di essere del reale,
retto ciascuno da leggi proprie, ciascuno con proprie
inconfondibili caratteristiche, cui corrispondono poi anche i due diversi
modi di apprensi one del reale: razionale e sensibile. Ecco due definizioni
di questi due tipi di verità, prese da due opere distantissime per data e per
argomento: Le verità di ragione sono necessarie, quelle di
fatto sono contingenti. Le verità primitive di ragione sono
(1) Quale sia il significato (lei termini .j ni adoperati (continuità,
indivisibile, infinito, pensiero, ecc.), si vedrà in seguito. Comenio,
noto principalmente nel campo della pedagogia per la Bua Dì*ìar.tica
Magne r, concepì il sapere come un'organizzazione di ogni elemento della
conoscenza secondo leggi universali (Pansofia), trasformando il concetto
di enciclopedia da quello di una semplice raccolta di dati, a quello di
una sistemazione unitaria dei dati stessi. Leibniz conobbe ed apprezzò
grandemente le sue opero. quelle che io chiamo con nome generale
identiche, poiché sembra che esse non facciano che ripetere la
medesima cosa, senza insegnarci nulla. Esse sono affermative o negative.
Le affermative sono sul tipo delle seguenti: Ogni casa è ciò che è. e in
qualsivoglia esempio A è A, lì è B; io sarò quel che sarò; ho scritto
quel che ho scritto. Le proposizioni copulative, le disgiuntive, e altre,
sono pure suscettibili di tale identità; e io considero affermativa anche
la seguente: Non-A è nou-A; e l'ipotetica: se A è non-B, ne segue che A è
non-B. Similmente se non-A è BC, ne segue che non-A è BC. Vengo ora a
parlare delle identiche negative che sono rette o dal 'principio di con
trad izione (1) o da quello dei disparati. Il principio di contradizione
è in generale il seguente: una proposizio-ne è vera o falsa. Il che
contiene due enunciazioni vere: l una che il vero e il falso non
sono compatibili nella medesima proposizione, ovvero che una
proposizione non può esser vera e falsa contemporaneamente ; l'altra che
l’opposto o la negazione del vero e del falso non sono compatibili,
ovvero che non vi è via di mezzo fra il vero e il falso; o, in altri
termini, che non è possibile che una proposizione non sia nè vera nè falsa (2).
Óra. tutto ciò è vero anche in tutte le proposizioni particolari
immaginabili, come: ciò che è A non potrebbe essere non-A,...
Quanto ai disparati, sono quelle proposizioni che dicono che I oggetto di
un’ idea non è l’oggetto di un’ altra idea; per esempio, che il calore
non è la medesima cosa che il colare, oppure che uomo e animale non sono
la medesima cosa, per quanto ogni uomo sia mi animale. Tutto questo si
può stabilire indipendentemente da qualsiasi Leibniz, come molti altri,
chiama « principio rii contradizionc >; quello che dovrebbe essere
chiamato più esattamente « principio di non contradizionc ». È questo il
principio che si suole chiamare del «terzo escluso», prova o dalla
riduzione all' assurdo o al principio di contradizione, quando tali idee siano
abbastanza evidenti da non aver bisogno di analisi: ma in caso contrario
c’è pericolo d’ ingannarsi: infatti, dicendo che triangolo e trilatero non sono
la medesima rosa, si cadrebbe in errore: perchè, a ben considerare, si
vede che i tre lati e i tre angoli vanno sempre insieme. Dicendo che il
rettangolo quadrilatero e il rettangolo non son la medesima cosa,
si sbaglierebbe ancora, perchè solo il poligono a quattro lati può
avere tutti gli angoli retti. Tuttavia si può sempre dire in astratto che
il triangolo non è il trilatero, o che le ragioni formali del triangolo e
del trilatero non sono le medesime, per dirla coi filosofi. Sono
espressioni diverse della medesima cosa. Taluno, dopo aver
ascoltato con pazienza ciò che abbiamo detto finora, la perderà infine, e dirà
che noi ci divertiamo a fare frivole enunciazioni, e che tutte le
verità identiche non servono a nulla. Ma un tale giudizio dipeli derrebbe
dal non aver abbastanza meditato su queste materie. Le dimostrazioni di logica,
per esempio, procedono dai principi dell - identità : e i geometri hanno
bisogno del principio di contradizione nello loro dimostrazioni per
assurdo. Contentiamoci qui di mostrare l’uso delle proposizioni identiche nelle
dimostrazioni degli sviluppi di ragionamento. Segue lo
sviluppo di queste tesi e altre considerazioni sulI applicazione del principio
di contradizione ai procedimenti logici. Ciò mostra che anche
le pili pine e apparentemente inutili fra le proposizioni identiche, sono
di grande utilità TI tonnine è scolastico-aristotelico, come del resto
tutti i concetti logici di cui si parla in questo brano. nei
procedimenti astratti e generali: e ci può insegnare che non si deve
disprezzare nessuna verità. Quanto alle verità primitive di fatto, sono le
esperienze immediate interne di una immediatezza di sentimento.
(Nuovi saggi). Bisogna avvertire che tutta l'arte
combinatoria si rivolge a teoremi, o proposizioni di verità eterna,
che hanno validità non per arbitrio di Dio, ma per loro propria
natura. Quanto alle proposizioni singolari e per cosi dire storiche, come
p. es. « Augusto fu imperatoredei Romani ». o alle osservazioni cioè alle
proposizioni clic sono sì universali, ma la cui verità non si fonda
sull’essenza ma sull’ esistenza, e che sono vere quasi per caso, cioè per
arbitrio di Dio. come p. es. « tutti gli uomini adulti in Europa hanno
cognizione di Dio»; di tali proposizioni non si dà dimostrazione, ma induzione,
salvo il caso in cui sia possibile dedurre un’osservazione da
un'altra osservazione attraverso un teorema. A tali osservazioni si riferiscono
tutte le proposizioni particolari che non siano inverse o subalterne di
una universale (2). È chiaro da ciò in qual senso si soglia dire che
dell’ individuale non si dà dimostrazione, e per qual ragione il profondissimo
Aristotele abbia collocato nella Topica i luoghi degli altri argomenti in
cui le proposizioni sono contingenti e le ragioni probabili, mentre il
luogo delle dimostrazioni è uno solo: la definizione (3). Ma quando di
una cosa si deve dire ciò che non si desume dalle sue stesse
viscere, I/artc combinatoria, cui questo passo si riferisce, verrà presa
in considerazione in seguito. Inverse o subalterno di una universale
sarebbero per esempio le prò posizioni particolari dei sillogismi, le
quali hanno sempre carattere analitico. (3) Aristotele tratta nei
libri Topici dei «luoghi » (TÓ7tot)o aspetti sotto i quali ciascuna cosa
può venir considerata. Ivi tiene anche conto dei criteri di probabilità, di
induzione; mentre la dimostrazione e il sillogismo venzono trattati nei
due Analitici. p. es. che
Cristo è nato a Betlemme, nessuuo potrà arrivare a tali proposizioni attraverso
le definizioni, ma la materia sarà fornita dalla storia, e i testi
sovverranno alla memoria. (Ars Combinatoria). Lo verità di
ragione si fondano dunque su puri principi logici ; quelle di fatto invece
sull’esperienza. Le une riguardano 1 'essenza, le altre V esistenza-,
quelle il necessario, queste il contingente. Le verità di ragione
sono analitiche. Esse non tanno ohe sviluppare ciò che è già contenuto nelle viscere
di ciascun concetto, non aggiungono cioè nulla alla nostra conoscenza
delle cose; costituiscono la base del ragionamento deduttivo. Le
scienze che da esse derivano sono le logiche e matematiche; i principi su
cui si fondano sono quelli di non còntradizione, del terzo escluso, che
poi si riducono tutti al principio di identità. Le verità di fatto
sono empiriche. Nelle proposizioni che da esse derivano il predicato non
è, come in quelle di ragione, già contenuto nel soggetto: vi si aggiunge
come qualche cosa di nuovo, che lo aumenta ed arricchisce, ma che non gli
appartiene necessariamente per la sua stessa essenza; la cui presenza
deve invece essere concretamente constatata, sperimentata volta per volta. Ad
esse si applica 1’ induzione ; di esse si occupano le scienze naturali, quello
storiche, tutte le indagini che partono dal dato concreto e contingente.
Si reggono, queste verità, sul principio di causalità odi ragion sufficiente.
(Ofr. p. 17 ss.). LE VERITÀ di ragione come possibili. Le v erità di
ragione hanno dunque su quelle di fatto il vantaggio della assoluta certezza e
necessità, o dell’ impossibilità del contrario; esse costituiscono una
incrollabile base su cui tutta la realtà poggia, un punto di riferimento
assoluto e infallibile. D’altra parte, però, hanno una staticità che non
permette loro alcuno sviluppo nè variazione: rimangono immobili nella
loro fissità. Le verità di fatto, invece, sono bensì casuali,
contingenti; non dipendono da nessuna legge a priori ; ma appunto questo
carattere di non poter venir dedotte da principi già conosciuti, quindi
di non essere mai dimostrabili, ma solamente percepibili attraverso i sensi, fa
di esse lo portatrici di ciò che è nuovo, imprevisto, mutevole; le pone
come l’espressione della realtà del mondo nel suo concreto divenire. Si
potrebbe dire che le verità di ragione costituiscono l’ordine necessario
di relazioni, di rapporti entro cui tutte le cose avvengono, quasi
la cornice, la forma della realtà: e le verità di fatto il contenuto, la realtà
stessa in tutti i suoi particolari. E infatti, le verità di ragione
vengono da Leibniz concepite piuttosto come relazioni che come cose-, il
che egli esprime col dire che le verità di ragione, necessarie, ci dànno la
sola 'possibilità delle cose, che non implica ancora affatto la loro
realtà effettiva. Infatti, se ogni possibile, e tutto ciò che ci si
può immaginare (anche se assolutamente biasimevole) dovesse avvenire un giorno,
se ogni favola o finzione fosse stata o dovesse divenire storia
effettiva, in tal caso non vi sarebbe nuli’ altro che la necessità e non
vi sarebbe nè scelta nè provvidenza. (Polemica pubblicata nel
Journal de# Savants). Questo mondo delle possibilità, datoci dalle verità
di ragione, può assumere infiniti aspetti, conformarsi in infinite guise,
che rappresentano tutte le forme in cui potrebbe manifestarsi la
realtà; la quale poi concretamente si manifesta in una sola di esse. Ciò
che noi vediamo e sperimentiamo è la realtà d[ fatto, che si svolge e
manifesta entro l’ambito segnatole dai principi della ragione (infatti
qualsiasi fatto concreto non potrebbe derogare al principio di non
contradizione). Tali principi però potrebbero inquadrare infinite altre
forme di realtà, diverse da quella di questo mondo, concretamente
esistente. È questo il principio dell’ infinità < lei mondi possibili,
cioè dell’ infinità delle possibilità che sono racchiuse nelle verità di
ragione, schemi logici necessari entro cui si svolge ogni e qualsiasi
realtà. Quando dico che vi è un’ infinità di mondi possibili, intendo che
non implichino contradizione, così come si possono fare romanzi che non si
effettueranno mai e che sono tuttavia possibili. Per essere possibile
basta che una cosa sia intelligibile. (Lettera al Bourguet).
È chiaro quale sia un’ idea vera e quale falsa. Vera è un’ idea,
quando la nozione ne è possibile, falsa quando implica contradizione. La
]x>ssibilità di una cosa. poi. la conosciamo a priori o a posteriori. A
priori, quando risolviamo una nozione nei suoi elementi, cioè in altre
nozioni di riconosciuta possibilità e sappiamo che in esse nulla vi
è di contradi ttorio...; a posteriori quando sperimentiamo attualmente
resistenza della cosa: infatti ciò che esiste o è esistito attualmente, è
senz'altro possibile (I). E ogni qualvolta si ha una conoscenza adeguata, si ha
la conoscenza della possibilità a priori; condotta poi l'analisi a
termine, se non si manifesta alcuna contradizione, la nozione è
certamente possibile. (i Meditai iones de Cogitinone, Ventate et
'de in, 1684, G. IV, 425). Alle verità di ragione c di fatto
corrispondono anche i due modi di conoscenza razionale e sensibile. Ma
quelle verità appartengono anzitutto - all'ordine oggettivo del reale. In
questo senso si deve intendere l’opposizione di Leibniz alle idee
chiare e distinte poste da Cartesio come criterio delle verità di
ragione. Tale criterio non consiste per lui in una qualsiasi
evidenza conoscitiva, ma nella possibilità e non contradizione.
Egli [Cartesio] aveva posto come criterio della verità la nostra
percezione chiara e distinta. Cioè, la verità del fatto che il circolo
sia la figura di massima area con dato perimetro non sarebbe secondo lui
altrimenti riconoscibile se non attraverso la chiara e distinta percezione
che noi abbiamo ili tale sua proprietà. E se Dio avesse conformato la
nostra natura in modo che noi avessimo chiara e distinta percezione del
contrario, il contrario sarebbe vero. Questa è la sua opinione, che io
non approvo punto. E non è assolutamente vero quel suo principio
metafìsico universale, che di tutte le cose che pensiamo o di cui
ragioniamo sia necessariamente in noi l' idea, p. es. del po li)
Oiòsignilìca che resistenti) deve rientrare nelle leggi della possibilità,
ma cho queste leggi possono anche andare molto al ili fuori dal campo
dell’attualmente esistente. ligono di mille lati o dell'ente sommamente
perfetto: principio col quale, come armato dello scudo di Achille, egli
disprezzo non senza arroganza tutti coloro che dubitarono delle sue
dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Con tale argomento, egli avrebbe certo
potuto facilmente far sì che in noi fosse anche 1' idea di cose
impossibili, p. es. del movimento sommamente veloce; fra le quali cose
impossibili, coloro che vogliono opporsi alle sue dimostrazioni porranno
anche l'ente sommamente perfetto, lo so, per parte mia. clic altro
è l'ente sommamente perfetto e altro il movimento sommamente veloce:
ritengo però che i ragionamenti di Cartesio siano imperfetti, e che chi
li voglia condurre a compimento, vi debba aggiungere molto di suo.
(Frammento). Dio e i,e verità di ragione e di fatto. - Con
queste affermazioni, Leibniz sottomette de idee chiare, e distinte al criterio
oggettivo della pos sila 1 ita logica, o «non cont ra dizio ne ». E a
questo criterio sottomette anche il concetto dell’ente sommamente
perfetto, sul quale si fonda la cartesiana prova ontologica dell
esistenza di Dio (2). L' idea dell’ente sommamente perfetto, egli dice,
potrebbe essere contradittoria, come quella della velocità massima o del
numero più grande di tutti (iflee contradittorie, queste, perchè sarà
sempre possibile concepire una velocità o un numero maggiori di una
qualsiasi altra velocità o numero presi a piacere: quindi non si
potrà mai giungere al massimo) v J)eirente perfettissimo, dunque,
non basta aver l’idea: bisogna anche dimostrarne la possibilità,
dimostrare cioè che esso non appartiene solo al mondo delle nostre
rappresentazioni, ma anche al mondo delle verità eterne di
ragione. Questa data mi 6 stata gentilmente comunicata dal prof.
Ritter, direttore della Commissione leibniziana dell'Aceademia delle
Scienze di Berlino. (2) La prova ontologica, clic Cartesio ha
ripreso da Anseimo d'Aosta (1033-1109), afferma che Tessere sommamente
perfetto deve contenere, fra le sue perfezioni, anche resistenza: quindi
esiste. Tale prova considera quindi l’esistenza come un attributo
dell'essenza dell’essere perfettissimo.
L'obiezione di Leibniz contro la prova ontologica si ferma
generalmente a questa dichiarazione di incompletezza; e non mancano poi
in lui le affermazioni che l'ente sommamente perfetto sia effettivamente
possila le e implichi la propria esistenza. Tuttavia in lui già è chiaro il
concetto che le verità di ragione e quelle di fatto appartengono a due
sfere diverse e - per cosi dire - incommensurabili, sì che non sia
possibile far rientrare l’una nel campo dell’altra. Ma in
generale non si può dire che Leibniz si preoccupi troppo di provare
resistenza di Dio. Abbiamo già visto che il suo problema non è tanto di
dimostrare e dedurre i concetti fondamentali del suo sistema, quanto di
organizzarli in unità armonica. Dio è una premessa dalla quale Leibniz
parte, non una conclusione cui egli arrivi. Quale ora il
rapporto fra Dio e le verità di ragione c di fatto ( Anche a questo
proposito la posizione di Leibniz si contrappone a quella di Cartesio ; il
(piale, dedotta a priori l'esistenza di Dio, fa poi discendere da Dio,
per un atto libero della sua volontà, tutto il mondo delle verità, sia di
ragione, sia di fatto (1). A questa dipendenza delle verità di ragione
dall'arbitrio divino, Leibniz si oppone recisamente. Per lui sono
rappresentato, in queste verità, relazioni assolute regolatrici dell’
univorso, tali ohe in esso si devono inquadrare perfino i decreti della
volontà divina. Si è già visto che le verità di ragione valgono «non per
l'ar bitrio divin o ma per loro propria natura»; e tale opinione circola
in tutti gli scritti di Leibniz, fin dalla sua prima giovinezza.
È necessario che tutto si rifaccia ad una qualche ragione, nè ci si deve
fermare finché non si arrivi alla prima. C'fr. per esempio, Meditazioni
metafisiche, Risposte alle seste obbiezioni,!). U: «...lo dico che è impossi
bile che una tale idea [del bene o del vero] abbia preceduto la
determinazione della volontà di Dio.... in modo che questa idea del bene abbia
portato Dio a scegliere l'una cosa piuttosto che l’altra. Por esempio,
non per aver visto cho era meglio che il mondo fosse creato nel tempo
piuttosto cho dall’eternità, egli ha voluto crearlo nel tempo; o non ha
voluto cho i tre angoli di un triangolo fossero uguali a due retti per
aver visto cho non poteva essere altrimenti, etc. Ma all'opposto: per il
fatto che egli ha voluto creare il mondo nel temilo, per questo ò meglio
così che se fosse stato creato dall'eternità; e solo perchè egli ha
voluto che i tre angoli di un triangolo fossero necessariamente uguali a due
retti, ciò è ora vero o non può essere altrimenti; e così di tutte le
altre cose». E iiuale. è dunque
l’ultima ragione della volontà divina? L’ intelletto divino. Quale la
ragione dell' intelletto divino? L’armonia delle cose. Quale dell'armonia
delle cose ? Nulla. Per esempio, della proposizione 2:4=4 : 8 non si
può dare alcuna ragione, neppure attraverso la stessa volontà
divina. Quella verità dipende dall'essenza stessa o idea delle cose.
i (Frammento De resurrectione corporum). L’ intelletto divino
è insomm a determinato dalle verità di ragione, e la volontà divina non
può agire se non nell’ambito segnato da esse. La volontà divina, ora, si
esplica nelle verità di /atto. Esse, ed esse sole, sono create da Dio per
un atto libero della sua volontà. Dio è la ragione prima delle cose
: poiché quelle che sono limitate, come tutto ciò che noi vediamo e
sperimentiamo. sono contingenti e non hanno nulla in sé che renda la loro
esistenza necessaria; essendo chiaro che il tempo, lo spazio e la materia,
uniti e uniformi in sé stessi, e indifferenti a tutto, avrebbero potuto
ricevere movimenti e figure totalmente diversi e in tutt' altro ordine.
Bisogna dunque cercare la ragione dell esistenza del mondo, che è
tutto l'insieme delle cose contingenti: e bisogna cercarla nella sostanza
che contiene la ragione della sua esistenza in se stessa (1), e che, per
conseguenza, è necessaria ed eterna. Bisogna pure che tale causa sia
intelligente: poiché dato che questo mondo che esiste è contingente, essendo egualmente
possibili ed egualmente pretendenti all'esistenza per così dire al pari di esso
una infinità di altri mondi, bisogna che la causa del mondo abbia
avuto rapporto e riguardo a tutti questi mondi possibili, por
determinarne uno. E questo riguardo o rapporto di una Tale sostanza è Dio.
Cfr. la prima definizione dell’ FI tea di Spinoza: Per caiuiam e ui
intelligo id, cujus esse alia invaivi t existenliam; vive id, cujus
natura non potest concipi, nini existensv. sostanza esistente con semplici
possibilità, non può essere altro che 1‘ intelletto che ne ha le idee; e
a determinarne una non può essere altro che l'atto della mhmtà che
sceglie. Ed è la potenza di questa sostanza che ne rende la volontà
efficace. La potenza tende all'essere, la saggezza o l' intelletto al vero, la
volontà al bene. E questa causa intelligente deve essere infinita in tutti i
modi, e assolutamente perfetta quanto a potenza, saggezza e bontà, poiché
essa tende a tutto ciò che è possibile. E siccome tutto è connesso. non
vi è ragione di ammetterne più di una. 11 suo intelletto è la fonte delle
essenze, la sua volontà è l'origine delle esistenze. Ecco in poche parole la
prova di un Dio unico con le sue perfezioni e, per suo mezzo,
l'origine delle cose. (Teodicea). Le verità di
ragione sono dunque il contenuto fieli intelletto di Dio, le verità di f
atto il prodotto della sua volontà, fra le infinite possibilità che
potrebbero realizzarsi entro gli schemi del principio di non
contradizione, Dio ne sceglie una, e la pone in atto. Anche in questo,
Leibniz si oppoue a Cartesio, il quale ritiene che la materia assuma
tutte le forme possibili. Egli cita, per confutarlo, questo passo dei
Princip { rii Filosofia (parte III, art. 47): a Poiché la materia assume
successivamente tutti' le forme di cui è capace, se consideriamo ordinatamente
queste forme, giungeremo infine a quella che appartiene a questo nostro mondo,
in modo che non sia da temere alcun errore per colpa di una eventuale
falsa i potesì. Leibniz risponde: Non credo che si possa
enunciare una proposizione più pericolosa di questa. Poiché, se la
materia riceve successivamente tutte le forme possibili, ne deriva che non
si Cartesio ò costretto alla concezione che tutti i mondi possibili
siano effettivamente esistenti, dal suo impegno di dedurre il mondo dalle
sole idee chiare e distinte o di ragione. Leibniz, col suo principio di
una netta separazione Ira la possibilità c l’esistenza, può esimersi da
questo passaggio per tutte le forme della possibilità, e risolvere il
problema dell origine del mondo sensibile con un diretto ricorso al
principio delle verità di fatto. VERITÀ DI RAGIONE E DI FATTO possa
immaginare nulla di tanto assurdo nè di tanto bizzarro e contrario a quello che
noi chiamiamo giustizia, che non sia accaduto o che non debba accadere un
giorno.... È questo, a mio avviso, il 7rpwxov tpeòSoq (primo inganno) e il
fondamento della filosofia atea, la quale non tralascia mai, in
apparenza, di dire belle cose di Dio. Ma la vera filosofia deve darci ben
altra nozione della perfezione di Dio, che possa servirci tanto nella fisica,
quanto nella morale. (Lotterà al Philippi). Il
principio di ragion sufficiente. La realtà contingente posta in atto da Dio è
il mondo sensibile che noi sperimentiamo. Per la giustificazione di esso, le
immutabili leggi della logica non sono sufficienti. TI mondo, la realtà
di fatto è, ma potrebbe anche non esserci, o essere diverso da quello
che è. Esso non deriva da nessuna verità assoluta. 11 principio logico
clic si dovrà applicare per rendersi conto di esso, non è il principio di
non conti-a dizione, ma quello di ragion sufficiente, quel principio cioè per
cui da un dato di fottìi si risale alla sua causa, e da essa di nuovo
alla causa, e cosi fino alla causa jprima, cioè Dio. 11
principio universale nihil esse sine catione (1) risolve quasi tutte le
discussioni metafìsiche.... Is’ulla avviene, del cui esser stato prodotto
piuttosto che non essere stato (cur factum sit polius quam non sii) Dio,
se voglia, non possa render ragione. (Frammento sulla
Selenita Media). È il principio di ragion sulKcicnle. Non bisogna far
confusione fra questo, che Leibniz chiama a volte anche semplicemente -
principio di ragione », e le verità di ragione. 11 pri n c imo d i rag ione è
la forma generalo che regola lo verità di fatto. Le verità di ragione si
contrappongono invece a queste ultimo, e si fondano sul principio di non
contradizione. La somiglianza di due termini dal significato così differente e
quasi opposto, deriva ila un diverso uso del termino « ragione ». Nella
locuzione principio di ragione » osso equivale a « motivo, causa ». Ora bisogna
elevarsi alla metafisica, servendoci del gran principio, comunemente poco
impiegato, il quale afferma che nulla si verifica senza una ragione
sufficiente, cioè che nulla accade senza che sia possibile a colui che
conosca sufficientemente le cose, di dare una ragione che basti a
determinare perchè è così e non altrimenti. Posto questo principio, la
prima domanda che si avrà il diritto di porre, sarà : Perchè ri è qualche
cosa piuttosto che nulla ? poiché il nulla è più semplice e più facile
che il qualche cosa. Inoltre. supposto che cose debbano esistere, bisogna che
si possa rendere ragione del perchè esse debbano esistere così, e
non altrimenti. Ora questa ragione sufficiente dell esistenza dell
universo non si può trovare nell' ordine delle cose contingenti,
cioè dei corpi e delle loro rappresentazioni nelle anime : poiché,
essendo la materia indifferente in sè stessa al movimento e al riposo e a
questo movimento o ad un altro, non si può trovare in essa la ragione del
movimento e ancor meno di questo movimento. E. benché il movimento
attuale che è nella materia derivi dal precedente, e questo ancora da un
precedente, non si avanzerà affatto, per quanto lontani si possa andare:
poiché resterà sempre la medesima domanda. Così bisogna che quella
ragione sufficiente che non ha più bisogno di un'altra ragione, sia fuori
di questo ordme di cose contingenti, e si trovi in una sostanza che ne
sia la causa o che sia un essere necessario il quale porti con sè la ragione
della sua esistenza : altrimenti non si avrebbe mai una ragione
sufficiente, alla quale arrestare il processo. E questa ultima ragione
delle cose è chiamata Dio. ( Principe# de la nature et de la
grane). La causa FINALE E il « mkiliore ». Dio è dunque la
causa o ragion sufficiente rii tutte le verità di fatto, cioè del
mondo sensibile. Ma con quale criterio ha egli scelto, nella sua creazione,
fra le infinite possibilità che gli si offrivano, proprio questa e non un
altra? Che cosa lo ha guidato nella scelta? Nulla avviene senza un
perchè sufficiente, o senza una ragione determinante. In virtù di questo
principio, che ci conduce oltre i limiti raggiunti dai nostri
predecessori, Dio non cambia mai volontà e operazione senza averne
qualche valida ragione. E quando la cosa di cui si tratta è di natura
uniforme e semplice, siamo in condizione di giudicare (per quanto povere
creature si sia) se vi può essere una ragione o no. Quando la volontà di
Dio è impiegata da sola, senza che nella natura delle creature vi sia la
ragione di questa volontà, nè il modo del suo operare, si tratta di un puro
miracolo : criterio poco opportuno in filosofia, come se Dio volesse (per
esempio) che i pianeti si muovessero in linea curva senza essere
spinti da altri corpi Ogni volta che noi conosciamo qual che cosa
delle opere di Dio, vi troviamo dell' ordine. (Lettera allo
Hartaoekcr). II principio della ragion sufficiente, dunque, come
vale per risalire attraverso le cause dai dati esistenti lino a Dio,
cosi lieve essere applicato a Dio stesso, il quale, creando questo
mondo, non ha agito arbitrariamente, ma è stato guidato da un criterio
della sua azione. Non ha agito, neppur lui, senza una ragione del suo
agire; e questa ragione che. determina la sua volontà, è i l criterio del
massimo be ne, della massima perfezione. A q uest o criterio
Dio si è ispirato nel creare il mondo, e a questo criterio si deve
ricorrere dunque come alla ultima ragione di tutta la creazione. Il bene e la
perfezione come motivo dell esistenza delle cose, viene chiamato A n '\{
è±. Io ritengo che, ben lungi dal dover escludere le cause
finali dalla considerazione fisica, come pretende Descartes nei Principi
di Filosofia, parte 1, art. 28, sia piuttosto per mezzo di esse che tutto
si debba determinare, poiché la causa efficiente delle cose è
intelligente, avendo una volontà e perciò tendendo al bene.
(Lettera al Philipp!, 1080, 0. IV, 281). Dio mette in opera,
dunque, uno solo degli infiniti mondi possibili ; ma è retto da un
criterio in tale creazione. Questo criterio fa sì che il mondo da luf
scelto sia il migliore fra i mondi possibili. Questa infinita
saggezza, unita ad una bontà non meno infinita, non ha potuto fare a meno
di scegliere il migliore; poiché, come im male minore è, in certo senso,
un bene, cosi mi minor bene è, in certo senso, un male, se fa
ostacolo ad un bene più grande: e vi sarebbe qualche cosa da correggere
nelle azioni di Dio, se vi fosse modo di far meglio. E come in
matematica, quando non vi è nè massimo nè minimo e nulla, insomma, di
distinto, tutto avviene ugualmente, o, quando ciò è impossibile,
non avviene addirittura nulla ; si può dire lo stesso a proposito
della perfetta saggezza, la quale non è mono regolata che la matematica :
che, se non ci fosse stato il migliore (optimum) fra tutti i mondi possibili,
Dio non ne avrebbe prodotto nessuno. Chiamo mondo tutta la serie e tutto 1
insieme di tutte le cose esistenti, affinchè non si dica che più mondi
hanno potuto esistere in differenti tempi e in differenti luoghi. Giacché
bisognerebbe considerarli tutti insieme come un solo mondo, o se volete,
come un universo. E quando si riempissero tutti i tempi e tutti i
luoghi, resta pur sempre vero che si sarebbero potuti riempire in
una infinità di maniere, e che vi è ima infinità di mondi possibili, di
cui Dio deve aver scelto il migliore, perchè egli non fa nulla senza
agire secondo la suprema ragione. (Teodicea). Dio
dunque non scoglie arbitrariamente. Anche qui egli si ispira ad un
principio - il principio del migliore - che regola la sua azione nel
metterò in opera la realtà del mondo. In che cosa consiste questo
principio? Che cos’è il «migliore», questa causa finale deile verità di
fatto? Un criterio di massima realizzazione, di massima perfezione, di massima
felicità, bontà, etc. : insomma di armonia, che tende a che nei
limiti della possibilità venga realizzato il massimo di esistenza possibile.
Discende dalla perfezione suprema di Dio che, producendo T universo, egli
abbia scelto il miglior piano possibile, nel quale vi è la massima varietà, col
massimo ordine; il terreno, il luogo, il tempo meglio organati; il
massimo effetto prodotto coi mezzi più semplici; il massimo di potenza, il
massimo di conoscenza, il massimo di felicità e di bontà nelle creature,
ammissibile nell' universo. Infatti, dato che tutti i possibili
pretendono all'esistenza nell intelletto di Dio in proporzione delle loro
perfezioni, il risultato di tutte queste pretensioni deve essere il
mondo attuale, il più perfetto che sia possibile. Altrimenti non
sarebbe possibile rendere ragione del perchè le cose siano andate così
piuttosto che in altro modo. (Pricipes de la Nature et de la
(brace). È un mio principio, che tutto ciò che può esistere
ed è conciliabile con le altre cose, esista. Poiché la ratio exiatendi a
preferenza di tutti gli altri possibili, non deve essere limitata da
altra ragione, se non da quella che non tutte le cose sono conciliabili
fra di loro. L' unica ragione determinante è dunque ut exislant / totiora,
quae plurimum involvant realitatis. (Ii'rammonto del 1070, C.
530). Vi è una ragione in natura per cui esiste qualche cosa
piuttosto che nulla. Ciò è una conseguenza del grande principio che nulla
avviene senza una ragione, così come deve esservi anche una ragione per
cui esista una cosa piuttosto che un' altra. Tale ragione deve essere in
qualche ente reale o causa. Infatti la causa non è altro che una realis
ratio, e le verità di possibilità e di necessità (cioè di cui viene
negata la possibilità del contrario) non produrrebbero nulla se le
possibilità non si fondassero su qualche cosa di attualmente esistente.
Questo ente poi dovrà essere necessario: altrimenti si dovrebbe
ricercare di nuovo (contro l' ipotesi), di là da esso, una causa per cui
esso esista piuttosto che no. Quell'ente è insomma l'ultima ragione delle cose,
e in una parola lo si suole chiamare Dio. Vi è dunque una
ragione per cui 1 esistenza debba prevalere sulla non-esistenza. e cioè Ens
necessarium est existentificans. Ma quella causa che fa sì che
qualche cosa esista, cioè che la possibilità esiga l'esistenza, fa anche
sì che ogni possibile abbia una tendenza all'esistenza; poiché non si può
trovare in generale una ragione di restrizione all esistenza dei
possibili. Così si può dire che ogni jmsibile è un inizio di esistenza (
I ) in quanto si fonda su di un ente necessario attualmente esistente,
senza il quale non vi sarebbe alcuna via per la quale potesse
possibilmente giungere ad attuarsi. Ma da questo non deriva che tutti i
possibili esistano: ciò avverrebbe sì se tutti i possibili fossero
compossibili. Ma poiché vi sono alcune cose che sono
incompatibili con altre, ne segue che alcuni possibili non giungano
all'esistenza. E le cose possono essere incompatibili non solo
relativamente al medesimo tempo, ma anche universalmente parlando, perchè nelle
cose presenti sono implicite le future. Intanto però, dal conflitto
di tutti i possibili che pretendono all' esistenza, deriva questo almeno, che
esista (1) Traduciamo così il termine existilurire.
quella serie di cose per la quale
giunge all'esistenza il massimo numero di cose, cioè la serie massima di
tutti i possibili. E questa serie unica è determinata, così come
tra le linee è determinata la retta, tra gli angoli l'angolo retto, tra le
figure e i solidi quelle di massima capacità, cioè il circolo e la sfera.
E come vediamo che i liquidi si raccolgono spontaneamente in gocce
sferiche, così nell' universo esiste la serie di massima capacità.
Esiste dunque la massima perfezione; e non consiste se non nella
quantità di realtà. Inoltre la perfezione non si deve soltanto
ravvisare nella materia, cioè in ciò che riempie il tempo e lo spazio,
la cui quantità sarebbe sempre costante in qualsiasi modo, ma nella
forma o varietà. Ne consegue che la materia non è ovunque simile a
sè stessa, ma viene resa dissimile dalle forme; altrimenti non
otterrebbe tanta varietà quanta . le è possibile.... Ne consegue
anche che ha prevalso quella serie dalla quale derivava il massimo di
pensabilità distinta. E la pensabilità distinta dà ordine alla cosa
e bellezza a chi pensa. L 'ordine, non è altro infatti che relalio
plurium dislinctiva, e confusione si ha quando sono presenti bensì più
cose, ma non vi è un criterio por distinguere l una dall'altra.
Cade così il concetto eli atomo e in generale di qualsiasi corpo in cui
non vi sia un criterio di distinzione di una parte dall'altra.
E ne deriva universalmente che il mondo è un y.óapoc. un organismo
armonico, cioè fatto in modo da soddisfare massimamente chi
comprenda. Il piacere di chi comprende (voluptas intelligentis )
non è altro infatti che la percezione della bellezza, dell' ordine,
della perfezione; e ogni dolore contiene qualche cosa di disordinato, ma
solo riguardo a chi lo percepisce, perchè, assolutamente parlando, tutto
è ordinato. Così, quando alcunché ci dispiace nella serie delle
cose, ciò deriva da un difetto di comprensione. Infatti non è
possibile che ciascuno spirito comprenda tutto distintamente; e a chi osservi
solamente alcune parti piuttosto che altre, 1’ armonia non può apparire nel
suo complesso. Consegue da ciò che nell'universo è osservata anche
la giustizia, non essendo la giustizia altro che un ordine o
perfezione riguardo agli spiriti. (Frammento).
Necessità e libertà. - Anche questo criterio di perfezione, di
bontà, di armonia è, aqalogamente alle verità di ragione, assoluto,
oggettivo, a sè stante, indipendente dalla volontà di Dio, imposto dalla
necessità delle cose. Dio sceglie il migliore: ma non avrebbe potuto
scegliere altrimenti. Siamo qui in presenza della celebre questione della
conciliazione fra necessità e libertà-, la quale riguarda solo da lato il
nostro argomento, e rientra piuttosto nel problema della Teodicea. Anche
a questo proposito Leibniz si oppone a Cartesio. Contro coloro che
sostengono che non vi è bontà nelle opere di Dio o che le regole della
bontà e della bellezza sono arbitrarie. Io sono molto lontano
dall'opinione di coloro che sostengona che non vi siano affatto regole di bontà
e di perfezione nella natura delle cose, o nelle idee che Dio ne
ha; e che le opere di Dio non siano buone se non por la ragione formale
che Dio le ha fatte. Poiché, se ciò fosse, Dio, sapendo che egli ne è
l'autore, non avrebbe avuto ragione di guardarle in seguito e trovarle
buone, come testimonia la Sacra Scrittura (1), la quale non pare si sia
servita di questo linguaggio umano, se non per mostrarci che la
loro eccellenza si riconosce a guardarle in se stesse, anche se non
si fanno riflessioni su questa semplice denominazione esteriore, che le riattacca
alla loro causa. E ciò è Leibniz allude qui al racconto del Co p. I della
Genesi, in cui a ciascun atto della creazione seeue la frase: «E Dio vide che
ciò era buono». tanto più vero, in quanto proprio attraverso la
considerazione delle opere si può valutare chi le ha operate. Bisogna dunque
che queste opere portino in sè il suo carattere. Confesso che l'opinione
contraria mi sembra estremamente pericolosa e molto vicina a quella degli
ultimi novatori (1), i quali ritengono che la bellezza dell' universo e
la bontà che noi attribuiamo alle opere di Dio non siano se non
chimere degli uomini che concepiscono Dio a modo loro. Cosi, dicendo che
le cose non sono buone per nessuna regola di bontà, ma per la sola
volontà di Dio, si distrugge, mi semina, senza pensarci, tutto l'amore di
Dio e la sua gloria. Infatti, perchè lodarlo di ciò che egli ha fatto,
se egli sarebbe ugualmente lodevole facendo tutto il contrario? Dove sarà
dunque la sua giustizia e la sua saggezza, se non rimane che un certo potere
dispotico, se la volontà tiene il posto della ragione e se, secondo la
definizione dei tiranni, ciò che piace al più potente è, appunto per ciò,
giusto? Inoltre sembra che ogni volontà supponga qualche ragione di
volere, e che questa ragione sia naturalmente anteriore alla volontà. È
per questo che io trovo anche molto strana l’espressione di altri
filosofi, i quali dicono che le verità eterne della metafisica e
della geometria, e conseguentemente anche le regole della bontà,
della giustizia e della perfezione non sono che effetti della volontà di
Dio, mentre mi sembra che esse non siano che conseguenze del suo
intelletto, il quale non dipende affatto dalla sua volontà, così come non
ne dipende la sua essenza. Contro coloro che credono che Dio
avrebbe potuto far meglio. Non posso neppure approvare l’ opinione
di alcuni moderni (’.i) i quali sostengono arditamente che quello che
Dio Allude agli spinozisti (cfr. l’ed. cit. del Ijestibnnk). I/opinione
che Lei lini/, ha della dottrina di Spinoza, è per molti aspetti errata e
turbata da preconcetti. Cartesio (cfr. ibid.). Gli scolastici
del suo tempo (efr. ibid.). fa. non è l’assoluta perfezione, e che egli
avrebbe potuto agire assai meglio. Poiché mi semina che le
conseguenze eli questa concezione siano assolutamente contrarie
alla gloria di Dio. Ufi minus malum habet ratiouem boni, ita mimi*
bomttn habet rationem mali. E si chiama agire imperfettamente, agire con minor
perfezione di quello che si sarebbe potuto. E trovare a ridire sull'
opera di un architetto il mostrare che egli avrebbe potuto farla meglio. Questi
moderni credono anche di provvedere così alla libertà di Dio; come se non
fosse la piìi alta libertà quolla di agire in perfezione seguendo la
ragione sovrana. Poiché credere che Dio agisca in qualche cosa senza aver
alcuna ragione della sua volontà, oltre che apparire impossibile, è
opinione poco conforme alla sua gloria. Per esempio, supponiamo che Dio scelga
fra A e li. e che egli prenda A senza avere alcuna ragione di preferirlo
a B: io dico che questa azione di Dio, per lo meno, non sarebbe affatto
lodevole; poiché ogni lode deve essere fondata su qualche ragione
che non si trovi già ex hypothesi . Ritengo invece che Dio non faccia
nulla per cui non meriti di essere glorificato. (Discours de
métaphysique). I l criterio della, bontà e del «migliore», non è
dunque conseguenza della volontà divina: è piuttosto la volontà divina
che si ispira a questo criterio, il «piale ha una validità oggettiva a sé
stante, altrettanto come le verità di ragione. L'azione di Dio è da un
lato circoscritta dai limiti della possibilitòj dati dal principio di non
contradizione, nell’ambito del «piale essa si devo svolgere: dall’altro
lato è determinata da epiesto finalismo, da questo principio del «
migliore », della bontà, che costituisce l’oggetto necessario della sua
scelta. D'ambo i lati dunque, essa si trova determinata: e questa
determinazione costituisce la legge stessa «Iella sua perfezione.
Necessità nelle verità di ragione, dunque, poiché i principi di
esse sono inderogabili, tali che non potrebbero venir concepiti diversi da
«piel che sono; necessità anche nelle verità di fatto, in quanto la loro
ragion sufficiente non può non essere il principio della suprema
perfezione e bontà. Ma queste due forine «li necessità onde consta l'
intelletto e la volontà divina, quindi tutte le cose del mondo, non sono
identiche fra di loro: se lo fossero, cesserebbe, si può dire, ogni
distinzione fra verità di ragione e di fatto, e le une discenderebbero
dai medesimi principi che le altre, si baserebbero sulle medesime
leggi. La necessità di fatto ha invece caratteristiche sue proprie. Essa
non implica quella impossibilità «lei contrario che è essenziale caratteristica
della necessità di ragione. La necessità morale. - La necessità di
ragione è una legge regolativa dell’ intelletto divino. La necessità di
fatto e la ragion sufficiente che determina la volontà di Dio: e
questa ragione è necessitante sì, ma non in modo che il contrario
sarebbe impossibile. Questo secondo tipo di necessità, Leibniz lo
distingue a volte dalla necessità di ragione col chiamarlo motivo
inclinante (contrapposto a necessitante), necessità inorale.
Bisogna distinguere tra necessità assoluta e necessità ipotetica. Bisogna
pure distinguere fra una necessità che ha luogo perchè l’opposto implica
contradizione, e che vien chiamata logica, metafisica, o matematica, ed
una necessità olio è morale, che fa sì che il saggio scelga il migliore,
e che ogni spirito segua l' inclinazione più grande. La necessità
ipotetica è quella che viene imposta ai futuri contingenti dalla
supposizione o ipotesi della previsione e preordinazione da parte di Dio.11
bene, sia vero sia apparente, in una parola il motivo, inclina senza necessitare,
senza imporre cioè una necessità assoluta. Infatti, quando Dio, per
esempio, sceglie il migliore, ciò che egli non sceglie e che è inferiore quanto
a perfezione, non cessa di essere possibile. Ma se ciò che Dio
sceglie fosse necessario, ogni altra scelta sarebbe impossibile, contro T
ipotesi; poiché Dio sceglie tra i possibili, cioè fra vari partiti, dei quali
nessuno implica contradizione. Ma dire che Dio non può scegliere se
non il migliore, e volerne inferire che ciò che egli non sceglie è
impossibile, è confondere i termini, la potenza e la volontà, la necessità
metafisica e la necessità morale, le essenze e le esistenze. Giacché ciò che è
necessario, lo è per la sua essenza, poiché l'opposto implica
contradizione; ma il contingente che esiste deve la sua esistenza al principio
del migliore, ragione sufficiente delle cose. Ed è per questo che
io dico che i motivi inclinano senza necessitare; e che vi è ima certezza
e ima infallibilità, ma non una necessità assoluta nelle cose contingenti.
Ed ho mostrato a sufficienza nella mia Teodicea che questa
necessità morale è felice, conforme alla perfezione divina, conforme al
gran principio delle esistenze, che è quello del bisogno di una ragione
sufficiente; mentre la necessità assoluta e metafisica dipende dall'
altro grande principio dei nostri ragionamenti, che è quello delle
essenze, cioè quello dell’ identità o della contradizione; poiché quello
che è assolutamente necessario è l’unico possibile fra i vari partiti, e
il suo contrario implica contradizione. (Polemica con Clarke).
Bisogna distinguere tra il necessario e il contingente, quantunque
determinato. E non solo le verità contingenti non sono punto necessarie,
ma anche i loro legami non sono sempre di necessità assoluta, poiché
bisogna riconoscere che vi è differenza, nel modo di determinare, fra le
conseguenze che hanno luogo in materia necessaria e quelle che hanno
luogo in materia contingente. Le conseguenze geometriche e metafìsiche
necessitano, ma le conseguenze fìsiche e morali inclinano senza
necessitare; avendo il fisico stesso in sé qualche cosa di morale e di
volontario rispetto a Dio, poiché le leggi del movimento non hanno
altra necèssità che quella del migliore. Ora Dio sceglie liberamente, benché
egli sia determinato a scegliere il meglio. E, poiché i corpi stessi non
scelgono (avendo Dio scelto per essi), 1’ uso ha voluto che fossero
chiamati agenti necessari ; denominazione cui non mi oppongo, purché
non si confonda il necessario col determinato, e non si vada ad
immaginare che gli esseri liberi agiscano in una maniera indeterminata: errore,
questo, che ha prevalso in alcuni spiriti e che distrugge le più importanti
verità, ed anche l'assioma fondamentale che nulla accade senza ragione;
assioma senza il quale nè l' esistenza di Dio, nè altre grandi verità
potrebbero essere ben dimostrate. (Nuovi Saggi). Su questo argomento
della necessità e libertà, come su moltissimi altri con questo comiessi
(origine del male e sua giustificazione nel mondo, libero arbitrio,
responsabilità etc.) si imperniano molteplici problemi, riguardanti un
altro aspetto del pensiero leibniziano, che non dobbiamo qui
esaminare: ([nello della Teodicea. Verità di ragione e di fatto sono
dunque ciò di cui è costituita là realtà. Le une assolute, necessarie, imi
versali, ma di una universalità astratta, che ha luogo solo nel mondo
ideale delle possibilità, delle essenze. Le altre concrete, tangibili,
esistenti, ma insieme contingenti, individuali, tali che la loro esistenza
non può venire ilimostrata a priori, nè discendere matematicamente da
alcuna forma inerente alla costituzione del reale. La necessità morale,
basata sul principio ili ragione e finalistico, non elimina, come si è
visto, la contingenza: non dà quella assoluta certezza clic appartiene
alle verità di ragione e deriva dall’ impossibilità del contrario.
Il problema di Leibniz è ora la ricerca di una universalità anche
nel campo del contingente; o, in altri termini, la riduzione del principio di
ragion sufficiente a una linea altrettanto fissa e immutabile che quella
del principio di non contradizione. La sostanza individuale sarà la soluzione
di questo problema: e con essa Leibniz raggiungerà a suo modo, e sempre
nell’ambito della sua concezione oggettivistica della realtà, una sintesi
di universale e individuale. La carattkkistica. - Miraggio di Leibniz è
ili ottenere una certezza matematica in tutte le cose conosciute, in modo
ila eliminare tutto ciò che si fonila sull'opinione, e di ridurre ogni
ragionamento a un calcolo. È questo il fondamento di quella Scienza
generale, Caratteristica, Ars inveniendi di cui egli vagheggia 1 idea, a
partire dal suo saggio sull’Arte Combinatoria, fino alla fine della sua
vita. Posso dire senza vanità che, tra i miei contemporanei, sono
uno di quelli che pili ha approfondito la scienza matematica; ed ho scoperto
metodi e procedimenti completamente nuovi, che portano questa scienza di là dai
limiti che le erano stati prescritti. 1 saggi che ne ho dati hanno avuto
successo in Francia ed in Inghilterra: e mi sarebbe facile darne ancora
molti altri ; ma io non faccio gran caso delle scoperte
particolari, e ciò che desidero maggiormente è di perfezionare
l’arte d’ inventare in generale, e di dare piuttosto metodi che
soluzioni di problemi; poiché un solo metodo comprende un’ infinità di
soluzioni. E poiché ho avuto la fortuna di perfezionare considerevolmente
l'arte d' inventare o analisi dei matematici, ho cominciato ad avere
certe concezioni nuovissime, per ridurre tutti i ragionamenti umani ad una
specie di calcolo che servirebbe a scoprire la verità, nei limiti ili ciò
che è possibile ex datis, posto cioè quel che ci è dato o
conosciuto. E quando le conoscenze date non bastano a risolvere la
questione proposta, questo metodo servirebbe, come nelle matematiche, ad
accostarsi il più possibile alla soluzione e a determinare esattamente
ciò che è pili probabile. Un tale calcolo generale formerebbe nello
stesso tempo una specie di scrittura universale che avrebbe i
medesimi vantaggi che quella dei cinesi, perchè ciascuno la
potrebbe intendere nella sua lingua. Ma supererebbe infinitamente
la cinese in quanto la si potrebbe imparare in poche settimane, avendo essa
caratteri ben collegati secondo 1 ordine e la connessione delle cose; mentre i
cinesi hanno una infinità di caratteri secondo la varietà delle cose,
e occorre la vita di un uomo per imparar tiene la loro scrittura. I
caratteri cinesi si avvicinerebbero, secondo Leibniz, a quelli della sua
caratteristica, in quanto rappresentano, così come i geroglifici
egiziani, non le lettere di cui ciascuna parola ó forniate, ma l'oggetto
stesso che essa Questa scrittura o LINGUA (se si rendessero enunciabili
i caratteri) puo essere presto accolta nel mondo, perchè la si puo
imparare in poche settimane, e fornirebbe un mezzo generale di comunicazione:
il che sarebbe di glande importanza per la diffusione della fede e
per 1 istruzione dei popoli lontani. Ma questo sarebbe il minore dei
suoi vantaggi; giacche questa medesima scrittura sarebbe una specie di
algebra geneiale, e darebbe modo di ragionare calcolando, sicché,
invece di discutere, si potrebbe dire: contiamo. E si troverebbe che gli errori
di ragionamento non sono che errori di calcolo, riconoscibili mediante
prove, come nell’ aritmetica. Gli uomini avrebbero così un giudice delle
controversie veramente infallibile. Poiché potrebbero sempre sapere
se è possibile decidere la questione j>er mezzo delle conoscenze
che essi posseggono già, e quando non fosse possibile soddisfarsi
intieramente, potrebbero sempre determinare ciò che è più
verosimile. J ci giungere dunque a questa scrittura o
caratteristica, che contiene un calcolo così sorprendente, bisogna
cercare le definizioni esatte dei concetti. Poiché infatti le
nostre parole sono assai oscure e non ci dà imo spesso che nozioni
confuse, si è obbligati a sostituire ad esse altri caratteri, la cui
nozione sia precisa e determinata; ora le definizioni non sono se non
un'espressione distinta dell’ idea della cosa. E avendo io
studiato con cura non solamente la storia e le matematiche, ma anche la
teologia naturale, la giurisprudenza e la filosofia, ho portato molto avanti
questo progetto, e mi sono fatto una quantità di definizioni.
Per rappresenta. Differiscono però dai geroglifici inquanto «sono forse
più filone;. e sembrano fondati su considerazioni più intellettuali, come
quelle chedànno i numeri, l’ordine, le relazioni ». (Lettera inedita citata in J. Bakuzi, Leibniz et l' organisation
reXigieuse de la terre, Paris). esempio la definizione della
giustizia per me è la seguente : La giustizia è la carità del saggio, o
una carità conforme alla saggezza. La carità non è altro clxe la
benevolenza generale; la saggezza è la scienza della felicità, la felicità
è lo stato di gioia durevole, la gioia è un sentimento di perfezione, la
perfezione è il grado di realtà. Penso di poter dare definizioni
analoghe di tutte le passioni. virtù, vizi e azioni umane, quanto ve ne è
bisogno. E con questo mezzo si potrà parlare e ragionare con esattezza. E
siccome i nuovi caratteri comprenderanno sempre le definizioni delle
cose, ne segue che essi ci daranno modo di ragionare calcolando, come ho
appunto detto sopra. Ma per portare a termine un progetto di tanta
importanza. il quale fornirebbe al genere umano una specie di strumento
così adatto a perfezionare la vista dello spirito come gli occhiali
servono a quella del corpo, occorrerà molta meditazione ed un poco di
assistenza. (Lettera al Duca <li Hannover, 1 ti86 ( I ), il.
Vii, 25-27). È principalmente per attuare questo vastissimo
progetto che Leibniz propugnò durante tutta la sua vita la
fondazione di società di scienziati ed accademie. Il progetto rimase
sempre inattuato. Ma è interessante lo sviluppo che gli studi compiuti per esso
dettero al pensiero di Leibniz. 11 metodo per raggiungere quegli elementi
semplici o « caratteri " dalla cui composizione derivano tutti gli
oggetti della conoscenza umana, è un metodo di scomposizione delle idee che
troviamo di fronte a noi già composte, partendo dalle loro
definizioni. Data comunicatami da Ritter. Ecco la primitiva
formulazione di questo metodo nell’Arte Combinatoria: i L'analisi
avviene nel modo seguente: Dato un qualsiasi termine, lo si risolva nei suoi
elementi formali, cioè se ne ponea la definizione; questi clementi si
risolvano di nuovo in elementi, cioè si ponga la definizione dei termini
della definizione stessa, fino agli elementi semplici o termini
indefinibili; poiché „ non di tutte lo cose si deve ricercare la
definizione. E questi ultimi In greco nel testo: citazione da
Aristotele. Con tale metodo sarà possibile qualsiasi dimostrazione.
Conosciuta, infatti, 1 intima costituzione di ciascun concetto, si potrà
sempre stabilire in qualsiasi proposizione se il predicato rientri nel
soggetto, abbia cioè con esso in comune i suoi elementi costitutivi.
Di qualsiasi cosa, nulla ci può essere dimostrato, neppure da un angelo,
finché noi non conosciamo i termini costitutivi (requisita) di essa.
Infatti in ogni verità tutti i termini costitutivi del predicato sono
compresi fra i termini costitutivi del soggetto, e i termini dell’effetto ricercato
comprendono i mezzi che sono stati necessari per produrlo.
(Initia et specimina scientiae generali). termini non si
comprendono più per definizione, ma per analogia. Trovati tutti questi primi
termini, si pongano in una classe, e si indichino con segni qualsiasi; il
più comodo sarà numerarli. Fra i termini primi si pongano non solo lo cose ma
anche i modi o rapporti (**•). Poiché i termini composti variano in
distanza dai termini primi, a seconda del numero di termini primi di cui
si compongono - cioè a seconda dell’esponente della combinazione, - si
facciano tante classi, quanti sono gli esponenti, e in ciascuna classe si
pongano i termini che constano di un ugual numero di termini primi. I termini
sorti da una combinazione di due non si potranno indicare altrimenti che
scrivendo i termini primi di cui si compongono; c poiché i termini primi
sono indicati da numeri, si scrivano due numeri che indichino i due
termini. Ma i termini derivati da una combinazione di tre o anche da una
combinazione di maggior esponente - cioè quelli che sono nella classe
terza e seguenti - si possono indicare ciascuno in tanti modi diversi
quanto sono le combinazioni che compongono il suo esponente, considerato non
più come esponente, ma come numero Per esempio, siano alcuni
termini primi indicati dai numeri 3, 6, 7, 9; sia un termine composto della
classe terza, cioè formato da una combinazione di tre, p. es. dai tre
termini semplici 3, 6, 9; e siano nella seconda classe le seguenti
combinazioni: I.°) 3.6; 2.<>) 3.7; 3.°) 3.9; 4.°) 6.7; 5.®) 6.9; fi»)
7.9. Pico che quel dato termine della classe terza si può scrivere o cosi
: 3. 0. 9, Per analogia Leibniz e Grice intendeno un modo di apprensione
più immediato e diretto che non sia il processo logico definitorio; per esempio
un’ immagine sensibile. Altrove egli dice che i termini semplici si apprendono
coi sensi. Questo significa che i termini semplici non si devono
intendere solamente come dati concreti, di fatto, sensibili, ma comprendono
anche dati astratti, relazioni ecc. Quale sia la vera natura di questi
termini semplici o molto poco chiaro, o Leibniz si ò espresso in
proposito sempre in modo vago e impreciso. Criterio della
verità è dunque che il predicato rientri nell'ambito del soggetto; e questo
rientrare è perfettamente calcolabile. Ma tale criterio vale solamente
per le verità di ragione ohe sono analitiche. In esse sole il predicato è già
contenuto nel soggetto, poiché solo in esse tutto ciò che si afferma
(predica) a proposito di una cosa deve essere già nella cosa stessa. Se io
dico che gli angoli di un triangolo sono uguali a due retti, non
faccio altro che mettere in rilievo, nel concetto di triangolo, una
qualità già implicita in esso. Il predicato (essere uguali a duo retti)
fa parte già a priori del soggetto (angoli di un triangolo). Ma posso io
affermare che nel concetto di GIULIO (si veda) Cesare, per esempio, sia
già contenuta, a priori, l’azione di PASSARE IL RUBICONE? La proposizione:
Cesare passò il Rubicone—GIULIO CESARE PASSA IL RUBICONE – (Grice, Actions and
Evnts) non è analitica, il suo predicato cioè non è già compreso nel
sog esprimendo tutti i suoi termini semplici; oppure esprimendo un
semplice o, in luogo degli altri duo semplici, la loro combinazione, p.
es. così ; 1 /2 -9 oppure 8/2 . 6, oppure 5 / 2 .3..Ogni qualvolta un tonnine
composto viene usato fuori della sua classe, lo si scrive sotto forma di
una frazione il cui numero superiore o numeratore è il numero d’ordine
nella classe, e quello inferiore o denominatore il numero della classe. È
più comodo, nell’ indicare i termini oomposti, di non scrivere tutti i termini
primi, ma gli intermedi, per diminuirne il gran numero, e fra questi
intermedi di scegliere quelli che più facilmente vengono in mente a chi
consideri quella determinata cosa. Ma sarebbe più rigoroso scrivere tutti
i termini primi. Stabiliti questi principi, si possono trovare tutti i
soggetti 0 i predicati, sia affermativi sia negutivi, sia universali sia
particolari. I predicati di un soggetto dato sono infatti 1 suoi termini
primi; così pure tutti i termini composti più vicini di esso ai primi, i
termini primi dei quali sono compresi nel soggetto dato. Se dunque il
termino dato che viene considerato come soggetto è scritto in funzione
dei suoi termini primi, sarà facile trovare quei primi che di esso si
predicano, o si potranno anche trovare i composti che di esso si
predicano, se si conserverà l’ordine nel formare le combinazioni. Se invece il
termine dato è indicato corno una composizione di composti, o in parte di
composti, in parte di semplici, tutto ciò che si può predicare dei
composti che lo compongono si può predicare anche del termine dato In tal
modo sara facile indagare per mezzo del calcolo tutto ciò che si può predicare
di qualsiasi soggetto dato. ARS COMBINATORIA). P. es. 5/2 . 3
significa la combinazione del termine semplice 3 col termine composto che ha il
quinto posto nella seconda classe; e cioò, secondo la lista indicata
sopra, con 6.9. La notazione 5 /2 - 3 indica dunque il termine composto
3.6.9. Questo ò, in sostanza, lo schema dol procedimento sillogistico, in
cui iò che si predica del termine più generale si può predicare anche del
particolare in esso contenuto. getto, ma vi viene aggiunto per esperienza
diretta, contingente. Questa proposizione appartiene alle verità di
fatto. Ora, è possibile una dimostrazione rigoros.a in questo campo,
se ogni dimostrazione è, come si è visto, un semplice calcolo per
stabilire che i termini componenti il predicato fanno parte del complesso
dei termini componenti il soggetto? Leibniz dice a volte che la dimo
strazione, quanto alle proposizioni di fatto, da solo IìT PROBABILITÀ e non la certezza
– cf. Grice, “Probability, Desirability, and Mode Operators”. Ma egli
tenta anche di fondare in modo più rigoroso la sistemazione logica di
queste verità, e di far rientrare anche esse nella regola del predicato
contenuto nel soggetto. A tale scopo egli si serve del principio di
causalità, cui sottostanno tutte le verità di fatto. I termini dell’effetto
ricercato - si è visto comprendono i mezzi necessari a produrlo. L'effetto
(measles), cioè, comprende già nella sua nozione tutte le cause (those spots) che
1’hanno determinato. E, reciprocamente, potremo dire che la nozione della
causa racchiude in sè già implicitamente tutti gl’effetti – cf. Grice,
CONSEQUENTIA -- cui da luogo. Ora, poiché ogni dato di fatto appartiene
alla serie delle cause e degl’effetti, ed è insieme effetto e causa,
si può affermare che ogni nozione individuale contiene in se le nozioni
delle cause che 1’hanno prodotta e degl’effetti cui da luogo. Questa
causa e questi effetti a loro volta conterranno le loro cause e i loro effetti,
e così via, fino alla causa prima del tutto e causa di sè, cioè il divino.
Sicché ciascun singolo dato e collegato, attraverso tali rapporti causali,
con tutto l’universo. La conoscenza di tutti questi infiniti nessi
causali è superiore alle forzi dell ingegno umano, il quale perciò
si contenta di ricorrere all’esperienza del dato di fatto, rinunciando a
dedurlo dalle sue cause. È però, in linea di principio,
possibile. Le proposizioni certe per sè stesse sono di due tipi; le
ime hanno la loro validità nella ragione, e cioè nel contenuto dei loro termini
e io le chiamo note per sè stesse o anche identiche. L’altre sono di f'atdoT e
ci sì manifestano attraverso esperienze indubitabili. Tali sono anche le
testimonianze immediate della coscienza. Anche le proposizioni di fatto hanno
le loro ragioni, e perciò potrebbero essere risolte nella propria costituzione.
Ma noi non potremmo conoscerle a priori attraverso le loro cause, se non
conoscendo la totalità dell'universo – COGNITA TOTA SERIE RENIVI -- il che
supera la forza dell' intelletto umano. Perciò le apprendiamo a
posteriori, sperimentalmente. Ma poiché spesso dobbiamo agire riguardo a
cose per le quali manchiamo di una sicura scienza, è preferibile che
almeno sappiamo di sicuro che una certa proposizione è PROBABILE. Præ-cognita
<id Encyclopatdiam). L’apprensione per via sperimentale e il metodo
della PROBABILITÀ derivano dalla imperfezione della conoscenza umana. In linea
di principio, anche di qualsiasi verità di fatto si può avere una nozione
ANALITICA A PRIORI tale che contenga in sè già sviluppati tutti i
predicati, cioè tutti gl’effetti e le cause. Il segno d’una conoscenza
perfetta si ha quando non c'è nulla della cosa trattata di cui non si
possa render ragione, e non vi sia nessun avvenimento di cui non si
possa predile l'avverarsi. Frammento De la Hagense). Ora, tale
conoscenza a priori dei contingenti, se è impossibile alla mente umana, non è
impossibile a Dio che li ha scelti e li ha messi in atto. Di
qualsiasi verità si può rendere ragione. Infatti, la connessione del
predicato col soggetto o è evidente eli per sè, come nelle proposizioni
identiche (“Grice = Grice, relative to time t), oppure si deve spiegare, il che
avviene con la scomposizione dei termini. E l'unico c massimo criterio
della verità, beninteso nelle proposizioni astratte e non derivanti dall'
esperienza, è di risolversi nell’identità – VT SIT REI IDENTICA VEL AD
IDENTICAS REVOCABILIA. Di qui si possono dedurre gl’elementi della eterna
verità e il metodo in ogni problema, purché si sap Oioè potrebbero essere
considerate come analitiche. pia procedere in modo altrettanto
dimostrativo che nella geometria. Così, tutto viene compreso da Dio a
priori e al modo delle verità eterne; poiché egli non ha bisogno di
esperienza, ed ogni cosa viene conosciuta da lui in modo adeguato, mentre
da parte nostra quasi nessuna cosa è conosciuta adeguatamente, poche a
priori, e le più per via sperimentale. E per quest'ultimo modo di
conoscenza si devono usare altri principi ed altri criteri. (Ve Synthesi
et Analysi universali). Qualsiasi cosa creata, dunque, nella sua
considerazione a priori, così come è nella mente di Dio, contiene in sè
come predicati tutti gl’altri contingenti che sono stati o saranno
in una qualsiasi connessione causale con essa. In una parola, tutto il suo
passato e tutto il suo avvenire. Ciò che sono i termini semplici nella
costituzione dei concetti di ragione, sono, nelle verità di fatto, questa
serie di cause e di effetti. Intesa ciascuna verità di fatto in questo
modo, come soggetto di infiniti predicati, Leibniz la chiama sostanza
individuale. Essa racchiude in sè, quando sia intesa in tutta la sua
comprensione, con gl’infiniti suoi collegamenti, tutto l'universo. Per
distinguere l’azioni di Dio e delle creature, viene spiegato in che
consista il concetto di sostanza individuale. Poiché l’azioni e le
passioni appartengono propriamente alle sostanze individuali (actiones sunt
mppositorum), è necessario spiegare che cosa sia u mutale sostanza. E
pur vero che quando si attribuiscono piìi PREDICATI ad un medesimo soggetto, e
questo soggetto non si attribuisce come predicato a nessun altro, lo si chiama
sostanza individuale. Ma ciò non è sufficiente, ed una tale spiegazione
non è che nominale. Bisogna dunque considerare che cosa significa l'essere
attribuito veramente ad un certo soggetto. Ora è evidente che ogni
vera predicazione ha qualche fondamento nella natura delle cose, e quando
una proposizione non è identica, quando cioè il predicato non è compreso
espressamente nel soggetto, Insogna che vi sia compreso virtualmente: ed
è ciò che i filosofi chiamano in-esse, dicendo che il predicato è nel
soggetto. Così occorre che il termine del soggetto comprenda sempre
quello del predicato, in modo che colui che intende perfettamente la nozione
del soggetto, giudicherebbe anche che il predicato gli
appartiene. Posto ciò, possiamo dire che la natura di una sostanza
individuale o di un essere completo è che la sua nozione è così compiuta,
da bastare a comprendere e a farne dedurre ogni predicato del soggetto
cui questa nozione si attribuisce. Mentre l’accidente è un essere la cui
nozione non comprende affatto tutto ciò che si può attiibuire al soggetto (GRICE
– HAZZING AND IZZING) al quale si attribuisce questa nozione. Così la
qualità di re che appartiene ad Alessandro Magno – o GIULIO (vedasi) CESARE, o
meglior, ROMOLO, facendo astrazione dal soggetto, non è abbastanza
determinata ad un individuo, e non comprende affatto le altre qualità del
medesimo soggetto, nè tutto ciò che è compreso nella nozione di quel principe o
dittatore. Mentre Dio, vedendo la nozione individuale o /«eccetto* d’Alessandro
o GIULIO (vedasi) CESARE, o meglior ROMOLO (vedasi) vi vede nello stesso
tempo il fondamento e la ragione di ogni predicato che gli si possono veramente
attribuire, come per esempio che egli vince Dario e Poro – o ch’è
assassinato da suo proprio figlio – o ch'assassina a suo proprio fratello --,
fino a conoscervi a priori, e non per esperienza, se egli è morto di
morte naturale o per veleno o coltello – o come sacrifizio dai sequaci di Numa;
cose che noi non possiamo sapere se non dalla storia della ROMA ANTICA.
Inoltre, quando si consideri bene la connessione delle cose, si può dire
che vi sono d’ogni tempo nell’anima d’Alessandro o GIULIO CESARE o ROMOLO
resti di tutto ciò che gli e Cioè, nelle proposizioni identiche
(analitiche) il predicato è contenuto nel soggetto per la conformazione
del soggetto stesso (espressamente). Nelle proposizioni di fatto, invoee il
predicato è contenuto nel soggetto in quanto collegato ad esso da una
relazione di causa ad effetto (virtualmente)] accaduto, e segni di tutto ciò
che gli accadrà, perfino tracce di tutto ciò che accade nell’universo;
benché non appartenga che a Dio di riconoscerle tutte (Discours de
métaphysiqtu:,-- hence ‘God knows’ – cf. Kenny, The god of the philosophers,
the Wilde Oxford lectures on natural religion). A questa stregua
possiamo dire che l’atto di PASSARE IL RUBICONE – essempio di Grice, “ACTIONS
AND EVENTS” -- non si aggiunge alla nozione di GIULIO (vedasi) Cesare come
qualche cosa di nuovo, di contingente, d’imprevisto. GIULIO (vedasi) Cesare,
per chi intenda questa nozione in tutti i suoi collegamenti, contiene
in sè già a priori tutto lo sviluppo della sua personalità, COMPRESSO
L’ATTO DI PASSARE IL RUBICONE -- il quale, quando si attuerà, non è che la
CONSEQUENZA (Grice, CONSEQUENTIA) necessaria delle cause che 1’hanno
prodotto, quindi lo sviluppo ili ciò che è già contenuto in
esse. Libertà e causalità. Sorge qui di nuovo, analogamente a ciò che
si è visto poc’anzi a proposito della determinazione di Dio a scegliere il
migliore, il problema della libertà – cf. Grice on FREE FALL in “Actions and
Events”. Se ogni fatto contingento È presente nella mente di Dio,
non cessa esso di essere contingente? Non è per ciò stesso necessario,
pre-determinato? E non cade così anche qualsiasi libertà nell azione dell’uomo,
la quale si svolge nel campo delle verità di fatto? E insieme con essa,
ogni responsabilità umana nel biute e nel male? Anche a proposito di
questo problema, strettamente collegato con l'altro citato, Leibniz fa
una distinzione fra connessione necessaria e inclinante. Poiché la
nozione individuale d’ogni persona comprende una volta per tutte ciò che
mai le accade, si redono in essa le prove a priori dell’avverarsi di
ciascun avvenimento, o le ragioni per cui è avvenuta una cosa piuttosto
che un’altra. Ina queste verità, benché sicure, nondimeno sono
contingenti, in quanto fondate sul LIBERO ARBITRIO di Dio o delle CREATURE –
cf. Grice/Pears/Thomson, Freedom of the will, the Oxford seminars --, la cui
scelta dipetuie sempre da ragioni che inclinano senza necessitare. Bisogna
cercare di risolvere una grave difficoltà che può nascere dai fondamenti
che abbiamo fissato qui sopra. Abbiamo detto che la nozione di una
sostanza individuale comprende una volta per tutte tutto ciò che le può
mai accadere, e che, considerando tale nozione, vi si può vedere tutto ciò che
si potrà veramente enunciare di essa, come possiamo vedere nella natura
del circolo tutte le proprietà che se ne possono dedurre. Ma semi ira che venga
con ciò distrutta la differenza fra le verità contingenti e le necessarie,
che non vi sia più alcuna libertà umana, e che una fatalità assoluta
venga a regnare su tutte le nostre azioni come su tutto il resto degli
avvenimenti del mondo. Al che io rispondo che bisogna fare distinzione
fra ciò che è certo e ciò che è necessario: tutti sono d'accordo che
i futuri contingenti sono assicurati, poiché Dio li prevede; ma non
si riconosce, dicendo ciò, che siano necessari. Ma, si dirà, se qualche
conclusione si può dedurre infallibilmente da una definizione o nozione, essa
sarà necessaria. Ora. dato che noi sosteniamo che tutto ciò che deve
accadere a qualsiasi persona è già compreso virtualmente nella sua natura
o nozione, così come nella definizione del circolo sono comprese le sue
proprietà, la difficoltà sussiste ancora. Per risolverla in modo
plausibile, dico che la connessione o consecuzione è di due specie : l’ una è
assolutamente necessaria, e il suo contrario implica contradizione (e
questo modo di deduzione ha luogo per le verità eterne, come quelle di
geometria). L’altra non è necessaria che ex hypothesi e, per così dire,
accidentalmente, ma in sè stessa è contingente: e ha luogo quando il
contrario non implica contradizione. E questa connessione è fondata non
sulle pure idee e sul semplice intelletto di Dio, ma anche sui suoi
liberi decreti e sull'ordine dell’universo. Veniamo ad un esempio:
poiché Giulio Cesare diverrà dittatore perpetuo e capo della repubblica,
e rovescerà la libertà dei Romani, tale azione è compresa nella sua
nozione, poiché noi supponiamo che la natura di una tale nozione perfetta
di un soggetto sia di comprendere tutto, affinché il predicato vi sia
compreso, ut possit inesse subjecto. Si potrebbe dire che non è in virtù di
questa nozione o idea che egli deve commettere questa azione, poiché essa
non gli conviene se non perchè Dio sa tutto. Ma si insisterà che la sua
natura o forma risponde a questa nozione, e poiché Dio gli ha imposto
questa parte, gli è ormai necessario sostenerla. Io potrei rispondere
invocando l’analogia dei futuri contingenti, i quali non hanno ancor
nulla di reale se non nell’ intelletto e nella volontà di Dio, e poiché
Dio ha dato loro inizialmente questa forma, bisognerà in ogni modo che vi
rispondano. Ma preferisco risolvere le difficoltà che giustificarle
con l’esempio di altre difficoltà simili; e ciò che dirò, servirà a
chiarire sia l una sia l'altra. È dunque ora il momento di applicare la
distinzione fra le connessioni; ed io dico che ciò che accade
conformemente a questi precedenti è sicuro, ma non necessario: e se
qualcheduno facesse il contrario, non farebbe nulla d’
impossibile in sé, quantunque sia impossibile (ex hypothesi) che ciò accada.
Poiché, se qualche uomo fosse capace di portare a termine tutta la
dimostrazione in virtù della quale potrebbe provare questa connessione del
soggetto che è Cesare col predicato che è la sua fortunata impresa,
mostrerebbe effettivamente che la dittatura futura di Cesare ha il suo
fondamento nella sua nozione o natura: che vi si vede una ragione per cui
egli ha deciso di passare il Rubicone piuttosto che di arrestarvisi, e
per cui egli ha vinto piuttosto che perso la giornata di Farsaglia, e si vede
pure che era ragionevole e perciò sicuro che ciò sarebbe accaduto, ma non
che ciò fosse necessario in sé stesso, nè che il contrario implicasse
contradizione. Press’ a poco come è ragionevole e sicuro che Dio farà sempre il
migliore, benché ciò che è meno perfetto non implichi affatto
contradizione. Infatti si troverebbe che tale dimostrazione di
questo predicato di Cesare non è altrettanto assoluta che quella dei
numeri o della geometria, ma che essa presuppone l’ordine delle cose che
Dio ha scelto liberamente, e che è fondato sul primo Ubero decreto di Dio
- il quale comporta di fare sempre tutto ciò ohe è più perfetto - e
sui decreto che Dio ha fatto (in seguito al primo) riguardo alla natura
umana, cioè che l’uomo farà sempre (per quanto liberamente) ciò che
parrà il migliore. Ora ogni verità che sia fondata su questa specie di
decreti è contingente, benché sia certa; poiché questi decreti non
cambiano affatto la possibilità delle cose e, come ho già detto, benché
Dio scelga sempre sicuramente il migliore, ciò non impedisce che ciò che
è meno perfetto non sia e non resti possibile in sé stesso, sebbene non
accadrà ; perchè non è la sua impossibilità, ma la sua imperfezione che
lo fa respingere. Ora nulla è necessario, di cui sia possibile
l’opposto. Si sarà dunque in condizione di risolvere queste
specie di difficoltà, per quanto grandi appaiano (ed infatti esse
non sono mono impellenti a questo riguardo che tutte le altre che si sono
mai riferite a tale materia), purché si consideri bene che tutte le
proposizioni contingenti hanno ragioni per essere piuttosto così che
altrimenti, oppure (ciò che è lo stesso) che esse hanno delle prove a
priori della loro verità, le quali le rendono certe e mostrano che
la connessione del soggetto e del predicato di queste proposizioni ha il suo
fondamento nella natura dell’ imo e dell'altro: ma che esse non hanno dimostrazioni
di necessità, poiché queste ragioni non sono fondate che sul principio
della contingenza o dell'esistenza delle cose, cioè su ciò che sembra il
migliore fra varie cose ugualmente possibili : mentre le verità necessarie sono
fondate sul principio di contradizione e sulla possibilità o
impossibilità delle essenze stesse, senza riguardo, in ciò, alla volontà
libera di Dio o delle creature. ( Discour « de métti
physique). D’altra parte, Leibniz usa anche altri argomenti per
salvare la libertà e la responsabilità in questa connessione causale
universale. Libertà non è sempre necessariamente un contrapposto di
determinazione causale. Quanto al libero arbitrio, sono dell'
opinione dei tomisti (1) e di altri filosofi, i quali credono che tutto
sia predeterminato: e non vedo ragione di dubitarne. Ciò però non
impedisce che noi abbiamo ima libertà esente non solo dalla costrizione,
ma anche dalla necessità: ed in ciò la nostra situazione è analoga a
quella di Dio stesso, il quale è pure sempre determinato nelle sue
azioni, poiché non potrebbe fare a meno di scegliere il migliore. Ma
se egli non avesse da scegliere, e se ciò che egli la, fosse 1
unico possibile, egli sarebbe sottomesso alla necessità. Piu si è
perfetti, più si è determinati al bene, ed anche più liberi nello stesso
tempo. Poiché si ha una facoltà e conoscenza tanto pili estesa ed una
volontà tanto più rinchiusa nei limiti della perfetta ragione.
(Lettera al Bayle). Quantunque tutti i fatti dell’universo siano
ora certi in rapporto a Dio. o (ciò che è poi lo stesso) determinati
in sé stessi ed anche legati fra di loro, non ne viene di conseguenza che
il loro legame sia sempre di una vera necessità. cioè che la verità la quale
stabilisce che un fatto è conseguenza dell altro, sia necessaria. Ed è
questo principio che bisogna applicare particolarmente alle azioni
volontarie. Quando ci si propone una scelta, per esempio di
uscire o di non uscire, il problema è se, con tutte le circostanze
interne od esterne, motivi, percezioni, disposizioni, impressioni. passioni,
inclinazioni prese insieme, io sia ancora in istato di contingenza, o se
io sia necessitato a scegliere, per esempio, di uscire. Cioè è da
domandare se la proposizione vera ed effettivamente determinata: « in tutte
queste circostanze prese insieme io sceglierò di uscire », sia
con- Il principio ohe il mondo sensibile sia retto dalla leggo di
causalità appartiene alla tradizione ari»toteliea, ricevuta da Leibniz
attraverso la scolastica. tingente o necessaria. A ciò io rispondo
che è contingente; perchè nè io nè alcun altro spirito più illuminato di
me potrebbe dimostrare che l'opposto di questa verità implichi
contradizione. E supposto che per libertà il' indifferenza et intenda una
libertà opposta alla necessità (come ho or ora spiegato), io accetto tale
concetto della libertà. Poiché sono effettivamente d'opinione che la
nostra libertà, così come quella di Dio e degli spiriti beati, è esente
non solo da coazione, ma anche da una necessità assoluta; benché
essa non possa essere esente dalla determinazione e dalla certezza.
Ma io penso che in questo argomento sia necessaria una grande
precauzione, per non cadere in una concezione chimerica che urta contro i
principi del buon senso: la quale sarebbe ciò che io chiamo indifferenza
assoluta o di equilibrio: concetto che taluni introducono nella libertà, e
che io ritengo chimerico. Bisogna dunque considerare che questo legame di
cui ho parlato, assolutamente parlando non è punto necessario, ma che non
jier questo è men vero; e che in generale, ogni volta che. in tutte le
circostanze prese insieme, la bilancia della deliberazione è piìi
carica da una parte che dall’altra, è certo e immancabile che questo
partito vincerà. Dio, o il saggio perfetto, sceglieranno sempre il
migliore conosciuto, e se un partito non fosse migliore dell'altro, essi non
sceglierebbero nè l'uno nè l’altro. Nelle altre sostanze intelligenti, le
passioni spesso terranno luogo di ragione, e si potrà semine dire,
riguardo alla volontà in generale, che la scelta segue la jiiù grande
inclinazione-, nella quale io comprendo sia le passioni, sia le ragioni
vere o apparenti. So bensì che qualcuno immagina che ci si
determini qualche volta per il partito meno carico di ragioni, che
Dio scelga qualche volta, tutto considerato, il minor bene, e che l’ uomo
scelga a volte senza motivo e contro tutte le sue ragioni, disposizioni e
passioni; insomma che si scelga a volte senza che vi sia alcuna ragione
che determini la scelta. Ma ciò, io lo ritengo falso e assurdo, poiché è
uno dei massimi principi del buon senso che nulla accada senza
causa o ragione determinante. Così, quando Dio sceglie, lo fa secondo
il criterio del migliore; quando l'uomo sceglie, sceglierà il partito che
l'avrà colpito maggiormente. E se scegliesse ciò che vede meno
utile e meno piacevole, sarà magari perchè gli è divenuto piacevole per
capriccio, per spirito di contradizione, o per analoghe ragioni di gusto
depravato; le quali però non per questo saranno meno determinanti, anche
quando non fossero concludenti. E non si troverà mai un esempio contrario
a ciò. Così, quantunque noi abbiamo una libertà di
indifferenza che ci salva dalla necessità, non abbiamo mai una indifferenza
di equilibrio che ci esima dalle ragioni determinanti. C’è sempre qualche cosa
che ci inclina e ci la scegliere, ma senza che ci possa necessitare. E come Dio
e sempre portato infallibilmente al migliore, per quanto non vi sia
portato necessariamente (se non per mia necessità morale), noi siamo
sempre portati infallibilmente a ciò che ci colpisce di più, ma non
necessariamente. Poiché il contrario non implicava alcuna contradizione,
non era punto necessario nè essenziale che Dio creasse alcunché nè
che creasse particolarmente questo mondo: benché la sua saggezza e la sua
bontà ve lo abbiano indotto. (Lettera al Coste, 1707, 6. Ili,
400-102). Previsione e predeterminazione. - Posto ciò, è possib ile
pensare che la previsione dei predicati contingenti da partedi Dio non
contraddica alla libertà. P reveder e non significa predeterminare. Dio
sceglie fra i possibili una serie nella quale soiuTdpaT contenute
determinate azioni col carattere di libertà. Nello sceglierle, egli non le crea
nè le determina: non fa che metterle in azione, attualizzare la loro
possibilità. Nel farlo, egli vede tutta la serie, ne prevedo gli
sviluppi: con ciò non ha però determinato quelle azioni, le quali
mantengono, nella serie attuale come in quella possibile, la loro
caratteristica di libertà. Dio inclina la nostra anima senza
necessitarla ; non si ha il diritto di lamentarsi, e non si deve
domandare perchè Giuda pecchi, ma solamente perchè il peccatore Giuda sia
ammesso all' esistenza a preferenza di altre persone possibili. Imperfezione
originale prima del peccato e gradi della grazia. Quanto
all’azione di Dio sulla volontà umana, vi sono moltissime considerazioni
assai difficili, che sarebbe lungo esporre qui. Ciò nonostante, ecco che
cosa si può dire all' ingrosso: Dio, concorrendo ordinariamente alle
nostre azioni, non fa che seguire le leggi che egli ha stabilite;
egli conserva, cioè, e produce continuamente il nostro essere, in modo che i
pensieri ci arrivino spontaneamente o liberamente nell'ordine determinato
dalla nozione della nostra sostanza individuale, nella quale essi si
potevano prevedere fin dall’eternità. In più, in virtù del suo
decreto secondo cui la volontà tende sempre al bene apparente,
esprimendo o imitando la volontà di Dio sotto certi aspetti particolari,
riguardo ai quali questo bene apparente ha sempre qualche cosa di reale,
egli determina la nostra alla scelta di ciò che sembra il migliore, senza
però necessitarla. Poiché, assolutamente parlando, essa è nell’ indifferenza,
in quanto la si oppone alla necessità, ed ha il potere di fare altrimenti
o anche di sospendere affatto la propria azione; l'uno e l'altro partito
essendo e rimanendo possibili. Dipende dunque dall'anima di
premunirsi contro le sorprese dell’apparenza, attraverso una ferma volontà di
fare riflessioni, e di non agire nè giudicare in determinate occasioni,
se non dopo aver maturamente deliberato, fi vero però, ed anche è
assicurato da tutta f eternità, che qualche anima non si servirà affatto
di questo potere in una tale circostanza. Ma chi ne ha colpa? può essa
lagnarsi d'altri che di sè stessa ? Poiché tutte queste lagnanze post
factum sono ingiuste, quando sarebbero state ingiuste ante factum.
Ora quest’anima, un poco prima di peccare, avrebbe motivo di lagnarsi di Dio
come se egli la determinasse al peccato? Essendo le determinazioni di Dio
in questa materia imprevedibili, d’onde sa essa di essere determinata a
peccare, se non quando essa pecca già effettivamente? Non si tratta che
di non volere; e Dio non potrebbe proporre condizione più agevole e piii
giusta; così tutti i giudici, senza cercare le ragioni che hanno disposto
un uomo ad avere una cattiva volontà, si fermano a considerare soltanto
quanto questa volontà sia cattiva. Ma forse è fissato da tutta l’eternità
che io peccherò? Rispondete voi stessi: forse no. E senza pensare a ciò
che voi non potete conoscere e che non può darvi alcun lume, agite
seguendo il vostro dovere, che conoscete. Ma qualche altro dirà : D
onde consegue che quest'uomo commetterà sicuramente questo peccato ? La
risposta è facile: è che altrimenti non sarebbe quest’ uomo. Poiché
Dio vede dall’eternità che vi sarà un certo Giuda la cui nozione o idea
posseduta da Dio contiene questa azione futura libera. Non resta dunque
se non questo problema: perchè un tal Giuda, traditore, che non è se non
possibile nell’ idea di Dio, esista attualmente. Ma a tale domanda
non è da aspettare risposta quaggiù, se non che in generale si deve dire che,
poiché Dio ha trovato giusto che Giuda esistesse nonostante il peccato
che egli prevedeva, bisogna che questo male si compensi ad usura nell -
universo, che Dio ne tragga un bene maggiore, e che insomma
questo ordine di cose, nel quale l'esistenza di tale peccatore è
compresa, sia il più perfetto fra tutti gli altri ordini possibili. Questo
concetto del male come parte integrante e necessaria dell’armnnia universale,
sarà il tenia fondamentale della Tendiceli. Ma spiegare sempre l'
ammirevole economia di questa scelta, non si può, durante il nostro
passaggio su questo mondo; e basti saperlo, senza comprenderlo. Questo è
il momento di riconoscere altitudinem divitiarum, la profondità e
l’abisso della saggezza divina, senza voler sviluppare problemi di
dettaglio, che implicano considerazioni infinite. Si vede però bene
che Dio non è la causa del male. Poiché non soltanto dopo la perdita
dell’ innocenza degli uomini il peccato originale si è impossessato dell'
anima, ma ancor prima vi era una limitazione o imperfezione
originale connaturale a tutte le creature, che le rendeva soggette al
peccato e capaci di errare. Così non vi è maggior difficoltà riguardo ai
supralapsari (1) che riguardo agli altri. Ed a ciò, a mio avviso, si deve
ridurre l'opinione di S. Agostino e di altri autori, che l’ orìgine del
male sia nel nulla; cioè nella privazione o limitazione delle creature,
alla quale Dio rimedia graziosamente col grado di perfezione che gli
piace di dare. Questa grazia di Dio, sia ordinaria o straordinaria, ha i
suoi gradi e le sue misure, è sempre efficace in sé stessa a produrre un
certo effetto proporzionato; ed inoltre essa è sempre sufficiente,
non solo a preservarci dal peccato, ma anche a condurci alla
salvazione, supponendo che l’uomo si unisca ad essa per quanto dipende da
lui. Ma essa non è sempre sufficiente a superare le inclinazioni dell'
uomo, perchè altrimenti egli non terrebbe più a nulla; e ciò è riservato
alla sola grazia assolutamente efficace, che è sempre vittoriosa; o che
lo sia per sè stessa, o per l'accordo delle circostanze.
(Discount de mélaphysiqne). L supralapsari sostenevano, contro gli
infialapsari, che la predeterminazione divina si esercitasse anche prima del
peccato originale (sujrra lapsum, prima della caduta) e che quindi il
fallo di Adamo non fosse stato compiuto per un atto di libera volontà.
Leibniz, con questu sua conciliazione di predeterminazione e contingenza o
libertà, rende ozioso il problema, Leibniz, La monadologia. Ma a parto
questi problemi di necessità, libortà, previsione predeterminazione, che
rientrano piuttosto nell’ambito della Teodicea, il punto essenziale
toccato qui è V universalità della sostanza indimdmle che, con lo
infinite connessioni che racchiude in sè, diviene l’universo stesso visto da un
particolare punto di vista. Essa comprende il proprio passato e il
proprio avvenire, e insieme il passato e l’avvenire di tutto
l'universo; raggiunge cioè il massimo del l'universalità: è una visione totale,
complessiva del tutto. E d'altra parte conserva tutta la sua
individualità. 11 punto di partenza è sempre il singolo dato di tatto,
specifico, particolare, contingente. Esso non scompare nel tutto: rimane
ben chiaro e visibile come capo dell’ immenso filo svolgentesi alI'
infinito, al seguito di tutte le connessioni causali. Rimane e garantisce
un punto di appoggio, una possibilità di percorrere ordinatamente tutto 1’
interminabile cammino. E d’altra parte ammette la possibilità di infiniti
altri punti di partenza. Le sostanze individuali sono tante quanti sono i
dati di fatto, cioè infinite. E ciascuna è tutto l’imiverso. Ma ciascuna
da un diverso punto di vista, con diverso punto di partenza. L’universo è
uno: ciascun particolare è una infinitesima parte di esso: ma da ciascun
particolare si ha la possibilità di risalire alla totalità nel suo
complesso. In questa unione di particolare e universale nella sostanza
individuale, sta la prima grande scoperta di Leibniz, il nu cleo fon damentale
del concetto di monade. Un altro campo del! attività di pensiero
loibniziana è la filosofia della natura; campo ben distinto da quello che si è
visto fin ora, e trattato con strumenti e metodi di tutt’altro
genere. I problemi qui analizzati hanno particolare affinità con quelli
dello scienze fisiche: c ostituzione della m ateria, esistenza o meno
degli atomi, del vuoto, origine e funzione del movimento, dell’energia, etc.
Leibniz non fa discendere la soluzione di questi problemi dai principi
generali della sua filosofia metafisica: li tratta per sè stessi, secondo
una tecnica ad essi propria, seguendo in questo il suo uso di entrare
sempre nel vivo di ogni ricerca e di appropriarsi le caratteristiche
particolari di ogni scienza. In seguito poi, una volta giunto a
determinate soluzioni e ad atteggiamenti definitivi, li metterà in
rapporto con le soluzioni ottenute negli altri campi, giungendo così
a sintesi sempre più ricche e comprensive. La continuità e la
materia. - Le idee di Leibniz nella filosofia fisica subiscono una profonda
evoluzione, dalla giovanile Hypothesis physica nova, alle concezioni più
mature. E nel corso di questa evoluzione si formano i suoi concetti
fondamentali in questo campo. Egli comincia come atomista, al seguito del
Gasa elidi, il quale rinnovava le dottrine di Epicuro e di Democrito, e
concepiva la materia in tutti i suoi aspetti come formata dalla varia
combinazione degli atomi nel vuoto. Ben presto però Leibniz abbandona
questa teoria, la quale è inconciliabile col suo principio di continuità. È
questo uno dei fondamenti del suo pensiero, e si applica non solo alla
considerazione della materia, ma anche a molti altri aspetti della sua
speculazione. Per esso non esistono arresti, interruzioni, distacchi
nello sviluppo delle cose. Per esso natura non facil saltus. Applicato
alla considerazione logica del mondo sensibile, questo principio è il
fondamento del passaggio ininterrotto dalla causa all’effetto e dall’effetto
alla causa, senza ammettere posto una volta il miracolo iniziale della creazione
nuove creazioni ex novo, nuovi miracoli. Per questo principio tutto il mondo è
comiesso in tutte le sue parti; sì che dalì’una si può, attraverso un
procedimento ininterrotto, passare a qualsiasi altra. Nulla
avviene ad un tratto. Una delle mie grandi massime, e delle più ricche di
applicaziomi, è che la natura non fa mai salti : 1' ho chiamata legge
della continuità; e l’uso di questa legge è molto importante nella
fisica: essa stabilisce che si passi sempre dal piccolo al grande e
viceversa, attraverso il medio, nei gradi come nelle parti, e che mai mi
movimento nasca immediatamente dal riposo, nè vi giunga se non attraverso un
movimento più piccolo; che non si possa mai finire di percorrere
alcuna linea o lunghezza prima d’aver percorso una linea più
piccola; quantunque coloro che hanno formulato finora le leggi del
movimento, non abhiano affatto osservato questa legge, credendo che un
corpo possa ricevere in mi istante un movimento contrario al precedente.
Tutto ciò permette di stabilire che anche le percezioni evidenti^derivano
per gradi da quelle che sono troppo piccole per essere osservate.
Giudicare altrimenti significa non conoscere a sufficienza 1’ i mm ensa
sottigliezza delle cose, che implica sempre e ovunque un infinito
attuale. (Nuovi Saggi, Prefazione). Applicato alla
considerazione del mondo materiale, il principio di continuità stabilisce
che la materia è divisibile all’ infinito, e che non è possibile
concepire un arresto in questa divisibilità, o pensare un elemento che
sia indivisibile e possa rappresentare un punto ili partenza per la
costituzione dei corpi. Viene così a cadere la dottrina dell’ atomo (1)
come elemento primo e semplice, dalla cui composizione derivino i diversi
aspetti della materia. Qualsiasi elemento materiale, sia pur
piccolissimo, è concepito come composto di parti. Poiché il
continuo è divisibile all'infinito, qualsiasi atomo sarà, in certo modo,
come un mondo di infinite specie, e vi saramio mundi in mundis in
infinitum. ( Hypothesis pkyeica nova, Theoria molli e
concreti). Tutta la natura è piena di corpi organizzati, cioè
animali e piante o altre specie ancora, e non vi è atomo che non
contenga un mondo di creatine, poiché tutto è diviso attualmente all' infinito.
(lettera a Burnott). Il movimento. La materia, dunque, non è
formata di atomi: è divisibile all’infinito, continua, omogenea, tale
che mai si potrà arrivare all’elemento più piccolo di essa. D’altro
lato, essa non è riducibile a pura estensione, come voleva Cartesio. Tale
concezione, che terrebbe conto nella materia dei soli elementi geometrici
e la considererebbe solo in funzione dello spazio che occupa, non è
sufficiente per Leibniz. La materia è per lui qualche cosa di più: è anzitutto
compattezza, movimento, inerzia. È ciò che oppone resistenza. Che la
natura normale della sostanza corporea sia costituita dall’estensione, mi pare
sia affermato da molti con grande sicurezza, ma da nessuno dimostrato;
certamente, non derivano dal l’estensione nè il movimento o azione,
nè la resistenza o passione; e neppure le leggi della natura che regolano
il movimento e l’urto dei corpi. E veramente il concetto dell'estensione
non è primitivo, ma risolubile ATOfioq significa appunto indivisibile.
(2) Ricordiamo che Cartesio, nella sua deduzione del mondo da Lio,
prende come punto di partenza le due sostanze: ree cogitane (principio
spirituale) e ree exietcne (principio della materia). in altri. Infatti,
da ciò che è esteso si richiede che sia un tutto continuo in cui
coesistano vari elementi. E, per dir tutto, all estensione, il cui
concetto è relativo, è necessario qualche cosa che si estenda o sia
continuo, così come nel latte la bianchezza, nel corpo ciò stesso che ne
costituisce l’essenza. La ripetizione di questo quid (qualunque
esso sia) è l’estensione. E io sono pienamente d'accordo con lo
Huygens ( I ) (del quale ho grande stima in questioni naturali e
matematiche), cho spazio vuoto e pura estensione siano un solo e medesimo
concetto: nè, a mio giudizio, la mobilità o la dcvriTUTtla (2) possono
spiegarsi con la pura estensione, ma solo con un soggetto dell’
estensione il qualo non solo determini, ma riempia anche uno
spazio. (Animadvtraionee in pariem generabili Prinoipiorum eurtesianorvm,
prima del 1692, G. IV, I)a che cosa derivano, ora, queste
qualità della materia? Questa azione, questa resistenza etc., in cui
consiste l’essenziale di essa? Nei suoi primi studi, Leibniz fa derivare
tutte le qualità della materia dal movimento. La materia prima
è la massa stessa, nella quale non è nuli altro che estensione e
àvTiTtmta, ovvero impenetrabilità: ('estensione le deriva dallo spazio che
riempie; ma la vera natura della materia consiste nell'essere alcunché di
denso (crassum) e impenetrabile, e in conseguenza tale che, incontrandosi
con qualche cosa d'altro, si muova (dato che l’uno dei due deve cedere).
Questa massa continua che riempie il mondo mentre tutte le sue parti ri
ti) Cristiano Huvobns grande scenziato olandese, autore della teoria ondulatoria
della luco e primo applicatole del principio del pendolo alla costruzione degli
orologi, 6 uno di coloro ohe hanno maggiormente influito sullo sviluppo
dello idee scientifiche di Leibniz. La loro amicizia c corrispondenza dura da
iranno della loro conoscenza a Parigi finn alla morte della Huygens. E fin dal
1669, Leibniz aveva tratto dalle leggi di Huygens sugli urti lo spanto
per alcune sue idee sulla costituzione della materia. (2) Antitypia
è il termine usato da Leibniz por indicare la compattezza e
impenetrabilità della materia. mangono in quiete, è la materia
prima, dalla quale ogni cosa deriva attraverso il movimento, e nella
quale tutto si dissolve attraverso la quiete. In essa non vi
sarebbe’ infatti nessuna diversità, ma una pura omogeneità, se non
vi fosse il movimento.... Dalla materia passiamo ora alla forma. Se
supponiamo che la forma non sia altro che figura, troveremo di
nuovo una mirabile concordanza. Infatti, poiché la figura è il
limite ( terminus ) del corpo, per formare le figure della materia sarà
necessario un limite. E per far sorgere vari limiti nella materia,
bisogna ricoiTere alla discontinuità delle parti, dato che (piando le
parti sono discontinue, ciascuna di esse ha termini separati (infatti
Aristotele definisce i continui come quelli il cui limite è uno (1)); ma
la discontinuità, in quella massa inizialmente continua, può essere
prodotta in duplice modo : o togliendole insieme anche la contiguità, il che ha
luogo quando avviene una separazione fra le parti, in modo che si produca un
vuoto; oppure conservando la contiguità, come quando le parti, pur
rimanendo accoste, si muovono tuttavia in direzioni diverse: così per
esempio due sfere, comprese l una nell'altra, possono muoversi in direzioni
diverse e tuttavia rimanere contigue cessando di essere continue. Di qui
è chiaro che se la massa è stata creata inizialmente discontinua o
interrotta da vuoti, alcune forme devono esser state create
contemporaneamente alla materia; se invece la massa è inizialmente
continua, è necessario che le forme sorgano dal movimento perchè dal
movimento deriva la divisione, dalla divisione il limite delle
parti, dai limiti delle parti le loro figure, dalle figure le forme,
quindi dal movimento derivano le forme. È chiaro da ciò che ogni
tendenza alla forma è movimento: e questa è la soluzione della contrastata
questione sull’origine delle forme lu greco nel tosto: uv Tà cacata sv.
Ci resta da occuparci dei mutamenti. Come mutamenti si enumerano
volgarmente (e giustamente) i seguenti: generazione, corruzione, aumento,
diminuzione, alterazione, e mutamento di luogo o movimento. I moderni
ritengono che tutti questi mutamenti si possano spiegare attraverso
il solo mutamento di luogo. E la cosa è chiara quanto all’ aumento e alla
diminuzione : infatti mutamento di quantità avviene, in un tutto, quando una
parte muta di luogo e si aggiunge o viene tolta. Resta da spiegare
attraverso il movimento la generazione e la corruzione e l’
alterazione.... E tanto la generazione e la corruzione quanto
l’alterazione possono spiegarsi attraverso mi sottile movimento delle parti:
per esempio, poiché è bianco ciò che riflette molta luce e nero ciò che
ne riflette poca, saranno bianche le cose le cui superficie contengono
molti piccoli specchi; e questa è la ragione per cui la spuma
dell’acqua è bianca, constando di innumerevoli bollicine che sono
altrettanti specchi.... E chiaro da ciò che i colori derivano dal
semplice mutamento di figura e di situazione nella superficie ;
altrettanto potremmo facilmente spiegare, se ne avessimo lo spazio, della
luce, del calore e di tutte le qualità. E invero, se le qualità mutano a causa
del solo movimento, per ciò stesso muterà anche la sostanza: mutati
infatti tutti gli elementi (perciò anche alcuni di essi) si elimina la
cosa stessa; per esempio, se elimini o la luce o il calore, avrai
eliminato il fuoco. (Lettera al Thomasius). Tutto
dunque deriva, nella materia, dal movimento; e senza il movimento, quando
cioè sia in quiete, essa perde ogni sua solidità e consistenza, quindi
ogni sua caratteristica di materia. Leibniz afferma ripetutamente «
nullam esse cohaesionem seu consistenliam quiescentis. Devo
dire che Cartesio ha tutt’ altra opinione, sembrando a lui che alla
stabilità della coesione nei corpi non necessiti altro elemento collegante (
gluten ) che la quiete. Io sono di opinione contraria : questo glutine è
il movimento. Ciò che è in quiete è spazio vuoto. (Lettera
ali’Oldenburg, Ale.). Bisogna spiegare la causa della connessione
maggiore o minore e quindi della eterogeneità nei corpi. Si domanda
perchè i corpi abbiano le parti più o meno coerenti: affermo che non si deve
cercare altra causa di ciò se non nel fatto che queste parti stanno o si
muovono insieme. Si muovono insieme perchè in una così grande varietà
di movimenti generali in tutta la massa complessiva era in ogni
modo necessario che alcune parti si allontanassero di molto dalle loro
vicine, altre poco in paragone. E la medesima causa che ha fatto sì che
queste parti poco o nulla si allontanassero dalle loro vicine, fa anche
sì che esse tendano a perseverare nel medesimo stato, perchè la
causa permane. La causa è la combinazione stessa dei movimenti generali : e i
movimenti generali permangono sempre. Li turba dunque chi muti improvvisamente
un qualsiasi effetto da essi prodotto e stabilito, e nel quale tutta la
natura consente. Ne deriva chiaramente che la pressione esterna è la causa
prima della solidità, e che la quiete o il movimento cospirante delle
parti ne è la causa prossima, ma soltanto quando deriva da una causa
esterna permanente. Così dunque come la concomitanza, cioè la
quiete o il movimento cospirante costituiscono il corpo solido,
analogamente il movimento vario delle parti costituisce il liquido. E questo è
il principio della diversità specifica nei corpi, e del fatto che alcuni sono
più densi degli altri, cioè più solidi o composti di parti solide più
grandi. Questa tesi è anche confermata dall’esperienza. (Lettera a
zFabri, FABRI (vedasi). li. «conatcs». — Il concetto di materia dun que si
dissolve in quello di movimerfto. Ma "come avviene, ora, tale
creazione di materialità'? Qual^dl punto di partenza dell'azione del
movimento ? K su che cosa si svolge, inizialmente, tale azione? Leibniz
non può ricorrere agli atomi, come elementi primi, avendoli già negati in
nome del principio di continuità. Egli modifica il suo punto di partenza,
rendendolo privo di estensione: considerandolo non più come la particella più piccola
di materia (la quale sarebbe pur sempre materiale, estesa), ma come un
limite o un inizio, qualche cosa quindi di inesteso. In tale principio,
che egli chiama, riprendendo un termine dello Hobbes, comtus, fa coincidere l’
inizio della materialità e l’ inizio derTìTTTvtrnrnto. Vi
sono degli indivisibili o inestesi, altrimenti non sarebbe concepibile nè
l’inizio nè la fine del movimento corporeo. Ecco la dimostrazione di ciò : Si
vuol trovare 1’ inizio o la fine di uno spazio, di un corpo, di un movimento
0 di un tempo qualsiasi: sia, ciò di cui si vuol cercare 1
inizio, indicato da una linea ab il cui punto mediano sia c, e il mediano
fra a e c sia d, e quello fra a e d sia e, e così via. Si cerchi 1‘
inizio della parte sinistra, verso il lato a. Dico che ac non è 1‘
inizio, perchè gli si può togliere de senza toccare I' inizio; nè lo è ad,
perchè gli si può togliere ed, e così via; non si può mai dunque
considerare come inizio ciò a cui si può togliere qualche cosa dalla
parte destra. Ciò a cui non si può togliere alcuna estensione, è
inesteso; dunque 1’ inizio del corpo, o dello spazio, o del movimento, o
del tempo, (cioè il punto, il conatus, I istante) o è nullo, il che è
assurdo, oppure è inesteso, il che era da dimostrarsi. Il /muto non è ciò
che non ha parti, e neppure ciò di cui non si considerano le parti;
ma ciò la cui estensione è nulla, cioè ciò le cui parti non hanno
distanza fra di loro, la cui grandezza non è da considerarsi, è
inassegnabile, è minore di qualsiasi grandezza die possa avere un rapporto non
infinito con una altra grandezza sensibile ; minore di una qualsiasi
assegna Iòle: e ciò è il
fondamento del metodo di Cavalieri (1) e dimostra in modo chiaro, la
verità di quel suo principio per il quale si concepiscono dei rudimenti,
per così dire, o inizi delle linee e delle figure, minori di qualsiasi
assegnabile 11 conatus sta al movimento come il punto allo spazio, cioè
come l’unità all' infinito; è cioè 1’ inizio o la fine del movimento.
Perciò tutto ciò che si muove, sia pur debolmente, sia pure urtando contro
qualsiasi ostacolo, propagherà il conatus all ’ infinito per tutto ciò che gli
si oppone nella materia, e perciò imprimerà il suo conatus a tutte le
altre cose : nè si può negare che, quando anche cessi di procedere,
tuttavia abbia un conatus; e perciò tenda ( conetur ), o — che è lo stesso
imprima un inizio di movimento a tutto ciò che gli si oppone, anche se
venga superato da questi ostacoli. Così in ciascun corpo vi possono essere
contemporaneamente più conati contrari. Nel tempo di una spinta, di un
urto, di un incontro, i due estremi dei corpi, o pimti, si penetrano,
ovvero sono nel medesimo punto dello sjxtzio : infatti quando, di
due corpi che s incontrano, l'uno tende a penetrare nel luogo dell
altro, comincerà ad essere in esso, cioè comincerà a penetrare in esso, a
unirsi con esso. Infatti il conatus è inizio, penetrazione, unione; quei
due corpi sono perciò all inizio dell unione, cioè i loro estremi si
uniscono: dunque i corpi che si premono o spingono, hanno coesione.
Infatti i loro estremi sono uno, poiché le cose i cui termini sono uno (2),
sono continue o coerenti, anche pel li) Bona vkstuka Cavai.ihri, autore
della Geometria indivisihiliurn. ebbe, eoi suo concetto di indivisibile, «rande
influenza sul pensiero matematico di Leibniz. T3«!i può essere
considerato forse come il principale precursore della scoperta del
calcolo infinitesimale, dovuta al Leibniz e al Newton. (2) In
greco nel testo. Cfr. sopra, p. 55. definizione di .Aristotele; e
se due cose sono in un solo luogo, l’una non può essere spinta senza
l’altra. (Hypothe.sis phyatea nova, Theoria molun abftraeti).
Corpo e spirito. il conatus è dunque, per così dire, l' inizialo punto di
contattoTra “materia e movimento: l'atto in cui il movimento,
applicandosi 'ad un punto" spaziale, segna I' inizio del corpo. Ma
che cos’ò il movimento rispetto alla materia, se non un principio
spirituale? La lisica tratta della materia e della unica
affezione risultante dalla sua combinazione con altre cause, cioè
del movimento. Lo spirito (mena) infatti, per ottenere una figura e
situazione delle cose buona e a lui gradita, fornisce alla materia il
movimento. Infatti la materia di per sè è priva di movimento. Principio
di ogni movimento è lo spirito. (Lotterà al
Thouiasius). Così Leibniz, in una formulazione ancora immatura: e,
giunto al concetto di conattie . in esso egli fa consistere il
principio dello spirito. L'estendersi e svilupparsi del conati ts nello
spazio, dà luogo alla materia; l’estendersi nel tempo (sotto forma
di memoria) dà luogo allo spirito. TI corpo sta così allo spirito
come l’ istante sta al tempo; lo spirito al corpo come il punto allo
spazio. Nessun conato senza movimento dura più di un istante,
se non negli spiriti (in mentibus). Infatti ciò che nell'istante è il
conato, quello è nel tempo il movimento del corpo: qui si apre la porta a
chi vorrà proseguire verso la vera distinzione di corpo e spirito, che
non è ancora stata spiegata da alcuno : Dinne enirn corpus est mens
momentanea, seu carena recordalione, poiché non ritiene per piìi di un
istante insieme il proprio conato e un altro contrario ; due elementi,
infatti, sono necessari alla sensazione e al piacere o al dolore, senza i
quali non vi è sensazione alcuna: l'azione e la reazione, cioè la
comparazione e quindi Y armonia ; perciò il corpo manca di memoria, manca del
senso delle azioni e delle passioni, manca di pensiero (cogitatio). (llypothesis
physica nova, Theoria motus abxtracli. Come le azioni del corpo
consistono nel movimento, così consistono le azioni dello spirito nel
conatun o, per così dire, nel minimo movimento o punto; infatti
anche lo spirito stesso consiste propriamente soltanto in un punto
dello spazio, mentre il corpo comprende spazio, li questo, per parlare
popolarmente, lo dimostro dal fatto che lo spirito dev'essere nel luogo d
: incontro di tutti i movimenti che ci vengono impressi dagli oggetti dei
sensi. Dato che, quando voglio stabilire che un dato corpo è oro,
prendo insieme la sua lucentezza, il suo suono, il suo peso, e ne
conchiudo che è oro, bisogna dunque che lo spirito sia in un luogo in cui
tutte le linee della vista, dell’udito e del tatto si incontrano, cioè in
un punto. Se noi dessimo allo spirito uno spazio maggiore che un punto,
esso sarebbe già un corpo e sarebbe divisibile in parti; e perciò non
sarebbe sempre intimamente presente a sè stesso e così non potrebbe anche
riflettersi su tutti i suoi elementi e le sue azioni. Eppure in ciò
consiste proprio l’essenza dello spirito. Posto dunque che lo spirito
consista in un punto, è indivisibile e indistruttibile. Da questi
principi e da altri ancora, ho dimostrato molte cose meravigliose
riguardo alle caratteristiche dell'anima umana e in generale di
tutti gli spiriti intelligenti; cose alle quali nessuno finora
aveva pensato, benché da esse sgorghi in modo finora mai visto la
verità della religione, della provvidenza divina, dell immortalità della nostra
anima e la possibilità di molti sublimi misteri (come quello della giustizia
divina, della predestinazione e della presenza nel sacramento). Ed
io spero una volta di poter mostrare tutto ciò nel modo più chiaro
possibile, e di acquistarmi così qualche benemerenza presso tutti gli
uomini intelligenti, ehe odiano l’ateismo oggi invadente e si preoccupano
dell’ eternità.(Lettera al duca ili Hannover). Da questo contatto
fra sostanza spirituale e materiale nel conatus, Leibniz trao le sue
prime conclusioni verso la funzione della spiritualità nel mondo fisico, e 1
importanza dello spirito in rapporto a qualsiasi elemento corporeo e
materiale. Sono capace di dimostrare dalla natura del
movimento nel campo fisico, da me scoperta, che il movimento non
può esistere nei corpi presi per sè, se non vi si aggiunga lo
spirito;.... che lo spirito è incorporeo; che lo spirito agisce su sè
stesso, che nessuna azione su sè stesso può essere movimento, che
l'azione ilei corpo non è se non il movimento, e che quindi lo spirito
non è corpo. Che lo spirito consiste in un punto o centro, e che perciò è
indivisibile, incorruttibile, immortale. Come nel centro concorrono tutti i
raggi, così concorrono insieme nello spirito tutte le impressioni
sensibili attraverso i nervi; e dunque lo spirito è un piccolo mondo
concepito in un punto, il quale consiste delle proprie idee così come il
centro consiste degli angoli, poiché l’angolo è mia parte del centro,
nonostante che il centro sia indivisibile. Così può essere spiegata
geometricamente tutta la natura dello spirito. (Lettera al duca di
Hannover, 1071, U. 1, (il). La conservazione della forza. Queste sono le
teorie fisiche del giovane Leibniz. Ha una nuova scoperta fa sì che
egli abbandoni il suo concetto del movimento come essenza dei corpi, e lo
sostituisca con quello di forza. Cartesio aveva affermato la immutabilità
e costanza della quantità di movimento nell’universo; cioè, ehe quanto
movimento viene perduto da un corpo, tanto viene acquistato da un altro,
sì ehe la somma complessiva neH ! universo sia sempre costante:
intendendo per quantità di movimento il prodotto della massa per la
velocità. Leibniz dimostra che tale principio nou è esatto, e che ciò la cui
somma rimane costante non è la quantità di movimento, ma la quantità di
forza viva 0 ! azione motrice, che è eguale al prodotto della massa
per il quadrato della velocità. Quale sia la portata di
questa scoperta nel campo fisico, non è il caso qui di notare. Per
intendere l'uso che Leibniz ne farà in questioni filosofiche e
metafisiche bisogna osservare che I azione motrice non rappresenta più
come la quantità di movimento - la semplice traslazione di un corpo da un
luogo ad un altro, ma la possibilità di produrre un determinato effetto,
per esempio, di sollevare un corpo ad una determinata altezza. Questa
azione motrice di Leibniz è quella che oggi si chiama energia.
In generale la forza assoluta deve essere stimata per 1
effetto violento che essa può produrre. Chiamo effetto violento ciò che
consuma la forza dell'agente, come, per esempio, imprimere una certa
velocità ad un corpo dato, elevare un corpo determinato ad ima
determinata altezza, etc. E si può giudicare comodamente la forza di un
corpo pesante, attraverso il prodotto della massa o della pesantezza per
1 altezza alla quale il corpo potrebbe salire in virtù del suo
movimento.... Quando un corpo pesante ha progredito discendendo
liberamente, ed ha acquistato impeto o forza' viva, le altezze a cui questo
corpo potrebbe allora arrivare non sono affatto proporzionali alle
velocità, ma al quadrato delle velocità. Ed è per questo che nel
caso della forza viva le forze non sono affatto come le quantità di
movimento, o come i prodotti delle masse per le velocità. Si verifica per
via di ragione e di esperienza, che è la forza viva assoluta - quella
determinata dall'effetto violento che può produrre - che si conserva, e
non già la quantità di movimento. Poiché se questa forza viva potesse mai
aumentare, si avrebbe un effetto più potente che la causa, oppure si
avrebbe il moto perpetuo meccanico, cioè mi movimento che potrebbe
riprodurre la sua causa e qualche cosa di più ; il che è assurdo. Ma se la
forza potesse diminuire, essa perirebbe alla line completamente perchè,
non potendo mai aumentare, e potendo però diminuire, andrebbe via via
decadendo : il che è senza dubbio contrario all'ordine delle cose. Anche
l’esperienza lo conferma. Adesso mi piace di guardare la questione da un
altro punto di vista, e di mostrare anche la conservazione di
qualche cosa di più prossimo alla quantità del movimento, cioè la
conservazione dell'azione motrice. Ecco dunque la regola generale che io
stabilisco. Qualunque cambiamento possa accadere tra corpi concorrenti,
qualunque sia il loro numero, bisogna che vi sia sempre nei corpi
concorrenti in un sistema chiuso la medesima quantità di azione motrice
nel medesimo intervallo di tempo. Per esempio, v i deve essere durante
questa ora tanta azione motrice nelT universo o in dati corpi che agiscono fra
di loro in un sistema chiuso, quanta ve ne sarà durante un'altra
ora qualsiasi. Per comprendere questa regola, bisogna
spiegare la valutazione deh' azione motrice, tutta diversa da quella
della quantità di movimento, intesa la quantità di movimento
secondo l’uso che si è spiegato sopra. Ora, affinché 1 azione motrice
possa essere valutata, bisogna prima valutare 1 effetto formale del movimento.
Tale effetto formale o essenziale al movimento consiste in ciò che è cambiato
dal movimento, cioè nella quantità della massa trasportata, e nello
spazio o nella lunghezza attraverso cui questa massa è trasportata. È
questo l'effetto essenziale del movimento, o il cambiamento che esso
determina: poiché il tal corpo era lì, ora è qui: il corpo è tanto grande
e la distanza è tanta. Bisogna ben distinguere quello che io chiamo 1
effetto formale o essenziale al movimento, da ciò che ho chiamato
più sopra l' effetto violento. Poiché 1 effetto violento consuma la forza e si
esercita su qualche cosa di fuori; ma l'effetto formale consiste nel corpo
in movimento preso in sè stesso, e non consuma affatto forza, anzi la
conserva: poiché la medesima traslazione della medesima massa si
deve sempre continuare, se nulla dal di fuori non F impedisce. È questa la
ragione per cui le forze assolute sono come gli effetti violenti che le
consumano, ma non già come gli effetti formali. Ora sarà più
facile d' intendere che cosa sia F azione motrice: bisogna diuique stimarla non
solo per l’effetto formale che essa produce, ma anche per il vigore e la
velocità con la quale essa lo produce. Si vogliono far trasportare
100 libbre alla distanza di un miglio; questo è l’effetto formale che si
domanda. Uno lo vuol compiere in un’ora, un'altro in due; io dico che
Fazione del primo è doppia di quella del secondo, essendo doppiamente
rapida, su ili un medesimo effetto. Questa definizione dell azione
motrice si giustifica abbastanza a priori, perchè è chiaro che in un' azione
puramente formale presa in sè stessa, come è qui quella di un corpo in
movimento considerato a sè, vi sono due punti da esaminare: l’effetto
formale o ciò che è cambiato, e la rapidità del cambiamento; poiché è ben
chiaro che colui che produce il medesimo effetto formale in minor
tempo, agisce di più. (Enfiai/ de Dynamique
sur lei laix dii mouvemenl, M. VI, 218-21). La forza come
attività. La forza, l’energia, è
dunque sostituita al movimento. Dalla' semplice e obbiettiva traslazione
dei corpi HaTun luogo all’altro, Leibniz sposta il centro della
attenzione su ciò che della traslazione è la causa, su ciò che contiene
già in sè - per così dire - il movimento allo stato potenziale, e lo
produce. Il movimento perde così realtà a favore della forza. La forza
viene considerata come assoluta e il movimento come relativo.
Bisogna sapore anzitutto che la forza è qualche cosa di
assolutamente reale, anche nelle sostanze create: ma che lo spazio, il
tempo e il movimento hanno qualche cosa dell’ente di ragione, e non sono
veri e reali per sè stessi, ma solo in quanto attributi divini involventi
1* immensità, l’ eternità, l'azione o la forza delle sostanze create. Ise
consegue che non esiste un vuoto nello spazio nè nel tempo, che il
movimento separato dalla forza, cioè quando non si considerino in esso se
non le caratteristiche geometriche, cioè la grandezza, la figura o i loro
mutamenti, non è altro che un mutamento di luogo; e che perciò il
movimento, rispetto ai fenomeni, consiste in una semplice relazione-, il che fu
anche riconosciuto da Cartesio, quando definì il movimento come una
traslazione dalle vicinanze di un corpo alle vicinanze di un altro corpo.
Ma nel trarne le conseguenze, dimenticò la sua definizione, e stabili
le regole del movimento come se il movimento fosse qualche cosa di
reale e assoluto. Bisogna dunque ritenere che, quando più corpi qualsiasi
sono in movimento, non è possibile dedurre, dal loro aspetto esteriore, in
quali di essi sia un determinato movimento assoluto oppure la
quiete; ma ciascuno di essi a piacere può essere considerato in
quiete, pur restando uguali le manifestazioni esteriori. (Specimen
Dynamicum). 1 1 movimento è relativo: la forza sola è assoluta. E
il concetto di forza ha, molto più che quello di movimento, una
chiara impronta di attività. Pare che in esso il conatus degli
scritti giovanili abbia trovato il suo completamento e la sua
realizzazione. Abbiamo altrove avvertito che negli esseri corporei
vi è qualche cosa al di là dell'estensione, anzi prima dell’estensione : la
forza della natura, riposta ovunque dall’autore supremo, la quale non consiste
soltanto in una semplice facoltà, come si contentavano di dire gli
scolastici, ma anche in un conatus o sforzo, il quale avrà il suo effetto
pieno se non sia impedito da un conatus contrario. Questo sforzo si mostra da
ogni parte ai nostri sensi; e, a mio parere, può essere dimostrato per
via razionale ovunque nella materia, anche là dove non è evidente ai sensi. Che
se questa forza non si deve attribuire a Dio come un miracolo, bisogna
certamente che sia immessa da lui nei corpi, in modo da costituirne 1'
intima natura; poiché l'agire è il carattere essenziale delle
sostanze, e l’estensione, lungi dal determinare la sostanza stessa,
non indica altro che la continuazione o diffusione di una sostanza già
data, la quale tenda e si opponga, cioè resista. Nè importa che ciascuna
azione corporea derivi dal movimento, e il movimento non derivi se non da mi
altro movimento esistente già da prima in quel corpo o impressogli dal di
fuori. Infatti il movimento (così come il tempo) non esiste mai, a
considerare la cosa rigorosamente; giacché non esiste mai tutto, non avendo
parti coesistenti. E nulla vi è in esso di reale, se non quel quid
istantaneo che consiste nella forza tendente al mutamento. A ciò dimque
si riduce tutto ciò che è nella natura corporea al di fuori dell’oggetto della
geometria, cioè al di fuori deH’estensione. (Speri intra
Jji/namicum). 11 corpo, la materia, contiene dunque in se una t’i*s
adiva clic supera, la materialità ed ha carattere spirituale.
Tò Su o ii.ty.óv, la potenza, 1 è duplice nel corpo: passiva e
attiva. La forza passiva costituisce propriamente la materia o massa, quella
attiva la entelechia o forma. La forza passiva è la resistenza stessà^per
la quale il corpo resiste non soltanto alla penetrazione, ma anche al
mo li) Entelechia, da èvreXé? (compiuto) e exetv (avere) ò il termine
usato da Aristotele per indicare la lorma pienamente realizzata. Leibniz
lo riprende per definire l’aspetto attivo della sostanza e della monade.
Questo termine 6 anche usato spesso da lui come sinonimo ili monade. Cfr.
Monadologia vimento. e per la quale avviene che un altro corpo non possa
subentrare al suo posto senza che esso ceda: d altra parte, esso non cede
se non ritardando alquanto il movimento del corpo che lo spinge, e così tende a
perseverare nel proprio stato anteriore, in modo non soltanto da non
scostarsene spontaneamente, ma anche da resistere a ciò che tende a
mutarlo. Così vi sono due resistenze o masse: la prima, quella che
chiamano antitypia o impenetrabilità; la seconda, quella che Keplero chiama
inerzia naturale dei corpi e che Cartesio in qualche luogo del suo
epistolario riconobbe dal fatto che per essa i corpi non accolgono un
nuovo movimento se non per forza, e perciò resistono al corpo che li
preme e ne indeboliscono la forza. J1 che non avverrebbe, se nel corpo,
oltre all'estensione, non vi fosse tò Su jo gtxó, cioè il principio delle
leggi del movimento, per il quale avviene che la quantità delle
forze non può essere aumentata, e che un corpo non può essere spinto da
un altro corpo se non diminuendo la forza di quello/ La forza
attiva, che si suole anche dire senz altro forza, non è da concepirsi
come la semplice potenza volgare della scuola, cioè come ima recettività
di azione, ma implica un conatus, cioè mia tendenza all'azione, cosicché,
se non vi sia impedimento, ne derivi l'azionepE in ciò propriamente consiste
l'entelechia, mal compresa dalla scuola: una tale potenza infatti
comprende 1 atto, nè permane una semplice facoltà, benché non sempre
proceda direttamente all'azione cui tende; a volte infatti vi si oppone
un impedimento.! In secondo luogo, la forza attiva è duplice, primitiva'?
derivativa, cioè sostanziale o accidentale. La forza attiva primitiva,
che vien chiamata da Aristotele la prima entelechia (è'.veXé/ev/ •?)
7tpoVr/;) e nel linguaggio comune forma della sostanza, è il secondo
principio naturale che, insieme con la materia o forza passiva, costituisce la
sostanza corporea; la quale è in sè un unità, cioè non un semplice
aggregato di più sostanze: come per esempio vi è grande differenza tra un
animale e un gregge di animali. E perciò questa entelechia è o un'anima,
o qualche cosa di analogo all'anima, e sempre attua naturalmente qualche corpo
organico, il quale, quando fosse preso separatamente in sè stesso, cioè
toltane o allontanatane l’anima, non sarebbe un'unica sostanza, ma un aggregato
di molti, insomma un artificio della natura.... La forza derivativa
è ciò che alcuni chiamano impetus, cioè conatus, o la tendenza, per così
dire, ad un qualche movimento determinato, attraverso il quale la forza
primitiva o principio dell'azione viene modificato. Quanto a questa
forza, ho mostrato che non si mantiene sempre la medesima nel medesimo
corpo, ma che, comunque sia distribuita in piìi corpi, rimane sempre nella
medesima quantità complessiva, e differisce dal movimento stesso,
la cui quantità non si conserva..,. A stabilire una forza attiva
nei corpi ci inducono molte ragioni, e principalmente l'esperienza
stessa, la quale mostra che nella materia vi sono movimenti i quali
devono bensì essere attribuiti originariamente alla causa universale
delle cose, cioè a Dio; ma immediatamente e specificamente devono essere
spiegati attraverso la forza posta da Dio nelle cose^'infatti, dire che
Dio nella creazione ha dato ai corpi una legge di aziono, non è altro se
non dire che ha dato ad essi qualche cosa in virtù di cui quella
legge sia osservata; altrimenti dovrebbe sempre egli stesso procurare
continuamente per via straordinaria l'osservanza di quella legge; mentre
è piuttosto la sua legge stessa che ha efficacia, ed egli ha reso i corpi
attivi, cioè ha dato ad essi ima forza insita} Bisogna inoltre
considerare che la forza derivativa e l'azione sono qualche cosa di
modale, perchè sono soggetti a mutamento. E ogni modo consiste in
qualche modificazione di alcunché di pexsistente, o meglio di
assoluto. Come la figura è in certo modo una limitazione o modificazione
della forza passiva o massa estesa, così la forza derivativa e l'azione
motrice è in certo modo una modificazione non già di qualche cosa di puramente
passivo (altrimenti la modificazione o limite conterrebbe più
realtà di ciò stesso cho è limitato), ma di qualche cosa di attivo,
cioè dell' entelechia primitiva. Onde la forza derivativa e accidentale o
mutevole sarà una qualche modificazione della vìrtus primitiva essenziale
che perdura in qualsiasi sostanza corporea. Perciò i cartesiani, non
riconoscendo alcun principio attivo sostanziale modificabile nel corpo, furono
costretti a negare ad esso qualsiasi azione ed a trasferire l'azione nel
solo Dio: un Deus ex machina, principio tutt' altro che filosofico.
( Frammento). Valore metafisico della forza. Questa
entelechia, questa forza di qui è formata la materia, che ne costituisce
anzi la piii intima essenza, è qualche cosa di analogo all'anima.
La materia ha essenzialmente in sè il principio del movimento, ma secondo
me ciò non si deve intendere se non nel senso che vi sono delle anime
nella materia, le quali sono indivisibili e indistruttibili (Lettera
a Burnett, G.). E questo principio delTanimazione della materia che
spinge Leibniz ad una considerazione del mondo corporeo diversa da
quella puramente meccanica: che gli fa vedere in esso, attraverso il principio
spirituale, un elemento finalistico e, attraverso questo, la mano di Dio.
Devo dichiarare inizialmente che a mio parere tutto avviene meccanicamente
nella natura e che, per rendere una ragione esatta e compiuta di
qualsiasi fenomeno particolare (come per esempio della pesantezza o della
elasticità), bastano le nozioni di figura e ili movimento. Ma i principi
stessi della meccanica e le leggi del movimento sorgono a mio parere da
alcunché di superiore, che dipende piuttosto dalla metafisica che dalla
geometria e che non si può raggiungere con 1 immaginazione, benché lo
spirito lo possa molto ben concepire. Così io penso che nella natura, oltre
alla nozione di estensione, convenga impiegare quella di forza, che rende
la materia capace di agire e di resistere. E per forza o potenza non
intendo il potere o la semplice facoltà; che non è se non una possibilità
prossima di agire e che, essendo come morta, non produce neppur mai
un'azione senza essere eccitata dal di fuori Ma intendo qualche cosa di
mezzo fra il poterete l’azione che implica imo sforzo, un atto,
un’entelechia, poiché la forza passa per sua virtù all" azione
finché nulla ne la impedisce. Questa è la ragione per cui io la
considero come 1 elemento costitutivo della sostanza, essendo essa
il principio dell azione che della sostanza è il carattere
essenziale(^l) Così io vedo che la causa efficiente delle azioni
fisiche deriva dalla metafisica; nella quale opinione sono molto
lontano da coloro che non riconoscono nella natura se non ciò che è
materiale o esteso, e che perciò si rendono sospetti con qualche ragione
presso le persone pie. Ritengo pure che il concetto del bene o della causa
finale, I>er quanto contenga in sé alcunché di morale, si possa
anche impiegare utilmente nella spiegazione dei fenomeni naturali; poiché
l'autore della natura agisce secondo il principio dell ordine e della perfezione,
con una saggezza alla quale nulla si può aggiungere: e ho mostrato
altrove, a proposito della legge generale dell" irraggiamento
della luce, come il principio della causa finale basti spesso a
scoprire i segreti della natura, finché non se ne sia trovata la causa prossima
efficiente, che é più difficile a scoprirsi. Tì) (Système novi eon
jkivr erpliqvtr la nature des subitanee», primo abbozzo, 1(395, G. IV,
472). La vera scienza tìsica deve essere tratta dalle sorgenti
ilelle perfezioni divine. Dio infatti è l' ultima ragione delle cose, e
la conoscenza di Dio è il principio delle scienze, così come la sua
essenza e la sua volontà sono i principi delle cose. Quanto piii si è
versati nelle profondità della filosofia, tanto più facilmente si
riconosce ciò. Ma pochi finora sono riusciti a dedurre, dalla
considerazione delle proprietà divine, verità di qualche importanza nella
scienza. Vi sono forse alcuni che potranno essere spinti da questi
esempi. La filosofia si santifica così coll’ immissione in essa delle
correnti sgorgate dalle sacre sorgenti della teologia naturale. E così lontana
dal vero è la tesi che si debbano rifiutare le cause finali e la
considerazione di uno spirito sapientissimo che agisce secondo bontà
(onde la bontà e la bellezza diverrebbero arbitrarie o soltanto relative
a noi e non attribuibili a Dio: opinione quella, di Cartesio, questa di
Spinoza ( 1 ), che invece, dalla considerazione dello spirito, si possono
dedurre principi essenziali della fisica. (Principium quoddam
generale, M. VI, 134). In questa organizzazione divina del mondo
noi vediamo la forza pervadere e permeare tutta la natura. Non più
atomi corporei: qualche cosa di altrettanto unitario e
indivisibile, ma privo di qualsiasi materialità. Queste unità sostanziali
stanno al confine fra materia e spirito, potendosi sviluppare in ambedue
le direzioni ; e racchiudono in sé una forza che permette loro una
spontaneità di sviluppo verso l’universale. In tale spontaneità e
attività consiste il carattere spirituale degli elementi della sostanza
corporea, ciò che li avvicina all’ anima e all’ io. Poiché è
necessario che vi sieno nella natura corporea delle vere unità, senza le
quali non vi sarebbe affatto (1) Cartesio fa derivare, secondo
Leibniz, le regole della bontà e dell’armonia dall’arbitrio di Dio (Cfr.
sojira, p. 13). Per Spinoza invece la bontà è un rapporto della creatura
individuale alla Sostanza assoluta, cioè Dio. Tri
molteplicità uè aggregati, bisogna che ciò che costituisce la sostanza
corporea sia alcunché di rispondente a ciò che si suol chiamare io in
noi, che è indivisibile e tuttavia agente; poiché questo io, essendo
indivisibile e senza parti, non potrà essere un essere composto, ma,
essendo agente, sarà qualche cosa di sostanziale. (Syitcmc un
uveali, primo abbozzo, I 695, G. IV, 47ii). Costituzione e funzione della
monade. - Si sono studiati nei capitoli precedenti due principi fondamentali
della filosofia leibniziana: l’universalità della sostanza individuale, e il
principio spirituale della f orza n el mondo materiale. Il primo,
derivato dalla elaborazione dT” concetti logici; il secondo dal rigoroso
pensamento di teoremi fisici. L’unione e la fusione di questi due
principi, dà luogo alla mònade (1). Ciò ebe essi hanno in comune è il
fatto di racchiudere ambedue in sè, allo stato potenziale, un infinita
possibilità di sviluppo: la sostanza individuale, punto di partenza di
una catena di causo e di effetti che racchiude nelle sue maglie il
passato e l’avvenire di tutto 1 universo; l'unità animata del mondo
corporeo, forza capace di svilupparsi in movimento e, pur col suo
carattere spirituale, di dar luogo ad una formazione di materialità.
Dei due elementi, l’uno è universale ma astratto, puramente logico;
l’altro concreto, reale, spirituale, ma ancora privo di universalità. Nella
loro fusione l’uno fornisce ciò che all’altro manca: e la monade sarà un
principio spirituale e universale insieme, ma pur concreto, tale che di
esso consti effettivamente il mondo esistente. La monade è « l’atomo della
natura e 1 elemento delle cose ». Ad essa vengono dati da Leibniz
nomi diversi: entelechia, anima, sostanza, etc., a seconda delle varie
occasioni in cui ne parla. Monade ò parola greca ebe significa unità. ]|
termine è stato usato anche da Giordano Bruno per indicare gli elementi
primi delle cose. Non è però sicuro ohe Leibniz abbia derivato da lui
questa denominazione. L : atomo di Epicuro, benché fornito di parti, è
ima cosa unita nel suo interno, mentre l'anima, quantunque senza
parti, racchiude in sé un gran numero, o meglio un numero infinito di
varietà, per la molteplicità delle rappresentazioni di cose esterne, o
piuttosto per la rappresentazione dell'universo che il Creatore vi ha
posto. ( Osservazioni al dizionario del Bayle). Le
monadi sono i principi primi c più semplici onde è costituito il mondo:
non sono materiali, ma da esse deriva tutta la materia: sono individuali,
molteplici (in quanto sono sempre punti di vista particolari presi
sull’universo, e i punti di vista possono essere infiniti); e d’altra
parte ciascuna racchiude in sè una visione del tutto. L’unità
sostanziale richiede un essere compiuto, indivisibile e indistruttibile per
natura, poiché la sua nozione involve tutto ciò che gli deve accadere; e
ciò non si potrebbe trovare nè nella figura nè nel movimento, che implicano
anzi entrambi alcunché d’ immaginario - come potrei dimostrare —, ma
bensì in un’anima o forma sostanziale, sull’esempio di ciò che si suol chiamare
io. Sono questi i soli veri esseri compiuti, come avevano riconosciuto
gli antichi e soprattutto Platone, il quale ha ben chiaramente mostrato
che la sola materia non è in sè sufficiente a formare una sostanza. Ora
1’ io sopraddetto, o ciò che gli risponde in ciascuna sostanza
individuale, non può essere nè fatto nè disfatto dall'avvicinamento
o dall'allontanamento delle parti, procedimento puramente esteriore
a ciò che è la sostanza. Non saprei dire precisamente se vi siano altre
sostanze corporee effettive, oltre quelle che sono animate, ma almeno le
animo servono a darci qualche conoscenza delle altre per analogia.
(Lotterà ad Arnauld). Non so se sia possibile spiegare la
costituzione dell' anima meglio che dicendo: l.° che è una sostanza
semplice, ovvero ciò eli e io chiamo una vera unità; 2.° che tale unità
esprime tuttavia la molteplicità, cioè i corpi, e che li esprime il
meglio possibile secondo il suo punto di vista o il suo rapporto ; 3.°
che così essa è espressiva dei fenomeni secondo le leggi
metafisico-matematiche della natura, cioè secondo 1 ordine più conforme
alla intelligenza e alla ragione. i\e deriva inline, 4.° che 1" anima è
una imitazione di Dio, nel massimo grado possibile alle creature, che
essa è come lui semplice eppure anche infinita, e avvolge tutto
attraverso percezioni confuse; ma che, riguardo a quelle distinte, essa e
limitata. Invece tutto è distinto nella sostanza sovrana, dalla quale tutto
emana, e che è la causa ilcll esistenza e dell ordine e, in una parola,
l'ultima ragione delle cose. Dio contiene 1 universo eminentemente, e
l'anima o l'unità lo contiene virtualmente, essendo imo specchio
centrale, ma, per così dire, attivo e vitale. Si può anche dire ohe ogni
anima è un mondo a parte, ma che tutti questi mondi si accordano e sono
rappresentativi dei medesimi fenomeni, secondo rapporti differenti; e che
questa è la maniera più perfetta di moltiplicare gli esseri quanto
è jiossibile, ed il meglio possibile. (Lettera a) Bayle, 1702, G.
Ili, 72). Il concetto di sostanza individuale è stato formulato
da Leibniz por la prima volta nel Dìscours de Méta physìque del
1686. La parola monade è introdotta da lui nel 1696. Verso il mezzo della
sua vita, cioè, egli è giunto in possesso dell’elemento fondamentale onde per
lui è costituito il mondo. Trovato questo, il problema che gli si pone è di
spiegare, attraverso tale elemento, la costituzione del mondo stesso.
Come nell arte combinatoria' si dovevano trovare, per mezzo della
scomposizione dei concetti, i termini semplici di cui consta il pensiero
umano, e poi, attraverso la varia combinazione di essi, formare di nuovo
ogni possibile concetto, così ora un’ indagine analitica nel campo logico,
fisico, metafisico, ha condotto alla nozione di monade come sostanza semplice,
costituente il mondo. Si tratta ora di mostrare concretamente come il
mondo consti di monadi, come ogni aspetto, ogni fenomeno di esso sia
spiegabile attraverso le combinazioni, le modificazioni, i diversi
aspetti delle monadi. Inizio e fine della monade. - Donde nasce la
monade? Che cosa 1’ ha prodotta? Qnal’è la sua origino? Noijl
è possibile concepirla come derivata da ini qualsiasi ente naturale:
essere prodotta significa sempre in qualche modo essere causala ; c,
poiché essa comprende già in sé tutta la serie infinita delle causo e
degli effetti, non si può attribuirle una causa al di fuori di sé stessa:
qualsiasi sua causa sarebbe sempre compresa nel suo interno.
Analogamente, non è concepibile neH’ordine naturale la fine della monade;
implicando tale fine un interruzione nella serie delle cause e degli
effetti, che è invece continua e infinita. L’origine e la fine delle
monadi deve essere dunque ricercata fuori deU’ordino causale dell'
universo; o piuttosto si può dire che le monadi non hanno origine: sono nate
insieme con l’universo stesso, sono concreate ad esso; e il creatore di
esse è il medesimo creatore deH'universo: Dio. Quanto all' inizio
e alla fine di queste forme, anime, o principi sostanziali, bisogna dire
che esse non possono avere origine se non dalla creazione, e non possono
aver fine se non da un annullamento compiuto espressamente dalla
potenza suprema di Dio.... Così queste forme non cominciano nè finiscono
naturalmente. E perchè non avrebbero esse il medesimo privi egio degli
atomi, i quali, secondo i seguaci di Gassendi, devono sempre conservarsi?
Tale privilegio bisogna accordarlo a tutto ciò che è veramente una
sostanza; perchè la vera unità è assolutamente indissolubile. Dato ciò, bisogna
credere che queste sostanze sono state inizialmente create insieme col
mondo. (Syslème noiweau, primo abbozzo). Così (eccezion fatta
per le anime che Dio vuole ancora creare espressamente) fui obbligato a
riconoscere che le forme costitutive delle sostanze sono state create
insieme col mondo e che sussistono in eterno. (Syntènu
nouveau, seconda stesura, 1095, G. IV, 479). Individualità e
universalità della monade. - Lo monadi hanno in se stesse il doppio
carattere di essere ciascuna un elemento costitutivo del mondo, e insieme
di implicare ciascuna, in se, 1 assoluta totalità di sviluppo del mondo
stesso. 11 mondo è composto di monadi: ma ciascuna monade è, da un
certo punto di vista, il mondo stesso. Da va certo punto di vista :
questo è il criterio che permette di conservare e conciliare quelle due
caratteristiche. Ciascuna monade mantiene la sua individualità* e la sua
distinzione dalle altre, in quanto implica e rappresenta il medesimo
tutto, ma da un diverso punto di vista. E i punti di vista sono infiniti;
così sono infinite le monadi. L individualità della monade si concilia in
tal modo con la sua universalità. Benché ciò possa parere
paradossale, è impossibile a noi di avere conoscenza degli individui e di
trovare il mezzo per determinare esattamente l'individualità di qualsiasi
cosa.se non prendendo la cosa stessa: infatti tutte le circostanze
possono ripetersi; le piti piccole differenze ci sono insensibili; il luogo e
il tempo, lungi dal determinare, hanno anzi bisogno di essere essi stessi
determinati dalle cose che contengono. Ciò che vi è di più notevole in
questo principio, è che Y individualità involve l'infinito; e solamente
colui che è capace di comprendere ciò, può aver conoscenza del principio
di individuazione di questa o di quella cosa: principio il quale deriva
dall" influenza rettamente intesa di tutte le cose dell' universo le une
sulle altre. E vero che non sarebbe punto così, se il mondo fosse
composto di atomi, come vuole Democrito; ma in tal caso non vi sarebbe
pure alcuna differenza tra due individui differenti aventi la medesima figura e
la medesima grandezza. [Nuovi Saggi. Proprio Inaili
versali tà della monade è ciò che garantisce la sua individualità. Due
atomi di ugual forma e grandezza, con le medesime caratteristiche
esteriori, sarebbero indistinguibili 1 uno dall altro. Due monadi non
possono invece essere indistinguibili e perfettamente 'identiche. II fatto di
essere due, implica che esse rappresentano il mondo da due punti di
vista: e ciascun punto di vista comporta legami e rapporti all’ infinito
che necessariamente saranno diversi da quelli di ciascun altro punto di
vista. Due monadi perfettamente identiche in tutto il complesso dei
rapporti implicati, non sono concepibili: sarebbero una sola e medesima monade.
È questo il principio che Leibniz chiama della identità degli indiscernibili.
Per esso ogni monade ha garantita la sua individualità e inconfondibilità
fra tutte le altre. K eli grande importanza in tutta la filosofia e
anche nella teologia il principio che non esistono denominazioni
puramente estrinseche; e questo a causa della connessione delle cose tra
di loro. Due cose non possono diff erir e solo locabnente o
temporalmente, ma è sempre necessario che interceda tra di esse qualche
altra differenza interna. Così non è possibile che vi siano due atomi
simili per forma e uguali per grandezza : per esempio due cubi uguali.
Queste sono nozioni matematiche, cioè astratte, non reali. Tutto
ciò che è differente deve distinguersi per qualche cosa; e la sola
posizione non basta a differenziare le cose reali. Per questo principio
si sconvolge tutta la filosofia puramente atomistica. In primo luogo, non è
possibile che vi siano atomi, altrimenti vi sarebbero due cose che non
differirebbero se non dall’esterno. In secondo luogo, se la sola
posizione presa per sè non costituisce un mutamento, ne deriva che non vi
è alcun mutamento che sia puramente di luogo. E, in generale, il luogo, la
posizione, la quantità (come p. es. il numero), la proporzione, non
sono se non relazioni che risultano da altre cose che costituiscono per
sè stesse il mutamento. Così, essere in un determinato luogo,
astrattamente parlando, non sembra indicare altro che una posizione. Ma
effettivamente bisogna che ciò che è in un determinato luogo, esprima in
sè quel luogo stesso; cosicché la distanza e il grado di distanza
implica anche un modo di esprimere in sè la cosa distante, di agire su di
essa, e di essere da essa affetto. Ed effettivamente la posizione implica un
grado di espressione. Tutte le cose da noi qui esposte derivano dal
principio fondamentale che il predicato è contenuto nel soggetto;
principio che colpì l’Arnauld(l) quando una volta gliene feci cenno: - j’
en ay esté frappe - mi scrisse. (Frammento).
Rappresentazione e appetito. - Proseguiamo nel caratterizzare la struttura
della monade. Essa contiene in sè tutto il proprio sviluppo futuro,
insieme con lo sviluppo del mondo. Ma quello che determina la sua
particolarità e il suo valore, è di contenerlo non esplicito ed esteso
nel tempo e nello spazio, ma implicito, in modo pregnante, allo stato
potenziale. Se noi volessimo immaginare in ciascuna monade,
attualmente sviluppato, tutto il suo svolgimento completo,
perderemmo, per così dire, il vantaggio essenziale della monade:
avremmo di fronte a noi il mondo stesso in tutta la sua immensa e
inafferrabile molteplicità. Il vantaggio consiste proprio nel raccogliere la
molteplicità del mondo nella individualità; di contenere allo stato implicito
ciò che allo stato esplicito sarebbe Superiore ad ogni facoltà di
percezione o di apprensione. Ora, come si svolge e quale aspetto
assume concretamente, nella monade, tale implicazione della totalità ?
Assume l’aspetto di forza o appetito da un lato, di rappresentazione
dall'altro. Ciascuna monade ha una rappresentazione di tutti gli
stati futuri che essa contiene in sè, e contemporaneamente ha un
impulso, una tendenza che la spinge a passare a questi futuri, dal
presente in cui si trova. In tali due forme si svolge, nelI - individuo, il
passaggio all'universale. (1) Antonio Arnauld (1012-1604), teologo
e filosofo francese di scuola cartesiana e giansenistica, intrattenne una
lunga e importantissima corrispondenza col Leibniz. Lo stato dell'anima,
come quello dell'atomo, è imo stato di cambiamento, una tendenza: l'atomo
tende a cambiare di luogo, l'anima a cambiare di pensiero; l'uno e
l’altro cambiano nel modo piìi semplice e più uniforme che il loro
stato permetta. Come mai allora (mi si domanderà) c'è tanta semplicità
nel cambiamento dell'atomo e tanta varietà nei cambiamenti dell'anima? Il fatto
è che l'atomo (così come lo si i mm agina, benché veramente non
esista in natura), quantunque sia composto di parti, non ha nulla
che determini varietà nel suo tendere, poiché si suppone che queste parti non
mutino i loro rapporti reciproci ; mentre l'anima, per quanto
indivisibile, contiene una tendenza composta, cioè una molteplicità di pensieri
presenti dei quali ciascuno tende a un particolare cambiamento, a
seconda di ciò che esso contiene; e questi pensieri si trovano tutti insieme
nell'anima, in virtù del suo rapporto essenziale con tutte le altre cose
del mondo. E anzi, è fra 1 altro la mancanza di tale rapporto che rende
impossibili in natura gli atomi di Epicuro. Infatti ogni cosa o parte
dell' universo deve rappresentare tutte le altre; Sicilie 1 anima, quanto alla
varietà delle sue modificazioni, non deve paragonarsi all'atomo
materiale, ma piuttosto all universo, che essa rapprasenta dal suo punto
di vista, e anche in qualche maniera a Dio, di cui essa rappresenta
in modo finito 1 infinità (a causa della sua percezione confusa e imperfetta
dell' infinito). 11 sentimento del piacere, per esempio, sembra
semplice, ma non lo è; e chi lo volesse notomizzare troverebbe che
esso implica tutto ciò che ci circonda e conseguentemente tutto ciò cir conila
ciò che ci circonda. E la ragione del cambiamento dei pensieri nell'anima
è la medesima ragione del cambiamento delle cose nell’ universo che
essa rappresenta. Infatti i rapporti meccanici che sono sviluppati nei
corpi, sono riuniti e, per cosi dire, concentrati nelle anime o entelechie, ed
hanno anzi in esse 0. — Leibniz, La monadologia. la loro origine. È vero che non tutte le
entelechie sono, come la nostra anima, immagini di Dio, poiché non
tutte sono fatte per essere membri di una società o di uno stato di
cui egli sia il capo; ma esse sono sempre immagini dell'universo. Sono mondi in
compendio, a modo loro: semplicità feconde ; unità di sostanze ; ma
virtualmente infinite, por la molteplicità delle loro modificazioni;
centri che esprimono una circonferenza infinita. (Polemica
col Bayle). Non potrebbe Dio forse dare inizialmente alla
sostanza una natura o forza interna che le faccia produrre ordinatamente
(come in un automa spirituale o formale, ma libero, in quanto gli è
attribuita la ragione) tutto ciò che le accadrà, cioè tutte le
impressioni o espressioni che essa avrà ; e ciò senza 0 soccorso di
alcun' altra creatura ? Tanto più che la natura della sostanza richiede
necessariamente e implica essenzialmente im progresso o un cambiamento, senza
il quale essa non avrebbe la forza di agire. E poiché questa natura dell'anima
è rappresentativa dell" universo in modo esattissimo (benché più o
meno distinto), la serie delle rappresentazioni che l'anima produce in sé
risponderà naturalmente alla serie dei cambiamenti dell’universo
stesso. (Syxtème nouveau, lt>95, G. IV, IS.">).
Una monade, in sé stessa e in un istante, non può essere distinta
da un'altra, se non per le sue qualità e azioni interne, le quali non
possono essere altro che le sue percezioni (cioè le rappresentazioni del
composto o di ciò che sta al di fuori, nel semplice), e le sue
appetizioni (cioè il suo tendere da una percezione all'altra) che sono i
principi del cambiamento. Infatti la semplicità della sostanza non
impedisce la molteplicità delle modificazioni che si devono trovare
insieme in questa medesima sostanza semplico; e tali modificazioni consistono
nella varietà dei rapporti rispetto alle cose che stanno al di fuori. Così in
un centro o punto, per quanto semplice, si trova un' infinità di
angoli formati dalle linee che ad esso concorrono. ( Principe « de
la Mature et de la Grace). Tn tal modo si viene anche a configurare
il concetto di rappresentazione e in generale di conoscenza, come Leibniz
lo tratta dal punto di vista gnoseologico. Percezione è espressione
delia molteplicità nell’unità; e, d’altro lato, è azione. 11
pensiero, essendo l’azione di una cosa su sè medesima, non ha luogo nella
figura e nel movimento, i quali non possono mostrare il principio d ima
azione veramente interna: d’altronde è necessario che vi sieno esseri
semplici, altrimenti non vi sarebbero esseri composti o esseri per
aggregazione, i quali sono piuttosto fenomeni che sostanze, ed esistono
piuttosto \óp<p che (potrei (cioè piuttosto moralmente o razionalmente che
fisicamente) per parlare con Democrito. E se non vi fosse
cambiamento nelle cose semplici, non ve ne sarebbe neppure nelle
composte, tutta la realtà delle quali non consiste se non nella realtà
delle cose semplici. Ora i cambiamenti interni nelle cose semplici sono
analoghi a ciò che noi concepiamo nel pensiero, e si può dire che in
generale la percezione è V espressione della molteplicità nell' unità.
Ella non ha bisogno, Signore (1), di questi schiarimenti sulla immaterialità
del pensiero di cui Ella ha parlato in modo ammirevole in molti luoghi. Tuttavia,
unendo queste considerazioni con la mia ipotesi particolare, mi pare che
l'una serva a dar luce alle altre. (Lotterà ni Bayle).
(1) Piotro Bayle (1647-1706), cui Leibniz qui si rivolge, b il
principale rappresentante della lilosofia scettica in quel tempo.
Fondatore delle 1 Voltvelles de la republique des lettres, autore del
Dictionnaire historique et crilique, ebbe col Leibniz lunghe od
interessantissime polemiche su vari argomenti, quali l’ipotesi
dell’armonia prestabilita, e il problema della conciliazione fra fede o
ragione. I pensieri sono azioni; e le conoscenze o verità, in quanto
sono in noi, anche quando non vi si pensa, sono abitudini o disposizioni;
e noi sappiamo molte cose alle quali non pensiamo punto. (
Nuovi Saggi, 1701 segg. I, I, § 26, G. V., 79). Mi meraviglio,
Signore, che Ella insista nel volgere le mie opinioni in modo
completamente diverso da ciò che io intendo. Ella pretende che, secondo
me, noi non facciamo altro che accorgerci di ciò che avviene dentro di
noi. Non so d onde Ella abbia ricavato quest’ idea; io ritengo invece che
noi facciamo tutto ciò che avviene in noi. (Lettera al
Jaquelot). II pensiero come unità della molteplicità e come
azione: ecco due concetti che saranno propri della filosofia idealistica
postkantiana, cui Leibniz giunge già qui con l’ approfondi mento del
concetto di monade come spirito. Le piccole percezioni. - Da tale
concetto Leibniz trae anche argomenti per affermare l’ innatismo, contro
la negazione del Locke, il quale nel suo * Saggio sull’ intelletio umano,
si era opposto al razionalismo cartesiano affermando che tutto viene
aU’anima esclusivamente dai sensi, cioè dal di fuori, come segni che si
imprimano su di una tabula rasa. I Nuovi saggi sull’ intelletto umano di
Leibniz sono tutti destinati ad una presa di posizione di fronte alle
tesi del Locke. Di essi verrà trattato in un volume a parte. Qui ci
interessa solo notare come raifermazione dell’ innatismo in Leibniz non si
fondi soltanto, come in Cartesio, su motivi razionalistici. Ciò che è
innato allo spirito, non deriva per lui unicamente dalle idee di ragiono. È
innato anche tutto ciò che è contenuto nell’anima, intesa come monade,
cioè tutta la serie dei rapporti di causa e di effetto di cui essa ha
rappresentazione. Tutto ciò costituisce il contenuto dell’anima, e non viene ad
essa dal di fuori ma fa parte di essa già fin dalla sua creazione; tutto
1 universo, insomma, è già insito a priori nell’anima. Ma l’anima
non ha nozione attuale di tutto questo suo contenuto. Il campo della sua
conoscenza è limitato e si estende LA MONADE solo a ciò che le è pili
immediatamente a contatto. Come si concilia questo con la sua
universalità e con l’innatismo? Leibniz ricorre a* questo proposito alle
piccole percezioni o percezioni insensibili, le quali non cessano di influire
sull’anima, pur senza giungere alla sua coscienza. Esse appartengono
bensì dia rappresentazione deH’anima: l’anima però non ne ha
consapevolezza. In tal modo si viene a far concordare l’assoluto
innatismo di ogni verità, sia necessaria sia contingente, sia di ragione
sia di fatto, con la limitazione attuale delle nostre conoscenze. Le
piccole percezioni permettono a Leibniz di concepire la monade limitata insieme
e universale. La questione dell’origine delle nostre idee e dei
nostri principi non è preliminare nella filosofia, e bisogna esser
molto avanzati per risolverla bene. Credo tuttavia di poter dire che le nostre
idee, anche quelle delle cose sensibili vengono dal nostro proprio
intimo.... Non sono affatto favorevole alla tabula rasa di Aristotele; e vi è
del giusto in ciò che Platone chiamava reminiscenza. Vi è anzi di
piii, giacché noi non abbiamo soltanto una reminiscenza di tutti i nostri
pensieri passati, ma anche un presentimento di tutti i nostri pensieri
futuri. È vero che ciò avviene in modo confuso e senza distinguere questi
pensieri, press’ a poco come quando io odo il rumore del mare: odo
allora il rumore di tutte le onde particolari che compongono il
rumore totale, pur senza distinguere un'onda dall'altra. Così è vero, in
un certo senso, ciò die ho spiegato : cioè die non solo le nostre idee,
ma anche le nostre sensazioni (sentiments) nascono dal nostro fondo, e
che l'anima è più indipendente di quanto non si pensi; benché resti
pur vero che nulla avviene in essa che non sia determinato, e che
nulla è nelle creature, che non sia continuamente creato da Dio.
(Suri' Essay de l'entendement liutnain de Momùur Loci. dc.j o il ]( f-3,
G.Y, l(i). Si tratta di sapere se l' anima in se stessa sia
compietamente vuota, come delle tavolette in cui non si sia ancora scritto
nulla (tabula rasa), secondo l'opinione di Aristotele e dell'autore del
Saggio, e se tutto ciò che vi è tracciato derivi unicamente dai sensi e
dall'esperienza: oppure se l'anima contenga originariamente i principi di
varie nozioni e dottrine che gli oggetti esterni risvegliano soltanto
nelle varie occasioni, come credo io, d’accordo con Platone e anche
con la Scuola e con tutti coloro che prendono in questo significato il
passo di S. Paolo (Rom. 2,15), dove egli dice che la legge di Dio è
scritta nei cuori.... Possiamo noi negare che vi sia molto d’
iimato nel nostro spirito, dal momento che siamo innati - per così
dire - a noi stessi, e in noi stessi vi sono l’essere, l'unità, la
sostanza, la durata, il cambiamento, l'azione, la perfezione, il piacere e
mille altri oggetti delle nostre idee intellettuali? Ed essendo questi
oggetti immediati al nostro intelletto e sempre presenti (benché non possano
esser sempre percepiti a causa delle nostre distrazioni e dei
nostri bisogni), perchè meravigliarsi se noi diciamo che queste idee ci
sono innate con tutto ciò che ne dipende? Mi sono servito anche del
paragone di una pietra di marmo che abbia delle venature, anziché essere
tutta unita come le tavolette vuote o ciò che i filosofi chiamano
tabula rasa. Poiché, se l'anima somigliasse a queste tavolette
vuote, le verità sarebbero in noi come la figura d' Ercole è in un marmo,
quando questo marmo è completamente indifferente a ricevere questa figura
o qualche altra. Ma se vi fossero delle vene in quella pietra, elio
indicassero la figura di Ercole a preferenza di altre figure,
questa pietra sarebbe piii determinata, e Ercole vi sarebbe come
innato in qualche maniera ; quantunque sarebbe necessario un certo lavoro
per scoprile queste vene e polirle, eliminando ciò che impedisce loro di
apparire. E in questa guisa le idee e le verità ci sono innate come
inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali, e non
come azioni; benché queste virtualità siano sempre accompanate da qualche
azione, spesso insensibile, ad esse rispondente.... D'altronde, vi sono mille
segni i quali mostrano che in ogni istante vi è in noi un' infinità di percezioni,
prive però di appercezione e di riflessione, cioè cambiamenti nell’anima
stessa, di cui noi non ci accorgiamo perchè le impressioni sono troppo
piccole o troppo numerose o troppo unite fra di loro in modo da non aver
nulla che lo distingua partitamente ; ma, unito ad altre, non
mancano di produrre il loro effetto e di farsi sentire per lo meno
confusamente nell’ insieme. Così l'abitudine fa sì che noi non ci
accorgiamo del movimento di im mulino o di una cascata, quando vi abbiamo
abitato vicino per qualche tempo. Ciò non significa che tali movimenti
non continuino a colpire i nostri organi, e che non avvenga anche
nell’anima qualche cosa che vi risponda ...., ma queste inpressioni che sono
nell’anima e nel corpo, prive dell'attrattiva della novità, non sono abbastanza
forti per attirare la nostra attenzione e la nostra memoria, le quali
sono rivolte ad oggetti più interessanti. Giacché ogni attenzione
richiede memoria, e spesso, quando non siamo per così dire ammoniti ed
avvertiti di prestare attenzione a talune delle nostre percezioni
presenti, le lasciamo passare senza riflessione e senza neppur notarle; ma se
qualcuno ce ne avverte subito dopo, e ci fa osservare per esempio un qualsiasi
suono che si sia appena inteso, ce ne ricordiamo, e ci accorgiamo di
averne avuto poco fa una sensazione. Così si trattava di percezioni di cui
non ci eravamo accorti immediatamente, derivando in questo caso l'appercezione
solo dall' avvertimento venuto dopo un intervallo sia pur minimo. Non si
dorme mai tanto profondamente da non aver qualche sensazione debole e
confusa, e non si sarebbe mai svegliati neppure dal più grande rumore del
mondo, so Appercezione » significa percezione cosciente (A j>ercevoir:
accorgersi) Cfr. Monadologia non si avesse una qualche percezione del suo
inizio, che è piccolo; cosi come, neppure col più grande sforzo del
mondo, non si romperebbe mai una corda so essa non fosse tesa e allungata
un poco attraverso sforzi minori; per quanto questa piccola estensione da
essi prodotta, non appaia. (Nuovi .Saggi,
Prelazione). Do Ila rappresentazione e percezione si parlerà più a
lungo nel volume che tratterà dei Nuovi Saggi. Qui è interessante
notale come lo sviluppo del concetto di monade influisca direttamente anche su
tutti i problemi gnoseologici. La monade assume sempre più le
caratteristiche dello spirito. Universale, priva di estensione, eterna,
indistruttibile, dotata di rappresentazione e azione, essa diviene come
la pietra con cui l’edificio deH’universo è stato costruito. Essa è
spirito; ma tutto, anche la materia, consta di monadi; sia, il mondo
materiale sia il mondo spirituale la devono assumere come punto di partenza. Da
questa concezione della monade come elemento costitutivo del mondo, e
dall’ impegno di giustificare tutto attraverso essa, sorgono nuovi
sviluppi. Non si tratta più ora di studiare questo principio
sostanziale nella sua. intima costituzione: si tratta di vederlo agire
nel mondo. I problemi che si pongono a questo proposito si
possono ridurre a tre: quello dei rapporti della monade con la
suprema sostanza spirituale, cioè Dio; quello dei rapporti delle
varie monadi tra loro; e quello della giustificazione di una natura
corporea. Vedremo corno questi problemi siano vicendevolmente collegati.
Le monadi e dio; accordo tra le monadi. - La rappresentazione di tutto
l'universo e la tendenza alla propria realizzazione che ciascuna monade
tiene in sè, sono analoghe alla tendenza e alla rappresentazione che caratterizzano
la divinità. Per questo riguardo la monade non è diversa da Dio. L)
altro lato essa è una creatimi di Dio; e il suo aspetto di creatura
consiste proprio nel punto di vista particolare da cui essa agisce e si
rappresenta il mondo. In tale rappresentazione ciascuna monade è completa
in sè stessa, nè è possibile che alcunché provenga ad essa dal di fuori:
tutte lo sue affezioni, passate, presenti e future, sono già contenute in
ossa. La sua rappresentazione del mondo è già chiusa in sè: il suo contenuto
corrispondo al contenuto delle altre monadi, allo stosso modo che due
panorami di una città da punti di vista diversi si corrispondono senza
influenzarsi a vicenda. Questa completezza della monade chiusa in sè stessa, è
espressa da Leibniz con due detti celebri: il primo, che le monadi non
hanno finestre', il secondo, che basta all’esistenza e universalità della
monade, che ci sia Dio ed essa sola al mondo. Dio produce diverse
sostanze, a seconda delle visioni differenti che egli ha dell' universo
-, e, attraverso V intervento di Dio, la natura propria di ciascuna
sostanza fa sì che ciò che accade all' una, corrisponda a ciò che accade a
tutte le altre, senza però che l’una agisca immediatamente sull’
altra. È in primo luogo chiarissimo che le sostanze create
dipendono da Dio, il quale le conserva, anzi le produce continuamente per ima
specie di emanazione, così come noi produciamo i nostri pensieri.
Infatti, dato che Dio volge, per così dire, da tutte le parti e in tutte
la maniere il sistema generale dei fenomeni ch’egli crede bene di
produrre per manifestare la sua gloria, e guarda tutti gli aspetti
del mondo in tutti i modi possibili (poiché nessun rapporto sfugge alla sua
onniscienza); ne consegue che il risultato di ciascuna visione dell’universo da
un determinato punto di vista, è una sostanza che esprime l’universo
in modo conforme a tale visione, se Dio crede bene di rendere il
suo pensiero effettivo e di produrre tale sostanza. E poiché la visione
di Dio è sempre veritiera, lo sono altresì le nostre percezioni : ma ciò
che ci inganna sono i nostri giudizi, che dipendono da noi.
Ora noi abbiamo detto sopra, e discende dalle nostre ultime affermazioni,
che ciascima sostanza è come un mondo a parte, indipendentemente da
qualsiasi altra cosa all’ infuori di Dio. Così tutti i nostri fenomeni,
cioè tutto ciò che ci potrà mai accadere, non è che una conseguenza del
nostro essere. E poiché questi fenomeni conservano un certo ordine
conforme alla nostra natura, o. per così dire, al mondo elio è in noi -
onde possiamo fare osservazioni utili a regolare la nostra condotta e
giustificate dall' avverarsi dei fenomeni futuri, e possiamo spesso
arguire senza errare 1’ avvenire dal passato . basterebbe questo per dire
che tali fenomeni sono veri, senza preoccuparsi se essi siano fuori
di noi e se anche gli altri li percepiscano. Tuttavia è pur vero che le
percezioni o espressioni di tutte le sostanze si rispondono vicendevolmente, in
modo che ciascuno, seguendo accuratamente certe ragioni o leggi che ha
osservate, s’ incontra con l' altro che fa altrettanto ; così come,
quando più persone si sono accordate di trovarsi insieme in un
determinato luogo e in un determinato giorno, lo possono fare
effettivamente se vogliono. Ora. nonostante che tutti esprimano i
medesimi fenomeni, non per questo le loro espressioni sono perfettamente
simili, ma basta che siano proporzionali: così come vari spettatori
credono di vedere la medesima cosa, e infatti si intendono vicendevolmente, per
quanto ciascuno veda e parli secondo la misura della sua vista.
Ora solamente Dio (dal quale emanano continuamente tutti gli
individui, e il quale vede l'universo non solo come lo vedono essi, ma
anche in modo completamente diverso) è causa di tale corrispondenza dei
loro fenomeni, e fa sì che ciò che è specifico di uno sia comune a
tutti; altrimenti non vi sarebbe alcun legame. Si potrebbe dunque dire —
in certo modo e in senso esatto, per quanto lontano dall'uso comune che
una sostanza particolare non agisce mai su di un'altra sostanza
particolare nè è affetta da essa, se si considera che ciò che accade a
ciascuna non è che una conseguenza della sola sua idea o nozione completa
; poiché tale idea contiene già tutti i predicati o eventi, ed esprime
tutto l’universo. Infatti, niente ci può toccare se non pensieri e
percezioni, e tutti i nostri pensieri e le nostre percezioni future non
sono che conseguenze (sia pur contingenti) dei nostri pensieri e
percezioni precedenti; in modo che, se io fossi capace di considerare
distintamente tutto ciò che mi accade o mi appare in questo istante, vi
potrei vedere tutto ciò che mi accadrà o mi apparirà in eterno; e ciò non
verrebbe a manóare e mi accadrebbe pur sempre, se anche tutto ciò che è
fuori di me fosse distrutto, purché non rimanesse se non Dio e io
stesso. (Discovra de métaphysique). La differenza fra la monade e Dio
consisto dunque in ciò, die la monade è rappresentazione del mondo da un
solo punt o di vista; mentre Dio li raccoglie e riassume tutti in sé.
E <|uesto è anche il fondamento dell’accordo delle monadi fra di
loro, pur mantenendo ciascuna la sua autonomia e indipendenza. Le
percezioni confuse e l’azione reciproca delle monadi. - Ma anche per un altro lato
si distingue la monade da Dio: perla minor chiarezza e precisione della
sua rappresentazione. Con le percezioni confuse Leibniz riprende il
concetto delle piccole percezioni. Ma mentre quelle servivano a
dimostrare in ogni anima la presenza - sia pure incosciente e indistinta - di
tutto il contenuto del mondo, queste fanno ravvisare in tale incoscienza
e confusione la causa della imperfezione propria di ciascuna monade. Nella
rappresentazione delle monadi sono contenuti bensì tutti i legami di
causa ed effetto che costituiscono l’universo: ma non come percezione
chiara, distinta, perfettamente sviluppata. Man mano che ci si allontana dal
punto di partenza che costituisce 1 individualità essenziale di ciascuna
monade, tale percezione si fa indistinta e confusa. E la deficienza deriva
dalla imperfezione che è propria delle creature. In Dio, che è il luogo,
per così dire, di tutte le monadi e raccoglie in sé gli infiniti punti di
vista, la rappresentazione dell’universo nella sua totalità è sempre
perfettamente chiara e distinta. Le percezioni dei nostri sensi, quand'
anche sono chiare, devono necessariamente contenere una qualche
sensazione confusa; poiché, dato che tutti i corpi dell'universo
simpatizzano, il nostro riceve 1’ impressione di tutti gli altri : e
quantunque i nostri sensi siano in rapporto col tutto, non è possibile
che la nostra anima possa por mente a tutto particolareggiatamente.
Questa è la ragione onde le nostre sensazioni confuse sono il risultato
di una varietà di percezione assolutamente infinita. Così il mormorio
confuso che vien udito da chi si avvicini alla riva del maro deriva dalla
riunione delle risonanze di imvumerevoli onde. Ora, se fra varie
percezioni (che non s'accordano affatto a costituirne mia complessiva)
non ve n’è alcuna che eccella al di sopra delle altre, e se esse producono
press’ a poco impressioni di uguale intensità o ugualmente capaci
di determinare l'attenzione dell'anima, l'anima non può accorgersene se
non confusamente. ( Discoltra de mélaphysique). La
differenziazione nella chiarezza della percezione è dunque ciò che
costituisce l'individualità di ciascuna monade e ciò che differenzia le
monadi una dall’altra. E anche spiega, in certo qual modo, come si possa
parlare - impropriamente però di azione, di una monade sull’altra.
Poiché noi attribuiamo ad altre cose, come a cause che agiscano su
di noi, ciò che percepiamo in un certo modo, bisogna considerare il
fondamento di questa opinione e ciò che vi è in essa di vero. L'azione
di una sostanza finita sull’altra no>i consiste se non nell’accrescimento
del grado della sua espressione, unito alla diminuzione di quello dell'altra,
in quanto Dio le obbliga ad accordarsi. Ma senza entrare in una
lunga discussione, basta ora, per conciliare il linguaggio metafisico con
la pratica, osservare che noi attribuiamo a noi stessi, e con
ragione, piuttosto i fenomeni che esprimiamo più perfettamente; e
clie attribuiamo alle altre sostanze ciò che ciascuna di esse esprime
meglio. Così ciascuna sostanza, clie è di estensione infinita in quanto esprime
tutto, diviene limitata per il modo della sua espressione più o meno
perfetta. In tal modo dunque si può concepire che le sostanze si
impediscano e limitino vicendevolmente; e quindi si può dire in questo
senso che esse agiscono l’ima sull'altra e sono obbligate, per così
esprimersi, a adattarsi l una all'altra. Giacché può avvenire che un
cambiamento che aumenti l’espressione dell - una, diminuisca quella
dell'altra. Ora la virtù di mia sostanza particolare è di bene esprimere
la gloria di Dio; ed è questo l'aspetto onde ossa è meno limitata. E
qualsiasi cosa, quando esercita la sua virtù o potenza, cioè quando
agisce, cambia in meglio e si sviluppa, in quanto agisce. E dunque, quando
avviene un cambiamento da cui più sostanze sono affette (e effettivamente
ogni cambiamento le tocca tutte), credo che si possa due che quella che
per questo cambiamento passa immediatamente ad un maggior grado di
perfezione o ad una espressione più perfetta, esercita la sua potenza
e agisce; e quella che passa ad un grado minore di perfezione, mostra la
sua debolezza e 'patisce. Ritengo inoltre che ogni azione della sostanza
che abbia una qualche percezione, comporti un qualche 'piacere ; e ogni
passione un qualche dolore, e viceversa. Ma può tuttavia accadere
che un vantaggio presente sia distrutto da un male maggiore in
seguito. D’onde deriva che si può peccare pur nell' agire o nell’
esercitare la propria potenza e provando piacere. (Discovra de méiuphysique).
Le percezioni confuse come corpo. - Percezione distinta è dunque
nella monade l’elemento attivo; percezione confusa l’elemento passivo.
Ora noiT si e già visto, a proposito delle leggi della forza e del
movimento, che Leibniz definisce l’azione come il principio spirituale, e
la passione (o passività) come quello materiale? Le percezioni confuse,
in quanto passive, rappresentano nella monade il principio
corporeo. Ho già detto che da un punto di vista rigorosamente
metafisico, considerando come azione ciò che a va- iene alla sostanza
spontaneamente e dal suo stesso fondo, tutto ciò che è propriamente una
sostanza non fa (thè agire, poiché tutto le proviene da sé stessa dopo che da
Dio, e non è possibile che una sostanza creata abbia influenza sull’altra.
Ma, considerando come azione un esercizio di perfezione, e passione il
contrario, non vi è azione nelle vere sostanze se non quando la loro
percezione (e io attribuisco percezione a tutte) si sviluppa e diviene
più distinta; e non vi è jxissione se non quando diviene più confusa.
Di modo che nelle sostanze capaci di piacere e di dolore, ogni
azione è un avviamento al piacere, e ogni passione al dolore.
( Nuovi Saggi). Le ideo e verità innate non possono essere
cancellate; ma sono oscurate in tutti gli uomini (al loro stato
attuale) dalla loro tendenza verso i bisogni del corpo, e spesso
ancor pili dalle cattive abitudini sopravvenute. Tali caratteri di
illuminazione interna sarebbero sempre splendenti nell" intelletto e
darebbero calore alla volontà, se le percezioni confuse dei nostri sensi
non si impossessassero della nostra attenzione. È questa la lotta di cui parla
la Sacra Scrittura e anche la filosofia antica e la moderna. Nuovi
Saggi. Si ha ragione di chiamare, coi filosofi antichi, perturbazione o
passione ciò che consiste nei pensieri confusi, in cui vi è dell'
involontario e dello sconosciuto ; ed è ciò che nel linguaggio comune si
attribuisce non ingiustamente alla lotta fra corpo e spirito, poiché i
nostri pensieri confusi rappresentano il corpo o la carne, e costituiscono
la nostra imperfezione. (Polemica eoi Bayle). D’altro
lato, è interessante notare elio Leibniz, proprio contemporaneamente alla
definizione delle percezioni confuse come provenienti dalla natura
corporea, riafferma che esse non hanno nulla di essenziale che no
distingua la natura da quella delle percezioni distinte; che è come dire
che la natura corporea non differisce essenzialmente dalla natura
spirituali'. Si concepiscono generalmente i pensieri confusi come
di un genere completamente diverso dai pensieri distinti, e il
nostro autore (1) giudica die lo spirito sia più unito al corpo
attraverso i pensieri confusi che attraverso quelli distinti. Ciò non è
senza fondamento, poiché i pensieri confusi indicano la nostra
imperfezione, le nostre passioni, la nostra dipendenza dall' insieme delle cose
esteriori o dalla materia, mentre la perfezione, forza, dominio, libertà e
azione dell’anima consistono principalmente nei nostri pensieri distinti.
Tuttavia non è men vero che, in fondo, i pensieri confusi non sono
altro che ima molteplicità di pensieri in sé stessi uguali ai
distinti, ma tanto piccoli che ciascuno separatamente non eccita la
nostra attenzione e non è distinguibile. Si può dire anzi che nelle
nostre sensazioni ve ne è compresa insieme una quantità veramente infinita. E
in ciò consiste proprio la grande differenza fra i pensieri confusi
e quelli distinti.... . Così non bisogna punto concepire le
sensazioni contuse come qualche cosa di primitivo e di inesplicabile ;
altrimenti le si mettono press’ a poco a pari con le antiche qualità di alcuni
filosofi scolastici, (2) alle quali non si farebbe (1) Il
benedettino Francesco Lami, autore di una Connotane de soy, nènie ( Parici,
1«99), con cui Leibniz è qui in polemica. (2) Leibniz allude qui
alla concezione scolastica Becondocuiognisensa. zinne deriva da
differenti « qualità sensibili » che si muovono dai corpi esterni che
sostituire queste sensazioni se si volesse sostenere tale differenza
essenziale; e ciò non sarei) he che spostare la difficolta. E, quantunque
sia vero che la loro spiegazione completa superi le nostre forze a causa
della troppo grande molteplicità che esse implicano, non si cessa
tuttavia di penetrarvi sempre più, per mezzo di esperienze che
fanno scoprire in esse i fondamenti dei pensieri distinti. La luce
e i colori ci forniscono esempi di ciò. Queste sensazioni confuse, non
sono neppur esse arbitrarie; e io non sono d’accordo con l'opinione
accettata oggi dai più e seguita dal nostro autore, che non vi sia
somiglianza o rapporto fra le nostre sensazioni e le loro tracce
corporee. Direi piuttosto che le nostre sensazioni rappresentano ed
esprimono perfettamente tali tracce. Taluno dirà forse che la sensazione
del calore non assomiglia al movimento: sì. senza dubbio, non assomiglia
a un movimento sensibile quale quello della ruota di una carrozza; ma
assomiglia all' insieme dei piccoli movimenti del fuoco e degli
organi che ne sono la causa; o piuttosto non è se non la loro
rappresentazione. Così la bianchezza non assomiglia a uno specchio
sferico convesso, e tuttavia non è che 1' insieme di una quantità di
piccoli specchi convessi quali si vedono nella schiuma, guardandola da
vicino. E se noi potessimo sempre scoprire con la medesima facilità la
causa delle nostre sensazioni, troveremmo che essa si riduce sempre
a qualche cosa del genere. (Addition à l'Explication du systeme
nouteau). Corporeità nella monade. Immortalità. - Si è giunti
dunque a concepire il corpo come un semplice aspetto dello spirito: o
meglio, corpo e spirito come due diversi aspetti della per
penetrare in noi. Tale concezione faceva di ogni sensazione alcunché di primitivo,
originario, irresolubile. Le varie sensazioni derivano invece per Leibniz
dal differente comportarsi di un’unica sostanza, e la differenza fra
confuso e distinte — cioè fra anima e corpo - è differenza di grado, non
essenziale. I.kihniz, La monadologia. sostanza semplice
originaria, o monade; la quale non è in sè corporea, ma può, anzi deve
svilupparsi in quanto aumenti o diminuisca il suo grado di perfezione -
come spirito o come corpo. Le percezioni possono infatti divenire da
confuse distinte, e viceversa. Oltre alle percezioni di cui l'anima
ha ricordo, essa ne ha una quantità infinita di confuse, di cui non viene
in chiaro; e attraverso queste, essa rappresenta i corpi esterni, e
giunge a pensieri distinti diversi dai precedenti : perchè i corpi che
essa rappresenta sono passati d’ un tratto a qualche cosa che colpisce
fortemente il suo. Cosi l’ anima passa qualche volta dal bianco al nero o
dal sì al no, senza sapere come, o almeno in modo involontario. Poiché
ciò che i suoi pensieri confusi e le sue sensazioni producono in
essa, si attribuisce al corpo. E non Insogna dunque meravigliarsi se un
uomo che mangia un dolce, e si trova punto da un qualche animale, passa
immediatamente, suo malgrado, dal piacere al dolore. Intatti l animale
era già in relazione col corpo dell'uomo avvicinandosi ad esso
prima di pungerlo, e la rappresentazione di ciò colpiva già la sua anima,
ma insensibilmente. Tuttavia a poco a poco F insensibile passa al
sensibile, nell' anima come nel corpo ; e così l’anima si modifica da sè
anche contro la sua volontà; poiché essa è schiava, attraverso le
sensazioni e i pensieri confusi che si formano secondo gli stati del
suo corpo e degli altri corpi in rapporto al suo. Ecco dunque per
quale meccanismo i piaceri si interrompono, e a volte succedono i dolori
senza che l'anima ne sia sempre avvertita o vi sia preparata; come per esempio
nel caso che l'animale il quale pungerà si avvicini senza rumore; oppure,
se fosse per esempio una vespa, quando una distrazione ci impedisce di fare
attenzione al ronzio della vespa che si avvicina. Così non bisogna punto
dire che non è avvenuto nulla di nuovo nella sostanza di questa
anima, per cui essa passi alla sensazione della puntura: sono i
presentimenti confusi o, per meglio dire, le disposizioni insensibili
dell'anima che rappresentavano la disposizione alla puntura nel
corpo. Osservazioni al Dizionario del Bayle, G.). Discende
anche necessariamente da tutto ciò che ogni monade, e perciò ogni anima, sia
fornita di un corpo. E, poiché ogni monade è eterna e ind istrutt ibile,
non solo l'anima è immortale, ma è anche indistruttibile il corpo; e di
morte, a ligoie, nella natura, non si può parlare, ma solo di una
composizione e scomposizione di vari elementi semplici tra loro. Io
ritengo non solo che queste anime o entelechie abbiano tutte con sè un qualche
corpo organico proporzionato alle loro percezioni; ma anche che Io avi-anno
sempre e lo hanno sempre avuto da quando esistono: così non solo
l'anima, ma anche l'animale stesso (o ciò che è analogo all anima e all
animale, per non fare questioni di parole) permane, e la generazione e la
morte non possono essere se non sviluppi e involuzioni di cui la natura
ci mostra visibilmente alcuni saggi, secondo il suo uso, per
aiutarci a indovinare ciò che nasconde. E quindi nè il terrò, ne il
fuoco, ne tutte le altre violenze della natura, qualunque rovina portino
nel corpo di un animale, non possono impedire all'anima di conservare un
qualche corpo organico, in quanto l'organismo, cioè l'ordine e
l'artificio, è qualche cosa di essenziale alla materia prodotta e
organizzata dalla sovrana saggezza: poiché la produzione deve sempre
conservare traccia del suo autore. Questo mi fa pensare anche che non vi
sia alcuno spirito separato Quanto è qui affermato contraddice solo in
parte all' ipotesi dell’armonia prostabilita, secondo la quale corpo e spirito
sono due sistemi separati, privi di influenze reciproche. Le percezioni confuse
dell’anima sono qui intese non come veraracute corporee, ma come
rappresentatrici nell'anima di ciò ohe avviene nel corpo. È innegabile però
clic Leibniz a volte attribuisce invece alle percezioni confuse un
carattere nettamente corporeo. completamente dalla materia, salvo l'essere
primo e sovrano. (Lettera a Mnsham). In natura e
secondo un rigore metafisico, non vi è nè generazione nè morte, ma solo
sviluppo e involuzione di un medesimo animale. Altrimenti vi sarebbe un
salto eccessivo, e la natura uscirebbe troppo dal suo carattere di
uniformità per un cambiamento essenziale inesplicabile. L’esperienza
conferma tali trasformazioni in alcuni animali, nei quali la natura
stessa ci ha mostrato un piccolo saggio di ciò che essa nasconde altrove.
L' osservazione anche permette ai più accorti osservatori di notare che
la generazione degli animali non è altro che un accrescimento aggiunto alla
trasformazione; il che consente di giungere alla conclusione che la morte
non può essere se non il contrario; consistendo la differenza solamente nel
fatto che in un caso il cambiamento si produce a poco a poco, e
nell’altro d’ un tratto e come violentemente. D'altronde, l'esperienza
mostra anche che un numero troppo grande di piccole percezioni poco
distinte, come quelle che vengono quando si è ricevuto un colpo alla testa, ci
stoidisce: e che in un deliquio avviene che noi ricordiamo - e dobbiamo
ricordare così poco di tali percezioni,
come se non ne avessimo avute affatto. Dunque la regola delT uniformità
ci deve permettere di non giudicare diversamente anche della morte degli
animali, secondo l'ordine naturale; poiché la cosa è facile a spiegarsi
in tale maniera già conosciuta e sperimentata, ed è inesplicabile in
qualsiasi altra maniera. Non è intatti possibile concepire come cominci o
termini 1 esistenza o 1 azione del principio percettivo, nè la sua
disgregazione. (Lettera alla regina Sofia Carlotta di
Prussia). (1) Cioè Dio, in uni non esistono percezioni oscure, nò
passività, e in cui tutto ò realizzato. Gerarchia delle monadi. -
La concezione delle percezioni distinte e confuse come criteri di
perfezione o imperfezione, dà a Leibniz il modo di stabilire una
graduazione tra le varie monadi. Le percezioni più elevate e complesse
saranno segni distintivi delle monadi più elevate. Si forma così una vera
e propria gerarchia, i cui gradi inferiori rappresentano gli infimi
staili della vita vegetativa, i superiori le più alte vette della
spiritualità. La monade dell’uomo sta al culmine di questa ascesa; e ciò
che le attribuisce tale titolo di nobiltà sono le percezioni riflesse,
onde essa giunge alle idee astratte, all’autocoscienza, alla memoria di sè che
le garantisce la conservazione dellasua personalità individuale. AI di
sopra di tutto poi, come percezione sommamente distinta e completa, e
oggetto pure di ogni percezione particolare da parte delle monadi, è
Dio. Ogni monade, con un corpo particolare, costituisce una sostanza
vivente. Così non vi è solamente vita dappertutto, imita alle membra o organi,
ma questa vita si mostra in un' infinità di gradi nelle monadi, dominando
le une più o meno sulle altre. Ma quando la monade ha organi così
bene adattati, che per loro mezzo vi sia rilievo e distinzione nell'
impressione che essi ricevono, e quindi nelle percezioni che
rappresentano tali impressioni (come per esempio quando, per la
conformazione degli umori degli occhi, i raggi della luce sono
concentrati e agiscono con maggior forza), allora ciò può giungere fino
al sentimento, che è una percezione accompagnata da memoria, della
quale cioè resta a lungo una certa eco, per farsi sentire
occasionalmente. E un tale essere vivente è chiamato animale, così come la sua
monade è chiamata anima. E quando quest’anima s’ innalza fino alla
ragione, essa è qualche cosa di più sublime, e la si annovera fra gli
spiriti, come spiegheremo or ora. È vero che gli animali sono a
volte nello stato di semplici esseri viventi e le loro anime Questo
termine (sentiment) è stato da noi a volte anche tradotto con la parola «
sensazione ». nello stato di semplici monadi: quando cioè le loro percezioni
non sono abbastanza distinte perchè ci se ne possa ricordare, come nel
caso di un sonno profondo senza sogni, o di uno svenimento. Ma le
percezioni divenute interamente confuse si devono sviluppare di nuovo negli
animali.... Così è bene far distinzione fra la percezione, che è lo stato
interiore della monade che rappresenta le cose esterne, e la
appercezione, che è la coscienza o conoscenza riflessiva di quello stato
interiore, e non è data a tutte le anime, nè sempre alla medesima anima. Vi
è nelle percezioni degli animali un legame che ha qualche somiglianza con
la ragione, ma non è fondato che sulla memoria dei fatti o effetti, e non
sulla conoscenza delle cause. Così un cane fugge il bastone da cui è
stato colpito, perchè la memoria gli rappresenta il dolore che questo bastone
gli ha prodotto. E gli uomini, in quanto empirici, cioè nei tre quarti
delle loro azioni, non agiscono che come bestie: per esempio, prevediamo che
domani farà giorno perchè si è sempre fatta una tale esperienza: ma solo
l'astronomo lo prevede per via di ragione. E anche questa previsione
fallirà una volta, quando la causa del giorno, che non è eterna, cesserà.
Ma il vero ragionamento dipende dalle verità necessarie o
eterne,come quelle della logica, dei numeri, della geometria, che
costituiscono la connessione indubitabile delle idee e le conseguenze
immancabili. Gli animali nei quali tali conseguenze non si osservano,
sono eliiamati bestie. Ma quelli che conoscono queste verità necessarie, sono
propriamente quelli che si chiamano animali ragionevoli, e le loro anime
sono chiamate spiriti. Queste anime sono capaci di compiere atti
riflessivi, e di considerare ciò che si chiama io, sostanza, anima, spirito,
insomma le cose e le verità immateriali. Ed è questa facoltà che ci rende
partecipi delle scienze o dello conoscenze dimostrative. (
Principe* (Iti la nature et de la yrucel). Differenza fra gli
spiriti e le altre sostanze, anime o forme sostanziali ; e dimostrazione che V
immortalità di cui si vuol sostenere l’esistenza, implica la
memoria. Supposto che i corpi che costituiscono unum per se,
come l'uomo, siano sostanze e abbiano fonile sostanziali, e che le bestie
abbiano anima, bisogna riconoscere elio tali anime e forme sostanziali
non possono perire completamente, non meno che gli atomi o le ultimo
parti della materia, secondo l’opinione degli altri filosofi; giacché
nessuna sostanza perisce, per quanto possa mutarsi. Esse esprimono tutto
l’universo, benché più imperfettamente che gli spiriti. Ma la principale
differenza consiste nel fatto che esse non conoscono ciò che sono, nè ciò
che fanno, e quindi, non potendo fare riflessioni, non possono
scoprire verità necessarie e universali. La mancanza di riflessione su sé
stesse è pure la ragione per cui esse non posseggono alcuna qualità
morale : ne deriva che, passando esse per mille trasformazioni - press’a
poco come un bruco si muta in farfalla - ciò equivale per la morale o
pratica a dire che esse periscono. Si può anzi dirlo, da un punto di
vista fisico, così come diciamo che i corpi periscono per corruzione. Ma
l' anima intelligente, conoscendo ciò che essa è, e potendo dire quella
parola io che ha un così profondo significato, non solo permane e sussiste
metafisicamente anche piii delle altre, ma rimane la medesima anche
moralmente, e costituisce il medesimo personaggio. Giacché è il ricordo o la
conoscenza di quell’ io che la rende passibile di castigo o di ricompensa.
Così 1’ immortalità ciie si richiede nella morale e nella religione non
consiste nella sola sussistenza perpetua che appartiene a tutte le
sostanze; poiché, senza il ricordo di ciò che si è stati, non Morale, ha
per Leibniz e per tutti i filosofi del suo tempo anche il significato di
pratico, contingente, empirico. Si ò già visto (p. 27 ss.) come la
nooessità morale si applichi alle verità di fatto e si contrapponga alla
necessità di ragione, che dà l’assoluta cortezza, l’impossibilità del
contrario. avrebbe nulla di desiderabile. Supponiamo che un privato
qualsiasi debba divenire ad un tratto re della Cina, ma a condizione di
dimenticare ciò ch'egli è stato, come se nascesse di nuovo. Ebbene, in pratica
e quanto agli effetti di cui ci si può accorgere, non è forse come se
egli dovesse essere annientato, e dovesse venir creato nel medesimo
istante al suo posto un re della Cina? Cosa che questo privato non ha
alcuna ragione di desiderare. Eccellenza degli spiriti, che Dio
considera a preferenza delle altre creature. Oli spiriti esprimono piuttosto
Dio che il mondo, ma le altre sostanze esprimono piuttosto il mondo che
Dio. Ma, per permettere di giudicare attraverso ragioni naturali
che Dio conserverà sempre non soltanto la nostra sostanza, ma anche la nostra
persona, cioè il ricordo e la conoscenza di ciò che noi siamo (benché la
conoscenza distinta ne sia a volte sospesa nel sonno e negli svenimenti),
bisogna unire la morale alla metafisica: cioè non bisogna soltanto
considerare Dio come il principio e la causa di tutte le sostanze e di tutti gh
esseri, ma anche come il capo di tutte le persone o sostanze
intelligenti, e come il monarca assoluto della più perfetta città o repubblica,
quale è quella dell' universo, composta di tutti gli spiriti insieme;
essendo Dio stesso insieme il più completo di tutti gli spiriti e
il massimo di tutti gli esseri. Sicuramente infatti gli spiriti
sono le sostanze pili perfette e che esprimono meglio la divinità. Ed
essendo la natura, il fine, la virtù e la funziono delle sostanze nuli’ altro
che di esprimere Dio e l’universo (come è già stato spiegato a sufficienza) non
vi è ragione di dubitare che le sostanze che lo esprimono con
conoscenza di ciò che esse fanno, e che sono capaci di conoscere grandi
verità riguardo a Dio e all' universo, non lo esprimano incomparabilmente
meglio che quelle nature che sono o brute e incapaci di conoscere le
verità, o completamente prive di sentimento e di conoscenza: e la differenza
fra lo sostanze intelligenti e quelle che non lo sono è così grande come
quella che c’è fra lo specchio e colui che vede. E poiché Dio
stesso è il piii grande e il più saggio degli spiriti, è facile
comprendere che gli esseri coi quali egli può, per così dire, entrare in
conversazione e perfino in società comunicando ad essi i suoi sentimenti
e le sue volontà in modo particolare e in guisa che essi possano
conoscere ed amare il loro benefattore, lo devono interessare infinitamente pi
fi che il resto delle cose, le quali non possono essere considerate se
non come strumenti degli spiriti: così come noi vediamo che tutte le
persone sagge hanno molto maggior stima dell'uomo che di qualsiasi altra
cosa, sia pur preziosissima. E la pili grande soddisfazione che possa
avere un’anima, per altri riguardi contenta, è di vedersi amata dagli
altri. Vi è tuttavia, riguardo a Dio, questa differenza: chela sua gloria
e il nostro culto non possono aggiungere nulla alla sua soddisfazione; non
essendo la conoscenza delle creatine se non una conseguenza della
sua sovrana e perfetta felicità, ben lungi dal contribuirvi o dall’esseme
in parte la causa. Tuttavia, ciò che è buono e ragionevole negli spiriti
finiti, si trova eminentemente in lui. E come noi loderemmo un re che
preferisse conservare la vita di un uomo che quella del più prezioso e
più raro fra i suoi animali, così non dobbiamo affatto dubitare che
il più illuminato e il più giusto di tutti i monarchi non abbia il
medesimo sentimento. Dio è il monarca delta più perfetta repubblica
composta di tutti gli spirili-, e il suo principale intento è la felicità
di questa città di THo. Effettivamente gli spiriti sono le
sostanze massimamente sus*cettibili di perfezione. E le loro perfezioni
hanno questo di particolare: che non si intralciano a vicenda, anzi
si aiutano; poiché soltanto i piti virtuosi potranno essere i più
perfetti amici. Ne segue chiaramente che Dio. il quale tende sempre alla
massima perfezione universale, avrà più cura degli spiriti e darà ad essi
non soltanto in generale ma anche a ciascuno in particolare, il massimo
di perfezione permesso dall'armonia universale. Si può anzi dire
che Dio. in quanto è uno spirito, è l'origine delle esistenze;
altrimenti, se gli mancasse la volontà per scegliere il migliore, non vi
sarebbe alcuna ragione affinchè esistesse un possibile a preferenza di
altri. Così la qualità posseduta da Dio, di essere egli stesso uno
spirito, precede tutte le altre considerazioni che egli può avere
riguardo alle creature: solo gli spiriti sono fatti a sua immagine,
appartengono quasi alla sua razza e sono come i figli della casa, perchè
essi soli possono servirlo li fieramente e agire coscientemente ad imitazione
della natura divina: un solo spùito vale tutto un mondo, perchè non solo
lo esprime, ma lo conosce pure, e vi si comporta al modo di Dio. Così
sembra che, quantunque ogni sostanza esprima tutto l'universo, pine le altre
sostanze esprimono piuttosto il mondo che Dio, ma gli spiriti esprimono
piuttosto Dio che il mondo. E tale natura così nobile degli spiriti, ohe
li avvicina alla divinità quanto è possibile a semplici creatine, fa sì che Dio
tragga da essi gloria infinitamente maggiore che dagli altri esseri : o
piuttosto gli altri esseri non fanno che dare agli spiriti argomenti
per glorificare Dio. Questa è la ragione per cui quella
qualità morale di Dio che lo rende signore o monarca degli spiriti, lo
tocca, per così dire, personalmente in modo affatto smgolare. È in
ciò ch'egli si umanizza, ch'egli soffre rapporti umani, eh' egli entra in
società con noi, come un principe con i suoi sudditi; e tale rapporto gli
è così caro, che lo stato felice e fiorente del suo impero, consistente
nella massima felicità possibile dei suoi abitanti, diviene la
suprema delle sue leggi. Poiché la felicità è per le persone ciò che la
perfezione è per gli esseri. E se il primo principio dell'esistenza del mondo
fisico è il decreto di dargli il massimo di perfezione possibile, il primo
disegno del mondo morale o della città di Dio, clie è la parte pili
nobile dell'universo, sarà di diffondervi il massimo di felicità
possibile. Non bisogna dunque affatto dubitare che Dio non
abbia ordinato il tutto in modo che gli spiriti non solo possano
vivere sempre, il che è inevitabile, ma anche ch'essi conservino sempre la loro
qualità morale, affinchè la sua città non perda alcuna persona, così come
il mondo non perde alcuna sostanza. E quindi gli spiriti saranno sempre
ciò che sono, altrimenti non sarebbero suscettibili di ricompensa nè di
castigo: il che d'altra parte appartiene all'essenza di qualsiasi
repubblica, ma sopratutto della più perfetta, nella quale nulla può
essere negletto. Ingomma, essendo Dio contemporaneamente il più giusto
e il più benevolo dei monarchi, e non richiedendo se non la buona
volontà, purché sia sincera e seria, i suoi sudditi non potrebbero
desiderare una condizione migliore. E, per renderli perfettamente felici,
egli vuole soltanto che lo amino. Gesù Cristo Ita scoperto
agli uomini, il mistero e le leggi ammirevoli del regno dei cieli e la
grandezza della suprema felicità che Dio prepara a coloro che lo
amano. I filosofi antichi non hanno abbastanza conosciuto queste
importanti verità: Gesù Cristo solo le ha espresse divinamente bene, o in modo
così chiaro e famigliare, che gli spiriti più grossolani le hanno potute
concepire. Così il suo Evangelo ha cambiato completamente la faccia
delle cose umane: egli ci ha mostrato il regno dei cieli, o quella
perfetta repubblica degli spiriti che merita il titolo di città di Dio,
di cui ci ha scoperto le leggi ammirevoli: egli solo ha mostrato come Dio
ci ami, e con quale esattezza abbia provveduto a tutto ciò die ci
riguarda; che. preoccupandosi dei passerotti, non trascurerà le creature
ragionevoli che gli sono infinitamente più care; che tutti i capelli della
nostra testa sono contati; che cadranno il cielo e la terra, prima che
sia cambiata la parola di Dio e ciò che riguarda l'economia della nostra
salvezza; che Dio ha più riguardo alla minima anima intelligente, che a
tutta la macchina del mondo; che noi non dobbiamo temere ciò che
può distruggere il corpo ma non può nuocere all' anima, perchè solo Dio
può rendere l'anima febee od infebee; che le anime dei giusti sono nella
sua mano al coperto da tutte le rivoluzioni dell'universo, e nulla può
agire su di esse se non Dio solo; che nessuna delle nostre azioni viene
dimenticata; che tutto viene messo in conto, anche lo parole oziose, anche un
cucchiaio d’acqua ben impiegato: infine, che tutto deve riuscire per il
maggior bene dei buoni; che i giusti saranno come dei soli, e che nè i
nostri sensi nè il nostro spirito non hanno mai gustato nulla che
si avvicini aUa febeità che Dio prepara a coloro che lo amano.
( JJiecours de mélaphysique. Così termina il Discours de
métaphysique : nel quale, dal principio della differente chiarezza di
percezione nelle varie monadi, si giunge ad una gerarchia degli esseri, e
alla definizione deU’anima o della personalità umana in sè e nei suoi
rapporti con la natura divina. Tale costruzione permette a Leibniz uno di
quegli sguardi armonici e complessivi su tutto ("universo, in cui
fenomeni tìsici, concetti scientifici o filosofici, principi morali, dogmi
religiosi coincidono in una suprema armonia. La materia come
aggregato. - Si è studiata finora la natura del corpo come elemento
essenziale della monade, inseparabile. dall'anima. Ma c’è per Leibniz un modo
rii considerare il mondo materiale da un altro punto di vista. La materia
può essere vista anello altrimenti che come forza passiva, appartenente a
ciascuna delle sostanze fondamentali onde consta il mondo, o come ciò che
vi è di confuso e indistinto nella percezione della monade. Materia è, pili
concretamente, tutto ciò che ci sta intorno; tutto ciò che, nei suoi vari
aspetti, cade sotto i nostri sensi. Ora, questa materia, a volerla
analizzare più a fondo, consterebbe anch essa di unità sostanziali,
di monadi: pur tuttavia ci si presenta, così composita, senza caratteri
di attività o di spiritualità. La sua materialità non dipende dalle unità
che la costituiscono (e sappiamo che non esistono unità che siano
puramente materiali), ma dal fatto stesso di non essere un’unità, ma un
gruppo di unità: un <kj gregaio. Quanto alle forme sostanziali o
entelechie primitive..., io non le approvo se non quando le si considera
sostanze semplici, capaci di percezione e di appetito, insomma
anime, o qualche cosa che abbia analogia con l’anima, e che si
potrebbe chiamare principio di vita: e ritengo infatti che tutta la
natura sia piena di corpi organici viventi. Così non ritengo in verità
che una pietra sia essa stessa una sostanza corporea animata o dotata di
un principio di Ilo unità o di vita; ma ritengo che in essa
vi siano dappertutto di tali principi; e che non vi sia alcuna parte di
materia nella quale non si trovi un animale o una pianta o qualche altro
corpo organico vivente (quantunque di organico vivente noi non conosciamo
che le piante e gli animali). Così una massa di materia non è
propriamente ciò che io chiamo una sostanza corporea, ma un'ammasso
e una risultante ( aggregatovi ) di una infinità di tali sostanze, come lo è un
gregge di pecore o un mucchio di vermi. ( Éclaircissement sur
les natures plastiques, G.). Non dirò, come mi si accusa, che ci
sia una sola sostanza di tutte le cose e che questa sostanza sia lo
spirito. Vi sono invece tante sostanze distinte quante sono le
monadi, e tutte le monadi non sono spiriti. E queste monadi non
compongono affatto un tutto effettivamente unitario. Questo tutto, se esse lo
componessero, non sarebbe in nulla uno spirito. Mi guardo pure dal dire
che la materia sia un'ombra o un nulla. Sono espressioni esagerate. Essa
è un ammasso, non substantia seti substa ntiatum, cosi come sarebbe
un esercito, un gregge; e in quanto la si consideri come componente una
cosa unica, è un fenomeno; fenomeno ben reale effettivamente, ma la cui unità è
determinata dal nostro concepirla. (Frammento, G.). L
aggregato come eenomeno. - La materia, intesa in questo modo, non viene ad
avere nulla di reale. La sua essenza consiste appunto nel fatto di essere
una riunione di sostanze reali: in sé stessa, essa è dunque qualche cosa
di costruito, (li artificiale. Quando viene osservata a fondo, si
dissolve necessariamente nei suoi componenti. Leibniz esprime ciò col
dire che essa ha natura fenomenica { 1). (1) Fenomenico (da
«palvopai, appaio), è termine usato fin da Platone per indicare ciò che
non ha realtà assoluta, ma è una apparenza. Sembra che a rigore i corpi
non meritino affatto il nome di sostanze; e questa pare esser già stata
l’opinione di Platone, il quale ha osservato che essi sono esseri
transeunti, i quali non sussistono mai più di un istante. Ma questo è un
punto che richiede più ampia discussione; e io ho altre ragioni
importanti che mi conducono a rifiutare ai corpi il titolo e il nome di
sostanze, metafisicamente parlando. Perchè, per dirla in una parola, il
corpo non ha affatto una vera unità; non è che un aggregato, che la scuola
chiama puro accidente ; un insieme, come mi gregge. La sua unità deriva
dalla nostra perfezione. È un essere di ragione o piuttosto di
immaginazione, un fenomeno. (Evlretien de Philarète et d’
Ariste, G. VI, 58(>). I corpi non possono essere sostanze
propriamente dette, poiché sono sempre solamente delle unioni, risultanti
di sostanze semplici o vere monadi, le quali non sono estese e
perciò non sono veri corpi. Onde i corpi presuppongono sostanze immateriali.
( Lettera a Masham). II continuo e il discreto. — Di qui
Leibniz trae nuovi argomenti per dimostrare 1 irrealtà della natura
corporea in generale e la necessità di ricorrere, di là da essa, a
qualche cosa che sia fornito di più solida validità. Acquista anche
nuova forza la sua negazione del concetto di estensione. La monade in sè
non è estesa; non è considerabile se non come un « punto metafìsico ».
L'*estcnsione non può derivare che da una molteplicità, una ripetizione:
in questo senso essa è puramente fenomenica, così come lo è l’aggregato.
La differenza consiste nel fatto che la materia come aggregato è discreta,
cioè composta di un ammasso di unità indivi si biìn e Féstensione invece è
continua, cioè divisibile all" infinito. A maggior ragione essa non
sarà nulla di reale, ma un semplice ordine di rapporti spaziali, così
come il tempo è un ordine di rapporti successivi. Non vi sono se
non gli atomi di sostanza, cioè le unità reali e assolutamente prive di
parti, che siano le origini delle azioni e i primi principi assoluti della
composizione delle cose, e come gli ultimi elementi dell’analisi delle
cose sostanziali. Si potrebbe chiamarli punti metafìsici : hanno alcunché
di vitale e una specie di percezione, e i punti matematici sono i loro
punti di vista per esprimere l'universo. Ma (piando le sostanze corporee
sono ristrette insieme, tutti i loro organi non costituiscono se non un
punto fisico riguardo a noi. Così i punti fìsici non sono indivisibili se
non in apparenza: i punti matematici sono esatti, ma non sono che
modalità; e solo i punti metafisici o sostanziali (costituiti dalle forme o
anime) sono esatti e reali. E senza di essi non vi sarebbe nulla di
reale, poiché senza le vere unità non vi sarebbe alcuna
molteplicità. (Syslème noureau). Benché la materia
consista in un ammasso di sostanze semplici innumerevoli, e la durata
delle creature, così come il movimento attuale, consista in un ammasso di
stati momentanei, tuttavia bisogna dire che lo spazio non è affatto
composto di punti nè il tempo di istanti, nè il movimento matematico di
momenti, nè la tensione di gradi estremi. Il fatto è che la materia, lo
scorrere delle cose, e insomma ciascun composto attuale, è ima
quantità discreta, ma che lo spazio, il tempo, il movimento matematico,
la tensione e l’ accrescimento continuo nella velocità e in altre qualità, e
insomma tutto ciò la cui valutazione appartiene al campo delle possibilità, è
una quantità continuata e indeterminata in sé stessa, o indifferente alle
parti che vi si possono prendere e che vi si prendono attualmente in
natura. La massa dei corpi è divisa attualmente in modo determinato, e nulla
non vi è esattamente continuato; ma lo spazio o la continuità perfetta
che è nell' idea, non indica se non una possibilità indeterminata
di dividere come si vuole. Nella materia e nelle realta attuali, il tutto
è un risultato di parti: ma nelle idee e nei possibili (che comprendono
non solamente questo imiverso, ma anche qualsiasi altro che possa essere
concepito e che T intelletto divino si rappresenti effettivamente),
il tutto indeterminato è anteriore alle ilivisioni, come la nozione dell'
intero è più semplice che quella delle frazioni, e la precede....
Per meglio concepire la divisione attuale della materia all'
infinito e l'esclusione che vi è in essa di ogni continuità esatta e
indeterminata, bisogna considerare che Dio vi ha giti prodotto tanto
ordine e tanta varietà, quanto era possibile di introdurvi finora, e che
così nulla vi è rimasto di indeterminato, mentre 1' indeterminazione è
l'essenza della continuità. Questo apprende il nostro spirito dalla
perfezione divina; e l'esperienza lo conferma attraverso i sensi. Non vi è
goccia d'acqua così pura, che non vi si possa osservare qualche varietà,
guardandola bene. Un pezzo di pietra è composto di determinati granuli, e
al microscopio questi granuli appaiono come rocce nelle quali vi
sieno mille giochi di natura. Se la forza della nostra vista aumentasse
continuamente, troverebbe sempre campo per esercitarsi. Dappertutto vi
sono varietà attuali, e mai una perfetta miiforinità. Nè vi sono due
parti di materia completamente simili l ima all’altra, sia nel grande,
sia nel piccolo. (Lotterà alla elettrioe Sofia di
Hannover). Materia trema e seconda. - Il continuo è dunque
spazialità (o temporalità eco.) astratta; il discreto è aggregato, o
materia. E della materia Leibniz ha due concezioni diverse: da un lato
quella che abbiamo vista al Capitolo 111, come potenza passiva primitiva,
come quel substrato di resistenza, densità, « anti tip' a», al quale si
applica la forza, trasformandola in attività, entelechia; d’altro lato
questo concetto di aggregato, composizione, costruzione artificiale posteriore
alla monade, non avente in sè una vera e propria sostanzialità. Per
distinguere tali due modi diversi di considerare la materia, Leibniz usa
i due termini di materia prima e materia seconda. Leibniz, La
mvnailoloi/ia. Nei corpi io distinguo la sostanza corporea dalla materia,
e distinguo la materia prima dalla seconda. La materia seconda c un aggregato o
composto di varie sostanze corporee, come un gregge è composto di vari
animali. Ma ogni animale e ogni pianta, dal canto suo, è una
sostanza corporea, la quale ha in sè il principio dell' unità che
fa sì die sia veramente una sostanza e non un aggregato. E questo
principio di unità è ciò che si chiama anima, oppure qualche cosa che ha
analogia con l'anima. Ma oltre al principio dell’ unità, la sostanza
corporea ha la sua massa e la sua materia seconda, che è ancora un
aggregato di altre sostanze corporee più piccole, tino all' infinito. Tuttavia
la materia primitiva o presa in sè stessa, è ciò che si concepisce nei
corpi mettendo da parte tutti i principi dell' unità, è cioè ciò che vi è
in essa di passivo. Di qui derivano due qualità: resistenti a et
restitantia vel inertia. Cioè, un corpo non può essere penetrato, e
cede piuttosto a un altro corpo, ma non cede senza difficoltà e senza
diminuire il movimento complessivo di quello che lo spinge. Così si può
dire che la materia, in sè stessa, involve, oltre l'estensione, ima
potenza passiva primitiva. Ma il principio dell’unità contiene la potenza
attiva primitiva, o la forza primitiva, la quale non si perde mai e
persevera sempre in un ordine esatto delle sue modificazioni interne che
rappresentano quelle esterne. (Lettera a Burnett).
L’anima e il corpo. Attraverso il concetto di aggregato, Leibniz
spiega anche la costituzione dei .corpi organici e degli animali. TI loro
corpo, egli dice, è un aggregato, con una monade, per così dire, dominante e
ordinatrice, di natura sujieriore. Tale monade è l’anima e costituisce
l’elemento permanente di ciascun individuo. Definisco 1’organismo,
o macchina naturale, come una macchina, ciascuna parte della quale sia
una macchina a sua volta (1). Perciò la sottigliezza del suo artificio
va all ? infinito, poiché nulla è tanto piccolo da poter essere
trascurato; mentre le parti delle nostre macchine artificiali non sono a
loro volta macchine. Questa è la differenza essenziale fra la natura e
forte, che i nostri moderni non hanno ancora considerato
abbastanza. (Lettera a Lady Magliari), G. Ili, 356). lo
distinguo: fentelechia primitiva o anima. La materia prima o potenza
passiva primitiva. La monade, composta di queste due. La massa, o materia
seconda, o macchina organica, a formare la quale concorrono innumerevoli
monadi subordinate. 5.°) L'animale o sostanza corporea, la cui unità è
determinata dalla monade dominante nella macchina. (Lettera al Le
Volder). E attraverso i due concetti di materia prima c seconda, si
formano pine duo concetti differenti di anima. Il primo, come principio
attivo insito nella monade, inseparabile dalla sua passività ; l’altro, come
quella monade a carattere più strettamente spirituale, che permane in
ciascun individuo, mentre le monadi formanti la massa del suo corpo
variano e si trasformano. La materia, senza le anime e forme o entelechie,
non è che passiva, e le anime senza materia non sarebbero che
attive: poiché la sostanza corporea completa veramente una, chiamata
dalla scuola unum per se (opposta all'essere per aggregazione), deve
risultare del principio dell' unità, che è attivo, e della massa che
costituisce la molteplicità e che sarebbe solamente passiva se essa non
contenesse se non la materia prima. Invece la materia seconda o
massa, che costituisce il nostro corpo, è tutta composta di parti che
sono in sé sostanze complete quando sono Con la parola macchina Leibniz
intende qui, come già altrove, un organismo composito, cioè formato di
parti eterogenee. altri animali o sostanze organiche animate o attuate
a parte. Ma l'ammasso di queste sostanze corporee organizzate che
costituisce il nostro corpo, non è imito alla nostra anima se non per
quel rapporto che deriva dall'ordine dei fenomeni naturali rispetto a
ciascuna sostanza particolare. £ tutto ciò mostra come si possa dire da
un lato che l' anima e il corpo sono indipendenti l'uno dall'altro,
dall'altro che limo è incompleto senza l'altro, poiché in natura
l'uno non è mai privo dell'altro. ( Additimi il l’explication
<lu lyslèine noiueau, U. JY, 572-3). Le lecci del mondo materiale e del
mondo spirituale. In qualunque modo la si intenda, sia come materia prima
o potenza passiva, sia come materia seconda o aggregato, la natura
corporea ha dunque qualche cosa di irreale. Nel primo caso essa è
un’astrazione, anteriore, |>er così dire, alla monade; qualche cosa
che senza la forza attiva di essa non è ancor nulla: semplice aspetto
inizialmente passivo di quella che sarà un’attiva unità. Nell'altro caso
è pure un'astrazione; posteriore, questa volta, alla monade: una riunione, un
aggruppamento che rimanda però sempre alla monade come al suo elemento
costitutivo essenziale. D’altro lato, però, la materia non è
eliminabile dalla monade. Essa le si accompagna sempre, come un momento,
quasi, della sua natura. Momento astratto sì, ma essenziale; attraverso
il quale necessariamente si deve passare per raggiungere la vera
concretezza dell’entelechia, o perfectihabies, nella traduzione di BARBARO (si
veda). Questa materia che, analizzata nel fondo della sua costituzione,
si dissolve e perde ogni realtà, puro ha ima parte fondamentale nel mondo
concreto, naturale e umano, come se lo rappresenta Leibniz. La monade è
immateriale, si è visto, eppure ritiene un suo aspetto materiale; così non vi è
anima senza corpo. Affermato questo, Leibniz va più in là, dimenticando
quasi le sue premesse che fanno della materia qualche cosa solo in
funzione dell’anima; e cerca leggi autonome e proprie del mondo
materiale, ben distinte da quelle del mondo spirituale. Egli ritorna
quasi alla concezione cartesiana, che aveva sempre combattuto, dell'anima
e del corpo come due sostanze separate. E, per giudtifìcare la distinzione,
attribidsce al corpo la legge meccanica sella causa efficiente, all'anima
la legge vitale della finalità. Questo due leggi, che abbiamo viste unite là
dove il principio della ragion sufficiente, nelle verità di fatto,
rimandava direttamente a Dio (1), ora sono applicate separatamente
all’anima e al corpo. Ciò è giustificabile anche, in parte,
con la natura della monade. Essa, si è visto, contiene in sè tutto lo
sviluppo futuro dell’universo allo stato di implicazione causale: l’effetto,
cioè, è già contenuto nelle cause che dovranno necessariamente
produrlo. E questa connessione causale puramente meccanica e
deterministica, ha carattere materiale. Per tale aspetto, la monade è
materia: è cioè un punto dell’universo perfettamente e necessariamente
determinato dalle cause da cui discende. D altro lato però,
l’universalità si esplica nella monade come rappresentazione e appetito. La
totalità dei rapporti è contenuta in essa allo stato di implicazione
pregnante, cosciente e attiva. In questa percezione e appetito, che
Leibniz immagina tendente al bene e retta dalla causa, finale del v
migliore », egli fa consistere l’anima. Leibniz fa anche coincidere questa
nuova distinzione di anima-corpo, con l’altra in cui si concepisce il
corpo come percezione confusa e l’anima come percezione
distinta. Tutto nei corpi avviene meccanicamente, cioè attraverso le
qualità intelligibili dei corpi, quali la grandezza, la figura, e il movimento;
e tutto nelle anime deve essere spiegato vitalmente, cioè attraverso le
qualità intelligibili dell anima, quali la percezione e l’appetito. E nei
corpi animati noi vediamo esservi una mirabile armonia tra vitalità e
meccanismo, se ciò che avviene nel corpo meccanicamente viene
rappresentato vitalmente nell’anima; e ciò che viene percepito esattamente
nell’anima, nel corpo ottiene la sua completa esecuzione. Ne
deriva che, conosciute le qualità del corpo, possiamo curare le malattie
dell’anima e, conosciute lo qualità dell’anima, curare le malattie del corpo. È
infatti a volte più facile sapere ciò che avviene nell’ anima che ciò
che avviene nel corpo; a volte viceversa. E ogni volta che noi
usiamo delle indicazioni dell’ anima per essere d aiuto al corpo, possiamo
parlare di una medicina vitale : metodo questo che ha più ampia
estensione di quanto non si creda comunemente, perchè il corpo non
soltanto risponde al1 anima nei movimenti che vengono chiamati volontari,
ma anche in tutti gli altri; quantunque, per l'abitudine che ne abbiamo,
noi non ci accorgiamo che l’anima viene influenzata o consente coi movimenti
del corpo, o che questi corrispondono alle percezioni e agli appetiti
dell' anima. Infatti le percezioni del corpo sono confuse, in modo
che la corrispondenza non appare così facilmente. E l'anima comanda
al corpo in quanto abbia percezioni distinte, gli obbedisce in quanto
abbia percezioni confuse. Ma pure, chiunque abbia una qualsiasi
percezione nell’anima, può essere certo di avere un qualche effetto di
essa nel corpo e viceversa.... E le cose avvengono in modo tale, che
a volte anche nei fatti naturali noi ricerchiamo la verità attraverso le
cause finali, quando non si può giungere facilmente ad essa attraverso le cause
efficienti. (Frammento). Separazione dei due
mondi. Ora, formulata questa
distinzione, Leibniz rinuncia, in certo senso, a proseguire per quella
via che, attraverso la concezione del rapporto di causa ed effetto come
un rapporto di soggetto c predicato, lo aveva condotto alla sostanza
individuale e gli aveva permesso la risoluzione dei concetti di corpo e
spirito l’uno all’ altro. Qui egli accentua invece la distinzione: corpo
e spirito divengono due mondi separati, due entità parallele ma prive di
rapporti fra di loro. La loro situazione viene ad essere analoga a quella
di due monadi distinte: il contenuto di ciascuna cori ispoude a quello dell
altra, senza che perciò si possa dire che I una influisce sull altra.
Così, ciò che avviene meccanicamonte nel corpo, corrisponde a ciò che è nella
rappresentazione dello spirito: ma non per influenza dell'uno sull’altro
o per una qualsiasi unificazione. 1 rapporti dovranno essere
stabiliti attraverso un intervento della divinità. Cfr. sopra, p.
89 ss. Noi sperimentiamo che i corpi agiscono fra di loro secondo leggi
meccaniche, e che le anime producono in sè stesse azioni interne. E non
vediamo alcun modo di concepire l'azione dell'anima sulla materia o della
materia sull’ anima, nè alcunché di analogo, poiché non è affatto
spiegabile attraverso un qualsiasi artificio che lo variazioni materiali,
cioè le leggi meccaniche, facciano nascere una percezione; nè che dalla
percezione possa derivare un cambiamento di velocità o di direzione negli spiriti
animali e negli altri corpi, siano essi sottili o grossi a piacere.
Così, sia l' inconcepibilità di un'altra ipotesi, sia il buon
ordine della natura uniforme in sè stessa (per non parlare qui di
altre considerazioni), mi hanno portato alla conclusione die l'anima e il
corpo seguano perfettamente la loro legge, ciascuno la sua separatamente,
senza che le leggi corporee siano turbate dalle azioni dell'anima, nè che
i corpi trovino finestre per far penetrare il loro influsso nelle anime.
Si domanderà dunque: D'onde viene questo accordo delf anima col corpo?
(Lettera a Masharn). L’armonia prestabilita. - 11 problema
che sorge ora è quello di questa corrispondenza del mondo corporeo
con quello spirituale. Ma una così netta distinzione dei due mondi
non era necessaria alla dottrina della monade. Leibniz fu forse indotto
ad accentuarla, dal fatto di trovarsi in polemica col Malebranche e con gli
occasionalisti (1) e di aver trovato un’ ipotesi più plausibile per
risolvere il loro medesimo problema. 11 desiderio di correggere 1'
ipotesi occasionalistica e di applicare la propria, gli fece forse
formulare il problema negli stessi termini che i suoi interlocutori, più
di quanto non Malebranche autore della Recherete de la viri té h il
rappresentante principale dell'occasionalismo, dottrina che spiegava la
corrispondenza tra l'ordine corporeo e l’ordine spirituale attraverso un
intervento continuo di Dio. In occasione di ciascun fatto avvenuto nel
mondo corporeo, Dio, secondo questa dottrina, suscita la corrispondente rappresentazione
nello spirito, e viceversa. Questo problema presuppone naturalmente una netta
separazione fra l'ordine corporeo e l’ordine spirituale: separazione di
marca prettamente cartesiana. Avessero riohiesto i precedenti della sua
dottrina. L’ ipotesi di cui parliamo è quella famosa dell’ armonia
prestabilita, di cui riportiamo qui alcune fra lo molte esposizioni
lasciatene dal Leibniz. I mmaginate due orologi che si
accordino perfettamente. l 'iò può avvenire in tre maniere : la prima
consiste nella mutua influenza di un orologio sull’altro: la seconda
nella cura di mi uomo che vi provveda: la terza nella loro propria
esattezza. La prima maniera è quella dell’ influenza. La seconda maniera di far
sempre accordare due orologi anche cattivi, potrebbe essere di farvi
sempre provvedere da un abile operaio che li accordi ad ogni istante: e
questa è quella che io chiamo la maniera dell’ assistenza. Infine
la terza mainerà sarà di fare da principio queste due pendolo con tanta
arte e giustezza, da potersi assiemare il loro accordo per il futuro. E questa
è la via dell’accordo prestabilito. Mettete ora l'anima e il corpo
al posto di questi due orologi: il loro accordo o simpatia avverrà pure
in una di queste tre maniere. La maniera dell' influenza è quella
della filosofia volgare; ma poiché non si possono concepire particelle
materiali, nè specie o qualità immateriali che possano passare dall’ima
di queste sostanze nell’altra, si è obbligati ad abbandonare questa
opinione. La maniera dell assistenza è quella del sistema delle cause
occasionali: ma ritengo che ciò significhi introdurre un Deus ex
machina ili un fatto naturale e ordinario, nel quale, secondo
ragione, egli uon deve intervenire se non nolla medesima maniera
nella quale concorre a tutti gli altri fatti della natura. Così non resta
che la mia ipotesi, cioè la maniera dell'armonia prestabilita attraverso un
artificio divino preventivo, il quale, fin da principio, abbia formato queste
sostanze in un modo cosi perfetto e regolato con tanta esattezza che, non
seguendo se non le sue proprie leggi ricevute insieme col proprio essere,
ciascuna si accordi tuttavia con l’altra: proprio come se vi fosse una
mutua influenza o come se Dio vi mettesse continuamente la mano,
oltre il suo concorso generale. (Tetterà). Vi è ordine
e connessione nei pensieri, come ve ne è nei movimenti; poiché l’uno
risponde perfettamente all'altro, quantunque la determinazione nei
movimenti sia bruta, e sia invece libera o con scelta nell’ essere che
pensa, il quale non è se non inclinato ma non costretto dal bene e
dal male. Infatti l’anima, rappresentando il corpo, conserva le sue
perfezioni; e, benché essa dipenda dal corpo (se ben si guardi) nelle
azioni involontarie, ne è indipendente e fa dipendere il corpo da se
stessa nelle altre. Ma questa dipendenza non è se non metafisica, e
consiste nel riguardo che Dio ha per l’uno regolando l'altro, o più per
1’ uno che per l’ altro, a seconda delle perfezioni originali di ciascun
individuo; mentre la dipendenza fisica consisterebbe in un’ influenza
immediata che l’imo riceverebbe dall’altro, dal quale dipenderebbe.
(Nuovi Saggi). L'armonia prestabilita fa sì che al cane entri
il dolore nell' anima, quando il suo corpo è colpito. E se il cane
non dovesse essere colpito ora, Dio non avrebbe dato fin dall’ inizio
alla sua anima una costituzione tale da produrre attualmente tale doloro
in esso, e la rappresentazione o percezione che risponde al colpo del
bastone. Ma se (cosa impossibile) Dio si pentisse e, senza mutare la
natura dell’anima e il corso naturale dello sue modificazioni, mutasse il
corso delle nature corporee in modo tale che il colpo Abbiamo già visto
come in ragione delle sue percezioni più distinte o più confuse, ciascuna
monade partecipi più dello spirito o del corpo, abbi» cioù maggiore o
minore perfezione. Cfr. sopra, p. 94 ss. non arrivasse, ramina
sentirebbe ciò che corrisponde a questo colpo, mentre il suo corpo non lo
riceverebbe affatto. Ma - dirà il signor Bayle - io comprendo le ragioni
per le quali il corpo del cane è colpito dal bastone, ma non comprendo
affatto come mai l'anima del cane che prova piacere mentre mangia con
appetito, passi così subitamente al dolore senza che il bastone ne sia la
causa (come vorrebbe la tesi scolastica), nè ne sia causa Dio in
particolare (come vorrebbero gli ocxasionalisti). Ma il signor
Bayle non comprende neppure come mai il bastone possa influire
sull’ anima, nè come possa avvenire l'operazione miracolosa attraverso la quale
Dio accorda continuamente l'anima ai corpi. Invece io ho cercato di
spiegare come tale accordo avvenga naturalmente, col supporre che ogni
anima sia uno specchio vivente rappresentante l' universo secondo
il suo punto di vista, ed eminentemente in rapporto col suo corpo. Così
le cause che fanno agire il bastone (cioè l’uomo posto dietro al cane,
preparato a colpirlo mentre esso mangia, e tutto ciò che nell'ordine
corporeo contribuisce a disporre quell’uomo a quell'azione) sono anche
rappresentate fin da principio nell'anima del cane in modo esatto sì, ma
debole, per mezzo di percezioni piccole e confuse e senza appercezione,
cioè senza che il cane se ne accorga; perchè anche il corpo del cane non
ne è influenzato se non impercettibilmente. E come, nell’ordine delle
nature corporee, queste disposizioni conducono finalmente al colpo ben
assestato sul corpo del cane, analogamente le rappresentazioni di queste
disposizioni conducono nell'anima del cane alla rappresentazione del colpo di bastono:
rappresentazione la quale, essendo distinta e forte (come non lo erano le
rappresentazioni delle predisposizioni. poiché le predisposizioni influenzavano
solo debolmente anche il corpo del cane), il cane se ne accorge ben
distintamente: ed è questo che determina il suo dolore. Così non si deve
affatto immaginare che l'anima del cane, in questo caso, passi dal piacere
al dolore senza alcuno sviluppo e senza alcuna ragione interna.
(Osservazioni al Dizionario del Bayle) Nel corpo tutto avviene meccanicamente
secondo le leggi del movimento, e nell'anima tutto avviene moralmente
o secondo le apparenze del bene e del male: in modo che, anche
(piando si tratta dei nostri istinti o delle azioni involontarie alle quali
sembra partecipare solamente il corpo, vi è nell'anima un appetito di
bene o una fuga dal male che la spinge; benché la nostra riflessione non
possa ben districarne la confusione. Ma se l'anima e il corpo
seguono così ciascuno separatamente le sue proprie leggi, come si
incontrano essi e come avviene che il corpo obbedisca all' anima, e che l'anima
risenta del corpo? Per spiegare questo mistero naturale bisogna ben
ricorrere a Dio, così come quando si tratta di dare la ragione
primordiale dell’ordine e dell'armonia nelle cose. Ma questo ricorso non
avviene che una volta per tutte, e non come se Dio turbasse le leggi dei corpi
per farli corrispondere alle anime, e viceversa. Egli ha invece fatto fin
da principio i corpi in modo tale che, seguendo le loro leggi e le
tendenze naturali dei movimenti, essi verranno a fare ciò che l'anima
chiederà quando ne verrà il momento; e d'altra parte ha fatto le anime
tali che. seguendo le tendenze naturali del loro appetito, giungeranno
anche sempre alle rappresentazioni degli stati del corpo. Giacché, come il
movimento conduce la materia di figura in figura, così l’appetito conduce
l'anima di immagine in immagine. E così l’anima è inizialmente dominante
ed obbedita dal corpo nella misura in cui il suo appetito è accompagnato da
percezioni distinte che la fanno pensare ai mezzi adatti quando
essa vuole qualche cosa; ma è soggetta al corpo, pure fin dal1’ inizio,
in misura delle sue percezioni confuse. Noi sperimentiamo infatti che tutte le
cose tendono al cambiamento; i corpi per la forza movente, e l’anima per 1
appetito che la conduce a percezioni distinte o confuse, secondo la
sua maggiore o minore perfezione. E non bisogna affatto meravigliarsi di
quest’accordo primordiale delle anime e dei corpi, essendo tutti i corpi
organizzati secondo le intenzioni di uno spirito universale, ed essendo tutte
le anime essenzialmente rappresentazioni o specchi viventi dell universo,
secondo la portata e il punto di vista di ciascuna, essendo essi perciò
altrettanto durevoli che il mondo stesso. È come se Dio avesse variato 1
universo tante volte quanto sono le anime, o come se egli avesse creato
tanti universi in compendio, accordantisi nel fondo o differenziati
nell'apparenza. Non vi è nulla di così ricco come questa semplicità uniforme,
accompagnata da un ordine perfetto. E si può ben pensare come ciascuna
anima in sè stessa debba essere perfettamente disposta, essendo ciascuna
ima particolare espressione dell'universo e come un universo concentrato; e ciò
risulta anche dal latto che ciascun corpo, e quindi il nostro pure, è
affetto in qualche modo da tutti gli altri, ed anche l'anima dunque vi
partecipa. Ecco in poche parole tutta la mia filosofia.
(Lettera alla regina Sofia Carlotta di Prussia). Tale ò l'
ipotesi dell'armonia prestabilita; la quale termina e corona il sistema
di Leibniz, ma non si può dire che aggiunga molto di essenziale alla
dottrina della monade. TI principio qui introdotto è quello medesimo onde
viene dimostrata la corrispondenza del contenuto di ciascuna monade con
quello di tutte, pur senza un’ influenza reciproca. Ma l’applicarlo
ai rapporti fra anima e corpo, obbliga ad una distinzione e separazione
fra l’ordine corporeo e l’ordine spirituale; mentre proprio nel superamento
di tale separazione e nella sintesi dei due ordini abbiamo ravvisato il
valore piu specifico del concetto di monade. Ma questa separazione
è posteriore idealmente a quel concetto. Nell’ applicare i principi trovati,
nel far agire la sua monade come elemento costituente del mondo, Leibniz ricade
a volte in posizioni da lui già inizialmente superate, e mal interpreta sè
stesso. Ciò che rimane essenziale in quanto si è visto ilei suo pensiero
è la struttura interna del concetto di monade : questa sintesi di
universale e individuale, di materia e spirito, ili attività e passività,
che è un punto di arrivo e un punto di partenza nella storia della
filosofia. /La monade, di cui parleremo qui, non è altro che ima sostanza
semplice che entra nei composti; semplice, cioè senza parti.
2. ° E bisogna che vi siano sostanze semplici, dato che vi sono
composti; poiché il composto non è altro che un ammasso o aggrega tum di
semplici. •1." ^ h-a. dove non vi sono parti, non vi è nè
estensione, nè figura, nè divisibilità possibili (2). E queste monadi
sono i veri atomi della natura; in una parola gli elementi delle
cose. 4.° Non vi è neppure alcuna dissoluzione da temere, e
non vi è alcuna maniera concepibile nella quale una sostanza semplice
possa perire naturalmente. ó.° Per la medesima ragione, non v'è
alcun motivo per il quale una sostanza semplice possa aver principio
naturalmente; poiché essa non può essere formata per composizione. 1 m
ricerca (logli eleuiyuti semplici, (la cui cleri vano per composizione
tutte le altro cose, è una dello idee fondamentali di Leibniz. Applicato
al campo logico, questo concetto dà luogo ai progetti di arte
combinatoria, carattcristica, scienza generale, lingua universale ecc. Cfr. p.
33 s. Sul concetto di aggregato, cfr. p. 100 s. Si toglie così olla
monade ogni carattere di materialità. Atomi immateriali, metafisici; non
naturalmente le particelle materiali indivisibili di cui parlano gli atomisti,
e che Leibniz combatteva. Così si può dire che le monadi non possono
aver principio nè fine se non d un tratto; cioè esse non possono aver
principio se non per creazione, ne fine se non per annullamento; mentre
ciò che è composto comincia o finisce per parti (1). 7» Neppure c'è
modo di spiegare come una monade possa essere alterata o cambiata nel suo
interno da qualche altra creatura; poiché in essa non e possibile
trasposizione, nè è concepibile movimento interno che vi possa essere
eccitato, diretto, aumentato o diminuito, ciò invece è possibile nei
composti, dove si danno cambiamenti fra le parti. Le monadi non hanno finestre
pei le quali qualche cosa vi possa entrare o uscire. Gli accidenti non
possono staccarsi nè passeggiare fuori delle sostanze. come facevano una volta
le specie sensibili deg scolastici. Così nè sostanza, nè accidente, non
possono entrare dall’ esterno in ima monade (2). 8° Tuttavia
occorre che le monadi abbiano qualche qualità; altrimenti non sarebbero
neppure degli esseri. E se le sostanze semplici non differissero affatto
per le loro qualità, non si avrebbe modo di accorgersi d. alcun
cambiamento nelle cose, poiché ciò che è nel composto non può venne se
non dagli ingredienti semplici; e se le monadi fossero prive di qualità,
sarebbero indistinguibili una dall'altra. giacché esse non differiscono neppure
nella quantità: e quindi, ammesso il pieno, ciascun luogo non riceverebbe mai,
nel movimento, se non l'equivalente (lei movimento che aveva già avuto : e uno
stato di cose sarebbe y indiscernibile dall altro. deducono
dall’ immaterialità delle monadi la imposeibilUtà r ^
C,t (2) a N°elS monade, soggetto eomprendentegt arnese può
dire cl/e £ de™ da, di lucri, se tutto quanto le avviene è già compreso m
essa. Occorre inoltre che ciascuna, monade sia differente da ogni altra.
Poiché non vi sono in natura due esseri che siano perfettamente uguali, e
nei quali non sia possibile trovare una differenza interna o fondata su di
una denominazione intrinseca. Considero inoltre come ammesso, che ogni
essere creato, e quindi ogni monade creata, sia soggetta a mutamento: e
anzi che questo mutamento sia continuo in ognuna. Da quanto abbiamo
detto, consegue che i mutamenti naturali delle monadi derivano da mi
j)rinci]iio interno, dato che ima causa esteriore non potrebbe influire
sul loro interno. Ma occorre pure che, oltre il principio del mutamento, vi sia
un dettaglio (3) di ciò che muta-, il quale determini, per così dire, la
specificazione e la varietà delle sostanze semplici. Tale dettaglio deve
implicare una molteplicità nell'unità o nel semplice. Infatti, poiché ogni
cambiamento naturale avviene per gradi, qualche cosa cambia e
qualche cosa resta; e quindi bisogna che nella sostanza semplice vi
sia una pluralità di affezioni e di rapporti, benché essa non abbia
parti. Lo stato transitorio che implica e rappresenta una
molteplicità nell’unità o nella sostanza semplice, non (1) Nei §3
8-9 è affermata la differenziazione fra le varie monadi; In quale deve
fondarsi su alcunché di qualitativo, interno alla monade stessa,
riguardante la sua intima costituzione, e non le sue relazioni esteriori.
Questo principio intorno di ditTerenziazione è costituito dal diverso
punto di vista, secondo cui ciascuna monade rappresenta l’universo. Sul
principio dell’ identità degli indiscernibili, Il mutamento nolla monade
consiste nello sviluppo c nella realizzazione di quanto è già implicito in
essa. In questo sviluppo essa manifesta la sua facoltà attiva o quella
conoscitiva: percezione c appetito. Traduciamo cosi, non trovando vocabolo
migliore, la parola ilétail, che altri traduce con a particolarità » o in
modo affine. Essa vuole indicare uno sviluppo completo, disteso e
particolareggiato in tutti i suoi dettagli. è altro che ciò che si chiama
percezione, da distinguersi y dalla appercezione o dalla coscienza, come
si vedrà in seguito. A cpiesto proposito i cartesiani hanno gravemente
errato, non avendo tenuto conto delle percezioni di cui non ci si accorge
(2). E ciò puro li ha indotti a ritenere che i soli spiriti fossero
monadi e che non vi fossero affatto anime di bestie nè altre entelechie;
ed a confondere, come fa il volgo, un lungo stordimento con la morto
propriamente detta: il che li ha fatti anche cadere nel pregiudizio
scolastico delle anime interamente separate, ed ha pure confermato gli spiriti
mal disposti nell'opinione della mortalità dell'anima. L’azione del principio
interno che determina il mutamento o il passaggio da ima percezione ad un
altra, può chiamarsi appetizione ; è vero che l’appetito non sempre può
giungere completamente all’ intera percezione cui tende; ma ne ottiene
pur sempre qualche cosa, e giunge a percezioni nuove. Noi stessi
sperimentiamo una molteplicità nella sostanza semplice, quando troviamo
che il minimo pensiero La percezione, questo fatto dolio spirito, permetto
dunque la sintesi dell’uno e del molteplice, necessaria a conciliare
l’unità e immaterialità della monade oon la varietà e mutevolezza del suo
contenuto. Percepire è cogliere una molteplicità e riferirla ad un unico
soggetto. 11 contenuto, diremmo noi. è molteplice, la forma ò una. Cosi è
nella monade; e ciò spiega conio la varietà e mutevolezza in essa venga
concepita da Leibniz in termini di percezione. Accorgersi « traduce il francese
aptrCLVoir. Appercezione (aptreeptiev) significa dunque l’accorgersi,
cioè il percepire coscientemente, contrapposto al percepire senza
accorgersene, come nel caso delle piccole percezioni. Cartesio, che considera
ogni attività conoscitiva come razionale, quindi cosciente, non può
attribuire tale attività se non all’uomo, e la tiene nettamente separata
da tutto ciò che è corporeo. Pi qui gli inconvenienti sopra elencati, cui
Leibniz vuole ovviare col suo concetto di una percezione di cui non ci si
accorge, e priva di ragione (la piccola percezione), che sia quindi
attribuibile anche agli animali e che segni come un punto di contatto fra la
materia e lo spirito. L’appetito ò l’altra attività della monade, secondo cui
essa può passare dall’uno al molteplice. Cfr. p. 80 ss. di cui ci accorgiamo,
implica una varietà nell'oggetto. Così tutti coloro che riconoscono che
l’ anima è una sostanza semplice, devono riconoscere questa molteplicità
nella monade; e il Bayle non avrebbe dovuto trovarvi difficoltà, come ha
fatto nel suo dizionario, all'articolo Borariua. Peraltro bisogna pur riconoscere che la
percezione e ciò che ne dipende, è inesplicabile mediante ragioni
meccaniche, cioè mediante ligure e movimenti. E supposto che vi sia una
macchina la cui struttura faccia pensare, sentire, aver percezione, si
potrà concepirla ingrandita, conservando le medesime proporzioni, in modo
che vi si possa entrare, come in un mulino. E posto ciò, non si troverà,
visitandola al! interno, se non pezzi spingentisi vicendevolmente, ma nulla di
che spiegare una percezione. E dunque nella sostanza semplice e non nel
composto o nella macchina bisogna cercare la percezione. Anzi, non
vi è se non questo che si possa trovare nella sostanza semplice:
percezioni e i loro cambiamenti. E solo in ciò possono consistere tutte
le azioni interne delle sostanze semplici. Si potrebbe dare il nome
di entelechie a tutte le sostanze semplici o monadi create, poiché esse
hanno in sè stesse una certa perfezione (l/oum tò è tsXéc); vi è
una autosufficienza (afiràpxet*) che le rende fonti delle loro azioni
interne, e, per così dire, automi incorporei. l‘J.° Se vogliamo
chiamare anima tutto ciò che ha percezioni e appetiti nel senso generale
che ho spiegato or ora. tutte le sostanze semplici o monadi create
potrebbero essere chiamate anime; ma siccome il sentimento è
qualche Nell’artieolo Korarius dei suo Dizionario, Bayle discute l’ipotesi leibniziana
dell'anuouia prestabilita; e a questo proposito trova contradjttoria la. tesi
cho una sostanza semplice e priva di parti sia soggetta a
cambiamento. Ragioni meccaniche, lìgura, movimento sono caratteristiche
della pura in viaria. Leibniz le contrappone alle cause finali, che sono
proprie del mondo immateriale e spirituale. Cfr. p. 116 ss. cosa di
più che ima semplice percezione, io acconsento a che il nome generale di
monadi e entelechie basti per le sostanze semplici che non hanno se non
la pura percezione: e che si chiamino anime solamente quelle la cui
percezione è più distinta e accompagnata da memoria. Infatti noi sperimentiamo
in noi stessi uno stato in cui non ci ricordiamo di nulla e non abbiamo
alcuna percezione distinta; come quando cadiamo in deliquio o
quando siamo immersi in un sonno profondo senza sogni. In questo stato,
l'anima non differisce sensibilmente da ima semplice monade; ma siccome
questo stato non è durevole, e l’anima se ne Ubera, essa è qualche cosa di
più. E non ne consegue punto che in tale stato la sostanza semphee
sia priva di percezione; ciò non è anzi possibile, per le ragioni
suddette; poiché essa non può perire. nè può sussistere senza qualche
affezione, che non è poi altro che la sua perceziome. Ma quando vi è una
grande moltitudine di piccole percezioni, nelle quali non vi è
nulla di distinto, si è storditi; al modo che quando si gira
continuamente nello stesso senso per più volte di seguito si è presi da
una vertigine che può farci svenire e che non ci permette di distinguere
nulla. E la morte può determinare questo stato per un certo tempo negh
animali. 22. ° E, poiché ogni stato presente di una sostanza
semplice è naturalmente conseguenza del suo stato precedente, sicché il
presente in essa è gravido dell’avvenire; dunque, poiché, appena desti dallo
stordimento, ci si accorge delle proprie percezioni, bisogna pure che
se (1) La percezione pura e semplico, incosciente o priva di
appercezione tasta a costituire la monade; ma le monadi più complesse c
perfette si distinguono appunto per una percezione più perfezionata, dotata di
coscienza, di memoria eoe. Leibniz introduce qui incidentalmente un suo
principio fondamentale: il principio di causalità o di ragion
sufficiente. Ogni stalo della monade deriva da cause e produce effetti, c
se si segue tale connessione causale in tutto il suo sviluppo, si va all’
infinito e si comprende tutto l’universo passato e avvenire. ne siano avute
immediatamente prima, quantunque non ce ne siamo accorti ; poiché una
percezione non può venire in natura se non da un'altra percezione, come
un movimento non può venire in natura se non da un movimento. Si vede da ciò.
che se noi non avessimo nulla di distinto e, per dir così, in rilievo e
di un più forte sapore nelle nostre percezioni, saremmo sempre in uno
stato di stordimento. E questo è lo stato delle monadi pure e
semplici. Così noi vediamo che la natura ha dato percezioni in rilievo agli
animali, dalla cura che essa si è presa di fornirli di organi che
raccolgono più raggi di luce o pili vibrazioni di aria per aumentarne
l'efficacia con l’unione. E vi è qualche cosa di simile nell'odorato, nel
gusto e nel tatto, e forse in una quantità di altri sensi che ci
sono sconosciuti. E spiegherò fra poco come ciò che avviene nell’anima
rappresenti ciò che avviene negli organi. La memoria fornisce alle anime
una specie di concatenazioM che imita la ragione, ma che deve
esserne distinta. Noi vediamo che gli animali, quando hanno percezione di
qualche cosa che li colpisce e di cui hanno già avuto anteriormente una
percezione simile, si attendono, per la rappresentazione della loro
memoria, a ciò che vi era unito in quella percezione precedente, e sono
portati a sentimenti simili a quelli che avevano provati allora.
Per esempio, quando si mostra il bastone ai cani, essi si rammentano del
dolore che esso ha loro causato, e abbaiano e fuggono. Si riferisce
qui al principio di continuità, secondo il quale natura non facil
saliti)). Leibniz stabilisce, in questi paragrafi e nei seguenti, i tre gradi
della gerarchia: lo monadi pure c semplici fornite di sole percezioni
incoscienti; quelle fornite di momoria, o animali, quelle fornite anche
di ragione, o spiriti. E la forte immaginazione che li colpisce e li commuove,
deriva o dall’ intensità o dal numero delle percezioni precedenti. Poiché
spesso un' impressione forte produce d’un sol tratto l’ effetto di una lunga
abitudine o di molte percezioni mediocri ripetute. Gli uomini
agiscono come le bestie, in quanto la concatenazione delle loro
percezioni non avviene se non per il principio della memoria;
assomigliano, per questo riguardo, ai medici empirici che hanno una
semplice pratica senza teoria; e noi non siamo che empirici nei tre
quarti delle nostre azioni. Per esempio, quando ci si attende che domani faccia
giorno, si fa ciò empiricamente, perchè finora è sempre avvenuto così.
Soltanto l’ astronomo giudica ciò per Ada di ragione. Ma la conoscenza delle
verità necessarie ed eterne è ciò che ci distingue dai semplici animali e
ci dà la ragione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e
di Dio. E ciò si chiama in noi anima ragionevole o spirito. Inoltre,
mediante la conoscenza delle verità necessarie e delle loro astrazioni, noi
siamo elevati agli atti riflessivi che ci fanno pensare a ciò che si
chiama io, o considerare che questo o quel contenuto è in noi ; ed è così
che, pensando a noi, noi pensiamo all’essere, alla sostanza, al semplice e al
composto, all' immateriale e a Dio stesso, col concepire che ciò che in
noi è limitato, è in lui senza limiti. E questi atti riflessivi
forniscono i principali oggetti dei nostri ragionamenti. I nostri
ragionamenti sono fondati su due grandi principi: quello delia
contradizione, in A T irtù del quale giudichiamo falso ciò che implica
contradizione, e vero ciò che è opposto o contradittorio al
falso; Passa ad altro argomento: le grandi forme costitutive della realtà,
c insieme i fondamentali principi logici: verità di ragione, rette dal
principio di non contradizione, verità di fatto, rette dal principio di
ragion suflìciente o di causalità. Cfr. p. (i ss., 17 s. e
quello della ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo clic
nessun fatto può esser vero o esistente, nessuna proposizione veritiera,
se non vi è una ragione sufficiente per cui sia così e non altrimenti; benché
tali ragioni il più delle volte non possano esserci note. Vi sono pure due
specie di verità: quelle di ragione e quello di fatto ; le verità di ragione
sono necessarie e il loro opposto è impossibile; quelle di fatto sono
contingenti e il loro opposto è possibile. Quando una verità è
necessaria, se ne può trovare la ragione per mezzo dell'analisi, risolvendola
in idee e in verità più semplici, finché si giunga alle primitive. Così nelle
matematiche i teoremi speculativi e i canoni pratici sono ridotti, per
mezzo dell’analisi, a definizioni, assiomi e 'postulati, Vi sono infine idee
semplici, di cui non si può dare la definizione; vi sono pure assiomi e
postulati o, in una parola, principi primitivi che non possono
essere dimostrati, e non ne hanno bisogno ; e sono le proposizioni
identiche, il cui opposto contiene un'espressa contradizione. Ma la ragion
sufficiente deve trovarsi anche nelle verità contingenti o di fatto, cioè
nell'ordine delle cose diffuse nell'universo delle creature ; nel quale la
risoluzione in ragioni particolari potrebbe procedere fino a un
frazionamento senza limiti, a causa della varietà immensa delle cose
della natura e della divisione dei corpi all' infinito. Vi è un"
infinità di figure e di movimenti presenti e passati, che entrano nella
causa efficiente della mia scrittura attuale; vi è un' infinità di piccole
inclinazioni e disposizioni della mia anima, presenti e passate, che
entrano nella causa finale. È questo il metodo ilollu « caratteristica» e
« combinatoria »; cfr. p. .'iUtss(2) La causa liliale, che Leibniz usa con
significati diversi secondo le occasioni, rappresenta qui, per cosi dire, una
causa efficiente rivolta verso l’avvenire. ICssa dà il fine, lo scopo,
l’intenzione secondo cui una determinata E siccome tutto questo dettaglio
non implica se non altri contingenti anteriori o più dettagliati,
ciascuno dei quali ha ancora bisogno di una simile analisi perchè
se ne possa rendere ragione, per questa via non si procede affatto; e
conviene che la ragion sufficiente od ultima sia fuori dell’ ordine o
seriett di questo dettaglio di contingenze, * per quanto infinito esso
possa essere. 38. ° E cosi la ragione ultima delle cose deve
consistere in una sostanza necessaria, nella quale il dettaglio dei
cambiamenti non si trovi se non in modo eminente, come in una fonte; e
tale sostanza noi la chiamiamo Dio. Ora, essendo tale sostanza ragion
sufficiente di tutto quel dettaglio, il quale inoltre è concatenato
universalmente, non vi è che un nolo Dio, e questo Dio è suflì-V dente. È
da ritenere inoltre che questa sostanza suprema, che è unica, universale e
necessaria, non avendo nulla fuori di sè che sia da essa indipendente, ed
essendo semplice conseguenza dell'essere possibile, debba essere incapace
di limiti e contenere la massima quantità possibile di realtà. Donde
consegue che Dio è assolutamente perfetto; non essendo la perfezione altro che
la grandezza della realtà positiva intesa precisamente, eliminando i
limiti o confini nelle cose che ne hanno. E là dove non vi sono
confini, cioè in Dio, la perfezione è assolutamente infinita. cosa
è avvenuta. Contribuisce quindi a determinare Je « ragioni della cosa
stessa e rientra cioè nella sua ragion sufficiente. Da causa tinaie serve a
Leibniz per indicare un aspetto più spontaneo, attivo, spirituale, morale del
principio di ragion sufficiente. Essa si contrappone in questo senso alla
causa efficiente, la quale indirà un rapporto puramente materiale e
meccanico. Cfr. pp. li) s., 1 lfi ss. (1) Questa
dimostrazione di Ilio è basata sul principio di rugion sufficiente. Dio è la
causa prima di tutta la serie delle cose del mondo, delle verità di fatto
empiriche e contingenti. Egli non può però appartenere all’ordine delle
cose contingenti, altrimenti dovrebbe avere una causa fuori rii sè, e non
sarebbe più causa prima. Appartiene quindi all’ordine delle essenze
necessario. Ne consegue pure che le creature ricevono le loro
perfezioni dall' influsso di Dio, ma che derivano le imperfezioni dalla loro
propria natura, incapace di essere senza limiti. Poiché in questo appunto
esso sono distinte da Dio. Tale imperfezione originaria delle creature,
si riscontra nelf inerzia naturale dei corpi. È anche vero che Dio è non
solo la fonte delle esistenze, ma anche quella delle essenze in quanto
reali, o di quanto vi è di reale nella possibilità. Infatti V intelletto
di Dio è la regione delle verità eterne, o delle idee da cui esse
dipendono; e senza di lui non vi sarebbe nulla di reale nelle
possibilità, e non solamente nulla vi sarebbe di esistente, ma neppure
alcunché di possibile. Infatti, se vi è mia realtà nelle essenze o
possibilità, o nelle verità eterne, bisogna pure che questa realtà si
fondi su qualche cosa di esistente e di attuale; si fondi quindi sull -
esistenza dell'essere necessario, in cui l’essenza implica l’esistenza, o
cui basta di essere possibile per essere attuale. Così Dio solo,
ovvero l'essere necessario, ha questo privilegio: che. se è possibile,
bisogna che esista. E siccome nulla può impedire la possibilità di ciò
che non implica alcun limite, alcuna negazione, quindi alcuna
contradizione, ciò solo basta per riconoscere a priori la esistenza di
Dio. Noi l’abbiamo anche dimostrata per Perfezione è per Leibniz il
massimo di realtà, di fatto compatibile eoi principi della possibilità,
determinati dalle verità di ragione. Cfr. p. 21 ss. Imperfezione è una
limitazione di realtà. L’intero complesso del mondo dunque, cosi come 6
messo in opera da Dio, rappresenta il massimo di realtà possibile, ed è
perfetto. Solo le cose particolari sono imperfette, in ragione appunto
della loro particolarità. Questa concezione àia medesima die Leibniz svolge
nella Teodicea. Questa è la prova ontologica del resistenza di Ilio.
Leibniz lui aggiunto alla formulazione cartesiana di essa il criterio
della possibilità. Bisogna anzitutto, secondo lui, dimostrare che il concetto
dell’ente perfettissimo ò possibile, cioè noninvolve contradizione. Sia poiché
esso è effettivamente possibile, ne segue che esso contiene in sé anche
l'attributo dell’esistenza. Cfr. p. 13 ss. mezzo della realtà delle
verità eterne (1). Ma l'abbiamo dimostrata or ora anche a 'posteriori, poiché
esistono esseri contingenti, i quali non possono avere la loro ragione
ultima o sufficiente se non nell essere necessario che ha in aè stesso la
ragione della sua esistenza. Tuttavia non bisogna punto immaginarci,
come fa taluno, che le verità eterne, essendo dipendenti da Dio,
siano arbitrarie e derivino dalla sua volontà, come sembra aver inteso
Cartesio e dopo di lui Poiret. Ciò non è vero se non delle verità
contingenti, il cui principio è la convenienza o la scelta del migliore :
laddove le verità necessarie dipendono unicamente dal suo intelletto e ne
sono l'oggetto interno. Così Dio solo è f unità primitiva, o la
sostanza semplice originaria di cui tutte le monadi create o
derivate sono prodotti; e queste monadi nascono, per così dire, per
fulgurazioni continue della divinità, di momento in momento, limitate
dalla recettività della creatura, alla quale è essenziale di essere
limitata. \ i è in Dio la potenza, che è la sorgente di tutto, la
conoscenza che contiene il dettaglio delle idee, e la volontà che determina i
mutamenti o le produzioni secondo il principio del migliore (5). E ciò
corrisponde a quello che nelle monadi create costituisce il soggetto o
base, la facoltà percettiva, e la facoltà appetitiva. Ma in Dio questi
Teologo protestante. Questa affermazione correggo in parte quunto fc stato
attenuato ai SS 43 o 44. Le verità di ragione, clic danno la possibilità
delle cose, hanno pure una loro realtà di esseri possibili. Questa realtà
deriva loro da Dio. Ma la loro conformazione in quanto principi
regolativi dell’universo, ha una validità a sò stante, indipendente anche
dalla volontà di Dio. Solo le esistenze o realtà di fatto sono messe
esplicitamente in opera da lui, secondo il criterio del «migliore».
L’intelletto divino Ita come contenuto le verità di ragione; la sua
volontà mette in opera le realtà di fatto. attributi sono assolutamente
infiniti e perfetti; e invece nelle monadi create o entelechie (o PERFECTIHABIES,
secondo la traduzione di questa parola data da BARBARO (si veda)) essi
non sono se non imitazioni, in ragione della perfezione di
ciascuna. La creatina è detta agire verso l’ esterno in quanto essa
ha perfezione, e {Mire da parte di un’altra in quanto è imperfetta. Così
si attribuisce azione alla monade in quanto essa ha percezioni distinte,
e passione in quanto ha percezioni confuse. E ima creatura è più perfetta
di un'altra, in quanto si trova in essa ciò che serve a render ragione
a priori di ciò che avviene nell'altra; ed appunto per ciò si dice
che l una agisce sull’altra. 51. ° Ma nelle sostanze semplici non
si tratta che di un' influenza ideale di una monade sull’altra; influenza
che non può avere il suo effetto se non per 1" intervento di
Dio, in quanto, nelle idee di Dio, una monade pretende con ragione che
Dio, regolando le altre fin dal principio delle cose, abbia riguardo ad
essa. Infatti, giacché una monade creata non può avere influenza fisica
sull' interno dell'altra, solo per questa via può verificarsi una
dipendenza dell’ima dall’altra. Per questo appunto, fra le creature, le
azioni e passioni sono reciproche. Infatti Dio, paragonando due
sostanze semplici fra loro, trova in ciascuna ragioni che l’obbligano ad
adattarvi l'altra; e quindi ciò che è attivo per certi riguardi, è
passivo da un altro punto di vista; attivo in quanto ciò che in esso vien
conosciuto distintamente serve a render ragione di ciò che accade in un
altro; e passivo in quanto la ragione di ciò che accade Filologo e
filosofo italiano, tradusse in latino vario opere di
Aristotele. Sulle percezioni confuse, in esso si trova in ciò che vien
conosciuto distintamente in un altro. Ora, poiché vi è un' infinità
di universi possibili nelle idee di Dio, e invece non ne può esistere che
uno solo, bisogna che vi sia una ragione sufficiente della scelta
di Dio, che lo determini a scegliere uno piuttosto che l’altro. E questa
ragione non può trovarsi se non nella convenienza o nel grado di
perfezione che questi mondi contengono; poiché ogni possibile ha diritto
di pretendere all'esistenza, in ragione della perfezione che
racchiude. E ciò appunto è la causa dell’esistenza del mondo
migliore, che la saggezza fa conoscere a Dio, la sua bontà gli fa
scegliere e la sua potenza gli fa produrre. Ora questo legame o adattamento di
tutte le cose create a ciascuna singola, e di ciascuna a tutte le
altre, fa sì che ogni sostanza semplice contenga in sé rapporti Le
monadi, ohe sono senza Maestre, non possono agile l una sull’altra. Il
contenuto di ciascuna corrisponde a quello di tutte le altre, in quanto
ciascuna è un punto di vista preso sul medesimo universo. Ciascuna contiene nel
suo intimo tutto il proprio sviluppo; e tutto le viene dal suo intorno,
nulla dal di fuori. Solo in senso improprio c metaforico si può parlare
d’influenza di una monade sull’altra. 11 diverso punto di vista dal quale
l’ universo viene rappresentato, costituisce la particolare individualità
di ciascuna monade; esso viene indicato dalla diversa sfera delle percezioni
distinte che rappresentano, per così dije, la zona centrale di ogni
monade, mentre le confusene rappresentano la periferia. Questa varia
collocazione reciproca dei centri e delie periferie ò ciò che permette una
differenziazione fra le varie monadi. Ora, se si vuol chiamare attivo il
centro, incili si hanno percezioni distinte, e passiva la periferia che ha solo
percezioni confuse, si potrà parlare anche di una sfera di attività in
ciascuna monade, cui corrisponde una sfera di passività nelle altro;
insomma di una certa azione ideale dcH’una sull’altra. I mondi possibili,
cioè concepiti dall’ intelletto di Dio secondo i principi di ragione, sono
influiti. Dio sceglie fra di essi uno, il migliore, cioè il piò perfetto.
È più perfetto quello che, una volta attuato, cioè passato dalla pura
possibilità alla effettiva esistenza, contiene il massimo di realtà. Ogni
possibile, insomma, è tanto più perfetto, a quanta maggior quantità di
esistenza può dar luogo. clic esprimono tutte le altre, e sia per conseguenza
uno specchio vivente perpetuo dell'universo. E come una medesima
città, guardata da differenti punti, sembra diversa ed è come moltiplicata
in prospettiva, analogamente avviene che, per la molteplicità infinita di
sostanze semplici, vi sono come altrettanti universi differenti, i quali
non sono peraltro se non le prospettive di un universo solo, secondo i
differenti punti di vista di ciascuna monade. ò8.° È questo
il modo di ottenere il massimo di varietà possibile, ma con quanto pili ordine
si può; cioè il massimo di perfezione possibile. Dunque solo questa
ipotesi (che io oso dire dimostrata) esprime in modo adeguato la grandezza di
Dio. Ciò fu riconosciuto anche dal Bayle, quando, nel suo Dizionario (articolo
Rorarius), mosse ad essa obiezioni; fu anzi spinto a credere che io
attribuissi troppo a Dio, e più che non sia possibile. Ma egli non potè
addurre alcuna ragione che dimostrasse 1' impossibilità di questa
armonia universale, la quale fa sì che ogni sostanza esprima esattamente
tutte le altre per i rapporti che ha con esse. Si vedono fi altronde, in
ciò che ho esposto, le ragioni a priori per cui le cose non potrebbero
procedere diversamente. Dio infatti, regolando il tutto, ha avuto
riguardo a ciascuna parte, e particolarmente ad ogni monade; la cui
natura essendo rappresentativa, nulla la può limitare a non rappresentare
se non una parte delle cose; benché sia vero che questa rappresentazione
non è se non confusa nel dettaglio di tutto l'universo, e non può essere
distinta che per una piccola parte delle cose, per quelle cioè che sono o
più vicine o pili glandi rispetto ad ogni monade; altrimenti ogni
monade sarebbe una divinità. Non nell’oggetto, ma nella modificazione
della conoscenza dell'oggetto, le monadi sono li mitate. Esse tendono
tutte confusamente all’ infinito, al tutto; ma sono Limitate e
differenziate secondo i gradi delle percezioni distinte. E i
composti in ciò corrispondono ai semplici. Intatti, siccome tutto è pieno
(il che fa sì che tutta la materia sia concatenata), e siccome nel pieno
ogni movimento opera qualche effetto sopra i corpi distanti in ragione
della distanza, di modo ohe ogni corpo non solo è affetto da quelli che
lo toccano e risente in qualche modo di tutto ciò che accade ad essi, ma
anche per mezzo loro risente di quelli che toccano i primi da cui esso
è toccato immediatamente; ne consegue che questa comunicazione va a
qualsiasi distanza. E quindi ogni corpo risente di tutto ciò che avviene
nell' universo; sì che chi avesse la facoltà di veder tutto, potrebbe
leggere in ciascun corpo ciò che avviene ovunque, ed anche ciò che è
avvenuto e avverrà; osservando nel presente ciò che è lontano, sia
secondo il tempo, sia secondo lo spazio: ffup.7r.oia 7ràvTa, diceva
lppocrate. Ma mi' anima non può leggere in sè stessa se non ciò che vi è
rappresentato distintamente; essa non saprebbe svolgere in una sola volta
tutte le sue pieghe, perchè esse vanno all' infinito. Così, quantunque
ogni monade creata rappresenti tutto l'universo, essa rappresenta piii
distintamente il corpo che lo si riferisce particolarmente e di cui essa
costituisce l’entelechia: e siccome tale corpo esprime tutto
l'universo a causa della connessione di tutta la materia nel
pieno. Ciascuna monade, in quanto rappresentativa ili tutto l’universo,
è analoga alla divinità. Solo la minor foiza di questa rappresentazione
la rende imperfetta e la ditTerenzia dalla divinità e dalle altro monadi.
In Dio tutto è chiaro e distinto. Nella monade sono distinte solo le
percezioni più vicino al contro, come si è già visto. Leibniz non ammette
il vuoto, per il suo principio della continuità applicato alla
materia.Ecco un’altra formulazione della concatenazione universale secondo
il principio di causalità, considerato questa volta nel suo aspetto
fisico. i Tutto ù conspirante ». l’anima, nel rappresentare questo
corpo clie le appartiene in maniera particolare, rappresenta insieme
tutto runiverso. Il corpo appartenente ad una monade che ne è
l’entelechia o l’anima, costituisce con l’entelechia ciò che si può
chiamare un vivente, e coll'anima ciò che si può chiamare un animale. Ora
questo corpo di un vivente o di un animale è sempre organico; poiché,
essendo ogni monade a suo modo uno specchio dell’ imiverso, ed
essendo l'universo regolato in un ordine perfetto, bisogna pure che
vi sia un ordine nel rappresentante, cioè a dire nelle percezioni dell’ anima,
e per conseguenza nel corpo, secondo il quale l'universo è rappresentato
nell’anima. Così il corpo organico di ogni vivente è ima specie di
macchina divina o di automa naturale che supera infinitamente tutti gli automi
artificiali. Perchè una macchina fatta dall’arte dell' uomo non è
macchina in ciascuna delle suo parti. Per esempio, il dente di una ruota
di ottone ha parti o frammenti che non sono più per noi qualche
cosa di artificiale e non hanno più nulla con carattere di macchina
riguardo all'uso cui la ruota è destinata. Ma le macchine della natura,
cioè i corpi viventi, sono ancora macchine nelle loro più piccole parti,
all' infinito. Ciò determina la differenza fra la natura e l'arte, cioè fra
l’arte divina e la nostra. E 1 autore della natura ha potuto operare
questo artifìcio divino e infinitamente meraviglioso, perchè ogni
porzione di materia non solo è divisibile all’ infinito, come hanno già
riconosciuto gli antichi, ma è anche suddivisa attualmente senza fine,
ogni parte in parti, ognuna LI corpo - commenta il Boutroux, attraverso
lo infinite percezioni confuse relative all’univerBO che esso determina
ncll’auima, ò il nesso che riunisce l’anima al resto del mondo, che fa cioè
comunicare lo anime fra di loro. È questa un’altra applicazione del principio
di continuità alla materia. Lkiuniz, La monadologia. delle quali ha qualche
movimento proprio; altrimenti sarebbe impossibile che ogni porzione della
materia potesse esprimere tutto l’ universo. Donde si vede che vi è
un mondo di creatine, di viventi, di animali, di entelechie, di anime
anche nella minima particella di materia. Ogni porzione di materia può
essere concepita come un giardino pieno di piante, e come uno
stagno pieno di pesci. Ma ogni ramo della pianta, ogni membro dell'
animale, ogni goccia dei suoi umori, è ancora un giardino, uno stagno. E
quantunque la terra e l'aria interposta fra le piante del giardino, o
l’acqua interposta fra i pesci dello stagno, non siano punto pianta nè
pesce, esse ne contengono tuttavia ancora; ma per lo più di una
piccolezza a noi impercettibile. Cosi non vi è nulla di incolto, di
sterile, di morto nell'universo; e non vi è caos nè confusione se non in
apparenza; press' a poco come apparirebbe confusione in uno stagno, ad
una distanza dalla quale si vedesse un movimento confuso, un brulichio, per
così dire, di pesci, senza discernere i pesci stessi. Si vede da ciò che
ogni corpo vivente ha una entelechia dominante che è f anima
nell'animale; ma le membra di questo corpo vivente sono piene di altri
viventi, piante, animali, ciascuno dei quali ha ancora la sua entelechia,
o la sua anima dominante. Ma non bisogna immaginare, come fece taluno che
aveva male inteso il mio pensiero, che ogni anima abbia una massa o
porzione di materia propria o applicata ad essa per sempre, e che essa
possieda quindi altri viventi inferiori, destinati sempre al suo servizio.
Poiché tutti i corpi sono in un flusso perpetuo, come fiumi; e
parti vi entrano e ne escono continuamente. Così l’anima non cambia di
corpo se non a poco a poco, per gradi, di modo che essa non è mai
spogliata ad un tratto di tutti i suoi organi; e vi è spesso metamorfosi
negli animali, ma non mai metempsicosi nè trasmigrazione delle anime; non vi
sono neppure anime completamente separate, nè genii senza corpo. Dio solo è
staccato interamente dal corpo.Perciò anche non vi è nè generazione
assoluta, nè morte perfetta, intesa rigorosamente, come separazione
dall’anima. E ciò che noi chiamiamo generazione, è sviluppo e
accrescimento; come ciò che noi chiamiamo morte, è involuzione o
diminuzione. I filosofi sono stati molto imbarazzati sull’origine delle
forme, entelechie, o anime; ma oggi che ci si è accorti, per mezzo di ricerche
esatte sulle piante, sugli insetti e sugli animali, che i corpi organici della
natura non sono mai prodotti da caos o da putrefazione, ma sempre dai
semi nei quali vi ora senza dubbio qualche preformazione, si è ritenuto che,
prima della concezione, vi fosse già non solo il corpo organico, ma anche
un’anima in questo corpo, insomma l'animale stesso; e che per mezzo
della concezione questo animale sia stato solamente disposto ad una grande
trasformazione per divenire un animale di un'altra specie. Si vede pure qualche
cosa di simile fuori del campo della generazione; come quando i vermi
divengono mosche e i bruchi farfalle. La menade, elio ò assolutamente
immateriale, non è però priva di un suo aspetto di materialità. La
materialità viene definita da Leibniz in vari modi: come percezione
confusa; come aggregato. Sempre però come un modo di essere della monade, un
suo particolare « fenomeno ». Posto ciò, e dato che la monade è eterna e
indistruttibile non si può a rigore parlare di morte neppure nella
materia; si potrà parlare solo di aggregazione e di disgregazione, di
passaggio do uno stato all’altro. Cosi non si può parlare di una
materia clic sia pura materia, separata da un’anima che sia pura anima. Le
teorie biologiche del suo tempo servono qui a Leibniz come sostegno e conferma
delle sue concezioni metafisiche. Leibniz, La monadologia. Gli
animali dei quali alcuni sono elevati al grado di animali più grandi per
mezzo della concezione, possono essere chiamati spermatici-, ma quelli
fra di essi che rimangono nella loro specie, cioè la maggior parte,
nascono, si moltiplicano, e vengono distrutti come i grandi animali,
e non vi e che un piccolo numero di eletti che passi ad un teatro
più vasto. Ma questo non era che la metà della verità; ho dunque ritenuto
che se 1 animale non ha mai inizio naturalmente, non avrà neppure fine
naturale, e che non solo non vi sarà generazione, ma neppure distruzione
intera, nè morte rigorosamente intesa. E questi ragionamenti fatti
a posteriori e tratti dalle esperienze si accordano perfettamente coi miei
principi dedotti a priori qui sopra. Così si può dire che non solamente
l'anima (specchio di un universo indistruttibile) è indistruttibile, ma
che lo e anche 1 animale stesso, benché la sua macchina perisca spesso in
parte, e lasci o prenda spoglie organiche. Questi principi mi hanno dato
modo di spiegare naturalmente l’ unione o conformità dell'anima e del
corpo organico. L' anima segue le sue proprie leggi, ed il corpo le
sue; ed essi si incontrano in virtù dell'armonia prestabilita fra tutte le
sostanze, poiché le sostanze sono tutte rappresentazioni di un medesimo
imiverso. Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali, per
appetizioni, fini e mezzi. 1 corpi agiscono secondo le leggi delle cause
efficienti o dei movimenti. E i due regni, quello delle cause efficienti
e quello delle cause finali, sono armonici fra di loro. Cartesio ha
riconosciuto che le anime non possono attribuire forza ai corpi, perchè
vi è sempre la medesima Questa teoria ha il suo corrispondente nella
dottrina della gerarchia delle monadi, secondo cui solo alcune di esse
possono elevarsi agli stadi superiori di animale o spirito ragionevole.
Sui rapporti fra le cause efficienti e le finali, cfr. la nota a] j;
3fi.quantità di forza nella materia. Pur tuttavia egli lia creduto che l’anima
potesse cambiare la direzione dei corpi. Ma egli credeva ciò, perchè ai
suoi tempi non si conosceva la legge naturale che stabilisce anche la
conservazione della medesima direzione totale nella materia: se egli
avesse notato questa legge, sarebbe giunto al mio sistema dell’armonia
prestabilita. Tale sistema stabilisce che i corpi agiscono come se
(ipotesi assurda) non vi fossero anime; che le anime agiscono come se non
vi fossero corpi; e che entrambi agiscono come se l’uno influisse
sull’altro. Quanto agli sjnriti,o anime ragionevoli, benché io
ritenga, come ho detto or ora, che tutti i viventi e animali siano in
fondo conformati ugualmente (cioè che l’animale e l'anima comincino col
mondo e non finiscano se non col mondo stesso), vi è però di particolare
negli animali ragionevoli, il fatto che i loro piccoli animali
spermatici, fino a che non sono che tali, hanno soltanto anime cornimi
o sensitive: ma appena quelli che sono eletti, per così dire,
pervengono per ima effettiva concezione alla natura umana, le loro anime
sensitive vengono elevate al grado della ragione e alla prerogativa degli
spiriti. Tra le differenze che intercedono fra le anime comuni e gli
spiriti, e di cui già ne ho notato alcune, vi è anche questa: che le
anime sono in generale specchi Questo leggo tisica, secondo cui si
oonserva anche la direzione totale (o quantità di progrosso) - cioè a
qualsiasi cambiamento di direzione, in un sistema chiuso, deve corrispondere un
altro cambiamento di direzione eguale o contrario-, contribuisce a fare
del mondo meccanico un sistema a sè, chiuso a qualsiasi influenza elio
provenga dall’esterno, por esempio dnll’aninia. Cartesio credeva alla
oonsorvazione della quantità di movimento (cui Leibniz sostituisce la
conservazione della forza viva); ma non conosceva la conservaziono della
direzione totale. Egli pensava cioè che l'anima potesse mutare la dirozionedi
un movimento, lasciando invariato il sistema. Una tale influenza
dell’anima è impossibile, posta la legge di Leibniz. Anima e corpo
rimangono due sistemi separati, privi di influenze reciproche, cosi come
lo sono le monadi fra di loro. E il loro accordo dovrà essere stabilito
attraverso l’armonia prestabilita. Sulle leggi tìsiche leibniziane,
viventi o immagini dell'universo delle creatine; ma che gli spiriti sono
anche immagini della divinità stessa, o dell’autore stesso della natura; capaci
di conoscere il sistema dell universo e di imitarne alcunché, per mezzo
di saggi architettonici; essendo ogni spirito come una piccola divinità
nel suo ambito. Appunto questo fa sì che gli spiriti siano capaci
ili entrare in una specie di società con Dio, e che egli sia rispetto a
loro non solo quello che un inventore è per la sua macchina (ciò che Dio
è rispetto alle altre creature), ma altresì quel che mi principe è per i
suoi sudditi, ed anzi un padre per i suoi figli. Donde è facile
concludere che l’insieme di tutti gli spiriti deve compone la città di
Dio, cioè il più perfetto stato possibile sotto il più perfetto dei
monarchi. 86. ° Questa città di Dio, questa monarchia
veramente universale, è un mondo morale nel mondo naturale, è ciò
che vi è di più di elevato e di più divino nelle opere di Dio. E proprio
in essa consiste la gloria di Dio; poiché non vi sarebbe gloria, se la
sua grandezza e la sua bontà non fossero conosciute ed ammirate dagli
spiriti; e anche solo in rapporto a questa città divina egli è
propriamente fornito di bontà, laddove la sua saggezza e la sua
potenza si mostrano ovunque. Come abbiamo stabi lito pili sopra una
perfetta armonia fra due regni naturali, l’uno delle cause
efficienti, 1 altro delle finali, dobbiamo notare qui anche un’altra
armonia fra il regno fisico della natura e il regno morale della grazia,
cioè fra Dio considerato come architetto della macchina dell universo, e
Dio considerato come monarca della città divina degli spiriti. Tale
armonia fa sì che le coso conducano alla grazia per le vie medesime della
natura, e che questo globo, per esempio, debba essere distrutto e riparato
per vie naturali, nel momento in cui il governo degli spiriti lo
richieda, per il castigo degli uni e la ricompensa degli altri. Si
può dire ancora che Dio, in quanto architetto, soddisfa in tutto a Dio in
quanto legislatore; e che così i peccati devono portare con sè la propria
pena per ordine di natura e hi virtù anche della strattura meccanica
delle cose; e che analogamente le belle azioni debbono attirare a
sè la propria ricompensa por vie meccaniche rispetto ai corpi; benché ciò
non possa e non debba avvenire sempre immediatamente. Insomma, sotto
questo governo perfetto, non vi sarebbe azione buona senza ricompensa, nè
cattiva senza castigo; e tutto deve risolversi nel bene dei buoni,
cioè di coloro che non sono malcontenti in questo grande stato, che
si fidano della Provvidenza dopo aver fatto il loro dovere, e che amano e
imitano come si conviene l’Autore di ogni bene, compiacendosi nella
considerazione delle sue perfezioni, secondo la natura del vero puro
amore veritiero, che fa prendere piacere alla felicità di colui che si
ama. E ciò fa sì che le persone sagge e virtuose lavorino a tutto ciò che
sembra conforme alla volontà divina presuntiva o antecedente, e si contentino,
d'altra parte, di ciò che Dio fa accadere effettivamente per mezzo
della sua volontà segreta, conseguente e decisiva; riconoscendo che,
se noi potessimo intendere a sufficienza bordine dell'universo, troveremmo che
esso supera tutti i desideri dei piii saggi, e che è impossibile renderlo
migliore di quello che è, non solo quanto al tutto in generale, ma
anche La volontà presuntiva o antecedente rappresenta ciò che
deriva dalla natura stessa di Dio, ohe ò connaturato con la sua essenza;
la volontà conseguente e decisiva rappresenta l’atto effettivo con cui Dio
ha messo in opera la realtà di fatto: atto non necessario, quindi non
prevedibile, « segreto ». Questa distinzione richiama quella fra le verità di
ragione, necessarie, e le verità di fatto, contingenti. quanto a noi stessi in
particolare, perchè ci teniamo legati, come è giusto, all'autore del tutto, non
solamente come all architetto e alla causa efficiente del nostro
essere, ma anche come al nostro signore e alla causa tinaie che
deve costituire tutto lo scopo della nostra volontà, e solo può
procurarci la felicità. E qui accennato al concetto fondamentale della
Teodicea, secondo cui tutto oiò che apparo come malo cessa di essere
tale, quando venga considerato in connessione con l'arinonia del tutto, nella
quale anche i lati oscuri hanno una loro funziono, e le ombreggiature
contribuiscono alla perfezione del quadro. Cfr. p. 4(5 ss. Eugenio
Colorni. Colorni. Parole chiave: diadologia, il concetto dell’individuo,
l’idealismo filosofico como malatia, indice alla malatia metafisica, scritti
filosofici curati da Bobbio, scienza unificata, ebreo-italiano, ebreo-britannico
Ayer, circolo di Vienna, Reichenbach, Hilbert, Eddington. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Colorni” – The Swimming-Pool Library. Colorni.
Luigi Speranza -- Grice e Consoli –
l’italiano come lingua universale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo catanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Lingua
nazionale della terra. Linguaggio mondiale. Ling du mond. Ling nazionel de le
ter. Vox mondiel. Il latino lingua universala, Storia della letteratura latina.
Catania. Santi Consoli Sindaco di Catania Durata mandato Predecessore Salvatore
Di Stefano Giuffrida Successore Salvatore Di Stefano Giuffrida C. è stato un
filosofo, storico, letterato e politico italiano. Filosofo, storico e
letterato, C è insegnante di letteratura latina e filosofia romana a Catania. Divenne sindaco di Catania. Organizza
l'«Esposizione agricola siciliana», che
venne inaugurata da Vittorio Emanuele. Termina il suo mandato e torna ad
occuparsi dell'insegnamento. Scrive
anche alcuni saggi sulla storia della Sicilia.
Pubblica numerose opere tra cui Italiensk grammatik til brug for norske
og danske, Catania, Letteratura Norvegiana, Milano, De C. Plinii Caecilii
Secundi rhetoricis studiis, Catania), L’autore del De origine et situ
Germanorum, Roma; Brevi annotazioni critiche alle Satire di Persio, Roma, Il
neo-logismo (deutero-esperanto) in Plinio il Giovane, Palermo, Sicilia gloriosa,
Catania). Santi Correnti, La città semprerifiorente, Catania. Santo Daniele Spina, Andrea D’Amico Franz,
commediografo e politico in Catania, Agorà. Opere su MLOL, Horizons Unlimited.Predecessore
Sindaco di Catania Successore Salvatore Di Stefano Giuffrida Salvatore Di
Stefano Giuffrida. Portale Biografie: accedi alle voci di Wikipedia che
trattano di biografie Categorie: Storici italiani del XX secolo Letterati
italiani Politici italiani Sindaci di Catania [altre]. Ricerca Libri aiuta i lettori a scoprirci libri di tulio il mondo
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garbarti College li&rarg CONSTANTIUS
FUND EstiblJshed by Professor E. A.
Sofhoclbs of Harvard University for
" the parchase of Greek ud ritiri
books, (the utdenl elusici) or of Arabie
hook», or of hooks illustratine or ex.
soch Greek, Latin, or Arabie
t ' Will) Jii^. .1.^.0.1,. !> I I V IL NEOLOGISMO NEGLI SCRITTI DI PLINIO
IL GIOVANE Altre opere di C. ITALIENSK GRAMMATIK til "for-u.gr for IbTcrslce cgr Catania L
esposte , secondo il metodo scientifico , agli alunni delle scuole secondarie classiche. Catania (E ALLO Siili) IL 1. N. Torino TJI Milano liettet*atat*a Ho^eQtena Milano. De C. Plinii Gaecilii Secanti RHRTORICIS STUDIIS. Catinae, 1897. L. 3 (esaurito). e
IL NEOLOGISMO NEGLI SCRITTI DI
PLINIO IL GIOVANE CONTRIBUTO AGLI STUDI SULLA LATINITÀ ARGENTEA Libero docente
di letteratura e lingua latina nella R. Università di Catania PALERMO LIBRERIA
ALB. REBER • r &/. X? & >RD CÓQ; Ql -VL-^./UOl-/W rfcLu-ó xu^x-oL (Catania,
Via Maddem, n. 160) Tipografia
editrice BARBACALLO & 8CUDERÌ , in Catania. MARGRETHE CONSOLI
nata GLÒERSEN MIA DILETTA E
VENERATA MOGLIE NEL III ANNIVERSARIO
DELLA SUA MORTE Il ne faut point dédaigner les études qui ont pour objet d*écl«ircir méme tei ou tei petit point particulier de la
langue d' un auteur. 0. RlEMANN. È
noto che neiprimi tempi dell'impero romano, tanto per i inutamenti politici avvenuti quanto per
il progresso lento, ma costante, del '
sermo plebeius' che tendeva a prevalere
sul ' sermo urbanus ', la lingua letteraria
era divenuta, a poco a poco, una lingua artificiale che ogni scrittore, non più vincolato dall'uso
del linguaggio delle conversazioni colte, soleva per lo più plasmare da sé, secondo i suoi gusti e secondo i fini
letterari che si era proposto di
raggiungere. 1 Tale tendenza, che costituisce appunto uno dei caratteri
precipui della latinità argentea, abbiamo potuto osservare in
particol&r modo negli scritti che
ancora ci rimangono di Plinio il giovane
; e, poiché dell' arte retorica di lui ci siamo
occupati di proposito in» un nostro lavoro stampato di recente, 2 ora ci proponiamo dimettere in
rilievo i neo 1 Cfr. O. Riemann, Études
sur la langue et la grammaire de
Tite-Live, Paris, Thorin, DeC
Plinii Caecilii Secundi rhetoricis studiis, Cat'msLOy . cod. Vatic. ; F =
cod. Florentin. già della bibl.- S. Marco 284 ;
D = cod. Dresd. D 166 ; [R = cod.
Riccard. 488]; p = -o :: o- I -- :Da
quanto ci è dato argomentare , considerando i resti della letteratura romana
pervenuti sino a noi, pare che Plinio il
giovane sia ricorso per il primo ai temi
degli aggettivi ' sinister ' e ' socialis
per formare le due voci nuove ' siriisteritas ' e ' socialitas \ . l.° Il SIGNIFICATO di ' sinisteritas ' non
si può disgiungere da quello delle voci ' stultitia ' e ' rusticitas ; e
indica perciò « goffaggine , inettitudine » , l' antitesi , in somma, di ' dexteritas '. Se ne ha la
conferma nei seguenti passi di Plinio :
Quae tanta grauitas ? quae tanta
sapientia ? quae immopigritia, adrogantia, sinisteritas ac potius amentia, in
hoc totum diem inpendere, ut offendas, ut inimicum relinquas ad quem tamquam
amicissimura ueneris ? ' Epist. VI 17, 3.
' Plerique autem, dum uerentur ne gratiae potentium nimium inpertire uideantur, sinisteritatis atque
etiam raalignitatis famam consequuntur. ' Epist. IX 5, 2. 2.° L' altro sostantivo ' socialitas ' vale
lo stesso di ' comitas ' = « affabilità
, cortesia , socievolezza » : ce lo
affermano i seguenti due luoghi di Plinio: ' Non remissionibus tuis eadem
frequentia eademque illa soci a1 i t a s interest ? ' Pan. 49, 4. ' Primum est autem suo esse contentimi , deinde quos praecipue scias
indigere sustentantem fouentemque orbe
quodam socialitatis ambire. ' Epist. IX
30, 3. È nondimeno da notarsi che nelP
ed. a leggesi ' societatis ' invece di ' socialitatis \ 6) Plinio, memore forse d'un ben noto
precetto oraziano sulla ' callida iunctura ' di parole note, 1 formò per il primo , a quanto pare , mediante composizione, quattro nuovi sostantivi : ' cauaedium,
sesquihora, duumuiratus, laudiceni. Cauaedium ' risulta dalla fusione
intimadelle due voci cauum aedium ' ,
che> troviamo appunto usate in
stretta dipendenza tra loro, ma separate (cioè: ' cauum aedium ' ), da Varrone, 2 Vitruvio 3 e Plinio
il vecchio 4 ; e vale « cortile, corte »
, quello spazio nel mezzo delle case
romane, dove cadeva la. pioggia dal tettò. Si può. assomigliare il ' cauaedium ' all' '
inpluuium ' , voce usata da Cicerone e. da Livio 5 ; ma se ne differenzia
in i Horat. Epist II 3, 47-48. Cfr.
Cic. De oraL III 38, 154. Varr. De Un.
Lat V 33, 161 e 162 (Spengel). 3
Vitrvv. De arch. VI 3, 1. 4 Plin. sen. Nat hist XIX 1 (6), 24; XVII 21 (35),
166. 5 Cic. In Verr. act see. I 23, 61;
56, 147. Liv. XLIII 13, 6.
ciò che T i inpluuium ' solevasi costruire nelle case piccole, mentre il
' cauaedium ' era di maggiori dimensioni,
adatto alle case più grandi. 1 Plinio il giovane scrisse : Est contra medias (se. porticus) cauaedi u m
hilare '. Epist II 17, 5. E nello stesso
passo si ripete la voce ' cauaedium ' :
' A tergo cauaedium'. 2.° La voce i
sesqui ', irrigidita, servi , prima ancora
dell' età augustea, a foggiare alcune voci composte. 2 Anche gli
scrittori del primo secolo dell'impero usarono
nuove voci composte col numerale ' sesqui \ 3 Dovette, per ciò, Plinio il giovane sentirsi quasi
abilitato dai numerosi esempi, accolti nelP uso comune, a formare la voce ' sesquihora', che vale «un' ora e mezzo
»: ' Egeram horis tribus et dimidia, supererat sesquihora'. Epist IV 9,9. 3.° Dal numero delle persone elette a
cooperare per uno stesso ufficio, ne
venne la denominazione di alcune
magistrature romane, come p. es. ' triumuiratus, quin Vedi E. Guhl und W. Koner, Dos Leben der
Grieehen und Rómer nach antiken
Bildwerken dargestellt, 419. J.
Overbeck, Pompe ji in seinen Gebàuden,
Alterthùm. und Kunstwerken, I, 241. 2 Ne «iano d’esempio le seguenti : '
sesquialter, sesquilibra, sesquimensis,
sesquimodius, sesquioctauus, sesquiopus, sesquipedalis, sesqui pes, sesqui plex
(sescuplex), sesquitertius ', etc. : per
le quali voci vedasi il Georges, Ausfuhrliehes lateinischdeuisches
Handwòrterbuth, 7 a ediz., Leipzig, 1880, 2° voi., coli. 2363-2364. Per le seguenti voci composte con
* sesqui ' si hanno soltanto esempi negli scritti del primo secolo dell'impero
: 'sescuncia, sescuplus,
sesquicullearis, sesquicyathus, sesquidigitalis, sesquidigitus, 8esquiiugerum,
sesquiobolus, sesquiopera, sesquipedaneus, sesquiplaga ', etc. queuiratus ',
etc. 1 Dello stesso modo troviamo in Plinio
per la prima volta la voce ' duumuiratus ' :' ' Hunc Trebonius
Ruflnus... in duumuiratu tollendum abolendumque curauit. ' Epist IV 22, 1. Ma certamente il sostantivo ' duumuiratus ' dovette
essere accolto prima nell'uso comune dei
contemporanei di Plinio e, fors'anche, nell'uso dell' età anteriore. 2 È noto, in fatti, che Cicerone accenna, in
una sua orazione, all' ufficio dei '
duumuiri perduellionis ', 3 e Cesare a
quello dei ' duumuiri municipiorum \ 4 Livio,
inoltre, in più luoghi fa cenno dei ' duumuiri ', distinguendoli in a) '
duumuiri nauales o ' duumuiri nauales
classis ornandae reflciendaeque causa ' (IX 30,
4; cfr. XL 18, 7 e 8); b) ' duumuiri sacrorum ' (III 10, 7) ovvero ' duumuiri sacris faciundis ' (V
13, 6; VI 37, 12) o ' sacris faciendis'
(VI 5, 8); e) 'duumuiri ad aedem faciendam ' (VII 28, 5 ; cfr. XXII 33, 8)
o i La voce ' seruatio * riappare, più
tardi, nella Vulgata, E8dr. IV 8, 21-22;
e in Cael. Avrbl. Celer. uel acut pass. Ili
4,45. « Cic. In Pis. 34, 84. Vare. Rer. rust II 1, 16. Cfr. Vlpian.
in Big. XLVII 14, 1, §§ 2 e 4. Calustrat. in Big. Non
teniamo conto della congettura del Gièrig che
legge : ' abacta hospitum iumenta cerneres ', così lon-* tana dal testo quale è stato conservato dai
codici, tranne il e, e dalle più antiche edizioni del Paneg. E, dall'ai-? tro canto, la congettura dell' Ernesti : '
abactus hospitum exercèretur ' o ' exercerentur
', attenendosi all'uso passivo del verbo i exercere ', lascia intatto il
neologismo 1 abactus ', a cui si
riferisce la nostra osservazione. 3.°
Il nome ' praelusio ' si nota nel seguente passo di Plinio: 'Tu tamen aestima, quantum nos in
ipsa pugna certaminis maneat, cuius quasi praelusio atque praecursio has contentiones excitauit '.
Epist. VI 13, 6. Perciò * praelusio ' si
equipara alla voce ' prolusio ', l che
significa « preludio, prolusione, saggio ». 2
Alcuni vorrebbero sostituire nel passo citato dell'epistola pliniana a '
praelusio ' la voce i prolusio ', prima usata
da Cicerone, per evitare, forse, d'attribuirsi a Plinio la novità del vocabolo ; ma si farebbe cosa
inesatta, perchè alla sostituzione osta V unanime conferma della voce ' praelusio ', che vien data dai codici
più autorevoli dell' epistolario di Plinio. 8 i Cic. De orai. II 80, 325; Diuinat in
Caec. 14, 47. . 2 Nella tarda latinilà
riappare la voce l praelusio ' : per es.:
Evmen. Pro restaurandis scholis (Augustoduni) oratio, 2 : * Ibi armantur ingenia, hic proeliantur ; ibi p r a
e 1 u s i o, hic pugna committitur '
(edit De la Baune, il quale nella nota a pag. 142, col. 2 a , sospetta: * praelusio forte
prolusio'). Ambros. De exeidio urbis Hierosolymitanae III 8:
'Praelusio quaedam belli * ( Migne,
Patrolog. curs., ser. I, toni. 15 , col. 2077 ) ; etc. Per altri esempi vedii lessici Forcellini -
De Vit (tom. 4° [1868], col. 2 a ), e Georges (voi. 2° [J880J, col. 1658).
> 3 Non è, forse, infondata la
congettura che presume sostituire ' praeludit ' a * proludit ' nel passo
vergiliano : ' Arbori^ Più per un
ricordo omerico che per la simmetria
della frase, pare che Plinio siasi indotto a formare, in antitesi a ' nutus ', il nome composto '
renutus ': ' Vide in quo me fastigio
collocaris, cum mihi idem potestatis
idemque regni dederis, quod Homerus Ioui optimo maxi mo nam ego quoque
simili nutu ac renutu re spondere uoto tuo possum \ Epist I 7, 1-2. Talché '
renutus ', in opposizione a ' nutus ', vale lo stesso che ' recusatio ', cioè « far cenno di no,
accennare di no , rifiutare ». l e) Plinio si avvalse anche di temi verbali
per formare i due nuovi sostantivi : i unctorium ' e ' auocamentum '. * 1.° Nei bagni degli antichi Romani e' era ,
di solito , un luogo apposito dove i
bagnanti si ungevano il corpo, dopo
essersi lavati nelle vasche de' bagni. In tutte le opere degli scrittori latini , anteriori a
Plinio, che sono giunte integre o a
frammenti sino a noi, non c'è parola che
serva ad indicare tale luogo di unzione. Primo ad indicarlo, valendosi della voce ' unctorium
', apparisce Plinio (Épist II 17, 11 ):
e tuttavia pertanto tempo prima di lui si era fatto uso del luogo di unzione,
sì necessario a complemento del bagno. Non sarebbe quindi improbabile che il nome ' unctorium ' fosse
stato accolto nelP uso letterario in
tempi anteriori a quelli di Plinio;
tanto più che e Plauto e Cicerone avevano usato le voci obnixus trunco, uèntosque tacessi t |
Ictibus, et sparsa ad pugnato i) r o 1 u d i t* barena ' (Ribbeck); il quale
passo si nota identico in Georg. Ili
233-234 ed Aen. i Cfr, Hoic IL XVI 250.
unctor, unctio, unctura ' l , derivate, come ' unctorium ', dal tema del verbo ' ungere ' o ' unguere
\ 2.° Col suffisso -men-to- aggiunto al
tema del verbo composto , 30. Qvintu,. //mi/, orat VI 3, 61. Martial.. Epigr. XIV 20 (Schneidewin. 19),
1; XI 58, 9. Cfr. Vlpian. in Dfg. XXXII
52, § 8 ; etc. In uo luogo di Varr. Rer. rust. I 48, 1 leggevasi un tempo la voce
* theca' : 'ut grani t li e e a sit
gluma et apex arista ': nella recente edi?. del
Keil (Lips., Teubner, 1889, pag. 59) si legge: 'ut grani apex sit gluma et arista'. ellenismi, alcuni de'
quali sono rappresentati da voci
semplici, altri da voci composte.
a) Alcuni de' grecismi dedotti da voci sempiici furono da Plinio
latinizzati nella desinenza; altri conservarono la desinenza greca
originaria. ad) Si presentano con la
desinenza latinizzata : 1.° '
Baptisterium ', « bacino per bagnarsi e nuotare, bagno ». Se ne ha la conferma nei seguenti
due luoghi di Plinio : Inde apodyterium balinei laxum et talare excipit cella
frigidaria, in qua baptisterium amplum
atque opacum \ Epist V 6 , 25. ' Inde
balinei cella frigidaria spatiosa et effusa, cuius in contrariis parietibus duo
baptisteria uelut eiecta sinuantur\ Epist. Nel passo che abbiamo citato per il
secondo , la lezione del cod. D i duobus aptisteria ' differisce da quella comunemente accettata; ma si scorge evidente
che l'amanuense fu tratto in errore da ciò che, essendo scritte neir esemplare tutte di seguito le due voci '
duo baptisteria ' in modo da formare ' duobaptisteria ', egli credette dividere
il nesso in ' duob. aptisteria ', ritenendo
la prima parte un' abbreviazione di * duobus \ Quanto al passo citato sopra per il primoj se si
accoglie la lezione ' sphaeristerium ', che presentano lo stesso cod. D i Per
gli scrittori ecclesiastici la voce ' baptisterium ' passò a significare il luogo in cui si amministra
il sacramento del battesimo; ma in un
luogo dell'epistola 2* del Iib. ir Apollinare Sidonio continuò a conservarne il
significato pliniano: 4 Huic basiiicae
appendix piscina forinsecus seu, si graecari mauis, baptisterium ab oriente connectitur ' (Migne
, Pairolog. tur*., ser. I, tona. 58,
col. 475). è l'ed. p, non resta menomata per nulla la nostra osservazione sulP
ellenismo ' baptisterium ', che è conferà
mato per neologismo pliniano dal luogo della Epist. II 17, 11.
2;° Nei seguenti passi del libro delle epistole di Plinio all'imperatore
Traiano si legge per la prima volta il
grecismo i buleuta % avente il significato di « senatore greco, consigliere »: ' Claudiopolitani
ingens balineum defodiunt magis quam
aediflcant, et quidem ex ea pecunia quam b u 1 e u t a e additi beneficio tuo
aut iam obtuleruntob introitimi autnobis
exigentibus conferunt\ Epist X 39 (48),
5. ' Superest ergo ut ipse
dispicias, an in omnibus ciuitatibus
certum aliquid omnes qui deinde b u 1 e
u t a e legentur debeant prò introitu dare '. Epist. Adfirmabatur mihi in omni ciuitate plurimos .esse buleutas ex
aliis ciuitatibus '. Epist X 114 (115), 3. 1
3.° ' Eranus ' significò propriamente « gradevole compagnia »; poi si
disse ' eranus ' un' associazione privata in Grecia, avente lo scopo di
assicurare ai suoi membri un appoggio nel caso che cadessero nella indigenza,
ma a patto che il beneficato dovesse restituire
all' associazione il soccorso in danaro ricevuto, ove la sua condizione economica si fosse migliorata.
In conseguenza, valse poi a significare anche qualunque tassa o contribuzione o
colletta imposta per venire in soccorso ai bisognosi. L'uso della voce buleuta
si trova ripetuto presso Ael. Spartian. Seuer.
17, 2: * Alexandriuis ius buleutarum dedit * (Peter). Vedi i lessici
Freund-Theil (tom. I [1855], pagina 368;. e Georges (voi. l.° [1879], col.
819). * Dell' ' eranus ' de' Cristiani
trattò Flor. Tbrtvll. Apologet. Cicerone fa uso del vocabolo in esame, ma
conservandolo tale e quale, con le stesse lettere greche * . Plinio lo
latinizzò : ' Datum mihi libellum ad eranos
pertinentem his litteris subieci'. Epist X 92 (93). Il vocabolo si trova anche latinizzato nella
lettera di risposta dell'imperatore Traiano a Plinio, Epist. X 93 (94). Il Beroaldus fece bene a restituire nel
passo di Plinio, sopra citato, la grafia legittima ' eranos ', invece della grafia ' heranos ' portata dall' ed.
A. 4.° i Idyllium ' indica un genere
ben noto di poesia pastorale: * Siue
epigrammata siue i d y 1 1 i a siue eglogas siue , ut multi , poematia seu quod
aliud uocare malueris licebit uoces '.
Epist IV 14, 9. È da notarsi che la
grafia della voce ' idyllium ' non è
conservata costante nei codici e nelle più antiche edizioni di Plinio. Alla
grafia ' idyllia ', che è presentata dai codd. M, V, e accettata dal Beroaldus,
si avvicina la grafia ' edyllia ' dell' ed. p; perciocché è ben noto che nelle
parole greche latinizzate il dittongo et davanti ad una vocale si rappresentò
in latino tanto con e quanto con i : ma
1' uso prevalente dell' e è più antico, mentre nel primo secolo dell' impero il
suono vocalico i rappresentò più spesso il dittongo greco che stiamo considerando. Da ' edyllia ' a ' edullia ', grafia accolta
dall' ed. a, il passaggio era facile,
stante che il suono vocalico greco o ebbe per primo suo rappresentante in
latino Yu: aduers. gent. prò Christ,
cap. 39 (Migne, Patrolog. cura., ser. I,
tom. 1°, col. 468 e col. 470). i Cic.
Epiai, ad Att. XII 5, 1. Cpiwqli II Neologismo puntano, cfr. ' cumba * e c
cymba \ Solo per disaccortezza del
copista si trova scritta nel cod. F la forma ' dullia ' invece di ' edullia ' : non vi si vorrà certo
scorgere lina poco spiegabile aferesi.
La grafia ' hedylia ' del cod. si deve attribuire all' uso inesatto del
segno dell' aspirazione h ed alla riduzione abusiva del doppio suono liquido l,
per la considerazione, forse, che in alcune parole era rimasta oscillante la scrittura latina tra F uso d'
una sola o di due l, l Non si scorge chiaro per quale via siasi
pervenuto a rappresentare ' idyllia '
con ' dugtia ' nel cod. /?. 5.° '
Poematium ' vale « breve componimento poetico,
poemetto ». Veramente noi e' immaginiamo la forma del singolare ' poematium ', ma la parola ci
viene presentata nella forma del plurale ' poematia ' tanto nel passo precedentemente citato della Epist IV
14, 9, in proposito del grecismo ' idyllium
', quanto nel passo seguente : ' Audiui
recitantem Sentium Augurinum cum summa
mea uoluptate, immo etiam admiratione. poematia appellai'. Epist IV 27, 1. 2 i Vedi la nostra Fonologia latina^ ediz.
cit., n. 27, pp. 31-32. 2 La voce '
poematium ' si osserva, sempre nelle forme del
plurale, in due luoghi degli Opuseula di Deg. Magn. Avson. : XVII, Cento nuptialis (verso la fine) : *
Probissimo uiro Plinio in poematiis
lasciuiam, in moribus constitisse censuram '
(Peiper); IX, De bissula: 'Poematia, quae in nlumnam moara luseram rudia
et incohata ad do mestica e soiacium cantilenae ' (Peiper, pag. 114). Ma si
deve avvertine che nel luogo citato per
il primo, il cod. Laurent. 51 , 13 presenta la forma € poematis '; e in quello
citato il secondo, nel cod. Tilianus o
Leidensis Voss. lat. Q. 107 (prima Voss. lat 191) si preferisce la forma ' poema.ta \ Cosicché,
ove si accolgano 35 Neil' ammettere ohe Plinio abbia introdotto
il grecismo ' poematium ', ci siamo attenuti, tanto per il primo passo citato
dell' Epist IV 14, 9 quanto per il secondo passo, ai codd. M, V. Ma la lezione
' poemata ' è ammessa , per tutti e due
i passi pliniani sopra citati, dal cod. F
e dall' ed, a. Anche la ed. p presenta per
il passo dell' Epist IV 14, 9 la lezione ' poemata ' ; e dello stesso modo il cod. R presenta '
poemata ' per il passo cit. dell' Epist
IV 27, 1. ' La lezione ' poematica ',
presentata con notevole persistenza, in tutti e due i passi che abbiamo
riportati sopra, dal cod, />, verrebbe
a dare forma adiettiva al sostantivo
'poematia': e ci sarebbe sempre un neologismo di fonte greca, non usato da
alcuno scrittore latino i cui scritti ci siano rimasti. Ma il lessico la
ripudia, tuttoché la lezione ' poematica ' sia ammessa anche dalla ed. p nel
passo dell' Epist. IV 27, 1.
Avvertenza. Del diminutivo di
fonte greca ' sipunculus ' ci siamo occupati sopra, a pag. 27. * Vb) Plinio conservò la desinenza greca nei
seguenti tre grecismi, che egli per il
primo introdusse nelP uso letterario
latino : Buie SIGNIFICA consiglio,
senato o collegio dei decurioni nelle
città elleniche e in quelle città che
le varianti presentate dai detti codici, non si può ammettere con oerte2za che Ausonio abbia continuato
Fuso della voce » poematium \ 1 II Vallauri , che registra nel suo Lex.
Latini Italique sermoni* tutti i
neologismi pliniani, ommeite soltanto ' poematium \ 36
erano rette secondo le norme amministrative greche. Ne troviamo esempi nel libro delle epistole
di Plinio a Traiano, nelle forme
dell'accusativo e dell'ablativo del
singolare: ' Qui uirilem togam sumunt uel nuptias faciunt uel ineunt magistratum uel opus
publicum dedicane solent totam b u 1 e n atque etiam e plebe non exiguum numerum uocare '. Epist X 116 (117),
1. Vedi per altri esempi Epist. X 81 (85), 1; 110 (111), 1; 112 (113), 1. 2.° ' Lyristes ' significa « sonatore di
lira », e osservasi per la prima volta nei segg. luoghi pliniani: Epist I 15, 2; IX 17, 3; 36, 4; 40, 2. l Quanto alla grafia sono concordi i codd.,
l'ed. p e le più antiche edizioni dell' epistolario pliniano : si eccettui il
cod. M che, nel passo citato dell'
Epist. IX 17, 3 presenta al nominativo ' lyristis ', come se ai tempi di Plinio
il suono vocalico greco -q avesse avuto
il valore dell' i. * 3.° i Phantasma '
significa « fantasma , spettro , visione , larva » : i Igitur perquam uelim
scire , esse phantasmata et habere
propriam figuram numenque aliquod putes, an inania et ùana ex metu nostro imaginem accipere '. Epist VII 27 , 1. Il
Casaubonus credette sostituire a '
phantasmata ' la voce ' phasmata ', per evitare, forse, che si attribuisse a
Plinio Pin ì Della voce ' lyristes ' si
valse, di poi, Apollin. Sidon. Epist.
Vili 11 (Migne, Patrolog. curs., ser. I, tona. 58, col. 605). 2 In proposito della pronunzia dell' ij, che
Y Inama osserva essere stata oscillante
fin dai tempi di Platone, leggasi la memoria d9l D* Ovidio, ' Di un luogo di
Plato* ne addotto a prova dell'
antichità dell' itacismo ', pubblicata
negli « Atti della R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli o, voi. 24°, a. 1891, pagg.
217-237. 37 troduzione del neologismo ' phantasma '
nell'idioma latino, poiché la voce greca ' phasma ' era già nota come titolo di una commedia di Menandro, * e per F
indicazione di un mimo. 2 Ma contro la sostituzione proposta dal Casaubonus sta
F affermazione concorde dei codici e delle più antiche edizioni delle epistole
di Plinio. E da notarsi che Plinio,
benché avesse introdotto Fuso della voce
' phantasma ', pure nella stessa epist. 27 ,
lib. VII, invece di ripetere il nuovo grecismo , si avvalse delle voci
latine rispondenti a * phantasma ' : ' efflgies ' {Epist VII 27, 8 ; III 5, 4)
, che nella forma mediale ha il
significato di «e distribuire ». Si oppone nondimeno al legame di discendenza
tra il cit verbo greco e la voqe '
diamoerie ' il tramite attico e quello
della koiné, per cui le voci elleniche si trasfusero nella lingua latina negli
ultimi tempi della repubblica romana e nei primi secoli dell'impero; poiché
si sarebbe dovuto ottenere nella
trascrizione latina della voce greca, al
caso genitivo del singolare, la forma *
diamoerias o * diamoeras e non ' diamoeries ' o , secondo la ed. A, ' diamories
\ La grafia ' diamones ', data dall'
ed. a , non si saprebbe a quale voce greca riferirla; e perciò la si deve credere il risultamento di un' inavvertita
spostatura di lettere della voce '
dianomes Cosi T interpreta il Lagergren Vedi il lessico Porcellini - De Vit,
tom. 2, pag. 696, col. l.« L'
osservazione fu accolta dal Vallauri a pag. 207, col. 1.% del Lexicon Latini Iialique ter/noni*. s II Dizionario Georges-Calonghi, che
registra tutti gli ellenismi introdotti da Plinio, non nota ' dianome ' nò '
diamone ' mentre nelT Ausfuhrl.
Handioòrterb. del Georges ò registrata
la voce 'dianome', coL Procoeton VALE anticamera. Deinde uel cubiculum grande uel modica cenatio, quae
plurimo sole, plurimo mari lucet ; post
hanc cubiculum cum proc o e t o n e , altitudine aestiuum, munimentis hibernum
\ Epist. II 17, 10. Per altri esempi vedi Epist. II 17, 10 e 23.
Se è vero che Terenzio Varrone nel proemio del libro secondo Rerum t+usticarum usò la voce ^ i
1 Ma in non poche edizioni dei tre libri Rerum rustìcaram di Varrone la voce ' procoetona ' del proemio
del libro 2 3 resta conservata con le
lettere greche , come per es. nelt* edizione
* cum notife Iosephi Scaligeri, Adriani Turnebr, Petri Vicfcorii et Antonii Augustinl ; Amstelodami, 1623', pag.
56; nell'adizione ohe sotto la denominazione
Les agronome» latin» è compresa nella
Collection Nisard, pag» 100, col. l a ; nell'edizione di ' Ioannes Gymnicus,
Coloniae, 1536 \ pag. 96 ; eto. NelF
edizione del Keil (Lipsia, Teubnér,
1889, pag. 70) si trova accolta la forma
in lettere latine ' procoetona \ ma in nota si avverte che nei codici consultali dall' editore si legge
invece ' procoeoona considerando in primo luogo gli aggettivi di fonte
nominale, poi quelli di fonte verbale , indi gli aggettivi composti, e, in fine, gli aggettivi dedotti
dal greco. A. Riconosciamo come d' immediata
derivazione da nomi sostanti vi i
seguenti cinque aggettivi: * orarius,
bellatorius, castigatorius, praecursorius , sacerdotali^ ', quantunque, eccetto il primo, gli altri
quattro si riferiscano a sostantivi aventi il loro fondamento in temi verbali.
1.° ' Orarius * deriva da ' ora *, « costa, spiaggia del mare », e perciò vale ad indicare la qualità
di cosa appartenente alla costa, avente,
per così dire, relazione con la spiaggia
o lido; quindi ' oraria nauis ' o ' oraria
nauicula ' significa « piccolo naviglio da costeggiare ». Plinio si valse dell'aggettivo ' orarius *
nei seguenti due luoghi: l Nunc destino
partim o r a r i i s nauibus partim
uehiculis prouinciam petere \ Epist X 15 (26). * Rur sus, cum transissem in orarias nauiculas, Bithy niam intraui '. Epist. X 17A (28), 2. Il Keil,
pur conservando nel testo pliniano la lezione
comune ' orariis nauibus ' e ' orarias nauiculas * , avverte in nota ,
rispettivamente , ' fortasse onerariis '
e ' fortasse onerarias ' ; ma la congettura di lui non pare accettabile : nei due luoghi citati il
testo pliniano non presenta nei codici variante alcuna. E, del resto , la sostituzione dell' aggettivo i
oneraritts *, se vale a rimuovere da
Plinio la menda d'avere introdotto un
neologismo non necessario, non rende il testo migliore di quel che è in fatto,
conservandosi il neologismo ' orarius \
2.° Da ' bellator ', « battagliero, guerriero » , Plinio foggiò P
aggettivo i bellatorius \ che applicò in traslato a ' stilus ' per indicare lo « stile polemico
» , proprio delle dispute; ma,
riconoscendo egli stesso l'arditezza del
traslato, lo mitigò con l'aggiunzione della minorante ' quasi ' : ' Scio nunc
tibi esse praecipuum studium orandi ; sed non ideo semper pugnacem hunc et quasi bellatorium stilum suaserim'. Epist.
VII 9, 7. Se non che è da avvertire che
nel luogo citato il cod. D e V ed. p
presentano la lezione .' quasi bellorum stilum \ l 3.° Plinio dedusse 1' aggettivo * castigatorius
' dal nome i castigator ', per indicare qualità propria di chi castiga o corregge; e nell'esempio seguente
unì appunto la qualità indicata da ' castigatorius ' col nome ' solacium ', a fin di significare quel
conforto con cui ci si studia di
consolare una persona afflitta, trovando
da biasimare il dolore eccessivo che la opprime. Certo è ardito associare 1' epiteto i castigatorius '
con l' idea di conforto rappresentata da
' solacium '; e però l'autore, ad
attenuare lo stridente contrasto , premise , come al solito, la parola ' quasi'. Il passo è il
seguente : ' Proinde siquas ad eum de dolore tam iusto litteras mittes , i Ambi. Marceli*, usò anche , ma in senso
proprio , l' aggettivo ' bellatorius ' : * Ideoque hoc ni mia cauendum , quod
militem colsi nominis cum bellatoriis iumentis extinxit '. (Rer. gest. XXIII 5, 13. Gardthausen). Cfr.
XXXI 2, 22. Si deve riconoscere pure il
significato proprio di ( bellatorius ' nel seguente luogo dell'antica
traduzione latina di Irbn. Deteet et
euer*. falso cognomin. agnition. seu contro, haereses IV 34, 4: 'la tantum transmutationem fecit, ut gladios
et lanceas b ella torias in aratra fabricauerit ipse ' (Migne, Patrolog.
curi ser. Graeca et Orientai., toni. 5,
col. 985). memento adhibere solacium, non quasi castigatori u m et nimis forte,
sed molle et humanum '. Epist V 16, 10.
« Notisi che nel luogo cit. il solo
cod. M presenta la voce ' castigatorium
' : V ed. a dà la lez. ' castigatorum ', che si potrebbe intendere nel modo
stesso che si è detto sopra intorno a '
bellorum ' sostituito a 4 bellatorium \
Tuttavia , come bene avverte il Gierig, 2
il genitivo plurale ' castigatorum ' non si adatterebbe con gli aggettivi che seguono ' forte, molle,
humanum \ e nocerebbe all' efficacia
della frase. 4.° Un altro aggettivo ,
formato , come i due precedenti, da temi di ' nomina agentis ', è '
praecursorius ', da ' praecursor ', e
significa « preventivo, che precorre,
che precede » : ma V arditezza dell' immagine è attenuata , come nei due
neologismi precedenti , dalla pa^ rola
premessa ' quasi ': ' Interim ne quid festinationi meae pereat, quod sum praesens petiturus hac
quasi praecursoria epistula rogo \
Epist. IV 13, 2. Così il passo di Plinio
si legge nei codd. Jf, V e nelP ed. p.
La lezione ' praeciirsori ' data dal D deve essere considerata come
grafìa monca , poiché il dativo singolare
del nome ' praecursor ' non può coordinarsi con le altre parole del
testo. 1 Apollinare Sidonio fece uso
più acconcio dell'aggettivo ' castigatorius
', associandolo alia voce 'seueritas': Epist. IV 1 :,' Aetatulam nostrum, mobilem , teneram ,
crudam , modo castigatoria seueritate
decoqueret , modo mandato* rum
salubritate condirei ' (Migne, Patrolog. curs., ser. I, tom. 58, col. 508). * Gierig op. cit., tom. 1°, pag. 446, col.
2. a Consoli il Neologismi) puntano, 4 Altra volta Plinio,
invece di valersi del nuovo aggettivo ' praecursorius \ foggiato per esprimere
la precedenza * , usò la voce greca ' pròdromos \ che HA IL VALORE di «" precorrente,
che corre innanzi» 8 : v. Epist IV 9,
23. Nel luogo cit. dell' Epist. IV 13, 2, alla voce ' praecursoria ' trovasi sostituita '
praeceptoria ' nel cod. F e nelFed. a. E
il Gierig 3 avverte che neicodd.
Vosslail., Oxon., Arhzen. , Hamburg. ( Lindenbrogìana excerpta) , Bongars. si legge pure *
praeceptoria \ Per ispìegare quest'
altro neologismo ( che ' praeceptorius \
supposta l'ammissione di esso in sostituzione di 'praecursorius',
sarebbe sempre un aggettivo di formazione
plinlanà , sul tipo dei precedenti aggettivi derivati da ' nomina agentis * in -tor) si ricorre do
alcuni commentatori di Plinio al contenuto dell'epistola di cui Si tratta ; e poiché vi si parla di '
praeceptores ', se ne trae la
conclusione che i praeceptoria epistula '
dovrebbe avere il significato di epistola concernente i precettori : interpretazione inesatta,
perchè nel passo cit. della Epist IV
13,2 non si accenna atìcora al concetto
di i praeceptores \ che viene in seguito , do
* V agg. • praecursorius ' fii adoperato nello stesso significato da
Amm. Marcell. Rer. gest. XXXI 3, 6; XV 1, £; **» e da Avrel. Cassiod. In psalt expos, p$a\m.
XXXIX 8; Variar. Ili epist. 51 (Migne, Patrolog.
cura., ser. I, tona. 70, col. 290 ; e
totù. 09, col. 606). Vedi A. Corradi , In C. Plin. Caec. Seeundum
obÈeruationes ad orationem uerborumque construetìonem et usimi pertinente*; Bergamo, frat.
Cattaneo, 1889; pag. té. Vedi anche il
lessico Forcellini-De Vit, tom. 4 (\%m), pag.78ì, col. l a e 2*. . « V. Aeschyl. SepL adii. Thtb. w. 80, 195,
SophòA. Antig. v. 108. * Gierig op. cit., tom. 1°, pag. 339, col.
1.* 51 pò che se ne rende avvertito il lettore con
le parole : ' prius accipe causas
rogandi \ Vi si accenna, invece, alla
fretta dell'autore ed a ciò che l'autore stesso avrebbe chiesto all' amico suo
Tacito, se fosse stato in presenza di lui.
Ma se si vuole accettare per genuina la lezione ' praeceptoria \ bisogna
darle il valore lessicale di ' praecursoria ', ricorrendo al verbo ' praecipere
' ( donde ' praeceptor ' e '
praeceptorius '), il quale per Cesare,
Livio, Lucrezio, Virgilio ed altri ebbe pure il significato di «
prendere prima, anticipare, prevenire ».'
5.° Dalla voce composta ' sacerdos % il cui secondo elemento si riattacca al tema del verbo '
dare ', Plinio dedusse il nuovo
aggettivo ' sacerdotalis ', che , in rispondenza alla sua origine, significa «
spettante ai sacerdoti, sacerdotale » : * Proximis sacerdotalibus ludis productis in commissione pantomimis \
EpisL VII 24, 6. E per ' ludi
sacerdotales ' si debbono intendere
quelli che davano i sacerdoti al loro entrare in carica. 2 Qui è necessario avvertire che abbiamo
conservato tra i neologismi pliniani la
voce ' sacerdotalis ', non ostante che
l'uso di tale aggettivo si sia notato 3 nella
frase di Velleio Patercolo II 124, 4: 'Proxime a nobi i Caes. De b. e. Ili 31, 2.-Liv. IH 46, 7; XXX 8, 9;
XXXVl 19, 9. Lvcret. De rer. nat VI 803 e 1048. Vero. Bel.
Ili 98.
Val. Flac. Argon. IV 341 (ma neir ed. aldina si legge 4 praeripiunt '). Stat. Theb. Vili 328; etc. * Sveton. io Ùiu.AuQUSt. 44 parla di Mudi
pontificale*;*. * la fotti, nel
Dizionario Georges-Calonghi, [Torino, 1896],
col. 2396, si trova notato il vocabolo ( sacerdotalis ' con l'autorità
di Plinio e di Velleio Patercolo. B lo stesso osservasi nelYAmf&hrL
Handtoorterb. del Georges, voi, 2.° [J880], col. 2183. _ so
lissimis ac sacerd-otalibus uiris desti nari praetoribus contigit '
(Halm) ; perciocché tanto nell'apografo di Bonifacio Amerbach , (il solo che ci
resti della storia romana di Velleio ;
che, cohie è noto , il codice
Murbacensis , scoperto da Beato Renano verso il 1515, si è perduto) , quanto nella ' editto
princeps ' di Basilea, 1520, la lezione accertata, è ' sacerdoti bus uiris '
: poi, per una congettura dello Scheffer
si sostituì a ' sacerdotibus' Y aggettivo ' sacerdotatibus \ Dopo Plinio, si dilagò l'uso della voce '
sacerdotalis*, massimamente negli scritti
ecclesiastici : ne abbiamo eziandio una
conferma in diverse iscrizioni, in luoghi
di Ammiano Marcellino e di Macrobio, ! in alcune costituzioni imperiali
raccolte nel Codice Teodosiano, 2 etc.
B. Plinio ricorse ai temi dèi
verbi ' haesito ' e ' monstro ' per
formare i due nuovi aggettivi i haesitabundus ' e ' monstrabilis '. l.° ' Haesitabundus ' ha il significato del
participio presente ' haesitans ', che
vale « esitante, dubbioso, confuso » : ' Expalluit notabiliter, quamuis palleat
semper, et haesitabundus « interrogai^,
non ut tibi nocerem, sed ut Modesto » '. EpisL I 5, 13. 2.° L'altro aggettivo verbale fc
iiionstrabilis' è sinonimo di ' insignis, illustris % e significa « notevole,
cospicuo, illustre, insigne, chiaro » : 'Est enim probitate i Amm. Marcell. Rer. gest. XXVlII 6, 10.
Màcrob. Saturn. Ili 5,6. Vedi inoltre i
lessici Forcellitii-De Vit (toni. 5 [1871], pag. 288, col. 2 a ),
Freund-Theil (toro. 3 [ 1865 ], pp. 143-144),
Georges (voi. 2° [1880], col. 2183).
* Cod. Tkeodos. XII 1, 145; XII 5, 2; XVI 10, 20
(Haenei). morum, ingenii elegantia,
operum uarietate monstrabilis'. Epist. VI 21, 3. ' C. I
nuovi aggettivi composti, che appariscono per
la prima volta negli scritti di Plinio, hanno la maggior parte per primo
elemento componente la particella negativa ' in- : due soli sono formati con la
particella 4 per- premessa, ed uno con la particella ' prò- \ a) È stato giustamente osservato che nella
latinità argentea, per amor di vivezza
nei contrasti, si preferiva formare l'antitesi di un aggettivo col
premettere allo stesso la particella
negativa 'in-', invece di accompagnare all' aggettivo V avverbio ' non ' o di
ricorrere a eleganti circorìlocuzioni, come l'uso prescriveva neir età aurea della prosa latina. Plinio non
si allontanò dal gusto prevalente ai tempi suoi, e, oltre all'accettare P uso
di aggettivi in tal modo formati da scrittori suoi contemporanei, egli stesso
ne formò altri sette, premettendo la particella negativa, 'in-' a due aggettivi
semplici ed a cinque aggettivi composti.
aa) 1.° L'aggetti vq ,299), * ob
die sogenannten senteutiae Varronis
Varronisches enthalten ist ganz
unsìcher*. * Cic. Tusc. diap. Ili 34,
81 ; De legib.h 11, 32. Vero. Georg. IV
94; Aen. IX 548.- Stat. Theb. IX, 109.-Tac. Agr.9; Ann. XII 14; Hiat. 1.» ' Incongruens ' significa «
inconseguente, incongruente, disconvenevole *. Plinio se ne valse nel seg.
passo: ' Quibus sententi^ Caepionis placuit, sententiam Macri ut rigidam durjimque reprehendunt:
quibus Macri, illam alterarli dis^olutam atque etiam in congruente ni uocant \
Epkt. IV 9, 19. l 2.° D3II0 stesso
modo, per indicare ' qui non reueretur \ « chi ha poca stima, i' irriverente »
, il nostro autore premise la
par(,ic3lla negativa ' in- ' al partieir
pio presente del verho ' re-uereor ', e die origine al neologismo * inreuerens', che si legge nel
luogo se^ guente: ' Sum enim deprecatus
ne quis ut inreue^ r e n t e m operis
arguepet, quod recitaturus \ Epist. VIH
21, 3. 2 Non nuoce alla nostra
osservazione sul neologismo pliniano '
inreuerens ' il considerare che nel cod, M si
trova la lezione ' ut inreuerenti ', perchè la differenza del caso, importante senza dubbio per V
ordine sintattico della frase, non contrasta al valore lessicale della parola.
1 A. Gell. Noci. AH. XII 5, 5 continuò V uso dell' aggettivo * iucou^ruens ' ; e Avhkl. Avgvst. De don,
perseu. 22, 01 (M-~ gne, Patrolog.
eurs., §gr, }, tom. 45, col. 1030; 1' accolse n$Ua forma del grado superlativo. Vedi per altri
esempi presentati da Lattanzio il
Georges, Ausfùhrl. Handwòrterb., voi. 2° (1880)
coi. 133. * Aleute tracce della
continuazione dell* uso dell'agg. ' tnre-*
uerens ' troviamo in Ael. Spartian. Carae. 2, 5 (secondo il Peter); e particolarmente in Flou. Tertvll. De orai.
16; Ad nat. I 10; Aduers. Mare. II 14
(Migqe, Patrolog. cura., ser. I, tom. 1 , col.
1173,575; tom. 2, col. 302). Vedi altri esempi nei lassici ForcelUni-Da
Vit (tom. 3 [1865], pag. 623, col. 2 J ), e George* (voi. 2' [1880], col. 381). Dàlia forma participiale ' ascensus \
premessa la particella negativa ' in- ',
si è formato ' inascensus ', che vale «
non prima salito, dove nessuno è salito »,
e perciò « inaccessibile ». Plinio se ne servì per il primo nel Pan. 65,
3: 'Inascensum illum superbiae principum
locum terere\ Nel riferire il passo di Plinio
abbiamo seguito la lezione presentata dai codd. d, e; poiché la lezione
' inaccensum ' del cod. d non pare che possa adattarsi, per contrasto di
significato, alle seguenti. parole della
frase citata : ' illum superbiae principum locum \ Non contrasterebbe al
concetto di tutta la frase la congettura
del Lipsius, per la quale si viene a sostituire al neologismo ' inascensum ' la
voce ' inaccessum ', usata da Virgilio e
da altri x ; ma sarebbe grave errore posporre la lezione genuina data da codici
autorevoli, la quale non contrasta col senso dell' intera frase, ad una congettura, per quanto questa possa
apparire più gradita all' interprete e
sia proposta da un filologo
insigne. 4.° Nel seguente periodo
del Pan. 4,7:' Iam firmitas, iam proceritas corporis , iam honor capitis et
dignitas oris, ad hoc aetatis i n d e f 1 e x a matur itas nec sine quodam munere dèum festinatis senectutis
insignibus ad augendam maiestatem ornata caesaries, nonne longe lateque principem ostentant ? ' presentasi l'aggettivo nuovo ' indeflexus ',
che risulta dall'unione della particella
negativa ' in- ' con una forma participiale del 1 Vero. Aen. VII 11 : Vili 195. Senec. Herc. '[furens]
606.Sil. Ital. Pun. Ili 516. -Plin. sen. Nat. hist
VI 28 (32), 144; XII 14(30), 52. Tac.
Hist IV 50; e altrove. Poi Macrob. Saturn. V 17, 7 ; etc. Sì
verbo ' de-flecto \ E però ' indeflexus ' significa « non piegato » ; e, riferendosi ad ' aetatis
maturi tas ', assume il significato di « non indebolito » , non mai di « invariabile », come inesattamente qualcuno
interpreta.? Il Beroaldus, forse per
evitare il neologismo, ha sostituito nel testo di Plinio a ' indeflexa '. la
voce ' inflexa ', senza avvertire che V uso ha determinato un valore non
negativo alla particella ' in- '• preposta al verbo ' flectere '. E, di fatto , Ivvbkal. Sii i 1, & t Vlfiak in Din XXkVll 11, 4 Cfr. Porphyr.
Hor.epist 1 20, IO, citato dui Georges
ne\Y Amfùhrl Handworterb., voi. 2°
(18S0), col. 1212. * Vedi Cic.
De orai II 80, 325; Pro Cluent 21, 58; De legibtt* Il 7, 16; Epint ad Ali. IV
16a, 2; XVI 6, 4; etc. che consideriamo,
si spiega con la forma mediale del verbo
greco corrispondente. l 2.° Dal tema
della voce ' uber ', passato par il tramite di * ubertas ' o di * ubertus \ *
Plinio formò il verbo l ubertare ', avente il significato di « fecondare,
fer* tìlizzare, rendere fecondo o
abbondante » : * * Et caelo quidem
ftumquam benigni tas tanta, ut omnes si nini ter-* ras u b e r t e t foaeatque \ Pan. 32 , 2.
Tale è la lezione del cod. A ; ì codd. d, o, d presentano la lezione i uberet %
che sì adatta anche bene al concetto che
Fautore volle esprimere nel luogo citato del Panegi^ fico. Ma il verbo * uberare ' non può èssere considerato
come un neologismo introdotto da Plinio , poiché Puso del Verbo 'uberar^' è
stato accertato in Columella 4 ; ed è noto cbe Columbia fu contemporaneo 1 L* uso del verbo ' prooemiari ' fu
accolto poi da Ivl. Victv Are rhet 15,
(nella ed. Orelli delle opere di Cicerone [1833], voi. 5, parte 1", pag. 244); da Apollin.
Sidon. Epìst. ad Ma* meri Claudian.
(Migne, Patrolog. curs. t aer. I, tom. 53, còl 781). Vedi A. Corradi op. cit., pag. 35, nota. « L'aggettilo 'ubertus' ha per sé l'autorità
di &.Oell. Noci. Att VI (VII) 14, 7.
Non teniamo contò d*un passò di Solfilo fcl,
& ' solo pla&ò u b e r t o q u e ', presentato dal òod*
Aogetomom I, 4, 15, e dal feod.
Sangallòns. 187, ma rifiutato dal Motnttisert
òhe sì avvale deli* autorità di altri codici : il óod. Parisin» 68
te presenta invece : ' Pannonia solo
planò uberiqufe '. • Riappare molto
tardi il verbo * ubertare ' in Evmén. Ornilo*.
aetio Cbnstànlino Aug. Mauienèium nomine, 9: ' Agros diuturno ardore sitiòntes expetitus uotis imber u b e
r t a t ' • ( Mìgae» Pdtrótog. extra. , sar. I, toni. 8, col. 649). * Colvm. De re rtist. V 9, 11. Vedi atìcbe
Pallad. De re rud. X! fòatòber) 8, 3. 64 -~
di Seneca il filosofo, è scrisse i suoi libri prima di Plinio il
vecchio. * B. Di verbi nuovi, composti con preposizioni,
Plinio ne presenta soltanto quattro : ' indecere, defreraere, interscribere, pertribuere '. Li
considereremo successivamente come sono stati enunciati, secondo P ordine della lettera iniziale del verbo semplice. , -1.° Il verbo ' indecere _' significa «
sconvenire* essere disdicevole, star
male ». Non pare che Plinio sia stato il
primo ad usarlo, tuttoché negli scritti di lui si osservi per la prima volta la
forma verbale ' indecent \ In fatti,
tanto la forma participiale ' indecens ', adoperata in senso di aggettivo,
quanto la forma avverbiale 6 indecenter
' si trovano negli scritti dei contemporanei
di Plinio. - Il passo pliniano che presenta il verbo ' indecere ' è il seg. ': ' Nam iuuenes
confusa adhuc quaedam et quasi turbata
non indecent'. Epist. Ili 1, 2. * I cQdd. M e V danno nel passo citato la
lezione Mndicent', la quale non si adatta al concetto che informa 1 Thuffsl-Schwàbe, G. d. r. L. », a. 293,
pag. 713, • Per la voce ' indecens ' v.
Vitrvv. De arch. VII 5; Patron. Sai.
128, 3; Qvintil.- Imi orai. XI 3, 158; Martial. Epigr. II 11, 4; V 14, 7; XI 61, 13; Svlton. Diu.
Claud. 30. Per Taw, 4 Indecenter' v.
Qvintil. ìn$L orati 5, 64 ; Martial. Epigr. XII
22, 1 ; etc. ; e per la forma superi. * indecentiesime ': Qvintil. Imst. orai. Vili 3, 45. Cfr V Antibarb. del
Krebs , y. 'indaoere'. * Osservasi il v
rl>^ ' indecere * nel seguente luogo di A, G 4 bll. Noci. AtL VI (VII) 12, 2. ( Feininisque solis
uestem longe late-. que diffu?am in dece
re existimauervint ad ulnas cruraque
aduersus oculos protegenda ' (ed. Hertz: ma sbcondo la ' lectio Gronouiana ' é da leggerti 4 decorarti * i a
vece di ' indec^re '). 65 il periodo, e nemmeno corrisponde al verbo
della proposizione seguente ' conueniunt '. È necessità, dunque, accogliere il
neologismo ' indecent ' per non cadere in una
dissonanza sintattica e in una stortura del senso del periodo. 2.° Il seguente luogo di Plinio, letto
secondo il cod. M: ' Ego et modestius et
constantius arbitratus immanissimum reum non communi temporum inuidia, sed
proprio crimine urgere , cum iam satis primus ille impetus defremuisset et
languidior in dies ira ad iustitiam redisset, .... mitto ad Anteiam ' etc.
Epist IX 13, 4; ci ha dato argomento di notare tra i
neologismi pliniani il verbo composto '
de-fremere % che vale « cessar di fremere »*. Ma la lezione ' deferuissèt \
presentata dal cod. D e dalle edd. p f a, e P equivalente lezione '
deferbuisset ', data dalle edd. prealdine del Laetus, del Beroaldus e del
Catanaeus, non sono da trascurarsi , poiché il verbo ' deferuescere ' ( '
déferuere '), che significa « cessar di
bollire, finir di fermentare », e, in
senso traslato, « sbollire, quietarsi, calmarsi », si adatta meglio ad esprimere quello sbollimento
d' ira, quella calma succeduta allo
sdegno, che Plinio accenna in modo non dubbio con le frasi : ' primus ille
impetus', ' languidior in dies ira', ' ad iustitiam redire', 2 i Ne vediamo continuato l'uso da Apollin. Sidon. Epp.l 5; IV 12; IX 9 (Migne, Patrolog. eurs., ser. I,
tom. 58, coli. 455,518, 623
). V. i lessici Freund-Theil (tom. 1° [1855], pag. 753) e Georges (voi. 1° [1879J, col 1860). 2 Nel Dizionario Georges-Calonghi non è
notato il verbo 20. >•** Cfr. V 6, 21 e 6, 27. 2.° ' Cohors ', come termine tecnico
militare:, valse a significare la decima
parte di una legione , oonteaente tre '
manipuli ' o sei ' centuriae ' ;, si: ebbe anche il significato di « schiere
ausiliarie » : ma in tutti e dite
significati si riferì sempre ai soldati di fanteria- o pe* doni (' pedites '). Plinio riferì anche '
cohors ' alla cavalleria (' equites '), scrivendo: ' P. Accio Aquila,
centurione e o h o r t i s sextae equestris'. Epist. X 106 (107). Ma nell& risposta dell' imperatore
TrAittno st? li l Colvm. De re rust. X
362 ; XI 2, 30. renio (Epist X 107
(108): ' Libellum P. Aedi Aquilae, centurionis sextae equestris) , la voce '
cohortis ' è evitata , come ben si
osserva nella ed. A: per una congettura del
Beroaldus si legge la voce ' cohortis ' premessa alle parole ' sextae
equestris ' nel testo della cit. epistola di
Traiano. Donde s' indusse Plinio
ad associare il concetto di ' cohors '
con quello di ' equites ' ? Probabilmente non
dall'essere in quella sesta coorte commisti insieme cavalieri e pedoni ,
come suppone il Lagergren , riepilogando l'opinione del Forcellini l , (che
militarmente ciò avrebbe prodotto una
dannosa confusione), ma dalla necessità di dare un termine adatto ad una parte
dell' i equitatus ' , ricorrendo , per somiglianza di ordinamento militare, ai
nomi delle divisioni della fanteria.
Cicerone aveva, però, ben chiaramente distinto 1' i equitatus' dalle
'cohortes'. 2 3.° ' Species ' nell' uso
della latinità aurea ebbe o il
significato attivo di « vedere, guardare », o quello passivo, di «
aspetto, apparenza, figura, imagine ». Plinio
se ne valse per significare « ipotesi, caso particolare », facendone un sinonimo di ' casus ' ; e con
tale significato, trasmesso per tradizione, la voce ' species ' si conservò nel
linguaggio dei giuristi. 3 Nei seguenti passi di Plinio abbiamo la conferma del nuovo
significato del sostantivo ' species ' :
' Nam haec quoque species in 1
Lagergren, op. cit, pag. 74. Vedi il
lessico ForcelliniDe Vit, tona. 2° (1861), pag. 264, col. l. a * Cic. Pro M. Marcello 2, 7 ; EpisL ad fam. XV
2, 7. 3 Vlfiàn. in Dig. cidit in
cognitionem meam\ Epist. X 56 (64), 4.
' Mox ipso tractatu, ut fieri solet, diffundente se crimine plures s p e e i e s inciderunt \ Epist. X 96
(97), 4. Per quale tramite sia venuta
la significazione di ' species ' adottata da Plinio, non può dirsi con
certezza. Tuttavia F essersi indicato da
Cicerone e da Varrone 1 con la voce '
species ' anche le « specie di un genere »
ci dà una probabile spiegazione; poiché, essendo le specie come i casi
particolari di un genere , si rendeva
non difficile il passaggio dalla significazione di « specie » a quella
di « caso ». 4.° La locuzione
particolare ' uenia sit dicto *, usata
tra parentesi, la quale corrisponde alF espressione italiana « sia
permesso di dire, sia detto con permesso,
mi si permetta di dirlo », è dovuta a Plinio : ' Vsque adhuc certe neminem ex iis quos eduxeram
mecum (uenia sit dicto) ibi amisi. Epist
V 6, 46. Dal passo citato si presume che
Plinio abbia fatto uso della locuzione *
uenia sit dicto ', per allontanare da sé
r ira degli dei, che, secondo la credenza popolare romana, F avrebbe
colpito , se egli immodestamente si
fosse vantato. In un altro luogo per esprimere lo stesso concetto, in
proposito di una convalescente da grave
malattia, Plinio scrisse la frase ' inpune dixisse liceat' (Epist Vili 11, 2. 2 B. I
nomi sostantivi di fonte verbale, che si ebbero da Plinio un significato nuovo,
sono un ' nomen i Cic. Top. 7, 30 ;
De ìnuent. I 27, 40. Varr. Rer. rust. Ili 3,3.
s Lagergren, op. cit., pag. 75,
78 agenti» ' in rsor e quattro '
nomina actioois' in -Ho o l.° Il nome '
mensor ', dal verbo i metiri *, si ebbe
da prima da Orazio il significato di « misuratore », in generale. 1 Poi Ovidio e Columella ne fecero
un sinoniBM eli . ' deeempedator \ cioè « misuratore dei eampi, agrimensore ».* Plinio attribuì alla
voce ', ehe Quintiliano adoperò al singolare*
col significato di « annotazione^ nota »
; 4 ma Plinio, usandolo al plurale, attribuì ai vocabolo il significato di «
osservar ùonì scritte al margine di un
libro > : ' Nuno a te Mk brum urmmn
cum adnotatioaibiis tuis expecto.'
ìiptet; VK 30, & 3.° Il
sostantivo ' excursio ', considerato come temniiie 1 HoaAT. Carnkn l. 28, % Cfr Mauxuiì, Epigr. X 17> & t Ovid. Metam. I 106. Col vm. V l. Cfr. per
'deeempedator* Cic. Philip. XIII 18,37. 3 V. in proposilo l'osservazione del Gbsner,
cit, da A. Corradi, pagi 3& *
Qvintil. Imi. orai X 7, 31. tecnico
Al cose militari, valse ad indicare, fla dall' età aure^ cjell'idiopia Latino, la sortita da una
città ( f eruptio ') *, la scorreria (• discursio milHaris ') 2 e la
soarawucci$ (' prima incursio militaris 'X 3 Plinio per il pripjo attribuì al
vocabolo il significato di qualsivoglia
4 qp#r$a, gita, scappata in paese »: ' An, ut solebas, Uttaglione rei
farai liaris otoeundaei crebris excursiouibus
a^acaris ? \ Epist. I 3, 2. Del resto , noa è estraneo fi tale accezione della voce ' excprsio ' V uso
cjke in pi» Jpogttf Plinio stessa fece
del verbo * excurrere \ dwde * excur^Q.
\ per indicare de' viaggi intrapresi : ' Gnpa
juiblicufp opus m,ea pecunia inchoaturus in Tuseos e,]fcuciirrUsera.' Epist III 4,2. 'Destino eròe», si tamen offlcii ratio permiserit, excurrere
isto \ ffeist. JII 6, 6. ' Nunc uideor commodissime . po&K»
in rem praesentem excurrere.' Epist X 8
(24), 3* 4 4.° Nel periodo della
latinità aurea il nome ' ppaeeeptip ' significò « precetto , insegnamento * , e
aocihe « preconcetto, pregiudizio ». 5
Plinio attribuì a ' praeceptio ' il significato di « prelevamento o
prelevazione » di parte di un'eredità
prima degli altri coeredi: 'Saturninas autem, qui nos reltquit taeredes,
quadrantem rei publicae nostrae, deinde
prò quadrante praeceptionem quadringentorum milium dedit'. Epist V 7,1.
t Cabsl P* k a II 30, 1. « Cic.
De prou. cons. 2,4; Pro * Deiói 8, 2& Liv. XXX VII 143.
3 Usl XXX 8, 4 ; 1 1, a XXX VII 18, 4.
4 II, giureconsulto Scovala conservò il significato pliniano di 'e;xpursp/ u^Dig. XXXIII 1, L3, in fine. 5 Cip. Pari orai. Con ciò Plinio si attenne
più da vicino alla fonte della parola,
che è il verbo ' praecipere '=« prendere innanzi, prendere prima »; talché,
invece di dare un significato nuovo al nome ' praeceptio ', restituì allo
stesso il valore lessicale originario
che, a poco a poco, si era modificato
nell'uso: tanto più che Plinio stesso usò il
verbo ' praecipere ' nel significato di « ottenere prima, percepire innanzi , prelevare da un' eredità
» , come osservasi in Epist, V 7, 1 ; X
75 (79), 2. Nella lingua dei
giureconsulti romani la parola in esame
conservò sempre il significato anzidetto; e. si
diede appunto la qualità indicata dall' aggettivo ' praecipuus' a quella
parte di eredità, prelevata, che non
entrava nella divisione dell' asse ereditario; 1 mentre * praecipuum ' sostantivato aveva avuto
presso Cicerone il significato di «
preminenza, eccellenza, vantaggio ».*
5.° ' Praesumptio ' non fu voce accolta nella latinità aurea. 3 Plinio l' usò nel senso di «
godimento prema 1 Vlpian.ìii Dig.
XXXIII 4,2. Papinian. in Dig. XL 5,23, § 2;
XXXI 75 e 76. Cfr. Apollin. Sidon. Epist. VI 12 (Migne, Patrolog. cur8.
% ser. I, tona. 58, col. 560-561). Del resto, tale uso può considerarsi come una conseguenza del
significato attribuito fin dai tempi
antichi all' espressione ' pars praecipua ' o ' res praecipua'. Vedi Plavt. Rudens 188-189;
Terent. Adelph. 258. * Cic. De finibus
II 33, 110: 'Homini.... praecipui a natura nihil datum e3se diceraus ? ' 8 Leggevasi in un luogo di Cicerone, De
diuinat. II 53, 108 : 'Praesumptio
tamen.... non dabitur*. Ma in realtà i codd.
Leidens. Voss. 84, Leidens. Voss. 86, Leidens. Heins. 118, Vin 189 dobon. 2Qjr danno concordemente ' praesensio
', invece di * praesumptio \ Il Pearcius vi sostituì, per mera congettura, la
voce 81 turo, uso prematuro », facendone quasi un
sinonimo della voce ' praeceptio \ Ma,
nell' assegnare al nome ' praesumptio '
tale significato, Plinio si allontanò dall' uso che ne fecero i suoi
contemporanei. Quintiliano , in fatti, P
adoperò come termine di retorica, per indicare la figura ' prolepsis \ 1 D'
altro canto , Seneca 2 e poi Giustino ed
altri 3 attribuirono alla voce ' praesumptio ' il significato di « speranza,
fiducia , aspettazione , opinione ».
Plinio, invece, conservò alla voce il significato più vicino all' etimologia della
stessa (' prae ' e 4 sumere '), cioè «
uso o godimento anticipato » , equivalente perciò , come dicevamo sopra , a quello
del nome ' praeceptio ', ma non
facilmente assimilabile , come suppone
il Lagergren 4 , al significato della voce
' anticipatio ', che per Cicerone vale « prenozione, prenotizia, idea
anticipata ». 5 La conferma del
significato pliniano del sostantivo '
praesumptio ' è data dai seguenti luoghi : ' Rerum ' adsumptio' : lo seguirono il Christ
(nella 2. a ed. Orelliana, Turici, 1861; voi. 4, pag. 554), il Nobbo (Lips.,
1850, pag. 1162, col. 2. a ) ed altri. i Qvintil. Inai. orai. IX 2, 16 ; 2,
18. 2 Senec. Episi. mor. XIX 8 (117),
6. Cfr. A. F. Rosengren , De elocut. L.
Annaei Seneeae commentano; Upsaliae, Wahlstròm (senza data della pubblicazione,
ma è, probabilmente, del 1849-1850),
pag. 38. s Ivstin. Epit hist Phil III
4, 3. Spartian. Hadr. 2, 9. Si valsero anche della voce * praesumptio ',
in significato simile, i giureconsulti Papin. in Dig. XLI 3, 44, § 4, e Vlpian. in Dig. XXIX 2, 30, § 4; XL 5, 24, § 8; XLIII
4, 3, § 3; etc. * Lagergren, op. cit.,
pag. 57. ' s Cic. De nat deor. I 16, 43; 17, 44. Consoli II Neologismo Pliniano, 6 82
quas adsequi cupias praesumptio ìpsa iucunda est'. Epist. IV 15, 11. ' Ego beatissimum esistitilo qui bonae
mansuraeque famae praesumptioDe perfruitur certusque posteritatis curii futura
gloria uiuit '. Epist. IX 3, 1. Il significato attribuito da Plinio al nome
' praesumptio ' si deve non al dotto arbitrio dì autorevole scrittore, ma all'
efficacia che Bull* accezione di ; praesumptio ' esercitò, con molta
probabilità, V uso che lo stesso Plinio
fece del verbo ' praesumere ', accostando al significato primitivo di «
prendere prima » anche i significati di « adempiere prima, porre prima,
pregustare », che risultano dai segg.
esempi: Epist. II 10, 6; III 1, 11; VI
10, 5; Vili, 11, 1; Pan. 79, 4. C. Quanto al significato dei grecismi ' cataracta
, paedagogìum, sipo ', Plinio presenta
delle novità che ' ne presso gli
scrittori dell' età aurea, né presso i contemporanei di lui ci è dato
osservare. I.° ' Cataracta ' o '
cataractes ' servì ad indicare, per
antonomasia, le cascate o cateratte del Nilo. ■ Livio se ne valse per denotare le « saracinesche »
alle porte delle fortezze. ! Plinio,
invece, indica con ' cataracta ' o •
cataractes ' la « chiavica o cateratta » che è nei fiumi por reggere il corso dell'acqua: 'Si nihil
nobis loci i Vitrw. De arch. Vili
>. Sknkc. Nat. quaest. IV 2, A. I'lin. sBN.'jVflt hit!. V 9 (IO), 54 e 59. * Liv. XXVII 28, 10 e 11. Cfc Vboet. Epit rei mil. IV 4. Lo slesso significato notasi in Plvtar.
Anton. 76, 2 : cfr. anche dello stesso Plutarco Aratus 26, 1. 83
natura praestaret, expeditum tamen erat cataractis aquae cursum temperare. ' Epist X 61 (69), 4.
l 2.° La latinità classica non si avvalse del grecismo 4 paedagogium ' 2 : cominciò a servirsene la
latinità argentea. Svetonio con la frase ' ingenuorum paedagogia ' alluse alla sfrontata prostituzione e
seduzione dei tempi di Nerone, se pure
nel testo svetoniano non si voglia
preferire alla lezione ' paedagogia ' l'altra lezione 6 proagogia. 3
Seneca e Plinio il vecchio indicarono con ' paedagogium ' , per metonimia , i
fanciulli educati in un istituto, ossia
la scolaresca. 4 Ma Plinio il giovane restituì a ' paedagogium ' il significato
di luogo o istituto dove erano educati i fanciulli destinati ad impieghi o
uffici superiori : ' Puer in paedagogio mixtus
pluribus dormiebat. ' Epist VII 27, 13.
L' etimologia mista greco-latina della pretesa voce ' paedagium ', la quale fu accolta dalla ed.
p nel luogo cit. dell' epist. pliniana,
potrebbe solo tentarsi per ispie-, gare
una parola nuova che dai codici concordemente
si attesti essere stata usata dal nostro autore, come, per es., la voce ' cryptoporticus ' ; ma si deve
sempre rifiutare, quando con essa si voglia tentare V accettazione 1 Cfr. Rvtil. Nàmàt. Dered. suo I 481: '
Tum cataractarum claustris excluditur aequor * (Baehrens, Poetae Latin,
min. voi. 5°, pag. 21 : ma nel cod.
Vindobon. 277 (387; si accoglie la
grafia ' catharactarum '). *
Vedi per il significato della voce greca considerata: Demosth. Orai, de corona 258 (313, 10-12) ; Plvtar.
Pomp. 6, 2. 3 Sveton. Nero 28. * Senec. Dial VII {De uita beata) 17, 2 ;
Dial. IX (De tranquii animi) 1, 8; Epist mor. XX 6 (123), 7. Plin. sen. Nat hist XXXIII 12 (54), 152, 84
di una parola che non è accolta dai codici né registrata nei lessici, ma soltanto proposta come
congettura d'interprete. Molto meno si può fare buon viso alla congettura del
Lipsins ', che, movendo dal presupposto che
' paedagogium ' dovesse riferirsi soltanto alla riunione degli alunni, non mai al luogo della
riunione, voleva sostituire la
espressione ' puer e paedagogio ' alla lezione data dai codici ' puer in
paedagogio '. 3." Il grecismo '
sipo ', che vale « corpo vuoto o cavo,
sifone », penetrò nella lingua latina dopo 1' età di Cicerone -; e se ne valsero gli scrittori
dell'età argentea per indicare « sifone , canale, pompa per alzar 1' acqua », oper termine di confronto a cosa
somigliante 1 Ivsti Lipsi Ad Annales
C. Taciti liber tommentarius, Parisiis, N. Buon, 1606; pag. 236, Ad librum XV
Ann.: ' Vides ergo ubique paedagogia prò
coetu et quasi collegio puerorum. prò loco non accipiò, ne epud Plinium quidem
lib. VI] epist. « Puer io paedagogio
mistus pluribus dormiebat ». rescriboque : « Puer e paedagogio >. intellegit
enim puerum paedagogianum'. » Si è
preteso riconoscere la parola 'siphone' iu un luigodi Lucilio, cit. da Cic, De flnibusll 8, 23; ma
lalezkmu é incerisi Il cod. Palat., ora
Vatic. 1513, presenta 'hirsizon'; l'altro cod
Palat., ora Vatic. 1525, presenta 'hrysizou': gli altri codd. , come il More)., 1" Erlang. 38, il
Vratisl. IV F 180 danno ' hirsiphon". Nella 1" ed. dell' Orelli, del
18;8, si legge ' hir sìpliovo '; e quasi
consimile lez. ' fir siphoue' si osserva in quella del Medvig. L' Ernest! la trasformò a
dirittura in ' si pitone ' ; ma 11
Bailer (2* ed. Orellian», Turici, 1861, voi. 4', pag. 103} la, restimi alta Torma 'hirsizon', data dal 1°
cod. sopra cit. del secolo XI. A noi parrebbe meglio conservarsi la lez. del
cod. Vatic. 1525, ' hrysizou ' p. ' hrysiazon ', part. pres. del verb')
greco rhysiàio, Torse 'rhysizo. Ma, in
tanta incertezza, nulla si può affermare che rispanda sicuramenle al vero. r
85 al sifone K Plinio se ne
servì , attribuendo alla parola il
significato di « tromba da incendio », e venne così a determinare in un caso particolare il
significato generico di « tromba per
acqua » : i Alioqui nullus usquam in
publico sipo, nulla hama, nullum denique
instrumentum ad incendia compescenda \ Epist. X 33 (42), 2. 2 Ma è probabile (e, nell'incertezza
della conclusione, ci siamo indotti a notare la voce i sipo ' tra i neologismi
di fonte pliniana) , che Plinio non sia stato il primo a designare con ' sipo ' la tromba da
incendio ; perocché il retore Musa,
citato da Seneca il retore 3 , con la
frase 'caelo repluunt ', detta in proposito dei sifoni, accenna al significato in generale di tromba
che schizzi l'acqua in modo che questa,
ricadendo in forma di pioggia, sembri che ripiova dal cielo. 4 Sez. II.
Altre parti del discorso.
A. In due soli aggettivi ci è
stato dato di osser 1 Senec. Nat. quaest. II 16. Colvm. De re rust. Ili 10; IX 14.-Plin. sen. Nat hist II 65 (66), 166; XXXII 10 (42;, 124. Ivvenal. Sai II 6, 310. * Anche Ulpiano accenna a ' siphones ' per
gli incendi in Big. XXXIII 7, 12, §
18. 3 Senec. rhet. Controuers. X
praef., 9. 4 Nel Dizionario
Georges-Calonghi, v. * repluo ', col. 2341, e
v. ' sipho ', col. 2500, si afferma ripetutamente, ma non sappiamo
renderci convinti del motivo, che da Seneca il retore si attribuì alla voce '
sipho ' il significato di (1880), col.
2412, e riferita contemporaneamente tanto al significato eine Spritze, quanto
al significato Feuerspritze. 86
vare che il significato attribuito ai medesimi da Plinio si allontana dal significato che si ebbero
nell'uso dell' età anteriore e in quello dei contemporanei di Plinio stesso. Tali aggettivi sono : ' octogenarius
' e ' otiosus \ 1.° L' aggettivo '
octogenarius ' fu da Vitruvio e da
Frontino adoperato a significare una misura. ' Plinio se ne valse per indicare « vecchio di ottanta
anni, ottuagenario, ottogenario »: ' Femina splendide nata , nupta praetorio uiro, exheredata ab octogenario
patre \ Epist VI 33, 2. 2.° L' aggettivo ' otiosus ', che significa
propriamente « ozioso, inoperoso,
disoccupato », ed equivale a ' uacuus muneribus ', soleva essere riferito anche
a cose inanimate, p. es. a tempo, età 2
, discorso, 3 etc. A questo uso si accostò Plinio, scrivendo: 'Per hos dies
libentissime otium meum in litteris conloco, quos alii otiosissimis occupationibus perdunt. ' Epist
IX 6, 4. Ma nessuno prima di Plinio
aveva riferito V epiteto di ' otiosae ' alle somme di danaro non date ad
interesse, ' non occupatae ' : ' Pecuniae publicae, domine, prouidentia tua et ministerio nostro et iam
exactae sunt et exiguntur; quae uereor
ne otiosae iaceant. ' Epist. X 54 (62),
1. Anche il giureconsulto Scevola
applicò alla ' pecunia ' non data ad usura la qualità di ' otiosa \ 4 i Vitrw. De areh. Vili 7 ('fistulae
octogenariae';. Frontin. De aqu. urb.
Rom. 58 : ' Fistola octogenaria diametri digitos X\ * Cic. Epist ad Q. fratr. Ili 8, 3 ; De
seneci 14, 49. 3 Qvintil. Inst. orai
Vili 2, 19; I ), 35. * Scabvol. in Dig.
XXII 1, 13, § 1: « Pro pecunia otiosa
usuras praestare debeat ' (Mommsen : ma nel cod, Florent. dei Digesta è scritto ' pecunia uitiosa '). Come si è già avvertito, Plinio fu parco d'
innovazioni quanto ai verbi. Egli, in fatti, attribuì significato non noto agli
scrittori dell' età anteriore , né , a
quanto appare, accolto dai contemporanei, ai tre verbi * exseri bere, per colere, prosecare ',
conservandoli sempre in senso
proprio. l.° La latinità aurea presenta
V uso di 'ex-scribere ' nel significato
di « trascrivere, copiare », ed anche nei
significato di « notare, registrare, mettere per iscritto ». 1 Plinio, invece, assegnò al verbo ' exseribere
' due signiAcati nuovi, 1' uno proprio e 1' altro figurato , che non troviamo negli scritti dei contemporanei di
lui. Il significato proprio , di cui ora interessa intrattenerci , (che, al suo tempo, tratteremo del verbo '
exseribere ' in senso traslato) è: «
dipingere, disegnare , rappresentare » : ' Herennius Seuerus, uir doctissimus,
magni aestimat in bibliotheca sua ponere imagines municipum tuo rum petitque
exseribendas pingendasque de legem '. Epist IV 28, -1. Donde tale significato
? È noto che ' scribere ' ebbe anche il
significato di «e disegnare, dipingere
». 2 Plinio il vecchio, a determi^ nare
meglio il lavoro di copiatura di una pittura, si valse del verbo ' transcribere \ 3 Appare probabile
quindi che Plinio il giovane,
attenendosi allo stesso ordine di concetti, meglio che della preposizione '
trans ' si sia servito della preposizione ' ex ', che esprime con maggiore esattezza l'idea di « trarre fuori, dedurre
», e, pre l Cic. in Verr. aet. see. II 77, 189. Varr. Rer. rust. II 5, 18. * Cic. Tu8c. dìsp. V 39, 113. Catvll. Carm. 37, 10. 3 Plin. sen. Nat. hist XXV 2 (4), 8: * Veruna ot indura falla* est colori bus...
multumqu 3 riamente significa « usatto,
piccolo socco, calzare leggiero », che si soleva portare dalle donne e dai damerini effeminati. Ma
poiché il socco era usato dagli attori comici per la rappresentazione della
commedia, e quindi, per figura metonimia, venne a significare la commedia, così
Plinio che, adoperando il linguaggio scenico , aveva chiamato una sua villa, presso al lago Lario, col nome '
comoedia ', ne indicò il sito basso, rasente il lido del lago, col diminutivo '
socculus \ Ecco il passo pliniano : ' Huius (lacus) in litore plures uillae meae, sed duae maxime
ut delectant ita exercent. altera inposita saxis more Baiano lacum prospicit, altera aeque more Baiano
lacum tangit, itaque illam tragoediam, hanc appellare comoediam soleo ; illam, quod quasi cothurnis , hanc ,
quod quasi s o e e u 1 i s sustinetur \
Epist IX 7, 2-3. La lezione ' oculis '
che, invece di ' socculis ', è data dal
cod. D e dalle edd. p, a, non ci pare in alcun modo attendibile, prima di tutto perchè vien meno
il parallelismo che l'autore vuol mettere in evidenza tra la villa chiamata ' tragoedia ' e quella che porta il
nome di 6 comoedia ' ; in secondo luogo,
perchè bisogna forzare il senso della
frase per supporre omogeneità tra ' sustinetur cothurnis ' e ' sustinetur
oculis \ Preferiamo, dunque, la lezione ' socculis ', che è presentata dal cod.
IH e dalle edizioni prealdine. 97
10.? Dicevasi propriamente ' sportula ', diminutivo di i sporta ', quel canestrino di cibi, che si
soleva dare dai patroni ai clienti,
allorquando questi si recavano da loro
per salutarli. In senso traslato, Plinio se ne valse per indicare quelle largizioni che per lo più da
autori, di poco merito si solevano dare
ai ' laudicene, per essere applauditi di
continuo da questi durante la recitazione
dei loro lavori letterari : ' Sequuntur auditores actoribus similes,
conducti et redempti: manceps conuenitur:
in media basilica tam palam sportulae . quam in triclinio dantur. ' Epist II 14, 4. . Pare che Quintiliano si sia accostato al
concetto di Plinio con l'avvertire che è
sconveniente per gli oratori ' inter
moras laudationum ' il * respicere ad librarios
suos,. ut sportulam dictare uideantur. ' l E da avvertirsi inoltre che
il nome ' sportula ' fu anche usato, in
senso traslato, dall' imperatore Claudio per indicare i « brevi giochi dati al popolo I sostantivi
di fonte verbale, innovati nel loro
senso traslato dal nostro autore , si possono ordinare così : a) ' nomina agentis ' formati col
suffisso -tor ; b) ' nomina actionis '
col suffisso -tion ; e) sostantivi
formati da temi di verbi per il tramite del tema del participio presente; d) sostantivi verbali
aventi diverso suffisso. a) Non molto è da dirsi dei quattro ' nomina
agentis ': i Qvintil. InsL orai. XI
3, 131. « Sveton. Diu. Claud. 21. Consoli
li Neologismo puntano*
98 * * debitor, frenator, gestator, reductor,
' che nei loro significati in traslato presentano tracce d'
innovazione. 1.° Il nome ' debitor'
significò propriamente « chi deve una
somma di danaro ad un suo creditore ». l
Accolto in traslato, indicò « chi è obbligato , chi è tenuto a qualche
cosa », la quale veniva espressamente
enunciata, per es. * uitae , animae , uoti, etc. ' 2 Plinio accolse tale significato del nome ' debitor
*, considerato in traslato, ma vi
apportò la novità di adoperarlo assolutamente , cioè senza indicazione della
cosa* per cui si restava obbligato : '
Cuius generis quae prima occasio tibi,
conferas in eum rogo; habebis me, habebis ipsum
gratissimum debitorem. ' Epist. Ili 2, 6. 2.° La voce ' frenator ' appare per la prima
volta nella latinità argentea, e
riferita sempre a cose materiali, per es. il giavellotto, 3 il cavallo. 4
Plinio lo riferì,, per traslato, ad
argomenti morali : ' Contemptor ambitiónis et infìnitae potestatis domitor et
frenator animus ipsa uetustate florescit. ' Pan. 55, 9. 3.° Quanto al nome ' gestator ', che
significa « portatore per guadagno, facchino », ed è perciò sinonimo di '
baiulus ' p ' baiolus ', voce usata da Cicerone 5 , Plinio lo riferì a un delfino che portava sul
dorso i figli : * Incredibile, tam uerum
tamen quam priora, delphinum gestatorem collusoremque puerorum in i Cic. De off. II 22, 78. Senec. De bene/. VI 19, 5. Modestia in Dig. L 16, 108. 2 Ovid. Ex Pon. IV 1, 2; Triti. I 5,
10. Martin Epigr. IX 42, 8.
3 Val. Flac. Argon. VI 162. 4
Stat. Theb. I 27.. 5 Cic. De orai. II
10, 40 ; Parad. IL-, 2, 23. 99
terram quoque extrahi solitum harenisque siccatum, ubi incaluisset, in mare reuolui. ' Epist. IX
33, 8. 4.° Il nome ' reductor ',
considerato in senso proprio, significa
« riconduttore, chi riconduce » : e in tale skgniflcato T usò Livio. 1 Ma
Plinio adoperò ' reductor '• nel senso
traslato di « restauratore » : ' (Titinius Capito) colit studia, studiosos amat fouet prouehit,
multorum qui aliqua conponunt portus
sirius gremium , omnium exemplum,
ipsarum denique litterarum iam senesceiitium reductor ac reformator. ' Epist.
Vili 12, 1. 6) I. quattro ' nomina
actionis ' : ' descensio , dispensalo , egestio , nutatio ', formati da temi
verbali , presentano le seguenti innovazioni nel loro uso traslato. l.° ' Descensio ' indica propriamente «
discesa, l'azione del discendere ». 2
Plinio ne preferì V uso metonimico per
indicare i luoghi stessi nei quali si discende per mezzo di gradinir 'Frigidariae cellae
conectitur media, cui sol benignissime
praesto est; caldariae magis : pròminet enim. in hac tres descensio nes, duae
in sole, tertia a sole longius, à luce
non longius. * Epist V 6, 26. Talché,
come bene avverte il Gierig , le ' deseensiones ' erano non le scale, ma '
lacus, in quos per gradua descendebatur.
' 3 i Liv. II 33, il. « Cic. De flnibus V 24, 70: ' Quem Tiberina
descensio, festo ilio die, tanto gaudio
ad feci t, quanto L. Paullum, cum regem Perseo captum adduceret, eodem flumine
inuectio?' (Citiamo il passo di Cic. secondo il ood. Palat. (Vatic) 1525 e la ed. Cratandrina del 1528; che, invece di
'descensio', si legge ' dissensio ' nel
cod. Morelian., e ' decursio ' nella prima ediz. dell' Orelli, 1828). 8 Giehig, op. cit., tom. 1°, pag. 409, col.
l. a . 100 Che Plinio sia stato veramente il primo ad
introdurre nella lingua letteraria tale uso metonimico della voce ' descensio
', c'induce a dubitare l'avvertenza del Nàgelsbach 1 , che soventi volte ad
alcuni casi mancanti nella flessione dei
nomi verbali in -us si suppliva coi
corrispondenti casi dei nomi verbali in -io. Or , tanto in Irzio 2 quanto in Virgilio 3 , trovasi
usato 'descensus' in senso metonimico di
« via che discende » : e se, come nota opportunamente il Lagergren 4 , ai casi
non usati della flessione di * descensus
' si dovette supplire coi corrispondenti
casi della flessione di ' descensio ' ,
questo nome non poteva non avere il valore metonimico di ' descensus ' ;
e quindi è assai probabile, sebbene non
si abbia alcuna prova diretta in conferma, che il significato metonimico attribuito a
'descensio' sia anteriore all' età di Plinio.
2.° In dipendenza dal significato fondamentale proprio del verbo ' dispensare ', che vale « pesare
esattamente, dividere o distribuire
proporzionatamente », il sostantivo verbale * dispensatio ' si riferì a cose
materiali, indicandone la distribuzione economica o l'amministra-zione o il
maneggio, per es; ' dispensatio aerarii 5 , annonae '* etc. Plinio riferì la
voce ' dispensatio % in senso traslato, anche a cose morali, scrivendo
all'imperatore Traiano : * Iulius... Largus ex Ponto nondunr mihi uisus
ac ne audi.tus quidem.... dispensationem i Naegelsbach, Lateinische Stilistik 3 ,
pag. 151 eg. « Hirt. De b. Gal. Vili 40,
4. 3 Vbrg. Aen. VI 126. 4 Lagergren, op. cit., pag. 56. 5
Cic. In Vatin. 15, 36. « Liv. X 11,9. Cfr.
IV 12, 10. 10Ì quandam ' mihi erga te
pietatis suae ministeriuniqùó mandauH. '
Epist. X 75 (79), 1. È probabile .che
la via per giungere al significato
pliniano della voce 4 dispensatio ' sia stata aperta dall' uso, accolto
da Cicerone e poi da Livio , Seneca ed
altri, del verbo 4 dispensare n riferito ad argomenti immateriali.
l 3.° 4 Egestio ', sostantivo nato dal
verbo 4 egerere '=» « portare fuori,
condurre via », è voce che apparisce per
la prima volta nella latinità argentea, col significato proprio di « trasporto
», ed anche, particolarmente, di « egestione, evacuazione ».* Plinio,
riferendolo per traslato ad 4 opes
publicae', ne fece un sinonimo di 4
effusfo ' di danaro, voce già usata da Cicerone. 3 Il passo di Plinio è il
seguente : ' Hoc tunc uotum senatus ,
hoc praecipuum gaudium populi, haec liberalitatis materia gratissima, si
Pallantis facultates adiuuare publicarum opum egestione contingeret. ' Epist.
Vili 6, 7. 4.° Il verbo 'nutare' fu
gradito ai poeti dell'età augustea : a Cicerone nemmeno dispiacque farne uso
nel senso traslato di « vacillare nel
giudizio, essere incerto » 4 . Ciò non ostante, il sostantivo verbale 4 nutatio
' non pare che sia stato accolto dalla
latinità . aurea. I contemporanei di
Plinio V usarono in senso proprio di «
barcollamento, vacillamento ». 5 Plinio, invece, Tado i Cic. De orai. I 3i, 142.-Liv. XXVII 50,
10; XXXVIII 47, 3. Sbnec. Dial. VI (Ad
Mare, de eonsol) 11, 1 * Sveton. Diu. Claud.O.
s Cic. Pro Rose. Am. 46, 134. 4
Cic. De nat. deor. I 43, 120,-Cfr. Tac. Hist. II 98; III 40; IV 52.
5 Srnkg Nat quaest. VI2, 6, Qvintil.
ln*t. orai. però in senso figurato, riferendolo a ' res publica ', per indicare «decadenza, rovina dello Stato»:
'Cogi porro non poteras nisi periculo
patriae et nutatione rei pùblicae. '
Pan. 5, 6. La nostra osservazione si
poggia sulla premessa che, nel passo
citato, la lezione ' nutatione ',' presentata dal Cuspinian. e dal cod. Liuineii, sia da
preferirsi alla lezione * mutatione ', che è data concordemente dai codd. A } 6, o 9 d. • e)
I due sostantivi verbali formati per il tramite del tema del participio presente sono 'audentia'
e 'instantia'. 1.° Il nome ' audentia '
non fu accolto dalla latinità aurea.
Nella latinità d' argento se ne fece uso per si' gnificare « arditezza, coraggio
», in dipendenza dal significato del verbo ' audere ', da cui proveniva. '
Ma Plinio trasferì: il significato di
'audentia' all'uso delle parole, per
indicare « ardimento -, audàcia nel dire »" : 'Si datur Homero et mollia uoeabulà et Graeca
ad leuitatem uersus contrahere, extendere, inflectere, cur tibi similis
audentia, praesertim non delicata sed necessaria, non detur ? ' Epist. Vili 4,
4. : 2.° Il sostantivo ' iftstantia ',
conformemente al verbo ' instare ', da
cui prende origine, significò « imminenza
immediata ». 2 Plinio attribuì ài vocabolo, che adoperò in traslato, due significati : a) « veemenza
del discorso »•* ' Habet quidem oratio
et historia multa communia , sed plura
diuersa in his ipsis quae communia uiden
1 Tac. Ann. XV 53; Germ. 31 e 34. Cfr. 'audentior' nei Deal de oratoribus, 14 (Halm ; ' ardentior * per
il Bàhrens) e in Qvintil. Inst. orai. XII 10, 23. * Cig. De fato 12, 27. 103
# tur haec uel maxime ui
amaritudine instanti e, illa tractu et
suauitate atque etiam dùlcedine placet/
Epist V 8, 9-10. b) «diligenza,
studio assiduo»: ' Quid est enim quod
non aut illae occupationes inpedire aut
haec instantia non possit efflcere ? ' Epist. IH 5, 18. Per il primo dei due significati predetti
Quintiliano si era. già avvalso
dell'avverbio ' instanter V d) Resta a
parlare dei tre sostantivi verbali: ' iadtwcatus, motus, retinaculum \ l.° La voce i aduocatus ' nei tempi della
Repubblica romana designò V uomo perito
nella conoscènza del diritto, che veniva chiamato a dare i suoi coitigli in
tòtano ad una questione giuridica da trattarsi dinanzi ai magistrati, e sosteneva poi co' suoi
suggerimenti e fcftft la presenza una
delle parti litiganti dinanzi ai wi&gl 1
strati stessi. 2 Neil' età imperiale * adiiocatufc ' tìivéhitè sinonimo di ' patronus causae ', cioè «
difensore o pà* trocinatore; causidico,
che assiste e conduce il pi*oc&&ò *.
E di questo secondo significato di ' aduocatus ' Plinio^ al pari de' suoi contemporanei 3 , ci
presenta àlquahtl esempi. 4 Ma Plinio
stesso attribuì anche alla voce ' aduocatus ' un significato in traslato ,
riferendola non & 1 QtfitffriL.
tnsì. orai. IX 4, 126: ' Vbicunque acriter erit, i nstànter, pugnaciter
dicendunT (Bonnell;. « Cig. Pro Sul.
29, 81 ; Pro CluenL 40, 110; De orai il 74,
301 ; De off. I 10, 32; Epist. ad fam. VII 14, 1 ; etc. 'Aduocatus ' per « aiuto » in genere, v. Pro
Caectaa 9, 20. 3 Qvintil. Inst. orai.
XII 1, 13. Sveton. Dia. Claud. 15 e 33.
Diàl. de oratoribus, 1. * Epist.
cause ò liti o questioni giuridiche, ma alla ' abstinentia ' : ' Id uero
deerat, ut cum Pallante auctoritate publica ageretur , Pallas rogaretur ut
senatui cederet, ut illi superbissimae
abstinentiae Caesar ipse aduocatus esset. ' Epist. Vili 6, 9. Quanto abbiamo osservato sul significato
pliniano della voce ' aduocatus ', considerata in traslato , non sarebbe
accettabile, se nel luogo citato, invece di ' Caesar ipse aduocatus esset', si leggesse, come si
suòle comunemente: ' Caesar ipse
patronus aduocaretur'. Così appunto è
presentata la lezione dall' ed. a, con la
ripetizione del pronome ' ipse ' dopo ' patronus ': ' Caesar ipse
patronus ipse aduocaretur '. 2.° Dalla
radice del verbo ' mouere ' col. suffisso -tu- si formò il nome ben noto ' motus ', che in
traslato, óltre ali! indicare « il moto
dèi sensi e 1' attività o energia dello
spirito, la commozione dell'animo, la passione », servì a significare « i motivi, le cause, i
moventi » di un dato divisamente. Plinio
fu il primo ad adoperare la voce ' motus
' in tale significato: 'Audisti consilii mei
motus'. Epist. Ili 4, 9. 3.° Il
sostantivo i retinaculum ', non discostandosi dal significato proprio del verbo ' reti nere ',
da cui deriva, servì ad indicare
qualunque oggetto potesse servire a
trattenere o a tener fermo; perciò, secondo i casi particolari ,
significò « cavezza \ gomena o fune 2 , briglia
o redina 3 , vimini pieghevoli per legare le viti 4 », etc. Plinio per il primo attribuì un significato
figurato alla i Horat, Sai I 5,
18. 2 Ovid. Metam. XIV 547; XV 696. 8
Vbrg. Georg. I 513. i Vbrg. Georg. I 265. 105 voce ' retinaculum ', per indicare « i
legami o vincoli morali della vita » : '
Adfuit tamen deus uoto, cuius ille
compos , ut iam securus liberque moriturus, multa illa uitae, sed minora r e t i n a e u 1 a
abrupit.' Epist I 12, 8. Nella stessa
epistola , § 4 /egli chiamò questi ' uitae
retinacula', in modo più diretto , * preda uiuendi,' come li aveva
detto, prima di lui, Plinio il vecchio ! ; ed
al § 3, li disse * uiuendi causae '.
C. I grecismi nei quali,
considerati in senso traslato, si nota l'innovazione pliniana sono due: '
cratér * e ' xenium '. 1.° ' Crater ', « grande coppa, cratere,
vaso da mescere », è un grecismo accolto nella lingua latina e latinizzato
nella forma ' cratera*'. Passò al senso traslato per P uso particolare che ne fecero i poeti,
per significare « voragine vulcanica V vaso per Polio » 3 , e anche una costellazione 4 , ete. Ma Plinio fu il
primo, e forse il solo, ad usare il
grecismo ' crater ' nel senso traslato
di « conca o bacino d' acqua » : ' Fonticulus in hoc, in fonte crater'. Epist V 6, 23. 2.° ' Xenium ' rappresentava, secondo
l'etimo greco 5 , il dono ospitale,
fatto, cioè, agli ospiti o ai commen 1
Plin. sen. Nat hist. XXII 6 (7), 14: 'Addidere uiuendi pretia deliciae Juxusque * (Mayhofl). Tacito
indica i ' uitae retinacula ' come
'pretia nasceadi' (Germ. 31; ma in più codici si legge * noscendi '). * Lvcrbt. De ter, nau VI 701. Ovid. Metam. V
424. Cfr. Plin. sen. Nat hist. II 106 (110), 237; III 8
(14), 88. » Verg. Aen. VI 225. Cfr. Martial. Epigr. XII 32, 12. 4 Ovid. Fast li 244. Cfr. Cic. De nat deor.
II 44, 114 {Arati phaenom. 219). 5 Vedi Svidàs Lexic. Graee. et Lai, vol2°,
col. 1032 (Bernhardy). Ì06 sali. E in tale significato, oltre gli
esempi di Vitruvio, Marziale ed altri ',
abbiamo l'esempio di Plinio stesso: '
Summo die abeuntibus nobis, tam diligens in Caesare humanitas, xenia sunt missa'. Epist. VI 31,
14. Ma Plinio assegnò inoltre al
grecismo * xenia ' il significato triaslato di « dóni fatti a certe persone per
ottenere da loro qualche favore », ed in particolare i doni che si facevano agli avvocati o causidici per
patrocinare con maggiore impegno le cause: ' Quam me iuuat quod in causis agendis non modo pactione dono
munere ùerum etiam x e n i i s semper
abstinui ! ' Epist V 13 (14), 8. E, dopo
P esempio di Plinio, si ampliò àncora di
più il significato della voce ' xenium ', indicandosi con essa i doni che si offrivano dai
provinciali ai proconsoli o ad altre autorità 2 . Sbz. ii. -^ Aggettati. Li distingueremo in aggettivi derivati da
fonte nominale ed aggettivi formati con temi verbali. A. «-* 1.° L' aggettivo ' enodis ', formato
dalla preposizione.' e' e dal tema del sostantivo 'nodus'» nel significato
proprio vale « liscio , senza nodi ». In tale
accezione 1' usò appunto Virgilio , che lo riferì quale attributo alla voce ' truncus \ 8 Plinio
l'adoperò in senso traslato, riferendolo
ad alcune poesie per indicarne la
scorrevolezza e la facilità : ' Recitabat.. f erudit&m sane 1 Vitrvv. De afòh. VI 9. Martial. Epigr.
XIII 3, ì-2 e 5-6. * Vlpiàì*. iti Dig. I
16, 6, § 3. i 'V'fcRG. Georg. Il 78 : '
Rursum e n o d e s trunci resecantur '
(Ribbeck). Cfr. Plin. sen, Nat
hM, V 1, 14. ìot I
luculentamque materiam. scripta elegia* erat fluentibus et teneris et e n o d i b u s , sublimibus
etiam, ut poposcit locus. ' Epist
Hamatus ' derivato da ' hamus ', in senso proprio significò «fornito d'amo»; e Cicerone l'usò
in tale significato. l L' accezione in traslato dell' aggettivo * hamatus', per
indicare cose che , insidiose come l'amo ,
si mettono in opera per ottenere vantaggi maggiori, si deve a Plinio, che lo riferì a ' munera ' con
-P intendimento d' indicare quei doni che si fanno col fine sottinteso di
ricavarne maggiori remunerazioni : i Hos ego
uiscatis hamatisque muneribus non sua promere puto, sed aliena corripere '. Epist. IX 30,
2. Plinio dovette certamente venire all' uso traslatò di ' hamatus ', indottovi dal significato attribuito in
traslato al nome 4 hamus ' da scrittori
a lui anteriori e da scrittori contemporanei. 2 3.° ' Inamoenus ' appartiene a quella serie
di aggettivi sì graditi alla latinità argentea, formati col premettere all'
aggettivo la particella negativa i in- ' : significa P opposto di ' amoenus ',
e perciò « spiacevole, sgraziato,
disameno ». Ovidio se ne valse per indicare
PAverno. 3 Plinio ne fece, per traslata, un attributo di certi lavori letterari « senza attrattiva,
spiacevoli, inameni »: ' Oratiunculam unam alteram retractaui. quàhiquam id
genus operis inamabile, inamoenum magisque laboribus ruris quam uoluptatibus
simile '. Epist IX 10, 3. - . l Cic. Acad. priòr. II 38 121. * Huràt. Sai. II 5, 25. Martial. Epigr.
V 18, 7; VI 63, 5. Vedi anche Plin.
Pan. 43, 5. 3 Ovid. Metam. X 15. Cfr. Stat. Sii II 2, 3*3, Ì08
4.° L' aggettivo ' peracerbus ' vale lo. stesso di * acerbus ' con un
rafforzamento indicato dalla particella preposta ' per'; significa perciò, in
senso proprio, « molto aspro , molto
acerbo » , come disse appunto Cicerone
dell' uva immatura. ] Plinio adoperò in traslato V ag. gettivo '
peracerbus ' per significare un che di « doloroso , assai spiacevole » : '•
Mihi quidem illud etiam peracerbum fuit,
quod sunt alter alteri quid pararent indicati. ' Epist VI 5, 6. 5.° L'aggettivo ' saxeus ' propriamente
significa « sasseo, di pietra ». Plinio attribuì a ' saxeus ' il significato di
« insensibile », duro come di pietra, che non
sente impressione di alcuna cosa bella : ' Ego Isaeum non disertissimum tantum uerum etiarn
beatissimum iudico. quem tu nisi
cognoscere concupiscis, saxeus
ferreusque es .' Epist II 3, 7. Ma in ciò egli si avvicinò all' espressione
di Ovidio : ' Mater ad auditas stupuit ceu s a x e a voces ' 2 ; nella quale
l'epiteto ' saxea ' vale attonita per la
meraviglia dolorosa, come se fosse
divenuta di sasso. Forse, nel l'attribuire alla voce 'saxeus', in senso figurato, il significato anzidetto,
Plinio ebbe presente la frase che si
legge nel v. 258 del Prometti, uinctus
di Eschilo. B. 1° e 2.° Tra gli aggettivi di fonte verbale,
che si ebbero da Plinio un nuovo
significato in traslàto, si annoverano
'adductus' e ' circumscriptus ': entrambi
dotati della forma del comparativo.
' Adductus \ che propriamente significa « angusto , 1 Cic. De senect. 15, 53. * Ovid. Metom stretto », si ebbe in traslato
vari significati , uno dei quali
riferito in forma comparativa da Plinio air oratore, vale « più serrato, più
breve nelF espressione »• Similmente '
circumscriptus ', che in senso proprio significa « circoscritto » , in senso
traslato fu da Cicerone riferito alla frase, ali" ambitus uerborum M ,
mentre da Plinio fu riferito, anche in forma comparativa, all' oratore stesso per indicare la qualità
della concisione, che fregia il discorso di lui. Eccone la conferma: ' In contionibus idem qui in orationibus est,
pressior tamen et.circumscriptior et
adductior'. Epist I 16, 4. 3.° Il significato proprio di ' incustoditus
' è « non custodito, senza guardie ». La
latinità argentea attribuì a '
incustoditus ' due significati in traslato, uno considerato in passivo, ed è
dovuto a Tacito ; P altro considerato in attivo,' ed è stato per la prima volta
determinato da Plinio. Nel primo significato vale « inosservato », 2 o pure «
non contegnoso, non celato » 3 . Nel
traslato attivo, secondo l'accezione pliniana, * incustoditus '
significa « improvvido, incauto, imprevidente, senza precauzione » : ' Tuitus
sum Iulium Bassum ut i ncustoditum nimis et incautum ita minime malum \ 4 Epist. VI 29, 10. 4.° Dal significato proprio che
all'aggettivo ' inductus ' proveniva
dalla sua qualità originaria di participio per
1 Cic. OraL 12, 38; cfr. 61, 204.
* Tao. Ann. II 12; XV 55. 3 Tac.
Ann. XII 4. * In proposito il Gierig,
op. cit., tom. 2, pag. 91, col. 2% aggiunge il* commento: ' Puer enim, qui non
custoditur, noglegens, remissus nimis esse solet ' . no
fetta del verbo ' inducere ', Plinio, lo volse in traslato, e lo
attribuì a ' sermo ' per indicare un linguaggio
straniero : ' Inuidéo Graecis, quod illorum lingua seribere maluisti.
neque enim coniectura eget, quid sermone patrio exprimere possis, cum hoc
insiticio et i n d u ct o tam praeclara opera perfeceris \ Epist IV 3, 5, 6 Totam uillam oculis tuis subicere conamur
, si nihil inductum et quasi deuium
loquimur.' Epist V 6, 44. Cfr. Epist.
Ili 18, 10. Nulla osta ad ammettere che
Plinio si sia permesso di attribuire a '
inductus ', in senso traslato, il significato
anzidetto, per aver tenuto presente che già Cicerone si era servito ad un fine consimile del verbo
* inducereV 5.° Nel luogo testé citato
della Epist. IV 3, 5, si osserva eziandio che Plinio per il primo adoperò in
senso traslato l'aggettivo ' insiticius
' , derivato dal verbo i inserere ', a
fin di significare il linguaggio importato
dal di fuori, in antitesi alla lingua materna. La voce ' insiticius ' nel significato proprio di ,«
innestato » era già stata accolta nella
lingua letteraria, molto tempo prima di
Plinio. 2 Sez. III. Verbi.
I verbi ai quali, considerati in traslato, Plinio attribuì un
significato nuovo, sono , eccetto uno, tutti composti ; e la ragione ne è
manifesta, perchè nell'ampliare le funzioni del traslato ha molta efficacia la
particella che forma il primo elemento della composizione. i Cic. Philip. XIII 19, 43. * Ne sia d'es. Varr. Rer. rasi. II 8, 1.
Vedi in prcfposito la osservazione
del.GESNER, riportala da A. Corradi, pag. 33. r
Ili A. Esamineremo da prima i verbi composti
che provengono da un tema semplice
originariamente verbale , e poi i verbi composti nel cui tema si contiene un tema nominale. a) I vèrbi composti della prima serie
saranno trattati secondo l'ordine alfabetico della lettera iniziale del tema verbale semplice. l. Q 11 verbo ' in-arescere ', come P
incoativo 'arescere ', originariamente ' arere ', ebbe il significato
proprio di « disseccarsi, inaridire » :
e, oltre non pochi scrittori fioriti al tempo della latinità argentea, ne dà
la conferma lo stesso Plinio : ' Buxus,
qua parte defendltur tectis, abunde uiret; aperto caelo apertoque uento et quamquam longinqua aspergine maris
inarescit'. Epist. II 17, 14. Ma Plinio
attribuì anche al verbo ' inarescere ' il significato di « finire », riferito a
oose immateriali : 'Sed quod cessat ex reditu frugalitate suppletur/ex qua
uelut fonte liberalitas nostra decurrit :
quae tamen ita temperanda est, ne nimia profusione inarescat. ' Epist. II 4, 3-4. La sola ed. p presenta, invece di '
inarescat', la pa^rola * marcescat ', che pare un' emendazione fatta dall'
editore per fare rieritrareF espressione di Plinio nelP uso traslato del verbo
' marcescere ', che Livio e 0vidio riferirono alle voci ' desidia, otium V 2.° Il significato proprio del. verbo '
per-domare ', che vale « soggiogare,
domare », si riferì costantemente ad
esseri animati, come per es. ' uiri, 2 gentes,* canes, 4 l
Liv. XXVIII 35, 2. Ovid. Ex Pon. II 9, 61. * Tibvl. II 1, 72. 8 Vell.' Paterc. Hist Rom. II 95, 2. Cfr.
Liv. XL 41, 2. 4
Tibvl. I 2, 52. m «
serpentes, tauri, l età; ovvero a regioni designate invece dei popoli che le abitano, per es. il '
Latium ', 2 la ' Britannia ', 3 una regione in generale. * Plinio applicò
in traslato il verbo ' perdoniate ' al
suolo che si coltiva : ' Tantis glaebis
tenacissimum solum, cura primum pròsecatur, adsurgit , ut nono deraum sulco
perdomet u r. ' Epist V 6, 10. Gli
scrittori contemporanei avevano agevolato a Plinio la via per venire all'uso
traslato del verbo ' perdonare', poiché lo avevano riferito, in generale, a
cose inanimate. Così in Seneca si
osserva la frase ' perdomare farinam ', che significa « dimenare la farina
con l'acqua e farne una pasta » 5 ; e in
Stazio, la frase 'perdomita Ceres ' 6 . Ma a Virgilio fu più gradita
l'espressione figurata ' imperare aruis ' 7 per riferirla a chi ' exercet frequens tellurem '. 3.° Il significato proprio del verbo '
con-fodere ' fu « trapassare ,
trafiggere , ferire ». Plinio 1' adoperò in
traslato per indicare quel segno fatto con una linea trasversale sulle
parole d'uno scritto, che dovevano essere
cancellate o emendate 8 : ' Expecto ut quaedarn ex hac epistula, ut illud « gubernacula gemunt » et
« dis ma i Ovid. Heroid. 12, 163-164. « Liv. Vili 13, 8. 3 Tac. Hist. I 2. 4 Liv. XXVIII 12, 12. Martial. Epigr. IX 43, 8. 5 Senec. Episi. mor. XIV 2 (90;, 23. Stat. Theb. I 524 7 Vbrg. Georg. I 99. 8 Vedi in proposito di tale
segno le *Notae XXIquae uersibus apponi consuerunt * (cod. Paris., 7530),
ripubblicate dal Keil nella collezione
dei Grammatici Latini, voi. VII, pagg. 533-536. 113 ris proximus », isdem notis quibus ea de
quibus scribo confodias. ' Epist IX 26, 13. La differenza tra V accezione pliniana del verbo '
confodere ', considerato in senso
traslato, e il significato che allo stesso verbo attribuì, anche in traslato,
Tito Livio, sta in ciò che questi lo riferi ad argomento morale o giuridico, 1
mentre Plinio lo applicò ad indicare
l'azione materiale del segnare i luoghi da emendare d'uno scritto. 2 4.° Da una composizione multipla risultò il
verbo ' recom-ponere ', il cui significato proprio è « racconciare, mettere in ordine ». 3 Plinio indicò con '
recomponere * il concetto di « placare,
calmare, acchetare , rappattumare » : ' Quo magis quosdam e numero nostro
inprobaui, qui modo ad Celsum modo ad Nepotem, prout hic uel ille diceret, cupiditate audiendi
cursitabant, et nunc quasi stimularent
et accenderent, nunc quasi reconciliarent ac recomponerent, frequentius
singulis , ambobus interdum propitium
Caesarem.... precabantur. ' Epist VI 5,
5. È uopo avvertire che la lezione '
recomponerent % nel passo citato, è
data' in modo approssimativo dal cod. flf, e che
presenta la parola scritta in guisa incerta: ' re omponerent\ Invece il cod. D
e le edizioni p, a danno la lezione '
reconciliarent componerentque ' : la quale , se
venisse accettata, renderebbe inutile la nostra osservazione, poiché il
verbo ' componere ' nel senso traslato
di « acchetare, pacificare, riconciliare » era stato già usato, prima di Plinio , nelle frasi : '
componere bel * Liv. V il, 12. « Cfr. Cic. Epist adfam. IX 10, 1. Horat.
Epist. II ,3, 446-447. 3 Ovid. Amor. I 7, 68. Consoli Il Neologismo puntano 8 - 114
lum, 1 componere controuersias,* componere lites, 1 componere seditiones
', 4 etc. 5.° Il verbo ' ad-radere ',
nel suo significato proprio di « radere
, accorciare , mozzare » , si rapporta alla
barba, ai capelli e anche ai rami degli alberi. Plinio lo accolse in traslato per significare il
concetto di 103 »
44 » 16
» 75 »
120 > 102
una ijuaiu si nana, uei
u abactus^ Pan. 20, 4. acor 3 : VII 3, 5. actiuncula t : IX 15, 2. adductus 3 : I 16, 4. adnotatio 2 : VII 20, 2. adnotator x : Pan. 49, 6. adradere 3 : II 12, 1. adsistere aduocatus aposphragisma ,: X
74 Q6Ì. 3. baptisterium t : II 17, 11; V 6, 25.
bellatorius buie! IH defremere ,: IX 13, 4. » 99 descensio 3 : V 6, 26. » 116 destringere 3 : Pan. 37, 2 (cfr. Ili 5, 14). > 45 dianome,:X 1 16(1 17),2. » 100 dispensatio 3 : X 75 (79), I.
73 districte , : IX 21, 4. 11
duurauiratus,: IV 22, 1. ecclesiali 10
(111),1. egestio 3 : Vili 6, 7. eiecta { : II 17, 11. electa t : III 5, 17. enodis 3 : V 17,2. eranus t : X 92 (93). excursio 2 : I 3, 2. exscribere 2 : IV 28, 1. exsoribere 3 : V 16, 9. exsecare 3 : II 12, 3. exultantius t : III 18, 10. Pag. 98 frenator 3 : Pan. gestator à »
55 » 109
» 64 52 haesitabundus t :1 5, 13. 15 haesitator^V 10(11), %. J07 hamatus ? : IX 30, 2. 40
heliocammus^II 17,20. 38 hetaeria , : X
34 (43), 1; 96 (97), 7. 68 historice t : II 5, 5. idyllium ,
: IV 14, 9. inamoenus 3 : IX 10, 3. inarescere^; li 4, 4. inascensus ,: Pan. 65,3. incongruensj: IV 9, 19. incustoditus 3 :VI 29 f 10. indecere t : II J 1, 2. Pag. 56
» 25 » 109 Pag.
» » Pag.
» » 53
58 55 71
110 102 66
54 119 40
61 91 indeflexus ,: Pan. 4, 7. indignatiuncula x : VI 17, 1.
inductus 3 : III* 18, 10; IV 3,
5; V 6, 44. ingloriosi^: 1X26, 4. inperspicuus,: 1 20, 17. inreuerens,: Vili 21,3* inreuerenter^ il 14,2; VI 13, 2.
insitici us 3 : IV 3, 5. instantia
interscribere,:VII 9, 5. inturbàtus { :
Pan. 64, 2. inumbrare 3 : Pan.
19,1, iselasticum , : X 118 (119), 1; 119 (120). iselasticus,:X 118(119) 1-2; 119 (120), iuba 3 : V 8, 10. 89 Latine , : VII 4, 9. 92 latitudo 3 : I Ì0, 5. 13 laudiceni t : II 14, 5. 120 lectkare 3 :VII 17, 4. 38 lyrica , : III 1, 7 ; VII 17, 3; IX 22, 2. 36 Jvristes , : I 15, 2; IX 17, 3; 36, 4; 40, 2. 78 mensor 2 : X I7B , 5; 18 (29), 3.
41 mesochorus t : II 14, 6. 28
mettila , : V 6, 35. 41 muniambij: VI
21,452 monstrabihs,: VI 21, 3. 68
mortifere t : III 16, 3. 104 motus . :
III 4, 9. 9? muscufus % : V 8, 10. 181
Pag. 93 numeri 3 : III- 4, 5. »
101 nutatiog : Pan. octogenarius 9 :Vl 33,2.
27 offendiculuir^:IXll,l. 61
opisthographus L : III 5 17. 47 orarius , : X 15 (26) ; 17A (28), 2.
86 otiosus g: X 54 (62), 1. 83
paedagogium-, :VII 2.7, 13. 108 peracerbus 3 : VI 5, 6. 88 percolere 2 : V 6, 41. 58 pereopiosus ,: IX 31, 1. 59 perdecorus^ III 9, 28. Ili perdomare 3 : V 6, 10. 119 perseuerare 3 :VI20,19. 94 pertica , : Vili 2, 8. 66 pertribuere t : X 86B (18), 2.
36 phantasma »:VII 27, 1. 34
poematium , : IV 14 , 9; 27, 1. 79 praeceptio 2 : V 7, 1. 49 praecursorius.:IV 13,2. 21 praelusio f : VI 13, 6. 116 praesternere 3 : V8, 14; Pan. 31, 1.
80 praesumptio 2 1 IV 15, 11; IX
3, 1. 46 procoeton 4 : II 17, 10; 17, 23.
59 prominulus 4 : V 6, 15. 62
prooemiari t : II 3, 3. 88 prosecare 2 :
V 6 , 10. 42 protopraxia l : X 108 (109), 1.
121 proxirae.,: I 10, 11; IV 29
1' V 7 4. 69 puellariter,: Vili
10,1. recomponere 3 : VI 5, 5. » 99 reductor s : Vili 12, 1. 71 redundanter ,: 120, 21. 118 reformare a : Pan. 53, 1. 18 reformator 1 :VHI 12, 1. 22 renutus t : I 7, 2. 117 resultare.* : VIII 4, 3; Pan. 73, 1.
104 retinaculum^: I 12, 8.
» Pag. 51 » 122
Pag. 108 69
19 11 94
9 84 27
96 10 76
95 97 119
14 sacerdotalis ,:VII
24,6. salubriter 3 : I 24, 4; VI 30, 3.
saxeus 3 : II 3, 7. scurriliter ,: IV 25, 3. seruatio.rX 120(121),1. sesquihora t : IV 9, 9. singultus 3 : IV 30, 6. sinisteritas x : VI 17, 3; IX 5, 2.
sipo 2 : X 33 (42), 2. sipunculus
t : V 6, 23; 6, 36. socculus 3 : IX 7, 3. social itas t : IX 30, 3; Pan. 49, 4.
species o : X 56 (64), 4; 96 (97), 4.
spoliarìum 3 : Pan. 36, 1.
sportula 3 : II 14, 4. subsignare
3 : III 1, 12; X 4 (3), 4. subterraneum 4 :IV 11,9. 63 ubertare , : Pan. 32, 2. 77 ueria , : V 6, 46; Vili unctorium xenium
zotheca zothecula Epist. Epist. Epist. Epist.
Epist. ^»s& Epist. Epist. J^rtst Epist.
Panegyr. L'AUTORE DEL LIBRO DE ONRAR BISI (ERMANOKYA
RICERCHE CRITICHE Libero docente di letteratura e lingua latina nella R.
Università di Catania DERE ROMA. Ermanno
LoescHER & Co (Bretsehneider e
Regenberg) Librai di S. M. la Regina
d’Italia Catania, via Maddem MII Tipografia editrice BARBACALLO &
SCUDERI, in Catania. Pad «TI
AG -YC16 A RoBERTO DI
CARCACI MIO ALUNNO NEGLI ANNI 1889 =
1894 Nel presente libro si compendiano i risultamenti di un lavoro paziente di ricerche, durato per
più anni. Le conclusioni, alle quali
siamo pervenuti, sembreranno a taluni
molto ardite ; e, forse, non tutti coloro che degneranno il libro di una
lettura attenta, stimeranno che si
debbano fare a tali conclusioni « accoglienze oneste e liete ». Ma chiunque esamini il nostro
libro con animo alieno da preconcetti, non potrà, pur dissentendo dalle conclusioni, disconoscere che le nostre
indagini critiche sono state sempre
obiettive e senza il disegno di far
prevalere, ad ogni costo e in qualunque, modo,
una tesi prestabilita. Delle osservazioni che ci saranno fatte, terremo il debito conto, ringraziando
fin d’ ora i lettori benevoli. È opportuno, inoltre, avvertire che, quanto
al testo di Tacito, abbiamo seguito l’
ediz. curata dal Halm ; e per la nat.
Rist. di Plinio, l’ ediz. Jan-Mayhoff. Quanto
al testo della Germ., abbiamo preferito attenerci alla recente ediz. di Ioannes Mueller (Wien u.
Prag , F. Tempsky ; Leipzig, G. Freytag:
1900, ed. II maior). Citando di Tacito
un intero capitolo o più parti d uno
stesso capitolo, si è omesso di indicare il num. del rigo accanto al num. d’ ordine del capitolo.
Degli autori che sono citati nel corso del libro , abbiamo conservato i testi
tali quali si presentano nelle edd. consultate, senza variarne menomamente la
grafia, ancorchè questa apparisca,
talvolta, inesatta. TTI DT NR gi TÀ + +
GND è + CHIND è + GHIND è + HD + è qu» 00:
LL tt rit ‘rl eee e asi _ > _ «= ++ «mm è Malatano li sen a cut NA limiter sociali leva
st E rc Dell’aureo libretto de origine et situ Germanorum 1, che indicheremo, come altri han fatto prima,
con l’abbreviatura Germ., non trovasi fatta menzione nell’ antichità, sia
perchè non se n’ebbe notizia dagli scrittori
1 Il tit. de origine et situ Germanorum è indicato per la prima volta
dal Panormita, in una lettera dell’ aprile 1426 diretta al Guarini di Verona (vedi cod. Marciano XIV
221 f 95; cod. Classense 419, 8 f. 3:
cit. dal SABBADINI, notizie storico-critiche
di alcuni codici latini, in Studi italiani di filol. class. VII pp. 122-125), ed è confermato dai codd. Vatic.
1862 e Vatic. 1518. In una nota di Pier
Candido Decembrio (cod. Ambros. R 88
sup. £. 112: vedi SABBADINI, il ms. hersfeldese delle opere minori di
Tac., in Rio. di filol. e d' istruz. class. XXIX 262) leggesi il tit. de orig.
et situ Germaniae, ripetuto dal cod. Neapol.
Il cod. Leidens. dà: de origine situ moribus ac populis Germanorum : cf.
WoELFFLIN, sum Titel der Germania des Tac.,
in Rhein. Mus. N. F. XLVIII 2, 312.
CoNsoLI : L’ autore della Germania, 1
sad le cui opere sono pervenute
sino a noi; sia perchè, sebbene ne avessero avuto notizia, essi credettero di
mettere il libretto in non cale; sia anche perchè quanto potè essere scritto intorno allo stesso, non
si conservò intatto dall’ azione del
tempo. Quale di queste tre ipotesi risponda al vero o a questo più si avvicini,
nello stato presente delle nostre
cognizioni sull’ antichità classica, non
può con certezza affermarsi. Nemmeno un
cenno sull’autore della Germ. è pervenuto sino a noi; e tutto quello che ci è dato sapere in
proposito si può soltanto dedurre dal
contenuto della Germ. stessa 1. Nessun
dubbio, però, si può avere sulla romanità del1’ autore, il quale, in tutto
quanto scrive sui Germani, mostra che ha
costantemente l’attenzione volta alle condizioni morali, politiche e militari
di Roma, che talora gli son causa di
vive inquietudini. Ma degli scrittori
romani che trattarono delle relazioni, in pace e in guerra, dei Romani coi Germani, dopo quello che ne
aveva scritto il ‘ summus auctorum diuus
Iulius ?, ® ce ne sono parecchi, nel
primo secolo dell’ impero. * Tito Livio a
4 Qualcuno, spingendo all’ estremo le conseguenze del silenzio degli antichi
sul nome dell’a. della Germ., è giunto a negare l'autenticità del libro: vedi
quel che scrive in proposito A. GeFFRoy,
Rome et les barbares, étude sur la Germanie de
Tacite, Paris 1874, pp. 55-56.
2? Germ. 28, ì. 3 Vedi W.
ScHLEUSNER, quae ratio inter Taciti Germaniam
ac ceteros primi saeculi libros Latinos,in quibus Germani tangantur,
intercedere uideatur. Acc. loci quidam Amm. Marcellini. 1886. A. LUECKENBACH,
de Germaniae quae uocatur Taciteae fontibus. Marb. 1891. A. GUDEMAN, the sources of the Germania of Tacitus, in
Transactions and proceedings of the
American philological association, 1909, vol. XXXI, pp. 93-111. aa veva già trattato dei Germani nel corso
delle sue storie, scrivendo delle imprese di Giulio Cesare! e delle spedizioni di Druso. ? Dello stesso argomento
si era certamente dovuto intrattenere l’imperatore Ottaviano Augusto, tanto
nelle sue memorie, * quanto nell’elogio che
egli scrisse per il figliastro Druso 4; e, dopo Ottaviano, anche Vipsanio Agrippa nella sua autobiografia
*; Giulio Marato, liberto e biografo di
Augusto $; e forse Cremuzio Cordo ne’
suoi libri de rebus Augusti ?: chè
notevoli furono, durante l’ impero augusteo, i conflitti tra Romani e Germani. Di poi Velleio
Patercolo, menzionata la disfatta di Varo, promise intrattenersi dei Germani. * Non potevasi escludere un cenno
della poli l Vedi il principio
dell’epit. del 1. CIV : ‘ prima pars libri situm Germaniae moresque continet
’. ? Epitomae dei Il. CKXXVII,
CXXXVIII, CXXXIX e CXL. 8 Sveron. Aug.
85; Claud. 1. Cf. G. BERNHARDY, Grundriss d.
r L.5 $ 46,261. TEUFFEL-SCHWABE, G. d. r. L. 5 $ 220, 3,468. 4 Vedi l’ epit. ll CXL di Livio. Sveron.
Claud. 1. Cass. Dion. r. Rom. LV 2,
2. 5 Intorno all'autobiografia di
Agrippa vedi la menzione che ne fa Serv.
comm. in Verg. georg. II 162,235, vol. 3°, fasc.
1°, rec. Th. 6 SveToN. Aug. 79. 7 Vedi SEN. dial. VI 1, 3; 22,4; 26,1 e 5. Tac. ann. IV 34 e 35. Cass. Dion. r. Rom. LVII 24, 1-4. Sveron.
Tib. 61; Calig. 16. Neli’ ed. Bonnell di
QvinTIL. X 1,04, vol. 2°,163 non si fa
menzione di Cremuzio Cordo; e dove alcuni pretendono leggere ‘ nec immerito
Cremutii libertas '’, lo Zumpt coi migliori
codd. legge: ‘nec immerito remitti ( cod. Bamb ‘ rem uti ’ ) lib., dix. uel noc. * 8 VeLL. PaTERC. A. R. II 119 ‘“ordinem
atrocissimae calamitatis , qua nulla post Crassi in Parthis damnum in externis
gentibus grauior Romanis fuit, iustis uoluminibus ut alii, ita n 0 s conabimur exponere: nune summa deflenda est’
(Halm). di tica romana, quanto alle relazioni coi
Germani, nelle autobiografie degli
imperatori Tiberio ! e Claudio * ; e di
proposito si dovette trattare delle lotte, sì varie e persistenti , contro i Germani negli scritti
di Cornelio Lentulo Getulico, che fu a
capo delle legioni della Germania superiore 3, e nei commentarii di Cn. Domizio Corbulone , che fu anche’ a capo degli
eserciti romani in Germania e mosse
guerra contro i ‘Chauci?. ' Nè può
presumersi che le importanti vicende delle armi
romane nella Germania siano state lasciate senza alcuna menzione nelle Ristoriae di Cornelio Bocco,
Servilio Noniano, Cluvio Rufo *, Fabio Rustico e di altri istoriografi, ai
quali pare che si debbano riferire le affermazioni generiche ‘ memorant , ‘
quidam opinantur ’, ‘ adhuc extare ’, che si notano nel cap. 3° della
Germ. Storicamente è accertato che
trattarono dei Germani e delle guerre
germaniche Aufidio Basso e ©. Plinio
Secondo. Il lavoro di Aufidio Basso aveva per titolo belli germanici libri", e probabilmente
formava parte 1 Sveron. Tib. 61; Dom.
20. 2 Sen. lud. de m. Claud. 5, 4.
PLIN. n. Ah. XII 17 (39), 78 Sveron.
Claud. Al. 8 Cass. Dion. r. Rom. LIX
22, 5: cf. SveToNn. Galb. 6. Ma il Jahn
(Pers.CXLII) ammette che Lentulo Getulico non abbia scritto propriamente una storia, sibbene un
carme sulle spedizioni contro i Germani ed i Britanni. 4 Tac. ann. XI 18 e 20. 5 Il GIORDANI, studi sopra Tac., crede che
si accenni a Cluvio Rufo nel celebre
elogio di QvintIL. i. 0. X 1, 104 ‘superest adhue et exornat aetatis nostrae gloriam uir
saeculorum memoria dignus’, cet. Vedi opere di
P.G., pubblic. da A. Gussalli, vol. 12°,
pag. 215; Milano, Sanvito, 1857, 6
QUvINTIL. i. 0. X ], 103. Vea d’un altro lavoro storico più ampio, scritto
da lui stesso !. Plinio Secondo narrò in
libri trentuno @ fine Aufidii Bassi la
storia de’ suoi tempi, in continuazione di quella scritta da A. Basso ?, e
perciò vi dovette includere la trattazione delle relazioni dell’ impero coi
Germani: dovette in particolar modo trattare di tali relazioni nei due libri de
vita Pomponii Secundi, il quale fu
legato in Germania sotto Claudio, e, per
la vittoria sui ‘Chatti’ devastatori; si ebbe lo onore del trionfo. Plinio scrisse inoltre
venti libri bellorum Germaniàe! o
Germanicorum bellorum î, nei quali
trattò (ripetiamo le parole del nipote di lui, Plinio il giovane) ‘omnia quae
cum Germanis gessimus bella”.6 La storia pliniana delle guerre germaniche si
conservò in Germania sino al sec. XVII;
poi sparve e non se n° ebbe più notizia: ma non si è perduta la speranza che il prezioso ms. si
possa ritrovare, ? 1 TEUFFEL - ScHWABE, G. d. r. L.5 S 277,
2,664. CL R. NicoLa1, G. d. r. L.
Magdeb. .1881, n. 107,616,
? PLIN.n. h,, praef. 20. PLIN. epist. III 5, 6: vedi anche V_ 8,5, 3 PLIN. epist. II 5, 3. Tac. ann. XII 27 e 28, 4 PLIN. epist. III 5,4. 5 Tac. ann. I 69,6. SyYMMACH. epist. IV 18 ad Protadium, 152: ‘ enitar, si fors uotum
iuuet, etiam Plinii Secundi Germanica bella conquirere”. 6 PLIN. epist. III 5, 4. La frase di Plinio
il giovane è ripetuta da Suetònio :' ‘bella’ omnia, quae unquam cum Germanis
gesta sunt, XX uoluminibus comprehendit’: v. C. SveTon. TRANO. deperditorum
librorum reliquiae, ed. Roth, 1882, 300. i
© H. F. Massmann; Germ. des C. Corn. Tac., Quedlinburg u. Leipzig 1847,179, noja 6, riferisce un passo
dei monumenta ME Sicchè non sarebbe fuor di luogo il
supporre che quanto si contiene nel
libretto de origine et situ Germanorum avesse potuto, per intiero o in parte,
in una forma identica a quella con cui è
pervenuto sino a noi o alla stessa
somigliante, costituire, come un’introduzione geo-etnografica o in altro modo,
parte integrante dei lavori storici sulla Germania di Aufidio Basso o di Plinio Secondo; e particolarmente di
quest’ ultimo che, oltre al continuare
l’opera di Basso, trattò più ampiamente
e, con migliore e più esatta conoscenza dei
fonti e dei fatti il tema delle guerre germaniche. Se non che ad ammettere ciò pare che contrastino
alcuni luoghi notevoli del testo della
Germ., poichè in essi, secondo quel che
comunemente affermasi, si menzionano fatti posteriori alla morte di Plinio
Secondo (a. 79 d. Cr.). Infatti, nelle
parole ‘ac rursus inde pulsi ( sc.
Germani) proximis temporibus triumphati magis quam uicti sunt” (Germ. 37, 26) si vuol vedere
un’allusione al trionfo di Domiziano sui
‘Chatti?, a. 83 d. Cr.! Si pretende
riconoscere nelle parole del cap. 42, 9 della
Germ. ‘raro armis nostris, saepius pecunia iuuantur ’ (sc. Marcomani et Quadi), l’usanza invalsa
sotto Domi Paderbornensia del
FuEeRsTENBERG: ‘Plinii XX uwolumina de
bellis Germanis... quae Conr. Gesnerus Augustae Vindelicorum, alii Tremoniae in Westphalia apud Casparum
Swarzium patricium Tremoniensem exstitisse tradiderunt’. La nota del Massmann è ripetuta dal Geffroy, op. cit.,85,
n. 3. 1 Sveron. Dom. 6 ‘de Catthis
Dacisque post uaria proelia duplicem
triumphum egit’. Cf. Dom. 13, in fine. Le monete in cui si dà a Domiziano il tit. di ‘Germanicus’
sono del principio dell'a. 84. Vedi EcKkHEL VI 378; 397: e MommsEN-DE RuGGIERO,
le prov. rom. da Ces. a Dioclez., Roma, 1887; cap. IV, 139, e nota 1* nella
stessa pag. 7 ziano di dar danaro ai capi dei barbari per tenerseli: ubbidienti e dar loro i mezzi di accrescere
il numero dei partigiani dei Romani. !
Si scorge nel cap. 45 della Germ. un
accenno intorno alle notizie sulle. regioni
nordiche, pervenute a Roma dopo la spedizione di Giulio Agricola ?. Osservasi inoltre che
l’annessione dei campi decumati,
indicata nel cap. 29, 19 Germ. con le parole
‘mox limite acto promotisque praesidiis sinus imperii et pars prouinciae
habentur (sc. agri decumates)’, si compì
al tempo di Domiziano o di Traiano, 3 Si fa menzione nel cap. 33 Germ. dello
sterminio dei ‘ Bructeri/, che vuolsi
avvenuto verso l’ a. 100 d. Cr. Infine si. adduce come prova evidentissima che
la Germ.. fu scritta e pubblicata verso
la fine del secolo I d. Cr., il computo degli anni presentato nel cap. 37, 6
per, indicare la durata della lotta coi
Germani: ‘sescentesimum et quadragesimum
annum urbs nostra agebat, cum primum Cimbrorum audita sunt arma...... ex quo si
ad alterum imperatoris Traiani
consulatum computemus, ducenti ferme et
decem anni colliguntur *. Consideriamo
l’ uno dopo l’altro i ll. citati..
I. Germ. 37, 23 ‘ mox ingentes
Gai Caesaris minae in ludibrium uersae.
inde otium, donec occasione discordiae nostrae et ciuilium armorum expugnatis
legio 1 Cass. Dion. r. Rom. LXVII 7, 3-4
(Xiphil.). 2 Tac. Agr. cc. 10, 12 e 33
in fine. 3 Così affermasi nei comm.
alla Germ: di I. F. K. Dilthey
(Braunschweig 1823,187 sg.), di Th, Kiessling (Lps. 1832, 119 sg.). di
U. Zernial (Berl. 1890,60), di A. Pais (Torino
1890,49), di G. Marina (Romania e Germania ovvero il mondo germanico secondo le relazioni di Tac.,
Trieste 1892, 97), etc. RR era num hibernis etiam Gallias adfectauere; ac
rursus inde pulsi proximis temporibus
triumphati magis quam uicti sunt’. Nella
lotta, dunque, contro i Germani, il passo
cit. ci rappresenta successivamente i sgg. fatti : a) la spedizione poco seria di Caligola; d) la
sospensione di qualsiasi spedizione
militare sotto Claudio e Nerone; c)
l'insurrezione dei ‘ Bataui ” guidati da Giulio Civile, la quale si estese anche alle Gallie ; d) un
trionfo di nessuna importanza, sui
barbari. Tale trionfo non può essere
altro che soltanto quello di cui menò vanto Domiziano sui ‘ Chatti ’ ? A noi
pare, invece, che l’ autore abbia voluto riferirsi ai vantaggi, di poca
efficacia e poco duraturi, riportati
dalle armi di Vespasiano sui ‘‘Bataui’ e
sugli alleati di questi. Se, in vero, l’autore
avesse voluto riferirsi al trionfo di Domiziano, non avrebbe certamente
tralasciato di menomarne, in un modo
qualsiasi, 1’ importanza, come appunto si legge nel de uita et moribus Iulii Agricolae * e in altri
scritti che menzionano o fanno allusione
alla vantata vittoria di Domiziano. * Si
aggiunga che l’ autore, avendo mal animo contro Domiziano ; se per Caligola
disse poco prima, notando il ridicolo
delle imprese di lui contro 1 Tac.
Agr. 39, 3 scrive di Domiziano: ‘inerat conscientia derisui fuisse nuper falsum e Germania
triumphum, emptis per commercia, quorum
habituset crines in captiuorum speciem
formarentur. ’ ? PLIN. pan. 16,
3 ‘accipiet ergo aliquando Capitolium non
mimicos currus nec falsae simulacra uictoriae, sed imperatorem ueram ac
solidam gloriam reportantem ’ e. q. s. Cass. Dion. r. Rom. LXVII 4, 1. Oros. hist. adu. pag. VII
10, 3 e 4. Loda, invece, MARTIAL, ep.IX
6; e FRONTIN. sfrat. I 1, 8; 3, 10. II 3,
23; 11, 7. IV 3, 14 (ed. Gundermann) mostra di non dubitare menomamente dell’ importanza della spedizione
di Domiziano, i. Gas i Germani : ‘ ingenies Gai Caesaris minae
in ludibrium uersae ’, ! avrebbe scritto
parole più gravi contro Domiziano , ove avesse voluto DIADIESI alla iattanza
di EI imperatore. D’ altro canto, la frase ‘ proximis
temporibus triumphati magis quam wicti sunt" non può riferirsi all’ onore
trionfale concesso, nell’a. 50 «dd. Cr., a Pomponio Secondo che aveva
sottomesso i ‘ Chatti ’ e liberato, dopo
lunghi anni di cattività, alcuni dei soldati -di Varo, caduti prigionieri nella battaglia di
Teutoburg ?; poichè l’ insurrezione dei ‘ Bataui ’, dilatata nelle Gallie, alla quale si accenna con le parole ‘
expugnatis legionum hibernis etiam Gallias adfectauere ’, * è posteriore di circa venti anni alla vittoria di Pomponio
Secondo. E però le parole citate del
testo della Germ. ‘ proximis temporibus triumphati magis quam uicti sunt’, non possono che riferirsi al tempo in cui
Vespasiano riusciva a sedare l’
insurrezione batavica; e, sebbene
intorno a ciò non sia dato d’ avere dirette notizie da Tacito, perchè le historiae di lui restano
interrotte nel lib. V 26, appunto quando
lo storico insigne si accingeva a
trattare della fine dell’insurrezione di Civile,e della vittoria riportata
dalla politica di Vespasiano sulle sedizioni germaniche, pure il trionfo di
Vespasiano sui ‘ Bataui? e i loro alleati germanici è indicato chiaramente dalle parole ‘ uidimus sub diuo Vespasiano
Velaedam diu apud plerosque numinis loco
habitam ? (Germ. 8, 8). 1 Lo stesso
apprezzamento notasi in Tac. Agr. 13,11. rist. IV 15, 9. Cf. A. RIESE,der Feldzug des Caligula
an der Rhein, in Neue Heidelberger
Jahrbicher, vol. VI, fasc. 2. i 2 Tac.
ann. XII 28. 3 Vedi anche Tac. hist. IV
17 e V 26. 40 Veleda, vergine fatidica di nazione
bructera, ebbe, come è noto, una parte principalissima, insieme col suo popolo e con altri popoli germanici, nel
movimento insurrezionale sollevato da Civile. ! Essa fu, dunque, veduta a Roma,
non pregiata nè tenuta in onore da
Vespasiano, come fu poi onorata da Domiziano la vergine Ganna, che a lei
succedette nell’ arte del vaticinio ?, ma prigioniera *, probabilmente
incatenata presso al carro trionfale del vincitore. 4 Un’altra ragione c’induce ad ammettere che
nel passo considerato della Germ, si
tratti del trionfo di Vespasiano, verso l’a. 70 d. Cr, e non di quello
arrogatosi, insieme col titolo di
Germanico >, da Domiziano. I popoli
che presero parte all’ insurrezione di Civile
furono, anzi tutto , i ‘ Bataui”, ai quali si unirono i ‘ Canninefates’, i ‘ Frisii”, i ‘ Bructeri”,
i ‘ Tencteri”, etc.0 Essi prevalsero da
prima, mentre Roma era dilaniata dalle
guerre civili tra i pretendenti all’ impero, tanto che ‘expugnatis legionum. hibernis etiam
Gallias adfectauere ?. Perciò gl’insorti, di cui immediatamente dopo 1 Tac. hist. IV 61; 65. V 22; 24. 2 Cass. Dion. r. Rom. LXVII 5, 3 (Xiphil.). 3 STAT. silu. I 4, 89 sgg. ‘non uacat
Arctoas acies, Rhenumque rebellem, | captiuaeque preces Veledae, et (quae maxima nuper | gloria) depositam Dacis
pereuntibus arcem | pandere’. Vedi MommsEN-DE RucGIERO, op. cit., cap. IV, pp. 132 e 135.
4 U. Zernial, commentando la voce ‘ uidimus’ del |. c.,30, dice esplicitamente: « Wir haben gesehen, n.
zu Rom, auch Tacitus selber, der sich
des etwa im 15. Lebensjahre gesehenen
Triumphes ueber die Bataver sehr wohl erinnern konnte ». 5 Sveron. Dom. 13. 6 Tac. hist. IV 15; 16; 21. Leida
sì dice ‘ rursus inde pulsi’ e. q. s., altri non sono che gli stessi ‘ Bataui ed i loro alleati, che
erano stati capitanati da Civile, e dei quali poi, stante il sopravvento delle armi di Ceriale, menò trionfo
Vespasiano, L° imperatore Domiziano , invece, si vantò del trionfo sui ‘ Chatti’, non sui ‘ Bataui ’. È vero che, in
origine , i ‘ Batani” furono ‘ Chattorum
quondam populus et seditione domestica in eas sedes transgressus, in
quibus pars Romani imperii fierent’ (
Germ. 29, 3); ! ma, al tempo
dell’insurrezione di Civile, erano del tutto separati dai ‘ Chatti” : e questi
non si trovavano uniti coi ‘Bataui’, già
abbattuti da Vespasiano, quando Domiziano
fece irruzione, al dire di Suetonio, ‘ sponte in Catthos ” ?. Non puossi, inoltre, non mettere in evidenza
che, se l’autore della Germ. avesse
voluto riferire le sue considerazioni d’ordine politico e militare a Domiziano,
non si sarebbe valuto di un’allusione
generica, spiegabile solo per chi scrive
in tempi di oppressione e di tirannide. Si conviene comunemente che la Germ,
sia stata: scritta e pubblicata verso il
98 d. Cr., allorchè ‘rara temporum
felicitate’, come scrisse Tacito stesso, ‘ ubi
sentire quae uelis et quae sentias dicere licet’ } 1° imperatore Nerva
aveva riunito ‘res olim dissociabiles,
principatum ac libertatem’, e l’ imperatore Traiano aveva accresciuto ‘ quotidie felicitatem
temporum’; sicchè ‘ nec spem modo ac
uotum securitas publica, sed 1 Vedi
inoltre Tac. hist. IV 12, 6 ‘ Bataui, donec trans Rhenum agebant, pars
Chattorum, seditione domestica pulsî extrema
Gallicae orae uacua cultoribus..... occupauere ’, 2 Sveron. Dom. 6. 3 Tac. hist. 1 1, 19. n ia
ipsius uoti fiduciam ac robur adsumpserit’!: e per tanto, sein un lavoro che si suppone scritto
prima della Germ., cioè nel de vita et
moribus Iulii Agricolae, lo autore, non
più preoccupato delle ‘conseguenze della
sua franchezza di linguaggio, chè i tempi di Domiziano erano finiti per sempre, dichiara, con frase
forse eccessiva, falso il trionfo di questo imperatore sui (Germani *, qual
motivo poteva avere l’autore della Germ.
per indicare la stessa cosa con una timida e lontana allusione, mentre si godeva da tutti piena
libertà ? In generale, poi, è da
avvertirsi -che la frase più volte
citata ‘triumphati magis quam uicti sunt ’, se indubitabilmente è detta per i ‘
Bataui” ed i loro alleati, nel pensiero
dell’ autore si doveva eziandio estendere
dalla bravura dei ‘Bataui’ all’indomabile fierezza dei Germani. Dello stesso modo Floro, riferendosi
al breve gaudio delle vittorie di Druso
in Germania, ne concludeva in generale : ‘ quippe Germani uicti magis quam
| domiti erant ’?. II.
Quanto ai ‘ Marcomani’ ed ai ‘ Quadi’ si avverte, nel. cap. 42 della
Germ., che avevano avuto prima i loro re della nobile stirpe di Maroboduo e di
Tudro, ma che poi avevano accolto re stranieri, il cui potere fondavasi
sull’autorità di Roma : questi re, si conclude nel cap. cit., ‘ raro armis
nostris, saepius pecunia iuuantur, nec minus ualent’. Chi siano stati i ‘ reges externi’ imposti da Roma ai ‘
Marcomani ’ ed ai ‘Quadi ’, non ci è
dato saperlo, perchè i fonti fin qui noti
1 Tac. Agr. 3, 2-6; cf. 44, 15, ?
Tac. Agr. 39, 4: cf. la nota precedente.
3 FLOoR, epit. II 30 (IV 12, 30), pag. 101, ed. Halm, non soccorrono per
determinare ne’ suoi particolari il
pensiero enunciato dall’autore !; e di conseguenza non ci è noto in che modo e in qual tempo gli
imperatori romani li abbiano giovati con armi o con danaro. Ma è inesatto affermare che l’usanza di dare ai
principi dei Germani armi o danaro, per
acquistare dei partigiani e sostenere
l’autorità dell’ impero sopra i barbari, sia
cominciata sotto Domiziano *; poichè fin dal 47 d. Cr. l’imperatore Claudio aveva mandato Italico,
nipote di Arminio, a regnare sui ‘
Cherusci”, ‘auctum pecunia, additis
stipatoribus’*; e al tempo dell’ insurrezione di Civile, a. 70, si osservava: ‘Germanos....
non iuberi, non regi, sed cuncta ex
libidine agere; pecuniamque ac dona, quis solis corrumpantur (sc. Germani),
maiora apud Romanos”.* Di modo che il passo
di Cassio Dione, nel quale si dà la notizia che Domiziano mandò a
Decebalo danari e operai abili nei di !
Per i tempi posteriori a quelli in cui fu scritta la Germ. si noverano soltanto i re dei ‘Quadi’ Viduarius,
a. 358 (Amm. Marc. r. g. XVII 12, 21) e
Gabirius, a. 873 (id. XXIX 6,5. XXX, 5,3);
edi principi dei ‘Quadi’ Araharius (id. XVII 12, 12-16), Vitrodorus e
Agilimundus. A qualche commentatore della Germ. (cf. i comm alla Germ. del
Dilthey,265; del Kiessling,151; del
Pais, p: 64; etc.) è parso di scorgere
nella frase ‘iam et externos patiuntur' una probabile allusione a Vamnio, di gente queda, imposto da Druso
(a. 19) come re ai ‘Suebi’ (Tac. ann. II
63. XII 29): e ciò può ben darsi, ma
l'accenno sarebbe sempre riferito ad un fatto anteriore al tempo in cui imperò Domiziano. 2 V. i comm. alla Germ. del Dilthey,265; del
Kiessling, 151 sg.; del Pais,64; del Marina,132. 3 Tac. ann. XI 16, 6. 4 Tac hist. IV 76, 9. Lo stesso concetto
notasi in HERODIAN. de Rom. imperatorum
uita et rebus, VI 7. FI Pn versi mestieri sì in pace che in guerra,
devesi coordinare ermeneuticamente coi ll. citati sopra, e concluderne che
anche prima del 79 d. Cr. si era messa
in atto dagli imperatori romani la politica dei sussidi di armi e
danaro, verso i barbari. III. Nel cap. 45 della Germ. si leggono le
sgg. notizie: ‘ trans Sitonas aliud
mare, pigrum ac prope immotum, quo cingi
cludique terrarum orbem hinc fides, quod extremus cadentis iam solis fulgor in
ortum edurat, adeo clarus, ut sidera
hebetet; sonum insuper emergentis audiri
formasque equorum et radios capitis
adspici persuasio adicit. illuc usque, si fama uera,tantum natura’.*
Vuolsi che tali notizie siano pervenute
dal libro de vita et moribus Iulii Agricolae, al cui autore furono riferite da Agricola stesso,
reduce dalle guerre di Britannia, non
prima dell’a. 85 d. Cr., cioè sei anni
circa dopo la morte di Plinio Secondo. Infatti,
quanto al ‘ mare pigrum ac prope immotum ’, leggesi nell’ Agr. 10, 18: ‘sed mare pigrum et graue
remigantibus perhibent ne uentis quidem perinde attolli ?. Che ivi fosse il limite del mondo ‘ cludique
terrarum orbem ’, riscontrasi in una
frase del discorso di Agricola ai soldati: ‘nec inglorium fuerit in ipso
terrarum ac naturae fine cecidisse’ (Agr. 33, 26). E il fenomeno che osservasi
nelle regioni nordiche *, cioè : 1
Cass. Dion. r. Rom. LXVII 7, 3-4 (Xiphil.).
2 Secondo la recens. Halm e la recens. Io. Mueller. 3 Alcuni commentatori della Germ. (v.il
comm. di U. Zernial, 87; e l’op. cit. del Marina,138 in fine e p.. 140 in
principio, censurano l'autore di essa per aver confuso il nord della Britannia con la Scandinavia; ma la censura
non è giusta, Masini Ae ‘
extremus cadentis iam solis fulgor in ortum edurat, adeo clarus, ut sidera hebetet’, è accennato
nel cap. 12, 9 dell'Agr.: ‘ nox clara et
extrema Britanniae parte breuis, ut finem atque initium lucis exiguo
discrimine internoscas ?. La rispondenza che abbiamo riportata intera
tra le notizie riferite nella Germ. e le
notizie consimili che presenta il libro
de v. et m. I Agricolae, non porta di
conseguenza che l’autore dell’una abbia attinto alle notizie esposte nell’altro libro, ma dà
argomento ad ammettere che tanto chi
scrisse la Germ. quanto l’autore dell’Agr. attinsero le loro notizie agli
stessi fonti, che per questo ultimo
furono confermati dalla narrazione fatta da ‘Agricola, al ritorno dalla
Britannia. E di tali fonti comuni alcuni
sono pervenuti sino a noi, e rendono
agevole il riconoscere che le notizie recate in
principio del cap. 45 della Germ. erano già acquisite alla coltura generale, prima ancora della
spedizione di Agricola in Britannia. Il celebre viaggiatore Pytheas (a. 330 circa
a. Cr.) indica il mare che nella Germ. è
detto ‘pigrum ac prope immotum ’, con la
designazione ‘ pepegyia thàlassa ’.! Anch’egli dovette far menzione delle
chiare notti estive delle regioni
settentrionali, poichè osservò che nell’
estrema Thyle si alternavano nel corso dell’anno sei mesi senza notte e sei
mesi senza giorno *. perchè il
fenomeno della breve durata e della chiarezza delle notti estive osservasi ugualmente tanto
nell’un paese quanto nell’ altro. Cf. Ven. Bepa, hist gentis Anglorum I 1, col.
1jin operum tomus tertius, Colon. Agrip. 1612. 1 STRAB, geogr. I 4,
2 (C. 63), ed. Meineke, v. 1°,82. ?
Prin. n. A. II 75 (77), 187. AE Plinio, movendo dalla osservazione sulle
chiare notti estive in Britannia, cerca
dare una spiegazione del fenomeno notato da Pytheas : egli scrive ‘ aestate
lucidae noctes haut dubitare permittunt, id quod cogit ratio credi, solstiti diebus accedente sole propius
uerticem mundi angusto lucis ambitu
subiecta terrae continuos dies habere
senis mensibus, noctesque e ‘diuerso ad
brumam r emoto ’.' A Plinio si deve anche la divulgazione della rotizia,
che poi venne, probabilmente, confermata dalla relazione orale o scritta di
Agricola, sul ‘mare pigrum ac p. i.’:
egli lo dice ‘mare concretum ?, ed avverte che da alcuni era chiamato ‘ Cronium
’? e che, secondo Philemon, quella parte del
mare che precedeva il ‘ Cronium ’, sino al promontorio ‘ Rusbeae ’,3 era detto dai Cimbri
‘Morimarusa ’, cioè .‘mortuum mare ?’.*
Ma prima di Plinio si era già osservato da Seneca padre che ai confini del
mondo era l’oceano, e dopo questo il
nulla”: concetto che trovasi ripetuto in
parte nella frase della Germ.:* illuc usque,
si fama uera, tantum natura ’; alla quale risponde la frase dell’Agr.: ‘in ipso terrarum ac naturae
fine ”. Resta la difficoltà dell’inciso
‘si fama uera”’, in cui parrebbe
contenersi un accenno alle notizie sull’ alto
1 Prin. n. h. L’ osservazione è ripetuta. ? PLIn. n. A. Vsque ad promunturium
Rusbeas': così nei codd. Leidens. (A),
Riccard. (R), Paris. 6797 (d) e nelle edd. Detlefsen (Berol. 1866), L. Jan (Lips. 1870). ‘ Roudoas’ è
dovuto a correzione di seconda mano nel
cod. Leidens. Lips. 7 (F). Solino
(coll. r. m. 19, 2, rec. Mommsen) lo
trascrive ‘ad promunturium Rubeas”’ 4
PLIN. n. Ah. IV 13 (27), 95. 5 SEN. RHET. suas. I 1,2, ed. Kiessling.
= If. nord, conosciute meglio a
Roma ovvero positivamente confermate da
Agricola dopo il suo ritorno dalla Britannia. Nei codd. leggesi veramente ‘et
fama uera’, che non pochi dei moderni
edd. della Germ. hanno ripresentato. La sostituzione della cong. ‘si’ all’
‘et’ è dovuta ad una congettura del
Grozio ; cosicchè se, per tale
congettura, si può presumere che l’autore voglia presentare un suo dubbio, che
valga a mettersi in contrasto con le
voci ‘ persuasio ’ e ‘ fides ’, con le quali
si annunziano certi fenomeni naturali, quali il rumore del sorgere del sole, le forme dei cavalli e dei
raggi del capo del sole stesso, e lo splendore dei raggi solari persistente fin
dopo il tramonto e tanto da oscurare le
stelle; ogni dubbio si elimina con la lezione ‘et fama uera’, che dà per indubitato il limite del
mondo in quel ‘mare pigrum’, con cui si
cinge e si chiude lo orbe terrestre. Nè
da tale conclusione è possibile allontanarsi, ammettendo col Dòderlein lo
spostamento delle parole ‘et fama uera’
dopo ‘natura’, di modo che l’ intera
frase suoni: ‘illuc usque tantum natura,
et fama uera’. Il Ritter, invece di tentare di risolvere la questione,
la tronca, chiudendo tra parentesi quadre tutta la frase ‘illuc usque, et fama
uera, tantum natura ’.! A noi pare che
si debba, anzi tutto, tener presente l’
avvertenza del Massmann: “libri impressi
iungunt vera tantum natura’.* E, d’ altro canto, 0sservando che nel cod.
Rom. della bibl. Angelica (Augustinorum) Q 5,12 manca la voce ‘usque’ e
stanno 1 P. Cornelii Taciti opera
recensuit FRANCISCvs RITTER, Lps.
1864,651. ? MASSMANN, Op.
cit.,129, nota 23 ConsoLi : ZL’ autore
della Germania. : cy LA accanto ‘illuc ‘ut’, e osservando inoltre che
la particella ‘‘ut’ è data ‘anche,
invece di ‘ et’, dal cod. Florent. della
Laur. 73,20 e dal Vatic. 655, se ne deduce evidentemente che la frase della Germ. dovette sonare: ‘
illuc, ut fama, uera tantum natura’. ! E
con lo scrivere ciò l’ autore non si
propose affermare alcuna cosa sulla verità o me‘‘no delle notizie attinte per
fama intorno all’ argomento studiato, ma
soltanto mirò ad indicare con l’espressione ‘ut fama” un concetto di
limitazione a quanto si soleva affermare
rispetto ai termini del mondo (‘na‘tura ’ ); concetto consimile a quello
significato prima, in rapporto allo
splendore ed alle parvenze del sole, con
le voci ‘fides? e ‘persuasio’. Del
resto, ove non si vogliano accettare le varianti ‘ dei codd. sopra citati, si può sempre
pervenire alla medesima conclusione,
conservando la lez. ‘illuc usque, et
fama, uera tantum natura’; che vale « la natura
vera, ossia il mondo reale, ? si estende fin là soltanto: tale ne è anche la ‘fama ». Talchè l’inciso
‘et fama ’= ‘et fama haec est’ vale a
mostrare che era general‘ mente noto che si estendevano sino a quel punto,
non oltre, i limiti della ‘natura reale. IV.
Per garentire i confini dell’impero dalle in.cursioni dei barbari, si
cominciò a costruire, anche dalla 1 Il
Nipperdey, leggendo ‘usque et fama, ultra tant. nat. ’, conviene, in parte, nello stesso concetto,
togliere, cioè, a ‘ fa‘ma’ l’epiteto ‘‘uera’.
2 ‘“Verus’ non indica soltanto la qualità di ciò che si fonda sulla ‘verità, ma rappresenta anche la
qualità di tutto ciò che ha per base la
realtà o, per ripetere le parole del-GEoRGES,
ausfihrl. Handiob, II 3093, « in der Wirklichkeit begrindet, *wirklich », PERS (3 pe parte del Reno, un ‘limes’ o via fortificata,
per lo più munita di argini (‘aggeres ’)
e di stazioni di guardia (‘praesidia’)',
sotto l’impero di Tiberio ®: fu continuato e probabilmente portato a compimento
sotto Adriano. L’autore della Germ. dà per il primo, anzi il solo, la notizia
che gli ‘agri decumates ’, siti al
sud-ovest della Germania, tra l’ alto Reno e le
sorgenti «lel Danubio, e sui quali il fisco riscoteva, forse, un diritto
di decima dai possessori, ‘ vennero incorporati all’ impero; onde, per la
difesa del territorio annesso, il
‘limes’ insieme coi ‘ praesidia’ si portò
innanzì, oltre il Reno; e però i campi decumati ‘ sinus imperii et pars prouinciae habentur ? (Germ.
29, 19). Quande si fece tale spostamento
? Alcuni dei commen 1 TH. MommsEn, der Begriff des Limes, in
Westdeutsche Zeitschrift fiur Geschichte u. Kunst, a. XIII, fasc. 2°. Vedi inoltre MommsEN-DE
RucGiIERO, op. cit., cap. IV,115, nota l.
2 Tac. ann. I 50, 3 ‘limitemque a Tiberio coeptum”’. II 7, 11 “et cuncta inter castellum Alisonem ac Rhenum
nouis limitibus aggeribusque permunita’ (a. 16 d. Cr.). 8 Cf. SPARTIAN. Hadr. 12, 6; in scriptt. hist. Aug. I p. 14, ed. H. Peter.
Nell'op. cit. MomMseNn-DE RuGGIERO, cap. IV, p. 142, si fa menzione di nuove costruzioni aggiunte
ai ‘ limites’ sotto i regni di Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio.
Notasi inoltre, in un discorso del
console Velio (Vettio ?) Cornificio
Gordiano (a. 275), che alla morte di Aureliano i Germani ruppero il ‘
limes’ transrenano ed invasero alcune forti e ricche città dell'impero: v. Vopisc. Tac. 3, 4, in scriptt. hist. Aug. XXVII p. 187, ed. P. 4 GEFFROY, Op. cit., p. 318 sg. Ma il Mommsen giustamente avverte
che « nè è linguisticamente provato che ‘decumas’ possa significare obbligato alla decima, nè
simili istituzioni son note nell'impero
». Vedi MommsEN-DE RucGIERO, op. cit., cap.
IV, p. 141, nota 11, ELI tatori della Germ. si affrettano ad indicare
il tempo di Domiziano o, in generale,
verso la fine del I sec. ed il principio
del II. ! Tale indicazione porterebbe di
conseguenza che l’autore della Germ. avesse atteso a scrivere il suo lavoro sotto Domiziano o nei
primi tempi dell’ impero di Traiano, in ogni caso dopo l’a. 79. Ciò pare a noi inesatto. Infatti, Domiziano se, per ingannare l’
opinione pubblica, aveva celebrato pseudo-trionfi sui Germani, non ignorava, d’altro canto, che per un mero caso
(cioè, la piena del Reno) aveva superato
la sedizione di L. Antonio, preside della Germania superiore, ? e che ai
confini i suoi eserciti erano stati sopraffatti dai barbari; * talchè, piuttosto che estendere i confini
dell'impero di là dal Reno, per
annettere al suo dominio gli ‘ agri decumates’, avrebbe stimato gran ventura
conservare i confini di prima, senza spingere in avanti il ‘limes’ ed i ‘ praesidia ’. È supponibile che si estendano
i confini del dominio, allorquando ci
sia la possibilità che i nemici vinti
lascino agio di spostare le antiche linee di difegno SM nuove opere militari a
garentia del territorio acquistatà sl ma
quando i nemici sono vincitori e
minacciosi, com@nsi può mai deliberare e
attuare l'accrescimento del terytorio dello Stato ? Non vi ha nemmeno notizia cha setto Traiano
siano stati inclusi dentro i confini
dell'im € gli “agri decu 1 Vedi i comm.
del Dilthey, p. 188; dello ernia, p. 60; del
Pais, p. 49; del Marina, p. 97; etc. x
2 SvETON. Dom. 6 3 Oros. hist.
adu. pag. VII 10, 3 e 4. Orosio &ità in proposito la storia, che or più non abbiamo, scritta da
Cornelio Tacito sulle imprese di
Domiziano. Cf. Tac. ann. XI 1 4
REI (RT mates’. Se Tacito avesse
scritto qualcosa in proposito, narrando
la storia degli imperi di Nerva e di Traiano,
come egli aveva promesso di fare, riserbando il lavoro per gli anni senili,* certo gli storici
posteriori che si valsero delle storie
tacitiane, lo avrebbero in un modo
qualsiasi ripetuto o, almeno, accennato. Si ha, invece, un’affermazione in contrario nel seg. luogo
di Orosio: ‘mox Germaniam trans Rhenum
in pristinum statum reduxit’? Avendo,
per tanto, Traiano restituito le cose
oltre il Reno allo stato pristino, l’illazione non è dubbia, che anche
gli ‘ agri decumates’, siti di là dal Reno,
dovettero ridursi, in conseguenza dei prosperi eventi delle armi imperiali, alla condizione
anteriore, di essere, cioè, ‘sinus imperii et pars prouinciae’. Perciò non si può non inferirne che l’ annessione
dei ‘ decumates ’ all'impero dovette compiersi prima del regno di Traiano, giacchè questi si restrinse a
ridurre la ‘ Germaniam trans Rhenum in pristinum statum”. E poi, se è vero che
Traiano, per un sentimento di vanità indegno di
un prode e glorioso imperatore, avesse fatto scolpire il suo nome sui monumenti eretti per
conservare la memoria di imprese da
altri anteriormente compite, ‘non ut
ueterum instaurator sed conditor’, tanto che
ne avesse avuto il nomignolo ‘ herba parietina ’,* certo si dovrebbe
restare perplessi, ove mai nei campi
decumati o altrove si trovasse qualche memoria lapidea concernente l’annessione dei campi sopra
menzionati, 1 Tac. hist. I 1, in
fine. ? Oros. hist. adu. pag. VII 12,
2. 3 Amm. Marc. r. g. XXVII 3, 7. Cf.
ex Sexto Aur. Victore de uita et moribus
Rom. imperatorum epitome, Ven. 1586, f, 185,
SSR sì dovrebbe; dicevamo, restar
perplessi nell’ attribuire a Traiano:ciò
che prima di lui si era fatto. Se, dunque,
non si può non ammettere l’annessione
dei campi decumati all’ impero, anteriore ai regni di Domiziano .e di Traiano, non è fuor di luogo
il supporre che l’ abbiano attuata i due primi imperatori Flavi, e
probabilmente (poichè è noto che sotto Tito l’impero godè di una perfetta
tranquillità.) il solo Vespasiano, il quale, come avverte Tacito in un luogo
citato da Orosio; riaperse le porte del
tempio di Giano un anno dopo: che egli
stesso le aveva chiuse ?, avendo portato
a. compimento l’impresa contro i Giudei 8.
V. Nel cap. 33 della Germ.
narrasi che il territorio, posseduto un tempo dai ‘Bructeri ’, era stato
occupato dai. ‘ Chamaui’ e dagli ‘ Angriuarii’, posciachè i ‘ Bructeri?” erano stati ‘ penitus excisi
uicinarum consensu nationum, seu superbiae odio seu praedae dulcedine seu
fauore quodam erga nos deorum’; e si ag
1 Oros. hist. adu. pag. VII 9, 13.
2 Oros. hist. adu. pag. VII 19, 4: ‘quas (se. Iani portas) utrum post Vespasianum et Titum aliquis
clauserit, neminem scripsisse memini,
cum tamen eas ab ipso Vespasiano post
annum apertas Cornelius Tacitus prodat’ (ed. Zangemeister). 3 Oros. hist. adu. pag. VII 3, 8; 9, 9. Il
Mommsen ammette che la fondazione della
linea di confine, per la quale si comprese nell'impero la vallata del Neckar,
sia stata opera dei Flavi; ma la giunta
dubitativa « principalmente forse di Domiziano », messa li soltanto perchè, non essendosi
nominato nella Germ. l'autore della
linea di confine « è una prova che questi (l'autore) dovè. essere Domiziano »,
ci pare così priva di fondamento da non
potersi accogliere come notizia conforme al vero. Vedi MomwmsEN-DE RucciERO, op. cit., cap. IV, p.
142 e nota 2 in d.* P. 142. 93
giunge che di essi ‘super sexaginta milia non armis: telisque' Romanis, sed quod magnificentius
est, oblectationi oculisque ceciderunt’. Onde l’autore manda, come dice il Vannucci *, un « fiero e
spaventoso grido» di gioia », esprimendo
un « voto inumano »:: ‘ maneat, quaeso,
duretque gentibus, si non amor nostri,.at certe
odium sui, quando urgentibus imperii fatis nihil iam praestare fortuna maius potest quam. hostium.
discor= diam’. L’esterminio dei ‘ Bructeri’
si compì appunto, secondo l’
osservazione di qualche commentatore: della:
Germ., verso l’ a. 100.* In tal modo, annunciandosi! nella Germ. fatti avvenuti verso il 100 d.
Cr., il libro non potè essere scritto
prima dell’ a. 79. Risponde al vero tale
conclusione ? Noi sappiamo che i ‘
Bructeri’, come in’ generale tutte le
altre genti di stirpe germanica, si mostrarono costantemente avversi ai Romani
:? battuti prima dalle armi romane, ‘
cooperarono alla. distruzione:delle
legioni di Varo;* molestarono, insieme: coi ‘Tubantes’ e gli ‘ Vsipetes
’, la ritirata di Germanico che aveva tratto orrenda vendetta dei ‘Marsi’ (a.
14 d. i C. Corn. Tacito, tutte le
opere con note italiane compilate da A.
VANNUCCI, Prato 1848, vol. IV, p. 274, in nota. 2 Vedi i comm. del Kiessling, p. 127; del.
Marina, p. 105; etc. 8 Narra Suetonio
(Tib. 19) che un Bructero commise un: attentato contro la vita di Tiberio:
l'odio di nazione mutavasi in: odio
contro le persone. 4 VeLL. PaTERC. A.
R. II 105, 1. Cf. l'epit. L CXXXVIII di. T.
Livio. 5 Vedi GEFFROY, Op. cit.,
p. 230. MommsEN-De RuGGIERO, Op. cit.,
cap. I, p. 44: cf. p. 52. Cf. anche A. Wixms, das Sehlachtfeld im Teutoburger Walde, in Neue Jahrbùcher fùr
Philologie u. Paedag. CLIII p. I, fasc.
7; CLV p. I, fascec. 1, 26.3, ei) SR + gp
Cr.)!; ma furono, poco dopo (a. 15), sconfitti da L. Stertinio, che tolse loro l’aquila della 19.*
legione distrutta nella foresta di Teutoburg. ® E ancorchè, edotti dalla sventura e atterriti dalle armi
imperiali, avessero opposto un rifiuto alle insistenti sollecitazioni degli ‘
Ampsiuarii ’, che li incitavano a partecipare alla guerra contro i Romani (a 58 d. Cr.) 3, pure
non tralasciarono di unirsi con Giulio Civile, che aveva suscitato le fiamme
dell’ insurrezione nella Germania e
nella Gallia‘, e presero parte in diversi scontri contro i Romani. La vergine Veleda, che nell’
insurrezione di Civile seppe coi suoi
vaticini accrescere l’ardore patrio degli insorti, mediante il fanatismo
POMEIONA, era appunto di nazione
bructera. ‘ L’insurrezione dei ‘
Bataui’ e degli altri popoli che con
loro si erano levati in armi contro Roma, a poro a poco fu repressa, tra il 70 ed il 71 o 72
d. C. Nulla sappiamo della fine di
Civile : forse ottenne di vivere in
pace, sotto il dominio romano. Ma i compagni di
lui, Classico e Tutor duci dei ‘Treueri’, e i fratelli Alpinio Montano e D. Alpinio personaggi
autorevoli fra gli stessi ‘Treueri’,
forse si salvarono con la fuga, i
Tac. ann. I 51, 7. 2 Tac. ann. I 60,
10. Non sappiamo spiegarci perché nei loro
comm. alla Germ. lo Zernial (p. 65), il Marina (p. 104), etc. vogliano
indicare l'aquila della 212 legione, e il Dilthey (p. 198) l'aquila della 18°, quando le parole precise di Tac.
sono: ‘interque caedem et praedam
repperit (sc. L. Stertinius) undeuicensimae. legionis aquilam cum Varo
amissam'. 3 Tac. ann. XIII, 56. 4 Tac. hist. IV 21, 11. 5 Tac. hist. IV 77, 2. V 18, 4. 6 Tac. hist. IV 61 e 65. _ di forse si uccisero ciascuno di propria mano ';
Giulio Sabino, capo dei ‘Lingones ?’, fu mandato al supplizio ; ? e Veleda fu vista a Roma .dall’autore della
Germ. *, e, come sopra si è detto ',
prigioniera. Dopo il 71 o 72, i ‘
Bructeri’, vinti, dovettero sottomettersi alle condizioni imposte dai Romani
vittoriosì : non avevano più per ispiratrice e guida la fatidica Veleda
‘numinis loco habita’; e della loro prostrazione morale e civile, non ancora
rimarginate le ferite avute nell’ultima
insurrezione batavica, non potevano non profittare i popoli vicini, emuli per
armi, avidi di preda, bramosi di
possedere le loro terre, e forse anche
rivali per comune parentela. Fecero, difatti, lega a danno dei ‘Bructeri’, li
assalirono, li sopraffecero, perchè li trovarono più deboli o impreparati; e
più di sessanta mila ne trucidarono. I ‘Chamaui’ e gli ‘ Angriuarii ’, che
probabilmente si ebbero 1 Tacito fa
menzione di Giulio Classico in Aist. II 14. IV 55; 57; 59; 70; 79. V 19 sgg.;di Giulio Tutor in
Aist. IV 55 ; 57; 59; 70; 72. V 19;
21;dei fratelli Alpinii in hist. III 35. IV 31
e 32. V 19. ? Cass. Dion. r.
Rom. LXVI 16, 2 (Xiphil.). 3 Germ.
8,9. 4 Vedi la nota 3 a pag. 10. 5 Ammesso che, secondo Strabone (geogr. VII
1, 3 (C 291), p. 400 M.), vi fossero
stati dei ‘ Bructeri minores”, e perciò la distinzione tra ‘B. maiores’ e ‘B.
minores”, il Miillenhoff! conget= tura
che i ‘Bructeri maiores’ e i ‘ Chamaui' siano stati lo stesso popolo. In tale ipotesi, i ‘ Bructeri'
che si levarono in armi con Civile
contro Roma, sarebbero stati i ‘B. minores '.
Ammiano Marcellino (r. g. XVII 8, 5) narra che, molti anni dopo, nel 358, i ‘Chamaui’ furono, alla loro
volta, sterminati dall'imperatore
Giuliano, DE la parte precipua in tale guerra di
sterminio, vennero ad occupare le terre
dei vinti.! I ‘ Bructeri” superstiti
all’immane strage, costretti a mutar sedi, restarono sempre un popolo per sè, senza confondersi
con altre genti, ma si piegarono a
sommissione verso l’autorità romana,
tanto da sottomettersi, alcuni anni dopo, al
re imposto loro da Vestricio Spurinna, legato della Germania inferiore .* Tale sommessione
dovette avvenire verso l’a. 97, durante l’impero di Nerva'.3 Or, tra 1 Germ. 33, 2. Non risponde al vero
l’asserzione di alcuni commentatori (v.
per es. i comm. Pais p. 53, Marina p. 104,
etc.) che l'autore della Germ. abbia esagerato nelle notizie date sullo sterminio dei ‘Bructeri’, poichè
egli non dice soltanto ‘ Bructeris penitus excisis uicinarum consensu nationum
”, ma premette ‘ pulsis Bructeris’:
talchè il popolo dei ‘ Bructeri’ non fu completamente annientato. Potrà, forse,
dirsi esagerato il numero dei morti, ‘super sexaginta milia’; ma una statistica ufficiale dei caduti in battaglia,
massime trattandosi di pugne tra popoli
barbari, non era allora possibile. 2
PLIN. epist. Il 7, 2. 8 Così opina il
Mommsen, nell' Index nominum cum rerum
enarratione pubblicato in fine degli scritti di Plinio il giovane, recens. Keil, Lps. 1870, p. 429, 2* c. Arrogi
la considerazione che, ammesso l'ordine
cronologico nella disposizione delle epistole pliniane (cf Mommsen, aur
Lebensgeschichte des jiingern Plinius,
in Hermes III (1869) pp. 31-53), tuttochè contraddetto da Plinio stesso (episf. I 1, 1), le epistole
del 2° lib., tra le quali si annovera
quella cit. concernente Spurinna, furono scritte tra l'a. 97 e l'a. 100. Quando, però, il
Mommsen afferma (vedi MommsEn - DE RucgiERO, op. cit., cap. IV, p. 135) : «
questa catastrofe (la sottomissione dei
‘ Bataui’ e degli altri popoli insorti
con Civile) e le ostilità coi vicini popoli fiaccarono la loro potenza (cioè, la potenza dei ‘
Bructeri’); sotto Nerone essi dovettero per forza accettare dai vicini stessi,
appoggiati indirettamente dal legato romano, un re che non vo: SS, e
il 71 o 72, anno in cui i ‘ Bructeri” insieme coi ‘Bataui’ soccombettero
sotto le armi romane, ed il 97 passa circa un venticinquennio, nei primi anni del
quale si compì la strage e l’espulsione
dei ‘ Bructeri ’, colpiti dalla lega dei
popoli vicini. Indichiamo i primi anni
del venticinquenuio, perchè appare più rispondente al vero, in mancanza di qualsiasi documento in
proposito, che lo sterminio dei ‘Bructeri’ si fosse compito appunto in un tempo più vicino al 71 o 72,
quando questi erano prostrati dalla
vittoria romana sui ‘Bataui’ edi loro alleati, anzichè più tardi, quando,
ricostituitisi nelle nuove sedi, riannodarono relazioni di dipendenza con Roma, e si assoggettarono al
re imposto dal legato romano. Non vi ha, del resto, alcun documento o alcuno
accenno nelle storie antiche, che assegni l’a. 100 o altro anno anteriore o
posteriore all’anno 100, all’avvenimento della distruzione dei ‘Bructeri’ ed
all'immigrazione dei ‘ Chamaui ’ e degli ‘ Angriuarii’ nel territorio bructero
‘iuxta Tencteros?. Poche altre notizie
restano intorno ai ‘Bructeri ?. Dopo i
guai gravissimi inflitti loro dai popoli vicini, essi, come si è detto sopra, non si dispersero
nè perdettero la loro nazionalità nè il nome nella storia.! Nella prima metà del sec. IV sono menzionati
in due panegirici a Costantino ; ®? poi,
nello stesso sec. IV e levano »; egli,
se non c'inganniamo, non ha tenuto presente
che la sommessione dei ‘Bructeri’ ad un re imposto dal legato Vestricio
Spurinna avvenne sotto Nerva, non sotto Nerone. 41 Vedi LEDEBUR, das Land und Volk der Bructerer, Berl. 1827.
2 Incerti pan. Constantino Aug. dictus, 12.
NAZARI pan. Constantino Aug. dictus, 18: in BAEHRENS, XI panegyrici
Latini, VII e X, pp. 169, 227. cin B$
‘nel V si trovano stretti in lega con quelli che erano stati nel I sec. i loro feroci persecutori, i
‘Chamaui ’ e gli ‘ Angriuarii’, e
inoltre coi ‘Chatti’, gli ‘Ampsiuarii ’, i ‘ Sugambri ’, i ‘ Chasuarii ?!:
formavano la potente confederazione dei
Franchi.® Anche il ven. Beda fa menzione
dei ‘Bructeri’, dicendoli ‘ Boruchtuarii ?.?
VI. Il cap. 37 della Germ.
presenta un importante computo di anni.
Se dall’anno 640 di R., in cui per la
prima volta si udì parlare delle invasioni cimbriche, sì giunge al secondo consolato di Traiano, ‘
ducenti 1 Vedi Jos. WoRMSTALL, ueber die Chamaver, Brukterer
und Angrivarier, mit Rùcksicht auf den
Ursprung der Franken und Sachsen. Neue Studien 2: Germania des Tacitus, Gymn.Progr. Miinster, 1888. Il
Millenho£, cit. da U. Zernial, p. 65, opina che gli ‘Angriuarii’ (v. Tac. ann.
II 8, 13; 19,7; 22, 6; 24, 15; 41,.8) e
gli ‘ Ampsiuarii’ (v. Tac. ann. XHI 55, 1; 56, 4) formassero uno stesso popolo,
poichè « Angrivarii ist der rein
geographische Name der Anwohner der Weser oberhalb der Chauken oder spàteren Friesen, und Ampsivarii
nur eine speziellere, wie es scheint, gleichfalls geographische Benennung fiir eine Abteilung des Volkes ». ? Il nome ‘Franci’, adoperato per
significare in complesso più popoli,
appare per la prima volta in una frase del panegirico d’ incerto autore a
Costantino : ‘ terram Batauiam ..... a
diuersis Francorum gentibus occupatam’ (ed. cit. Baehrens VII 5, p. 163).
Ma nella Castori Romanorum cosmographi tabula quae dicitur Peutingeriana, segm.
II, n. 2, in alto, si legge ‘ Chamavi.
qui et Pranci” (1. Franci: la lett. c è corrosa
nella parte superiore): v. Die Weltkarte des Castorius, genannt die Peutingersche Tafel: einleitender Text
von Konrad Miller; Ravensburg,
1887. 3 Ven. BEDA, hist. gentis Anglorum V 10, col. 124, in operum tom. tertius, ed. cit. bh ferme et decem anni colliguntur’. È noto che
Traiano fu la prima volta console nell’
a. 91; fu nominato ad un secondo
consolato per il 98, nel quale anno, per la
morte di Nerva, venne assunto all’ impero: perciò se ne conclude che la Germ. fu scritta in un
tempo non anteriore al 98, se appunto di
questo anno è fatta espressa menzione nel testo del libro. E tale
conclusione si dovrebbe accettare, se
non ostassero alcune considerazioni che non sono da omettersi. L’autore comincia il cap. 37 col menzionare
che i Cimbri, un tempo sì potenti e di
gran fama, si erano ridotti ad una ‘
parua ciuitas ’. Il nome dei Cimbri ! gli
richiama alla mente le memorabili lotte che si erano combattute dai Romani contro i popoli
germanici, a cominciar dal consolato di
Cecilio Metello e Papirio Carbone, a.
641/113. E di qui un breve ‘ excursus ’ sulle
vicende di tali lotte, che si ferma, come sopra abbiamo dimostrato, al trionfo sui ‘ Bataui ’ e sugli
altri popoli insorti con essi, e che
altri vorrebbe estendere sino al trionfo
di Domiziano sui ‘ Chatti’ nell’ a. 83. Nessuno ? È notevole che nella Germ. non si fa
alcun cenno dei Teutoni, che furono valorosi compagni dei Cimbri. Plinio tratta
di loro nella n. A. IV 14 (28), 99. XXXV
4 (8), 25. XXXVII 2 (11), 35. Tacito li
menziona insieme coi Cimbri in hist. IV 73, 12: v. anche VeLL. PATERC. A. R. II 8, 3; 12, 2 e 4.
Pompon. MEL. chor. III 3, 32; 6, 54.
Amm. Marc. r. g. XVII 1, 14. XXXI 5, 12.
Oros. hist. adu. pag. V 16, 1. 9. 14. Ma forse l’autore della Germ. si restrinse a menzionare i soli
Cimbri, perché la guerra contro i Cimbri
ed i Teutoni si indicò pure con la sola espressione ‘ bellum Cimbricum * (v. l’
epit. Ul. LXVII, LXVIII di T. Livio; ma
in Floro epit. I 38 [III 3] ‘ bellum Cimbricum , Teutonicum ’); o forse anche-
perché i Teutoni si reputavano un popolo
celtico : cf. APPIAN. IV 1, 2,
csf accenno vi è intorno agli
avvenimenti che si succedettero sino all’ a. 98, che è il termine del
computo dei 210 anni, fatto, per
incidente, poco prima. E ciò diviene
inspiegabile, se si considera che l’autore, avendo fissato per termine del computo degli anni di
lotta coi Germani l’ a. 98, importante
perchè appunto allora Traiano succedette
al padre adottivo Nerva, non poteva passare
sotto silenzio, tra le altre cose, il fatto che la autorità delle armi romane era a quel tempo
in sì alto pregio da fare ottenere a
Vestricio Spurinna, legato di Nerva, una
vittoria incruenta sui ‘ Bructeri, ferocissima
gens’ germanica, soltanto con la minaccia della guerra e col terrore !. Nè poteva tenere in non cale
i buoni risultamenti dell’ abile direzione
politica e militare di Traiano che, per
assodare il dominio romano sul territorio dei ‘ Mattiaci ’ e per dar fine alle
agitazioni delle tribù germaniche della
regione centrale del Reno, causate dall’ imprudente scorreria di Domiziano,
stette ancora per qualche tempo al comando degli eserciti sul Reno, prima di recarsi a Roma per assumervi
il potere supremo. Pare, inoltre, che
dissoni dalle lodi concordemente date dai contemporanei ai due imperatori Nerva e Traiano, e per il loro savio governo
e per la rinnovata autorità delle armi
romane, il fatto che l’autore della Germ., il quale doveva, giusta la
premessa, estendere le sue
considerazioni ed il suo rapido ‘ excursus’ sino al secondo consolato di
Traiano, si è fermato, invece, alla desolante osservazione ‘ triumphati magis quam uicti sunt’; egli avrebbe dovuto
avere sott'occhio gli avvenimenti che si
compivano, sotto la 1 PLIN. epist. II
7, 2. BRL) pesi è stata nostra, e la Germania è vinta:
‘regno Arsacis acrior est Germanorum
libertas ’. Oltre a ciò il tono
retorico di tutta la frase fa dubitare di esservi stata un’ interpolazione.
Precede e seguc al periodo notato una
considerazione storica che in nulla è
avvantaggiata dal periodo stesso, anzi resta da questo interrotta per dar luogo all’ espressione
enfatica ‘ tam diu G. uincitur ’. Se si
espungesse il periodo considerato, il pensiero dell’autore si mostrerebbe in
gradato svolgimento, moverebbesi eguale
a sè stesso e non interrotto sino alla conclusione ultima che, per quel certo pessimismo da cui è informata, nulla ha da
fare con l’enfasi delle parole espunte. Nè vi è necessità di sostituire alla particella ‘tam ’, che nella
proposizione seg. ‘ medio tam longi aeui spatio multa in uicem damna’ pare collocata in riscontro col ‘ tam’ della
frase ‘ tam diu G. uincitur ’, la voce ‘
tamen’ che è data dal cod. Leid. (0)
nella forma tam®! e, più chiaramente, nella
forma completa tamen dal cod. Neapol. (c) ; perocchè, fatta 1’ espunzione, si regge sempre bene
tutta la frase, che in origine dovette,
secondo ogni probabilità, così esser
letta : ‘ sescentesimum et quadragesimum annum
urbs nostra agebat, cum primum Cimbrorum audita sunt arma, Caecilio Metello ac Papirio
Carbone consulibus. medio tam longi aeui spatio multa in vicem damna’ e. q.
s. A chi attribuirsi l’interpolazione,
se interpolazione ci fu? Può ben darsi
che la si debba attribuire a qualche
antico grammatico , la cui glossa erudita sulla durata 1 Ma avverte il Massmann, op. cit., p. 110,
nota 25, ‘ deleta abbreuiatura ‘,
RARE; A delle guerre germaniche
sia penetrata nel testo; può darsi anche
che sia una giunta correttiva fatta da chi
più tardi scrisse l’ apografo, sur un originale creduto mendoso !. Ma a noi pare di scorgere, nel
testo stesso della frase che crediamo interpolata,
l’ autore della possibile
interpolazione. A nessuno sfugge l’enfasi della
conclusione ‘ tam diu G. uincitur’; e la vittoria sulla Germania è intimamente connessa col secondo
termine del computo fatto, cioè l’ ‘
alter imperatoris Traiani consulatus ’: dunque lo scopo della frase altro non
poteva essere che quello di lodare
l’imperatore Traiano, il cui secondo
consolato aveva il merito altissimo di aver
dato termine, secondo che credevasi verso la fine del sec. I, alla lotta contro i Germani , durata
per più di due secoli. Chi tra gli
scrittori romani vissuti in sul
declinare del sec. I e nel principio del II largì più encomi agli
imperatori Nerva e Traiano fu Plinio il giovane; tanto che uno dei moderni
critici, che con ammirabile dottrina ha trattato della vita e
dell’elocuzione di lui, non ha esitato a
scrivere: ‘nemo quidem possit negare, Plinium in Panegyrico modum in
nuirtutibus Traiani praedicandis
transiisse (cf. pan. 30-82; 40; 57;
59-80), et tum in illa oratione tum in epistolis nonnullis (cf. epist. ud. Tr. imp. 10 (5), 2 [a. 98]; 8
(24), 1 [a. 101]; 31 (40), 1) ex
Bithynia ad Traianum missis sententias inesse plenas immodicae adulationis ac
paene 1 È nota la dichiarazione che
leggesi nel cod. Leid. Perizon. della
Germ., la quale è annoverata tra i ‘ libellos nuper adinuentos et in lucem
relatos ab Enoc Asculano quamquam satis
mendosos” ConsoLI: L’ autore della
Germania. 3 IRE seruilis erga Traianum et Neruam reuerentiae
!. Plinio, inoltre, diede in particolar
modo evidenza al titolo di Germanico
attribuito a Traiano *; fece menzione delle
vittorie di lui nei paesi renani 3; e specialmente s’ intrattenne, con
ampie lodi, del secondo consolato di Traiano ‘. L’a. 98 è per più ragioni anno notevole
per Plinio: gli è conferita da Nerva e
da Traiano l’importante carica di ‘ praefectus aerarii Saturni ’ 5; il suo
amico e protettore Traiano è assunto
all’impero, ed egli si affretta a scrivergli una breve epistola gratulatoria,
esprimendo il voto: ‘ precor ergo ut tibi et per te generi bumano prospera omnia, id est digna saeculo
tuo, contingant ’ $. Nell’a. 98, in fine, si reputarono dai Romani come finite, per l’ opera prudente di
Traiano, le lotte bisecolari contro i
Germani, con la sottomissione di
questi. Non sarebbe perciò una
congettura priva di fondamento l’ammettere che Plinio il giovane, rendendosi
interprete de’ sentimenti suoi e de’ suoi contemporanei , sentimenti di soddisfazione e di gioia per i
vantaggi apportati dagli avvenimenti
dell’ a. 98 all’ impero romano, avesse inserito in una parte dell’opera dello
zio, 4 J. P. LAGERGREN, de vita et
elocutione C. Plinii Caecilii Secundi, Vpsaliae 1872, pp. 12-13; in Uysala
universitets aarsskrift, 1871, V. ?
PLIN. pan. 9, 2. 14, ). 3 PLIN. pan.
14, 1-5. 82, 4-5. PLIN. pan. 56,
3-7. Vedi Mommsen, sur Lebensgeschichte
d. j. Plin. sopra cit.; e l'art. dello
StoBBE nel Philologus XXVII, p. 641: donde la
notizia riferita dal LAGERGREN, 0. c., p.4; e dal NicoLaI, G. d. r.
L.,n. 115, p. 640. Cf. TEUFFEL-SCHWABE, G. d. r. L, © n. 340, 1, p.849;
ete. 6 PLIN. epist. ad Tr. imp. 1, 2.
(SISI ini BB intitolata bellorum Germaniae uiginti ll. (la
quale parte sarebbe probabilmente quella
stessa pervenuta a noi col titolo de orig.
et situ Germanorum) la frase sopra notata del cap. 37, a fin di computare la
durata delle guerre germaniche sino
all’a. 98, in cui, dopo sì lungo tempo,
la Germania era stata completamente vinta.
Nè certamente sarebbe stato intendimento di Plinio violare con una postilla, che ora appare
interpolazione, il libro del dotto
scrittore, il quale era a lui zio e padre
adottivo affettuoso, ma rendere il libro delle guerre germaniche meglio rispondente ai tempi in cui
cominciò a farsene la pubblicazione , cioè verso la fine del sec. I. Quante volte non occorre a noi,
oggidi, nel pubblicare un libro di autore antico, di aggiungere delle note nelle quali si accenni, per completare o
chiarire i concetti espressi nel testo,
ad avvenimenti posteriori alla vita
dello scrittore ? Ma al tempo dei Romani non
avevasi il mezzo odierno di distinguere le postille e le note dal testo; talchè sovente queste
penetrarono nel testo stesso , dal quale
indistinte si riprodussero negli
apografi scritti in tempi seriori; e da ciò il lavoro, non facile nè sempre sicuro ne’ suoi
risultamenti, della critica moderna, di espungere dai testi classici tutto
ciò che si considera come interpolato. Un altro argomento ci conferma nella nostra
congettura. Plinio il giovane nell’epistola a Bebio Macro, nella quale espone in ordine cronologico i libri
dello zio, nota tra questi : ‘ bellorum
Germaniae uiginti, quibus omnia quae cum
Germanis gessimus bella collegit ’. ! Evidentemente, poichè l’epistola fu
scritta l’a. 101, come tutte 1 PLIN.
epist. III 5, 4. 36 le altre contenute nel lib. 3°, con la
frase ‘ omnia q. c. G. gessimus bella’,
si allude a tutte le guerre combattute contro i Germani sino a quel tempo in
cui credevasi comunemente che fossero
finite per l’opera sagace di Traiano, cioè sino all’a. 98; e nella voce ‘
gessimus ’ si travede il pensiero che la narrazione storica di Plinio Secondo era stata prolungata dal
nipote sino a comprendere tutte le
guerre germaniche ; chè, se si fosse
ristretta alle sole guerre combattute mentre era ancora in vita Plinio Secondo, ed avesse
conservato lo scopo precipuo per cui era
stata scritta, cioè salvare ‘ ab iniuria
obliuionis’ la memoria di Druso Nerone, sarebbesi detto obiettivamente ‘ gesta
sunt’: nella voce ‘ gessimus’ si scorge non difficilmente la persona di chi
ha scritto l’epistola a Bebio Macro. In
tale argomento soccorre l’autorità di Suetonio, il quale, scrivendo di
Plinio Secondo : ‘ itaque bella omnia,
quae unquam cum Germanis gesta sunt, XX
uwoluminibus comprebendit ’,' da un canto ripete l’espressione di Plinio il
giovane ‘omnia bella ?, e dall’ altro
canto con 1° uso del verbo ‘ gesta sunt”
dà evidenza al tempo sino a cui erano state
narrate le guerre germaniche. Si
aggiunga un’altra considerazione. Plinio Secondo nella pref. alla sua nat. Rist. serive : ‘
uos quidem omnes, patrem te fratremque
(sc. Vespasianum, Titum, Domitianum), diximus opere iusto, temporum
nostrorum historiam orsi a fine Aufidi
Bassi. ubi sit ea quaeres ? iam pridem peracta
sancitur, et alioquin statutum erat
heredi (cioè al figlio adottivo, Plinio il giovane) mandare, ne quid
ambitioni dedisse uita iu 1 V. pag. 5,
nota é. GI dicaretur”’'. Era quindi proposito di lui,
a fin di evitare la facile accusa di
avere alterato il vero per mire
ambiziose , affidare al figlio adottivo, che, giovinetto, molto aveva appreso
dalla molteplice e copiosa dottrina del
suo secondo padre, l’incarico di pubblicare,
dopo la sua morte, i lavori storici che gli affidava, e forse anche di limare o farvi delle opportune
giunte, per rendere la pubblicazione
meglio adatta ai tempi in cui essa aveva
luogo. Che vale, infatti, la frase ‘ peracta sancitur’ se non, come spiega Io.
Harduinus, ‘ accuratius elimatur, castigatur ° ?*? Non poteva forse il
figlio adottivo , valente letterato
anch’ egli, prender parte a tale ‘ limae
labor ’, dopo la morte dell’ autore, avendo
l’obbligo di pubblicare i libri di lui? E, dal canto suo, Plinio il giovane aveva, quanto alla storia,
una certa competenza, perchè aveva
atteso agli studi storîci secondo l’ es. paterno, come egli stesso dichiarava :
‘ me uero a«l hoc studium (sc.
historiae) impellit domesticum quoque
exemplum 5. Gli antichi non può dirsi
che siano stati molto serupolosi nel metter mano sui lavori altrui, per
emendarli, 1 PLIN. n. A. praef. 20. Ma
il Detlefsen (ed. Berl. 1866) accoglie la lez. ‘ per acta sancitum et alioqui
’. 2 Vedi C. Plin. Sec. hist. nat. Ul XXX VII quos
interpretatione et notis illustrauit
IoanNES HARDVINVS, Paris. 1741, t. I, p.
4, not. 7. Ma nelle ‘ notae et emend. ad
1. I', n. VI, p. 7, spiegandosi il perchè sia stata preferita nel testo la jez.
‘ peracta sarcitur’ invece di ‘ sancitur
’, si aggiunge: ‘ hoc est, reuocatur,
retractatur, accuratius elimatur, ad polituram sarcitur; uti de araneae tela Plinius ipse loquitur’ (n. A. XI
24 (28), 84 ‘ ad polituram sarciens
’.) 8 PLIN. epist. V 8, 1 e 4. 38
massime quando questi non erano stati ancora pnbblicati. Che non si
disse per le commedie di Terenzio, emendate e forse preparate da Scipione
l’Africano e da C. Lelio ?! Anneo
Cornuto lasciò forse intatte le satire
dell'amico e discepolo suo Persio Flacco ? ?. È superfluo addurre altri esempi: ci basti rammentare
che, se le mani di L. Vario e di Plozio
Tucca si astennero dal profanare il poema lasciato incompleto da Virgilio, ciò
avvenne per espresso ordine di Augusto, cui non era lecito disubbidire ?. VII.
A niuno, poi, sfugge l’ osservazione che nella Germ. non si fa cenno dei rapporti di tregua
e di guerra tra i Romani ed i Germani,
dopo il regno di Vespasiano. Nulla si dice della venuta in Roma, verso l’
a. 85, di* Masyos, re dei ‘ Semnones ’,
e di Ganna, vergine fatidica, che
succedette a Veleda: entrambi furono accolti onorevolmente da Domiziano.
Trascurasi di menzionare 1’ impresa di Domiziano contro i ‘ Chatti”; chè, come si è dimostrato sopra, non può indursi
un’ allusione a tale impresa dalle ultime parole del cap. 37 ‘ proximis temporibus triumphati magis quam
uicti sunt’. Omettesi di far menzione
della spedizione di Vestricio Spurinna
contro i ‘ Bructeri’, dopo la morte di Domi
4 Vedi Cic. ad Att. VII 3, 10. QvinTIL. è. 0. X 1, 99; ed un framm. del libro de poetis di Suetonio, ed.
Roth 1882, p. 293, 5-6. 2 V. la vita A.
Persii Flacci de commentario Probi Valeri
sublata: il Roth la omise nella sua ed. dei framm. di Suetonio. 8 SERV. comm. in Verg. Aen. I: ‘ Augustus
uero, ne tantum opus (sc. Aeneis)
periret, Tuccam et Varium hac lege iussit
emendare, ut superflua demerent, nihil adderent tamen’: vol. I, fasc. 1°, p. 2, ed, Th. dia
ziano: ed altre omissioni potremmo aggiungere. Invece tutto ad un tratto si passa dalle notizie
sopra avvenimenti occorsi durante il regno di Vespasiano al secondo consolato di Traiano ; e sì importante lacuna
dà .nuovo argomento a sospettare
interpolato il passo del cap. 37, del
quale si è sopra a lungo discusso.
Cosicchè, e per i molteplici argomenti che ci offre il testo della Germ., convenientemente
interpretato, e per gli argomenti
esterni sopra esposti, non puossi non riconoscere che nella Germ. non sono
menzionati avvenimenti posteriori all’a. 79 d. Cr.; e però sorge spontaneo il
dubbio che non Tacito, istoriografo fiorito alquanti anni dopo, ' ma Plinio
Secondo (se è da non tenersi conto di Aufidio Basso, scrittore anch’egli di
guerre germaniche) possa essere stato l’
autore della Germ. ; o meglio, che
questa in principio abbia formato parte,
come una digressione necessaria, dei venti libri bellorum Germaniae. Nè
quarantasei capitoli (si direbbero
meglio paragrafi) di un’introduzione o di una digressione, quanti se ne
contano appunto nella Germ., si possono ritenere troppi per un lavoro storico
che ha il ‘ suo svolgimento in venti
libri; poichè è noto che la digressione
sull’Africa è di non breve estensione nel d.
Iug. di Sallustio; e similmente la digressione di Tacito sulla
Britannia, nel libro de vita ef moribus Iulii
1 Il libro de wita et moribus Iulit Agricolae, primo, in ordine cronologico, dei lavori di Tacito, è dell'a.
98: diciamo primo, perchè pare ormai
dimostrato che il dial. de oratoribus non
sia lavoro di Tacito. Vedi L. VALMAGGI, nuovi appunti sulla critica recentissima del dialogo degli
oratori, in Rio. di filol, e d'i. cl, a.
XXX, fasc. 1°, p. 23. PRE (pn Agricolae, occupa non meno di sette capitoli;
e l’altra digressione di Tacito stesso
sulla Giudea si svolge in ben dodici
capitoli sui ventisei cc. del lib. V delle Rist., il quale non ci è pervenuto completo. diri
CAPITOLO SECONDO La Germania
nella tradizione degli scrittori sino ai
tempi del Rinascimento. Costantemente
si è indicato Tacito quale autore della
Germ., sin dal tempo in cui l’aureo libretto fu scoperto e rimesso in onore insieme con tanti altri
tesori letterari dell’ antichità. Su quale fondamento si poggia tale indicazione ? L’ indagheremo nel
presente capitolo. I. Tacito fu sempre considerato dagli scrittori posteriori, sia dell’ età antica sia del
medio evo ', come ‘scriptor historiae Augustae ’ ?, o ‘ qui post Augustum usque
ad mortem Domitiani uitas Caesarum
triginta uoluminibus exarauit ’ 8, o semplicemente ‘ annalium scriptor
’‘, o con altra indicazione analoga; 1
Vedi EMMERICH CoRrNELIvs, quomodo Tacitus historiarum scriptor in hominum memoria uersatus sit
usque ad renascentes literas saeculis XIV et XV; inaug. diss. Marpurgi
Chatt. 1888. M. MANITIUS, Beitrtige sur
Geschichte d. ròmischer Prosaiker in Mittelalter, II, in Philologus, N. F. I
(1889), pp. 565-566. 2 Vopisc. Tac. 10,3; in scriptt. hist. Aug. XXVII p.
192, ed. P. 3 HreRoNYM. comm. in Zach.
IIl 14, t. VI, coll. 913-914, ed.
Vallars., Veron. 1736. 4 IoRDAN.
de or. act. Get. 2, 29, p. 3, ed. A. Holder. È però probabile che Iordanis, citando con inesattezza ‘ Cornelius
annalium seriptor ’, mentre ripete le notizie contenute nel libro de u. et m. Iul. Agric., cc. 10, 11, 12,
riferisca osservazioni e notizie non
attinte direttamente ai libri di Tacito.
5 Omettiamo l’ epiteto ‘sane ille mendacium loquacissimus ’, dato a Tacito da TERTVLL. apologet., cap. 16,
pp. 47-48, Cantabrigiae 1686: le necessità della lotta rendevano talvolta
ingiusti i primi apologisti del Cristianesimo. ii dI
e in generale, anche quando non fu indicato, in forma di epiteto aggiunto al nome proprio, il
genere letterario da Tacito coltivato, si citarono i luoghi degli annali o delle istorie, talvolta nominandosi
Tacito autore, talvolta omettendosi il nome di lui. Il nome dell’autore non sempre è indicato
nello stesso modo. Tertulliano ',
Vopisco ?, San Girolamo *, Orosio 4,
Apollinare Sidonio *, etc. lo nominano ‘ Cornelius Tacitus ’. Lo stesso
nome ‘ Cornelius Tacitus” osservasi in
uno scolio di Giovenale © e in un luogo degli annales Fuldenses di Rudolf, monaco di Fulda, il
quale si valse della prima parte degli
ann. di Tacito per la sua compilazione storica che va dall’ 838 all’ 863 ?; si
nota an 1 TERTVLL. apologet. |. l1.: egli cita Tac Rist. V 3; 4; 9. ? Vopisc. Auretian. 2, 1. Tae. 10,3; in
seriptt. hist. Aug. XXVI, XXVII, pp. 149,192, ed. P. Sul 1° luogo di Vopisco, che nota di menzogna Livio, Sallustio, Tacito e
Trogo Pompeo, il Petrarca osserva:
‘notat ystoricos, immeriter puto, precipue
(sic) primos duos’. Vedi P. pe NoLHac, Petrarque et l’humanisme d'aprés un essai de
restitution de sa bibliothèque, Paris
1892, p. 258. 3 HiERoNYm. l. l. sopra, in nota 3, pag. 4l. 4 Oros. hist. adu. pag. I 5,1 (cf. Tac.
hist. V 7). VII 3,7 (cita un luogo delle
Aist. di Tac., forse del lib. VI o VII, non pervenuto a noi). VII 10, 4 (cita
un luogo di Tac., che si è perduto: cf. Tac. hist. III 46. Cass. Dion. r. Rom.
LXVII 6, 1; 7, 2; etc.). VII 19, 4 (la
notizia che dà nel ]. c. non è in quel che
ci resta dei libri di Tac.). VII 27, l (cf. Tac. Rist. V 3, sgg.).
5 APOLLIN. SIpon. carm. 23, 153 sg. ‘et
qui pro ingenio fluente nulli, | Corneli
Tacite, es tacendus ori’: ed. Luetjohann,
in monum. Germ. hist., Berl. 1887, t.
VIII, p. 253. 6 Schol. Iuuenal. V
14,101 ‘cuius (sc. Moysis) Cornelius etiam
Tacitus meminit’: cf. Tac. hist. V 3. 7 Ann. Fuld. a. 852 ‘super amnem quem
Cornelius Tacitus, 49-= che in un’ epistola di Pietro di Bluis! e
(tralasciando di menzionare Frekulf,
monaco di Fulda e poi vescovo di
Lisieux, Giovanni di Salisbury, Vincenzo di Beauvais, i quali, come ormai è accertato, conobbero
Tacito solo di nome ?) in un’ epistola e
altri Il. degli scritti del Boccaccio 3,
nel comentum super Dantis Aldigherij co
scriptor rerum a Romanis in ea gente gestarum, Visurgim, moderni uero Wisaraha uocant’: in PERTZ,
monum. Germ. hist. vol. I, p. 368. Vedi
per le citazioni tacitiane negli annali di
Fulda e nelle res gestae Saronicae di Widukind, monaco di Corwey, la diss. cit. del Cornelius, p.
38. 4 PETRI BLESENSIS Bathoniensis in
Anglia archidiaconi opera omnia, Paris.
1667, epist. 101 ad R. archid. Nannet, p. 158, col. 2° ‘ profuit mihi frequenter inspicere......
Corn. Tacitum, Titum Liuium' e. q. s. Ma
A. HorTis, studj sulle opere latine del Boccaccio con particolare riguardo alla
storia della erudizione nel m. evo e
alle letterature straniere, Trieste 1879, p. 425, dubita che « Pietro di Blois conoscesse più in là del
nome di Tac. ». Consente in ciò F. RamorINO, Corn. Tac. nella st;ria della
coltura, 2* ed., Milano 1898, p. 91,
nota 38. Vedi la diss. c. del Cornelius, p. 41. ? Vedi HoRTIS, op. cit., p. 425, nota 3, e
le monografie, ivi menzionate, di E.
Grunauer sui fonti della storia di Frekulf,
dello Schaarschmidt su Giov. di Salisbury, dello Schlosser su Vinc. Bellovacense. Il Petrarca non scrisse
mai il nome di Tac., che tuttavia egli
non poteva ignorare, poichè l’amico suo
Guglielmo da Pastrengo ne aveva fatto cenno nel libro de orig. rer., f. 18: v. P. pE NoLHAC, op. cit., chap. VI, p. 266. 3 Boccaccio,
epist. ad Nic. de Montefalcone : ‘ quaternum quem asportasti Corn.i Tac.i quaeso saltem mittas
': v. FR. CORAZZINI, le lettere edite e
inedite di messer G. B. trad. e comm. con
nuovi documenti, Firenze 1877. La lettera porta la data ‘ Neapoli XIII
kal. februarii’, ed è del 1371: v. Gustav KoERTING, G. d. Litterat. Italiens im Zeitalter der Renaissance ; II
(Boccaccio *s Leben u. Werke), Leipz. 1880, cap.
I, pag. 47. Il Boc i d4 moediam di Benvenuto de Rambaldis da Imola
!, nel liber Augustalis?, nello scritto
de wiris claris di Domenico Bandini aretino ®, in una lettera del 1395 di Coluccio Salutati , 4 etc. .5- Anche del solo
nome ‘ Ta caccio ripete il nome Cornelio
Tacito altre due volte nel cap. IV, p.
201 e p. 253, del comento sopra la Commedia di D. A. iv. opere di m. G. B. cittadino fiorentino,
con le annotazioni di A. M. Salvini,
vol. V, Firenze 1724); ed una sola volta nel
libro gen. deorum, INI 23, f. 28, ed. Parigi 1517. I detti luoghi del Bocce. si riferiscono ai luoghi di T'ac.
ann. XV 57 e 60-65. hist. Il 2-3. 1 Comentum Inferni, c. IV, t. I, p. 152
‘sicut patet apud Cor-° nelium
Tacitum': ed. Jac. Phil. Lacaita, Florentiae 1887. Vedi per la citaz. tacitiana concernente Cleopatra
(c. VI) le considerazioni del Ramorino, disc. c, p. 93, nota 43. ? Liber Aug.c.5 ‘de... Messalina scribit
Cornelius Tacitus ’; in FREHER-STRUVE,
rerum Germanicarum scriptores, t. II, p. 6.
Ha dato evidenza alla citaz. il MANITIUS, Beitrige zur G. d. r. Pr. im Mittelalter sopra cit., p. 566. 3 Il Bandini scrive di Tacito: ‘ Cornelius
Tacitus orator et hystoricus
eloquentissimus’. Vedi l’ epistolario di CoLuccio SaLUTATI, edito da Fr.
Novati, III p. 297, nota. 4 C.
SALUTATI, epist. IX 9, vol. III, p. 76, ed. cit. 5 Ci fermiamo con le nostre citazioni alla
fine del sec. XIV: non è necessario
perciò ripetere le citazioni tacitiane che si notano negli scritti dei più autorevoli umanisti del
sec. XV, quali Sicco Polenton, Poggio
Bracciolini, Francesco Barbaro, Giov. Tortelli,
Flavio Biondo, Lor. Valla, L. B. Alberti, card. Bessarione, etc. Vedi VoIGT-VALBUSA, il risorg. dell'antichità
elass., Firenze 1888, v. I, pp. 250-257.
R. SABBADINI, storia e critica di alcuni testi
latini, in Museo it. di ant. class. ( Comparetti ), Firenza 1890, v. III, p. 339 sgg. In. notizie
storico-critiche di alcuni codd. latini,
in Studi ital. di filol. class., Firenze 1899, v. VII, pp. 119132. In. Za
scuola e gli studi di Guarino Guarini veronese,
Catania 1896, p. 101, e il doc. 16 a pp. 193-194. 45
citus’ si valsero Vopisco ! e Apollinare Sidonio ?: quest’ ultimo 1’ unì
con ‘ Gaius ?.* Ma da altri si preferì
l’ uso del solo nome “ Cornelius ’ ‘ : talora vi si aggiunse ‘ Gaius ?.
5 Non pochi citarono dei luoghi
tacitiani senza però nominare l’ autore; così troviamo ripetuti, e talvolta
quasi alla lettera, alcuni passi delle
rist. e degli ann. di Ta 1 Vopisc. Prob.
2, 7;in scriptt hist Aug. XXVIII p. 202, ed. P.
‘non Sallustios, Liuios, Tacitos, Trogos atque omnes disertissimos
imitarer”’. 2 APOLLIN. Sipon. epist. IV 22, 2. carm. II 192: ed.
Luetjohaan, p. 73 e p. 178. 3 APOLLIN. Sipon. epist. IV 14, 1 ‘ Gaius Tacitus unus e maioribus tuis’, p. 65; ma
nel cod. Paris. 9551 (F.del Luetj.) c' è
‘tacius corneli”. C£. col |. c. di Sidonio Tac. hist. V 26.
4 Oros. hist. adu. pag. I 10, 1 (cf. VII 34, 5); 10, 3 (cf. Tac. hist. V 3); 10, 5. VII 9, 7 (cf. Tac. hist. V
13. SveToN. deperditorum librorum reliquiae, ed. Roth, IX, p. 287). APOLLIN.
SIpon. epist. IV 22, 2, ed. cit., pp.
72-73. Sehol. Iuuenal. I 2,99 (ef. Tac. hist. libb. 1, II). IORDAN., Op. c., 2, 29.
Boccaccio, com. sopra la Comm. di D. A.
pp. 202, 254, vol. e ed. cit. L. BRUNI, laudatio urbis Florentinae (cf. Tac. hist. I 1.
KrrNER, laud, urb. FI. L. B., Livorno
1889, pp. 19, 30). Omettiamo di citare il chron. Cas. di Petrus, che nel catal. dei libri della badia
di Montecassino annovera ‘ historiam Cornelii cum Omero (sîc)', perchè,
come bene avverte A. Hortis, op. c., p.
425, n. 2, la riunione del nome Cornelio con quello di Omero farebbe pensare «
piuttosto allo Pseudo-Cornelio Nipote
... ben noto per le sue attinenze con le
istorie troiane di Ditti e Darete ». 5
APOLLIN. Sipon. epist. IV 22, 2 ‘ cum Gaius Cornelius Gaio Secundo (se. C. Plin. Caecil. Sec.) paria
suasisset’; ed. c., p. 72: cf. PLIN.
epist. V 8, TRE BENE gene
cito, in Sulpicio Severo , ! Orosio, ? e nello scoli aste di Giovenale. ® Vi ha una frase di Cassiodorio,
che pare desunta dalle storie di
Tacito.‘ Anche il Boccaccio si valse,
come abbiamo veduto, di Tacito , © talvolta senza 1 SvLP. SEv. chronica quae uulgo
inscribuntur hist. sacra (in S. S. opera
studio et lab. Hier. De Prato, t. II, Veron.
1754) II 28, p. ì59 (cf. Tac. ann. XV 37 in fine); II 29, pp. 160-161 (cf.
Tac. ann. XV 40 e 44 in fine). È probabile che quanto scrive Sulp. Sev. ‘ de Hierosolymorum supremo die’
II 30, pp. 163166, sia stato preso da un luogo ora perduto del lib. V Aist.
di Tac.: v. la nota 6* a p. 164, col.
1°, ed. c. ; e inoltre BERNAYS, de
chronicis Sulpicii Seueri, p. 55 sgg. Per uno strano invertimento dell’ ordine
logico, P. Hochart nel suo libro de l’ authenticité des ann. et des hist. de
Tac., Paris 1890, pp. 200-201, scambia
l’effetto con la causa, e ammette che il presunto falsificatore di Tac. abbia
copiato da Sulpicio Severo quello che in
realtà costui copiò da Tac. ? Oros. hist. adu. pag. VII 4, 11 (cf. Tac. ann.
IV 62 e 63); 4, 17 (cf. Tac. ann. II 85
in fine). 3 Schol. Iuuenat. 1 5, 108 : cf. Tac. ann. XV 62. 4 Casson. war. XI 3i, p. 157, 2* col., in M.
A. CassioporI 0pera omnia, ed. J. Garet.,, Ven. 1729, t.I: ‘more maiorum scuto supposito "; cf. Tac. /A'st. IV
15, 10 ‘inpositusque scuto more gentis
’. 5 Il Boccaccio ebbe conoscenza di
Tac. ann. Il. XII-XVI e hist. ]l.
IIT-]II, perchè se ne avvalse, senza menzionare i fonti, negli ultimi capitoli del libro de claris
mulieribus, per narrare la vita di
Epicharis la cortigiana (c. 91: cf. Tac. ann. XV 5157), di Pompeia Paolina,
moglie di Seneca (c. 92: cf. Tac. ann.
XV 60; 63; 64), di Poppea Sabina, amante e poi sposa di Nerone (c. 93:
ct Tac arn. XIII 45 e 46. XIV 60-63. XV 23. XVI
6), di Triaria, moglie di L. Vitelliv fratello dell’ imperatore (c. 94: cf. Tac. Aist. II 63. III 77); e
aggiungiamo anchela vita di Agrippina,
madre di Nerone (c. 90: cf. Tac. ann. Il. XII-XIV), sebbene le notizie possano essere state prese
da SvETon. Claud. 26. 29. 39. 43. 44.
Ner.6. 9. 28. 34. 35. Vedi ScHUECK, Boccaccio's RESO ge
nominarlo. ? II. Quanto alla Germ. non vi è, sino al sec. IX, scrittore alcuno che ne abbia fatto
menzione.o ne abbia tratto vantaggio, ripetendo o imitando qualche luogo di
essa. Si è preteso scorgere un accenno alla Germ. c. 45 ed al nome dell’ autore della stessa
(Cornelio) in un’ epistola di
Cassiodorio *, con la quale il re Teodorico ringrazia il popolo degli ‘ Haesti
? 3 per un dono di ambra. Nell’ ep. di
Cassiodorio si legge : ‘ succina quae a
uobis ... directa sunt, grato animo fuisse suscepta: quae ad uos oceani unda descendens, hanc
leuissimam substantiam, sicut et
uestrorum relatio continebat, ex
lateinische Schriften, in Jahrbb. fiur Philol. u. Pidag. CX (1874),
p. 170 sgg. A. HoRTIS, op.c., pp. 425-426. G. KOERTING, Op. c., VII, p. 393. P_ pE NoLHAC, op. c., chap. VI, pp. 266-267: e
Boccace et Tacite, in Mélanges de l Ecole de Rome, t. XII, 1892. RAMORINO, disc.
c., p. 92, nota 4l. 1 Dal novero degli
scrittori che nell'età di mezzo si valsero
di Tac., senza menzionarlo, dobbiamo escludere l’autore ignoto della vita Heinrici IV, vissuto nel sec XII,
non ostante che il Cornelius vi trovi
delle frasi, in cui sembrano riflettersi certe
espressioni che si notano negli ann. di Tac.: v. MANITIUS, Beitr. cit. p. 566; RAMORINO, disc. c., p. 91, nota
40. E si deve altresi escludere dal
novero Guglielmo di Malmesbury che, in un luogo
dei gesta reg. Angl. c. 68, ed. Hardy, I 95, con la frase * incredibile
quantum breui adoleverit’ pare che abbia voluto riprodurre la frase tacitiana,
Gist. II 73, 1 ‘ uix credibile memoratu
est quantum ... adoleuerit’; poichè la stessa frase leggesi in SaLL. Cat. 6, 2 ‘incredibile memoratu est
quam facile coaluerint'; e ciò avvertiva sin dal 17-III-1390 il GaABOTTO, in un
art. pubbl. nella Rio. di filol. e d’i.
el. XIX (1891), pp. 397-308. 2 Cassion.
uar. V 2, ed. c., t. I, p. 73. 3 ‘
Aestii ’, secondo il testo della Germ. 45, 8. 48
portat; sed unde ueniat, incognitum wos habere dixerunt, quam ante omnes
homines patria uestra offerente
suscipitis. haec quodam Cornelio scribente legitur in interioribus insulis oceani ex
arboris succo defluens, unde et succinum
dicitur, paulatim solis ardore coalescere.
cum in maris fuerat delapsa confinio, aestu alternante purgata, uestris
littoribus tradatur exposita.’ Or, il ‘ quidam Cornelius scribens’ non è, come affermano alcuni ,' Corn. Tacito,
autore delle hist. e degli ann., ma ‘
Cornelius Bocchus ?. Il Peter nota,
infatti, il l. cit. di Cassiodorio tra i frammenti delle storie di ‘ Cornelius Bocchus ’ ; * ed
è noto che Plinio Secondosegna questo scrittore il quarto tra gli autori i cui
scritti gli servirono di fonti per compilare
il libro XXXVII della sua naturalis historia :3 e appunto nel libro
XXXVII trattasi del sucino o ambra ,'
1 Vedi MASSsMAnN, op. c., pp. 158-159. TH Finck, Germ. herausgegeben u. erlàutert, Gòttingen 1857, p. 14, nota
2. GEFFROY, Op. c., p. 97. A: Pars, comm. cit, p. XIX. MARINA, Op. c., p. 4; 2. RAMORINO, disc. c., p. 31. etc. ? Historic. Rom. fragmenta, ed. Peter, Lps.
1833, p. 298, n.° 8,* Vedi Mommsen,
introd. ai coll. r. m. di Solino, p. XVII.
3 PLIN. n. h. I ex auctoribus l. XXXVII. Si valse anche delle opere di
Bocco per compilare i Il. XVI, XXXII e XXXIV;
ma in questi u'timi due si cita solo ‘ B»echus', senza il nome * Cornelius.
4 PLIN. n. A. XXXVII 3 (11), 42 e 43. Le notizie sull'’ambra, date da Bocco e raccolie da Plinio, furono
poi ripetute da SoLIN. coll. r. m. 20, 9 sgg. Vedi il comm. c. del DiLTHEY, pp.
290296; e WoLFGANG HELBIG, osseroazioni sopra il commercio dell’ ambra, in Atti d. Accad. d. Lincei,
1877 : inoltre v. le pp. 184-189 della
dissertazione di ETTORE PAIS, intorno alle più antiche relazioni tra la Grecia
e l'Italia, in Riv. di filol. e di. cl.
XX (1892). Rea GEA e vi si esprime lo stesso concetto
annunciato da Cassiodorio, con parole quasi consimili. Nè vale il dire che nelle voci ‘ legitur, insulis, ex arboris
succo, solis ardore’ del 1. ce. di Cassiodorio si ripetono le voci del testo della Germ. c. 45 ‘legunt, legitur,
sucum arborum, insulis, solis radiis’; poichè, oltre la ripetizione del concetto, vi ha maggiore analogia di
forme tra il passo cit. di Cassiodorio
ed il corrispondente luogo di Plinio
Secondo, nel quale luogo si ripresentano, come
sì è avvertito sopra, le notizie date da Cornelio Bocco. ! Nemmeno può ammettersi che Iordanis abbia
avuto notizia della Germ.?® sol perchè
nel c. 2 del de or. act. Get. sì trovano
le due voci ‘inaccessam, aperuit?, che si osservano usate anche nel c. 1°
della Germ., ma con tutt'altro
intendimento e in due periodi
interamente separati e indipendenti l’ uno dall’ altro *. 1 Cassiod. ‘in interioribus insulis oceani’; cf. Plin. n. A. XXXVII 3 (11), 42 ‘in insulis septentrionalis
oceani’. Cassiod. ‘ex arboris succo
defluens’; cf. Plin. ibid. ‘ defluente medulla
pinei generis arboribus ’; e 43 ‘ arboris sucum esse’. Cassiod. ‘unde etsuccinum dicitur ’; cf Plin.ibid. 43
‘ ob id sucinum appellantes’ (e Solin. 20, 9 ‘sucum esse arboris de nominis
capessas qualitate ’). Cassiod. ‘ aestu alternante purgata, littoribus tradatur exposita ’; cf. Plin. ibid. 42 ‘ipse
intumescens aestus rapuit ex insulis,
certe in litora expellitur esse concreti maris purgamentum. Che Iordanis abbia avuto notizia della Germ. l' ammette il Massmann, op. c., p. 157. 3 IorpAN. de or. act. Get. 2, 5 p. 3, H. ‘quam diu siquidem armis inaccessa m (sc. Britanniam) Romanis
Iulius Caesar proeliis, ad gloriam tantum quaesitis, aperuit’. Si confronti con Germ. 1, 3 ‘cetera Oceanus ambit...... nuper co CONSOLI : L’ autore della Germania. 4 i 50 E non solamente nella Germ. occorre il v. ‘
aperire ’ nel significato di « far
conoscere, dar notizia », e perciò «
rendere accessibile », perocchè con lo stesso significato appare in Livio !,
Mela ?, Tacito 3, etc. Similmente non è
attendibile il confronto del c. 3 del lib. di Iordanis col c. 40 della Germ.,
‘nei quali cc. sono comuni le parole
‘est in Oceani insula’, non ordinate però in
modo identico in entrambi. Poi è da notarsi che Iordanis cita, come fonte della sua
designazione geografica, il secondo libro dell’opera di Tolomeo; nè, d’altro
canto, è noto quale sia precisamente 1’ isola indicata nella Germ., nella quale
era il luogo sacre alla dea ‘ Nerthus” o
‘Terra mater ’ £. Neppure il luogo del
ven. Beda, che noi, trattando dei ‘
Bructeri ’, abbiamo riferito sopra (p. 28, nota 3), dà la certezza che questo scrittore, vissuto dal
674 al 735, ab gnitis quibusdam
gentibus ac regibus, quos bellum aperuit.
Rhenus, Raeticarum Alpium inaccesso ac praecipiti uertice ortus’ e. q. s. i 1 Liv. X 24, 5. XXXVI 17, 14. XLII 52, 14.
2 Pompon. Met. chor. III 6, 49.
8 Tac. Agr. 22, 1. hist. IV 64, 19. ann.
II 70, 10. Vedi inoltre Lvcan. de b. c.
IV 352. Var. FLAC. Arg. I 169. 4 ]l
confronto è sostenuto anche dal Massmann, l. c. 5 IORDAN. 3, 4 p. 4, H. “est in Oceani
arctoi salo posita insula magna, nomine Scandza ”. Germ. 40, 8 ‘ est in insula
Oceani castum nemus ”. 6 Si discute
ancora se sia Riigen, Fehmarn, Helgoland, Laaland, Bornholni, Seeland, la
Scandinavia stessa , che gli antichi consideravano come isola. Il MicHELSEN,
vorchristliche Kultusstatten (citato da
U. Zernial, comm. p. 78, da A. Pais,
comm. p. 61, e da G. Marina, op. c., p. 127) indica come più probabile Alsen.« mit dem heiligen Walde
Hellewith und dem heiligen See Hellesò
». pe =.
bia avuto notizia diretta della Germ. Si asserisce, è vero, che i nomi di popoli ‘ Fresones, Rugini,
Boruchtuarii, Anglii’ egli non poteva ad
altro fonte attingerli che alla Germ.,
perchè appunto nei cc. 34, 44 (43), 33, 40
della Germ. si tratta di essi !, Ma ciò è inesatto, perchè troviamo
fatta menzione dei ‘ Frisii ’, che il Beda
chiama ‘ Fresones *, in Plinio Secondo, Cassio Dione, nel panegyr. Constantio Caesari, oltrechè in
Tacito. * Dei ‘ Rugii ’, detti dal Beda
‘ Rugini ?, si fa menzione nell’appendice excerpta Valesiana alle storie di
Ammiano Marcellino ; inoltre in
Iordanis, Procopio, Paolo diacono. ? Quanto ai ‘ Bructeri ’, che con lieve
mutazione .il Beda chiama ‘ Boruchtuarii
’, è opportuno aggiungere che di loro si
fa cenno non solamente da Velleio Patercolo, Plinio il giovane, Nazario e
dall’autore del panegirico a Costantino Augusto, dei quali sopra si è tenuto
discorso, ma anche da Strabone, Claudiano, Gregorio di Tours, etc. * Degli
‘Anglii’, che nel sec. V passarono nella
Britannia, leggesi un cenno in Tolomeo 5; e lo stesso Beda spiega l’ etimologia
del loro 1 Vedi MassMann, op. c., p.
159. 2 Pcin. n. A. IV 15 (29), 101:
qualcuno legge anche la voce ‘ Frisii’
premessa a ‘gens tum fida’ in XXV 3 (6), 21. Cass. Dion. r. Rom. LIV 32.
Incerti pan. Const. Caes. 9; in BAEHRENS,
XII pan. Lat., V, p. 138. Tac. Agr. 28, 14. hist. IV 15, 12; 18, 26; 56, 15; 79,8. ann. I 60, 6.IV 72, 1; 74,
1. XI 19,3. XIII 54, 2. 3 Excerpta
Vales. 10, 48 p. 292, 2° vol., ed. Gardthausen. IorDAN. de or. act. Get. 54,7
p. 64, H. PrRocoP. de db. Goth. II 14. PavL. pIac. de gest. Langobard. I 19, in rer.
Ital. scriptt. del MURATORI, t. I, -pp.
415-416. Cf PTOLEM. geogr. II 11. 4
STRAB. geogr. VII 1, 3-4 (C. 290-292), pp. 398-401, ed. M. CLAVDIAN. de IV cons. Hon. 451. GRrEGOR.
TvRENS. II 9. 5 ProLem. geoyr. II 11.
Un antico trad, di Tolomeo li disse vi
BO nome: ‘porro de Anglis, hoc est de
illa patria quae Angulus (per altri,
Anglia) dicitur.’ ! L'angolo sarebbe il
territorio che si estende da Flensburg sino all’ Eider, a sud-ovest dello Schleswig. * III.
Le prime e sicure tracce della Germ. appariscono nel sec. IX, in un
libro intitolato franslatio S.
Alexandri?, che fu cominciato da Rudolf, monaco del monastero di Fulda, nell’a. 863, e, per la
morte di costui avvenuta nell’ 865, continuato e portato a fine da un altro monaco dello stesso monastero,
Meginhard. Rudolf, trattando, nelle
prime pagine del suo lavoro, dei costumi
dei Sassoni, riproduce alla lettera diversi
luoghi dei cc. 4, 9, 10, 11 della Germ., rendendone alcune espressioni
più adatte al gusto letterario de’ suoi
tempi; ma non nomina mai l’autore del libro. Valgano i sgg. confronti,
nei quali sono trascritte in corsivo ‘
Sueui Angili, qui magis orientales sunt quam Longobardi '; Col. Agrip. 1584, p. 27, col. 1°. 1 Ven. BEDA, hist. gent. Angl. I 15, col.
11, t. III, ed. c. 2 Si noti eziandio
che il ven. Beda dovette attingere le notizie sui ‘Saxones’, dei quali fa cenno
nel l. c., non soltanto alla geogr. di
Tolomeo, ma anche ad altri fonti, p. es. AMM.
Marc. r. g. XXVI 4,5. XXVII 8, 5. XXVIII 2, 12; 5, 1e4. XXX 7, 8. PacaT. DREPAN. pan. Theodos. Aug. 5; in BAEHRENS, X//
pan. Lat. XII, p. 275. Oros. hist. adu. pag. VII 25, 3; 32, 10. IORDAN. de or. act. Get. 36, p. 43,
ed. H. 3 Pubbl. nei monum. Germ.
historica, t. II, p. 675 sgg., ed. Pertz. 4 Il RITTER, Op. c.,
praef. p. XVI, n., dimostra evidente l’errore in cui incorsero il Massmano, op.
c., p. 224 sgg. e il Haupt (comm. Germ.)
di attribuire a Meginhard quella parte della
transl. S. Alex, che era stata scritta da Rudolf, le parole e parti di parole della Germ.
identicamente ripetute nella dransl. S.
Alexandri: Rudolf: ‘nec facile ullis
aliarum gentium... conubiis infecti,
propriam et sinceram et tantum sui similem gentem facere conati sunt. unde habitus quoque...
corporum...in tanto hominum numero, idem pene omnibus’: cf. Germ. 4, Rudolf: ‘marime Mercurium venerabantur, cui
certis diebus humanis quoque hostiis
litare consueuerant. Deos suos neque
templis includere neque ullae humani oris speciei adsimilare ex magnitudine...
caelestium arbitrati sunt: lucos ae
nemora consecrantes deorumque nominibus appellantes secretum illud sola
reuerentia contemplabantur’: cf. Germ. 9.
Rudolf: ‘auspicia et sortes quam maxime obseruabani : sortium consuetudo simplex erat. uirgam frugiferae
arbori decisam in surculos amputabant eosque notis quibusdam discretos super
candidam uestem temere ac fortuito spargebant. mox, sî publica consultatio fuit, sacerdos populi,
sì priuata, ipse pater familias precatus deos coelumque suspiciens ter singulos
tulit, sublatosque secundum inpressam ante notam interpretatus est. sî prohibuerunt, nulla de eadem re ipsa
die consultatio : si permissum est,
euentuum adhue fides exigebatur. auium uoces uolatusque interrogare proprium
gentis illius erat; equorum quoque praesagia ac monitus experiri, hinnitusque
ac fremitus obseruare; nec ulli auspicio maior fides, non solum apud plebem,
sed etiam apud proceres habebatur. erat el alia
obseruatio auspiciorum, qua grauium bellorum euentus explorare solebant:
eius quippe gentis, cum qua bellandum fuit, captiuum quoquo modo interceptum
cum electo popularium suorum, patriis quemque armis, committere et uictoriam
huius uel illius pro iudicio habere ’:
cf. Germ. 10. Rudolf: ‘quomodo autem
certis diebus, cum aut inchoatur luna aut impletur, agendis rebus
auspicatissimum initium
crediderint...... praetereo ’: cf. Germ. 1l. Si osservano anche tracce della Germ.in più
luoghi di Adamo di Brema, scrittore del
sec. XI: in essi si PES gra fa menzione
della ‘Sueonia” e dei ‘ Sueones ’;! ed è
noto che in nessuno scritto, greco o latino, lasciatoci dall’antichità classica, e anteriore alla
Germ. (c. 44), si fa parola dei ‘
Suiones ’, abitatori della penisola
scandinava o della parte orientale di essa. ? Iordanis menziona la ‘ gens Suethans” e i ‘ Suethidi,
cogniti in hac gente reliquis corpore
eminentiores 7.3 Ma Adamo di Brema
dovette ricavare dalla trans. S. Alex., non
dalla Germ. direttamente, quelle poche frasi del suo lib. V, le quali sono consimili ad alcune
frasi che si leggono nei ce. 4, 9, 10,
11 della Germ. Lo stesso può dirsi del
chronicon Vraugiense del sec. XII, per quelle
espressioni che paiono imitate dalla Germ. e, invece, furono desunte dalla stessa Zransl. S. Alex.
4 Il Cornelius, nel suo pregevole
studio sulle vicende delle opere
tacitiane nel medio evo, ha creduto affermare che in un luogo della vita
Mathildis di Donizone (nel qual luogo si
nota la facilità biasimevole, con cui i
Germani ingaggiavano delle risse cruente, massime se eccitati da troppe bevande
spiritose) si ripete l’ osservazione del
c. 22 della Germ.: ‘crebrae, ut inter uinolentos, rixae raro conuiciis, saepius
caede et uulneribus transiguntur ’. Ma
il confronto appare inverisimile, perchè Donizone, piuttosto che riferirsi ad
una cattiva usanza osservata dall’
autore della Germ., in 1 Descriptio
insularum Aquilonis 21 (c. 230), in Micene, Patrolog. curs., t. CXLVI, col.
637; 27 (c. 235), col. 644; 26 (c. 234),
col. 642. ? R. KEySER, Norges historie, Kristiania 1865,
vol. I, p. 34 sg. 3 IORDAN. de or. act.
Get. 3, 40; 3, 55, p.5 H. 4 V. il confronto dimostrativo fatto dal
Massmann, op. c., Anhang tende dar notizia della facilità con cui a’ suoi
tempi si veniva a risse sanguinose per
causa dell’ubbriachezza. * Del resto, trattasi di un’ usanza, che
osserviamo tutto dì nelle classi sociali
che più difettano di coltura e si
abbandonano al vizio dell’ ubbriachezza : molto più doveva ciò avvenire tra genti barbare, e
nei tempi descritti da Donizone. *
Dalle osservazioni premesse ci è dato concludere che, sino all’età del Rinascimento, sparutissime
sono le tracce della Germ. nella
tradizione degli scrittori: non mai
Tacito venne indicato quale autore della Germ. 1 MANITIUS, Beitrige c., p. 566. RAMORINO,
disc. c, pp. 91-92, nota 40. ? Tacito avvertiva: ‘nec facilem inter
temulehtos consensum’ (Aist. I 26, 6) ‘
uinolentiam ac libidines, grata barbaris Il primo degli umanisti, che abbia
fatto menzione della scoperta di un libro intitolato de origine et situ Germanorum, fu Antonio Beccadelli,
detto il Panormita, il quale, in una
lettera diretta al Guarini veronese,
scriveva: ‘ compertus est Cor. Tacitus de origine et situ Germanorum. Item
eiusdem liber de uita lulii Agricolae
isque incipit: clarorum wirorum facta
ceteraue. Quinetiam Sex. Iulii Frontonis
liber de aquaeductibus qui in urbem Romam inducuntur; et est litteris aureis transcriptus. Item eiusdem Frontonis
liber alter, qui in hunc modum iniciatur
: cum omnis res ab imperatore delegata mentionem exrigat et cetera. Et inuentus
est quidam dialogus de oratore et est, ut coniectamus, Cor. Taciti, atque is
ita incipit: saepe ex me requirunt et
cetera. Inter quos et liber Suetonii
Tranquilli repertus de grammaticis et rbetoribus : huic initium est: grammatica Romae. Hi et
innumerabiles alii qui in manibus
uersantur, et praeterea alii fortasse qui in usu non sunt, uno in loco simul
sunt; ii uero omnes, qui ob hominum ignauiam
in desuetudinem abierant ibique sunt, cuidam mihi coniunctissimo ii dimittentur
propediem , ab illo autem ad me proxime
et de repente; tu secundo proximus eris, qui renatos sane illustrissimos habiturus sis ’.! Alla lettera si assegna la data dell’ aprile 1426. Con la stessa lettera
si può ben mettere in confronto una epistola
scritta dal 1 Studi ital. di filol.
class. VII, p. 125. E Poggio al Niccoli, in data del 3 novembre
dell’anno precedente. ! Il Poggio gli annunziava : ‘ quidam monachus amicus meus ex quodam monasterio Germaniae,
qui 0lim a nobis recessit, ad me misit litteras, quas nudius quartus accepi; per quas scribit se reperisse
aliqua uolumina de nostris, quae permutare uellet cum Nowuella Ioannis Andreae, uel tum Speculo, tum
Additionibus, et nomina librorum mittit
interclusa .. Inter ea uolumina est Iulius Frontinus et aliqua opera Corn.
Tac. nobis ignota. Videbis inuentarium,
et quaeres illa uolumina legalia, si reperiri poterunt commodo’ pretio. Libri ponentur in Nurimberga, quo et deferri debent Speculum et Additiones, et exinde magna est
facultas libros aduehendi. Vt uidebis per inuentarium, haec est
particula quaedam, nam multi alii restant ; scribit enim in hunce modum: « sicuti mihi supplicastis de
notando poetas, ut ex his eligeretis qui
uobis placerent, inueni multos e quibus
collegi aliquos, quos in cedula hac inclusa reperietis La lettera del Panormita
e quella del Poggio convergono nella notizia della stessa scoperta, che il
primo accenna con particolari minuti, mentre il secondo, tranne per le determinazioni concernenti
Frontino e Tacito, si rimette all’ inventario; e convergono anche nella notizia, che nel luogo della scoperta degli
autori mentovati abbondavano libri antichi, parte già in uso e parte ancora ignoti. ® La notizia al Poggio
provenne dal mo 1 La data del 1425 è segnata
nell’ ed. Tonelli dell’ epistol. del
Poggio, Firenze 1832. ? Panorm.:
“hi et innumerabiles alii quiin manibus uersantur, et praeterea alii fortasse
qui in usu non sunt, uno in loco simul
sunt’. Pogg. :‘ haec est particula quaedam, nam multi haco che, appresso, è
detto ‘ Hersfeldensis ° !; ma donde
provenne la notizia al Panormita? quale inventario o nota di libri gli
fudato di osservare, per indicare poi con
tanta precisione il principio dell’ Agr., dei libri di Frontino, del
dialogo de oratoribus e del libro di Suetonio
de gramm. et rhetoribus? Egli fa cenno di un suo ‘ coniunctissimus ’, al quale sarebbero stati
mandati i libri ‘ propediem ’, e da
questo a lui ‘proxime et de repente ’.
Perciò o il monaco hersfeldese, oltre all’avere iniziato delle trattative col
Poggio, trattò anche dello scambio dei
codd. del suo monastero coi libri che desiderava, con qualche umanista amico
del Panormita; ovvero il Panormita attinse la notizia, che egli comunica al Guarini, direttamente dal Poggio, tanto
più che allora egli era in sì buoni rapporti di amicizia col Poggio da mandargli, per mezzo del suo discepolo ed
amico Giovanni Lamola, l’Ermafrodito, e
ricevere da lui delle magnifiche lodi ® insieme con l’ avvertimento (non bene accolto) di scegliere argomenti più
serii per i suoi carmi. alii restant ’; cf. epist. 1. lib. III, del
14 settembre 1426 :‘ quin etiam dedi
operam, ut habeam inuentarium cuiusdam uetustissimi monasterii in Germania, ubi
est ingens librorum copia’. Queste
affermazioni dovettero provenire dalla frase ‘inueni multos’ e. q. s., che si legge in quella
parte della lettera del monaco
hersfeldese, che è ripetuta dal Poggio.
1 Poem epist. III 12 T. ‘ monachum illum ,Hersfeldensem ’. 2 Poggi epist. ll 40 T.: ‘ laudo igitur
doctrinam tuam, iucunditatem carminis, iocos et sales; tibique gratias ago pro
portiuncula mea, qui Latinas Musas, quae iamdiu nimium dormierunt, a somno
excitas.’ L’ epistola presenta la data 3 aprile 1426, perciò è contemporanea, o
forse di pochi giorni anteriore, a quella scritta dal Panormita al Guarini,
Così non si può discompagnare la scoperta della
Germ., indicata dal Panormita, dalle pratiche iniziate dal Poggio col monaco hersfeldese per aversi,
insieme con altri codd., ‘ uolumen illud
Corn. Taciti et aliorum, quibus caremus
’.! Son note, dall’ epistolario del Poggio, le vicende di tali pratiche; ® ma
si ignora quali possano essere stati i
risultamenti finali di esse. Si sa
tuttavia con quale pertinacia insistessero i cercatori di opere classiche nell’ età del Rinascimento, e
in ispecial modo il Poggio e il Niccoli;
talchè non è improbabile che alla fine
il monaco hersfeldese, dopo il vivo rimprovero che gli inflisse il Poggio e la
minaccia di non ottenere nulla, venuto
meno il favore del Poggio medesimo, quanto alla lite che a nome del suo
monastero da più anni sosteneva dinanzi
alla Curia, 3 si fosse indotto a portargli il cod. promesso. * Nè fa
meraviglia che il Poggio, avuto il cod.,
ne abbia conservato assoluto silenzio nell’ interesse suo, sia a vantaggio
dei 4 Poca epist. III 12 T. Il Voret
(trad. VALBUSA, II 4, vol. I, P. 254)
vorrebbe farla risalire alla scoperta fatta, nel 1422 in Germania, da Bartolomeo Capra, arcivescovo di
Milano; e del parere del Voigt è il
SABBADINI (v. Studi ital. di filolog. class.
VII, p. 128 sg.). Ma danno motivo a dubitare di ciò) le osservazioni
fatte dal Poggio, in riguardo a tale scoperta, nella lettera al Niccoli, del 10 giugno 1422 (epist. I
21). ? Pocair epist. III 12; 13; 14;
19; 29. 3 Pogcir epist. III 29 T. (26
febbr. 1429): ‘ monachus Hersfeldensis uenit absque libro; multumque est a me
increpatus ob eam causam: asseuerauit se
cito rediturum, nam litigat nomine monasterii, et portaturum librum. Rogauit me
multa: dixi me nil facturum, risi librum haberemus; ideo spero ot illum nos
habituros, quia eget fauore nostro”. 4
VOIGT-VALBUSA, op. c., II 4, vol. I, pp. 255-256. REN no
suoi negozi librari, sia a causa delle vie tortuose e non sempre legittime allora seguite per venire in
possesso di codd. preziosi. Egli stesso
dichiara al Niccoli, in occasione che questi gli aveva prestato l’ esemplare
allora noto di Tacito (oggi cod. Medic. II): ‘ Cornelium Tacitum, cum uenerit,
obseruabo penes me occulte. Scie enim
ommem illam cantilenam, et unde exierit, et per
quem, et quis eum sibi uindicet, sed nil dubites, non exibit a me ne uerbo quidem.’ ! Nè osta il
giudizio espresso dal Poggio, nella lettera del 17 maggio 1427, sull’ inventario portato dal monaco di
Hersfeld,® cioè che questo inventario
era ‘ plenum uerbis, re uacuum ’, e che
nella parte del medesimo inventario, mandata al
Niccoli, concernente Tacito ed altri scrittori, vi fossero ‘ res quaedam paruulae, non satis magno...
aestimandae ’ ; onde egli era caduto ‘
ex maxima spe, quam conceperat ex uerbis suis.’ Perciocchè, se in realtà fosse
stato di sì poca importanza e di sì
minimo pregio il cod. promesso, per qual
motivo avrebbe il Poggio tanto insistito per averne il possesso, come egli
attesta nelle due lettere che scrisse
poi al Niccoli, l’ una del 31 maggio
1427 e l’altra del 26 febbraio 1429? ® Anzi,
nella prima delle due lettere citate, dichiara espressa mente di aver meglio che per altri. codd.
provveduto ‘ al modo di aversi il ‘
uolumen ’ di Cornelio Tacito, ‘ quo
maxime indigemus, id quidem imprimis est, quod uolo: 1 Poee epist. III 14 T. (27 settem. 1427).
In conferma del silenzio che tenevasi sui risultamenti delle investigazioni e
delle pratiche iniziate con mercatanti
di codd. e con monasteri, v. l’epist. II 1.
2 Poca epist. III 12 T. 8 Pogeli
epist. III 13; 29, in fine, T. POR; E
quin mandaui isti monacho, ut uel ipse secum deferret, nam credit se
rediturum brevi, uel per alium monachum curaret deferendum : alios (sc. libros)
iussi portari Nurimbergam, hunc uero Romam proficisci recta uia, et ita se facturum recepit ’. Il Poggio aveva osservato, nell’ inventario
presentatogli dal monaco hersfeldese, dei libri classici che erano ormai acquisiti alla repubblica
letteraria ; e ne traeva argomento per
mostrare l’ ignoranza del frate che,
credendo nuovo per tutti quello che esso frate non sapeva, aveva infarcito l’ inventario di
libri già noti, ‘qui sunt iidem
(soggiunge il Poggio al Niccoli ') de
quibus alias cognouisti’. Probabilmente il Poggio dovette vedere anche indicato nell’inventario del
monaco hersfeldese quel tanto che già conoscevasi delle Rist. e degli ann. di Tacito, e che egli stesso aveva avuto
occasione di leggere nell’esemplare,
scritto ‘ litteris antiquis ’, che si
apparteneva a Coluccio Salutati o ad altri, e poi si ebbe 1’ agio di osservare in un altro
esemplare ( oggi cod. Medic. II ) ,
scritto ‘ litteris Longobardis ’, prestatogli dal Niccoli ? ed a questo
restituito per mezzo di Bartolomeo de’
Bardi. * Perciò egli nutrì la speranza di
venire presto in possesso anche di qualcuno dei primi libri degli annali, che forse nell’inventario
erano adombrati con qualche indicazione diversa da quella data comunemente per il codice già noto; ovvero
nella presunzione che il frate, ignorante di studi umanistici, non avesse saputo determinare con chiarezza il
cod.posseduto, 1 Poco epist. III 12
T. ? Pogau epist. III 15 T. (21 ottobre
1427). 3 V. il poscritto della lettera
del Poggio al Niccoli, in data del 5
giugno 1428 (III 17 T.) I e da ciòla possibilità che questo cod. per
avventura contenesse altre parti non note dell’opera tacitiana; ovvero per qualsivoglia altra ragione che a noi non
è dato investigare. In tal modo può avere una spiegazione plausibile l’insistenza del Poggio nel pretendere dal
frate la consegna del ‘ uolumen Taciti ’, non ostante che prima, dato uno sguardo superficiale all’ inventario ,
fosse rimasto disingannato di quanto
aveva sperato, e perciò avesse sì poco
pregiato i libri indicati e avesse notato di trattarsi di ‘ res quaedam
paruulae , non satis magno aestimandae’; chè, ‘si quid egregium fuisset ’,
serive egli al Niccoli, ‘ aut dignum Minerua nostra, non solum scripsissem, sed ipse aduolassem, ut
significarem ’.! Ed a rinnovellare le
speranze venute meno nell’animo del
Poggio avrà certamente contribuito il discorso fattogli da Niccolò da Treviri, uomo dotto ‘ et, ut
uwidetur, minime uerbosus aut fallax ’, intorno ad un libro di Plinio sulle
guerre germaniche. * In questo libro pliniano
il Poggio dovette subodorare i primi libri degli annales, perchè, come
bene avverte il Voigt, questi « non
portavano più verun nome d’ autore »;? e però, mentre da un canto
iniziava, sebbene con una certa dubbiezza, delle pratiche col Trevirese per
aversi il cod. 1 Poggi epist. III 12
T. 2 Poca epist. III 12 T. (17 maggio
1427): ‘ de historia Plinii cum multa
interrogarem Nicolaum hune Treuerensem, addidit
ad ea quae mihi d.xerat, se habere uolumen historiarum Plinii satis magnum; tunc cum dicerem, uideretne
esse /istoria naturalis, respondit se hunc quoque librum uidisse legisseque,
sed non esse illum, de quo loqueretur;
in hoc enim bella Germanica contineri '.
3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol, I, p. 252. rm BI
pliniano, ! dall’altro canto, per meglio riuscire nel suo intento, onorifico e al tempo stesso lucroso,
è possibile che abbia sollecitato anche
il monaco hersfeldese per lo stesso cod.
pliniano, in cui, come si è detto, credeva
di potere rinvenire i libri perduti degli ann.; ma di questa seconda
pratica nulla scriveva in particolare al
Niccoli, a cui soltanto prometteva, protestando la sua sincerità , di dire a suo tempo quanto
potesse interessarlo ?. Le pratiche
col Trevirese nel primo periodo non dovettero approdare a nulla, poichè costui,
trattato malamente dalla Curia, se ne era allontanato sì malcontento da non
volerne sentire più di libri o di altro; 3
onde il Poggio si propose di mandare qualcuno in Germania, che curasse di portargli i libri
desiderati, 4 1 PocaIr epist. III 12 T.‘adhuc neque despero, neque confido uerbis suis (sc. Nicolai Treuerensis) litterae sunt
a quodam socio suo, cui librorum
mittendorum curam delegauit, se misisse libros Francofordiam, ut exinde
Venetias deferrentur ’. Notisi quanto
mistero in quei negoziati, forse per non suscitare i sospetti degli
amministratori dei monasteri, dai quali
venivano esportati, probabilmente per vie illecite, quei codd. preziosi. Era forse ad Augsburg o a Dortmund
il luogo in cui conservavasi il cod,
pliniano dei bella Germaniae (cf. MaAssMANN, Op. c., p. 179), ovvero nella
stessa Frankfurt a/M? Hersfeld non è molto distante da questa città. 2 Pogcit epist. III 12 T. ‘ hie monachus
eget pecunia: ingressus sum sermonem subueniendi sibi, dummodo ...... et
nonnulla alia opera quae, quamuis ea.
habeamus, tamen non sunt negligenda, dentur mihi pro his pecuniis haec tracto; nescio quid concludam: omnia tamen a me scies
postea. 3 PogaIr epist. III 13 T. (31
maggio 1427): cf. epist. III 14 (27
settembre 1427). 4 Pool epist.
III 13 T. ‘ ego solus uolui aliquem mittere in ns BA: n
Ma dopo non guari Niccolò da Treviri riapparve nel movimento del
commercio librario :! nessun vantaggio
ebbe a ricavare il Poggio dal ritorno del Trevirese, in quanto al codice pliniano delle guerre
germaniche e, fors° anche, in quanto ai
libri di Tacito non ancora noti? Certo
non viè documento, apparso fin oggi, che
ci dia in proposito notizie precise. Ma il Voigt bene avverte non essere probabile che il Poggio ed
il Niccoli vi avessero rinunziato, e «
quel silenzio non sì spiegherebbe meno, se il codice fosse venuto in Italia per
vie segrete ». ? Intorno ai risultamenti definitivi delle
pratiche a lungo continuate tra il Poggio e il monaco hersfeldese, non è improbabile la congettura del Voigt,
che e per le vive insistenze del Poggio
stesso e per l’ efficacia indubitata del
danaro mediceo, alla fine il codice (* uolumen illud Corn. Taciti et aliorum,
quibus caremus’ ) sia stato portato a
Roma o a Firenze; « diversamente,
soggiunge il Voigt, quegli amici umanisti non si sarebbero dati più
pace. Ma le vie difficili e tortuose,
con cui si giunse ad averlo, spiegano abbastanza, perchè il libro sia
stato tenuto nascosto per una intera
generazione, dissimulandone il possesso, come quello delle due parti degli annali ».* Or, si
conserva un cod. su cui si modellò la ‘
ed. princ. ’? stampata a Venezia,
probabilmente da Vindelin da Spira, verso il 1469 o il Germaniam, qui curaret libros huc afferri:
sed nolunt qui nolle possunt, et
deberent uelle”. 1 PoccI epist. III 29
(26 febbraio di e IV 4 T. (27 dicembre 1428).
2 VoIGT-VALBUSA, Op. c., Il 4, vol. I, p. 252. 3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol. I, p.
256. i È 1470: esso contiene gli. ultimi libri degli
ann. uniti, mediante numerazione
successiva, coi libri che restano delle
Rist. ?, poi la Germ. e il dial. ; è il cod. Vindobonensis del sec. XV, di
scrittura bella ma non accurata, che a
Mattia Corvino, re di Ungheria, provenne, senza
dubbio, da Firenze.? Il cod. Vindobon. porta la data del 1466, perciò è posteriore alla morte del
Poggio‘: non putrebbe, per tanto, essere
stato una copia, fatta con poca
diligenza da qualcuno degli scribi del Poggio, sul cod. primitivo o sur un apografo, venuto a Roma o
a Firenze, di provenienza hersfeldese? «
Non è punto provato, avverte il
Ramorino, che tutti i Taciti diffusisi nel 400
provenissero dal secondo Mediceo ».° Sicchè, se la nostra congettura,
avvalorata dalle ricerche precedenti e
non contrastata da alcun documento, è attendibile, non è forse da ammettersi che il frate
hersfeldese, ottemperando alle pressanti richieste del Poggio, abbia aggiunto,
1 Seguo l'opinione del Massmann, op. c., p. 23, accolta dg Carlo Castellani, il quale, in una nota
segnata sulla copertina dell'esemplare
che conservasi nella bibl. V. E. di Roma, attribuisce la ‘ princeps’ a Vindelin
da Spira. Vedi’ introd. all’ ed. delle
opp. di Tac. fatta dal Jacob, 1885, vol. I, p. XXXV.. ? Ma delle hist. mancano gli ultimi tre
capp. del lib. V, cioè 24, 25, 26 e
circa metà del c. 23: si giunge sino alle parole ‘nauium magnitudine potiorem * (V 23), come
nel cod. Vatic. 1863. 3 Il Massmann, il
Michaelis ed altri edd. di Tac. fanno menzione del cod. Vindobon.: di proposito
ne tratta il HimER, in Zeitschrift fur
die bsterr. Gymn. 1878, p. 801. 4 Il
Poggio mori il 30-X del 1459: v. i fonti di questa data nell’ opusc. di G. A. CESAREO, un bibliofilo
del quattrocento, p. 5, 2.à eol., nota 2
(estratto dalla riv. Natura ed arte, a. I, 1891-92). 5 RAMORINO, disc. c., p. 96, nota 49. CONSOLI: L’ autore della Germania. 5 ASTRA
ca Bi probabilmente in copia, al
‘ uolumen Corn. Taciti * una parte,
l’introduzione forse, insomma quel che aveva potuto avere, del cod. pliniano
delle guerre germaniche, nel quale il
Poggio si aspettava di rintracciare i primi libri degli ann. tacitiani? Ne sarebbe così
derivata, o per preconcetto del Poggio o
per interessata annuenza del frate
tedesco o di altri (non escluso Niccolò da Treviri) alle esigenti aspettative del Poggio, la
intitolazione a Tacito di una parte dei
Germanica bella di Plinio Secondo. Se,
dunque, si ammette che fonte del cod. Vindobon.
sia stato il cod. o l’apografo venuto dalla Germania per i lunghi e pertinaci maneggi del Poggio, e
tenuto per qualche tempo accuratamente
nascosto in Firenze, si spiega
agevolmente il perchè fossero noti in Italia la
Germ. e il dial. prima ancora che si avesse notizia dei codd. portati, sul declinare del 1455, da
Enoch d’Ascoli.! 1 Nella bibl. di
Cesena si conserva un ms. della Germ., che,
secondo il cat. del Muccioli, appartiene forse al sec. XIV. Tale indicazione apparve inesatta al LEHNERDT
(Enoche v. Ascoli und die Germania des
T.s, in Hermes, vol. XXXIII, fasc. 3°, p.
504), perchè nel ms. è disegnato lo scudo e il nome di Malat[esta] N[ouellus],
vicario apostolico di Cesena e fondatore di
quella bibl., morto nel 1465. Veramente la data del sec. XIV è da reputarsi molto anteriore alla vera: ma
non poteva il ms. essere stato copiato
sur un cod. o un apografo anteriore alla divulgazione dei libri portati da
Enoch in Italia? non era forse Malat.
Novello in vita ed in grande autorità prima del
1455? Un altro ms, della Germ., più corretto del precedente, è incluso nel cod. segnato D IV 112, che si
conserva nella bibl. Gambalunga di
Rimini; porta la data del 1426, secondo il cat.
del prof. Attilio Tambellini (v. G. MAZZATINTI, inventari dei mss. delle biblioteche d' Italia, Forlì 1892, vol.
IL, p. 165, n.° 23), la 607 II.
Per altra via, qualche tempo dopo, gli umanisti del ‘400 ebbero di nuovo
notizia della Germ. : se ne ascrive il
merito ad Enoch di Ascoli. ! Era questi
un mediocre erudito, ? che aveva passato alcuni anni in Firenze, prima quale maestro dei figli di
Cosimo de’ Medici, e poi con l’ ufficio
di ripetitore nella famiglia de’ Bardi;
indi insegnò belle lettere in Ascoli e
in Perugia. Sia per rapporti personali che egli aveva col papa, sia per
autorevoli lettere commendatizie
concesse da Cosimo de’ Medici, a cui era stato prima raccomandato dal dotto Ambrogio Traversari,
generale dell’ ordine dei Camaldolesi$
fu prescelto da Niccolò V per fare delle
ricerche di codd., specialmente delle deche perdute di T. Livio, nelle biblioteche
delle chiese quale data il LEHNERDT
(I. c., p. 505) e R. RETZENSTEIN (zur Texrtgeschichte der Germania, in
Philologus vol. LVII (n. s. XI), fasc.
2°, p. 367 sg.) ritardano giustamente sino al 1476; tanto più che chi scrisse l’apografo, certo
Rainerius Maschius da Rimini, dichiara
di averlo scritto allorchè ‘ dicebatur oratores
imperatoris et regis Gallorum et aliorum ultramontanorum uenire ad
oranlum Sixtum IIII pontificem'; perciò dopo il 1471, anno in cui fu assunto alla tiara Sisto IV
della Rovere. 4 Per i funti delle
notizie intorno ad Enoch d'Ascoli, v. ALFREDo REUMONT, aneddoti
storico-letterari, in Archivio storico italiano, serie III, t. XX (1874), pp.
188-189. VOIGT-VALBUSA, OP. C., vol. II,
pp. 192-194. 2 Si deve riconoscere un
encomiv esagerato in quel che scrisse di
lui Gius. LENTO, clarorum Asculanorum praeclara facinora, Romae 1622, p 37: ‘ Enochus, sapienti et
altiore mente praeditus, omnem mouere lapidem, donec res (cioè, la scoperta
di codd. antichi) prospere scilicet
cesserit. quam ob rem non solum nutantes litteras Latinas confirmauit, uerum
Graecam facundiam tuendo melius propagauit latius.' 3 A. TRAVERSARII epist., p. 335, ed.
Mehus. 6R e dei chiostri dell’ Europa settentrionale.
Enoch partì per il suo viaggio di
esplorazioni letterarie nella primavera del 1451 : visitò l’ isola di Seeland,
e di là scrisse una comunicazione a Leon Battista Alberti.! Poi non diede più notizie di sè,” salvo quelle
accennate dal Poggio in una lettera, con la frase sarcastica: ‘ Enoch
Esculanus, qui adeo diligens fuit, ut nihil iam biennio inuenerit dignum etiam indocti hominis
lectione ’.8 Probabilmente, se si accoglie la testimonianza del Filelfo,* Enoch penetrò nella penisola scandinava. Non
si ha alcuna notizia intorno alla via
del ritorno: è possibile che abbia
percorso, per fare ritorno in patria, la Germania e vi abbia fatto delle indagini
per iscoprire dei codici. Si conserva
ancora nell'archivio di Kònigsberg il
breve, con cui Niccolò V raccomandava al gran maestro dell’ Ordine teutonico,
Ludwig von Erlichshausen, il ‘ dilectum
filium Enoch Esculanum qui diuersa loca
et monasteria inquirat, si quis ex ipsis deperditis apud uos libris reperiretur ’.5 Ma non è
provato da alcun 1 GrroL. MANCINI,
vila di L. B. Alberti, Firenze i882, p. 328 sg. 2 Onde il Poggio ironicamente scriveva: ‘
ille enim Enoch adeo solers et diligens fuit, ut ne uerbum quidem ad me
adhuc scripserit’; epist. X 17 T. (22
gennaio 1452 [1453]). 3 Poca epist. IX
12: la lettera non porta data; è probabile
che sia stata scritta nel 1453.
4 Nella lettera del Filelfo a Callisto III, del 19 febbr. 1456, (epist. Ven. 1502) si legge: ‘is enim Enochus in Daciam
(/. Daniam) usque profectus est, et, ut referunt aliqui, in Candauiam (. Scandinauiam) usque, quae quam longissime
ultra reliquas omnes insulas, de quibus
exstet memoria apud priscos rerum
scriptores, posita est in mari oceano e regione Germaniae ad septentrionem ’. 5 VOIGT-VALBUSA,
Op. c., V ©, vol, II, p. 193,
lm documento, che Enoch sia stato
in Hersfeld ed abbia fatto delle
ricerche in qualche monastero di quella città. E, del resto, a qual fine visitare i monasteri
di Hersfeld, per i quali egli avrebbe «
senza dubbio ricevuto istruzioni esatte
da Poggio »,' se il monaco tedesco, con cui ebbe a trattare il Poggio per il‘ uolumen illud
Corn. Taciti et aliorum ’, era, è vero,
« nativo di Hersfeld », ma « stava nel
convento di Niirnberg, e andava e tornava spesso da Roma per interessi del monastero
»,° cioè del monastero norimberghese ?
In ogni caso, non sarebbe una congettura
priva di fondamento, che Enoch, nel suo
viaggio di ritorno, avesse visitato qualcuno
dei monasteri di Nirnberg, secondo le possibili istruzioni dategli dal
Poggio. Enoch ritornò a Roma sul
declinare del 1455, 5 portando seco alcuni codici ; ma non vi trovò liete
accoglienze, come egli sperava, perchè Niccolò V, suo protettore, era morto, e
il nuovo papa Callisto III non
mostravasi benevolo verso gli umanisti e le loro ricerche letterarie. Aggiungasi che gli eruditi, tanto
a Roma quanto a Firenze, non mostravano
benevolenza per lo Ascolano, poichè
questi si era deciso a non concedere
copia alcuna de’ suoi codd., prima che fosse stato. degnamente
rimunerato delle sue fatiche. Scriveva, infatti, 1 Studi ital. di filol. class. vol. VII, p.
130. ? Studi ital. di filol. class.
vol. VII, p. 128. 8 « Forse nel
novembre », aggiunse VITTORIO Rossi nella nota: l'indole e gli studi di
Giovanni di Cosimo de’ Medici, notizie e documenti; pubblicata nei Rendiconti
della R. Accad. dei Lincei, classe di
scienze morali, storiche e filologiche : es=
tratto dal vol. II, fasc. 19, Roma 1893. A p. 34 sg., n. 4, lo dimostra
ampiamente, A] Je Carlo de’ Medici, protonotario apostolico ,
al fratello Giovanni: « sì che vedete se
volete gettare via tanti danari per
cose, che la lingua latina può molto bene
fare senza esse, che a dirvi l’oppenione di molti dotti uomini, che gli anno visti, da questi quattro
infuori che sono segnati con questo
segno x, tutto il resto non vale una
frulla ».'! Ciò non ostante Carlo de’ Medici mandò al fratello, insieme con la lettera cit.,
l’inventario dei codd. portati da Enocb.
Su questo inventario si deter-. minò
meglio l’opinione punto benevola che i dotti fiorentini si erano formata per lo
scopritore : di essa si rese interprete
Vespasiano da Bisticci che, per ispiegare
quel che tenevasi cattivo risultamento del viaggio fatto da Enoch per investigazioni letterarie ,
scriveva nella sua biografia del «
maraviglioso grammatico » : « istimo che
procedesse per non avere universale notizia di tutti gli scrittori, e quegli che erano e quegli
che non si trovavano ». # Or, come mai si può conciliare tanta noncuranza , non
diciamo dispregio , per i codd. scoperti
dall’ Ascolano, se tra questi era compreso quel codice hersfeldese, o meglio norimberghese, per il
cui possesso si era sì lungo tempo e con
tanta persistenza affaticato il Poggio, d’ accordo col Niccoli ? Non è
lecito forse da questa contraddizione
argomentare che il cod., che si vuol
dire hersfeldese, fosse probabilmente venuto
prima in possesso del Poggio? 3 Sarebbesi questi mo 1 GAxE, carteggio I, p. 163 sg. Vitt. Rossi,
opusc. c., II, p. 27. La lettera del
Medici porta la data del 13 marzo 1456, st. com.; 1455, st. fior. ? VESPASIANO, vile d'uomini illustri del
sec. XV, ed. Bartoli, p. 511. 8 Volet-VALBUSA, Op. c., V 5, vol, II, p.
194, nota 2: suppone si strato così indifferente per le scoperte di
Enoch, e avrebbe con la sua indifferenza
provocato quel giudizio sì freddo e
altezzoso della scuola umanistica fiorentina, sulla quale’ valeva molto la sua grande autorità, se non
avesse posseduto prima del ritorno di
Enoch, avendolo in un modo qualsiasi
ottenuto, un esemplare del cod. che per
lunghi anni aveva così vivamente ambito ? III.
Enoch, disingannato per la fredda accoglienza avuta e dai dotti umanisti e dai principi
mecenati , si ritirò ad Ascoli, dove
poco dopo mori. Quand’ egli si ricoverò
nella sua città nativa, dovette portare seco i
codici che, per la forte remunerazione che si aspettava di duecento o trecento fiorini, non aveva
potuto trovare occasione di cedere ad
alcuno; e che egli avesse. con sè i
detti codici prima di morire, c’ induce ad ammetterlo una lettera del
protonotario apostolico Carlo de’
Medici, del 10 dicembre 1457, nella quale questi serive al fratello Giovanni che, avuta notizia della
morte di Enoch , sì era affrettato a
scrivere a Stefano de’ Nardini, da Forlì, allora « governatore di tutta la
Marca », per pregarlo di mandargli, se
non gli originali, almeno le copie dei
codici dell’ Ascolano. ! Non si ha
alcuna notizia certa intorno alle persone
che vennero in possesso dei codici portati da Enoch. Quando questi giunse a Roma, dopo la sua
lunga peregrinazione per i paesi nordici, dovette certamente, oltre al presentare degli elenchi dei libri
scoperti, permettere anche di osservare
i libri stessi; ma non permise a nes che
nell’ elenco di Enoch non fossero stati inclusi gli scritti di Tacito e di Suetonio. 1 Vitt. Rossi, opusc. c., VIII, p. 30. naz
suno di trarne copia, prima che gli si fosse data una degna
remunerazione per la scoperta fatta.! Perciò, finchè egli fu in vita, i codici che aveva scoperti
rimasero in suo potere. Aveva tentato, è
vero, confortato forse dalle esortazioni dell’ Aurispa *, di offrirli a re
Alfonso; ma il risultamento delle nuove
pratiche non dovette essere conforme ai
desideri di Enoch. Non è però improbabile
che, dopo la morte di Enoch, i codici di lui siano passati, mediante gli
abili maneggi di Carlo de’ Medici e la
cooperazione di Stefano de’ Nardini, nella biblioteca di Giovanni di Cosimo de’ Medici , e perciò a
servizio degli umanisti fiorentini. Un’
allusione a ciò pare di 1 Carlo de’
Medici scriveva al fratello Giovanni, in data del 13 marzo 1456 (1455, st. fior.): « Lui
(Enoch) per insino a qui non ha voluto
farne copia a persona, imperò dice non vuole
avere durate fatiche per altri, e non delibera darne copia alcuna, se prima
da qualche grande maestro non è remunerato
degnamente, ed ha oppenione d’averne almanco 200 o 300 fiorini ». GAYE,
Op. c., I, p. 163. Vitt. Rossi, opuse. c., p. 27. Sino al dicembre 1457, quando già era ‘avvenuta
la morte di Enoch, nè Carlo de’ Medici
né il card. di Siena avevano potuto avere gli originali o le copie dei libri
nuovi lasciati dal1 Ascolano : v. lett. VIII del 10 dicembre 1457, in Virt.
Rossi, opusc. c., pp. 30-31. 2 V. la lettera dell’Aurispa al Panormita,
del 28 agosto 1455, in SABBADINI, biogr.
documentata di Giovanni Aurispa, Noto
1890, p. 128; e v. la chiusa di un’altra lettera dello stesso Aurispa al
Panormita, del 13 dicembre 1455, pubblicata nel cit. libro del Sabbadini, p. 133. Ma la data della
prima lettera deve essere portata un po’ più tardi, probabilmente al 1457,
come han dimostrato con validi argomenti
il CESAREO, opuse. c., I, p. 4, col. 12,
e il Rossi, opusc. c., pp. 34-35, nota 4.
A RES scorgere in una lettera
scritta da Carlo de’ Medici, il 13
gennaio 1458. ! In qual modo pervenne
ad averne notizia, e come si ebbe l’agio
di farne l’apografo Gioviano Pontano, il
quale viveva lontano dai circoli letterari di Roma e di Firenze? Nessun documento ci aiuta, per
ora, a determinare una risposta precisa e certa al quesito proposto; e nulla c’
è da spigolare nè da congetturare dalle
due note attribuite al Pontano, che si leggono
nel cod. Leidens. Perizon. Ma è possibile che nuove ricerche sulle
vicende di alcuni codici di fonte (come
credesi) pontaniana , i quali si conservano nella biblioteca di Minchen,
p. es. il cod. degli Argon. di Val.
Flacco , ? e il cod. che contiene il libro Andreae Floci Florentini de
Romanorum magistratibus ac sacerdotiis;* e nuove indagini negli archivi di Firenze e di Napoli chiariscano le relazioni
che ebbe il Pontano con gli umanisti
fiorentini, dai quali probabilmente si ebbe facoltà di prender copia dei codici d’ Enoch, che egli trovava ‘ mendosos et
imperfectos.’ Ma le congetture
concernenti le relazioni del Pontano con
la scuola umanistica fiorentina non tolgono la pos 4 Nella cit. lettera del Medici (v. Rossi,
opusc. c., IX, p. 31) si legge: « Per
una vostra sono avisato come aveste la lettera
mi scrisse m. Stephano de Nardinis supra quelli libri di Enoc; non ho poi altro, ma non dubitate che per
essere il primo che gl’abbia,non v’àanno acostare uno denaro di più ». Il Rossi
tuttavia resta in dubbio « se quei
maneggi sortissero l’effetto desiderato » (pag. 39). 2 Nel cod. Lat. 802 (cod. Victorin. 123)
leggesi appunto l' annotazione ‘emit Florentiae Iouianus ’. 3 Nel cod. Lat. 822 (cod. Victorin. 162) c'è
la nota ‘ est Iouiani Pontani. Florentiae, MCCCCLXV III ', i
sibilità, che egli sia venuto a conoscenza dei codici enochiani, per
acquisto che abbia fatto degli stessi la
corte di Napoli; sebbene, in tal caso, non ci sarebbe stato altro scopo per trarne copia, che
quello di correggerne le mende numerose. Ma nessun documento nè indizio ci aiuta per affermare o congetturare
ciò. Fatto certo è che il così detto
cod. hersfeldese, quale fu portato da
Enoch a Roma, non si conservò in nessuna biblioteca: era scritto su pagine
divise in colonne, e per la Germ. presentava (se quanto afferma il Decembrio, è
da riferirsi al cod. anzidetto !) la particolarità dell'uso della v.
‘inscientia ? nel cap. 16, 6, invece di
‘inscitia’; mentre, come è noto, nel sec. XV era invalsa generalmente l’ usanza di scrivere le
pagine dei libri per intero, senza
dividerle in colonne; e in> oltre, in
nessun cod. della Germ., finora conservato,
osservasi la v. ‘ inscientia ’ nel 1. c. ? IV.
Quanto all’ elenco dei libri portati iu Italia da Enoch d’ Ascoli, non abbiamo testimonianze
del tutto concordi nè complete.
Bartolomeo Platina ne nota due: il de re
coquinaria di Celio Apicio e il comm. ad Orazio di Porfirione.* Degli stessi
due libri fa menzione Vespasiano da
Bisticci. 4 1 Vedi SABBADINI, il ms.
hersfeldese etc., in Rio. di filol. e d’i.
cl., a. XXIX (1901), p. 262. ?
Soltanto il cod. della bibl. Angelica (‘ Augustinorum’ ) Q 5, 12 del 1466, e il cod. Kappianus (K del
Massmann) presentano “iusticia’ invece
di ‘ inscitia ”. 3 PLATYNAE de uitis
max. pont. hist. periocunda, Venet. (Ph.
Pincio Mantuano) 1511, fol. 150,
4 VESPASIANO, l. c. Par |
pes Il Panormita apprese da Teodoro
Gaza che tra le scoperte enochiane erano
Apicio e un Caesaris iter;! e l’Aurispa,
in una lettera del 13 dicembre 1455, diretta al
Panormita, enumera: a) l’Apicio, cui chiama ‘ pauperem coquinarium ’, inferiore nell’arte culinaria
alla sua cuoca; b) il Caesaris iter, che ‘ prosa oratione est, non uersu’; c) il commento di Porfirione, che a
lui sembra ‘ magis aestimandus quam quicquam aliud ab ipso allatum ?.* Il ‘ quicquam aliud ’ della frase
dell’Aurispa può tanto riferirsi ai due
libri menzionati prima, Apicio e il Caesaris iter, quanto alle altre novità
librarie recate da Enoch, le quali
l’Aurispa non credeva degne di essere
rammentate; chè non può supporsi che egli
le ignorasse, se scriveva al Panormita: ‘eum qui codices hos inuenit et
Romam perduxit ad uos mittam cum omnibus
musis suis”. Carlo de’ Medici chiedeva
a Stefano de’ Nardini che dei codici
nuovi lasciati da Enoch, morto ad Ascoli,
gli mandasse: « Appicius de re quoquinaria, Porfirione sopra Oratio, Suetonio de uiris illustribus,
Itinerarium Augusti ».* Dovevano essere
gli stessi quattro libri che avea
contrassegnati nella lettera del 13 marzo 1456
a Giovanni de’ Medici; poichè il resto dei libri portati dall’Ascolano non valeva, secondo lui, « una
frulla » ‘. 1 Nella lettera del Panormita
all'Aurispa (v. SABBADINI, dbiogr. doc.
di G. Aurispa, p. 133, n. 1) si legge: ‘ fac tecum deferas Apicium coquinarium
et Caesaris « iter », nuperrime, ut refert
Theodorus tuus nunciam meus, inuentos Romamque perductos ’. 2 La lettera dell'Aurispa è cit. a p. 72,
nota 2.* 8 Di questo incarico dato al
Nardini egli scrive al fratello Giovanni, nella lett. del 10 dicembre 1457: v.
VITT. Rossi, opusc. c., VIII, pp.
30-31. 4 Vitt, Rossi, opusc, cit., II,
p. 27. TR (; pere Talchè ai tre libri che già conosciamo per
le testimonianze sopra indicate, bisogna aggiungere, secondo quel che scriveva Carlo de’ Medici, il libro di
Suetonio de uiris illustribus (non de
grammaticis et rhetoribus). Oltre questi
quattro libri, null’ altro sappiamo degli altri libri portati da Enoch.' Nè a
riempiere la lacuna può valere la
testimonianza, testè data alla luce, di P. C.
Decembrio; poichè questi non dice, nè lascia in alcun modo intendere, che i quattro libri segnati
nella nota (Germ., Agr., dial. de oratoribus
e Suetonio) si debbano comprendere tra le recenti scoperte di Enoch. L’a. 1455 a cui, nella nota del Decembrio, si
accompagnano le parole ‘ Cornelii taciti
liber reperitur Rome uisus ”, vale a
indicare in qual tempo l’autore dello zibaldone
ebbe notizia o vide i libri che nota nell’ elenco, non la data della scoperta di Enoch; chè, se
intendimento di lui fosse stato
accennare in un modo qualsiasi tale
data, avrebbe certamente aggiunto qualche parolaanaloga a quelle che si
osservano nella nota del cod. Leid.
Perizon. ‘ nuper adinuentos et in lucem relatos ab Enoc Asculano ?.
: Nulla, per tanto, osta ad ammettere
che il Decembrio abbia potuto attingere
le notizie che trascrive nel suo
zibaldone a tutt’ altra fonte, che non a quella dei co 1 Appare inesatta l’asserzione, che nella
lista di Carlo de' Medici sia notata la
sola opera di Suetonio « certamente perchè essa nel cod. occupava il primo
posto » (v. Studi ital. di filol. class.
vol. VII, p. 130, nota 4); perocchè , argomentando da una nota di Pier Candido Decembrio (Riv.
di filol. e d'’ i. cl., a. XXIX (1901),
fasc. 2°, p. 268) l’opera di Suetonio occupava, invece, nel cod. l'ultimo
posto. dici portati da Enoch! : probabilmente le avrà attinto al codice del monaco hersfeldese, in quanto che
verso la metà del sec. XV questo cod.
doveva essere già pervenuto tra le mani del Poggio. Il Decembrio, come è noto, sin dal 1450 era al servizio della
Curia romana. Se, al contrario, si
volesse ammettere che il Decembrio fosse
stato uno dei primi, anzi risolutamente il primo ?, a vedere il così detto cod. hersfeldese delle
opere minori di Tacito, portato in Italia da Enoch, si andrebbe incontro ad un’affermazione indubitata di
Carlo de’ Medici, il quale scriveva al fratello: « a dirvi l’oppenione di molti dotti uomini, che gli Anno visti
(cioè, i libri portati dall’Ascolano),
da questi quattro infuori che sono segnati...., tutto il resto non vale una
frulla » :3 e i quattro libri, l'abbiamo
osservato sopra, erano Apicio,
Porfirione, Suetonio e l’Itinerarium. Sarebbe stato mai possibile che i quattro libri segnati nella
nota del Decembrio fossero stati
giudicati per « una frulla » da quei
dotti uomini, che costituivano, diremo così, il fiore della scuola umanistica romana nel sec. XV
? È da notarsi, inoltre, che il libro
di Suetonio, accennato da P. C. Decembrio, ha per titolo de grammati 4 Si noti la differenza tra il tit. della
Germ. segnato dal Decembrio (de origine et situ Germaniae) e quello scritto nel
cod. Leid. Perizon. (de origine situ
moribus ac populis Germanorum), attribuito al Pontano. Se il Decembrio e lo
scrittore del cod. cit. avessero attinto
la denominazione della Germ. alla stessa fonte, non avrebbero certamente
mostrato alcuna discrepanza quanto al tit. del libro. ? Così opina il Sabbadini : v. Rio. di
filol. e d’i. cl., a. XXIX (1901), p.
263. 3 Lett, cit. del 13-III 1456: v,
Vitt. RossI, opusc, c., II, P. 27. nun
E cis et rhetoribus, il quale non
corrisponde al tit. de viris illustribus,
che si legge nella lettera di Carlo de’
Medici. Egli è vero che il secondo tit. include in sè l’altro, come il genere contiene la specie; ma un
titolo preciso, tutto proprio, doveva averselo il libro di Suetonio, portato dall’Ascolano. Nel cod. Leid.
Perizon. è scritto: ‘ Caii Suetonii
Tranquilli de wiris illustribus liber incipit. » de grammaticis ’; e in fine la
nota: ‘ amplius repertum non est adhuc.
desunt rhetores XI”. Certo, l’
indicazione del Decembrio risponde meglio al contenuto di quanto rimane del
libro di Suetonio ; mentre l’
indicazione di Carlo de’ Medici si riferisce alle notizie che si avevano intorno ad un libro di
Suetonio de wiris illustribus, del quale si era giovato S. Girolamo per scrivere le vite degli uomini illustri,
dall'età degli apostoli sino a” suoi
tempi.' E non pare perciò improbabile la congettura, che Enoch, per indicare
nell’ inventario il libro di Suetonio, avesse usato il titolo de uiris illustribus, a fin di attirar meglio
sui suoi codici 1’ attenzione dei dot ti; stante che allera era divulgata la
leggenda, che Sicco Polenton (de’ Ricci), dopo
essersi servito dell’ opera di Suetonio, per compilare il suo libro de scriptoribus linguae Latinae, 1’
avesse distrutto col proposito di togliere qualsiasi prova a chi si fosse avvisato di accusarlo di plagio.? In
appoggio di tale congettura, vale molto
la nota, attribuita al Pontano, che
leggesi nel cod. Leid. Perizon: in essa, oltre l’ invettiva contro Sicco
Polenton per la pretesa distruzio i
HieroNnyM. epist. XLVII ad Desiderium, t. I, col. 209, Veron. 1734; prol. ad Dextrum praet. praef. in libr.
de uiris illustribus, t. II (1735), col. 807.
? Vitm. Rossi, opusc. ne di quella parte del libro di Suetonio, ‘ quae
est de oratoribus ac poetis’, si trae
occasione di lamentare che Bartolomeo
Fazio non avesse potuto, per l’ immatura morte (novembre 1457),' leggere lo
scritto di Suetonio, mentre componeva il libro de uiris illustribus temporis sui. Di modo che, con l’ intitolare
de wiris illustribus il libro di
Suetonio, si volle indicare il contenuto del libro molto maggiore del vero, non
tanto, forse, per trarre in inganno chi
si fosse deciso a comprare il codice, quanto per avvicinare la scoperta di
Enoch al libro compilato dal Polenton ed
alle vite degli uomini illustri del
Fazio. Non si può disconoscere che, se
Enoch aveSse portato seco degli scritti
di Tacito, così pregiati dai dotti umanisti del sec. XV, non avrebbe di certo
tralasciato di dar loro evidenza,
compilando 1’ elenco dei libri scoperti durante il suo viaggio nell’Europa
settentrionale. Nè è ammissibile che
alla diligenza d’ un cercatore di
codici, scelto appunto per tali indagini da un pontefice di mente superiore e
d’ illuminata liberalità, quale fu Niccolò V, fosse sfuggito il nome di Tacito,
ove questo nome si fosse trovato scritto
sul frontespizio di qualcuno dei codici
o dei libri contenuti in uno stesso
codice; nè l’intendimento di trarre vantaggio dal mettere in prima linea
il nome di Suetonio poteva essere d’
ostacolo , che si scrivesse il nome di Tacito accanto o anche dopo quello di Suetonio, se in realtà
il nome di Tacito si trovava in fronte a
qualcuno dei libri portati da Enoch in
Italia. L’ importanza di Tacito nei 1
ZENO, diss. Voss., Ven. 1752, p. 70 sg.
80 giudizi degli umanisti del
sec. XV non era inferiore a quella
attribuita a Suetonio. ! Molto meno
attendibile ci sembra l’ avvertenza, che
fu omessa la menzione del nome di Tacito nella lettera del Medici, 10 dicembre 1457, perchè questi
vide solo al principio del codice il
libro di Suetonio. ®? Appare, infatti,
da un’ altra lettera di Carlo de’ Medici, con la data « Roma, 13 marzo » (1456 st. com., 1455
st. fior.),3 che egli ebbe sott’ occhio
l’ inventario compilato da Enoch, non il codice, sul quale inventario
contrassegnò quattro libri, i migliori
secondo « l’oppenione di molti dotti
uomini, che gli Anno visti ». E di più nella cit. lettera del*°10-XII 1457 non si fa elenco di
codici, ma solamente di libri, e tra
questi il de wiris illustribus di Suetonio
occupa il terzo posto. Or, se Carlo de’ Medici vide 1’ inventario presentato da
Enoch e non i codici, molto meno probabile appare la congettura, che egli abbia veduto « una semplice copia,
affine al cod. Vaticano 4498, che reca
tutte quattro le opere in que 1
Arrogi una considerazione: come si potrebbe conciliare la niuna menzione della Germ. nell'inventario
delle scoperte dell’Ascolano, col fatto che per avidità di guadagno i cercatori
e mercatanti di codici dicevano talvolta
cose non vere o esageravano:quel che realmente si era scoperto? Valga d' es. il
caso di Niccolò da Treviri: questi nell'inventario dei libri nuovi mandato al Poggio scrisse di avere presso di
sè un ‘ uolumen in quo sunt XX comoediae
Plauti' (v. Poca epist. III 29 T.); e
poi, invece, ne portò sedici (v. PocaIt epist. IV 4 T.). ? Cosi appunto si legge in Studi ital. di
filol. class. vol, VII, p. 130, nota 4;
e Rio. di filol. e d'i. cl. a. XXIX (1901), fasc. 2, p. 264. E dello stesso avviso è anche il
LEHNERDT, in Hermes, vol. XXXIII (1898),
p. 501. 3 GAYE, Op. c., I, p. 163 sg.
Vitt. Rossi, opuse. c., II, p. 27. ASI
RS st’ ordine» Suetonio de
grammaticis, Tacito Agricola, dialogus,
Germania ».! Aggiungasi che nella nota dello
zibaldone del Decembrio il libro di Suetonio occupa l’ultimo posto, e la Germ. ha il primo parsa:
anteriore, perciò, all’Agr. e al dialogus.*
Altre considerazioni c’ inducono ad ammettere come probabile che, tra i libri portati da Enoch
in Italia, quelli attribuiti a Tacito
mancassero dell’ indicazione del nome
dell’ autore. Dalla lettera del Panormita al
1 Rio. di filol. e d’i. el. 1. c. Ma in realtà il cod. Vatic. 4498 contiene Suetonius de grammaticis et
rhetoribus nel terzo posto: lo precedono Frontinus de aquaeduct. e Rufus de
prouinciis. 2 Perciò appare, ora,
infondato, alla luce dei documenti testé
scoperti, il ragionamento del LEHNERDT |. c., p. 501: « dass in Carlos Briefe nur Suetonius, nicht aber die
beiden Taciteischen Schriften genannt werden, findet leicht eine Erklàrung. Wir erfuhren schon aus einem frilheren
Briefe, dass Enoche mit seinen Schàtzen
sehr zuritckhaltend war; so lag auch den
beiden Medici nicht der Codex selbst, sundern nur das Inventar Enoches vor, in
dem, wie so hàufig, nur das erste Werk
der Sammelbandschrift aufgefihrt war ».
La spiegazione, invece, sarebbe tutta al contrario, perchè, secondo la
nota dello zibaldone di Pier Candido Decembrio, la Germ. è il primo senitto del cod.; l’ultimo è
il de gramm. et rhetoribus di Suetonio.
y 3 Vitt. Rossi nell'opusc. c., p. 38,
nota 1, scrive: « se poi Enoch non trascrisse il cod. da lui scoperto, ma portò
questo stesso in Italia, può ben darsi
gli sia sfuggito il nome di Tacito, che, come nel cod. Perizoniano, dovea
leggersi in fronte al secondo opuscolo
contenutovi, alla Germania, e non al primo, il dialogo de oratoribus ». Ma il
MASsMann, op. c., p. 7, descrivendo îl
cod. Leid. Perizon. XVIII C 21, osserva che il
1° opusc. porta nel fol. I il soprascritto di colore rosso ‘ CoRCONSOLI
n L’ autore detta Germania, 6 cn
a Guarini veronese, citata in
principio del presente capitolo, apprendiamo che solo per congettura erasi
attribuito a Tacito il dialogus. Nè alla notizia precisa data dal Panormita contrasta la nota del
Decembrio, per la quale si vuole
riconoscere per vero « indi scutibilmente che il dialogo portava il nome di Tacito »;! perocchè l’ affermazione del
Decembrio devesi riferire allo stato del codice o di un apografo del codice, ventinove anni dopo che ne avea dato
l’ annunzio il Panormita. Dopo tanti anni era possibile che il Decembrio avesse veduto e descritto qualche
esemplare, proveniente forse dal cod.
annunziato dal frate hersfeldese, nel quale esemplare la congettura del
Panormita fosse stata accolta come notizia indubitata, e si fosse ascritta a Tacito la paternità del
dial. Quanto all’ Agr. manca qualsiasi
testimonianza, che il libretto formasse
parte del cod. portato da Enoch. Il
Decembrio lo nota soltanto nell’ elenco, senza indicare espressamente che
l’Agr. era incluso nello stesso cod.,
insieme con la Germ., il dial. e il Suetonio, e ne teneva il secondo posto. Nè havvi alcun
codice, in cui si presentino riunite
insieme le tre così dette opere minori
di Tacito e il de gramm. et rhetoribus di Suetonio, nell’ordine stesso
della descrizione che ne fece il Decembrio.
Alla mancanza di testimonio per l’Agr. non può supplire, come pare a
noi, il cod. Vatic. 4498; * perchè, co
NELII TACITI DIALO-/gus de oratoribus incipit’: e la stessa osservazione
ci è stata confermata, in una cortese lettera del 4-X 1901, dal prefetto della biblioteca
universitaria di Leida sig. S. G. de
Vries, alla cui gentilezza ci siamo rivolti per avere delle notiziecerte sull'argomento. 1 Rio. di filol. e d’ i. cl., 1. c., p.
264. ? V. gli Studi ital. di filol.
class. vol. VII, p. 130: si ammette me sopra si è in parte avvertito, ! in
questo cod. non si contengono raccolte
le sole quattro opere che si dicono costituire il cod. hersfeldese, portato da
Enoch in Italia, e nemmeno nell’ ordine
indicato dal Decembrio (G. A. d. S.), ma
vi si contengono anche: 1° Frontinus de aquaeduct.; 2° Rufus de prouinctis
;.... 4° [ Pseudo-] Plinius de viris
illustribus ;..... 8° M. Iunii Nypsi de
mensuris ; 9° incerti de ponderibus ; 10° Senecae apokolokyntosîs ; 11° Censorinus de die
natali. Di que= sti
scritti alcuni, come p. es. il de aquaeduct. di Frontino,? erano già noti prima
che il cod. dell’ Ascolano fosse stato
portato in Italia. V. Resta la
testimonianza che dicesi del Pontano, scritta
sul cod. Leid. Perizon., la quale avrebbe un notevole valore, se prima si
chiarissero, mediante la scoperta di nuovi documenti, le difficoltà presentate
dal Voigt * e accolte dal Teuffel,' ma
da altri respinte. * Egli è vero che
Vittorio Rossi è pervenuto a dimostrare, con documenti che si conservano nell’
archivio fiorentino (Med. avanti il
Princip.), essere conforme al vero
l’attestazione pontaniana: ‘qui (sc. Bartholomaeus Facius) ne hos Suetonii
illustres uiros uidere pos appunto che
al difetto di testimonianza per l' Agricola debba supplire il cod. Vatic. 4498, 1 V. p. 81, nota 1l?. ? Poe epist. III 37. IV2e4T, 3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol. I, p.
255 sg., nota 3. 4 TEUFFEL-SCHWABE, G.
d. r. L. 5, $ 334, 4, p. 835. 5 Vedi
WuENSCH, de Tac. Germaniae codicibus Germanicis, Marburg 1893; e 4ur Texigeschichte der Germ.,
in Hermes vol. XXXII (1897), fasc, 1°,
p. 57. dn set, mors immatura effecit. Paulo enim post
eius mortem in lucem redierunt.’ Infatti, il Fazio morì nel 1457; e dalla lettera di Carlo de’ Medici, 13 genn.
1458, risulta che sino a quella data non si era potuta ottenere copia dei libri portati da Enoch. Rimangono
però senza soddisfacente risposta altre
obiezioni mosse dal Voigt. Resta sempre
nell’ attestazione attribuita al Pontano
una certa vacuità o mancanza d’ interesse, quanto alle notizie che vi si annunziano. Egli si duole
che il Fazio sia stato sorpreso da morte
immatura, sicchè non si sia trovato
presente quando veniva alla luce l’opuscolo
di Suetonio de wviris illustribus : la ragione di tale doglianza è
evidentemente quella accennata sopra, che il
Fazio se ne sarebbe potuto servire nel comporre il suo libro de viris illustribus temporis sui. Ma
il Fazio in una lettera al card. Enea
Silvio Piccolomini, scritta nei primi
mesi del 1457,! gli dà la notizia: ‘ librum quem 1 La lettera, scritta da Napoli e senza
data, fu pubblicata nella raccolta assai
confusa delle epistole di Enea Silvio Piccolomini, contenuta in opera quae
exrtant omnia di lui, Basil. 1571, p.
778, n. 233. Nella lett. si fa menzione, fra le altre cose, di alcune lettere di congratulazione, scritte
precedentemente dallo stesso Fazio, per
la promozione del Piccolomini al cardinalato ;
e vi si fa cenno anche del terremoto di Napoli. Or, secondo il breve di
Callisto III (‘ dat. Romae apud S. Petrum anno MCCCCLVI XV Kal. Ianuarii, pontificatus nostri anno II
’), riferito testualmente da Oporico RAYNALDO, in ann. ecel. el. D. Mansi,
Lucae 1753, t. X, p. 99, la promozione
del Piccolomini al cardinalato ebbe
luogo il 18 dicem. 1456, Il terremoto che rovinò Napoli ed altre città del Regno avvenne « la domenica
mattina a di 5 di dicembre (1456), a ore
dieci e mezza », e si ripeté nei giorni seguenti (v. cron. di Bologna, in
MURATORI, rer. It. scriptt. t. XVIII,
cc. 722, 723; giornali napolitani dal 1266 al 1478, ibid. t. XXI, c. 1132: l’INFESSURA, nel diurio della città
di Roma, ibid, t. III, SE de uiris illustribus scripsi, Regi dedicaui
ac tradidi*; ed aggiunge: ‘ in quo opere,
ut aliquando uidebis, si non quantum
uirtutum tuarum magnitudo postularet, at
quantum ingenii mei paruitas potuit, quantumcumque res ipsa passa est, tibi a
me tributum cognosces.’ Cosicchè, se
verso la fine del 1456 il Fazio portò a
compimento e pubblicò il suo libro sulla vita degli uomini illustri, e
ne fece un presente ad Alfonso d’ Aragona, re di Napoli, è evidente che a nulla
gli sarebbe giovata, ancorchè egli fosse
vissuto sino al principio del 1458, la
divulgazione del libro suetoniano, avvenuta in quel tempo. Nella stessa annotazione del cod. Leid.
Perizon. si accoglie con leggerezza,
come notizia indubitata, il supposto plagio di Sicco Polenton e la distruzione
di quella parte del libro di Suetonio,
che trattava de oratoribus ac poetis.
! Resta un’ altra difficoltà. Secondo
l’ annotazione del cod. Leid. Perizon.,
il libro de grammaticis et rhetoribus di Suetonio si divulgò poco dopo la morte
del Fazio, anzi, per i dati contenuti
nella lettera di Carlo de’ Medici, non
prima del gennaio 1458. Un certo tem p.
II, c. 1137, menziona il terremoto del 24 dicembre 1456). La lettera del Fazio è, per conseguenza,
posteriore al dicembre 1456. Nella
raccolta cit., p. 784, n. 251, è compresa una lett. del card, Piccolomini di risposta a quella del
Fazio, con la data ‘ex urbe Roma die XXV
Martii 1457,’ Si può, dunque, affermare che la lettera del Fazio dovette essere
scritta tra la fine del dicem. 1456 e la
metà del marzo 1457. 1 RIiTscHL, Parerga
zu Plautus und Terena, Leipz. 1845, I p.
632. RoTH, C. Sueton. Tranq. quae supersunt omnia, Lps. 1882 ; praef., p. LI sg. ana
po era, senza dubbio , necessario perchè i libri o le copie di essi, che Stefano de’ Nardini avea
promesso , giungessero a Carlo de’
Medici, e da questo si mandassero al fratello Giovanni, in Firenze, il quale
doveva essere il primo ad averli. ' Perciò la divulgazione dei libri portati da Enoch non poteva aver luogo prima
che alcuni mesi fossero scorsi dopo il
gennaio 1458. Intanto Enea Silvio
Piccolomini è il primo a far menzione, sebbene in un modo poco esatto, del contenuto della
Germ. nella grande epistola di risposta
a Martino Meyer, cancelliere dell’ arcivescovo di Magonza ?. Il Meyer, con lettera in data del 31 agosto 1457, * si era
congratulato col Piccolomini della
promozione al cardinalato e nello stesso
tempo , colta la propizia occasione, avevagli
descritto le tristi condizioni fatte dalla Curia romana alla Germania, e l’aveva avvertito che ‘ nunc
uero, quasi ex somno excitati, optimates
nostri quibus remediis huic calamitati
obuiam pergant cogitare coeperunt iugumque
prorsus excutere et se in pristinam uindicare libertatem decreuerunt ’:
sono i preludi della riforma religiosa.
Il card. Piccolomini, che aveva già scritto su tale ar 1 Le precise parole scritte da Carlo de'
Medici nella lett. cit. del 13 genn.
1458 (F IX, doc. 576) sono queste : « non dubitate che per essere il primo che gl'’abbia (i libri di
Enoch), non v'énno a costare uno denaro
di più ». ? L’epistola del card. Piccolomini
è pubblicata col titolo de ritu, situ,
moribus et conditione Germaniae descriptio, in opera quae extant omnia, ed. cit., pp.
1034-1086. 8 L' epistola del Meyer è
pubblicata a p. 1035 delle opere di E.
S. Piccolomini, ed. c.; ma, per evidente menda di stampa, porta la data erronea: ‘ex Hasthaffenburga pridie
Calend, Septembris MCCCCVII ”, invece
del MCCCCLVII, RT gomento al Meyer la lettera del dì 8 agosto
1457, ! tornò a scrivergli in proposito,
per confutare le affermazioni di lui, altre tre lettere * ; e di ciò non
contento, per dare, probabilmente, una
maggiore pubblicità alle ragioni addutte
in confutazione delle osservazioni del
Meyer, si accinse a scrivergli una lunga epistola, che prima mandò, per averne l’ autorevole parere,
ad Antonio card, di S. Crisogono, con lettera in data del 1° febbraio 1458. 3 Al Piccolomini premeva di
ribattere le accuse che provenivano
dalla Germania, per prepararsi i voti
favorevoli nel prossimo conclave, che, difatti, lo elevò, dopo la morte di Callisto III, all’
onore della tiara; ed era importante per
lui che tutti sapessero quel che egli ne
pensasse intorno alle agitazioni tedesche
contro la Curia di Roma. E però, per confutare gli ar© gomenti addotti
dal Meyer (cui avverte ‘ nec dubitamus
te perditum iri, nisi e schola erroris et officina ueneni retrahas pedem), arreca, tra le molte
ragioni, i benefici fatti dalla Chiesa di Roma alla Germania, e fa un confronto tra i costumi degli antichi Germani
, quali furono descritti da Cesare e Strabone,
e la civiltà tedesca de’ suoi tempi; indi soggiugne (p. 1051): ‘ is igi 1 Epist. n°. 369, pp. 836-839, op. c. ? Una delle tre lettere, che è segnata nella
raccolta cit. col n° 338, p. 822, porta
la data ‘Romae XII Calend. Octobris a.
MCCCCLVII ’. Un' altra, di n° 345, p. 827, ha la data ‘ex urbe, die uigesima Octobris’, senza indicazione
dell’anno, che deve essere lo stesso
1457. La rimanente, segnata col n° 288, p. 801,
non porta data, ma dal posto che occupa tra una epist. dell'11-IX 1457,
e una del 3-X dello stesso anno, è probabile che sia stata scritta nella seconda metà del
settembre 1457. 3 La lett. al card. di
S. Crisogono è pubblicata a p. 1034, e
precede immediatamente quella diretta al Meyer. =,
tur fuit Germanorum status Strabonis tempore, quem usque ad Tiberium Caesarem uixisse constat.
his ferociora de Germanis scribit Cornelius Tacitus, quem in Adriani tempore incurrisse perhibent. parum
quidem ea tempestate a feritate brutorum
maiorum tuorum uita distabat. erant enim
plerumque pastores, syluarum incolae ac nemorum nec munitae his urbes
erant, neque oppida muro cincta, non
arces altis innixae montibus, non templa sectis structa lapidibus
uisebantur. aberant hortorum ac uillarum
delitiae, nulla uiridaria, “nulla tempe,
nulla uineta colebantur: praebebant largos
flumina potus; lacus et stagna inseruiebant lauacris et, si quas natura calentes produxerat, aquae.
parum apud eos argentum, rarius aurum,
margaritarum incognitus usus. nulla
gemmarum pompa, nulla ex ostro uel serico uestimenta. nondum metallorum
inuestigatae minerae; nondum. miseros in uiscera terrae mortales -truserat auri
sitis: laudanda haec et nostris anteferenda
moribus. at in hoc uiuendi ritu nulla fuit literarum cognitio, nulla legum disciplina, nulla
bonarum artium studia. ipsa quoque
religio barbara, inepta et, ut propriis utamur uocabulis , ferina ac brutalis.
talis tua Germania fuit usque ad
Adrianum Caesarem, quamuis iam ceterae
orbis prouinciae excultae artibus ac mo‘ribus essent ’. Dovette, dunque, il Piccolomini aver
notizia, sebbene alquanto imperfetta ,
della Germ. anteriormente al 1° febbraio
1458, che è la data segnata nella missiva al
card. di S. Crisogono. E, se consideriamo attentamente il contenuto della lettera del Piccolomini al
Meyer, in data 8 agosto 1457, appare non
dubbio che egli ebbe notizia della Germ.
prima di questa ultima data; poi
ica chè nella lettera si
contengono , riassunte senza indicazione di autori, osservazioni consimili a
quelle che sui costumi dei Germani
antichi sono ampiamente svolte nella grande epistola sopra cit. Leggesi,
infatti, nella lettera: dell’ 8 agosto
1457 : ‘ namque si legamus uetusta tempora, inueniemus Germanos olim ritu
uixisse barbaro, uestibus usos laceris;
uenationi tantum et agrorum culturae dedisse operam, feroces quidem
homines et belli appetentes , sed
argenti prorsus inopes, quibus quippe
nec uini usus erat. ipsaque Germania intra mare
et Danubium rursusque intra Rhenum et Albim continebatur; nunc uero
quantum transgressa sit suos limites, non ignoramus ?. e. q. s.! Perciò il
Piccolomini dovette conoscere il
contenuto della Germ. prima del1’ 8 agosto 1457, cioè circa sei mesi prima del
tempo in cui, secondo la lettera di Carlo de’ Medici , del 13 gennaio 1458, si erano cominciati a
divulgare i libri portati da Enoch; e,
per tanto, appare non vera l’ annotazione del cod. Leid. Perizon., d’essere, cioè,
la Germ. e gli altri opuscoli ‘ nuper
adinuentos et in lucem re.latos ab Enoc Asculano ’, giacchè del contenuto della Germ. sì era avuta notizia prima che i libri
portati da Enoch, in originale o in
copia, fossero stati acquistati da Giovanni di Cosimo de’ Medici o da altri, e
prima che se ne fosse cominciata la divulgazione. Ma per quale via sia pervenuto il
Piccolomini ad avere in sue mani la Germ. non ci è dato, secondo i documenti del tempo scoperti sino ad oggi,
determinarlo con certezza. Non è improbabile che il Piccolomini sia stato
aiutato in tali indagini dal Poggio ? e
1 Epist. n.° 369, p. 838, ed cit.
2 Nella lettera del 4 gennaio 1457 il Poggio, congratula ndosi dal
Panormita,! coi quali egli aveva relazioni di buona amicizia: ed è noto quanto ebbe a stentare il
primo, nei lunghi e tediosi maneggi, per
aversi il ms. del frate hersfeldese ;
del secondo si sa che sin dal 1426 aveva
dato notizie della Germ. nella lettera, citata sopra, al Guarini veronese. Il Lehnerdt però, per la soluzione del
quesito, muove da una notizia che si
legge nella lettera del 10 dicembre 1457 di Carlo de’ Medici al fratello
Giovanni: « heri mandò per me il
cardinale di Siena e domandomi se Enoch
avesse lasanti (1. lasciati) libri alcuni nel banco nostro; dissigli che no. Lui mi domandava che
via lui potessi tenere ad avere certi
libri che lui aveva: io fe” col
Piccolomini, per la promozione di lui al cardinalato, gli scriveva: ‘accedit ad
consolationem meam et summam iocunditatem quod uir eloquentissimus (cioè il
Piccolomini) optimisque artibus eruditus, fructum eloquentiae et doctrinae sit,
quod perraro accidit, consecutus: in quo
gloriari quodam modo mihi merito uideor
posse nostri quondam ordinis uirum, hoc est eloquentiae studiis et dicendi
exercitio praestantem, eo in statu esse
collocatum, ut suae doctrinae aemulos extollere et eis praesidio atque ornamento esse possit'. Ed in
un'altra lettera del 3 novembre (manca
l'indicazione dell’anno, ma è, senza
dubbio, del 1457) lo stesso Poggio profferiva i suoi servigi al card. Piccolomini, scrivendogli: ‘me penitus
tuum esse ubique satisfaciendi cupidum, si
qua in re mea tibi cura, studio, opere,
diligentia opus esset.’ Le due lettere del Poggio sono comprese nell’ epistolario del Piccolomini, segnate
l’una col n. 216, p. 771, l’altra col n.
295, p. 806: tra le due lettere è compresa la responsiva di ringraziamento del
Piccolomini al Poggio, n. 293, p.
805. 1 Vedi la lettera del Piccolomini,
allora ‘ episcopus Senensis ', ad
Antonio Panormita, n. 407, p. 951 sg.; e la menzione del Panormita nell'epist. al Fazio, notata al n.
251, p. 784. PEN co (ROSS al giuoco del baloco. Di poi ho sentito che
lui ha scritto ad Ascoli a certi sua amici; e pertanto vorria che voi medesimo scrivessi a m. Stefano che in
singulari vostro servizio lui mi fessi
avere o i libri di che io gli ò scritto
overo la copia ».! Il Lehnerdt ne argomenta
che il Piccolomini (denn niemand anders ist der betriebsame Cardinal von
Siena) dovette attingere le notizie sulla Germania, annunziate nella lettera, a
Martino Meyer, al ms. enochiano, di cui
venne in possesso prima del Medici. ? Ma alla congettura del Lehnerdt si oppone il testo di un’altra lettera di Carlo
de’ Medici, in data del 13 gennaio 1458,
che sopra abbiamo riferito. Stefano de’ Nardini, sollecitato, oltre che da
Carlo, anche da Giovanni de’ Medici,
rispose dando promessa certa, che questi
avrebbe avuto i libri di Enoch o le
copie; e dovette aggiungere che lo stesso Giovanni de’ Medici li avrebbe avuti per il primo, poichè
il fratello Carlo nella lettera su
cennata soggiugne le sgg. parole, più volte da noi citate: « non ho poi altro,
ma non dubitate che per essere il primo
che gl’abbia non vanno a costare uno denaro di più. » 8 Or, se Giovanni de’ Medici doveva essere il primo
ad aver i libri di Enoch, giusta l’
affermazione «di Carlo confortata dalla
lettera di Stefano de’ Nardini, non è
possibile che prima di lui il card. Piccolomini ne fosse venuto in possesso. E naturale poi che un certo tempo dovette
trascorrere tra la lettera del 13
gennaio 1458 e la trasmissione dei libri
di Enoch o di copie dei medesimi, che Gio
1 Vitt. Rossi, opusc. c., VIII, p. 31.
2 LEHNERDT, l. c., pp. 502, 504.
3 VITT. Rossi, opusc. c., IX, p. 31.
vanni de’ Medici desiderava avere: così si giunge alla fine di gennaio
od al principio di febbraio. Il Piccolomini, che non risulta essere stato il
primo ad averli e leggerli, poteva averne avuto notizia, stante la difficoltà delle comunicazioni in quei tempi,
verso la ‘metà o la fine di febbraio:
dunque non era possibile che egli ne
avesse avuto conoscenza prima «li scrivere
la lunga lettera al Meyer; la quale lettera fu, senza dubbio, preparata
e scritta nel gennaio 1458, poichè in data
del 1° febbraio fu spedita per esame al card. di S. Crisogono. !
L’improbabilità che il Piccolomini avesse tratto vantaggio dai libri enochiani
si rende ancor più evidente, se si bada
alla conclusione cui siamo pervenuti poco prima, cioè, che per altra via il Piccolomini
dovette aver notizia del contenuto della Germ., prima dell’8 agosto 1457. VI.
Anche nella supposizione che la Germ. si fosse trovata unita coi libri portati da Enoch,
essa non doveva presentare, come sopra sì è avvertito, il nome dell’autore,
poichè non se ne fa cenno nell’inventario dei libri di recente scoperti. Il
nome dell’autore dovette essere aggiunto dopo, quando si cominciò la
divulgazione del libro, e si riconobbe
che era identico a quello già 1 Nella
lett. del Piccolomini al card. di S. Crisogono, p. 1034 ed. c., si legge: ‘ epistolam scribere
institui et liber exiuit; quid dixi
liber? libri exiuere. mittimus igitur ad
tuum examen, ut uideas corrigasque, uel,
si melius putes, igne consumas. tu solus
es, cuius existimationem audiendam arbitror.
ad te ergo ueluti ad fontem
doctrinae uenio et ad ipsum iubar
scientiarum, si condendum aut comburendum opus iudicaueris, obediam imperio tuo. si duxeris edendum,
exibit liber intrepidus et nullius calumnias uerebitur, quando abs te
probatus fuerit, quem omnes probant.' e.
q. s. Pei 7, ME indicato dal Panormita nella lettera dell’
aprile 1426, diretta al Guarini. E per
tal modo la Germ. fu annotata, ventinove anni dopo (1455), col nome di
Tacito nello zibaldone di Pier Candido
Decembrio. Cosicchè l’ indicazione di
Tacito come autore della Germ. si riconnette, anche per il libro portato da
Enoch, allo stesso fonte che abbiamo considerato sopra, trattando del codice del frate hersfeldese: la conclusione
ne sarebbe la stessa. Per tale
conclusione troverebbesi forse modo di
coordinare l’ attestazione notata nel cod. Leid. Perizon. con le ricerche fatte
anteriormente dal Poggio, e col fatto
che il contenuto della Germ. era noto prima
che si fossero divulgati in Italia i libri portati da Enoch; in quanto
che il Pontano, che è detto autore dell’ attestazione, non deve aver letto il
nome di Tacito in fronte alla Germ. che
egli trascrisse, correggendone le mende,
ma ve l’appose per le notizie avutene a
Roma e a Firenze in quei circoli letterari, ai quali il libro era prima noto. Il vedersi, dunque, attribuita a Tacito la
paternità della Germ. nei codici del
sec. XV, che soli ci rimangono dell’ aureo libretto , resta sempre dovuto,
come pare a noi, ad un presupposto del
Poggio ed all’ annuenza non disinteressata del frate hersfeldese; se non sì vuole direttamente ammettere che tale
attribuzione sì fondi sulla fede d’ un
amanuense del sec. XV, fede, come bene
avverte il Valmaggi in proposito del dialogo de oratoribus, che si ha da
reputare dubbia « per lo meno, sino a
tanto che altri documenti e prove sieno contro di lei ».! 1 L. VaLMaG6I, dial. degli oratori, Torino
1890; introduz., pagina XXXIX. Di Uno
studio che avesse 1’ obietto di comparare la
Germ. con gli scritti di Plinio Secondo, riuscirebbe certamente non poco
utile a dare evidenza e conferma ai
risultamenti delle indagini fatte nei precedenti capitoli. Ma un tale studio sarebbe, di necessità,
incompleto, perchè gli scritti di
Plinio, i quali si avvicinano, per
analogia di argomento, alla Germ., cioè i venti libri Germanicorum bellorum, la vita di Pomponio
Secondo e i libri di storia a fine
Aufidii Bassi, non sono pervenuti sino a noi. Solo si può istituire il
confronto tra la' Germ. e la nat. hist.,
determinando anzi tutto quali notizie,
quali considerazioni, insomma quali concetti
presentino in entrambe le opere considerate il carattere di comune
origine; sì che se ne possa indurre che
tanto l’una quanto l’altra debbano essere state manifestazioni, sebbene
per obietti diversi, dei pensieri di una
stessa mente. Seguiremo nelle
nostre indagini l’ordine dei libri della
nat. hist. * Restringiamo il confronto
soltanto ai concetti o pensieri analoghi espressi nei due libri. Quanto al
confronto lessicale, sintattico e
stilistico tra la Germ. e la n. A. di Plinio, abbiamo prepa:ato un libro, che sarà pubblicato
immediatamente dopo il presente lavoro,
di cui può considerarsi opportuno complemento. Valga la stessa avvertenza per
il capitolo sg., in cui la Germ. sarà
comparata con gli scritti genuini di Tacito, = DE I. a) Una spedizione navale, capitanata da
Druso, si mosse nel 742/12 dalle foci
del Reno verso le regioni orientali, per fare delle scoperte ed estendere
il dominio romano. Un’altra spedizione
fu tentata ventotto anni dopo, nel 16 d. Cr., dal prode Germanico. Alla prima impresa si allude nella . A. II 67
(67), 167 ‘ septentrionalis uero oceanus
maiore ex parte nauigatus est auspiciis diui Augusti Germaniam classe
circumuecta ad Cimbrorum promunturium 7. Ad entrambe le imprese si riferisce la notizia, di cui nella
Germ. 34, 6 ‘ipsum quin etiam Oceanum illa
temptauimus ”.! b) Non è da omettersi
che della strage di Crasso, menzionata
nella Germ. 37, 15, si fa cenno nella n. A.
II 56 (57), 147; e la notizia. si ripete in vari modi in V 24 (21), 86. VI 16 (18), 47: cf. XV 19
(21), 83. c) Nemmeno si deve
tralasciare l’ osservazione, che il
cenno sulla guerra cimbrica, fatto nella Germ. 37, 7, notasi anche nella n. A, II 57 (58), 148.
* II.
Nel lib. II della n. A. si osservano tre Il. di confronto.
a) Dei ‘ Boi ’ Plinio dà notizia, indicando i luoghi, in Italia, in cui le loro centododici tribù
furono distrutte, 1 Della prima
spedizione si fece, più tardi, menzione da SveTon. Claud. 1; e da Cass. Dion.
r. Rom. LIV 32,2. La seconda spedizione
del 16 d. Cr. è lodata in versi da ALBINOv. PED. (v. PLM. ed. Baehrens, vol.
VI, pp. 351-352: cf. SEN. suas. I 15, p.
10, ed. Kiessling); la narra Tac. ann.
II 8; 23; 24. ? La notizia è poi, in
diverse occasioni, ripetuta nella n. A.
VII 22 (22), 86. VIII 40 (61), 143. XVI 32 (57), 132. XVII 1 (1), 2. XXII 6 (6), 11. XXVI 4 (9), 19, XXXIII 11
(53), 150. XXXVI 1 (1), 2; 25 (61),
185. ci GG i (n. h. Ill 15 (20), 116), e denotando, quali
conseguenze delle loro scorrerie: in
Italia, la fondazione di ‘ Laus Pompeia’
(III 17 (21), 124) e la distruzione di ‘ Melpum ? (III 17 (21), 125); indica
anche i luoghi da loro abitati in Gallia
(IV 18 (32), 107). Nella Germ. (28, 7.
42, 3) si denotano i luoghi occupati e poi abbandonati dai ‘ Boi” o ‘ Boii”, in Germania. b) Quanto agli ‘ Arauisci ’, che avevano le
loro sedi nella Pannonia, sulla riva
destra del Danubio, tra la Drava e la
Sava, trovasi menzione nella Germ. 28, 10
e nella n. A. III 25 (28), 148: li nominò anche Tolomeo, indicando le
loro sedi più a settentrione di quelle
degli Scotdisci.* Vi è però una differenza nella grafia, chè nella n. A. è scritto ‘ Erauisci’, e
nella Germ. ‘ Arauisci ’. Ma del nome
usato da Tolomeo la lettera iniziale è
A. Una simile differenza notasi nel nome
‘ Bastarnae ’, usato nella Germ. 46, 4, e ‘ Basternae ”, adoperato nella n. A. IV 14 (28), 100. ? 1 ProLEM. geogr. ll 16, 3. ? Ma si deve avvertire che la grafia ‘
Basternae' non è costante nella n. 4., come asserisce il GEORGES, ausfithrl.
Handwb. I, c. 743; poichè in IV 12
(25),81 mutasi in ‘ Basternaei” e poi in
VII 26 (27), 98 diviene all’abl. ‘ Bastrenis’, che nel cod. Riccard. (R. del Mayhoff) è ‘ bastenis ’, e
nel cod. Leid. (F. del Mayh.) ‘
bostrenis’, Né i codd. della Germ. consentono tutti col Leid. Perizon. nel presentare nel |. c. ‘ Bastarnas
’: il cod. Vatic. VRB. 655 presenta ‘basternes ’, e con strana metatesi il Vindobon. ‘ bastranas’. Nemmeno la grafia
accolta dal Leid. Perizon. può mettersi
in relazione con quella che osservasi in
Tac. ann. ll 65, 14, perché in questo la forma ‘ Bastarnas® è dovuta ad una congettura di Beato Renano: nel
cod. è ‘ basternas’. Cf. cod. inscr. Lat. Il 2, p. 862. Ma in Strabone
sempre ‘ Bastàrnai . Ri odi
c) Soltanto nella Germ. 29, 17 (v. sopra, pp. 19-22) sì nominano i‘ decumates agri’. La n. A. II
4 (5), 32 fa solamente menzione di una ‘
decumanorum colonia ”. III. Il lib. IV della n. /. offre un buon numero di confronti con la Germ. a) All’ indicazione generica della Germ. 44,
20 ‘ Suionibus Sitonum gentes continuantur ’,! risponde quella più particolareggiata della 7. %. IV
11 (18), 41 ‘ circa Ponti litora
Moriseni Sitonique Orphei uatis
genitores optinent ’. Resta però la differenza dell’ordine flessivo tra ‘Sitones”
e ‘ Sitoni ?. b) I gioghi dell’Abnoba,
nella Selva nera, sono indicati, tanto nella n. %. IV 12 (24), 79 quanto nella
Germ. 1, 9, come punto d’ origine del
Danubio; anzi la retta grafia ‘ Abnoba
’, indicata dai codici della n. A. e quale
venne accolta da Tolomeo,® fu di guida a Beato Renano per determinare, nel testo della Germ. 1. c.,
la forma esatta ‘ Abnobae ’ tra le
varianti ‘ Arnobae ’ (cod. Vatic. 1862 e cod. Neapol.), ‘ Arbonae ’ (cod. Leid.
e cod. Vatic. 1518), ‘ Arnibae ’ (cod. Arundel.). Due iscrizioni scoperte nello
Schwarzwald hanno confermato la forma ‘
Abnoba. ?. c) È data dalla n. R. IV 12
(24), 79 la notizia, che 1
Omettiamo di citare per i ‘ Sitones ’ il 1. della Germ. 45, 1, perché nei codd. si Iegge ‘trans Suionas”’
(nel Leid. ‘Suiones’). Il MEISER ha
sostituito ‘Sitonas ’; e la congettura di lui è stata accolta da U. Zernial,
Io. Miiller, etc. Hanno conservato la
lezione dei codd. il Dilthey, il Kiessling, il Finek, il Kritz, il Halm, il Ramorino, etc. ? ProLEM. yeogr. Il 11. ConsoLI: L’ autore della Germania. 7 osi OB ci
il Danubio ‘ in Pontum uastis sex fluminibus euoluitur ’; ma'non è del
tutto esatta, nè conforme al cenno che prima ne avevano fatto Ovidio, Strabone
e Mela,! e dopo ripeterono Solino, Ammiano Marcellino, Isidoro. ? Nella Germ.
si conferma la notizia data dalla n. h.,
salvochè, come spiegazione dell’esclusione di una settima foce del gran fiume, si soggiugne
immediatamente ‘ septimum os paludibus hauritur?. Se nessun rapporto ci fosse stato nella composizione e
nell’ intendimento della n. A. e della Germ., in questa sarebbesi detto esplicitamente in modo consimile a
quanto scrisse Ammiano Marcellino, l. c.: ‘ amnis Danuuius s e p tem ostiis.... erumpit in mare septimum segnius et palustri specie nigrum
?. d) Nella Germ. 1, 2 i ‘Sarmatae ’ e
i ‘ Daci ’*sono indicati come confinanti
coi Germani. La n. A., oltre
all’indicare il secondo nome dato dai Romani ai ‘ Daci *. (‘ Getae ’), e dai Greci ai ‘Sarmatae’
(‘Sauromatae ’), determina i luoghi da
loro occupati (IV 12 (25), 80: cf. VI 34
(39), 219), e mostra che presso di loro era in
uso il fafuaggio aggiunge che la Germania è confinante (‘contermina ’)
con la Scizia (VIII 15 (15), 38). e) Uno dei confini dei luoghi abitati dai
‘Chatti’ e 1 OvI. trist. II 189.
STRAB. geogr. VII 3, 15 (C. 305), vol. II,
p. 419 ed. M. Pompon. Met. chor. II 1, 8. Confrontando il Danubio al
Nilo, Mela dice che quello sbocca nel mare pontico ‘ totidem quot ille (sc. Nilus) ostiis’; e il
Nilo, secondo afferma lo stesso Mela,
chor. I 9, 51, ‘ septem in ora se scindens
singulis tamen grandis euoluitur ’.
? SoLin. coll. r. m. 13, 1} p. 90, 12 ed. M. Amm, Marc. r. g. XXII 8, 44 e
45. Is. orig. XII 21, p. 1158. 3 DO dagli ‘Heluetii” è, secondo
la Germ. 30, 5. 28, 6, il ‘ sallus
Hercynius” o ‘ Hercynia silua’: la stessa selva
è segnata nella n. %. IV 12 (25), 80 come confine della gente pannonica dei “Carnunti’. Plinio denota
anche l’importanza della selva (IV 14
(28), 100), e avverte che in essa sono ‘
inuisitata genera-alitum’ (X 47 (67),
132) e una ‘roborum uastitas intacta aeuis et congenita mundo ’ (XVI 2
(2), 6). f) Nella Germ. 46, 4 si
considera la voce ‘ Bastarnae ’ come
un’altra denominazione del popolo dei ‘ Peucini ”. La n. h. determina prima i luoghi occupati
dai ‘ Basternaei’! (IV 12 (25), 81); poi annovera i ‘Basternae’ accanto ai
‘Peucini’ (IV 14 (28), 100). * 9g) Dei
mari nordici, coi quali confina a settentrione
la terra dei Germani, è data nella Germ. 1,3 una notizia indeterminata:
‘cetera Oceanus ambit, latos sinus et insularum immensa spatia complectens’.
Nella n. h. la stessa notizia è
presentata con maggiore determinazione: IV 13 (27), 96 ‘ mons Seuo ibi inmensus
nec Ripaeis iugis minor inmanem ad Cimbrorum
usque promunturium efficit sinum, qui
Codanus uocatur re 1 Per la differenza
grafica del nome del popolo considerato,
v. sopra, p. 96, nota 2°. 2 Nel
|. c. della n. A. si legge: ‘quinta pars Peucini, Basternae supra dictis
contermini Dacis’. Potrebbesi, tralasciato il
segna d’interpunzione messovi dall’edit. Jan, considerare ‘ Basternae’
come apposizione di ‘Peucini’: così ne sarebbe confermata l'osservazione della
Germ., che fa tutto un popolo dei
‘Bastarnae’ e dei ‘Peucini’. Del resto, in nessun altro l. della n. h. si tratta dei ‘Peucini’, come di un
popolo a sè, differente dai ‘ Basternae”. Cf. StRAB. geogr. VII 3, 15 (C 305);
3, 17 (C 306), p. 419 sg., ed. M. ni 100
fertus insulis quarum clarissima est Scatinauia inconpertae magnitudinis
’. h) All’ osservazione che leggesi
nella n. A. IV 14 (28), 98 ‘Germania
.... nec tota percognita est’, rispondono le considerazioni con cui l’autore
della Germ. dà termine al suo lavoro,
tralasciando ‘ cetera iam fabulosa” e quel che egli trova ‘ut incompertum ?. i) Intorno alle schiatte germaniche degli ‘
Ingaeuones’ (Germ.) o ‘ Ingyaeones ” (n. h.), degli ‘ Herminones?’ (Germ.) o ‘
Hermiones” (n. Ah.) e degli ‘ Istacuones’ (Germ.) o ‘Istyaeones ’ (n. 4.) non è
fatta menzione alcuna in iscritti anteriori o posteriori alla Germ. e alla n. X.! Sembra però che nella Germ. 2,
15 sg. la distinzione delle tre schiatte
sopra mentovate sia stata fatta in
dipendenza dai progenitori mitologici,
figli di Manno. Segue, infatti, nello stesso cap. della Germ., una distinzione di popoli germanici
fatta con criterio alieno dalla leggenda
(‘eaque uera et antiqua nomina’), ma,
come pare, per esemplificazione, cioè :
‘ Marsi °, Gambriuii, Suebi, Vandilii ”. La distinzione appare più precisa e completa
nella n. h. IV 14 (28), 99 e 100: I ‘
Vandili” 3, II ‘Ingyae A Il Georges, ausfithri.
Handwb. II, c. 216, registra Ingaevones, secondo la grafia accolta nel testo
della Germ. (ma ‘Ingaenones’ nei codd.
Vatic. VRB. 655, Laurent. LXXIII 20,
Stotgard. IV 152, Venet. misc. XIV 1); registra Hermiones (I, c. 2813), secondo la grafia della n. A.; ma
nonsi cura di notare gli ‘Istaeuones'.
2 Nella Germ. nulla si dice dei ‘Marsi’ oltre del cenno del c. 2, 17. Tacito ne fa menzione negli ann. I
50, 13; 56, 20. II 25, 4. 3 ‘Vandali’, nel cod, Paris ol ones’, III ‘Istyaeones °°, IV ‘ Peucini °.8
Tra i ‘ Vandili” si comprendono : a) i ‘ Burgodiones” ‘4; b) i ‘ Varinnae’ 5;
c) i ‘Charini’; d) i ‘Gutones’: dei quali
popoli due soltanto, cioè i ‘ Varinnae ’ e i ‘Gutones”, sono annoverati nella Germ. 40, 4. 44, l,
forse con inesattezza, tra i ‘Suebi’; i
due rimanenti, ‘Burgodiones’ e “‘Charini’, sono taciuti. Gli ‘Ingyaeones’ comprendono: a) i ‘ Cimbri’ ‘; b) i
‘Teutoni’% c)i ‘ Chauci’:3 la Germ. tace
dei ‘ Teutoni ’. Sotto il nome degli ‘Istyaeones ’ sono notati i ‘Sicambri’ (‘
Sugambri’, per Strabone), dei quali non si fa alcuna menzione nella Germ. Si ascrivono agli ‘
Hermiones”: a) i ‘Suebi’; * 6) gli ‘
Hermunduri ’ !; c) i ‘Chatti ’ !!; d) i
‘ Cherusci ”. !2 I ‘ Peucini” (Basternae) sono espli 1 ‘Inguaeones’, ed. Detlef.; ‘Ingaeuones’,
secondo la ‘1. uulg.’ e nell’ed.
Sillig. ? ‘Istiaeones’, ed. Detlef, ;
‘Istaeuones’, secondo la ‘1. uulg.’ e
nell’ed. Sillig. 3 Quanto ai ‘ Peucini’
cf. Germ. 46. 4 ‘Burgundiones’ nel cod.
Paris. 6797 e nell'ed. Sillig. 5 ‘
Varine’ nel cod. Riccard.; ‘ Varini” secondo la ‘1. uulg.' e nell’ed. Sillig. : ‘ Varini’ anche nella
Germ. 40, 4. 6 I ‘Cimbri’ non si devono
confondere coi ‘Gambriuii’. Strabone, infatti, pone in elenco separatamente i
‘Gambriuii’ e i ‘Cimbri’: geogr. VII 1,
3 (C 291), p. 399, ed. M. 7 Cf. n. h.
XXXV 4 (8), 25. XXXVII 2 (11), 35. 8
Intorno ai ‘ Chauci’ v. Germ. 35, 2. 36, 1. Cf. n. A. XVI 1 (1), 2; 1 (2), 5. 9 V. Germ. cc. 33-43; e inoltre 9, 4. Cf. n.
h. IL 67 (67), 170. IV 12 (25), 81; 14
(28), 100. 10 V. Germ. Al, 4. 42,
1. ll Dei ‘Chatti’ si ha notizia in più
Il. della Germ.: 29, 3. 30, 1, 4, 15.
31, 2 e I1. 32, l e 4, 35, 5. 36, 10 7. 38, 2.
12 V. Germ. 36, 1, 6, 8.
102 citamente annoverati tra
le nazioni germaniche, eliminandosi così il dubbio annunziato uella Germ. 46,
2: ‘Germanis an Sarmatis adscribam
dubito’. Or,. se i ‘Marsi’ edi
‘Gambriuii’, dei quali è fatta menzione nella Germ., sono da considerarsi in
dipendenza dagli ‘Ingaeuones’!; e se tra
gli ‘ Herminones” son da comprendersi .i ‘Suebi’ e, in subordinazione a questi,
i ‘Vandilii?,*? (poichè i.’ Varini” ed i
‘ Gotones’, che nella n. A. si
annoverano tra i ‘ Vandilii”, sono compresi dall’autore della Germ. tra i
‘Suebi ’), restano a rappresentare gli
‘Istaeuones’ le due nazioni dei
‘Sugambri’’ e dei ‘ Peucini’: il che, considerati principalmente i
luoghi occupati da loro, non pare possibile. Vi sono, dunque, delle incertezze
e delle notizie incomplete nella Germ., che la n. &. ha interamente chiarito o completato ; talchè, se si ammette
che autore della Germ. sia quello stesso che scrisse la n. A., è evidente che questo lavoro dovette essere
scritto dopo la Germ.: e in ciò sì avrebbe una indiretta conferma della notizia
data da Plinio il giovane, che la opera
bella Germaniae (della quale la Germ. potrebbesi, secondo quanto si è osservato
sopra, considerare come la parte
introduttiva) fu scritta prima della x. ’.
j) Il fiume ‘ Albis’ è solamente indicato nella n. /. 1 Vedi Marina, op. c., p. 33. ? Vedi Dilthey, op. c., p. 249: « es wird dadurch sehr wahrscheinlich, dass
die Vandalen selbst nur Ostliche Sueven waren ». 8 Plinio il
giovane, presentando nell’epist. quinta del lib. III, $ 2, l'elenco dei libri scritti dallo zio,
avverte : ‘ fungar indicis partibus
atque etiam quo sint ordine scripti notum
tibi faciam’. L' opera della Ge rmaniae è indicata nell’ elenco prima della n. }, 103
IV 14 (28), 100 come uno degli ‘ amnes clari’ che ‘in oceanum defluunt’. La Germ. 41, 9 presenta
l’indicazione dell’ ‘ Albis’ con una certa enfasi : ‘ flumen inclutum et notum
olim; nunc tantum auditur ’; ne denota prima l’ origine nel paese degli ‘
Hermunduri ’. k) La menzione dei
‘Frisii’ fatta, prima d’,\ogni altro scrittore, da Plinio nella n. A. IV 15
(29), 101, si osserva nella Germ. 34, 3.
35, 3, aggiunta la distinzione dei ‘Frisii’ in ‘maiores’ e ‘minores’; e all’espressione ‘ gens tum fida’, di cui si
fa cenno nella n. h. XXV 3 (6), 21, alludendosi ai ‘Frisii’?, risponde
l’osservazione di Tacito: ‘ natio Frisiorum .infensa aut male fida”. * l) Le notizie intorno ai popoli della prov.
Belgica, ‘Neruii’, ‘Tungri ’, ‘ Treueri
’, ‘ Heluetii”, sono comuni alla n. h.
ed alla Germ.; ma il semplice cenno fatto
dalla prima‘, è più particolareggiato nella seconda, per i ‘Neruii’ e i “Treueri’, per i ‘Tungri’
(2, 20) e per gli ‘Heluetii” (28,
6). 1 Sarà certamente una menda di
stampa il $ 110, invece del 101, segnato
nella p. 119,.n. 1, delle prov. rom. del :MommsEn, trad. De RuagieRo, Roma 1887. ? Vedi Lup. JAN, scripturae discrepantia nel
vol. IV dell’ ed. della n. h., p.
XVII. 3 Tac. ann. XI 19,3. De’ ‘Frisii’
tratta anche Tacito in Agr. 28, 14.
hist. IV 15, 12; 18, 26; 56, 15; 79, 8. ann. I 60, 6. IV 72, le; 73, 4; 74, 1. XI 19,3. XIII 54, 2, 9, 23.
Per altre notizie sui ‘ Frisii” v. Cass.
Dion. r. Rom. LIV 32, 2-3; PTOLEM. geogr.
II 11; e il pan. d’incerto autore a Costanzo,.$ 9; in BAEHRENS, ZII pan. Lat., V, p. 138. 4 V. n. h. IV 17 (31), 106: cf. inoltre XII
1 ;(2), :5 per gli ‘ Heluetii’ ; e XXXI
2 (8), 12 per. la fonte di acqua ferruginosa presso i ‘ Tungri Similmente le
brevi notizie che dà la n. A. IV: 17
(31), 106, concernenti i ‘ Nemetes”, i ‘ Triboci ?, i ‘ Vangiones’, gli
“ Vbii” (‘ colonia Agrippinensis ’), i Bataui’, (con qualche particolare, per i
‘ Bataui?, in IV 15 (29), 101; e per gli
‘ Vbii”, in XVII 8 (4), 47), sì osservano nella Germ. 28, 19 sgg. e 29, 1
sgg. IV. Il ‘ Pontus Euxinus” è indicato nella Germ.
1, 10 con l’espressione ‘ Ponticum mare
’. Dello stesso mo‘ do è indicato nella n. R. V 27 (27), 97 ‘ hine Ponti cum,
illinc Caspium et Hyrcanium ?. Osservasi prima
la stessa espressione in Livio e Mela !. V.
Nella descrizione generale dei popoli germanici, la Germ. 4,6 dà
evidenza ai sgg. caratteri: ‘ truces et caerulei oculi , rutilae comae, magna
corpora ’ e. q. s. Nella n. A. VI 22
(24), 88 si annunziano quasi con le
stesse parole i caratteri di alcuni popoli dell’Asia: ‘ipsos uero excedere
hominum magnitudinem, ru| tilis comis, caeruleis oculis , oris sono truci ’.
Trovasi, inoltre, nella n. A. XXVIII 12
(51), 191 l’avvertenza, in proposito
delle ‘ rutilae comae ’,sche ad arte si otteneva o si rendeva, se naturale, più evidente tale
colore «lei capelli mediante l’ uso d’
un certo sapone gallico, adoperato in Germania più dagli uomini che dalle
donne. VI. a) Cesare scriveva che la maggior parte degli
antichi Germani si nutrivano di latte, cacio e carne. ? Nella Germ. 23, 3 si dà
una notizia analoga a quella 1 Liv. XL
21, 2. Pompon. Met, chor. II 1, 5. Cf. Tac. ann. XIII 39, 2; e, per analogia, ‘os Ponticum”’ (ann.
II 54, 4). 2 Cars. d. G. VI 22, 1: cf IV
1,8. data da Cesare quanto alla carne (‘recens fera ’), ma si restringe la notizia concernente i
latticini, poichè si esclude il cacio
dall’ ordinario vitto dei Germani, e si
indica il solo ‘lac concretum ?, cioè latte rappreso o cagliato. La restrizione che notasi nella
Germ. appare confermata e più
chiaramente indicata nella n. R. XI 41
(96), 259: ‘ mirum barbaras gentes quae lacte uiuant ignorare aut spernere tot saeculis casei
dotem, densantes id alioqui in acorem
iucundum et pingue butyrum. spuma id est lacte concretior lentiorque quam
quod serum uocatur. Il pensiero laudativo per i Germani, indicato dalla frase della Germ. 23, 3 ‘ cibi simplices,
agrestia poma, recens fera aut lac
concretum: sine apparatu, sine blandimentis expellunt famem”’ ha complemento
nell'osservazione igienica notata, in generale, da Plinio: ‘ homini cibus
utilissimus simplex, aceruatio saporum pestifera et condimento perniciosior’
(n. A. XI 53 (117), 282). VII.
a) Quando si legge nella Germ. 9, 9 la parte notevole che avevano per il
culto delle genti primitive le selve sacre: ‘lucos ac nemora consecrant
deorumque nominibus appellant secretum illud, quod sola rewerentia uident’;! ricorre alla mente quel
che osserva Plinio nella n. A. XII 1 (2), 3 ‘ haec fuere numinum templa,
priscoque ritu simplicia rura etiam nunc
deo praecellentem arborem dicant’. E un concetto simile aveva prima
espresso Seneca *. 1 Cf. GERM, cc. 39,
40, 43. ? SEN. epist. IV 12 (41), Ad
indicare le regioni del sud soggette a Roma, tanto nella Germ. quanto nella n. A. è adoperata
l’espressione ‘orbis noster’: Germ. 2,6
‘ Oceanus rarisab orbe nostro nauibus aditur?. n. A. XII 12 (26), 45 ‘in nostro
.orbe proxime laudatur Syriacum (sc. nardum),
mox Gallicum ’, e. q. s. * Inoltre, l’accenno sul balsamo nella Germ. 45, 25 ‘ Orientis secretis, ubi
tura balsamaque sudantur ’, risponde alle notizie che, tra i primi, ne diede Plinio in diversi luoghi
della n. %. ? VIII. Che l’espressione
‘ frugiferarum arborum impatiens ’, usata nella Germ. 5, 4, non debbasi
intendere senza restrizione, non solo ci
avvertono l’indicazione della maniera
con cui si facevano certi sortilegi ( v. Germ.
10, 2 ‘ uirgam frugiferae arbori decisam in surculos “amputant ’) e l'avvertenza intorno ai mezzi
di nutrizione degli antichi Germani (v.
Germ. 23,3 ‘cibi simplices, agrestia
poma ’), ma anche una notizia che osservasi
nella n. &. XV 25 (30), 103, sulla presenza del ciliegio sulle rive del Reno, in tempi remoti. IX.
a) La particolarità geografica della terra germanica, che è, in
generale, ‘aut siluis horrida aut paludibus foeda ’ (Germ. 5, 2), ha una
conferma, in par 1 Osservasi prima in
VeLL. PATERC. h. R.I 2,3. Cf.
Tac, Agr. 12, 9. 2 V. n. h. XII 25 (54), 111 sgg. XVI 32 (59), 135: cf. XIII 1 (2),
11. 13. 15. Vedi anche il nostro libro sui neologismi botanici nei carmi bucolici e georgici di Virgilio,
Palermo 1901; LV, Pp. 103 sg. RES, () pg
ticolare, nella descrizione che presenta Plinio (7. h. XVI 2 (2), 6) della selva ‘ Hercynia ?. ! b) Nella Germ. 17, 7 si osserva che i
Germani ‘ detracta uelamina (sc. ferarum) spargunt maculis pellibusque
beluarum, quasi exterior Oceanus atque ignotum
mare gignit’; ma non è detto in che modo facessero i Germani per impadronirsi di tali belve
marine. Possiamo argomentarlo da quel che si dice nella n. %. XVI 40 (76, 2), 203, in proposito dei predoni
di mare: ‘singulis arboribus cauatis
nauigant, quarum quaedam et XXX homines ferunt ’. c) L’uso druidico delle adunanze ‘ sexta
luna, quae principia mensum annorumque
his facit et saeculi post tricesimum
annum” (n. A. XVI 44 (95), 250), osservasi
esteso ad una consuetudine germanica, quella, cioè, di farsi le riunioni popolari ‘ cum aut
inchoatur luna aut impletur ? (Germ. 11,
5). X.
A integrare l’ osservazione che la terra germanica è ‘pecorum fecunda”’
(Germ. 5, 5), vale quello che nota
Plinio sugli ottimi pascoli della Germania:
‘ nam quid laudatius Germaniae pabulis?’ (n. A. XVII 4 (3), 26).
XI. a) Non appare una
consuetudine particolare dei popoli
germanici, che ‘ leuioribus delictis pro modo
poena: equorum pecorumque numero conuicti multantur ? (Germ. 12, 7). La
stessa consuetudine vigeva anche, secondo attesta Plinio, presso gli antichi
Romani; 1 Cf. Pompon. Met. chor. III 3, 29 ‘ magna ex parte:siluis
ac paludibus inuia ”. 108
perciocchè ‘ multatio quoque non nisi ouium boumque inpendio dicebatur’, e ‘cautum est, ne bouem
prius quam ouem nominaret, qui indiceret
multam’ (n. &. XVII 3 (3), 11). b) Quantunque l’
avena si fosse potuta usare per la
preparazione della birra, non è da dirsi incompleta la notizia, che presso i Germani era in uso ‘
potui umor ex hordeo aut frumento, in
quandam similitudinem uini corruptus’ (Germ.
23, 1); poichè, secondo la menzione che se ne legge nella n. 4., se ne
avvalsero allora più per cibo che per la fermentazione della bevanda gradita: ‘
quippe cum Germaniae populi serant eam
(sc. auenam) neque alia pulte uivant’ (n. %. XVIII 17 (44, 1), 149).! XII.
a) Il vestiario delle donne germaniche non si distingueva da quello degli uomini, se non
che le donne ‘ saepius lineis amictibus
uelantur’ (Germ. 17, 10). La stessa
notizia appare nella n. A. XIX 1 (2, 1),
8 ‘ uela texunt (sc. e lino) iam quidem et transrhenani hostes, nec
pulchriorem aliam uestem eorum feminae nouere ’. b) La notizia data dalla n. A. XIX 1 (2, 1),
9, che in Germania facevasi il lavoro di
tessitura in sotterranei : ‘in Germania autem defossae atque sub terra id opus (sc. lina texendi) agunt’, completa
l’ indicazione dell’uso di quelle abitazioni sotterranee, che nella Germ. 16, 12 si dicono fatte per ‘suffuginm
hiemi et receptaculum frugibus ?.* 1 Vedi, quanto ai diversi nomi con cui
s' indicava la birra, n. h. XXII 25
(82), 164. 2 Pompon, MEL, chor. II 1, 10
dice lo stesso dei ‘Satarchae ’, In ciò che nella Germ. 46, 14 dicesi intorno
al modo di vivere dei ‘Fenni’, ai quali era ‘ uictui herba, uestitui pelles,
cubile humus”, pare di scorgere un caso particolare di quanto si considera, in
generale, nella n. %. XXI 15 (50), 86, che vi sono delle ‘ herbae sponte nascentes, quibus pleraeque
gentium utuntur in cibis”, ’ XIV.
Dei ‘ Mattiaci’ la Germ. 29, 9 considera il popolo, sottomesso all'impero romano; la n.
&. XXXI 2 (17), 20 ne menziona le
fonti termali (oggi Wiesbaden).
XV. La notizia data dalla Germ.
5, 18 sulla moneta antica (‘ serratos bigatosque ’), che era preferita dai Germani vicini alle province romane del
Reno e del Danubio, negli scambi
commerciali, è confermata, per quanto
concerne i ‘ denarii bigati’, dalla n. %. XXXII
3 (13), 46: ‘ notae argenti fuere bigae atque quadrigae, inde bigati quadrigatique dicti °. XVI.
L’ambra fu in origine un succo di vegetali: nella Germ. 45,22 se ne adduce la sg.
ragione: ‘ quia terrena quaedam atque
etiam uolucria animalia plerumque interlucent , quae implicata umore mox
durescente materia cluduntur ’. Alla stessa conclusione si popolo del Chersoneso Taurico: ‘ob saeua
hiemis admodum adsiduae, demersis in
humum sedibus, specus aut suffossa habitant’ (Frick). 1 Sact. /ug. 18, 1 aveva prima avvertito che
per i Getuli e i Libii ‘ cibus erat caro
ferina atque humi pabulum uti pecoribus”,
110 perviene, per altra via,
nella ». %., in cui sono addutte per
prove l’opinione degli antichi e l’etimologia della parola ‘ sucinum ’ : XXXVII 3 (11), 43 ‘
arboris sucum esse etiam prisci nostri
credidere, ob id sucinum appellantes ?. Nè vi è contraddizione se nella Germ.
45, 15 si afferma che gli ‘ Aestii ’,
sulla spiaggia orientale del mare
suebico, ‘ soli omnium sucinum.... inter uada
atque in ipso litore legunt’, e che essi ‘ pretium (sc. sucini) mirantes accipiunt ’; mentre nella n.
%. XXXVII 2 (11), 35 si ripete la
notizia annunziata da Pytheas : ‘
Gutonibus Germaniae gente adcoli aestuarium Metonomon nomine......, ab hoc diei
nauigatione abesse insulam Abalum , illo per uer fluctibus aduehi et esse concreti maris purgamentum, incolas pro
ligno ad ignem uti eo (sc. sucino)
proxumisque Teutonis uendere ?’. Gli ‘
Aestii’ avevano le loro sedi accanto a quelle dei ‘ Gutones ° o ‘ Gotones ’, sulle
spiagge orientali del mare suebico
(Baltico); era naturale, per ciò, che l’industria | dell’ambra , così bene avviata presso gli ‘
Aestii ’, si fosse estesa, come tra
popoli vicini, e forse in dipendenza l’uno dall’altro, anche presso i ‘ Gotones
’; e da ciò la notizia registrata nella
n. /%., la quale toglie quella rigidezza
di apprezzamento , che traspare dalla
frase ‘ soli omnium ’ della Germ., riferita agli‘ Aestii ?. È, inoltre, da considerare che, se i ‘
Gutones ” facevano il commercio dell’ ambra coi vicini ‘Teutoni ”, lo vendevano a loro ‘ pro ligno ad ignem ’’;
e perciò nessuna contraddizione si può notare con quanto è detto nella n. 4., se gli ‘ Aestii” facevano delle
meraviglie nel vedersi pagare un prezzo
per il sucino, di cui si erano
cominciate a fare delle ricerche presso di loro , 11
da che il lusso romano aveva dato a tale merce un valore notevole
!. 1 Un’altra relazione tra la Germ.
ei lavori di Plinio avverte U. Zernial, nel suo comm. alla Germ. 3, 15 pp. 22-23,
cioè, che la frase ‘adhuc extare’, usata
in proposito dei monumenti e tumoli con iscrizioni greche, che allora restavano
nel confine della Germania e della
Rezia, si deve riferire a notizie date
da Plinio nei venti libri ‘ bellorum Germaniae. A rendere completo il nostro
studio sulla Germ., ci pare opportuno
mettere anche in confronto il contenuto di essa con le opere genuine di Tacito.
Il confronto sarà ordinato come nel cap.
precedente, restringendo il nostro esame ai soli concetti che presentino un qualche indizio di dipendenza o di
corrispondenza tra loro. Ci atterremo, quanto alla disposizione della
materia, all’ ordine delle opere di
Tacito. I. a) Che le chiome bionde o rossicce e la
corporatura grande formassero uno dei caratteri fisici della nazionalità germanica è fatto cenno
nell’Agr. 11, 3 ‘ rutilae Caledoniam
habitantium comae, magni artus
Germanicam originem adseuerant ’: risponde alla descrizione che ne
presenta la Germ. 4, 6 ‘rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum
ualida ”. Seneca aveva anteriormente
fatto menzione del ‘ rufus crinis et
coactus in nodum apud, Germanos”.! Quanto
alla frase dell’Agr.1. c.* magni artus Germanicam originem adseuerant ’,
alla quale si riattacca l’osservazione
intorno ai ‘ Bataui * (‘et forma conspicui , et est plerisque procera
pueritia’ Mist. IV 14, 6: cf. V 18, 2)
ed ai ‘ Cherusci ’ (‘ procera membra” ann. I 64, 7), risponde la considerazione generale intorno
ai Germa * Per i limiti del confronto, vedi
l’ avvertenza * a pag. 94. 1 Sen. dial.
V 26, 3. 113 ni, che si legge nella Gem. 20, 1 ‘in hos
artus, in hacc corpora, quae miramur,
excrescunt ?. Cesare aveva prima
avvertito che il suo esercito era stato invaso
dal timore al sentire dai Galli e dai mercatanti la notizia ‘ ingenti
magnitudine corporum Germanos, incredibili uirtute atque exercitatione in armis
esse’ !; e Mela aveva anche osservato
che i Germani erano ‘ immanes animis
atque corporibus ?, perchè attendevano agli esercizi guerreschi ed erano
afforzati dalla ‘adsuetudine laborum
maxime frigoris ”. * b) Istituendo un
confronto tra la fioridezza dei Galli
nei tempi anteriori e la decadenza che essi mostrarono dopo, Tacito nell’ Agr. 11, 15 avverte: ‘
Gallos quoque in bellis floruisse
accepimus; mox segnitia cum otio intrauit,
amissa uirtute pariter ac libertate ’. Lo stesso concetto appare nella Germ. 28, 15, allorchè,
per dare evidenza al carattere nazionale
dei ‘ Treueri’ e dei ‘ Neruii ’, si dice
che essi ‘ circa adfectationem Germanicae originis ultro ambitiosi sunt,
tamquam per hanc gloriam sanguinis a
similitudine et inertia Gallorum separentur ’. La superiorità dei Galli di
un tempo è attestata nello stesso 1. della
Germ. 28, 1 sull’autorità di Giulio Cesare, che aveva ciò indicato nel b. G. VI 24, 1. c) La discordia tra i nemici di Roma cooperò
sempre a costituire la superiorità dei
Romani ; onde la considerazione che leggesi nell’ Agr. 12, 4 ‘ nec aliud
aduersus ualidissimas gentis pro nobis
utilius quam quod in com 1 Cars. db. G.
I 39, 1. ? Pompon. Met. chor. III 3,
26. CONSOLI : L’ autore della
Germania. 8 lla mune non consulunt ’. Un pensiero
analogosi manifesta nell’ augurio che 1°
autore della Germ. fa a’ suoi concittadini, ‘quando urgentibus imperii fatis nihil iam praestare fortuna maius potest quam hostium
discordiam’ (Germ. 33, 9). Da ciò la politica, sì lodata, di Druso nelle relazioni coi Germani: egli ‘
haud lene decus quaesiuit inliciens Germanos ad discordias’ (ann. Il 62, 2).!
d) Un apprezzamento punto benevolo per la spedizione di Caligola contro i Germani si legge tanto
nell’ Agr. 13, 9 ‘ agitasse Gaium
Caesarem de intranda Britannia satis
constat, ni uelox ingenio mobili paenitentiae, et ingentes aduersus Germaniam conatus frustra
fuissent ’; quanto nelle Rist. IV 15, 8,
in cui si narra di un Canninefate, che ‘ multa hostilia ausus Gaianarum
expeditionum ludibrium inpune spreuerat ’. Lo stesso apprezzamento era stato
manifestato prima nella Germ. 37, 23
‘*ingentes Gai Caesaris minae iu ludibrium uersae ?. e) La politica dei Romani solevasi avvalere
di un mezzo più efficace delle armi, per
vincere e tenere assoggettati i barbari, l’allettamento dei vizi. Nell’ Agr. 21, 10 sgg. sì deridono gli ignoranti che
fanno consistere la civiltà nei ‘delenimenta uitiorum’, che sono 1 Claudio Mamertino ripeté lo stesso
concetto, che le discordie intestine dei barbari erano la fortuna dell'impero:
‘ tantam esse imperii uestri felicitatem
ut undique se barbarae nationes uicissim
lacerent et excidant, alternis dimicationibus et insidiis clades suas duplicent et instaurent’ (Pan.
genethl. Maxzimiano Aug. d., 16; in
BAFHRENS, AZ/ pan. Lat. III, p. 113 sg.).
2 Severe sono anche le parole con cui Suetonio giudica l’impresa di
Caligola contro i Germani (Calig. 43 e 45-47). Persio la deride (sat. 6, 43 sgg.). CÉ. Cass. Dion.
r. Rom. invece strumenti di schiavitù. Similmente uno dei legati dei ‘Tencteri’
presso il ‘concilium Agrippinensium’ raccomandava, secondo racconta Tacito
nelle hist. IV 64, 19: ‘instituta
cultumque patrium resumite, abruptis uoluptatibus, quibus Romani plus aduersus
subiectos quam armis ualent’. Lo stesso concetto è denotato nella Germ. 23, 6
‘si indulseris ebrietati suggerendo quantum concupiscunt, hawd minus facile
uitiis quam armis uincentur ”. f) L'esperienza della vita dimostra vera la
sentenza che Tacito fa dire a Calgaco
nell’ Agr. 30, 5: ‘ proelium atque arma, quae fortibus honesta, eadem
etiam ignauis tutissima sunt’. Nella
Germ. 36, 2 la si vede applicata per
ispiegare la decadenza dei ‘ Cherusci ’, i
quali ‘ mimiam ac marcentem diu pacem inlacessiti nutrierunt”; e
l’autore, considerando che ‘id iucundius
quam tutius fuit”, assurge ad un avvertimento d’ordine generale, che in nessun tempo è da
trascurarsi dagli uomini di Stato:
‘inter inpotentes et ualidos falso
quiescas ?. g) Nell’apostrofe di
Tacito al suocero estinto, si legge: ‘ nosque domum tuam ab infirmo desiderio
et muliebribus lamentis ad contemplationem uirtutum tuarum uoces, quas neque
lugeri neque plangi fas est ’ (Agr.
46,3). La frase ‘ muliebribus lamentis’ richiama alla mente la sentenza della Germ. 27, 7 ‘
feminis lugere honestum est, uiris meminisse’. E probabilmente tutte e due le espressioni risalgono all’
ammonimento di Seneca: ‘ obliuisci
quidem suorum ac memoriam cum corporibus
efferre et effusissime flere, meminisse
parcissime, inhumani animi est. hoc prudentem uirum non decet: meminisse
perseueret, lugere desinat’.! Seneca, presso a morire, ripetè in parte lo
stesso concetto, per confortare la
consorte. La nazionalità degli ‘ Heluetii” è, secondo GIULIO (vedase) Cesare,
gallica, poichè egli scrive di loro : ‘ Heluetii quogue reliquos Gallos uirtute praecedunt,
quod. fere cotidianis Droga cum:
Germanis contendunt’. 3 Dello stesso
parere è Tacito che, considerando gli ‘ Heluetii’ quali erano divenuti a’ suoi
tempi, avverte : ‘ Heluetii, Gallica gens olim armis uirisque, mox memoria nominis clara’ (Rist. I 67, 2). La medesima
osservazione è confermata nella Germ. 28, 8, che considera tanto gli ‘ Falaotit ? quanto i ‘ Boii” come
‘ Gallica utraque gens ’ b) Era a
nazionale dei Germani andare ala pugna
coi corpi nudi a diciamo « ignudi »): lo indica Tacito nelle isf. II 22, 6
‘cohortes Germanorum, cantu truci et
more patrio nudis corporibus super umeros
scuta quatientium ’. Prima di lui, ne aveva dato notizia Cesare, sebbene
la sua osservazione non si restringesse ai soli usi guerreschi : ‘pellibus aut
paruis renonum tegimentis utuntur, magna. corporis parte nuda ?.! E l’osservaziore di Cesare fu ripetuta nella
Germ. rispetto ai combattimenti (‘ pedites et missilia spargunt.... atque in immensum uibrant, nudi aut sagulo
leues Germ. 6,7), agli esercizi militari
dei giovani (‘ nudi 1 SEN. epist. XVI 4 (99), 24. 2 Tac. ann. XV 63. 3 Cars. db. G. 1 1, 4. 4 CAESs. db. G. VI 21,5. Dice lo stesso dei ‘Suebi’ iunenes .... inter gladios se atque infestas
frameas saltu iaciunt” Germ. 24, 2), e
alla vita domestica (‘in omni domo nudi
ac sordidi’ e. q. s. Germ. 20, 1: cf. 17, 2). Intorno alla provenienza dei
‘Bataui’ ed ai luoghi da loro occupati, ci informa Tacito nelle Rist. IV 12, 6 ‘Bataui, donec trans Rhenum agebant,
pars Chattorum, :seditione domestica pulsi
extrema Gallicae orae uacua cultoribus
simulque insulam iuxta' sitam
occupauere, quam mare Oceanus a fronte, Rhenus amnis tergum ac latera
circumluit’. Della ‘insula Batauorum’ avevano già fatto menzione Cesare e
Plinio Secondo. * Nella Germ. 29, 1 si
legge: ‘ omnium harum gentium uirtute
praecipui Bataui non multum ex ripa, sed
insulam Rheni amnis colunt ’; e, quanto alla loro origine, immediatamente dopo si soggiugne : ‘
Chattorum quondam populus et seditione domestica in eas sedes transgressus, in quibus pars Romani
imperii fierent ’. d) Narra Tacito
(Rist. IV 14, 10) che Civile, in occasione di un banchetto tenuto in un bosco
sacro, espose ai convitati la necessità
d’insorgere in difesa dei loro diritti
conculcati, contro il dominio romano. L’ usanza
germanica di trattare affari, sì privati che pubblici , durante i conviti è menzionata, in generale,
nella Germ. 22, 9 ‘ de reconciliandis
inuicem inimicis et iungendis
adfinitatibus et adsciscendis principibus, de pace denique ac bello plerumque
in conuiuiis consultant : e la ragione
ne è spiegata ‘tamquam nullo magis tempore
1 Secondo la congettura del Walch: nel cod. si legge ‘ iuuata sit an”. ? Cars. db. G. IV 10, 1. Prin. n. A. aut ad
simplices cogitationes pateat animus aut ad
magnas incalescat ”. e) La
disposizione dei Germani per cunei, nelle battaglie, è menzionata nella Germ.
6, 20 ‘acies per cuneos componitur ?’. La conferma appare dal modo secondo cui furono disposti i ‘ Canninefates’,i ‘
Frisii”, i ‘ Bataui ’, etc. nei combattimenti, durante l’insurrezione di Civile (rist. IV 16. V 16), e dall’ordine del
‘ Bructerorum cuneus ” (Rist. V 18, 5).! Ma l’ ordinamento dei combattenti per cunei era stato prima
accennato da Cesare *. Tacito ne fa pure
menzione, descrivendo la battaglia di
Bedriaco 3. f) Nello stesso lib. IV
delle hisé. di Tacito, si nota che i ‘
Bataui ’ furono esenti dall'obbligo di pagare ai Romani i tributi: ‘ Batauos tributorum
expertes (list. IV 17, 11); ed è confermato
in un altro luogo : * sibi (sc. Batauis)
non tributa sed uirtutem et uiros indici ’
(hist. V 25, 9: cf. IV 12, 10). Tale esenzione è notata anche nella Germ. 29, 6 ‘ (Bataui) nec
tributis contemnuntur nec publicanus atterit ’, per la ragione che essi ‘ tantum in usum proeliorum sepositi, uelut
tela atque arma, bellis reseruantur
?. g) Civile, nel determinare l’ ordine
della battaglia, ‘matrem suam
sororesque, simul omnium coniuges par 1
Cf. Tac. hist. IV 20, 11. La disposizione dei combattenti per cunei si continuò anche dopo presso i
barbari: v. Amm. Marc. r. g. XXVII 2,
4. 2 Cars. d. G. VI 40, 2: altrove lo
indicò con la voce ‘phalanx *; db. G. I 52, 4.
3 Tac. hist. II 42, ]1 ‘comminus eminus, cateruis et cuneis concurrebant': v. la nota al l. c. nel comm,
del VALMAGGI, p. 78, Torino uosque
liberos consistere a tergo iubet, hortamenta
uictoriae uel pulsis pudorem ” (Rist. IV 18, 14): si soggiugne poco dopo
‘ uirorum cantu, feminarum ululatu
sonuit acies’. Consimile ordine nei combattimenti a cui preparavansi i Germani, è indicato nella
Germ. 7, 11 ‘in proximo pignora, unde
feminarum ululatus audiri, unde uagitus
infantium ’. Ma in tutti e due i Il. citati
la notizia pare che sia provenuta da quanto avevano scritto prima Cesare sulle donne dei Germani
nelle pugne combattute da Ariovisto !, e Strabone intorno alle donne dei Cimbri. ° h) L’ usanza dei Germani di portare nei
combattimenti effigie di animali o altri simboli rappresentanti le loro divinità protettrici o qualche
attributo delle stesse, è indicata da
Tacito, Rist. IV 22, 12: ‘ depromptae siluis lucisque ferarum imagines, ut cuique
genti inire proelium mos est ’. Nella Ger. 7, 8 si osserva la stessa
consuetudine: ‘ effigiesque et signa quaedam detracta lucis in proelium ferunt ’*. Così, ad es.,
gli ‘ Aestii ’ portavano per simboli divini immagini di cinghiali (‘ insigne
superstitionis formas aprorum gestant’ Germ.
1 Cars. db. G. I 51, 3. ? STRAB.
geogr. VII 2, 3 (C 294), p. 404, ed. M. Vedi anche PLvT. C. Mar. 19, 8, p. 497, ed. Th, Doehner.
FLor. epit. I 38, 16-17 (III 3), ed.
Halm. 3 Tra le‘ effigies” erano
notevoli il lupo e il serpente (Wadan),
l’orso e il capro (Thunar), etc. ; tra i simboli o ‘ signa ’, la lancia
(Wodan), il martello (Thunar), la spada (Tiu), etc. : v. F. G. BERGMANN, poémes islandais tirés de l' Edda
de Scemund, Paris 1838, pp. 1-185, 243-259,
303-319; e le « notes explicatives » pp. 221 - 239, 292 300, 358 - 368; v. anche dello stesso Bergmann la fascination de Gulfi (Gylfa
ginning), traité de mythologie
scandinave, Strasbourg & Paris i Cimbri preferivano il toro di bronzo !.
I Germani non rappresentavano in forma
umana le loro divinità: ‘nec cohibere
parietibus deos neque in ullam humani
oris speciem adsimulare ex magnitudine caelestium arbitrantur? (Germ. 9,
7). i) Scoppiata l’ insurrezione di
Civile, il danno maggiore fu recato dalle ostilità degli insorti contro
gli ‘ Vbii’, ‘quod gens Germanicae
originis eiurata patria Romanorum nomine
? Agrippinenses uocarentur (Rist. IV 28,
6). Dalla Germ. 28, 19 si apprende che ‘ ne Vbii quidem, quamquam Romana colonia esse
meruerint ac libentius Agrippinenses
conditoris sui nomine uocentur, origine
erubescunt’; e da un luogo degli ann.'XII 27,
1-4 si ha la notizia più precisa, che ad istanza di Agrippina, moglie
dell’imp. Claudio e madre di Nerone, si
condusse una colonia romana nell’ ‘ oppidum Vbiorum’, onde il nome di ‘ Colonia
Agrippina’ o solamente ‘ Agrippina’, ovvero ‘ Colonia’ che si ebbe dopo.* j) Quel che dice Tacito, isf. IV 61, 1,
intorno allo adempimento di un voto di
Civile, il quale ‘ post coepta aduersus
Romanos arma propexum rutilatumque crinem
1 PLvr. C. Mar. 23, 6, p. 499, ed. c.
? ‘ Romanorum nomine’ è dovuto a congettura del Weissenborn. Nel cod. è
‘nom’. La lez. ‘ Romanorum nomen’, che il
Gruter notò, è chiusa dal Halm, dal Ritter, dal Ramorino, etc. tra parentesi quadre. Altri preferiscono ‘
Romano nomine’, secondo la congettura del Lipsius. 3 Amm. Marc. r. g. XV 8, 19; 11, 7. XVI 3,
1. Ma Io, Harduinus, nel comm. alla n. A. di Plinio, vol. I, p. 225, nota 2?, crede che sia Agrippina la moglie di
Germanico, perchè, come egli dice, ‘
ueluti mater castrorum procurabat ex eo tractu annonam militibus, qui merebant
in exercitu mariti sui : quamobrem et laureato capite pingitur in achate
Tiberiano ’, è patrata demum caede legionum deposuit’,
appare nella Germ. 31, 3, riferito in
ispecial modo ai ‘Chatti’: ‘ ut primum
adoleuerint, crinem barbamque submittere, nec
nisi hoste caeso exuere uotiuum obligatumque uirtuti oris habitum”.' Anche a Roma non fu, come
pare, sconosciuta tale usanza, poichè
Cesare, per dimostrare il suo affetto ai
soldati, ‘ audita clade Tituriana barbam
capillumque summiserit nec ante dempserit quam uindicasset ’. ? kh) Da uno dei legati dei ‘ Tencteri ’ si
diceva: ‘quod contumeliosius est uiris
ad arma natis, inermes ac prope nudi sub
custode et pretio coiremus’ (Qist. IV
64, 8). Il portare le armi, e in qualunque occasione, stimavasi dai Germani un segno di valentia e
di libertà. Ciò confermasi nella Germ. 13, 1 ‘ nihil autem neque publicae neque priuatae rei nisi armati
agunt’; e si indica il modo con cui
facevasi la dichiarazione d’idoneità a
portare le armi. L’ osservazione si ripete
nella Germ. 22, 5 ‘ad negotia nec minus saepe ad conuiuia procedunt
armati’. Anche morto, il Germano aveva
seco le sue armi (Germ. 27, 4). Tale usanza, del resto, non restringevasi ai soli Germani;
Cesare la indica prevalente presso i
Galli. 5 1 La stessa usanza presso i
Sassoni, in tempi posteriori, è riferita
da PAvL. pIAC. de gest. Langobard. III 7, p. 438, c. 2?. E nella storia di Norvegia è narrato il
giuramento del re Harald Haarfager, di non tagliarsi i capelli nè di pettinarli
prima d'avere spenti tutti i piccoli
sovrani che tenevano divisa la patria
sua: e dopo lotte accanite che durarono più di dieci anni, adempi quanto aveva giurato: v. R.
KeysER, Norges historie, ed. c., vol. I, pp. 204-209. 2 SveTton. diu. Iul. 67. 3 Cas, d, G. V 56, 2: cf. VII 21, 1. 122
1) Un altro segno della piena libertà di cui godevano i Germani, e che,
come del resto è nell’ordine naturale delle cose, trascendeva talora in dannosi
eccessi, era quel che nota Tacito nelle Rist. IV 76,9: ‘ Germanos.... non
iuberi, non regi, sed cuncta ex libidine
agere’. E da ciò quella lentezza nelle deliberazioni delle assemblee, che era veramente un ‘ex
libertate uitium’; poichè i Germani ‘ non simul nec ut iussi conueniunt, sed et
alter et tertius dies cunctatione coèuntium absumitur’ (Germ. 11, 9). Presso i
Galli, nota Cesare, l’abuso era punito;
e al principio della guerra, quando
tutti i giovani armati dovevano adunarsi in
un dato luogo, chi di loro ‘nouissimus conuenit, in conspectu multitudinis omnibus cruciatibus
affectus necatur ?.! m) Nel luogo testè
cit. delle Rist. IV 76, 10 si soggiugne: ‘pecuniamque ac dona, quis solis
corrumpantur (sc. Germani), maiora apud
Romanos. Negli ann. XI ‘ 16, 7 è detto
che l’imp. Claudio si avvaleva del danaro per tenere sotto la sua dipendenza il
re dei ‘Cherusci’, Italico. Or, tanto nel primo quanto nel secondo dei ll. cc.,
scorgesi l'applicazione del mezzo che non
di rado usavano i Romani, per meglio asservire il popolo germanico: onde
la considerazione che leggesi nella
Germ. 15, 12 ‘iam et pecuniam -accipere docuimus’ ;? e, in particolar modo,
intorno ai re dei ‘ Marcomani’ e dei ‘Quadi’ si dice: raro armis nostris, 1 CaEs. db. G. V 56, 2. 2 È noto che, per danaro, la milizie
germaniche marciarono contro gli stessi
Germani: v. CAPITOLIN. M. Ant. philos. 21,7; in scriptt. hist. Aug., IV p. 66, ed. P., Mi | A
saepius pecunia iuuantur, nec minus ualent’ (Germ. 42, 9). !
n) I Germani ammettevano che le donne di condizione elevata fossero le
più sicure garentie e i migliori ostaggi, per ottenere l’ adempimento dei patti
convenuti tra popolo e popolo o tra i partiti di una stessa gente. Un caso è rammentato da Tacito, Rist.
IV 79, 1:‘orabant auxilium Agrippinenses
offerebantque uxorem ac sororem Ciuilis et filiam Classici, relicta sibi pignora societatis’; la quale ‘ societas’
sappiamo che era stata già ‘
nobilissimis obsidum firmata’ (Rist. 1V
28, 2). La consuetudine era stata prima indicata nella Germ. 8, 5: ‘ efficacius obligentur animi
ciuitatum, quibus inter obsides puellae quoque nobiles imperantur ”. Augusto aveva tentato di trarne vantaggio,
chiedendo ad alcuni capi.di nazioni
vinte, per tenerli in fede e soggezione,
delle donne per ostaggio. * o) Per
significare 1° approvazione delle proposte discusse nelle assemblee, i Galli
solevano battere le armi: ‘conclamat omnis multitudo et suo more armis concrepat, quod facere in eo consuerunt,
cuius orationem approbant ?. La stessa usanza notavasi presso i Germani : ‘ sin placuit, frameas concutiunt
: honoratissimum adsensus genus est armis laudare’ (Germ. 11, 17). Tacito l’accenna nelle Rist. V_ 17,
13 ‘ sono armorum tripudiisque, ita illis (sc. Germanis) mos, adprobata sunt
dicta ’. III. a) La considerazione sulla maniera di com1 V.
pag. 12 sg. 2 SvETON. Aug. 21. 3 Cars, db. G. VII 21, 1, Cf. Liv. battere
dei ‘Chatti’, che osserviamo negli ann. I 56,
16 ‘non auso hoste terga abeuntium lacessere, quod illi moris, quotiens astu magis quam per
formidinem cessit ’, appare come un’applicazione al caso
particolare dell’ osservazione fatta, in generale, sul carattere, dei Germani:
‘ cedere loco, dummodo rursus instes, consilii
quam formidinis arbitrantur’ Germ. 6, 20. Simile usanza presso i‘ Cherusci’ è
notata negli ann. II TIA b) Tacito narra che, dopo la disfatta di
Varo, i Germani sacrificarono presso le are i vinti ‘tribunos ac primorum ordinum centuriones’ (ann. I 61,
13); e la stessa notizia sui sacrifici
umani egli ripete, in proposito della vittoria degli ‘ Hermunduri”’ sui
‘Chatti”: ‘ uictores diuersam aciem
Marti ac Mercurio sacrauere, quo uoto
equi uiri, cuncta uiua occidioni dantur’ (ann.
XIII 57, 10). Analoga osservazione era stata fatta nella Germ. 9, 1
‘deorum maxime Mercurium colunt, cui
certis diebus humanis quoque hostiis litare fas habent ’; ma placavano Marte ‘concessis animalibus’. I‘
Semnones’ anch’essi ‘ caeso publice homine celebrant barbari ritus horrenda
primordia’ (Germ. 39, 5); e con vittime
umane si celebrava il culto della dea ‘Nerthus”
o ‘Terra mater’ (Germ. 40, 19). Strabone aveva prima fatto menzione
dell’orrendo rito dei sacrifici umani presso i Cimbri '; istituto religioso,
del resto, comune a tanti altri popoli primitivi. Iordanis afferma che anche i Goti offrivano a Marte vittime
umane; e 1 StRAB. geogr. VII 2, 3 (C 294), p, 404, ed. M. 2 IoRDAN. de or. act. Get. 5, p. 9, 23, ed. Holder: ‘ opinantes (se. Gothi) bellorum praesulem apte humani
sanguinis effusione placandum. Procopio dice che l’orrendo rito si era continuato, per le divinazioni, presso i Franchi già
convertiti al Cristianesimo. * c) All’
indicazione : ‘ certum iam alueo Rhenum ...
Vsipi ac Tencteri accolunt’ (Germ. 32, 1), risponde la frase che si nota negli ann. II 6, 13 ‘
Rhenus uno alueo continuus’. Mela dà più
chiara spiegazione, ed usa qualche
parola che poi ripetè, sull'argomento stesso, lo autore della Germ.: ‘(Rbenus) mox diu solidus
et certo alueo lapsus haud procul a mari huc et illuc dispergitur ?. ? d) Negli ann. II 12, 3 si fa menzione di una
selva consacrata ad Ercole, luogo di
convegno dei Germani. Anche di Ercole e
dei canti guerreschi, con cui si celebrava quel ‘primus omnium uwirorum
fortium’, si trova menzione nella Germ.
3, 1 sg.: cf. 9, 2. Evidentemente si allude al culto di Thor (Donar) che,
per interpretazione romana, si era
rassomigliato ad Ercole. Quanto, poi,
all’espressione ‘siluam Herculi sacram?”,
che si legge nel 1. c. degli ann., e al ‘ sacrum nemus ”, dove Civile riuniva i suoi (/Rist. IV 14,
10), si possono considerare come esempi
della consuetudine indicata, in
generale, nella Germ. 9, 9: ‘lucos ac nemora consecrant’. Dello stesso modo son
da considerarsi come casi particolari
della consuetudine, di cui è discorso
nel presente paragrafo, la ‘silua auguriis patrum et prisca formidine sacra’, dove, nel tempo
stabilito, si adunavano i ‘Semnones’
(Germ. 39, 3); il ‘castum nemus’
consacrato, in un’isola dell’ oceano, alla dea
\ 1 ProcoP. de b. Goth. II
25. ? Pompon. Met. chor. Ill Nertbus’
(Germ. 40, 9); e quello ‘antiquae religionis
lucus ’, presso i ‘ Nahanaruali” (Germ. 43, 14). ! e) Nel discorso pronunziato da Germanico ai
suoi soldati si afferma: ‘non loricam
Germano, non galeam, ne scuta quidem
ferro neruoue firmata’ (ann. II 14, 10)
: perciò scarsezza, se non totale mancanza, del ferro presso i Germani. Il
medesimo concetto è annunziato nella Germ. 6, 1 ‘ne ferrum quidem
superest, sicut ex genere telorum
colligitur’; ma l’asserzione di
Germanico, il quale nella foga oratoria negava a tutti i Germani la lorica e l’elmo, appare mitigata
dall’ osservazione che si legge nella Germ. 6, 10 ‘paucis loricae, uix uni
alteriue cassis aut galea’. Egli è vero
che i ‘ Cotini” conoscevano la metallurgia del ferro (Germ. 43, 6), ma i ‘Cotini’” non erano
stimati Germani: ‘Cotinos Gallica ... lingua coarguit non esse Germanos, et quod tributa patiuntur’ (Germ.
43, 3). Presso gli ‘ Aestii” era ‘rarus
ferri, frequens fustium usus’ (Germ. 45,
12). Nella stessa orazione di Germanico
si nota che i Germani usavano per scudi
‘uiminum textus uel tenuis et fucatas colore tabulas’ (ann. II 14, 12): lo stesso avvertesi in generale, intorno agli
scudi dipinti, nella Germ. 6, 9 ‘scuta
tantum lectissimis coloribus distinguunt
’. Soltanto gli ‘ Harii” avevano il costume
di portare gli scudi tinti in nero, per atterrire i nemici durante i
combattimenti notturni, presentando un
certo ‘nouum ac uelut infernum adspectum’ (Germ. 43, 24), ?
ì V. rag 105, per la rispondenza con la n. A. di Plinio. 2 Sull'uso degli scudi dipinti v. EvrIr.
Phoen. 142, vol. II, p. 402, ed. Nauck.
Cic. de or. II 66, 266. 127 f) Del clima della Germania si dice negli
ann. II 24, 1 ‘truculeutia caeli
praestat Germania’. E l’autore della
Germ. si domanda: ‘(quis) Germaniam peteret,
informem terris, asperam caelo, tristem cultu aspectuque, nisi si patria
sit ?° (Germ. 2, 8). Seneca fa una
osservazione consimile: ‘ perpetua illos (sc. Germanos) hiems, triste caelum premit, maligne solum
sterile sustentat” e. q. s.! g) I
soldati di Germanico, che sopraffatti dalla tempesta, sì erano dispersi,
tornati poi nei quartieri, dopo lunga
peregrinazione, narravano cose meravigliose,
‘uim turbinum et inauditas uolucres, monstra maris, ambiguas hominum et beluarum formas, uisa
siue ex metu credita’ (ann. II 24, 18).
Simili notizie favolose sono riferite
nella Germ. 46, 25 intorno agli ‘ Hellusii ’
ed agli ‘“Etiones’: “ora hominum uultusque, corpora atque artus ferarum gerere’. Ma, mentre un
che di ironico traspare dalla frase
‘siue ex metu credita’, nella Ger. si.
osserva che tali racconti si tralasciano,
perchè sfuggono ad un esame giudizioso : ‘ quod ego ut incompertum in medio relinquam’ (Germ. 46,
26). Ad una conclusione non dissimile
era venuto prima Pomponio Mela, trattando degli ‘Oeonae’, degli ‘Hippopodes’ e
dei ‘ Panuatii ”. * h) Alludendo ad
un’età aurea degli ordinamenti sociali, in tempi antichissimi, Tacito osserva :
‘ uetustissimi mortalium, nulla adhuc mala libidine, sine probro, scelere eoque sine poena aut coercitionibus agebant’ 1 Sen. dial. | 4, 14. ? Pomp. Met. chor. Ill
6, 56. Cf. Plin. n. h. IT 108 (112), 246.
IV 13 (27), 95 Sotin. coll. r. m. 19, 6-8, p. 105, ed. Mominsen. Avevstin. de civ. Dei
XVI 8, vol. II, p. 135 sg., ed, Dombart.
128 (ann. III 26, 1). Simile
concetto, ma col proposito di dare
evidenza, mediante l’antitesi, alla decadenza morale dei Romani nell’età
imperiale, è annunziato nella Germ. 19,
17 ‘plusque ibi boni mores uwalent quam
alibi bonae leges ’. Al medesimo concetto avevano alluso Sallustio! e
Orazio. * î) La pretensione vessatrice
di Olennio, che imponeva ai ‘ Frisii’ di soddisfare il tributo di pelli di
buoi con pelli di uri, offre a Tacito l’
occasione di osservare che ‘id aliis quoque nationibus arduum apud Germanos
difficilius tolerabatur, quis ingentium beluarum feraces saltus, modica domi armenta sunt’
(ann. IV 72, 7). Analoga osservazione
sui buoi della Germania, che erano più
piccoli e meno belli de’ buoi degli altri
paesi, si nota nella Germ. 5, 5 ‘ pecorum fecunda, sed plerumque improcera. ne armentis quidem suus
honor aut gloria frontis’. Cesare l’
aveva anche osservato: ‘ sed, quae (sc.
iumenta) sunt apud eos nata, parua atque deformia”.? j) Tacito narra che Nerone mandò in
Britannia uno de’ suoi liberti, di nome
‘ Polyclitus ?, con l’incarico di
rimettere la concordia tra il legato e il procuratore, e di rappacificare i barbari ribelli; ma il
liberto ‘ hostibus inrisui fuit, apud quos flagrante etiam tum libertate nondum
cognita libertinorum potentia erat;
mirabanturque quod dux et exercitus tanti belli confector seruitiis
oboedirent’ (ann. XIV 39, 7). La storia
ci rammenta altri liberti potentissimi presso
1 SALL. Cat. 9, 1 “ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura ualebat’. ? Hor. carm. III 24, 35 sg. 8 CAES. db. G. alcuni imperatori romani. E
però, in antitesi a quella superiorità
che si riconosceva, dai Germani non sottoposti a monarchi, ai soli uomini
liberi, 1’ autore della Germ. osserva: ‘
liberti non multum supra seruos sunt,
raro aliquod momentum in domo, numquam in ciuitate, exceptis dumtaxat iis gentibus, quae
regnantur ? (Germ. 25, 8: cf. 44, in
principio). k) Argomento trito era
quello dei vantaggi di cui godeva l’ ‘
orbitas ’ di vecchi ricchi. ‘ Hereditatis spes ’, scriveva Cicerone, ‘ quid iniquitatis in
seruiendo non suscipit? quem nutum
locupletis orbi senis non obseruat ?’!. Orazio ne fa il tema della sat. quinta
del lib. II (cf. anche episf. I 1, 79);
e Seneca avverte: ‘in ciuitate nostra plus gratiae orbitas confert quam eripit
?. ? Allo stesso argomento si riferisce
Tacito , scrivendo: ‘ satis pretii esse
orbis quod multa securitate, nullis 0neribus gratiam honores cuneta prompta et
obuia haberent ? (ann. XV 19, 7); e in altri luoghi adduce per esempi Calvia Crispinilla, ‘ magistra
libidinum Neronis?, la quale fu ‘ potens pecunia et orbitate, quae bonis
malisque temporibus iuxta ualent” (Risé. I 73, 8); e un tale Pompeo Silvano, che ‘ ualuit
pecuniosa orbitate et senecta ’ (ann.
XIII 52, 7). L’antitesi sì osserva nel 1
Cic. parad. V 2, 39. 2 Sen. dial. VI
19, 2; e degli scrittori che, dopo Plinio Secondo, s'intrattennero di tale
argomento, v. PLIN. epist. IV 15, 3.
IvvenaL. sat. IV 12,99 sgg. PETRON. sat. 1)6, p. 539. MARTIAL. epigr. IV 56,
1-6. Amm. Marc. r. g. XIV 6, 22. 3 Ma
Domizio Balbo era stato ‘simul longa senecta, simul orbitate et pecunia insidiis obnoxius L’
autore della Germania le istituzioni tradizionali dei Germani, presso i
quali ‘nec ulla orbitatis pretia’ (Germ.
20, 18). IV. In tutti i luoghi che nel presente capitolo
abbiamo comparativamente esaminati, è agevole osservare che la somiglianza o identità di concetto
proviene per lo più dai fonti comuni,
donde i pensieri sono stati dedotti ; e,
ove tali fonti comuni manchino ovvero non
si riesca a determinarli, nulla vieta di ammettere che, essendo il tempo della composizione della
Gem. anteriore a quello in cui furono scritte le opere di Tacito, questi, trattando ne’ suoi lavori storici di
argomenti analoghi ad alcuni già svolti
o menzionati nella Germ., si sia avvalso
di considerazioni , uotizie, insomma di
pensieri che erano stati espressi in questo ultimo libro. Nondimeno Tacito non si attenne sempre a tali
concetti, chè talvolta di proposito se
ne allontanò , o li modificò, o chiaramente li contraddisse. Valgano di
conferma i sgg. esempi. a) Della
notizia, data da Cesare, ! sull’ antica potenza dei Galli fa menzione la Germ.
28, 1, indicandone con lode somma il
fonte: ‘ualidiores olim Gallorum res
fuisse summus auctoram diuus Iulius tradit’. La
medesima notizia appare nell’ Agr. 11, 15, ma senza indicazione del fonte autorevole: ‘Gallos
quoque in bellis floruisse accepimus’.
Anche in un altro luogo dell’ Agr., c.
10, si ripete, senza che se ne indichi il
fonte, una notizia data da Cesare.* Soltanto, quando si riferiscono le imprese militari contro la
Britannia, si fa 1 Cars, db. G. VI 24,
1. ? Cars. b. G. V 13, 1 sgg. Mo]
1Bl cenno di Cesare: ‘primus
omnium Romanorum diuus Iulius cum exercitu
Britanniam ingressus ’ (Agr. 13, 3). b)
La lingua dei Britanni non era molto differente
da quella gallica, perchè entrambe derivavano dallo stesso ceppo celtico: e su ciò è chiara l’
affermazione dell’ Agr. 11, 12. Ma con
tale affermazione non si può conciliare
quanto è detto nella Germ. 45, 9, cioè
che gli ‘Aestii’, i quali abitavano sulle spiagge ad oriente del mare suebico, ed avevano
costumanze e riti simili a quelli dei
Suebi, adoperassero una ‘lingua Britannicae propior ”. c) La voce ‘Germania’ usata al plur. notasi
nello Agr. 15, 13. 28, 1: cf. ann. I 46,
9; è evitata nella Germ., sebbene in
questa si presenti non rara l’ occasione della sineddoche mediante l’uso del
plur. invece del sing. ‘d) Del Norico, che è più volte nominato
negli scritti di Tacito (ist. I 11, 9;
70, 16. ann. II 63, 3), non si fa
menzione nel c. 1° della Germ., nel quale si descrivono i confini della
Germania: appena, per incidenza, sì nota
in un altro ]. che la terra germanica è ‘ uentosior qua Noricum ac Pannoniam aspicit’ (Germ. 5,
3); il che rende più evidente
l’omissione fatta nel c. 1°. e) Col
solo nome ‘Caesar’, Tacito indicò il dittatore
Giulio Cesare (Rist. III 66, 16): più volte premise o aggiunse il titolo ‘ dictator” (/ist. III 68,
5. ann. I 8, 27. II 41, 3. IV 34,21. VI
16, 2. XI 25,9. XIII 3, 11. XIV 9, 6);
una sola volta lo fece precedere dal prenome C. (ann. IV 43, 5). Nella frase
della Germ. 37, 20 ‘ Varum trisque cum eo
legiones etiam Caesari abstulerunt’, si
indica col solo nome ‘Caesar’ l’imperatore Augusto. ! f) Facendo menzione della vergine fatidica
Veleda, la cui autorità era divenuta
grande dopochè ella aveva predetto la
vittoria dei Germani e la distruzione delle
legioni romane, Tacito accenna ad un antico costume presso i Germani, ‘quo plerasque feminarum
fatidicas et augescente superstitione
arbitrantur deas’ (list. IV 61, 10).
Nella Germ. si spiega il fondamento di tale credenza: ‘inesse quin etiam sanctum
aliquid et prouidum putant, nec aut consilia earum aspernantur aut responsa neglegunt’ (Germ. 8, 6); ma si
avverte che le donne fatidiche erano
tenute ‘numinis loco’ e venerate ‘non adulatione nec tamquam facerent
deas’. 9g) Per il ritorno degli ‘
Agrippinenses ’ in seno alla grande
famiglia germanica, si rendono grazie ‘ communibus deis et praecipuo deorum Marti’
(Qisf. IV 64, 4). Nella Germ. 9, 1 si
assevera, invece, che per i Germani il precipuo degli dei era Mercurio : ‘
deorum maxime Mercurium colunt ’. h)
Nelle Rist. IV 73, 12 si fa menzione dei Teutoni accanto ai Cimbri; nella Germ. 37, benchè vi
si tratti delle guerre cimbriche, si
omette qualsiasi cenno intorno ai Teutoni. *
i) Per l’autore degli ann. sono ‘clientes’ i compa 1 Negli ann. Augusto é detto una volta
‘Caesar Octauianus (XII 6, 14) ed
un’altra ‘Caesar’ (I 2, 3), riferendosi però a
tempi anteriori a quello in cui egli prese il nome di Augusto (a. 727 /27: cf. WEISSENBORN, de Titi Liuii
uita et scriptis). La disfatta di Quintilio Varo avvenne nel settembre dell'a.
9 d. Cr., cioè 36 anni dopo che Ottaviano era stato insignito col titolo di
Augusto, gni dei capi barbari, p. es. i ‘clientes’ di Segeste (amm. I 57, 13), di Inguiomero (ann. II 45, 4), di
Vannio (ann. XII 30, 7); e che
significhi ‘ clientela’ per Tacito si
deduce dal l. degli ann. II 55,8. Nella Germ., invece, i compagni dei capi son detti, con voce più
nobile e decorosa, ‘comites’ (Germ.
13,10, 12, 14, 14,7); ela loro riunione
‘ comitatus” (Ger.), non ‘
clientela”. j) Secondo la Germ. 4, 6, i
Germani hanno ‘magna corpora et tantum
ad impetum ualida’. Negli ann. II 14, 14
si restringe l’obietto di tale considerazione, poichè si nota che il corpo dei
Germani è ‘uisu toruum et ad breuem
impetum ualidum ’. i k) L’ autore della
Germ. non saprebbe affermare ‘nullam
Germaniae uenam argentum aurumue gignere:
quis enim scrutatus est ?” (Germ. 5, 9). E nondimeno negli ann. XI 20, 11 è detto espressamente
che nell’a. 47 d. Cr. Curzio Rufo ‘in
agro Mattiaco recluserat specus quaerendis uenis argenti ’, tuttochè con poco
profitto e per breve tempo. Se è assodato, da quanto narra Tacito negli
ann. XIII 57, 2 sgg., che i Germani
facevano uso del sale, non può evitarsi
il contrasto con l’osservazione che leggesi nella Germ. 23, 4, cioè che i
Germani si preparavano i cibi ‘ sine apparatu, sine blandimentis ?. Ed altri esempi omettiamo, per amore di
brevità. Mende tipografiche . 28 mendacium
13 comunica 18 Seguo ll alle
leggi mendaciorum comunicava
Seguiamo alle I
At/n^^'^ l^arbarli College
Eibrarg FROM THE CONSTANTIUS FUND Established by Professor E. A. Sophoclbs
of Harvard University for " the
purchase of Greek and Latin books, (the
andent classics) or of Arabie books, or
of books illustrating or ex plaining sudi Greek, Latin, or Arabie books.»» (Will} La " GERMANIA " comparata CON LA ''^NATÌ^RAUGHfGTOmA ' DI RDIMIO e con le opere di Tacito Altre opere del Prof. Dott. Santi Consoli
: Italiensk Crammatik til brug for
Norske og Danske. Catania , 1884. L. 3.
(in deposito presso E. Hauffs boghandel,
Kristiania in Norvegia). Istituzioni di
lingua latina esposte, secondo il metodo scientifico, agli alunni delle scuole
secondarie classiche. Catania, F. Tropea Introduzione allo studio del D.
N. Torino, F.lli Bocca Fonologia latina Milano, U. Hoepli Letteratura
norvegiana, Milano, U. Hoepli De C.
Piinii Caecllii Secundi rhetoricis studiis.
Catinae, C. Galatola Il neologismo negli scritti di Plinio il
giovane. Contributo agli studi sulla
latinità argentea. Palermo, A. Reber Neologismi
botanici nei carmi bucolici e georglci di Virgilio. Contributo agli studi sulla
latinità dell'evo augusteo. Palermo, A. Reber L' autore del libro " De
origine et situ Cermanorum " : ricerche critiche. Roma, Loescher LA GERMANIA COMPARATA COLLA
NATVRALIS HISTORIA di Plinio e cosa le opere d.i rPaclto RICERCHE LESSIGRAFIGHE
E SINTATTICHE lib. doc. di letteratura e lingua latina nella R. Università di
Catania Loescher Bretaehneider e Regenberg Librai di S. M. la Regina d' Italia
L-t l-l'iZ.i l \ (.Ji'ù i U ta.t ^ tCu>u Y^. (Catai^a^ via MaddemfD. Ttpoffrafia editrice
BARBACALLO & 8CUDERI, in Catania. Alla memòria benedetta di mia madre E DI
MIA MOGLIE . Il sagio che C. sommettealla benevola attenzione dei lettori ha il
solo obietto di dare evidenza ad alcune osservazioni lessigrafiche e
sintattiche, più degne di nota, che
risultano dal confronto della Germania con
la naturalis historia di Plinio e con le opere di Tacito. Si ommettono,
per tanto, tutte le particolarità, concernenti la lessigrafla e la sintassi,
che presentano gli scritti comparati, in quanto che tali particolarità o casi
isolati sfuggono ad un'indagine comparativa. Nelle ricerche sulla genesi e lo
svolgimento delle voci e locuzioni considerate, terremo presente l'uso che ne fecero i più autorevoli scrittori latini
anteriori a Plinio Secondo ed a Cornelio Tacito, e quelli ad essi contemporanei. Eviteremo, per ciò, salvo in
qualche caso raro, di seguire le vicende
di una data espressione o di un dato
costrutto sintattico nell'uso letterario dei
tempi seriori. Sarà ommessa altresì l' indagine di quei significati delle voci esaminate , i quali ,
non essendo stati accolti nelle opere
che sono obietto delle nostre ricerche,
non sembrano di alcun vantaggio per la comparazione istituita. Al nostro
compito è sufficiente indagare per quale tramite la voce, la frase, il
costrutto che si esaminano , sì siano
introdotti nelle opere messe in
comparazione. Qualche osservazione critica appare, talvolta, nelle note;
che, trattandosi di indagini comparative, è necessario, anzi tutto, essere
certi dei termini del confronto ed aver
notizia delle vie percorse dalla critica
per fissarli. Quanto al testo di
Tacito, ci siamo attenuti all' edizione curata dal Halm ; e, per il testo della
naturalis historia di Plinio, abbiamo
seguito l'ediz. Jan-Mayhoff*. Ci è parso
opportuno seguire, quanto al testo della
Germania, la recente ediz. curata da Io. Mueller ( ' editio maior, II
emendata, Vindobonae, Pragae, Lipsiae,
MDCCCC '). Nel citare i passi di un autore, abbiamo eoa vili
servato invariata l'ortografia del testo, quale è presentata neir ed. di
cui ci siamo serviti : e perciò occorre,
qualche volta, leggere nello stesso paragrafo o nello stesso rigo
l'identica parola scritta in più modi; p. es. ' adgnoscere ' e ' agnoscere ' ,
' adgnatus ' e ' agnatus ' , ' caespes '
e ' cespes ', ' conlatio ' e ' coUatio ', ' inlacessitus ' e ' illacessitus ',
' inpatiens ' e ' impatiens ', ' inputare ' e ' imputare ', ' inrumpere ' e '
irrumpere ', etc. I passi di Tacito sono
designati con la indicazione del rigo ,
dopo il numero che rappresenta il cap. ; e per
maggiore chiarezza, a fin di agevolare le ricerche ed i confronti, si è indicato , ogni volta che
sia apparso necessario, anche il num.
del rigo nelle citazioni dei passi di
altri scrittori. Ad evitare, però, troppo curaolo di numeri, si è ommessa, nel citare i luoghi
di Plinio, r indicazione dei numeri che
rappresentano i capitoli e le sezioni:
il luogo che si cita è indit^ato soltanto col
numero d'ordine del libro e col numero del paragrafo. Arrogi che , quante volte si è trascritto il
testo di un luogo della naturalis
historia, il numero rappresentante il libro è stato sempre espresso con segni
romani ; allorché, invece, si è citato
un luogo della detta opera per semplice confronto o richiamo, senza la
trascrizione del testo, si è indicato (da pag. 33 in poi) anche il numero d' ordine del libro con sole cifre
arabiche. Non pare superfluo, in fine,
avvertire (tuttoché, del resto , si sia
chiaramente detto e ripetuto nelle prefazioni dei nostri libri sui neologismi
pliniani e sui neologismi botanici nei carmi bucolici e georgici di Virgilio)
che la nostra affermazione sulla novità di un
vocabolo o di un costrutto sintattico nelle opere messe in confronto, o sul significato nuovo di voci
anteriormente note, il quale si osserva nelle dette opere, va sempre accolta in
senso ristretto , cioè in relazione al materiale letterario latino pervenuto
sino a noi. Certamente né Plinio né
Tacito si sarebbero serviti di voci non
note ai loro contemporanei , né a voci usate prima avrebbero assegnato
tali significati nuovi da non essere
compresi dai Tettori delle loro opere, A fin di determinare con la
maggiore chiarezza che ci sia possibile
le relazioni lessicali tra i due libri
considerati, pare opportuno trattare prima delle voci e frasi più notevoli, che appariscono usate
dagli scrittori anteriori alTetà di Plinio
Secondo, con lo stesso valore lessicale
che si nota nella Oerm. e nella nat. hist Sostantivi : 1/ * aduentus ' : Ge^^m. 2, 2 ^ aliarum
gentium aduentibus '. n. h. XVII 242 ' Xerxis aduentu ' : cf. XV 52, XXIX 13. Plinio riferì ' aduentus ', oltreché
a persone, anche ad animali: n. h. X 30
' ad hirundinum aduentum '. XXV 90 * florent aduentu hirundinum ' ; e a
cose diverse : v. n. h. II 142. XVIII 218. XXXII 59. C0N30U, La aermania comparata. 1 2 ~
etc. : egli perciò si attenne all'uso della voce ' aduenfcus ' accolto nella latinità arcaica e nella
classica. ^ 2.° ' alea ' vale « giuoco
di fortuna , di rischio 5> : Germ.
24, 6 ' aleam.. sobrii inter seria exercent '. n. h. XIV 140 ' quantum alea quaesierit tantum
bibit '. Per indicare, in senso
traslato, 4; dubbio, incertezza » , la
V. 'alea' è accolta nella 7^. ft^ praef. 7 ' M. Tullius extra omnem ingeni aleam positus '. Tanto
nell' uno quanto nell'altro significato,
la v. considerata ha degli esempi in
tutti gli stadi della latinità. ^ 3.° '
amplitudo ' : Germ. 26, 6 ' nec enim cum ubertate et amplitudine soli labore
contendunt '. n. h. VI 119 ' stadiorum
LXX amplitudine ': cf. X 52 ' in magnam amplitudinem crescit '. XIV 28 '
foliorum amplitudo atque duritia ' : v. inoltre
etc. Nello stesso significato proprio di « ampiezza, grandezza, estensione grande » era stata già
la voce ' amplitudo ' accolta nell' uso
della latinità aurea. ^ 4.*^ ' annales ' : Germ. 2, Il ' celebrant
carminibus antiquis, quod unum apud
illos memoriae et annali um genus est '
e. q. s. n. h. II 43 ' miraque humani ingeni
peste sanguinem et caedes condere annalibus iuuat '. XXXIII 145 '
erubescant annales qui bellum ciuile illud
1 Vedi p. es. Pacvv. in Non. II p. 178 , 9 ed. Mere. ; p. 121 , a ed. Gerl.-Roth. Cic. de imp. Cn, Pomp, 5. 13. in Pis, 22, 51. p. Mil 19, 49. ad Ait XII 50. Tuse. Ili 14,
29. de nat d. \ 38, 105. NtìP. XI (Iph.)
2, 5. Sall. lug. 97, 4. etc. 2 Vedi
Forcellini-De Vit, lex t. I, p. 189. Georges, ausfùhrl Handwb. I, e. 276. 3 Varr. r. r. II 4, 3. Cic in Verr. IV 49, 109. L'uso fu continuato anche da Tac. hisi. IV 22, 15. IdiaL de
oraioribua 37,23}. 3 talibus uitiìs inputauere ' K Tale
accezione di * annales ', per significare una narrazione storica in
generale, rese possibile la confusione
che Puso seriore fece di * historia ' e
* annales ', malgrado le distinzioni d' ordine diverso fatte da Gelilo e
Servio. ^ ò."" ' appellatio':
Germ. 2, 17 * pluresque gentis appellationes '. ^ n. h. VII 59 ' se patris appellatione
salutarent': v. anche II 116. XV 138. XXI 50. etc. Con lo stesso significato metonimico di « nome,
denominazione, appellativo », oltreché con altri significati, la v. appellatio
' appare prima in Cicerone. * 6."
* argumentum ' : Germ. 25, 12 ' apud ceteros impares libertini libertatis
argumentum sunt. ' n, h. Il 111 ' haut
dubio coniectatur argumento ': v. inoltre II
7; 8. III 86; 122. X 106; 107. XI 94 . XII 68. XV 12; 134. XXII 39. etc. Lo stesso significato di «
argomento, segno , prova di fatto > ,
e talvolta « indizio » ha la V. '
argumentum ', oltre ad altri significati, presso gli scrittori anteriori. '^ 1
Cf. Tac. ann. II 88, 16. « Gfll. n, A.
V 18 , 1-9. Sbrv. comm, in Verg. Aen. I
373, voi. I, fase. 1^, p. 125 sg. Th.
Cf. Isid. orig. I 43, col. 856. 3 Non
pare che sia degna di essere accolta la lezione congetturata da loh. Mueller :
^ plurisque gentes et appellationes '.
Abbiamo preferito attenerci alla lezione data dai codd., rifiutando anche il * plurisque ' dato dal Ritter ,
Kritz , Haltn * , Zernial, Ramorino, etc
: i codd. presentano * pluresque '. ^
Cic. de dom. s. 50, 129. ad AH, V 20, 4. Un altro es. leggesi in un I. di Tito Ampio, riferito da Sveton.
diu. lui. 77, 2. Vedi anche Tag. ann.
Ili 56, 5. 5 V. i numerosi ess. di
Plauto, Lucrezio, Cicerone, Livio, etc
nel lex. Forcbllini-De Vit, 1. 1, p. 383 e néiVausfiXhrl Handeob, del G^ORGKS, I, e. 528 sg. ~ 4 ~
7.** ^ armentum ' : nella Germ. vale a significare in generale « branco di animali grossi domestici
» : 21, 3 ^ luitur enim etiam homicidium
certo armentorum ac pecorum numero '.
Plinio l'adopera nella n. h. per denotare branco di cavalli (Vili 165) o di
cinocefali (VII 31) di certi buoi della
Frigia (XI 125) o di animali in generale
(Vili 44. XI 263). Per i vari significati della
V. * armentum ' si erano dati anteriormente degli ess. da Varrone, Cicerone, Virgilio, Orazio,
Ovidio, etc. ^ 8.** ' ars ' : Gemi. 24,
3 ' exercitatio artem parauit , ars
decorem '. n. h. XVIII 197 ' artis quoque cuiusdam est aequaliter spargere (semen) ' : v. XI 81.
XVIII 32. In Terenzio la v. * ars '
aveva di già assunto il significato particolare di « abilità, destrezza ». ^ 9.* ^ bigati ', antiche monete romane con l'
impronta della biga : Germ, 5, 17 '
pecuniam probant ueterem et diu notam ,
serratos bigatosque '. n. h. XXXIII 46 '
notae argenti fuere bigae atque quadrigae , inde bigati quadrigatique dicti '.
Livio l'usò anche con lo stesso
significato. ^ 10. ** ^ cassis
', t. ' cassid- ' : Germ. 6, 10 ^ uix uni al
1 Varr. r. r. II 5, 7. Cic. Phil. Ili 12, 31. ad Att VII 7, 7. de r. p, II 35, 60. Verg. bue. 2, 23. 4, 22. 6, 45 e 59. georg. I 355; 483. II 144; 195; 201; 329. III 71; 129; 150;
155; 162; 352. IV 223; 3P5. Aen, I 185.
Ili 220; 540. VII 486; 539. Vili 214; 360. XI
494. XII 688; 719. Hor. carm. I 31, 6. Ili 3, 41. ep. 1 8, 6. Ovid. mei. XV 84. fasi. II 277. « Tbr. Andr. 31 (I 1, 4). adeìph^ 742 (IV 7,
24). Cf. Tag. Agr. 36, 2. « Liv. XXIII 15, 15: ò adoperata col valore
primitivo di aggettivo in XXXllI 23, 7.
5 terìue cassis aut galea '. ^
Con lo stesso significato (« elmo di
metallo ») la v. ' cassis ' fu adoperata dagli scrittori anteriori. Nella n. h.
si presenta col significato metonimico di guerra : XIII 23 ^ ista
patrocinia quaerimus uitiis , ut per hoc
ius sub casside unguenta sumantur
'. 11.° ^ ciuitas ': l'espressione *
Hermundurorum ciuitas \ che leggasi
nella Qerm. 41, 3, si riannoda direttamente
ad un* espressione consimile di Cesare. ^ A tale accezione della V. *
ciuitas ' si ravvicina il passo della n. h,
XXXI 12 ^ Tungri ciuitas Galliae ': cf. VII 200 ' regiam ciuitatera Aegyptii, popularem Attici post
Theseum (se. inuenerunt) \ 12.** * colla tio ' ; Germ. 29, 6 ' exempti
oneribus et collationibus '. n. h.
XXXVII 10 ' Maecenatis rana per
conlationes pecuniarum in magno terrore erat '. La v. ^ collatio ' vale per ciò « contributo,
sussidio »; e con significato analogo
era stata precedentemente usata da
Livio. ^ Ma in un altro 1. della n. h. la v. considerata conserva il significato di « confronto,
paragone », con cui era stata accolta da
Cicerone e da altri: * XXXVII 126 * optimae
sunt quae in conlatione aurum albicare
quadam argenti facie cogunt '.
13.** ' color ' : appare nel significato proprio tanto nella Germ. 6, 9 * senta tantum lectissimis
coloribus 1 La differenza tra *
cassis ' e * galea ' è notata da Isid. orig.
XVIII 14, e. 1272. « Gaes. 6. e. IV 3, 3 * Vbii, quorum fuit
ciuitas ampia atque florens *. Cf. Tac. hist. I 54, 1 * ciuitas Liiigonum *.
Agr. 17, 3 ' Brigantium e. ' 3 Liv. IV 60, 6. V 25, 5. etc. 4 CiG. Tuse \y 38, 83. de natd. ni 28,70. de
diu. Il 17,38. etc. 6 distingiiiint ' ; quanto in più luoghi della
n. h. : Viti 193. XI 148; 151; 225. XXXV 81; 82. etc. La v. ' color' era stata prima accolta nello stesso senso da
Cicerone, Cesare e dai poeti dell' età
augustea. ^ 14.*^ ' conciliura ': Germ.
12, 1 ' licet apud concilium accusare '.
n. h. XXXV 59 ' Amphictyones , quod est
publicum Graeciae concilium '. Con lo stesso significato dì « adunanza , concilio » , appare presso
gli scrittori anteriori : ' riappare
negli scritti di Tacito. * 15.° '
condicio ': il significato tradizionale della voce ' condicio ' è conservato tanto nella Germ.
24, 12 ^ seruos condicionis huius per commercia tradunt ' ; quanto nella n. h. Ili 91 ' Latinae condicionis '.
IV 57 ' Aegina liberae condicionis' etc;
^ salvo che nella n. h. si estende anche a cose estranee alle condizioni civili
degli uomini : v. XVIII 187. XXIV 158.
16.'' ' conditor ': Germ. 2, 12 ' Tuistonem deum terra editum et filium Mannum originem gentis
conditoresque '. n. h. XVI 237 ' Tiburno conditore eorum ( se. 1 V. gli ess. addotti nel lex.
Forcellini-Db Vit, t. II, p. 283; e UQÌV
ausfùhrl. Handwb. dei Georges, I, e. 1199.
« Il lex. Forgellini-Dk Vit, t II, p. 347, e V ausfùhrl Handwb. del Georges , I, e. 1301 sg. notano, per
inesattezza , che Plinio abbia indicato
con la v. ' concilium ' il fiore bianco della pianta * iasine '. Nel passo della n. h. XXII 82 il
fiore della ' iasine ' è rappresentato
(secondo i codd. Leid. Voss., Paris. Lat. 6796 e Riccard. di Firenze) dalla v. * concylium ',
che V Urlichs ( Vindie. Plinian. ,
Erlangae 1866, v. II 484 ) emendò rettamente • conchylium ', quale è stata
accolta nella recente ediz. Mayhoff : *
concilium * fu presentato dalla * uulg. * sino all*ed. del Detlefóen, Beri. 1868, voi. III. 8
Tac. hi8t. IV 64, 2. 4 Cf. Tag. ann. I
16, 13. hist. II 72, 10. tiburtum) ' : v. Vili 61. XXII 5. etc. Nella n. h. si estende ancor più
il significato di ^ conditor ' , riferendosi , secondo esempi offerti da
scrittori precedenti , a città : V 86,
VI 92 ; 113 ; 177. XVI 216. età ; ^ alle
arti : praef. 26. XXXIV 89. XXXV 199. etc. ; ^ alla storia : V 9. VII 111. XXXVI 106. etc. ; '^
alle leggi t XVI 13; a scuole filosofiche:
XXVI 11. etc. * concurrunt multae
opiniones ' : cosi secondo i codd. ;
neir ed. Fleckeisen si accoglie la congettura
' concurrunt multa eam opinionem *. Cic. p. Rose. Am. 15, 45.
etc. 5 Plavt. Men. 756 ( V 2, 4
). Cic. Tasc. V 15, 45. Caes. b. e. hi 84, 3. Liv. IX 16, 13. Se ne valse anche
Tao. hist I 79, ^ •^ SS."" ^ propìnquìtas ' : Germ. 7,
10 ^ non casus nec fortuita conglobalo turmam aut cuneum facit, sed famìliae et
propinquitates ' : in traslato, per indicare « parentela », la V. *
propinquitas ' era stata prima usata da
Cicerone, Cesare, Livio, etc. » Nella n. h. conserva il significato proprio : II 64 ' idemque
motus alias maior alias minor centri
propinquitate sentitur ' : v. II 74. Il SIGNIFICATO
PROPRIO di propinquitas ' osservasi
prima in Cicerone e Cesare. ^
34.*^ * quies ' : n. h. XVI 70 ' lenis quies materiae \ ^ XVIII 231 ^ uentorum quiete ' : nello stesso
significato di « calma, tranquillità »
Cicerone e Virgilio avevano accolto la
v. ' quies '. * Ma nella Germ. ingrata
genti quies ', la v. considerata vale a indicare con 1 Cic. de fin. V 24, 69. Caes 6. G. II 4, 4. Liv. IV 4, 6.
Cf. Tao. ann. XI 1, 11. È usata al sing e con lo stesso eignificato nei sgg. 11.: Cic. p. Quinci. 6, 26. p. Piane. 11, 27. Nep. X (Dion) 1, ?. XVn (Ages.) 1, 3. « Cic. de inu. rhei. I 26, 38. Phil III 6, 15. de off. Ili 11, 46. Caes. 6. G. li 20, 4. VI 30, 3. b. e. Il 16,
3. etc. 3 Cosi leggiamo secondo i
codd., tranne il Paris. 6795 (E del
Mayh.) e TÀrundel. del museo britannico di Londra, e secondo la ' lectio
uulg. ' Neired. del Sillig. voi. Ili, Hamb. e Gotba 1853 , si afj^giunge ' est ' a ' quies '. Il
Mayhoff , ed. Lps. 1892 , innova radicalmente
la frase , e legge ' leuisque est ', che si
avvicina , nel suono della pronunzia , alla lez. * lenis qui est ', presentata dai detti codd. E e Arundel. L*
Urlichs ( Vindie. Plin.y 264; Erlang.
1866) si allontana di più dai codd.,, ammettendo la congettura * leui cuiu3
'. 4 Cic. de leg. agr. 11 2 , 5 in
Caiil. IV 1,2; 4, 7. p, Cael. 17.
31>. p. r. Deiot 13, 38. ex libris aeadem. ineeriis tv. 4. de
fin. I 14, 46. V 20, 55. Tuse. I 41, 97.
de r. p. I 4, 8. IV 1, 5. etc. Vbrg.
geory. particolarità la « quiete dopo la guerra », come osservasi in Sallustio.
^ 35.° ' receptaculum ': appare, nel
senso di « ricovero, rifugio, ricetto »,
tanto nella Germ. 46, 20 ^ hoc senum
receptaculum (se. ramorum nexus) ' ; quanto nella n. h. X 100 ^ perdices spina et frutice sic muniunt
receptaculum ut centra feram abunde uallentur \^ E ciò è conforme air uso fattone prima da Cicerone ,
Cesare , Livio '. 3 Ma nella Germ.
assume anche il significato di «
deposito, magazzino » per viveri: 16, 11 ^ subter raneos specus sufTugium hiemi
et receptaculum frugibus ': tale
significato osservasi prima in Cicerone. ^
36.** ' reuerentia ' : Germ. 29, 9 ' protulit enim magnitudo populi Romani
ultra Rhenum ultraque ueteres terminos
imperii reuerentiam '. n. h. XXXVI 66 ^ hac
admiratione operis effectum est ut , cum oppidum id expugnaret Cambyses rex uentumque esset
incendiis ad 1 Sall. Cai. 31, 1: cf.
Cic. de imp, Cn. Pomp. 14, 40. Tacito si
valse della v. 'quies* tanto ìq senso metonimico, per indicare « sogno, visione » (ann. I 65, 6: cf. Cic.
acad. pr. II 16, 51. de diu. I 21, 43;
24, 48; 25, 53; 28, 58; 29, 61; 43, 96; 55, 126. II 60, 124; 61, 126; 66, 135; 70, 145; etc). quanto
nel senso proprio di , è adope' rata
nella Gemi. 36, 7 * tracti ruina Cheruscorum et L Fosi, contermina gens '; e nella n. h.
XVII 245 ' Ne |, ronis principis ruina '. Si noti, però, la differenza :
nella I Germ. , come in 11. consimili
di Cicerone, Sallustio, Li S vio, Ovidio, etc. ^, la v. ' ruina' si riferisce
alle con p dizioni di un popolo o di uno Stato; mentre nella n. h. - concerne le condizioni di singole persone
: di che si i hanno ess. in Cicerone,
Orazio, Ovidio, etc. ^ Plinio si valse
anche della v. ' ruina ' in senso metonimico : n. h. ^ XXXIII 74 ' flumina ad lauandam hanc ruinam
iugis montium obiter duxere ' : ^ cf.
XXXIII 66 ^ in ruina ;; montium '. 40.* * saeculum ' : Germ, 19, 9 ' nec
corrumpere et corrumpi saeculum uocatur
\ Di tal valore metonimico di * saeculum
', per indicare i costumi dominanti in un
1 Cic p. SesL 2, 5. 51,
109. 57, 121. in Vatin. 8, 21. de proo,
eons. 18, 43. p. Balb. 26, 58. ep. (adfam.) V 17, 1. Sall. Cai. 31, 9. Liv. XLV 26, 6. Ovid. mei. VII! 498.
Vbll. Paterg. h. R II 91, 4. etc. li
Gborges, ausfiXhrl Handiob.^ II, e. 2165 ,
attribuisce per inesattezza a Cicerone la frase sallustiana ' iocendium meum ruina («e. rei publicae) restinguam *
(^Cat 31 , 9). La frase di Cicerone (p.
Mur. 25, 51) é: * respondisset, si quod esset in suas fortunas Incendium
excitatum, id se non aqua, sed ruina
restincturum '. « Cic. in Catti I 6,
14. eum Sen. grat. egii 8, 18. de fin. I 6, 18: cf. de prou. eons, 0, 13.
de dom. s. 36,96. Hor. earm. II 17, 9. Ovid. ex Pont I 4, 5. '^ In simil modo , riferendola a città
distrutte , usarono la v. * ruina' Liv.
IX 18, 7. XXI 14, 2. Vbll.Patbrc. h. R. II 19, 4; ed altri.
19 dato tempo ( i Tedeschi ciò
desigaano con la voce « Zeitgeist ») si
hanno ess. precedenti in Terenzio, Virgilio, Orazio, etc. ^; ma il tramite per
cui dovette passare, per aversi il significato metonimico su cennato, notasi , senza dubbio » conservato neir uso
fattone da Plinio nel sg. 1. della n. h.
XXXVII 29 ' haec fuit suprema ultio saeculum suum punientis ( se. Neronis ) '
: V. XXXVII 19. 41.** ^ sagum ': è voce di origine celtica,
usata nella Germ. ad indicare il saio o
vestito dei Germani : 17 , 1 ^ tegumen
omnibus sagum fibula aut, si desit, spina
consertum '.^ Nella n. h. fu riferita al saio dei pastori : VIII 54 *
pastoris Gaetulìae sago ' ; e ad un indumento dei Druidi: XVI 251. XXIX 52 : e
ciò per analogia dell'uso fattone da Columella, che con la v. ^ sagum ' aveva
indicato la veste dei contadini.^ Neil' uso
classico * sagum ' si restrinse a dinotare il mantello dei soldati. ^
42*'' ^ sata ' : in diretta provenienza dall' uso fattone da Virgilio, ^ in sostituzione della voce '
segetes ', os 1 Tbr. eun. 246 (Il 2, 15). Verg. georg. I 468. Aen. I 291.
Hor. carm. III 6, 17. , che osservasi in Cicerone, ^ per il
tramite dell' uso particolare fattone da
Bruto. ^ 51.** * superstitio *: Germ.
39, 10 ^ eoque omnis superstitio respicit '. n. h. XXXI 95 ' superstitioni
etiam sacrìsque ludaeis dicatum ' : v.
inoltre VII 5. XXI 182. XXII 118. XXX 7.
XXXVII 160. Si valsero prima della v. '^
superstitio ' Cicerone, Virgilio , Livio, Seneca , Columella, etc. ^ 52.** * temperantia ': Gerrn. 23, 5 '
aduersus sitira non eadem temperantia '.
n. h. XXVIII 56 * multo utilissima est temperantia in cibis \ Col medesimo
significato 1 CiG. de /Ia. I U, 37
*doIoris amo tic successlonem efficit
udluptatis '. Ma in un fr. dell' esordio del libro Hortensius^ ri* ferito da Avqvstin. de uit ò. 26, io opp, t.
I p. 308, Bened. , la V. 3. Tuse. Ili 29, 72. de nat. d. I 17, 45; 20,
55; 27, 77; 42, 117. II 24, 63; 28, 70 e
71. Ili 20, 52. de diu. I 4, 7. II 7, 19; 39, 83; 41, 85; 60, 126; 63, 129; 67, 136; 72, 148 e 149.
de legihm I 11,32. II 16, 40; 18, 45.
[Il fr. del 1. de legibus cit. da Serv. eomm. in Verg, Aen. VI 611, voi. II, p;ig. 85, in cui
notasi la frase * auget superstitionem ', ò riferito dal Thilo al 1. cit. II
16, 40. Il Nobbe, pag. 1222, lo ascrive,
invece, terzo tra i frammenti ' incertorum lib-orum de legibus']. Vedi inoltre
Vero Aen. XII 817. Liv. XXVI 19, 4. SBN.
ep. XX 5 (122), 16 (al quale I. si paragoni XV 3 (95J, 35). Colvm. de r. r. I 8
, p 326, 22. Cf. Tac. Agt. li. 11. hist.
11 4, 13. V 13, 2. ann. W dì «teiiiperahza, continenza, moderazione» la v.
Uernperantia ' era stata accolta nell' uso degli scrittori anteriori. ' transfuga ': nel significato proprio ,
secondo f: l'uso accolto prima da
Cicerone, Sallustio, Livio, etc. ^', si
osserva nella Germ. 12, 3 ' proditores et transfugas arboribus suspendunt \
Attenendosi, invece, alla tradizione
avente in prevalenza carattere poetico ^,
Plinio si valse della v. * transfuga ' nel senso traslato: n. h. XXIX 17 ' solam hanc artium Graecarum
(se. medicinam ).... Quiritium
paucissimi attigere et ipsi statim ad
Graecos transfugae '. 54.** ^ tributum
': nel significato proprio appare egualmente nella Germ. 43, 4 * Osos Pannonica
lingua coarguit non esse Germanos, et
quod tributa patiuatur '; e nella n. h. XXI 77 ' ceram ir\ tributa Romanis praestet': v. altresì VI 119. XII 112. etc.
Del resto, la v. * tributum ', indicando
cosa che ha tormentato i popoli in tutti i tempi, fu assai nota agli scrittori
anteriori. ^ 55.° ' uilitas : Plinio se
ne avvalse tanto nel senso r£ proprio di
«poco prezzo, buon mercato», secondo gli
r. 1 CiG. de or. II 60, 247. pari. or. 22, 76.
ep. (ad fam.) I 9, 22. Tuae. Ili 8, 16. V 20, 57. de off. Ili 25,96; 33. 116. etc. Cf. Tac. ann. I 14, 4. 8 CiG. de dia. I 44, 100. Sall. lug. 54, 2. Liv. XXIV 30, 6. XXVII 17, 11. etc: cf. epit Z. LI. f 3 HoR. earm. III 16, 23. Lvgan. de b. e. Vili 335. l: •* Cic. m Verr. Il 53, 131; 55, 138. Ili 42, 100. p, Flaee. 9,
20. 19, 44. 32, 80. ep. (ad fam.) HI 7,
3. XV 4, 2. de off. W 21,
74; 22, 76. etc. Cabs. b. G. VI 13, 2.
6. e. HI 32, 2. Liv. IV 60, 4. XXIU 31, 1. etc. èss.
presentati prima da Cicerone •: n. h. XVIII IS
' annonae uilitas incredibilis erat ': v. anche Vili 7. XIV 35; 50. XVIII 273. XXXIII 50. XXXV 47;
quanto nel senso traslato di « poco valore, poca importanza »: fi. h. XX i '
nominum uilitate deceptus \ XXXVI 119 *
quae uilitas animarum ista ': dello stesso modo
II 26. XI 39. XIX 59. XXVI 43. XXXIV 2. A questo secondo significato, che si osserva in Plauto
e in altri scrittori, ^ si avvicina 1' uso fattone nella Germ. 5, 11 * est uidere apud illos argentea uasa....
non in alia uilitate " quam quae
humo flnguntur '. 1 Cic. in Verr. Ili
92, 215; 93, 216; 98, 227. de imp, Cn, Ponip.
15, 44. eum pop. graL egii 8, 18. de dom, s. 6, U e 15. 7, 16 de off. Ili 12, 52. « Plavt. eapt 230 (II 1, 37). Pbtron. sat.
118 Qvintil i. o.V 7, 23. etc. Cf, '
uilitatem uerbi * in Non. 12, p. 531, 2 ed. Mere; p. 363 a ed. Gerì, e Roth. 3 * Vllìtas ', nel 1. e. della Germ , non
significa « vilipendio, spregio » ( «
Geriogschaetzung », come commenta U. Zernial,
o. e., p. 24), ma «poco valore, poco pregio»; sicché l'intera frase ' non in alia uilitate ' vale, secondo
la giusta osservazione del Grbverus, Bemerkungen zu Taeiius' Germania, 01denb'urg
1850, p. 21, lo stesso che * eodem uili pretio*. La var. * utilitate *, presentata dai codd. Vatic.
VRB. 655,- Rom. Àug. bìbl., Florent.
Laurent. 73, 20, Viodobon., e sostenuta si vivamente dal Kritz, P. C. Tae.
Germania, Beri. 1864, p. 42 sg, che
accusa di * sententìa prorsus absurda ' la lez. ' uilitate ', probabilmente si deve a quella stessa
inavvertenza dei copisti, per la quale
nel 1. della n. h. XX 1 si legge nei codd. ' utilitate \ invece di 'uilitate '
che è lez. data dal solo cod. Paris.
6795, accolta dalla ' uulgata ', e ripetuta nella recente ed. del Mayhoff, voi. Ili, pag. 302, 14. ^ 26
II. Aggettivi : 1.^ * arcanus ': Germ. 40, 20 ^ arcanus bine
terror '; n. h. XXIX 21 ' arcana praecepta
': cosi notasi usato da Cicerone,
Virgilio, Ovidio, etc. ^ Ma nella n. h. è
riferito anche, secondo V accezione di Plauto, ^ a persona : VII 178 '
petiit uti Pompeius a4 se ueniret aut
aliquem ex arcanis mitteret ' ; per lo più è usato in funzione di sostantivo : n. h. Il 65. VII
150. XXV 7. XXVIII 129. XXX 9. La frase * arcana sacra ' osservasi in
Orazio e Ovidio ^ prima che nella Germ. 18, 7 ^ hoc maximum uinculum, haec
arcana sacra, hos coniugales deos arbitrantur '. 2.^ ^ argenteus ' : nel significato comune
di « argenteo, fatto d' argento » *
notasi nella Gerrn. 5, 12 ^ est uidere apud illos argentea uasa ' ; e nella n.
h. XXXIIf 142 ' missa ab iis uasa
argentea ^ non accepis$e ' : v. in 1
Cic. de fin. II 26, 85. Vl^rg Aen. IV 422.
VI 72. Ovid mei. IX 516. etc. Cf. Tac.
ann. II 54, 13. s
Plavt. irin, 556 (li 4, 155): si può aggiungere il v. 518 (II 4. 117) in cui, secondo il commeuto del
Cocchia, Torino 1886, p. 65, la V. *
arcano ' ò agg. di cas>o dat., che concorda con ' tibi': ma nei lessici Forgbllini-De Vit.,
t. l, p. 361,é6B0ROES, I, e. 505, ò considerato come avverbio. 3 HoR. epocL 5, 52. Ovid meL X 436. Cf. '
fatorum sacra ' in Vero Aen. I 266. VII
123. * Tale significato osservasi in
Liv. Andr. Odi9.tv. 5, in PLM ed
Baehrens, voi. VI, p. 38. Varr. de l L. IX 40, 66, p. 216 Sp. Cic. in Verr, II 19, 47; 47, 115. IV 43, 93.
V 54, 142. in Catil. I 9. 24. II 6, 13:
cf. de nat d. III 12, 30; 34 84. etc. ^
Gli ' argentea uasa * sono prima menzionati da Cic. in Verr, IV 1, 1. Phil. II 29, 73. HoR. sai. II 7, 72
sg. etc. Plinio li disse anche ' uasa ex argento ' : n. h. XXXIII 139. oltre Vili 12. XXII 99. XXVIII 82; 126.
XXIX 125. XXXIII 52; 53; 56; 151 ; 152.
XXXIV 160. XXXV 4. XXXVII 105. etc.
Nella n. h. valse apcbe a significare €
ornato o ricoperto d'argento, inargentato » ' : XXXIII 53 ^ G. Àntonius ludos scaena argentea fecit
' : v. altresì XXXIII 144; 151. etc. ^ «
argentino, del colore d'argento » : MI 90 ^ flt et candidus cometes argenteo
crine ' : V. inoltre IV 31. XVI 76. XXIV 172. XXXVI 137. XXXVII 146; 147. etc. Ma nel passo della
Oenn. 5, 20 ^ numerus argenteorum
facilior usui est ' , assunse valore di
sostantivo, come prima in Livio e poi in Vopisco, 3 per indicare certe monete
d' argento , per le quali Plinio adopera
le espressioni ' argenteus denarius ' (n. h. XIX 38. XXI 185) o ^ nummus argenteus ' (n. h. XXXIII 47). 3.* * ater ' : Germ. 43, 22 * atras ad
proelia nootes legunt '. ^ n. h. II 79 * atram in obscuritatem ' . Nella n. h. osservasi inoltre r agg. ^ ater '
attribuito al colore: VI 190. XI 171 (cf. XVIII 4). XIII 98. XXX 16. XXXV 127; al sangue: Vili 49; alle nubi:
XVIII 355; alle erbe: XVII 33 S; alla
bile: XXI 176; alle ulcere: 1
Significato analogo si osserva io Cic. p. Mar. 19, 40. Liv. X 39, 13. etc. 2 Cosi in Cic. in Verr. IV 20, 42. Vbrg.
Aen. Vili 655. Ovid. mei. Ili 407.
eie. 3 Liv. XXX Vili 11, 8. Vopisc.
Prob. 4, 5. Bonosus 15, 8 : v. seripit hist Aug. XXVIII e XXIX, voi. II, ed.
Peter. 4 Cf. HoR. epod. 10, 9 ' atra
nocte '. 5 Neired. Mayhoff deUa n. A., voi. Ili, p. 283, 6, leggesi per il passo XIX )26, secondo la congettura del
Salmasio (PUnianae exereiiaiiones in
Solini polghisiora^ Traiecti ad Rheo. 1689;,
' albae (ac. lactucaQ) ' , meotre ì codd. , eccetto il Paris. 10318 (Q del Mayh.), e la ' uulgata ' danno ' atrae
'. XXtl 154; ad una qualità dì marmo:
XXXVl 49. tn accezioni consimili notasi
la v. ^ ater ' in Cicerone, 0razio, Ovidio, Seneca, etc. * 4.*" ^ caeruleus ' : Tespressione '
caerulei oculi ' si legge nella Germ. 4,
6 e nella n, h. Vili 74: in entrambe si
scorge r imitazione della frase ciceroniana * caeruleos esse Neptuni {se. oculos) '. ^ Nella n. h. V
epiteto * caeruleus ' è riferito , inoltre , a certi animali : Vili 141. IX 46. XXIX 86; a vegetali: XV 128. XXII 57.
XXVII 105; a minerali: XXXVI 128. XXXVII
134; alle acque del Boristene nella
stagione estiva: XXXI 56. I lessici
abbondano di ess. sull'uso dell' agg. 'caeruleus' nell'età anteriore a
quella pliniana. 5.** * equester ' :
riferito a cavalleria, gente a cavallo,
combattimento equestre , notasi , secondo gli ess. di scrittori precedenti, ^ nella Germ. 32 , 3 '
Tencteri.... equestris disciplinae arte
praecellunt '; e nella n. ^. Vili 162'
in libro de iaculatione equestri condito ': v. XXXIV 66. XXXV 129. XXXVII 111. etc; e per ' statua
equestris ' V. XXXIV 19; 23; 28. etc.
Notasi anche nella n. h. riferito all' ordine civile dei cavalieri, come in 11. simili di Cicerone,
Nepote, Orazio, Livio, etc: * v. n. h. V
12. VI 181. VII 88; 177. IX 1 CiG. Phii II 16, 41. Tuse. V 39, 114.
Hor. earm. II 16, 2. OviD. am. I 14, 9.
met XV 41. Sen. ep. IV 2 (31), 5 Cf. Tac.
hisL V 6, 19..
« Cic. de fiat d. I 30, 83. 3
Vedi Cic. in Verr, li 61, 150. PhiL IX 6, 13. de fin. II 34, 112.
Caes. b, G. Ili 20, 3. Liv. Vili 7, 13. XXVII 1,
11 ; 42, 2. etc. 4 Cic. p. Piane. 35,
87. ad Q. />. I 2, 2, 6. de r. p. I 6, 10. Nep. XXV (Att.) 1, 1. HoR. sai. II 7, 53. Liv. V
7, 5. etc X solo. X 71; 141. XII 13. XVII 245. XIX
110. XXXIII 32; 34; 112. etc. dub,
seì^m. XV p. 55, 2 ed. Beck. 6.** *
feralis ' : Germ. 43, 22 * ipsaque formidine atque umbra feralis exercitus terrorem inferunt '.
^ n. h. XX 113 ^ defunctorum epulis
feralibus ' : v. XVI 40. L'agg. *
feralis', in senso traslato, è adoperato, come in Ovidio, Lucano, etc. 2, anche
nella n. h. XVIII 237 ' Caesar et idus
Mart. ferales sibi notauit scorpionis occasu ' : V. X 35.
7.^ ' ferax ' : Ge^'^m. 5,4' satìs ferax ( se. terra ). ' n. h. XV 100 ' minime feraces musti (se.
acini) ' : v. XVII 105 ; 124. L' uso di
' ferax ' nel significato proprio , or con r ablativo or col genitivo ,
osservasi nei poeti deir età augustea,
^ 8.^ ' infamis ' : Germ. 12, 4 '
corpore infames caeno ac palude...
mergunt ' : v. anche 14, 3. n. h. XXXIII
48 ' nec iam Quiritiu.m aliquis sed uniuerso nomine Romano infami rex
Mithridates Aquilio duci capto aurum in
OS infudit ' : v. IX 79. In Cicerone si notano numerosi esempi. ^ 9.^ ' infernus ' : usato nel significato
generale di 1 Con significato simile
osservasi V agg. * feralis * in Verg
Aen, IV 462. VI 216. Ovid. irisL III 3, 81 ; 13, 21. etc. Cf. Tac.
hisL I 37, 10. ann. II 31, 7. 2
Ovid. met IX 213. Lycan de b. e. II 260. Cf. Tac. hisi V 25, 15. ann. IV 64, 2. 3 Con Fablat : Verg. georg. II 222. Col
genit. : Hor. epod. 5, 22. Ovid. met VII
470. Col genit. e con T ablat. : Ovid. am. U
16, 7. * Cic. p. Rose. Am. 35,
100. diu. in Caeeil 7, 24. in Verr. IV
9, 20. p. Font. Il, 34
/,. Cluent 47, 130. in Caiil. Il 4, 7. p.
Cael 22, 55. in Pis. 22, 53. />. Seaur. 2, 8. FhiL XI 3, 7. de
fin. U 4, 12. Cf. Tac, hist. II 56, 9. ann. I 73,7. VI 7, 6. XV 49, li. y
30 « inferiore, di èotto, basso
» , osservasi nella n. h. II 128 * ille
infernus (s(7. auster) ex imo mari spirat ' ; ^
e prima in Cicerone, Livio, Seneca, Lucano.^ Nella Germ. 43, 23 ^ nullo hostium sustinente nouum ac
uelut infernum adspectùm ', è adoperato nel significato particolare di «
infernale, d'averno », secondo gli ess. che
ci è dato osservare precipuamente negli scritti poetici del tempo d' Augusto. ^ 10.^ * lineus ' : Qerm. 17, 10 ^ feminae
saepius lineis amictibus uelantur \ n,
h. XII 25 ^ uestes lineas faciunt folife
\ XXIX 114 ' lineo panno ' : , 236. ara
am. I 205. ^ 7 Cic. p. SesL 20, 46. de
nat d. Il' 39, 100. Liv. I 4, 6. Cvrt. hist. A. M. IV 9 (38),
J9. * multitudine pìscium fluitante
' : v. 15, 63. 16, 168. 37,
37. Nella Gemi, 17, 3 ' locupletìssimi ueste distinguuatur non fluitante
', è adoperato in traslato, secondo ess.
consimili presentati da Catullo, Ovidio, etc. ^ 2.** ^ labans ' : 6r^r/n. 8, 1 * quasdam
acies inclinatas iam et labantes a
feminis restitutas '. n. h. XXXV 117 '
sunt in eius exemplaribus nobiles palustri accessu uillae, succoUatis sponsione mulieribus
labantes, trepidis quae feruntur '. Conformi sono gli ess. che prima ne avevano dato Cicerone, Virgilio , Orazio ,
etc. ^ Pel significato proprio dell'
agg. ' labans ', v. n. h, XXIV 119 *
labantes dentesflrmant '. XXIX 37 ^ dentibus mire prosunt, etiam labantibus '. * 3.** ^ marcens ' : Germ. 36 , 1 ^ Cherusci
nimiam ac marcentem diu pacem
inlacessiti nutrierunt '. n. h. IX 147 '
alias marcenti similis et iactari se passa fluctu algae uice ', e. q. s. Ess. anteriori si
notano in Orazio, Valerio Massimo,
Seneca. ^ 4.** * auspicatus ' : Germ. 11, 5 ' agendis
rebus hoc auspicatissimum initium
credunt '. n. h. XIII 118 ^ nec
auspicatior in Lesbo insula arbor '. XVI 75 ' comitantur et spina,
nuptiarum facibus auspicatissima '. Nello stesso significato di « prospero, di buono augurio,
iniziato sotto 1 Catvll. 64, 68. OviD. mei. XI 470. ars am. II 433 sg.
Cf. Tac. hist III 27, 12. V 18, 3.
« Cic. p. Mil 25, 68. Verg. Aen. IV 22. XII 223. Hor. carm. III 5, 45. etc. Cf. Tac. hist II 86, 8. ann.
XIV 12, 21. 8 Vero. Aen, lì 463. 4 Hor. sat II 4, 58. Val. Max. f. et d. m, II 6, 3. Sen. ep. XIV l (89), 18. Cf.
IvsTXN. epii. XXXIV 2, 7. auspici
favorevoli » , era stato prima adoperato da
Catullo , Velleio Patercolo, etc. '
Per la forma comparativa ' auspicatius ' con valore avverbiale, v. n. h. 3, 105. 7, 47. 5.'' ' contactus ': Gemi. 10, 13 ^ (equi)
publico aluntur isdem nemoribus ac lucis, candidi et nullo mortali opere
contacti '. Tale uso di ^ contactus ' in senso
t'raslato osservasi prima in Livio, Properzio, Ovidio, Seneca. ^ In più luoghi della n, h. è accolto
in senso proprio: v. 7, 17. 8, 78; 85. 9, 147; 183. 11, 193; 277. 18, 152. 28, 80. 29, 51. 34, 146. 36, 58.
etc. 6.° ' effusus ': Germ. 30, 2 ' non
ita effusis ac palustribus locis, ut ceterae ciuitates '. Dello stesso modo, per indicare
luoghi estesi, vasti, fu usato da Orazio e
Velleio Patercolo. ^ Nella n. h., oltre al conservare il significato proprio di « versato, sparso,
etc. »: v. 4, 101. 6, 71. 8, 14; 161. 9,
102. 16, 2. 20, 90. 22, 145. 29, 50.
etc, il quale significato osservasi prima in Cicerone, Virgilio, Livio ed altri ', passa in traslato
ad indicare profusione, eccesso, esagerazione: III 42 ' Grai, genus in gloriam
suam effusissimum ': v. 7, 94; eciòse J
Catvll. 45,- 26. Vell. Paterc. h. R. II 79, 2. Cf. Qvintil. i. 0, X 1, 85. Col significato più generico
di « inaugurato dopo presi gli auspici »
apparo in Cic. p. Rab. perd. 4, II. Hor.
carm. Ili 6, 10. 2 Liv. II 5, 2.
IV 15, 8. VI 28, 6. XXI 48, 3. etc. Prof. I J, 2. OviD. epist ( her, )
4 , 50. Irist III 4, 78. Sen. Phaedr. 714.
Cf dial, de oraioribus 12, 8. 3 Hor. €p, I 11, 26. Vell. Paterc. A. R. Il
43, 1. 4 Cic. de diu. I 32, 69. Vero,
georg. IV 288; 312; 337. Aen, VI 339;
686. X 893. Liv. I 4, 4. XXX 12, 1. etc.
37 condo gli ess. che ne
avevano dato Cicerone, Nepole, etc.
« 7.** ^ excìsus ': Germ. 33, 3 ^
pulsis Bructeris ac penitus excisis uicinarum consensu nationum '. Prima
la V. * excisus '.era stata riferita non
solo a popoli ed cserciti, ma anche a città, campi, regioni, etc. : ^
nella n. h. si attiene più strettamente
al significato proprio e assume, talora,
un significato pregnante: XXXIII 48 *
caput eius {se. C. Gracchi) excisum '. ^ XXXIII 139 * anaglypta asperìtatemque exciso circa
liniarum picturas quaerimus '. XXXVI 125 ' uias per montes excisas '. Ess. di tale
accezione si osservano in Cicerone,
Virgilio, Ovidio, etc. ^ 8.° '
infectus ': Germ. 4, 1 ' Germaniae populos nullis [aliis] aliarum nationum
conubiis infectos '. n. h. XXX 8 '
infecto, quacumque commeauerant, mundo '. Lo
stesso significato in traslato osservasi in Cicerone, Virgilio, Livio,
Lucano, etc. ^ Nella n. h. appare anche usato nel significato proprio: VI 70 '
tinguntur sole po 1 Cic. p. Rose. Am.
24, 68. p. Cael. 6, 13. de nat. d. I 16 . 42.
Nep. I (Milt.) 6, 2. Cf. Tac. hisL li 45, 11. ann. I 54, 8. « Cic. p. Sesi. 15, 35. in Pis. 40, 96. Cai
m. 6, 18. Hor. carm. Ili 3, 67. Vell.
Patbrc. h. R. Il 115, 2; 122, 2: aggiungiamo
II 120, 3 Jelto secondo l'ed. prìnc. del 1520, che nell' apogp. Amerb.
si legge ' occìsi exercitus ', invece di ' excisl exercitus '. Cf. Tac. hist II 38, 4. ann. XII 39, 9 3 Cosi nei codd. e nella * iiulgata', ma nel
solo cod. Bamberg. e nelle edd Sillig.,
Jan e Mayhoff si legge * abscisum *. 4
Cic in Verr. Ili 50. 119 V 27, 68. Vero. Aen II 481. VI 42. OviD ex Pont. Ili 1, 96. V. inoltre Plin. n.
h. 35, 94; 154. 5 Cic. ad A ti. I 13,
3. Vero. Aen. VI 742. Liv. XL 11,3. Lvcan.
de b. e IV 736. Cf Tac. hi8t I 74, 1. ann. II 2, 7 ; 85, 13. 38
puli, ìam quidem infecti ': i v. inoltre 8, 197. 9, 18. 11, 31; 32; 154. 15, 87. 20, 25. 21, 26. 28,
83; 110. 32, 77. 35, 41. 37, 118. etc.
Ess. precedenti di tale uso si notano in
Virgilio, Properzio, Mela, etc. ^ 9.'' ^ ligatus ': Germ. 39, 7 ^
nemo nisi u inculo ligatus ingreditur '. n. h. IX 103 * breui nodo ligatis ':
v. altresì 11, 255. 17, 115. 18, 261. Nello stesso significato proprio
osservasi ' ligatus ' in Catullo, Ovidio, Seneca, Columella, Lucano. ^ 10.^ * monstratus
': Germ. 31, 11 ' iamque canent insignes et hostibus simul suisque monstrati '.
n. h. XXII 44 ' hacherba dicitur
sanatus, monstrata Perieli somnio a
Minerua ' : v. 8, 182. Lo stesso uso di ^
monstratus ' notasi prima in Virgilio,
Ovidio, Lucano ed altri. ^ 11.^ * nauigatus ': Germ. 34, 5
^ ambìuntque immensos insuper lacus et Romanis classibus nauigatos '. n. h. XXXVI 104 '
urbe pensili subterque nauigata ': v. 6,
72. Un es. consimile si osserva in Mela: ' non nauigata maria transgressus est
'; ^ es. fondato sull'uso del verbo ^
nauigare ' nelle forme passive, ^ in conseguen
i Un concetto consimile, espresso anche col verbo * inflcere ', si nota in Sen. Oed. 122 sg. e Here. [OeQ
337. « Vero. Aen. V 413. VII 341. Prop.
TU 11 ( 18 b ), i (23) Muell. PoMP. Mel.
chor. III 6, 51 (cf. Cabs. b. G. V 14, 2). Vedi Tac. hi8t III 11, 1. 3 Catvll. 2, 13.
OviD. mei. Ili 575 (cf. Liv. V 27, 9). Sen. Med. 742. CoLVM. de r. r. XI 2, p. 591, 23. Lvcan. de b, e. Vili 61. 4 Vbrg. georg. IV 549. Aen. IV 636 : cf.
Aen, IV 483. Ovid. trést III 11, 53. Lvcan. de b. e. Vili 822.
Cf. Tac. Agr. 13, 15. hi8i. I 88, 3. Ili 73, 14. 5
Pompon. Mei*, ehor. II 2, 26. 6 Vedi
SBN. n. q. l\ 2, 22. Pun. n. h. 2, 167. 6, 175. -.89 «.
5Mi deiruso transitivo fattone prima da Cicerone, Virgilio, Ovidio, etc.
» 12.** * publicatus ': Germ. 19, 7 *
publicatae enim pudiciUae nulla uenia ': tale accezione in senso cattivo del part. * publicatus ' dipende dal
significato con cui fu adoperato da
Plauto il verbo * publicare '; - ma nella n. h. * publicatus ' assume il
significato proprio di «pubblicato, reso
pubblico »: XXXIII 17 ^ publicatis
diebus fastis ' : » v. anche 29, 26. 35, 24. 13/ Si noti, in ultimo, ^ impatiens ', che è
forma participiale con la negativa * in- ' premessa. È riferito, in traslato, a cose prive di vita tanto nella
Germ. 5, 4 ' satis ferax (se. terra),
frugiferarum arborum impatiens '- quanto nella n. h. XXXVI 199 ' est autem
caloris inpatiens (se. uitrum) ' : v. 33, 162. 37, 26. Nella n. h. è riferito pure ad animali: v. 8, 28;
167. 10, 170. 23, 67. etc.; ed a piante:
v. 14, 28. 16, 219. 18, 123. 19, 166.
21, 97. etc. Dell' estensione in
traslato del significato di ^ impatiens ' si asservatto ess. anteriori in
Ovidio, Curzio, etc.^ Quanto al
reggimento di ' impatiens ', v. il cap. Ili, C,
II, 3% *. IV. VerU :
1.° ^ absumere ' : Germ. il, 10 ^ sed et alter et tertius dies
cunctatione coéuntium absumitur '. n. h. VI
103 * quia maior pars itineris conficitur noctibus propter » Ctó. de M' '1 34, use. Vbro. Aen. I 67. Ovid. mei, XV 50. « Plavt. Baeeh. S%3 (IV 8, 22). » Cf Vkl. Patbrc. h. R. Il 114, 2. * Ovid. ara am. II 60. C^rt. hiéi. A. M. ì\ 4 kìò), U. aestuus et
statiuis dies absumuntur ' : cf. 5 , 58. 22 , 98. Nello stesso significato , riferito al
concetto di tempo, era apparso prima in
Cicerone, Livio, Ovidio, etc. ^ Nella n.
h. , secondo gli ess. presentati dagli scrittori anteriori,^ appare anche
ristretto al significato proprio : II 45 ^ quem (se. umorem) solis radii
absumant ': V. inoltre 9, 119 ; 121. 28,
267. etc. ; e quanto alla forma passiva 'absumi ', v. 2, 184. 6, 91. 9, 153.
11, 128. 14, 33. 25, 57. 36, 131. etc.
cf. 5, 56. 2.° ^ adfectare ' ; Germ.
37, 24 ' occasione discordiae nostrae et
ciuilium armorum expugnatis legionum hibernis etiam Gallias adfectauere '. n.
h. XXXIV 30 * Sp. Cassius, qui regnum
adfectauerat ' : cf. 34, 15. Con lo
stesso significato concernente l' ordine politico, appare in Sallustio, Velleio Patercolo, etc. ^ Nella
n. h. si attiene anche, come osservasi negli scrittori precedenti, * ad UN SIGNIFICATO PIU GENERALE diligentiam superuacuis adfectare ': v. 7, 8. 17, 84. 22,
69. 25, 73. etc. 1 Cic. p. Quinci.
10, 34. Liv. XXII 49, 9. Ovid. irist IV 10, 114. Cf. Tac. Agr. 21, 1. ann, II 8, 9. « Plavt. Cure. 600 (V 2, 2). most 235 (I 3, 78). Ter. haut 458 (III 1, 49. Phorm. 834 (V 5, 6). Varr. r. r. IH 17, 6. CaTVLL. 64, 242. Vero. Aen. Ili 257. Hor. earm. II
14, 25. ep. I 15, 27. Liv. XXIV 47, 16.
XXX! V 7, 4. Sen. de ben. VII 31, 5. 3
Sall. lug. 66y 1. />. hiat. I in Avgvstin. ciu. Dei III 17, p. 122, 19 ed. Dombart, v. I. Vell. Patbrg. h. R 1139,1. Cf. Tac. Agr. 7, 6. hiat I 23, 2. IV 17, 5 ; 66,
2. 4 Plavt. Baech. 377 (III 1, 10).
Cic. p. Rose. Am. 48. 140. Seript. rhet.
ad Her, IV 22, 30. Nep. XXV ( Att. ) 13, 5. Vero. georg. IV 562. Liv. I 46, 2. XXIV 22, 11.
Ovid. am. Ili 8/51 (1. sospetto per R.
Ehwald, praef., p. XII) ars am. Il 39. ex Pont IV 8, 59. Val.
Max./, et d. m. Vili 7, ext. 1. Cvrt.
hisL A.M. IV 7 (32), 31. Cf. QviNTiL. i.
o. Ili 8, 61. -. 41 3.^ * adiigare * : Oerm, 24, 10 ^ quamuis
ìiiuenìor, quamuis robustior adligari se ac uenire patitur \ n. h. XVI 239 * Argis
elea etiaranum durare dicitur, ad quam
Io in tauram mutatam Argus alligauerit' : v. altresì 12, 45. 16, 176. 17,211. 18, 241; 262; 267.
21, 166. 27, 101. 28, 93; 98. 31, 98.
32, 7; 113. etc. In tale significato era stato accolto da Catone, Cicerone,
Virgilio, Seneca, etc. ^ Nella n. h.
vale eziandio ad indicare, come osservasi in generale negli scritti di Seneca e
Lucano, ^ un effetto di azione chimica concernente i colori : IX 134 ^
(bucinura) pelagio admodum alligatur ' .
XXXII 66 ^ ita colorem alligans, ut elui postea non possit '.
i."" ^ adsignare' : Germ. 13, 7 * insignis nobilitas aut magna patrum merita principis dignationem
etiam adulescentulis adsignant '. n. /i. X 141 ^ quibus {se. auibus) rerum
natura caelum adsignauerat '. Con lo stesso significato proprio di « assegnare
» era stato usato da Cicerone , Orazio ,
Livio , Celso , Columella , etc, ^'
Anche nel senso traslato di « attribuire , ascrivere » notasi nella Oerm. 14, 5 ^ sua quoque fortia
facta gloriae eius adsignare praecipuum sacramentum est ' ; e nella n. h. VII 197 ' cui (se. Soli Oceani
filio) Gellius medicinae quoque
inuentionem ex metallis assignat '. i
Cat. de a. e. 39, 1. Cic. in Verr. IV 42, 90. V28, 71. Tuse. Il 17, 39. Verg. Aen. I 169; cf. georg. IV
480; Aen. VI 439. Sen. dial. K 13, 6. Cf. dial. de oratoribus 13,
15. « Sen. ep. VI 3 (55), 2. Lvcan. de
b. e. IX 527. 3 Cic. Phil II 17, 43. ad
AH. III 19, 3. de r,p. II 20, 36. Hor
ep. II 1, 8. Liv. V 7, 12; 22, 4. XXI 25, 3. XXXIX 19, 4. XLII 33, 6. Cbls. de med. Ili 18, p. 92. 3. Colvm.
de r. r. XII 2, p. 622, 26. Cf. Tag. hist l 30, 19.
XXV 26 ' iauentionem eius ( se. berbae ) Mercurio adsignat ' : di tale uso si hanno ess.
anteriori. * 5.** ' adsimulare ' :
Germ. 9, 7 ^ neque in uUam humani oris speciem adsimulare (se. deos) ex
magnitudine caelestium arbitrantur \ Si
notano in Cicerone, Lucrezio , Virgilio , etc. ^ ess. consimili , nei quali il
verbo ' adsimulare ' è adoperato nel
significato proprio di « assomigliare,
fare qualcosa simile ad un'altra ». Nella
n. h. appare particolarmente usato, come in molti ess. di scrittori anteriori, ^ nel senso di «
simulare, fingere, prender sembianza » :
Vili 106 ^ sermonera bumanum Inter
pastorum stabula adsimulari {se. ab hyaenis) ' : V. inoltre 3, 43. 9, 10; 34; 113. 37, 179.
etc. 6.° ^ ambiri ' : Germ. 17 , 17 '
qui non libidine , sed ob nobilitatem
pluribus nuptiis ambiuntur '. n. h. XVII
266 ^ eontra urucas ambiri arbores singulas a muliere incitati mensis ' e. q. s.: v., oltre 1' es.
cit. , 2, 80. 14, 11. 19, 60. 37, 203.
L' espressione che notasi nel 1. e. «
CiG. Bruì. 19, 74. in Verr. V 50 , 131. p. Rab. P09L 10 , 21. ad Q. fr. 14, 1. de fin. V 16, 44. de r. p.
VI 15, 15: cf. ep. (adfam.) X 18, 2.
Vbll. Patbrc. A. R. II 38, 6. Vedi pjr altri
ess. sull'uso del v. * adsignare ' : n. h. 2, 23; 104. 15,65. 18,
64. 19, 50. 25, 60. 28, 33. 29, 2. etc.
quanto alle forme dell'attivo; e per le
forme del passivo: 18, 18. 22, 44. 24, 2. 25, 34 ; 87. etc.
« Cxc. de inu. rhet I 28, 42. in Verr. II 77, 189. Lvgr. de r. n. II 914. Vbrg. Aen. XII 224. Cf. Tac. Agr. 10, 11. 3 Plavt. eiBt 96 ( I 1, 98 ). Epid. 195
(\\2, 11 ). mil. gì 792 (HI 1, 197).
Poen. 599-600 (IH 2, 22 sg.). Stick. 84 (I 2, 27 J. Ter. Andr. 168 ( I 1,
141). haut. 888 (V 1, 15). eim. 461 (III 2, 8 ). Phorm. 128 (I 2, 78) ; 210 (I 4, 32^. Trag.
ine. fr. 0. 3, io Cic. de off. Ili 26, 98. Cig. p. Cluent. 13, 36. p.
CaeL 6, 14. de r. p. I 21, 34. Vbrg. Aen. X 639. Ovid. mei. XIV 656. etc. ^ 48 «
della Germ. pigliò, probabilmente, le mosse dalla frase virgiliana ^ conubiis ambire Latinum \ ' 7.° * animaduertere ' : Germ. 7, 4 * neque
animaduer* tere neque uincire, ne
uerberare quidem nisì sacerdo* ti bus
permìssum '. n. h. Vili 145 ^ cum animaduerteretur ex causa Neronis Germanici fili in Titium
Sabinum et seruitia eius '. Lo stesso
significato di « dannare a morte »
presenta per eufemismo il verbo ^ animaduertere ' in Cicerone e Livio. ^ 8.** ' animare ' : Germ. 29, 13 ^ ipso adbuc
terrae suae solo et caelo acrius
animantur '. Uguale significato del
verbo * animare ' (=« dotare d'un temperamento, preparare l'animo»),
derivato dal tema della v. ^animus',
appare prima in Plauto e Cicerone. ^ Nella n. h, * animare ' presenta il
significato che si fonda sul tema della
V. * anima ', cioè € dar la vita , vivificare , far vivo » : ^ VII 66 * tempore ipso animatur
{se. semen) ': V. anche 10, 184 ; e per
le forme del participio : 2, 155. 5, 44. 7, 1. 11, 77. 18, 4. 23, 83. etc. 9.^ * ascendere ' : Germ. 25 , 11 Mbi enim
et super ingenuos et super nobiles
ascendunt '. Con lo stesso significato e del medesimo modo
costruito con ' super ' e Tace, il v. ^
ascendere ' era stato adoperato prima da
1 Verg. Aen. VII 333: v. Drabger, ueber
Synt a. S*. d. Tae. «, p. 128. Cf. Tac.
hi8t. IV 51, 6. 2 CiG. p. Cluent, 46,
128 : cf. p. Rose. Am. 47, 137. in Verr. I
33, 83. m Caiil. I 12, 30. p. Mil 26, 71. V. inoUre Liv. XXIV 14, 7; e et Tac. hisL I 46, 26; 68, 16; 85 ,
3. IV 49, 26. Svbtqn. Aug. 15, 1. 3 Plavt. Men. 203 (I 3, 20). Cic. de diu. II 42, 89. ^ Tale
significato si osserva ifi più 11. degli scrittori anteriori: Enn. ann. I fr. 59, ia PLM. voi. VI, p. 69,
ed. Baehrens. Pagvv. irag. 91 (citato da
Cic. de diu, I 57, 131). Cic. top. 18, 69. de Velleìo Patercolo. ^ La forma del
passivo, secondo gli ess. precedenti di
Cesare , Vitruvio, Properzio, Velleio
Patercolo,- è pneferita nella n. h, XXXVI 88 ' portìcusque ascenduntur nonagenis gradibus ' ; ^ ma non è
esclusa la forma attiva: IX 10 ^
ascendere eum nauigia nocturnis
temporibus ' ; cf. 35, 59. 10.°
^ augurari ': Germ. 3, 4 ' futuraeque pugnae
fortunam ipso cantu augurantur '. n, h. XVIII 225 ' ex occasu eius ( se. sideris ) de hieme
augurantur quibus est cura insidiandi,
negotiatores auari • : v. inoltre 6,
192. 10, 154. Accolto similmente in traslato e col significato generico
di « profetizzare, predire », osservasi
in Cicerone, Ovidio ed altri. *
11.° ' canore ' (con la penult. lunga) : Germ. 31, 11 ^ iamque canent insignes et hostibus simul
suisque monstrati \^ Con un significato più ampio, a dinotare « es nat d, I 39, 110. de r. p. VI 15, 15. Lvcr.
de r. n. V 145. Ovid. mei. IV 619. XIV
566. Colvm. de r. r. VI 36, p. 492, 17. Vili 5,
p. 527, 20 e p. 528, JO. Scribon.
Larg. conpos. 70, p. 29, 32; 95, p. 40,
26 ed. Helmreich. J Vell. Patbrc. a. R.
II 53, 3. Nei deal, de oraioribus 7, 9 é preferito ' supra ' con 1* acc. Cicerone
lascia V acc. semplice : p. Font. 1, 4.
p, Cluent. 55, 150. p, Mur. 27, 55. de diu. I 28, 58. de off, li 18 , 62 ; ovvero T accompagna con
la prep. * in ' : p. Cluent 40, HO. p.
Sulla 2, 5. de dom. 8. 28 , 75. p. Mèi 35, 97.
PhiL III 8, 20. de fin. Il 22,
74. Tusc. I 46, IH. Cai. m. 10, 34. Lael 23, 88. « Caes. b. e. I 79,
2. ViTRvv. de areh. Ili 4 (3) Pkop. V 3,
63. Vell. Paterc. h. R. il 53, 3.
8 Neil' ed. Jan 1. e, voi. V, p. 121, 15, e nell'ed. Maylnff, voi. V, p. 339, 6 si legge * descenduntur ', invece
di * ascenduntur *. Si noti la frase *
gradibus ascen Jere ' in Cic de fin. V 14, 40.
4 Cic. Tuse. I 40, 96. Ovid. mei. III 519. Cf. Tao. hisL I 50, 20. 5 Un che di simile notasi in Vero. Aen. V
416. 45 sere di color chiaro, biancheggiare »,
notasi nella n. h. XVIII 65 '
fortunalara Italiam frumento canere candido ' : ' ess. poetici di tale uso
erano stati presentati da Virgilio,
Ovidio, Silio Italico. ^ 12.*' ' cedere
' : Germ. 36, 7 ' Chattis uictoribus fortuna in sapientiam cessit'. n. h. XXIII
41 ' in prouerbium cessit sapientiam
uino obumbrari '. XVIII 110 * in bonura cedit '. XXXV 91 ' cessit in gloriam
artiflcis '. Analoghi ess. si notano in Virgilio , Livio , Curzio , etc. '^ Per altri usi del v. * cedere ',
notati nella Germ. e nella n. h.y si
osservano ess. negli scrittori precedenti. *
IS.'' ^ eludere ' : Germ. 45, 22 ' terrena quaedam atque etiam uolucria
animalia plerumque interlucent , quae
implicata umóre mox durescente materia cluduntur '. w. h. latera cluduntur tabulis
' : v. inoltre 18, 330. 33, 25. Il verbo
^ eludere ' per ' clau 1 Cosi leggiamo
secoDdo 1* ed. di Gelenio e il cod. Paris. 6795. II Detlefsen ed il Mayhoff sostitui?cono a *
canere ' il v. * serere *, poggiandosi sur un* emendazioQe di seconda mano
fatta nel cod. Vatic. 3861 ; ma in d^
cod. , come nei due codd. Pariss. 67U6, 6797 e nel Leid. si legge * carere *.
Si potrebbe anche addurre per es. il 1. 17, 34, letto secondo Ted. Jan. 2 Vero, georg. II 13; 120. llf 325. etc.
Ovid. met I \\0: fast, III 880. SiL.
1t. Pan. I 205. XIV 362. Cic. preferi la formi incoativa 'canescere*: Brut 2, 8
(òf. Qvintil. L o XI 1, 31). de legibus
I 1, 1; la quale forma incoativa fu anche gradita a Plin. n. h. 7, 23. 17, 34 (letto secondo la *
uulg.' e V ed. Mayhoff). 20, 262. 30, 134. 31, 106. 35, 186. 3 Vero. Aen. VII 636, Liv. VI 34, 2. Cvrt.
hisi. A. M. Ili 6 (16), 18. Cf. Germ,
14, 15. 4 Cosi per Germ. 6, 20 * cedere
loco *: cf. Nep. XI I (Chabr.) 1. 2.
Liv. II 47, 3. Ili 63, 1; per n. h. 33, 59 e 35, 80; cf. Cic. de nai. d. II 61, 153. Cabs. 6. e. Il 6, 3. Ovip. met
VI 207. 46 dere ' * è proprio della lingua popolare ;
osservasi anche in alcuni scrittori anteriori all' età di Plinio. ^ 14.° ' cohibere ' : 6r^rm. 9, 7 ' nec
cohibere parietibus deos ex magnitudine
caelestium arbitrantur '. Lo stesso
significato proprio presenta il v. ' cohibere ' nella ». h. 24, 6. 27, 93. 28, 61; 62. 29, 39; 49.
36, 29. etc; quale prima era stato usato
da Plauto, Cicerone, Orazio, Ovidio, Celso, Curzio, etc. ^ 15.° ' commìgrare ' : Germ. 27, 11 ^ quae
nationes e Germania in Gallias
commigrauerint '. n. h. XXXV 135 '
captoque Perseo rege Athenas commigrauit ( se.
Heraclides Macedo pictor) '. Lo stesso significato del v. ^ commigrare ' si osserva in Plauto,
Cicerone, Livio, etc. ^ 1 Nei framm.
cho ci restano degli otto libri c^uò. serm, di Plinio , si conserva costante la
forma * claudere * : II e, p. 15, 7. II
A, p. 19, 15, XV p. 55, 22 ed. Beck. 8
Varr. r. r. HI 3, 5. Scribon. Laro, eonpoa. 42 , secondo la ' ed. princ. Ruellii * (neired. Helmreìch p.
21, 8, Lps. 1887, sì legge ' ducenda ', invece di * cludeada ', conforme al
cod; Laudan. eoncordato col testo di
Marcello, edito dal Cornario). Lvcan. de
h, e. Vili 59 (ma si legge * clausit * nei codd. Vossian. XIX e Bruxell. 5330).
Sil. It. Pun. XV 652. Cf. Tac. hist. I 33,
7. [dial. de omioribus 30, 28]. In uni.
di Cic. de nat d. II 39, 100 il Baiter
legge ' cludit ' la v. * eludit ' data dai codd., che altri, p. es. Heind., Schoem., C. F. W. Mueller,
leggono * alludit '. 8 Plavt. mil gì
596 (III 1, 1). Cic. p. Casi 5, 11. de nat, d.
II 13, 35. de fai 9, 19. Qat
m. 15, 51. Script h. Afr^ 98, 2. Hor.
earm. I 28, 2. Ili 4, 80; 14, 22. IV 6, 34. 8at II 4, 14. ep. II 1, 255.
OviD. mei. XIV 224. Cels. de med. VIII 4, p. 314,7. Cvrt. hist. A. M. VI 2
(5), 11. X 3 (12), 6. 4 Plavt. eisi 177
(I 3, 29;, irin. 1084 (IV 3, 77>. Cic. ad Q.
fr. II 3, 7. Liv. I 34, 1. XLI 8, 7. Ommettiamodi citare Ter. adelph. 649
( IV 5, 15 ;, perché nel cod. Bemb. ( Vatic. 3226 ) si legge * migrarant' : negli altri codd, ' co
mmlgrarunt '* ^ 47 16."* ' continuare ' ; con significato
indicante spazio e in forma passiva
mediale, si nota nella Germ. 44, 20 '
Suiontbus Sìtonum gentes continuantur ' : così in Cicerone. * Nella n. h.
presentasi anche nella forma passiva e
riferito al tempo: VI 220 * dies conti uuaren tur... noctesque per uices '. XVII 13 ' si plures ita continuentiir anni ' : cf.
10, 94. 11, 103; ma talora presentasi nelle forme
delPattivo: XIV 145 * biduo duabusque
noeti bus perpotationem continuasset '. XVII 233 ^ si post brumam continuauere XL diebus ' : ^ ef.
3, 101. 16, 100. 18, 362. 20, 35. 30,
60. 17.* ' emergere ' : Germ. 45 , 4 '
sonum insuper emergentis (se. solis ) audiri.... persuasio adicit '. n. h. II 58 ' amplior errantium stellarum quam
lunae magnitudo colligitur, quando illae et a septenis interdum partibus emergant ' : v. 2, 100; 179. Del v.
' emergere * riferito al levar degli
astri si notano altri ess. in Cicerone e Livio. ^ Nella n. h. appare, inoltre,
nel significato proprio di « venir su, venire a galla >: XIII 109 ^- ad exorlus solis emergere extra aquam ac
florem V Cic. de nut. d. I 20, 54 II
45, 117. * CdQsitnile accezione notasi
ia Gic. Ta9e. II 17, 39. Hoa 9at. II 6,
108. OviD ex Pont I 2, 26. Cf. Tag. a/i/i. XVI 5, 10. 3 É mesatta V effefoiazione del Gboroes,
ausfuhrL Hnndwb,^ If, e. 2240, rrpeiuta
nel Z>«fio/i. Gborgbs-Calonghf, Torino 1896,
e. 924, che a Plinio e Tacito si debba Festensione del significato del V. ' emergere * • vom Aufgang der Sonne
und der Gestirne » ; poiché tale estensione si osserva prima in Cic de nat
di. Il 44, 113 "^ut sese ostendens
emorgit Scorpios alte* (ò trad. d* UQ'
passo del carme di A^ato) ; e in Liv. XLIV 37 9 , 6 ; 3 (12), 12. 3
CiG. in Verr. IV 41, 88. Ovid. mei. IH 448.
4 CiG. de leg. agr. II 32, 87. de fln, IV 15, 40. Liv. XLII 55, 10, secondo Ted. Weissenborn, Lps. 1887:
nell'ed. Weissenborn, Beri. "Weidmann 1876, si legge * speratus *, iavece di ' separalus
erat*. 5 V. per gli ess. di autori
anteriori i 11. citati nel Lex. Forcbllini-Db ViT, t. V, p. 453, e neWausfùhrl
i/anrfeo6. del Georges, II, e. 2338. Cf. Tac. Agr. 31, 21. In Tacito inoltre il
v. * se pcDere* APPARE USATO NEL SENSO DI « aljontaoare, relegare, spargere ' :
Oerm. 17, 7 * eligunt feras et detracia uelamina spargunt maculis pellibusque
beluarum ' : in senso traslato consimile era stato adoperato da Virgilio ; ^ e, riferito ad irradiazioni
luminose, si nota, oltreché in Virgilio
e Ovidio, ^ e nei contemporanei di Plinio,'^ anche nella n. h. XXXVII 181 *
solis gemma candida est , ad speciem sideris in orbem fulgentis spargens radios '. Appare eziandio
nella n. h. in senso traslato, per
significare « aspergere , inumidire », secondo gli ess. anteriori di Virgilio e
Orazio : * XIII 132 ' si semine, madidum
aut , si desint imbres, satum spargitur
' ; ma nello stesso tempo vi è accolto
col significato proprio : ^ IV 101 ' ( Rhenus ) ab occidente in amnem
Mosam se spargit.' : v. 11, 123. 12, 42.
16, 141. 24, 178. etc. ; ovvero in senso pregn.: XXI 45 ' genera enim tractamus in species multas
sese spargentia '. 49.° ' superesse ' :
Germ, 6, 1 ^ ne ferrum quidem superest
'. 26, 5 ' arua per annos mutant, et superest
ager '. n. h. XVI 224 ' pinus, piceae, alni ad aquarum ductus in tubos cauantur ;, mirum in modum
for tiores, si umor extra quoque supersit ' : cf. 25, 14. 34, 36. Terenzio e Cicerone avevano prima usato
il v. * su liandire »: hisL I 10, 5
(secondo i'emend. dell' Acidalio) ; 13, 17;
46, U] 88, 1. II 33, 9. ann. Ili 12, 8.
1 Vbrg. bue. 2, 41. Aen. VII 191.
« Verg. Aen. IV 584. XII
113. Ovid. met. XI 309. 8 SBN. Med. 74.
Petron. sai. 22, p. 74, l. Sil. It. Pan. V 56. * Vero, georg. IV 229. Hor. earm. II 6,
23. 5 Dello stesso modo in Vjprg. Aen. II 98. Hor. mì II 5, 103. LvcAj?. de b. e. Ili 64. etc. Cf. Tao. hisL peresse ' nello stesso significato di « abbondare,
ridondare ». ^ 50.** * triumpbare ' :
Germ. 37, 26 * rursus inde pulsi
proximis temporibus triumpbati magis quam uicti sunt'. ». /i. V 36 * omnia armis Romanis superata et
a Cornelio Balbo triumphata \ V uso del v. ' triumpbare ' nelle forme personali del passivo appare per
la prima volta nella poesia dell' età
augustea : ^ Cicerone aveva soltanto
adoperato come v. impersonale il passivo
dell' intrans. * triumpbare '. ^
V. Avverbi : 1.° * aliquanto ', forma ablativale in
funzione di avverbio: Germ. 5, 1 * terra etsi aliquanto * specie differt
'. 1 Ter. Phorm. 69 (I 2, 19> 162 (I
3, 10;: nel l* ed. Fleckeìsen ò accolta
la grafia ' super erat, super est *. Cic de or, II 25, 108. in Verr. a.
pr. 4, 13. ep. (ad fam.) XIII 63, 2 de dia. I 52, 118. II 15, 35. Cf. Tag. Agr, 44, 5. 45, 23.
hist I 51, 9; 83, 10. an/i. I 67, 7. XIV
54, 12. « Vbrg. georg. III 33. Aen. VI
836. Hor. earm. Ili 3, 43. Ovid. am. I
15, 26. fast. Ili 732. Cf. Tac. ann. XII 19, 10. 5 Cic. de off.
II 8, 28. Dopo Cicerone, se ne valse Liv. III 63, ll.XLV 38,2.
•* Ad * aliquanto ', dato nel 1. e della Germ. dai codd. ', tranne il
Bamberg. (B del Massmann) che presenta ' aliquando ', TErnesti sostituisce 'aliquantum '; e il
Halm, che nella 2.* ed. delle opp. di
Tac. (Lps. 1871, voi. II, p. 194) aveva accolto
senza alcuna esitazione * aliquanto ', nella 4.» (Lps. 1883, voi. II, p. 222) dubitò che si dovesse sostituire
con 'aliquantutn \ e confortò il dubbio
con la frase dell' Agr. 24, 9 ' haud m u 1turo a Britannia differunt*. Il
Ramorino (Cora. Taciti opera quae
supersunt, Milano 1893, voi. Il, p. 210) contrappone, in sostegno di 'aliquanto*, il 1. di Plin. n. h.
XXXV 80 'quanto quid a quoque distare
deberef: e Tosservazione di lui ò ripetuta da Io. Mueller, ed, e. , p. 6. n. h. XXXV 56 ^ eosque, qui
monochromatis pinxerint.... aliquanto ante fuisse '.^ Nella n. h, la v. ' alìquaato ' si accompagna anche coi comparativi : V 3 * e
uicino tractii aliquanto excelsiore '.
XXI 27 * folio aliquanto altiore ' : se
ne notano ess. precedenti in Plauto, Cicerone, Nepote, Sallustio e Livio.
* 2.° * ceterum ' : è assunto in più funzioni
: a) per riprendere il discorso
interrotto da una digressione : Germ. 3, 9 ' ceterum et Vlixen quidam opinantur
' e. q. s. n. h. V 149 ' ceterum intus in Bithynia colonia Apamena ' e. q. s. : cf. 2, 30.
^ h) per significare quasi la stessa
opposizione indicata da ' sed ', in
principio di una frase: Germ. 2, 19 * ce
1 Un altro es. da addarsi sarebbe presentato dal 1. della n. h, XXXV 134 * et aliquanto praefertur
Athenion ' ; cosi letto secondo i codd. Riccard., Paris. 6797 e Paris. 6801: il
Jan, voi. V, p. 91, 26 ed il Mayhoff,
voi. V, p. 278, 6, vi sostituiscono * aliquando '. Analoga costruzione della v. ^ aliquanto '
coi verbi osservasi in Cic. de inu. rhet
II 51, 154. p. Quinci, 12 , 40. p. Rose.
Ara. 45, 130. in Verr. Ili 17, 44. IV 39, 85; 63, 141. p. Caeein. 4, 11. in Cam. Ili 5, 11. p. Sull. 20 , 56. de
dom. s. 23 , 59. 38, 102. p. Sest. 35,
75. in Vatin. 10, 25. ep. (ad fam.) IX 26, 4 de
r. p. VI 9 (1), 9. de legibus II 26, 64. de off. I 23, 81. etc. « Plavt. aul 539 (III 6, 3). Epid. 380 (III
2, 44). Cic. p. Rose. Am. 2, 7. 9, 26. diu. in Caecil. 5, 18. 15, 48. in Verr. I 1, 2; 27, 70; 54, 140. II 1, 1. Ili 38, 87; 43, 102;
47, 113; 63, 148; 64, 150; 57, 131 ; 92,
214. IV 34, 76. de leg. agr. II 2, 3. p. Rabir. perd. 3, 8. de har. resp. 22, 47. p. Cael. 3, 7.
aead. pr. II 29, 93. de fin. IV 3, 7 V
2, 4. Tuse. II 27, 6, e poi qualsiasi
segno divinatorio o presagio in generale, passò a significare la ^ consecratio
\ come nel 1. e. della Germ. S."" ^ intumescere ' : notasi in
più 11. delle poesie di Ovidio, accolto
in senso proprio ed in traslato; ^ di
preferenza fu usato neir età postaugustea : Oerm. 3, 8 ' obiectis ad os scutis , quo plenior et
grauior uox reperoussu intumescat'. n.
Ti. II 196 'sine flatu intumescente fluetu subito': v. inoltre 2, 198; 217;
232. 6, 128. 18, 359. etc. ^ Quanto all'
uso del v. ' intumescere' in senso proprio, v. n. h. 2,233. 8,85. 11, 179. 13, 124 14, 82. 17, 145. 20, 51. 21, 151. 22,
136. 23, 163. 28, 218; 242. 30, 38. etc. 1 Cia in Fallii. 10, 24 ' indicem in
rostris , in ilio, io^uam augurato
tempio ac loco conlocaris ' ed. C. F. W. Mu^ller. « Ovio. fast l 215. II 607. VI 700. ex Pont
IV 14, 34. etc. 9 Id senso trasl.
l'usarono pure Colvm. de r. r. 14, p. 318,
29. Tac. ann. I 38,5: cf. hist. Considerianoo ora quelle espressioni
che, sebbene usate dagli scrittori anteriori, presentano nella Germ. e nella n.
h.y come in altri scritti del primo secolo d.
Cr., UN SIGNIFICATO [non SENSO – H. P. Grice] NUOVO. Sostantivi.blandimentum
' : fu adoperato al plur., secondo r
accezione classica , nelle sgg. frasi pliniane : n. h. VII 71 ^ fortunae blandimenta poUicentur '. XXVI 14 * alia quoque blandimenta excogitabat '. Significò « cura assidua » in un
1. della n. h. XVII 98 * hoc blandimento inpetratis radicibus Inter poma ipsa
et cacumina ' ; d' altro canto, valse, per estensione, ad indicare « leccornie, ghiottornie », facendosi
sinonimo di ' condimentum ' : v. Germ. 23, 4 ' sine blandimentis expellunt
famem '. Questo ultimo significato notasi in un 1. del sat. di Petronio. * 2.**
' meatus ' : Germ. 1, 10 ' donec in Ponticum mare sex meati bus erumpat '. n. h. IV 75 *
angusto meatu inrumpit in terras ' : v. 5,
3. 16, 184. etc. ; e cf. 19 , 85. 22, 117. 28, 197. Nello stesso
significato metonimico di « via, corso », la v. ' meatus ' fu accolta dagli scrittori del tempo di Plinio. ^ Ma, per
significare moto, la V. ' meatus ' fu
usata da scrittori anteriori ^ e da 1
Petron. bcU. 141, p. 665, 12 ' aliqua inueniemus blandimenta, quibus saporem
mutemiis '. « Val. Flacg. Ar^on. Ili 403. Cf. Tag. ann.
XIV 51, 4. 8 LvcR. de r. n. I 128. Verg. Aen. VI 849. Sil. It. Pan. XII
102. etc. 73 Plinio stesso: n. ft. X 1 1 1 * aues solae
uario meatu feruntur et in terra et in aere ' ; v. inoltre: 6, 83. 9, 95. 11,
264. etc. II. Verbi :
1." ' firmare ' : Germ. 39, 2 ' fides antiquitatis religione
flrmatur '. Con lo stesso significato in traslato , riferito a cose religiose, appare prima in un
carme cit. da Cicerone e nei carmi di
Virgilio. * Nella n. h.y oltre al
presentare in più 11. il significato di « fermare, rassodare, rinforzare » : v.
10, 94. 17, 206; 212. 18, 47. 20, 212.
35, 182. etc, (il quale significato osservasi prima in Cicerone, Virgilio,
Livio , Curzio , Columella ^) , si attiene , come si ha es. da Celso in poi ,
=^ ad argomenti di medicina: v. n. h.
14, 117. 21, 180. 24, 119. etc. 2." ^ imputare ' : apparve nella
latinità dell' evo augusteo, col significato in traslato di « attribuire come colpa, imputare »: * uso continuato poi da
Valerio Massimo , Seneca , Plinio Secondo , e indi da Quintiliano, 1 CiG. de dia, 1 47, 106 'sic aquilae
clarum fìrmault luppiter omen '. Verg. Aen, II 691. XII 188: cf. XI 330. « Cic. Tuse. II 15, 36. Verg. geonj. Ili 209. Aen. HI 659. Liv. XXVII
13, 13. CVRT. hisL A. M. IV 9 (38), 18. IX 10 (41), 18 CoLVM. de r. r. VI 27, p. 486, 38. Cf. Tag.
ann, IV 73, 7. 3 Cels. de med. Vili 7,
p. 320, 5.. La frase * f. aluum solutam *,
che il Georges, ausfiXhrL Handwb,^ I, e. 2572 , attribuisce a Celso, appartiene invece a Plinio: v. n h,
XIV 117 * est centra Lycia (8C. uua)
quae solutam ( se. aluum ) firmat *. La fra^^e
genuina di Cels. de med. I 3, p. 20, 3 è la sg. : * aluum firmare is,
cui fusa. * * OviD. episL {her.) 6,
102. mei. II 400. XV 470. Vedi Krebs
-Sghmalz, aniib. I, p. 640. T4Tacito e altri. MI v. ' imputare ' fu
aftche adoperato oell' età postclassica
in senso traslato , per significare «
ascrivere a merito, attribuire come merito »: Germ. 21, 15'gaudent muneribus, sed nec data
imputant nec acceptis obiigantur '. n.
h. Vili 60 ' ut facile appareret gratiam
referre et nihil inuicem iuputare '. Lo stesso
significato notasi in Seneca padre, Fedro, Seneca figlio, etc. ^ Assume anche nella n. h. il
significato semplice di « assegnare,
indicare »: XXIV 5 ' ulcerique paruo
medicina a Rubro mari inputatur '.
3."* * prouocare ' : Oerm. 35, 9 * quieti secretique nulla prouocant bella '. n. h. XXXIII 4 ' didicit
homo naturam prouocare': v. 6, 208. 19, 5. Con significato consimile si nota in
Cicerone , Livio , Velleio Patercolo ,
Lucano, etc. ^ Plinio usò pure in traslato il v. ' prouocare ' : n. h.
XVI 32 ^ omnes tamen has eiusf'sc. roboris)
dotes ilex solo prouocat cocco ' : v. 9, 66. 35, 94; e cf. 21, 4: tale uso fu continuato da Quintiliano,
Tacito, Plinio il giovane, Suetonio,
etc. ^ 4.'' ' submittere ': nel
significato di : VII 112 ' fasces litterarum ianuae submisit is cui se oriens occidensque submiserat ': v. 8,
3. 10, 132. 11, 260. etc. ; ^ quanto nel
SENSO TRASLATO neque enim pudor , sed aemuli pretia summittunt. Avverbi. 1.** ^ adhuc ': Germ. 19, 10 ' melius quidem
adhuc eae ciuitates, in quibus tantum
uirgines nubunt. ' n. h. XVIII 24 *
quandoquidem qui adhuc diligentius ea
tractauere ' e. q. s. L' avv. ' adhuc ', usato per particella
rinforzativa col comparativo, invece della v. 'etiam' preferita nel periodo aureo della lingua
latina, appare nella latinità argentea.
^ È anche postclassico l' uso di i
SBN. dial XI 17, 5. ep, XIX 5 (114), 21. Plin. episL VII 27, 14. SVBTON. din, lui. 67, 12. 2 Cosi in Liv. II 7, 7. XLV 7, 5. Ovid.
fast. Ili 372. 5 Lteato in trasl.,
appare prima in Cic. diu. in Caeeil 15, 48.
p. Piane. 10, 24. Vbrg. Aen. IV 414. XII 832. Liv. VI 6, 7. Ovid. epist (her) 4, 151. Sbn. de ben. V 3, 2. ep.
VII 4 {66) y 6. XIV 4 (92), 2. * SBN. ep. V 9 (49;, 3. Qvintil. e. o. I 5,
22. II 15, 28 e 29. X 1, 99. SvBTON.
Tib. 17, 1. Vedi Goblzer, grammatieae in Sul-pieium Seuerum obaeruaiionea. Par.
1883, pp. 92-93. L'es. apparentemente simile, ma in realtà diverso* di uà 1. di
Celio in CiG. ep. (adfam.) Vili 7, 1 '
eo magia, quo adhuc feliciua rem
gessìsti *, è ben chiarito neir antib. Krbbs-Schmalz , I, p. 87. et Hand, Turs. adhuc ', invece di ' praeterea
', nei segg. 11. Germ. 10, 9 ^ sin
permissum, auspiciorum adhuc fldes exigitur. '
n. h. XXXIII 37 ' sunt adhuc aliquae non omittendae in auro diflferentiae '. ^ Notasi inoltre '
adhuc ' nella n. h. col valore di '
hactenus ' : XXXVII 27 ' magnitudo amplissima adhuc uisa nobis erat ' e. q. s.
; ^ e nella Germ. in sostituzione delle
espressioni classiche ' tum ', ' etiam
tum ', ' tum etiam ', etc. : ^ 28 , 5 ^ occuparet permutaretque sedes
promiscuas adhuc et nulla regnorum
potentia diuisas '. * 2.*" '
clementer ' : Germ. 1^ 8 * Danuuius molli et clementer edito mentis Abnobae
iugo effusus '. Prevalse neir età
argentea della lingua latina 1' uso di riferire
' clementer ' a luoghi : ^ Plinio lo riferi ad animali, e, trattando dell' addomesticamento degli
elefanti , osservò: n. h. Vili 25 ' argumentum erat ramus homine porrigente clementer acceptus (se. ab
elephante) '. ^ 3.° ' hodieque ' :
Germ. 3, 12 ' quod (se. Asciburgium) in
ripa Rheni situm hodieque incolitur '. n. h. Ili 124 ' Nouaria ex Vertamacoris, Vocontiorum
hodieque pa 1 V. ess. consimili in Sbn.
n. q. IV 8. Qvintil. i. o. 11 21, 6. 2
Per la differenza tra ' adhuc ' e * hactenus ' v. Ha.nd, Turs. IH pp. 4-14. Krebs-Schmalz, antib. I, p. 587
sg. Cocghca, sint lai. § 85, XII, p. 199. 3 Gandino, sint lai. I, es. 71, n. 3, p 120.
II, es. 150, n. 4, p. 97. 4 Cf. Tao. Agr, 16, 24. 37, 1. hist I 10, 1 ; 47, 8. ann, I, 5 13; 48, 2; 59, 11. II 46, 8. IV 56, 8. XI 23, 9.
etc: nei quali 11. la v. ' adhuc ' ò
riferita ad un* azione passata. 5
CoLVM. de r. r. II 2, p. 332, 19. Sen. Oed, 281. SiL. It. Pun. I
274, Cf. Tac. hist III 52, 2. ann. XII 33, 8. XIII
38, 13. fi Cf. Gell. n. A. V 14, 12: vi
si menziona il racconto di Apion Plistonlces intorno al leone di Androclo. go,
(se. orla est) ' : v. inoltre 2, 150. 8, 176. 16, 10 ; 15. 18, 65. 30, 2; 13. 36, 189. etc. L'uso di '
hodieque ' nel significato delle
espressioni classiche ' hodie quoque', '
etiam hodie ', o semplicemente ' hodie ', ^ si comincia ad osservare negli scritti della età
postaugustea, alcuni dei quali anteriori alla Germ. od alla n. h. ^ D
L' uso delle voci, delle quali si tratta nella presente sezione, apparisce tanto nella Gerani, e
nella n. h,^ quanto negli scritti, a noi
pervenuti, del V sec. d. Cr. : negli
scritti anteriori non si osserva traccia alcuna di tali voci, I.
Sostantivi : 1.^ ' adfectatio '
: Germ. 28, 15 ' Treueri et Neruii circa
adfectationem Germanicae originis ultro ambitiosi sunt '. 3 n. h. XI 154 ' tanta est decoris
adfectatio ut tin 1 Vedi Krebs-Schmalz,
aniìb. I, p. 597. Gandino, sint lai. II, es. 150, D. 4, p. 97. Cocchia, sint lai. §
137, rZ, p. 305. « Vell. Paterc. h. R.
I 4, e e 3. II 8, 3; 25, 4; 27, 5. Val. Max.
f. ei d. m. Vili 15, 1. Sen. consultum Claudianum de iure honorum Gallis
dando ( tav. di Lyon ) , col. Il, 12 : vedi Dessau, insertpi. Lai., voi I, Beri. 1892, p. 53.
Sen. de clem. 1 10, 2 (ma nel cod Leid.
suppl. 459 [Lips. 49] si accoglie la lez. * hodie '). n. q. I proL, 3. ep. XIV 2 c90), 16 ; 25 ;
33. Cf. Qvintil. i. o. X 1, 94. dial. de
oraioribus 34, 37, secondo i codd. Vatic. 1518 e Farnes. : il Halm vi accolse la lez. * hodie
quoque '. 3 II FiNCK ( Tao. Germ.
erìàuleri, Gòttingeii 1857 , p. 227 ), il
Kritz (op. e, p. 43) ed altri, valendosi della lez. presentata dai codd. Vatic. 1862 , Vatic. 2964, Leid. ,
Venet. , leggono * nulla affectatione
animi' nel I. della Germ. 5, 19, dove gli altri codd. danno * offcciir De '. Quanto al I. sopra
cih "della Germ 28, 78 giiantur oculi quoque '. XXXIV 6 * circa id
multorum adfectatio furit '. Appare con
lo stesso significato in Seneca, Tacito,
Suetonio: ^ l'assumono in senso retorico
Quintiliano e Io stesso Suetonio. ^
2.** ^ boraicidium ' : Germ. 21, 3 ' luitur enira etiam homicidium certo armentorura ac pecorura
nunaero '. n. h. XVIII 12 ' suspensumque
Cereri necari iubebant grauius quam in
homicidio conuictum '. Della v. * homicidium ', invece della v. classica '
caedes ', si valsero anche Seneca padre,
Petronio, Quintiliano. ^ 3.° ' intellectus ' : Germ. 26, 10 ' hiems
et uer et aestas intellectum ac uocabula habent '. Con lo stesso valore passivo, ad
indicare « significato, senso, concetto »
di qualche cosà, appare la v. ^ intellectus ' in Quintiliano. ^ Nella n.
h, presenta il significato, in generale,
di « sentimento, percezione, senso »: XI 174 ' intellectus saporum ceteris in prima lingua, homini et in
palato '. 15, i codd. Monac, Rom. (
Aug. bib.l. ), Hummelian., Stotgard.
presentano la lez. ' affectionem * : migliore ò la lez. ' adfectationem
', data dal cod. Leid. e da altri, poichò, come nota il Dilthey {Tae, Germ. libellus vollstaendiy erlàuiert,
Braunschweig 1823, p. 176) « ' affectio
' ist jede die Seele aufregende Leidenscbaft,
* affectatio * hiogegen das oft ins Laecherliche getriebene Streben nach
einer Sacho Letzteres steht also hier (Germ, 28, 15) an seiner Stelle. » 1 Ben. ep. XIV 1 (89), 4. Tao hi8t I 80, 7.
Svkton. TU. 9, 5. 2 QVINTIL. i. O. I 6,
40. SVBTON. Tiò. 70, 3. etc. 8 Sen. rhet. conirou. IV 7, p. 270 , l.
Petron. sai. 137, p. 653, 16. QviNTiL. L o. III 10, 1.
4 QviNTiL. i. 0. I 1, 28. VII 9, 2. Vin 3, 44. eie. Il 1« es. e. dì Quintiliano é a torto attribuito a Seneca
nell'aus/ì^/ir^. Handwb,^ II, e. 291,
del Georges, e nel dizion. lat-it. GsoRaEs-CALONOiii, ed. oit,
e. XI 280 * neque enim est intellectus
ullus in odore uel sapore ' : v. 2, 149.
13, 35. 19, 171. 31, 87; 88. etc. : è riferito talvolta ad animali : X 108 '
columbis inest quidam et gloriae
intellectus ' ; per altri ess. v. 8 , 1 ;
3; 48; 156; 159. 9, 148. 10, 33; 43; 51; 137. 28, 19. 29, 106. etc.
4.** * repercussus ' : Germ, 3, 8 ^ quo plenior et grauìor uox repercussu intumescat '. n. h. XXXVI 99 '
turres septem acceptas uoces numeroso
repercussu multiplicant. ' In altri 11. della n. h. la v. ^ repercussus '
presenta significati che si diramano dal concetto comune del fenomeno di riflessione fisica : II 45 ^
in repercussu aquae '. V 35 * solis
repercussu '. V 55 ^ etesiarum eo
tempore ex aduerso flantium repercussum '. XII 86 * meridiani solis repercussus '. XVI 6 ^
occursantium inter se radicum repercussu
'. XXXVII 22 * colorum repercussus ' :
v. inoltre 10, 43. 11 , 148 ; 225. 31 , 45.
33, 128. 35, 97; 175. 37, 76; 104; 137; 165. etc. Altri scrittori del periodo postclassico si valsero
della v. ^ repercussus '. ^ II. Verbi.
1.^ * excrescere ' : Germ. 20, 1 ' in omni domo nudi ac sordidi in hos artus, in haec corpora,
quae miramur, excrescunt '. Lo stesso uso di ' excrescere ' si nota in Seneca. ^ Niella n. h. è, come nel de r.
r\ di Colu 1 Vedi Plin. epist II 17,
17. Non è cit. eoa esattezza nel Lex,
Forcellini-De ViT, t. V, p. 176 , e neWaunfuhrl. Handiob. del Georges, II, e. 2074, il passo di Flor. epit
I 38 [III 3], 15, in cui legges': * ex
splendore galearum aere repercusso quasi ardere caelom uideretur* (Halm). L* imitò Macrob. sat. I 7, 25. Vedi per
rargomento le philologisehe Ahhandlungen di M. Hertz, Beri. 1888, p. 41. 2 CiG. p. Ro^e. Am, 22, 63. de fin. Ili 19, 62. V 14, 39. 8 Cabs. b. e. II! 92, 2. 4 Cf. Tac. Agr. 20, 7. 5 Liv. XXII 12, 7. XXXII 4, 4. Cf. Cic. de
nat d. II 57, 144. 6 Pompon. Mbl. ehor, II 3, 34. Ili 1, 8 e 9 e 10 ; 8, 81. Plin. n. h IV 76. 84
etc. ,* anche nella Germ. 27, 6 ' lamenta ac lacrimas cito, dolorem et tristitiam tarde poniint '.
Plinio adoperò la V. ' lamentum ' in traslato: n. h. X 155 ' lamenta circa
piscinae stagna mergentibus se puUis natura duce '. S.** ' lasciuia ' : Germ. 24, 5 ' quamuis
audacis lasciuiae pretium est uoluptas spectantium '. Con significati vicini a quello che si nota nel 1. e. della
Germ. la v. ' lasciuia ' era stata
accolta da Pacuvio, Cicerone, Lucrezio, Seneca. ^ Plinio , oltre all'
adoperarla secondo l'uso comune (v. n.
h. 5, 7. 9, 34. 18,364. etc), la rivolse, in traslato , a denotare quelli che a
noi paiono capricci della natura : n. h.
XI 123 ^ nec alibi maior naturae
lasciuia '. XIV 15 ' est et illa naturae
lasciuia ' : V. 8, 52. 26, 2. 36,
12. 9.° ^ nodus ' : Germ. 38, 5 ^
insigne gentis obliquare crinem nodoque
substringere '. Ovidio aveva riferito ' nodus ' all'acconciatura dei capelli. ^
Similmente nella n. h. si adopera la v.
' nodus ' in senso proprio: XXVIII 63 '
uulnera nodo Herculis praeligare '; * ma vi è anche accolta in traslato, ora
riferita ad argomenti zoo 1 Cic. in
Pi8, 36, 89. p. Mil. 32, 86. Tuse. II 21,48. de legihus II 25, 64. Cai. m. 20, 73. Vero. Aen. IV
G67.,Pergli ess. di Lucrezio e di Livio , V. i' ausfuhrl. Handwb . del Georges, II, e. 483. Cf. inoltre Tac. Agr, 29, 3. hist IV 45,
5. 8 Pacvv. in CiG. de diu. I 14, 24. Cic. de fin.
II 20, 65. Lvcr. de r. n. V 1398. Sen. dial. XII 18, 5. Cf. Tac. hist. Ili 33 ,
13. ann. XI 31, 14; 36, 12. 3 OviD. ars am. Ili 139. Lo ripetè, più tardi, Martial. epigr. V 37, 8.
* Del * nodus Herculis ' o * Herculaneus * è fatta menzione da Sen. ep. XIII 2 (87), 38. Cf. Pavli exc. ex
Uh, Pomp. Fesii^ voce • cingillo ', p.
44, 24 ed. Thewr. d. P. 85 logici: V.
11, 177; 217. 28, 99; » o botanici : v. 13, 52.
16, 158; 198, secondo ess. precedenti ; ^ ora ( e , come pare, per la prima volta) a minerali: v. 34,
136. 37, 55; 150; ovvero ad indicare
tumori o indurimenti del corpo umano: v.
24, 21 ; 24. 30, 110: cf. 11, 216. 10.° ' potus ' : Gerani. 23, 1 * potui umor
ex hordeo aut frumento '. n. h. XXII 164
^ ex iisdem (se. frugibus) • fiunt et
potus '. Altri ess. della v. ^ potus ' presenta la n. /^., tanto nel significato di bevanda,
quanto in quello di « bere, tracannare
», secondo l'accezione precedente di
Cicerone, Celso, Curzio, etc. : ^ v. n. h, 8, 122 ; 162; 209. 9, 46. 10, 201. 11, 176; 283. 13, 25;
51. 14, 137; 149; 150. 16, 4. 21, 12.
23, 37. 26, 17. 28, 53; 55; 84; 197. 29,
26. 31, 33. 32, 34 ; 54 ; 57. 34 , 151. 36, 156. etc; * ma per la prima volta notasi nella n.
h, nel significato di « escremento umano » : v. 9, 138. 17, 51. 11.° ' pubertas ': n. h. VII 76 ' uidimus
eadem ferme omnia praeter pubertatem in
Alio Corneli Taciti ' e. q. s. cf. 21,
170. Con lo stesso significato metonimico , per
indicare il segno della pubertà, se ne valse Cicerone. ^ Ma la V. considerata assume il nuovo
significato metonimico di 4c forza virile, virilità, facoltà di generare » nella Germ. 20, 6 * sera iuuenum uenus ,
coque inex ^ Cosi anche in Cabs. b. G.
VI 27, 1. Vbrg. Aen. V 279. LvCAN. de h. e. VI 672. etc. * Ess. precedenti se ne osservano in Verg.
bue, V 90. georg, II 76. Aen. VII 507.
Vili 220. IX 743. XI 553. Liv. I 18, 7. Sen.
de ben. VII 9, 2. Colvm. de arb. 3, p.
670, 5. « Cic. de diu. I 29, 60. Cels.
de med. II 13, p. 56, 28. Cvrt. hi8i. A. M. VII 5 (21), 16. Cf. Tao. ann.
XIII 16, 4. 4 Vedi Krbbs-Schmalz,
antib., v. * polio und polus ', II, p. 308.
5 Cic. de naL d. II 33, 86. hausta pubertas': appare nella n. h.^ riferita, in traslato, alle piante
: v. 23, 7. * Quanto a ^ pubertas ' in
senso proprio, v. 25, 154. 12.°
* raptus': valse da prima a significare « ratto, rapimento per amore » ; - nella n. h. fu
usata anche per indicare « strappo
mediante uno strumento , piallata »: XVI 225 ' pampinato semper orbe se uoluens
ad incitatos runcinae raptus '. Nella
Germ. si assunse nel significato della
v. ^ rapina ', accolta dalla latinità classica, cioè « ladroneccio, rapina »:
35, 10 ^ nullis raptibus aut latrociniis populantur '. ^ 13.° ' sagitta ' : nel significato proprio
di « freccia , dardo, strale, saetta »,
^ osservasi nella Germ. 46, 15 ' solae
in sagittis spes '; e nella n. h. VII 201 ^arcum et sagittam Scythen louis filium , alii
sagittas Persen Persei filium inuenisse
dicunt ': v. 11, 279. 16, 161. etc. Ma
nella n. h. vale eziandio non solamente a indicare, secondo gli ess. di
scrittori precedenti, una specie di sorcolo
o magliuolo:^ v. 17, 156; e una costellazione : '^ v. 17, 131, 18, 309; 310; ma anche a designare (a
quanto pare. 1 In un altro 1. della
n. h. ò sostituita a ' pubertas ' la voce
propria : 12, 131 'in prima lanugine '.
2 CiG. in Verr. IV 48, 107.
Tuse. IV 33, 71. Ovid. fasi. IV 417.
Sen. dial IV 9, 3. Plin. n. h. 34,
69. Cf. Tac. ann. VI 1, 15. 3 Lo stesso
congiungimento di ' raptus * al plur. con * latrocinium ' o ' praeda ' si
osserva in Tac. hi9t I 46, 13. ann, II 52, 4.
4 Vedi Cic. in Verr. IV 34, 74. Phil II 44, 112. aead. pr. II 28, 89. de fin, III 6, 22. Tuse. I 42, 101.
II 7, 19. de nat d. I 36, 101. II 50, 126. etc.
5 CoLVM. de r. r. Ili 10, p. 384, 1-8 ; 17, p. 393, 9-10. 6 Cic. Arai phaen. cum Groti suppl. vers. 84
(325), pag. 369. Gbrman. Arai, phaen. v.
315, in PLM. voi. I, p. 166, ed. Baehrens. AviBN. Arat vv. 669, 689, 985, 1117, 1258 ed.
Breysig. per ia prima volta) la
pianta detta comunemente € lingua di serpente »: XXI 111 * idem (se. Mago)
oiston adici t a Graecis uocari, quàm
inter uluas sagittam appellamus '. ^
14.** ' satisfactio ' : voce usata prima da Cicerone, Cesare, Sallustio
per significare « discolpa, scusa ». ^ Nella
Germ, conserva lo stesso significato, aggiuntovi il concetto della pena:
21, 3 ^ luitur enim etiam homicidium
certo armentorum ac pecorum numero recipitque satisfactionem uniuersa
domus '. Plinio la riferì agli animali e, trattando delle colombe , scrisse :
n. h. X 104 * tunc plenum querela guttur
saeuique rostro ictus,- mox in
satisfactione exosculatio '. 15. "*
' sedes ' : in senso traslato, per indicare « soggiorno, stanza, dimora, paese,
patria », secondo l'accezione classica, ^ appare nella Germ. 2, 3 '
classibus aduehebantur qui mutare sedes
quaerebant ': v. 25 , 2. 30, 1. Plinio
ne fece uso tanto in senso traslato, analogo al precedente: v. n. h. 2, 102. 11
, 138 ; 157. 22, 14. 33, 74. 36, 102 ; ^
quanto in senso metonimico : v. 22, 61;
143. 23, 75; 83. 26, 90 32, 104 : in questa se
1 * Oiston • legge nel 1. e. della n. h. Ose. Weise ; v. Jahrbb. del Fleckeisen, 1881, p. 512. 1 codd. Paris.
6795, Riccard., Leid. Voss. e Ted.
Detlefsen (voL III, Beri. 1868) danno * pistana \ « CiG. ep. (ad fam.) VII 13, 1. Caes. 6. G.
VI 9, 8. Salì.. Cat 35, 2. etc. 3 Cic. p. Cluent 61, 171. 66, 188. p. Mar,
39, 85. p. Sulla 6, 18. p. Areh, 4, 9.
de proo, eons. 14, 34. p. Marcel. 9, 29.
Caes. b. G. IV 4, 4. Sall. Cat 6, 1. Verg.
Aen, XI 112. Ovid. mei.
Ili 539. XV 22. etc. 4 Cf. Caes.
6. G. I 31, 14 ^ aliud domicilium , alias sedes... petant '.
88 conda accezione non pare che
altri V abbia preceduto, le."* '
tristitia ' : nella Oerm. e nella n. h. è accolta nel significato proprio di « mestizia,
tristezza », secondo l'uso che se ne era fatto dagli scrittori precedenti;
' Germ. 27, 7 ^ dolorem et tristitiam
tarde ponunt '. ^ n. h, XXIV 24 '
inuenio potu modico tristitiam animi
resolui': v. pure 21, 159. 23, 38. 25, 12. 35, 73. Plinio usò, inoltre, la v. ' tristitia ' in senso
traslato, riferendola a cose inanimate : n. h, II 13 ' hic (se. sol) caeli tristitiam discutit '. XVIII 184 ' sarculatio
induratam hiberno rigore soli tristitiam
laxat temporibus uernis ': e in ciò egli
seguì gli ess. analoghi presentati da Cicerone; 3 ma, probabilmente per il
primo, appropriò la V. considerata ad
animali : n. h. IX 34 ^ delphinorum
similitudinem habent qui uocantur thursiones. distant et tristitia quadam adspectus ' : v. 11, 63
(per le api). 32, 60 (per le ostriche).
Aggettivi: 1.° ' asper ': appare, usato
in traslato, in un 1, della Germ, 2, 8 *
Germaniam peteret , informem terris , asperam caelo ' : * nella n. h. è assunto
, come in 11. di 1 CiG. de or. II 17, 72. eum sen. grai, egii 6, 13.
Lvcgbivs, in Cic. ep. {ad fam.) V 14, 2.
Sall. Cat 31, 1. Hor. carm. I 7, 18.
OviD. mei. IX 397. Val. Max. / et d. m, 1 6, 12. II 6, 14. Sen. dial IX 15, 1. « Consimile frase * tristitiam poni ' si
legge iti Ovid. ex Pont II 1, 10. 3 Cic. ad Ait. XII 40, 3. de nat d II 40, 102. de off, I 12, 37. * Vi ha analogia
con Taso fattone da Ovid. me^. XI490. Vell.
Patbrc. h. R. II 113, 3.
89 autori precedenti, » nel
significato proprio: v. 3, 53. 6, 167.
17, 43 ; ed è anche riferito al senso del gusto : *^ V. 2, 222. 12, 27. 19, 111. 20, 97. 25, 159;
e, probabilmente per la prima volta, al senso dell'odorato: XXVII 64 ^ radice longa, aequaliter crassa, odoris
asperi '. ^ 2.** ' uoluntarius ' :
adoperato in senso obiettivo, per
indicare ciò che si compie per libera volontà, appare, come in Cicerone, Livio, Valerio Massimo,
etc, ^ anche nella Qerm. 24, 9 ' uictus
uoluntariam seruitutem adit '; e nella
n. h. VI 66 ' uoluntaria semper morte uitam
accenso prius rogo flnit ': v. 37, 3; e cf. 28, 113. Ma nella n. h. si estende alla designazione di
fatti naturali: 1 Varr. r. r. II 5,
8. Cic. pari, or, 10, 36. Lvcr. de r. n. VI
1148. Vbrg. bue. X 49. georg. II 413. Liv.
XXV 36, 5: cf XXXVH 16, 5. OviD. mei VI
76. 2 Cosi in Plavt. capi. 188 (I 2, 85); 496 (III 1, 37). Ter. hauL 458 (III 1, 49). Verg. georg IV 277.
etc. 3 II Georges nel suo ausfùhrl.
Handwb, I, e. 581, in conferma del riferimento deli'agg. * asper * ai sensi del
gusto e dell' odorato, cita il 1. di Cic. de fin, II 12, 36 * quid iudicant
sensus ? dulce amarum, lene asperum ', e. q. s. ; e la citazione si ripete nel dizion, laL-iL Georges-Calonghi,
c. 250. Senza dubbio, r affermazione è esatta quanto al ' dulce amarum '
rife* rito al gusto; ma ci pare inesatto
riferire il * lene asperum ' air
odorato, perchè nei citati vocabolari, in conferma del riferimento di * asper *
al senso dell' udito, si ripete , poco dopo ,
lo stesso 1. di Cic. ' lene asperum *, con V avvertenz% che ad * asper ' si contrappone * lenis ' :
osservazione giusta questa ultima, in
quanto che nel 1. e. di Cic. le antitesi sgg. * prope longe, stare mouere, quadratum rotundum ' non
escludono che r antitesi * lene asperum
* si possa riferire al senso dell' udito.
4 CiG. ep. iadfam.) VII 3,
3. Liv. XXVI -36, 8. XXVIII 7, 9. Val.
Max. /. et d. m. I 8, 3. Cf. Tac. hisL II 45 , 3. [ deal, de
oraiorihuB 41, 17]. pinguius (se. serpyllum) uoluntarium et
caildidioribus foliis ramisque '.
III. Verbi: 1.° * adgnoscere ' : Germ. 5, 15 ' formasque
quasdam nostrae pecuniae adgnoscunt
atque eligunt '. n. h. XXIX 19 ^ alienis
oculis agnoscimus ' : v. 35, 89. Con tale
significato il V. ' adgnoscere ' era stato usato prima * ; ma nella n. h. è riferito anche ad animali: IX
23* nomen Simonis omnes (se. delphini)
miro modo agnoscunt '. 2.° ' colligere
: Germ. 37, 8 ' ex quo si ad alterum
imperatoris Traiani consulatum computemus , ducenti ferme et decem anni colliguntur '. n. h. XIII
85 * ad quos (se. consules) a regno
Numae colliguntur anni DXXXV ': 2 cf. 6,
59; e, per la forma attiva, 2j 186. ^
Nella n. h. è riferito pure, tanto nella forma passiva quanto nella attiva, a misure di lunghezza:
IV 87 ' ad OS Bospori CCLX M pass,
longitudo coUigitur ' : 1 Cic. de
fin. V 18, 49. Lael 27, 100. Caes. 6. e. H 6, 4. Vbrg. Aen. I 406. HI 82; 351. IV 23. Vili 155. X
843. XII 260. Ovu). fasi. V 590. Lycan,
de h. e. II 193. Cf. Tag Agr. 32, 18. 8
II n.o DXXXV nel 1. e. della n. h, leggesi neir ed. Mayhoff, voi. II, p. 332, 18 ; e, in proposito del d.^
aura., non è nolata alcuna variante presentata dai cod J. Tuttavia il Georges,
auifàhrl. Handùcb., J, e. 1185, e il
Valmaggi, dmi. degli oratori eommenL
Torino 1890, p. 66, T hanno mutato in DXXXXV: non sappiamo spiegarcene
la ragione. 3 Cf. deal de oraioribus
17, 16 * centuna et uiginti anni ab
interitu Ciceronis in hunc diem colliguntur*. È usato nella forma attiva in 24, 14 * cum praesertim
centum et uiginti annos ab interitu Ciceronis in hunc diem [effici] ratio
temporum collegerit ' : espunto 1' '
effici ' secondo la proposta del RoenBch,
in Rev, de Vinsir. pubi, en Belg. 1865, p. 301. 91 V. 2,
245. 36 , 178. etc. XII 23 ' sexaginta
passns pleraeque orbe colligant ' : v.
3, 132, 5, 136. 36, 77. etc.
3.° ^ eualescere ' : verbo usato da Virgilio , Orazio , Seneca, Lucano, etc. ^ fu da Plinio per la
prima volta riferito a vegetali: n. h.
XV 121 * quae (se. myrtus plebeia)
postquam eualuit flauescente patricia ' : v. 16, 125. 17, 116. Nella Oerm. è usato tanto in
senso proprio: 28, 4 * ut quaeque gens eualuerat'; quanto in traslato, per indicare la prevalenza di
determinate voci neir uso comune : 2, 22
^ ita nationis nomen, non gentis eualuisse paulatim lucrari ' : Germ. 24, 6 ^
aleam, quod mirere, sobri! inter seria exercent , tanta lucrandi
perdendiue temeritate, ut ' e. q. s. Con
lo stesso significato proprio il v. ^
lucrari ' fu adoperato da Cicerone e Orazio. ^
Nella n. h. acquista il significato particolare di « guadagnare mediante
il risparmio » e perciò « risparmiare » : XVIII 68 ' quod {se. marina aqua
subigi panem) plerique in maritimis locis faciunt occasione lucrandi salis '.
Nello stesso senso pare che si debba intendere il V. ^ lucrari ' nel 1. della
n. h. XXXIII 45 ^ ita res p. dìmidium
lucrata est ', cioè lo Stato risparmiò la metà della spesa, accrescendo il
valore di alcune monete, al tempo della
seconda guerra punica. 5.** * obtendere
' : con la forma mediale assume, per la
prima volta, nella Germ. e nella n. h. un signifl 1 Vero. Aen. VII 757. Hor ep. II 1, 201. Sen. ep. XV 2 (94) , 31. LvcAN. de b. e, I 505. IV 84. Cf.
Qvintil. L o. II 8,5. X 2, 10. « Cf.
Qvintil. l o. IX 3, 13. Tac. hist I 80, 8. ann XIV 58, 17. 3 Cic. in Verr, V 24, 61 ; 25, 62. p. Flaee.
14, 33. de off. II 24, 84. parad. 3, 1 (21). Hor. ep. II 3, 238. Quanto al senso trasl. del v. ' lucrari ', vedi Cic. in Verr. I 12,
33. Hor. earm. cato locale d' uso geografico, ed ìndica « estendersi dinanzi »
: Germ. 35, 3 ^ Chaucorura gens omnium
quas exposui gentium lateribus obtenditur , donec in Chattos usque sinuetur '. n. h. Y 77 ^ buie
(se. Libano) par interueniente ualle
mons aduersus Antilibaaus obtenditur '. * Nella n. h. presenta inoltre il
significato , che notasi in Virgilio, ^
di « stendere dinanzi , porre dinanzi »
: XI 153 ' omnibus membrana nitri modo
tralucida obtenditur ' : v. 37, 100.
e.*" ^occurrere': presentasi la prima volta con significato
geografico nella Gerrn. e nella n. h.-/^ Germ,
33, 1 ' iuxta Tencteros Bructeri olim occurrebant ' n, h. Ili 95 ' quem locum occurrens Terinaeus
stnus paninsulam efiìcit '. V 84 ' apud Elegeam occurrit ei {scEuphrati) Taurus mons': v. inoltre 6,
114; 128. etc. Presenta anche nella n. h, tanto il significato, in traslato, di «
rimediare, essere d'aiuto », secondo gli ess.
dati prima da Cicerone, Nepote, Valerio Massimo^ Persio: "* XVIII
189 ' constatque fertilitati non occurrere
homines ' : v. 18, 332. 20, 225. 30, 107. 31, 118. 32, 1; 99. etc. ; quanto il significato di «
presentarsi alla mente o alla vista,
sovvenirsi y> quaesdonem occurrere
uerisimile est omnium , qui haec noscant ,
cogitationi ' : cf. 24, 156. Questo ultimo significato os 1 Cf. Tao. Agr. 10, 7. « Vero, georg. 1 248 : cf. Aen. X 82. 3 A tale sigoiflcato dovette certamente pervenire
per il tramite deir uso fattone da Liv. XXXVI 25 , 4 * in asperis locis silex paene inpenetrabilis ferro occurrebat*.
Cf. Pompon. Mel. ehor. Ili 9, 89. Tag. Agr, 2, 9. 4 CiG. in Verr, IV 47, 105. p. CluenL 23,
63. Nep. XVI (Pel) 1, 1. Val. Max. f. et d. m. VIII 5, I. Pers. sai. 1,
62, 3, 64. 93 I servasi prima in Cicerone, Cesare,
Orazio, Seneca, Cur ' zio, Columella, etc. *
7.° ^ periclitari ' : con valore intrans, pregn. di « arrischiare,
essere intraprendente », appare la prima
volta nella Gemi. 40, 1 ^ plurimis ac ualentissimis nationibus cincti
(se. Langobardi) non per obsequium, sed
proeliis ac periclitando tuti sunt ' ; cf. n. h. 18 , 302. In Cicerone e Cesare ^ ha il significato
generico di ¥. fare esperimento, far
prova ». In alcuni li. della n. h. conserva la qualità di v. intrans., ed è
riferito , come in Celso, ^ ai pericoli
causati da certi morbi : XXX 114 '
utilissima sunt in iis ulceribus, quae uermibus periclitentur '. XXXII 54 ^
cinis eorum ( se. cancrorum fluuiatilium)
seruatus prodest pauore potus periclitantibus ex canis rabiosi morsu ': v.
altresì 17, 217. 20, 165. 26, 112.
etc. 8.** ^ praetexere ' : G^rm. 34, 4
' utraeque nationes usque ad Oceanum
Rheno praetexuntur '. n. h. VI 112 '
semper fuit Parthyaea in radicibus montium saepius dictorum qui omnes has gentes praetexunt '.
Con significato consimile era stato prima adoperato da Virgilio. ^ Nella n. h. assume altresì , in traslato , il
significato generico di « preporre,
porre avanti »: XVIII 212 ' quos J
Cic. de or. Il 24. 104. Ili 49, 191. p. Mil. 9, 25. Tuse. I 22, 51. Caes. b. G. VII 85, 2. Hor. sat. I 4, 136. Sen. deal. I 6, 4. CvRT. hisL A. M. Ili 8 t21), 21. Colvm. de r. r. Il 2, pag. 334, 34. Cf. Tac. ann. XIV 53, 22. « Cic. de off. III 18, 73. Caes. b. G. II 8,
1. 3 Cels. de med. Il 1, p. 30, 14. V 26, 24, p. 178, 37. eie. 4 Verg. bue. 7. 12. Aen. VI 5. Cf. Colvm. de
r r. X 296, p579, 37. 94 (se. auctores) praetexuimus
uolumini huic ': v. praef. 21. 16, 4.
» 9.** ' rarescere ' : eoa l'accezione
in traslato, per siguijfìcare « diminuire , divenire raro » , notasi la prima
volta nella Germ. 30, 3 ' durant siquidem col les, paulatim rarescunt'.2 Nel
significato proprio fu adoperato, dopo
Lucrezio, Virgilio, Properzio, Columella,^^ da Plinio: n. h, XI 231 ' quadripedibus senectute (pili)
crassescunt lanaeque rarescunt '. 10.° ' tolerare ' : Germ. 4, 8 ^ minimeque
sitim aestumque tolerare '. n. h. XXVI 3 ' foediore multorum , qui perpeti medicinam tolerauerant ,
cicatrice quam morbo '. Lo stesso
significato notasi in Terenzio, Cicerone, Sallustio, etc. ^ In un altro 1. la
n. h. presenta il V. ' tolerare ' per il
concetto di « mantenere , sostentare », secondo l'uso fattone da Cicerone,
Cesare, Virgilio, Columella , etc. : ^ VII 135 ' plurimi iuuentam inopem in caliga militari tolerasse '. XXXIII
136 ^ (Ptolemaeum) octona milia equitum
sua pecunia tole 1 Fu continuato tale
uso da Plin. pan. 52, 1. s Si ripete ,
poi , nella stossa accezione da Amm. Marc. r. g. XXII 15, 25. XXVI 3, 1. 3 LvcR. de r. n. VI 513. Vero. Aen. IH 411. Prof. IV 14 (15), 33. CoLVM. de r. r. Ili 16, p. 392, 38. Cf.
Sil. It. Pun. XVII 422. 4
Ter. hee. 478 (IH 5, 28). Cic. in Verr. Ili 87, 201. in Caiil. II 5, IC; 10, 23. ep. (ad fam.) VII 18, 1. ad
Q. fr. I 1, 8, 25. de fin. IV 19, 52.
Tuse. II 7, 18; 13, 30. V 26, 74; 37, 107. de din. II 1, 2. Caes. b. G. V 47, 2. Sall. Cai.
10,2. 20, 11. lug, 31, 11. Cf. Tac. hist
n 56, 12. ann. Ili 3, 9. 5 Cic. p.
Foni. 2, 13. Caes. b. G. VII 71, 4 Ccitato per inesattezza dal Georges, ausfiXhrl. Handwb. II, e. 2821,
con le indicazioni 7, 41, 7). h. e. Ili
49, 2; 58, 4. Verg. Aen. Vili 409. Colvm. de r. r. Vili 17,
p. 547, 19. Cf. Tac ann. II 24, 7. IV 40,
8. XV 45, 18 95 rauisse '. Ma vi si accoglie, per la prima
volta , tanto nel significato di : Germ. 27, 9 ' haec in commune de omnium Germanorum origine ac moribus
accepimus '. 38, 4 ' quamquam in commune
Suebi uocentur ' : cf. 40, 6; altrove
(5, 1. 6, 14) si preferisce l'espressione
avverbiale equipollente ' in uniuersum '. n. h, XVII 9 ' quae ad cuncta arborum genera pertinent in
commune de caelo terraque dicemus '.
XXIII 36 ' reliqua in commune dicentur '. Di una sola voce osserviamo essersi
fatto uso, perla prima volta, tanto
nella Germ. quanto nella n.h.: è la v. '
glaesum ', d'origine germanica, adoperata particolarmente dai soldati per
significare l'ambra: " Germ, 45, 15
* soli omnium sucinum, quod ipsi glaesum uocant, inter uada atque in ipso litore legunt '. n. h.
XXXVII 42 ' certum estgigni in
insulisseptentrionalis oceani et ab
Germanis appellari glaesum, itaque et ab nostris ob id unam insularum Glaesariam appellatam '. Ma,
come si osserva nel 1. e, la Genn.
accoglie anche la v. ' sucinum ', che trovasi nella n. h. identificata con I' '
electron ' dei Greci : III 152 ' iuxta eas Electridas uocauere in quibus
proueniret sucinum quod illi electrum
appellant': v. 4,103.8,137. 37, 31; 33; 43-45; 204. e te. ^ J Tale uso deirespressione avv. * in
commune * fu conlinuato da QviNTiL. L o.
VII 1, 49. Tag. ann, XV 12, 17. « Plin.
n. h. IV 97 * Glaesaria (se. insula) a sucino militiaa appellata, a barbaris Austerauia *. 3 Vedi il nostro libro sui Neologismi
botanici nei earmi bu" coliei e
georgiei di Virgilio, Palermo. Ad un buon numero delle relazioni lessicali si è
data, di mano in mano, evidenza, mediante opportuni confronti e richiami
indicati in fine delia maggior parte delle note che corredano le relazioni
lessicali tra la Gemi. e la n. h. di Plinio. Restringiamo, ora, il nostro
compito a dare evidenza ad alcune
relazioni lessicali tra la Germ. e gli scritti
di TACITO (vedasi), nelle quali non si scorge, salvo di rado e in modo
indiretto, l' intermedio della n. H. Sostantivi: annus: Ge7^m. nec arare terram
aut exspectare annum tam facile persuaseris \ Agr. 31, 5 ' ager atque annus in frumentum conteruntur '. Della V. ' annus ', adoperata per significare « il
raccolto o provento, la produzione dell'
annata », un primo accenno appare in Cicerone * : fu accolta da Properzio, e
poi dai poeti e prosatori dell' età
postaugustea. ^ Nella n. 1 Cic. in
Verr, a. pr. 14, 40. « Prof. V 8, 14.
Lvcan. de b. e. Ili 452. Stat. sii III 2, 22.
Plin. pan. 29, 3. Consoli, La
Germania comparala. T 98 h. la V. * annus ' conserva il significato
temporale: v. 2, 13. 9, 162. 18, 211.
28,22. etc. ; e solo si può scorgere come un tramite per giungere al
significato sopra notato nei sgg. 11. : XV 98 ^ fructus anno maturescit \ XVI
95 ' sunt tristes quaedam ( se. arbores )
quaeque non sentiant gaudia annorum \
2.** * audentia': Germ. 31, 1 ' et aliis Germanorum populis usurpatum raro et priuata cuiusque
audentia apud Chattos in consensum uertit
' e. q. s. 34, 10 ' nec defuit audentia
Druso Germanico', ann. XV 53, 9 * ut
quisque audentiae habuisset '. ' Audentia ' è voce della l^tiqità argentea : altri ess. se ne
osservano in Quintiliano e Plinio il giovane. ^ Nella n. h. si notano soltanto
le forme della flessione del participio ' audens '; V. 17, 222. 32, 53. 35, 61. etc. 3.** ^ copiae ' : consideriamo soltanto la
forma del plur. : 6r^rm. 30, 13 ^ omne
robur in pedi te, quem super arma ferramentis quoque et copiis onerant '. his£. Ili 15, 13 ' ut specie parandarum copiarum
ciuili praeda milites inbuerentur. IV
22, 5 ' parum prouisum ut copiae in castra conueberentur ': V. Agr. 22, 9.
Prima che nei 11. ce. la voce di forma
plur. ^ copiae ', col significato di € provvisioni, provvigioni, viveri,
alimenti », era apparsa in Cesare, Livio, Velleio Patercolo. ^ 4.** ' fortuna ' : Germ. 21, 9 ' prò fortuna
quisque apparatis epulis excipit '. ann. II 33, 13 ' quaeque ad usum parentur
nimium aliquid aut modicum nisi ex fortuna possidentis ': v. IV 23, 11. XIV 54,
9. La forma 1 QviNTiL. I. o. XII
prooera. , 4. Plin. episL Vili 4, 4. «
Vedi gli ess. citati dal Gboroes , ausfuhrl Handicb , I, e 1573: V. inoltre Plin. pan. sing. ' fortuna
', usata invece della forma plur. per indicare « ricchezze, beni di fortuna,
averi, sostanze », osservasi accolta da
Nepote, Orazio, Ovidio, poi da Quintiliano, ^ probabilmente per il tramite
della frase ciceroniana : ^ cuius denique fortunae studia tum laudi et gratulationi tuae se non obtulerunt ? '
" Valgano per il confronto i sgg.
11. della n. h.i 11 118 ^ non erant
malora praemia in multos dispersa fortunae magnitudine '. VII 130 * si
uerum facere iudicium uolumus ac
repudiata omni fortunae ambitione decernere , nerao mortalium est felix ' : ma è accolta la forma
regolare del plur. in XXXVII 81 ' ille
proscriptus fugiens hunc e fortunis
omnibus anulum abstulit secum ',
S."* ' pignora ' : consideriamo la sola forma del plur.:: Germ. 7, 11 * et in proximo pignora, unde
feminarum ulula tus audiri, unde uagitus
infantium ' : ann. XII 2, 3 '
baudquaquam nouercalibus odiis uisura Britannicum e^Octauiam, proxima suis pignora ': v. XV 36,
14; 57, 14. Agr. 38, 6. La forma plur. ^
pignora ' era stata accolta nella poesia
dell'età augustea, '^ per significare
figli, madri, mogli, insomma persone legate con intimi vincoli di parentela; donde la formola di '
obsecratio ' giudiziaria: ' per
carissima pignora'; della quale fa
menzione Quintiliano.* 6..'' ' suffugium ': Germ. 16, 11 ' solent et subterra 1 Nbp. XXV (Att.) 21, 1. HoR. ep, I 5, 12. Ovid. trist V 2, 57. QVINTIL. /. 0. VI 1, 50. « Cic. Phil. I le, 30. 3 Prof. V 11, 73. Ovid. meL III 134. XI 543.
episL (her.) 6, 122. 12, 192.
L'espressione * amoris pignora' di Liv. XXXIX 10, 1 ha un altro significato. * QviNTiL. I. 0. VI 1, 33. neos specus
aperire suffugiura hiemi et receptacu lum frugibus \ 46, 17 * nec aliud
infantibus ferarum imbriumque suffugium
'. ann. IV 47, 7 ' sanguine barbarorum modico ob propinqua suffugia ' : v. Ili
74, 5. La V. ' suffugium ', propria
della latinità argentea, * si osserva
prima in Seneca e Curzio. ' Tacito se ne valse
anche in genso traslato, ^ accostandosi all' es. che ne aveva presentato Quintiliano.* Aggiungiamo altri due aggettivi di forma
neutra plur., assunti col valore di
sostantivi : ^ I 7,** ^ ancipitia ' :
Gemi. 14, 10 ' facilius inter ancipitia |
clarescunt '. hisL III 40, 10 ' mox utrumque consilium aspernatus, quod inter ancipitia deterrimum
est '. ^ ann. XI 26, 12 ' scelusque
inter ancipitia probatum ueris mox
pretiis aestimaret '. Tacito adoperò anche al sing. l'agg. ' anceps ' sostantivato: ann. I 36, 9
' in ancipiti res publica '. IV 73, 16 '
ille dubia suorum re in anceps tractus '. Nella n. h. la v. ' anceps ' conserva
la ftinzione di aggettivo: IV 10 '
ancìpiti nauium ambitu '. VII 149 '
ancipites morbi '. IX 152 ' periculum anceps \
XVII 191 ' anceps culpa '. XVIII 210 ' res anceps '. J Si ha però un es. nel carme
pseudo-ovidiano * nux ', v. 1 19 * quid,
nisi suffugium nimbos uitantibus essem *.
8 SBN. dial IH 11, 3. CvRT. hUt A. M. VII! 4 (14}, 7. 3 Tac ann, IV »56, 11. XIV 58, 12. 4 QviNTiL. I. o. IX 2, 78. 5 V. la monografia di Th. Panhoff, de
neuiriui generis adieeiiuor. subsianiiuo usu ap. Tao. 1883. « F. RiTTBR, P. Corn. Tae. opp., Lps. 1864,
p. 525, 20 espunge dal testo tacitiano
le parole ' quod - est \ chiudendole tra parentesi quadre. 101 XXIII
31 ' ancipiti euentu \ XXV 16 * ratio inuentionis anceps ' : v. inoltre 10, 17.
22, 97. 23, 17 ; 20. 24, 75. 28, 21. 29,
1. etc. 8.** * missilia ' : Oerm. 6, 7
* pedites et missilia spargunt, pluraque singuli '. hist. IV 71, 24 *paulum
morae in adscensu , dum missilia hostium
praeuehuntur \ V 17, 14 ' saxis
glandibusque et ceteris missilibus proelium incipitur '. L' uso di dare il
valore di sostantivo all'agg. ' missilia ', per indicare, in generale, proiettili di guerra , come saette , pietre , etc. ,
appare prima in Virgilio e Livio ; ^ poi
si usò con lo stesso significato anche
nella forma del sing. ' missile ': - ne abbiamo un es. nel sg. 1. della n. h. XXVIII 33 ' ferunt
difflciles partus statim solui, cum quis
tectum, in quo sit grauida,^
transmiserit lapide uel missili ex iis, qui tria animalia singulis ictibus interfecerint '. Del resto ,
nella n. h. è preferito V uso di '
missilis ' come aggettivo : v. 8, 85;
125. 34, 138. etc. II. Aggettivi. Annoveriamo, per la loro funzione, tra gli aggettivi le sgg. forme participiali
: 1.** ^ inlacessitus ' : Germ. 36, 1 *
Cherusci nimiam ac marcentem diu pacem
ini acessiti nutrierunt'. Agr. 20, 1
Vero. Aen. X 716. Liv. II 65, 4. VI 12, 9. IX 35, 5. XXVI 51, 4 XXXTV 39, 2. L'espressione * missilia
fortunae ', che osservasi iu SBN. ep, IX 3 (74), 6, pare che abbia schiuso
l'adito ad un nuovo significato della v.
' missilia ' (= « doni largiti al popolo
»), che appare in Sveton. Aug. 98, 19. Ner. 11, 11. « Vedi LvcAN. de b. e. VII 485. Vbget. epit
r. m. (ed. C. Lang) I 4, p. 9, 8; 14, p.
18, 6: in III 24, p. 117, 14 leggesi ' missibilia ', ma nel cod. Perizon. F 17 si nota ' missilia
' ; e ' missilia ' osservasi anche nel cod. Palai. 909, corretto da '
missibilia nulla ante Britanniae noua pars pari/&r illacessita transìerit '. Il part. sempl. ^ lacessitus '
notasi nella n. h. Vili 23 ' nec nisi
lacessiti nocent '. 2.** ' intectus ',
con la particella premessa Mn - ' di
valore negativo: Germ. 17, 2 ^ cetera intecti totos dies iuxta focum atque ignem agunt '. hist Y 22,
12 ^ dux semisomnus ac prope intectus errore
hostiura seruatur \ ann. II 59, 5 ^
pedibus intectis ': e nel senso traslato,
per significare « aperto , schietto , fidente >, ann. IV 1, 12 * sibi uni incautum intectumque
efflceret \ ' » 3.** ' promptus ' :
Germ. 7, 2 ' duces exemplo potius quam
imperio, si prompti , si conspicui , si ante aciem agant, admìratione praesunt '. ann, IV 17, 16
* neque aliud gliscentis discordiae
remedium quam si unus alterne maxime prompti subuerterentur ': v. II 81, 7. IV 51, 16, XIV 40, 8. Con lo stesso significato
di « coraggioso, audace, valoroso », appare la v. ' promptus ', nel grado superlativo, in hist. I 51, 24. II 25,
13. Ili 69, 13. IV 14, 9. Agr. 3, 12.
Quanto all'agg. 'promptus' riferito a cose, V. n. h. 8, 129. 9, 112. 11,
24. 4.** ' reuerens ' : Germ. 34, 12 '
sanctiusque ac reuerentius uisum de actis deorum credere quam scir^ \ hist. I 17, 3. 'sermo erga patrem
imperatoramque reuerens '. Lo stesso
significato presenta la v. * reuerens '
in Properzio. ^ Cicerone conservò T usq psi^rticipiale di ' reuerens ' : * multa aduersa reuerens '. ^
Plinio vi a, anche nei sgg. 11. di Tacito: Agr. 34, 13 * transigite cum expeditionibus '. hist III 46, 14 * quod
Cremonae interim transegimus '. Il tramite, per giungere al significato sopra
notato, dovette essere il valore giuridico che
si attribuì in principio al v. * transigere \ cioè « venire a patti , definire la pendenza con un
amichevole accordo > , insomma concludere qualcosa di definitivo per dirimere le questioni. * 5.** * uocare ' : Germ. 14, 16 * nec arare
terram aut exspectare annum tam facile
persuaseris quam uocare hostem et
uulnera mereri \ hist IV 80, 10 ' ncque
ipse deerat adrogantia uocare offensas. ' ann. VI 34, 1 ' Oroden sociorum inopem auctus auxilio
Pharasmanes uocare ad pugnam \ U
equipollenza di ' uocare ' e * prouocare
' muove dalla frase virgiliana * uocare hostem. ' 2 IV.
Avverbi : 1.*" * adductius
' : Germ. 44, 1 ' Gotones regnantur ,
1 Cf., per r uso deUe forme passive di * transigere ', Cic. p. Quinci 5, 20. in Verr. a. pr. 10, 32. Tuse.
IV 25, 55; e, quanto alle forme attive:
p. Rose. Am. 39, 114. p. Cluent. 13^ 39. Phil. II 9, 21. etc. « Vbrg. georg. IV 76 * magnisquo uocant
clamoribus hostem '. Sbrv. eomm. in
Verg. georg. 1. L, voi. Ili, fase. 1*^, p. 326 Th., commenta: ' uocant hostem, prouocant '. Vedi
11 comm.del Heraeus a Tao. hist. IV 80, 10.
105 paulo iam adductius quam
ceterae Germanorum gentes \ hist III 7, 4 ' Minucius lustus.... quia
adductius quam ciuili bello imperitabat,
subtractus militum irae ad Vespasianum
missus est '. Nei due 11. citati il valore lessicale della v. ' adductius ' = «
con maggior rigore, più severamente ,
con freno più stretto », si deve fare
risalire alla frase di Cicerone ^ adducere habenas ', che è in contrapposto con
V altra ' remittere habenas. ' ^ 2.*" L' espressione ^ haud perinde ',
priva di valore comparativo, adempie una
funzione brachilogica: Germ, 5, 10 '
possessione et usu haud perinde adficiuntur '.
34,2 ' aliaeque gentes haud
perinde memoratae. ' ann, II 88, 16 '
Romanis haud perinde Celebris. ' IV 61 , 4 ' monimenta ingeni eius haud perinde
retinentur. ' Alla negativa * haud '
talvolta sono sostituite altre voci negative : ' non, ^ ne-quidem, ^ nec '. ^ Per r espressione comparativa ' haud
perinde quam ', invece della classica *
h. p. atque ', v. hist. II 27, 1. Ili 58, 14. IV 49, 26. ann. II 1,
8; 5, 9. XIV 48, 7. XV 44, 18. Osservasi
anche ^ nec perinde quam ' o ' neque p.
q. ' in hist. II 39, 12. IV 72, 16. ann.
XIII 21, 7. 3.** * longe ' può
adempiere V ufficio di rinforzare il
1 Cic. Lael. 13, 45. 2 Tac. ann.
II 63, 10. Cf. Plin. epéaé. I 8, 12. Sveton. Aug. 80, 6. Galb. 13, 1. deperdit librorum relL p.
294, 2, ed. Roth. 3 Tac. Agr. 10, 19
(secondo la congettura del Grozio: nei codd.
* proinde '). Cf Sveton. Tib. 52, 3 sg.
4 Liv. IV 37, 6. - 106
comparativo, col significato di « molto » : * Germ. S, 3 '
quam (se. captiuitatem) longe impatientius feminarum suarum nomine timent'.
ann, IV 40, 10 Monge acri US arsuras '. XII 2, 6 ' longeque rectius Lolliam
induci '. Altri ess. ne erano apparsi in Virgilio, Fedro, Velleio Patercolo. ^ B
È notevole che Tacito si valse in più luoghi de' suoi scritti di alcune espressioni o frasi che si
osservano nella Germ. : daremo evidenza
alle più importanti di esse,
disponendone i confronti secondo l'ordine cronologico delle opere di Tacito.
^ I.
Per il libro de uila et morihus lulii AgHcolae: 1.** Germ. 36, 4 ^ ubi m a n u a g i t u r '.
Agr. 9, 6 * plura manu agens'. 1 L'uso classico deU'avv. Moage' si
restringe a rinforzare il superlativo o
ad accompagnare » per renderne più efficace la
significazione, alcune voci particolari, quali * alius> aliter,
diuer* sus, dissimiiis ', etc. ; e i
verbi: ^abesse*, v. Cic. ep. (ad fatn)
II 7, 1. ad AiL VI 3, 1 ;"* antecellere *, v. id. in Yert, IV
53, 118. p. Mxir, 13, 29; * anteponere
*, v. id. de or. I 21, 98; * dissentire ', v. id. Lael. 9, 32; • praestare ',
v. id* Brut. 64, 230 ; e simili. Quanto
all'uso dell'avv. * longe ' col superlativo, v. inoltre Plin. n. A. 3, 5. 4, 66. 5, 70. 9, 131. 19,
146. 23, 92. 24, 125. etc. 2 Vero. Aen,
IX 556 * longe raelior \ Vell. Paterg. h. R» II
74, 1 * 1. tumultuosiorem *. Phaedr. /a6. Ili 7, 6 *L fortior'. Cf. Pbtron, sat 9, p. 39, 1 ' 1. malore nisu '.
98, p. 465, 5 * 1. blaiidior '. 3 Nel
confronto sarà incluso VAgr.^ tuttoché comunemente si ammetta che questo sia stato scritto prima
della Germi le ra^ gioni sono state
esposte a lungo nel nostro libro sopra citato,
V autore del l * de origine et situ Germanorum ', Roma, 1902. 107
2.** Germ. 4, 4 ' unde habitus quoque corporum.... idem omnibus. Agr. \\^ 2 ' habitus corporum
uarìi \ ' 3/ Gemi. 6, 14Mn uniuersum
aestimanti plus penes peditem roboris '.
Agr. 11,9 Mn uniuersum tamen a e stimanti Gallos uicinam insulam occupasse credibile est'. ^ 4.** Germ. 30, 13 ' orane r o b u r in p e d
i t-e ': cf. 6, 14 ' plus penes peditem
roboris '. Agr, 12, 1 M n pedite robur'.
Livio preferi la frase ' lecta robora
uirorum '. ^ 5.** Germ. 17, 6 '
ut quibus nuUus per commercia cultus '.
24, 12 ' seruos condicionis huius per commercia tradunt '. Agr. 28, 14^ per
commercia uenumdatos '. 39, 4 * emptis
per commercia'. 6.** Geì^m. 21, 12 *
notum ignotumque quantum ad ius hospitis
nemo disceruit '. Agr. 4:4^ 7 *quant u m a d gloriara, longissimum aeuum
peregit '. Vedi inoltre hist V 10, 8.
Della espressione * quantum ad ',
sostituita alla comune ^ quod attinet ad ', si osserva prin^ft un es., non incensurabile, in Ovidio:
lo agcolse, poi, Seneca. ^ Ma un termine
dì passaggio tra le due 1 L'
espressione ' habitus corporis ' fu , poi, ripetuta da Pliii. efii8t VI 16, 20 e da Svbton. deperdiL
Ubrorum reli pagt ^9^ 12, e4 Ralh. Plin. n. h, U, 224 menziona i ^siqgulos anitpi
habitus '. « Vedi il cap. Ili, C, III, 2^ 3
Liv. VII 7, 4: cf. Vili 10, 6. 2.
1. 4 OviD ars am. I 744 ' quantum ad
Pirithoum \ Skn. ^^ XII 3 («5?, 14 '
quantum ad habitum mentis *. Un altro ea^ di Seneca è cit neWausfùhrl. Handwh.
del GaoaeES, II, o. 19091. Vedi G.
Leopardi , penneri di Daria filoso^ e di belln leUenklura » Firenze, suec. Le Mounier, 1898 ; voi. I, p.
256. locuzioni notasi nelle frasi
dì Seneca il retore: ^ quantum ad meum
stuporem attinet; quantum ad ius attinet '. '
II. Per le historiae : 1.° Germ. 25, 6 * occidere solent, non
disciplina et seueritate, sed impetu et
ira '. hist I 51 , 5 ' asper^fto militiam
tolerauerant ingenio loci caelique et
seueritate disciplinae'. La stessa frase ,
espressa in forma di endiadi come nella Germ,, appare prima in Cicerone e nel beli. Alex. ^ 2.** Germ. 3, 18 'ex ingenio suo
quisque demat uel addat fldem '. hist. I
82 , 13 ' manipulatim adlocutl sunt ex
suo quisque ingenio mi tius aut horridius '. Vi sì accosta la frase plìniana
; * uaria circa hoc opinio ex ingenio
cuiusque'. "^ 3.° Germ. 13, 20 '
ipsa plerumque fama bella profi igant '. hist. II 4, 11 ' pr fi igauer at beli
u m ludaeicum Vespasianus '. IV 73, 6 '
profligato bello '. La frase *
proflìgare bellum ' risale a Cicerone e Livio: •* si rese d'estensione
maggiore, sostituendosi a i Sen.
rhet. eonirou. VII 1 (16-, 1, p. 298, 18. X 5 (34), 16, p. 509, 8, ed. e. Nella n. h. 25, 12 sì nota *
in quantum *. s Cic. p. Cluent 46, 129 * magister ueleris
disciplinae ac soueri tatis ' : cf. m
Catil. I 5, 12. Script b, Alex. 48, 3 *
mìlitarem disciplinam seueritatemque minuebant '. 65, 1 ' quae dissoluendae disciplinae seuor i
t a t i s q u e essent ' (Kuebler). Cf. Liv. XXXIX 6, 5. 3 Plin. n.
h. 8, 48: cf. 34, 57; e Liv. Ili 36, 1.
4 CiG. ep. dadfam.) Xll 30, 2. Liv. IX 29, 1 ; 37, 1. XXI 40, 11. XXXV 6, 3. XXXIX 38, 5. V. i commenti
Orelli-Meiser, Heraeus, Valmaggi a Tag.
hist. II 4. - 109 ' bellum ' gli aec. * aciem, classem, copias,
hostem, iaimicos, proelium ', etc. ^
4.° Germ. 3, 18 'ex ingenio suo quisque demat uel addat fidem'. hist II 50, 7 ' ita
uolgatis traditisque demere fidem non
ausim \ III 39, 3 ' a d d i d i t
facinori fidem': v. ann. IV 9, 5. Si
notano ess. delle locuzioni ' demere fidem ' e ' addere fidem ' in Livio e Ovidio : ^ in un 1. di
Cicerone i due verbi ' addere ' e '
demere ' sono disposti in antitesi ,
come nel 1. e. della Oerm. ^
5.*" Germ. 42, 8 ' sed u i s et p o t e n t i a regibus ex auctoritate Romana'. hisL III 11, 15 ' uni
Antonio uisac potestas in utrumque
exercitum fuit '. ** L' espressione *
uis ac potestas ' del 1. e. delle hist si
connette con la frase di Cicerone: ' u i m omnem deorum ac potestatem'. ^ 6.'' Germ. 36, 7 ' tracti ruina Cheruscorum
et Fosi '. hist. III 29, 5 ' quae (se,
ballista) ut ad praesens disiecit obruitque quos inciderat , ita pinnas ac
summa i Plavt. mil. gL 230 (II 2, 75
. Cic. p. Rab. FosL 15, 42. Phil XIV 14,
37. Cabs. b. e. II 32, 11. Nep. XIV vDat.) 6, 8. Liv. Vili 8, 9. X 20, 14. XXVIII 2, li. SiL. It. Pun.
XI 398. Tac. ann. XIV 36, 7.
« Liv. II 24, 6. OviD. rem. am. 290.
8 Cic. aead- pr. II 16, 49. Vedi per altri
e?s. di posizione in antitesi dei vv. *
demere ' e ' addere * 1' ausfùhrl Handwb. del
Georges, I, e. 1903. 4 u!
Zbrnial, op. e, p. 81, aggiunge al confronto un 1. del dial. de oratoribus 19, 24 ' qui u i e t p o
t e s t a t e , non iure aut legibus
cognoscunt '. 5 Cic de nat d. III 36, 88. Cf. seripL rhet ad
Her. I 5, 8
no ualli r u i n a sua t r a x:
i t ' : ma nel 1. e. della Germ. ' mina
' ha significato metaforico. * 7.°
Germ. 44, 1 1 ^ m u t a b i 1 e... hincuel illinc r e m i g i u m '. hist III 47, 18 ' pari
utriraque prora et mutabili remigio,
quando bine u e 1 illinc appellere indiscretum et innoxium est ' : v. anche
ann. II 6, 7. 8.° Germ 24, 13 ' ut se
quoque pudore uictoriae exsoluant '.
hist III 61, 15 * p u d o r e proditionis cunctos exsoluerent'; arrogi ann, VI
44 , 20 ^pudore proditionis oranes e x s
o 1 u i t '. ^ In simile accezione
metaforica appare il v. ' exsoluere ' in
Terenzio, Cicerone, Virgilio, Livio, etc.'*
1 Cf. la frase * tra bere ruinam' in Verg. Aen, II 465 ?g. ; 631. Vili 192. IX 712 sg. ^a
costruito ^ proditur ' nella Germ. 8, 1 ' meraoriae pròdilur quasdam acies
inclinatas iam et labantes a Sforni nis restitutas '. ^ Consideriamo le leggi sintattiche aventi per
obtóÉto r uso dei casi. I.
Accusativo : l.*' L' acc. di
relazione, in dipendenza da un aig^tivo da un participio, osservasi nella Gemi.
17, 12 ' nudae brachia ac lacertos '; e
nella n. h, XIII 29 ' uitilem sibi arborique indutis circulum '. Ess.
consiirfli 1 Quanto alla costpuzione del v. * narratur
' con Tace, e Titifin., invece di *
narra ntur * col nominativo e l'infin, per significare, come scrive G. Helmrbigh, c b e s t i m ra t
e Angaba und M'itteilung, auch durch Schriftsteller, im Gegensatz zu vagem
Gorùcht »: V. la recensione del l'bro del Wormstall, uebèr aie Chamaoer, Brukterer und Angrioarier ole, nel
Jahreàbèrìcht ueber die Fortschritie der
class. Alteri humswissensehaftyXVll
(1889;, 2. Abtheilung, p. 255 (Jahresb. ueb. Tao.), « In altri 11. della n. A. ò preferita la f
rma attiva * narrkht *: V. 2, 126 ; 236.
8, 35. 32, 75 etc. 3 OviD. mei. XV 311
sg. ' admotis Aihamanas aquis actiiàhdere Jignum | narratur *. 4 Un costrutto analogo osservasi in Liv. XXV 31,9 Val. Mix. /. ei d. m. II 6, 10. Cf. Caes. b. G. V 12 1.
Tac. ann. Ili 65 , 9.
[dial. de orato ribus 32, 27].
136 si notano in Virgilio ^ ed
altri poeti delPetli augustea: ne
presenta anche la latinità argentea , i cui scrittori predilessero i costrutti poetici e di fonte
greca. ^ 2.^ L'acc. ' cetera ' è
assunto , talvolta , in funzione
avverbiale: Germ. 17, 2 ' cetera intecti totos dies iuxta focum atque ignem agunt '. 29 , 12 ^ cetera
similes Batauis '. 44, 20 ' cetera
similes uno differunt '. n. h. Vili 40 '
tradunt in Paeonia feram quae bonasus uocetur equina iuba , cetera tauro
similem '. XXII 133 ' est etiamnum aliud
sesamoides , Anticyrae nasqens , quod
ideo antiqui Anticyricon uocant, cetera simile erigerenti herbae '. La prosa
latina aveva già accolto lo acc. '
cetera ' in funzione avverbiale, ^ ed anche prima r aveva accolto la poesia, che ne continuò V
accezione neir età augustea. * 1 Verg. Aen, IV 558 sg. Non ó es. sicuro
quello dell' Aen, I 320 ' nuda genu ',
in cui ^ genu ' può essere accettato per ablativo. Per la stessa ragione il
Draegkr, ueber Synt u. Si, d, Tac^y §
39, p. 19, riconosce es. noi sicuro di acc. di relazione il 1. degli ann. XVI 4, 11 * flexus genu
'. 2 Vedi gli ess. in Màdvig, lai.
Sprogl.'y § 203, a, Anm., p. 154. Cocchia,
sint. lai., § 55, p. 1 17 sg. Valmaggi, comm. hist Tae. lib. 1, p. 134; lib. 11, p. 34. Cf. inoltre*
Tag. hist IV 81, 9. ann. VI 9, 13. XV
64, 15. e te. 3 Cic. orai, 25, 83
(letto secondo il cod. Viteberg., / del Friedrich). Sall. lug, 19, 7; cf. hisL IV 9 (Kritz). Liv.
I 35,6. Vell. Paterc. h. R,l\ 119, 4. Cf. Tac. Agr, 16, 10. ann, VI 15, 5; 42, 12. * Enn. ann, 1 fr. 32, in PLM. , voi. VI, p.
64, ed. Baehrens. Verg. Aen. Ili 594: IX
656: cf. Serv. eomm. in Aen. IX 653, p.
368, voi. 11, fase. 2.o Th. Hor. earm, IV 2, 60. ep, I 10, 2 e 50. Vedi Madvig, lat Sprogly § 203, a, p. 154.
Cocchia, sint lai, , § 60, b, p.
131. IL Genitivo : ^
1.^ Il genitivo parti ti vo trovasi in dipendenza dal relativo neutro *
quod ', posposto, che funziona da soggetto della proposizione sg. : Germ. 15, 8
* conferre principibus uel a r m e n t o
r u m uel f r u g u m quod prò honore
acceptum etiam necessitatibus subuenit '. n.
Ti. XXX 127 * feni Graeci quod III digitis capiatur '. Ess. anteriori si
notano in Cesare e Livio. ^ Vi ha, però,
chi nel 1. e. della Gemi.y facendo precedere al ' quod ' una virgola, trovi un
costrutto ellittico, che nella sua interezza somigli ad un altro 1. della Germ. 18, 6 ' ipsa armo rum aliquid uiro
adfert ', 3 simile al 1. della n. h. XXVII 130 / additur piperis aliquid et
murrae '. Ma, se cosi fosse, avremmo una
costruzione ellittica isolata , priva di base , se ne togli un ravvicinamento, del resto non
improbabile, col passo degli ann. di
Tacito XV 53, 8 ' iacentem et impeditum tribuni et centuriones et ceterorum ,
ut quisque audentiae habuisset, adcurrerent trucidarentque '. ^ 2.** Per l'uso del genitivo in dipendenza da
un comparativo neutro plur., considerato come sostantivo, vi è rispondenza tra la Germ. 41, 1 'in
secretiora Ger 1 Vedi U. Zernial, sei
quaedam eap. ex genet usu Toc., Gòtt.
1864. « Caes. 6. G. Ili 16, 2. Liv. XXVIII 8, 9. Cf. Tac. hisL II 44, 20 3 U. Zernial, Germ. erkl p. 41. Cf. il comm. del Heraeus alle hisL
di Tac. II 44. 4 Vedi CoNSTANs, étude
s. L langue d. Tac, n.^ 81, p. 45. figli crede probabile che sì tratti di un
costrutto ammesso dalla lingua popolare:
non ne adduce però le ragioni. 138 maniae porrìgìtur ', ^ elsin.h. XVI 187 ' et
sabuci interiora mire firma traduntur ' : cf. 6, 33. Se ne osserva qualche es.
in Cicerone ^, a** Tra gli aggettivi
che, tanto nella Germ. quanto nella n.
h., hanno, talvolta, il loro complemento in una
forma nominale di caso genitivo, si debbono annoverare i sgg. : a) ' fecundus ' : Germ. 5, 5 ' pecorum
fecunda '. n. h. XXXIII 78 ^ nulla
fecundior metallorum quoque erat tellus
'. '^ Ma nella n. h, è ammessa anche la costruzione con r ablativo : XI 233 *
numeroso fecunda parta '.* b) *
impatiens ' : Germ. 5, 4 ' frugiferarum arborum
impatiens '. ^ n. h.XXl 97 ' unum autem caulem rectum habet uetustatis inpatieutem '. ^ Questa
costruzione appare la prima volta nella
lingua poetica dell' età augustea; poi si estese alla lingua della prosa.
^ J Vedi Valmaggi, il geniiioo
ipoiaitieo in Tae.\ in Boll, di ^lol class., a. IV, n.» 6, pp. 130-135. 2 Cic. ad AH. IV 3, 3. Cf. Tac. hist. II 22,
3. V 16, 5: nel secondo de' due 11. ce. il cod. dà la lez. * propiora fluminis
Transrhenani tenuere ' ; il Nipperdey, il Halm, il Ritter e altri vi sostituiscono * flumìni '. 3 La costruzione col genit. notasi prima in
Hor. carm. IH 6, 17. CoLVM. de r. r, IX 4, p. 552, 5 Cf. Tac. hist.
I 11, 3. ann. VI 27, 16. XIV 13, 4 * V. ess.
anteriori in Ovid. mei. Ili 31. X 220. Cf. Tac. hist. I 51, 26. Il 92, 6. IV 50, 22. ann. XIII 57,
2. 5 L'espressione * patiens frugum ',
in antitesi a quella u^ata nella Germ.
1. e , osservasi in Tac. Agr. 12, 16. 6
V. altri ess. sopra, cap. I, A, 111, n.« 13, p. 39. 7 Vero. Aen. XI 639. Ovid. ars am. II 60. mei. VI 322. XIII 3. trist. V 2, 4. Vell. Paterc. /i. i? II 23,
1. Cvrt. hist. A. Ai. Ili 2 (5j, 17. IX
4 (15). 11. Cf. SiL. IT. Pan. Vili 4. Tao.
hist. II 40, 11; 99, 7. ann. Il 64, 13.
IV 3, 5; 72, 2. VI fó,8. XII 30, l.
139 e) * superstes ' : Germ. 6
, 24 * muHique «operdtites bellorum
infamiam laqueo flnierunt '. n. h, VII 156
' M. Perpennaet nuper L. Volusius Saturninus omnium... superstites fuere ' : v. 7, 134. Cicerone ne
aveva dato r es.* Nella Qerm. si
accoglie anche la costruzione di '
superstes ' col dativo, secondo gli ess. di scrittori precedenti : 2 14^ 3 *
infame in omnem uitam ac probrosum superstitem principi suo ex acie recessisse
'. 4.** Quanto al genitivo * moris '
col verbo * esse ' valgano i sgg. confronti: Germ. 13, 2 * arma sumere non ante cuiquam moris, quam ' e. q. s. 21,
13 ' abeunti, si quid poposcerit, concedere moris \ n. h. XIX 51 ' usque ad eum (se. Epicurum) moris non
fuerat in oppidis habitari rura ' : v.
17, 66 ; 214. La locuzione * moris esse
' col soggiuntivo retto da * ut ' o con Tinflnito, era stata adoperata da
Cicerone, Livio, Velleio Patercolo,
Valerio Massimo, Seneca, etc. ; ^ poi, per il
tramite di Tacito e di Plinio il giovane, * passò nell'uso 1 Cic. ad Q. fr. l 3, 1. Cf. Tac. Agr. 3,
13. ann. I 61, 14. Il 71, 11. Ili 4,
11. 8 Plavt. asin. 21 (I 1, 6). Ter.
haut. 1030 (V 4, 7). Ovid. ara am. Ili
128. mei. XI 552. etc. Cf. Tac ann. V 8, 12. Nei sgg. 11. : Plavt. irin. 57 (I 2, 19); Cic. ep. {ad
fam.) VI 2, 3; HoR. e. saee. 42, resta
io dubbio se la v. ' superstes ' sia costruita
col genit. o col dat., essendo forme dell' uno e dell' altro caso ì rispettivi complementi : ' uitae tuae, rei
publicae, patriae '. 3 Cic. in Verr. I
26, 66. Liv. XXXVI 28, 4. Vell. Patbro. A.
K lì 37, 5 ; 40, 3 Val. Max. /. et d. m. II 8 , 6. Sbn. disi. X 13, 8.
4 Tac. Agr. 33, 1. 39, 2 (Ietto secondo il cod. Vatic. 342(), A del Halm). 42, 19. hist I 15, 3. ann. I 56,
17 ; 80, 2. IV 39, 3. Plin. epi%t II 19,
8. Ili 21, 3. degli scrittori
seriori, ^ invece della est ', preferita
dalla latinità classica. ^ III. Dativo : ^
1.° Il dat. di attribuzione trovasi, talvolta, sostituito al genitivo, in dipendenza da alcuni
sostantivi: Germ, 16, 11 ' solent et
subterraneos specus aperire , suf fugium hiemi ^ et receptaculum frugibus '.
44, 11 ' est apud illos et opibus honos
'. n. h. XXXVI 198 ' maximus tamen honos in candido tralucentibus {se.
uitris).-^ Il dativo di attribuzione
osservasi , sebbene di rado, negli
scritti anteriori al 1.'' secolo dell'impero : ^ dopo. 1 Cf. IvLiAN. ìq dig. HI 2, 1. Vlpian. in dig. XLVIII 19, 9. 2 Vedi Georges, ausfuhrl. Handwb. , II, e. 904. Nella n. h, si
accoglie anche la locuzione classica ' mos est*: v. 4 , 33. 11 , 184. 19, 73. 25, 77. 28, 36. 29, 4. 33 , 11;
21. 34 , 16. Si nota * in more est * in
16, 13. 3 Vedi, quanto ali* uso del
dat. la monografia di W. Knoess, de dat.
fin. qui die. usa Tac. eornm., Vpsaliae 1878; e quella di A. CzYGZKiEWiGz, de dat. usu Taeit.y BroJy
Hiemi ' ò la lez. data dai codJ. Il Reifferscheid ed il Halm congetturano * hiemis *; il Halra però
dubita: * aa hieme? * Certo è che la costruzione di * suffugium * col genitivo
osservasi in un altro 1. della Germ. 46,
18 * ferarum imbriumque suffugium * ; ed ò preferita da Qvintil. L o. IX 2, 78
* suffugia infirmitatis*; e da Tac aan. IV 66 , 11 * urguentium malopum suffugium •.
5 In Tac. Agr. 21, 9. hist. I 21, 6 * honor ' si accompagna col genitivo. Anche col genitivo sono costruiti '
rector* e * subsidia * nella n. h. 2,
12. 35, 102. 6 Caec. Stat. eom, rei. ll9(Ribbeck) * meae
morti remedium *. Cic. de or. I 60, 255 * subsidiura... senectuti * ( ma nello stesso 1. * subsid. senectulis '). in Catll. II 5,
11 * huic..bello..ducem *. Catvll. 63,
15 * mihi comites *. Vero. Aen. V 111 * pretium
uictoribus '. r uso si
estese di più. * 2.° Nella Germ. e
nella n, h. si accoglie T uso del ^
datiuus absolutus' : - Germ. 6, 14 * ìq uniuersurn a estimanti plus penes
paditein roboris \ n. h. XVI 178 '
proxirneque aestimanti hoc uideantur esse,
quod in interiore parte mundi papyrum ' : v. inoltre 15, 72. 16, 200; e cf. 36, 120. Costrutti
analoghi sì notano in Cesare, Virgilio, Livio, Ovidio. '• 3.** Degli aggettivi che, tanto nella Germ.
quanto nella » Vedi Tac. hisL 1 22,
11 ; 67 , 4 ; 88 , 5 ( ma ' minister ' col
genit. in hisL II 99, 13: cf. Verg. Aen. XI 658). II 1 , 2. Ili 6, I. IV 19, 6; 22, 17; 61, 15 ( ma • pignus *
col geoil. in hisL III 72, 4 ; 76, 4. V
8, 2. ann. I 3, 1 ; 22, 1 ; 24, 9; 56, 16. II 21, 13; 43, 27; 46, 23; 60, 18; 64, 18; 67, 12. Ili
14, 18; 40, 5 e 13. IV 60, 8; 67, 8. VI
20, 2 ; 36, 12 e 14; 37, 14. XI 8 , 4. XII 22, 10. XV 53, 5. etc. * Il Cocchia, sinL lai., § 73, IH, p. 159,
lo chiama 'd«t. iudicantis '. Vedi Draeger, ueber Syni. u. Si, d. Tao. 3, § 50,
p 24; e Valmaggi, comm hisi. Tac, lib.
II, p.' 96 II Constans, étude 8. l
lanyued Tac-y n.^ 91, p 51, nega C come lo Sghmalz, lat. Sf/ni. 426) che sia costruzione greca, e lo
crede « un datif de rinterèt atlénué »:
tuttavia, mentre egli ammette che nell'A/yr.
II, 10 « le datif n'est pas
douteux », per il 1. delUi Germ. 6, 14
dee « qu* il est trés probable »: n ^* 250, 2", p 114. 3 Caes b. e. Ili
80, 1. Verg. Aen. Vili 212. Liv.: cf. X 30, 4. Ovid. meL VI 656. VII 320. Cf. Tau Agr. 11, 10. hist II 50, 12. Ili 8, 6. IV 17, 16. V 11, 18: aggiungiamo Agr,
10, 12, conservandovi lì lez. * transgressis ', data dal cod.
Vatic. 3429 (A del Halm). B Renano,
seguito dal Halm ( e, nella ed. torinese deWAgr., 1886, p. 23, dal Decia) la
mutò in * transgressa ': il Ritter,
accogliendo la congettura del Busch, Tespunse. L'osservazione sul dat. assoluto
resta ferma, ancorché si voglia accettare l'emendazione del Doederlein, che fa
rientrare ' trans-^ gressis ' nella
proposizione seg., dopo * sed *.
142 n. /i., reggono il dativo,
ci sembrano degni di nota : aji> *
diuersus ' : Germ, 46, 11 ' quae omnia diuersa
Sarmatis sunt, in plaustro equoque uiuentibus '. n. h. XII 97 * pretia nulli diuersiora '. ^
Cicerone non evitò il costrutto col dat.,
" ma si avvalse anche di quello
COR' r ablativo. ^ h).'
auspicatissimus ' : Genn. 11, 5 ' agendis rebus
hoc auspicatissimum initium credunt '. * n. h. XVI 75 * spina nuptiarum faci bus auspicatissima '.
^ 4.° Quanto ai verbi composti che sono
usati col dat., ^ notiamo i sgg. : a) ' accedere ' : Gey^m. 4, 1 ' ipse eorum
opinioni bus ^ accedo '. n. h. IX 17 ' nec
me protinas huic opinioni eorum accedere
haud dissimulo ' : v. inoltre 6, 213. 7,
146. 15, 14. 32, 143. 34, 8. 37, 101. etc. Ma ess., tuttoché non
frequenti, ne avevano dato Ennio, Cicerone,
Nepote, Orazio, Livio, Velleio Patercolo, Columella, etc. ^ 1 'Dtiiemus* è costruito col genit. in
Tao. hist. IV 84,2. ann. XIV 19, 5.
« Cic. de leg, agr. II 32, 87. Cf. Vbll. Paterg. h. R. II 75, 2. 3 Clc. Brut 90, 307. •* Vedi Draeger, ueber Syntu. SL d. Tao, 3 ,
§ 206, B, b, p. 83. CoNSTANS, étude s l
langue d, Tae. , n.** 95, 3, p. 54. 5 Vedi 60pra, cap. I, A, III, 4.", pag. 35. 6 Vedi Av Lehmann, de tteròf'8 compos. apud
Sali, Caes., Tae. cum dat siruet,
Breslau 1863. 7 II Meìser e il Halm
sostituiscono * opinioni * ad *opinionibus'
che ò lez. data dai codd.: ò una sostituzione che non fa venir meno 'a nostra osservazione: v. la nota 3,
pag. 14. 8 Enn. ann. XIV fr 260, in
PLM., voi. VI, p 95, ed. Baehrens (cf.
Magrob $at VI 5, 10) Cic. ad Q. fr. I I, 1. ad Ait V 20, 3. Nbp I (Milt.) 4, 5. HoR. sai II 5, 71 sg.
Liv. XXVI 50, 12. VEJ.L Patebc. h i?. I
8, 5 C0J.VM de r r III 21, p. 398, 8. Cf.
-- 143 b) ' eximere ' : Oey*m.
29, 6 ' exerapti oneribus et collationibus '. n, h. XXX 51 ' canìnus (se. lien)
si uiuenti exinaatur et in cibo sumatiir
', e. q. s. La costruzione col dat. era
stata prima accolta da Plauto, Virgilio, Livio, Seneca, Curzio, etc. ' e) ' interuenire ': Germ. 40 , 7 '
interuenire rebus hominum '. n. h. XXI
68 * in Italia uiolis succedi t rosa,
buie interuenit liliura ' : v. 18, 342. 33, 127. È costruzione classica,
confermata dagli ess. di Cicerone. ^
5.*" Il dat. appare usato per complemento di un verbo passivo air infinito o in un tempo finito
semplice : ^ Germ. 16, 1 ' nuUas
Germanorum populis urbes habitari satis notum est'. 39, 13 * centum pagi iis
habitantur '. ^ n. h. II 247 ' quem (se.
Eratosthenen) cunctis QviNTiL. L 0. IX 4, 2. Tac. hist. I 34, 2 ; 57, 7 ; 59, 8 ;
70, 4. II 33, 1 ; 58, I. etc. 1 Plavt. mere, 127 (l 2, 17). Vero. Aen. IX 447. Liv. Vili 35,
5. Sen. de ben. VI 9, 1. Cvrt. hist A. M. VII l (l), 6. È dubbio se si
tratti di dativo o di ablativo nei ?gg. 11. : Hor. carm. II 2, 18. ep. I 5, 18. Liv. V 15, 3. VI 41,
2. XXVIII 39, 18. XLV 31. 12. CvRT. hist
A. M. VI 3 (7», 3; 11 (43., 24. Quanto alla
costiuzione col dat., cf. Qvintil. i. o. X 1, 74. Tao. ann. I 48 , 7; 64, 9. IV 35, 4. XII 56, 17. XIV 48, 9;
64. 2 (ma con Tablai. retto da * e ' in
Agr. 3, 14}: vedi ilcomm. del Nipperdey ad ann.
XiV 64. Per la condizione postclassica del v. 'eximere' col dat. nella prosa latina, v. Krebs-Schmalz, antib.
I, p. 497. 2 Cic. de or. II 3, 14. ad
Q. fr. l 2, 1,2. de fin. I 19, 63. Cf. Liv.
I 6, 4 ; 48, 1. XXIII 18, 6. Ovid. met XI 708. Tac. hist IV 85, li. 3 II dat. usato col part. perf. e coi tempi
composti di un verbo passivo è un costrutto più frequente, anche nei tempi
della latinità aurea. Vedi Cocchia, sint
lat , § 73, V, p 160. ^ Nei codd. si
legge ' pagis habitantur*: noi ci atteniamo all' enoendazione del Brolier, *
pagi iis habitaniur ' , accolta dal
Ma^sroenn, dal Riiler,d8l Halm, dal Kritz, dal Finck, etc La. 144
probari uideo * : v. 3, 9; 54. 16, 249. 36, 12. etc. Cicerone se n' era
avvalso, sebbene di rado, massime con r
intendimento di significare un'azione vantaggiosa all' autore di essa. ^ IV.
Ablativo: 1.** All'accusativo
predicativo trovasi sostituito l'ablativo ' loco ' col genitivo : Ge?^m. 8, 9 *
Velaedam diu apud plerosque numinis loco
habitam '. n. h. Vili 173 ' est in
annalibus nostris peperisse saepe (se. mulas),
uerum prodigii loco habitum '. La sostituzione è riferita anche al
nominativo : n. h. XXXIII 46 ' hic nummus {se. uictoriatus) ex lUyrico aduectus
mercis loco habebatur': cf. 11, 191.
Cicerone, Cesare e Bruto avevano dato i primi ess. di tale uso sintattico.
^' 2.° L'ablativo di luogo appare privo
della prep. ' in ' nei sgg. 11. della
Germ.: 10, 13 Msdem nemoribus.ac lucis'.
37, 3 * utraque ripa'. 40, 18 ^ secreto làcu abluitur '. etc. Lo stesso
osservasi nella n. h. II 168 ' siue ea {se. palus Maeotica) illius oceani sinus
est...., siue congettura deir
Ernest!, ^ pagis habitaot ' , fu seguita dal Dilthey, dallo Zernial, da Io. Mueller, etc. Il
Kiessiing riproduce la lez. dei codd ,*
quamquam nibil', egli soggiunge, op. e, p. 143,
' adhuc ex scriptoribus Latinis afferri potuit, quod hunc huius uerbì usum confirmaret*. 1 Cic. pari. or. 5, 15 m Verr. V 45, 118. ad
AH. 1 19, 4. Tuse. V 24, 68. de off. Ili
9, 38. Cai. m. 11, 38. Cf. Tag. Agr. 10, 7.
hi9i. I 11, 9; 27, 9; 35, 8. II 80, 21 ann I 11, 11; 17, 23. II 57, 18. XII 1, 9; 9, 8 etc. « Cic. de inu. rhei. II 49, 144. de dom. s 14, 36. ep. (ad fam.) VII 3, 6. Caes. ò. G. vi 13, 1. Brvt. in Cic.
ep. ad Brut I 17, 5. Cf Tac. hisi. II 91, 2. IV 26, 7. ann. XIII 58, 4. Vedi Cocchia, ami.
laL, § 12, V, e, p. 18. 145 angusto discreti situ restagnatio \ Vili 99
' hiberno situ membrana corporis obducta ' : y. 6, 74. 10, 62. 19, 48. 25 , 63. etc. * Nella Germ. si accoglie
anche 1' uso della prep. ' in ', quando
con 1' ablat. di luogo si accompagni il pron. * idem ', p. e. 12, 10 * in isdem
conciliis ', che sintatticamente risponde al 1. e. sopra, 10, 13 ' isdem nemoribus '. Similmente nella n.
h, 2, 205; 219 osservasi 1' espressione
' in eodena loco '. ^ Così nella Germ.
36, 1 si legge ' in latere Chaucorum ' :
costrutto accolto nella n. h. 3, 22. 9, 50. 35, 22. etc. , ma rifiutato in 2, 73; 168. 4, 40; 110. 5,
72; 74. 6, 191. 24, 160. etc. ^ 3.** Gli aggettivi ' ferax ' e ' ingens '
sono usati nella Germ. con un
complemento di relazione in ablativo :
a) Germ. 5, 4 ' satis ferax ' : al contrario n. h. XV 100 ' qui {se. acini) minime feraces musti '.
Il costrutto 1 Potremmo aggiungere n.
h. XXXVII 19 * exposìta occuparent iheatrum peculiare trans Tiberim h o r t ì s
' secoado la lez. data dai codd. e dalla
* uulgata ', accolla neir ed. Harduin, II,
p. 767, 9, ma rifiutata dal cod. Banberg. e dalle edd. Jan (vo^ V, p. 145, 38) e Mayhoff (voi. V, p. 388,
10}, che ammettono ' in hortis •. Cf.
Tao. hisL I 64, 17. II 1, 13; 43, I ; 50, 9 ; 62, 2; 66, 4. III 22, 15; 38, 3; 61, 5. V 5, 21. ann. I
61, 12; 65, 20. Ili 38, 10. IV 43, 9.
XlV 61, 3. etc. 2 Negli scritti di Tac.
si preferisce, in tal caso, respingere la
prep. * in •; valgano d'es. hisL I 55, 10. II 45, 12. Ili 13, 16; 72, 17. IV 53, 4. ann. I 31, 12. II 24, 11. XIV
44, 12. etc. Vedi la monografia di F.
Schneider, quaesL de obi. usu Tao., I, Lìgniciae 1882. 3 Tac. accolse tale costrutto in ann. III
74, 10; lo rifiutò in ann. XV 38, 17.
Per V uso classico dell* ablat. di luogo senza
la prep. * in ', v. Cocchia, sinL lai., § 78, I, p. 178 sgg. Consoli, La Germania comparata. 10 146
col complemento in ablat. è dato da Virgilio; ^ m&. il costrutto col genitivo è presentato da Orazio
, Livio , Ovidio , e seguito da Valerio
Fiacco , Tacito , etc. ^ : d' onde
quella incertezza d' uso, che si osserva in Plinio il giovane, ^ salvo che si
voglia attribuire quella che può parere
incertezza, a difTerenza di significazione, secondo che propria o in traslato,
della v. ' ferax '. b) Genn. 37, 2 * parua nunc ciuitas, sed gloria
ingeas ' : cf. n. h. 23, 75. Il costrutto di
' ingens ' con r ablat. era stato
adoperato da Virgilio : * Sallustio
preferì, invece, il costrutto col genitivo. ^ D
Le osservazioni che seguono si restringono a determinare le relazioni
sintattiche concernenti 1' uso dei modi:
quello che e' è da dire in rapporto all' uso dei tempi, sarà trattato in dipendenza dall' uso
dei modi del verbo. 1 Vero, georg. II 222 * illa ferax oleosi
' (Ribb.) , o maglio ' oleo est \
secondo la lez. preseatata dai codd. Palat. e Rom., confermata da Nonio Marcello (p. 500, 23 ed.
Mere; p. 341, 6 ed. Gerlach-Roth) e da
Arusiano (VII 473 K). « HoR. e. aaee. 19. epod. 5, 22. Liv. IX 16, 19. Ovid. mei.
VII 470: cf. am. II 16, 7. Val. Flagg.
Argon. VI 102. Tac. ann. IV 72, 9.
etc. 3 Plin. episi. IV 15, 8 * ferax...
bonis artibus *. II 17, 15 * arborum .. ferax *. Vedi Draegbr, hist Synt, §
206, 3, p. 441 sg. ueber Synt u. Si. d. Tac. 3, § 71, a, p. 33. 4 Vero. Aen. XI 124; 041. Cf. Stat. sii. I
4, 71 sg. Tac. hisL I 53, 2; 61, 1. II
81, 3. ann. XI 10, 12. XV 53, 7. 5
Sall. hisi. III 10, ed. Kritz. Cf. Tac. hist IV 66, 17. ann. I 6% 4.
147 I. Indicatwo:
1.** L' indicativo retto da * dum ' conservasi anche nelle proposizioni subordinate che si trovino
in dipendènza da altre subordinate: Oerm. 12, 5 ' diuersitas supplicii illuc respicit, tamquam scolerà
estendi oporteat , dum puniuntur, flagitia abscondi '. Lo stesso si osserva nella n. h. XXVII 42 *
uolneribus sanandis tanta praestantia est, ut carnes quoque, dum cocuntur, conglutinet addita '. ^ Cicerone ne
aveva dato qualche raro es., seguito poi da Livio e da altri scrittori. ^ 2."* Risponde all' uso sintattico più
corretto * prout ' con r indicativo :
Germ. 3, 6 ^ prout sonuit [acies '. n. h. XII 121 ' prout quaeque res fuìt \ XXXI 58 *
prout res exiget ': v. 10, 180. ^ Ma in Plinio si amplia l'uso di
' prout ', talché questo occorre anche col soggiuntivo: V. n. h. 2, 152. 5, 51.
28, 17. 29, 30. 33, 164. ^ 1 Si
accompagna anche col soggiuntivo nella n. h. XXVIII 1 70 * carnesque uesci eas et, dum coquantur,
oculos uaporari iis praecipiunt '. « Cic. p. Cluent 32, 89. de fin. V 19 , 50. Liv. XXIV 19, 3. CvRT. hi8i. A, M. VII 1 (3), 18; 8 (34), 14. etc. Cf. Tao. héat. I 33, 6. Ili 38, 22; 70, 12. V 17, 6. ann. II
81 , 9. XIII 15 , 24. XIV 58, 15. XV 45,
16; 59, 13. Idial de oraioribus 32, 34J. Vedi Draeger, ueher Synt a. SL d. Tao.
», § 168, p. 68. Cocchia, 8int lai, §
173, IH, a, p. 417. Frigell, epileg. ad T, Liuii Cosi Cic. in Verr. II 34, 83.
ad AH. XI 6, 7. Caes. 6. e. Ili 61, 3.
Liv. XXXVIII 40, 14; 50, 5. Cf. Qvintil. i. o. I 7, 2. VII 2, 57. Tac. hisL I 51, 17. Il 10, 9. ann. XII
58, 9. idial de oraiorihm 31, 20]. 4
Vedi SBN. ep. XII 3 (85), 11. Tac. hist I 48, 20; 59, 5 ; 62, 15. ann. XII 6, 15. XIII 8, 12. Vedi inoltre
Valmaggi , eomm. hist Tae. I, p.
22. 148 3.** La cong. causale ^ quaQdo ' è ordinata
con l'indicativo: Germ. 33, 8 ' duretque gentibus, si non amor nostri, at certe odium sui , quando... nihii
iam praestare fortuna maius potest quam hostium discordiam '. n. h. XVIII 126 ^quando alius usus
praestantior ab iis non est': v. 17, 13;
16. 21, 1. 34, 57. etc. Numerosi sono
gli ess, di tale costrutto presso gli scrittori anteriori. ^ Nella n. h,
trovasi anche la cong. ' quando '
ordinata col soggiuntivo : XVII 27 ' neque fluminìbus adgesta semper laudabilis, quando senescant ^
sata quaedam aqua ' : v. 10, 58. dub.
semi. XIII, p. 44, 14 sg., ed. Beck. Lo
stesso costrutto col soggiuntivo si osserva in Livio e, poi, in Tacito. ^ 4.** L'espressione ' ut qui ' con l'
indicativo si nota nella Qerm. 22, 2 *
lauantur saepius calida, ut apud quos
plurimum hiems occupat': cf. n. h, 30, 10. Nella n. h. si accoglie ' ut qui ' col soggiuntivo
: XXXI 83 ^ quercus optima, ut quae per
se ci nere sincero uim salis reddat ' : v. 18, 134. 36, 120. ^ Certo è che nel
mi 1 Plavt. cist 116 (I 1, 118). Ter.
adelph. 287 (II 4, 23;. Cic top. 5, 26. de fin. V 23, 67. Tuse, IV 15,
34. Sall. lug. 102, 9. Vero. Aen. X 366.
Hor. sai. II 5, 9; 7, 5. Liv. XXXIX 51, 9.
Cf. SiL. IT. Pun. XIII 768. Tag.
hi$i. I 87, 1 ; 90, 10. ann. I 44, 12.
Vedi Cocchia, Bini, lai., § 169, VI, avv. 2, 6, p. 407. * La lez. * senescant ' nel 1. e. della n.
/i. ò presentata dai codd. e confermata
dal Mayhoff, voi. Ili, p. 72 , 14 : nella ed.
Sillig. (v. Ili, Hamb. e Gotha, 1853) si legge 'senescunt'. 3 Liv. Ili 52, 10. Tac. hisi li 34, 4. IH 8,
13. ann. IV 64, 10. XII 6, 2. 4 Agli ess. dedotti dalla n. A. si può
aggiungere 31, 31, ove si voglia
accogliere la lez. * ut quae *, che ò presentata dai codd. Paris. 6795 e Riccard.», e accettata
dalla ' uulg. * e dalle edd. Harduin.
II, p. 551, 6; Mayhoff, voi. V, p. 12, 9: il Jan, voi IV, p. 266, 2 la rifiuta. 149 -^
giior tempo della lingua latina si diede la preferenza al soggiuntivo; ^ e qualche es. contrario che
osservavasi in Cicerone, è stato convenientemente emendato dagli editori moderni. ^ Negli scritti di
Tacito appare costantemente la
costruzione col soggiuntivo. ^ II. Soggiuntivo : 1.** Osservasi, talvolta, il presente del
soggiuntivo retto da ' donec ', per
indicare una circostanza reale o
un'azione che si suole ripetere per abito: Germ. a) 1, 10 ' donec in Ponticum mare sex meatibus
erumpat '. 35, 5 * donec in Chattos
usque sinuetur '. h) 20, 5 ' donec aetas
separet ingenuos, uirtus adgnoscat '. 31, 10 * donec se caede hostis absoluat
': v. inoltre 31, 16. 40, 16. Ai 11. ce.
della Germ. si possono confrontare i sgg.
> Cic. Phil XI 12, 30. Caes. 6. G. IV 23, 5. Livio accoglie tanto la
costruzione con 1* indicativo : V 25, 9 ; quanto quella col soggiuntivo. Vedi Riemann, op. e , § 115, n.
3, p. 291. Cocchia sint lai, § 160, III,
ò, p. 372 sg. s Cosi, p. es, in Cic. ad.
AH. IV 16, 6 leggevasi prima • ut qui
iam intellegebamus * (v. ed. Nobbe, p. 847) ; ora si legge * quod iam i. * (v. ed. Alb. Sad. Wesenberg,
par. Ili, voi. II, p. 148, 10, in cui il
1. e. ò trasportato in IV 17 (18), 3). Parimente ad Ali. Il 24, 4, nel passo ' utpote qui
nihil contemnere soleinus, (V. ed. Nobbe, p. 834), si ò sostituito 'soleamus'
nella cit. ed. Wesenberg, voi. cit., p.
85, 20. 3 Tac. hist III 25, 4. ann. II
10, 12. IV 62, 6. etc. : perciò il
Prammer sostituisce nel testo della Germ. 22, 3 ad ^ occupat ' la forma del soggiuntivo ^ occupet *. Il Halm
, al contrario, estende r accezione dell* indicativo dal 1. e. anche al 1.
della Germ, 17, 6, supplendo il v. «eat*
nella frase ellittica * ut quibus nullus per commercia cultus ' : v. Germ ed.
Halm, Lps 1883, p. 231, nota. -150 della n. h.: IX 133 * donec spei
satis fiat, uritur liquor \ XVIII 103 '
postea operiuntur in uasis, doaec acescant ':
e similmente 30, 86. 34, 122. etc. Se ne erano dati degli ess. prima da
Orazio, Livio, Curzio ed altri. ^ Ma
nella Germ. 37, 24. 45, 19 la v. ' donec ' si accompagna, secondo l'uso
sintattico comune, con V indicativo.
2.** La deviazione sintattica di ' quamquam ' col soggiuntivo appare
prevalènte nella Germ.j poiché per otto
volte che tale voce è adoperata, in due (5, 13. 17, 14) si nota al principio di una proposizione
principale, in funzione , come osserva
il Draeger, ^ di avverbio ; ^ in un 1.
(4, 5) non è seguita da un verbo di modo finito; in quattro 11. (28, 20. 29, 15. 35, 3. 38, 4)
regge il presente il perfetto del soggiuntivo : in un 1. (46, 3) si accompagna col presente indicativo. Dello
stesso modo osservasi nella n. h. la v.
' quamquam ' col verbo all' indicativo (16, 161 ; 204 ; 206. etc.) o al
soggiuntivo (18, 125 : cf. dub. serm. II
i, p. 20, 13 , ed. Beck ) : si osserva
anche ' quamquam ' coi participi: v. 15, 52. 18, 265. 19, 50. 25, 87. 26, 21. 30, 13. etc. ; e
con gli aggettivi: V. 15, 52. 29, 1. 30, 13. etc; talvolta si riferisce ad un
verbo sottinteso : v. 3, 55. 8, 120. 16, 151.
34, 62: cf. dub. serm. II e^ p. 14, 27, ed. Beck. Or, la deviazione sintattica di ' quamquam '
col soggiuntivo, la quale è notata di preferenza nell'età impe 1 HoR. ep, I 18, 63 sg. II 3, 155. Liv. XXI 10, 3. XL 8, 18. CvRT. hisL A M IV 7 (31), 22. Cf Qvintil. L a XI 3,53. Tac.
hist II 1, 8. Ili 47, 17. V 6, 21. anr^, II 6, 16. etc. Vedi RiBìfAKK, op. e, p. 297, n.
1. 2 Drabgbr, ueber Synt u. Si. d.
Tacs, § 201, p. 81. 3 C£ Tac. ann. XII
65, 12. Idial de oratoribua 2B, 9^ 33^ Ili.
riale , appunto perchè allora , per etócàcia dèi ^rlafé del volgo, sì cominciò a far confusione tra
le funzióni del modo indicativo e quelle
del soggiuntivOj mostrasi anche nell'
età aurea della prosa latina , ma solo nel
caso che il pensiero che s' intende esprimere richieda, indipendentemente dalla presenza di '
quamquam ', raso del soggiuntivo nella proposizione; come, p. es., per indicare possibilità o condizione : *
talvolta, e ciò bófte avverte il
Rieraann, 2 pare che la deviazione si debba
attribuire ad errore di copisti.
3.** Il soggiuntivo nelle proposizioni relative , tanto consecutive quanto finali, è d'uso ordinario
nel latino: Gef^m. 29, 4 ' in eas sedes
transgressus, in quibus pars Romani
imperii flerent '. 32, 2 * quique terminus esse
sufflciat '. 35, 8 ^ quique magnitudi nem suam malit iustitia tueri \ n,
h. XXXIII 84 ' remedium abluere idlatum
et spargere eos, quibus mederi uelis ': v. 34, 122; 134. etc. ^
4. Per il tramite della frase pliniana, n. h. XXXVI 113 ' cuius nescio an aedilitas maxime
prostrauerit mores \ modellata sulla
frase di Cicerone, de fin. V
3, 7 ^ quem... haud scio an recte
dixerim principénl ', dò 1 Varr. in
Gbll. n. A. XIV 8, 2. Cic. de or. II 1, 1. Ili 7,
27; 26, 101. p. Piane. 22, 53. de fin.
Ili 21, 70 (v. comm. Madvig). Tuse. I
45, 109. V 30, 85 (v. comm. Kuehner). de
legibus IH 8, 18. Nep. XXV (Att) 13, 6. Sall lug. 3, 2. 83, 1. Cf. Verg. Aen.
VI 394. Liv. XXXVI 34, 6. Tao. Agr. 3, 1. 13, 5. hist. I 9, U. II 20, 5. Idial de oraioribus 34, 14]. « RlEMANN, op. e, § 126, p. 300 sg. V.
iaoltre Cocchia, slni. lai, § 181, III,
p. 444. Georges, ausfuhrl. Handwb., II, e. 1906. 8 Per la conferma con ess. di Cic. v.
Cocchia, séni, lai, § 160, I e II, p.
366 sgg. Cf. Tag. Agr. 34, 12. hf'ai. I 15, 18. IV 8Ì^ 3. ann. I U, 9; XV 47, 6. etc. 152
vette, probabilmeQte, penetrare nella elocuzione della Germ. e di altri scritti dell' età argentea ^
V uso del perfetto soggiuntivo
potenziale nelle proposizioni subordinate: Germ. 2, 5 ' immensus ultra utque
sic d i x er i m aduersus Oceanus raris ab orbe nostro nani bus adi tur '.
Infinito : 1.° Dell' infinito
descrittivo si hanno ess. nella n. h. :
V. 14, 6. 28, 146. etc. ^ Nella Germ. V infinito descrittivo giunge a
penetrare nelle proposizioni relative improprie. 7, 11 ' et in proximo pignora,
unde feminarum ululatus a u d i r i ,
unde uagitus infantium '. ^ Sallustio aveva ammesso l' infinito descrittivo
nelle proposizioni comincianti col pronome relativo; * e l' es. di lui fu in più luoghi continuato da Tacito. ^ 1 Vedi QviNTiL. i. o. V 13, 2. Tao. Agr.
3, 13. ann, XIV 53, 13. Idial. de
oraioribus 34, 8. 40, 19J. Plin. episL II 5, 6. pan 42, 3.
2 Si notino gli ess. analoghi di Vbrg. georg. I 200 (cf. Aen, II 169). Aen. IV 422. VII 15. 3 Cf. Tag hist. IV 80, 13. ann. VI 19, 12. Alcuni annotatori e editori della Germ. non hanno accolto la
forma ' audiri ' nel 1. e, perché, come
scrive il Kritz, op. e, p. 47, * infinitiuus historicus ut iam per se h. 1.
ferri nequit, ita multo minus ex
relatiua particula aptus esse potest ' ; ed hanno mutato * audiri * in * auditur ' ( Kritz ), '
audiunt ' (Madvig), * audias ' (Woelfflin),
* audiant ' (Hirschfelder), * est audire * (Schuetz e Maehly): il Heraeus ha aggiunto * possit '
dopo * infantium *; il Ritter ha espunto
* audiri '. 4 Sall. lug. 70, 5 *
litteras mittit, in quis mollitiam socor diamque uiri accusare, testari deos '
e. q. s. 5 Tac. hist I 52, 16; 81, 4.
Ili 63, 13. IV 84, 3. Vedi P.
153 2.** Tra i verbi che nella Germ.
si accompagnano con r infinito, invece
di reggere, secondo l'uso più comune per
alcuni di essi, il soggiuntivo con * ut ' o * ne ', notiamo i sgg. : '
coarguere, consentire, obsistere, persuadere , quaerere, suflìcere '.
Ommettiamo di trattare dei vv. '
coarguere, ' obsistere, *• sufflcere ', ^ perchè non ci è dato trovarne adatto riscontro né nella n.
h. né negli scritti di Tacito : è
probabile, però, V analogia di costrutto tra ' obsistere ' con l' infinito e
^prohibere ', che Plinio usò pure con V
infinito. * Crbusny, de U8U inf. hiat
ap. Tao. ; in Méaeel philol. liòellus,
Bresiau 1863. * Il V.
'coarguere' costruito con TinfiiL appare, oltre che nella Germ, 43, 4, anche in Qvintil. L o. IV
2, 4 e in un 1. del 6. Alex, 68, 1, che
sia letto, però^ come è presentato dai
codd., cioè col v. ' coarguisset * dopo T infinito * recipere *, e
non come leggesi ora neir ed. B.
Kuebler. Lps. 1896, p. 43, 26, col V. *
coarguisset * mutato di posto. * Il V.
* obsistere * con l' infìn. si nota nella Germ. 34, 11 * obstitit Oceanus in se
simul atque in Herculem ìnquiri '. Presso
gli altri scrittori si accompagna col soggiuntivo retto da ' ne ' o * quo minus ' ; p. es. Plavt. miì. gì 333 (
II 3, 62 ). Cic. in Verr. V 2, 5. ad AH,
VII 2, 3. de nai, d, II 13, 35. Nbp. I (MilL)
3, 5. etc. •* * Suflìcere * con
V infin. è costrutto poetico , dato da Vero.
Aen. V 21 sg. , e ripetuto nella Germ, 32, 2 * quique terminus esse suflìciat *. Plinio Secondo preferi
accompagnarlo col gerundio dativo: v. n. A. 13, 79. 18, 249. 36» 57; o col
gerundio accusativo retto da 'ad *: v.
n. h, 24, 147. Plinio il giovane lo
associò con * ut* o 'ne* e il soggiuntivo: v. epist IX 21, 3; 33, 11.
4 Plin. n. h, XXII 90 * Cleemporus nigro prohibet uesci ut morbos facìente '. Cf. Tag. hist, I 62, 13.
ann,\ 69, 3. Vedi Madvio, lai, SprogU § 344 e § 350 Anm. 3, pp. 239, 244.
Cocchia, 9ini, lai, , § 168, I, avv. 6,
p. 391. -184 a) La oastruzione del v.
^ consentire ' con V infinito sì nota
nella Oerm. 34, 9 * in claritatem eius referre
consensimus \ Nella n. h. si ha tanto la costruzione con r infinito : XVII 80 ^ Graeci auctores
consentiunt non altìores quìno semipede
esse debere': v. 18, 312; quanto la
costruzione con * ut ' e il soggiuntivo : XIV
64 * Tiberius Caesar dicebat consensisse medicos ut nobilitatem
Surrentino (se. nino) darent \ La costruzione
con r infinito non fu estranea a Cicerone e Quintiliano ; ^ ma nemmeno
fu trascurata quella con * ut ' e il
soggiuntivo. 2 h) Il V. '
persuadere ' è usato con V infinito nella
Germ. 14, 16 * nec arare terram aut exspectare annum tam facile persuaseris '. La n. h. presenta *
persuadere ' tanto con l' infinito : XXIII 40 ^ at nos e diuerso fumi amaritudine uetustatem indui persuasum
habemus ' ; quanto con * ut ' e il soggiuntivo : XXXVII 88 * persuasimus deinde Indis, ut ipsì quoque
iis gauderent '. ' e) La costruzione
del v. * quaerere ' con l' infinito, nel
senso di « ad oprarsi , cercare , tendere », appare gradita ai poeti: * osservasi nella Oerm. 2,
3 * classi i Cia de leg. agr. I 5, 15.
Phil. II 7, 17. IV 3, 7. Qvintil. L e.
Ili 7, 28. IX 1, 17. etc. Cf. Tao. ann. VI 28, 7. « Vedi Liv. XXX 24, II. ' Per la dìffereuza neiriuK) classico tra '
persuadere ' eoi ^ggìuotivo cetto da * ut ' o senza, vedi Cocchia, sint tei, g
163, X, avv. 1, a ed e, p. 380. * LvcR. de r. n. I 103, Vbrg. Aen, IV 6Sl. Hor. eai^m. ì 16, 26. OviD. am. I 8, 51. episi, (her.) 12, 176. irèst V 4, 7. Phabdr. fab^. m proL 25. IV 9, 2. ete. ^ 166 bus aduebebantur qui mutare secles
qui^rebant * ^ * e nella n. h. Y 54 ^
Inter occursantis scopulos noB floere
inmenso fragore quaerit sed ruere '. Vili 214 * potia» simum e monte
aliquo in alium transilire quaerens*.
Non è certo cbe un costrutto consimile sia stato fpi^ ma adoperato da Cicerone. Participio: 1." ^ Velut ' è usato con un
participio, iaveoedi ìmm proposizione
retta da * uelut si ' : Oerm, 7, 7 * uelut
deo imperante', n. h. X 47 ' uelut ideo tela iigiiAta cruribus suis intellegentes '. In Livio tal^
uso notasi più di frequente. ^ Z."" Participio perfetto aoristico
: Germ. 40, 11 * is adesse penetrali
deam intellegit uectamque bubus feminis
multa cum ueneratione prosequitur '. n. h.
XXXVII 54 * nunc gemmarurn confessa gea^ra dicemus ab laudatissimis
orsi': v. inoltre Zy 44, 5, 54. 1 U.
Zernial, commentando il 1. e. della Germ. p. 19, %vv^.rte: « quaerebant e. inf.
bei Tao. nur hier >. t In un 1. di
Cic. de inu. rhet II 26, 77 s? legge : ^ quaerat tamen aliquam defensionem, et facti
inutilitatem aut turpitudinem cum indignatione ppoferre '. Ma i codd.
Herbipolit. {H) il Paris. 7774 A (P) e
il Sangall. (5) ommettoùo T infln. * proferre', che il Friedrich (Lps. 1893,
par. I, voi. J,p. 201, 16-17) chiude tra parentesi quadre. Ammessa, per tanto,
V Interpolazione del V. ' proferre*, si
avverte nell'an^eò. Krbbs-Sghmalz, II, p.
395, che il costrutto di cui ò discorso « ist nicht nachzuahmen » ; e il
Georges, ausjuhrl Handtob. , lì, e. 1896 , citando in proposito la hisi Synt III 301 der
Draeger, nota che in questa è da cancellarsi Tes. di Cic. de ina. rhet , 1.
e. 3 Liv. I 14, 8; 29, 4; 31, 3; 53, 5. Il 12, 13.
XXV 39, 4. etc. Cf. Tao. hi8t. IV 70, 5;
71, 7. 11, 22; 187; 217. 16, 163. 30, 1. 34, 63.
36, 54. etc. L'uso del participio perfetto aoristico si nota prima in Cicerone, Cesare ed altri. ^ 3.** Participio futuro attivo nelle funzioni
di una proposizione subordinata : Germ. 3,1* Herculem memorant, primumque
omnium uirorum fortium i t u r i in
proelia canunt '. n. h. XXXV 92 ' Apelles inchoauerat et aliam Venerem Coi, superaturus etiara
illam suam priorem ' : v. inoltre 7,
143. 16, 10. 17, 9; 173. 25, 22. 26,
117. 29, 19; 29. 34, 36. 36, 119. 37, 20. etc.
L' uso sintattico di cui si è fatta menzione, fu evitato nella latinità aurea, ^ e, come è noto,
cominciò a prevalere da Livio in poi. ^
1 CiG. p. Mur. 30, 63. Gaes. ò. G. II 7, 1. V 7, 3. VII 32, 1. etc. Quanto ai confronti con 11. di Tac, v.
Draeger , ueber, Synt u. St d. Tac. 3 ,
§ 209 , p. 84. Vedi anche Madvig , lai.
Sprogl, § 382, 6, p. 263. Cocchia, aint lai. , § 128, 6, IV, avv.
1.% p. 282. Ramorino, i eomm, de b. G.
ili. pp. 68, 156. 2 Vedi Madvig, lai.
Sprogl, § 377, Anm. 5, p. 260 sg. GandiNO, 8ini. laty I, es. 4, n. 3, p. 6
sg. 3 Cf. Tac Agr. 31, 2. hist. I 27,
17. II 53, 7. ann. 128, 1; 31, 4; 36, 5;
45, 8; 46, 7. II 17, 4. etc. Quanto ai numerosi ess. che presenta Tito Livio, v. Guethling, de T.
Liuii orai, diì^puiatio^ LiegQitz 1872,
cap. II, p.5 sgg. Kuehnast, die Hauptpunkte d.
lioianischen Synt, Beri. 1872, p. 267 sgg. Vedi anche la monografìa di
F. Helm, quaesL synt. de pariie. usa Tac. Veli.
Sali , Lps. 1879 ; e la monografia di S, Lichotinsky , suir uso del participio in Tac, Kiew 1891. Relazioni sintattiche tra la Qermania e le opere di Tacito. Le più notevoli relazioni sintattiche tra la
Germ, e gli scritti di Tacito sono state
rese evidenti, mediante appositi
confronti segnati nelle note, nel cap. precedente, in cui si sono trattate le
relazioni sintattiche tra la Germ. e la
n. h, di Plinio : nel presente capitolo ci restringiamo, per evitare inutili
ripetizioni , a notare quelle poche
relazioni sintattiche tra la Germ. e le
opere di Tacito, per le quali non siamo riusciti a trovare nella n. h. dei termini sicuri di
confronto. L Quanto agli usi particolari di alcune parti
del discorso, notiamo : 1.** iPpron. Mpse ', in funzione appositiva
al soggetto, trovasi unito con un part. perf. passivo costrutto assolutamente, par supplire alla mancanza del
part. perf. attivo : Germ, 37 , 15 '
quid enira aliud nobis quam caedem
Crassi , amisso et ipse Pacoro, infra
Ventidium deiectus Oriens obiecerit? '. Agr. 25, 21*diuiso et ipse in tris partes e x e r e i
t u incessit': cf ann. XIV 26, 2.
Analoghi costrutti presenta Livio nelle frasi : ' causa ipse prò se dieta, quindecim milibus aeris damnatur '. ' dimissis et ipse * adticis nauibus .... nauigare Aegyptum
pergit '. ' È 1 Liv.
IV 44, 10. XLV JO, 2: cf. XXX VIU 47, 7. Vedi Naegels3ACH, lai. Siy § 97, 2, 6,
p. 262 sg. possibile che tale uso del
pron. * ipse ' sia stato introdotto dopo l'uso analogo fatto da Sallustio del
pronome * quisque \ * 2.** La
particella comparativa ' quam ' è adoperata,
talvolta, con V ellissi dell'avverbio corrispondente * potius ' ; Germ.
6, 20 * cedere loco, dummodo rursus instes, consilii quam formidinis
arbitrantur'. hist. Ili
70, '6 * ctir enim e rostris fratris
domura quam Auen Untim et penates uxoris petisset ? ' : v. inoltre hist IV 5B, 6; 83,
20. ann. I 58, 6. IH 17, 16; 32, 9. V 6, 10.
Xin &y 16. XIV 61, 22. etc. L'ellissi di ' potius ' not»sA pure in
Plauto, Nepote, etc. ^ 3.*^ Quo modo '
è usato ad esprimere paragone, coalpe *ut*: Germ. 41,2 *quo modo paulo ante
Rhenura, aie ttunc Danuuium sequar '.
Agr. 34 , 6 ' quo modo eiiutts saltusque
penetrantibus fortissimum quodque animal centra mere, pauida et inertia ipso
agrainis sono p^Ilebantur, sic acerrimi
Britannorum ìam pridem ceciderunt '. ann. IV 70, 14 ' quo modo delubra^et
altafìa, sic carcerem recludant ' : v. ann. IV 35, 7. XVI 31, 8; 32, 14. [dial. de oratoripus 36, 35].
Quanto alla rispondenza * quo modo - ita
', \*. hist. IV 8, 19; 1 SAll. lug,
18, 3 ' multis sibi quisque itnperium petentibus \ Pel Bignificato di ' et ipse ' in casi
aualoghi, v. la monografia di J. Prammer
, ' et ipse ' bei Tae. ; iù Zisehrf. f. d, oesierr. Gymn, 1881, 500; e il comm. del Valmaggi a
Tae. hist I 42, J, p. 69 ; Il 33, 17, p.
62. * Plavt. rud. 1114 (IV 4, 70).
Afe/i. 726 (V 1, 26). Nep. XIV (|)at.)
8, 1 ' statuii congredi quam ' cet. , secondo 1* ed. Halm ; ina accolta la congettura del Fleckeisen '
statim maluit con»gnodi^V si rendei non adatta la nostra citaxióne^ Cf. Val.
Flagg. Argon. VII 428. 169
64, 18; 74, 9. ann. XIV 54, 5. XV 21,5. XVI 16, 11.» Anche in Cicerone, oltre al significare
domanda o ammirazione, osservasi V espressione ' quo modo ' adoperata in
correlazione con ' sic ', di rado * ita '. '^
4.'' La prep. ' ex ' talvolta è usata con significato modale : Germ. 7, 1 * reges ex nobilitate,
duces ex uirtute sumunt ' : v. 3, 18. Agr. 40, 10 ' siue uerum istud, giue ex ingenio principis fictum ac
compositum est '. hist. I 27, 16 *
animum ex eaentu sumpturi ' : v. inoltre hist. 1 82, 14. II 85, 18. ann. 1 58,
4. Ili 69, 7. IV 64, 5. VI 11, 16. XllI
9, 4; 46, 19. XV 72, 3. etc. Di tale uso
della prep. ^ ex ' si notano numerosi ess« presso gli scrittori precedenti. ^ 5.** La prep. * per ' ha valore modale neir
espressione ' per otiura ': Germ. 15, 1 ' non multum uenatibus, plus per otium transigunt \ ann. I 31, 12 '
isdem ae^ stiuis in finibus Vbiorum
habebantur per otium aufc leuia munia
Notevoli ess. ne avevano 1 V. il
comm. del Heraeus a Tao. hist III 77. * Cic. de leg. agr. II 1, 3. aead. pr. II 12, 38
; 47, 146. de fin. Ili 20, 67. Tùse. I 38, 91. Ili 17, 37. IV 13, 28. V 7, 18. de legibua I
12,33. de off. I 38, 136. É inesatta, per ciò, raffermazioue delio Zernial , op. e. , p. 80 , che è « *
quo modo ' =: ' ut ' im
VergleìchuDgssatze wie Agr. 34, 6; bei Cic. nur in dar Frage ».
3 Tbr. haut 203 a 2, 29;. Varr.
de l. L. VI 7, 64, p. 96, 12 Sp. CiG. de
ina. rhei. II 45, 132. p. Quinci. S, 30 e 31. dia. in, Caeeil. r», 19. ep. (ad fam.) II 7, 3 ; 13, 4. XII 4, 2. XIII 56,
3. de fin. II 11, 34. etc. Liv. I 23, 7;
40, 6. V 14,2. XLII 23, 6; 25» 11; 30,
6, Vedi Drabgèr , hist Sini, § 287 , 2 e 6, p. 592 sgg. ; u^er Synt u. St d. Tae. 3, § 96, p. 41. ^ et A. G^RBBR, nonn» de usu praepQ8.ap.
ITac, Glueckstadt 1871. 160 dato prima Cicerone e Livio.
* 6.^ La rispondenza' siue -seii ', che
si osserva nella Germ. 34, 8 ' siue
adiit Hercules, seu quidquid ubique
magnificum est, in claritatem eius referre consensimus ' ; e negli ann.
XIV 59 , 1 ' siue nullam opem prouidebat
inermis atque exul , seu taedio ambiguae
spei ' : V. XII 8, 1 ; 26, 8 ; fu prima applicata da Virgilio: ^ e dal
modo di applicazione il Woelfflin ne dedusse che € dieso Variation flndet sich
nur bei ungleich gebauten Saetzen oder Satzteilen, » ^ II.
Due osservazioni si debbono aggiungere quanto all'uso dei casi. * l.'' Il V. * inuidere ' costruito con
l'ablativo di cosa: Germ. 33, 5 * ne
spectaculo quidera proelii inuidere (se.
nobis) '. ^ ann. I 22, 9 * ne hostes
quidem sepultura 1 Cic. de inu. rhet
I 3, 4. Liv. Il 39, 11. IV 58, 12. VI 27 , 7. XXI 28, 4; 33, 10; 55, 1. XXVII 2. 9; 46, 10.
XLIV 38, 10. etc V. la monografia di F.
G. Hensell, de praepos. * per ' usu Tao,
Maìb. 1876. « Vbrg. Aen, IX 680.
Vedi Manil. asiron. I 132-135. Caes b.
G, I 23, 3 ed aJtH presentano la relazione invertita * seu siue ', che osservasi anche in Tac. ann. I 11, 9 *
seu natura siue adsuetudine '. Nella n. h. di Piiaio notasi la rispondenza '
siue uel ': XVII 223 ' siue fungum
placet dici uel patellam '. 8
Woelfflin, 1. cit. dallo Zbrnial, op. e, p. 67. 4 Vedi la monografia di R. Seelisgh, de
easuum obi ap. Val. Max. usu Liu. et Taeiiei gen. rat. hab.,
Monasterii 1872. 5 Alcuni commentatori della Germ. dichiarano che * spectaculo ' nel 1. e.
è dativo, come in Tac. ann. XIII 53, 12 ; e XV
63, 10 : V. Zbrnial, op. e, p. 66. Pais, op, e, p. 53. Ma anche nel 1. degli ann. XV 63, 10 la frase * non
inuidebo exemplo * presenta, secondo
afferma il Draeqer, ueber Synt. u. St. d,
Tae.^, § 64, p. 29, l'ablativo * exemplo \ • 161
inuìdent '. Quintiliano avverte in proposito : ^ si antiquum sermonem
nostro comparemus, paene iarn quidquid
loquimur figura est : ut « hac re inuidere » non , ut ueteres et Cicero praecipue, « hanc rem »'. ^
Il costrutto considerato ha la conferma
in alcuni 11. di Livio e di Lucano.
^ 2.° L'agg. * ferox ' con un
complemento dì relazione in ablativo:
Germ. 32, 9 ' prout ferox bello et melior *.
Agr. 27, 1 ^ cuius conscienlia ac fama ferox exercìtus '. hisL I 51, 2 ' ferox praeda gloriaque
exercitus': vedi inoltre hisL III 77,
21. IV 28, 12. V 15, 13. ann. 1 3, 20.
Conformi sono gli ess. presentati da Cicerone, Sallustio, Orazio, etc. ^ Ma in
altri 11. di Tacito V agg. ' ferox ' si
accompagna col genitivo, * come in Ovidio; ^
oppure con la prep. ' aduersus ' e l'accusativo. ^ III.
Per quanto concerne V uso dei modi e dei
tempi del verbo, si deve osservare :
I.v la costruzione del v. ' merere ' con V infinito : Germ. 28, 20 * (Vbii) quamquam Romana colonia
esse » QviNTiL. i. o. IX 3, 1. Vedi
Cic rase. Ili 9, 20. Hor. sai. 1 6, 49
sg, « Liv. Il 40, 11. LvcAN. de b. e,
VII 798. Ct Plin. n, h. 35, 92. Cicerone
accompagna ' inuìdeo * con V ablativo di cosa retto dalla prep. 'in * ; v. de or. II 56, 228. p.
Flacc. 29, 70. Vedi Madvig, lai. Sprogl;
e il coram. del Cocchia a Liv. II 40,
11; Torino 1888, p. 130 sg. 3 Cia in
Vatin. 2, 4. Sall Cai, 43, 4. Hor. earm. I 32, 6. 4 Tao. hist I 35. 6.
ann, I 32, 11. IV 12, 7. 5 OviD. mei,
VIII 613. 6 Tac. hisL III 69, 26. Notisi il costrutto col dativo in Liv. VII 40, 8.
Consoli, La Germania comparata. U .
162 mèruerint '. ann. XV 67, 7
* diim amari meruiisti ': v. *XIV 48,
14: tale costrutto fu accolto da Ovidio, Fedro,
ètc; ^ mentre Cicerone ed altri, attenendosi all'uso plautiriOj'diedero
la preferenza al costrutto con ' ut ' o ^ ne '
e il soggiuntivo. ^ 2.** il
participio perfetto neutro usato al singolare
come sostantivo, in funzione di soggetto della proposizione : Germ. 31,
1 ^ et aliis Gèrmanorum populis
usurpatum raro et priuata cuiusque audenlia àpiid Chattos in consensum uertit , ut primura
adoléuerint , ìc'rihem barbamque
submittere'. hist I 51,23 'accessit
catlide u o 1 g a t u ni , temere e r e d i t u m , decumari iegiones et promptissimum quemque centurionum
dimitti '. ann. Ili 22, 3 ' adiciebantur adulteria, ùerieiia q u a e s i t u m q u e per Chaldaeós in
doirium Caeàaris ' : à V. ann. Ili 9, 12. XV 58, 7. ** Tale sostantiva 1 OviD. in'sL V 11, 10. ex Pont IH 2, 20.
Phaedr /dò. ìli 11, 7. Val. Flacc.
Argon. I 519. V 223. Cf. Qvintil. /. o. X 1, 72 2 Plavt. Baceh. 1184 (V 2, 65). capt. 422
(II 3. 62; secondo V ed. comm. dal
Cocchia). Epfd. 712 (V 2, 47). Men. 217
(I 3, 34). Sdcfì. 24-26 il 1, 21-26;. Teii. Andr. 281 (I 5, 46). hee. 760 (V l, 34). Cic de or, I 54. 232.
ep.' (ad farà.) XÌV 6. de fin. li 22,
74. de net. d. I 24, 67. (cf. in Ver\ IV 60, 135). Ckiss.'b. G. VII 17, 5. Liv. VII 21, 6. Plin.
/i. /i. 35, 8. Vedi KuEBS-ScHMALz,
antìb., II, p. 70. 3 II CoNSTANS
ammétte da prima che nel 1. e. degli ann IH
22, 3 ci" sia Tuso del participio perf. passivo neutro comò
soggetto della proposizione {éiude s l. languì d. Tac. , n.° 246, p. 112); poi riconosce nello stesso pariìcipio
perfetto una proposizione infinitiva e non più una sostantivaz-one do!
participio (op. e, n.o 282, 12.^ p.
136): è una inesattézza dovuta a distrazione.
4 Nel citare l'es. ann. XV 58, 7 ci siamo attenuti alla * 1. ù'ulg.
': 'Taelatum erga coniuratos *. Nel cod.
Med. &i legge •latatum'»
163 isione del participio perf.
neutro, che manca di ess. in Cesare e
Sallustio, presentasi come un costrutto sporadico in Cicerone; frequente,
invece, in Livio. ' Avvertenza, Nella
Germ. non osservasi alcuno esempio del perfetto soggiuntivo di conseguenza,
dipendente ^a un tempo storico: tale
costrutto notasi, al contrario, più
volte negli scritti di Tacito. -che
per il Haase diviene * non celatus tantum *, per il Halm * clam actum *, e per il Ritter ' laeta tum
nerba '. Il Ramorino sospetta * iactatum
erga coniuratos osculum. Cic. parL or. 33, 114. Liv.. XXVIII 26, 7. (cf. XXVII
45, 4). etc. Vedi DRA.EGER, ueber Synl.
u. Si. d. Tae, 3, § 211, p. 86. RieMANN, op. e, § 22, p. 104 sgg. « Vedi Madvig, lat Sprogl, § 337, Anm. 2, p.
235. DRAEGEa, hi8t. Synt,, § 133, p. 241
sgg.; ueber Synt u. SL d, Tae, 3, § 182,
p. 74. CoNSTANs, étude s. l langue de Tac. ANNOTAZIONI CRITICHE AIiIiE
satire II MI e IV di Persio
^>4>^sK-V ROMA ERMANNO
LOESCHER & C.'> (Bretschneider e
Regenherg) Librai di 8. M. la Regina
d'Italia 1905 Prezzo L. l.
m i 'à^. SAiT'rx
coM'sorii HS^a, Btevi Annotazioni Critiche alle satire II III e IV di Persio Roma
Ermanno Loescher & C''. (Bretschneidei e
Regenberg) Librai di S. M.la Regina d' Italia 1905, S\ pp, z8. Af. BREVI ANNOTAZIONI CRITICHE HLiLi^
satire II MI e IV di Persio ROMA ERMANNO LOESCHER & C:^ (Bretschneider e R^gimherg) Librai di S. M, In Reggina d* Italift IpW.
\d3.T H»*v«?ti CdUgi Utwy Gìh ef
Mmri* H. Morgan Jan. l Idia Proprietà letteraria dell' autore (Catania^ via Maddem, lu 160) Tipogr&iia editrice Homa dei Fratelli
Per rotta, in Catania, 'imn^^'' cuy » -cg jAQO/N g» . -co^oor g» Nel cod. Moatepessulano (P) il Buecheler lesse indeciso ' patru,. ' ; più chiaramente V Owen vi lesse
* patruuin ' , che, por correzione sovra
pposta, osservasi, come sopra si è detto, nel
Monacense M 67. A ine pare che si debba restituire nel testo di Persio la lezione ' patmuni ' presentata
dal P. In fatto, tra i voti immorali che
si fanno alla divinità il poeta include quello
per primo, che si erediti preato dallo zio ; ma la crudezza di tale voto, che muoia presto il parente per
ereditare i beni di lui, si vuole
occultare con la finzione del decoro della famiglia, in modo che non si chieda ^ o si ebuUiat
patruus ', ^ espressione troppo dura e volgare^ ancorché si accompagni tosto
con. l' espressione vanagloriosa '
praeclarum funus ! ' ; nemmeno si chieda
' o si ebulliat patrui praeclarum funus ', frase meno cruda ^ senza dubbio ,
della precedente , ma che spiace perchè è
sempre il funerale dello zio, che ardentemente si desidera : si chieda, invece, alladivinitàcheun '
praeclarum funus ', quando che siaj *
ebulliat ' cioè dia evidenza ai meriti civili, alle qualità morali , alla
distinzione della nobiltà e delle ricchezze ,
magnifichì insomma il nome autorevole del parente. Cosi non si avrà V impudenza di cliiedere a Giove la
morte dello zio , ma con un certo
eufemiemo si manifesterà il desiderio che un
funerale splendido illustri, quando che sia, il nome e il casato dello zìo^ e in tal modo il desiderio della
morte del congiunto appare subordinato
o, dico meglio, con ipocrisia mascherato dal
voto, certamente lodevole, che sia splendidamente illustrato il nome della famiglia, sebbene in circostanza
luttuosa. Del resto, il V, ^ obullirc 'j
usato transitivamente, ebbe sempre, anche nella
In tal caso accanto ad ^ ebulliat * si dovrebbe sottintendere la voce ^
animam \ la quale, invece^ appare espressa nelle frasi : * animam ebulliit ' di Seneca, lud, de mori, Claudii
4, 2 e di Petronio, sat cap. 42 p, 189,
2; * animam ebulUui* dello e tesso Petronio, sat cap. 62 p. 313, 1 : per Ja prima volta Persio sarebbesi
privato, senza ragione, di apporre V uùQ, * animam ' al v. ^ tsbuHire ' ?
latinità classi cdj il sìgniricato di ^ ìactare^ ostentare^ praedicare '; od lina conferma ci è dato osservarlfty come
ebbi a scrivere nelle annotazioni
critiche al testo di Persio p. tì3^ nota 1, in un luogo delle Tuìsc. di Cic*
III 18^ 42 ' tj^ui si uirfcntes ebollire 'uolent et sapientiaa cet, ' Restituendo^ adunque, nel testo dì Persio la
voce * patrnuni ^ non solo ai farà atto
dì debito omaggio all' autorità del cod,
Jpf uìa, tra il contrasto dei codd. e delle edd.j si verrà a determinare
la lez, in modo meglio rispondente al pensiero che il poeta volle significare nei versi 10 e
segg. SaL li 52, Tutti i codd. di Perno, che finora sono
stati collazionati o soltanto consultati
, danno costantemente per il v. 52 la voce
^ incussaqne ^; lo stesso osservasi ncù codd, degli e^rcerpta^ noi quali è contenuto il y. citato* Un solo cod.
di Persio fa eccezione ed è il P che presenta ' incusasque ' ; la coiTcttura '
incusaaquo * che notasi nello stesao, è di seconda mano, T^a Ica. ^ ineussaquo ^ fu dal Jahn (ed Ma la
spiegazione data dallo scoliaste fu disapprovata anche dall' Achaintre (ed.
Par. 1812 p. 57). A me pare che si debba preferire la lez. ^
laeto ' non solo perchè ha per
fondamento V autorità del cod. P. , ^ ma eziandio perchè è nell' ordine
naturale delle cose che , al riceversi
un ricco dono,- il cuore per la grande gioia o , come dice una ^ La vecchia interpretazione dello
scoliaste fu confermata dal Beniley, m Hor, carm. II 19 , 6 con le parole *
pect. laeu . s. sinistra parte pectoris,
ubi cor salit et sudor erumpere solet ' ; e dal Koenig * cor in laetitiam pronum in sinistra pectoris parte
lacrumas tibi excutiat ipso gaudio ' : e
a' nostri giorni è stata ripetuta dal prof. Geyza Nómethy nel comm. alle satire di Pers. edito a
Budapest nel 1903 p. 143. Alla medesima
attenendosi tradussero il Monti « il cor nel lato manco >; il Wagner * aus der linken Brust » ; il
Kayser * unter der linken Brust » ; il
Weber « zur linken Brust » ; il Binder « links aus der Brust » ; il Duentzer « die Brust dir zur
Linken » ; il Hemphill « drops beneath
your left breast». Sfuggi la questione il Fuelleborn (ed. Wien 1794 p. 61) , che tradusse « wie schlaegt vor
uebergrosser Freude dir | das Herz empor
! Schweiss rollt von deiner Wange, | und Freudenthraenen stroemen dir herab » :
e la sfuggirono anche i due traduttori francesi di Persio, F. Duboys -
Lamolignière (ed. Par.: « je vois le trouble de vos sens, | et votre coeur s'
épuise en longs remercfmens » ) e Vict.
Develay (ed. Par. 1897 p. 1G2: « tu te pàmerais de joie et ton coeur bondirait d' allégresse ». 2 La postilla
marginale * uel leuo * (sic) del cod. P. è dovuta ad un correttore antichissimo il quale, negli
emendamenti apportati alle lezioni genuine del cod. P, dovette aver presente
qualche esemplare della recensione
Sabiniana. ^loBsa del cod, Ottoburano , ^ ^ prac g:amlio esliìlaratuiu '
sì sprema in gocce dentro il petto , che
non può non sentir la letìzia di cni
eanlta il cuore. Né C' 6 ripetizione di concetto dieendoBi ^ pectore laeto ' accanto a *
laetari praetrcpidum ' ^ poiché in questa ultima ea press ione è indicata
soltanto una condizione o tendenza dell' animo commosso per il dono
ricevuto, mentre con ^ pectore laeto '
si esprime quel che ne consegue in
realtà per effetto dell' offerta dei doni. All' accoglimento della lez- * laeto ' nemmeno osta la
vicinanza delle due voci * laeto ' * laetari
\ in quanto che è noto che ai Romani non
riuBci sgradita la prossimità di parole provenienti da una stessa radice, ^ Leggo^ per ciò^ col Pithou : I . 38i^ siano chiari e * V.^ Alattliias ^illober, eim^ neiw
Handschrift der nf'chs Satìrm dfx A.
Pers. FI , Augsburg 18tì^2 p, 24, col. l^
2 VJ per es. * omnibus ]aetitiis laetam. ' Cic. df fin. Il 4^ IB ; *
Ime purgati one purgatus erifc ' Cat. de
a. e. 157, Vò ' gauisurum gfiudia ' Ter.
Andr. 9Gi (V 5, B) ; * qvianfca gaudia. ... gattdeat CatuU. 61,
llìi-116; * gaudi um gauderemuis * Cnel.
ap- Cìc. fuìn. Vili 2, 1: cf. BiòL Toh, 11,
21 *cum gaudio magno gauiai sunt ' ; lùan. 3, 29 * gaudio gaudet ' ;
eoe. veridici e d'efficacia maggiore quanto alla previsione del futuro, più esplicitamente egli soggiunge : « per
somnia enim siue insomnia intellegit praemonstratas curationes ac ^^py-nalo^c;
». Ma il Plum bene avverte che all'
interpretazione del Casaubon osta « ipsa
series orationis , cura in praecedente commate non de corpore curando agitur , sed de re struenda ,
quae potius ad Mercurium quam ad
Aesculapiura pertinet ». Ne ci si parli di
sogni incatarrati o non incatarrati, da inferirne, come pensò il Turnèbe, che « pituita purgatissima » valga «
maxime carentia pituita », o, come
scrisse Eilhard Lubin, « omni pituita uacua
et carentia, id est nera, certa, non nana et temeraria »; perocché
possono bensì gli uomini essere oppressi dalla ^ pituita ' o malore catarrale, ma non i loro sogni. Lo scoliaste di Pers. 2, 57 indica chiaramente
in che consista la ' pituita * ( ^
purgatio cerebri uel morbus gallinarum ' ), ma
ne conclude che gli uomini gravati da essa ^ non bona somnia uideant '; sicché egli associa ' pituita '
con ' homines ', non con ^ somnia ' : e
sulP avviamento dello scoliaste i commentatori moderni di Persio parlano degli
uomini che ^ pituita stomachi grauantur ' (ved. Némethy op. e. p. 147 ; e cfr.
Hor. sat. II 2, 75 sg.), ma evitano di
congiungere in istretto legame ^ somnia ' con ' pituita '. Questo però non
dovette essere il pensiero di Persio che
mise in istretta relazione ' somnia '
con ' pituita ' ; e per tanto V epiteto ' purgatissima \ al quale si attengono tutte le edd. delle satire di
Persio, perchè confermato da quasi tutti i codd. , non può rappresentarci la
tradizione sincera di ciò che scrisse il poeta e si lesse dagli antichi sino al tempo della recensione di Tryfoniano
Sabino e forse anche dopo. Per buona
fortuna il cod. P, col quale concorda in
questo luogo il cod. Trevirens. del sec. IX/X, rappresenta la lezione più sicura e genuina '
purgantissima ', la quale vedesi penetrare anche nelle letture del medio evo ,
come ce ne fa fede il vestigio '
purgantis ' presentato dal cod. B àe\V opus
pì'osodiacum di Micene , verso 300 , in cui si cita appunto il veraci di
Peri, 2, 57. * Or ^ con V epiteto purgantissima tutta^ a mio parare, si rende
chiaro, tanto lo stretto legame eli '
somuìa ' con ^ pituita \ ostuIantea oracula per somnani '; ed è noto^ come
osservava Ci e* nelle Tnsv. IV lOj 23
che ^ cum aanguis corruptus est a ut pituita redmidat aut bilis^ in corpo re morbi aegrotatlnneaque nascuntur
'. Sat. II 71:5. Codici j editori e imitatori di Persio non
sono di accordo sulla forma definitiva
con cui debba essere fissata la voce * animxis ^ nel V. 73. La tradizione man user itta che
muove dalla recensione Sabiniana afterma la lez, ^ animo \ che si osserva nei
codd* A Eh sopra citati j - nei tre
codd. del sec. XI Laurentianpi. LXVIII 2% Paris, no. S049j Paria, no. ^^:?72;
nel Monacens, e. B del sec. XII e nel
fìerolineus. no. 2 del see, XII o XIII;
nel Bernens* no. 648 del scc. XIII; nei due codd. del sec. XIV Paris, no. 8050 e Rehdigeran. I; nei cinque
codd. del sec. XV Berolinenss. no. *-)H
e no. .-^9 , Monacenss. no. 260 e no. \y2ij^
Kehdigeran, II; ^ nel cod, Berolinens, no, 9 del aec. XVI e nel * V'^edi i Carmina Ct^nluìeiìsm p, ù^O^
moinun. Germ^ hùtt^ poeL Lat ii^ui
Caroìini tom. IH ex recens, Lud. Traobe, BeroU 1B96. ^ Si scoree anche ' animo ' nella lez. ^
animimo ^ presentata dnl cod. B di fonte
oabmìana ^ I due codd, della biblioteca Jiehdigerana , Turio in pergamena
del sec. XIV e l'altro cartaceo del sec.
XV, furono collazionati dallo TzRchirner
in servizio dell' ed, del KauthaJ : della collazione usufruì il Jahn per la ' ed. maior ' del 1843. 1'
Erlangens. anch' esso di data recente. La tradizione degli imitatori di Persio,
che si prolungò per tutto il medio evo, si attenne alla lez. ' animi ' , la
quale, in fatti, si legge nelle citazioni di Lattanzio (diu.instit. II 4 p. 126
1. 1 Lut. Paris. 1748), dello scoliaste
di Stazio (Theb. II 247 p. 81 Par. 1618), di Giovanni di Salisbury (poi. V 16 p. 319 Lugd. Bat. 1639) e del Petrarca (epist. de rebus fam. VI 1 p. 309 voi. I ed. Fracassetti,
Firenze 1859); e si legge nei codd. degli excerpta Paris. 7647, Paris. 17903 e Vatic. Reg. 1428
(deflorationes Persii), e nei rimanenti codd. di Persio, finora noti, eccetto
il cod. P ed il Monacens. no. 83 del
sec. XII, i quali danno ' animos '.
Nemmeno gli editori di Persio, antichi e moderni, sono concordi sulla
scelta : alcuni preferiscono la lez. ' animo ' , ^ altri la lez. ' animi ' ; ^ nessuno ha scelto la
lez. ' animos ' , la quale credo che
debba essere restituita nel testo, perchè è genuina e meglio adatta al contesto
della frase in cui è collocata. Che sia
genuina, non alterata dalla recensione Sabiniana, ce ne affida V autorità del cod. P che la
presenta ; che si adatti meglio alla
frase risulta dalle segg. considerazioni.
Il pensiero dell' autore intorno agli elementi costitutivi della santità dei costumi e della perfezione morale
è evidente: col ^ compositum ius fasque
' ha voluto significare, anzi tutto, V elemento estemo e formale, ossia
l'elemento giuridico-religioso, il più
importante per le funzioni dell' organismo sociale róma i Vi le edd. Casaub. 1647 p. 8; Schrevel. 1648 p. 573 e 1664 p. 542 Wetsten. (1684) p. 50 ; Prateus 1699 p. 335 ;
Walth. 1765 p. 28 ; Bipontina del 1785 p. 11 ; Passow 1808
p. 13 e 1809 I p. 24 ; Weber 1826 p. 11;
Hauthal 1837 p. 22; Jahn 1843 p. 28, 1851 p. 15, 1868 p. 21 ; Jahn -Buecheler 1893 p. 22; Owen (Oxford, senza
data e senza pag. nam.); Némethy 19C6 p.
27 ; ecc. « VM e edd. Monti p. 638;
Achaintre 1812 p. 61; Casaub. 1889 (Duebner) p. XXV ; Duentzer 1844 p. 32 ;
Hermann 1879 p. 7 ; Bucoiarelli 1888 p.
51; Kamorino 1905 p. 37; ecc. 11 Hermann aggiunge (praef, ed. Lps. 1879 p. XIV) che * genetiuum tuebuntur
etiam * uerba animi > luuen. I 4, 91
': cf. dello stesso Hermann lect. Pera., Marb. 1 842 III p. 12» p«^lt*
- 15 ilo, con ^ anim. sanctosque
recessus mentis ' V eleùietito psichico
o intimo ; e con 1' ' incoctura generoso pectus honesto ' V elemento
etico dipendente dalla legge morale universale. Or, ciò che è enunciato nel v. 73 si presenta
costituito di due parti, di cui la prima
è ' compositum ius fasque ', la seconda ^ anim.
sanctosque recessus mentis \ Nessun dubbio che la prima parte sia bimembre, cioè: a) ^ compositum ius '; b)
^ et fas ': perchè si conservi la
disposizione simmetrica della frase, è necessario che anche la seconda parte sia pure formata di
due elementi coordinati; e se uno di questi elementi è ' sanctosque recessus
mentis ', V altro non può non essere costituito dall' idea espressa mediante la voce ^ animus '.' La quale ,
coordinandosi , quanto alla
declinazione, nello stesso caso in cui sono espressi i ' sanctos recessus mentis ', come prima il ^ compositum
ius fasque % deve essere nella forma
dell' acc. 'animos', non del genit. 'animi' né
dell' abl. ' animo ', che se, rispetto alla sintassi, possono
tollerarsi, per quel che spetta alla
disposizione simmetrica della frase ed
all'espressione del concetto, non sono, a mio parere, sostenibili. ^ Del
resto , 1' avvicinamento di ' animus' con ' mens ', che potrebbe parere una espressione
sovrabbondante, per la prossimità di significato delle due voci considerate ,
non era per i Romani cosa insolita.
Plauto scrisse (trin. 454 [II 4, 53]): ' satin
tu's sanus mentis aut animi tui '; ^ e Cicerone (Cat. m. 11, 36): ' nec nero corpori solum subueniendum est,
sed menti atque animo multo magis'; e
Virgilio (Aen. VI 11 sg.): ' magnam cui mentem animumque | Delius inspirat
uates ' ; e Orazio (epist. I 14, 8 sg.)
: ' istuc mens animusque | fert '; e Stazio (silu. Per tal motivo gli edd. sono
stati costretti a metterà il gen. ' animi ' o V abl. ' animo ' in dipendenza da
^ fasque ', disquilibrando cosi tutta la
frase e confondendo quanto si attiene ai sentimenti deir animo con le esteriorità del formalismo religioso:
cf. Servio, camm. in Verg. georg, I 269, p. 193 , voi. Ili Th. * ad
religionem fas, ad homlnes iura
pertinent. ' 2 Neil'
ed. Ck>ccbia , Torino 1886 p. 69, 4 è scritto: * satin tu sanu's m. a. a. t. '9g,) : ' et te iara fecerat ilH
[ men^ aniinusque patroni * : altri ess,
per brevità cimmetto. Leggo, per tanto,
i w. 73-74 della sat. II di Persio ; *
composi tuta ìus fasqae, anitnos sanctosqua recessus mentiS} et in eoe tutu generoso pdctua
honesto \ Bai, II T:). Dalla recensione 8abiniana dovette prendere
le mosse la lez, * adiiioueani ' che ^W
editori di Persio, quasi tuttij ^ fissarono
nel V* 75 della sat. II : e se noi cod. B^ di tonte, conte si è dettOj Habiniana , appare ^ adinoucani \ la
quale lez, riappare circa cinque secoli
dopo^ nel cod, Rebdigeran, I, ciò si deve ,
giusta la nota avvertenza del Criisiusj - al fatto che nei coddantichi
non si distinzione chiaramente le forme del verbo ^admoucù^ da quelle del verbo ^admoneo \ La
lez. *adnìoneani' trovasi semplificata
in Mnoueani' nei codd. del sec. XI Pariss,
nobenhavn) no* 2028, Monacens.
no. Ìì80; nel cod. Ebneriano del sec* XI/XII,
collazionato dal Hermann; nel Bernens. no. 048 del sec. XIIT, nel Paris, no. 80p")0 dfd sec. XIV: e
sono variazioni dovixtc a deviazioni di
copista negligfontc u troppo dotto le forme
' uoueam ' del cod. Bernens. no. f-ì98 del sec* X, * moneas ' del cod. Paris» no.
8055 del sec. XI e *admoueas' del cod. Einsiedlens. no. i\2% del sec* XV. Anteriore alla recensione Sabiniana dovette
essere la lez. ' admoueant ', di cui ci
dà una preziosa testimonianza il cod.
' Dico n quaìi tutti > ^ perchè ho letto * advnouoant ' soltant3
nelle due edd. 1048 e 1GG4 delio Sdire
veli us e uell* e^l. preparata dal Wetstenius.
* Crusius , in Sueton. dia.
Clmtd. 39^ (ir cf, K F. C. Wunderlich j in
TiòulL IV Ij 189 Cpaneg. Mesmllat^) F^ *
confermata , molto tempo dopo ^ dal cod. BeroliOp no, 49 del sec, XVI j e, nella forma semplificata '
moucant \ dal cod, Monacens, M 67 del
sec* XV* La lez, del P si adatta meglio
alla frase esaminata, poiché, disponendone in modo diretto le parole , bì ha ^ cedo ut admoiieant (se.
homines) templi^ haec i. e. composìtum
ìua fasqne, anim. sanct. ree. ment. ^ et
incoct, gen* p ect. hon.j et farro litabo \ Sicché il pensiero dell'
autore sarebbe: lascia che gli uomini ai accostino al tempio, avendo nell'animo i nobili sentimenti dì
giustizia, di pietà, di onestà ecc., ed
allora anch' io farò un sacrificio semplice e gradito di farro. Le parole '
conipositum Ìu3 fasque cet* * sono usate
nel 1. cit. con la funzione sintattica di coniplcm* oggetto di * admoueant ', e la sintesi delle stesse
si compendia nel pron, * haec 'ì e però
non si deve distìnguere con forte interpunzione
la fine del v, 74 dal principio del v. 75, dove il prou, ' liaec ' serve , come ho detto , di riepìlogo ai due
versi precedenti : * basta la vìrgola,
leggendosi così il testo: ' e. i. f., a. s. r. | m.^ et Ìp g, p, honesto, | haec cedo ut admoueant
tempi is, et farre litabo ', II
Buecheler riconosce che il /* dà ' admoueant * , ma, quasi petf confortare con la tastimoniaaza del F la le^.
^ adnioueam \ che egli ha scelta^
soggiunge che le due lettere finali nt rassomigliano alla m; ras^ somiglianza che non osservò , e perciò non ne
prese nota , V Owen , il qnale^ dopo il
Buecheler, riesaminò e collazionò il cod. F. Perciò segnarono inopportunamente
il punto fermo dopo * honesto * il
Waltbard, il Monti, il Passo w, il Casaubon (ed. Duebner, 1839), il Jahn (edd. 1851 e 1368), il Hermann, il
Bucoìarelli, ecc. ; il punto interrogativo il Casaub. (od. 1647), lo Scbrevel.^
il Wetsten*, 1^ ed, Biponfc. , V A^
chaintre^ il Kamorino, ecc.; il punto interrogativo insieme con V
ammirativo il Hauthal; il segno dì due punti il Prateus , il Weber , il
Bue^ cheler (III ed. del 1B93), l'Owen,
il NémethVj ecc. La virgola dopo la V. '
houesto ' fa segnata dal Jahn neir ed. del 1843 e dal Duentzer nell'ed. 1644. Gongoli, BreiJÌ aimot crit alle satin II,
Iti e IV di Fersw, À Sat. Ili 23. La tradizione manoscritta, sia quella che
muove dalla recensione Sabiniana ed ha i suoi più autorevoli rappresentanti
nei codd. A B, sia quella che proviene
da una recensione anteriore alla
Sabiniana ed è rappresentata dal cod, P, dà concordemente per il V. 23 della
sat. III la lez. ^ udura et molle lutum est': presentano anche ^ est ' il cod.
reg. Londinens. e due codd. del sec. XV,
cioè il Monacens. M 67 ed il Basileens.
F. III. 6. Quante edd. di Persio ho avuto sott' occhio, sino alle tre più recenti, cioè Ted. inglese delPOwen,
Ted. ungherese del Némethy e Ped.
italiana del Ramorino, presentano costantemente, invece di *'est', la lez. ^es', la quale si
osserva in alcune imitazioni della frase di Persio fatte nel medio evo, come p,
es. in quello che scrissero Hildeberto,
vescovo Cenomanense, nella mordi, philos.
quaest. I n. 40 col. 1037 B t. CLXXI ed. Migne, e Giovanni di Salisbury nel
polìcrat, lib. VII cap. 19 p, 484 ed, Lugd.
Bat. 1639. Ma Pietro di Blois, che cita lo stesso luogo di Persio jxqW
epist, LXXIV ad G. archidiaconum p. Ili col. 1* ed. Sim. Piget, Par. 1667, ommette il verbo, scrivendo ^ udum et molle lutum nunc nunc properandus, cet. '; e da tale ommissione è facile
argomentare che egli abbia letto ' est ' nel testo di Persio , forma verbale più agevole a
sottintendersi che non ' es '. La stessa
ommissione notasi nel cod. Berolinens. no. 2
del sec. XII o XIII, che presenta ' lutum nunc es properandus ' ; sicché con ' lutum ' si chiude la prima
proposizione e, cominciando con ^ nunc ' la seconda , non si può prescindere
dallo accompagnare ^ es ' con ^
properandus ' anziché con ^ lutum '.
Credo, per tanto, che si debba restituire nel testo di Persio la lez. presentata dai codd. PAB e da altri
codd. di minore autorità, leggendosi nel
1. e. ' udum et molle lutum est ' come
una considerazione in generale , che fa il censore , introdotto nel discorso dall' autore, sul tempo più
opportuno per ottenere il maggior
profitto dall' educazione e dall' istruzione. Poi lo stesso interlocutore, volgendosi al giovane
neghittoso, lo ammonisce , come passando dalla considerazione generale al caso
particolare di lui : ' nunc nunc properandus es ' ; ed insistendo neir immagine tratta dalP arte del vasellaio
, soggiunge : ^ et acri fingendus es
sine fine rota \ Cosi si viene a dare alle
voci ' udum et molle ' una funzione predicativa di ' lutum ' {' lutum est udum et molle '), come se
dicesse: la creta è umida e morbida e
adatta ad essere maneggiata dal vasellaio. Quale necessità di rivolgersi all' adolescente per
fare una considerazione generale e impersonale, che la creta è pronta ? E
opportuno, invece, il rivolgere la parola al giovane per esortarlo a educarsi ed istruirsi , essendone in tempo.
L' imbarazzo degli edd. dovette essere,
se mal non mi appongo, quell'incontro di
^ udum et molle lutum est ' con le due forme participiali di gen. maschile ^ properandus ' e ^ fingendus
'; e però s'indussero a fare di ^ udum
et molle ' un attributo di ' lutum ' , costituendo ' tu ' soggetto sottinteso
anche della proposizione che deve
conservare un carattere objettivo di concetto generico e indipendente dalle condizioni degli interlocutori.
Ma la difficoltà si elimina agevolmente fissando da prima una forte
punteggiatura dopo ^ est ' , perchè resti nettamente determinato il concetto generale dell' età più adatta all'
educazione intellettuale e morale; e
poi, sulla traccia della lez. ' nunc es properandus ' presentata dal cod. Berolinens. no. 2 sopra
citato , scrivendo properandu's e
fingendu's. Sai. Ili 60. La lez. '
dirigis ', accolta dal maggior numero dei codd. e degli edd. di Persio, piglia le mosse dalla
recensione Sabiniana e fondasi sui due
codd. A B, Il correttore antichissimo del cod. P, il quale dovette avere a
guida pelle sue emendazioni un esemplare di fonte Sabiniana, accetta anch' egli
la lez. dirigis . Un’emendazione di seconda mano fatta sul cod. A muta dirigis
in derigis, lezione approvata e accolta dai recenti edd. di Persio, Buecheler
(Beri), Owen, Némethy. Il cod. P presenta, invece, In lez. dì modo soggiuntivo
dirìgas, la quale, sebbene trascurata da tutti gli edd.j a me pare che debba
essere restituita nel testo di Persio,
in quanto clie vale a denotare la possibilità
che ci sia qualche cosa verso cui si diriga l’arco, dello stesso modo come più sotto è detto securus quo pes
ferat Maj perchè bene si adatti il v. dirigas in dipendenza dalla frase est
aliquid, è necessario, per rispondenza simmetrica delle parti nello stesso periodo
sintattico, che il verbo precedente tendis posto anch'esso in una relativa
subordinata, si muti in tendas. Cosicché j ove si voglia fare lieta accoglienza
alla lez. presentata dal cod, Pf è necessario che il verso citato sìa lotto
: ^ est alìquìd quo tend&s et ìd
quod dirlgas arcani \ JSat, III
93. Nulla avrei da osservare sulla
legittimità della fonna chiusa di part.
futuro ^ loturo ', che loggesi in quasi tutte le edd, di Persio nel v, cit., ne della forma aperta
lauturo ^, la quale fu accolta dal
Hauthat (ed. Lps.) : ^ questa ultima è
presentata dai codd. del sec. XI Paris, no. 8049; Paris, no. 8272, Monaeens. F//, Monaceus, no. 330; da
altri due codd. Monacensi del sec. XII ,
cioè Ìl cod. e. 3 e quello contenuto nel cod. segnato Kr/89. a ; e dal cod.
Guelferbyt. Aug, 29. 12 del sec. XIII.
La forma chiusa ^ loturo ' risale ad un' emendazione di seconda mano fatta al
cod. A. , poiché tanto questo i[uantQ il
cod. B hanno ^ locu}>o ' , in cui il Buecheler credette scorgere ' locnro '; ed osservasi anche nel
cod. XXXVII 19 della bibl. Laurenzianaj
del ecc. XI, esaminato di recente dal
Kamorino. Leggesi * laturo ' nel
cod. P e noi due codd. del sec, XI
Paris, no, 8048 e Bemcns, no. 327: nel cod. mutilo Bernens. si legge ^
laturo ' con la lettera ù sopra- Egli però non ne addusse le ragioni nelle
Anmerkufìgen ^sur drUten iSatirej
scritta all' a ; e perciò la lez. si ricongiungerebbe con V emendazione antica
segnata da seconda mano nel cod. A. Ma, se le
forme ^ lauturo ' e ' loturo ' non sono da rifiutarsi , si può
dichiarare senz' altro come inaccettabile la forma ' laturo ', scritta prima, come pare probabile, ^ luturo ' nel
cod. P ? Io credo che no ; perciocché ,
se accanto al v. ^ lauere ' fu accolto
nella lingua il v. ^ lauare ' , la forma del supino preclassica e classica ^ fu sempre ^ lauatum
' , come la forma classica del part.
perfetto fu sempre ^ lautus '. Non e' è dubbio
che dal tema del supino classico ' lauatum ' sia nato il part. futuro ' lauaturus ' , che si osserva in
Ovid. fast. Ili 12 ^ sacra lauaturas
mane petebat aquas ' : e da ' lauaturus ' , per il tramite normale laaturus,
ebbe origine per contrazione la forma '
laturus ' , di cui il cod. P ed altri codd. sopra notati ci danno conferma. Non
sarebbe, dunque, contrario alle leggi fonetiche dell'idioma latino l'accogliere
nel testo di Persio la lez. ^ laturo ',
che ha per fondamento l' autorità del cod. P : e della presente annotazione vorranno tener conto, mi
auguro, i lessigrafi della lingua latina. Sat. Ili 97. Il cod. P dà ^
sepellitur istas ' per il v. 97 della sat. Ili:
nei codd. ^ JS si legge ^ sepeliit urestas', che gli edd. tutti di Persio hanno interpretato ' sepeli: tu restas
' , aggiunto o non il punto
interrogativo in fine. Per ispiegare la frase ^ tu restas ' , alcuni
commentatori di Persio ricorrono al sottinteso
' mihi sepeliendus ' ; ^ altri equiparano ^ tu restas ' a ' uiuis adhuc et uiuis , ut mihi grauia praecipias '
^ ovvero a ' tu A Vedi Terent.
hautt. ; Hor. sat 1 3, 137. * Il Némethy, ed. cit. p. 200, a conferma
delle voci da sottintendersi ^ mihi
sepeliendus ' adduce il confronto con Hor. sat l 9, 28 : ' omnes conposui. felices! nunc ego resto '. 3 Vi V ed. del Prateus, Lond. iiiìlii adlmc
tutor restaa ': altri ancora, come Tommaso Farnal)io itA.) , interpretano ' tu
cout(?m[)tnr pliiloi^opliorum r4 p. 557
t, e dal Wetsteu. p. l>5 &. ^ V*
i luoghi Gitati delle edd, SchreveL e Wetsten. J Forse per tal motivo, o non
per nuovo e più diligente esame del cod.
, il Jabn s^ indusse it scrivere nelle note critiche delU sua ed. 4 ' sepsi i
tur istas ' C, che iìqIP ei. IBJl p* 20 aveva scritto * seppelHtur istag ' C. ^ La ragione metrica rifiuta altresì Del
Inogo commentato la formu. * sepe.lil '
j morfologicamente corretta, che dmmo due codd. del sec. X, cioè il Bernens, no. 257 ed il Leìdoiis. no.
7H; due codd. del se&. XI, ossia il
Bernens. no, ^J2T ed il Paria. 8070; il Behdigerdu. II del sec. XVj e inoltre il cod. reg. Londinens , la cui
collazioaej fatta dal Bentley, fu
pubblicata nel Chtìisk. Jouni, Il cod. Beroens, del sec. XIII, che presenta ' sepeliui * , om
mette di couseguenza il ' tu ' a fin d'
evitare che un piede deir esametro dattilico sia di tre sillabe lunghe. Debbo notare che vi è incertezza
intorno alla parola in esame, citata da Nonio Marcello. L' ed. Aldina Vea, dà ' riisitatis *; T ed.dicativo di ^ risito
' la seconda pers. sing. dovrebbe essere stata,
secondo la flessione normale, *risitas, da cui, per sincope della i breve della penultima sillaba, gradita
forse nel linguaggio familiare, sarebbe nata ' ristas ' = « ridi spesso, ridi
di frequente ». E però nel v. cit. di Persio ben si adatta ' tu ristas ?' per significare il pensiero del giovane avido
di piaceri anche presso a morire, il
quale al monitore risponde : " non essermi
come un tutore ; da più tempo V ho fatto seppellire „ : e, quasi accorgendosi d' un sorriso ironico sulle
labbra dell' interlocutore che lo vede
morente per intemperanza, gli chiede : « tu ne rid i spesso ? » Talché il monitore, annoiato di
tanta persistenza nel male, gli risponde
: ^ perge, tacebo '. Concludendo, io
son d' opinione che si debba rendere anche
per il V. 97 il dovuto omaggio al cod. P, leggendo : ' iam pridem hunc sepeli. tu ristas ? * '
perge, tacebo '. Sai. Ili 107. Gli edd. di Persio leggono, tutti
concordemente, il v. su indicato : ^ tange, miser, uenas et pone in pectore
dextram ' . Non nego che si possa
leggere bene cosi il v. di Persio ; ma il cod.
P invece di ' dextram ' presenta ^ dextra ' : non si può in alcun modo far posto a tale lez. ? I concetti
espressi nel verso sono due, ben
distinti V uno dall' altro : a) tocca i polsi ; b) metti la destra sul petto : il complem. oggetto del
primo verbo ^ tange ' è ' uenas ' ; del
secondo verbo ^ pone ' è ^ dextram ' . Nulla però vieta che si possa intendere che i polsi si
tocchino con la destra ; né e' è nulla che vieti che la destra, dopo aver
tastati i luniana Antv. risitant * (e
cosi è citata nel Ipssìco Forcellini-De
Vit la 2^. ed. Merceriana Par.
risitantis '. Carrio lesse *
risitantes ', donde la congettura del Bothe ' missitantes % gradita al Georges,
ausfUhrl. Handtvb, II col : al Vossio piacque congetturare ' usitant '. polsi, si
poggi sul petto dell* ammalato. Può^ quindi^ il primo concetto mettersi in istretto legame col
secondo mediante il aervizio comune
della mano deatra j come se T autore dicesse:
^ Ungej mìser, uenas dextra ot pone («e, eam) in pectore \ E ciò può ben risultare dal verso considerato,
leggendolo : tange, miser^ uenaa (et pooe in pectore) dexfcra ^ , Cosi nulla vieta che si dia posto alla lez.
* dextra ' del cod. P\ sebbene da quello
inciso ' et pone in pectore ' derivi , uè
convengo anch' io^ un che di stenta to^ cUe^ del rcsto^ non sarebbe
alieno dallo stile di Persio e di altri poeti satirici latini. SaL IV 9.
Son d- opinione che nel cit. y, 9 si debba restituire il pron, ' il] ut % nella fonna appunto che è
presentata dal cod» P, e la restituzione
debba farai in tutti e due i luoghi^ nei quali ivi è adoperato; ^ cosicché il v, di Persio sia
da leggersi: hoo puta non ìustum est^
illat male, recti ub illut ^ . Né osta
all' accoglimento di ^ illnt ^ la singolarità della forma con la desinenza in -tj che non è rara , come
a prima vista potrebbe parere* In fatto^
come è notOj altri ess, di ^ illut ' ci
porgono i coddp Plautini ^ uetus ' o Vatìcanno (B) e ^ decurtatus ^ del
se e» XI (C) al presente di nuovo in
Heidelberg ; il cod. Tereuziano Bembin. o Vatican, del
sec. IV/A-^ (A) ; il palinsesto torinese del sec. IV/V (orazione dì Cic. prò Tuli.) ; il palinsesto Vatican.
Reg. 2077 del sec. ^ Avverto^ in
nota, che nel 2^* dei due IL indicati sostituiscono * istud ' al pron. dimostrativo che ivi è adoperato
quattro codd. del sec, XI^ cioè i
Monacenss, Ffl e no. 330 ed i Pari ss. no- 8048 e no* 8070 ; tre codd. del sec. XII, che sono il Monacens. no. 83,
il Paris. 8246, il Berolinena, no. 2; ed
altri codd, più recenti. contenente le Verrin. di Cic. ; il cod. Vatican. -
Basilio . H 25 del sec. IX, in cui si
contengono le Philipp, di Cic. ; ^ il
cod. Paris. 5764 del s. XI/XII, che contiene i comm. de 6. ciu. di Cesare; il palinsesto veronese del
sec. V delle institutiones di Gaio ; ecc.
^ Altri ess. presenta il Corpus inscr. Lat. : . ecc. Sat. Tanto il cod. P
quanto i codd. A B danno concordemente '
potis est ' per il v. 13 : la stessa lez. si ripete nel florilegio contenuto nel cod. Monacens. no. 4423 del
sec. XV. Una correzione di seconda mano fatta sul cod. A sostituisce ' potis es
' ; e questa lez. osservasi nel cod.
Laurenziano 19 del sec. XI e, sotto
cancellatura, nel cod. Paris, no. 8272 del medesimo sec. ^ Gli edd. di Persio
hanno tutti accettato V emen- dazione
del correttore del cod. A, scrivendo il v. di Persio : et potis es nigrum uitio
praefigere theta '. Io credo che si
debba ritornare alla lez. dei codd. P A B,
restituendo nel testo di Persio V espressione ' potis est ' : e mi conferma in questa opinione, anzi tutto, il
fatto che i dotti del medio evo lessero
^ potis est ' nel verso citato , come ne fanno
fede Isidoro (sec. VI -VII) * e Giovanni di Salisbury; ^ e in secondo
luogo una ragione ermeneutica. Al gio-
A Vi Mai, class, auct t. II pp. 7 e 810.
Il Neue (Formenlehre der
lateinischen Sprache, III Auflage von C.
Wagener, Beri. Calvary) nelP elenco degli ess.
sopra menzionati trascura la lez. del
cod. P di Persio. ^ Non si può tener
conto della lez. , evidentemente errata , * potis e nigrum ' , che presenta il cod. Paris, no.
8048 del sec. XI. 4 Isidorus, on'g. I
23, 1 col. 837, 18 : * et potis est nigrum uitio prae- figere tbeta '. 5 Ioannes Saresberiensis ,
policrat VI 18 p. 371, 36, ed. Io. Maire ^
Lugd. Bat.: et potis est nigrum uitiis praefigere theta '. vnìm
aiiibizinso, ^il qua lo * inveii ìum e è rerum prudentia Meìùi I ante pìlos neiut ' , il saggio pn^cettore
dico : ^ scia etenim iu-^ ttum geuiina
suspendere [unee | ancipiti^ librac '5 e tosto 90"^*i giunge : ^ rectuui diseeniis ' ; e di taile
discernimento fa, quanta air obietto,
tre ipotesi: a) ubi inter curmi aubit ' (^c. roc*' tuiuj , cioè, couie spiega il prof. Geyza
Németh^j etiam tuTii, cum difficìlo est rectum a non recto
discern^ra * ; ò) ^ nel cuui fa Hit pedo
regula uaro ' , perehn il ^ aumnium iua ' è non
di rad^ì ^ aumina iniurjfi \ donde la necossità di mitigare U ri- gore delle leggi eoi principi dell'equità; e)
^ et potis est Jii- gi'Uin uitio
praefigere tlieta % ossia la possibilità, in generale^ di punire ì colpevoli. Questa terza ipotesi v
in istretto legame, logieo e sintattico,
con la precedente; e su il poeta ha preferito
avvalersi generalmente de IT espressione ^ uel cum fnllit \ non potevasi, tanto per V unità di concetto
quanto per la diretta di- pendenza di ^
potis ,.. ' dalla stessa espressione ' nel cum ' eli e regge il ' fallìt * precedente, non
poteviisi^ dicevo^ venire al verbo di
feconda pers. es ' , ma era da con servarsi, per V ob- biettività (mi si conceda V uso, qui
necessario, della voce nuo- va) della
considerazione generale, la stessa terza pers. che si V notata tanto in 'fallii ' quanto in * subit
\ 1 jCggo , d un q ne, coi miglio r i
co dfl . di Pc r sio e sccond o la tra -
dizione conservata dai dntti nell'etìi di mezzo; et potis est nigrum
uitio praefigere thefca, Jn tutte le
edd. di Persio si leggr; ' ingetntfc ^
hoc bene sìt ' tunicatum ciirn stile mordens
cae|)e ^ , Kémethy, op, eìt. p*
21% Ma il cod. P dà ' mordes ' invece di
^ mordens ' ; e , tutto- ché il
correttore antichissimo vi abbia apposto V emciidazioiui ' mordens ' , fondata sulla recensione
Sabiniana , io non credo che la lez.
genuina del P si possa senz' altro rifiutare. Tutti i commentatori spiegano il passo cit. che V
autore ci voglia pre- sentare un tristo
avaro , il quale , mordendo una cipolla con
sale, mormori soddisfatto ' hoc bene sit '. Secondo la lez, del cod. P appare, invece, che l'avaro non si
congratuli soltanto con sé stesso del
vilissimo cibo che mangia, ma ne faccia quasi
un'esortazione a chi conversi con lui, sulla bontà dei cibi frugali, di
poca o nessuna spesa; onde il verso dovrebbe leggersi: * ingemit « hoc bene, si tunicatum cum sale
mordes caepe » ' . E in tal modo si rende necessario mutare ^
sit ' ì\\ ^ si ' ; ma con ciò io non
credo che si venga a forzare la parchi per
coordinarla con la lez. del P ^ mordes ' , poiché a me pare di essere nel vero ammettendo che la t finale di
^ sit ' sia dovuta air efficacia della
pronunzia dejla lettera iniziale della voce
seg. ^ tunicatum ' : e non é improbabile che chi scrisse il P abbia trovato, nelP esemplare da cui traeva V
apografo, il nesso ^ situnicatum ' e V
abbia diviso, senza ben riflettere al mordes seg. , in sit tunicatum '. Laonde non credo di essere
in fallo riconoscendo per vero che
Tryfoniano Sabino, quando i^i accinse ad
emendare il testo di Persio, siasi trovato , recensendo il v., dinanzi alla
difficoltà del ' sit ' coordinato con mordes e che abbia opinato di superarla
lasciando ' sit ' e correggendo ^ mordes
' in ^ mordens ' , che poi si ripetè nei codd. che ebbero a fondamento la recensione di lui. D'altro canto, non sarebbe sintatticamente
inesatto se ai lasciasse coesistere il ^ sit ' col ^ mordes ' , leggendo :
ingemit « hon (bene sit !) tunicatum cum sale mordes caepe t;
ma spiace quell' indicazione di un fatto come realmente avve- mitoj
mediante il ^ inordos ' di modo indicativo, laddove s' intenda t* eprime re un
invito o consiglio o sollecitazione a man-
g"iare cipolle con sale. La
restituzione della lez. presentata dal P, con la sostila- aion© della voce ^ si ' al v. * sit \ ha
questo di vantaggio sulla lez. coin un
eniente segui taj che, oltre al dare maggiore evidenza alla tìgura delP avaro che predica agli altri
la bontà dei cibi tiomplici y naturali e
di poco o nessun costo ^ ha il merito di
evitare il cumolo dei due participi ' metuena ' e ^ niordens ' (o
incidens come è scritto nel cod, Paris, no. 8050 dell' a. 1321} e di conservare meglio la simmetria della frase. Sat- IV 51. La lez. * est ' invece di ' es ' nel v. 51 è
data tanto dal cod- P quanto dai codd,
di fonte tSabiniana A B; e si osserva
ripetuta nel cod* Paris, no, 80oO scr. nel sec. XTV e nel cod. Basileens. f\ III. 6 dtjl sec, XV, Olì edd,
tutti l'hanno rifiu- tata, ma a torto ^
ed hanno ammesso la lez. * es ' che appare
la prima volta in nn^ emendazione di seconda mano notata nel cod, A e si ripete nel cod. Laurenziano
XXXVII 19 del sec. XL Dico eh a gli edd.
l'hanno rifiutata a torto ^ perche il
pensiero dell' autore non è di consigliare il rifiuto dì ciò che una perso uà non èj ma il disdegno per tutto
quello che in real- tà non t% cioè il
disdegno per lo vane apjiarenze e per le cose
che non hanno valore alcuno: insomuia, il contenuto del consi- glio che da 1' autore ha un* estensione
objettiva maggiore chn non resti
espressa col verbo in seconda persoua * es \ Io cre- do, per tanto ^ che si debba ritornare alla
lez, presentata dai codd, pili
autorevoli, leggendo il verso su indicato di Pera io: respue quod non estj tolUt sua muoera
cerdo K\in opere del Prof. Dott. Santi
CirasDli : IIuIIòitkIc sninimntlk Ul brng for Koriitke og Danske, Catania ,
1BB4. L. 3. (in Oì?itu presso E.
Ilaul'fs boghantlel, Krif>tiauìaj in Norvegia). MHit/Aoiil di Ihii^nm kitmti espoF^te,
fieeondo il mefcoLlo scientìfico , agli
al u imi dille scuole secondarie olaasicho. Ci^taaia^ F, Tropea,
18BT« L. :i, 50 (esaurito), Iiitrodii/ioue il Ilo studio del l>. K. —
Torino^ Fratelli Bocca, ItiSH. L. Ci
(esaurito). Fotioloiriu lutimu —
2'' ediz. riveduta e migliorata. — Milano, U. Hoepli. im-2. L. 1, 50. Lettera! lira no r ventatiMilano^ U. Hoepli De
Cp Ffìiiiì CiiceilH 8ceiiiidl rlietorick s^tudll^, Catiuae , C. Galatola , 18^7, L 3 (esaurito). Il neoloferismo iioflì Berltti di Plinio lì
giovane. Contributo agli studi sulla
Uitiiiit^'i ar^outeti. ^ Palermo, A. Reber^ 1900. L. 3. Neidosrìsnii 1)otiimei nei earinì biieoUei e
g^jorgricl di Yì Icilio, Contributo agli
ytudl sulla latlcitfi dell' evo augusteo»
Palermo , A* ftebor . Té* tt
Ilio re ilei libro De origine et sitn (Teruiauorum ,| ; ricercke critiche, Jtioma, E. Loeseher & a-, . L. . Li Germauia, comparata con la Natni'alis
lilstoria, di Plinio e eoli lo opero di Tnelto: ricerche lessigrafiche e
sìutiitticbe. E orna, E. Loe^cher &
C", 19(Xl L a ^^otc eritieiic e
liìbilogi^Uciie di lettemtura latina^ puutata. I. Catania^
Barba gai lo Lt Scuderi A« Pernii FI aeei saturartim libtr ; recensuit,
adnotatione critica instruxit, te
stimolila usque ad saeculum XV addidlt Santi Consoli. Editio maior. llomae, apud Hermannurn Loescher et
socium. Note eritlelio e bibUoj^i'atìclie di lettemtuni latina, puntata II.
Catania, Fratelli Perrotta, MM, L
1, A. Pei-sil Flacei satnrariini Hbcr ;
recensuit Santi Consoli. Editio miaor.
EomaOi apud Hermann uni Loescher et socium, 19CM. L. 1, Di prossima pubblicasiione : Le fonti delie satire di Persio. Up Bf«v!
afinm^lonE (critiche alle Set ì. Santi Consoli. S. Consoli. Consoli. Keywords:
deutero-esperanto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Consoli.” Consoli.
Luigi Speranza -- Grice e Conte: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del sacrificio – scuola
di Pavia – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia).
Filosofo paviano. Filosofo Lombardo. Filosofo Italiano. Pavia, Lombardia. Grice: “Must say I love Conte – he
has almost the same talent for linguistic coinage that I do! In Italy ‘filosofia del diritto’ is much more respectable a discipline
that it is at Oxford! But Conte managed to keep it philosophically interesting
for the philosopher’s philosopher that I am!” “Conte proves that moral
philosophy is at the heart of philosopohy qua-uni-virtue – for the critique of
reason must include the buletic – and that’s all that Conte dedicates his
philosophy too! Into the bargain, he expands into concepts like sacrifice,
punishment, ‘fiducia’ (my principle of conversational trust), and so much
more!” “He plays with language the way only Heidegger did in German and I in
English!” Grice: “Conte is what I – and Italians – would call a ‘Griceian
conversationali pragmaticist.’” Studia a
Pavia e Padova. Si laurea a Torino sotto Bobbio con “Ius naturale.” Insegna a
Pavia. Si occupa della semiotica del performativo deontico o buletico, la
regola eidetico-costitutive, validità buletica – desirabilita -- deontica, modo
imperativo, prammatica conversazionale – alla Grice. In che cosa consiste
quell’’impero’, dal quale il modo imperativo prende il nome. Altre opere: “Interpretazione
analogica. Pavia, Tipografia del Libro, “Ius ed ordine” (Torino, Giappichelli).
Primi argomenti per una critica del normativismo. Pavia, Tipografia del Libro,
Ricerca d'un paradosso deontico” (Pavia, Tipografia del Libro); Nove studi sul
linguaggio normativo. Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio
normativo. I. Studi; Torino, Giappichelli, Filosofia del linguaggio normativo.
II. Studi; Con una nota di Bobbio. Torino, Giappichelli); Imperativo ed ordine.
Studi Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi,
Torino, Giappichelli); Filosofia del diritto” (Milano, Cortina); Ricerche di
Filosofia del diritto” Torino, Giappichelli); “Res ex nomine” (Napoli,
Editoriale Scientifica); “Sociologia filosofica del diritto. Torino,
Giappichelli); “Adelaster. Il nome del vero” (Milano, LED). È inventore del
genere da lui chiamato "eido-gramma" ed autore di numerosi
eidogrammi, solo parzialmente éditi:
Nella parola. Osnago, Pulcino elefante, Kenningar. Bari, Adriatica. "Per
una critica della ragione deontica" (introduzione alla Filosofia del
linguaggio normativo). Pragmatica. Filosofia del diritto Logica deontica Ontologia Performativo
(atto verbale) Pragmatica Semiotica Semantica.To undertake to set forth with
any definiteness the ‘religious’ – or eschatological -- ideas of ''a
Roman philosopher'' – FILOSOFO ROMANO -- would be an extremely difficult
task.Those, ideas would differ with the individual and the sect, being
determined or varied by a number of considerations and influences — by
locality, education, and temperament. SILIO would not hold the
views of SEIO. We may speak of the state religion – colto officiale -- of ROMA,
as distinct from various other ‘religions’ tolerated and practised
in different parts, but it is scarcely possible to define the contents of
that ‘state religion’ – il SACERDOCIO. There are certain special
priests and priestly bodies who see to it that certain rites and
ceremonies are performed scrupulously in a prescribed manner and on
prescribed dates. But these are officers of the state – LO STATO ROMANO
-- whose knowledge and functions are confined to the ritual observances
with which they have to deal. They are not persons trained in a
system of ‘theology’, nor are they preachers of a code of doctrines or
morals. They have no "cure of souls," and belong to no church. They
have no credo and no Bible or corresponding authority to which to refer.
Though most well-informed persons will know the prominent deities
in the calendar — such as IOVE or MARTE, or QUIRINO -- perhaps scarcely any one
but an encyclopaedist or antiquarian could have named one-half of the
total. It is not merely that the deities on the list are so numerous.
There are other reasons for ignorance or vagueness. In the first place,
the line between the operations of one deity and those of another is
often too fine to draw, and deities originally more or less distinct come
to be confused or identified. Secondly, it is often hard, if not
impossible, to make up one's mind whether a so-called deity — such
as SPES — is supposed to have a real existence, or whether it is simply
the personification of an abstract quality. Thirdly, divinities fall out of
fashion, and to a large extent out of memory, while new ones come, or
were coming, into vogue. The state possesses its old-established
calendar of days sacred to a number of deities, and its code of ritual to
be performed in their honour. There are ancient prescriptions as to what
certain priests should wear, what they should do or avoid in their
priestly character, what victims — ox, sheep, or pig — they should
sacrifice, what instruments they should use for the purpose, and in what
formula of words they should pray in particular connections. There is
a standing commission, with the PONTIFICE MASSIMO at this date that
excellent religious authority, the emperor — at its head, to safeguard the
state religion, to see that its requirements are carried out, and
that no one ventures to commit an outrage towards it. But the state will
not tell you with any precision that you must believe in just so
many deities and no others. It would not tell you precisely what notions
to entertain concerning those deities whom it does officially recognise.
The state dictates no theological doctrine; neither does it dictate
any moral doctrine beyond those which you would find in the secular law.
It reserves the right to prevent the introduction of a foreign divinity
if it finds sufficient cause; but so long as the temples, the rites and
ceremonies, the cardinal moral axioms of the Roman ''religion,'' and the
basic principles of Roman society are respected, the state practises
no sort of inquisition into your beliefs or non-beliefs, and in no way
interferes with your particular selection of favourite deities. Poly-theism
in an advanced commimity is always tolerant, because it is necessarily
always indefinite. What it does not readily endure is an organised
attack upon the entire system, whether openly avowed or manifestly
implied. Even undisguised unbelief in any deity at all it is often
willing to tolerate, so long as the unbelief is rather A MATTER OF
PHILOSOPHICAL DIALECTICS than anything else, and makes no attempt at a
crusade. When a state so disposed is found to interfere with a
novel religion, it will generally be easy to perceive that the jealousy
is not on behalf of the deities nor of a creed, but on behalf of the
community in its political, economic, or social aspect. Let us endeavour
to realise as best we can the religious situation among the Roman
population. Though we are not here directly concerned with the
steps by which the Roman religion had come to be what it was, we can
scarcely hope to understand the position without some comprehension of
that development. The Romans are a CONSERVATIVE people, and many of the
peculiarities of their worship are due to the retention of old forms
which had lost such spirit as they once possessed. In the infant
days of the nation there had been no such things as gods in human shape,
or in recognisable shape at all. There were only ''powers" or
"influences'' superior to mankind, by whose aid or concurrence man must
work out his existence. The early Romans and such Italian tribes - as
they became blended with were, as they still are, EXTREMELEY
SUPERSTITIOUS. In a pre-scientific age they, like other peoples, are at a
loss to understand what produces a thunder or a lightning, rain, the
fertility or failure of crops, the changes of the seasons, the flow or
cessation of springs and streams, the intoxication or exhilaration
proceeding from wine, and a multitude of other phenomena. Fire is a
perplexing thing; so is wind. The woods are full of mysterious sounds
and movements. They could comprehend neither birth nor death, nor
the fructification of plants. The consequence is a feeling that these
things are due to some unseen agency; and the attempt is made to
bring those powers into some sort of relation with mankind, either by the
compulsion of magical operations and magical formulae, or by sacrifices and
offerings of propitiation, or by promises. A superhuman power might be
placed under a spell, or placated with food and drink, or persuaded by a
vow. Such "powers" were exceedingly numerous. Greatest of
all, and recognised equally by all, was the power working in the sky with
the thunder and the rain. Its presence was everywhere alike, and its
bperations most palpable at every season. Countless others were
concerned with particular localities or with particular functions. Every
wood, if not every tree, and also every fountain, was controlled by some
such higher 'power'; every manifestation or operation of nature
came from such an 'influence.'' There was no kind of action or
undertaking, no new stage of life or change of condition, which did not
depend for help or hin- drance upon a similar power. At first "the
''powers" bore no distinctive names, and were conceived in no
definite shapes. They were not yet gods. The human being who sought to
work upon them to favour him could only do, say, and offer such
things as he thought likely to move them. But in process of time it
became inevitable that these superhuman agencies should be referred to
under some sort of title, and the title literally expressed the
conception. Hence a multitude of names. Not only was there the
ever-prominent Jupiter or sky-father " ; there was a veritable
multitude^ of powers with provinces great and small. Among the larger
conceptions the power concerned with the sowing of seed was Saturn,
that with the growth of crops was Ceres, that with the blazing of fire
was Vesta. Among the smaller, the power which taught a babe to eat was
Edulia, that which attended the bringing home of a bride was
Domiduca. The ability to speak or to walk was supposed to be imparted by
separate agencies named accordingly. Flowers depended on Flora and
fruits on Pomona. But to assign a name is a great step
towards creating a ''power'' into a ''god,'' and such agencies
began to take shape in the mind of those who named them. This was the
second stage. Jupiter, Ceres, Satmn, and almost all the rest became
"gods." The powers in the woodlands — a Silvanus or Faunus
— became embodied, like the more modem gnomes and kobbolds. Once
imagine a shape, and the tendency is to give it visible form in an image
"like unto man,*' and to honour it with an abode — a temple or
shrine. The earliest Romans known to us erected no images or
temples, but they were not long in creating them. Particularly rapid was
the reducing of a god to human form when they came into close contact
with the Etruscans and the Greeks. For all the important deities
poetry and art combined to evolve an appropriate bodily form, which
gradually became conventional, so that the ordinary notion of a
Jupiter, a Juno, a Mercury, or a Ceres was approximately that which
had been gathered from the statue thus developed. This trouble was not
taken with all the most ancient divinities. Many of the old rural and
local deities, and many of those with quite minor provinces, were left
vague and unrealised. They were represented in no temples and by no
statues. Natiu'ally as the Roman state grew from a set of neighbouring
farms into a great city, and from a small settlement into a vast empire,
the little local gods fell into the background. The deities which
concerned the state, and to which it erected temples, were those
with the more far-reaching operations — such as the gods identified with
the sky and its thunders, with war, with fertility, with the sea, with
the hearth-fire of all Rome. The rest might well be left to
localities or to domestic worship. From the early days of
Rome there existed a calendar for festivals to certain divinities
important to the little growing town, and a code of ceremonies to
be performed in their honour, and of formulae of prayer to be offered to
them. The later Romans, in their characteristic conservatism, adhered to
those festivals, to that ritual, and to those formulae, even when
some of the deities had ceased to be of appreci- able account, and when
neither the meaning of the ritual nor the sense of the old words was any
longer imderstood by the very priests who used them. Reflect
a moment on this situation. First, we have a number of deities of the
first rank, housed in temples, embodied in statues, and recognised in
all the Roman world; next a number of minor divinities whose
operations and worship may be remotely rural or otherwise local, and
whose functions are by no means always distinguishable from those of
the greater gods; then a series of more or less un- intelligible
ceremonials carried out by ancient rule in honoiu" of divinities
often practically forgotten ; outside these a number of vague powers
presiding over small domestic and other actions; finally, a
peculiar Roman tendency — in keeping with the last — to erect into
divinities, and to symbolise in statues housed in temples, all manner of
abstract qualities and states, such as Hope, Harmony, Peace, Wealth,
Health, Fame, and Youth. Reflect agam that, when the Romans, as
they spread, came into contact with Greeks, Egyptians, or other
foreigners, they met with deities whose provinces were necessarily often
identical with or closely akin Fio. . — A Sacrifice.
to their own. Then remember that there is no church and no
official document to define the complete list of Roman gods. Does it not
follow, as a matter of course, on the one hand, that the importation
of new gods was an easy matter, and on the other, that no
individual Roman could draw the line as to the number of even the
old-established deities in whom he should or should not believe? The
guardians of the public reUgion were satisfied if the due rites were paid
by the state to those deities, on those. dates, and precisely in that
manner, which happened to be prescribed in the official religious
books. For the rest they left matters to the individual. So
much it has been necessary to say in order to account for existing
attitudes. We must use the plural, since the attitude of the state
officials is but one of several, and, inasmuch as the state
officials themselves were not a theological caste but only secular servants
of the community administering the regulations for external worship as
laid down in the records, it often happened that their official
attitude had nothing to do with their individual beliefs. Often they did
not know or care whether there was a real religious efficacy in the acts
which they performed ; sometimes all that they knew was that they
were doing what the state required to be done properly by some one.
Cicero quotes a dictum of a Pontifex Maximus that there was one
religion of the poet, another of the philosopher, and another of the statesman.
This is true, but it is hardly adequate. We must at least add that
of the common people. A well-known statement of more modern birth puts
the case — rather too strongly — that at our period all religions
were regarded by the people as equally true, by the phi- losopher
as equally false and by the statesman as equally useful. We may begin
with the ordinary people of whatever station, who were not poets nor
thinkers nor magistrates. It is an error to suppose that such Romans of
the first eentiu'y were either atheistic or indifferent to religion.
Their fault was rather that they were too superstitious, ready to
believe too much rather than too Uttle, but to beUeve without relating
their beUef to conduct. They did not question the existence of the
traditional gods, nor the characters attributed to them; they were
ready to perform their dues of worship and to make their due offerings,
but all this had no bearing upon their own morality. They believed with
the terror of the superstitious in omens and portents, and in rites
of expiation and purification to avert the threatened evil. They were
alarmed by thunder and lightning, earthquakes, bad dreams, ravens seen
on the wrong side of the road, and other evil tokens. They commonly
accepted the existence of maUgn spirits, including ghosts. They were
prepared to believe that on occasion a statue had bled or turned
round on its base; that an ox had spoken in human language; or that there
had been a rain of blood. There were doubtless exceptions, and
super- stition was less dire and oppressive than once it was. More
than fifty years before our date Cicero had said that even old women no
longer shuddered at the terrors of an underworld, and fifty years
after it the satirist asserts the same of children. But both writers are
speaking somewhat hyper- bolically. Doubtless it had been wondered
how two augurs could look at each other without a smile, but there
is nothing to show that even a minority of augurs were acutely conscious
of any- thing to smile at. In the multiplicity of deities the
ordinary people were prepared to accept as many more as you chose
to offer them, especially if the worship attaching to them contained
mystic or orgiastic ceremonies. By this date the populace had become
exceedingly mixed, especially in the capital, and the cool
hard-headed Roman stock had been largely replaced or leavened by
foreign elements, especially from the East. The official worship of the
state was formal and frigid ; it offered nothing to the emotions or the
hopes. Many among the people felt an instinct for something more
sacramental, and especially attractive was any form of worship which
promised a continued existence, and probably a happier existence, after
death. Even the mere mysteriousness of a form of worship had its
allurements. Hence a tendency to Judaism, still more to the Egyptian
worship of Isis and Osiris. The latter made many proselytes, particularly
among the women, and contained ideas which are by no means ignoble
but to our modern minds far more truly ''religious'' than anything to be
found in the native Roman cults. To pass through purification, to
practise asceticism, to feel that there was a life beyond the grave
apportioned to your deserts, to go through an impressive form of worship
held every day, and to have the emotion^-thus worked upon — all
this supplied something to the moral nature which was lacking in the
chill sacrifices and prayers to Jupiter and the other national
divinities. In vain had the authorities, in their doubt as to the moral
effects, tried on several occasions to suppress this foreign worship; it
always revived, and it now held its established place both in the
imperial city and in the provinces, particularly near the sea, for it
was especially a sailors' religion. Rome, like Pompeii, had its
temple of Isis and her daily celebrations. There was, however, no
necessary conflict between this worship and the oflScial religion. It was
quite possible to accept Isis while accepting Jupiter. Nor, though this
particular cult has required mention, must it be taken as belonging to
more than a section of the Roman population. Most Romans would look
upon it and other deviations with acquiescence, some with contempt, and
perhaps some with a shake of the head, while themselves satisfied with an
indifferent conformity to the more estabUshed customs of the
state. Setting aside the devotees of the mystic, the more
ordinary point of view was that between Romans and the established gods
of Rome there is an understanding. The gods will support Rome so long as
Rome pays to them their dues of formal recognition. Their ritual
must not be neglected by the authorities; it is not necessary for an
individual member of the community to concern himself further in the
matter. The state, through its appointed ministers, will make the
necessary sacrifices and say the necessary words; the citizen need not
put in an appearance or take any part. He will not do or say anything
dis- respectful towards the deities in question, and he will enjoy
the festivals belonging to them. If remarkable portents and disasters
occur, he will agree that there is something wrong in the behavioiu* of
the state, and that there must be some public purification or other
placation of the gods. If the state orders such a proceeding, he will
perform whatever may be his share in it. So far he is loyal to the
''religion of the state.'' In his private capacity he has his
own wants, fears, and hopes. He therefore betakes himself
to whatever divinity he considers most likely to help him; he makes
his own prayers and vows an offering if his request is granted. Reduced
to plain commercial language his ordinary attitude is — no success,
no payment. A cardinal difference between the religion of the
Romans and our own is to be seen in the nature of their prayers. They
always ask for some definite advantage — prosperity, safety, health, or
the like. They never pray for a clean heart or for some moral improvement.
Of more importance than the man's moral condition will be his scrupulous
observance of the right external practices. Unlike the Greek, he
will cover his head when he prays. He will raise his hand to his lips
before the statue, or, if he is appealing to the celestial deities, he
will stretch his palms upwards above his head ; if to the infernal
powers, he will hold them downwards. These are the things that
matter. At home, if he belongs to the better type of
representative citizen, our Roman has his household shrine and his
household divinities, whom he never neglects. If he is very pious, he may
pray to them every morning, or at least before every enterprise. In
any case he will remember them with a small offering when he dines. There
are the ''gods of the stores" — his ''penates'' — certain deities
whom he has selected as guardians of his belongings, and who have
their little images by the hearth in the kitchen. There is the household
''protector," or more commonly there are two, who may be
painted under the form of Ughtly-stepping youths in a little niche
or shrine above a small altar. To these he will offer fruits, flowers,
incense, and cakes. And there is the ''Genius'' of the master of
the house, who is also painted on the wall, or who may be
represented by his own portrait bust or by the pictxu-e of a snake. That
"Genius" means the power presiding over his vitality and health
and well- being. If he is an artisan and belongs to a guild, he
will pay special worship to the patron god or goddess of that, guild — to
Vesta, if he is a baker, to Minerva, if he is a fuller. Out of doors he
will find a street shrine in the wall at a crossing, pertaining to
the tutelary god of what may be called his ''parish,'' and this he
will not neglect. Like all other orthodox Romans he will not undertake
any new enterprise — betrothal, marriage, journey, or important business
— without ascertaining that the auspices are favourable. In a
general way he has a notion that the gods are displeased at certain forms
of crime, and that they approve of justice and the carrying out of
compacts. The gods overlook the state, because the state engages them so
to do, and therefore to break the laws of the state is to anger the gods
of the state. But this is rather subtle for the common man, and
there is generally no understood immediate relation between these gods
and his moral conduct, unless he has sworn an oath by one or other of
them. The purpose of calling a god to witness is to bring upon a
perjurer the anger of the offended deity. But he entertains no such
conception as the modem one of "sin" or of "remorse for
sin." "Sin" is either a breach of the secular law or breach
of a contract with a deity, and ''remorse'' is but fear of or regret for
the consequences. His morality is determined by the laws of
the state, family discipUne, and social custom. For that reason his
vices on the positive side will mostly be those of his appetites, and on
the negative side a want of charity and compassion. He may be guiltless
of lying and stealing, murder and violence; he may be honest and
law-abiding ; but there .is nothing to make him temperate, continent, or
gentle. His avowed code is duty,' and duty is defined by law and
tradition. If this is the religious condition of the conunon-
place man or woman — a blend of superstition, formalism, and tolerance —
it is by no means that of the educated thinker. Such persons were for
the most part freethinkers. Many of them, finding no better guide
to conduct, conform to the "religion" of the state without any
real belief in its gods or attaching any importance to its ceremonies.
They do not feel called upon to propagate any other views, and they
probably think the current notions are at least as good fqr the ignorant
as any others. If they are poets, like Horace or Lucan, they will dress
up the mythology, mostly from Greek models, and write fluently
about Jupiter and Juno, Venus and Mercury, either attributing to them the
recognised characters and legends, or varying them so as to make
them more picturesque and interesting — perhaps even improving them — but
all the time believing no more in the stories they are telling^ or in the
deities them- selves,* than Tennyson need have beUeved in King
Arthur and Guinevere. The gods are good poetic material and are sure to
afford popular, or at least in- offensive, reading. The poets doubtless
do something to hiunanise and beautify the popular conception of a
deity, but they seldom deUberately set out with any such purpose. If the
educated are not poets, but pubUc men of affairs, they may beUeve just as
Uttle, and yet regard the established cult of the gods as an
excellent discipline for the vulgar and the best known means of upholding
the national principle of ''duty.'' If they are philosophers they may
not, and the Epicureans in reality do not, beUeve in the gods at
all — certainly not as they are generally conceived — and will
openly discuss in speech and in writing the ques- tion of their existence
or non-existence, and of their character and nature if they do exist.
They will endeavour to substitute for the barren formalism of rites
and ceremonies, or the inconsistent or incomplete traditional morality of
duty, another set of principles as a sounder guide to life and conduct.
Some are monotheists, some are simply in doubt. Says Nero's own
tutor, Seneca, ''Do you want to propitiate the gods? Then be good. The
true worshipper of the gods is he who acts like them." "Better,"
remarks Plutarch, "not believe in a God at all than cringe
before a god who is worse than the worst of men." In the actual
worship of images none of them believe. One conspicuous writer of the
time says : "To look for a form and shape to a god, I consider to be
a mark of human feebleness of mind." Concerning the schools of
thought and in particular the tenets of those Stoics and Epicureans whom
St. Paul met at Athens, and whom he could meet in educated circles all
over the Roman Empire, we shall have to speak in a following
chapter, when sununing up the intellectual and moral condition of the
time. Meanwhile it should be under- stood that, though a profound or
anything approaching a professional study of philosophy was discouraged
among the true Romans — more than once the profes- sional philosophers
were banished from the capital — there were few cultivated persons who
did not to some extent dabble in it, and even go so far as to
profess an adherence to one school or another. None of these men believed
in the "Roman religion" as administered by the state, although
many of them were administering it themselves. The same man could
one day freely discuss the gods in con- versation or a treatise, and the
next he might be clad in priestly garb and officially seeing that
the rites of sacrifice were being religiously carried out in terms
of the books, or that the auspices were being properly taken.
It does not, however, follow at all that because poet or public man
cared nothing for the pantheon and all its mythology, he was therefore
without his superstitions. He might still tremble at signs and
portents, at comets, at dreams, and at the un- propitious behaviom* of
birds and beasts. He might believe in astrology and resort to its
professors, called the ''Chaldaeans." On the other hand he
might laugh at such things. It was all a
matter of tempera- ment. It certainly was not every man who dared
to act like one of the Roman admirals. When it was reported that
the omens were unpropitious to an inuninent battle because the sacred
chickens ''would not eat," he ordered them to be thrown into the
sea so that at least they might drink. The freethinkers were in
advance of their times. "Science" in the modern sense hardly
existed, and until phenomena are explained it is hard to avoid a
perplexity or astonishment which is equivalent to superstition.
Consider now these various states of mind — that of the
people, ready to add almost any deity to the large and vague number
aheady recognised ; that of the poet, who finds the deities such useful
literary material ; that of the magistrate or public man, who,
without enthusiasm or necessary belief, regards reUgion as a thing useful
to society; and that of the philosopher, who thinks all the current
re- Ugious conceptions unsound, if not absurd, and morally almost
useless. Manifestly a society so composed will be one of
unusual tolerance. The Romans had no disposition to force their religion
on the subject provinces of the empire. Their religion was the Roman
religion; the rehgion of the Greeks might be left Greek, the Jewish
religion Jewish, and the Egyptian religion Egyptian. Any nation had a
right to the religion of its fathers. Nay, the Jews had such peculiar
notions about a Sabbath day and other matters that a Jew
was exempted from the military service which would have compelled
him to break his national laws. All religions were permitted, so long as
they were national religions. Also all religious views were permitted
to the individual, so long as they were not considered dangerous to
the empire or imperial rule, or so long as they threatened no appreciable
harm to the social order. If a Jew came to Rome and practised Judaism,
well and good. It was, in the eyes of the Romans, a narrow-minded and
uncharitable religion, marked by many strange and absurd practices and
superstitions, but if a misguided oriental people liked to indulge
in it, well and good. Even if a Roman became a proselyte to
Judaism, well and good, so long as he did not flout the official reUgion
of his own country. If the Egyptians chose to worship cats, ibises,
and crocodiles, that was theii^ affair, so long as they let other
people alone. In Gaul, it is true, the emperor Claudius, predecessor of
Nero, had put down the Druids. Earlier still the Druids had already been
interfered with ; but that was because the Druids — those weird old
white-sheeted men with their long beards and strange magic — are
performing human sacrifices — burning men alive in wicker frames — and
such conduct was not pnly contrary to the secular law of Rome, but
even to natural law. And when Claudius finally suppressed them, or drove
the remnant out of Gaul into Britain, it was not simply because
they worshipped non-Roman gods and performed non- Roman rites, but
because they were, as they had always notoriously been, a dangerous
political influence interfering with the proper canying out of the Roman
government. And when we come to Christianity it must be
remarked that, so long as that nascent religion was regarded as merely a
variety of Judaism, it was actu- ally protected by the Roman power, and
owes no little of its original progress to the fact. In the Acts of
the Apostles it is always from the Roman governor that St. Paul receives,
not only the fairest, but the most courteous treatment. It is the
Jews who persecute him and work up difficulties against him,
because to them he is a renegade and is weaning away their people. To the
philosophers at Athens he appears as the preacher of a new philosophy,
and they think him a "smatterer" in such subjects. To the
Roman he is a man charged by a certain com- munity with being dangerous
to social order, to wit, causing factious disturbances and profaning
the temple; and since he refuses to let the local author- ities
judge his case, and has exercised his citizen privilege by appealing to
Caesar, to Caesar he is sent. And, when a prisoner in somewhat free
custody at Rome, note that he is permitted to speak ''with all freedom,''
and that in the first instance he is acquitted. True, but the
fact remains that Nero bimit Christians in his gardens after the great
fire of Rome, and that certain later emperors are found punishing
Christians merely for avowing themselves such. Why was Christianity thus
singled out? It was not through what can be reasonably called
''religious intolerance/' for, as has been said, the Romans did not
seek to force Roman religion on other peoples, nor did they make any
inquisition into the beUefs of Romans themselves. The reasons for
singling out Christianity for special treatment are obvious enough.
The question is not whether the reasons were sound, whether the Romans
properly understood or tried to understand, whether they could be as wise
before the event as we are after it, but whether the motive was
what we should call a religious" one. To allow Epicureans to deny
the existence of gods at all, and to make scornful concessions to the
peculiar tenets of Jews, could not be the action of a people which
was bigoted. If there was bigotry and intolerance, it was political
or social bigotry and intolerance, not reUgious. To prevent any possible
misconception let the present writer say here that he considers the
principles of Christianity, as laid down by its Founder and as
spread by St. Paul, to have been the most humanizing and civilising
influence ever brought to bear upon society. But that is not the point.
The early Christians were treated as they were, not because they held
non- Roman views, but because they held anti-Roman views ; not
because they did not believe in Jupiter and Venus, but because they
refused to let any one else believe in them; not because they threatened
to weaken Roman faith, but because they threatened to weaken and
even to wreck the whole fabric of Roman society ; not because they were
known to be heretics, but because they were supposed to be disloyal;
not because they converted men, but because they appeared to convert
them into dangerous characters. As it has been put, the Christians were
regarded as the ''Nihilists" of the period. We are apt to
judge the Romans from the standpoint of Christianity dominant and
understood; it is fairer to judge them from the standpoint of a dominant
pagan empire looking on at a strange new phenomenon altogether
misunderstood and often deliberately misrepresented. Moreover — and the
point is worth more attention than it commonly receives — we have only to
read the Epistles to the Corinthians, to perceive that the early
Christian gatherings were by no means always such meek, pure, and model
assemblages as they are almost always assumed to have been. Some of the
members, for instance, quarrelled and ''were drunken.". There
were evidently many unworthy members of the new communion, and of course
there were also many manifestations of insulting bigotry on their part.
The class of society to which the Christians belonged was closely
associated in the Roman mind with the rabble and the slave, if not with
criminals. What the pagan observer saw in the new religion was "a
pestilent superstition," "hatred of the human race," "a
malevolent superstition." He thought its practices to be
connected with magic. The intransigeant Christian refused to take
the customary oath in the law courts, and there- fore appeared to menace
a trustworthy administration of the law. He took no interest in the
affairs of the empire, but talked of another king and his coming
kingdom, and he appeared to be an enemy to the Roman power. He held what
appeared to be secret meetings, although the empire rigidly suppressed
all secret societies. He weakened the martial spirit of the
soldier. He divided f amiUes — the basis of Roman society— against
themselves. He was a socialist leveller. He threatened with ruin all the
trades connected with either the established worship — as amongst
the silversmiths at Ephesus — or with the luxuries and amusements of Ufe.
Those amusements in circus or amphitheatre he hated, and therefore
appeared misanthropic. He not only stood aloof from the religious
observances of the state and the household, but treated them with
contempt or abhorrence. Moreover, at this date, he refused to
acknowledge the one great symbol of the imperial authority. This was
the statue of the emperor. When that statue was set up in every town it
was not understood by any intelligent man that the emperor was actually
a god, or that, when incense was burnt before the statue, it was
being burned to the emperor himself as deity. But just as every
householder had his attendant Genius'' — the power determining his vital
functions and well-being — which was often represented as a bust
with the man's own features, so the statue of the Augustus, ''His
Highness," represented the Genius of that Head of the State, and the
offering of incense was meant as an appeal to the Genius to keep
the emperor and the imperial power ''in health and wealth long to
live." The man who refused to make such an offering was necessarily
considered to be ill- disposed to the majesty and welfare of the Head of
the State, and therefore of the state itself. The Roman attitude
towards the early Christians was partly that of a modern government
towards Nihilists, and partly that of a generation or two ago to a blend
of extreme Radical with extreme atheist. We are not here concerned
with the whole story of the persecution of the Christians, but only with
the situation at and immediately after the date we have chosen. It
is at least quite cer ain that when Nero burned the Christians in the
year 64 he was treating them, not as the adherents of a religion, but as
social criminals or nuisances. How far his notions of Christianity
may have been influenced by Poppaea we do not know. At least he believed
he was pleasing the populace. Grice: “Conte quotes from Aristotle’s
Soph. El. On the ‘homonimia’ of deon’ – “sometimes for the good, but sometimes
for the bad.” Conte distinguishes between semantic ambiguity – surely ‘must’ or
the imperative mode does not have TWO senses – and ambivalenza prammatica.
Since Aristotle is refusing to use Frege’s idea of ‘Sinn’, and keep referring
to ‘semeion’ (Latin segnare) rather, we may well conclude that Aristotle is
just Greek Grice. Conte does not dwell much on the imperative mode. Modo
imperativo is qualified. Modo is qualified as being modo verbale – the mode of
the verb impero. But then the future in French has a ‘valore imperativo.’ Conte
is more interested in the ‘must.’ But surely his quoting from Philippa Foot and
his joint work with von Wright into Kant’s hypo versus cate is very Griceian! On
top, Conte has a taste for local historical analysis and has discovered some
gems in some jurisprudential philosophers of his ‘paese’!” Amedeo Giovanni Conte. Keywords: il
sacrificio, the sorry story of deontic logic, fondatore della logica deontica
al Ghislieri di Pavia, il giuridico, giudicare, giuridicare, impiego, employ
(as noun), employ-ment, empiegamento, Conte e Wright – Wright cited by Grice,
alethic --. Wright on change cited by Grice in “Actions and Events”, Mario
Casotti, Volere, Grice, Volere --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conte” –
The Swimming-Pool Library. Conte.
Luigi Speranza -- Grice e Contestabile:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo – scuola
di Teano – filosofia casertese – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Teano). Filosofo casertese. Filosofo campanese. Filosofo
italiano. Teano, Caserta, Campania. Grice: “I love Contestabile; I love a
philosopher with a sense of humour! At Oxford, it has
become increasingly difficult to laugh at people’s surnames! But ‘grice’ means
‘pig,’ in Norwegian! – Anyway, Contestabile contests a revisionist account of
Bruno’s life – “surely he wasn’t a coward – I know because of his links with the
Campanella whom my family supported in his fight against the furriners!” Cacciato
con una telefonata» Intervista di Dino Martirano, Corriere della sera. Con il
Psi non ho ricoperto grandi incarichi ma ho avuto l'onore di essere stato amico
di Craxi. Mi mancherà la politica ma non è una tragedia. Torno ai miei studi,
alla filosofia medioevale. Mi mancheranno certi momenti. Io, che ero stato nel
Psi fin quando la procura della Repubblica lo ha sciolto, ricordo bene i mesi
trascorsi al ministero della Giustizia: col ministro Biondi fummo i
protagonisti del tentativo fallito, però generoso, di riportare la giustizia
sui binari della normalità. Sciolto il partito [Psi], chi si è fatto
maomettano, chi ebreo, chi cattolico. Però sempre socialisti siamo rimasti. Avvocato
e politico italiano Sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia
Presidente Berlusconi Predecessore Sorice Successore Mirone Vicepresidente del
Senato della Repubblica Presidente Mancino Senatore della Repubblica Italiana
Legislature Gruppo parlamentare Forza Italia Circoscrizione Lombardia Collegio Cinisello
Balsamo, Vigevano Incarichi parlamentari Sottosegretario di Stato per la grazia
e giustizia Sito istituzionale Dati generali Partito politico FI Titolo di
studio Laurea in giurisprudenza Professione avvocato. Avvocato e politico
italiano. Laureato in giurisprudenza,
esercita la professione di avvocato. Entra in politica iscrivendosi al Partito
Socialista Italiano (partito a cui è appartenuto fino agli eventi che hanno
travolto tale formazione politica)[1]. In seguito aderisce a Forza Italia,
affermando che in tale movimento politico l'area socialista era ben accolta e
rappresentata. Viene eletto senatore ed è rieletto anche nelle due successive
legislature. Vicepresidente del Senato. Incarichi parlamentariModifica Ha fatto
parte delle seguenti commissioni parlamentari: Affari costituzionali e
giustizia; Difesa. Membro, inoltre, della giunta per le elezioni e immunità
parlamentari. Sottosegretario di StatoModifica È stato sottosegretario di
Stato per la Grazia e giustizia nel primo governo di Silvio Berlusconi. Tutti i
figli e i figliastri del garofano. su qn.quotidiano.net. Adnkronos - Psi: C. a
De Michelis, noi stiamo bene in FI ^ Senato - XIII legislatura Voci correlate Modifica
Governo Berlusconi I Partito Socialista Italiano C., su Senato.it - legislatura, Parlamento
italiano. C., su Senato.it - XIII legislatura, Parlamento italiano. Domenico
Contestabile, su Senato.it - legislatura, Parlamento italiano. Biografie
Portale Biografie Politica Portale Politica Socialismo Portale Socialismo. PAGINE
CORRELATE Fabrizio Cicchitto politico italiano Maceratini politico e
avvocato italiano Scamarcio politico italiano Altre saggi:
Bruno: una revisione contestata” – La storia della filosofia è continua
revisione, e non mi scandalizzo per il revisionismo bruniano. Mi sembra però
che questi non colga nel segno. La vita diBruno, dalla fuga da S. Domenico
Maggiore a Napoli fino al rogo di Campo dei Fiori a Roma, è di singolare
coerenza. È una vita “contro”. L’accusa implicita di opportunismo mi sembra
perciò singolare. E’ vero che, durante il processo, ritratta molte sue tesi, e
avrebbe avuto salva la vita se continua in questo atteggiamento. Alla fine però
si stanca, e scolge lucidamente di morire. È opportunista chi cerca solo
di salvare la pelle, e poi decide di morire perché ritiene che il suoi giudice
ha esagerato? In quanto alla tesi sul Bruno spia elisabettiana, essa non è provata,
anzi è smentita dalla comparazione tra la grafia di Bruno e quella dei
biglietti di spionaggio. Infine, la tesi a proposito della relazione tra
Campanella e Bruno non mi ha mai convinto. Campanella (la sua rivolta e finanziata
dalla nobile famiglia C., come ricorda Firpo nel suo ottimo saggio sul processo
a Campanella) vuole poi un regime “comunista”? A leggere “La città del sole”
non si direbbe. (CA ui i) e iui Mia ba, VA dai ‘agi
LS it Il EGR Ln i \ LA va Di = | Pome Rm
Te ti n. i Li I e Aa Kt Hlirpogt] lb pi n 9 ha So Rif [a E Ji
> a ILLE di pe LIS ia
Giordano Bruno DRAMMA MILANO
Tipografia Commercial n als dtt, TORIO EMANUELE,
Carnevale.{Resta sapore PERSONAGGI BRUNO (si veda) Sig. G. SALASSA
LORENZO (figlio naturale di GIORDANO BRUNO, «dot- tato:da)..
... ». > A.D'ANDRADE ROMANO DEI LOMBARDI «+. > F. MIGLIARA
LEANDRO giovine patrizio. S.ra ANGIOLETTI LAURA figlia di ROMANO.
>» A. Busi IL GRANDE INQUISITORE . Sig. SALVARANI ROCCO LILLE
DAMIANI ANDREA. Ni agN° UNGUARDIANO) che nonparlano N.
N. UN OsTE .. Ni Ni Giovani e Nobili Veneziani, Servi di
Romano, Gondolieri, Seguaci di Bruno, Soldati, In- quisitori, Si
Servi del S. Uffizio, Frati e Popolo. L'azione del 1.° e 2.°
Atto è in Veni quella del:3.° e 4.° Atto in Re ber a
pieni Sofee bi; pece SUIT ZIA PIAZZA IN VENEZIA,
Un’Osteria e alcune seggiole. In fondo un canale praticabile, che
traversa la scena. Sul canale un ponte, che mette in un viottolo,
sull'angolo del quale sorge a destra, un magnifico Palazzo illumi
minato a festa, prospiciente sul Canale. .Un in- gresso laterale,
illuminato da faci fisse ai muri, con- ducedal viottolo nel Palazzo. La
porta principale verso . il Canale è aperta; durante la scena seguente,
visi vedono approdare gondole, dalle quali scendono persone
ragguardevoli, che, ricevute dai servi, entrano nel Palazzo. Sera. i TI, GIOVANI e
NOBILI VENEZIANI, parte ‘in abiti fanta- stici con mezza maschera al
volto, e parte in abiti comuni, vengono da sinistra, traversano il
ponte, e dalla strada entrano nel Palazzo. LEANDRO, ROCCO ed altri
Giovani vanno e vengono ferman- dosi sulla Piazza, cantando e ridendo,
Poi LQ- RENZO e LAURA. Leandro (accompagnandosi colla
ghitarra) A te, Venezia bella, adorata, A te, mia sposa, la
serenata. HEVVPETIAIAMITEREZI LIA VITE RENTAL rara rr ovinantosinezineneisevazize
vecio sinioneee IVTIPRErTA:Itr rara rirevenaatos aes szereris cva:i0e
vice vi’ veve’ ’avurecovio sr 0uIvI vare ri [tti STA Hocco
(Volgendosi all’osteria) Leandro, scuotiti! Le mura
adori?... Vieni ove brillano Divini amori, Ove donzelle
Cotanto belle Potrai mirar. Coro dei nobili Al convito
n’andiam! alla festa! Leandro Prima di venir alla
gran festa Distruggere io vo’ un'idea funesta! Oste, su via
porgetemi Vino di Cipro; a questo petto ardente Occorre del più
vecchio e più potente. Vivan le belle Danzanti; volano. Gli occhi
fiammeggiano Più che le stelle; Ne’ Joro vortici Mi ruban
Vanima.... sui Crudo gioir! «__°’Più non mi muovo Suolo
dolcissimo, ir belt r__Frrrrrr n -
a-rt-rvreorosoeeriovoe nueva zeranen sonia mise
eeerarmierereriiovnieteacivoteote0ie Nido mio nuovo!
Muoio in tue braccia... Santo delir! | A te, Venezia
bella, adorata, A te, mia sposa, la serenata,
Coro AI Convito! n’andiam alla festa. (S'appressano in una gondola
LAURA e LORENZO) Eaurna Sul mare immenso più non impera Nè sulla terra che la circonda.Venezia, è fango la tua bandiera! Lutto e non
feste! Pianga e s’ asconda.
Core (con alto di cu iosità) E un amante e la sua Della Che
passeggiano alla luna; Laura sembra la sua stella, Ma egli fa poca
fortuna. Seguiam tutti i vaghi amanti, E vediam, se pur n’ è
dato, In fra i suoni, i balli e i canti Di trovar
l’innamorato. È Lorenzo di Giordano, Che fuggì dal
sacro tempio ; lì Lorenzo... il vil, l’insano Che ne porge un
triste esempio. Lorenzo (con ira) . È rivolta a me
l’offesa? L’alma freme, batte il core! - Già suonaron
l’ultim’ ore; - E voi tutti io sfiderò. Laura E
rivolta a te I’effesa; rato L’alma freme, batte il core!... Già
suonaron l'ultim’ ore Io con te li sfiderò. (LORENZO furente si
scaglia contro ROCCO, e gli toglie la spada. Gli altri NOBILI
sguainano. le proprie e si schierano în fondo) SCENA
II. Detti, ROMANO dei LOMBARDI entra frettoloso dalla casa
di destra, seguito da servi con torce accese, Bomano
Chi grida? Chi chiama? Qual chiasso villano? Non son cîttadini, ma plebe
briaca ! Lorenzo, tu?... Il ferro in mano hai snudato?....
Parla! Che avvenne! Sei pazzo ?... Ti placa! Laura (atterrita alla vista del
padre) Che mai dirà Al Genitor?... pa Voce non
ha, Non ha più cor. Lorenzo (con timore) Che mai
dirò AI Genitor?... Voce non ho, Non ho più cor.
Leandro (con circospezione) Il segno di croce facciamoci... e
andiam via! Quel vecchio è uno sgherro dell’ Inquisizione.
Partiamo, fuggiamo... La belva più ria, E un angelo a petto di questo
demòne. Romane (ai Nobili) Non chiedo ragioni di
vostra contesa, Fra tenebre nacque... in tenebre resti; E calmi la
notte col sonno gli. ardori Di giovani folli, di stolti furori....
Partite! Or è cauto lontani restar. Coro di Nobili (infimoriti da
Romano). Fuggiam dal feroce Vegliardo Romano : Col
fiato ne ammorba Il truce, l’insano; nea Qui
tutto è sospetto.... Amici, fuggìam. 1 NOBILI, it CORO, LEANDRO e
LAURA sì riti- rano pel ponte ed entrano nel Palazzo. L’OSTE ha
chiuso ed è scomparso durante la rissa, ROMANO fa un cenno ai Servi di
allontanarsi. SCENA III. ROMANO e LORENZO
Romano Vengo, tu il sai, da Roma; e il Santo Re e Pontefice
armava il braccio mio. ‘Or sotto il ferreo terribil manto Della
suprema Città di Dio L’ Inquisizione veneta sta; E a Roma solo
ubbidirà. Dell’ eresia le vampe infeste Soffocherò . tutte le
teste D’ un colpo all’ idra io troncherò. Lorenzo Fu
il Campanella scoperto e preso? Romano Libero ei 8° agita...
Ma il gran sovrano De’ rei, che Italia e il mondo ha acceso Contro
la Chiesa santa, è Giordano. Presso i suoi complici quì ascoso stà!
Lorenzo Odio quel uomo tanto... tel giuro.
Romano Non basta odiarlo: questo io non curo; Tu quì
arrestarlo ora dovrai: (Musica da ballo neil’interno del
Palazzo) In fra le maschere lo scoprirai, Ed il porrat nelle mie man. Lorenzo Si
chiede un atto di traditor?... Romano Queste ai novizi prove si
dan. Lorenzo Tradir ricuso; son uom d’onor. Romano (con
sdegno) A me tu, folle, devi? RANA RARA pinete
Lorenzo Obbedienza ! Homano Ed alia Chiesa! Trema... .
Lorenzo (soffocando il furore) Obbedienza! Romano Dunque
?... Lorenzo (con sottomissione) Giordano io scoprirò! Eomano
(ricomponendosi) Tuci giovanili e schictti Modi ti gioveran, se
manca il senno Di età maggior, Tuo sguardo onestà; ispira, K assai
tua voce ad ascoltarti attira. Per la grand’ opra non sarai solo,
D’altri miei fidi 1’ aiuto avrai; Pronto a miei cenni sempre
sarai, Uno per ‘tutti sia il mio voler. Lorenzo (con dolore)
L’iniqua trama ahi mi colpisce! La terra, il cielo pur n’
hanno orror!... Vile è colui, ch’ altri tradisce, Nè v' ha
pietade pel traditor. ERomano (imperioso) Come voglio, sia
fatto. Or d’ altro; è m'’ odi. Dal dì che ardenti e improvidi
Sguardi su Laura hai posti, Travolto dalla subita Cicca passion tu
fosti; N | Una rea febbre 1° agita Tutte le membra o
siolto, E vedo nel tuo volto Il fuoco del delir.
Bada! io ti scruto, o giovine, E leggo il tuo desire; Guai se tal
fiamma ignobile Io non vedrò svanire. Tu sogni; ma chi vigila
l'e per tuo ben consiglia; Dimentica mia figlia, O trema del tuo
ardir. (parte da sinistra mentre sì volge ancora con fiero
sguardo su LORENZO). Lorenzo (con dolore): SO Solo
alfin... solo quì sono... Piangere, impallidir, tremar t’è dato sa
Povero cor! Ma dannate in eterno ei Son mie lacrime in lor foco
d'inferno. Ci i . . 0 cielo, perchè l’aere Fa A ._ ©. Spargi
de’ tuoi profumi? CRT a O terra perchè il giubilo. SA
Delle tue stelle assumi? © nare: A me negata è l'estasi. da D’ ogni
dolcezza umana, No: ae d'ogni gioia lè vana (ale EZIO Larva,
che fugge ognor; TERIOS L’ amor che è riso d’ angioli, 0; Di
Nel povero mio cor. i Strazio divien di dèmone, WA Delirio
agitator. pr | Amar non posso... 0° AARON] eta P, ‘L'odio mi
restag» SS CE ao ag Son stretto a questa to; LR 1 sur aRatalità.
EI _: Vò di te vincere. | Con santo zelo, .. Servir vo’ il
Cielo... E questa l’ ultima. Mia volontà. (parte con fretta per il
ponte). ‘ Cala la Vela. arnie, onere ge oi SALA NEL
PALAZZO LOREDANO Una splendida sala da Ballo nel Palazzo di
Lore- dano a Venezia, con colonnato per modo che si possa figurare
l’accesso in altre sale. Illuminazione splen- didissima.
SCENA L Coro degl’Invitati ($ acc incanto
dell’ebbre sale! Che ballo immenso! Sarà immortale. Quest’ è la
reggia della letizia; Il, paradiso. d’ ogni. delizia. Deh! non
fuggire, tempo; t’ arresta; Bearsi al lungo delir giocondo Della
fatata splendida festa Tutto in. Venezia vorrebbe il mondo.
{Gl’invitati s'allontanano in varie parti) SCENA ILL BRUNO
entra con cautela e colla maschera in mano, poi gli
amici. drrezadzanzecezanconca n ionici oc. c0100 dna
enricicondiizeotentoro neo dan'ontooarcrroniòolo /Tasos signor cecanzara anee
Giordano Quì ognun danza e delira Spensierato e
demente. E niun ragiona, E senno e cuore ha niuno. x
tutto quì è in periglio, ove il Leone Alato di San Marco
Prostrato dalla Santa Inquisizione Ai piè, scordò il
ruggito Di cui tremò per secoli ogni lito (volgendosi in
fondo) Ecco gli amici: ma assai lenti e scarsi. Alcuni dei
Primi Luce! Giordano Giustizia a tutti! E Primi E
verità! Alcuni dei Secondi [venendo oltre) Luce
! Giordano Giustizia a tutti E Secondi E libertà!
Giordano Grazie diletti ! Sian pochi i detti; Molta
l’opra. A ingannar V'astuta Corio Dei biechi Inquisitori Ho scelto
queste sale Di Loredano. È pronto ognuno ? Coro
Ognuno! Giordano L’ ardir pari del vero alla
grandezza? Ed uniti? Coro Siam tuoi, Giordano
Bruno! Giordano e Coro Nel popol vero s’ incominci 1’
opra: S° illumini! Bugiarda è la parola Di Roma e il
suo Re, che Dio si noma, Sull’ alma i Papi vogliono l’ impero
Per posseder la terra; E coi libri e col braccio
tt Viva facciasi ovunque eterna guerra Allo spirito, al verbo, a
ogni menzogna, Con che farci suoi schiavi Roma agogna SCENA
III. DETTI e LAURA che entra anelante dalla sinistra colla
maschera in mano. Enura Signor, fuggite! Giordano Io?
no! non fuggo. Coro (insospettito) Fuggiamo.... È pazzo!
(fuggono da va»ie aio Giordano (con ira) Vili! Tu hai fede? (a
Laura) ERaunna (sempre ancelante) Gran Dio! In queste
sale Circondavi un estremo ‘ Periglio. Per voi tremo...
Fuggite per pietà. IIIEEZZZERETET TEZIEXIZZELUPPEE PE CETO CE TI CE CES
CECI ICI IA CIT ALIZICI AZIO LETO EI Va besasnza rea dI gra rirvarai
tion Giordano (simulando) Fuggir?... Da chi fuggire?
Laura Da tutti! I delatori, Cui fia virtù
tradire, Vi cercano là fuori... Son mille a me ben
noti, Fierissimi e devoti Al sacro Tribunal.
Giordano (sorpreso) Mi conoscete? Eguana A
Padova Vi scorsi il«dì che ardito Nel fiume vi gettaste, E un
fanciullin tornaste Vivo al materno sen. L’ Inquisizion
seguiavi Co’ mille sgherri suoi Per arrestarvi; e voi Tra il
popolo festante Poteste in un istante Securo allor fuggir.
Giordano (simulando la calma) Bruno era quegli, che allor
miraste! Io non lo sono!... Mal giudicaste, i
Laura (sorpresa) Credetti... ho divinato! © ; Voi
siete il gran filosofo. Giordano Oh certo s’ è
ingannato Il vostro giovin cor. Laura Perdonate se un
lembo alzo del velo, Che a me vasconde... (solleva: dl velo) Io v'
ho scoperto!... siete... Celarvi non potete... Giordano E chi
son io? Laura Giordano Bruno, cittadin di
Nola! Durante quest’ultimo colloquio, LORENZO entra da destra, LEANDRO
da sinistra; si fermano in - fondo, e, non veduti funno alto di
attenzione). “erimmiberarisisaorizeoeee Mi nisi bro
aravrariszazazezea ripa paio : Lorenza ngi Ho. in
mani, alfin 1, dai i ‘Ch’ ha Italia avvelenato; ‘Salvo da Ini
mille: anime! a Il mondo mi sia. EH 9 Leandro (LormNZO | con
simulata ironia) % TAL il salverài, mia “tnamo, | ) È
quegli'il gran? ; Filosofo) di Il celebre Giordanb. VESTA Dal
Tribunal del Dèmoni Ù 401 1 PR. E O ARNO E ‘J
RARE. | Baura (| ‘801 ‘presa vi ala PISAE) | dia 39 DS
IDE Lorenzo! dui GicoL.. (a o pi di te-che mai sarà?
F a iI Gietiala (con dolore) Fui tradito
!..-Oh cerudoltà So IV I Santo phrto) Tana ‘in Cactpnse
deg Di palpiti, di ladina, Tempo,non è, mio cuore; .: .Salvarlo,
fat Miracoli. DERE eo -0t devo ame l'amore. OL DI
Giordano © La luce tua mi sfolgora, Fanciulla,
nel pensiero; Se il mio profeta! Libero Trionferà il mio
vero. poi fissando LORENZO Quel volto! V° è 1’ immagine
Impressa di Teresa... Misto è quel volto... e annunziami La
gioia ed il dolor! (Prendendo per mano LORENZO)
Giovane, dimmi: sei tu di Roma? La tua favella mel dice... Parla!
Dimmi: tua madre come sì noma? Teresa forse?
Lorenzo Teresa?... Sì! In fondo appare ROMANO con SERVI e
SOLDATI poi vengono gl’Invitati). Giordano L’
inquisizione! Oh quale orror! (a Lorenzo) E tu con essa? Ah
traditor! o Io a te la vita diedi... e la morte - Tu, iniquo,
appresti al Genitor!... A te l’ inferno schiuda le porte... Sii
maledetto, vil delator. fekresrey=neoan0enencastec pregsoneeaossog
@zorrorerovrse ereeeericrone cer csvpirtetronertpariosonnen contiene
nanenene Lorenzo Tu... padre mio? Che mai feci
io!... Padre, perdonami _Se pur ancora ‘ Merto
pietà. GU INVITATI che riappariscono da destra e sinistra e
detti. GI Envitati e Leandro La festa è
orrenda! Fuggiamo tutti; Qual tradimenti! > > Keco
distrutti --- Degl’ innocenti Gli almi piacer. HEomano
Grazie, o Ciel! Nelle mie mani Or Giordane io vedo tratto!
Roma esulti...! Il suo desìo Finalmente è soddisfatto. Lerenzo Orrenda
infamia! Tu il. padre mio?... Ah me infelice! Che mai fec? io!
Padre, perdonami... O Ciel, pietà! ERA EeIOrtitiezast:nuvo cene cen
vinariesazyaza cc uPONPPA PESSANO MT RI Laura (a BRUNO) Delle
amarezze il calice Berrò con te, Giordano; Già in seno
il duolo squarciami Il core a brano a brano; Peno per te, pel
figlio Mio primo e solo amor. Leandro Oh come ovunque
penetra La santa Inquisizione ! Come sarà terribile La
sua imputazione ! In lui perdiamo un figlio, Che della patria
è onor. Giordano (4 LAURA) Ah no! Laura, non piangere...
Giordano ha l’alma forte ! Pel Vero è pronto a vincere Il
duolo pur di morte! Dio deh! ritorna il figlio A Laura
e al Genitor, Lorenzo Sento nel seno piovermi
D'un aspro duol le stille!... Il padre... oh! il padre scorgere
ab 0); Temon le mie pupille! Com'è infelice un
figlio Ribelle al genitor ! Romano Entro mi serpe un
fremito, Che mi sconvolge il core, Veggendo quest’ eretico
Di scismi banditore, Che, della Chiesa*figlio, Divenne
traditor! Leandro Tu piangi?... Incauto, a Lui {affida
Pel suo perdono; ma l’alma infida Nel suo rimorso gran pena
avrà. Coro (a LORENZO) Che piangi?... Ognuno vile ti
grida; Se’ un traditor; se’ un parricida! Nè Dio, nè il mondo
n’avran pietà. (I SOLDATI circondano GIORDANO e cala la
tela/. IITTTTAAEIAIII RA CORTI
Affo Cerzo IN ROMA Sala nel palazzo
dell’Inquisizione. In fondo, nel
mezzo della parete una cortina nera che chiudela scena, A sinistra
una finestra aperta con ferriata. In fondo un tavolo coperto con un
tappeto nero, a cui siedono il grande INQUISITORE e DUE SCRIVANI; ai
lati siedono gl’INQUISITORI, e, di fronte, BRUNO, R0MANO e LORENZO, Porte a destra e a sinistra.
SCENA I. Romano {> iordano! Voi siete’
D’innanzi ai vostri giudici, al supremo Tribunal della terra! E qui
dovete, Smésso l’antico stile, Risponder vero, obbediente,
umile. “cà ra G. Inquisitore Vostro nome è
Giordan Bruno? Giordano Di Nola.
mrantsiorizea nano AMDI ATTI ANI ANAZANAZA NZ RATTI TIT IATA TERI ri
prenpaniananan ananarenaenzana G. Inquisitore Vi conosciamo!
Voi correste in terre D’eretici; lè in Praga, in Francoforte. ‘ E
predicaste spesso agl’ infedeli La santissima Chiesa
dileggiando Di Roma, tutti i novator germani Esaltando. D’
Iddio 1’ essenza in false Forme sponeste; come v’ inspirava
Mal talento. D’ Iddio la legge in pubblici E in segreti convegni
commentaste; Le coscienze fùr guaste. Giordano
Mentite! Solo io dissi agli uomini Il mondo ha una
visiera Di antiche, immense tenebre ; Cerchi la luce vera.
Dio vuol che l’uomo spinga L’acuta sua pupilla Fin dove in cielo
brilla L’eterno suo splendor. Coro d’Inquisitori
D’ anime felle Empia utopia! Il tuo, ribelle, Un Dio
non è. Non ha che larve - Tua fantasia; .0 et gi ver disparve ; “Se in eresia ft fo i
AI fuoco, ‘al fuoco: © Sia condannato! 1 “REP carcer. poco, s
ra ! tal OmpIO, egli de (Si apre la cortina’ dalla’ quale ‘escono
pina DTA io GRANDE INQUISITORE, quindi ROMANO, poi gli SCRIVANI,
‘gi ISQUISITORI, ed sea pIoR-SSf DANÒ accompagnato, dalle GUARDIE. : Gala
la cortina e solo LORENZO rimane în ‘scend), DÒ dt e Laura
01,3 (LAURA entra dalla' sinisird e presi itasi) di LORENZO
| in atto supplichevole). SÉ Roe dia eor ATI v
Rat Laura! moi (HI dÉ tia Koi i È et Loréiizo i «105 si vo
MREPSRI RATA GIL Lorenzo Di ea DO Ur PA
Ale 2 i sd Met: la "I Che vuoi tut ot Raid)
fai I nSetdi o SERRA 2 Senti la ToRe.e. un uomo Rico tu soi. “ rE:
Lorenzo Tinura! Da me che brami? Sento
straziarmi il cuore... Laura Ah! tu il padre salvar
déi, Se una belva ancor non sei. Lorenzo Tact
Laura! Il ver dicesti È mio padre! Io lo sentìa Quando'.il
labbro suo: terribile. Me colpevole maledia. È mio padre! Ancor
lo sento AI perenne! e fier tormento.‘ ©’ Che m’ opprime e strazia
il cor. Laura | Pietà del misero. Tuo
genitor. Lorenzo L’accento tuo terribile E un dardo al
traditor. ebic Laura Lorenzo. it i #1) Ma
shananorazi scenza sanacenencacaee cena sane
oeanconeesccnionaaceaeae@ce0cui0reò’npsQa”ncceinci’’’ ne Agp ipmpasrssssso Lorenzo
Nol posso! Laura Va da me lungi, o perfido,
Se nieghi al genitor Salvar la vita. E sorga il
dì terribile Che ognuno, o traditor, Ti nieghi
aita. Lorenzo Taci!.... e che far poss’ io? Laura
Aiutarmi a salvarlo; tu lo puoi! ‘Ei fugga da quell’ orrida
Fossa in serena terra, Ove su lui degli uomini Taccia sì
cruda guerra. Ove un demén carnefice Non trovi nell’ amico,
Nel figlio, un traditor; Ove il sovran suo spirito Onnipotente e
pio Possa inalzarsi libero Di tutti al Padre, a
Dio; E riabbracciar qui un figlio, Che traviò pentito,
Stringendolo al suo cor. . pra, im masasena nanasasesc’poossoncostor09posporooscoesaesose®
Lorenzo Quell’ardire, che in volto a te brilla, La speranza,
la fede m' ispira: E una sacra, divina favilla Della
fiamma, che tarde nel cor. Raura e Lorenzo (assieme)
Con te nutro la credula speme, Che a giustizia il trionfo sorrida;
Siamo uniti per vincere insieme Od insieme da forti morir.
(partono). Muta la scena. Carcere
di BRUNO con porte in fondo: dentro vedesi un giaciglio di pietra, una
seg- giola ed un tavolo su cuì arde una lampada. A sinistra una scala da cui si
accede agli Uftizii del- l’ Inquisizione. Giordane (seduto sul
giaciglio) «Ecco, o Roma, l’eretico In questo tetro
carcere rinchiuso ! Del sangue suo dissetinsi I tuoi
Inquisitori Ebbri di gioia in lor ciechi furori! (Gleaso
Sul rabido rogo dall’empio innalzato La fiamma divampa
sanguigna e stridente, Ma in mezzo all'incendio securà
possente Del martire invitto la voce s’ udrà. Il rogo non
strugge la libera idea; Ma, eterna
fenice risorge o sfavilla; Del
vasto creato nel verbo s'inslilla
Te dense tenebre del mondo a
fugar. In mano ai carnefici chi, miser, mi trasse, Tu fosti, mio
figlio; tu sli maledetto ' 9 Ma no
maledirti, + ma no, nol poss’io: La morte è un trionfo per me, figlio mio! SCENA
IV. LORENZO apre con furia la porta del fondo che mette nel
carcere; indi entra anche LAURA. Entrambi «$0NO Raealii in domino nero
come i servi del- V’ Inquisizione. Lorenzo (di piedi di
BRUNO) Padre mio! Tuo figlio... Giordano Non
sogno! Lorenzo Si, son io, ch’ hai maledetto ; Ma figlio tuo!
Ripeti un altra volta La tua maledizione i Coll’ accento d’ un
padre, ed al mio cuore Più cara suonerà di quel che fora Del
sacerdote la benedizione ; Ah! lasciami morir a pieid tuoi. TIrCItIVISIÀ
poorrcensersantisaazuztt=veSnII=TIERERA TATE conuaca riv ertaziori (apusa ra
rara zar sara ra bist enaneronesane ‘Giordano Felice è un tal
momento! A me t’ adusse Iddio; Ora tu sei redento! M’
abbraccia, o figlio mio. Lorenzo Padro' i] mio cuore un balsamo
Nella tua voce trova! Col tuo perdon risorgere Mi
sembra a vita nuova. Laura Redento il figlio,
accoglierlo Ben può il paterno core; Quale inattesa grazia
!.., Disparve ogni terrore. Mutti (inginocchiandosi)
Gran Dio, che fra le angoscie Apri a quest’ alma il riso,
E mesci ai loro spasimi In terra un paradiso. A
te, che i santi vincoli Riannodi di natura, Salga da queste
mura L’ inno de’ nostri cor. Giordano (STO ER Dal
fondo del cor mio 2/0 SARA Grazie a te sien, gran Dio! a
Pi E | re k » à, s ER wr: DETTI, e ROMANO, che
presentasi in cima della >° dente. Fissa collo
sguardo LORENZO, indi scende rapidamente. Lo seguono il GUARDIANO
Retles va x carceri e i SERVI del S. UHEIZIO: - da si ‘Romano
< È Come tu qui?... La figlia ancor Di vedo, ea Oh mio furore '
eco 3 F : x Laura e Lorenzo 00 o O qual terror! > ua | »
Romano È ‘ Giiordano..- Questa ou fatale a me una figlia nn dio Spa
ma a te la vita. (LEANDRO, il GUARDIANO delle carceri ei SERVI.
del S. UFFIZIO mascherati ed armati si ap- d pressano). Lg i
VEL 7 Pi AE Li unisoseorevrespropeosovo
Romano (a BRUNO) Trencar ti voglio, qual vile stelo; Delle tue
carni la terra e il Cielo Io colle fiamme consolerò.
Lorenzo Ed io fidato m’ ero a tal jena ? Tutto l’inferno qui
si scatena, E cielo e terra han di te orror. Laura e
Leandro Sublime martire! La tua gran vita Tronca in un lampo
tra l’infinita Gioia... Qual strazio sento nel cor! Giordano
Del mio carnefice sul volto scritto Sta col livore il suo delitto;
Solo dal Cielo giustizia avrò. Romano (a° Soldati) Innanzi al
Tribunal condotto sia. Coro (Servi e Soldati) S'innalza un
turbine Di guai novelli. Su de’ fratelli Tratti in
error. E l’empio eretico < «N° è lavcagionez 9:13
<L Maledizione Sul corruttor! Al rogo ignifico ‘
Condotto Sia. © Chi l’eresia Tra noi portò. Legge inviolabile
Il turbolento A tal tormento Già condannò. RIC
FROCIO RA ATONTAITA Atto Quarto Gran sala nel Palazzo
dell’Inquisizione in Roma. Nel fondo una Galleria apertà sostenuta da
colonne, fra ile quali: si, aprono grandi fin:stre che lasciano
tra- vedere le cupole e i colli di Roma.
Porta: a de- stra e a sinistra.
Nelmazzo un tavolo con quattro candelabri. Siedono al tavolo il grande INQUI-
SITORE, ROMANO e ) UE SCRIVANI. DUE
SERVI «ai. lati, quindi gl’ INQUISITORI, i SCENA I.
Coro d'Inquisitori || |) eo nembo dall’aere piove Lupa ' Di
Giordano su:l’empia cervice! "Non v'ha niun che l’appelli
infelice, Non v'ha cor che si muova a pietà. Pronto è il
rogo, la fiamma divampa... E pur essa la vittima è pronta ! AI
gran Nome Cristiano quest’onta. Or. dal fuoco purgata sarà. }
SCENA II, Giordano (appressandosi). O sommo
Inquisitor! Giunta è l'estrema Ora, che me a gran prova. al rogo.
appella! G. Inquisitore (alle guardie) Fuor della porta vigilate
! (le guardie e i servi partono) O Bruno Di
Nola! Quest’ è 1’ ora che vi chiama Alla prova del fuoco.... a morte....
0 a vita Lieta d'ogni uom nel mondo! E a voi concesso Ciò e’ ha
nessuno fu giammai; la scelta Fra la vita e la morte! Scegliete. E
in, vostre man la vostra sorte! Giordano (Mi tentan!) Che si vuol da
ms? Parlate. G. Inquisitore Qui in faccia a tutti,
dichiararvi figlio Della Romana Chiesa ora e in eterno E vi doniam
la vita; rimarrete Prigion; ma al figlio libertà darete! Giordano. Dèmone
tentator! Nol vò.... nol posso! G. Inquisitore (qa RomaANO)]
Perduto! Udiste ?... La sentenza è data! (Parte coi servi, Le guardie
circondano GIORDANO e partono. Romano (in preda a soffocato
sdegno). Cieco sirumento io sono all’empie voglie Di
costoro! Ubbidir sempre... e frattanto Spezzare di mia figlia il vergin
core, Serbando la mia vita al lutto e al pianto! O Laura, tu
l’adori D’averno il rio Filosofo, Che con l'accento magico
Tuo cuor conquise già. Or ei morrà sul rogo!... Ma temo per mia
figlia. Dal duol trafitta, all’empio Vicina ella cadrà!... Senza la
figlia, il padre Più viver non potrà. To l’adoro! In lei
Tiposi Ogni speme ed ogni alta; La mia luce, la mia vita Con
la sua si spegnerà. Volgi, o Dio su me, su lei Un tuo sguardo
protettor, E la figlia, che perdei Deh! ridona al
genitor. (ROMANO parte da sinistra e nell'uscire si. moontra con LAURA). Laura
(apprdssandosi ‘a ROMANO) Ah! padre caro, mi benedici! Quel
divin spirto, che t’empie il core, Io pur lo sento! Odio i nemici
Di quel gran ùomo;-che' giùsto muore. Ma tu, che. il puoi, deh! tu lo
salva;; Se Do, «con Lui io morirò. : (Romano La
rea fiamma, che in cor ti VE Per chi scuote de’ Papi l’impero,
Sulla fronte il delitto’ ti Stampa Che tu svolgi nel cupo pensiero...
“Salvo tu vuoi Giordano ? Iniqua ! Nol sperar... tu Il chiedi >
invano. i (parte) Laura (con disperazione) Più
di salvarlo non v' ha speranza! L’ ala nel tempo batte spietata!
Ah! la fatale ora 8° avanza. i Con te Giordano io morirò. ( prende
il veleno) A morte infame traggono. ; L’ apostolo del vero;
Ma dal suo rogo. pallida; | La fiamma sorgerà. Che sovra. il cieco
popolo... La luce porterà; COLERE Nè più potrassi spegnere
Quel fuoco che foriero Sarà di libertà. | Coro frecta
judicate filù hominum Laura Quai voci ascolto! Lugubre
E questo il canto estremo, Ch’ ora al supplizio adduce- L’apostolo
del Ver. Coro Recta judicate fili hominum Laura
Con te Giordano! Morir voglio! Al gaudio tuo volar
desio. SCENA Ve {LORENZO e LEANDRO col corteo funebre s’inol-
trano nella scena. GIORDANO Tifo, le guardie si fa avanti nel
mezzo). Giordano. Gran Dio! la vittima. Tu vedi pronta Il
rogo a scendere \a 1 1 Per la tua, fe; CERRI TERA ee
L'ira de’ perfidi, Ovunque. conta, Oggi terribile
Piombò su di me. Coro Etenim in corde iniquilates
operamini; Injustitias manus vestrae concinnant. Lorenzo. Si
squarcino le tenebre Or dell’uman pensiero, E torni vivo a
splendere Il sol di verità, Che strugga alla tirannide L’
atroce maestà, E’ incenerisca i fulmini Del mistico nocchiero
Nella futura età.. Giordano e Leandro Da’ rei carnefici Il
rogo ardente Pel nuovo martire E posto là; Ma la
giustizia Di Dio clemente Le braccia schiudere A Lui vorrà.
BRUNO circondato ddlle guardie parte col corteo. Leandro, Cero (partendo)
In terra injustitias manus. vestrae concinnant. (LORENZO s’appressa
a LAURA, che si troverd, vicina. a ROMANO), i Lorenzo (con
disperazione) O Padre, addio. Per me l’estrema Ora fatale
suonata è già? Guarda tuo figlio, che più non trema Nel
vendicare la verità. A me di Laura l’amor fu tolto : Perchè
un mistero buio sognai... Ah! padre, credilo, tutto: ignorai; Solo
or la luce scorgo del Ver. ER omamno Lorenzo!
Lorenzo [trattosi dall’ abito uu pugnale, si ferisce. Laura!
Laura (riavendosi avvicinasi a LORENZO) Al gaudio Ei vola.
Romane (sorreggendo LORENZO) Serbate a quanti spasimi
E il povero mio cor? o aaravai -ercerecote e
meriei ve oraconcorsoee «n - peacee -LilsSTFri= pone rete na dor
e. Lorenzo È tardi, o padre, il piangere... . Anche Lorenzo...
muor! (gli cadde ai piedi). Romano. /Odesi “una campana a lenti
rintocchi; avvicinandosi a LAURA e sorreggendola/ Orribil
pena mi strazia il core... Un disumano fui genitore...! Non v’ha
infelice al par di me! Laura (presso LORENZO) Lieta è
quest’ ora... della mia vita... Bel paradiso la via... m’ addita
Giordano.... Io volo... In ciel... con tel (Da una finestra
vedonsi le fiamme del rogo, ed un urlo di popolo annunzia la fine
dello spettacolo. Cala la tela], op de nia - oe
vr 2A SN DI LESANIA AL TR I RRIA Ji ) _ DE sa
NI Ao AME Ta0 “Si 1 iL VPI, | ati Lion "Ul
ci Li TR PSR = Hi (i dI - Un pi Hi
3 i si f VI % Y, ILA } 4 ” ; A Yy 4
Pi f f lo L É } 1} Ì ; A A Domenico Contestabile.
Keywords: BRVNO, nobilita italiana, la famiglia Contestabile financia la
rivolta di Campanella -- filosofia medioevale, Bruno, il melodramma. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Contestabile” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Conti: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale VIRGILIANA – La nudità
eroica d’Enea -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice:
“Conti is a good one – he reminds me of Bosanquet and Pater – the decadents in
Italy came AFTER them at Oxford! Conti philosophised on many aesthetic
subjects, such as man, masculinity, and maleness --!” Di una famiglia
originaria di Arpino, dove frequenta il locale liceo. Si ccupa di filosofia
estetica. D'Annunzio lo cita nel “Giovanni episcopo” e si ispira a lui per ‘Daniele
Glauro’ in “Il fuoco”. Insegna a Firenze presso la Galleria degli Uffizi ed a
Venezia presso l'Accademia di Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione –
l’estetica di Zorzi” -- Tornato a Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggi
che delineavano la sua concezione critica ed estetica, ispirata dichiaratamente
a Platone, Kant e Schopenhauer. La prefazione fu curata d’Annunzio, il quale
scrive di stimare molto Conti e di ammirare il suo “ascetismo” estetico. Direttore delle Antichità di Roma. Direttore
della Reggia di Capodimonte a Napoli. Si ispirò alla poetica del filosofo
oxoniese Pater e Ruskin. Altre saggi: “Giorgione,
Firenze, F.lli Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia,
Venezia, Tip. L. Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume del
tempo, Napoli, R. Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R.
Ricciardi); Domenico Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “San
Francesco, con un saggio di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgilio
dolcissimo padre, Napoli, R. Ricciardi). Praz nota che Parodi era solito
leggere La beata riva di Conti prima di addormentarsi; quando morì, la lettura
non era stata ancora terminata. Dizionario
Biografico degli Italiani, Forme del tragico nel teatro italiano. Modelli della
tradizione e riscritture originali,Romantici, vittoriani, decadenti – filosofo
decadente – decadentismo -- e museo dannunziano, in Bellezza e bizzarria – il
bello e il bizzarro., Croce, La letteratura della nuova Italia, Marcello
Carlino.C., Due conviti di Mattia Preti, Bollettino d'Arte. Io vengo dal
mare di Napoli e sono tornato qui a rivedere la primavera. Non c'è nessuna
altra città in cui, come in questa, il rifiorire degli alberi e delle siepi si
accordi con la giovinezza delle opere del genio umano, nessuna ove, come qui,
la Primavera sembri rimanere per un istante velata, per poi riapparire pili
fulgida e piìi lieta, al ritorno dei venti che spirano dalle colline e recano i
nuovi fiori. Sono anche giunto fra voi, per parlarvi della pittura di Leonardo.
Ma il mio compito, dopo la lettura deirillustre scrittore francese che m' ha
preceduto, sarebbe oggi, non dico diffìcile, ma quasi vano, se le mie idee
fossero affini alle sue ed egli fosse vicino al mio pensiero come io sono
vicino al suo aff'etto per questa nobile terra toscana, ove l'arte ha
continuato la grazia gentile e la pura bellezza della natura. Diversità di
pensare e anche d'immaginare mi rendono oggi possibile esprimere qualche cosa a
voi forse non detta, e combattere qualche affermazione troppo lontana dalla mia
sicura fede. Leonardo è il discepolo del Vermocchio. Ora, che cosa poteva egli
apprendere dal suo grande maestro? Non certamente l'arte, la quale non si
apprende e non si insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà mai
pensare alla possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista,
un poeta? La natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli a
trovare i mezzi d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nel
mondo. Il maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire: " Il tuo
cuore è impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressione
plastica o per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tua
amarezza; guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umano
discorso, ecco la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori che
imitano la bellezza del cielo, della terra e del mare; ecco in qual modo si
modella la creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l'
immagine dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma il
discorso, il canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare
„. Ogni opera d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa e
nuova, nella quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e preesistenti,
hanno mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto inatteso e
prodigioso che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in Leonardo
appare un' immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle labbra del
giovinetto Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che illumina un
altro mondo; poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra dell'eroe
adolescente sul viso e negli occhi della Gioconda, diviene il mistero della
seduzione femminile, una grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che nasce
dall'espressione d'iin volto, si diffonde verso il paese lontano e attira il
contemplatore. Il sorriso verrocchiesco è in Leonardo come nn brano di Plutarco
in Shakespeare. Or chi oserebbe dire che l'immortale tragico inglese derivi da
Plutarco? Leonardo e il Yerrocchio sono due artisti assolutamente distinti, che
parlano un linguaggio interamente diverso e che, se somigliano esteriormente in
qualche cosa, hanno due anime quasi opposte, chiusa l'una nella sua idea di
bellezza e di stile, l'altra aperta a tutte le manifestazioni della natura e
della vita, in una continua ansietà di fissarne l'immagine mutevole con la
semplicità del segno rivelatore. Noi viviamo pur troppo in un triste momento
della vita, poiché la maggior parte degli uomini ai quali parliamo non sanno
che cosa sia l'arte, e lo Stato crede a chi meno vede. Non è forse ancora
possibile vincere una così detta scuola di critica scientifica, fondata sull'
errore già accennato e chiusa nella rete del pregiudizio cronologico. A coloro
che ancora credono alle influenze sugli spiriti geniali e alla necessità in
arte di una classificazione come in botanica, noi possiamo trionfalmente
rispondere con Leonardo che l'artista genera le sue opere qual fanno le cose.
Egli deve creare come fa la natura, e le sue opere superare e cancelUxre i
segni del tempo che passa. Un quadro, una statua, un edifizio debbono nascere
come le selve e apparire come le albe. Or chi penserà all'epoca d'una primavera
o d'un ciclo stellato? Non c'è opera d'arte geniale che venga per noi dal
passato lontano, come non e' è indizio di vetustà nelle montagne e nella aerea
architettura delle nubi. Dinanzi all'umanità che passa, il genio si ferma e
rende eterna la sua traccia come è nel cielo il cammino delle stelle. Avete
udito il canto dcirusignolo? Lo riudirete in tutte le primavere. Il genio vi
farà sempre udire la sua voce fresca e giovanile come nella stagion nuova della
terra il canto dell'usignolo. Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano le
allodole, è una notte serena, e l'uomo si perde nella luce lunare. Aprite
Dante, e siete nell'eternità della vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa
invecchia o perisce, e noi stessi, -accanto a quelle grandi anime, siamo per un
istante fuori del tempo. Questo momento di liberazione provai per la prima
volta alcuni anni or sono a Milano, trovandomi dinanzi alla Cena, nel convento
di Santa Maria delle Grazie. Vidi il capolavoro nella medesima ora indicata
dalla luce clie lo illumina dal fondo, tanto che mi fu d'un tratto facile
superare i mille e piìi anni passati e trovarmi presente alla scena Gesù era
seduto nel centro del convito e da poco avea prò nunziato le parole: qualcuno
di voi mi tradira. I convitati a destra e a manca s'erano ritratti e aggruppati
in tumulto lasciando nel mezzo Gesù solo, con la sua tristezza infinita La sala
era piena di gesti concitati e di ansiose interrogazioni. Il Maestro solo era
calmo e la sua figura, sul paese che gli s'apriva lontano alle spalle, era
immobile. Ma qual dramma in quella immobilità ! Mentre la sua mano destra,
lievemente contratta, esprimeva un istante di ribellione e come un istintivo
moto d'ira, la sinistra nel momento successivo s'abbandonava col dorso poggiato
sulla tavola e le dita allungate, esprimendo la rassegnaziona e il perdono. Gli
occhi abbassati non guardavano e non vedevano nulla di ciò che era presente, ma
contemplavano internamente il grande spettacolo del dolore e della miseria
umana, mentre la sua anima sembrava essersi già rifugiata in quel fondo di paese
luminoso e lontano, dove abitavano una grande speranza e una eterna pace.
Nessun uomo avevo veduto mai così solo come Gesù in mezzo a quel tumulto. Era
un'isola in mezzo a un mare procelloso. Le onde fragorose del tempo, che
travolgono^ uomini e cose, mi avevano forse spinto ad approdare ad una riva ove
splendono i fiori eterni della vita? Mai infatti, come quel giorno, ebbi, per
virtìi dell'arte, la visione della vita, in un oblio piti completo. Quando il
custode del Cenacolo venne ad annunziarmi Fora della chiusura, io riudii
nuovamente, dalla strada vicina, il rumore delle carrozze e il rombo
dell'esistenza; e ritornai fra gli uomini. Pochi anni or sono Annunzio scrisse
una bella pagina di poesia per rimpiangere la rovina del Cenacolo. Voi infatti
sapete, che, come della antica e celebrata pittura dei greci, fra pochi anni
della Cena vinciana non resterà se non il ricordo ^ Il doloroso avvenimento non
^ Questo studio su Leonardo lìiitore era già stato scritto, quando fu compiuta
in Milano dal pittore prof. Luigi Cavenaghi l'opera di ristauro del Cenacolo,
salutata da tutti i cultori ed amatori d'arte con gioia e gratitudine. Il
Cenacolo, compiuto da Leonardo nel 1497, cominciò ben presto a guastarsi; ì
primi provvedimenti per salvare il capolavoro risalgono al cardinale Borromeo,
poi nei secoli si susseguirono alternative di lunghi abbandoni, di fallaci
rimedi empirici, di studii incompleti e riparazioni deturpatrici, fin che il
prof. Cavenaghi fuincaricato delle ricerche scientifiche e tecniclie che, precisando
le cause e l'entità dei guasti, portassero ai rimedii più efficaci. Egli trovò
— sono sue parole riprodotte naìVIllustrazione Italiana, n. 41, dell'I 1
ottobre 1908 — che il dipinto, coperto da polvere di secoli, si screpolava e la
crosta di colore si sollepoteva non commuovere e non far riapparire la visione
tragica del fato clic incombe sui capolavori. Ma è forse una illusione. In
realtà la natura non distrugge ne i fiori o le selve della terra ne le opere
del genio: la Minerva criselefantina di Fidia è passata dall'avorio e dall'oro
nelle pagine immortali dei poeti e nella eterna memoria degli uomini. Quando un
capolavoro scompare, noi non dobbiamo pensare che il tempo lo abbia distrutto,
ma semplicemente che si sia oscurato lo specchio che ci proiettava la sua
imagine nel tempo e nello spazio. Nella profonda unità dell'anima umana, clie
rende i poeti e i filosofi simili ai figli d'una madre sola, l'ispirazione da
cui esso nacque riman pura e vivente come una forza della terra non ancor
vestita della sua forma. Se avessi la virtù del canto, vorrei lodare e far
comTava dall'intonaco, a squame di varia misura, di modo clie parecchie di
quelle i grandi, accartocciandosi, formavano altrettante sacche che si
riempivano con al- tre piccole squamette che vi cadevano dall'alto. Vuotare ad
una ad una le sac- che senza scuoterle, senza quasi toccarle, mediante una
pagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza adatta, poi fare aderire le sacche
e le croste all'intorno, togliendone, con un certo liquido dal Cavenaghi
ideato, la polvere alla superficie, questo sostanzialmente fu il lavoro
paziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi durò il Cavenaghi, rendendo
più tonica la fibra in isfacelo, facendole riac- quistare un po' di colorito,
così che il dipinto non debba peggiorare e possa vi- vere ancora a lungo, con
infiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il Cavenaghi — sarà sempre un
organismo precario, e per le condizioni sue, pieno come è di cicatrici, e per
l'ambiente. Ad ogni modo questo del Cavenaghi è •stato pel Cenacolo Vinciano il
ristauro essenziale, decisivo, nei secoli; e grandi manifestazioni di
gratitudine ed ammirazione sono state tributate all'assoluto disinterewse, pari
all'amore grande per l'arte, spiegati dal benemerito ristauratore, al quale
Caravaggio, sua terra natia, ha consacrato una targa artistica a memoria del
fatto; ed i cultori ed amatori d'arte, auspice Luca Beltrami, gli hanno
conferita, davanti al capolavoro vinciano, una bellissima medaglia d'oro. Il
prof. Cavenaghi inoltre è stato chiamato dal Papa, in sostituzione 4el defunto
prof. Seitz, all'onorifico ufficio di direttore delle pinacoteche vaticane.
prendere la vita maravigliosa che il Cenacolo leonardesco chiude nella sua
rovina. Come la rovina d'ogni cosa grande, essa equivale ad una purificazione e
ad una apoteosi. Finche resterà un sol frammento della parete prodigiosa,
finche un sol disegno, una sola stampa, una sola fotografia, custodiranno un
riflesso lontano della sua bellezza, quella creazione del genio sarà per noi piìi
potente che se il tempo e gli uomini l'avessero rispettata in tutte le sue
parti caduche. E un errore credere che il tempo non rispetti i capolavori; e
noi molto spesso parliamo, spinti dall'abitudine, contro l'eterna verità delle
cose. Il tempo, artista maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genio
umano. Dove sembrava che l'opera geniale sì fermasse, egli la continua,
mutilandola: dove appariva ciò che è chiuso e preciso, egli apre una via
infinita all' imaginazione; dov' era un aspetto freddo e muto della realtà,
egli fa nascere i segni del mistero. Ciò che sembra una distruzione e invece
una rivelazione e una consacrazione. E la natura che riprende l'umana opera
interrotta, che fa apparire la sua forza dove la mano dell'uomo cadde stanca, e
che, dove l'ispirazione di questo si oscurò e si confuse, fa cantare le sue
eterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il tempo soltanto per le sue rovine;
è necessario esaltarlo anche per tutte le opere d'arte che, in compagnia del
fato e della umana malvagità, ha impedito di compiere al genio umano. Alludo
principalmente alle cosi dette sculture non finite di Michelangelo e ad un
quadro, che è ancora considerato un abbozzo, di Leonardo. Come i capolavori in
rovina appariscono vicini a rientrare Leonardo da Vinci.Conti, Leonardo pittore
nella iiuiversalitìi della vita, i capolavori incompiuti seml)rano usciti da
poco dal seno stesso della natura. L'artista ne segnò l'imaginc non fra i
tormenti del lavoro consapevole, ma come in sogno, obbedendo ad una volonth
oscura che per qualche istante abolì la sua volontà individuale. Poche tracce
di pentimenti in quei primi segni, ma l'espressione d'una beata obbedienza,
come di chi si affidi al mare, e una ricchezza e una esuberanza di vita uguale
a quella di cento uomini felici. * Mi limito a parlarvi del quadro di Leonardo,
oggi nella Galleria degli Uffizi, e che rappresenta l'Adorazione dei Magi. La
prima cosa che ci colpisce è il movimento. Noi sentiamo subito che il pittore
ha voluto rappresentare un avvenimento straordinario, un grande fatto della
natura e della vita. Quasi tutte le figure vanno, strisciano, accorrono verso
la parte centrale della rappresentazione, ove si fermano prostrate e come
atterrate dallo stupore e dalla maraviglia. Fra i gruppi in movimento, alcune
figure stanno diritte e immobili a guardare la scena. Nel centro una calma
assoluta. La Madonna vi appare seduta in una attitudine piena di grazia
materna, e sulle sue ginocchia il bambino si china e protende una mano per
toccare il 'dono che un vecchio genuflesso gli porge. Intorno si raccoglie e si
concentra tutto ciò che nel quadro raggiunge la maggiore intensità
d'espressione e la maggior forza di vita. Questi vecchi che vengono da lontano,
guidati dal mistero, sono una Conti, LeonarJo j)ittore 91 fra le più potenti
creazioni del genio umano. Tutta la scena, piena della loro commozione e del
loro sbigottimento, sembra irradiare come un vento di tempesta che, dall'anima
dei vecchi, giunga sino ai punti piti lontani del quadro. Ed ecco che noi vediamo
gli effetti dell'onda invisibile. Dietro il gruppo centrale è un accorrere
disordinato di gente: uno ha le mani levate e grida come per un ignoto
pericolo, un cavaliere non riesce a contenere lo spavento del suo cavallo,
altri gruppi di cavalli nel fondo appariscono spinti dalla furia d'una
battaglia; qua e là, sotto archi crollati, uomini che corrono e s'interrogano
ansiosi, altri che salgono discendono a frotte e smarriti per una gradinata. Si
sente che un grande avvenimento si compie, e per tutta l'ampia scena notturna è
diffusa l'atmosfera del miracolo, come in un giorno sereno la luce del sole
sulle campagne. E questa è appunto l'idea che Leonardo ha espressa nel suo
quadro con una potenza e una eloquenza suprema. Mai infatti, sino a questi
anni, la pittura aveva rappresentato il miracolo, mai lo stupore e il terrore
di ciò che sembra turbare le leggi della natura e far presentire agli uomini un
rinnovellamento del mondo, erano stati resi visibili nell'opera d'arte.
Leonardo, con questa composizione sintetica, con questo semplice suo disegno a
chiaroscuro, nel quale non un sol particolare h compiuto, è riuscito a
rappresentare il miracolo come non sarebbe stato possibile con l'opera piìi
meditata e più coscienziosamente finita. E la ragione mi sembra questa. Vi sono
idee e sentimenti che le arti plastiche non possono rappresentare se non con
mezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che comiincmcnte si chiama V
incomplitto. L' incompiuto è spesso un mezzo meraviglioso dì espressione per il
genio umano; è, a rovescio, il mezzo stesso che la natura adopera per
purificare e per consacrare nei secoli i capolavori degli uomini. In questi la
natura procede per eliminazione, nell'opera rimasta incompiuta il genio lavora
in uno stato di concentrazione suprema. Li^ Adorazione dei Magi non solo
rappresenta un miracolo; ma è essa stessa un'opera miracolosa. La notte che vi
si addensa è piena di luce per l'anima umana. Fra tutti i quadri della Galleria
degli Uffizi è il più vivo, il piìi drammatico e il più profondo per
significazione. Continuando per voi la enumerazione delle opere pittoriche
vinciane e per mostrarvi che, come allora mi fu possibile liberarmi dal tempo,
posso anche oggi, e mi piace, spezzare le catene della cronologia, passerò a
parlare della Gioconda. La vidi alcuni anni or sono, e feci, quasi per lei
sola, il mio pellegrinaggio da Firenze a Parigi. Quando entrai nella pinacoteca
del Louvre, la giornata era grigia e le sale quasi in una penombra. Nella sala
dei capolavori gli occhi delle figure dipinte da Tiziano, da Raffaello, da
Yelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda, corsi verso di lei. Entro la
fioca luce indovinai il sorriso e sentii il fascino dello sguardo; vidi anche
il candore del seno. Ogni altra cosa era indistinta. In una pinacoteca non è
possibile abbandonarsi all'oblio, Angelo Coxti, Leonardo piUore 93 come in una
chiesa o in nn cenacolo. Coloro che entrano a visitare le collezioni dei
dipinti vanno per lo più a fare confronti, ad osservare particolari, a cercare
note caratteristiche, e portano con sé libri e fotografie. Io, qnando mi
dispongo ad andare o a tornare al cospetto d'nn capolavoro, m'affatico a
togliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia dato procedere con passo leggero
e mi trovi dinanzi all'opera geniale, con l'anima semplice e serena. Sono
abituato a contemplare un quadro, come se fosse una costellazione. Nella notte
ir cielo è pieno di silenzio e le stelle splendono armonizzando ciascuna il suo
ritmo alla musica del cielo. Guardando gli occhi di Monna Lisa del Giocondo, li
vidi palpitare in ritmo, in armonia con la musica del suo sorriso. Il quadro
m'era ancora ignoto, e pensavo a Leonardo. Mi pareva vederlo, mentre nel suo
studio fiorentino aspettava l'arrivo della sfinge ridente. Poco dopo ella
entrava e si sedeva accanto alla finestra. In fondo apparivano le colline di
Fiesole, Monte Morello, l'Appennino lontano, e l'Arno serpeggiava scintillando
nel mattino, mentre le torri della città uscivano dalla nebbia al primo sole.
Anch'egli si sedeva, e, presa la lira d'argento che s'era fabbricata con le sue
mani, cominciava a cantare. La bella donna, udendo la laude melodiosa,
sorrideva, mentre l'Arno da lungi diveniva più ricco di scintille. Poi
cominciava a dipingere, e, dopo i primi tocchi una orchestra invisibile di
liuti riprendeva la canzone interrotta. La donna sorrideva in una calma regale:
i suoi istinti di conquista, di ferocia, tutta l'eredità delia specie, la
volontà della seduzione e dell'agguato, la grazia dell'inganno, la bontà che
cela un prò- 9i An'gelo Conti, Leomrdo pittore posito crudele, tutto ciò
appariva alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nel
poema del suo sorriso. Per un momento usci un raggio di sole; ed io die m'ero
allontanato dal prodigio, corsi e lo vidi intero. La donna era viva dinanzi a
me, in tutta la sua vita reale e ideale. Buona e malvagia, crudele e
compassionevole, graziosa e felina, ella rideva, e il suo riso si prolungava
nel paese lontano e nell'anima mia; sino a darle l'oblio die viene dalla presenza
delle cose immortali. Pochi istanti dopo, il sole scomparve e la penombra regnò
nuovamente nella sala. Lì presso un sol quadro ardeva come una lampada e in
esso cantava, non affievolita, la musica del colore. Era la Festa campestre:
fra due donne nude, un suonatore di liuto svegliava alcuni accordi e pareva che
la Gioconda ne sorridesse come quando VINCI (si veda) canta, per rendere piìi
intensa la sua vita e per tradurre col disegno la sua misteriosa bellezza.
Questo ritratto non esprime soltanto ciò che l'occhio vede, ma è il riflesso
d'una creatura amata da uno spirito che per oltre quattro anni si affaticò a
penetrarne a rivelarne la vita. Come dinanzi alla Gioconda, Leonardo si pone
dinanzi ad ogni cosa vivente col medesimo ardore di conoscenza, con la stessa
ansiosa curiosità e lo stesso desiderio invincibile di fissarla con segni
semplici e definitivi. Tutto questo poema della sua anima, questo dramma intimo
che si chiude in una alternativa di tentativi d' espressione e di istanti di
tregua contemplativa, di rapimenti e di lotte con la sorda materia, d' ansietà
e scoramenti e di calma trionfale, è raccontato nei suoi disegni, che sono 1'
immagine più completa della sua potenza non solo intuitiva ma creativa. Per lo
scultore il disegno è appena un segno, uno scliema, un presentimento dell'opera
futura. Lo chiamiamo disegno, perchè ijon abbiamo altre parole per significare
le notazioni figurative degli scultori; ma esso non è se non un appunta ideale,
un mezzo per ricordare un sentimento. Ricordate i disegni di BUONARROTI (si
veda) per le sue statue, ricordate gli odierni disegni di Rodin per i suoi
gruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì disegni, benché esprimano una visione di
movimento, non sono pittura e non sono scultura perchè non illuminano una idea
che potrà essere espressa, come chiaroscuro e come colore sopra una superficie
e che sia per apparire come forma nello spazio. La scultura comincia soltanto
col bozzetto in cera, in creta o in gesso, cioè a dire quando V idea, destinata
a manifestarsi come forma nasce a somiglianza d'una cosa viva fra le altre cose
viventi e sorge nello spazio, nell' aria e nella luce, sottoposta alle leggi
del peso e chiusa nelle sue dimensioni. Per parlare con esattezza, la scultura
non ha disegno. Nella pittura il disegno è tutto, è il primo segno che nota la
visione ancora vaga sopra una superficie, ed è il chiaroscuro e il colore che
pili tardi la renderanno eloquente, che le daranno una voce che parla e che
canta, come in una musica e come in un poema. Per Leonardo, genio universale,
il disegno non è soltanto linguaggio pittorico, ma è il mezzo adeguato
d'espressione di tutto ciò che appare e che passa nel suo pensiero, nella sua
memoria, nella sua imaginazione e nella sua fantasia. Tutti gli aspetti e tutti
i momenti della multiforme ed inesaiiribilc attività del suo spirito trovano la
loro espressione negli innumerevoli disegni che egli traccia in margine e fra
le linee dei suoi manoscritti, la precedono e spesso la superano con la loro
potenza di linea intuitiva e divinatoria. Mai come in Leonardo il disegno ha
avuto la virtìi d'esprimere tante cose, dalle più athni alla pittura alle pili
lontane, dalle pili concrete alle più astratte; mai come in Leonardo e giunto
ad una cosi vasta e così intensa forza di analisi e di concentrazione. I
disegni di Leonardo non sono solamente una testimonianza del suo amore per la
natura, non sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V anima delle cose, ma
principalmente sono un mezzo di cui egli si è servito per conoscere l'universo.
Invece di consultare i trattati scientifici ed i sistemi di filosofìa, Leonardo
disegna. I disegni sono i suoi pensieri, le sue meditazioni, le sue
osservazioni, le sue intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo disegno contiene un
segreto svelato, è una verità conquistata, è il segno d' un nuovo trionfo della
indagine umana, è un lembo del mistero dell'universo sollevato dal genio umano.
Dinanzi a ciò che noi chiamiamo il vero e può essere ugualmente chiamato il
mistero, Leonardo ha lo sguardo limpido, sereno, nuovo, lo sguardo meravigliato
del fanciullo, ha quella innocenza del genio, senza la quale, come afferma
Bacone, non si può entrare ne nel regno della verità ne nel regno dei cieli. La
differenza fra l'uomo di genio e l'uomo comune sta p principalmente in questo:
dinanzi ai fatti e agli aspetti della natura e della vita V uomo comune si
abitua e finisce con l'abolire in se il senso della maraviglia; le sue
impressioni, invece d'avere sempre un carattere loro proprio, invece d'es-
Leonardo da Yisci Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X. LA GIOCONDA. sere
sempre eccitatrici di sentimenti nuovi, gradatamente si attenuano, si
affievoliscono; finche si adattano e si sottopongono al modo di sentire
individuale, finche si scolorano e muoiono davanti alla monotonia dei bisogni
quotidiani. L'uomo guidato dalle abitudini è un addormentatore di se stesso, è
uno schiavo di ciò che nel suo spirito è meno degno di comandare. Il genio
invece è sempre libero, è sempre desto, e il sonno dell'abitudine non può far
discendere un velo sui suoi grandi occhi puri. Leonardo è appunto della
famiglia di coloro che non conoscono lo stato di sonno e d'indifferenza, ma che
vivendo sempre in una ansiosa curiosità vedono il continuo apparire delle cose
e l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni, e che sembrano veramente nascere ogni
mattina. In questo stato di attesa dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione è
per Leonardo una visione, ogni analisi è una scoperta. Guarda un ramo con le
sue foglie, ne cerca la vita col suo disegno, e gli appare la legge di
filotassi; canta accompagnandosi con la sua lira d' argento, e scopre la legge
di risonanza delle corde negli accordi. In ogni fenomeno egli sente e vede una
confessione fatta dalla natura al suo genio divinatore. I suoi disegni sono la
traduzione grafica di queste confessioni fatte alla sua anima dall' anima delle
cose. Ciascuno d'essi pili che studio dal vero è opera d' immaginazione, è
figurazione intuitiva, destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire,
dietro ciò che passa, l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterne
verità. Ogni loro contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogni
luce un riflesso del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci.
lii 98 un'eco d'un vivente mistero; e tutta quella sua opera della penna, del
carbone, della matita non è se non un mezzo potente da lui adoperato per
stringere d' assedio la natura e per costringerla a rivelare il suo segreto.
Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie egli trova il cammino che
deve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo manoscritto e in un suo
disegno il movimento dell'acqua veduto simile al movimento d' una capigliatura,
ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto lo aiutino a comprendere quelli
del volo, in quel maraviglioso trattato che ha la virtìi di metterci in segreta
comunicazione con 1' anima e con la forza delle creature volanti. In questo
modo, sempre per mezzo di imagini e di indagini grafiche, di analogie, di forma
e di movimento, osservando e studiando l'aria e l'acqua, il suono e la luce, e
paragonando le loro proprietà essenziali, egli giunge ad intuire l'unità delle
forze fisiche precorrendo Cartesio. E la sua conoscenza, alla quale appariscono
come intuizioni le principali conquiste della scienza moderna, è figlia della
sua imaginazione. Più ancora che nei suoi manoscritti è espresso nei suoi
disegni il cammino fatto dalla sua conoscenza, guidata dall'amore e resa più
profonda dalla sua infantile maraviglia. Chi non ricorda, fra gli altri
innumerevoli, i suoi disegni di foglie e di fiori? Sono questi fra tutti gli
altri, esclusi quelli solo che ritraggono la figura umana, i più precisi. Pure
in questa precisione è l'infinito della vita. A prima giunta potete pensare o
credere che quei segni corrispondano a qualche cosa di limitato e di esteriore;
poi sentiamo che ciascuno di essi ha la potenza di continuarsi in noi. La sua
precisione non è il segno rigido e freddo fatto da una mano abile, ma è la
linea sicura del genio che ha trovato la vita. Però egli non trascura mai un
solo particolare, non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir tutto sino
all'ultima parola. Infatti egli dice tutto; ma il suo linguaggio è come il mare
e come l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra farsi vasta
come 1' anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere questa potenza
d'espressione? In un modo semplice e grande: imitando la natura. L'imitazione
della natura è il principio che Leonardo proclama in tutti i suoi scritti e
mette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa imitar la natura?
Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come fanno oggi la
maggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di vita. Imitar
la natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità, significa divenire
come la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d' arte nel modo
stesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual fanno le cose.
Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei manoscritti di Milano,
di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno sviluppo e
un'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono connessi
intimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi due parole
dei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero. Voi sapete
che nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè? Volle forse Leonardo
coltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e contribuire al
loro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo. L'uomo non
dev'essere " solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca „, non
deve essere soltanto un " transito di cibo „ e avere della specie umana la
sola voce e la figura, e tutto il resto " essere assai manco che bestia „.
Il vero scopo della vita umana è per Leonardo il pensiero. Il pensiero, per
conoscere il passato e la nostra dimora terrena; ecco il mezzo per vivere
nobilmente liberandoci dalla illusione del piacere. Il tempo che fece piangere
Elena allorché ^ guardandosi nello specchio, vide i primi segni della
vecchiezza, il tempo non può colpire il pensiero. Il conoscere la sapienza
degli antichi e la vivente realtà delle cose presenti, ecco il decoro e l'
alimento degli spiriti umani. Ma perchè un tal desiderio di conoscere? Questo e
per me il punto capitale, il vero nodo della questione. Il sapere perchè
Leonardo ha voluto studiare tante forme ed ha cercato il segreto di tanti fatti
della vita universale, ci farà conoscere la qualità essenziale del suo genio.
Nella sua indagine instancabile d'ogni fenomeno del cielo e della terra, nel
suo ininterrotto colloquio con la natura, Leonardo non è animato da curiosità
puramente scientifica, non da vanità di dottrina, né dalla naturale tendenza
d'un intelletto analitico cui l'esercizio delia osservazione doni la gioia più
intensa. Spirito sostanzialmente intuitivo e sintetico, egli si sottopone in
tutta la sua vita al rigore e spesso al martirio dell' analisi, per acquistare
una conoscenza pili ricca, più vasta e piti profonda. Le sue innumerevoli
osservazioni, i suoi continui esperimenti sono i gradini che debbono condurlo
colà dove, entro una luce inestinguibile, appare l'eternità della vita.
Soffrire la disciplina del ragionamento e dell'esperimento per aver in fine,
come premio, la visione della vita, non h forse una divina aspirazione? Più la
sua conoscenza, nel quotidiano osservare e meditare, gli svelava nuove leggi e
nuovi segreti, più cresceva in lui l'amore per tutta la natura; ne vi fu mai al
mondo, dopo l' umile frate d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e più
ardente. Chi più conosce 'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore generato
dalla conoscenza è tutto il segreto dell'opera di Leonardo, dai manoscritti e disegni
alle pitture. Il suo realismo è un mezzo per giungere all'idea, è il modo
ch'egli adopera per ricomporre ciò che prima ha scomposto, in maniera che la
natura stessa sembri formarsi dinanzi a noi e farci assistere alla sua stessa
creazione. Chi conosca i manoscritti di AYindsor, nei quali i disegni hanno
un'importanza assai maggiore del testo, può convincersi agevolmente di questa
verità e può anche comprendere (cosa che in questo momento deve particolarmente
interessarci) che quando Leonardo parla di anatomia o di fisiologia, come nei
così detti trattati che si vanno ora pubblicando, egli non è mai un anatomico
vero e proprio, ne un vero fisiologo, ma è sempre prima d' ogni altra cosa e
sopra ogni altra cosa pittore. Tutta la sua opera di scienza, tutti i suoi
disegni d'anatomia, d'embriologia, di botanica, non ser- vono se non a rendere
più vasta, più profonda e più ricca la sua visione pittorica dell'uomo e della
natura. La scienza non è se non un mezzo d'espressione della sua visione del
mondo, ed egli se ne giova per dare un carattere di precisa realtà agli
ardimenti del suo sogno. Scopo del suo immenso lavoro e di giungere a creare
ima- 102 Angelo Conti, Leonardo pittore g'ini clic sembrino nate con le stesse
leggi con le quali la natura produce le sue forme: qual fanno le cose. E
doloroso che nella sua vasta opera essenzialmente pittorica, nella quale "
non fu impedito „, come egli dice, " da avarizia o da negligenza, ma solo
dal tempo „, manchi irreparabilmente una fra le pagine piti vive e più grandi:
La Battaglia d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa Maria Novella, a
pochi passi dal luogo nel quale egli disegnò r opera maravigliosa. Le campane
che suonano nel campanile roseo al primo sole del mattino, sembrano diffondere
sul mio ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi il lavoro fu compiuto, e
immediatamente cominciata la pittura a fresco per la sala del Consiglio in
Palazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506. Poi l'opera fu da lui
abbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora nella sala del Papa,
mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da Michelangelo era nel
Palazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti all'ammirazione del mondo. Da queir
anno manca ogni notizia. Della pittura incominciata in Palazzo Vecchio si sa
soltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma cadente a causa della cattiva
preparazione dell'intonaco e dei colori. Cito, contro il mio solito, dati di
fatto e date, perchè l' opera pur troppo manca. Se l'opera esistesse, il suo
linguaggio renderebbe insostenibile la voce della cronologia; ma poiché è
perduta, ci è necessario contentarci delle parole di chiunque ce ne parli. I
due tre ricordi pittorici rapidi e sommari dell' episodio centrale della
battaglia, non bastano a dare un'idea di ciò che fece Leonardo. Chi sa in qual
modo maraviglioso e straordinario egli avrà rappresentato la mischia, la furia
guerresca intorno allo stendardo, che sappiamo fosse nel centro, qnal prodigio
di scorci, quale evidenza di movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e quale
perfezione di cavalli, dei quali egli conosceva la vita come nessuno dei suoi
tempi ! Di tutto ciò nulla e rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ogni
traccia dell'opera scomparve, la natura, per compensare il mondo, dovè creare
una primavera favolosa, non veduta mai. Poiché nel mondo nulla si perde, e
quando una bellezza è distrutta, sia essa una selva che arda, un' isola che si
sommerga, un capolavoro che cada in rovina, la natura provvida fa nascere nuovi
germogli, suscita nuove bellezze e nuove energie, e la sua forza di creazione
rimane intatta in virtii della sua maggiore attività: il mutamento. Doctor
Mysticus. Iride, mandata da Giunone, scende sulla terra per consigliare TURNO a
idare l’assalto al campo troiano, finchè è assente ENEA. Turno, avendo
provocato invano i Troiani rinchiusi, pensa di dar fuoco alle navi, le quali si
salvano per l’intervento di Cibele che le trasforma in ninfe del mare. TURNO,
interpretato. favorevolmente quel portento, idispone l’accampamento. Durante
la notte, NISO confida ad EURIALO il’proponimento di andare in cerca d’ENEA. Ma
Eurialo lo vuole seguire. Ascanio e i capi li lodano, e prometton loro grandi
doni. Entrati nel campo dei Rùtuli, ne fanno strage. Ma quando, uskitine,
si avviano per i boschi, sono scoperti da Volscente che veniva con trecento
cavalieri di Laurento. Fuggono. NISO SI SALVA, MA EURÌALO È RAGGIUNTO ED UCCISO,
NONOSTANTE L’INTERVENTO DI NISO, TORNATO INDIETRO A SALVARE IL COMPAGNO. Le
teste recise dei due giovani, infilzate in una picca, son portate sotto il
campo troiano, fra i disperati lamenti della madre di Eurialo. Turno
assale i Troiani con grande strage. E poichè Numano insolentiva i nemici
vantando le virtù della stirpe italica, Ascanio compie il suo primo
eroismo idi guerra, e lo trafigge con una freccia.Pandaro e Bizia, fratelli,
tentano la riscossa lanciandosi sui Rùtuli; ma Bizia è ucciso da Turno,
che riesce a entrare nel campo nemico, dove fa strage; finchè, eopraffatto
dalla folla dei Troiani, si salva lanciandosi armato a nuoto nel Tevere. Atque
ea diversa penitus dum parte geruntur, Irim de caelo misit Saturnia
Iuno audacem ad Turnum. Luco tum forte parentis Pilumni Turnus
sacrata valle sedebat. Ad quem sic roseo Thaumantias ore locuta
est: « Turne, quod optanti Divum promittere nemo auderet,
volvenda dies en attulit ultro. Aeneas urbe et
sociis et classe relicta sceptra Palatini sedemque petit Evandri.
Nec satis: extremas Corythi penetravit ad urbes 10 Lydorumque manum
collectos armat agrestes. Quid dubitas? nunc tempus equos, nunc poscere
currus. Rumpe moras omnes et turbata arripe castra. Dixit, et in caelum
paribus se sustulit alis ingentemque fuga secuit sub nubibus arcum.
A&novit iuvenis duplicesque ad sidera palmas sustulit ac tali
fugientem est voce secutus: « Iri, decus caeli, quis te mihi nubibus
actam detulit in terras? unde haec tam clara repente tempestas?
medium video discedere caelum palantesque polo stellas: sequor omina
tanta, quisquis in arma vocas. » Et sic effatus ad undam processit
summoque hausit de gurgite lymphas, multa Deos orans, oneravitque aethera
votis. lamque omnis campis exercitus ibat apertis 25 dives
equum, dives pictai vestis et auri. Messapus primas
acies, postrema céoercent Tyrrhidae iuvenes, medio dux agmine
Turnus E mentre tutto questo in ben diversa parte succede, Iride
giù da cielo mandò la Saturnia Giunone a Turno audace. Allora a caso
sedeva Turno nel bosco dell’avo Pilumno * entro alla sacra valle; e a lui
con la rosea bocca la figlia di Taumante * parlò: « Turno, quel che nes
suno dei numi oserebbe promettere al tuo desiderio, ecco che il giorno che
volge te l’offre spontaneamente. Énea lasciò la città e i compagni e la flotta,
ed è salito alla reggia del Palatino ed alla sede di Evandro. Nè basta: è
penetrato nell’ultime ville di Còrito *, e raccoglie ed arma agresti
schiere di Etruschi. Che indugi? Il tempo è questo, è questo, di chiedere i
cocchi e i cavalli. Rompi ogni indugio, turba ed assali il suo campo ».
Disse, e nell’alto del cielo si alzò con le ali levate, e nel fuggire
segnò sotto le nubi un grande arco. La riconobbe il giovane, e alzò ambe
le palme alle stelle, e, mentr’ella volava, la seguiva con queste parole.
Ìri, ornamento del cielo, chi dalle nubi a me ti fece discendere sopra
la terra? E come mai, improvvisa, tanta chiarezza di cielo? A mezzo vedo
dischiudersi i cieli e in alto vagare le stelle. Chiunque tu sia, che mi
chiami alle armi, obbedisco ad un tanto presagio ». E, così detto, al
fiume si accostò, ed attinse a fiore del gorgo le acque, molto pregando
gli Dei, colmando il cielo di voti. E già l’esercito intiero andava per le
aperte pianure, ricco di cavalli, ricco di vesti intessute nell’oro
(all’avanguardia è Messapo, ultimi vengono, i figli di Tirro ‘, ed a capo
del grosso sta Turno: s’avanza brandendo ie LI [vertitur arma tenens et toto vertice supra
est]; ceu septem surgens sedatis amnibus altus per tacitum Ganges,
aut pingui flumine Nilus cum refluit campis et iam se condidit
alveo. Hic subitam nigro glomerari pulvere nubem
prospiciunt Teucri ac tenebras insurgere campis. Primus ab adversa conclamat mole Caicus: Quis globus, o cives, caligine
volvitur atra? Ferte citi ferrum, date tela, ascendite
muros, hostis adest, heia. » Ingenti clamore per omnes
condunt se Teucri portas et moenia complent. Namque ita
discedens praeceperat optimus armis 40 Aeneas, si qua interea fortuna
fuisset, neu struere auderent aciem, neu credere campo;
castra modo et tutos servarent aggere muros. Ergo etsi conferre manum pudor iraque monstrat, 6biciunt portas tamen
et praecepta facessunt armatique cavis exspectant turribus hostem.
Turnus, ut ante volans tardum praecesserat agmen viginti lectis
equitum comitatus, et urbi improvisus adest: maculis quem Thracius
albis portat equus cristaque tegit galea aurea rubra. Ecquis erit,
mecum, iuvenes, qui primus in hostem? En » ait et iaculum intorquens
emittit in auras, principium pugnae, et campo sese arduus infert. Clamorem
excipiunt socii, fremituque sequuntur horrisono; Teucrum mirantur inertia
corda: 55 non aequo dare se campo, non obvia ferre arma
viros, sed castra fovere. Huc turbidus atque huc lustrat equo muros
aditumque per avia quaerit. Ac veluti pleno lupus insidiatus
ovili cum fremit ad caulas, ventos perpessus et imbres, 60
nocte super media: tuti sub matribus agni armi, e supera gli altri
del capo); come tacito scorre il Gange profondo, ingrossato da sette
fiumi tranquil. li, o il Nilo dalla pingue corrente, quando rifluisce
dai campi e già se ne torna al suo letto. Qui addensarsi una nube
di negra polvere i Teucri scorgono all’improvviso, e i campi oscurarsi;
Caico, primo dalla torre di fronte, si mette a gridare: « Che turbine, o
cittadini, si aggira di negra caligine? Presto, alle armi, recate le
armi, salite alle mura! Ecco il nemico, olà! ». E i Teucri con grande
schiamazzo si afiollan per tutte le porte, e col. man le mura. Giacchè
così, nel partire, Enea, esperto di guerra, aveva ordinato: se intanto si
offriva una qualche sorpresa, non osassero uscire in ischiera nè accettare
battaglia; solo, tenessero il campo e 1 muri al riparo del vallo *. Or, benchè
ira e vergogna li spingano a dare battaglia, pure rinserran le porte, ed
obbediscono agli ordini, ed aspettano armati dentro le torri il nemico. Turno,
siccome volando davanti avea preceduto il tardo suo stuolo, con venti
cavalieri più scelti, ecco appare improvviso davanti alle mura: lo porta
un cavallo di Tracia pezzato di bianco, e il capo gli copre un elmo d’oro
con rosso il cimiero. « E chi sarà con me, o giovani, chi primo incontro
il nemico? Ecco! » esclama, e un dardo vibrando, lo lancia per l’aure,
segnale della battaglia, ed alto si avanza nel campo. L'acclamano a
gran voce i compagni, e con un grido lo seguono che orribile suona: e
stupiscono dei cuori inerti dei Teucri, e come non escano in campo aperto
e non cozzin le armi con loro, ma stiano accovacciati là dentro. Turno,
ora qua ora là, esplora a cavallo le mura, e cerca — ma impenetrabile è
il luogo — un accesso. E come quando un lupo che insidia l’ovile ricolmo, freme
là presso al recinto, esposto al vento e alla pioggia, nel cuor
della 2balatum exercent, ille asper et improbus ira saevit
in absentes, collecta ‘fatigat edendi ex longo rabies et siccae sanguine
fauces; haud aliter Rutulo muros et castra tuenti ignescunt irae,
duris dolor ossibus ardet, qua tentet ratione aditus et qua vi
clausos excutiat Teucros vallo atque effundat in aequor.. Classem,
quae lateri castrorum adiuncta latebat, aggeribus septam circum et
fluvialibus undis, invadit sociosque incendia poscit ovantes atque
manum pinu flagranti fervidus implet. Tum vero incumbunt (urget
praesentia Turni), atque omnis facibus pubes accingitur atris.
Diripuere focos; piceum fert fumida lumen taeda et commixtam Vulcanus ad
astra favillam. Quis Deus, o Musae, tam saeva incendia Teucris
avertit? tantos ratibus quis depulit ignes? Dicite. Prisca fides facto,
sed fama perennis. Tempore quo primum Phrygia formabat in Ida
Aeneas classem et pelagi petere alta parabat, ipsa Deum fertur genetrix
Berecyntia magnum vocibus his adfata Iovem: « Da, gnate, petenti,
quod tua cara parens domito te poscit Olympo. Pinea silva mihi, multos
dilecta per annos; lucus in arce fuit summa, quo sacra ferebant,
nigranti picea trabibusque obscurus acernis. Has ego Dardanio iuveni, cum
classis egeret, laeta dedi: nunc sollicitam timor anxius angit.Solve
metus, atque hoc precibus sine posse parentem: 90 ne cursu
quassatae ullo neu turbine venti vincantur: prosit nostris in montibus
ortas. » Filius huic contra, torquet qui sidera mundi: « O
genetrix, quo fata vocas? aut quid petis istis? notte: sotto le
madri, al sicuro, vanno belando gli agnelli, ed esso, inasprito e feroce per l’ira,
infuria contro i lontani; e lo tormenta la lunga rabbia adunata del
cibo con le fauci che han sete di sangue; — non altrimenti nel
Rùtulo, a guardare i muri ed il campo, ardono lire, il dolore nell’ossa
dure lo brucia: come tentare l’accesso, e come scacciar con la forza i
Teucri dal vallo e spargerli nella pianura. Allora investe la flotta, che stava
al riparo di fianco al campo, recinta all’intorno dagli argini e
dall'onde del fiume, e invita all'incendio i compagni esultanti, e furibondo
impugna una fiaccola ardente; ed essi si accaniscono all’opera: li sprona la
presenza di Turno, e tutta di negre faci la gioventù si fornisce. Saccheggiano
i focolari; le torce fumose una luce spandon color della pece, e Vulcano
lancia fumo e faville alle stelle. Qual Dio, o Muse, un così fiero incendio allontanò
dai Troiani? chi discacciò dalle navi sì grandi fiamme? Voi ditelo.
Antica è la fede nel fatto, ma la sua fama è perenne. Nel tempo che dapprima
fabbricava nell’Ida di Frigia Enea la sua flotta e si accingeva a
prendere il mare infinito, dicono che essa stessa, la Berecinzia * madre
dei numi, al gran Giove volgesse queste parole: « Ascolta, o figlio, il
mio prego, il primo che io, la tua cara madre, ti chiedo, da quando
domasti l'Olimpo. Ho una selva di pini, da lunghissimi anni a me cara; ed
era il sacro mio bosco sulla cima del monte, ia dove si esercitava il mio
culto, di nereggianti abeti ombroso e di alti tronchi di aceri. Ed io ben
lieta li ho dati al dàrdano eroe, allorchè aveva bisogno di navi; ma ora il
timore mi rende ansiosa e sollecita: toglimi da questo af-. fanno, e fa
che questo ottenga la preghiera di una madre: fa che non siano mai schiantate
da viaggio nes 2Mortaline manu factae immortale carinae fas
habeant? certusque incerta pericula lustret Aeneas? cui tanta Deo
permissa potestas? Immo ubi defunctae finem portusque tenebunt
Ausonios olim, quaecumque evaserit undis Dardaniumque ducem Laurentia
vexerit arva, mortalem eripiam formam magnique iubebo aequoris esse
Deas, qualis Nereia Doto et Galatea secant spumantem pectore pontum.
» Dixerat, idque ratum Stygii per flumina fratris, per pice
torrentes atraque voragine ripas adnuit, et totum nutu tremefecit
Olympum. Ergo aderat promissa dies et tempora Parcae debita
complerant, cum Turni iniuria Matrem admonuit ratibus sacris depellere
taedas. Hic primum nova lux oculis effulsit, et ingens visus ab
Aurora caelum transcurrere nimbus Idaeique chori: tum vox horrenda per
auras excidit et Troum Rutulorumque agmina complet. « Ne trepidate
meas, Teucri, defendere naves, neve armate manus: maria ante exurere
Turno, quam sacras dabitur pinus. Vos ite solutae, ite Deae pelagi;
genetrix iubet. » Et sua quaeque continuo puppes abrumpunt vincula
ripis delphinumque modo demersis aequora rostris ima petunt: hinc
virgineae (mirabile monstrum) [quot prius aeratae steterant ad litora
prorae] reddunt se totidem facies pontoque feruntur. Obstupuere
animis Rutuli, conterritus ipse turbatis Messapus equis, cunctatur et
amnis rauca sonans revocatque pedem Tiberinus ab alto. At non
audaci Turno fiducia cessit; ultro animos tollit dictis atque increpat
ultro: suno o da turbinose tempeste; e a lor giovi sui nostri monti
esser nate ». E a lei di rincontro il figliuolo, che volge le stelle del
cielo: « Madre, perchè vuoi tu cambiare il destino? e che cosa domandi per
loro? Forse che navi foggiate da mano mortale potranno avere una
sorte immortale? Ed Enea al sicuro affronterà i malsicuri perigli? E quale dei
numi ha così grande potere? Bensì, quando compiuto il lor corso si fermeranno
un giorno nei porti d’Ausonia, qualunque ne sia scampata dall’onde
ed abbia portato il duce dardànio nei campi laurenti, io le toglierò la
sua forma mortale, e vorrò ch’elle sieno dee dell’ampie marine, come Doto
e Galatea nereidi, che fendono il mare spumante col petto ». Disse; e
giuratolo per il fiume dello stigio fratello * e per le sponde bollenti
di pece dall’atra voragine, cennò, ed al cenno, tutto fece tremare
l’Olimpo. Era dunque arrivato il giorno promesso, e avevan le
Parche compiuto il debito tempo, quando l'offesa di Turno indusse la
Madre a cacciar dalle sacre navi le fiaccole. Allora da prima una luce
novella agli occhi rifulse, e immenso fu visto trascorrere dall'Oriente un
nimbo pel cielo, e con esso i cori dell’Ida: così tremenda una voce cadde
per l’aria, e le schiere riempì dei Troiani e dei Ruùtuli: « Non vi
affannate a difendere i miei navigli, o Troiani, e non afferrate le armi: prima
potrà ardere il mare, Turno, che bruciare i pini a me sacri. È voi
andatene sciolte, andatene, Dee del mare; la vostra madre lo vuole ». E
tosto ad una ad una ie poppe troncan le corde dal lido, e a guisa di delfini,
tuffati i rostri, scendon nel fondo del înare: e di qui (meraviglioso
prodigio), quante prore di bronzo eran state prima alla riva”,
ricompaiono volti alirettanti di fanciulle, e si avvian sul mare.
2« Troianos haec monstra petunt, his Iuppiter ipse auxilium solitum
eripuit; non tela nec ignes exspectant Rutulos. Ergo maria invia Teucris,
130 nec spes ulla fugae; rerum pars altera adempta est; terra autem
in nostris manibus: tot milia gentes arma ferunt Italae. Nil me
fatalia terrent, si qua Phryges prae se iactant, responsa
Deorum. Sat fatis Venerique datum, tetigere quod arva 135
fertilis Ausoniae Troes. Sunt et mea contra fata mihi, ferro
sceleratam exscindere gentem, coniuge praerepta; nec solos tangit
Atridas iste dolor solisque licet capere arma Mycenis.
Sed periisse semel satis est; peccare fuisset 140 ante satis
penitus modo non, genus omne perosos femineum? quibus haec medii fiducia
valli fossarumque morae, leti discrimina parva, dant animos.
An non viderunt moenia Troiae Neptuni fabricata manu considere in
ignes? 145 Sed vos, o lecti, ferro quis scindere vallum
adparat et mecum invadit trepidantia castra? Non armis mihi
Vulcani, non mille carinis est opus in Teucros. Addant se protinus
omnes Etrusci socios. Tenebras et inertia furta ; 150 [Palladii
caesis summae custodibus arcis] ne timeant; nec equi caeca condemur
in alvo: luce palam certum est igni circumdare muros. Haud sibi cum Danais faxo et pube Pelasga esse putent, decimum
quos distulit Hector in annum. 159 Nunc adeo, melior quoniam pars
acta diei, quod superest, laeti bene gestis corpora rebus
procurate, viri, et pugnam sperate parari. » Interea vigilum
excubiis obsidere portas cura datur Messapo et moenia cingere
flammis. Stupiron nel cuore i Rùtuli,
atterrito è lo stesso Messapo e i suoi cavalli s'impennano; il Tiberino fiume
ancor esso s’indugia, rauco ‘sonando, e ritrae il piede dal ‘ mare. Ma
non a Turno audace vien meno l’ardire, chè anzi rianima 1 cuori coi detti
e li garrisce così: « Contro i Toiani, comparvero questi portenti; a loro, il
solito scampo lo stesso Giove ha strappato: non v'è più bisogno delle
armi e dei fuochi dei Rùtuli. Così i Teucri non hanno più vie sul mare nè
alcuna speranza di fuga: son tolte loro le acque, e la terra è in nostro
potere: tante migliaia di armati mandano l'itale genti! Non mi atterriscono,
no, i fatali responsi dei numi, di cui i Frigi si vantano. Basti a Venere
e ai fati, che della fertile Ausonia toccarono i campi i Troiani. Ho i
miei destini io pure: esterminar con la spada la scellerata gente,
poichè mi ha rapita la sposa; e un tale dolore non tocca soltanto gli
Atridi‘°, nè soltanto a Micene e lecito l’armi brandire. Ma esser periti
una volta, poteva bastare; e non sarebbe bastato aver peccato una volta,
per odiar tutto il sesso femmineo? Certo, a loro dan forza il vallo interposto
e dei fossati l’ostacolo, breve ritardo alla morte. Ma non vider le mura
di Troia — e le aveva costrutte Nettuno! — ruinare in mezzo alle
fiamme? Ora di voi, o eletti, chi si prepara a rompere il vallo e ad assaltare
con me gli accampamenti tremanti? Non ho bisogno dell’armi, io, di
Vulcano, e di mille carene, per combattere contro i Troiani. E a
loro si aggiungano pure alleati tutti quanti gli Etruschi. Le tenebre e gli
assalti infingardi [del Palladio, e dei custodi della rocca la strage]!
non tornano essi, chè noi non ci chiuderemo nel ventre oscuro del
cavallo: alla luce, all’aperto, circonderemo ie mura di fiamme. Io
farò sì che non si credano in guerra coi Dànai e con Bis
septem Rutuli, muros qui milite servent, delecti: ast illos centeni
quemque sequuntur purpurei cristis iuvenes auroque corusci. Discurrunt variantque vices fusique per herbam indulgent vino et
vertunt crateras aénos. Collucent ignes: noctem custodia ducit insomnem
ludo. Haec super e vallo prospectant Troes et armis alta tenent, nec
non trepidi formidine portas explorant, pontesque et propugnacula
iungunt, tela gerunt. Instant Mnestheus acerque Serestus, quos pater
Aeneas, si quando adversa vocarent, rectores iuvenum et rerum dedit esse
magistros. Omnis per muros legio, sortita periclum, excubat, exercetque
vices, quod cuique tuendum est. 175 Nisus erat portae custos, acerrimus
armis, Hyrtacides, comitem Aeneae quam miserat Ida venatrix iaculo
celerem levibusque sagittis; et iuxta comes Eurialus, quo pulchrior
alter non fuit Aeneadum Troiana neque induit arma, 180 ‘ ora puer
prima signans intonsa iuventa. © His amor unus erat, pariterque in bella
ruebant; tum quoque communi portam statione tenebant. Nisus ait: «
Dine hunc ardorem mentibus addunt, Euryale, an sua cuique Deus fit dira
cupido? Aut pugnam aut aliquid iamdudum invadere magnum mens agitat mihi
nec placida contenta quiete est. Cernis, quae Rutulos habeat fiducia
rerum. Lumina rara micant: somno vinoque soluti procubuere; silent
late loca. Percipe porro, _ 190 quid dubitem et quae nunc animo sententia
surgat. Aeneam acciri omnes, populusque patresque, exposcunt,
mittique viros, qui certa reportent. la gente Pelasga,
che Ettore per ben dieci anni tardò. Ora dunque, poichè è scorsa la parte
migliore del giorno, quel tanto che avanza, lieti dei primi successi,
concedetelo, o prodi, a ristorarvi le membra, e aspettate che venga la
pugna ». Frattanto si affida a Messapo di guardar con le scolte le porte !* e
di cinger le mura di fuochi. Due volte sette Rùtuli son scelti a custodia dei
muri coi loro guerrieri; ed ognuno da cento armati è seguito, con cimieri
purpurei ed armi che brillano d’oro. Corron di qua e di là, si danno il
cambio, e sdraiati su l'erba tracannano il vino e lo versan dai crateri
di bronzo. Splendono i fuochi; e le guardie passano la notte insonne
giocando. Di sopra al vallo i Troiani stanno a osservare, e con
l’armi guardan le mura, e così, in fretta, per il timore, vanno studiando
le porte, congiungon coi ponti le torri, ammucchiano l’armi. Stanno su
loro Mnèsteo ed il fiero Seresto, che il padre Enea, se mai lo chiedesse
il pericolo, avea destinati a guidare l’esercito e a governare lo stato.
Tutti, lungo le mura, al rischio che la sorte ha voluto, i guerrieri vegliano,
n scambiano i turni, secondo che tocca ad ognuno. Niso era a custodia di una
porta, d’Irtaco il figlio, che, a compagno d’Enea, Ida aveva sini la
cacciatrice, ed era destro a gettare veloci saette; e accanto gli era
compagno Eurìalo, il più bello fra tutti gli Enèadi e quanti vestivano
l’armi troiane; fanciullo ancora, gli fioriva sulle gote intonse la
prima lanugine. Stretto un amore li univa, e insieme si precipitavano in
guerra; ed anche allora, compagni di scolta, guardavan la porta. Niso disse: «
M'ispirano forse gli Dèi questo mio ardor nella mente, o Eurialo? o
il suo fiero desìo diviene a ciascuno il suo Dio? Già da gran tempo
il mio cuore mi spinge alla pugna o a ten Si tibi quae posco promittunt
(nam mihi facti fama sat est) tumulo videor reperire sub illo 195
posse viam ad muros et moenia Pallantea. » Obstupuit magno laudum
percussus amore Euryalus: simul his ardentem adfatur amicum: « Mene
igitur socium summis adiungere rebus, Nise, fugis? solum te in tanta
pericula mittam? 200 non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes,
Argolicum terrorem inter Troiaeque labores sublatum erudiit, nec tecum
talia gessi > magnanimum Aenean et fata extrema secutus. Est hic, est animus lucis contemptor et istum 205 qui vita bene
credat emi, quo tendis; honorem. » Nisus ad haec: « Equidem de te nil
tale verebar, nec fas, non: ita me referat tibi magnus ovantem
luppiter, aut quicumque oculis haec adspicit aequis. Sed si quis (quae
multa vides discrimine tali), si quis adversum rapiat casusve Deusve, te
superesse velim: tua vita dignior aetas. Sit, qui me raptum pugna
pretiove redemptum mandet humo; solita aut si qua id fortuna
vetabit, absenti ferat inferias, decoretque sepulchro; 215 neu
matri miserae tanti sim causa doloris, quae te sola, puer, multis e
matribus ausa persequitur, magni nec moenia curat Acestae. » Ille autem:
« Causas nequidquam nectis inanes, nec mea iam mutata loco sententia
cedit. 220 Adceleremus » ait. Vigiles simul excitat.
Illi succedunt servantque vices: statione relicta, ipse comes Niso
graditur, regemque requirunt. Cetera per terras
omnes animalia somno laxabant curas et corda oblita laborum; 225
ductores Teucrum primi, delecta iuventus, a è o so
pn tare qualche gran fatto, e non sa placarsi a un tranquillo
riposo. Tu vedi quale fiducia s'è impadronita dei Rùtuli. Rari lampeggiano i
lumi; immersi nel sonno e nel vino giacquero; tutto all’intorno è
silenzio. Odimi dunque quello ch’io penso, ed il disegno che ora mi sorge
nel cuore. Tutti, il popolo e i padri, chiedon che Enea si richiami e gli
si mandino messi che gli raccontino il vero. Se mi promettono quello
ch’io chiedo per te (per mia parte, mi basta la gloria del fatto), credo,
la, sotto a quel colle, di ritrovare la via che mena del Pallantèo
alle mura ». Stupì, colpito da grande amore di gloria, Eurìalo; e con
queste parole si volge all’ardito compagno: « Niso, dunque rifuggi dal
prendermi teco all’impresa sì grande? Ti lascerò andar solo in mezzo a cotanti
perigli? Ah, non così mio padre, Ofelte assuefatto alle guerre, fra lo
spavento argolico ed i travagli di Troia mi allevò, m’istruì; e non così
mi mostrai accanto a te, nel seguire il magnanimo Enea fino
all’estreme fortune. C’è qui, c'è qui un animo che sa disprezzare
la vita, e crede che ben con la vita si acquisti questa gloria che agogni
tu pure ». E Niso di rincontro: « Non io certo dubitavo di te, nè lo
potrei, oh no: così a te mi riconduca in trionfo il grande Giove o
chiunque dall’alto ci guarda con occhio propizio. Ma se, come
spesso accade in rischi sì grandi, se un qualche caso, o un Dio, mi
tragga a morire, vorrei che tu rimanessi; ti dà più diritto alla vita la
tua giovinezza: e vi sia chi mi sottragga alla mischia o mi ricompri al
nemico per sotterrarmi, e se, come accade, lo vieterà la fortuna,
mi renda i funebri offici, anche lontano, e di un sepolcro mi
onori. Ah, ch’io non sia cagione di un sì grande dolore alla tua povera
madre, che sola, o fanciullo, fra tante madri osava seguirti, e non
ristette del grande 3 - Vircuro - Eneide consilium summis regni de
rebus habebant, quid facerent quisve Aeneae iam nuntius
esset. Stant longis adnixi hastis et
scuta tenentes castrorum et campi medio. Tum Nisus et una
‘230 Euryalus confestim alacres admittier orant: rem magnam,
pretiumque morae fore. Primus Iulus accepit trepidos ac Nisum dicere
iussit. Tunc sic Hyrtacides: « Audite o mentibus aequis,
Aeneadae, neve haec nostris spectentur ab annis, 235 quae ferimus. Rutuli
somno vinoque soluti conticuere: locum insidiis conspeximus
ipsi, qui patet in bivio portae, quae proxima ponto;
interrupti ignes, aterque ad sidera fumus erigitur; si fortuna
permittitis uti 240 quaesitum Aenean et moenia Pallantea, mox
hic cum spoliis ingenti caede peracta adfore cernetis. Nec nos via
fallet euntes: vidimus obscuris primam sub vallibus urbem
venatu adsiduo et totum cognovimus amnem. » 245 Hic annis
gravis atque animi maturus Aletes: « Di patrii, quorum semper sub
numine Troia est, non tamen omnino Teucros delere paratis,
cum tales animos iuvenum et tam certa tulistis pectora. » Sic
memorans umeros dextrasque tenebat 250 amborum et vultum lacrimis atque
ora rigabat: « Quae vobis, quae digna, viri, pro laudibus
istis, praemia posse rear solvi? pulcherrima primum Di
moresque dabunt vestri; tum cetera reddet actutum pius Aeneas atque
integer aevi 259 Ascanius, meriti tanti non immemor umquam. Immo ego vos,
cui sola salus genitore reducto, excipit Ascanius, per magnos,
Nise, Penates Assaracique Larem et canae penetralia Vestae Aceste
alle mura ». Ma
quegli: « Tu indarno intessi i tuoi vani pretesti, e il mio voler non si
muta e non cede. Presto!» soggiunge. E risveglia le scolte; queste
subentrano al cambio; lasciata la guardia, ei s’accompagna con Niso, e vanno in
cerca del re. Gli altri animali per tutte le terre placavan nel
sonno i loro affanni nei cuori dimentichi d’ogni travaglio; ma i duci
primi dei Teucri, fior dei guerrieri, tenevan consiglio sul grave momento
del regno: che fare? e chi mandar messaggero ad Enea? Stanno poggiati
alle lunghe aste, e reggon gli scudi, nel mezzo alla piazza del campo.
Quand’ecco Niso, e con lui Eurìalo, pronti, chiedono d’essere uditi, subito:
grande è la cosa, e d’interrompere vale la pena. Iulo per primo li accolse
ansiosi, e a Niso ordinò di parlare. Così allora l’Irtàcide: «
Udite con menti benigne, o Enèadi; e quel che portiamo non lo
giudicate dagli anni. I Rùtuli, immersi nel sonno e nel vino, tacciono
tutti; noi, un luogo abbiam scorto, propizio alle insidie, che si scopre
là al bivio della porta ch’è prossima al mare. Son mezzo spenti i fuochi,
e cupo il fumo si erge alle stelle; se ci lasciate tentare la sorte a
ricercare Enea e le mura del Pallanteo, presto qui con le spoglie nemiche
ed onusti di strage ci rivedrete tornare. E non smarriremo la via: sotto le
oscure valli, nelle continue cacce, vedemmo lassù la città e tutto il
fiume esplorammo ». Allora, grave d’anni, e maturo di senno rispose
Alete: «O Dei della patria, sotto il cui nume è ancor Troia, certo voi
non pensate di distruggere i Teucri del tutto, poi che c'inviaste
tali anime e petti sì fermi di giovani! ». Questo dicendo,
stringeva d’entrambi le spalle e le mani, rigando le guance di pianto: «
Oh, quale premio, o prodi, che degno premio per questa impresa vi potremo noi
dare? obtestor: quaecumque mihi fortuna fidesque est, in vestris
pono gremiis; revocate parentem, reddite conspectum; nihil illo triste
recepto. Bina dabo argento perfecta atque aspera signis pocula,
devicta genitor quae cepit Arisba, et tripodas geminos, auri duo
magna talenta, cratera antiquum, quem dat Sidonia Dido. Si
vero capere Italiam sceptrisque potiri contigerit victori et praedae
ducere sortem, vidisti quo Turnus equo, quibus ibat in armis
aureus: ipsum illum, clipeum cristasque rubentes excipiam sorti, iam nunc
tua praemia, Nise. Praeterea bis sex genitor lectissima matrum
corpora captivosque dabit, suaque omnibus arma: insuper his, campi quod rex
habet ipse Latinus, Te vero, mea quem spatiis propioribus aetas
insequitur, venerande puer, iam pectore toto accipio, et comitem casus
complector in omnes. Nulla meis sine te quaeretur gloria rebus:
seu pacem seu bella geram, tibi maxima rerum verborumque fides. »
Contra quem talia fatur Euryalus: « Me nulla dies tam fortibus
ausis dissimilem arguerit; tantum fortuna secunda haud adversa
cadat. Sed te super omnia dona unum oro: genetrix Priami de gente
vetusta est mihi, quam miseram tenuit non Ilia tellus mecum
excedentem, non moenia regis Acestae: hanc ego nunc ignaram huius,
quodcumque pericli est, inque salutatam linquo; nox et tua
testis dextera, quod nequeam lacrimas perferre parentis; at tu,
oro, solare inopem et succurre relictae. Hanc sine me spem ferre tui:
audentior ibo in casus omnes. » Percussa mente dedere
290 Il primo ve lo daranno, e il più bello, gli Dèi e le vostre
virtù; gli altri ben presto li avrete dal pio Enea e da Ascanio, il
giovinetto in fiore, che di un così grande servigio non sarà immemore mai ». «
Anzi io, soggiunse Ascanio, che altra salvezza non ho se non il ritorno del
padre, questo vi giuro, o Niso, per i grandi Penati, per il lare di
Assàraco e per l’altare della antichissima Vesta: ogni mia sorte ed ogni mia
speranza, in vostre mani io pongo; riconducetemi il padre, fate che
io lo riveda: se lo ricupero, nulla sarà più triste per me. Due coppe vi
darò, cesellate in argento e scolpite a bassorilievi, che il padre ebbe alla
presa di Arisba; e due tripodi, e due grandi talenti di oro, ed un
cratere antico, dono della sidònia Didone. Se poi vincitore potrò prender
l’Italia e tenere lo scettro e sorteggiare le prede, certo tu hai veduto quel
destriero su cui Turno veniva, e le ammi che lo vestivano d’oro:
ebbene, quel suo cavallo, e lo scudo e il cimiero vermiglio, li
sottrarrò dal sorteggio; fin d’ora è un tuo premio, o Niso. Inoltre, mio
padre darà due volte sei corpi di donne, fra le più belle, ed altrettanti
prigioni, con le sue armi ciascuno: e oltre a ciò, proprio i campi
che or sono del rege Latino. Te poi, che sei vicino a me per età, o
venerando fanciullo, con tutto il cuore ti accolgo, fin d’ora, e ti
abbraccio, compagno per ogni fortuna. Non cercherò per me gloria nessuna
senza di te; ed in pace ed in guerra, nei fatti e nelle parole, in te
fiderò sopra ognuno ». A lui di rincontro Eurìalo rispose così: «
Non verrà mai un giorno che mi palesi diverso da questo mio forte sentire: mi
basta che la fortuna di seconda non muti in avversa. Ma sopra ogni altro dono,
solo una cosa t’imploro: ho una madre, della stirpe di Priamo
vetusta, che, misera, quando partii, non si fer Dardanidae lacrimas, ante
omnes pulcher Iulus, atque animum patriae strinxit pictetie imago.
Tum sic effatur: Sponde digna tuis ingentibus omnia coeptis; |
namque erit ista mihi genetrix nomenque Creusae solum defuerit, nec
partum gratia talem parva manet. Casus factum quicumque
sequentur, per caput hoc iuro, per quod pater ante solebat: 300
quae tibi polliceor reduci rebusque secundis, haec eadem matrique
tuae generique manebunt. » Sic ait illacrimans: umero simul exuit
ensem auratum, mira quem fecerat arte Lycaon | Gnosius atque
habilem vagina aptarat eburna. 305 Dat Niso
Mnestheus pellem horrentisque leonis exuvias: galeam fidus permutat
Aletes. Protinus armati incedunt; quos omnis euntes primorum
manus ad portas iuvenumque senumque prosequitur votis. Necnon et pulcher
Iulus 310 ante annos animumque gerens curamque virilem, multa patri
mandata dabat portanda. Sed aurae omnia discerpunt et nubibus
irrita domant. Egressi superant fossas, noctisque per umbram
castra inimica petunt, multis tamen ante futuri 315 exitio. Passim somno
vinoque per herbam corpora fusa vident, arrectos litore currus,
inter lora rotasque viros, simul arma iacere, vina simul. Prior
Hyrtacides sic ore locutus: « Euryale, audendum dextra: nunc ipsa
vocat res. 320 Hac iter est. Tu, ne qua manus se attollere nobis
a tergo possit, custodi et consule longe. Haec ego vasta dabo
et lato te limite ducam. » Sic memorat vocemque premit; simul
ense superbum Rhamnetem adgreditur, qui forte tapetibus altis mò nella
terra di Ilio nè fra le mura di Aceste. Or io qui l’abbandono ignara di
questo mio rischio, qual che si sia, e insalutata: la notte e la tua
destra mi sian testimoni che io non potrei sostenere le lacrime della mia
madre. Ma tu, te ne prego, consola la misera, soccorrila, se resta sola.
Lascia ch'io porti meco questa speranza di te; poi, anderò più audace incontro
ad ogni ventura ». Commossi nel cuore i Dardànidi lagrimarono, il
bel Iulo anzi tutti, chè il cuore gli strinse il ricordo dell’amore
paterno. È così disse: « Attenditi pur tutto quanto si deve alla tua grande
impresa; chè essa sarà la mia madre, e soltanto il nome le mancherà di
Creusa: piccolo dono, a colei che generò un tal figlio. Qualunque si sia
l’evento, per questo mio capo ti giuro sul quale soleva giurare mio
padre: quello che io ti promisi se tornerai vittorioso, alla tua madre
sarà serbato ed alla tua stirpe ». Così diceva piangendo, e dalla spalla
si tolse la spada d’oro che aveva foggiata con arte stupenda Licàone di
Cnosso, scorrevole entro la guaina di avorio. Mnèsteo a Niso donava di un
irsuto leone la pelle e la apoglia, e il fido Alete scambia il suo
elmo con lui. Tosto s’avviano armati; e tutta ia schiera dei
grandi, giovani e vecchi, alle porte li accompagnan coi voti. E intanto
il bello Iulo, che ha cuore e senno virile, oltre l’età, affidava molti
messaggi al suo padre. Ma l’aura tutti li sperde inutili in mezzo alle
nuvole. Usciti, varcano i fossi, e per le ombre notturne vengbno al campo
fatale; ma prima, a molti daranno la morte. (Qua e là sparsi tra il sonno
ed il vino scorgono i corpi sull’erba, e i cocchi alzati sul lido, e, tra
le briglie e le ruote, giacere i guerrieri, e con loro le armi, ed i vini
con loro. Primo il figlio di Irtaco così disse: « Eurìalo, qui bisogna
osar con la destra: l’oecasione lo exstructus toto proflabat pectore
somnum, rex idem et regi Turno gratissimus augur; sed
non augurio potuit depellere pestem. Tres iuxta famulos temere
inter tela iacentes armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis nactus
equis, ferroque secat pendentia colla. Tum caput ipsi aufert
domino, truncumque relinquit sanguine singultantem; atro tepefacta
cruore terra torique madent. Necnon Lamyrumque Lamumque, et
iuvenem Sarranum, illa qui pluritha nocte luserat, insignis facie, multoque
iacebat membra Deo victus: felix, si protinus illum
aequasset nocti ludum in lucemque tulisset. Impastus ceu
plena leo per ovilia turbans, suadet enim vesana fames, manditque
trahitque 340 molle pecus mutumque metu, fremit ore cruento.
Nec minor Euryali caedes; incensus et ipse perfurit, ac
multam in medio sine nomine plebem, Fadumque Herbesumque subit Rhoetumque
Abarimque ignaros, Rhoetum vigilantem et cuncta videntem, sed magnum
metuens se post cratera tegebat; pectore in adverso totum cui
comminus ensem condidit adsurgenti et multa morte recepit.
Purpuream vomit ille animam et cum sanguine mixta vina refert
moriens: hic furto fervidus instat. 350 lamque ad Messapi socios
tendebat: ibi ignem deficere extremum et religatos rite
videbat carpere gramen equos: breviter cum talia Nisus
(sensit enim nimia caede atque cupidine ferri. Absistamus, ait, nam lux inimica propinquat. Poenarum exhaustum satis est,
via facta per hostes. » Multa virum solido
argento perfecta relinquunt armaque craterasque simul pulchrosque
tapetas. vuole. Di qua è la via. Ora tu, perchè un qualche drappello
non ci si levi alle spalle, fa guardia e sta attento all’intorno. Io qui
farò largo, e ti guiderò per un ampio cammino >». Così dice, poi
smorza la voce; ed il superbo Ramnete con la sua spada colpisce; ed egli,
sui tappeti ammucchiati giacendo, dormiva lì a pieno petto, russando. Re
egli pure, ed al re Turno il più grato degli àuguri; ma non potè con la
scienza profetica allontanare la morte. Lì presso, uccide tre servi che a caso
giacevan fra l’armi, e lo scudiero di Remo, ed il suo auriga sorpreso sott’essi
i cavalli, e col ferro taglia le gole rovescie. Poscia anche al signore
tronca il capo, ed il busto lascia singhiozzante nel sangue; intiepiditi
la terra ed i letti di negro sangue s’imbevono. E poi Làmiro, e Lamo, e
il giovin Sarrano, che fino a tardi la notte aveva giocato, bello di
volto, e giaceva vinte le membra dal vino: felice, se avesse giocato
tutta la notte ed infino all’aurora! Così un leone digiuno imperversando
tra gli ovili ricolmi — la fame rabbiosa lo istiga — sbrana e trascina la
greggia molle e per il terrore ammutita, e rugge con bocca sanguigna. Nè
minore è la strage d’EURÌALO; ardendo anch'egli infuria, e alla rinfusa
sorprende molta ignobile plebe, e Fado, ed Erbeso, e Reto, ed Abari,
inconsapevoli; Reto, era desto e tutto vedeva, ma per paura si stava
nascosto dietro un grande cratere: ma mentre si alzava, gli immerse fino
all’elsa nel petto la spada, e la ritrasse grondante di sangue. Ed
egli in un fiotto di porpora esala la vita, ed il vino, morendo, rigetta
col sangue. L’altro, più ardente, continua la strage furtiva. E già si volgeva
ai compagni di Messapo; ivi vedeva languire gli ultimi fuochi, e i
cavalli al guinzaglio, com’è uso, pascere l’erba, allorchè NISO, che
trascinato lo vide da brama soverchia di stra EURYALVS phaleras Rhamnetis et
aurea bullis cingula (Tiburti Remulo ditissimus olim quae mittit
dona hospitio, cum iungeret absens, Caedicus; ille suo moriens dat
habere nepoti, post mortem bello Rutuli pugnaque potiti), haec
rapit, atque umeris nequidquam fortibus aptat. Tum galeam Messapi habilem cristisque decorum induit. Excedunt castris, et
tuta capessunt. Interea praemissi equites ex urbe Latina, cetera dum
legio campis instructa moratur, ibant et Turno regi responsa ferebant, tercentum,
scutati omnes, Volscente magistro. 370 lamque propinquabant castris
murosque subibant, cum procul hos laevo flectentes limite
cernunt, et galea Euryalum sublustri noctis in umbra prodidit
immemorem, radiisque adversa refulsit. Haud temere est visum.
Conclamat ab agmine Vol. [scens:
« State, viri: quae causa viae? quive estis in armis?
quove tenetis iter? » Nihil illi tendere contra; sed
celerare fugam in silvas et fidere nocti. Obiciunt equites sese ad
divortia nota hinc atque hinc,omnemque aditum custode coronant.
Silva fuit, late dumis atque ilice nigra horrida, quam densi
complerant undique sentes, rara per occultos lucebat semita
calles. Euryalum tenebrae ramorum onerosaque praeda
impediunt, fallitque timor regione viarum. NISVS abit: iamque imprudens
evaserat hostes atque locos, qui post Albae de nomine dicti
Albani (tum rex stabula alta Latinus habebat). Ut stetit et
frustra absentem respexit amicum: « Euryale infelix, qua te regione
reliqui? ge, così brevemente. parlò: « Fermiamoci, chè oramai la luce
nemica si appressa. Li abbiamo puniti abbastanza, e aperta in mezzo ai
nemici è la via ». Lasciano lì molte armi di guerrieri lavorate di
argento massiccio, ed i crateri insieme ed i belli tappeti. Eurìalo si
toglie i fregi di Ramnete ed il balteo dall’auree borchie, e,
invano!, sugli omeri forti lo adatta. A Rèmolo, il tiburtino, li
aveva mandati una volta il ricchissimo Cèdico, in segno di ospitalità
ch’egli stringeva da lungi; e quegli morendo li diede al nipote, e, questo
morto, i Rùtuli se ne impadronirono in guerra. Poi l’elmo di Messapo si
cinge, agevole, e adorno di creste. Escon dal campo e s’avviano in
salvo. Frattanto i cavalieri mandati innanzi dalla città di Latino,
mentre i pedoni attendono armati nella campagna, venivano per riportare al re
Turno un responso: trecento, tutti scudati, ed era lor duce Volscente. E
già erano. presso al campo e varcavan le mura, quando da lungi li
scorgono che piegavano verso sinistra; e l’elmo, nella penombra notturna
tradì EURÌALO immemore, a un raggio di luna splendendo. È non fu vana la
vista. Grida dalla sua schiera Volscente: « Fermi, voi! perchè
siete in via? chi siete così armati? e dove andate? ». Ma quelli
non rispondono, anzi si affrettano in fuga pei boschi e fidano
nell’oscurità. 1 cavalieri si gettano di qua, di là ai bivi ben noti, e
tutte circondan di gnardie le uscite. Era una selva spaziosa e orrida di
nere querce e di pruni, densa da ogni parte di sterpi; e tra le peste occulte,
raro si apriva un sentiero. L'ombre dei rami e il carico del bottino
ritardavano Euriìalo, e il timore gli fa smarrire la via. Niso è fuggito; e di
già, senza pensare all’amico, altrepassati aveva i nemici ed i luoghi che
poi dal nome di Alba furon chiamati Albani (allora, v’era Quaque
sequar, rursus perplexum iter omne revolvens fallacis silvae? » Simul et vestigia retro observata legit dumisque silentibus
errat. Audit equos, audit strepitus et signa sequentum. Nec
longum i in medio tempus, cum clamor ad aures pervenit ac videt EURYALVM, quem
iam manus omnis fraude loci et noctis, subito turbante
tumultu, Oppressum rapit et conantem plurima frustra. Quid faciat?
qua vi iuvenem, quibus audeat armis eripere? an sese medios moriturus in
hostes inferat, et pulchram properet per vulnera mortem? Ocius adducto
torquens hastile lacerto, suspiciens altam Lunam, et sic voce
precatur: Tu, Dea, tu praesens nostro succurre labori, astrorum
decus et nemorum Latonia custos: si qua tuis umquam pro me pater Hyrtacus
aris dona tulit, si qua ipse meis venatibus auxi,
supendive tholo aut sacra ad fastigia fixi: hunc sine me
turbare globum et rege tela per auras. Dixerat, et toto conixus corpore ferrum
conicit. Hasta volans noctis diverberat umbras, et venit adversi in
tergum Sulmonis, ibique frangitur, ac fisso transit praecordia
ligno. Volvitur ille vomens calidum de pectore flumen
frigidus et longis singultibus ilia pulsat. 415 Diversi circumspiciunt.
Hoc acrior idem ecce aliud summa telum librabat ab aure. Dum
trepidant, it hasta Tago per tempus utrumque stridens, traiectoque haesit
tepefacta cerebro. Saevit atrox Volscens nec teli conspicit usquam
420 auctorem nec quo se ardens immittere possit. Tu tamen interea
calido mihi sanguine poenas persolves amborum » inquit: simul ense
recluso i no i
pascoli incolti del re Latino). Come ristette, ed invano si volse a
cercare l’amico: « O infelice EURIALO, e dove mai t'ho lasciato? dove ti
cercherò, ancor rifacendo il cammino tortuoso per la selva fallace? ». E
tosto nota e ricalca all’indietro le tracce, ed erra silenzioso tra
i pruni. Ode i cavalli, ode lo strepito e i segnali degl’inseguitori. E
ben presto agli orecchi un grido gli giunge; ed Eurìalo vede, cui già
tutta quanta la schiera, ingannato dal luogo e dal buio, turbato
dall’improvviso tumulto, circonda ed incalza; ed invano ei tenta in mille
modi la fuga. Che fare? con quali forze, con quali armi tentar di salvare
il fanciullo? O non è meglio lanciarsi in mezzo ai nemici a morire, e
bella cercare con le ferite la morte? E subito, vibrando col braccio
all’indietro un lanciotto, guarda la Luna nell’alto e così le rivolge una
prece: « Tu, dea, tu, propizia, nel nostro periglio soccorrici, o Latònia,
onore degli astri e delle selve custode, se mai ai tuoi altari doni per
me ti recò Irtaco, il padre, se mai con le mie cacce anch’io ne aggiunsi,
e li sospesi alla volta o li infissi ai sacri pinnacoli '*, lascia
che io disordini questa schiera, e guidami i dardi per l’aria ». Disse, e
con tutto il suo corpo puntando, lanciò il ferro. E l’asta volando sferza le
ombre notturne, e trapassa nel petto fino alle spalle Sulmone, ed ivi
si spezza, e attraversa, infittavi dentro, i precordi. Cade di
sella colui, vomitando un caldo fiume dal petto, gia freddo, ed i fianchi
gli scuotono lunghi singhiozzi. Guardano gli altri qua e la; e Niso ne prende
coraggio, e dall’altezza del capo, ecco, un altro dardo librava. E,
nella trepida attesa, l’asta attraversa stridendo a Tago le tempia, e
s’infigge tiepida in mezzo al cervello. Atrocemente infuria Volscente, chè non
vede l'autore del eolpo per potersi lanciare ardente contro di lui. «
Eb de ibat in EURYALVM. Tum vero exterritus, amens
conclamat Nisus, nec se celare tenebris . amplius, aut tantum potuit perferre
dolorem: « Me me, adsum qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli! mea
fraus omnis: nihil iste nec ausus, nec potuit: caelum hoc et conscia
sidera testor. Tantum infelicem nimium dilexit amicum. Talia dicta dabat:
sed viribus ensis adactus transabiit costas et candida pectora
rumpit. Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus it cruor,
inque umeros cervix collapsa recumbit: purpureus veluti cum flos succisus
aratro 435 languescit moriens, lassove papavera collo demisere
caput, pluvia cum forte gravantur. At NISVS ruit in medios solumque per
omnes Volscentem petit, in solo Volscente moratur. Quem circum
glomerati hostes hinc comminus spe {hbinc 440 proturbant.
Instat non secius ac rotat ensem fulmineum, donec Rutuli clamantis in
ore condidit adverso et moriens animam abstulit hosti. Tum super
exanimum sese proiecit amicum confossus placidaque ibi demum morte
quievit. 445 Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt, nulla
dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitolii immobile
saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. Victores
praeda Rutuli spoliisque potiti | 450 Volscentem exanimum flentes in
castra ferebant. Nec minor in castris luctus, Rhamnete reperto
exsangui, et primis una tot caede peremptis Sarranoque Numaque. Ingens
concursus ad ipsa corpora seminecesque viros tepidaque recentem bene, tu
pagherai intanto col caldo tuo sangue per ambedue » gridò; e, sguainata la
spada, senz’altro si avventa ad Eurìalo. Ma allora, atterrito, fuor di sè,
con un grido, non potè più celarsi nelle tenebre Niso, e sopportare
un sì grande dolore: « Me, me! Son qui, sono io il colpevole; in me rivolgete
le armi, o Rùtuli! È mia ogni frode; costui non osò, non poteva; pel
cielo, lo giuro, e per le consapevoli stelle. Sola sua colpa, che
troppo amò l’infelice suo amico ». Così diceva; ma il ferro, vibrato con
forza, attraversò le coste e ruppe il candido petto. S'abbattè Eurìalo morendo,
e per le membra leggiadre il sangue si spande, ed il collo si piega abbandonato
sopra le spalle: come quando un fiore purpureo che l’aratro ha reciso,
languisce morendo: o come quando i papaveri sul collo stanco la testa
piegano, se per caso li grava la pioggia. Ma Niso si slancia
nel mezzo, e solo, fra tutti, Volscente cerca, e sol di Volscente si cura. Gli
si affollano intorno i nemici, e d’ogni parte, da presso, lo ricacciano;
e nondimeno egli incalza ruotando la spada fulminea, finchè la piantò nella
bocca del Rùtulo, che schiamazzava, e, già morente, rapì al nemico la vita.
Poi. si gettò, crivellato di colpi sopra l’esanime amico, ed ivi,
infine, trovò in placida morte riposo. Fortunati ambedue! Se qualche valore ha
il mio canto, giorno nessuno mai vi torrà alla memoria dei tempi, finchè
la stirpe di Enea terrà del Campidoglio l’incrollabile rupe, e il padre
della patria romana avrà qui l'impero !. Vincitori i Rùtuli, con la preda
e con le spoglie, piangendo portavano esanime nell’accampamento Volscente. E
non minore fu il lutto nel campo, allorchè si scoperse esangue Ramnete, ed
insieme con lui tanti duci uccisi alla strage, e Sarrano, e Numa; la
folla si accalca caede locum et plenos spumanti sanguine rivos.
Agnoscunt spolia inter se galeamque nitentem Messapi, et multo phaleras
sudore receptas. Et iam prima novo spargebat lumine terras
Tithoni croceum linquens ‘Aurora cubile; iam sole infuso, iam rebus luce
retectis, Turnus in arma viros, armis circumdatus ipse,
suscitat, aeratasque acies in proelia cogit quisque suas, variisque
acuunt rumoribus iras. Quin ipsa arrectis (visu miserabile) in
hastis praefigunt capita et multo clamore sequuntur Euryali et
Nisi. Aeneadae duri murorum in parte sinistra apposuere
aciem, nam dextera cingitur amni, ingentesque tenent fossas et turribus
altis stant maesti; simul ora virum praefixa movebant, nota nimis
miseris atroque fluentia tabo. Interea pavidam volitans pinnata per
urbem nuntia Fama ruit, matrisque adlabitur aures EURYALI. At
subitus miserae calor ossa reliquit: excussi manibus radii revolutaque
pensa. Evolat infelix, et femineo ululatu, scissa comam,
muros amens atque agmina cursu prima petit, non illa virum, non illa
pericli telorumque memor; caelum dehinc questibus implet: 480 « Hunc
ego te, EURYALE, adspicio? tunc illa senectae sera meae requies,
potuisti linquere solam, crudelis? nec te, sub tanta pericula
missum, adfari extremum miserae data copia matri? Heu, terra ignota
canibus data praeda Latinis alitibusque iaces, nec te, tua funera
mater produxi pressive oculos aut vulnere lavi, veste tegens, tibi
quam noctes festina diesque ai loro corpi, e ai guerrieri moribondi, ed al
luogo ancor caldo di strage recente, ed al sangue schiumante che
scorre in ruscelli. Riconoscon fra loro le epoglie, e di Messapo il
lucido elmo, e i fregi con grande sudore riavuti. ! E già di
nuova luce spargeva la terra la prima Aurora lasciando il giaciglio
croceo di Titone; già sorto il sole, già scoperte le cose alla luce,
Turno, già chiuso nell’armi, chiama alle armi i guerrieri; ed ordina ognuno
in battaglia le sue schiere coperte dî bronzo, e raccontando il fatto ne
acuisce gli sdegni. Anzi, o miserabile vieta!, piantan sull’aste i capi, e li
seguono forte gridando, di EURIALO e di NISO. Gli Enèadi saldi sulla
parte einistra dei muri ordinan la resistenza — chè la destra è
recinta dal fiume —, e difendono gli ampi fossati e stan mesti in cima
alle torri; e li sgomentano i volti confitti dei due guerrieri, ahi troppo noti
a loro infelici, e gocciolanti di marcia e di sangue. Intanto
messaggera la Fama volando alata per la città spaventata va scorrendo, e
agli orecchi giunge della madre di Eurìalo. Subitamente il calore lasciò
dell’infelice le ossa: le cade di mano la spola e rotolan giù i gomitoli.
Esce correndo la misera, e, come donna, urlando, stracciate le chiome, folle,
raggiunge di corsa le mura e le prime avanguardie; e non si cura, essa,
dei guerrieri e del rischio dell’armi, e il cielo riempie con i suoi
lamenti: « Così ti rivedo, o Eurialo? Ultimo ri- . poso alla mia
vecchiezza, o crudele, lasciarmi sola hai potuto? E non fu dato a tua
madre infelice parlarti l’ultima volta, quando movesti ad un rischio sì
grande? Ahi, in terra ignorata, preda ai cani latini ed agli uccelli tu
giaci; ed io, tua madre, non ho seguito i tuoi resti mortali, e non ti ho
chiusi gli occhi e lavate le tue 4 - VircILI9 - Eneide - Vol.
III urgebam et tela curas solabar aniles. Quo sequar?
aut quae nunc artus avulsaque membra et funus lacerum tellus habet? hoc mihi de
te, nate, refers? hoc sum terraque marique secuta?
Figite me, si qua est pietas, in me omnia tela conicite, o Rutuli:
me primam absumite ferro: aut tu, magne pater Divum, miserere,
tuoque 495 invisum hoc detrude caput sub Tartara telo, quando
aliter nequeo crudelem abrumpere vita. » Hoc fletu concussi ariimi,
maestusque per omnes it gemitus; torpent infractae ad proelia
vires. Illam incendentem luctus Idaeus et Actor 500 Jlionei
monitu et multum lacrimantis Iuli corripiunt interque manus sub
tecta reponunt. At tuba terribilem sonitum procul aere canoro
increpuit; sequitur clamor, caelumque remugit. Accelerant acta pariter
testudine Volsci et fossas implere parant ac vellere vallum. Quaerunt
pars aditum et scalis ascendere muros, qua rara est acies
interlucetque corona non tam spissa viris. Telorum effundere
contra omne genus Teucri ac duris detrudere contis, 510
adsueti longo muros defendere bello. Saxa quoque infesto volvebant
pondere, si qua possent tectam aciem perrumpere: cum tamen
omnes ferre iuvat subter densa testudine casus. Nec iam sufficiunt;
nam, qua globus imminet ingens, 515 immanem Teucri molem volvuntque
ruuntque, quae stravit Rutulos late armorumque resolvit
tegmina. Nec curant caeco contendere Marte amplius audaces Rutuli,
sed pellere vallo missilibus certant. 520 Parte alia
horrendus visu quassabat Etruscam ferite, avvolgendoti poi nella veste
che, giorno e notte, per te, sollecita io tesseva, consolando al telaio i
miei affanni senili. Dove cercarti? Qual terra ha ora le tue membra
troncate e la tua lacera salma? Questo, o mio figlio, mi riporti di te?
Questo, questo, per terra e per mare, ho seguito? Me trafiggete, se in
voi è alcuna pietà; su me tutte l’armi scagliate, o Rùtuli; me
prima uccidete col ferro! E se no, abbimi misericordia tu, o gran
padre dei numi, e col tuo dardo scagliami questo mio capo odioso giù nel
profondo del Tàrtaro, se in altro modo non posso troncar questa vita crudele ».
Si consumarono i cuori a quel pianto, e mesto fra tutti un
singhiozzare si spande; si fiaccano infrante le forze dei guerrieri; ma
Attore e Idèo, per ordine di Ilionèo e di lulo molto piangente, la
presero, chè suscitava troppo dolore, ed a braccia la riportarono in
casa. Ma da lontano la tromba per il suo bronzo canoro
squillò con terribile suono; e la segue il grido di guerra e ne
rimbombano L cieli. Vengono i Volsci all'assalto, sotto la testuggin ‘!*
serrati, e s'accingono a colmare le fosse e a svellere il vallo '”. Altri
cercano un varco per la scalata alle mura, là dove rada è la schiera, e
vi traluce meno spessa di eroi la corona. Dall’altra' parte i Teucri
rovesciano ogni sorta di dardi, e li ricacciano giù con le lor dure
picche; chè erano avvezzi a difendere in lunga guerra le mura. E rotolavano in
basso ad offesa pesanti macigni, per tentar di spezzare la schiera
coperta: ma questa, sotto la densa testuggine, sopporta ogni colpo. Ma ormai
non possono più; chè laddove più folta e perigliosa è la schiera, un masso
immenso i Troiani rotolano e piombano giù, che per un ampio tratto
schiacciò i Rùtuli e ruppe il riparo di scudi. Allora non pensano più, i
Rùtuli audaci, a farpinum et fumiferos infert Mezentius ignes. At
Messapus equum domitor Neptunia proles, rescindit vallum et scalas in
moenia poscit. Vos, o Calliope, precor, adspirate canenti,
525 quas ibi tunc ferro strages, quae funera Turnus ediderit, quem
quisque virum demiserit Orco, et mecum ingentes oras evolvite
belli; let meministis enim, Divae, et memorare potestis).
Turris erat vasto suspectu et pontibus altis, opportuna loco, summis quam
viribus omnes expugnare Itali summaque evertere opum vi certabant,
Troes contra defendere saxis perque cavas densi tela intorquere
fenestras. Princeps ardentem coniecit lampada Turnus 535 et
flammam adfixit lateri, quae plurima vento | corripuit tabulas et
postibus haesit adesis. Turbati trepidare intus frustraque
malorum velle fugam. Dum se glomerant, retroque residunt
in partem, quae peste caret, tum pondere turris procubuit subito, et
caelum tonat omne fragore. Semineces ad terram, immani mole eecuta,
confixique suis telis et pectora duro transfossi ligno
veniunt. Vix unus Helenor et Lycus elapsi, quorum primaevus
Helenor, Maeonio regi quem serva Licymnia furtim sustulerat
vetitisque ad Troiam miserat armis, ense levis nudo parmaque
inglorius alba. Isque, ubi se Turni media inter milia vidit,
hinc acies atque hinc acies adstare Latinas; ut fera, quae, densa
venantum saepta corona, contra tela furit seseque haud nescia
morti inicit et saltu supra venabula fertur: haud
aliter iuvenis medios moriturus in hoetes guerra così al coperto, ma
lanciano dardi al nemico per discacciarlo dal vallo. In altra parte,
orrendo a vedersi, squassava la fiaccola etrusca '* Mesenzio, e fuochi
fumanti lanciava. E intanto Messapo, il domator di cavalli, prole
nettunia, rompeva il vallo e chiedeva le scale a salir sulle mura. Voi
'’, o Calliope, ti prego, ispirate il mio canto: quali stragi ivi col
ferro, e che lutti Turno spargesse, e chi ogni guerriero laggiù nell’Orco
respinse; e meco il gran quadro della guerra svolgete. Chè tutto voi
ricordate, o Dee, e agli altri ricordarlo potete. °° V’era
una torre, altissima a guardarla dal basso, con erti ponti,
opportunamente disposta; e tutti con ogni forza lottavano gli Itali per
espugnarla, e con estrema | violenza tentavan di abbatterla: ma di
rincontro i Troiani fitti la difendevan coi sassi e scagliavano dardi pei
vani delle finestre. Primo Turno lanciò una fiaccola ardente, e nel fianco vi
confisse una fiamma, che, nutrita dal vento, invase le tavole, e alle
imposte corrose si apprese. Spaventati, quelli di dentro, si
scompigliano, e invano cercan fuggendo lo scampo. E mentre si affollano,
e s’arretrano in una parte ancora illesa dal fuoco, allora a quel peso la torre
improvvisamente si schianta, e tutto a quel fragore il cielo rintuona. A terra
semivivi, sotto l'enorme mole, cadono, dalle lor armi trafitti o
trapassato il petto dal duro legno. Due soli appena, Elènore e Lico,
scamparono; dei quali il giù giovine, Elènore, Licinnia, una schiava,
avea generato ad un re Meonio con amore furtivo: e, con armi vietate ?!,
a Troia l’aveva mandato, alla leggera, con sola la spada, oscuro, e
con un semplice scudo. Ma egli, come si vide in mezzo ai mille di Turno,
e d’ogni parte incalzarlo schiere e schiere latine: come una belva che
cinta da un denso irruit et, qua tela videt densissima tendit. 559 At pedibus longe melior Lycus inter et hostes inter
et arma fuga muros tenet altaque certat prendere tecta manu
sociumque attingere dextras. Quem Turnus, pariter cursu teloqye
secutus, increpat his victor: « Nostrasne evadere, demens, sperasti
te posse manus? » simul arripit ipsum pendentem, et magna muri cum parte
revellit: qualis ubi aut leporem ‘aut candenti corpore cycnum
sustulit alta petens pedibus Iovis armiger uncis, quaesitum aut matri
multis balatibus agnum 965 Martius a stabulis rapuit lupus. Undique
clamor tollitur; invadunt et fossas aggere complent; ardentes
taedas alii ad fastigia iactant. Ilioneus saxo atque ingenti
fragmine montis Lucetium portae subeuntem ignesque ferentem, : Emathiona
Liger, Corynaeum sternit Asylas, hic iaculo bonus, hic longe
fallente sagitta; Ortygium Caeneus, victorem Caenea Turnus,
Turnus Ityn Cloniumque, Dioxippum Promolumque et Sagarim et
summis stantem pro turribus Idam: Privernum Capys. Hunc primo levis hasta
Themillae strinxerat; ille manum proiecto tegmine demens ad
vulnus tulit; ergo alis adlapsa sagitta et laevo infixa est lateri
manus abditaque intus spiramenta animae letali vulnere rupit. Stabat in
egregiis Arcentis filius armis, pictus acu chlamydem et ferrugine
clarus Ibera, insignis facie, genitor quem miserat Arcens eductum
Matris luco Symaethia circum flumina, pinguis ubi et placabilis ara
Palici. Stridentem
fundam, positis Mezentius hastis ipse ter adducta circum caput agit
habena, cerchio di cacciatori, infuria contro le armi, e conscia si
slancia a morire, e con un balzo sopra gli spiedi si lancia, non
altrimenti il giovane morituro si getta nel mezzo ai nemici, e, dove vede
più folte le armi, là tende. Ma, più veloce alla corsa, Lico, fra i nemici e
fra l’armi fuggendo è già presso alle mura, e cerca di afferrarsi là al
sommo, e di aggrapparsi alle mani dei compagni;. ma Turno, a corsa, e con
l’armi, lo segue e lo giunge, e, vincitore, l’oltraggia: « Folle,
sperasti tu dunque dalle mie mani scampare? » e sì dicendo lo afferra penzoloni
e lo svelle con una gran parte del muro: come quando una lepre o un cigno
dal candido corpo si porta nell’alto l’armigero di Giove °° con piedi
artigliati, o come quando il marzio lupo rapisce dalla stalla un agnello, e lo
cerca con lunghi belati la madre. Si alzan da ogni parte le grida; vanno
all’assalto, e col. man di terra i fossati; altri fiaccole ardenti
lanciano verso le cime. Ilioneo con un sasso, un enorme pezzo di
monte, abbatte Lucezio, che già era sotto alla porta per appicarvi il
fuoco; Lìgero atterra Emazione: Asila, Corineo; l’uno valente nell’asta,
l’altro nel dardo che coglie da lungi. Cèneo uccide Ortigio; e Turno, il
vincitore Cèneo; Turno, Iti e Clònio e Diossippo e Pròmolo e Sàgari e
Ida, che guardava le altissime torri. Capi uccise Priverno. L’aveva
sfiorato da prima lievemente la lancia di Temilla; ed egli, gettato lo
scudo, folle portò la mano alla ferita: e allora, volando, una freccia
gli piantò nel fianco sinistro la mano, ed entrando gli ruppe con mortale
ferita i polmoni. Stava nell’armi egregie il figlio di Arcente, con ricamata la
clàmide, spleudente di porpora ibèra #, bello di aspetto, che il padre
Arcente aveva mandato; ed allevato lo aveva di Cibele nel bosco, presso
alle correnti del Simeto, là dove è et media adversi liquefacto tempora
plumbo diffidit ac multa porrectum extendit harena. Tum primum
bello celerem intendisse sagittam dicitur, ante feras solitus terrere
fugaces, Ascanius, fortemque manu’ fudisse Numanum cui Remulo
cognomen erat, Turnique minorem germanam nuper thalamo sociatus
habebat. Is primam ante aciem digna atque indigna relatu
vociferans, tumidusque novo praecordia regno ibat et ingentem sese
clamore ferebat: « Non pudet obsidione iterum valloque teneri, bis
capti Phryges, et morti praetendere muros? En qui nostra sibi bello
conubia poscunt! Quis Dens Italiam, quae vos dementia adegit? Non
hic Atridae nec fandi fictor Ulixes: durum ab stirpe genus natos ad
flumina primum deferimus saevoque gelu duramus et undis: venatu
invigilant pueri silvasque fatigant, flectere ludus equos et spicula
tendere cornu. At patiens operum parvoque
adsueta iuventus aut rastris terram domat aut quatit oppida bello.
Omne aevum ferro teritur, versaque iuvencum terga fatigamus hasta; nec
tarda senectus debilitat vires animi mutatque vigorem; canitiem
galea premimus, semperque recentes comportare iuvat praedas et vivere
rapto. Vobis picta croco et fulgenti murice vestes, desidiae cordi;
iuvat indulgere choreis, . et tunicae manicas et habent redimicula
mitrae. O vere Phrygiae, neque enim Phryges, ite per alta Dindyma,
ubi adsuetis biforem dat tibia cantum. Tympana vos buxusque vocant
Berecyntia matris Idaeae: sinite arma viris et cedite ferro. » pingue di
doni e mite l’altar di Palìco **. Posate le aste, tre volte rotando la
fune al suo capo, Mesenzio stesso lanciava la fionda stridente; e con il
piombo disciolto *. gli ruppe nel mezzo le tempie, e lo rovesciò lungo
disteso sul suolo. Dicon che allora, la prima volta scagliasse in
guerra il suo agile dardo Ascanio, già assuefatto a spaventare in
fuga le fiere, e di sua mano abbattesse il forte Numano, Rèmolo detto, che
aveva da poco sposata la sorella minore di Turno. Quegli, davanti a tutti,
vociferando a diritto e a rovescio, gonfio nel cuore della fresca real
parentela, andava avanzando borioso gridando: « E non vi vergognate, o Frigi
acchiappati due vol. te, di stare un’altra volta dentro ad un vallo
assediati, e di opporre alla morte le mura? Eccoli, quelli che chiedono
le nostre spose con l’armi! Qual Dio vi ha spinti in Italia o quale
vostra follia? Non sono qui gli Atridi, nè Ulisse spacciatore di
frottole. Dura razza fin dalla radice, i nostri figli tuffiamo appena nati nei
fiumi, e li induriamo al crudo gelo dell’onde. Fanciulli, si danno
alle cacce e stamcan le selve, ed è lor gioco domare cavalli e tender dall'arco
le frecce. Poi, pazienti al lavoro e paghi di poco, i giovani doman la
terra coi rastri, o scrollano in guerra le mura. Ogni età si consuma tra
il ferro, e con l’asta a rovescio pungiamo le terga dei buoi; nè la
vecchiaia, ancor tarda, indebolisce le forze dell’animo o ne muta il vigore;
premiamo con l’elmo i capelli canuti, e sempre ci giova portar via prede
novelle e vivere della rapina. Ma voi amate le vesti dipinte di
croco e di porpora splendida; vi piace badare alle danze, con tuniche adorne di
maniche e mitre guarnite di nastri. O veramente Frige, e non Frigi,
andate per l’alto del Dìndimo ?‘, dove solete ascoltare il canto del
flauto Talia iactantem dictis ac dira canentem non tulit Ascanius,
nervoque obversus equino intendit telum, diversaque bracchia ducens
constitit, ante lovem supplex per vota precatus: « Iuppiter omnipotens,
audacibus adnue coeptis, ipse tibi ad tua templa feram sollemnia
dona et statuam ante aras aurata fronte iuvencum, candentem,
pariterque caput cum matre ferentem, iam cornu petat et pedibus qui
spargat harenam. » Audiit et caeli genitor de parte serena intonuit
laevum, sonat una fatifer arcus. Effugit horrendum stridens adducta
sagitta perque caput Remuli venit et cava tempora ferro traicit. «
I, verbis virtutem illude superbis! bis capti Phryges haec Rutulis
responsa remittunt. Hoc tantum Ascanius. Teucri clamore sequuntur,
laetitiaque fremunt animosque ad sidera tollunt. Aetheria tum forte plaga
crinitus Apollo desuper Ausonias acies urbemque videbat, nube
sedens, atque his victorem affatur Iulum: Macte nova virtute, puer: sic itur ad
astra, Dis genite et geniture Deos. Iure omnia bella gente sub
Assaraci fato ventura resident: nec te Troia capit. » Simul haec effatus
ab alto aethere se mittit, spirantes dimovet auras, 645 Ascaniumque
petit. Forma tum vertitur oris antiquum in Buten. Hic Dardanio
Anchisae armiger ante fuit fidusque ad limina custos. Tum comitem
Ascanio pater addidit. Ibat Apollo omnia longaevo similis, vocemque
coloremque 650 et crines albos et saeva sonoribus arma; atque his
ardentem dictis adfatur Iulum: « Sit satis, Aenide, telis impune
Numanum a due canne. Vi chiamano i timpani del Berecinto e il flauto
di bosso della gran Madre idèa; lasciate agli uomini l’armi e rinunciate alla
guerra. Le vanterie e gli insulti non tollerò Ascanio, e mentr’egli
sbraitava, di fronte a lui incoccò sul nerbo equino °° una freccia, e con le
braccia aperte stiè fermo, prima levando a Giove, supplichevole, il voto: « O
Giove onnipotente, consenti all'audace mia impresa. Ed io solenni
doni ti recherò ai tuoi templi, ed agli altari un giovenco t'immolerò,
dalle corna dorate, candido, che porti il capo alto al par della madre, e
già cozzi e coi piedi sparga all’intorno l’arena ». L’udì il Padre, e
dalla plaga serena del cielo tuonò da sinistra: ed insieme risuonò il suo
arco fatale. OCrribilmente stridendo fuggì la scagliata saetta, e dentro
il capo di Rèmolo s’infisse e trapassò col ferro le concave tempia. « Va,
schernisci il valore con le parole superbe! I Frigi, due volte
acchiappati, questa risposta ai Rùtuli inviano ». Nè altro disse Ascanio;
ma i Teucri lo applaudon gridando, e fremon di letizia, ed alzano il
cuore alle stelle. Proprio allora, dall’alto del cielo Apollo crinito
stava mirando le schiere ausonie ed il campo, seduto sopra una nube; e a
Iulo vittorioso volgeva queste parole: « Bene, o valoroso fanciullo! Così
si ascende alle stelle, o progenie di numi che dovrai generare altri numi. Ben
tutte le guerre future, per volere dei fati, sotto la stirpe di
Assàraco dovranno aver fine: troppo poco è Troia per te. Ciò detto,
dall’alto dell’etere si getta, e fende le aure vitali, e viene ad
Ascanio, mutando l’aspetto del volto in quello di Bute, l’anziano. Questi
già era stato di Anchise dardanio scudiero e fido custode alle soglie. Poscia
il padre lo diede compagno ad Ascanio; ed Apollo veniva simile in
tutto a quel vecchio, la voce, il colore, i capelli canoppetisse tuis: primam
hanc tibi magnus Apollo concedit laudem et paribus non invidit
armis:cetera parce, puer, bello. » Sic orsus Apollo mortales medio
adspectus sermone reliquit, et procul in tenuem ex oculis evanuit
auram. Agnovere Deum proceres divinaque tela Dardanidae,
pharetramque fuga sensere sonantem.Ergo avidum pugnae dictis ac numine
Phoebi Ascanium prohibent: ipsi in certamina rursus succedunt
animasque in aperta pericula mittunt. It clamor totis per
propugnacula muris: intendunt acres arcus amentaque torquent.
665 Sternitur omne solum telis; tum scuta cavaeque dant
sonitum flictu galeae; pugna aspera surgit; quantus ab occasu veniens
pluvialibus Haedis . verberat imber humum: quam multa grandine
nimbi in vada praecipitant, cum Iuppiter horridus Austris torquet
aquosam hiemem et caelo cava nubila rumpit. Pandarus et Bitias, Idaeo
Alcanore creti, quos Iovis eduxit luco silvestris
Iaera abietibus iuvenes patriis et montibus aequos, portam,
quae ducis imperio commissa, recludunt, freti armis, ultroque invitant moenibus
hostem. Ipsi intus dextra ac laeva pro turribus adstant,
armati ferro et cristis capita alta corusci: quales aériae
liquentia flumina circum, sive Padi ripis Athesim seu propter
amoenum, consurgunt geminae quercus intonsaque caelo attollunt capita et
sublimi vertice nutant. Irrumpunt, aditus Rutuli ut videre
patentes. Continuo Quercens et pulcher Aquicolus armis et
praeceps animi Tmarus et Mavortius Haemon agminibus totis aut versi terga
dedere, didi e l’armi ferocemente sonanti: ed all’ardente Iulo si
volge con queste parole: « Ti basti, o figliuolo d’Enea, che sia caduto Numano
per il tuo colpo e senza tuo male; questa prima lode a te il grande
Apollo concede, e non t’invidia se tu lo eguagli nell’ arco; ma d’ora
in poi, o fanciullo, astieniti dal guerreggiare ». Così dicendo Apollo, a
mezzo il discorso lasciò l'aspetto mortale e lontano svanì dagli occhi
nell’aria leggera. Riconobbero il Dio gli anziani dei Dàrdani, e l’armi
divine, e sentiron sonare, mentr'egli fuggìa, la faretra. Onde ai
detti e al volere di Febo allontanavano. Ascanio, avido ancora di pugna;
ritornano essi a combattere, ed espongono nell’aperto periglio la vita.
S'alza da tutte le mura per tutte le torri un clamore: tendono gli archi
gagliardi e lanciano i giavellotti. Il suolo tutto si copre di strali; ai
colpi risuonan gli scudi e i concavi elmi; insorge dura la pugna. Così al
venir da ponente, sotto i Capretti piovosi °°, sferza la pioggia la
terra; così con la grandine precipitano i nembi sul mare, quando
orrido Giove con gli Austri turbina l’acque a diluvio, e nel cielo le
concave nubi dirompe. Pàndaro e Bizia, da Alcànore Idèo generati,
che nel bosco di Giove allevòo la silvestre Ièra *, giovani pari
agli abeti dei monti paterni, apron la porta, che il duce aveva a loro
affidata, fiduciosi nell’armi, e il nemico provocano a entrar nelle mura. Ed
essi là dentro, a destra e a sinistra, si rizzano a guisa di torri, di
ferro armati, e corruschi gli erti capi di creste; come aeree
lunghesso 1 fiumi correnti, sulle sponde del Po o presso l'Adige
ameno, sorgon due querce gemelle, e innalzano le chiome intonse nel cielo, con
le cime sublimi ondeggiando. Irrompono i Ruùtuli, poi che videro aperte
le porte; ma tosto Quercente e Aquìcolo bello nell’armi e Tmaro aut
ipso portae posuere in limine vitam. Tum magis increscunt animis discordibus irae: et iam collecti Troés
glomerantur eodem et conferre manum et procurrere longius audent. 690
Ductori Turno diversa in parte furenti turbantique viros perfertur
nuntius, hostem fervere caede nova et portas praebere patentes.
Deserit inceptum atque immani concitus ira Dardaniam ruit ad portam
fratresque superbos. Ét primum Antiphaten (is enim se primus agebat),
Thebana de matre nothum Sarpedonis alti, coniecto sternit iaculo: volat
Itala cornus aéra per tenerum, stomachoque infixa sub altum pectus
abit: reddit specus atri vulneris undam spumantem, et fixo ferrum in pulmone
tepescit. Tum Meropem atque Erymanta manu, tum sternit
[Aphidnum: ‘tum Bitiam ardentem oculis animisque
frementem, non iaculo (neque enim iaculo vitam ille dedisset). Sed
magnum stridens contorta phalarica venit,, 705 fulminis acta modo, quam
nec duo taurea terga nec duplici squama lorica fidelis et auro
sustinuit. Collapsa ruunt immania membra. Dat tellus gemitum, et clipeum
super intonat ingens. Talis in Euboico Baiarum litore quondam 710
saxea pila cadit, magnis quam molibus ante constructam ponto iaciunt; sic
illa ruinam prona trahit penitusque vadis illisa recumbit; miscent
se maria et nigrae attolluntur harenae; tum sonitu Prochyta alta tremit,
durumque cubile 715 Inarime Iovis imperiis imposta Typhoeo. Hic Mars
armipotens animum viresque Latinis addidit et stimulos acres sub pectore
vertit l’impetuoso ed il marziale Emone, con tutte le schiere, o volser
fuggendo le spalle, o sulla soglia stessa della porta lasciaron la vita.
Allora crescon vie più nei cuori discordi le ire; e già ammassati i
Troiani si stringon colà, ed osan venire alle mani e avanzarsi fuori
più lungi. Al duce Turno, che in altra parte infuriava e
sgominava i guerrieri, giunge la nuova: il nemico arde di strage novella,
e aperte si offron le porte. Lascia l’impresa e spinto dall’ira tremenda,
contro la porta dardania si scaglia e i fratelli superbi. E per il primo
Antifate (poichè avanzava pel primo) di madre tebana bastardo di Sarpèdone
alto, colpisce ed abbatte col dardo: vola il corniolo italico *' per
l’aria leggera, e piantatosi in gola scende nel fondo del petto; sgorga
dalla caverna della negra ferita un'onda spumante, e nel polmone trafitto
intiepidisce il ferro. Poi Mèrope ed FErimante abbatte, poi Afidno, poi
Bizia che Iampeggiava con gli occhi e con il cuore fremeva; ma non con un
dardo, chè quegli con un dardo non dava la vita! Ma fortemente stridendo
una falàrica venne, lanciata a guisa di
un fulmine, cui le due pelli taurine non ressero, nè la fedele corazza di
doppia squama dorata. Le membra immani stramazzano; la terra ne geme, e di
sopra lo ecudo immenso rintuona. Tale nel lido euboico di Baia . cade
talora un blocco di macigni che costruiscon prima con grandi massi e poi
gettan nel mare; così esso rovina all’ingiù, e scagliato nel più profondo
si arresta: ma ribollon le onde e negre si sollevan le arene, e a
quel fragore l’alta Pròcida trema, ed Ischia, che per comando di Giove,
fu posta, duro letto, sopra Tifèo. Qui Marte signore dell’armi coraggio e
forza ai Latini crebbe ed acuti gli sproni rivolse loro nel cuore, e immisitque
Fugam Teucris atrumque Timorem. Undique conveniunt, quoniam data copia
pugnae, bellatorque animo Deus incidit. Pandarus ut fuso
germanum corpore cernit, et quo sit fortuna loco, qui casus agat
res, portam vi magna converso cardine torquet, obnixus latis
umeris; multosque suorum moenibus exclusos duro in certamine linquit;
ast alios secum includit, recipitque ruentes, demens, qui Rutulum in
medio non agmine regem viderit irrumpentem, ultroque incluserit
urbi, immanem veluti pecora inter inertia tigrim. Continuo nova lux
oculis effulsit, et arma horrendum sonuere: tremunt in vertice
cristae sanguineae, clipeoque micantia fulmina mittit. Agnoscunt
faciem invisam atque immania membra turbati subito Aeneadae. Tum Pandarus
ingens emicat, et mortis fraternae fervidus ira effatur: «
Non haec dotalis regia Amatae, nec muris cohibet patriis media
Ardea Turnum: castra inimica vides; nulla hinc exire potestas. »
Olli subridens sedato pectore Turnus: « Incipe, si qua animo
virtus, et consere dextram: hic etiam inventum Priamo narrabis Achillem.
Dixerat. Ille rudem nodis et cortice crudo intorquet summis
adnixus viribus hastam. Excepere aurae: vulnus Saturnia luno
detorsit veniens, portaeque infigitur hasta. At non hoc telum, mea
quod vi dextera versat, effugies: neque enim is teli nec vulneris auctor.
» Sic ait, et sublatum alte consurgit in ensem, et mediam
ferro gemina inter tempora frontem dividit impubesque immani vulnere
malas. contro
i Teucri lanciò la Fuga ed il cupo Terrore. Accorrono da ogni parte quelli,
poichè si combatte da presso, ed il guerriero Iddio entrato è a loro nel
cuore. Pandaro, come vede a terra disteso il fratello, e che la
fortuna è per gli altri ed è contrario l'evento, a gran forza, puntando
l’ampie spalle, la porta spinge sui cardini e serra; e molti dei suoi lascia
fuor delle mura in aspra battaglia; ma altri riesce a chiuder con sè e
li accoglie che precipitavano dentro. Folle, che il rùtulo ‘re non
vide, che in mezzo alla schiera dentro irrompeva, ed anzi lo serrava nel
campo, come, tra un gregge imbelle, feroce una tigre; di sùbito, gli sfavillo
dagli occhi una luce novella, e le armi orribilmente suonarono: si
squassan sull’'elmo le creste sanguigne, ed agitando lo scudo vibra
bagliori di lampi. Riconoscon la faccia odiosa e le membra giganti, di subito
_sgomenti gli Enèadi. Allora gli sbalza davanti Pàndaro immenso, e
fremendo d’ira pel morto fratello, grida: « Non è questa la reggia
dotale di Amata, nè qui è Ardea, che Turno rinchiuda fra le mura paterne.
Campo nemico è questo che vedi; ed uscir non potrai ». A lui sorridendo
Turno con cuore pacato: « Orsù, se hai coraggio, combatti con me:
racconterai a Priamo che anche qui s’è trovato un Achille ». Sì disse; e
quegli, con ogni sua forza poggiando, aspro di nodi e di ruvida scorza un
giavellotto lanciò. Ma colpì l’aria, chè la saturnia Giunone deviò il
colpo mortale, e l’asta contro la porta s’infisse. « Ma non tu
questa spada, che ruota la mia destra a gran forza, sfuggirai: chè di un altro
è l’arma ed è la ferita ». Così disse, e si alzò con tutta la spada levata; e
con il ferro la fronte gli spaccò in mezzo alle tempie, e, con
orrenda ferita, ancora imberbi le guance. Fu un fragore, e la terra
fu scossa al cader del gran peso; stende egli a VirciLio - Eneide - Vol.
Fit sonus, ingenti concussa est pondere tellus: collapsos artus
atque arma cruenta cerebro sternit humi moriens, atque illi
partibus aequis. huc caput atque illuc umero ex utroque pependit.
Diffugiunt versi trepida formidine Troés; et si continuo victorem
ea cura subisset, rumpere claustra manu sociosque immittere
portis, ultimus ille dies bello gentique fuisset. Sed
furor ardentem caedisque insana cupido egit in adversos. Principio
Phalerim et succiso poplite Gygen excipit: hinc raptas fugientibus
ingerit hastas in tergum. Iuno vires animumque ministrat;
addit Halym comitem et confixa Phegea parma, 765 ignaros
deinde in muris Martemque cientes Alcandrumque Haliumque Noémonaque
Prytanimque. Lyncea tendentem contra sociosque vocantem
© vibranti gladio conixus ab aggere dexter occupat: huic uno
deiectum comminus ictu cum galea longe iacuit caput. Inde ferarum vastatorem
Amycum, quo non felicior alter ungere tela manu ferrumque armare
veneno, et Clytium Aeoliden, et amicum Crethea Musis,
Crethea Musarum comitem, cui carmina semper et citharae cordi numerosque
intendere nervis: semper equos atque arma virum pugnasque
canebat. Tandem ductores, audita caede suorum, conveniunt
Teucri, Mnestheus acerque Serestus, palantesque vident socios
hostemque receptum. Et Mnestheus: « Quo deinde fugam, quo tenditis?
inquit. Quos alios muros, quae iam ultra moenia habetis?
Unus homo et vestris, o cives, undique saeptus aggeribus,
tantas strages impune per urbem terra morendo le membra prostrate e le
armi sozze di sangue e di cèrebro; e da ambedue le spalle gli penzola un
capo e di qua e di là. Fuggon respinti da pauroso terrore i Troiani; e se il
vincitore pensava, in quel momento, a spezzare i cancelli e a far entrar
per la porta i compagni, l’ultimo giorno era quello della guerra e del
popol troiano. Ma il suo furore e un folle desiderio di strage lo scagliò
impetuoso in mezzo ai nemici. Prima egli affronta Fàlari, e a Gige recide
il garretto; poi toglie loro le aste e le lancia alle spalle ai
fuggenti. Forze e coraggio gli somministra Giunone. Hali dà lor per
compagno, e, trafittogli lo scudo, Fegeo; poi, mentre ignari sulle mura
incitavano a guerra, Alcandro, ed Alio, e Noèmone, e Prìtani. Lìnceo, che
gli veniva incontro e chiamava i compagni, egli previene, rotando la
epada, dallo steccato a destra: e d’un sol colpo da presso, il capo
troncato si giacque insieme con l’elmo lontano. Poi, Amico, il
distruttore di fiere, di cui altri non era più esperto ad unger gli
strali e avvelenare le armi; poi, Clizio l’eòlide, e amico alle Muse
Creteo, Creteo alle Muse compagno, che sempre i carmi e le cetre ebbe
a cuore, e l’armonia delle corde: sempre i corsieri e le armi e le pugne
eroiche cantava. Alfine i Teucri duci, udita la strage dei loro,
accorrono, Mnèsteo ed il padre Seresto, e vedono rotti i compagni, e, fra le
mura, il nemico. E Mnèsteo: «E poi, dove fuggite? dove andare volete? —
diceva. — E che altre mura, che altra città vi rimane? Un uomo solo,
e d’ogni parte rinchiuso dai vostri steccati, potrà, o cittadini, di
stragi riempir la città, impunemente? Tanti fra i primi guerrieri manderà
giù nell’Orco? Non della misera patria e degli antichi Iddii, e del
magnanimo Enea, codardi, vi tocca misericordia o vergogna? » Ac ediderit?
iuvenum primos tot miserit Orco? Non infelicis patriae veterumque
Deorum et magni Aeneae, segnes, miseretque pudetque? » Talibus
accensi firmantur et agmine denso consistunt. Turnus paulatim
excedere pugna “et fluvium petere ac partem, quae cingitur unda:
790 acrius hoc Teucri clamore incumbere magno et glomerare
manum, ceu saevum turba leonem cum telis premit infensis, at territus
ille asper, acerba tuens, retro redit, et neque terga
ora dare aut virtus patitur, nec tendere contra, ille quidem, hoc
cupiens, potis est per tela virosque: haud aliter retro dubius vestigia
Turnus improperata refert, et mens exaestuat ira. Quin
etiam bis tum medios invaserat hostes, bis confusa fuga per muros
agmina vertit; 800 sed manus e castris propere coit omnis in unum:
nec contra vires audet Saturnia luno sufficere, aériam caelo
nam luppiter Irim demisit, germanae haud mollia iussa ferentem, ni
Turnus cedat Teucrorum moenibus altis. Ergo nec clipeo
iuvenis subsistere tantum, nec dextra valet; iniectis sic undique
telis obruitur. Strepit adsiduo cava tempora circum
tinnitu galea, et saxis solida aera fatiscunt, discussaeque iubae
capiti, nec sufficit umbo ictibus; ingeminant hastis et Troès et ipse
fulmineus Mnestheus. Tum toto corpore sudor liquitur et piceum
(nec respirare potestas) flumen agit: fessos quatit acer ànhelitus
artus. Tum demum praeceps saltu sese omnibus armis in
fluvium dedit. Ille suo cum gurgite flavo accepit venientem ac
mollibus extulit undis et laetum sociis abluta caede remisit. cesi da
tali parole, riprendono cuore, e in ischiera serrata lo affrontano: e Turno a
passo a passo si ritrae dalla battaglia, volgendo verso il fiume e la parte che
n’era ricinta; e però più accaniti i Troiani lo incalzan con grande
clamore, addensando le schiere. E come quando un feroce leone stringon da
presso con l’armi ostili i cacciatori, e quello, fiero, e torvo lo sguardo,
retrocede, ma nè l’ira o il valore non gli lascian voltare le spalle;
ma neppure potrebbe, benchè desioso, lanciarsi in mezzo alle armi e
alla turba: non altrimenti Turno, dubbioso, lentamente si arretra, e il
cuore per l’ira gli bolle. Anzi, due volte si era gettato in mezzo ai
nemici, due volte volse in fuga per le mura le schiere sconvolte; ma
tutto rapidamente si accoglie dal campo l’esercito contro lui solo,
nè altre forze formirgli osa la Saturnia Giunone, giacchè aerea dal cielo
Giove Iride inviava, con suoi bruschi comandi alla sorella **, se Turno
non lasciasse le mura alte dei Teucri. Dunque non può il giovane
con lo scudo o con la mano resistere ancora: son troppi i dardi che
d’ogni parte gli piovono giù. Senza riposo tinnisce intorno alle concave
tempie l’elmo, ed il solido bronzo s’incrina alle pietre, e le creste si
rovescian dal capo, e ai colpi non basta lo scudo; raddoppian l’assalto i
Troiani con l’aste, e primo, fulmineo, Mnèsteo. Da tutto il corpo il
sudore allora gli gronda, e gli cola — omai il respiro gli manca — in un
fiume color della pece. E finalmente allora, a precipizio, di un salto,
con tutte le armi, nel fiume si lanciò; e quello, con la sua bionda
corrente l’accolse, e lo tenne sopra le onde tranquille, e, della strage
asterso, lieto ai compagni lo rese. Angelo Conti. Keywords: VIRGILIANA, decadente,
decadenza, divina decadenza, filosofia decadente, filosofo decadente,
decadentismo, divinely decadent – d’annunzio, museo d’annunziano, il bello e il
bizzarro, il bello bizzarro, estetica, sensatio, senso, sensum, sentior,
sentitum, perceived, perceptum – sense and sensibilia, estetico/noetico (nihil
est in intellectu qui prior non fuerit in sensu), propieta estetica, proprieta
di secondo grado, secondary quality, Grice, Sibley, Scruton, Platone, Kant,
Schopenhauer, Ruskin, Pater, Antichita, antico e moderno, il fascino dell’antico,
from the antique, from life, Uffizi, Accademia Venezia, RegieAccademiadiVenezia,
Capodemonti, Napoli, Antichita Roma, il fiume d’Eraclito, Ulisse e il canto
delle sirene, Morelli, Francesco, Virgilio, dolcissimo padre, ascetismo,
ascecis, zorzi, riva beata, Pater, Essay on Style by Pater, Da Vinci, Morelli,
la nudita eroica d’Enea – Luigi Ratini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti”
– The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Conti: la ragione
conversazionale e l’implicatura converseazionale del dialogo filosofico – scuola
di Padova – filosofia padovana – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Padova). Filosofo padovano. Filosofo
veneto. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Grice: “Conti is a good one; for one
he is a ‘patrizio veneziano,’ for another he like Alexander Pope and detests
Newton! (Italian temper there!) – My favourite are his “Dialoghi filosofici,’
full of implicata as they are!” Patrizio
veneto, classicista, famoso per essere stato arbitro nella controversia tra
Leibniz e Newton, circa l'invenzione del calcolo infinitesimale (keyword:
infinito). Si lege in amicizia con Fay,
noto per gli esperimenti fisici che conduce all'Accademia delle Scienze. Di lui
esiste una statua in Prato della Valle, fatta da Chiereghin. Scrive saggi riguardanti
la struttura della tragedia, e nel “Trattato del fantasma poetico” discute la
funzione del coro: monologo, dialogo, coro (terza persona?). Tra le sue
tragedie, la più significativa fu il “Giulio Cesare”. Ne scrive altre tre,
tutte di soggetto romano: “Marco Bruto”, “Giunio Bruto”, e “Druso”. Altre
opere: “Opere” (Venezia, presso Giambatista Pasquali); “Versioni poetiche”
(Bari, Laterza). Dizionario biografico degli italiani. Della nascita del C. sono
r’ſuoi veri pu dj. Principio de’ suoi studi scritto da lui stero. Disputa col
Nigrisoli e altre particolarità de’ suoi studi sono al primo viaggio di
Francia. Primo viaggio in Francia. Primo viaggio in Inghilterra e prime
conversazioni col Newtono. Mediazione tra il Newtono e il Leibnizio Studi e
altre occupazioni di Conti a Londra. Suoi sudj di belle lettere. Viaggio
d'Ollanda e d'Allemagna. Nuova dimora in Inghilterra. Ritorno in Francia e ſuoi
pudi. Amicizie. e converſazioni in queſti anni in Francia. Querela col Newtono.
Suo ritorno in Italia. Edizione del Cesare. Studi e commerzi. Edizione delle
ſue Prose e Poesie. Sue Tragedie. Illustrazione del Parmenide di Velia di
Platone; fima e onori di C.. Traduzioni. Altri suoi fudi. Progetti di nuove
opere. Ultimi ſtudi. Edizione del Druso; ſua morte. Rifleli Jul carattere di C.,
e notizie particolari della sua vita private. Relazione de’ Manoscritti
lasciati da C. Dell' Imitazione. Del Fantasma Poetico. La Poesia Greca.
Allegoria dell'Eneide di Virgilio. Illuſtrazione dello Scudo di Enea.
Illustrazione del Poema di Catullo intitolato le Nozze di Teride e di Peleo.
Dissertazione sopra la Tebaide di Stazio. Discorso ſopra la Italiana Poesia.
Illustrazione del Dialogo di Fracastoro intitolato il Na. wagero, o fia della
Poesia. Disertazione sopra la Ragion Poetica del Gravina. Della Potenza
conoscitiva dell'Anima. Della Fantasia. Poesie Tradotte dall' Inglese. Al Sig.
Marcheſe Manfredo Repeta sopra il Poema del Riccio Rapito. Il Riccio Rapito.
Prose Franceſe Italiane a Monſieur Perel. Dialogue ſur la Nature de l' Amour.
Lettre à Madame la Preſidente Ferrant. Lettera al Sig. Cavalier Vallisnieri. Al
sig. Marcheſe Maffei. Al N. U. Sig. Benedetto Marcello. Al P. D. Bernardo
Piſenti C. R. Somaſco.A Monſignor Cerarti. L’allegoria dell’Eneide di Virgilio
propone una cosa per farne intender un'altra, che ſeco è in proporzione, se l’
“Eneide” per consenso di tutti i più abili commentatori é un panegirico *allegorico*
d'Augusto, convien necessariamente che la cosa proposta sieno l’azione d’Enea (l’explicatura),
e la cosa che deve intendersi ed è loro proporzionata, l’azione d'Augusto
(implicatura) più memorabile e più degna di lode. Per çiò con una ſuccinca
narrazione pone prima sotto gli occhi l’azione d'Enea, che e il primo termine
(l’explicatura) su cui l’allegoria o metafora o implicatura (& fonda, o
come l'originale del ritratto; indi fa il confronto dell’azione di Augusto.
Nell'istoria d'Enea, basta quloſſervare l’oggetto dell’epica, e il carattere
stoico dell'eroe. L'oggetto tutto tende alla nuova colonia di Roma o al
Principato ch'Enea (via Ascanio e Romolo e Remo) ha da fondare nel Lazio e
Italia. Questo gli predisse Creusa, Febo, i Penati; questo le Arpie, Eleno e la
Sibilla; e perchè fi compisca l’oracolo della predeterminazione e del fatalismo
stoico, Enea li salva dagl in incendi e dalla strage di Troja. Ettore lo
dichiara Pontefice. I compagni lo eleggono Re. Avvisato o protetto schiva i
tradimenti, gli scogli, i ciclopi; non è sommerso nelle tempeste, non
trattenuto dall’africana Didone più pericolosa delle stesse tempeste.
Finalmente arrivato in nel Lazio trova il re latino dispoſto a riceverlo per
genero, Evandro e i toscani pronti a dargli soccorso; sebben abbia a fronte Torno,
un nimico feroce e collegato coi vicini, lo vince e l'uccide. Gli oracoli fatalisti
predeterminati stoichi dunque, i viaggi, e le guerre d’Enea non riguardano se
non lo stabilimento d'un regno o principato. Il carattere poi d’Enea o
dell'eroe si vede in tutta l'Eneide composto della *virtù* stoica convenevoli al
capo e fondatore d'un regno. La virtu e pietà verso l’uomo e verso Diuspater,
senno nel provvedere a’pericoli e prevederli, valore da soldato e da capitano.
La pietà (o compasione) verso l’uomo e la carità – l’imperativo della carita
conversazionale, verso Diuspater religione. Della carita o benevelonza o
compasione, o compieta verso l’uomo Enea dà esempi illustri per tutto. Salva il
padre Anchise dalle fiamme portandolo sulle spalle dirige sempre il viaggio secondo
i di lui consigli, celebra il suo anniversario co'giochi conſiderati da’ pagani
come una parte della eeligione, e per ubbidirlo discende fino all’inferno!
Quanto è tenero per il figliuolo Ascanio, e sollecito e della salute e de gli
avanzamenti di lui! E quando Creusa sua moglie si smarrisce, non va egli a ricercarla
tra gl'incendi e le stragi? Che dirò della sua pietà, carita, compassione,
compieta, benevolenza, verso il suo compagno (o d’EURIALO verso NISO), verso
l’amico, e verso Torno, il nemico stesso? Nella tempesta più s’affligge della
loro perdita che della propria, gli consola e gl’incoraggisce negli affanni, li
provvede di cibo, li divertisce e premia co’giochi, fa l’esequie a Polidoro suo
parente, a Miseno suo trombettiere, a Gaeta sua nutrice; piange la morte di Palinuro
e più quella di Pallante (Patroclo), e ne manda il cadavere ad Evandro con
magnificenza e con lutto degno di un re. Avendo ferito a morte Lauro che l’assalì,
gli itende la destra, lo solleva, e lascia che a Mesenzio se ne porsi il corpo.
Vuol perdonare a Turno, e non l’uccide *che* per vendicar suo amante Pallante;
ciò ch'era un atto di carita. Verso Diuspater sempre fervida e pronta è la sua
pietà. Come stoico perfetto e negatore del libre arbitrio, nulla intraprende
senza consultare l’oracolo, e non comincia alcun’azione senza offrir un voto,
una preghiera e sacri fizj, ch’egli offre egualmente al Diuspater propizio, che
alle Diuspater nonpropizio o Giunone e Pallade. Per ubbidir Diuspater supera la
passione che la strega Didone invoca, cede rispettoso alla sua collera
nell'incendio di Troia; conosce Apollo per principal protettore; ascolta
attento i cantici d'Ercole, e invoca Berecintia che l'allista nella nuova
guerra. Alla sua pietà corrisponde il suo senno. Tosto ch'entra in un paese
vuol conoscere i liti, i luoghi, e la gente che l'azbita; così fa in Affrica, e
nel regno d'Evandro, e scoperto l'assaſlinio di Polinestore fugge il pericolo
di cadervi: fa metter in aguato i soldati per lorprender l'Arpie; egli steſſo
dirige la nave che manca di piloto; manda ambasciatori al re del Lazio; cerca
soccorso nella guerra; ricevuto lo distribuisce in due corpi per più
imbarazzare il nemico ciò ch'è una parte della virtu o prudenza militare, non
meno che assediar la città mentre il nemico è sospeso. Questo o quello segno (manifestazione
secondo Vitters) del valore poi non dà nell'attaccare i nimici, nel farne
stragi di sua mano? uccide i più forti e tra gli altri Lauso, Mesenzio, lo
stesso Turno. Più comparisce il valore d'Enea, se col P. Boſsù fi confronti con
quello di Turno, antagonista, avversario, dell’epica, ardente, milantatore,
prepotente e buono sol per la guerra che vuole giusta od ingiusta, ed in questa
è incauto e senza direzione. Enea all'opposto grave – la gravita romana --, misurato
e non peccatore o essecivo, parla poco, laconico, opera molto, sempre consigliato
e forte colla gloria del consiglio e dell'esecuzione. Di questo o quello segno
della virtu -- pietà, senno, e valore, c’e un intreccio mirabile, sicche
comparisce Enea saggio e paziente capitano come Agamennone, valoroo vincitor
del nimico come Achille, destro a maneggiar lo spirito ed a condur una
negoziazione o consenso cooperative conversazionale come Nestore e Ulise:
giugne a questa virtù una pietà sincera, una probità esatta che mai non ſi
ſmente, una compassion tenera per il suo amico e il suo suddito. Enea è buon
figlio, buon padre, buon amico, buon amante, e tutto ciò per motivi superiori
di dovere e di ragione morale kantiana alla luce del stoicismo fatalism del
predeterminismo. Sopra tutto pero domina la specie della virtù più convenevole
d’ogni altra specie al fondatore della dinastia di Romolo, perchè per essa si
merita la protezione di Deuspater, si rende l’amico o il popolo che deve
ubbidire, l’alleato, ed il vicino con cui si deve patteggiare e con-federarsi
in cooperazione conversazionale verso un fine comune. Vi sarebbero il carattere
degli altri personaggi e dei dell'epica, ma essendo scritti di mano dell’autore
sono come non scritti. Anche la seconda parte che riguarda le azione del primo
imperatore romano, Ottavio detto l’augusto è molto imperfetta; eccone qualche
confronto. Nella rovina di Troja li ravvisano la rovina della Roma repubblicana
di Cesare ed Catone. Da questa rovina, Ottavio, come Enea era stato preservato
dalla provvità, 1 videnza del fato, come dice Orazio nel Carmie Secolare. Enea
porta in ispalla suo padre Anchiee; Ottavio prende la vendetta del suo padre addotivo
Cesare. Enea e in Troja maricato a Creusa da cui ha Julo; Ottavio e maricato a
Scribonia da cui ha Giulia. Ma Creusa per ordine de’ Fati è colia ad Enea, come
Scribonia ad Ottavio; e nel dir che ad Enea si apparecchia moglie, da cui
doveano discendere tanci Re, adula cacitamente Livia. Didone che s’oppone al
disegno (de-segno – plannificazione) d’Enea magnifica e vana dell'impero ha del
carattere superbo, impecuo lo, ed astuto di questa altra Africana, Cleopatra,
che impiegò cutre l'arti femmini li per impegnar Ottavio. Ma v'è un tratto
finissimo di lode nella comparazione che poteano i romani fare d’Enea e
ďOttavio, perchè laddove Enea cesse alle lusinghe di Didone, e dopo averla
posseduta l’abbandona scorteſemente in preda alla disperazione, biasmo da cui
poco lo scusanu gli ordini degli Dei; quanto più dovea stimarli Ottavio che mai
non si lasciò vincere dalle tante arti di Cleopatra? In Evandro, che accoglie
Enea, si puo ravvisar Cicerone, che col suo credito e colla sua eloquenza reſe
tanti servigj a Ottavio. L’epica, però per non rimproverargli la disgrazia di
Cicerone, fa che non Evandro ma il figliuolo di lui resti ucciso da Turno, nel
quale *senza dubbio* vien “simboleggiato” Marc’Antonio, valoroso bensì, ma imprudente,
e che le in molte cose mostra fortezza d’animo chiaro ed eccellente, in molte
altre, come Turno, li governa malissimo, e da quello o questo segno non meno di
magnanimità che di pulsanimità. Nulla dimostra più la finezza cortigianesca di
Orazio e di Virgilio come il loro non nominar mai Cicerone. S'astennero dal
risvegliar in Ottavio un'idea che gli dava de’ rimorsi. All'incontro nominarono
Giunio Bruto e Catone, per mostrare che Ottavio non ha usurpata la libertà, ma
che anzi ne era il protettore, l’imperatore, come negli ultimi tempi lo volea
Cromuvelo (Lord Protector) in Inghilterra. Antonio stesso molto si risparmia,
esi può osservare in Orazio che mai non si parla d’Antonio senza congiungerlo a
l’africana Cleopatra per far cadere in lei l’odio e la colpa; e cosi fa
Virgilio fagacemente nella battaglia d’Azio, quando parla d’Antonio palesemente,
e quando ne parla per allegoria, supprime quell vizio che avrebbero dispiaciuto
ai suoi partigiani ch’erano molti, ed a’figliuoli elevati da Ottavio a sommi
onori. Queſta è pur la ragione prammatica, per la qual Virgilio non dipinta le
guerre che fece Ottavio con Bruto, Callio e cogli altri, che per modo di
peregrinazioni, onde non offender quei ch’erano ancora del partito di questi
ultimi difensori della pubblica libertà. Il re del Lazio, Latino, che ammonito
dall’oracolo vuol dar la figliuola più ad Enea, che a Turno, è il vero ritratto
del senato romano, che vecchio (senior, senatore) ed impotente non potendo più
regolar la repubblica, benchè per ispirazione divina egl’inchini più a
lasciarsi governare d’Ottavio che da Marc’Antonio, atterrito nondimeno dagli
apparecchi di guerra, lascia disputar la vittoria a’ due rivali, come appunto il
re Latino fuggendo lascia terminar la guerra a Turno ed Enea. In Mesenzio ed in
Lauso si veggono Cassio e Giunio Bruto, e l'empietà data a Mezenzio e la virtù
data a Lauso lo persuadono. Muore Laulo ed Enea lo compiagne, come Ottavio
compianse Bruto, al dir di Plutarco. Quando Lauro combatceva, era Mesenzio con
la persona appresso di un tronco per posarvi appoggiato, e gli stava intorno un
cerchio de’ più eletti e de’ più fidi; e quando vide Lauso ucciso, comincia a disperarsi,
e a lagnarsi, e andar incontro alla morte. Queſta deſcrizione concorda molto
con quella che fa Plutarco di Cassio, allora che ritirato sul colle stava
rimirando l’esercito di Bruto, e credendo ch’egli fosse rotto, disperato si
confiſſe nel le reni la spade. Non occorre cercare rassomiglianza perfetta tra
questo o quello accidente vero e questo o quello accidente finto. Baſta che uno
si ravvif nell'altro. I ritratti della Poesia, e particolarmente epica, sono
“simili” a quelli che i gran pittori introducono ne’ quadri istoriati; negli
Dei, negli eroi, ne’ capitani ritengono le fattezze del volto de viventi che
vogliono onorare ma variano le attitudini, o le velti per variare le imagini, e
produr nello spettatore maggior maraviglia ed affetti più vivi. Con questa
regola si pollono ritrovare molti altri confronti nelle cose dell'Eneide colla
vita d’Ottavio. Nè par probabile che tanta corriſpondenza sia effetto del caso,
attesa spezialmente la sagacità del poeta, e l'idea generale dell'opera. Parte
di questa corriſpondenza fa vedere nello scudo d' Enea la seguente
illuſtrazione, che si dà intera. Come nell'Iliade d'Omero Teti porge ad Achille
uno scudo fabbricato da Vulcano così nell'Eneide di Virgilio Venere porge ad
Enea uno scudo fabbricato dallo stesso Dio. Quì non s'intraprende d'illuſtrare
ſe non ciò che appartie. ne allo Scudo d'Enea, oſſervando prima generalmente,
qual ne foſſe la materia, la faldezza, la figura, l'intreccio e i colori, ed
indi particolarmente l' ordine e' i fiti delle coſe ſcolpite, le loro ſtorie,
cd allegorie. I'Ciclopi impiegarono nell'armatura d'Enea il rame, l'ac ciajo,
l'oro, e l'argento, ma fecero che ivi abbondante più dell'uno o dell'altro
metallo ove era biſogno di maggior die feſa, o di più raro ornamento. L'Elmo
che dovea abbagliando minacciare i nimici, riſplen dea per la terſezza
dell'acciajo, non altrimenti che ſe fiam. me ſpargeſſe. La Lorica era ſcabra
per i rilievi del rame e del bronzo, che quanto più maſſicci'ſi fingono, ed
incurva ii, tanto più le faette e le ſpade ſpuntavano. Ben è vero che per la
miſtura degli altri metalli, i colori della Lorica ſi mi ſchiavano con quei del
bronzo e dell'oro, ond'ella riſplende va come un Iride in faccia al Sole.
Nell'aſta e nelle ſchinie re abbondava particolarmente l'elettro che è un
compofto d ' oro e ' una quinta parte d'argento, ma purgato più volte
da'Ciclopi; l'oro nel foco avea ſvaporato l'argento, onde la compoſizione
riuſciva più prezioſa, più denſa, ed impene. trabile. Nello Scudov'erano tutti
e quattro i metalli tra loro op portunamente fuſi e temperati. I Ciclopi ne
aveano appiana ta la maſſa in ſette piaſtre rotonde, che a guiſa dei ſette cuoi
attorti dello Scudo d' Ajace implicarono l'une nell'altre, perchè lo Scudo
refifteffe a tutte l'armi de' Latini. Miſterioſo era il numero di ſetre
appreſſo gli Antichi per la relazione ch'egli avea al numero de Pianeti. Forſe
credea no, che gli aſpetti di cucci e ſette influendo nella fabbrica d' uno
Scudo gli deffero una tempra immortale. La figura dello Scudo d'Enea era ovale,
nè a cid forſe an cora mancava il ſuo miſtero. Gli Scudi ancili chc fi fingea.
no 177 no caduti dal Cielo a tempi di Numa, aveano la ſteſſa figura, Or lo
Scudo d' Enea non era men celeſte di loro; ed Enea, che doveva portarlo, non ſi
fuppone men pio di Numa. I Ciclopi nel fabbricar lo Scudo avendo poſta in opera
per comando di Vulcano tutta la loro arte maeſtra, collocarono, intrecciarono,
limetrizzarono, e colorirono le figure ſcolpite in maniera, che lo Scudo
emulava la reflicura di un arazzo. Nè queſta a mio credere è un'Iperbole
poetica, ma un'imi tazione di quell'idee che Virgilio, avea vedute ne'baſi
rilievi di Roma, ove ſoggiornava, ed in quelli delle Città della Gre cia, ove
per profittarlı dello ſtudio delle bell'arti avea viag giato. A Roma nelle
Biblioteche e ne' Tempj ſtavano appeli certi Scudi tutti ſtoriati, e tra gli
altri Plinio racconta, che nel Tempio di Bellona Appio Claudio confacrò uno
Scudo, ove in picciole figure era rappreſentata tutta la Genealogia dell'antica
famiglia de' Claud). Nel conveſſo dello Scudo di Minerva avea Fidia ſcolpita la
battaglia delle Amazoni, e nel concavo la guerra degli Dei e de'Giganti.
Offerva Plinio, che Fidia, volendo moſtrar l'arte nelle minimeparti, avea
elpela ſo ne' Sandali della Dea la battaglia de' Lapiti e de'Centauri, e nella
baſe della ſtatua la naſcita di Pandora con quella di trenia Dei. Ne'baſſi
rilievi delle lamine che cingevano la ſe dia della fatura di Giove Olimpico, lo
ſteſſo Fidia in oro ſcol pito avea, da una parte il sole che conduceva il
cocchio, e dall'altra Giove e Giunone; a lato di Giove v'era una delle Grazie,
indi Mercurio e Veſta., Venere pareva, uſcir dal ma re, l'Amore l'accoglieva, e
la Dea Pito la coronava. Nello ſteſſo baſſo rilievo li vedeva Apollo e Diana,
Minerva ed Er; cole, e nel piedeſtallo da un canto Anfitrite e Nettuno, e
dall'altro la Luna, che galoppaya ſopra un cavallo. Qual mol ticudine, qual
varietà ed intreccio di figure in poco ſpazio? Or è molto verifimile, che come
lo Scudo d'Achille diede a Virgilio la prima idea dello Scudo d'Enea, così į
baſli rilie vi da lui yeduti a Roma in Atene e in Olimpia gl'inſegnal ſero a
perfezionarlo. Nella deſcrizione delle figure ben fi ſcor ge che l'artifizio
dell'imitazione, non deriva dagli alerui fan tasmi, ma da
un'acurata oſſervazione del ſenſo, che regold la fantaſia del Poeta fino ·
lo ſpingo oltre la conghiettura, e pretendo che alle figu. se veduce da
Virgilio ſcolpite o nell’avorio, o nell'oro, od in altro metallo negli vi
applicalle la forza e la leggiadrią Tomo II. 2 de' 3 178 ra 1 1 de colori da
lui veduti nelle pitcure encauſtiche: Plioio ne annovera di tre fpezie, e non
ſaprei fuggerirne una miglior idea che raſſomigliandole alle picture che
vediamo, non dirò fulle porcellane di troppo fragil materia a confronto del me
tallo, ma su fmali di più dura tempra, e su vaſi e ſulle cop pe antiche, ove la
varietà del colore riſultò dal vario grado del foco, che lor fu dato nel
fondere e nel tingere il metal lo. Difficile è proporzionare il grado del foco
ad ogni colo re, ma difficiliſſimo ove i colori lieno per conſiſtenza e viva
cità differenti, e ſi debba nello ſteſſo tempo abbrugiandoli laſciarli ſecondo
il biſogno o floridi, od auſteri, ed a tutti imprimere quello fplendore che
ſecondo Plinio non è lo ſtef To che il lume, ma di'mezzo tra il lume e l'ombra,
ed è propriamente l'intenſione d'ogni colore nella ſua ſpezie. Il Sig. Abate
Fraguier, la cui memoria mi ſarà ſempre ca. offerva, che nello Scudo d'Achille
la terra fenduta in folco dall'aratro cangia in nero il color d'oro, che i
grappo li d'uva ſono neri e la vigna d'oro, che le giovenche ſono rappreſentate
al vivo col bianco e col giallo, cioè collo lta gno e con l'oro, e che
veriſſimo è il langue trangugiato da due Leoni che lacerarono il bue. Da ciò
inferiſce che l'arte encauſtica fioriva a'tempi d'Omero; ma quando anche i Cro
nologi che non convengono dell'età d'Omero glielo conce deffero, molto più
debbono elli concedere, che nel tempo d' Omero quell'arte era molto imperfetta
a paragone dell'eccel lenza a cui la portarono i Greci nel secolo d'Aleſſandro,
e ne’ſuſſeguenti. Le picture de' più celebri artefici encauſtici e rano ſtate
portate dalla Grecia a Roma da' Capitani Romani, é poſcia conſecrate ne! Tempi.
Virgilio che avea ſotto gli oc chj de'modelli così perfecti, gli ha
verifimilmente adombra ti ne ' colori del ſuo Scudo yine queſta ſpezie
d'imitazione pud negarſi ad ua Poeta sì doito, e d'on guſto così eſquiſito in
ogni genere d'arte • Per reftarne convinti bafta riflettere alla varietà ed
armonia de? colori delle figure deſcritte j ai sfuma menti, 0, come parla
Plinio, alle commiſſure de culoriftel fi, ai fecreti più mirabili della
perſpectiva introdotti negli ac» tidenti delle imagini, e finalmente
all'efpreffione degli affec ti de coſtumidegli Uomini rappreſentation La
varietà e larmonia de'colori appariſce nell'Oca d'ar gento che vola ne' portici
d'oro, ne' flutti biancheggianti per lai fpuma ini un mare cerulco Larrei ſono
i colli de'Galli, mentre le loro chiome fon d'oro, e vergate d'oro le veſti; il
langue di Mezio è vermiglio e gocciola dalle ſpine che lo no verdi. Per gli
sfumiamenti de colori, ed inſieme per l'eſpreſſione degli affetti e de' coſtumi,
diverſi nell' arni e nelle veſti fo no i colori de' Barbari condotti in trionfo;
il limitar del Tem. pio d'Apollo è bianco come la neve, ma più bianco è lo
ſteſſo Dio; Cleopatra è pallida per la morte futura; il Nilo al ſembiante ed al
geſto moſtra la doglia che lo crucia e l' impazienza di ſalvare i fuggitivi
ſuoi figli. Che dirò della forza della perſpectiva? Parrafio dipinle, al dir di
Plinio, il Demone degli Atenieſi vario, iracondo, in giuſto, incoſtante..
Virgilio rappreſenta Porſenna che nello Iteſſo tempo comanda, li ſdegna, e
minaccia. Nel Portico a. vanti la Curia di Pompeo era dipinto, ſecondo lo
ſteſſo Plinio, un Soldato che non ſi fapea ſe con lo Scudo aſcendeſſe o di
Icenderſe. Virgilio fa che i bambini attaccati alle poppe del. la Lupa fieno da
queſta alternaniente accarezzati; ciò che il Tallo imirò nelle figure delle
porte d'Armida ove Marcanto nio nel ſeguir Cleopatra che fugge, Mirava
alternamente or la crudele Pugna ch'è in dubbio, or le fuggenti vele. Ma
paſſando a coſe più particolari, io per far meglio in tender l'ordine,
l'intreccio, ed i fici delle figure, divido in quattro parii lo Scudo. La prima
contiene la diſcendenza d ' Enca fino alla Lupa incluſivamente. La copula o,
cioè an cora dimoſtra che tutto era nello ſtello baſſo rilievo. La ſeconda
parte contiene molte coſe memorabili fotto i Re e ſotto la Repubblica. La terza
la battaglia d' Azio. La quarta i tre Trionfi d'Auguſto. Queſte parti, ſi fanno
ſenſibili dividendo l'ovale in quattro altre ovali concentriche che io ſegnerò
co'numeri 1. 2. 3. 4. Nello spazio segnato i. ch' è come l'orlo dello Scudo io
pongo le figure che rappreſentano i diſcendenti d'Enea anno verati da Virgilio
nel primo libro e nel ſeſto: queſti ſono A Scanio, Silvio padre di molci Re,
Proca, Capi, Silvio, Enea, i due giovani coronati di quercia, Numitore, e la
Lupa che allatra i due bambini. De quindici Re d'Alba, di cui parla 2 2 Dio 186
Dionigi d’Alicarnaſſo e Tito Livio, Virgilio non nomina che queſti, perchè,
come egli accenna, furono fondatori di colo. nie, avendo edificato Nomento,
Gabia, Fidene, Collazia full? állo d'una montagna, ed il caſtello d'Inuo o di
Pane. Fon darono ancora Bola e Cora, e queſte ed altre nominate Cit rà eſſendo
nel Paeſe de' Sabini e de' Volſci, avranno dato oc caſione alle guerre e
battaglie nello Scudo eſpreſſe. Nel baf ſo rilievo d'Alcanio dev'egli
rappreſentarſi a guiſa d’un Ca. pirano o d'un Re che comanda di fabbricare una
Città qual era Alba lunga. Altri prendono gli ordini, ed altri gli eſegui
ſcono, ed i Soldati ſtanno riguardando l'opra. La pittura d ' Aſcanio è ſulla
cima dello Scudo; nella parte oppofta, o nel ballo v'è la Lupa che allatta i
bambini, e biſogna rappre ſentaría qual è in molte medaglie. Ne' lati dell'orlo
dello Scudo toſto ſi vede un bambino in mano d'un paſtore ch' eſce da una ſelva;
lo ſiegue in Re circondato da molti bam bini coronati, indi un Ře che guida un
eſercito, un altro che eſpugna una Città, un altro che è in mezzo a Sacerdo ti
e a Veltali, molti giovani Re cinti il capo di quercia che combattono e fondano
colonie, o su monti, o nelle pianu. se. Nè Tito Livio, nè Dionigi d'Alicarnaſſo
parlano in par ticolare di queſte battaglie, onde ſi poſſono ſcolpire a fanta
ſia, ma devono eſſer ſcolpice in medaglie appeſe a rami od alle foglie d'un
albero genealogico che ſerpeggi nell'orlo. Nello ſpazio ſegnato 2. io pongo da
una parte due baſſi ri lievi di forma ellittica, ma incaſtrati di varj fogliami
che riempiono i vuoti. Elli rappreſentano il ratto delle Sabine, e la pace cra
Romolo e Tazio. Pongo dall'altra parte altri rilievi della ſteſſa forma che
rappreſentano Mezio ſquarciato da ' cavalli, e Porſenna che afledia Roma. Nel
ſommo dell'ovale ſi vede nelle figure più rilevate il Campidoglio affalito
da’Galli, e difeſo daManlio; e nelle più lontane i Salj e le Matrone che
eſulcano; nella parte oppo. fta che è la più baſſa dello Scudo v'è il Tartaro
con Catili na affiffo allo ſcoglio, e ſopra il ſotterraneo (chiamato da Vir
gilio la bocca profonda di Dite ) verdeggiano gli Elisj, ove Catone dà la legge
all'anime pie. Le figure di queſto ſpazio ſono maggiori di quelle dell' orlo
perchè le parti più vici ne al centro dello Scudo ove fi fogliono diriger i
colpi, devo no eſſer più maſſiccie per più reliftere. Lo ſpazio è percid
maggiore Nel i 81 5 Nello ſpazio ſegnato 3. v'è la battaglia d' Azio. Apollo
ſaettante è ſul Promontorio, ove Auguſto gl’inalzò un Tem pio. Le navi
d'Auguſto ſono alla deſtra ſchierate in arco; nel deftro corno v'è Augufto
colla ftella in fronte e co' Pe. nati in mano, nel finiftro Agrippa cinto le
tempia della co rona roftrata. Dirimpetto vi fono le Navi torreggianti d'An
tonio. Secondo Plutarco, Antonio con Publicola reggeva il corno deſtro, e
Clelio il ſiniſtro. Cleopatra è nel mezzo in atto di percuotere il fiftro,
ſtromento dedicato ad Ilide che Cleopatra voleva emulare in curto. Tra i due
ſemicerchi del. le navi ve ne ſono alcune diſtaccate che tra loro combatto no.
Soggiunge Plutarco, che Ceſare non ſolamente non or dina ferir le prode dure e
ferrate d'Antonio, ma nè anco inveſtirle per fianco, perciò che gli ſproni
facilmente ſi ve nivano a romper urtando nelle cravi quadre incaſtrate infie me
col ferro: Era dunque queſta battaglia (ſegue egli) mol to ſimile a una
giornata per terra, anzi piuttoſto all'aſfalco d'una Cicà. Perciocchè tre o
quattro navi di Ceſare com battevano intorno a una nave d'Antonio con
partigiane, piche, e con fuoco. D'altra parte gli Antoniani ftando ſulle gabbie
di legno traevano dardi e pietre contro i nimici. Così ap punto Virgilio
rappreſenta le navi che combattono. Sulle navi di Cleopatra vi ſono i Dei
moſtruoſi d'Egitto, in atto di ſaettar Neituno, Venere, Minerva, che ſtanno
ſulle navi d'Auguſto, e contro alle quali egli diſſe al Senato che Antonio avea
moſſo la guerra, non meno che contro al. la Patria. Marre è in mezzo
della batcaglia, la Diſcordia, e Bellona, ed in aria ſtanno le Furie. Tutto ciò
è ſotto la fi. gura del Campidoglio o nella parte ſuperior dell'ovale, men tre
a'lari ſono le navi ſchierate. Nella parte inferiore vi fo no le navi di
Cleopatra che fuggono ſpinte dal vento Japiga, che ſoffia dal capo di Salentino;
non lungi è la figura del Nilo, che allargà la veſte, e chiama i vinci a
ricovrarli ne? ſuoi naſcondigli: egli è d' una figura giganteſca appoggiato
ſull'urna che verſa i ſette fiumi nel mediterraneo, nel reſto dello ſpazio ſi
diffonde il mare coi delfini che ſcherzano. Le figure di quello ſpazio ſono
maggiori per la ragione ſopraccen nata, ed è maggiore lo ſpazio ſteſſo. Nello
ſpazio ſegnato 4. vi ſono eſpreſli i tre trionfi d'Au guſto. Egli trionfo, dice
Svetonio, in tre giorni l'uno dietro all'alcro; la prima volta per la vistoria
Dalmacica, la ſecon da 4 182 1 da per l'Aziaca, e la terza per l'Aleſſandrina.
Dione Caffio particolareggia i trionfi. Trionfo Ceſare, dic'egli, il primo
giorno de' popoli Pannoni, Dalmatini, Japidi, ed altri loro circonvicini, e
d'alcuni popoli della Gallia e della Germania ancora, perciocchè Cajo Carina
avea già vinti e ſoggiogati i Morini e gli alıri popoli appreſſo, che nella
ribellione da lo. Fo fatta gli erano ſtati compagni, ed oltre ciò avea dato una
rolta a'Svevi, ed a quelli che aveano già paſſato il Reno; laonde ed egli e
Ceſare feco rappreſentò il Trionfo percioc chè la vittoria folevaſi attribuire
ſempre all'Imperatore, e l' Imperatore era Ceſare, è teneva in mano il governo
di tut, 10. Il ſecondo giorno Ceſare rappreſentò il Trionfo della bat taglia
fatta al promontorio d' Azio nel mare. Il terzo poi dell'Egitto ſoggiogato. Le
ſpoglie in queſte guerre acquiftare furono baſtanti ad ornar tutto l'apparato
di que' Trionfi; quel. Je però d'Egitto avvanzavano di gran lunga curti gli
aliri ap parati d'ornamenti di ricchezza e di rarità; tra l'altre coſe vi fi
vedea Cleopatra fteſa ſopra una colore in alto di morire, onde in un cerio modo
queſta Reina era condotta in trionfo cogli altri prigioni, tra'quali v'era
Aleſſandro ſuo figliuolo, e Cleopatra fua figliuola chiamati da lei col nome
del Sole e della Luna. Gl’interpreti fi vanno inutilmente affaricando a cercar
le ragioni della qualità de'prigioni, e particolarmente perchè ne' cocchi ſi
vedeſſe l'imagine dell' Eufrate e dell’A. raſſe fiumi dell'Armenia e della
Meſopotamia non conquiſtati da Auguſto. Il P. Arduino nelle ſue rifleſioni
fopra Virgilio non ritrovando queſte vittorie d'Auguſto ne trae degli argo
menti diſavantaggioſi all'Eneide. Io non perderò inutilmente il tempo a
riſpondergli in particolare. Ciò che poſſo dire a coloro che ammettono
l'autorità di Dion Callio, è far loro oſſervare, che Antonio dopo aver chiamara
Cleopatra Reina dei Re, Ceſarione Re dei Re, ed aggiunto alla loro giuriſdi.
zione l’Egico, donò la Siria a Tolomeo, e lutte le Provin cie di quà
dall'Eufrate fino all'Elleſponto; donò l'Africa fino alla Cirenaica a Cleopatra,
ed al fratello di coſtoro chiama to Aleflandro dond l'Armenia con tutto il
rimanente del pae fe al di là dell'Eufrate Gno all'Indie. Or non è verifimile
che Auguſto da cutti queſti Paeſi fcieglieſſe de' prigioni, che egli doveva
aver fatti o nella battaglia d'Azio, o nella ſcon fiila data ad Antonio in
Aleſſandria? Quanto al Reno, Agrip pa l'avea paſſato nel 717. nė fi curò del
Trionfo, ma egli è pro. 183 probabile che Auguſto voleſſe che Agrippa trionfare
ſeco co me Cajo Carina. Non v'era. ſegno d'amicizia e d'onore che non gli deſſe,
perciocchè oltre la corona roſtrata, con cui lo fregið dopo aver vinto Seſto
Pompeo in Sicilia, volea ch'egli avelle una cenda e l'altre inſegne militari
ſimili a quelle dell' Imperatore, e, come dall'Imperatore, da lui ſi prendeſſe
il ſegno della milizia, ed egli era in forſe di dargli per moglie Giulia: canto
grande, gli diſſe Mecenate, tu faceſti Agrippa, che o biſogna ucciderlo, o
ch'egli ſia tuo Genero. Dopo il Trionfo Auguſto inalzò molti Tempj; uno ad A.
pollo ſecondo Svetonio ſul monte Palarino, al quale aggiun ſe una Loggia con
una Biblioteca Greci e Latina; un altro ne edificò a Marte vendicatore per il
voto fatto nella guerra contro Bruto e Caſſio per vendicare il Padre, ed un
altro a Giove Tonante nel Campidoglio. Secondo Dione egli ancora conſecrò il
Tempio di Minerva, ornò il Tempio di Giulio ſuo Padre ſoſpendendovi molti e
molti doni della preda por tata d'Egitco, e molti ne conſecrò ed offerſe a
Giove Capi. tolino, a Giunone, a Minerva. Non è da traſcurare che po fe
l'imagine della vittoria ſecondo Dione nel Tempio di Mi nerva, e ſecondo Plinio
nel Tempio del Padre Celare, il qua le era nel Foro; aggiunge Plinio, che vi
poſe ancora i Ca ſtori che forſe ſimboleggiavano Auguſto ed Agrippa, nel pri mo
libro aſſomigliati da Virgilio a Romolo ed a Remo, come interpreta Servio. Poſe
ancora Augufto nel foro due quadri, uno della guerra, e l'altro del Trionfo; e
s’io non m'ingan doveano queſti rappreſentare coſe alluſive alla battaglia d'
Azio, ed ai trionfi dello ſteſſo Ceſare. Comunque la coſa ſia, ove è il centro
dello Scudo che è la parte più alta, io pongo la Cupola del Tempio d'Apollo,
alle cui porte Augufto affig ge le corone d'oro che erano i doni offertigli da’
Popoli dalle Provincie confederate. Tutto all'intorno vi ſono le are e
gl’incenſi colle vittime, e quindi la pompa e la lecizia del trionfo. In quel
giorno che Auguſto entrò in Roma, dice Dio ne, gli fu conceduto un Arco nella
Piazza di Roma, e in o nor di lui li celebrarono i giuochi quinquennali, e gli
anda rono incontro le Vergini Veítali, il Senaco ed il Popolo, colle mogli, e
il figliuoli: mi par ſoverchio (ſoggiunge Dio. ne ) di raccontar i voti e le
imagini ed altre coſe fatte per lui · La pompa del Trionfo conſiſte ne'
prigioni Nomadi, o Numidi, Affricani, Lelegi, Cari popoli dell'Alia minore Ge
no, e 184 Geloni ſpezie di Sciti, Morini popoli della Gallia Belgicà fi tuati
verſo l' Oceano Britannico. Tra queſti vi ſono molti cocchi colle imagini
dell'Eufrate, del Reno, e dell'Araffe col ponte che Auguſto vi fabbricò. Tali
ſono i baſli rilievi e le figure di tutto lo Scudo; elle s'ingrandiſcono a
proporzione ch'egli ſi va rilevando, e le miniature devono render ſenſi bili i
colori di cui ſono in Virgilio dipinte. I colori domi nanti ſono il giallo e il
bianco che rappreſentano l' acciajo ed il rame. Marte però deve eſſer dipinto
con un colore fer rigno, o fia di ferro, non raffinato in acciajo; diverſi ſono
i gradi de colori o floridi od auſteri che biſogna lumeggiare ed onibreggiare;
ma ſopra tutto convien dar alle figure lo ſplen dore, o ſia quel grado vigoroſo
di colore di cui s'è parlato. Spiegato in queſta maniera ciò che concerne la
parte ma teriale e ſtorica dello Scudo, egli è tempo di ragionare delle
relazioni che le figure hanno ad Auguſto, al quale tutto il Poema è diretto,
come a lungo eſpoſi nell'altra diſſertazione. Biſogna quì ricordarſi che
l'adulazione, ingegnoſiſlima nelle fue compiacenze, or impiega le lodi dirette
e manifeſte, or l'indirette ed occulte, ſecondo che l'une e l'altre per le cir
coſtanze fono più grate a colui che fi loda. Lodar Augufto per la ſua ſtirpe,
lodarlo per la vittoria che gli diede l'Imperio, e per i tre trionfi, ne' quali
fece tanto riſplender la ſua pietà, erano lodi che Auguſto fonima mente
defiderava che ſi pubblicaſſero, onde eſſo poteſſe ritrar: ne più venerazione
ed ubbidienza. Conviene a parte a parte moſtrarlo. Giulio Ceſare nel far
l'Orazione funebre in lode di Giulia ſua Zia: La firpe materna, diſſe, di
Giulia mia Zia ha origi ne dai Re, é la paterna è congiunta cogli Dei immortali,
im perciocchè da Anco Marzio derivano i Re Marxj del cui nom fu mia Madre, da
Venere i Giulj della cui gente è la noſtra Fa miglia. Trovaſ dunque nel ceppo
antico della caſa noſtra la fantità dei Re la quale appreſſo gli Uomini è di
grandiflima autorità e la Religione degli Dii nella podeſtà de' quali ſono el
Re. Sin quì Svetonio. Non potea dunque che molto pia. cere ad Augufto che
Virgilio noftraſſe e nel primo enel ſe fto e nell'ottavo che nella ſua
genealogia verano i Re, gli Dei, e gli Eroi. Virgilio dice nel primo libro: il
giovine A ſcanio che porta oggidiil cognome di Giulio e che ſi chiamava Ilo,
mentre Ilio era in piedi, governerà Lavinio per trent'anni 1 in. 185 intieri
etraſporterà la sede del Regno in Alba lunga di cui faa rà una forte Città. Nel
feſto egli dice: uſcirà dal ſangue Tro jano miſto all' Italico Silvio ſuo
figlio poſtumo che perpetuerd in Alba il ſuo nome, e ſarà egli fello Re e padre
di molti Re,. per lui la noſtra ftirpe dominerà in Alba. Virgilio ſcaltro nul
la parla delle guerre che ſecondo Dionigi d'Alicarnaſſo vi fu rono tra Giulio
figliuolo d'Aſcanio e Silvio, e molto meno che per i ſuffragj del popolo ſi
deſſe a Silvio il Regno che apparteneva a ſua madre, ea Giulio per contentarlo
la fo vranità ſulle coſe della Religione, per cui, ſoggiunge Dionigi, la
Famiglia Giulia ha goduto fin al mio tempo del ſovrano Pontificato, e s'è
chiamata Giulia a cagion d' Julo da cui u ſciva. Io non so accordar queſto
paſſo di Dionigi d'Alicarnaſ ſo con quell'altro di Plutarco e di Svetonio, ove
ſi vede che Giulio Ceſare non per dricco di ſangue, ma per i ſuffragidel popolo
in competenza di Catulo ottenne il ſommo Pontifica to. Laſciando cid, baſta quì
oſſervare, che Virgilio confonde Aſcanio con Silvio figliuolo di Lavinia e gli
altri diſcendenci da lui, poichè dice, che v'era ſcolpita tutta la ftirpe
d'Enea cominciando da Aſcanio. Io così interpreto quel Ab Aſcanio. Di tutti
queſti Re e di queſti Eroi Virgilio nefa come del le imagini trionfali, che
pone nell'orlo del ſuo Scudo, come negli atrj delle caſe de' Romani ſi poncano
le imagini degli Avi loro, ſulle quali Giuvenale e Plinio fanno sì gravi riflet
fioni intorno al biasmo ed alla lode de' diſcendenti. Ciò ba fi intorno la lode
manifeſta della ftirpe d'Auguſto. Palliamo alle lodi indirette. Nelle medaglie,
ove fi legge Reft. o reſtitui, ſi vede l'ima. gine o d'un Bruto, o d'un Coclite,
o della libertà, o d'al tre coſe alluſive alle azioni celebri de' Romani
antichi, che gl' Imperatori Romani aveano imitate o reftituite. Il P. Ar duino
vuole che queſte allegorie nelle medaglie cominciaſſero ſotto Tito, di cui ſi
contano fino 22. medaglie di queſta ſpe. zie e terminaſſero ſotto Trajano, di
cui ſe ne contano 24. ma non, perchè queſte medaglie non ci reſtino, ſi può
dedur che ſotto gli altri Imperatori e particolarmente ſottoAuguſto, che
vantavafi d'effere il difenſore della libertà del Senato e dei popolo,
l'adulazione non aveſſe inventate l'allegoric; certo è almeno, che con
queſt'ipoteſi ſi rileva il ſenſo del ratto del. le Sabine, e della pace ira
Tazio e Romolo. Prima che Planco determinaffe il Senato a dar ad Occavio Tomo
II. il 186 9 il nome d'Auguſto, molti volcano che ſi chiamafle Romolo. In fatti
Auguſto l'imicava non ſolo nella fondazione d'un nuovo Impero, ma ancora in
molte circoſtanze della ftella fon dazione. Come Romolo col ratto delle Sabine
avea provvedu to al mantenimento della Città, così Auguito con la legge di
maricar gli ordini che Orazio chiama legge Marita; due ne fece Auguſto., la
prima nell' anno 736. e ſi chiamava legge Giulia, e l'altra dell'anno 762. e li
chiamava legge Popea perchè fatta ſotto i Conſoli Sulpizio e Popeo. Con queſte
leg. gi fi rinovarono l'antiche rammemorate da Cicerone e da Aulo Gellio, e
Dion Caſſio merte in bocca d'Auguſto una lunga arringa su queſta materia al
Senato, nella quale dopo d'aver cogli eſempj delle nozze degli Dei eſaltato il
vantaggio e la giocondità de'figli, l'utile della Repubblica, e il biasmo di
viver ſenza moglie, gli fa dire: Romolo autor noftro, e da cui diſcendiamo, non
li ſdegnerà con tagione conſiderando il fuo naſcimento e i coftumi introdotti?
Orazio nel Carme ſecolare lodando per queſta legge il Se nato obliquamente loda
Auguſto; ma Virgilio nella lode obli. qua involge l'argomento del minore al
maggiore come s'egli diceffe: fe tanta obbligazione hanno i Romani a Romolo che
con una violenza provvide al mantenimento della Città, mol to maggior
obbligazione i Romani hanno ad Auguſto che ſen. za danno de' vicini vi provvide
con una legge si ſaggia. Romolo dopo le guerre con Tazio ai rapacificò
ſolennemen. te con lui, e diviſe feco il Regno; ed Auguſto dopo molte guerre
con Marcantonio conciliatoſi ſeco per l'opera de' co muni amici diviſe l'Impero,
del quale il termine ſecondo Plu tarco era il Mar Jonio. Tutta la parte,
dic'egli, verfo Levan te fu conceſſa ad Antonio, e l'alira verſo Occidente a
Ceſare. Pegno della pace fu Ottavia maritata ad Antonio, e certamente ella è
rappreſeatata nella vittima che ſi ſcanna nella ceremo nia del giuramento tra
Romolo e Tazio: ne deve far difficol tà il noine della vittima, poichè tutto
ciò che li confacrava agli Dei era fanto, e la Scrofa è ſtata ad Enea d'indizio
del paeſe che ricercava. La pittura di Mezio non è meno allegorica; egli tradi
Tul lo Oſtilio come Antonio tradì la Repubblica, e tradi Ottavio con la guerra
che all'uno ed all'altra intimo per far piacere a Cleopatra. Mezio ne fu
ſquarciato a viſta di Tullo; ed An. tonio fu coſtretto a darſi la morte quafi
agli occhi d'Augufto. An 187 Antonio mentre s'incamminava al ſepolcro ove s'era
rinchiuſa Cleopatra, andava verſando il ſangue per le Atrade come ap punto il
corpo di Mezio per la ſelva. Non ſi potevano eſpri mer da Virgilio coſe sì
delicate che in un quadro allegorico, Due volie, dice Svetonio, entrò Auguſto
in Roma vitto rioſo e ſenza trionfare, una, poichè egli ebbe vinto Bruto e
Caffio ne'campi Filippici, l'altra avendo vioto Seſto Pompeo in Sicilia; il che
moftra, qual foſſe la modeſtia politica d ' Auguſto; queſta ſteſſa egli usò con
Marcantonio del quale e gli non crionfo, ma di Cleopatra, come ſi può
raccoglier dal Trionfo deſcrito da Dion Callio. Egli ſollevò i figliuoli d'
Antonio alle prime dignità, nè col moſtrar odio e vendetta con Antonio dopo
ch'egli era morto voleva offender Octavia a cui era ſempre grata la memoria del
marito. Orazio e Vir gilio ben ſapendolo non mai parlarono di Marcantonio ſc
non mettendolo in compagnia di Cleopatra su cui fecero ca der l'odio e la colpa;
ma nel tempo ſteſſo, conoſcendo forſe che Auguſto ſi compiaceva, che negli
animi de' Romani non ſi ſmarriſſero l'idee di quanto avea fatto contra
Marcantonio per la finta difeſa della libertà, eſli procurarono di maſcherar ne
l'azioni con l'allegoria, della quale Auguſto poteva abba ſtanza intenderne il
ſenſo, e non offenderſi i partigiani d'An tonio per le varie interpretazioni
che poteano darle. Nelle mie note su l’Odi d'Orazio io ſpiego con ciò molte
coſe in intelligibili ſenza queſta ſuppoſizione, nè ſarà diſcaro che ne moſtri
l'uſo nelle ſtorie di Porſenna e di Manlio ſcolpite da Virgilio nella ſeconda
ovale dello Scudo. Porſenna voleva riſtabilire in Roma la tirannia traſportan
dovi i Tarquinj, e nonmeno Antonio voleva riſtabilirla tra ſportandovi
Cleopatra. Se Antonio, dice Dione, foſſe ſtato ſuperiore e ſignore del tutto,
era per dare a Cleopatra la Cit tà di Roma; è poco dopo ſoggiunge, che
Cleopatra era venu ta in ſperanza d'acquiſtar l'Impero Romano, e che quando al
cuno le dimandava giuſtizia, ella riſpondeva che gliela fareb be in Campidoglio:al
che pur allude Orazio nell'Ode 37. l. 1. dicendo ch'ella era ebbra di folli
ſperanze non meno che di vino mareorico. Io non so ſe troppo raffini nel
ritrovar in Clelia che ſi falva a nuoto, Ottavia che al dir di Plutarco eſce
precipitoſamente dalla caſa d'Antonio; ma certamente Coclite che rompe il ponte
è un ſimbolo d'Agrippa che con la vittoria navale interrompe l'avvanzamento
d'Antonio. AQ 2 Tito 188 Tito Manlio è difenſore della libertà del Campidoglio
con tra i Galli, come Antonio fu difenſore della preteſa libertà contra Caſſio
e Bruto e gli altri nimici di Giulio Ceſare. Non mancarono, dice Plinio, i
fregi delle coſe militari in Manlio Capitolino, ſe non gli aveſſe perduti
nell'eſito della vita; e Tito Livio ſoggiunge, che lo ſteſſo luogo nell'Uomo
ſteſſo fu un monumento e d'inſigne gloria e di ultima pena. Anto nio difeſe il
popolo Romano ne' Campi Filippici, e il popo lo Romano in Azio ed in
Aleſſandria l' inſeguì e fu cagione della ſua morte. I Salj ed i Luperci
eſultano, e le matrone ne loro cocchi agiati conducono le coſe ſacre per la
Città per dimoſtrare che non ſono ammeſſe in Roma le ſuperſtizio ni Egiziache,
abborrite eſtremamente da' Romani ne'cempi d ' Auguſto e di Tiberio. Catilina
tormentato nell' Inferno non moſtra egli le pene dovute a Marcantonio? e per la
ragion de contrarj quante lo di meritava Auguſto per la ſalvata libertà? In
grazia di que fta ſoffriva Augufto che fi lodaſſe Catone Uticenſe. Orazio
nell’Ode 12. c. 1. lo mette tra gli Eroi di Roma. Loderò di Caton la nobil
morte? Il P. Catrou pretende, che il Catone che negli Elisj dello Scudo dà
legge agli ſpiriti, non fia altrimenti Catune Uricen ſe, ch'era troppo odioſo
a'Ceſari, ma Catone il Cenſore, di cui dice Seneca, che tanto giovo co'ſuoi
coſtumi al popolo Romano, quanto Scipione colle ſue guerre. Il P. della Rue é
per il Carone Uticenſe, ma non ne aſſegna la ragione, la quale è manifefta, ſe
ſi riflette al paſſo di Taciro da me nell' alıra diſſertazione addotto e che
qui ancora ſoggiongo, perchè cgli moſtra quanto Ottavio fi vantafle, come
Cromuello fece a' noſtri tempi, di paſſar per difenſore della pubblica libertà.
Tito Livio (così fa dir Tacito a Cremuzio Cordo in Senato ) chiariffimo tra
tutti gli Scrittori e per eloquenza e per fedel tà, celebrò con tante lodiGnco
Pompeo che Auguſto lo chia mava Pompejano, nè perciò gli fu meno amico. Nelle
Opere di Aſinio Pollione (cui Virgilio dedicò l'Egloga terza ) li fa
onoratiflima memoria di Callio e Bruto: Meffala Corvino pre dicava Caffio per
ſuo Imperatore, e l'uno e l'altro viſſero lun. gamente pieni di ricchezze e
d'onori, ed Auguſto, non ſi sa le con maggior lode di manſuetudine o di
prudenza, laſciò 1 cor 189 correr le lettere d'Antonio, e l'orazioni di Bruto,
che molto lo diſonoravano; nel che forſe volle imitar Ceſare Dittatore che
tollerò i verſi di Bibaculo e di Catullo, ed al libro di Marco Cicerone nel
quale s' inalza Catone al Cielo, riſpoſe perorando come ſe foſse avanti i
Giudici. Con queſto paſſo di Tacito ſi può dar la ragione per la quale Virgilio
ed Ora zio non temerono, dedicando l'Opere loro ad Auguſto, di no. minar Giunio
Bruto, Marco Bruto, e Callio, Catone, e Pom peo. Maquale ſcaltrezza
cortigianeſca v'è in Virgilio nell' introdur Catone a dar legge agli ſpiriti?
Par, ch'egli accen ni, che Carone meritava ſolamente grado in quella Repubbli
ca ideale di Platone, la quale ſecondo Cicerone egli cercava nella feccia di
Romolo. Ed ecco ciò che dovea dirſi intorno alle lodi indirette ed allegoriche.
Le figure del quarto e del quinto ſpazio contengono lodi di rette, perchè cuite
ripiene delle coſe di cui si compiaceva Auguſto che i Romani continuamente
acclamaffero. Egli ſteſ ſo, come ſi diffe, avea nel Foro di Ceſare conſecrata
l'ima gine della battaglia, e del Trionfo, nè io dubito punto che Virgilio ne
aveſſe eſpreſli i tratti della pittura nello Scudo in quella guila, che nel
primo libro nel rappreſentar il Furore alliſo ſopra i trofei e con le mani
annodate al tergo imita la pittura ch'era nel Tempio di Giano. Tutto poi nella
deſcrizione e della battaglia, e del Trion fo, è diretto alla lode d'Auguſto.
Nella battaglia, Auguſto è coi Padri, col Popolo, coi Penati, e co'magni Dei,
ed ha in fronte la ſtella paterna; ciò ſignifica, che la guerra era in trapreſa
per la libertà del Popolo, del Senato e coll'alliſtenza di Giulio Ceſare già
Deificato. All'incontro Antonio non ha ſeco che de' Barbari, ed un'effeminata
Reina; Auguſto è di feſo da Venere genitrice, da Minerva, e da Apollo, Dei del
la prudenza e del conſiglio, e da Nettuno, che gli era ſtato favorevole nelle
guerre in Sicilia contro Seſto. All'incontro Antonio non ha ſeco che Dei
moſtruoſi ed odiati da' Romani. Quanto cgli deſcrive più feroce la pugna, tanto
maggior mente eſalta il valore d'Auguſto e d' Agrippa, ch'egli ſempre
accompagna per le ragioni di ſopra accennate. Le Furie e la Diſcordia con
Bellona liriferiſcono a Cleo patra; ma qual mai v'è ſagacità poetica
nell'accennare la fu ga e la morte di queſta Reina? Mentre ella ſuona il filtro
non vede i due ſerpi che la minacciano alle ſpalle; ella con fida iyo fida in
vano nelle forze dell'Egitto, e in vano tenta di rifu. giarſi nelle più occulte
ſpiagge delNilo. Tutto allude al.con higlio ed alle azioni di Cleopatra. Perchè
poi Virgilio non nc introducefle nel Trionfo l'effigie, e tra i prigioni non
poneſ ſe i figliuoli di lei, la cagione n'è forſe ſtata il timore d'ec citar
nell'animo altrui con queſte imagini qualche grado di ammirazione e di
compaffione, e perciò ſcemar in parte la lode d'Auguſto, e tra l'altre quella
della pietà. Ne'gran Poe. ti biſogna egualmente riflettere e a quel che dicono
e a quel che tacciono, onde molto male s'argomenta dalla Poeſia alla Storia, e
dalla Storia alla Poeſia, quando non s'attende al fi ne a cui tutto vuol
accomodare il Poeta. Il fine delle figure ſcolpite nei vari ſpazi dello Scudo
ha relazione al fine gene rale dell'Eneide. Le figuredel ſecondo ſpazio
riguardano il ſenno d'Auguſto, le figure del terzo il valore, le figure del
quarto riguardano la ſua pierà. Queſte ſono le tre virtù do. minanti
dell'Eneide. Dionigi d'Alicarnaſlo, che ſcriveva nel tempo d'Augufto, le
ſtabiliſce come neceſſarie ai fondatori d ' un Impero, e Virgilio vi fabbrica
ſovra l'Eneide. Molte altre coſe io potrei addurre intorno l'artifizio poeti.
€0, la chiarezza, e la brevità, colla quale Virgilio in sì po chi verſi eſprime
tante coſe, nè mai per oftentazione o d’in. gegno o di dottrina o d'erudizione,
maſempre relativamente al diſſegno del tutto e delle parti, ciò che deve
ſervire a' Poe. ti moderni di precetto e d'eſempio. atentat nesatentratata L A ſecca della
Filoſofia Italica fondata da Pitcagora ebbe nome e ſede nella Magna Grecia, tra
le cui Provincie fu per l'eccellenza de'Filoſofi, che vi fiorirono, celebre la
Lucania, ed in queſta la Città di Velia, o d'Elea così denomi nata dal fiume
che l'irrigava. Quivi Senofane di Colofone, Cit tà della Jonia nell'Alia minore,
ſtabilì e perfezionò la fecta, che dalla Città d'Elea fi diffe Eleacica, e
meritò d'avere tra gli al tri diſcepoli Parmenide nato di Pireto, e quel
Filoſofo grave e venerabile, che con Zenone paſsò in Atene, ove tenne la con
ferenza con Socrate eſpreſſa in queſto Dialogo. Ora avendomi propoſto io
d'illuſtrarlo nella ſua parte ſtori ca e Filoſofica, credo diſoddisfar quanto
baſta al mio impegno ſe prima tento d'accordar l'erà controverſa dei tre
Filoſofi nomi nati, indi ſe della dottrina Eleatica ſpiego l'origine e l'effetto,
o la Filoſofia Pittagorica, e la Platonica; finalmente ſe mi fer punto che
Platone in queſto Dialogo n'eſpoſe, e dichiaro l'artifizio filoſofico, e
poetico dello ſteſſo Dialogo. lo difli, che Senofane ftabili, e perfezionò la
ſecca Eleacica perchè Platone dice nel Sofiſta, la gente d ' Elea incomincia
appref ſo di noi da Senofane, anzi da più antichi, i quali non poteano eller
che Talete, o Pittagora, oi difcepoli loro; non regnando, allora alıra
Filoſofia nella Grecia, ſe non l'introdotta dai due fondatori, o profeſſata da
i loro allievi. Alcuni però fecero Se nofane poſteriore a Talete, ma più antico
di Pittagora, nè fo dove prendeſſero le loro congetture cronologiche, alle
quali oltre l'autorità di Platone, s'oppongono le ſcoperte dei due Fi loſofi, e
i viaggi loro. Taletecalcolo il primo l' eccliſli lunari, ma come poteva egli
calcolarle ſenza conoſcere la propolizione, che Euclide poi fe ce la 47 del
primo libro degli Elementi, e di cui s'aſcrive or dinariamente l'invenzione a
Pitcagora? I calcoli aſtronomici ſo mo ſul. no (4 ) no dedotti da
trigonometrici, principio de' quali è il triangolo rettangolo miſura diſe
ſteſſo, e de gli altri triangoli. Pittagora dunque, che l'invento, o fu
contemporaneo di Talete, o fiori prima di lui., Io credei, che queſta foſſe una
dimoſtrazione in cronologia, finchè in Plutarco (a ) ritrovai che gli Egizj
ſimboleggiavano co? tre lati del triangolo rettangolo miſurati da 3, 4, e s le
loro principali divinità Ilide, Oliride, ed Oro; aſſegnando ad Oſiri de la
perpendicolare, la baſe ad Ilide, e ad Oro l'ipotenuſa; L'antichità del ſimbolo
manifeſta quella della cognizione, tan to più che gli Egizi coltivarono l'
aſtronomia da poi che eb bero inventato la geometria per miſurare i terreni, e
non par veriſimile, che ſenza conoſcere il triangolo rettangolo, il pri mo e il
più facile ad immaginarſi de gli altri, poteſſero riu ſcire nella pratica di
queſte due ſcienze. V'aggiungo, che fe condo Platone (6.) noci erano, agli
Egizi gl' incomenlurabili, la prima idea de' quali naſce dall' impoſſibilità di
eſtrar la radice dal quadrato dell'ipotenuſa del triangolo; I lati del
retcangolo Pitta gorico ſono i numeri accennati, e queſta è la prova che dagli
E giz lo toglieſſe Pittagora, e nello ſteſſo tempo o poco prima l' aveſſe colto
Talete, benchè poi Talete ſi contentaffe di moſtrare all'Aſia minore l'ulo
aſtronomico della propoſizione, e Pictagora ne deſſe alla Magna Grecia la
dimoſtrazione Geometrica, ed è forſe quella regiſtrata da Euclide nel primo
libro diverſa dalla 8 del libro 6 dedotta dalle proporzioni delle linee, e che
nel progreſſo del tempo Eudoffo, che fiori nel tempo di Placone, portò dall'
Egitto col s elemento. Or fe i gradi delle cognizioni dello fpirito umano ſono
fema pre gli ftefli, dall'analogie dell' Epoche moderne ſi poſſono de durre le
antiche, e particolarmente quelle che hanno relazione agl'inventori de'
principjmatematici. Nel paſſato ſecolo ſi trova prima dal Toricelli la Cicloide,
e l' Ugenio l'applicò a regola re il moto dell'orologio a pendulo; il Newtono
fi limitò all'altrace ta Teoria della luna, e l' Hallejo l'applico a correggere
le Tavo le aſtronomiche. La ſeconda congettura della contemporaneità di
Pitragora, e di Talete, ſi prende da coſe più facili. Vuol Jamblico, che Ta
lete ſcriveſſe una lettera a Ferecide maeſtro di Pittagora, e gli legaſſe certi
fcritti morendo, e par che Plinio convenga che i due Filoſofi foſſero ſtati in
Egitto al tempo che regnava il Re Amaſi. La queſtione non cade più dunque ne ſu
tutto il ſecolo, ne (a) Trattato d'Ilide, ed Oſiride. Nella Rep. e nelle leggi.
1 4 ne ful mezzo ſecolo, ma su l'età dell'uno e dell'altro di pochi anni
diſtante; Talete par più vecchio ſe ſcriſſeuna lettera al maeſtro di Pittagora,
machi sa poi ſe Pitragora non era allora in Egitto? queſta lieve differenza non
toglie però, che ſe Talete' fu più d'un ſecoloprima di Senofane, non lo foſſe
ancora Pittagora: Io ritrovo bensì, che Senofane era contemporanco d'Epicar mo,
e diEmpedocle. Secondo Timeo lo Storico, Senofane paſsò in Sicilia al tempo di
Gerone, ſotto il cui Regno Epicarmo era illuſtre per le ſue commedie, e
Plutarco (a) ci conſervò la memo ' ia d'una riſpoſta, che diede Senofane ad
Empedocle. Non è facile il determinare, nè qui lo cerco, quanto Epicar mo, ed
Empedocle foſſero diſtanti da Pittagora, e quindidà Ar chita Tarentino il
vecchio, da Peritione, da Timeo di Locri, da Ocello Lucano, e da altri, che ſi
dimandavano Piccagorei (6 ) perchè udirono Pittagora, a differenza deglialtri,
che ſi chiamava no Pittagoriſti. Quando cominciò Senofane a ſtudiar la
Filoſofia, quella di Ta lete era già diffuſa nella Jonia, e quella di Pittagora
nella Magna Grecia,e nella Sicilia; su queſto fondamento altri fecero Seno fane
diſcepolo di Anaſimandro, ed altri di Archelao diſcepolo di Anafagora, il quale
avea il primo traſportata la Filoſofia dalla Jonia in Atene, ove paffato
Senofane ftudiò ſotto (c ) un certo Bottone Ateniere. Dalla povertà cacciato
Senofane dalla Grecia, paſsò nella Sici lia e quà s'abbandono alle doctrine
Pittagoriche, più delle Joniche conformi all'ingegno di lui acre, e profondo.
Dalla Filoſofia Jo nica, e dall' Italica traſſe un nuovo liftema, è meritò ď'
effer ca po della ſecta Eleatica primo fonte dell'Accademica, e della Pla
tonica, delle quali poi furono rami lo ſcetticismo, e lo ſtoicismo, Nulla
ancora s'è fatto, ſe non ſi dimoſtra accordarſi l'ecà di Senofane con quella di
Parmenide, e queſta con quella di Socra te. Tralaſciare dunque molte epoche inverifimili,
io m'arreſto a quella che aſſegna Timeo a Senofane, ed è che egli fiorille
nell'olimpiade 76. Parmenide, ſecondo Laerzio ſeguito dallo Stan lejo, e da
altri, fiorì nell' olimpiade 69 diſtante dalla 76 di 7 olimpiadi, che importano
28 anni, calcolando ogni olimpiade per 4 anni compiuti. La voce fiorire è molto
vaga o ſteľa nel la Cronologia, perchè non ſempre moſtra, che un Filoſofo fof
ſe nel punto più alto della ſua fama, ma che ſolo aveſſe un no
meilluſtreacquiſtato. Il Newtono, che cosi rapidamente ſi per fezionò nelle
matematiche, fioria del pari in Inghilterra quando ſcriſſe al Leibnizio la
lettera in cui gli dichiarava lo ſvi luppo, (a ) Plut. de vit.pud. (6) Patr.
diſcuſs. prop. 1. 6. (c) Laerzio vit.di Sen. (6 ) 3 8 luppo, e l'uſo del
Binomio eſaltato ad una potenza indetermi nata, e nell'anno 1716 in cui molte
coſe aggiunſe al ſuo libro de' colori, e n'illuſtrò molte altre nei principj
naturali della Fi loſofia matematica, Senofane, che lo Scaligero fa vivere 104
an ni, ed altri almeno fino a 100, potea fiorire in olimpiadi mol to diftanti,
perchè per la forza della ſua mente facilmente riu fcendo nelle fue
applicazioni, in breve acquiſtava fama di lomme Filoſofo, e la ſua fama tanto
più ſpargeali per le bocche degli Uomini, quanto egli abbelliva le ſue
meditazioni filoſofiche con la Poelia per farle ricercare, e leggere con più
d'avidità. Parmenide fece i ſuoi ftudi in Elea (a ) ſotto Amenia, e Dio cheta
Pictagorici, i quali lo riduſſero a laſciar le ricchezze, ecol tivar la vita
privata, e darſi tutto alla Filoſofia. Biſogna dun que che in eſſa molto
riuſciſſe, o la Filoſofia foſſe la paſſione, che più lo dominava, ſe nato de'
più ricchi, e de’più nobili di Elea ebbe tale coraggio; ma ciò molto applauſo
dovea avergli acquiſtato appreſſo de'ſuoi Cittadini, ſe fin d'allora
cominciarono a celebrarlo in guiſa, che al dir di Ermipo Empedocle l'emuld.
Nulla vieta il ſupporre, che Empedocle avelTe molto ſoggiornato in Elea, e poi
foſſe ritornato in Agrigento ſua Patria. In Elea era ſtato emulator di
Parmenide doctiſſimo nelPittagoriſmo, e lo fu in Sicilia di Senofane, che lo
profeſſava con qualche cangiamento', dopo gli anni 28 che è l'intervallo
frappoſto tra l'olimpiade 69 e 76. Paſso Senofane in Elea, ed ivi Parmenide
conſecrato agli ſtudi corſe ad udir Senofane, come i giovani nobili, e ben
educati ſo leano far nella Grecia, quando nelle loro Circà udiano entrar un
Filoſofo illuſtre, e che potea inſtruirli in qualche nuovo liſte ma, del che
chiari gli eſempi ne vediamo nel Protagora, nelGor gia, ed in altri Dialoghi di
Platone. Quando Parmenide udi Se nofane, queſti poteva eſfer molto vecchio; ma
qualunque età dia ſi a Senofane, mi baſta, che nel pricipio dell' olimpiade
76Parme nide imparaſſe da lui il fiſtema dell'uno immobile, e non aveſſe allora
che 36, e ancor 40 anni, la ſteſſa età che avea Zenone quando diſputò con
Socrate in Acene. Socrate nacque al fine dell'olimpiade 77, ed avea 4 anni com
piuti o 5 anni cominciati, quando nella noſtra ipoteſi Parmeni de ne avea 40.
Se zo anni dopo ſi fuppone, che Parmenide con Ze none paſlaffe da Elea in Atene,
come vuol Platone, non avea che 60 anni, e Socrate che 25, onde era egli molto
giovane relativa mente a Parmenide. Semplici, e al fommo veriſimili ſono queſte
ipoteſi degli ſtudi, 1 e dei (a ) Laerzio vita di Parmenide. 1 (7 ) e dei
viaggi dei due Filoſofi, e ſe s'accordano facilmente con le olimpiadi, perchè
oftinarſi a rigettarle, e rinunziare all'au corità di Platone, che potea molto
meglio al fuo tempo cono fcere l'epoche dell'era filoſofica, che non ſi
conobbero 6oo an ni dopo, e ben più? Le circoſtanze, con cui Platone accompagna
l'abboccamento di Socrate con Parmenide, accoppiano in guiſa alla verità del
fatto la veriſimiglianza ſtorica del Dialogo, che pare non do ver laſciarſi
alcun ſoſpetto. Io le eſtrarro dal Dialogo. Parmenide, e Zenone fuo diſcepolo
favorito o fuo figlio a dottivo abitavano fuor delle mura di Atene in caſa di
un cer to Pitidoro. Nelle ſolennità de grandi Panatenei, itofene So crate a
ritrovar Parmenide, ritrovò folo in caſa Zenone, e comia cid a diſputar feco fu
l'idee. Entrato poco dopo Parmenide in caſa con Pitidoro, ſi proſeguì la
diſputa incominciata alla pre fenza di molti, tra' quali Ariſtotele non lo
Stagirita, ma uno dei 30 Governatori, o Tiranni di Atene. Tali ſono le circo
ftanze del luogo, del tempo, e dei teſtimoni della diſputa. Socrate non avea
allora che 25 anni; or eſſendo egli mor to nell'età di 72 anni,
dall'abboccamento alla morte non vi fo no che 47 anni di diſtanza, e tanti
appunto o pochi più dall' abboccamento al Dialogo, ſe Platone lo ſcriffe dopo
la morte di Socrate: ma poniamo che l' aveſſe compoſto anche 20 anni dopo; la
memoria di un Uomo così illuſtre qual era Parmeni de non potea più ignorarli in
Atene, di quel s'ignori ora a Parigi la dimora che vi fece il Leibnizio, e
l'Ugenio, e le di fpute che ebbero nell' Accademia reale. Alle verilimiglianze
ſtoriche s'aggiungono le poetiche necef ſarie all' ornamento del Dialogo, che è
una ſpecie di Poeſia Dramatica: così lo teſse Platone.: Cefalo per bocca di
Antifone ſuo fratello uterino, e figliuo lo di Pirilampo, racconta ad A dimanto,
e Glaucone, tutto ciò che avea udito da Pitidoro fu la diſputa che ebbero
Zenone pri ma, e poi Parmenide con Socrate. ' Antifone avea converſaco
familiarmente con Pitidoro compagno di Zenone, ma poi laſcia ta la Filoſofia
coltivava l'arte equeſtre, e quando Cefalo ad in ſtigazione de' compagni andd a
ritrovarlo, egli dava certo fre no ad accomodare ad un fabro; circoſtanza che
io credo finta per dar rilievo al racconto, é fiffar la fantaſia del lettore
con qualche coſa di ſtrano. Par toſto che Antifone occupato in un volgare
eſercizio, non debba favellare ſe non di coſe volgari, nè mai s' aſpetta, che
egli ſia per ſalire nell' ultime aſtrazio ni della metafiſica; quindi il
lettore reſta ſorpreſo dalla mera viglia (8 ) 1 > e di viglia, allora che
egli racconta il principio della diſputa tra So crate e Zenone, e che poi
s'interrompe alla venuta di Parme nide, che fattoſi pregar un poco la continua
fino al fine. Quan te menzogne, ſe Socrate non parld mai con Parmenide ! All
incontro qual arte fina di veriſimiglianza poetica, per dar or namento alla
verità del fatto di cuiCefalo, Adimanto, e Glau cone vivendo poteano renderne
teſtimonianza? Come immagi narſi, che un Filoſofo il qual volea render accetta
la lettura de ſuoi Dialoghi, cominciaſſe a diſguſtar il lettore con bugie le
più sfacciate? Ariſtotele, che calunnia il ſuo Maeſtro in tante parti
dell'opere ſue fue, e che parld ſovente di Parmenide Socrate non attaccò mai
Platone ſul loro abboccamento, e pur ne poteva trar degli argomenti, per
renderne la dottrina ſoſpetta. Non ne parlano altri autori Greci più vicini a
Platone, non gli autori Latini, che più ſtudiarono i Greci, e tra gli altri
Cicerone e Plinio, che tante coſe ci conſervarono fu l' iſtoria ed Era
Filoſofica. Non v'è che il ſolo Ateneo il qual viſſe a' tempi di Marco Aurelio,
che vuol dir quaſi più di 600 anni dopo Platone. (a ) Egli dice: Appena
permette l' età che Socrate aveſe veduto, ed udito Parmenide, non dover però
noi meravigliar ſene, perchè Platone ſuppoſe che Fedro vivere al tempo di
Socrate; che Paralo, e Zantippo figliuoli di Pericle, e morti nella peſtilenza,
ragionaſſero nel Protagora, e che Gorgia diceſſe nel Dialogo del ſuo nome quel
che mai s'era fognato di dire. Molte altre accuſe contro Platone vibra Ateneo,
e s'affatica a dipingerlo tanto mordace, e maledico quanto bugiardo. Non so
perchè i Cronologi attenti a peſare ogni minuzia de'te fti non oſfervino, che
Ateneo nel dire vix ætas permittit dichiara, che poco intervallo di tempo v'era
ſtato tra la morte di Parme nide, e l'età di Socrate, maqueſto vix qual ha poi
forza cronologica poſto in bocca di Guriſconſulti, di Oratori, diPoeti, di
Filologi, non di Cronologi, che avrebbono diminuito l'allegrezza del convito
coi loro calcoli, e colle lor aſciutte illazioni? Il Calaubono il qual nel ſuo
comentario d'Ateneo in un'altro libro in foglio sfoga tanta eru dizione ſu
l’erbe, ſu ipeſci, ſui coſtumidel convito, elu mille altre coſe inutiliffime a
ſaperli nulla degna di dire ſu le accuſe colle qua li uno dei Dinnoſofiſti
morde Platone. Io per me credo, che A teneo vedendoſi incapace d' emulare
l'immenſità della dottrina Platonica, e l'arrificioſa maniera con cui l'eſpone
Platone ne'ſuoi Dialoghi, teſſe lunga ſerie d'accuſe, e lo condanna di menzogne
ro, e maledico per accreditar ſe non altro la veracità, e la mo deſtia colla
quale caratterizza i ſuoi Dinnoſofiſti. Il buon Grama cico (a ) Ateneo lib. 14.
Sympt, 9 ) tico ne goda egli pure, e ſen ' applauda; non per queſto io crede rò,
che Parmenide non poteſſe ragionare con Socrate, e ſtard immobile nelle mie
ipoteſi cronologiche, che a ben peſarle non vagliono meno di tante altre, che
in queſto ſecolo fi ſpacciano, e fi difendono come i Teoremi diGeometria:
Candidamente perd confeſſo, che io farò per ſacrificarle a colui, che
all'autorità di Ateneo ne aggiungere qualchealtra più dimoſtrativa, e meno ſo
fpecta; finalmente malgrado le congetture eſpoſte io ſon perſua ſo, che ſe
Platone tutto finſe, il Dialogo è più ammirabile per la menzogna poetica tutta
opera della ſua fantaſia, che non è per la verità del fatto, di cui poteano
farſi onore i men dotti. Platone fcriffe in Filoſofia più ditutti gli antichi
che lo precede rono, e come da Eraclito le coſe fiſiche, da Socrate le morali,
così tolle da' Pittagorici lemetafiſiche, le quali non ſi correffero che nel
fecondo ſecolo della Religione, per le varie diſpuce che, nacquero tra
iPlatonici, e tra i Criſtiani. Eſaminerò dunque prima d'ogni altra coſa la
natura della difpu ta, dopo di cui proporrò generalmente l'antica Filoſofia, ed
in di la particolareggierò in Pittagora, e ne'Pittagorici, tra'quali Se nofane
e Parmenide, e la terminerò con Platone. A queſte due coſe io riduco l'origine,
e l'effetto dell'Eleatiça Filoſofia.. Gli antichi Filoſofi, ſenza eccettuarne
nè pur uno, convennero nel principio, che di nulla fi fa nulla, e ciò gl'
impedì di poter conoſcere che Dio era un ente ſingolariſlimo, uno, onnipoten re,
buono, e libero; in ſomma di tutte quelle perfezioni dotato le quali o per
negazione, o per caſualità, o per eminenza gli at tribuirono i SS. Padri, e
cuti'i Teologi. Era Dio ſtato ſempre con la materia? Dunque altro non gli competea,
che eſſer un modo di efla od un ente, che ſolo per preciſion di ragione dalla
materia ſi diſtingueva; era egli per metà uno, per metà onnipotente, fe
dipendea da un principio, ſenza il quale operar non potea, non più che il
Pitcore dalla tela e dai colori, e lo Scultore dal marmo. La diminuzione della
potenza toglieva a Dio la bontà, perchè non poteva egli vincer in guiſa la
contumacia della materia, che non regnaſſe a ſuo malgrado il male miſto col
bene. Come dunque Mosè per opporſi al politeiſmo del ſuo tempo dalla creazione
cominciò la ſtoria del mondo; così per opporſi a tutti gli errori che
derivarono dall'eternità della mate ria fi cominciò nel ſimbolo Apoftolico da
Dio creatore, inſiſten do al dogma di S. Paolo, il quale nella Epiſtola agli
Ebrei: In tendiamo; (a ) dice egli, per la fede eſſere ſtati connelli i ſecoli
Tom. II. b dalla (a ) Epiſt. agli Ebrei cap. 11. Fide intelligimus aptata eſſe
ſecula ver bo Dei. (10 ) dalla parola di Dio. I Padri nelle loro diſpute
co'Gentili lo dichia rarono. Noi, dice Atenagora,Jepariam Diodalla materia,
lamateria crediamo un ente diverſo ---- (m ) Dio è uno, ed ingenito, ed eterno;
la materia è corruttibile; e poi celebriamo tutti un Dio ſolo crea tore di
tutte le coſe. - -.- la fua forza immenſa non poterono abbrac ciar coloro con
l'animo, che la notizia di Dio non cercarono nello ſtef fo Dio, ma dentro fe
fteſi. Taciano (6 ) pur dice: Dio non s'inſi nua nella materia e negli spiriti
materiali e nelle forme, ma egli è artefice inviſibile ed intangibile di tutte
le coſe. Teofilo d'Antiochia (c) parlando ad Autolico, dice, ſe Dio è ingenito
e la materia è pur tale, non è più Dio fabricatore e creatore di tutte le coſe.
Queſti Pa dri viſfero tutti e tre nel ſecondo ſecolo non molto diftanti l' uno
dall'altro. Gli errori de' Marcioniti, de' Valentiniani, de' Baſiliani,
chefuronopur cutti e tre che in queſto ſecolo diedero occa fione a' Padri
d'illuſtrare il lor zelo, dichiarando con la crea zione della materia il
principio fondamentale della Religione Criſtiana. Anzi Taciano dimoſtro, che i
Greci ne avevano ri cevute l'idee da'Barbari, ed i Barbari dagli Ebrei, benchè
poi le aveſſero oſcurate e corrotse. Affaccendati gli altri Padri a purgarle,
oſſervarono che Dio, autore del pari della Fede, che della ragione, non le avea
ſeparate in un modo caliginoſo ed impenetrabile, ma le avea in maniera
accordate, che dall'aurora dell'una fi potea paſſare al pieno giorno dell'altra,
cogliendo però dalla ragione quanto e Platonici e Pittagorici e Stoici, ed
Epicurei v aveano im preſſo col lor proprio carattere. Si compiacquero dunque
della ſetta Eclerica, ed il primo che l'abbracciale fu Atenagora il primo de'
Catechiſti d'Aleſſandria, poi S. Clemente ed Origene dal Veſcovo Uezio chiamato
Pocamonico (d ) anzichè Platoni ço, San Clemente ſpinſe tant'oltre la
condiſcendenza, che pro poſe come poflibile un ſiſtema filoſofico, il quale
raccoglieſſe tut te le verità ſcoperte dalla ragione umana fin dal principio
del mondo, ed agevolaſſe il metodo di far ricever i dogmi della fede, e quello
della creazione. Amonio Sacca conciliator di Ariſtotele e di Platone,
ritrovando che in Ariſtotele l' eternità del mondo ſi conciliava con l'eter
nità di Dio, ſe ben egli nulla ſcriveſſe, laſcid tuttavia a' ſuoi diſcepoli,
onde ſtabilire tal dogma. Diſtinſe egli l' eternica in due gradi o in due ſegni,
nell' uno dei quali poneva Dio, nell'altro le coſe bensì create, ma da lui
dipendenti, come il raggio dalSole, o l'ombra dal corpo. S'accorſero i Padri,
che iFi (a ) Apologia pro Chriftianis. (6) Tat. allir, cont. Græc. (c ) Teof.
Aut, lib. 2. (d ) Iftor. del Moeffenio nel finedelCuduortio. (11 ) e tras i
Filoſofi mettendo con la creazione eterna una dipendenza tra la materia é tra
Dio, coglievano a Dio la libertà, perché cacitamente fupponevano, che da Dio
neceffariamente foſſe emanato il mondo come il raggio dal Sole e l'ombra dal
corpo. Far di Dio un Agente neceſſario, è lo ſteſſo che farlo per metà Signore,
per che ſe fi confeſſa da una parte, che da Dio dipenda la coſa che egli fa, fi
nega dall' altra che da lui dipende il farla ed il non farla. La libertà è la
maggiore delle perfezioni. Perchè dun que corla a un ente infinitamenteperfetto?
Lafcio S. Ireneo, S.Cirillo, ed altri, cheſoddisfarono ampia mente a tutte l'
obbiezioni; ma quello, che più degli altri le ſcDIonvolſe ed atterrò, è ſtato
Lattanzio Firmiano, che con au reo ftile nel quarto ſecolo ſcriſe. In queſto
ſecolo ancora ſcriffe ro Eufebio nella Preparazione evangelica, e poi S.
Agoſtino nel la Città di Dio, l'uno ſegut l' ormeaccennace da Taziano, 1 alţro
con erudizione più vigorofa, e più filoſofica ſcriffe contro l'eternità,
l'animazione, la divinica del mondo, e l'immutabi lità del Fato. Apparve Proclo
(as nel príncípio del V1. fecolo fondendo nella ſua Teologia molto di quella
de' nomiDivini at tribuita a S. Dionigi Areopagita, rinovd il fiſtema di Amonio
Sacca riſtoro il Platoniſmo caduto. Nel fecolo dopo, Zac caria di Mitilene, ed
Enea di Gaza, ſcriſſero' pure contro l'eter nità del Mondo. E da' loro fcritii
ſi raccoglie, che l'idea di Dio, combinata col policeiſmo era un'idea nugatoria,
non men di quel la del bilineo rettilineo, che rappreſenta alla mente una
figura, é non è che una contraddizione. Il P. Balto, nel ſuo dotuiffimo libro
contro il Platoniſmo ſvelato, lo dimoftra; e dopo il Balto fe de fece dal
Moeſfenio quella circoſtanziata iſtoria ſul Platonis la quale è nel fine dell'
opere del Cuduortio, da lui tradotre dall' Ingleſe in Latino. lo nell’eſpor la
doctrina de Filoſofi antichi non mi feryi rò dell'autorita de' Platonici
recenti, non più, che fe non aveſ ſero mai ſcritto, ſalvo allora, che
s'accordano cogli antichi, e ci confervano qualche circoſtanza ſtorica
indifferente. Cercherò prima ne' teſti de' Filoſofi ftefli il ſenſo, che
naturalmente preſen iano, e dove ſia queſto oſcuro, ed equivoco, ricorrerà
all'in terpretazione o di Cicerone, o di Plutarco, o di Sefto Empirico, o di
Laerzio Viſle Cicerone molti anni prima del Crifianeſimo, e Plutar co viffe a
Roma ſotto Adriano, o Trajano, dopo d'aver ſtudiato in Egitto forro Amonio,
diſcepolo di Potamone, e del quale egli b 2 par (a ) Pachimero in Suida, Vedi
Fabrizio Bibliot. art, Proclo. e mo,. (12 ) parla nella vita di Temiſtocle ed
altrove. Laerzio e Seſto Empi rico, fiorirono in circa ſotto Severo, che vuol
dire molto prima di Amonio Sacca, di Plotino, di Porfirio, e di molti alori
nimici del nomeCriſtiano; non rifiuterd dall'altro lato i ſoccorſi, che i Padri
m'offrono allora particolarmente, che non hanno certa indulgenza alle opinioni
filoſofiche, ſcrivendo agl’Imperatori, o non argomentano ad hominem contro
coloro, che gl'inſultava no. La mecafiſica di Platone non è diverſa da quella
de' Pittago rici, e ſe una volta io dimoſtro, che queſti e particolarmente
Pitta gora, Senofane, e Parmenide conobbero bensì un principio intel ligente,
ma non ſeparato dalla materia, anzi con effa non facen do che un tutto, avrò
dimoſtrato, io mi perſuado, che queſto pur era il ſiſtema Platonico. Cominciero
da Cicerone che in poche ma ſoſtanzioſe parole compendio tutto il ſiſtema de'
primi Accademici o di Platone, e lo craſſe da' Pittagorici, come da Placone
purtraſsero il loro gli Stoici, e i ſecondi e verzi Acca demici, poichè quanto
a' Peripatetici (a ) eli convenendo nelle cafe non differivano, che ne' nomi.
Gl’antichi, dice egli, divideano (b )lanatura in due coſe, l'una delle quali
era efficiente, e l'altraad eſsa quafi preſtandoſi quella di cui ſi fa ceano le
coſe.. Incid che facea riponevano la forza, in ciò di cui ſi fa cea, una certa
materia, ma l'una e l'altra era nell' una e nell' altra perchè nè la materia
può aver coerenza, ſe non ſia da qualche forza ritenuta, ne v'è la forza ſenza
qualche materia, poichè nullo v'è che non fic in qualche luogo.. Se la forza e
la materia erano indiviſibilmente unite, la fola mente le ſeparava, e perciò
conſiderar l'una ſenza l'altra era un?: aſtrazione, una preciſion della menee.
Cid che riſulta (c ) dall'uno e dall'altro, o ſia dall'accoppiamento, lo
chiamavano corpo, e quafi certa qualità...--. Di queſte qualità al tre fono
principali, ed altre derivate da queſte. Delle principali ſono ognuna [CICERONE,
QUÆST. ACAD. -- Peripateticos', et Academicos nominibus differentes, et re
congruentes lib. 2. (b ) De natura autem ita dicebant, ut eam dividerent in res
duas, ut altera eſſet efficiens, altera autem quaſi huic fe præbens ea qua effi
ceretur aliquid: in eo, quod efficeret vim eff: cenſebant; in eo au tem quod
efficeretur materiam quamdam: in utroque tamen utrum, que: neque enim materiam
ipfam cohærere potuiſſe, ſi nulla vi contineretur; neque vim line aliqua
materia: nihil eft enim quod non alicubi eſſe cogatur. (c ) Sed quod ex utroque
id jam corpus, et quaſi q uandam qualitatem nominabanc Earum igitur qualitatum
ſunt aliæ Principes, aliæ ex his ortæ. Principes ſunt uniuſmodi, et ſimplices, ex iis au
tem ortæ variæ funt, et quafi multiformes: itaque aer quoque (uti niur ognuna della ſteſſa ſpecie, e ſemplici. Da queſte qualità, altre ne for no nate, e
quaſi moltiformi. L'aere, il fuoco, l'acqua, ela terra for no primi, e da
queſti nacquero le forme degli animali, e le altre coſe, che ſi generano dalla
terra. Dunque que' principi, per tradurlo dal Greco, ſi dicono elementi, de'
quali l' aria, il fuoco, banno la for za di muovere, e di fare, le altre parti
di ricevere, e quaſi di pati re, l'acqua, dico, e la terra. La parola ſemplice
quì non ſignifica indiviſibile, e Seſto (a ) Em pirico pur la prende in queſto
ſenſo. Vè un quinto genere, b )di cui ſono gli aſtri, e le menti ſingolari, ed
Ariftotele lo pone diſimile dagli altri quattro. Se le menti ſono tratte dallo
ſteſſo elemento, che gli altri, non ſon eſſe ſemplici nel ſenſo d'indiviſibile,
ciò che CICERONE dice altrove. Teniamo noi che l'animo abbia tre parti, come
piacque a Platone, o ſia ſemplice ed uno; ſe ſemplice ſia egli come il foco, il
fangue, l'anima, cioè il ſoffio. Queſte coſe conſtando di parti non ſono
ſemplici. Continua CICERONE. (c ) Ma penſano, che di tutte ſia ſoggetto una
certa materia priva di ogni specie, e d ogni qualità, e da eui Butte le coſe
ſono eſpreſſe e fatte, e che può ricever in sè tutte le coſe. Se la materia era
prima d'ogni fpecie, d'ogni qualità, non cra corpo, e perciò conſiderata dalla
mente, indipendentemen te dalla forza, ella era incorporea; Selto Empirico
chiama per. incorporei i punti, le linee, e le ſuperficie... Platone nel Timeo,
la chiama difficile ed oſcura fpecie, e il recercacolo d'ogni generazione, e
quali nutrice; aggiunge, che ella non fi diparte mai dalla propria potenza,
perciocchè tut te le coſe riceve, nè prende maiper alcun modo, alcuna forma a
queſte fimile, e prova eller convenevole, che di tutte le ſpecie ſia privo
quel. che ha in sè da ricever tisti'i generi, comequelli che hanno da fa re
unguenti odorofi, l'umida materia, che vogliono di certo odore, cori dire di
tal guiſa preparano ', che ella non abbia alcun proprio odore e colore eziandio,
vogliono in materie molli imprimere alcune pgure, los niuna mur' n. pro latino
) ignis, et aqua, et terra prima ſunt. Ex iis au tem' orræ animantium formæ
earumque rerum quæ gignantur è ter ras, ergo illa initia, ut è Greco vertam,
elementa dicuntur; è qui bus aer, et ignis movendi vim habent et efficiendi;
reliquæ par tes accipiendi et quafi patiendi, aquam dico et terram. a ) Contra
Mathematicos. (b ) Quintuin genus e quo eſſent aſtra mentesque ſingulares earum
quatuor quæ ſupra dixi diſſimiles, Ariſtoteles quoddameſſe rebatur. (6 ) Sed
Salicetam putant oinnibus fine ulla fpecie, atque carentem omni illa qualitate
o... materiam quandam ex qua omnia eſptela, atque effecta lipt qux'- tota omnia
accipere pofito (14 ) 1 njuna figura affatto laſciano primieramente apparire in
quelle, ma cer cano pria di renderle quantopoſſibil fra polite. Molte altre
coſe aggiunge Placone, che Ariſtotele in una de finizione riduce, dicendo che
la materia non è alcuna di quelle co fe, di cui l'ente fi determina, e tra
l'altre coſe annovera la qua lica, e la quantità, che par Cicerone ridurre alla
ſola qualità; ma che l'idea del corpo, e della materia foffero diverſe ſecon do
gli antichi, lo dimoſtrano le diverſe parole, con cui l'eſpri mevano, chiamando
la materia ùns, ed il corpo owllde. Chi po ne un nome, dice Platone nel Sofiſta,
dalla cofa diverſo, introdu ce veramente due coſe. La materia dunque, non
eſſendo il corpo, ella era incorporea, ed incorporea la chiama in molti luoghi
Sesto Empirico, e Plotino, la cui autorità qui è tanto più for te, quanto che
egli ſteſo col nome d'incorporeo, non ſignifi cava la ſteſſa coſa che noi
chiamšamo fpirituale. Stobeo (a ) lo conferma col dire: Si nega effer corpo
lamateria non tanto, perchè manchi degl'intervalli del corpo, o delle tre
dimenſioni, quanto perchè ſia priva d'altre coſe appartenenti al corpo, figura,
co lore, gravità, leggerezza, ed ogni altra qualità, e quantità. La materia pud
(b ) in tutti i modi mutarfi, ed in ogni parte non mai ridurſi al niente, ma
ſolo in parti che poſsono all' infinito partir li, e dividerſi, nulla eſſendo
di minimo in natura, che divider non fi pola. Le coſe poi che ſi movono tutte',
moverſi con intervalli, che all'infinito ſi poſſono dividere, e cosi' movendoſi
quella forza, cheab bian detta qualità (cioè il corpo ) e di qud, e di là
verſando per fano, che tutta affatto la materia fi muti, efi faccian le coſe,
che chix miam quali, dalle cui nature coerenti, e continue in tutte le ſue
parti è fatto il mondo, fuori di cui non v'è alcuna parte di materia, nè abas
cun corpo. Quante coſe raduna CICERONE in poche parole ! Con la divi fibilità
all'infinito della materia, eſclude gli atomi forſe ammeſ da Empedocle ne'
minutiſſimi corpicelli, che componevano gli elementi, e da Eraclito nelle
mondature piccioliflime, ed indivi fibi (a ) Stobeo. I. 1. Egl. fil. cap. 14.
16 ) Omnibusque modismutare atque ex omni parte eoque etiam interi se non in
nihilum ', ſed in ſuas partes quæ infinite lecari, atque di vidi pollint, cum
ſit nihil omnino in rerum naturam minimum quod dividi nequeat: quæ autem
moveantur omnia intervallis moveri; quzintervalla item infinite dividi poſfint,
et cum ita moveatur il la vis, quam qualitatem effe diximus, et cum fic ultro
citroque verfetur: et materiam ipfam totam penitus commutari putant, et ita
effici quæ appellant qualia, e quibus in omninatura cohærente, et confirmata
cum omnibus fuis partibus effectum elle mundunt, extra quem nulla pars materiæ
fit nullumque corpus. (15 ) Ibili. Con la coerenza delle parti della materia, CICERONE
eſclu de il vuoto negato da tutti, da Talece fino a Platone, onde dif ſe
Empedocle: Nulla di vuoto vė, nulla che abbondi. Accenna pur CICERONE le leggi
coſtanti che conſervano icore pi movendoſi, e nel dir che fi movono con certi
intervalli, i quali all' infinito ſi poffon dividere, non applica egli le leggi
del moto a' corpi minimi come a'fenfibili? Le parti (a) del mondo effer tutte
le coſe che fono in eso, e tutte occupate da una natura che ſente, e nella
quale v'è una ragione per fetta, e la ſteſsa fempiterna, nulla effendovi di più
forteche poſsa diſtruggerla, e la steſſadirfi mente, ſapienza perfetta, e
chiamarfi Dio, ed eſer.quafi certaprudenza di tutte le coſe, cheprovede alle
coſe celefti, ed a quelle che in terra appartengono agli uomini. Se queſto Dio
degli antichi Filoſofi rifultava dalle nature coerenti e continue di tutte le
parti del mondo, ſe egli era il ſenſo, la ragione perfetta, la ſapienza, la
providenza che reg gea queſte parti, era egli altro che una modificazione della
forza e della materia, giacchè non v'era forza ſenza materia, nè materia fenza
forza, e non era egli ſeparatamente dalle co ſe conſiderato che un ente di
ragione? Qual relazione ha que fto Dio al noſtro, che è un ente ſingolariſtimo
in sè, e fepa rato non per preciſion di ragione, ma realmente dalla forza e
dalla materia, della quale egli è il Creatore? Alle volte lochiamiamo (b )
neceſſità, perchè null' altro pud farſi, ſe non ciò che da lei è coſtituito
nella quafi fatale, e immutabile con tinuazione d'un ordine fempiterno; alle
volte poi lo chiamiamo fortu na, la qual fa molte coſe improvvife, nè da noi
penſate per l'oſcuri. tà, ed ignoranza delle cagioni; ed ecco Dio rappreſentato
come agente neceſſario, o ſenza libertà; ecco diſegnato l' ordine fa tale e
ſempiterno delle coſe; ecco come per la noſtra igno ranza non poſſiamo
conoſcere la conneſſione, e le conſeguenze delle (a ) Partes autem mundi effe
omnia quæ infint in eo quæ natura ſentiente teneantur, in qua ratio perfecta
inſit quæ fit eadem ſem piterna: nihil enim valentius eſſe a quo intereat, quam
vim ani mam effe dicunt mundi eandemque effe mentem fapientiamque per fectam
quem Deum appellant, omniumque rerum quæ ſunt ei fub jedtæ quafi prudentiam
quandam procurantem cæleftia maxime dein de in terris, eaque pertinent ad
homines. 16 ) Quam interdum neceſitatem appellant quia nihil aliter poſfit, at
que ab ea conftitutum fit inter qual fatalem, &immutabilem conti nuationem
ordinis fempiterni; nonnunquam quidem eandem fortu nam, quod efficiat multa
improviſa hæc nec optata nobis propter obſcuritatem ignorationemque cauſarum, (16
) delle cagioni, e degli effetti loro. In ſomma l'antica Filoſofia aveva
adotata l' eternità, l' animazione, la divinità del mondo, e l'immutabilità del
Fato, le quattro coſe che Santo Agoſtino ha egregiamente combattute nella Città
di Dio. Comparando il trattato d' Ilide, e d' Ogride di Plutarco col paſſo di CICERONE,
non è difficile di raccogliere, che la Filoſo fia Egizia ne' principi
eſſenziali non era diverſa dalla Greca, ſe non nella maniera di ſpiegarſi o ne'
ſimboli. La materia, di cui parla CICERONE, era Ilide, la quale in ogni coſa
potea tramu. tarſi, e di tutte le coſe eſer capace, della luce, delle tenebre,
del giorno, della notte, della vita, della morte, del principio, e del fi ne.
La forza è Oſiride, la cui veſte ſi facea ſenza ombra, e ſenza varietà, d'un
color ſemplice, e rilucente; perchè ella è il principio dalla noſtramente ſolo,
intefo, puro, e ſincero, tutt' iſimbolicontrarj a quelli delle proprietà
dipendenti dalle qualità de' corpi diſegnati per Oro. Riſultava queſti
dall'accoppiamento d'Ilde, e d'Oſiride, e chiamavaſi parto o creatura,
rappreſentandoſi per l'ipotenuſa del triangolo miſurata dal 5; per cui ſi
chiamava con la voce Pente, da cui deriva Panta, o l'Univerſo, che gli Egizi
penſavano eſſer la ſteſſa coſa con Dio, nel che, come egli dice, s'accordava Ma
netone Sebenita con Ecateo Abderita. Diodoro di Sicilia nel principio della ſua
Storia, ſcrive coſa pen {aſſero gli Egizj su la generazione del mondo, ſul
principio del le coſe, ſul naſcimento dell'Uomo. Par che Euſebio afcriva a Tot,
che è il Mercurio degli Egizj, quanto ſcriſſe Sanconiatone ſul caos, e ſulla
formazione della Luna, delle Stelle, degli Elementi. La Teologia miſtica dei
Fenici, che dagli Ebrei, ſecondo Euſebio ed altri Padri, ſi preſe, reftd in
guila alterata e confuſa, che nel caos poſero prima i principj delle coſe, ed
introduſſero poi l'arte fice o l'amore, per opra del quale ordinarono il caos,
é fabbrica rono il mondo. Orfeo il primo la portò nella Grecia e L'Inno criſto
canto del caos vetufto, E come agli elementi, e come al Cielo Origin deffe, ed
alla vaſta terra, E alla profondità del mar Amore Antichiſſimo, e ſaggio. Il
caos era la materia, l'amore, o la forma, ed i prodotti, i compoſti, ed i
corpi, ed in queſte tre coſe conſiſtea la fiſica generale degli antichi. La
ſcienza che n'eftraſſero o la metafi fica rappreſentandola in una maniera molto
indeterminata, la ſciava infeparata la materia da Dio, e dai compoſti, ed era
molto perciò differente dalla noſtra metafiſica, la quale nell' en te include
eſſenzialmente le creature, nè s'eſtende che per un ' 9 1 5 analogia molto
lontana al Creatore. Io lo dimoſtrerò partita mente ne' liſtemi di Pittagora,
di Senofane, e di Parmenide, e ſarà facile ad applicarne l'uſo a Platone.
Pittagora e Platone (a ) giudicano, che il mondo ſia ſtato fatto da Dio: dunque
le Platone fece da Dio generar il mon do ordinando la materia fluctuante, egli
imparò ciò da Pitta gora, che l'avea imparato dagli Egizi, da Orfeo, anzi dal
pro prio maeſtro (6 ) Ferecide Sciro. Avea egli ſoſtenuto, che in tut ta
l'eternità Giove, il tempo, e la terra erano ſtati. Facciali pur di Giove, la
cagione di tutte le coſe, e gli ſi dia ſomma pruden za, e fomma ſapienza, egli
non ſarà mai che la forza, e l'amore che eguaglieraffi al tempo, e alla terra;
vi ſi aggiunga, che poi chè Giove diede il premio alla terra ſi chiamò queſta
Tellure, (c ) non altro mai ſi concluderà, ſe non che prima la forza, e l'amo
re temperaffe, digeriſſe, ed ornaſſe quella mole indigeſta, che chiamavali
terra. Pittagora generò il mondo dal foco, e a guiſa di foco ſotti liſſimo (d )
Iparſo, e rinchiuſo nel mondo, volea Placone, che foffe Dio. L'ornamento, (e )
l'unione, l'ordine di tutte le coſe furono chiamate da Pittagora Coſmos, o il
mondo, e diffe egli, che il mondo viſibile era Dio. Stimò il primo, dice
Cicerone (f) l'animo per tutta la natura delle coſe eſer diffuſo, e per la
mente da cui gli animi noftri ſono tratti, ne vide per la detrazione di que fti
diſtaccarſi, e ſquarciarſi Dio, e farſi miſera una parte di lui, mentre queſti
ſoffrivano. Dio dunque era il mondo, e l'anime era no parti di Dio, effetto
della Metempficoſi, ſe pur non era queſta una coſa affatto poetica, come Timeo
di Locri lo dice. VIRGILIO espresse il sentimento di CICERONE nelle Georgiche.
Della mente di Dio parci efſer l' api, E forfi eterei differo, che Dio Va per
tutte le terre, e tutti i mari, E pel profondo Ciel; quindi gli armenti, E le
pecore, e gli Uomini, e ogni ftirpe Di fere, e ogni altra, che da se rimove La
tenue vita allorchè naſce. Tomo II. E nell (a ) Plut. de Ifid.& Ofir.car. 374.
Franc. Edit. Vechel. (6 ) Laert.
S. Clem. Aleſs. San Giuſtino apolog. Ermia nel fine dell'opere di S. Giuſtino. (e) Plut,plac.lib.2. (1)
De Natura Deor. I. 1. Elle apibus partem divinæ mentis, et hauſtus Æthereos
dixere: Deum namque iré per omnes Terrasque tractusque maris Columque profundum.
Hinc pecudes, armenta, viros,
genus omne ferarum Quemque fibi tenues naſcentem arceſſere vitas. 1.4. Georg..
C (18 ) E nell' Eneide, Nel principio le terre, il Cielo, e i campi Liquidi, e
della Luna lo fplendente Globo, e gli aſtri Titanj, interno fpirco Alimenta, ed
infuſa in ogni membro Tutta la mole n'agica la mente E fi framiſchia nel gran
corpo; quindi E di pecore, e d'Uomini la ftirpe, De volanti la vita, e'l mar
che i moftri Sorco la liſcia ſuperficie porta. no, Pittagora fu l'autor
dell'idee; (a ) oſervd il primo tra'Greci che la mente non potendo
rappreſentarſi ſingolari, perchè ſono in numerabili nel compararli, ne traſfe
igeneri, e le ſpecie, ne'qua li ſi ravviſano le coſe ſparſe. Così ravviſava
tutti gli individui umani nell'animal ragionevole. Nel far queſti aſtratti
conſide rò, che la materia era mutabile, alterabile, Auflibile in ogni gui fa,
ma che non vi ſono ſpecie, che s'accreſcano, o che perifca e perciò gli Uomini
oſſervandole coſtantemente in tutti i tempi, e in tutti i Paeſi le credono
eterne ed immutabili. La que ſtione era di rappreſentar queſt'idee. I numeri
convengono all'Uomo, al cavallo, alla giuſtizia, al la caſa, e a che so io;
dunque i numeri ſono univerſali, perchè atti alla rappreſentazione de' molti.
L'oſſervazione è d'Ariſtotele, (c ) e molto più la ſtende Poſſidonio, riferito
da Seſto Empirico, (d ) il qual dimoſtra per i numeri aſſimigliarſi cutte le
coſe, e ſen za queſti non poterſi intendere nè gli elementi, nè l'armonia, nè
alcuna delle tre dimenſioni del corpo, nè ciò che riſulta da corpi uniti,
coerenti, diftánti, nè tutti i calcoli delle quantità fùccef five, nè ciò che
appartiene alla vita, ed all' arti fondate su propor zioni ſolo intelligibili
per i numeri. Pitragora dunque ſi ſervì del numero, per dar un ſimbolo dei due
principj delle coſe, la forza, e la materia, di cui chiamò l'una l'uno, e
l'altra il due. L'unità, diceva egli, è Dio, (e ) ed anche il bene che è di
natura * Principio Coelum, ac terras camposque liquentes Lucentemque globum
Lunæ Titaniaque altra Spiritus intus alit: totamque infuſa per artus Mens
agitat molem, et magno ſe corpore miſcet. Inde hominum pecudumque genus
vitæque volantum, Et quæ marmoreo fert monſtra ſub æquore pontus. (a ) Plut.
plac. Phil. l. 1. (6 ) Plut. ib. l. 1. c.9. (c ) Metaf. lib. 10. (d ) Contra Logicos. (e ) Plut. plac. Phil.
lib. 2. (19 ) un ſolo, e lo ſteſso intelletto, il due infinito, e genio triſto,
d'inser torno il qual due ſi fa la quantità della materia. Chiamava uno la
forza perchè noi la concepiamo a guiſa d'un non ſo che d'indi viſibile;
chiamava due la materia, perchè ella è fempre divil bile in due, Di queſti due
principj, uno è quello del bene, e l'altro del male, già l'ha inſinuato
Plutarco. Archelao Veſcovo (a ) di Cara dice; Širiano introduce la dualità
contraria a ſe ſteffa, la quale egli preſe da Pittagora, ſiccome tutti gli
altri ſettatori di tak dogma,; quali difendono la dualità declinando dalla via
retta della ſcrittura. Tutte in ſommal'ereſie, che vi ſono nel compendio della filosofia
di CICERONE, che vuol dir l'eternità, l'animazione, la divis nità del mondo,
Piccagora le raccolfe in un ſiſtema, ed in vano fi dice, che egli nulla fcriveſſe.
Liſide diſcepolo (b ) di Pittagora in una lettera fcnca ad Ip parco, dopo la
morte del maeſtro ſignifica non voler comuni care ad alcuno i precetti, e
dimoſtra che delle coſe, le quali di ceano i ſeguaci di Pitcagora, non ve n'era
nè pur ombra. Por firio nella vita di Pittagora dice, che agli Uomini oppreſli
da tale calamitat, (cioè dalla morte di Piccagora ): manca lo ſciens di lui, la
quale arcana e recondita cuſtodida in petto, nè vi reftas fono che certe coſe
difficili da intenderſi imparate a memoria dagli udi tori dell'eſterna
Filoſofia, poichènon v'era alçun ſcritto di Pittagora; ed aggiunge,che dopo la
morte di lui „ Lilide, Archippo,ed altri furono folleciti, chei
penſieridiPiccagora non ſi pubblicaffero, onde eutti gli arcani della ſua
Filoſofia con lui perirono'. To dubito aſſai del la vericà della lettera di
Liſide, la quale con quel che dice Porfirio pud eſſere ſtata finta,perchè i
Criſtiani nontraeſfero argomenti da quanto ci reſta diPitagora, in CICERONE in
Plutarco, in Laer zio: ma ſe non v'era coſa alcuna della Filoſofia di Pittagora,.co
me poi Jamblico poeea gloriarſi di riftabilirla; e non è manifeſto che egli la
riſtabili a fuo modo per combattere i Criſtiani de'quali fu accerbo' nimico; lo
ſteſſo Porfirio, che dice nulla aver fcric to Pittagora, come poi ebbe fronte
d'afferire, che egli avea ſcrit to fu l'ente, il che Euſebio (c ) riferiſce?
Diſcepoli di Pitcagora furono Archita Tarentino il vecchio, Pe ritione, Timeo
di Locri, ed Epicarmo. Archita il vecchio (d ), che Simplicio confonde col
giovine, fcriſſe delle dieci voci corriſpondenti ai dieci concetti dell'animo,
i quali s'eſtendono a cutte le cole, potendoſi d' ognuna cercar la (a )
Zaccagna collect. monumentorum veterum Eccleſiæ Græcæ, atque Latinæ. Archelai
Epiſcopi acta. (6 ) Galeo. (c ) Propof. Evang, lalg. (d ) Patrizia diſcuſ,
Peripa,1 (20 ) la ſoſtanza, la quantità, la qualità, l'azione, e gli altri
acciden ti regiſtrati a lungo da Ariſtotele nella ſua Logica, in cui copiò il
trattato di Archita. Lo Stanlejo, che pretende di numerare tutte le donne
Pitcago riche, omette Peritione, e pur eſser ella dovea la più celebre,le da
lei trafse Ariftotele (a ) tutta l'idea della ſua metafiſica. Lo prova con
molta erudizione il Patrizio, allegando la definizio ne della fapienza di
Peritione, e comparandola con quella di Ariſtotele. La ſapienza, diceva ella,
verſa in tutt'i generi degli en ti, perchè verſa intorno tutti gli enti, come
la viſione intorno tutti i viſibili. Ariſtotele definì la metafiſica, per la
ſcienza che contem pla l'ente, in quanto ente, e le coſe che per sè gli
convengono. Peritione egregiamente ſpiegò gli accidenti dicendo: delle coſe che
accadono agli enti, alcune univerſalmente accadono a tutti, alcu ne altre a
molti di loro, e certe ad un ſolo, ma riguardar univerſal mente, e contemplar
tutti gli accidenti appartiene alla ſcienza. Que. fte ed altre cole che
ilPatrizio aggiunge, danno idea della preci fione, e nettezza di Peritione, e
nel tempo ſtefso quanto tra' Pittagorici erano familiari l'idee Pittagoriche,
ſe le donne ſtef ſe ne ſcriveano con tanta eleganza filoſofica · Non dobbiamo
tuttavia meravigliarſene, di poi cheabbiam veduto ne’noftri gior ni Madama la
Marcheſa di Chatelet, ſcrivere ſulla natura del. le monadi Leibniziane,
queſtione molto più oſcura di quella dell'ente. Timeo di Locri nel ſuo
ragionamento ſull'anima del mondo, in queſta univerlità di natura, dice egli,
v'è un certo che, il qual rimane, ed è l intelligibile eſemplare delle coſe,
che ſono in un fuſo perpetuo di mutazioni, e queſto nelle vicende delle coſe
ſingolari, co ftante, e perpetuo eſemplare ſi chiama idea, ed è dalla mente
compre fo. Nell'univerſità dunque delle coſe, che vuol dir dentro le coſe o in
cutti i compoſti v'è quel non ſo che, che mai non cangia, e può dalla mente
eſtrarli qual idolo. Le coſe ſenſibili eſser in un perpetuo fluſso lo
diſsegnarono, al dir di Platone, nell'Omero, ed Eſiodo ſotto l'imagine
dell'Oceano, e di Te ti, e di queſte non aſsegnarono fcienza i Pictagorici, ma
ſolo di quelle, che nè col ſenſo, né coll' immaginazione ſi ravviſa no, e
queſta fu la prima differenza tra la Filoſofia Jonica, e l'Italica. Epicarmo
ſommo Poeta, come Omero al dir di Platone, so all' una grandezza d'un cubito (diceva
egli ) altra tu voglia aggiun gervi o ſottrarsi, non avrai mai certo la Nera
miſura; gli Uomini pa rimen (a ) Patriz. l. 2. cap. 1. diſcuſ. Perip. (6)
Ragion, ſu l'anima del Mondo. (21 ) rimente conſidera or accrefcere, ed or
decreſcere, tutti ſoggiaciono ai cambiamenti del tempo. Jeri tu fofti un altro, io pur vi fui, E un
altro ſiamo in queſto tempo, e fieno Di nuovo gli altri, che non mai gli ſteſſi
Noi ſiamo, come la ragion lo predica. Per l'Intelligibile così parlo: A. L'arte
tibicinal è qualche coſa? B. Perchè no. A. Forſe è l' Uom queſta tal arte? B. Non mai A. Vediam, che coſa queſto ſia
Tibicine B. Egli è un Uom; non dico il vero? A. Il ver ma ftimi che non debba
diri Ciò pur del bene? Io voglio dir che il bene Una coſa pur ſia, ma s'altri
impari Ad effer buon ei già dirafli buono; Il Tibicine è quegli che la tibia A
ſuonar imparò. Quel che a ſaltare Salvatore, e ceſtor quegli che a teſſere
Impararo, e così d'ogni altro l'arte Certamente non è, ma ben l'artefice. Nel
dir Epicarmo, che il bene è una coſa come l'arte, e che nè il buono, nè l'arte
ſono gli uomini che la partecipano, egli c ' inſegna a far le aſtrazioni della
mente, la qual avendo comparato tra loro molti Uomini che fien buoni, molti
tibicini, molti falcatori e teſtori, ne ha compoſto quell'idea, che poi convie
ne a tutti. Queſt'idea reſtando ſempre la ſteſſa in tutti i tem pi, ed in tutti
i caſi, per quanto variano i temperamenti, e le figure degli Uomini, li
confidera ſempre nello Iteſſo modo, ed è principio del diſcorſo, o di ciò che
nel Teeteto ſi chiamano analogie ſcoperte, le quali nel raccogliere le coſe col
mezzo de' ſenli, le fanno comprendere la ragione. Epicarmo era contemporaneo di
Senofane, come ſi diffe, ed eccoci a ' Filolofi più vicini a Socrate, ed indi a
Platone, i qua li a poco preffo ſi trasfuſero le ſtelle idee non diverſificate,
che dalla maniera d'eſporle, e di colorirle. Senofane, dice Euſebio, e quelli (6
) che lo ſeguirono, moſfero così con (a ) Laerzio Vita di Platone. (6 ) Lib.
11. cap. 1. Prep. Evang. 1. 1
contenzioſe ragioni, che piuttoſto arrecareno a' Filoſofanti confuſio ne, che
ajuto. Pittagora volea che il mondo foffe eterno, benst come gli altri Filoſofi,
quanto alla materia, ma non quanto alla forma, poichè credea che foſſe ſtato
generato dal foco; Se nofane pofe il mondo non generato, ma eterno, 'aderendo
ad Ocello Lucano, che fcriffe fu l'eternità del mondo prima d'A. riſtotele;
ecco la prima differenza tra Senofane, e Pittagora Un'altra più forte ve n' era;
Pittagora avea pofti per principj l'uno, e il due, Senofane riduſſe tutto
all'uno, Senofane", dice CICERONE, è più antico di Anafagora; vuel che uno
fieno tutte le coſe, nè queſto uno è mutabile, ed è Dio non mai nato, e
ſempiter no, e di conglobata figura. Seſto Empirico (b ) parlando per bocca di
Timone foggiunge, che fecondo Senofane l' Univerſo era una fola coſa, che Dio
eſiſteva in tutte le coſe, e che era di figura sfe rica, e di ragione dotato.
Ad Empirico ſi conforma Laerzio (c ) dicendo, che ſecondo Senofane, Dio nella
materia tutto udiva tutto vedeva, ſebben non reſpirale, e che tutte le coſe
inſieme erano la prudenza, la mente, l'eternità. Io dimando, ſe nel far Dio
fparfo per tutte le coſe, e fen ſitivo, e prudente, e intelligente, differiva
egli dall' opinione che CICERONE eſpoſe nel compendio della Filoſofia? Non v'è
che la figura sferica che gli aſſegna Senofane, e per cui non infinito, ma
finito lo rende; ma chi fa, fe nel concepir gli antichi la figu ra sferica,
comela più ſemplice, intendeſſero ſimbolicamente d'ac tribuir a Dio tutte le
perfezioni? converrebbe faper fe Senofane fcriſſe ciò in profa, od in verſo, e
ben eſaminare tutto il conte fto della fua dottrina. Non reſtandoci che
conghietture, io m'at tengo a quella del ſimbolo per accordar CICERONE con se stesso,
il quale nella natura degli Dei combatte Senofane, che aggiunſe la mente
all'infinito. Queſt'infinità era una conſeguenza del fuo ſiſtema, perchè ſup
poſta l'eternità della materia cost argomentava: (d ) Eterno è cid che è, se è
eterno è infinito, fe infinito uno, ſe uno fimile a sèl. Di nuovo ſe l' uno è
eterno e ſimile, egli è ancora immobile, fe immobile non ſi trasfigura per
poſizioni, non ſi altera per forme, non ſi miſchia con altri. Ariſtocele
elamina i ſoffiſmi contenuti in queſto ragio namento; il principale è; da ciò
che il mondo è ecerno, infini to, uno, non ne fiegue che egli lia
effettivamente immobile, per che le coſe eſiſtono nella maniera che poſfono
eſiſtere, e la materia ſe ſteſſa il principio del moto non v'è contradizione a
cont (a ) Queſt. Acad. lib. 1. (6 ) Lib. 1. dell'ipotipoſi. (c ) Laert. lib. 9.
idí Arift. contra Xenof, Zenon. et Gorgiam. eſſendo per i 2 (23 ) a concepire,
che il moto ſia eterno come la materia. Coloro che ammettevano il caos eterno,
davano eterno il moto, ſebben ſen za regola o forma. Non ſi cerca qui però, ſe
concludeſſe l'argomento di Seno fane, ma ſolo qual foſſe la ſua ſentenza, e
coſa egli ne dedu ceſse. Come poi accordarla colla ſua fifica? Ammetteva egli
per principj (a ) delle coſe naturali la terra, il foco, l'aria, e l' acqua, e
dalle alterazioni di queſti elementi, rendea tutti i miſti a generazione, e
corruzione ſoggetti. Grand uſo fece di quefte due coſe, perchè, ſecondo lui,
conſiſteva il So le negl'ignicoli raccolti dall umida (6 ) eſalazione in una
nuvola ignita, e la Luna in una nuvola coſtipata. Manon era poſſi bile
decerminare il grado di verilimiglianza filoſofica ch'egli da va all'Ipoteli,
poichè nelle ſentenze filiche di Senofane y' è mani. feſta contradizione.
Poneva egli de' Soli innumerabili, e la Lu na abitata. I ſoli innumerabili
erano quelli de' Pitcagorici, e di Orfeo (C ); ma come abitar una nuvola? La
terra (d ) la quale per immenſa profondicà fi ftendea di ſotto, era coſa ri
pugnante alla sfera armillare che Anaſimandro forſe di lui, maeſtro avea
inventata o propagata per cutta la Grecia. Cor revano allora tali dottrine, e
Senofane, in Colofone, in Atene, in Sicilia, e in Elea le avea ſtudiate; avea
Talęce calcolate l'eccliffi del Sole, e della Luna, avea Pittagora applicare al
liſtema celeſte le conſonanze Muſicali, e nella lira a lette corde determinato
il pu mero, e le diſtanze de' Pianeti; non è poſſibile, che Senofane in un
tempo così illuminato voleſſe diſcredicare il ſuo ingegno con ipoteſi aſſurde e
ad ogni ragione contrarie; non erano dunque, che idoli fantaſtici, iperboli
poetiche, o ſimiglianze groſſolane, in cui ſi deve più badare al color, che
alla coſa. La grande difficoltà di Senofane era nel combinare il fiſico col
metafiſico, o lo ſtato ideale con l'obiettivo. Avea già ſtabilito Pictagora,
l'intelletto altro non eſſer che (e ) mente, ſcienza, opi nione, ſenſo, da cui
tutte l' arti, e le ſcienze nacquero. Egli diſse gnava la mente per l'uno, ciò
che adeſſo noi chiamiamo lemplice intelligenza; diſegnava la ſcienza pel due,
poichè s'acquiſta la ſcienza deducendo una coſa da un'altra; diſsegnava
l'opinione per il tre, poichè nel trar la conſeguenza da un principio proba
bile ſe ne riguarda nello ſteſſo tempo due, in uno de'quali v'èla ragion
ſufficiente d'affermare, nell'altro di negar la coſa. I Pit 3 ta (a ) Laert. vit. di
Xen. Plut. plac. (6) Plutar. lib....
Origenes Philoſ. (c ) Veggali Moefenio ſu l'eſiſtenza d'Orfee. Plutar. plac. de Fil.
lib.i. (d) Gregorii Aſtronomici Pref. (c ) Plutar. lib. 1. de plac. (24 ) tagorici furono tutti dogmatici, o per
dar credito alle ſentenze del ſuo maeſtro, o perchè pareſſe loro, che la
fapienza non do veſſe mai eſſer miſtad'ignoranza, come accade nell' opinione
milta dell' una, e dell' altra. Senofane fu il primo ad introdur il dubbio
nella Filoſofia, e quindi l'opinione. Chiaro l'Uomo non ſa, nè ſaprà mai Degli
Dei coſa alcuna ed altre coſe Che da me dette fur, ſiaſi perfetto Pur quanto ei
dice, tuttavia non fallo, E v'è opinion in tutte queſte coſe. Da queſti verſi
Seſto Empirico inferiſce, che Senofane non to glica la comprenſione, ma
ſolamente quella che dalla ſcienza de riva; nel dire in tutte queſte coſe d'è
opinione accenna il proba bile, e l'opinabile, onde conclude che Senofane deve
porſi tra coloro, che negano darſi criterio della verità, e non tra gli ac
cattalecici, che negavano alcuna coſa poterſi da noi compren dere. L'autorità
di Selto Empirico è d'un gran peſo, ove ſi tratta di determinare i gradi della
cognizione, ma non è da ſprezzar fi ciò che dice CICERONE: Senofane e Parmenide
quan tunque con non buoni verſi però con certi verſi accufano quaſi irati
d'ignoranza coloro, che ofano dir di ſaper qualche coſa allo ra che nulla fanno.
Chi dice nulla eſclude ogni ſcienza, ed ogni opinione. Senofane ſi diſtinſe per
la Logica, (c ) e ſecondo la Cro nologia di Euſebio, egli fu udito da Protagora,
e da Nef ſa; Metrodoro udi Nefra; Diogene Metrodoro; Anaſarco Diogene, e coſtui
Pirro d' Elea, dal qual ebbero nome i Filo ſofi Scercici fino a Gorgia, il qual
diceva: Non v'è nulla;,fe anche vi foſe qualche coſa, non ſi potrebbe
comprendere, e ſe compren dere, non mai ſpiegare con le parole. Come inoltrarſi
dopo tale raf finamento di dubbj? Tra i diſcepoli però di Senofane il più
illuſtre fu Parmeni de deſcritto da Platone nel Teeteto qual vecchio grave, e
vene rabile e di una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe mal non
m'appoogo, che egli nella diſputa non era oſtinato, ſu perbo, rozzo ed agreſte,
come Ariſtotele (e ) dipinge Senofane è Meliſſo. Socrate in quel Dialogo, ed in
altri s'aſtiene quanto pud (a) Xenoph. ap. Seſt. Emp, adv. Matem. (6 ) QUEST. ACAD.; Eufeb.1.6.
C. 19. (d ) Id. l. 12, c. 7. (c )
Metaf. lib.... (25 ) può di ragionare contro le ſentenze di Parmenide per la
rive renza che ad eſſo portava. Euſebio caratterizza la dottrina di Parmenide,
qual via contraria a quella di Senofane. Ermia però, dice Parmenide in bei
verſi, c'inſegna che queſto Univerſo è eterno, immobile, e ſempre ſimile a ſe
ſtero. Lo ſteſſo Euſebio credeva, che ſecondo Parmeni de l'univerſo foſſe
ſempiterno, ed immobile. Stobeo riferiſce, che Senofane, Parmenide, e Meliſſo
colſero affatto la generazio ne, e la corruzione. In che dunque diſconvenia
Parmenide da Se nofane, (6 ) Ariſtotele chiaramente lo ſpiega nell' accennar la
dif ferenza che v'era tra Parmenide e Meliſſo, dicendo: volea Par menide, che
tutto foſe uno ſecondo la ragione, e Meliſo ſecondo la materia, e da queſti due
differiva Senofane, che chiaramente non dif ſe nè l'uno, nè l'altro. Eſer uno
ſecondo la materia, è il medeſimo che ritrovar nell eſſenza della materia la
ragion ſufficiente dell'unità della ſteſſa. Ed in fatti una è la materia, fe in
tutte le parti e nel tutco e nella medeſima fpecie è omogenea, qual CICERONE la
deſcrit ſe nel compendio della filoſofia, e l'ammiſero Platone, ed Ariſto tele.
CICERONE rammemora ancora la forza, utrumque in utroque, ma conſiderando forſe
Meliſſo, che gli effetti della forza, o ſieno le forme, ed i modi aggiunti
ſucceſſivamente alla materia, non mai erano continuamente cangiando, gli
eſcluſe dall'eſſenza, e in con ſeguenza dall'unità della materia; ma ſe una era
eſſenzialmente la materia, uno era il mondo o l'univerſo, che da eſſa riſultava
e ſe uno in ſe ſteſſo indiviſibile, eterno, ed immutabile. Malgrado dunque le
continue aggregazioni delle parti ne' loro tutti, e le continue diſſoluzioni
de'tutti nelle lor parti, malgrado le altera zioni, le generazioni, e le
corruzioni, contemplando Meliſo l' univerſo nella parte effenziale lo credeva
uno, e immutabile in quella guiſa che è ilmare, non oſtante le continue
agitazioni che foffre da innumerabili flutti. Se tal era la ſentenza di Meliſo,
ella non è men empia ri ſpetto a noi, che ridicola preſo i Pagani, perchè la
materia, fe condo lo ſteſſo CICERONE, non può aver coerenza, e in conſeguen
Tomo II. d za (a ) Cap. 5. l. t. Præp. Evang. (6 ) Parmenides unum fecundum
rationem attigiffe videtur, Meliſſus vero fecundum materiam, quare id et ille
quidem finitum, hic ve ro infinitum ait effe, Xenophanes autem quando prior
iſtis unum poſuerat (nam Parmenides hujus auditor fuiffe dicitur ) nihil tamen
clarum dixit, et neutrius eorum naturam attigiſſe videtur, ſed ad folum coelum
refpiciens ille unum ait effe Deum. Metaf, Arift. l. 1. cap. 5. ediz,
Parigi 1 1 1 4 > za unità, ſe non è
ritenuta da qualche forza, e la continua ſuccef fione delle forme conſiderata
affolutamente in ſe ſteſſa, non è me no eſſenziale al mondo, che alla materia.
Ragionava dunque più ſottilmente Parmenide; dalla materia, e dalla forza, dalla
ſoſtanza, e dall'accidente, avea coll'aſtra zione della mente dedotta l'idea
dell'ente e dell'uno, e preten dea che l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo
preſcindeffe da tutte le forme, e le differenze dell'ente ſteſſo. Il P. Maſtrio
quali tre mille anni dopo ebbe una fimile idea, poichè egli vuole che l'en te
in quanto tale preſcinda dal finito, e dall'infinito, da Dio, e dalle creature
e la ſentenza è ſeguita da tutti gli Scotiſti. Qualunque ella fiali, certo è
che come quella di Parmenide curta opera della ragione più raffinata, e che ben
diſſe Arifto tele, che l'uno di Parmenide di VELIA era tutto ſecondo la
ragione, non che la ſentenza di Meliſſo ancor non lo foffe, ma egli nel
fondarla tutta ſulla materia croppo s'accomodava ai pregiudizi del ſenſo. Da
Parmenide, e da Meliſſo ſi diſtaccava Senofane, il quale ef ſendo il primo a
ragionare dell'immobilità dell'ente e dell'uno, s'at tenne alla concluſione
ſenza ſpiegar il metodo con cui la deduſſe. Ariſtotele (a ) che avea diviſe le
loro fentenze nella metafiſi ca, par che nella fiſica le confonda dove diffe',
che altri di lo ro tolfero la generazione', e la generazione, e la corruzione,
i quali come ben dicano in altre coſe non ſi deve perd penſare che parlino da
Fifici, poichè l'efervi alcuni enti immobili è più inſpezione di una ſcienza
ſuperiore, che della Fiſica. Non condanna dunque PARMENIDE DI VELIA, e MELISSO
DI VELIA, perchè aveſſero tratcato dell'unità, ed immo bilità dell'ente, ma
perchè ne aveano fatto un punto di Fiſica, dalla quale egli eſclule il trattato
delle coſe eterne, e immuta bili, onde credendo che il mondo, e il Cielo lo
foffero, parte ne trattò nella ſteſſa metafiſica, e parte ne' libri del Cielo;
na chi può credere che Parmenide non diſtingueffe queſte due ſcien ze, avendo
aſſegnati due principi delle generazioni, il foco, e la terra? e determinato
che un foco ſottiliſſimo, o lia l'etere cingeſſe gli altri, e che movendoſi in
vortice raffrenaffe colla ſua rotazione ſe ſteſſo, e le coſe contenute, ciò che
è il principio de' più moderni FILOSOFI (6 ) Egli componeva il mondo di molte
ghirlande tra loro teſſüste, una rara, e l'altra' denfa; fra le ghirlan de ne
poneva dell'altre meſcolate di tenebre, e di luce, e volea che la coſa la qual
a guiſa di muro le circondava forje foda, e maliccia. Queſte ghirlande, e
corone erano i vortici di Empedocle, dei qua li egli dice parlando de caſtighi de'genj.
Quelli (a ) Ariſt. Fiſic. lib. 1, (b ) Plut, lib. 2. cap. 7. (17 ) (* ) Quelli
nel mar ſollicitante forza Dell' etere rifpinge, e fola ſpucali Ne’ſotterranei
abimi, e nella lampada Dell'almo Sole dalla terra cacciali, E il Sole
infaticabile tramandali Ne' wortici dell'etere. Accoppiando il paffo di
Parmenide con quel di Empedocle, par che tutti due deſſero vortici alle Stelle,
raffigurando Parinenide nella luce le fiffe, e nelle tenebre i Pianeti; chi sa,
che queſta coſa maf ſiccia non foſſe il moto del vortice tutto luminoſo, perchè
tutto etereo, il quale impediffe con la ſua forza di rotazione lo sfaſcia mento
del mondo viſibile? il moto della Luna, dice Plutarco, (a ) ol'impero con cui
gira, l'impediſce di cadere in quella guiſa, che la fionda torta in giro
dalbraccio impediſce la caduta del faffo. Vuol Favorino, che Parmenide primo
ſcopriſſe, che la ſteſſa Stella pre cede il Sole la mattina, e lo fiegue la
fera, o che il Veſpero è lo ſteſſo che il Fosforo. PLINIO ne attribuiſce la
ſcoperta a Piccago ra, il quale veriſimilmente la portò d'Egitto, col ſiſtema
cele fte; ma forſe Parmenide, nella Teoria di queſta ftella, più che gli altri
Pittagorici ſi diſtinſe, come Filolao nel moto della ter ra. Filolao la facea
gira r in cerchio intorno alSole, ed Ecfan to volea, che movendoſinon
partiſſe dal proprio luogo, ma fer mata a guiſa di ruota, ſopra l'aſſe proprio
intorno quello giraffe da Occidente in Oriente; non (6 ) aderiva Parmenide, nè
a Filo lao, nè ad Ecfanto, ma conſiderando la terra d'ogni intorno egualmente
lontana dalCielo, la ponea in equilibrio, e voleva che ſenza eſſer fpinta da
alcuna forza a queſto, o quell'altro verſo, ella fi ſquaſfaſe bensì, ma non ſi
moveſſe. Parmenide feparò il primo le parti abitate della terra fuor de' cerchj
fol ftiziali, indizio manifeſto, che egli avea proficcato delle teorie di
Anaſimandro, di cui ſi ſuol far ignorante Senofane. Tal era: il ſiſtema
aſtronomico di Parmenide: nel fiſico egli divinizzò la guerra, la difcordia,
l'amore, e diffe: Di tutti gli altri Dei cauſa è l'amore. * Αιθέριον μεν γαρ
σφεμένος πόντον δε διώκει, Πόντος δέσχθονος έδας απέπτυσε, γαία δ' εσαύθις
Η'ελία ακαμαντος, ο δ αιθέρος εμβαλε δίνεις. Α'λος δ' εξ άλα δέχεται και
συγένεσι δε πάντες. Plut. de Ifide, et Ofiride. (a ) De facie Lunæ. 16 )
Plut,deplac. Phil. lib. 3. d 2 Cosi (28 ) 1 Così gli attribuiſce Simplizio, ed
Ariſtofane colle da Par menide l'amore che ordina, e fabbrica le coſe nella
commedia degli uccelli, gli altri Dei non erano, che gli elementi già di
vinizzati da Parmenide. (a ) Empedocle l' emulò, benchè egli quattro elementi
poneſse, e due Parmenide, il foco, e la ter ra, principali architetti delle
corruzioni, e delle generazioni, e che rarefatti, o condenſati, ſi cangiano in
aria, ed in acqua. I principj, ſecondo Ariſtotele, devono eſser tra loro
contrari, e nulla v'è di più contrario, che il caldo, e il freddo, a quali
corriſpondono il raro, ee ilil denſo denſo,, ilil moto moto,, e la quiete.
Tutto queſto ſiſtema fiſico di Parmenide eſpreſse Platone nel Sofiſta. Le mu je
Jadi, ele Siciliane, dice, a queſte poſterioriſtimaronocoſa più ſicura
d'annodare le coſe inſieme, in modo che l'ente ſia molte coſe ed uno, e ſi
tenga colla diſcordia, e colla concordia, perchè diſcordando (6 ) fem pre
s'accoſta egli come dicono le più forti muſe, ma le più molli non hanno voluto,
che ciò ſe ne ſia ſempre così, ma privatamente alcuna volta dicono che
l'Univerſo ſia uno, ed amica per Venere, altra volta molte, e con sè per ſeco
diſcordanſi con certa conteſa. S'io non m'in ganno, qui s'allude all'amicizia,
e alla diſcordia, o all’amore, e alla lite, che Parmenide poſe come principj
efficienti delle genera zioni, e corruzioni; molti Poeti ſtaccando ciò dalle
Poeſie di Par menide, e di Empedocle, non ifpiegarono con la lite, e con l'ami
cizia, ſe non alcunifenomeni particolari, come chi dalſiſtemadel Newtono, il
quale poſe per principio univerſale l’ attrazione; al tri ſolo la prendeſse per
iſpiegare i fenomeni del magnetiſmo, e poi per iſpiegare l'eletricità, la
gravità ec. fi valeſse d'altro prin cipio. Non può dirſi dunque, che Parmenide
non foſse eccellente Fi fico, ſe egli allora penſava a ciò che il Newtono pensò
tanti ſeco li dopo; ſcriſſe in verſi il trattato della Natura, come Lucre zio,
ma il Poema s'è perduto, e non ce ne reſta che il principio conſervatoci da
Seſto Empirico. (c ) Mi portano i deſtrier, e quant'io voglio Traſcorrono; che
già m'aveano tratto Nella celebre via del Genio; via Di cui m'aveano
ammaeſtrato appieno Gľ (a ) CICERONE. 6 ) Nel Gítema Newtoniano in tanto una
parte di erta fugge da un' altra parte, in quanto ella è attratta con più forza
da un altro corpo; quindi dall'attrazione ſi deduce l'a repulfione. () I verli
ſono in Seſto Empirico contra Logicos. (29 ) 1 Gl'infigni coridori, e dalla
fama. Correndo il cocchio ſquaſsano, cui Duce Le fanciulle precedono, ma l'aſſe
Splende ſtridendo nell'eſtrema parce De' raggi tra due fiſso orbi torniti.
Allorchè s'affrettaro le fanciulle Eliadi, e della notte abbandonando Le café
tenebroſe oltrepaſsarle, Nella via della luce al fine entraro; Da i ſpiragli
rimoſsero le vele Con man robuſta dove ſon le porte Delle vie della notte, e
della luce; L'une e l'altre circonda un arco immenſo, E il pavimento tutto n'è
di marmo; Agiliffime corronvi, e s'appreſsano Colà dove tenea Dice le chiavi,
L'ultrice Dea, che premj, e pene imparte. Con parole molcendola ottennero Le
fanciulle, che all'uſcio ella fmoveſse L'interna leva. L'adattata chiave
Spalancando le porte per immenſo Foro i chioſtri ſcoperfe, mentre l'affe Si
rivolgeva, e l'orbita del cocchio, Facilmente reggean l'alme fanciulle, A cui
ben pronti il cocchio, ed i cavalli Ubbidiro. La Dea liera m’accolfe, E per la
deſtra preſomi usd meco Tali parole. Dio ti ſalvi, o figlio Dilecto figlio, che
alla noſtra Řeggia Guidarono que' nobili deſtrieri Che hanno in forte di
reggere il divino Cocchio, nè rea fortuna ti conduſse In tal via. Non è trita a
paſſi umani Ma audacemente di pregare è d'uopo I Numi, onde ti laſcino le leggi
Inveſtigar della natura, in grembo Di veritade, che a ubbidire è proſta, E de'
mortali tu fuggir potrai Le opinion, di cui non vera fede, Ma tu rimovi il tuo
penſier da queſta Via di ricerca, nè ti sforzi lunga Eſperienza delle coſe gli
occhi Figgere accenti o pur aperte orecchie Ai Ai dogmi che ragion non prova.
Quello Che ti preſcrive eſperienza lunga La ſola mente dall'error corregge.
Seſto Empirico, comentando queſti verſi oſſerva, che Parmeni de chiama gli
appetiti dell'animo i cavalli, la ragione il genio, o demone, e gli occhi le
fanciulle Eliadi; tutto il reſto è fancaf ma poetico, e, comeSenofane, egli
penſava intorno alla ricer ca del vero; concludendo il giudizio appartener alla
ragione, e non ai ſenſi, ſenza eccettuare i due delladifciplina, o l'udi to, e
la viſta; dogma che fu poi quello dell'accademia, come a lungo Cicerone lo
prova. I verſi fe hanno per oggetto cofe fublimi, e leggiadramente accoppino l'
allegoria all' imitazione, e all' armonia, foddisfanno in un tempo ſtesſo, al
fenſo, alla fantaſia, e all'incellecco, ono de queſte potenze coſpirando
inſieme a ben rappreſentarci le co fe cantase, a preſtano ſcambievolmente le
loro cognizioni, affin chè troppo sfumando nelle aſtrazioni, non ſvaniſca
l'idea, e le ſenſazioni, e i fantasmi non l'offuſchino, ma ſervino alla mente
di ſpecchio per ben contemplarla. La grande arte è, che lo ſpec chio non abbia
troppo d'aſprezze, le quali non diſpergano ſover chiamente, ed affortiglino il
raggio, che turbaco non ci laſci diſcernere, dove è l'oggetto. Alla proſa
dunque, ma proſa poe tica ricorre Platone volendo appagare tutte le potenze
della anima. Ed eccoci finalmente a Platone, dopo d' aver eſaminato come
Pittagora dall'eternità, divinità, animazione del mondo racco glieſe l'idee; le
divideſfero in certe claſſi generali i Pittagorici le diſtaccaſſero dal tutto,
e ne faceſſero degli enti a parte; come Senofane, il primo ricavaſſe la
concluſione dell'ente uno ed im-. mobile, come Parmenide contemplaſse ſecondo
la ragione queſt' idea, e nelle coſe fiſiche s'uniformaffe a Senofane,
diſtinguendo ľ opinabile dal vero. Tutta queſta fabbrica era fondata ſu la
maniera di penſar di Pictagora, maniera falla, e pienamente diſtrutta da Padri,
che molto al di là del IV. fecolo non combatterono collo fteffo Pit tagora, ma
con Platone, di cui ſi debbe adeſſo rintracciare qua li influenze aveſſero nel
Dialogo la dottrina dell'idee, dell'uno immobile, e dello ſcetticismo, perchè
egli vi parla, e dell'idee, e dell'uno, e tutto proponendo per iporeli nulla
conclude. Prima però di ſviluppar queſte cofe l'ordine della doctrina ricerca,
che favelliamo dello ſtile Platonico in generale. Profonda e delicata
cognizione della lingua Greca ſi ricerca per (31 ) e per ben intendere la
bellezza, la forza, e l'armonia dello ſti le poetico di Płacone; lFraguier, che
in tutto il cor ſo della ſua vita, l'avea con un ſpirito molto colto nella POESIA
LATINA, ed in ogni altro genere di belle lettere ſtu diato, ben eſaminando il
ſuo ſtile, ritrovava che Platone avea trasfuſo ne' Dialoghi l' Epico, il Lirico,
ed il Dramatico. Com parava egli la profopopea, colla quale Dio nel Timeo ra
giona agli Dei inferiori 'all' ode più ſublime di Pindaro travedeva nelle
narrazioni dello ſteíſo Timeo, e in alcune del la Repubblica, la magnificenza
Epica dell'Iliade. Nel paſſo cita so di ' Ateneo ', Gorgia mal ſoddisfatto di
quel Dialogo intito lato col ſuo nome, ci dice, che un giovane, e Lepido
Archilo co regnava in Atene; allude egli a Platone, che irritato con tro i
Sofifti, non riſparmid le accucezze, ed i ſali contro di lo ro, ma i ſali di
Platone non erano aſpri, ed ulcerofi, come quelli di Archiloco, e di Ariſtofane,
ma eſtratti dallo ſteſſo mare, in cui nacque Venere. Così Plutarco dice di
Menandro, e con non men di ragione io poſſo dirlo di Platone, che tut to
comicamente condiſce con le grazie, e con le luſinghe della Poeſia di Omero, ed
ingentiliſce in guiſa le accuſe de Sofiſti, che non mai gli affronta con quell'
ingiurie, colle quali il Re de'Re alla preſenza dell'eſercito rinfaccia Achille.
L' ironia di Socrate a ' è la chiave, ed ella è così ben maneggiata, che da
alcuni ſi crede nel Menedemo (a) lodarſi le orazioni funebri, e pure vi ſi
condannano. L'allegoria è perpetua in tutti i Dialoghi; allegorici ſono i nu
meri armonici, di cui teſſuta è l'anima del mondo; allegoriche le Sirene degli
orbi celeſti; allegorico il carro dell'anima, l'ali e il coc chiere; allegorici
gli Androgini, la naſcita dell' amore, la gradazionedegli animali di Prometeo,
e di Epimeteo, la guerra de gli Atenieſi contro i popoli del mar Atlantico, e
quanto diſſe dell'Iſola Atlantica, e ſulle leggi, esu i coſtumidegli abitanti;
tutto vi è finto per preparar l'idea della Repubblica, il cui modello cerca
Platone nella fabbrica ſteſſa del mondo, ed ordiſce così la men zogna poetica,
che molti s'affaticarono di ſpiegare ſtoricamente l'Iſola Atlantide, come il
Ciro di Senofonte. Più s'occulta Pla tone in certe allegorie incluſe nelle
frafi poetiche, per le qua li ſimboleggia molte coſe, e politiche, e morali, e
metafiſiche, diſegnando l'ulcime con coſe colte, o dalla muſica, o dall'altro
nomia, o dalla geometria; tre ſcienze (6 ) nelle quali era fo mamente dorto al
ſuo tempo. Certo è, che ſe giuſtamente non retro s'ap (a ) CERONE, Acad. (6 ) Ab, Fleurì nella lode di Platone.
s'apprezzano le fraſi poetiche riducendole al ſenſo filoſofico, li corre
riſchio di non intender mai, nè le parti, nè il tucco di un certo Dialogo, e ne
vedremo nel Parmenide ſteſso gli eſempj. Ebbe dunque Platone comune la poeſia
con Parmenide, ma molto egli l'accrebbe col Dialogo, modo più naturale per
iftrui re, più comodo per illuminare, adoprato da Socrate, da Seno fonte, da
Stilfone, daEuclide, da Glaucone, e al dire d'Ariſto tele da un certo
Aleffamene inventato. S'imitano col Dialogo i ragionamenti degli Uomini, come
ne? drami s'imitano le azioni. Platone che voleva emular in tutto la poeſia di
Omero, ſi sforzo d'imitar le diſpute de Filoſofi, in quella guiſa che Omero
avea imitate le azionidegli Eroi. Ciò che al Drama è la favola e l'epiſodio, è
la queſtione al Dialogo, e la digreffione, e' nell'una, e nell'altra riuſcì
egregiamente Plato ne. Non v'è Tragedia antica, che meglio eſprima il principio,
la percurbazione, il ſcioglimento dell'azione, di quel che Platone proponga,
diſcuta, termini la queſtione, in cui ſebben nulla concluda, però gli bafta
d'aver conſumate le ragioni dall' una, e dall'altra parte. Nelle digreffioni
comincia per lenti gradi ad allontanarſi dalla queſtione, poi ſpazia o nella
Geometria nella muſica, od in altra ſcienza a fuo talento, e ſenza che il
lettore fe ne accorga, il riconduce alla prima propoſizione non per ſalti, ma
per gradi. Anche in cid imitd Omero, che al dir del Gravina (a ) traſcorre
tallora alſoverchio, tallora moſtra ď abbandonare, ma poi per altra ſtrada
ſoccorre. Platone non imita meno Omero nel carattere degl'interlocu tori, e
delle ſentenze; io ravviſo in Alcibiade un non so che del carattere di Paride,
l'uno e l'altro è milapcatore, fuperbo, e laſcivo; il carattere di Neftore è
trasfuſo in quella parte del carattere di Socrate, ove queſto conſiglia, ma
Neſtore auto rizza i ſuoi diſcorſi con l'eſperienze acquiſtare nell'uſo della
vita, e Socrate con l'impreſſioni del genio che il dominava. I caratteri de'
Sofiſti ſono preli da quei dei Trojani, che ſenza ordine, e ſen za diſcipliita
s'avanzano come le Gru ſchiamazzando, e poi reſta no ſconfitti da' Greci, il
cui coraggio e valore era ſoſtenuto dalla ſapienza, e dal consiglio, e fino da
Minerva. Molti. pretendono che Platone ſpieghi la ſua ſentenza nel far
ragionare Socrate, Timeo, Parmenide, l'Oſpite Arepieſe, e l' Eleatico, due
perſone anonime, e che gli faccia dire a Gorgia, a Traſimaco a Claride., a.
Protagora, et Eucidemo, ciò che non approva e vuol rifiutare, ma coſtoro non
avvertono, che nel Ragion Poetica. nel far Platone ſiſtematico lo fanno peſlimo
Dialogiſta, e talor peffi moFiloſofo, perchè egli concraddice a ſe ſteſſo in
diverſiDialoghi, o almeno le coſe vi ſono così ſconneſſe, che non ſi può
raccoglierle, non più che le membra di Penteo (a ) diſunite e sbranate. Tratto
di cutte le parti della Filoſofia, or Logica, or Fiſica, or Metafiſica,
accennomolte ſcoperte de' ſuoi tempiintorno alla mufica, all'aſtro nomia,
all'ottica, ma imitando poi la ſetta Eleatica ne'dubbj, e nell'opinioni, tutto
propoſe ſenza nulla concludere. CICERONE lo conſidera come il primo degli
Accademici, o quel che diede ad Arceſilao, ed indi a Carneade il metodo di
dubitare. Seſto Empirico ſenza altro lo pone tra' Pirronici nelle materie an
cora più gravi, come in quelle dell'anima,del mondo, di Dio; nè a ciò CICERONE è
contrario. Conveniamo dunque che Platone, co me nello ſtile poetico convenne
colla ſcola Eleacica, così vi conven ne nel metodo di opinare,che egli col
Dialogo reſe più problematico. Confideriamolo adeſſo nelle fentenze, e
principalmente in quelle che riguardano l'idee ſulla Divinità, e ſulla materia.
S'è già dimoſtrato, che i Pitcagorici riducevano tutto all'idee, ed ai numeri.
Platone ſcielſe, e perfezionò ilmetodo dell'idee, econ duffe lo ſpirito alla
cognizione del bene per l'idea del bene, della bellezza per l'idea della
bellezza, e cosìfece del valore, della tem peranza, della ſcienza, e dell'altre
virtù morali ed intellettuali, com ponendo tra loro l'idee n'eſtraffe l'idea
della Repubblica, o l'idea del giuſto conſiderato nell'amminiſtrazione d'una
Repubblicazimmagine di quella amminiſtrazione, che delle potenze dell'anima fa
la ragione. Credevå egli, che ſpiegar le coſe particolari per le univerſali,
fof ſe il metodo chela natura leguiva, allorchè procede dalle cagioniagli
effecti. Parve ad Ariftotele, che foſſe più facile, e più ſendibile nelle
inſegnar le ſcienze, ſeguir l'ordine dello ſpirito, chealla cagionevi per
l'effetto. Non ſono più oppofti queſtimetoditra loro, che la ſin teſi, e
l'analių, di cui l'una comincia dalle coſe generali, per difcen dere alle
particolari, e l'altra dalle particolari, peraſcendere alle ge nerali; l'uno e
l'altro Filoſofo nell'inveſtigar l'idee delle coſe, adoprò il metodo ſteſſo di
comparare i ſingolari,e di farnele aſtrazioni oppor. rune, e lo dimoſtrerd a
lungo pel ragionamento dell'idee Placoniche. CICERONE riduce l'idea alla terza
parte della Filoſofia, che ver ſa nel difputare. Così l'idea trattavasi dagli
antichi, che ſebbene ac cordavano ella naſcer de ſenſi, però volevano che il
giudizio nonfoſe ne fenſi, ma che la mente fore giudice delle coſe, ſtimandola
ſola atta a di ſcopriril vero, perchèfola diſcopriva cid cheera ſemplice, della
ſteſanas tura, o tal qual era, e queſto lo chiamavano idea già così nominata da
Platone, e noi poſiamo (conclude egli ) rettamente chiamarla la lpecie. Non
erano perciò l'idee Platoniche, a ben comprenderle, che le fpe cie, eigeneri
che noi facciamo, comparando ed altraendo, eche, Tom. II. (a )
Eufeb.Prop.Evang. (6 ) De Natura Deorum. (c ) Lib.1.Accad. 2 e come (34 ) 1
come ſi diffe, cappreſentavano i Pittagorici per l'unità, poichè la mente tutto
va unificando per ſua natura. Una ſpiegazione sì facile, e breve dell'idee
Platoniche, perfectamente s'accorda co' principi d'Ariſtotele. Egli tratta
nella Merafilica l'idee Platoniche da metafc re poetiche, e queſto nome gli
avrebbe pur dato Platone, se avelle dogmaticamente ſcritto come Ariſtotele', ma
nel Dialogo ſpecie di Poelia Dramatica egli eguagliò la compoſizioneallo ſtile.
Morco Platone, ed offeſo Ariſtocele di vederſi poſpoſto a Pfeufipo „ a lui
tanto inferiore in ingegno, e in dotcrina vi oppoſe un'altra ſcuola di cui ſi
fece capo, e per accreditarla cominciò a combattere le fentenze del ſuo
antagoniſta, attaccandoſi alla parte più difficile, e più equivoca o alla
quiſtionedell'idee, alle quali Preuſipo imitando.forſe il metodo di Platone
dovea dar troppo di realità. Ariſtotele ſcriſe dunque contro l'idee ſeparate,
ma Platone avendo già nel Par menide conſumato quanto potea dirli contro di
loro, Ariftotele ne copiò gli argomenti dipeſo, ed al ſuo ſolito con brevica ed
oſcurità di ſtile, fingendo di combatter Placone critico Preuſipo, ed i ſuoi di
i fcepoli. Dital congettura è mallevadore il Patrizio nelle ſue diſcuſ fioni
peripatetiche. S'elle ſon vere, non che verifimili, verifimile è pure che fin
d'allora ſi ſpargeſſero i ſemi che prima Ammonio Sacca, ed indiPlotino,
Porfirio coltivarono, e Jamblico, e Procloridul fero in regolato fiftema.
S.Giuſtino, che avea più ſtudiatii Platoni ici, che Platone era perfuafo, che
l'idee foſſero ſoſtanzeſeparate, collocate con Dio nella sfera più alta. S.
Cirillo rifiuţa Giuliano A poſtaca, che credeva il Sole, la Luna, egli
altrieller l'idee viſibili e comporre gli Dei. 11 P. Balto riferiſce a lungo
ipaſſi di S. Ireneo, di S. Bafilio e d'altri, i quali impugnarono l'idee
ſeparate, che introdu cendo il politeismo rovinavano ne'ſuoiprincipj la
Religione Criſtia pa. Soſpetta il P. Balto, che Eufebio difendere l'idee
Platoniche persè ſuffiftenţia pro dell'Arianismo da lui profeſfaco. Negli
ultimi tempi il Clerico ne rinovd la ſentenza, e molto più l'anonimo Soci niano
nel tuo Platonismo ſvelato, ove ſi confondono con l'idee di Platone, gli Eoni
rami de'Seffirotii cabaliſtici adottati da' Valencia niani e da' Baſiliani, e
de'quali nella concinuazione dell'iſtoria degli Ebrei parla a lungo il Basnage,
I comentatori di Platone abbagliatidatante autorità, nè avendo forza di critica
fufficiente per reliltervi, s'abbandonarono ai fantasmi di Proclo, e di
Jamblico, anziche abbadarea'ceſti di Platone, ne s ' avviſarono di ben pelare
le dottrine del Parmenide contro l'idee ſeparate aggiunte da Ariſtotele alla
metafiſica. S. A goſtino è il primo de' Padri Latini, che non fepara l'idee Pla
toniche da Dio; dando a Dio la creazione del mondo non poteva egli non
concepire nell' intelletto divino la ragione dell'ordine del le coſe create, e
queſte appunto ſono l' idee su le quali poi San Tommaſo ſeguito da' Teologi, ne
fece molti articoli, of. feryando che l'idee divine ſono univerſali, onon
rappreſentano a Dio (35 ) 2 € Dio ſolo le ſpecie, ma ancora gl'individui, col
rappreſentargli le coſe non quali noi per la limitazione della noſtra mente le
veggiamo, ma quali ſono in fé ſteſſe. Il Padre Balco riprende a dritto su
queſto punto il Dacier, che per difender malamen te Platone, cade non volendo
in un errore. Ma fe Platone preſe da’ Pitragorici l' idee nel ſenſo, che le
propoſero Pitcagora, ed Archira, pare che egli ancora come queſti ſentiſſe
intorno la Divinità. S'è già dimoſtraco che dopo Pitcagora, Senofane e
Parmenide conſideravano Dio non altrimenti, che l'anima del mondo. Lunga cofa,
dice Ci cerone, (a ) ſarebbe a dire dell'incoſtanza di Platone intorno a Dio;
nel Timeo nega, che porta nominarſi il Padre del mondo; nel libro delle leggi,
ſtima non doverfa ricercar affatto coſa ſia Dio. Lo stesſo nel Timeo, e nelle
leggi, dice eſſer Dio, il mondo, e gli altri e la terra, e gli animi, e gli
altri Dei, che abbiamo ricevuti dagl' iftitu ti de' Maggiori. Il Padre Arduino
raccolſe tutti i paffi, ove Pla tone parla degli Dei nel ſenſo ſtero. Dio nel
Timeo ſi chiama bensì il Padre, e l'artefice del mondo, ma non mai il Signore,
il Sovrano; ſi chiamava il mondo un Dio generato, il quale ba una perfetta
ſomiglianza con Dio; figliuolo, e figliuolo unico di Dio; un Dio completo, un
Dio generato da un altro Dio, un Dio felice, im magine del Diointelligibile,
perfetta copia d un originale perfetto Dio ottimo malimo, qual appunto i Romani
doceano diGiove, per cui folo intendevano il deſtino inviſibile delle coſe.
Molci alcri paſſi ſpiega l' Arduino, e da cutii ſi raccoglie, che Placone non
co noſceva Dio, che come principio intelligente, qual lo conobbe Pittagora,
Senofane, PARMENIDE DI VELIA, e cant alori, a' quali può ben applicarſi il
pallo di S. Paolo, in un ſenſo filoſofico, che cono ſcendo Dio, non come Dio
l'onorarono (non ſeparandolo affacco dal la materia, o, ponendolo ad eſsa
coeterno. ) Pitcagora avea generato il mondo, e lo generarono i Fenici, Orfeo,
ed Eliodo. A queſt'idea poetica, Platone aggiunſe le Fi loſofiche accennate da
Timeo di Locri nel fuo ragionamento della natura, e dell'anima del mondo, e ne
compofe il Timeo, nel qual volea nell'ordine oſſervato dalla ſapienza nella
fabbrica del mon do, dar un modello di quella Repubblica, che poſcia propoſe
nel Dialogo del Giuſto. Ariſtocele pur comparava la coſtituzione del mondo ad
una Repubblica, in queſta v'è il Principe, che comanda ai Magiſtrati militari,
e civili, e nel mondo v'è Dio, che col miniſtero degli Dei inferiori, compie,
conſerva, ed ordina cuc te le coſe. S'è © e di lo Lei li i e lo i e (a ) D:
Natura Deorum lib. s'è gia dimoſtrato,
che i Platonici recenti nel divider in due punti, o ſegni, l'eternità,
neaſſegnavano il primo ſegno a Dio, in quanto a Dio, ed il ſecondo a Dio
creatore della materia la difficoltà è di ritrovare in Platone qualche coſa che
s'av vicini a queſta dottrina. Teofilo (a ) non ve la ritrovd altri menti
dicendo, che Platone coi ſuoi ſeguaci poneva Dio, e la materia ingenita; con
che non venia a porre Dio, nè uno; nè ſolo. lo qui ſtenderò un lungo paſſo di
Plutarco, perché fe 'ne giudichi. Il mondo, dice egli,è bensì ſtato fabbricato
da Dio, perchè fra tutte le coſe è bellißimo il mondo e Dio fra le cagioni
l'ottimo, ma la ſoſtanza, e la materia, della quale è ſtato formato, non eſſer
mai nata, ma ſempre averſi trovata ſottopoſta ab Maeſtro, ed ubbidiente a
ricever quell'ordine, e quella diſpoſizione, che fore in quanto ella potelle
comportare a lui fimigliante, percbè il mondo non fu creato dinulla, ma di ciò
che era privo, di bellezza, di leggiadria, e di perfezione, ſiccome la caſa, la
veſte, la ſtatua, perciocchè tutte le cose, primache naſceſe il mondo, foffero
confuſe, e diſordinate, nondimeno le coſe confuſe non erano ſenza corpo, ſenza
fora ma, ſenza regola, moſle da movimento a caſo, e ſenza ragione. Que sto
altro non era; che la ſproporzione dell' anima, di ragione Spoglia ta,
perciocchè Dio di coſa ſenza corpo non fece corpo, nè anima di coſa d'anima
priva, nella maniera che noi vediamo, cbe il Maeſtro di muſica, e dell armonia,
non fa egli la voce, bensì la voce acconcia, e il moto proporzionato; così
parimenti Dio non fece il corpo trattabile, e ſodo, nè l'anima atta a moverſi,
ed in gannarſi, ma preſo l' uno, e l'altro principio, quello oſcuro e pienodi
tenebre, queſto confuſo e pazzo, amendue più rozzi, e più difformidel
convenevole ordinandoli; e diſponendoli, e congiungendoli formd un animal
beltiſſimo, e perfettiſſimo. Dunque la natura del corpo non è punto diverſa da
quella natura, come dice Platone, che abbraccio il tutto, ed è fondamento e
nutrice di tutte le coſe che naſcono; non dimeno la natura delp anima fu da
Platone nel Filebo nominata infini to, il quale non riceve numero, nè
proporzione, nè vi ſi trova miſu ra, o termine alcuno di mancamento, di
ſoverchio, di ſimiglianza, o di differenza. Così parla Plutarco ed è facile il
dedurne, che ſecondo Pla tone eterna era bensì la materia del mondo, ma nuova
la for ma, (a ) Teophil. ad Autolicum 1.2. Plato cum ſuis aſſeclis Deum quidem
confitetur ingenitum, patrem præterea et conditorem hominum, at que deinde
fubjicit, live ſupponit Deo materiam quoque ingenitam, quæ fimul cum Deo
prodiderit five extiterit; verum fi Deus cen ſetur ingenitus, et materia
perhibetur ingenita, jam nec amplius Deus conditor et creator eſt hominum etiam
fecundum Platonicos, nec quod unus et folus ſit ab his vere demonftratur. nè il
moto, ma 1 1 (37 ) má, ed in queſto Platone differiva da Ariftotele, il quale,
come s'accennd, fece ad un tempo eterne, e la materia, e la forma; Ariſtotele
rimprovera perciò Platone, d' aver fuppofto, che la materia con cuiDio compoſe
le coſe, foſſe in moto, e loda Anaf fagora, che la poſe in quiete. Vuole egli
ignorare, che affatto poetico foſſe il Timeo; pure non è credibile,che egli non
l'aveſſe udito dir più volte da Placone ſteſſo, che nel Dialogo finſe Socra te
a favellar con Timeo di Locri contemporaneo forſe a Pittagora; parla dell'
abboccamento che Solone ebbe coi Sacerdoti d'Egitto, iutta ſpaccia la favola
dell'Iſola Atlantide., ſtempera in una taz za i numeri armonici dell'anima del
mondo compoſta di cre ſo ftanze, ne ſparge le reliquie su le ſuperficie de
glòbi', conſidera come coſa reale la mecemplicoſi, che Timem (a ) nel ſuo
ragiona. mento introduce come coſa politica. In ſomma ben eſaminan do tutte le
frafi Platoniche e tutto il conteſto della dottrina Filoſofica poeticamente
maſcherata, io ſon perſuaſo, che in Platone, comene Pictagorici, Dio vi
s'introduca qual animadel mondo, o la ſteſſa mente, e ſapienza perfecta ſparſa
per tutto; allora perciò che dice CICERONE nella natura degli Dei, e quan do
Platone fa Dio incorporeo (b ) egli confonde Dio con la mate+ ria, la quale era
incorporea, come ſi diffe, prima che da Dio ſe ne eſtraffero i corpi.
Dall'alcra parte nell'ipateli, che Dio gli abbia eſtratti, fece Dio
concepirſi" al di fuori della materia, co me l'architetto al Palagio, e lo
ſcultore alla ſtatua. In vano dun que dall' opere di Platone, e degli altri
Filoſofi antichi, i qua li ammifero la materia eterna, li cerca l'idea del Dio
che ado. riamo; egli è uno ſpirito infinito, nella di cui natura inviſibile
ſono riunite cutte le perfezioni immaginabili, e poflibili; onde gli ſcolaſtici
lo chiamarono il cumulo delle perfezioni; e i Cartuliani l'ente infinitamente
perfecto. Sino a què l' ammet cevano gli ſtefli Pagani, ma la definizione non
balta, ſe ad el fa non s? aggiunge, che Dio ha tratto dal niente l' Univerſo, e
che è diltinto realmente, e ſoſtanzialmente da tutto ciò che ha creato. Tale
definizione come ortodoſſa propoſe l' Abbate d'Oliveta ’ Filoſofi (c ) dopo di
aver eſpoſte tutte le loro fen tenze, tra le quali entra e Pittagora, é
Senofane, e Parmeni de, e Platone Itello, Non (a. ) Nel fine. (6 ) Cicer.
Natur. Deor. (c ) Nel fine del Tomo 3. della traduzione della Natura degli
Dei;. Par ce
mot. Dieu, je veux dire un eſprit infini, dont la nature eſt indiviſible et incomunicable;
dans lequel font réunies toutes les perfections imaginables et poſsibles, ſans
aucun mélange d' imperfe etion; qui'a tiré du ndant l'univers, et qui eſt
diſtinct réellement et ſubſtantiellement de tout ce qu'il a créé. 0 1 (38 ) o dell' Non è tuttavia, che debbano
ſpregiarſi le dottrine di Placone, e rigettarle come inutili; conobbe egli Dio
ſotto un'idea con fuſa, come lo conobbe Ariſtotele, e in quella guiſa che S.
Tom maſo da Ariſtotele tralle molti principi, e combinandoli coi rivelati
propoſe molte concluſioni Teologiche, così può farſi di Platone; S. Tommaſo
dall' uno, e dall'altro traſfe l'eſiſtenza di Dio, impiegando i mori, le
cagioni, l'ordine del mondo, i gra di più o meno perfetti delle coſe, ma non
potè trarla dall' en te contingente e neceſſario, che Platone non conoſceva,
ponen do ecerna la materia, e chiamandola neceſſità. Dimoſtrar il primo ente
qual principio intelligente, per l'adequaca idea di Dio, non baſta le da eſſo
non ti rimovono tutte le compoſizio ni, dimoſtrando, come fa S. Tommaſo, che in
lui non ve n'ha nè di forma, nè di materia, e che non può ridurſi ad alcun
genere, Nel Parmenide però non v'è biſogno d'alcuno di queſti ar tificj; tutto
vi fi' riduce all'idea metafiſica dellence uno. Convien dedurla da' ſuoi
principj, od eſtrarla come fece Pittagora, e Peritione da tutti i compofti, ed
eſaminarne le proprietà. Così AQUINO (si veda), ove tratta dell'unicà, e della
bontà di Dio, prima ricerca, quanto la ragione, gli può per mettere, coſa ſia
l' uno, e coſa ſia il buono, indi col princi pio rivelato cid combinando,
dimoſtra la purità, e la bon tà di Dio. Io parimenti ricercherò con la ragione,
fe si poſſa ben intendere l' uno del Parmenide, laſciando agli altri la fa rica
di ſpiegarlo in un modo fublime, applicandovi le coſe Teologiche, delle quali
non intendo d' attaccarne, o diftrug. gerne la minima. Io cratterò della
dottrina del fine, indi del metodo del Dialogo. Gli antichi con ragione
intitolarono queſto Dialogo, il Par menide o dell' idee, perchè Parmenide parla
più degli altri, e tutti i ſuoi ragionamenti raggirano su l' idee, o per
cercarle con le aſtrazioni della mente, o per diſtruggere le ſeparate, eſempli
ficandone il caſo nell'idea dell' uno, la più ſemplice di tutte l'al tre, e a
cutte l'altre comune. Supponevano i Pictagorici, che tutte le coſe imicaſſero,
o par ticipaſſero l'idee, o le fpecie; provacontro loro Parmenide, che le cofe
non poſſono eſſer partecipi delle fpecie, nè ſecondo il tutto, nè ſecondo
unaparte, indi col principio di contraddizione, col progreſſo all'infinito, e
coll' ideaſteſſa delle perfezioni divine; gli fteffi argomenti di cui ſono nel
Parmenide i femi, fteſe Ariſto tele, ed è mirabile che i comentatori non
abbiano penſato di con frontarlo nel ragionamento dell'idee con Placone, ciò
che attri buiſco all'ipoceli da loro fiſsata, che in queſto Dialogo Parmenide,
o Platone confermi e non diſtrugga. l' idee ſeparate. Annullate tali idee in
modo cheSocrate ne reſta convinto, Pare menide per non laſciarlo nell'
imbarazzo gli moſtra la neceſſità che ha il Filoſofo d'ammettere certi principj
fiſſi ed immutabili e tanto più difficili a comprendere, quanto che non fi
poffono de terminare, nè co' ſenſi, nè colla fantaſia. Parmenide' nell'etem
plificare il caſo del metodo propone l'idea dell'uno, e la con ūdera
relativamente a ſe ſteſſa, indi all'ente, al fine, al non en te. Così un
matematico trattando per eſempio del triangolo, lo conſidererebbe prima in ſe
ſteſſo, poi per rapporto all'altre figure rettilinee o piane, ed al fine alle
non rettilinee, od alcerchio. Definiſce Zenone l'uno per oppoſizione a molti, e
chiama uno ciò che non è molti. Ariſtotele, nella metafiſica molto ap prova
queſta definizione, perché i molti ſono più noti al ſenſo che l' uno; prende
Parmenide la definizione, e negando dellº uno tutto ciò che s'include in molti
o li predica de' molti; negà ch' egli fia cutro, parte, principio, mezzo, fine,
figura moto, quiete, lo ſteſſo, diverſo, ſimile, diſſimile, eguale, mag giore,
minore; in oltre gli nega le differenze del tempo, pre lente, paſſato, futuro,
l'eſſenza, la ſoſtanza, il nome, il ſen fo, la ſcienza, l'opinione. Parmenide
prende ſempre l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo, nè men volendo che l'uno â
conſideri per rapporto a ſe ſteſſo, perchè nel riferir l'uno a sè li concepireb
be come due o come molti. La ſeconda quiſtione è, ſe l'uno ſia che accada all'
uno, ed all'altre coſe; qui l'uno fi ſuppone inſeparabile dall'ente, come rente
dall' uno, onde tutto ciò che s' include o li predica dell', pud predicarſi
dell' uno; quindi ſe nell' ente's include o dell'ente fi predica, la parte, il
tutto, il finito, l'infinito, il principio, mezzo, il fine, la figura, il luogo,
il moto, la quiete, il fimile, il diffimile, lo iteſto, il diverſo, l'eguale,
il maggiore, il minore, il tempo paffato, preſente, e futuro, 1 eſſenza, o la
ſoſtanza, la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, tutte queſte coſe ſi predicheranno
ancora dell'uno. Non ſi predicano però queſte coſe oppoſte dell' uno, e
dell'ente. nel medelimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo riſpetto, ma in varj te m pi
o ſecondo diverſi riſpetti, e ciò fa che le contraddizioni non ſieno, che
apparenti, o del genere di quei meraviglioſi, che de generano ſpiegandoſi in
puerilità. Cosi penſa lo ſtelfo Platone nel Teeteto, maParmenide nel cercar qui
ſe ſia l'uno, quali altre co fe ne fieguano, non cela all'uſo de Sofiſti, ma
ſpiega come vero Filoſofo in termini ſemplici i miſteri, e queſta iola credo
una nuova prova del liftema Parmenideo da me ſtabilito. In queſte due prime
nozioni dell' uno non vi ſi framiſchiano le immaginarie', o poetiche; mabensì
ve ne fono nella terza, ove fi rapportal'uno al non ente, o al nulla, di cui
non s'ha nozionereale', ma ſolamente immaginaria come dell'impoffibile. V'è un
affioma Logico, il qual diceche, dall' impoflibile ogni coſa ſe ne deduce, pera
che in lui fi complicano i contraddicorj, anzi il criterio per co nofcerlo è
per mezzo dei contradditorj, e poichè l'uno è inſe párabile dall'ente; fia lo
ſteſſo dir il non uno, che il non en te, ma del non ente o dell'impoffibile fi
dice che ha effenza, o che non l'ha, che è lo ſteſſo e diverſo, che è ſimile, e
non fi mile, eguale, non eguale, cheſe genera e fi diſtrugge ec. Dun que le
ſteſſe coſe che ſi predicheranno del non ente conveniran no ancora al non uno.
Nell'attribuire il non uno all'altre coſe, fi trasformeranno queſte in
fantasmi, o sogni d'eſtenſione, di mal fa, di moto e di quiete, ciò che rende
il mondo più poetico del cabbaliftico. Platone o Parmenide maneggiano queſto
argo mento con ſomma ſagacità, e delicatezza, e ben ſi vede quanto foſſe la
loro Filoſofia profonda, e quanto utiliffima eller poſla, non cangiando il
grado dell' aſtrazione, nè inneſtandovi opinioni affatto encufiaftiche, come
fece FICINO. I celebri Pittori, attenti ad oſſervare in ogni luogo tutto ciò
che loro ſomminiſtra idee nuove d'atteggiamenti, di ſcorcii, di lineamenti,
difigure, ſe mai su i muri più affumicati ritro. yano quelle ſtriſcie fortuite
impreſſevi dalla caligine, le vanno combinando con la loro immaginazione, e
creano delle figure leggiadramente fimecrizzate, e canto ſi rifcaldano nel
vagheggiar opera loro, che le additano agli altri, come fe ivi foffero,e ſi
cruciano e fremono, e ingiuriano, quando queſti ſemplicemen te riſpondono di
non ravvifare, che orme irregolari di fumo. I Filofofi, e particolarmente i
comentatori hanno lo ſteſſo coſtu me, fiffi in un fiftema l'addatano a tutto
ciò che incontrano nell' autore da loro accarezzato, e dove egli ancora parla
nel modo più ſemplice, e naturale, e conveniente a'ſuoi principj, par loro di
fargli torto, ſe non l'abiſfano nelle loro profonde ſpeculazioni, e lo
dimoſtrano tanto più ammirabile, quanto nyono l'intendono, c quanto dagli altri
è meno intefo. In tutti i Dialoghi s'è prefiſſo FICINO, di far di Placone (a )
un Teologo Criſtiano, ma non so come ritorni in queſto Dialogo al (a ) Prima ex
quinque ſuperioribus de uno fupremoque Deo dixerint quomodo procreat
diſponitque deorum ſequentium ordines. Secunda de fingulis Deorum ordinibus, quo pacto ab
ipſo Deo proficiſcuntur ec. argum. Marſ.
Ficini Parm. vel de uño rerum principio, et de 9 ideis. (41 ) al Paganeſimo, e
vi traſporti tutte le idee fimboliche del Timeo, e del Fedro ſenza biſogno, e
profitto; e che coſa ſon queſti Dei che ſeguono Dio nell'ordine loro, ed in
qual parte del Parmeni de li ritrovo? Annullò il Serano gli Dei, e vi ſoſtituì
due ſorti d'idee; Dio è la prima e principal idea, le ſeconde ſono le va. rie
idee delle coſe create; ma ſe Parmenide non diſtingueva Dia dal mondo; coſe
affatto poeriche non ſono le idee divine? Non bado il Serano, che Parmenide
toglie all'ente ſino il tem po' preſente, e le toglie ancora l'eſſenza. Si, ma
intende il Se rano l'eſſenza delle coſe ſingolari, e quando Parmenide dice, che
l'uno è molte coſe, vuol dire, che egli dà la forza d'elfte re alle coſe
ſingolari. Or come ſi può includere nell'idea dell' uno, in quanto tale la
forza? E come poteva Parmenide inclu derla nell' uno, ſenza concepirvi l'
eſſenza, e nell' accoppiare l' eliftenza alla forza, e non concepir l' uno come
molti contro l? ipoteſi? La prima idea, dice il Serano, fi diffonde in maniera
ſulle coſe create', alle quali Dio dà la forza, e facoltà d ' eſiſtere, che ad
ogni modo circoſcrive ne' determinati cancelli dell' uno, la feffa moltiplici,
tà, e quaſi infinità delle coſe ſingolari. Queſta è la luce tenebroſa del Flud,
chi può ſpiegarla? Va il Serano peſcando le affezioni dell' idee ſeconde, e ne
ri trova ſei, dopo le quali la ſua vena metafiſica, e teologica, ſi conſuma, o
perde, ed in tutto il reſto del Dialogo immobil mente fiſto, ed eſtatico ſul
ceſto Platonico, par uno di que' Chineſi, che per molti anni guardandoſi la
punta del naſo s'im maginano di veder l'eſſenza divina; non batte egli palpebra
tutto concentrato in sè, nè degna abbaſſarſi a ſoſtener con note margina li
l'imbarazzato lettore. Io ſon ben lontano dal condannare le al tre note di
queſto autore, colle quali negli altri Dialoghi eſpone la conneſſione, e
callora le ragioni ſemplici del teſto, ma nel Par menide ſpiegando alto il volo
per emular il Ficino, li dimentica del ſuo coſtume, e laſcia in aſciutco il
leccore; ma come è poſſi. bile, che avendo egli canto ſtudiaco Platone, e
confrontati i teſti, nonabbia atteſo ad unpaſſo del Filebo, in cui li ſpiega il
fine, che Platone ſi prefiſſe in queſto Dialogo? Nel Filebo, che non ſenza ragione
gli antichi faceano ſeguir al Parmenide, cosi ſi parla da Socrate a Protarco.
Tu, o Protar dice Socrate, intorno l' uno ed i molti ai dette le coſe pubbliche
dei meraviglioſi, le quali, per dir cosi, ſono concedute da tutti, che non
fieno punto da toccarli, ejendone alcune puerili, e facili da conoſcerſi, e per
nuocere maſſimamente a ragionamenti, fe alcun le ammetteſſe; nè è Tom. II. f de
(42 ) - 1 1 tal uno, da ſtimarſi coſa meraviglioſa, ſe alcun dividendo rolla
ragione le mem-, bra d'alcuna coſa, e tutte quelle parti, confeſſando quella
eſerne una; di poi la confutalle, e ne prendeſe beffe quaſi sforzato a con.
feſare coſe moſtruoſe, cioè che una ſola coſa ſia molte ed infinite, ele molte
quaſi una ſola, E' quì da notarli quel dividere con la ragione le membra di
alcuna coſa, formula che egli repplica ſovente nel Parmenide, in cui dice,
ſeparar le coſe con l'intelligenza, e fino sbranarle; indizio manifeſto che qui
non ſi tratta, che d'aftrazione di ra gione, per cui nelle coſe più ſemplici fi
diſtinguono, non le par ii, ma gli attributi, e le relazioni che le fan molte
per rapporto alla mente; or tutto ciò che dice nel Parmenide dell'ente, e dell'
uno, non divien egli un di que' meraviglioſi puerili, de' quali par la Socrate,
fe non s'averte, che le contraddizioniſono apparen. ti, o che nel medeſimo
tempo, e ſecondo lo ſteſſo non s'aſcrive all'uno, il fimile e diffimile? Siegue
Socrate: quando alcuno giovane pone l'uno, non eſſer alcu na di quelle coſe, le
quali naſcono, e muojono, perciocchè quì un co come poco fa dicemmo, ſi è
conceduto, che non ſi debba con futare. Parla quà Socrate della prudenza, della
ſcienza, e della men te, di loro natura une, immortali, ed eterne nel ſiſtema
Piccagori co, e delle quali, come d'eſſere reali, parla nel Sofiſta. Conclude
Socrate: Ma quando ad affermare è altretto un fol Uo mo, un ſol bue, una coſa
bella, ed una coſa buona, allora veramen. te in queſte, ed in cotali unità ſi
rende ſollecito lo ſtudio, ed anche ſi fa ambiguala divifione. Primieramente ſe
ſieno da ammetterſi certe uni tà sì farte, che fieno veramente; di poi, in
qualguiſa ſia de penſarſi, che ciaſcuna di quelle coſe ſia una, e la medeſima
ſempre, nè fi pren da generazione, nè morte, ma ſe ne ſtia fermiſima nell'
unità di lei; finalmente ſe ſia da porſi alcuna coſa nelle coſe generate, od
infinite, o partita, ed oggimaifatta moite coſe, o tutta eſa in diſparte da ſe
medeſima, il che più di tutte l'altre coſe parrebbe impoſibile che uno, e lo
dello ſi facele parimente in uno, ed in molti. Quefto è l'uno, ed i molti che
ſi trovano intorno a cotali coſe, ma non quelli, o Protarco che non conceduti
bene ſono cagione d'ogni dubitanza, ed ogni facilità ben conceduti.
Manifeftiffimo è, che quì Socrate ripete le difficoltà ſull' idee ſeparate
fattegli da Parmenide, e ſu le quali confeffa, che impoſſi bile è di
scioglierle, indi fa attenzione al metodo inſegnato da Par menide, di cercar
l'idee per via dell' aſtrazioni, con le quali ſi to glie ogni difficoltà
intorno a'molti, e all'uno. Da queſti palli io deduco, che il fine di Platone
in queſto Dialogo altro non fu, che d'allontanarſi da quel meravigliolo e
puerile, in cui facilmente fi cade, quando non ben li diftingua no i concerci
della mente, o s'amia irasformare i concetti in ido li, ed a realizzarli
poeticamente, come faceano i Pittagorici. Per compir queſto diſegno fcelle
Platone il Filoſofo più ſpeculativo dell'antichità, e deſcritto da Socrate qual
Uomograve, evenerabile, e d'una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire,
ſe non erro, che egli nella ſua maniera d'argomentare franca, libera, ed inſie
me profonda, nulla tenea del lopraciglio, e della vanità dei Sofi fi; Platone
quimoſtra fin dove arrivar pud l'ultima analiſi, che i Pitcagorici faceano
dell'idee, oltre le quali il procedere'era un eſporſi a pericolo di non più
intender quello che ſi dicea, comepur trop ро è arrivato ad alcuni Scolaſtici,
che fpingendo troppo, oltre le queſtioni oncologiche, ofarono ſin negare il
principio di con traddizione, ed affermarono chel'infinito ſi raggruppaffe in
un pun to. Nel GORGIA DI LEONZIO, nel Protagora, ed in altri Dialoghi contro
iSo fifti, coll'arte dell'ironia Socratica, li dipinge a diritto Platone quali
cacciatori mercenari d'uomini, mercatanti venditori, appal tatori di ſcienze, e
diſcipline falſe; ma chi può dire che Platone ebbe difegno di proporſi in
queſto Dialogo Parmenide, qual mer catante venditore, ed appaltatore di bujo
peſto, che così devono chiamarſi le quiſtioni tenebroſe, ed all'ambicate; bujo
peſto è quel lo di cui troppo liberalmente lo caricano il Ficino, ed il Sera
no, non quel che combina la doctrina d' Ariſtotele, con quella di Platone;
dotcrina che curt " i Peripatetici, e gli Scolaſtici ab bracciarono e che
ultimamente con tanta chiarezza e preci* fione, eſpoſe il Wolfio nella fua
Ontologia. Queſto Dialogo è primieramente ontologico, e preſo in queſto ſenſo
non ha in sè più di pericolo che la metafilica d' Ariſtocele, ma ridotta alla
Dialeccica, L'antica Dialetica verſava fu i generi di tutte le coſe, attenca a
compararli, a combinarli, per preparare' ed illuſtrare la quiſtio ne propoſta.
S'ingegna lo Stanlejo di ridur a tre generi la Dialec tica de Piccagorici.1. Ai
non ripugnanti, o ſia all'eſſenza delle coſe nelle quali ſi combinano, coſe tra
loro non contradditcorie.. Così l'eſſenza del triangolo o del quadrato, è
l'eſfer figure di cre o quattro linee, perchè non v'è ripugnanza, che il numero
ter nario o quaternario, s'adatti o fi combini alle linee rette. 2. Ai
differenti o alle coſe che tra loro ſi diverſificano nell'eſſenza, nc gli
attributi, e ne' modi; così il triangolo è differente dal qua drato, ed il
quadrato dal cerchio. 3. Ai relativi a'quali ſi riduco if 2 no (44 ) no tutte
le matematiche conſiderate dagli antichi, come il vero modello della diſciplina,
ed a cui i moderni riduſſero l'arte dell' analogie filoſofiche, ed il calcolo
de' probabili. Platone ſtabiliſce in molti luoghi non tre ma cinque generi del
le coſe; l'eſſenza o ciò che è, lo ſteſſo, il diverſo, il moto, e la quiere; a
queſte due ultime nozioni ſi riduceva tutta la fiſica antica, onde diſfe
Ariſtotele, che ignorato il moto s'ignora la natura. Lo ſteſſo e il diverfo
vaga per tutte le altre fcien ze; onde Platone dello fteſſo, e del diverſo,
compoſe l'anima del mondo, e la bellezza. Lo ſteſſo e il diverſo ſono relazioni
dell' ente in genere, fi ſpargono ſulle relazioni dell'ente in ſpecie, il
fimile, il diffi mile, Peguale, il maggiore, il minore, il nuovo, l'antico. Que
fta era la ſcala de'generi ſuperiori, o quelle nozioni ontologi che aſtratte
per l'acume della mente da' concreti, coſa ben di verſa dalla ſcala de'
predicamenti d' Ariſtotele. Il Wolfio fa propoſe per ultimo oggetto degli ſtudj
fuoi, di perfezionar" la Icala de'generi, e con eſſa ſciogliere il
problema dell' analiſ dell'idee, propoſta ma non trattata dal Leibnizio. I
Pittagorici ne diedero i primi ſemi, e Placone più li ſviluppò, applican doli
alla determinazione dell' idee, quindi è che nel Parmeni de tutti iſuoi
argomenti ſi riducono alle relazioni dell'ente, in genere dell'ente, in ſpecie.
Rinferrata ne' fuoi limiti la materia del Parmenide, il meto do che v’applica è
quello del principio di contraddizione, che ci conduce all' aſſurdo; metodo non
tanto accetto a noi, per. chè ci dimoſtra la noftra impotenza, ma che ci sforza
invin cibilmente all'faffenſo. In queſto metodo Platone ne aggruppa molti altri,
il metodo d' eſcluſione è quello dell'analiſi geo metrica. Nel metodo
d'eſclufione fi numerano tutti i caſi di una co ſa, e s'eſcludono o tutti per
dinotare l'aſsurdità, o tutti men in cui fi cerca la ſoluzione del problema.
Così Archi mede avendo dimoſtrato, che un dato poligono non è, nèmag giore, nè
minore del cerchio, nel quale è inſcritto o circon Icritto, conclude che gli è
eguale. Placone in molti caſi ado pra il metodo ſteſſo. Nel metodo dell'analili
geometrica, fi aſſume il quefito come
conceffo, e per legitime conſeguenze s'inoltra fino ad un ve 1 uno, ro (a )
Affumptio quæſiti tanquam conceſsi per ea quæ conſequentur ad verum conceffum. Wallis Il. dell’Algebra. To concesso, da cui
riteſsendo il ragionamento ', li dimoſtra il quelito; molti vogliono, che
Platone ſia l'inventore di queſto metodo, e che abbia fatto il Parmenide per
darne l'eſempio; maqueſti attribuirono al tutto ciò che conviene adalcune
parti, Utiliflime ſarebbono le metafiſiche de'moderni, fe i loro autori fi
foſsero limitati all'ipoteſi, e ſi foſſero guardati di proporle in for ma di
dogma, cagione d'eterni litigi non ſalvati, ne da ſtile elo quente, nè da
calcoli algebraici. Il Carteſio ſegui nelle ſue medi tazioni ilmetodo analitico,
ma diede occaſione a molti ſiſtemi più ſtrani de'ſogni, come quello degli
Egoiſti, conſeguenza dello fpi nofismo fpirituale. Che dirò dell'arte del
Dialogo, in cui s'è già dimoſtrato imi, tarſi i ragionamenti umani, come i
Poeti Dramatici aveano imi tate le azioni umane. All'imitazione. di queſte
convien il palco, ed il verſo, non all'imitazione de' ragionamenti, la quale
per ſua natura appartiene alla DIALECTICA: poco o nulla di leggiadria avrebbono
i sillogismi, egli entimemi in verſo, e poco o nulla lor gioverebbe l'apparato
della ſcena. Si è pur detto che la quiſtione, e la digreffione al Dialogo, è
come la favola, e l' epiſodio al Drama. Nel Parmenide la quiſtione è intorno
l'idee, ma non v'è digreſſione, ſe pur non fi voglia ridur a queſta, la
preparazione alla diſputa con Par menide, incominciata tra Zenone, e Socrate.
La differenza de' drami ſi prende dal diverſo modo dell'azio ne, la quale o è
ſemplice, o compoſta, e la differenza de’ Dia loghi dal modo del ragionamento,
nel quale, o s'inſegna, os inveſtiga da un ſolo, o s' inſegna, o s'inveſtiga da
molti la quiftione propoſta. A quattro generi riduce il Taffo i Dialoghi, al
dottrinale, al Dialettico, al tentativo, al contenzioſo. De’due primi generi è
miſto il Parmenide, perchè dopo di aver egli diſputato con Socra te, quaſi ſolo
favella, non contandoſi le riſpoſte d'Ariſtotele, approvazioni per lo più della
concluſione, o preghiere d' eſpor più chiaramente la ragione accennata. Nel
inlegnare qual fia la natura o l'idea dell'uno, qui non v'è tentativo, nè
litigio, nè in queſto Dialogo v'è molto a ricercare, ſe ſia meglio adat cato
all'inſegnamento che il maeſtro interroghi, od i diſcepo lo., perchè appena
termino la breve diſputa có Zenone, che Parmenide cominciò a interrogar Socrate,
ed avendolo confu? lo, ed imbarazzato con una difficoltà cui non poteva
riſpondere, Para (a ). Torquato Taſſo diſc. ful Dialogo. uno. Parmenide paſſa
ſenza interrompimento alle tre poſizioni dell ' Vuol Torquato Tallo, che come
una ſia l'azione nel Dra ma, così una fia la quiſtion nel Dialogo, la quale o è
infini ta, per eſempio ſe deve apprezzarſi la virtù, o è finita, per eſempio
che deggia far Socrate condannato a morte. La qui ftione del Parmenide è
infinita, perchè fi tratta dell' idee di cui ſi cerca la natura e l'origine, la
natura dimoſtrando che non ſono dalla noſtra mente feparate, l'origine
dimoſtrando come per via delle ſuppoſizioni s'acquiſtano. Queſte due coſe ne
fan no propriamente una, perché non ſi può intender la natura dell' idee ſenza
prima determinarne l'origine. L'una e l' altra determina Parmenide, e rimove l'
idee feparate per convertire il ragionamento al modo con cui la mente le
acquiſta. Parme nide lo propone, non lo dimoſtra per non allontanarſi dal co
ſtume della ſua fetta, che era di propor dubitando le coſe: Non è cutravia in
ciò ſolamente che appariſce il coſtume di Par menide. Dimanda Socrate, che gli
ſia dichiarata la quiſtione delle idee, ed intorno alle coſe che ſi veggono,ed
ancora intorno a quelle che ſi comprendono con la ragione. Parmenide, e Zenone
attentamente lo aſcoltano, eſpero guardandoſi l'un l'altro fog ghignano quaſi
di Socrate meravigliandofi. E queſta è quell'evi denza tanto neceſſaria al
Dialogo, e di cui Platone diede si chiari eſempj neli' Ippia, e nel Fedone.
Ella è qui ordinata a manife ſtare il coſtume d'un Filoſofo accento, e che
colla triſtezza, e coi fogghigni accenna, ciò che nel diſcepolo non s'accorda
con la ra gione. Un tratto poi del coſtume d'un Filoſofo attento, è do ve dice
Parmenide o Socrate troppo per tempo, innanzi che tu ti eſerciti a parlare, ti
sforzi di definire ciò che ſia il bello, il giu ſto, il buono, e qualunque
dell' altre ſpecie. Perchè poco fa il con fiderai vedendoti diſputare con
Ariſtotele. Per certo mi credi, que fto tuo fervore è bello è divino, il quale
alla ragion ſi conduce, ma recati in ſe ſtello, ed eſercitati mentre ſei
giovane in queſta fa coltà la quale a molti inutile, e ſi chiama dal volgo
garruli tà, altrimenti ſi fuggiria da la veritade. Parmenide qui accenna la
Dialectica in quanto vaga per cutti i generi, ſulla qual coſa poco dopo
ſoggiunge conſervando il co ſtume divecchio venerabile. Sarebbe cofa
ſconvenevole, cheſi trat tale maſſimamente da un vecchio certe coſe si fatte
alla preſenza di molti, non ſapendo il volgo, che ſenza queſto vagare, e
diſcerne re per tutte le coſeſia impoſſibile abbattendoſi nel vero acquiſtar
men te. Ariſtotele e gli altri lo pregarono, e Parmenide riſpoſe con un apo 7 pare
inutile apologo: egli è neceſſario finalmente che s'ubbidiſca, tutto che mi è
av viſo di tutto quello che patà il cavallo Ibico, cui Atleta e vecchio do
vendo prendere la conteſa delle carrette, e per l'eſperienza iremando de'
ſuccelli, alimigliando egli a ſe ſtello, dille cheegli già vecchio era
coſtretto di ritornar agli amori. Nel medeſimo modo diſſe Parmeni. de, a me
pare di temer malto, quando penſo in che guiſa cosè.d'età avanzata, io pola
paſar a nuoto un mare cosi profondo di ragionda menti. Intorno la ſentenza, o
ſia ciò che ſente il principale interlocu tore del Dialogo, ella è qual
conveniva a un Dialettico eſperto, nel vagar per i generi delle coſe, e
nell'argomentare, e ben de gno, che nelle coſe intellettuali Platone, Secondo
il teſtimonio di Apulejo, lo preferiſſe agli altri Pitiagorici, e n'imitaſſe la
ſotti gliezza, e nell' idee, e nel metodo di proporle. Nella Poelia. Epica,
altro è che il Poeta imiti narrando un facto, altro che introduca un degli
attori a narrarlo. Così nell' Odiſſea, aḥtre ſono le cofe che Omero
direttamente narra accadute ad Uliffe, altre quelle che narra Ulife ſteſſo.
S'in troducono ne' Poemi i racconti, per variar i modi dell' imita zione, ed
ancora per accreſcerla; ella è perciò doppia, quando nel Poema i perſonaggi
imitati, imitano effi fteffi col loro rac conto. In queſto Dialogo, Pitidoro
imita, narrando i diſcorſi che inteſe da Parmenide. I Dialoghi, benchè fpecie
di Poeſia Dramatica, in ciò con vengono con l' Epica, e Platone, che nelle
diſpute de'Filoſo fi volle imitare i combattimenti degli Eroi di Omero, emold
anche queſto nel modo di rappreſentarli. Nel Filebo propone ſenza alcro la
difputa chiaramente enunziata intorno la felici tà ed il piacere, nè premette
alcuna circoſtanza ſtorica ai ra gionamenti dei tre interlocutori, Socrate,,
Filebo e Protar co; così fa nel Sofiſta, nell' Eutifrone nelle Leggi, e nella
Repubblica, ma non cosi nel Convito, nel Fedone, e nel Par menide. Pitidoro vi
narra ciò che ha udito da Antifone, e queſto è modo più artificioſo dell'altro,
perchè vi ſi ricerca molta ſa gacità nel render neceffario il ragionamento, ed
accompagnar lo di quelle circoſtanze che più mettano la coſa fotto gli oc chi,
intereſſino il lettore ad aſcoltare i perſonaggi, e di tem po in tempo lo
ricreino con opportune digreffioni, ma tutte convergenti alla quiſtione
propoſta, ſenza che ſe ne accorga il lettore. Nel diſcorſo naturale noi
pafliamo ſenza rifleſſo da una coſa all'altra, ma nel Dialogo, ſe ſi vuol
imitando perfezionar la natura, nulla vi ſi deve introdurre ſenza ragion ſuf
ficiente. La ſomma difficoltà dell' artificio del Dialogo è nell:
interrogazioni, e nelle riſpoſte diftinte e preciſe, ma nel Par menide il
dialettico s'accoppia col dottrinale e queſta è la parte dominante, perchè
eſcluſe l' idee ſeparate, Parmenide ſem pre parla ſcorrendo per le
ſuppoſizioni.; ILLUSTRAZIONE D E L 1 PARMENIDE.}, ILLUSTRAZIONE di VELIA (si veda). tertentanut
Estates L A diſputa su l' idee fatta tra Parmenide, Zenone', Socra te, ed un
certo Ariſtotele, viene a Glaucone, e ad Adi manto riferita da Cefalo per bocca
d'Antifone, il quale avendo familiarmente converſato con Pitidoro compagno di
Ze none', avea su queſta materia udito da lui le ragioni dei tre Fi loſofi.
Reſtarono queſte cosi profondamente impreſſe nella me moria di Antifone allor
giovanetto, che molti anni dopo ſeb ben diſtratto dagli eſercizi equeſtri, poté
in tutte le loro cir coſtanze rappreſentarle nell' abboccamento, che egli ebbe
con Cefalo, e coi compagni. Tofto Cefalo eſpone il motivo della diſpuca
Parmenide ne Poemi avea detto che tutto è uno, e Zenone provato in uno ſcritto,
che uno non è molti. Si comincia la Jercura dello ſcritto, e Socrate vi fa
ſopra delle difficoltà a mi fura che ſi legge. Poco mancava' a' terminar la
lettura, quan do Parmenide con Pitidoro, e Ariſtotele entrarono in caſa. Si
leſſe di nuovo alla preſenza di Parmenide, e degli altri il pri moargomento, e
fi difputò incidentemente su la differenza del le due definizioni parendo a
Socrate, che il dire tutto è uno foffe lo ſteſſo che il dire, uno non è molti.
Glielo concede Zenone, é lodaća la ſagacità di Socrate dichiara', che non per
vanità o per 'arcano di Filoſofia egli ha' fcritto, ma per fo ftener l'orazion
di Parmenide contro coloro che ſi sforzavano di ſchernirlo, perchè ſe molte
contraddizioni degne di riſo pativa l' Orazion di Parmenide, molte altre di più
ridicole ſe ne inferivano dalle ſuppoſizioni degli altri. Zenone ſcriſfe il: li
bro nella ſua giovanezza, ma un certo avendoglielo rubato.fi pubblico. Si
ricomincia la diſputa. Parmenide, e Zenone lafciano a So. crace eſpor tutta la
ſua ſentenza su l'idee ſeparate, per le quali moſtrava la definizione dell'uno
da Zenone affegnata non eſſer univerſale ". Accorcol Parmenide, che tutta
la forza dell'argo mento (52 ) mento di Socrate fondavaſi su l’idee ſeparate,
l'imbarazza co ftringendolo ad aſſegnarne alle coſe fiſiche. Non sa Socrate ri
folvere la difficoltà. Parmenide fingendo di conceder l'idee ſe parate
argomenta contro la loro participazione, contro il lo ro progreſo all' infinito,
contro alla loro incomprenſibilità. So crate n'è molto curbato, credendo che
annullate l ' idee ſepara te non vi fieno più principj per ben filoſofare.
Ammira Par menide il fervor di Socrate, e lo conſiglia ad eſercitarſi nella
Dialetica per ben inveſtigare l'idee. Pitidoro ed Ariftotele, pre gano
Parmenide ad eſemplificar il metodo dell'inveſtigazione dell'Idee. Egli
ſcieglie l'idea dell' uno, e col metodo delle ſup poſizioni la tratta.
Orquattro ſono le quiſtioni che ſi poſſono eſtrar dal Parmeni de relativamente
alla definizione di Zenone, che l'uno non è molti. La prima è quella dell'uno
per rapporto all' idee feparate; Ia ſeconda dell'uno per rapporto asé; la terza
dell'unc per rap porto all ' ente; la quarta dell'uno per rapporto al non ente.
Le tre ultime quiſtioni ſono propoſte per via d'ipoteſi: ſe l'uno; ſe l ' uno è;
fe l'uno non è. Per non traſcurar nulla di ciò che agevola l'intelligenza del
Dialogo, premetterò partitamente ad ogni quiſtione la Ipiegazio ne delle voci,
e delle nozioni neceſſarie, ſtando più che mi ſia poſſibile attaccato alle
parole del teſto quale Dardi Bembo il tra duffe; mi par inutile di por tutto il
Dialogo, perchè eſſendoſi ri ſtampato di freſco, tutti coloro i quali hanno
vaghezza d inten derlo ſe ne faranno già proveduti,per gli altri èinutile e
vana ogni illuſtrazione. Zenone di VELIA defini l'uno ciò che non è molci.
Approva Ariſto tele (a ) queſta definizione, perchè in generale ogni defini
zione, dovendoſi aſſegnare per le coſe più lenfibilia e più note, l'eſperienza
di tutti i ſenſi ci moſtra, che i molti ci ſono più noti che l'uno; i fanciulli
più teneri nel coccare, nel vedere, e nell'udire pereepiſcono i molti, e la
loro cognizione è imme là dove hanno biſogno, che la loro ragione fi maturi un
poco per cominciare a dir uno, e quindi numerar su le I molti dunque eſſendo
più noti dell' uno, negandoli di forma 6 ) Metaf. lib. 1o. diata; dita. il (53
) il concetto negativo dell'uno in quella guiſa, che negando le par ti ſi fa il
concetto negativo del punto. Dall'uno G fa l'idea aſtratta dell'unità, come
dall'idea dell'uomo l'idea aſtratta dell'umanità. Tre ſono le ſpecie dell'unità;
la Lo gica, la Matematica, la Metafisica. L'unità Logica ſono i generi, e le
ſpecie, o certe idee univerſali atte a rappreſentar molti in uno; l'unità
matematica è il principio compoſitivo de' numeri, o il prin cipio per cui fi
numera; principio differente dal zero, da cui ſi nuinera. L'unità metafiſica' è
una proprietà traſcendentale dell' ente, o che conviene all'ente in quanto tale,
poichè d'ogni ente fi predica l'uno, come fi predica il vero, e il buono, o ſia
il perfetto, ma la verità, e la bontà, o la perfezione, inclu dendo ordine
nella varietà ſuppone l' uno, onde tra le proprie tà dell'ente egli è la più
univerſale (a ). L'unità o l'uno nel ſuo concetto aſtrattiſſimo preſcinde da
tutte le relazioni, potendoſi per l'aſtrazione della mente non riferire, nè
alle coſe che rappreſenta, nè a' numeri che compone, nè a ciò cui conviene: In
queſto ſenſo aftrattiflimo definiſce Zenone l' uno, opponendolo ai molti in
genere. Contro queſta definizione cosi argomenta Socrate. Vi ſono idee ſeparate:
dunque ogni idea eſſen do una in sè, e molti, nel participarſi a molti l'uno,
eimolti poſſono accoppiarſi; dunque non pud dirſi, che l'uno fia molti. Prima
di ſviluppar l' argomento rifletterò su certe voci, e nozioni di Socrate. $. 2.
Suppone toſto Socrate, che vi fieno idee ſeparate. L'idea ſe condo l'etimologia
della voce Greca, significa propriamente com fa viſta, e per traslato ſignifica
coſa inteſa, o ciò che s'inten de; ma tallora ſignifica l'atto per cui
s'intende, il qual però meglio ſi chiama nozione o concetto. Åleinoo defint
l'idea, intelligenza per rapporto a Dio, pri mo intelligibile per rapporto anoi,
miſura quanto alla mate ria, eſemplare quanto al mondo ſenſibile, effenza
quanto a ſe ſteſſa. In tutti queſti ſenſi la prende or Socrate, ora Parmeni de;
ma la prima nozione dell' idea ſeparata è che ella fia il primo intelligibile.
$. 3• ve ) Wolfo Metaf. (54 ) §. 3. Socrate: oltre l' idee del bello, dell'
oneſto, e del giufto, che Parmenide gli accorda, ammette ancora quelle del
limile, del diffimile, del moto, della quiete, dell' uno, e de' molti. Queſte
ultime idee ſono tra loro oppoſte e contrarie, come il caldo, il freddo, il
bianco, ed il nero; eſſendo contrarie, ciò che convie ne all'una, non conviene
all' alira, e quindi ſecondo Socrate i ge neri, e le ſpecie, idee più o meno
univerſali conſiderate in se non patiſcono paßioni contrarie, ma nulla vieta
nell'ipoteſi di Socrate, che non poſſano participarſi dalle coſe. 1 S. 4.
Partecipare è propriamente ritener in sè una parte d'un cutto;; così l'aria
partecipa la luce ', poichè ogni particella d' aria ha in sè una particella di
luce. In un ſenſo più ampio, la voce partici pare s'eſtende dalla quantità alla
qualità, all'azione, all effenza Iteffa.;. così ſi dice, che l'accidente
partecipa della ſoſtanza', gli effetti delle cagioni, un figlio le virtù,
eivizj.del padre: La par cipazione è quindi' più ampia della ſimiglianza
limitata alla ſola convenienza delle qualità, e molto più dell'imitazione, che
alla fimiglianza aggiunge la relazione tra il modello, e la copia; due gemelli
naſcendo saſlimigliano, e pur l'uno' non è la copia dell' altro. I Pittagorici'
nel riferir le coſe all' idee ſeparate, come a loro modellidiceano', che participavano
o imitavano l'idee, ma fecondo Ariſtotele non mai filoſoficamente ſpiegarono le
voci di participazione, e d'imitazione. S. 56 Cið fuppoſto, il primo argomento
di Socrate tratto da queſti principj fi pud diſtinguer in due per maggior
chiarezza. Ogni idea è una in sé, ed una in molti, dunque nel tempo ſteſſo, uno
può efser molti. Cosi lo conferma, Benchè l' idee lieno tra loro con crarie,
nondimeno poſsono eſserº nel tempo ſteſso participate da. molti, anzi dallo
ſteſso ſecondo diverſi riguardi, ma in queſte participazioni ritengono la loro
unità, dunque: ſon uno e molti. Così lo prova: oppoſte e contrarie ſono tra
loro l’idee, del ſimile, del diſſimile', del moto', della quiete, dell’'uno; é
dei molti; dunque comenulla viera, che lo ſteſso poſsa aver more in Metaf, in
una parte, e quiete nell'altra; eſfer fimile ad un altro in una parte, e
diffimile nell'altra, così nulla vieta che ſia uno, e molti; una Caſa ha molti
legni, e molte pietre; ogni. Uo mo è uno conſiderato in sè, ed è o ſeſto, o
ſettimo conſide rato con altri. la un Uomo, altra è la deſtra, altra la fini
ſtra, altre le parti dinanzi, altre di dietro, altre le ſupreme, al tre le
infime. Nel Sofiſta egli dice; noi chiamiamo un Uomo denominandolo con molti
cognomi, mentre a lui attribuiamo i colori, le figure, le grandezze, le virtù,
ed ivizi: nelle quali coſe tutte, ed in altre infinite, non ſolamente diciamo
che egli fia Uomo, ma ancora buono, ed altre infinite coſe, e le altre fecondo
la ſtella ragione. In cotal gui sa fupponendo noi qualunque coſa una, di nuovo
l'appelliamo molte e con molti nomi..... Onde ſi è da noi data occaſione di
contraddi re, come jo penſo a' giovani, ed a ' vecchi di tardo ingegno: percioc
che incontinente ci potrebbe chiunque far obbiezione che ſia coſa impos fibile,
che molte sofe folero una, ed una molte. Dunque uno può eſſer molti; dunque non
è generale la de finizione, che uno ſia non molti. La participazione dell' idea
evidentemente lo manifeſta. Sciolto è l'argomento ſe fi nega l'ipoteſi dell'
idee ſeparate perchè colte l'idee è colca la loro participazione. Parmenide ri
gecta l'ipoteſi, come nè generale, nè chiara; non generale.per chè non
s'eſtende a cutti i cafi poflibili i; non chiara., 'perchè non pud fpiegarſi la
participazione dell'idea. Cost:provo la pri ma parte non ſi debbonoaſſegnar
idee delle coſe ſeparate, o aſſegnarſene di tutte le coſe '; che vuol dire, non
baſta affe le.coſe morali, e matematiche, mabiſogna af. ſegnarne ancora per le
fifiche: dunque non ſolamente vi ſono idee del giuſto, del bello, del buono,
del grande, del fimile ec, ma dell'uomo, del foco, dell'acqua, e d' alcune coſe,
che molti fimano per avventura ridicoloſe; i peli, il fango, le macchie., ed
altre coſe ignobili, e vili. Socrate toſto lo nega, perchè gli pare, che
ammettere queſt' idee, ſarebbe coſa troppo diſconvenevole, poi can didamente
confera, che alcuna volta queſto penſiero lo turbo, e che quando di là fi ferma
ſe nefugge temendo di non corrompere la ſua mente, e fantaſia cadendo in
ciancie ineſplicabili., onde a quelle coſe ritornato (cioè all'idee del giuſto,
del bello, del buono, ed all idee 'matematiche ) verſa intorno a quelle. In (a
) Sof, pag. 306, (56.) In un caſo ſimile ſi ritrovò il P. Malebranchio;
ſentendo egli la difficoltà di ſpiegar chiaramente, come l'eſtenſione
intelligibi-: le, eſſendo immobile in Dio, gli rappreſenti il moto, ove il
luſtra queſto articolo dice nel fine: (a ) Io non oso impegnarmi'. a trattar
queſto ſoggetto a fondo, temendo di dir coſe, o troppo aftrat te, o troppo
ſtravaganti, o ſe ſi vuole, per non azzardarmi a dir co ſe che non so, nè sono
capace di diſcoprire. Queſto è il ripiego di Socrate. Ariſtotele (do ) ove
nella Metafiſica combatte l' idee ſeparate malamente attribuite a Platone,
adduce tra l'altre coſe, che dandoſi idee ſeparate ſi dovrebbe darne de'
ſingolari, de' corrut tibili; egli non eſtendeche l'argomento da Parmenide
eſemplifica to, e poida Alcinoo, che afferi non darſi nel fiſtema de' Platonici
idee delle coſe arcifiziali; uno ſcudo, una lira ec. ne delle co fe oltre
natura la febbre, la bile non naturale; non delle coſe ſingolari, Socrate,
Placone; non delle vili, ed abbiecte ſozzure, paglie ec. donde traffero i
Platonici dopo Ariſtotele, queſta di ſtinzione, ſe non dal Parmenide? Propoſta
che ha VELIA (si veda) un'obbiezione, che Socrate non può riſolvere, egli
cangia l' argomento ad judicium in quello aid hominem, che vuol dire non
argomenta più ſecondo i principi della ragione univerſale, ma ſecondo i
principj del diſputante, e ne deduce la contraddizione. Suppone dunque che vi
fieno idee ſeparate ", ma come poi date queſte idee lo ſpiegare che lieno
participate dalle coſe Queſta participazione ſi fa, o ſecondo il tutto, o
ſecondo la parte. Parmenide dimoſtra, che nèl'uno, nè l'altro può eſſere. Sia
da una coſa participaca l'idea ſecondo il cutco, dunque tut ta l'idea è in ſe
ſteſſa.; e tutta fuori di ſe ſteſſa; dunque nel tempo ſteſſo eſiſte tutta in sè,
e cutca fuori di sè. Siaľ idea conliderata in sè A, e participata fia B, C, D
ec. generalmen te, o non A; dunque nel tempo ſteſſo l'idea è A, e non A, ciò
che è contraddittorio. Nè occor dire che un giorno è uno, e lo Steffo, ed
inſieme in mola ti luoghi, e pur non è da ſesteso in diſparte. Il giorno non è
che la luce del sole, diffuſa in tutto il noſtro emisfero. Or quel la parte di
luce, che illumina me, non illumina il compagno ſebben mi lia vicino. Parmenide
li ſerve dell'eſempio della ve la, (a ) Ricerca della verità T. 4. pag.... (b )
Metaf. I..... (57 ) la, la quale molti coprendo, non è perd una in molti,
perchè la parte c he copre l'uno, non è la parte che copre l'altro. Reſta
a dimoſtrare, che l'idea non è participata dalle coſe ſe condo una parte; la
dimoſtrazione è da se manifefta, perchè l'idea participata ſarebbe una, e non
una; una tutta in sè, e non una nelle coſe che ne hanno ſolo una parte. Queſto
modo d'ar gomentare, è fondato ſul principio di contraddizione adoprato lovente
da Platone, e ſtabilito da Ariſtotele, come il primo prin cipio in cui ſi
riſolvono cutti gli altri. Eſperimentiamo noi cal eſſere la natura della noſtra
mente, la qual mentre giudica che una coſa ſia, non può inſieme giudicare, che
la ſteſſa non ſia. Parmenide eſemplifica l'impoſſibilità di queſta ipoteſi. 5.
8. La grandezza è ciò che è capace di più e di meno. Nel conce pir il più fi
concepiſce il maggiore, nel concepir il meno fi conce piſce il minore, e nel
concepir l'eguale non ſi concepiſce nè più, nè meno nelle quantità che ſi
comparano. lo dico che li comparano, perchè nè il più, nè il meno, nè l' eguale
concepir ſi poſſono ſenza riguardar una coſa nel tempo ſteſ to che l'altra o
ſenza compararle, e in queſta comparazione pro priamente la grandezza confifte,
la quale, come ben dice il Wol fio, non ſi può concepir ſenza un altro a
differenza della quali tà. Tutto quindi l' effer della grandezza è relativo, od
ha tut to l'eſſere in ordine ad un altro. Così Platone eſpreſſe la natu ra
della relazione nel Politico, nel Simpoſio, nel Sofifta, e pri ma di lui
Archita, ed Ocello, (a ) i quali diviſero la relazio ne in quattro generi. Da
queſti autori traſfe Ariſtotele (6 ) la definizione, che dà della relazione.
Nulla perd vieta, come et proverà, che per compendiare i concetti non ſi
concepiſca la gran dezza come qualche coſa di aſſoluto, a cui accade – eſſere
mag giore, minore, ed eguale, e che di nuovo ſi concepiſcano il maggiore, o'l
minore come aſſoluti, a' quali accada il più, o meno, o nè l'uno, nè l'altro.
Suppoſto dunque, che fi dia l'idea della grandezza, e in conſeguenza del
maggiore, del minore, dell' eguale, così argomenta Parmenide. Sia A l'idea del
maggiore, B del minore, C dell' eguale; ſi dividano tutte2, e tre in parti
ineguali: С poichè dunque una coſa in canto è maggiore, in quanto partecipa
l'idea del maggiore, lia l'idea - B del maggiore A diviſa in parti ineguali, e
la parte minore delmaggiore ſia participata, quello che la Tom. II. h par (á )
Diſcuſ. Perip. Patriz; T. 2. pag. 185. (b ) Ad aliquid alia dicuntur quæcunque
quod ipſa ſunt aliorum effe dicuntur. o il A (58 ) partecipa non ſarà egli nel
tempo fefto, e maggiore, e mino re? Maggiore, perchè parcecipa l'idea del
maggiore; minore per chè parcecipa la parte minor del maggiore. Così potrà
dirli della participazione della parte più picciola dell'idea del minore, e
dell' idea dell'eguale. Se'l idee dunque fi participano dalle coſe, ſe condo
una parte loro non potrà mai effer quefta, una delle par ri ineguali. Parmenide
non procede olore, maè facile l'aggiun-. gervi, che nè meno pud parcicipare
delle parti eguali, perchè la parte.eguale del maggiore participata dalla coſa,
la farebbe nel tempo ſteſſo eguale, e maggiore; e così la parte eguale del mi
nore, ſarebbe la coſa minore ed eguale.. 9. La noſtra mente, come per ſua
natura non può concepiricon tradditrorj, così non pud frappaſſar l'infinito,
biſogna che s'ar reſti ad un primo, o ad un ultimo, il qual è come Tuncino che
ſoſtiene curri gli anelli della catena. Ariſtocele, e'ne'mori, e nel le
cagioni, e ne'fini dimoſtra l' aſſurdità del progreſſo all' infini 10, modo d'
argomentare imparato dal Parmenide di Platone non men che l' altro del
principio di contraddizione. Il Wolfo dimoſtròeffer impoſibile il progreſſo
all'infinito rectilineo, e cir colare. g. 10,. Poſta l'aſſurdità del progreſſo
all'infinito, così argomenta Par menide: Tu ſtimi che qualunque ſpecie fia una,
quando pare i te cbe certe, e molte coſe fieno grandi, parendoti per avventura
in ris guardando a tutte le coſe, che ſia queſta una certa idea, onde tu penfi
che il grande fia uno. Prima d'inoltrarſi è da oſſervare, che qui Platone
inſegna, co me comparando le coſe, nel riflectere a quello in cui conven gono,
ne riſulta un'altra idea, come prima avea inſegnato Epicarmo, Queſt' idea è
ſempre una, perchè uno è l'atto della mente con cui ſi rifletre a ciò che le
coſe hanno di commune. Continua Parmenide: Se'il grande, e l'altre coſe che
ſono grandi nel medeſimo modo conſideralli per tutre le coſe, non apparirebbe
egli da capo ceri' una coſa grande, onde farebbe neceſſario che queſte tutte
pareffero grandi? Vuol dire che nel compararſi dalla mente di nuovo l'idea del
grande con le grandezze participate, nè riſulta un'altra idea di grandezza, per
la qual coſa concludeParmenide: apparirà di nuo po altra ſpecie di grandezza
fuor do esſa grandezza, e di quelle che fono ! (59 ) fono partecipi di lei, e
dopo tutte queſte, altra di nuovo con cui som rebbono queſte grandi, nè pide
qualunqueſpecie fia una, ma piuttoſto di numero infinito. La ragione è, che
l'idee della grandezza di nuovo aſtratte nella comparazione, eſſendo per loro
natura re lative faranno fena pre di nuovo comparabili, e così all' infini to.
Ariſtocele su queſto fondamento del Parmenide, e tutti i Platonici, e tra gli
altri Alcinoo dillero, che non fu potea aver idee de relativi. $. 11. cioè per
Dal modo con cui Parmenide comparando l'ideę, altre idee He deduffe, concluſe
Socrate, che le ſpecie ſono' atti dell'intel fetto, i quali non riſiedono, che
nell'animo. Gli concede Para menide, che ogni atto dell' intelletto è uno, ma
gli fa confef fare, che queſt' acto ha un oggetto, ed è l' ente'; l'ente perd
in quanto ſi concepiſce o s'intende', non s'immagina o ſente: prende egli qut
l'idea, non per la nozione, o per il concetro' della mente 1 atto, ma per la
relazione che ella ha ad un certo oggecto, e conſidera l'unità dell'idea' non
relativa mente all'atto dell'intelletto, ma all' ente che la partecipa poichè
ſecondo i principj di Socrate, ella è ſempre la ſteſa in tutte le coſe. Ne
deduce per confeguenza, che ſe l'idee ſono' at: ti dell'intelletto, le coſe che
partecipano della ſpezie', o deli? idea faranno tutte intellective, ed
intelligibili. Vi riſponde So crace, che le coſe non partecipano' dell' idee,
in quanto' queſte fono atti dell'intelletto, ma in quanto rappreſentano le coſe;
che vuol dire, in quanto l' idee Tono eſemplari, di cui le co fe fono
limiglianze; onde in tanto le coſe le partecipano', in quanto ad effe li fanno
ſimili. Parmenide contro queſte fimi glianze dell' idee, argomenta coll'
aſſurdità del progreſſo all' ip knito, come fece delle grandezze. $. 12
Supponiamo che' molte' coſé' fieno ſimili per la participazione dell' idee
della ſimiglianza. Potendoſi dunque comparar dall'in telletto le ' fimiglianze',
e delle coſe, e dell' idee, Te' ne' eſtrar rà un'altra' idea di ſimiglianza, e
queſta di nuovo comparando 1' idee con le coſe, darà un' altra idea di
fimiglianza, e co sh all'infinito, cio' che è aſſurdo”. Cosi eſprime queſto
argo mento Parmenide: non ſarebbe egli neceſſità grande, che' quel che è fimile
al fimile' folle partecipe dell' uno, e della fleffa ſpecie? Or hi 2 non (60 )
5 non ſarà ciò la ſtessa ſpecie, di cui le fimili coſe rendendoſi partecipi
fiano fimili? Dunque non può alcuna coſa eller ſimile alla ſpecie, ne la ſpecie
ad altrui, altrimenti oltre alla fpecie', altra ſpecie ſempre apparirebbe, che
ſe ella folle fimile ad alcuna coſa altra dacapo', ne cellerebbe mai queſto
progreſo, che non ſi faceſſe ſempre nuova fpe cie, ſe ancora folle ſimile la
ſpecie, a chi di lei ſi rendeſe partecipe: Ariſtotele propoſe lo ſteſſo
argomento ſebben oſcuramente L'Uomo, dice, ſignifica non meno la ſoſtanza
ſenſibile degli Uomini ſingolari, che la ſoſtanza intelligibile dell'Uomo per
sè, o fia l'idea dell' Uomo. Or ſe queſt' idee convengono in una coſa comune,
fi concepiſce comparandole un terzo Uomo, equin di un altro, e così all'infinit.
Ariftotele creſce l'aſſurdità Socrate lingolare participando dell'Uomo
univerſale partecipa, e dell'animale e dell'animale a due piedi, e d'altre coſe,
ciod, quelle che ha comuni colle piance, colle pietre, ed altre innume rabili.
Converrà dunque moltiplicare all'infinito l'idee, onde per una coſa ſenſibile
converrà porne infinite; ſi può aggiungere che queſto numero di nuovo ſi
moltiplicherà all'infinito am mettendoſi l' idee dei relativi, poichè ogni coſa
che è nell'Uo mo, pud compararſi a turce l' idee delle coſe viſibili, ed
invidia bili, o della ſteſſa, o di diverſa ſpecie. Ma l'Uomo ideale, diceano i
Pittagorici, effendo incorrutti bile, ed univerſale non ſi può comparar a coſa
ſingolare, e cor ruttibile, ed eſtrarne quindi nuova idea? Ariſtotele vi
riſponde: i binarj feparati ſono anche eſſi incorruttibili, e pur per conoſcer
li biſogna dar un'idea comune di binario, in cui convenga il binario B, il
binario C ec. In oltre l'idea di figura è comune al cerchio, al triangolo, ea
tutte le figure piane e ſolide, onde ella, è propriamente ge nere relativamente
alle ſpecie, ma chi può mai conoſcere una figura che non ſia, nè cerchio, nè
triangolo, nè altra ſimile? Intanto la concepiſce la figura in genere, in
quanto la mente non s' applica, che ai limiti che circonſcrivono lo ſpazio, fen
za far attenzione rifeffa, nè al modo, nè al numero, nè al fito dei limiti
ſtelli. Spiegherd la coſa con un eſempio più fa cile. Egli è impoſſibile che io
concepiſca un triangolo ſenza rappreſentarmi che egli fia, o Equilatero, o
Iſollele, Sca leno; altro è poi, che nel rappreſentarmi uno di queſti crian
goli io non faccia determinata attenzione alle ſpecie dei tre lati. Noi non
intendiamo le cofe, dice San Tommaſo, ſe non cona vertendoſi a' fantasmi loro.
Ora a qual fantasma è anneſſa l' idea della figura? Confuſamente a tutte le figure;
ma io non ne, con (01 ) conſidero diſtintamente alcuna, e ſolo attendo a ciò in
cui cut te convengono, ed è d' eſſere uno ſpazio circonſcritto; ma ſe nel
concepire l' idee de' generi delle coſe matematiche v'è canta dif ficoltà
ammettendo l' idee ſeparate, quale ve ne ſarà nell'idee metafiſiche?
Nell'ipoteſi Pitagorica ſi dovranno aſſegnar idee del poflibile, dell'ente,
dell'atto, della potenza, della cagione, del principio, del modo,
dell'attributo, del terminato, è dell ' indeterminato, del neceſſario, del
contingente', del perfetto dell'imperfetto ec. nè ſolo di queſte coſe, ma del
prima, del dopo, dell'inſieme, del ſeparato, e finalmente del genere in quanto
genere, e della ſpecie in quanto ſpecie: coſe tuote af furdiffime nè abbaſtanza
eſaminate da coloro che preteſero che noi vediamo le coſe in Dio, perchè ad
ognuna di queſte coſe non men che all'eſtenſione, ed al numero dovrebbe
aſſegnarſi un'idea, Ariſtotele con gran ragione v'aggiunſe, che neli ipo teſi
dell' idee ſeparate, oltre l'idee de relativi converrebbe am mettere l'idee
delle negazioni, e delle privazioni, o degli op pofti, cioè dei contraddittori
dei contrarj ec. 9. 13. Dace l'idee, data la loro participazione, ed eſcluſa la
compa razione a'ſenſibili, ricerca Parmenide fe debbonſi annoverare l'idee tra
gli enti relativi; od aſfoluti. Vi fono delle coſe, di cui tutta l'eſſenza
conſiſte nel riferir fi all'altre, e queſte ſono relative, (8. 8.) é ve ne ſon
altre di cui l'eſſenza conliſte nella non ripugnanza dei predicari, che le
coſtituiſcono, e queſte ſon le affolute; Poichè tutto l'efferé de’ relativi è
nel loro confronto, (5.8. ) includono effi neceffaria. mente due termini tra
loro oppoſti, il fondamento dei quali fo no le coſe affolute, che tra loro fi
comparano; quindi il fonda mento del relativo è sempre l' aſſoluto. Un Uomo
fuffifte per sè, e ſe foſſe ſolo nel mondo, non farebbe nè Padrone, nè ſer-' vo,
ma ſuppoſto che viva in una ſocietà, può eſſer l'uno, e l' altro, in guila però
che non è ſervo in quanto Padrone, nè Pa drone in quanto ſervo, ma come Padrone
ſi riferiſce a coloro cui comanda, come ſervo a coloro cui ubbidiſce, e l'uno,
e l' altro gli accade in quanto è Uomo, ed a diverſi Uomini li ri. feriſce.
Poichè dunque l'idee fi riferiſcono ai fimili che le par tecipano, biſogna che
ſieno in ſe ſteſſe e parimenti perchè i ſimili che partecipano l'idee fi
poffano riferir all’ idee, convie ne che fieno in ſe ſteſi. Biſogna in una
parola, che l'idee, e le coſe che le partecipano abbiano un' eſſenza
determinata. Con clude (62 ) 1 clude quindi Parmenide, che l'idee hanno tra
loro, un ' eſſenza, ma che queſta non è un eſſenza tutta: relativa alle coſe
che ſo no appreſſo di noi, o pure le coſe fi nominano ſimiglianze, o in
altramaniera di cui facendoſi partecipi, noi la nominiamo con, qualunque di
eſſe.;. aggiunge parimenti, che le coſe che ſono in noi, non hanno la virtù ſua
d'eſiſtere in verſo l' idee, ma fono quel che ſono relativamente a ſe ſteſſe.
Parmenide quin di chiama le cofe. che ſono in. noi,, e: in torno a noi:
equivoche: all' idee.. Cagione equivoca: degli animali, delle piante, de
metalli ec. diſero Ariſtocele, e gli Scolaſtici il Sole, perchè ſebben concorra
alla loro generazione, non conviene con loro, 0 non gli aſſomi glia che
nell'eſſere. Parmenide parlando ad bominem par che allu da all' opinione di
Socrate, il quale nell' ammecter l' idee, come cagioni delle coſe, era sforzato
ad ammetterle come cagioni equivoche,, non potendo ammetterle, come cagioni
eſemplari, il che: Ariſtotele così: dimoſtrò:-ſe quando l'Uomo fi genera da
Socra te, eglis'alfomiglia all'idea, e non a Socrate, fi potrà generar: { mile
all'idea, liavi o non ſiavi Socrate;; ma ľ Uomo generandofia non s'aſſomiglia
all'idea, ma a Socrate, come è manifeſto dall' eſperienza; dunque Socrate, e
non l'idea è l'eſemplare del generato: Poſto dunque che l' idee: influifcano
nella generazion delle coſe, convien ſempre porle, come cagioni equivoche;: ma
da: chi Ariſtotile traffe cal idea, ſe non da Placone? ' Or fe: l'idee non
hanno relazioni alle coſe, o ſono diloro ca gioni equivoche, come poſſiamo
conoſcerle? Se le piante, de pie tre ragionaſſero,. potrebbono
mairappreſentarli (rimirando ſe fteſ. ' fe,. ), che il Sole foſſe loro: tanto
diſſimile? che ebbe. tanta parte nella loro generazione. Le noſtre idee non
ſono cagioniequivoche delle coſe, le quali noi produciamo affilandoſi ſul loro
modello. Un Architeto uno Scultore, un Pitcore fanno la caſa, la ſtatua,.,
l'immagine ſecondo l'idea che ne hanno formata, e perciò comparano l'effet to
all' idea per miſurarla,, e perfezionarla;, nella combinazione dell'idée chiare,.
e diſtinte conſiſtendo la ſcienza, l'oggetto del la noſtra ha ſempre
proporzione all'idee che d'effo formiamo;.. ma ſe l.idee: ſeparate come cagioni
equivoche non hanno alcu na proporzione con le coſe che vediamo, non par
poffibile di: riconoſcerle, e in conſeguenza aver- Scienza di loro. Delle co fe
quindi rivelate, non abbiamo ſcienza ma fede; ſono certe, € infallibili, ma non
a noi: chiare e diftinte.. Platone nel Filebo ſtabiliſce due generi di coſe;
altre non 'han no avuto origine, nè finiranno giammai, perchè ſono immutabi li,
e fempiterne; altre non ſono perchè ſempre 'fi fanno ſono a generazione, et corruzzione
ſoggette: À queſti due ge neri di coſe, ' fa corriſponder due generi di
cognizione; delle coſe immutabili, ed eterne ſi ha ſcienza, dell' altre non ſi
ha che opinione. Le coſe di cui s' ha ſcienza ſono l'idee, perchè ſono ſempre
nello ſteſſo ſtaro, nè ſi può ſapere ſe non ciò che è, ed è ſempre nel medeſimo
modo; le coſe di cui s' ha opinione fono le coſe ſenſibili, perchè
continuamente fluendo, non ſono mai nello ſteſ fo ſtato. Come dunque Placone
nel Tilebo, dà fcienza dell'idee, e nel Parmenide non la dà? La riſpoſta
generale è, che da cid che ſi dice in un Dialogo,nulla deve inferirſi
relativamente a cid che ſi dice nell'altro, perchè Platone non ragiona ſecondo
la ſua ſentenza, come nelle lettere per eſempio, ma ſecondo le ſenten że altrui;
oltre a cid, Platone trattando nel Filebo della defini zione della ſcienza egli
è manifeſto, che tratta ſolo della ſua pof fibilità relativamente all'oggetto,ſenza
poi procurarſi di cercare, ſe ſi dia o no tale ſcienza negli Uomini, I
Matematici definiſco no il cerchio, e il triangolo in quanto è poffibile, nè fi
curano ſe eſiſta o.no: quindi ben ' li definiſce la Filolofia, la Scienza dei
poffibili in quanto tali; nel Parmenide non della poſſibili tà, ma
dell'attualità della ſcienza ſi tratta, e Parmenide mo ftra, che dandoſi l'
idee ſeparate non poſſiamo aver 'ſcienza di effe, perchè non hanno alcuna
proporzione con noi, e con le coſe.noſtre. 5. 15. Ammettendo con S. Agoſtino, e
S. Tommaſo, cheIddio ab bia idee, e molte idee, onde per eſſe conoſca i
ſingolari, i fu turi, i contingenti, gli infiniti, non perciò poſſiamo dire,
che abbiamo ſcienza dell' idee di Dio, o che poliamo conoſcere co me per queſt'
ideeegli conoſca le coſe. Il Malebranchio, ed il Poiret, che lo tentarono,
caderono ſecondo la fraſe di Socrate in ciancie ineſplicabili. 1. 16. (64 ). S.
'16.: s' inoltra Parmenide: La ſcienza in sè conliderata è un'idea, come la
bontà, la bellezza ec. ma ſe queſt' idea della ſcienza, non ha alcuna
proporzione alle ſcienze a noi note, non poßia mo conoſcerla, poichè le ſcienze
intanto a noi ſono note in quanto verſano su noi, o su le coſe che ſono intorno
a noi. Or non conoſcendo l'idea della ſcienza in quanto tale, nè men poſſiamo
conoſcere ſcientificamente l'altre idee, perchè per aver ſcienza dell' altre
idee convien participar dell'idea della ſcien za, ciò che è impoflibile:
Parmenide par qui ſupporre che la noftra ſcienza paragonata all'idea della
ſcienza ſia come il zero all' infinito ma ſe noi non participiamo dell'idea del
la ſcienza, come potremo ſcientificamente, o chiaramente, e diſtintamente
conoſcere il bello, l'oneſto, il giuſto, e l'altre idee? Nulla a mio credere
v'è di più acuto, e profondo che queſtº argomento, e quel d ' Ariſtotele non
l'eguaglia, benchè per altro concluda contro l'ipoteſi dell' idee ſeparate.
Oſservò egli che lº idee eſsendo immutabili per loro eſsenza, non ſi può per
eſse ſpie gar il moto, dalla cui cognizione dipende quella della natura; dunque
l' idee ſono inutili alla ſcienza per cui furono introdotte. Coloro i quali
amiſero con Eraclito, che le coſe ſenſibili ſono in un continuo fluſso,
ricorſero all'idee ſeparate, le quali immutabili eſsendo, ſomminiſtravano a?
Filoſofi dei principj immutabili del loro ſiſtema; la difficoltà è come i
Filolofi le conoſceſsero, ſe la lor mente, non nell' eſsere, ma nell operare
dipende dagli organi del corpo umano, ſoggetto alle vicende dell'altre coſe
fenfibili? f. 17. All' argomento tolto dal principio di contraddizione del pro
greſſo all' infinito, Placone aggiunge l' altro tolto dalle perfer zioni Divine.
Come il retto è la miſura di ſe ſteſſo, e del cur vo, così il cumulo di tutte
le perfezioni che è in Dio; ci ſer ve di miſura per giudicare, e delle
perfezioni di Dio ſteſso, e di quelle dell'altre coſe. Per via del principio di
contraddizio: ne del progreſso all'infinito ſi dimoſtra l'eſiſtenza di Dio, e
per via, o di negazione, o di eminenza, o di caſualità, fi di moſtrano le
infinite perfezioni di lui, onde ſe a qualche data ipoteſi conſegua
l'annullazione di qualche perfezione divina, l'al ſur ſurdo è maſſimo, perchè
Dio nell' effer principio dell'eſiſtenza, è ancora principio di tale eſiſtenza,
e nulla può eſiſtere ſe ri pugna alla natura Divina. Socrate non potea non
conoſcer Dio comeprincipio intelli gente, dunque era neceſſario, che gli
attribuiffè l' idee non me no convenevoli all'intelletto, che i tre lati ad un
triangolo; pur tace Socrate, quando Parmenide gli prova, che la perfec tiſſima
ſcienza o P idea della ſcienza convenendo a Dio, egli per queſt' idea non
poteva conoſcer le coſe, ciò che era con trario alla divina natura. Par dunque
che Socrate ſupponeſſe l' idee ſeparate, ma dall'altra parte Ariſtocele dice
chiaramen te, che Socrate noo ammetteva l' idee ſeparate ſe ben deffe gli
univerſali. Non ſi ſoddisfarebbe in parte alla difficoltà, di cendoli che
Platone, per bocca di Socrate, parlò dell' idee in fenfo poetico, per aver
occaſione d'annullarle, e propor la doc trina che ha da lui copiato Ariſtotele,
e della quale poi ſi ſervì contro que' diſcepoli di Platone, che realizzarono
l' idee ſeparate.. 18. Annullate l' idee ſeparate, la voce idea nel progreſo
del Dia logo, tutta fi riſtringe all' idee, che la mente aftrae comparan do le
coſe. S'è già accennato ($. 8.) il modo, con cui deduſ fe Parmenide l'idea
della grandezza, e de' ſimili, e li vedrà inoltrandoſi, che egli parlando dell'
uno e dell'ente, proteſta di ſeparar le coſe con l'intelligenza, e con queſta
fino sbra narle', che è quanto dire, diſtinguer i concetti o l' idee, ſecon do
i rapporti delle coſe, foſſero ancora quefte ſempliciffime; nulla v'è di più
ſemplice dell'anima per ſua natura indiviſibi le, e pur in eſſa ſi diſtinguono
varie potenze, ſecondo le rela zioni, che ai varj organi del corpo ella ha
operando, onde fi dice che ella ſente, ë che ella immagina. Nella parte ancora
intellettiva, ſi diſtinguono le facoltà che ella ha di comparare, e di aſtrarre,
e di combinare e di, e di contemplare l' idee', onde ella dichiaraſi mente, e
ingelletto, (c ) voci non altrimenti fi nonime, poichè le loro etimologie di
confrontano ai varj uffizj dell'anima; tutte quindi le ſcienze ſono ſu l'
aſtrazioni fonda te. La fiſica aftrae dalle coſe ſingolari, la matematica dalle
ſen Tom. 11. i (a) Mens è detta a menfura, poichè l' anima compara, e miſura le
coſe, Intellectus da intus legere, poichè intendendo ſcieglie, e deduce una
cola da un' altra. fibili, (06 ) fibili, la metafiſica da ogni materia. Vuole
il Patrizio, che come in una gran parte del Sofifta, čosi in tutto il Parmeni
de non ſi tratti che di quella metafiſica, che Ariſtotele colſe da Placone, e
di cui le prime idee ne diedero i Pitcagorici, e tra gli altri, Archira e
Peritione; io v'aggiungo che la me cafifica avendo due parti, cioè l' ontologia,
o la ſcienza, che tratta delle proprietà dell'ente, in quanto ente, e la Teolo
gia naturale o la ſcienza, che tratta delle ſoſtanze ſeparate dal la materia,
come Dio e l'anima, Parmenide ſi riſtringe in que ſto trattato all' ontologia,
e manifefte ne faranno nel progreſo ſo le prove; baſta accennar qui, che
dovendofi dar un elem pio del modo con cui s acquiſtano l ' idee, ſcieglie
Parmenide l'idea dell'uno, applicando ad efla il metodo delle fuppoſizio ni.
Due coſe aggiunge alluſive all'analiſi, ed alla ſinteſi. La prima che ufficio e
d' uomo ingegnoſo il poter apprendere, come ſi ritrovi il genere di qualunque
coſa, ciò che ſi fa cominciando dall'analiſi, o dall'eſame delle coſe
particolari, e per l'aſtra zione, elevandoſi agli univerſali; la ſeconda, che
ufficio è di uomo meraviglioſo inſegnar agli altri le coſe ritrovate, ciò che
ſi fa per la ſinteſi, combinando l'idee generali, e quindi le lo ro
combinazioni, da cui ſi deducono i problemi, e i teoremi, ed indi i corollari,
e le annotazioni. Sommo acume di men te fi ricerca nel far le opportune
aſtrazioni, e di nuovo da.quefte aftrarne altre, ſin che ” analiſi propoſta ſi
riduca all' ul time idee, e ſomma fodezza, ritrovare l'idee, concatenarle in
guifa che alcri con facilità, e prontezza le intendano, e l'uno, è l'altro
dimoſtra Parmenide, o col luo nome Placone. Se l'uno che ne ſegua. b. I. Vuol
Uole il Ficino, che queſta prima fuppoſizione debba inten derſi. Se l' uno,
perchè il verbo è, o ſia la copula del predicato o del ſoggetto v'è pofta, non
in grazia della coſa, ma dell' orazione. Nel legger la nota marginale del
Ficino mi ricordai, che Licofrone (a ) invecedi dire, il parete è bianco, di
ceva il parete bianco, ed altri il parete biancheggia, quaſi che Platone non
riprovaſſe nel Sofiſta l' orazion ſenza verbi, o che Ariſt. 1. Phil. che i verbi non foſſero ſtati inventati per
compendiare i gius dizi ! Non è forſe lo ſteſſo il dire, io amo, che io ſono
aman te é io biancheggio, che io fono biancheggiante? La fuppofi zione dunque,
je l' uno equivale all' orazione condizionata, ed implicità fé uno, nè così la
propone Parmenide, ſe non per intimarci, che a null' altro fi deve badare
nell'ipoteſi, che all uno preſo in un concetto aſtrattiflimo. Nella Geometria
ſinteticamente ſi comincia dal punto prin cipio della linea; nell'aritmetica,
dall'uno principio del nume ro; e nell' ontologia dall' uno traſcendentale, che
conviene ad ogni noftra idea. Eſclude tutte le relazioni, perchè riferendofi
l'uno per eſempio ad A, B, C ec. non è più uno, ma molti, in quanto in lui fi
conſiderano le diverſe faccie che ſi riferi ſcono ai molti. Parmenide in queſta
prima ipoteſi eſclude dall' uno cutte le relazioni, cioè quelle dell'ente in
genere, e l'alore dell'ente in fpecie. Relazioni dell'ente in genere ſono
l'identicà, e la di verſità, perchè non competono meno alla ſoſtanza, che alla
quantità, qualità, ed agli altri predicamenti. Relazioni dell'en te in fpecie
ſono, la limiglianza, la diſſimiglianza, Peguaglian za, l'ineguaglianza,
l'antichità, la novità eco perchè competo no o alle fole qualità, o alle ſole
quantità ec. * l une e l'altre intanto ſi dicono relazioni, in quanto non
conſiderano le coſe in ſe ſtelle, ma relativamente tra loro: il diffimile,
l'eguale ec. non li concepiſcono ſenza i due termini, che tra loro fi
paragonano. Se l' uno in quanto tale non può compararſi ad alcuna coſa, biſogna
eſcluder da lui tutte queſte relazioni, tan to più ſe nelle coſe riferite
s'includono i molti. Parmenide comincia dall'eſcluſione delle relazioni più
facili a conofcere', che ſono quelle della quantità; paſſa alle relazioni della
qualità, e ad alcre, e finalmente all'eſſenza; nè di ciò con tento efclude le
relazioni, che l'uno può aver all'opinione, al la ſcienza, é lino al nome. Se
l'uno in queſto concetto aftrat tiſſimo fi nominalle, avendo ogni nome
relazione al ſenſo, al la fantalia, od alla mente, e quindi a tutti gli uomini,
che lo pronunziano o l'odono, l'uno con l'aggiunta di queſte relazio ni ſarebbe
molti. Si ſente più che non s'eſprimequeſt' ultimo grado, ed abbiamo grande
obbligazione a Platone, che in que Ro Dialogo, nel rappreſentarci la dottrina
della fetta Eleatica, ci ha moſtrato l'uſo opportuno delle aſtrazioni. Egli di
conten ta di non moltiplicarla, che fino ad un certo grado, a fine che l'idea
coll' altrarla tanto non s'inlanguidifca, è sfumi; onde al fine la mente non
poſſa più ravviſarla in quella guiſa, che i 2 l'im 708 ) l'immagine d'un
oggetto riflettuta da uno ſpecchio ſucceflivamen te in molti altri, al fin
diviene si ombratile, che ſvaniſce da. gli occhi. Frattanto era neceſſario
dimoſtrare in un ſoggetto aſtrattiſſimo per sè, l'uſo dell'ultime aſtrazioni
che può far la mente, non eſſendovi altro modo di accennare, come in ogni
quiſtione s'arrivi a quell' ultima idea, in cui conviene che vi ci ripoſi, anco
malgrado l'impeto innato, che inevitabilmente ci porta a ſempre più nelle
cognizioni inoltrarci. Nell'inveſtigazione poi dell' idea vaga Parmenide per
tutti i generi, come era in uſo nell'antica Dialetica, e fatta la ſuppoſizio ne
determinata per via di comparazioni, ed eſcluſioni, egli ricava il punto
preciſo della quiſtione propoſta. Con la chiarezza maggio re che io poſſa,
procurerò deſprimer diſtintamente tutti i gra di tallor dell'analiſi, e callor
della ſinteſi Parmenidea. Nel trat çar l'altra quiſtione meconvenne ſeguire le
interrogazioni, e le riſpoſte degli Interlocutori ma quà folo Parmenide parla;
onde bafta ſolo ſeguendo l'ordine del Dialogo premetter le.co. ſe neceſſarie,
eſtrar la propoſizione, e dimoſtrarla fe fi può cal metodo de' Geometri. L' uno
non è molti. Abbiamo quanto baſta illuſtrata queſta definizione; qui fo lo
avverto, che come il Wolfio, dopo d'aver definito, che l'en te ſemplice è cid
che non ha parti, da queſta definizione ne gativa egli deduſſe, che l'ente
ſemplice non è ſteſo, non è diviſibi le, ſenza figura, ſenza grandezza, che non
riempie ſpazio, che non ha moto inteſtino ec. Così Platone, da ciò che è l '
uno, dimoſtra le fteſſe coſe, e molt'altre che andremo partitamente,
conſiderando, e deducendo dalle nozioni preme{le. g. 3. 11 Wolfio defini il
tutto ciò che è lo ſteſſo con molti; per abbracciar in una definizione non ſolo
il tutto integrale, che chiamaſi totum, ma ancora il potenziale che chiamali
omne. Lo ſteſſo, come ſi vedrà fra poco, conviene non meno alle quantia tà, che
alle qualità, ed alle ſoſtanze, e l'idea di molti è più univerſale, che quella
delle parti, convenendo i molti e agli enti ſemplici, ed a' compoſti come a'
quantitativi. Parmenide non definiſce qui, che il tutto integrale, raccogliendo
inſieme le 1 (69 ) le parti, e limitandole in uno, a cui niente manca, ed è per
fua natura indiviſibile; la nozione di molti è quindipiù aftratta della nozion
delle parti, e in queſto ſenſo Ariſtotele diffe, che il tutto è prima delle
parti, e non le parti del tutto, il che, ſe ſi crede al Patrizio, tolfe da
Ippodamo Turio. (a ) §. 4. L'uno non è nè tutto, nè parte di sè. Se l'uno è
tutto non vi manca alcuna parte, ($. 3. ) dunque ha parti; dunque è molti
contro la definizione dell' uno ($. 2. ) Se l'uno è parte di sè, è un tutto
riſpetto a sè, ma non pud eſser un tutto, come ſi dimoſtrò; dunque non è parte
disè. L'uno non effendo nè tutto, né ſteſo, od è indiviſibile, o è ſemplice.
parte, non è 8. S. Ogni cutto ha principio, mezzo, e fine. Cid vuol dire, che
propoſtoſi un turco nel numerarne le parti fi comincia da quella che chiamaſi
prima, e li progrediſce all' ultima paſſando per le intermedie. §. 6. L'uno non
ha principio, nè mezzo, nè fine. ol, Se l'aveſse ſarebbe un tutto ($. 5. ) il
che è impoſſibile (8.4. ) Speſre volte inſegnò Ariſtotele, che l'infinito è
ſenza principio, ſenza fine; offerva il Patrizio, che lo preſe dal Parmenide,
ove ſi dice, che l'infinito (o piuttoſto come io crederei l'indefinito ) non ha
ne principio, nè fine, cioè non ſi sa in eſſo, nè dove comin, ciar la
numerazione, ne dove terminarla. In queſto ſenſo una li nea non è propriamente
infinita, o indefinita, le comincia da un punto, nè una ſuperficie, nè un corpo,
ſe la ſuperficie comincia da una linea, e il corpo daunaſuperficie. A queſti
infiniti måtema rici, che cominciano da un termine, non compere la definizione,
che Platone aſſegna dell'infinito, da cui eſclude il principio, ed il fine. (a
) Diſcuſ. perip. T. 2. p. 280. S. 2: (70 ) S. 7. L ' uno è infinito. L'uno non
ha principio, nè fine (S. 6. ) Dunque è infinito. (An. Si 6: ) 9. 8. La figura
è una parte dello ſpazio, o dell'eſtenſione circonſcrit ca da cerci limiti, o è
retta come il quadrato, il cubo ec. o ro tonda, come il cerchio, la sfera,
Pelifli, l'eliffoide ec. o miſta dell'uno, e dell'altro. Il principio della
figura è dove i moder ni pongono il vertice, il fine dove pongono la baſe",
il mez zodove la figura fi divide per mecà. 8. 9. L'uno non ha figura. Ogni
figura, o recta, o rotonda ha principio, mezzo, o fine (8. 8. ) ma l'uno non ha
principio, nè mezzo, nè fine. ($. 6. ) Dunque non ha figura. L'uno è
infigurabile. $. 10. Non lo può concepire', che una coſa ſia in ſè ſteſſa ſenza
il di 1 ſtinguere con la mente, che ella è comprendente e compreſa, cid che è
concepirla due volte, o di uno far due. Non ſi può conce pire, che una coſa ſia
in altrui, ſenza che ella ſia toccata in mol te parti. Il luogo abbraccia, o
comprende la coſa in lui colloca ta · Eſer in alcrui, od effer in ſe ſtello,,
ſono due oppoſti ſenza. mezzo, come il moto, e la quiete. So IT. L'uno non è in
luogo. O ſarebbe in sé, o in altrui; ($. 10. ) ſe in sè, egli ſarebbe a sè il
ſuo luogo, onde abbracciando ſe ſteſſo ſarebbe nel tempo fteflo, e comprendente,
e compreſo, cioè l' uno ſarebbe due co ſe o molti contro la definizione ($. 2.)
ſe foſſe in altrui, fareb be 1 1 1 1 (71 ) be toccato in molte parti, onde
avrebbe molte parti contro la definizione. (§. 2. COROL. L'unonon è
circonſcritto da alcuna coſa, terra, Cielo, materia, ſpazio ec. ANNOT. Daqueſto
argomento lice inferire, che Parmenide cob ſidera qui l'uno, in quanto è dalla
mente aſtratto da corpi, che ſono in luogo; s'è già oſſervato, che l'ontologia
degli anti chi era fondata su l' idee aftratce dalla materia, dalla forma, dal
compoſto, dagli accidenti; onde queſt'uno aſtratto da corpi, e da loro
dipendente non ha alcuna relazione a Dio, ch'è un ente per sè, in sè, infinito
cc.. 12. Il moto alla ſoſtanza, ſecondo Ariſtotele, è quando una coſa, per
eſempio una parte di terra ceſſa d'eſfer terra, e comincia ad eſſer pianta. Il
moto alla quantità è quando una coſa, per eſempio un fanciullo creſce nella
ſtatura, ed un vecchio decreſce. Il moto alla qualità è quando per eſempio la
carne d unUomo fredda, dura, ed aſpra, li fa da sè calda, molle, liſcia. Preten
deva Ariſtotele, che queſti tre moti dipendendo dalla forza in crinſeca, che
facea cangiare alle coſe la ſoſtanza, e gli acciden ti loro, li diſtingueſſero
dal moto locale, nel qual altro non ſi con ſidera, che il paſſaggio da un luogo
all' altro: Parmenide, o Pla tone, benchè parli del moto di generazione, e
d'alterazione, par ſolo far attenzione, ſecondo l'ulo de'moderni,
all'accoppiamento delle parti, e quindi all aumento delle qualità, due coſe
accom pagnate dal moto locale, o di traslazione. Lo conſidera egli in linea
retta, oin cerchio, nel qual moto una parte della coſa et forma nel mezzo, e le
altre parti fi rivolgono intorno al mezzo. Vuol poi, che tutto ciò che ſi
genera ſi faccia in qualche luogo ſecondo il principio da lui in queſto Dialogo
replicato più volte. Ciò che non è in alcun luogo è nulla. Platone nel Teeteto
dice per bocca di Socrate: Se dimoſtran eli una ſpecie di moto, o due ſpecie,
come a me pare, nondimeno io conſidero che cid non ſolamente appaja a me folo,
mo ancora tu ne fii partecipe, acciocchè amendue parimenti patiamo qualunque
coſa face cia meſtieri, ficchè mi di, cbiami tu forſe moverſi, quando alcune
coſa fe mute da luogo a luogo, e nello steſo ſi raccoglie? Teodoro glie lo
concede. Socrate ſoggiugne: Dunque fiare una specie questa, ma quando
fermandoſi alcuna coſa nello ſteffo luogo s'invecchia, o di bian, ca fi fa nera,
o dara dimolle, e ſi altera da certa altra alterazione, son chiameremo noi
meritamente queſt' altra ſpecie di movimenti?... Ora dico che fieno due le
ſpecie del movimento cioè alterazione, la (72 ) la circonferenza. Egli dice
circonferenza in luogo di traslazione in cerchio, per moſtrar che nel pieno
ogni coſa va in giro., Conſidera poi quì, che nel farſi una coſa vi la un
accoppia mento, nel qual prima una parte fi congiunga a quella che li fa,
mentre l'altra parte, che ſi deve aggiungere, è ancora fuori della coſa. L'uno
non ha moto di alterazione, nè di generazione. Non di alterazione, perchè ſe ſi
altera non è più uno, ac quiſtando nuove qualità; ſe fi genera non è più uno,
acquiſtan do nuove parti. Or nuove qualità, e nuove parti fanno molti; dunque
ſe l' uno o fi altera, o fi genera, è molti contro la de finizione. IN ALTRO
MODO. Una coſa non può generarſi o farſi che in un' altra, perchè tutto ciò che
è, o fi fa, è in qualche luogo, ma ſe l'uno non può effer in un altro (S. 11. )
nè meno può farſi in eſſo. In ol tre ſe una coſa ſi fa in un altro, non ancora
ella è ſe ſi fa. Or quando una coſa ſi fa, una parte è in lei, e una fuori di
lei, perchè le parti fi vanno ſucceſſivamente aggiungendo, ma l'uno non avendo
parti (5. 4. ) nè può eſſer nè tutto te in sè, nè tutto, nè parte fuori di sè.
Dunque non può ge nerarſi. Corol. L' uno non è generabile, nè alterabile, nè
par §. 14. L'uno non ha il moto di traslazione. L'uno non è in luogo (5. 11. )
ma la traslazione in linea ret. ta è una mutazione ſucceſſiva del luogo. Dunque
l ' uno non eſſendo in luogo ($. 11. ) non può mutar il luogo, ſecondo la linea
retta, ma nè meno pud mutarlo, ſecondo la linea circo lare, perchè deve
raggirar nel mezzo, e tener fiffe le parti che fi rivolgono intorno al mezzo;
ma l'uno non ha nè mezzo, né parte, dunque non può rivolgerſi in cerchio'(. 13.
) Dunque le alluno non conviene nè l'uno, nè l'altro, non gli conviene il moto
di traslazione. Q. 15. 1 1. 1 (73 ) g. isi Come ſi concepiſce il moto, nel
concepire la traslazione fuc ceffiva del mobile, o ſia il rapporto
continuamente vario della diſtanza del mobile a ' corpi contigui, così fi
concepiſce la quie te nel concepir il rapporto coſtante di diſtanza a ' corpi
conti gui; quindi nel moto, il corpo va ſucceſſivamente occupan do diverſe
parti dello ſpazio, e nella quiece occupa le ſteſſe par ti dello ſpazio. $. 16.
Luno non è nè in quiete, nè in moto. L'uno non è in sè, nè in altrui (9.11. )
ma ciò che è in quiete, è ſempre nello ſteſſo, ciò che li move è ſempre in al
trui. Dunque ſe l'uno non è in ſe ſteſſo, nè in altrui, non ſi ripoſa, nè ſi
muove. $ 17 Platone ha ſin ora conſiderato l' uno per eſcluder da lui la ragion
di tutto, di parte, di principio, di fine, di mezzo, di figura, di luogo, di
moto, cioè per eſcluder dall' uno tutte le relazioni che appartengono alla
quantità, come la più nota, e più facile. Senofane pur provava, che l' uno era
infinito, im mobile, non ſi trasfigurava nella poſizione, non s'alterava nel la
forma, non fi milchiava con alcri. Non è egli molto veri ſimile, che egli ne
arecaffe le ſteſſe ragioni, che poi Parmeni de più fteſe, ed affottiglid? Paſſa
Parmenide ad eſcluder dall' uno le relazioni dell'ente che appartengono alla
qualicà, di cui le prime ſono l'identità e la diverſità. Non premette Parmenide
alcuna definizione dello ſteſſo, e del diverſo; come fece del tutto; dai
Pittagorici (a ) impard, al dir del Patrizio, che l'identità, e la diverſità
non devono conſiderar fi come paſſioni dell' ente, ma come generi ſecondarj, i
di cui primi ſono il moco e la quiere. Ariſtotele all'incontro riduce l'
identità a una certa unità, e dichiara che ella come la diverſità appartiene
alla ſuſtanza, poichè fteſse ſono quelle coſe che con vengono, o nella materia,
o nella ſpecie, o nel numero, o nel Tomo II. k gene (a ) Diſcuſ. Perip. T. 2.
p. 207. (74.), genere di cui una è la ſoſtanza. Platone eſtende l'identità, e
di verſità alle qualità, e da lui impårarono i matematici a dire, che le
ragioni o proporzioni, che ſono le ſteſſe con una ſtella, ſo no le ſteſſe tra
loro; e non ſi dice pur tutto giorno lo lteſto grado di calore, di lume ec. e.
parimente ragioni diverſe, di verſo grado di calore, di lume ec. Dunque non
alla ſola fo ftanza, ma alla quantità, alla qualità, ed agli altri predicamen
ti apparciene lo ſtello, e il diverſo. Inliftendo il Wolfio su le nozioni
ſcolaſtiche, dà il criterio per diſtinguere lo ſteſſo dal diverſo. Quelle coſe,
dice egli, fou no le stelle che ſi poſſono ſoftituire. ſcambievolmente ſalvo
qua lunque predicato, che loro aſſolutamente, ſotto qualche con dizione
convenga; ſicchè fatta la fortituzione, la coſa reſta ta le, come ſe non foſſe
ſtata ſoftituita. Se in una bilancia, in cui ſang equilibrati due peſi, in
cambio di un peſo, d' una certa grandezza, io ne ſoſtituiſco un alıro, in modo
che l'equilibrio Loro non lia tolto, queſti due peſi, in quanto peſi, nulla
diſtin guendoli: ſi chiamano gli ſteſſi. Se nel peſo che è prima nella bilancia,
vi foſſe una certa figura, ed un certo colore, eun cer to grado di calore, e di
freddo, ed anche un certo odore, e tutto ciò appuntino ſi ritrovalle nel peſo
che ſi ſoſtituiſce, que fti due peſi non diſtinguendoſi, e nel peſo, e nell'
altre qualità li chiamano gli fteſi; Lo ſteffo in numero è ciò che ſi afferma
di ſe ſteſſo, o cui ripugna d'efiftere due volte; nel dirſi, queſto triangolo è
que ſto triangoló, ' ſi predica lo ſteſſo triangolo di ſe ſteſſo, onde
convenendo la ſtella eliſtenza al ſoggetto, e al predicato, egli è manifeſto,
che il triangolo in quanto è nell' uno, e nell' altro non ha doppia eſiſtenza,
mala ſteſſa, I diverſi poi ſono quelli, che ſcambievolinente non poſſono
ſoſtituirfi, falvo ogni predicato che all' uno, o all' altro aſſo lacamente o
condizionatamente convenga. Così nel caſo della ſoſtituzione de' peſi della
bilancia, ſe un peſo nel ſoſtituirſi all' altro cangia d'equilibrio, il pelo
ſofticuito è diverſo dal peſo, di cui preſe la vece; egli è diverlo in ragion
di peſo, benchè per altro poteſſe eller lo ſteſſo nella grandezza, nella figura
nel calore, ed altre qualità. Poſſono dunque le coſe eſſer le ftel ſe in un
predicato, e diverfe negli altri; quindi ſi può diſtin guer lo ſteſſo, e il
diverlo in affoluto, e in relativo; ſono aſ loluti, ſe le coſe convengono in
tutti i predicati, o diſconven gono falva però la loro eliſtenza; ſono relativi
le convengono in alcuni predicati, ma diſconvengono in altri. E'cid neceſſa rio
di ben avvertire, perchè in queſto Dialogo fi prende lo ſteſ 1 1 ſo, 1 (75 ) fo,
e. il diverſo in queſti due fenfi. Qul Parmenide perd pren de aſtrattamente la
coſa, perchè a lui baſta, che l'identità, e la diverficà fiano affezioni, o
generi delle coſe non preſe in sé, ma relativamente all'altre, baſtando queſta
fola relazione per eſclu derle dall' uno; quindi può facilmente dimoſtrarſi,
che l'uno non è, nè a se, nd ad altrui lo ſteſſo, perchè nel ſuo concerto
aſtrat tiffimo efclude ogni comparazione; ma Parmenide in alcro modo lo
dimoſtra, rappreſentandoſi alla mente per via d'una nozione immaginaria, che l'
uno prima è uno, e poi per forza della com parazione egli è molti. Ciò ſi rende
ſenſibile col diſegnar l'uno col ſimbolo aritmetico I, e poi aggiongendovi A, o
qualche alera lettera, onde egli fia prima i, indi 1 + A. S. 78 L'uno non è lo
ſteſſo, nè diverfo a sè, nè ad altri. Se l'uno foſſe da fé ſteffo diverfo,
ſoſtituendoſi l'uno per l'uno dove prima della ſoſtituzione fi concepiva i,
dopo della foftitu zione si concepirebbe 1 + A, dunque non più i contro
l'ipoteſi. Se fia lo ſteſſo ad altrui egli farà quello, cioè 1 + A non cið che
è, od uno, il che di nuovo è contro l'ipoteſi.. 19. L'uno non è diverſo, nè da
altrui, ne da ſe ſteſſo. L'uno convenendo con tutte le coſe, perchè d'ogni coſa
ſi dice, uno non è diverſo da effe, che in virtù di qualche predicato; dun que
in quanto non è più uno; dunque non può eſſer diverſo dall' altre cofe. Non è
la ſteſſa la natura dell' uno, e dello ſteſfo, perchè quando una coſa li fa la
ſteſſa ad aleuna non ſi fa uno; il colore di A per efempio ſia lo ſteſſo, che
il colore di B, non perciò mai A è B, perchè le due coſe colorite comparandoſi,
benchè con vengano nel colore, e in queſto fieno uno, non perd convengono nell
' çliſtenza, Se gli Itelli non ſi conofcono, che per la Toſti tuzione, gli
ftelli convengono bene ne'predicati; ma ſono fem pre due. Dunque quando una
coſa ſi fa la ſteſſa con l'altra, di due non ſi få uno, ſe non inquanto ſi
concepiſce, che con vengono, o nella quantità, o nella qualità ec. ma non
perchè convengono non ſono due; dunque o l' uno paragonato all' uno ſi fanno
due, e cosi l'uno non è uno, o reſtando uno non k 2 ſi può (70 ) la pudfar
ſoſtituzione. Dunque non pud dirſi, che l' uno fia lo ſteſſo a ſe ſteſſo. 20.
Parmenide paſſa a comparar l'uno coi fimili, e diffimili. Aris ftorele dice,
che i ſimili ſono quelli che patiſcono lo ſteſſo, ei diffimili quei che
pariſcono il diverſo; de' primi una è la qualità, dei ſecondi è diverſa la
qualità,onde egli ripone i ſimili, e dilli mili ſotto l'identità, e diverſità,
il che imparò da Platone nel Filebo (a ) e più facilmente dal Parmenide, ove
Platone defini ſce il ſimile, per ciò cui adiviene patir lo tego, il diffimile,
ciò cui adiviene patir il diverſo. Conſidera quì Parmenide le.qualità, come
attributi o modi che ſi ricevano nel ſoggetto, il quale nel riceverle in cerca
guiſa paciſce; ſono queſte nozioni immaginarie, come quella della ſoſtanza. Su
queſte orme Parmenidee, il Wol fio definiſce i fimili quelli, in cui le ſteſſe
ſono le coſe, per le qua li doverebbono diſcernerſi, onde ſecondo lui, la
fimiglianza è l' identità di quelle coſe per cui dovrebbono tra loro
diftinguerli. Se in due volti per eſempio io ritrovo nelle parti gli ſteſſi
linea menti, ne' lineamenti gli ſteſſi gradi de' colori ec. in fomma ſe io
ritrovo, che le ftelle fieno tutte quelle qualità, per cui dovereb bono
diſtinguerſi, i due volti ſono ſimili; diffimili all'incontro ſono quei volti,
in cui diverſe ſi ricrovano le coſe per cui tra lo ro fi diſtinguono, che vuol
dire i lineamenti delle parti, le figu la collocazione, le grandezze. Il Wolfio
fi fece ſtrada con que ſta definizione a definir i ſimili matematici, ben
oſſervando, che le loro proporzioni, benchè abbiano per fondamento ilquanto, fi
riducono al quale. re, S. 21. L' uno non è fimile nè diffimile ad alcuno, o a
se, o ad altrui. Simile a quello cui adivienelo feſto (. 20. ) ma l' uno eſclu
de lo ſteſſo (S. 18. ) Dunque efclude il ſimile. L’uno ſe riceve alcuna coſa
fuor di quello che è l' eſſer uno, pa tiſce d'eſſer più l'uno, perchè egli è
l'uno, ed inſieme la coſa che pariſce, onde almeno egli è due o molti; dunque
non è più uno; dunque ſe l’uno non paciſce d'effer lo ſteſſo, o loco, o con
altri, non può eſſer a ſe ſteſſo, o ad alcri ſimile, (a ) Patriz. Diſcuſ.
perip. p.202. Il (77 ) Il dillimile è quel che pariſce diverſità (5. 20. ) ma
l'uno non può parire diverſità, dunque non è, nè diverſo da lui, nèda altre
coſe, altrimenti non ſarebbe più uno; dunque l'uno non è diſli mile, nè a ſe
ſteſſo, nè ad altrui. 1 l. 22 Concluſo che ha Parmenide non convenir all'uno,
nè l'iden: tità, nè la diverſità, nè la ſimiglianza, nè la diffimiglianza, paſ
fa a ricercare ſe gli convenga l'eguale o l'ineguale, due pro prietà delle
grandezze comparate P une all' altre; l'eguale im murabilmente ſta nel mezzo,
da cui l' ineguale allontanandoſi per ecceſſo ſi chiama maggiore, e per difetto
minore. L'egua le paragonato all'eguale ha le ſteſſe miſure, paragonato al mag
giore ha meno miſure, e ne ha più paragonato al minore. Ra gionando Parmenide
con Socrate ad bominem, fi ferve del ter mine di participare, che non è
allegorico, ove ſi tratta di par ti. Offervo che non miſurandoli, ſecondo
Platone, che con l'uni tà, e col numero, è manifeſto, che la miſura è ſecondo
lui quan tità; pur gli attribuiſce lo ſteſso, e il diverſo. g. 23. L'uno non è,
nè eguale, nè maggiore, nè minore. Non participando, nè dello ſteſso, nè del
diverſo, non parte cipa mai, o le ſteſse, o le diverſe miſure, in conſeguenza
non è nè eguale, nè maggiore, nè minore. 6. 24. Come ſi miſurano le grandezze
permanenti, così ancora ſi mi ſurano le ſucceſſive, le quali paragonare l'une
all' altre, compete loro lo ſteſso e il diverſo, cioè il più, e il meno. Si
dice che due Uomini hanno la ſteſsa età, quando è miſurata per lo ſteſso nu
mero di rivoluzioni ſolari, e che hanno maggiore o minor età le ella ſia
miſurata per maggiori o minori rivoluzioni ſolari. L'antichità, la vetuftà, la
novità ſono relazioni degli enti ſuc ceflivi per rapporto alla loro eſiſtenza
fucceffiva; antico ſi dice quello che da lungo intervallo di tempo e prima d'un
altro; nuo vo quel che ora è, e non fu che già poco tempo prima d'un al tro; il
giovane, il vecchio, ſono propriamente le differenze dell' età degli Uomini,
mas'attribuiſcono per mecafora a curce le coſe. 9.25. (78 ) f. 25. L'uno non è
più vecchio, più giovane di ſe ſteſso, o dell' altre coſe. L ' uno non pud
participare, oo delle ſteſse,, o di maggiori o minori miſure degli enti
ſucceflivi, perchè non può partici pare dello ſteſso, e del diverſo; ma quel
ch'è più vecchio, partecipa di maggiori miſure, quel che è più giovine di
minori, dunque ec. g. 26. Per ben intendere come uno nel farli più vecchio di
fe fteſso o d'un altro ſi fa più giovane, mi è neceſsario trasferire alcu ne
nozioni della ſeconda ipoteſi, ed aritmeticamente ſvilupparle. g. 27 6 3 5 4 Se
il rapporto del maggiore al minore crefca per l'aggiun ta agli antecedenti, e
a' conſeguenti d'una grandezza eguale, il rapporto ſempre decreſce. Sieno i
numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, i quali ſucceſſivamen te creſcono per l'aggiunta
dell'unità, èmanifeſto che (a ) > 4 $ Si prendano i quozienti o valori delle
ragioni. Il valore della ragione di = it; il valore di = ito il valore di = i +.
Or tal eſsendo la ragione qual è il fuo valore ſe I +1/2 > it it ec. come è
mani 3 feſto fard > 5 ec. Or rappreſenti A C l' età d'un 3 fanciullo di 3
anni, e B D l'età d'un | fanciullo di due anni, s' aggiunga alla А С F prima
età un anno, ciod ad " A C. s'ag giunga CF, e alla ſeconda età B D SA D G.
aggiunga un altro anno o DG. Onde s' averà la ragione di }; li vada aggiungendo
ſucceſſivamente alle due età un'anno, ed indi un'anno, e li averanno le ragio
ni di e di. Egli è manifeſto, che il fanciullo di tre anni è più vecchio di
quello di due, ma nel creſcere all'uno, e all' al > 3 4 Ā 1 B tro (a ) Il
ſegno è quello del maggiore, Il ſegno di < del minore. Il ſegno è quello
dell'eguale. (79 ) tro un' anno la ragione che ne riſulta di è minore
dell'altra; molto minore è quella di, e molto più minore quella di onde ſebben
il primo fanciullo ſi faccia ſempre più vecchio dell'altro, contuttociò per
l'accreſcimento dell'egual quantità ſi fa più gio vane relativamente, perché
dove nella prima ragione la differen za era nella ſeconda è minore di 1, e
quindi, ſempre mi nore. Egli è vero dunque, che un fanciullo nel farli' più
vecchio d'un altro li fa ancora più giovane. Se non ſi compari l'età di due
fanciulli, ma ſi conſideri folo l' erà di uno, che ſempre riſpetto a ſe ſteſso
creſce di un'anno, egli è manifeſto, che per queſto eguale accreſcimento, nel
decreſcer ſempre le ragioni degli anni cra loro comparati, lo ſteſso fanciul lo
nel farſi più vecchio di ſe ſtefso, fi fa ancora più giovane. Si vede quindi,
che nel farſi il più vecchio dal più giovane, fi fa cid dal diverſo, e che non
è diverſo, ma'ſi fa. Corol. Lo era, lo efser ſtato, il li faceva, ſignificano i
modi del tempo paſsato; il ſi farà, il ſarà, e ſarà per farſi, i modi del
fucuro o dell'inanzi; l'eſsere, il farſi, i modi del preſente. f. 28. L'uno non
è in cempo. Se l'uno fofse in tempo participerebbe delle miſure del tempo;
dunque or ſarebbe più giovane, or più vecchio, ma queſto non pud eſsere, come
s'è dimoſtrato (9. 25. Dunque ec, IN ALTRO MODO. Quel che è in tempo nel farſi
più vecchio, ſi fa più giovane di ſe ſteſso, (§. 27.) ma l'uno non può farſi
più vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſso, perchè non può farſi, nè una cola,
nè l'altra (9.25. ) Dunque non è in tempo. Il più giovane che ſi fa dal più
vecchio è diverſo da lui, e non è ma ſi fa, ma l'uno non può ricever il diverſo
(§. 18. ) Dunque non può farli dal più vecchio il più giovane; dunque non è in
tempo. Il più giovane non ſi fa dal più vecchio, nè in più lungo tem po, nè in
più breve di fe fteſso, ma ſempre nell'egual tempo con le ſteſso, o fia, o ſia
ſtato, o ſia per dover eſsere; mą l'uno non è ſuſcettibile dell'eguale (§. 23.
) Dunque nè meno dell' egual tempo; dunque non avendo le paſſioni del tempo non
è in cempo.. 29. (80 ) S. 29. L'uno non partecipa, nè del preſente, ' nè del
futuro nè del paſſato. L'uno non eſſendo in tempo non può partecipare del tem
po, ma le paſſioni del tempo ſono, il preſente, il paſſato, il futuro. ($. 27.
) Dunque non le partecipa. Corol. Se l'uno non è partecipe di niun tempo, non
fu mai, nè ſi faceva, nè era, nè ora è fatto, nè fi fa, nè farà. 8. 30. Ogni
ente, o ciò che è partecipe di eſſenza, è, ſecondo Plato ne, o nel tempo
preſente, o ſarà nel futuro, o fu nel paſſato. Nel Timeo egli dice, che Dio per
far il tempo fluente nel numero, fece un'immagine dell'eternità. Dunque
l'eternità fiſſa in ſe ſteſſa non contiene, che il preſente, e ciò pur dicono i
Teolo gi nel diffinirla con Boezio, una poſſeſſione tutta inſieme di una vita
interminabile. Negando dunque Parmenide, che il pre ſente competa all' uno, gli
nega l'eternità, onde è egli evidente che non parla di Dio, ma ſolo d'un ente
di ragione, dal quale per l' astrazion della mente eſclude tutto ciò che
involve rela zione a qualche coſa, ed anche a lui ſteſo. Dall' altra parte, qui
Parmenide non eſclude dall'uno, ſe non cid che appartie ne per lo più alle coſe
corporee e viſibili, il tutto, le parti, il luogo, l'eguale, il maggiore, il
minore, la generazione, la traslazione, le differenze del tempo; e ciò che dice
dello ſteſ. fo, e del diverſo, del fimile, e del diflimile, che pur conven gono
alle coſe incorporee, lo ricava da ciò che ha negato ne' quanti. 1. 31. L'uno
non è, o non ha eſſenza. L'uno non partecipa del preſente, del paſſato, del
futuro (9.29. ) ma ciò che ha effenza partecipa dell'uno, o dell'altro ($. 30.
) Dunque l'uno non ha eflenza. Annot. Dall'uno conſiderato preciſamente come
uno, cioè a dire oppoſto amolti, ſi debbe eſcludere, oltre l'eſſenza attuale,
an cor la poſſibile, perchè la poſſibilità come fonte, e principio della
realità porta ſeco qualche relazione a cid che eſiſte, é dall' uno ogni
relazione deve eſcluderſi.; molto più le relazioni dell' uno all'ente, di
ragione che chiamali intellettuale qual è il Lo-. gico, il metafiſico, il
matematico, e l'altre relazioni ancora ché aver poteſſe all'ente immaginario
ancor chimerico.. §. 32. tra coſa Primafi concepiſce la, non ripugnanza dei
predicati delle co ſe, ed è l'eſſenza, e queſta non ſi dice d'altre coſe, o
d'al tre eſſenze, ma bensì o gli attributi, i modi, e le relazioni fi dicono
deſsa; cal è la definizione logica, che Ariſtotele diede della ſoſtanza,
chiamandola ciò che non ſi predica d'al ma che tutte le coſe ſi predicano
d'eſsa. In que ſto ſenſo l'eſsenza nel ſuo concetto aſtratto, non differiſce
dal la foſtanza, che in quanto queſta ſi riferiſce a ſe ſteſſa, ed agli aleri
de' quali è ſoftegno, per il che ſi dice, che ella non ha contrario, e non è
capace di più, e di meno. Se l' uno non può predicarſi dell'uno, o di le ſteſſo,
per non radoppiarlo o farne due o molti, egli è manifeſto, che non è ſoſtanza
to più ſe fi conſidera col Wolfio, che nella nozione della fo ſtanza, v'è
qualche coſa d'immaginario, perchè ella fi rappre ſenca alla fantaſią, come un
valo od altra coſa, che in sè ri. ceve gli accidenti. $. 33 L'uno non è
ſoſtanza. L'uno non ha eſſenza. (S. 31. ) Dunque non ha ſoſtanza ($. 32. ) ſ.
34. La ragione è propriamente quell'atto della mente, che da una coſa
n'inferiſce un' alera, od è ancora ſe ſi vuole la con neſſione delle verità
univerſali; la ſcienza è la cognizione cer ta, ed evidente delle coſe, ed è
tutta opera della ragione che deduce una coſa da un' altra. Nell' attribuire
una coſa ad un altra, ſe li ha qualche cimore, che ad efla ſi poſſa attribuire
l'op poſto, ſi ha della coſa opinione. Col ſenſo poi non ſi percepi Icono, che
le coſe ſingolari, o determinate in ogni parte, e quindi compoſte di molti. Da
queſte definizioni e manifeſto chenegli oggetti della ragione, della ſcienza,
dell'opinione, del Tom. II. I fen ((82 ). fénfo s } includono moki, çd - in
oltre che ogni coſa, che.0.4 ſénte, o su cui di ragiona fcientificamente, od
opinabilmente, ha un' eſſenza attuale o poflibile; falfa o vera. 1 $. 356 Dell'
uno non li ha ragione, ſcienza, opinione, ſenfo. Quefte coſe includono molti, e
dipendono dall'ipoteſid' un eſſenza (§. 34. ) ma l' uno non ha eſenza (S. 31. )
e non in olude molti (.9.,2. ) Dunque ec, g. 36 Non ſi dà nome ſe non alle coſe,
della cui eſſenza, o per ragione, o per opinione, o per ſcienza, o per ſenſo ſi
ha un ' idea o chiara, od ofcura, o diſtinta, o, confula, o miſta di que Ite
differenze. S. 37... L'uno non ha nome. L'uno' non ha effetiza:(: 34:) Dunque
l'uno non ha nome. 1 §. 38. Ragruppando in poco ciò che ſin ora ſi è detto, ſi
può for mare tal fillogismo. Dal concetto aftrattiflimo dell' uno ſi de vono,
eſcluder i molti di qualunque genere effi fieno; ma cid che appatriene alla
quantità, alla qualità; alla refazione ec? vi s'includono imolti; dunque devono
queſti eſcluderſi dal.concet to aſtrattilfino dell'uno,. ] Se fi diceffe, che
così concludendo ſi confonde l'uno col nul la, manifeſto è l'inganno, poichè la
definizione del nulla è, che egli non abbia nozione alcuna o poſitiva, o
negativa, ciò che elclude dal nulla ogni realtà. Quando'io dico all'incontro,
l'uno non é molti, non tolgo a lui ogni realtà, benchè eſplicitámen te io non
vi rifletta. Io ſto più immobilmente che poſſo affil ſo su l'uno, in quanto
s’oppone a molti, e in queſta conſide razione preſcindo più che poſſo dal
conſiderar l' uno, o per rap porto all'ente, o per rapporto al mio penſiero;
noi poſſiamo, come accennai, più ſentire, che eſprimere queſte preciſionimen
tali, e momentanoe, ma 'non laſciamo di fentirte, e le fencia ·mo (83 ) mo ſe
poffiamo eſprimerle in qualche modo, e farle' intendered agli altri; nè per
altro la fcola Eleacica; ed indi Placone le pro poſe, che per addeſtrar la
mente ad inveſtigar l'idee delle coſe. Era necelfario fciegliere per eſempio
quell' idea, in cui la pre ciſione arriva all'ultimo grado, ove pofla mai
giungere la men te umana. Non ſi conoſce mai bene la natura', ' ed'i precetti
della arte, che l'imita, fe non ned maffimo. Io dimando al Lettore; che legge
attualmente il Parmenide di Platone, e lo confronta col mio comentario, fè
altro faccio in effo, che ſviluppare il fenſo.ovvio det tefto: Abbia pur Pro clo,
e gli altri Placonici, e Gentili, e Criſtiani confiderato queſto Dialogo, non
come ontologico, ma come Teologico, io ril pettando, e la dottrina, e
l'autorità loro', dirò che la mia Spiegazione ontologica non impediſce, che
degli intelletti più fublimi del mio, teologicamente non l'inalzino a coſe
maggio ri, come fece il Cardinal Befarione, applicando a queſto Dia logo la
dotrrina del preceſo S. Dionigi Areopagita. Si può ri leggere avendo preſente
tútra l'intiera ſeſſione, quanto ivi diſ fi appoggiandomi alla dottrina di S.
Tommaſo: Dio'è un en te fingolariſfimo, e nell' applicarvi quel che conviene
all' en te di ragione; biſogna ftar attenti che non ſi confonda l' uno ton
l'altro; la merafíſica degli antichi è la ſteffa che la me tafifica dei
moderni; mia nel riferir la prima ' alle coſe, queſte includevano Dio, che gli
antichi non ſeparavano dalla mate ria, che per preciſionedi mente, là dove la
ſeconda conſiderando fe coſe non ha a Dio, che un'analogia molco lontana,
perchè fi diſtingue eſenzialmente, é realmente dalle ſteſſe. Se l'uno è, quali
coſe adivengono intorno ad eſſo. I. I. Nom On ſi ricerca ſe faecia meſtieri,
che ſucceda- un cert' uno, ma ſe vi ſia l'uno; o pure ſoſtituendo la nozione
imma ginaria ſe l'uno partecipi l'eſfenza. Dall'ipoteſi così propoſta ne
fiegue', che' l'uno non è la pro: pria 'eflenza, o che l' effenzà, e l' uno non
ſono gli ſteſi con: cerci z chi dice elfenza, dice preciſamente la: non
ripugnanza dei predicati, e chi dice uno, dice 'non molti.; Nel cratcat queſta:
ſuppoſizionë, Platone comincia a frami I 2 fchia (84 ) ſchiare all' aſtrazioni
le nozioni immaginarie più che di ſopra Queſto fa ſovente l'oſcurità del teſto,
perchè per intenderlo ci sforziamo toſto a concepire ciò, che non è che un'
imaginazione ed imaginazione tallora falſa, da cui li deduce una contraddizio
ne, nèſempre però vera, ma apparente, il che raddoppia l'ab baglio, ſe non vi
s'attende; manifeſteranno gli eſempi ciò che io dico, in tanto mi ſia lecito di
contraſegnare con due ſimboli diverſi, A, e B, i due concettidell'ente, e
dell'uno. Nel farne il compleſſo A + B io rappreſento un tutto che ha due
parti, che io tra loro ſeparo con la mente, per ragionarne più diſtintamente fi
2. Se l'uno è, ogni parte di queſto tutto (uno è:) può dividerſi in infinite
particelle. Si prenda la particella uno, e ſi concepiſca come ſeparata per un
momento dall'altra particella ence, poichè per la fuppoſizio ne l'uno è, egli è
manifeſto, che conſta di due particelle, uno ed ente. Di queſto nuovo compleffo
ſi prenda la particella uno, e queſta per la ſteſſa ragione ſi dividerà in due
altre, ente ed uno, e così all'infinito. Or ſi prenda l'altra particella ente,
e poiché ogni ente è uno, ſi dividerà queſta particella in due altre, le quali
di nuovo fi divideranno, e così all'infinito; dunque ogni particel. la del
cutto uno è, ovvero è l'uno, ſi divide in infinite particel le all' infinito.
Così può ſenſibilmente rappreſentarſi. Ente uno А + B 1 Ente uno uno ente 2 a +
2b 2A + 2B ente uno uno | ente 3A ente, uno uno | ente 46 4A 4B 3. a 36 3B 1
uno, Come A + B rappreſenta il primo compleſſo immaginario della e dell'ente
così 2a + 2b rappreſenta il ſecondo com pleſſo immaginario dell'uno, e
dell'ence dedotto dall'ente, o da A, e parimenti 2A + 2B ſignifica il ſecondo
compleſſo imma ginario dell'uno, e dell'ente dedotto da B. ANNOT. Qui Platone
fuppone darli reciprocazione tra le due pror (85 ) propoſizioni l'uno è, è
l'uno, nella prima delle quali l' uno è il loggetro, cliente è l'attributo, e
nella ſeconda l'ente è il ſoggetto, e uno l'attributo. Perchè legitimamente ſia
la reciprocazione del le propoſizioni, biſogna che il ſoggetto ſia tanto ampio,
quanto l'attributo, onde può reciprocarſi la propoſizione. Il triangolo è una
figura di tre lati; nell'altra ogni figura di tre lati è un trians golo, ma non
già ſi reciproca la propoſizione, ogni ternario è nu. mero, perchè non ogni
numero è ternario. Il non aver avvertita la legge della reciprocazione fece
cader in molti parallogismi tallora i Geometri. Corol. Poichè ogni ente è uno,
l'uno ſi moltiplicherà come l'ente, onde potrà dirſi, che l'uno è infinito, o
che l'uno è mol ti. Queſta è la prima contraddizione di queſt' ipoteſi, ma è
con traddizione immaginaria od apparente, perchè l'uno per sè non è molti, ma è
molti per accidente, cioè perchè gli accade di mol tiplicarſi, ſecondo gli enti
che lo partecipano, onde non predi candoſi dell'uno nel tempo ſteſſo, e ſecondo
lo ſteſſo, gli oppoſti, non ha in sè vera contraddizione. g. 3. Platone
s'inoltra con le nozioni immaginarie. Conſiderando l? uno, in quanto partecipe
di eſsenza, lo prende ſecondo ſe ſteſso con l'intelligenza, ſpartato da quello
di cui diciamo che ſia par tecipe, cioè dell'eſsenza. Ciò vuol dire, che
dell'ente, e dell'uno Platone fi fa quei due idoli caratterizzati per A, e per
B. Nel dirli che li prende l'uno coll'intelligenza ſpar; tato dall'ente,
s'allude manifeſtamente all'aſtrazioni della mente. $. 4. 1 L'eſsenza o l'ente,
e l'uno ſono diverfi. Alcro è l'eſsenza, ed altro l'uno (: 32. Sez. 2.)
Dunque uno in quanto uno è dall'eſsenza diverſo, e l'eſsenza in quanto eſsenza
è diverſa dall'ano; dunque l'uno, e l'eſsenza ſono diverſi; Co sì può
illuſtrarſi tale ragionamento. L'ente o l'eſsenza in quanto eſsenza include la
non ripugnan za dei predicati coſtitutivi; l'uno in quanto uno include l'oppo
Gizione ai molti, ma queſti due concetti tra loro non convengo no; dunque ſono
diverfi. 8. 5. (86 ) $. s. L'eſsenza, l'uno, e il diverſo fanno tre concetti o
tre coſe trx loro diverſe. S'è già dirnoftrato, che l'uno, el ente non termi
nando lo ſteſso concetto ſono diverſi tra loro, ma il diverſo non includendo
nel ſuo concetto, che la non convenienza, fa un concet to diverſo, ed in
conſeguenza una coſa diverſa dall' altre due; dunque l'eſsenza, l'uno, il
diverſo fanno tre coſe diverſe.. 6. Si rappreſenti l'uno per A, l'enre per B, e
il diverſo per C ne riſultano quindi. Le combi- FA B7 In ogni combi-7 Tre poi
eſsendo le combina nazioni di nazione vie zioni v'è ancora A, B,CAC uno in due
Erre volte uno? in ogni com uno in due tre volte due E binazione В С! uno in
due tre volte tre Abbiamo dunque dedotto da A, B, C, o dall'ente, dall' uno e
dal diverſo il 2.primo pari, il ' tre primo diſpari, dae volte 3 parimenti
impari, 3 volce 3 imparimenti: impari. Sipuò an cora dedurre due volte due
parimenti pari', e queſte ſono tutte le ſpecie dei numeri. Combinandoſi il 2 il
3 due volte, tre volte e fin quattro volte, ma non altre, ſi compongono tutti i
numeri: fino al dieci. It 3* 2 + 2 = 4 2 + 3 2 + 6 = 3 ti 3 2 + 2 + 37 2 + 1 +
2 + 2 = 3 + 3 + 2 3 + 3 + = te: 2 + 2 + 2 +19 1 + 2 + 2 + + 3 = I + 2 + 3 + 4 =
10 II 10 è fatto dall'ı, e dal o, e ſignifica ', che il primo articolo dei
numeri termina alla prima decina; fe ſucceſſivamente alla de cina ſi aggiunge
l'i, il 2, il 3. ec. ſi arriva alla ſeconda decina, e collo ftelso metodo alla
terza, alla quarta ec: fino al 100, che è la decima decina da cui ſi va fino a
1000, o 10 volte 1oo ec. I Pita (87 ) I Pittagorici chiamavanol yno il finito,
come quello che li mitava l'infinito o l'indefinito ad una tal ſpecie o forma:
dot trina, dice nel Eilebo Platone, la quale diſcende dagli Dei; queſta è, the
tutte le coſe tengono in loro fteſſe il termine, o l'infinito innato; o
piuctoſto l ' indefinito. Lo rappreſentavano nella materia i Pittagorici, e lo
ſimboleggiavano nel 2, o nel binario, poichè ogni coſa ſteſa è divit bile in
due e ognuna delle parti in altre due,; e così all'infinito. Quando a queſto
infinito s'aggiungea luna, che vuol dir la forza o la forma ſe ne faceva il
compoſto che era l'altro principio, di cui par la Platone; queſto compoſto
dețerminato a una ſpecie dalla for ma componeva un tutto, in cui vera principio,
mezzo, e fi në. Lo diffegnavano i Pictagorici per il 3, e lo chiamavano numero
perfecto, medio, e proporzione; oſſervò S. Agoſtino che numerando fino al 3,, €
rapportando prima il 2 all'1, ed indi al tre nel comporſi la proporzione
continua, aritmetica fi forma per la replicazione del 2 il 4, numero che immediata
mente luccede al 3, ciò che non ſi ha negli altri numeri, per chè cominciando
la proporzione aritmetica dal.2 chi replica il 3 non fa il numero che
immediatamente lo ſegue od il 5 ma il 6; nel continuare la proporzione con
queſto metodo i numeri riſultanti ſempre più ſe n'allontanano. S. Agoſtino per
ciò offerva co'.Pittagorici, che la perfezione dei numeri è ne quattro primi,
in cui gli eftremi ſono intimamente uniti ai mezzi, e i mezzi agli eſtremi.
Quindi le più perfecte conſo nanze muſicali, ſono fatte dei primi quattro
numeri 2 3-4, 1 ' 2'3? ſ. 7. Se l'uno è, egli è ogni numero. Nella combinazione
dell'uno, dell'ente, e del diverſo fi de ducono tutti i numeri (9. 6.), Dunque
nell' uno, in quanto è, vi ſono tutti i numeri,; Carol. Il numero eſſendo molti
nell' uno, in quanto l'uno è., egli contiene moltitudine, e perchè i numeri
fono infiniti nell uno che è, vi farà una moltitudine infinita. COROL. 2. Il
numero in moltitudine infinita, eſſendo inclu ſo nell'uno che è, farà egli
partecipe d'eſſenza. Si prenda la ſerie naturale de numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
ec. fino al oo unità eterogenea alla prima, e da cui fi comincia l'alcra ferie
200, 30, 40, fino 200 = 60 altra unità eterogenea, da cui comin (88 ).
cominciali, un' altra ſerie 2 co ', 300'ec. ſino a o, e cosi all' infinito. Se
di queſte tre ſerie ſe ne fa una ſola ſi ha 1.2.3.4.5 ec. co '... 00?... oo...,
fino ad in cui ſi potrebbe cominciar di nuovo la numerazione. Cominciando da
uno, li può con le frazioni continuar la ſe. rie decreſcente con lo ſteſſo
ordine che l'altra, onde 1 I 1 ec. • • ec. fino 3 4 5 I 1 I I I wec. 4
Combinando la ſerie dei finiti intieri, rotti, e degli infiniti matematici, e
immaginarj, fi ha tutta la ſerie. ec. 1.2.3.4 ec. co oo oo ' ec. 0° 5 4 3 2 In
queſte eſpreſſioni non v'è errore, purchè non s' attenda, che alla proporzione
delle quantità, nè ſi realizzino i ſimboli. Ma non biſogna credere, che la
numerazione ſia terminata, po tendoſi concepire, e tra gli intieri, e tra rotti,
e tra gli infi. niti dei mezzi proporzionali, i quali ſono, come ben prova il
Ba rovio, veri numeri (ſe ben noi non poſſiamo eſprimerli ) perchè ſimboli di
vere quantità, come i numeri, ointieri, orotti, e gli infinitamente grandi,
egli infinitamente piccioli. Platone, al dir d'Ariſtotele, poſe i due infiniti (a
) magnum et parvum, e queſti, come ben ancora lo riconobbe il P. Grandi, ſono
gli infinita mente grandi, e gli infinitamente piccioli dei moderni Geome tri;
infiniti replico immaginarj, de' quali con tanta chiarezza trattò il Wolfio
nell'Ontologia, ſgombrando tutte le difficoltà' che v'oppoſero coloro, che non
ben inteſero queſte due ſpecie d'infiniti Platonici, caratterizzati da profondi
Geometri con tan to utile della Geomecria, della Mecanica, ed altre parti delle
Matematiche. Queſti due infiniti di Platone non ſono diverſi dai grandiflimi, e
menomiſlimi, di cui qui parla. 8. 8. In quanti luoghi è l' ente, in tanti è
l'uno. Se l' uno è egli accompagna ſempre l'ente, ma non v'è ente, che non ſia
in qual che luogo (9.12. Sez, 2. ) Dunque in quanti luoghi è l'ente, in tanti è
l'uno. a ) Plato vero duo infinita magnum et parvum. Arift. 3.Phiſ. c.4. §. 9: (89
) g. 9. Se l' uno è, non ſolo ' egli è l'uno, ma un certo uno. Ogni ente
ſingolare partecipa dell'ente, dunque dell'uno; dunque come ogni ente ſingolare
è un certo ente, ogni ente ſingolare è un certo uno. ČOROL. Si compartiſce
dunque l'uno, non ſolo con le coſe in genere, ma con le coſe ſingolari, onde
v'è l'uno, e il tal uno, e a queſto compete, come all'altro, eſfer molti,
perchè vi ſono molti enti ſingolari, e compete loro il luogo degli enti
ſingolari. g. 10. Se l'uno è, egli è un uno che è uno, e cert' uno, e mol ci, e
parti, e finito, e in moltitudine infinito. Egli è uno, e cert'uno, ſe
accompagnando gli enti è in ogni ente, ed in ogni cal ente; egli è tutto ſe
ogni ente, in quan to è, egli è un tutto; egli è párte, ſe ogni parte dell'ente
è jina; egli è finito, ſe ogni tutto ha i ſuoi limiti, e infinito le contiene
in sè tutti i numeri. Annot. Queſte contraddizioni non ſono che apparenti. D.
II. Se l'uno è, egli ha principio, mezzo, e fine. L'uno è finito, e tutto, e
parte (S. 10. Sez. 3. ) Dunque ha in sè limiti, perchè ogni una di queſte coſe
ne ha; dunque ha principio, mezzo, e fine. Corol. Dunque l' uno è partecipe di
figura retta o roton da, o d'amendue miſta. ANNOT. Come l'uno, di cui quì parla
Parmenide, pud effer Dio, o qualche idea divina, fe egli è circonſcritto da
tutti i luoghi degli enti, ſe s'individua cogli enti ſingolari, ſe è tutto,
parte, finito, figurato ec. 5 Tom. II. m 6. 12. (20 ) Do? 127 ** Se. l'uno è,
egli è in ſe ſtello, e iş altrui., Ciò che è tutto, comprende tutte le ſue
parti; ma l'uno com prende tutte le ſue parti, dunque l' uno è un tutto; ma il
tutto contien ſe ſteſſo, è l' uno è un turco. Dunque l'uno contiene ſe fteffa.
ANNOT. La propoſizione è identica, e vuol dire: un tutto è. un tutto; o iltutto
è nel tucta; non ſi faccia più attenzione al tutto, mamaall all'uno, e li
concluderà, che l'uno è nell'uno. Si com bini poi l'uno, e il cucco, e ſi
concluderà, che come il cutto è in ſe ſtello, così l'uno è in fe fteflo. Quel
che è in ſe ſteſſo, egli è in ogni ſua parte, ed in tutte le parti, ma il cutto
non può eſſer in niuna parte, perchè il più au conterebbe pel manco, nè meno il
tutto può eſſer in tutte le par ti, perchè ſe in cutie, farebbe ancora tutto in
ciaſcuna, dunque il tutto non è in ſe ſteſſo, ma l'uno è il cutto; dunque non è
in fe fteflo. Ogni coſa è in qualche luogo, perchè ciò chenon è in qualche
kuogo è nulla e quel che è in qualche luogo è in fe felio, o in altrui, perché
non li dà mezzo; mas'è dimoſtrato che ſe è l'uno egli non è in ſe ſteſſo,
dunque è in altrui; ma di ſopra s'era pur dimoſtrato, che egli era in le ſtello;
dunque è in ſe ſteſſo, ed in alcrui. ANNOT. Non v'è quì che contraddizione apparente,
perchè quando ſi dimoſtra, che l'uno è in ſe ſteſſo, ſi conlidera che l'uno è
un tutto le cui parti fon tutte inſieme, quando all'incontro fi confidera, che
l'uno è in altrui, non ſi concepiſce il tutto con le párti pret inleme, ma come
quello che non è in niuna delle ſue parti. S. 13. Se P upo è, egli fta, e ſi
muove. Quel che ſta è ſempre in ſe ſteſſo, perchè da lui non mai et di parte; '
ma l'uno eſſendo nell' uno, non ſi diparte mai da fe ftef ſo; dunque è ſempre
nello ſteſſo; dunque fta. Quel che è ſempre in altri non è mai nello ſteſſo, e
non eſsendo nello ſteſso mai non fta, e non ſtando ſi move, ma l' uno non è in
ſe ſteſso, ma ſempre in altrui; dunque ſempre fi move. ANNOT. Non è pur queſta,
che contraddizione apparente.. 14. (91 ) $. 14. 1 e il Una coſa comparata
all'altra, o è la ſteſsa, o diverſa, o è par te di quella coſa conliderata come
tutto, od è tutto, conſiderata 1a cofa come parte. Così dice Platone, e par
conſiderar lo ſteſso, e il diverſo relativamente alle qualità ſolamente, e la
parte, cutto relativamente alla quantità. Se dunque fi dimoſtraſse, che una
coſa relativamente a un' altra non foſse, nè tutto, ne pare ce, nè la Ateſsa,
ne ſeguirebbe per il metodo d' eſcluſione, che ella fofse diyerſa. g. 15. Se
l'uno è, egli è a ſe ſteſso lo ſteſso, ed a ſe ſteſso diverſo. Se egli è in le
ſteſso, e fta ſempre, egli è a ſe ſteſso lo ſteſso, ſe egli è in altrui, e
ſempre lr move, è da ſe ſteſso diverſo. L'uno non è parte di ſe ſteſso, nè
tutto rifpetto a ſe ſteſso, nè l'uno è diverſo dall'uno; or s'è luppoſto, che
una coſa compara ta ad un'altra, fe d'eſsa non è tutto, nè parce, nè diverſa
ſarà la ſteſsa; dunque l'uno ſarà lo ſteſso con ſeco; ma ſe l'uno è in al trui
non è ſempre lo ſteſso a ſe ſteſso; dunque per l' eſcluſione Platonica ſarà
egli da ſe ſteſso diverſo'. §. 16. ne Per eſpor: l'argomento ſeguente in tutta
la ſua forza, convie. ne particamente illuftrare i principj da cui dipende. Si
ſuppo 1. Che l' uno è da sè diverfo, come da ente nell'ipo teſi, che egli ſia.
2. Che il diverſo e lo ſteſſo, effendo contra rj, uno non può mai eſser dell'
altro. Cost lo ſpiego · Molci enti potendo efiftere, od eſiſtendo nel tempo
ſteſso, lo ſteſso farebbe nel diverſo, ciò che è impoſſibile, non potendo i con
trarj, cioè A, e non A ſtar inleme. Ben ſi vede che qui parla Platone del
diverſo, e dello ſteſso aſsoluto, e non relati. vo, quale abbiamo fpiegato nel
G. 17. Sez. 2. perchè nulla vie ta, che due coſe non poffino eſser diverſe'
nell'eſsenza, nelle quantità, nelle azioni ec. ed intanto eſiſtere nel tempo
ſteſso mi Iura eſtrinfeca delle coſe. Non è cosi conſiderando il diverſo
aſsoluto, o l'idea del diverſo, e conſiderando lo ſteſso aſſoluto o l'idea
dello ſteſso.; l'uno non può mai ſtar nell'altro, e in conſeguenza la ſteſsa
coſa non può mai partecipare nello ſteſso tempo di queſte due idee contrarie.
Allude qui tacitamente Par m 2 meni (92 ) menide a ciò che ha già dimoſtrato,
parlando della participazio ne dell'idee. L'argomento ha tanto maggior forza,
quando fi conſiderano gli enti ſeparati dall' uno, poichè ſe foſsero diverfi,
per ragion del diverſo participerebbono dell' idea del diverſo che è Tempre una,
dal che deduce Parmenide, che non poten do eſser diverſi per la participazione
dell'uno nell'ipoteſi di Socrate, non ſono diverſi tra loro. 3. Suppone che le
coſe che non ſon uno, non fieno partecipi dell'uno, perchè non ſarebbono uno,
ma uno in certo modo. Quì pur Parmenide parla dell'idea dell' uno, che
participandofi dalle coſe non è più uno, ma uno con certe circoſtanze, od in
certo modo, ma ſe non ſon uno nor faranno eziandio numero, perchè ogni numero è
uno. 4. Le coſe che uno non ſono, nè aſsolutamente uno, non poſsono eſser parti
dell'uno, poichè l' uno non può eſser parte delle co ſe che non fon uno, nè può
eſser tutto, quafi comparato a par ricella. Parmenide alludetacitamente a ciò
che diſse di ſopra, che idea non pud eſser participata, nè ſecondo la parte, nè
ſecon do il tutto, dal che deduce, che le coſe che non ſon uno ne fono
particelle dell' uno, nè ſono all' uno quaſi a particella. Ciò ſuppoſto così
argomenta Parmenide col metodo d' eſcluſione. g. 17. Se l'uno è, egli è diverſo,
e lo ſteſso con altre cofe; all'uno convien il diverſo, aſsolutamente in quanto
diverſo, e non all” altre coſe, cui non conviene, che relativamente Dun que
l'uno è diverſo dall'altre coſe.; le altre coſe non ſono diper fe dall'uno, nè
ſono parci, nè tutto riſpetto all' uno; dunque fono le Aeſse con l'uno. F. 18.
Chi proferiſce lo ſteſso pome una, e più volte ſenza riferirlo a più coſe, come
ſi riferiſce nei nomi equivoci, ed analoghi, eſprime fempre lo ſteſso concetto;
dunque nel proferire la voce, diverſo; applicandola all'uno, confiderato
relativamente agli altri, e un' altra volta agli altri conſiderati
relativamente all'uno, nell'ado prar lo ſteſso nome s'eſprime lo ſteſso
concetto. Quindi dice Par: menide: quando diciamo eſſer gli altri diverſi dall'
uno, e l'uno ef ſer dagli altri diverſo, non mai introduciamo il diverſo a
figuificar altra coſa, che la natura di cui è proprio nome. $. 19. (93 ) S. 19.
s'è gia oſſervato, che fimile è quel che patiſce lo ſteffo; difts mile quel che
patiſce il diverſo (9. 20.Sez. 2.) Se l'uno è, egli è ſimile, e diſſimile a ſe
ſteſſo, ed agli al tri. L'uno è diverſo dagli altri (9. 17. Sez. 3. ) Dunque
l'altre coſe ſono diverfe dall' uno, ma non fono diverſe nè più né meno
dall'uno, che l'uno dall' altre coſe (S. 18. Sez. 3. ) e ſe nè più, nè meno,
rimane che egualmente fia uno. In quanto adiviene alle uno l'effer diverſo
daglialtri, e gli altri dall'uno, egli patiſce la ſteſſo per rapporto agli
altri, e gli altri per rapporto a lui; ma ciò che patiſce lo ſteſſo è fimile,
dunque l'uno e limile agli altri, e gli altri per la ſteſſa ragione fon fimili
a lui. Il diverſo è contrario allo ſteſſo; ma fi dimoſtro, che l'uno agli altri
è lo ſteſſo, e diverſo, (S. 17. Sez. 3. ) ed è contraria paffione effer lo
ſteſſo agli altri, ed effer diverſo dagli altri ma in quanto diverſo parve
fimigliante; dunque in quanto lo Steffo fia diflimigliante, ſecondo la paſſione
contraria. E' da notarſi, che l'uno è ſimile agli altri, in quan to diverſo, e
diſſimile in quanto lo ſteſſo. S. 20. Due coſe che ſi toccano ſono preſenti
l'una all ' altra, nè tra effe vi ſi frammette un terzo, perchè in queſto caſo
non più toccherebbono ſe ſteſſe, ma il terzo frappoſto. Ove due coſe fi toccano,
due ſono le coſe, ed uno il contatto, ove tre li toc chino, tre ſono le coſe, e
due i contatti; in ſomma creſcen do i termini creſcono a proporzione i contatti,
ſecondo il nu mero dei termini meno uno. Si tocchino tra loro due punti
matematici, ' poichè nulla fra loro s'interpone, un punto per ragion del
contatto coinciderà con l'altro; fi facciano toccare da un terzo punto, queſto
pu. re coinciderà, e quindi infiniti punti matematici non fanno che un punto,
onde de liegue, che la linea non è compoſta di punti, o che i punti ſovrapofti
gli uni agli altri non fanno grandezze. Ciò naſce, perchè tutti i punti ſono
omogenei ſen za parti, ma ſe vi foſféro degli enti tra loro eterogenei, ben chè
non eſteſi, o ſenza parti, nulladimeno poſti gli uni appreſ so gli altri,
benchè non componeſſero grandezza, tuttavia fa rebbono più, come ben offervò
Ariſtotele. Ciò diede occaſio ne al Leibnizio di compor l'eſtenſione di enti
ſemplici, ma ete (94 ) eterogenei, o diverſi di ſpecie, che eſiſtendo
ſcambievolmente gli uni fuori degli altri coeſiſtano in uno; quindi per la no
zione dell' eſtenſione, convien conſiderare, e più enti che eſi Atano fuori di
sè, e che tra loro s'unifcano, e formino uno. Non fanno però un eſteſo;, perchè
fe ben inſieme eſiſtano, non ſono tuttavia tra loro uniti, come allora che
liquefatti più me talli ſi confondono in una maſſa. Le partipoi indeterminate
dell'eſteſo, conſiderate in aftratto, cioè ſenza far attenzione alla loro
fpecie, non diferiſcono tra lo ro, che nel numero. Non ſarà inutile quefta
offervazione nel progreſſo. Intanto ſi oſfervi, che l'uno eſcludendo nel ſuo
con cetto i più, oi molti, per quanto l'uno ſi moltiplichi per ſe ſteſ fo è
ſempre uno, onde egliè il ſuo quadrato, il fuo cubo, ed ogni altra potenza,
foſſe anche ella di dimenſioni infinite, e non folo avete un eſponente, ma
molti, come le quantità che ſi dicono eſponenziali. $. 21. Se l'uno è, egli
tocca ſe ſteſſo, e l'altre coſe. L'uno è in fe fteſſo, ed in altrui (5. 12.
Sez. 3. ) In quanto è in fe fteſſo vien impedito di toccar l'altre coſe, dunque
tocca fe Hello; in quanto è in altrui, è nell'altre coſe; dunque le coccherà.
IN ALTRO MODO Una coſa nel coccar l'altra giace appreffo quella che tocca, ed
occupa la ſede vicina; ma ſe l'uno tocca ſe ſteſſo, giace appreſſo ſe steſſo,
ed è quindi due coſe, il che non potendo effere, mani feſto è che non pud
toccarſi. Le coſe diverſe dall'uno, non potendo effer numero, perchè.non
partecipano l'uno, non pociamo mai con l'uno far due, ma nel contatto v'è
ſempre almeno due (9. 19. Sez.-3.) Dunque l'uno non toccherà l'altre coſe.:
ANNOT. La contraddizione pur è qut apparente, e ſi fa l'ano corporeo nel
fupporre, che ei tocchi. Nozione immaginaria. 22. Parmenide ragionando ad
hominem con Socrate fuppone la par ticipazione dell'idee, combattuta nella
prima parte; conſidera quindi la grandezza, e la piccolezza, come due ſpecie
ſeparate, tra (95 ) tra loro contrarie; ben a cid s'avverta, perchè in queſto
conſiſte la deſtrezza del Filoſofo, e la forza del ſuo ragionamento, S. 23 2
os' Se l'uno e, egli non è ně eguale, nè maggiore, në mi nore degli altri enti.
Sia l'ente minore degli altri enti, egli dunque participerà dell ' idea della
piccolezza, la qual è contraria alla ſpecie della gran dezza. Si concepiſca,
che la piccolezza ſia nell' uno, o farà in tutto l'uno, o in alcuna parte di
eſso; fe in tutto l' uno, eftenderà per l'intiero uno tutto al di dentro, che
vuol dire lo compenetrerà con la ſua ſoſtanza, o l'abbraccierà con eſtremi li.
miti al di fuori, che vuol dire lo comprenderà; ma ſe la picco lezza s'eſtende
al di dentro di tutto l' uno gli è eguale ", e fe lo comprende gli è
maggiore, onde la piccolezza ſarebbe nello ſteſ ſo tempo grande, ed eguale
contro l'idea di lei. Se la piccolezza è una parte dell'uno, ne ſeguirà, che
ella lia di nuovo in tutta la parte, o al di fuori, o ál di dentro quindi che
ella fia eguale, o maggiore per le coſe dimoſtrare; dunque non potendo eſser la
piccolezza, nè in tutto l' uno, nè in parte dell'uno, non ſarà nell'uno, onde
l'uno non farà pic colo, o minore degli altri enti. Corol. In alcuno degli enti
per la ſteſsa ragione non po irà ritrovarſi la piccolezza, onde in queſta
ipoteſi non v'è al tra cofa piccola, che la piccolezza ftetsa, ma dove non v'è
il piccolo, non v'è neppur il grande, perchè l' uno non è che per riſpetto
all'altro; dunque non vi faranno coſe grandi, trartone la grandezza, e quindi I
uno, e altre coſe ſaranno prive di grandezza, e di piccolezza. e S. 24. Se
l'uno è, le altre coſe non ſono di eſso nè maggiori, nè minori, nè eguali. Le
altre coſe aſsolutamente parlando ſono prive di grandezza, e di piccolezza,
dunque, rifpetto alla uno, non fono nè piccole, ne grandi, e per la ſteſsa
ragione, l'uno non è nè maggiore, nè minore dell'altre coſe, eſsendo privo di
grandezza, e dipiccolezza. 5.125. S. 25.
Se è l'uno egli farà eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non è maggiore, nè
minore dell'altre coſe, ma ſe l'uno non è, nè maggiore, nè minore dell' altre
coſe, egli per la forza dell'eſcluſione ſarà eguale. §. 26. Se l'uno è, egli è
eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non avendo in sè, nè grandezza, nè
piccolezza, nè eccede rà ſe ſteſſo, nè da ſe ſteſo farà ecceduto, dunque farà
eguale a ſe ſteſſo. S. 27. L'uno è maggiore, e minore di fe ſteſſo. Egli è in
ſeſteſſo, dunque li comprende; dunque èmag giore di ſe ſtello; eſſendo in ſe
ſteſſo, egli è da ſe ſteſſo com preſo, dunque è minore; dunque è maggiore, e
minore di ſe ſteffo. S. 28, Se l'uno è, le altre coſe ſono maggiori, minori ed
eguali all' uno. Null'altro v'è, che l'uno, e l'altre coſe, non dandoſi mez zo,
($. 12. Sez. 2. ) Quel che è in una coſa è minore di eſſa (S. 10. Sezione 2. )
e ciò che la contiene è maggiore; dun que, poi che ogni coſa è in un luogo, e
che altro non v'è che l' uno, è l' altre coſe neceſſariamente ſono nell' uno, o
l' uno nell'altre coſe; ma ſe l' uno è nell' altre coſe, queſte ſono maggiori
dell' uno, perchè lo conten gono; l'uno è minore, perchè è contenuto; dunque
l'altre co le ſono maggiori, e - minori dell’uno: ma s'è dimoſtrato, che l' uno
non eſſendo nè maggiore, nè minore dell' altre coſe, all' al tre coſe farà
eguale (§. 24. Sez. 3.) Dunque egli è eguale, mag giore, minore dell'altre
coſe. Corol. Egli dunque può eſſere di miſure eguali, maggiori, e minori,
riſpetto a sè, ed all' altre coſe. Quindi Ha 1 1 ! (97 ) Ha più miſure riſpetto
alle coſe delle quali è maggiore, me no miſure riſpetto a quelle delle quali è
minore, e pari miſu re riſpetto a quelle delle quali egli è eguale. 6. 29. 9
Paſſa a dimoſtrare Parmenide, che ſe l'uno è, egli è parce cipe del tempo, ed è,
e ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe fteſto, e degli altri, ed in contrario,
e che non è, nè ſi fa nè più giovane, nè più vecchio di ſe ſtello, e degli
altri par cicipanti il tempo. Per intendere adequatamente queſte propoſizioni,
in cui s'af follano varj principi i biſogna prima ripaffare ciò che fi diſle
nel ſ. 3. Sez. 3. 9. 27. Sez. 2. ove fi dimoſtrò. 1. Che chi partecipa dell'
eſſenza, partecipa delle differenze del tempo. 2. Che cið che ſi fa più vecchio
di ſe ſteſſo, e dell'altre coſe, nel farſi più vecchio, li fa più giovane, e
cið per eguali parti di tempo, ag giunte agli ineguali, il che abbiamo
dimoſtrato coll' eſempio delle ragioni di e diſucceſſivamente accreſciute di 1.
comparando percið le ragioni di į, e di abbiam veduto, che i loro va Iori i ti,
eit ! + divengono ſempre minori. Altreſuppoſizioniegli fa ne' ſeguenti
argomenti. 1. Il tempo è un fluſſo, da cui ſi fa progreſſo dal pallaco al
preſente, e dal pre Tente al futuro, e dall'era all'è, è dall' è al ſarà. 2.
Che una coſa che'ſi fa paſſa dal preſente ove è, nel futuro ove ſarà, e perciò
nel farli è di mezzo cra l'uno, e l'altro, onde propria mente ciò che è nell'
inftante, non ſi fa, ma è quello che è, o, come l'eſprime Platone, una coſa che
ha fatto acquiſto del preſente cella di farſi, od è ciò che allora convien che
fi faccia. 3. Il preſente è ſempre unito all'uno, perchè è ſempre unito all'
ente, dal qual l'uno è inſeparabile. 4. Il diverſo, o l'idea del diverſo è la
ſtella coſa ſecondo i principi di Socra te, e percid è ſempre uno, onde quello
che non è uno, non può eſer il diverſo, o l'idea del diverſo, onde le coſe
diverſe dall' uno, o che partecipano il diverſo, ſono più che l'uno, o hanno in
sè moltitudine, e in conſeguenza numero o più. 5. Delle più ſono prima le poche,
che le molte, e delle poche prima il pochiſſimo. 6. La coſa che prima li fa è
la prima, e le dipoi ſono più giovani delle già fatte innanzi. 7. E' impof fibile',
che una coſa ſi faccia oltre la natura, onde in una co ſa che ha principio,
mezzo, e fine, prima li fa il principio, indi il mezzo, e poi il fine, che vuol
dire, il fine ti fa i'ulti mo. 8. Quel che ſi fa ultimo è più giovane di quel
che fi fa Tomo II. il a e ce I 21 S: i n (98 ) il primo. 9. Chi ſi fa con tutte
le parti infieme d'un tutto,, fi fa nello ſteſſo tempo inſieme col cutto.. 1 1
ſ. 30. Se l'uno è, egli è, e ſi fa, e non è, nè ſi fa più vecchio, e più
giovane di ſe ſteſſo. Se l' uno è participando l'eſſenza, participa del tempo ($.
3. Sez. 3. ) ma quel che è in tempo, è in un fluſſo continuo o pal ſa dal
paſſato al preſente, o dal preſente al futuro (S. 28. Sez: 3.) Dunque l'uno e
continuamente in queſto paſſaggio. In quanto paſſadall'era all' è fi fa più
vecchio di sè;ma nel farſi più vec chio, ſi fa più giovane (S. 26. Sez. 2. )
Dunque ſi fa più vec chio, e più giovane di ſe ſteſſo. Chi non oltrepaſſa il
preſente, nel far progreſſo dal paſſato, nell'avvenire non ſi fa, ma è ciò che
è ($.22. Sez. 4. ) Dunque quando l ' uno tocca primieramente il preſente, non
ſi fa allo ra vecchio, ma è vecchio oggimai, Nel toccar il preſente, co me ha
prima di lui fatto acquiſto, cefla di farli, od è ancora ciò che avvien che ſi
faccia i $. 28.Sez. 3.) Dunque l'uno, quan do fatto vecchio conſeguiſce il
preſence, cella di farſi, od è allora più vecchio di ſe ſteſſo, di ciò che era
toccando il pal fato; ma l'uno è di quello più vecchio, onde fi faceva vec chio;
e facevali di ſe ſteſſo, ed il più vecchio è più vecchio del giovane; dunque
allora l' uno è più giovane di ſe ſteſſo quando fatto vecchio conſeguiſce il
preſente, ma il preſente è fempre unito all'uno; dunque l'uno, ed è ſempre, e
li fa più vecchio, e più giovane di ſe ſteſſo; ma facendoſi tale, od ef ſendo
in tempo pari ritiene la ſteſſa età, e chi ritiene la ftel fa età, non è più
vecchio, nè più giovane; dunque l'uno eſ ſendo, e facendoli in tempo, non è più
vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſſo. g. 31. Se l'uno è, egli è più vecchio
dell'altre coſe, o l'altre coſe più giovani di lui. Nelle coſe diverſe, che
hanno in sè moltitudine o numero, altre ſon fatte prima, altre dappoi; ma il
primo che ſi fa è pochifiimo, (9. 26. Sez. 3. ) e nei numeri l'uno è pochiſſimo,
dunque l'uno è facco inanzi alle coſe che hanno numero, o che fono. 1 fono
diverſe dall'uno, o ſono gli altri; ma il primo che ſi fa è più vecchio, le
coſe che dipoi ſi fanno, ſono più giovani; dunque l'uno è più vecchio
dell'alcre coſe, e l'altre coſe più giovani. g. 32. Se l'uno è, egli è più
giovane dell' altre coſe, e le altre coſe più vecchie dell' uno. L'uno non può
farſi oltre la natura fua. Dunque avendo parti, o principio, o mezzo, o fine,
ſi fa ſecondo la natura del principio, del mezzo, e del fine, ma il princi pio
fi fa il primo, è il fine ſi fa l'ultimo, ma l' ultimo fatto e più giovane
dell' altre coſe, e l' altre coſe più vecchie dell' uno ($. 26. Sez. 3. );
dunque l'uno è più giovane degli altri, e gli altri dell'uno. $. 33. Se l'uno è,
egli non è più vecchio, nè più giovane dell' altre coſe.. Ogni parte dell' uno
è una; ogni parte del mezzo è una, ed uno è parimente il fine, od il tutto,
onde fi farà l'uno, é colla prima coſa che fi fa, ed infieme colla ſeconda,
colla ter za ec. onde percorrendo ſin all'eſtremo fi farà un tutto, o 1 uno non
eſcluſo nella generazione dal mezzo, non dall' eftre mo, non dal primo, non da
altro; ma ſe l'uno ſi fa inſieme con tutte le parti d' un tutto ha la ſteſfa
età con tutti gli al tri; dunque ſe non è nato oltre la propria natura, non è
fac to prima nè dopo l'altre coſe, ma inſieme e fecondo queſta ragione non è
più vecchio, o più giovane degli altri, nè gli altri dell' uno. ſ. 34. Se l'
uno è, egli ſi fa più giovane, più vecchio di ſe ſteſſo. Se alcuna coſa foſſe
più vecchia d' altra, li farebbe ancora più vecchia di ſe ſteffa: A ſia più
vecchio di B, nel creſcerfi gli anni ad A, egli et fa più vecchio di fe fteffo,
e di B; dun n 2 que (100 ) | 1 que l'uno nel farſi più vecchio dell' altre coſe
ſi fa ancora più vecchio di sè; manel farſi più vecchio, ſi fa ancora più gio
vane per la ſteſſa ragione, che creſcendo tempi eguali, la ra gione decreſce (5.27.
Sez. 2. ) Dunque l'uno li fa più giovane di ſe ſteſſo, ma s'era dimoſtrato, che
ſi faceva più vecchio (S. 30. Sezione 3. ) Dunque ſi fa più giovane, e più
vecchio di ſe Iteffo. 1 f. 35. Se l'uno è, egli non può farſi, nè più vecchio,
nè più giovane dell'alere coſe. Ciò che fi fa più vecchio d'un altro, o più
giovane, ſi fa più vecchio, e più giovane ancora riguardo a sè (1.37. Sez. 3.)
ma l' uno non ſi fa, ma è, e più giovane, e più vecchio ri guardo a sè; dunque
non ſi fa, nè più giovane, nè più vec chio riguardo agli altri. Se l'uno è più
vecchio, che le altre coſe, ha più lungo tem po dell'altre coſe, ma creſcendoſi
il tempo, egli ſempre eccede meno, onde ſi fa più giovane riſpetto alle coſe,
delle quali era innanzi più vecchio; ma ſe egli ſi fa più giovane, quell' altre
coſe ſi faranno più vecchie; dunque le coſe che erano innanzi, e più giovani
dell'uno, ſi fanno dell' uno più vecchie, cinè fi fanno più vecchie, riſpetto a
quello che era più vecchio; ma le coſe più vecchie non ſono, ma fi fanno ſempre,
perchè la fanno più vecchie, mentre l'uno ſi fa più giovane; dunque le coſe ſi
fanno ſempre più vecchie dell'uno. Le coſe poi più vec chie, parimente ſi fanno
più giovani dell' uno più giovane perchè l'uno, e l'altre coſe movendoli in
contrario G fanno vi cendevolmente contrarie, cioè le coſe più giovani dell'uno,
ſi fanno più vecchie dell'uno che è vecchio, ed all'incontro l'una più vecchio,
li fa più giovane delle coſe più giovani;, ma non, è poffibile che l' uno, e l'
altre coſe fieno fatte nè più giova ni, nè più vecchie, perchè le cali foſſero,
non più li farebbo no; dunque le coſe, e l'uno tra loro ſi fanno più vecchie, e
più giovani: l'uno li fa più giovane delle cofe, per quello che parve eſſer più
vecchio, e prima fatto, l'altre coſe poi fi fanno più vecchie, per quello che
ſono ſtate fatte dopo, e ſecondo la ſella ragione: l'altre coſe ancora ſe ne
ſtanno riſpettivamente alla uno, come quelle che ſono ſtate più vecchie, e
prima dell'uno. Dunque inquanto che nè l' uno, nè gli altri fi fanno, diſtan do
1 (101 ) $ do ſempre tra loro di un numero pari, non ſi farà nè l'uno più
vecchio degli altri, nè gli altri dell' uno. Ma come decreſce ſempre la ragione
dei tempi, o con minor particella ſempre tra loro differiſcono le coſe prime
dall' ultime, e l'ultime dalle prime, così è neceſſario che l' altre coſe ſi
facciano, e più vecchie più giovani dell'uno, e l'uno dell'altre coſe. Quinci
aggruppando in uno tutte le propoſizioni, abbiamo di. moſtrato, che l'uno è, e
li fa più vecchio, e più giovane degli altri, e di nuovo non è più vecchio, nè
più giovane di ſe ſteſſo e degli altri. Corol. Perchè l' uno è partecipe del
tempo, o ſi fa più vec chio, e più giovane, egli è partecipe del quando, del
futuro, e del preſente. Dunque era l'uno, ed è, e ſarà, e ſi faceva, e fi fa, e
li farà, e ſarà ancora alcuna coſa in lui, e di lui, ed è, ed era, e farà.
COROL. 2. Perchè la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, la defini zione, il nome,
riguardando le coſe che ſono nelle differenze dei tempi, in quanto l'uno è
capace di queſte differenze, è ancora fog getto di ſcienza, d'opinione, di
fenſo, può definirli, e può no. minarſi. Annot. Qui Parmenide non dà ſcienza, e
definizione, ſe non delle coſe ſoggette al tempo, il che biſogna accordare con
ciò che diſke (9.16. Sez. 1. ) La ſcienza che appreſſo noi è ſcienza del le
verità, che ſono a noi dintorno. 9. 36. Riſtringiamo adeſſo in poco, quanto
Platone ha propoſto nella propoſizione condizionale, o ſia nell'ipoteſi ſe
l'uno è. 1. Diftin le colla mente i due concetti dell'uno, e dell'ence., 2. Ne
com poſe un tutto intellectuale di due parti, o dei due concetçi dell' uno, e
dell'ente. 3. Tra loro paragonandoli ne deduſſe il terzo concetto del diverlo.
4. Conclure che nell' uno o è una moltitu dine infinita di numeri, che dividono
l' uno a proporzione dell' ente. 5. Che l'uno è tutto, e parte, e finiso, e
infinito. 6. Da ciò che è un tutto finito, conſiderò in effo il principio, il
mez-, 2o, il fine, e quindi la figura. 7. Da ciò che è un turto, e che il tutto
è nel tutto, conclure che l'uno è nell' uno, ed in fe ftel 1o. 8. Da ciò che
l'uno è comeparte nel tutto, conclure che è in altrui. 9. Che ſta, e ripoſa, ſe
egli è in ſe ſteſſo. 10. Che ſi mo ve, le è in altrui. 11. Che è ſimile a sè in
quanto l'uno, è lo ſteſſo che l'uno. 12. Simile agli altri, perchè paciſce d'
eſſere co me gli altri. Che è diffimile in quanto cert'uno, e certo ente. 14. (102
) 14. Che è lo ſteſſo, poichè ekſte, ed eſiſtono glialtrienti nello ſteſſo
tempo. 15. Che è diverſo, in quanto non ha in sè ciò che hanno gli altri enti.
16. Quindi fimile, e diffimile, perchè patiſce le ſteſſe cofe. 17. Che è
maggiore, minore, ed ineguale, e non maggio re, minore, nè eguale dell'altre
coſe. 18. Che è, e ſi fa più gio vane, e più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre
coſe, e non è, e non fi fa, nè più vecchio, nè più giovane dell'altre coſe, e
l'altre co fe di lui. 19. Finalmente, che dell'uno in quanto è li ha ſcienza,,
ſenſo, opinione, e può denominarſi, e definirſi. Si potrebbe più
compendioſamente ridur in poco l'argomento di Parmenide, conſiderando che
reciproche ſono queſte due pro polizioni: l'unoid, è l ' uno, per il che ſi può
predicar dell'ente ciò che ſi predica dell' uno, e dell' uno ciò che ſi predica
dell' en per ragione dei diverſi concetti formali, predicandoſi dell' ente, la
parte, il finito, l'infinito, il principio, il mezzo, il fine, la figura, lo
ſteſſo, il diverſo, la quiete, il mo to, il limile, il diſſimile, e il maggiore,
l'eguale, il minore, it giovane, il vecchio ec. cutti queſti
predicaricompereranno pari mente all'uno. Ben ſi vede, che qui non ſi parla che
dell' en te corporeo, e degli enti particolari, a cui or compete una co fa, ed
or un'altra. il tutto, S. 37: Ma perchè i predicati oppoſti, come il fimile, il
diffimile, it maggiore, e il minore non poſſono competere nel tempo ſteſſo all'
uno, ed all'ente ſenza contraddizione, Parmenide moſtra che queſti attributi
contrari non gli competono nello ſteſſo tem po, ma in diverſi tempi; tal è la
natura di ogni ente finito: gli attributi, imodi, le relazioni, delle quali è
capace, non hanno luo go in lui, che ſucceſſivamente a differenza dell'ente
infinito, in cui tutte le perfezioni poſſibili, che attribuir gli ſi poſſono,.ftan
no in lui tutte inſieme, onde non male con due parole molto energiche, ſebben
barbare, ſi chiamò Dio dal Bulfingero, omni tudo compoſibilitatis. Gli
Scolaſtici lo chiamarono atto puro, cioè atto ſenza alcuna miſtura di potenza,
e quindi diametralmen te oppoſto alla materia che è pura potenza, e talmente
pura, che al cuni degli ſcolaſtici la ſpogliano dell'atto entitativo,
edell'eſiſtenza. $. 38 (103 ) go 38. Se l'uno è; egli prende diverfi ſtati
ſecondo le:: differenza dei tempi. Nel tempo ſteſſo non ſi può participare, e
non participare dell'eſſenza, e delle coſe che conſeguono al non participarla,
ed al participarla; or il farli è renderſi partecipe dell' ellenza; il
rovinarli e privarſi dell' effenza; dunque l'uno non può ne! tempo ſteſſo, e
prender, c laſciar l'eſſenza. Dunque la pren de, e la laſcia in diverſi tempi,
Quando ſi fa uno, egli perde l' eſfer molte coſe; quando ſi fa molte coſe ceffa
d'effer uno; nel farfi uno, e molte, li fepara, e fi congiunge, qualora ſi fa
ſimile, e diffimile, ſi affimiglia, e diffimiglia; quando ſi fa maggiore,
minore, ed eguale, creſce, decreſce, e li pareggia; quallora movendoſi fi
ferma, e quallo ra fermandoſi li move. Or tutte queſte coſe, eſſendo tra loro
contrarie, l ' uno non può averle nel tempo ſteſſo, dunque l'ha in tempi
diverfi. 9. 39 Non fi pud paſſar dalla quiete al moto, e dal møto alla quie te,
ſenza cangiamento di itato. Un corpo che cangia fuccelli vamente la relazione
di diſtanza, che egli ha ad altri corpi vi cini, ha uno ſtato diverſo da quello
d'un corpo, che conſerya ſempre a ' corpi vicini la ſteſſa diſtanza. Queſto
cangiamento di uno ſtato all' altro ſi fa in tempo; ma conſidera Platone, che
nel paſſaggio dal moto alla quiete, e dalla quiere al moro, v'è un non so che
d'improvviſo, e di momentaneo, che ſi conce piſce nell'iſtante del paſſaggio, e
non più appartiene al moto, che alla quiete; non al moto, perchè la coſa ſi
concepirebbe ancora in ripoſo; non al ripoſo, perchè la coſa fi concepiſce
ancora in moto, Conclude dunque Placone, che queſta natu ra improvviſa è quaſi
ſconvenevole tra il moto, e la quiete; che ella non è in verun tempo, e a
queſta da queſta paſſan do fi muta nello ftato ciò che li move, e nel moto ciò
che ſi ri pola. 8. 40. (104 ).. §. 40. Se l'uno è, nell'atto che cangia ſtato,
non gli competono più i predicati dell'ente. Nel paſsar l'uno dal moto alla
quiete fi muta momentaneamen te, e all'improvviſo, o mutandoli egli non è in
alcun tempo; dunque non ſta nè fi move. Così quando paſsa dall'eſsere alla ro
vina, o dal non eſsere al farſi, non è, nè ſi fa, nè fi diſtrugge. Parimente
quando paſsa dall' uno in molti, e da molti in uno, non è, nè uno, nè molti, nè
ſi congiunge, nè fi ſcongiunge, e paf fando dal ſimile al diſſimile, od al
contrario, non è, nè affimi gliato, nè diſlimigliato, e paſsando dal piccolo al
grande, ed all' eguale non creſce, nè decreſce, nè ſi pareggia. Annot. Da
queſta dottrina ſebben metaforicamente da ' Plato ne eſpreſsa, imparò
Ariſtotele ad introdurre tra i principj delle generazioni, la privazione mal a
propoſito ſchernità da coloro, che non ne inteſero nè la forza, nè l'uſo.
Quando una coſa ha perdute tutte le diſpoſizioni o determinazioni, che la
rendevano tale, ella ceſsa d' eſsere la tal coſa, cioè reſta priva di tutto ciò
che la coſtituiva, e diſtingueva dall'altre coſe, ma nell'atto ſteſ fo, in cui
ceſsa d'eſsere quel che era, comincia ad eſsere ciò che non era, o paſsa dalla
privazione alla forma contraria; queſto ſtato di mezzo che è tra la forma, e la
non forma, Platone chia ma natura mirabile, e momentanea, ed è certo, che ella
nel fifa far i gradi della noſtra cognizione ci moſtra quelli della natura che
non opera mai per falti. Nel Timeo dice: Dovendo eſer l'ef figie delle coſe
diſtinta da ogni verità di forma, non fia mai prepa rato quel medeſimo grembo
di tal formazione, ſe egli non farà informe di tutte quelle ſpecie, le quali è
per ricever da qualche parte, percid che ſe egli faravvi alcuna di quelle coſe
che in sé riceve fimiglianza, quando riceverà una natura contraria di quella di
cui è ſimile, ovve ro un' altra, affatto malagevolmente la ſimiglianza, e
l'effigie di quel la eſprimerà quando moſtrerà la ſua, però egli è convenevole,
che di tutte le ſpecie ſia privo quello che ha in sè da ricevere tutti i generi.
Siccomequelli che hanno da fare unguenti odoriferi, l'umida materia, la quale
vogliono di certo odore condire, di tal guiſa preparano, che * ella non abbia
alcun proprio odore. E coloro che vogliono in materie molli imprimerealcune
figure, niuna figura affatto laſciano primiera mente apparire in quella, ma quelle
cercano in prima di render qan to poſibil fia polite. Ciò ſi rende ſenſibile
nelle quantità algebraiche poſitive, e ne gative, nelle quali non ſi paſsa
dall'une all'altre ſenza paſsar per 1 1 1 il (105. ) o il zero, che non è nè
negativo, ne poſitivo, ed è il vero fim bolo della privazione. Nella Geometria
il punto matematico equi vale al zero, che è il principio negativo
dell'eſtenſione, e dal quale fi comincia la miſura, come l'unità è il principio
poſitivo, per cui fi comincia la ſteſſa miſura. Il punto è comune alla linea,
che ceſsa per eſempio di eſsere alla ſiniſtra, e comincia ad eſsere alla deſtra,
o che termina d' eſser in alto, e comincia ad eſser a baſso; così egli non è
deſtro, nè finiſtro, nè alto, nè baſso. Tut te queſte ſono eſpreſſioni
utiliNime, e ſebben noicele rappreſen ciamo per fpecie aliene, come il niente,
o l' impoflibile, tuttavia molto fervono a reggere i noſtri ragionamenti.
L'origine, e la natura del calcolo delle fuſioni dipende dall'uſo della natura
momentanea, ed ammirabile di Platone. In queſto calcolo non ſi cercano, ſecondo
il Newtono, le quantità infinita mente piccole, chemainon poſsono
determinarſi,ma la ragione del le quantità naſcenti, od evaneſcenti, cioè di
quelle, le cui fuffio ni, o velocità nel naſcere, o nel ſvanire equivagliono al
zero, il qual ſimboleggia il termine del ripoſo, e il principio del moto il
termine del moto, ed il principio del ripoſo. Sieno nel preſen te momento le
fluenti quantità y, x; nel momento ſeguente di verranno ſecondo l' eſpreſſione
Newtoniana y toy, ed xtoy, ove o y, od ox eſprimono i momenti delle velocità.
Softituite queſte eſpreſſioni in un'equazione propoſta, per eſempio in quel la
della parabola yy. =ax, quefta fi caogierà nell' equazione. yy + 2 oyy tooyy =
oaxtoax o cancellando gli eguali 2oyy tooyy = oax, e cancellando il comune o 2
yyt oyy = ax Sin che la quantità efpreſsa per o reſta finita, non può mai de
terminarli la ragione delle quantità che fluivano, ma nella ſup poſizione che
ella s' annulli, come nel caſo dell' ultima o della prima velocità delle
grandezze, ove o s'eguaglia a zero, fi ha 2 yy = ax, e ponendo l'equazione in
analogia 2 y.a:: x.y ragione determinata, con cui le qualità cominciano o
termic nano di Auire. Il Newcono ſpiega più a lungo queſte coſe nel ſuo
trattato delle Curve, e lo ſpiega non chiarezza il Ditton nell'inſtituzione
delle Auſſioni; baſta a me d'averlo quì accennato, per moſtrare che agli
antichi non man cavano quell' idee, che i moderni hanno poi ſviluppato, carat £
erizzandole con canta utilità delle ſcienze, e delle bell'arri., 1 Platone
preſuppone nel ſeguente argomento, che la partenon è parte nè di molti, nè di
tutti, ma di cert'una idea, e di cert'uno che chiamiamo tutto, ed è un cutto
fatto da tutte le parti, e in sè perfetto, Dalla parola idea lice argomentare,
che qui non fi craica che dei concetti, con cui fi concepiicono i molti, e il
tutto, e le parti. L'idea dei molti è l'idea dei più aſſolutamente preſi, e com
prende egualmente le parti, ed i tutti, dicendoſi molte, o più parti, molti o
più molti. L'idea del tutto è l'idea dell'uno più riſtretto in un certo numero,
o riſtretto in cerci limiti; idea della parte è l'idea d'uno incluſo in queſti
più già ridoc ti. Non ſi pud quindi rigoroſamente parlando dire, che la par te
ſia parte di molti, perchè conſiderandoli ſecondo la loro propria idea, non
fanno ancora il tutto a cui ha immediata re lazione la parte, Nel dir dunque
Platone, che la parte non è parte di mol ti, allude ai modi, o ai più vagamente
preli, e nel dir che la parte è parte del tutto, allude ai più riſtretti; ne'
più, come s'accennd, vi ſono incluſe indifferentemente le parti, ei tutti, onde
ſe la parte foſſe parte dei più, potrebbe eſſer parte di ſe Iteffa. Aggiunge
Platone, che ogni parte non è parte di qualun que uno ma d'un cert' uno, cioè
di un certo tutto. La par te del triangolo non è la parte del quadrato, nè un
ſoldato che è una parce d' un eſercito, è parte di una proceſſione di Frati. Il
tutto poi che è fatto di tutte le parti, o a cui non man ca alcuna parte, è
perfetto., Si oſſervi in oltre eſſer lo ſteſſo, il dir molti, o più d'uno; che
ogni coſa quindi o è uno, o più, cioè molci; che una parte dell' eſtenlione
cratca fuori di efla, o feparata da eſſa, eſſendo fteſa, contiene più, e ſe
dinuovo ſi ſepa ra in due, una di queſte parti eſſendo di nuovo fteſa, ritiene
ipiù. In altri termini ciò vuol dire, che non v'è parte dell'eſtenſione che non
ſia diviſibile all'infinito, e come la prima divifione fi fa per 2, ed indi per
2 i Pittagorici aſſegnavano il 2, come il fim bolo dell'infinito. Prima che una
parte fi ſeparaſſe da una certa eſtenſione, ella riteneva il nome di parte, ma
quando è ſeparata, e che di nuovo ſi divide, ella non è più parte, ma tutto.
Queſti nomi di tutto, e di parte ſono ſempre relativi; coloro per ciò che
definiſcono l' eſtenſione, ciò che ha parti fuori" di? parti, null' altro
dicono ſe non che l' eſtenſione è l'eſtenſione, perchè non ha parti ſe non ciò
che è eſteſo. Molto peggio fan no coloro, che ſuppongono, che l' eſtenſione
eſſendo compoſta di una infinità di parti fteſe, ſia compoſta d'una infinità di
ſo. ſtanze tra loro tutte ſeparate, perchè l'idea dell'eſtenſione null hache di
relativo, e ſuppone la coſa aſſoluta,' o la ſoſtanza, su cui la relazione ſi
fonda. Il corpo fiſico, e mecanico non ſono pura eſtenſione, come il
geometrico,; perchè nel corpo fiſico v'è la forza, o la for ma, e nel mecanico
il peſo, origine delle proprietà, e dei lo ro fenomeni.. 8. 42. Se l'uno è, le
parti in quanto parti ſono parti dell' uno, o partecipano dell'uno. Le parti
non poſſono eſſer parti di le ſteſſe, nè di molti ($. 40. Sezione 3. ) dunque
dell' uno, il che è dire, che partecipano dell' uno. §. 43, Se l'uno è, il
tutto in quanto tutto partecipa dell' uno. Il tutto cui nulla manca delle tre
parti è uno; dunque par tecipa dell'uno. Corol. Il tutto dunque, e le parti
partecipano dell' uno, e ciò ſignifica un non so che di ſeparato da gli altri,
ma eſiſten; te per sè, ſia egli qualunque coſa. ANNOT. Non par egli, che
Parmenide nel dir, che queſt' uno ſia ſeparato dagli altri, e per sè eſiſtente,
alluda all'idee feparatę che ha combattute nella prima ſeſſione '? Se non vuol
ciò dirſi, come contrario alla profonda Filoſofia d'un sì grande Uomo, non ne
liegue egli, che parlando qui con Socrate, parla bensi col fuo linguaggio, ma
nel tempo fteffo incende di favellare fecondo le attrazioni della mente. 0 2
9.44. (108 ) 8. 44. Se l'uno è, le cofe che partecipano dell' uno fono altra
coſa che l'uno. Niuna coſa può effer alcun uno fuor che lo ſteſſo uno; dunque
ſe le coſe partecipano dell'uno, che vuol dire, non ſono lo ſtes fo uno,
bifogna che fieno un'altra coſa. Dunque le coſe che partecipano dell' uno fono
de verſe dall'uno. S. 4.5. Se l' uno è, le coſe che partecipano dell'uno, ſono
in moltitudine infinite. Se le coſe che partecipano l'uno ſono diverſe dall'
uno, non ef fendo uno nè più d'uno non faranno niente; ma non fon l'uno, dunque
più d'ano, dunque ogni parte d'uno, include in eſſa i più, e queſti altri più,
e così in infinito, dunque le coſe clre parteci pano l'uno, ſono infinite in
moltitudine. COROL. Poichè il più include per fua natura la moltitudine in
finita, ogni parte che d'eſſo ſi tragga fuori con l'intelligenza le ben
piccoliflima rifpetto all'altre, ſarà in moltitudine infinita. ANNOT. Platone
dice da quelle (cioè dei molti ) trar fuori con r* intelligenza alcuna cofa
piccoliffima. In qual altro modo pud egli meglio indicar l'aſtrazione della
mente.? nel dir Platone, che confiderando la diverſa natura della fpecie
fecondo ſe ſteſſa quanto di lei vediamo, fia egli infinito, e in moltitudine,
altro non ſignifica con la diverſa natura, ſe non che ogni parte dell'
eftenfione include in sè più, e queſti altri più, e infiniti in. moltitudine. 1
g. 46. Se l'uno è, la parre in quanto parte è diverſa dell' uno, per chè l'uno
è per sè indiviſibile, e la parte per sè divifibile. Se l'uno è, le parti ſono
più che l' uno. Le parti diverſe dell'uno, ſe non ſono uno, o più d'uno, nulla
ſaranno, ma ogni cofa è uno o più; dunque ſe le parti diverſe dall uno non ſon
uno, ſaranno più che uno. S. 48. Se l'uno è, le parti che lo partecipano hanno
termine tra loro, e riſpetto al tutto, e il tutto riſpetto alle parti. Ogni
parte è una, ogni tutto è uno; ſe l'uno e l'altro parte cipa l'uno; ma quello
che è fatto uno ha un termine. Dunque ec. Corol. All' altre coſe, che all' uno,
avviene che partecipan do dell'uno, e di loro ſteſſe, ſi fanno in loro
cert'altra coſa, il che dà loro il termine, ma la natura loro che include i più,
è per eſſenza infinita in moltitudine; dunque le altre coſe che l'uno tutte
ſecondo le particelle loro, ſono infinite in numero, e par tecipi di termini. g.
49. Se l'uno è, le coſe che partecipano l'uno, fono fimili, e dil ſimili, ſi
movono, e ſi fermano, od hanno altre paſſioni con trarie, Le altre coſe che
l'uno, ſono tutte infinite, o indefinite, fe condo la loro natura, onde tutte
patiſcono lo ſteſſo, ed aven do cermini, e diverſi termini, patiſcono il
diverſo, ma il limi le è quel che patiſce il ſimile, il diſſimile quel che
patiſce il diverſo. Dunquele coſe, altre che l'uno, ſono ſimili, e diffimi li.
Maſe patiſcono le ſtelle coſe, e diverſe, pariranno anche il moverſi, ed il
fermarſi, l'eſſer maggiori, minori, ed eguali, l' eſſer più vecchie, più
giovani ec. e 3. 50 Riepilogando le coſe dette, abbiam dimoſtrato che ſe l'uno
che in quanto lo partecipano ſon d'ello parti. Che il tutto dal le parti
riſultante partecipa pur dell' uno; che le parti parte cipanti del tutto, è
dell' uno ſono infinite in moltitudine, che han (110 ). hanno termine tra loro,
e rifpetto al tutto, come il tutto l'ha riſpetto alle parci, onde nel patir le
coſe ſteſſe, e diverſe ſono ſimili, e diffimili, ſi moyono, e fi fermano. Paſſa
a confiderar Parmenide nella ſuppoſizione, che sia l'uno, coſa adiviene alle
coſe che non partecipano l'uno. g. 58. Se l'uno è, e le altre coſe che non
partecipano l'uno, non ſono nè tutto, nè parii, nè fimili, nè diffimili, nè le
ſteſſe nè diverſe, non ſi movono, non fi fermano, non ſi fanno, non ſi
diſtruggono, non ſono, nè maggiori, nè minori, nè eguali, nè vecchie, nè
giovani. Si concepiſca l'uno ſeparato dall'altre coſe, cioè fi concepi ſca che
le altre coſe non lo partecipano, non vi ſaranno mol ti, perchè ognun de molti
è uno; non vi ſarà numero, o mol titudine ordinata che principia dall’uno, il
quale ſucceſſivamen te li va aggiungendo a ſe ſteſſo, e fa ogni numero uno
nella fua fpecie; non vi ſarà tutto, che è una moltitudine riſtretta in uño;
non vi ſaranno parti, ognuna delle quali è uno ordi nata ad un altro uno; non
vi ſaranno coſe limili, nè diffimi li, nè le ſteſſe, nè diverſe con l' uno,
perchè ſe teneffero in se -ſimigliznza, ediffimiglianza, comprenderebbono in sè
due ſpecie tra loro contrarie, onde non eſſendo partecipi di due, nemme no lo
ſarebbono di due contrarj; non poſſono eſſer quindi le coſe nè ſteſſe, nè
diverfe, nè moverſi, nè formarſi, nè diftrug. gerſi, nè effer maggiori, giovani,
e vecchie, perchè eſſendo ſem pre partecipi di due coſe contrarie ſarebbono
partecipi di nu mero. ANNOT. Queſto è lo ſteſſo che concludere che l' uno
traſcen dentale, eſſendo inſeparabile dall' ente, è lo ſteſſo tor dalle coſe l'
uno, che l'ente, od annullarlo. g. 52. 1 Parmenide ha ultimamente conſiderato,
coſa accaderebbe alle coſe, ſe non vi foſſe l'uno, che per ipoteſi ſtabili. Or
cangia ipoteſi, e cerca, coſa accaderebbe alle cofe fe non vi foſse l'uno.
Queſte due ipoteſi ſembrano diverſe, ma ricadono poi nello ſteſso, perchè canto
è annullar le cote ſeparando da loro l' uno che è, od eſsere ſi concepiſce,
quanto annuliarle ponendo le co ſe, e negando l'uno. SE (111 ) . B. I. Uando
per eſempio fi dice grandezza, e non grandezza, QI si dicono due coſe oppoſte,
e tra loro contrarie, poichè la non grandezza diſtrugge ciò che la grandezza
pone o in natu ra, o nella mente; le fi fanno quindi le due propoſizioni, la
grandezza è la non grandezza non è, tutte e due ſono nega tive, ma l'una è d'
un ſoggetto finito, e determinato, l'altra d'un ſoggetro infinito, e
indeterminato. La grandezza é il ſog getto di decerminata ſignificazione, la
non grandezza di ſignifica zione indeterminara, perchè non grande è il piccolo,
non grande il punto, non grande l'unità ec. Or il determinato è contrario all
indeterminato; dunque, come ben oſservò Marſilio Ficino, le due propoſizioni,
la grandezza è, la non grandezza non è, ſono con trarie, ſebben l’una, e
l'alcra fieno negative. Lo ſteſso debbe dirſi delle due propoſizioni, l'uno non
è, il non uno non è, egeneral mente della propoſizione A non è; non A non è:
nella pri ma ſi nega ad A l'eſere, nella ſeconda ad A che fi nega, ga l'effere.
Negar ſemplicemente una coſa, e negare la nega zione, ſono coſe tra loro
contrarie. La propoſizione all'incon. tro A non è, e l'altra non A è, ſono
equivalenti, perchè nel la prima di A fi nega l' eſſere, nella ſeconda fi
afferma, che ad A fia negato l' eſſere. Affermare la negazione è lo ſteſſo che
negar la cola; dunque equivalenti propoſizioni ſaranno, l'uno non è, il non uno
è. E' poi da oſſervarli, che le negazioni, e pri vazioni ſi conoſcono per le
loro realtà oppofte, la cecità per la vi fione, le tenebre per la luce, non A
per A. ſi ne B. 2. Se l'uno non è, nel pronunziar la propoſizione ai concepiſce
chiaramente e diſtintamente, che l'uno non fia, o li ha fcien za di ciò che
s'eſprime, e s'eſprime qualche coſa diverſa dall' altra, l'uno è. Le privazioni,
e negazioni ſi concepiſcono chia ramente, e diſtintamente per le loro realtà
oppoſte, dunque il non uno per l' uno (J. 1. ) ma la propoſizione il non uno è,
è, equivalente all'altra l' uno non è, dunque queſta propoſizione l' uno non è,
fi concepiſce chiaramente e diſtintamente, o li ha ſcienza di lei. La
propoſizione l'uno non è, è diverſa dall' altra, 3 uno (112 ) ! $ 1 1 uno è, e
chiaramente, e diſtintamente ſi concepiſce la loro diver ſità; dunque nel dir
l' uno non è, ſi concepiſce qualche coſa di diverſo. Platone così lo dice:
eſprime primieramente alcuna coſa che ſi può conoſcere, poſcia differente
dall'altra, colui che dice uno, aggiungendovi l'eſfere, oil non eſſere,
perciocchè non ſi conoſce meno, ciò che fia quel che ſi dice non ellere, e come
ſia certa co fa differente dall'altra. Corol. Può dunque predicarſi dell' uno
la ſcienza, e la di yerſità. S. 3. Se non è l'uno, o ſe il non uno è, il non
uno partecipa delle coſe che di lui ſi predicano, e non le partecipa. Del non
uno è, ſi predica la ſcienza, e la diverſità (Cor. ant. ) dunque partecipa di
queſte coſe, mapoichè egli non è, non aven do eflenza, non può participarle,
perchè il non ente non ha pro prietà, dunque non le partecipa; dunque le
partecipa, e non le partecipa. COROL. Così s'eſprime Platone: Il non ente è
partecipe di sé, e d'alcuna coſa, e di queſta, e con queſta, e di queſta, e di
cut te le coſe sì fatte; concioliachè non li direbbe uno, nè le diverſe coſe
dell'uno, ne avrebbe egli alcuna coſa, nè alcuna coſa fi chia merebbe, ſe non
foſſe partecipe di alcuna, nè di queſte altre nondimeno è impoſſibile che ſia
l'uno, ſe egli non é, ma niuna cofa vieta, che non ſia partecipe di molte coſe,
ed è neceſſario ancora ſe è quello l'uno, e non altro, ma ſe non è, nè l'uno,
nè quello non ſarà egli; non ſi dirà nulla di lui, ed il ragionamento farà
d'altra cofa, ma ſe fi ſuppone che quello uno non ſia, è ne ceſſario che ſia
partecipe di lui, e di molte altre coſe,. 4. Se il non uno è, il non uno è
ſimile a ſe ſteſſo, e diffimile all'altre coſe, ed al contrario. Il non uno
convien col non uno, dunque con ſe ſteſſo; dunque è ſimile a ſe ſtello. Il non
uno è diverſo dall'altre coſe che parte cipano l'uno, dunque è diffimile
dall'altre coſe; ma il non uno non eſſendo, non può aver proprietà d'effer
ſimile, nè diffimi le, dunque ec. 8. S. 1 (113 ) §. 5. Se il non uno d, egli è
eguale, ed ineguale all' altre coſe, e nel tempo ſteſo eguale, ed ineguale. Gli
eguali ſono fimili nella quantità; ma il non uno non ha ſimiglianza con l'altre
coſe, dunque non ha egualita; ma ſe egli non è eguale agli altri, gli altri non
ſono eguali a lui, dunque è loro ineguale; ma gl' ineguali partecipano dell'
ineguaglianza, cioè di grandezza, edi piccolezza; dunque l'uno che non è, egli
è grande, e piccolo; ma tra il grande, e il piccolo ſi frammetter eguale, e chi
ha grandezza, e piccolezza, pud ancora aver eguaglianza; dunque l'uno che non è
può participare di queſte coſe; ma s'è dimoſtrato, che non le partecipa, dunque
ec. Se l'uno non è, ha in certo modo l'eſſere, o s'attri buiſcono a lui coſe
che l'hanno.. -. Nel dire che l'iuno non è, ſi ha ſcienza di cid che ſi dice;
nel dir che è, diverſo dall' uno, che è, e dall'alcre coſe; che è fimile, non
fimile; diſſimile, non diſſimile dall' altre coſe; eguale, no eguale, fi
profeſſa di concepire, e di pronunziare il vero, ma eſprimendoſi, e
pronunciandoli queſte coſe a guiſa di enti, all'uno che non è s' attribuiſcono
in queſto modo, onde egli ha in un certo modo l'eſſere. B. 70 Queſta
propoſizione: il nulla è nulla, il nulla non è nulla, equivale a queſte altre
due: il non ente è non ' ente; il non ente non è non ente. La prima di elle è
affirmativa, ed iden, tica, perchè fi afferma il nulla di ſe ſteſo, la ſeconda
è nega tiva, perchè ſi nega il nulla del nulla, che vuol dir, ſi affer. ma
qualche coſa, perche una negazione diſtruggendo l' altra elleno affermano. Nel
dire il non ente, non ente, il non en te vien a participare in un certo modo
dell effere, affine di ef ſer non ente.. Nel dire all'incontro il non ente non
è non en te, il non ente per non eſſere non ente che vuol dir per eſ ſere, vien
a partecipar del non eſſere. Così intendo Platone, Tomo II. P allor 1 allor che
dice: il non ente ad eller non ente ba il legame dei non eſſere, fe dee non
eſſere, come lente tiene nella ſtella guiſa il legame deli eſere, perchè ei non
ſia non ente, affinchè di nuovo ei fia perfettamente, e non ſiapartecipe il non
ente delléſenza, del non eſſer non ente, ma dell'eſenza dell'eſer non ente, ſe
il non ento fia perfettamente. $ Se l'uno non è, egli partecipa; e non
partecipa dell' eflenza 1 L'ente è partecipe del non eſſere, ed il non.ente
dell'eſſe re ($. 7. Sez. 4. ) ma ſe non è, l'uno é neceffario che ſia par
tecipe del non eſſere, affinchè ei non ſia; dunque appariſce, che l'eſſenza ſia
nell' uno, ſe egli non è, e la non effenza ſé egli è. ANNOT. Tutti queſti ſono
ſcherzi metafiſici, per dar luogo alle nozioni immaginarie, e quindi alle
contraddizioni, che mo ſtrano le coſe impoſſibili; ben deve oſſervarſi, che
facilmente con effe fi cade in quel mirabile, che degenera in puerilità.
Platone ſobriamente l' adopra, per dimoſtrare in quali raffina menti sfumavano
le dottrine della ſetta Elearica. 9. 9. Se l'uno non è, ha mutamento, e in
conſeguenza moto, e non ha moto, Šisru ! L'uno parve ente, e non ente, onde fta
così, e non così, dunque fi muta paſſando dall' eſfér al non effer; dunque ha
moto. Ma fe l'uno non è, non è in alcun luogo, perchè ogni en té è in qualche
luogo, ma non eſſendo mai in luogo non pudo paſſare da un luogo all'altro,
dunque non percid fi move, per che non ſi traſmuta.. io.: $. io. Y Se l'uno non
è, non ſi altera, e non alterandoli ne ſi muta, nè ſi move. L'uno non eſſendo,
non può mai verſare in quello che non è, dunque non alterarſi, poichè ſe l'uno
da ſe stello li alceral fe in alcun luogo, non ſi ragionerebbe più deil' uno,
ma di cer ta altra coſa; ma ſe non li altera non ſi rivolge in fe fteffo nè fi
muta, nè ſi altera; dunque ec. ļ $. Se l'uno non è, fta e ſi moồe, e fi altera,
Quel che non ſi move ſe ne ſta in quiete, e ſi ferma que gli che in quiete ne
fta; dunque l'ano non effendo, comeapo pariſce ſta egli e li move, anzi
movendoſi è neceſſario che ſi alteri, perchè in quanto alcuna coſa ſi move,
incanto ſe ne ſta ella non nello ſteſſo modo, ma altrimenti; dunque l'uno
mentre fi move ſi altera, e nondimeno non movendoſi in niun luogo in niuna
guiſa ſi può alterare; dunque in quanto fi move", ciò che non è uno ſi
altera; ma in quanto non ti move, non fi alce ra, dunque l'uno non eſſendo ſi
altera, e non ſi altera. $. 12 Se l'uno non è, egli è diverſo da quel che era
prima, non ſi altera; non fi fa, non ci muore, e di nuovo ſi fa, emuore. Cid
che ſi alcera è neceſſario che ſi faccia diverſo da quel che era prima, ma quel
che non fi altera, non ſi fa në muore; dunque l'uno, non eſſendo mentre fi
altera, e ſi fa, e periſce, ma non alterandoſi, non fi fa, nè muore, nè periſce,
ed in do tal guiſa l' uno 'non effendo, li fa, e muore e di nuovo non fi fa, nè
muore. §. 13: Sin ora ha dimoſtrato Platone, che ſe l' uno non è, egli dà di sè
fcienza, ed ha in sè diverlicà, che è partecipe, e non par tecipe di altre cole;
quindi lo ſteilo-, e non lo ſteſſo con ſe ſtel
ſi move fteffo, ſimile e diffimile nè ſimile, nè diffimile, eguale, ed
ineguale, non eguale, nè ineguale, partecipe d'eſſenza, e non partecipe, ſi
muta, e non ſi muta e non ſi mo ve, fi altera, e non fi altera, ft fa, c
periſce, e fi fa, e non periſce. Tutte queſte concluſioni derivano dalla
poſizione, l' uno non è; l'uno eſſendo inſeparabile dall'ente, ſe non v'è l'uno,
nè pur v'è l'ente. OrPente non è, che il poflibile. Annullato dunque il
poſſibile reſta l' impoffibile, da cui ſecondo l' Aflioma ſegue coſa, ex
impoſſibile ſequitur quolibet, perchè nell'idea aſtrat ta dell'impoſſibile
s'includono tutte le contraddizioni. Platone dal conſiderare, che l'uno non ha
eſſenza, e non n'è capace, nega tutte le altre relazioni che pud avere.
Premetto a ciò che quando diciamo, che alcuna coſa non ſia, nel proferire,
queſto non è, fi fignifica ſemplicemente, che non è al tutto in niun modo, e
non eſſendo in niun modo, non è capace in alcun modo di eſſenza; dunque non
potrà eſſere il non ente, ne in alcun modo farſi partecipe di eſsenza. §. 14.
Se l'uno non è, non può farſi in alcun modo par tecipe d'eſsenza. Quel che non
è, ſignifica ſemplicemente, che non è al tur 10, in niun modo, o non è
ſemplicemente capace di eſsenza, dunque fe l'uno non è, non può mai eſser
capace d'eſsenza.. 15: ne la per Se l'uno non è, non pud farſit, nd morire. Chi
non è partecipe di eſsenza, non la riceve, nè la de. Dunque fe. L'uno non è,
non pud nè ricever, nè acqui ftar l'eſsenza, perchè non n ' è capace; dunque
non periſce, nè fi fa. $. 16. Se l'uno nonè, non fi altera, nè fi move, nè ſe
ne ſta, non ha grandezza, nè piccolezza, nè parità, né limiglianza, e dia,
verlin (11 ) 3 onde eſsenza, non può aver ne grandezza, nèpic marfi. Se verſità
riſpetto all' altre coſe, e a ſe ſteſso, nè gli conviene ale cun altro
attributo Se l'uno non è, non ſi altera, perchè fi farebbe già, je pe rirebbe
potendo queſto; ſe non ſi alcera, nè men fi move, ſe come non ente, non eſsendo
in alcun luogo, non pud ſtar lo ſteſso in alcuna coſa, nè in alcuna coſa
fermarſi. Se non ha nè piccolezza, nè parità, eſser ſimile, o diverſo, o
rifpetto all'altre coſe, o a ſe ſteſso, nè le altre coſe potranno eſser in lui
in alcun modo, gli ſono, nè fimili, nè diffimili, nèle ſteſse, nè diverſe, nè
pud ſtar ſeco, non ha il di lui, o ciò che ſi dice di alcuna coſa, o queſto, o
di queſto, o d'altrui, o ad altrui, o alcuna volta, o dopo, o al preſente, o
ſcienza, o opinione, o ſenſo, o fer mone, o nome, o qualunque altro degli enti.
Annot. Sebben ſi oſserva, Platone al non uno toglie tutto quello che ha dato
all'uno, conſiderato in ſe ſteſso nella prima Sezione, argomento evidente, che,
quando tutti gli altri man caſsero, quì non ſi trarca che delle aſtrazioni
della mente, fra miſchiate tallora con le nozioni immaginarie, quali ſono in
que fta Sezione, e nel rimanente. Non ci reſta che l'ultima quiſtione, in cui
ſi cerca ſe non è l'uno, che accada all'altre coſe. $. 1. S'orser Oſservi
tolto. 1. Che ciò che è, o è l' uno, o l'altre co ſe • 2. Che ſe queſte non
foſsero (almeno nella noſtra im-. maginazione, o nella noſtra mente ) di loro
non ſi diſputereb be, perchè il nulla non ha proprierà. 3. Che ſe dell' altre
li fa vella, l'altre ſono il diverſo, poichè l'altro, e il diverſo ſono fi
nonimi', onde diciamo altro non eſser l'altro, che l'altro d'al tri, ed efser
del diverſo diverſo, e che per far le coſe altre dalla uno, vi ſi debbe
aggiungere qualche altra coſa, onde fieno per eſser altre, di cui ſaranno altre.
3 Tesni f. 2. (118 ) S. 2.. Se l'uno non è, le coſe altre o diverſe dall'uno,
non ſono altre. o diverſe, che per ragion di ſe ſteſse.. Nelle coſe altre dall'
uno o diverſe dall'uno, vi's include' qual che altra coſa, per cui fieno altre,
ma queſta coſa non pud ef ſer l'uno, perchè per ipoteſi egli non v'è. Dunque,
poiché non v'è, che l' uno, e l'altre coſe, eſcluſo che altre coſe non fieno.
altre per luno ne liegue che ſieno altre per ſe. ftelse, COROL.. Dunque: per ſe
ſteſse. ſono ciò che ſono tra se.., S: 3 Se: l'uno non v'è, le coſe altre dall'
uno ſono tali per una moltitudine infinita. Non v'è che uno o i più, dunque le
coſe altre o diverſe 1 dall’uno, non potendo eſser altre che l'uno, il quale
non v'è per ipoteſi, non ſaranno altre che per i più, cioè per la mol: titudine;
ma il più, o la moltitudine eſsendo per le ſteſsa in finita '; le coſe. altre
dall uno,. ſono alore per una: moltitudine infinita.. COROLLAR. Qualunque mala
dunque di loro appariſce in molti-. tudine infinita, e ſe alcuno ſi prenderà
ciò che menomilimo pare co. me. Sogno, incontinente in vece di quello che pare
uno, ſi fa innangi una moltitudine infinita, e in vece di quella
chemenomilimopar ve, apparirebbe grandiſſimo già, ſe il pareggialli ad altre
coſe in die Sparte da lui. Cosi: parla Platone: fia prefa qualunque parte
d'eſtenſione, el la è diviſibile in due, ed inoi in due, e così all'infinito.
Della di viſione di cui è capace il tutto, ſono capaci reſpettivamente le parti,
nè v'è particella si minima, che le noi nell' ipotefi che non v'è uno,
poteſſimo vedere con un microſcopio miracolo fo,, non ci pareſse diviſa in una
moltitudine infinita di parti, ma tali che nell' iſtante ſteſso, che noi
vedeſſimo la parte, la vedremmo attualmente diviſa in altre parti infinite, e
cosi all'in finito; non è che io dir voglia, che vedremmo l'infinito at tuale,
perchè non poſſiamo intenderlo, non che vederlo, nè so come il Leibnizio abbia
poruto concepir nella più minima parte di ciò che egli chiama 'materia, un
numero attualmente infinito di monadi"; biſogna prima provare, che noi
concepia mo l'infinito attuale -, ed indi che vi ſieno queſte monadi; ma ſe vi
foſsero, il che io non l' ammetto, che come principio di co gnizione, e non di
natura, in eſse, come l'eſprime il nome loro, v è un'unità, che è il fondamento
di concepir nella monade innumerabili proprietà; ma quì nell' eſtenlione
Platonica, biſo gna rappreſentarfi ogni parte deſsa ſeparata dall' uno; ' v'è
in ciò contraddizione, ma appunto Platone - la ſuppone per de dur dall'aſsurdo
i, l'impoſſibilità di ſeparar l' uno dall'ente. §. 4. Se non è l'uno in ogni
maſsa apparente apparirà il numero, e le proprietà dei numeri, l'eguale, il mag
giore, il minore. Tolto l' uno dalla maſsa, ci ſi fa come nel ſogno innanzi una
moltitudine infinita, in cui ſe ſi vuol ordinar colla mente la moltitudine, vi
ſi trova il numero; quindi il pari, e l' impari; il picciolo, il grande, il
piccioliſſimo, il grandiſſimo., compa rando tra loro le maſse, in cui s'è
diviſa la maſsa maggiore, e quindi l'eguale, perchè non ſi può paſsar dal
maggiore al mino re ſenza paſsar per l'eguale, ma queſti ſaranno tutti fantasmi
d' egualità, di maggiore, di minore, di pari, d'impari ec, come di numero. Se
non v'è l' uno, ogni maſsa apparente avendo termine appa rente, riſpetto all'
altra non ha nè principio, nè mezzo, nè fine riſpetto a fe ftefsa. Si prenda
alcuna delle maſse apparenti coll intelligenza, in nanzi al principio, ſe le fa
ſempre innanzi altro principio, e dopo il fine, ſegue ſempre un altro fine, e
nel mezzo altre coſe ſem pre più interne del mezzo, e ſempre minori, perchè non
ſi può ricever in queſta alcun uno, non eſsendo l'uno. Annot. E ' da
oſservarſi, che qui Platone dice, prender alcu na coſa con l'intelligenza, cioè
aſtrattamente conliderarla í vi aggiunge poi che potendoſi prender la maſsa
ſenza l' uno, cioè fenza far aftrazione dall'uno, ſi sbrana qualunque coſa così
pre ſa con l'intelligenza, che è quanto a dire con la mente fi* di vide in più
parti, e queſte in altre, e così all'infinito. S. 6. Se l'uno non è, preſa
qualunque maſſa a chi da lungi la mira groſſamente par uno, ma chi da preffo
l'in tende è un infinito in moltitudine. Non potendo noi nulla concepir ſenza
l' uno a prima viſta, e da lungi mirato ci par uno, ma da preſſo, e acutamente
vedendolo, tolto l'uno, ci rappreſenciamo infiniti. COROL. Se dunque non v'è
l'uno, ma l'altre coſe dall' uno, qualunque di eſſe è infinita, e con termine
ed uno, e molci. Se non v'è l'uno le altre coſe ci pareranno, e ſimili, e diffi
mili, e le ſteſſe, e le diverſe, e unire, e ſeparate, e moverſi, fermarſi; nè
potendo noi concepir le coſe ſenza l'uno le ve dremo, come adombrate da lunge,
e patir lo ſteſſo, ed eſſere fimiglianci, mada preſſo molte, e diverſe, e per
il fantasma della diverſità diverſe, e diflimiglianti tra loro ſteſſe e pari
mente ci pareranno le maſſe ſimili, e diffimili, e da loro ſteſ ſe, e tra di sè,
e le ſteſſe, e diverſe tra loro, e che tocchi no, e fieno ſeparate da loro
ſteſſe, e fi movano con tutti i mo ti, e ſi facciano, e periſcano, e nell' una,
e nell' altra manie e tutte le coſe sì fatte che li poſſono dedurre dalle coſe
7 ra, già dette. S. 7. Ha dimoſtrato fin ora Parmenide 3 che adiviene alle coſe
ſe non è l' uno, cerca poi che fieno gli altri che non ſon uno. Se non è l'uno, le alere coſe non ſon uno, ne
molti. Non ſono uno, perchè non v'è l' uno; non ſono molti perchè i molti
preſuppongono l'uno. ital 18. s. Se non v'è l'uno, non vi ſarà nè opinione, nè
fantasma, ne ſcienza dell'altre coſe. Le altre coſe non hanno alcun concetto
con niuna di quel le che non ſono, nè alcuna di quelle che non ſono è appreſso
ad alcuna dell'altre che ſono; dunque appreſſo ad altri non v'è opinione, non
v'è fantasma dell'ente, e quindi dell uno; ma ſe non v'è l'uno, non effendo
poſſibile il penſar a molte coſe fen za r uno, neppur èpoſſibile che ſi penſi
che fieno uno, o mol ti le coſe.. 10. Se non vè l' uno, le coſe non fono nè
fimili, nè diffi mili, nè le ſteſſe, nè diverſe, nè ſi toccano, ne et ſeparano
Non ſi poſſono concepir le coſe ſenza l'uno; dunque ſe non vi è l'uno, non ſi
poſſono concepire, nè ſimili, nè diffimili nè le fteffe, nè diverſe, nè unite,
nd ſeparate. COROL. Dunque ſe non v' è l' uno nulla v'è, onde o ſia l' uno, o
non fia, ed egli e l'altre coſe ancora ſono, e non ſo no ad ogni modo riſpetto
a fe ftelle, e tra di loro, e appajo no, e non appajono. II. Riftringendo in
poco tutto ciò che negli ultimi paragrafi s'è eſpoſto, egli è manifefto, che l'
uno efiendo inſeparabile dall' ente, ove non v'è più uno, non v'è più d'ente,
cioè v'è nul. la, ol'impoſſibile", da cui ſeguono tutti i contraddittorj,
qual Tomo II. q Pla Platone ci eſpoſe per via di nozioni affatto immaginarie;
egli ne fa veder i uſo, e moſtra nel tempo ſteſſo, quanto la fan taſia ſia
diverſa dall' intelletto, poichè ella ci rappreſenta una coſa, mentre la mente
ragionando ce ne fa concepire un'altra. Si conclude dunque, che Placone in
queſto Dialogo non fi af fiffa che a moſtrar ſuſo dell'aſtrazioni della mente,
nell' inve ſtigazione dell' idee. 1. Con le negazioni, come fece nel primo
capo. 2. Con le analogie dell'altre idee aſtratte; finalmente con le cognizioni
dell' idee, del ſenſo, della fantaſia, combinate a quelle della mente. LETTERA
A SALIER Primo Cuſtode della Biblioteca DEL RE CRISTIANISSIMO. On dubitate che
io ſia mai per dimenticarmi di voi, co N°me alcuni venuti ultimamente di
Francia m' accufaro no da voſtra parte; troppo m'è rimaſta impreſſa l'idea
della bontà, e gentilezza voftra, troppo è ſtato vivo il piacere e ſodo il
profitto, che io ricavai dalle converſazioni letterarie, che abbiamo fpeſſo
avute inſieme, e tra l'altre su l'opere di Platone; ce ne porgevano il motivo
le ſaggie rifleſſioni, che leggevaci l'Ab bate Fraguier, or su l'ironia di
Socrate, or ful carattere de'So fifti, or su la Repubblica, ed or su le Leggi,
tutti oggetti delle belle diſſertazioni, che egli diede alla voſtra Accademia.
Solo la Iciò egli intatto il Parmenide, o non aveſſe il tempo, o la voglia d'
applicarſi a ſviluppare un Dialogo, che è il più malagevole di Platone, o
temeſſe dioffendere la ſoavità del ſuo genio con l'idee troppo auftere, e
filoſofiche, delle quali il Dialogo abbonda. Voi ben ſapete, che per voſtro
conſiglio m' applicai a leggerlo con attenzione e ne concepii quel fiſtema, di
cui állor vi parlai. Venuto in Italia, e diftratto da graviſſimi intereſſi
dimeſtici, ne interruppi l'eſame già cominciato, ſebbene negli intervalli io
leggeſſi continuamente Platone; e l'avrete ve duto nel Sogno del Globo di
Venere, che il Signor Conte di Cai lus v avrà forſe dimoſtrato in lingua
Franceſe tradotto. Di tem po intempo io parlai del Parmenide con gli amici, e
mi fi fue gliò il deſiderio di compierne il ſiſtema da me abbozzato all'occa
lione del Platone di Dardi Bembo, che ſtampali in Venezia, con P aggiunta delle
note e degli argomenti del Serano letteralmente tradotti. Dalla Differtazione
preliminare ritrarrete l'idea generale del la Filoſofia di VELIA (si veda) così
celebre per l'acurezza, e per la profon dità de' Filoſofi, come la Jonica per
la fodezza dell'eſperienze, e l'Ita 1 1
ľ Italica per la felice combinazione della Geometria, e dell'A ſtronomia alla
Fiſica. Non è difficile ſcoprire, che la metafiſica do Ariſtotele è tratta in
granparte in queſto Dialogo, in cui Plato ne abbandona quaſi l' artificio
poetico adoprato negli altri, e ſi ſpiega nella maniera più ſemplice, e più
preciſa. Nella prima Sef fione io v'oſſervai i tre fonti delle allurdità degli
argomenti me tafiſici; il principio di contraddizione, il progreſſo
all'infinito, el' annullazione fuppofta di qualche perfezione divina.
GliEleatici, che forſe gli inventarono, riconoſceano i limiti dell'intelligenza
uma na, e pur era queſta la minor parte della Dialectica loro, la qual vaga va
per tutti i lommi generi delle coſe. La quiſtione dell'origine e della natura
dell' idee v'è più che abbozzata, e la riſpoſta che so crare diede a Parmenide,
su la maggior difficolcà dell' idee, è la ſteſſa che uso il Padre Malebranchio
nel medeſimo caſo. Nell'al tre opere s' accuſa il Commentatore di dar troppo
ſpirito al ſuo Filoſofo; in queſta è cutto il contrario, poichè per quanto ſi
ſpieghi Platone, vi reſta fempre molto a medicare, e la compa razione del reſto
fa ſempre vergogna al commento. Ficino e Serano, che aſſegnarono al Dialogo un
grado di ſublimità Teologica non convenevole, l'hanno sfigurato, e colto agli
altri il profitto, che avrebbono potuto ricavare da una ſpe colazione così ben
dedocta e conforta nè punto inteſa dai due Commentatori, i quali preteſero che
in queſto Dialogo chiama to dell'idee, voleſſe Platone diſputare a pro delle
feparate, quan do egli manifeſtamente le rifiuto, tutto riducendo all' Ontolo
gia che è la più bella, e la più utile parte della metafiſica In molci errori
cadè miſeramente il Carcelio, per averla ab bandonata, eſpregiata; e non furono
dal Leibnizio, ed indi dal Wolfio ridotti al ſuo vero lume i dogmi filoſofici,
ſe non dopo che effi s' affaticarono a dimoſtrare, le nozioni Ontologiche eſſer
quelle alle quali convien avertire prima d' inoltrarſi nella combinazione
dell'idee, e quindineiſiſtemi. Tutti gli uomini pre veggono gli aſtratti ne'
concreci, pochi hanno la forza di ſepa rarli, pochiſſimi quella di ridurli in
teoria, ed è ſolo riſerva to a' ſommi Filoſofi il farne ſiſtema. Voi molto più
vedete in Platone, che io poſſa eſprimere; in canto vi prego a conſer varmi il
voſtro affetto, ed eſſer certo che il mio farà ſempre inviolabile. La scuola
stoica è quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e
profondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si
polarizza, com'era già av venuto per Aristotele, su due ambiti
fondamentalmente di stinti tra di loro: da una parte, una teoria del
linguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tra
linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna significante,
significato, oggetto esterno); dal l'altra, una teoria del segno
proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della
filosofia stoica trovano però un pun to di convergenza, come vedremo, nel loro
comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella
metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la
speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere
"corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata).
Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in
considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere
oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem po.
Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi derati esistenti. Ora,
tanto nella teoria del linguaggio, quan to in quella del segno proposizionale,
accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità
incorporee, quali i lekta. Per il momento è invece necessario sgombrare il
campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità incorporee:
esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma
vengono investite di una esistenza derivativa' (Long ). Il secondo possibile
equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra riamente a quello che ci
attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano
"corpi" an che le qualità, in quanto venivano considerate come
materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi tuiscono
stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza
di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto
disposizioni esistenti di materia (Rist). Si profila, a questo punto, una
ontologia che pone al suo centro la nozione di "particolare": quest'ultimo
viene carat terizzato come un oggetto materiale, che ha una forma defi nita
come condizione necessaria e sufficiente della sua esi stenza. La forma, del
resto, è l'elemento caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile
come tale (Long). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e
si sviluppa la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria
del significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione
dei "particolari", ed è con nesso a una teoria della percezione.
Così, si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im magini
(phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti ester ni danno luogo a una
percezione vera se esse riproducono esattamente la configurazione di tali
oggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del
si gnificato degli stoici, come si sa che avevano una parte im portante anche
nella teoria del significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare
come fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un
"particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo
caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par lando
intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il
suo riferimento. Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fondamentali
della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un
conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che per
gli stoici una teoria del la verità, cioè la ricerca delle basi per una
verifica delle pro posizioni, non può essere elaborata in maniera indipenden
te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che può essere detto
intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falso
nella cosa significata (tò smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine
nel movimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta bandiera
gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa
significata (tò smainomenon), quella significante (tò smafnon), e
quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn chanon), e che, tra queste, la cosa
significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella
significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce
pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente
(paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur
ascoltando la voce che lo indica, non lo compren dono; infine,
ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione
in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e
ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggetto significato
o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso (Sext.
Emp., Adv. Math.) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fe
nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui to nei termini di
un triangolo. Si può osservare che compaiono i termini significante e
significato (come è dato trovare anche nella teoria moderna di Saussure), ma
non quello di segno. Come anche slmsin6menon (significato) lekt6n
(detto) tmsm lnon (significente) tynchAnon in Aristotele, la
nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello
strettamente linguistico. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui
è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome proprio. In secondo
luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la
significazione sono tre e comprendono anche l'oggetto, che propriamente è
esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo
parziale. Soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si gnificante e
l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. Un caso assolutamente a
sé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo,
chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua seconda
denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio
degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo
aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con
Aristotele. (oggetto esterno, referente). Nella stessa posizione del triangolo
della significazione Aristotele pone delle entità psicologiche, che venivano
considerate le medesime per tutti gl’uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci
dice Sesto nel passo riportato, ha caratteri completamente diversi, in quanto
i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo comprendono . Come
rileva Todorov, la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel
fatto che, mentre l'entità presa in considerazione da Aristotele si situa a
livello della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si situa
direttamente al livello del linguaggio. Todorov interpreta il lekt6n come la
capacità del primo elemento di designare il terzo. Tale interpretazione poggia
anche sul fatto che l'esempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di
de signazione come gl’altri nomi, ma è molto controverso se abbia un *senso*.
La risposta che di solito si dà a questo interrogativo è negativa. I barbari
odono sicuramente la sequenza di suoni /dione/ e vedono Dione, ma sono incapaci
di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dunque,
come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste proprio nel percepire la
connessione tra la parola che viene pronunciata e l'oggetto cui si riferisce.
Anche Long identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si
configura come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche
oggetto; in questo caso, la traduzione più propria di lekt6n è "ciò che è
detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di giudizio che
quella di stato di cose significato da una parola o da una serie di parole.
L'idea che il lekton si può configurare come una affermazione intorno all’oggetto
emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae morales), in cui viene delineato
uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una
proposizione – “Cato ambulat” -- laddove Sesto propone solo un nome (“Dione”).
Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Catone, che è
un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso, che è un incorporale. Tale
asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre
diverse traduzioni latine: “enuntiatum,” “effatum,” e “dictum.” Dato che
l'esempio proposto da Seneca è una proposizione, risulta più agevole, rispetto
ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato
"vero" o "falso".4 nfatti solo i lekta che costituiscono
una proposizione completa possono essere veri o falsi. Nel modello
aristotelico della significazione, una espressione e un simbolo di uno stato
psichico (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo, non
viene operata una chiara distinzione tra la nozione di significato e quella di
pensiero. Tale concezione ricompare del resto nella nota teoria di Ogden e Richards,
i quali disegnano un triangolo semiotico in cui figura al vertice superiore la
nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione
proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di
Diogene, si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero,
anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto.
“Gli stoici affermano che il lekton è ciò che sussiste in conformità con una
rappresentazione razionale (logike phantasia) e che una rappresentazione
razionale è quella secondo cui il rappresentato (phantasthén) può essere
espresso in parole (Sext. Emp., Adv. Math.). In termini del tutto analoghi si
esprime Diogene (Vitae), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da entrambi
i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta
tra il lekton, che rappresentano il livello del significato, e la
rappresentazione razionalie (logike phantasma), che possiamo definire come delle
forme di atti vità intellettiva o dei pensieri. Quest'ultime entità sono peculiari
della specie umana e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole -- a
questo infatti si riferisce l'aggettivo, “logike”. Ma, sempre dai due passi, si
può ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero,
vengono messi in relazione. Long cosi commenta il passo di Sesto: "I take this difficult
passage to mean that the lekton is defined as the objective content of acts of
thinking (noesis)" e aggiunge anche "or, what comes to the same
thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di approfondire il senso di questa
seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che
il lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura
come contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve
niamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un
elemento nuovo rispetto a quanto lo stesso Sesto dice altrove (Adv.Math.),
quando ha messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con
il smainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che
sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che
l'accento appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a
un rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi
un'apparente contraddizione o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze
degl’esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli
stoici. Come mette bene in evidenza Mignucci, il lekton, essendo incorporeo,
non può essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da
supporto ad essi e che permetta la loro esprimibilità. Il proble ma diviene
allora quello di stabilire se a fare da supporto a un lekton siano: un suono della
voce; o l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto opta
per la prima; la seconda, come pure la definizione di Diogene, per la seconda. Ugualmente,
tra gl’interpreti moderni, Mates risponde che è la parola a fare da supporto al
lekton. Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo,
questo è un falso dilemma, non resolubile tuttavia filologicamente, in quanto
nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno
dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un duplice
presupposto che sembra agire nella teoria stoica. Da un lato il verificarsi di
discorsi significativi rimanda a un'attività intellettuale, in assenza della
quale non è possibile che si diano i significati. Dall'altra, il risultato
dell'attività intellettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per
esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le conseguenze dal
fatto che un lekton è definito da una parte come *contenuto* di una
rappresentazioni razionale e dali'altra come il significato di una parola:
conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra
i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere significati
attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti
l'uno dall'altro. A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di
Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto
oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa
cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato
dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la
phantasia ha un ruolo assolutamente primario, in quanto non è possibile, senza
di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della conoscenza, quali
l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero
(nosis). Infatti la rappresentazione viene per prima, poi il pensiero
(dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò
che esperimenta come il risultato della rappresentazione. Il passo di Diogene è importante perché
ripropone la nozione, già platonica, del pensiero come discorso interno. Tutto
ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di
un passo di Diogene Laerzio (Vitae) in cui viene detto che il criterio di veri-
.. In questo una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli
della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano
basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella
teoria linguistica del significato.Il lekton, che abbiamo finora incontrato
come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione
fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore
di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono anzitutto
dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì che, come
sottolinea Eco, nella se fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura di
diritto tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, per
ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni
debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa
possibile dalla sintassi linguistica. Occorre tener presente che gli stoici
non dicono ancora che le parole sono segni (-- cf. H. P. Grice – “Not all
things that mean are signs. Words are not”) -- sarà Agostino il pri (110 a
fare una simile asserzione -- e rimane, del resto, una differenza lessicale tra
la coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano
dei lekta ci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il
segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl
maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che
ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno,
dicono che è una proposizione (axioma) che è l'antecedente (prokathegoumenon)
in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del CONSEQUENTE
(ekkalyptikòn tou ligontos). E dicono che la proposizione è un lekt6n completo
in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e
finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che vengono
presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si
definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si
pone in rapporto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra
proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per
Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza
che esso permette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella
epistemica, e il segno appartiene a un campo che è distinto sia da quello
logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una
proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma SOLO
QUELLA PROPOSIZIONE CHE PERMETTE DI SCOPRIRE IL CONSEGUENTE – cioè, che
permette l'accesso a una nuova conoscenza. Va comunque notato che, se l'ottica
con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele,
assolutamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È normallnente
accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici
introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata
dalla so stanza degli eventi (Todorov), per quanto concerne il punto di vista
antologico, e dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione,
per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si
poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come
segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gl’avvenimenti
espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la
differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e
finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "ESSA
HA LATTE" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "ESSA
CONCEPTIO" (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh.). Essi chiamano antecedente la prima
proposizione via fornisce alcuni esempi di segno -- come quello della
Retorica. "Se essa ha latte, essa ha partorito" -- in cui vengono
presi in considerazione eventi e non sostanze. Ma nella filosofia aristotelica
la teoria del segno ha una parte marginale. Il segno viene fatto rientrare nel
procedimento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene
confinato nel campo dei procedimenti retorico-dialettici, se non è un tekmirion,
cioè, un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul sillogismo
perfetto, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole
postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla
retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla
scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gl’epicurei
vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò
che è ignoto. Preti sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra
Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione,
rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei
maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo de, 1 8 è
possibile cogliere i punti essenziali di questo passag gio . Per Nausifane,
infatti, il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e quello
retorico (basato sull'entimema) presentano in realtà la stessa struttura
logica. In entrambi i casi è necessario distinguere tra la CONSEQUENZA o
conclusione (ak6/outhon), la
"premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle
premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei
due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti
(hyparchonta) per giungere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo
del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenzialità",
di implicazione o implicitazione, comune appunto a filosofia e retorica. Ora,
come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione
del le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthia
costituisce proprio il nocciolo della dottrina de gli stoici -- come pure di
tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio il nome
di "dogmatici". Non solo, ma come prova della centralità della
semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno: fatto che
testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che conferma
la tendenza delle scuole post-aristoteliche a ridurre o trasformare il
sillogismo nell'inferenza implicativa. 1 I tipi di segno, comune e proprio. Nella semiotica stoica si
registra la scomparsa della di stinzione terminologica tra tekmrion e smeion:
il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi nati
smeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono del
sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale
opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra
"segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion).
Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini
filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro
verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se
gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo. Un segno è comune (koin6n) per
nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non
percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che
crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta
usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi
risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è
necessario (ananka stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che
noi di ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dente
di cui è segno (Philodemus, De signis)
C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri tenere il segno
comune come non valido e nell'accettare in vece unicamente il segno proprio.
Dalla definizione di Filodemo si ricava che una differenza peculiare consiste
nel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co me
"necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello
comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno
necessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria con
l'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel
segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma può
anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza
di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri
no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda
e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dal
pallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla
bontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se
gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una
conclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientifica
ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi
stemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,
la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita
delle inferenze del tipo non necessario. I tipi di segno:
"rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il
suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto
riprende la di stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno
preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del
segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra
segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno si dice in due maniere, comune
(koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno quello che sembra
rive lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare segno anche ciò che
serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in sieme con esso. In
maniera propria si dice segno quello che è in dicativo di una cosa avvolta
nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera
contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione,
in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co mune e segno
proprio, dichiara di voler trattare solo di que st'ultimo; e poiché il segno
proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono oscure, egli propo
ne di distinguere preliminarmente le cose in "manifeste" e
"oscure", e di suddividere ulteriormente quest'ultime in tre
categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le cose manifeste o
immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla conoscenza in maniera
diretta; co me esempio Sesto porta "il fatto che è giorno e che io sto di
scorrendo"23 quando io faccio realmente queste cose. Le cose oscure in
senso assoluto: sono quelle che han no una natura tale da non arrivare alla
nostra comprensio ne (kata/psis), come a esempio "se le stelle siano di
numero pari o dispari" o "se i granelli di sabbia della Libia siano
di un determinato numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sono
quelle che pur avendo una natura manifesta divengono, per certe cir costanze,
non evidenti per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a una
certa distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura,
diviene tempora neamente invisibile a causa della distanza.2 (iv) Le cose
oscure per natura: sono quelle che hanno una natura tale da non essere
percepite, ma sono soltanto pen sabili (noto1). Gli esempi sono "i pori
intelligibili" e "il vuoto". Non si pone un problema di segni a
proposito della prima e della seconda categoria, in quanto le cose manifeste
ven gono comprese in maniera non mediata e le cose oscure in senso assoluto
non possono essere comprese affatto. Invece è proprio attraverso i segni che
possono essere comprese le cose che appartengono alle ultime due categorie. Ma
i tipi di segno sono diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora
neamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora tivi, quelle oscure
per natura attraverso i segni indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto:
Dei segni, secondo i dogmatici, alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika),
altri indicativi (endeiktika). Chia mano segno rammemorativo quello che,
osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si
presenta, se quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che
è stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera
evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come
dicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera
evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è
segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext.
Empyr., Hyp. Pyrrh.) Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso
ciazione costante tra cose comunemente osservate in con nessione empirica.
Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo
tipo si distribuiscano se condo la tripartizione28
contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel
caso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in
"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il
fatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segno
rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del
precedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è
segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno
sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono
di risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai
"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei
segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,
che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei
"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente
schema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure non
danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno
luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la
distinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativo
solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne
trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso
Sesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto con
l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento
logico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto
importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto di
vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra
segno comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tra
l'altro, il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenza
di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un
segno "ne cessario", come un'analisi più dettagliata della sua
struttura ci permetterà di vedere. Ritornando alla definizione stoìca di segno
che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima
di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa
"connesso" o "connessione". Il suo significato logico ci
viene chiarito da Diogene: si tratta dell'asserto temporaneamente
condizionale del tipo "Se p, q", in cui a una prima proposizione
consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La
seconda cosa da prendere in considerazione è la nozione di condizionale valido
(hyghiés, "sano", igienico). Da un passo di Sesto, dove se ne trova
la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna INTERPRETAZIONE
VER-FUNZIONALE di "Se p, q". Infatti la validità o in validità
dell'asserto condizionale "Se p, q" dipende dal valore di verità dell’antecedente
e del conseguente di esso.Sesto, in due passi paralleli, camente quel
condizionale che non comincia dal vero e finisce nel falso e fcrnisce una
tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica
contemporanea preve de per l'implicazione materiale: p q ·se p, q•
valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto
accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a proposito del criterio per
giudicare un condizionale valido. Esso corrisponde a ciò che è stato definito
dai Kneale il dibattito sulla natura dei condizionali, che anima le discussioni
di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla
nozione di se- definisce come valido uni valido gno come antecedente
(prokathegoumenon) in un condizionale valido. In effetti, come fa rilevare lo
stesso Sesto, i tipi di condizionale valido sono TRE nella tavola dei valori
di verità corrispondente all'IMPLICAZIONE MATERIALE: 1) V V; 2) F F, e 3) F V.
INVALIDO: V F. Il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del
segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo
in casi particolari. Ora, in effetti, un segno non può non essere espresso da
una proposizione vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui esso
rimanda. Così SONO ESCLUSI sono il secondo (F F) e il terzo caso (F V), in
quanto hanno un antecedente falso. Dunque, l'unica possibilità è relativa al PRIMO
tipo di condizionale – cioè, quello che comincia dal vero e finisce nel vero. Ma
c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al carattere che il segno
deve avere di essere *rivelatore* (enkalyp tik6n) del conseguente. In effetti,
un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui
si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da
due proposizioni entrambe vere.Tuttavia, secondo Sesto, non si realizzano in
questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le
proposizioni rimanno a FATTI DI PER SÉ EVIDENTI (cf. la caverna di Platone). Il
primo termine del condizionale non è *rivelatore* del secondo – cf. Grice:
“Black clouds mean rain” – yes). In effetti, per comprendere la vera natura del
segno bisogna passare dal piano strettamente logico a uno più generalmente
epistemologico, epistemico, o cognoscitivo, doxastico incluso. Il segno, per
gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista
logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve
anche possedere il carattere di dispositivo che permette di accrescere la conoscenza.
Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si appoggia su un livello
logico, ma si inquadra in un'ottica conoscitiva. Gli esempi di carattere
medico (Grice: “Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, they
meant measles”) denunciano l'origine di quest'ottica. In generale il segno
deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso,
come "egli ha sputato cartilagine bronchiale" – or Grice’s “Spots” --
a una conoscenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una piaga
nel polmone" (“measles – and Dahl ignored it. A tragedy – and part of a
father’s responsibility and liability to know what measles spots mean””)
Tuttavia, ciò che la teoria del segno acquisisce, passando dalle mani dei
medici a quella dei filosofi, è una solida struttura dal punto di vista
logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette o non
igieniche – malatta. Quanto ampio e
difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano
logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo
dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla natura dei condizionali
(Kneale). Scrive infatti Sesto Empirico. Tutti quanti i dialettici sono
generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il
suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e
quando esso segua, e propongono criteri rivali (Adv. Math.). Riferendosi a
questo dibattito, Sesto elenca quattro criteri che sono proposti per stabilire
la validità di un as serto condizionale: quello di FILONE MEGARICO (H. P.
GRICE); quello di Diodoro Crono; quello della srsnartsis attribuibile a
Crisippo; e quello della émphasis. Sulla disputa si può tuttavia fare
un'osservazione generale preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa
notare Hurst, è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è
riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una
definizione di questa relazione di consequenzialità (akolouthla) in termini
formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici
si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può
possedere proprietà autonome, essendo dotato di significato, non è stato preso
in considerazione se non nella misura in cui poteva essere provato che esso
coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due
livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente sono in grado di
elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione
logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a
comprendere meglio questo modo di procedere un paragone con i metodi della
logica contemporanea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes
sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi possono stabilire
in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a
quella che è ampiamente conosciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa
come quella di una espressione di implicitazione ("following", “yielding”
-- Hurst). A esempio Peirce e Russell erano interessati alle proprietà della
implicazione materiale indipendentemente dal fatto che essa riproducesse il
significato "usuale" di "implica" ("implies", o
di “se”). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida
senza sostenere che l’im plicazione rigida rappresenti il significato di
"implica" (cf. H. P. GRICE citato da P. F. STRAWSON, Introduction to
Logical Theory – e P. F. STRAWSON, Introduction to “Philosophical Logic” on
Quine on the meaning of ‘if’. --. Questa differenza nel modo di procedere tra
antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formal. Mmentre i logici
antichi sono interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a
fornire due definizioni: quella di "implicazione materiale" e quella
di "implicazione rigida". Filone è il primo esponente della scuola
megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero-funzionale
dell'espressione "Se p, q". Secondo Filone – citato da Grice nella
William James IV, ‘Condizionali indicativi’ --, un'espressione condizionale è
valida o o vera se, e solo se, non comincia con il vero e finisce con il
falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di
consequenzialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro del
l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il condizionale è
valido, corrispondente ai tre esempi seguenti:
"Se è giorno, c'è luce" (VV); "Se la terra vola, la terra
ha le ali" (FF); e "Se la terra vola, la terra esiste" (FV).
Come sottolineano i Kneale, è probabile che Filone ha in mente l'uso
dell'espressione "Se p, q" nel ragionamento e che vuole attirare
l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suo
antecedente implicita sempre il conseguente. L'interpretazione proposta da
Filone è la più debole che soddisfi tale requisito. Diodoro Crono è il
maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere
forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que
st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst – “wheras H. P.
Grice had no qualm about criticising his own tutee!”). La critica che Diodoro
muove all'interpretazione filoniana -- verso la sua diodoreana -- insiste
proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degl’esempi
di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo
tt, possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio,
l'asserto "SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” è considerato VERO da Filone
se si dessero le condizioni, in un tempo t, per cui è giorno e io sto
conversando. Diodoro invece crede dimostrare che esso è falso, sostenendo che
non c'è niente nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto la
DEFINIZIONE di Filone. Infatti, esso – “SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” può
essere pronunciato anche in un tempo t2, quando è giorno -- MA io rimango
silenzioso. In questo caso esso avrebbe la forma – o interpretazione --
invalida (falsa) VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una
concezione secondo la quale un condizionale è valido quando "non ammise,
né ammette di cominciare con il vero e finire con il falso". L'esempio
che egli dà è "Se non esistono gl’elementi atomici delle cose, esistono
gl’elementi atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'antecedente
sempre falso e il conseguente semprevero: ciò basterà a escludere l'evenienza
di un antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il
condizionale sarebbe non valido La terza concezione di condizionale valido
riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni (Mates; Bochenski),
corrisponde alla implicazione rigida di Lewis o comunque a una forma di
implicazione necessaria (Kneale; Preti). In maniera concorde con il passo di
Sesto, che abbiamo visto, questa con cezione viene riportata da Diogene (Vitæ).
ÈVERO un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) del
conseguente è incompatibile (macheta1) con l'antecedente, come a esempio “se è
giorno, c'è luce”. Il nome del sostenitore di questa concezione non ci è stato
lasciato da chi la riferisce. Ma vi sono prove che essa appartenesse a Crisippo
(cfr. anche Miiller). La nozione di "incompatibilità", messa in scena
da que sta definizione, è molto interessante, ma problematica in quanto non
viene chiaramente definita. Hurst, commentando il passo, tende a mostrare che
la relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di
"consequenzialità" (following, yielding), non possono essere espresse
in termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le
proposizioni in virtù di pro prietà che esse avrebbero al di fuori della
relazione. Al contrario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che
sussi stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare
questa conclusione di Hurst con le osservazioni di Preti, il quale so stiene
che l'esempio di Sesto, dato a proposito della “synartsis” (connectio”) sembra
alludere a qualcosa di ancora più forte della strict implication di Lewis, alla
vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie
circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In
effetti in quel testo è presentato come genuinamente stoico il metodo
inferenziale della contrapposizione (ana skeu), che appare analogo a quello
della synartsis. Infatti, l'inferenza per contrapposizione è quella in cui la
negazione del conseguente comporta la negazione del l'antecedente. Essa si
configura in maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, il
secondo" è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se
non il secondo, non il primo". Preti sottolinea le affinità tra la
synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con
l'antecedente) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la negazione
del conseguente comporta la negazione dell'antecedente), e in entrambi i casi
chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli
esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che tende
a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di
L-implicazione. Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella
stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cui
si costruiscono le proposizioni categori che nel sillogismo, alle relazioni
tra le proposizioni nell'as serto condizionale. Contemporaneamente si registra
un'accentuazione del carattere, già presente in Aristotele, di consequenzialità
necessaria che la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal
termine noto a quello non noto deve presentare un carattere cogente. – cfr.
Hobbes on ‘consequence’ – Computatio – e Grice, “Meaning Revisited” – x, y –
consequence --. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della
semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura della ra gione e dei
suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio ne della metafisica stoica
(Lacy). Per il primo punto è Sesto stesso a informarci che gli stoici
ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di
discorso interno (logos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare
i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione
di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di
segno, che ha appunto la forma: "Se questo, quest'altro". Così l'esistenza del segno
si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al
secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse
costituito da una catena ininter rotta di eventi, legati tra loro da rapporti
di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto
dipendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la
consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella
stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli
eventi. L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e
sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col locata sulla
relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause
ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa
accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi
nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle ga certi
avvenimenti presenti e altri che avverranno.4 Ora, per quanto la razionalità
degl’uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei,
tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che
lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"), mentre ai primi è
preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi
caratteristici delle cause ("signa causarum et notas") degli eventi e
su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av
verrebbe per gli dei, i condizionali degl’uomini intorno al futuro mancano di
necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello
della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli cazione necessaria. Ma
questa, che è una caratteristica irri nunciabile, non è tuttavia sufficiente a
definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è
luce» il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto
entrambe le cose sono evidenti e quindi l'inferenza non può provare nulla. La
verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto
nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della
caratteristica di permettere di scoprire una nuova conoscenza. Il segno
stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello
deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per
collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore
dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presente che l'essenza del
segno è l'inferenza che va dalle cose ma nifeste a quelle non percepite. Ma a
questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi ca un problema
difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia
analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e
contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto
nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la
dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):-
sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque, il secondo . Qui
l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre sentato dallo scorrere del
sudore al fatto nascosto che esi stano pori nella pelle. La presenza dei pori
è un fatto oscuro per natura. Infatti, essi possono soltanto essere conosciuti
dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era
ancora stato inventato. Sesto aggiunge, come argomento rafforzativo delle
premesse nel ragionamento precedente, un'ulteriore argomentazione: - compatto
e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. Pertanto non è possibile
che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa
argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ)
applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condizionale: p
(se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori
intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del
corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo applichiamo
il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e
non poroso) :>p (un liquido non vi può scorrere attraverso), espressione
che è alla base della premessa del secondo ragionamento di Sesto. Essa
permette di sviluppare un ragionamento corrispondente al MODVS TOLLENS, che
convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli
stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la
contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a
priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno
produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la
relazione anche nel caso di verità fattuali, poiché parte dall'assunzione che
il fatto oscuro per natura sia legato a quello evidente in modo tale che ciò
che è evi dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse
quale viene rivelato essere. Antonio Schinella Conti. Antonio Conti. Keywords: Conti’s
French letters – Conti’s Scritti Filosofici, Dialoghi Filosofichi, about
whether corpori celesti are inhabited -- l’infinito, self-referential,
recursion, anti-sneak, regress, infinite regress in the analysis of
communication, calcolo finitesimale, calcolo infinitesimale, Enea stoico,
Ottavio Stoico, Cicerone stoico, semiotica stoica – allegoria dell’Eneide,
scudo di Enea, Il Parmenide di Platone – assiomatico dell’essere – L’essere e. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Conti: il primo storico
italiano della filosofia italiana – amato da Fiorentino -- la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di San Miniato –
filosofia pisana – filosfia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San
Miniato). Filosofo pisano. Filosofo toscano. Filosofo italiano. San Miniato,
Pisa, Toscana. Grice: “Conti is a good one – a historian of
philosophy, or rather a philosophical historian – I never know! – his chapter
on the Greek embassy that brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia a
Siena e Pisa. Si laurea a Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo del
bello, che define stare fra il vero e il buono, e li collega come il mezzo tra
il principio e fine. Altre opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore e
fede, o i criteri della filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio,
o i tre amori”; “I discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni città
coglie occasione per un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, a
Milano sullo stato, ecc.; “Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero,
o morale e diritto naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sulla
facciata del Duomo di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armonia
delle cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sulla
relazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private;
“Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi del
tempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordi
nazionali”; “Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima.
Il Messia redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia corona
del rosario. Ai figli del popolo, consigli. Duprè o Dell'arte, 2 dialoghi.
Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e dialoghi sulla
filosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi sulla storia
della filosofia, accordo della filosofia con la tradizione; discussione sulla
filosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual mezzo”. Dizionario
Biografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista deve
tendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include giudizj
e ragionamenti. Dialettica dell'arte, o dialettica rappre sentativa. L'idea è
universale, talchè i particolari dell'arte non debbono mai ecclissare o
escludere l'universalità del concetto; perché, altrimenti, arte bella non c'è’ L’ordine
ideale porge alle immagini formosità. eletta, che manifestasi o per cose
straordinarie, o per l'eccellenza de'modi, o per tutto ciò ad un tempo, ma
ſuggendo le ampollosità. L'ordine ideale
si determina ne sezni; onde s' origina l'armonia de'con trapposti. Armonia
dell'ordine ideale con la natura, legge di corrispondenza e di contrapposto
anche in ció. Armonia col divino per
natura.Il gusto del Bello. Regola prossima è il gusto. Sentimento di verità, di
bellezza, e di bene. Che cosa è il gusto? Ana logie del gusto intellettivo col
gusto sensitivo. Urficj del gusto; sanità e infermità; abiti buoni, o vizinsi; S'esamina
gli ufficj del gusto intellettivo della bellezza. Effetto del gusto. Il gusto
non può mancare a ' veri artisti, e avvertenze io giudicare il gusto loro dall'
opere. Quattro gradi del gusto. Aiuto che il gusto del bello riceve dal
sentimento logico e dalla morale coscienza. Stato di sanità o di malattia, cioè
buona o rea edu cazione. E empj. Stato
d' abiti buoni o viziosi. Esempj. Conclusione. Come si può guarire o correggere
il gusto falso. Le leggi del gusto. Che cosa presuppone l'esame ch'uno faccia
del proprio gusto, 3. affinchè possa regolarci un gusto buono e rettificarsi un
gusto cattivo, 4. e primiera mente il derivato da falsa educazione. 5. Studio
perciò di buoni esemplari. 6. Esame degli abiti viziosi, e quanto alla verità –
7. e quanto a ' fini dell'arte. - 8. Il gusto deve mostrarci il modo e il
quando dell'operare. Elevazione del sentimento.Verosimiglianza. Esempj.
Equazione di tutti gli elementi dell'arte con l'idea. Gusto de' limiti. I
limiti massi. mamente ne segni esteriori.
I Pedanti e i Licenziosi. Argomento. Che sieno i Pedanti e i Licenziosi.
Significato più generale di questi vocaboli. 4. Si gnificato più proprio e
stretto. Errori contrarj e vizj comuni. La pedanteria va fuori di natura. 7.
Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza. 9. Esempj. Non comprendono
l'universalità i Pedanti. Esempj. 12. Nė la comprendono Licenziosi. 13. Esempj.
Non hanno vera nobiltà i Pedanti, 15. e la licenza è ignobilità. Talchè gli uni
e gli altri non consegui scono fama durevole. Estro. Leggi dell'ordine
immaginato.. 1. Argomento. Immaginazione. Rinnovazione di fan tasmi, 3. e
innovazione o invenzione. 4. Queste per tre modi, spontaneo. pensato, meditato.Legge
univer sale della fantasia e sede di quella nell'intelletto. 6. Gradi
dell'invenzione immaginativa. Primo; mutamento di alcune cose percepite.Secondo;
immagini di cose reali non percepite. Terzo; novità d'imma.ini fra percezioni
oscure. 8. Quarto; un ordine di verosimiglianze relativo a un or dine di cose
reali determinato. 9. Quinto; relativo a no tizie vaghe. 10. Sesto; relativo ad
astratte generalità. 11. Settimo; fantasmi di cose semplici, spirituali,
divine. 12. Ultimo; armonia universale di fantasmi e loro elevazione. 13.
Perché l'estro abbia tal nome. Origini sue misteriose. 15. Estro fallace o
vuoto, e vero o fecondo. Conclusione. Armonia
interna delle Immagini. Argomento. Sceltezza e vita delle immagini, Scel. tezza
rispetto all'arti diverse; 3. e rispetto ai componi menti speciali d'un' arte;
e rispetto agli argomenti. Sceltezza per la qualità e per la quantità. 5. Vita
delle immagini, 6. come le figure d'affetto nell'arte del dire. Unione del
sensibile con l'ideale. Allegoria, e 8. allegorie speciali, e vizj
dell'allegoria. 10. L'im magine deve ritrarre l'idea intera; e quindi bisogna
imma ginar l'opera innanzi di farla e che rispondano i par ticolari al lutto e
l'e - trinseco venga dall'intrinseco, e gli accessorj dal principale. 13.
Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti. 15. Relazione specificata
delle immagini co' segni. Armonie di verosimiglianza in generale. Argomento e
legge universale di corrispondenza e di con trapposto, e come si rifletta nelle
immagini dell'arte. 2. Questa legge apparisce nella qualità, quantità, tempo e
spa zio. 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura. 5. Esempj dell'éra
nostra, - 6. Drammatica e lirica 7. Figure di confronto ne'linguaggi. – 8.
Esempi del disegno e della musica. 9. Analogia del corporeo e dello spiritua le.
10. Loro diversità; – 11. e contrapposto nella na tura e nell'arte. 12.
Verosimile immaginoso, che differi sce dal reale, benchè gli somigli. 13.
Quello trascende. Poesia e architettura. 14. Scultura, pittura, musica, e arti
ausiliari. Com'accade ciò. Armonie con la natura corporea. 1. Argomento. Legge
naturale di simetria. 5. Vi sta e udito porgono immediati all'arte bella i
sensibili rap presentati, Il lalto remotamente, il gusto e l'odorato
indirettamente forniscono all'arte cose immaginabili, salvo la poesia ch'è
universale. Legge naturale di simetria
ne ' visibili aspetti, - 6. e ne' suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'arte
bella. 8. Simetria di quantità nel grado. Simetria di quantità nel numero de'
suoni, delle cose visibili. 11. Simetria naturale dello spazio. 12. Simetria
nell'arti, quanto a’limiti. 13. Simetria di limiti anche nell'unione di più
cose. Simetria di luo ghi. 15. Simetria di tempo misuratore, e di tempo rap
presentato. - Armonie con la natura spirituale. Gli affetti. Somiglianza loro;
3. varietà; 4. contrapposto. 5. Personificazione immaginosa dell'unmo, 6. e
della socievolezza; - 7. che dall'arti non prò mai scompagnarsi. - 8.
Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre modi. Materialismo non
può spiegarla. 11. Person i ſicazione immaginosa del soprannaturale; 12. presa
sostanzialmente da simboli e miti di credenze religiose; 13. ma trasformate dal.
l'estro. 14. La personificazione, ritraendo l'uomo, ac cenna lo stato degli
artisti e de' tempi loro. Grecia, Roma, Italia; suo scadimento; letterature straniere..
16. Anche nell' altre arti avviene lo stesso. Immaginazioni tragiche e comiche
Argomento. Può l'ottimo essere argomento del l'arte bella? 3. Può il pessimo? —
15. Immaginazioni tragiche e comiche. - 5. Quando mai nasce l'immagina zione
tragica più specialmente? 6. Quando la comica? 7. Condizioni dell'una, - 8. e
dell' altra. La morte immaginata nell'arte, 10. eidolori del senso, tragica
mente; comicamente. 12. Deformità fisiche nel rispetto tragico; 13. e nel
comico. - 14. Le mostruosità nell'un rispetto, · 15. e nell'altro, e come in
ciò facilmente si trasmodi. Ordine de' Segni. Stile. Argomento. 2. Nozione
generica dello stile. - 3. Nozione meno generica. - 4. Nozione determinata. 5.
Ne cessità di meditare lo stile. 6. Idem. 7. Ordine dello stile. Unità. - 8.
proprietà, evidenza, 9. vivezza, for. mosità. 10. verosimiglianza. Legge sua
universale. - 11. L'unione di dette qualità forma il decoro. 12. Esempio di
essa, - 13. Esempio del contrario. 14. La misura nello stile. 15. Sunto.
Armonia intrinseca dello stile e co ' propri segni.. 1. Argomento. - 2.Unità
del bello stile. 3. Si riscon tra nell'arte del dire; ne'proverbj e rispetti, ·
4. nelle sentenze, 5. nel periodo, 6. nell'armonia e nell'unione del discorso.
7. Si riscontra nell' arti del disegno; nel l'architettura, 8. ch'è un discorso
anch'essa; - 9. nella scultura e nella pittura, 10. simili pur esse al discorso;
- 11. e nella inusica; 12. che ha disegno perfetto, o unione d'armonia e di
melodia. - 13. Proprietà de' se gni; e come segni adoperino l'arte del dire, la
musica, 14. l'architettura, e l'arti figurative; 15. onde viene la proprietà
dello stile. 16. Conclusione. Armonia dello stile col pensiero.. 1. Argomento.
2. In che consiste l'evidenza. -3. Dee rispondere lo stile a integrità del
pensiero; 4. e a varietà d'argomenti; - 5. abbracciando l'universalità dell'
argo mento, proprio, 6. e distinguendolo, per poi bene com porlo. 7. Mancamento
d'arte o di volontà impedisce tal perfezione. 8. Vivezza di stile, o moto, 9.
nell'arte del dire, 10. nella pittura e scultura, 11. nell'archi tettor3, 12.
nella musica. 13, Formosità, - 14. anche nello stile grande, e nel sublime. 15.
Onde procede la deformità? 1Armonia dello stile con la natura..... 228 1.
Argomento. 2. Il bello stile corrisponde alla natura dell'artista e a quella
degli oggetti. 3. Non si possono separare le due relazioni senz'errore e
deformità. – 4. Avvi una parte relativa all'artista; 5. e una parte relativa
agli oggetti, e danno armonia. 6. La legge di corrispondenza e di contrapposto
ſa nascere le diverso specie del bello stile in quei gradi che l'ordine ha varj
nella natura. 7. Idem. 8. Nello stile tenue an prevalenza i simili, 9. Qua lità
principale di esso è la venusià. 10. Nello stile mez. zano han prevalenza i
diversi. 11. Qualità principale di esso
è la naluralezza, 12. Nello stile grande han preva lenza i contrarj. 13.
Qualità principale di esso è la pe regrinità Nello stile sublime han prevalenza
i contrapposli supremi. 15. Qualità principale di esso è l ' ammirabilità. Arti
del Bello speciali. Come si originarono le Arti speciali del Bello. 1. Argomento. — 2. Due generi supremi
dell'arte bella, cioè arti di suono e arti di prospettiva. 3. Arte de' suoni
parlati, e arte de' suoni armonizzati. 4. Arti prospettive di spazio, e arti
prospettive di figura. -- 5. Arti prospettive distinte in arti di spazio
imitato e di spazio naturale; in arti di figure imitate e di figure naturali.
6. Onde l'arti del disegno son distinte dall'arti di naturale amenità e dalla
mimica e danza, le quali sono arti secondarie. 7. Arti ansiliari dell'arti
principali e delle secondarie. 8. Diver sità di segni sensibili determinò
diversità del significato, quanto al mondo esteriore, 9. e quanto al mondo
interio. re. 10. Stato implicito dell'arti: poesia; 11. arti del disegno e
musica. 12. Poi si distinsero l'arti del Bello fra loro; e s'esamina per la
poesia, per l'architettura, 13. per l'arti figurative, 14. e per l'arte
musicale. Di stinzione di ogni specie in ispecie minori. 15. Conclu sione. 16.
L'arte bella fa quasi un mondo novello. Ordine fra l’ Arti speciali del Bello......
1. argomento. Criterio per giudicare i gradi dell'arti belle. 3. Segni
supremamente ideali della poesia. L'ordine loro è una invenzione distinta
dall'altra delle im magini. 5. Perfezione suprema de' significati poetici. 6 Ma
questa precedenza rende difficile al sommo il poetare buopo. 7. In che la
poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra, e perfezione ideale
del suo disegno. 9. Perfezione del suo significato. -- 10. In che cosa l'archi
tettura è vinta dall'altre due arti del disegno. 11. Pit tura e scultura;
disputa di quale fra loro primeggj, antica. - 12. S' esamina quanto a ' segni,
13. e quanto al signi ficato di queste arti. 14. Musica; in che sta un suo sin
golare pregio, 15. da cui procede la potenza musicale; benche in altro rispetto
la musica resti- superata. - Della Poesia Argomento; definizione della poesia.
-2. Come la poe sia somigli la filosofia. 3. Consentono tutti nel divario fra
considerare direttamente i sensibili esterni e il conside rarne l'altinenza con
l'anima. 4. Però l'idea che regola i poeti, si è l'idea dell'uomo interiore,
avvivata d'immagibi. Si riscontra ciò ne' sensibili esterni, comuni alla musica
e al segno e alla poesia; – 5, ne' sensibili esterni, propri solo alle
rappresentazioni poetiche; - 6. ne' sensibili inter ni, che la sola poesia può
prendere per oggetto immediato; - 7. e poi, nelle cose di pura intelligibilità.
8. Tanto è più alta la poesia, quanto più rende viva immagine del. l'uomo
interiore; - 9. e, inoltre, quanto più rende imma gine di ciò che l'uomo
dev'essere; 10. perchè il poeta tende alle più élette forme dell'anima; 11. e
indi cerca immaginativamente di risolvere in armonia le contraddizioni del
mondo; 12. come si riscontra ne' poeti veri del tempo antico e del nuovo, - 13.
e anche ne' poeti scettici, ov'essi han vera poesia; 14. talché, quest' arte
rappresenta in immagini l'universalità dell'intelletto. 15. E ogni ge nere
perciò di componimenti nell'arte del dire può parteci - pare di poesia. 16.
Conclusione.Le specie della Poesia. Argomento. Tre modi principali della poesia:
espositivo, 3. narrativo, - 4. dialogico. sia par talora non essere imitativa
nè inventiva, se cade in soggetto reale. 6. Si scioglie la difficoltà,
distinguendo al. lora il soggetto reale dalla rappresentazione immaginosa. 7.
Indi è varia l ' attinenza fra la poetica rappresentazione ed il soggetto. — 8.
Idem. – 9. Indi anco è vario lo stile figu rato nella poesia espositiva, 10. o
nella narrativa, - 11. o nella dialogica. 12. Anche il numero musicale dello
stile diversifica. 13. Idem. 14. Diversifica pure l'ori. gine de' tre modi
principali di poesia, l'espositivo prece dendo a tutti, 15. e poi al drammatico
il narrativo. • 16. Conclusione. 302 5. La poe Dell'idioma, 1. Argomento. - 2.
Lingua, in significato generale, è unità parlata della morale unità d'un popolo;
3. e che mai non manca di segni per cose antiche, 4. nè ha sino nimi perfetti.
5. Le Parlate. 6. I Dialetti. - 7. Le Lingue. 8. Scelta fra le tarlate. 9.
Scelta fra' Dialetti. 10. Distinzione d'una lingua da ogni altra lingua. 11.
Uso di lingua parlata, e uso di lingua scritta; 12. iden tici nell'essenza, e
in che diversi, 13. Come uso di buoni scrittori giova, 14. e come giova uso di
ben parlanti. 15. Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma. 10. Con clusione.
Arti del disegno. Pag 338. 1. Che cosa sono l'arti del disegno - 2. Il disegno
è fon damento alle tre arti particolari.. 3. Doppia significazione del vocabolo
disegno. -- 4. Ogni qualità sensibile de' corpi ha relazione con la lor forma;
5. e può risguardarsi per natura, e per l'arti del disegno, quasi accessoria. -
6. La forma ci palesa l'unità; 7. ch' esterna dipende dall ' in terno delle
cose, si per natura e si per arte. 8. Esempj di ciò; e in che dunque consiste
l'ordine ideato comune al l ' arti del disegno. – 9. Per acquistare il disegno,
ci oc corre abito astrallivo degli occhi, - 10. fantasia ferma e viva in
ritenere la linea pura, 11. e intelletto esercitato a distinguere, paragonare,
comprendere i contorni; 12. nè basta vedere, ma bisogna saper vedere o guardare;
13. e in ciò sta il cosi detto giudizio degli occhi. - 14. Come si faccia
l'esercizio nel disegnare. 15. Una regola princi. pale per l'arti secondarie. Architettura....
1. Che cosa è l'architettura. 2. Si originò dal convi. vere umano. - 3. Si
distinse dall'ingegneria per fine di bel lezza, 4. ritraendo l'immagine formosa
del consorzio umano, 5. Questa idea perció la rende inventiva; 6. e indi
l'architettura prende significato a ' suoi disegni, 7. e anche la loro unità;
8. ehe si palesa nelle proporzioni della massa, nel congiungimento delle linee,
9. e anche negli ornamenti. – 10. Com'espressione del consorzio uma no, quest'
arte abbraccia le altre arti del disegno; – 11. s' accorda co' luoghi abitati
dall ' uomo, e a sė li conforma; 12. imprime la bellezza sua nelle città
intere, - 13. nel l'intera patria d'una nazione, — 14. per ogni luogo di es sa;
15. e si distende a tutta la terra civile, com' efligie inica
dell'incivilimento. 16. Conclusione. S ulura. Che cosa è la scultura. - 2.
Principale soggetto al l'arti figurative si è l'aspetto umano. - 3. Più proprio
della scultura è la relazione de' lineamenti con la vita interiore, anziché
dell'uomo con la natura. -- 4. Indi all'arte sculto. ria il colorito e
accidentale, ec. - 5. Nè la scultura di tutto rilievo ha paesaggj, che
ristretti son' anche nel bassorilievo: - 6. è limitata nel figurare animali;
--- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8. Soggetto più proprio alla
scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si comprende la fisio. logica
e la fisica. 9. E perché si dica ciò della scultura piucchè della pittura,
distinguendo tra figura e forma. - 10. L'unità intera della immagine umana
comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le due arti nel nudo e
ne' panneggiamenti. 12. Limiti posti dal pudore. 13. Qual sia -dunque l'idea
esemplare dell'arte scultoria, 14. E come bisogni evitare ia essa, piucché
nella pittura, il freddo ed il generico;
-- 15. ma senza cascare nei vizj opposti, 16. Conclusione. Pittura.... Pag. 395
1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d' esemplare alle immagini ed
a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la natura esteriore, come
rilevasi dal colorito; 3. e perciò dalla figura colorata e dal prospetto aereo.
- 4. Magistero essenziale della pittura è il colorito; – 5. ma non
contraſfacendo i rilievi della scultura, 6. nè gareggiando con le cose reali
pe' colorie per gli splendori, 7. nė pe' se goi di vitalità; gareggiamento
impossibile, - 8. e dannoso; 9. bensi eleggendo que' segni che sveglino i
sentimenti nell'anima nostra, come le cose di natura sogliono. 10. La pittura è
visione di fantasia. 11. che splende in gen tilezze d' ornamenti, e in paesaggj.
12. e ne segni del con • versare umano, 13. e nell'unione verosimile di più
tempi e luoghi, 14. e nel simboleggiare affetti sovrammondani. 15. Conclusione.
16. Utilità di tutte l' arti del dia segno. Musica. Che cosa è la musica. 2.
Qual n'è l'idea regolatri ce. Relazione de' suoni col sentimento umano. 3.
Ragione anche fisiologica di tale attinenza. 4. E indi attinenza principale di
quest'arte con la voce umana. 5. Ma la relazione de' suoni col sentimento é
indefinita, 6. e però la musica può indefinitamente significare ogni affetto.
7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli af. fetti, 8. e viene
usata per significare più vivo l'esalta. mento comune alla poesia ed all' arti
del disegno. 9. Ciò apparisce altresi dal significato universale d'armonia. 10.
Però idea suprema e reggitrice della musica è, ch' essa renda immagine dell'
esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si determina nel concetto de'
componimenti varj. 11. onde nasce la musicale unità, – 12. e l'invenzione di
una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori sulla na. tura della
musica. Sensisti e Positivisti assoluti, - 15. Sen timentali, Aritmeticanti,
Retoricanti. 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra tutte l’ Arti del Bello... 434
1. Danni del separare l' Arti, e argomento. 2. Unità d' obbietto, di soggetto e
di potenza prevalente nell' Arti del Bello. 3. Perfezionamenti loro successivi,
e legge di que sta successione. - 4. Si risolve una difficoltà. 5. Prima si
perfezionò la poesia; 6. indi l'architettura; - 7. poi la scultura, e poi la
pittura; — 8. Apalmente la musica. 9. Aiuto che si porgono l'Arti; quale la
poesia? – 10. quale l'architettura, 11. l'arti figurative, - 12. la musica? 13.
Si conferma l'unità essenziale dell'Arti fra loro. -- 14. Ri torno del pensiero
alle cose ragionate; 15 e 16. indi con clusione generale. DIALETTICA. La
Filosofia e i Concetti universali. Idea della Filosofia. Che cosa è la
Filosofia? È scienza del pensiero, ma
del pensiero in atto di vita, e non soltanto delle leggi logiche astratte; e
però è Scienza della coscienza e dello spirito; Scienza degli oggetti
connaturali al pensiero, e però di Dio, dell'universo e dell'uomo; Scienza, per
tanto, delle somme cause, dell'ultime ragioni e de' primi prin cipj; Scienza,
poi, della conoscenza, della scienza e della verità. Perciò nell'idea di
relazione s ' appuntano i quesiti tutti della Filosofia; e ivi troviamo la sua
più alta verità. Talchè la Filosofia e Scienza di Dio, del mondo e del l'uomo
nell'ordine loro uoiversale; o, più breve, Scienza delle relazioni upiversali;
e siccome queste forman l' ordine, dunque altresì Scienza dell'ordine
universale. Come in ogni altra Scienza,
cosi nella Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'idea superiore. -
12. Questa è l'idea di relazione. - 13. Ciò richiede la tendenza e il bisogoo
de' postri tempi. – 14.Im portanza della Filosofia; danni d'una Filosofia
separativa. Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. La Verità.... 1.
Perché dobbiamo esaminare l'idea universale di verità. 2. La verità è sempre
entità conosciuta. – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto. - 4. Si procede
relazione in relazione. L'unità dell'oggetto conosciuto si comprende, si
distingue, 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi dissero che la verità
è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto da una parte sola,
e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errori metafisici; - 10. nello
Scet ticismo medesimo, e negli errori morali e delle Scienze fisiche. 11.
Sicchè l'errore confonde, separa, nega. 12. Jadi spieghiamo il progresso della
scienza e della civiltà, 13. o il regresso; 14. le invenzioni e le scoperte. –
15. esame dell'idea di verità ci mostra il costrutto semplice degli Univer sali,
presupposto da ogni conoscenza. - - L'Entità. Pag. 1. Si comincia dalla nozione
d'entità. — 2. Che cosa sono gli universali, - 3. Tre ordini d'universali: gli
analogici, 4. gli attributi metafisici, e le condizioni universali del creato.
- 5. L'uoiversale si è in ogni cosa e presentasi all'intelletto. - 6. L'idea d'
entità primeggia fra gli universali. La esami Darono gli Antichi, – 7. i Padri,
il Medioevo, e la Filosofia moderoa. 8. Non possono farne a meno anche gli
Scettici e i Soggettivisti. 9. Questa idea non può pegarsi. Ma esaminandola,
bisogna evitare tre difetti. - 11. Si tripartisce: idea dell'essere comunissimo,
- 12. idea d'essenza, - 13. idea d'esistenza; – 14. com' apparisce anche da'
linguaggi, 15. e dall'antica dottrina sull'essere e sulla possibilità, ch'è di
tre specie. - 16. Conclusione. L'Ordine dell'entità.... t. L'idea d'ordine si
distingue nell'idea di relazione, d'atto della relazione e di correlazione. 2.
Che cosa è la relazione? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3. Ogoi en tità è
un tutto di relazioni, benchè, quando si tratta di cosa fioita, non essenziali.
Ciò si rileva dal concetto d' essere, - 4. d'essenza e d'esistenza. – 5. La
relazione poi è, o intrinseca, - 6. od estrinseca (cioè ad intra, o ad extra ).
– 7. Ogni relazione si è atlo; anche le attineoze ideali o di ragione. - 8.
Conie si procedè per giungere a questa universalità dell'idea d'allo. Gli
Italioti, gl’lonici, Platone; 9. Aristotele; 10. i Padri, gli Scolastici, e il
Cartesio; 11. il Leiboitz e la Fisica nioderna. 12. Correlazioni. Unità e
triplicità in ogoi cosa. -- . Dottrine aptiche su ciò. - . Il Dogma cristiano
della Trinità. - 15. Le correlazioni spiegano la legge universale de' simili e
de' contrapposti, 16. Conclusione. l conoscimento dell'Ordine.. 1. Nel
conoscimento dell'ordine si distingue il Vero, il Bello ed il Buono, distinta
la triplice relazione della Verità col l'intelletto, benchè io significato
generalissimo ogoi relazione col nostro conoscimento sia Verità. 2.
L'universalità del Vero corrisponde ai gradi dell' essere; e come li notarono
già i Filosofi. - 3. Cose non animate; 4. cose animate; 5. gl'intelletti, ove
la presenza dell'entità è manifesta. 6. La verità è relazione dell'entità con
gl’intelletti, cioè intelligibi lità. Che cosa è la Bellezza, cioè
l'ammirabilitd, con trapposta al Vero. Suoi gradi, 8. ne' corpi non animati,
Degli animati e negl'intelletti. 9. Che cosa è il Bene, cioè l'amabilità. Suoi
gradi, — 10. ne' corpi, negli animali e nella mente, 11. Assioma che deriva
dall'esame degli universali, - 12. e loro convertibilità mutua; – 13. la quale
si manifesta nella scieoza, nell'arte e nella vita, perché il Buono conduce al
Vero ed al Bello, - 14. e il Bello conduce al Vero e al Buono. -15. Nell'esame
degli universali analogici abbiamo riscontrato le distinzioni già fatte dai
Filosofi antichi e recenti. - 16. Conclusione, e come il Bello morale sia
l'accordo del Vero, del Bello e del Buono. Attributi metafisici correlativi e
Idea di Dio. Pag. 101 1. Esamedegli attributi metafisici, al quale ci porta
l'esame degli universali analogici. — 2. Che cosa s'intende per attri buti
correlativi metafisici. 3. Idee di questi attributi, tro vate nell'idea
d'entitd; 4. trovate nell'idea d'ordine dela Ľentità; - 5. trovate nell'idea di
conoscimento dell'ordine. - 6. L'idee degli attributi metafisici correlativi, e
l'idea di Dio, non sono correlazioni astratte; - 7. nè limiti soggettivi; - 8.
nè un ideale soggettivo; 9. nè, d'altra parte, sigoi ficano che Dio sia il
grado supremo degli esseri; – 10. nè la parte o il tutto; 1. nè Pessenza o la
sostanza delle cose contingenti. – 12. La correlazione degli attributi
metafisici viene rappreseotata dall'idea del possibile fra l'idea d'Eote e
l'idea d'esistente, o dall'idea d ' indefinito fra quelle d'Infinito e di
finito. - 13. La correlazione stessa fu pure significata dal Gen tilesimo, 14.
da' simboli suoi più notevoli, 15. e dalla simbologia naturale. - 16.
Conclusione. Cap. VII. Idea di Creazione.... 1 1. Possibilità razionale della
creazione. - 2. Vi ha nel pensiero umano questa idea dell'atto creativo, cioè
di Causa prima. — 3. L'idea di causa si distingue dall'idea di sostanza; 4. e
si riferisce ad un che, il quale comincia dal nulla quanto all'esistenza,
benchè non quanto alla potenza; 5. si riferisce, poi, ad un termine distinto
essenzialmente dalla cau sa, o ad extra. - 6. Più vera e più potente fra tutte
le cagioni è l'intellettiva. 7. La Causa creatrice si distingue dalle cause
naturali, perchè alla totalità delle cose preesiste la pos 8. perchè il
soggetto, cioè la sostanza, si produce ad estra; 9. e perchè avvi efficienza
intellettuale assoluta: - 10. opde la Causa creatrice fu chiamata Verbo ia
tutte le Tradizioni sacre, e il mondo è arte di Dio; -11. la quale produce una
somigliaoza divina nell'universo, mentre Dio non somiglia i finiti e li
trascende. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di creazione nascono dalla
fantasia, - 13. e dallo sdegoare il mistero, comune ad ogni causalita; 14.
sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo nell'età de' Padri e
de' Dottori, 15. e dell'età della Riforma e del Rinnovamento. - 16. L'idea di
creazione ba tanta importanza, sibilità pura; - perchè risguarda la Causa
universale. CAP. VIII. Idee relative all'Entità della Natura....... 143 1.
Argomento; le condizioni dell' entità: Prima condizione della natura, per
l'essere suo, il quanto; 2. che si distia. gue nell'unità, 3. nel numero 4. (che
non può essere infinito), 5. e pella unione delle unità. 6. Condizione seconda
per l'essenza, il quale; - 7. che si distingue nella varietà, 8. nella
contrarietà, 9. e nella somiglianza;. 10. più notevoli dove la oatura è più
alta. - 11. Terza condizione per l'esistenza, il quando; 12. che si distingue
nel momento, -13. nella successione, - 14. e nella durata; - 15. non
predicabili dell' Eternità. 16. Conclusione. il pine. - Idee relative
all'Ordine della Natura....... Pag. 1. L'ordine della natura viene dall'
attinenza della crea zione, 2. La relazione delle cose create ci dà la
dipendenza, o derivazione; 3. ossia la sostanza, - 4. la causa, 5. e l'essenza
reale. - 6. L'Atto delle cose ci dà il come (quomodo); – 7. ossia il principio,
8. il mezzo, 9. e 10. Le correlazioni delle cose ci dàono il dove, che può
essere correlazione ancointellettiva, 11, e correle zione materiale; - 12.
ossia il punto, - 13. Y estensione particolare, 14. e lo spazio, 15, che non
può essere infinito, ma è nell'infinito; 16. e il sublime si origina da cið.
Cap. X. Condizioni naturali del conoscimento...... 1. Criterio della conoscenza;
ove si riscontrado: l'oggetto ideale, – 3.6. l'idea, - 4. che ci fa conoscere
il si mile per ilsimile, 5. (onde si spiega la formazione dell'idee universali,
e la conoscenza delle cose esteriori, 6. di noi stessi, degli altri uomini, -
7. e di Dio), - 8. c. il senti mento, in relazione del quale ogoi cosa dicesi
un fatto, ed esso medesimo ha questo pome. 9. Forma del bellezza; - 10. e qui
si riscontrano: la cosa formata, 11. l'idea esem plare, 12. e il gusto. - 13.
Legge del bene, ove si ri scontra il bene oggettivo, - 14. la felicità, - 15. e
l'utilitd. - 16. Conclusione. Divisione della Filosofia e Arte dialettica. L'Enciclopedia....
1. Per determinare i quesiti della Filosofia, bisogna ve. dere le sue parti e
l'Enciclopedia o l'albero del sapere umano, Ordine di formazione, ordine di
logica dipendenza. Criterio armonicamente oggettivo e soggettivo per trovare la
distiozione dello scibile e l'ordinamento suo. Quattro classi di conoscenze:
onde vengono la Teologia positiva, la Filosofia, le Matematiche e la Fisica. 6.
Parti della Fi losofia universale. - 7. Filosofie particolari e applicate. 8.
Matematica. - 9. Fisica. - 10. Storia sacra, umana, na turale. – 11. Arti
filosofiche, matematicofisiche e storiche. 12. Tradizione perenne dell'
Eociclopedia. – 13. Errori che la guastano. Pericolo dell'Enciclopedie a
dizionario, le quali spezzano la continuità del sapere. - 15. Divisione della
Filosofia in tre parti: la Dialettica, l' Estetica e la Morale. - 16.
Conclusione. La Dialettica. Che cosa è la Dialettica. È quasi un dialogo.
Esemplare unico dell'Arte logica è la natura, -se no e s'op v'è ignoranza. L'Arte
logica è osservazione di natura, - 6. se oo avvi leggerezza, impazienza e
preoccupazione appas sionata. È imitazione di natura, 8. se no avvi artifi cio.
– 9. È inveozione ordinativa, pop oggettiva, - 10. se no avvi l'assurdo. - 14.
È per fine di verità, - 12. se no si confondono l ' arti, che per altro s'
accordano e s ' aiutano. 13. La Verità, com'oggetto dell'Arte logica, viene
deter minata dalle operazioni di questa, - 14. e però è ordine d'en tità
ripensato, 15. ragionato, — 16. e significato. La Critica interiore vera e la
falsa........ Pag. 251 1. La Critica suppose un Criterio, che paturale cono
scenza porge alla riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dal
bisogno di cercar l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nelle
cognizioni la parte oggettiva e la soggettiva; - 3. e però è antichissima;
benchè a questa si contrapponesse Ja Critica eccessiva. 4. Esempj dell'una e
dell'altra nel Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non si
può; e questa è critica smodata, o fuori di natura. 6. La riflessione
filosofica deve cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbio
metodico. 7. Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza; pone,
qualunque sia l'intenzione de' Critici, alla virtù; 9. è causa di desolazione,
- 10. o di misera indifferenza. 11. Jovece per la Critica razionale s' afferma
il oaturale co noscimento, 12. la forma di questo e la materia; 15. cioè la
forma naturale in relazione con gli oggetti, e la realtà degli oggetti stessi,
che costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero. · 15.
Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal Criticismo.
Cap. XIV. Verità connaturali al pensiero umano. 272 1. Tre requisiti delle
verità connaturali. – 2. Esistenza di noi stessi. - 5. Errore del Kant e de'
Positivisti, - 4. e loro confutazione. 5. Si riscontrano i requisiti della
conoscenza naturale nella coscienza di noi stessi. – 6. Notizia del mondo
esteriore, – 7. e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e de Positivisti, 9.
e loro confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza naturale si trovano
nella notizia del mondo. 11. Idea di Dio. - 12. Opinione del Kapt e de'
Positivisti. 13. Confutazione, 14. Si riscontrano nell'idea di Dio gli stessi
requisiti o spontaneità, - 15.inconvertibililà e insepa rabilità. Da queste
notizie di noi, del mondo e di Dio risulta la sostanziale totalità della
coscienza. 16. La Filosofia non può disconoscere questa materia del pensiero e
della scienza. Armonia tra le forme della conoscenza e le cose. 294 1. Che cosa
è la forma. – 2. L'armonia tra le forme del conoscimento e gli oggetti, onde
provenga. 3. Apparenza sensibile, - 4. corrispondente agli oggetti percepiti; –
5. e quindi si fece da Galileo e poi dagli altri la distinzione fra le qualità
primarie de' corpi e le secondarie; - 6. talchè verifi chiamo che l'apparenze
sensibili son segoi reali, realmente vera. - . corrispondenti alla realtà delle
cose. -7. Aoche le apparenze, che dano'occasione d'inganno, procedono da leggi
di natura. - 8. La vista ci dà i segoi apparenti delle distanze. – 9. For me
intellettuali, corrispondenti all'entità e verità delle cose, ue' concetti, -
10. ne giudizi, -11. e oei raziocioj. 12. Armonia tra il conoscimento di ciò
ch'è o avviene deotro di noi, e il conoscimento di ciò ch'è fuori di noi: per i
segoi del l'anima del corpo; – 13. per l'analogie fra l'anima l'uoj verso; -
14. per l'intendimento delle qualità e delle condi zioni d'ogoi cosa esterna; e
per la conoscenza di Dio. 16. Conclusione. Principj armonici della ragione...
Pag. 318 1. Che sono i principj universali della ragione. — 2. Na scono dalle
idee universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima classe, corrispondente agli
universali analogici. Per l'entitd si distinguono più principj, riflettendo all
' idee d' essere, 4. e all' idee d'essenza e d'esistenza. 5. Per l'ordine del
l'entità, si distinguono, riflettendo all'idee di relazione, 6. di atto della
relazione e di correlazione. - 7. Per il cono. scimento dell'ordine, si
distinguono, riflettendo all' idee del Vero, – 8. del Bello e del Buono. – 9.
Seconda classe, cor rispondente agli attributi metafisici correlativi. – 10.
Terza classe, corrispondente alle universali condizioni della Datora fioita. Si
hanno: Per l'entità di questa, i priocipj di quantild, di qualità e di tempo;
11. per l'ordine della natura, i principj di derivazione o dipendenza, - 12. di
modalità e di confinazione o del dove; – 13. per il conoscimento dell'or dine,
com ' esso è negl' intelletti creati, i principj che risguar dano il criterio
della verità, la forma della bellezza e la regola del bene. In che stia
l'utilità de' principj uni versali. Due opinioni estreme ed erronee: l' una che
li Dega, l'altra che li reputa generativi di tutto il conoscimento. - 16.
Conclusione. L'Osservazione...... 340 1. Materie da trattarsi. — 2. Atteozione.
- 3. Osservazio ne. – 4. Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle verità d'espe
rienza esteriore, cosi per Arte logica naturale, 6. come scientificamente. 7.
Si verifica delle verità di esperieoza interiore, cosi per suggerimento di
natura, 8. come per la Scienza. 9. Si verifica delle verità intellettuali pure,
10. cioè negli universali della Metafisica e delle Matematiche. 11. Si verifica
nelle conoscenze ricevute dall'autorità, 12. e ipdi vien la Critica, 13. Lo
stesso aodamiento si vede nel procedimento storico delle Scienze. -44. Idem,-15.
Anche nel procedimento della Letteratura. 16. E anche nell'Arte pedagogica.
Metodo che imita la Natura...... 1. Che cosa è l'imitazione dialettica: parte
sostanziale del metodo. 2. Sintesi primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 541 -
secondaria. 5. Legge dialettica. 6. Il metodo allora è quasi un contrappuoto
musicale. -7. Però non può essere nè solameote analitico, nè solamente
sintetico. 8. Difetti del Puno e dell'altro, - 9. Il metodo compreosivo gli
uoisce. 10. Contrarie inclioazioni di ogni età verso l'analisi eccessiva o la
sintesi eccessiva. 11. Esempio del Gioberti. - 12. Il vero metodo è
propriamente dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle Scienze; 14. nell'
Arti del Bello, - 15. e nel ” Arti del vivere civile.. 16. Conclusione. L'invenzione
dialettica..... Pag. 381 1. Che cosa è l'invenzione scientifica, o che cosa è
la Scienza com'ordine meditato di conosceoze, - 2. Si comincia dalla
comprensione dell'oggetto per una definizione nominale; - 3. poi si viene
all'analisi con la divisione, – 4. con la tési e con l ' antitesi, con la prova
dall'assurdo, e con l'elimina zione; - 5. fochè si giunge alla definizione
dialettica, che può essere o intrinseca o per via disole relazioni. Poscia,
passando alla sintesi, abbiamo l'ordine induttivo e il dedatti 7. Tutto questo
mirabile ordinamento è una ricerca delle ragioni, e uno spiegare per esse; oode
gli Antichi dis. sero che saper vero è un sapere per le cagioni; - 8. cioè per
principj; - 9. e questo s'avveranella teorica degli universali, - 10. e nella
Scienza dell'uomo, dell'universo e di Dio; s'avvera nelle Scieoze civili e
storiche; Delle Matematiche, e nella Fisica. Indi si spiega l'invenzione degli
stromenti e delle macchine; 15. come altresi la ipotesi e l'intuizione
dottrinale. 16. Supto. vo. – IL FINE DELL’ARTE DIALETTICA. Argomento. Connessione logica. Che stato der
essere quello di chi cerca la verità, e DIFETTI CHE BISOGNA EVITARE. Si può
errare io ciò per leggerezza, o per una
preoccupazione. CHIAREZZA e difetti da evitarsi. Errori che procedopo da
leggerezza, e da preoccupazione,
prendendo per chiaro ciò che non è. Certezza; e difetti evitabili; badando
anche ip ciò di non errare per leggerezza d' assensi e per qual che
preoccupazione, stimando che sia certo l'incerto, e vice Connessione, chiarezza,
certezza, non possono realmente trovarsi che pella verità. Si concbiude: che
fine d'ogoi Scienza, e perciò anche della Filosofia, non è di dare a noi, quasi
mancanti d'ogni ragionevole conoscenza, un primo conoscimento della verità, si
l' ordine riflesso della co gosceoza e della verità: e poi, che L’ARTE
DIALETTICA È ALTRESÌ UN ABITO MORALE; e ancora, che L’ABITO DEL PARLARE meditato giova molto all'ordine del pensare
RAGIONATO E RETTO versa.. I Criterj della Verità o Leggi universali della
Dialettica. L'Evidenza, o il Criterio della Verità. Argomento, e qual sia il
disegno della Dialettica, e qual ragione v'abbia di trattare qui de Criterj; e
dottrina loro semplicissima. Il Criterio è uoa regola, perch'è un segno della
verità in relazione con l'intelletto. Non può negar si, fuorchè negando la
conoscenza; non può travisarsi, fuorchè da' sistemi sostanzialmente falsi; e vi
ha una dottrina costante sulla natura del Criterio. Il Criterio è un segno
apparte nente all'ordine della verità, ed è universale. II Criterio, perciò, è
l ' evidenza dell' ordine di verild; è quindi uno e moltiplice, ossia è un
ordine di Criterj; perch'è l' evidenza dell'ordine di verild in sè stesso, e
ne' suoi contrassegni universali; cioè coutrassegni d'amore e di fede, perchè
l'ordine della verità corrisponde all'ordine della nalura umana. Il Criterio
vale altresi nelle cognizioni anteriori alla Scienza, 10. nè la Scienza può
disco noscerlo. 14. Nella Scienza, poi, l'evidenza precede il ragionamento,
l'accompagna, e lo compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterio
naturale si converte in evi deoza scientifica; non già perchè si comioci dal
dubbio; anzi non può cominciarsi da esso, perch'è un riconoscimento. – 13.
Criterio della Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale;. 14.senza di che
quella è fuor di natura. - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'un
ordine particolare; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficio
indiretto e più ristretto. L'evidenza del Teismo, come di verità ordinatrice o
di Criterio supremo.... 1. Perchè la verità di Dio creatore sia Criterio
compren sivo alla riflessione. 2. La Scienza de' limiti è scienza ne cessaria;
e il Teismo ci avverte de' nostri limiti. 3. Questi sono la natura stessa
dell'intelletto e delle cose. 4. Soprin telligibile, soprannaturale, 5.
intelligibile: 6. la verità di creazione fa serbare questi limiti, e spiega il
perchè del sovrintelligibile divino, –7. del sovriptelligibile naturale, 8. e
ci rende liberi e sicuri nello studio delle cose intelligibili, che sono
inesauste a mente umana. - 9. Quindi essa rende soddisfatto qualunque bisogno
dell'uomo, e ordina le Scienze che si riferiscono a' bisogoi stessi. Teologia
positiva, - 10. Filosofia, Matematica, — 11. Fisica, 12. Filosofia della Sto
ria, Filologia e Critica. Quel Criterio spiega la legge del progresso in
Filosofia e il regresso sofistico. – 14. I siste mi, opposti alla verità di
creazione, ristringono la conoscenza riflessa, 15. e poi l'apoientano. - 16.
Conclusione. Sistemi opposti al Criterio della Verità, e pri mieramente il
Panteismo.... Pag. 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo, e pro
posito di affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale, 4. pitagorico, -
5. eleatico ed ionico; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici, - 7. che
difendevano il Paganesimo; 8. de' Reali nel medioevo, – 9. e dell'altre Sètte;
- 10. del Bruno e del Campanella 11. (sterili, se paragonati al Car tesio ed a
Galileo ), · 12. dello Spinosa (non paragonabile alla fecondità del Leiboitz),
- 13. de' Panteisti tedeschi, 14. e de' loro discepoli. 15. Verità grandi, che
balenano dal Panteismo; 16. il quale, bensì, le travisa, e però nega i fatti
più sublimi della coscienza. II Dualismo. 493 1. Argomento. - 2. Io che il
Dualismo è peggio, e in che meglio del Panteismo? 5. Dualismo fra gl' Indiani.
4. D'Anassagora, - 5. di Platone, -d'Aristotele, 7. degli Stoici. - 8. Dualismo
tra certi Filosofi maomettani. 9. Dualismo nella Cristianità del medioevo; 10.
e come le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori scola stici;
- 14. talchè se n'occasionava, ne' tempi della Riforma, up Dualismo nuovo, non
antiteistico, macosmologico e antro pologico. Cartesio; – 15. ed effetti delsuo
Dualismo, segnatamente nel Malebranche, - 14. e nel Leibojtz; 15. o anche
nell'Idealismo, nel Sensismo e nello Scetticismo poste riori. 16. Il Dualismo
riduce i contrarj a contradittorj, - talchè rompe ogoi armonia. L ' Idealismo e
il Sensismo.... 515 1. Differenza fra l ' Idealismo e il Sensismo. 2. Cenno
storico di questi sistemi. – 3. Io che propriamente consiste l ' Idealismo (e
sbaglio d' alcuni moderni), e paragone con gli effetti del Sensismo. - 4. Vizio
principale degl ' Idealisti. 5. Nel Sensismo la coscienza umana non riconosce
sè stessa; 6. non l'intelletto, essenzialmente diverso dal senso; - 7. non - 8.
non l'idealità; 9. non la riflessione sopra di noi; 10. non la religiosità; 11.
non la certezza nella cogoizione de' corpi; 12. non la Filosofia; si solamente
la Fisica, - 13. ma falsata e con metodi non suoi. - 14. E sono alterate anco
le Matematiche, - 15. com' altresi la Sto ria. - 16. Sunto. Lo
Scetticismo. Argomento. 2. Scetticismo nell'Asia e fra gl ' Italo greci; - 3.
nell'età Socratica e del medioevo; 4. nell'età moderna. – 5. Eclettici e
Mistici, che non riparano allo Scet ticismo, dacchè gli concedono di partire
dal dubbio. – 6. Idea Jismo scettico e Sepsismo scettico. 7. Razionalismo, 8. e
Positivismo; – 9. e quindi Scetticismo metafisico, antimetafisico, - 11. che
bensi trova la Metafisica per tutto. – 12. Come la natura repugoi dallo
Scetticismo. 13. Con seguenze principali di questo. Desolazionee scherno. - 14.
Dif ficoltà pelle controversie, o Dommatismo scettico; abito di giudicare de'
fatti umani da sole circostanze esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla il
pensiero. 10. e 15. e L'Amore della Verità... 22 4. Che cosa è nell'ordine suo
pieno il Criterio? Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenza
della Verità. 2. Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la cono
scenza è affetto. -- 4. Bisogna secondare con la libera riflessione il naturale
affetto. 5. Come l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento,
l'accompagni e lo assicuri, e perciò bi sogna guardare a quell'impulso, 6. a
quella compagnia e a quel riposo; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali, che
di visero l'affetto dall'evideoza; 8. quanto gli Astratteggian ti, che separarono
l'evidenza dall'affetto. 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle Matematiche ed
io Fisica. - 10. Ufficio di quello in Filosofia, il quale altresì ci mostra gli
affetti con naturali, che corrispondono agli oggetti della Filosofia stessa; -
11. cioè l'amore di noi medesimi e degli altri uomioi, 12. l'ammirazione
affettuosa per l'ordine della natura 13. e gli affetti religiosi. – 14. Quello
è anche Criterio degli Studj critici, storici e teologici. – 15. Nelle passioni
l'affetto patu rale può facilmente riconoscersi. – 16. Per l'affetto la scienza
si converte in sapienza. salità; Il Senso Comune... Pag. 1. Quando la parola
serve di Criterio? - 2. Che cosa è il Seoso Comune? Due sigoificati di esso, -
5. dal separare i quali vennero due opinioni false, · 4. Limiti del Senso Co
mune:. 5. i principj, 6. le immediate percezioni, 7. e le immediate conclusioni.
8. Ufficio diretto e generale del Senso Comune in Filosofia; non cosi
nell'altre Scienze, 9. fuorchè dov'esse s' uniscono alla Filosofia stessa. -
10. Obie zioni sull'esistenza del Senso Comune, per la contrarietà delle
opinioni. Obiezioni contro la testimonianza de' Lioguagej al Senso Comune, per
la supposta indifferenza de' vocaboli al si e al no; – 12. per il materiale
significato primitivo di parole che ricevevano poi un sigoificato spirituale.
13. Obiczioni sulla ragionevolezza d'usare il Senso Comune a Criterio, qua
sichè questo sia credenza, non evidenza; - 14. quasichè vo gliamo reputarlo sapienza
o scienza; 15. quasichè occor resse interrogare tutti gli uomini.. 16. Sunto, e
necessità di ricondurre le Scienze alla natura, come le Arti del Bello.
Tradizioni e progressi nelle Scienze... 1. Criterio delle Tradizioni
scientifiche. 2. Due siguifi. cati del vocabolo Scienza. – 3. Dobbiamo
verificare l'univer 4. distinguendo i principj, i teoremi, i problemi, e gli
errori. 5. L'unità del consentimento non toglie la libera varietà. -6.
Consentimento e progresso pe' principj e ne' teo remi, -7. e ne' problemi. – 8.
Le Sètte son dimezzatrici della Verità; 99.. eppure confermano i teoremi, 10. e
son’oc casione di progresso, mostrando i mancamenti della Filosofia, 11.
perfezionandone la forma, 12. e alcune dottrine particolari, - 13. e le loro
conseguenze nelle dottrine de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false: cioè
i sosteoitori della sola evidenza privata; – 15. e i sostenitori del solo
criterio storico. - 16. Conclusione. Relazioni fra le Scienze e la Religione.....
1. L'argomento, che ora si tratta, è Glosofico di sua na tura, – 2. Due
significati della parola Religione. - 5. S'esclu de: che la Filosofia debba
ricevere l'autorità senz' uo motivo evidente di ragione; – 4. che, per l'esame,
debba sospendersi la Fede; 5. che l'autorità del verbo religioso sia un Crite
rio diretto per ogni Scienza; - 6. che la Filosofia debba en trar pe' Misteri,
o la Teologia nel ragionamento filosofico; – 7. che sia lo stesso metodo e lo
stesso fioe a’ Filosofi e a' Teologi. - 8. Nel fatto, l'efficacia delle
Religioni è universale sopra i sistemi filosofici; 9. e sempre la Religione s’
è reputata upa Fede; 10. Criterio è poi, se corrisponde alla coscienza; 11.
talchè sia un'evidenza e una credenza, cioè una credenza evidente. · 12. Fa
quasi specchio all' uomo interiore, - 15. che riconosce l'integrità dell'essere
suo io quella. 14. Gra vissimo errore del negare validità razionale lenza non
filosofica. 15. Il Criterio religioso sublima l'animo e lo ràs. serena,
porgendo così le due condizioni necessarie d'ogni me. ditazione più alta. 16.
Sunto. Leggi speciali della Dialettica. oi. - - Dell'Ordine, come suprema Legge
razionale. Legge suprema razionale.
Leggi concrete o datu rali, Legge soprema è l'ordine. Unione de' termi.
Cercare questa unione, rispetto agli oggetti, pelle operazioni, cosi dell'Arte
bella e dell' Arte buona, come dell'Arte dialettica. Cercare la somiglianza de'
ter mioi, – le loro differenze, e le
loro contrarietà, escludendo i contradittorj. Ksempio tolto dalla teo rica de'
Criterj. Errore, deformità, male, sono disor dini. Ogni errore non altro è, che
da una parte soltanto risguar dare la verità, segregandola dal resto che le
appartiene, e senza cui non è più verità. - Gli errori e il male cadono d'ec
cesso jo eccesso. Meraviglie della ragione umana, che imita l'ordine della
natura interiore ed esteriore. Coo clusione. Ordine dell'idee Ripensamento
dell'idee. L'idea, del suo valore intimo, è sempre vera; quantuoque altresi per
idea s’in. tenda lutto ciò che con la riflessione s'afferma e nega; e allora
l'idea può essere falsa. Bisogna esaminare il positivo del l'idee; nè può darsi
un'idea negativa per sè medesima. 6. Poi bisogna esaminare l'ordine dell'idee
con gli oggetti, e come non possiamo pegar l'idea d’un oggetto, se igooriamo la
sua intima essenza, nè possiamo negare l'idea d'un fatto, se ignoriamo il
comeavviene il fatto, ec.; e bisogoa esa minare qual sia la natura dell'oggetto,
coocepita per mezzo dell' idee. - 8. Idee a priori e a posteriori? L'idee hanno
fra loro uo ordine cbe va riconosciuto; 10. talcbè, riflettendo a quello, si
formano idee distinle, adequale, chia -A1. e ci leviamo all'idea perfetta.
Bisogna, in line, ch' esaminiamo la forma concettuale dell'idee, 13. la loro
estensione e comprensione, 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la quale
l'idea è un esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non può
intendere alcuni fatti maravigliosi della patura umana. Ordine della Memoria..
1. Argomento.La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee. 3.
Associazione dell'idee. 4. Come possono in unità raccogliersi le varie
associazioni, notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende al
richiamo de' fantasmi e de'segoi. - 6. E anzi, abbraccia tutte le facoltà,
concorrenti nella Memoria, 7. e unità naturale del. 8. e l'unità morale del
genere umano. — 9. Que st' ordine, ch'è legge della Memoria, diviene regola. È
neces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re,
dell' idee, molte cose. ſaomo, - considerare la coonessione dell'idee e i segni
seosibili per facil. mente richiamarle. - 11. Inoltre, acquistar l'abito della
ri flessione sull'ordine de' giudizj e de' raciocinj, per il pronto discorso
scientifico. 12. Singolarmente quell'abito è neces sario per la Memoria delle
parole. 15. Tadi procede la pa dronanza dell'esporre. 14. Per l'uoità
coosapevole interna, occorre rammemorare il nostro passato. 15. Per unità
morale del genere umano poi, occorre la Tradizione, ch'è me moria. – 16.
Conclusione. Ordine de' giudizj.. Pag. 166 4. Argomento. 2. Co.ne dall'idee si
svolgono i giudizj; - 3. onde i giudizj possibili sono distinti da’ formati o
reali. - 4. Categorie, 5. oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questa
dottrina. - 7. Categorie oggettive, o se condo gli Universali; 8. Categorie
soggettive: 9. I. quanto alla forma concettuale dell'idee, giudizj universali,
ge nerali, particolari, singolari; - 10. II. quanto alle relazioni fra l'idee,
categorici, ipotetici, disgiuntivi, 11. problema tici, assertori, apodittici, -
12. diretti e comparativi, astratti e concreti, a priori e a posteriori, - 13.
analitici e sintetici; - 44.III. quanto alla forma de'giudizj, affermativi,
negativi, limitativi; 15. IV. quanto alla relazione di più giudizj,
equipollenti, convertibili, contradittorj, contrarj e subcontrarj. 16.
Conclusione; e come sia necessario, giudicando, solle varsi all'idea distinta,
chiara, adequata, e quindi perfetta, di ciò che meditiamo. Ordine del ragionamento..
186 1. Argomento. Regole. • 2. Legge dialettica. Idea media; e come il
raziocinio sia un giudizio complesso che si scioglie in tre giudizj. – 4.
Priocipio formale del raziocinio. - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzione
dal simile al diverso. – 7. Induzione dal diverso al simile. - 8. La diffe
reoza tra il ragionamento deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere? —
9. Qual'è duoque la differenza del ragiona mento deduttivo, 10. e
dell'induttivo? -Da essa viene la regola. 12. E, per opposto, dal violarla
vengono i sofi - 13. e si vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non deve
mai separarsi la 'regala formale dalla materia del ragionamento; - 16. oè la
materia di questo dall'ordine suo. C.: P. Utilità del ragionamento. 206 1.
Argomento. 2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto? 5. Che
cosa troviamo di nuovo per via del ragionamento? 4. Deduzione; 5. in Fisica, in
Ma. tematica applicata; – 6. altre scoperte, – 7. per equipollen za,
conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate.
– 9. Induzione, é sua certezza. --40. Induzioni fisiche. 11. Analogia. 12.
Ipotesi. – 13. In duzione metafisica. – 14. Due erroriopposti: l'uso di coloro
che immaginano la deduzione quasi generazione; 15. l'al tro di coloro che
negano il dedurre. 16. Conclusione. smi;
Unione e varietà de'Metodi. Argomento. 2. La verità, com ' ordine
conosciuto, si trasforma in Metodo: può vedersi dalla Storia della filosolia,
3. e delle Scienze fisiche; 4. talchè vana è la disputa se preceda l'importanza
de'Metodi o de principj; - 5. e quindi ancora si vede che il Metodo risguarda
il soggello e l'oggello, e ch'è psicologico ed ontologico insieme, 6. cioè
critico. - 7. Faria il Metodo; ma neile varietà c'è leggi comuoi. 8. Le varietà
poi derivano dalla natura dell'argomento, 9. taotoché riesce assurdo il
coofondere tra loro i Metodi; 10. e vba Scienze deduttive, 11. induttive,. 12,
miste; 13. più sintetiche, o più analitiche. 14. I Metodi, variando secondo la
varietà delle cose, diversificano pure secondo la mente di chi pensa la verità,
15. e secondo la mente di co loro, a cui la verità s ' espone. 16. Sunto. Abiti
necessarj al ragionamento Metodo è abito, e richiede: abito di virtù, abito
intellettuale che disponga l'intelletto all'Arte ragionativa, e abito
dell'Arte. Abito morale, cioè amore della Verità. Bisogna essere preoccupati
solo da questo amore; unito alle virtù morali, e come dagli abiti viziosi
opposti s' of feoda il ragionaiento buono. Abito intellettuale del rac
coglimento, donde nasce il diletto della meditazione, e che porta con sè
l'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle dottrine, e di ordinare i
proprj studj. Abito intellettuale dell'Arte, cioè il possesso delle regole. 41.
e dell'ordine loro; 12 donde procede la necessità di tre atti razionali
abitualmente, cioè l'esame del pensiero del principio de' ragionamenti, a mezzo
e io fine; 13. il quale ultimo è importantissimo; 14. e indi viene il possesso
della ragione; 15. acquistato piucchè mai dall'esercizio della pewna e della
disputa; 16. purchè questa sia conveniente. L’ESPOSIZIONE. Iinportanza
dell'argomento, Ufbej della PAROLA: interno e SOCIALE. LA PAROLA s’unisce
strettamente al pensiero, ma non lo costituisce; bensi lo determina. Non
bastano i fantasmi, ma ci vuole IL SEGNO dell'idea, tanto più che IL DISCORSO
esterno aiuta con la successione sua la riflessione discorsiva. LEGGE
DELL’ESPOSIZIONE si è la legge dialettica; ossia determinare con la lingua
l'ordine del pensiero; il che apparisce anche da' nomi che si dànoo a'termio i
della proposizione e del raziocinio, e al congiungimento de' termini; e poi, la
bellezza dello stile dottrinale accorda il Vero col Buono. Regola perciò è:
determinare coll'ORDINE DELLA PAROLA l'ordine del pensiero; in conformità
dell'idee e dell'idioma, donde si traggono le regole tutte grammaticali, e dello stile. Quindi è impossibile separare
la bellezza dell ' Esposizione dalla profondità e dall'ordine del pensiero. Se
non determiniamo con le parole il proprio concetto, in conformità dell'intimo
legame fra i concetti, e in conformità del linguaggic, vengono gravi errori. L’INTERPRETAZIONE
E L’IMPLICATURA (“He hasn’t been to prison yet”). L'Interpretazione. Argomento.
In quante maniere debba determinarsi l'ordine del pensiero ALTRUI altrui.
Relazioni del DISCORSO con la lingua; e perciò la sappia, chi vuolesser critico;
tutti sapere ogni liogua, non si può pè giova; e allora valersi degl'interpreti
migliori. Relazioni del DISCORSO con la mente ALTRUI; e perciò stare al senso
letterale, quanto si puo; oon interpretare alla leggiera né cop troppo di SOTTIGLIEZZA,
non alterare né i difetti né i prenj; badare AI FINI che il testimone o lo
scrittore SI PROPONEVA – “what he meant, not what he means!” -- Relazioni del DISCORSO
con l' animo ALTRUI; e pero guardare alla capacità e alla veracità con
argomenti intrinseci ed estrioseci;: nè la capacità negare, preoccupati da
un'idea; nè, per la veracità, eccedere ne' due vizj opposti d'una Critica
adulatrice o caluoniatrice. Relazioni con la Società umana; e però con
l'incivilimento, con la Religione, con l
' uniune delle prove. Sunto, Metodi secondo le varie Discipline. Metodi speciali. Perchè i Metodi si
distinguono secoudo le Discipline varie?
Quanti sono i Metodi speciali, che procedono dalla relazione varia degli
oggetti con la mente? Ogni errore sostanziale di Metodo procede da un errore su
detta relazione. Gli errori de' sistemi sul Metodo, esaminati, rendono
testimonianza tutti insieme alla vera dottrina. La distinzione de' Metodi è
necessaria pell'Arte del Vero, come si distinguono l'Aiti speciali nell'Arte
del Bello; e chi oega la differenza de'
Metodi, pega implicitamente esplicitamente una qualche verità; come nell'Arti
Belle, 8. cosi nell'Arte dialettica. 9. Connessione de' Metodi;. 10. e ciò si
vede anco nell' Arti del Bello. Hl. Ma la connessione non toglie poi la
distinzione, 12. secoudocbė il rispetto delle verità mediane o collegatrici
diversifica; 13. onde bisogna rispet tare la varia competenza nelle Scienze
diverse; 14. beocbe uno Scienziato possa partecipare di più Scieoze. 15. Sunto.
- 16. La confusione de' Metodi è coutro il progresso della civiltà. Metodo
degli Studj religiosi. Argomento. 2.
Proprietà del Metodo negli Studj re ligiosi. – 3. Metodo storico circa i fatti;
– 4. e guardare do v apparisca propriamente la loro Storia. 5 Metodo joterpre
tativo circa i fatti, -6, e le dottrine, 7. Metodo filosolico circa la
possibilità razionale de' fatti dividi, 8, e come gli . Avversarj neghino irragionevolmente questa
possibilità; 9. poi, circa la razionale convenienza in genere de ' fatti divini,
ma esclusa sempre la necessità; -poi ancora, circa la ra zionale convenienza in
ispecie, cosi de preliminari della Fe de, 11. come nelle Verità misteriose. 12.
Unione del Metodo filosofico, dell'interpretativo e dello storico, per le
origini del Culto e per la sua universalità nel tempo, 13. per le sue relazioni
universali con le Scienze e con l'Arti, 14. con la Civiltà intera, e con tutti
gli altri Culti. Metodo teologico si distingue dagli altri Me. todi e vi
s'accorda.. Pag. 342 1. Argomento. 2. Il Metodo teologico si distingue dal
filosofico, perchè muove dall'autorità, – 3. perchè risguarda il soggetto
medesimo in un rispetto differente, 4. perchè, quantunque abbia io sè una parte
filosofica, non è meramente filosofico. Si distingue dal Metodo critico e
filologico, percbė storicameote e ioterpretativamente riconosciamo cause
sovrunane, l' Intelletto sovrumano, tini soprannaturali. 6. Si distingue dal
Metodo matematico, perchè risguarda la libertà divina e l'umana ne' fatti
religiosi. Si distingue dal Mo todo fisico; e tal distinzione ha importanza
eguale pe' Teologi, che non debbono considerare come il mondo è fatio, - 8.6 pe
' Fisici, che non debbono considerare come il moodó fu fatto. 9. Il Metodo
teologico s'accorda poi col filosofico; perchè il Teologo non deve separare mai
l'attinenza fra Teologia e Filo sofia che porge a quella le verità prelimioari,
l'analogie razio nali e l'ordinamento; - 10. pè il Filosofo deve mai separare
l'attinenza tra Filosofia e Teologia, che rende più autorevoli o efficaci le
verità razionali. II Metodo teologico
s'ac corda col critico, perchè il Teologo ha bisogno di guardare alla Storia
universale e alla Linguistica; — 12. il Filologo ba bi sogno diguardare alla
Storia religiosa e ai monumenti sacri. S'accorda col matematico, per la
severità del ragiona mento, per molti esempj, per molte dottrine
fisicomatematiche, per l'evidenza del concetto d'infinità. S'accorda col fisi
co, perchè il Teologo non deve mai tenere la scoperta di cose na - 15. pė il
fisico deve spregiare la verificazione delle ipotesi, secondo le narrazioni
sacre. 16. Sunto. Metodo della Filosofia. Argomento. Proprietà del Metodo
filosofico. – 3. Raccoglimento nella coscienza. 4. Esame de' fatti interni,
delle loro leggi e cause. turali; Delle relazioni con gli oggetti; 6. e però
avvi una parte del Metodo, asceosiva da'fatti agli oggetti stessi, e una parte
discensiya dagli oggetti a ' fatti. -7. Si distingue dal Metodo teologico, e
dal critico o filologico: 8. dal matematico, per la natura de' concetti, la
natura degli oggetti; – 10. dal fisico, per la natura de' fat ti, e per le
relazioni loro con gli oggetti, 11. e quindi per la ricerca delle classi loro,
e leggi e cause, e per i priocipi della ragione. - 12. Si accorda col Metodo
teologico per l'esa 9. e per . - me della coscienza; 13. col critico o
filologico, per lo stu. dio dell'umana natura pe' fatti umani esteriori e nelle
lingue; 14. col malematico, per la speculazione di verità con ma teriali; – col
fisico, per l'altigenze fra le cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto.
Metodo della Filosofia Civile. Argomento.Proprietà del Metodo nella Filosofia
Civile. Questa si fondi sopr'i fatti, – 3. badando alla notizia loro precisa e
al collegamento loro. 4. Studio delle cagioni; ma fuggendo di prendere
l'analogie per identità. Esame delle cagioni esteriori ed interiori, non
separabili, ma distinte. - 6. Le cagioni interiori hanno più importanza: 7. ma
senza trascurare l' esteriori. Si ascende alle leggi o ragio ni. Leggi supreme
della Scienza storica, della Politica, della Giurisprudenza, dell'Economia. -
9. Le dette leggi non tol gono la libertà, - 10. come la libertà non toglie
alle conse guenze proprie la necessità; 11. tantochè in ciò risplende l'ordine
della Provvidenza. – 12. Dopo l'esame induttivo delle cagioni e leggi può farsi
la deduzione, o probabile o necessa ria, di ciò ch' è avvenuto e che può
avvenire. 13. Questa Filosofia delle ragioni o leggi, che governano le nazioni,
non può trascurare il procedimento storico; ma neppure si può, per questo,
trascurare la teorica di quelle. - 14. Talchè la Scienza civile ha due
presupposti, la Storia e la batura. –15. Però il Metodo suo si distingue da
ogni altro, 16. e a tutti si upisce. Metodo critico nella Storia. 401 t.
Argomento. – 2. Esame de' fatti, Discipline che aiutano in ciò la Storia:
Cronologia e Geografia, – 4. Archeo logia, Diplomatica, Statistica, Archeologia
preistorica, Etno grafia. 5. Come si può andare in eccessi con queste disci
pline. Ipercritica. Esame delle cagioni; e iodi lo Storico rifà la Storia entro
di sè. 8. Cause finali, 9. particolari, generali, 10. psicologiche, A1. divine.
Oggettività della Storia; 15. e come ciò la renda bel lissima e ammaestrativa.
– 14. Come lo storico si distingua da ogoi altro Metodo; 15, e vi si accordi.
16 Sunto, Metodo critico nella Linguistica. 1. Proprietà del Metodo
interpretativo delle Lingue. 2. Raccolta ed esame de' vocaboli. – 5. Come
bisogna valersi dell ' uso proprio nelle Lingue parlate, e come giovino i testi
moni dell'uso. A chi ricorrere per lo Lingue morte. Grammatica poi determina le
classi e le leggi de' vocaboli, 5. Avvisi necessarj a far bene la Grammatica. –
6. Io che con siste la Filologia comparata. – 7. Utilità di essa, e da quali
estremi bisogna fuggire. 8. Il fine dell'esame filologico è interpretativo
principalmente; – 9. e ciò ne determina i con fini, i modi, 10. e le relazioni;
che sono massimamente due: con la Letteratura, 11. e con la Storia, - 42. E
iodi anche vediamo le indirelle relazioni della Linguistica; cioè con 4. La ca,
la Teologia. 13. con la Filosofia, 14. cop la Matemati 15. e altresi con la
Fisica, sempre distinguendosi da tutto ciò. 16. Sunto. Metodo matematico...
Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2. Quantità pore, cioè astratte
da ogni altra idea. – 5. Nel che, poi, bisogna di stinguere fra l'insegnamento
elementare ed il superiore. 4. Si cerchino le ragioni, sgombre da ogo' idea
straniera. 5. Idea dell'Infinito, distinto dall'indefinito matematico. - 6. Il
Cavalieri. – 7. Distiozione dal Metodo teologico, - 8. e relazioni con esso;
dal Metodo filosofico: e accordo con la Logica, onde l'insegnamento della
Matematica è razionale, 12. Distinzione dal Metodo critico, segnatamente dal
letterario, 13. e accordo. - 14. Relazione col Metodo fisico. 15. Come le
dimostrazioni matematiche abbian virtù di assestare gl'intelletti, e anche
possano dissestarli.. 16. Sunto. Metodo nelle Scienze fisiche. Argomento.
Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche, - 2. Prinia d'indurre si comincia
dall'Analogia; 3. cbe talora non può giungere all' Induzione, 4. Può essere
fonte di errori; o del troppo generaleggiare, 5. o del poco. Essa è di molta
difficoltà. 7. Regola da tenersi. – 8. Indu zione. Uffioj del senso e
dell'iotelletto. 9. Ci solleviamo alle 10. alle cause, - alle leggi, 12. e però
al. l'ordine. Doppio errore de' Sensisti e degl ' Idealisti. 14. Frantendono
allri la luduzione, ch'è legittima e necessa ria, 15. e da cui siamo condotti
alla Deduziune. Suato. Cap. L. Segue del Metodo fisico; e Ordine fra le Scienze..
479 classi, 16. 1. Argomento. Abiti che prende la meote per gli Studi fisici. –
5. Idem. 4. Necessità di mantenere l'ordine fra le Scienze. - 5. Guai, se la
Fisica è usurpativa. Confusione della Fisiologia con la Psicologia: – 6. de'
fatti esteriori con fl'interiori. Confusione di linguaggio, e dogmatismo. 8. Si
confondono i bruti con l'uomo; – 9. la volontà con gli atti meccanicamente
determinati. – 10. Si distingue il genere umano in più specie, poi si pongono
le trasformazioni di tutte le specie; -- 11. si confonde l'ordine de' fini col
piacere • con la materiale utilità. - Abiti cbe prende l'intelletto per gli
Studj religiosi; Filosofia; per le Matema. tiche; per la Gritica. Conclusione.
STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA. Epoca dell'’era pagana. Civiltà degl’ialici. Successione
dei loro sistemi.. Scuole italiche. Sistemi latini. CICERONE Giureconsulti
romani. CIVILTÀ DEGL'ITALICI. SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI. Tre tempi
dell'incivilimento italici; i l'elasghi, la trasformazione loro negli Elleni,
le colonie. Il terzo è più nolo; quali sono i suoi termini. Cinque cagioni più
principali dell'unione fra la civiltà orientale e l'italica: colonie, commerci,
viaggi, lingue, tradizioni. Tre opinioni sopr’esse; tutto dall'oriente, nulla e
opinione media. Dipendenza non generica nė volgare della filosofia italica;
daʼsistemi orien tali. La civiltà jtalica fiorisce primamente dove più vive le
comunicazioni con l’Asia e dove più ricco un anteriore incivilimento. l'ero
quest'epoca si chiama oriental italica. Questa è un'età di passaggio, fra le
qualità orientali e il tempo socratico. Si veda le attinenze lia filosofia italica
religione e civiltà. Quanto alla religione sacerdotale, se n'ha indizi per le
memorie de ' Pelasghi, de ' Misteri e degli Orfici. Celebre passo di Erodoto
sulla religione de ' Pelasghi, e sul nome degli dèi posteriori ec., e
conseguenze di ciò. Somigilianze tra la religione pelasgica e quella de'
Bragmani. Misteri: quelli di Samotracia istituiti da 'Pelasghi; domma che
s'insegnava segretamente e molto simile al panteismo dell'India. Ciò pur anche
ne’ misteri eleusini; panteismo naturale, metempsicosi, immortalità,
purificazione. - La teologia d’Eleusi non può interpretarsi solamente in senso
fisico. Testi monianze di lode que' Misteri pel domma sull'immortalità. Le due
anime; anch'in Omero ec. – Gli Orfici: qualcosa di storico v'è circa Orfeo,
benché con mistura di simbolo.-- La dottrina che va sotto il nome d'Orfeo si
raccoglie da tradizioni antiche e da'versi orlici. Le tradi zioni attribuiscono
a Orfeo una religione collegata poi a'Misteri eleusini: cosmogonie orliche,
somiglianti all'indiane. Quanto a'versi orlici, que sli non appartengono a
Orfeo; ma parecchi son certamente molto antichi. Da varj ioni (che si
riferiscono qui, apparisce il panteismo naturale come ne ' Vedi. Passi che fece
la religione tra l'Italogreci: panteismo natu rale con molte tracce del Dio
unico; adorazione degli astri, massime nel volgo; teogonie, o emanazioni sempre
più specificate e che prendono attri boti e nomi distinti; individuazione ultima
e volgare del politeismo, specie per opere degli artisti e de' poeti,
abbandonando quasi ogni simbolo. Memorie sul combattimento fra le religiose
tradizioni e il politeismo cre scente. - La filosofia, dunque, prima
sacerdotale; poi sacerdotale e laicale ad un tempo; cedè inline al politeismo,
rispettandolo, se non altro, come apparenza o credulità popolare. Questo
resistere al male, e poi cedergli, si vede ancora per l'altre parti della
civiltà italogreca. La filosofia venne preparata da molte cagioni, e però dovè
fiorirvi assai presto, anzi chè cominciare a' tempi di Talete molto dubbiosi. -
La filosolia mosse da un ritorno sulla coscienza morale Questa filosofia morale
e religiosa fiori, prima di Taleto, non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco;
e se n'ha prove non dubbie. La cuola pitagorica precedeva Talute; ma va di.
slinto Pitagora dal Pitagoresimo. - Molti argomenti di fatto e molte auto rità
per mettere in saldo le antiche origini di tal filosofia. Anche la scuola di
Xenofane antecedė Xenofane stesso; e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poi
la scuola cleatica e l'ionica, infine i sistemi negativi. L'epoca
dell'incivilimento italogreco si può distin guere in tre tempi; de Pelasghi (o
con qual altro nome si voglia chiamare que' popoli primitivi); della trasforma
zione di essi negli Elleni; delle colonie. L'età de' pelasghi o degl’antichi
abitatori d'Italia si perde nella notte de’ secoli, ignoto il principio e la
durata. È certo bensì, che quegl’abitatori vennero d'Oriente, come se n'ha
prova in tutte le memorie e ne’ linguaggi e nelle reliquie dell'arti, e che i pelasghi,
quantunque paruti barbari a Ecateo e ad Erodoto e di barbaro dialetto, sono la
più antica sorgente e più copiosa delle genti e lingue e religioni elleniche (Balbo,
St. d'It.; Cantù, St. univ.; Guignaut, note al Lib. IV del Creuzer, Rel. de
l'antiquité. Sembraron barbari, perchè reliquie di popoli più segregati allora
da'popoli nuovi, già molti passati avanti. Fatto è che di là, ove i pelasghi
abitarono, fan derivare i greci la civiltà loro, dall' Elicona, dall'Olimpo e
dal Pindo. Accadde poi e IN ITALIA un cozzo di popoli. Qual cozzo, e di che
popoli, è molto incerto agli eruditi. Ma questo si sa, ed Erodoto l'afferma più
volte, che al lora con trasformazione lunga e tempestosa i pelasghi si
convertirono in elleni. Viene poi l'età delle colonie; un rovesciarsi di genti
greche le une sull'altre, un invadere, un esulare, e indi un propagarsi di
colonie, prima nell'Asia minore e nell'isole, poi nella Calcide, nell'Eubea, in
Sicilia e SULLE COSTE D’ITALIA, e infine (propag gini di colonie da colonie) in
Asia, in Tracia, sul Danubio e nel Mar Nero. Questa terza età è propriamente
storica. Dell'altre due il più va ingombro di favole. La terza comincia,
secondo l'Hofler assai temperato nelle cronologie, sul secolo undecimo avanti
l'èra nostra. (St. Univ.) In un'età così lunga e operosa, e ch’ebbe così lunghe
e ricche preparazioni, si forma la civiltà e FILOSOFIA DEGL’ITALICI -- la
quale, svolgendosi nelle colonie d’ITALIAe dell'Asia minore, cedè poi al
primato d' Atene; onde comincia una seconda età di filosofia. Nell'epoca di che
si parla ora, in ogni tempo del l'epoca stessa, cinque cagioni principalmente
mantenevano unite la civiltà orientale e l'ITLICA; colonie, commerci, viaggi,
lingue, tradizioni: Le colonie, nè dico solo l'egiziane di Lelege, Danao,
Cecrope ed altri, ma le prime venute dalla terra degli arii e de' persiani, e
l'ultime ellene che si spargevano per l'Asia minore; i commerci, che com’appare
in Omero, non cessarono mai tra ITALIA e le coste dell'Asia. I viaggi per
l'Oriente, non possibili a negare in tutto, de FILOSOFI d'allora, come Ritter
non nega quelli di PITAGORA A CROTONE, Ritter negatore sì voglioso. Le lingue,
che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le lingue le tradizioni
d'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in torno a cui son tre le
opinioni: da Erodoto fino a Creuzer la mitologia ITALICA, la greca
segnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana. Ma poi
Müller, Voss e altri riferirono tutto ad origine greca. Guignaut (Note al
Crcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione media. E questa si è
che i germi delle credenze religiose si trapiantassero d' Asia com'anco radici
e forme generali delle lingue; ne può pensarsi altrimenti, dacchè ivi
coabitarono un tempo le genti ellene: ciò non impedì, nè mai l'im pedisce uno
svolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come nelle religioni: all'età
poi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia minore, per l'Egeo e nel
Ponto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vicini orientali scaturi la
fonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta già in Esiodo ed in
Omero. Talchè (ponete mente, o signori),
se lo spargersi di colonie nell'Asia minore avvenne dall’undecimo all'ottavo
secolo incirca, e nel con tinente poi d'ITALIA e di Sicilia dall'ottavo al
sesto, que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare delle
tradizioni orientali fra gl’elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia nuova
degl'ITALICI. Non istarò dunque a disputare com’essa deriva più o meno
da’sistemi orientali, bastandomi ch'ella dipende per fermo da molte tradizioni
d'Oriente o per le origini delle schiatte o pel riaccostarsi loro all'Asia. Che
tal dipendenza poi de' popoli d'ITALIA, nazione antichissimamente civili e
nella civiltà loro pertinaci, possa credersi affatto generica e volgare, cioè
senz'efficacia sull'educazione speculativa, giudicatene voi, o signori, che pur
vedete gli effetti odierni del comunicare le nazioni fra loro. Dove fu egli il
primo fiorire della civiltà ITALICA? nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia. Non
già in Grecia propriamente detta. Perchè mai, o signori? La ri sposta non par
malagevole. Prima che in Grecia, fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore,
appunto perchè più vicini all'Asia media, sorgente de' popoli e della civiltà;
e prima pure che in Grecia fiorì nella Magna Grecia, cioè in ITALIA, perchè ivi
più forse ch'altrove ra dicò la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni che
fanno ionio Pitagora e ionio Xenofane, venuti tra noi, dan segno come frequenti
e vive fossero le comunicazioni tra LE COSTE ITALIANE e l’Asia minore. Dico
poi, ad ogni modo, che le colonie greche trovarono in ITALIA grandi semenze di
civiltà, nè però ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi e
prosperare. Di fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto important. Prima,
che le tavole d'Eraclea, lette dl Mazzocchi, fan prova come i coloni greci
prendessero dagl'ITALIOTI misure e confinazioni agrarie. Seconda, che i Lucani,
i Bruzj, i Sanniti, dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, e
riparatisi a’ monti, ne discesero poi, e le ributtarono (Hofler), talchè più
non resta in ITALIA dialetti greci (in PUGLIA ve n'ha, ma di colonie recenti e
fuggite dai Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanari
non serbavano istituti civili. Ecco il perchè ho chiamato quest'epoca
orientalita logreca (italogreca ITALIOTA per più brevità); greca, perchè
filosofia di colonie greche; ITALIANA perchè sorse più splendida in ITALIA e
con tradizioni italiane (italica chia marono pure i Greci, come Platone ed
Aristotile, la scuola pitagorica e di VELIA); orientale, perchè con origini e
comunicazioni asiatiche. Non si toglie a' Greci la loro eccellenza ' se notiamo
quel ch ' essi appresero; offenderebbe la verità e loro chi loro negasse la
mira bile potenza di far proprio l'imparato e di dargli bellezza e compimento;
essi il ricevuto per dieci lo ridussero a mille e quel mille lo insegnarono al
mondo; ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'ITALIA nostra, o
signori, principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici questa
filosofia nuova che tanto potè su Platone e sopr’Aristotile. L’ITALIA ricevè
dal 1 ° Oriente e da’Greci, l’ITALIA poi restituì alla Grecia e alla civiltà
de' secoli avvenire; e potè dirsi allora quel che poi disse PLINIO. Omnium
terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium in
toto orbe patria. Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati:
avvaloriamoci, o signori, d'emulazione e di virtù, e non di lode. E
quest'epoca, di fatto (come dissi altrove), è un'età di passaggio; ritiene
ancora le qualità orientali, ma che mostrano già di convertirsi nell'altre
dell'età socratica. Così tra gl’ITALIOTI come tra gli Asiatici, abbiamo un
sistema religioso sacerdotale; ma ora si nasconde ne' misteri, e si separa
perciò interamente dalle credenze popolari che prevalgono. Tra gli uni e tra
gli altri la filosofia dipende dal sistema religioso. Ma ora si svolge in un
modo più laicale e più da sè stesso, perchè così ri chiede la mobilità di
quelle repubbliche, e perchè il sistema religioso si rimpiatta, e nè ha
sull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e commentarj vedici; par come
un'eco de' tempi passati, più che voce vivente. E siccome la filosofia di
quest'epoca pigliò i germi da' misteri (Ritter), che hanno del panteismo
orientale, così ell'hanno del panteistico a mo' degl'Indiani, ma con tendenze
più manifeste alla DIALETTICA che va per distinzioni anzichè per confusioni.
Poi, qui come là s' unì la poesia con la speculazione, ma più altresi se ne
distinse; perchè i poemi omerici non furon mai ravviluppati con una
enciclopedia d'episodj. Ed i poemi scientifici di VELIA (il Sulla Natura di
Parmenide) e di GIRGENTI (il Della natura di Empedocle) s'accostano alla prosa.
E qui come là v'è ncertezze storiche, meno per altro. Giacchè il più delle
incertezze cadono su' misteri e sulle origini pitagoriche, non già sulle scuole
posteriori. Premesso ciò, si veda, o signori, qual fosse in attinenza con la
filosofia la religione e la civiltà degl'ITALIOTI. Della religione, come
sistema sacerdotale, me ne passerò più breve che non feci per l'India, giacchè
(com ' ho detto) quel sistema era sul morire, e se n'ha meno ragguagli e meno
certezza. La religione sacerdotale ITALIOTA si può ricercare in tre modi: per
le notizie assai oscure dei Pelasghi, i quali tennero idee religiose più
primitive e più vicine alle orientali; per le notizie scarsissime de' Misteri;
per quelle degli Orfici. Essi e l'origine de' Misteri appartengono, credo,
all'età di combattimento e di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodoto
scrive che da loro non si metteva nome agli dèi; aggiunge che i nomi vennero
d'Egitto e che i pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero la
decisione all'oracolo di Dodona, riuscito favorevole a que' nomi; e dice infine
che le nascite e le forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo e
da Omero; tutte cose già ignote. Vuol notarsi com’Erodoto accenni pure che un
simbolo osceno gli Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano il
senso ne' Misteri; e sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchici
si mostrava i simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente. Erodoto,
uomo schietto, n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevano
appreso le sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omero
e d' Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questo
luogo così famoso? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle succedute
lontana dal politeismo; secondo, che quella si rappresentava co'sim boli
orientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti;
terzo, che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da un
che meno pagano ad un più, non accadde senza contrasto, e indi si ricorse agli
oracoli; quarto, che tenuto il simbolo antico ed esteriore, la sua spiegazione
si fece nell'in terno de' Misteri; quinto, che i nomi si suppongono venuti
d'Egitto in età più recente, perchè all' Asia media non s'imputavano queste tradizioni;
infine che Erodoto reca l'antropomorfismo ad invenzione di poeti, non perchè
già tal errore non fosse cominciato popolar mente, ma perchè que' poeti
l'ordinarono (più o men di proposito) in sistemi di mitologia, ed in modi
specificati. Che poi la religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani lo
attestano Ferecide e Acusilao in Strabone (Ed. Sturz ); dicendo che i Cabiri,
divinità pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabiri
maschi e tre femmine. (Creuzer ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto, non
solo che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi (II, 5), ma
(com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse i
simboli esterni. Come si spiegavano essi? Apollonio di Rodi serbò del vecchio
storico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia. (Schol.
Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori? Similissimi a quelli dell'India.
S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros; la materia fecondata,
Aziokersa, o principio passivo; e il principio attivo, fecondatore, Asiokersos.
Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il passivo si distinguono
dall'essenza universale, Azieros o Brahm? 0 piuttosto (giacchè l'
interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros, Aziokersos e
Casmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio, rispon dono a
Maya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il Dio neutro, come
non si nomina il Dio supremo nel Rig Veda? tanto più che Casmilo rispon
derebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle trasformazioni.
Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il domma samotracio
mostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Trimurti. (Saint
Croix, sur le Mystères du Paganisme; Creuzer, V, 2. ) E risponde non meno a
quel panteismo la dottrina samotracia dell'età varie mondane, o che il mondo si
distrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche ne' Misteri eleusini s'esponeva
la dottrina d’un principio passivo, d'uno attivo, dell'armonia mon diale che ne
nasce, e di ciò che distrugge le forme senza intermissione. Bacco, Cerere,
lacco e Mercurio, ossia grecamente Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, non
ritraggono forse, o signori, i sistemi dell'India, del l'Egitto e della Persia?
E forse su quelle divinità è, innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e lo
Zeus de' tempi remoti, divenuto poi un principio maschile, contrapposto a
Giunone principio femminile. Di que' Mi steri non si sa i particolari, vietato
rigorosamente il propalarli, come dice Pausania (art. Beozia) e Apollodoro
(Argon. I), e come dimostra il Meursio (De Festis Græcorum). Pure, da'cenni
dell'antichità si ritrae che insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale (com’ho
detto di sopra), e la metempsicosi, e l'immortalità del l'anima (forse col ritorno
all'essenza divina), e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il panteismo
naturale viene indicato da CICERONE (De Nat. Deor.), che diceva: come le
dottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce meglio
per esse la natura delle cose che quella degli dèi. Che vuol egli dire? CICERONE
accusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia confondevano,
in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale. Prova,
dunque, tale accusa, e viene confermato da molt' indizj, che la religione d'
Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi; di fatto, che si trattasse d'una fisica
soltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore alla natura
esterna ce lo vieta lo stesso CICERONE. Egli scrive nel II “De Legibus”, che i
Misteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo beneficio d'Atene,
perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella speranza di vita
migliore; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone (Fedone) che
l'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi, e dà a'buoni felicità eterna, cioè
un'abitazione comune con gli dèi dopo la morte. Isocrate afferma (Panegirico)
che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le più dolci speranze quant'alla
fine di questa vita e quant'all'altra che non finirà mai. Che poi gl'iniziati
s'ammaestrassero alla virtù si ha da molti argomenti; e il Meursio dimostra che
quelli si preparavano a’ Misteri con gli esercizi di castità, e poi si
credevano astretti, quasi da sacramento, a rendersi migliori. Così Aristofane (Rane)
mette in bocca a un coro d'iniziati queste parole: « Il sole e una luce
aggradevole sono per noi che onoriamo i Misteri e osserviamo le regole della
pietà verso i forestieri e verso i cittadini. » Però que' Misteri si chiamavan
teleti (7: ) ett ), giacchè da loro veniva la perfezione della vita. Va notato
che la me tempsicosi s' univa col domma dell'immortalità in que sto modo:
credevano gli antichi che il principio animale, principio di vita e di senso,
distinguasi sostanzialmente dal principio intellettivo; e che l'uno, cioè
l'animale, passi di corpo in corpo, ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giri
di secoli e in premio del vivere onesto, ritornando all'essenza universale o
divina. Però si di stingueva in Persia il fervéro o genio dall' animazione, e
in China Hoen da Pe, e tra gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone (dzepov)
o anche logo da psiche, e tra’ ROMANI “animus” da “anima”. Quindi l'anima
sensitiva s'immaginò non altrimenti che come materia sottilissima, e che,
divisa dal corpo, ne teneva le apparenze, erane lo spettro od il fantasma,
vagante nelle notti e intorno a' sepolcri. Tal distinzione si vede pertino in
Omero, allorchè Ulisse approdando a'Cimmerj inter roga i morti (Odiss.): «
D'Ercole mi s'offerse alfin la possa, Anzi il fantasma; però ch'ei de' numi
Giocondasi alla mensa, e cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe,
di Giove figlia e di Giunone. » La terza fonte di notizie, cioè le memorie
orfiche, non vanno soggette, o signori, a tanta perplessità, e può trarsene qualche
costrutto; purchè evitiamo così la co moda credulità come l'eccesso de critici.
S'è giunti a du bitare d'ogni realtà storica ed antica rispetto ad Orfeo; ma,
quantunque la parte storica si frammischi a' por tenti della favola, e un nome (al
solito) rappresenti le dottrine e i canti di più, nondimeno qualcosa di reale e
d'antico vi ha; perchè Ibico (in Prisc.) che fiorì presso al 550 prima di Gesù
Cristo, già ram menta Orfeo; lo rammenta Pindaro (Pith.), anzi lo chiama padre
de canti apdov Tr UTEP (Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr. ); lo rammentano
ancora gli an tichi Ellenico e Ferecide e le tragedie ateniesi. Da molti luoghi
di Platone (Leg. VIII; Ione, Convito, Rep. 11) apparisce che a tempo di lui
eran divulgati già molti carmi col nome di Museo e d’Orfeo; questi è citato nel
Filebo e nel Cratilo; e si scorge che l ' espiazioni de’de litti appartenevano
alle discipline orfiche. La dottrina che va sott' il nome d’Orfeo si racco glie
da tradizioni antiche e da versi orfici. Quanto alle tradizioni antiche, elle
attribuiscono tutte ad Orfeo una religione, che istituita da lui si collegò
quindi a Misteri d'Eleusi (Müller): e ciò conferma il già detto sulla natura di
quel sistema religioso. Si rileva poi dagli antichi scrittori un sistema orfico
di cosmo gonia, benchè sotto più forme, e talora v'han messo la mano autori
dell' èra cristiana. Creuzer ne dà cinque di tali cosmogonie; rilevantissima
quella di Ferecide Siro, pel quale son tre i principj Zeus o Giove o Cronos o
l'etere, il Caos o massa inerte ch'egli vivifica, il Tempo o la durata senza
limiti. E qui voi scorgete, o signori, l'indefinito ch'è concepito nell'astra
zione del tempo (come tra’ Persiani ), e dall'indefinito i due principj,
l'attivo ed il passivo. Nella cosmogonia che viene riferita da Atanagora e da
Damascio, v’ha l'idea indiana dell' uovo nell'acque, da cui esce Eros o Fa
nete, amore o manifestazione dell'armonia universale; e tal idea orfica viene
rammentata negli Uccelli d'Aristofane. Il mondo, poi, si rinnova per
bruciamento (co me secondo Eraclito, gli stoici, gl'Indiani e l'orgie eleu
sine), in virtù di Dionisio corrispondente a Siva. (Creuzer) Mi pare che il
Maury ottimamente riduca le teogonie o cosmonie orfiche a questo: Cronos genera
i due principj, l'etere e il caos; il caos in virtù dell' etere prende la forma
d'uovo, avviluppato dal l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre primitive, a
cui segue la luce o l'amore, quando l'uovo si spacca, ossia quando il germe
involuto si svolge nelle sue parti: queste le idee più principali che risultano
dal paragone de' più antichi testimoni. Ma i versi che ci restano sott'il nome
d’Orfeo, son essi autentici? Aristotile e Cicerone negarono già che i versi
propalati fin d'allora come d'Orfeo gli apparte nessero; e più n'è dubbio a' dì
nostri, perchè nei primi secoli dell' èra volgare molti documenti si rimaneggia
rono, e molti se ne invento. Ma dice Mullachio (Fragm. Phil. Græc., ed. Didot.
Parisiis): Plerique ver sus puroque et simplici sermone insignes sunt; talchè,
considerata la purità e il fare antico di molti versi, e il riscontro di varie
testimonianze. ond' essi ci sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizioni
vetuste, possiamo affermare che quelli senz'essere forse d’un poeta che si
chiamava Orfeo, sien per altro reliquie vere degli Orfici antichi. Udite l'inno
insigne alla Natura, tradotto dal Cantù nella Storia universale e riferito
negli Schiarimenti (Tauchnitz): « Natura, diva madre universale, in tante guise
madre, celeste, venerabile, molto creante spirito (o cuor ), regina che tutto
domi indomata, tutto governi, in tutte parti splendi, onnipossente, ve nerata
in eterno, divinità a tutte superiore, indistrutti bile, primonata,
antichissima,... comune a tutti, sola, incomunicabile, padre a te stessa senza
padre, che per maschia forza tutto sai, tutto dài, nodrice e regina di tutto;
feconda operatrice di quanto cresce, di quanto è maturo dissolvitrice, delle
cose tutte vero padre e madre e nodrice e sostegno. Le quali ultime parole già
udimmo per Aditi nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina s’asconde, o
signori, ne' versi orfici? La stessa che ne' Vedi: la natura universale è padre
e madre, ossia, principio attivo e passivo; ell’è divina, perchè non è la
materia, sì l'essenza universale, spirito divino primo e materia prima in unità;
è senza padre, cioè senza principio; è primonata, cioè generata da sè stessa
con uscire all'atto dall'indefinita potenza; indi, ella è padre di sè stessa;
infine, si palesa con tre divine opera zioni, genera tutto, sostiene tutto,
distrugge tutto. In Clemente Alessandrino (Stro. V), in san Giustino (Co hort.
ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo, in Proclo, in Porfirio e in
altri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che rendono lo stesso
sistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico. insegna qual sia
l'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi documenti degli
uomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo; e che Dio tiene in
sè il principio, il mezzo e il fine. (Pr. Ev.) Riferirò un altro inno
ch’Eusebio tolse da Porfirio (Ivi, e Stobeo, Eclog. Phis. 1, 2, 23, e Bibliot.
del Didot, Framm. ec. p.6 ): « Primo e ultimo è Giove che splende col fulmine.
Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le cose. Giove è nato maschio,
Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra e l'aria stellata de 'cieli;
ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della loro origine. Unica forza e
unico demone che governa tutte le cose, quest' unico le chiude tutte nel suo
corpo regale, il fuoco, l'onda, la terra, l'etere, e la notte e il giorno, e il
consiglio, e il primo genitore e nume del l'amore: contiene tutto ciò Giove
nell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e il volto maestoso irradia il
cielo, intorno a cui sparge con molto lume la chioma pendente e aurea d'astri;
e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di toro, un doppio corno che
l'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e l'occidente, giri noti a' supremi
dèi. Son occhi di lui il sole e la luna che corre di contro al sole. In lui è
mente verace, ed etere regale non sottoposto a morte, il quale col consiglio
muove e regge ogni cosa; e quella mente, perchè prole di Giove, non può essere
nascosta da niuna voce o stre pito o suono o fama. Così, egli beato possiede e
senso dell'animo e vita immortale, spandendo il corpo illu stre, immenso,
immutabile e con valida forza di brac cio. A lui son omeri e petto e terga
immani le ampiezze dell'aria; e con veloci e native penue precipitando, egli
vola intorno a tutte le cose. La terra, madre comune, ei monti che levano l'
alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la zona media i tumidi
flutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il nume, sta nell' intime
radici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e negli ultimi confini che
inaccessa ed immota spande la terra. Tutte le cose egli nasconde primamente nel
mezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma luce con opera divina. » Tra le
figure poetiche non si può non vedere in quest'inni l'opera della riflessione
che affaticasi di scoprire e spiegare l'attinenza fra Dio e l'universo,
confondendola, per abuso d'induzione, con l'attinenza tra l'unità delle
sostanze e la moltiplicità c mutabilità de'fenomeni. Non fa dunque meraviglia
se Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero gli esordj dalle dottrine orfiche e
de' Misteri e però dall'antiche tradi zioni pelasghe, cadessero nel panteismo.
Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla reli gione fra gl’ITALIOTE. Prima
è un tal panteismo natu rale, in cui le divinità sono le forze della naturu;
non le forze per altro simboleggiate, come interpretò poi la scuola de' Fisici
(Plutarco la distinse sì bene dall'an tica scuola de' Teologi), bensì le forze
naturali confuse con gli attributi divini. In quel panteismo, come nel Rig
Veda, gli dèi son poco determinati: differiscono poco gli uni dagli altri;
escono tutti e rientrano nel Dio unico (Creuzer, V, 4). Talche certi Padri
pensarono ch'ei fosse un culto dell' unico Dio creatore, e tal culto
contrapposero alla corruzione posteriore dell'idolatria; Storia della F lofint.
17 2 ill 1 ma, veramente, non può chiamarsi un teismo, bensì un panteismo
naturale, dove nondimeno le tracce del l'unità di Dio si conservano così
spiccate da causare l'opinione ch'io vi diceva. Però le divinità pelasghe non
avevano un nome, dice Erodoto; e a dar loro un nome s ' opponevano le
sacerdotali tradizioni (Ispot 20091). E come narra Platone nel Cratilo che
prima si chiamò in genere 0: 9 le divinità, così cabiri le dissero i Pelasghi,
ossia (forse) potenti; e ciò risponde agli dei complices o consentes degli
Etruschi. Poi, questo panteismo naturale si ristrinse più par ticolarmente (e
specie nel culto popolare) all'adorazione degli astri, dove più che in altro ci
apparisce la po tenza di Dio: e che sia così l'attestano Platone (Fileb. e
Crat. ) ed Aristotile (Met.). Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo; e si
mantenne questo nel detto volgare: Giove che fa? per dire: che tempo fa? Ma il
panteismo naturale de' sacerdoti più e più si foggiò a sistema d'emanazioni,
per ispiegare con modo determinato la dipendenza di tutto dalla causa prima; e
indi le teogonie e cosmogonie orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine,
allora, ebbero nome partico lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne;
come narrai che la triade pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dalla
fecondazione; e si sa del Giove con tre occhi in Argo (Pausania ), della Venere
piramidale di Pafo, e co' due sessi (statuina nella bibliot. naz. di Pa rigi),
dell' Apollo a quattro mani, del Sileno a due te ste, di una dea a quattro
teste nel Ceramico d' Atene, del Giano bifronte, della Diana mammellata d'Efeso
e della Cibele come informe pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco a poco
divennero nomi e attributi pro pri di certe divinità specificate; e la Trimurti,
le cui vestigia restano fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno e Plutone,
s'individuò per modo che l'un Dio non più si confuse con gli altri, e questi si
moltiplicarono all'infinito. Però, questa individuazione favoriva il politeismo
a volgare e si mescolava con esso, e n'era eccitata e lo eccitava; e ambedue si
stabilirono più che mai con l'arti del disegno, che lasciati quasi del tutto i
simboli, ri dusse gli dèi a forme umane, con alcune qualità pro prie di
ciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma velata, nelle forme tra maschili e
femminili di Bacco e d'altri dei, figura sacra dell'androgenia, quando
s'abbandono la rozzezza dello scarabeo (Winkelman, St. dell'arte ec. ); e tal
simbolo (sia detto di passaggio ) alcuni artisti vo gliono imitare quasi
perfezione di membra umane e le sono immaginarie! Fatto sta che la scuola
d'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele, imitando i poeti ebbero più ch'altro
efficacia nel fermare quel politeismo di dèi spicciolati. Vuolsi por mente
adunque, o signori, che da un lato restava la tradizione sacerdotale, benchè
più e più cor rotta, e cresceva dall'altro il politeismo. Come restava la
tradizione? Ne' Misteri; già lo vedemmo. E perchè mai dovè occultarsi? Dicono
le memorie antiche, i primi re di Grecia e d'Italia fossero ad un tempo sa
cerdoti, capitani e giudici; patriarcato ch'è origine d'ogni nazione. (Arist.
Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano poi d'un contrasto lungo e
sanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere; il che apparisce anco
nell'In die; ma se ivi le liti si composero stabilmente, fra gl'Ita logreci al
contrario scapitò la classe sacerdotale che (l'accennano i racconti circa
Erettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in alcuni luoghi, come Eleusi,
lasciando a' re tutto il resto; e così, a poco a poco, e tanto più quando
sorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse gnamento religioso e restò
solamente i riti esteriori del sacrifizio e delle feste. Quell'insegnamento,
dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel mistero, in que'luoghi appunto che
la classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i sacri querceti di Dorona. E che fa
intanto la filosofia? Ella è sacerdotale dap prima, o teologia, perchè tenute
le tradizioni asiatiche, cresce nel sacerdozio pelasgo ed orfico; poi, nell'
età che > il sacerdozio si separa e
s’asconde, dalle semenze reli giose de' Misteri germogliano i primi sistemi
come i pi tagorici, che han del sacerdotale e del laicale ad un tempo. Questa
filosofia, perciò, combattè dapprima il politeismo, per esempio ne' frammenti
di Xenofane che derideva il fingere dèi a somiglianza nostra. Poi, dac chè il
concetto di Dio sempre più s' annebbiò, i poste riori consentirono a' tempi, e
gl' Ionj, gli Eleati, e molto più i sofisti, menaron buona, se non altro come
appa renza o come credulità popolare la mitologia. Nè altrimenti andò negli
ordini tutti della civiltà. Di fatto; quando i governi regi si mutarono in
popola reschi, molta efficacia e salutare v'ebbe la filosofia mercè i
Pitagorici, e segnatamente Zeleuco e Caronda, i cui frammenti di leggi muovono
dal dimostrare che Dio è; ma in progresso la filosofia non potè resistere alla
li cenza, fu perseguitata, e però cadde in mano di sofisti che inventarono
l'arte della parola per la parola, malvagi adulatori di plebe e mercanti di
cavillo. Abbondando le ricchezze, nate da operosità, fiorirono scienza ed arte;
ma successe un abito d'ozio e di godimenti, e la Magna Grecia in ITALIA e
l'Ionia caddero in mollezze di trista fama. Resisterono i primi sapienti, come
dimostra l'istituto pitagorico; ma cedè a poco a poco la loro austerezza, e già
Xenofane canta « ch'è dolce nel verno stare al fuoco bevendo, e domándare
all'ospite: quant'anni avevi tu quand' il Medo invase? » il Medo, o signori,
invasore della patria ! lei sofisti, all'ultimo, la filosofia diventò l'arte di
godere. Nell'ordine morale s'arrivò a tal segno ch'Ateneo rimprovera Platone,
perch'e' disse nel Sofista come Parmenide di VELIA ama Zenone di VELIA;
quasichè tal parola, detta di giovane, non ricevesse mai buon senso. E la
filosofia, resistente dapprima co' Pitagorici, giunse co ' sofisti
all'indifferenza tra bene e male; indifferenza molto diversa e peggiore
dell'indiana; chè questa è non curanza del moltiplice e vario ch'apparisce, in
grazia dell'unità sostanziale, ma quella è non curanza senz'al tro; ivi è
un'ombra di moralità, qui nessuna. Mostrate così l ' attinenze tra filosofia,
religione e ci viltà degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e la
successione de' loro sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e per
confessione di tutti, v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi; e
bisogna ri correre il più a Diogene Laerzio, autorità poco accettata. Le
congetture dunque son lecite; e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che sul
definire l'età de' tempi remoti variano le tendenze degli Orientali e de'
Greci; que sti tirano al meno e quelli al più. Per che ragione? I Greci amando
la certezza de' fatti, li trasportano quanto più si può nel tempo storico, e
lontani dal favoloso; al contrario degli Orientali, che amano l'indefinito de
se coli; effetto del panteismo. Premesso ciò, rammentate, o signori, che prima
dell'undecimo secolo avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; e
allora co minciò l'età delle colonie; e da esse la più nota civiltà ITALIOTA.
Quali preparazioni vi riscontriamo noi per la filosofia? La civiltà pelasga, le
dottrine orfiche, i Mi steri; inoltre le comunicazioni più che mai frequenti
per l'Asia minore (dove prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E che
tempi erano quelli per l'Asia media? Rammentiamocene, o signori; erano i tempi
di splendida civiltà, quando circa il mille avanti Cristo si compilavano i Vedi
ed i poemi, e fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare, che
date tali prepa razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di vita
civile ond' il pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi non
selvaggi come l' America, ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazioni
filosofi che? Non farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate a
tre o quattro secoli dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più meno
già in via circa il mille od al novecento prima dell' èra volgare? A ogni modo,
tempi precisi non se n'ha; e poichè la critica devé supplire, parmi più
ragionevole vi supplisca così, che stando ad indizi già riconosciuti per poco
probabili. La filosofia mosse anc' allora da un ritorno sulla coscienza morale;
ce ne assicura la moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a ' Sette
sapienti; a uno de' quali, cioè a Chilone, si reca il detto: conosci te stesso.
Abbiamo poi alcuni tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui antichità non
si dubita punto; e chi, Foclide per esempio, lo fa contemporaneo, chi anteriore
a Pitagora. Le sentenze di Mimnermo, Evano, Metrodo ro, Teognide e va'
discorrendo, mostrano chiaramente la riflessione sulle verità morali, benchè
nascosta in afori smi. Così queste di Foclide: « Non dire mendacio, ma parla
sempre con verità. Primieramente venera Dio e quindi i tuoi genitori. Non
disprezzare i poveri, nè voler giudicare alcuno ingiustamente, perchè se tu
giudiche rai male, Dio poi ti giudicherà. Fu da Dio a’mortali dato in uso lo
spirito ch'è immagine di lui. Il corpo abbiamo dalla terra e si scioglie in
essa e siam polve re, ma lo spirito va in cielo. » Or bene, io dico, e mi
sembra di poter essere sicuro, che codesta filosofia morale e religiosa sorse e
fiori prima del panteismo materiale di Talete e d’Anassi mandro; perchè n'ho
prove storiche (come dirò), e per chè dalle tradizioni sacre orientali e orfiche
non si poté saltare in un subito alla materialità. Dove fiorì? Non in Italia
soltanto co ' più antichi savj della scuola ita lica, ma nell' Asia minore
altresì, fra gl ' Ionj, dovunque insomma germinò la civiltà ellena. Di fatto,
che che vo glia credersi delle tradizioni circa Pitagora e del suo venire dall'
Ionia, esse, unite alla certezza che Xeno fane pure ne derivasse, mostrano
almeno che l'antichi tà non reputò straniere agl' Ionj 1 ' idee pitagoriche ed
cleate. Aggiungete che Talete ha molti più segni di spiritualità che non i
posteriori; e tal peggioramento non si può negare. Perchè dunque, dimanderete,
vien solo ricordata la scuola italica? La risposta è facile e il caso è comune;
si ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e durò. y Ma la scuola pitagorica
o ITALIOTA, dimanderassi an cora, ell’è anteriore a Talete, cioè al panteismo
materiale degl' Ionj? Mi sembra certo, purchè si distingua Pitagora dal
Pitagoresimo; questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una scuola di
filosofi; quegli è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che può essere
prima o dopo, senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della scuola nel suo
nome rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son diverse l'
opinioni. Quanto a Pitagora, Meiners lo crede nato al 584 avanti l'èra nostra;
lo crede nato Lacher al 608. Come si determina ciò? Per autorità non salde, e
per vie di congetture. Talete poi, secondo Apollodoro, sa rebbe nato il 640,
anteriore perciò a Pitagora; dáta non senza incertezze. (Ritter, St. della fil.
ant.) Ma ecco il Niebuhr (St. Rom. I) che contrapponendo a Polibio ed a
Cicerone l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile la
contemporaneità di Pitagora e di Numa; talchè andremmo più oltre che la data di
Talete. Avanti alle dáte di Pitagora s'ha in ITALIA e Sicilia ZELEUCO E CARONDA,
legislatori l'uno di LOCRI e l'altro di CATANIA; e ne' frammenti di quelle
leggi v'ha il segno delº pitagoresimo. Il Krug fa CARONDA DI LOCRI del 668; il
Benteley, l'Heyne, il Saint Croix, Centofanti, del 730. Quando Pitagora venne
in Italia, in CROTONE, si dice che subito la scuola crescesse tanto di numero e
di potenza, da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli: il che umanamente
non può accadere. La scuola dunque precedeva. Il personaggio di Pitagora,
l'istitutore insomma del Pitagoresimo, diventa un simbolo in gran parte; il che
dà segno d'antichità molta, e di tradizioni orientali. Nella scuola pitagorica
è mescolanza di culto e di speculazione; e ciò indica il passaggio dall' età
teologicha (MYTHOS) alla filosofica o LAICALE (LOGOS), che in modo distinto
vengono più tardi. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione della scuola ITALIOTA,
il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua persecuzione, corsero
pochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si dà presto a un uomo,
tardi a un potente consorzio d'uomini. La storia di Pitagora, simbolico in gran
parte, ha natura di leggenda; e sogliono le leggende avvicinare tempi lontani.
Indi le confusioni dette di sopra. Nella
scuola pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche; talchè l'antichità di
queste palesa l'antichità di quella che le raccoglie; com'elle poi diminuiscono
in progresso, e appena si scorgono negl' lonj. I Pitagorici han forma di
consorteria, e tra loro è comune e costante un corpo di dottrine. Ciò rammenta,
o signori, gl’usi orientali che sempre più si perdono nelle repubblichette
popolari; e rammenta l'antichità più remota, dove più vale l'unione e
l'autorità. Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come una, e vi scopre
solo differenze accidentali. Le tavole d' ERACLEA, lette dal Mazzocchi (come accennai
già), mo strano un incivilimento anteriore, e quindi un'antica preparazione
alla scienza. E delle prove d'antica civiltà nelle genti d'ITALIA recherò qui
cosa che pare non fosse disputata fra' Greci, val a dire ch'essi, come dice
Taziano (Or. contra Greci) prendessero da’ TOSCANI la plastica. Cousin dimostra
con le autorità non ricusabili di Sozione, d' Apollodoro e di Sesto che
Xenofane nasceva il 620 avanti l'èra volgare, un 60 anni circa prima di
Pitagora stando agli anni di Meiners. Ora, se la dottrina di Xenofane tenne del
Pitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto più vecchio del suo maestro? Se
bisogni stare alle memorie greche talquali, i capi della scuola pitagorica di
CROTONE e di VELIA vennero d'Ionia; men frechè in lonia correva un tutt'altro
pensare. Qui, prendendo la cosa talquale, v'ha due inverisimiglianze, prima che
ne luoghi de' capiscuola non ci avesse quell'indirizzo di speculazioni, come
sarebbe assurdo che d'Alemagna venissero in Italia fondatori d'eghelismo e là
non n'apparisse il focolare. Seconda, che piuttosto que' filosofi cercasser
favore in Italia, sé qui non preparato il terreno. Ma tutto si concilia, quando
il silenzio delle mete, in tanta oscurità di tempi dissero all'incirca il più
rinomato, tacquero il meno, senza negarlo bensi, chè non lo conobbero forse.
Dissero la scuola ionica, tacendo la scuola religiosa comune là ed a'
Magnogreci, O ITALIOTI, perchè più celebre qui; dissero i più famosi capi delle
scuole ITALIOTE, tacendo le lontane e recondite preparazioni. E ch'elle ci
fossero, mostra il celebre passo di Platone che fa dire a Zenone di VELIA. Queste
opinioni sull'uno cominciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui. (Soffista.)
Brandis e Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina germe innato
negl' intelletti. Al che ripugna Cousin e con ragione. Prima, qui si parla
storicamente e non teoreticamente. Poi, se volesse allu (lere a germi naturali
e senz' origine, come mai, anzi, parlerebbe Platone di cominciamento anteriore?
(te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov). De primi Pitagorici non v'è scritti;
scrissero i più vicini al tempo di Socrate; e ciò per l'uso degl'insegnamenti
orali, per la costanza delle tradizioni e pel segreto delle dottrine religiose.
Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde agli usi orientali. Nella scuola
ionica poi sembra che fino il primo, cioè Talete, scrivesse versi,
probabilmente prose (Diog. Laert. I, 34, Plut. de Pitiæ Orac. 18, Arist. Phys.
); il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di stabilire la novità. L'uso
di non iscrivere, uso lasciato si tardi da ' Pita gorici, spiega ben anco il
perchè sembrò più recente « lella scuola ionia il pitagoresimo: più recenti
erano le scritture, non la loro filosofia. Recherò infine (lue singolari
testimonianze di Padri greci, d'Ermia verso la fine del secondo secolo, e d'
Eusebio dottissi mo ne' libri originali della greca filosofia. Ermia, dun que,
nell'opera Derisione de' filosofi gentili enumera le contrarie opinioni loro
sull'anima, sul bene, sull'immortalità, sulla divinità e sui principj del mondo;
e poichè ha.rammentato varj filosofi, viene a Pitagora e lo distingue dagli
altri così: egli d'antica nazione. Qui, segnalare tra gli altri Pitagora per
antichità, è notabile assai. Eusebio, poi, più espressamente nelle Preparazioni
evangeliche dice: che Pitagora nacque a Samo O IN TOSCANA o altrove, ma non
greco, e ch' egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia ITALICA di
TOSCANA (ETRURIA) E CROTONA succedette la ionica e la di VELIA. Anzi anche Flavio
rammenta tre filosofi prischi con quest' ordine qui, Ferecide Siro, Pitagora e
Talete. Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità di Niebuhr,
di Cousin, di Gioberti (nel Buono), di Poli (Appendice al Manuale del
Tennemann) e di Centofanti (Pitagora), e che non hanno in contrario argomenti
positivi di tradizione, o concordi autorità di storici antichi, mi fanno sicuro
che il pitagoresimo, come scuola religiosa e morale, anteceda l'altre scuole;
poi venga la di VELIA, e come più affine alla prima, e come precedente a
Xenofane stesso per la dottrina dell'unità universale; succeda loro l’ionica,
quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua continuazione che
s'accompagna (com' accade) con l'altre; e vengano infine, su che non ha dubbio,
le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra lezione. vole ne SCUOLE
ITALCHE. Causa interiore del Pitagoresimo è la necessità d'una riforma morale:
da ciò l'esame di coscienza posto per principio di filosofia e di vita buona.
Cause esteriori. Si volle la riforma religiosa e morale da cui la civile, per
mezzo della filosofia. - Parti non dubbie nelle memorie degl'istituti
pitagorici. Notizie su Pitagora e sugli altri più famosi. Quali documenti
abbiamo certi sulla scuola italica. - Il Carme aureo i antico.- Le notizie che
ci danno gli Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma nemmeno rigettate
con leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica, suo fine e metodo. —
Quali cagioni dettero impulso a quel metodo che fu applicazione d'idee
matematiche. Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in un ideolismo
matematico; giacchè la monade si pensò come una forza. - Il numero
rappresentava l'attinenze o l'armo. nia; indi il simbolo musicale. Due furono i
significati del numero, it simbolico ed il reale. Verità del metodo matematico;
suoi eccessi nel pro cedere dall'astratto al concreto: esempi varj. – Si cercò
le leggi mentali della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse a
Dio, causa, ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principj
delle cose si dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza. -Questo è l'unità.
– L'unità bensi presa, non come parte d’un tutto, ma in senso generale. - A Dio
non si può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso; Dio è sopruni
tà; ma l'errore precedė dalla induzione astrattiva. Si dimostra co ' do cumenti
che il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra il
vero ed il falso. - L’unità, come per gl'Indiani, parve l'indefinito che si
determina. — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. —
Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo, come i
contrarj in atto, e ridotti all'armonia da Dio. - L'uni tà generale o la monade
che si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allora
sugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec. L'anima è numero, ed
è nel corpo come Dio nel mondo; è l'armonia del corpo. La verità è l'uno e il
numero; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso. — Dio, ragione
prima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi, perchè Dio
è il numero per eccellenza, e il nu mero è l'esemplare del mondo. Quanto alla
scienza, si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità razionale. Numero e
armonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima intellettiva il ritorno
all'essenza pri ma. --- Come si tentó fuggire le contraddizioni del panteismo
naturale negando la cognizione diretta dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirle
col panteismo ideale. - Cinque concetti principali di Xenofane: Dio è uno;
sommo potere; gli manca ogni contingenza e però non è nè finito nė infi nito né
in quiete nè in moto; Dio non può nascere, perchè il non ente non può dal nulla
divenire qualcosa: Dio è il tulto. — Indi segui che il mondo è apparenza. –
l'armenide stabilisce chiaro il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, e
condanna il secondo. Muove dall'idea generale d'essere; Dio si fa più
indefinito che in Xenofane. – Tutto è idea. Melisso fa Dio più indeterminato
ancora, chiamandolo un qualcosa. -- Gli attributi della moralità non più
appariscono. – Panteismo materiale de gl'Ionj: nasce in condizioni opportune. -
Il moto delle cose vien conside rato nell’ente o nell'assoluto, ch'è la materia
eterna divina, dotata di pensiero. – Diversità nel concepire tal moto fra '
dinamici e i meccanici. E la causa prima del moto la posero diversamente in
quella cosa che più parve trasmutabile in ogni altra cosa. – Talete ba dello
spirituale anco ra; la grossolanità materiale viene crescendo. Anassayora vide
l'assur dità del panteismo, e prese il dualismo; ma non détte troppo alla mente.
— Idealismo ateo di Protagora; materialismo di Democrito; le due forme di
scetticismo particolare. Scetticismo universale di Gorgia ec. Misticismo
d'Empedocle; e perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico. — Due
schiere d’uomini; gli atei e i l'itagorici di quel tempo: interpreta zione
storica, e interpretazione fisica della mitologia. Qual è mai, o signori, la
causa interna del Pitagoresimo? La necessità d'una riforma morale; necessità
profondamente sentita da uomini ornati, quanto la gentilità comporta, di grandi
virtù. Il conosci te stesso e esame di coscienza morale negli istituti
pitagorici, e fondamento altresì di speculazione; chè, nella coscienza
e'trovarono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guasto
crescente della religione, de costumi e della libertà, al quale s'oppone il
Pitagoresimo, e inoltre (com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i commerci
d'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una riforma
religiosa e morale, da cui venisse la civile; e criterio a tutto ciò désse la
Scienza. Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli Alessandrini
mescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto (Ritter ) e
la sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma religiosa si
tentò co’riti e dommi segreti; la morale con l'opporsi a tre vizi, voluttà,
superbia ed avarizia, ed esercitando anima e corpo nella musica e nella GINNASTICA;
la civile, domando la licenza con abiti disciplinati ossia con l'autorità (curos
pz) e con la vita comune. Il discepolato morale prepara così alle speculazioni,
e, preparato, s'eleva l'alunno a gradi più alti e più liberi. (Centofanti,
Pitagora; Puccini.) Circa Pitagora o di Samo nella lonia o di Samo nella Magna
Grecia in ITALIA, poco v'ha di sicuro e con mescolanza di simboli; pare
tuttavia che un fondamento storico v’ha e ch'egli e uomo di molta dottrina e
virtù. Per la dimenticanza in che vennero le colonie di Magna Grecia in ITALIA e
tutte le antichità italiche dopo le conquiste di ROMA, e per la guerra feroce
contro i Pitagorici, non ne sappiamo quasi nulla; li sappiamo bensì a lor tempo
in molta riverenza. Si rammentano con più certezza LISSIDE, CLINIA, ED ARCHITA
cittadini DI TARANTO in Magna Grecia, EURITE E FILOLAO o di TARANTO o di CROTONE.
ARCHITA, il più celebre di tutti, capitana più volte gli eserciti, e non ha mai
la peggio; buon padrefamiglia e cittadino, domatore di sè stesso, famoso per
invenzioni e scoperte in musica ed in matematica e per libri d'agricoltura. La
scuola pitagorica venne atrocemente perseguitata; molti fra gli scampati, o si
rifuggirono in Grecia o si sbandarono in ITALIA. Sembra che l'odio movesse da
opinioni politiche, parteggiando essi per GL’OTTIMATI; ma chi badi alla
segretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che un capopopolo
attizza le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze, s'accorgerà
che trattasi qui, come per Anassagora e per Socrate, del politeismo volgare
geloso e persecutore. Gli scritti col nome di TIMEO, d'ARCHITA e d'OCELLO
LUCANO sono apocrifi, e i frammenti di BRONTINO e d'EURISAMO; ma non quelli di
FILOLAO (vedili nel libro di Boecckh su FILOLAO, e Ritter); i quali col carme
aureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola ITALICA, ne dánno
contezza. Nel sostanziale di essa gli storici vanno d'accordo. Quanto al Carme
aureo, e's'attribuì a FILOLAO, a EPICARMO, a LISIDE, a EMPEDOCLE di Girgenti,
da Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per LISIDE; e: mostra, comunque, che
ne' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno, secondo
l'usanza di molti critici odierni, neghi l'autenticità pel dubbio di tre’ sole
parole, che a lui non paiono antiche; e antiche le dimostra il Mullachio. (Fragm.
Phil. Græc. Didot). Le relazioni che ci danno del pensar pitagorico gli
Alessandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione; chè in loro la critica
è poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli antichi; tuttavia dire
come si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli Alessandrini si descrive, non i
meriti fede per le grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi negli
Psilli di Timone Fliasio che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici: « E tu, o
Platone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti con
gran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il TIMEO. (Fragm.
Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la filosofia antica, come
la filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj dell'essere, del conoscere
e dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è ragione e legge, vediamo
bene da tutte le loro memorie che occupò quegl'intelletti for temente. Fine
della filosofia parve loro ed a tutti gli antichi, la liberazione degli errori
e de' mali comuni, ma con tal divario dagl'Indiani, che la speculazione dovesse
congiungersi all'operosità civile. Metodo di filosofare fu il matematico; cioè
l'applicazione d'idee matematiche alla natura universale, così esterna come
interna, e al suo principio. Onde mai tal metodo? quali cagioni gli dettero im
pulso? Già negli antichi v'ha inclinazione di filosofare a priori sul mondo
(sebbene l'esperienza, anch'esterna, non s ' escludesse dai Pitagorici), perchè
mancavano gli stromenti; poi, premeva più lo speculare teologico, re cato
altresì nella fisica; e le lunghezze d'una fisica os servatrice non si
comportavano in tempo, che i varj studj non erano scompartiti tra più dotti.
Inoltre l'arimmetica e la geometria vennero d'Asia, nate tra le scienze più
antiche, perchè non bisognose d'osservazione. Altresì di tali scienze s’aveva
necessità tra popoli commercianti e tra colonie che dissodano terreni,
asciugano paduli, e scavano canali. Più, la discordia tra' politeisti e il mono
teismo - antico fece spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni d'uno e di
moltiplice, come anche si scorge nel vecchio Testamento. Infine, tempo é spazio
ci danno la quantità, e sappiamo che l'induzione falsa indíava, come ne' Vedi,
lo spazio e massime il cielo (onde l'uranismo), e il tempo (onde l’Aherene de'
Persiani, il Crono de Greci, il Saturno de' Latini), talchè le tradizioni
orientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a quel modo di
filosofare. I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del tre, del dieci
e delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di Dio. Ma si vuol
credere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni? ossia, ch'e'sti
massero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più? In altre parole, il
Pitagoresimo fu egli un idealismo matematico? No, sicuramente; Aristotile lo
spiega chiaro dicendo: ch'essi stimarono le cose una imitazione de'numeri
(μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet.). Imitazione, dunque; a leggi di
numero, cioè, rispondono le cose; e la mente ritrova l'une nell'altre; e in
questo è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che mai restava pe'
Pitagorici, levato il composto? Restava la monade. E che cos'era la monade?
Forse un'astratta unità, o l'atomo indifferente inattivo di Democrito e di
Leucippo? No; ma l'essenza ch'è una forza: il concetto di forza o d' attività
prevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come rispetto al mondo. Di
fatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento universale se non la
continua limitazione (o determinazione) dell'inde finito? Ciò resulta da molti
riscontri, ma singolarmente dallo specchio de contrarj (di cui parleremo).
Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio; causa è l'anima; e
causa d'ogni armonia è l'unità. (Frag. di FILOLAO; Siriano, Com. Met. d '
Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant.; Bertini, Idea d'una Fil. della Vita) Quindi,
pe' Pitagorici, le leggi del numero e della geo metria rappresentavano
l'attinenze; cioè, significavano il rispetto d'una cosa all'altra, e d'uno
all'altro con cetto, l'armonie particolari e l'universale; da ciò i lor simboli
musicali. Si dica pertanto, o signori, che per la scuola italica eran due i
significati del numero; significato simbolico e reale. È significato reale
quando noi diciamo: Dio è uno e le creature sono moltiplici; e così dicevano
essi che Dio è il numero per eccellenza, cioè l'unità e la totalità d'ogni
perfezione. È significato simbolico quando s'astrae i numeri a significare gli
oggetti; come dicendo (per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse Dio e
le creature; così parlavano più spesso i Pitagorici. Al lora si fa come
l'algebrista un linguaggio figurativo. assai comune agli Orientali; e ciò
toglie l'apparente stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità?
Certo non manca di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue o
d'essenza o d'accidenti o di parti, di gradi o di potenza o di atti; e tutto,
dunque, è capace di numero e di misura. Per altro, le leggi matematiche non
hanno da cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; come
Galileo, osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del moto
crescente. Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, come
dalla legge matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesse
procedere a priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concludere
la realtà contingente; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può conclu
dere ch'e' si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi ideali
a cui essa risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nella
caduta son sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quello
vi combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene la
scuola italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematiche
applicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita; del metodo sperimentale
di Polo ci ragguaglia Aristotile (Met.); le dottrine musicali d'allora fan
supporre molti esperimenti; Erodoto scrivche i medici italiani erano i più
reputati; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il metodo
astratto ebbe il diso pra. Così, rappresentando il principio, il mezzo ed il
fine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa; però Filo lao divideva il mondo
in tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso, perchè si compone
sommando i suoi quattro numeri primi? ebbene, dieci i pianeti. Cin que i corpi
regolari nella geometria? dunque altrettanti gli elementi, e ciascun d'essi n '
ha la figura; la terra ha il cubo, il fuoco la piramide, l'aria l'ottaedro,
l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e dunque, altresì cinque i sensi.
Se i quattro numeri primi, sommati tra loro, fanno il dieci; e se i quattro
numeri pari (2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri dispari (1, 3, 5, 7), sommati, fan
tutt'insieme trentasei, la tetrattisi o quadernario dovrà riscontrarsi nelle
cose; e quattro, per esempio, sono i gradi della vita: minerale, pianta,
animale e uomo; e, ne' corpi, il punto è unità, la linea è qualità, la super
ficie è triade, il solido è quadernario, si compone, cioè. di quattro punti.
Questo metodo, applicato alle cose dell'esperienza, riuscì arbitrario non di
rado, e se, inalzato a Dio, ne guastò il concetto per l'astrazione dell'
indefinito; pure, accompagnato come fu da tradizioni buone, da molte virtù
morali, da preziose osservazioni interne ed anco esterne, ed eccitando la
speculazione, fece sorgere tra gli errori belle e profonde verità. Quel metodo
era (com’ac cennai): trovare le leggi mentali della quantità geome trica e
arimmetica effettuate nella realtà e salire con queste alla prima cagione, alla
prima ragione ed alla prima legge. Però dice FILOLAO che l'intendimento mate
matico è il criterio di verità. La prima cagione dell'essere, che è ella mai?
Sic come i Pitagorici voller trovare i principj delle cose e il principio de
principj, così precede il quesito: che son mai tali principj? Risponde
Aristotile: « I Pitagorici, educati nelle matematiche, dissero i numeri esser
prin cipj delle cose. » (Met.) cioè tutte le cose si ridu cono a leggi supreme
di numero, e queste leggi costi tuiscono la loro essenza. Or bene, che cos' è
la prima cagione? È il primo principio, per Filolao; è la causa che antecede
ogni altra causa, per Archita: « quam Are chytas causam ante causam esse
dicebat, Philolaus rero omnium principium esse affirmabat. » (Siriano, alla
Met. Storia della Filosofi. - 1. 18 l'
Arist. XIII. Dunque se i principj delle cose son numeri, il primo principio è
tale altresì; o, come diceva Hierocle nel commento al Carme aureo (Fragm. Phil.
Græc.): « Se tutto è numero, Dio è numero. » Che nu mero? Il numero per
eccellenza. Che cos' è il numero per eccellenza? Vediamolo. Il moltiplice fa
supporre l’unità; e l'unità n'è sem pre il principio; così abbiamo solido,
superficie, linea, punto; questo è il principio della linea, della superficie e
del solido. Dunque Dio, ch' essendo il primo principio, è il numero per
eccellenza, è altresì l'uno per eccellenza. (Aless. Afrod. Comm. alla Met. d '
Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno per eccellenza. L'unità,
idealmente, si può considerare e qual parte che compone la pluralità, e quale
idea generica che abbracci la pluralità stessa. Diciamo: il venti è compo sto
d'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com pongono un tutto. Diciamo
ancora: una ventina, un centinaio, un migliaio, un milione; ecco l'unità gene
rica che abbraccia ogni numero, considerato come unità. Nel primo caso, l'unità
è l'elemento della pluralità; nel secondo, è la forma mentale che fa capaci di
compren dere in un concetto le moltiplicità sparpagliate. E in tal senso
l'unità si può chiamare il numero per eccel lenza, giacchè abbraccia ogni
numero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio l'idea d'unità ne'
detti significati? No; Dio non è il compo nente della moltiplicità; nè Dio è un
che generico e comune alle moltiplicità particolari. L'unità di Dio è, a dir
così, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela zioni personali della
Trinità son soprannumero. (S. Aug. in Joann. Evang. ) Si dice uno per negare il
moltiplice, nulla più; e chi confonde l'analogia di tali concetti col
significato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente la filosofia
e la teologia. Si domanda, per tanto: la scuola pitagorica usò que' concetti
nel signi ficato vero? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che Dio per lui è
imperatore sommo e duce, uno, eterno, permanente, immobile, simile a sè stesso,
diverso dal l ' altre cose, potentissimo, supremo, e che solo conosce l'essenza
eterna. Anzi, Siriano nel luogo già citato dice, che pe' Pitagorici Dio è una e
singolare causa, astratta « la tutte le cose, e superiore alla dualità de'
principi, la quale vedremo più qua: « Ante duo principia unam et singulam
causam, et ab omni abstractam præponebat. Parrebb'egli, dunque, che l'unità de'
Pitagorici sia nel senso buono? Bertini interpreta più benignamente che si può
certe opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare; e tuttavia
conclude: « Il sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio molto
al disopra del mondo; ma il fato della logica li forzava sovente ad
immedesimarli in una sola sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuole
dir mai fato della logica? Vuol dire la necessità di certe conse guenze, dati
certi principj. Or via, quali son dunque i principj che menavano al panteismo,
non ostante l'alte verità frammischiate in abbondanza? Era, appunto, il
concepire Dio quasi unità generica, o numero per eccel lenza; e questo in
grazia della non buona induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari,
e l'unità, cioè il numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così la
scuola pitagorica chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza di
tutte le cose (Arist. Met. I ); l'essenza delle cose chiamata eterna (la FILOLAO;
che inoltre affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero senz'armonia,
e tale armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio; aggiunse, che tal numero è
legame all'eterna durata del mondo; anzi (e questo val più ), esso legame
produce sè stesso. (V.framm. i FILOLAO nel Ritter. St. della Fil. ant.)
Finalmente. Dio pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un tempong 11pTLOTES
PITTOy, Arist. Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi concepivano Dio com'unità
generica, in cui s 'uniscono potenzialmente i contrarj del mondo, pari e
dispari, femmina e maschio, male e bene, e via discorrendo; contrarj che si
distinguono attualmente quando il potenziale viene all'atto, e l'illimitato si
limita, e l'essenza universale (conosciuta solo da Dio, cioè da sè stessa) si
determina mano a mano ne' fenomeni. Dubitò il dotto Bertini che s'intendesse
da' Pitagorici, non dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma d'accennare che
Dio la in sè i contrari perchè li supera. E non esito punto a dire che ciò e '
tenevano forse, ma in confuso, e la con fusione generava il panteismo. Di
fatto, se quel concetto era limpido, essi non avrebber detto che Dio è pari ed
impari; giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni mondane, e
però non si contengono in Dio. Si risponderà: noi n'abbiamo un'idea più chiara.
Va bene; se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi l'universo
infinitamente, le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi, l'infinito
lo pigliavano per l'inde finito o potenziale; e quindi, il finito sembrò a loro
il perfetto, e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo specchio delle
contrarietà in dieci antitesi (dispari e pari, finito e infinito, uno e più,
quiete e moto, luce e tenebre, bene e male ec. ), fatto da qualche Pitagorico;
e Simplicio notò come le contrarietà si comprendano si risolvano in Dio. (Arist.
Met. I, Simpl. Phys.) Inol tre, come il mondo era la decade, cioè la pienezza
d'ogni grado d ' entità, e così Dio; che riceveva nome d'ogni numero, unità,
diade, triade, quadernario (o solido), set tenario, decade. Dimodochè pe
Pitagorici, come per tutta la filosofia pagana (avvertite, o signori ), il
quesito della causa pri venne a quest' altro: Come si limiti 1 illimitato;
ossia, pensarono gli antichi che la produzione del mondo consistesse nel
determinare in atto la potenzialità prec sistente: talchè Filolao pone tre
principj, l’illimitato. il confine, e la causa (το απειρων, το πέρας, το αίτιον
). Il che parve in due modi: i Pitagorici, com’i pan teisti ionj e indiani,
dissero che quel potenziale sta in Dio; i dualisti, che e' sta fuori di Dio, ed
è la mate ria informata da esso. Nella scuola italica, poi, la im plicitezza
de' concetti adombrò alte verità; Dio (per ma esempio), legame del tempo e
dello spazio, se non si prende com ' identità d'ogni essenza, vuol dire
benissimo che l'unità divina con l'unico atto creatore e conser vatore fa
l’unione del moltiplice disgregato: però Dio è l'armonia dell'armonie. Che
cos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema di tutti i contrarj. Che
cos'è l'universo? I con trarj in atto, e ridotti da Dio all'armonia. Come
l'unità generica non diviene numero se non si distingua in unità determinate o
particolari, così la monade suprema non genera il mondo se non si distingua in
monadi o so stanze particolari. Che si richiede, o signori, a formare il numero?
L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra. Ma la distinzione, considerata
mentalmente, non è forse un concetto negativo e indeterminato, dacchè si
gnifichi che l'una cosa non è l ' altra? Or bene; e pen savano essi che a
formare l'universo ci voglia le unità o monadi particolari, poi la loro
distinzione; ossia, come (lice Aristotile, elementi positivi da un lato,
elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere d'elementi si fa tempo e
spazio; nel tempoi momenti e la distinzione di un momento dall'altro, cioè
gl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione d’un punto dall'altro cioè
il vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con l'ispirazione del vuoto; ossia
distinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro com'aria ne’polmoni. I due
elementi, il positivo ed il negativo, uniti tra loro, fanno la diade o il pari;
l'ele mento positivo o l' unità, così sola come aggiunta al numero pari (per
esempio il tre), fa il dispari. Ed ecco, o signori, l' unità nell'altro senso
ch'io spiegava di sopra, cioè nel senso non generico ma particolare di compo
nente il composto. Talchè l'unità nel senso generico è Dio; le unità nel senso
particolare fanno il mondo. Ed ecco altresì perchè si diceva da’ Pitagorici che
il pari è illimitato, illimitato perchè il vuoto e l'intervallo (o la
negazione) è in astratto un che potenziale, può ricevere distinzione da' punti
e da’ momenti all' indefinito. Si diceva per contrapposto che il dispari è
limitato, giacchè chiude l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive o
tra due monadi, riduce in atto la potenza, e si fa la triade, numero perfetto
che ha principio, mezzo e fine. Voi capite, o signori, come per la teorica
de’toni e degl' intervalli si vedesse analogia tra la musica e l'universo. Il
quale, venendo dall'essenzá eterna come necessario svolgimento d'attività, non
ha reale comin ciamento, è ab eterno; comincia sì, ma quant' al nostro pensiero
(-o iniyocav), ossia il pensiero nol può con cepire altrimenti. Nè s'avvidero
essi che se il pensiero nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'op
posto è irrazionale. Che cos'è l'uomo nell'universo? Un'anima razionale che sta
nel corpo come in u sepolcro, dice FILOLAO. L'anima è numero e armonia (Plut.
De plac. phil. IV, 2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del corpo
e n'è principio di vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone la
sentenza che l ' ani ma è armonia, combatte i materialisti che ponevano l'anima
com'un risultamento dell'unione corporale, an zichè com’un principio di essa, a
mo' de ' Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo, che l'ani
ma è sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico; ma ne’
Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni), che come
Dio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na (V.
Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e delle
emanazioni tutte, il corpo. Derivano da tutto ciò le teoriche sulla ragione som
må del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità, così la verità è
l'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia; talchè come il numero fa la
misura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del l'uno all'altro,
così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le specie degli enti e
con le loro attinenze. Ma come si conosce da noi? Il simile col simile; però
distinse la scuola italica il senso dall' intelletto come in due parti (Cic.
Tusc. IV, 5 ); l'intelletto è divino e si conosce per esso (benchè in modo
relativo, dice Filolao) la divinità della natura; il senso è terrestre, e si
conosce per esso il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima del
conoscimento è dunque Dio; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta la
ragione pri ma, non solo perchè raggiano da lui gl'intelletti, ma perche Dio è
numero, e il numero è l' esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall'
intelletto. (V. il Cou sin e lo Stalbaum, ambedue nel commento al TIMEO) Però,
avvertite, o signori, la scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbia
vero concetto, stette nel ritro vare la necessità razionale di ciò che
conosciamo. Essi voller saper non solo ciò che è ed accade, ma perchè ciò
dev'essere ed accadere. Tuttavia successe a loro quel che ad ogni panteista; si
credè di trarre a priori le cose dal conoscimento dell'essenza universale, come
le pro prietà d'un triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessità
razionale (eccetto la ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni e
le matematiche) sta solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces sità
un altro per attinenza; ad esempio, data la per cezione, non può non essere il
corpo, o data la volontà negli uomini che son razionali, non può non essere la
libertà. L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni da
un'idea, anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e non
altro; o anco è sola contingenza. (V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità sono
numero, negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero ed
armonia il bene, disarmonia o ne gazione il male. (Arist. Met. I.) Il bene è
misura, il male è dismisura: da ciò quel detto pitagorico: « La misura è
ottima, pétpov Žpustov. » E come Dio è l'ar monia universale, il numero per
eccellenza, egli è il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va per
armonie matematiche e musicali, così la volontà; e indi nasce la virtù, ch'è
numero dentro di noi, componente la discordia degli appetiti (Carme aureo,
57-60 ); numero fuor di noi nell'educazione della famiglia e della città.. (Fragm.di
LUCIANO OCELLO ) Allora l'anima si va conformando a Dio (ov.02.09749. Tapos to
delov ); la disforme da Dio passa in corpi diversi con la metempsicosi od è
punita nel Tartaro; la conforme a Dio ritorna nell'essenza ond'ella emanò. »
Sarai, dice il Carme aureo, un Dio immorta le, incorrotto, non sottoposto a
morte (v. 71: ETEL 0212. τος θεός, άμοροτος, ούκ έτι θνητος). Signori, chi non
mirerà, in mezzo a quell'ombre, la luce di sì alte dot trine? Ma, tralignando i
tempi, la filosofia traligno. Il sistema pitagorico è, quant'a'principj, un
pantei smo naturale; perchè l'unità per eccellenza vi comprende lo spirito e la
materia, distinti poi come tutte l'altre contrarietà. Come voleva egli scappare
il Pitagoresimo alla contraddizione suprema d'identificare tutte le contrad
dizioni? Dicendo che non conosciamo l'essenza in modo diretto: quasichè importi
tal conoscenza per escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire la
contrad. dizione, escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento, e
così creò un panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G.
Cri. sto, venne assai tardi a VELIA città di Magna Grecia. L'idealismo suo
nasceva prima di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per più
cagioni; pri ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismo
naturale; poi, perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui ora
pendevano i Dorj non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia d'Elea);
scetticismo voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di Colofone
anch'esso, e in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema pitagorico,
benchè com prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali, però Xeno fane,
vissuto a lungo in Ionia, venuto poi in Italia, mostra nell'ontologia
l'idealismo italico, ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj. Egli scrisse in
versi, e ne resta frammenti, da cui, com'anche da Platone e da Aristotile, si
rileva le sue opinioni. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Uscì di patria per le
invasioni Lidie, viaggiò in Sicilia, si fermò in VELIA; e visse più che
centenne. (Censorino.) Xenofane ha di Dio un'idea sublime. Egli è uno, non
simile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re. Ma si deve, o
signori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del sistema. Dio è
uno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si converte con l'ente;
però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio, Xenofane la provò benissimo
per un secondo concetto ancora, ch'è la potenza. Voi sapete già, o signori, che
per la scuola italica l'unità o la monade o l'entità (vocaboli equivalenti) è
forza, è un'energia. Ciò pure affermò Xenofane; e però Dio, ch'è l'ente, è
sommo po tere (20 % TELY ): quindi se più dèi uguali, nessuno è po tentissimo
per l'eguaglianza, se più dèi inferiori, nes suno è potentissimo per
l'inferiorità. Talchè Xenofane, riprensore d’Esiodo e d'Omero, scherniva
com’empie le superstizioni volgari, e, diceva, se i cavalli sapessero di
segnare, fingerebbero gli dèi a loro sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto;
che a Dio manca ogni contin genza, finità e infinità, moto e riposo. L'infinità?
In che senso la nega egli Xenofane, e contro chi? Nel senso d'illimitato o
indefinito che si determina con atti successivi; contro i Pitagorici pe' quali
Dio è infinito e finito ad un tempo, si distingue nell'universo e vi si muta
perennemente, benchè immutato nell'essenza: for s'anche, dove Xenofane accenna
il moto e il riposo, con futa le opinioni degl' Ionj già cominciate e già oppo
ste all'ITALICHE più antiche, ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè le
contrarietà fra cui Aristotile notò (come vedemmo) il moto e la quiete,
ugualmente che il finito e l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito
(indefi nito ) ch'è moto. Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altra
verità, in Dio non essere contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore?
No; e si scorge dal l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falso
nell'applicazione: Dio non può nascere. Va bene; ma per chè? udiamolo, signori;
il perchè ce lo dà il trattatello De Xenophane, MELISSO e GORGIA, attribuito ad
Aristo tile, non di lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adunque: Dio non
può nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non ente non può dal nulla
divenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non può non essere; ma il
non ente nel significato di Platone e pitagorico è il contingente; che può non
essere appunto, giacchè non è per essenza sua propria, bensì dall'ente.
Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non ente in
significato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla; ma ciò
che diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che ne
conchiudeva Xenofane? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà pure
causalità nessuna; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda, inaccessibile. (ch'è
dun que il resto? o quel che ci pare in continua mutazione? Fenomeno,
apparenza, illusione, e nulla più; talchè la fisica che si fa con l'apparenze è
illusoria, non è scien za. Però egli disse in un verso: « Queste cose (del
mondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla opinione. (Plut.
Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì Timone Fliasio ne'
Psilli. (Fragm. Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava un quinto concetto:
che Dio o l'ente è tutto, o intero. (Fragm. di Xenoph.) Che vuol egli dire?
Cerchiamolo. Che idea vi dà, o signori, l'infinità? Certo, pienezza d'es sere,
cioè che ivi non ha mancamento. Ma tal pienezza significa forse il tutto? No,
chè tutto è idea relativa: tutto, implica parti; e quindi ogni tutto può essere
più o meno, come numero ch'egli è; nè numero assoluto si dà; mentre assoluto è
l'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva concepisce il mondo com'un tutto e
confonde l'infinità (come pienezza d'essere) con l'universo. Così accadde agli
Eleati; e però Aristotile scriveva di Xeno fane: « Contemplando egli il tutto
del mondo, disse che l'unità è Dio. » Indi l'aforismo eleatico, uno è l'ente e
il tutto (ey to y uzi có Tiv). Che si concludeva mai da questo? Poichè al tutto
non manca nulla, e l'ente è il tutto, nulla può cominciare, perchè sarebbe
aggiun gimento: quasichè, o signori, ciò che viene dall'efficienza creatrice
aggiungasi all'infinità. E però vedete, che dove gli Eleati pareva negassero l
' indefinito pitago rico, van poi al medesimo vizio; perchè si piglia Dio
com'un tutto generico, che viene simboleggiato con lo sfero. Resta da sapere
che foss'egli per Xenofane l'ente o Dio. È ragione assoluta, intelletto
essenziale. (Fragm. di Xenoph.) Che v'ha dunque più di pitagorico negli Eleati?
Si lasciò la parte corporea ed ogni moto e restò la spirituale, divina ed
immutabile; quindi è un pan teismo ideale. Il qual sistema si continuò in PARMENIDE,
e ZENONE. Di PARMENIDE di VELIA dice Plutarco (Adv. Colot.) che détte alla
patria leggi avute in grande amore. Zenone di VELIA, scolare di Parmenide, amo
di cuore la patria, e poichè un tiranno lo condannò a morire, sostenne da uomo
il supplizio: Melisso di Samo fiori verso l'84a Olimpiade, seguì PARMENIDE DI
VELIA, fu uomo di Stato, e capitano gl'ITALIOTI contro Pericle. Questi gli
Eleati (VELINI) più famosi. L'opinioni di PARMENIDE vi son date assai chiare
ne' frammenti del suo poema. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) E che si trova in
quelli fin da principio? I due aspetti, già separati da Xenofane: l'ente, che
unico è; e il non ente o l'apparenza, che non è: non è, o signori, in modo
assoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scrive PARMENIDE,
di filosofare: 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70 ury; vedi anche
il Parm. di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma l'ente e si nega
il non ente o l'apparenza; o, al contrario, porre che l'ente non è c che sia di
necessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive così la via degli
Eleati o VELINI da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si fermavano
a considerare il moto delle cose. Ebbene, che concetti ha egli Parmenide
allorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è? Gli stessi di Xenofane:
l'ente è conosci bile con la sola ragione, ingenito, non mobile, tutto (cudow )
unigeno, eterno; non fu nè sarà, perchè ora è tutto insieme; non può esser nato,
perch'è assurdo che l'ente non sia; non divisibile, somigliante a sè stesso
intera mente, riempie ogni cosa; la dura necessità (dir.n ) lo stringe in
vincoli (ossia egli è necessario; necessità di Dio trasferita da' panteisti al
mondo ed alla volontà uma na ); egli non è infinito (atedrventov ), non bisogna
di nulla, ed è lo stesso il pensare e ciò che si pensa. (Framm. e segnatamente
v. 66-94.) In che PARMENIDE differì da Xenofane? Quegli ha forma più
scientifica di speculare, perchè comincia dall'idea universale dell'essere, e
la contrappone al non essere. (Ritter, Bertini.) Ma crede reste voi che
Parmenide s'avvantaggi su Xenofane, come nella severità dialettica, così nella
perfezione dell'idea ili Dio? Anzi, dove il maestro partì dall'idea di Dio,
ragione pura, santità essenziale e provvidenza, lo sco lare poi con un vizio
più rilevato d'induzione si fermò al concetto dell'essere generale, nè
v'apparisce punto la personalità divina: sicchè Parmenide non avversa come
Xenofane la mitologia, anzi l'accetta qual credenza po polare. In man di lui,
perciò, il sistema eleatico si rese più ideale. E questa idealità condusse PARMENIDE
(sembra un paradosso ), come anco Xenofane alla confusione lel senso e
dell'intelletto. Quanto a Xenofane apparisce da un verso di lui in Sesto
Empirico; e quanto a PARMENIDE, lo notò espresso Aristotile (ppovaly usy tér vistn512).
Mentrechè il sensista dice: la sensazione è idea e tutto: l'idealista dice:
l'idea è sensazione e tutto. Ma sorge contraddizione nuova: se intelligenza e
senso son tut t'uno, come potrà egli il senso darci l'illusione? Ep pure, ZENONE
DI VELIA non pare ch'altro volesse co’suoi strani sofismi fuorchè mostrare:
com’abbandonandoci all'apparenze del moto e del moltiplice, cadiamo sem pre in
contraddizioni. E la parte negativa di tal sistema s'accrebbe in Melisso che (notate,
o signori) muove dal l'ente indeterminato come PARMENIDE, ma lo significa in
modo più indeterminato ancora, chiamandolo un qual cosa. (V. Fragm. Phil. Græc. Didot; De Xenophau Melisso et Gorgia; Arist. de
Soph. Elenchis,
e Plat. Thecet.) Se non che, Melisso torna co’ Pitagorici a dire che Dio è
infinito, negando a loro ch'e'sia finito, per chè l'ente non ha principio nè
fine. (Fragm. 2. ) E ciò va bene; ma pare che qui terminasse l'infinità nel
concetto di Melisso; egli non lo concepì come infinitu dine assoluta d'entità,
e pero dotato d'efficienza crea trice e pensiero puro; anzi l' indeterminatezza
di quel l'astrazione fece sì ch'egli non parla dell'intelletto e della bontà di
Dio, e l'idea ne vacilla dinnanzi com'om bra informe e vana. (Ritter, Bertini.)
Così da Xenofane in poi vi fu scadimento, come da ' Pitagorici di CROTONE agli
Eleati o VELINI Questi bensì fecero progredire la dialettica tendendo a
conciliare i contrari, e Aristotile fa inventore di quella ZENONE DI VELIA, che
si sa da Diogene Laerzio aver composto dialoghi. Se la scuola pitagorica
seguitò, ma con forme più filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità,
gli Eleati ne presero la parte ideale; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'è
perciò la setta men filosofica. In che ci viltà? Tra'costumi voluttuosi della
Ionia, e in quelle città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e de
Persiani. E se voi mi domandate, o signori: Que' sistemi da che gente vennero
professati? Rispondo, che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro nati
a Mileto nel l'Asia minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sa
nulla; o sappiamo d' Eraclito ch'era superbo, duro e solitario. Di Talete
stesso, bench’ Erodoto ricordi un consiglio di lui agl' Ionj, Platone (Teetete)
dice ch' ei s'astenne da' pubblici negozj. Qual diversità dalla storia de
Pitagorici ! non ci meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. (Fragm.
Philos. Græc. Didot, 1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'asso
luto. E che cos'è l'assoluto? La materia del mondo. unica entità, eterna,
divina, dotata di pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchè
Anassagora, ebber ciò di comune; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286
PARTE PRIMA. liani materiali che succedettero agl' ideali. Ma gl' Ionj
diversificarono tra loro nel concepire il moto dell'uni verso; chi, come Talete
e Anassimene, Diogene d'Apollonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico; chi,
come Anassimandro e Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il divario:
cercaron tutti la prima cagione delle cose, ma pe' dinamici la produzione si fa
con isvolgi mento di forze vive, come gli animali e le piante; pe’miec canici
la produzione non ha se non forme apparenti. mutandosi solo le particelle
inerti come ne’minerali. La dottrina vera comprende le due opinioni; perchè la
cau salità modale trae sempre in atto le potenze, l'atto si produce (dinamica );
benchè quest'atto poi non ci dia sempre una specie o un individuo, come nella
generazione degli animali, bensì talora un aggregamento come ne'mi nerali. A
ogni modo, tal dottrina non s'applica punto alla causalità creatrice; e
gl’lonj, negando che dal nulla si faccia nulla, negando qualunque causalità che
non operi sopr'un soggetto preesistente, non s'avvidero, che tal cau salità non
può dirsi assoluta, ma condizionata. Questo in genere; venendo poi a
specificare la causa prima, gl’lonj la posero chi nell'una e chi nell'altra
cosa che più parve trasmutabile in ogni altra o quasi un germe, secondo i
dinamici, o quasi elemento univer sale, secondo i meccanici: Talete nell'acqua,
Anassi mandro in una natura media (udtaču puçev ), e però lo chiama principio
(apua), Anassimene nell'aria, Eraclito nel fuoco, Diogene altresì nell'aria.
Ma, badate, o si gnori, nè quell'acqua, nè quell' aria, nè quel fuoco, son
proprio ciò che ne vediamo; è un che più intimo e uni versale, simboleggiato in
cose visibili secondochè queste parevano più acconce a figurare l'universalità,
come l'acqua che tutto abbraccia, l' aria per cui si vive, il fuoco che tutto
vivifica e distrugge. E con questo pensare la causa prima, s'andò di male in
peggio. Talete serba confuso al materiale un < he di spirituale; però dice
che tutto è pieno degli dèi e che in ogni cosa è la mente, e, secondo CICERONE (Quest.
Tusc.), professa l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma confuso
ed implicato: vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica più
antica, già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica ed
agl' Italioti; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sulla
natura di Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il prin
cipio, in cui tutto ritorna è infinito, perchè l'origine o il cominciare non
termina mai (tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov. Fragm. Phil. Græc.; Didot);
però gli dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da'
pesci. Anassimene seguitò quella via; nè altrimenti Eraclito, benchè questi,
che cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX, e Clem. Alex. Strom. I ), désse
alla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non si
discostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sulla
ragione prima. Qual è la ragione del conoscere? questa, che il principio
conoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le cose
conosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di morale
gl'Ionj ne parlassero poco; e ciò sta col materialismo loro; Eraclito bensì
pone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi della
patria; Achelao nega ogni legge necessaria; e il giusto e l'ingiusto fa nascere
dalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non détte, benchè
materiale e salvo poche verità, una fisica buona. All'assurdità del panteismo
volle rimediare Anassagora da Clazomene, nato verso il 500 avanti l'èra nostra,
però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò creatrice; sicchè s'apprese
al dualismo; anzi, (lacchè spiega poi la formazione del mondo come gli al tri
Ionj meccanici, non si sa bene che ufficio e' désse alla mente divina in
ordinare, il mondo. (Plat. Fodone.) Il suo libro cominciava: Tutte le cose
erano insieme; l'intelligenza le divise e le dispose. (Diog. Laert.) E così
distinse Dio, o la mente (vojv), dalla natura; e questa pose in particelle
simili, omeomerie, che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta o
che rice von poi di mano in mano (2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia in
parte lo seguì, ma peggiorando; chè fece l'aria dotata di mente, e quindi
ordinatrice. Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva sta
bili ordinatrice la mente; ma questa non va esente di materialità (Fragm. Phil.
Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori,
alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo? La negazione
degli scettici, particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte l'opinioni
de' Pitagorici e di VELIA, ben chè non anco terminate (come va sempre), e già
comin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un tempo le sette
degl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da Protagora (di cui
nel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone ); colui, non si sa
quando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra. Il principio d’un suo
libro cominciava: Degli dèi non so nulla; e Timone Fliasio scrive, che
Protagora quantun que dicesse ignorarli, osservò la legge ossia le cerimo nie
legali (Fragm. Phil. Græc.): nella osservanza della legge i sotisti posero
moralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj: tutto si muta; e con gli
Eleati: tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra; perchè se nulla
r’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza. Vedete, o signori, come
l'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due proposizioni già
dette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò: se tutto muta, nulla
è in sè stesso; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è vera; vere l'apparenze
contrarie, veri i contradittorj, vero insomma tutto ciò che si pensa, e l'anima
è la somma dei diversi pensieri (Condillac, Kant), e il fine del discorso sta
nel produrre l'appa renza: qui è il sostanziale dell'arte sofistica. Che vi
pare, o signori, non lo dicono anch ' oggi: tutto è vero quel che si pensa?
Quasi contemporaneo, ma un po'dopo è Democrito d'Abdera, nato per Apollonio il
460, e per Trasillo il 470; talchè, se fiorito con Protagora il 444. ciò
sarebbe avanti a' 16 od a'26 anni; impossibile il primo caso, non verosimile il
secondo, perchè Democrito dettò le cose sue dopo lunghi viaggi. Sa degl'Ionj,
perchè materialista, tiene bensì degli Eleati, perchè muove dal concetto
dell'ente; e dice: unico ente il vuoto e lo spazio con gli atomi nel seno;
dalle loro congiunzioni e dalle figure matematiche conseguenti nascono le
qualità; e poiche il simile si conosce col simile (τα όμοια ομοιών είναι
apestira ), v'ha conoscimento nell'anima, essendo ella un atomo a cui vengono
le figurette o immaginette dei corpi; rozza fantasia che male s'attribui ad
Aristotile. E Dio che cosa è per Democrito? Compiacendo alle plebi, egli finse
dèi come immagini enormi, ma sotto posti a morte; vero ateismo. (Fragm. Phil.
Græc. Di dot.) Vuol notarsi che Leucippo fiori con Eraclito il 500; ma poichè
il materialismo giungeva non opportuno. mancò allora il successo, in tal
maniera che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se Protagora s'accostò allo
scetticismo universale, non mi pare che vi giungesse: affermò che tutto si
muta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro ch'e' ne gasse l'entità
delle cose in questa loro perpetua muta bilità ed apparenza; chi giunse a tal
punto, risoluta mente, espressamente, e GORGIA DI LEONZIO (V. Dial. di Platone
col nome di lui, e altri dialoghi); perchè scrisse un libro sul non ente, cioè
sulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è non può conoscersi o se si
conosce non può significarsi. Con Protagora e GORGIA v ' ha una schiera che la
Grecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo e simiglianti. Chi erano
costo ro? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In che ci viltà vennero? In
età di corruzione. Che frutto recarono? Dicon gli antichi: pessimo nell'arte,
nella scienza e nel l'educazione della gioventù; benchè, come si vedrà, fossero
occasione di qualche miglioramento. Ma ecco fiorire verso que' tempi (V. Tavole
del Storia della Filosofia. - I. 19 Krug) un uomo che vuol riparare a tanta
dubbietà. Chi? Empedocle di GIRGENTI. Con che? col misticismo a cui s'ac
compagna (come accade sulla fine dei sistemi) un fare d'ecclettico. (Fragm.
Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del suo poema (népe ouro ) e da' detti d'
Aristotile e d'altri si raccoglie che il sistema d'Empedocle non è già fisico
solamente; Dio per lui è mente santa incor porea: e nè un pretto dualismo,
perchè il mondo è tutto, e c'è divinità mondane o fisiche: e nè un pretto pan
teismo, perchè si distingue la mente divina e gli atomi: che cos'è dunque?
Parmi ch'e' non avesse un concetto nitido, com'accade agli ecclettici; e così
di lui pensa rono gli antichi: alcuno lo fa di Parmenide, altri pita gorico,
Platone lo mette con Eraclito, e Aristotile con Leucippo, con Democrito e con
Anassagora. Ma prevale il misticismo; perchè ne' frammenti del poema, Empe
docle si dà com’uomo miracoloso, e si crede un Dio immortale; e veste da
sacerdote. In lui sentite lo scet ticismo e l'estasi; egli pone la mente, umana
in parte ed in parte divina; quella c' illude, questa (come dice il Ritter) dà
un santo delirio e sorge alla contemplazione mistica di Dio nella natura. Tal è
l'Yoga indiano, tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero in grande
stima Empedocle; ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian poco.
Tuttavia egli seppe dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei sofisti;
onorato dai suoi cittadini ed in tutta Sicilia. Così terminò quest'epoca, ed
ebbe strascico lungo in due schiere d'uomini; atei la cui morale era il
piacere, Evemero, Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e Diagora;
Pitagorici o dati anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici la maggior
parte. Questi atei com ' Evemero interpretarono storicamente la mitologia: gli
dèi furono uomini indiati, non altro. La scuola fisica poi degl'Ionj, più
tralignati, la interpretò fisicamente: gli dèi son le forze uniche della natura
EPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE. Moltitudine
di scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fin al
quarto secolo dell'era stessa, sullo spartimento delle quali non sono chiari
gli storici. Criterio per la distinzione del. l'epoche, e quindi per
l'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio, le dette scuole si
spartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue; 1º negli eruditi;
2 ' negli scettici; 3 ne ' sistemi grecoasiatici: tutti formano la fine
dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi anteriori. La seconda
classe, o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė, cioè l'epoca quarta. È
un'epoca nuova, per la tentata riforma, e per l'efficacia grande cosi di
Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del sorgere tardi la letteratura e
la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i Romani non furono più con tutta la
mente in fatti gravi e giornalieri. Allora può la riflessione volgersi alla
coscienza e contemplarvi l'uomo, – Il pensiero de ' Romani si distese
all'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e politica degl' Italiani
merce i Romani. Affetti domestici nel buon tempo di Roma. Come si vedano in
Virgilio le qualità prin cipali della civiltà italica. I germi antichi di
questa erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia. Durò poco in Roma la
filosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia greca, declinando,
avea lasciato salve ben poche verità, e perché Roma cadde in servitù. Cicerone
e i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia grecolatina. Cice rone
si proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le parti vere e certe ile'
sistemi greci, di comporle in ordine chiaro, d'applicurle praticamente, e che
se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fu
copiatore de ' Greci, ma pensò di suo. Non pare da distinguere i suoi libri (com
' alcuno pensa) in popolari e dottrinali. Libri logici, fisici e morali.
Cicerone ripete il conosci te stesso come fondamento della filo sofia: la
coscienza con tutte le due relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altri
criterj secondari, tenendo sempre in mente l'universi lità e dov'ella si
manifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a
’ Platonici, a' Peripatetici, agli Stoici, agli Accademici: rigettato
assolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da ecclettico, ma per un
ordine di principj; vide cioè che la filosofia è da studiarsi entro di noi; e
da tale studio inferi tre verità, che gli furono regolatrici: 1º che l'uomo sta
sopr' all ' altre cose; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e al
corpo; 3º che questa ragione con le sue leggi ci fa palese Dio. Talche delini
la filosofia: scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste (off.):
l'altra definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che.
Va seguito i principj spontanei, naturali, universali della ragione: ecco
l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi, ei potè co gliere
poche verità; queste affermò, nel resto sospende il giudizio. Esem pio, il
finale de natura Deorum. Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sulla
legge e sulla libertà; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divina
e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre; ossia, egli è certo su'prin cipj
e sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle per
cezioni esteriori. Dualismo. — Anche per la teorica del conoscimento. Teorica
dell'operare bellissima; legge naturale, eterna; Dio n'è la fonte; re. -. chi
non ammette Dio, non può ammettere la legge. — Il dovere. Gradi degli officj.
Quel ch'è giusto in sè stesso. Utile apparente, e utile vero; questo è
conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi positive nascono dalla naturale;
Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni eifetti della filosofia di Cicerone.
Non anche terminata l' epoca terza cominciò la quarta, de' sistemi greco-latini
– LATINO – ROMANO. Dalla seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare
fino al quarto secolo dell' era stessa, troviamo una moltitudine di scuole, lo
spartimento delle quali dà qualche impaccio agli storici. Taluno le piglia
tutte insieme (e vi comprende gli Alessandrini) come una sequela de sistemi greci
anteriori; e così non pone ad esse un'epoca distinta. E per fermo se tutte le
dette scuole non fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi,
mancherebbe la ragione del porle da sè, o del farne più classi. La ragione
d'un'epoca, quando si parla di scienze, è solamente una grande verità scoperta,
da cui dipende l'ordine universale d'una scienza qualunque, o il risorgimento
di essa dopo un tempo di scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire.
Insomma, v'ha un principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo e
potente: la continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più.
Applicando tal criterio all' età sovraccennata, par chiaro che i sistemi vi si
distinguano in due parti; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nella
greca e come termine di essa; la seconda costituisce un'epoca da se per qualità
sue proprie, o un'epoca quarta, benchè i siste mi dell'epoca terza la
precedano, l'accompagnino ed an che le sopravvivano: tanto è vero che la sola
divisione per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epoca
greca, si suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da un
lato v'ha le scuole di pretta erudizione; le quali non iscopersero nulla, nè
rinnovarono nulla; gli Stoici eruditi; i Platonici eruditi, com’Areio Didimo,
Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro; i Peripatetici eruditi o
commentatori d'Aristotile, come Alessandro d'Afrodisio; i Medici, eruditi
anch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha lo
scetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevano
a sistema il dubbio di Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro la
causalità, e negandola per la singolare ragione che il modo intimo del causare
nol conosciamo; quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa
spiegarlo. Da un terzo lato ancora, mescolati i Greci con gli Asiatici per le
conquiste d'Alessandro e poi per la vastità dell'impero di ROMA vediamo un
congiungimento tra la sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse la
setta degl’Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche il
panteismo asiatico, già cominciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio
Tianeo e in Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi,
benchè distinti dalla scuola d'Alessandria (e fa male chi li confonde), in
sostanza cominciaron l'avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento.
Gl’Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova? No,
perchè i metodi sono affatto dell'età socratica, e i principj gli stessi. Lo
scetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo.
L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma
scientificamente non è. Proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio,
non già da'me todi scienziali; piacque la misticità orientale, richiesta già
dagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gl’alessandrini facciano un'età da sè;
ma più attenta consi derazione m'hacondotto ad altro parere. La seconda parte
sì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o LATINA O ROMANA. Introdotte le
scuole di Grecia in ROMA comincia ivi un ordine proprio di concetti per
efficacia delle tradizioni ITALICHE e per la civiltà di ROMA. Talchè, ripeto,
avvi un'epoca quarta, o de sistemi LATINI ROMANI; nuova per le riforme tentate
da CICERONE e per la novità dei iureconsulti, che hanno efficacia sì viva e
universale nella civiltà europea; e anco perchè CICERONE serve più che i greci
alla filosofia cristiana de' padri latini e dei dottori, i quali per via di lui,
piucchè in modo immediato, sanno l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio
generale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla;
degli scettici dissi già nel passato. De'sistemi grecorientali poi si dee
trattare nella prim'epoca del l'èra cristiana, perch' essi combatterono la
sapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de'
sistemi LATINI ROMANI, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia che
in ROMA a nascesse tardi la filosofia. Nasce quando la riflessione si volge
alla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per elevarsi all'ideale
universalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto. Ma quando un popolo,
come IL ROMANO, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri che lo attirano o a
guerre esteriori od a contese interne; allora ti daranno bensì canti popolari
di guerra e d'illustri memorie (come gli accenna LIVIO. Ma non si possono dare
filosofia. In que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura
dell'uomo qualità generali delle operazioni, come fa il filosofo. Indi la
rozzezza de’ROMANI, talchè narra LIVIO, che lo storico più antico e FABIO
PITTORE a' tempi d'Annibale. Ma quando ROMA ha esteso la dominazione a tutta
Italia e oltre, allora IL ROMANO non vide più solo innanzi a sè le contese de'
vicini, e le contese del foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grande
nazione e il genere umano. Così l'idea di ROMA si appresenta in relazione con
tutta l'Italia e l’Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' ROMANI si
dilata. Si allarga fuori del cerchio de' fatti particolari. Il quirita si sente
più chiaramente e figlio di ROMA, e italiano, e uomo, tanto più che a poco a
poco LA CITTADINANZA ROMANA si estese a tutta Italia. A’tempi di Storia della
Filosofia. – 1. e alle 24 2 as 2 CICERONE non rimane quasi più possedimento in
ITALIA non assegnato a'cittadini per via di colonie; il qual fatto, unito
all'altro che già notai de’ primitivi abitatori ricaccianti le colonie greche,
spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè i
pochi Greci di PUGLIA non sono gl’antichi), non già ellenici come in Grecia
moderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie di ROMA, aiutate
dall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formano così l'unità naturale,
o la consanguinità della nostra nazione; nazionalità naturale determinata
da'naturali confini del nostro paese, e che si manifesta nell'unità formale de
dialetti, o già contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque la
politica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre; ma lasciando
a’municipj un'im magine di ROMA, consoli, senato e popolo com'a FIRENZE (Malespini
e Villani), e concedendo a que municipj amministrazione lor propria; indi
vennero i nostri comuni del medio evo. Roma e l'ITALIA, considerate in
relazione col mondo, formarono nelle menti romane com'un archetipo di perfezione.
Il vecchio PLINIO (giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia. Omnium terrarum
alumna et parens, omnium terrarum electa; una cunctarum gentium in toto orbe
patria. E VIRGILIO, lodando magnificamente l'ITALIA nel secondo delle Georgiche,
non si ristringe a Roma, e dice. Hæc genus acre
virumi, Marsos pubemque Sabellam Adsuetumque malo Ligurem, Volcosque verutos
Extulite.” E
Virgilio finisce con quell'alte parole. “Salve, magna parens, Saturnia tellus
Magna virum.” Giunto un popolo a questa larghezza di sentimento e di
riflessione, possiede l'idealità necessaria per la filosofia. Non lo stringono
più le necessità de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze,
considera la natura dell'uomo e delle cose. Questo svolgimento di coscienza per
la riflessione venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'ITALIA.
Qui, più ch'altrove nell'antichità, e sacro il connubio; e gli affetti di
famiglia v’ebbero consistenza per molti secoli. La stessa mitologia nostra,
come dice Polibio, rigetta le nefandezze de' simboli elleni. Or bene, gli
affetti di famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealità
suprema della legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se VIRGILIO,
benchè imiti Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti che
governano il poema; ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è una
disposizione di provvidenza rispetto a’ Romani; poi, nel concetto di patria ch'
è Roma; in quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto, come la Grecia
), cioè di tutte le genti italiane, non solo consanguinee (schiatta italica),
ma dimoranti pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da ROMA
(nazionalità politica): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dal
principio alla fine; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degli
affetti, con la quale il poeta mantovano prepara la poesia cristiana. Sicché,
quand' io leggo in alcuni libri ch'a Virgilio manca un'idealità propria, prego
da Dio la fine di certe passioni che impediscono la equità de' giudizj. Però,
mentre allargavasi il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà;
le quali, per altro, s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca gente
romana che ch'ella fosse e in qualunque modo si ragunasse da prima, certo è,
che s'ella fu rozza per le necessità di continue guerre, sorse tuttavia tra
popoli molto civili; ebbe accanto la Magna Grecia e l'ETRURIA, e le tante città
de’ SABINI e del LAZIO. Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civili
anco tra popoli rozzi? NUMA vien detto alunno di Pitagora; ' e l'anteriorità di
quello è spiegata dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai,
Dice CICERONE. “Romuli autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis
fuisse cernimus.” (De rep.): e Agostino scrive nella “Città di Dio” che Romolo
e venuto non “redibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis.”
Plinio cita le belle pitture d'Ardea più antiche di Roma. I Romani predarono
dalla sola Volsinia 2,000 statue. Bolsena in Fenicio significa città degli
Artisti (Cantù, St. Univ.) Se a ciò aggiungo la tradizione, che le leggi de
cemvirali si prendessero di Grecia (tradizione falsa per le leggi che
s'attengono a' costumi di Roma, vera probabilmente quant'al modo d'ordinarle ),
e se aggiungo altresì la perfezione che graduatamente il gius positivo ha dal
gius onorario, mi capacito che nel seno di ROMA cresce un germe di civiltà e
però di filosofia, da venire a compimento, quando se ne offerisse la occasione.
E questa occasione, testimonio la storia, è sempre qualcosa d' esterno.
L'occasione a Romani venne da Greci conquistati. Ed ha il proprio segnale
nell'ambasceria di Critolao, Carneade e Diogene babilonese. CATONE si sforza di
cacciare le sette greche. Invano, il terreno era preparato. E la pianta fiorisce.
Ben è vero che la speculazione puramente filosofica non dura a lungo, ma
prosegue a fecondare il diritto. E la qual brevità ha due cagioni principali. I
sistemi greci, che aveano menato tant' oltre la FORMA LOGICALE della filosofia,
quant'alla MATERIA poi l'aveano lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo;
talchè si richiede uno sforzo più che umano a rilevarla: poche verità si
conservavano intatte da ordirvi la scienza. Quindi, o rimane solo a far opera
d'eruditi e d'accozzatori, come gli ecclettici d'allora; o bisognara trar fuori
quel poco di certo, che non da soggetto a copiose speculazioni. In secondo
luogo, allorchè ROMA venn'a maturità di pensiero, cadde in servitù che isterili
la letteratura e la scienza. Quindi, i sistemi latini ROMANI si riducono il più
alla filosofia di CICERONE, e alle scuole de' Giureconsulti. I filosofi
anteriori a CICERONE seguirono i Greci pressochè interamente. LUCREZIO ripette
quasi le dottrine del Giardino; ma nondimeno LUCREZIO mostra la coscienza di
romano, allorchè, facendo materiale l'anima, pur conta fra gl’elementi
costitutivi di essa un elemento innominato, quasi animo dell'anima. “Nobilis illa vis, initum motus ab se que dividit ollis, Sensifer unde
oritur primum per viscera motus.” (De Nat.). E, quando stabilì negl’elementi
un moto spontaneo per ispiegare la libertà E quando celebra la divinità della
natura con versi stupendi e la santità del matrimonio. SENECA non si parte dal
PORTICO, benchè fa professione di non ispregiare nessuna scuola. ANTONINO, com’Epitetto,
ha lasciato aurei precetti, ma senza ordinamento di scienza. CICERONE, al
contrario, istitue speculazioni proprie, che certo hanno forza
nell'universalità de' Romani culti e nella giurisprudenza. Io dunque parlo di CICERONE
e de' Giureconsulti. Fin d'ora io dico che CICERONE si propone di sceverare
(con un principio superiore) le parti vere e certe de sistemi greci dalle false
od incerte, di comporle in ordine chiaro, d'applicarle alla vita privata, e
ch'elle confere all'eloquenza. Questa filosofia di CICERONE suol chiamarsi
ecclettica; e chi la intenda per metodo compositivo e logicamente ordinato,
passi. Ma dice male chi la pigliasse per una scelta a caso, senz’un principio
interiore e ordinatore. Nessuno puo negare che ciò distingua le speculazioni di
Tullio dall' ecclettismo de' Greci mentovati poco fa, i quali ragunavano nella
memoria, ma non componevano nel pensiero; e lè distingue pure da’migliori
sistemi dell'epoca antecedente, perchè CICERONE li giudica con libertà e li
trasceglie. Nè si può mettere in dubbio l'efficacia di CICERONE – non
MARC’ANTONIO, chi lo assassina -- su'secoli avvenire. I Padri e i Dottori lo
studiarono molto; e Agostino, da uomo grande che riconosce il vero ed il bene
onde che venga, scrive nelle Confessioni. Hic liber -- cioè la lettura dell'Or tension
-mutuvit affectum meum, et ad te ipsum, Domine, mutavit preces meas, et vota ac
desideria mea fecit alia.” Pare che CICERONE trade la schiatta da quel Tullo
Azio, che regna gloriosamente su’ Volsci (Plut. in Cic.). E quegli se lo tene
per certo, sicchè dice ne' libri Tuscolani, che Ferecide era antico -- fuit
cnim meo regnante gentili: indi la smania di comparire tra gli otti mati.
Lasciate le scuole, udì Filone accademico; ma insieme pratica Mucio,
personaggio assai versato nella politica, e principale tra’senatori, imparando
da lui scienza di leggi; e milita con SILLA tra’ Marsi (Plut.). Sente anche
Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene segue Antioco accademico, e non
trascura Zenone all’Orto. Anda poi in Asia, e si ferma a Rodi, per esser
ammaestrato dallo stoico Posidonio. Favella con tal passione e con voce si
concitata, che gli reca danno alla salute. In Sicilia e pretore giusto, umano,
amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, CATONE stesso chiama Cicerone padre
della patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma per le mene di CLODIO, vi
rientra poi come in trionfo. Gli furon trionfo tutte le vie d'Italia, per le
quali CICERONE passa. Stette fedele alla re pubblica contro la signoria di
GIULIO CESARE e la tirannia di MARC’ANTONIO. MARC’ANTONIO lo manda a trucidare,
e Cicerone porse il collo alla spada (Plut.) Ama la famiglia con tenerezza.
Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. Come
CICERONE intende la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera a
Quinto fratello. Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità,
e che formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animo
schietto e buono. Scrive a PETO. “Sii persuaso, che giorno e notte non altro
cerco, non altro penso, se non che i miei cittadini sien salvi e liberi. Non
lascio opportunità d'ammonire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso qui,
che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita, stimo di aver
finito preclaramente. (Ad fam.) Non pecca d'orgoglio, ma di vanità; si lodava
spesso, e questo aizza gl'invidiosi, e a lui diminusce rispetto. Faceto, morde
non di rado altrui, e, senza volere, s'accatta nemici; ma in lodare i meriti
veri abbonda con allegrezza e con liberalità d'uomo sincero e benevolo. Parve
talora incerto ne' propositi, e troppo addolorato nelle sventure. Prende due
mogli, ripudiando la prima. Volle dedicare un tempio alla figliuola morta. Loda
e invidia gli uccisori di GIULIO CESARE. Loda prima GIULIO CESARE troppo, ma
non l'opere mai. Dice Capponi (Archivio Storico ): Ma chi fosse più di me
severo a Tullio, pensi com'egli animosamente comincia la sua vita d'oratore e
la compiesse gloriosamente. Assalse nella difesa di Roscio d'Amelia un
Crisogono liberto di Silla ch'era affrontare SILLA medesimo. Principe nella
città e guida e anima del Senato, combatte MARC’ANTONIO e incontra la
morte.Oratore, accusa sempre gli scellerati, difese qualche volta i non
innocenti. FILOSOFO, stette per lo più dalla parte del vero. Bensì approvò il
suicidio, l'assassinio de' tiranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità, e
la schiavitù. Uomo di stato, cerca troppo la lode, ma insieme la grandezza e il
bene della patria. Scrive d'eloquenza, ed e oratore sommo. Scrive di filosofia
morale, ed e uomo dabbene. Scrive di cose civili, ed e gran cittadino. Ecco i
fatti principali e virtù e difetti che spiegano LA FILOSOFIA DI CICERONE. È impossibile non vedere in CICERONE tre forti
amori, di gloria, di patria e di famiglia. E' reca in tutto ciò un'ardenza di
cuore, la quale ha talvolta del molle, ma la tenerezza è temperata da un senso
vivo d'onestà e di decoro. (V. le Lettere scritte in esilio.) Ude tutte le
scuole, e però raccoglie il meglio; ma con iscelta libera e ordinata, perchè
uomo libero ed T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, segue,
più che non facessero le scuole greche, il precetto socratico di badare nella
scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delle
dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come fa CICERONE.
Badando al bene, odia la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori, e ne prende
il poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, coll’Orto non volle
mai pace. Un po' vano, pompeggia assai nelle parole; il che gli scema vigore
qua e là. Ma nella filosofia va semplice e spedito. Uomo universale, senatore e
console di Roma, cerca l'universalità negli; e questa filosofia da a 'Romani
l'idea di tutto il sapere. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore e
per bramosía di favori popolari, combatte nella “Divinazione” le falsità del
culto, le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio dei filosofi del Portico,
non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni, rimorso da coscienza non
confessata, dirò io, e lo credo. Taluno da quelle parole di CICERONE ad Attico:
ATÓMp492 sunt; minore labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo” (Ad
Att., XII, 52). Deduce ch'esso i libri filosofici traduce, non li facesse di
suo. Ma quando poi sentiamo che Cicerone stesso, in tempi che gli autori greci
erano familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di
greco, quali ATTICO e BRUTO, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice
(De fin. 1, 3): Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le
dottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e
un ordine nostro di scrivere. E dice altrove (De off. I, 2): Ora seguiremo e in
tal soggetto il PORTICO principalmente, non come interpreti (non ut
interpretes); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudizio
e arbitrio nostro ci parrà.” Allora, io affermo che Cicerone non poteva dire
una bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco. Eragli studio
comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco an 10 1:. bi lice. li 1 tes 377 (In Cic. ). E così un greco antico, più
che i moderni non greci, distingue bene i libri tradotti come il Timeo da'propri
di Cicerone. L ' opere di lui distingue Ritter in filosofiche o riposte ed in
popolari. A me non sembra; sì scorgo chiara la distinzione del DIALOGO
SPECULATIVO, come i libri accademici, dagli scritti che hanno un fine pratico,
ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai non vede
un ordinamento scienziale? E se CICERONE rispetta gli dèi più qui che altrove,
pensiamo che ciò s'usa da tutti i filosofi, quando essi non ispeculavano
direttamente sulla divino. Mi pare, poi, manifesta la distinzione, e più
principale: tra la FILOSOFIA NATURALE (De natura Deorum, De divinatione ), LA
LOGICA -- Academicorum, Topica, De inventione, De oratore etc. – LA FILOSOFIA
MORALE (Tusculanorum, De officiis, De finibus, De senectute, De amicitia, De
legibus, De republica, De fato. Quantunque in ciascuna classe si trovino
mescolate più o meno le dottrine, non già divise assolutamente. L' Ortensio poi
è perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone, imitando
Socrate, tornò a'principj e al fondamento del sapere. Quegli, come questi, si
trova in mezzo a una confusione di sistemi, e, come Socrate, chiama i suoi al
conosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il rimedio alle
superbie d'ipotesi vane e il principio della sapienza vera. Quand' io dico che
CICERONE imito Socrate, già non lo paragono a lui, nè come filosofo glielo fo
uguale, sì discepolo; dico bensì, che il tornare a'principj è in tutte le cose
rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino; e chi rinnova, è istitutore
novello e cominciatore d'un'epoca propria. E se CICERONE non riuscì a tanto
come Socrate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da imputare. La
scienza e la civiltà del Paganesimo cadeno, e sempre più CICERONE le trova
quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che CICERONE, come
Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Ama con grand' amore la
filosofia, 2 ! la pre 18 MA Tha U.
>> TH e ne scrive lodi magnifiche in ogni suo libro; anzi l' Ortensio e
composto da lui per esortazione a filosofare; e nondimeno quand' ei volgevasi
attorno, e sente le strane opinioni di tante sette, esclama: Niente si può dire
di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. (De div.) Ammone
per ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il conoscimento di
noi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri sistemi, non
presuntuosa (minime arrogans: De div. II, 1 ). Ripeta il precetto che sta sul
tempio d'Apollo, nosce te ipsum, e dice: Essendo tante e sì grandi cose che si
scorgono nell’uomo interiore da quelli che voglion conoscere sè stessi, madre
loro e educatrice è la Sapienza (De off.). CICERONE invita a fermar l'occhio in
questa evidenza interiore, dove tante verità si veggono chiare -- quæ inesse in
homine perspiciuntur. In questa coscienza di noi stessi, CICERONE come Socrate,
più di Socrate forse perchè ROMANO, sente l'uni versalità del vero, distinta
dalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro
sociale e religioso, relazioni universali anch'esse; e però CICERONE inculca
sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta
ragione (De off.); e contro L’ORTO fa valere gli affetti più generosi
dell'animo (ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama in
sostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri
Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di un
divino e l'immortalità dell'anima umana; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici Noi
più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono
cose non molto discordi dal pensar della gente. (Proem.) – cf. Grice,
“Philosopher’s Paradox” -. E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei
raccogliesse, di mezzo alle opinioni varie, le tradizioni universali de
filosofi e le divine. Inoltre, d'ottime autorità intorno a tal sentenza --cioè
l'immortalità dell'anima -- possiamo far uso; il che in tutte le que HIE ale Di
D. 4 stioni e dee e suole valere moltissimo -- in omnibus causis et debet et
solet valere plurimum. E prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ) -- la
quale, quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ),
tanto più forse discerneva la verità. » (Tusc.) E tra filosofi, che CICERONE
cita, preferisce appunto FERECIDE, come antico, antiquus sane; e indi ne
conferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici; il nome de'quali,
egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S
16). E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia e un dono, ma quanto a
sè, una invenzione degli dèi. Philosophia vero omnium mater artium, quid est
aliud, nisi, ut Plato ait, donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26. ) Nel che
s'accenna il principio divino della sapienza e della tradizione. Condotto da
questo filo tra i ravvolgimenti delle sette cansa gli eccessi d'ogni maniera. IL
PORTICO, per esempio, la cui morale severità CICERONE approva e segue, dice,
che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne fa
un'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi quaggiù; e però IL PORTICO,
se consentanei a sè, dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtù
e disperarne come BRUTO morente. CICERONE al contrario riconosceva una più
umile sapienza e virtù, che può essere di tutti, e che ci abbisogna nel vivere
comune. (De amic.) IL PORTICO, crede CICERONE, indiando la natura, di poter
trarre le superstizioni volgari a senso ragionevole (come tenta VARRONE per
testimonianza d’Agostino – “Città di Dio”. Ma Cicerone le deride (De nat. Deor.).
Mena buono all’ACCADEMIA, al LIZIO, e al PORTICO, che la più alta felicità
dell'intellettuale natura sia la contemplazione (Hort. in Agost. De Trinit.). Ma
in questa vita, ei dice, la contemplazione senza la pratica delle virtù è nulla
(De off.); e quindi censura Platone che scrive: Il savio non essere obbligato a
civili negozi. (De off.). IL PORTICO, per alterezza di ragione, spregia il
corpo e i beni corporei. Ma Cicerone dice:
11 he COL iti be 111 15:-11 19 Poichè s'ha da seguire la natura. Noi
siam anima e CORPO. Non possiamo spregiar il corpo, nè si dee imitare
que'filosofi, che accorti d'un che superiore a'sensi ne spregiano la
testimonianza. Con che l'accoccava pure agl’Accademici. (De fin.). IL PORTICO
nega l'efficacia del dolore sull'uomo sapiente, e svile ogni piacere. CICERONE
invece mostra che il dolore eccessivo è impedimento agli officj, e che le
temperate giocondità son utili e buone. (De sen., De fin.). IL PORTICO,
concependo la virtù con altezzosa rigidità, stimano uguali tutti i malvagi e
tutti uguali i peccati, perchè tutti contrarj al bene. CICERONE confuta in più
luoghi tale uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è mancare a posta,
altro è nell'impeto di passione. (De off.) Se nella morale ei tenne dal PORTICO,
rigettate le loro esagerazioni, in logica, metodo filosofico e analisi di
concetti stette per l’ACCADEMIA giacchè, come dissi altrove, la riforma del
filosofare comincia sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, la
temperanza; perchè, dove l’ACCADEMIA (a quello che ne sappiamo) nega ogni
verità e CERTEZZA nel percepire le cose e ammetteno solo una verosimiglianza,
uguale per tutte le opinioni. CICERONE invece ne' fondamentali principj e nelle
verità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li stima
probabili, non ugualmente, sì convarietà di gradi; e al probabile opponeva quel
ch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole: Vorrei che fosse ben chiaro il
nostro pensare; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si crede aggirato
sempre in errori, e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, o
questa vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del disputare, ma del
vivere altresì? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose e
alcune incerte, così noi, dissenziendo da essi, diciamo probabili alcune e
alcune improbabili. (De off.) Qui si scorge, che il dubbio di Cicerone non cade
punto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul domma fisico
e morale del PORTICO. E nel libro delle Leggi dice” « Preghiamo poi, che questa
Accademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti;
perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sembrano ordinate e composte con
assai aggiustatezza, recherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, ma
cacciarla non oso.La qual conclusione mostra, ch'ei non rigetta in tutto i
dubbj, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagl’ACCADEMIA allor chè
dice. Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei dire
piuttosto quel che non è, che quel che è. (De nat. Deor.) Nel vivere nostro, e
massime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni non monta già poco il sapere
quel ch’una cosa non è; significa sapere che il divino non è come noi, che il
divino o l'animo nostro non sono CORPO, che il fine dell'uomo non è la voluttà;
negazioni pregne d'affermazione, implicita si ma certa. E chi vuole stimare
quanto merita il ritegno di CICERONE, anc' allora ch ' ei parla di probabilità
negli officj particolari -- non mai nella legge suprema -- pensi l'assurdità
del panteismo e del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica,
l'incertezza della morale, anche in Platone e Aristotile; e s'accorgerà, che se
Socrate meritò lode dicendo, contro l’arroganza de' sofisti. Io so di non
sapere, merita pur lode il nostro CICERONE d'averlo imitato in tanta corruzione
di filosofia e di costumi. E quindi ei non ha dubbiezze contro L’ORTO. Dice a
loro: che la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato; nè la
voluttà va messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De
fin.) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri del senso.
Il piacere stesso non cato per sè, ma per noi (De fin.). Il dovere ha da
cercarsi per sè stesso. E la dottrina dell’ORTO, se consentanea a sè, non
lascia luogo al dorere. (De off. ) Ma questo sceverare il vero dal falso, con
che 01. Jo (dine interno di principj si faceva? Già ho detto, che Cicerone
ritorna al conosci te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. E
ho accennato, che ivi egli trova l'uomo non solitario, ma in relazione conl
divino, con gli altri uomini e col mondo. Però esclama: « In questa
magnificenza di cose, in questo cospetto e conoscimento della natura, o dèi
immortali, oh quanto conoscerà sè stesso l’uomo; il che c'impose Apollo Pizio! (De
off.) Per via della coscienza, s'accorse Cicerone in modo chiarissimo di tre
verità: prima, che l'uomo sta sopra l'altre cose; poi, che la ragione dell'uomo
prevale al senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra il
divino con le sue leggi. Viene da ciò la definizione della sapienza o della
filosofia nel II libro degli Officj (S2): scienza delle cose divine ed umane e
delle cagioni di queste; definizione più determinata che non l'altra ne' libri
Tuscolani (V. 3), dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone
stringe la scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimento
ragionato del divino e dell'uomo e de’sommi principj. CICERONE capisce, come
nella scienza si désse un ordinamento necessario; e diceva: « È malagevole
sapere alcun che in filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto. » (Tusc.
II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione.
Bisogna riflettere a noi stessi; in noi tro viamo la ragione, che ci distingue
da' bruti e dalle al tre cose; nella ragione troviamo i giudizj spontanei,
naturali, evidenti, universali. Questi fa d'uopo seguire. Ecco il principio
ordinatore della scienza e della virtù. Il tempo, scrive Cicerone, cancella i
capricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. Opinionum
enim commenta delet dies, naturæ judicia con firmat (De nat. Deor.). Ma questi
giudizi erano avviluppati in una moltitudine di sistemi. Però, quanto alla
teorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco. Chi potrebbe mai condannarlo
d'insipienza? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nè
del quinto d'Aristotile, nè della materia o della forma. Le sue indagini hanno
per fine la esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondo
e l'immortalità dell'anima umana (Ritter). Quanto alla divinità, egli non ne
dubita punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna
legge della giustizia (De leg.). Ma intorno alla natura di Dio non afferma gran
cosa. Del metodo di lui, su tali materie, porg' esempio il libro De natura
Deorum. Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico.
L'accademico nega il dio animale degli Stoici, e termina dicendo: « Questo io
diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ella
sia oscura e piena d'intrigate difficoltà. » Lo stoico poi combatte l '
epicureo. Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosa
conclude? E' dice: la disputazione di COTTA (Accademico) sembra a VELLEIO (Epicureo)
più vera. A me l'altra di BALBO (Stoico), più verosimile. Cicerone, adunque,
mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agli
Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure da
quella ragionando sul divino. Pur tuttavia non sa nulla giudicare assolutamente
sulla natura del divino stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, le
dottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenza
della divino (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ), la legge morale e il
libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Crisippo, ch'ogni
proposizione è vera o falsa necessariamente (De fato); le opinioni verosimili
si hanno ne' libri di FILOSOFIA NATURALE, dove apparisce dubbj sulla natura del
divino e dell'anima, e sulle relazioni del divno con l'universo, e quindi sulla
prova fisica della divinità provvidente; ne' libri logici, finalmente, su '
principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta,
beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esteriori
percepite da ' sensi. Anche Kant pose
superiore la certezza dell'argomento morale ad ogni altra certezza. Ma Kant
celebra quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione pura o
teorica o speculativa. Cicerone, al contrario, non la nega mai, anzi la
magnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizj
accertati. Dunque Cicerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli poteva
conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e la
certezza; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone la
verisimiglianza. In ciò solo fu accademico; e non pienamente nem men qui, come
avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la necessità
della materia alla libertà divina; e che cadesse nel semi-panteismo, facendo
divina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più luoghi; ma
più da queste parole. Le altre parti, onde si compone l'uomo, fragili e
caduche, le prese da generazione mortale. Ma l'animo è generato dal divino (De
off.), e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo in testimone il
divino, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui non détte
il divino all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la temperanza
dell'affermare in quello ut opinor; tant'era l' ecclissamento delle principali
verità sul finire del Paganesimo! Quant'alla teorica del conoscimento, CICERONE
distingue l'intelletto dal SENSO. Lo distingue tanto, che come Platone e
Aristotile, trovando un'immagine del divino nella mente nostra, la identifica con
esso. Anzi nel testimonio del SENSO non pone più autorità ch ' una
verisimiglianza, il che procedeva dal dualismo, secondo il quale il divino e la
mente son divisi dal resto. E per la logica si valse d'Aristotile, come si ha
dal libretto de' Topici. È stupenda la teorica dell'operare; perchè ivi reca
Cicerone più che altrove le verità universali raccolte dal testimonio della
coscienza; e vi reca quel suo modo di escludere l'esagerazioni e di comporre le
spatse verità con un principio più alto. Qual principio? Il rispetto della
ragione, che, in quanto conosce la verità, è retta ed è regola delle nostre
operazioni. Bisogna seguire, ei dice con gli Stoici, la natura, non l '
arbitrio delle passioni. Ma la natura nostra è ragionevole; dunque ogni atto
nostro dee farsi con ragione e sottomet terle l' appetito. (De off. I, 28, 29.
) E questa ragione ha potestà di comandare, perchè sta in essa una legge
naturale ed eterna del bene. « La legge (così Cicerone) è la ragione somma,
insita nella natura, e che comanda ciò ch'è da fare, proibisce il contrario.
(De leg.) Questa legge è nata da tutti i secoli, primache fosse scritta legge
alcuna, o che qualche città fosse istituita. Questa legge viene dal divino,
perch' ell ' è divina; e chi non ammette il divino, non può ammettere la legge
eterna e naturale. La legge è la ragione
divina partecipata a noi; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza di
questa è società, però noi siamo primamente consociati coll divino. E poich'
ell' è comune a tutti gli uomini, noi in secondo luogo formiamo la società del
genere umano « e tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina,
e a Dio sovrap potente » (parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ et
præpotenti divino. . Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini
(soli essi fra gli altri animali) han qualche notizia del divino, nè v'ha gente
sì fiera che, ignorando qual divino adorare, pur non sappia che ve n'è uno. Noi
dunque siam nati alla giustizia; e il gius non è costituito per opinione, ma
per natura. Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e ciascun
di noi si definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in dottrina,
ma nella facoltà del sapere è uguale. Dalla legge si genera il dovere, che va
quindi cer cato per sè stesso, come sudditi alla retta ragione, ne vi può
essere alcuna virtù se non si cerchi per sè, ma per la voluttà o per l'utilità.
(De off.) Come la ragione guida ogni atto umano, così la retta ragione reca in
ogni atto un officio. Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in
private, nè in forensi, nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che,
nè Storia della Filosofia. 25 se pattuisci con altrui; non v ' ha momento di
vita che possa mancare di qualch 'officio; e nell'adempirlo è tutta l'onestà,
nel trascurarlo la turpitudine. » (De off.) Nell'adempire gli officj stanno le
virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù,
se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle
cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso (De off. I, 4); sicchè «
nella universale so cietà son varj i gradi degli officj; onde si può sapere ciò
che si conviene a ciascuno; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poi
alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » (De off.)
Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge eterna in
sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le giustifica
nemmeno l'amore di patria. (De off.) Egli distingueva poi l'utile apparente
dalla virtù: ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con l'onestà; e quand'
apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a pensare sulla scelta.
(De off..) L'utilità è l'effetto, non il fine della virtù. (De amicitia) E
dalla virtù nasce l'onestà (che in latino ha senso d'onorabilità ), anche se
niuno la conoscesse: « etiam si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. »
(De off.) Giacchè la virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza: «
l'uno viene dall' animo onesto, l'altra dalla sanità del corpo (De off.); e
come il decoro de' poeti è la convenienza delle parole col significato, così il
decoro della onestà è la convenienza con la natura. » (Ib. 28. ) Però, come i
Greci dicevano o" te uovoy (yóv to 2026, il solo buono è bello, così
Cicerone (come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice: quod
honestum sit, id solum bonum esse: onorabile è solamente ciò ch ' è buono. (Paradox.
I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e la
virtù. nascono le leggi positive; talchè l'esistenza di Dio è il proemio di
tutte le leggi (habes legis proemium, De leg.). « È stoltissima cosa (segue
Cicerone contro l’Orto) che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle
leggi de' popoli. E che? dunque, anco le leggi de'tiranni?... Ma v'ha un unico
gius, da cui è unita la società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è
la retta ragione di comandare e di proibire: e chi la ignora, è ingiusto, o
ch'ella sia scritta o no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi
scritte e agl'istituti de' popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da
misurare con la utilità, trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo
creda fruttuoso. Così non v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò
che per utilità è stabilito, da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da
natura non si conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La
legge naturale ha da regolare il diritto pub blico, quello delle genti e il
privato; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra, sui
trattati. sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il
giudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana: dopo
averne narrato l'umanità ne’secoli primi, aggiunge che questa diminuì a poco a
poco, e dopo le vittorie Sillane cessò; e quindi esclama: jure igitur plectimur
« a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamo
scontata per se coli. De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessi
argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep.) Che fa adunque la
filosofia di Cicerone? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia e
splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza; gli dettò
que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci, eletti e
temperati; que' libri rettorici, che sono un codice dell'arte per comune
giudizio; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica,
dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zione
platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi. Però, quand' io sento uno
storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in lui
non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, più
che dell'insolito, sia desiderosa del vero. La giurisprudenza è scienza
filosofica, perché riguarda gli alti umani o personali. La giurisprudenza
positiva non altro fa se non appli care il diritto naturale. Si cerca, quindi,
lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme logiche, e
quanto alla materia. Quattro età del gius romano. Prima età: consuetudini. È
difficile determinare qual parte avesse la civiltà, e quindi la scienza, in
que' primi germi del diritto. Ma vestigi di sapienza ve n'ba. Che cosa abbia di
vero e di falso la tradizione sulle dodici tavole. La materia di esse certo è
romana. Probabilmente la forma logica loro è di Ermodoro Efesio. Seconda età:
si pubblica il segreto delle azioni. La giurisprudenza, perciò, viene alla
gioventù dalla puerizia. Ma crebbe in modo segnalato allorché, sul cadere del
sesto secolo di Roma, si propaga ivi la filosofia. Il settimo se colo è quello
di Cicerone. Si prova con l'autorità di Cicerone, che allora si lero a grande
stato la giurisprudenza per lo studio della filosofia. Allora si conceve l'idea
d'un codice -- idea che vuol abito filosofico delle universalita. Terza età: la
signoria de’ Romani, dilatandosi a tutta Italia, fa pos sibili le scienze.
Cittadinanza romana a tutti gl 'I taliani. Gius italico che da il dominio
quiritario, e il diritto de’ comizii anche per deputati ec. Colonie romane per
tutta Italia. Si determina bene il concetto del paese italico. Gius equo e
buono. Altra cagione della fiorente giurisprudenza; giureconsulti, per lo più,
non sono causidici. Un'altra: l'emulazione in filosofia con gl’oratori. Cenno
su’ principali giureconsul ti. Loro virtù. Com'apparisca dagl’autori, ch’essi
citado ne' frammenti, lo studio loro ne’ poeti, negli oratori e ne ' filosofi.
Si paragona que’ giure consulti a' matematici per tre ragioni. Vigore delle
conseguenze. Cura nel l'evitare contraddizioni. Metodo induttivo e deduttivo.
L'efficacia della filosofia non si ristringe alla forma logica. Passa alla
materia. Tale influsso non apparisce solo da prove particolari, ma più ancora
dalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del pensiero e (salvo
qualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della giurisprudenza, e
perchè i giureconsulti la definissero come la filosofia morale. Distingueno la
scienza del diritto dall'arte. Però s'elevano al concetto della filosofia vera,
rigettando gli eccessi: la speculazione de’ giureconsulti è contenuta nel vero
da' dettami di senso comune e dal fine pratico. Distinzione del diritto in jus
naturale, ius gentium et ius civi. Si
mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de’ diritti
naturali. Non accettabile, quanto alla servitù, la nozione del gius civile. Ma
i giureconsulti ROMANI diceno la servitù non secondo il gius naturale, e riconosceno
un fatto. Come la parola “ius” non esclude l'idea d'un diritto eterno. E si
distingue dalla espressione “legge.” Poi, si ha ne’ giureconsulti ROMANI l'idea
precisa del diritto eterno e del diritto naturale. L'efficacia della filosofia
si mostra nella giurisprudenza per via del diritto onorario, per via del
diritto ricevuto, e per l'interpretazione de ' giureconsulti. Molte novilà
introdotte dal gius ricevuto. La virtù e la vera FILOSOFIA de' giureconsulti ROMANI
si fa sentire per fino nel loro stile. Si reca un saggio della loro sapienza e
brevità elegante. Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de'
giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cerca la comprensione finale.
Parlato di Cicerone, è da parlare de' giureconsulti romani. La giurisprudenza è
una scienza che e una parte della FILOSOFIA perchè risguarda gli atti umani o
personali. La giurisprudenza procede dalla FILOSOFIA MORALE, che abbraccia la
scienza de' doveri e quella de' diritti naturali. La giurisprudenza POSITIVA
non altro fa che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabili
generalità del diritto eterno. Però, se LA FILOSOFIA entra in tutte le scienze
com'ordinamento di concetti e di giudizj, entra poi nella GIURISPRUDENZA ROMANA,
non solo com'ordine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle
ragioni supreme. Avrò dunque a cercare lo svolgimento di LA GIURISRPUDENZA
ROMANA, per l'impulso di LA FILOSOFIA ROMANA, nel doppio aspetto della FORMA
LOGICA e della materia. La storia di quella e distinta bene dall' Hugo in
quattro età nella sua “Histoire du Droit Romaine.” La prima va dall'origine di
ROMA fino a le XII tavole, cioè fino alla repubblica. La seconda fino a CICERONE.
La terza fino ad OTTAVIANO. Se vero, oltre i due secoli dell'èra volgare. La quarta eta, fino a GIUSTINIANO. Età di
fanciullezza, di gioventù, di virilità, e di vecchiaia. Il giureconsulto
Pomponio c'insegna (Fr. 2. D. De Or. Juris) che Roma, ne' primi tempi, si regge
SENZA LEGGE nè diritto stabile -- cioè per CONSUETUDINE. La CONSUDETUDINE forma,
dice Forti (“Istituzioni Civili”), il diritto privato con l'autorità degli
esempi, cioè de' fatti ripetuti, e forma con gli accordi de'potenti il diritto
pubblico. Così il potere assoluto del padre, del marito e del padroni è da'
giureconsulti risguardato sempre per CONSUETUDINARIO, ed anche l'uso delle
clientele. Quanta parte ha la civiltà, e con la civiltà la scienza, in
que'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si
remota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano
scritti, perchè le serba con la lingua loro la stirpe greca. Ma de’ LATINI
PRISCHI e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote. Ogni
lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è, tuttavia, che, almeno
gl’etruschi sono molto civili. Sembra non si possa dubitare che il sangue loro
si mescolasse nel popolo di Roma -- benchè l'Hugo lo nega. Ma LUCIO FLORO, parlando
della guerra sociale, dice chiaro. Quantunque la chiamiamo guerra “sociale” a
diminuirne l'odiosità. pure, se stiamo al vero, quella e guerra *civile* -- giacche
il popolo romano, avendo mescolato insieme gl’etruschi, i latini e i sabini, e
traendo da tutti un sangue solo – “unum ex omnibus sanguinem ducat” --, è di
più membri un corpo e di tutti è una unità (Rer. Rom.) Lerminier nella sua “Philosophie
du Droit” riscontra con molto acume in VIRGILIO la prima origine de' tre
popoli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche. Lodando l'agricoltura,
VIRGILIO dice cosi. Questa vita tennero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello.
Così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fa la bellissima di tutti
gl'imperi, Roma; e una, si circonda d'un muro i sette colli (Georgiche). Fatto
è che a taluno par vedere i *tre* popoli nelle tre tribù del primo popolo
romano, rammentate da Livio – TRIBU I: i Rannesi o Latini, -- TRIBU II: i Tarsi
o Sabini, e TRIBU III: i Luceri o Etruschi (Warnkoenig, “Histoire du Droit Romaine”).
Momen (Storia Romana) nega tal mescolanza. Ma Momsen non da le prove.
Probabile, a ogni modo, che quel nuovo comune di Roma. sorto fra ’comuni vicini,
si mescolasse pure di genti vicine. O si conceda dunque con Niebuhr la
preminenza agl’etruschi, o concedasi a’ latini con l’Hugo, un in dirizzo nelle
cose romane lo dettero i primi – gl’etruschi. Ciò spiega, come in tanta
rozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio come il popolo latino LATINO DEL
LAZIO si possede un gius pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti.
Questo io dico per mostrare che le prime consuetudini ed istituzioni hanno
qualche ragione di civiltà, e riuscirono buon fondamento alla giurisprudenza
perfetta. Però, fin dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzione
da’magistrati (magistratus populi romani) che stabilivano il diritto, da'
giudici (judex, arbiter ) che giudicavano del fatto (Hugo) -- distinzione che a
poco a poco détte occasione al gius onorario. È noto che il reggimento di Roma
sott’i re e, più, ne' principj della repubblica, e degl’OTTIMATI, cioè, aristocratico.
Indi la opposizione civile dei PATRIZI colla plebe per avere un gius equo -- opposizione
che, divenuta incivile o violenta, rovina la repubblica, come la prima ne forma
la grandezza. La PLEBE dimanda leggi scritte per contenere l'arbitrio de' PATRIZI,
e si promulga la legge di le XII tavole. Narra il giureconsulto Pomponio, che
queste si raccolsero in Grecia, interprete d'esse l'efesio Ermodoro (Fr. 4, D.
De Orig. Juris.). Certamente, PLINIO il vecchio (“Hist. Nat.”) rammenta come
serbata fino a lui la statua fatta per decreto a questo Ermodoro. Talchè la
tradizione non pare favolosa in tutto. Ma è certo altresì che in le XII Tavole,
per quanto ne conosciamo, non si ha traccia del diritto che non e romano.
L’essenza – l’essenziale -- giudizj, patria potestà e connubio, eredità e
tutele, dominio e possesso, diritto pubblico e diritto sacro -- e cosa tutta
romana, come dice Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri come Warnkoenig.
Ma io credo abbisognasse l'opera di quel greco erudito per meditare questa o
quella vecchia CONSUETUDINE, e RIDURLA A CONCETTI determinati ed a’lor capi
principali, ufficio di riflessione addestrata. Nè ciò avrebber saputo I ROMANI,
dati all'armi anzichè agli studj. Ecco
il per chè quella primitiva sapienza, logicamente specificata e distinta d’Ermodoro,
trae in ammirazione Tullio. CICERONE scrive ne' libri “De Oratore”. Se ne
adirino pur tutti, io dirò quel che sento: a me, il solo libricciuolo di le XII
tavole, par superi (se tu guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche
de' filosofi tutti nel peso del l'autorità e nella copia dell'utilità. Quanto
prevalessero in prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, intenderà facile
chi le nostre leggi romane paragoni a quelle di Licurgo, di Dracone e di
Solone. È incredibile, di fatto, quant'ogni altro diritto civile, salvo il
nostro romano, sia in colto e quasi ridicolo. (De Or.) Le quali parole
attestano tre cose: l'antichissima civiltà di quelle genti che formano Roma, e
che vi recano le proprie tradizioni, benchè si dessero, poi, a vita agreste e
guerriera; la falsità che il gius civile romano procede ài Grecia ne' suoi
particolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolge da principj
non rozzi ne poco pensati. I ROMANNO danno la sostanza, i Greci probabilmente LA MERA FORMA LOGICA, per GENERE E SPECIE – cioè,
ordinamento di codice. Da le XII tavole nasce la necessità d'interpretarle per
disputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loro
applicazione. Di qui, come dice Pomponio venne il diritto civile non scritto o
l'autorità dei prudenti, e le azioni delle leggi (“legis actiones”). Ma tutto
ciò e un SEGRETO de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda età, la
libera giurisprudenza passa dallo stato infantile alla gioventù. Ma quando mai accadde
tal cosa in modo più segnalato? A Roma si propaga il filosofare. Il secolo
posteriore è appunto il secolo di CICERONE. Or bene, la giurisprudenza,
cresciuta lentamente crebbe rapidamente. Allora proprio noi riscontriamo i
giureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto
alla natura degl’atti umani in sè e nell' esteriori attinenze. Scrive CICERONE
la “Topica”, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di TREBAZIO, come
si ha dal proemio di quel saggio, ov'è scritto. “Non potrei, adunque, con te,
che me ne pregavi spesso, benchè timoroso di noiarmi, come scorgevo facile, stare
in debito più a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete del
diritto. Sicchè queste cose, non avendo libri con me, scrivo a memoria nella
mia navigazione, e dopo il viaggio ti ho mandate.” Il qual saggio è notevole
molto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di giurisprudenza. E di SERVIO
SULPIZIO, primo in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiato
da' giure consulti posteriori, ecco che scrive CICERONE, amico di lui. “Si
stima, o BRUTO, che grand'uso del gius civile s'avesse da SCEVOLA e da molt'
altri, ma l'arte da que st' unico, cioè da SULPIZIO -al che non sarebbe giunta
in lui la scienza del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna
spartire le materie composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire
con le interpretazioni l'oscure; e così a veder prima ben chiaro le cose
ambigue, poi a distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero
dal falso, le conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque reca tal arte
(massima di tutte l'arti ), quasi luce in tutto ciò che dagli altri si
rispondeva o si faceva confusamente. (De CI. Orat.) Con le quali parole mostra
CICERONE la forma di scienza che si prese dal diritto in virtù della LOGICA. E
la FORMA scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, leva le menti alle
generalità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza
del diritto. E il segnale n'è questo; che al termine dell'età seconda, cioè sul
fiorire della filosofia a Roma, GIULIO CESARE e POMPEO ebber disegno d'un
codice; disegno, che mostra l’uso e la stima degli universali astratti da ogni
caso particolare, ordinati poi secondo GENERI E SPECIE -- giacchè un codice val
quanto in istoria naturale un ordinamento PER CLASSI. Pare che SERVIO SULPIZIO effettuasse
un alcun che di somigliante a impulso di Cicerone, il quale alla sua volta ne'
libri delle leggi mostra un saggio di codice pel diritto pubblico, e al
trettanto promise pel diritto privato. Nè qui entro in disputa fra due scuole
alemanne, l'una che, con Savigny, sostiene il danno de’codici. Laltra che ne
difende l'utilità. Dico a ogni modo (nè si contrasta ) che un codice non si fa senz'abito
di speculazioni filosofiche. L'averlo pensato in Roma e tentato a quel tempo,
chia risce la efficacia loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a compimento
nella terza età, cioè ne' primi due secoli e mezzo dell'impero. Il dilatarsi
del dominio romano a tutta Italia prepara il campo alla filosofia. I Romani,
sentendosi non più solo romani, ma italiani e uomini, la loro coscienza si
chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di questo
fatto non v' ha dubbio di sorta. Dopo la guerra sociale, per LA LEGGE PLAUZIA e
LA LEGGE GIULIA DE CIVITATE SOCIORUM e data, come nota Haubold nella sua “Tavola
cronologica per servire alla St. del Diritto”, a tutte le città italiche CITTADINANZA
ROMANA -- eccetto i Lucani e i Sanniti. Poi consegueno la cittadinanza i galli
oltrepò, conseguíta prima da'Galli cispadani. La ottenne tutta perciò la Gallia
cisalpina. (Framm. L. de Gallia Cisalpina). In tal modo, come scrive Savigny,
dopo la guerra italica i cittadini d'Italia divennero parte del popolo sovrano (St.
del Dir. rom). Questo gius italico da dominio quiritario, o dominio
solennemente e pie namente assicurato, immunità da tutte l'imposte dirette,
libero governo municipale delle città italiane (ivi), diritto d'intervenire
a'comizj o di mandarvi deputati. Talchè l'Italia, a ' tempi romani, con l'unità
politica suprema serbò le unità politiche secondarie, che si chiamavano socio
confederati. E questo accadde perchè i romani hanno già fatto l'unità naturale
della nazione col mescolamento de’ sangui, spargendo ovunque le colonie
(com'osserva Forti), nè per sei secoli ne mandaron mai fuori d'Italia. (Ist.
Civ.). L'Italia, dice Hugo, non si considera mai una provincia; chè le
provincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma suddite (Hist.
du Dr. Rom..) I romani, allora, si levarono con la mente all'unità naturale del
territorio, come vediamo ne' Digesti. Al Fr. 99, $ 1 de Verborum significatione
è scritto. Dobbiam credere provincie continue le unite all'Italia, come la
Gallia cisalpine. Ma e la provincia di Sicilia più si ha da tenere per
continua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto. “Continentes provincias
accipere debemus eas, quæ Italiæ junctæ sunt, ut puta Galliam: sed et
provinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas oportet, quæ modico
freto Italia dividitur” Ulpiano. E al Fr. 9, D. de Judiciis et ubi etc., si
dice.Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia. “Insulæ
Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie.” A questo concetto sì pieno
vennero i romani tra gli ultimi tempi della repubblica e i primi del PRINCIPATO,
cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana,
con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza. Si aggiunga poi, che
le sevizie de' principi cadevano in Roma su'patrizi più sospetti, ma quel
reggimento temperavano istituti repubblicani e ordini civili equi. Se no, come
dice Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi uscissero
mai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de' principi; e come
ALESSANDRO SEVERO ha un consiglio di XVI sapienti, tra cui i più chiari
giureconsulti, FABIO cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio, Modestino e altri.
(Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1, § 1-5. ). E tanto è vero, che la notizia del “gius equo”
e buono splendesse viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provincie, finita
la guerra civile, non e punto legale, anzi contr'alle leggi; perchè, secondo le
costituzioni come dice Warnkoenig, le provincie stano bene, le imposte sono
lievi, lo stato pacifico, molto dell'amministrazione in mano di quelle (il che
scusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e senato
li minacciavano con le leggi repetundarum, tornate vane per corruzione
de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom.) Tali cagioni principalmente formarono la
sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici,
ma scioglievano questioni di diritto in generale. E ciò indica sempre più e la
natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da interessi
particolari, progredisse continuamente. (Cic., De CI. Orat.). Poi, l'emulazione
degli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co' giureconsulti
che ne volevano serbare la severità, incita questi a gareggiare in isplendore
di filosofia, e ad interpretare il diritto co' placiti del senso comune. Così
da una disputa tra l'oratore CRASSO -- contemporaneo al padre di Cicerone -- e MUZIO
SCEVOLA giureconsulto sull'interpretare i testamenti o a rigore di parola, o
secondo la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in
quest'ultimo senso, ripresa da Forti, ma e forse meglio approvata da Cuiacio.
Infine, l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la
illustre loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetudini di Roma,
indica il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale del Portico,
che ci chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loro
scienza; e tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è
spiegato. Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte
uomini onorandi. Nomino dapprima QUINTO MUZIO SCEVOLA, assassinato a’tempi di MARIO.
Dice POMPONIO che Muzio costitue primo il decreto civile, disponendolo per capi
di materie (“generatim”) in XVIII libri. SERVIO SULPIZIO riduce il diritto a
stato di scienza. SULPIZIO e prima oratore grande, poi giureconsulto per un rim
provero che gli fa MUZIO SCEVOLA d'ignorare le leggi del proprio paese, egli
oratore e patrizio. Sostenne la repubblica. Avversa i Triumviri. La repubblica
gli alza una statua. Abbiamo di que' tempi ALFENO VARO e OFELIO, ambidue
discepoli di SERVIO, e TREBAZIO (a cui la Logica di Cicerone) e un altro MUZIO
SCEVOLA – PONTIFICE -- e CASCELLIO. Muzio non accetta da Ottaviano il consolato.
Cascellio non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri; e
a chi lo consiglia si temperasse rispondeva, “Son vecchio e senza figliuoli.” LABEONE,
il cui padre e morto a Filippi, rifiuta il consolato da OTTAVIANO anch'egli, e
serba spiriti antichi. Dice Pomponio: Ageio Capitoni si détte moltissimo agli
studj. Divide l'anno in modo che sta sei mesi a Roma co' discepoli (“cum
studiosis”), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lascia XL volumi, che
i più s'usano ancora. Ateio CAPITONE (segue Pomponio) persevere nell'antico. Ma
LABEONE, che molto medita nell'altre parti della sapienza (“qui et in cæteris
sapientiæ operam dederat”), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina
comincia innovare molto” (Fr., D. De Or. Jur. ). I cinque giureconsulti più
celebri e più recenti (lasciando gli altri) sono: EMILIO PAPINIANO, PAOLO,
GAIO, ULPIANO, E MODESTINO. PAPINIANO, familiare di SETTIMIO SEVERO e
principale nel governo, stette per GETA contro il suo fratello CARACALLA, e
volendo costui una difesa legale del fratricidio. PAPINAINO la nega e venne
ucciso. Scrive “I fatti,” che le dono la pietà, il buon nome e il pudore
nostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume, si dee tenere che noi
uomini dabbene non possiamo farli (Fr. D. De servis exportandis etc.). Gl’altri
quattro illustrano, come dice, il consiglio di ALESSANDRO SEVERO. I
giureconsulti, massime della terza età, levano a stato di scienza le loro
discipline. Ciò nacque dalla molta erudizione loro, non solo in filosofia, ma
eziandio in lettere; e se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci;
com'a dire Omero, Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto e,
come notai de' tempi di CICERONE, che la giurisprudenza prende forma logica
tanto sicura e stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico, dice
Hugo, la filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nessuno più di
quelli sta in confronto de’matematici per tre ragioni. Cioè per vigore di
conseguenze da principj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni -- che
Gaio dimandava “inelegantia juris” --, e pel metodo distintivo e compositivo,
induttivo e deduttivo ad un tempo -- distintivo e induttivo salendo alle specie
generali del diritto; compositivo e deduttivo traendone con brevità ed evidenza
le illazioni. Il gran Leibnitz, insigne filosofo, scrive nell' Epist. “Io
ammiro l'opera de Digesti, o, meglio, i lavori de' giureconsulti, ond' ell' è
presa. Ne vidi mai nulla che più s'accosti al pregio de matematici. O che tu
guardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del dire. Ma questa efficacia della
filosofia non potè fermarsi all'ordine de' pensieri, dovè penetrare
nell'interno, giacchè, com'avvertii, materia della giurisprudenza son gl’atti
umani o personali, soggetto filosofico. Tal efficacia non si creda particolare
ma generale. Quindi, coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o del
Portico o d'altri sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare
l'opera generale della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gl’eruditi,
che i più de'giureconsulti tolsero dal Portico l'argomentare per analogia,
l'amore dell' etimologie, la spartizione delle materie, LA SOTTILE DIALETTICA che
conviene al foro, e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi
egregiamente al gius civile. Ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così
disposto bene secondo le leggi del pensiero, e, salvo qualch'errore de' tempi, così
con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni
esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili,
come si ha dal codice Napoleone: e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria,
vi fanno su studj esimj e perseveranti. E perchè si chiarisca il filosofare
intimo de' giureconsulti, guardiamo la nozione, ch'e'si fanno della
giurisprudenza e della filosofia. Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive. Dand'opera
al gius, occorre prima sapere onde ne venga il nome. “Gius” è chiamato da
giustizia. Perchè, come Celso lo define elegantemente, il gius è l'arte del
buono e dell'equo. Però siamo chiamati, con ragione, sacerdoti della giustizia.
Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza del buono e
dell'equo; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose lecite dalle
contrarie; desiderosi di far buoni gl’uomini, non per timore delle pene, ma
eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori, se non m'inganno, di vera e
non simulata filosofia. Se la definizione della giurisprudenza si prenda qui a
rigore, ella non regge, perchè si stende a tutta la filosofia morale. Ma se
badiamo al concetto che avevano di questa gl’antichi, e al generarsi la scienza
del diritto dall'altra del dovere, ci formeremo idea chiara del come
intimamente e FILOSOFICA LA GIURISPRUDENZA ROMANA. Secondo i sistemi filosofici,
sommità di perfezione umana è LO STATO ROMANO. Talchè la morale s'ordina alla
politica. Concetto vero per l'attinenze esteriori, falso e pagano quant'
all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia se i giureconsulti romani definino
il gius civile come la morale. Lo definano così, perchè, a sentimento di tutti
gl’antichi, le due scienze si mescolavano in una. Noi con più ragione le distinguiamo,
ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza de' primi
principj e dell' uomo -- dimenticanza ignota agl’antichi, che però svolgeno
razionalmente il diritto e non lo maneggiano materialmente. Notate ancora che
nel passo citato si distingue la scienza dall'arte. Se nelle Istituzioni poi la
giustizia è definita: Costante e perpetua volontà di rendere a ciascuno il suo
diritto: e se la giurisprudenza è definita; Notizia delle cose umane e divine e
scienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1, Inst. De just. et jure, si vuol
fare la stessa osservazione detta di sopra; e noto con Cuiacio, che in tal
luogo la giurisprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o scienza, e
com’abito della VOLONTA, secondo l'antica filosofia. E la filosofia la pensano
essi, non senz'alta speculazione, ma contenuta nel vero da' dettami del senso
comune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'eternità del diritto -- come
osserva Vico nella “Scienza Nuova” -- allorchè dissero: Il tempo non muta nè
scioglie i diritti: “Tempus non est modus costituendi vel dissolvendi juris.”
E, quando discernano il diritto naturale dal positive, nello stesso tempo rigetteno
gl’eccessi del Portico, come l'eguaglianza della imputazione; finalmente
derisero le stranezze, l'ipocrisie, l'avarizia di quelle sette in età di
scadimento. Così sente Ulpiano, che distingue filosofia schietta dalla
mascherata; e nel Fr. 6, § 7, D. al Tit. De his quæ in testamento delentur, è
schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e nel Fr. 1, § 4, D. de
extraordinariis cognitionibus etc., dove si stabilisce gl’onorarj delle
professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, vantando di spregiare le
mercedi, n'andano a caccia. I giureconsulti poi mostrno tre specie di diritti:
jus naturale, gentium, et civile; distinzione che non si vuol confondere con
l'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile; e chi non vi
badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La distinzione
praticamette divario tra leggi proprie di Roma (jus civile) e istituzioni
comuni a ogni popolo non selvatico (jus gentium vel naturale). L’altra è
distinzione più speculativa e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et jure,
D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue il
privato in diritto naturale, che natura insegna a tutti gl’animali, come la
procreazione de’ figliuoli; in diritto delle genti, del quale, tra gl’animali, hann'
uso gl’uomini soli, come la religione verso il divino, l’obbedire a' genitori e
alla patria: in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'accusa Ulpiano
d'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del l'animalità; ' e sì che
Piccolomini da qualche secolo fa, come Warnkoenig, nota che qui, secondo le
dottrine vere d' Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengono
dalla natura animale, quelli che vengono dalla razionale, e gl’altri che pone
la comunanza civile. Non s'intende già che una bestia -- detta da'
giureconsulti cosa, non PERSONA – ha diritto, ma che le potenze animali
dell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan diritti, come li generano
le potenze razionali. Talchè in Ulpiano si trova benissimo sceverata
l'animalità dalla razionalità. È da confessare invece, che il diritto civile si
define per quello che toglie o aggiunge al diritto naturale e delle genti; e
s'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come si dice nel Tit. De regulis
juris. Ma tuttavia meritan lode i giureconsulti, che se non condannarono la
servitù, la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e
di Aristotile. Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale e istituito
dalla divina provvidenza, come insegna il Portico (De Jur. Nat. Gen. et Cir.);
nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti. Poi, essi
definino il gius civile qual e in fatto allora. Osservo di passaggio che il
chiarissimo Conforti nel l'annotazioni a Stahl (“Storia della Filosofia del
Diritto”, Torino) opina con altri, che i romani non avessero idea del diritto
eterno, perchè jus viene da “iubeo”, comandare; dove la parola diritto, e le
simili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di rettitudine, o di
rittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensa forse al come definisce
la parola Jus Forcellini (Voc. ad V.). Gius è tutto ciò che in generale vien
costi tuito da leggi o naturali, o divine, o delle genti o civili -- Jus est
autem universim id, quod legibus constitutum est etc. Si nomina con altro nome
equità comune, equo universale, legittimo, cioè adequato alle leggi, quasi
norma e regola degli atti umani. Sicchè I ROMANI chiamano “ius” un che
costituito da una legge qua lunque. Così distingueno la legge da ciò che ne
procede, e ch’è l'EFFETO DEL SUO COMMANDO. Cicerone (Rep. et De Leg.) adopera
legge e gius in tal significato. Ma la risposta migliore si è
in quell'assioma de romani già citato: Il tempo non muta nè scioglie i
diritti; conobbero, dunque, i romani la santità del diritto fuori del tempo,
cioè nell'eternità, o nel suo fondamento assoluto. Inoltre vedemmo che il gius
civile si distingue dal naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienza
origina il diritto onorario, di cui parla Forti se non con molta novità, certo
con più chiarezza di tutti gli altri da me esaminati. E io ritrarrò in breve la
sentenza di lui, e n'usce la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e la
filosofia morale in tanta perfezione di gius. Ma prima dico che il gius
onorario contene gli editti del urbano e del peregrino, e quelli degli edili e
proconsoli e propretori delle provincie -- edictum provinciale. Pare che il
gius predetto, almeno in modo segnalato, principiasse per chè Cicerone nella
seconda Verrina dice. Postea quam jus prætorium constitutum est. Hugo dimostra,
contro Heinneccio, che tal diritto ha forza di legge; poichè, tra gli altri
argomenti, Cicerone non contrasta nelle Verrine che L’EDITTO DI VERRE SIA LEGGE
da tenere, ma lo accusa di averlo infranto VERRE stesso, o conformato non
secondo ragione (Hugo, Hist.). Or dunque, i pretori rendevano giustizia
ne'civili negozi, gli edili per le convenzioni de' mercati e per LA POLIZIA
DELLA CITTA. E tanto gli uni che gl’altri, quando pigliavano i magistrati,
mandano fuori un editto, ove stabilivano le forme del giudizio e LE MASSIME -- ottimo
istituto in repubblica popolare. Non mutano il gius, ne determinano
l'applicazione. Eccone gli esempi. In primo luogo, salva LA FORMA LEGALE,, si
supponga che i contraenti hanno pattuito o per inganno, o per errore, o per
timore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasi
uguale per tutti. Quindi i pretori statuiron una MASSIMA PER L’EFFICACIA CIVILE
DELLA MORALITA NEGL’ATTI, scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzione
della legge e i mezzi legali. Perchè QUESTA O QUELLA MASSIMA d'equità si
recassero ad effetto. I codici moderni han composto di questa o quella MASSIMA
le lor legge universale. Allora, dice Forti, gli editti de' magistrati sono uno
de' principali modi, per cui la filosofia venne applicata gradatamente ai
bisogni civili. Sicchè, quant'alla moralità degli atti, trovarono i magistrati
l'ECCEZIONI perpetue contro le obbligazioni per dolo, per timore, per errore,
per violenza; la restituzione in intero, i modi legali a sciogliere le dette
obbligazioni, od a ripetere ciò che pel tenore loro fosse stato pagato. In
secondo luogo, la legge, definito il diritto e ordinatane la sanzione, lascia
a'magistrati il modo d'effettuarla. Per esempio, la legge stabilice i modi
d'acquistare la proprietà, ma non i modi della sua difesa; che più torna
necessaria, quanto più divise le possessioni, e distinta la varietà
de'godimenti e diritti che si comprendono nella mozione del dominio -- onde
nacquero nuovi contratti e bisogni di nuove difese. Quind'i pretori differenziano
a capello il dominio e il possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va'
discorrendo (Ist. Civ., L. I. S. 1). Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a
formare un'altra maniera di gius -- ioè il diritto ricevuto -- “jus receptum”.
Essi, introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza
della buona fede, costringeno i magistrati a giudicare di que'contratti, non
secondo la nude parola della legge, sì a lume di naturale onestà; come le
clausale, si lodate da CICERONE uti ne propter te, fidemre tuam captus,
fraudatusne sim; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione (De
Off.). I giureconsulti si dano all'interpretazione; e poi chè questa o
considera la legge in sè, o L’ATTO DELLA VOLONTA UMANA, così la filosofia di
que'sapienti gl’aiuto all’un fine con le spiegazioni delle parole e con la
definizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa:
gli aiutò all’altro fine co giudizi sulla moralità dell’ATTO, e con le regole
per interpretare l'altrui volontà. Gravina così accenna le novità del gius
ricevuto. Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e mitiganti a
poco a poco e come di soppiatto l'asprezza della legge, sono venute le regole
di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi, l'uso dei
codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili, perchè
procedono dall’equa e utile interpretazione, le stipulazioni aquiliane, autore
AQUILIO giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la regola
catoniana, la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito e
moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Da
essi vernero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la querela
dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nome
di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto (De ortu et progr. I, Civ., C. )
Tale acume di riflessione disciplinata reca i giureconsulti per fino ad un
computo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agl’alimenti
(come si vede Fr. D Ad Legem Falcidiam ). Cosa notabile molto, perchè fa
supporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti. La virtù e la vera
filosofia de' giureconsulti le sentiamo pur anche nel loro stile, che in mezzo
alle ampollosità di SENECA e degli altri si tien semplice e puro.. Nelle
Pandette v' ha errori di lingua, per vizio de' compilatori greci e de' copisti.
Ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali
maestri di latinità. Termino recando un saggio di tal sapienza ed elegante
brevità, in alcune regole di gius dall' ultimo titolo de' Digesti. I diritti
del sangue non posson finire per niuna legge civile (Fr.). Sempre nelle cose
oscure s' ha da tenere il meno. Sta in natura che le comodità d'una cosa seguan
colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può col
tempo sanare. Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch' uno s ' è
legato. Però l ' obbligazione di parole sciogliesi con parole, e quella di nudo
consenso con altro consenso. Che si fa o si dice nel caldo dell'ira, non si
stima. Vi sia consenso d'animo, se non v' ha perseveranza. Nessuno può
trasferire altrui più diritti che non ha. Sempre nel dubbio son da preferire le
sentenze più benigne. L'erede si stima di quelle facoltà e di que' diritti che
il defunto. È proprio di quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o
ammucchiato sillogismo, di trar la disputa, con lievissime mutazioni, da cose
evidentemente vere a evidentemente false. Quante volte l’espressione in un
discorso PARE rendere DUE sensi, prendasi quello ch'E PIU ADDATO AL DA FARE. Non
si dà benefizio per forza. Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno.
In ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equità. Ne’discorsi AMBIGUI è
il più da guardare all'INTENDIMENTO DI CHI LI FA. Nelle cose oscure si badi al
più verosimile, e a ciò che accade più spesso. Il timore vano non è buona scusa.
Per l'impossibile non c'è obbligo che tenga. Le cose proibite da natura non
sono convalidate da legge nessuna. Per gius di natura nessuno dee farsi più
ricco a danno altrui. Per gius civile i servi si stimano nulla. Non per diritto
naturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali. Quando l'impero si foggia
all'orientale, la giurisprudenza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno “la
indigesta mole de’ digesti” e ciò accadde alla quarta età, o di vecchiezza.
Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia latina di CICERONE
e de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di questi e di quello
apparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica, e, nelle
speculazioni, fuggire tutti gl’eccessi delle sette, componendone, guidati dalla
coscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari, mi sembra, che veramente
dopo la dialettica distintiva de' greci, tendevano I ROMANI alla comprensione
finale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca quarta della
filosofia. Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due
importanti ambiti della sua produzione teorica: e opere di argomento retorico;
(le opere che parlano dei segni divinatori. Se prendiamo in considerazione il
primo di questo ambito, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è
ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De
oratore, l'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so- cio-politico, volta a definire la figura
dell'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut- to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi;:ura come un vasto campo di
competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un
uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i
personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le
Partitio- nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate
dalla caratteristica di prendere in considerazio- ne e di sistematizzare la
gran massa delle nozioni che com- pongono l'apparato tecnico della retorica. Un
limite di que- ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del
procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa- rossismo, come nel
De inventione, e che spesso non trova un'adeguijta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2.1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di
Cicerone e con- densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino
a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro- vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In
particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come
an- tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata
l'attenzione verso i segni involontari (l'im- pallidire, l'arrossire, il
balbettare dell'imputato) come indi- zi di colpevolezza. Infine compare la
classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il
fatto crimi- noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti
di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei
segni proposta da Cice- rone è in larga misura diversa da quelle precedenti.
Essa ap- pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar-
gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle
prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere
qualche cosa che si esco- gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in"un mo- do
necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene
usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è
proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un
indizio che viene depositato nel dossier dell'avvocato) rinvia a qualcos'altro.
Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa
debole (probabili- ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon-
strans). 9.2.1.1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così
definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi
né essere pro- vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono
esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se
respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., I, 86). Come
Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il
conseguente sono legati da una re- lazione inscindibile (cum priore necessario
posterius cohae- rere videtur, De inv., I. 86). Il rapporto di rinvio non
necessario viene poi cosi defini- to: "Probabile è poi ciò che suole
generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé
qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De
inv., I, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri:
(i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da
Aristotele attribuito peculiarmente al1'eik6s (verisimile). E infatti i primi
due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eik6s:
"Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del
giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di
generalizzazio- ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet.,
1357a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari,
era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 CICERONE), che non
sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semefon aristotelico. 9.2.1.2
L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar- tizione dei
segni non necessari, accanto al credibile (credibi- le), all'iudicatum
(giudicato) e al comparabile (paragonabi- le). Se le ultime tre nozioni
appaiono distinte in base a crite- ri estrinseci (e scompariranno nelle
trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni
abbastan- za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no-
stri sensi e indica (significat) un qualcosa che sembra deri- vato dal fatto
stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può
averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura"
(De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il
pallore", "la fuga", "la polvere". Si tratta, come si
vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e
generalmente non vo- lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio-
nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio- ni, come dimostra
il caso dell'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine,
vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso.
Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo- sta nel De inventione
(cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae
sono un'opera della tarda matu- rità di Cicerone, nella quale la classificazione
della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al
trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da
quella dei modelli greci e viene completa- mente latinizzata. In secondo luogo
gli indizi (qui chiamati argumentatio~ Né questo è un caso isolato in ambito
giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per
l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che
era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso
dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli
dei" (Lanza). Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono
invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che
riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere
tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae
rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò
che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è
incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri-
sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e
generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che non
si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il
fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario,
come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che
riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il
segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad
esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio
(An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva
carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se
non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli
indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali
necessaria (•ea quae aliter ac discuntur nec fieri nec probari pos- sunt"I
es.: ·se ha partorito, è stata con un uomo" probabilis (•quod !ere solet
fieri aut quod in opi- nione μositum est") es.: ·se è madre, ama suo
figlio" signum credibile indicatt.:m comparabile ("quod sub sensum
aliquem cadit, et quiddam significat, quod ex ipso .!'rofectu.m .est"I.
es.: sangue, fuga, "pallore", "polvere" vestigia facll) non
compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono ur..
ruolo autonomo. Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra
"luo- ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove
extratecniche", titechno1) e "luoghi intrinseci" (corrispondenti
alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De
inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare
come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle
testimonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici,
i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici)
(Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda- lica
e antichissima dell'amministrazione della giustizia; tut- tavia è anche un
indizio di un continuo riaffiorare del para- digma divinatorio all'interno dei
fatti semiotici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati.
Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la
cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui
Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e
testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver
trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979:
105). 9.2.2.1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece
trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che
riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere
tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae
rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è
"ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la
gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno
corri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico
e generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che
non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica
il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno
necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo
proprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari-
stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere,
come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del
coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno
proprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non
può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I,
12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di
fatto), dei quali vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue,
grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor- so
contraddittorio, tremore [...]. gli indizi materiali della premeditazione, le
confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate"
(Part. or., 39). Cicerone non definisce qufsto tipo di segni, se non dicendo
che si tratta di "fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratte- ristica condivisa anche dai signa del De inventione (I, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor- nificio (Rhet. ad Her.,
II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigia f acti siano più in
relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili
(verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza
autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi- che
degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate- goria dei semefa
aristotelici, diversi tanto dai tekméria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo
delle Partitiones oratoriae (114), dove ricorrono esempi analoghi, i
vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia,
cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva
appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava
i semefa da un punto di vista episte- mologico per la loro insicurezza,
Cicerone è pronto a rico- noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran
numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione
cicero- niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla
divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina- zione.
Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla
conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo
luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente-
mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o coniectura -- I
--vestigia facti osigna verisimili& notae propriae rerum c•quod plerumque
ita r11·1 es.: ·adolescenza- incllnazione alla libidine· c•quod numquam aliter
fit certumque declarat•) es.: ·tumo-fuoco· 1•sensu percipi potest") es.:
·sangue-uccisione• dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu-
rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di- vinazione
artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con- gettura) e divinazione
naturale. Infine, come Cicerone pole- micamente rileva (De div., Il, 55), i
segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente
oppo- sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa
propongono dello stesso fatto due interpretazioni di- verse ed entrambe
plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi dell'indagine giudiziaria, mentre
nutre una diffidenza enorme nei confronti della di- vinazione. In linea,
infatti, con un vasto gruppo di intellet- tuali della sua epoca, educati ai
metodi di indagine della fi- losofia greca, a fondamento razionalistico, e
contempora- neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una
distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per
lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta
come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione
dello stato ste~so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli
elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa,
dev'essere respinta, anche per- ché non venga limitata la libertà del cittadino
romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questi
argomenti nel De natura deo- rum, nel De fato e, soprattutto, nel De
divinatione. Que- st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e
il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie
storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni
di Cicerone contro la teoria soste- nuta da Quinto sono particolarmente
interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo
semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale
del segno. 9.2.3.1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di
Quinto, gli dei si pongono come fon- te dell'informazione e come emittenti nei
processi di comu- nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata-
ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro- cesso
comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla
divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars,
ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia- listi,
ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere),
interpretes monstrorum et fu/gurum (inter- preti dei fatti prodigiosi e dei
fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti
delle stelle), in- terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di
tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione
l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una
sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un
contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di
questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i
fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau- se ed effetti, senza
soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos
divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da
parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità
(De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che
"può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà
mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quanto prima è accaduto" (De
div., I, 127). Questo fa sì che gli uomini, attraverso l'osservazione attenta,
colgano il mo- do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere
direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi
caratteristici (signa tame.1causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è
possibile tramandare memoria dalle con- nessioni passate, si crea un vero e
proprio codice basato sul- la iteratività. Si può schematizzare così il processo:
emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iter attività
9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è
quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica
professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza
passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo
tipo le forme di preveggenza derivan- ti da invasamento profetico, cioè le
vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è
legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri- patetiche
(Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no- minati, De div.), secondo le
quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta
da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo,
partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in
questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
emittente divino - Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione
presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso
segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano
frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un
certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a
ben diverse cause naturali (De div.); (iii) l'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata
da ra- gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De
div.).segno interno - evento futuro •➔ ricevente
umano 9.2.3.3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori
Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi- nazione si basano su
argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale
Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere
semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se- gni non siano
veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti
rispetto a dei conse- guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli
presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche
scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica
previsionale del contadino e dell'astronomo) e la divinazione. In entrambi i
casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre
le pratiche pro- fessionali adottano una vera e propria metodologia che
comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati- che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade- re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva,
è il codice (anche se si tratta di legami naturali basati sulla frequenza
statistica) 1 e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip- pocratici
tendevano a distinguere la propria scienza profes- sionale dalla divinazione e
dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in
termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della
divinazione tecnica si farebbe appello all'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono
altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico:
(i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte
(De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa
identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a
quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De
div.); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne-
cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in
certi casi l'interpretazione è motivata da ragioni di faziosità politica e
quindi è priva di oggettività (De div.,). Nel suo saggio Semiotica e
filosofia del linguaggio ECO (si veda) osserva come la semiotica, proprio nel
momento storico in cui esce dalla marginalità, affermandosi come disciplina e
vedendosi riconosciuto addirittura il ruolo di scienza paradigma, proprio in
questo volgere di seco lo, appunto, diventa anche il referente ultimo di una
serie di dichiarazioni che proclamano la morte del segno o, almeno, la sua
crisi. Situazione non nuova, osserva Eco: la storia del pensiero occidentale è
anche leggibile come storia di una cancellazione e rimozione, quella della
semiotica come scienza, al di là dei (e nonostante i) numerosi pre-annunci,
progetti, ipotesi di una teoria dei segni che, a più riprese, hanno percorso la
riflessione teorica degl’ultimi duemila cinquecento anni. La proposta di ECO
(si veda) è quella di pensare a un progetto attuale di semiotica che trovi
giustificazione proprio nello spazio che intercorre tra le attuali negazioni e
le reali presenze del passato. Ciò significa che la semiotica deve percorrere a
ritroso il cammino della storia e divenire archeologia del sapere segnico:
diverrebbe così possibile su perare i crampi linguistici che sono alla base
delle attuali de finizioni del segno (che ne criticano il formato come troppo
angusto o troppo ampio, che comunque non ne ritrovano il modello quando escono
dai sistemi verbali). Il presente saggio costituisce un tentativo di accogliere
il suggerimento di ECO (si veda) e si propone di indagare le pratiche semiotiche
dell’origini e la riflessione teorica sul segno, che sono elaborate dal mondo
antico e che ci sono state consegnate dalla TRADIZIONE letteraria, FILOSOFICA,
medica, storiografica, retorica. Si propone cioè di ritrovare le tracce di un
filo rosso che percorre il mondo antico, dalle origini e che porta alla
costituzione di una nozione di segno abbastanza diversa da quella proposta
dalle teorie del Novecento. La maggior parte, infatti, delle dottrine del segno
che sono elaborate nel Novecento - sia in ambito linguistico, a partire dal
Cours saussuriano, sia in ambito più gene ralmente semiologico - si fondano su
due presupposti, che risultano del tutto assenti nella riflessione classica su
questo soggetto: il modello di segno, sul quale l'intera indagine semiologica
viene articolata, è quello del segno linguistico – ecceto in H. P. GRICE --; il
tipo di rapporto postulato come instaurantesi tra le due facce del segno è
quello dell'equivalenza (p=q) o almeno CONSEQUENZA (Hobbes, Grice). Da questa
seconda assunzione dipende il fatto che la nozione di signi-FICATO più diffusa
fino a qualche anno fa nelle teorie semantiche fosse quella che lo vede come
sinonimia o come definizione essenziale. A partire, infatti, dallo
strutturalismo hjelmsleviano, fino ad arrivare alle teorie di semantica componenziale
e interpretativa di impostazione generativista, il singolo termine linguistico,
o se si preferisce, la forma dell'espressione di un segno, è sentito come
equivalente a una serie di figure del contenuto, o marche semantiche, espresse
a loro volta meta-linguisticamente da altrettante forme linguistiche (ad
esempio: uomo = essere animato + umano + maschio + adulto). Cf. H. P. Grice: Bachelor: unmarried male – In defence of a dogma. Una
indagine sul modo in cui nasce e si articola nell'antichità classica greco-romana
(e particolarmente ROMANA) la riflessione sul segno ci permette di scoprire
che, rispetto al primo punto, in origine, non solo non si ha omologazione dei
vari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma che, anzi, le due
teorie (quella semantica del linguaggio e quella del segno non-linguistico)
procedono in maniera parallela, senza inter-connettersi. Ne è un esempio chiaro
il fatto che Aristotele,nel LIZIO, adoperi il termine “symbolon” per indicare
il segno linguistico, ma le espressioni “smefon” o “tekmrion” per indicare
quello non linguistico. La saldatura avvienne molto più tardi, in Agostino. Ma,
in questo caso, è l'espressione linguistica a essere sussunta sotto la
categoria più generale [cf. H. P. Grice] e già costituita del segno non-linguistico.
Per quello che riguarda il secondo punto, le pratiche segniche che la
tradizione ci ha tramandato e le teorie classiche prevedono un funzionamento
del segno non secondo lo schema dell'equivalenza, bensì secondo quello
deli'implicazione (p ⊃ q) – cf.
Hobbes, Grice: CONSEQUENTIA. Per citare un esempio celebre, che percorre
l'intera tradizione antica da Aristotele del LIZIO alla retorica romana di Quintiliano,
passando per IL PORTICO, un caso paradigmatico di segno è: Se una donna ha
latte, ha partorito. The fact that this female has produced milk NATURALLY
means that this female has given birth (H. P. Grice). A questo punto è
già possibile un confronto. Il modello antico classico greco-romano, e
particolarmente ROMANO, implicazionale – cf. Moore, ENTAIL – Frege assertion
sign --, appare non solo molto più interessante rispetto a quello equazionale,
ma certamente molto più, per così dire, attuale. Infatti, è in corso nella
ricerca contemporanea una revisione di paradigma, che tenta di superare le
semantiche cosiddette "a dizionario" (che funzionano secondo il
modello dell'equivalenza) per passare alla proposta di semantiche
"istruzionali,” che funzionano secondo il modello dell'implicazione).
Tuttavia, l'interesse di un lavoro di ricostruzione delle teorie semiotiche
dell'antichità non è limitato soltanto al reperimento di materiale sommerso,
finalizzato, magari, alla costituzione di un quadro da mettere in confronto con
quello attuale di H. P. GRICE. C'è un interesse intrinseco anche
nell'osservare come i campi nozionali, e la terminologia LATINA associata a
essi si siano venuti distinguendo lentamente e abbiamo preso forma a partire
da situazioni d’usi linguistici originariamente molto più magmatici. Anche in
questo caso bisogna citare Aristotele del LIZIO come il primo che impone dei
confini netti a termini e concetti, che sono stati usati sino alla fine del V
secolo a.C. e oltre (a esempio nei testi del Corpus Hippocraticum) con una
oscillazione semantica considerevole. Prima della categorizzazione aristotelica
del LIZIO, espressioni quali “semefon,” “aitia,” “prophasis,” “tekmrion,” ed “eikos,”
non solo costituivano un campo di termini imparentati, ma anche di termini che
ammettevano una parziale sovrapposizione e intercambiabilità (Lloyd). Ugualmente,
il riferimento culturale di certe espressioni è stato, prima di Aristotele nel
LIZIO, eterogeneo e diverso. “smafno,” a esempio, come ci mostra il frammento
(Diels-Kranz) d’Eraclito è il verbo che indica la rivelazione oscura del dio di
Delfi. “tekmairomai,” poi, denota in generale il procedere attraverso un
ragionamento congetturale, ma nei tragici e nei lirici vienne usato in
riferimento alla pratica dell'interpretazione divinatoria. “smefon,” infine (o
la sua variante omerica “séma”), è il termine più complesso di tutti,
indicando, fin dalle origini, una molteplicità di cose, dall'INDIZIO al SEGNO
di riconoscimento, al prodigio divino, fino a essere usato come termine
generale per il segno divinatorio (Bloch: tr. it.; Benveniste: tr. it.). È
innanzitutto alla divinazione, all'astronomia e, tramite queste, all'arte della
navigazione, che la problematica del segno viene in origine connessa. Come
testimonianza di tale connessione, si può ricordare la cosmogonia d’Alcmane in
cui all'origine del mondo compare la dea marina Teti, accompagnata da tre
personaggi divini. Da una parte P6ros (''la via") e Tékmor ("il segnale",
"il punto di riferimento"); dall'altra Sk6tos ("l'oscurità").
Come sottolineano Detienne e Vernant, Tékmor svolge un ruolo fondamentale. Nell'oscurità
[sk6tos] del cielo e delle acque in origine confuse, Tekmor introduce vie
[p6roll differenziate, che rendono visibili sulla volta celeste e sul mare le
varie direzioni dello spazio, orientando una distesa prima sprovvista di ogni
tracciato, di ogni punto di riferimento, aporon kai atékmarton". I
naviganti devono congetturare, “tekmafre sthal”, sulla distesa indifferenziata
del mare, la loro rotta e gli dei e gli indovini la fanno loro intravedere,
fissando in anticipo percorsi e punti di riferimento. In questo modo. i
naviganti gettano un ponte tra il visibile o proprio il SENSIBILE e
l'invisibile. Con Aristotele nl LIZIO, i termini del vocabolario semiotico, che
mantenneno fino ad allora il riferimento alla sfera del sacro (e che continuano
a essere usati in tal senso fuori dagl’ambienti filosofici e razionalistici),
vengono piegati a un uso esclusivamente profano (Lanza) filosofico – cf. H. P.
Grice: Words are not signs. Tuttavia, se si perde il carattere sacro dell’origini,
qualche traccia rimane ed è leggibile in trasparenza, se è vero che Aristotele
nel LIZIO, nella sua delimitazione dei campi concettuali – cf. Austin/Grice,
Seminar on DE INTERPRETATIONE --, riserva l'espressione “smeion” al segno che
non dà certezza e che può risultare ingannevole (mentre riserva l'espressione
“tekmrion” al segno sicuro). Qui, quello che è il segno
ambiguo della rivelazione divina, diviene il segno ambiguo del modello
conoscitivo razionalistico (“Those spots didn’t mean anything to me, but to the
doctor, they meant that he had the measles – By uttering, ‘He hasn’t been to
prison yet” he might have meant that he is potentially dishonest. Grice. Se
il paradigma semiotico affonda le sue radici nelle pratiche non-scientifiche o
non-filosofiche della divinazione e della medicina magica (l’"iatromantica"),
tuttavia lentamente depura, nel corso dei secoli, queste origini da tutto ciò
che in esse c'è di irrazionale e di non controllabile (anche se sempre, al di
fuori delle teorizzazioni della FILOSOFIA ANALITICA tipo H. P. Grice,
rimarranno usi magmatici e irrazionali di questo paradigma, come dimostrano, a
esempio, le opere d’Artemidoro di Daldis o d’Elio Aristide sui segni onirici).
Se si tiene presente quest'ottica, non è più sorprendente osservare che la
forma proposizionale e implicazionale (p ⊃ q) che IL
PORTICO danno al segno -- Se c'è cicatrice, c'è stata piaga -- si ritrova
identica nelle tavolette divinatorie mesopotamiche. Anche gl’antichi babilonesi
esprimeno il segno attraverso un periodo ipotetico, formato da una protasi,
introdotta dalla congiunzione summa (equivalente alla “ei” greca e il “si”
latino, che introduce il condizionale del PORTICO), e da una apodosi. Esse,
rispettivamente, traducono in proposizioni linguistiche il segno e la sua
interpretazione. Se il polmone è rossastro a destra e sinistra, vi sarà un
incendio. Bottero. In ambiente greco, una saldatura tra segno divinatorio e
forma logica dell'implicazione (p⊃ q) la si
trova testimoniata in uno dei dialoghi delfici di Plutarco, L 'E di Delfi. In
quest'opera, alcuni prestigiosi personaggi discutono sul significato d’un
oggetto, avente la forma di E, che si trova tra i doni votivi del tempio di
Delfi. Tra essi, Teone propone un'interpretazione della E ricorrendo al nome
che nella lingua antica questa lettera riceve, e cioè ei. Teone assimila poi
questo nome alla congiunzione ipotetica ei (latino “si,” italiano ''se") e
mostra che tale congiunzione svolge nella dialettica un ruolo essenziale, in
quanto serve a esprimere il rapporto logico per eccellenza, quello che si ha
nei condizionali del tipo, Se è giorno, c'è luce -- esempio, questo, che è tra
i più classi ci della logica semiotica del PORTICO). Teone sottolinea, infine,
che il dio di Delfi, Apollo, è un dio molto amante della dialettica, tanto è
vero che i vaticini presuppongono la forma del condizionale, p ⊃
q, che è la forma stessa che assumono i fenomeni dell'universo (e qui il
richiamo è alla teoria del PORTICO della simpatia universale. Certo, quello che
risulta dal testo di Plutarco è al massimo che la teoria del PORTICO del fato e
della divinazione si fonda su base logica. Il destino consiste in una serie
interconnessa di condizionali. Ma se l'ipotesi da porre fosse quella esattamente
contraria? Se, cioè, lo strumento così asettico e razionale della logica
traesse in realtà le sue origini dall'ambito divinatorio? Come dimostra la sua
stretta connessione con i segni e la divinazione presso IL PORTICO
(Goldschmidt; Verbeke). Un enorme cammino è tuttavia stato compiuto dai testi
divinatori babilonesi alla logica del PORTICO. La forma proposizionale rimane
la stessa.. Ma nel caso del PORTICO è depurata non solo di ogni carattere
sacrale, ma anche di ogni elemento contenutistico. È lì solo per il calcolo
proposizionale. Nel caso degl’antichi mesopotamici, invece, il contenuto della
protasi permette di inferire il contenuto dell'apodo si mediante più o meno
complicati processi di analogia e giochi tropici. Il "rossore" del
polmone permette di inferire "incendio" per un TRATTO SEMANTICO
COMUNE. Infine una disamina sulla riflessione semiotica antica permette di
scoprire come il dibattito sui segni, sulla loro natura e sulla loro
classificazione si sia attestato a livelli sorprendentemente alti, come è il
caso della discussione sui condizionali in seno alla stessa scuola del PORTICO
(tra Diodoro, Filone – citato da H. P. Grice -- e Crisippo) o della disputa tra
IL PORTICO e L’ORTO sul rapporto tra antecedente e conseguente nei segni, di
cui puntualmente ci informa il De signis di Filodemo. La discussione di
carattere semiotico, insomma, si riferisce sempre a, o si identifica
decisamente con, il quadro più generale o più fondamentale del problema della
psicologia razionale o della conoscenza. È poi nel mondo romano che queste
problematiche d’ordine conoscitivo generale vienneno piegate all’esigenze più
pragmatiche della conoscenza giudiziaria – “Hart is no philosopher, he’s a
laywer” -- Grice: il problema dei segni si identifica con quello delle
metodiche per assegnare un maggiore o minor valore di PROVA agl’indizi presentati
in un procedimento processuale. La semiotica vienne messa al servizio dell'arte
del detective, in ciò prefigurando uno degl’aspetti più singolari dell'interesse
contemporaneo nei confronti dei paradigmi indiziari (Eco e Sebeok). È, infine,
con Agostino – e con Grice a Oxford --, che la teoria del segno fornisce un
paradigma anche per la teoria del linguaggio, permettendo d’UNIFICARE in
un'unica categoria anche i segni verbali. Desidero ringraziare i molti amici
che hanno letto e discusso con me parti di questo lavoro. Tra coloro che mi
hanno offerto preziosi suggerimenti critici vorrei ricordare Bernardini,
Borutti, Crevatin, Fabbri, Manuli, Marmo, Tabarroni, Vegetti, e Violi. Per
molte delle idee e per l'impostazione generale del saggio sono debitore a ECO
(si veda), di Bologna, la piu antica varisita del mondo, che segue e incoraggia
il lavoro fin dai suoi inizi. Un ringraziamento particolare va a Conte, che ha
rivisto una precedente versione del manoscritto, e dal quale ho ricevuto una
infinità di preziosi consigli. Quanto agl’errori e alle imprecisioni, ne
assumo invece totale responsabilità. C'è un campo specifico in relazione al
quale tutte le culture antiche riconoscevano l'eccellenza e il magistero dei
popoli mesopotamici: quello della divinazione. Non ci si può nascondere
tuttavia, a questo proposito, che l'atteggiamento sviluppato dalla cultura
moderna nei confronti delle pratiche che rientrano in questo campo è fortemente
svalutativo. Esse, infatti, rappresentano un paradigma che si pone esattamente
agl’antipodi di quello che normalmente è assunto come il paradigma scientifico.
Ma ci sono almeno due ragioni che ci inducono a guardare alla divinazione
mesopotamica come a qualcosa che merita più di un interesse puramente
occasionale o erudito. In primo luogo, infatti, è necessario ripensare, come
suggerisce Ginzburg, ai rapporti tra paradigma divinatorio e paradigma
scientifico come a qualcosa di molto più complesso di quello che si assume di
solito e che non comporta affatto una svalutazione del primo termine. Infatti,
per Ginzburg, il paradigma divinatorio (definito anche, a seconda dei contesti
in cui si manifesta, come indiziario, semeiotico, e venatorio), costituisce un
modello di sapere specifico, caratterizzato dall'aspetto qualitativo: e cioè
basato sulla conoscenza dell'individuale, attraverso l'uso della congettura.
Ciò gli permette di giungere a risul tati notevoli, in tutte quell’aree del
sapere che lo utilizzano privilegiatamente (al di là della mantica,
sicuramente, anche la medicina, la filologia e cosi via, su su fino alla detection,
la connoisseurship, la psicoanalisi), anche se per questo deve pagare il
prezzo di una ineliminabile dose di aleatorietà. Si tratta, in realtà, di un
sapere del tipo che Peirce [cf. Grice’s lectures on Peirce] definisce
abduttivo, in contrapposi zione al modello del sapere quantitativo che fa uso
della deduzione come metodo di ragionamento. In secondo luogo bisogna
ricordare che, in Mesopotamia, la divinazione subisce un lungo processo
evolutivo che dalla fondamentale e primaria tendenza a inferire le cause dagl’effetti
(procedimento tipico dell'abduzione) la porterà ad accentuare sempre di più i
tratti generalizzanti e aprioristici, in modo da gettare le basi per una vera e
propria scientifici tà di tipo astratto (Bottero 1974: tr. it. 211). Ciò che
risulta di maggiore interesse, dal punto di vista della ricostruzione storica
di una disciplina semiotica, è che al centro del pensiero divinatorio si pone
proprio il segno in una accezione non banale. Quest'ultimo, infatti,
costituisce anzitutto uno schema di ragionamento inferenziale, che permette di
trarre alcune conclusioni a partire da certi dati. È interessante notare come
il segno divenga centrale nel l'universo cognitivo mesopotamico, in quanto,
partendo dal campo della divinazione, si estenderà in seguito anche alel altre
pratiche culturali e discipline, come la medicina e la giurisprudenza, e
arriverà ad articolare, unificandola sot to il suo modello, la totalità del
sapere. Si raggiungerà dun que, in Mesopotamia, un punto in cui il sapere, a
livello molecolare, funzionerà secondo lo schema, unificato e for male, del
segno divinatorio, anche se contenuti di volta in volta differenziati verranno
utilizzati per dargli corpo. Pos siamo già accennare (anche se vi torneremo su
in seguito con maggiore ampiezza di dettagli) alal forma assunta nella cultura
mesopotamica dal modello segnico: quella di un pe riodo ipotetico in cui una
certa conclusione è data nella apodosi, come derivante direttamente dallo stato
di cose presentate nella protasi: in cui, in altre parole, la protasi è
"segno" deli'apodosi. Un modello segnico di questo tipo ("Se p,
allora q") è molto vicino a quello tramandatoci dalla cultura greca nella
fase della sua maggiore maturità semiotica: in particolare funziona secondo lo
schema implicativo il modello di segno elaborato dalla scuola stoica. Ma qui,
una volta rilevata l'affinità, devono subito essere messe in luce le
differenze: nel segno della divinazione mesopotamica sono in genere gli
elementi materiali (o contenutistici) che permettono il pas saggio dalla
protasi all'apodosi; in quello della semiotica stoica, invece, le inferenze
sono rese possibili unicamente grazie agli elementi formali. A ogni modo,
nonostante queste profonde divergenze e al di là del problema, che pure si
pone, degli eventuali debiti specifici della cultura greca nei confronti di
quella mesopo tamica a questo proposito,1 è interessante verificare la pre
senza dello stesso schema segnico p -:J q che attraversa due civiltà (quella
greca e quella mesopotamica) e due ambiti culturali (la divinazione e la
filosofia) per altri versi tanto distanti tra loro. 1. 1 Divinazione e
scrittura Il fatto che quella mesopotamica sia essenzialmente una civiltà della
scrittura costituisce senz'altro uno dei presup posti per capire il tipo di
divinazione sviluppatosi in Meso potamia e le ragioni della sua ampia
diffusione: è la scrittu ra, infatti, che in Mesopotamia fornisce la forma e
il mo dello per tutta una serie di attività intellettuali, prima fra tutte
quella deli'interpretazione dei segni inviati dagli dei. La lettura
dell'avvenire e la conoscenza del nascosto non avvengono qui per diretta
ispirazione divina, ma seguono lo stesso procedimento messo in atto
neli'interpretazione dei segni della scrittura. 'l E proprio in relazione alla
grande importanza assunta dalla scrittura nella cultura mesopotamica che il
modello ri sultato egemone è quello della divinazione tecnica (Bouché
Leclercq), quello cioè basato sulla interpretazione di segni che si realizzano
esternamente al l'uomo e che richiedono l'intervento esplicativo degli spe
cialisti. Per comprendere il ruolo che la coppia scritturaloralità gioca negli
orientamenti divinatori è sufficiente mettere in relazione la civiltà
mesopotamica con quella greca. Que st'ultima, come noto, è una cultura
essenzialmente orale, dove la scrittura si sviluppa in un periodo relativamente
re cente e non costituisce un fenomeno autonomo rispetto al parlato, bensì,
essenzialmente, una sua riproduzione in ca ratteri fonetici. In stretta
connessione con il carattere orale della cultura, in Grecia risulta egemone
proprio il modello della divina zione ispirata, in cui il dio parla ali'uomo
attraverso un profeta, avvertito come suo portavoce, secondo il celebre esempio
della divinazione oracolare della Pizia a Delfi. E non è poi un caso che la
società greca non abbia favorito, come avviene invece in Mesopotamia, la
nascita e la presen za stabile di una classe sacerdotale preposta
ali'interpreta zione specialistica sia dei segni della scrittura sia di quelli
della divinazione. Al contrario, nella cultura mesopotamica la scrittura, per
un verso, è un fenomeno piuttosto antico, per l'altro è un dispositivo dotato
di meccanismi in larga misura autonomi rispetto al parlato. Le prime attestazioni
della scrittura cuneiforme, infatti, si hanno tra la fine del IV millennio e
l'inizio del III.2 Nella sua forma primitiva la scrittura è pittografica, in
quanto fatta di segni che intendono designare ciò che raffigurano: a esempio la
rappresentazione di una testa di bovino, trac ciata nei suoi contorni, ma
perfettamente identificabile, in dicava in prima istanza "il bue";
ma, per una sorta di am pliamento semantico del segno, esso indicava anche
"la vac ca" e "il bestiame grosso". Ugualmente il disegno
schemati co di un piede aveva anche il significato di "stare in
piedi" e quindi quello di "immobile", di "camminare",
di "parti re", fino ad arrivare addirittura a quello di
"portare via''. Come si vede l'abbinamento tra significanti e significati
non si presenta né univoco né banale: esso infatti comporta un lavoro
interpretativo piuttosto complesso per controlla re i processi di ampliamento
o di slittamento dei significati per uno stesso segno. Processi che si
complicavano attraverso nuove associa zioni derivanti dalla giustapposizione
di segni diversi: il se gno del pane messo accanto a quello della bocca dà il
pro dotto semantico "mangiare"; quello dell'acqua accanto a quello
deli'occhio significa "lacrime"; se invece è messo ac canto a quello
del cielo significa "pioggia". Più curioso an cora è il caso del
segno della montagna che, giustapposto al segno indicante la donna, produce il
senso "la schiava", in quanto le montagne delimitavano a est e a nord
la regione, e una donna portata da un paese situato oltre la montagna era una
straniera destinata a tale condizione. Ci sono dunque complicati meccanismi
enciclopedici che governano l'interpretazione. Ma si può osservare anche che,
nella sua forma più anti ca, quella cuneiforme è una scrittura di cose
(Bottero 1974: tr. it. 168), in quanto non ha bisogno di passare attraverso il
linguaggio verbale per designare gli oggetti della realtà. La sua autonomia
rispetto alla realizzazione verbale è tota le, tanto è vero che i segni
possono essere compresi da per sone che parlano lingue diverse e, del resto,
sono pronun ciati in modo diverso in ciascuna di queste lingue come av viene,
a esempio, per i numeri arabi nel mondo moderno. I Mesopotamici si dimostrarono
molto legati a questa "scrit tura di cose" e non l'abbandonarono
neppure quando ven nero fatti notevoli passi avanti verso il fonetismo con
l'in venzione della scrittura sillabica. In effetti, circa un secolo dopo la
sua prima scoperta, i segni della scrittura pittografica avevano cominciato a
subi re un processo di scollegamento dalle "cose" che designava no,
per essere collegati più direttamente alle "parole" con cui il
linguaggio verbale designava i medesimi oggetti. Il ca rattere monosillabico
di molte parole e l'alta percentuale di omonimi, avevano favorito questo
processo. Un esempio interessante del fenomeno, che è anche il più antico, è
quel- lo del segno della fr H 1---, che viene a in- dicare non più solo
"la freccia" ma anche "la vita": la me diazione è stata
dali'omonimia tra le parole designanti i due concetti, pronunciate entrambe
ltil nella lingua sumerica.3 Possiamo così schematizzare il processo: pronuncia
l ti l l"" significato ..freccia· ..vita• l ::rafico HH H'VA questo
punto per arrivare a un alfabeto sillabico per fetto sarebbe stato sufficiente
eliminare tutti gli ideogram mi indicanti parole per lasciare soltanto i segni
di sillabe, sorta di unità minime infinitamente reimpiegabili. Invece i
Mesopotamici lasciarono sopravvivere, accanto ai segni presi nel loro valore
fonetico (indicanti una sillaba), i segni presi nel loro precedente valore
pittografico. Ci sono almeno due importanti conseguenze che derivano da questa
organizzazione della scrittura, per la divinazione. Anzitutto, come abbiamo
visto da alcuni esempi, la scrit tura pittografica ha la caratteristica
essenziale di tessere una rete sottile e complessa di rapporti tra le cose:
abitua la mente a vedere nelle cose relazioni segrete e legami inso spettati.
Essa suggerisce, altresi, un'attitudine mentale che porta a guardare anche alle
cose del mondo reale come in nescanti un analogo processo semiosico: non solo,
quindi, l'abbinamento pittografico del segno della montagna e di quello della
donna indicheranno "schiava", ma anche lo stesso abbinamento osservato
nella realtà, oppure in un so gno, porterà a trarre una inferenza analoga. È
proprio un meccanismo inferenziale di questo tipo che si pone alla base della
divinazione. La seconda conseguenza è connessa con il carattere spe cialistico
delle conoscenze richieste per l'interpretazione della scrittura: i caratteri
cuneiformi non sono accessibili a tutti, dato il sistema di cifrazione cosi
complesso. Si crea al lora una sorta di aristocrazia di esperti capaci di
interpretare i segni della scrittura. Allo stesso titolo si crea, per l'in
terpretazione dei segni mandati dagli dei, la casta degli in dovini baro, i
quali hanno come emblema della loro corpo razione proprio la tavoletta e il
calamo. 1.2 La scrittura degli dei Come sottolinea Jeannie Carlier (1978:
1227), in Meso potamia "parlare di una scrittura degli dei non è una meta
fora". Infatti quella cultura proietta nel campo teologico lo stesso
modello di organizzazione che vede operante nel campo della burocrazia statale.
Come ii re diffonde il suo potere dal centro alla periferia attraverso una
capillare e sviluppatissima rete amministrativa che trasmette i suoi or dini
scritti indirizzati ai sudditi, così gli dei si servono della scrittura per far
conoscere agli uomini i destini che hanno fissato per ciascuno di loro; solo
che "l'unica tavoletta a lo ro misura è l'universo intero" (ibidem).
Sama e Adad, gli dei della divinazione, sono per un ver so come il
sovrano che notifica la sua volontà ai sudditi per mezzo di messaggi scritti;
per un altro sono come il giudice che, dopo aver preso una decisione, la
ratifica sulla tavolet ta per darle validità e pubblicità. Il mondo, dunque,
in questa concezione, è una immensa tavoletta, costituito da oggetti che sono
il supporto materia le dei presagi da cui verranno ricavati gli oracoli, come
vie ne testimoniato, tra l'altro, anche da un inno di Assurbani pal a Sama5:
"Tu scruti alla luce (del) tuo (sguardo) la terra intera come
(altrettanti) segni cuneiformi". Del resto i Babilonesi parlavano della disposizione
degli astri come "scrittura del cielo" che veniva "letta"
dagli astrologi. E d'altra parte non era raro il caso in cui un pre sagio
consistesse letteralmente in un segno di scrittura trac ciato nelle pieghe del
fegato di un animale o sulla fronte di un uomo. 1.3 Una semiologia "ante
litteram" Una volta messo in luce il carattere di profonda affinità tra il
sistema della scrittura cuneiforme e la divinazione concepita come scrittura
degli dei, passiamo a esaminare la struttura interna del segno divinatorio. È
possibile farsene un'idea abbastanza precisa attraverso i numerosi trattati di
vinatori che ci sono pervenuti. Questi ultimi consistevano in lunghissimi
elenchi di proposizioni complesse, ciascuna composta da una protasi e da
un'apodosi. La protasi è in trodotta dall'espressione summa (equivalente alla
congiun zione "se") e ha il verbo al presente o al passato: essa
costi tuisce il "presagio", cioè il segno ominoso che deve essere
interpretato; l'apodosi ha il verbo di solito al futuro e costi tuisce
!'"oracolo", ciò che viene indicato o svelato dall'in terpretazione
del segno. Vediamo alcuni esempi che, pur in relazione a differenti tecniche
divinatorie, presentano tutti la stessa struttura:4 Astrologia Se nel giorno
della sua scomparsa, la Luna si attarda nel cielo (invece di scomparire d'un
tratto)- vi sarà siccità-e-arestia nel paese. Fisiognomonia Se un uomo ha il
pelo delle spalle ricciuto - le donne lo ame ranno. Oniromanzia Se un uomo
sogna che gli consegnano un sigillo - avrà un fi glio. Lecanomanzia Se, dal
centro dell'olio (gettato sull'acqua), si staccano due "ponti", uno
maggiore dell'aJtro - la sposa dell'interessato met terà aJ mondo un figlio
maschio; quanto aJ malato, guarirà. Estispicina Se il polmone è rosso-vivo a
destra e a sinistra - vi sarà un in cend io. PASSAGGIO DALLA PROTASI
ALL'APODOSI 17 Libanomanzia Se, quando versi (la sostanza aromatica) sulla
brace, il fumo si sprigiona (solamente) verso destra, e non verso sinistra -
avrai la meglio sul tuo avversario. Se si sprigiona (solamente) verso sinistra
e non verso destra - il tuo avversario avrà la meglio su di te. Questi esempi
permettono già di fare due osservazioni a proposito del meccanismo semiotico in
essi instaurato. In primo luogo la struttura del segno è espressa in termini di
rapporti tra proposizioni e non tra singole unità lessicali o tra un
significante e un significato in senso saussuriano. Questo fa sì che i segni
non verbali e gli eventi acquisiscano subito un'importanza predominante, in quanto
trovano ap punto nella proposizione il modo migliore di essere espressi. In
secondo luogo il rapporto che c'è, all'interno di cia scun segno, tra la
protasi e l'apodosi è di tipo implicativo, intendendo però questo termine come
designante un'infe renza ancora abbastanza generica: come vedremo, all'inter
no della scuola stoica, invece, l'interesse si accentuerà pro prio sul
tentativo di definire il nesso implicativo che caratte rizza il segno e a
questo proposito si accenderanno diver genze che alimenteranno una lunga e
complessa discus sione . 1.4 n passaggio dalla protasi all'apodosi Messi di
fronte ali'enorme massa delle proposizioni divi natorie documentate dai
trattati mesopotamici può sembra re che regni la più completa casualità nel
movimento che re gola il passaggio delle protasi-presagio alle relative apodo
si-oracolo. A ben guardare, però, è possibile rintracciare al cune linee
generali che consentono di mettere un po' d'ordi ne in un coacervo altrimenti
amorfo e di cogliere alcuni principi di regolazione. Sono rintracciabili in
realtà tre casi teorici di passaggio non casuale dalla prima alla seconda
proposizione: Il primo tipo di passaggio è connesso al principio del co
siddetto empirismo divinatorio: protasi e apodosi regi strano eventi che si
sono verificati effettivamente secon do una concomitanza temporale. Questo
genere di mec canismo si trova nei cosiddetti "oracoli storici",
caratte rizzati dal fatto di avere l'apodosi al passato, anziché al futuro;
essi riproducono verisimilmente la forma del tipo originario di divinazione. 2.
3. Il secondo tipo di passaggio non arbitrario è connesso alla possibilità di
un gioco di associazioni tra elementi della protasi ed elementi dell'apodosi:
naturalmente sono possibili i due casi, tanto del gioco fonetico sui signifi
canti, quanto di quello tropico sui significati. Il terzo tipo di passaggio tra
le due proposizioni è con nesso alla presenza di codici che prevedono una
serie esauriente e completamente specificabile di casi. In realtà, nella fase
più recente della storia della divina zione mesopotamica, i trattati subiscono
un'evoluzione nel la direzione della sistematicità e dell'astrazione. Il
sistema astratto e, in un certo senso, totalmente deduttivo prende il
sopravvento anche sulla verisimiglianza stessa dei presagi. La furia
classificatoria dei Mesopotamici guarda più ali'e saurimento di tutti i casi
astrattamente possibili che non al la loro concreta possibilità di verifica.
Avviene così che l'abbinamento di un'apodosi con una certa protasi dipenda
dallo schema astratto e, dunque, divenga prevedibile. 1.4. 1 Gli "oracoli
storici" e l'empirismo divinato rio Sommersi, e quasi fossilizzati,
nell'insieme delle decine di migliaia di oracoli che i trattati mesopotamici ci
hanno con servato, gli oracoli "storici" costituiscono un numero non
grande, ma significativo. Essi possono essere attribuiti, in base all'analisi
interna, all'epoca delle origini, anche se compaiono in trattati più
recenti. PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 19 Essi presentano infatti
quattro caratteristiche specifiche: l. hanno tutti la tipica apodosi al
passato; 2. gli argomenti di cui trattano fanno riferimento ad avvenimenti
storici che, nel caso in cui possano essere confrontati con altre fonti,
risultano degni di fede; 3. i fatti e i personaggi che in essi sono menzionati
sono collocabili, nella maggior parte dei casi, nell'epoca di Accad (ca.
2340-2160 a.C.); 4. fanno, quasi tutti, iniziare l'apodosi con la formula amat
"(è il) presagio di", formula che è assolutamente inusuale negli al
tri oracoli. Vediamone alcuni esempi: Se (nel Fegato) la Porta del Palazzo è
doppia, se vi sono tre Ro gnoni e a destra della Vescichetta-biliare sono
scavate (pa/Iu) due perforazioni (pilsu) ben nette - (è il) presagio degli
abitanti di Apgal, che Naram-Sin (ca. 2260-23) per mezzo di scavi (pii fu)
fece prigionieri. Se, a destra del Fegato, si trovano due Diti - (è il)
presagio del l 'Epoca-dei-Competitori. In entrambi questi casi l'apodosi fa
riferimento a fatti e personaggi storici reali deli'epoca di Accad. Si può
ipotizza re che gli oracoli così formulati non siano stati molto di stanti
cronologicamente dali'epoca dei fatti storici di cui parlano le apodosi. Anzi,
il punto fondamentale è proprio che tali oracoli avrebbero registrato delle
coincidenze "significative", a po steriori, tra un particolare stato
di cose considerato ornino so e un evento della storia: tali coincidenze
avrebbero as sunto in seguito valore di paradigma. A persuaderei di questa
ipotesi, che risponde appunto al principio dell'empirismo divinatorio
(Bouché-Leclercq 1879-82: vol. l, 298; Bottero 1974: tr. it. 161), c'è il fatto
che spesso i Fegati di Mari contengono una formula che mostra come il gioco
delle coincidenze si sia potuto stabi lire: Quando il mio paese si è rivoltato
contro lbbi-Sin (2027-2003), questo (=il Fegato) si trovava così disposto. LA
DIVINAZIONE MESOPOTAMlCA Il plastico di Mari riproduce la forma assunta dal
fegato reale esaminato durante un rito di estispicina: esso registra la
coincidenza tra questa forma, assunta come ominosa, e un evento storico di
importanza determinante, cioè la rivol ta contro l'ultimo re del periodo
neosumerico, lbbi-S'ìn. L'ipotesi dell"'empirismo divinatorio" si
spinge anche ol tre, ipotizzando che alla base stessa della scoperta della di
vinazione si porrebbe la scoperta delle coincidenze tra la se rie di presagi e
quella degli oracoli; ipotesi che può essere avvalorata dal fatto che tutti gli
"oracoli storici" possono essere cronologicamente situati nel periodo
delle origini del la divinazione mesopotamica. Nella istituzione stessa della
pratica divinatoria si sarebbe vicini, così, a una forma del principio del post
hoc, ergo propter hoc, per cui qualsiasi evento che fuoriesce in qual che
maniera dal corso "normale" e che è seguìto da un altro evento,
considerato a sua volta eccezionale, finirebbe per costituire con quest'ultimo
una coppia inscindibile. Il colle gamento tra i due eventi, una volta
stabilito, diventerebbe irresolubile; e il secondo evento, se non propriamente
cau sato dal primo, risulterebbe almeno annunciato da quello. Ciò che di fatto
viene qui elaborato è il metodo semiotico dell'inferenza delle cause dagli
effetti, che è tipica dell'ab duzione. È vero che in questo caso si arriva a
conclusioni che ci appaiono assurde, a causa di un errore fondamentale
nell'applicazione del metodo: infatti quello che viene preso come risultato (o
effetto) (una certa ben definita disposizio ne del fegato) che si presume
essere il caso di una certa re gola (o causa) (rivoltarsi contro lbbi-Sin), in
realtà non è affatto tale. Ma questo ha poca importanza: formalmente siamo di
fronte a un'abduzione. Un tale principio è applicato costantemente. Non c'è nes
sun interesse della divinazione a rivolgersi al passato: se le apodosi degli
oracoli storici lo fanno è appunto perché la fi losofia che sta dietro a
questo tipo di oracoli è che la storia può ripetersi. Nell'abduzione, infatti,
una volta che sia sta ta inferita la regola che spiega un certo risultato, è
possibile tenere a disposizione tale regola per successive applicazioni
deduttive. PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 21 1.4.2 Oracoli con gioco
associativo tra protasi e apodosi La seconda possibilità di un legame non
casuale tra pro tasi e apodosi dipende dalla presenza di rapporti associativi
tra elementi contenuti nella prima ed elementi contenuti nella seconda
proposizione. È operante qui in maniera evidente il modello della scrit tura
cuneiforme. Abbiamo infatti visto che essa tende a creare o suggerire una rete
di relazioni tra cose non diretta mente in contatto. Sappiamo come
l'interpretazione di un segno della scrittura cuneiforme apra la strada a una
catena di veri e propri interpretanti: la rappresentazione ideografi ca
dell'orecchio, a esempio, non solo significa "ascoltare", ma anche
"obbedire", "apprendere'', "il sapere",
"l'intelli genza". Ugualmente possono entrare in corto circuito se
mantico due ideogrammi omografi o che differiscano per pochi tratti del
significante. Cosi abbiamo due tipi di gioco associativo : l . quello sui
significati; 2. quello sui significanti. 1 .4.2. 1 Il gioco sui significati Il
rapporto che si instaura tra protasi e apodosi nel caso di un gioco associativo
sui significati è quello che si ha tra un "cifrato" tropico, e una
sorta di "chiaro" al grado zero. Vediamo alcuni esempi: Se il 29 del
mese di Aiiar (aprile-maggio) si verifica un'eclisse di sole - il re morirà,
duramente punito da Sam mortalità gene rale. Se un parto-anormale è doppio,
con due teste, l'una saldata al l'altra, e otto zampe, ma una sola
colonna-vertebrale - il paese sarà precipitato nella confusione per effetto
delle dispute inte stine . Se un cavallo cerca di accoppiarsi con un bue -
riduzione del l'incremento del bestiame. Nel primo esempio )'"eclisse di
sole" può essere conside rata una metafora rispetto alla "morte del
re"; del resto la metafora deli'eclisse come segno della morte di un
sovrano si catacresizzerà ed entrerà in una lunga tradizione mantica anche
greco-romana. Nel secondo esempio compare pure una metafora complessa: infatti
la protasi parla del corpo di un unico animale (''una sola
colonna-vertebrale"), che però ha organi doppi ("due teste",
"otto zampe"); viene al lora istituito un parallelo con l'organismo
statale (''il pae se"), unico, ma dilaniato e reso doppio dalle
"dispute inte stine". Il terzo esempio presenta un caso di
accoppiamento tra due animali di specie diverse, destinato dunque alla infe
condità, il quale simbolizza una "riduzione dell'incremento del
bestiame": la protasi ha la funzione (dal punto di vista della produzione
segnica) deli 'esempio (Eco 1 975 : 296; Eco 1984: 47), che vale per l'intera
classe. In generale, questi esempi mostrano come la logica che regola il
rapporto tra protasi e apodosi è dell'ordine del simbolico. Naturalmente molto
spesso la relazione tra il ci frato tropico e il chiaro ci sfugge, perché il
linguaggio figu rato è dipendente dal contesto culturale: è verosimile che in
molti casi operino associazioni che per la distanza spazio temporale tra le
culture non possiamo più avvertire. 1 .4.2.2 Il gioco sui significanti Vediamo
ora alcuni esempi di oracoli in cui nella protasi ci sono elementi che
differiscono per pochi tratti del signifi cante da elementi correlati
nell'apodosi: Se piove (zunnu iznun) nel giorno (della festa) del dio della
città - quest'ultimo sarà adirato (zenl) contro di essa. Se la Vescichetta
biliare è rientrante (na!Jsat) è inquietante (na!Jdat). - Se la Vescichetta
biliare è presa dentro (kussti) il grasso - farà freddo (kU$$U). 1 .4
PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 23 Se il Diaframma è aderente (emid) -
aiuto (imid) divino. La somiglianza tra i significanti fa sì che un fatto,
indica to da una parola con un certo suono, sia considerato segno di un altro
fatto, indicato da una parola con suono affine. 1 .4.3 I codici sistematici Il
terzo tipo di abbinamento non casuale tra protasi e apodosi è quello legato
alla presenza di codici sistematici. Come dicevamo, è possibile registrare
nella divinazione mesopotamica un'evoluzione diacronica per cui, dall'epoca
delle origini al periodo più recente, il modo di porre il rap porto tra
protasi e apodosi si modifica nel senso dell'astra zione. Il culmine di tale
processo porterà alla creazione di codici che prevedono una casistica generale
ed esaustiva: in questo caso verrà totalmente abbandonato il principio del
l'empirismo divinatorio per far spazio a una logica in un certo modo deduttiva,
che fa dipendere dalla configurazio ne generale del codice l'inferenza del
singolo caso. Infatti, a partire dal secondo quarto del II millennio, la
documentazione storica non ci presenta più oracoli singoli, ma registra la
presenza di un centinaio di "trattati", cioè di raccolte sistematiche
e spesso molto dettagliate, di segni di vinatori.s La sistemazione in
trattati, questo nuovo aspetto della di vinazione nel II millennio, ha come
tratto saliente quello di risultare funzionale al raggruppamento di diversi
segni ora colari in relazione a un unico oggetto, considerato ornino so.
Quest'ultimo veniva scomposto nell'intera gamma delle sue parti o variazioni,
ciascuna delle quali veniva a essere il tema di una singola protasi. Si
registra, in effetti, una mi nuziosa opera di pertinentizzazione del reale: se
un oggetto risulta esteso e divisibile, per ognuno dei singoli aspetti
identificati, viene costruita una coppia presagio-oracolo. Ecco come, a
esempio, in un trattato di estispicina, una sin gola porzione del fegato, la
cosiddetta "Porta del Palazzo", viene esaminata: Se, sulla
Soglia della Porta del Palazzo, a destra, si trova una fessura - . . . Se,
sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, una fessura è segnata per il
lungo - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, si trova
una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, una
fessura è segnata per il lungo - Se, nel bel mezzo della Porta del Palazoz, si
trova una fessura - ... Come si può vedere, tutte queste protasi
risultano co struite su un principio strutturale di opposizioni binarie tra
Ila Soglia! e Iii bel mezzo! della Porta del Palazzo, tra jde stral e
jsinistral, tra j fessuraj e l fessura segnata per il lungoj . È dunque proprio
il sistema, inteso in un senso strutturali stico ante litteram, a prendere il
sopravvento . Non vengono registrati più solo i casi che sono stati
effettivamente osser vati, ma tutti i casi virtualmente possibili, in
relazione a un sistema basato su opposizioni e regole astratte. Questo fatto
diviene particolarmente evidente quando in contriamo in un trattato delle
protasi che prendono in con siderazione fino a sette Vescichette biliari per
uno stesso fe gato: la logica del sistema (basata in questo caso sulla rego
la: n --+ n + l) prevale non solo sulla realtà, ma perfino sulla
verisimiglianza. Una cosa analoa avviene quando, all'ini zio del trattato di
teratomanzia Summa izbu, vengono pre viste, per un neonato perfettamente
umano, circa quaranta possibilità di aspetto mostruoso: tra esse, che il
neonato as somigli a un cavallo, a un leone, a un cane, a un maiale, a un bue,
a un asino, oppure a una mano, a un piede e, addi rittura, a un corno di capra
o a un mattone. Sotto la spinta della sistematizzazione, la divinazione cambia
radicalmente: tutto l'impegno non è più dedicato al la ricerca di eventi
ominosi, ma alla costruzione degli s-co dici (Eco 1975; 1984: 266) delle
sequenze di protasi; a parti 1.5 ESPLICITAZIONE DELLE REGOLE DI CODIFICA
25 re da queste sequenze verrà costruito il codice vero e pro prio di abbinamento
con le serie di apodosi. In questo sen so, anche se non formulate, varranno
regole generali del ti po: "ogni volta che trovi il numero x nella
protasi, assegna la caratteristica y all'apodosi"; cosi, a esempio, se
l'indovi no incontra in un evento-protasi il numero sette, che il siste ma
abbina costantemente, poniamo, alle caratteristiche del la
"perfezione" e della "totalità", può dare come oracolo
"vi sarà Pimpero". Sono del resto molte le regole di codifica non
espresse, ma costanti, come a esempio quella per cui tutto ciò che è a destra è
connesso con un auspicio favorevole, mentre tutto ciò che è a sinistra, esprime
un augurio contrario. Oppure quella per cui è possibile "cambiare di
segno", come in alge bra, alla predizione in base al contesto: a esempio,
un pre sagio di per sé sfavorevole, se messo in rapporto con la sini stra,
diventa favorevole, o viceversa. In questo senso l'apodosi diviene deducibile
dalla prata si, in quanto basta osservare le caratteristiche sistematiche che in
essa sono contenute per inferirla: è il trattato che for nisce in realtà la
regola (anche senza esplicitarla): di fronte a un nuovo caso sarà facile per
l'indovino trovare il risulta to applicando la regola. 1.5 L'esplicitazione
delle regole di codifica Se nei trattati del II millennio si assiste al
superamento della fase empirica a favore di una ristrutturazione della di
vinazione su base sistematica e deduttiva, tuttavia, le regole della deduzione,
per quanto largamente operanti, rimango no implicite. Nei trattati del I
millennio si assiste a un'ulteriore evolu zione della divinazione, che porta
ali'esplicitazione delle re gole stesse della codifica. Ciò è testimoniato dal
grande trattato di aruspicina del I millennio, che aveva un capitolo in cui
erano formulati i va lori essenziali di certe caratteristiche espresse dalle
protasi. Il testo era disposto non più su due, ma su tre colonne. La 26
l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA prima riguardava il presagio, o meglio la
caratteristica che appariva ominosa nell'oggetto preso come segno. Di solito si
trattava di una qualità, espressa o da un aggettivo ("gros so") o da
un sostantivo astratto ("lunghezza") oppure, an cora, da un verbo
all'infinito ("essere piegato verso il bas so"). Nella seconda
colonna veniva registrato il valore fon damentale dell'oracolo, come a esempio
"gloria", "poten za", "vittoria". La terza
colonna, infine, proponeva una esemplificazione con un oracolo completo, tale
che nella protasi comparisse la qualità registrata dalla prima colonna e
neli'apodosi il valore risultante nella seconda colonna. Ec cone un esempio:
Lunghezza Riuscita Se la Stazione è abbastanza lun ga da arrivare fino alla
Strada il principe riuscirà nella campa gna che avrà intrapreso. È evidente
qui l'ulteriore progresso compiuto nella dire zione dell'astrazione: abbiamo
infatti la vera e propria pre sentazione della chiave del deciframento dei
segni. Le leggi deli'esegesi sono messe in chiaro. Presentare il trattato sulle
tre colonne equivale proprio a mettere in luce le leggi di cifratura. Ciò che
vi è di arbitrario nell'abbina mento tra protasi e apodosi viene dichiarato
fornendo i due termini della corrispondenza. Questo processo di astrazione non
si arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alla
dico tomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All'estrema complessità e
particolarizzazione degli oraco li più antichi si contrapporrà l'estrema
semplificazione di una logica binaria che prevede solo il sì o il no. 2.
LA DIVINAZIONE GRECA 2.0 Divinazione e conoscenza Il campo delle pratiche
divinatorie costituisce il primo ambito sufficientemente omogeneo in cui nella
Grecia anti ca si parla di segni. Il termine semefon, che si incontra qui per
la prima volta, è un nome di genere, che indica un segno divinatorio di tipo
qualsiasi e comprende anche il responso oracolare, costituito in realtà da un
testo verbale.1 Accanto a esso, come sue specificazioni relative ad ambiti
particolari della divinazione (o, potremmo dire, a particola ri manifestazioni
di sostanza dell'espressione), si trovano vari altri termini; tra essi oion6s
che indica etimologicamen te il segno dato dal volo degli uccelli; phasma, che
si riferi sce inizialmente ai presagi che si possono trarre dai fenome ni
atmosferici, ma che si estende in seguito alle visioni in ge nere; téras, che
costituisce l'equivalente deli 'espressione la tina prodigium e sta a indicare
qualsiasi fenomeno o avve nimento insolito, e in qualche maniera mostruoso,
che pos sa essere preso come base per una interpretazione divinato ria (Bioch
1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). In tutti questi casi, qualcosa
sta per qualcos'altro, o meglio è assunto come base per un procedimento di
inferenza. Nonostante che in Grecia la divinazione come pratica ef fettiva
abbia avuto un'importanza abbastanza marginale,2 tuttavia il segno divinatorio
ha dato origine a una tradizio ne, letteraria e filosofica, che lo insedia nel
punto di origine mitico del processo di conoscenza. 28 2. LA DIVINAZIONE
GRECA Innanzitutto, infatti, l'indovino (mtintis), colui che è ca pace di
interpretare il segno proveniente dagli dei, è preci puamente un sapiente, e
il tipo di sapienza di cui il mantis è portatore non si identifica con
un'accezione limitativa del termine, come la conoscenza di una tecnica. Al
contrario, la sua è piuttosto una sapienza di ordine generale e sicura mente
superiore a qualsiasi tipo di conoscenza umana, co me suggerisce anche
l'etimologia del termine mantis, che è collegato alla radice •men, con cui
viene indicato un movi mento di accrescimento e di potenziamento dell'animo
(Crahay 1974: tr. it. 220). In Omero, per la prima volta, incontriamo
l'espressione che identifica la divinazione con la conoscenza "delle cose
che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato":
Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore tra gli scru tatori di
uccelli l che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima (hòs
id ta t 'e6nta ta t 'ess6mena pr6 t 'e6nta), l e aveva guidato verso Ilio le
navi degli Achei l con la sua arte di vinatoria, che Febo Apollo gli aveva
concesso. (Il., I, 69-72)3 Il passo omerico mette in risalto il carattere
generale e to tale della conoscenza rappresentata dalla divinazione; è una
conoscenza che trova un paragone solo con quella, molto più tarda, di ordine
filosofico: l'espressione tà eonta ("le cose che sono"), che nel
passo indica l'oggetto di conoscen za dell'indovino Calcante, rimarrà immutato
nella tradizio ne filosofica, in Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele,
come termine tecnico per indicare appunto gli oggetti della conoscenza
filosofica in generale. In secondo luogo, il segno, che è lo strumento
attraverso cui si attiva tale conoscenza, non proviene dalla sfera del
l'umano, ma da quella più alta e numinosa del divino; esso è lo strumento di
mediazione tra la conoscenza totale che ha il dio e quella limitata dell'uomo.
Il segno è altresì, nella prospettiva aperta da Colli (1977: 379; 1975: 40), il
luogo dell'irruzione della sapienza divina nella sfera dell'umano. Ma il
dio parla un linguaggio che non è quello dell'uomo. La parola del responso
oracolare, a esempio, è umana solo come suono, ma non produce alcun significato
se le viene applicato il codice del linguaggio verbale degli uomini. C'è dunque
una difformità nell'espressione dei contenuti della conoscenza che separa
l'uomo dal dio; ma c'è anche una più radicale differenza nelle modalità stesse
della conoscen za. Il dio padroneggia il tempo attraverso la "vista"
simul tanea e del passato, e del presente, e del futuro: la sua anni scienza
deriva appunto dal fatto di possedere una visione panoptica. Infatti Apollo,
secondo l'espressione usata da Pindaro (Pyth., III, 29), possiede
"l'occhiata che conosce ogni cosa". L'uomo, al contrario, può vedere
solo il suo presente, mentre gli sono irrimediabilmente sottratte le altre
dimen sioni del tempo. Solo il dio può permettergliene l'accesso; ma la
visione deve essere tradotta in parole, in quanto l'uo mo accede alla
conoscenza solo attraverso l'udito. Per il poeta, a esempio, la memoria del
passato è garantita dal racconto che traduce la visione panoptica delle Muse
(Horn., Il., Il, 484-486). Allo stesso titolo l'indovino è colui che rivela
all'uomo il futuro traducendo in parole la "visio ne" che il dio gli
comunica; ma proprio in questa traduzio ne il messaggio perde di perspicuità
(Lanza 1979: 99-l00; Detienne 1967: tr. it. 1). Per questi motivi il segno
divinatorio è enigmatico, oscu ro e per lo più incomprensibile. Per decifrarlo
c'è bisogno di un interprete, qualcuno che sia diverso dal soggetto nel quale
si è compiuto il processo di comunicazione e di tra sformazione della
conoscenza. Platone individua due distinte figure, rispettivamente "l'uomo
mantico" (colui che riceve la visione) e il "profeta" (colui che
interpreta le parole pronunciate dal primo duran te l'estasi). Il celebre
passo del Timeo, che propone tale di stinzione, in sé costituisce un piccolo
trattato teorico della divinazione quale se la rappresentavano i Greci, e
presenta con grande perspicuità la tradizione del segno divinatorio come segno
non direttamente decodificabile: Vi è un segno sufficiente che il dio ha
dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone
dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica.
Occorre piuttosto che la forza della sua intelligenza sia impedi ta dal sonno
o dalla malattia, oppure che egli l'abbia deviata es sendo posseduto da un
dio. Ma appartiene all'uomo assennato il ricordare le cose dette (tà rhthénta)
nel sogno o nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, il
riflettere su di esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni (tà
phasmata) al lora contemplate, il vedere onde quelle cose ricevano un signifi
cato e a chi indichino (smalnel) un male o un bene futuro o passato o presente.
A chi invece è esaltato e persiste in questo stato non spetta giudicare le
apparizioni e le parole da lui dette. Questa è una buona e vecchia massima: soltanto
a chi è assen nato conviene fare e conoscere ciò che lo riguarda, e conoscere
se stesso. Di qui deriva la legge di erigere il genere dei profeti a interprete
delle divinazioni ispirate dal dio. Questi profeti, alcu ni li chiamano
divinatori, ignorando del tutto che essi sono in terpreti delle parole
pronunziate mediante enigmi e di quelle immagini, ma per nulla divinatori. La
cosa più giusta è di chia marli profeti, cioè interpreti di ciò che è stato
divinato. (Plat., Tim., 7le-72a) Al centro concettuale del passo si pone il
verbo smafno, che indica appunto la rivelazione del dio; quest'ultimo si
presenta come il vero enunciatore, attraverso l'uomo ispira to, del testo
divinatorio. Il soggetto grammaticale di smal no è costituito dai due termini
che indicano le due forme di segno divinatorio, cioè "le cose dette"
e "le visioni contem plate", ma il responsabile della produzione di
questi segni è "la natura divinatrice ed entusiastica", cioè il dio
stesso che fa irruzione nell'uomo tramite l'invasamento (come indica anche
l'etimologia del secondo termine, collegata a theos). L'uomo non è che un
canale di trasmissione o un portavo ce. E perché il significato arrivi fino al
destinatario c'è biso gno di un complesso procedimento di interpretazione.
Cosi se prendiamo il verbo semalno come un predicato associato a un certo
numero di ruoli (o casi logici) e lo mettiamo in relazione a un processo di
comunicazione e a uno di inter pretazione, possiamo leggere il passo platonico
secondo il seguente schema (molto semplificato in alcune sue parti): 30
soggeno •te cose dette'" "le visioni contemplate'" il dio l'uomo
invasato significato - destinatario "'un male o un bene futuro o passato o
presente'" trice ed entusia- stica· 2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 3 1
--- - - -, '"la natura divina- l l'uomo processo di
interpretazione del segno, effe"uato da personaggi con un sapere
specializzato, a favore del destinatario "'i profeti'" Il
verbo smafno, dunque, non ha il banale senso di "si gnificare", nel
senso deli'instaurazione di un rapporto tra un piano dell'espressione e un
piano del contenuto all'inter no di un segno. Esso sembra piuttosto riferirsi
al processo di comunicazione stesso che il dio attiva nei confronti del
l'uomo: in altre parole, nel passo platonico, il verbo sembra riferirsi alla
situazione per cui il dio "indica attraverso segni (enigmatici)"
all'uomo qualcosa, che a quest'ultimo è sco nosciuto . A confermare l'uso del
verbo smafno con questo senso nei contesti divinatori si trova una lunga
tradizione che risa le almeno a Eraclito, al noto frammento 93 dell'edizione
Diels-Kranz (tr. it. 1974). È stato Romeo (1976) che, in una lucida e complessa
analisi del frammento, ha messo in evi denza questo significato del verbo
smafno, arrivando alla traduzione: (sorgente) (strumento) smafnei (oggetto)
(scopo) enunciatore- segno -- canale -l! 2. I.A DIVINAZIONE GRECA Il ··•Hno• c
du: ha l'oracolo in Delfi, né dischiude, né nasconde il,•.un pnJ.•,ac•o, rna lo
indicaattraversosegni(smalner)4 rourro una lunga tradizione che rendeva la
forma verbale sl'nuJinei con "significa" o con altre espressioni che
avevano l'cffcllo di rendere contraddittorio o incomprensibile l'inte ro
frammento. Si viene qui a profilare un'opposizione tra due tipi di lin
guaggio, che hanno caratteristiche antitetiche. Da una parte c'è il linguaggio
umano, caratterizzato dalla trasparenza e dall'immediata decifrabilità (e
possiamo fare l'ipotesi che proprio questo tipo di linguaggio sia circoscritto
da entram bi i termini della coppia oppositiva "dischiudo
[/égO]"/"na scondo [krfptO]": l'uomo o svela completamente il
suo pen siero, usando il linguaggio, oppure lo nasconde del tutto, non
esternandolo in parole). Dall'altra parte c'è un diverso tipo di linguaggio,
quello attribuito direttamente al dio nel frammento di Eraclito (e
indirettamente nel passo platoni co), che è indicato dal verbo semafno e che
ha le caratteristi che opposte dell'oscurità e della non immediata decodifica
bilità. Il dio non concede all'uomo una rivelazione comple ta, né gli nega
totalmente la conoscenza: gli fornisce piutto sto, attraverso il segno
oracolare, una base di inferenza sul la quale l'uomo dovrà lavorare per
giungere a una conclu sione, senza però dargli alcuna garanzia sulla via da
seguire con il ragionamento. Ci sono due spiegazioni al fatto che la cultura
letteraria e filosofica greca si sia rappresentata il segno divinatorio co me
oscuro e ambiguo. La prima è quella che abbiamo visto inquadrarsi nell'otti ca
di Colli, secondo cui il segno divinatorio può essere con siderato come
"l'impronta del divino" nell'uomo, indizio di un punto di contatto
(quello attraverso cui la conoscenza divina si comunica all'uomo), e
contemporaneamente di un punto di fuga.s La seconda spiegazione è quella messa
in luce da Vernant (1974: tr. it. 20-21), ed è inerente al tipo di razionalità
speci fica messa in gioco dalla divinazione, come pratica effetti va, oltre
che come teoria. Essa si connette al diverso ruolo 2.0 DIVINAZIONE E
CONOSCENZA 33 che gioca il destino rispettivamente nella sfera divina e in
quella umana. Infatti, a livello dell'esistenza umana, il de stino è
concepibile come una successione lineare di avveni menti (rappresentato
metaforicamente dal filo delle Par che), i quali si connettono tra loro
apparentemente senza che possa essere attribuito loro un senso globale. Questa
successione acquisisce un significato solo quando è arrivata al suo termine,
quando cioè il destino "si compie". È solo a questo punto che esso
diventa intelligibile e permette di spiegare, alla luce degli ulteriori
sviluppi, anche gli avveni menti passati ai quali non si era saputo dare un
senso. Fino a quel momento, tuttavia, l'uomo rimane in una fondamen tale
ignoranza: anzi, è proprio questa ignoranza a caratte rizzare l'esistenza
umana. A livello degli dei, al contrario, il destino di ciascun uo mo è
presente e intelligibile in ogni momento nella sua tota lità. Esso infatti è
stabilito in maniera irrevocabile e iscritto nell'eternità già prima della
nascita di ogni uomo. La divi nazione trova il suo spazio proprio in questo
scarto di cono scenza che si apre tra gli uomini e gli dei: l'oracolo (e in
ulti ma analisi anche ogni altro tipo di segno divinatorio) si sup pone che
riveli all'uomo, quando è ancora in vita, proprio il significato segreto del
suo destino, mentre questo sarebbe accessibile, dal punto di vista umano, solo
dopo la morte. Tuttavia, se la divinazione compisse la sua funzione pro fetica
sino in fondo, se cioè abolisse totalmente lo scarto di conoscenza che esiste
tra l'uomo e la divinità, risulterebbe con ciò cancellata anche la differenza
che distingue l'uomo dal dio. Per questa ragione il dio non svela il destino
più di quanto lo nasconda in effetti, secondo la formulazione di Eraclito.
L'oracolo lo lascia intravedere, ma nello stesso tempo lo dissimula; lo dà a
indovinare attraverso un segno oscuro ed enigmatico che per i consultanti non è
più intelli gibile di quanto lo siano gli avvenimenti per i quali si sono
rivolti all'oracolo. Così, la logica della divinazione fa in modo che con
l'ambiguità del segno venga reintrodotta, a livello umano, quella
"opacità" circa il destino che l'anni scienza divinatoria avrebbe il
compito di attenuare, se non di eliminare del tutto. 14 2. LA DIVINAZIONE
GRECA 2. 1 llue tipi di divinazione 2 . 1 . 1 La divinazione naturale Il passo
platonico del Timeo, come pure il frammento di Eraclito, fanno riferimento a un
tipo di divinazione che vie ne di solito definita "ispirata": essa
rientra all'interno della categoria generale della mantik atechnos, della
divinazione cioè che non richiede un apparato di mezzi tecnici per la sua messa
in opera e per questo, talvolta, riceve anche il nome di "divinazione
naturale" (Cic., De divinatione). Il carattere specifico di questo tipo di
divinazione è quel lo per cui il sapere del dio non passa attraverso mezzi di
ma nifestazione esterni all'uomo: l'ispirazione divina raggiunge direttamente
l'individuo attraverso i sogni (cioè un testo iconico) o si comunica a un profeta-portavoce
che emette un responso (normalmente un testo verbale). Per usare l'e
spressione di Romeo (1976: 84), si tratta di un tipo di divi nazione
"endosemiotica". Secondo questo modello funzionava il più noto e
presti gioso oracolo della Grecia antica, quello di Delfi6 in cui la Pizia, la
sacerdotessa di Apollo, emetteva un responso co stituito da un testo verbale.
Ma, come abbiamo visto, per quanto esso fosse formulato nei termini del
linguaggio na turale, il suo senso non era decodificabile mediante la sem
plice applicazione delle regole del codice linguistico a livello denotativo.
Più avanti vedremo alcuni esempi di decodifica aberrante di responsi, fraintesi
proprio per la pedissequa applicazione di questo codice senza far ricorso a
regole più complesse (come quelle di tipo retorico-tropico). 2. 1 .2 La
divinazione artificiale Il secondo tipo di divinazione è la mantik technik,
defi nita, a seconda dei commentatori, come "congetturale",
"induttiva", "deduttiva" o "artificiale". Era
basata suli'a nalisi dei segni (visibili, acustici, sensibili) che si
realizzava-no nell'ambiente esterno all'uomo e che potevano essere spontanei
(come i fulmini o le eclissi) oppure provocati (co me il lancio dei dadi o
l'estispicina).7 Questo secondo tipo di divinazione mette in gioco una lo gica
particolare, basata sull'ipotesi che esistano rapporti di omologia e di
corrispondenza tra il microcosmo, rappresen tato dal fenomeno preso come
segno, e il macrocosmo, rap presentato dall'ordine generale dell'universo (J.
Vernant 1948; J.-P. Vernant 1974). A questo proposito vengono isolate delle
porzioni di spa zio - che possono essere, a esempio, le regioni del cielo per
l'astrologia, come pure la superficie del fegato della vittima sacrificale per
l'estispicina - che vengono caricate di valore simbolico e deputate a
funzionare da specchio dell'ordine cosmico generale. Negli spazi così
delimitati è possibile leg gere la configurazione futura degli eventi,
sottratta a quella aleatorietà, a cui gli eventi reali sono invece sottoposti,
e per sopprimere appunto la quale il consultante si rivolge al la divinazione.
Si creano così due serie, quella delle configurazioni strut turali interne al
testo segnico e quella degli eventi a cui tali configurazioni rimandano; tra le
due si stabilisce un vero e proprio codice di corrispondenza, che permette di
passare immediatamente dal segno al suo significato. Ne vediamo un esempio molto
semplice nel seguente passo di Omero: Dico che un cenno ci dette il Cronide
superbo l il giorno che sulle navi veloci in cammino salivano gli Argivi l a
portare stra ge e morte ai Troiani l tuonando da destra, mostrando segni di
buon augurio. (//., Il, 351-354) In questo caso la volta celeste viene
costituita come spa zio significativo, come microcosmo in cui sia possibile
leg gere i segni del destino. Questo spazio viene articolato in una struttura
binaria che oppone due regioni, la destra e la sinistra: a ciascuna di esse
viene abbinato un valore seman tico (ldestral--+"buon auspicio",
!sinistra!-+"cattivo auspi cio"). Una più articolata configurazione
del significato deLA DIVINAZIONE GRECA riva dalla circostanza di enunciazione,
cioè dalla sua rela zione con la domanda esplicita (o implicita, come in
questo caso) che l'interrogante pone alla divinità·. Nel passo omeri co la
circostanza di enunciazione è la partenza della spedi zione per Troia, e la
domanda implicita concerne la riuscita dell'impresa: dunque il tuono che
proviene dalla regione de stra del cielo viene a significare "buona riuscita
dell'impresa dei Greci contro Troia". Infatti, per quel che riguarda
l'individuazione del signifi cato ultimo del segno, tutti i sistemi divinatori
si basano su un equilibrio più o meno stabile tra le strutture formali del
codice che permettono di cifrare in maniera completa l'av venimento prodigioso
e insolito, e la molteplicità delle si tuazioni concrete a cui tale
avvenimento-segno può riman dare nei contesti specifici. Nell'esempio omerico
il codice è così semplice da essere diventato patrimonio comune, tanto che non
si fa cenno della presenza di un indovino, per decifrare il segno. Di so lito
non è così per la divinazione artificiale, il cui carattere "tecnico"
risiedeva proprio nel fatto che per l'interpretazio ne dei segni era
necessario fare ricorso alla conoscenza spe cializzata di personaggi
depositari di un sapere che verte sulle regole di decodifica. L'indovino è
infatti essenziale nel caso, appena più com plesso, riportato da Plutarco
nella Vita di Dione (24). L'a neddoto riguarda la spedizione effettuata nel
357 a.C. da Diane contro Dionigi di Siracusa, durante la quale si verifi cò
un'eclisse di luna. L'indovino Miltas, chiamato a inter pretare quel segno,
dichiarò che esso annunciava che qual cosa che era stato splendente fino ad
allora, si sarebbe oscu rato: non poteva, dunque, che trattarsi del regno
tirannico di Dionigi, il quale era destinato a soccombere sotto l'attac co
portatogli da Dione. Anche qui ci sono le due fasi: la prima determina il signi
ficato degli abbinamenti del codice e la seconda quello deri vante dalla sua
applicazione alla situazione concreta. Inol tre l'indovino Miltas si avvale di
una tecnica più sofisticata, che fa ricorso anche alle trasformazioni
retoriche: la rela zione tra il macrocosmo della luna che viene oscurata
dal- 2. 1 DUE TIPI DI DIVINAZIONE 37 l'eclisse e il microcosmo del regno
di Dionigi destinato a soccombere è mediata dall'elemento comune !splendore!
con cui si designa in modo proprio una qualità della luna e in modo figurato una
proprietà del regno di Dionigi. Esistevano poi codici notevolmente elaborati
già al sem plice livello degli abbinamenti, come a esempio il codice
dell'estispicina. In questa pratica venivano esaminate le vi scere degli
animali, in particolare il fegato, del quale si os servavano l'aspetto e la
posizione del lobo, della vescichetta e delle porte.8 Per quello che riguarda
la cultura greca non abbiamo esempi del modo in cui venivano effettivamente
realizzati gli abbinamenti tra gli elementi significanti e quel li a cui essi
rinviavano. Tuttavia Luc Brisson (1974), in uno studio molto interessante e
completo sulla divinazione in Platone, ha segnalato un passo del Timeo (71 a-d)
in cui, nonostante non si parli direttamente di estispicina, si descri ve un
fenomeno che con essa ha molti punti di contatto. Il passo illustra i processi
che si determinan9 quando l'anima razionale, che ha sede nel cervello, lascia
la sua impronta, "come in uno specchio", sul fegato che è la sede
dell'anima appetitiva: questo permette di vedere riprodotte nel fegato (nei
suoi aspetti via via diversificantisi) le impressioni la sciate dali'anima
razionale. La specularità è, però, solo metaforica perché si verifica no in
realtà dei processi di codificazione molto forte, che fanno pensare ai
meccanismi della "comunicazione biochi mica" . In definitiva il
fegato viene a costituire un testo segnico sul quale I 'anima appetitiva legge
i contenuti intelligibili, di venuti sensibili attraverso un processo di
codifica. Esso co stituisce altresì un microcosmo che rispecchia, anche se in
modo molto particolare, l'assetto del macrocosmo costitui to dali'anima
razionale. Si può presumere che i codici dell'estispicina funzionasse ro in un
modo analogo a quello descritto per i processi di comunicazione
"intrapsichica" illustrati dal Timeo. Tuttavia, proprio da Platone
scaturisce una delle più reci se condanne che la Grecia classica abbia
espresso nei con fronti della divinazione artificiale. Tale condanna si
trova 38 2. LA DIVINAZIONE GRECA formulata nei due testi del Timeo (72 b)
e del Fedro (244 c-d). Nel primo di questi, in particolare, è contenuta una
condanna dell'epatoscopia: infatti Platone, che accetta la possibilità di
leggere sul fegato molti segni quando questo è contenuto in un organismo
vivente, sostiene che esso non può rivelare niente di sicuro agli uomini,
quando è privato della vita e non è più sottoposto all'influsso luminoso del
l'anima razionale. Più generale e radicale è la condanna della divinazione
tecnica nel Fedro. In quel testo Platone fa l'elogio della fol lia, di cui
considera la divinazione una specie, e separa la mantica ispirata ed
entusiastica da tutte le altre forme di in vestigazione del futuro. In
particolare la "mantica", nel senso ristretto, viene contrapposta
alla "oionistica", cioè la divinazione mediante l'osservazione dei
segni dati dal volo degli uccelli. La ragione della discriminazione è chiara:
nella divina zione tecnica la ragione umana pretende di sostituirsi ali'i
spirazione divina. Per indicare che in questo modo non si raggiunge che un
grado molto pallido e incerto di conoscen za, Platone inventa addirittura una
connessione etimologi ca tra "oionistica" e olsis (''opinione")
("L'investigazione del futuro [. . .] attraverso gli uccelli [. . .] fu
chiamata 'oio noistica', che i moderni, rendendola solenne con un omega,
dicono oionistica": Phaedr., 244 c). Nella divinazione ispi rata, invece,
la conoscenza deriva all'uomo da una posses sione divina e questo è garan.zia
di verità. Sembra profilarsi un'opposizione tra smafnein e tekmal resthai, il
primo verbo indicando, come nel Timeo e in Era clito, il dono della conoscenza
elargita dal dio, mentre il se condo indica la congettura puramente umana.
Questa op posizione richiama il motto di Alcmeone: Delle cose invisibili e
delle cose visibili gli dei hanno conoscenza certa; ma agli uomini tocca
procedere per indizi (tekmafre sthal) . (Diels-Kranz, 24 b l) su cui avremo
occasione di tornare. 2.2 DUE MODELLI DI DIVINAZIONE ORACOLARE 39 I
passi platonici non esemplificano soltanto l'opinione del filosofo ateniese, ma
si pongono altresì in linea con la scelta di fondo compiuta da tutta la civiltà
greca nei con fronti della divinazione ispirata. Infatti, per quanto in Gre
cia venissero praticate anche forme di divinazione tecnica, a esse è stata
sempre riservata un'importanza secondaria, mentre l'attenzione si è concentrata
soprattutto sulle forme della divinazione oracolare, che si esprimevano
attraverso la parola. D'altra parte questo fenomeno deve essere messo in rela
zione con il fatto che la civiltà greca è essenzialmente di tipo orale; in essa
la scrittura è non soltanto un fenomeno recen te, ma del tutto dipendente dal
parlato, che essa tende a ri produrre foneticamente. In altre civiltà, come
quella meso potamica o quella cinese, la scrittura è molto più antica e
funziona come un sistema autonomo rispetto alla lingua, presentando a suo modo,
attraverso i segni grafici, quelle realtà che la lingua presenta in altra
maniera: in queste ci viltà la scelta compiuta nei confronti del tipo di
divinazione è opposta a quella greca. 2.2 Due modelli della divinazione
oracolare Esistono tuttavia profonde differenze tra l'immagine che della
divinazione oracolare propongono i testi letterari e il modo in cui essa veniva
praticata effettivamente nei santua ri a essa adibiti. J.-P. Vernant (1974)
parla di due distinti modelli. Nella Grecia dell'età classica, infatti, la
divinazione come pratica effettiva ha una rilevanza marginale nel regime della polis.
Infatti l'oracolo viene consultato non per ottenere una predizione sul destino,
ma per prospettargli, in forma di alternativa, un certo corso di eventi che si
ha intenzione di intraprendere e per domandargli se la via sia libera o pre
clusa.9 Si instaura a questo proposito un vero e proprio dialogo tra il
consultante e l'oracolo (Crahay 1974): quest'ultimo ri sponde innanzitutto
alla domanda che è stata posta in for- LA DIVlNAZIONE GRECA ma chiusa,
predicendo al consultante se farà o non farà una determinata cosa. Il
consultante pone poi all'oracolo una seconda domanda, in forma aperta, ma
limitata a una con dizione rituale di successo: in sostanza, esso domanda al
l'oracolo quali ostacoli debbono essere rimossi perché l'im presa prospettata
giunga a buon fine. È interessante a que sto punto vedere come la formula
usata di solito dall'oraco lo nell'emanare il consiglio di carattere rituale
rispecchi quella che veniva usata per redigere le decisioni dell'assem blea
sancite dal popolo. L'oracolo dice infatti loion kai ameinon éstai (''sarà più
conveniente e preferibile"), pro prio come nei decreti deli'assemblea si
usano formule che pongono l'accento sulla "preferenza" tra le
opinioni, piut tosto che sull'intimatività della decisione. Ciò è indice del
fatto che nella civiltà greca è il modello della discussione as sembleare che
si proietta sulla divinazione, e non viceversa come avveniva nella civiltà
mesopotamica. Ed è interessante che in questo modello di divinazione non si
trovi alcuna traccia di risposta ambigua o oscura. Ambiguità e oscurità si
trovano solo nel secondo model lo, quello "teorico,, della divinazione
oracolare, presente in tutta la letteratura scritta, da Erodoto ai poeti
tragici, ai fi losofi. Esso costituisce la rappresentazione che la cultura
della città si dà della divinazione. Secondo·questo modello, l'oracolo viene
consultato non per ottenere un consiglio, ma direttamente sul destino. Ciò
determina la supposizione che l'oracolo sia onnisciente, in quanto deve
conoscere sia lo sviluppo futuro degli eventi, sia, nel contempo, il passa to,
in cui si situano le remote origini delle sorti attuali e fu ture
deli'indi\iduo o del gruppo consultante. La logica a cui questo modello
risponde non è più bina ria: l'oracolo deve qui impegnarsi a ridurre a una
sola, spe cifica, opzione l'infinità dei possibili. Il responso oscuro e
ambiguo reintroduce, del resto, l'in certezza che caratterizza la condizione
umana che l'oracolo tende ad annullare. Così, nei racconti oracolari dei testi
let terari, la profezia sembra sempre inadeguata rispetto al cor so preso
dagli eventi. Il segno rimane oscuro fintantoché il "compiersi" della
sorte si incarica di fare chiarezza e di de- 2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI
RACCONTI ORACOLARI 41 sambiguare, ormai troppo tardi, la polisemia del testo
pro fetico. 2.3 Il problema interpretativo nei racconti oraco lari
Naturalmente, per capire come la nozione di smefon si sia sedimentata nella
cultura greca, per vedere quale sia il nucleo semantico con cui il termine
indicante il segno è sta to consegnato alla tradizione filosofica, il
riferimento ali'u so di smefon nei testi letterari è altrettanto importante
quanto il suo significato nelle pratiche divinatorie effettive. Soprattutto nei
testi di Erodoto e dei tragediografi è pos sibile vedere come costantemente
venga tematizzato il pro blema interpretativo che il segno oracolare pone:
l'oscurità del segno è in principio legata alla difficoltà, che diviene
immancabilmente impossibilità, di risolvere tale problema. Si deve però dire
che in primo luogo l'uomo è accecato dal la hjbris, e palesa la sua scarsa
ricettività alla parola della profezia in vari modi: la dimentica, non ne segue
le diretti ve, sbaglia la modalità di consultazione; alla fine, però, il suo
errore fondamentale è quello di scegliere sempre il ter mine errato
dell'alternativa posta dal segno ambiguo. Se la sua colpa è, dunque, un peccato
di tracotanza, il suo errore è un errore di conoscenza, e ha un carattere squi
sitamente semiotico. Ancora una volta compare l'opposizione "linguaggio
umano"/"linguaggio divino": l'uomo infatti interpreta sempre la
profezia secondo il proprio codice, non tentando mai di intendere la parola
della rivelazione come cifrata in un altro linguaggio, quello appunto della
divinità. In termini semiotici, in tutti i racconti sul tema della divi
nazione oracolare, l'uomo interpreta invariabilmente il te sto in modo
letterale, mentre questo dovrebbe ricevere una lettura secondo quello che
potremmo definire modo enig matico.10 Infatti, l'idea fondamentale che i
racconti oracolari sug geriscono è che esista sempre nella profezia un senso
secon- 42 2. LA DIVINAZIONE GRECA do, che è nascosto e che costituisce il
vero e unico significa to del segno: è la scoperta di questo secondo senso,
scartan do il primo, che qui chiamiamo interpretazione secondo il modo
enigmatico. Invece l'uomo coinvolto nell'interpreta zione, data la sua
incapacità di attingere la sapienza divina, compie proprio il gesto contrario,
scartando la possibilità di un senso non letterale. Vi sono tuttavia diverse
forme dell'errore di interpreta zione. (i) La prima consiste nella incapacità
di assegnare un senso al testo, o meglio, di adeguarlo a circostanze reali no
te: non si trovano oggetti a cui le parole della profezia pos sano essere
riferite e il testo appare totalmente assurdo. (ii) La seconda forma di errore
consiste nel riferire la profezia a oggetti reali, ma erroneamente
identificati; ve ne sono due sottospecie, a seconda che l'errore sia dovuto a
una omoni mia o a un equivoco (e quest'ultimo è ulteriormente suddi
visibile). Tutto ciò può essere illustrato mediante il seguente schema:
Interpretazione secondo il modo
enigmatico ~l et t e r a l e n o n se n so sen~ so errato per omonlmia
per equivoco errate scambio assunzioni di prospettiva di credenza 2.3
L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLAR.I 43 Vediamo ora alcuni racconti
oracolari in cui sono esem plificate queste modalità di errore. L'incapacità
di assegnare un senso al testo profetico si ha in vari racconti nei quali
vengono utilizzati meccanismi re torici, tra cui alcuni di tipo metaforico. È
naturale che, quando il veicolo metaforico viene interpretato "letteral
mente", si ottenga una assurdità sul piano del senso, a me no che non si
immagini un mondo possibile, diverso da quello reale, in cui i muli possano
diventare re dei Medi e gli araldi siano dipinti di rosso. Il consultante, che
prende in considerazione soltanto il mondo reale, si trova in difficoltà ad
assegnare un senso e una denotazione a testi siffatti. Ma vediamo che cosa
succede nel primo di questi racconti. È Erodoto a narrarci la storia degli
abitanti deli'isola di Sifno, i quali, essendo giunti a un notevole grado di
ricchez za con le loro miniere d'oro e d'argento, decisero di consul tare
l'oracolo di Delfi per sapere se avrebbero potuto con servare a lungo la loro
prosperità. La Pizia rispose: "Ma quando, a Sifno, il pritaneo sarà bianco
e bianco il bordo della piazza pubblica, allora c'è bisogno di un uomo accor
to per guardarsi dall'agguato di legno e dall'araldo rosso" (Herod., Hist.,
III, 57). La storia continua narrando del l'arrivo di una nave dei Sami, della
loro ambasceria per chiedere denaro e del saccheggio che questi ultimi fanno
dell'isola dei Sifni. Erodoto sottolinea l'incapacità manifestata dai Sifni di
dare un senso al testo ("l Sifni non furono capaci di com prendere
l'oracolo"); per loro il testo, e in particolare, si presume, le
espressioni "agguato di legno" e "araldo ros so", sono
prive di senso, perché appunto essi si fermano a un livello letterale di
interpretazione. In realtà il dio gioca con vari meccanismi tropici: innan
zitutto con una doppia enallage1 1 (è il legno [ = nave] che anticamente è
rosso, come spiega Erodoto, ed è l'araldo [ = gli ambasciatori] che organizza
un agguato), complican do poi il testo con meccanismi metonimici (legno per
nave, il singolare araldo per il plurale ambasciatori). Un secondo esempio di
mancata comprensione si trova in un episodio di quel lungo e complesso
"romanzo oracolare" 2 . LA DIVINAZIONE GRECA t·hc
l·:rodotodedicaaCreso,quandoquest'ultimochiedeal l ' oracolo di Delfi se la
sua monarchia sarebbe durata a lun o . La Pizia risponde: "Quando un mulo
sarà re dei Medi, allora, Lidio dai piedi delicati, fuggi lungo l'Ermo sassoso,
non indugiare e non temere di essere vile" (Herod., Hist., l, 55). Anche
in questo caso, l'interpretazione che viene data alla profezia sceglie il senso
letterale: Creso ritiene, di con seguenza, impossibile che venga a verificarsi
uno stato di cose che soddisfi alla descrizione della frase "un mulo sarà
re dei Medi"; la conclusione che egli trae da questa impossi bilità è che
sia altrettanto impossibile che il suo regno abbia una fine. Sarà poi il dio
stesso a spiegare al re il suo gioco metafo rico, quando ormai i fatti si
saranno compiuti e Creso sarà caduto sotto la dominazione dei Persiani . Il
"mulo" è, in ef fetti, Ciro, e il passaggio è mediato dalla
proprietà "sangue misto", che è condivisa sia dal termine metaforizzante
sia dal termine metaforizzato: ·sangue misto• / Tanto maggiore è la cecità di
Creso se si pensa che l'ele mento comune è doppiamente esemplificato in Ciro,
in quanto figlio "di madre nobile e di padre di oscuro lignag gio" e
"di madre meda e di padre persiano", come il testo di Erodoto non
manca di sottolineare. Vale la pena di rilevare che l'interpretazione del senso
fi gurato è un'operazione realmente più difficile di quello che si potrebbe
immaginare, fatto che giustifica in qualche ma niera gli insuccessi dei
consultanti. Essa è legata a cono scenze enciclopediche locali, oltre che ai
meccanismi retori ci che su quelle conoscenze si applicano. Ciò è tanto più ve
ro se si considera che è impossibile anche per il lettore mo derno fornire
l'interpretazione del testo profetico quando il testo letterario non ci informa
sulle relative porzioni di enciclopedia. Ciò avviene, a esempio, nel racconto
oracolare di Arcesilao (Herod., Hist., IV, 163-164) in cui, accanto a scambi
metaforici tra "anfore" e "uomini", tra "torri" e
"forni" che vengono spiegati dal prosieguo della narrazio ne,
compare l'espressione "il tuo più bel toro" che rimane inspiegata ed
è anche per noi incomprensibile. Vediamo ora il caso in cui il testo appare
interpretabile secondo un percorso di senso letterale, in cui cioè sia rin
tracciabile un corso di eventi corrispondente a esso, senza però essere quello
inteso dalla profezia. Consideriamo in particolare il caso in cui l'errore
interpretativo sia dovuto a omonimia. Questo meccanismo, accompagnato dal
costante frain tendimento, caratterizza l'intero romanzo oracolare di Cambise.
Si tratta di una storia in cui i vari segni si collega no tra di loro in una
catena di rimandi interni. Questa storia ha inizio con un sogno: Smerdi
(fratello di Cambise) era già tornato in patria (la Persia) quando Cambise ebbe
in sogno questa visione: gli parve che un messo, giunto dalla Persia, gli annunciasse
che Smerdi, seduto sul trono regale, toccava con la testa il cielo. Temendo
perciò che il fratello meditasse di ucciderlo per impadronirsi del regno, mandò
in Persia Prexaspe, che gli era fedelissimo fra tutti i Per siani, a uccidere
Smerdi. (Herod., Hist., III, 30) Dopo parecchi paragrafi, in cui la storia
continua narran do le stravaganze e le crudeltà di Cambise, ci viene raccon
tata la ribellione in Persia dei due fratelli Magi, uno dei quali, che si
chiamava anch'esso Smerdi, era stato collocato sul trono. Quando Cambise viene
a conoscenza di questo fatto, comprende il vero senso del sogno. Ma la storia
non finisce qui: Dopo che ebbe pianto e si fu afflitto di tanta sciagura,
Cambise balzò a cavallo per muovere al più presto verso Susa contro il Mago;
ma, mentre saliva in arcione, gli cadde il puntate del fo dero della spada,
che rimasta nuda lo ferì alla coscia. Colpito così nello stesso punto in cui
aveva trafitto il dio egizio Api, il 2. LA DIVINAZIONE GRECA fl\
iudicando mortale la sua ferita, domandò ancora come si chiarnassc la città
dove si trovavano e gli risposero che si chia rnava Ecbatana. Ora, molto tempo
addietro, a lui che l'aveva consultato, l'oracolo di Buto aveva risposto che
sarebbe morto ad Ecbatana ed egli aveva interpretato che sarebbe morto, vec
chio, ad Ecbatana di Media, dove aveva tutti i suoi beni, men tre l'oracolo
aveva inteso di indicare Ecbatana di Siria. Pertan to Cambise, come ebbe
saputo il nome della città, sotto il dupli ce colpo della rivolta del Mago e
della ferita, rinsavì e, com prendendo finalmente il divino responso, esclamò:
"Qui è desti no che muoia Cambise, figlio di Ciro". (Herod., Hist.,
III, 64) La rivolta del Mago e la ferita sono, più che avvenimenti, dei segni,
in quanto permettono a Cambise di accedere alla conoscenza, di comprendere,
finalmente senza più ambigui tà, l'oracolo, di non rimanere più prigioniero
dei giochi di parole: la rivolta che gli fa capire la differenza tra Smerdi suo
fratello e Smerdi Mago; la ferita mortale, la differenza tra Ecbatana in Media
ed Ecbatana di Siria. Infine c'è l'ulteriore caso di errata interpretazione a
cau sa di un equivoco, non strettamente linguistico, e che può essere di varia
natura. L'equivoco più famoso di tutta la letteratura oracolare greca è
senz'altro quello di cui cade vittima Edipo. Come noto, durante un banchetto
Edipo viene insospettito dalle insinuazioni fatte da un convitato circa la sua
paternità e decide allora di interrogare il dio della sapienza, il quale gli
predice che ucciderà il padre e che si congiungerà con la ma dre (Soph.,
Oedipus tyrannus, 787-798). L'equivoco riguar da le assunzioni di crede...zza:
Edipo non sa che i suoi veri genitori sono Laio, re di Tebe, e Giocasta, ma
crede che sia no Polibo, re di Corinto, e Merope; per questo, al fine di
stornare gli avvenimenti predetti dall'oracolo, si allontana da Corinto per
andare in direzione di Tebe, e compie, così, inconsapevolmente, proprio il
destino che gli è stato annun ciato. Altre volte l'equivoco riguarda lo
sca1nbio diprospettiva. Il caso emblematico è quello di Creso che manda a
consul tare congiuntamente l'oracolo di Delfi e quello di Anfiarao
L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARJ 47 per sapere se dovesse fare guerra
ai Persiani. I due oraco li, concordemente, predicono che "se avesse
mosso contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande impero" (Herod.,
Hist., l, 53). Creso interpreta il responso come facente rife rimento alla
distruzione dell'impero dei Persiani, mentre, come si scopre in seguito, sarà
proprio il suo impero a subi re tale destino. A sviare il re dalla giusta
interpretazione in terviene un meccanismo semiotico implicito: l'assunzione di
Creso che, dal momento che l'oracolo è rivolto a lui, anche il dio assuma la
sua prospettiva. E, ovviamente, nella pro spettiva di Creso, il grande impero
da distruggere non può che essere quello persiano. Si incomincia a intravedere
in questo esempio, più che nei precedenti, una caratteristica che è tipica
deli'enigma: una fortissima carica aggressiva, potenzialmente distrutti va, da
parte del dio nei confronti dell'uomo quando gli po ne un problema
interpretativo da risolvere. Una conferma si trova nel racconto analogo in cui
l'ora colo di Delfi predice agli Spartani che misureranno la terra di Tegea
con le funi (Herod., Hist., l, 66). Gli Spartani in terpretano il riferimento
alle funi come indicante Patto di misurare le terre per distribuirle ai
conquistatori e, di conse guenza, fanno una spedizione contro Tegea. In realtà
esse sono inserite in un altroframe o sceneggiatura (Eco 1984), in quanto
serviranno agli Spartani, ridotti in schiavitù dopo la sconfitta, per misurare
le terre che dovranno lavorare. L'attributo con cui viene qualificato il
responso è klbd los che, nel suo senso traslato, significa
"ambiguo", "fal so", "ingannevole", ma nel suo
senso base fa riferimento alla carica estranea che adultera il metallo
prezioso. Ciò che ne risulta, come nei casi presi in considerazione, è la com
mistione di due metalli, uno buono e uno non, che fa lucci care come oro ciò
che oro non è. Analogo meccanismo, infine, si trova negli aneddoti, ri portati
da Diodoro Siculo (Biblioteca, XVI, 91-92; XX, 29), nei quali viene annunciato
a un generale che pranzerà o alloggerà nella città che sta assediando; queste
cose si verifi cheranno, ma la prospettiva non sarà quella del vincitore bensì
quella del prigioniero. LA DIVINAZIONE GRECA 2.4 Il segno come sfida:
divinazione ed enigma Abbiamo accennato alla carica di aggressività che si cela
dietro al segno oscuro. Questo aspetto collega immediata mente il segno
divinatorio all'enigma vero e proprio, an ch'esso oscuro e insolubile e,
mitologicamente, espressione della sfida che la divinità lancia ali'uomo. È
stato Colli ( 1 975 : 1 8) a mettere in luce il rapporto tra la divinazione,
l'enigma e l'altra faccia di Apollo, quella mi nacciosa e distruttrice. 1 2
Apollo, infatti, non è soltanto di vinità benefica che dona agli uomini l'arte
mantica e la me dicina: egli è anche il dio della freccia e dell'arco. Queste
in dicazioni assumono un valore direttamente semiotico quan do si scopre che
la freccia di Apollo e il segno oscuro sono non due cose diverse, ma due mezzi
di espressione della me desima potenza del dio e che possono avere anche lo
stesso funzionamento, come si può inferire da un passo di Pinda ro (0/ymp.,
II, 83-85). Il vero destinatario delle frecce di Apollo è l'uomo in quanto
interprete. Fuori dal linguaggio figurato l'uomo-in terprete raccoglie una
sfida che il dio, con intenzione ostile, gli lancia; e, dagli esempi stessi che
abbiamo visto nei rac conti oracolari, si è potuto notare che il non riuscire
a vin cere questa gara con il dio, cioè non riuscire a interpretare il segno
oscuro, conduce alla rovina. Non sembrano esserci, a questo punto, più dubbi
sulla relazione assolutamente stretta tra segno divinatorio ed enigma. Ciò
viene confermato anche da un'analisi diacroni ca del "genere"
enigma, che nasce proprio all'interno della sfera religiosa della divinazione
con i due ben precisi carat teri dell'ostilità divina nei confronti dell'uomo
e dell'aspet to di sfida a una gara. Lentamente l'enigma si staccherà dal
contesto sacro per dare origine a una sua storia evolutiva, nel corso della
quale attenuerà, pur conservandone traccia, i caratteri iniziali. La storia
deli'enigma è la storia stessa dell'interpretazione intesa come gara, fino ad
approdare al l'idea di interpretazione come confronto dialettico tra due
opinioni opposte. Può essere interessante per il nostro discorso, inteso
a 2.4 n SEGNO COME SFIDA 49 enucleare l'aspetto del segno divinatorio
come dispositivo scatenatore di interpretazione, seguire alcune delle fasi più
salienti dell'evoluzione deli'enigma. Come noto, il primo e più celebre esempio
di apparizione dell'enigma in un contesto sacro è quello presente nel mito
della Sfinge. La creatura mostruosa mandata da Apollo im pone agli abitanti di
Tebe l'enigma sulle tre età dell'uomo. La posta in gara è la vita: chi non
riesce a risolverlo è divo rato dalla Sfinge; chi invece lo risolve - e il
solo Edipo ne è capace - fa precipitare la Sfinge nell'abisso. Ma nella prima
evoluzione deli'enigma, già in età arcai ca, la lotta tra un personaggio
divino e uno umano, si spo sta a quella tra due personaggi umani, che però
conservano ancora un aggancio con la sfera del sacro in quanto sono due
divinatori. Questa fase è illustrata dall'aneddoto di Strabone sulla gara tra
Calcante e Mopso. Calcante propo ne a Mopso di "indovinare" quale è
il numero di frutti che porta un fico selvatico che si trova sul loro cammino.
Mop so dà una risposta estremamente dettagliata ("Sono dieci mila di
numero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e non
rientra nella misura") di fron te alla cui esattezza Calcante viene
colpito da un "sonno di morte" (Geogr., VI, 232-235). Di fronte alla
sapienza, ancora di origine divina, dei due personaggi, anche il contenuto
dell'enigma passa in secon do piano, come dimostra la banalità deli'oggetto
che deve essere scoperto. È, del resto, la stessa irrilevanza contenuti stica
che si poteva notare nell'enigma della Sfinge, cosi sproporzionato rispetto ai
rischi mortali che comportava. Tuttavia, nel passaggio ulteriore, quando
l'enigma si umanizza completamente, anche il suo testo assume un as setto
formale elaborato, basato sulla formulazione di una contraddizione che, anziché
non designare niente (come av viene di norma in un caso del genere), designa
altresì qual cosa di reale. Questa forma la si trova nella leggenda ri
guardante la morte di Omero: Omero interrogò il dio per sapere chi fossero i
suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di lo
è patria di 2. LA DIVINAZIONE GRECA tua madre, ed essa ti accoglierà
morto; ma tu guardati dall'e nigma di giovani uomini [. . . ]" . Giunse
ad Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla
riva e chiese loro se avessero qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato
nulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, cosi risposero:
"Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo
portiamo", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano
preso li avevano uc cisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li
portava no nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enig ma,
morì per lo scoramento. (Arist., Dept., fr. 8) Nel frammento compaiono ancora
gli elementi dell'enig ma che abbiamo già incontrato: la sfida circa un
oggetto di conoscenza e il rischio mortale per il sapiente che non si di
mostra in grado di risolvere l'enigma; ma in più compare la forma elaborata di
una contraddizione, che da allora sarà tipica di questo genere. Più
precisamente compaiono due coppie di determinazioni contraddittorie
"abbiamo preso - non abbiamo preso" e "abbiamo lasciato -
portiamo", che possono essere così disposte sul quadrato logico: 50
·abbiamo preso· CONTRARI {non abbiamo fasciato = ) ·portiamo· ·non abbiamo
preso'" SUB CONTRARI ·abbiamo fasciato• 2.5 AGONISMO,
DIALETTICA, RETORICA 51 Ciascun singolo termine della prima coppia di contrad
dittori ("abbiamo preso"/"non abbiamo preso") entra in
relazione di congiunzione con un singolo termine della se conda coppia
("abbiamo lasciato"/"portiamo"), ma in mo do diverso da
quello che ci si attenderebbe intuitivamente (cioè "quanto abbiamo preso,
lo portiamo" e "quanto non abbiamo preso, l'abbiamo lasciato").
Invece nell'enigma ri sultano congiunti termini che logicamente sono in opposi
zione contraria: "quanto abbiamo preso, l'abbiamo lascia to" e
"quanto non abbiamo preso, lo portiamo". Eppure l'enigma non è, come
sappiamo, assurdo. Il sapiente, che domina la ragione, deve essere in grado di
sciogliere questo groviglio problematico. Umanizzandosi completamente, l'enigma
mette in evi denza l'aspetto competitivo, di gara per la sapienza, e si sta
bilizza sulla forma della contraddizione apparentemente in solubile.
L'ulteriore e ultima tappa di questa evoluzione conduce, secondo l'ipotesi di
Colli (1975), alla nascita della dialet tica. 2.5 Agonismo, dialettica,
retorica La dialettica, nel senso antico del termine, nasce infatti sul terreno
stesso dell'agonismo: essa si presenta come di scussione tra due persone su un
qualsiasi argomento cono scitivo; su questo campo comune si instaura una gara
desti nata a far emergere un vincitore. L'andamento generale della discussione
segue questo schema (Arist., Top.): inizialmente, lo sfidante propone una
domanda in forma alternativa, presentando i due corni di una contraddizione.
L'avversario sceglie uno dei due cor· ni e ne sostiene la verità. A questo
punto lo sfidante deve dimostrare come vera l'altra alternativa e cosi
confutare l'affermazione dell'avversario. Naturalmente il procedi mento può
richiedere anche una serie molto lunga e artico lata di successive domande e
risposte, miranti, in maniera diretta o, per lo più, indiretta, alla
dimostrazione. LA DIVINAZIONE GRECA Al suo nascere, però, il linguaggio
dialettico è limitato a un ambiente ristretto e in qualche modo elitario. l)ccisi
vi cambiamenti sono, tuttavia, destinati a verificar si con l'accrescersi
della cultura ad Atene e con il definitivo affermarsi del regime democratico;
infatti le forme della dialettica entrano nella sfera pubblica e si connettono
con il mondo politico. Così la discussione si allarga indefinita mente e la
dialettica, in una sua forma in qualche modo adulterata, si trasforma in
retorica. Dialettica e retorica sono basate entrambe su un forte spirito di
competizione. Tuttavia ciò che le distingue è che, nella prima, non c'è bisogno
di un giudice per assegnare la palma della vittoria a uno dei due contendenti:
la vittoria di uno dei partecipanti risulta dalla discussione stessa, in
quanto, durante lo sviluppo del dibattito, l'avversario ha contraddetto la tesi
che prima affermava. Nel caso della re torica, invece, l'agonismo è molto più
diretto e acceso, in quanto saranno gli ascoltatori a giudicare quale è stato
il migliore discorso; manca nella retorica una sanzione intrin seca (come c'è
nella dialettica) e per questo deve aggiungere un elemento emozionale, legato
all'intento persuasivo. 2.6 Divinazione e interpretazione persuasiva Il
processo evolutivo che abbiamo descritto è iniziato con il segno divinatorio
come sfida conoscitiva posta dal dio al l'uomo ed è approdato, nel punto del
suo massimo allonta namento, alla competizione conoscitiva della dialettica e
della retorica. Ma proprio a questo punto il cerchio sembra chiudersi tornando
al punto iniziale, con l'introduzione, ali'interno della divinazione stessa,
dei metodi della discussione dialet tico-retorica. È molto indicativo, a
questo proposito, un passo di Ero doto, in cui assistiamo a una sorta di
conciliazione appunto tra la divinazione, con la sua tipica concezione
deterministi ca del mondo, e l'eloquenza politica, legata a una visione mobile
della vita, che sottopone ogni cosa a una incessante 2.6 DIVINAZIONE E
INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 53 discussione. Egli infatti narra che gli Ateniesi,
trovandosi di fronte alla minaccia di una invasione persiana, mandarono a Delfi
degli ambasciatori per consultare l'oracolo. Ma, in un primo momento, la Pizia
li affrontò con l'annuncio di gravissime sciagure. Costernati, senza però darsi
per vinti, gli Ateniesi sollecitarono una seconda consultazione, im plorando
un responso più favorevole e stabilendo di non muoversi più dall'oracolo fino a
che non l'avessero ottenu to. La Pizia accettò di emettere un secondo
responso: Zeus concede a Tritogenia (Atena) che solo un muro di legno sia
inespugnabile, il quale salverà te e i tuoi figli. Non aspettare, inerte, la
cavalleria e le forze di terra che arrivano in massa dal continente, ma
ritìrati, volgi le spalle; verrà il giorno in cui po trai tenere testa. O
divina Salamina, farai perire figli di donne, o quando si semina o quando si
raccoglie il frutto di Demetra. (Herod., Hist., VII, 141) Il racconto d i
Erodoto mostra chiaramente come i l segno divinatorio, il responso oracolare,
innanzitutto non venga accolto con atteggiamento fatalistico. l messaggeri non
si accontentano del primo responso, ma sfidano a loro volta il dio, minacciando
di non muoversi dal santuario fintanto ché non abbiano indotto il dio a
mitigare il suo atteggia mento ostile. Ma, ciò che è più interessante, il
testo erodo teo mostra bene come il segno oracolare sia sottoposto a una
discussione. Infatti i messaggeri, una volta ottenuta la risposta, la
trascrivono e ripartono alla volta di Atene per riferire il responso
all'Assemblea. La forma della discussione che si svolge davanti aiPAs semblea
è quella tipica della dialettica. Il segno oscuro sca tena un processo
interpretativo che prevede varie possibilità di percorso. Ma, anzitutto,
dialetticamente, si presenta co me una dicotomia tra due soluzioni opposte e
mutualmente escludentisi: (i) ritirarsi sull'acropoli, anticamente fortifica
ta con una palizzata, perché a essa alludeva il dio con l'e spressione
"muro di legno"; (ii) allestire una flotta, perché il dio intende
riferirsi (sma(nein), con quella espressione enigmatica, a una barriera di
navi. 54 2. LA DIVINAZIONE GRECA Ciascun corno della contraddizione è
fatto proprio da un gruppo: (i) "alcuni anziani" (affiancati dai
cresmologi) so stengono il primo termine; (ii) "altri" (tra i quali
compare Temistocle) assumono il secondo. Per ora siamo solo alla presentazione
del problema: è poi necessario sviluppare una dimostrazione che porti a
contraddire una delle due tesi. La discussione segue il secondo corno del
dilemma; è co me se si dicesse: "Ammettiamo che l'interpretazione giusta
sia quella che consiglia di allestire una flotta. Quale con traddizione
comporta questa interpretazione?". I cresmologi fanno notare, a questo
punto, che accettare il secondo corno del dilemma comporta una contraddizione
con quella parte del testo che predice a Salamina di divenire causa della morte
di molti uomini. Accettare la giustezza di questo sottoproblema posto dai
cresmologi comporterebbe l'autoconfutazione della tesi principale. Si è però
nel frattempo verificato uno spostamento del li vello tematico della
discussione: a questo punto, per avere ragione sulla tesi dei cresmologi, è
sufficiente dimostrare in.. fondata la loro obiezione. È appunto quello che fa
Temistocle, negando che l'obie zione dei cresmologi comporti una reale
contraddizione. E anche in questo caso il ragionamento procede per assurdo e
prende in considerazione una questione di prospettiva: se infatti avessero
ragione gli avversari con il dire che Salami na (metonimia per "battaglia
con la flotta") avrebbe causa to morte agli Ateniesi, e se anche questa
seconda parte della profezia fosse rivolta, come la prima, ancora agli
Ateniesi, il dio non avrebbe attribuito all'isola l'epiteto di
"divina", ma di "sventurata". In altre parole, c'è
contraddizione tra l'epiteto "divina" usato per Salamina e
la morte degli Ate niesi. Dunque questa seconda parte del responso,
contenen te una predizione di morte, deve essere intesa come rivolta ai
nemici. Non sfuggirà che in questa seconda fase della discussione il metodo
dialettico va impercettibilmente sfumando in quello più propriamente retorico.
Conclusivamente Temistocle propone una interpretazio ne che tende più a
persuadere in positivo della validità del 2.6 DIVINAZIONE E
INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 55 proprio ragionamento che non a dimostrare la
falsità della tesi fondamentale degli avversari. Infine interviene il giudi
zio dell'uditorio, elemento fondamentale appunto del di scorso retorico, per
sancire la vittoria di uno dei due con tendenti. Il testo dice che gli
Ateniesi "giudicarono preferì bile (hairetbtera)" la spiegazione di
Temistocle rispetto a quella dei cresmologi. Al discreto della logica binaria
del l'alternativa dialettica, succede il continuo della logica gra duata del
preferibile. La discussione può aver fatto perdere di vista che oggetto di
dibattito è un vaticinio del dio di Delfi. Ma non a caso. La logica, appunto,
che viene fatta intervenire neli'interpre tazione del responso divinatorio è
esattamente la stessa che guida le assemblee politiche. E del resto non è senza
significato il fatto che in questo contesto gli avversari di Temistocle siano
dei "cresmologi", cioè interpreti specializzati dei responsi divini,
ed è notevole che essi risultino sconfitti: è la conferma paradigmatica di come
nella Grecia della polis sia la razionalità politica a im porre i suoi metodi
alla divinazione e non viceversa. In definitiva, il carattere di oscurità
attribuito al segno divinatorio rende un ottimo servigio ali'orientamento fon
damentalmente orale e dialettico della cultura greca: con ferma il segno
stesso come dispositivo scatenatore di inter pretazioni, da sondare con la
procedura del confronto tra discorsi contrapposti. Il segno rinvia a una realtà
altra da sé, nascosta e ambi gua, ma alla quale si può arrivare se ci si
impegna in un confronto tra interpretazioni contrastanti: procedura che, lungi
dali'essere paralizzante, è invece stimolante e produt tiva. In questa
prospettiva il segno divinatorio si allontana da quelle che erano due sue
caratteristiche fondamentali, cioè il primato della visione e la concezione
della verità come ri velazione: la verità come a-ltheia, intesa come caduta
dei veli che la tenevano nascosta (lanthano). 1 3 Nel passo di Erodoto non sono
gli indovini con la loro vi sione panoptica a rivelare il senso nascosto del
segno: esso prende qui luce dalla congettura (che in Erodoto è sempre 56
2. LA DIVINAZIONE GRECA espressa dal verbo symba/10 e dai suoi derivati,
equivalente al più diffuso tekmafroma1). E saranno proprio la congettura e
l'abbandono della vi sione che permetteranno di far evolvere il segno dal
campo della divinazione a quello della scienza vera e propria. SEGNI E PROCESSI
SEMIOSICI NELLA MEDICINA GRECA 3.0 Introduzione Ci siamo finora interessati
dell'ampio e magmatico cam po della divinazione, dove abbiamo visto emergere
le prime pratiche semiosiche, connesse, nella cultura greca, con la nascita
stessa di un pensiero sapienziale. Ci occuperemo ora dell'altra grande area di
manifestazione di un pensiero se mioticamente orientato, che sorge prima e in
maniera indi pendente dalla ricerca filosofica in senso stretto: la medici na
greca. In quest'area, accanto alla presenza fondamentale dei processi
semiosici, si possono registrare anche le prime vere e proprie elaborazioni
teoriche intorno al segno e all'infe renza (Vegetti 1976: 49 ss.). In seguito,
la riflessione semio tica sarà consegnata direttamente alla filosofia e alla
retori ca; ma ampie tracce delle origini rimarranno sia negli esempi che
filosofi e trattatisti di retorica sceglieranno per illustrare il segno (esempi
spesso di carattere medico, talvol ta fisiognomico) sia nella scelta di un
modello di funziona mento logico del segno secondo lo schema "Se p,
allora q", che abbiamo visto operante nella divinazione e che vedremo
trasposto nella medicina con diversi contenuti, ma con eguale forma. A
differenza della divinazione, per la quale disponiamo di testimonianze per lo
più indirette e disorganiche, la medi cina greca può contare su una ricca
documentazione, rap presentata in particolare dal Corpus Hippocraticum, 1
un 58 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA insieme abbastanza ampio e vario di
testi (circa un centi naio) in cui si trovano illustrate le pratiche e le
teorie medi che del V e IV secolo a.C. Tali testi non appartengono a un unico
autore, come la tradizione aveva indotto a credere, attribuendoli a Ippocrate,2
né a un'epoca circoscrivibile con la vita di un uomo. Sono invece presenti
all'interno del C.H. opere con diverse finalità ed3esprimenti indirizzi di
versi nel campo del sapere medico. Tuttavia, nonostante la disomogeneità che è
dato riscon trare all'interno del C.H., è possibile vedere nello studio della
medicina del V e IV secolo uno dei più importanti campi di indagine del
pensiero greco, che si affianca sen z'altro alla ricerca filosofica e alla
storiografia coeve e che intrattiene con esse dei rapporti fecondissimi di
interscam bio. È noto il giudizio di Werner Jaeger, secondo cui il pen siero
socratico non sarebbe stato possibile senza le opere ip pocratiche,4 ed è
stato sottolineato il debito che la storio grafia scientifica, inaugurata da
Tucidide nell'ultimo scor cio del V secolo, ha contratto nei confronti della
téchn ip pocratica. Ciò che la medicina aveva da offrire tanto alla filosofia
quanto alla storiografia era un modello di sapere specifica mente semiotico,
articolato sul doppio livello rappresenta to, da una parte, da una solida
struttura formale (il loghi smos, cioè il ragionamento inferenziale, nei suoi
due mo menti abduttivo e deduttivo) e, dall'altra, da un orienta mento di
base empirico.6 Come vedremo meglio in seguito, il segno medico costi tuisce
proprio il prodotto del ragionamento inferenziale ap plicato alla ricorrenza
dei fenomeni, i quali in tanto acquisi scono senso, divenendo segni, in quanto
sono riconducibili appunto al loghismos. 3.1 Ambiguità della prognosi A
differenza del medico moderno, che legge i segni in funzione della diagnosi, il
medico antico elaborava il suo ragionamento in funzione della prognosi. Un
intero trattato 3. l AMBIGmTÀ DELLA PROONOSI 59 del C.H., Ilprognostico,
è specificamente dedicato a questo problema. Eccone il passo iniziale e
programmatico: Quanto al medico, mi sembra che la cosa migliore sia che egli
pratichi la previsione; infatti, con una conoscenza e dichiara zione
preventiva, di fronte ai malati, dei loro casi presenti, pas sati e futuri, e
con una puntuale esposizione di quanto gli infer mi tralasciano di dire, egli
conquisterà maggiore fiducia di po ter conoscere le condizioni dei malati,
così che gli uomini si ri solvano ad affidare se stessi al medico. (cap. 1)7
Dal passo si può osservare che la prognosi non è concepi ta come previsione di
eventi soltanto futuri, ma coinvolge anche elementi di conoscenza che
riguardano sia il presente sia il passato:8 il medico deve avere la capacità di
descrivere anche quei sintomi, o quei fatti in generale, che gli ammala ti
tralasciano di esporre. Dal procedimento descritto nel Prognostico non sono
assenti scopi chiaramente manipola tori: dicendo ciò che sfugge ai malati, il
medico mira ad ac quistare maggiore credito presso di loro per persuaderli ad
affidarsi alle sue cure. È interessante che una procedura che vuole presentarsi
con i crismi della scientificità e dell'obiet tività, si ponga non tanto lo
scopo del rispecchiamento del la realtà (nosologica in questo caso), ma quello
della sua manipolazione. II discorso del medico è fatto, in questo ca so,
anche di "segni efficaci" come uello della retorica in cantatoria di
Gorgia o della magia. Del resto, la formula con il triplice riferimento al
passa to, al presente e al futuro, che non costituisce un caso isola to, ma
ricorre a esempio anche in Epidemie l (come pure, per definire la medicina, nel
Lachete platonico, 198 d), spinge a istituire un parallelo con l'analoga
formula usata per individuare il procedimento divinatorio (Brtescu 1 975: 46) .
1 0 D'altra parte, se per un verso si possono riscontrare ele menti comuni tra
la medicina e la divinazione, per un altro molti degli scritti medici del C.H.
sottolineano esplicita mente e con forza la distanza e i punti di divergenza.
A 60 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA esempio l'autore del libro Il regime
nelle malattie acute (cap. 8) polemizza contro le pratiche discordanti dei
cattivi medici, paragonandole alle pratiche di interpretazione divi natoria.
L'attacco sferrato alla divinazione è su base semiotica: il segno divinatorio è
ambiguo, può significare due cose dia metralmente opposte, e perciò è lontano
da quel piano di oggettività al quale aspira la scienza medica. Anche l'autore
del Prorretico II si scaglia contro i cattivi medici criticando le loro
predizioni miracolose, che li rendono simili agli in dovini, e contrappone
orgogliosamente il proprio metodo basato sui segni umani e sulla congettura:
Per parte mia non farò affatto delle divinazioni del genere (ou manteU.somat),
ma scriverò i segni (smeia) attraverso i quali si deve congetturare (tekmafresthat),
tra i malati, quali guariran no e quali moriranno, quali guariranno e quali
moriranno in poco o in molto tempo. (cap. l) L'inferenza divinatoria
(manteuein) è direttamente con trapposta alla congettura (tekmairesthaz). La
violenza con cui i medici polemizzano contro la divinazione e la netta presa di
distanza rispetto a essa è sicuramente indizio del fatto che essi tentavano di
imporre un nuovo e autonomo paradigma epistemologico, una "semiotica
profana"; ma è indizio, anche, del fatto che il rischio di confusione o di
fraintendimento era ancora presente. Sotto certi aspetti la medicina
ippocratica appare effetti vamente come la continuazione di una medicina
preceden te, popolare e antichissima, impostata su basi magiche (Parker 1983:
213 ss.). Certi settori della terminologia de nunciano chiaramente questa
situazione: Pimportanza cen trale, nel C.H., della katharsis
("purificazione") rimanda alle purificazioni magiche dello
iatr6mantis "medico-indo vino" e dei purificatori apollinei come
Epimenide e Bacide; lo stesso termine che indica il medicamento, pharmakon, era
in origine impiegato per indicare ciascuno dei due citta dini di Atene che
regolarmente il 6 di Targelione, o anche in 3.2 MEDICINA E SEMIOTICA
MAGICHE 61 caso di pestilenze, erano sottoposti a osservanze rituali, fla
gellati e scacciati dalla città e forse uccisi, per adempiere a una cerimonia
di purificazione (Lanata 1967: 45). Proprio per questi motivi il tentativo di
autodifferenzia zione dei medici ippocratici rispetto al paradigma magico
doveva assumere toni molto accesi, come ci mostra uno dei trattati più
interessanti del corpus, il Male sacro. Poiché, dal punto di vista della storia
della semiotica, la medicina magica non è meno importante di quella laica,
dedicheremo il prossimo paragrafo a illustrare il suo paradigma. Dopodi ché
esporremo la critica di questo stesso paradigma quale ci viene presentata
dall'autorè del Male sacro. 3.2 Medicina e semiotica magiche Molte fonti
letterarie suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la divinazione e
per la medicina: entram be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo
e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio (197
a): "In verità Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la
divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due
pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite
come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle gamento esse lo
trovano nella figura antichissima dello ia tr6mantis, il medico-indovino, che
unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie.
L'appellati vo iatr6mantis è riferito in prima istanza allo stesso Apollo; ma
passa poi a una serie di personaggi in vario modo legati al dio, che uniscono
al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle
purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del lo
iatr6mantis è la sua capacità di usare una procedura dia gnostica: trattandosi
di un veggente, egli è in grado di indi viduare la causa nascosta di una
malattia, causa che è da at tribuirsi sempre a un intervento soprannaturale.
In epoca antichissima la malattia è concepita infatti come miasma, come
contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità I SEGNI NELLA MEDICINA
GRECA divina o demonica. 1 1 Per questa ragione c'è bisogno di un
medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il
mondo delle forze oscure e soprannaturali alle quali è imputato il presente
stato di contaminazione; in se guito alla sua diagnosi, lo iatr6mantis può
indicare gli stru menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione
è ben iliustrata da una notizia di un autore di scuola pitagorica, Alessandro
Poliistore, che cita le Memorie pitagoriche: L'aria (secondo i Pitagorici) è
piena di anime; ed essi le conside rano demoni ed eroi e pensano che siano
essi a inviare agli uo mini i sogni e i segni premonitori (smefa) e le
malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali da
pa scolo; e a questi (demoni ed eroi) sono dirette le cerimonie ca tartiche e
apotropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere.12
Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una se miologia sacra
abbinata a una medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie che
affliggono gli uomini; ma, contemporaneamente, sono anche la fonte
dell'informazio ne che concerne il mondo invisibile, inviando agli uomini i
segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so gni) dai quali si
rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo
si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a
produrre: i riti catartici e apotropaici. In particolare le cerimonie apotro
paiche sono costituite dalla recita di epOidal, cioè di formu le verbali
incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma le: si tratta di segni
linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il
soprannaturale, dall'altra sono "efficaci", nel senso che intendono
agire sul mondo e non rispecchiarlo. 3.3 La critica alla magia e alla semiotica
sacra Prenderemo ora in considerazione le critiche rivolte alla 3.3 LA
CRITICA ALLA SEMIOTICA SACRA 63 magia sul piano specificamente semiotico ed
epistemologi co. L'autore del Male sacro si muove sostanzialmente in due
direzioni: l . contrapporre alla nozione di "sacro" quel la di
struttura naturale (phjsis) e di causa razionale (pro phasis); 2. mostrare
l'inconsistenza sul piano logico del ra gionamento sotteso dalle procedure
della medicina magica, apponendovi un tipo di ragionamento inferenziale basato
sul tekmérion (che qui compare già con il senso di "prova", di
"segno sicuro") (cap. l). Ciò che l'autore del trattato vuole
contestare è la conce zione di un'origine divina della malattia; e questo vale
tanto per il "male sacro", cioè l'epilessia, quanto per qualunque
altro tipo di morbo. Sotto accusa è la nozione di "sacro'', come qualcosa
che si riconduce all'intervento divino. In ef fetti, il termine hier6s, anche
se in greco si specializzò molto presto in senso religioso, in origine non
apparteneva alla sfera olimpica, ma era legato a una concezione animistica:
hier6s è tutto quello in cui si rivela una vitalità prodigiosa e magica, e una
malattia è sacra in quanto inviata da una for za soprannaturale. Lo stesso
termine iasthai, "curare" (da cui iatr6s "medico"),
originariamente doveva indicare un curare come "un ristorare, un ridonare
le forze attraverso appropriate operazioni magico-mediche" (Ramat 1962:
20). In effetti, l'idea della malattia come riconducibile a un intervento
diretto "del piano verticale della trascendenza su taluni punti di quello
orizzontale della causalità naturale" (Vegetti 1976: 291) appare mettere
fuori gioco ogni idea di regolarità dei fenomeni ed escludere,
contemporaneamente, la possibilità di controllo su di essi e di previsione. La
no zione di "natura", che l'autore del trattato contrappone a quella
di "sacro", viene a reintrodurre proprio la regolarità nel movimento
di cause ed effetti, rendendo possibile l'im postazione della medicina su basi
scientifiche. Inoltre, se la nozione di phjsis individua la struttura oggettiva
e omoge nea di ricorrenze tra cause ed effetti, quella, correlata, di
pr6phasis (in altri casi aftion, aitle) rimanda al momento della spiegazione
del singolo fenomeno. 64 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA 3.4 Le forme di
argomentazione logica e il "tekmérion" Tuttavia il punto di maggior
forza dell'autore del Male sacro rispetto ai suoi avversari consiste nelle
modalità di ar gomentazione logica che adotta: facendo un esplicito ricor so
al tekmrion (''prova", "segno sicuro") egli riesce a indi
viduare delle contraddizioni interne al sistema della medici na magica e a
confutarla. Vediamone subito un esempio: E v'è un 'altra grande prova (méga
tekmrion) che questa non è più divina delle altre malattie; insorge ai
flegmatici per natura, ma non colpisce i biliosi: mentre, se fosse più divina
delle altre, in tutti ugualmente dovrebbe prodursi questa malattia, senza
distinguere tra biliosi e flegmatici. (cap. 2)13 L'argomentazione assume la
forma rigorosa di quello che in seguito sarà chiamato nzodus tollens, cioè
"Se p, allora q; ma non-q; di conseguenza non-p''. In altre parole l'autore
del A-lale sacro ragiona così: "Se questa malattia fosse più divina delle
altre (p}, essa dovrebbe colpire indistintamente tutti (q); ma questo non si
verifica (perché colpisce i flegma tici, ma non i biliosi) (non-q); ne
consegue che essa non è più divina delle altre (non-p)". Si deve rilevare
che l'autore utilizza la non verità del conseguente nel modus tollens (''che la
malattia non colpisce indiscriminatamente tutti") come segno (teknzérion
"segno sicuro", "prova") della non verità dell'antecedente
(''che l'epilessia non è più divina del le altre malattie"). Naturalmente
bisognerà aspettare Aristotele prima che il nzodus tollens come schema
ragionativo venga teorizzato e che venga fornita una definizione rigorosa di
teknzérion. Del resto, spetterà poi agli stoici di dare un'analisi formale di
questo schema argomentativo e di dire che ogni schema argomentativo deve essere
considerato come un segno. È in teressante, tuttavia, che già l'autore
ippocratico leghi l'e spressione tekmrion (che da Aristotele in poi assumerà
ine quivocabilmente il significato di "segno inconfutabile")
con 3.5 LA VISTA E OLI ALTRI SENSI 65 lo schema inferenziale del modus
tollens: logica e semiotica vengono già a trovare un punto di convergenza e di
saldatu ra. Saldatura che con gli stoici sarà totale. 3.5 La vista e gli altri
sensi Tuttavia la contrapposizione tra una semiologia sacra e una profana non
si basa soltanto sulla capacità, che la se conda possiede, di utilizzare un
ragionamento rigoroso e di fare ricorso a segni che si inquadrino in uno schema
logico inferenziale. Come ha mostrato Lanza (1979: 103), un altro importante
elemento di divergenza tra il paradigma divina torio e quello della medicina
ippocratica è dato dal diverso ruolo che la vista gioca nei processi di
conoscenza. Nella divinazione e nella medicina magica la vista ha una parte
fondamentale, in quanto è fonte primaria, e in qual che modo unica,
dell'attività conoscitiva. Non per niente Apollo, dio della divinazione, è
nelle parole di Pindaro co lui che possiede "l'occhiata che conosce ogni
cosa" (Pyth., III, 29): niente infatti è sottratto alla sua vista nel
passato, nel presente e nel futuro; a lui appartiene il "dominio del
tempo". L'uomo può conoscere solo ciò che contingente mente capita sotto
il suo sguardo. Solo l'indovino e il poeta possiedono una seconda vista, che
permette loro di vedere anche ciò che è al di là delle limitazioni cui sono
sottoposti i comuni mortali; per questo spesso i primi sono ciechi, per essere
ricettivi a questa vista; e un'analoga limitazione delle facoltà percettive si
verifica anche nell'attività onirica, du rante la quale la raccolta di stimoli
esterni si attenua fin quasi a scomparire.14 Tanto nel poeta quanto nell'indovi
no, poi, la visione si tramuta in parola, diventando il segno che supplisce
alla mancanza di presenza. Questa concezione comporta una dipendenza del segno
dalla divinità e una di cotomia tra ciò che è percepibile con la vista e ciò
che non lo è. Ma un primo superamento della dipendenza dalla divi nità per la
conoscenza dell'invisibile si ha nel famoso motto di Anassagora "Vista
dell'invisibile è ciò che appare" (6psis ad/On tà phainomena) (D-K, 59 B
21a). Il fenomeno viene I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA qui a sostituirsi
alla divinità. La vista tuttavia rimane cen trale. Caratteristicamente in un
trattato medico arcaico. Malattie delle donne, al cap. 60, si dice che
attraverso il dito il medico "vedrà" il modo di presentarsi del collo
dell'u tero. Certamente le opere del C.H. procedono sul cammino aperto da
Anassagora, ma contemporaneamente in esse il ruolo della vista perde di
importanza nel processo di cono scenza. Ci sono ragioni specificamente
inerenti alla téchn ippocratica che portano a una svalutazione, o almeno a un
ridimensionamento, del ruolo della vista. Nel trattato L 'ar te si dice
esplicitamente che "delle malattie alcune hanno se de in luoghi non
celati alla vista, e non sono molte, altre in luoghi non aperti alla vista, e
sono molte" (cap. 9). Per giungere alla conoscenza di queste ultime, il
medico trae congetture da segni tattili, uditivi, olfattivi e talvolta persi
no gustativi: è attraverso l'intera gamma della tipologia se gnica che il
medico può elaborare la sua previsione, percor rendo il tempo anche nella
dimensione di un passato e di un futuro che sono nascosti. Non solo, ma avviene
che, quan do i segni non si presentano spontaneamente, il medico giunga a
"forzare la natura" per costringerla a fornire degli indizi (cap.
13). A questo punto è possibile tentare un riesame dell'oppo sizione
visibile/invisibile nel momento in cui essa passa dal la divinazione, che
l'aveva inventata, agli altri ambiti del sapere. La ritroviamo, a esempio, in
ambito giuridico, con l'anti tesi tra "beni apparenti" e "beni
non apparenti" che, secon do la penetrante analisi di Gernet (1968: tr.
it. 399 sgg.), si configura come opposizione tra i beni materiali (fondiari e
patrimoniali soprattutto) che si possono percepire, e i credi ti in genere,
"invisibili" (a esempio, i crediti nei confronti di un banchiere
presso cui si è depositato del denaro). Poi, nell'ambito strettamente
filosofico, l'opposizione assume un carattere squisitamente antologico, dando
vita a una duplicazione dei livelli di realtà. In Eraclito, a esempio, il
"nascosto" costituisce la realtà vera in contrapposizione
all'"apparente", dicotomia di cui si trova chiara traccia nei
3.6 L'ANALOGIAE LACONGETTURA 67 due frammenti: "L'armonia che non si vede
è superiore a quella manifesta" (D-K, 22 B 54) e "La natura ama
nascon dersi" (D-K, 22 B 123). Come si può osservare, mentre nella
divinazione il "visibile" richiamava apertamente la funzio ne, tutta
fisiologica, svolta dali'organo della vista, una vol ta avvenuta la
trasposizione in altri campi questo legame si attenua. Di fatto scompare quasi
del tutto nella scienza, do ve visibile e invisibile vengono concepiti come
due mondi, la cui comunicazione è garantita non dalla vista, ma dalla
congettura. 3.6 L'analogia e la congettura Il carattere semiotico della
rivoluzione effettuata dal pen siero ippocratico è stato messo in luce da
Vegetti (1976), il quale, ponendo in relazione gli scritti dei medici
ippocratici con la cultura scientifica e filosofica del loro tempo, ha mo
strato come essi fossero impegnati in una lotta a favore di un "metodo
semiotico", contro il cosiddetto "procedimento analogico",
tipico della filosofia ionica e di quei medici e intellettuali che a essa in
qualche maniera si richiamavano. In effetti, quella ionica, più che come una
filosofia vera e propria, si caratterizzava come una physiologhla, cioè una
indagine sulla natura (phjsis), e come ricerca di un suo principio (arch). La
natura dei filosofi ionici è in sostanza il mondo quale si manifesta
all'osservatore, ma presenta un duplice aspet to: esso è, contemporaneamente,
molteplice, perché si com pone di una infinità di fenomeni, e unitario, in
quanto cia scun fenomeno manifesta lo stesso principio rintracciabile in ogni
altro frammento del reale. L'unico procedimento conoscitivo, in questo quadro,
è l'analogia: di fronte a qualsiasi fenomeno, si tratta di riper correre il
cammino della phjsis che porta, per via analogi ca, dal singolo fenomeno
all'arch. Dal punto di vista se- miotico, la filosofia ionica ragiona come se
qualsiasi tipo di modalità di produzione segnica fosse ridotto al solo metodo
del riconoscimento di campioni: un frammento sta costan- 68 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA temente per una totalità che è a esso completamente omoge
nea (Eco 1975: 296; 1984: 48). Un paradigma diverso è quello che si impone a
partire da Alcmeone di Crotone proprio con la proposta del principio semiotico
della congettura: Delle cose invisibili e delle cose visibili solo gli dci
hanno cono scenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare (lekmaf
resthal). (Diog.Lart.,VIII,83== D-K,24Bl) Mentre per i filosofi ionici e per la
medicina dei postulati c'era continuità tra i principi della natura, i suoi
fenomeni e l'osservatore stesso di quei fenomeni, con lcmeone nasce una
frattura profonda tra l'uomo e la realtà. Il mondo del l'esperienza non si dà
a conoscere spontaneamente, non è più trasparente. Proprio sulla frattura
inaugurata da Alc meone si impernia il metodo semiotico. Essa conduce alla
necessità di sostituire il procedimento dell'analogia con uno basato
sull'indizio: la conoscenza umana assume per princi pio il tekmafresthai, il
procedere per indizi e congetture. Ciò che la medicina ippocratica svilupperà,
e che è ancora assente in Alcmeone, è l'inquadramento del metodo conget turale
in una struttura logica compiuta. 3.7 Metodo analogico e metodo semiotico A
questo punto è possibile domandarsi quale forma assu ma la metodologia della
ricerca congetturale nei trattati ip pocratici. Una prima risposta a questa
domanda può essere cercata attraverso un'analisi della polen1ica che, a questo
proposito, ha opposto Regenbogen (1930) a Diller (1932) nella prima metà di
questo secolo. In questa polemica ritro viamo una contrapposizione tra
"metodo semiotico" e "me todo analogico"; ma in un senso
sensibilmente diverso da quello esaminato finora, in quanto la nozione di
"analogia" era assunta in un senso lato, molto vicino alla nozione se
miotica di "omomatericità".15 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO
SEMIOTICO 69 In questo secondo caso la nozione di "analogico" viene
assunta in un senso strettamente tecnico, come istituzione di un parallelismo
tra un fenomeno da spiegare e un altro fenomeno noto, con conseguente
possibilità di inferenza dal secondo al primo. L'inferenza analogica del tipo
de scritto costituisce, secondo Regenbogen, il carattere specifi co della
metodologia di ricerca utilizzata dali'autore del gruppo di trattati Sulla
procreazione, Sulla natura del bam bino, Sulle malattie I V: in questi testi
vengono spesso messi a confronto processi di tipo non osservabile con processi
osservabili e i primi vengono chiariti mediante un'analogia con i secondi, come
si verifica a esempio quando viene isti tuito un parallelo tra lo sviluppo del
feto e quello delle pian te (Littré 1839, VII 528, 22 e sgg.) o quello di un
uccello (Littré 1839, VII 530, 14 e sgg.). L'autore dei trattati si at tiene
di fatto al principio di Anassagora secondo cui ciò che appare permette di
avere una visione anche di ciò che è invi sibile, e applica questo principio
sistematicamente. Il para gone con l'oggetto visibile, su cui si basa
l'analogia, viene visto come una prova deli'oggetto di partenza. Il
procedimento analogico non è limitato ali'ambito me dico-biologico, ma se ne
possono rintracciare esempi chia rissimi in ambito storico. A esempio Erodoto
(Hist., II, 33), quando parla del Nilo, il cui corso, le cui sorgenti e la cui
lunghezza gli sono sconosciuti, sostiene: "a quanto io ri tengo,
congetturando (tekmair6menos) dalle cose note quelle ignote, (il Nilo) muove da
una longitudine eguale a quella da cui muove il Danubio". Il ragionamento
è il se guente: il corso del Danubio è conosciuto dalle sorgenti alla foce, e,
posto sullo stesso meridiano, nella concezione di Erodoto, scorre nella
direzione opposta a quella del Nilo, cioè da nord a sud verso il mar Nero, così
come il Nilo scor re da sud a nord verso il mar Mediterraneo; il Danubio, in
fine, è il fiume maggiore dell'Europa, come pure il Nilo lo è dell'Africa. Dati
questi elementi, si può immaginare il corso del Nilo in analogia con quello del
Danubio. Secondo Diller (1932: 17), tuttavia, l'analogia non riesce a coprire
tutti i casi di inferenza dal visibile all'invisibile, e porta a questo
proposito un certo numero di esempi, tra i 70 3 . I SEGNI NELLA MEDICINA
GRECA quali l'inferenza sperimentale contenuta al cap. 8 del tratta to Le
arie, le acque, i luoghi. L'esperimento vuole dimo strare che le acque che
provengono dalla neve e dai ghiacci, perdono le qualità di leggerezza, di
limpidezza e di dolcez za, mentre conservano quelle di pesantezza e di
torbidezza. L'autore del trattato suggerisce a questo proposito di versa re,
durante l'inverno, dell'acqua in un recipiente e, dopo averla misurata, di
esporla all'aperto per lasciarla gelare. Il giorno seguente va messa di nuovo
al caldo e fatta scioglie re: misurandola, ci si accorgerà che la sua quantità
è molto diminuita. Questa è una prova (tekmrion) del fatto che, gelando,
l'acqua ha lasciato andar via la parte più leggera e delicata e dimostra,
contemporaneamente, la scadente qua· lità dell'acqua proveniente dalla neve e
dai ghiacci. Questo esperimento viene definito tekmrion e si basa sulla istitu
zione di un parallelismo tra due serie di dati di realtà. Ma, giustamente,
Diller mette in dubbio che si tratti an che di un procedimento analogico: in
effetti l'unica analo gia che vi si può istituire è che per una piccola
quantità di una materia (acqua: ghiaccio) valgono le stesse leggi che valgono
per l'elemento nella sua totalità. Si può esprimere quello che avviene
nell'esperimento attraverso la formula "parte : parte = tutto :
tutto"; la vera inferenza consiste nel trarre conclusioni dalla parte sul
tutto. Comunque, per Dil ler, qui siamo di fronte a un tipo di inferenza che
non è ana logica nello stesso senso in cui è analogica l'inferenza che abbiamo
visto in Erodoto, in quanto qui "tutto si svolge al l'interno del
processo che dovrebbe essere spiegato, senza che un processo analogo sia
chiamato in causa" (ibidem, 19). Con un ragionamento non diverso, secondo
Diller, l'au tore del trattato Le arie, le acque, i luoghi sostiene che la
parte più fine e più pura deli'acqua ingerita viene espulsa dall'organismo,
quella che è più densa e più torbida sedi menta: la prova (tekmrion) è data
dall'osservazione di co loro che soffrono di calcoli alla vescica, i quali
espellono un'urina limpidissima, in quanto la parte più densa e torbi da si
condensa appunto in calcoli. Ciò che questi esempi hanno in comune è che
qualcosa di 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 7 1 non percepibile
viene spiegato attraverso dei fenomeni per cepibili. Però questi fenomeni non
sono degli analoga di ciò che deve essere spiegato, bensì dei segni: essi
stabiliscono, rispetto al processo che deve essere spiegato, lo stesso rap porto
che c'è tra l'effetto e la causa. Quindi, per Diller, l'in ferenza semiotica
(propriamente: semeiotisch, ibidem, 20, da lui collegata strettamente al
procedimento medico) deve intendersi nel preciso senso (che sarebbe stato poi
quello aristotelico) di inferenza dal conseguente. Ulteriormente per Diller,
mentre l'inferenza analogica rende chiaro il "So sein" di un
processo o di uno stato sconosciuto quella se miotica indizia del suo
"Dasein". Recentemente la problematica è stata ripresa da Lonie
(1981: 79 ss.),16 che ha sottolineato come nei trattati presi in considerazione
dal Regenbogen, ma anche in altri testi del C.H. in generale (a esempio in Le
arie, le acque, i luoghi, cap. 8), sono rintracciabili degli esempi di processi
esplicati vi complessi, che comportano sia una inferenza semiotica (inferire
le cause da fenomeni osservabili), sia una induzio ne analogica. Molto
interessante a questo proposito è il capitolo 12 (= Littré 1839, VII 486, 3
ss.) del trattato Sulla natura del bambino: l'autore stabilisce anzitutto la
teoria (elemento non osservabile) per cui lo sperma, trovandosi nell'ambien te
umido e caldo dell'utero materno, acquisisce una capaci tà di respiro (pneuma)
che si apre una breccia verso l'ester no: esso emette un soffio e, in una
seconda fase, inspira aria fresca attraverso la breccia. Per provare questa
teoria, l'autore ricorre a un'analogia con tre diverse classi di ogget ti, in
cui si verificherebbe lo stesso fenomeno: il legno, le foglie, le sostanze
commestibili. Viene poi descritto il com portamento del legno quando brucia:
esso espelle aria cal da, in corrispondenza del punto in cui è stato tagliato
e, contemporaneamente, attira a sé un altro soffio freddo. L'azione dei due
movimenti contrapposti fa sì che il fumo e il vapore si avvolgano intorno al
legno. Questo fatto viene descritto come un fenomeno osservabile ("noi
vediamo che accade questo"), dal quale viene tratta un'inferenza (eklo
ghismos) circa la causa del fenomeno stesso. Tale inferenza 72 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA assume la forma di un modus tollens "Se non-p, allora
non-q; ma q; perciòp": "Se non ci fosse questo duplice mo vimento
contrapposto, allora il soffio (fumo e vapore) non si avvolgerebbe intorno al
legno, fuoriuscendo" (Littré 1839, VII, 486, 20-21). L'autore passa poi a
illustrare lo stesso tipo di comporta mento negli altri esempi di analoga e
procede quindi alla formulazione di una legge generale per induzione:
"tutte le cose che sono riscaldate emettono un soffio (pneuma) e fanno
entrare un soffio freddo per rimpiazzarlo". Alla fine l'autore sostiene
che i fenomeni descritti devono essere con siderati come "prove
necessarie" della sua affermazione teorica intorno allo sperma. Nel
procedimento conoscitivo messo in scena nell'esem pio precedente possono
essere messi in luce tre diversi ele menti . Anzitutto si ha l'istituzione di
un'analogia tra un fatto non osservabile (il comportamento dello sperma
neli'utero materno) e alcuni fenomeni osservabili. In secondo luogo, c'è una
inferenza semiotica (che è pro priamente quella di cui parlava Diller,
chiamandola "infe renza semeiotica'' e che Lonie chiama "inferenza
causale") consistente nel risalire dal fenomeno osservabile (a esempio
l'emissione di fumo e vapore durante la combustione del le gno) alla sua causa
ovvero alla natura del processo. È inte ressante notare che inferenze di
questo tipo sono molto fre quenti nei trattati considerati e che l'espressione
che designa il fenomeno da cui l'inferenza è tratta è smefon. In terzo luogo,
si ha la formulazione, per induzione, di una legge generale, che è intesa come
valida anche per il pri mo termine (quello da dimostrare) dell'analogia. In
com plesso si può dire che il valore probante dell'analogia consi ste nel
fatto che essa permette di convalidare una proposi zione di partenza (relativa
a fatti non osservabili) mediante il ricorso a proposizioni concernenti fatti
analoghi, ma os servabili, che sono considerati come esempi di una legge va
lida generalmente. Lonie (1981: 85) iliustra i rapporti tra analogia, principio
generale ed enunciazione di partenza con il seguente diagramma: 3.8 LA
SEMIOTICA NEI TRATTATI METODOLOGICI 73 principio generale esemplifica/
tt(",, conferma /// '' /' > analogo illustra asserzione di pertenza 3.8
Il metodo semiotico nei trattati metodologici Nel gruppo di opere del C.H. dove
vengono maggior mente approfonditi gli aspetti teorici della medicina (Antica
medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Ilprognostico, Il regi me nelle
malattie acute, Male sacro, Le epidemie l e III e le maggiori opere
chirurgiche) è possibile rintracciare, nel mo do più chiaro, la formulazione
della metodologia/semioti ca, quella appunto a cui si riferiva Diller (1932) e
che Lonie (1981) individua come procedimento di "inferenza causa
le". In questo paragrafo cercherò di approfondire in che co sa consiste
tale metodologia, indipendentemente dagli altri procedimenti che possono
esserle associati, come abbiamo visto che avveniva con l'analogia. Nelle
opere che abbiamo sopra menzionato viene innan zitutto aperto il problema del
significato dei dati di osserva zione.17 Il singolo fenomeno (hékaston), non
essendo più collegato con (né riconducibile a) una presunta unità della natura,
come nella physiologhla, ha bisogno di essere inter pretato, cioè riconnesso a
un sistema di riferimento. È a questo punto che inizia il procedimento
inferenziale, o loghism6s, che è in un primo momento essenzialmente abduttivo:
18 si comincia a ipotizzare che il fenomeno singo lo, che si presenta ali'osservazione
del medico, sia un caso di una qualche regola generale. Si prova, cioè, a
pensare che lo hékaston, di per sé insignificante, possa essere consi derato
come un smeion, un segno che rimanda a un siste- 3. I SEGNI NELLA
MEDICINA GRECA ma, e dal quale riceve senso. Questo primo momento ascen dente,
di costruzione del sistema di riferimento, viene segui to da un secondo
movimento, discendente, di verifica. Se il sistema ipotizzato sia valido e
funzionante, può essere pro vato applicandolo a nuovi e diversi casi: il segno
si trasfor ma così in tekmirion e il metodo diviene deduttivo. Usando lo
schema proposto da Eco (1984: 41) per l'abduzione si po trebbe cosi illustrare
il processo: codice eziologico e/o prognostico: r--, son: h,jksston (singolo
fenomeno) : l risultato l -- 1 r - - -,
l l regola 1 l -----_j l l lL - - -- - 1 .----l L Vegetti
(1976: 49) mette molto bene in luce questo dupli ce movimento
abduttivo-deduttivo della téchnippocratica: "Ciò d'altro canto conferiva
alla funzione dello hékaston, spogliato dai privilegi 'metafisici', una dignità
nuova. Esso infatti era, da un lato, chiamato ad essere segno, smeion,
sull'altro da sé, sul sistema cui, per via di inferenza, era supposto
appartenesse; e dall'altro lato, acquistava il ruolo di 'prova', tekmirion,
sulla validità dell'inferenza stessa, che si misura appunto sulla possibilità
di trovare conferma ___..J 1 l 74 3.9 LA STRUITURA FORMALE DEL SEGNO 75
negli hékasta. Il metodo semeiotico si configurava cosi, per la téchn ippocratica,
come un movimento - 'dialettico' - che procedendo dallo hékaston posto
dall'osservazione (ma è il caso ormai di parlare di 'esperienza' scientifica),
lo tra sforma in smefon, mediante un'inferenza logico-concet tuale
(loghism6s) e poi in prova o tekmrion, per conclude re, se il circolo si fosse
saldato, nella capacità di compren sione e di intervento pratico su sempre
nuovi hékasta". Sicuramente lo schema di riferimento che il medico deve
costruire è un codice, ma di tipo particolare: è infatti pro babilistico. Come
ha messo in evidenza Di Benedetto (1966 e 1986: 132), i testi del C.H. sono
disseminati di espressioni che indicano una tendenza o una probabilità quali
"la mag gior parte", "i più", "molti",
"soprattutto", "spesso", "tal volta" ecc. Questo
non significa che i medici della collezio ne ippocratica non siano impegnati
nella costruzione di si stemi di riferimento costanti e funzionanti
generalmente. Semplicemente la logica del hoi pleistoi ("la maggior par
te") si sostituiva alla logica del ptintes ("tutti"). Del resto,
proprio il carattere probabilistico contraddistingue l'infe renza abduttiva o
ipotetica rispetto a quella strettamente deduttiva. 3.9 La struttura formale
del segno La nozione di smeion ("segno", "sintomo") è una
delle nozioni centrali nei testi del C.H. La struttura formale at traverso la
quale il segno è introdotto è relativamente co stante, in quanto prevede
l'inquadramento in uno schema implicativo del tipo: p-:Jq Dal punto di vista
linguistico, molto spesso p e q sono rap presentate da proposizioni (o da
sequenze di proposizioni), il cui collegamento costituisce un periodo
ipotetico, come possiamo vedere da un brano tratto dal cap. 9 del Progno stico
: 76 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ma bisogna osservare anche gli altri
sintomi (smefa): se (n) in fatti il malato sembra sopportare favorevolmente il
male, oppu re, oltre a questi, mostra qualche altro dei sintomi salutari, c'è
speranza che il male si risolva in ascesso, sicché l'uomo soprav viva, pur
perdendo le parti annerite del corpo. In questo esempio la prima parte
dell'implicazione è co stituita da una sequenza di due proposizioni
condizionali introdotte da n ("se"), che si riferiscono a dati di
osserva zione (protasi), mentre la seconda parte presenta un perio do
complesso (apodosi) relativo a una previsione medica. Se il riempimento
semantico della protasi con dati di osser vazione, ovvero elenchi di sintomi,
è relativamente costan te, l'apodosi può contenere anche una enunciazione
diagno stica, sebbene ciò avvenga meno frequentemente, data la centralità
della prognosi nella medicina antica.. Inoltre l'a podosi può contenere anche
(e talvolta essere sostituita da) una indicazione terapeutica. 3. 10 Moduli
espressivi arcaici Il modello "Se p, allora q", che serve molto
spesso (a esempio nei trattati tecnico-terapeutici) a introdurre la ma lattia
stessa, è molto antico e può essere messo in relazione agli analoghi moduli di
presentazione della malattia nei trattati medici assiro-babilonesi e in quelli
egiziani.19 Il mo dello implicativo nei testi assiro-babilonesi prevede la pre
senza di una protasi, introdotta da §umma ("se", "nel caso
che"), contenente l'indicazione dei sintomi, seguita da un'a podosi
contenente un'indicazione terapeutica. A esempio: Se il cranio di un uomo ha
una infiammazione, le sue tempie so no afflitte da SA.ZI (?) con turbamento
dei suoi occhi, essendo i suoi occhi affetti da offuscamento, obnubilamento,
disturbo, arrossamento (?), con le vene infiammate (?), e molto pianto, tu devi
tritare in una macina l/3 di ka di lolium (e) spelta mon data, setacciare,
quanto più puoi, e quindi prendere l/3 di kq, impastare in acqua di rose,
radere a sua testa), applicare legando, e non toglierlo per tre giorni.2
3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 77 La struttura implicativa del modulo
assiro-babilonese può essere considerata struttura segnica (anche se non si
parla esplicitamente di segno), con la particolarità che al li vello semantico
è sostituito direttamente il livello praxeolo gico:21 il segno (propriamente,
l'antecedente del condizio nale) suggerisce, senza mediazione, un
comportamento. Questo modulo, comunque, estremamente arcaico, è tal volta
rappresentato anche in alcuni dei trattati tecnico-tera peutici, che sono
anche i più antichi del C.H. : in Malattie II A e nello stato arcaico (A) del
trattato ginecologico Su/le malattie delle donne. Si tratta tuttavia di
attestazioni spora diche, che sono presenti accanto a moduli diversi, centrati
sulla relazione tra sintomatologia e malattia. Un discorso a parte merita il
trattato Sulle affezioni in terne, dove il modulo espressivo di presentazione
della ma lattia assume un carattere del tutto particolare. Esso è infat ti
composto di tre elementi strutturali: (A) una prima pro posizione (o serie di
proposizioni) introdotte da "se", dove è presentato un fenomeno
interno, non visibile, da conside rarsi come "la causa" della
malattia; (B) una seconda serie di proposizioni, introdotte dall'espressione
tade paschei ("tali cose soffre il malato"), nella quale è presentata
la sin tomatologia (i fenomeni rilevabili esternamente); (C) una terza serie
di proposizioni che sono relative alle indicazioni terapeutiche. Avviene molto
spesso che la parte A sia sdop piata in due: At (le cause dirette dei
sintomi); A2 (le cause che hanno prodotto la malattia stessa). Ecco un esempio,
tratto dal cap. 8, dove distinguiamo gli elementi strutturali: (At) Se (in) nel
petto e nelle spalle si produce una rottura, (A2) fatto che si verifica
soprattutto a causa di uno sforzo, (B) ecco i sintomi (tade [...] ptischez):
tosse vivace, espettorazione talvolta sanguinolenta; di solito brividi e
febbre; dolore acuto nel petto e nelle spalle. Il malato ha l'impressione che
una pietra gli pesi sul fianco; i dolori lo trapassano come se lo si bucasse
con un ago. (C) Stando così le cose, lo si farà ingrassare con il latte e
subito si cauterizzeranno il petto e le spalle. (Littré 1839, VII, 186,
3-10) 78 3. l SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ciò che è interessante di questo
modulo dal punto di vista semiotico è che l'inferenza tra i primi due elementi
("Se A, allora B") è non abduttiva (cioè dagli effetti alle cause),
ma deduttiva. Ciò significa che l'accento è posto sul sistema, già
preliminarmente ricostruito, delle cause che possono produrre determinati
sintomi. Questo è il punto di vista del trattatista: nella pratica il medico
risalirà invece dai sintomi alle cause. Si deve inoltre notare che Sulle
affezioni interne presenta anche una sezione prognostica (D), collocata tra B e
C oppure dopo C: il testo citato continuava con "In que sto modo il
malato sarà molto presto guarito". Un altro termine di confronto per i
moduli della medici na greca è quello rintracciabile nei testi egiziani. Le
formule che questi ultimi adoperano sono diverse da quelle della medicina
assiro-babilonese in quanto hanno anche una se zione dedicata alla diagnosi.
Come Vincenzo Di Benedetto (1986: 91) ha mostrato, esse potevano essere divise
in tre elementi strutturali: una prima sezione (A), introdotta dalla
congiunzione "se", presenta la sintomatologia come il risul tato di
un esame/visita del medico; una seconda sezione (B), sempre attraverso la messa
in rilievo della parola del medico che fa la diagnosi, enuncia la causa; una
terza sezio ne (C) presenta l'intervento terapeutico del medico. Vedia mo un
esempio tratto dal papiro Ebers (scritto intorno al 1550 a.C.): (A) Se tu
esamini un uomo che soffre al suo stomaco, tutte le parti del suo corpo sono
appesantite come per l'insorgere della stanchezza: tu devi allora mettere la
mano sul suo stomaco e lo trovi a mo' di timpano, in quanto va e viene sotto le
tue mani. (B) Allora tu devi dire "è un'inerzia nel mangiare che non per
mette che egli mangi dell'altro". (C) Allora tu devi preparargli un
rimedio che svuoti (seguono le indicazioni degli ingredienti della ricetta). In
questo caso si ha un andamento abduttivo: la sintoma tologia costituisce il
punto di partenza per ricostruire il qua dro eziologico, cioè una realtà
nascosta che deve essere in terpretata a partire dai dati esterni
disponibili. MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 79 Tutti questi moduli, attraverso
i quali si definisce la pre sentazione della sintomatologia medica,
costituiranno una base di riflessione, rimanendo talvolta sullo sfondo, ma più
spesso affiorando negli esempi, quando la filosofia cerche rà di definire la
struttura formale del segno. PLATONE 4.0 Introduzione Platone è il primo
compiuto erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sue
opere tale tradizione dà luogo a un'ampia e articolata teoria del linguaggio,
ma non produce, allo stesso tempo, una separata teorìa del segno, come invece
avverrà in Aristotele e in genere nelle scuole fi losofiche successive. Si
possono, però, osservare due fatti: da una parte l'ana lisi dei contesti in
cui Platone usa termini scmiotici permette di ricostruire un can1po teorico di
sfondo abbastanza omo geneo, i cui contorni definiscono il segno; dall'altra
certi aspetti della stessa teoria platonica del linguaggio presenta no un
carattere intrinsecamente semiotico, fatto che non si verificherà nelle teorie
Enguistichc dei filosofi successivi. Esaminiamo separatamentc i due problemi.
4.1 I segni 4. 1 . 1 La comunicazione divina Raccogliendo la tradizione
divinatoria, Platone parla di "segni" in tutti quei contesti in cui
si instaura una comuni cazione tra dei e uomini (Repubblica, 382 e; Timeo, 71
a - 4.1 I SEGNI 81 72 b; Fedro, 244 b-e). In questi casi viene anche
usato il ver bo smafno che, come abbiamo già visto, nell'ambito divi natorio
non indica tanto il "significare", quanto l"'inviare un
segno", vero tramite della comunicazione divina. Tale segno può essere un
testo verbale, come il responso della Pi zia di Delfi, o anche un testo
visivo, come lo sono le imma gini del sogno (Timeo, 71 e), o quelle impresse
nel fegato che funziona come uno specchio (Timeo, 10 b). Il segno può anche
essere rappresentato da un evento na turale, come il volo degli uccelli; ma in
questo caso (che è quello più classico della divinazione tecnica) la comunica
zione è troppo mediata per avere davvero alore e produce più opinione che
conoscenza (Fedro, 244 c). In effetti, il ca so della comunicazione più
efficace con il soprannaturale è quello del "segno demonico" di
Socrate, che si manifesta come una "voce" interna (Fedro, 242 b-e;
Apologia, 31 d) che parla direttamente al destinatario. 4. 1 .2 Il segno come
"impronta nell'anima" In una seconda serie di contesti il segno
appare come im pronta (tjpos), nel preciso senso in cui è un segno l'impron
ta lasciata da un sigillo. Questa accezione è presente nel Teeteto (191 a - 195
b), dove, per la soluzione di problemi epistemologici, viene sviluppata la
metafora dell'anima co me blocco di cera, su cui vanno a imprimersi i segni
prodot ti dalle sensazioni (tOn aisthseon smefa). Questi segni, quando sono
incisi profondamente, costituiscono la base per le elaborazioni della memoria e
per la formazione della retta opinione. In effetti si crea falsa opinione in
tutti quei casi in cui gli uomini si dimostrano incapaci di "assegnare
ciascuna cosa al proprio segno'' (195 a), cioè di far combaciare il segno
impresso nell'anima con la nuova sensazione, in quanto il rapporto che si viene
a stabilire nel rinnovato processo per cettivo è lo stesso che si instaura tra
"copie e originali" (apotypOmata kaì tjpous) (194 b). 82 4.
PLATONE 4.1.3 I segni della scrittura Il tema della memoria, che abbiamo
trovato accennato a proposito dei segni impressi nell'anima nel Teeteto,
ritorna in maniera centrale nel Fedro (274 c - 276 a), quando l'at tenzione di
Platone si focalizza sui segni della scrittura. Nel mito che Socrate racconta,
infatti, i segni alfabetici sono un dono che il dio egizio Theuth offre al re
di Tebe Thamus, invitandolo a diffonderli in tutto l'Egitto perché, secondo il
dio, essi sarebbero stati "una medicina per la sapienza e la memoria"
(Fedro, 274 e). Thamus però non accoglie senza riserve il dono di Theuth,
convinto che i segni della scrittura abbiano un effetto contrario rispetto a
quello previsto dal dio, indebolendo la memoria: gli uomini "fidandosi
dello scritto richiamerebbero le cose alla mente non più dalPin terno di se
stessi, ma dal di fuori, attraverso segni (tjpol) estranei" (Fedro, 275
a). Sviluppando questo concetto, Socrate giunge a una con trapposizione tra
"le parole scritte" e "il discorso scritto nell'anima":
quest'ultimo è "vivente e animato", è scritto con la scienza ed è
capace di selezionare i buoni destinatari; le parole scritte, invece, hanno
solo l'apparenza della vita, ma in realtà sono capaci di dire una sola cosa e
sempre la stessa, al pari delle immagini pittoriche che, se interrogate,
"mantengono un maestoso silenzio"; inoltre si rivolgono in
discriminatamente a tutti. Ma, posto il primato del discorso scritto
nell'anima, si istaura tuttavia una relazione semiotica tra i due termini: come
propone Fedro, le parole scritte possono essere consi derate "un'immagine
(eldolon)" del discorso scritto nell'a nima (276 a); ciò nonostante esse
rimangono segni estrinse ci, capaci solo di "rinfrescare la memoria di
coloro che già sanno" (277 e). Si possono rappresentare questi rapporti se
miotici con un triangolo (cfr. p. 83). La linea tratteggiata indica il fatto
che per Platone le pa role scritte, di per sé, non permettono la vera
conoscenza, che deve essere mediata dal discorso interiore, ma produco no solo
opinione (275 b). 4.1.4 Il segno come inferenza 4.1 I SEGNI discorso
scritto nell'anima 83 immagini { 8 /d lJI B ) parole scrrtte oggetti
della conoscenza Infine, una serie di contesti ci presenta un uso del termine
"segno" (stmeion, in alternanza con tekmrion) come indi cante un
fatto, un evento, uno stato dal quale si può inferi re un altro fatto, evento
o stato secondo il modello già in contrato nella divinazione mesopotamica e
nella medicina greca (p::)q). Nel Teeteto (153 a), a esempio, si dice che il
fatto per cui il movimento e lo sfregamento producono il calore e il fuo co, i
quali a loro volta producono tutte le altre cose, è un se gno sufficiente
(hikanòn stmeion) per argomentare che il moto produce l'essere e il divenire,
mentre la quiete produ ce il non essere e il perire. Negli stessi termini si
parla di se gno nell'Epistola VII (332 c), dove il fatto di avere o meno degli
amici viene presentato come il più grande segno del carattere virtuoso o
vizioso di una persona. Ancora, nel Gorgia (520 d-e) si definisce un bel segno
(ka/òn stmeion) del successo ottenuto il fatto che chi ha reso un servigio ri
ceva un adeguato contraccambio. In tutti questi casi il se gno è espresso da
una proposizione legata da un rapporto implicativo con un'altra proposizione.
Ma, su questa accezione basilare, si innesta l'idea del st- 84 4. PLATONE
mefon come segno che serve a distinguere una certa cosa da tutte le altre. In
un passo del Teeteto (208 c - 209 c) si dice che il segno distintivo del sole,
sufficiente (hikan6n) per co noscerlo, è dato dal fatto che esso è il più
risplendente tra tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. Natural
mente la forma logica sottesa a questa formulazione super ficiale è quella
implicativa ("Se un corpo celeste che gira in torno alla terra è il più
risplendente di tutti, allora esso è il sole"). Ma a questo punto Platone
si interroga sul valore episte mologico della conoscenza attraverso i segni,
chiedendosi se cogliere il segno distintivo di una data cosa (''il segno onde
la cosa di cui si domanda differisce da tutte le altre", 208 c),
significhi cogliere anche la ragione (/6gos) di quella stessa cosa.
L'interrogativo non è di piccola importanza e si può notare che esso riapparirà
in Aristotele sotto forma di ricer ca dei rapporti tra il "segno" e
la "causa" di un fenomeno. E, come farà Aristotele, anche Platone qui
distingue il se gno dalla ragione di conoscenza (/6gos epistms), soste nendo
che il segno contribuisce al formarsi della retta opi nione, ma non della
conoscenza. 4.2 La teoria del linguaggio 4.2. 1 Carattere semiotico della
concezione lingui stica di Platone Nella speculazione successiva a Platone, la
teoria del se gno e quella del linguaggio verranno a costituire due ambiti
completamente separati, che considereranno diversi gli og getti delle
rispettive indagini, chiamandoli con nomi diversi (in Aristotele, a esempio, il
segno linguistico sarà sjmbo lon, e non smefon). Nella filosofia platonica,
invece, que sta divaricazione non si è ancora affermata, ma, al contra rio,
si può notare che la sua teoria linguistica ha un caratte re spiccatamente
semiotico. 4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 85 In generale, nella cultura
greca, il segno è concepito come un elemento percepibile che rimanda a (o
permette di giun gere alla conoscenza di) un elemento che non è manifesto
(adlon, aphanés ecc.); come abbiamo visto, del resto, nel caso della medicina
e, prima ancora, della divinazione, il segno costituisce la mediazione tra il
piano delle cose acces sibili ai sensi e il piano delle cose non accessibili.
Proprio con questi caratteri si presenta il segno linguisti co nei dialoghi
platonici (soprattutto nel Crati/o e nel So/i sta): esso è d/Oma
("rivelazione") di un oggetto non perce pibile (sia esso un
"significato", sia esso l"'essenza" della cosa nominata).
Costantemente il verbo smafno ("signifi co", "manifesto
attraverso segni") si alterna al verbo d/60 (''rivelo",
"manifesto") quando si parla di una forma espressiva che rimanda a un
contenuto che non viene colto con i sensi. Ciò avviene a esempio in un passo
del Crati/o (422 e), nel quale Socrate indaga la capacità che hanno i prO/a
on6mata (gli elementi primi e irriducibili del linguag gio) di rendere
evidenti (phanera) ciascuno degli enti: a que sto proposito li paragona ai
segni gestuali dei muti, che so no capaci di indicare (smalnein) le cose con
le mani, con il capo e con il resto del corpo, pur essendo impossibilitati a
manifestarle (dlot2n) con il linguaggio verbale. A più riprese nel corso del
Crati/o viene affermato il compito semiotico di "rivelazione" (d/Oma)
che hanno gli elementi del linguaggio. Ma Platone distingue la rivelazione
effettuata dai nomi da QUella effettuata dagli enunciati (Lo renz e
Mittelstrass 1967: 8): questi ultimi, infatti, rivelano sempre qualcosa intorno
agli oggetti (Sofista, 262 d), men tre soltanto i nomi "corretti"
rivelano gli oggetti come sono (Crati/o, 422 d). Anzi, è proprio il carattere
di rivelazione che riveste il nome a costituire il suo criterio di correttezza.
Nel Sojzsta (262 a) il nome è definito espressamente "se gno vocale"
(smefon tis phonis), espressione che è usata come equivalente a d/Oma e la cui
funzione è quella di ma nifestare l'"essenza" della cosa nominata:
"lo direi infatti che c'è un duplice genere dei nostri segni fonici (tii
phonii [.. .] dlomaton) che indicano l'essere di qualche cosa" (So- fista,
261 e). 86 4. PLATONE Particolari combinazioni di questi "segni
vocali" danno luogo agli enunciati (/6go1), facendo scattare un livello su
periore. In effetti, nel Sofista viene preso in considerazione il problema che,
in termini aristotelici, sarà descrivibile co me opposizione tra
"semantico" e "apofantico". In Plato ne, questa si
presenta come opposizione tra il livello ono mazein ("nominare") e
il livello légein ("enunciare") (262 d). I singoli segni vocali,
siano essi on6mata ("nomi") o rhimata ("verbi"),
manifestano un contenuto nel momento in cui nominano qualcosa. Le corrette combinazioni
di que sti segni vocali si situano a un diverso livello, perché, oltre a
manifestare un contenuto, lo presentano come "essere il ca so" o
"non essere il caso" di un determinato evento, stato o processo, cioè
ne costituiscono un'asserzione (De Rijk 1986: 199-200). 4.2.2 La teoria
linguistica del "Cratilo" Il problema fondamentale che viene
affrontato nel Crati lo è quello della "correttezza dei nomi". Esso
è posto fin dali'inizio del dialogo al centro di una disputa che oppone Cratilo
a Ermogene e per la quale Socrate è scelto come giu dice. Complessivamente,
nella discussione, Cratilo sostiene una tesi che possiamo definire
"naturalista", mentre Ermo gene una tesi
"convenzionalista"; ma le rispettive posizioni sono più stratificate
e presuppongono alcune distinzioni. Innanzitutto c'è un primo livello di
discorso che riguarda l'atto della nominazione in un momento del linguaggio che
possiamo considerare aurorale. Per Ermogene tale atto è frutto di convenzione e
nasce dali'accordo degli uomini, che già hanno una conoscenza preliminare delle
cose. Per Cratilo, al contrario, l'atto della nominazione non presup pone
alcun accordo tra gli uomini, ma avviene in maniera naturale. Un secondo
livello di discorso è rappresentato dall'analisi dello stesso fenomeno
trascurando il momento diacronico della formazione del linguaggio e
focalizzando il rapporto di correttezza rintracciabile tra il nome e la cosa a
cui esso è 4.2 LA TEORIA DEL LINOUAOOIO 87 applicato sincronicamente. In
questo caso tanto Ermogene quanto Cratilo propongono la stessa soluzione,
sostenendo che i nomi sono sempre correttamente riferiti alle cose. L'u nica
differenza tra le due posizioni consiste nel fatto che per Cratilo la
correttezza dei nomi segue una legge naturale, mentre Ermogene sostiene il
carattere convenzionale delle regole che stabiliscono la correttezza, e adduce
come prova il fatto che i nomi possono essere cambiati a piacere, senza
disturbare tale rapporto. Un terzo livello di discorso, che scaturisce
direttamente dal precedente, è quello che riguarda l'estensione della vali
dità del rapporto di correttezza. Per Cratilo la correttezza del nome è
"universale", vale tanto per i Greci, quanto per i barbari. Per
Ermogene, invece, sembra che tale correttezza debba essere limitata alla
comunità linguistica particolare che ha adottato la convenzione. Si possono
distribuire questi dati su una matrice: Ermogene Cratilo atto della
nomina- zione primordiale frutto di accordo n aturale sempre presente sempre
presente correnezza basata su leggi con- venzionali basata su leggi naturali
validità del rap- porto di correnezza limitata alla comu- nitè inguistica
particolare universale Come abbiamo visto, entrambi i contendenti
danno per scontato il carattere di correttezza dei nomi rispetto alle co se.
Tuttavia ciascuno fornisce una risposta diversa alla do manda su chi
garantisce la correttezza. La legge naturale, 88 4. PLATONE che ne è
responsabile per Cratilo, focalizza il rapporto che si stabilisce tra il nome e
gli oggetti che lo portano, senza che abbia alcuna importanza ciò che gli
utenti del nome ne pensano. Al contrario, la convenzione, che per Ermogene è
garanzia di correttezza del nome, è una regola che riguarda gli utenti del
nome, senza che venga presa in alcuna consi derazione la natura dei portatori
del nome stesso (Kretz mann 1971: 127). 4.2.3 Il problema linguistico e la
dialettica Accanto a quelle di Ermogene e di Cratilo, nel dialogo è presente
anche una terza teoria, sviluppata dallo stesso So crate attraverso la
confutazione delle posizioni dei due con tendenti. Socrate, come al solito, è
portavoce delle opinioni di Platone e le ragioni per cui egli rifiuta entrambe
le altre posizioni sono da connettersi con la concezione generale del metodo
della filosofia che propugna Platone. Infatti, se Cratilo o Ermogene avessero
ragione, la via della dialettica, come mezzo per raggiungere la conoscenza,
risulterebbe impercorribile (Weingartner 1969: 6). Platone prevede il
linguaggio come mezzo necessario nella ricerca fi losofica, ma pensa anche che
la verità vada cercata nelle co se e non nel linguaggio stesso, come suona
appunto la con clusione del dialogo. Le teorie di Ermogene e di Cratilo
mettono entrambe in pericolo questo principio. Vediamo brevemente in quale
modo. La teoria di Ermogene si presenta all'inizio come una teoria
"convenzionalista classica", sostenendo il principio secondo cui la
convenzione e l'accordo costituiscono il cri terio di correttezza dei nomi
(384 c-d). Tuttavia questa non è l'unica posizione che Ermogene sostiene e non
è quella che è effettivamente attaccata da Socrate. Subito dopo Er mogene
sostiene anche che, "qualsiasi nome uno imponga a una cosa, questo è
quello corretto", precisando che, "se uno sostituisce quel nome con
un altro, non usando più il precedente, il secondo nome non è affatto meno
giusto del primo" (384 d). A questo punto Socrate costringe Ermoge-
4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 89 ne a effettuare un cambiamento di
focalizzazione e a preci sare che chiunque può operare questo cambiamento di
no mi, non solo una comunità, ma anche un singolo individuo. Ne risulta una
dottrina degli idioletti autonomi, tanto parcellizzati da coincidere con la
parlata di un solo uomo, che fa scoppiare il convenzionalismo di Ermogene in un
soggettivismo totale; tanto che Socrate non manca di met terlo in parallelo
con il relativismo di Protagora (386 a). Questa "Humpty Dumpty
position", come è stata arguta mente chiamata (Weingartner 1969: 7), fa
perdere al lin guaggio la funzione comunicativa e rende impossibile la
dialettica, in quanto non permette di distinguere tra enun ciati veri ed
enunciati falsi. Tuttavia anche la posizione di Cratilo conduce, altrettan to
perentoriamente, a una impossibilità della dialettica. Egli infatti elabora una
teoria che ha le caratteristiche di un "iconismo assoluto": il nome
rivela la natura della cosa che nomina, imitandola; ma questa imitazione è
totale o è un nonsenso. La configurazione sonora, che si distaccasse an che
per una piccola parte dalla perfezione deli'imitazione, verrebbe a essere
niente di più che "il rumore che fa uno che agita un vaso di bronzo
percuotendolo" (430 a). Poiché per Cratilo la produzione linguistica
sembra dare luogo in certi casi a imitazioni corrette, in certi altri a dei
nonsensi, in entrambe le evenienze la dialettica verrebbe ri dotta a uno
strumento sprovvisto di senso. Se, a esempio, la ricerca dialettica cominciasse
con il chiedersi "Che cos'è la giustizia?" e sperasse di raggiungere,
nel corso del dibattito, la conoscenza dell'entità sotto indagine. Si
presenterebbero allora due possibilità: (i) se l'espressione !giustiziai
rivelasse naturalmente l'oggetto, che nomina, la ricerca finirebbe prima di
cominciare; (ii) se invece essa fosse analoga al "ru more prodotto da un
vaso di bronzo percosso", la domanda stessa non avrebbe senso. La
dialettica, per quanto debba giungere a giudizi veri, deve avere la possibilità
di enunciare giudi.zi falsi, che devono essere corretti nel corso del dibatti
to. Ed è appunto questa possibilità che viene eliminata dalla teoria di
Cratilo. 90 4. PLATONE 4 . 2 . 4 Il nome come strumento Uno dei punti
fondamentali del dialogo platonico è costi tuito dalla ricerca di un criterio
oggettivo che permetta di assegnare un valore di verità tanto agli enunciati
quanto ai nomi. Per raggiungere adeguatamente questo scopo, Socra te sposta
temporaneamente il discorso dal piano linguistico a quello ontologico,
affermando che le cose (pragmata) hanno in loro stesse una stabile essenza e
non dipendono dal giudizio soggettivo (386 e). Una tale caratteristica di
oggettività è attribuita da Socra te anche alle azioni (praxeis), che al pari
delle cose (pragma ta) sono delle specie di enti (onta). Infatti, dal momento
che ci aspettiamo che le azioni abbiano certi effetti, esse non possono essere
compiute arbitrariamente. Ma, per Socrate, anche il dire (légein) e il
denominare (onomazein, che è una parte del dire), costituiscono delle forme di
azione e, di con seguenza, devono essere compiute in maniera non arbitra ria.
Possiamo illustrare questa serie di divisioni attraverso il seguente schema:
enti (6nts) cose (pr8gmsta) l ""azioni (prAxtJis) /\ dire (/(lgein)
/\ Nel resto del dialogo l'intuizione che il dire e il denomi nare
costituiscono delle specie di azioni non verrà ulterior mente sviluppata, ma
rimane comunque una importante in dicazione di una possibilità di sviiuppo in
senso pragmatico che avrebbe potuto avere la linguistica greca. In questo
contesto, lo scopo di mostrare che il linguaggio ha un legame oggettivo con la
realtà, commisurato con il fi- denominare (onomAzein) 4.2 LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 91 ne di raggiungere una comunicazione efficace, è perseguito
attraverso il paragone del nome con uno strumento (orga non): proprio come la
spola serve a sceverare la trama del tessuto, così il nome è "uno
strumento didascalico e sceve rativo dell'essenza" (388 c). In altre parole,
in primo luogo, i nomi operano una tassonomia della realtà, separando gli
oggetti del reale, in maniera tale da rispettare le loro nature (Kretzmann
1971: 128); in secondo luogo i nomi permetto no di comunicare questa
tassonomia. 4.2.5 Forma ("eldos") e materia del nome Se lo scopo dei
nomi è quello di far acquisire la conoscen za delle cose e di comunicarla agli
altri, è necessario che chi ha denominato la realtà (il "nomoteta",
personificazione di un'autorità linguistica accettata), categorizzandola in una
certa maniera, già ne possedesse una conoscenza prelimi nare. In effetti, per
garantire la correttezza dei nomi, il nomo teta ha agito come il costruttore
di spole. Come quest'ulti mo guarda ali'eidos ("forma",
"idea") della spola, così il nomoteta, per costruire il nome, guarda
al "nome in sé", cioè alla forma ideale del nome (389 b; 390 a). Allo
stesso titolo, come non ogni materiale è adatto alla costruzione di uno
strumento, ma è necessario usare la ma teria che meglio si adatta alla forma
(a esempio il ferro per il trapano e il legno per la spola, e non viceversa),
ugual mente sarà necessario che i nomi siano costruiti con suoni e sillabe,
piuttosto che con altro materiale, se devono com piere bene la loro funzione.
Tuttavia non sarà necessario che la forma fonica (direm mo: di superficie) dei
nomi sia identica per tutte le lingue, ma ciascuna lingua suddividerà in modo
diverso il conti nuum sonoro (nello stesso modo in cui non ogni fabbro adopera
lo stesso ferro per lo stesso strumento atto allo stesso scopo) (389 e). In
questo modo Platone spiega la di versità delle lingue, le quali pure,
indistintamente, sono or ganizzate in maniera da rispettare i medesimi
modelli. Ciò 92 4. PLATONE che varia da lingua a lingua è la materia, da
interpretarsi co me la configurazione superficiale di nomi e di sillabe che as
sume ciascun nome. Ciò che rimane costante è laforma (eidos, idéa) del nome che
conviene a ciascuna cosa (390 a). Un modo di pensare a questa forma è quello
proposto dali'interpretazione di Kretzmann, che la identifica con la funzio ne
e lo scopo essenziali a ciascun nome, di separare le cose e di separarle in
maniera da rispettare le loro giunture natura li. In questo modo, a esempio,
il nome greco l hippos l o quelli barbari lchevall, lcavallol, lborsel, lPferdl
ecc. saranno tutti corretti se riusciranno a ritagliare la realtà se condo le
"naturali" giunture; e sembrerebbe esserci il pre supposto che tali
giunture debbano essere le stesse per tutte le culture. Come si vede, Platone
qui sta affrontando una questione che potremmo definire
"hjelmsleviana",1 e così potremmo parlare, più che di funzione, come
fa Kretzmann, di forma e sostanza, di espressione e contenuto, come fa
Hjelmslev: la forma espressiva (la materia di Platone) può variare da lingua a
lingua; ma, affinché il nome sia quello giusto, è ne cessario che la forma del
contenuto (l'eidos o idéa di Plato ne) ritagli la materia del contenuto
secondo le medesime ar ticolazioni. Cosi l hippos l, l cheval l, l cavallo l,
l borse l, l Pferd l saranno tutti nomi giusti se ritaglieranno il conti nuum
materiale del contenuto ("la cavallinità, all'interno dello spettro
relativo agli animali) esattamente secondo le stesse giunture. Che poi
l'elaborazione dei nomi debba essere messa in corrispondenza con una corretta
tassonomia del continuum della realtà, da effettuarsi verosimilmente con il
metodo della divisione (diairesis), è dimostrato dal fatto che spetta al
dialettico, personificazione dell'autorità scientifica e filo sofica,
giudicare se il lavoro dei vari nomoteti è stato fatto bene (390 d). LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO 93 4.2.6 La prima teoria semantica Seguendo
l'interpretazione di Donatella Di Cesare (1981) si possono rintracciare nel
Crati/o due diverse teorie seman tiche, che si riferiscono, la prima a una
situazione di lin guaggio ideale, e la seconda a una situazione di linguaggio
come realtà storicamente data. Esaminiamo brevemente la prima. A un certo punto
del dialogo (393 d), infatti, Socrate so stiene che ciò che è veramente
importante per il nome è di significare (smalnein) l'essenza della cosa (ousfa
tofl prag matos), la quale viene chiaramente espressa (dJoumén) dal nome. Una
volta che il nome esprime l'essenza della co sa, non ha nessuna importanza se
vengono aggiunte o tolte delle lettere al nome. L'esempio che viene portato è
quello del nome di una let tera dell'alfabeto, il bita: esso nomina la lettera
l b l, ma a essa aggiunge ita (lel), tau (ltl) e alpha (lal); nonostante queste
aggiunte, esso nomina correttamente il l b l, in quan to fa comparire il
"valore" della lettera che doveva essere nominata. Un analogo
ragionamento vale per tutti i nomi: essi sono corretti se nominano l'essenza
della cosa di cui so no nomi. Il significato è, dunque, identificato con
questa essenza della cosa. Più avanti (394 b-e) Socrate introduce un altro
concetto, quello di djnamis ("valore"), che sembra anch'esso identifi
carsi con il significato. Infatti egli sostiene che chi è vera mente pratico
di nomi guarda al loro valore (djnamis), non lasciandosi sviare né da aggiunte
né da trasposizioni di let tere. Cosi i nomi Astyanax ("Astianatte"
= "signore della città") e Héktor (''Ettore" = "che tiene
saldo"), pur avendo in comune solo la lettera l t l, significano la stessa
cosa (tau tòn smalne1). Dunque il significato del nome è dato da entrambi gli
ele menti, l'essenza della cosa nominata e la djnamis del nome: essi di fatto
coincidono, in quanto il nome, attraverso il suo significato, deve esprimere la
cosa che nomina. Si possono illustrare i rapporti tra nome, significato e cosa
con il se guente triangolo: 4. PLATONE essenza della cosa = In effetti,
come l03), per Platone il nome non "rispecchia" la cosa, ma solo la
sua essenza, ed è questa la ragione per cui possono esserci nomi diversi per lo
stesso oggetto. Del resto, per rispecchia re l'essenza della cosa, il nome
deve "associare l'individuo al genere cui appartiene" (ibidem); fatto
che corrisponde a quanto avevano sottolineato Lorenz e Mittelstrass (1967: 6-
8), con la loro attribuzione di una funzione predicativa al nome. Il
significato specifico del nome, la sua dynamis, consiste allora neli'assegnare
ciascuno degli oggetti al con cetto appropriato, o al genere che gli compete.
Ed è rispetto a questa operazione che si può valutare oggettivamente la
correttezza o meno del nome. Se ci soffermiamo a considerare i risultati della
teoria del significato esposta nella prima parte del dialogo, vediamo che tutta
la dimostrazione di Socrate è rivolta a mostrare la coincidenza della struttura
linguistica con quella logico-on tologica: il linguaggio, attraverso i nomi,
ritaglia il reale se condo le stesse giunture che quest'ultimo naturalmente
pre senta. Così, imitando e rappresentando la struttura della realtà, il
linguaggio costituisce una mediazione tra il mondo delle idee e quello
sensibile. Del resto il nome rappresenta il genere stesso che può essere
predicato di ciascuna cosa e che, inafferrabile in natura, si concretizza nella
materia fo nica. dynamis nome cosa sottolinea Donatella Di Cesare ( 1 98
1 : 94 4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 95 Tuttavia, come dicevamo,
l'identità descritta nella prima parte del dialogo non costituisce per Platone
un dato di fat to, ma un obiettivo ideale. Infatti dalla parte finale del dia
logo, che segue la digressione etimologica scaturirà una se conda e ben
diversa teoria semantica. 4.2.7 La seconda teoria semantica In effetti,
l'analisi etimologica svolta da Socrate nella parte centrale del dialogo, e la
congiunta riflessione sull'ori gine del linguaggio, erano state intraprese per
dimostrare la sostanziale identità tra la struttura linguistica e quella anto
logica, in generale, e tra l'essenza dell'oggetto e la djnamis, in particolare.
Ma il risultato a cui esse approdano è esatta mente l'op,posto: il linguaggio
non rispecchia la struttura oggettiva del reale, ma piuttosto è espressione
dell'idea che del reale si è formato il nomoteta. Il significato, dunque, viene
a essere identificato con la rappresentazione del reale che si forma nel
soggetto (Di Ce sare 1981 : 131), rappresentazione che è il risultato delle
opi nioni, sensazioni, impressioni che vengono esercitate sul soggetto dagli
oggetti della realtà. Pagliara (1956 a: 73) ave va del resto individuato
questo passaggio da una prima a una seconda teoria semantica come analisi di
due aspetti di stinti del fatto linguistico: (i) il rapporto tra il
significante e l'oggetto, nella prima parte del dialogo; (ii) il rapporto tra
il significante e il significato, nella seconda. In base alla seconda teoria,
il triangolo che illustra i rap porti tra nome, significato e cosa dovrebbe
avere una parti colare struttura (cfr. p. 96). Il linguaggio, dunque, non
rispecchia il mondo delleidee, cioè l'essenza delle cose, ma piuttosto il mondo
empirico: esso costituisce una realtà storica, che contiene la visione del
mondo che avevano i primi nomoteti, quando tentarono di dare un ordine al
reale, classificandolo e categorizzando lo, proprio servendosi dei nomi come
"strumenti sceverati vi". Ciò non esclude, tuttavia, che si potrebbe
arrivare a un adeguato rispecchiamento della realtà mediante il linguag-
96 4. PLATONE rappresentazione soggettiva = significato nome gio, qualora si
raggiungesse una completa conoscenza delle cose. Di particolare interesse
risulta poi il fatto che è prevista una precisa funzione mediatrice dell'anima,
grazie alla qua le la teoria platonica si avvicina a quelle moderne, in cui il
linguaggio viene riconosciuto come fatto psichico. Platone raccoglie qui l'eredità
dei sofisti, che unici tra i filosofi pre cedenti avevano insistito sulla
dimensione psichica del lin guaggio, in contrapposizione a quanti prevedevano
la possi bilità per il reale di essere rispecchiato nel linguaggio in ma
niera diretta e senza mediazione. 4.2.8 La mimesi La prima parte del dialogo
era stata dedicata alla confu tazione della teoria convenzionalista. L'ultima
parte è inve ce dedicata alla confutazione della teoria del rispecchiamen to
sostenuta da Cratilo. Già la sezione centrale, dedicata al l'etimologia, ha
portato alla conclusione che il linguaggio costituisce una rappresentazione
soggettiva, fatto che, di per sé, contraddice la tesi di Cratilo. Tuttavia
Socrate, per condurre ancora di più all'assurdo la tesi di quest'ultimo,
solleva il problema della mimesi, proponendo provvisoria mente una definizione
del nome come "imitazione con voce cosa 4.2 LA TEORIA
DEL LINGUAGGIO 97 di cosa che si imita; e colui che imita nomina con la voce
ciò che imita" (423 b-e). Quel che è interessante è che anche l'imitazione
sembra avere, in linea generale, un carattere semiotico: infatti l'imi tazione
"svela" (dloi) l'essenza della cosa. Ma quello di imitazione non è un
concetto pacifico e So crate lo indaga in tre diversi ambiti: (i) nel
ritratto; (ii) nel caso dei doppi; (iii) nel caso del rispecchiamento
"metafisi ca". Esaminiamo il primo caso. Tanto il ritratto quanto il
nome possono essere messi a confronto con l'oggetto che imitano. Per Socrate si
verifica allora il fenomeno per cui certi elementi presenti nell'origi nale
possono risultare trascurati, come pure elementi assen ti possono risultare
aggiunti. La copia ha dunque un carat tere di iconicità, ma presenta
variazioni all'interno di un continuum. Questo, per Socrate, è lo stesso
fenomeno che presentano i nomi, fatto che equivale a sottolineare il loro
carattere segnico. Ma Cratilo non è della stessa opinione, in quanto pensa che
i nomi debbano avere un carattere di so miglianza assoluta, in mancanza della
quale non sono affat to tali. Ecco in schema le due posizioni:
Socrate Cratilo rapporto ..nome/oggetto• iconico icon ico
carattere della mimesi continuo discreto A questo punto Socrate
introduce l'argomento del dop pio: se nella mimesi tutti i caratteri
deli'originale venissero riprodotti, non si avrebbe una imitazione, ma una
occor- 98 4. PLATONE renza identica dello stesso oggetto. Non si sarebbe
dunque in presenza di un rapporto di rappresentazione, ma di un vero e proprio
doppio, in una situazione in cui è impossibile stabilire quale è il
rappresentante e quale il rappresentato. In altre parole, il nome possiede un
carattere segnico pro prio in virtù di questa sua dissimiglianza rispetto
all'oggetto cui rimanda. Il terzo caso considerato, che abbiamo definito come
"ri specchiamento metafisico", pone in primo piano il tema
dell'imitazione che il singolo suono compie di un singolo frammento della
struttura del reale. La parola sklrots, che significa
"durezza",ontrariamente a quanto ci aspette remmo se i suoni
rispecchiassero in tutto le essenze delle co se, contiene al suo interno un
/ambda ( I I I ), che esprime "mollezza" e "scivolosità".
Dunque la parola imita la "du rezza" solo in parte, mentre in parte
se ne discosta. Con ul teriori esempi, poi, Socrate mira a negare anche
un'altra ipotesi, più fondamentale filosoficamente: quella secondo cui nel
linguaggio venga rispecchiata la veduta eraclitea del la realtà come eterno
flusso e movimento (41 1 c; 436 e); ciò infatti non si verifica perché, come
sottolinea Socrate, nel linguaggio molte voci lessicali presentano la realtà
come perfettamente immobile (437 c). 4.2.9 L'uso e la convenzione Dalle
critiche che Socrate muove, soprattutto a Cratilo, scaturisce una proposta
positiva. Avendo infatti osservato che il nome sklrots (''durezza") è
inesatto, in quanto con tiene nel suo significante elementi che non
corrispondono alla qualità della cosa designata, Socrate osserva anche che,
nonostante ciò, esso adempie perfettamente alla sua funzio ne comunicativa: infatti
i Greci si intendono quando tale nome viene usato. La responsabilità di questa
comprensione è attribuita da Socrate ai due fenomeni dell'uso (éthos) e della
convenzio ne (xynthk): questi fenomeni non circoscrivono soltanto un rapporto
tra i due utenti del nome, ma si rintracciano 4.3 TEORIA LINGUISTICA
DELL'«EPISTOLA Vll» 99 anche a livello delle relazioni tra il nome e l'oggetto,
cioè al livello denotativo (Kretzmann 1971: 138). L'idea che il no me sia
"rivelazione" (d/Oma) dell'oggetto denotato non viene abbandonata, ma
viene solo spostata la responsabilità di questa rivelazione dal rapporto di
somiglianza tra i due termini, alla convenzione che li associa (435 a-b).
Platone, tuttavia, non sostituisce semplicemente una con cezione
convenzionalista a una in cui la semiosi avviene per somiglianza. Per lui la
situazione ideale rimane quella in cui i nomi sono immagini che riproducono
l'essenza degli og getti nominati; ma sono i limiti del linguaggio naturale
che rendono necessario il ricorso all'accordo (435 b-e). Questo è del resto il
punto in cui i commentatori hanno scorto un compromesso tra il convenzionalismo
di Ermogene e il na turalismo di Cratilo. Nella chiusura del dialogo si deve
rilevare anche uno spo stamento nella funzione assegnata al segno linguistico:
c'è una accentuazione della funzione comunicativa a scapito di quella
cognitiva. Il linguaggio non è uno strumento abba stanza valido per la
conoscenza della realtà, per raggiungere la quale sarà necessario percorrere
una via più diretta: quel la del ricorso alle cose stesse (439 b). Esso però
si configura come un ottimo strumento per il buono svolgersi della co
municazione interoggettiva. 4.3 La teoria linguistica deii'"Epistola
VII" Un'interessante trattazione degli elementi coinvolti in una teoria
del significato la si può trovare nell'Epistola VII, un testo attribuito a
Platone, ma la cui autenticità è stata più volte messa in dubbio (Edelstein
1966). A molti è sem brato che essa non contenesse niente di veramente non pla
tonico, e a ogni modo presenta un interesse intrinseco che induce a farne
oggetto di un'analisi particolare. Nella sua parte centrale, la lettera
contiene un passo teo rico (342 a - 344 d), in cui vengono indagati gli
elementi che permettono di raggiungere e trasmettere la conoscenza. Si tratta
anche, allo stesso tempo, di elementi che intervengo- 100 4. PLATONE no
nel processo di semiosi. Il primo di questi è il nome (onoma); il secondo la
definizione (/ogos); il terzo l'imma gine (efdo/on); il quarto la conoscenza
(epistm); il quinto, infine, l'oggetto conoscibile (gnost6n) e veramente reale
(althos 6n) (342 a-b). Questi elementi, secondo P interpretazione di Morrow
(1935: 68), sono organizzabili secondo un ordine interno. Infatti, da una parte
si possono collocare i fattori che costi tuiscono gli strumenti di conoscenza:
i nomi, le definizioni, le immagini o diagrammi; dall'altra, in opposizione
diame trale, si trovano gli oggetti conoscibili e reali. A mediare tra gli
strumenti e l'oggetto della conoscenza si trova l'epist mt, che Morrow
interpreta come "apprensione soggettiva", e che è ulteriormente
suddivisa, come Platone dice più avanti (242 c), in retta opinione (a/ths
doxa), conoscenza (epistm) (ritorna curiosamente come nome di una specie,
quello che è il nome dell'intero genere) e ragione o intuizio ne (noas), del
quale ultimo Platone precisa che è il più vici no al quinto fattore. Nella
lettera si dice che questi tre elementi, che compon gono complessivamente
l'epistémt e che devono essere con siderati come un unico grado, non risiedono
"né nelle voci, né nelle figure corporee, ma nelle anime (en
psychais)", fat to che, come Platone sottolinea, li distingue sia
dall'oggetto reale, sia dagli strumenti di conoscenza. Il richiamo ali'ani ma,
che può essere messo in parallelo con il ruolo assegnato all'anima nella
seconda teoria semantica del Crati/o, induce ad accostare questa nozione di
epistm alla nozione di si gnificato; fatto che del resto può venir confermato
se leg giamo il passo con l'ottica della tradizione posteriore, so prattutto
aristotelica, che colloca il significato esattamente nell'anima (tà en tii
psychr) (De interpreta/ione, 16 a). Possiamo distribuire i cinque elementi sul
triangolo se miotico nel modo illustrato alla p. 1 0 1 . Tutto l'interesse del
passo è orientato a mostrare il carat· tere difettoso degli strumenti di
conoscenza. E, per suggeri re come si può ovviare a questo inconveniente,
Platone ela bora una dottrina che è molto vicina alla teoria di Peirce della
semiosi come "fuga di interpretanti". Vediamola at- TEORIA
LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 101 4. apprensione soggettiva ( epistml)
3. immagine- (efdDion) 2. definizione (/6gos) l intuizione (noùs) l
conoscenza (epistmlJ} l retta opinione (allfths d6xa) 6. oggetto conoscibile
(gnst6n) e veramente reale (sleth;;s 6n) 1 . nome (6noms) traverso l'esempio
stesso che fa da filo conduttore al discor so platonico. Si tratta
deli'esempio del "cerchio", non a caso di carat tere matematico. Non
è difficile per Platone mostrare che il referente dell'espressione l cerchio l
non è un oggetto del mondo reale, sottoposto al divenire e alla corruzione, ma
è un'entità di altro tipo. A essa non si può arrivare se non passando
attraverso l'intera serie dei gradi preliminari e, so prattutto attraverso un
processo di continua sostituzione dell'uno con l'altro: "trascorrendo
continuamente fra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si
può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la cono scenza"
(343 e). Ciascun elemento, di per sé incompleto (co me lo sono gli
interpretanti di Peirce), contribuisce al rag giungimento della conoscenza se
inserito in questo processo instancabile di sostituzione e di confronto. Questo
processo di continua sostituzione permette di ovviare all'imperfezio ne degli
strumenti. 102 4. PLATONE In effetti il carattere di imperfezione del
nome è dovuto al fatto che, come sappiamo dal Crati/o, nel linguaggio sto
ricamente dato esso non è l'immagine della cosa che nomi na, ma è legato alla
convenzione. Questo, secondo l'autore ' Epistola VII, gli toglie stabilità, in
quanto potremmo dell usare l'espressione l linea retta l per riferirei alle
cose circo lari e l'espressione l cerchio l per designare la linea retta,
senza provocare cambiamenti nelle cose stesse (343 a-b). Si può ricorrere
allora alla definizione del cerchio come "quella figura che ha tutti i
punti distanti dal centro" (342 b); ma anch'essa, per quanto aggiunga
qualcosa, risulta composta di nomi e di verbi e dunque presenta difetti ana
loghi a quelli incontrati a proposito dei nomi. Tra l'altro, sottolineare che
la definizione è "formata di nomi e di ver bi" significa accentuarne
il carattere di significante, piutto sto che quello di significato. Essa è
semplicemente un'altra espressione, che può essere sostituita, nel processo
conosci tivo e/o semiosico, al nome. Del resto, alla possibilità di una
sostituzione tra nomi, Platone aveva già accennato, presupponendo
l'intercambiabilità di l cerchio l (kyklos), l rotondo l (strongylon), l
circolare l (peripherés) (242 b-e). Qualcosa ancora viene aggiunto dal terzo
livello, quello rappresentato dagli eldola ("immagini"). Qui il
cerchio è conosciuto come "quello che si disegna e si cancella, che si
costruisce al tornio e che perisce" (242 c). Si tratta della so
stituzione di un interpretante iconico ai precedenti interpre tanti verbali:
per capire che cosa è il cerchio in sé, non sono necessarie solo le spiegazioni
verbali, ma anche le illustra zioni e le astensioni. Anche a questo livello la
conoscenza presenta un carattere incerto, in quanto incontra oggetti in cui
l'essenza (tò 6n) risulta inquinata dalla qualità (tò poi6n 11), cioè da
proprietà accidentali e contrarie, talvolta, alla vera natura del suo referente
metafisica: infatti per ogni punto del cerchio può essere costruita una
tangente (343 a), tale che, isolando quel brevissimo tratto, non si saprebbe se
esso fa parte di un cerchio o di una retta (Taylor 1912: 361). Il passo teorico
deli'Epistola VIl si chiude ritornando su un concetto assai vicino a quello
della semiosi illimitata, an che se ovviamente modulata in chiave platonica:
"mentre 4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 103 ciascun
elemento (nomi, definizioni, immagini visive e per cezioni), in dispute
benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri,
avviene che l'intuizione e l'intellezione di ciascuno brillino a chi compie
tutti gli sforzi che può fare un uomo" (344 b-e). La metafora dello "sfregamento",
con cui il passo si av via alla conclusione, è funzionale sia all'idea
epistemologica dell'improvviso accendersi e brillare deli'intuizione, sia an
che all'idea semiotica che il senso finale non lo si ottiene at traverso
l'immediata e semplicistica sostituzione di un signi ficante con un
significato, ma attraverso una strategia di mosse successive e ripetute, come
sono quelle appunto del processo di semiosi illimitata. LINGUAGGIO E SEGNI IN
ARISTOTELE 5.0 Introduzione Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia
del se gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du revolezza.
Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica
che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche
professio nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con
getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o
pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz zato per tutto il V secolo
termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici,
nella storiogra fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle
esi genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini
e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza
(1979: 107), non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in
quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro se e
rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e
della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del la Retorica e in generale nelle
opere che trattano di argo mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond
(1939, ried. 1973: 241), l'uso dei vari termini del lessico semiotico
gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie gati senza speciali
sfumature di significato. Ciò non con traddice, tuttavia, il fatto che la
revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e
abbia inau- 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato una solida
tradizione, che continuerà nella trattati stica successiva, fin nella retorica
romana del I secolo d.C. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si
limite ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma
entreranno anche nel vivo delle concezioni pro fonde coinvolte dal sapere
congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale
tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico
della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del
futuro era un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in
entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega
alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella
classificazione dei tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristotele
individua in primo luogo due ca tegorie di destinatari dei discorsi: colui che
osserva (theo ros) e colui che decide (krits). Il primo agisce nella dimen
sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di scorso
epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi re nelle altre due
dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice
(dikasts) decide sul passa to; il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul
futuro.2 Co me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio ne è
totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento
aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con
le tre dimensioni del tem po che fin dall'epoca di Omero appaiono associate
agli am biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoria
del linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondo
fatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello che
riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della
teoria del linguag- }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e della
teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto
rilevante proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente dato
per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se gni":
anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sono
stati pochi coloro che sono arri vati ali'eccesso di pensare che essi
potessero fornire il mo dello anche per gli altri tipi di segno. In
Aristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio
ricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segno
vengono denomi nati smeia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria del
segno propriamen te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un
in teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del
problema delle modalità di acquisizione della co noscenza, mentre il simbolo
linguistico è connesso princi palmente al problema dei rapporti che si
instaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e gli
stati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo ria
del simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche ma a tre termini: i
suoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, le
quali, a loro volta, sono le im magini degli oggetti esterni: Ordunque, i
suoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni che
hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte
(graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le
lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me desimi;
tuttavia, suoni e lettere risultano segni (smela), anzi tutto, delle affezioni
dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini
(homoi6mata) di oggetti (pragma ta), già identici per tutti. (Arist., De int.,
16 a, 3-8) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter mine
smeia come apparente sinonimo di sjmbola non si gnifica affatto che le due
espressioni siano intercambiabili: 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO
107 in realtà in questo passo Aristotele usa il termine smefon in un'accezione
debole, che ci conferma appunto la tenden za a un uso sfumato delle
espressioni del lessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione
del sistema di demarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa smeia
per dire che l'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indizio
deli'esistenza parallela di affezio ni dell'anima. A ogni modo, è possibile
costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo
tipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri
(nomat8) rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( sn ti phntl
(prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è il
rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e stati
d'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animo
sono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressi
in maniera diversa a se conda delle varie lingue e culture, esattamente come
avvie ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og getti
c'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto i
primi sono le immagini dei secondi. Bi sogna precisare che sarebbe scorretto
identificare in manie ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementi
del lin guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà
108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata da
Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra
due en tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il si
gnificato sono le due facce del segno, in quanto unità lin guistica. In
Aristotele troviamo invece un rapporto conven zionale tra elementi del
linguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente non
appartengono al lin guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltre
ri levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce
nei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, ma
continua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevale
la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in
parte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni della
voce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen ta
aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che
cosa intende Aristotele con l'espressio ne tà en tii phonii? A questa domanda
vi sono risposte di verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene che
Aristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu re dà
al termine "significante" quando spiega la natura del segno
linguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phonii
doveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres sioni
linguistiche" intese nella loro forma compiuta di 6no ma (nome), rhima
(verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis
(negazione); le ra gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi
elemen ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven gono
definiti "simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr., 16 a, 25; 24
b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni
della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara mente la veste fonica e
il carattere di "significante". Tutta- 5.1 TEORIA DEL
LINGUAGGIO E DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cui
Aristote le, almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem bra
diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare
le possibilità e le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà.
Tali garanzie sembrano esserci quando si dia una reciproca bilità tra i due
ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicità
del linguaggio nei confron ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto
il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul
vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici
perseguiti nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova al
vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Ari
stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri to (D-K, 68, B 5,
1). Le ragioni che permettono la specializ zazione di questo termine nel senso
di indicare le espressio ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua
etimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascuna
delle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, una
medaglia, una moneta) in ma niera intenzionale, affinché possano servire, in
un momen to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una
certa cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat to che le due metà
riescano a combaciare perfettamente vie ne a indicare la presenza di un
rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di
amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla
congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una
situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra,
senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna
parte pre suppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri
spondenza, l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si gnificato di
"ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel
contesto della teoria linguistica aristote lica la parola sjmbolon
all'espressione smefon (che pure indica uno "stare per") induce a
indagare su una possibile LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE specificità
del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca so del segno, i due
termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre
reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che
necessaria mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i
due termini sono perfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal
III secolo a.C. al III d.C. sia attestato anche nel senso di
"ricevuta", talvolta redatta in duplice copia: le due parti hanno,
per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente neli'uso
che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De
interpreta/ione: i nomi ono simboli degli stati d'animo nel preciso senso che
si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro e
una perfetta intercam biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso
(Be lardi 1975: 199). In quanto sjmbolon, il nome non è più dloma
("rivela zione"), come lo era per Platone: in Aristotele il nome è
"suono della voce significativo per convenzione" (phon s mantik katà
synthkn) (De int., 16 a, 19). Questo marca il passaggio da una linguistica che
conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che
non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per
Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano"
qualcosa di non percepibile (l'essenza del l'oggetto o la djnamis), per
Aristotele esse sono simboli che stabiliscono convenzionalmente una pura
relazione di equivalenztr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio ne
che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3 Il linguaggio degli
animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet te di
distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali,7
questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii) interpretabili.
Già la nozione di "voce" (phon) presenta alcune interes- 5. 1
TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santi particolarità. Nel De anima si
dice che un suono può essere definito una "voce" quando: (i) sia
emesso da un es sere animato (II, 420 b, 5); (ii) sia dotato di significato (s
mantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani mali, per quanto
definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta via le due precedenti
caratteristiche. Ciò che li distingue dalle voci emesse dagli uomini sono due
fattori: (i) non sono convenzionali (e di conseguenza non possono essere né
simboli né nomi), ma sono "per na tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii)
sono agrammatoi, cioè "inarticolabili" o "non combinabili"
(ibidem, e Pot., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del
resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del
carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici
(adiafretoi, "invisibili") possono articolarsi in uni tà più grandi
dotate di significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili,
ma non combinabili (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare
riassuntivamente i caratteri del lin guaggio umano in contrapposizione ai
suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano -
per convenzione - elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili -
lettere - elementi dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali
- per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi
che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare,
tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal
verbo dlofìsi (''rivela no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma
l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel
caso del linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri mo piano il carattere
semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la
loro causa. 1 12 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5. 1 .4 Le
"affezioni dell'anima" Ritornando poi al triangolo aristotelico della
significa zione, la seconda nozione degna di rilievo è quella di pathmata en
tii psychi. Si noterà che, dove ci si aspetterebbe la nozione di
"significato", troviamo invece un'entità psichi ca, qualcosa che non
è posto all'interno del linguaggio, ma nella mente stessa degli utenti del
linguaggio. Per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele, pur
configu randosi come eventi psichici, non sono affatto individuali: si tratta
piuttosto di elementi che, come dice Aristotele, so no identici per tutti,
fatto che connette la teoria del lin guaggio con una sorta di psicologia
sociale, se non addirit tura universale, piuttosto che individuale (Todorov
1977: 16). In secondo luogo è necessario rilevare una sorta di ambi guità che
si trova nella nozione posta al vertice superiore del triangolo. Infatti
Aristotele dice che i pathimata en tii psychii sono le immagini (homoiomata)
degli oggetti esterni: con ciò in tende che tra gli oggetti e le entità
psichiche c'è lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia.
Tuttavia, poi, per indicare la rappresentazione mentale usa anche, più avanti,
l'espressione noma ("pensiero", "nozione", 16 a, 10): ma,
in questo secondo caso, precisa che i pensieri, sot to certe condizioni,
possono essere veri o falsi. Da ciò con segue che i nomata vengono concepiti
come forme di giu dizio . Si tratta di due nozioni completamente diverse, e il
fatto che venissero entrambe messe in rapporto con le medesime espressioni
linguistiche aveva fatto pensare a un loro uso si nonimico, che risultava
aporetico. In realtà, come ha messo in evidenza Belardi (1975: 109), nessuna
delle due nozioni esaurisce da sola il livello della rappresentazione psichica,
ma esse rimandano a due facoltà differenti dell'anima: i pathtnata rimandano a
una facoltà passiva dell'anima, quella di subire impressioni dagli oggetti del
mondo ester no; i nomata rimandano a una facoltà attiva, quella di ela borare
giudizi. Questa relazione è del resto confermata dal 5.l TEORIA DEL
LINGUAGGIO E DEL SEGNO 113 rinvio che Aristotele fa al De anima, trattato nel
quale non vengono discussi solo i pathimata, ma anche le altre fa coltà. 5.1.5
Semantico e apofantico Non si può, a questo punto, non fare un cenno (anche se,
di necessità, breve) a una distinzione che si affaccia, nel pensiero
linguistico di Aristotele, tra la categoria del "se mantico" e
quella dell'"apofantico". Nel De interpretatione (16 a, 9 e sgg.)
viene aperta la problematica circa la diffe renza tra phasis (il semplice
"detto") e kataphasis (!'"affer mazione"). I nomi (ma così
anche i verbi) in sé costituisco no un "detto", ma non possono da
soli costituire un'affer mazione o una negazione. Correlatamente, vengono
distin ti due tipi di rappresentazioni mentali (noimata): l . quella "che
prescinde dal vero e dal falso"; 2. quella "cui spetta
necessariamente o di essere vera o di essere falsa". Ciò che in realtà
viene a essere contrapposto è la nozione di significato rispetto a quella di
condizioni di verità. Al primo tipo di rappresentazione, infatti, corrispondo
no i nomi (e anche i verbi) presi da soli, i quali possono avere un
significato, ma non hanno condizioni di verità. Ciò è provato da Aristotele
mediante la scelta di un caso particolare: il termine "ircocervo"
(traghélaphos). Esso "si gnifica bensì qualcosa" (cioè una
commistione mostruosa tra un caprone e un cervo), ma non può essere detto vero
o falso. Il "qualcosa" a cui si riferisce qui Aristotele indivi dua
appunto la dimensione della semanticità pura, regolata da leggi diverse da
quelle della referenzialità. Al secondo tipo corrispondono, invece, quelle
entità che hanno la dimensione linguistica della proposizione: è quan do si
passa agli enunciati affermativi e negativi che diviene possibile parlare di
verità o di falsità. È solo in questo caso che diviene possibile parlare di
apofanticità come dimensio ne aggiuntiva (non contrappositiva) rispetto a
quella se mantica. Ma qual è il mezzo specifico per passare dalla
dimensio- LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE ne semplicemente semantica a
quella apofantica? Non ci sono dubbi che esso consiste nell'uso del verbo come
predi cato. Del verbo Aristotele valorizza essenzialmente la fun zione
predicativa, quando, parlando del giudizio, riduce il verbo a !copula +
predicatol: "non c'è differenza", sostiene egli infatti, "tra
dire: l'uomo cammina, e dire: l'uomo è camminante" (De int., 21 b, 9-10).
In effetti il verbo viene qui concepito come nome assunto in funzione
predicativa (Morpurgo-Tagliabue 1967: 62). Tuttavia, affinché il verbo possa
esplicare questa sua funzione occorre che esso sia congiunto a qualcos'altro
(cioè a un nome); preso da solo, cioè quando la sua funzio ne predicativa non
può dispiegarsi, esso non può affermare alcunché (De int., 16 b, 19-25).
L'incapacità del verbo preso da solo, ad affermare l'esi stenza di una certa
cosa (cioè a fare asserzioni) è dimostrata da Aristotele con il ricorso
all'esempio del verbo "essere": nemmeno esso preso da solo è capace
di affermare che una cosa è. Così commenta Eco (1984: 25): "Pertanto,
quando Aristotele dice che neppure il verbo essere da solo è segno
dell'esistenza della cosa, vuoi dire che l'enunciazione isola ta del verbo non
è indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa: perché il verbo possa
avere tale valore indiziale occorre che sia congiunto gli altri termini
dell'enunciato, il soggetto e il predicato (e quindi il verbo l essere l è
indizio di asserzione di esistenza, o di predicazione deli'inerenza attuale di
un predicato a un soggetto, quando appaia in contesti come lx è yl oppure lx èl,
nel senso di "x esiste di fatto)". 5.2 La teoria del segno 5.2.1 La
definizione Completamente irrelata rispetto alla teoria del linguag gio, in
Aristotele la dottrina del segno si pone nel punto di intersezione tra logica e
retorica e i segni sono trattati tanto nei Primi analitici quanto nella
Retorica. 5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 115 Allo stesso tempo, la nozione di
segno presenta due aspetti fondamentali: da una parte infatti ha un interesse
epistemologico e antologico, in quanto si configura come strumento di
conoscenza, che deve servire a condurre l'at tenzione dei soggetti conoscenti
a operare un passaggio da un fatto a un altro (Todorov 1977: 19; Simone 1969:
91); dall'altra ha un carattere prettamente logico, in quanto è dotato di un
meccanismo formale che presiede al suo fun zionamento. La definizione generale
del segno (smeion) è data nei Primi analitici (II, 70 a, 7-9). Di questo passo
esistono di verse traduzioni (Colli 1982: 252; Todorov 1977: 19 ecc.); ma
quella che sembra individuare nel modo più soddisfa cente il significato del
passo è quella di Preti (1956: 5): Quando, una cosa essendo, un'altra è, oppure
quando una cosa divenendo, un'altra diviene anteriormente o posteriormente,
queste ultime sono segni del divenire o dell'essere. La sottolineatura che
abbiamo effettuato intende mettere in risalto appunto la specificità
deIl'interpretazione di Pre ti, che restituisce al passo aristotelico tutta la
sua carica di problematicità e la complessità, che appunto gli ulteriori
sviluppi, a opera delle scuole successive, della dottrina del segno metteranno
in luce. Prima di tutto vediamo però ciò su cui tutte le interpreta zioni del
passo concordano, cioè che la nozione di segno proposta da Aristotele prevede
l'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo: il segno coincide press'a
poco con il rapporto di implicazione "p implica q", accezione,
questa, abbastanza comune della nozione di segno e che abbiamo già trovato
operante in altri ambiti, diversi dalla filosofia. Ma più precisamente, e
particolarmente in questa defini zione, il segno coincide con uno dei termini
dell'implicazio ne. L'interpretazione di Preti suggerisce che esso coincida in
particolare con il secondo termine, cioè suggerisce che la definizione
aristotelica vada letta nel senso che "q è segno di p": ora questa
definizione, che viene a configurare il rap porto segnico come "Se q,
allora p", comporta, ai fini della 116 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN
ARISTOTELE sua applicazione ad argomentazioni inferenziali, un'inver sione da
"p implica q" a "q implica p". È proprio questo fatto che
conferisce alla nozione di se gno il carattere di problematicità e che conduce
all'instau razione di un dibattito serrato e complesso in seno alle scuole
filosofiche postaristoteliche, anche se esse non fa ranno esplicitamente
riferimento ad Aristotele. D'alta parte, questo tipo di inversione sembra porsi
an che alla base della richiesta, ai fini della validità del segno, di
un'implicazione tra p e q più stretta di quanto non sia, a esempio, l'implicazione
materiale. Sembra, in sostanza, che già nella definizione aristotelica venga
richiesta la con dizione "Se non-q, non-p" ("q, o non-p"),
cioè esattamente quel tipo di implicazione stretta che verrà dagli stoici consi
derata necessaria per la validità del segno. Al di là di questo si deve anche
notare che nella defini zione (e in genere nell'intera trattazione) del segno
condot ta da Aristotele è riscontrabile un'ambiguità di fondo nel modo di
concepire i due termini del rapporto implicativo. Per un verso, infatti, essi
costituiscono dei fatti (o delle proprietà) (e non a caso una parola centrale
della definizio ne è tò pragma "il fatto"). Aristotele del resto dà
esempi di questo genere: "il mostrare che una certa donna è gravida
attraverso il fatto che essa ha il latte"; il segno è "l'aver lat
te", che appare appunto essere l'espressione di un fatto o di una
proprietà. Per un altro verso il segno è concepito come una proposi zione, in
quanto un segno può costituire la premessa da cui si sviluppa un sillogismo:
"Un segno, invece, vuole essere una premessa dimostrativa, o necessaria o
fondata sulla opinione" (An. Pr., II, 70 a, 6-7). In realtà, la
definizione di segno come proposizione, che può costituire una premes sa in un
ragionamento infcrenziale, è abbastanza centrale in Aristotele. Infatti il
ruolo fondamentale che egli attribui sce al smefon è proprio quello di essere
uno degli elementi che forniscono premesse a quel particolare tipo di siilogi
smo che è I'entimema. LA TEORIA DEL SEGNO 1 17 5.2.2 L'entimema e i segni
Nella nozione di entimema coesistono due aspetti com plementari, che la
tradizione successiva svilupperà talvolta separatamente. Da una parte
l'entimema può essere consi derato un sillogismo tronco, in cui una delle
premesse è mancante, perché ritenuta nota o ovvia.9 DalPaltra, l'enti mema
viene considerato un sillogismo che tende alla per suasione, e non alla
dimostrazione; in quanto tale non è ne cessario che le sue premesse siano
vere, ma soltanto che sia no probabili (hos epì tò poly). Aristotele sviluppa
esplicita mente il secondo aspetto delle definizioni parallele dei Pri mi
analitici (II, 70 a, 9-10) e della Retorica (1, 1357 a, 30- 32) . Dunque il
segno trova la sua principale applicazione nel l'ambito del discorso
persuasivo, ovvero retorico, dove, sotto forma di proposizione, entra nel
meccanismo dell'en timema e vi svolge il ruolo di "protasi", di
premessa. Ma, in quell'ambito, si profila una prima distinzione tra la no
zione di smeion e quella di eikos "verosimile" o "probabi
le"), pur imparentate per il fatto di poter figurare entrambe come
premesse negli entimemi. Ciò che contraddistingue la nozione di eikos è
essenzial mente il suo carattere probabilistico, che lo lega irrevoca
bilmente all'opinione, rimuovendolo in una zona del sapere piuttosto insicura,
lontano dalla possibilità di una dimo strazione scientifica. 5.2.3 L'inferenza
dal conseguente Per quello che riguarda la nozione di segno, la situazione è
diversa e senz'altro molto più complessa. In effetti il s meion non costituisce
una categoria semplice, bensì una classe composita che prevede al suo interno
tipi con carat teristiche molto differenziate tra loro. Ma, prima di porre
l'accento sulle differenze interne, è forse possibile osservare che qualcosa
unisce i vari tipi di segni rispetto alla nozione di eikos: invece che sulla
probabilità, nel caso del segno 118 5. LINGUAGGIO ESEGNI IN ARISTOTELE
l'attenzione è concentrata sul carattere di "consequenziali tà". Il
ragionamento inferenziale, basato sui segni, procede tipicamente ek ton
hepomén{Jn, "per conseguenze", tende cioè a inferire la causa
dall'effetto. Per questa ragione sono possibili sia applicazioni corrette sia
applicazioni inganne voli. ÈinparticolarenelleConfutazionisofistiche(167b,
1-5) che Aristotele sviluppa chiaramente la teoria del ragiona mento per
conseguenze: quest'ultimo porta a conclusioni ingannevoli come, a esempio, nel
caso in cui qualcuno, avendo osservato una volta che la terra è bagnata dopo la
pioggia, volesse concludere in generale che, se la terra è ba gnata, allora è
piovuto. Un secondo esempio di ragiona mento per conseguenze dato da
Aristotele concerne le pro prietà, anziché gli eventi, come avveniva in quello
prece dente: se qualcuno, avesse sperimentato che il miele ha la proprietà di
essere giallo e volesse conciudere che qualcosa è miele partendo dalla
proprietà che ha il colore giallo, cor rerebbe il rischio di scambiare per
miele il fiele (ibidem, 167 b, 6-8). In tale contesto Aristotele giunge a identificare
de cisamente questo tipo di inferenza con quello specifico del segno:
"Nei discorsi retorici, del pari, le dimostrazioni trat te da segni si
fondano sulle conseguenze" (ibidem, 167 b, 8- 9). È possibile a questo
punto tornare agli Analitici e com prendere meglio perché Aristotele proceda
innanzitutto alla distinzione fondamentale tra due tipi di segni: il tekmrion,
segno "necessario" o "inconfutabile",10 e il generico s
meion, che ha le caratteristiche opposte. In realtà quest'ultima distinzione
(che, come vedremo, comporta non solo due, ma tre tipi di entità, poiché vi
sono due specie di segni non necessari) corrisponde a un tentati vo di
Aristotele di articolare una tipologia dei segni alle modalità di sviluppo
possibile del sillogismo. Sono infatti tre i modi in cui il sillogismo può
utilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizioni
possibili del medio nelle varie figure. In questo modo si possono avere
inferenze che partono da un segno sulla prima, sulla secon da o sulla terza
figura. 5.3 n. MECCANISMO LOGICO 1 19 5.3 D meccanismo logico 5 . 3 . l
Il tekmérion come segno nella prima figura del sillogismo Prima però di entrare
nei dettagli tecnici di questa distin zione, vale la pena di rilevare
preliminarmente che ben di verso è il valore epistemologico che Aristotele
attribuisce al segno che si sviluppa in un sillogismo di prima figura, cioè il
tekmrion, rispetto a quelli che si sviluppano in seconda e in terza figura,
cioè i generici smefa. In realtà, nei due ultimi casi si verifica la tipica
illusione segnalatanelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5),cioèav viene di
credere che ci sia possibilità di conversione tra ra gione e conseguenza,
senza che questo sia di fatto giustifi cato: dunque, in questi casi,
l'inferenza dalle conseguenze alle cause è estremamente ipotetica e insicura.
Nel primo caso, invece, cioè con il tekmrion, si ha un ti po di inferenza che
parte anch'essa dalle conseguenze, co me dimostra l'esempio "se una donna
ha latte, allora essa è gravida", in quanto l'"avere latte"
costituisce sia una con seguenza dell'essere gravida, sia un segno di tale
fatto; tut tavia, al contrario che nei casi precedenti, sembra esserci
possibilità di conversione tra causa ed effetto; o, come sug gerivano le
osservazioni di Preti (1956: 6) riportate prima, sembra essere previsto da
Aristotele, in questo caso, un ti po di implicazione più stretta che non
l'implicazione mate riale. Possiamo vedere ora come Aristotele sviluppa
l'aspetto tecnico dei tre tipi di segno, partendo da quello in prima fi gura:
Ad esempio, il provare che una donna è gravida, in quanto essa ha latte, si
fonda sulla prima figura: il medio è infatti l'aver lat te. Poniamo che A
indichi "esser gravida", che B indichi "aver latte", che C
indichi "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 12-16)11 120 5. LINGUAGGIO
E SEGNI IN ARISTOTELE Traducendo il ragionamento di Aristotele nel comune schema
illustrativo del sillogismo, si otterrà: 8 "chi ha latte" c
"donna" c "donna" In questo esempio il segno "avere nello
schema sillogistico come noi ma è anche il termine intermedio dal punto di
vista esten sionale, tanto che potrebbe essere costruita la seguente fi gura
per illustrare i rapporti tra i termini del sillogismo: A essere gravida l . A
"essere gravida" 2. 8 "avere latte" si predica di si
predica di 3. A sipredicadi "essere gravida" latte" non solo è
medio lo abbiamo riportato, 5.3 n MECCANISMO LOGICO 121 5.3.2 La
seconda e la terza figura del sillogismo e i "semeia" Nella seconda e
nella terza figura il termine medio è il le game che consente Pinferenza, ma
non occupa, né nella formula né estensionalmente, la posizione centrale. Questo
fa sì che l'etichetta di "maggiore" e "minore" sia
"arbitra ria nella seconda o nella terza figura, a qualunque dei due
termini si voglia dare il nome di maggiore o minore" (Allan 1970: tr. it.
1973, 123). Del resto è indubbio che il punto di vista adottato da Aristotele
nella trattazione che egli fa delle premesse sia quello estensionale. Legata a
questo punto di vista è di cer to la svalutazione della seconda e della terza
figura. Passiamo ora ad analizzare il tipo di segno che si svilup pa in un
sillogismo basato sulla seconda figura: "Se una donna è pallida, allora
essa è gravida". Questa è l'analisi di Aristotele: Infine, la presunta
prova che una donna risulta gravida, in quanto è pallida, si sviluppa
attraverso la seconda figura. In realtà, dato che il pallore è una
determinazione conseguente delle donne gravide, e che tale determinazione
appartiene altre si a una certa donna, si crede allora provato che questa
donna sia gravida. Indichiamo con A "la nozione di pallore", con B
"l'essere gravida" e con C "donna". (An. Pr., Il, 70 a,
20-24) Lo schema che può essere costruito in corrispondenza di questo
sillogismo è il seguente: l . 2. 3. A "essere pallida" A "essere
pallida" 8 si predica di si predica di si predica di 8 "chi è
gravida" C "questa donna" C "essere gravida"
"questa donna" 122 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE In
questo caso il segno "essere pallida", che è anche il medio, ha la
posizione di un estremo e si predica contem poraneamente dei due termini
"essere gravida" e di "donna". 12 Aristotele condanna
questa inferenza come non valida. Come si può osservare, ci ritroviamo qui di
fronte al ca so più emblematico di inferenza tratta dalle conseguenze. Una
conferma di questa condanna la si trova anche nel pas so corrispondente della
Retorica (1, 1357 b, 17-21): "Se uno respira rapidamente è segno che ha la
febbre". Anche que sto esempio di segno dà origine a un sillogismo sulla
secon da figura, in cui il medio, "respirare rapidamente", ha la
posizione dell'estremo maggiore e si predica di entrambi i termini "avere
la febbre" e "uomo". Nella definizione di questo tipo di segno
data nella Reto rica vengono aggiunte due particolarità interessanti rispetto
a quella presentata negli Analitici: (i) la prima è che il se gno è
confutabile anche se esso risultasse vero (kàn althès i1): viene dunque
prevista la possibilità di costruire un'infe renza che risulti conforme alla
verità, anche se questo è so lo un caso, si direbbe, accidentale; ciò deriva
dal fatto che il sillogismo èformalmente scorretto, ma ci sono casi in cui esso
porta, nonostante tutto, a conclusioni materialmente vere (Plebe 1966); (ii) la
seconda particolarità consiste nel l'accennare al fatto che questo tipo di
segno instaura una relazione "dall'universale al particolare": ciò è
probabil- mente da mettersi in relazione al fatto che è proprio il ter mine
estensionalmente maggiore a svolgere la funzione di medio, e che si predica
prima di una classe, poi di un indi viduo . Vediamo ora un segno dal quale si
sviluppa un sillogismo basato sulla terza figura. Ecco la definizione che ne
viene data negli Analitici: D'altro canto la presunta prova che i sapienti sono
eccellenti - poiché Pittaco è eccellente - si costruisce attraverso l'ultima fi
gura. Poniamo che A indichi "la nozione di eccellente", che B indichi
"i sapienti", che C indichi "Pittaco". Risponde in tal ca
so a verità il predicare di C tanto A quanto B; senonché la pre- 5.3 IL
MECCANISMO LOGICO 123 messa BC non viene enunciata, perché risaputa, mentre
Paltra è assunta espressamente. (An. Pr., II, 70 a, 16-20) Il segno, più
precisamente, è la protasi del condizionale "Se Pittaco è eccellente, i
sapienti sono eccellenti " . Su di es so si sviluppa un sillogismo che
può essere rappresentato dalla formula: l . 2. 3. A si predica di "essere
eccellente" c "Pittaco" c "Pittaco" 8 "chi è
sapiente" 8 "essere sapiente" si predica di A si predica di
"essere eccellente" In questo caso il medio è "Pittaco",
che ha la posizione del termine minore estensionalmente. Anche il sillogismo
costruito su questo tipo di segno vie ne condannato in quanto confutabile
(/jsimos). Del resto Aristotele aggiunge che esso rimane confutabile (come
quello in seconda figura) anche nell'evenienza in cui esso conduca a una
conclusione accidentalmente vera. Inoltre, nel passo parallelo della Retorica
(I, 1357 b, 10-11), viene precisato che esso instaura un rapporto che va
"dal partico lare all'universale"; anche in questo caso è la
posizione del medio, che qui è il termine estensionalmente minore, a sug
gerire questa determinazione ad Aristotele; in effetti si par te dalla
proprietà di un individuo particolare per conclude re che tale proprietà
appartiene a un'intera classe di cui l'individuo fa parte. 5.3.3 La
classificazione Una volta stabilita una distinzione fra i tre tipi di segno
sulla base della posizione che prende il medio in ciascuna 124 5.
LINGUAOOIO E SEGNI IN ARISTOTELE delle figure, Aristotele procede a una
ricapitolazione gene rale, dove consolida le distinzioni terminologiche e
ribadi sce la diversità della potenza conoscitiva in relazione a cia scun
tipo: il nome tekmirion ("indizio sicuro", "prova") viene
riservato a quei segni che prendono realmente la posi zione del termine
intermedio (cioè in cui il termine è medio anche dal punto di vista
estensionale, sul quale si sviluppa un sillogismo in prima figura); invece il
nome generico s meion viene lasciato a quei segni che all'intero sillogismo
hanno la posizione di un estremo (sui quali cioè si svilup pano delle
inferenze in seconda e terza figura) (An. Pr., Il, 70b, 1-6). Rispetto a quanto
abbiamo già detto, è necessario ag giungere una precisazione sulla nozione di
éndoxon, che ca ratterizza nel massimo grado il sillogismo basato sul· tekmi
rion. In effetti nei Topici Aristotele precisa che i sillogismi dia lettici
che danno il massimo di garanzia sono i sillogismi che derivano da premesse che
sono degli éndoxa. Vengono poi definite éndoxa quelle proposizioni che sono
"condivise da tutti o dai più o dai sapienti, e tra questi da tutti, dai
più o dai più noti e famosi" (Top., l, 100 b, 21-23). Sono queste, del
resto, le condizioni che permettono di confermare dialetticamente una tesi
(Viano 1958 a). Il passo parallelo della Retorica propone un'analoga
classificazione che distingue tra il segno necessario (anan kaion),
corrispondente al tekmjrion, e il segno non neces sario m anankaion), corrispondente
al generico s meion, 3 e ulteriormente suddivisi in "segno che si trova
in rapporto dali'universale al particolare" (da mettersi in rela zione ai
segni in seconda figura del sillogismo) e "segno che si trova nel rapporto
del particolare ali'universale" (da met tersi in relazione ai segni in
terza figura). La classificazione aristotelica può allora essere disposta sullo
schema della pagina seguente: premesse da cui derivano gli entimemi
/ eik6s smelon (segno) ("probabile", "verisimile") -
è tmdoxon ("fondato sulla opinione") es.: "è amato -ama" ·è
invidioso -detesta• m'S snsnkslon ("'non necessario") - è
éndoxon ("fondato sulla opinione") snsnkslon (..necessario")
tekm"érion ("prova") - è IJ/yton (..inconfutabile·) - è il medio
di un sillo- gismo in 1 • figura es.: ..essa ha latte-è gravide" "ha
la febbre -è malata" t6 ksth ' kéksston pr6s t6 ksth61on ("dal
particolare all'universale") rl) ksth6/on pr6s rl) kstll méros (
·dall'universale al particolare") - è lyron (..confutabile") - è
medio in un sillogismo - è lyton (..confutabile") - è medio in un
sillogismo in 3• figura es.: "Pittacco è giusto-i sapienti sono
giusti" in 2• figura es.: ..respira rapidamente-ha la febbre" "è
pallida -è gravido" LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.4 Un sistema
particolare di segni non linguisti ci: la fisiognomica La particolare
concezione che Aristotele ha del segno, come cosa o fatto che serve a condurre
l'attenzione del sog getto conoscente su un'altra cosa o fatto, permette di
por tare in primo piano un tipo di conoscenza che si ottiene in modo
indipendente dal linguaggio verbale. Ciò conduce a un'evidente valorizzazione
dei sistemi di segni non lingui stici . Aristotele, infatti, nei Primi
analitici, dopo aver esposto la teoria del segno, propone un'interessante,
quanto curio sa applicazione a un tipo di segni molto speciali: quelli del la
fisiognomica. Neli'esempio dato si tratta di risalire da un segno visivo a un
tratto del carattere: le grandi estremità del leone vengo no assunte come
segno del suo coraggio. Tutto l'interesse di Aristotele è concentrato su due
punti: da una parte egli tende ad acquisire una conoscenza circa l'ordine
psichico partendo da un fatto rilevabile attraverso i sensi; dall'altra tende a
stabilire il legame più stretto pos sibile tra due fatti che l'esperienza gli
mostra associati (in questo caso: grandi estremità e coraggio), come presuppo
sto dell'affidabilità stessa della conoscenza. Per dare validi tà al suo
esempio di fisiognomica Aristotele propone di fa re tre assunzioni: 1 4 (i)
che "le affezioni naturali trasformino simultaneamente il corpo e
l'anima"; (ii) che vi sia un solo segno di un unico fatto, cioè
dell'affezione dell'anima che deve essere scoperta; (iii) che ogni genere abbia
un'affezio ne propria e un proprio segno (fdion [... ] semefon). Come si può
osservare, Aristotele, con queste assunzio ni, tenta di razionalizzare e di
dare dignità filosofica a una materia che era eminentemente mantica. Qui non
c'è più la divinità che garantisce la corrispondenza fra un tratto per
cepibile dell'aspetto fisico e qualcosa che si inscrive nell'or dine
dell'invisibile (sia esso il carattere di un uomo o più generalmente il destino
legato a quel carattere). Per Aristo tele vi può essere corrispondenza fra un
tratto fisico e un LA FISIOGNOMICA 127 aspetto interiore perché qualsiasi
affezione trasforma con temporaneamente corpo e anima, proprio come avviene
nel caso di chi ha imparato la musica, che si è trasformato non solo
nell'abilità fisica di suonare, ma anche nella sua sensi bilità interna. Ma
come avveniva per la mantica, in questa materia si può correre il rischio
deli'ambiguità. È proprio per elimina re quest'ultima evenienza che Aristotele
propone le sue ul teriori assunzioni. Infatti l'ambiguità si può verificare in
due casi distinti: (i) quando si hanno molti segni che riman dano a un'unica
affezione (fenomeno che potremmo avvi cinare alla sinonimia): l'unico rimedio
epistemologico è, in questo caso, assumere che i segni siano univoci, cioè che
un unico fatto sia significato da un solo segno; (ii) quando un genere abbia
più affezioni, in maniera tale che si rimane in decisi su quale sia quella a
cui rimanda il segno (fenomeno che potremmo avvicinare all'omonimia): la
soluzione pro posta da Aristotele è quella di stabilire per ogni genere qua
le sia l'affezione che gli è propria e quale il segno proprio, in maniera da
riferire quest'ultimo univocamente alla prima. Stabilendo preliminarmente le
tre precedenti assunzioni è possibile per Aristotele fare della fisiognomica
una scienza. E, rispettando appunto queste assunzioni, è possibile stabi lire
che per il leone le grandi estremità sono il segno del co raggio (An. Pr., II,
70 b, 16-17). Fin qui abbiamo seguito Aristotele nel suo ragionamento che si
svolge su un piano, per così dire, deduttivistico. È possibile ricostruire,
però, anche un altro versante dell'ar gomentazione che si colloca
geneticamente in un momento in cui la regola deduttiva non è ancora stata
posta. In effet ti è possibile pensare a un momento in cui si osserva che una
certa affezione, il coraggio, è associata al genere dei leoni;
contemporaneamente si osserva che ai leoni è asso ciata la caratteristica di
are grandi estremità. A questo punto viene formulata l'ipotesi che il segno del
coraggio sia rappresentato dal possesso di grandi estremità. Il processo logico
che verrebbe qui a configurarsi segui rebbe lo schema: 128 5. LINGUAGGIO
E SEGNI IN ARISTOTELE l. "essere coraggiosi" 2. "avere grandi
estremità" 3. "essere coraggiosi" (probabilmente) si predica di
si predica di si predica di "leoni, "leoni" "chi ha grandi
estremità" Un sillogismo in 3a figura, come è questo, secondo Peir ce
costituirebbe una induzione, ma di un tipo talmente "ti mido da perdere
totalmente la caratteristica ampliativa pro pria dell'induzione genuina"
(1984: 210). Esso avrebbe un forte carattere ipotetico. Tuttavia Aristotele non
segue in effetti questo ragiona mento perché non riesce ad accettare come
valido dal pun to di vista logico un procedimento che risulta privo di ga
ranzie. Così è costretto a inquadrare questo, si noti bene, quanto mai
aleatorio segno del coraggio in uno schema an cora una volta deduttivo. In
altre parole, l'osservazi,"ne deli'associazione tra coraggio e grandi
estremità deve tra mutarsi in un legame stretto e costante. Lo sforzo di Ari
stotele è tutto rivolto a dimostrare che ogni volta che ci sia coraggio, questo
venga manifestato dalla presenza di gran di estremità, e viceversa. In termini
tecnìci, la situazione ideale, cioè il massimo della certezza, si ottiene
quando si verifica conversione (antistréphein) tra ciò che funge da se gno e
ciò a cui esso rimanda, ovverosia quando l'estensione del primo termine è
esattamente uguale a quella del secon do. Da qui la necessità (puramente
logica, e non semiotica) che un unico segno si riferisca a un'unica affezione:
solo in questo modo è possibile la conversione tra i due termini. A questo
punto il problema di fare un'ipotesi su quale sia il segno del coraggio si
trasforma in quello di trovare un elemento di mediazione tra il
"coraggio" e il "genere dei leoni", che ne appaiono
costantemente provvisti. Tale elemento di mediazioneJ che sembra appunto giusti
ficare l'associazione, è "avere grandi estremità", che divie ne così
il segno, sul quale viene costruito il seguente schema sillogistico deduttivo
(An. Pr., II, 70 a, 32-38): SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEONICO 129 A si
predica di B "essere coraggioso" "chi ha grandi estremità"
B si predica di c 2. 3. A si predica di c "avere grandi estremità''
"leone" "essere coraggioso" "leone" Ma ciò che
Aristotele trascura di mettere in luce è che, come abbiamo visto, i dati di
partenza della deduzione stes sa poggiano su una precedente inferenza a
carattere più ipotetico. L'esempio proposto è interessante perché, prima della
presentazione dello schema formale, tutto il ragiona mento è rivolto a
stabilire i criteri che permettano di dire che qualcosa è segno di
qualcos'altro. Ma ciò è possibile solo formulando un'ipotesi, che solo in
seguito può essere verificata deduttivamente. 5.5 La svalutazione del sapere
segnico In effetti la diffidenza di Aristotele nei confronti della conoscenza
che si può ricavare dai segni è molto marcata. Infatti, nella concezione
aristotelica, anche quando tra i due termini del segno vi sia un legame
necessario, la cono scenza del termine non noto sembra imporcisi dall'esterno,
senza che si riesca a comprenderne la causa. Aristotele nei Secondi analitici
(1, 75 a, 28-36) oppone il ragionamento basato sull'essenza a quello basato
sulsegno; quest'ultimo infatti viene definito come ragionamento che si fonda
sulle determinazioni accidentali. Ne consegue, peraltro, che soltanto con il
primo tipo è possibile arrivare a conoscere la causa. Ciò non significa che la
conoscenza attraverso il segno sia totalmente esterio re. In certi casi, che
sono quelli dei segni necessari, il segno permette di risalire alla causa: così
la constatazione del fat to che una donna ha latte permette di risalire alla
causa, cioè al suo essere gravida, come pure l'accertamento della 130 5.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARlSTOTELE presenza della febbre permette di risalire
allo stato di ma lattia che la determina. Tuttavia questo tipo di ragionamento
non arriva a forni re una vera e propria scienza dei fatti, in quanto
quest'ulti ma si ottiene solo a partire dalla causa. Il ragionamento at
traverso il segno parte invece dall'effetto e permette soltan to
l'affermazione del fatto, cioè dello h6ti ("che"), senza condurre
alla comprensione delle cause, cioè del di6ti ("perché"). Nel
capitolo 13 dei Secondi analitici Aristotele insiste sul fatto che la
dimostrazione veramente scientifica non consi ste nella scoperta o nella
conclusione della causa, ma essa è scientifica proprio in quanto parte dalla
causa; in quel con testo viene infatti fondata la distinzione tra "il
sapere che qualcosa è" e "il sapere perché qualcosa è". In
effetti alle scienze dello h6ti viene riconosciuto un cer to diritto di
esistenza; tuttavia esse vengono considerate in feriori in quanto portano sui
fatti, senza raggiungere la co noscenza del necessario e a malapena quella
dell'universale. Ma quali sono queste scienze dello hoti? Dagli esempi che
Aristotele fornisce si direbbe che si tratta eminentemente di scienze
indiziarie, basate sui segni e fornite di un carattere fortemente ipotetico in
contrapposizione ad altre che invece hanno carattere deduttivo. Tra questi
esempi Aristotele cita il caso dell'astronomia (astrologhfa), nome condiviso
sia da una certa scienza nau tica (nautik) sia da una scienza basata su
fondamenti ma tematici (mathmatik). Solo la seconda è scienza delle cau se.
Ugualmente Aristotele contrappone la medicina alla geometria: infatti, nel caso
delle ferite circolari, spetta al medico di sapere che esse guariscono più
lentamente, men tre spetta all'esperto di geometria conoscere il perché di
questo fatto. Dunque abbiamo medicina e scienza della navigazione contro
matematica e geometria: il senso della scelta aristo telica contro il segno
non potrebbe essere più chiaro. È interessante osservare come per Aristotele
sia possibile anche sviluppare un ragionamento dello hoti oppure uno del dioti
all'interno di una stessa scienza. La differenza che 5.5 SVALUTAZIONE DEL
SAPERE SEGNICO 131 contraddistingue i due tipi è duplice. Infatti si fa un
ragio namento dello h6ti, in primo luogo, quando il sillogismo non si basa su
premesse immediate (che, nell'epistemologia aristotelica, significa assumere la
causa prima e prossima); in secondo luogo, quando, pur basandosi su premesse im
mediate, la deduzione non discende dal termine che indica la causa di un fatto,
ma dal più noto di due termini, en trambi riferiti al fatto. In altre parole,
la differenza specifi ca del sillogismo del dioti è ancora che esso va dalla
causa ali'effetto e non dali'effetto alla causa. L'esempio che Aristotele
fornisce è molto interessante. Posto, infatti, che c'è una certa relazione tra
il non sfavilla re dei pianeti e la loro vicinanza alla terra, Aristotele mo
stra come attraverso questi due termini sia possibile svilup pare due tipi di
ragionamento di diverso valore epistemolo gico . Da una parte è infatti
possibile dedurre la vicinanza dei pianeti dal fatto che non sfavillano (''Se
non sfavillano, so no vicini"). Si ha in questo caso un ragionamento
dello hoti e si può osservare che in questo contesto il "non
sfavillare" è tipicamente un segno del fatto che risulta come conclusio
ne, cioè la loro "vicinanza" alla terra. Il sillogismo costruito sul
segno non parte dalla causa del non sfavillamento dei pianeti (che è costituita
dalla loro vi cinanza), ma parte dell'effetto, che viene assunto come ter
mine medio, per arrivare alla causa. È possibile anche che la causa non venga
mai realmente conosciuta. Aristotele contrappone a questo tipo di ragionamento
quello che deduce il non sfavillamento dei pianeti dalla loro vicinanza. Si ha
in questo caso un ragionamento del dioti, che mostra il perché qualcosa sia,
dal momento che coglie la causa precisamente in quanto causatrice dell'effetto;
for malmente ciò avviene in quanto viene assunto come medio proprio il termine
che indica la causa. Dunque tra il sillogismo del dioti e quello dello hoti c'è
un rapporto di simmetria inversa. È sufficiente infatti in vertire i termini
del secondo per ottenere il primo. Tuttavia ciò non è sempre possibile, come
precisa il com mentatore del testo aristotelico Filopono: 132 5.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Spesso è necessario che, quando viene posta la
causa, anche l'effetto sia posto, mentre non è affatto necessario che, quando
si dà l'effetto, anche la causa si dia: così il fatto di avere il co lorito
pallido non si accompagna necessariamente al parto, ma se una donna ha
partorito, essa ha sempre il colorito pallido: infatti possono esserci varie
cause del medesimo fatto. (Philop., in Anal. Post., Wallies, 169-9)
L'aleatorietà del procedimento inferenziale tipico del se gno (dal pallore al
parto) viene qui messa in risalto preve dendo il caso che un effetto possa
avere molteplici cause, situazione nella quale, secondo Filopono, non potrà
essere costruito un vero sillogismo dello h6ti, ma soltanto un sil logismo del
di6ti. Del resto, Aristotele stesso aveva previsto il caso che un effetto
potesse avere cause differenti,15 che rendono difficile e aleatorio il percorso
di risalita dali'effet to alla causa. D'altra parte, però, secondo il
con1mentatore Filopono, si può verificare anche il caso opposto, quello cioè in
cui sia possibile soltanto un ragionamento dello h6ti. Infatti è possibile
risalire dal fatto che una donna ha partorito (co me effetto e segno) al fatto
che essa si è unita a un uomo (come causa): ma la reciproca non è necessaria,
poiché il parto non segue necessariamente all'accoppiamento (Phi lop., in
Ana/. Post., Wallies, 169-21). C'è infine un'ultima caratteristica che
contraddistingue il ragionamento dello h6ti da quello del di6ti, consistente
nel fatto che il primo è tipico del emplice osservatore dei feno meni, non
specialista, mentre il secoildo spetta all'uomo di scienza (An. Post., I l, 79
a, 2-3). In Aristotele, in definitiva, le scienze indiziarie e il segno in
generale sono oggetto di una svalutazione epistemologi ca, in quanto nella sua
concezione teorica della scienza non viene fatto alcuno spazio alla ricerca e
all'ipotesi, quale è presupposta invece da una concezione semiotica del sapere.
Come sottolinea Le Blond (1939, tr. it. 1973: l 05), per
Ari stotele la scienza "n'est elle pas principalement recherche, mais
possession; les Analytiques n'apportent guère d'indi cations sur la recherche:
il décrivent la science achevée, qui 5.6 DEDUZIONE E ABDUZIONE 133
descend des causes aux effets et coincide absolument avec le dynamisme des
choses - conception singulièrement con fiante, on le voit, qui pose en
principe la connaissance par faite de la réalité". 5.6 Deduzione e
abduzione Non si deve tuttavia pensare che questa posizione teorica corrisponda
esattamente alla pratica di ricerca adottata di fatto da Aristotele, a esempio
nelle opere scientifiche. Né, d'altra parte, si deve accettare enza riserve
l'asserzione ari stotelica circa il carattere assolutamente deduttivo delle
scienze del di6ti. Come ha mostrato Eco (1983: 242), per Aristotele trovare il
perché di un certo fenomeno significa trovare un buon termine medio che spieghi
quel fenomeno: ma questo termine medio può essere, in certi casi, anche molto
ardito e sofisticato, e non corrispondere a nessuna conoscenza già accertata.
Esso può essere, cioè, una "ipote si" nel senso peirceano. È
illuminante, a questo riguardo, il ragionamento svilup pato da Aristotele nel
trattato Parti degli animali, in cui, a proposito degli animali provvisti di
corna, vengono regi strati alcuni "fatti sorprendenti" bisognosi di
spiegazione. A esempio: (i) che tutti gli animali con le corna hanno una sola
fila di denti, cioè mancano degli incisivi superiori (663 b - 664 a); (ii) che
tutti gli animali con le corna hanno quat tro stomaci (674 a-b); (iii) che
tutti gli animali con quattro stomaci mancano degli incisivi superiori (674 a)
ecc. Il problema che ha di fronte Aristotele, in questo caso, è quello di
spiegare la ragione per cui, innanzitutto, agli ani mali con le corna mancano
gli incisivi superiori. Come sot tolinea Eco, Aristotele "deve porre una
Regola tale che, se il Risultato che vuole spiegare fosse un Caso di questa Re
gola, tale Risultato non sarebbe più sorprendente'' (1983: 239). E del resto,
secondo Peirce, quando una circostanza "strana" si spiega supponendo
che essa sia il caso di una certa regola 0enerale, siamo di fronte a un'ipotesi
o abdu zione . 134 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Proprio in questi
termini procede Aristotele, supponen do che, nel caso considerato,
probabilmente, la materia du ra è stata deviata dagli incisivi superiori alla
testa con lo scopo di formare le corna. A sua volta, la mancanza di in cisivi
superiori è causa dello sviluppo di un quarto stomaco ed è il medio dal quale
si sviluppa un ulteriore sillogismo. Espresso nei termini del sillogismo (nella
formalizzazione peirceana adottata da Eco) il primo ragionamento si rico
struisce così: Regola = Tutti gli animali devianti (cioè che hanno deviato la
materia dura dalla bocca alla testa) mancano degli in cisivi superiori.
Caso=Tutti gli animali con le corna hanno deviato. Risultato = Tutti gli
animali con le corna mancano degli in cisivi superiori. La "deviazione
deUa materia dura" costituisce contem poraneamente il medio del
sillogismo e la spiegazione del fenomeno. Quello che Eco mette giustamente in
risalto è che lo sforzo di spiegare a titolo ipotetico perché un feno meno è
così come è, costruendo una forma rigorosamente deduttiva, non differisce in
niente da ciò che Peirce chiama abduzione: in ciascuno dei due casi c'è un
lavoro su ipotesi che permettono di spiegare fenomeni che appaiono "sor
prendenti " . L'idea di Eco, in sostanza, è che al di sotto e prima del li
vello deduttivo preso in considerazione da Aristotele esista un livello
abduttivo che Aristotele rifiuta di riconoscere, ma al quale ricorre nel caso
che debba costruire delle defi nizioni scientifiche: definire il perché di un
fatto sorpren dente "significa stabilire una gerarchia di collegamenti
cau sali per via di una sorta di ipotesi che può essere convalida ta solo
quando dà luogo a un sillogismo deduttivo che agi sce come previsione di
successive modifiche" (ibidem, 241). Ed è in definitiva proprio il mancato
riconoscimento di questo movimento inferenziale preliminare che vieta ad
Aristotele di riconoscere il carattere ipotetico della scienza e, nel contempo,
la produttività dello stesso sapere segnico. 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO
E LA SEMIOTICA DEGLI STOICI 6.0 Introduzione La scuola stoica è quella che
nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione
semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av
venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di stinti tra di loro:
da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche
un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza
della terna "significante", "significato", "oggetto
esterno"); dal l'altra, una teoria del "segno" proposizionale,
connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica
trovano però un pun to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame
con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica
stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la speciale
dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere
"corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata).
Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in
considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere
oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem po.
Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi derati esistenti. Ora,
tanto nella teoria del linguaggio, quan to in quella del segno proposizionale,
accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità
incorporee, quali i lekta. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI Per il
momento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo
concerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate
semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una
"esistenza derivativa'' (Long 197I a: 89-90). Il secondo pos sibile
equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra riamente a quello che ci
attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano
"corpi" an che le qualità, in quanto venivano considerate come
materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi tuiscono
stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza
di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto
disposizioni esistenti di materia (Rist I969: 52-55). Si profila, a questo
punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di
"particolare": quest'ultimo viene carat terizzato come un oggetto
materiale, che ha una forma defi nita come condizione necessaria e sufficiente
della sua esi stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un
oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long I97I a: 76). È proprio su
questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria
semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della
verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei
"particolari", ed è con nesso a una teoria della percezione. Così,
si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im magini (phantasfa1)
prodotte nella mente dagli oggetti ester ni danno luogo a una percezione vera
se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto,
le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si gnificato degli
stoici, come si sa che avevano una parte im portante anche nella teoria del
significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come
fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un "particolare"
è quello di identificarlo linguisticamente. In questo caso è fondamentale
l'abilità di A nel comunicare a B che sta par lando intorno a X, come pure
l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il suo riferimento.
6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 137 6.1 La teoria del linguaggio 6 . 1 . 1 Il
triangolo semiotico Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fon
damentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che
concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante
sottolineare che per gli stoici una teoria del la verità, cioè la ricerca
delle basi per una verifica delle pro posizioni, non può essere elaborata in
maniera indipenden te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che
può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto
il vero e il falso nella cosa "significata" (tò smainomenon), altri
nella voce (phon), altri infine nel mo vimento del pensiero. Della prima
opinione sono stati i porta bandiera gli stoici col sostenere che sono tra
loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò smainomenon), quella
signi ficante (tò smafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn
chanon), e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la
parola "Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autò
tò pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi
percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero
(dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo
compren dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di
noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce
e ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggetto
significato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o
falso. 2 (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12) A partire dalle notizie di
Sesto, anche per gli stoici il fe nomeno della significazione linguistica può
essere ricostrui to nei termini di un triangolo (cfr. p. 138). Si può
osservare che compaiono i termini "significante" e
"significato" (come è dato trovare anche nella teoria mo derna di
Saussure), ma non quello di "segno": come anche 138 6. LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI slmsin6menon (significato) lekt6n (
detto) tmsm lnon (aignificente) tynchAnon in Aristotele, la nozione
di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello
strettamente linguisti co. Si può notare anche che l'esempio che viene dato
qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro prio. In
secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano
la significazione sono tre e com prendono anche l'oggetto, che propriamente è
esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo
parziale: soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si gnificante e
l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. 6. 1 .2 Il
"lekt6n" come "asserzione" Un caso assolutamente a sé
costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo,
chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se
conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del
linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande
interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un
confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente) LA TEORIA
DEL LINGUAGGIO Nella stessa posizione del triangolo della significazione Ari
stotele poneva delle entità psicologiche, che venivano consi derate le
medesime per tutti gli uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel
passo riporta to, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur
udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren dono . Come rileva Todorov
(1977: 17-18), la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto
che, mentre l'en tità presa in considerazione da Aristotele si situa a livello
della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si si- tua
direttamente al livello del linguaggio: Todorov interpreta il lekt6n come la
capacità del primo elementodi designare il terzo. Tale interpretazione poggia
anche sul fatto che l'e sempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di
de signazione come gli altri nomi, ma è molto controverso se abbia un senso;
la risposta che di solito si dà a questo inter rogativo è negativa. I barbari
odono sicuramente la sequenza di suoni l Dio ne l e vedono l l Dione l l, ma
sono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento.
Comprendere, dun que, come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste pro
prio nel percepire la connessione tra la parola che viene pro nunciata e
l'oggetto cui si riferisce. Anche Long (1971 a: 77) identifica il lekt6n con
tale connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che un
enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la tra duzione
più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressione
copre sia la nozione di "giudizio" che quella di "stato di cose
significato da una parola o da una serie di parole".3 L'idea che i lekta
si potessero configurare come "affer mazioni intorno agli oggetti"
emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae mora/es, 1 17, 13), in cui
viene delinea to uno schema triadico della significazione analogo a quello di
Sesto, ma con una proposizione ( l Catone cammina l ), laddove Sesto proponeva
solo un nome ( l Diane l ). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di
riferimento, cioè Cato ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno
a esso 140 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI ( l Cato ambulat l ),
che è un "incorporale". Tale asserzione è propriamente il lekton, del
quale termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: enuntiatum
("enunciazione"), effatum ("affermazione"), dictum
("asserzione"). Dato che l'esempio proposto da Seneca è una
proposizio ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come
possa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4
Infatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com pleta possono
essere veri o falsi.5 6. 1 .3 I rapporti tra il "lekt6n" e il
pensiero Nel modello aristotelico della significazione le espressioni
linguistiche sono i simboli degli stati psichici (pathmata en tiipsychi1) elo
dei pensieri (noimata). In questo modo non viene operata una chiara distinzione
tra la nozione di "si gnificato" e quella di "pensiero".
Tale concezione ricompa re del resto nella nota teoria novecentesca di Ogden e
Ri chards (1936: tr. it. 37), i quali disegnano un triangolo se miotico in
cui figura al vertice superiore la nozione di "thought"
("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In
effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene si ricava una
nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente
con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto: [Gli stoici]
affermano che il /ekton è ciò che sussiste in confor mità con una
rappresentazione razionale (loghik phantasia) e che una rappresentazione
razionale è quella secondo cui il rap· presentato (phantasthén) può essere
espresso in parole. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70) In termini del tutto
analoghi si esprime Diogene (Vitae, VII, 63), usando anche le stesse
espressioni. Cosi, da en trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici
operassero una distinzione netta tra i lekta, che rappresentano il livello del
"significato", e le "rappresentazioni razionali"
(loghikaì 6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 141 phantasfa1), che possiamo
definire come delle forme di atti vità intellettiva o dei pensieri;
quest'ultime entità sono pe culiari della specie umana6 e possono,
ali'occorrenza, essere espresse in parole (a questo infatti si riferisce
l'aggettivo lo ghikaf). Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che i
due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione. Long (1971 a: 82) cosi commenta il passo di Se sto: "I take this
difficult passage to mean that the /ekton is defined as the objective content
of acts of thinking (no sis)" e aggiunge anche "or, what comes to the
same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di ap
profondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla
prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero è
tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Ma
questa nuova relazione, che ve niamo scoprendo attraverso le testimonianze di
Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lo
stessoSestoavevadettoaltrove(Adv.Math.,VIII, 11-12), quando aveva messo in
relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In
effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in
conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen to
appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto
con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente
contraddizio ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degli
esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici.
Come mette bene in evidenza Mignucci (1965: 92-93), i lekta, essendo
incorporei, "non possono essere disgiunti da qualcosa di corporeo che
faccia in qualche modo da sup porto ad essi e che permetta la loro
esprimibilità". Il proble ma diviene allora quello di stabilire se a fare
da supporto ai lekta siano: (i) i suoni della voce; o (ii) l'attività della
mente che li pensa. La prima definizione di Sesto7 opta per la solu zione
(i),9mentre la seconda,8 come pure la definizione di Diogene, optano per la
soluzione (ii). Ugualmente, tra gli LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI
interpreti moderni, Mates10 risponde che sono le parole a fare da supporto ai
lekta; Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo,
questo è un falso dilemma, non resolu bile tuttavia filologicamente, in quanto
nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno
dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du plice
presupposto che sembra agire nella teoria stoica: da un lato il verificarsi di
discorsi significativi rimanda a un'at tività intellettuale, in assenza della
quale non è possibile che si diano i significati; dall'altra il risultato
dell'attività intel lettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per
esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con seguenze dal
fatto che i lekta siano definiti da una parte co me contenuti delle
rappresentazioni razionali e dali'altra come significati delle parole:
conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra
i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si
gnificati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere
disgiunti l'uno dall'altro.13 A questo punto possiamo comprendere la seconda
asserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e
il contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la
stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è
dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la
phantasia ha un ruolo assoluta mente primario, in quanto non è possibile,
senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della cono
scenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e
l'attività di pensiero (n6sis): "infatti la rap presentazione viene per
prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime
in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della
rappresentazione". Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no
zione, già platonica,15 del pensiero come "discorso inter no".16
Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla
considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae, VII, 49-50) in cui viene
detto che il criterio di veri- .. In questo 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 143
una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della
comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati
sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria
linguistica del si gnificato. 6.2 La teoria del segno 6.2. 1 Il
"lekt6n" e la teoria del segno Il lekton, che abbiamo finora
incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una
nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un
fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici
sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa
sì che, come sottolinea Eco (1984: 30), nella se fllÌOtica stoica si verifichi
una saldatura "di diritto" tra la 0ottrina del linguaggio e la
dottrina dei segni. Infatti, "per ché ci siano segni occorre che siano
formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una
sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui
stica" (ibidem). Occorre tener presente che gli stoici non di cono ancora
che le parole sono segni (sarà Agostino il pri (110 a fare una simile
asserzione) e rimane, del resto, una òifferenza lessicale tra la coppia
smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta
ci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non
verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera
implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene
data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è
una proposizione (axloma) che è l'antecedente (prokathegou menon) in un
condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del conseguente
(ekkalyptikòn tou ligontos). E di- 144 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI
STOICI cono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il
condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo
più avanti le varie problematiche che ven gono presentate in questo passo. Per
il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un
lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap porto di implicazione
con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo schema: p -:J
q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il segno è
esercitata in funzione della conoscenza che esso pe_rmette di raggiungere:
l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno appartiene a
un campo che è di stinto sia da quello logico sia da quello semantico in senso
stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi che figuri come
antecedente in un condizionale vero, ma so lo quella proposizione che permette
di scoprire il conse guente (cioè che permette l'accesso a una nuova conoscen
za). Su questo torneremo tuttavia più avanti. Va comunque notato che, se
l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di
Aristotele, assolu tamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È nor
mallnente accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli
stoici introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga
spostata: (i) dalla so stanza degli eventi (Todorov 1 977 : 21), per quanto
concerne il punto di vista antologico; (ii) dal nome/aggettivo, che funge da
predicato, alla proposizione, per quanto concerne l'espressione linguistica. In
effetti, in Aristotele si poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze
e le proprietà come segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono
i fatti e gli avvenimenti espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur
senza denunciare la differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che
comincia con il vero e finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché
la proposizione "essa ha latte" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n)
di quest'altra "essa concepito". 17 (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II,
104-106) ... . Essi chiamano antecedente la prima proposizione LA TEORIA
DEL SEGNO 145 via fornisce alcuni esempi di segno (come quello della Reto
rica, I, 1357 b, 16-18: "Se essa ha latte, essa ha partorito"), in
cui vengono presi in considerazione eventi e non sostan ze. Ma nella filosofia
aristotelica la teoria del segno ha una parte marginale: il segno viene fatto
rientrare nel procedi mento sillogistico (costituisce una premessa del
sillogismo) e viene confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia lettici,
se non è un tekmirion, cioè un segno necessario. Nella scienza vera e propria,
fondata sul sillogismo perfet to, il smeion non trova f>osto. Al contrario,
nelle scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo
centrale: dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene
esteso alla scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli
stoici e gli epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio
da ciò che è noto a ciò che è ignoto. Preti (1956: 7-8) sostiene che, a
proposito della teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può
individuare un anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane,
un seguace di Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della
sua opera, il Tripo de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo
passag gio . Per Nausi fane, infatti, il discorso filosofico (basato per
Aristotele sul sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti mema)
presentano in realtà la stessa struttura logica. In en trambi i casi è
necessario distinguere tra la "conseguenza" (ak6/outhon), la
"premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle
premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei
due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti
(hyparchonta) per giun gere in maniera metodica alle cose invisibili. Il
metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenziali
tà", di implicazione o implicitazione, comune appunto a filosofia e
retorica. 20 Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn)
alla comprensione del le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione
di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de gli stoici
(come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di
passaggio LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI il nome di
"dogmatici"). Non solo, ma come prova della centralità della
semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno:21 fatto che
testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che
conferma la tendenza delle scuole postaristoteliche a ridurre o trasfor mare
il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno: A)
"comune" e "proprio" Nella semiotica stoica si registra la
scomparsa della di stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primo
termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi nati smeia.
Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono del sillogismo e
della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia,
al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune"
(koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era
specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica,
sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una
definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se gno si trova nel
trattato semiotico di Filodemo (l secolo a.C.): Un segno è comune (koin6n) per
nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non
percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che
crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta
usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi
risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è
necessario (ananka stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che
noi di ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dente
di cui è segno. 22 (Philodemus, De signis, I, 1-17) C'è una convergenza nelle
scuole postaristoteliche nel ri tenere il segno comune come non valido e
nell'accettare in vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di
Filo- LA TEORIA DEL SEGNO demo si ricava che una differenza peculiare
consiste nel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co
me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello
comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno
necessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria con
l'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel
segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma può
anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza
di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri
no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda
e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dal
pallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla
bontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se
gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una
conclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientifica
ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi
stemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,
la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita
delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B)
"rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il
suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto
riprende la di stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno
preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del
segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra
segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due
maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno
quello che sembra rive lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare
segno an- LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI che ciò che serve a
richiamare alla memoria la cosa osservata in sieme con esso. In maniera
propria si dice segno quello che è in dicativo di una cosa avvolta
nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera
contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione,
in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co mune e segno
proprio, dichiara di voler trattare solo di que st'ultimo (ibidem, 143); e
poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono
oscure, egli propo ne di distinguere preliminarmente le cose in
"manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente
quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le
cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla
conoscenza in maniera diretta; co me esempio Sesto porta "il fatto che è
giorno e che io sto di scorrendo"23 quando io faccio realmente queste
cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han no una natura
tale da non arrivare alla nostra comprensio ne (kata/psis), come a esempio
"se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli
di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose
oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta
divengono, per certe cir costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio
è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene.
Atene, visibile per sua natura, diviene tempora neamente invisibile a causa
della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una
natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen sabili (noto1).26
Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si
pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in
quanto le cose manifeste ven gono comprese in maniera non mediata e le cose
oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio
attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle
ultime due categorie. Ma i tipi 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 149 di segno sono
diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora neamente oscure si colgono
attraverso i segni rammemora tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni
indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo
costoro [i dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri
indicativi (endeiktika). Chia mano segno rammemorativo quello che, osservato
insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se
quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata
osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente,
come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel
segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente,
pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così,
per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp.
Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso
ciazione costante tra cose comunemente osservate in con nessione empirica.
Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo
tipo si distribuiscano se condo la tripartizione28
contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel
caso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in
"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il
fatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segno
rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del
precedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è
segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno
sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono
di risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai
"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei
segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,
che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei
"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente
schema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure non
danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno
luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la
distinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativo
solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne
trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso
Sesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto con
l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento
logico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto
importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto di
vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra
segno comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tra
l'altro, il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenza
di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un
segno "ne cessario", come un'analisi più dettagliata della sua
struttura ci permetterà di vedere. 6.2.3 La struttura del segno nel
"condizionale" Ritornando alla definizione stoìca di segno che
abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di
tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa
"connesso" o "connessione". Il suo significato lo gico ci
viene chiarito da Diogene:32 si tratta dell'asserto temporanea mente 6.2
LA TEORIA DEL SEGNO 151 condizionale del tipo "Se p, allora q", in
cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è
giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no
zione di condizionale valido (hyghiés, "sano"). Da un passo di Sesto,
dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è
affine alla moderna interpretazione vero-funzionale di "Se p, allora
q"; infatti la validità o in validità dell'asserto condizionale "Se
p, allora q" dipende dal valore di verità deli'antecedente e del
conseguente di esso. 33 Sesto, in due passi paralleli, camente "quel
condizionale che non comincia dal vero e fi nisce nel falso" e fcrnisce
una tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica
contemporanea preve de per l'implicazione materiale: p q ·se p, allora
q• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto
accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro posito del criterio
per giudicare un condizionale valido:34 esso corrisponde a ciò che è stato
definito dai Kneale ( 1 962: tr. it. 154 e sgg.) "il dibattito sulla
natura dei condizionali", che animò le discussioni di logica ali'epoca
degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se-
definisce come valido uni valido 152 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI
STOICI gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizio nale valido. In
effetti, come fa rilevare lo stesso Sesto,3s i ti pi di condizionale valido
sono tre nella tavola dei valori di verità corrispondente all'implicazione
materiale (V V; F F; F V); il problema diviene dunque quello di vedere se la
struttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale
valido, o solo in casi particolari. Ora, in effet ti, un segno non può non
essere espresso da una proposizio ne vera, come pure deve essere vera la proposizione
a cui es so rimanda. Così sono esclusi il secondo e il terzo caso (F F; F V),
in quanto hanno un antecedente falso. Dunque l'uni ca possibilità è relativa
al primo tipo di condizionale, cioè quello che comincia dal vero e finisce nel
vero.36 Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al ca· rattere che
il segno deve avere di essere rivelatore (enkalyp tik6n) del conseguente. In
effetti un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento
in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è
formato da due proposizioni entrambe vere. Tuttavia, secondo Sesto,37 non si
realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto
entrambe le proposizioni rimand?no a fatti di per sé evidenti. Il primo termine
del condizionale non è rivelatore del secondo. In effetti, per comprendere la
vera natura del segno bisogna passare dal piano strettamen te logico a uno più
generalmente epistemologico. Il segno, per gli stoici, non solo deve avere una
corretta costruzione dal punto di vista logico, individuabile nella
implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche possedere il carat tere
di dispositivo che permette di accrescere la cono scenza.38 Come già in
Aristotele, anche per gli stoici il segno si ap· poggia su un livello logico,
ma si inquadra in un'ottica co noscitiva. Gli esempi di carattere medico
denunciano l'ori gine di quest'ottica. In generale il segno deve permettere il
passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso, come "egli ha
sputato cartilagine bronchiale", a una cono scenza di molto più difficile
accesso, come "egli ha una pia ga nel polmone". Tuttavia, ciò che la
teoria del segno ac quisisce, passando dalle mani dei medici a quella dei
filoso.. 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO fi, è una solida struttura dal punto di
vista logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette.
6.2.4. 1 Il dibattito sulla natura dei condizionali Quanto ampio e difficoltoso
fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano logico, per
stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo dimostra
l'acceso dibattito che si sviluppò sulla "natura dei condizionali"
(Kneale 1962). Scrive infatti Sesto Empirico: "Tutti quanti i dialettici sono
generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il
suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e
quando esso segua, e propongono criteri rivali" (Adv. Math., VIII, 12).
Riferendosi a questo dibattito, Sesto elenca quattro crite ri che erano stati
proposti per stabilire la validità di un as serto condizionale: (i) quello di
Filone Megarico; (ii) quello di Diodoro Crono; (iii) quello della srsnartsis
attribuibile a Crisippo; (iv) quello della émphasis. 9 Sulla disputa si può
tuttavia fare un'osservazione genera le preliminare. Il punto di partenza,
infatti, come fa notare Martha Hurst (1935: 492), è una relazione già
conosciuta, nel senso che essa è riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece
costituisce lo scopo è una definizione di questa rela zione di
consequenzialità (akolouthla) in termini formali. Nel corso dell'intero
dibattito sulla natura dei condizionali i logici antichi si sono concentrati
sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può possedere proprietà
auto nome, essendo dotato di significato, non è stato preso in considerazione
se non nella misura in cui poteva essere pro vato che esso coincideva con il
definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due livelli e spesso sono
stati scelti esempi che ambiguamente erano in grado di elucidare sia la
relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione logica che essi
tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a comprendere meglio
questo modo di pro cedere un paragone con i metodi della logica contempora- LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI nea. I logici contemporanei, infatti, sono
in genere interes sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi
pos sono stabilire in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione
sia identica a quella che è ampiamente cono sciuta, facilmente riconosciuta, e
poco compresa come quella di una espressione di implicitazione
("fol/owing", Hurst 1935: 492). A esempio Peirce e Russell erano
interes sati alle proprietà della implicazione materiale indipenden temente
dal fatto che essa riproducesse il significato "usua le" di
"implica" ("implies"). Così pure Lewis era interessato al
sistema della implicazione rigida senza sostenere che l ' im plicazione rigida
rappresenti il significato di "implica". Questa differenza nel modo
di procedere tra antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formale:
mentre i logici antichi erano interessati a dare un'unica definizione, i
moderni lo sono a fornire due definizioni: quella di "im plicazione
materiale" e quella di "implicazione rigida". 6.2.4.2
L'implicazione filoniana Filone è il primo esponente della scuola
megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero
funzionale dell'espressione "Se p, allora q": secondo lui,
un'espressione condizionale è valida se, e solo se, non co mincia con il vero
e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà
del criterio di consequen zialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro
del l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il con dizionale
è valido, corrispondente ai tre esempi seguenti: (i) "Se è giorno, c'è
luce" (VV); (ii) "Se la terra vola, la terra ha le ali" (FF);
(iii) "Se la terra vola, la terra esiste" (FV). Come sottolineano i
Kneale (1962: tr. it. 157), è probabi le che Filone avesse in mente l'uso
dell'espressione "Se p, allora q" nei ragionamenti e che volesse
attirare l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale
con il suo antecedente implicita sempre il conseguente. L'inter pretazione
proposta da Filone è la più debole che soddisfi tale requisito. LA TEORIA
DEL SEGNO L'implicazione diodorea Diodoro Crono era il maestro di Filone, e la
ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere forse attribuita al fatto
che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que st'ultimo non riuscì a fare
altrettanto con il primo (Hurst 1935: 435 n.). La critica che Diodoro muove
all'interpretazione filonia na insiste proprio sul carattere di debolezza di
quest'ultima. Egli individua infatti degli esempi di condizionale che, pur
potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo tt, possono tuttavia
mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio, l'asserto "Se è
giorno, io sto conversando" sarebbe considerato vero da Filone se si
dessero le condizio ni, in un tempo t, per cui fosse giorno e io stessi
conversan do. Diodoro invece dimostra che esso è falso, sostenendo che non c'è
niente nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto la
definizione di Filone. Infatti esso potrebbe essere pronunciato anche in un
tempo t2, quando fosse giorno, ma io rimanessi silenzioso. In questo caso es
so avrebbe la forma invalida VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro
elabora una concezione secondo la quale un condizionale è valido quan do
"non ammise, né ammette di cominciare con il vero e fi nire con il
falso".40 L'esempio che egli dà è "Se non esisto no gli elementi
atomici delle cose, allora esistono gli ele menti atomici delle cose",
che, secondo Diodoro, ha l'ante cedente sempre falso e il conseguente sempre
vero: ciò ba sterà a escludere l'evenienza di un antecedente vero con un
conseguente falso, unico caso in cui il condizionale sarebbe non valido.41
6.2.4.4 L'"implicazione connessiva" ("synartesis") di Cri
sippo La terza concezione di condizionale valido riportata da Sesto è quella
che, secondo diversi studiosi moderni (Mates LA TEORIA DEL LINGUAGGIO
DEGLI STOICI; Bochenski), corrisponde alla implica zione rigida di Lewis o
comunque a una forma di implica zione necessaria (Kneale 1962; Preti 1956). In
maniera con corde con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa concezione
viene riportata da Diogene (Vitae) : " È v e r o un condizionale nel quale
il contraddittorio (antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1)
con l'anteceden te, come a esempio 'se è giorno, c'è luce' ". Il nome del
sostenitore di questa concezione non ci è sta to lasciato da chi la riferisce;
ma vi sono prove che essa ap partenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller). La
nozione di "incompatibilità", messa in scena da que sta definizione,
è molto interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita.
Martha Hurst (1935: 495), commentando il passo, tende a mostrare che la
relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di
"consequenzialità" (jollowing), non possono essere espresse in
termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le
proposizioni in virtù di pro prietà che esse avrebbero al di fuori della
relazione: al con trario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che
sussi stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare
questa conclusione di M. Hurst con le osservazioni di Preti (1956: 13), il
quale so stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della synar tsis
"sembra alludere a qualcosa di ancora più forte (della strict implication
di Lewis): alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione
sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De
signis. In effetti in quel testo (come vedremo meglio nel capitolo spe-
cificamente dedicatogli) è presentato come genuinamente stoico il metodo
inferenziale della "contrapposizione" (ana skeu), che appare analogo
a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza per "contrapposizione"
è quella in cui la negazione del conseguente comporta la negazione del
l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che la verità del condizionale
"Se il primo, allora il secondo" è garantita dalla verità del
corrispondente condizionale "Se non il se condo, non il
primo".42 6.3 CONCLUSIONI 157 Preti sottolinea le affinità tra la
synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con
l'anteceden te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la ne
gazione del conseguente comporta la negazione dell'antece dente), e in
entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la
precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto
più forte, che ten de a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o
in una forma di L-implicazione. 6.3 Conclusioni Nel passaggio dalla teoria
aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento
di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni categori che nel
sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as serto condizionale.
Contemporaneamente si registra un'ac centuazione del carattere, già presente
in Aristotele, di con sequenzialità necessaria che la relazione segnica è
chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto deve
presentare un carattere cogente. Ci sono due ragioni di questo aspetto
necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura
della ra gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio ne
della metafisica stoica (De Lacy 1978: 208). Per il primo punto è Sesto43
stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli
animali per la sua capacità di "discorso interno " (16gos
endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare
dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità
(akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto
la forma: "Se questo, allora quest'altro". Così l'esistenza del segno
si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al
secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse
costituito da una catena ininter rotta di eventi, legati tra loro da rapporti
di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto
di- 158 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI pendenti daiPordine
razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la consequenzialità
necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella stessa
consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli
eventi.44 L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e
sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col locata sulla
relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause
ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa
accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi
nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle ga certi
avvenimenti presenti e altri che avverranno.4Ora, per quanto la razionalità
degli uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei,
tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che
lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"),46 men tre ai primi è
preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi caratteristici
delle cause ("signa [.. . ] causarum et notas") degli eventi e su
questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av verrebbe
per gli dei, i condizionali degli uomini intorno al futuro mancano di
necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello
della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli cazione necessaria. Ma
questa, che è una caratteristica irri nunciabile, non è tuttavia sufficiente a
definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è
luce»47 il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto
entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in ferenza non può provare nulla. La
verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto
nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della
caratteristica di permettere di scoprire una nuova co noscenza. Il segno
stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello
deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per
collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore
dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presen- 6.3
CONCLUSIONI 1 59 te che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma
nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella
semiotica stoi ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che
l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui
parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di
un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti
anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un
segno):48 - sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque, il
secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre sentato
dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi stano pori nella pelle. La
presenza dei pori è un fatto oscuro per natura: infatti essi possono soltanto
essere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il
microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun ge, come argomento
rafforzativo delle premesse nel ragio namento precedente, un'ulteriore
argomentazione:49 - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il
corpo. - Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso.
La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di
contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente.
Infatti se al condi zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie
del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre
attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra
attraverso un corpo 160 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI
applichiamo il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo
compatto e non poroso) :>p (un li quido non vi può scorrere attraverso),
espressione che è alla base della premessa del secondo ra gionamento di Sesto.
Essa permette di sviluppare un ragio namento corrispondente al modus tollens,
che convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se
gli stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la
contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a
priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno
produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la
relazione anche nel caso di verità fattua li, poiché parte dall'assunzione che
il fatto oscuro per natu ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò
che è evi dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse
quale viene rivelato essere. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO 7.O Introduzione
Contemporaneo allo sviluppo della riflessione stoica sul segno è il capitolo
della semiotica antica scritto dalla scuola epicurea. Uno dei cardini
dell'epistemologia epicurea, in fatti, è il principio semiotico del
congetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per natura non percepibili
con i sensi. Gli stessi elementi fondamentali della metafisica epicurea (cioè
l'esistenza degli atomi e del vuoto, le configurazioni e le ragioni dei
fenomeni celesti) vengono stabiliti attraverso inferenze semiotiche che partono
dai fenomeni percepibili: Gli indizi (semeia) dei fenomeni celesti ce li
forniscono alcuni fenomeni che accadono presso di noi, e che si vede dove e
come avvengono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte
maniere. (Epic., Epistula ad Pythoclem, 87) Epicuro rifiutava il ragionamento
deduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici, giudicandolo vuoto e privo di
utili tà, ma accettava e valorizzava l'inferenza analogica che si sviluppa a
partire dai segni. Nel periodo ellenistico, anzi, gli epicurei divennero i
portabandiera di un metodo di ragiona mento qualificabile come "induzione
semiotica", e proprio sul metodo deli ' in ferenza si posero in polemica
con gli esponenti della scuola stoica. Un intero trattato del I secolo a.C., il
Perì smelon kaì smeioseon (Sui segni e sulle infe- 162 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO renze), redatto dall'epicureo Filodemo di Gadara, è
dedica to, del resto, al dibattito intercorso fra stoici ed epicurei sul tema
dell'inferenza semiotica.1 Epicuro, così, e la scuola epicurea nel suo insieme,
pro pugnano la possibilità di elaborare giudizi che siano oggetti vamente
validi su fenomeni non direttamente conosciuti at traverso l'esperienza, sulla
base di inferenze elaborate a partire dai segni. Il problema centrale diviene,
allora, quello di stabilire il criterio per verificare se ed entro quali limiti
tali giudizi pos sano essere considerati attendibili o non attendibili (cioè
ve ri o falsi) e di fornire le basi per poter dire se certe asserzio ni
corrispondano effettivamente ai fatti che esse descrivo no. Si fa strada
quindi la nozione di "criterio di verità", che costituisce la cornice
di sfondo all'interno della quale si col locano tanto la teoria deli'inferenza
semiotica quanto la teoria del linguaggio. In effetti il criterio di verità è
non uni co, ma molteplice: secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,2 esso
comprende le sensazioni (aisthseis), le affe zioni (path), le preconcezioni
(prolpseis), a cui può essere aggiunta, per motivi che vedremo, l'evidenza
immediata (enargheia). I criteri di verità, e tra essi la pro/essi
("antici pazione", "preconcezione") in particolare,
giocano un ruo lo fondamentale in entrambe le teorie sia nella teoria del
l'inferenza3 sia nella teoria del linguaggio;4 in questo modo essi
costituiscono un elemento di connessione tra le due teo rie. Tuttavia ciò non
è ancora sufficiente a permettere un'articolazione comune tra segno
inferenziale e segno lin guistico, che rimangono ancora una volta oggetti di
due in dagini separate. Si ricorderà che anche per gli stoici la teoria del
segno lin guistico, chiamato smafnon, nasceva ali'interno di una di scussione
sul criterio di verità e sul "vero"; e anche in quel caso il segno
inferenziale, chiamato smefon, non aveva al cun punto di contatto con il
precedente se non per il ruolo giocato dalla nozione di lekt6n, a cui spettava
il carico di essere vero o falso. Si deve però notare una peculiarità della
semiotica epicurea: essa si arricchisce anche di una teoria deli'immagine
percettiva, che si collega al criterio di verità, 7 . l CRITERIO DI
VERITÀ ED EPISTEMOLOGIA EPICUREA 1 63 ma che anticipa anche alcuni problemi
interessanti per una teoria semiotica deli'iconismo. Così, nei paragrafi
seguenti esamineremo le questioni del criterio di verità, della prolessi e
deli'immagine percettiva in Epicuro, che collegheremo con la teoria
deli'inferenza se miotica, da una parte, e con la teoria del linguaggio,
dall'al tra. Gli sviluppi che la teoria semiotica epicurea avrà nel trattato
De signis di Filodemo saranno esposti, data la loro ampiezza, a parte nel
prossimo capitolo. 7.1 ll criterio di verità e l'epistemologia epicurea
L'impostazione generale della filosofia di Epicuro, dal punto di vista
epistemologico, è un tentativo di fondare la conoscenza su basi puramente
empiriche. In primo piano vengono posti i fatti o gli oggetti; ma anche le
parole essen zialmente costituiscono una via per giungere alle cose. In questo
modo si presentano per la filosofia due metodi di ri cerca: (i) uno orientato
alla conoscenza che proviene dalle parole; (ii) l'altro a quella che proviene
direttamente dalle cose.s Tuttavia il primo è considerato un processo prelimi
nare rispetto al secondo, e spesso la conoscenza che si ottie ne attraverso
gli strumenti del linguaggio, come quella che si produce attraverso le
proposizioni, è vuota e inganne vole.6 Il fondamento ultimo della conoscenza
sono i criteri di verità, i quali sono in grado di procurare all'uomo niente
meno che l'imperturbabilità.7 Essi sono dunque posti alla base stessa della
filosofia generale di Epicuro; del resto essi erano trattati in un'opera
perduta, intitolata Canone, in cui era contenuta la materia propedeutica
rispetto all'intero si stema dottrinario.8 Se noi pensiamo alla verità in
termini moderni, cioè come una funzione delle proposizioni, corriamo il rischio
di non comprendere il pensiero di Epicuro. In effetti, nella lingua greca in
generale, l'aggettivo althés ("vero") può servire tanto a qualificare
la verità di una proposizione, quanto a indicare ciò che sussiste di fatto o
che è reale. In Epicuro, in 164 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO
particolare, l'aggettivo "vero" implica un'effettiva consape volezza
di qualcosa. Si giustifica così la sua applicazione al le sensazioni e alle
affezioni, in quanto dire che una certa sensazione (o una certa affezione) è
vera equivale a dire che essa fornisce un indizio effettivo su un fatto reale,
renden docene consapevoli.9 Prima di passare in rassegna le varie forme del
criterio di verità, è necessario sottolineare fin d'ora come esso sia fun
zionale a una teoria dell'inferenza semiotica. Infatti esso tende a stabilire
delle verità basilari riguardanti le cose per cepibili, che servono a loro
volta come punto di partenza per fare inferenze intorno alle cose non
direttamente rag giungibili con i sensi.10 7.2 Le forme del criterio di verità
Epicuro, dunque, considerava come criteri di verità le sensazioni, le
p[econcezioni (o prolessi), le affezioni (o sen timenti). 1 1 Nel paragrafo 82
della Lettera ad Erodoto veni va fatto cenno anche alla enargheia
("evidenza immediata, o "chiara visione"). Riferendosi a questi
passi, Long (1971 b: 116) fa una interessante proposta circa l'organizzazione
interna delle forme del criterio di verità. Suggerisce infatti di ordinarie in
modo gerarchizzato: in primo luogo ci sono le affezioni e le sensazioni; poi
l'evidenza immediata; infine le preconcezioni. Secondo Long, le prime due hanno
un va lore di verità puramente soggettivo, se prese da sole, e devo no essere
coordinate all'evidenza immediata e alle prolessi, per giungere a costituire un
criterio oggettivo. Le affezioni e le sensazioni comportano la consapevolez za
di qualcosa, e la loro "verità" consiste proprio in questa
consapevolezza, anche se, appunto, soggettiva. Si possono riprodurre le
relazioni tra le forme del criterio di verità se condo il seguente
schema: TEORIA DEI SIMULACRI criteri di veritè consapevolezza consapevolezza soggettiva
oggettiva ll affezioni sensazioni evidenza 7.3 Teoria dei simulacri
prolessi Finora abbiamo considerato il processo conoscitivo dalla
parte del soggetto che prova una sensazione o ha una affe zione in relazione
agli stimoli esterni. Se consideriamo lo stesso processo dalla parte opposta,
cioè partendo dall'oggetto, possiamo constatare che Epicu ro aveva elaborato
una vera e propria teoria dell'immagine che ha molti elementi di interesse per
una semiotica dell'ico nismo. Dal paragrafo 46 della Lettera ad Erodoto
Epicuro inizia a parlare del modo in cui si rende possibile la perce zione
degli oggetti. Questi ultimi, infatti, emettono in conti nuazione degli
efflussi di atomi estremamente fini, che compongono configurazioni in tutto e
per tutto identiche alla forma esterna dei corpi solidi.12 Queste
configurazioni prendono il nome di simulacri (eldO!a). Essi viaggiano a una
velocità estremamente alta e possono penetrare nei no stri organi di senso o
nella nostra mente, e lì produrre un ' immagine (phantasfa) più o meno esatta
del corpo da cui i simulacri sono stati emanati. Il processo può essere sche
matizzato così: oggetti - - - simuh1cri
- - .-.. immsgini mentali (stertJmnia) (sfd"lJfs)
(phsntssfst) INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Quella di Epicuro può
essere definita una teoria "causale" (Long) della percezione, in
quanto gli ogget ti sono responsabili dell'esistenza dei simulacri e questi
ulti mi causano direttamente il formarsi delle immagini nella mente. Si deve
però dire che le immagini sono una diretta conseguenza dei simulacri, ma solo
secondariamente una conseguenza degli oggetti, dai quali possono anche essere
difformi. In effetti la continuità del processo può essere interrotta al
livello del passaggio dell'efflusso dagli oggetti esterni ai simulacri . Questi
ultimi, sebbene di solito risultino delle co pie esatte degli oggetti,
talvolta possono subire delle modifi cazioni per il fatto di entrare in
collisione con altri atomi nel passaggio attraverso l'aria e possono anche
ridursi in di mensione nel momento in cui entrano in una persona (in quanto,
anche in questo caso, entrano in collisione con altri atomi). 1 3 Epicuro è,
con questa teoria, impegnato a rendere conto del fatto che gli oggetti, visti
da vicino, presentano certe di mensioni, mentre ne presentano altre, molto
minori, se visti da lontano, senza entrare in contraddizione con il principio
che la sensazione è garanzia di verità in ogni caso, e ci si troverebbe di
fronte veramente a una contraddizione se la phantasfa fosse un'immagine
dell'oggetto, mentre in realtà è un'immagine del simulacro (ekiOion). Sesto
Empirico sembra riportare correttamente il pensie ro di Epicuro quando cita, a
questo proposito, l'esempio della "torre": Così io non oserei dire
che la vista suggerisca il falso per il fatto che a grande distanza essa vede
la torre piccola e rotonda e a di stanza accorciata la vede più grande e
quadrata, ma direi piut tosto che la vista suggerisca il vero, perché
l'immagine ricevuta dai sensi, quando le appare piccola e di una certa forma, è
real mente piccola e di quella determinata forma, per il fatto che i li miti
appartenenti ai simulacri (eldola) vengono cancellati dal passaggio attraverso
l'aria. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 208-209) 7.4 TEORIA DELL'ERRORE E
DELL'OPINIONE 167 In effetti, ciò che i sensi recepiscono è il flusso di atomi
che si stacca dall'oggetto e che costituisce il suo simulacro e non l'oggetto
stesso. Tale flusso, passando attraverso l'a ria, si altera nella sua
configurazione, producendo la diver sità delle immagini che si hanno dello
stesso oggetto. Cosi ogni immagine mentale (phantasfa) è effettivamente vera
perché è relativa non all'oggetto, ma a ciascuno dei simula cri dell'oggetto,
che sono diversi in relazione alla distanza percorsa per raggiungere il
soggetto che percepisce. L'importante è non identificare il simulacro che si
produ ce nelle vicinanze dell'oggetto con quello che si ha in una vi sione a
distanza. 7.4 Teoria dell'errore e dell'opinione Il tema deli'inferenza
semiotica diventa sempre più cen trale nel campo dei processi percettivi
quando si abbandona il terreno sicuro della sensazione per esplorare quello
insi dioso delle opinioni, in cui si può verificare l'evenienza del l'errore.
Se gli uomini si attenessero soltanto alle loro sen sazioni e si limitassero a
descrivere le loro immagini mentali (phantasfa1), non ci sarebbe possibilità di
errore. Ma ciò non avviene, e l'errore sorge quando viene ad aggiungersi alla
sensazione qualche processo mentale che Epicuro, nella Lettera ad Erodoto (5
1), chiama "secondo movimento" (al l klnèsis). Long (1971 b: 1 18)
identifica questo "secondo movimen to" proprio con il processo di
elaborazione deli'opinione. Infatti Epicuro dice che esso è "connesso"
con il primo mo vimento (cioè la semplice apprensione di immagini), ma, a
differenza di questo, "ammette una distinzione": quella tra il falso
e il vero. Il primo movimento, cioè l'apprensione di immagini, non ammette
alcuna distinzione di questo gene re, perché è prodotto da cause esterne,
ovvero dai simula cri; il secondo movimento, invece, consistendo nell'aggiun
ta di un giudizio che noi facciamo su queste immagini, può ricevere conferma o
attestazione contraria. Si può così sche matizzare il processo: 168 7.
INFERENZA E LINOUAOQIO IN EPICURO processo conoscitivo / apprensione di immagmi
lphsntsstik epiboli'J sempre vera opinione (d6xs) conferma e non
attestazione contraria vera attestazione contraria e non conferma falsa
In effetti, se, sulla scorta di una visione distante e oscura, io dico,
traducendo in parole le mie sensazioni: "Quella ha le apparenze di una
torre rotonda", io parlo in maniera veri tiera; ma se dico: "Quella
è una torre rotonda", il mio giu dizio è disconfermato nel caso che,
avvicinandomi, riceva l'immagine di una torre quadrata. In definitiva, le
immagi ni sono tutte vere mentre le opinioni sono alcune vere e altre false.
14 Quello che comunque risulta è il carattere congettu rale dell'opinione. 7.5
La congettura È naturale che all'interno di una teoria dell'opinione uno spazio
privilegiato venga dedicato alla congettura. Infatti, in generale, la
congettura consiste proprio in un'ipotesi co noscitiva su una dimensione che
va oltre ciò che può essere colto attraverso i sensi. L'opinione, come la
concepisce Epi curo, è associata esattamente a queste caratteristiche, consi
stendo appunto in un giudizio che prevede l'impegno del soggetto su qualcosa
che attende conferma. Ci sono alcune parole chiave che definiscono il processo
conoscitivo attuato attraverso l'opinione. La prima è pro- 7.5 LA
CONGETTURA 169 sménon, "ciò che attende conferma", 1 5 che è appunto
l'og getto sul quale si esercita il giudizio. Una seconda e una terza parole
chiave, collegate tra loro da una relazione di antonimia, sono epimartjrsis
"attesta zione" e antimartjrsis "attestazione contraria" o
"conte stazione". Tuttavia, il sistema di Epicuro per la conferma o
la disconferma di una certa opinione non gioca su due, ben si su quattro
termini: c'è infatti conferma quando si ha "at testazione" o
"non contestazione"; c'è disconferma quando c'è
"contestazione" o "non attestazione". Si viene cosi a
creare un vero quadrato semiotico: attestazione contestazione ( epimsrtyrlJsis)
non contestazione (ouk sntimsrtyrsis) ( sntimsrtyrlJsis) non attestazione (ouk
epimsrf'jrlJsis) in cui, per Epicuro, due termini (o quelli della deissi
positi va, o quelli della deissi negativa) congiuntamente sono ne cessari per
decidere di un'opinione. 1 6 Tuttavia ciascuno dei quattro termini è idoneo a
stabilire la validità di un'opinione. Infatti nella teoria semiotica ri
portata nel De signis da Filodemo, il criterio per decidere sulla validità di
un'inferenza induttiva sarà rappresentato dalla sola non contestazione, ovvero
dal non conflitto del l'espressione segnica con i fenomeni percepibili. Nel
quadrato di Epicuro sorge il problema di stabilire un criterio per definire in
che cosa consista il termine base, cioè l'attestazione. Questo criterio è
rintracciabile nella enargheia ("l'eviden za", "la chiara
visione"), come ci dice Sesto: 170 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN
EPICURO Ed è attestazione (epimartjris) una apprensione, conseguita mediante
evidenza (di' enarghefas), del fatto che l'oggetto opi nato è appunto quello
che precedentemente veniva opinato, co me, ad esempio, se Platone da lontano
incede verso di me, io congetturo ed opino, a causa della distanza, che si
tratti di Pla tone, e, quando egli mi si è accostato, viene attestato che si
trat ti eli Platone, mercé la soppressione della distanza, e la confer ma si
è avuta in virtù della stessa evidenza. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 212) In
effetti Epicuro era ben consapevole del fatto che si possono commettere degli
errori neli'identificazione o nel riconoscimento degli oggetti della percezione
e, probabil mente, egli pensava che in ogni atto percettivo, accanto alla pura
e semplice sensazione, anche la d6xa gioca sempre un ruolo. In questo modo la
congettura diviene onnipresente, in quanto è coinvolta in ogni atto percettivo.
Di conseguen za, la funzione che vengono ad assumere le sensazioni e le
immagini mentali è quella di fornire i dati sulla base dei quali elaborare le
congetture. 1 7 Nella Lettera ad Erodoto (38) sembrano essere presi in
considerazione due tipi di oggetti sui quali l'inferenza se miotica si
esercita: (l) ciò che attende conferma (prosménon) (2) ciò che non cade sotto i
sensi (adlon) che danno luogo a due tipi di processi inferenziali. Il primo è
relativo al genere di congettura che si instaura all'interno degli stessi
processi percettivi ed è illustrato dal l'esempio, riportato da Sesto, del
vedere in lontananza Pla tone che si avvicina, e poter solo congetturare che
si tratti proprio di lui. In questo caso l'oggetto su cui si esercita la
congettura è qualcosa che viene colto dai sensi, ma non di stintamente.
Tuttavia, questo processo si conclude con una verifica: in questo caso, la
conferma del dato congetturato, attraverso una visione chiara. Chiameremo
questo tipo in ferenza percettiva. Il secondo è relativo all'inferenza su cose
assolutamente escluse dal processo percettivo: è il caso della congettura nel
senso fliù classico. Anche di questo ci fornisce un esempio Sesto. 8 Si tratta
di risalire dali'esistenza del moto (cioè di 7.6 L'INFERENZA DA SEGNI 171
un elemento percepibile, un phain6menon) all'esistenza del vuoto (cioè di un
elemento non percepibile, adlon). È la ti pica relazione logica di
implicazione (chiamata da Sesto akolouthfa) tra un antecedente e un
conseguente. Chiame remo questo secondo tipo di processo inferenza al non per
cepibile. 7.6 L'inferenza da segni L'inferenza al non percepibile è una tipica
inferenza da segni. Infatti in molti casi, come quello che abbiamo visto,
"Se c'è moto-+c'è vuoto", non è possibile conoscere diret tamente
l'oggetto sul quale viene fatta l'inferenza ("il vuo to"), ma lo si
deve attingere attraverso un segno ("il mo to"). In effetti, anche
per Epicuro, l'inferenza da segni è connessa con la possibilità di ampliare i
limiti della cono scenza oltre la sfera degli oggetti sensibili. È proprio
grazie a una teoria dell'inferenza segnica che la scuola epicurea riesce a
superare i limiti del proprio radicale empirismo, aprendo la via anche alla
conoscenza di fenomeni non per cepibili direttamente dai sensi. Anzi, nel De
signis di Filode mo (fr. 2), c'è un esplicito invito a considerare le conoscen
ze ottenute tramite inferenza, altrettanto sicure di quelle di rette. Un
programma conoscitivo di questo tipo presuppone un'epistemologia che divide gli
oggetti in quattro categorie, in maniera del resto non molto diversa da quanto
avveniva nella semiotica stoica: ( l ) Oggetti o fatti evidenti (enarghi):
"quegli oggetti che vengono recepiti involontariamente per mezzo di una
rappresentazione o di una affezione" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 316).
Come esempi vengono dati il fatto che sia giorno o il riconoscimento che una
certa persona è un uomo. (2) Oggetti oscuri in modo assoluto (phjsei adla):
"quegli oggetti che né furono conosciuti nel passato, né sono conosciuti
nel presente, né saranno conosciuti nel futu- 172 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO ro, ma sono inconoscibili in eterno" (Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 317-318). Come esempio viene data l'im possibilità di
conoscere se il numero delle stelle sia pari o dispari. Fatti di questo genere
sono inconoscibili, co me spiega Sesto, non per la loro natura, ma per la no
stra natura, dato il tipo di limitazioni a cui è sottoposta la conoscenza
umana. (3) Oggetti oscuri di per sé (ghénei adla): "quegli oggetti che
sono oscuri per la propria natura, ma che si stima vengano conosciuti per mezzo
di segni e di dimostrazio ni" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 319). Gli
esempi so no gli atomi e il vuoto infinito. L'esistenza degli atomi e del vuoto
era postulata da Leucippo e da Democrito su basi puramente razionali, ma
Epicuro insisterà, in con formità con il suo empirismo, che possono essere
cono sciuti attraverso l'inferenza analogica. (4) Oggetti che attendono
conferma (prosménonta): sono quegli oggetti posti immediatamente oltre la
nostra esperienza (Ep. Hdt., 38), la cui conoscibilità è limitata da fattori,
quali la distanza nello spazio o il loro essere situati nel futuro. Come si può
vedere, gli unici oggetti che possono essere conosciuti attraverso l'inferenza
sono quelli che apparten gono alla terza e alla quarta classe. Essi sono da
porre in corrispondenza con i due tipi di inferenza di cui abbiamo già parlato.
L'inferenza percettiva, infatti, verte intorno agli oggetti appartenenti alla
quarta classe, quelli "che attendono con ferma". L'inferenza al non
percepìbile, invece, verte intorno agli oggetti appartenenti alla terza classe,
cioè è rivolta alla co noscenza di quegli oggetti che sono "oscuri di per
sé" e che non arrivano mai a essere esperiti dai sensi . In questo caso il
metodo di verifica assume una forma indiretta: la "non at testazione
contraria" (ouk antimartjresis). Il vuoto, come abbiamo visto, non è
verificabile per esperienza diretta, ma gli epicurei sostengono che la sua
esistenza non è in contra sto con nessun fatto conosciuto, 1 9 mentre la sua
negazione 7.7 LA PROLESSI 173 entra in conflitto con l'esperienza
empirica del movimento, che richiede il vuoto per attuarsi. Il cuore del
ragionamento basato sulla non attestazione contraria consiste nel fatto che,
quando si hanno due proposizioni contraddittorie in torno a qualcosa che non è
percepibile, e una di esse risulta falsa in base a una prova empirica
(nell'esempio preceden te, la non esistenza del vuoto, in quanto entra in
conflitto con l'esistenza del moto), allora l'altra può essere conside rata
vera (De Lacy 1978: 188). 7.7 La prolessi La prolessi (o
"anticipazione" o "preconcezione") costi tuisce il secondo
dei due criteri di verità che abbiamo defini to "oggettivi". Essa ha
un ruolo determinante nell'inferenza percettiva, come mostra Diogene: Per
esempio, per poter affermare: "Ciò che sta lontano è un ca vallo o un
bue", dobbiamo per prolessi (o anticipazione) già aver conosciuto una
volta la figura di un cavallo e di un bue. (Diog. Lai!rt.. Vitae, X, 33) In
effetti la protessi è necessaria perché si abbia percezio ne in senso proprio,
cioè affinché si passi dalla semplice consapevolezza del fatto che si sta
vedendo un'immagine, al giudizio oggettivo che questa è immagine di un oggetto
pre ciso. In altre parole, secondo Epicuro, per poter effettiva mente
percepire un cavallo o un bue, si deve: l . avere avuto precedentemente
un'immagine di questi animali; 2. averla immagazzinata nella mente; 3.
effettuare un confronto con i dati che vengono forniti dalla propria attuale
sensazione. Le prolessi sono in realtà delle immagini mentali o dei concetti
che si sono formati in seguito a numerose esperien ze relative agli oggetti
esterni. Esse hanno due caratteri fon damentali: (i) sono strettamente legate
alla memoria di esperienze precedenti; (ii) sono evidenti (enargeis). Come
concetti, le prolessi non necessariamente corri spondono a singoli oggetti
esterni, ma costituiscono piutto- INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO sto
il tipo, di cui le singole esperienze percettive sono le oc correnze. Ciò, del
resto, è strettamente collegato al fatto che esse rappresentano un test di
verità: solo possedendo il concetto generale di "uomo", si può
decidere se ciò che si ha di fronte sia o non sia un'occorrenza particolare di
esso. 7.8 La teoria del linguaggio Le protessi costituiscono anche una
condizione necessaria del linguaggio e agiscono tanto al livello della
decodifica quanto a quello della codifica. Infatti, da una parte, l'atto di
pronunciare un nome (a esempio juomol) richiama nella mente dell'ascoltatore
un'immagine o un concetto, cioè un'entità che è soggiacente, hyfootetagménon, a
quel nome e che è derivata dalla protessi; 0 potremmo dire che la pre senza di
un significante fa scattare nell'ascoltatore I'abbina mento con un
significato. Dall'altra, il Iocutore deve posse dere una preconcezione di ciò
che intende esprimere, altri menti non gli sarebbe possibile dire niente: in
questo caso, il locutore codifica un significato presente nella sua mente per
mezzo di un artificio espressivo (un "nome"). Nella teoria epicurea
la prolessi sembra coinvolta in ogni caso nella formazione dei concetti.
Infatti Diogene dice che "tutti i concetti (epfnoia1) sorgono dalle sensazioni,
o per diretta esperienza, o per analogia, o per somiglianza, o per
combinazione, con una certa collaborazione anche da parte del
ragionamento" ( Vitae, X, 32). Long (1971 b: 1 19) sug gerisce di
identificare con le prolessi la prima classe di con cetti, cioè quelli che
sorgono per diretta esperienza dalle sensazioni. Se dunque le prolessi sono
alla base di ogni concetto, si viene a configurare una teoria del segno
linguistico sensibil mente diversa da quella che è normalmente attribuita agli
epicurei sulla scorta delle testimonianze di Sesto e di PIutar co.21 Questi
ultimi, infatti, sostenevano che nella teoria lin guistica di Epicuro solo due
fattori erano implicati: la cosa significante (sèmainon, o voce, ph(Jn) e la
cosa designata (tynchanon). In effetti, la ragione per cui Plutarco e
Sesto 7.8 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 175 trascurano le protessi nella teoria
del significato linguistico è imputabile al fatto che essi non vedono nella
teoria epicu rea niente di simile al lekt6n stoico, che è contemporanea mente
incorporeo e completamente diverso da un'immagine mentale. Ciò non impedisce,
tuttavia, alle protessi di avere la stes sa funzione dei lekta stoici, cioè di
costituire un elemento di mediazione tra le parole e le cose. Di conseguenza,
la teoria epicurea del segno linguistico dovrebbe essere così rico struita:
prolessi nomi cose Del resto, se a Epicuro fosse attribuita una teoria
lingui stica secondo cui le parole si riferiscono direttamente alle cose,
senza la mediazione delle protessi, entrerebbe in con traddizione tutta la sua
dottrina della falsa credenza. A esempio, poiché gli uomini credono
erroneamente che gli dei siano malevoli nei loro confronti ed esprimono verbal
mente questa credenza, se non esistesse il livello concettuale delle prolessi,
non ci sarebbe niente che corrisponde alla proposizione "Gli dei sono
malevoli nei confronti degli uo mini". La presenza della prolessi come
elemento mediatore tra le parole e le cose può rendere conto di molte
asserzioni false e di asserzioni su cose che non esistono. Ciò che gli uo mini
fanno, pensando agli dei come malevoli, è una falsa supposizione, ovvero un
concetto non derivato dali'ogget to, cioè dagli dei stessi. La centralità
della protessi nella teoria linguistica epicu rea è dimostrata anche dal fatto
che essa deve essere identi ficata anche con quel particolare significato che
è il "signifi- 176 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO cato
basico" o "primario" (proton ennoma), di cui si parla nella
Lettera ad Erodoto (37-38) e che si oppone a tutti gli altri significati che
possono essere considerati derivati da esso.22 7.9 L'origine del linguaggio La
teoria linguistica in Epicuro è connessa con quella del l'origine stessa del
linguaggio, che è discussa principalmen te nella Lettera ad Erodoto (75-76).23
Per Epicuro il linguaggio è un'attività che gli uomini han no sviluppato nel
corso della loro evoluzione, passando at traverso due stadi distinti. Nel
primo stadio il linguaggio esprime una relazione con la realtà che potrebbe
essere defi nita naturale, mentre nel secondo una relazione che potreb be
essere definita convenzionale. In effetti Epicuro, nella polemica phjsisln6mos,
assume una posizione mediana e molto particolare, rifiutando sia l'idea che ci
sia stato un unico datore di nomi, sia l'idea (per altro sostenuta dagli
stoici) che le parole si accordino in maniera naturale alle co se. Esaminiamo
più in particolare come è descritto il pro cesso di nascita e sviluppo del
linguaggio nella Lettera ad Erodoto . In una prima fase l'attività linguistica
degli uomini non è affatto diversa dai processi naturali quali tossire,
starnuti re, gemere ecc.: infatti gli uomini emettono suoni, simili a parole,
sotto lo stimolo involontario e naturale delle affe zioni (path) che provano e
delle immagini (phantasmata) che si formano in loro. Il linguaggio primitivo
costituisce una reazione istintiva all'arnbiente, e la tesi di Epicuro sem bra
essere, in relazione a questo stadio, a pieno titolo quella naturalista. Ma, a
ben guardare, essa presenta qualcosa di più. Infatti ha sempre costituito un
problema, per i sosteni tori della tesi del naturale accordo tra le parole e
le cose, spiegare la diversità delle lingue: qui Epicuro non evita que sto
aspetto del problema,24 ma lo integra nella sua teoria. La diversità delle
lingue è diretta conseguenza della diver sità degli ambienti in cui i vari
popoli si trovano e in relazio- 7. l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS»
177 ne ai quali emettono suoni diversi. Insomma, le lingue va riano perché le
cose variano da regione a regione. Inoltre gli uomini, accorgendosi che si
producono suoni diversi in re lazione alle affezioni e alle immagini prodotte
dagli oggetti, trovano utile usare questi suoni come nomi-etichette degli
oggetti. A questo punto interviene il secondo stadio nel processo evolutivo del
linguaggio, in cui vengono introdotti degli ele menti di convenzione. Questi
ultimi si instaurano sotto una duplice spinta: da una parte c'è un movimento
che tende a razionalizzare il linguaggio, rendendo le espressioni ambi gue,
createsi naturalmente "più chiare" e "più concise"; dal
l'altra c'è l'operato degli "uomini colti", i quali tendono a
introdurre concetti relativi a cose che vanno oltre la perce zione e che
dunque non hanno potuto essere nominate at traverso il processo naturale. Come
sottolinea Sedley (1973: 19), il tentativo deliberato di introdurre processi di
semplifi cazione nell'evoluzione del linguaggio corrisponde al desi derio di
rendere conto dei processi astratti, come quelli in cui la relazione uno e uno
tra parole e cose non è più soste nibile. Ciò avviene sostanzialmente in due
casi, che sono le gati all'intera problematica linguistica di Epicuro, cioè
(i) nella formazione dei termini generali e (ii) nei processi di
metaforizzazione. 7.lO Epicuro e la tradizione "physis/nomos" Dopo
aver esaminato la teoria epicurea dell'origine del linguaggio, è possibile
ritornare al triangolo semiotico e analizzare quali relazioni siano implicate
tra i vari termini, in rapporto con altre posizioni della tradizione
linguistica. Un primo confronto può essere stabilito con Aristotele. Spesso gli
studiosi hanno suggerito una dipendenza della teoria linguistica di Epicuro da
quella di Aristotele (tra gli altri, Arrighetti), o almeno una stretta
somiglian za (Long 1971 b: 121). In effetti nel De interpreta/ione (16 a)
Aristotele pensa alle affezioni dell'anima come a immagi ni provenienti dalle
espressioni sensoriali derivate dalle cose INFERENZA E LINGUAGGIO IN
EPICURO esterne, in un modo non molto diverso da come le protessi di Epicuro
derivano dagli oggetti. Se questo è un punto di contatto tra le due teorie,
tuttavia maggiori sono, secondo Sedley, le divergenze. Anzitutto, per
Aristotele i diversi popoli hanno esattamente le stesse affezioni mentali, ma
le rappresentano attraverso espressioni linguistiche diverse. Per Epicuro,
invece (come abbiamo visto a proposito dell'origine del linguaggio), le forme
linguistiche sono diverse perché le affezioni mentali (path e phantasmata,
ambedue inclusi negli aristotelici pathmata) sono diverse da popolo a popolo,
in relazione ai diversi ambienti naturali. Ma ci sono anche altri elementi di
divergenza tra Aristotele ed Epicuro. Per il primo, infatti, nessun nome preso
di per sé ha funzione apofantica, cioè nessun nome può essere detto vero o
falso; inoltre nessuna espressione diviene un simbolo se non in seguito a
conven zione. Per Epicuro, invece, i nomi di oggetti individuali comportano
verità o falsità, come avveniva, del resto, an che nel Crati/o platonico;
inoltre, una certa espressione, che può essere anche un semplice rumore, può
essere usata co me un simbolo, per quanto in assenza di elementi conven
zionali, come avviene negli stadi primitivi della comunica zione. Un secondo
confronto può essere stabilito poi anche con la posizione platonica.
Sicuramente in Epicuro non è pre sente alcuna posizione simile a quella della
prima teoria se mantica di Platone,25 adottata in seguito anche dagli stoici,
secondo la quale il nome è una lista abbreviata delle pro prietà dell'oggetto
a cui si riferisce. Platone, infatti, vede le parole primitive come una
rappresentazione fedele delle proprietà dell'oggetto, quasi che tutto il
vocabolario fosse deliberatamente costituito da onomatopee. La posizione
naturalistica di Epicuro si limita a sostenere che, ali'interno di ciascun
linguaggio, ogni nome ha un uso corretto quando viene impiegato per denotare
l'oggetto, o la classe di oggetti, a cui è stato associato nel momento del la
sua origine naturale. Tuttavia, nonostante questa distin zione, ci sono forti
elementi di convergenza tra la posizione platonica e quella epicurea, in quanto
in entrambe i nomi EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 179 hanno alla
loro origine un valore cognitivo, che viene par zialmente obliterato
attraverso i cambiamenti del linguag gio nel corso del tempo.26 Per Platone il
recupero del senso originario delle parole avviene attraverso l'etimologia,
stra da sulla quale lo seguiranno anche gli stoici. Epicuro ritie ne, invece,
che la relazione originaria del linguaggio con gli oggetti percepibili sia
stata oscurata soprattutto da processi metaforici e, per recuperare il valore
epistemologico origi nario dei nomi, suggerisce di ricercare "la prima
immagine" (prOton enn6ema: Ep. Hdt., 38). Questa prima immagine è da
identificarsi con la prolessi, cioè con il concetto che si è formato alla prima
percezione dell'oggetto e che è stato as sociato al nome. In conclusione,
rispetto alla teoria di Aristotele e alla pri ma teoria semantica di Platone,
si può dire che Epicuro as sume una posizione intermedia. Per Aristotele i
nomi sono simboli e sono convenzionali. Per Platone, invece, i nomi sono delle
icone degli oggetti e sono naturali. Per Epicuro i nomi sono simboli, come per
Aristotele, in quanto non riproducono le proprietà degli og getti, ma sono
naturali, come per Platone, nella loro origi ne, coincidente con il primo dei
due stadi evolutivi del lin guaggio . Gli elementi di convenzionalità si
sviluppano soltanto in seguito, nel secondo stadio. Questa posizione intermedia
di Epicuro spiega perché non venga fatto ricorso all'etimolo gia, come invece
avviene in Platone e negli stoici, e, pur tut tavia, si chieda di tenere
presente "la prima immagine": in realtà, la corrispondenza biunivoca
tra il nome e "la prima immagi ne" si fonda non sulla forma, ma sulla
origine naturale . IL ''DE SIGNIS'' DI FILODEMO 8.0 Introduzione Dopo
Epicuro la teoria del segno trovò un ampio svilup po negli scritti dei suoi
seguaci. Un trattato del I secolo a.C.,1
ilPerìsmet'Onkaìsmei8seon(Suisegniesulleinfe renze)2 di Filodemo, testimonia
ampiamente del grado di raffinatezza e di complessità che la teoria del segno
aveva raggiunto in seno alla scuola epicurea. Si tratta di un'opera composta
probabilmente a uso della scuola epicurea di Er colano, della quale Filodemo
fu uno dei più importanti esponenti. Il De signis non costituisce un vero e
proprio trattato metodologico, né un'esposizione sistematica della teoria
epicurea del segno, ma riporta la polemica allora in corso fra stoici ed epicurei
sull'inferenza da segni e su varie tematiche semiotiche a essa connesse. Il
trattato è diviso in quattro sezioni, nelle quali sono esposte le
argomentazioni di tre maestri epicurei, Zenone di Sidone, Bromio e Deme trio
di Laconia,3 a favore della teoria epicurea del segno e contro le critiche a
essa mosse dagli esponenti della scuola stoica. Il trattato è di grandissima
importanza semiotica, perché tanto gli stoici quanto gli epicurei costruivano
la loro teoria logica sull'inferenza da segni. Nel confronto le due teorie si
illuminano a vicenda. Inoltre il De signis dibatte una serie di problemi che
ancora oggi sono al centro della discussione semiotica. Del resto, per la sua
pertinenza semiotica, que st'opera aveva attirato anche l'interesse di Charles
Sanders 8.l RELAZIONE SEGNICA «A PRIORI» E «A POSTERIORI» 181 Peirce, che
ne aveva affidato l'approfondimento e l'analisi all'allievo Allan Marquand; di
quest'ultimo ci rimane un saggio sulla logica semiotica degli epicurei.4 8.1 La
relazione segnica è "a priori" o "a poste riori"? Al
centro del trattato di Filodemo si colloca il contrasto fondamentale tra le due
scuole circa il modo di concepire il rapporto che si instaura tra i due termini
della relazione se gnica: gli stoici sono sostenitori di una posizione che
vede tale relazione come a priori, formale e di natura razionale; gli epicurei,
invece, sostengono che tale relazione è a poste riori e interamente fondata su
basi empiriche. Il punto di vi sta epicureo, in effetti, è che per poter
stabilire una relazio ne tra un segno e ciò a cui esso rinvia, è necessario
aver os servato più volte i due termini in un qualche tipo di con giunzione
(sia essa spaziale, temporale, causale ecc.). Così la relazione si stabilisce
in seguito ali'esperienza, e non a priori, come sostenevano gli stoici. Di
conseguenza, il me todo semiotico proposto dagli epicurei è quello deH'analo
gia (ho katà tn homoi6tta tr6pos), cioè un "metodo stret tamente empirico
e basato sull'osservazione delle similarità nella nostra esperienza e su certe
congiunzioni costanti, dal le quali noi inferiamo ugualmente delle similarità
e delle congiunzioni nella sfera di ciò che è oscuro" (De Lacy 1938: 398).
In corrispondenza con i due modi di concepire la relazio ne segnica, stoici ed
epicurei sviluppano anche due differen ti teorie sulla verifica della validità
logica della relazione. Gli stoici consideravano valida la relazione segnica
basata sulla contrapposizione (anaskeu), secondo cui la negazione del
conseguente comporta la contemporanea negazione del l'antecedente. A esempio,
nell'inferenza "Se c'è moto, c'è vuoto", gli stoici sostenevano che
la negazione della cosa si gnificata ("c'è vuoto") implicherebbe
anche la negazione del segno (''c'è moto"). Si tratta di un metodo di
verifica as solutamente a priori e astratto, al quale gli epicurei con-
182 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO trappongono un metodo completamente
empirico. Anzi, gli epicurei sostengono che nessun metodo a priori è possibile
fino a che non sia stata costruita un'inferenza su base empi rica: l'esistenza
del vuoto, nell'esempio precedente, è inferi ta a partire dalla osservazione
empirica che non si verifica il moto senza l'esistenza congiunta del vuoto, e
da una conse guente generalizzazione.5 Ciò significa che il principio astratto
degli stoici può esse re formulato soltanto dopo che l'inferenza è stata
costruita su base empirica e con il ricorso a un ragionamento analogi co. Così
gli epicurei sostengono che il metodo della con trapposizione poggia,
inconsapevolmente, sul fondamento ultimo dell'analogia epicurea. In questo modo
le verità ne cessarie, che gli stoici consideravano analitiche e a priori,
sono in realtà stabilite attraverso l'induzione. Gli epicurei prospettano un
punto di vista secondo cui la logica dedutti va è susseguente a una logica
induttiva in ordine di svilup po: la prima dipende infatti dalla seconda (De
Lacy 1978: 221). Se questa idea è chiaramente espressa nel trattato di
Filodemo, non ci si deve tuttavia aspettare una discussione articolata sulle
relazioni tra la logica formale e deduttiva da una parte, e logica induttiva e
metodo empirico dall'altra. Anzi, a ben vedere, nel corso del trattato,
entrambi i prota gonisti della discussione tendono a confondere due cose che
la logica moderna avrebbe piuttosto tendenza a tenere di stinte: da una parte,
il metodo per la costruzione di un'infe renza segnica; dall'altra, il criterio
per la verifica della sua validità (Martinelli) . Così, il metodo di
costruzione deli'inferenza per gli epicurei è l'analogia, mentre il criterio è
più precisamente quello della inconcepibilità (adianosfa). Tuttavia la
distinzione non è così forte, in quanto sia il me todo sia il criterio sono su
base empirica: in effetti, nel di battito, gli stoici tenderanno ad attaccare
il metodo per in validare il criterio e viceversa. 8.2 Contrapposizione vs
inconcepibilità Vediamo di analizzare, in termini formali, l'opposizione
CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPmiLITÀ · 1 83 che si stabilisce tra il criterio
stoico della contrapposizione e quello epicureo della inconcepibililà. Data
l'inferenza p-:Jq il criterio della sua verifica secondo la contrapposizione
stoica è esprimibile come il che equivale a dire che, negando per ipotesi il
conseguen te, anche l'antecedente risulta negato. La prova dell'infe renza,
dunque, avviene su base formale e non empirica. Il criterio della
inconcepibilità epicurea, invece, prescinde da considerazioni formali ed è
basato sull'analogia empiri ca. Esso viene così illustrato nelle parole di
Filodemo: Ma talvolta l'inferenza non è provata essere vera in questo mo do (
= per contrapposizione), ma proprio per l'impossibilità di concepire che il
primo sia, o abbia una certa proprietà, mentre il secondo non sia, o non abbia
tale proprietà, come per esem pio: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è
un uomo". Se è vera questa inferenza, diviene vero anche che "Se
Socrate non è un uomo, nemmeno Platone è un uomo", non perché, attraver
so la negazione di Socrate, Platone sia negato insieme ad esso, ma perché non è
possibile che Socrate non sia un uomo e Plato ne sia un uomo; e questa
inferenza appartiene al metodo dell'a nalogia . (col. XII, 14-31=cap. 17) Dal
punto di vista formale il criterio della inconcepibilità è esprimibile come
impossibile (pl\q) In effetti le due formule che corrispondono rispettiva
mente al criterio di verifica stoico e a quello epicureo non esprimono un
contenuto logico molto diverso l'una rispetto all'altra. La stessa presenza di
un operatore modale nella 184 8. n «DE SIGNIS» DI FnODEMO formula
del criterio di inconcepibilità è controbilanciata dal carattere, ugualmente
modale, di necessità, che sappiamo essere richiesta dali'implicazione come la
concepivano gli stoici . Tuttavia, in Filodemo i due metodi sono presentati
come contrapposti, e anzi, nel passo citato, sembra che trovino applicazione in
casi diversi. Se non è dunque sul piano del contenuto logico che si dif
ferenziano, che cosa è allora che li rende diversi? È possibi le cercare una
risposta a questo interrogativo soffermando ci sull'esempio che viene
riportato da Filodemo di inferenza verificata con il metodo
dell'inconcepibilità: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo"
Questa inferenza, ci dice Filodemo, appartiene al metodo dell'analogia.
Infatti, entrambi i membri dell'inferenza condividono un elemento, cioè la
proprietà attribuita ai soggetti rispettivi delle due proposizioni, fatto che
potrem mo esprimere come: u {P) u {S)
in cui "u" è la proprietà di "essere un uomo",
"P" è "Plato ne" e "S" è "Socrate".
Questo aiuta a capire che cosa intendano esattamente con "analogia" e
con "inferenza segnica basata sull'analogia" gli epicurei. In
effetti, mentre per gli stoici non è necessario alcun elemt.nto in comune tra i
due membri dell'inferenza segnica, una tale caratteristica diviene essenziale
per gli epi curei.6 Il fatto, però, che l'analogia, da un punto di vista
logico, si venga precisando come situazione in cui c'è una proprietà condivisa
dai soggetti delle due proposizioni membri del l'inferenza, ci permette di
dire che la logica usata dagli epi curei non è la stessa di quella usata dagli
stoici: mentre que sti ultimi si servono della logica delle proposizioni, gli
epi curei ritornano a una logica dei predicati, sotto un certo punto di vista
più simile a quella aristotelica.CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPIBILITÀ 185 A
distinguere il metodo della contrapposizione da quello dell'inconcepibilità è
dunque l'ambito di applicazione: le proposizioni nel primo caso, le proprietà
nel secondo. Lo scopo è tuttavia lo stesso: dimostrare che l'inferenza ha un
carattere di necessità. Ora non c'è nessun problema a considerare necessaria la
relazione stoica verificata dalla contrapposizione, in quanto il metodo
adottato è aprioristi co. Ci sono maggiori problemi, invece, come gli stoici
sot tolineano, a considerare necessaria l'inferenza analogica. A ogni modo,
per gli epicurei le relazioni segniche vengo no scoperte empiricamente e, se
la ricerca è ben condotta, la relazione tra il segno e l'oggetto a cui il segno
rimanda' è necessaria. Tuttavia, il metodo stesso dell'inconcepibilità è un
metodo empirico, in quanto una certa cosa è inconcepi bile solo nei termini
della nostra esperienza. Le inferenze verificate dall'inconcepibilità sono
basate sull'analogia tra il segno e ciò a cui esso rimanda: "Un oggetto
che non ab bia niente in comune con ciò che appare è inconcepibile" (col.
XXI, 27.;.29 = cap. 36). Anche le inferenze su ciò che va di là dell'esperienza
sono basate sull'analogia con le proprietà che presentano le cose ali'interno
deli'esperienza. Se non è possibile verificare di rettamente la presenza di
quelle proprietà negli oggetti non percepiti, si ricorre alla prova indiretta
della non incompati bilità (ouk antimartjrsis) con i dati empirici.7
L'inferenza che viene presa in considerazione è la seguente: Se gli uomini che
noi conosciamo direttamente, una volta deca pitati muoiono, senza che
ricrescano nuove teste, allora tutti gli uomini, dovunque, una volta decapitati
muoiono e non ricre scono nuove teste. Il primo membro del condizionale è
considerato segno del secondo. Tra i due membri si stabilisce un elemento co
mune, e l'inferenza è propriamente un'induzione: l'espe rienza ripetuta dell'associazione
tra decapitazione da una parte e morte congiunta alla non ricrescita della
testa dal l'altra, porta alla generalizzazione di questa associazione, in modo
da poter fare inferenze e previsioni anche in casi 186 8. IL «DE SIONIS»
DI FnODEMO non precedentemente osservati, o non osservabili in asso luto.
Inoltre, poiché è impossibile verificare l'inferenza sui casi non osservabili,
gli epicurei la ritengono veri ficata basando si sulla non incompatibilità con
i casi che cadono nel domi nio deli'esperienza. La condizione è tuttavia
quella di sce gliere i casi giusti, che sono quelli che appartengono allo
stesso genere: a esempio, per inferire la non ricrescita delle teste, è
necessario non basarsi sulla ricrescita dei capelli o delle unghie (coli. XIII,
20 - XIV, 2 = cap. 18). 8.3 Segni comuni e segni propri La disputa sui metodi
di verifica dell'inferenza si lega alla discussione sui tipi possibili di
segno. Tanto gli stoici quan to gli epicurei distinguevano tra segno comune
(koinòn s mefon) e segno proprio (fdion smefon). Definivano il segno comune
come quella entità che può esistere anche in assen za di un'entità cui
dovrebbe rinviare (a esempio, nell'infe renza "Se quest'uomo particolare
è ricco, allora è buono"! la ricchezza può sussistere anche se non
sussiste la bontà). Definivano poi il segno proprio come quell'entità che può
esistere solo se esiste un oggetto non percepibile a cui essa rinvia (a
esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è9vuoto", il moto può
esistere solo se esiste anche il vuoto). Gli epicurei erano d'accordo con gli
stoici nel rifiutare i segni comuni come basi inaffidabili di inferenze, ma non
concordavano sul fatto che ogni caso di segno proprio fosse anche un caso (come
sostenevano gli stoici) di segno stabili to per contrapposizione, cioè
stabilito aprioristicamente. Per essi era possibile stabilire dei segni propri
usando un criterio empirico, come è quello dell'inconcepibilità.10 Se
consideriamo l'inferenza: "Se Epicuro è un uomo, allora anche Metrodoro è
un uomo " ci troviamo di fronte a un segno proprio costruito per
ana- SEGNI COMUNI E SEGNI PROPRI 187 logia, cioè sull'osservazione di una
proprietà in Epicuro che è inconcepibile pensare che Metrodoro non abbia esatta
mente negli stessi termini. In altre parole si può dire che, posto l'accordo
tra le due scuole sulla validità dei soli segni propri, gli stoici costituivano
un oggetto come segno a par tire dal conseguente (ovvero dal rinviato), mentre
gli epicu rei lo costituivano a partire dall'antecedente. È l'oggetto che
compare nell'antecedente, infatti, che nella semiotica epicurea viene associato
a certe proprietà (costantemente osservate) e diviene segno di un altro ogget
to non percepibile a cui vengono attribuite le proprietà del primo. Tuttavia,
il primo oggetto X deve avere almeno due proprietà Pt e P2 e il secondo oggetto
deve avere almeno una di queste: la proprietà comune diviene il segno della
presenza della seconda proprietà che può non essere perce pibile direttamente
nel secondo oggetto. A esempio, se un certo individuo X ha le due proprietà: Pt
= "essere un uomo" p2 = "non poter avere la ricrescita della
testa, una volta tagliata" sarà sufficiente che un altro individuo Xt
abbia la proprietà Pt perché gli si possa attribuire anche la proprietà p2. Le
condizioni della validità generale di questa inferenza sono due: (i) che
l'associazione tra le due proprietà nel pri mo membro dell'inferenza sia
costante; (ii) che tale associa zione non si stabilisca tra proprietà casuali.
Come vedremo in seguito, si tratta di scegliere delle proprietà che siano
"es senziali". Rimane da fare una considerazione generale sul tipo
di segno proposto dagli epicurei: esso sembra costantemente configurarsi come
segno iconico, in quanto, in termini peir ceani, rimanda al suo oggetto in
virtù di una somiglianza o per avere alcune proRrietà in comune con esso
(Peirce 1980: 140; Eco 1973: 51). 1 188 8. ll «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.4
Critica stoica all'induzione epicurea Gli stoici non accettano la validità
dell'inferenza basata su un criterio induttivo, come proponevano gli epicurei.
A essa contrappongono inferenze segniche basate sostanzial mente su due tipi
di criterio: (i) la tautologia; (ii) la L-impli cazione. 12 Seguiamo lo
sviluppo dell'argomentazione degli stoici. Essi prendono come punto di partenza
una tipica in ferenza induttiva, o analogica, epicurea: "Se gli uomini
tra di noi sono mortali, allora tutti gli uomi ni lo sono''. Per gli stoici
l'inferenza cosi formulata è inaccettabile. Per acquisire validità, essa deve
essere riformulata secondo l'uno o l'altro dei criteri che abbiamo menzionato.
Vedia mo il criterio definito come tautologia. Gli stoici sostengo no che,
per rendere valida l'inferenza, cioè, dal loro punto di vista, per rendere
necessaria la relazione tra i due mem bri, entrambe le proprietà prima
considerate devono essere contenute nella premessa. 1 3 Gli stoici propongono
così di riformulare l'inferenza nel modo seguente: Dal momento che gli uomini
tra di noi sono mortali, e se in altri luoghi vi sono uomini simili a quelli
tra di noi sotto tutti i ri spetti, e anche nell'essere mortali, essi sono
eventualmente mor tali . (coIl. II, 37 - III, 4= cap. 5) Il carattere
tautologico dell'inferenza è sottolineato dagli stoici stessi, i quali
sostengono espressamente che "la con clusione appresa attraverso questo
segno non differisce dal segno a partire dal quale si trae l'inferenza
(smeioume tha)".14 Infatti viene assunta la premessa che entrambe le
serie di entità (cioè sia gli uomini che si trovano tra di noi, sia gli uomini
che sono in luoghi sconosciuti) hanno non so lo la proprietà comune di essere
"uomini", ma anche con temporaneamente quella di essere
"mortali". 8.5 RISPOSTA EPICUREA A FAVORE DELL'INDUZIONE L'assunzione
nella premessa dello stesso carattere di "mortalità" che dovrà essere
anche oggetto di inferenza è, per gli stoici, condicio sine qua non della
necessità dell'infe renza. L'inferenza sarà valida, dunque, solo se totalmente
analitica o tautologica. Vediamo ora l'argomentazione stoica contro l'induzione
secondo il criterio definito L-implicazione. In questo secon do caso gli
stoici propongono di riformulare l'inferenza epi curea di partenza in maniera
tale che il carattere di "morta lità" da inferire sia contenuto
nella definizione stessa di "uomo". Per esprimere l'idea che la
parola luomol implicita semanticamente tutto un insieme di proprietà che una
defi nizione metterebbe in luce, essi introducono le espressioni hii "in
quanto" e kath6 "nella misura in cui". L'inferenza riformulata
secondo questo principio assume la forma se guente: Dal momento che gli uomini
tra di noi, in quanto (hi1) e nella misura in cui (kath6) sono uomini, sono
mortali, anche in qual siasi altro luogo gli uomini sono mortali.ts in cui la
semplice espressione l uomo l è data come implici tante la proprietà
"mortale" da inferire. Gli stoici sostengono che l'attribuzione della
proprietà di essere "mortale" a l uomo l, se avviene in qualsiasi
altro modo diverso da questo, come appunto fanno gli epicurei, rende vana
l'inferenza. 8.5 La risposta epicurea a favore dell'induzione La sostanza della
replica epicurea è che il sistema stoico, per quanto appaia analitico e a
priori, tuttavia poggia in ul tima analisi su una base induttiva. In realtà,
secondo gli epicurei, la necessità della relazione inferenziale è costruita
sull'osservazione di congiunzioni costanti. È a causa del fatto di non vedere
mai il fumo senza il fuoco, né il moto senza la presenza del vuoto, che noi
arriviamo a dire che il fumo è segno del fuoco e il moto segno del vuoto.16
Cosi è 190 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO su base empirica che viene
stabilito il sistema di necessità lo gica a priori alla quale fanno ricorso
gli stoici . Del resto, la stessa connessione necessaria tra due termini,
espressa at traverso il test della contrapposizione, può essere verificata
solo dopo che l'esperienza ha mostrato la costante congiun zione tra di essi.
Come giustamente interpreta Estelle De Lacy (1938: 405), "le ipotesi sul
livello logico e teoretico sono formulate sulla base di informazioni intorno
alla connessione di termini da ti dali'osservazione deli'esperienza dei sensi.
La validità di queste ipotesi, di conseguenza, dipende dalla loro corri
spondenza con i fatti e dalla loro adeguatezza nel compren dere tali fatti,
come pure dalla loro interna coerenza o com patibilità dell'uno con
l'altra". Se questa è la sostanza della replica epicurea alle critiche
stoiche sull'induzione, vale però anche la pena di analizzare la risposta specifica17
alla seconda critica stoica. Infatti, in relazione alla L-implicazione, gli
epicurei, ribaltando l'ar gomento stoico, sollevano una questione
interessante: la de finizione di uomo in quanto mortale è non il punto di par
tenza di un'inferenza deduttiva, ma il punto di arrivo di ri petute inferenze
induttive. In altre parole, si costruisce la definizione di uomo in quanto
tale, come comprendente an che la proprietà di essere "mortale" in
conseguenza di due serie di informazioni: (i) le informazioni che ci fornisce
la storia sulle vite degli uomini che ci hanno preceduti; (ii) le informazioni
che ci derivano dali'esperienza diretta dei no stri contemporanei. Così gli
epicurei pongono l'equivalenza tra la proposizione: (a) "Gli uomini, in
quanto uomini, sono mortali " (che è la formula suggerita dagli stoici, e
che indica dedutti visticamente il fatto che nella nozione di "uomo"
vi è com presa la proprietà "mortale"), e la proposizione: (b)
"Gli uomini con questa proprietà (di essere mortali) sono uomini" PROPRIETÀ
ESSENZIALI E ACCIDENTALI 191 che è la formula epicurea, la quale suggerisce in
qual modo venga costruita la definizione. In sostanza, gli epicurei sem brano
sostenere che la definizione di "uomo" viene costrui ta mediante
un'accumulazione di proprietà che sono rileva te mediante un metodo analogico
in entità che sono9deno minate in un certo modo, in questo caso, luominil.1
8.6 Proprietà essenziali e proprietà accidentali Un altro interessante problema
che emerge nella disputa tra stoici ed epicurei è quello della distinzione tra
proprietà primarie e proprietà secondarie. Questa distinzione risale a
Democrito, che è stato il primo a usarla (De Lacy 1938: 403). Il problema non è
affatto banale e ancora oggi, in molte teorie semantiche, si ricorre a
un'analoga distinzione. Gli epicurei affrontano l'argomento per rispondere a
una critica stoica che attacca il metodo dell'analogia mostrando il rischio che
si corre neli'applicarla a proprietà che non hanno tutte la stessa ripartizione
o generalità. Infatti, so stengono gli stoici, allo stesso modo in cui viene
universaliz zata la concomitanza osservata tra la proprietà "uomo" e
la proprietà "mortale'', altrettanto potrebbe essere fatto per la
concomitanza osservata tra "uomo" e "di breve vita": il ri
schio è che, così facendo, si viene ad attribuire quest'ultima proprietà anche
agli abitanti del monte Athos, che nell'anti chità erano proverbialmente
considerati longevi.20 Proprio da questo tipo di critica gli epicurei sono
spinti a elaborare una distinzione tra proprietà che sono variabili (cioè
peculiari a certi individui) e proprietà che sono costan ti (cioè
rintracciabili in ogni individuo). L'inferenza corret ta sarà quella che parte
dalle proprietà costanti. Tuttavia, sostengono gli epicurei, la stessa presenza
di proprietà va riabili, invece di indebolire la teoria dell'inferenza analogi
ca, la rafforza: posto infatti che gli uomini conosciuti diffe riscono
moltissimo rispetto alla lunghezza della vita (essen do alcuni di breve vita e
altri longevi), diviene possibile, proprio sulla base dell'esistenza della
variazione, fare cor rettamente l'inferenza che altrove esistano uomini di
ecce- 192 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO zionale longevità, come lo sono
appunto gli abitanti del monte Athos.21 Ma ciò che spinge gli epicurei ad
andare ancora più a fon do su questa strada è l'attacco stoico a proposito di
inferen... ze che hanno conseguenze sulla loro teoria metafisica. La
provocazione stoica concerne la teoria degli atomi, che, nel la metafisica
epicurea, hanno la proprietà di essere "incolo ri" e
"indistruttibili"; però essi hanno anche la proprietà di essere
"corpi", a cui, nell'esperienza, sono associate le pro prietà
opposte (cioè "colorati" e "distruttibili"). Queste so no
le due inferenze che, secondo gli stoici, gli epicurei do vrebbero fare,
applicando correttamente il metodo analo gico: (l) "Dal momento che tutti
i corpi della nostra esperienza hanno colore e anche gli atomi sono corpi,
anche gli atomi hanno colore." (2) "Dal momento che tutti i corpi
nella nostra esperienza sono distruttibili, e anche gli atomi sono corpi, gli
atomi devono essere tutti distruttibili."22 La replica epicurea è molto
interessante, per due motivi. In primo luogo, perché precisa ulteriormente la
necessità di fare distinzioni tra proprietà a cui il metodo analogico si
applica, e proprietà a cui non si applica; infatti il metodo agisce
selettivamente sulle proprietà e non in modo ca suale.23 In secondo luogo, la
replica epicurea è interessante per ché modula la precedente distinzione in
termini teoricamen te più forti: essa diviene una distinzione in proprietà che
possiamo definire essenziali e proprietà accidentali. Infatti gli epicurei
parlano di certe proprietà che i corpi hanno pro prio "in quanto
corpi" (hei somata), che essi mantengono in ogni occasione: prima fra
tutte la proprietà di "opporre resistenza al tocco". Questa è dunque
una proprietà essen ziale. Poi ci sono quelle proprietà che non sono
strettamen te legate alla natura dei corpi e che possono variare a secon da
delle condizioni: si tratta di proprietà accidentali, che i PROPRIETÀ
ESSENZIALI E ACCIDENTALI corpi hanno "in quanto partecipano di una natura
opposta a quella corporea e non resistente",24 come a esempio la di
struttibilità o il colore, il quale ultimo è tanto accidentale che scompare
nelle condizioni di buio. Possiamo schematizzare queste due serie di proprietà
at traverso una tabella: proprietè entitè corpi A B proprietè
accidentali (in quanto partecipano di una nature opposta) ..distruttibilitè•
·colore• (in quanto tali) ·resistenze al tocco· proprietè
essenziali Gli epicurei precisano molto chiaramente che le inferenze
induttive generalizzanti non dovranno partire dalle proprie tà della colonna
B; ma niente impedirà di fare inferenze ge neralizzanti, con il metodo
dell'analogia, partendo dalle proprietà della colonna A.25 A conferma di questo
schema si può riportare l'esempio del "fuoco'',26 per il quale, accanto
alla proprietà essenziale di bruciare, viene elencata una serie di proprietà
variabili peculiari ai vari tipi: 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO proprietà
essenziali proprietà accidentali (koin6ttes) (idi6ttes) ·di lunga o corta
durata• ·non tutte le sostanze sono bruciate nello stesso modo· ·facili o
difficili da spegnere · ·duri o teneri· •di colore variabile a seconda del
combustibile· Nella sezione di Bromio27 viene anche prevista una specie di
topica per individuare la ripartizione delle proprietà: in fatti, ai fini
della correttezza delle inferenze, le proprietà es.. senziali (o comuni,
koin6ttes) e quelle accidentali (o pecu liari, idiOttes) devono essere
analizzate nei vari campi o ca tegorie che sono di pertinenza di un oggetto:
nelle sostanze, nei poteri, nelle qualità, negli attributi, nelle disposizioni,
nelle quantità, nei numeri. Lo scopo di questa topica appare essere quello di
giustifi care inferenze universalizzanti ali'interno di categorie omo genee:
infatti, a esempio, pur essendoci un'infinita varietà di esseri umani e di cibi
che li nutrono, se si considera il fie no rispetto alla categoria dei
"poteri", si troverà che esso ha due proprietà costanti: "di non
nutrire gli esseri umani" e "di non essere digerito da essi".28
Perciò, al di là delle diverse caratteristiche che questo og getto potrà
presentare (diversi colori, diversa consistenza, diverso grado di maturazione
ecc.), potremo fare con sicu rezza l'inferenza che da nessuna parte si troverà
del fieno che abbia la proprietà di nutrire gli uomini e di essere da lo ro
digerito. Ma che cosa sono propriamente per gli epicurei quelle proprietà degli
oggetti ''in quanto tali", che abbiamo defini to proprietà essenziali?
Dai precedenti esempi (e da altri analoghi) appare chiaramente che esse sono,
per loro, le - 194 propnettt r entità ! fuochi PROPRIETÀ ESSENZIALI E
ACCIDENTALI proprietà definitorie di un
oggetto, cioè quelle che concor rono alla sua definizione essenziale. Abbiamo
visto che per gli stoici una definizione viene co struita analiticamente,
attraverso una ricognizione delle proprietà implicite nella nozione da
definire: un individuo, in quanto è uomo, ha la proprietà di essere mortale.
Per gli epicurei le cose vanno nel senso opposto. La defi nizione di una
nozione viene costruita per accumulo delle proprietà comuni a certi individui.
Di conseguenza, tra le proprietà comuni (o essenziali) rilevate empiricamente e
le proprietà che fanno parte della definizione, non c'è diffe renza. Lo
dimostra anche l'uso della particella hi ("in quanto") che viene
utilizzata (come vedremo meglio più avanti) nelle espressioni definitorie.
Rimane aperto il pro blema se sia possibile costruire empiricamente una defini
zione annotando le proprietà comuni a una classe di ogget ti, o se il processo
non sia in qualche maniera viziato (alme no in parte) proprio dalla
preliminare esistenza di definizio ni che rimandano alla lingua come struttura
globale interde finita e/o storicamente stratificata. Questa seconda ipotesi
sembra in parte prospettarsi con la definizione di l uomo l . Per gli epicurei,
infatti, la pro prietà "mortale'' è, come abbiamo visto, una proprietà es
senziale o definitoria di l uomo l . Si deve però notare che es sa fa parte
della definizione di l uomo l già in una lunga tra dizione che risale per lo
meno ad Aristotele. Quest'ultimo definiva infatti l uomo l come "animale
mortale provvisto di ragione" (Top., V, l, 128 b, 35-36). Gli stoici poi
lo defi nivano come "animale razionale mortale" (Epictetus, Diss.
II, 9, 2). La tradizione epicurea, infine, lo definiva come "mortale
provvisto di sapienza pratica" (De signis, col. XXII, 22-24=cap. 37).29 È
probabile, dunque, che definizioni di questo genere co stituissero
un'implicita guida nella stessa ricognizione empi rica delle proprietà comuni
a una serie di oggetti (gli uomini percepibili) analizzati in vista di
un'inferenza al non perce pibile . 196 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.7
Modalità di inerenza delle proprietà essenziali ai soggetti Quando nel trattato
di Filodemo si parla di proprietà co muni o essenziali, queste vengono
congiunte al soggetto me diante le particelle héi, kath6, par6, che
equivalgono nel si gnificato alle espressioni italiane "in quanto",
''nella misura in cui". Esse vengono a indicare una condizione restrittiva
nell'inferenza al non percepibile, come abbiamo visto nel l'esempio della
natura degli atomi come "corpi in quanto tali", o degli uomini come
mortali "nella misura in cui sono uomini". Nella sezione di Demetrio
sono elencate quattro accezioni fondamentali di queste particelle, che
rimandano a quattro modi di inerenza delle proprietà ai soggetti: (i) Secondo
la prima accezione, le proprietà possono es sere viste come conseguenze
necessarie (ex ananks synépe tar): come esempio di conseguenza necessaria del
fatto di essere uomini, sono riportati i fatti di avere un corpo e di essere
soggetti alla malattia e alla vecchiaia.3° Con questo esempio l'autore sembra
individuare un tipo di proprietà che in certe semantiche contemporanee sono
chiamate fat tuali o sintetiche3 1 o proprietà secondo il modo 1r). 32 (ii)
Nella seconda accezione, le proprietà sono individua te come essenziali alla
definizione o alla concezione fonda mentale (prolessi)33 di un certo oggetto.
Questo si verifica a esempio con espressioni del tipo: "I corpi, in quanto
corpi, hanno volume e resistenza", o come: "L'uomo, in quanto uomo, è
un animale razionale''. In questo caso il rapporto sembra essere di tipo
equativo: l'estensione del primo termi ne viene a coincidere con quella del
secondo. Nel caso del l'esempio di l uomo l, l'equivalenza definizionale viene
data in termini di genere ("animale"), più differenza specifica
("razionale"). (iii) Secondo la terza accezione, certe proprietà sono
vi ste come sempre concomitanti (synbebekénar), come nell'e sempio:
"L'uomo nella misura in cui è uomo, muore". L'autore sembra
individuare qui delle proprietà che nelle teorie contemporanee sono state
definite semantiche, anali tiche o proprietà secondo il modo E : "uomo,,
infatti, è in cluso nella classe più vasta di "mortale".
Quest'ultima, poi, ritorna sotto forma di marca semantica a comporre il seme
ma corrispondente al termine l uomo l . (iv) La definizione della quarta
accezione è perduta in una lacuna, ma essa può essere ricostruita dagli esempi
che il testo ha conservato: "L'uomo, nella misura in cui è folle, è
massimamente infelice,, "Un coltello taglia nella misura in cui è
affilato", "Gli atomi, nella misura in cui sono soli di, sono
indistruttibili", "Un corpo, nella misura in cui ha peso, cade verso
il basso". Marquand (1883: 125) interpreta questi come esempi di proprietà
che implicano gradazioni o proporzione. I De Lacy (1978: 125) fanno invece la
conget tura che si tratti di proprietà delle proprietà. Certi di questi esempi
farebbero pensare al rapporto se miotico della connotazione, inteso come
significato che si appoggia su un altro significato e che comunque è fissato da
un codice. Si possono schematizzare i quattro modi in cui le proprie tà
ineriscono al soggetto, · sia secondo l'interpretazione di Marquand, sia
secondo quella della semiotica contempora nea (cfr. p. 198). 8.8 Conclusioni
Se gli stoici avevano fornito alla semiotica una solida im palcatura logica,
gli epicurei arricchiscono la problematica del segno mediante una serie di
specificazioni destinate ad avere valore operativo nella ricerca concreta ed
effettiva. Abbiamo già visto le distinzioni tra i tipi di segno, i tipi di proprietà,
i modi di inerenza delle proprietà ai soggetti. Ol tre a questi temi gli
epicurei affrontano anche il problema della gamma di variazione a cui i
fenomeni sono sottoposti e quello dei limiti di tale variazione, come
condizione per fare inferenze corrette. Infatti ammettono l'esistenza di
proprietà che variano da individuo a individuo, ma negano 198 8. IL «DE
SIGNIS)) DI FILODEMO semiotica contemporanea Marquand
conseguenza 1. 2. concezione estensionalmente necessaria definizione o
proprietè fattuali o sintetiche essenziale (protessi ) proprietà
equivalenti al soggetto 3. concomitanza proprietà semantiche o
analitiche 4. gradazione o connotazioni proporzione codificate che nei
fenomeni non percepibili la gamma di variazione sia illimitata e che comunque
superi i confini della variazione osservabile nei fenomeni conosciuti. Così non
si potrà infe rire che gli uomini fuori dalla nostra esperienza siano tanto
resistenti da essere invulnerabili, oppure che essi siano fatti di ferro, o che
passino attraverso le pareti, come quelli co nosciuti passano attraverso
l'aria. La giustificazione di que sto fatto viene data dal metodo
deli'inconcepibilità: "è in concepibile che ci sia un ogetto che non
abbia niente in co mune con ciò che appare". 5 Nel De signis vengono
anche affrontati i problemi con nessi ai vari tipi di inferenza: da classe a
classe; da oggetti identici ; da casi rari ; da casi unici . Tutti questi
problemi so no collegati a un tema che è costante nella semiotica epicurea:
quello delle garanzie di validità di un'inferenza. A esempio, un'inferenza
scorretta è quella che porta a concludere che tutti gli uomini sono bianchi,
partendo dal l'osservazione che gli uomini greci lo sono, o che, al contra
rio, porta a concludere che tutti gli uomini sono neri, par tendo
dali'osservazione che gli Etiopi sono tali. In effetti, simili inferenze sono
errate perché non sono frutto di "una accurata supervisione di tutti i
casi percepibili".36 Ciò che, dal punto di vista logico, avviene in casi
di questo genere è che si tenta di applicare ali'intera classe o genere (quello
de gli "uomini") una proprietà che di volta in volta è caratteri
stica di una sottoclasse o specie (quella dei "Greci" o, ri
spettivamente, quella degli "Etiopi"). In effetti, per garantire il
massimo di sicurezza, gli epicu rei pongono alla base del loro metodo per
costruire inferen ze una teoria della progressiva inclusione semantica tra in
dividui, specie e generi, cioè una teoria delle classi. È infatti legittimo
fare inferenze tra membri (classi o in dividui particolari) i quali si situino
a un livello analogo o che siano il più possibile vicini e simili. Naturalmente
que sto non significa che l'inferenza debba essere fatta esclusi vamente tra
membri che si situano esattamente allo stesso livello, altrimenti l'induzione
perderebbe molta della sua forza, ma nella maggior parte dei casi viene
previsto un mo vimento ascendente di generalizzazione.37 Una teoria delle
classi è implicita anche nella trattazione epicurea dei casi unici, elaborata
ancora una volta in rispo sta a una critica stoica. In effetti gli stoici
avevano tentato di attaccare il metodo deli'analogia ricorrendo ali'argomen to
deli'esistenza in natura di casi unici, che non presentano analogia con alcun
altro fenomeno: a esempio, in mezzo al la stragrande quantità di pietre che
esistono nella nostra esperienza, ce n'è una sola, il magnete, che è capace di
atti rare il ferro; ugualmente, solo l'ambra ha la proprietà di at tirare la
paglia; infine, non c'è che il quadrato che misura 4 di lato che ha il
perimetro e l'area espressi dallo stesso nu mero.38 Secondo gli epicurei,
però, le critiche degli stoici, invece di inficiare l'inferenza analogica, in
realtà la rafforzano. 200 8. IL «DE SIGNIS» DI Fll.ODEMO Per dimostrare
questo, gli epicurei ricorrono al metodo di ridurre ad altrettante classi gli
oggetti unici. Così, essi dico no, se alcuni magneti attirassero il ferro e
altri no, l'inferen za per analogia sarebbe inficiata; ma poiché così non
avvie ne, è possibile inferire le proprietà degli altri magneti a par tire
dal magnete che cade sotto la nostra percezione.39 Molti ancora sarebbero i
punti particolari da prendere in considerazione, per mostrare il modo con cui
gli epicurei tentano di dettagliare la teoria del segno. Ma quello che in
definitiva caratterizza la semiotica epi curea è il suo richiamo a un completo
programma empirista (che era condiviso, tra l'altro, anche dai medici
empirici). Tale programma comprende tre tappe fondamentali: osservazione;
storia; inferenza da simile a simile. I pri mi due momenti del programma
permettono di individuare le "proprietà essenziali", e quindi di
passare al terzo mo mento, che è quello della ricostruzione del processo
semioti co vero e proprio. Nei primi due momenti, infatti, vengono suggerite
delle condizioni sui fenomeni da osservare per ottenere le pro prietà
costanti: essi devono essere "molti", devono essere diversi tra di
loro (''vari") e, contemporaneamente, devono essere
"omogenei".40 Il terzo momento, infine, combina le proprietà
deli'enciclopedia semantica con le leggi della logi ca (che per gli epicurei
sono quelle della logica delle classi). In questo compromesso, appunto, tra i
concreti suggeri menti in vista della produttività empirica e il tentativo di
mantenere il massimo rigore formale deve essere individua ta l'originalità
della proposta epicurea. RETORICA LATINA. L'interesse per la problematica
semiotica nel mondo ro mano fa parte di quel processo di costante e
progressiva ac quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel III
secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro mano, il paradigma
semiotico abbandona il campo della fi losofia in senso stretto, per
installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia la
conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole
postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire
dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica,
una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto partizione
della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente
orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del
paradigma se miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più
congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de stinato a
essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi
conto, nel modo più chiaro, del cambiamen to di prospettiva, basta mettere a
confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei riguardi
della retori ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un
suo importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema
dei segni; ma, come era già avve- 202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi
analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella
dei tipi di sillogismo. Cosi fa cendo, aveva indicato un percorso ben preciso:
la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de vono
rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte resse si sposta, come nel
caso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni
referenziali a quelli efficaci . In Cicerone, e in genere nella trattatistica
retorica roma na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori
ca non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al
contrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui
scopo è quello di contri buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è
l'elo quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del
De oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia ramente l'opinione di Cicerone
circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene
detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma
non di produrne. In effetti, per Cicerone la retorica costituisce il
"corona mento" della filosofia, dalla quale non può essere
dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec nica
capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen siero già formato. Come
mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in Cicerone
agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si
parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente
bene se non quando si parla ve ramente bene. Tuttavia la retorica,
indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra
che essa è organiz zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di
di scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del l'assemblea
(politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo
riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono
essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri
cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che 9.l LA «RHETORICA
AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or
nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita zione del discorso:
gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore
della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che
convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le
prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si
inseriscono nel pro gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei
due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro gramma è il
commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio
o sulla sua forza proba toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia,
come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare
l'espressione "prova" per indicare le probationes (pfsteis)
retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno tazione scientifica la
cui assenza appunto definisce le "pro ve" retoriche. Tuttavia, un
merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di
dare una classifi cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza
argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni
autore ha assolto in ma niera particolare, proponendo una classificazione che
non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi
paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li nee secondo le quali i tre
grandi autori della trattatistica re torica romana, cioè Cornificio (autore
della Rhetorica ad Herennium), Cicerone e Quintiliano, ricostruiscono nelle
rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia scuno secondo
diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una
documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati
del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium, attribuita un tempo a
Cicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi
asse gnata a Cornificio (Calboli: 1969). 204 9. RETORICA LATINA La
problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della
constitutio coniecturalis dove, per verifica re se sia stata commessa o no una
determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col
pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret tamente a cui i segni
devono rimandare non è il fatto o rea to, che è ovviamente noto, ma l'agente
responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un certo
fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed è ben
illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi reso
conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla spada.
Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma insanguinata.
Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del fratello con la
spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità per
congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa
colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da una
intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come ha
sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel
metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non
portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti pico procedimento
diairetico, suddivide lo stato congettura le in sei parti, sei diverse vie per
arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto),
signum (pro cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio
(conseguenza), adprobatio (conferma). La probabilità Troviamo qui una
terminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la
trasposizione la tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo
a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so- 9.l LA
«RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi dalle corrispondenti
nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che
era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da
comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi nizione nella quale non
rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è
connessa alla caratteriz zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se
[l'accu satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem pre stato
avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto
congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla
sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di
"movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento
indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che
serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione
(del crimine)" (II, 6). Non ritro viamo nemmeno qui la nozione greca di
smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia
ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico struire il fatto
scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine
separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di
por tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il
segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la
sua definizione non è ancora molto elo quente ("Argumentum è ciò
attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e
con un so spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci
tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe nomeno
percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile 206 9. RETORICA
LATINA direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da
un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per
gonfiore o lividezza, significa che è stato uc ciso da una dose di
veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è
stato visto sul luogo del delit to, significa che egli è colpevole (ibidem)
ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione
al rapporto temporale (anteriorità, con temporaneità, posteriorità) che si
instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che
risale al la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori ca ad
Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le
reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di
consecutio, che Calboli (1969: 232) mette in relazione ai sjmptoma della
terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa)
che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a
esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia
arrossito, sia impallidito, ab bia titubato, sia caduto in contraddizione, si
sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non
tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi che non
controllabili, dei segni involontari che possono ve nire messi in relazione,
in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di
colpa). Questi se gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe
rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca to difensore
può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è
turbato per la gravità del pe ricolo e non per la coscienza della colpa;
d'altro canto, l'ac cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal
genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da
presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento
"segno di sicurezza, non d'inno cenza" (ibidem). probabile
causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio
- spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio -
praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207 9. 1 .5 La
classificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il procedimento
indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari
li velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella
tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che
consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e
possibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci
sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar gumenta: essi
mettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è
quella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal
comportamen to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes sivo
rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente
la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il
se guente schema (Curcio 1900): - locus - tempus - spatium -
consequens Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli
ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non
saldamente fondata. Tuttavia, con temporaneamente, appare molto più aderente
alla materia instans conscientiae - signe confidentiae - signa
innocentiae 208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non
priva di una logica inter na nel suo seguire i segni deli'imputato in un
percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro cesso .
Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se gni, quando propone
di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo
proposito, nota che ci so no dei segni che non garantiscono nessuna certezza
come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo
piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere
ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che
corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché,
a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di
altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu ta,
ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran
numero ("se però vi si aggiungono an che tutti gli altri, tali segni
hanno un certo peso per accre scere il sospetto", ibidem). 9.2 Cicerone
Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti
della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere
che parlano dei se gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di
questo ambi to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è
ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De
oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so cio-politico, volta a definire la figura
deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo
di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini
di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i
personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le
Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate
dalla caratteristica di prendere in considerazio ne e di sistematizzare la
gran massa delle nozioni che com pongono l'apparato tecnico della retorica. Un
limite di que ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del
procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel
De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di
Cicerone e con densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino
a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In
particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an
tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata
l'attenzione verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il
balbettare dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine compare la
classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il
fatto crimi noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti
di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei
segni proposta da Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti.
Essa ap pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar gomentazione),
cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per
confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa
che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra
in . un mo do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44).
Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in
questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è
stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato)
rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già
aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e
un'inferenza necessaria (necessarie demon strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio
necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene
dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro vato
diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha
partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo",
"Se è giorno, c'è luce" (De inv., l, 86). Come Cicerone spiega in un
altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono
legati da una re lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae
rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi
cosi defini to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o
che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con
questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa
definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico
e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito
peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un
tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo
figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv.,
I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio ne che per
Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo
esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio" (De inv., CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello stesso
tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoria
di signum, poi, compare come una sottopar tizione dei segni non necessari,
accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile
(paragonabi le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite
ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum
corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan za particolare: "Segno è
ciò che cade sotto qualcuno dei no stri sensi e indica (significar) un
qualcosa che sembra deri vato dal fatto stesso, e che può essere verificato
prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno
di una prova e di una conferma più sicura" (De inv., I, 48). Ne sono
esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga",
"la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come
fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo lontari.
Qui sono presentati in una forma non proposizio nale; ma niente vieta che
vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra il caso deli'indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la
nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare
la classificazione propo sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2
"Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della
tarda matu rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia
semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato
giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei
modelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi
(qui chiamati 212 9. RETORICA LATINA argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori
élut quod in opi nione positum est") es.: .. "pallore'",
..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di
un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac
discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se ha partorito, è
stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig
nificat, quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"',
Sa è madre, ama suo fi\]lio --- ---
- l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine
viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi estrinseci"
(corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi
intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che
veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei
Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino
posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli
oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici,
interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una
concezione orda lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut
tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para digma divinatorio
all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono
completamente laicizzati. 9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in
ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L,orazione
per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel
che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo
caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli
dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il verisimile e il segno
caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin
seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau sa
congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i
verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle
cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo
più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al
piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri sponde ali'eik6s
aristotelico, di cui ha il carattere probabili stico e generalizzante. La nnta
propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai
direttamente e indica una cosa certa, co me il fumo indica il fuoco"
(Part. or., 34). Si tratta, evi dentemente, del segno necessario, come è
dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman da
alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari stotele il segno proprio
era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto
che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b,
11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat tere di
necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la
cosa a cui rimanda (Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di
fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali 214 9.
RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue,
grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor so
contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le
confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratte ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione
con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile)
(Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma
non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli
ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate goria dei semefa
aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo
delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i
vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia,
cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva
appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava
i smefa da un punto di vista episte mologico per la loro insicurezza, Cicerone
è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero
(coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione
cicero niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla
divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina zione.
Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla
conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo
luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente
mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o trt•)
(·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza
inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l -----
verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt
certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche
corrisponde la distinzione tra di vinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla con gettura) e divinazione naturale. Infine, come
Cicerone pole micamente rileva (De div., II, 55), i segni della divinazione
sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo sta, proprio come
avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto
due interpretazioni di verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i
metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei
confronti della di vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di
intellet tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi
losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora neamente impegnato in
politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e
superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione
appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti
dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la
superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che
inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta,
anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo
impegno di gestione della repubblica. 216 9. RETORICA LATINA Cicerone
affronta questi argomenti nel De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto,
nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra
l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi
sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le
osservazioni di Cicerone contro la teoria soste nuta da Quinto sono
particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a
un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una
concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale"
Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon te dell'informazione
e come emittenti nei processi di comu nicazione divinatoria, dei quali gli
uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di
divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il
primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione
dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di
decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in un settore:
extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum
(inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo
degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes sortium
(interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a
caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si
materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars
permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano
le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica,
secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau se
ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento
primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per
intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola
divinità (De div., I, 125-127). 9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista
l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo
srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete
sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini,
attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si
ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però
arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas
cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con
nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività.
Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi
futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione
"naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito
naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma
derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso
la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di
preveggenza derivan ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e
quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo
secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri patetiche (Dicearco e
Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div., II, 100), secondo le quali
l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta
da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo,
partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in
questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: RETORICA
LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano
9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le
obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi nazione si basano su
argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale
Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere
semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non siano
veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti
rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli
presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche
scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica
previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i
casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre
le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia che
comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in
definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla
frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip
pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla
divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi
si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso
della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). QUINTILIANO
Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista
semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso
diametralmente opposte (De div.); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di
falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso
a quello individuato come segno prodigio so, ma a ben diverse cause naturali
(De div.); l'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni ne cessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata
da ra gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.,
II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime
politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re torica divenisse
inutilizzabile come mezzo di agitazione po litica e sociale: per questo, da
strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita Cicerone, era
divenuta so prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui
che espone i principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa
di chiunque altro e contemporanea mente registra il processo di
cadaverizzazione che l'elo quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria
tratta un programma completo del ciclo educativo del perfetto orato re, in cui
la competenza semiotica ha una posizione di rilie vo. Gran parte degli
elementi che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una
pertinenza semio tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci
ficamente dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di
retorica. Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a
proposito degli altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri flessione sul
segno è saldamente inquadrata all'interno del l'ottica giuridica con cui viene
trattata la materia. I segni in fatti fanno parte delle probationes
artificiales, cioè delle RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars)
dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato. D'altro
canto, le pro bationes inartificiales sono quegli elementi che derivano
dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al suo
dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1
Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove) i n
artificial tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta,
quaesita ( inter rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti
ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rt i f i c i s l e
s formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un
orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a
inquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è
stato rilevato che Quinti liano non si trova del tutto a suo agio in questo
campo) (Kennedy). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta,
exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo giche vicine al
genere deli'implicazione, ovvero del rappor to "se p, allora q".
Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto)
argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed
epistemologico QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere una forma logica
che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse re
una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È giorno, dun que non è
notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q)
(''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno"); (iii) il concludere dal
non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è
giorno"); (iv) il concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia (
-p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst.
or., V, 8, 7). Analizzati ali'interno di questa griglia, i segni tendono a
configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei conse guenti; nozione,
questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto
attinta direttamen te dalla tradizione della retorica e della logica greca.
Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti anche molti esem pi, tra cui
l'ormai celebre "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo",
che, più o meno variato, ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come
Aristotele, a cui fa costante riferimento, Quintilia no è orientato verso
un'ottica epistemologica, piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa
è soprattutto la possi bilità di acquisire una conoscenza a partire da un
segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo proposito: "Aristotele, inte
ressato ad argomentazioni che in qualche modo rendessero ragione dei legami di
necessità che reggono i fatti, poneva distinzioni di forza epistemologica tra
segni necessari e se gni deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi
formali dell'inferenza, evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte ressato
alle reazioni di un'udienza forense, a cercare di giu stificare, secondo una
gerarchia di validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura
risulti 'persua sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa,
Quintilia no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune
con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le
grida o i livori non vengono esco gitati dali'arte deli'oratore, ma gli
vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se esi rimandano a un significato
inequi- RETORICA LATINA vocabile, scompare la possibilità di
argomentazione; se, in vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma
necessita no essi stessi di prove (lnst. or.). Per questa ragione i segni
devono essere divisi innanzitut to in necessari e non necessari. I segni
necessari l signa necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano,
"aliter se habere non possunt" (lnst. or., V, 9, 3), cioè sono degli
antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e vengono
messi in corrispondenza con i tekmria della tradizione greca. Si tratta di
segni insolubili (alyta smefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguen
ti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti bile . La furia
classificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano a
sottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguenti
siano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si è
unita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma re,
si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito
al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi,
sottoposti anche a un altro ti po di classificazione basata sul criterio di
reversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive,
respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendo
antecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sono
anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in
"Se cammina, si muove", "Se ha partori to, si è unita con un
uomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta la
messe, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha una
cicatrice" (lnst. or., V, 9, 7). Quintilia no sembra sollevare qui il
problema della "conversazione" (antistréphein), che per Aristotele
(An. Pr., 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè
dell'"esserci un unico segno di un'unica cosa". QUINTllANO
9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette
in corri spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei
fatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se condo Eco (1984: 40),
potendo essere altrettanto convincen ti di un segno necessario, dipendono dai
codici e dalle sce neggiature che una certa comunità registra come
"buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base al
l'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con seguente:
firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Se
sono genitori, amano i propri fi gli"; propensius (molto probabile), come
"Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giorno
successivo"; non re pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastante
con il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora è
stato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta un
grado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos
sono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre sentino in gran
numero avvalorandosi a vicenda (lnst. or., V, 9, 8), poiché ricostruiscono una
tessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali
Nel contesto dei signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signum
senza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e
vestigium, sia con il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga
considerato una categoria autonoma rispetto alle due prece denti (segni
necessari e verisimiglianze), come del resto av veniva nella fonte
aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda
ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa
Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione vestigium
e ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire l'uccisione, spinge a
stabilire un parallelo con i vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39)
cice roniane, dove compariva lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva,
della abituale categoria degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite
ecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li
definisce come quelli "attraverso cui si comprende un'altra cosa, (per
quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9), sottolineando che con essi si stabilisce
un rapporto di significazione, che parte da un sensibile per arrivare a
qualcos'altro. Nella precedente categoria (quella dci signa non necessa ria ==
eik6ta) venivano classificati fatti o proprictfi che forni vano
un'informazione non sicura, perché non convalidabile dal punto di vista
sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente sicuro che arriverà
a domani); nella cate goria dei signa sono classificati fatti che sono
insicuri per ché ambigui (una macchia di sangue su una veste può ri mandare
tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare del sangue di
una vitti1na durante un sacrifi cio). La classificazione, allora, dovrebbe
essere così formu lata: necessaria relazione necessaria tra a'ltecadente e
cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo· l
------- signa non necssaria verisimiglianze non conva!idabili scienti
ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà fino al g iorno
successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se macchia di sangue,
allora omi cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega anche come mai
Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di verisimiglianza (e
non si gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora e che 9.3
QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma non necessari, Er
magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché vaga nei boschi con
i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti liano ha una certa riluttanza a
considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto deboli come elementi
pro banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo come se gno, temo
che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si traggono da un
fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano allo stesso modo
dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la condizione tipica
della semiotica giuridi ca, in perenne dialettica tra la forza oggettivamente
proba toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di fare un uso
persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica semiotica
generale, non c'è al cun problema a considerare come segni "tutte le
conseguen ze che si traggono da un fatto". Le proprietà che l'enciclo
pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono tutte, a buon
diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno poi le
relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella forza
probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono i casi
in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un
poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente
intuito dalla retori ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da
Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer
tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura
li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco mandando, nel
secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a
vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin guaggio
Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa
saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una
altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di
lin guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande
importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte
dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il
trattato giovanile De dialectica: in esso sono riassunti molti dei principali
temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi pio che la conoscenza è,
in linea generale, conoscenza attra verso segni (Simone). Ma vari elementi
differenziano l'impostazione agostinia na da quella stoica. In primo luogo,
infatti, gli stoici, racco gliendo e formalizzando una lunga tradizione di
origine so prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni
(smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la
cicatrice che rinvia a una precedente feri ta. Agostino, invece, per primo
nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali
come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le
espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene rale segno tutto ciò
che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De
Magistro). STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici
avevano individuato nell'e nunciato il punto di congiunzione tra il
significante (semaf non) e il significato (semain6menon), elemento che comun
que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve ce, individua nella
singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento
in cui significante e signifi cato si fondono, e considera questa fusione un
segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda to che
le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si gna] e che non può essere
segno ciò che non significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso
di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro
le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una
teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il
lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione.
Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere
psicologistico (i si gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale
(passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolo
semiotico e la stratificazione ter minologie& È del resto con l'analisi
della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed
è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni
terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che
possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con cetti di significato,
significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o
il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la
parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1
(corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio ne linguistica, al
/ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in
esso contenuto. In terzo luo- 228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la
res, che viene definita come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o
con l'intelletto, op pure che sfugge alla percezione (De dialect., cap. V). È
così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se guenti termini:
dicibile vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche
dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della
signifi cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi sione
terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente
di una parola: (i) può infatti avve nire che la parola rimandi a se stessa
come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero
della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii)
oppure può avvenire che la parola, intesa co me combinazione del significante
e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come
avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di
dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva to Baratin (
198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e
quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione
stoica di léxis (si gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por
tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui stici
antichi. RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione
di léxis; ma non ha lo stesso significa to che le attribuivano gli stoici,
bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio
Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato
costruito" (Grammatici graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe,
da una parte, e l'enunciato, dall'al tra. Questa sua particolare posizione fa
sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in
contrappo sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma
incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen so completo). Lo
spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e nunciato alla centralità
alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle
funzioni prima spet tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere
un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del
De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato
dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il
segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla
percezione sensi bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet
tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im
plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino
ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in
quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica
del linguag gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di
qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es senza della cosa.
Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia
un rapporto iconico (pe raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4),
in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela zione di
significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio- 230 10.
AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel
momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si
producono alcune modificazio ni teoriche, conseguenti allo spostamento di
prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti
no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte nuti era stato
concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di
carattere epistemologico e ri guardava la possibilità di lavorare direttamente
sul linguag gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin
guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per
quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui
esso rin via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui
il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti
tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra ti da
uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c m_E:! c
dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J
"implica" e == "è equivalente a". In Agostino
l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e
senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic tio, che è
rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u nione, o prodotto
logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che
diviene segno di qualcos'al tro (livello ii). 10.3 UNmCAZIONE
DELLE PROSPETI Conseguenze dell'unificazione delle prospet tive La prima
conseguenza dell'unificazione agostiniana, co me sottolinea Eco (1984: 33), è
che la lingua comincia a tro varsi a disagio all'interno del quadro
implicativo. Essa in fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo
strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere
rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio,
nelle classificazioni della retorica greca e roma na. Infatti l'implicazione
semiotica era aperta alla possibili tà di percorrere l'intero continuum dei
rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto
Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare
rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un
"sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun que altro
sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della
lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e
che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui
stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec cellenza. Ma
quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto
culminante, si è ormai venuto a per dere il carattere implicativo, e il segno
linguistico si è cri stallizzato nella forma degradata del modello
dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito
come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante
conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione
della dia lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto ché
il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito nei termini
dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile della
conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di
segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra
implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui esse
sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel
considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla
conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è
allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag
gio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle co se che significa.
Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere
informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo
tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni
del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemorare),
sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente
informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la
presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima
parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente
quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono
le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose,
senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda
parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente
la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in
sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: il primo caso
è quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa
sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per
se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da
Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,
non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si
rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno
COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE in questa evenienza si potrà parlare di un
vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude
invertendo il rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è
necessario co noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire
che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa sulla
presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente
platonica, e a es sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual
mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente
della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è
necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag.). Ma se per
le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di
arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente
intelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una
soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive lazione
che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia tanto
deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questa
soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è
lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno
rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi
mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, ci
spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte riore
In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da
un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel
De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo
interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani mo. In
effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola
o di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'anima
dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre
parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura
prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle
lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan do ha bisogno di
essere espresso e portato alla comprensio ne dei destinatari. Il verbo
interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una
conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è
determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza.
Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo
è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni
del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo.
Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia rezza è il carattere
comunicativo della semiologia agostinia na, che è individuabile anche nello
schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza
potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore
pensato proferito sa pere 10.6 Le classificazioni È comunque
innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologia
agostiniana presenta un aspet to "teologico", connesso al problema
del verbo divino, tut tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet
to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se
stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni,
alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina
Christiana, l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito
secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio nali secondo lo
statuto sociale: segni naturali/segni conven zionali secondo la natura del
rapporto simbolico: proprio/tra slato secondo la natura del designato:
segno/cosa LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche
in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque
tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se gno :
Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel lo che in realtà
avrebbe potuto articolare, in quanto gene ralmente queste opposizioni sono tra
di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De
Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni
aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica
zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber nardelli 1987), secondo
il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione
di Agostino non è totalmente a inclu sione, come tende a essere quella
porfiriana; e si può osser vare che se venissero sviluppati i rami
collaterali, si vedreb bero comparire, una seconda volta, alcune categorie
elenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei
sulla strada di una classificazione inclusiva da ge nere a specie quando
definisce la relazione tra nome e paro la come "la stessa che c'è tra
cavallo e animale" e includen do la categoria delle parole in quella più
ampia dei segni (DeMag., 4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME --
segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma,
fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata)
differenze ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti
nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba
militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo,
quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res
intelligibili ( virtus) SIGNIFICANTE delle .. AES" LE
CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa" La prima
relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo
sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce
tale distinzione co me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti
anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as sumere come segno una res
che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa
nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone
1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che
non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la
pietra, il bestiame" (De doctr. Christ., I, Il, 2). Ma, immediatamente
dopo, cosciente del la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma
non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la
loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la
sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di
suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è
analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De
doctr. Christ., l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran sitive, come i
segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro; le cose di cui si
gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse
(Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le
cose che non sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso segni:
significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime
possano essere assun te con funzione significante. Dopo aver così articolato i
rapporti tra segni e cose, Ago stino propone questa definizione di segno nel
De doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di là
dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente
(in cogitationem) qualcos'altro". 238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni
verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui
re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia
verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di
Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De
doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari
tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cui
ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole;
ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei
segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del
linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale
carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni.
I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce zione Una classificazione
incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di
percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini
si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla
vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (De
doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci
sono quel li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali,
come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi
dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito,
in una posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti,
hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei
pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare" (Dedoctr.
Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della
testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban diere e le insegne
militari, le lettere. LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi in
considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore
dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca
ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu
guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro
albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa
naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né
desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come
il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche le
tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano,
inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti, Agostino
dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni
linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa
classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il
gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una
marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali
tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del
resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges).
I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel
Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben precisa
intenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattere
intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli
emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que sta
intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46),
porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico
generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o
meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi
in corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di
un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come
cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi
illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della
semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si
può stabi lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat
tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce zione semantica che
si avvicina al tipo della "semiosi illimi tata" di Peirce. Come ha
rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può
essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei
sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti;
tramite astensione (De Mag., III e VII). Questa concezione del significato si
rende possibile sol tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema
equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale
del segno. La teoria semiologica ago stiniana si apre così, come ha messo in
evidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione
semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce
insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet
urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni,
dei quali, appunto si cerca il significato. SEMIOSI ILLIMITATA L'indagine
comincia da l si l, di cui si riconosce che espri me un significato di
"dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si è trovato un
altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si
passa, poi, a lni hi/1, il cui significato viene individuato come
!'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una
cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il
significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbe
equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e
argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha
bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l
significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe
rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica
contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che non
esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso
virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è
ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negozianti
provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco
(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni
contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (ma
tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La
struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti
x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni
tanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva,
è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che
la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è
ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice
a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in
generale, è possibile, però, rilevare una connes sione storicamente
documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti colare del segno. A
esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno
implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi
eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in
cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di
Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C.
la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona
(1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri cuneiformi.
Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che "la
scrittura cu neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso il 2850
avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3 Si veda
il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu rioso notare come
si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios
(''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era
clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera
morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un
trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi,
come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca
pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero
(1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle
fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie
contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. Si potevano contare oltre cento oracoli per
tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti
tavolette. Infatti da un'analisi del vocabolario dell'azione oracolare compiuta
da Crahay risulta che alcuni vocaboli
presentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un segno
anticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi si
ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo con
segni") e l'ag gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'idea
di un'informazio ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera un
confronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione al
centro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale
anche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla
giurisprudenza). 3 Cfr . anche //., I I I, 277 . Per i passi citati sono
utilizzate, nel corso del l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta
parzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86):
"The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his
thought, l but indica tes it through signs". s Infatti la divinazione è
indissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla
sapienza. La sapienza del dio è totale e simul tanea e non ha bisogno di
essere frammentata in parole. Tuttavia agli uo mini egli concede, invece, solo
la frammentazione della parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto
in essa la sapienza divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia,
del resto, che Platone ritiene essere l'essenza stessa della mantica,
riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo gia di mantiké a maniké
("arte folle"), non è altro che la sapienza vista dal l'esterno. 6
Ma si veda anche Amandry per la presenza di possibili procedi menti anche di
cleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di
Delfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca
sualità ed essere sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av
veniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati
dallo stormire del vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure,
probabilmente, il tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una
fonte, gli echi di un gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri
(1916) e Parke (1967); per una disamina generale e approfondita dei vari ti pi
di divinazione i testi basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday
(1913). 8 "Lobo", "vescichette" e "porte" erano i
termini tecnici designanti par ti che gli specialisti di questo tipo di
divinazione prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr.
Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le
forme della consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer to numero
di iscrizioni epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona;
cfr. Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento
alla nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava,
come vedremo NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da
parte del dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia,
infine, l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il
termine "modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza
di un unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto
eterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo
scambio di prospetti va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo"
enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico
elaborata da Eco. Pur troppo non è qui possibile usare direttamente quella
categoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che qui
proponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici
(rapporto stretto tra si gnificante e significato, nebulosa di sensi multipli
tendenzialmente coesi stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato,
perché ci sarebbe sem brato appropriato definire "simbolico" il modo
di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda il
meccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio
(Aen., VI): la sa cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso su
delle foglie, se guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia
quelle fo glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone un
altro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e
difficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due
attributi antitetici della li ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia
benigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche);
l'arco, quella maligna e deva stante. Del resto l'etimologia stessa del suo
nome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente",
ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove
le sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Per
una nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel
mondo antico, si veda Detienne. In particolare, sulla concezione di a/theia
come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al
poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne. D'ora
in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente,
per una documentazione completa sulla medicina gre ca, dovrebbero essere prese
in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste
ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a
una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato
molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso
che stiamo svolgendo . Rimandia mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia
attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo 246 NOTE 3 Si
possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto
il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter ne, il libro
II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar caica del
trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato
di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della
medicina (Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati
in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me todologici
della medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire
convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi
ri sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti
autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460
e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà
del V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4
Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967: 78).
6 Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati ca non
arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ci
atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal volta apportandovi delle
modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita una
distin zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel passato,
diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè
previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983:
166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si deve poi
segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai verbi di
"dire", con il significato di "pubblicamente ", anziché con
un si gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate avviene
nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di
Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male
sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella
testa, Le articola zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.).
10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri
calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si
dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi
pro cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale
la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica,
animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds
(1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento
magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr.
it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di
sfug gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano
è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della
comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini
e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio
assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del = NOTE 247
trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol
/ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do
vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen
do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse
di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti.
1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son
no di cui parla Platone nel Timeo e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria
che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di vinatione
per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco (1975:
295): per "omoma tericità" si intende il fenomeno per cui
"l'oggetto, visto come pura espres sione, è fatto della stessa materia
del suo possibile referente. Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983).
17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18 Sull'abduzione si vedano
Thagard; Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco.
Di Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti
tra i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi cina greca
e quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be nedetto-Lami
(1983). 2° Cfr. Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione,
cfr. Conte. Cfr. Hjelmslev. Cfr. Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet., Cfr.
Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Cfr.Arist., De int.,16a; An.Pr.,11,70a-b.
"' Su questa nozione cfr. Di Cesare. s Cfr. Eco. Cfr. Heinimann. 7 Cfr.
Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quanto
nebulosamente, il tema della doppia articola zione del linguaggio umano, che
verrà poi sviluppato in epoca contempo ranea da André Martinet (1960). 9 Anche
se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica
(1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti mema come
sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici 248 NOTE
(Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi
smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel
secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente
"neces sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non
necessario" (mè anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e la
stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12
Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote le così
commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi smo
che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu tabile
(ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta no come si
è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida
è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà
necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a,
34-37). 1 Dei segni quello necessario è la prova, quello non necessario non ha
un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le
proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è
tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la
proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie
ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé ras
Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttavia
segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di stinzione
tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi
termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza
distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un
terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le
Blond. Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Cfr. Arist.,
An. Post.,
II, 98 b, 25-30. È del resto sulla base delle immagini prodotte nella mente
dagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di immagini, chegli stoici
chiamano ka talptikaì phantasfai, che viene basato il "criterio di
verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose
esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere ( = sono il caso) e
certe altre sono false ( = non sono il caso)" (Sext. Emp., Adversus
Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi gnucci; Sandbach; "The crite rion of
truth" di Rist. Cfr. anche Sext. Emp., A dv. Math. 1 Si deve sottolineare
che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo /éghein. 6 Cfr. Diog. Lart., Vitae, VII, 51; Long Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9 Cfr. Diog. Lart.,
Vitae, Vll, NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che, come sostiene Diogene
Laerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici distinguevano tra il
"proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei
suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da
significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, la
traduzione "what is said" rispetto a quella propo sta da Mates e dai
Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene rale e
permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica
quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione,
risalente al Crati lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a
dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto
dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come
"'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr.
Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in
completi e incompleti; cia scuno dei due tipi dava luogo a una
sottoclassificazione, anche molto com plessa, che non prenderemo qui in
considerazione; si veda a questo proposito Mates. 63. 1° Cfr. Mates (1953: 1
1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi ficato delle parole e
avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intension
di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier. 13 Cfr. Mignucci
(1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la fornisce Sesto (A dv. Math.,
VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono
e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe altre sono
false". Sul problema del criterio di verità, cfr. Rist (1969: 133-151);
Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17 Cfr. anche Adv. Math., VIII,
245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito di questa
questione terminologica, la esaustiva 1 Cfr. Platone, Th., 190 a (206 d);
Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso interno" (endiathetos
/6gos), a differenza delle espressioni emesse materialment (prophorikòs 16gos),
è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo dagli animali. Dice
infatti Sesto (Adv. Math., VIII, 275-276): "(Gli stoici) dicono che l'uomo
differisce da gli animali irrazionali a causa del discorso interno, non a
causa di quello pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze pronunciano
suoni arti colati"; cfr. anche Pohlenz (1959, 1: 61-62). trattazione di
Conte (1972: XXXV), curatore dcll'edizione italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr.
Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in
quanto al genere è, a quel che pa- 250 NOTE re, un segno"; cfr.
anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese,
è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp.
Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp.
Pyrrh., Il, 98. 27
Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione verrà
esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 156. Al di là del carattere
pole mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando
"medici" e "fi losofi", fissa i due punti estremi di un
ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale
interesse da parte dei medici (come, poi, di mostrano anche i numerosi esempi
di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico
del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Cfr.
Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 . 34 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
249-250; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251.
11 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39
Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in
consi derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto sembra avere
un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp.
Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie
interpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in
considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a),
dei Kneale (1962) e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una
successione cronologica e teo rica. "2 Cfr. Phil., De signis, XIV, 11-14=
19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco,
sono messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli della
traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 275-276; 287. Cfr. Goldschmidt
(1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul
rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto
opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le médecin de cet
organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de prophète, un de
vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe". 46 Cfr. Cic., De divinatione, I, 125-127. 49 Cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., 309. CAPITOLO 7. NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II,
140; Adv. Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180:
"D'altronde anche la dimo strazione è, in linea generale, un segno,
giacché essa è considerata come di svelatrice della conclusione". 1 Il
testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora
disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi
citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il
prossimo capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic.,
EpistulaadHerodo tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi
K.D.), XXIV. 3 Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33;
Epic., Nat., XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971
b: 1 14) sostiene che un simile rap porto tra linguaggio e pro/essi è
presupposto anche nella Ep. Hdt., 37-38.
Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Pyth., Cfr. Epic., Ep. Hdt.,
Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., Cfr. Diog. Laert.,
Vitae, Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr. Epic., Ep. Hdt.,
48. 1" Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV.
16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è
espressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt., 38) e prende la forma dell'induzione
nella teoria epicurea. Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, non
direttamente attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato
di Filodemo. 18 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel
prossimo capitolo, il criterio della "non incompa tibilità" con i
fatti conosciuti è centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel De
signis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo tem, 1119f. 22 Si deve
segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in
Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e
recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che
non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe- 252 NOTE
cifico del "significato" in termini intensionali. 23 Cfr. Sedley
(1973: 17-18); il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti.
Come veniva evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate.
Cfr. capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d,
435 c; cfr. Sedley. La data di composizione del trattato, che è controversa,
oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il titolo greco,
essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget tura di T. Gompers;
altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella
sua versione latina De signis; cfr. De Lacy. Nella prima sezione vengono
riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella seconda
viene esposta la versione di Bromio del l'enumerazione e confutazione di
Zenone degli argomenti contro l'inferen za empirica; nella terza viene
riportata l'enumerazione di Demetrio di La conia degli errori comuni degli
antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda
lista degli errori degli oppositori, è anoni ma, ma, con molta probabilità, è
anch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand; Deledalle. Cfr. Phil., Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13).
Il riferimentobi bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera
duplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco del
papiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione inglese
effettuata dai De Lacy. 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza
sezione che riporta il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45,
e col. XXXVII, 12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9
Cfr. col. I, 12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980:
140), del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante
considerazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non
esista), la quale sembra riproporre, in epoca contem poranea, una tematica
simile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e
comuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og getto che essa
denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede
nello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef fettivamente, sia
che non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto,
l'Icona non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19.
NOTE 12 Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. Cfr.
col. II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8= cap. 5. 1Cfr. col. III, 30-34 =
cap. 6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle
obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 =
capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap.
38. 18 Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai
"dogmatici" sul problema della defini zione come combinazione di
attributi, a esempio "animale", "mortale",
"ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico,
Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 =
cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli.
XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll.
XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col.
XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda
antichità le de finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di
Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac.
Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale
mortale, provvisto di intelli genza e razionalità" (Adv. Math., VII,
269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18
Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=Cfr.coli.XX,32-XXI,3= cap.35.
coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe p. (1970:
100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 = cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52.
XXI, 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47. XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1
A questo proposito Cicerone parla di "regolarità della ragione"
(ratio et constantia) contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div., I
l, 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione
significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino
adopera l'espressione verbum in due sen si: (i) uno tecnico e specifico, che è
quello dell'uso metalinguistico della pa rola; (ii) uno generale, che
corrisponde alla nozione ampia di "parola", co me "segno di
ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso
dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come
composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto
dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una
parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti
conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo
per mezzo della parola [di cibile]". La dictio, inoltre, "non
procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si
ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo sizionali,
come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s et
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Conti. Keywords:
filosofia romana, la semiotica di Cicerone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The
Swimming-Pool Library. Conti.
Luigi Speranza -- Grice e Contri: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del Napoleone di Hegel
– scuola di Cazzano di Tramgina – filosofia veronese – filosofia veneta --filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cazzano di Tramigna). Filosofo veronese.
Filosofo Veneto. Cazzano di Tramigna, Verona, Veneto. Grice: “I like Contri –
he reminds me of my days at Rossall! Of course Contri
is interested in Hegel – “a la ricerca del segreto sofisma di Hegel” – and
attempts to reveal it as Stirling never could! But Contri is also interested in
‘il bello’ – being an Italian! – The interesting thing is that he goes back to
Italy – Aquino! He has a good exploration on ‘verum’ in Aquino, too, which
reminds me of Bristol, Revisited!” Allievo di Zamboni, elabora una minuziosa
critica alla logica di Hegel di cui mise in rilievo le incongruenze
gnoseologiche e metodologiche che portano alla errata concezione hegeliana della
realtà come vita dell'idea. Rovesciando l'immanentismo hegeliano, scopre un
mondo di realtà sviluppando una concezione di filosofia della storia che denomina
“storiosofia”. Studia a Verona. Si laurea a Padova. Discepolo fervente di
Zamboni, di cui accolse e sostenne la dottrina della gnoseologia pura. In
alcune occasioni si descrisse come elaboratore in contemporanea al suo maestro
Zamboni di alcune teorie, collegate all’estetica ma non solo. Insegna a
Bologna. Zamboni fu espulso dall'Università Cattolica con la motivazione di
allontanamento dalla ortodossia tomistica e con accusa di non conformità al
Magistero della Dottrina Cattolica Romana. C. definì la posizione della
Cattolica con il termine da lui coniato di “archeo-scolastica”. La posizione
“archeo-scolastica” della Cattolica di Milano, di una conoscenza indimostrata,
a priori, dell’essere e degl’esseri era bersaglio di critiche da parte di
filosofi cristiani e non che la ritenevano inadeguata nell’ambito del pensiero
moderno. Contri sostenne che la dimostrazione della conoscenza dell’essere e
degl’esseri data dalla Gnoseologia Pura di Zamboni superava definitivamente
tali critiche e ridava certezza dimostrata della conoscenza e dell’esistenza di
Dio. Accusa di plagio Gemelli per aver pubblicato nella monografia Il mio
contributo alla filosofia neoscolastica (Milano) pagine già scritte da Mercier
e Wulf, senza indicare le citazioni. Gemelli diede le dimissioni da Rettore
della Università Cattolica ma rimase in carica. Insegna Bologna. Il prof.
Ferdinando Napoli, Generale dei Barnabiti, cultore di scienze naturali, venne
depennato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, allora presieduta dal
Gemelli. Venne dato ordine di non pubblicare articoli a firma di C.. Continuando
la difesa della dottrina di Zamboni, fondò la rivista quadrimestrale di
polemica e di dottrina neoscolastica “Criterion”. Il confronto con l’Università
Cattolica di Milano continuò negli anni successivi con relazioni a numerosi
congressi di cui C. da resoconto sulla rivista. Insegna a Ivrea. Sulla
rivista Criterion apparvero intanto i saggi del C. sui suoi studi hegeliani che
prelusero all'opera definitiva dLa Genesi fenomenologica della Logica
hegeliana. Partecipa attivamente agli organi culturali del fascismo. Sscrisse
su giornali quali Il Secolo Fascista, Quadrivio, Il Regime Fascista, Il
meridiano di Roma e La Crociata Italica. Contri si avvalse della tribuna
offerta da queste testate per promuovere i suoi studi filosofici e critica
filosoficamente l’ ebraismo di Spinoza, di Durkheim e di Bergson. Insegna a Milano
e tenne conferenze su studi hegeliani. Sorse una disputa con Zamboni in seguito
all'articolo Il campo della gnoseologia, il campo della storiosofia, in
risposta alla pubblicazione del Contri Dallo storicismo alla storiosofia. Prese
parte attiva a congressi tomistici internazionali e a congressi
rosminiani. Partecipa attivamente alla “Missione di Milano”, lanciata
dall’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini. Come riconoscimenti
ai suoi studi conseguì alcuni premi fra i quali uno indetto dall'Angelicum sul
tema “Quid est veritas”, e una segnalazione all'Accademia dei Lincei per
l'opera: Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, Milano, LSU. Discepolo
e geniale continuatore di Zamboni. Così potrebbe definire la situazione
filosofica di oggi. Il mondo del pensiero, perduta la bussola non teologica
d'orientamento, è costituito da una miriade di metafisiche che cozzano le une
contro le altre tanto da definirsi che heghelianicamente come il divenire in
sè, che è puro fenomenismo. A tale fenomenismo corrispondono molteplici
fenomenologie. Per esempio quella di
Heidegger, afferma che il reale è un solo, una totalità onniafferrante
(Hegel direbbe begriff), tanto come essere quanto come niente. Anche Hidegger
poi tenta la via della salvezza ammettendo la realtà del mondo esterno come di
un che, che resiste al soggetto, ponendosi nel solco del pensiero di Zamboni.
In questo modo Hidegger tocca il problema che si volle e che si vuole eludere:
la realtà del mondo esterno. Esistono queste realtà, come la mia realtà, indipendentemente
dal pensarle? Per dare risposta a questo interrogativo cruciale, è necessaria
la gnoseologia pura. La gnoseologia secondo C., scoprì la risoluzione
definitiva del problema della certezza della conoscenza umana. Essa permise di
risolvere il problema dell'esistenza di Dio, riavvalorando criticamente le
cinque vie della dimostrazione Aquino. Sono meriti del metodo filosofico di
Zamboni il poter affermare la sostanzialità del mio “io” personale, la mia
realtà individua e dimostrare l'esistenza di Dio, trascendente, personale. Il
metodo zamboniano distingue gli elementi della conoscenza umana tra la
sensazione, che e sempre oggettiva, e lo stato d'animo e tra questi
"quello stato d'animo che è anche atto: l'attenzione". Ogno stato
d'animo e sempre soggettivo. La gnoseology riesce a cogliere la realtà del
proprio “io”, nei suoi atti e stati. Essi sono reali, perché immediatamente
presenti all'”io”, e se sono reali gli accidenti dell'io, perché essi sono modo
di essere dell'io, reale è l'io, come sostanza, cui essi ineriscono. Perciò
dall'immediata certezza della realtà degli accidenti di un ente si giunge alla
certezza della realtà sostanziale dell'io." La critica alla posizione
della neoscolastica di Gemelli, Olgiati e Masnovo sulla conoscenza indimostrata
dell'ente e la soluzione tramite la gnoseologia pura. Rispetto alla dimostrazione
della realtà dell'ente, si fonda così nell'esperienza immediata ed integrale il
concetto di essere e ‘esseri’ che non è più necessario assumere acriticamente,
come qualcosa di razionalmente immediato, pena l'impossibilità di una logica
razionale. L'assunzione acritica del concetto di essere ed esseri è propria del
neotomismo dell'Università Cattolica, che in un suo autore, Masnovo, perviene
alla sua massima teorizzazione nel "mio hic et nunc diveniente atto di pensiero".
Ma con questo l'essere e gli esseri è solo pensato e ammesso acriticamente come
pensiero, è un presupposto, mentre nella gnoseologia zamboniana è il risultato
di un processo di astrazione, che deriva da una realtà immediatamente presente
all'autocoscienza dell'io, che non ha la natura del pensiero, non è pensiero
essa stessa, ma qualcosa di diverso. Si può pertanto uscire dalla formula
logica della ragion sufficiente, che è sempre e comunque razionalista e riduce
al razionalismo anche il neotomismo. Nell'ambito dell'esperienza immediata ed
integrale si scopre invece non la ragion sufficiente, ma la sufficienza ad
esistere o no. E la fondazione ed il ripensamento delle prove dell'esistenza di
Dio, e in particolare della terza via tomistica, diventano inoppugnabili.
Nessuno più può dubitare dell'esistenza del sufficiente ad esistere, che è
Dio." Secondo Peretti la fondazione gnoseologica della metafisica è
il più grande merito di Zamboni. L'ambiente filosofico dell'Università Cattolica
non accetta la gnoseologia zamboniana e fonda la metafisica sul concetto di
ente, assunto acriticamente, come un presupposto indimostrabile. Esso finì per
identificarsi con l'ente di ragione (ens rationis), non sfuggendo all'insidia
hegeliana, che lo aveva dialettizzato sia come essenza che come esistenza. La
dialettica negativa di Hegel produsse ben presto nella corrente neotomista di
Milano (ma anche in altre università cattoliche) i suoi effetti devastanti. Aveva
messo in guardia i neotomisti dalla fraus hegeliana, che si svela nell'antitesi
(contra-posizione) come negazione. Seguendo la metodologia gnoseologica,
Contri affronta Hegel, il "padre del fenomenismo" compiendo una
minuziosa e sistematica analisi della fenomenologia hegeliana. Dopo averle
individuate ha messo in rilievo le incongruenze gnoseologiche e perciò
metodologiche che sfocia nella concezione della realtà come vita dell'idea,
presentandola come uno svolgimento dialettico del ‘begriff’, come qualche cosa
che non mai in sé, ma diviene eternamente in sé e per sé. C. resa evidente
questa impostazione, anima del fenomenismo, e scoperta nella deficienza
gnoseologica e pertanto metodologica, derivata dall'impostazione razionalista
ed empirista che al fondo dello stesso criticismo, rovescia l'immanentismo
hegeliano, che si gli scopre non più come mondo di idee, ma di realtà, di cui
ognuna è altro del suo altro, in un ordito cosmologico, di cui la storia
dell'uomo rappresenta l'essenza. Ed ecco la storiosofia, che reclama,
al posto dell'immanentismo gnoseologicamente insostenibile, la
trascendenza della trama di questo ordito, che a questo punto in sé e per sé
non può più essere spiegato (si ricordi che l'anima della spiegazione hegeliana
è la "negazione"!). Tale trascendenza prova l'esistenza di un Dio
trascendente, che ha concepito la trama creando le realtà ordito di questa
trama, di realtà in reciproca relazione, in cui non c'è membro che sia fermo.
In questo ordine si risolvono in modo nuovo i rapporti tra le realtà, che per
esempio tra l'anima e il corpo, superando così gli scogli di una spinosa
questione di eredità aristotelica, di grande importanza anche oggi, in cui le
realtà terrene e spirituali non trovano la sintesi equilibratrice. La
storiosofia rappresenta uno sviluppo del metodo di Zamboni, considerandolo la
via per rinnovare tutta la filosofia poiché esso non è storicismo filosofico,
non è naturalismo, è avanti positivistico, non è speculazione, ma metodo
appunto, (metodo) che da secoli la filosofia europea ha cercato, perdendolo
oggi nella disperazione del momento." Altri saggi: “Il concetto
aristotelico della verità in Aquino” (Torino, SEI); “Gnoseologia” (Bologna,
L.Cappelli); “Il concetto d’armonia” (Bologna); “Il tomismo e il pensiero
moderno secondo le recenti parole del Pontefice, Bologna, Coop. tipografica
Azzoguidi): “Del bello” (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina); “La filosofia
scolastica in Italia nell' era presente” (Bologna, Cuppini); “L’essere e
gl’esseri” (Bologna, C. Galleri); Un confronto istruttivo: Mercier, Gemelli, De
Wulf ed altri ancora, Bologna, C. Galleri); “Pane al pane: riassunto d'una
situazione, Bologna, Costantino Gallera. “Neo-scolastici e archeo-scolastici”
(palaeo-scholastici) sulla rivista Italia letteraria; “Il segreto sofisma di
Hegel” (Bologna, La Grafolita), “Mussoliniana: il discorso del duce” (Bologna,
La Diana scolastica); “Gnoseologia pura di A. Hilckmann; Il segreto di Hegel di
S. Contri, Bologna, Stabilimento Tipografico Felsineo); “Hegel, Ivrea, ed.
Criterion); “La genesi fenomenologica della logica hegeliana” (Bologna,
ed.Criterion; Ambrogino o della neoscolastica, dialogo filosofico,
Bologna); “La soluzione del nodo centrale della filosofia della storia,
Bologna, Criterion); “Complementi di storiosofia, Bologna, Criterion); “Punti
di storiosofia, Bologna, Criterion; Lettera a S.S. Pio XII sulla filosofia
della storia, Bologna, Criterion; Il Reiner Begriff (=concetto puro) hegeliano
ed una recensione gesuitica, Bologna, Criterion; Dallo storicismo alla
storiosofia. Lettura prima, Verona, Albarelli; I tre chiasmi della storia del
pensiero filosofico. Inquadratura unitotale della controversia sulla
storiosofia, Milano, ed. Criterion); “Rosmini” (Domodossola, La cartografica C.
Antonioli); Ispirazione da dei” divina della S. Scrittura secondo
l'interpretazione storiosofica” (Milano, Criterion); “La sapienza di Salomone,
Milano, ed. Criterion; “La riforma della metafisica” (Milano, ed. Criterion); Filosofia
medioevale. Raggiungere la forma nuova, Fiera Letteraria; Punti di
trascendenza nell'immanentismo hegeliano, alla luce della momentalità
storiosofica” (Milano, Libreria Editrice Scientifico Universitaria); “Rosmini”
(Milano, Centro di cultura religiosa); “Posizioni dello spiritualismo
Cristiano: La dottrina della poieticita in un quadro rosminiano” (Domodossola,
Tip. La cartografica C. Antonioli); “Assiologia ed estetica”, Theorein; Posizione
dello spiritualismo cristiano. La dottrina della poieticità, in un quadro
rosminiano, Rivista rosminiana; Heidegger in una luce rosminiana: la favola di
Igino e il sentimento fondamentale, Domodossola, La cartografica); Missione di
Milano. Chiosa storico-filosofica, Ragguaglio); “Heidegger in una luce rosminiana,
Rivista rosminiana); La coscienza infelice nella filosofia hegeliana” (Palermo,
Manfredi); “Husserl edito e Husserl inedito” (Palermo, Manfredi); “Kierkegaard:
profeta laico dell'interiorità umana”; “Saggio di una poetica vichiana” (Milano,
Il ragguaglio librario); La fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Rivista
rosminiana; L'unità del pensiero filosofico, Sapienza; Il pluralismo filosofico
nell'ambito di una concezione cristiana, Sapienza; In margine al centenario
dantesco, Sapienza; La negazione come principio metodologico di unificazione
speculativa, Theorein; Vita e pensiero di Hegel, Rivista rosminiana; Possibilità
di un accordo tra la dottrina rosminiana del sentimento fondamentale e le
concezioni moderne sull'inconscio, Rivista rosminiana; Morale e
religione nella Fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Palermo); “Parallelo
tra Hegel e Rosmini, Palermo, Mori); “Metafisica e storia, Palermo, Mori); “Il
sofisma di Hegel” (Milano, Jaca book). “Il caso Contri”; “Gnoseologia”;
noseologia, storiosofia; Contri, Note mazziane; La propedeutica metafisica
hegeliana al problema del pensare e la lettura rosminiana di S. Contri, Contri
tra gnoseologia e storiosofia, Punti di trascendenza in S. Contri, in Sophia,
Crociata Italica, Fascismo e religione nella Repubblica di Salò, L'Estetica di
Benedetto Croce. Certi gestiscriveva la Vanni Rovighiche gli furono
rimproverati come acquiescenza al potere politico fascista (e furono ben pochi
in confronto a quelli di molti altri) furono dettati dalla preoccupazione di
difendere la sua Università dalla minaccia di chiusura da parte del potere
politico, minaccia tutt’altro che immaginaria. E forse fu il timore di fronte
alle obiezioni di un’altra autorità, quella ecclesiastica, che gli premeva ben
più di quella politica, a indurlo ad allontanare dall’Università un uomo di
grande ingegno e di purezza adamantina: Zamboni, un gesto che non può non
essergli rimproverato e che lasciò anche a noi allora studenti dell’amaro in
bocca. Contri, (Circa il volume di Croce 'La storia come pensiero e come
azione. Siro Contri Presidente dell' Istituto di Cultura Fascista. CONDOTTA POLITICO-MILITARE ESPRESSA
DAI FATTI UNIVERSALMENTE NOTI, I QUALI CELEBRANO COTANTO LA SINGOLARITÀ DI
BONAPARTE. Paralello degli uomini ipiù celebrati dalla Storia dei
Secoli. Non è del mio proposito il qui premettere alle azioni di NAPOLEONE
le cause che rivoluzionarono la Francia, e i fatti che a danno proprio, o
di altrui operarono i Francesi, poiché questi sono noti a tutti, o
se qualcuno' vi è, che non li sappia, da quelli stessi, che io
dirò, operati da Lui, meglio si rileverà la grandezza degli altri
distinguendosi troppo bene riunite in un solo quelle grandi
ia qualità, con le quali si va a riordinare, e regolare in
pace il cittadino, come in guerra a vincere e superare l'inimico.
Nè vi voleva di meno: conobbe BONAPARTE opportunamente, che non si ha la
pace, se non si fa la guerra, che non può tornare all'ordine il Francese,
se non è vittorioso, subito che la gloria di aver vinto altrui
richiama, per goder dei frutto, al dovere di vincere se stesso se non si
dipende? Col dipendere dagl'ordini di BONAPARTE nel campo di battaglia,
si volò dal Francese alla vittoria: che meraviglia, se all'un fatto
autorevole perciò riesci agevole inculcare con altri i doveri di
giustizia, nell'osservanza de' quali, rimesso l'ordine pubblico, si passò
ad unire a quelli di conquista i frutti preziosi della pace.
Troppo è singolare NAPOLEONE BONAPARTE nella storia dei
secoli. Quegli uomini che arrichirono di beni, che fornirono di
gloria la Patria, ed i regni, di cui erano signori, di cui erano cittadini,
con le loro imprese in guerra, con i loro consigli in pace, daranno a
me tutto quel meglio che ciascuno di essi possedeva parzialmente,
per provarlo riunito in BONAPARTE a riordinare la Francia, a
pacificare V Europa. Non si vuol qui osservare l'ordine dei fatti,
nei quali BONAPARTE si mostrò da prima grande Capitano, ma presa sibbene
l'epoca del Consolato tanto glorioso per Lui, e dove Egli si mostrò
grande politico, si faranno servire i fatti nell 9 uno, e
nell'altro stato operati all'espressione di quella condotta, la quale praticata
da Lui solo, celebra veracemente la sua Singolarità. Dirò
pertanto, con tutto che io non ignori, che Giulio Cesare fu l'uomo
in Roma, il quale più d'ogni altr'uomo delle storie antiche può dare a me
una qualche simigliala di NAPOLEONE in Francia, pure i fatti che me
lo descrivono per grande, non sono quegli stessi che ora mi dimostrano
grandissimo BONAPARTE. 11 ritorno di GIULIO CESARE dal Governo della
Spagna non è simile a quello di BONAPARTE dopo V occupazione dell'
Egitto; Cesare trovò la Repubblica Romana divisa in due fazioni, una di GNEO
POMPEO, e l'altra di MARIO CRASSO. BONAPARTE trova la Repubblica non divisa in
fazioni, ma in tanto disordine e confusione, che più non è divisibile, poiché
l'eccesso dell'anarchia produce la serie indefinita delle divisioni
sempre rinascenti e rovinose; pure non altri vi fu, se non che Egli,
tanto potente, che la divise per trarla dalla sua confusione. GIULIO
CESARE vien pregato da ognuno dei due rivali a farsi del suo partito, e
Cesare si fa mediatore di pace. BONAPARTE non pregato va da
se a rimproverare d'ingiustizia, e di oppressione i Governanti, e a nome
del Popolo Francese ingiustamente oppresso intima la loro
destituzione. Giulio Cesare si fa pacificatore di chi voleva la
pace. BONAPARTE assicura la pace a fronte di coloro che volevan la
guerra. Giulio Cesare dee vincere con la persuasione due nemici, che erano
nel seno della Patria a promovere con la divisione l'interna discordia. BONAPARTE
dee vincere con la forza i nemici esterni della Francia, e dee persuadere
la Francia in disordine della necessità di un nuovo ordine di cose
per felicitarla. Giulio Cesare accetta l' incarico di
mediatore non per servire, ma per regnare; perchè coll'esser così fra Crasso
e Pompeo, ambidue li vedeva dipendenti da Lui; regna chi non
dipende, non dipende chi giudica, e quello che giudica si fa arbitro dei
due nemici: non voleva Cesare con la sua dipendenza rendere più
forte uno dei rivali, ma voleva col pretesto della sua mediazione
indebolire ambidue. Trattò la pace non per unirli fra di loro, ma per unirli a
se, non perchè fossero amici, ma perchè fossero disarmati.
BONAPARTE instruito dei disordini della Francia e delle sue perdite,
con eroica risoluzione veste il carattere di guerriero, di
pacificatore; si mostrò così al Consiglio dei Cinquecento, dove era
maggiore l'autorità, e dove erano tanti che volevano governare; non si
ritiene da dirli indegni di quest'ufficio, quando per due anni
avevano così male governata la Francia. Il rimprovero di un simile
delitto, la fermezza di chi rimprovera, ed il coraggio, avvilì e disperse
i delinquenti, (molto più di Trasibulo che cacciò d'Atene i trenta suoi
tiranni): si rimi* se allora BONAPARTE al voto del Popòlo Francese, che
lo acclamò Liberatore; ed assicurato di lealtà, annunziò il Consolato, e
la sua Costituzione. Fatta la pace fra Pompeo, e Crasso per opera di
Cesare, tutti due concorsero a farlo Console, e in tutto il tempo n
Consolato il di Lui Collega non comparve mai a palazzo. Si
vide BONAPARTE Primo Console, e gli altri due furono sempre con Lui nel
Consolato. Se fu solo Cesare a comandare fu con usurpazione.
Se ha BONAPARTE nel comando la primazia, glie la concede la
costituzione: Cesare non soffriva che gli applausi di buon governo
fossero attribuiti ad alcun altro che a Lui: per tal modo andava
avvezzando Roma al governo di un solo, e disponeva gli animi ad approvare
nel Consolato la Monarchia. BONAPARTE sebbene il primo
nel Consolato, ed il maggiore nella autorità; è però sempre insieme
con gli altri a governare; non sprezza l'opera altrui, non sfugge
l'altrui consiglio, e vuole che tutti abbiano parte al merito della sua bontà,
della sua aggiustatezza; non vuol cambiar governo nei momenti che tanto
si opera per stabilirlo; tutto quello che si fa, si fa per
conoscere, 3e il Francese può essere buon repubblicano: il grido
della libertà democratica non è un voto valevole per la esclusione della
monarchia; quantunque siansi veduti i Francesi eletrizzati andare
incontro alla morte per vendicare la libertà; si deve dar ciò alla
forza di quel barbaro terrore difuso per avvilimento universale con la
oppressione dell'innocente; sostenuto con la franchigia ed esaltazione
del malvagio per accrescere il numero dei terroristi; non già ad un maturo
consiglio, ad una risoluzione giudiziosa, unanime, universale, che però
il procedere di BONAPARTE fu assai prudente per richiamare all'ordine i
Francesi in rivoluzione, e metterli veracemente in libertà, col
costituire la forma di un buon governo. Cesare ha finito il
Consolato. BONAPARTE viene dichiarato a Vita Primo
Console. Cesare dopo il Consolato si elesse il Governo delle Gallie
dove andò con E-sercito, e fece guerra a molte nazioni. Vide pesare che
le fazioni lo potevano fare il primo della Repubblica, ma non
bastavano a farlo padrone, per cui era necessario un esercito: come
armarsi però senza scoprire il suo disegno? Ecco l'arte di Cesare;
si armò per servizio della Repubblica, la servì valorosamente per poterla
signoreggiare, la esaltò per poterla opprimere: nel regnare l'arte del
segreto non è tacere, ma consiste in rivelare una intenzione
verisimile che nasconda la vera, ma che non sia la principale: la
più fina simulazione del mondo consiste nel sapersi ben servire
della verità. BONAPARTE fu fatto Primo Console non dalle fazioni, ma dal
voto libero di una gran nazione: i meriti della guerra, e quelli
maggiori della pace precedettero la sua perpetuità nel Consolato; non
servì alla Francia per signoreggiarla, non la esaltò per opprimerla,
quando con averla levata da suoi disordini, e fatta amica di tutte
le nazioni 5 non cercò di escludere i tanti dall'onore di questa
grand'opera, i quali ora sono con Lui nel governo vigilantissimi per conservarla. Per
dare però una maggior rilevanza al paragone di BONAPARTE con Giulio
Cesare, mi farò a tracciar questi nè suoi principj per condurmi così a
provar meglio la singolarità dell'altro; e giusta la diversità di tante sue
virtuose azioni, mi farò pure a dir di quelli, i quali nei bei
secoli della Grecia, e di Roma onorarono la loro patria, perchè i più
valorosi nell' arte della guerra, i più sapienti nel governo dei popoli
tra coloro tutti, che il precedettero, scorrendo la vita de' medesimi,
dimostrerò, senza osservare l'ordine dei tempi, giacché non è ciò del mio
soggetto, riunite in BONAPARTE le grandi virtù di tutti quelli
celebratissimi nella storia delle nazioni. CeSare nella sua più fresca età
passò la prima volta a militare sotto Marco Minucio GermOj allora Pretore
in Asia., e mandato in Bitinia all'assedio di Mitiiene, la sola città che
ricusava sottomettersi ai Romani, si distinse tanto nella sua presa, che
meritò diverse corone civiche, le quali davansi a chi aveva salvata la vita ad
alcun cittadino romano. BONAPARTE che nel principio della
Rivoluzione Francese trovavasi in Parigi tutto intento a coltivare i
grandi suoi talenti nella scuola militare, e nella vera filosofia, fu
mandato all'assedio di Tolone Ufficiale in una compagnia d'artiglieri,, allora
di soli ventitre anni, ed ivi le prove del suo valore furono tanto
luminose e così sollecite, che i Rappresentanti del popolo ivi presenti, non
tardarono a promoverlo Generale di Brigata, nel qual posto più
d'ogn'altro suo pari si mostrò esperto nell'arte difficilissima di
condur i soldati alla vittoria; e singolarmente intrepido si rendette in
quei terribili momenti di assalto, sotto l'impeto del quale ebbe a tornar
Tolone in potere dei Repubblicani. Giulio Cesare fu accusato da L.
Vezio cavalier romano complice nella cospirazione di
Catilina. BONAPARTE fu accusato, e fatto arrestare a Nizza dal
Convenzionale Befroi come terrorista. Il terrore allora era diretto a
dominare sugli uomini per disordinarli, per perderli. La Congiura di
Catilina si volgeva a fare un dominatore di Roma per felicitarla. Il
Valore mostrato nell'armi da BONAPARTE mosse l'invidia di tanti ad
accreditarne l'accusazione. Fu accusato Giulio Cesare di troppa
parzialità per Lentulo, Gabinio, Cetego, Statilio capi dei congiurati.
Questi per salvar la vita ebbe bisogno di un CICERONE; fuggì gli occhi di
tutti; si rinserrò nella propria casa timoroso d'incontrare
nuovamente il risentimento dei Padri. BONAPARTE va da se a Parigi per fare
delle rimostranze al Comitato di salute pubblica contro una simigliante
ingiustizia, ha cuore di orare la propria causa in faccia a quel
Tribunale istesso eretto per distruggere gli innocenti; e non avendo più
dove ricorrere per denegata giustizia, chiede il permesso di
ritirarsi a Costantinopoli, perchè soverchiamente delicato, non vuol
vivere a fronte di un'accusa troppo ingiusta. Il patrocinio delle
Vestali, l'amor del Popolo tant'altre volte come in questa capriccioso,
perchè mosso dall'ingenita avversione al volere dei grandi, richiama
Giulio Cesare al suo uffizio. Affidato BONAPARTE al patrocinio più
sicuro della sua giustizia, attende da filosofo il momento propizio alla
sua gloria, poiché il Vendemiatore vide BONAPARTE col comando di un
corpo numeroso di linea tanto ben disposto, e regolato, trarre
dall'estremo periglio la Convenzione, e salvar Parigi dal furore di
un nuovo disordine, che urtando liberamente, poteva nelle sue rovine aprire
la tomba a tutti i Cittadini : un'operazione tanto salutare, li procurò dei
potenti amici, li meritò la pubblica ammirazione, la riconoscenza
nazionale; in questo giorno egli trionfò di tutti i cuori: gli
amici lo amavano teneramente, lo temevano grandemente gl'inimici : il suo
trionfo fu molto dissimile a quello di Mario, di Siila, di Cesare, e di
Pompeo; questi volevano, trionfando, signoreggiare, ed avvilire
tutti i Romani: BONAPARTE riponeva nella grandezza dei Francesi, e
nella maggiore loro felicità il suo trionfo, la sua gloria era di vincere., lasciando
alla nazione di trionfare. La prima azione di questo Giovine Guerriero fu
quella di sostenere nella Patria i diritti delle supreme podestà
contro un forte partito dei suoi, il qual voleva nella morte dei
Governanti assicurare al disordine la sua dominazione, che è quanto dire,
a Lui viene affidata la grande impresa di frenare, di avvilire
gl'inimici interni della Patria, che sono i più potenti, i più terribili,
perchè i più sicuri di unire alla forza aperta i funesti progressi
di una domestica prodizione. Per tutto questo era mal sicuro
dell'istes^ ssl sua vita, perchè Comandante di tanti altri armati
troppo facili a cedere alla seduzione di alcuni di quelli, coi quali oltre ad
aver comune la patria, erano del medesimo sangue, divisi soltanto di
sentimento per la formazione di questo, o dell'altro Governo pure
BONAPARTE superiore ad ogni pericolo, va, come si disse, condotto
dal suo genio a farsi il terrore dei sediziosi, il salvatore dei Governanti:
molto più grande questa impresa di quella di Petrejo contro Catilina, poiché
questi comandava all'aperto a piè dell'Alpi i suoi Armati, dove la cognizione
del luogo, e la sua ampiezza dava al Capitano in caso di perdita il
piano per una gloriosa ritirata. Quando per BONAPARTE il campo di
battaglia era Parigi; aveva pertanto comune con gl'inimici
gFistessi ostacoli, i medesimi pericoli, che anzi si facevano
maggiori per Lui; perchè doveva esser sempre nel sospetto, che
quella immensa popolazione rivoluzionata, inquieta per l'incertezza di un
felice destino, potesse fornire ad ogni momento di un maggior
numero di soldati le legioni dei ribelli: con tutto questo le sue
disposizioni furono così giudiziose, il suo coraggio tanto sorprendente, che
con poco sangue sparso vinse interamente la fazion nemica, e levò ad essa
ogni speranza di risorgere, per tornare contro di Lui a nuova pugna. Egli
adunque, come Filopemene mandato a guerreggiare contro gFistessi
Greci suoi, non si disse per Lui ventura il trionfar di loro, ma una soda
virtù, mentre quelli, che eguali han tutte le cose, non possono che per
virtù primeggiare sugli altri, e distinguersi più di loro. Se fu capace
BON APARTE di trionfare sugl'istessi suoi Francesi, e ciò non per se, ma
per il solo bene dei vinti, ragion voleva, che i Governanti ad una prova
tanto singolare d'amore, scegliesscio Lui Comandante in Capo dell'Armata
d'Italia, siccome gl'interpreti sicuri del voto universale dei Francesi,
per aprire cosi un nuovo campo di gloria ai suo valore, ed
assicurare a loro il bene della vittoria sugl'esterni nemici della
Francia. NAPOLEONE va senza ritardo al luogo, ^ove lo attende la
grandezza de' suoi destini; quivi essendo si mostra a tutti i suoi,
come Marc'Autonio mirabilissimo nella idea delle sue imprese, le
concepisce quali dovevano essere nella mente di un regnante; e più di Marc’Antonio
l'eseguisce con facilità, mentre questi mancava di una pronta
attività per una felice esecuzione. È dunque BONAPARTE, dove nasce
l'Appennino e mancan l'Alpi, fra strette gole ed inaccessibili dirupi, in
quei luoghi istessi praticati altra volta con bravura da un Flaminio, da un
Postumio celebratissimi Capitani di Roma; quivi egli è a fronte di
un inimico, che si avanza vittorioso da Voltri per battere Monteligino,
ultimo trinceramento repubblicano, di dove poi andar più oltre con
maggior speditezza, perchè minori gli ostacoli del luogo, ed arrivare una volta
a por piede sul terreno Francese, per risvegliare così, ed animare
il partito nemico delia libertà. Con tutto questo che pareva tanto
prossimo ad eseguirsi, BONAPARTE nelle concepite disposizioni guerresche, vede
sicura l'occupazione dell'Italia; e più oltre andando, non vede tanto
incerto l'approssimarsi alla Capitale dell'Alemagna: le grandi distanze,
gl'infiniti pericoli, che si frappongono, non lo distraggono un momento dal
porsi sulle mosse per dar principio all'opera, e giungere ad
occupare la grandezza del suo fine: i modi sono presti per vincere; in
caso di mancanza, sono pronti gli altri per trarre dalla sua difesa
gli utili di una grande vittoria. Sagace nella previdenza di tutte
le cose, passa con risolutezza dallo stato di difesa, a quello di offesa;
e mentre si occupava rinimico a vincere le resistenze del Capo di Brigata
Rampon, BONAPARTE, seguitato dai prodi Generali Berthier, e Massena,
dirige le truppe dei suo centro, e della sua sinistra sul fianco, e alle
spalle degli Alemanni. Questa manovra tanto difficile nel luogo., ed
eseguita sugl'occhi di un inimico vigilantissimo, preparò la memorabile
vittoria di Montenotte, e la decise; poiché simile ad Alessandro, e
a Pirro nella prestezza delle disposizioni, nell'impeto, e violenza del
conflitto, divise il corpo di Beaulieu dagli Austro-Sardi; e mentre
batteva un corpo, l'altro era tenuto a bada, e poi piombando su di
questo, ambedue furon vinti, disordinati, dispersi; la conseguenza di ciò
fu l'essersi reso padrone del Cairo, di Dego, e della posizione
importantissima di santa Margherita, per cui trovossi al di là delle cime
dell'Alpi, su i declivi, che guardano la bella Italia. La impresa
non fu strepitosa soltanto per essere stata eseguita nel breve
corso di quattro giorni, ma perchè opera di un Capitano di
soli ventisette anni, come Pompeo nell'Affrica contro Domizio della
Fazion Mariana, e Jarba Re de' Mori suo aleato, per cui questi ebbe da
Siila, allora Dittatore in Roma, il titolo di Grande. BONAPARTE però più grande
di Pompeo per aver superatigli ostacoli della natura in un con quelli
opposti dall'arte militare la più studiata, la più perfetta. A che
ricordarsi più con meraviglia del passaggio dell'Alpi fatto da Annibale?
sebben'egli partito dal Rodano con la sua armata di Numidi, e di
Spagnuoli per passar le Gole transalpine, e le Alpi* per nove
giorni di cammino fino alle sue vette combatter dovesse ad ogni passo i Galli
che in imboscata e con prodizione attraversavano, estremamente molesti,
la sua gita; e negli altri sei giorni impiegati nella discesa,
niuno essendovi più, che il molestasse, pure le nevi altissime, i
ghiacci, e le bufere rendessero tanto più malagevole, e pericoloso il suo
tragitto: ciò non pertanto più maraviglioso fu il salire, e il
discendere di BONAPARTE, quando in questo si deve aggiugnere il
dover vincere passo passo un inimico, che in un momento era pronto alla
difesa, e nell'altro prontissimo all'Offesa; per cui gli avvenne di
essere una qualche volta respinto; lo che sembrava, e ciò a tutti,
una volontaria ritirata, tant'era presto a riprendere il
combattimento con più veemenza, e risoluzione; come chi, per
accrescere il colpo contro le mura nemiche, par si discosti per
levar più alto l'ariete, e la mazza ferrata a far maggiore la
gravità del colpo, e più sollecita la sua distruzione: ed è per questo
che il General Augereau forza le Gole di Millesimo; Menard, e Joubert
discaccian l'inimico da tutte le posizioni di quei contorni; ma l'inimico
è sulle alture a riprenderne delle nuove, e più formidabili per cui i Francesi
in ogni ora sono chiamati a nuovi disastrosissimi conflitti essi vi
vanno non un movimento pronto, ben regolato e risoluto, in ogni luogo
perciò sormontano il potere dell'inimico. Dopo fatiche così eccedenti,, e
sì luminosi vantaggi più non si teme della vittoria; in fatti quando
sugl'albori del sesto dì della battaglia Beaulieu gli attacca, supera il
villaggio del Dego, respinge il general Massena per tre volte assalitore,
Victor, e Lannes per ordine di BONAPARTE piombano sulla sinistra
dell'inimico; ma l'inimico è più forte; le truppe repubblicane vacillano
per un istante; indi ritornano all'assalto; raddoppiano il
coraggio, e Dego è nuovamente in lor potere. Il piano delle operazioni dei
diversi corpi d'armata è troppo concorde perchè il risultato non lasci mai
d'essere utilissimo al loro avanzamento: i suoi capi sono sempre insieme a
combinare su d'un piano troppo attivo e giudizioso, mosso e regolato
dal capo supremo, che lo ideò, che lo compose. La valle pertanto di
Borimela, e quella del Tanaro sono aperte ai repubblicani; le
trincee di Montezimo, e di Ceva sono superate; passano questi il Tanaro,
e rinimico è in piena ritirata per la strada del Mondovì: sul far del
giorno i due eserciti sono a fronte l'uno dell'altro; comincia nel villaggio di
Vico la zuffa, Fiorella, e Dammartin attaccano con impeto il ridotto, che
cuopre il centro del nemico, questi abbandona il campo, passa la Stura, e
si pone fra Cuneo, e Cherasco entro un recinto bastionato; Massena si muove
contro, e rovescia le gran guardie nemiche. Dopo questa operazione i
Francesi si trovano vicino a Turino: il General Colli propone una sospension
d'armi; BONAPARTE vi acconsente con la condizione, che vengano a lui
rimesse Cuneo, e Tortona; il Re non sa non approvarlo, e BONAPARTE con
ciò dà alla sua armata in Italia una situazione sicura ed imponente, e
vede aperta senz'altri ostacoli la sua libera comunicazione con la
Francia. Ogni giorno pertanto crescono gli armati,, BONAPARTE gl'impiega
al passo del Pò nella grande battaglia di Lodi; con marce, e contromarce cuopre
air inimico i veri suoi movimenti, si fa strada tra l'Adda, e il
Ticino per dirigere la sua marcia sopra Milano, mentre Beaulieu
ingannato, si affaticava a fortificarsi tra il Ticino, e la Sesia.
Il resultato di queste felici operazioni non aveva in se tutto, che si voleva,
per andare senz'altro intoppo dritto dritto alla capitale della
Lombardia. Sono eccellenti le disposizioni del generale inimico per apporne dei
nuovi. Questi ritardarono la marcia, non l'impedirono', Beaulieu col suo corpo
d'armata dall'opposta parte dell'Adda guarda con numerosa
artiglieria l'estremità del ponte di Lodi, che lo cavalca per l'estensione di
cento tese; non volle tagliare il ponte, lusingandosi cosi di meglio
dirigere il fuoco alla distruzione di tanti nemici insieme strettamente riuniti
al suo passaggio. Il soldato francese, sotto un tanto Duce, conosce
il grande pericolo, ma troppo è animato a superarlo; vede che il
passo del ponte è angusto e micidiale, ma ad impadronirsene ve li sprona
l'onore, e gl'interessi della patria: la morte di alcuni aprirà il varco
a molti, si muoja, dicevan essi, purché si vinca. Quanti mai sono
che vogliono essere i primi, contenti di assicurare ai superstiti col
loro sangue gli utili d'una grande vittoria: il secondo hattaglione
de'carahinieri precede l'armata francese serrata in colonna: i prodi si
presentano sul ponte, il fuoco dell'inimico è tanto terribile e
continuato, che la testa della colonna stette in forse per alcuni momenti a
fronte di un sì alto pericolo, e se un solo istante di più s'indugiava,
tutto era perduto:Berthier, Massena, Cervoni, Duprat si precipitarono
alla testa delle truppe, e fissarono la fortuna ancor vacillante: l'inimico
nell'istante è rovesciato, l'Adda è aperta alla cavalleria, la vittoria è
definitivamente decisa. Più di Cesare glorioso BONAPARTE poiché
quello sostenne il ponte sul Aisne contro Galba, che con le sue forze
numerosissime tentava superarlo; quando l 'a i t ro acquistò il ponte di
Lodi contro gli Alemanni, che lo guardavano tanto forti: Noyon atterrita
apre le porte a Cesare. Milano festeggiante incontra BONAPARTE; in quello Noyon
teme il suo tiranno; in questo Milano ama il suo benefattore: Cesare vinceva
per far schiavi i vinti: BONAPARTE trionfa per farli liberi.
Dalle divisate azioni guerresche chi non vede riunito in BONAPARTE
il cova ^gio, l'operativa prontezza di Marcella; ìa circospezione, ed il
provedimento Fabio Massimo? Conobbe troppo be> bON APARTE la
importanza delle <e imprese; e potè dire molto avanti to quello,
che solo aveva pensato di . Si valse opportunamente dei suoi .ta^i
con non lasciarsi alle spalle altrui inimico: vinto uno dalle sue
armi, gli altri maravigliati, ed atterriti dalle sue vittorie
fecero delle proposizioni di pace, che furono accordate con i vantaggi
dovuti al vincitore; i quali però non portavano il vinto ad un odioso
avvilimento. Riunì BONAPARTE in queste operazioni la esecuzione dei
pensieri di Marcello in Siracusa; di Fabio Massimo nella capitale de'
Tarentini, popolazioni da loro debellate. Marcello per
trattato leva molti bel1 issimi simulacri, perchè servissero di ornamento
alla sua patria; la quale siuo allora non aveva, ne avuti, nè veduti
abbigliamenti cosi gentili ed isquisiti. Fabio Massimo trasse fuori denari e
ricchezze, lasciando ai Tarentini i loro numi sdegnati che eran di marmo.
Marcello fu applaudito dal popolo e condannato dagli uomini di
probità. Fabio Massimo fu celebrato da questi, e non curato dagli
altri. Siro Contri, «Il regime fascista». Siro Contri. Contri. Keywords: il
Napoleone di Hegel, del bello, il bello, assiologia, poetica vichiana,
Mussolini, discorso, duce, logica di Hegel, filosofia dell’essere, l’essere e
gli esseri, Hegel contraddetto, il bello, pulchrum, archeo-scolastici,
paleo-scolastici, Aquino, aristotele, il vero, l’errore di Croce, l’equivoco di
Croce, percezione del bello, l’armonia e il bello, del storicismo alla
storiosofia, storiosofia o filosofia della storia, interpretazione dommatica di
Aquino, la negazione di hegel, il concetto puro di Hegel, la negazione come
metodo in Hegel, nihilismo e negazione in Hegel, l’errore di Hegel, il sofisma
di Hegel, Gentile e il bello. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contri” – The
Swimming-Pool Library. Contri.
Luigi Speranza -- Grice e Corbellini:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del darwinismo
politizzato – scuola di Cadeo – filosofia piacentina – filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cadeo). Filosofo piacentino. Filosofo
emiliano. Filosofo italiano. Cadeo, Piacenza, Emilia-Romagna. Grice: “I like Corbellini; of course he has to defend science versus
what he calls – alla Popper? – ‘pseudoscenza’ in Italy, which he calls ‘il
paese della pseudoscenza’ – I thought that was Oxford!” I sui interessi riguardano
la grammatical del vivente, la storia della medicina e la bioetica. Insegna
Roma. Si laurea con “L’epistemologia evoluzionistica”.I suoi interessi di
studio hanno riguardato la storia e la filosofia della biologia
evoluzionistica, delle immunoscienze e delle neuroscienze, per includere poi
anche lo studio della storia della malaria e della malariologia in Italia,
delle ricadute della genetica molecolare, delle implicazioni dell’evoluzione e
l'evoluzione. L'approccio storico-epistemologico all'evoluzione trovato una
sintesi nella ricostruzione della storia delle idee di “salute” e malattia e
delle trasformazioni metodologiche a cui è andata incontro la ricerca delle
spiegazione causale della salute. La sua ricerca si è orientata anche verso
l'esame delle radici delle controversie bioetiche. Difende un'idea non
confessionale della bioetica, che ha radici filosofiche in uno scetticismo
morale radicale, naturalistico e non relativista (Bioetica per perplessi. Una
guida ragionata, Mondadori). Coltiva anche
un interesse per la percezione sociale e il ruolo della scienza nella
costruzione del valore civile. Sostiene che l'invenzione e l'espansione del
metodo scientifico hanno consentito e favorito l'evoluzione del libero mercato
e della stato di diritto, ovvero che la scienza ha funzionano come
catalizzatore nella costruzione e manutenzione dei valori critico-cognitivi e
morali che rendono possibile il funzionamento del sistema liberal-democratico. Altre opere: “Nel Paese della Pseudoscienza.
Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà” (Milano, Feltrinelli); “Cavie?
Sperimentazione e diritti animali” (Bologna, Il Mulino); “Tutta colpa del
cervello: un'introduzione alla neuro-etica” (Milano, Mondadori Università,;
Scienza, Torino, Bollati Boringhieri); “Dalla cura alla scienza” (Milano,
Encyclomedia Publishers); “Scienza, quindi democrazia, Torino, Einaudi); “Perché
gli scienziati non sono pericolosi” (Milano, Longanesi); “La razionalità
negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (con Giovanni Jervis), Torino,
Bollati Boringhieri, EBM); “Medicina basata sull'evoluzione” (Roma-Bari,
Laterza); “Bi(blio)etica” (Torino, Einaudi); “Breve storia delle idee di salute
e malattia” (Roma, Carocci); “La grammatica del vivente. Storia della biologia
e della medicina molecolare” (Roma-Bari, Laterza); “L'evoluzione del pensiero
immunologico” (Bollati Boringhieri, Torino). L’errore di Darwin. Introduzione;
Dall’etica medica alla bioetica; Il senso morale umano e le controversie
bioetiche; 3. Sperimentazione sull’uomo e consenso informato; Scelte di fine
vita; Scelte di inizio vita; Medicina genetica; Sperimentazione animale; Medicina
dei trapianti e definizione di morte; Etica della ricerca responsabile;
Medicina rigenerativa e staminali; Neuroetica; Etica ambientale e OGM; Etica
della comunicazione scientifica, della percezione della scienza e del «gender»;
Indice dei box; Indice analitico; Indice dei nomi. Come nota C. nella
prefazione all’edizione italiana del libro di Ru- bin, il tentativo di
applicare l’approccio evoluzionistico alla filosofia politica spesso rischia di
venire frainteso. Il fraintendimento più comune e pericoloso deriva dalla
mancata distinzione tra il darwinismo politicizzato e la politica darwiniana:
il primo è costituito, come è accaduto nel caso del “social darwinismo”, dall’nterpretazione
strumentale e priva di coerenza logica o di basi scientifiche delle idee
darwiniane per difendere qualche particolare ideologia politica»; la seconda,
invece, consiste nell’«uso delle conoscenze evoluzionistiche sulla natura umana
per meglio comprendere le origini delle preferenze politiche individuali, la
loro distribuzione sociale e le dissonanze tra gli adattamenti ancestrali e
l’ambiente attuale. Ridley si mostra ben consapevole del rischio di trasformare
la politi- ca darwiniana in ideologia. Questo, tuttavia, non gli impede di
avanzare alcuni suggerimenti di politica economica Cfr. Skyrms, The Evolution
of Social Contract, e Festa “Teoria dei giochi, metodo delle scienze sociali e
filosofia della politica”, Prefazione a de Jasay, Scelta, contratto, consenso).
Alcune immani tragedie che hanno segnato la storia degli ultimi due secoli
sembrano dovute, almeno in parte, all’ignoranza – e, talvolta, alla ne- gazione
– di alcune caratteristiche essenziali della natura umana. Per esempio, Ridley osserva
che Marx vagheggia un sistema sociale che avrebbe funzionato solo se fossimo
stati degli angeli, ed è fallito perché siamo invece degli animali. Singer, Una
sinistra dawiniana. Politica, evoluzione e CO0OPERAZIONE, Torino, Edizioni di
Comunità, Arnhart, Darwinian Conservatism, Exeter (UK), Imprint Academic,
Rubin, La politica secondo Darwin; Corbellini, “Politica darwiniana vs
darwinismo politicizzato”, prefazione a Rubin, La politica secondo Darwin; Ridley.Origini.Virtu.indd
Le origini della virtùsi vedano soprattutto gl’ultimi tre capitoli del saggio –
che gli sembrano compatibili con le nostre tendenze evolutive. La prospettiva
filosofico-politica che ne emerge è un libe- ralismo con tendenze anarchiche,
che non sarebbe inappropriato chiamare anarco-liberalismo. Tale prospettiva,
ispirata dalla grande fiducia di Ridley negl’ISTINTI CO-OPERATIVI e altruistici
degl’esseri umani, sfocia infatti nella difesa di un ordine politico-economico
nel quale il ruolo del gover- no e dell’intervento pubblico è ridotto ai minimi
termini: Recuperiamo la visione di Kropotkin, che immaginava un mondo di liberi
individui. Non sono così ingenuo da pensare che ciò possa accadere da un giorno
all’altro, o che qualche forma di governo non sia necessaria. Ma metto se-
riamente in dubbio la necessità di uno Stato che decide ogni minimo dettaglio
della nostra vita e si attacca come una gigantesca pulce alla schiena della
nazione. D’altra parte, Ridley si rende conto che, mentre le soluzioni
politico-economiche da lui favorite si accordano con alcune tendenze evolutive
umane, confliggono però con altre. Per esempio, egli osserva che certe istituzioni
economi- camente adeguate nella società moderna, come la proprietà privata,
possono entrare in tensione con le tendenze primi- tive all’egualitarismo, alla
redistribuzione e al rifiuto dell’accumulazione di ricchezza. L’analisi dei
conflitti tra le moderne istituzioni politico-economiche e le nostre ten- denze
primitive è uno degli argomenti centrali del già citato libro di Rubin.Le
“Imperfezioni umane” di Pani e C. Covato Mailing Le “Imperfezioni umane” di
Pani e C. Fornire un punto di vista innovativo, cioè evoluzionistico, di tutto
quello che riguarda la salute e le disfunzioni comportamentali, e suggerire
qualche punto di vista originale sul perché nonostante le dissonanze evolutive,
la condizione umana è globalmente migliorata. È questo l’obiettivo del libro
dal titolo “Imperfezioni umane. Cervello e dissonanze evolutive: malattie e
salute tra biologia e cultura” (Rubbettino), scritto da Luca Pani e C., Roma, Centro
studi americani a Via Caetani. Dopo i saluti di Messa, direttore Centro
studi americani, interverranno alla presentazione moderata da Palmieri (Tg1)
monsignor Leuzzi, Vescovo ausiliare di Roma, Mingardi, direttore generale
Istituto Leoni, Ippolito, professore di storia della Filosofia a Roma. Negli
ultimi vent’anni una nuova ipotesi di lavoro si è fatta strada in ambito medico
sanitario, definita nel mondo anglosassone «evolutionary mismatch» (dissonanza
evoluzionistica) – raccontano gl’autori -. Questa teoria assume, in pratica,
che l’ambiente nel quale la nostra specie ha acquisito i suoi tratti adattativi
sia drammaticamente cambiato in un tempo troppo breve perché predisposizioni o
tratti genetici e fenotipici dell’organismo fossero in grado di adeguarsi, per
selezione naturale, alle novità”. Le conseguenze di queste dissonanze?
“Disfunzioni o disturbi o rischi che richiedono un approccio medico”. “Il
libro è diviso in tre parti – spiegano Pani e Corbellini – Si inizia con
un’illustrazione dei presupposti di qualunque strategia motivazionale, cioè dei
meccanismi che sono alla base del piacere e delle ricompense, e da cui deriva –
in ultima istanza – la possibilità di acquisire nuove conoscenze che consentono
di affrontare le incertezze psicologiche che si accompagnano a qualunque
comportamento esplorativo. La riflessione prosegue con esemplificazioni di
risposte comportamentali che in particolari (o mutate) condizioni si
manifestano come malattie. Il terzo capitolo è dedicato in modo specifico al
comportamento alimentare e discute l’esempio più eclatante di dissonanza
evoluzionistica: il mismatch metabolico. Gl’ultimi due capitoli affrontano una
serie d’imperfezioni e predisposizioni comportamentali umane che scaturiscono
da compromessi evolutivi, e che risultavano vantaggiose o meno nel contesto
dell’adattamento evolutivo, mentre i cambiamenti ambientali determinati
dall’evoluzione culturale hanno generato, a loro volta, ulteriori fenomeni
disadattativi”. Nel dettaglio gli autori descrivono le dissonanze create
dai nuovi contesti di vita per quanto riguarda cicli del sonno, accesso al
cibo, comunicazione, cooperazione ovvero isolamento sociale, oppure di
comportamenti più complessi come la rabbia aggressiva o l’altruismo; ma anche
le preferenze politiche o l’intelligenza. Negli ultimi capitoli del volume
emergono anche idee e ipotesi relative a scoperte cognitive e innovazioni che
hanno migliorato la condizione umana, o reso possibili cambiamenti
comportamentali incredibili.Il concetto di libero arbitrio implica che sussista
nelle persone, dato un certo grado di sviluppo cognitivo e morale, la capacità
di decidere e di agire, scegliendo tra diverse alternative disponibili, senza
essere condizionati da fattori fisici o biologici di qualunque genere. Si
assume, in altri termini, che le persone maturino una cosiddetta “agenticità”,
cioè una capacità di agire e decidere in un quadro di consapevolezza degli
effetti prodotti, che non è riducibile o spiegabile sulla base dei processi
neurobiologici che hanno luogo nel cervello e/o alle leggi fisiche che li governano.
Di libero arbitrio si può parlare, comunque, in molti modi e da diverse
prospettive: filosofica, metafisica, giuridica, psicologica, etc. Nel
corso dell’evoluzione della specie, abbiamo sviluppato strutture cerebrali che
ci fanno appunto credere di essere liberi e poter decidere in completa
autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario
successo di animali sociali Negli ultimi decenni le neuroscienze
cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio, con una quantità
crescente di prove, la visione classica di libero arbitrio, aprendo un
dibattito scientifico ancora in corso. Qual è la sua posizione
all’interno del dibattito? La mia posizione è che il libero arbitrio è
una credenza senza senso, come aveva spiegato bene, molto prima delle
neuroscienze, il filosofo Spinoza. Se ci fosse qualcosa come il libero
arbitrio, allora davvero potrebbe esserci qualsiasi cosa ci possiamo
immaginare. Tuttavia, è vero che,nel corso dell’evoluzione della specie,abbiamo
sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto credere di essere liberi e
poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il
nostro straordinario successo di animali sociali. Il libero arbitrio è
un’illusione, ma un’illusione molto produttiva. L’intuizione di ritenersi
liberi, in un senso vago o indefinito, è una forma di autoinganno, come tante
altre che sono prodotte dalla nostra coscienza, che nel tempo è stata
socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso
individuale di responsabilità, con tutte le conseguenze che ne derivano anche
per l’organizzazione di un ordine sociale efficiente sulla base di un sistema
di obblighi. Ovviamente questa strategia è modulata da specifiche
condizioni ecologiche e sociali, per cui in alcuni contesti questa illusione si
può espandere e diventare la base di sistemi anche molto progrediti per qualità
di vita, come quelli occidentali, mentre in altri ambienti di vita sarà più
adattativo che tale intuizione e illusione non maturi neppure, o maturi in
forme che sono funzionali a all’accettazione di un comportamento
consapevolmente eterodiretto. L’intuizione di ritenersi liberi è
una forma di autoinganno che nel tempo è stata socialmente addomesticata per
inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di
responsabilità Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale?
Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano? In
che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze? Non
è del tutto chiaro nei dettagli come interagiscano le strutture del cervello
che controllano le emozioni o le reazioni impulsive, e quelle che controllano
la pianificazione di azioni calcolate. Quello che si sa è che alcune
condizioni, come trovarsi di fronte un’altra persona preferibilmente con le
proprie stesse caratteristiche somatiche o un parente, induca l’inibizione di
un comportamento utilitaristico, cioè volto a massimizzare qualche beneficio in
generale a prescindere dai danni che si possono arrecare alle persone; ovvero
che induca un comportamento di accudimento o altruistico, di carattere
parentale o reciproco. Mentre situazioni contrarie all’ordine morale
appreso socialmente e attraverso l’educazione scatenano quasi automaticamente
reazioni di disgusto o qualche altra avversione emotiva (ad esempio, rabbia o
disprezzo). Se non ci sono di mezzo contatti fisici, o rapporti parentali
con altre persone, o impulsi emotivi avversi, le persone possono applicare un
calcolo razionale e quindi scegliere un’azione in base all’utilità percepita o
calcolata. Comunque esistono diverse teorie su come emozioni e ragione
entrano in gioco nelle scelte in generale, e in quelle morali in particolare.
Quello che si sta sottovalutando, penso, è il ruolo che le emozioni, che
mediano i valori morali, possono giocare nell’apprendimento di comportamenti,
che a loro volta retroagiscono sui valori, cioè che possono cambiare nel tempo
le predisposizioni delle persone nel rispondere a situazioni identiche o diverse.
In altre parole, le emozioni servono direttamente alla sopravvivenza ed entrano
in azione quando è minacciata l’omeostasi funzionale a qualche livello, e
quindi servono a premiare o punire i comportamenti appresi sulla base della
funzionalità che manifestano. Ma questi nuovi comportamenti possono far
scoprire nuovi valori, cioè trovare premianti strategie diverse da quelle
prevalenti nella società, e quindi modulare le emozioni originarie, evitando
che gli impulsi emotivi inducano risposte non calcolate e che potrebbero essere
deleterie. In fondo, dato che noi occidentali sul piano genetico siamo
praticamente uguali agli altri gruppi umani, qualcosa del genere potrebbe
spiegare come ci siamo affrancati moralmente e politicamente da schemi
decisionali tribali od oppressivi. Credits to Unsplash. Parliamo del
legame tra violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto dall’aggressività
nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili determinanti genetiche
del comportamento aggressivo? L’aggressività, come la cooperazione,
è stata un fattore chiave per la sopravvivenza e l’evoluzione della nostra
specie. Come tutti i tratti, l’aggressività è polimorfica e quindi ci sono
persone geneticamente più predispostedi altre all’aggressività. È
verosimile che la selezione sociale abbia col tempo reso più vantaggiosi i geni
della cooperazione in alcuni contesti ecologici, e quindi favorito il processo
socio-culturale che nell’età moderna ha ridotto drammaticamente la violenza sul
pianeta, e soprattutto nel mondo che ha inventato la scienza e ha abbracciato
lo stato di diritto. I governi occidentali continuano giustamente la lotta
contro la criminalità e la violenza, ma nella storia del pianeta non c’è mai
stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in
generale, rispetto a oggi. Pinker ha dimostrato questo fatto in un
dettagliatissimo e acuto saggio, “Il declino della violenza”. Nella
storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non
solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi E per quanto
riguarda la differenza di genere? Cosa sappiamo dei rapporti tra cervello
maschile, cervello femminile e comportamento aggressivo? Le differenze di
genere nel comportamento aggressivo esistono. Studiando complessivamente
l’aggressività di bambini e bambine si è visto che i due generi sono egualmente
aggressivi verbalmente, mentre i bambini lo sono di più fisicamente rispetto
alle bambine. Nel complesso i bambini sono più aggressivi delle bambine sul
piano dell’aggressione diretta. Mentre le bambine sono indirettamente
aggressive anche più dei bambini. Queste differenze, come altre, dipendono
verosimilmente da stimoli ormonali nel corso dello sviluppo e rispondono a
strategie adattative selettivamente vantaggiose nell’ambiente dell’evoluzione.
Il modo in cui maturano il cervello maschile e femminile dipende molto dai
contesti e si conoscono diversi fattori ambientali e culturali che influenzano,
ad esempio, la violenza a carico delle donne. Ci sono prove concrete del fatto
che il patriarcato e la sua istituzione giuridica sono fattori importanti per
la persistenza della violenza maschile ai danni delle donne, e del fatto che
ridurre il dominio maschile attraverso delle adeguate politiche sociali riduce
la violenza maschile e che la cooperazione tra donne riduce la violenza
maschile sia contro le donne sia contro altri uomini. Parliamo ora delle
differenze individuali nel controllo degli impulsi. Non ci sono moltissimi
dati, ma uno studio di qualche anno fa ha esaminato cosa avviene nel cervello
quando si fanno scelte impulsive, che svalutano una ricompensa ritardata,
ovvero come viene rappresentata dinamicamente nel cervello la svalutazione del
ritardo quando si sta aspettando e anticipando una ricompensapossibile che è
stata desiderata e scelta. La corteccia prefrontale ventromedialemanifesta
uno schema caratteristico di attività durante il periodo di ritardo nel
ricevere la ricompensa, oltre a esercitare un’attività modulatoria durante la
scelta, che è coerente con la codificazione del tempo durante il quale avviene
una svalutazione del valore soggettivo. Lostriato ventrale esibisce a sua volta
uno schema di attività simile, ma preferenzialmente negli individui impulsivi.
Un profilo contrastante di attività collegata al ritardo e alla scelta è stata
osservata nella corteccia prefrontale anteriore, ma selettivamente in persone
pazienti, cioè non impulsive. Quindi corteccia prefrontale ventromediale e
corteccia prefrontale anteriore esercitano – sebbene ciò sia ancora da chiarire
come – influenze modulatorie ma opposte rispetto all’attivazione dello striato
ventrale. Ovvero quell’esperimento ci dice che il comportamento impulsivo e
l’autocontrollo sono collegati a rappresentazioni neurali del valore di future
ricompense, non solo durante la scelta, ma anche nelle fasi di ritardo
post-scelta. Cosa può voler dire tutto questo per il nostro discorso? Mi
lasci citare ancora Spinoza, per il quale è «libera quella cosa che esiste e
agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura». La vera libertà,
è autonomia e indipendenza, non arbitrio o scelta indeterminata. Quindi si è
tanto più liberi e non soggetti a impulsi, quanto più alcune strutture del
nostro cervello, altamente connesse e addestrate dall’esperienza, lo rendono
autonomo e meno soggetto o costrizioni esterne. Credits to
Unsplash.com Quali sono le possibili influenze delle disfunzioni cognitive e
dei fattori ambientali sulla capacità decisionale (anche ai fini
dell’imputazione penale)? Può condividere con noi qualche caso di
studio? Casi di studio ce ne sono diversi, ma quelli al momento più
esemplari riguardano gli effetti delle varianti alleliche del gene della mono-amin-ossidasi
A, detto anche “gene del guerriero”, in quanto collegato all’aggressività su
basi osservazionali mirate. In sostanza, le persone con la variante che produce
meno mon-amino-ossidati A. rispondono in modi più aggressivi e violenti,
rispetto a chi esprime livelli più alti. Il fatto interessante è che se
queste persone predisposte all’aggressività sono state allevate in ambienti
accoglienti, esprimono un’aggressività minore rispetto a omologhi genetici
cresciuti in famiglie disagiate. Anche dati sperimentali in ambito psicologico
e di economia comportamentale dimostrano che le aggressioni hanno luogo con
maggiore intensità e frequenza, quando provocate in un contesto sperimentale,
soprattutto in soggetti con una bassa attività di mono-amino-ossidati A. Gli studi sperimentali mostrano anche che il mono-amin-ossidati
A è meno associato con la comparsa dell’aggressione in una condizione di bassa
provocazione, ma predice più significativamente il comportamento aggressivo in
una situazione molto provocatoria. Esiste ormai una letteratura
sterminata anche sui casi di persone con anomalie morfologiche e funzionali
dell’amigdala che regolarmente esprimono un profilo sociopatico, ovvero che non
provano emozioni negative quando provocano sofferenze in altri individui. Si
conoscono inoltre casi di tumori cerebrali o lesioni neurologiche che alterano
la personalità individuale, e non poche persone hanno commesso crimini in
quanto un tumore cerebrale ha alterato le loro capacità decisionali. La memoria
del testimone: in particolare, come si accerta l’attendibilità della
testimonianza e quali sono i principali metodi di verifica? Il sistema
giudiziario si fonda sulla memoria: interrogatorio/confronto, testimonianze,
ricordo dei giurati al momento di discutere il verdetto. Ma la memoria umana è
falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a
false memorie. Gli stati emotivi influenzano la qualità della memoria. La
nostra storia personale influenza il modo in cui ricordiamo. Gli psicologi e
gli esperti studiano soprattutto il problema della testimonianza oculare,
perché in ben tre casi su cinque le identificazioni si rivelano
sbagliate. Esistono diversi metodi di controllo/verifica e volti a
ridurre gli errori nelle testimonianze. Uno di questi analizza per esempio
l’accuratezzadella testimonianza oculare e delle modalità di interrogatorio del
testimone, per arrivare a una probabilità relativa al caso. Il
sistema giudiziario si fonda sulla memoria. Ma la memoria umana è falsata: il
cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false memorie.
Esiste anche un diritto alla riservatezza per i nostri ricordi. Nel senso che
se io non intendo comunicare a qualcuno un ricordo, ho diritto a tenerlo per
me. Un giudice deve avere forti ragioni per forzare l’accesso alla mia memoria,
ed è comunque tenuto a rispettare i miei diritti fondamentali se ci prova. Se
davvero si riuscirà a costruire affidabili brain lie detector, macchine della
verità con accesso alle memorie cerebrali, si configurerà un problema sul
fronte di normare i limiti del diritto di un giudice far rilevare impronte
mnestiche del nostro cervello, i ai fini di un’indagine processuale. Non tanto
per la riservatezza del dato di interesse, cioè se un imputato o un testimone
mentono o dico la verità nel caso in specie, ma per il fatto che quell’accesso
può rendere noti dei fatti che non hanno rilevanza con l’indagine e che
potrebbero danneggiare la persona. Inoltre, alcuni farmaci e tecnologie
possono potenziare la memoria individuale. Ebbene, sarebbe lecito consentire a
o incentivare alcuni attori del procedimento giudiziario (giudici e giurati) a
potenziare le loro memorie ai fini di un più efficiente funzionamento del
sistema? La morale ha, o potrebbe avere, un fondamento biologico? La
morale ha un fondamento biologico. La morale serve a tenere insieme i gruppi
umani sociali, e ha creato le premesse sociobiologiche per l’affermarsi della
religiosità quale sistema di controllo incorporato nelle persone e alimentato
socialmente per garantire che i valori morali adattativi in società meno
complesse delle nostre siano mantenuti e trasmessi. In prospettiva: quali
sono a suo avviso i possibili intrecci tra acquisizioni neuroscientifiche e
diritto penale? Quale impatto potrebbero avere sugli attuali meccanismi di
attribuzione della responsabilità e di applicazione della pena? Su questo
punto la penso come chi ha detto che con l’arrivo delle neuroscienze, nel
diritto, cambia tutto e non cambia niente. Vale a dire che il concetto di
libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione
(caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati,
perché privi di basi teorico-fattuali. Mentre si potrebbe affermare un concetto
consequenzialista(utilitarista) della concezione della pena, più vicino al
diritto positivo. Il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo
di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono
destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali In
Italia, come vengono accolte dalla magistratura le evidenze neuroscientifiche?
E a livello internazionale? L’Italia è all’avanguardia, se così si può
dire, nell’uso di prove neuroscientifiche in tribunale. Due sentenze in
particolare, Trieste e Como, riconobbero il ruolo causale di tratti
neurogenetici nel comportamento delittuoso, e di conseguenza attribuirono uno
sconto di pena. Le sentenze italiane sono state accolte con allarme in
diversi contesti internazionali. Ma c’è poco da fare: se queste conoscenze e
tecnologie acquisiranno una base sperimentalmente solida e consentiranno di
prevedere con buona attendibilità le predisposizioni a commettere reati, è
inevitabile che entreranno a far parte dello strumentario di lavoro dei
giudici. Tuttavia, esiste un’ambivalenza in Italia, come in altri paesi,
verso l’uso delle prove neuroscientifiche. Intanto in Italia non tutti i
giudici hanno ancora chiaro cosa sia una perizia neuroscientifica e ignorano
criteriepistemologicamente validi e formalmente definiti per scegliere periti
che apportino davvero prove scientifiche e controllate nel contesto di un
dibattimento processuale. Ciò sebbene la Cassazione abbia in sentenze recenti
fatto proprio lo Standard Daubert, che elenca regole di ammissibilità delle
prove nei processi statunitensi. Inoltre, si tratta comunque di definire cosa
implica una diminuita imputabilità per colui che commette un reato, in quanto
le sue azioni e decisioni dipendevano dal modo di funzionare del cervello e
dalla sua dotazione genetica. Questo individuo è meno libero di altri e quindi
anche meno responsabile, e quindi le sanzioni dovrebbero essere volte a ridurre
al minimo le probabilità di reiterazione del o dei reati. Il riferimento è al noto scritto di Greene, J. Cohen, For the law,
neuroscience changes nothing and everything, in Philos Trans R Soc Lond B Biol
Sci. Ricerca
Storia del pensiero evoluzionista aspetti storici dell'evoluzionismo Lingua
Segui Modifica Evoluzione CollapsedtreeLabels- simplified.svg Meccanismi e
processi Adattamento Deriva genetica Equilibri punteggiati Flusso genico
Mutazione Radiazione adattativa Selezione artificiale Selezione ecologica
Selezione naturale Selezione sessuale Speciazione Storia dell'evoluzionismo
Storia del pensiero evoluzionista Lamarckismo Charles Darwin L'origine delle
specie Neodarwinismo Saltazionismo Antievoluzionismo Campi della Biologia
evolutiva Biologia evolutiva dello sviluppo Cladistica Evoluzione della vita
Evoluzione molecolare Evoluzione degli insetti Evoluzione dei vertebrati
Evoluzione dei dinosauri Evoluzione degli uccelli Evoluzione dei mammiferi
Evoluzione dei cetacei Evoluzione dei primati Evoluzione umana
Filogenetica Genetica delle popolazioni Genetica ecologica Medicina
evoluzionistica Genomica della conservazione Portale Biologia La prima
traccia dell'idea di un'evoluzione biologicadegli esseri viventi è la teoria
sull'origine della vitaattribuita ad Anassimandro di Mileto. Gli animali ebbero
origine nell'acqua, dove erano tutti simili a pesci; con il tempo sono saliti
sulla terraferma dove, liberati dalle scaglie, hanno continuato a vivere. Tale
fu anche l'origine dell'uomo. Con l'avvento del Cristianesimo, e fino almeno
all'evo moderno, l'indagine scientifica fu dominata dall'impianto filosofico
essenzialista di derivazione aristotelica, nel quale la possibilità stessa
della conoscenza si fonda sulla fissità della specie; inoltre, l'evoluzione non
si armonizza con la Genesi e non trova collocazione in un sistema di
riferimento che considera le specie immutabili perché perfette, in quanto
create ex nihilo da Dio. Nel XVII secolo, col riaffiorare delle antiche
concezioni, la parola evoluzione cominciò ad essere utilizzata come riferimento
a un'ordinata sequenza di eventi, particolarmente quando un risultato si
trovava, in qualche modo, già dall'inizio contenuto all'interno di essa. La
storia naturale si sviluppò enormemente, mirando ad investigare e catalogare le
meraviglie dell'operato di Dio. Le scoperte effettuate dimostrarono
l'estinzione delle specie, che fu spiegata dalla teoria del catastrofismo di
Cuvier, secondo cui gli animali e le piante venivano periodicamente annientati
a causa di catastrofi naturali per poi essere rimpiazzate da nuove specie
create dal nulla. In contrapposizione ad essa, la teoria dell'Uniformitarismo
di James Hutton, del 1785, ipotizzava un graduale sviluppo della Terra, il cui
aspetto non era dovuto ad eventi catastrofici ma a un lento processo
perpetuatosi attraverso gli eoni. Darwin, nonno di Charles, avanza delle
ipotesi sulla discendenza comune affermando che gli organismi acquisivano
"nuove parti" in risposta a degli stimoli e che questi cambiamenti
venivano trasmessi alla loro discendenza; nel 1802 suggerì la selezione
naturale. Lamarck sviluppò una teoria simile (l'"ereditarietà dei
caratteri acquisiti"), la quale ipotizzava che tratti
"necessari" venissero ereditati col passaggio da una generazione alla
successiva. Queste teorie di trasmutazione furono sostenute in Gran Bretagna
dai Radicali come Robert Edmond Grant. In questo periodo l'opera di Malthus,
Saggio sul principio della popolazione, influenzò il libero pensiero mostrando
come l'incremento della popolazione mondiale fosse correlato a un eccesso nelle
risorse disponibili. Varie teorie furono proposte per riconciliare la
Creazione biologica con le nuove scoperte scientifiche, incluso l'attualismo di
Charles Lyell secondo cui ogni specie aveva un suo "centro di
creazione" ed era progettata per un particolare habitatil cui cambiamento
portava inevitabilmente alla sua estinzione. Charles Babbage ritenne che Dio
avesse creato le leggi per un programma divino che operava per la produzione
delle specie e Owen seguì Johannes Müller nel pensiero che la materia vivente
avesse un'"energia organizzativa", una forza vitale (Lebenskraft)
che, dirigendo lo sviluppo dei tessuti, determinava l'arco di vita degli
individui e delle specie. Antichità Greci Ipotesi secondo cui un tipo di
animale, perfino l'essere umano, potesse discendere da altri tipi di animali
erano state formulate dai filosofi greci Presocratici. Anassimandro di Mileto suppose
che i primi animali vivessero in acqua, durante una fase umida del passato
della Terra, e che i primi avi viventi a terra della razza umana dovevano
essere nati in acqua, e aver passato solo una parte della loro vita sulla
terraferma. Intuì anche che il primo umano della forma conosciuta oggi doveva
essere stato il figlio di un altro tipo di animale, perché l'uomo ha bisogno di
un lungo periodo di accudimento per raggiungere l'autonomia. Empedocle di
GIRGENTI; intuì che quello che noi chiamiamo nascita e morte degli animali sono
solamente il mischiarsi e il separarsi degli elementi che formano
"l'infinita tribù delle cose mortali". Più in particolare, i primi
animali e le prime piante erano simili alle parti divise che formano quelli che
vediamo oggi, qualcuna delle quali sopravvisse unendosi in differenti
combinazioni, e poi mescolandosi di nuovo, finché "tutto riuscì come se
fosse stato fatto di proposito, lì le creature sopravvissero, essendo
accidentalmente composte in modo corretto". Altri filosofi diventarono più
importanti nel Medioevo, fra cui Platone, Aristotele, ed esponenti della scuola
stoica di filosofia, credevano che le specie di tutte le cose, non solo viventi,
fossero state stabilite da un progetto divino. Epicuro dell’ORTO ha
anticipato l'idea della selezione naturale. Il filosofo romano e atomista
LUCREZIO espone queste idee nel suo poema De rerum natura (Sulla natura delle
cose). Nel sistema Epicureo, si è ipotizzato che molte specie siano state
generate spontaneamente da Gea in passato, ma che solo le forme più funzionali
siano sopravvissute e abbiano avuto progenie. Gli epicurei non sembrano aver
anticipato l'intera teoria dell'evoluzione come la conosciamo oggi, ma sembra
che abbiamo postulato una teoria abiogeneticaseparata per ciascuna specie,
piuttosto che postulare un singolo evento abiogenetico con la differenziazione
delle specie a partire da uno o più organismi progenitori originari.
Cinesi Antichi pensatori cinesi come Zhuang Zhou, un filosofo taoista, hanno
espresso varie idee su come le specie biologiche si siano diversificate.
Secondo Joseph Needham, il Taoismo nega esplicitamente la fissità delle specie
biologiche, e filosofi taoisti ipotizzano che le specie abbiano sviluppato
diversi attributi in risposta ad ambienti differenti. Il Taoismo insegna che
gli esseri umani, la natura e il cielo sono in uno stato di
"trasformazione costante" noto come il Tao, una visione della natura
in contrasto con quella più statica tipica del pensiero occidentale.
Romani Il poema di Lucrezio De rerum natura fornisce la migliore spiegazione
superstite del pensiero dei filosofi epicurei greci. Esso descrive lo sviluppo
del cosmo, la Terra, gli esseri viventi, e la società umana attraverso
meccanismi puramente naturalistici, senza alcun riferimento al coinvolgimento
soprannaturale. De rerum natura potrebbe aver influenzato le speculazioni
cosmologiche ed evolutive di filosofi e scienziati durante e dopo il
Rinascimento. Il suo punto di vista è in forte contrasto con le opinioni di
filosofi romani della scuola stoica come CICERONE, Seneca, e PLINIO il Vecchio che
avevano una visione fortemente teleologica del mondo naturale che ha
influenzato la teologia cristiana. CICERONE riporta che la visione peripatetica
e stoica delle natura riguarda fondamentalmente il produrre vita "capace
di sopravvivere nel migliore dei modi", cosa data per scontata tra l'élite
ellenistica. Agostino. Agostino in un dipinto di Lippi In linea con il
precedente pensiero greco, il vescovo e teologo del IV secolo, Agostino di
Ippona, scrisse che la storia della creazione nel libro della Genesi, non
doveva essere letta troppo alla lettera. Nel suo libro De Genesi ad litteram
("Sul significato letterale della Genesi"), ha dichiarato che in
alcuni casi le nuove creature potrebbero essersi originate attraverso la
"decomposizione" di precedenti forme di vita. Per Agostino — a
differenza di quelle che considerava le forme teologicamente perfette degli
angeli, il firmamento e l'anima umana — le "piante, uccelli e la vita
animale non sono perfetti… ma creati in uno stato di potenzialità". L'idea
di Agostino che le forme di vita siano state trasformate "lentamente nel
corso del tempo" ha spinto padre Giuseppe Tanzella-Nitti, docente di
teologia presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma, a sostenere
che Agostino abbia suggerito una forma di evoluzione. Osborn scrisse in From
the Greeks to Darwin: "Se l'ortodossia di Agostino fosse rimasta una
dottrina della Chiesa, la scoperta dell'evoluzione sarebbe avvenuta molto prima
di quanto non abbia fatto, certamente nel corso del XVIII invece del XIX
secolo, e la controversia su questa verità della Natura non sarebbe mai sorta…
Chiaramente la creazione diretta o istantanea di animali e piante sembrava
essere insegnata dalla Genesi, Agostino lesse questo alla luce del nesso di
causalità primaria e il graduale sviluppo da imperfetto a perfetto spiegato da
Aristotele. Questo influente insegnante ha così tramandato ai suoi seguaci
pareri strettamente conformi alle vedute progressiste di questi teologi del
nostro tempo che hanno accettato la teoria evoluzione. In Storia della lotta
della scienza con la teologia nella cristianità (A History of the Warfare of
Science with Theology in Christendom), dove White scrisse sui tentativi di
Agostino di preservare l'antico approccio evolutivo alla creazione:
"Per secoli una dottrina largamente accettata era che l'acqua, la
sporcizia, e le carogne avevano ricevuto il potere dal Creatore per generare
vermi, insetti, e una moltitudine di piccoli animali; e questa dottrina era
stata accolta con particolare favore da Sant'Agostino e molti dei padri
fondatori, in quanto solleva l'Onnipotente dal creare, Adamo dal nominare, e
Noè dal vivere nell'arca con queste innumerevoli specie disprezzate. In De
Genesi contra Manichæos, Agostino dice: "Supporre che Dio creò l'uomo
dalla polvere con le mani è molto infantile… Dio non plasmò l'uomo con le mani
né soffiò su di lui con la gola e le labbra…" Agostino suggerisce in altri
lavori la sua teoria dello sviluppo degli insetti dalle carogne, e l'adozione
della vecchia teoria dell'evoluzione, mostrando che "alcuni animali molto
piccoli non possono essere stati creati nei giorni quinto e sesto, ma possono
essere stati originati in seguito dalla putrefazione della materia." Per
quanto riguarda l'agostiniana De Trinitate ("Sulla Trinità"), White
ha scritto che Agostino "…sviluppa finalmente l'idea che dietro la creazione
di esseri viventi c'è qualcosa di simile a un'evoluzione, di cui Dio è l'autore
ultimo, che opera attraverso le cause seconde; e, infine, sostiene che alcune
sostanze sono dotate da Dio del potere di produrre alcune classi di piante e
animali.. Una pagina del Kitāb al-Hayawān (libro degli animali) di Al-Jāḥiẓ La
filosofia islamica e la lotta per l'esistenzaModifica Anche se le idee
evolutive di greci e romani si estinsero in Europa dopo la caduta dell'Impero
romano d'Occidente, non furono abbandonate dai filosofi e scienziati islamici.
Nell'Epoca d'oro islamica, i filosofi esplorarono nuove idee nel campo della
storia naturale, quali la trasmutazione dal non vivente al vivente: "dal
minerale al vegetale, dalla pianta all'animale, e dall'animale all'uomo. Nel
mondo islamico medievale, lo studioso al-Jahiz(776 -868) scrisse un libro sugli
animali nel IX secolo, dove descrive la catena alimentare. Khaldun scrive il
Muqaddimah in cui afferma che gli esseri umani si sono sviluppati dal
"mondo delle scimmie", in un processo attraverso il quale "le
specie diventano più numerose". Alcuni dei suoi pensieri, secondo alcuni
commentatori, anticipano la teoria biologica dell'evoluzione. Nel primo
capitolo si legge: "Il mondo con tutte le cose in esso create ha un certo
ordine e la sua solida costruzione mostra nessi tra cause ed effetti,
combinazioni fra alcune parti della creazione ed altre, trasformazioni di
alcune cose esistenti in altre, in uno straordinario reticolo senza fine. Aquino
in un dipinto di Carlo Crivelli Durante il Medioevo, la cultura classica greca
decadde in Occidente. Tuttavia, il contatto con il mondo islamico, dove i
manoscritti greci erano stati conservati e ampliati, ben presto portò a
un'ondata massiccia di traduzioni latine, che re-introdussero in Europa le
opere greche, nonché quelle del pensiero islamico. La maggior parte dei
teologi cristiani credeva che il mondo fosse progettato secondo una gerarchia
immutabile, la grande catena dell'essere o scala naturae, che influenzò il
pensiero della civiltà occidentale per secoli. Altri teologi erano più aperti
alla possibilità che il mondo si fosse sviluppato attraverso processi naturali.
AQUINO si spinse oltre il pensiero di Agostino nel sostenere che i testi sacri
come la Genesi non dovessero essere interpretati in modo letterale, poiché ciò
si poneva in conflitto con quello che i filosofi naturali avevano imparato sul
funzionamento del mondo naturale, e li vincolava dallo scoprire nuove cose[non
chiaro]. L'Aquinate pensava che l'autonomia della natura fosse un segno della
bontà di Dio, e che non vi era alcun conflitto tra il concetto di un universo
divinamente creato, e l'idea che l'universo si potesse essere evoluto nel tempo
attraverso meccanismi naturali.Tuttavia, Tommaso contestava i sostenitori di
Empedocle, che sostenevano che l'universo avrebbe potuto svilupparsi anche
senza un obiettivo di fondo. Rinascimento e IlluminismoModifica
Comparazione di uno scheletro umano con uno scheletro di uccello ad opera di
Belon La filosofia meccanica di Cartesio incoraggiò l'uso della metafora
dell'universo come macchina, un concetto che avrebbe caratterizzato la
rivoluzione scientifica. Alcuni naturalisti, come Benoît de Maillet, produssero
teorie che sostenevano che l'universo, la Terra, e la vita, si erano sviluppati
meccanicamente, senza una guida divina. Maupertuis virò verso un'idea più
materialista, scrivendo che le modifiche naturali si verificano durante la
riproduzione e si accumulano nel corso di molte generazioni, producendo razze e
specie nuove; una descrizione che ha anticipato il concetto di selezione
naturale. La parola evoluzione (dal latino evolutio, "srotolare,
svolgere") è stata inizialmente utilizzata in riferimento allo sviluppo
embrionale; il suo primo impiego in relazione allo sviluppo della specie è
venuto nel 1762, quando Charles Bonnet la ha utilizzata per il suo concetto di
"pre-formazione", in cui le donne portavano una forma in miniatura di
tutte le generazioni future. Il termine ha poi guadagnato gradualmente il
significato più generale di crescita o sviluppo progressivo. Più tardi nel
XVIII secolo, il filosofo francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, uno
dei più importanti naturalisti del tempo, ha suggerito che le specie erano in
realtà solo delle varietà ben delineate, prodotte dalle modifiche, dovute a
fattori ambientali, di un organismo originale. Ad esempio, credeva che leoni,
tigri, leopardi e gatti di casa potessero avere tutti un antenato comune.
Leclerc ha inoltre ipotizzato che le circa 200 specie di mammiferi conosciute
in quel periodo potessero essere derivate da solo 38 forme animali originali.
Le idee evolutive del conte erano però limitate; credeva che ciascuna delle
forme originali fossero sorte per generazione spontanea e che ognuno fosse
stata modellata da "muffe interne" che limitavano la quantità di
cambiamenti possibili. Le opere di Buffon, Histoire Naturelle e Époques de la
nature, contengono teorie ben sviluppate sull'origine materialista della Terra;
la sua messa in discussione della fissità della specie è stata estremamente
influente.[24] Un altro filosofo francese, Denis Diderot, scrive che le
cose viventi possono essere sorte per generazione spontanea, e che le specie
sono in uno stato di costante evoluzione attraverso un processo in cui nuove
forme di vita sorgono continuamente, e possono sopravvivere o meno in base al
caso; un'idea che può essere considerata un'anticipazione parziale della teoria
della selezione naturale. Burnett, Lord di Monboddo, incluse nei suoi scritti,
non solo il concetto che l'uomo era disceso dai primati, ma anche che, in
risposta all'ambiente, le creature avevano trovato metodi di trasformare le
loro caratteristiche in lunghi intervalli di tempo. Il nonno di Darwin, Darwin,
pubblicò Zoonomi, dove suggerì che "tutti gli animali a sangue caldo sono
sorti da un filamento vivente".[26] Nel suo poema Tempio della Natura,
Erasmus ha descritto il progredire della vita dai minuscoli organismi viventi
nel fango fino a giungere alla biodiversità moderna. La nascita della teoria di
Darwin All'Università di Edimburgo, durante gli studi, Charles Darwin fu
coinvolto direttamente negli sviluppi della teoria evoluzionistica di Robert
Edmund Grant, ispirata dalle idee di Erasmus Darwin e Lamarck. In seguito,
all'Università di Cambridge, i suoi studi di teologia lo convinsero ad
accettare le considerazioni di William Paley sul "disegno" di un
Creatore, mentre il suo interesse nella storia naturale aumentò grazie al
botanico John Stevens Henslow e al geologo Adam Sedgwick, entrambi fermamente
credenti in una creazione divina e nell'antico uniformismo della terra. Durante
il viaggio del Beagle, Darwin si convinse della fondatezza dell'attualismo di
Lyell e cercò di conciliare le varie teorie creazionistiche con le prove che
riuscì ad evidenziare. Al suo ritorno, Richard Owen dimostrò che i fossili che
Darwin aveva trovato, appartenevano a specie estinte mostranti relazioni con
delle specie viventi in alcune località. Gould rivelò con sorpresa che gli
uccelli completamente diversi ritrovati nelle Isole Galápagos erano, in realtà,
13 specie diverse di fringuelli (conosciuti ora, volgarmente in tutto il mondo,
come i Fringuelli di Darwin). Schizzo di un albero filogeneticodisegnato
da Darwin negli appunti preparatori del suo First Notebook on Transmutation of
Species. Darwin medita sulla trasmutazionein una serie di appunti segreti. Si
occupò inoltre della selezione artificiale delle razze domestiche, consultando
William Yarrell e leggendo un opuscolo scritto da un amico, Sebright, il quale
commentava come "con un severo inverno, o una scarsità di cibo, attraverso
l'uccisione degli individui deboli e malaticci, si avessero tutti i migliori
effetti della più abile selezione". Nel 1838, in uno zoo, vide per la
prima volta una scimmia antropomorfa: il bizzarro comportamento di un orango lo
impressionò per la somiglianza con quello di un "bambino dispettoso"
e, dalla sua esperienza sui nativi della Terra del Fuoco, lo portò a pensare
che non ci fosse poi un grande abisso tra gli uomini e gli animali, a dispetto
della dottrina teologica che considera solo la specie umana possedente
un'anima. Darwin comincia a leggere la sesta edizione del Saggio sul
principio della popolazione di Malthus, con la quale ricordò la dimostrazione
statistica secondo cui la popolazione umana, riproducendosi al di sopra dei
propri mezzi, competesse per la sopravvivenza. In questo periodo tentò di
applicare per primo questi principi alle specie animali. Darwin applicò nella
sua ricerca il pensiero liberista sulle leggi di Natura, considerando la pura
lotta per la vita priva di sostegni esterni. Dal dicembre 1838 intravide una
somiglianza tra il concetto della selezione artificiale e la Natura Malthusiana
che selezionava, attraverso il cambiamento, le varianti da eliminare, in modo
che ogni parte delle nuove strutture acquisite fosse pienamente pratica e
perfetta. L'origine delle specieModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: L'origine delle specie. La sintesi evolutiva
modernaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Neodarwinismo.Anassimandro di Mileto afferma che dall'acqua e dalla terra
riscaldate sarebbero nati dei pesci o degli animali molto simili a pesci; in
questi concrebbero gli uomini, e i feti vi rimasero rinchiusi fino alla
pubertà. Quando questi si spezzarono, allora finalmente ne uscirono uomini e
donne che potevano già nutrirsi." (Censorino, De die natali) Anassimandro dice
pure che da principio l'uomo fu generato da animali di altra specie." (Plutarco, Doxa) ^ Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche,
Colin A. Ronan, The Shorter Science and Civilisation in China: An Abridgement
by Ronan of Needham's Original Text, Cambridge; New York, Cambridge, Miller
James, Daoism and Nature, su jamesmiller.ca Sedley, Lucretius, in Stanford
Encyclopedia of Philosophy, Stanford, CA, Stanford, Bowler, The Earth
Encompassed: A History of the Environmental Sciences., in Norton History of
Science, New Yorki, Norton, CICERONE (si veda), De Natura Deorum.
Sant'Agostino, La genesi alla lettera. ^ Gill, Meredith J., Augustine in the
Italian Renaissance: Art and Philosophy from Petrarch to Michelangelo,
Cambridge; New York, Cambridge, Owen, Vatican buries the hatchet with Charles
Darwin, su Times, Bergoglio, "Teoria del Big Bang non contraddice la
creazione divina. Dio non è stato un mago", su huffingtonpost.it,
Huffington Post, Fairfield, From the Greeks to Darwin: An Outline of the
Development of the Evolution Idea, New York, Macmillan, Dickson White, Storia
della lotta della scienza con la teologia nella cristianità, edizione inglese:
A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom, vol. 1, New
York, Londra, D. Appleton et Company, Gutenberg. ^ Ben Waggoner, Medieval and
Renaissance Concepts of Evolution and Paleontology, su ucmp.berkeley.edu,
University of California Museum of Paleontology. Egerton, A History of the
Ecological Sciences, Arabic Language Science Origins and Zoological Writings,
in Bulletin of the Ecological Society of America, Washington, D.C., Teodros, Explorations
in African Political Thought: Identity, Community, Ethics, in New Political
Science Reader Series, New York, Routledge, Khaldūn: "Sixth Prefatory
Discussion, in Muqaddimah. Johnston, And Still We Evolve: A Handbook for the
Early History of Modern Science, 3ª ed., Nanaimo, British Columbia, Liberal
Studies Department, Vancouver Island University, Carrol, Creation, Evolution,
and Thomas Aquinas, in Revue des Questions Scientifiques, Namur, Belgium,
Scientific Society of Brussels. ^ Tommaso d'Aquino, Commentario al "De
Anima". Bowler, Evolution: The History of an Idea, Berkeley, CA,
University of California Press, Pallen, The Rough Guide to Evolution, in Rough
Guides Reference Guides, Londra, Rough Guides, Larston, Evolution: The
Remarkable History of a Scientific Theory, New York, Modern Library, Henderson,
The Emperor's Kilt: The Two Secret Histories of Scotland, Edinburgh, Erasmus
Darwin, Zoonomia o Le leggi organiche della vita, Londra, Joseph Johnson,
Erasmus Darwin, Tempio della Natura, ossia L'origine della Società: Un poema
con note filosofiche, Londra, Joseph Johnson, Voci correlate Evoluzione
Creazionismo Dibattito fra creazionismo ed evoluzionismo Storia del pensiero
evoluzionista, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su
Wikidata Portale Biologia Portale Filosofia
Portale Storia L'origine delle specie saggio di divulgazione scentifica
di Charles Darwin Darwinismo teoria dell'evoluzione proposta da Charles
Darwin Evoluzionismo teista dottrina. In the few years
of the pre- Christian period that remained the teaching of Empedocles,
and of Epicurus as the mouthpiece of the y atomic theory, was revived by LUCREZIO
in his “De Rerum Natura.” Of that remarkable man but little is recorded,
and the record is untrustworthy. LUCREZIO died by his own hand, Jerome
says, but of this there is no proof. It is difficult, taking up LUCREZIO’s wonderful
poem, to resist the temptation to make copious extracts from it, since,
even through the vehicle of Munro's annotations, it is probably
little known to the Oxford pupil in Literae Humaniores in these evil days
of snippety philosophy. But the temptation must be resisted, save in
moderate degree. With the dignity which his high mission inspires, LUCREZIO
appeals to us in the threefold character of teacher, reformer, and poet. First,
by reason of the greatness of my argument, and because I set the
mind free from the close-drawn bonds of your Roman superstitions; and next
because, on so dark a theme, I compose such lucid verse, touching every point
with the grace of poesy. As a teacher, LUCREZIO expounds the doctrines of
The Garden (L’Orto) concerning life and nature. As a reformer, LUCREZIO attacks
the Roman superstitions. As a philosophical poet, LUCREZIO informs both the
atomic philosophy and its moral application with harmonious and beautiful verse
swayed by a fervour that is akin to religious emotion. Discussing at the
outset various theories of origins, and dismissing these, notably that which asserts
that things came from nothing for if so, any kind might be born of
anything, nothing would require seed," LUCREZIO proceeds to expound
the teaching of the atomists as to the constitution of things by
particles of matter ruled in their movements by unvarying laws. This
theory LUCREZIO works all round, explaining the processes by which the
atoms unite to carry on the birth, growth, and decay of things, the
variety of which is due to variety of form of the atoms and to
differences in modes of their combination; the combinations being
deter- mined by the affinities or properties of the atoms
themselves, " since it is absolutely decreed what each thing can and
what it cannot do by the conditions of Nature." Change is the law of
the universe;. what is, will perish, but only to reappear in another
form. Death is "the only immortal"; and it is that and
what may follow it which are the chief tormentors of men. " This
terror of the soul, therefore, and this darkness, must be dispelled, not
by the rays of the sun or the bright shafts of day, but by the
outward aspect and harmonious plan of Nature." LUCREZIO explains
that the soul, which he places in the centre of the breast, is also formed
of very minute atoms of heat, wind, calm air, and a finer essence, the
pro- portions of which determine the character of both men and
animals. It dies with the body, in support of which statement LUCREZIO
advances XVIII arguments, so determined is he to " deliver those who
through fear of death are all their lifetime subject to bondage. These themes
fill the first three books. In the fourth he grapples with the mental
problems of sensation and conception, and explains the origin
of belief in immortality as due to ghosts and appari- tions which
appear in dreams. " When sleep has prostrated the body, for no other
reason does the mind's intelligence wake, except because the very
same images provoke our minds which provoke them when we are awake, and
to such a degree that we seem without a doubt to perceive him whom life
has left, and death and earth gotten hold of. This Na- ture
constrains to come to pass because all the senses of the body are then
hampered and at rest throughout the limbs, and cannot refute the unreal by
real things." In the fifth book Lucretius deals with
origins — of the sun, the moon, the earth (which he held to be
flat, denying the existence of the antipodes); of life and its
development; and of civilization. In all this he excludes design,
explaining everything as pro- duced and maintained by natural agents,
"the masses, suddenly brought together, became the rudiments
of earth, sea, and heaven, and the race of living things." He
believed in the successive appearance of plants and animals, but in their
arising separately and di- rectly out of the earth, " under the
influence of rain and the heat of the sun," thus repeating the
old speculations of the emergence of life from slime, "
wherefore the earth with good title has gotten and keeps the name of
mother." He did not adopt Empedocles's theory of the " four roots of
all things," and he will have none of the monsters — ^the
hippo- griflFs, chimeras, and centaurs — ^which form a part of the
scheme of that philosopher. These, he says, ** have never existed,"
thus showing himself far in advance of ages when unicorns, dragons, and
such-like fabled beasts were seriously believed to exist. In one respect,
more discerning than Aristotle, he accepts the doctrine of the survival
of the fittest as taught by the sage of GIRGENTI. For he argues that
since upon "the increase of some Nature set a ban, so that they
could not reach the coveted flower of age, nor find food, nor be united
in marriage," many races of living things have died out, and
been unable to beget and continue their breed." LUCREZIO speaks of GIRGENTI
in terms scarcely less exaggerated than those which he applied to
Epi- curus. The latter is " a god " who first found out
that plan of life which is now termed wisdom, and who by tried skill
rescued life from such great billows and such thick darkness and moored it in
so perfect a calm and in so brilliant a light, ... he cleared men's
breasts with truth-telling precepts, and fixed a limit to lust and fear,
and explained what was the chief good which we all strive to reach."
As to GIRGENTI," that great country (Sicily) seems to have
held within it nothing more glorious than this man, nothing more holy,
marvellous, and dear. The verses, too, of this godlike genius cry with
a loud voice, and make known his great discoveries, so that he
seems scarcely bom of a mortal stock." Continuing his speculations
on the development of living things, Lucretius strikes out in bolder
and l.^ original vein. The past history of man,
he says, lies in no heroic or golden age, but in one of struggle
out of savagery. Only when "children, by their coaxing ways, easily
broke down the proud temper of their fathers," did there arise the
family ties out of which the wider social bond has grown, and soft-
ening and civilizing agencies begin their fair offices. In his battle for
food and shelter, " man's first arms were hands, nails and teeth and
stones and boughs broken off from the forests, and flame and fire, as
soon as they had become known. Afterward the force of iron and copper was
discovered, and the use >^. ' of copper was known before that of iron,
as its nature is easier to work, and it is found in greater
quantity. With copper they would labour the soil of the earth and
stir up the billows of war. Then by slow steps the sword of iron gained
ground and the make of the copper sickle became a byword, and with
iron they began to plough through the earth's [soil, and the
struggles of wavering man were rendered equal." As to language,
" Nature impelled them to utter the various sounds of the tongue,
and use struck out the names of things." Thus does Lucretius point
the road along which physical and mental evolution have since
travelled, and make the whole story subordi- nate to the high purpose of
his poem in deliverance of the beings whose career he thus traces from
super- stition. Man " seeing the system of heaven and the
different seasons of the years could not find out by what causes this was
done, and sought refuge in handing over all things to the gods and
supposing all things to be guided by their nod." Then, in the
sixth and last book, the completion of which would seem to have been
arrested by his death, LUCREZIO explains the law of winds and storms, of
earth-quakes and volcanic outbursts, which men " foolishly lay to
the charge of the gods," who thereby make known their
anger. So, loath to suffer mute, We, peopling the void air,
Make Gods to whom to impute The ills we ought to bear ; With God
and Fate to rail at, suffering easily. And what a motley crowd of
gods they were on whose caprice or indifference he pours his vials
of anger and contempt! The tolerant pantheon of Rome gavie welcome
to any foreign deity with respectable credentials; to Cybele, the Great Mother,
imported in the' shape of a rough-hewn stone with pomp and rejoicings
from Phrygia 204 b. c; to Isis, welcomed from Egypt; to Herakles,
Demeter, As- klepios, and many another god from Greece. But these are
dismissed from a man's thought when the prayer or sacrifice to them had
been offered at the due season. They had less influence on the
Roman's life than the crowd of native godlings who were thinly
disguised fetiches, and who controlled every action of the day. For the
minor gods survive the changes in the pantheon of every race. Of the
Greek peasant of to-day Mr. Rennel Rodd testifies, in his Custom and
Lore of Modern Greece, that much as he would sliudder at the accusation
of any taint of paganism, the ruling of the fates is more immediately
real to him than divine omnipotence. Mr. Tozer confirms this in his
Highlands of Turkey. He says: " It is rather the minor deities and
those as- sociated with man's ordinary life that have escaped the
brunt of the storm, and returned to live in a dim twilight of popular
belief. In India, Lyall tells us that, " even the supreme triad of
Hindu allegory, which represents the almighty powers of creation,
preservation, and destruction, have long ceased to preside actively over
any such correspond- ing distribution of functions. Like limited
monarchs, they reign, but do not govern. They are superseded by the
ever-increasing crowd of godlings whose influence is personal and
special, as shown by Mr. Crooke in his instructive Introduction to
the Popular Religion and Folk-lore of Northern India. The old ROMAN
CATALOGUE of spiritual beings, abstractions as they were, who gfuarded
life in minute detail, is a long one. From the indigitamenta^ as
such lists are called, we learn that no less than forty- three were
concerned with the actions of a child. When the farmer asked Mother Earth
for a good harvest, the prayer would not avail unless he also
invoked " the spirit of breaking up the land and the spirit of
ploughing it crosswise; the spirit of furrow- ing and the spirit of
ploughing in the seed; and the spirit of harrowing; the spirit of weeding
and the spirit of reaping; the spirit of carrying com to the barn;
and the spirit of bringing it out again." The country, moreover,
swarmed with Chaldaean astrolo- gers and casters of nativities; with
Etruscan harus- pices full of " childish lightning-lore, who
foretold eve'tits from the entrails of sacrificed animals; while in
competition with these there was the State-supported college of augurs to
divine the will of the gods by the cries and direction of the flight of
birds. Well might the satirist of such a time say that the place was
so densely populated with gods as to leave hardly room for the
men." It will be seen that the justification for
including Lucretius among the Pioneers of Evolution lies in his two
signal and momentous contributions to the science of man; namely, the
primitive savagery of the human race, and the origin of the belief in
a soul and a. future life. Concerning the first, an- thropological
research, in its vast accumulation of materials during the last sixty
years, has done little more than fill in the outline which the insight
of LUCREZIO enabled him to sketch. As to the second, he anticipates,
well-nigh in detail, the ghost-theory of the origin of belief in spirits
generally which Her- bert Spencer and Dr. Tylor, following the lines
laid down by Hume and Turgot, have formulated and sustained by an
enormous mass of evidence. The credit thus due to Lucretius for the
original ideas in his majestic poem — Greek in con- ception and Roman in
execution — has been obscured in the general eclipse which that poem suf-
fered for centuries through its anti-theological spirit. Grinding at the
same philosophical mill, Aristotle, because of the theism assumed to be
involved in his " perfecting principle," was cited as " a
pillar of the faith" by the Fathers and Schoolmen; while
Lucre- tius, because of his denial of design, was “anathema
maranatha.” Only in these days, when the far-reach- ing effects of the
theory of evolution, supported by observation in every branch of inquiry,
are apparent, are the merits of Lucretius as an original seer, more
than as an expounder of the teachings of GIRGENTI and L’ORTO, made clear.
Standing well-nigh on the threshold of the Chris- tian era, we may
pause to ask what is the sum of the speculation into the causes and
nature of things which, begun in Ionia (with impulse more or less
slight from the East), by Thales, ceased, for many centuries, in the poem
of Lucretius, thus covering an active period of about five hundred years.
The caution not to see in these speculations more than an approximate
ap- proach to modern theories must be kept in mind. There is a
primary substance which abides amidst the general flux of things.
All modern research tends to show that the various combinations of
matter are formed of some prima ma- teria. But its ultimate nature
remains unknown. 2. Out of nothing comes nothing. Modern
science knows nothing of a beginnings and, moreover, holds it to be
unthinkable. In this it stands in direct opposition to the theological
dogma that God created the universe out of nothing; a dogma still
accepted by the majority of Protestants and binding on Roman Catholics.
For the doctrine of the Church of Rome thereon, as expressed in the Canons
of the Vatican Council, is as follows: " If any one confesses
not that the world and all things which are contained in it, both
spiritual and mental, have been, in their whole substance, produced by
God out of nothing; or shall say that God created, not by His free will
from all necessity, but by a necessity equal to the necessity
whereby He loves Himself, or shall deny that the world was made for the
glory of God: let him be anathemaJ' The primary substance is
indestructible. The modern doctrine of the Conservation of Energy
teaches that both matter and motion can neither be ere- ated nor
destroyed. The universe is made up of indivisible particles called
atoms, whose manifold combinations, ruled by unalterable affinities,
result in the variety of things. With modifications based on
chemical as well as mechanical changes among the atoms, this theory
of Leucippus and Democritus is confirmed. (But recent experiments
and discoveries show that reconstruction of chemical theories as to the
properties of the atom may happen.) Change is the law of things, and
is brought about by the play of opposing forces. Modern
science explains the changes in phenomena as due to the antagonism of
repelling and attracting modes of motion; when the latter overcome the
former, equilibrium will be reached, and the present state of
things will come to an end. 6. Water is a necessary condition of
life. Therefore life had its beginnings in water; a theory
wholly indorsed by modern biology, Life arose out of non-living
matter. Although modern biology leaves the origin of life as
an insoluble problem, it supports the theory of fundamental continuity
between the inorganic and the organic. Plants came before animals:
the higher organ- isms are of separate sex, and appeared subsequent
to the lower. Generally confirmed by modern biology, but with
qualification as to the undefined borderland between the lowest plants
and the lowest animals. And, of course, it recognises a continuity in the
order and succession of life which was not grasped by the
Greeks. Aristotle and others before him believed that some of the
higher forms sprang from slimy matter direct. 9. Adverse conditions
cause the extinction of some organisms, thus leaving room for those
better fitted. Herein lay the crude germ of the modern
doctrine of the survival of the fittest. Man was the last to appear, and
his primi- tive state was one of savagery. His first tools and
weapons were of stone; then, after the discovery of metals, of copper;
and, following that, of iron. His body and soul are alike compounded of
atoms, and the soul is extinguished at death. The science of
Prehistoric Archceology confirms the theory of man's slow passage from
barbarism to civili- zation; and the science of Comparative Psychology
de- clares that the evidence of his immortality is neither stronger
nor weaker than the evidence of the immortality of the lower
animals. Such, in very broad outline, is the legacy of sug- gestive
theories bequeathed by the Ionian school and its successors, theories
which fell into the rear when Athens became a centre of intellectual life
in which discussion passed from the physical to those ethical
problems which lie outside the range of this survey. Although Aristotle,
by his prolonged and careful observations, forms a conspicuous exception,
the fact abides that insight, rather than experiment, ruled Greek
speculation, the fantastic guesses of parts of which themselves evidence
the survival of the crude and falsei deas about earth and sky long
prevailing. The more wonderful is it, therefore, that so much
therein points the way along which inquiry travelled after its subsequent long
arrest; and the more apparent is it that nothing in science or art, and
but little in theological speculations, at least among us Westerns, can
be understood without reference to Greece. Approxi-Namb. Place. mate
Speciality. Thales. Miletus.Cosmological (Ionia).Ae Pri f Water.Substance
Anaximender. the Boundless. Anaximenes.Air. Pythagoras. Samos Numbers: the
Ionian a Cosmos built coast). up of geometrical figures or(Grote, Plato)
generated out of number. Xenophanes. Colophon. Founder of the (Ionia).
Eleatic school. Heraditus. Ephesus Ionia Fire. Empedocles. Agrigentum Fire,
Air,Earth, (Sicily). And Water ruled by Love and Strife. Anaxagoras.
Clazomenae (Ionia). Nous. Leucippus Democritus. Abdera. Formulators of the
Atomic Thrace Theory Aristotle. Stagira (Macedonia).
Naturalist. i Epicurus. Samos. Expounder of the Atomic Theory and
Ethical Philosopher. LUCREZIO. Roma Interpreter of Epicurus and
EMPEDOCLE DI GIRGENTI: the first Anthropologist. Gilberto Corbellini. Keywords:
darwinismo politizzato, Dawkins’ selfish gene – read selfish gene – medicina in
Roma antica -- evoluzione, emergentismo, biologia filosofica, grammatical del
vivente, cooperazione, altruismo, razionalita, utilitarismo, darwinismo
sociale, evolluzione, filosofia dell’evoluzione, progresso ed evoluzione.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corbellini” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Cordeschi:
la ragione conersazionale e l’implicatura conversazionale della logica della
guerra – scuola dell’Aquila –filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (L’Aquila).
Filosofo abruzzes. Filosofo italiano. L’Aquila, Abruzzo. Grice: “Cordeschi is
fine if you are into how we can model a pirot from an automaton – Descartes’s
old idea!” -- Roberto Cordeschi (L'Aquila) filosofo. Si laurea a Roma sotto Somenzi. Si appassiona subito
alla storia della cibernetica, di cui Somenzi fu tra i primi studiosi e
contributori in Italia. Con la co-supervisione di Radice discute una tesi sui
Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a Morino, Avezzano, Torino, Roma, e
Saerno. Altre opere: “Turing” – homo mechanicus (Alan Mathison); “Turing’s homo
mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale); “La cibernetica in Italia” (Roma:
Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana); “Un padrino per l’Intelligenza
Artificiale. Sapere; “L’intelligenza meccanica”; Alfabeta; “Dalla cibernetica a
internet: etica e politica tra mondo reale e mondo virtuale; “Dal corpo bionico
al corpo sintetico. Roma: Carocci); “Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione
Banca Agricola Mantovana); “Natura, machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia
delle macchine: dalla cibernetica alla robotica bellica” (Roma: Armando);
“Rap-resentare il concetto: filosofia e modello computazionale”. Sistemi
Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il metodo sintetico e la scienza
cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove prospettive nell’Intelligenza
Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana
Treccani), “Quale coscienza artificiale? Sistemi intelligenti, “Adattamento” e
“selezione” nel mondo della natura” (Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo
sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa al Documento di Dartmouth, Sistemi
Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli;
“Forme e strutture della comunicazione linguistica. Intersezioni. Filosofia
dell’intelligenza artificiale. In Floridi L., a cura di. Linee di ricerca,
SWIF. Una lezione per la scienza cognitiva. Sistemi Intelligenti, Funzionalismo
e modelli nella Scienza Cognitiva. Forum SWIF. C Vecchi problemi filosofici per
la nuova Intelligenza Artificiale. Networks. Rivista di Filosofia
dell’Intelligenza Artificiale e Scienze Cognitive, In ricordo di Vittorio
Somenzi Quaderno Filosofi e Classici SWIF; Intelligenza artificiale. Manuale
per le discipline della comunicazione. Roma: Carocci. L’intelligenza
Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci); “Naturale e artificiale”
(Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale. Psicologia, filosofia e
macchine intorno alla cibernetica, Milano-Bologna: Dunod-Zanichelli); “Pensiero
meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi Intelligenti; Prospettive della
Logica e della Filosofia della scienza. Atti del Convegno SILFS. Pisa: ETS. I
modelli della vita mentale, oggi e domani. Giornale Italiano di Psicologia, Filosofia
della mente. Quaderni di Le Scienze, L’intelligenza artificiale. In: Bellone,
E., Mangione, C., a cura di. Geymonat L., Storia del pensiero scientifico. Il
Novecento, Milano: Garzanti); Somenzi, La
filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati
Boringhieri); Indagini meccanicistiche sulla mente: la cibernetica e
l’intelligenza artificiale. In: Somenzi, V., Cordeschi, R., a cura di. La
filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati
Boringhieri: Qualche problema per l’IA classica e connessionista. Lettera
matematica PRISTEM, Una macchina protoconnessionista. Pisa: ETS: Le radici
moderne del recupero scientifico della teologia. Nuova Civiltà Delle Macchine);
Scienza e filosofia della scienza; La mente nuova dell’imperatore. La mente, i
computer, le leggi della fisica. Milano. Wiener. In: Negri, A., a cura di.
Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, Milano: Marzorati, Turing.
In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico.
Protagonisti, Milano: Marzorati: Significato
e creatività: un problema per l’intelligenza artificiale. L’Automa spirituale:
Menti, Cervelli e Computer, Cervello, mente e calcolatori: précis storico
dell’intelligenza artificiale. In: Corsi, P., a cura di. La fabbrica del
pensiero. Dall’arte della memoria alle neuroscienze, Milano: Electa: L’intelligenza
artificiale tra psicologia e filosofia. Nuova Civiltà delle Macchine, Mente,
linguaggio e realtà. Milano: Adelphi. Linguaggio mentalistico e modelli
meccanici della mente. Osservazioni sulla relazione di Boden. L’evoluzione dei
calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia
meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione
umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori
Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e
Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno
Internazionale di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del
concetto: il neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della
Filosofia Italiana; La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli
“sperimentalisti”. Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro
una recensione crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la
risoluzione dei problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica
e critica della psicologia, Manuscript. La psicologia tra scienze della natura
e scienze dello spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi, a cura di. Gli
studi di psicologia in Italia: Aspetti teorici scientifici e ideologici,
Quaderni di storia critica della scienza. Nuova serie. 9, Pisa: Domus Galileana);
Una critica del naturalismo: note sulla concezione crociana delle scienze.
Critica marxista; Introduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Predicati.
In: CIntroduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Elementi di logica
matematica. Roma: Riuniti); Bilancio dell’empirismo contemporaneo. Scientia; La
filosofia di Leibniz: esposizione critica con un’appendice antologica. Roma:
Newton Compton Italiana); Filosofia e informazione. Padova: La Cultura;
Validità e reiezione nella logica aristotelica. Il problema della decisione.
Report: Storia della Filosofia Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript.
In generale, nella implicatura robotica c’è la tendenza a ricorrere al
vocabolario delle rappresentazioni solo quando, per così dire, non se ne può
fare a meno, ovvero, più precisamente, quando si lascia il livello puramente
reattivo nel quale il lessico delle rappresentazioni sarebbe banale, per
passare a quello topologico e, a maggior ragione, a quello metrico o delle
mappe cognitive. Due robot puramente reattivi sono capaci di risolvere alcuni
compiti per i quali, nella ricerca su animali (la squarrel Toby di Grice), si
erano invocate rappresentazioni complesse come le mappe cognitive. Questi
stessi robot reattivi, man mano che si riducono le restrizioni sull’ambiente,
diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli stessi compiti, che possono
essere risolti solo da agenti dotati di stati interni (attitudine psicologica)
ai quali essi riconoscono lo status di rappresentazioni. La massima sarebbe in
questi casi quella di esaminare tutti i modi possibili di spremere l’ultima
goccia di informazione dal livello reattivo prima di parlare dell’influenza
della rappresentazione, modello del mondo o mappa sul comportamento
intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni, una volta ammesse, le
opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei punti di vista ormai
usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza naturale, classica o nouvelle
che sia. Si può parlare di rappresentazione anche per i pattern connessionisti,
a patto di distinguere la relativa computazione. La rappresentazione e solo
simbolica, quale che sia la loro complessità, e un pattern connessionista, non
essendo considerato simbolico, non e una rappresentazione. Si parla di una
rappresentazione che possono essere di diversa complessità e accuratezza,
esplicita (spliegatura) o implicita (impiegatura), metrica o topologica,
centralizzata o distribuita. E in generale si parla di ra-presentazione
simbolica quando si è in presenza di un costrutto dotato di proprietà ritenuta
analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni polemiche da parte di alcune
tendenze dell’IA nouvelle identificano nell’Ipotesi del Sistema Fisico di
Simboli il paradigma linguistico per eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un
confronto di qualche anno fa tra sostenitori e critici di questa ipotesi mostra
come questa interpretazione sia quanto meno opinabile. Sarebbe opportuno
tenerne conto, per evitare di porre in un modo troppo sbrigativo l’identificazione
tra simbolo e il concetto piu generale
di segno in IA classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi
che stanno alla base della costruzione di un modello di conversazione, tra i
quali quello della natura della rappresentazione. Mi riferisco
all’interpretazione in termini di un sistema di elaborazione simbolica
dell’informazione (dunque in termini di un sistema fisico materiale di simboli)
di sistemi tradizionalmente non considerati tali, come quelli proposti dai
teorici dell’azione situata. L’idea di simbolo che sta alla base di questa
ipotesi è che un simbolo è un pattern che denota, e la nozione di denotazione è
quella che dà al simbolo la sua capacità rappresentazionale. Il pattern puo
denotare altro pattern, sia interni al Si veda per una formulazione particolarmente
esplicita (Gallistel). Detto in breve, tali proprietà riguardano, tra l’altro,
la produttività, ovvero la capacità di generare e capire un insieme illimitato
di frasi, e la sistematicità, ovvero la capacità di capire ad esempio tanto aRb
quanto bRa. Fodor ne ha fatto la base per la sua controversa ipotesi del
“linguaggio del pensiero” Per una introduzione all’argomento, si veda
(Francesco). Per pattern si intende, come sarà più chiaro nel seguito, una
struttura fisica, biologica o inor- ganica, che può essere oggetto di processi
computazionali—codifica, decodifica, registrazione, cancellazione, cambiamento,
confronto—i quali occorrono in sistemi diversi, in un calcolatore e nel sistema
nervoso, anche se in quest’ultimo caso non sappiamo nei dettagli come. Questa
tesi provocò diverse reazioni (si vedano Cognitive Science). Si noti che nelle
intenzioni di Simon e Vera la tesi non comporta che ogni pattern sia dotato di
meccanismo sistema che esterni ad esso (nel mondo reale), e anche stimoli
sensoriali e azioni motorie. Processi tanto biologici quanto inorganici possono
essere simbolici in questo senso e, dal punto di vista sostenuto da Simon e
Vera, i relativi sistemi sono sempre sistemi fisici di simboli, ma a diversi
livelli di complessità. Per esempio, nel caso più semplice che riguarda gli
organismi, anche l’azione riflessa (subcorticale) è un processo simbolico: la
codifica di un simbolo provocata da un ingresso sensoriale, poniamo la
bruciatura di una mano, dà luogo alla codifica di un simbolo motorio, con la
conseguente rapida effettuazione dell’azione, in questo caso il ritirare la
mano. Più precisamente, l’idea è che “il sistema nervoso non trasmette certo la
bruciatura, ma ne comunica l’occorrenza. Il simbolo che denota l’evento [la
brucia- tura] viene trasmesso al midollo spinale, che a sua volta trasmette un
simbolo ai mu- scoli, i quali esercitano la contrazione che consente di ritirare
la mano.” Nel caso degli artefatti, già il solito termostato è un sistema
fisico di sim- boli, sebbene particolarmente semplice: il suo livello di
tensione è un simbolo che denota uno stato del mondo esterno. Come ho
ricordato, anche Brooks ha finito per riconoscere alle rappresentazioni un loro
ruolo nel comportamento dei suoi robot, se non altro alle rappresentazioni
“relati- ve al particolare compito per il quale sono usate” (i “modelli
parziali del mondo”), quali potrebbero essere, a diversi livelli di
complessità, quelle usate da agenti naturali come Cataglyphis o da agenti
artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra ri- cordato. Simon e
Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come sistemi fisici di
simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto sofisticata, anche se
specializzata a un compito particolare. Ma essi includono tra i sistemi fisici
di simboli anche artefatti molto più semplici, come il ricordato termostato, e
agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al livello del taxon system
(che, seguendo Prescott, era stato definito come una catena di associazioni consistenti
in coppie <stimolo, risponsa>). Secondo i due autori, i primi robot alla
Brooks sono (un tipo relativamente sem- plice di) sistemi fisici di simboli:
anche l’interazione senso-motoria diretta di un agen- te con l’ambiente nella
misura in cui dà luogo a un comportamento coerente alle rego- larità
dell’ambiente, non può essere considerata se non come manipolazione simboli-
ca. Ho ricordato sopra il semplice comportamento reattivo di Allen, che tramite
sonar evita ostacoli presenti in un ambiente reale. In questo caso, i suoi
ingressi sensoriali danno luogo a un processo di codifica, e i costrutti in
gioco (i simboli, secondo la definizione sopra ricordata) che risultano da tale
interazione sensoriale, e poi motoria, dell’agente con l’ambiente sono rappresentazioni
interne (degli ostacoli esterni da evitare) in un senso non banale:
l’informazione sensoriale captata dal robot è converti- ta in simboli, i quali
sono manipolati al fine di determinare gli appropriati simboli motori che
evocano o modificano un certo comportamento. L’assenza di memoria in questo
tipo di agente comporta che l’azione sia eseguita senza una rappresentazione
esplicita del piano e dell’obiettivo che orienta l’azione stessa (senza
pianificazione), ma non che non ci sia attività rappresentazionale simbolica.
Qual è la natura di questi simboli, di queste rappresentazioni simboliche?
denotazionale, cosa che evidentemente renderebbe banale questa definizione di
simbolo: ci sono pattern che non denotano, tanto naturali quanto artificiali. Sulla
sufficienza della denotazione per caratterizzare la nozione di simbolo (come di
rappresen- tazione) si è molto discusso. Nel caso degli artefatti più semplici
si tratta di rappresentazioni analogiche che stabiliscono e mantengono la
relazione funzionale del sistema con l’ambiente. Questo, si è visto, è già vero
per il solito termostato. Nel caso di (come pure di certi sistemi
connessionisti, o che includono sistemi connessioni- sti), tali
rappresentazioni (analogiche) hanno carattere temporaneo (senza intervento di
memoria) e distribuito (non sono sottoposte a controllo centralizzato). In
questi casi, una rappresentazione certo imprecisa ma sufficientemente efficace
è fornita da un sonar sotto forma di un pattern interno fisico (un pattern di
nodi della rete, nel caso di un sistema connessionista): essa denota o
rappresenta per il robot un ostacolo o una certa curvatura di una parete o di
un percorso. Una volta che tale pattern venga comu- nicato a uno sterzo, esso
determina l’angolo della ruota sterzante del carrello del robot. Per quanto
diversa a seconda dei casi, è sempre presente un processo di codifica-
elaborazione-decodifica non banale, che stabilisce una ben precisa relazione
funziona- le tra il sistema e l’ambiente, e spiega il comportamento coerente
dell’agente nell’interazione con il mondo. Non parlare di rappresentazioni
interne, e limitarsi a dire che un agente “intrattiene certe relazioni causali
con il mondo, non spiega come tali relazioni vengano mantenute. E’ del tutto
ragionevole sostenere che un agente mantiene l’orientamento verso un oggetto
tramite una relazione causale (Grice, “La teoria causale della percezione”) con
esso e che tale relazione è un pattern di interazione, ma non ha senso pensare
che tale pattern venga prodotto per magia, senza un corrispondente cambiamento
di stato rappresenta- zionale dell’agente, ovvero che esso possa aver luogo
senza una rappresentazione interna fosse pur minima.” Rappresentazioni più
complesse, che sono alla base di un’attività non semplicemente percettiva
diretta, sono presenti in altri casi, quando entrano in gioco la me- moria,
l’apprendimento, il riconoscimento di oggetti e l’elaborazione di concetti, la
formulazione esplicita di una mappa o di piani alternativi, sotto forma di
rappresentazioni off-line, e ancora. In molte di queste attività “alte”
intervengono rappresentazioni esplicite, linguistiche e metriche, ma se si
riconosce che la cognizione richiede questo tipo di rappresentazioni, è
difficile mettere in dubbio che tali attività non condividono con attività più
“basse” come la percezione, sulle quali esse vengono elaborate, il meccanismo
denotazionale, sia pure in una forma minimale. A meno di restringere
arbitrariamente la nozione di rappresentazione e di simbolo, non c’è ragione di
riservarla esclusivamente a pattern linguistici, o ai costrutti della semantica
denotazionale (variabili da vincolare ecc.). Penso si possa sottoscrivere
questa conclusione di Bechtel: “la nozione base [di rappresentazione] è
effettivamente minimale, tale da rende- re le rappresentazioni più o meno
ubique. Esse sono presenti in ogni sistema organiz- zato che si è evoluto o è
stato progettato in modo da coordinare il suo comportamento con le
caratteristiche dell’ambiente. Ci sono dunque rappresentazioni nel regolatore,
nei sistemi biochimici e nei sistemi cognitivi”. Il riferimento di Bechtel al
regolatore di Watt è polemico nei confronti di van Gelder, che ne faceva il
prototipo della sua concezione non computazionale e non simbolica della co-
gnizione. In realtà questo tipo di artefatti analogici (sistemi a feedback
negativo e servomecca- nismi) erano stati interpretati come sistemi
rappresentazionali già all’epoca della cibernetica, in primo luogo da Craik,
che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica del pensie- ro”, come egli
la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è visto come una macchina
calcola- trice capace di costruire un modello o un parallelo della realtà”. Non
entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi al contenuto delle Simon
e Vera distinguono il livello della modellizzazione simbolica da quello della
realizzazione fisica (sia biologica che inorganica) di un agente.
Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha un’attività rappresentazionale
che è data dalle caratteri- stiche specifiche del suo apparato fisico di
codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si pensi ancora alla codifica,
molto approssimativa ma generalmente efficace, at- traverso sonar degli
ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa decodifica che si
conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione simbolica di
questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella “alta” sopra
ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di rappresentazioni, da
quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della “ricognizione”, possono
essere opportunamente modellizzati attraverso regole di produzione, come
livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un robot basato
sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio, il
funzionamento di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura, che
con- trolla la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da
un’unica regola di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso
sonar e bussola allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa
in considerazione dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi
termini: “Un sistema di produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un
robot behavior-based], perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona
una attraverso il confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa
base di dati. Le precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere
confrontate con costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della
sussunzione funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di
tale confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o
modificano direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se
distinguiamo il livello della realizzazione fisica da quello della sua
modellizzazione, quella che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del
mondo” rilevanti per l’azione è descritta in modo adeguato da un opportuno
sistema di regole di produzione, e tramite tale sistema un certo comportamento
di una sua creatura può essere evocato o modificato nell’interazione con
l’ambiente. E questo modello (a regole di produzione) delle regolarità
comportamentali di diversi livelli dell’architettura della sussunzione può
essere implementata in un dispositivo che, grazie all’elevato grado di
parallelismo, presenta doti di adattività, robustezza e rispo- sta in tempo
reale paragonabili a quelle di un dispositivo behavior-based. In questo senso,
le regole di descrizione danno una modellizza- zione adeguata del comportamento
di un agente situato. Oltre alle risposte automatiche, che nel caso dell’azione
riflessa o “innata” e di quella reattiva possono essere rese attraverso un’unica
regola di produzione (qualcosa che corrisponda a una relazione comportamentista
S→R), esistono le azioni automa- rappresentazioni, al ruolo dell’utente degli
artefatti e alla natura della spiegazione cognitiva. L’articolo di Bechtel
contiene una disanima efficace di questi problemi, rispetto a posizioni diverse
come quella sostenuta da Clancey contro la tesi di Vera e Simon. In breve, le
regole di produzione hanno la forma “se... allora”, o CONDIZIONE → AZIONE. La
memoria a lungo termine di un sistema fisico di simboli è costituita da tali
regole: gli antecendenti CONDIZIONE permettono l’accesso ai dati in memoria,
codificati dai conseguenti AZIONE. tizzate a seguito dell’apprendimento,
quando cioè le regolarità relative a un certo comportamento sono state
memorizzate, o quelle che comportano una relazione “di- retta” con il mondo
tramite le affordance alla Gibson. Un esempio sono le risposte immediate che
fanno seguito a sollecitazioni improvvise o impreviste provenienti
dall’ambiente Ora i teorici dell’azione situata (e, come si è visto, i nuovi
robotici) insistono sul fatto che questi casi di interazione diretta con
l’ambiente si svolgono in tempo reale, senza cioè che sia possibile quella
presa di decisione, diciamo così, meditata che ri- chiede la manipolazione di
rappresentazioni e la pianificazione dell’azione. Si pensi all’esempio di
Winograd e Flores dell’automobilista che, guidando, affronta una curva a
sinistra. In primo luogo, secondo i due autori, non è necessario che egli
faccia continuamente riferimento a conoscenze codificate sotto forma di regole
di produzione—non è necessario riconoscere una strada per accorgersi che è
“percorribi- le” (la “percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella
relazione diretta agente- ambiente). In secondo luogo, la decisione è presa
dall’agente, per così dire, senza pensarci (senza pensare di posizionare le
mani, di contrarre i muscoli, di girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a
sinistra ecc.). Tutto ciò avviene automaticamente e immediatamente, dunque
senza applicare qualcosa come una successione di regole di produzione “se p, q”.
In conclusione, la tesi è che non è possibile modellizzare questo aspetto della
presa di decisione istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che
comporta codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni,
regole di produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores
è la teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha
a che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul
serio la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della
razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti
interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione
ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in
generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative
pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno
piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze,
aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea,
non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi
elementi, i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso l’apprendimento,
la formazione di schemi automatici di comportamento (di risposte motorie,
nell’esempio di sopra), finiscono per determinare l’esclusione immediata di
certe alternative possibili (come, nell’esempio della guida, innestare la
marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia, frenare ecc.), e
tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza dell’ambiente stesso (fondo strada
bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella terminologia di Gibson sono
invarianti dell’ambiente che vengo- no “colte” (picked up) dall’agente
“direttamente” nella sua interazione con l’ambiente stesso, e “direttamente”
viene interpretato come: senza la mediazione di rappresentazioni e di computa-
zioni su esse. Un esempio sono i movimenti dell’agente in un ambiente nel quale
deve evitare oggetti o seguirne la sagomatura e così via: un po’ quello che
fanno i robot reattivi di cui ho parlato. L’esempio del termostato è ricorrente
in scienza cognitiva e in filosofia della mente dai tempi della cibernetica. E’
evidente che definire sistemi fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del
tipo dei robot di Brooks, come vedremo) comporta rinunciare al requisito
dell’universalità per tali sistemi (sul quale si veda Newell). aspettative
pertinenti.17 Secondo le stesse parole di Simon “il solutore di problemi non
percepisce mai Dinge an sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i
propri pre- concetti” (Simon). Di norma, dunque, l’informazione considerata
dall’agente non è collocata in uno spazio bene ordinato di alternative,
generato dalla formulazione del problema: tale informazione è generalmente
incompleta, ma è pur sempre sostenuta dalla conoscenza della situazione da
parte dell’agente. La proposta è, dunque, che la modellizzazione a regole di
produzione di un’azione del genere, e in generale di una affordance, è un
simbolo che, via il sistema percettivo di codifica, raggiunge la memoria del
sistema per soddisfare la CONDIZIONE di una regola di produzione esplicita. In
questo modo, soddisfatta la CONDIZIONE, si attiva la regola, e la produzione
(la decodifica) del simbolo di AZIONE avvia la risposta motoria. Da questo
punto di vista, le affordance sono rappresentazioni di pattern del mondo
esterno, ma con una particolarità: quella di essere codificate in un modo
particolar- mente semplice. Nell’esempio di sopra, una volta che si sia
imparato a guidare, la regola è qualcosa come: “se la curva è a sinistra allora
gira a sinistra”.Questa regola rappresenta la situazione al livello funzionale
più alto nel quale la rappresentazione che entra in gioco è “minima”. Un
termine del genere, a proposito delle rappresentazioni, lo abbiamo visto usato
da Gallistel, ma per Simon e Vera il termine rimanda alla forma della regola
indicata, che può essere rapidamente applicata: in questo caso, cioè, non c’è
bisogno di evocare i livelli “bassi” o soggiacenti, quelli coinvolti con
l’analisi dettagliata dello spazio del problema e con l’applicazione delle
opportune strategie di soluzione, che comportano computazioni generalmente
complesse, sotto forma di successioni di regole di produzione. Questi livelli
intervengono nelle fasi dell’apprendimento (quando si impara come affrontare le
curve), e possono essere evocati dall’agente quando la situazione si fa
complicata (si pensi a una curva a raggio variabile, che rivela la complessità
dell’interazione codi- fica percettiva-decodifica motoria). E tanto un
apprendimento imperfetto quanto una carenza, per i più svariati motivi,
dell’informazione percettiva rilevante possono anche ostacolare l’accesso ai livelli
soggiacenti che potrebbero dare luogo alla risposta cor- retta (non tutti
coloro che hanno imparato a guidare riescono ad affrontare tutte le curve con
pieno successo in ogni situazione possibile). Insomma, in questa
interpretazione di Simon e Vera l’interazione in tempo reale dell’agente con
l’ambiente è data non dal fatto di essere non simbolica e di non poter essere
modellizzata mediante regole di produzione, ma dal fatto di non dover accede-
re, per dare la risposta corretta, alla complessità delle procedure di
elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti a quello alto. E’ nell’attività
cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si elaborano piani e strategie di
soluzione di problemi, che viene evidenziata la consapevolezza dell’agente.
Simon e Vera ponevano infine un problema che riguarda i limiti degli approcci
reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e che mi sembra condivisibile: “E’
tuttora dubbio se questo approccio behavior-based si possa estendere alla
soluzione di pro- blemi più complessi. Le rappresentazioni non centralizzate e
le azioni non pianificate possono funzionare bene nel caso di creature
insettoidi, ma possono risultare insuffi- cienti per la soluzione di problemi
più complessi. Certo, la formica di Simon non ha 17 Su questo tipo di
comportamento, che può essere visto in termini di “percezione attesa”, si veda bisogno
di una rappresentazione centralizzata e stabile del suo ambiente. Per tornare
al nido zigzagando essa non usa una rappresentazione della collocazione di
ciascun gra- nello di sabbia in relazione alla meta. Ma gli organismi superiori
sembrano lavo- rare su una rappresentazione del mondo più robusta, una
rappresentazione più complessa di quella di una formica, più stabile e tale da
poter essere manipolata per astrarre nuova informazione”. La successiva
evoluzione della robotica sembra confermare questa osservazione. Wikipedia
Ricerca Entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale Dichiarazione di
guerra dell'Italia verso gli alleati nella seconda guerra mondiale 1leftarrow
blue.svg Voce principale: Storia del Regno d'Italia. A seguito dell'attacco
tedesco contro la Polonia, il capo del governo Benito Mussolini, nonostante un
patto di alleanza con la Germania, dichiarò la non belligeranza italiana.
L'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale avvenne con una serie di atti
formali e diplomatici solo dopo nove mesi,, e fu annunciata da Mussolini stesso
con un celebre discorso dal balcone di Palazzo Venezia. Durante i nove mesi di
incertezza operativa, il Duce, impressionato dalle folgoranti vittorie
tedesche, ma conscio della grave impreparazione militare italiana, restò a
lungo dubbioso fra diverse alternative, a volte contrastanti fra loro,
oscillando tra la fedeltà all'amicizia con Adolf Hitler, l'impulso a rinnegarne
la soffocante alleanza, la voglia di indipendenza tattica e strategica, il
desiderio di facili vittorie sul campo di battaglia e la brama di essere ago
della bilancia nello scacchiere della diplomazia europea. Mussolini annuncia
la dichiarazione di guerra dal balcone di Palazzo Venezia a Roma
AntefattiModifica Gli attriti con la Francia e l'avvicinamento alla
GermaniaModifica L'ambasciatore francese in Italia André François-Poncet.
Il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop incontra a Roma MUSSOLINI e il
ministro degli esteri italiano CIANO. Durante il colloquio, Ribbentrop parlò di
un possibile patto di alleanza fra Germania e Italia, argomentando che, forse
nel giro di tre o quattro anni, un confronto armato contro Francia e Regno
Unitosarebbe stato inevitabile. Alle molte domande di Mussolini, il ministro degli
esteri tedesco spiegò che esisteva un'alleanza fra inglesi e francesi, i quali
avrebbero cominciato insieme a riarmarsi, che esisteva un patto di assistenza
reciproca fra sovietici e francesi, che gli Stati Uniti d'America non erano
nelle condizioni di intromettersi in prima persona e che la Germania era in
ottimi rapporti con il Giappone, concludendo che «tutto il nostro dinamismo può
dirigersi contro le democrazie occidentali. Questa la ragione fondamentale per
cui la Germania propone il Patto e lo ritiene adesso tempestivo. Il Duce non
sembrava convinto e iniziò a tergiversare, ma Ribbentrop catturò la sua
attenzione affermando che il mar Mediterraneo, nelle intenzioni di Adolf
Hitler, sarebbe stato posto sotto il totale dominio italiano, aggiungendo che
l'Italia aveva in passato dimostrato la sua amicizia verso la Germania e che
adesso era «la volta dell'Italia di profittare dell'aiuto tedesco. L'obiettivo
di Hitler, cogliendo l'importanza strategica di avere Roma dalla propria parte,
consisteva nel ridurre il numero dei potenziali nemici in una futura guerra,
scongiurando l'eventuale avvicinamento dell'Italia a Francia e Regno Unito, il
che avrebbe significato il ritorno al vecchio schieramento della prima guerra
mondiale e al blocco marittimo che aveva contribuito a piegare l'Impero tedesco
di Guglielmo II. L'incontro fra Ribbentrop, MUSSOLINI e CIANO, però, si
concluse con un momentaneo nulla di fatto. Dopo la conferenza di Monaco
del 1938 la Francia si era riavvicinata all'Italia, inviando a Roma un suo
ambasciatore nella persona di André François-Poncet, e Mussolini ritenne di
poter approfittare del periodo di buoni rapporti per farle tre richieste
riguardanti il mantenimento della particolare condizione degli italiani in
Tunisia, l'ottenimento di alcuni posti nel consiglio di amministrazione della
compagnia del Canale di Suez e un arrangiamento relativo alla città di Gibuti,
che era il terminale dell'unica ferrovia esistente per Addis Abeba, all'epoca
capitale dell'Africa Orientale Italiana. Infatti, gli obiettivi del Duce non
comprendevano la conquista di territori europei. Il primo ministro inglese
Chamberlain e il suo ministro degli esteri, lord Halifax, si recarono a Parigi
e ultimarono i dettagli per la collaborazione militare tra Francia e Regno
Unito, mentre i rapporti fra Italia e Francia iniziavano a deteriorarsi. Il successivo
30 novembre, durante un discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni, il
ministro degli esteri Ciano pronunciò un discorso durante il quale, accennando
alle rivendicazioni irredentistiche italiane, venne interrotto dalle
acclamazioni Nizza!, Savoia!, Corsica!, partite da una trentina di deputati. In
quel momento, nella tribuna diplomatica, assisteva alla seduta anche
l'ambasciatore francese André François-Poncet, arrivato a Roma da appena una
settimana. Una manifestazione simile si verificò il giorno stesso in piazza di
Monte Citorio, dove un centinaio di dimostranti esternò le stesse acclamazioni.
Nonostante la parvenza di spontaneità, si era trattato di iniziative
organizzate da Ciano e da Achille Starace, i quali, chiedendo molto di più
delle tre richieste di Mussolini per poi fingere di accontentarsi del poco
ottenuto per via negoziale, avevano inscenato le manifestazioni per
impressionare François-Poncet, il quale infatti avvisò immediatamente Parigi
dell'accaduto.[8] Il governo francese gli ordinò allora di chiedere spiegazioni
e arrivò alla conclusione che, se la situazione era quella, una futura guerra
contro l'Italia sarebbe stata inevitabile. La sera stessa, durante una seduta
del Gran consiglio del fascismo, Mussolini prese però le distanze da quanto
accaduto in aula, dato che l'Italia aveva da poco ripreso buone relazioni con
la Francia e che la protesta era stata intrapresa a sua insaputa. François-Poncet
chiese a CIANO se le grida dei deputati potevano rappresentare gli orientamenti
della politica estera italiana e se l'Italia riteneva ancora in vigore
l'accordo franco-italiano. Ciano, dissimulando la propria paternità su quanto
accaduto, rispose che il Governo non poteva assumersi la responsabilità delle
affermazioni dei singoli, ma che le riteneva un chiaro campanello d'allarme del
sentire comune nazionale, e che era auspicabile, secondo la sua opinione, una
revisione dell'accordo. Di fronte a
risposte così poco rassicuranti, la Francia iniziò ad aspettarsi un attacco
italiano. Tuttavia, lo stato d'animo dei vertici militari d'oltralpe era
improntato all'ottimismo: il generale Henri Giraud affermò infatti che un
eventuale conflitto sarebbe stato, per le truppe francesi, «una semplice
passeggiata nella pianura del Po», mentre altri ufficiali parlavano di
un'azione militare «facile come infilare un coltello nel burro. Il primo
ministro francese Édouard Daladier, irrigidendo la propria posizione nei
confronti dell'Italia, affermò che non avrebbe mai ceduto ad alcuna pretesa
straniera, facendo così sfumare anche la speranza di accoglimento delle tre
richieste del Duce su Tunisia, Suez e Gibuti. Lo Stato Maggiore francese, fin
dal 1931, aveva disposto dei piani per l'invasione militare dell'Italia,
ampliandoli dopo ma il generale Alphonse Georges fece notare che nessuna azione
sarebbe stata possibile contro l'Italia se, sulla Francia, fosse pesata una
minaccia tedesca. Mussolini decise di aderire al patto italo-germanico,
comunicando a Ribbentrop il proprio impegno. Secondo Ciano, il Duce si convinse
ad accettare la proposta tedesca a causa della comprovata alleanza militare tra
Francia e Regno Unito, dell'orientamento ostile del governo francese nei
confronti dell'Italia e dell'atteggiamento ambiguo degli Stati Uniti d'America,
che mantenevano una posizione defilata, ma che sarebbero stati pronti a
rifornire di armamenti Londra e Parigi. Il maresciallo Pietro Badoglio,
ribadendo la linea mussoliniana tracciata l'anno precedente, riferì allo Stato
Maggiore Generale il contenuto di un suo colloquio avuto con il Duce due giorni
prima, durante il quale «il Capo del Governo mi ha dichiarato che, nelle
rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto parlare di Corsica, Nizza
e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le quali non entrano nel suo
piano di azione. Mi ha dichiarato, inoltre, che non intende porre domande di
cessioni territoriali alla Francia perché è convinto che essa non ne può fare:
quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare una eventuale richiesta (e
ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra -- e ciò non è nelle sue
intenzioni. Gli sforzi sostenuti per la guerra d'Etiopia del 1935-36 e per il
supporto alla guerra civile spagnola del 1936-39avevano comportato spese
eccezionali per l'Italia, le quali, unite alla limitata capacità produttiva
dell'industria, alla lentezza del riarmo e alla scarsa preparazione
dell'esercito, spinsero il Duce ad annunciare al Gran consiglio del fascismo,
il 4 febbraio 1939, che il Paese non avrebbe potuto partecipare a un nuovo
conflitto. La firma del Patto d'AcciaioModifica Italia e Germania,
rappresentate rispettivamente dai ministri degli esteri Ciano e Ribbentrop,
concretizzarono la proposta tedesca dell'anno precedente e firmarono a Berlino
un'alleanza difensiva-offensiva, che Mussolini aveva inizialmente pensato di
battezzare Patto di Sangue, ma che poi aveva più prudentemente chiamato Patto
d'Acciaio. Il testo dell'accordo prevedeva che le due parti contraenti fossero
obbligate a fornirsi reciproco aiuto politico e diplomatico in caso di
situazioni internazionali che mettessero a rischio i propri interessi vitali.
Questo aiuto sarebbe stato esteso anche al piano militare qualora si fosse scatenata
una guerra. I due Paesi si impegnavano, inoltre, a consultarsi permanentemente
sulle questioni internazionali e, in caso di conflitti, a non firmare eventuali
trattati di pace separatamente.[16] Pochi giorni prima, Ciano aveva
incontrato Ribbentrop per chiarire alcuni punti del trattato prima di firmarlo.
In particolare la parte italiana, conscia della propria impreparazione
militare, voleva rassicurazioni sul fatto che i tedeschi non avessero
intenzione di iniziare a breve una nuova guerra europea. Il ministro Ribbentrop
tranquillizzò Ciano, dicendo che «la Germania è convinta della necessità di un
periodo di pace che dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5 anni» e che le
divergenze con la Polonia per il controllo del Corridoio di Danzica sarebbero
state appianate «su una strada di conciliazione». Siccome la rassicurazione di
nessun conflitto armato per quattro o cinque anni faceva arrivare al 1943 o al
1944e, quindi, coincideva con la previsione di Mussolini del 4 febbraio 1939 di
essere militarmente pronto per il 1943, il Duce diede il suo assenso definitivo
per la firma dell'alleanza. Vittorio Emanuele III, nonostante la decisione di
Mussolini, continuò a manifestare i propri sentimenti antigermanici e il
successivo 25 maggio, al ritorno di Ciano da Berlino, commentò che «i tedeschi
finché avran bisogno di noi saranno cortesi e magari servili. Ma alla prima
occasione, si riveleranno quei mascalzoni che sono». Dal 27 al 30 maggio il
Duce fu impegnato nella stesura di un testo indirizzato ad Hitler, successivamente
passato alla storia come memoriale Cavallero dal nome del generale che glielo
consegnò ai primi di giugno, nel quale venivano inserite alcune interpretazioni
italiane del Patto da poco stipulato. Nello specifico, Mussolini, nonostante
ritenesse inevitabile una futura «guerra fra le nazioni plutocratiche e quindi
egoisticamente conservatrici e le nazioni popolose e povere», ribadì che Italia
e Germania avevano «bisogno di un periodo di pace di durata non inferiore ai
tre anni» allo scopo di completare la propria preparazione militare, e che un
eventuale sforzo bellico avrebbe potuto avere successo. Ciano si recò al
Berghof, vicino Berchtesgaden, per un colloquio con Hitler. Quest'ultimo,
parlando del Corridoio di Danzica, prospettò un eventuale confronto armato
circoscritto a Germania e Polonia qualora Varsavia avesse rifiutato le
trattative proposte dai tedeschi, specificando che, in base alle informazioni
in suo possesso, né Parigi né Londra sarebbero intervenute. Inoltre, il
Cancelliere tedesco accennò a delle trattative segrete in corso con l'Unione
Sovietica per un'alleanza. Ciano ricordò che era stato definito, alla firma del
Patto d'Acciaio, di far passare alcuni anni prima di intraprendere azioni
belliche, ma il Führer lo interruppe dicendo che «li avrebbe attesi, secondo
quanto era stato concordato. Ma le provocazioni della Polonia e l'aggravarsi
della situazione» avevano «reso urgente l'azione tedesca. Azione però che non
provocherà un conflitto generale. Hitler chiede al Capo del Governo italiano di
quali mezzi e di quali materie prime avesse bisogno per riuscire a prendere
parte a un'eventuale nuova guerra. Nella speranza che il Paese ne fosse
esonerato, il Duce rispose con una lunghissima lista appositamente abnorme e
impossibile da soddisfare, talmente esagerata da essere definita da Galeazzo
Ciano «tale da uccidere un toro. L'elenco - soprannominato Lista del molibdeno
a causa delle 600 tonnellate richieste di questo materiale - comprendeva, fra
petrolio, acciaio, piombo e numerosi altri materiali, un totale di quasi
diciassette milioni di tonnellate di rifornimenti e specificava che, senza tali
forniture da ricevere subito, l'Italia non avrebbe potuto assolutamente
partecipare a una nuova guerra. Il Führer, nonostante il sospetto che Mussolini
lo stesse ingannando, rispose dicendo che comprendeva la precaria situazione
italiana e che poteva inviare una piccola parte del materiale, ma che gli era
impossibile soddisfare per intero le richieste nostrane. La Germania inviò alla
Polonia un ultimatum per la cessione del Corridoio di Danzica e la Polonia
ordinò la mobilitazione generale. La mattina del giorno successivo, nonostante
la situazione fosse già disperata, Mussolini si offrì come mediatore presso
Hitler affinché la Polonia cedesse pacificamente Danzica alla Germania, ma il
ministro degli esteri inglese Halifax rispose che tale soluzione era
inaccettabile. Appresa la notizia, nel pomeriggio dello stesso giorno il Duce
propose allora a Francia e Regno Unito una conferenza per il successivo 5
settembre, «con lo scopo di rivedere quelle clausole del trattato di Versaglia
che turbano la vita europea». Mussolini, precedentemente, aveva già tentato di
instradare la situazione nell'alveo di una soluzione diplomatica. Ciano, nel
suo diario, in più momenti annotò che il Duce «è d'avviso che una coalizione di
tutte le altre Potenze, noi compresi, potrebbe frenare l'espansione germanica»;
«Il Duce sottolinea la necessità di una politica di pace»; «si potrebbe parlare
col Führer di lanciare una proposta di conferenza internazionale»; «Il Duce
tiene molto a che io provi ai tedeschi che lo scatenare una guerra adesso
sarebbe una follia [...] Mussolini ha sempre in mente l'idea di una conferenza
internazionale. Il Duce raccomanda ancora ch'io faccia presente ai tedeschi che
bisogna evitare il conflitto con la Polonia il Duce ha parlato con calore e
senza riserve della necessità della pace»;«Vedo nuovamente il Duce. Tentativo
estremo: proporre a Francia e Inghilterra una conferenza per il 5 settembre»; «facciamo
cenno a Berlino della possibilità di una conferenza». Durante la sera del 31
agosto, però, Mussolini venne informato che Londra aveva tagliato le
comunicazioni con l'Italia. La scelta della non belligeranzaModifica
Truppe tedesche, il 1º settembre 1939, rimuovono una sbarra di confine tra
Germania e Polonia All'alba del 1º settembre le forze armate tedesche,
utilizzando come casus belli l'incidente di Gleiwitz, diedero inizio alla
campagna di Polonia, varcandone il confine alla volta di Varsavia. Mussolini,
avendo firmato solo tre mesi prima l'alleanza con il Reich, fu messo di fronte
alla scelta se scendere o meno in campo a fianco di Hitler. Ricevuta notizia
dell'attacco tedesco e conscio dell'impreparazione italiana, la mattina dello
stesso giorno il Duce telefonò subito all'ambasciatore italiano a Berlino,
Bernardo Attolico, chiedendo che Hitler gli mandasse un telegramma per
sganciarlo dagli obblighi del Patto, in modo da non passare per traditore agli
occhi dell'opinione pubblica. Il Führer rispose immediatamente, in modo molto
cortese, accogliendo senza problemi la posizione dell'Italia, dicendo che
ringraziava Mussolini per l'appoggio morale e politico e rassicurandolo sul
fatto che non aspettava il sostegno militare italiano. Il telegramma, però,
probabilmente per punire la beffa italiana della Lista del molibdeno, non venne
pubblicato da alcun quotidiano del Reich e non venne trasmesso alla radio,
facendo successivamente nascere, nell'opinione pubblica tedesca, una crescente
ostilità nei confronti degli italiani, percepiti come inaffidabili e traditori
del Patto.[32] Galeazzo Ciano riferì che Mussolini, avendo percepito questa
crescente avversione, ancora il 10 marzo 1940 disse a Ribbentrop di essere
«molto riconoscente al Führer per il telegramma nel quale questi ha dichiarato
che non aveva bisogno dell'aiuto militare italiano per la campagna contro la
Polonia», ma che sarebbe stato meglio «se questo telegramma fosse stato
pubblicato anche in Germania». Non potendo scegliere la neutralità per non
tradire l'amicizia con Hitler, nella seduta del Consiglio dei Ministri delle
15:00 del 1º settembre 1939 il Duce rese nota ufficialmente la posizione di non
belligeranza. La mancata consultazione dell'Italia da parte della Germania
prima dell'invasione della Polonia e prima della firma del patto
Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 fra Germania e Unione Sovietica,
comunque, secondo l'interpretazione italiana erano violazioni dei tedeschi
dell'obbligo di consultazione fra i due Paesi, previsto dal testo del Patto
d'Acciaio, consentendo perciò a Mussolini di dichiarare la non belligeranza
senza formalmente venir meno ai patti sottoscritti. Il 2 settembre
Mussolini ripropose l'idea di una conferenza internazionale: inaspettatamente,
Hitler rispose dichiarandosi disposto a fermare l'avanzata tedesca e a
intervenire in una conferenza di pace cui avrebbero partecipato Germania,
Italia, Francia, Regno Unito, Polonia e Unione Sovietica. Gli inglesi,
tuttavia, posero come condizione inderogabile che i tedeschi abbandonassero
immediatamente i territori polacchi occupati il giorno prima. Galeazzo Ciano
riportò nel suo diario che «non tocca a noi dare un consiglio di tale natura a
Hitler, che lo respingerebbe con decisione e forse con sdegno. Dico ciò ad
Halifax, ai due Ambasciatori e al Duce, e infine telefono a Berlino che, salvo
avviso contrario dei tedeschi, noi lasciamo cadere le conversazioni. L'ultima
luce di speranza si è spenta». Secondo lo storico Renzo De Felice: «Così, nelle
prime ore tra il 2 e il 3 settembre, sulle secche dell'intransigenza inglese
forse più che su quelle dell'intransigenza tedesca, naufragò la navicella della
mediazione italiana». Il Regno Unito e Francia, in virtù di un trattato di
alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla Germania. L’ambasciatore
Attolico, facendo riferimento all'accordo fra Hitler e Mussolini per una non
immediata entrata in guerra dell'Italia e al telegramma di conferma di Hitler,
comunicò che nel Reich «le grandi masse popolari, ignare dell'accaduto,
cominciano già a dar segno di una crescente ostilità. Le parole tradimento e
spergiuro ricorrono con frequenza». A conferma dell'impreparazione italiana, il
Commissariato Generale per le Fabbricazioni di Guerra sondò il grado di
approntamento delle Forze Armate, ricevendo come risposta dagli Stati Maggiori
che, salvo imprevisti, la Regia Aeronautica sarebbe riuscita a ripianare
sufficientemente le proprie carenze entro la metà del 1942, la Regia Marina
alla fine del 1943 e il Regio Esercito alla fine del 1944. Inoltre l'economia
italiana risultava fortemente danneggiata dal blocco navale alle esportazioni
tedesche di carbone, imposto da Regno Unito e Francia e dall'applicazione del
diritto di angheria, il quale prevedeva che Londra e Parigi potessero non solo attaccare
il naviglio nemico, ma anche controllare il naviglio neutrale (o non
belligerante) e porre sotto sequestro merci e navi neutrali (o non
belligeranti) provenienti da una nazione nemica o dirette verso di essa.
Dall'agosto al dicembre 1939, infatti, gli inglesi fermarono a Gibilterra e a
Suez, con vari pretesti, 847 navi mercantili e passeggeri italiane (cifra poi
salita a 1.347 navi al 25 maggio 1940), rallentando fortemente i traffici di
qualsiasi merce nel Mar Mediterraneo, arrecando grave danno alla produttività
nazionale e peggiorando i rapporti fra Roma e Londra.[39] Durante
l'inverno il Regno Unito fece sapere di essere disposto a vendere carbone
all'Italia, ma ad un prezzo stabilito unilateralmente da Londra, senza garanzia
sulle tempistiche di consegna e a patto che l'Italia rifornisse di armamenti
pesanti Regno Unito e Francia. Siccome l'accettazione di una simile proposta
avrebbe comportato il crollo delle relazioni fra Italia e Germania e una sicura
reazione di Hitler, Galeazzo Ciano comunicò il rifiuto del governo italiano. La
cronica mancanza di carbone e di approvvigionamenti causata dal blocco navale
anglo-francese, però, minava fortemente la stabilità nazionale e rischiava di
portare il Paese all'asfissia economica. La Germania intervenne, rifornendo
l'Italia del carbone necessario e rendendola così ancora più dipendente da
Berlino, anche se la fornitura era molto rallentata perché, per aggirare il
blocco marittimo, doveva obbligatoriamente avvenire via rotaie dal passo del
Brennero. Per i generi di prima necessità, invece, l'Italia sopperì
parzialmente mediante l'estensione delle politiche autarchiche adottate ai
tempi della guerra d'Etiopia. Gli esorbitanti costi di gestione dell'Africa
Orientale Italiana, uniti ai suoi magri guadagni, stavano però rivelando che la
conquista dell'impero era stata più un aggravio che un beneficio per le casse
dello Stato. Per quanto riguarda le risorse umane, le truppe italiane
risultavano impreparate sotto ogni aspetto: nonostante le «otto milioni di
baionette» millantate da Mussolini, la stragrande maggioranza dei soldati
italiani non era motivata da alcun odio contro inglesi e francesi, non era
addestrata a impieghi specifici come l'assalto a opere fortificate o
l'aviotrasporto ed era cronica la mancanza di munizioni, mezzi motorizzati e
indumenti adatti. Il Duce, a conoscenza della crescente ostilità dei
tedeschi nei confronti degli italiani, aveva paura di una possibile ritorsione
di Hitler vincitore e si era posto il problema di quale sorte, in caso di vittoria
tedesca, il Führer avrebbe riservato all'Italia qualora questa si fosse
sottratta ai suoi doveri di alleata. Il generale Faldella, infatti, testimoniò
che «più si profilava l'eventualità della vittoria germanica, più Mussolini
temeva la vendetta di Hitler».Sulla situazione, poi, pesava la questione
dell'Alto Adige, una zona di territorio italiano popolata prevalentemente da
abitanti di lingua e cultura tedesca che, nonostante le rassicurazioni
sull'inviolabilità dei confini, Hitler avrebbe potuto sfruttare come casus
belli, nell'ottica pangermanista di unificare tutte le popolazioni di stirpe
germanica, per annettere quel territorio al Reich e per invadere militarmente
l'Italia settentrionale.[46]Addirittura, il Duce fu anche sfiorato dall'idea che
convenisse cambiare campo e schierarsi con gli anglo-francesi. Infatti,
alludendo alla scarsità delle riserve di carburante necessarie per la guerra,
commentò che, senza tali scorte, non sarebbe stato possibile impegnarsi «né col
gruppo A né col gruppo B», facendo perciò supporre che, almeno in linea
teorica, il Duce non escludeva a priori un ribaltamento delle alleanze.
Spaventato dalla situazione, diffidente nei confronti dei tedeschi e
preoccupato da una loro eventuale calata nella Penisola, il successivo 21
novembre Mussolini ordinò il prolungamento difensivo del Vallo Alpino del
Littorioanche sul confine con il Reich, nonostante l'alleanza fra Italia e
Germania, creando il Vallo Alpino in Alto Adige. La zona, massicciamente
fortificata a tempo di record, venne poi soprannominata dalla popolazione
locale "Linea non mi fido", con evidente riferimento ironico alla
Linea Sigfrido. Il problema della non belligeranzaModifica La bandiera da
guerra tedesca e la bandiera italiana sventolano insieme Gli esiti della
campagna di Polonia, contraddistinta da una serie di impressionanti e fulminee
vittorie dei tedeschi, contrastavano con la condizione di non belligeranza
italiana, mettendo implicitamente in risalto il fallimento della politica
militarista che Mussolini aveva condotto durante tutto il suo governo e dando
l'inaccettabile impressione che l'Italia potesse essere considerata, in sede
internazionale, come un Paese debole, ininfluente, secondario o codardo. Il
Duce era infatti convinto che, nonostante l'insufficienza militare nostrana,
l'Italia non avrebbe potuto astenersi dalla guerra. Secondo il cosiddetto
Promemoria segretissimo, infatti, l'Italia non poteva restare non belligerante
«senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello
di una Svizzera moltiplicata per dieci». Il problema, secondo Mussolini, non
consisteva nel decidere se il Paese avrebbe partecipato o no al conflitto,
«perché l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra, si tratta soltanto
di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile,
compatibilmente con l'onore e la dignità, la nostra entrata in guerra».[49]
Nello stesso testo, il Duce tornò a riflettere sull'opportunità di denunciare
il Patto d'Acciaio e di schierarsi al fianco di Londra e Parigi, concludendo
però che si trattava di una strada non praticabile e che, anche «se l'Italia
cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non
eviterebbe la guerra immediata colla Germania», ritenendo uno scontro con il
Reich un'eventualità più disastrosa di un conflitto contro Francia e Regno
Unito.[49] Nonostante ciò Mussolini stesso covava la speranza, ormai
flebile, di riuscire ancora a riportare la situazione nell'alveo delle
trattative diplomatiche, credendo possibile una sorta di ripetizione della
conferenza di Monaco del 1938. Per alcuni mesi il Duce restò infatti dubbioso
fra tre possibili alternative:[51] fungere da mediatore in una riconciliazione
per via negoziale fra tedeschi e anglo-francesi, in modo da ottenere da tutti
qualche sorta di ricompensa, oppure rischiare e scendere in guerra al fianco
della Germania (ma solo quando quest'ultima sarebbe stata a un passo dalla
vittoria finale), oppure condurre una sorta di guerra parallela a quella della
Germania, in piena autonomia da Hitler e con obiettivi limitati ed
esclusivamente italiani, che gli avrebbe consentito di sedersi al tavolo dei
vincitori e di raccogliere qualche guadagno con il minimo sforzo, essendo
costretto a centellinare le poche risorse disponibili,[52] e senza perdere la
faccia.[53] Scartata la prima ipotesi, dal momento che le richieste di
trattative avanzate da Hitler erano state respinte, Mussolini si orientò allora
sulla seconda e sulla terza, in realtà strettamente interconnesse fra loro,
maturando questa convinzione almeno già dal 3 gennaio 1940, quando scrisse una
lettera al Führer per comunicargli che l'Italia avrebbe preso parte al
conflitto, ma solo nel momento che avrebbe ritenuto più favorevole:[54] non
troppo presto per evitare una guerra logorante, e non troppo tardi da arrivare
ormai a cose fatte.[55] Nella stessa lettera, però, nonostante l'impegno a
entrare in guerra, Mussolini dimostrò di nuovo la propria titubanza, suggerendo
contraddittoriamente a Hitler di trovare un accomodamento pacifico con Parigi e
Londra, in quanto «non è sicuro che si riesca a mettere in ginocchio gli
alleati franco-inglesi senza sacrifici sproporzionati agli obiettivi». Dopo un
incontro con il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop, il Duce confermò
questa linea, come risulta dal contenuto di una sua telefonata con Claretta
Petacci intercettata dagli stenografi del Servizio Speciale Riservato.[N 2]
Nella telefonata, Mussolini parlò dell'eventuale entrata dell'Italia in guerra
come di un fatto ineludibile, senza però precisare come e quando. I dubbi sul
da farsiModifica Mussolini e Hitler. Mussolini e Hitler si incontrarono
per un colloquio al passo del Brennero. Secondo Galeazzo Ciano, l'obiettivo del
Duce era dissuadere il Führer dal proposito di iniziare un'offensiva terrestre
contro l'Europa occidentale. L'incontro, invece, finì in un lunghissimo
monologo del Cancelliere tedesco, con il Duce che a stento riuscì ad aprire
bocca. Fra marzo e aprile Hitler intensificò la sua pressione psicologica su
Mussolini, mentre il fronte antitedesco sembrava crollare in una serrata
sequenza di vittorie germaniche. Le Forze Armate del Reich, mettendo in atto
l'efficace tattica del Blitzkrieg, travolsero infatti la Danimarca, la
Norvegia, i Paesi Bassi, il Lussemburgo, il Belgio e iniziarono l'attacco alla
Francia. I vertici militari italiani prevedevano, secondo il generale Paolo
Puntoni, la «liquidazione della Francia entro giugno e dell'Inghilterra entro
luglio». Le folgoranti vittorie tedesche, unite alle risposte tardive e
inefficaci di inglesi e francesi,[59]fecero rimanere gli italiani col fiato
sospeso, tutti più o meno consapevoli che dal conflitto sarebbero dipese le
sorti dell'Europa e dell'Italia, e causarono in Mussolini una serie di reazioni
contrastanti che, «con gli alti e bassi tipici del suo carattere», continuarono
ad accavallarsi, rendendolo incapace di prendere una decisione che sapeva di
dover prendere, ma alla quale cercava di sottrarsi. A chi gli chiedeva un
parere sull'eventualità che l'Italia restasse fuori dal conflitto, Mussolini,
riferendosi all'attacco tedesco in corso in quei mesi, rispondeva che: «se gli
inglesi e i francesi reggono il colpo ci faranno pagare non una, ma venti
volte, Etiopia, Spagna e Albania, ci faranno restituire tutto con gli
interessi». Pio invia un messaggio al Duce per convincerlo a restare fuori dal
conflitto. Ciano, riferendosi al messaggio, annotò sul suo diario che:
«l'accoglienza di Mussolini è stata fredda, scettica, sarcastica». Il re
Vittorio Emanuele III, accennando alla «macchina militare ancora debolissima»,
sconsigliò l'entrata in guerra, raccomandando al Duce di rimanere nella
posizione di non belligeranza il più a lungo possibile. Contemporaneamente la
diplomazia europea si impegnò per evitare che Mussolini scendesse in campo al
fianco della Germania: per impreparata che fosse l'Italia, il suo apporto
rischiava di essere decisivo per piegare la resistenza francese e avrebbe
potuto creare grosse difficoltà anche al Regno Unito. Il 14 maggio, su insistenza
francese, il presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano
Rooseveltindirizzò al Duce un messaggio dai toni concilianti, il quarto da
gennaio, per dissuaderlo dall'entrare in guerra. Due giorni dopo anche il primo
ministro inglese Winston Churchill seguì l'esempio, ma con un messaggio più
intransigente, in cui avvertiva che il Regno Unito non si sarebbe sottratto
alla lotta, qualunque fosse stato l'esito della battaglia sul continente. Il 26
maggio partì un quinto messaggio di Roosevelt al Duce. Tutte le risposte di
Mussolini confermarono che voleva rimanere fedele all'alleanza con la Germania
e agli "obblighi d'onore" che essa comportava, ma privatamente non
aveva ancora raggiunto la certezza sul da farsi. Pur parlando continuamente di
guerra con Galeazzo Ciano e con gli altri suoi collaboratori,ed essendo
profondamente colpito dai successi tedeschi, almeno fino al 27-28 maggio (se si
esclude un'improvvisa convocazione dei tre sottosegretari militari la mattina
del 10 maggio) non risulta che il numero dei colloqui con i responsabili delle
Forze Armate avesse avuto alcun incremento, e nulla faceva presagire un
intervento a breve. Mentre i francesi si aspettavano un lento avanzare della
fanteria tedesca attraverso il Belgio, o al massimo un improbabile attacco
frontale contro le fortificazioni della Linea Maginot, circa 2.500 carri armati
tedeschi penetrarono in Francia dopo aver attraversato in modo fulmineo la
foresta delle Ardenne, una regione collinare caratterizzata da profonde vallate
e da fitti arbusti che Parigi riteneva, fino a quel momento, del tutto inadatta
a essere attraversata da carri armati. Alla sorpresa di un'azione tatticamente
così brillante seguì il rapido e totale collasso delle Forze Armate francesi,
che fece nascere la convinzione, nei vertici militari italiani, che il Regno
Unito non sarebbe stato in grado di fronteggiare da solo un attacco tedesco e
che sarebbe stato costretto a scendere a patti con Berlino e che gli Stati
Uniti non avrebbero avuto la volontà né il tempo utile di impegnarsi
direttamente nel conflitto, dato che non lo avevano fatto neanche per salvare
la Francia e per servirsi di essa come una testa di ponte sul continente
europeo.[68] Inoltre, la maggioranza dell'opinione pubblica statunitense era
contraria alla guerra e Franklin Delano Roosevelt, impegnato nella campagna
elettorale per le elezioni presidenziali, non poteva non tenerne conto. Il
direttore dell'OVRA, Guido Leto, dispose la raccolta di indiscrezioni,
informazioni riservate e intercettazioni telefoniche per sondare i sentimenti
degli italiani nei confronti della guerra, allo scopo di creare uno spaccato il
più aderente possibile alla realtà da sottoporre al Duce, che chiedeva un
quadro completo della situazione. Secondo tali relazioni, «i nostri informatori
segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore frequenza ed ampiezza, uno
stato di timore - che andava diffondendosi rapidamente - che la Germania fosse
sul punto di riuscire a chiudere assai brillantemente e da sola la tremenda
partita e che, di conseguenza, noi - se pure ideologicamente alleati - saremmo
rimasti privi di ogni beneficio per quanto aveva tratto colle nostre
aspirazioni nazionali. Che, a causa della nostra prudenza - di cui veniva
attribuita la responsabilità a Mussolini - saremmo stati, forse, anche puniti
dal tedesco e che, quindi, se ancora in tempo, bisognava bruciare le tappe ed
entrare subito in guerra». Leto, inoltre, aggiunse che «pochissime voci, e non
certo di politicanti delle due parti avverse e con debolissimi echi nel paese,
si levarono ad ammonire sulle tremende incognite che la situazione presentava».
In questo clima, perciò, anche Mussolini si convinse che l'Italia potesse
«arrivare tardi», in quanto era opinione comune che il Regno Unito avesse i
giorni contati e che la conclusione della guerra fosse ormai prossima. A nulla
servirono le opposizioni del re e di Pietro Badoglio, motivate
dall'impreparazione del Regio Esercito e da un giudizio prudente sulle vittorie
tedesche in Francia. Il sovrano, inoltre, pose l'accento sull'importanza che
avrebbe potuto avere nel conflitto un eventuale intervento armato statunitense,
che sarebbe stato foriero di numerose incognite. Dello stesso avviso era anche
il principe ereditario Umberto di Savoia. Galeazzo Ciano scrisse nel suo
diario: «Vedo il Principe di Piemonte. È molto antitedesco e convinto della
necessità di rimanere neutrali. Scettico, impressionantemente scettico sulle
possibilità effettive dell'esercito nelle attuali condizioni, che giudica
pietose, di armamento». Secondo Mussolini, invece, le rapide vittorie
tedesche erano il presagio dell'imminente fine della guerra, per cui
l'insufficienza effettiva delle Forze Armate italiane assumeva ormai
un'importanza trascurabile. Accanto al suo timore che l'Italia non avrebbe
ricevuto alcun beneficio nella futura conferenza di pace qualora il conflitto
fosse terminato prima dell'intervento nostrano, nacque in Mussolini la convinzione che gli
fosse necessario «solo un pugno di morti» per potersi sedere al tavolo dei
vincitori e per avere diritto a reclamare parte dei guadagni, senza la
necessità di un esercito preparato e adeguatamente equipaggiato in una guerra
che, secondo l'opinione pubblica nella tarda primavera del 1940, sarebbe durata
ancora solo poche settimane e il cui destino era già scritto in favore della
Germania. L'entrata in guerra dell'ItaliaModifica Ultimi tentativi di
mediazioneModifica Il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt A
fine maggio, nei giorni in cui i tedeschi vincevano la battaglia di Dunkerque
contro gli anglo-francesi e il re del Belgio Leopoldo III firmava la resa del
proprio paese, il Duce si convinse che fosse arrivato il «momento più
favorevole» che attendeva da gennaio ed ebbe una decisiva virata verso
l'intervento: il 26 ricevette una lettera dal Führer che lo sollecitava a
intervenire e, contemporaneamente, un rapporto inviato a Roma dall'ambasciatore
italiano a Berlino Dino Alfieri, che era succeduto a Attolico, su un suo
colloquio con Hermann Göring. Quest'ultimo aveva suggerito all'Italia di
entrare in guerra quando i tedeschi avessero «liquidata la sacca
anglo-franco-belga», situazione che si stava verificando proprio in quei
giorni. Entrambi produssero nel dittatore una forte impressione, tanto che
Ciano annotò nel proprio diario che Mussolini «si propone di scrivere una
lettera ad Hitler annunciando il suo intervento per la seconda decade di
giugno». Ogni settimana, di fronte all'ampiezza della vittoria tedesca, poteva
essere quella decisiva per la fine della guerra e l'Italia, secondo Mussolini,
non poteva farsi trovare non in armi. Lo stesso giorno, in un estremo tentativo
di scongiurare la partecipazione italiana al conflitto, il primo ministro
inglese Winston Churchill aveva, previo accordo con il suo omologo francese
Paul Reynaud, inviato al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt
la bozza di un accordo, che quest'ultimo avrebbe dovuto successivamente
trasmettere al Duce. Secondo tale documento, conservato presso i National
Archives di Londra con il nome Suggested Approach to Signor Mussolini, Regno
Unito e Francia ipotizzavano la vittoria finale della Germania e chiedevano a
Mussolini di moderare le future richieste di Hitler. Nello specifico, secondo
questa proposta di accordo, Londra e Parigi promettevano di non aprire alcun
negoziato con Hitler qualora quest'ultimo non avesse ammesso il Duce,
nonostante la mancata partecipazione italiana al conflitto, alla futura
conferenza di pace in posizione uguale a quella dei belligeranti. Inoltre,
Churchill e Reynaud si impegnavano a non ostacolare le pretese italiane alla
fine della guerra (che principalmente consistevano, in quel momento,
nell'internazionalizzazione di Gibilterra, nella partecipazione italiana al
controllo del Canale di Sueze in acquisizioni territoriali nell'Africa
francese). Mussolini, però, in cambio avrebbe dovuto garantire di non aumentare
successivamente le proprie richieste, avrebbe dovuto salvaguardare Londra e
Parigi frenando le pretese di Hitler vincitore, avrebbe dovuto revocare la non
belligeranza e dichiarare la neutralitàitaliana e avrebbe dovuto mantenere tale
neutralità per tutta la durata del conflitto. Roosevelt si dichiarò
personalmente garante per il futuro rispetto di tale accordo. L'ambasciatore
degli Stati Uniti a Roma, Phillips, recò a Ciano la missiva, indirizzata a
Mussolini, con il testo dell'accordo. Lo stesso giorno il governo di Parigi,
per rendere la proposta di Roosevelt ancora più allettante, mediante
l'ambasciatore francese in ItaliaAndré François-Poncet fece sapere al Duce di
essere disponibile a trattare «sulla Tunisia e forse anche sull'Algeria». Secondo
lo storico Ciro Paoletti, «Roosevelt prometteva per un futuro incerto e
lontano. Sarebbe stato in grado di mantenere? E se per allora non fosse stato
più presidente? L'Italia aveva già avuto in passato, nel 1915 e negli anni
seguenti, delle notevoli promesse, poi non mantenute a Versailles nel 1919,
come ci si poteva fidare? Mussolini doveva scegliere fra le promesse a lunga
scadenza, fatte per di più da un presidente che di lì a sei mesi doveva
presentarsi alla rielezione, e le possibilità vicine, concrete, date da una
Francia al collasso, da un'Inghilterra allo stremo e dalla paura di cosa
avrebbe potuto fargli subito dopo la ormai certa vittoria in Francia - e assai
prima di qualsiasi intervento americano - una Germania trionfante». Secondo gli
storici Emilio Gin ed Eugenio Di Rienzo, inoltre, il Duce non avrebbe mai
accettato di sedersi al futuro tavolo delle trattative di pace, accanto a un
Hitler trionfante, solo "per concessione" degli Alleati, senza aver
combattuto, in quanto la sua figura in sede internazionale ne sarebbe uscita
debolissima e la sua autorità, paragonata a quella del Führer, sarebbe stata
del tutto irrilevante. Ciano, nel suo diario riportò infatti che Mussolini «se
pacificamente potesse avere anche il doppio di quanto reclama, rifiuterebbe». La
risposta a Phillips, infatti, fu negativa. Gli atti formali e l'annuncio
pubblicoModifica La folla, radunata di fronte a Palazzo Venezia, assiste
al discorso sulla dichiarazione di guerra dell'Italia a Francia e Gran Bretagna.
Il Duce comunicò a Badoglio la decisione di intervenire contro la Francia e, la
mattina successiva, si riunirono a Palazzo Venezia i quattro vertici delle
Forze Armate, Badoglio e i tre capi di Stato Maggiore (Graziani, Cavagnari e
Pricolo): in mezz'ora tutto fu definitivo. Mussolini comunicò ad Alfieri la sua
decisione e il 30 maggio annunciò ufficialmente a Hitler che l'Italia sarebbe
entrata in guerra mercoledì 5 giugno. Mesi prima, in realtà, il Duce aveva
ipotizzato un'entrata in guerra per la primavera 1941, data poi avvicinata al
settembre 1940 dopo la conquista tedesca di Norvegia e Danimarca e
ulteriormente accorciata dopo l'invasione della Francia, fatto che faceva
presagire un'ormai imminente fine del conflitto. Il 1º giugno il Führer
rispose, chiedendo di posticipare di qualche giorno l'intervento per non
costringere l'esercito tedesco a modificare i piani in corso di attuazione in
Francia. Il Duce si mostrò d'accordo, anche perché il rinvio gli permetteva di
completare gli ultimi preparativi. In un messaggio del 2 giugno, però,
l'ambasciatore tedesco a Roma Mackensen comunicò a Mussolini che la richiesta
di posticipare l'azione era stata ritirata e, anzi, la Germania avrebbe gradito
un anticipo. Il Duce, tramite il generale Ubaldo Soddu, chiese a Vittorio
Emanuele III che gli venisse ceduto il comando supremo delle forze armate che,
in base allo Statuto Albertino, era detenuto dal sovrano. Secondo Galeazzo
Ciano il re avrebbe opposto notevole resistenza, finendo con il concordare una
formula di compromesso: il comando supremo sarebbe rimasto in capo a Vittorio
Emanuele III, ma Mussolini lo avrebbe gestito in delega. Il 6 giugno il Duce,
scontento di questa soluzione e irritato dalla difesa del sovrano delle proprie
prerogative statutarie, sbottò: «Alla fine della guerra dirò a Hitler di far
fuori tutti questi assurdi anacronismi che sono le monarchie».[89] Volendo
evitare l'entrata in guerra venerdì 7 giugno, data che era stata
superstiziosamente considerata di cattivo auspicio, si giunse a lunedì 10
giugno. Galeazzo Ciano fece convocare per le 16:30 a Palazzo Chigi
l'ambasciatore francese André François-Poncet e, secondo la prassi diplomatica,
gli lesse la dichiarazione di guerra, il cui testo recitava: «Sua Maestà il Re
e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra con la
Francia a partire da domani 11 giugno». Alle 16:45 dello stesso giorno venne
ricevuto da Ciano l'ambasciatore britannico Percy Loraine, che ascoltò la
lettura del testo: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si
considera in stato di guerra con la Gran Bretagna a partire da domani 11
giugno». Entrambi gli incontri si svolsero, secondo i diari di Galeazzo Ciano,
in un clima formale, ma di reciproca cortesia. L'ambasciatore francese avrebbe
detto che considerava la dichiarazione di guerra come un colpo di pugnale a un
uomo già a terra, ma che si aspettava una tale situazione già da due anni, dopo
la firma del Patto d'Acciaio fra Italia e Germania, e che comunque nutriva
stima personale per Ciano e non poteva considerare gli italiani come nemici. L'ambasciatore
inglese, invece, sempre secondo Ciano avrebbe partecipato all'incontro restando
imperturbabile, limitandosi a domandare educatamente se quella che stava
ricevendo dovesse essere considerata un preavviso o la vera e propria
dichiarazione di guerra. Preceduto dal vicesegretario del Partito Nazionale
Fascista Pietro Capoferri, che ordinò alla folla il saluto al Duce, alle 18:00
dello stesso giorno Mussolini, indossando l'uniforme da primo caporale d'onore
della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, di fronte alla folla
radunatasi in Piazza Venezia, annunciò, con un lungo discorso trasmesso anche
via radio nelle principali città italiane, che «l'ora delle decisioni
irrevocabili» era scoccata, mettendo al corrente il popolo italiano delle
avvenute dichiarazioni di guerra. Di seguito, l'incipit e explicit del
discorso: «Combattenti di terra, di mare, dell'aria. Camicie nere della
rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno
d'Albania. Ascoltate! Un'ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra
patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già
stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. La parola
d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed
accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare
finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al
mondo. Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo
coraggio, il tuo valore!». Le reazioni dell'opinione pubblicaModifica La
prima pagina de Il Popolo d'Italia dell'11 giugno 1940 La notizia fu accolta
con entusiasmo dai gruppi industriali italiani, che vedevano l'inizio del
conflitto come un'occasione per aumentare la produzione e la vendita di armi e
macchinari, e da una buona parte dei vertici fascisti, nonostante le più alte
personalità del regime avessero in precedenza espresso scetticismo
sull'intervento italiano e avessero abbracciato la linea di condotta tracciata
da Mussolini il 31 marzo 1940, che prevedeva di entrare in guerra il più tardi
possibile allo scopo di evitare un conflitto lungo e insopportabile per il
Paese. In ogni caso, fra le personalità che avevano espresso dubbi - se non
veri e propri atteggiamenti ostili - sull'intervento militare italiano, nessuna
palesò pubblicamente la propria opposizione al conflitto e sulla scrivania del
Capo del Governo non vennero recapitate lettere di dimissioni. La stampa
italiana, condizionata da censura e controllo imposti dal regime fascista,
diede la notizia con grande enfasi, utilizzando titoli a caratteri cubitali che
facevano uso entusiasta di citazioni del discorso e manifestavano completa
adesione alle decisioni prese: «Corriere della Sera: Folgorante annunzio del
Duce. La guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Il Popolo d'Italia: POPOLO
ITALIANO CORRI ALLE ARMI! Il Resto del Carlino: Viva il Duce Fondatore
dell'Impero. GUERRA FASCISTA. L'Italia in armi contro Francia e Inghilterra. Il
Gazzettino: Il Duce chiama il popolo alle armi per spezzare le catene del Mare
nostro. L'Italia: I dadi sono gettati. L'ITALIA È IN GUERRA. La Stampa: Il Duce
ha parlato. La dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla Francia.
Bertoldo: Londra non sarà piena di tedeschi, ma fra poco sarà piena di
italiani.» L'unica voce critica che si levò, oltre ai giornali
clandestini, fu quella de L'Osservatore Romano: «E il duce (abbagliato) salì
sul treno in corsa». Questo titolo fu accolto con grande disappunto dai vertici
italiani, tanto che Roberto Farinacci, segretario del partito fascista, in un
commento alla stampa affermò che: «La Chiesa è stata la costante nemica
dell'Italia». Il capo dell'OVRA, Guido Leto, prendendo atto della
reazione dell'opinione pubblica italiana, riferì che: «Come la polizia rilevò e
riferì il quasi unanime dissenso del paese verso un'avventura bellica, così
nella primavera del 1940 essa segnalò il rovesciamento della pubblica opinione
presa da un ossessionante timore di arrivare tardi. E nel primo e nel secondo tempo
operò come un termometro: non determinò, né influenzò, né menomamente alterò la
temperatura del paese, ma semplicemente la misurò». Hitler, venuto a conoscenza
dell'annuncio pubblico, inviò immediatamente due telegrammi di solidarietà e
ringraziamento, uno indirizzato a Mussolini e uno a Vittorio Emanuele III,
anche se, privatamente, espresse delusione per le scelte del Duce, in quanto
avrebbe preferito che l'Italia attaccasse a sorpresa Malta e altre importanti
posizioni strategiche inglesi anziché dichiarare guerra a una Francia già
sconfitta. In sede internazionale l'intervento italiano contro la Francia fu
visto come un gesto vile, al pari di una pugnalata alle spalle, in quanto
l'esercito francese era già stato messo in ginocchio dai tedeschi e il suo
comandante supremo, il generale Weygand, aveva già impartito ai comandanti
delle forze superstiti l'ordine di ritirarsi per mettere in salvo il maggior
numero possibile di unità. Il giudizio di Churchill sull'ingresso dell'Italia
nel conflitto bellico e sull'operato di Mussolini fu affidato al commento
pronunciato a Radio Londra: «Questa è la tragedia della storia italiana. E
questo è il criminale che ha tessuto queste gesta di follia e vergogna». Quando
venne raggiunto dalla notizia dell'intervento italiano contro un nemico ormai
sconfitto, il presidente degli Stati Uniti Roosevelt rilasciò a Charlottesville
una dura dichiarazione radiofonica: «In questo 10 giugno, la mano che teneva il
pugnale l'ha affondato nella schiena del suo vicino». Piani di
guerraModifica L'entrata in guerra fu la notizia principale su tutti i
quotidiani italiani. I preparativi bellici italiani erano stati delineati dallo
Stato Maggiore dell'esercito e prevedevano una condotta strettamente difensiva
sulle Alpi Occidentali ed eventuali azioni offensive (da iniziare solamente in
condizioni favorevoli) in Jugoslavia, Egitto, Somalia francese e Somalia
britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la dislocazione delle
forze disponibili, non di piani operativi, per i quali veniva lasciata al Duce
piena libertà di improvvisazione. I vertici militari riconobbero l'inadeguatezza
del Paese ad affrontare una guerra ma, allo stesso tempo, non presero posizione
dinanzi all'intervento, ribadendo la loro totale fiducia in Mussolini. L'approccio
del Duce al conflitto appena iniziato dall'Italia si concretizzò in direttive
più o meno frammentarie, che egli indirizzava ai vertici militari: furono
formulate richieste di operazioni nei teatri più disparati, mai trasformatesi
in scelte precise e piani concreti. Venivano a mancare, in questo quadro, una
strategia complessiva e di ampio respiro, obiettivi reali e un'organizzazione
razionale della guerra. Ciò fu evidente fin da subito, quando lo Stato Maggiore
Generale notificò che: «A conferma di quanto comunicato nella riunione dei Capi
di Stato Maggiore tenuta il giorno 5 ripeto che l'idea precisa del Duce è la
seguente: tenere contegno assolutamente difensivo verso la Francia sia in terra
che in aria. In mare: se si incontrano forze francesi miste a forze inglesi, si
considerino tutte forze nemiche da attaccare; se si incontrano solo forze francesi,
prendere norma dal loro contegno e non essere i primi ad attaccare, a meno che
ciò ponga in condizioni sfavorevoli». In base a quest'ordine la Regia
Aeronautica ordinò di non effettuare alcuna azione offensiva, ma solo di
compiere ricognizioni aeree mantenendosi in territorio nazionale, e altrettanto
fecero il Regio Esercito e la Regia Marina, la quale non aveva intenzione di
uscire dalle acque nazionali salvo per il controllo del canale di Sicilia, ma
senza garantire le comunicazioni con la Libia. Come preannunciato nella
corrispondenza con il governo tedesco, dall'11 giugno le truppe italiane
cominciarono le operazioni militari al confine francese in vista della
pianificata occupazione delle Alpi occidentali ed effettuarono bombardamenti
aerei, di carattere puramente dimostrativo, su Porto Sudan, Aden e sulla base
navale inglese di Malta. L'alto comando delle operazioni venne affidato al
generale Graziani, un ufficiale esperto in guerre coloniali contro nemici
inferiori per numero e per mezzi, che non aveva mai avuto il comando su un
fronte europeo e che non aveva alcuna
familiarità con la frontiera occidentale. I vertici militari italiani,
costretti a centellinare le poche risorse disponibili, decisero di muovere le
truppe solo in concomitanza con i movimenti dei tedeschi:[108]l'aggressione
alla Francia avvenne infatti solo quando la Germania l'aveva già praticamente
sconfitta, poi ci fu un periodo di inattività italiana contemporaneo
all'inattività tedesca nell'estate 1940, poi le azioni italiane ripresero
quando la Germania iniziò la pianificazione dell'aggressione al Regno Unito.
Secondo lo storico Ciro Paoletti: «Ogni volta che i Tedeschi si muovevano
poteva essere quella decisiva per la fine vittoriosa del conflitto; e l'Italia
doveva farsi trovare impegnata quel tanto che bastasse a dire che anch'essa
aveva combattuto lealmente e godeva il diritto di sedersi al tavolo dei
vincitori». L'atteggiamento dell'Italia, che «entrava in guerra senza essere
attaccata» né sapeva dove attaccare, e che «addensava le truppe alla frontiera
francese perché non aveva altri obiettivi», venne sintetizzato dal generale
Quirino Armellini con la massima: «Intanto entriamo in guerra, poi si vedrà. Il
Promemoria segretissimo 328 era una relazione, stilata da Mussolini, con
destinatari Vittorio Emanuele III, Galeazzo Ciano, Pietro Badoglio, Rodolfo
Graziani, Domenico Cavagnari, Francesco Pricolo, Attilio Teruzzi, Ettore Muti e
Ubaldo Soddu. cfr. Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra
redatto da Benito Mussolini, su larchivio. Il Servizio Speciale Riservato era un organo,
istituito ai tempi di Giovanni Giolitti, per tenere sotto controllo le
principali personalità del Paese. ^ Diversa, invece, la versione su toni e
parole data dall'ambasciatore francese: «E così, avete aspettato di vederci in
ginocchio, per accoltellarci alle spalle. Se fossi in voi non ne sarei affatto
orgoglioso», e Ciano avrebbe risposto, arrossendo: «Mio caro Poncet, tutto
questo durerà l'espace d'un matin. Ben presto ci ritroveremo tutti davanti a un
tavolo verde», riferendosi a un futuro tavolo delle trattative al termine del
conflitto. cfr. Niente pugnale alla schiena in Internet Archive., in Il Tempo. Di
seguito i testi dei due telegrammi, qui fedelmente riportati secondo le fonti
reperibili. cfr. La Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su
storiaxxisecolo. Berlino, telegramma di Hitler al Re La provvidenza
ha voluto che noi fossimo costretti contro i nostri stessi propositi a
difendere la libertà e l'avvenire dei nostri popoli in combattimento contro
Inghilterra e Francia. In quest'ora storica nella quale i nostri eserciti si
uniscono in fedele fratellanza d'armi, sento il bisogno d'inviare a Vostra
Maestà i miei più cordiali saluti. Io sono della ferma convinzione che la
potente forza dell'ITALIA e della GERMANIA otterrà la vittoria sui nostri
nemici. I diritti di vita dei nostri due popoli saranno quindi assicurati per
tutti i tempi. Berlino, telegramma di Hitler a Mussolini Duce, la
decisione storica che Voi avete oggi proclamato mi ha commosso profondamente.
Tutto il popolo tedesco pensa in questo momento a Voi e al vostro Paese. Le
forze armate germaniche gioiscono di poter essere in lotta al lato dei camerati
italiani. Nel settembre dell'anno scorso i dirigenti britannici dichiararono al
Reich la guerra senza un motivo. Essi respinsero ogni offerta di un regolamento
pacifico. Anche la Vostra proposta di mediazione si ebbe una risposta negativa.
Il crescente sprezzo dei diritti nazionali dell'ITALIA da parte dei dirigenti
di Londra e di Parigi ha condotto noi, che siamo stati sempre legati nel modo
più stretto attraverso le nostre Rivoluzioni e politicamente per mezzo dei
trattati, a questa grande lotta per la libertà e per l'avvenire dei nostri
popoli. Fonti ^ Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Paoletti, Acerbo, Paoletti,
Paoletti, Le Moan, Ciano, Schiavon, Ciano, Ciano, Corpo di Stato Maggiore,
Candeloro, Paoletti, Paoletti, Ciano, Collotti, Ciano, Paoletti, Bocca, Costa
Bona, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Paoletti, Ciano,
Bocca, De Felice, Ciano, Paoletti, Paoletti, Paoletti, Candeloro, Ciano,
Candeloro, Bocca, Candeloro, Faldella, Paoletti, Bottai, Bernasconi e Muran, Rochat,
Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito
Mussolini, su larchivio.com, Candeloro, Paoletti, Rochat, Paoletti, Candeloro,
Corrispondenza Mussolini – Hitler, su digilander.libero.it. Speroni, Ciano,
Candeloro, Felice, Costa Bona, Ciano, Ciano, De Felice, De Felice, Vedovato,
G., et Grandi. Grandi al Duce. Questo è il momento di astenersi dalla guerra».
Rivista di Studi Politici, Felice, De Felice, Paoletti, Paoletti, Leto,
Paoletti, Felice, Faldella, Speroni, Speroni, Faldella, Badoglio, De la Sierra,
De Felice, Il carteggio Churchill-Mussolini? Una traccia nei National Archives
di Londra, su nuovarivistastorica, Paoletti, Ciano, Ciano, Felice, Carteggio
Hitler Mussolini L'Archivio "storia - history", su larchivio. Felice,
Ciano, Lepre, Corpo di Stato Maggiore, Niente pugnale alla schiena, in Il
Tempo, Speroni, Felice, La Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo, Pietrantonio,
L’Italia dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna, su abitarearoma, Santis,
Bocca, Fiori, Mussolini: il discorso che cambiò la storia d'Italia, in
Repubblica, Campagna di Francia, su storiaxxisecolo, Rochat, Rochat, Faldella,
Rochat, Cicchino. Il testo della dichiarazione di guerra, su larchivio.com, Bocca,
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Bottai, Diario, a cura di Bruno Guerri, Milano, Rizzoli, Candeloro, Storia
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catastrofe. La politica estera dell'Italia fascista, Verona, Mondadori, Ciano,
Diario, a cura di Felice, Milano, Rizzoli, Collotti ed Enrica Collotti Pischel,
La storia contemporanea attraverso i documenti, Bologna, Zanichelli, Corpo di
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Ufficio Propaganda, Corpo di Stato Maggiore, Verbali delle riunioni tenute dal
Capo di S.M. Generale, Roma, Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico,
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Quai d'Orsay à la veille de la Seconde Guerre Mondiale, intervento alle
«Journées d’études France et Italie en guerre. Bilan historiographique et enjeux mémoriels», Roma, Ecole Française, Lepre,
Mussolini l'italiano. Il duce nel mito e nella realtà, Milano, Mondadori,
Leto, OVRA-Fascismo e antifascismo, Rocca San Casciano, Cappelli, Paoletti,
Dalla non belligeranza alla guerra parallela, Roma, Commissione Italiana di
Storia Militare, Quartararo, Roma tra Londra e Berlino - La politica estera
fascista, Roma, Bonacci, Rochat, Le guerre italiane, Milano, Einaudi, Schiavon,
La perception de la menace italienne par l'État-Major français à la veille de
la Seconde Guerre Mondiale, intervento alle «Journées d'études France et Italie
en guerre. Bilan historiographique et enjeux mémoriels», Roma, Ecole
Française, Speroni, Umberto II. Il dramma segreto dell'ultimo re, Milano,
Bompiani, Voci correlate Battaglia delle Alpi Occidentali Lista del molibdeno
Occupazione italiana della Francia meridionale Storia del Regno d'Italia Italia
nella seconda guerra mondiale Altri progettiModifica Collabora a Wikisource
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Regno d'Italia e della Germania nazista Lista del molibdeno richiesta
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Cavallero. Roberto Cordeschi. Cordeschi. Keywords: la logica della guerra, la
guerra del fascismo, Croce, sperimentalismo italiano, mente, homo mechanicus,
Turing, Craik, artificiale e naturale, filosofia, rappresentare il concetto,
logica matematica, reiezione in Aristotele, predicate, significato,
communicazione, creativita, informazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cordeschi” – The Swimming-Pool Library. Cordeschi.
Luigi Speranza -- Grice e Corleo: all’isola
-- la ragione conversazionale – scuola di Salemi – filosofia trapanesi – filosofia
siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salemi). Filosofo trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Salemi,
Trapani, Sicilia. Grice: “Corleo is a genius --
His keyword is identity, the Hegelian type, and that’s why he attracted
Gentile’s attention! But my favourite is his excursus on language! He talks
like a veritable Griceian – about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the
spontaneous cry to seek attention, Romolo from Remo, say – He very much
elaborates on the subject and the predicate and the copula, and the other parts
of speech – But he retains an empiricist, evolutionary viewpoint with which I
wholly agree!” Studia
nel Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un
seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana.
Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”. Durante la spedizione dei mille, fu nominato
da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio:
“Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di
Salemi. Altre opere: “Meditazioni
filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia
dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario
biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente dall’esperienza e
dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio affermativo (S
e P) o giudizio negativo -- S non e P --, giudizio condizionale -- Se p, q --, giudizio
tetico -- S e P -- giudizio ipotetico --
si p, q --, giudizio disgiuntivo -- p v q -- e via via. Poichè,ogni proposizione o
giudizio, semplice or complessa, debbe congiungere un predicate ad un soggetto --
S e P -- o negare un predicato ad un soggetto -- S non e P --, e ciò non può
farsi altrimenti che in forza della identità parziale o totale del predicato
stesso col soggetto, ovvero del contrario o contrapposto del predicato in caso
di giudizio negativo, sia cotesta identità assoluta, o sperimentale, sotto
condizione, problematica, o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso
di giudizi che serve a scoprire una verità incognita per mezzo di una verità
nota, o a dimostrare il nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il
raciocinio deve esser fodato sulla medesima legge d'identità, che costituisce
l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni passaggio da una verità ad
un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato dalla connessione che deve
esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si può dall'uno inferir
l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal noto all'ignoto, e
molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri conosciuti. Or,
questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà strano che la
connessione si debba risolvere anch'essa in identità; ma riflettendo con
attenzione, si scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere altrimenti. Se
S è connesso con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma importa invece
che ambidue sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti integranti del tutto
S-P, di guisa che la loro connessione non *significa* o signa altro, che il
loro legame necessario per la formazione di quel tutto complesso proposizionale
– “S e P” -- onde se essi non fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel
tutto non sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico alla somma delle parti
che lo costituiscono. Due o più giudizi, tra loro connessi, sono parti
integranti di un giudizio di maggiore estensione che tutti li abbraccia, ed è
identico con essi come il tutto è identico con la somma delle sue parti. Laonde
non può esser vero l'uno senza che sia vero l'altro, perocchè in diverso non
sarebbe vero quel giudizio maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi
subalterni dai quali è costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad
esaminare ogni teorema geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in
genere e delle varie sue specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione
tra cotesti teoremi, nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di
seguito; onde essi si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima.
Essi non sono che le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di triangolo
e delle sue specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto
complessivo sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora
nemmeno avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna
delle sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di
nesso a costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella
identità di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni
sul raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè
l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la
connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un
ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto
dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come
sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto
connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più
larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio
maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso
opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale
riunire per necessità le parti fra di lor, senza di cui egli non potrebbe esser
quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri connessi a
quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale li
identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non ci
contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per mezzo
di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno essendo
vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in qual
giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la identità
di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il raciocinio
analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione dei
singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono appunto i
giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli s'identificano come
parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione non è che l'identità
del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il cui necessario legame
egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è dimostrativo, quando
serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare niente altro è che
legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione pertanto vi è, perchè
i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si raggruppano in unico
e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia come tante sue parti:
onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un predicato P col suo
soggetto S, all'identità parziale dell'altro predicato P2 con l'altro suo
soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi tutti costituiscono un solo
subbietto più esteso, che di tutti quei predicati si compone, e che perciò è
identico con la loro somma. Un subbietto subalterno non potrebbe concorrere
alla costituzione del subbietto totale, se non possedesse quel tale predicato e
se gli altri subalterni non possedessero quelli altri predicati; onde la
connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri gli altri, ed *implicitamente*
deve esser vero il giudizio totale, con cui tutti s'identificano. È inventivo e
non dimostrativo il raziocinio, quando, dalla verità che si conosce, si passa a
quella che s'ignora; ed anco in tal caso la ragion del passaggio è fondata
sulla connessione, e perciò sulla legge d'identità, in quanto che dalla
identità parziale che si conosce, si sospetta prima e poi si scopre la identità
totale. Per causa di alcuni punti d'identità o di parziali somiglianze tra un
fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile* identità dei loro elementi
in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In questo caso vi ha l'*ipotesi*
o supposizione, che annunzia come *possibile* identico totale quello che
tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza dei punti, della cui
identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la medesima identità
con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in altri simili. Ed
allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della identità di tutti gli
elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una legge e l'altra, e si ha
perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o non si giunge ad
accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui però dobbiamo
renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale, nella ipotesi o
supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per poterla
trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio
dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la
*testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni
giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è
composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la
connessione dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale
di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve
giungere in forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio
inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè
fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata
dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti,
nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il
giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno
divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta
dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle
parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli
elementi proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque
passaggio dalle verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità
assolute ed ai raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel
conoscimento delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi
sperimentali, ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti
parziali ed il subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso
solo. È questo il doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e
necessaria dei fatti sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li
costitui scono, e lo svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti
subalterni, che sono del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza
del raziocinio non può essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra;
essa consiste nel passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che
la costituiscono, o dalle identità parziali alla totale per mezzo della
scoperta di quelle altre identità parziali che sono con loro connesse per compiere
l'identità totale. Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei concetti, della
doppia identità delle parti e del tutto per avere ragionamenti rigorosi; e non
potendo giungervi per mezzo dei concetti, assicurarsene per mezzo della esperienza.
In questi due soli modi è possibile il raziocinio. Chi cura soltanto la forma
esteriore del ragionamento e ripone la logica nello studio delle leggi della
FORMA LOGICA, non prende di mira lo scopo vero del raziocinio, che è l'accertamento
della identità de' giudizi connessi col tutto di cui sono parti; e perciò corre
l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert, che non è mai garanzia sicura di
esatti ragionamenti. Or, perchè mai i subbietti di tali giudizi son dive nuti
concettuali e perciò includono necessariamente i loro pre. Tre sono state le più
grandi logiche formali. La prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta
dal particolare al particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari.
La seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i
particolari si presentano con caratteri di necessità, empirico se si presentano
soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad
altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione
dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono
le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che
ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni
naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato
dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come
Porfirio e BOEZIO, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone,
e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato
la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come
idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di
universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie dalla
classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste
argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o
inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che non
posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al
vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare
all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di
particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè
questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine
fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o
identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un
altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano.
Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici, conchiudendo dal generale al
particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai
verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið
ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e
perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal
l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra
parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può
accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in
modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre
essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel
concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve
notare, che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi,
o spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e
volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo
in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto
vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto
ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o
di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo
di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che
hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali
abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È
allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo.
Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente
nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari
simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si
cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second,
si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto
particolare e gli altri dello stesso genere, alla loro totale identità. Perchè
moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque
selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione
baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo
numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo
generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di
parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed
all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli
elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione
di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene
l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano
anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è
necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma
delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il
tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai
all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di
ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente,
perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette
forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali
ad altre parziali, o peggio, ad altre total, senza assicurarne la totale
identità. rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde
composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia
decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la
quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle
percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse,
non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un
doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente
e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da
sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria
riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge
dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per
non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da
sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto
concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto
riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in
mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi
l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il
predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in
tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati
dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni,
non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente
si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e
diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica,
e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela
borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di
elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono
per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca
o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola
della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli
elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta
nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale
idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del
raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea,
come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante
di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà
sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge
logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio. Nello stesso modo,
un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa
con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel
ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gl’errori di esperimento si
correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne
occupano. Gl’errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed accurato
esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle
rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame
delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio
lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi
che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella
stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del
l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che
la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve
essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità: così
soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli
che non convengono; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra
quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal
modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo; ed in ciò
consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica, duce il Locke, aveva
già compreso la necessità dell'esame delle idee, all'oggetto di non ammetterle
soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza, necessità,
universalità ed assolutezza, con cui s'impongono. La disposizione che si dà al
complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare,
sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero
altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i
suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo
sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di
fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante
la regola della doppia identità parziale e totale. Onde il vero metodo
scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola,
nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati
scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità, e se non mirassero
al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali,
concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare
alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione
necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi
delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di
condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare, senza alcuna
ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee.
Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde, in vece della vera
origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee, diede spesso
supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime, e sopra tutto
delle idee morali, col preteso stato naturale e col contratto sociale. Tutte
quelle idee che non potè giustificare coi sensi, le rigetto, o le ammise alla
credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i
posteriori idealisti, visto l'inte lice esito dell'esame, son tornati ad
ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri che
s'impongono alla nostra ragione, sia ritenendole verità prime indiscutibili ed
indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune); sia supponendole
forme assolute del pensiero quidquid
recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ); sia riputandole
innate e facienti parte del nostro intel letto, almeno in una prima idea fondamentale,
quella dell'essere (*scuola rosminiana*); sia ammettendole come frutto
d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart); sia credendole
comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole
giobertiane*), o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri
di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana
), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola
di Schopenauher ), o attuazione inconscia (scuola di Hartmann ). Tutti
supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni, o a dogmi, per
dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè
stesse, nei loro attuali elementi costitutivi, adducendo a prova della
impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici, i quali
ebbero bensì il buon volere, ed anche la presunzione dell'esame, senza mai
averne studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche utili.
Laonde è d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment
ammesse, per inferirne le bramate conseguenze. Or se è vero che percepire
distintamente, sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare,
ideare, giudicare, connettere e ragionare, non sono altro che più o men
largamente identificare le parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente,
in forma sperimentale o in forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur
troppo evidente che, per potere scorgere l'identità più prontamente e con
maggiore chiarezza, sarebbero assai utili due cose. Primo, abbreviare e
ravvicinare tra loro con SEGNI le percezioni ed i loro elementi, le idee ed i
loro elementi. Secondo indicare con segni le successive operazioni che vengon
fatte spontaneamente o riflessivmente sui detti complessi e loro elementi.
L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono scienza, ma sono potenti mezzi di
scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano le idee e le operazioni su di esse
fatte rendendo più facile e più sicuro il colpo d'occhio su di loro per
scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè non sarà possibile una logica
aritmetica o matematica per agevolare la conoscenza delle identità parziali e
totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio della intelligenza? Non vale il
dire che nell’aritmetica e la geometria si tratta di rapporti tra sole
quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi e le operazioni
identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero trattare molti
altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente, e perciò
l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire questo;
poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune,
l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa
crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra.
Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella
identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni
dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi
ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo
non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno,
costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le
operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non
occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere
alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i
loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere
minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri
conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente,
potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno,
eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o
aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo –
la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare
un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a
stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio
ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo
dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti
stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore
e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di
fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio
superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica
il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i
complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo
stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro
elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica
che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali.
Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale.
Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà
più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che
convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano
la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano
l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una
catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che
voglio negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco
così la serie dei segni principali: + più, meno, = uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’
simile, 1 identico, ^ identico parziale,? dubbio, 000 connesso, (II) in
contatto, et etcetera, -1-- non simile, ^ non identico,?- non dubbio cioè
riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso,
percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e sintetizzato,
!! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi spontanea e
riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la parte a. | A
la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da quello di
riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei giudizii e nei
raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i due spazî, che
segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i suoi elementi
si rappresentano così ovvero al ovvero A:, ovvero secondo chè sieno più o meno
distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha una delle due
formole: 10 AA? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B? A A? Bİ, non
è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica certamente, 1
-?-; 2º Aja?, l'elemento a fa parte dell'idea a _?. o della percezione A? La
risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde? с a hg an. Or,
dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali, с de cioè
l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli altri
elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della
connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è
l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è
necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero
il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^()()(). Con
le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e
possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione
e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di
connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento
erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $
56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa
dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un
altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio
ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h
g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono
parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici?
Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali
identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione
tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due,
o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei
due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o
per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha
passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno
d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità
col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello
di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento
prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il
formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di
mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son
limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di
reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli
con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del
concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro
eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in
tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso
in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in
questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile
la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò,
lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle
singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale.
Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere
qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o
un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter”
-- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo
esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome
il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser
pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione*
da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di
suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o
concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui
che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro
quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere,
cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia
volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion
di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o
pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio
co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto,
cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno
per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico,
assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione
convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima
espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di
communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato
segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee
co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una
proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”),
il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della
esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione
il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che
s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta
naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque
non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca
stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto
spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien
pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè
ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il
segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far
nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione
e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo
solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose
per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi
stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci
rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione
comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola
sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse
nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli
segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee
astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne
analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi
incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle
percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si
analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili
e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e
ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un
momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che
fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione,
anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e
di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno
articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un
segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta
per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per
altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il
concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza
confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per
signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco
sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec. Vi sono poi delle parti di percezioni
che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno
per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o
il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un
colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di
essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un
segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per
richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han
bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’
“onore”, il “dovere”, ec. Cosi anche e
il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec. É
in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se
vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno,
particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere
reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene
l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il
legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice
(“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa,
come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille
modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma
indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni
derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per
citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo
vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno
sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno
come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il
segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”,
“amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il
mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al
recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza
grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e
siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una
proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno
articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio
(di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo
nella sintesi, nell’analisi e
nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per
mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il
sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il
suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti.
Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o
communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per
fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al
primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette
tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione,
fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma
genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii
innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem
col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa
dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in
tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione
dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica
religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del
segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a
dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al
linguaggio, e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo
appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò
adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico, e porrò così il
quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque
guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre
bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe
questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai
uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò,
essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia
stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente
consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o
signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle
rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica
o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la
necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta
analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere
la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza
volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si
combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta.
Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi
voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al
problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si
domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente
esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile:
nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce
grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può
signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche
facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza
dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso
l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”),
il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col
porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio
completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza
l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha
preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa
mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è quest'altro.
Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un primo uso di
un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di un'astrazione (o
articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha bisogno dell'uso
del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono a vicenda, in
modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si guardano *sinteticamente*
dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento, non pajono più naturalmente
spiegabili, e comparisce quella specie di circolo vizioso, di cui si parla
inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo sviluppo pieno dell’altra,
ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non si sa più qual delle due
debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal fatto bisogna
incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento men complicato
e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza mutua, e come
mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo un’obbiezione ben
facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per poter determinare
qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare communicamente in Romolo e
Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia una base sufficiente per
poter sostenere che il segno communicativo più antico e più elevato e più ricco
di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto del signare
comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo
esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio non mi credo autorizzato a dare una soluzione
diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori,
e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non
entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il
primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita
di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame
storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato
filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente
arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per
mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente,
naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un
arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò
che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno
più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due
uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --,
quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve essere
per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del genero
segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine necessita.
Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico,
assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo
un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di
segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per
sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di
arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare*
(transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo
essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato,
segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti.
Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’)
i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow
wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino
italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come
la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma
anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che
l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma
quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le
possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una
cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella
può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono
qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta
(l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o
iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente
emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma
intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato
(‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento
l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare,
i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale
-- che costituisee la communicazione e
la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la
prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque
altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien
segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano
che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno
articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della
pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende
da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che
il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora
(“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do
alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso
potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito
la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un
pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono
qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che
potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più
involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o
pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo
la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo
“o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo
arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua
divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più
semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna,
signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e
presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che
cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale
il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è
ottenuto. Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione
comunicativa alcuna richiama l’attenzione dell’altra parte della diada
conversazionale. Ciò che si è dapprima, one-off, ottenuto senza intento
communicativo o intenzione communicativa, può la seconda volta esser voluto *di
proposito*, voluntariamente, -- def. di verbum in Aquino -- per la utilità che
se n’è ricavata: ripetendosi dunque avvedutamente lo stesso segno, quello è
divenuto un vocativo naturale. E noi osservammo che appunto questa vocale “o” è
il vocative nella Roma di Remo (o tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio
mutuo o duale dunque non nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di
un'effetto o risponsa, che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per
imitazione, consigue. Volendo di nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto
o la stessa risponsa, non ci vuol’altro che ripetere un altro specimen del
stesso genero di segno (“o”). L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando
vi sono tante possibilità d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar
luogo spontaneamente a un arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono
assoluto che sia impossibile l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza
della utilità del segno medesimo? Non dico che l’atto del signare
communicativamente nacque in questo o in quell’altro modo. Dico che vi sono
moltissime possibilità tutte *naturali*, nelle quali l'uomo può avvertire
l'utilità dell'uso di un segno articolato per l’effetto o la risponsa
spontanea, no intenzionata, che ne ottiene, e senza il bisogno di un preventivo
arbitrio duale. Basta questo per distruggere a rigor di logica le basi tutte di
quell'edificio che si vuol fondare sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa
senza prima aver conosciuto l'uso e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto
ebbero forse insegnato da Dio l'uso del atto di signare communicativamente, con
che communica (o transferre) il suo bisogni, la sua gioia, il suo pericolo, la
domanda del soccorso? Forse non vediamo fin dal loro nascere i varii animali communicarsi
per mezzo di un segno, per lo più *istintivo* -- che causa una risponsa
istintiva, i diversi loro stati? Non puo il brutto perfezionare il suo atto di
signare communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di
analizzare gli elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre,
siccome vedremo a suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o
stimolo, in esito al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta
volontariamente; e tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la
libertà del movimento per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi
ha una specie di “tacito” arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto
ottenuto o la risponsa ottenuta una volta, per ragion di associazione o
co-relazione iconica istintiva associativa, fa appunto le veci di un arbitrio
duale. Se dunque questo segno inferiore è possibile nel bruto, il quale non
astragge, perchè lo stesso principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è
possibile fra due uomini! Un uomo, che ha la piena capacità di astrarre,
riconosce più facilmente l'utilità dell’effetti ottenuto o della risponsa
ottenuta dall’altra parte della diada conversazionale, e si crea l'idea
generica del arbitrio duale del segno, dalla quale discende poi come
conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco, illimitato, creativo, e
di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne, in ragion di questa o
quella percezione, o in ragione di questo o quello concetto astratta. Concepita
una volta l’utilità dell’uso del atto di signare communicativemente, del segno
articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro che possedere in fatto la
capacità di variare e combinare *indefinitamente* in modo aperto e illimitato,
l'articolazione e la operazione di questo o quello segno primitivo, e l'uomo
possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo adunque può, da un certo
numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a *stabilire* un arbitrio
duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale del segno, poichè da un
fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e l'idea generica; e
possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di questo o quello
segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto il resto. Quantunque
il segno che compone l’atto del signare communicativo e per arbitrio muto, pure
siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre elementi delle
medesime (S, e, P) ed i concetti astratti, debbono quindi ritrarre le proprietà
fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono avere fra ogni
percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e diverso il
segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il medesimo
segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o
dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che
e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un
risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo,
perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che
equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione
sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che
è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare
communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione
risultante in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” –
Varrone, verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in
verità, tutto quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce,
e perciò il segno del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni
proposizione si aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene
un'analisi, la mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un
segno che non e un verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione
risultante signata dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante*
e non basica, e composte della combinazione di questa o quella azione
sostanziali intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro
fondamento in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo*
(la copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla
che nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della
classe del segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in
ogni atto di signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il
verbo “essere”, al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo,
decomponendoli in “copula e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante.
Ed è notevole che ogni segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi,
perchè denota un’azione che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti
in un segno di verbo fondamentale che è intransitivo, o come i modisti dicono
neutro – epiceno, mezza voce --, cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è
veramente transitivo é la forma del risultato, ma ognuna delle azioni
sostanziali componenti è intransitiva. La sintesi e necessaria e l'analisi e
necessaria, perchè una percezioni e complessiva e costa di questo o quello
elemento, che colla riproduzione, sovrapponendosi gli uni agli altri, si
sintetizzano nel punto simile e si analizzano nel punto dissimile. Bisogna
dunque che ogni segno indica un composto o complesso proposizionale, e che ogni
segno articulato composito e de-compo nibili. Però, siccome gli elementi di
ogni risultato e una azioni sostantiva, perciò è necessario che ogni segno si
puosciogliere in un segno solo che indica l’azione sostantiva, non come occulta
(sub-stantia), ma come realtà, cioè come essere, onde il *nome* (nomen, onoma –
nomen substantivum, nomen adjectivum) non meno che il segno del verbo, si
sciolgono tutti nell'essere, il quale è verbo e nome allo stesso tempo, ed è
appunto verbo sostantivo, perchè indica un’azione che sta per sè stessa, e che
non ha bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine addiettivo e ogni altro segno
sin-categorematico che indica quantita, qualita, relazione, o modalità o
relazione, ra-presentano la composizione, il risultato, la combinzione di
questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè sole, ma ha
bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su cui debbono
appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque suo modo di essere
non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro che la somma
medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione è una
forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente, quindi è che
tutte le parole indicanti modd lità, quantità e relazi ni, conie gli avverbii,
le preposizioni, le congiunzioni, gli aggettivi, ec. non sono riduttibili al
solo verbo essere, nè al solo nume essere, a differenza del segno del verbo e
del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo sostantivo “essere”. Nel
tempo stesso non possono sussistere per sè, ed han continuo bisogno di questo o
quello essere (il S, il P), perchè la composizione non può stare senza di
questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo la differenza che passa
tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la relazione, e la
modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione medesima, e
quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di questa o
quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e principalmente il
verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono, indica la
collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome aggettivo, il
segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la preposzione (in
latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e, adversative, ma), ec.
indica come questa o quella azione e disposte, e che relazione ha fra loro, in
ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di azioni è un *risultato*
che subisce questa o quella modificazione (declinazione, congiuggazione) secondo
i cangiamenti parziali del numero (singolare, duale, plurale) e della posizione
di questo o quello componento, cosi vi ha una sintesi fondamentale in ogni
parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una continua analisi di ogni
parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e necessario il segno radicale
che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè, il fondo permanente
dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua desinenza (uomo, uomni,
pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo definito (il – ille, la --
illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per indicare ogni variazione e
accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale di questa o quella aziona si
effettua. Il atto di signare monosillabica dei cinesi supplisce a ciò coll’accozzare
diverse sillabe, cioè diverse segni, di cui ognuna esprime una idea, e tutte unite
esprimono un complesso. Una idea fissa si esprime con un signo fisso. Una
segnato variabile si esprime con un segno variantie. Sorge da ciò la necessità
del segno derivativo, del segno della desinenza e del segno del prefisso,
infisso, e suffisso, come anche la necessità di trasformare in maniera
avverbiale un nome e un verbo, e di operare ogni cangiamento di preposizione in
verbo ed in nome, dell’aggettivo in sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la
forma fondamentale, ogni mutamento di forma debbe esprimersi con cangiarli secondo
il bisogno e secondo la relazione che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni
ed un'altra. Finalmente vi ha un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del
discorso, ed è quella del giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo –
indicativo, imperative -- in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da
un giudizio all'altro per mezzo di una connessione, così la proposizione prende
forma concatenata e compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo
s'incatena con quello periodo e forman un discorso. Però è no ievole che
l’operazione dell'analisi e l’operazione della sintesi spontanea non puo
altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”, cioè di giudizio o
volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo anche un segno solo,
considerata nella sua radicale o nella sua derivazione, indica benissimo l’operazione
analitica che vi è dentro. La ragione, per cui non si può annunziare ad altri,
che sotto forma di giudizio, una completa operazione di sintesi e di analisi,
si è appunto questa, che quando si annunziano ad altri cotali operazione di
sintesi o analisi, vi è di già il concorso della riflessione, e perciò non si
annunzia altro che il risultato ultimo della sintesi e dell'analisi riflessa, il
qual risultato e il giudizio e la volizione, ambe due con contenuto
proposizionale. Onde si ha che nello singolo signo si rappresenta le sintesi e
le analisi spontaneamente fatte, e nel complesso si rappresenta il risultato
totale, che perciò appunto veste la forma di giudizio o volizione con contenuto
proposizionale. Da tutte queste osservazioni emerge che il segno e la sua
costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese d’Italia -- debbe avere una
forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme variabile (semiotica
componenziale), siccome il risultamento organico subbiettivo ed il risultamento
esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una forme variabile, poiché il segno
debbe necessariamente prendere lo stesso aspetto del segnato. In ogni segno
possono riguardarsi due parti distinte, cioè il segno e la costruzione del segno.
Ogni segno è segno di una percezione, o di una parte di percezione, o di
un'idea o concetto (signato). La costruzione del segno ra-presenta ogni
relazione che ha questa o quella percezione, questa o quella idea, questo o
quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro del grado delle
conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la ricchezza del
repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione indica quante
percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente, ed in quante
maniere sa metterle in relazione fra di
loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza studiata sino
al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una percezione sola o
una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere se mai una di tale
segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo stare attento alla *forma*
del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche dalla forma della
costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare col segno che si
adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma forse la causa del
fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un segno sia
adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato (equivocazione), è
necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato solo; poichè non è
presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico (equivocazione
– para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di usare un segno
solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per far nascere la
dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare. Allorchè dunque
si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno proprio, il
segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o concevire un
segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa svegliare
l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare). Allora
l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile novello ch' è
ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più di tutto
nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’), a cui mano mano un emittente
si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto più è possibile,
somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del traslato: un
segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo spirare), è
adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa qualche
somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione
di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi
sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio
duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure
al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del
signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a
ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente,
quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza
del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla
precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che
propriamente esprima ciascuno dei segni, che essi adoperano per indicarle. Ma
il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte
meditazioni, e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso. Inoltre
gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto
più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano,
non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile
IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione
delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria
il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione
segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo,
si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio,
ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il
traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel
segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando
la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come
pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente,
quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la
corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un
segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità,
perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto
meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una
pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso
bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii
è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed
emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho
e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro
l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato
e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono
esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di
traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono
adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un
repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni
(perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma
stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata
nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o
allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un
segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni
indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con
ambidue uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo
radicale che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere
di radice originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono
chiamarsi il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio
delle forma con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la
ricchezza delle forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente,
molto più quando non è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i
segni di più avanzati nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso
numero di vocaboli proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà
del segno: onde esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e
adoperano al bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio
all’esattezza scientifica, ma quanto sono rigorose, tanto son più fredde,
poichè non si confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra
qualunque segno avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente
i di tal sorta non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò
porta l' impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che
appartennero all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo
hanno acquistato segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un
traslato o di una metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto
proprio (By uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my
pride and joy). Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre.
L’emittente e ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel
repertorio di forme poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo
segna, e perciò le relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più
semplici, e sempre più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o
proposizione: soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur
fare intorno a queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più
abbondante di figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il
segnato per come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro
costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione
sostanziale, l'azione sostanziale stessa, ed il suo oggetto, non van sempre in
ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato
coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte
trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più
abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più
ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del
giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un
emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo
la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più
conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è
divenuta più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione
stessa che ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye
da ciò che al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha
bisogno di esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni
o nel calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella
stessa costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la
spontaneità dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si
presta meglio alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e
nell'oratoria ha bisogno di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare
il loro effetto dalla varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo
a particolari confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta
semiotica generale. Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono
dalla natura stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal
corso delle loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente
debbe esser quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile
figurato e dei traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando
è necessaria. L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme,
se non che in un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla
medesima lingua dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione,
dall'epoca della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però
in tal caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema:
l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo
emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta
sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro, i quali
adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro. Wikipedia
Ricerca Affezione Lingua Segui Modifica Il termine affezione (dal latino
affectio, sinonimo di affectus) nel linguaggio comune è usato nel significato
di "affetto", inteso come un sentimento di benevolenza verso il
prossimo, di intensità minore della passione. In filosofia il lemma
indica tutto ciò che avviene nell'animo determinandone una modificazione:
l'affezione è ogni «fenomeno passivo della coscienza», ossia la condizione in
cui si trova chiunque subisca un'azione o una modificazione[2].
AristoteleModifica In Aristotele, in senso generico, l'affezione è ciò che si
contrappone all' ἔργον, (azione): il πάϑος, il "patire", una delle
dieci categorie che si possono predicare dell'essere. I sensi producono
affezioni con i dati sensibili, che provengono dagli oggetti esterni,
sull'anima, che come una tabula rasane viene impressa, dando luogo così all'inizio
del processo conoscitivo. L'affezione può anche riguardare un
cambiamento di stato, cioè «una modificazione o carattere sopravvenienti a una
sostanza, come l'essere musico o l'essere bianco per l'uomo» In senso più
ampio, sempre in Aristotele, poiché dagli oggetti esterni provengono quegli
elementi che provocano nell'anima modifiche non solo sensibili ma anche
sentimentali come il piacere, il dolore, il desiderio...ecc., le affezioni
coincidono con le "passioni" della sfera etica Quest'ultimo
significato si ritrova anche in Cicerone, che adotta affectionescome sinonimo
di perturbatio animi o concitatio animi. Anche Agostino d'Ippona usa i termini perturbationes,
affectus, affectiones come sinonimi di passiones. La funzione delle
affezioni. Nella storia del pensiero la funzione delle affezioni viene
considerata in tre diversi modi: con Platone e il platonismo, poiché il
comportamento buono si basa sulla conoscenza del vero, le affezioni sono
dannose perché influiscono negativamente sia sulla conoscenza che sul
comportamento morale. Su questa stessa linea di giudizio sono Cartesio,
Spinoza, Leibniz, e soprattutto Hegel, che fanno rientrare le affezioni — sia
per la conoscenza che per la moralità — nell'ambito della false o confuse idee.
Nella filosofia aristotelica e in quella epicurea le affezioni sono valide
nell'ambito conoscitivo, poiché i dati sensibili ricevuti passivamente dal
soggetto sono sempre veri, mentre falsi sono i nostri giudizi anticipatori
(prolessi) delle sensazioni vere e proprie. Le affezioni sono valutate
positivamente anche dal punto di vista morale, poiché non esiste uomo senza
passioni, quindi il problema non è quello di eliminarle ma di moderarle
(μετριοπάϑεια). Con lo stoicismo le affezioni sono ineliminabili dal punto di
vista del processo conoscitivo, mentre vanno messe da parte nei comportamenti
morali, che non devono essere compromessi dalle passioni. Il saggio è colui che
raggiunge l'apatia, l'indifferenza alle passioni. Kant Secondo Kant, per le
nostre intuizioni è indispensabile che il nostro animo sia "afflitto"
(affiziert, "affettato") dalle affezioni. Quella della ragione
sarebbe una falsa conoscenza senza le affezioni sensibili. Se invece noi
intendiamo le affezioni come passioni allora il loro ruolo è puramente
negativo: esse sono, non diversamente da quanto aveva inteso Cartesio, «cancri
della ragion pura pratica, per lo più inguaribili. Il concetto di
affezione tuttavia fa nascere nella dottrina kantiana un problema relativo alla
dicotomia fra fenomeno e cosa in sé. Se l'affezione è tale nel senso per cui i
sensi del soggetto vengono modificati dall'oggetto, poiché spazio e tempo sono
parte della nostra intuizione sensibile come "a priori", indipendenti
dall'esperienza, e il noumeno è per definizione inaccessibile ai sensi, dove
mai l'affezione fisicamente modificherà la nostra sensibilità? Kant per uscire
dalla difficoltà parla allora di affezione come il risultato di un rapporto
causale, intellettivo e non intuitivo sensibile, tra l'oggetto e il soggetto
percipiente. Le categorie senza intuizione sono vuote, ma l'intuizione empirica
senza le categorie non porta ad alcuna conoscenza. NoteModifica ^
Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente; Enciclopedia
Garzanti di Filosofia alla voce corrispondente Aristotele, De Anima,
Aristotele, Metaphisica, (in Sapere.it alla voce "Affezione") ^
Aristotele, Rhetorica, Cicerone, Tusculanae Agostino, De civitate Dei, La
passioni sono una "malattia" della razionalità. Sono utili per la
vita come l'istinto di sopravvivenza ma impediscono la serenità dell'uomo
razionale. (In Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti, Dizionario
Treccani di filosofia alla voce corrispondente ^ I. Kant, Critica della ragion
pura, Estetica trascendentale Cfr. I. Kant, id., Dialettica
trascendentale ^ I. Kant, Antropologia pragmatica Kant, Critica della Ragion
pura, Analitica trascendentale, 24 Voci correlateModifica Modo (filosofia) «affezione» Portale Filosofia. Intelletto
facoltà della mente di intendere e concepire Critica della ragion pura
libro del 1781 di Immanuel Kant Pensiero di Kant Wikipedia Il contenutoSimone
Corleo. Keywords: filosofia morale, filosofia dell’identita, filosofia universale,
meditazione filosofica, logica, antropologia, sofologia, noologia, noetica-estetica
-- linguaggio ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza,
l’universale ontologico, la categoria come universale ontologico, segno,
signare communicativamente, segnabile, sensibile – nihil est in intellectu quod
prius non fuerit in sensu -- segnato, emettente, repertorio di segni,
repertorio di forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio pre-convenzione,
pre-consenso mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah,
peccora, conversazione adulto-bambino, il vocativo “o” emesso sense intent
communicative – signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea,
scenario ii. Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e
le categorie agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione,
modalita. Il nome sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la
congiunzione, il vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione
semplice “S e P” – modelo filosofico dello svilupo del signare
communicativamente – dello spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale,
l’idea di un gesto come SEGNO di una affezione dell’animo – DUALISMO? Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Corleo” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Cornelio:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Giove, Ganimede,
e Prometeo – scuola di Rovito – filosofia cosentina – filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Rovito). Filosofo cosentino. Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Rovito, Cosenza, Calabria. Grice: “I love
Cornelio – he has a gift for titling his treatises: gyymnasma!” “My favourite of his gymnasmata is the one on what he calls the
‘generation’ of ‘man’ – in Roman, ‘homo’ is said to come from mud, humus – and
this is strange because Prometeo created man out of mud – In Rome, the more
Catholic your philosophy is, the more ‘Aquinate’, as it were, the less Hegelian
and Platonic – so trust an Italian philosopher to believe in the Graeco-Roman
myth of the ‘generation of man’ than the story of Adam’s spare rib, etc.!” Si forma alla
scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche diTelesio, molto studiato nei
salotti. Studia a Roma, approfondendo e facendo proprie molte tesi galileiane.
Conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui fu erede il suo tutore
Severino. Insegna a Napoli, portando la filosofia di Cartesio e di Gassendi.
Nel “Pro-gymnasmata physica” sono esposte la sua teoria filosofiche. Altre
opere: “Pro-gymnasmata physica”; “Epistola ad illustriss. marchionem Marcellum
Crescentium”; “De cognatione aëris et aquae”; “Epistola Ad Marcum Aurelium
Severinum”. Dizionario biografico degli italiani. Quæ in hoc volumine
continentur animalium conformatio ex inspectione er ex aque, ac terre expira
ouorum percipi facile patest tionibus
ætheri permiftis con animalium ex semine conformatio de stituitur scribitur aer
ob vsum respirationis recentari de animalium pars primigenia non iecur neque cor,
neque fanguis ter præter modum diſtraktus aut com animantes exſectis teftibus
quandoque preffus vite animalium et ignis con filios generant. fernationi
inutilis antiquorum varix de.rerum initijs opi aer nisi vaporibus aqueis
permiſtus re niones spiritioni inutilis apoplecticorum et ftrangulatorum aer
infra aquam demerſus à fuperftan mitis est exitus tis aqua pondere comprimitur Aqua
frigore concreta rarefcit, et in ma. Aeris in reſpiratione quis vſus. iorem
molem ampliatur. aeris per neceſitas tum ad vitam ani aqua quomodo in vapores
foluatur malium tum ad ignem conferuan in glaciem concreſcat dum Aqua fenfu
iudice neque contrahi,neque Aeris grauitas diftrahi potest Aeris color
caeruleus onde aqua triformis Arris, Aquarum pondus fub eifdem Aquis ineſſe non
poteſtnotabilis quanti demerſi curnon ſentiamus. tas aeris Akris compreffio,ea
diſtractio nifi æthere Archimedes ingenj doctrinæque prin admiſſo nequit
explicari ceps Aeris ex aqua generatio Ariſtoteles animaduertit in generatione
Aztheris ſubſtantia omnino admitten diuiparorum fieri.conceptus ouifor da
Alibilis fuccusad cor confluit Aristoteles ab attico platonico philo animalia
amphibia cur sub aquis distid fopho notatus si le ſine spiritu viuant
Aristoteles cur priuationem inter prin Animalia pulmonibus prædita cur niſi
cipia numerauerit reſpiraverint citiffimemoriuntur Aristotelis de loco
fententia improba animalia, quæ interclufo fpiritu fiiffa cantur dexterum
cordis ventriculum, Ariſtotelis principia diffentanea. pulmones babent multo
fanguine Ariftotelis quàm galena doctrina de ge refertos. neratione animalium
fanior ar mes tur arteriæin vteros prezrintinm perti mentuan mentes
frequentiores, ampliores Calor omnis animalium eflà Janguine fiunt Aiteris non
moventur à ri pulſifica eiſ- calor nonnunquam diſſimilis nature cor dem à corde
communicata, fid ab im pore congregat pulfu fanguinis Calore corpora non
femperrarefiunt, Arteriæ omnes eoderntemporis puncto Calore cur omnia diffoluantur,
atque li. ab impulſu fanguinis mouentur, tam queſcant que cordis proximefunt,
quam quæ à Caloris naturaex Platone explicatur corde longiſſimèabfunt. Cauernæ in
quibushomines fuffocantur, arteriarum venarumqueplexus, atque ignisextinguithi'
implicatio ibi eße folet vbi fit aliqua Chyli in ſanguinem mutatio quomodo
ſecretio fiat. Aſtrologia conieéturalis vanitas Cloylus ad inteſtina de aplies
duobus li quoribuspermiſcetur attractioni vulgo tributi motus re vera chylum
ounem per lacteas venas trana. pendent à circumpulſione refulſo
prodideruntiuniorcs Auftifichs ſuccusper membranas, a Chymix cognitio ad
Thyſiologiam illis neruos in partes diffunditur ſirandam perutilis Auftificus
fuccus ab Arabibus obfer- chymici magnam cladem galenicæ fa Uatus,fedperperam iudicatus.
&tioni attulere cibaria non eo quo ingeruntur ordine Ilis à fanguine in
iecinore fecerni B permanentin ventriculo tur cibi pars e ventriculo fiatim
elabitur Bilis nõ eſt fanguinisexcrementun antequam integra maſa confefta fue
Bilis nutritiumfuccum diluit, et fluxum reddit ciborum concoétionem auctores
diuerſa Bilis vtilitas rationeexplicant Brahaus illuftris Aftronomus à predi-
cibus in ventriculo quomodo conficia Etionibus aftrologicis abstinuit Bruni de mundanorum innumerabilitate cibus non
à folo calore conficitur sententia refellitur cibus in ventriculo fermentarur
Brunus voluminibus ſuis nugas inferuit. Cibus in ventriculo coctus non femper
albicat Cibus non detinetur in ventriculo donec Alidorum halituum magna vis in
totusfuerit confectus exterendis duris corporibus Cola piſcis cur amphibiorum
more diu Calor cæleftis est eiufdem nature, atque tule fub aquis viuere
potuerit elemenearis Conceptus omnes viviparorum ouifor culor innatus
eftmedicorum inane com mes ſunt Con rit. tur. с Copernicus ab Italis mundani
systematis FFelleus, Gʻaqueus humor cuit Condensatio, et rarefaétiofine
tenuiſſima quod ob defluxum bydrargyri inane ætheris fubftantia explicari non
po videtur teft F Elle nullum animal caret. notitiam arripuit quibus Copernicus
maximus astronomus prædi. chylus diluitur,iterato fæpius circuitu &tiones
aſtrologicas improbauit ad inteftina reuoluuntur cor motum non habet à cerebro,
fed inſe Fermentatio quid ſit ex Platone, ip, o cietur, cpalpitat Fermenti vis
à calore excitatur. ibid. Cordis motus fit ab balitibusin eiuſdem Firmicus
reprehenditur lofibras influentibus flamma cur fine pastu permanere ne Cordis
motus nõ excitatur àferuorefan queat guinis, vt Ariftoteli, Carteſio pla-
Flamma cur faſtigietur in conum, ibid. Fæmina ſubminiſtrat materiam omnem
Corpora je inuicem propellere poffunt, ex qua fætuscorporatur non autem
attrahere Fæminæ genitura non carent D Feminarumgenitura an aliquid conferat
Ifferentis inter conceptus ouip.rros, adgenerationem Fætus vita non pendet à
vita matris Dɔny Volumen de natura hominis fætus cum propria tum parentis vi ab
utero excluditur E Frigore nonnunquam diſſimilis nature Lectrum
quomodofeſtucasattrahat. corpora ſegregantur experimenta ludicra quatuor primum
Alenus ab Ariſtotele maximis de orbiculorum in aqua alternatim a rebus
diſſentit frendentium, defcendentium Galenus Platonis fententiam de circum secundum
orbiculorum in tubo dque pulſione non eſt affecutus pleno fuerfum deorſumque
recurrena Galeni experimentum de fistula in arte. - tium ad nutum eius, qui
tubi oftium riam immiſa oſtendit arterias ab im digito obturat pulſie fanguinis
moueri tertium orbiculorum in tubo retorto Galeni Secta cæpit deficere
aſcendentium defcendentium pro Galenice fattioni magna clades d chy paria tubi
inclinatione micis eſt illata quartum orbiculorum ex imo furfum galenice
medicine summa aſcendentium propter diſtractionein Galilæus de atomis, inani
aliter vidé aeris in eiſdem conclufi tur decernere, ac Democritus et Epi
Experimentum quo Verulamius probat curus aquam comprimipole eſt fallax Galileus
omnium primus physiologiam experimentum Torricelli de spario, com Geometria
iugauie Ga Gevens ifotelemaximisde Galilcus aſtronomicarum rerum peritif
Hippocratimulta tribuuntur, quecom. fimus improbauit aſtrologicas prædi mentitia
funt ctiones" Hobbes fententia de ſubſtantia inter al GALILEI (si veda) Carteſi
aliorumque iuniorum rem et aquam media. doctrina phyſicapræftantior quam homo à
teneris annisita potefl educari, antiquorum vt amphibiorum more ſub aquisdiu
Genituraquid,vnde prodeato tius viuat Genitura non fit in teftibus Homo incerto
gignitur fpatio Genitura in procreatione animalium ef- Hominis genitura non est
eiufdem ratio ficientis tantum caufa vim habet. nis cum femine ſtirpium Genitura
non eſt pars, feu materia con Hornunculorum generatio à Paracelſo fituendi
conceptus: propoſita commentitia eft Genituræ craffamentum oua, et conte
Humanusfætus recens formatusmaiu ptus minimè ingreditur Sculæ formica
magnitudinem vix fum Geniturepars, quæ efficiendi vim habet, perat oculorum
fugit aciem Geniture vis per occultum agit corpora quantumuis denfa penetrat Sanguinefecernere.
Ecinorisprecipuum munusest bilen Geometrie Paradoxa nonſemper plyſInanenihil
eft. cis diſquiſitionibus aptantur so Ingenia ad philofophandum idonea que
Glandulg cur maiores et frequentiores nam fint. in tenellis, et pinguibusanimalibus,
Initia rerum naturalium abftrufa. quam in ſenioribus, &macilentis, in omni motu
fit reciproca corporum dla translatio Glandule
fecernunt auctificum ſuccum Iuniores multa fulicius inuenere quam à reliquo
fanguine Priſci. 4 Glandularum vtilitas. ibid. K Græci curdoctrine ſudijs cæteris
natio nibuspræcelluerint probauit aftrologicas predi&tio Grauiora corpora
etiam à leuioribus ju. perftantibus premuntur L Grauitas quid L Ac quibus vis
feratur' ad mam H mas Hanimalium accuratiſſima. Aruei obſeruationes
degeneratione lacervberibus virorum, &virginum frequenti fuetu prolicitur Harueius
in obferuando diligētior, qaam Lace papillisrecens natorum extillans.. in
iudicando Hippocratis de calore Paradoxum. lac in ventriculo pueri coagulatur Hippocratesanimaduertitfetum
in man ' Latte columbs-nutriunt pullos ſuosprin tris vtero alimentum exfugere
mis diebus Laa nes Luuleirum venarum nonnulla cum me. Saraicis coniunguntur medicina
praua quadam conſuetudina Lamine complanatæ mutuo contactu co. hominibus
infimæfortis tractanda re hærentes cur niſi magno conatu diuelli linquitur
nequeant Medicina rationalis ſuper falſis hypothe. Lansbergius' excellens Aftronomus à fibus hactenus fuit ſuperstructa predi&
tionibus aſtrologicis abſtinuit. Medicina Græcorum continet inanes conie turas
et fallaces præceptiones, Lien per flexuojam arteriam craffioren fanguinem
excipit Medicina inconftantia, Seftarum va Lien craffiorē et impuriorem ſuccum
ex rietas. cibireliquisſecretum ſuſcipit Medicinam pauciffimi Romanorum fa
Lienis vtilitas, Arụctura Etitarunt Lumennon eft in rebus, fed fit in ipfo Membranarum vtilitas, dentis oculo Motus ad
fugam vacui vulgo relati pen Luminis naturaexplicatur dent à
circumpulſionefuperftantis ae. ris maseratica vis diſimilis elektrick: Mund for
printeriplexdifferentia mini. Men Maßarias iuniorum gloriæ infenſus Mundi magnitudo incomprehenſa. ibid. Materia
exqua fætus corporatur eſt al N bugineus lentor ſinailis ouorum albus Aturæ
ratio ex ipſa potiusrerum Mathematicæ diſciplinæ fummam inge paranda stü aciem
defiderant Naturalis historie cognitio ad Phyſiolo Mathematicarum disciplinarum
notabile giam malde necellaria incrementum O Medici latina verba
importunèeffutiunt, Bferuatio noua deforaminibus in vt imperitorum plaaſum
aucupen. interiorem pentriculi tunicam.: tur biantibus. Medici periculofus,
&ancipites morbo- obſeruatio noua de pensatorum ventri. rum curationes
inftituunt, culis. Medici perperam diuidunt partes in ſper. Obferuatio noua
lenti humoris in ventri maticas,atque fanguineas', culo exiſtentis Medici
rationales quam profitentur', Obſeruatio viarum, que nouum alimentū. ſcientiam
omnino ignorant ex ventricnli fundo excipient Medicis familiare eft mutuainter
fe ia. Oetimestris partus non minus pitalis Etare conuicia quam ſeptimeſtris
Medicorum improbitas Ouiformis conceptus in viviparis habet Medicorum inſcitia
reprehenditur, vcram ſeminis rationem Ouum gr Pusega Perguedus
nouisobfervationibusfretus R Frisvarijoeleis queriamlitar $ Strguis I i Ouum
fæcundum b.abet rationem femi- Ptolemai Copernici, &Brahei mundan nis in
ouiparis Systematis pofitiones manca im perfecte Ancreatis ductus vtilitas
Pueri cur facilius mathematici effe pof fant,quàm phyſici,aut politici.
Paracelſus d plerifque propter obſcurita- Pulli ex quo generatio defcribitur tem
deſertus R opinion Erum natura vix alibi quàm in li Pecquetus obferuationibus
quæriſolita bematofin tribuit cordi, non iecinori. Refpiratione cordis æſlum
temperari fal sò creditum est Pestilentix confideratio philosophandi ratio
inſtituta à noftri fæ Anguis non eſt ſuceus ſimplex, nec culi auctoribus
laudatur. tamen continet quatuor decantatos Philoſophia noftris temporibus in
liber humores tatem vindicata eft Sanguis in omne corpus per arterias dif
Philosophia Cartesii quails funditur Ploilofophiæ ftudium à pleriſque peruer-
Sanguis per arterias in membra influen's titur vitalitatem magis, quam nutrimen
Philoſoplrorum in definiendis rerum ini. tum infert tijs conſenſus sanguis non
calore, motuue liquefcit, fed Phyſiologia parum hactenus adoleuit permiftione
tenaifimihalitus pbyſiologia plurimarum rerum cognitio nem, et experientiam
requirit Sanguis non fuapte natura caliduseſt, Phyſiologia onde ordienda nec
calorem accipit à corde, fed motu, Phyſiologia poteft ex falfis hypotheſibus
atque agitatione incalefcit veras naturalium rerumaffectiones Sanguis non in
iecinore, nec in corde, vel concludere alio certo viſcere conficitur Phyſiologie
obſcuritas onde proficifca. Sanguinis duapartes altera viuifica tera auctifica
Phyſiologiæ perfetta cognitio cur defpe- Sanguinis natura admirabilis Eius
randa potior pars aciem fugit Phyſiologiam noftre etatis fcriptores Sanguinis
motusà corde a præclaris inuentis illuſtrarunt Sanguinis circulationem ab
Harueio de Phyſiologiam nemo Geometriæ ignarus fcriptam indicauerant,ante
Pizulus Mis aſequitur Sarpa, &Anstress Cefalpinus. Planetarum corpora ad
ætheris liquidif- Sanguinem fal coire, &denfere noir par ſui motum
circumferripoflunt titur Plato materiam voluit eſſe locum Sapientia illa quam
in ætatibus habet ſe weêtus nostræ potius cetati, quins pria e feq. tør. ſeis
fcis temporibus debetur Vacuipropugnatores corporis naturam à Semen animalium
quidnam fit cx Aris tałtu determinant Stotele P'ene lactea non deferuntomnem
fuc Senfus non ea omnia percipit, qua in na. cum alibilem jura exiſtunt Venis
la &teis animantesquædam carere Senſu quæcumquepercipiuntur falsò ta
videntur lia iudicantur qualia videntur. ibid. Venarum lymphaticarum
progreffus, ego Soli nibilſimiliusquamflamma vſus leg. Solem igneum esſe tactus
et oculorum Vene meſaraica fuccum nutritium ex teftimonio probat Cleanthes inteſtinis
ad iecur Stelliole Encyclopedia Vens meſaraicæ non ſunt deſtinate nú Stelliola
nouitate verborum abſtruſe do. tricationi inteftinorum et alui Etrina caliginem
offudit Vene vmbilicales maiores ampliorefque Stirpium ex ſemine propagatio
compre funt coniugibusarterijs. 88 hendi facile poteſi Ventriculi,&
inteftinorum motus Stoicis materia
corpuseffe videtur Vermes in iecinorè, liene,corde,pulmoni Sympathia Antipathiæ
et Antiperiſia bus et cerebro animaliū fis inania commenta Verulamius opes
ætatemque inter expe rimenta conſumpſit Elefius putauit poße ſpatiumma Vix
quibus humores d corpore per aluum gna vi conatuque pacuum fieri. expurgantur
Vita hominis in continuata fanguinis Telefiusveteresphilofophos, é precipuè.
motione conſiſtit Ariſtotelem exercuit Vitalis halitus in ſanguine existensquo
Testes priuerfo corpori robur conferunt. modo percipiatur Vitri denſitatem
penetrat hydrargyrus Theologi Hegyptü Deos omnes ex ouo prognatos
eſetradiderunt Vniuerſum vnum indiuiduum, atque im Tyndaridæ ex ouo editi mobile
Torricelli Paradoxum geometricum Vrina per quas vias in renes, &veficam
profunditur. Acuum experimento Torricelli Vvirjungiani ductus vtilitas Vacuum
neque mouere corpora poteſt ne Enonis de natura geniture fenten que ne
moueantur inbibere Ztia. Wikipedia Ricerca Ganimede (mitologia)
personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei Lingua
Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376.jpg Ganimede e
l’aquila, Nome orig.Γανυμήδης Sessomaschio Luogo di nascitaDardania
Professionedio dell'amore omosessuale e principe dei Troiani Ganimede (in greco
antico: Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un personaggio della mitologia greca. Fu un
principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali
del suo tempo. «La vicenda mitologica di Ganimede servì da emblema
significante per la natura dell'amore tra uomini, un amore filosoficamente più
elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda dell'aquila divina si
assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti artistici al desiderio
omoerotico[1].» In una versione del mito viene rapito da Zeus in forma di
aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la storia che lo
riguarda è stata un modello per il costume sociale della pederastia greca,
visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente accettato tra un
uomo adulto e un ragazzo. La forma latina del nome era Catamitus, da cui deriva
il termine catamite, indicante un giovane che assume il ruolo di partner
sessuale passivo-ricettivo. Genealogia Figlio di Troo e di Calliroe (o di
Acallaride). Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio
Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di
Ilo[8], per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo
padre fu Erittonio[10] oppure Assarco. Non risulta aver avuto spose o
progenie. Mitologia Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, GANIMEDE
che indossa il suo berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto
Il tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si
invaghirono sia il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re
degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa leggenda.
Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli Dei, affascinato
dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di
Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un
tralcio di vite d'oro[12]: il padre si consolò pensando che suo figlio era
ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli Dei,
una posizione che era considerata di gran distinzione. Zeus per sottrarre
Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale
aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge
sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo portò
quindi sull'Olimpo dove ne fece il suo amato. Per questo motivo nelle opere
d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a
essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con
la coppa in mano. Walter Burkert ha trovato un precedente riguardante il
mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana
di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni
viene anche associato con la genesi della sacra bevanda inebriante
dell'idromele, la cui origine tradizionale è proprio la terra di Frigia. Tutti
gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con
l'eccezione di Era; la consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un
rivale più che mai pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha
successivamente messo Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquariola
quale è strettamente associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno
zodiacale dell'Acquario. Busto di Ganimede, opera romana d'epoca
imperiale (Parigi, Museo del Louvre) Mito iniziatico Lo stesso argomento in
dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia Zeus-Ganimede
costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio adulto e
giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico (vedi la
pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame sessuale
- all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi amori
"paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente un
giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi rituali
imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato,
avveniva la sua iniziazione sessuale. Zeus e Ganimede, rappresentando la
perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti. Il
cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a
modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di
resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e
poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande
voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera
il padre degli dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. Filosofia Platone
rappresenta l'aspetto pederastico del mito attribuendo la sua origine a Creta e
ponendo, quindi, il rapimento sull'omonimo monte Ida dell'isola: la sua è una
critica dell'usanza della pederastia cretese che aveva oramai perduto quasi
completamente la sua funzione originaria, accusando quindi i Cretesi di essersi
inventati il mito di Zeus e Ganimede per giustificare i loro
comportamenti[17]. Nel dialogo platonico poi Socrate nega che il bel
giovane possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli Dei, proponendone,
invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus avrebbe amato l'anima e
la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo corpo. Il neoplatonismo
ci offre una rappresentazione mistica del rapimento di Ganimede; esso sta a
significare il rapimento dell'anima a Dio, e in questo senso è stato usato,
anche in opere d'arte funerarie e anche durante il Neoclassicismo, sia
nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un esempio, il Ganymed di
Goethe. Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede (National Gallery, Londra)
PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del
desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La
leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo
a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il
poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20], poi
Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e
infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca
narrante la vita e le gesta del dio Dioniso. Virgilio ritrae con pathos
la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di
trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente
contro il cielo. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati disperati
anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un motivo
frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche Stazio.
Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le Argonautiche di
Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo contro Eros per
averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite si trova così
costretta a rimproverare il figlio di barare come un principiante.
Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il personaggio di Rosalind si
traveste da uomo quando deve andare nella foresta di Arden, scegliendo il nome
di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio del rapporto che si era creato
tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava ben oltre la semplice
amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in questo caso
omosessuale. Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di epoca
paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e
Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più
grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione
latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon Marius.
Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide, 1036 Ganymed. Nelle arti Nella
scultura una delle immagini più famose di Ganimede è il gruppo scultoreo di
Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a cui viene attribuito anche l'Apollo del
Belvedere) e tanto ammirato da Plinio il Vecchio: «Leocare realizza un'aquila
che trattiene con forza Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli
nella sua veste.» Questo particolare del rapimento tramite l'aquila è stato
spesso elogiato anche in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi
epigrammi, così come fa anche Marco Valerio Marziale. La leggenda di
Ganimede ha ispirato anche un gruppo in terracotta, probabilmente originario di
Corinto e oggi conservato nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei
pochi esempi di grande scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea
molto rara della coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana. Nella
ceramica il tema di Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei
crateri, quei particolari grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino
durante i banchetti (o simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli
ospiti gareggiavano in immaginazione poetica e filosofica per celebrare i
meriti dei loro rispettivi eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea
figure rosse che ritrae da un lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede
mentre sta giocando con un grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il
ragazzo è completamente nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di origine
in parte pederastica (vedi nudità atletica). Il ratto di Ganimede,
di Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire innumerevoli rappresentazioni di
questo mito, con artisti quali Michelangelo Buonarroti, Benvenuto Cellini e
Antonio Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno dei temi con più forte
significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay ante litteram.
Quando il pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante
il rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma, i
lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato contribuiscono a farlo
rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti catturare verso l'alto
senza opporre la minima resistenza. Nel Ratto di Ganimede di Antonio
Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è più
contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter Paul
Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo Ratto
di Ganimede per un mecenate calvinista olandese, ecco che un'aquila scura porta
in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e si fa la pipì addosso
per lo spavento. Ratto di Ganimede, di Gabbiani Gli esempi di
Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono stati studiati da Worley. L'immagine
raffigurata era invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato
da un'aquila, mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati
raramente affrontati: in realtà, la storia è stata spesso
"eterosessualizzata". Inoltre, l'interpretazione del mito data dal
Neoplatonismo, così comune nel Rinascimento italiano, in cui lo stupro di
Ganimede ha rappresentato la salita alla condizione di perfezione spirituale,
sembrava non essere di alcun interesse per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo.
Jean-Baptiste Marie Pierre, Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou,
Pierre Julien, Jean-Baptiste Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire
le immagini di Ganimede nell'arte francese. La scultura che ritrae
Ganimede e l'aquila di José Álvarez Cubero, eseguita a Parigi, ha portato
all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo come uno degli scultori più
importanti del suo tempo. L'artista Thorvaldsen, di gran lunga il più
notevole degli scultori danesi, ha scolpito una scultura dedicata alla scena di
Ganimede e l'aquila. Particolare di una scultura, da un modello
tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito figurativo greco del IV
secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli. AltroModifica
Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato a indicare un
bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante omosessuale.
Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio, tenendo in mano un
gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a figure rosse (Parigi,
museo del Louvre). Ganimede e Zeus, e Apollo e Ciparisso,
illustrazione di due miti a carattere omosessuale per le Metamorfosi di Ovidio
(Venezia) Illustrazione gli Emblemata di Alciati. Ganimede
rappresenta allegoricamente l'anima che si "rallegra" in Dio.
Raffaello da Montelupo, Giove bacia Ganimede (Ashmolean Museum, Oxford)
Cherubino Alberti, Copia rovesciata da originale di Polidoro da
Caravaggio, Giove bacia Ganimede. La borsa di denaro in mano al giovane allude
alla prostituzione, in spregio al mito pagano. Il Ganimede di
Antonio Canova "Ganimede" (1804), di José Álvarez Cubero
Ganimede abbevera l'Aquila divina, di Thorvaldsen Albero genealogicoModifica
AtlantePleioneScamandroIdea Elettra ZeusTeucro DardanoBatea
Erittonio Ilo Troo Calliroe EuridiceIlo AssarcoIeromnene Ganimede
Laomedonte Strimo (o "Leukyppe")TemisteCapi
PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino EttoreParideCreusaEneaLavinia AscanioSilvio
Silvius Enea Silvio Bruto di TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys Capeto
Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio Aventino Proca NumitoreAmulio MarteRea
Silvia ErsiliaRomolo Remo Età regia di RomaShe-wolf suckles Romulus and
Remus. Zanotti Il gay, dove si raccnta come è stata inventata l'identità
omosessuale Fazi Secondo l'AMHER ("The American Heritage Dictionary of the
English Language, catamite, Apollodoro, Biblioteca su theoi.com. Omero, Iliade
XX, 213 e seguenti, su theoi Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, su theoi. Dionigi
di Alicarnasso, Antichità romane su penelope.uchicago.edu. Cicerone, Tusculanae
disputationes, Tzetzes a Licofrone Clemente Alessandrino, su theoi.com. Igino,
Fabulae Igino, Fabulae Iliade, Burkert; Burkert fa purtuttavia notare che non
esiste un nesso diretto con l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^ Guidorizzi, Il mito
greco Volume primo - Gli dèi Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi
Platone, Leggi, Platone, Fedro, Platone, Simposio, Ovidio, Metamorfosi,
Apuleio, L'asino d'oro, Virgilio, Eneide, Stazio, Tebaide, 1.549. ^
Marius/Schlör, Mundus Iovialis, Worley, The Image of Ganymede in France: The
Survival of a Homoerotic Myth, in Art Bulletin, Chisholm, Alvarez, Don José, in
Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge Ganimede), di Ferrier Apollonio Rodio,
Le Argonautiche. Apuleio, L'asino d'oro. Cicerone, De natura deorum. Diodoro
Siculo, Bibliotheca historica. Euripide, Ifigenia in Tauride. Nonno di
Panopoli, Dionisiache. Omero, Iliade. Omerico, Piccola Iliade. Ovidio, Le
metamorfosi. Pausania, Periegesi della Grecia. Pindaro, Olimpiche, 1821.
Platone, Fedro. Platone, Leggi. Platone, Simposio. Pseudo-Apollodoro,
Biblioteca. Strabone, Geografia. Teognide, Frammenti. Virgilio, Eneide. AA.VV.,
Suda. Christian Wilhelm Allers, Giove rapisce Ganimede, Veckenstedt,
Ganymedes, Libau, Saslow, Ganymede in the Renaissance: Homosexuality in Art and
Society, New Haven (Connecticut), Yale, Burkert, The Orientalizing Revolution:
Near Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Age, Cambridge
(Massachusetts), Harvard, Graves e Elisa Morpurgo, I miti greci, Milano,
Longanesi, Carassiti, Dizionario di mitologia greca e romana, Roma, Newton et Compton,
Cerinotti, Miti greci e di Roma antica, Firenze-Milano, Giunti, Ferrari,
Dizionario di mitologia, Torino, UTET, Eva C. Keuls, The Reign of the Phallus. Sexual Politics in Ancient Athens, Berkeley, University of California
Press, Bernard Sergent, Homosexualité et initiation chez les peuples
indo-européens, coll. « Histoire », Parigi, Payot, Gély, Ganymède ou
l'échanson. Rapt, ravissement et ivresse poétique, Presses Universitaires de
Paris, Guidorizzi (a cura di), Il mito greco, 1 (Gli dèi), Particolare di Zeus
accanto a Ganimede, di Griepenkerl Voci correlateModifica Icona gay Mito di
Etana Omoerotismo Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella mitologia
The Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. (EN) Peter R.
Griffith, Visual arts: Gaymede. "Ganymed" (testo, in tedesco e
italiano). (EN) Circa 200 immagini di Ganimede nel Warburg Institute
Iconographic Database Internet Archive. Portale LGBT Portale
Mitologia greca Leda personaggio della
mitologia greca, figlia di Testio e moglie di Tindaro Estia dea greca del
focolare, della casa e della famiglia. Figlia di Crono e Rea Laomedonte
re di Troia nella mitologia greca, figlio di Ilo Wikipedia Il contenutoGrice:
“It’s best to represent Cornelio as representing Cartesio – yes, the Cartesio
that Ryle attacked! But Italy never had a Ryle, so that’s good!” Tommaso
Cornelio. Cornelio.
Keywords: Giove, Ganimede, e Prometeo, pro-gymnasmaton, gymnasmaton, gymnasta,
gymnasium, ginnasio, ginnasiale, nudo romano, nudita romana, corpo nudo,
snudare, atleta, atletismo, lotta ginnastica, competizione ginnastica,
implicatura ginnastica, l’implicatura ginnastica di Socrate, Socrate al
ginnasio, implicatura ginnasiale, the eagle, Giove come aquila, aquila come
impero romano, aquila come impero nazi – le due aquile -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cornelio” – The Swimming-Pool Library. Cornelio.
Luigi Speranza -- Grice e Cornello: la ragione
conversazionale – scuola di Sorento – filosofia sorrentina – filosofia
campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo sorrentino. Filosofo campanese. Filosofo
italiano. Sorrento, Campania. Gabriele Tasso and his wife, Caterina, are
cousins.They come of the Bergamesque family dei Tassi del Cornello. The family, originally from
ALMENNO, can be traced with certainty to anOMODEO who established himself in
the Brembana valley known as’del Cornello.’ Nearby is Mount Tasso, which gets
its name from the yews (tassi) which cover the slopes. KEYWORD: DE’ TASSI DEL CORNELLO (feudo) – dai
Torreggiani di Milano – tasso: badger – skin carried by horses. O CORNETTO --A branch of YEW
originally appeared in the upp half oof the family crest The lower half is
occupiedby the figure of a badger (tasso). La
sua opera più importante è la Gerusalemme liberate, in cui vengono cantati gli
scontri tra cristiani e musulmani durante la prima crociata, culminanti nella
presa cristiana di Gerusalemme. Ultimo dei tre figli di Bernardo TASSO,
letterato e cortigiano nato a Venezia, ma di antica nobiltà bergamasca, poi al
servizio del principe di Salerno Ferrante Sanseverino del regno di
Napoli, compreso nella monarchia spagnola, e di Porzia de' Rossi,
nobildonna napoletana di origini toscane, pistoiesi da parte paterna e pisane
da parte materna. Di Sorrento e della «dolce terra natìa» il poeta conserverà
sempre un magnifico ricordo, rimpiangendo «... le piagge di Campagna
amene, pompa maggior de la natura, e i colli che vagheggia il Tirren fertili e
molli.» (Gerusalemme liberata) Quando C. era ancora bambino, il principe
di Salerno fu bandito dal regno e Bernardo seguì il suo protettore. All'età di
6 anni si recò in Sicilia e dalla fine del 1550 fu con la famiglia a Napoli,
dove lo seguì il precettore privato Giovanni d'Angeluzzo. Frequentò per due
anni la scuola dei Gesuiti appena istituita e conobbe Ettore Thesorieri con il
quale poi restò in corrispondenza epistolare. Ebbe un'educazione
cattolica e da giovane frequentò spesso il monastero benedettino di Cava de'
Tirreni (dove si trovava la tomba di Urbano II, il papa che aveva indetto la
prima crociata), e ricevette il sacramento dell'Eucaristia quando «non avea
anco forse i nov'anni», come scrisse egli stesso. Due anni dopo la sorella
Cornelia, che nel frattempo si era sposata con il nobile sorrentino Marzio
Sersale, rischiò di essere rapita durante un'incursione ottomana a Sorrento, e
questo rimase impresso nella sua memoria. Guidobaldo II Della
Rovere. Rimase a Napoli fino ai dieci anni, poi seguì il padre a Roma,
abbandonando con grande dolore la madre che fu costretta a rimanere nella città
partenopea perché i suoi fratelli «rifiutavano di sborsarle la dote». Nella
città pontificia fu Bernardo a educare privatamente il figlio, ed entrambi
subirono un grave trauma quando vennero a sapere della morte di Porzia,
probabilmente avvelenata dai fratelli per motivi d'interesse. La
situazione politica a Roma subì però uno sviluppo che preoccupò Bernardo: era
scoppiato un dissidio tra Filippo II e Paolo IV e gli spagnoli sembravano sul
punto di attaccare l'Urbe. Mandò allora Torquato a Bergamo presso Palazzo Tasso
e la Villa dei Tasso da alcuni parenti e si rifugiò presso la corte urbinate di
Guidobaldo II Della Rovere, dove fu raggiunto dal figlio pochi mesi dopo.
A Urbino C. studiò assieme a Rovere, figlio di Guidobaldo, e a Monte, poi
illustre matematico. In questo periodo ebbe maestri di assoluto livello quali
il poligrafo Girolamo Muzio, il poeta locale Galli e il matematico Federico
Commandino. Torquato passava a Urbino solo l'estate, dal momento che la corte
trascorreva l'inverno a Pesaro, dove Tasso entrò in contatto con il poeta Bernardo
Cappello e con Dionigi Atanagi, e scrisse il primo componimento a noi noto: un
sonetto in lode della corte. Bernardo si sposta intanto a Venezia,
indiscussa capitale dell'editoria, per occuparsi della pubblicazione del suo
Amadigi. Poco tempo dopo, quindi, anche il figlio cambiò una volta di più
città, stabilendosi in laguna. Sembra che proprio a Venezia, non ancora
sedicenne, abbia cominciato a mettere mano al poema sulla prima crociata e al
Rinaldo. Il Libro I del Gierusalemme (conservato dal Codice vaticano-urbinate
413) fu scritto dietro consiglio di Giovanni Maria Verdizzotti e Danese
Cataneo, due poeti mediocri che allora frequentava e che già avevano scorto nel
Tasso un talento straordinario. Si iscrisse per volere paterno alla
facoltà di legge dello Studio patavino, raccomandato a Sperone Speroni, la cui
casa frequentò più delle aule universitarie, affascinato dalla vastissima
cultura dell'autore della Canace. Tasso non amava la giurisprudenza, tanto che
attendeva più alla produzione poetica che allo studio del diritto. Così, dopo
il primo anno ottenne dal padre il consenso per frequentare i corsi di
filosofia ed eloquenza con illustri professori tra cui spicca il nome di Carlo
Sigonio. Quest'ultimo rimarrà un modello costante per le dissertazioni teoriche
tassesche futureprime fra tutte quelle dei Discorsi dell'arte poetica, in cui
si nota anche l'influsso dello Speronie lo avvicinò allo studio della Poetica
aristotelica. È in quest'epoca che si colloca il primo innamoramento del
ragazzo, già molto sensibile e sognatore. Il padre era stato introdotto nella
corte del cardinale Luigi d'Este, e nel settembre 1561 si era recato col figlio
a fare la conoscenza dei familiari del suo protettore. Conobbe nell'occasione
Lucrezia Bendidio, dama di Eleonora d'Este, sorella di Luigi. Lucrezia,
quindicenne, era molto bella ed eccelleva nel canto, anche se era piuttosto
frivola. Avendo notato un interessamento della fanciulla, Tasso cominciò a
dedicarle rime petrarcheggianti, ma dovette presto essere ricondotto alla
realtà, poiché nel febbraio 1562 scoprì che la ragazza era promessa sposa al
conte Baldassarre Macchiavelli. Non si arrese, continuando a cantarla in
poesia, ma dopo le nozze si lasciò andare al risentimento e alla
delusione. Intanto, l'entourage cominciava ad avvedersi del talento
del Tassino (come veniva chiamato per essere distinto dal padre), e gli furono
commissionate delle rime per alcuni funerali. Confluendo in due raccolte,
furono le prime poesie pubblicate da Torquato. Ancora più notevoli erano
gli sforzi prodigati per il Rinaldo, composto in soli dieci mesi e dedicato a
Luigi d'Este. Il poema epico cavalleresco, incentrato sulle avventure del
cugino di Orlando, fu stampato a Venezia nel 1562 e contribuì a diffondere il
nome di Tasso, che aveva ancora soltanto diciotto anni. Il padre intanto
lo aveva messo nel 1561 al servizio del nobile Annibale Di Capua, e il duca
d'Urbino gli aveva procurato una borsa di studio di cinquanta scudi annui per
permettergli di continuare i corsi universitari. Dopo due anni a Padova, Tasso
proseguì gli studi all'Bologna, ma durante il secondo anno di permanenza nella
città felsinea, nel gennaio 1564, fu accusato di essere l'autore di un testo
che attaccava pesantemente, con una satira sferzante, alcuni studenti e
professori dello Studio. Espulso e privato della borsa di studio, fu costretto
a ritornare a Padova, dove poté beneficiare dell'ospitalità di Scipione
Gonzaga, che gli fornì il necessario per continuare il percorso di
formazione. Ritrovò tra i maestri Francesco Piccolomini e seguì le
lezioni di Federico Pendasio. In casa del principe Gonzaga era appena stata
istituita l'Accademia degli Eterei, ritrovo di seguaci dello Speroni che
miravano alla perfezione della forma, non senza scadere nell'artificiosità.
Tasso vi entrò assumendo il nome di Pentito e leggendovi molti componimenti,
tra cui quelli scritti per Lucrezia Bendidio e per una donna che la critica ha
per lungo tempo identificato in Laura Peperara. Secondo questa
versione Torquato conobbe Laura nell'estate del 1563, quando aveva raggiunto a
Mantova Bernardo, nel frattempo messosi al servizio del duca Guglielmo Gonzaga.
La delicatezza nei modi della giovane fece dimenticare presto al Nostro le
ancor fresche pene amorose per Lucrezia Bendidio. Lo spirito del Petrarca
rivisse allora nelle liriche del ragazzo nuovamente innamorato. L'anno dopo,
rivedendola, fu però deluso, e pur continuando a cantarla dovette ben presto
rassegnarsi al secondo scacco. Ricerche recenti hanno tuttavia collocato la
nascita della Peperara nel 1563, rendendo quindi impossibile che fosse lei la
seconda musa del Tasso. I due canzonieri amorosi andarono in parte a
finire tra le Rime degli Accademici Eterei, stampate a Padova nel 1567, assieme
ad alcune che scriverà nel primo anno ferrarese. Si legò anche
all'Accademia degli Infiammati. A Ferrara Torquato Tasso all'eta di
22 anni ritratto da Jacopo Bassano. Giunse a Ferrara in occasione del secondo
matrimonio (quello con Barbara d'Austria) del duca Alfonso II d'Este, al servizio
del cardinale Luigi d'Este, fratello del duca, spesato di vitto e alloggio,
mentre dal 1572 sarà al servizio del duca stesso. I primi dieci anni
ferraresi furono il periodo più felice della vita di Tasso, in cui il poeta
visse apprezzato dalle dame e dai gentiluomini per le sue doti poetiche e per
l'eleganza mondana. Il cardinale lasciò al Nostro la possibilità di
attendere solamente all'attività poetica, e Tasso poté così continuare il poema
maggiore. Rapporti particolarmente intensi intercorsero con le due sorelle del
duca, Lucrezia e Leonora. La prima era uno spirito libero e incarnava ideali di
vivacità e vitalità, mentre la seconda, malata e fragile, fuggiva la vita
mondana e conduceva un'esistenza ritirata. Per quanto Tasso fosse attratto da
entrambe e per quanto si sia avallata l'ipotesi di una relazione amorosa con
Leonora, la critica tassesca ha concluso che non si andò al di là di forti
simpatie. La ricchezza culturale della corte estense costituì per lui un
importante stimolo; ebbe infatti modo di conoscere Battista Guarini, Giovan
Battista Pigna e altri intellettuali dell'epoca. In questo periodo riprese il
poema sulla prima crociata, dandogli il nome di Gottifredo. Nel 1566 i canti
erano già sei, e aumenteranno negli anni appresso. Nel 1568 diede alle
stampe le Considerazioni sopra tre canzoni diPigna, dove emerge la concezione
platonica e stilnovistica che il Tasso aveva dell'amore, con alcune note però
affatto peculiari, che lo portavano a ravvisare il divino in tutto ciò che è bello,
e a definire di matrice soprannaturale anche l'amore puramente fisico. I
concetti vennero ribaditi nelle cinquanta Conclusioni amorose pubblicate due
anni più tardi. Compose anche i quattro Discorsi dell'arte poetica e in
particolare sopra il poema eroico, anche se videro la luce solo nel 1587 a
Venezia, per i tipi di Licino. Nell'ottobre 1570 partì per la Francia al
seguito del cardinale e, temendo gli potesse accadere qualche disgrazia nel
lungo e pericoloso viaggio, volle dettare le proprie volontà all'amico Ercole
Rondinelli, richiedendo la pubblicazione dei sonetti amorosi e dei madrigali,
mentre precisava che «gli altri, o amorosi o in altra materia, c'ho fatti per
servizio di alcun amico, desidero che restino sepolti con esso meco», ad
eccezione di Or che l'aura mia dolce altrove spira. Per il Gottifredo
afferma di voler far conoscere «i sei ultimi canti, e de' due primi quelle
stanze che saranno giudicate men ree», il che prova che il numero dei canti era
salito almeno a otto. Intanto, sempre nel 1570, Lucrezia d'Este sposò
Francesco Maria II Della Rovere, compagno di studi di Torquato nel periodo
urbinate. Il soggiorno transalpino fu di sei mesi, ma, siccome Luigi
aveva messo a disposizione del poeta poco denaro, questi trascorse il periodo
francese sostanzialmente nell'ombra, con il solo onore di essere ricevuto da
Caterina de' Medici, la moglie di Enrico II. Di ritorno a Ferrara, il 12 aprile
1571 decise di lasciare il seguito del cardinale. Credeva incorrere in
miglior fortuna presso Ippolito II, e scese pertanto a Roma. Anche il cardinale
di villa d'Este però lo deluse, e Tasso decise di risalire la penisola,
facendosi ospitare qualche tempo da Lucrezia e Francesco a Urbino, prima di
entrare al servizio di Alfonso II. In questo periodo continuò ad
attendere al capolavoro, ma si diede anche al teatro, e scrisse l'Aminta,
celebre favola pastorale che rientrava nei gusti delle corti cinquecentesche.
Rappresentata con ogni probabilità all'isola di Belvedere, dov'era una delle
«delizie» estensi, ebbe un grande successo e fu richiesta anche da Lucrezia
d'Este a Urbino l'anno successivo. Nell'euforia del successo, scrive una
tragedia, Galealto re di Norvegia, ma la abbandona all'inizio del secondo atto, salvo rimettervi
mano molto più tardi trasformandola nel Re Torrismondo. Il capolavoro e
la revisione L'impegno principale rimaneva comunque il poema epico, per il
quale l'autore non aveva ancora stabilito un titolo. Nel novembre '74 l'opera
era quasi completa, visto che «io aveva comincio quest'agosto l'ultimo canto»,
ma si deve aspettare per avere l'annuncio del completamento del testo, quando
in una lettera al cardinale Giovan Girolamo Albano leggiamo: «Sappia dunque
Vostra Signoria illustrissima, che dopo una fastidiosa quartana sono ora
per la Dio grazia assai sano, e dopo lunghe vigilie ho condotto finalmente al
fine il poema di Goffredo». Completato quindi il poema maggiore, si apre
il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non
gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio
di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge
l'inquietudine del poeta: «Qui va pur intorno questo benedetto romore de la
proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero.
Scipione Gonzaga Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli
personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la
moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma
principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose. I
cinque erano il maestro ed erudito Speroni, il principe e cardinale Gonzaga, il
cardinale Antoniano, il poeta Bargeo e il grecista Nobili. Cndivise in
parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di
stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive
quasi quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e
continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire
principi di poetica né tanto meno di fede. Ossessivo nell'apportare
modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al
punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questao condotto
finalmente al fine il poema di Goffredo. Completato quindi il poema maggiore,
si aprì per Tasso il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a
termine un lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità
estrema (il concilio di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una
lettera emerge l'inquietudine del poeta. Qui va pur intorno questo benedetto
romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna
di vero. Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi
romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la
moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma
principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose. I
cinque erano il maestro ed erudito Sperone Speroni, il principe e cardinale
Scipione Gonzaga, il cardinale Silvio Antoniano, il poeta Pier Angelio Bargeo e
il grecista Flaminio de' Nobili. Torquato condivise in parte i consigli
degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico,
ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che
mettono in luce un autore intimamente travagliato e continuamente bisognoso di
dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di
poetica né tanto meno di fede. Ossessivo nell'apportare modifiche al
testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al punto che
nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questa particolare
istoria di Goffredo si conveniva altra trattazione; e forse anco io non ho
avuto tutto quel riguardo che si doveva al rigor de' tempi presenti. E le giuro
che se le condizioni del mio stato non m'astringessero a questo, ch'io non
farei stampare il mio poema né così tosto, né per alcun anno, né forse in vita
mia; tanto dubito de la sua riuscita».[26] Nemmeno l'entusiastica ammirazione
di Lucrezia d'Este cui leggeva il poema ogni giorno «molte ore in
secretis»[27], né l'essere venuto a conoscenza del grande piacere con cui da
più parti l'opera veniva letta, poterono placare le sue angosce. Scrive
“Allegoria”, con cui rivisitava tutto il poema in chiave allegorica cercando di
emanciparsi dalle possibili accuse di immoralità. Ma non bastava: gli scrupoli
di carattere religioso assunsero la forma di vere e proprie manie di persecuzione.
Per mettere alla prova la propria ortodossia nella fede cristiana si sottopose
spontaneamente al giudizio dell'Inquisizione di Ferrara, ricevendo due sentenze
di assoluzione.[29] Barbara Sanseverino Disagi presso la corte
estense e fughe Due belle signore, giunte alla corte nel 1575 e protrattesi
presso il duca fino all'anno dopo, costituirono un intermezzo piacevoleforse
l'ultimoin mezzo a tante preoccupazioni. Per loro, la contessa di Sala Barbara
Sanseverino e la contessa di Scandiano Leonora Sanvitale, cantò gioiosamente in
alcune rime amorose, che, com'era accaduto per Lucrezia e Leonora d'Este,
obbediscono alle conventions de genre e non rivelano altro che una sincera
amicizia. Ma il Tasso si era stancato anche di Alfonso, e sognava diandare a
Firenze, presso la corte medicea. Non è chiaro perché volesse abbandonare
Ferrara, ma i motivi adducibili sono vari e variamente intriganti, e tutti
hanno in loro almeno una parte di verità. «Ch'io desideri sommamente di mutar
paese, e ch'io abbia intenzione di farlo, assai per se stesso può essere
manifesto, a chi considera le condizioni del mio stato», scrive a
Gonzaga. Le «condizioni del mio stato» possono avere una valenza
materiale: Tasso riceveva dal duca solo cinquantotto lire marchesane mensili,
che sommate alle centocinquanta percepite in qualità di lettore all'Università
(carica che ricopriva per i soli giorni festivi) danno una cifra sicuramente
bassa che a un poeta ormai affermato doveva parere stretta, anche solo per una
questione di dignità, senza voler pensare a motivazioni di pretta bramosia
L'espressione tassesca può assumere però anche una connotazione morale e
psicologica: si erano in effetti verificati alcuni episodi spiacevoli presso la
corte estense. Ha una lite con il cortigiano Ercole Fucci. Provocato, aveva
rifilato uno schiaffo al Fucci, che in risposta lo colpì più volte con un
bastone. Un servo aveva inoltre rivelato al Tasso che, durante una sua
assenza, un altro cortigiano, Ascanio Giraldini, aveva fatto forzare la porta
della sua camera, nel tentativo di appropriarsi di alcuni manoscritti. Tasso
sarebbe anche riuscito a rintracciare il magnano ottenendone una confessione,
come risulta da un'altra lettera al Gonzaga, in cui si ipotizzano altre trame
ordite alle sue spalle, anche se «io non me ne posso accertare».[33] A
far precipitare il rapporto con il duca e la corte furono però gli scrupoli
religiosi del poeta. Si autoaccusò presso l'Inquisizione ferrarese (dopo
l'autoaccusa presso il tribunale bolognese avvenuta due anni prima), attaccando
inoltre influenti personaggi di corte. Si cercò allora di far desistere il
poeta dall'intenzione di confermare le sue affermazioni negli interrogatori
successivi, senza risparmiargli punizioni corporali che non riuscirono afar
cambiare idea al Tasso, che si presentò altre due volte davanti
all'inquisitore.[35] Le accuseerano rivolte in particolare contro
Montecatini, il segretario ducale. Siccome Torquato voleva recarsi a deporre
presso il Tribunale capitolino, l'inquisitore ferrarese, conscio del fatto che
una simile azione poteva mettere a repentaglio i rapporti con la Santa
Sede,vitali per casa d'Esteinformò immediatamente il duca con una missiva del 7
giugno. Alfonso mise il poeta sotto sorveglianza, e C., ritenendosi spiato da
un servo, gli scagliò contro un coltello. Il Castello Estense Tasso
rimase nella prigione del Castello fino all'11 luglio, quando Alfonso lo fece
liberare e lo accolse presso la villeggiatura di Belriguardo, dove però rimase
pochi giorni, venendo rimandato a Ferrara per essere consegnato ai frati del
convento di S. Francesco.[37] Il poeta supplicò allora i cardinali
dell'Inquisizione romana affinché lo sollevassero da una situazione ormai
insopportabile trovandogli una sistemazione nell'Urbe, e nel contempo si
lamentava con Scipione Gonzaga per il trattamento ricevuto, ma pochi giorni
dopo si ritrovò nuovamente nella prigione del Castello. Tentò quindi un'altra
via e chiese invano perdono al suo signore. E indubbiamente provato dalle
fatiche della Gerusalemme, e le lettere del periodo rivelano un animo inquieto
e agitato, spesso preoccupato di smentire chi voleva vedere in lui i germi
della pazzia. Le manie di persecuzione e l'instabilità si erano impadronite di
lui, ma fino a qual punto? Fino a qual punto invece certe manifestazioni del
poeta, che mantiene nelle missive una lucidità pressoché completa, funsero da
pretesto per emarginare un personaggio divenuto pericoloso? Su questo punto i
critici non sono mai riusciti a trovare un accordo. Intanto la prigionia
el Castello si prolungava, e non restava che la fuga: nella notte si travestì
da contadino e fuggì nei campi. Raggiunta Bologna, proseguì fino a Sorrento,
dove, ancora sotto mentite spoglie e fisicamente distrutto, si recò dalla
sorella, annunciandole la propria morte, così da vedere la sua reazione, e
svelandole la sua vera identità solo dopo aver osservato la reazione realmente
addolorata della donna. A Sorrento rimase parecchi mesi ma, volendo
riprendere parte alla vita di corte, fece inviare da Cornelia una supplica al
duca, in data 4 dicembre 1577, chiedendo di essere riammesso alle sue
dipendenze, in un testo che fu certamente dettato, almeno in parte, dal poeta
stesso: «La maggior colpa che io credo sia in lui, è la poca sicurezza, che ha
mostrata d'avere nella parola di V.A., e il molto diffidarsi della sua
benignità».[40] Così, nell'aprile 1578 ritornò a Ferrara, ma, tempo tre
mesi, era di nuovo in fuga; Mantova, Padova, Venezia. Presa la via di Pesaro,
da Cattolica mandò ad Alfonso una missiva in cui cerca di spiegare i motivi
dell'abbandono, che restano, anche nella testimonianza diretta del Tasso,
criptici: «ora me ne dono partito. per non consentire a quello, a che non dee
consentire uomo, che faccia alcuna professione d'onore, o ch'abbia nell'animo
alcuno spirito di nobiltà. Paura, instabilità? Quello che è certo è che
nello stesso mese le parole di Maffio Venierche lo aveva incontrato a
Veneziasembrano far perdere credibilità alle ipotesi di follia: «sebbene si può
dire che egli non sia di sano intelletto, scuopre tuttavia più tosto segni di
afflizione che pazzia». Anche gli scambi epistolari intrattenuti con Francesco
Maria Della Rovere paiono rivelare una personalità afflitta e agitata più che
folle. Il Leitmotiv, adesso più che mai, è il dolore. Il dolore si fa allora
poiesis, creazione. È proprio questo il periodo in cui vengono composti i versi
dell'incompiuta canzone Al Metauro, tra i più citati e famosi dell'opera
tassesca. Qui, in una rievocazione della propria vita sub specie doloris[44],
affiorano i ricordi delle proprie sofferenze e della morte dei genitori. Il
poeta è un esiliato, concretamente e metaforicamente, sin da quando bambino
dovette lasciare il luogo natìo: «In aspro esiglio e 'n dura povertà
crebbi in quei sì mesti errori; intempestivo senso ebbi a gli affanni: ch'anzi
stagion, matura l'acerbità de' casi e de' dolori in me rendé l'acerbità degli
anni» Intanto continuava a vagare. Percorse a piedi il tratto che separa
Urbino da Torino, ma non sarebbe riuscito a entrare nella cittàera stato
respinto dai doganieri perché in stato pietosose Angelo Ingegneri, amico di
Torquato da alcuni anni, non lo avesse riconosciuto e aiutato a entrare. A
Torino ricevette l'ospitalità del marchese Filippo d'Este, genero del duca di
Savoia, e godette di una certa tranquillità che gli permise di comporre poesie
e iniziare tre dialoghi, la Nobiltà, la Dignità e la Precedenza. In seguito a
nuovi pentimenti e nuove nostalgie della corte ferrarese, il poeta si adoperò
ancora una volta per il rientro nella città ducale, facendo leva sulle
intercessioni del cardinale Albano e di Maurizio Cataneo, e infine riguadagnò
la capitale estense, proprio mentre fervevano i preparativi per le terze nozze
di Alfonso, quelle con Margherita Gonzaga, figlia del duca di Mantova
Guglielmo. Fu ospitato da Luigi d'Este, ma nessuno badava a lui: «Ora le
fo sapere, che io qui ho trovato quelle difficoltà che m'imaginava, non
superate né dal favore di monsignor illustrissimo, né da alcuna sorte d'umanità
ch'io abbia saputo usare», scrisse a Maurizio Cataneo. In una missiva al
cardinale Albano, recante la data, Tasso chiede almeno gli si faccia riottenere
lo stipendio precedente.[47] A questo punto i fatti precipitano: «Iersera
l'altra si mandò il povero Tasso a Sant'Anna, per le insolenti pazzie ch'avea
fatte intorno alle donne del Signor Cornelio, e che era poi venuto a fare con
le Dame di Sua Altezza, quali, per quanto m'è stato rifferto, furono così
brutte e disoneste, che indussero il Signor Duca a quella risoluzione».[48] Non
è chiaro quando accadesse esattamente il fatto, si oscilla tma è certo che in
quest'ultima data il poeta fosse già stato recluso nella prigione di
Sant'Anna.[ Pare sicuro anche che le parole offensive pronunciate in preda
all'ira si siano indirizzate poi in modo esplicito allo stesso duca, ed è
probabile che si trattasse di gravi accuse (forse legate ancora una volta alla
vicenda dell'Inquisizione) che, fatte in pubblico, chiedevano una risoluzione
drastica. Il duca Alfonso II rinchiuse quindi Tasso nell'Ospedale
Sant'Anna, nella celebre cella detta poi "del Tasso", dove rimase per
sette anni. Qui, alle manie di persecuzione, si aggiunsero tendenze
autopunitive. Delacroix: Tasso all'ospedale di Sant'Anna
Nell'Ospedale veniva trattato alla stregua dei «forsennati», ricevendo poche
razioni di cibo scadente, privato di ogni comodità materiale e di ogni conforto
spirituale, visto che il cappellano, «se ben io ne l'ho pregato, non ha voluto
mai o confessarmi o comunicarmi».[50] È vero che dopo nove mesi ci fu un
miglioramento del vitto, ma dovette trattarsi di ben poca cosa, e i primi tre
anni coincisero con una sorta di isolamento. Scrisse comunque
ininterrottamente a principi, prelati, signori e intellettuali pregandoli di
liberarlo e difendere la propria persona. Le suppliche erano rivolte al solito
Gonzaga, alla mai dimenticata Lucrezia d'Este, a Francesco Panigarola (che
sarebbe divenuto vescovo di Asti), a Ercole Tasso e molti altri. I primi anni
di reclusione non impedirono a Torquato di scrivere; anzi, le tre canzoni del
periodo rivelano una poesia essenziale, magistrale nella gestione delle
armonie, simbolo di un'ormai indiscussa maturità e dimostrazione, una volta di
più, di come le facoltà mentali del poeta fossero ancora intatte. Ecco quindi A
Lucrezia e Leonora, con la celebre invocazione alle «figlie di Renata», in una
nostalgico ricordo dei tempi sereni trascorsi a corte, messo in contrasto con
la durezza del tempo presente, ecco Ad Alfonso, nuova supplica al duca che,
rimasta inascoltata, diventò un inno Alla Pietà nell'omonima canzone. Le
condizioni mutarono con gli anni: gli fu permesso di uscire qualche volta e di
ricevere visite, il vitto migliorò ulteriormente, mentre poté lasciare
Sant'Anna più volte alla settimana, «accompagnato da gentiluomini e qualche
volta fu condotto anche a corte».[52] Tuttavia il trattamento rimaneva molto
duro e, a distanza di secoli, pare spropositato se il motivo dovesse ridursi
alla pazzia o a delle offese personali. Certo, il Tasso soffriva di turbe
psichiche. A questo proposito è illuminante la lettera di aiuto che indirizzò
il 28 giugno 1583 al celebre medico forlivese Girolamo Mercuriale. Qui
troviamo un elenco e una descrizione dei mali che affliggono il poeta:
«rodimento d'intestino, con un poco di flusso di sangue; tintinni ne gli
orecchi e ne la testa, imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli:
la qual mi perturba in modo ch'io non posso applicar la mente a gli studi per
un sestodecimo d'ora», fino alla sensazione che gli oggetti inanimati si
mettano a parlare. È da notare tuttavia come tutte queste sofferenze non
l'abbiano reso «inetto al comporre. Si può poi ammettere che «il Tasso non fu
semplicemente un melanconico, ma di tratto in tratto veniva sorpreso da eccessi
di mania, da riescire pericoloso a sé ed agli altri»[54], ma, anche se questi
squilibri dovessero essersi manifestati realmente, essi non giustificano né la
tesi della pazzia né la necessità di allontanare il Tasso dalla corte per un
periodo così lungo. Con buone probabilità, quindi, la ragione principale deve
essere riallacciata ancora una volta ai tentativi tasseschi di ricorrere
all'Inquisizione romana, e l'imprigionamento era il solo modo per non
compromettere il rapporto con lo Stato Pontificio. Dopo l'edizione veneziana
"pirata" e mutila di Celio Malespini, sempre durante la prigionia,
vennero pubblicatenel tentativo di porre rimedio alla sciagurata operazionea
Parma e Casalmaggiore, ancora senza il suo consenso, due edizioni del poema
iniziato all'età di quindici anni. Il titolo di Gerusalemme liberata fu scelto
dal curatore di queste ultime versioni, Angelo Ingegneri, senza l'avallo
dell'autore. L'opera ebbe un grande successo. Siccome anche le stampe
dell'Ingegneri presentavano delle imperfezioni e la Gerusalemme era ormai di
dominio pubblico, bisognava approntare la versione migliore possibile, ma per
far questo era necessaria l'autorizzazione e la collaborazione del Tasso. Così,
seppur riluttante, il poeta diede il proprio consenso a Febo Bonnà, che diede
alla luce la Gerusalemme liberata il 24 giugno 1581 a Ferrara, restituendola in
modo ancora più preciso pochi mesi dopo. Queste traversie editoriali
addolorarono il Tasso, che avrebbe voluto mettere mano al poema in modo da
renderlo conforme alla propria volontà. All'amarezza per le pubblicazioni seguì
ben presto quella che gli fu causata dallapolemica con la neonata Accademia
della Crusca. La diatriba non fu scatenata, per la verità, né dal poeta né
dall'Accademia. La sua origine va ricercata nel dialogo Il Carrafa, o vero
della epica poesia, che il poeta capuano Camillo Pellegrino stampò presso
l'editore fiorentino Sermartelli. Nel dialogo Torquato viene esaltato assieme
alla sua opera, in quanto fautore di una poesia etica e fedele ai dettami
aristotelici, mentre l'Ariosto viene duramente condannato a causa della
leggerezza, delle fantasiose invenzioni e dell'eccessiva dispersione che si
possono riscontrare nell'Orlando Furioso. Il testo provocò la reazione
dell'Accademia, che rispose nel febbraio dell'anno seguente con la Difesa
dell'Orlando Furioso degli Accademici della Crusca, stroncando il Tasso ed
esaltando invece «il palagio perfettissimo di modello, magnificentissimo,
ricchissimo, e ornatissimo» che era il Furioso. La Difesa fu fondamentalmente
opera di Leonardo Salviati e di Bastiano de' Rossi. Tasso decise di scendere in
campo con l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata, edita a Ferrara dal
Licino il 20 luglio. Rivendicando la necessità di un'invenzione che si fondi
sulla storia, il poeta si opponeva alle opinioni dei paladini del volgare
fiorentino, e respingeva le accuse di un lessico intriso di barbarismi e poco
chiaro. La polemica continuò, visto che il Salviati replicò in settembre con la
Risposta all'Apologia di Torquato Tasso (testo noto anche come Infarinato
primo), cui seguirono un nuovo opuscolo di Pellegrino e un Discorso del Nostro,
dopo di chese si esclude un ulteriore scritto del Salviati, l'Infarinato
secondo per qualche tempo le acque si calmarono, ma la querelle tra ariosteschi
e tasseschi proseguì fino al secolo successivo, e fu una delle più infiammate
della storia della letteratura italiana. Durante la reclusione Tasso
scrisse principalmente discorsi e dialoghi. Fra i primi quello Della gelosia,
Dell'amor vicendevole tra 'l padre e 'l figliuolo, Della virtù eroica e della
carità, Della virtù femminile e donnesca, “Dell'arte del dialogo”; “Il
Secretario” cui si deve aggiungere il Discorso intorno alla sedizione nata nel
regno di Francia e il Trattato della Dignità, già iniziato a Torino, come si è
visto. Queste opere sviluppano tematiche morali, psicologiche o strettamente
religiose. La virtù cristiana è proclamata come superiore alla pur nobile virtù
eroica, si afferma la comune origine di amore e gelosia, si valutano i talenti
specifici della donna, il tutto arricchito dal racconto di esperienze personali
che giustificano l'opinione dell'autore. Vengono affrontate anche questioni
politiche, in special modo nel Secretario, diviso in due parti, la prima
dedicata a Cesare d'Este, la seconda ad Antonio Costantini. Qui, nella
descrizione del principe ideale, si enucleano alcune caratteristiche come la
clemenza (chiaro il riferimento alla propria condizione), l'esser filosofo, e
soprattutto «un gentiluomo a la cui fede ed al cui sapere si possono confidare
gli Stati e la vita e l'onor del principe». Più copiosa ancora fu la
composizione di dialoghi, scritti sotto il nume ideale di Platone, ma
paragonabili più obiettivamente a quelli del sedicesimo secolo. Quasi ogni
tematica morale viene sviscerata in una serie davvero lunga di opere più o meno
prolisse e più o meno felici. Tasso scrisse, nell'ordine, Il Forno, o
vero de la Nobiltà, il Gonzaga, o vero del Piacer onesto, in seguito rivisto e
stampato con il titolo Il Nifo, o vero del piacere; Il Messaggero. Qui immaginò
di interagire amichevolmente con il folletto da cui si credeva perseguitato
nella realtà. Questo dialogo ispirò la celebre operetta morale leopardiana
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), con una seconda lezione.
Il padre di famiglia (ispirato a un gentiluomo che lo ospitò a Borgo Sesia
prima dell'arrivo a Torino); Il cavalier amante e la gentildonna amata (con
dedica a Giulio Mosti, giovane ammiratore del poeta); Romeo o vero del giuoco,
rivisto e dato alle stampe con titolo Il Gonzaga secondo, o vero del
giuoco; La Molza, o vero de l'Amore (prende spunto dalla conoscenza che il
Tasso fece della celebre poetessa Tarquinia Molza a Modena, dedicato a Marfisa
d'Este); Il Malpiglio, o vero della corte (con riferimento al gentiluomo
ferrarese Lorenzo Malpiglio); Il Malpiglio secondo o vero del fuggir la
moltitudine; Il Beltramo, overo de la Cortesia; Il Rangone, o vero de la Pace
(in risposta a uno scritto di Fabio Albergati); Il Ghirlinzone, o vero
l'Epitafio. Il Forestiero napolitano, o vero de la Gelosia; Il Cataneo, o vero
de gli Idoli, e, infine, La Cavalletta, o vero de la poesia toscana. In tutto
questo non aveva dimenticato l'opera principe, dimostrando di avere al riguardo
idee piuttosto lontane da quella che sarà la realizzazione finale. A Lorenzo
Malpiglio espose intenzioni sostanzialmente opposte agli interventi che avrebbe
apportato negli anni successivi: parla di portare la Liberata da venti a
ventiquattro canti (secondo l'idea originaria) e di accrescere il numero delle
stanze, tagliando anche dei passaggi ma con il risultato che «la diminuzione
sarà molto minor de l'accrescimento. Qualche segnale, magari anche dettato da
semplice interesse, lasciava intravedere un astio meno severo nei confronti del
Nostro. Prima della reclusione a
Comacchio era stata rappresentata una commedia tassesca alla presenza della
corte. Ora Virginia de' Medici voleva che il testo fosse perfezionato e
completato per essere interpretato durante i festeggiamenti del suo matrimonio
con Cesare d'Este. Tasso si mise al lavoro ed esaudì la richiesta. L'opera
fu poi pubblicata e ricevette il titolo “Gli intrichi d'amor” edal Perini, uno
degli attori dell'Accademia di Caprarola, che aveva messo in scena la commedia.
L'opera, ricolma di intrecci amorosi e di agnizioni secondo il costume
dell'epoca, è sofisticata e inverosimile, ma non mancano pagine vivaci ed
episodi ispirati all'Aminta. Vi si possono inoltre vedere alcuni elementi che
confluiranno nella commedia dell'arte: il personaggio del Napoletano, parlando
in dialetto e «profondendosi in spiritosaggini sbardellate», richiama alla
mente la futura maschera di Pulcinella. La critica è stata piuttosto concorde
nel ritenerla infelice, tutta una goffaggine pedantesca e superficiale, nel giudizio
di Francesco D'Ovidio. F. Pourbus: Vincenzo Gonzaga Dopo la prigionia: le
delusioni, le sofferenze, le peregrinazioni. Finì la prigionia. Venne affidato
a Vincenzo Gonzaga, che lo volle alla sua corte di Mantova. Nelle intenzioni di
Alfonso, Tasso doveva restare presso il figlio di Guglielmo Gonzaga solo per un
breve periodo, ma di fatto il poeta non tornò più a Ferrara, e restò presso
Vincenzo, in un ambiente in cui conobbe Ascanio de' Mori da Ceno, diventandone
amico. A Mantova ritrova qualche barlume di tranquillità; riprese in mano
il Galealto re di Norvegia, la tragedia che aveva lasciato interrotta alla
seconda scena del secondo attoe che aveva frattanto avuto un'edizione nel 1582
-, e la trasformò nel Re Torrismondo, conglobando nei primi due atti quanto
aveva precedentemente scritto ma cambiando i nomi, e procedendo alla stesura
dei tre atti successivi in modo da arrivare ai cinque canonici. Quando
nell'agosto si recò a Bergamo, ritrovando amici e parenti, si mise subito in
azione per dare alle stampe la tragedia, e l'opera uscì, a cura del Licino e
per i tipi del Comin Ventura, con dedica a Vincenzo Gonzaga, nuovo duca di
Mantova. Si trattava comunque di una "libertà vigilata", e i fatti lo
dimostrano chiaramente. Dopo essere tornato a Mantova, deluso e preoccupato
di una possibile venuta di Alfonso, Tasso andò a Bologna e a Roma senza
chiedere al Gonzaga l'autorizzazione e questi, sotto la pressione del duca di
Ferrara, tentò in ogni modo di farlo tornare indietro. Antonio Costantini,
sedicente amico del poeta che metteva al primo posto l'ambizione e l'obiettivo
di essere tenuto in onore presso la corte mantovana, e Scipione Gonzaga si
mobilitarono, ma Torquato capì la situazione e rifiutò di ritornare, rendendo
impossibile qualsiasi mossa, dal momento che un intervento che lo riportasse
nel ducato mantovano con la forza non sarebbe mai stato tollerato dal
Pontefice. Il fatto che nessuno impedisse il viaggio a Bergamo mentre ci fosse
una mobilitazione generale per allontanare il poeta dall'Urbe rimane comunque
un segnale che pare ulteriormente ridimensionare il peso della presunta follia
di Torquato nelle preoccupazioni dei duchi del settentrione. Il santuario
di Loreto in un'incisione di Francisco de Hollanda (prima meta del sec. XVI)
Nel corso del tragitto Tasso passò da Loreto, raccogliendosi in preghiera nel
santuario e concependo quella canzone «a la gloriosa Vergine» che può forse
richiamare il Petrarca della Canzone alla Vergine in qualche scelta lessicale,
ma, in mezzo alla lode e alla supplica, è tanto più intessuta di travaglio e
sofferenza: «Vedi, che fra' peccati egro rimango, qual destrier, che si
volve nell'alta polve, e nel tenace fango.» Torquato fu a Roma.
L'irrequietudine era di nuovo alle stelle: le lettere registrano le sue
richieste di denaro e le lamentele per la propria condizione di salute. Il
poeta è ormai disilluso, e fa meno affidamento sulla possibilità che gli altri
lo aiutino. Come scrisse alla sorella in una lettera del 14 novembre, gli
uomini «non hanno voluto sanarmi, ma ammaliarmi. Tuttavia, il Nostro è in preda
al bisogno materiale e continua ad autoumiliarsi, scrivendo versi encomiastici
per Scipione Gonzaga, divenuto cardinale, senza ottenere alcunché. Anche la
speranza di essere ricevuto dal papa Sisto V viene delusa, nonostante le lodi
che Tasso rivolge al pontefice in varie poesie, confluite assieme ad altre del
periodo in un volumetto stampato a Venezia. Vista l'inutilità del soggiorno
romano, il peregrinante poeta pensò trovare maggior fortuna nell'amata Napoli.
Così, ritorna nella città vesuviana fortemente intenzionato a risolvere a
proprio favore le cause contro i parenti per il recupero della dote paterna e
di quella materna. Benché potesse contare su amici e congiunti, e sulle
conoscenze altolocate partenopee, tra cui i Carafa (o Carrafa) di Nocera, i
Gesualdo, i Caracciolo di Avellino, i Manso, preferì accettare l'ospitalità di
un convento di frati olivetani. Qui conobbe l'amico più caro degli ultimi anni:
Giovan Battista Manso, signore di Bisaccia e primo entusiasta biografo
dell'autore dopo la sua morte. Il clima amichevole in cui fu accolto, la
stima di amici e letterati, e il conforto di una «bellissima città, la quale è
quasi una medicina al mio dolore, riuscirono a risollevare per un breve periodol'infelice
animo tassiano. Per ringraziare i monaci scrisse il poemetto, rimasto
incompiuto, Monte Oliveto, in riferimento al convento in cui sorgeva il
complesso monastico che attualmente ospita la caserma dei carabinieri (resta
visitabile la chiesa Sant'Anna dei Lombardi). L'operaun resoconto encomiastico
delle principali tappe esistenziali e delle principali virtù di Bernardo
Tolomei, il fondatore della Congregazioneè fortemente intessuta di spirito
cristiano, in un severo richiamo ad una vita sobria, lontana dalle vanità del
mondo. Dedicata al cardinale Antonio Carafa, si interrompe alla centoduesima
ottava. Al pari del Re Torrismondo e di molta parte dell'ultima produzione
tassesca, il Monte Oliveto non ha goduto dei favori della critica. Guido
Mazzoni vi vide più una predica che un poema, mentre Eugenio Donadoni utilizzò
quasi le medesime parole che gli erano servite per stroncare il Torrismondo (v.
Re Torrismondo): questa è «l'opera non più di un poeta, ma di un letterato, che
cerca di dare forma e tono epico a una convenzionale vita di santo».[78] Come
per la tragedia nordica, la rivalutazione è arrivata con l'analisi di Luigi
Tonelli e di alcuni studiosi più recenti. In ogni caso, anche questo
periodo napoletano si rivelò problematico per Tasso, a causa delle precarie
condizioni di salute e delle ristrettezze economiche, a cui si aggiunsero anche
nuove polemiche letterarie e religiose sulla Gerusalemme liberata. Spostatosi a
Bisaccia, Tasso poté vivere un periodo di maggiore tranquillità. Manso ricorda
un episodio curioso: mentre sedeva con l'amico davanti al fuoco, questi disse
di vedere uno «Spirito, col quale entrò in ragionamenti così grandi e
meravigliosi per l'altissime cose in essi contenute, e per un certo modo non
usato di favellare, ch'io rimaso da nuovo stupore sopra me inalzato, non ardiva
interrompergli». Alla fine della visione, Manso confessò di non aver visto
nulla, ma il poeta gli si rivolse sorridendo: «Assai più veduto hai tu, di
quello che forse... E qui si tacque».[79] Viste le rare manifestazioni
allucinatorie di cui abbiamo notizia, (si ricordino quelle che erano state
descritte nel dialogo Il messaggero, in cui è descritto uno spirito amoroso che
appare a Tasso sotto la figura di un giovanetto dagli occhi azzurri, simili a
quelli che Omero alla dea d'Atene attribuisce), la risposta del Nostro assume
una valenza indubbiamente ambigua, e non può escludersi che avesse voluto
mettere alla prova il Manso per vedere se anche lui lo avrebbe considerato un
"folle". A dicembre era di nuovo a Roma, dove giunse nella
speranza di poter essere ospitato dal Papa in Vaticano, confidando negli
illusori pareri di alcuni amici.[80] Ad ospitare Tasso fu invece Scipione
Gonzaga, e il poeta si sentì di nuovo «più infelice che mai». Ricominciava la
routine: richieste d'aiuto a destra e a sinistra, con l'obiettivo di ricevere i
cento scudi che gli erano stati promessi per la stampa delle sue opere: «vorrei
in tutti i modi trovar questi cento ducati, per dar principio a la stampa,
avendo ferma opinione che di sì gran volume se ne ritrarrebbero molto più»,
scrisse ad Antonio Costantini.[82] I destinatari erano ancora una volta i più
disparati: il principe di Molfetta, il Costantini, il duca di Mantova Vincenzo
Gonzaga, gli editori. Il Nostro si umiliò per l'ennesima volta anche con
Alfonso, cui chiese nuovamente perdono, mentre al Granduca di Toscana
Ferdinando I domandò l'intercessione del cardinal Del Monte, lo stesso che
prenderà sotto la propria protezione Caravaggio. Tutte le speranze, però,
furono disattese. Al tempo stesso anche le missive ai medici si rifecero
intense. Tuttavia, in mezzo a tante delusioni e a tanto affanno non venne meno
la verve creativa: oltre ad aver raccolto le Rime in tre volumi, e avervi
scritto il commento, Tasso compose anche un poema pastorale che riprende, anche
se solo nel nome, alcuni personaggi dell'Aminta. È Il rogo di Corinna, dedicato
a Fabio Orsino. La prima pubblicazione dell'opera fu postuma. Per quanto
Grazioso Graziosi, agente del duca di Urbino, dicesse al suo signore del modo
eccellente in cui il Tasso era trattato presso il cardinale Gonzaga, egli
rilevava al contempo le infermità fisiche e mentali di Torquato, che privavano
la sua età «del maggior ingegno che abbian prodotto molte delle passate.
Tuttavia, è bene diffidare della prima quanto della seconda affermazione. Se
«il povero Signor Tasso è veramente degno di molta pietà per le infelicità
della sua fortuna»[85], come si legge in una missiva del Graziosi di due
settimane dopo, perché cacciare il poeta in malo modo, mentre Scipione Gonzaga
non era presente, e costringerlo a una nuova situazione di bisogno? In aiuto
del Tasso vennero ancora i monaci della Congregazione del Tolomei, che lo
ospitarono a Santa Maria Nuova degli Olivetani.[86] Gli ultimi anni del
Tasso, però, non conobbero pace duratura: le sofferenze psichiche si acuirono
nuovamente, certo per le nuove delusioni derivanti da richieste di denaro non
esaudite, dall'obbligo di piegarsi alla composizione di poesie a pagamento, e
il poeta fu costretto a farsi ricoverare nell'Ospedale dei Pazzarelli,
adiacente alla chiesa dei Santi Bartolomeo e Alessandro dei Bergamaschi,
la cui costruzione era appena stata ultimata. Il dolore emerge in modo chiaro
in una lettera inviata il primo dicembre 1589 ad Antonio Costantini, divenuto
ormai suo confidente. Ritornò presso Scipione Gonzaga, sempre lamentandosi per
la scarsa considerazione in cui era tenuto e sempre scrivendo della propria
infelicità.[88] Tasso premeva, come già più volte in passato, per essere
accolto a Firenze dal Granduca di Toscana, e accettò quindi con gioia l'invito
di Ferdinando de' Medici. A Firenze giunse in aprile, ospite prima dei fidati
Olivetani, poi di ricchi e illustri cittadini quali Pannucci e Gherardi. Alla
tranquillità necessaria per rivedere la Gerusalemme si aggiunsero anche
relative soddisfazioni economiche (sempre comunque in cambio di versi
encomiastici): dal Granduca ricevette centocinquanta scudi[89], da Giovanni III
di Ventimiglia, marchese di Geraci, sembrerebbe, duecento scudi.[90] Il
motivo di gioia principale era tuttavia un altro, era l'avvicinarsi dell'evento
più ambito da chi si sentiva, sopra ogni cosa, poeta: «Penso a la mia
coronazione, la qual dovrebbe esser più felice per me, che quella de' principi,
perché non chiedo altra corona per acquetarmi». Non ci fu nessuna
incoronazione. C'è chi ha asserito che questa lettera contenesse solo una
bislacca speranza del Tasso, senza alcun legame con la realtà.[92] Tuttavia, la
sicurezza con cui l'evento viene ormai dato per certo lascia pensare che le
illusioni del Nostro avessero un fondamento, e non fossero una pura
chimera. Un nuovo evento lo indusse all'ennesimo spostamento: papa Urbano
VII era succeduto a Sisto V, incoraggiando il Tasso a fare nuovamente
affidamento sugli aiuti pontifici. C. scese così a Roma, accolto dagli
Olivetani di Santa Maria del Popolo. Giovanni Battista Castagna morì tredici
giorni dopo l'elezione, lasciando il posto a Gregorio XIV. Anche questa volta
le lettere del poeta registrano un amaro scacco: «Ho perduto tutti gli appoggi;
m'hanno abbandonato tutti gli amici, e tutte le promesse ingannato», confidò,
sempre più afflitto, a Niccolò degli Oddi. L'autore della Gerusalemme è ogni
giorno che passa più confuso, sballottato qua e là dagli eventi come una barca
in mezzo al mare. Tutto questo riflette la condizione interiore di una persona
disincantata ma al tempo stesso ancora ingenuamente pronta a fidarsi delle
fallaci promesse che giungono dal mondo intorno, riflette un'instabilità ormai
cronica. È vero che la fede andò radicandosi sempre più in Tasso, ma il fatto
che al duca di Mantova scrivesse di volersi ritirare in un monastero e pochi
giorni dopo accettasse il suo invito a tornare a corte è l'evidente
manifestazione di un'anima senza pace. Ritornato quindi sul Mincio, accolto con
tutti gli onori, poté dedicarsi totalmente al lavoro letterario, e in
particolare alla revisione del capolavoro. La missiva a Maurizio Cataneo del 4
luglio ci informa del fatto che il poeta era già a buon punto, e illustra le
linee direttrici della propria opera correttrice: «sono al fine del penultimo
libro; e ne l'ultimo mi serviranno molte di quelle stanze che si leggono nello
stampeato. Desidero che la riputazione di questo mio accresciuto ed illustrato
e quasi riformato poema toglia il credito a l'altro, datogli dalla pazzia de
gli uomini più tosto che dal mio giudicio». Sono parole che possono parere
sciagurate, ma riflettono gli scrupoli religiosi sempre più pressanti.
Non si era comunque concentrato solo sul poema: aveva raccolto le Rime in
quattro volumi, e con l'editore veneziano Giolito parlava della possibilità
di stampare tutte le opere (esclusa la Gerusalemme) in sei libri. A tutto
questo va aggiunto un nuovo lavoro che aveva intrapreso, lasciandolo poi
incompiuto. La genealogia di Casa Gonzaga, con dedica a Vincenzo, si interruppe
dopo centodiciannove ottave, per essere pubblicato solo nel 1666, tra le Opere
non più stampate dell'edizione romana Dragondelli.[96] Il poemetto è
sicuramente trascurabile, fatto di una versificazione fredda, appesantita da
nozioni e nomi. Tra le fonti il ruolo principale è stato svolto da un regesto
di Cesare Campana, Arbori delle famiglie... e principalmente della Gonzaga,
uscito a Mantova l'anno prima, e dall'Historia sui temporis di Paolo Giovio,
accanto a cui va ricordata la tradizione orale legata alla battaglia del Taro.
La calma, tuttavia, era ormai un ricordo di gioventù, e ogni soggiorno
diventava insopportabile dopo un certo numero di mesi. Così, ridiscese la
penisola, con l'intenzione di raggiungere nuovamente Roma. Il viaggio fu
travagliato e appesantito dal fatto che Tasso si ammalò più volte durante il
tragitto, costretto a sostare in varie località, fra cui Firenze. Giunto
nell'Urbe, ricevette l'ospitalità di Cataneo. Poche settimane dopo era ancora
in viaggio, diretto a Napoli A questo
punto, inaspettatamente, ci fu spazio per qualche luce e qualche reale
soddisfazione. Il soggiorno napoletano non tradì, né per quanto riguarda l'accoglienza
ricevuta (fu ospitato dal principe di Conca Matteo di Capua e poi da Manso con
grandi onori e affetto), né sulle questioni letterarie, né su quelle relative
alla salute dell'artista. In effetti, in virtù della «purità dell'aria,
comincia a sentirsi meglio, e di conseguenza poté dedicarsi in modo più
proficuo alle proprie attività. In questi mesi completò la Conquistata, e,
sempre durante il soggiorno partenopeo, mise mano all'ultima opera
significativa, Le sette giornate del Mondo creato. Gli ultimi tre anni di vita
lo videro prevalentemente a Roma. L'elezione al soglio pontificio di Clemente
VIII lo fece venire nell'Urbe, e anche qui ebbe un trattamento decisamente
migliore rispetto alle recenti esperienze. Poté infatti alloggiare nel palazzo
dei nipoti del Papa, Pietro e CinzioAldobrandini, in procinto di diventare
cardinali. Cinzio sarà di fatto il vero mecenate dell'ultimo periodo. La
produzione letteraria ebbe nuovi sussulti, consacrandosi ormai quasi
esclusivamente agli argomenti sacri: compose i Discorsi del poema eroico e
altri Dialoghi, carmi latini e rime religiose. Addolorato per la morte di
Scipione Gonzaga, gli dedicò, nel marzo 1593, Le lagrime di Maria Vergine e Le
lagrime di Gesù Cristo.Tasso aveva intanto finito di rivedere il poema, e
sempre nel 1593 vide la luce a Roma, per i tipi di Guglielmo Facciotti, la
Gerusalemme conquistata. Esistono inoltre chiare testimonianze del fatto
che ci fosse l'intenzione di incoronare Tasso in Campidoglio, nonostante alcuni
studiosi si siano osti negarlo e a considerarla un'invenzione del poeta. È
veramente degno il Signor Torquato Tasso di esser celebrato in questi medesimi
tempi come raro per la sua poesia, ed è parimente degno della grandezza
dell'animo del Signor Cinzio Aldobrandini di erigergli una statua laureata, con
mill'altre cerimonie e specie, come dicono che tosto si vedrà, e dargli luogo
in Campidoglio fra le più degne ed antiche cerimonie [...]», rivela Matteo
Parisetti in una lettera ad Alfonso II, risalente all'agosto del Lo stesso
Tasso è esplicito al riguardo: «Qui in Roma mi voglion coronar di lauro»,
scrive al Granduca di Toscana il 20 dicembre 1594, «o d'altra foglia».
Sennonché, pur essendo ancora bisognoso di soldi e continuando a fare richiesta
per ottenerli, il poeta sentiva sempre più lontane le preoccupazioni del mondo,
e sempre meno si curava della vanità e dei successi terreni. La salute, dopo la
parentesi napoletana, andava aggravandosi nuovamente, e Torquato cominciava a
capire che la fine non era lontana. Per questo ritornò alle falde del Vesuvio,
per concludere rapidamente in proprio favore la questione legata all'eredità
materna: il risultato fu soddisfacente, acconsentendo il principe di Avellino a
versargli duecento ducati all'anno, ai quali vanno aggiunti cento ducati annui
che il Papa si risolverà a dargli a partire dal febbraio 1595. A Napoli
rimase dal giugno al novembre del 1594, alloggiato al monastero benedettino di
san Severino, sempre più votato alla vita monastica e attratto ancora dalla
letteratura agiografica. Fu probabilmente nei mesi trascorsi presso i
benedettini che Tasso abbozzò l'incompiuta Vita di San Benedetto. Alla fine
dell'anno ritornò a Roma. Cambiò città per l'ultima volta: la fine era
dietro l'angolo. Riconosciuta la definitiva infermità che gli rendeva ormai
impossibile scrivere e correggere, non sentì più che un ultimo bisogno,
tralasciando tutto il resto, il bisogno della «fuga dal mondo». Entra al
monastero di S. Onofrio, sul Gianicolo, senza più nemmeno curarsi del fatto che
il Mondo creato non era stato ancora rivisto. Tutto svaniva, di fronte
all'importanza di prepararsi al trapasso: «Che dirà il mio signor Antonio,
quando udirà la morte del suo Tasso? E per mio avviso non tarderà molto la
novella, perch'io mi sento al fine de la mia vita. Non è più tempo ch'io parli
de la mia ostinata fortuna, per non dire de l'ingratitudine del mondo». Tutto
perdeva importanza, a fronte della dolcezza della «conversazione di questi
divoti padri», che cominciava «la mia conversazione in cielo. Monumento in
Sant'Onofrio Il 25 aprile, all'«undecima ora». Tasso muore. E una morte serena,
ricevuta con tutti i conforti dei sacramenti.La morte del Tasso è
stata accompagnata da una particolar grazia di Dio benedetto, perché in questi
ultimi giorni le duplicate confessioni, le lagrime e insegnamenti spirituali
pieni di pietà e di giudizio, mostrarono che fosse affatto guarito dall'umor
malinconico, e che quasi uno spirito gli avesse accostato al naso l'ampolle del
suo cervello. Venne sepolto nella Chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo.
Presso il monastero, accanto alla strada è ancora visibile la rampa della
quercia, dove si trova il tronco nero di una quercia secolare sostenuto da un
sopporto metallico. Secondo la tradizione locale si tratta della cosiddetta
quercia del Tasso, l'albero alla cui ombra il poeta spesso sedeva per
riposarsi. Albero genealogico Reinerius de Tassis Sconosciuta Omedeo
Tasso ( Sconosciuta Ruggero Tasso SconosciutaBenedetto Tasso SconosciutaPalazzo
de Tassis Tonola de Magnasco, Pasimo (o Paxio) de Tassis. SconosciutaPietro
Tasso. SconosciutaGiovanni Tasso
Catalina de Tassi Gabriel Tasso Porzia de RossiBernardo Tasso Torquato
Tasso Opere Un ritratto a Sorrento. Gerusalemme Scritto quando egli aveva
solo 15 anni il Gierusalemme rappresenta il primissimo tentativo di Tasso di
maneggiare il genere epico nonché il suo primo impegno letterario di rilievo.
Se ne possiedono soltanto centosedici stanze del canto I. Oltre a condividere
con la Liberata l'argomento (la prima Crociata), si notano pure alcune
somiglianze tra il proemio di questo esordio poetico giovanile e quello del
capolavoro della maturità. Rinaldo All'età di diciotto anni Tasso riprese
la materia del romanzo cavalleresco e pubblicò il Rinaldo, poema in ottave che
narra in dodici canti la giovinezza del paladino della tradizione carolingia e
le sue imprese di armi e di amori. Nella prefazione al poema Tasso dichiara di
voler imitare in parte gli "antichi" (Omero e Virgilio), in parte i
"moderni" (Ariosto). Si concentra però su un unico protagonista, secondo
le esigenze di unità proposte dall'aristotelismo. Si tratta di un'opera
tipicamente giovanile, ancora priva di originalità, ma compaiono già alcuni
temi e toni fondamentali che caratterizzeranno il Tasso maturo e formato
culturalmente. Rime Torquato Tasso compose un gran numero di poesie
liriche, lungo l'arco di tutta la sua vita. Le prime furono pubblicate col
titolo di Rime degli Accademici Eterei. Uscirono Rime e prose. Tasso lavorò
fino al 1593 ad un riordino complessivo dei testi, distinguendo rime amorose e
rime encomiastiche. Previde poi una terza sezione, dedicata alle rime religiose
e una quarta di rime per musica, ma non realizzò il progetto. Nelle Rime
amorose è ben riconoscibile l'influenza della poesia petrarchesca e della vasta
produzione petrarchistica del Quattrocento e Cinquecento; contemporaneamente,
però, il gusto per le preziosità linguistiche e l'intensa sensualità rivelano
l'evoluzione verso un linguaggio nuovo che maturerà nel Seicento. L'uso
frequente di forme metriche poco usate dai poeti precedenti, come il madrigale,
e la raffinata musicalità dei versi fecero sì che molti di essi fossero
musicati da grandi autori come Claudio Monteverdi e Gesualdo da
Venosa. Più solenni e classicheggianti le Rime encomiastiche,
dedicate alle figure e alle famiglie signorili che ebbero rilievo nella vita
del poeta. Per la loro creazione si ispira a Pindaro, Orazio e al celebre
Monsignor della Casa. Fra tutte, la più famosa è la Canzone al Metauro,
intessuta di elementi autobiografici. Le Rime religiose sono caratterizzate
dal tono cupo e plumbeo, forse dovuto al fatto che le scrisse negli ultimi anni
di vita. Qui il poeta manifesta il desiderio di sconfiggere l'ansia
esistenziale e il tormentoso senso del peccato attraverso la fede e
l'espiazione. Discorsi dell'arte poetica Attorno alla metà degli Anni
Sessanta scrisse i quattro libri dei Discorsi dell'arte poetica ed in
particolare sopra il poema eroico, letti all'Accademia Ferrarese e pubblicati
molto più tardi, nel 1587, dal Licino. Il testo fornisce una chiara visione
della concezione tassesca del poema eroico, piuttosto distante da quella
ariostesca, che dava la prevalenza all'invenzione e all'intrattenimento del
pubblico. Perché possa essere giudicato di buon livello, deve basarsi su
un evento storico, da rielaborare in modo inedito. Infatti, «la novità del
poema non consiste principalmente in questo, cioè che la materia sia finta, e
non più udita; ma consiste nella novità del nodo e dello scioglimento della
favola. Al verosimile deve essere unito il meraviglioso, e Tasso trova l'unione
perfetta di queste due componenti nella religione cristiana. Intiera, l'opera
deve essere una, ossia prevedere l'unità d'azione, ma senza schemi rigidi: ci
può essere largo spazio per la varietà, e per la creazione di numerosi racconti
nel racconto, e in questo senso la Gerusalemme liberata costituisce una piena
realizzazione delle idee dell'autore. Lo stile, infine, deve adeguarsi alla
materia, e variare tra il sublime e il mediocre a seconda dei casi.
Aminta Magnifying glass icon mgx2.svg Aminta (Tasso). Le sofferenze di
Aminta, dipinto di Bartolomeo Cavarozzi «L'Aminta non è un dramma pastorale e
neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto
lirico, narrazione drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le
tragedie e le commedie e i così detti drammi pastorali in Italia … Essa è in
fondo una novella allargata a commedia, di quel carattere romanzesco che
dominava nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il
Ruffo, la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due
protagonisti, Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si
accavallano con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a
monologhi e capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla
narrazione L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da
partecipi con le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è
tutto nella narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui
concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: "s'ei piace, ei
lice". Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di
caratteri e di avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui,
comparazioni, sentenze, movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza
musicale, piena di grazia e delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima.
Semplicità molta è nell'ordito, e anche nello stile, che senza perder di
eleganza guadagna di naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è
artificio finissimo. Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà
un'apparenza pastorale a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo
raffinato, e la stessa semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un
miracolo di perfezione, e certo non ci è opera d'arte così finamente
lavorata.» (De Sanctis) L'Aminta è una favola pastorale. Presenta un
prologo, 5 atti, un coro. Ogni canto si conclude a lieto fine. Ha
ispirato la composizione della favola pastorale Flori di Maddalena Campiglia
lodata dallo stesso Tasso. Sulle ali dell'entusiasmo per il successo
dell'Aminta Tasso incominciò una tragedia, Galealto re di Norvegia, che però
interruppe alla seconda scena del secondo atto. Il poeta la riprese e la completò
a Mantova, subito dopo la liberazione dall'Ospedale di Sant'Anna cambiando però
il titolo, diventato Re Torrismondo, e il nome del protagonista.
L'ambientazione è nordica: in essa sono frequenti le immagini di distese
boschive. In questo, il Tasso mostra la sua forte curiosità per le leggende
nordiche, come ad esempio mostra la lettura dell'Historia de gentibus
septentrionalibus di Olao Magno. L'editio princeps è quella bergamasca
del 1587; seguirono a ruota le edizioni di Mantova, Ferrara, Venezia e Torino,
ma poi ci fu un lungo silenzio. L'opera fu rappresentata per la prima volta
soltanto al Teatro Olimpico di Vicenza. Trama Torrismondo è intimamente
segnato dal conflitto tra amore e amicizia: il sovrano (d'una ignota regione
nordica, non di Norvegia) ama Alvida, che a causa di un debito passato
(Germondo aveva salvato la vita a Torrismondo) deve sposarsi con l'amico
Germondo, re di Svezia, regno nemico a quello di Alvida poiché Germondo stesso
era stato accusato di omicidio del fratello di Alvida. Germondo dunque non può
sposarsi con la donna amata poiché il padre di quest'ultima lo odia. Germondo
decide allora che Torrismondo per sdebitarsi avrebbe dovuto chiedere la mano di
Alvida e al momento delle nozze avrebbe dovuto scambiare la sposa. Ottenuta da
Torrismondo la mano di Alvida i due consumano l'amore. La storia prenderà
un'altra china quando Torrismondo scoprirà che la donna amata non è altri che
la sorella, la situazione culminerà nel suicidio dei due. Il Re Torrismondo è
molto importante perché anticipa le tragedie barocche, nelle quali si
riprendono alcune caratteristiche fondamentali delle tragedie senecane: la
meditatio mortis (il Memento mori) e il gusto dell'orrido. Nel Tasso, però, ciò
che compare fortemente e caratterizza le sue tragedie è il conflitto intimo che
dilania l'animo dei personaggi: l'uomo si sente intrappolato dal fato, poiché
impossibilitato all'agire, a modificare il corso degli eventi ormai già
predisposti. Tuttavia, la critica non si è espressa positivamente in
merito all'opera: Solerti ed Ovidio si sono mostrati ostili verso il
Torrismondo come lo erano stati nei confronti degli Intrichi d'amore, e severo
si è dimostrato anche Umberto Renda, che alla tragedia ha dedicato una
monografia. Ancora più duro il giudizio
di Eugenio Donadoni, che arrivò a parlare di «opera di un ex-poeta, non più di
un poeta, e nemmeno Giosuè Carducci, pur
apprezzando lo sforzo di unire elementi pagani e religiosi, classici ed
esotici, ha ritenuto il dramma degno dell'ingegno tassesco. Solo Tonelli fa
presente che superava pur sempre «la maggior parte delle tragedie
cinquecentesche e rivaleggiava con le migliori del tempo. Gerusalemme liberata
Gerusalemme liberata. Tasso con la sua Gerusalemme liberata La
Gerusalemme liberata è considerata il capolavoro di Tasso. Il poema tratta di
un avvenimento realmente accaduto, ossia la prima crociata. Tasso iniziò a
scrivere l'opera con il titolo di Gierusalemme durante il soggiorno a Venezia.
L'opera fu pubblicata integralmente con il titolo di Gerusalemme liberata. In
seguito alla pubblicazione del poema il poeta rimise mano all'opera e la
riscrisse eliminando tutte le scene amorose e accentuando il tono religioso ed
epico della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme conquistata. In realtà
la Conquistata fu immediatamente dimenticata e la redazione che continuò ad
avere grande successo e ad essere ristampata, in Italia e nei paesi stranieri,
fu la Liberata. Trama Goffredo di Buglione nel sesto anno di guerra
raduna i crociati, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio
Gerusalemme. Uno dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato
Tancredi. Chi vince il duello vince la guerra. Il duello però viene sospeso per
il sopraggiungere della notte e rinviato. I diavoli decidono di aiutare i
musulmani a vincere la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con
uno stratagemma riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani, tra cui
Tancredi, in un castello incantato. L'eroe Rinaldo per aver ucciso un altro
crociato che lo aveva offeso viene cacciato via dal campo. Il giorno del duello
arriva e poiché Tancredi è scomparso viene sostituito da un altro crociato
aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in
battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra quando arrivano gli
eroi imprigionati liberati da Rinaldo che rovesciano la situazione e fanno
vincere la battaglia ai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una
torre per dare l'assalto a Gerusalemme ma Argante e Clorinda (di cui Tancredi è
innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e
viene uccisa in duello proprio da colui che l'ama, Tancredi, che non l'aveva
riconosciuta. Tancredi è addolorato per aver ucciso la donna che amava e solo l'apparizione
in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno lancia un
incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire la torre.
L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, prigioniero della maga
Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e alla fine lo
trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e permette ai
crociati di assalire e conquistare Gerusalemme. I Dialoghi La stesura di prose
dialogiche impegnò Tasso fin dal 1578, anno della composizione del Forno overo
de la Nobiltà. La dialogistica tassiana è stata da sempre relegata al
margine dalla critica: De Sanctis accenna soltanto al Minturo overo della
Bellezza, limitandosi ad asserire che Tasso da giovane fu “infetto dalla peste
filosofica”. Un giudizio a dir poco sminuente se si considera che il poeta
compose venticinque dialoghi (e questa è solo la cifra canonica; non si fa
riferimento, infatti, agli abbozzi e ai rimaneggiamenti) e vi pose il suo
impegno fino alla morte. Una valutazione più precisa è fornita da
Donadoni: lo studioso dedica un intero capitolo della sua monografia ai
Dialoghi indagandone trame, fonti e suggestioni. La prima edizione moderna
del corpus dialogico tassiano è quella di Guasti, il quale, però, non riuscendo
a reperire tutti i manoscritti dei Dialoghi si basa sui testimoni a stampa,
dando vita ad un’edizione, che presenta corruttele da far rabbrividire i
moderni filologi. Un grande passo in avanti nella fortuna dei Dialoghi è
rappresentato dall’edizione critica di Ezio Raimondi pubblicata nel 1958, di
capitale importanza per gli studiosi tassiani i quali, ancora oggi, continuano
a considerarla punto di riferimento. Raimondi considerò i Dialoghi tassiani
come opere postume, scegliendo la versione più attendibile fra manoscritti e
stampe in base alla loro storia individuale. Questo criterio non è stato
accettato da Stefano Prandi e Carlo Ossola, i quali hanno proposto un’edizione
storica dei Dialoghi che tenesse conto dei testi effettivamente circolanti
all’epoca dello scrittore. L’edizione in realtà non ha mai visto la luce e si è
fermata ad uno specimen che avrebbe dovuto anticipare una successiva edizione
completa. Negli ultimi anni gli studiosi della prosa tassiana sono aumentati:
si è posta attenzione al Tasso politico, con due edizioni commentate della
Risposta di Roma a Plutarco e al Tasso egittologo di cui si è occupato Bruno
Basile. Non mancano letture dei singoli dialoghi: Basile e Arnaldo Di Benedetto
si sono occupati del Padre di Famiglia (rispettivamente, Fonti culturali e
invenzione letteraria nel «Padre di famiglia» di Torquato Tasso; e Torquato
Tasso, «Il padre di famiglia»); Emilio Russo del Manso (Amore e elezione nel
"Manso" di Tasso), Massimo Rossi del Malpiglio Secondo e del Rangone
(Io come filosofo era stato dubbio. La retorica dei "Dialoghi" di
Tasso); Maiko Favaro, dopo la monografia di Prandi/Ossola, ha offerto una
puntuale lettura del Forno, premiata con il premio Tasso (Le virtù del tiranno e le passioni
dell’eroe. Il “Forno overo de la Nobiltà” e la trattatistica sulla virtù
eroica); Angelo Chiarelli si è, invece, occupato del Malpiglio overo de la
corte (Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di
aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa
tassiana), preceduto dal contributo di Massimo Lucarelli sullo stesso argomento
(Il nuovo «Libro del Cortegiano»: una lettura del «Malpiglio» di C.) e del
Costante («Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una
contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso).
L'edizione critica di Raimondi fornisce il testo dei venticinque dialoghi
tassiani, con un'appendice che ci permette di conoscere i manoscritti
superstiti e le stampe. Questo il titolo dei vari dialoghi: Il Forno
overo de la Nobiltà; Il Beltramo overo de la cortesia; Il Forestiero Napoletano
overo de la gelosia; Il N. overo de la pietà; Il Nifo overo del piacere; Il
messaggiero; Il padre di famiglia; De la dignità; Il Gonzaga secondo overo del
giuoco; Dialogo; Il Rangone overo de la pace; Il Malpiglio overo de la corte;
Il Malpiglio secondo overo del fuggir la moltitudine; La Cavalletta overo de la
poesia toscana; Il Gianluca overo de le maschere; Il Cataneo overo de gli
idoli; Il Ghirlinzone overo l'epitaffio; La Molza overo de l'amore; Il Costante
overo de la clemenza; Il Cataneo overo de le conclusioni amorose; Il Manso
overo de l'amicizia; Il Ficino overo de l'arte; Il Minturno overo de la
bellezza; Il Porzio overo de le virtù; Il Conte overo de le imprese. Le sette
giornate del mondo creato È un poema in endecasillabi sciolti, accanto ad altre
opere di contenuto religioso di impronta chiaramente controriformistica. Il
poema venne pubblicato postumo. Si fonda sul racconto biblico della creazione
ed è suddiviso in sette parti, corrispondenti come dice il titolo ai sette
giorni nei quali Dio creò il mondo, e presenta una continua esaltazione
della grandezza divina della quale la realtà terrena è un pallido
riflesso. Le lacrime di Maria Vergine e Le lacrime di Gesù Cristo Si
tratta, come nel caso de Le sette giornate del mondo creato, di due scritti
facenti parte delle cosiddette "opere devote" del Tasso. Nello
specifico, sono due poemetti in ottave che riprendono la tradizione della
"poesia delle lacrime", in voga nella seconda metà del Cinquecento,
appena qualche anno prima della morte. Influenze culturali Statua
di Tasso a Sorrento La figura del Tasso, anche per la sua pazzia, divenne
subito popolare. La lucidità delle opere scritte durante il periodo di
prigionia nell'Ospedale di Sant'Anna fece diffondere la leggenda secondo cui il
poeta non era veramente pazzo ma fu fatto passare per tale dal duca Alfonso che
voleva punirlo per aver avuto una relazione con sua sorella, imprigionandolo
(anche se, come si è visto, è assai più probabile che la vera ragione della
reclusione consistesse nell'autoaccusa del poeta di fronte al tribunale
dell'Inquisizione). Questa leggenda si diffuse rapidamente e rese
particolarmente popolare la figura del Tasso, fino a ispirare a Goethe il
dramma C.. In età romantica il poeta divenne il simbolo del conflitto
individuo-società, del genio incompreso e perseguitato da tutti coloro che non
sono in grado di comprendere il suo talento straordinario. In particolare
Giacomo Leopardi, che quando si recò a Roma il giorno venerdì 15 febbraio del
1823 pianse sul sepolcro del Poeta in S. Onofrio (commentando in una lettera
che quella esperienza era stata per lui "il primo e l'unico piacere che ho
provato in Roma"), considerava Torquato Tasso come un fratello spirituale,
ricordandolo in numerosi passi dei propri scritti (tra cui quello citato) e nel
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (una delle Operette
morali). Molta parte della poesia recanatese è impregnata di stile tassesco:
i notturni di alcuni canti, come La sera del dì di festa o Canto notturno di un
pastore errante dell'Asia, richiamano quelli della Gerusalemme, mentre nella
canzone Ad Angelo Mai Leopardi crea una forte empatia con il «misero Torquato,
spirito fraterno «concepito come un alter ego. I due nomi femminili più celebri
presenti nei Canti, Silvia e Nerina, furono ripresi dall'Aminta. In
generale, l'attenzione si spostò dai personaggi della Liberata al dramma
esistenziale vissuto dal suo autore. Ferretti scrisse le parole del Torquato
Tasso, melodramma in tre atti musicato da Gaetano Donizetti e rappresentato per
la prima volta al Teatro Valle. Il "mito" conquistò anche Franz
Liszt: era quando l'apostolo del Romanticismo metteva in musica l'opera
byroniana Il lamento del Tasso, dando vita al poema sinfonico Tasso. Lamento e
Trionfo. Il poeta vicentino ottocentesco Jacopo Cabianca ha dedicato al
Tasso un poema in dodici canti intitolato appunto Il Torquato Tasso. Nei
primi anni del ventesimo secolo il compositore catanese Pietro Moro si
concentrò sugli ultimi momenti di vita del poeta con Ultime ore di Torquato
Tasso, carme in un atto sulle parole di Giovanni Prati (riviste per l'occasione
da Rojobe Fogo). Torquato Tasso nel cinema Torquato Tasso, regia di Luigi
Maggi, Torquato Tasso, regia di Roberto Danesi. Adattamenti cinematografici de
La Gerusalemme liberata Il primo regista a girare un film sull'opera fu Enrico
Guazzoni. Ne farà due remake; Gerusalemme liberata, di Enrico Guazzoni;
La Gerusalemme liberata, di E. Guazzoni); La Gerusalemme liberata, di Carlo
Ludovico Bragaglia; I due crociati, parodia di Giuseppe Orlandini con Franco e
Ciccio. Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus, Laurea poetica nastrino
per uniforme ordinariaLaurea poetica (postuma) — Roma. Giovan Pietro
D'Alessandro, Vita di Torquato Tasso, ed. da C. Gigante, in «Giornale storico
della Letteratura Italiana», Giovan Battista Manso, Vita di Torquato Tasso, B.
Basile, Roma, Salerno Editrice, Pier Antonio Serassi, La vita di Torquato
Tasso, Bergamo, Stamp. Locatelli, 2 to. Solerti, Vita di C., Torino-Roma,
Loescher, Tonelli, C., Torino, Paravia, Giulio Natali, Torquato Tasso, Roma,
Tariffi, Capitoli di storie letterarie Ettore Bonora, in Storia della
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sul Cinquecento francese, Verona, Rosanna Gorris Camos, Fasano, Schena, Umberto
Lorenzetti, Cristina Belli Montanari, L'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di
Gerusalemme. Tradizione e rinnovamento all'alba del Terzo Millennio, Fano Sulle
Rime Arnaldo Di Benedetto, Fra petrarchismo e Barocco: le «Rime» di Torquato
Tasso, «A me versato il mio dolor sia tutto», Lo sguardo di Armida (Un'icona
della «Gerusalemme liberata»), Per un anonimo in meno: l'autore del dialogo «Il
Tasso», in Tra Rinascimento e Barocco. Dal petrarchismo a Torquato Tasso,
Firenze, Società Editrice Fiorentina, Massimo Colella, «Parmi ne’ sogni di
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L'«incipit» e la tradizione letteraria italiana. Dal Trecento al tardo
Cinquecento, Pasquale Guaragnella e Stefania De Toma, Lecce-Brescia, Pensa
MultiMedia, Chiarelli, «Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per
una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso, in
«Filologia e Critica», Angelo Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti
per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana nella
dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura
italiana», Raimondi Ezio, Il Problema
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Tecnica dei «Dialoghi» Tassiani, in «Italianistica, Rivista di Letteratura
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Duecento al Cinquecento, Zanichelli Editore, Luperini, Cataldi, Marchiani, La
scrittura e l'interpretazione, Palumbo, L. Tonelli, C., Torino); Lettere di
Torquato Tasso (Firenze, Le Monnier); L. Tonelli, G. Natali, Torquato Tasso,
Roma, G. Natali, cA. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino. Altri pensano
invece che queste sperimentazioni risalgano al periodo patavino o addirittura a
quello bolognese. G. Natali, cit., Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e
l'interpretazione, Palumbo, G. Natali, cG. Natali, Tonelli, cit.68 G. Natali,
L. Tonelli, Durante, A. Martellotti, «Giovinetta Peregrina». La vera
storia di Laura Peperara e Torquato Tasso, Firenze, Olschki, W. Moretti, C., Roma-Bari Baldi, Giusso,
Razetti, Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Milano:
Paravia, L. Tonelli, cil rapporto
amoroso è stato ipotizzato in particolare da Angelo de Gubernatis in T. Tasso,
Roma, Tipografia popolare, L. Tonelli, c Lettere, cit., I22 L. Tonelli, cit.89 L. Tonelli, Lettere, cit., I49 Secondo Doglio la data non è casuale e si
inserirebbe nella tradizione petrarchesca. Petrarca avrebbe infatti visto per
l'unica volta Laura, cfr. Doglio, Origini e icone del mito di C., Roma Lettere,
c Lettere, Lettere, Si tratta di
un'epistola al Gonzaga; Lettere, cit.,
L. Tonelli S. Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario, Milano,
Principato, L. Tonelli, Lettere, Si
trattava comunque di uno stipendio oggettivamente basso, che a una persona
comune avrebbe garantito a stento la sopravvivenza; L. Tonelli, cit.172 Lettere, L. Chiappini, Gli Estensi, Milano,
Dall'Oglio, A. Solerti, cA. Solerti, cit., II,
120-121 A. Solerti, L. Tonelli,
cit. G. B. Manso, Vita del Tasso, in Opere del Tasso, Firenze, M. Vattasso, Di
un gruppo sconosciuto di preziosi codici tasseschi, Torino, M. Vattasso, cA.
Solerti, L. Tonelli, c M. L. Doglio, I. De Bernardi, F. Lanza, G. Barbero,
Letteratura Italiana, 2, SEI, Torino,
Lettere, cit., I298 Lettere, cit.,
I299 A. Solerti, ccosì scrive al
cardinale Luigi un suo informatore L. Tonelli, Lettere, Tonelli, Solerti, Lettere, Guasti, Napoli, Rondinella, A. Corradi, Delle infermità di Torquato
Tasso, Regio Instituto Lombardo, Tonelli, M. L. Doglio, cit., 41 e ss.
Opere di Torquato Tasso, Firenze, Tartini e Franchi, L. Tonelli,
cInfarinato era il nome accademico assunto dal Salviati Tra parentesi sono indicate le date di
pubblicazione L. Tonelli, Opere, cit.,
Tra parentesi si indicano due date, quella di composizione e quella di
pubblicazione Lettere. La prima versione di quelli che saranno Gli
intrichi d'amore non ci è pervenuta L.
Tonelli, L. Tonelli, Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, Non fu più tenero
il Solerti; L. Chiappini, c L. Tonelli, cit.
L.Tonelli, Solerti, cLettere, L.
Tonelli, cit., 266-267 Lettere, c L. Tonelli, Mazzoni, Del Monte
Oliveto e del Mondo creato di C., in Opere minori in versi di Torquato Tasso,
Bologna, Zanichelli, E. Donadoni, C.,
Firenze, Battistelli, G. B. Manso, Vita
di T. Tasso, in Opere di C., Firenze; Lettere, Così al Costantini;
Lettere, Lettere, L. Tonelli, Passo riportato in A. Solerti, A.
Solerti, L. Tonelli, Lettere, Lettere, cit.,Lettere, cit., Lettere, A niuno
sono più obligato che a Vostra Eccellenza, ed a niuno vorrei essere
maggiormente; perché è cosa da animo grato l'esser capace de le grazie e de gli
oblighi. Laonde non ho voluto più lungamente ricusare il secondo suo dono
di cento scudi, bench'io non abbia mostrato ancora alcuna gratitudine del
primo; ma la conservo ne l'animo, e ne le scritture: e ne l'uno sarà forse
eterna, e ne l'altre durerà tanto, quanto la memoria de le mie fatiche. Niuno
de' presenti o de' posteri saprà chi mi sia, che non sappia insieme quant'io
sia debitore a la cortesia di Vostra Eccellenza, ed a la sua liberalità; con la
quale supera tutti coloro che possono superar la fortuna." Così scrive il
Tasso al marchese Giovanni Ventimiglia da Firenze. Soltanto C. dedica al
marchese due composizioni encomiastiche, non portando però a compimento il
promessogli poema Tancredi normando.
Lettera a Scipione Gonzaga, Lettere. E. Rossi, Il Tasso in Campidoglio,
in Cultura, Lettere, cit., V6 L.
Tonelli, cit.278 Lettere, cit., V62 L. Tonelli, Cipolla, Le fonti storiche della
«Genealogia di Casa Gonzaga», in Opere minori in versi di Torquato Tasso,
cit., I
L. Tonelli, G. B. Manso, L.Tonelli, L. Tonelli, E. Rossi, c A. Solerti,
Lettere, cit., Lettere, cLettera ad Antonio Costantini, in Lettere, Lettera di
Maurizio Cataneo a Ercole Tasso; A. Solerti, cit., II363 Lettera di monsignor Quarenghi a Giovan
Battista Strozzi, A. Solerti, cAlmanach du gotha, de J.-H. de Randeck, Les plus
anciennes familles du monde: répertoire encyclopédique des 1.400 plus anciennes
familles du monde, encore existantes, originaires d'Europe, de Karl Hopf, Historisch-genealogischer
Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de A. M. H. J. Stokvis, Manuel
d'histoire: Les états de Europe et leurs colonies, de Pierantonio Serassi, La
vita de Torquato Tasso8. de Niccolò
Morelli di Gregorio, Della vita di Torquato Tasso, de Pierantonio Serassi, La
vita di Torquato Tasso10. (DE) de Karl
Hopf, Historisch-genealogischer Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit,
de Heinrich Léo Dochez, Histoire d'Italie pendant le Moyen-âge C., Discorsi
dell'arte poetica, I, 12 in Le prose diverse di Torquato Tasso (C. Guasti),
Firenze, Monnier, Discorsi dell'arte poetica, cit., I, 15 A. Solerti, F. D'Ovidio, Saggi critici,
Napoli, Morano, U. Renda, Il Torrismondo di Torquato Tasso e la tecnica tragica
nel Cinquecento, Teramo, E. Donadoni, G. Carducci, Il Torrismondo, testo
premesso all'ed. Solerti delle Opere minori in versi di Torquato Tasso, L.
Tonelli, C., Risposta di Roma a Plutarco, Res, Risposta di Roma a Plutarco e marginalia
| Edizioni di Storia e Letteratura, su storiaeletteratura. Angelo Chiarelli,
Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento
della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana, in «La
Rassegna della letteratura italiana». Questa concordia è sempre nelle cose
vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza»
di Tasso, in «Filologia e Critica», Sul muro esterno della Chiesa di S.
Onofrio, a Roma, una tavola con iscrizione tedesca ricorda il soggiorno di
Goethe e l'ispirazione che lo portò a scrivere il dramma, dopo aver veduto la
tomba del poeta custodita all'interno dell'edificio sacro Ad Angelo Mai, v. 124 Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo
alla storia dalla storia al testo, Milano, Paravia, Failla, Ante Musicam
Musica. C. nell'Ottocento musicale italiano, Acireale-Roma, Bonanno, Emersioni
seleniche nelle Rime di C. Colella | Griselda Online, su griseldaonline.
2Torquato Tasso, commedia goldoniana Tasso, dramma di Goethe, Torquato Tasso,
opera di Gaetano Donizetti Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare,
dalle Operette morali di Giacomo Leopardi Thurn und Taxis, ramo austriaco della
famiglia Tasso di Bergamo, fondatori delle prime poste europee Museo tassiano,
museo dedicato a Torquato Tasso Accademia dei Catenati Cella del Tasso, attuale
ubicazione a Ferrara. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Torquato Tasso, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Torquato Tasso, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. To Tasso, su BeWeb, Conferenza Episcopale
Italiana. Opere di Torquato Tasso, su
Liber Liber. Opere di C., su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Torquato Tasso,. Opere Progetto Gutenberg.
Libri Vox. C., in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Spartiti o
libretti di Torquato Tasso, su International Music Score Library Project,
Project Petrucci Tasso, su Internet Movie Database, IMDb.com. Torquato Tasso Testi completi e cronologia
delle opere. Opere integrali in più volumi dalla collana digitalizzata
"Scrittori d'Italia" Laterza Opere di C., testi con concordanze,
lista delle parole e lista di frequenza Due segregazioni: il Cantico spirituale
di Giovanni della Croce e Il Re Torrismondo di C., su midesa). Opere di C.
colle controversie sulla Gerusalemme poste in migliore ordine, ricorrette
sull'edizione fiorentina, ed. illustrate dal professore Gio. Rosini, Pisa,
presso Niccolò Capurro, Le lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di
tempo e illustrate da Cesare Giusti, 5 voll., Firenze, Felice Le Monnier, I
dialoghi, Cesare Guasti, Firenze, Felice Le Monnier, Le rime di Torquato Tasso.
Edizione critica su i manoscritti e le antiche stampe Angelo Solerti, Bologna, presso
Romagnoli-Dall'Acqua, Opere di C.. DELL'ARTE DEL DIALOGO. Voi mi pregate,
pad* molto reverendo, nelle vostre lettere, eh' io voglia darvi alcuno
ammaestramento: e i chiedete, se non m'inganno, dello scrivere i
dialoghi, perchè son quelle medesime nelle quali m'avvisate d' aver ricevuti
quelli della poesia toscana e della pace. E se propriamente ragionale, io
non posso compiacervi, perchè tanto a me disdioevol sarebbe la persona di
maestro, quanto a voi quella di scolare: né rifiutandola io temo di poterne
esser biasimato, come Giotto, perch'agli ricusò convenevole onore: io non
accetto ufficio non conveniente. Bla se volete onorarmi con questo nome, e
ammaestramento chiamate l' opinione» io la scriverò; perchè niuna cosa
debbo tenervi celata, la qual possa giovar agli altri, oppure a me stesso'; ed
allora stimerò buone le mie ragioni» che dal vostro giudicjo saran
confermate. E se -delle regola avviene quel che delie leggi : siccome
altre leggi hanno i Genovesi diverse da quelle oV Veneziani o de/
Ragusei, oasi potrebbero avere altri precetti nell'artificio del bene scrivere»
Ma io non gli voglio dar questo nome, nò voi gliele scrivete in fronte ;
perciocché io l'ho raccolte in un'operetta assai breve per assomigliar
alcuni dottori cortigiani, i quali' non potendo sostener persona così
grave, vestono di corto. E a' in questo abito potranno sensa fastidio
esser lette dagli amid ' e da parenti, non v' incresca di
leggere.Nell'imitazione o s'imitano l' azioni degli uomini o i ragionamenti:
e quantunque poche operazioni si facciano alla mutola, e pochi discorsi
senza operazione, almeno dell' intelletto, nondimeno assai diverse giudico
quelle da questi : e degli speculativi è proprio il discorrere, siccome degli
attivi l'operare. Due sàran dunque i primi generi dell'imitazione: l'un
dell'azione, nel quale son rassomigliati gli operanti: l' altro delle
parole, nel quale sono introdotti i ragionanti. E. 1 primo genere si
divide in altri, che sono la tragedia e la commedia, ciascuna delle quali
patisce alcune divisioni: e '1 secondo si può divider parimente. Ed Aristide un
de' più famosi Greci, i quali scrissero e non parlarono, così parve che
gli dividesse, dicendo che Platone avea comicamente rappresentato Ippia,
Prodico, Protagora, Gorgia, Eutedemo, Bonisidoro, Agatone, Cinesia e gli
altri: e ch'egli medesimo chiama le sue leggi tragedia, e si confessa
ottimo tragico. Ma tra' moderni v*è chi gli divide altramente, facendone
tre specie: l'una delle quali può montare in palco, e si può nominare
rappresentativa, perciocché in essa vi siano persone introdotte a
ragionare cioè in alto, com' è usanza di farsi nelle commedie e
nelle tragedie: e simil maniera è tenuta da Platone nei suoi Ragionamenti,
e da Luciano ne' suoi; ma un'altra ce n' è, che non può montare in palco,
perciocché conservando1' autore la" sua persona, come isterico narra
quel che disse il tale e '1 cotale: e questi due ragionamenti si possono
domandare istorici o narrativi, e tali sono per- lo più quelli di
Cicerone. E c'è ancora la terza maniera ed è di quelli, che son mescolati
della prima e della seconda maniera, conservando l'autore la sua prima
persona, e narrando come istorio): e poi introducendo a favellar
tyafiarix&s come s'usa <fi far nelle tragedie e nelle commedie: e può e
non montare in palco, cioè non può montarvi, in quanto l' autore conserva
la sua persona ed è come 1* istorico: e può montarvi in quanto s'introducono le
persone rappresentativamente a favellare: e Cicerone fece alcuni ragionamenti
sì fatti. E quantunque questa- divisione sia tolta dagli antichi e paia
diversa dall' altra, nondimeno l'intenzione forse è l'istessa; perchè la
tragedia si divide in quella che si dice tragedia propriamente, e
nell'altra nella qual parla il poeta: e tragedia sì fatta compose Omero.
E questa divistone perchè è fatta in due membri, è più perfetta; nondimeno i
àiaIoghi sono stati detti tragici e comici per similitudine, perchè le tragedie
e le commedie propriamente sono l'imitazione dell'azione; però tragici si
posson chiamar sopra tutti gli altri il Critone e 1 Fedone: Dell' un de'
quali Socrate condannato alla morte, ricusa di fuggirsene con gli amici:
nell'altro dopo lunga deputazione dell' immortalità dell'anima bee il veleno. E
comico è il convito nel quale Aristofane è impedito dal rutto nel
favellare; ed Alcibiade ubriaco si mescola fra i convitati. Ma il
Menesseno par misto di queste due specie: perciocché Socrate battuto
dalla maestra Aspasia è persona comica; ma lodando i morti ateniesi
innalza il dialogo all' altezza della tragedia. Pur questi medesimi
dialoghi non son vere tragedie, ovvero commedie; perchè nell' une e nelT
altre le quistioai e i ragionamenti son descritti per l'azione; ma ne'
dialoghi l'azione è quasi giunta de' ragionamenti : e 8' altri la
rimovesse, il dialogo non perderebbe la sua l'orma. Dunque in lui queste
differenze sono accidentali piuttosto che • altramente ; ma le proprie si
terranno dal ragionamento jslesso e da' problemi in lui contenuti, cioè
dalle cose ragionate, non sol dal modo di ragionare. Per eh' i
ragionamenti sono o di cose che appartengono alla contemplazione, oppur di
quelle che son convenevoli all' azione e negli uni sono i problemi
intenti all' elezione e alla fuga, negli altri quelli che riguardano la scienza,
e là verità; laonde alcuni dialoghi debbono esser detti civili e
costumati,, altri speculativi. E '1 soggetto degli uni e degli altri; o
sarà la quistione infinita, come se la virtù si possa insegnare; o la
finita che debba far Socrate condannato alla morte. E perciocché gran
parte de' platonici dialoghi sono speculativi e quasi in tutti la
quistione è infinita, non pare che lor si convenga la scena in modo
alcuno, né meno agli altri che son de' costumi, perchè son pieni d'
altissime speculazioni. Anzi piuttosto non si conviene ad alcun dialogo, se non
forse per rispetto dell'elocuzione, la quale alcuna volta pare
istrionica, siccome disse il Falereo, awengachè nella scena si rappresenti
l'azione o atto dal quale son denominate le favole e le rappresentazioni
dramma-* tiche. Ma nel dialogo principalmente s' imita il ^ragionamento
il qual non ha bisogno di palco: e quantunque vi fosse recitato qualche
dialogo di Platone, l'usanza fu ritrovata dopo lui senza necessità.
Perchè se in alcuni luoghi l'elocuzione pare accomodata all'istrione,
come nell'Eridemo, può leggersi dallo scrittore medesimo, ed aiutarsi colla
pronuncia. Né egli conviene ancora il verso, come hanno detto, mala prosa
; perciocché la prosa è parlar conveniente allo speculativo e all' uomo
civile, il qual ragioni degli uffici e delle virtù. E i sillogismi, e
l'induzioni, e gli entimemi e gli esempi non potrebbono esser
convenevolmente fatti in versi. E se leggiamo alcun dialogo in versi,
come è l'amicizia bandita di Ciro predentissimo, non stimeremo lodevole
per questa cagione, ma per al* tra: e diremo, che il dialogo- sia
imitazione di ragionamento scritto in prosa senza rappresentazione per
giovamento degli uomini civili e speculativi : e ne porremo due specie, 1' una
contemplativa, e Y altra costumata : e 1 soggetto nella prima specie sarà la
quistione infinita o la finita : e quale è la invola nel poema, tale è
nel dialogo la quistione : e dico la sua forma, e quasi Y anima. Però se una è
la favola, uno dovrebbe essere il soggetto, del quale si propongono
i problemi. E nel dialogo sono oltre di ciò T altre parti, cioè la
sentenza^ e '1 costume,* e Y elocuzione ; ma trattiamo prima della prima.
Dico adunque, che la quistione si forma della dimanda e della risposta; e
perchè 1 dimandare s'appartiene particolarmente al dialettico, par, che
lo scrivere il dialogo sia impresa di lui : ma '1 dialettico non dee richieder
più cose d' uno, oppur una cosa di molti ; perchè se altri rispondesse
non sarebbe una V affermitene o la negazione: e non chiamo una cosa quella,
ch'ha un nome solo se non si fa una cosa di quelle: come l'uomo è animai
con dne piedi e mansueto : ma di tutte questo si fa una sola cosa ; ma
dell' esser bianco e dell'essere uomo e del camminare, come dice Aristotile,
non se ne fa uno; però s' alcuno affermasse qualche cosa, non sarebbe,
una affermazione ; ma una voce, e molte l' affermazioni. Se dunque
l'interrogazione dialettica ò una dimanda della risposta, ovvero della
proposizione, ovvero dell'altra parto della contradizione: e la proposizione è
una parte della contradizione, a queste cose non sarà una risposta, né una
dimanda. Ma se al dimostrativo non s' appartiene il dimandare, a lui non
converrà di scriver dialogo. E par, che Aristotile assai chiaramente faccia
questa differenza nel primo delle prime risoluzioni fra la proposizkm
dimostrativa e la dialettica, dicendo, che la dimostrativa prende l'altra
parte della contradizione; perciocché 'colui, il qual dimostra, non
dimanda, ma piglia ; ma la dialettica è dimanda della contradlzione.
Nondimeno nel primo delle posteriori egli dice, che s' è il medesimo l'
interrogazione sillogistica e la proposizione : e le proposizioni si fanno in
ciascuna scienza, ancora si posson fare le dimando. Laonde io raccolgo,
che si posson fare i dialoghi nell'aritmetica, nella geometria, nella
musica e nell' astronomia e nella morale e nella naturale e netta divina
filosofia, e in tutte F arti e in tutte le scienze si posson fu le richieste
e conseguentemente i dialoghi. E se oggi fossero in looe dell'arte del
dialogo i dialoghi scritti da Aristotile, non ce ne sarebbe perawentura
dubbio alcuno. Ma leggendo quei di Platone, i quali son pieni di
proposizioni appartenenti a tutte le scienze, potremo chiaramente
conoscere lMstcsso. Nondimeno siccome il dimandare è proprio al
dialettico, così a lui si conviene il dialogo più; che a tutti gl’altri.
Laonde Aristotele nel capitolo seguente pare, che faccia differenza fra
le matematiche e ì dialoghi, dicendo, che se fosse impossibile mostrar
dal falso il vero, sarebbe facile
il risolvere, perchè, si convertirebbono di necessità. Ma si convertono
più quelle, che son nelle matematiche, perchè non ricevono alcuno accidente, e
in ciò son differenti da quelle, che son ne’ dialoghi. E dialoghi chiama
i parlari dialettici, i quali son composti della dimanda e della risposta. Al
dialetttico dunque converrà principalmente di scrivere il dialogo, o a colui,
che vuol rassomigliarsi. E'1 dialogo sarà imitazione d' una disputa dialettica.
Va perchè quattro sono i generi delle dispute, il dottrinale, il
dialettico, il tentativo e il contenzioso, l'altre dispute ancora si
possono imitare ne' dialoghi. E forse in quelli d'Aristotele sono tutte IV.
Ma in quelli di Platone si troverebbono similmente, perchè Socrate per via d'
ammaestramento e d'esortazione parla con Alcibiade, con Fedro e con
Fedone, e come dialettico disputa con Zenone, e con Parmenide;. e come
tale riprova Ippia, GORGIA, Trasimaco e gli altri sofisti e talora gli
tenta. Ma i sofisti son contenutosi, e vaghi di gloria, come appare nell'
Eutiemo, detto altramente il Litigioso. Nondimeno questi IV generi non
sono così partitamente distinti dagl’interpreti di Platone i quali
pongono tre mdftUre di dialoghi; l'una, nella quale Socrate esorta i
giovanetti; nell’altra riprova i sofisti; la terza è mescolata dell' una
e dell' altra, la qual senza dubbio è più soave per la mescolanza.
Ma chi volesse scriver dialoghi secondo la dottrina ó? Aristotele e
arricchir di questo ornamento le scuole peripatetiche, potrebbe scriverli
in tutte IV le maniere. Ma principalmente son lodevoli le due prime: la
dottrinale e la dialettica, l'artificio della quale consiste
principalmente nella dimanda usata con mollo artificio di Socrate ne’ libri
di Platone, come appare nel primo dialogo nel quale Socrate richiede ad
Ipparco quel, che sia la cupidigia del guadagno; e in tutti gli altri
simiglianlt, non eccettuando quelli, ne’ quali sotto la persona di forestiero
ateniese dà le nuove leggi d’una città: e 'n quelli di Senofonte ancora
con arte molto simile Socrate chiede a Critobulo se l'economia è
nome di scienza, come la medicina e l'architettura. E nel Tirreno
Simonide a Jerone, che differenza aia fra la vita reale e la privata: e
dalla risposta, eh' è fatta, prendono occasione d'insegnare. Ma da questo
artificio si dipartì M. Tullio, Il quale nelle partizioni oratorie pone
la dimanda in bocca, non di quel, eh' insegna, ma di colui, ch'impara.
Ed. egli medesimo ci dimostra la diversità fra i ROMANI in quelle parole
di CICERONE: figlinolo, tuo) dunque eh' io ti dimandi scambievolmente IN
LINGUA LATINA di quelle cose medesime, delle quali tu mi suoli
addomandare nella Greca ordinatamente? Laonde pare, che la dimanda, fatta dal
discepolo, 6ia derivata da CICERONE, e l' artificio sia proprio de’ROMANI,
il quale s’usò dal Possevino e da altri nella dottrina peripatetica,
perchè forse è più facile. Ma è non così lodevole, né fu, eh' io mi
ricordi, usata dagl’antichi. E per questa ragione M. Tullio nelle
Quistioni Tuscalane più s' avvicina all' arte de’ Greci ; perciocch' egli
comandava, che alcun de' suoi famigliari ponesse quello, che gli pareva,
ed egli contraddiceva alla conclusione in questo modo. Auditore. La
morte mi pare esser male. M. A quelli che son morti o a quelli eh' han
da morire P La quale è vecchia e Socratica ragione di disputar contra
l' altrui opinione. Tuttavolta il por la conclusione ha dello scolastico: e
però dice d'aver poste ne' V libri le scuole de' V giorni. Tanto potè l' amor
della filosofia in un vecchio senator romano, padre della patria, il qual
quistiona secondo il costume de' Greci forse per ingannar se stesso in
questo modo e consolarsi nella servitù. Ma non si dimenticò ne’ libri dell'
oratore di quel, eh' era convenevole a' romani Senatori; laonde CRASSO e MARC’ANTONIO
in altra maniera introduce a favellare. Ma fra tutti i dialoghi Greci,
lodevorrssimi sono que' di Platone; perciocché superano gl’altri d'arte,
di SOTTILITÀ, d'acume, e d'eleganza e di varietà di concetti e
d'ornamento di parole. E pel secando luogo son quei di Senofonte; e quei di LUCIANO
nel terso. Ma CICERONE è primo fra' LATINI, il quale volle forse
assomigliarsi a Platone: nondimeno nelle quistioni, e nelle dispute alcuna
volta è più simile agli oratori, che a' dialettici. Ma nel secondo luogo non so
che se gli avvicini, o chi possa paragonare a' Greci. E NELLA NOSTRA LINGUA coloro,
che hanno scritto dialoghi, per la maggior parte hanno seguita la maniera
meno artificiosa, nella quale dimanda quegli, che vuole imparare, non quel, che
riprova. E se alcuno s'è dipartito da questo modo di scrivere, merita
lode maggiore: e tanto basti della prima parie, che è la quistione. Ma
perchè il dialogo è imitazione del ragionamento, e il dialogo dialettico
imitazione della disputa, è necessario, che i ragionanti e i disputanti abbiano
qualche opinione delle cose disputate, e qualche costume, il qual si
manifesta alcuna volta nel disputare. Da quelli derivano l'altre due
parti nel dialogo, io dico la sentenza, e il costume: e lo scrittore del
dialogo deve imitarlo non altramente, che faccia il poeta ; perchè egli è
quasi mezzo fra il poeta e ri dialettico. E niun meglio l'imita, e
meglio l'espresse di Platone, che, descrive nella persona di Socrate il
costume d'un uomo dabbene, che ammaestra la gioventù, e risveglia gli
ingegni taidl e raffrena i precipitosi, e richiama gli erranti, e riprova
la falsità de' sofisti, e confonde l'insolenza e la vanità, amator del
giusto e del vero, magnanimo, non che. mansueto nel tollerar l'ingiurie,
intrepido nella guerra, costante nella morte. Ma in quella d'Ippia, e di GORGIA
DI LEONZIO, e d'Eutidemo, e degl’altri sì fatti si descrivono gl’avari, e
ambiziosi, e amatori di gloria, i quali non hanno vera scienza d'alcuna
cosa, ma parlano per opinione. In quella di Menoue e di Grifone descrive
il buon padre e il buon amico, e in quella d'Alcibiade, di Fedro, e di Carmide
i costumi de' nobili son descritti maravigliosamente. Oltra queste parti del
dialogo ci sono le digressioni, come nel poema gli episodj : e tale è quella d'
Eaco, e di Minos, e di Radamanto nel GORGIA, e quella di Teutdemone degl’Egizi
nel Fedro, d'Ero Panfilio ne' dialoghi della Repubblica. Ma perchè abbastanza
s'è ragionato del soggetto del dialogo, e della sentenza, e de' costumi
di coloro, che sono introdotti a favellare; resta, che parliamo
dell'ultima parte, la quale è l'elocuzione: e se crediamo ad Artemone,
che ricopiò l'epistole d'Aristotele, bisogna scriver col medesimo stilo
il dialogo e l'epìstola, perchè il dialogo è quasi una sua parte. Ma
Demetrio Falereo dice, che il dialogo è imitazione del ragionare
all'improvviso. Ma l'epistola si scrive, e si manda in dono in qualche
modo. Però dee esser fatta e polita con maggiore studio. Tultavolta nò
Platone, ne M. Tullio pare, che sempre avessero questa considerazione. Perchè
ne' dialoghi l'elocuzione dell'uno e dell'altro non è meno ornata, che quella
dell'epistole: e in tutti gli altr’ornamenti i dialoghi paiono superiori. E ciò
non par fatto senza molta ragione. Conciossiacosaché i dialoghi di
Platone e di M. Tullio sono imitazione de' migliori, e nell'imitazioni sì
fatte, le persone e le cose imitate debbono piuttosto accrescere che diminuire,
come ci insegna Demetrio medesimo, il qual vuole, che la magnificenza sia nelle
cose, se il parlare è del cielo o della terra. Oltre di ciò laddov/egli
parla od periodo ne fa tre generi : il primo isterico, il secondo
dialogico» il teno oratorio: e vuole, che ristorico sia nel meno dell'uno
e dell'altro, non molto ritondo, né molto rimesso: ma la forma
dell'oratorio sia contorta e circolare: e quella del dialogico più
semplice dell'istoria) in guisa che appena dimostri d' esser periodo. I
quali ammaestramenti sono stati meglio osservati da' Greci, che, da M.
Tullio, che imitò Platone solamente; perchè egli così nel periodo, come in
tiascun'-altra parte, ricercò la grandezza più dr Senofonte e degli
altri. Laonde usa le metafore pericolosamente in luogo delle Immagini,
che sono osate da Senofonte: e somiglia colui, 11 quale cammina in luogo,
dove è pericolo di Bdrucciolare, compiacendo a se medesimo, e avendo molto
ardire, siccome è proprio delle nature sublimi ; talché fu detto di lai,
ch'egli molto s'innalzava sovra il parlar pedestre: e che il suo parlare non
era in tutto, simile al verso, né in tutto simile alla prosa : e ch'egli
usava l'ingegno non altramente, che i re facciano la podestà: e insomma
niun ornamento di parole, niun color rettorico, ninn lume d'orazione par,
che sia rifiutato da Platone. Ma s’in alcuna parte del dialogo dobbiamo
aver risguardo agli avvertimenti di Demetrio, è in quella, nella qual si
disputa, perchè in lei si conviene la purità, e la simplicità
dell'elocuzione, e '1 soverchio ornamento par che impedisca gli
argomenti, e che rintuzzi, per così dire, l'acume, e la sottilità. Ma l'
altre parti debbono essere ornate con maggior diligenza : e dovendo lo
scrittore del dialogo assomigliare i poeti nell'espressione, e nel per le
cose innanzi agli occhi, Platone meglio di ciascuno ce le fa quasi
vedere, il qual nel Protagora parlando d'Ippocrate, che s' era arrossito,
essendo ancora di notte, soggiunge: Già appariva la luce, onde il color
pareva esser veduto e la chiarezza, die evidenza è chiamata dai Latini, nasce
dalla cura usata nel parlare, essersi ricordato, che Ippo- crate era da
lui veduto di notte. E nel medesimo dialogo leggiamo con maraviglioso
diletto, che l'eunuco portinaio, perchè i sofisti gli erano venuti a
noia, serra con ambe le mani la porta a Socrate e al com- pagno : e
appena l' apre, udendo, che non erano di loro. E ci piace il passeggiar
di Protagora e degli altri, che passeggiando con tanto or- dine ascoltavano
il ragionare : e ci par vedere lppia seder nel trono, e Prodico giacere
avviluppato. E con piacer incredibile leggiamo simil- mente che due
giovanetti appoggiati sovra il gomito descrivessero ccr-3!i, e altre
inclinazioni della sfera : e che Socrate pur col gomito, di- mandasse, di
chi ragionavano. Né con minor espressione ci pone in- nanzi agli occhi
Garmide e gli amici : e quasi veggiamo gli estremi, che sedevano da
questa parte e da quella, l'uno cadere e l'altro es- ser costretto a
levarsi. Ma sopra tutte le cose c'empie di compassione e di maraviglia il
venir di Garmide alla prigione innanzi al giorno, e l'aspettar, che si
destasse Socrate, condannato alla morte: e poi, che il medesimo raccolga
la gamba, la quale era stata legata, e grattandosi discorra del dolore e del
piacere, l'estremità de' quali son con- giunte insieme : e distendendosi,
e postosi a sedere sovra la lettiera dia principio a maggiore e più alta
contemplazione. E nel medesimo dialogo tempera il dolore, quando scherza
colle belle chiome di Fedone, le quali dovevano il giorno tagliarsi : e
nella descrizione parimente è maravi- glioso. E se leggiamo i
ragionamenti di Socrate sotto il platano, e quelli del forestiero
ateniese all'ombra degli alberi frondosi, mentre col La- cedemonio e col
Gandiano vanno all'antro di Giove, ci par di vedere, e ascoltare quello,
che leggiamo. Queste son le perfezioni di Platone, veramente
maravigliose: le quali, sebben saranno considerate, non ci rimarrà dubbio
alcuno, che lo scrittore del dialogo non sia imitatore, o quasi mezzo fra
il poeta e il dialettico. Àbbiam dunque, che IL DIALOGO sia imitazione di
ragionamento, fatto in prosa per giovamento de- gli uomini civili e
speculativi, per la qual cagione egli non ha bisogno di scena o di palco
: e che due sian le specie, l' una nel soggetto della quale sono i
problemi, che risguardano l'elezione e la fuga: l'altra speculativa, la
qual prende per subietto quistione, jche appartiene alla verità e alla
scienza; e nell'una e nell'altra non imita splamente la disputa, ma il
costume di coloro, che disputano, con elocuzioni in alcune parti piene di
ornamento, in altre di purità, come par, che si convenga alla materia. Tasso.
Tasso. Cornello. Keywords: l’arte del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Tasso”, “Grice e Cornello” – The Swimming-Pool Library. Cornello.
Luigi Speranza -- Grice e Cornificio: la ragoone conversazionae e la vera etimologia
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Autore di un’opera
etimologica in tre libri, composta fra il tempo di Cicerone e Ottaviano. Das Werk des C. Longus de
etymis deorum. a) Prise. GLK, C. in 1 de etymis deorum. Macr. C. etymorum libro
tertio. Cornificius in etymis: vgl. noch wo Anschlufs an die stoische
Philosophie (vgl. W. A. Baehrens, Hermes; K. Reinhardt, Kosmos und Sympathie,
München); Arnob., Festus, M. bemerkt bezüglich der Etymologie von Minerva: C. vero,
quod fingatur pingaturque minitans armis, eandem dictam putat. (nare);
(nuptiae); (oscillare); (Rediculus; s. Ed. Meyer, Herm. (lalassus). Der bloße Name Cornificius ohne
Glosse erscheint. Das diese Glossen aus dem Werk „de etymis deorum"
geflossen sind, vermuten R. Merkel. Ovids Fasten, Berlin.; Th.
Bergk, Kl. phil. Schr. Willers, De Verrio Flacco glossarum interprete disput.
crit., Halle. C. hat dann auch andere als Götteretymologien behandelt,
vermutlich wenn er von Kultusgebräuchen und Kultus-einrichtungen sprach.
Wahrscheinlich dürfen wir den gleichen Schriftsteller finden auch in dem C.
Longus bei Serv. Aen., wo es sich ebenfalls um Etymologien handelt: invenitur
tamen apud C. Longum lapydem et Icadium profectos a Creta in diversas regiones
venisse, lapydem ad Italiam, Icadium vero duce delphino ad montem Parnasum et a
duce Delphos cognominasse et in memoriam gentis, ex qua profectus erat,
subiacentes campos Crisaeos vel Cretaeos appellasse et aras constituisse. Dieser kann dann aber nicht identisch sein mit dem Dichter und Feldherrn
C. (Bergk.), der nie den Beinamen Longus
trug, den außerdem die Zeitverhältnisse unmöglich machen. Denn der Verfasser
der etymo'ogischen Schrift zitiert nach Macr.das Werk Ciceros de natura deorum,
das im J. 44 erschien, so das sie in den folgenden drei Jahren von dem stark
beschäftigten Statthalter Afrikas hätte geschrieben sein müssen. Benutzt hat
dann Verrius die Abhandlung 'de etymis deorum'. — J. Becker, C.Longus und C.
Gallus, Ztschr. für die Altertumsw. Wissowa, Realenz.; Funaioli 473. A stoic
wrote a book on etymology. Cornificio
Lungo. Cornificio.
Luigi
Speranza -- Grice e Cornuto: la ragione conversazionale a Roma antica -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). A slave in
Rome, he became one of the city’s leading intellectuals. A member of the porch.
The name Anneo points to a connection of some kind with the family of Seneca. He
taught rhetoric and philosophy, his pupils including Agathino, Petronio
Aristocrate, Lucano, and Persio. In his will, Persio left C. his books, which
he accepted, and his money, which he rejected. He was sent into exile by
Nerone. He wrote an influential commentary on Aristotle’s Categories. He argues
that the categories reflect divisions within language, rather than within
reality. In a different essay, the Epidrome, he surveys the myths and by means
of linguistic analysis and allegorical interpretation he seeks to extract what
he considers to be their true meaning. Lucio Anneo Cornuto Cornuto.
Cornuto.
Luigi Speranza -- Grice e Corrado:
la ragione conversazionale e la dieta di
Crotone e la semiotica magica– scuola d’Oria – filosofia brindisese – filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Oria). Filosofo
brindisese. Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Oria, Brindisi, Puglia. Grice:
“I like Corrado; of course we have the beefsteak, the English do; but Corrado
philosophised on the near ‘cibo pitagorico’ a Crotone and produced a
philosophical cookbook for the noblemen!” --
Uomo di grande cultura, fu soprattutto grande gastronomo e uno dei
maggiori cuochi che si distinsero tra il '700 e l'800 nelle corti nobiliari di
Napoli, simbolo del suo tempo nella variegata realtà partenopea. E il primo
cuoco che mette per iscritto la "cucina mediterranea", il primo, a
valorizzare la grande cucina regionale italiana. Scrisse “Il cuoco
galante”, definito all'epoca un libro di alta cucina, testo richiesto in tutto
il mondo dalle principali autorità dell'epoca, e ristampato per ordini del
principe per ben 6 volte. Preparava elegantissimi banchetti in principio
alla corte di Don Michele Imperiali Principe di Francavilla presso il palazzo
Cellamare di Napoli, dove coordinava un piccolo esercito di maggiordomi,
domestici, volanti e paggi e preparava i pranzi o le cene con particolare
assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari
accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia
sontuosa e raffinata. Figlio di Domenico e di Maddalena Carbone. Rimasto
orfano per la morte del padre, ancora adolescente, divenne paggio alla corte di
Michele Imperiali che era Principe di Modena e Francavilla Fontana, Marchese di
Oria e Gentiluomo di camera di S.M. il Re delle due Sicilie, che lo condusse a
Napoli dove risedette per diversi anni. Appena maggiorenne, entrò a far parte
della Congregazione dei Padri Celestini nel convento di Oria. Dopo l'anno
di noviziato, fu chiamato dal Superiore Generale De Leo nella residenza
napoletana di San Piero in Maiella, dove si specializzò negli studi di filosofia.
Dallo stesso padre generale fu avviato, anche, allo studio delle scienze
naturali e dell'arte culinaria, per la quale divenne famoso. Non diventò mai
sacerdote per cui, dopo la soppressione degli ordini religiosi si stabilì a
Napoli, ove risedette per oltre cinquant'anni, insegnando la lingua francese ai
figli delle famiglie aristocratiche della città, pubblicando contemporaneamente
molte sue opere che gli diedero successo e notorietà. Per i molti impegni che
ebbe a Napoli, non tornò più ad Oria, anche se non mancarono momenti di
nostalgia per la lontananza dalla sua famiglia e dalla sua città natale.
Il Principe di Francavilla gli attribuì la mansione di Capo dei Servizi di
Bocca -- antica mansione con cui veniva chiamato colui che era preposto a
sovrintendere alla cucina, alla preparazione delle vivande e all'organizzazione
dei banchett -- di Palazzo Cellamare,
sito sulla collina delle Mortelle prospiciente il golfo di Napoli e della
famiglia del Principe, poiché molti illustri personaggi di un certo livello e
rango, che venivano a Napoli, invitati a mensa poterono constatare la fama di
questa opulenta ospitalità più spagnolesca e tipicamente partenopea che era in
uso al tempo. Parlando del suo lavoro Vincenzo Corrado così si
esprimeva: «L'abbondanza, la varietà, la delicatezza delle vivande, la
splendidezza e la sontuosiotà delle tavole richiedevano una schiera di uomini
d'arte, saggi e probi. Questa mastodontica organizzazione, era guidata proprio
da lui. Alle sue dipendenze lavoravano un maestro di casa, un maestro di cucina
ed un maestro di scalco che aveva il compito di acquistare, di cucinare, di
dissodare e di trinciare ogni tipo di animale, mentre una schiera di cuochi,
rispettando la gerarchia allora in uso, lavorava secondo la propria
specializzazione (oggi le grandi cucine dei Ristoranti hanno i cuochi di rango):
vi era il cuoco friggitorie, quello per le insalate, il pasticciere, il
bottigliere e il ripostiere. Tutti questi erano aiutati da una serie di
sguatteri e di serventi che avevano il compito di girare intorno al tavolo per
esibire lo spettacolo fantasioso delle portate prima ancora di servirle. Tutta
questa organizzazione era coadiuvata da un piccolo esercito di maggiordomi,
domestici, volanti e paggi che interveniva non appena il servizio di cucina
consegnava le varie portate artisticamente decorate. C., a seconda degli
ospiti del Principe preparava i pranzi o le cene con particolare assortimento
di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari accorgimenti
architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia sontuosa e
raffinata. Egli stesso ci descrive queste splendide composizioni con pregevole
gusto e raffinatezza, lasciando, anche, delle visioni grafiche. Gli elementi
decorativi della tavola erano affidati al maestro ripostiere che usava gusto
artistico e genialità: grandi vasi in porcellana ricolmi di fiori variopinti,
alzate di cristallo e argento a tre o quattro piani colmi di dessert o frutta o
fiori o ortaggi, bianchi gruppi di porcellana raffiguranti scene arcadiche o bucoliche;
puttini d'argento; gabbiette dorate con piccoli uccellini cinguettanti; coppe
di cristallo di varie fogge in cui guizzavano pesciolini tra foglie di rose ed
altri fiori. Il centro veniva racchiuso da una cornice di frutta, di fiori
freschi e di ortaggi, secondo la stagione variante, disposti, intervallati da
piccole spalliere di agrumi in porcellana con ortolani nell'atto di
raccoglierli. La composizione era la sintesi di un artista di provata
esperienza, di raffinata fantasia e di vivace estro, capace di accoppiare tanti
svariati elementi fondendoli insieme a formare uno spettacolo di gran gusto e
di particolare gradevolezza. Il valore del tavolo di gala completato dal
vasellame, cristalleria e argenteria di grande pregio era inestimabile. Questo
senso artistico, anche, nell'arte culinaria C. lo aveva ereditato da un suo
antenato letterato di mestiere. Ma per quanto dotato di una cultura
autodidatta, di vivacità d'ingegno, di originalità e di una particolare
facilità nell'insegnamento, se non avesse avuto la fortuna di conoscere Don
Michele Imperiali, che ne coltivò le particolari doti incoraggiandolo a
scrivere della sua specifica arte per tramandarla ai posteri, probabilmente
sarebbe rimasto un ottimo organizzatore, un appassionato gastronomo, ma la sua
fama si sarebbe estinta con lui. Le opere “Il cuoco galante’. Il primo
libro vegetariano della nostra storia. il credenziere: colui che si prendeva
cura della credenza. L'opera fu sottoposta a ben 7 ristampe. Prodotta in 7500
copie, Dalla dedica si ricava il leitmotiv dello scritto nonché la filosofia in
cui credeva l'autore, che è di questo tenore: il “buon gusto nella tavola”
inteso come “sano pensare”. Di questo trattato di gastronomia, il successo fu
istantaneo e inaspettato, in quanto la precedente opera gastronomica, La
lucerna dei cortigiani, stampata presso Napoli e dedicata a Ferdinando II duca
di Toscana, non era riuscita ad attirare l'interesse del pubblico che la
trascurò ignorandola. Invece grande successo ottenne la prima edizione
del "Cuoco Galante" che si esaurì rapidamente, tanto che il Principe
ne ordinò una seconda edizione che ebbe eguale successo. Intanto Vincenzo
Corrado migliorò e ampliò il testo di questa opera e ne preparò una terza
edizione. La fama del libro superò i confini del Regno di Napoli e
dell'Italia; infatti dall'estero giunsero richieste da tutti quegli stranieri
che avevano conosciuto ed apprezzato il Corrado alla corte degli Imperiali, per
cui si pervenne ad una quarta edizione, seguita dalla quinta e infine la sesta
pubblicata. Assolute novità introdotte dall'autore erano allora la patata, il
pomodoro, il caffè e la cioccolata. Altre saggi: Incoraggiato dal
successo del Cuoco Galante, il Principe spinse l'autore a pubblicare nel un
Credenziere del buon gusto, del bello, del soave e del dilettevole per
soddisfare gli uomini di sapere e di gusto. Egli scrive e pubblica inoltre “Il
cibo Pitagorico”, “Trattato sulle patate”, “Manovre del cioccolato” e “Manovra
del caffè”; “Trattato sull'agricoltura e la pastorizia ed infine, “Poesie
baccanali per commensali”. -- è il faro della cucina moderna della nobiltà a
cavallo del periodo della rivoluzione francese. Egli privilegia i personaggi di
rango in visita alla mensa del principe con opulenta ospitalità. Orbene in
questo contesto di sfarzo godereccio, di lusso e di differenze sociali
abissali, rimase fin abbagliato dalla nobiltà, la gente ricca e potente, verso
la quale nutre sempre sentimenti di grande reverenza se non addirittura di
venerazione. Proprio per riconoscenza al Principe, dando alle stampe i suoi due
libri, confessa. “Questi due libri che del buon gusto trattano, con la guida e
norma scrissi, e pur mercé la tua generosità mandai alle stampe, e tu di
propria mano ne *segnasti* il titolo “Il Cuoco Galante” -- l'uno e “Il
credenziere del buon gusto” l'altro, tutti e due a te li porgo come frutto di
un albero dalla mano piantato. Mio Scopo egli è di richiamare alla memoria dei
nobili uomini dei quali tu fosti la gloria l'ornamento alla memoria e la lode.
Ah? Ma qual Tu fosti non basterebbe di dire di cento e mille lingue, per cui io
stimo meglio il tacere e con il silenzio benedire gli anni che ti fu
appresso. L'organizzazione dei magnifici
banchetti e delle cene lussuose gli diedero l'appellativo di “il cuoco
galante”. La cosa straordinaria è che dietro gli scenari di un favoloso pranzo
o cena vi era una preparazione, quasi orchestrale della quale il direttore era
il filosofo. Alle sue dipendenze vi era una vera e propria squadra di addetti
alle cucine formata da precettori cuochi e servienti. La presentazione
estetica, oltre al gusto, acquista la sua importanza in cucina, ed dedica
grande spazio alle decorazioni e al modo di imbandire le tavole dei banchetti.
Nell'opera sono anche presentati i sorbetti, in vari gusti, ed il caffè, che, a
differenza dall'attuale espresso, veniva bollito in apposite caffettiere.
Precettori un precettore di alloggio e sistemazione posti per gli invitati, un
precettore di preparazione dei cibi, un precettore abile con utensili
domestici, che aveva la mansione di far provviste e comperare il necessario al
mercato per le mense, di dissodare e di affettare ogni tipo di carne o pesce.
Chef e Cuochi “Il cuoco friggitore”, il cuoco per le insalate, il pasticciere,
il bottigliere, il ripostiere. Serventi lavapiatti,
camerieri, maggiordomi, domestici, volteggianti e giullari che
intervenivano non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate
artisticamente decorate. Non era solo una semplice cena, era un vero e
proprio spettacolo, fuori dall'immaginato. A volte comprendeva l'utilizzo di
100 persone per altrettanti o più invitati. I banchetti o le cene con
caratteristiche e assortimenti di piatti erano accoppiate con tanta inventiva e
particolari astuzie architettoniche ed eleganti al fine di plasmare una
scenografia sfarzosa e affinata. Egli stesso nelle sue opere e nei suoi
diari ci descrive queste splendide composizioni culinarie come opere d'arte,
quasi uno spreco consumarle. Bicchieri e coppe di cristallo, posate in argento
intagliate, tovaglie di pizzo fiorentino, buche e composizioni floreali, piatti
in porcellana di Capodimonte. Termini culinari "Il Cuoco Galante",
proprio nella terza edizione, alfine di una maggiore comprensione, spiega
alcuni termini "cucinarj" usati per la preparazione delle varie
pietanze, ne riportiamo un esempio: Bianchire: Far per poco bollire in
acqua quel che si vuole; Passare: Far soffriggere cosa in qualsiasi grasso;
Barda: Fetta di lardo; Inviluppare: Involgere cosa in quel che si dirà;
Arrossare: Ungere con uova sbattute cosa; Stagionare: Far ben soffrigere le
carni o altro; Piccare: Trapassar esteriormente con fini lardelli carne; Farsa:
Pastume di carne, uova, grasso ecc.; Farcire: Riempire cosa con la sarsa;
Adobare: Condire con sughi acidi, erbette, ed aromi; Bucché: Mazzetto d'erbe
aromatiche che si fa bollire nelle vivande; Salza: Brodo alterato con aromi,
con erbe, o con sughi acidi; Colì: Denso brodo estratto dalla sostanza delle
carni; Purè: Condimento che si estrae dai legumi, o d'altro; Sapore: La polpa
della frutta condita, e ridotta in un denso liquido; Entrées: Vivande di primo
servizio; Hors-dœuvres: Vivande di tramezzo a quelle di primo servizio;
Entremets: Vivande di secondo servizio; Rilevé: Vivande di muta alle zuppe, potaggi,
o d'altro. Pitagora nell’atto, che dalla
cattedra nella nostra italica scuola dettava sistemi, che riguardavano quanto
mai fosse fuori di esso lui, e di noi per pascere l’animo e l'intelletto, non
trascure di sistemare peranche ciò che meglio, e piu opportunamente al
nutrimento ed alla conservazione del meccanico nostro vivere conducesse. E però
dettando il canone o la legge, come dir si voglia, per la cucina delli suoi
mentati, non di *carni* di animali ei ditte quadrupedi, o volatili, o di pelei
imbandite vengano le mente di quanti han voglia di più lungamente, e più
lanamente vivere, ma soltanto di vegetabili erbe, di radici, di foglie, di
fiori. Ebbe cotesso filosofante la somma disgrazia di non essere da ogni
filosofo inteso, come sovente la savia donna stobeo sua moglie e espose li g
luf'J\ l&- r menti: e com’egli la tras-migrazione dell’anime avesse
ingegnata, così dalli silenziari scolari suoi, e da parecchi altri prevenuti da
quel di lui fatto sistema si divieta del cibo animalesco, e la preferizione del
solo cibo erbaceo furon pref nel sinistro senso di una supertiziosa venerazione,
cK egli aveffe per l’animale, nella macchina del quale l’anima dell’uomo dopo
la morte fojfcro tras-migrate. Ma ’ che chefané di ciò, egli è indubitata cosa,
che il cibo erbaceo fallo più confacenti all’verno, per cui vedef la più parte
dei Naturalifi a quella opinione indicimata, che l'uomo naturalmente non è
carnivoro. E se noi ponghiamo mente al parlare dell’antica filosofia, rilevaremo
con tutta chiarezza che le frutta della terra defluiate vennero al nutrimento
dell'uomo, e che sopra del pesce, dell’animale terrestre, e del volatile n eh
he lo fie[fio uomo soltanto il domini; Jlcchè l efifierfii poi dati alcuni
uomini ad alimentarsi di animali j'offe fiata una necessità di alcuni luoghi,
oppure un lusso! Non senza ragione quindi la italiana gente, ansi avvedutamente
oggi più che in altro tempo la legge pitagorica ha ripigliata ad oficrvare con
tutto impegno nella cucina del filosofo galante, e nelle mensa: e le nazioni
anche più culte, che da Italia sono lontane, han preso il gufo di dare al corpo
nutrimento più sano, gusiosso, e facile per mezzo dell’erba. Ed ecco perciò
tutta la scuola cucinaria pofia in movimento per inventar un nuovo modo a poter
preparare e condire l’erba per mezzo di altri fingili vegetabili, onde non
solamente grato al palato si renda il semplice pitagorico cibo, ma eziandio
pofia sioddisfarsii al lusso nell' imbandire laute Menfie da filmili
siempìicità compofie. E quesio è il fine della mia filosofia, difiefio, ed a
comune uso e utilità. Vero egli è, che non tutti li vegetabili dei quali ferie
preferìve qui la preparazione filano li più perfetti, e giovevoli ai nutrimento
nostro. Ma ciò ha dovuto farsi per accomodarsì af gufo comune, ed alla moda
presiente della tavola fu,di che qualunque Aristarco non avrà che opporre.
Nella mia filosofia volendosi imitare la filmile semplicittà della materia del
soggetto, con sempiice e chiaro discorso si da la pratica come ogni erba
italiana dando il suo proporzionato condimento con fughi di carne, con latte
Animali, e di fórni, con butirro, con olio, con uova, e con altr’erbe odorifere
e gusiofe debano preparar f. E intanto per a et tare, ad ogni articolo alcuna
cosa verrà premefi, che rifguarda la natura, e le virtù del vegetabile di cui
fe ne voglidn preparare la vivanda. E già qui fiegue in prima, la maniera di
far i brodi, i coli e le buri neceJTarj
pel condimento: ed in secondo luogo h nòta del vegetabile del quale nella mia
filosofia fe ne preferivo il modo di prepararli: avendo io in ciò fare
procurato di mettere in J'alvo anche il Injjo nell' imbandire con simili generi
una mensa di formalità e gala, e nel tempo Jìeffo di soddisfare il gusto
delicato dei nobili, e di provvedere alla conservazione dell’utterato. INDICE:
Velli Brodi, Coli, e Purè p. I Velli Coli a Velie Purè i tutta la c minarla
prepa- ragione de’ vegetabili, Lattuca, Spinaci, Cavolo Cappuccio, Selleri,
Zucca, Zucca lunga ia Delle Zucche Vernine ivi Cavai fiore Finocchi Iudivia
Cardoni Cavoli Torgi Carciofi Broccoli Boraggine Senape Cipolle ivi Rape
Ravanelli CicoriaPetronciane Pafiinacbe Pomidoro Cedriuoli Peparoli Pifelli
Sparaci Raperortzpli Velli Ceci Fave Faggioli 3^ De//** I-enfe 39 Funghi
Tartufi Erba per condiment, Maggiorana, Targone, Pimpinella, Santa Maria
Crefcione Origano Timo Acetofa Salvia Menta Cerfoglio Porcellana Bafiltco Ruta
Sambuco Rosmarino Tralci Vite Zafferano Anafi Cappari Scalogne Dettagli Rafano
o Ramolaccio Bettonica Idea dell'ufo delle frutta ivi. Grice: “My favourite chapter from ‘Il cuoco galante’ is the
philosophical one, on Pythagoras! I vitto pitagorico consiste l’erba fresca,
la radice, il fiore, la frutta, il seme, e tutto cid che dalla terra produce
per nostro nutrimento. Vien detto pittagorico poiche Pitagora, com’ è
tradizione, di questi prodotti della terra soltanto fece uso. Pitagora mangia
l’erba semplice e naturale, ma gli uomini de’ nostri di li vogliono conditi, e
manovrari; ed io nel voler conversare con distinzione dell’erba procuro
eseguire l’uno, e soddisfare l’altro, con escludere le carni, e di servirmi del
condimento, anche pitagorico, com'è il ſugo di carne, il lasase, le uova,
l’olio, ed il burirro per compiacere qualche particolar palato, servirmi pure
delle parti più delicate degli animali. Molte fonti filosofica
suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la semiotica e la
filosofia: entrambe le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo e sono
a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio: "In
verità, Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la
divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due
pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite
come originariamente collegate. E un effettivo stretto collegamento esse lo
trovano nella figura antichissima dello iatromantis, il
filosofo-cum-medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la
capacità di curare le malattie. L'appellativo del filosofo come iatromantis è
riferito in prima istanza allo stesso dio Apollo; ma passa poi a una serie di
filosofi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e
della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento
fondamentale che caratterizza la figura dell filosofo iatromantis è la sua
capacità di usare una procedura diagnostica: trattandosi di un veggente, egli
è in grado di individuare la causa nascosta (il segnato) di una malattia (il
segnante), causa che è da attribuirsi sempre a un intervento sopra-naturale.
In epoca antichissima, la malattia è concepita infatti come miasma, come
contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità divina o demonica. Si
tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in
una religione italica pre-olimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata;
Detienne; Dodds; Lloyd; Parker. Un'ampia panoramica sul movimento magico e
catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde. Per questa ragione, c'è
bisogno di un filosofo-cum-medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli
rendono accessibile il mondo delle forze oscure e sopra-naturali alle quali è
imputato il presente stato di contaminazione; in seguito alla sua diagnosi, il
filosofo-cum-iatromantis [those spots mean measles, black cloud means
rain] può indicare gli strumenti magici atti a purificare il miasma. Questa
concezione è ben iliustrata da una notizia di un filosofo della scuola
pitagorica a Crotona, Poliistore, che cita le "Memorie
pitagoriche"."L'aria, secondo i pitagorici, è piena di anime. Ed essi
le considerano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uomini
i sogni e i segni premonitori (semeia) e le malattie, e non solo agli uomini,
ma anche alle greggi e agli altri animali da pascolo. E a questi demoni ed
eroi sono dirette le cerimonie catartiche e apo-tropaiche e tutta la mantica e
i vaticini e tutto ciò che è di tal genere" (Diog. Laert., Vitae, D-K). Va
notato, di sfuggita, che il carattere italico molto arcaico della concezione
espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle
stesse vicende della comunità umana. C'è la rappresentazione di una comunità
agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile (Cfr. Deticnne.
Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una semiologia SACRA e
magica abbinata a una filosofia esoterica e medicina magica. I demoni sono la
fonte delle malattie che affliggono gli uomini. Ma, contemporaneamente, sono
anche la fonte dell'informazione che concerne il mondo in-visibile o
in-perceptibile, in-sensibile, inviando agli uomini i segni (compreso quel
particolare tipo di segno che sono i sogni) dai quali si rende riconoscibile
l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si chiude
attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i riti
catartici e apo-tropaici. In particolare, le cerimonie apo-tropaiche sono
costituite dalla recita di epoidai, cioè di formule verbali incantatorie,
ritenute idonee a scongiurare il male. Si tratta di segni linguistici che da
una parte chiudono il circuito comunicativo con il sopra-naturale, dall'altra
sono efficaci, nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo.Grice:
“Oddly, my mother was keen on Mrs. Beeton, I’m keen on Signore Corrado!”
La cucina e la credenza, ad esami parlando, son sorelle gemelle, poichè
le due appartengono al buon gusto del cibo, e le due nacquero, cresceron, e
s’ingrandirono nello stesso temp, e nella nostra Italia che in altri luoghi,
sotto i fastosi e dominanti romani, e divennero tutte e due arti d’ingegno, di
piacere, e di utile; ed il cuoco ed il credenziere debbono esser d'accordo nel
loro, quantunque dissimile, lavoro. Della estesa ed elevata cucina se n’è
discorso abbastanza. Dico abbastanza ma non già al fine; e compimento, poichè
ciò accade quando non vi saranno più uomini al mondo. Ora vengo a trattare di
quanto la credenza include, e di quanto un credenziere dee esser fornito. E se nel
dar l’istruzione per la cucina pensai e scrissi da cuoco, ura collo stesso
metodo filosofo da credenziere. Come tale intendo ragionare al dilettante.
Procuro di aggiugnere quanto di bello, di buono, e di dilettevole mi ha potuto
suggerire la fantasia. Gradisci dunque, o cortese mentato, questa mia fatica, e
sappi, ch’io resto soprabondevolmente pagato col piacere di avervi servito.
Vivi felice. Vincenzo Corrado. Corrado. Keywords: la dieta di Crotone, il cibo
pitagorico, il concetto di conversazione galante, gala --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corrado” – The
Swimming-Pool Library. Corrado.
Luigi
Speranza -- Grice e Corsano: la ragione conversazionale (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano.
Roma. Il pensiero di Bruno nel suo svolgimento storico; a cura di Adele
Spedicati users.png Galatina, : Congedo, mas.png Materiale a stampa Lo trovi
qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui 2. : Il pensiero
di.. users.png Galatina, : Congedo, 1999 mas.png Materiale a stampa Lo
trovi qui: Univ. di Salerno Opac:Controlla la disponibilità qui 6. : Umanesimo
e rel... users.png Napoli, : Guida mas.png Materiale a stampa Lo
trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Bayle, Leibniz
e la ...CORSANO, Antonio users.png Milano : Signorelli, mas.png
Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la
disponibilità qui De la causa, princip...BRUNO, Giordano users.png
mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la
disponibilità qui G. B. Vico / Antoni...CORSANO, Antonio users.png
Napoli, : Libreria Scientifica, mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ.
di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Leibniz / Anton...users.png
Bari, : Laterza, mas.png Materiale a
stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac:Controlla la disponibilità qui
Giambattista Vico / ... users.png Firenze, : Sansoni, stampa 1940 mas.png
Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la
disponibilità qui tutti checked_false.png Il pensiero educativo del
Rinascimento italiano / Antonio Corsano, Maria Ricciardi Ruocco users.png
Firenze, : La Nuova Italia mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di
Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Il pensiero educativ...
users.png Bari : Laterza mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ.
di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Il pensiero religios...CORSANO,
Antonio users.png Galatina, : Congedo, 2002?- rgrafbi.png Grafica
Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Opere
scelte / Anton... users.png Bologna, : Cappelli- mas.png Materiale
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Storia del problema .. users.png Bari, : Laterza, mas.png Materiale
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Grozio : l'umanis... users.png Bari, : Laterza, mas.png Materiale a
stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui
Umanesimo e religion... <18... 11 - 20 di 19 risultati tro. Antonio Corsano.
Corsano. Refs.: L. Speranza, “Grice e Corsano”, The Swimming-Pool Library.
Corsano.
Luigi Speranza -- Grice e Corsini: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia in roma
antica – scuola di Fellicarolo – filosofia modenese – filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Fellicarolo). Filosofo modenese. Filosofo
emiliano. Filosofo italiano. Fellicarolo, Modena, Emilia-Romagna. Grice: “I like Corsini; if we at Oxford had a sublime history as they do
in Italy, we surely would be philosophising about it! Corsini taught philosophy
at Pisa and spent most of his efforts in deciphering what the Romans felt
interesting about Greek philosophy!” Grice: “Corsini also explored the roots of
Roman philosophy from the earliest times – ab urbe condita,’ as the Italians
put it!” Studia
nel Collegio dei padri scolopi fananesi, dove in seguito entra quale novizio e si trasferì nel Noviziato di Firenze. Le
sue capacità lo portarono a diventare docente di filosofia a soli vent'anni presso
la stessa scuola. Si trasferì quindi a Pisa dove insegna. Eletto Superiore
Generale e dovette trasferirsi a Roma. I principali campi di studio ai
quali si applica furono: la filosofia, la cronologia, l'epigrafia, la filologia
e la numismatica ma si interessò anche di matematica, di logica, di fisica, di
idraulica, di didattica, di storia e di lettere antiche e moderne. Altre
opere: “Illustrazione relativa alle recensioni su De Minnisari e Dubia de
Minnisari pubblicate ne gli Acta Eruditorum; “Illustrazione relativa all'Epistola
ad Paulum M. Paciaudum, pubblicata negli Acta Eruditorum”; “Ragionamento
istorico sopra la Valdichiana” (Firenze); “Index notarum Graecarum quae in
aereis ac marmoreis Graecorum tabulis observantur” (Firenze); “De Minnisari
aliorumque Armeniae regum nummis et Arsacidarum epocha dissertation” (Firenze);
A. Fabbroni, Vitae Italorum..., Pisis E. de Tipaldo, Biografie degli italiani
illustri, X, Venezia); Dizionario
biografico degli italiani. Elogio di C. (con lettere di Fananese a Rondelli). Fanani
nianae, quod in ditione est oppidum Ducum provinciae Ateftinorum Fri, III. Non.
natus eft C. optimis quidem parentibus, honestissimaque familia, quippe quae
jamdiu civitate Mutinensi donata fuerat. Is ubi primum adolevit Sodalitatem
hominum Scholarum Piarum, quos praeceptores puer in patria habuerat, ingressus
est. Multa diligentia, multoque labore in humaniorum litterarum [cf. Grice,
Lit. Hum.], philosophiae ac theologiae studiis Florentiae se exercuit apud
suos; et cum omnes condiscipulos gloria anteiret, ab omnibus tamen in deliciis
habebatur. Erat enim bonitate suavitateque morum prope singulari; et cum
plurimuin faceret non solum in excolendis studiis, sed etiam in officiis
omnibus religiosi hominis obeundis, minimum tamen ipse de se loquebatur. Vix
ferre poterat Eduardus peripateticos quofadam horridos, durosque oratione et moribus,
quibuscum versari cogebatur; intelle xeratque jam falsos hujusmodi sapientiae
magistros de veritate jugulanda potius, quam de fendenda assidue certantes, philosophiam
artem fecisse subtiliter et laboriose infaniendi. Relictis igitur disputandi
spinis, ad Academiam se convertit, cujus ratio inquirendi verum libero
folutoque judicio, et fine ulla contentio ne et pertinacia non poterat non
magnope reprobari homini natura leniſſimo. Nec forum in philosophorum libris
corum dogmata, quae disputationibus huc et illuc trahuntur, ut ipse per se perpenderet,
inveſtigavit C., sed etiam philosophiae adminicula et an ſas, qualem Xenocrates
geometriam appellabat, in Euclide, Apollonio et Archimede quae sivit. Quo in itinere
felicem adeo habuit exitum, ut fervore quodam aetatis impulsus, břevi condere
potuerit libellum de circulo quadrando, quem ad Guidam Grandium mi fit. Novit
in eo Grandius eximium et admirabile adolescentis ingenium, eumdemque hortatus
est, ut pergeret porro in eo studio, quod ceteris et studiis et artibus antecede
ret, et in quo ipse futurus effet excellens. At C. praeſertim trahebatur ad
humaniores litteras, quibus a puero mirifice dedicus fuerat, quaſque vel in
sublimiorum disciplinarum occupationibus, ne obsoleſcerent, legendo
renovaverat. Itaque moleste tulit demandatam fibi a majoribus fuisse provinciam
tradendi publice FIRENZE philosophiam, quasi ad ea detru deretur, quae sui non
essent ingenii. Principio sequi coactus est Goudinium, cui brėvi substituit
Hamelium. Atque hos auctores sic interpretatus est, ut facile intelligeretur
non eſſe ex illorum doctorum numero, pud quos tantuin opinio praejudicata
poteſt, ut etiam fine ratione valeat auctoritas eo rum, quos ſequi ſe
profitentur. Poftremo ad ſcholae fuae utilitatem et ornamentum maxime pertinere
exiſtimavit, fi e multis, quae ſunt in philoſophia et gravia et utilia a
recentioribus praefertiin FILOSOFI tracta ta, quantum quoque modo videretur
deli geret, in quo adoleſcentes exerceret. Sa pienter etiam faciebat, quod
ipſos non ſolum quibus luminibus ab illa omnium laudanda rum artium
procreatrice Philoſophia petitis a mentem illuſtrare, fed etiam quibus virtuti
bus omnem vitam tueri deberent fedulo e rudiebat. Quare minime eſt mirandum fi
in tantam claritudinem brevi pervenerit, ut fuis et Florentinis vehementer
carus, quibuſdam vero hominibus nudari ſubfellia ſua, et cor nicum oculos
configi dolentibus eſſet invim diofifſimus. Fuerunt et nonnulli (tantum in
vidia, aut inſcitia potuit ) qui apud eos, quorum munus eſt providere, ne quid
er roris in religionem moreſque irrepat, Corſi nium accufarunt, multa illum
tradere, in exponendis praeſertim Gassendi et Cartesio ſententiis, a recta
religione abhorrentia. Stomachatus eft homo religiofiflimus, caftif fimuſque
obtrectatorum temeritatem. Hos ve ro ut falſae et iniquae inſimulationis publi
ce convinceret, utque ab omni metu diſci pulos fuos liberaret, ftatuit in lucem
profer re, quae in ſchola et domi iiſdem expoſue rat. Quod cum praeftitiffet,
id evenit, ut alteros reprehendiſſe poeniteret, alteri fe di diciſſe gauderent.
Inſcripfit opus: Inſtitutio nes philoſophicae ad ufum Scholarum Piarum, et illud
in quinque volumina diſtribuit si ma mum continet hiſtoriam philoſophiae et lo
gicam; ſecundum verfatur in indagandis prin cipiis, et tanquam feminibus unde
corpora funt orta et concreta, horumque proprieta tibus et qualitatibus; agit
tertium de cor poribus inanimatis, quae caelo, aere, ri et terra continentur;
examinat quartum animata corpora, multipliceſque eorum fpecies, et elementa
metaphyſicae tradit; quia tum denique morum doctrinam complectitur. Nec folum
in conficiendis his libris res no vas inveſtigavit C., fed etiam eas, quae funt
ab antiquis traditae, quarum cognitionem eo utiliorem putavit, quod faepe.
philoſophos nova proferre judicamus, cum pervetera proferant. Praeter quam quod
in ea erat opinione C., illi, fitum eſt veritatem invenire, fingulas nofcen das
effe diſciplinas, ut ex omnibus, quod probabile videri poſſit, eliciat,
praeſertim cum doceamur a ſapientiffimis viris, nullam fectam fuiffe tam deviam,
neque philoſopho rum quemquam tam delirantem, qui non vi derit aliquid ex vero.
Nec modo quid fibi probaretur, fed aliorum etiam fententias, et quid cui propo quid
in quamque ſententiam dici poſſet, pera fecutus eſt, quod ea modeſtia
praeſtitit, ut: non vincere maluiſſe, quam vinci oſtenderid. Hanc opinionum
varietatem ex fuis fone tibus fincere deductam, ut potentius in die fcipuloruin
animos influeret, non modo ora, vine diſpoſuit., ſed etiam claritate et nitore,
LATINO SERMONE illuſtravit. Praeclare enjin, CICERONE: mandare quemquam
litteris cogitationes fitas, qui eas nec difponere poffit, nec illuftra-: re,
nec delectationé. aliqua lectorem allicere, hominis est. intemperanter
abitentis otio et like cris. Sunt nonnulli qui in hiſce. Insitus, rionibus dum
pleniflimo ore laudant ima menſam prope eruditionis copiam,, politio remque
elegantiam, quibus ornantur, defide; rare videntur abditiorem 'reconditioremque
tractationem earum rerum, quae primum ii) phyſica tenent locum, quales ex. gr.
ſunt Trotus., Newtoniana' attractia, harumque lo ges, non tam.ut ceteros, quam
ut ſe ipſum, qui nunquam adduci potuit, ut Newtoni fententiae affentiretur,
convinceret. Sed ii meminiſſe debent quibus ſcripſerit:C., hribuſque temporibus
ſcripferit. Quoniam ve to plurima ſunt in phyfica, quae fine 'gea metriae ope
tractari non poffunt, hoc quo que adjumențum a fe afferri oportere diſci pulis
ſuis putavit. Itaque Philoſophicis Ma thematicas Institutiones adjecit, in
quibus fi ordinem excipias (initium enim facit a pro portionibus, quas nemo
ignorat difficillimam effe geometriae partem) cetera ſatis belle procedunt.
Neque multo poft retexuit hoe ipſum opus, in quo eo elaboravit attentius, quod
fperabat aditum fibi facturum ad mu nus tradendi mathematicas diſciplinas in LIZIO
Florentino. Acceptum illud cum plauſu fuit propter dilucidam brevitatem atque
ele gantiam, licet in eo acutiores peritioreſque geometrae pauca quaedam jure
ac merito teprehenderint. Praeſtantiam, quam conſe cutus fuerat C. in rebus
geometricis, yoluit ad hydroſtaticam transferre; cumque fedulo evolviffet quae
in ea facultate ſcris ptis mandaverant poft GALILEI (vide), BRUNI Torricellius,
Michelinius, Guglielminius, Grandius, alii. que pauci, in ſcenam prodire non
dubitavie fuftinens perſonam non modo conſiliarii et arbitri de dirigendis
avertendiſque aquis, ſed etiam ſcriptoris. Etenim ex ejus officina prow diit
liber, qui infcriptus eft: Ragionamenti intorno allo stato del Fiume Arno e
dell' acque della Valdinievole, quique editus fuit fum ptibus. Marchionis
Ferronii, cujus cauffam praeſertim defendebat. Spe dejectus Eduar dus
perveniendi in LIZIO Florentini docto rum numerum, qui praeter modum iis tem-.
poribus. creverat, animum ad Academiam Piſanam convertit, petiitque dari ſibi
va cuum eo tempore logicae interpretis locum. Celeriter quod optabat impetravit,
propte rea quod Joannes Gaſto Magnus Etruriae Dux eximiam illius ſcientiam in
omni re philo ſophica cognoverat. Vir non tam doctrina praeſtans, quam docendo
prudens (etenim quaedam etiam ars, eſt docendi ) magno erat emolumento
ſtudiofis adoleſcentibus, qui non uſitata frequentia fcholam illius celebrabant.
Cum vero de fchola in otium folitudinem que se conferret, tempus potiffimum
conſu mebat in augendis. perficiendiſque ſuis Phi lofophicis Institutionibus,
abſolvendoque, quod inſtituerat, opere de Practica Geometria. Ins ter haec
magna fuit amnis Arni inundatio,ut fi inundationes excipias, quae annis
acciderunt, nul lam unquam majorem fuiſſe conſtaret. Pere vaſerat opinio per
animos Florentinorum huic luctuofae calamitati cauſſam praefertim dediffe
Clanis aquas in Arnum deductas, et quae ad eaſdem moderandas aquas facta fue
rant opera. Hunc errorem ut eriperet Edu. ardus, utque perſuaderet eadem opera
fuiſſe utiliffima ac faluberrima, libro expoſuit qua lis fuiſſet, et quis eſſet
ſtatus Claniae val lis, quidque conſultum et actum ad fua uſque tempora, ut
peſti lentiſſima regio convaleſcere aliquando et fa nari poſſeti, utque
controverſiae inter finia timos Principes de dirigendis aquis ejuſdem regionis
tollerentur. Piſis erat C. con tubernium cum Alexandro Polito, qui hum maniores
litteras profitebatur, cujuſque vi tam ſupra explicavimus. Hominis Graecis et Latinis
litteris eruditiffimi exemplum et vo. ces, ſelectiſſimorumque librorum copia,
qua is abundabat, C. per fe jam flagran tem vehementiffime incenderunt ad eas
ar tes, quibus ab ineunte aetate deditus fuerrat, celebrandas. Sciebat Graece,
cujus ſermonis elementa juvenis Florentiae acce perat a ſodali ſuo Franciſco
Maria Baleſtrio, fed non luculenter. Itaque multo ſudore ac labore in arte
grammatica primum ſe exer euit, poftea Graeca multa convertit in LATINVM,
Graecorumque libros et eos pracſer tim, qui res geſtas et orationes ſcripſe
runt, utilitatem aliquam ad dicendum aucu- | pans, ftudiofiffime legebat. Cum
vero ei eſſet perſuaſum ingentes ac prope immenſos cam pos illi proponi, qui
eloquentiae ceterife que humanioribus litteris vacare cupit, acom mico hac de
re aliquando ſciſcitanti reſpon dit: percipiendam ei effe omnem antiquitatem,
cognoscendam hiſtoriam, omnium bonarum artium ſcriptores et doctores et legendos
et pervolu tandos, et exercitationis cauſa laudan.los, in terpretandos,
corrigendos, refellendos; diſputan dumque de omni re in contrarias partes, et quid
quid erit in quaque re, quod probabile videre poffit, eliciendum atque dicendum.
Hujuſmodi exercitationes, quas diu incluſas habuit, Core finius in veritatis
lucem tandem proferre ſe poffe putavit, cum Faſtos Atticos illustrandos
fuſcepiſſet; magnum ſane opus et prae clarum, quod omnem fere Athenienfium hi
ftoriam complecti debebat, cum qua philofophiae, omniumque laudatarum artium hi
ſtoria arctiſfime eſt conjuncta. Diviſit illud ipſum opus in partes duas,
quarum prio rem veluti apparatum Faftorum effe voluit, quod in illa fuſe
lateque ea exponerentur, quae commode in ipfis Faftis, ad quos ta men
pertinebant, 'exponi haud poffe vide bantur. Agit itaque de Archontum inſtitu
tione, numero, varietate, muneribus et re rie, de Archontico anno, atque ordine
men fium Athenienfium. Cum vero Archontigiis annus non in menſes ſolum, ſed in
Pryta nias etiam diviſus eſſet, ac Tribuum Athe nienfium fingulae aequali
temporis, annique parte Prytaniae munere fungerentur, de ie pſarum Tribuum ac
Prytaniarum numero, ordine ac ſerie, deque Atticae populis, ex quibus illae
conſtabant, eruditiſſime differit. Neque ab his ſeparandam putavit tractatio
nem de Athenienſium Senatu et Ecclefiis, dcque Proedrorum, ac Epiſtatum numero,
diſtinctione et officiis. Tranſit inde ad contexendam Archontum ſeriem
diſtinguens eponymos a pseudeponymis. Quam diſtinctionem licet nonnulli
agnoverint, nemo tamen exſtitit, qui Pſeudeponymorum Archontum feriem
illuftrandae Atticae hiſtoriae maxime neceffariam recenſere tentaverit. Agit de
mum de civilibus Graecarum gentium annis, ipfarumque menfibus, cyclis atque
periodo, cum antea declaraſſet tempus, verumque di em, quo varia Athenienſium
feſta peragi et redire confueverant. Id facere neceſſe fuit propterea quod
eadem fefta, veluti perſpi cuae certaeque temporis notae, rerum gefta rum
memoriaé ſaepiffimè a ſcriptoribus adji ciuntur. Haec quidem in priori operis
par te. In fecunda vero Fafti exponuntur a pri ma Olympiade, qua Coroebus
palman retus lit, uſque ad Olympiadein cccxvi. Causa fuit juſta C. praetereundi
antiquiora tempora, quod iſta laterent craſſis occultata tenebris, et circumfuſa
fabulis. Ne tamen primam Athenienfis imperii formam deſpice. re videretur (nam
Athenis initio Reges, inde perpetui Archontes, mox decennales, tandemque annui
imperarunt) qui Reges et Archontes perpetui, et qua aetate fuerint in
Prolegomenis perſecutus eft. Ceterum Fa. ftos fic contexuit C., ut nullum ad
nos pervenerit nomen Archontum, Olympioni čarum et Pythionicarum, nulla lex,
neque pax, neque bellum, neque caſus neque res illuſtris et memoranda populi
Athenien fis, quae in iis ſuo tempore non fit notata. Interdum etiam attigit
Spartanorum, Phoceli fium, Thebañoruin, aliorumque Graecorum gefta, conſilia,
pugnas, diſcrimina, quod ca maxime ſint Atticae hiſtoriae conjuncta. Graecos
vero philosophos, poetas, oratores, cete roſque tum pacis, tum inilitiae
artibus claros viros ita commemoravit, ut quibus Olympicis annis, et quo loco
in lucem fint editi, vitam que ' finierin't intelligi poffit. Atque haec o
Innia capitulatim ſunt dicta. Etenim nimis lon gus effem fi praecipua, et nova
vellem deſcri bere, quae in his Faftis continentur. Nihil poſuit in iis C. fine
locuplete auctori täte et teſte, aut faltem ſine probabili conje: ctura;
quodque difficillimum fuit, fcriptorum Graecoruin loca aut vitiata aut minime
intel lecta, aut mutilata'ſic reſtituit, illuſtravit, fupplevitque, ut dubitari
poffe videatur plus ne jis reddiderit luminis, quam ab iiſdem aco ceperit.
Neque minori perſpicientia Athe nienfium nummos vidit, ex quibus non pau. ca
quidem in rein ſuam hauſit; ſed multo plura e marmoreis monumentis fumpfit, ta
li modo dirimens controverſiam, quae ex fufcitata fuerat a ſummis viris
Spanhemio, et Gudio, nummis ne, an inſcriptionibus princeps locus dandus effet
in explicandis ri tibus, feſtis, Numinibus, ludis, magiſtrati bus, rebuſque
geſtis Athenienfium. Inter nobiliores inſcriptiones, quas refert Corfi nius, et
miro prorſus acumine atque eru ditione explicat, et interdum etiam fupplet, eft
Florentina quaedam apud Riccardios ile luſtrandis Athenienfium Tribubus maxime
idonea. Sed haec mirifice corrupta erat, au gebatque corruptelam collocatio.
Etenim cum ex tribus fragmentis conſtaret, imperi tus artifex fic illa in
pariete diſpoſuerat, ut media pars primae, finiſtra mediae, dextera vero omnium
poftremae partis locum Occu paret. Vidit haec mala Corſinius, qui 2 tutiſſime
indagabat omcia, iifque remedia goadhibuit. At puduit Joannem Lamium ſe non
adeo lynceum fuiffe, cum ufus effet sadem inſcriptione in ſuis ad Meurfium
Scholiis, et ex pudore orta eſt invidia. Ex quo intelligi poteſt quare is
debitas mun quam tribuerit laudes operi, quod omnium judicio longe multumque
ſuperat quidquid in hoc rerum Atticarum genere ſcripſerunt Sigonius, Scaliger,
Petavius, Petitus, Sponius, et vel ipfi Meurfius, et Dodwellus, quorum errorés
dum faepe corrigit C., et dum minime ab iis animadverſa pro fert, fatis
declarat iiſdem detrahere voluiffe Haerentem capiti multa cum laude coro nam.
Rumor erat ea parare Lamium, quibus fpe rabat hominibus fe probaturum, C. in
emendanda illuſtrandaque Riccardiana in fcriptione ſurripuiffe fibi fegetem et mate
riem gloriae ſuae. Porro Lamius poft edi tas Corſinii emendationes fupponere
cogita verat in locum impreſſae jam paginae in I. Meurſii operum volumine, quae
prae fe fe rebat inſcriptionem corruptam, aliam pagi nam, in qua emendatior
inſcriptio legebatur; C.: 1 bancque mutationem, omnibus occultari pof ſe
putaverat, quod Meurſii liber nondum efe ſet in vulgus editus. Non latuit certe
Core finium, in cujus manus pervenit etiam pria mum impreffa pagina, qua omnem
a fe prow pulſare poterat injuriam. Id ut audivit Lami mius aliam rationem
iniit perficiendi confi lii ſui. Dedit ad Angelum Bandiniun litte ras plenas
iracundiae ac minarum, ſpecie qui dem ut ea, quae jamdiu ſepoſuerat ad
Riccardianum marmor explanandum, aliquando proferret; re autem ipſa ut quae a C.
didicerat, perpaucis additis aut mutatis, le ctori aut occupato aut indiligenti
vendita Yet pro ſuis. Atque id utrumque ſcriptorem conferenti luce clarius eft.
Quare mirari ſa tis non poffum hominis frontem, qui furti C. infimulet in eo
loco, in quo ipfo cum re aliena, atque etiam cum telo eſt de prehenſus. Atque
haec an. v. ſunt geſta, cum Fafti Attici anno ſuperiori lu cem vidiſſent. Sed
tamen res defenſionem apud multitudinem potuit habere uſque ad cum annum, quo
Meurſii opera cum Lamii animadverſionibus vulgata funt fimul universa. Tum
enini primum jejuna illa marmoris interpretatio, quam ante annos xxII. Lamius
in l. operum volumen intulerat, lecta eft.: ad calcem vero ejus voluminis
ſecundae Aucto ris curae in eum lapidem, et quaſi retra Statio quaedam ante
dictorum edita eſt. Qua in mantiſſa bina extant indicia Corſinii cauffam mire
tuentia, alterum quod nihil hoc in loco proponatur, quod non ille in Faſtorum
libro occupaverit; alterum quod mantiſſae characteres ab ejuſdem voluminis
characteribus forma et figura longe abſunt, teſtanturque non niſi poſt annos
multos quam liber fuerat impreſſus, diſtractis jam aut obſoletis formis illis
prioribus, additam eſſe appendicem, de qua meminimus. Sed jam fatis multa de
homine meo quidem judicio paucis comparando, niſi regnum in litteris, quod FIRENZE
perdiu tenuit, malis inter dum artibus et clarorum virorum vexatione
confirmandum putaſſet. Quamvis in Fa. Hujus rei narrationen pluribus etiam
verbis exa pofitam vide in libello cujus eſt infcriptio: Paffatem po Autuntile,
quo in libcllo Si quis est qui dictum in se ir clemencius Exis. Atis Articis
elaborare C, maxime glorio fum fuerit, non minorem tamen laudem rea portavit ex
Agoniſticis Differtationibus, de qui bus Ludovicus Muratorius, intelligens
ſane. judex, dicere folebat, poſſe eas per ſe ſo las aeternum nomen Auctori
comparare. His Diſſertationibus oftendere voluit C., quo tempore Graeci
celebrare conſueverunt ludos Olympicos, Pythicos, Nemeaeos, et Iſthmiacos, quod
tempus eatenus fuerat vel incompertum, vel faltem obſcurum. In hoc autem non
mediocrem utilitatem chronolo giae et hiſtoriae ſe allaturum putavit, quod
iiſdem ludis fcriptores uterentur ad notanda deſignandaque rerum geſtarum
tempora. Ab Olympicis exordiens, qui ceteros fplendore et frequentia ſuperabant,
breviter cos percurrit, quos ab Hercule primum inſti tutos Trojano bello
deſiiſſe, moxque ab. Iphito reftitutos iterum intermiffos fuiffe fcriptores
narrant. Etenim illud caput eſſe videbatur, ut de Olympiade illa quaereret, qua
Coroe bus palmam accepit, et quae prima dicitur, omnes Exiflimayit ele, fit
exiſtimet Reſponſum, d.ctum effe, qu'a
lacris prior quod ab illa ceterarum Olympiadum ordo et feries incipiat. Hanc
celebratam fuiſſe putat an. periodi Julianae circiter folftitium aeſtivum, plenilunii tempo
re, qui mos ſemper manſit non folum anti quioribus, quibus civiles Graecorum
anni lunares erant, fed recentioribus etiam, qui bus ſolares anni a Romanis ad
Graecos tran. fierunt. Primus is erat anni menſis, in quem incidiffent
Olympici ludi. Quinque diebus eorum certamina abſolvebantur, inter quae curſus,
quo, uno certatum eſt ad Olympia dein uſque, primas tenebat. Neque. in Aelide
folum, fed et in aliis Graeciae ur bibus fumma cum populi frequentia ac faca.
crorum caeremonia Olympici celebraba ntur, donec v. ineunte reparatae falutis
faeculo, jidem cum Pyticis. ſublati fuerunt., Pyticos primum inftituit Apollo,
eofque jamdiu in-. termiffos, confecto. Criſſenfi bello, Olympiade. Amphictyones
revocarunt. Ii dem Olympicorum inſtar pentaéterici erant; neque ſecundis annis,
aut quartis, ut Petavius et Dodwellus, exiſtimarunt, ſed tertiis, hiſque
exeuntibus circa Elaphebalionis menfis finem, tum Delphis, tum in aliis
Graeciae urbibus peragi confueverunt, Proxime poft Pythia Olympiade ſcilicet
Lill. inſtaura ta fuerunt Nemea, quorum origo reperitur a ſeptem Argivis
ducibus, qui ad lenien dum defiderium pueruli Archemori a ſerpen te occiſi
funebres hoſcę agones ante Olympiadem primam prope Ne meaeum nemus inftituerunt.
At Nemeadem illam, ex qua veluti cardine ceterae infe quentes numerari
coeperunt, in annum Olympiadis LxxII. poft Marathoniam pu gnam incidiffe fatis
probabiliter Eduardus af firmat. Nemeades aeſtivae aliae, aliae hibere nae,
omnes vero trietericae fuerunt; eaeque alternis annis ita peragebantur, ut
hibernae quidem in medios ſecundos, aeſtivae vero in quartos ineuntes
Olympiadum annos in currerent. Cum Nemeis ludis quaedam erat Iſthmicis a Theſeo,
ut ferțur, conſtitutis fia militudo. Funebres erant ambo, ambo trie terici, et qui
utrolibet in certamine viciſſent apio coronabantur, Ithmici quoque alii em rant
aeſtivi, non tamen alii hiberni, ut qui dem Dodyellus putabat, fed verni brabantur
illi primis Olympiadum annis Hea catombeone menſe, hi Thargelione, exeun te
fere tertio Olympico anno. Sic definivit C. tempora quatuor illuſtrium Graea
ciae ludorum, patefaciens obſcura et ignota vel ipſis chronologiae luminibus
Scaligero Petavio, et Dodwello, quorum auctoritate abreptus ipfe in primo
Faſtorum Atticorum libro Pythiades ſecundis Olympicis annis cona cefferat.
Agoniſticis hiſce Differtationibus, veluti faftigium operis, idem adjecit
feriem Hieronicarum alphabetico, ut dicitur, ordi ne diſpoſitam, et Dodwelliana
longe ube riorem accuratioremque. Nam feptuaginta. ſupra centum vitores
recenſuit, qui Dod weilum prorſus fugerant; fonteſque indic cavit (in quo
Dodwelli diligentia ſaepiffi, me deſiderabatur ) unde uniuſcujufque vin ctoris
nomen, aud patria, aut aetas, aut tertaminis genus, quo viciffet, hauriebatur.
Hoc opus vehementer adeo Auctori fuo pro batum erat, ut vir modeftiffimus in eo
quo daininodo gloriari videretur. Etenim, ut At rico fcripfit CICERONE, fua
cuique Sponfa,fuus quiqua Quoniam autein tumuin his Agoniſticis
Diſſertationibus, tum in Faltis ſcribendis faepe uſus eſt C. ſubſidio
marmoreorum monumentorum, in quibus multae occurrunt notae, quarum neque fa
cilis, neque prompta fuit explicatio, fepara tum opus. a ſe expectare putavit
Graecarum antiquitatum ftudiofos, quo in opere non ſolum ex marmoreis, fed
etiam ex aereis Graecorum tabulis: varias eorum notas colli geret, haſque
explicaret atque illuſtraret. Quae dum animo verſaret, fcriptionique jam manum
admoviffet, ecce in lucem prodit Scipionis Maffeii liber de Graecorum figlis
l.z pidariis, in quo trecenta fere vocum com pendia ingeniofe: feliciterque
enodantur.. Cum
C. ab amico librum accepiſſet, ei epi ſtolam fcripfit (relata haec fuit in
volumen. diarii Litteratorum. Florentiae editi ) in qua ſummas tribuit Maffejo
laudes, quod primus ex omnibus materiem hanc ſeorſim tractandam füfceperit,,
magnam in illam con ferens.eruditionis copiam, et acre: prudenſ que judicium..
Non, propterea tamen: ſpar tam, quam fibi ſumpſerat, ille deſeruit, quia, ut
ait Auſonius, is crat campus, in quo alius alio plura invenire poteft, nemo om.
nia. Et plura certe C. invenit, cum
mille fere notas, aut numerorum vocum que compendia uno volumine colligere po
tuerit et explicare illo ſuo acutiffimo inge nio, cui inquirenti et contemplanti
omnia occurrere ſe ſeque oftendere videbantur. Ut vero delectatione aliqua
alliceret adoleſcen tes, quibus inſuavis fortaſſe et aſperior via deri poterat
ſiglarum inveſtigatio, poftquam multa eruditiſſime praefatus effet de notarum
origine, vi, utilitateque, opportune ſparſit in toto libro non pauca ad
hiftoriam, geos graphiam, chronologiam, ac mythologiam ſpectantia. Ex quibus
aliiſque diſciplinis ube riora etiam hauſit, ut ornaret dissertatio nes ſex,
quas, abſoluta univerſa notarum ſerie, confecit, ut eſſent operis corollarium.
Explicant illae inſignes quaſdam Chriſtianac et profanae antiquitatis
inſcriptiones, ficque explicant, ut facile exiſtimari queat, eum qui non
comprehenderit rerum plurimarum ſci entiam, quique judicio certo et ſubtili non
fit praeditus, in his antiquitatis ftudiis ſatis callide verſari et perite non
poſſe. Inſcriptit C. hoc ſuum opus: Norse Graecorum five vocum et numerorum
compendia, quae in gereis atque marmoreis Graecorum, tabulis obſer vantur,
dedicavitque Cardinali Quirinio, a quo pecuniam ad illud ipſum evulgandum dono
accepit. Etenim his temporibus haud illi magna res erat, quae vix fatis efle
vide batur ad vitam ſuſtentandam, neceſſarioſque. libros emendos. Praepoſitus dialecticae ſcholae, nihil aliud annui ſtipendii obtinuit nifi
octingentos denarios. Hoc eſia fatum videtur nobiliilimae. quidein diſcipli nae,
ut pote quae per omnes diſciplinas ma: nat ac funditur, ut qui illam
profitentur me: diocribus afficiantur praemiis. Vel ipſi Graeci, quamvis ellent
aequi liberalium artium aeftimatores, minam, eſſe voluerunt inerce dem
Dialecticorum. Coin.nodiori in ftatu res C. eſſe coeperunt cum traductus fuit ad
metaphyſi cam atque ethicam docendam. Tunc eniin ipfius ftipendium erat bis
millenorum et am plius denariorum, poſteaque illud ipſum ad quatuor. mille
ducentos quinquaginta uſque pervenit, cum proſperae. res multae confecutae
fuiſſent. Satis
ſuperque id erat homi ni temperato ad vitam beatiſſimam; videba turque libi
ſuperare Craffum divitiis. Quan tum vero ſorte ſua contentụs, quantiſque a
moris vinculis Academiae Piſanae obftrictus effet, ex eo conjici poteſt, quod
mortuo Lu dovico Muratorio Mutinenfis Ducis bibliothe cae praefecto in illius
locum fuccedere recu favit, quamvis liberaliſſime ipfius Ducis ver bis
invitaretur. Quo cognito ab Emmanue le Comite Richecourtio, qui Franciſci I.
Cae faris nomine res Etruriae adminiſtrabat, ipſe fingularibus verbis ei
gratias agendas cenſuit, eidemque prolixe de ſua non modo, fed et Cae aris
voluntate pollicitus eſt. Id non potuit C. non fumme eſſe jucundum; utque viro
de fe et de Sodalitate ſua bene ſemper merito gratum fe oftenderet dedica vit
illi PLUTARCO opus de Placitis Philoſopho. tum a se LATINVM factum, vitaque
Scriptoris, fcholiis, et diſſertationibus ornatum. Causam ſuſcipiendae novae
interpretationis ei dem dederunt naevi quidam, quibus maçı lantur Budaei,
Xylandri, et Crụſerii honi num ceteroquin doctiſſimorum interpretationes;
ſuſceptam vero ita perfecit, ut ver bu pro verbo reddiderit, multaque etiam
attulerit de fuo, quae funt diverfo chara ctere notata, ne attenuata nimis
diligentia perſpicuitati officeret, et ne res ipfa omni LATINAE orationis
dignitate cultuque deſtitu ta ſordeſceret. In limine operis Plutarchi vi tam ex
illius aliorumque veterum ſcriptis a ſe diligentiſſime colletam, et feriem
philo ſophorum, quorum placita a Plutarcho pro feruntur, aetatemque, in qua
vixerunt, ex. poſuit. Singulis vero operis capitibus brevia adjecit commentaria,
quae aut mutilos et hiulcos Plutarchi locos ſupplent, aut de pravatos emendant,
aut obſcuros atque per plexos, opportune allatis aliorum philoſo phorum
ſententiis, illuſtrant. Siquando au tem longioris eſſe orationis putavit Corſi
nius lucem aliquam afferre rebus obſcuriſſi mis, cum non Heraclitus ſolum, ſed
et quiſ que fere antiquitatis philofophorum, quo rum ſententias coarctavit et peranguſte
re ferſit PLUTARCO, Exotélv8 cognomen me reatur, hujuſmodi illuſtrationes ad
finem li bri rejecit. Quo in loco voluit etiam recenfere illuſtriores
ſententias, quae propriae di cuntur recentiorum philoſophorum, cum ea rum tamen
manifeſta appareant veſtigia in Plutarchi libro, quod profecto ad veterum
gioriam amplificandam plurimum valet. Ta les ſunt attractionis leges, vireſque,
ut di cuntur, centripeta et centrifuga, Charteſiani vortices, lunae phaſes,
maculae, quod que haec fit terra multarum urbium et mone tium, converfio folis,
planetarum, fiderum que certa quadam celeritate ac periodo cir ca axes ſuos,
natura, coſtans motus, rever lioque cometarum, telluris motus, quodque ex eo
cauſſa ' maris aelus repetenda fit jegew’ewe explicatio, aliaque hujuſmodi mul
ta tum ad corporum, tum ad animi na turam pertinentia. Profecto nihil dulcius
erat Corfinio quam per abdita remotioris antiqui• tatis permeare, et inde nova
et inexpecta ta deferre, quae hominibus contemplanda bono in lumine exhiberet.
Nam, ut Ari ſtoteles inquit, fuo quiſque artifex ftudio atque opera impenſius
delectatur. Cum igi tur accepiffet ab Antonio Franciſco Gorio amiciſſimo ſuo
graphidem eximii cujųſdam anaglyphi, quod Romae viſitur in Aedibus Farneſianis,
non magnopere hortandus fuit, ut in illo exponendo elaboraret. Exhibet hoc
ſuperiori in parte Herculem cuin Eų. ropa, Hebe, Satyriſque quieri, voluptati
que poſt exantlatos labores indulgentem, in inferiori vero tripodem Apollini
ſacrum, Ar givae Junonis Sacerdotem, atque alatam Virginem, et Herculem demum
ipſum ſe ſe expiantem, ut purus ad Deorum conci lium afcenderet. Hinc et illinc
anaglyphum ornant binae columnae cum Graeca inſcrie ptione, quae multis verſuum
decadibus Her culis geſta commemorat: in ſupremo tan dein anaglyphi loco
octodecim hexametra car mina exculpta ſunt, quibus Herculis labores et certamina
declarantur. Praeclariſſimi hujus monumenti explicationem Eduardus libello quem
ad Scipionem Maffejum inſtituit, com plexus eſt; ex eoque judicari poteft, vehe
mens afiiduumque ftudium ipfi copiam eru ditionis dediſſe, naturam vero
tribuiſſe in genium ad conjiciendum divinandumque fa ctum. Et fane divinationis
cujuſdam vide illum potuiſſe laceras ac depravatas multorum verſuum lacinias
feliciſſime corri gere atque ſupplere. Magnae antiquitatis ar gumentum praebere
ſuſpicatus eſt Doricam dialectum, qua exarata eſt inſcriptio, ne- ! que ipfe
affirmare. dubitat opus paullo poſt Alexandri tempora', antequam Q. Flaminius
priſtinam Graecis libertatem redderet, perfe &um fuiſſe. Sed aliter alii
ſentiunt qui bus nunc plerique affentiri videntur. Hoc ipſo ferme tempore
Corſinius ejuſdem Gorii poſtulationibus Diſſertationes quatuor con ceſſit, quae
impreſſae funt ab illo in vi. vo lumine Symbolarum litterariarum. Extricat pri
ma epigraphen ſculptam in labro interiori cujuſdam crateris ahenei Mithridatis
Eupa toris, qui crater in muſeo Capitolino, Vide Winkelman, Monumenti antichi
inediti Trel. Prelim. Idem quaedam alia notat in quibus deceptum fuiſſe C.
arbitratur Sic interpretatur C. mire
involutam in. ſcriptionem: Regis Mithridatis Eupatoris Regni anno 54.
Eupatoriftts GYMNASII-- hoc eft civibus Eupatoriae, qui IN GYMNASIO certarunt --
ſenectutem conſeival, quod erat ad laudem vini, quo plenus crater vi &ori
con cedebatur. Alii aliter interpretanda extrema pracſertim inſcriptionis verba
exiſtimarunt, quorum fententiam plerique nunc fequuntur affervatur. Secunda
patefacit obſcuros igno ratoſque dies natalem et fupremum Plato nis, qua
occafione aliorum etiam virorum illuſtrium Archytae, Philolai, Iſocratis, Ly
fiae, Dionis, et Socratis aetates et tempora perſequitur. Explicat tertia
adverſam par tem numiſmatis Antonini Caeſaris, in qua Prometheus humanum corpus
ex luto fin gens, et Pallas capiti mentem, papilionis imagine expreſſam,
inſerens confpiciuntur. Curioſa ſunt quae excogitavit C., ut perſuaderet
hominibus morem repraeſentandi humanam mentem ſub papilionis imagine non ex
miris hujus volucris affectionibus et natura, non ex ipſa animi immortalitate,
circuitu, aut tranſmigratione, non ex Chal daicae, Graecaeque fapientiae
fontibus, non ex arcanis amoris myſteriis, fed ex fola ar tificum imperitia
profluxiſſe. Cum enim unum idemque nomen pſyches papilionem et ani nium
deſignet, rudis artifex, qui primus ani mum exprimendum ſuſcepit, non putavit
hu jus ideam poffe melius excitari, quam obje eta imagine illius rei, quacum is
commune nomen habet. Quarta Diſſertatio demum in eo verſatur, ut oftendat
mentitam et falfam effe LATINAM quamdam inſcriptionem, quae Piſis vilitur in
Scortianis aedibus. Summi labores, quos C. impendit in conficien dis, quos
retulimus, libris, magna compen ſati fuerunt gloria, ut unus e multis, qui
illuſtrandae Graecae praefertim antiquitati ſe ſe dederunt, excellere
judicaretur. Cujus de praeſtanti in hoc rerum genere doctrina tan ta etiam
judicia fecit Scipio Maffejus, quan ta de nullo; cujus teſtimonii auctoritas ma
xima reputari debet non folum quod ab hox mine prudentiſſimo proficifcitur, fed
etiam quia figulus invidens figulo, faber fabro, ut eſt Heſiodi dictum,
alterius laudi et gloriae | minime favere ſoleat. Ex mutua opinione doctrinae,
fimilitudineque ftudiorum orta eft inter cos jucundiffima amicitia, cujus tanta
vis fuit, ut C. aeſtate an.quamvis non bene valens, Veronam venerit aliquot
menſes commoraturus apud amicum. Quo tempore inter eos fuit familiariſſima
focietas, et communicatio ftudiorum. Dono accepit C. a Maffejo tercentum fere
Graecas inſcriptiones (has Chici1shullius collegerat, et fecundae Afiaticarum
antiquitatum parti reſervaverat ) ea conditio; ne, ut eas Latine redderet atque
illuſtraret, Satisfecit ille aliqua ex parte promiffo ſuo, cum anno inſequenti
edidiſſet eas inſcriptio. nes, quae ad Athenas ſpectabant; eaſdem que iterum
cum commentariis edidit quam driennio poft, ut eſſent ornamento quarto Faftorum
volumini. Nono menſe poftquam in Etruriam rediit C., moritur Alexander Politus,
quocum ille ita vixit, uit. quem pauci ferre poterant propter difficilli mam
naturam, hujus fine offenfione ad fum. mam fenectutem retinuerit benevolentiam.
Mortuo autem Polito neque inquirendum neque conſultandum fuit quis illi
ſucceſſor in Academia Piſana daretur, cum omnium oculi ftatim in C.conjecti
fuiſſent. Ita hic exeuntė poftquam octodecim fere annos philoſophiam tradidif
ſet, munus docendi humaniores litteras li bentiſſimo animo ſuſcepit. Initio
propoſuit fibi (nam muneris ratio, et adolefcentium utilitas ab eo poftulabant,
ut cum Graecis Latina conjungeret ) explanare Plutarchi parallelas ROMANORVM
vitas, ut inde occaſionem ſumeret utriuſque populi leges inter ſe conferendi.
Memoriter dicebat e ſuperiori loco, quod ad praeceptoris et ſcholae dignitatem
plurimum tum conferre putabatur; et quae tradebat inſignita e rant luminibus
ingenii, et conſperſa erudi tionis ſententiarumque flore. Genus dicen di erat quiétum et lene, purum et elegans, ut maxime teneret
eos qui audiebant, et non folum delectaret, fed etiam fine fatieta te
delectaret. Nulli diſcipulorum aditum ſermonem, congreſſumque fuum denegabat,
quin immo eos bis in hebdomada domum ſuam invitabat, ut in ftudiis exerceret ROMANORVM
ANTIQVITATVM. Domi etiam tradebat metaphyſicam, quo onere non placuit Academiae
Moderatoribus illum libe rare niſi quo
quidem tem pore Venetiis evulgavit ſuas Inſtitutiones Me taphyficas. In his
adornandis illud unum pro pofitum fibi fuit, ut in animis adoleſcentium rectas
de animae immortalitate, arbitrii li bertate, Dei exiſtentia, ceteriſque
naturalis theologiae dogmatibus notiones infereret, quibus in gravioribus aliis
diſciplinis veluti praeſidiis uti pofſent, quibuſque caverent a peſte quadam
hominum non tam religioni, quam reipublicae infeſta, quae rationem per vertendo
ubique venenatas opiniones diffe minare non veretur. Subaccuſent aliqui, fi
lubet, C., quod nimis, parcus fuerit in pertractandis quibuſdam rebus, quae in
ca, in qua nunc ſumus, luce ignorari mi nime poſſe videntur; omnes profecto uno
ore fateri debent tales effe hafce Inſtitutio nes, ut cupidi metaphyſicae
nullibi poffint refrigerari ſalubrius atque jucundius. Poftre mum hoc operum
fuit, quae C. Phi loſophiae dicavit, nifi dicere velimus, eti am cum minime
videretur tum maxime ila lum philofophari conſueviſſe, Quod declarant ejus
Latinae orationes ad Academicos Piſanos refertae Philoſophorum fententiis,
faluberri ma praecepta, quibus adoleſcentes ad omne officii munus inftruebat,
doctiflimoruin Philoſophorum familiaritates, quibus ſemper flo ruit, et ars
illa diſtinguendi vera a falſis, colligendi ſparſa, eaque inter ſe conferendi,
diligenter examinandi omnium rerum verbocum rumque pondera, nihilque afferendi
fine evi denti ratione, aut faltein probabili conjectu ra in qua arte quantum
inter omnes un Aus excelleret, praeſertim oftendebat, in vetuftatis monumenta
inquireret. Hujus inquiſitionis uber fane fructus fuit Diſſertatia illa de
Minniſari, aliorumque. Armeniae Regim nummis, Et. Arſacidarum epocha, quam idem
in lucem extulit. Difficulta tis maximae fuit oftendere Minniſari num mum, quem
praecipue illuſtrandum C. ſuſceperat, ad illum fpectare Maniſarum Armeniae et Meſopotamiae.
Regem, de quo Dio Caffius in libro ROMANAE HISTORIAE mentionem fecit, et Arſacidarum
epocham uon in Parthiae. folum, fed etiam in: Arme niae regum nummis inſcriptam
fuiffe, eam. que ab anno Urbis conditae Dxxv. initium duxiſſe. Antea quidem
doctiſſimorum viro rum Uſſerii, Petavii, Noriſii, Spanhemii, Vaillantii, et Froelichij
fententia fuerat, ſe rius. Arſacidarum imperium incepiſſe, adver ſus quam
ſententiam C. ita pugnavit, ut veritas non minus quam modeſtia eluxe rit.
Quoniam vero in antiquitatis ftudio multae res inter fe ita nexae et jugatae
funt, ut, inventa una, aliae, quae prius latebant, ſe ſe contemplandas
offerant, ean ob rem Corfinius in Minniſari regis num mo explicando varia
ſcriptorum loca corri gere et ſupplere, verum Darii genus expo nere, Tiridatem
alterum, Arfamem, aliof que Armeniae Reges Vaillantio prorſus in cognitos
proferre potuit. Res in hac Differ tatione contentae, non fine laude oppugnatae
fuerunt a Jeſuitis Froelichio et Zacharia, reſponditque ad ea, quae objecta
fuerunt, ſine iracundia C.. Eteniin veritatis unice amans alios a fe diffentire
haud ini quo ferebat animo, ſemperque deteſtatus eſt eos, qui ſuis ſententiis
quaſi addicti et con. fecrati etiam ea, quae plane probare non poſſent,
conſtantiae, non veritatis cauſſa de. fenderent. Propugnationem quoque Corſinii
libello (*) ſuſcepit ejus convictor et fodalis Huic titulus eſt. Lettere
critiche di un Pafton r Arcade ad un Accademico Erruſco nelle quali ſi ſciola
gono le difficoltà fane contro un'opera del Reverendiſſia mo Padre Corſini nel
Tom. IX. della Storia leveraria of lialia &e, in Pisa in Carolus
Antoniolius, qui quidem non me. diocria adjumenta illi praebuit, cum pluri mum
valeret in omni genere ftudiorum quae ipſe excolebat. Magni quoque Acade miae
fuit Antoniolii opera in Graecis littea ris tradendis toto illo ſexennio, quo C.,
coactus capeſſere, ſummum Sodalitatis fuae magiſtratum, bona Principis cum ve
nia, et fine ulla ſtipendiorum jactura Piſis abfuit. Hic Romam venit menſe.
ardens. defiderio indicia veteris memoriae, quibus mirabiliter urbs. illa abun
dat (quacumque enim quis ingreditur in aliquam hiſtoriam veftigium ponit )
cogno ſcendi. Sed raro ei poteſtas dabatur huic ſuo. deſiderio, fatisfaciendi,
cum podagrae dolori bus ſaepiſſime vexaretur, et munus ſuum diligentiſſime
exequi vellet. Quanta vero pru dentia ac dexteritate fuerit in tractandis ne.
gotiis, quanta aequitate in conſtituendis, temperandiſque, ſi res pofcebat,
conſtitutis jam legibus, quanta humanitate erga omnes, quantaque vigilantia ac
providentia in con fulendo rebus. praeſentibus, praecavendoque futuras, fatis
praedicari non poteft. Cum autem nihil ſine aliorum conſilio agere ei mos eſſet,
et facilitate ſumma uteretur in füos adjutores procuratoreſque, inde norza
nulli materiem ſumpſerunt falſae criminatio nis, quod ad aliorum magis quam ad
ſuun arbitrium res Familiae adminiftraret. Omnino totum fe tradidit Sodalitati,
to tamque fic rexit, ut oblitus commodorum ſuorum omnibus proſpexerit. Non eſt
credi bile quanto animi dolore angeretur, fi ali quis ſuorum in crimen
vocabatur. Horrebar enim homo innocentiſſimus vel ipfam pecca ti ſuſpicionem.
Sed non propterea fontibus iraſcebatur, hofque clementia magis atque
manſuetudine, quam animadverſione et ca ftigatione ad frugem revocare ſtudebat.
Cum vero feveritatem, fine qua reſpublica adıni niftrari non poteſt, adhibere
cogebatur, similis, ut praeclare admonet CICERONE, legum erat, quae ad
puniendum non iracundia, fed aequitate ducuntur. In his occupationi bus muneris
ſui, ne plane ceſſäre a fcriben do videretur, extare voluit explicationem
đuarum Graecarum inſcriptionum, quae mus ſeum ornant Bernardi Nanii Veneti
Senatoris. quam feliciter id praeftiterit, perſcrutata prius litterarum
priſcarum, quibus illae con fcriptae ſunt, forma atque vi, facile judica bunt
ii, qui ſunt harum deliciarum amato Tes. Tentaverat eamdem rem Franciſcus Za
nettus, ſed longiſſime aberravit a vero ejus interpretatio. Ipſe C. cum Anconae
effet ineunte eoque prae ſente cum multis aliis detecta fuiſſent atque agnita
corpora Sanctorum Cyriaci, Marcelli ni et Liberii, quos ſingulari obfequio ea
dem civitas venerațur, incitatus fuit, ut ali quid laboris impertiret illorum
Sanctorum illuſtrandae hiſtoriae, definiendoque praeſer tim tempori, quo
tranſata eorumdem cor pora fuerunt in eum, ubi nunc jacent, lo cum, et quo
Anconae coli coeperunt. Haec C., edito commentariolo, accidiffe - ftendit
exeunte faeculo et ex ipfis an tiquitatis monumentis quibus ſententiam ſuam
confirmavit, quatuor Anconitanorum Epiſcoporum nomina in lucem protulit, quaç
uſque ad id tempus fuerant incognita, Per pauca in hoc commentariolo attigit de
S, Liberio, quod ejus hiſtoriam involutam tenebris et fabulis exiſtimabat, Mox
cum ei aliquid luminis affulfiſſet, et monumentorum ope, et mirabili illa ſua
conjiciendi arte pa tefacere potuit Liberium fuiſſe unum ex fo ciis S.
Gaudentii Abfarenſis Epiſcopi, qui circiter an. MxXxx. Anconam venit, fo
litariam vitam acturus in ſuburbano mona ſterio Portus Novi. Harum rerum
inventio multis laudibus. celebrata fuit a Scriptoribus annalium Camaldulenſium:
pergrata quo que fuit. Benedicto XIV. pro ejus. fingulari ftudio in Anconitanam
Ecclefiam. Hic cum ſaepe ad congreffum colloquiumque ſuum invitaret Eduardum,
quod ejus ſummum in genium, fuaviffimos. mores, atque eximiam probitatem et nofſet
et diligeret, ſaepe quo que ipſum hortabatur,, ut ea pergeret man dare litteris,
quae abdita Chriſtianae anti quitatis patefacerent. Sed fuerunt juftae ca uffae
quare. C. amantiffimis. Pontificis M. conſiliis minime obtemperavit; et quid
quid fubciſivorum temporum incurrebat, quae perire non patiebatur, libentiffime
concedebat ſuis priſtinis ftudiis. Ruſticabar cum eo in Tuſculano, quando
epiſtolam ſcripſit ad Paullum Mariam Paciaudium, in qua plura de Gotarzis
eximio nummo, ejuſque, Bar danis, et Artabani Parthiae Regum hiſtoria
perſecutus eſt, et pro jure noftrae amicitiae ab ipſo poftulabam, ut in otio,
quod raro da batur, et peroptato illi dabatur, ceffaret a libris et a ftilo.
Verum cuin is eſſet ut fi ne his ftudiis vitam inſuavem duceret, di cere
folebat hujuſmodi ſcriptiones non pre mere, ſed relaxare animum. Et relaxatione
certę aliqua ille indigebat, cui grave adeo erat, quod multi appetunt, ceteros
regendi munus, ut onus Aetna majus ſibi ſụſtinere videretur. Poterat quidein
illi eſſe lovaniens to recordatio multorum benefactorum, inas ter quae maximum
illud reputari debet quod eo ſexennio, quo ad Sodalitatis gum. bernaculum ſedit,
viginti domus, five cole legia conſtituta sunt. Interim advenit tem pus, quo
magiſtratu fe abdicare, et extre mos auctoritatis fuae fructus capere debe bat
in provehendo digno viro, qui fibi fuc cederet. Verum minime illi: contigit, ut funt ancipites variique casus comitiorum,
quem optabat, exitus. Peractis comitiis, fine mora rediit ad Academiam Piſanam
et ad il lamºquietam in rerum contemplatione et co gnitione maxime poſitam
degendae vitae rae tionem, qua qui frueretur, negabat ei aliquid deeffe ad
beatė vivenduin. Liber de Praefe. ctis Urbis ei erat in manibus; Graecas in
fcriptiones in Aſia repertas, quas, ut ſupra retulimus, a Scipione Maffejo dono
accepe rat, quafque jampridem Latinas fecerat, co pioſis commentariis
explicabat; aderat diſci pulis ſuis; veniebat frequens in Academiam, afferebat
res multum et diu cogitatas, facie batque fibi audientiam hominis erudita, com
pta et mitis oratio. Idem efflagitatu et coae tu amicorum inftituta. hoc
tempore opera abrupit, ut explicationem lucubraret cujuf dam nummi recens in
Auſtria reperti, in quo erat nomen et imago Sulpiciae Dryan tillae Auguſtae.
Conjecit ille feminam hanc libertam fuiſſe, libertatémque accepiffe a Sul picio
quodam, ab eoque in Sulpiciam ģen tem receptam; nupfiffe demum Carinó fcea
leftiffimo Imperatori. Haec porro incerta. Illud unuin ſine ulla dubitatione
colligi pof fe videtur ex nummi fabrica, characterum forma, feminaeque ornatu,
illum ipſum num mum cuſum fuiſſe inter Elagabali et Diocle tiani imperium,
proptereaque Dryantillam ad aliquem Imperatorum, qui illo intervallo re
gnarunt, pertinere. Neque his contentus Edu ardus voluit etiam excutere
hiſtoricorum et rei nummariae interpretum mire inter fe dif ſidentes opiniones
de Aureliani ac Vaballa thi imperio atque aetate, ac poftremo ſuam ſententiam
proferre. Fuit haec, Aurelianum exeunte Julio, vel ineunte Auguſto imperium
ſuſcepiſſe, eaque multis et gravibus confirmatur argumentis. Ad ex vero
diluenda, quae contra dici poterant ex illorum ſententia, qui praeſertim niti
vide bantur lege quadam data a Claudio VII. Kal. Novembris Antiochiano et Orfito
Con ſulibus, ut ſerius Aurelianum inchoaffe im perium perſuaderent, diſtinguit
Conſules or dinarios a ſuffectis. Hac autem conſtabilita diſtinctione, quae
maxime apta erat non fo lum ad id, quod requirebat, ſed etiam ad expediendos
alios, quos vel ipſe Scaliger in diffolubiles in Chronologia exiſtimaverat now
dos, concludit eamdem legem editam fuiffe anno quando An tiochianus et Orfitus
ſuffecti Conſules erant, minime vero anno cclxx. iiſdem Confuli bus ordinariis.
Nec minor difficultas erat o ſtendere, qui fieri potuerit, ut Aurelianus ad
vil. Imperii annum perveniffe dicatur, et explicare locum Euſebii, qui tradit
in ejuſdem tempora incidiffe in. Antiochenam Synodum: exploratnm eft enim hanc
Sya nodum anno cclxix. incoeptam et abſolutam fuiſſe. Feliciter haec praeftitit
Corſi nius, cum probaſſet Aurelianum anno et ultra antequam a legionibus poft
mortem Claudii Imperator fieret, ab ipfo Claudio deſtinatum ſibi fuiſſe
ſucceſſoreni, adeoque ampla poteſtate donatum ut ab hoc tema pore nonnulli ejus
Imperii initium ſumere potuerint. Quae vero de Vaballatho diſream ruit C. haec
ferme ſunt. Illum Ze nobia procreavit ex Athena priori viro, ejuf demque nomine
ab uſque dum Claudius in Gothicum bellum uni ce intentus vixit, Orientis
imperium te H4 ut nuit. Ex quo factum eſt, ut quae hoc tem pore cuſa funt
Vaballathi numiſmata, Impe. satorem Caefarem Auguftum illum nominent. Poftquam
vero ille deſciviſſet a matre, Aureliano adhaereret, huic quidem conjun octus
in nummis repraefentari voluit, minime vero paludamento, radiata corona,
fplendi doque Augufti nomine decoratus, ſolo Im peratoris contentus. Praetereo
alia multa Scitu digniſſima in hac Diſſertatione conten ta, ne, cum nimis
longus in recenfendis ſcriptis operibus fuerim, videar oblitus con ſuetudinis
et inſtituti mei. Hujus libelli (cil ra liberatus C. totus in eo fuit, ut ab
Solveret ſeriem Praefectorum Urbis ab Urbe con dita ad annum afque five a Chri
fto nato DC. Etenim poſteriora tempora mi nime inquirenda putavit, quibus,
penitus fere exſtincto Urbanae Praefecturae fplendo re ac dignitate, nonniſi
tenue nomen, ac leviſſima priſtinae majeſtatis umbra ſuperfuit; ex quo fiebat,
ut nihil inde lucis facra et profana ſperare poffet hiſtoria, cum contra
uberrimam fplendidiffimamque utraque acci. peret ex veterum Praefectorum ferie,
horumque aetate rite conſtituta. Ut vero non utilitate ſolum, ſed etiam
jucunditate lecto res invitaret C., operi varia opportu ne admifcuit, quae
marmora et ſcriptores, quorum teftimoniis ubique fere utitur, cor rigunt et illuſtrant,
interpretumque falſas opiniones atque errores emendant. Non ego ſum neſcius
multos anteceſſiſſe Corſinium in hujuſmodi pertractando argumento; ex qui bus
omnibus, ac praefertim Jacobo Gotho fredo ac Tillemontio plurima in rem ſuam
tranftulit. Sed ii exiguis finibus operam fuam continuerunt, fi unum excipias
Feli cem Contelorium, qui contextam a Panvi. nio Praefectorum ſeriem ad annum
uſque traduxit. Tale tamen non fuit Contelorii opus, quin eadem de re aliquid
politius, copiofius, perfectiuſque proferri a C. potuerit. Et protuliffe certe
ipſum oportet, cum magna fuorum laborum prac conia ab intelligentibus viris
reportaverit. Mi rari hi tantummodo viſi ſunt quod aut is in gnoraverit hac
ipſa in re plurimum quoque elaboraſſe Almeloveenium, aut quod hujus fcripta
conſulere praetermiſerit. Id profecto et praeſtitiſfet abundantius et copiofius
pro poſitae fibi rei ſatisfacere potuiſſet, neque poftea ventofiffimi homines
triftem fuftinuif fent notam calumniatorum, qui nullo in pre tio ob pauca
quaedam a C. praetermif ſa hujus opus habendum inflatis buccis clamitarunt. Ne
hi verbofis fibi famam ad quirerent ſtrophis vel apud imperitam mul titudinem,
factum eſt diligentia Cajetani Mari nii, qui librum Bononiae edidit, quo non
folum eorum obftitit injuriis, verum etiam nova a ſe inſcriptionum ope detecta
Praefectorum Urbis nomina in lucem protulit. Sed ad C. revertor, qui dum fine
intermiſſione obſequebatur ftudiis ſuis et adoleſcentium utilitati, oblitus
vide batur fe jam fenem factum (quando enim typis mandavit librum de Praefectis
Urbanis ſexageſimum primum aetatis annum agebat ) et infirma aegraque
valetudine effe. Sed ac Hujus eſt inſcriptio: Difefa per la ſerie de' Pree
fetti di Roma del Ch. P. Corfini contro la cenſura farie. le nelle offervazioni
ſul Giornale Piſano, in cui le della Serie si suppliſce anche in affai luoghi e
le emenda. In Bon logna e AQUINO (si veda) in 4. Vide Pilanas Ephcm meridcs eidit
miſerabilis caſus, qui repente ipſi onga nem ſpem non folum litteris, ſed etiam
na: turae vivendi praecidit. Erat haec conſuetu. do Academiae Piſanae, ut qui
humaniores lite teras profitebantur, Kalendis Novembris, quo tempore inftaurari
ftudia folebant, LATINAM om rationem haberent ad vehementius inflamman
dam cupidam doctrinarum juventutem. Di cebat eo ipſo die Eduardus (vertebat
tunc annus tertius fupra fexageſimum hujus fae tuli ) de viris, qui et ſcriptis
editis, in ventiſque rebus in Academia maxime florue runt, eaque erat oratio,
ut nunquam is di xiſſe melius judicaretur. Cum eo pervenirſet, ut exultaret in
immenſo GALILEI (si veda) laudum campo, repente apoplexis ipſum perculit, ac
ſemivivum reliquit. Dolore hujus caſus o ſtenſum eft quantum ille Academiae
eſſet ac ceptus. Aegre domum deductus, ibi quatri duo cum morte conflictatus
eſt. Quinto die, multis adhibitis remediis, levari coepit, ac praeter ſpem
paullatim convaluit. Ut arden ter deſideraret priſtinas recuperare vires,
efficiebat ille fuus ſingularis amor in Aca demiam, cui majus ſe non poſſe
munus afferre videbat, quam fi inſtitutum juſſu Prin cipis biennio fere ante
opus de ejuſdem Academiae ortu, progreſſu ac vicibus ad umbilicum perduceret.
Plurima collegerat at que vulgaverat ad hanc hiſtoriam pertinen tia vir
diligentiſſimus Stephanus Maria Fa bruccius Juris civilis in eadem Academia do
ctor, quae quidem ampla et bella materies effe poterant ad novum aedificandum
opus. Hoc igitur ſubſidio inſtructus Eduardus, ala cer ſe ſe ad rem accinxit.
Et primo quidem ILLUSTRIVM ITALICORVM GYMNASIORVM ori ginem ſubtexuit,
diſſerenfque quatuor prio ribus capitibus de prima GYMNASII PISANIi institutione,
neque ab xi. neque a xiv. Chris fti faeculo, ut multi ſcripſerunt, fed ab ine
unte XIII. vel exeunte xii. illam repeten dam effe exiſtimavit. Ex hoc tempore
ad annum uſque, quo anno Fa bruccius contendit coepiſſe Academiam Piſa nam,
hanc fi nullam dicere nolumus, mi nimain certe fuiſſe oportet. Conſecutae des
inceps yices multae, ut ipſa modo langues ſcere, modo ad interitum properare,
vires vitamque modo recuperare, ac faepe etiam veluti extorris ſedem mutare
viſa fuerit, Quae omnia octo conſeqılentibus capitibus perſecutus eft Eduardus.
Cum vero Acade miae res, imperante Coſmo I. ceteriſque.non solum Mediceis, sed
etiam Lotharingis Principibus, feliciflime proceſſiſſent, quibus ab his
beneficiis, ſplendore atque gloria aucta, quibuſque gubernata legibus
consuetudinibusque, variis interdum pro temporum varietate, exposuit in
quatuordecim capitibus, quo rum nonnulla adumbrata magis quam de fçripta
videntur. Haec omnia primam ope ris partem conficere debebant, cum refer vafſet
alteram, quam tamen minime attigit, Doctorum vitis. Dum haec scripta legebam
videbatur mihi pofſe ab Auctore defiderari major rerum copia, magiſque apta ac
preſ fa oratio. Inest quidem in omnibus C. scriptis luxuries quaedam, quae, ut
in herbis ruſtici ſolent, depaſcenda erat; quod fi eft vitium in omni oratione,
maximum tamen eſt in hiſtoria, in qua pura et illu fțris brevitas expetitur.
Eodem tempore, quo Eduardus in Academiae historiam incumbebat, ne plane superioris
aetatis Audia de servisse videretur, epistolam fcripfit ad ami cum et collegam
fuum Franciſcum Albi zium, in qua de Auſonii Burdigalensi consulatu egit,
Desperaverant vel ipsi chronologiae Patres Panvinius et Pagius, computationem
quamdam annorum ah. Auſonio factam in e pigrammate, ad Proculum, in quo, ab Urbe
condita ad consulatum suum annos enumeravit, conciliari posse, cum Varroniana epocha,
ideoque, novam excogitarunt epocham XIII. annis Varroniana pofte riorem, qua
non solum Ausonium, sed etiam Arnobium usos fuisse scripserunt. Horum aliorumque
Auſonii interpretum errorem ut corrigeret Eduardus, probare debuit. Auſonium
non Romanum, modo, fed et Bur digalenſem geffiffe consulatum, et Romanorum et Burdigalenfium
Consulum fastos conscripsisse. Qua distinctione constabilita, facile fuit
oftendere eumdem Aufonium in ea pigrammate, quod ad Heſperium filium ini fit
cum Romanis faſtis, de Romano, a ſe ges: ſto consulatu, in epigrammate autem
illo, quod est ad Proculum, de patrio, municipali, quinquennali (etenim in
municipis omnibus majores magiſtratus quinquennales eſſe ſolebant) de
Burdigalenſi nimirum con. ſulatu locutum fuisse. Hanc epistolam secuata est
altera ad Joannem Chrysostomum Trom. bellium Canonicum Regularem, in qua do
nummo quodam ab Athenienſibus Livia Augustae dicato, illiuſque aetate
differens, feminam illam non ſupremis tabulis, ſed matrimonii jure a marito
nomen Auguſtae accepiſſe pluribus monumentis comprobat. Quae quidem aliaque ex
abditiſſima antiqui. tate deprompta, quae fparfit C. in hac epiſtola, ut
jucunda lectoribus, ita iif dem plena moeroris fore arbitror, quae in extrema
pagina ejuſdem epifolae Trombel lius adnotavit. Scribit enim ille: Dum extre
mam hujus epiſtolae partem edimus, monemur, eodem fere tempore, quo Brixiae
egregius Maza zuchellius, inclytum Corfinium noftrum Pisis apoplexi repente ereptum.
Eheu litterae aflicłae ! o amicos incomparabiles ! o annum vere calami 10fum et
peffimum ! Dies, quo illum apople xis iterum invafit, fuit v. ante poft quem
caſum tribus ferme diebus vixit fine ſenſu, Sepultanta tus eft in Aede S.
Euphraſiae totius Acade miae luctu, quae hanc calamitatem acerbif fime doluit,
doletque adhuc reminiſcens ſe orbatam homine, in quo plurimae erant lit terae
eaeque interiores, divinum ingenium, ac induſtria fumma; fruebatur vero nominis
celebritate, ut hac fola muneris fui fplendorem tueri potuiſſet. Atque haec vi
tae decorabat dignitas et integritas. Quan tả gravitas mixta comitati in yultu
et moribus ! quantum pondus in verbis ! ut nihil inconſideratum exibat ex ore !
quam diligen ter inquirebat in fè ſe, atque ipſe ſe ſe ob Servabat I Oinnino
tantus erat in ipso ordo, conſtantia, et moderatio dictorum omnium atque
factorum, ut probitatem et religio nem prae se ferret, et ad omne virtutis de
cits natus videretur. Quidquid come loquens, et omnia dulcia dicens mirabiliter
ad se diligendum omnium ani mos alliciebat; si vero in familiari sermo ne a
quopiam dissentiret, contentiones disputationesque vitabat, quod non tam na
turae quam virtutis erat. Etenim iracun diae aculeos aliquando sentiebat, sed
hos perpetuus cupiditatum domitor frangebat, pla neque occultabat. Secum ipse
vivens animi triftitiam frequenter patiebatur, praeſertim si contemplaretur
misera, in quae incidimus, tempora, quibus corrumpere, et corrumpi saeculum
vocatur. Quod vero nonnulli per verſe adeo abuterentur philofophia, ac prae
ſertim metaphyſica, ut ea animos a religio ne avocarent, tanto illum
perfundebat horrore, ut vehementer poenitere eum non nunquam videretur
industriae suae, quam in erudienda juventute ad recentiorum philoſo phorum
dogmata inſumpſerat. Quae quidem poenitentia injurioſa mihi videtur; omnium
artium parenti philosophiae, quasi ejus culpa, quae deflebat mala C., accidif
ſent. Etenim ſunt unicuique ſcientiae: certi fines ac termini ab omnium rerum
modera tore Deo constituti, quos qui tranfilit, nae ille devius in praecipitem locum
ruat necese est. Sed ad C. revertor, de cujus laudibus non eft tacendum ſummae
illum bonitati ingenuitatique ſummam dexterita tem, ſi oportuiſſet, conjűxisse.
Liberalis minimeque cupidus pecuniae hanc facile a se extorqueri patiebatur.
Virorum litteris illus ftrium amicitias ftudiofillime coluit, amavitque in
primis Trombellium et Paciaudium, quo rum mentionem fupra fecimus, quorumque
conſuetudinis magnum cepit fructum eo prae sertim tempore, quo Romae fuit.
Dolui in pſum combufliffe, quas ab amicis accipere solebat, epistolas, quia
ſciebam in iis erudita multa contineri: eae quidem mihi non me diocri subsidio
futurae fuiſſent huic explican dae vitae. De qua fatis erit dictum, fi hoc unum
addam, eumdem ineditas reliquiffe bi nas Dissertationes de S. Petro Igneo, et B.
Joanne delle Celle; librum de civitatibus, quarum mentio sit in graecis nummis,
ſex que Latinas orationes habitas in Academia Piſana, ex quibus lenitas ejus
fine nervis cognoſci potest. Opere: “Instıutiones philosophicae, ac
Mathemaricae ad ufum Scholarum Piarum: Florentiae typis Paperini, continens
physicam generalem, continens libros de coelo Es mundo, continens tractarum de
anima, E metaphysicam continens ethicam
vel moralem continens institutiones mathematicas Editae iterum fucrunt hae
institutiones in V. mos diſtributae Bononiac ex ty pograghia Laclii a Vulpe cum
hoc titulo Cl. Reg: Scholarum Piarum, et in Pisana Academia Philosophiae
Professoris Institutiones Philosophicae ad un fum scholarum Piarum edirio
altera auctior et emendarior; Ragionamenti intorno allo fato del fiume Arno, dell
acque della Valdinievole, In Colania appresso Heng Werergroot, in 4. “Elementi
di Matiemasica, ne' quali sono con migliori ardine e nikovo metodo dimostrare
le più nobili e necesaria proposizioni di Euclide, Apollonio, e Archimede, Ch.
Reg. delle Scuole Pie: in Firenze. nella Stamperia di S. A. R. per li Tartini,
e Frasa ahi in 8. Hace elementa mathematica edita secundo fuerunt Year I 2 1
netiis apud Antonium Perlinum, in qua edie tione quaedam mutata ſunt,
emendatufque error, quo cao ptus fuerat Auctor, dum in priori editione exposuit
propoíitionem XXXV Venetae huic editioni a djc&us est ejusdem Auctoris liber
della Geometria Pranica; Ragionamento Istorico Sopra la Valdichiana, in cui si
descrive la antica e presente suo stato” (Firenze, Moucke); “Faſii Anici in
quibus Archonium Athenienfium sea ries, Philosophorum, aliorumque illustrium
Virorum deras arque praecipua Acicae historiae capita per Olympicos annos
disposita describuntur, novisque observationibus illustrantur: ACl. Reg. Scholarum Piarum in Pisana Academia Philosophiae Professore, Florentiae,
ex typographia. Giovannelli
ad insigne Palmae in Platea S. Eliſabeth. ex Imperiali typographia Cl. Reg. Scholarum
Piarum in Acadeo mia Pisana Philosophiae Profeſoris Differtationes. Agonisticae,
quibus Olympiorum, Phychiorum, Nemeurum, ale que Isthmorum lempus inquiriiur ac
demonftrarur: Aco redit Hieronicarum catalogus eduis longe uberior Es accurarior.
Florenciae ex typographia Imperiali. In cxtrema pagina hujus libri öxhibetur
integra feries menfium Macedonicorum, Atticorum, et Romanorum ad de mondirandun
veruna corum ficum ac connexionem; quam ſeriem hoc quoque in loco nos exponemus,
quia rem gratam antiquitatis ſtudioſis facturos arbitramur. Series enim a C. contexta
differt nonnullis in nienſibus ab ca quam Scaliger, Uſterius, Petavius,
Dodwellus, aliique descripferunt, i Macedonici Atrici Romani Lous Gorpiaeus
Hyperbercraeus Dlus Apellaeus Audynaeus Peritius Dystrus Xanthicus Artemisius
Daiſius Panemus Hecatombeeon Meragirnion Boedromion Pyanepſion Maemacterion
Pofideon Gamelion Anthefterion Elaphebolion Murychion Thargelion Scirrhophorion
Julius Augustus September October November December Januarius Februarius
Marrius Aprilis Majus Junius Lettere intorno al saggio di Maffei intitolato:
Graecorum Siglae lapidariae. Extat del Giornale de’ Letterati pubblicaro in
Firenze notae graecorum, five vocum Ex numerorum compen dia, quae in aereis
atque marmoreis Graecoruin rabulis ob. fervantur. Collegii, recenſuit,
explicavit, eaſdemque cabu las opportune riluftravia C. Cl. Reg. Scholas) rum
Piarum in academik Piſina Philoſophiae Profesor. Accedunt Differtationes ſex,
quibus marmora quaedam rum facra cum profana exponuntur ac emendantur.
Florentine Tographio Imperiali in fol. Plutarchi de
Placitis Philofophorum libri V. Larine reddidit, recenſuir, adnotationibus,
variantibus lectionibus, diferrationibus illuſtravit C. Cl. Reg. Schoe laruan
Piarum in Pisana Acad. Philosophia Professor Flo. seniige ex Imp. Typographio, Disertationes
quibus antiqua quaedam insignia moc sumente illuſtrantur. Vide eas, Symbolarara
litercriarum Antonii Francisci Gorii. Herculis quies et expiatio in eximio
Farnesiano mere more expresa: in fol. Inscriptiones Articae nunc primum ex Cl. Maffeii
Schea dis in lucem editae latina interpretatione brevibusque observationibus
illuſtratae Cler. Regul. Schole sunr Puarum in Academia Pisana
Philosophiae Professore. Florenciae ansio ex typographio Jo. Pauli Giovannel
li in 4. Solecta ex Graeciae Scriptoribus in usum ſtudiosae Juvent. sutis,
Florentiae ex Imperiali rypographio ir 8. Inſtitutiones Metaphyſicae in ufus
Academicos auctore Eduardo Corfi:n0 Clericorum Regularium Scholarum Piaruz in
Academia Pifana. Philoſophiae Profeſore. Vesieriis ex Typographia Balleoniana
in 12 C. Cl. Reg. Scholarum Piarum in Accodemia Pisana humaniorum litterarum
Profeſſoris de Minni fari aliorumque Armeniac Regum nummis, et Arſacidarum Epocha
Differtario Liburni typis Antonii Santini et Sociorum in 4. Spiegazione di due
antichiſſime inſcriçroni Greche indie ricare al Reverendiffimo Padre Anton Franceſco
Vezzofi, Prepoſto Generale de Cherici Regolari, Lettore nella Seo pienza Romana,
ed Eſaminatore de' Vefcovi da Edoardo Corfini Ch. Reg. delle Scuole Pie. In
Roma, nella Stamperia di Giovanni Zempel; Relazione dello scuoprimento e
ricognizione fatta in Ancona dei Sacri Corpi di S. Ciriaco, Marcellino, e Lia
berio Proiettori della Circà; e Riflefroni ſopra la translazione, ed il culto di
queſte Sanci. In Roma, nellu Stamperia di Zempel in 4. Eduardi Corfini Cler.
Regul. Scholarum Piarum, En in Academia Piſana humaniorum literarum Profeffuris
Dis Seseario, in qua dubia adverſus Minniſari Regis nummum, et novam
Arſacidarum epocham a Cl. Erasmo Froelichio s. J. proposita diluuntur. Romae ex
typographio Palla dis in 4. C. Cler. Regul. Scholarum Piarum et in Academia Pisana
humaniorum lirerarum Profeſoris ad Cles riflimam virum Paulum Mariam Paciaudium
Epiſtola, ir qua Gotarzis Parthiae Regis nummus hactenus ineditos expli Catur,
et plura Parthicae hiſtoriae capita illustrantur. Romae, in Typographio Palladis. Excudebant Nicolaus et Marcus Palearini ir
4.Cl. Reg. Scholarum Piarum in Pifar:& Academia humaniorum
litterarum Profeſoris Epiftolae rres, quibus Sulpiciae. Dryantillae, Aureliani ac Vaballathi Avea guſtorum nummi explicantur et illuſtrantur.
Liburni apud Jo. Paullus Fanthechiam ad fignum Verit. in 4. Series Praefeciorum
Urbis ab Urbe condira ad annum uſque sive a Chriſto naro DC. collegit, rem
cenſuit, illuſtravir Eduardus Corſinus Cler. Reg. Scholarum Piarum in Academia
Piſana humaniorum liuerarum Professor Pisis excudebar Joh. Paulus Giovane
nelius Academiae Pifunae Typographus cum Sociis in 4. Notizie Iſtoriche
intorno a S. Liberio ſepolto e venera 10 nella Cattedrale della città di Ancona
all' Eminentiffimo Signor Cardinale Acciajuoli Veſcovo di detta città. In Are
cona nella Sramperia Bellelli in 4. Cl.
Reg. Scholarum Piarum, in Academia Piſana humaniorum litterarum Profeſoris
Epiſtola de Burdigalenfi Aufonii Confulatu. Piſis Exe cudehar Joh. Paulus
Giovannellius Academiae Pifanae inyo pographus cum Sociis in 4. Clericor.
Regular. Scholarum Pia rum Ex- generalis, et in Pifana Univerſitare Primarii
Les coris ed Joannem Chryſostomum Trombellium canonicorum Regularium
Congregationis S. Salvatoris Ex-generalem et S. Salvatoris Bononiae Abbatem
Epistola, Bunoniae, ex typographia Longhi
in 4; Disertazione sopra S. Pietro Ignes, sopra il B. Giovanni delle Celle; De
Civitatibus, quarum mentio sit in Graecis nummis, Pars I. Historiae Academiae
Pisenae, Latinae Orationes VI, Ad Academicos Pisanes; Les Storcien.s et leur
logique, Actes du Colloque de Chantilly, Vrin, Paris Al, D.J.The Philosophy
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milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. e alpinista.
Grice: “I love Cortese; first he wrote on Frege, whose
views on ‘aber’ are very much like mine on ‘but’! – But then he also wrote on
‘irony,’ alla Socrates – as per Kierkegaard’s example, “He’s a fine fellow!
=> He’s a scouncrel --, and most ‘theoretically,’ as the Italians put it –
on the ‘principle of meaning’ – significato – which had me thinking – I very
freely speak of the principle of conversational helpfulness, but somehow,
principle of ‘signification’ sounds obtuse! Signification seems too natural to
require a principle! If helpfulness and benevolence are evolutionary traits,
they are certainly NOT ‘instituted’ as principles, even if they are
requirements for trust and the ‘institution of decisions’!” “I am anything but
a contractualist, and principle has to be taken with a pinch of salt!” If I
speak of a rational constraint, the idea of a principle evaporates: it’s
conversation as rational cooperation – as I put it – as different from and
stronger than ‘conversation as mere cooperation’ – but this slogan frees us
from a commitment to the existence of a ‘principle’ to which we might want
later to provide with some sort of ‘psycho-logical’ validation!” Di una
famiglia originaria di Sant’Angelo Lodigiano. Si laurea a Trieste e Milano
sotto Bontadini e Noce. Insegna a Trieste. Studia Kierkegaard, Gioberti.
Italianismi in Kierkegaard. Altre opere: “Kirkegaardiana” (Milano); “Esistenzialismo
e fenomenologia” SEI, Torino); “Protologia e temporalità, Gregoriana, Roma);
“Kierkegaard” (Milan); “Del principio di creazione o del significato” Liviana,
Padova, Kierkegaard” (La scuola, Brescia); “Ironia” (Marietti, Genova); La
Creazione: Un'apologia accidentale della filosofia” (Marietti, Genova); “Il negozio
del sapone, Liviana, Padova); “Enten-Eller ([Victor Eremita” (Adelphi, Milano);
“L'attrice” (Antilia, Treviso); “Un discorso edificante” (Marietti, Genova); Il
naturale e il sovra-naturale (Padova); Ermeneutica” (Lint, Trieste), “Il
responsabile” – “Eden” – “Introduzione all’introduzione” del Gioberti – “Frege:
signare il concetto”; “Liberalismo”Meteorologia branca delle scienze
dell'atmosfera Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o
sezione sull'argomento meteorologia non cita le fonti necessarie o quelle
presenti sono insufficienti. La meteorologia[1] (dal greco μετεωρολογία,
letteralmente "studio dei fenomeni celesti"[2]) è il ramo delle
scienze dell'atmosfera e della Terra che studia i fenomeni fisici che avvengono
nell'atmosfera terrestre (troposfera) e responsabili del tempo
atmosferico. Cumulonembo calvus, nube convettiva in atmosfera
StoriaModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Storia della meteorologia.
Rappresentazione di venti e meteorologia in una tavola degli Acta Eruditorum
del 1716 Il termine deriva dal greco μετεωρολογία, meteōrología, da μετέωρος
metéōros, "elevato" e λέγω légō, "parlo", quindi
"discorso razionale intorno agli oggetti alti": la parola μετέωρος ha
un'etimologiaincerta, forse derivato dal termine metá in italiano ‘’oltre’’ e
ourea ovvero il termine arcaico greco per ‘’montagne’’ quindi Oltre i Monti
[3], o forse da μετά metá "con, dopo" e αἴρω áirō
"alzo".[4] Dopo le prime intuizioni dei greci si è dovuto attendere
fino alla seconda metà del XX secolo quando, con l'arrivo dei calcolatori
elettronici, l'uomo ha avuto la possibilità di eseguire in un tempo ragionevole
le tante operazioni di calcolo che caratterizzano l'elaborazione a mezzo di un
modello meteorologico. Gli oggetti che cadono dal cielo più frequentemente sul
nostro pianeta sono le idrometeore, vale a dire particelle costituite da
acquanella sua forma liquida (pioggia) o solida (neve, cristalli di ghiaccio,
grandine o neve tonda). DescrizioneModifica Circolazione generale
dell'atmosfera Ciclone extratropicale Fronte caldo Fronte
freddo Fronte occluso In particolare lo studio dell'atmosfera è lo studio
sia sperimentale dei suoi parametri fondamentali (temperatura dell'aria,
umidità atmosferica, pressione atmosferica, radiazione solare, vento),
attraverso l'uso di osservazioni e misurazioni dirette e indirette a mezzo di
stazioni meteorologiche, palloni, sonde, razzi e satelliti meteorologici
equipaggiati della necessaria strumentazione, sia teorico, facente cioè uso
dell'astrazione propria del linguaggio della fisica matematica per la
quantificazione delle leggi fisiche o processi (appartenenti alla fisica
dell'atmosfera) che intercorrono tra essi. I due approcci confluiscono
nel risultato finale ovvero l'ideazione, l'implementazione e l'inizializzazione
di modelli matematici in grado di ottenere una previsione o prognosi a breve
scadenza dei vari fenomeni atmosferici (nubi, perturbazioni, vento,
precipitazioni tramite i cosiddetti modelli meteorologici) su un dato
territorio (previsione del tempo). Tempo meteorologico e climaModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tempo
meteorologico, Clima e Variabilità meteorologica. Obiettivo della meteorologia
è quello di misurare direttamente i parametri fisici atmosferici istantanei e
cercare di fornire previsioni su determinati eventi atmosferici futuri,
studiando dunque i fenomeni di breve durata che caratterizzano il tempo
meteorologico; la raccolta di dati sul lungo periodo è utile invece a livello
climatologico studiando l'andamento medio del tempo atmosferico di una regione
in un certo lasso temporale: mentre il tempo atmosferico è definito come
l'insieme delle condizioni atmosferiche in un certo istante temporale su un
dato territorio, il clima invece è l'insieme delle condizioni meteorologiche
medie di un territorio su di un arco temporale di almeno 30 anni, come
stabilito dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM): talune analisi che
si riferiscono in primis all'ambito meteorologico non possono dunque essere
estese all'ambito climatologico essendo questo una media statistica sul lungo
periodo, oggetto di studio di quella scienza affine che è appunto la
climatologia; quindi mentre la meteorologia ha come finalità ultime la
comprensione dei fenomeni atmosferici a breve scadenza con relativa previsione,
la climatologia studia invece i processi dinamici che modificano le condizioni
atmosferiche medie a lunga scadenza, come ad es. i cambiamenti climatici.
Principali fenomeni meteorologiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Fisica dell'atmosfera. L'atmosfera terrestre è un
gigantesco sistema termo-fluidodinamico, accoppiato con il sistema oceanico, la
biosfera e la criosfera, e mosso da una sorgente di energia termica sotto forma
di radiazioni che è il Sole. La natura dinamica e intrinsecamente caotica o
turbolenta dell'atmosfera si esplica attraverso la circolazione generale
dell'atmosfera e una serie innumerevole di fenomeni atmosferici che
quotidianamente osserviamo. Gran parte di questi fenomeni possono essere
inclusi in tre grandi categorie di processi: i processi di
redistribuzione del calore, sia in verticale attraverso il trasferimento
radiativo e convettivo, sia in orizzontale (a piccola, media e larga scala)
attraverso i venti e la circolazione generale dell'atmosfera. i processi
atmosferici coinvolti nel ciclo dell'acqua, innescati a loro volta dai processi
radiativi, quali evaporazione, condensazione, nubi, precipitazioni e i fenomeni
perturbativi ad essi associati (a piccola, media e larga scala) quali fronti
meteorologici, cicloni extratropicali, cicloni tropicali, temporali, rovesci,
tornado ecc. i processi legati all'elettricità atmosferica, come i fulmini. Le
prime due categorie di processi sono intimamente connesse giacché evaporazione,
condensazione e formazioni cicloniche contribuiscono anch'esse al trasporto
dell'energia nel sistema sia in verticale che in orizzontale e allo stesso
tempo da essi innescati. I vari fenomeni meteorologici sono classificati
all'interno della cosiddetta scala dei moti atmosferici a seconda delle
dimensioni del territorio, del tipo di analisi richiesta e dell'intervallo
temporale di interesse in cui essi insistono.
StrumentazioniModifica Strumentazione di una stazione meteorologica
Satellite meteorologico(Meteosat) Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Stazione meteorologica. L'uomo ha anche costruito nuovi
strumenti per osservare le varie interazioni; i seguenti strumenti sono stati
approvati dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM), e molti di essi
vengono utilizzati in ogni stazione meteorologicamondiale:
radiometri e scatterometri localizzati su satelliti meteorologici
misurano l'energia elettromagnetica reirradiata dal pianeta verso lo spazio
esterno, fornendo quindi un'immagine dello stato dell'atmosfera e della
presenza di nuvole termometri (es. a minima e massima), per la misurazione
della temperatura; igrometri, per la misurazione dell'umidità; psicrometri, per
la misurazione dell'umidità; termoigrometri, per la registrazione della
temperatura e dell'umidità; pluviometri/pluviografi, per la misurazione delle
quantità di pioggia; nivometri, per la misurazione dell'accumulo di neve al
suolo; anemometri, per la misurazione della forza e della direzione dei venti;
trasmissometri, per la misurazione della visibilità; palloni sonda per
radiosondaggi: attraversano verticalmente l'atmosfera per ottenere profili
verticali di pressione, temperatura, umidità e vento (sono per ora la
principale fonte di dati per i modelli meteorologici); boe galleggianti e navi
meteorologiche, per l'osservazione delle condizioni meteorologiche in mare
aperto; radar meteorologici. Irradiano energia elettromagnetica e ricavano
informazioni sull'atmosfera analizzando le caratteristiche del segnale da essa
riflesso. Sono utilizzati per individuare eventi di precipitazione, stimarne
l'entità e prevederne l'evoluzione a breve termine (nowcasting), e in alcuni
casi per sondare la struttura interna delle nubi. Possono essere installati a
terra o su satellite; satelliti meteorologici, cioè satelliti che ruotano
attorno alla terra per inviare al suolo immagini del movimento delle nubi e le
mappe della temperatura. I satelliti si dividono in geostazionari e a orbita
polare. Si possono visualizzare le immagini dei satelliti su molti siti web.
Previsioni meteorologiche Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Previsione meteorologica. Manica a vento, uno dei simboli
della Meteorologia Immagine del NOAA Carta meteorologica di previsione
a 500 hp Le previsioni meteorologiche si ottengono solitamente dalla seguente
procedura: osservazione e misurazione delle variabili atmosferiche (es.
velocità e direzione del vento, temperatura dell'aria, umidità, pressione);
trascrizione, studio ed elaborazione dei dati rilevati su carte sinottiche o
assimilando i dati attraverso modelli matematici che girano su calcolatori
numerici, dove in quest'ultimo caso, viene prodotta la situazione meteorologica
di un determinato momento, chiamata analisi; prognosi futura a partire dalle
carte sinottiche oppure facendo evolvere la condizione iniziale tramite uso dei
modelli matematici meteorologici (previsione). Ambiti di studioModifica
All'interno della disciplina vi sono vari ambiti di studio: la meteorologia
sinottica che studia in maniera qualitativa e quantitativa l'evoluzione delle
condizioni atmosferiche di vaste porzioni dell'atmosfera stessa (superiori ai
1000 km) tramite l'uso di carte meteo, nozioni empiriche, metodo delle analogie
ecc. la meteorologia dinamica che, partendo dalle equazioni di base della
fluidodinamica, cerca di spiegare formazione e sviluppo dei fenomeni osservati
(detta anche meteorologia fisica o teorica). la meteorologia numerica, si
occupa di definire e affinare i modelli numerici di previsione meteorologica la
meteorologia satellitare, che si avvale delle analisi di telerilevamento
atmosferico e quindi dei relativi dati trasmessi a terra dai satelliti
meteorologicicome ad esempio i satelliti Meteosat. la radarmeteorologia che si
avvale dei dati raccolti dai radar meteorologici dislocati sul territorio per
affrontare la previsione meteo a brevissima scadenza (nowcasting). la
meteorologia aeronautica, che si occupa principalmente dei fenomeni rilevanti
per la navigazione aerea; la meteorologia spaziale che si occupa del cosiddetto
tempo meteorologico spaziale in alta atmosfera; la meteorologia ambientale che
studia pollini e dinamica degli inquinanti in atmosfera; l'agrometeorologia che
studia le relazioni tra tempo atmosferico e agricoltura[5]; Meteorologi
famosiModifica Edmondo Bernacca Andrea Baroni Plinio Rovesti Guido Caroselli
Mario Giuliacci Guido Guidi Paolo Sottocorona Paolo Corazzon Luca Mercalli
Andrea Giuliacci Daniele Izzo NoteModifica ^ Anche se spesso viene usata, la
grafia metereologia non è corretta, come dimostra l'etimologia greca; cfr.
anche l'abbreviazione meteo. ^ meteorologìa in Vocabolario, su Treccani Con la
stessa etimologia delle antiche divinità della cosmogonia greca Ouranos (Cieli)
e Ourea (Montagne) ^ Franco Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino,
Loescher, Mariani Clima e agricoltura Rivista I tempi della terra su
itempidellaterra.org. Navarra, Le previsioni del tempo, Il Saggiatore, Agrometeorologia Atmosfera Anticiclone
Avvezione Barometro Carta meteorologica Circolazione atmosferica Formula
ipsometrica Fisica dell'atmosfera Igrometro Isobara (meteorologia) Isoterma
(meteorologia) Grandine Ghiaccio Geopotenziale Legge della persistenza Legge
della compensazione Meteorognostica Nube Neve Pressione atmosferica
Precipitazione (meteorologia) Promontorio di alta pressione Riscaldamento
stratosferico Storia della meteorologia Stazione meteorologica Saccatura
Satellite meteorologico Strato limite Teoria del caos Temperatura Termometro
Tempo (meteorologia) Umidità Variabilità meteorologica Vortice polare Altri
progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene sulla meteorologia
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Meteorologia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Da
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vietati. Organizzazioni nazionaliModifica Meteo Aeronautica Servizio
Meteorologico dell'Aeronautica Militare AMPRO Associazione Meteo Professionisti
Organizzazioni internazionali World Meteorological Organization Organizzazione
Meteorologica Mondiale (EN) European Centre for Medium-Range Weather Forecasts
Centro europeo per le previsioni meteo a medio termine (EN) Eumetnet
Raggruppamento di 29 servizi meteo nazionali europei (EN) Eumetsat Organizzazione
europea per i satelliti meteorologici European Meteological Society Portale
Meteorologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di meteorologia Ultima
modifica 3 mesi fa di Pav03 Storia della meteorologia Meteorologo Previsione
meteorologica Wikipedia Il contenutoGrice: Can a sign have a different meaning
for utterer and recipient? – If so, why do we keep calling communication –
signare seems to be still good enough! -- Alessandro Cortese. Cortese. Keywords:
del principio del significato, Kierkegaard, soap, sapone, actress, attrice,
edifying discourse, discorso edificante,
naturale/sopra-naturale/preter-naturale, Paul Carus, hyperphysical. Those spots
means she has the devil inside her. Praeter-natural implicatura, supra-natural
implicature, non-natural implicature, natural implicature. “Del significato”,
ironia socratica, sapone, Savona, signare il concetto, sovrannaturale,
liberalismo, il responsabile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cortese” – The
Swimming-Pool Library. Cortese.
Luigi Speranza -- Grice e Corvaglia:
la ragione conversazionale, il
pessimismo e l’implicatura di Tantalo – scuola di Melissano – filosofia leccese
– filosofia pugliese-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Melissano).
Filosofo leccesse. Filosofo pugliese. Filosofo
italiano. Melissano, Lecce, Puglia. Grice: “I love Corvaglia – or corvus in
diluvio, as he called himself! – a very Italian philosopher and thus interested
in the history of Italian philosophy, especially Vannini – the fact that he
wrote plays on philosophical subjects – La casa di Seneca – helps!” Opera nel campo della filosofia del rinascimento.
Tra gli studi filosofico-scientifici si distinguono per vastità e profondità i
volumi Le opere di Vanini e le loro fonti, e Vanini Edizioni e plagi, risposta
polemica condotta contro le veementi critiche ricevute Porzio. Pubblica
il romanzo Finibusterre, trasfigurazione quasi sacra della sua amata terra e
del popolo del Basso Salento, ch'egli incitava con ogni mezzo, anche se spesso
travisato e intralciato e persino calunniato a crescere, per migliorare
materialmente e moralmente. Il romanzo fu ben accolto dalla critica. Benedetto
Croce, a cui Corvaglia lo aveva dedicato, rimarcò "lo sfondo storico
rappresentato in modo assai vigoroso" e il "trattamento dei caratteri
e degli effetti". Con maggiore puntualità Annibale Pastore (già suo professore
all'Torino) gli confidava di sentire emergere nella sua mente, attraverso
figure e temi del romanzo, ricordi sepolti, "struggente malinconia",
un mondo molto simile a quello del Manzoni, "anch'esso celato alla
superficie, soffuso d'ironia-limite", e tuttavia turbato da altri
affascinanti caratteri, quali: "il sorprendente realismo, la perfetta
armonia, l'effusione poetica, l'occhio acuto e sicuro, che scruta l'animo umano
fin nelle più remote pieghe". Si dedica totalmente alla filosofia
del Rinascimento, animato dal bisogno di trarre alla luce obliterate sorgive e percorrendo il movimento spesso alquanto
sconosciuto della filosofia, che dal Rinascimento risale fino al Medio
Evo. S'apre nella sua vita uno spiraglio di fiducia verso gli uomini
impegnati, e si prestadoverosamente secondo la sua fede politica all'attività
politica, accogliendo e votandosi alla cultura mazziniana, cui rimane Fedele..
È di questo periodo la pubblicazione, tra l'altro, dei Quaderni Mazziniani: “Noi
Mazziniani”, “Mazzini ed il Partito di Azione”, “L'Acherontico retaggio”, “Il
Partito Repubblicano italiano”, il discorso Ai giovani, la conferenza (edita da
Laterza) su Giuseppe Mazzini. Dopo la proclamazione della Repubblica, però,
si allontana da ogni azione politica, ritenendola del tutto estranea e lontana
dall'ideale da lui vagheggiato e sperato. Si trasferisce a Roma, nell'ambiente
culturale a lui più consono, ritornando agli studi tra i suoi libri, dove
soltanto sente di vivere senza alcun compromesso, in assoluta libertà. Cascata
di S.M. di Leuca. Scaligero, un saggio di "speleologia". Saggio su Cardano.
Su iniziativa del comune di Melissano, è stato avviato un "Biennio di
Studio su Corvaglia", al fine di approfondirne e divulgarne la conoscenza.
Alla realizzazione del progetto collaborano, come protagonisti, anche
l'Amministrazione Provinciale di Lecce, l'Università degli Studi del Salento e
l'Istituto Comprensivo Statale di Melissano, che chiuderanno il biennio dei
lavori, organizzando un Convegno su Corvaglia", al fine di dibattere
argomenti di particolare interesse presenti nella sua opera. A tale riguardo si
sta già operando non solo sul piano della ricerca specialistica e accademica,
ma anche sulla promozione d'iniziative, che coinvolgano biblioteche e settori
culturali degli enti locali, creando opportunità per sviluppare in maniera
articolata e organica la ricognizione e la valorizzazione del patrimonio
culturale salentino in generale e melissanese in particolare, lasciato in
eredità da Corvaglia. La casa di Seneca- Commedia di L. Corvaglia. Altre
opere: “La casa di Seneca” (Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Rondini
(dedicata "Al mio povero innocente Nova, fuggevole visione di un
Infinito", che avvampa e dilegua in vicenda amara di avventi senza
natale"; Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Tantalo” Tipografia
Fratelli Carra, Matino (Lecce), Santa Teresa e Aldonzo (L. Cappelli Editore,
Bologna); Rondini- Commedia; “Romanzo Finibusterre, Editrice Dante Alighieri,
Milano); “Le fonti della filosofia di Vanini” (Anphitheatrum Aeternae
Providentiae, Società Dante Alighieri, Milano); “Introduzione semi-seria dialogata
per il lettore Vanini” (Edizioni e plagi, Tipografia Carra di Casarano); “Ricognizione
delle opere di G.C. Vanini, in "Giornale Critico della Filosofia
Italiana”; La poetica di Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, in
"Giornale Critico della Filosofia Italiana", Quaderni Mazziniani; “Noi
Mazziniani” Tipografica di Matino (Lecce), “Mazzini e il partito d' azione
(critica), Tipografica di Matino (Lecce), “ L'acherontico retaggio (con
l'elogio della vita comune), Tipografica di Matino (Lecce), Quaderni Mazziniani
n° 4. Il partito repubblicano italiano, Tipografica di Matino (Lecce). Discorso
tenuto a Lecce nel Teatro Paisiello. Giuseppe Mazzini, Discorso commemorativo
tenuto a Lecce nel Teatro Apollo, Laterza, Bari,"Rinascenza salentina",
Un Paese del Sud. Melissano. Storia e tradizioni popolari, Tipografia di
Matino. Meridionalista e Polemista, La Poetica di Giulio Cesare Scaligero nella
sua genesi e nel suo sviluppo, Musicaos Editore, Sulla Poetica di G.C. Scaligero.
Convegno sy Corvaglia. Il pensiero politico di Corvaglia. Popolo Sacralità
Religiosità. Wikipedia Ricerca Tantalo personaggio della mitologia greca,
figlio di Zeus, legato al famoso supplizio Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi
Tantalo (disambigua). Tàntalo Tantalus by J.Heintz the Elder, jpg Tantalo Nome
orig.Τάνταλος SessoMaschio Luogo di nascitaLidia ProfessioneRe di Lidia Tàntalo
(Τάνταλος) è un personaggio della mitologia greca. Re di Lidia (o della
Frigia) che per i suoi numerosi peccati fu punito dagli dei e gettato nel
Tartaro, la sua punizione è divenuta una figura retorica con cui si indica una
persona che desidera qualcosa che non può raggiungere. EtimologiaModifica
Secondo Platone, accordandosi alla radice greca τλα-/τλη- del verbo greco τλάω
(che significa "soffrire"), il nome Tantalo deriverebbe da
talànatos(infelicissimo) Genealogia Modifica Figlio di Zeus o di Tmolo[4] e
della ninfa Pluto sposò la ninfa Dione[2] (figlia di Atlante) o Eurinassa (figlia
di Pattolo) o Euritemiste (figlia di Xanto) o Clizia (figlia di Anfidamante) e fu padre di Pelope,
Brotea, Niobe e Dascilo[10]. MitologiaModifica Tantalo visse presso il
monte Sipylos in Anatolia, dove fondò la città di Tantalis[11]. Il
banchetto di Tantalo I misfattiModifica Tantalo, che grazie alle sue origini
era ben voluto dagli dei si rese responsabile di diverse offese nei loro
confronti e violò le regole della xenia cercando di rapire Ganimede, rubando
dell'ambrosia che in seguito distribuì ai suoi sudditi ed organizzando il furto
di un cane d'oro creato da Efesto e posto a guardia di un tempio di Zeus a
Creta (di tale furto l'artefice materiale fu Pandareo ma Tantalo giurò il falso
ad Hermes, inviato dagli dei proprio per recuperare l'animale; secondo un'altra
versione il cane era in realtà Rea trasformata in quel modo da Efesto).
Il re infine organizzò un banchetto a cui invitò gli dei stessi e, per mettere
alla prova la loro onniscienza, uccise suo figlio Pelope e lo fece servire come
pasto: Demetra, disperata per la perdita della figlia Persefone, non si accorse
di nulla e consumò parte di una spalla del ragazzo, ma gli altri dei notarono
immediatamente l'atrocità e gettarono i pezzi di Pelope in un
calderone[13]. Il supplizioModifica Il supplizio di Tantalo Gli dei
punirono Tantalo gettandolo negli inferi[12] e condannandolo ad avere per
sempre una fame e una sete impossibili da placare schiacciato dal peso di un masso, legato ad un
albero da frutto e immerso fino al collo in un lago d'acqua dolce: appena prova
ad abbeverarsi il lago si prosciuga e non appena prova a prendere un frutto i
rami si allontanano o un colpo di vento li fa volare lontano. Il sepolcro
di Tantalo sorgeva sul monte Sipylos ma gli onori gli furono pagati ad Argo, la
cui tradizione locale sosteneva anche di possedere le sue ossa[3]. Miti
successiviModifica I mitografi successivi cercarono in tutti i modi di
discolpare gli dei da un possibile atto di cannibalismo stravolgendo in tutto
la storia di Tantalo: secondo tale versione, infatti, egli era un sacerdote che
rivelò ogni segreto ai non iniziati, al che colpirono suo figlio con una
malattia orrenda. I chirurghi di allora, con varie operazioni, riuscirono a
ricostruire il corpo originale anche se di lì in poi esso portò innumerevoli
cicatrici. Filosofia Il mito di Tantalo venne successivamente ripreso dal
filosofo Arthur Schopenhauer nella sua opera più nota, Il mondo come volontà e
rappresentazione, come esempio della eterna insoddisfazione dell'uomo per cui
"contro un desiderio che viene appagato ne rimangono almeno dieci
insoddisfatti; la brama dura a lungo, le esigenze vanno all'infinito mentre
l'appagamento è breve e misurato con spilorceria". Curiosità. Il
furto dell'ambrosia a vantaggio degli esseri umani lo accomuna a Prometeo, ma
in questa veste il suo mito si trasforma da peccatore a benefattore. Tantalo,
alla stregua di Licaone, era uno dei re originali a cui era concesso, con il
favore degli dei, di condividerne la mensa: il suo gesto viene visto come un
atto di separazione fra divinità e umanità, che verrà poi ripreso da molti
altri miti come nel caso di Achille. Il supplizio di Tantalo viene citato anche
da Primo Levi in Se questo è un uomo nella frase: "Si sentono i dormienti
respirare e russare, qualcuno geme e parla. Molti schioccano le labbra e
dimenano le mascelle. Sognano di mangiare (...). È un sogno spietato, chi ha
creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo." Oriana Fallaci, in Se il
sole muore, cita il mito di Tantalo dal momento che nella missione Apollo
11l'astronauta Michael Collins sarà costretto ad avvicinarsi alla Luna senza
avere la risposta a: "Com'è la Luna? Assomiglia alla Terra? È più bella?
Più brutta? Che effetto fa camminarci?". La tortura di Tantalo viene
ripresa anche da Thomas Mann in La montagna incantata. Un personaggio
dell'opera, la signora Stohr, riferendosi al prolungarsi indefinito delle
prescrizioni per le cure, afferma: «[omissis] Dio buono si è sempre allo stesso
punto, lo sa anche lei. Si fanno due passi avanti e tre indietro... Quando uno
ha fatto cinque mesi, arriva il vecchio e gliene rifila altri sei. Ah, è la
tortura di Tantalo. Si spinge, si spinge e quando si crede d'essere in
cima...». È evidente la confusione che la signora, avvezza alle gaffes, fa tra
Tantalo e Sisifo. L'interlocutore, il sarcastico e dotto umanista Settembrini,
risponde sul punto: «Oh, brava e generosa! Finalmente concede al povero Tantalo
un diversivo. Per variare gli fa spingere il famoso pietrone! È un atto di vera
bontà! [omissis]». Ne La valle dell'Eden John Steinbeck fa dire a Kate:
"Chi era quello che non riusciva a bere da un setaccio? Tantalo?".
Tantalo appare come sostituto di Chirone nel secondo libro della Saga di Percy
Jackson Il mare dei mostri. Il tantalio, elemento chimico di numero atomico 73,
prende il nome da Tantalo, e si trova sotto il niobio, il cui nome deriva
proprio da sua figlia Niobe. Platone, Cratilo, Igino, Fabulae Pausania il
Periegeta, Periegesi della Grecia, su theoi Scholia ad Euripide, Oreste Tzetzes
a Licofrone,Scholia ad Euripide, Oreste, Pausania il Periegeta, Periegesi della
Grecia, III, 22.4, su theoi Igino, Fabulae Apollodoro, Biblioteca, III, 5.6, su
theoi.com. il Scolio ad Apollonio Rodio, Le Argonautiche, Plinio il Vecchio
Naturalis historia, Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, su theoi Pindaro,
Olimpiche, 1.60 ff, su perseus.tufts Euripide, Oreste Liberale, Metamorfosi Apollodoro, Biblioteca,
Epitome II, 1, su theoi Tzetze, a Licofrone Pindaro, Olimpiche, 1, 59-63.
BibliografiaModifica Fonti primarie Esiodo, Teogonia Pausania, Pindaro,
Olimpica III, 41 Igino, Fabulae Graves, I miti greci, Milano, Longanesi Cerinotti,
Miti greci e di roma antica, Prato, Giunti, Ferrari, Dizionario di mitologia,
Litopres, UTET, Carassiti, Dizionario di mitologia classica, Roma, Newton,
Prometeo Issione Tizio Sisifo Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia
Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Tantalo
Collegamenti esterniModifica Tantalo, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Carlo Gallavotti,
TANTALO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Tantalo,
su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. La storia di Tantalo,
su haidukpress.Portale Mitologia greca: accedi alle voci di Wikipedia che
trattano di mitologia greca Ultima modifica 3 giorni fa di Nicola Gotti Enomao
re di Pisa nella mitologia greca, figlio di Ares Clitennestra personaggio
della mitologia greca, moglie di Agamennone e amante di Egisto Minia re e
fondatore di Orcomeno in Beozia nella mitologia greca Wikipedia Il
contenutoAlles Wollen entspringt aus Bedürfniß, also aus Mangel, also aus
Leiden. Diesem macht die Erfüllung ein Ende; jedoch gegen einen Wunsch, der
erfüllt wird, bleiben wenigstens zehn versagt: ferner, das Begehren dauert
lange, die Forderungen gehen ins Unendliche; die Erfüllung ist kurz und
kärglich bemessen. Sogar aber ist die endliche Befriedigung selbst nur
scheinbar : der erfüllte Wunsch macht gleich einem neuen Platz : jener ist ein
erkannter, dieser ein noch unerkannter Irrthum. Dauernde, nicht mehr weichende
Befriedigung kann kein erlangtes Objekt des Wollens geben: sondern es gleicht
immer nur dem Almosen, das dem Bettler zugeworfen, sein Leben heute fristet, um
seine Quaal auf Morgen zu verlängern. – Darum nun, solange unser Bewußtseyn von
unserm Willen erfüllt ist, solange wir dem Drange der Wünsche, mit seinem
steten Hoffen und Fürchten, hin- gegeben sind, solange wir Subjekt des Wollens
sind, wird uns nimmermehr dauerndes Glück, noch Ruhe. Ob wir jagen, oder
fliehn, Unheil fürchten, oder nach Genuß streben, ist im Wesentlichen einerlei:
die Sorge für den stets fordernden Willen, gleichviel in welcher Gestalt,
erfüllt und bewegt fortdauernd das Bewußtseyn; ohne Ruhe aber ist durchaus kein
wahres Wohlseyn möglich. So liegt das Subjekt des Wollens beständig auf dem
drehenden Rade des Ixion, schöpft immer im Siebe der Danaiden, ist der ewig
schmachtende Tantalus. Luigi Corvaglia. Corvaglia. Keywords: Tantalo,
Schopenhauer, Sisifo, assurdo, Camus, tragico. Refs.: Vanini, Bordon, poetica,
Mazzini, Pomponazzi, Cardano --. Luigi Speranza, “Grice e Corvaglia” – The Swimming-Pool
Library. Corvaglia.
Luigi
Speranza -- Grice e Corvino: la ragione conversazionale a Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Imbevuto di
discorsi socratici, insigne per le sue attività politiche e militari, scrittore
e protettore di poeti. C. studia in Atene con Orazio e poi coltivò
l’eloquenza, la grammatica, la poesia. C. e incluso nelle liste di
proserizione perchè avversario di Cesare, ma salva la vita. C. combattò
con Bruto e Cassio a Filippi, poi si unì ad Marc'Antonio.In seguito, C. strinse
rapporti con Ottaviano. C. e console, combattè ad Azio ed ebbe comandi in
Oriente. Per una vittoria sugl'Aquitani, C. consegue il trionfo.C. rimase
però sempre fedele alle antiche convinzioni politiche, e perciò, dopo sei
giorni dalla nomina, abbandona l’ufficio di praefectus urbis. C. e curator
aquarum. A nome del Senato, C. salutò Augusto "pater
patriae."Corvino fu capo di un circolo filosofico al quale appartennero
Tibullo e Ligsdamo.C. scrive carmi bucolici e orazioni. Come oratore, C. e
molto lodato da Tacito e Quintiliano.C. compose un’opera storica, probabilmente
di memorie.Alcuni hanno rilevato influssi dell’Epicureismo, altri di Posidonio,
nel lungo frammento che ci rimane di un poema sulla caccia ("Cynegetica")
composto da Grattio, vissuto al tempo di Augusto.Ma abbiamo elementi troppo
scarsi per determinare le direttive del suo pensiero. Del poeta
Linceo (probabilmente questo era uno pseudonimo), Properzio, suo amico e rivale
in amore, dice che attingeva la sua sapienza ai libri socratici e che avrebbe
potuto trattare del corso delle cose, del sistema del mondo e di problemi,
escatologici e naturali. Marco Valerio Mesalla Corvino. Corvino.
Luigi Speranz -- Grice e Cosi:
l’implicatura conversazionale del cuore -- accordo – cuori -- l’accordo – scuola
di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza -- (Firenze). Filosofo
fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I
love Cosi; my favourite of his philosophical essays on justice is the one on
‘l’accordo,’ for this is what my principle of conversational helpfulness or
co-operation is all about!” Giovanni
Cosi. Si laurea a Firenze. Insegna a Firenza, Sassari, Siena. Altre opere: “La
liberazione artificiale: l’uomo e il diritto di fronte a la droga” (Milano: Giuffrè);
"Religiosità e teoria critica" (Giuffre); "Secolarizzazione e
ri-sacralizzazioni" (Giuffre); "Il sacro e giusto: itinerario di
archetipologia” (FrancoAngeli). Dopo aver compiuto ricerche sull'espressione
del dissenso in forma non rivoluzionaria negli ordinamenti liberal-democratici,
pubblica per la Giuffrè Editore il volume "Saggio sulla disobbedienza
civile"; "Il traviato”, “il filosofo traviato: il filosofo come
gentiluomo (Giuntina); “La obbedienza
civile, la disobbedienza civile: il consenso, il dissenso, la aristocracia, la
plutocracia, la democrazia, la repubblica (Milano: Giuffrè). Il giurista
perduto: avvocati e identità professionale” (Giuntina), “Logos e dialettica”
(Giappichelli, Torino); “Il filosofo risponsabile” (Giappichelli,Torino); “Lo
spazio della mediazione, -- il terzo escluso – chi media nella diada? (Giuffrè).
“Invece di giudicare” (Giuffrè); “Il spazio della mediazione nel conflitto
della diada conversazionale” (Giappichelli Torino); “Legge, Diritto, Giustizia”
(Giappichelli, Torino). “Giudicare, o Fare giustizia. – vendetta – il concetto
filosofico” (Giuffré Editore, Milano). La liberazione artificiale: l'uomo e il
diritto di fronte alla droga, Giuffrè, Milano; Saggio sulla disobbedienza
civile: storia e critica del dissenso in democrazia, Giuffrè, Milano; Il
giurista perduto: avvocati e identità professionale, Giuntina, Firenze; Il
sacro e il giusto: itinerari di archetipologia giuridica, Franco Angeli,
Milano; Il Logos del diritto, Giappichelli, Torino; La responsabilità del
giurista: etica e professione legale, Giappichelli, Torino; Società, diritto,
culture: introduzione all'esperienza giuridica, dispense di Sociologia del
Diritto, Firenze); La professione legale tra patologia e prevenzione: materiali
di etica professionale, dispense di Sociologia del Diritto, Firenze; Per una
politica del diritto del fenomeno droga: problemi e prospettive", Archivio
Giuridico; Il diritto e la droga" e "Per una comprensione culturale
dell'uso di droghe", Testimonianze; "Religiosità e Teoria Critica: la
teologia negativa di Max Horkheimer", Rivista di Filosofia Neo-scolastica, "Secolarizzazione
e risacralizzazioni: le sopravalutazioni post-illuministiche
dell'immanentismo", in L. Lombardi Vallauri - G. Dilcher, Cristianesimo,
secolarizzazione e diritto moderno, Giuffrè - Nomos Verlag, Milano - Baden-Baden);
"Sulla 'naturalità' dei diritti civili", Testimonianze;
"L'Uno o i Molti? Il 'nuovo politeismo' di Miller e Hillman",
Testimonianze; "Ordine e dissenso. La disobbedienza civile nella società
liberale", Jus; "Iniziazione e tossicomania: intorno a un libro di
Luigi Zoja", Testimonianze; "Le aporie del pacifismo: critica della
pace come ideologia", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto;
"L'immagine sofferente della legge", L'Immaginale; "Diritto e
morale in tema di aborto", Testimonianze; "Professionalità e
personalità: riflessioni sul ruolo dell'avvocato nella società",
Sociologia del Diritto; "L'avvocato e il suo cliente: appunti storici e
sociologici sulla professione legale", Materiali per una storia della
cultura giuridica; "La coscienza, gli dei, la legge", Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto; "Il diritto del mondo
I", Anima; "Un anniversario dimenticato: Il Bill e la sua eredità", Sociologia del Diritto;
"Vecchio e nuovo nelle crisi di identità degli avvocati", in Storia
del diritto e teoria politica, Annali della Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università degli Studi di Macerata; "Verso il paese di Inanna",
Anima;"Avvocato o giurista?", comunicazione al VI Convegno nazionale
di studio dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, Firenze, Iustitia,
"Tutela del mondo e normatività naturale", in L. Lombardi Vallauri
(ed.), Il meritevole di tutela, Giuffrè, Milano); "Tutela del mondo e
strumenti giuridici", Testimonianze; "La professione legale tra etica
e deontologia", Etica degli Affari e delle professione; "Diritto
e realizzazione: un'introduzione alla fenomenologia del logos giuridico",
Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "La legge e le origini
della coscienza", Per la filosofia; "Naturalità del diritto e
universali giuridici", Rivista Internazionale di Filosofia del
Diritto,"Naturalità del diritto e universali giuridici", in F.
D'AGOSTINO (ed.), Pluralità delle culture e universalità dei diritti,
Giappichelli, Torino); "Etica secondo il ruolo", Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto; "Purezza e olocausto:
un'interpretazione psicologico-culturale", Per la Filosofia;
"Logos giuridico e archetipi normativi", in L. LOMBARDI VALLAURI, Logos
dell'essere, Logos della norma, Adriatica, Bari); “Giustizia senza giudizio.
Limiti del diritto e tecniche di mediazione”, in F. MOLINARI e A. AMOROSO,
Teoria e pratica della mediazione, FrancoAngeli, Milano); “Le forme
dell’informale”, comunicazione al Congresso Nazionale della Società di
Filosofia Giuridica e Politica, Trieste, Ora in Giustizia e procedure, Atti del
suddetto Convegno, Giuffrè, Milano); “L’idea di professione”, Dirigenti Scuola,
“Controllare la professione”, Dirigenti Scuola, “Professione, patologia e
prevenzione”, Dirigenti Scuola. Ricerca Cuore organo muscolare, centro motore
dell'apparato circolatorio. disambigua.svg Disambiguazione. Se stai cercando
altri significati, vedi Cuore (disambigua). Il cuore è un organo muscolare, che
costituisce il centro motore dell'apparato circolatorio e propulsore del sangue
e della linfa in diversi organismi animali, compresi gli esseri umani, nei quali
è formato da un particolare tessuto, il miocardio ed è rivestito da una
membrana, il pericardio. natomia del cuore umano EmbriologiaModifica Può
originare da un abbozzo mesodermico ventrale, come negli anfibi, nella parte
rostrale del celoma, oppure da due abbozzi pari, come nei mammiferi, che poi si
uniscono medialmente. In entrambi i casi il primo abbozzo cardiaco è compreso
nel mesentere ventrale che in seguito si dividerà in mesocardio dorsale e
ventrale; successivamente entrambi spariranno per far spazio al tubo cardiaco
che permane nella cavità pericardica, separatasi dalla cavità addominale per lo
sviluppo di un setto trasverso. In questa fase il cuore, che si trova
lungo il decorso del vaso sanguifero mediano nella regione subfaringea, non ha
ancora né valvole né altre suddivisioni: è rappresentato da un tubo con due
pareti, una muscolare più esterna, miocardio, e una endoteliale più interna,
endocardio. Anatomia comparataModifica Nei vertebrati l'apparato
circolatorio presenta una complessità crescente dai pesci ai mammiferi, le
modifiche che ha subito nel corso dell'evoluzione sono in relazione allo
sviluppo di un apparato respiratorio[1]sempre più efficiente. Nei pesci
il cuore è costituito da un solo atrio, che raccoglie il sangue povero di
ossigeno proveniente da tutto il corpo, e un solo ventricolo, che raccoglie il
sangue proveniente dall'atrio: esistono però un seno venoso nel punto di arrivo
delle vene e un bulbo arterioso all'inizio delle arterie, quindi le camere sono
in realtà quattro. Le camere nel cuore dei pesci La circolazione in questi
animali è definita semplice perché il sangue compie un intero ciclo passando
una sola volta per il cuore, da dove raggiunge le branchieper essere ossigenato
così da arrivare ai tessutitrasportato dalle arterie. Dopo aver ceduto alle
cellule l'ossigeno e aver prelevato il diossido di carbonio e i prodotti di
rifiuto, il sangue torna verso l'atrio per mezzo delle vene. A questo punto
torna nel ventricolo e da qui alle branchie: a questo punto il ciclo
ricomincia. Nei vertebrati terrestri, mammiferi e uccelli, vi è una
circolazione doppia (polmonare e sistemica), nella quale il sangue, nel corso
di un ciclo completo, passa due volte per il cuore. Negli anfibi e nella
maggior parte dei rettili il cuore ha due atri, ma un solo ventricolo così che
i due tipi di sangue finiscono nell'unico ventricolo, qui si rimescolano
parzialmente e riducono la quantità di ossigeno destinata ai tessuti; insieme
all'aorta, alle arterie e vene polmonari esiste un’arteria pulmo-cutanea che
porta il sangue alla pelle, dove il sangue circolante si ossigena.[1]
Cuore dei varani Anatomia: RVH= atrio destro; LVH= atrio sinistro; KK= circolazione
sistemica; LK= circolazione polmonare; SAK= valvole del setto
atrioventricolare; CP= cavità polmonare. Sistole: Frecce blu=
sangue venoso, Frecce rosse= sangue arterioso Diastole: Frecce blu=
sangue venoso, Frecce rosse= sangue arterioso Solo nei coccodrilli i
ventricoli sono separati, mentre l'aorta e l'arteria polmonare sono collegate
dal forame di Panizza. Per ricapitolare i diversi tipi di circolazione,
potremmo così riassumere[2]: Nei pesci la circolazione è semplice, è
unidirezionale e ha un solo ventricolo; Negli anfibi e nei rettili è doppia e
incompleta; Nei mammiferi e uccelli è doppia e completa, vi sono due ventricoli
completamente separati Anatomia umanaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Cuore umano. La posizione del cuore
all'interno del torace umano Negli esseri umani è posto al centro della cavità
toracica, precisamente nel mediastino in posizione anteroinferiore fra le due
regioni pleuropolmonari, dietro lo sterno e le cartilagini costali, che lo proteggono
come uno scudo, davanti alla colonna vertebrale, da cui è separato dall'esofago
e dall'aorta, e appoggiato sul diaframma, che lo separa dai visceri
sottostanti. Il cuore ha la forma di un tronco di conoad asse obliquo rispetto
al piano sagittale: la sua base maggiore guarda in alto, indietro e a destra,
mentre l'apice è rivolto in basso, in avanti e a sinistra;[4] pesa nell'adulto
all'incirca 250-300 g, misurando 12-13 cm in lunghezza, 9-10 cm in larghezza e
circa 6 cm di spessore (si sottolinea che questi dati variano con età, sesso e
costituzione fisica). Battito del cuore di un uomo a 61 bpm Fisiologia Il cuore
si contrae e si rilascia secondo il ciclo cardiaco. Il cuore è costituito
dalle cellule del miocardio, tipicamente striate, che si occupano della
contrazione e dalle cellule auto ritmiche non contrattili, da cui origina lo
stimolo di contrazione. Le cellule auto ritmiche possiedono la capacità di auto
depolarizzarsi, grazie all'apertura canali del sodio (detti fun), che spostano
il potenziale di membrana verso valori più positivi, consentendo l'apertura dei
canali del calcio. L'ingresso di calcio nella cellula è prolungato e porta il
potenziale a stabilizzarsi su valori positivi per qualche millisecondo,
generando un plateau. Il segnale termina grazie all'apertura dei canali del
potassio, che riportano il potenziale di membrana a valori negativi e
consentono ai canali funny di aprirsi nuovamente. La contrazione del miocardio
inizia grazie all'ingresso del calcio nella cellula, che provoca la fuoriuscita
di altro calcio dal reticolo sarcoplasmatico e quindi la contrazione. Il
cuore nelle culture umane. Nell'antichità classica (anche per il filosofo e
scienziato Aristotele) il cuore era ritenuto sede della memoria. Il verbo
ricordare deriva infatti dal verbo latino recordari e questo dal sostantivo cŏr
(genitivocŏrdis), cuore (come sede della memoria) col suffissore- di movimento
all'incontrario: quindi, propriamente, rimettere nel cuore (= nella memoria). Ancora
oggi l'espressione "a memoria" si traduce par coeur in francese, by
heart in inglese e de cor in portoghese ("coeur", "heart" e
"cor" significano "cuore"). Particolarmente cruento
era il sacrificio del cuore nel mondo azteco. Gli Aztechi prendevano un cuore,
estratto ancora palpitante dalle vittime sacrificali umane, e lo offrivano agli
dei. Apparato respiratorio nei vertebrati, su sapere La circolazione dei
vertebrati, su hischool.weebly. Fiocca, Testut e Latarjet, Dizionario
etimologico della lingua italiana, di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, ed.
Zanichelli. Léo Testut e André Latarjet, Miologia-Angiologia, in Trattato di
anatomia umana. Anatomia descrittiva e microscopica – Organogenesi, Torino,
UTET, Fiocca et al., Fondamenti di anatomia e fisiologia umana, 2ª ed., Napoli,
Sorbona, cuore, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Cuore, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere riguardanti Cuore, su Open
Library, Internet Archive.Cuore, in Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Portale Anatomia Portale
Biologia Portale Medicina Ultima modifica 18 giorni fa di Lorenzo
Longo Arteria vasi sanguigni che trasportano il sangue dalla periferia del
cuore al corpo Cuore umano organo muscolare cavo Apparato
circolatorio insieme degli organi deputati al trasporto di fluidi diversi –
come il sangue e, in un'accezione più generale, la linfa – che hanno il compito
di apportare alle cellule gli elementi necessari al loro sostentamento
Wikipedia Il contenutoGrice: “Italians are afraid of the ‘sacro’ because since
the fall of the Roman Empire, it means the evil Pope! – unless otherwise stated
by people like Evola, etc.” – Grice: “Hart should have spent more time
analysing the implicatures of ‘disobey,’ as Cosi does -- to realise how wrong
his theory is!” Grice: “Austin, who taught morals at Oxford, should
have examined, as Cosi does, what we mean by ‘responsible philosopher’ before
opening his mouth!” – Grice: “My idea of helpfulness does not quite include
that of ‘mediation’ but it should – the space of mediation in the conflict in
the conversational dyad! I owe this to Cosi.” Grice: “I decided to use
‘judicative’ versus ‘volitive’ after Cosi. – His ‘giudicare’ is a gem!” -- Giovanni
Cosi. Keywords:
l’accordo, il secolare/il sacro; profane/sacro – secolare; archetipo, il
filosofo come gentiluomo, l’obbediente, il disobbediente, il consensus, il
disensus, to obey, conflitto, mediazione, diritto (right), giure, giurato –
legatum, vendetta, giudicare, fare giustizia, vendetta conversazionale, natura,
naturalita, non-naturale, legge naturale gius naturale, giusnaturalismo,
fenomenologia del giurato; normato naturale? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cosi” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Cosmacini: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del consenso e la compassione – sinestesia e simpatia – scuola
di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese.
Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like
Cosmacini; for one he wrote on THREE areas of my concern: ‘cuore’, as when we
say that two conversationalists reach an ‘accord’! – on ‘empatia’ – a
Hellenism, and most importantly, on ‘compassione,’ which is at the root of my
principle of conversational benevolence. -- Giorgio Cosmacini (Milano), filosofo.
Studia
a Milano e Pavia.la “convenzione della mutua” o INAM(Istituto nazionale per
l'assicurazione contro le malattie) e apre un ambulatorio mutualistico Fare
bene il mestiere di “medico della mutua” non significa gestire un certo numero
di “mutuanti”; voleva inoltre dire aver cura di una comunità di persone,
ciascuna delle quali con esigenze proprie. raggiungendo in quel periodo circa
trecento mutuanti. Quando i suoi mutuanti erano circa millecinquecento, decise
di realizzare un suo sogno: la libera docenza. è autore di numerose opere
d'argomento filosofico-medico. Altre opere: la mutua, medico della mutua,
mutuante, mutuanti, ambulatorio mutualistico. “Scienza medica e giacobinismo in
Italia: l'impresa politico-culturale di Rasori (Collana La società, Milano,
Franco Angeli); Röntgen. Il "fotografo dell'invisibile", lo
scienziato che scoprì i raggi x, Collana Biografie, Milano, Rizzoli); “Gemelli.
Il Machiavelli di Dio, Collana Biografie, Milano, Rizzoli); “Storia della
medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea alla guerra mondiale. Gius.
Laterza et Figli); “Medicina e Sanità in Italia nel Ventesimo secolo. Dalla
'Spagnola' alla 2ª Guerra Mondiale, Roma, Laterza); “La medicina e la sua
storia. Da Carlo V al Re Sole, Collana Osservatorio italiano, Milano, Rizzoli);
“Una dinastia di medici. La saga dei Cavacciuti-Moruzzi, Collana Saggi italiani,
Milano, Rizzoli); Storia della medicina e della Sanità nell'Italia contemporanea,
Roma-Bari, Laterza, G. C. Cristina Cenedella, I vecchi e la cura. Storia del
Pio Albergo Trivulzio, Roma-Bari, Laterza); “La qualità del tuo medico. Per una
filosofia della medicina, Roma-Bari, Laterza); “Medici nella storia d'Italia,
Roma-Bari, Laterza, L'arte lunga. Storia della medicina dall'antichità a oggi,
Roma-Bari, Laterza); “Il medico ciarlatano. Vita inimitabile di un europeo del
Seicento, Laterza); “Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, ciarle, Milano, Cortina,
La Ca' Granda dei milanesi. Storia dell'Ospedale Maggiore, Roma-Bari, Laterza);
“Il mestiere di medico. Storia di una professione, Collana Scienze e Idee, Milano,
Raffaello Cortina); “Introduzione alla medicina, Roma-Bari, Laterza, Biografia
della Ca' Granda. Uomini e idee dell'Ospedale Maggiore di Milano, Laterza, Medicina
e mondo ebraico. Dalla Bibbia al secolo dei ghetti, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza, Il male del secolo. Per una storia del cancro, Roma-Bari,
Laterza); “La stagione di una fine, Terziaria); “Il medico giacobino. La vita e
i tempi di Rasori, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Salute e bioetica,
Torino, Einaudi, G. C. Satolli, Lettera a un medico sulla cura degli uomini,
Roma, Laterza, La vita nelle mani. Storia della chirurgia, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza, Una vita qualunque, viennepierre edizioni, Il medico
materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza «La mia baracca». Storia della fondazione Don Gnocchi,
Presentazione del Cardinale Dionigi Tettamanzi, Laterza); “La peste bianca.
Milano e la lotta antitubercolare, Milano, Franco Angeli); “L'arte lunga.
Storia della medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il romanzo
di un medico, viennepierre edizioni, L'Islam a La Thuile nel Medioevo. Un «tuillèn»
alla terza crociata: andata, ritorno, morte misteriosa, KC Edizioni, Le spade
di Damocle. Paure e malattie nella storia, Collana Storia e Società, Roma-Bari,
Laterza); “La religiosità della medicina. Dall'antichità a oggi, Collana Storia
e Società, Roma-Bari, Laterza); “L'anello di Asclepio. L'età dell'oro”; “La
peste, passato e presente, Milano, Editrice San Raffaele); “La medicina non è
una scienza. Breve storia delle sue scienze di base” (Collana Scienze e Idee, Milano,
Raffaello Cortina); “Il medico saltimbanco. Vita e avventure di Buonafede
Vitali, giramondo instancabile, chimico di talento, istrione di buona creanza”
(Roma-Bari, Laterza); “Prima lezione di medicina, Collana Universale.Prime lezioni,
Roma-Bari, Laterza); “Il medico e il cardinale, Milano, Editrice San Raffaele);
“Testamento biologico. Idee ed esperienze per una morte giusta” (Bologna, Il
Mulino); “Politica per amore” (Milano, Franco Angeli); “Guerra e medicina.
Dall'antichità a oggi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Compassione”
(Bologna, Il Mulino); “La scomparsa del dottore. Storia e cronaca di
un'estinzione, Milano, Raffaello Cortina); “Camillo De Lellis. Il santo dei
malati, Roma-Bari, Laterza); “Il medico delle mummie. Vita e avventure di Bozzi
Granville, Collana Percorsi, Roma-Bari, Laterza); “Como, il lago, la montagna,
NodoLibri); “Tanatologia della vita e stetoscopio. Bichat, Laënnec e la
"nascita della clinica", AlboVersorio,. Medicina e rivoluzione. La
rivoluzione francese della medicina e il nostro tempo” (Collana Scienza e Idee,
Milano, Raffaello Cortina); “Un triennio cruciale. Como, il lago, la montagna,
NodoLibri); “La forza dell'idea. Medici socialisti e compagni di strada a
Milano. L'Ornitorinco, Per una scienza
medica non neutrale. Tre maestri della medicina tra Ottocento e Novecento,
L'Ornitorinco, Medicina Narrata,
Sedizioni); “Galeno e il galenismo. Scienza e idee della salute” (Milano,
Franco Angeli); “La chimica della vita” -- e microscopio. Pasteur e la
microbiologia, AlboVersorio); “Per una scienza medica non neutrale. Tre maestri
della medicina in Italia fra Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco); “Il tempo
della cura. Malati, medici, medicine, NodoLibri); “Elogio della Materia” -- Per
una storia ideologica della medicina, Edra edizioni); “L'Infinito di Leopardi.
Un impossibile congedo” (Sedizioni,. Memorie dal lago e ricordi dal confine.
Como, il lago, la montagna, NodoLibri,
Salute e medicina a Milano. Sette secoli all'avanguardia,
L'Ornitorinco); “La medicina dei papi, Collana Storia e Società, Roma-Bari,
Laterza); “Medici e medicina durante il fascismo” (Pantarei); “Il viaggio di un
ragazzo attraverso il fascismo, Pantarei); Historia cordis, Ass. Beretta,.
Curatele Dizionario di storia della salute, G. Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi,
Roberto Satolli, Collana Saggi, Torino, Einaudi. “mutua gratia” - Practicis nostris, Muri
LAPIDES, sine inscriptione, apud nus, gadinca, vel Hnoc. Non liquet, “don
mutual” – mutual gift -- Chartain Chartul. Hygenum de Limitibus constituendis. inquit Somnerus. (Mutinæ carnes, in Con
thesaur. S. Germ. Prat. fol. 12. rº.: Dicta. mutuum, Exactio nomine mului, Charta
suet. MSS. Eccl. Colon. e Bibl. Eccl. Atre- Ysabellis exhibuit dicto
thesaurario quasdam Rogerii 1. Reg. Sicil. ann. apud Mu bat, eædem quæ vervecinæ.
Vide Multo, litteras mutuæ gratiæ dudum confectas inter ralor. tom. 6. col.
Nulla angaria, par I mutio, id est, Patuus. Vocabul. dictam Ysabellam et
prædictum defunctum angaria, echioma, gabella,Muruum, extorsio utriusque Juris.
dum vivebat, et constante legitimo matrimo- jaciatur, imponatur. Chron.
Parmense ad mutis, Truncus, stirps. Pactum inter nio inter ipsos. aapud eumdem
Humb. dalph. et episc. Gratianopol. ann. “mutuare”, Mutuum, seu exactionem ec
impositum fuit per commune Parma in Reg:. Chartoph. reg.: nomine mutui
impositam solvere. Vide unum mutuum octo millium librarum impe recte tendendo
ad pedem cujusdam margassii mutuum. rialium per episcopatum, et quinque millium
seu claperii in quo margassio seu cleppe. Mutuatim, pro mutuo, in Vita Anti-
per civitatem. Et mutuum clericis fuit im rio sunt duæ mutes arborum. dii
Archiep. Bisonticensis cap. 5: Bene- positum duo millium librarum, etc. Chron.
Åwwvíz, in Gloss. Græc. Lat. dictionis ergo dono mutuatim dato, etc. Mutin.:
Tria Mu [Mirac. S. Bernhardi Episc. tom. 5. Julii (mutuatio, pro mutatio, in
Consuet. tua extorsit.] Historia Cortusiorum lib. 3. p.112, Eoque quippiam
petere volente, MSS. Auscior. art. 3: Fiat autem mutua cap. 14, Teutonici
cruciabant Paduanos verbis in ore reclusis, subito mulus effectus tio consulum
annuatim in festo S. Joan. *mutuis* el daciis. Infra: *mutual* imposuit et est;
qui a plerisque tentatus, an videlicet Baptistæ. datias. Lib. 7. cap. 1:
V'exabantur Muluis astu Muritatem simularet, et tandem certa ex Ital. Mutola,
Muta. Oc- et daliis. Albertinus Mussalus lib. 12. de loquendi impotentia
comprobatur. Occurrit currit in Vita B. Justinæ de Aretio n. 9. Reb. gest.
Italic. pag. 86: Communes da præterea toin. 2.Sanctorum Apr.], Idem quod
Expeditatus, riæ, exactionesque et Mutua publica el priMuronagium. Vide in
Charta Forestæ cap. 9. forte pro múti- vata etc. Charta R. Abbatis Monasterii
Ka Mullo. latus. Locum vide in Mastinus. roffensis in Pictonib. . ex (Ovis,
Massiliensibus Mous, Nudus, glaber. Regesto Philippi Pulcri Regis Franc. Tabu
tonfede. Charta ann. 1390: Quilibet Mu- Gloss. Lat. Græc. MSS. Sangerman. larii
Regii n. 11: Non recipiemus ibi Mu tofeda solvat xvi. denarios. * Castigat. in
utrumque Glossar. forte tuum, nisi gratis mutuare voluerint habitan
Lugdunensibus, Feye. Vide supra Menlulosus, ead'ns, ex Vulc. tes. Ita in
Liberlatib. Novæ Bastidæ in Oc Lex Ripuar. lit. 6o. S 4: Si citania ann. in
alio Regesto ejusdem xudovicv, Malum colo- autem ibidem infra terminationem
aliqua in- Regis ann. n. 16. Vide Credentia, neum. Supplem. Antiquarii et
Gloss. MSS. dicia sua arte, vel butinæ,aut Lat. Græc. Sangerm. Aliud itidem
Gloss.: extiterint, ad sacramentum non admittatur, mutuum coactum* exactio, quæ
a Mutonium, Tepábeuo, Additio. etc. Ubi mutuli, videntur esse aggeres ter-
dominis in urgentibus negotiis suis ac ne 1., quos Motes nostri vocant: aut
forte cessitatibus fiebat super subditos, vassallos, equilatus, quod sic
describit Jovius Hist. lapides ii quosMuros vocant Agrimensores,ac tenentes cum
restitutionis conditione ac lib. 14: Mutpharachæ admirabili virtute i. sine
inscriptione, vice terminorum po- pollicitatione: a qua quidem exactione
præstantes, toto orbe conquisiti, ea condi- siti. Vide Bonna 2. exempta
pleraque oppida, quibus concessæ tione militant, ut quos velint Deos, impune KF
Errat Cangius, si fides Eccardo, libertates, leguntur. Charla libertatum
colant, præsentique tantum Imperatori ope- in Notis ad Legem citatam, quam ad
cal- Aquarum Mortuarum ann. 1246: Omnes ram navent. Hæc post Carolum de Aquino
cem Legis Salicæ edidit. Mútuli enim sunt habitatores loci illius sint liberi
et immunes in Lex. milit. machinaliones clandestinæ, vel seditiones ab omnibus
questis, talliis, et toltis, et clam excitatæ, a veteri German.Meulen, tuo
coucto, et omni ademptu coacto. Con capitis tegumentum, quod monachi cap. |
clandestine agere, unde Meutmacher, Fla- suetudines Monspelienses MSS.: paronem
vocabant. Gall. Christ. tom. 4. bellum seditionis, Gall. Mutin.
Hæc vir Toltam nec quistam, vel Mutuum coactum, col uti. Mutrellis 782:
Statuimus in dormitorio, quod liceat fratribus eruditus; quæ tameninmeam fidem
reci. vel aliquam exactionem coactam non habet;. Vide Mitræ.
necunquam habuit dominus Montispessulani I Vide Morth. I Gall. Mouton. in
hominibus Montispessulani. Eædem ver *, ut supra Muramen. Charta ann. exArchivis Massil.:
naculæ, totas inquistas, ni prest forsat, o Terrear.villæ de Busseul ex Cod.
reg. Item super co quod petebantdicti parerii alcuna action destrecha, etc.
Libertates fol. 47. vº.: Item unum Pariziensem Mut -I quartam partem Murunorum,
astorium et concessæ oppidis Castelli Amorosi et Va CANGII CLOSS. – T. IV. 2. Feda 2.
pere nolim. etc. lentiæ, in diæcesiAginnepsi, ab Edwardo I Eodem significatu,
De S. 6: L. FURPANIO L. Lib. PuILOSTORGO Mr. I. Rege Angliæ
ex Regesto Constabulariæ Juvenate Episc. tom. 1. Maii pag. 399: ROBRECHARIO VIX
ann. LIJTI. Purpuria L. Burdegalensis fol. : Nec recipiemus Episcopus
Narniensis ex suo palatio, ialari L. OLYMPUSA PECIT. in ibi Muruum, nisi
gratis nobis mutuare velint reste indutus, racheto et Muzzeta. Vide Inscript.
Vide Martin Lex. in habitantes. Eadem habent libertales Rio. Mozzetta.
hac voce. magi in Arvernis. vocatur letri rudoris in. Fantasia, miratores. Pa
Mutuum VIOLENTUM, in Charta liberta- quietudo terrena. Ita Apuleius de Muudo.
pias. tum Jasseropis, apud Guicheponum in A Græco nimium púxw, Mugio, reboo. Vide
Ma Histor. Bressensi Roga coacta, in I Piscis
genus, qui alius zer. Charta Ludovici Comitis Blesensis et Cla- videtur ab eo
quem Spelmannus piscem. in Statutis Mon romontens. ann. 1197. pro Creduliensi
viridem vocat. Computus ann. 1425. apud tis Regal. fol. 318: Debeat solvere
emptori villa: Omnes homines Credulio marentes Kennett. in Antiquit. Ambrosden.
pag. gabellæ piscium, solidos quatuor pro quoli taliam mihi debentes, el eorum
hæredes, a 575: Et in 111. copulis viridis piscis... Et bet rubo piscium, et
intelligatur detracta talia, ablatione, impruntato et Roga coacta inxv.
copulisde Myllewellminorissortisx: Myrta et cestis ac funibus. de cælero
penitus quilos et immunes esse sol. vi. d. et in xx. Myllewell majoris sortis Eadem notione, usurpant Cat concedo. Exslat
Statutum Philippi VI. Re- Xit, sol. (* Vide Mulsellus.] lius Aurelianus,
Celsus, et Apicius. Vide gis Frane. 3. Febr. ann. 1343. quo vMoniales, ex Anglo
-Sa- Murta. in posterum fieri ullum Mutuum coactum xop. myn'e'cen'e, vel minicene,
hodie Graviter, com super subditos suos: quod scilicet paulo Anglis Minneken et
minnekenlasse. Copeil. posite ambulare. Chron. Ditm. Mersburz. anie exegisse
docet Diploma anni 1342. Ænbamiense in Anglia: l'episc. tom. 10. Collect.
Histor. Frane. pag. 28. Junii, sed et Philippum Pulerum Re- Episcopi et abbates,
monachi et Mynecenæ, 131: Henricus Dei gratia res inclytus à se. gem aliud ann.
1309. in 12. Regesto Char- canonici et nonne, natoribus duodecim vallatus,
quorum ser tophyl. Reg. Ch. 15. et in 36. Regest. apud Ausonium in rasi barba,alii
prolixa Mystace incedebant Ch. 48. lemmate Epigrammatis. Cantharus po- cum
buculis, etc. Laudatum Philippi VI. Statutum torius Scaligero, qui a similitudine
muris I Sacerdotum præposi frustra quæsitum in Regestis publicis testa- et
barbæ, quæ in conum desinit, Myobar- tus; titulus honorarius Archiep. Toletani,
tur D. de Lauriere tom. 2. Ordinat. Reg. bum voce ibrida dietum existimat.
Turne- ex Hierolex. Macri. Franc. prg. 234. Undeexistimat D. Cangium bus vero
Advers. lib. 3. cap. 19. putat ver- lapsum memoria art. 4. et 5. Statuti ejusd.
| bum compositum mure et barbo, quod |, Mysteriorum per. Regis . non3.
Febr.spectasse, mensuram, liquidorum sescunciam penitus, vel princeps. Prudent.
Peristeph. 2. quo vetat Philippus Rex in posterum a dentem sonat, ut sit
tamquam muris cya- 349: Bene est, quod ipse ex omnibus My subditis suis exigi
equos, currus, ele. nisi thus. Quidam le; emendat
Lil. Gyraldus Epist, *mutuum violatum*
Exactio nomine xobarbaru, quod non placet. Vide Cupe. Zachariæ PP. ann.748.
tom. 1. Rer. Mo *mutui*, quæ a subditis exigitur. Charta rum in
Harpocrate pag. 78. gunt. pag. 255, Officium, sacra Li mutuum violatum, velmessionem
bajuli vel turgia. Pelagius Episcop. Ovetensis in Fer servientum. [ Leg.
Violentum ut, supra.) ctum... Si autem Myocepha aur ypopius fuerit,dinando Rege
Hispan.: Tunc Alfonsus Rez mutuum ebraldum. Charta Henrici Co- post inunctionem
ligabis oculos aut linteo in velociter Romam nuntios misi ad Papam mitis
Portugalliæ tom. 3. Monarchiæ Lusi- aqua infuso frigida, aut spongia in ipsa
Aldebrandum cognomento septimus Grego tanæ p.282, Non introducam *mutuum* aqua
infusa. rius. Ideo hoc fecit, quia Romanum Vyste Ebraldum Colimbriam. 9piratici
genus arium habere voluit in omni Regno. Infra: mutuum,
stipendium datum in ante-, ut placet Tur Confirmarit itaque Romanum Mysterium
in cessum. Lit. ann. 1408. tom. 9. Ordinat. nebo lib. 3. Adversar. cap. 1.
nomen omne regnum Regis Adefonsi æra 1113. (Chr. reg. Franc.: Ordinamus adepti.
Melius Scaliger, a forma qevūves, 1088. ) per senescallos, receptores,
thesaurarios,... hoc est, angusta et oblonga, dictum ira- Missæ sacrifi tum
nobilibus quam innobilibus, cum ex dit. cium. Acta S. Gratil. tom. 3. Aug. pag.
parte nostra mandati fuerint ut ad guerras Hist. Franc. Sfortiæ ad ann. col. 2:
Indutus est (Gratilianus) ve nostras accedant, *mutuum* fieri priusquam apud
Murator. tom. 31. Script.
Ital.col.stimentis a. Wikipedia Ricerca Sinestesia (psicologia) fenomeno
sensoriale/percettivo Lingua Segui Modifica Avvertenza Le informazioni
riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I
contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico:
leggi le avvertenze. La sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica
una "contaminazione" dei sensi nella percezione. Il fenomeno
neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni provenienti da una
via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze, automatiche e
involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo.[2]
Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di una persona soggetta al
fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del fenomenoModifica Con il
termine "sinestesia" si fa riferimento a quelle situazioni in cui una
stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi
sensoriali distinti ma conviventi.[1] Nella sua forma più blanda è
presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che i nostri sensi, pur
essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto distaccata dagli
altri. Più indicativo di un'effettiva presenza di sinestesia è il caso in
cui il percepire uno stimolo (come ad esempio il suono) provoca una reazione
netta e propria di un altro senso (ad esempio la vista). Per "forma
pura" si intende la sinestesia che si manifesta automaticamente come
fenomeno percettivo e non cognitivo. Il fenomeno è involontario, ma una
maggiore attenzione prestata dal soggetto può evocarlo con maggiore
consapevolezza, al punto che il sinestesico puro, vedendo i suoni e sentendo i
colori, può riuscire a trarre vantaggio da queste contaminazioni sensoriali; un
compositore che sfruttava questa sua capacità fu Olivier Messiaen, così come il
pittore Vasilij Vasil'evič Kandinskij, che affermava di poter sentire la voce dei
colori, che per lui erano suoni, entità vive e lo spiega bene nel suo libro Lo
spirituale nell’arte. Un altro sinestesico fu il pittore e musicista lituano,
Mikalojus Konstantinas Čiurlionis. Il compositore russo Aleksandr Nikolaevič
Skrjabin era particolarmente interessato agli effetti psicologici sul pubblico
quando sperimentavano suoni e colori contemporaneamente. La sua teoria era che
quando si percepiva il colore giusto con il suono corretto, si creava "un
potente risonatore psicologico per l'ascoltatore". La sua opera
sinestetica più famosa, che viene eseguita ancora oggi, è Prometeo: il poema
del fuoco [1]. Ma la lista degli artisti sinestesici è molto lunga, infatti le
ultime ricerche affermano che il fenomeno sinestesico interessi il 4% della
popolazione e di questo 4% la maggior parte sono artisti. Un'altra
caratteristica della sinestesia è poi che si presenta a volte nelle persone
mancine, o in concomitanza con altre caratteristiche come l'allochiria
(confusione della mano destra con la sinistra), scarso senso dell'orientamento,
dislessia, deficit dell'attenzione e, raramente, autismo. Spesso la
contaminazione sensoriale avviene a direzione unica: ad esempio, se vedo una
nota musicale come un colore, non è detto che vedendo quel colore la mia mente
evochi quella nota. Questa è una delle caratteristiche della sinestesia
percettiva, l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo Paratico il mancino
Leonardo Da Vinci era affetto da sinestesia.[3] Esperienze di tipo
sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale, mediante l'uso di
sostanze allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD, esperienze di
deprivazione sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di malattie che
colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è detta
pseudosinestesia, in quanto è indotta o non presente dalla nascita. La
sinestesia acquisita sembra riguardare solo le forme di sinestesia percettiva,
e non sono stati documentati casi di sinestesia concettuale acquisita. Le
persone che hanno esperienze sinestesiche nella "forma pura" sono un
numero relativamente ridotto. Studi recenti hanno mostrato una certa
variabilità: 1 ogni 2000 1 ogni 200 Queste esperienze sono quotidiane ed
iniziano sin dall'infanzia. Molti sinestesici si sorprendono scoprendo che
questa esperienza non è provata da tutte le persone. L'esperienza
sinestetica è composta da due elementi: L'evento induttore (inducer).
L'evento concorrente (concurrent). Per esempio, può accadere che un sinestesico
descriva il suono (inducer) del proprio bambino che piange come un colore
giallo sgradevole (concurrent). La relazione tra un inducer e un concurrent è
sistematica, nel senso che a ogni inducer corrisponde un preciso
concurrent. Grossenbacher et Lovelace, distinguono due tipi di sinestesia
a seconda che l'inducer sia percettivoo concettuale. Sinestesia
percettiva: l'inducer è uno stimolo percettivo (per es. la vista di lettere
produce anche la vista di colori "collegati"). Sinestesia
concettuale: i concurrent sono prodotti dal pensare a un particolare concetto
(per es: numero, mese dell'anno, posizione nello spazio). Si utilizza
intensivamente la sinestesia anche nella terminologia utilizzata nella
degustazione o nell'analisi sensoriale. Basi genetiche della
sinestesia Purtroppo con le competenze scientifiche attuali non è possibile
identificare singoli loci genici che determinino con certezza questo fenomeno
neurocognitivo. Il fenomeno è più probabilmente dovuto a un complesso
meccanismo neurale e non a singole proteine codificate da parti di genoma. In
ogni caso interessanti esperimenti di neuroimaging paiono confermare tale
fenomeno. Sinestesia: grafema-coloreModificaRamachandran e i suoi collaboratori
hanno notato che la forma più comune di sinestesia è quella grafema(lettera,
numero) - colore e infatti i rispettivi centri cerebrali sono molto vicini tra
loro. Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza magnetica funzionale) hanno
permesso di individuare il "centro del colore" (es. Zeki et Marini,
Brain), l'area V4 nel giro fusiforme. L'area dei grafemi è stata
anch'essa individuata nel giro fusiforme, in particolare nell'emisfero sinistro
vicino all'area V4. L'area si attiva sia in seguito alla presentazione di
lettere sia in seguito alla presentazione di numeri. L'ipotesi di Ramachandran
è che ci sia una attivazione congiunta. La presentazione di un grafema fa
attivare l'area dei grafemi, che fa attivare contemporaneamente anche l'area
del colore, anche senza la presenza di uno stimolo. Questo è dovuto ad un
eccesso di connessioni tra le due aree, non presente in tutte le persone.
Le connessioni che si hanno alla nascita sono un numero superiore di quello che
si trovano in un cervello adulto. Quello che avviene nei primi mesi di vita è
un processo definito pruning (potatura, sfoltimento) delle connessioni
cerebrali. L'ipotesi di Ramachandran è che le connessioni tra area del colore e
area dei grafemi, che normalmente subiscono un processo di pruning, rimangono
invece intatte nei sinestesici. Probabilmente per una mutazione genetica che fa
fallire il processo di pruning. Esisteranno delle regole che in seguito
all'esperienza permetteranno di sviluppare connessioni particolari tra area dei
grafemi e area del colore. Questo spiegherebbe perché ad un grafema viene
sempre associato un certo colore. Ramachandran ipotizza che l'attivazione
del giro fusiforme non implichi un arrivo alla coscienza delle informazioni.
Perché sia possibile essere consapevoli dell'informazione percepita si dovranno
attivare altre aree superiori. Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la
sinestesia non sia dovuta alla presenza di un numero maggiore di connessioni
neurali (le quali non sarebbero presenti nei non sinestesici); infatti, secondo
lo studioso tale fenomeno percettivo è imputabile al fatto che, nel cervello
dei sinestesici, alcune connessioni neurali risultano ancora attive, mentre non
vengono più "utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di
percepire. Questo spiegherebbe il motivo per cui chi assume droghe psicoattive
sia in grado di esperire una condizione di "pseudo-sinestesia",
circoscritta esclusivamente al limite temporale in cui tali sostanze
dispieghino il loro effetto, per poi tornare a non percepire sinestesicamente
una volta terminato quest'ultimo. Secondo Grossenbacher è molto improbabile,
infatti, che si siano create nuove connessioni neurali durante l'assunzione di
tali droghe; piuttosto, risulta più probabile che vengano percorse
"strade" neurali solitamente "disattive". Influenza
dell'attenzione sulla percezioneModifica Esperimento di Ramachandran e Hubbard:
caso della figura gerarchica (un 5 composto da tanti 3), se ai soggetti veniva
chiesto di fare attenzione a livello globale vedevano il colore rosso, se
invece dovevano dirigere la loro attenzione a livello locale (3) vedevano verde.
Questo esperimento porta a concludere che l'attenzione influenza il
manifestarsi del fenomeno sinestesico. Sinestesici projector Nel caso di grafema-colore, il colore è visto
come una pellicola che ricopre il numero completamente. Un sinestesico testato
da Dixon, riferiva di provare un'esperienza irritante se il numero era di un
colore incongruente con quello del fotismo (l'effetto della sua sinestesia). Se
per esempio il numero 5 gli evocava il colore rosso, ma in realtà era scritto
con il giallo. Sinestesici associatorModifica Sempre nel caso di
grafema-colore, il colore appare nella mente, e non sopra il numero. In genere,
i sinestesici associator riferiscono che l'esperienza di vedere un numero con
un colore non congruente con quello del fotismo, non è un'esperienza per nulla
disturbante. La percezione del colore "reale" del numero è
un'esperienza molto più intensa del fotismo, per un sinestesico
associator. I sinestesici projector sembrano una minoranza rispetto ai
sinestesici associator (11 su 100, tra quelli intervistati da Dixon e
collaboratori). Tra i maggiori studiosi della sinestesia percettiva,
Richard Cytowic, Ramachandran, E. Hubbard, Sean Day, Bulat Galeyev, Irina
Vaneckina. Rapporto con i canali del calcioModifica Studiando nel
moscerino della frutta un gene coinvolto nell'elaborazione del dolore, alcuni
ricercatori hanno creato il primo modello della sinestesia. Con la tecnica
dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni quali candidati a interessare
possibili geni del dolore. Il primo ad essere analizzato più in dettaglio è
stato quello che codifichi parte di un canale del calcio noto come α2δ3. Questi
canali che regolano il passaggio di Ca2+ attraverso la membrana cellulare sono
fondamentali per l'eccitabilità elettrica dei neuroni. Con questi canali
interferiscono diversi antidolorifici. Nei topi carenti di α2δ3 si è
dimostrato che questo gene controlli la sensibilità al dolore provocato dal
calore sia nella Drosophila sia nei mammiferi. Indagini condotte con la MRI
hanno anche rivelato che α2δ3 partecipi all'elaborazione del dolore termico a
livello cerebrale. In assenza di α2δ3 il segnale del dolore a genesi termica
arriva al talamo, ma poi non prosegue verso i suoi centri corticali superiori.
Le immagini di fMRI mostrano piuttosto un'attivazione crociata delle aree
corticali per la visione, l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si osserva
anche quando lo stimolo doloroso sia di natura tattile. Emozioni colorate | Le
Scienze, su lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon
Baron-Cohen (1996). Synaesthesia: classic and contemporary readings.
Oxford: Blackwell Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy, Lascar
Publishing, lascarpublishing.com/Leonardo in Internet Archive. ^ Baron- Cohen,
Ramachandran et Hubbard, Neurocognitive mechanism of synesthesia" Edward
M. Hubbard1 and V.S. Ramachandran, Neurocognitive mechanism of synesthesia, su
cell.com, November 3, 2005. URL consultato il libero. ^ percezione e
idee, la sinestesia | PsycHomer, su psychomer. Le Scienze: Non provo dolore, ma ne sento l'odore e ascolto le note
BibliografiaModifica Córdoba M.J. de, Hubbard E.M., Riccò D., Day S.A., III
Congreso Internacional de Sinestesia, Ciencia y Arte, Parque de las Ciencias de
Granada, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Edición Digital
interactiva, Imprenta del Carmen. Granada. Córdoba M.J. de, Riccò D. (et al.),
Sinestesia. Los fundamentos teóricos, artísticos y científicos, Ediciones
Fundación Internacional Artecittà, Granada. Cytowic, R.E.,
Synesthesia: A Union of The Senses, second edition, MIT Press, Cambridge,
Cytowic, R.E., The Man Who Tasted Shapes, Cambridge, MIT Press, Massachusetts,
Marks L.E., The Unity of the Senses. Interrelations among the modalities,
Academic Press, New York Riccò, Sinestesie per il design. Le interazioni
sensoriali nell'epoca dei multimedia, Etas, Milano, Riccò D., Sentire il
design. Sinestesie nel progetto di comunicazione, Carocci, Roma, 2Tornitore T.,
Storia delle sinestesie. Le origini dell'audizione colorata, Genova, 1986.
Tornitore T., Scambi di sensi. Preistoria delle sinestesie, Centro Scientifico
Torinese, Torino, Voci correlate Takete e Maluma Sinestesia tattile-speculare. «sinestesia»
Udire i colori, gustare le forme, su lescienze.espresso.repubblica.it, Le
Scienze. TED Talk: "I listen to color" Portale Psicologia: accedi
alle voci di che trattano di psicologia Qualia aspetti qualitativi delle
esperienze coscienti Locus ceruleus Sinestesia tattile-speculare raro
fenomeno sensoriale/percettivo Wikipedia Il contenutoGrice: “The grammar
of ‘mutuality’ can be extraordinarily complicated. But I’m sure Schiffer’s ‘A and B mutually know that p’ doesn’t make
sense as an analysandum.” Grice: “You can trade (L mutate both ways) or exchange
*information* -- The grammar is: A and B are in love – implicated: ‘mutual’
-- A and B are friends – implicated:
mutual. Dickens, who never attended Oxford, would never catch the subtlety of
his biggest solecism, “Our mutual friend”! – Grice: “But I’m surprised from
Schiffer, who did attend the varsity!” -- Giorgio Cosmacini. Cosmacini. Keywords:
compassione, salute, mens sana in corpore sano, storia della medicina,
Foucault, l’anello di Asclepio, la medicina nella Roma antica, giacobinismo,
fascismo, giacobinismo in Italia, medici fascisti, medicina fascista, la
medicina non e una scienza, tanatologia, bio-chemica, la chemical della vita,
bio-chemistry –Grice on life, the philosophy of life, cooperation and
compassion. Imperativo conversazionale, compassione
conversazionale, imperative della mutualita conversazionale – mutualita
conversazionale – imperative of conversational mutuality, mutuality, mutual,
the depth grammar of mutuality – Grice against Schiffer – Grice scared by
‘mutual knowledge’ – and using it in scare quotes (“Such monsters as Schiffer’s
‘mutual knowledge’ have been proposed to replace my regress when there’s
nothing wrong with stopping it elsewise!” Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cosmacini” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Cosmi: all’isola-- la ragione conversazionale el’implicatura
conversazionale dei discorsi: corsi e ricorsi -- metodo dei principi generali
del discorso – scuola di Casteltermini – filosofia girgentina – filosofia
siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Casteltermini). Filosofo girgentino. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Casteltermini,
Gigenti, Sicilia. Grice: “I love Cosmi – for one he uses the very exact phrase
I do, ‘the general principles of discourse,’ and he also finds them to have a
rational (‘razionale’) basis – they involve those desiderata for helpful
communication, a co-operative principle – concerning most constraints I refer
to: the necessity to avoid superfluity (supperfluita) and to maximize clarity
(chiarezza) – so that’s genial!” – Grice: “Cosmi actually has two treatise, a
more theoretical one, “General principles of discourse,” and an applied tract,
“Metodo’ – of the “general principles of discourse’ – he had already elaborated
on all the figures of rhetoric, so he knew what he was talking about and where
he was leading --.” Grice: “The fact that he like me also loved Locke – and
perhaps was more of a ‘sensista’ than I am, makes him great, too!” Fu
un'imponente filosofo, no italiano, ma siciliano (Grice: “Sicily is not
considered part of the ‘peninsola italiana’). Formatosi nel Seminario dei
Chierici di Agrigento, ricopre la carica di rettore a Catania. Riceve dal re Ferdinando
l'incarico di redigere il piano regolatore della filosofia siciliana. Da un
rilevante contributo all'innovazione del illuministimo. Fu un grande filosofo,
il primo e il più geniale del regno meridionale e uno dei primi e più geniali
del Settecento italiano. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Principi
generali del discorso, e della ortografia italiana ad uso delle regie scuole
normali di Sicilia by C., edition published in Italian and held by 2 WorldCat
member libraries worldwide. E primo forne il D2 Cosmi. Questo e un aureo
libretto dei "Principi generali del discorso" – i. e. un principio
comune a ogni discorso. Questo affinchè il filosofo a una nozione direttrice,
non superflue. In questo trattato invano cercheresti quella immensa farragine
di precetti disordinati, e quelle infinite minuterie non necessarie, con cui si
sostitoleva confondere e stancare la prattica conversazionale del giovanetto.
Si spone un solo principio generale e fondamentale, sintetizzato nell'antico ma
verissimo motto: precetto uno. Il resto e uso. Questa mia preziosa filosofia è
un sapientissimo essamine pel filosofo che vuole adoperare il "metodo
conversazionale." Quivi si ricorda dapprimà quanto in occasione di
filosofare sulla maniera di dare la prima istruzione conversazionale al
ragazzo, in caso la necessita. Si ricorda come puo potè attuare la mia
prammatica conversazionale, mettendo in esecuzione un maniobra chiara, spedita,
uniforme per ogni topico conversazionale adattata alla maniera del civil
conversare -- è cosa necessaria il sapere la semantica e le implicature
conversazionale del volgare linguaggio. Il pirincipio della conversazionale e
un principio di chiarezza (perspicuita) -- e un principio di aggiustatezza
(approprio_ -- e un principio di mezzana eleganza (stilo estetico), e un
principio senza oscurità, e un principio con univoci e senza cattive equivoci
(un buon aequi-voce e accettable)– sensa non sunt multiplicanda praeter necessitatem
--, e un principio senza superfluità (economia dello sforzo conversazionale,
fortitudine conversazionale, candore conversazionale -- e un principio senza
barbarismi -- imperciochè la perfezione e efficenza del volgare linguaggio
guidato dalla semantica formale e il segno del reale. E vuole che al giovane si
da un principio generale e fondamentale -- e un principio generale della
conversazione, esposto con metodo ragionabile e calculable e con chiarezza. Un
solo principio o imperativo categorico, un principio di efficenza communicative
-- un principio soggetto il meno che si può all'eccezione o la violazione
involuntaria si non a la splotazione retorica -- e un principio stesso ben
capito e ben esercitato, chi forma il corpo di ogni parte della filosofia.
Ebbe un giorno a scrivere di CICERONE, che questo ingegno eminente prende a
gradi la sua maturità e si perfezionava coll’uso, colla riflessione e col
maneggio dei grandi affair. Or quello che osservo su Cicerone, intervenne
proprio me medesimo, i cui Elementi di filologia, non prometto continuazione;
ma osservazioni su l'uso dei Principj del Discorso, e qualche riflessione su i
primi pensieri, da cui era partito nell'immaginar il mio metodo, gli
somministrarono la materia di un secondo, e anche di un terzo volume di
preziose nozioni di metodica prammatica. Il secondo volume e come il primo, è diviso in due parti.
La prima parte ha per titolo, “PRINCIPJ GENERALI DEL DISCORSO applicati alla
lingua volgare”, per la quale avverto che, sebbene nelle parti già pubblicate
dei “Principj generalie del discorso” siesi detto ciò che basta per
l'istruzione della prima età; la sperienza mi ha fatto conoscere, che,
volendosi col metodo intrapreso tirare innanzi il cammino, per la piena
intelligenza, 1 C., Elem. di filol. ecc.,
Elem. di filol, ital. e latina, tomo II, Palermo; pag. III
ed imitazione dei classici principalmente italiani, era necessario ad
entrare in qualche più esteso rischiarimento, *non per multiplicare
l’imperativo conversazionale, ma per agevolarne l'uso, senza di cui inutili
sempre la massima conversazionale universalisable si rimarranno. Dietro di che,
in cinque paragrafi, filosofo, con la solita competenza, “Del Pronome in
generale”, “Del Pro-nome ed dell’Articolo”; “Del pronomi e del verbo che ne
dipendono; Della Preposizione, detta “segnacasi”, e “Della Costruzione
irregolare”. I quali cinque paragrafi, con la giunta delle prime due parti dei
PRINCIPJ GENERALI DEL DISCORSO --
PRINCIPIO GENERALE DEL DISCORSO -- già stampati a riprese. Egli fece riunire in
separato volumetto per uso degli scolari 3 Io non mi stancherei, dirò
col Blasi, di riportare varie altre
sentenze, che oggi pajono roba fresca, e pure da presso a un secolo il nostro
l'aveva annunziato con tanta chiarezza da farla scorgere anco ai ciechi; ed è
per tanto che riferisco qualche altro criterio, che dovrebbe aver nell'animo e
nella coscienza ognuno, che si dà all'educazione specialmente elementare:
Invece di sorprendere, cosi il C., l'età fanciullesca coll' apparenza dottrinale
di parole incognite, ingegnerassi il maestro a far vedere, che ciò che
s'insegna di nuovo, è presso a poco quanto sapeva il fanciullo o quanto avrebbe
potuto agevolmente sapere con un poco di riflessione 5. Anzi che ad un
giuoco di memoria desiderava che lo studio fosse diretto allo sviluppo
dell'intendimento; inculcava lo studio dell' aritmetica fatto a norma delle
regole predette, e indi tornava a ribadire che: Per mantenere sempre
desta l'attività nella mente degli allievi, è di somma importanza il non
sgomentarli giammai coll'apparenza di gravi difficoltà nelle operazioni che
loro si propongono; anzi colla frequenza degli esempi il far loro osservare,
che avrebbero da se sciolto le domande, se avessero fatto riflessione alle cose
sa pute 6. E poi seguiva cosi: Che se alle volte occorrerà di
dovere insegnare delle cose difficili, allora il maestro procurerà di scemare
la difficoltà colla curiosità della ricerca, perchè il piacere della scoverta
l'incoraggisca al tedio dell'operazione. Ma qualora la curiosità non è
infiammata, il fanciullo non sente altro che la fatica, e la fatica sola da se
ributta 7. Poi chiedeva a se stesso: É necessario il rappresentare
al naturale lo stato presente della educazione ncstra letteraria? Lo farò con
coraggio. Si è caricata la nostra memoria; perciò è rimasto senza energia e
senza originalità l'intelletto. La nostra filosofia, in vece C.,
Metodo dei principj generali del Discorso, Palermo, Metodo cit., BLABI, Note
storiche di G. A. De C.; Palermo, Cosmi, Metodo ecc., d'essere l'arte di
pensare, è stata l'arte di parlare di ciò che non s'intende; la nostra rettɔrica,
l'arte di csaggerare con parole, e di parlare a controsen 30. Gran servigio,
gran servigio, ridico, si presta al pubblico da chi indirizza per la strada
regia del sipere la presente gioventù, da chi coltiva la loro ragione e il loro
cuore. Era tempo oramai di aprirsi a tutti la strada alla coltura delle
scienze e delle arti; di venire nella comune estimazione le cognizioni
realmente utili all'umanità, di siudiarsi la Natura nei suoi varj regni e nel
suo vero prospetto. Era già il tempo ce la pubblica e la privata utilità
fossero rico 103ciute ch.n: la misar di calcolare l'importanza delle
cognizioni; che la Religione s'impari nella sua storia, nei suoi Dogmi, nella
sua Morale, mi senza il pru:ito della costroversia; che nelle lingue doite si
cerchi il gusto, ma senza pedanteria; che le matematiche, e l'analisi ci
servano di guida nelle cognizioni astratte; che nelle scienze naturali si
cerchino i mezzi per accrescere, o conservare la sanità dei nostri corpi, o per
influire ne la ricchezza nazionale, coltivando e migliorando i prodotti
dell'arte e della natura; e che finalmente la volgare e popolare lingua, vero
termometro della coltura nazionale, si perfezioni; che non pud perfezionarsi,
senza che si eserciti la ragione nello stesso tempo '. [ocr errors]
IV. A questa stupenda Direzione pei maestri, il De Cosmi unì la prima
parte dei Principj Generali del Discor30, che già aveva stampato a solo sin.
dal 1790; cui fece seguire ora dalla parte secondo, che delle proposizioni, dei
verbi, dei pronomi, delle congiunzioni s'intertiene, chiudendola con alcune
regole primarie ad illustrazione delle altre, messe in fine della prima parte;
e terminando l'aureo librettino con un capitolo sulla Scelta dei libri
necessari allo studio della lingua italiana; dove vuole che siano preferiti i
libri del Trecento; additando per libro di prima lettura il Fiore di virtù o il
Volgarizzamento dei Gradi di S. Girolamo, 'od anche gli Ammaestra. minti degli
antichi di frate Bartolomeo da San Concordio; e per la seconda classe, il
Trattato del Governo della famiglia di Agnolo Pandolfini 5. A sintesi di
tutto il libretto il De Cosmi conchiude così: Ciò che i maestri debbono
inculcar continuamente alle tenere orecchie degli scolari sarà la necessità
delle regole e dell'uso; perchè l'uso e le regole sono i veri arbitri di ogni
lingua. Nulla contro le regole, nissuna parola fuori dell'uso",
Questo pregevole volumetto incontrò l'applauso di tutti i letterati; e un di
essi, che si volle occultare sotto le iniziali 0. G. R. P., ne fece una
bellissima ed estesa rivista nelle Notizie Letterarie di Cesena Cosmi, Metodo
ecc. L'articolo dell' O. G. R. P. venne riprodotto da Angelo nelle Memorie per
servire alla Storia letteraria di Sicilia; Ms. della Biblioteca Comunale C..
Discorso concetto filosofico Un discorso è una modalità di
comunicazionelinguistica mediante cui si parla o scrive. La definizione del
termine varia a seconda dei campi di applicazione (antropologia, etnografia,
cultura, letteratura, filosofia, ecc.).
In semantica e analisi del discorso è una generalizzazione del concetto
di comunicazione all'interno di tutti i contesti. Nel campo dei codici è la
totalità del linguaggio utilizzato (vocabolario) in un determinato settore di
pratica sociale o ricerca intellettuale (es: discorso giuridico, discorso
religioso, discorso medico, ecc.). Michel Foucault ha definito il discorso come
"un ensemble de séquences de signes" (un insieme di sequenze di
segni).[1] Per quanto riguarda il campo delle scienze sociali e delle scienze
umanistiche, il termine ha rilevanza riguardo a un pensiero che si può
esprimere mediante il linguaggio. Il
discorso si differenzia dall'enunciato e dalla dichiarazione. Il discorso,
infatti, può rappresentare la manifestazione di un pensiero individuale
relativamente o meno a un determinato argomento; la dichiarazione invece
consiste in un atto ufficiale di solito è preparato e coinvolto in
documentazioni. Con il termine discorso
si identifica anche l'esposizione pronunciata in pubblico relativamente a un
argomento o materia (discorso inaugurale, discorso commemorativo, ecc.). Foucault, L'archéologie du savoir, Parigi,
Gallimard, 1969, p. 141. Voci correlateModifica Parti del discorso Parresia
Discorso diretto Discorso indiretto Frase Autore Dialettica Retorica Monologo
Dialogo «discorso» Portale
Antropologia Portale Filosofia Portale Linguistica Portale Sociologia Pregiudizio
Strutturalismo (filosofia) movimento filosofico
Le parole e le cose Libro di Michel Foucault. Grice: “I call it ‘principle’ not ‘principles’ – or at least I did in my
first William James lecture: ‘some general principle of discourse’ – I later
found out that Aristotle is right: ‘arkhe’ is best used in the singular!.Grice:
“So MY principle is ‘be cooperative’ – principle of conversational helpfulness
--. Maxims are not as important as
‘principle’ is – as Kant would agree!” Cosmi. Giovanni Agostino De Cosmi.
Giovanni Cosmi. R Cosmi. Keywords: metodo dei principi generali del discorso,
discorso, discursus, principle versus principle – principio, principii -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmi” –
The Swimming-Pool Library. Cosmi.
Luigi Speranza -- Grice e Cosottini:
la ragione conversazionale el’implicatura
conversazionale di MELOPEA – scuola di Figline Valdarno – filosofia fiorentina
– filosofia toscana -- filosofia italiana –Luigi Speranza (Figline
Valdarno). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Figline
Valdarno, Firenze, Toscana. Grice: “Cosotini considers
‘Home, sweet home,’ in terms of linearity – surely Miss X can ‘improve’ on the
score! Especially if she did visit Payne’s little cottage by the sea – in Easthampton,
and shed a tear!”. Si laurea a Firenze con “Fenomenologia”. Fonda GRIM,
Gruppo per la Reserccia dell’Improvisazione Musicale. GRICE Gruppo por la
research dell’Improvisazione conversazione espressiva. Insegna Improvvisazione
Musicale. Le Fanfole, canzoni composte su testi del poemetto meta-semantico di
Fosco Maraini Gnosi delle Fanfole. Linearità e
Nonlinearita in semiotica – sintagma lineare, sintagma soprasegmentale – the
volume of a sound – a ‘natural’ expression of pain – the higher the volume, the
higher the pine --. Grice on stress, intonation and implicature. I KNOW it. I
KNOW it (you don’t have to tell me). SMITH paid the bill. Due
conversazionaliste si muovono pacatamente per le loro vie, variando direzioni e
anche versi, ascoltandosi sempre, ma con dialoghi liberi e mai serrati. “La
musica dei matti” creazione dialogica di suoni del tutto libera e interamente
legata all'istante, tale da produrre mozzione conversazionale dallo sviluppo verticale.
Improvvisare la verità. Il concetto di ‘improvvisare’ improvissato – cf.
English ‘improved’. Improvisation – improvised. Musica e Filosofia. Realizza la
partitura grafica Dettagliper tre esecutori, che consiste di una mappa e
ottantuno carte con segni grafici codificati (la mappa e le carte sono i
“veicoli” e il modo in cui si legge la grafia genera molteplici possibilità di
implicature. “wordless novel”. I suoi studi si concentrano sulla filosofia
della musica e sull’improvvisazione musicale, scrivendo numerosi saggi per
riviste specializzate come Musica Domani, Perspectives of New Music, Aisthesis,
Musicheria e la rivista online De Musica. Inoltre pubblica un saggio sul silenzio e
sulle sue potenzialità performative. Metodologia dell'Improvvisazione Musicale.
Tra Linearità e Nonlinearità, un libro di metodologia dell’improvvisazione
musicale nel quale Cosottini teorizza la dicotomia tra Linearità e Nonlineairtà
come strumento per l’analisi dell’improvvisazione musicale. Non-linearita
EDT, il silenzio in contesto non lineare, Filosofia della Musica.
Non-linearità. Metodi non lineari. EDT
Non linearità. EDT Ascolto creativo e scrittura creativa di un’improvvisazione
musicale. Metodologia dell’improvvisazione musicale. Tra Linearità e
Nonlinearità Edizioni ETS, L’estetica dell’improvvisazione tra suono e silenzio
in Musica Domani, improvisation-research-center--musica-e-filosofia. Do You
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significati, vedi Palazzo Bardi (disambigua). Palazzo Bardi Palazzo
busini-bardi 11.JPG Esterno del Palazzo Bardi Localizzazione StatoItalia Italia
RegioneToscana LocalitàFirenze Indirizzovia de' Benci 5 Coordinate 43°46′02.99″N
11°15′32.75″E Informazioni generali CondizioniIn uso CostruzioneXV secolo
Realizzazione Committentebanchieri Busini Il palazzo Bardi o
Busini-Bardi-Serzelli si trova in via de' Benci 5 a Firenze.
Palazzo Bardi, il cortile attribuito a Brunelleschi StoriaModifica Fu
costruito su preesistenze negli anni Trenta del XV secolo per conto della
famiglia di banchieri Busini, su disegno forse di Filippo Brunelleschi: è
quindi evidente la sua grande importanza nel testimoniare, circa quindici anni
prima della costruzione di palazzo Medicidi via Larga ad opera di Michelozzo,
il definirsi della tipologia del palazzo rinascimentale, con cortile centrale,
in un momento di significativa crescita urbana promossa dai ceti dirigenti del
tempo. Giovanni de' Bardi (della linea di Gualtiero, non di quella di
Piero, esiliata nel 1343) acquistò il palazzo nel 1482: la famiglia già nel
secolo precedente aveva significative proprietà di là dal ponte. Agnolo de'
Bardi, nipote di Giovanni, fece fare dei lavori di ammodernamenti al palazzo,
forse con il concorso di Giuliano da Maiano, ma non ne venne modificato
l'assetto generale. Furono chiuse le grandi aperture sul fronte che davano
accesso a vari locali adibiti a botteghe (una successione di fornici è ancora
apprezzabile su via Malenchini e due permangono su via de' Vagellai). Da
sottolineare come i lavori, pur giungendo ad esiti formalmente diversi, si
sviluppassero in parallelo con quelli dell'antistante palazzo Corsi, ugualmente
volti a convertire la più antica struttura medievale in un palazzo adeguato
alla nuova concezione rinascimentale. Preesistenze sul lato sud in
via Malenchini Verso la fine del XVI secolo, come ricorda una lapide sulla
facciata, si riuniva in questo palazzo una comitivadi letterati, artisti e
musicisti, conosciuta sotto il nome di Camerata fiorentina di casa Bardi,
istituita dapprima allo scopo di risuscitare l'antico teatro greco e che più
tardi si occupò del melodramma teatrale, tanto che qui si eseguì per la prima
volta il canto dantesco del conte Ugolino, messo in musica da Vincenzo Galilei
e si eseguirono le Nuove Musiche di Giulio Caccini. Più tardi la Camerata
divenne Accademia, trasferendosi nell'odierno palazzo Corsi-Tornabuoni in via
Tornabuoni. Il palazzo fu abitato dai Bardi fino all'estinzione del ramo
familiare a inizio dell'Ottocento, per poi passare ai Bardi Serzelli, che
l'hanno abitato fino al 1954, anno della morte del conte Alberto.
Successivamente affittato alla Provincia di Firenze, è stato da questa scelto
negli anni settanta per ospitare il III Liceo Scientifico statale. Ha subito il
rifacimento degli intonaci sul fronte di via Malenchini. A partire dal 1990
circa, oramai liberato dalla presenza della scuola e acquistato da una società
immobiliare, è stato interessato da un complesso cantiere finalizzato al
recupero della fabbrica e alla suddivisione in appartamenti dei grandi ambienti
interni, conclusosi nel 2007. Il palazzo appare nell'elenco redatto nel
1901 dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, quale edificio
monumentale da considerare patrimonio artistico nazionale, ed è sottoposto a
vincolo architettonico. Descrizione Esterno La semplice facciata,
sviluppata sui canonici tre piani e graffita con una finta muratura a conci
rinnovata nel 1885 (al tempo della proprietà di Ferdinando Bardi, comunque da
considerare sostanzialmente fedele alle preesistenze), quindi restaurata e
integrata nell'ambito del recente intervento, presenta ai lati due scudi con le
armi, oramai consunte ma ancora ben leggibili, della famiglia Busini (d'azzurro,
a tre fasce increspate d'oro, e alla banda attraversante di rosso, caricata di
tre rosed'argento). Da segnalare sul fronte anche la lapide che ricorda come,
in questo palazzo, Giovanni Bardi conte di Vernio avesse riunito a Camerata
fiorentina di casa Bardi, in seno alla quale nacque il melodramma. IN
QUESTA CASA DEI BARDI VISSE GIOVANNI CONTE DI VERNIO CHE AL VALOR MILITARE
MOSTRATO NEGLI ASSEDI DI SIENA E DI MALTA CONGIUNSE LO STUDIO DELLE SCIENZE E
L'AMOR DELLE LETTERE COLTIVÒ LA POESIA E LA MUSICA E ACCOLSE E FU L'ANIMA DI
QUELLA CELEBRE CAMERATA LA QUALE INTESA A RIPORTARE L'ARTE MUSICALE IMBARBARITA
DALLE STRANEZZE FIAMMINGHE ALLA SUBLIMITÀ DELLA MELOPEA DI CUI SCRISSERO GLI
STORICI DELL'ANTICA CIVILTÀ APRÌ LA VIA GIÀ CHIUSA DA SECOLI AL RECITATIVO
CANTATO E ALLA MELODIA E CON LA RIFORMA DEL MELODRAMMA FU LA CUNA DELL'ARTE
MODERNA. Palazzo busini-bardi, targa camerata dei bardi. JPG Stemma Bardi
sul cancello d'ingresso Di rilievo l'androne, chiuso sul fondo da una elegante
cancellata (presumibilmente databile al Settecento) con sulla rosta l'arme dei
Bardi (d'oro, alla banda di losanghe accollate di rosso) accostata da due
aquile. Le fasce marcapiano aggettanti sono ornate da volute di fiori, primo
esempio di "stile nuovo" fiorentino. Semplici finestre centinate si
allineano su otto assi. all'esterno si trova murato anche un piccolo
tabernacolo con un affresco scarsamente leggibile con la Madonna in gloria
adorata da una monaca. L'elemento più interessante è il bel cortile
centrale porticato sui quattro lati, progettato forse dal Brunelleschi,
probabilmente il primo cortile privato signorile a Firenze (dopo i cortili
pubblici del Palazzo del Bargello e di Palazzo Vecchio): a pianta quadrata,
presenta arcate a tutto sesto con colonne con capitelli corinzi che scandiscono
lo spazio. I volumi sono scanditi ad altezza doppia rispetto al modulo usato
spesso successivamente del cubo sormontato da semisfera: qui l'altezza delle
colonne è doppia rispetto all'intercolumnio (a differenza per esempio del loggiato
dello Spedale degli Innocenti) e, pur mantenendo dimensioni armoniche, presenta
un maggior slancio. Tipicamente brunelleschiana è anche la disposizione delle
porte che si aprono sul cortile. "Si osservi anche il sonoro androne
d'ingresso, con volte a crociera su capitelli pensili strettamente analoghi a
quelli del palazzo di Niccolò da Uzzano; o lo splendido episodio dei capitelli
delle colonne del cortile stesso, che presentano un singolare episodio di
protocorinzio appunto brunelleschiano, cui non a caso rispondono i capitelli
del cortile della casa di Apollonio Lapi, posta in via del Corso 13, egualmente
attribuita all'esordio professionale di Filippo: per la qual cosa piacerebbe
datare pure il prezioso testo architettonico protobrunelleschiano di palazzo
Bardi (Morolli). All'interno molte stanze presentano dei soffitti in
legno risalenti all'epoca di Agnolo de' Bardi, che li fece uniformare.
BibliografiaModifica Tabernacolo Emilio Burci, Guida artistica della
città di Firenze, riveduta e annotata da Pietro Fanfani, Firenze, Tipografia
Cenniniana; Ministero della Pubblica Istruzione (Direzione Generale delle
Antichità e Belle Arti), Elenco degli Edifizi Monumentali in Italia, Roma,
Tipografia ditta Ludovico Cecchini; Ross, Florentine Palace and their stories,
with many illustrations by Adelaide Marchi, London, Dent; Schiaparelli, La casa
fiorentina e i suoi arredi, Firenze, Sansoni, Limburger, Die Gebäude von
Florenz: Architekten, Strassen und Plätze in alphabetischen Verzeichnissen,
Lipsia, F.A. Brockhaus, Bertarelli, Italia Centrale, II, Firenze, Siena,
Perugia, Assisi, Milano, Touring Club Italiano; Garneri, Firenze e dintorni: in
giro con un artista. Guida ricordo pratica storica critica, Torino et alt.,
Paravia; Bertarelli, Firenze e dintorni, Milano, Touring Club Italiano; Allodoli,
Arturo Jahn Rusconi, Firenze e dintorni, Roma, Istituto Poligrafico e Libreria
dello Stato, Barfucci, Giornate fiorentine. La città, la collina, i pellegrini
stranieri, Firenze, Vallecchi; Thiem, Christel Thiem, Toskanische
Fassaden-Dekoration in Sgraffito und Fresko, München, Bruckmann, Limburger, Le
costruzioni di Firenze, traduzione, aggiornamenti bibliografici e storici a
cura di Mazzino Fossi, Firenze, Soprintendenza ai Monumenti di Firenze,
Biblioteca della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
per le province di Firenze Pistoia e Prato); Bucci, Palazzi di Firenze, fotografie di
Raffaello Bencini, 4 voll., Firenze, Vallecchi, Quartiere di Santa Croce; Quartiere
della SS. Annunziata; Quartiere di S. Maria Novella, Quartiere di Santo
Spirirto; Lisci, I palazzi di Firenze nella storia e nell’arte, Firenze, Giunti
et Barbèra, Fanelli, Firenze architettura e città: atlante -- Firenze,
Vallecchi, Touring Club Italiano, Firenze e dintorni, Milano, Touring Editore; Salvagnini,
La guerra degli sporti, in "Granducato", Bargellini, Ennio Guarnieri,
Le strade di Firenze, Firenze, Bonechi, Il Monumento e il suo doppio: Firenze,
a cura di Marco Dezzi Bardeschi, Firenze, Fratelli Alinari; Firenze. Guida di
Architettura, a cura del Comune di Firenze e della Facoltà di Architettura
dell’Università di Firenze, coordinamento editoriale di Domenico Cardini,
progetto editoriale e fotografie di Lorenzo Cappellini, Torino, Umberto
Allemandi; MOROLLI, Vannucci, Splendidi palazzi di Firenze, con scritti di
Janet Ross e Antonio Fredianelli, Firenze, Le Lettere; Zucconi, Firenze. Guida
all’architettura, con un saggio di Pietro Ruschi, Verona, Arsenale; Cesati, Le
strade di Firenze. Storia, aneddoti, arte, segreti e curiosità della città più
affascinante del mondo attraverso vie, piazze e canti, 2 voll., Roma, Newton et
Compton editori; Touring Club Italiano, Firenze e provincia, Milano, Touring, Pecchioli,
‘Florentia Picta’. Le facciate dipinte e graffite dal XV al XX secolo,
fotografie di Antonio Quattrone, Firenze, Centro Di; Paolini, Case e palazzi
nel quartiere di Santa Croce a Firenze, Firenze, Paideia; Paolini, Lungo le
mura del secondo cerchio. Case e palazzi di via de’ Benci, Quaderni del
Servizio Educativo della Soprintendenza BAPSAE per le province di Firenze
Pistoia e Prato n. 25, Firenze, Polistampa; Paolini, Architetture fiorentine.
Case e palazzi nel quartiere di Santa Croce, Firenze, Paideia, Palazzo Bardi; Paolini,
scheda nel Repertorio delle architetture civili di Firenze di Palazzo
Spinelli(testi concessi in GFDL). Una pagina sulla conservazione del palazzo,
su limen. Portale Architettura Portale Firenze Ultima
modifica 2 anni fa di Omega Bot Palazzo Malenchini Alberti Palazzo Bardi-Tempi
Palazzo de' Benci Edificio a Firenze, Italia. Mirio Cosottini.
Cossotini. Grice: “I am sure that a suprasegmental or non-linear segment adds
to what a conversationalist means – he means THAT Smith did not pay the bill,
and that somebody else did” – By stressing on LOVE he means that he likes her
AND that he loves her.” Keywords: melopea, prosodia, Hjelmslev, Hockett,
fonema, tratto sopra-segmentale, stress – Grice’s examples: “Smith kicked the
cat” – “Smith didn’t pay the bill. Nowell did.” “Smith didn’t pay the bill”. “I
knew it” “I love her” -- segno, nonlinearita, codice, soprasegmento. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cosottini” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Costa: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’interno e l’esterno
– l’internalizzazione-l’esternalizzazione -- uomini fuori di sé– scuola di
Torre del Greco – filosofia napoletana – filosofia campanese --filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torre del Greco). Filosofo napoletano.
Filosofo campanese. Filosofo italiano. Torre del Greco, Napoli, Campania. Grice: “I love Costa; if I have to chose three of my favourite essays of
his, those would be, “Le passioni,” “L’uomo fuori di se: l’esternalissazione’
and above all, his sublime, “l’estetica della communicazione,’ which is what my
philosophy is all about!” -- Mario Costa
(Torre del Greco), filosofo. È conosciuto, in particolare, per aver
studiato le conseguenze, nell’arte e nell’estetica, delle nuove tecnologie,
introducendo nel dibattito filosofico una nuova prospettiva teorica, attraverso
concetti come "estetica della comunicazione", "sublime
tecnologico", "blocco comunicante", "estetica del
flusso". Professore a Salerno e, come professore incaricato di
Metodologia e storia della critica letteraria e di Etica ed estetica della
comunicazione, ha contemporaneamente insegnato per molti anni nelle Università
degli Studi di Napoli "L'Orientale" e di Nizza (Sophia-Antipolis). A Salerno
ha fondato e diretto, daArtmedia, Laboratorio permanente dedicato al rapporto
tra tecno-scienza, filosofia ed estetica, organizzando su queste tematiche
decine di iniziative di studio, mostre e convegni internazionali. L'estetica
dei media ha ottenuto il Premio Nazionale Fabbri. Pubblicato una trentina di libri; alcuni di
essi e numerosi suoi saggi sono tradotti e pubblicati in Europa e in
America. Il suo lavoro teorico si è svolto in due momenti successivi ed ha
seguito due fondamentali direzioni di ricerca: l'interpretazione socio-politica
e filosofica delle avanguardie artistiche, e l'elaborazione di una filosofia
della tecnica costruita soprattutto attraverso l'analisi dei cambiamenti che la
nuova situazione tecno-antropologica ha indotto nell'arte e
nell'estetico. Per quanto riguarda la prima delle due direzioni indicate,
ha fornito un complesso di interpretazioni filosofiche ed estetiche di numerosi
movimenti dell'avanguardia artistica e letteraria. Momenti di particolare
rilievo in questo ambito di ricerca possono essere considerati i suoi lavori su
Duchamp e sulle funzioni della moderna critica d'arte, nonché i suoi studi sul
"lettrismo" e sullo "schematismo", movimenti artistici di
grande importanza, anche estetologica, ma, all'epoca, pressoché ignoti in
Italia. Per quanto riguarda la seconda delle direzioni indicate, il suo pensiero
si è a sua volta sviluppato secondo due assi fondamentali: uno riguardante le
conseguenze sociali ed etiche della comunicazione tecnologica, riassunte
soprattutto nel libro La televisione e le passioni che analizza gli effetti
disgreganti e distruttivi della televisione, e poi nel più recente La disumanizzazione
tecnologica, e l'altro, dominante rispetto al primo, consistente in un
ripensamento del senso che l'"estetico" e l'"artistico"
vanno assumendo nella fase attuale delle nuove tecnologie elettro-elettroniche
e digitali della scrittura, dell'immagine, della spazialità, del suono e della
comunicazione, ciò che lo ha condotto ad una radicale ed originale
reimpostazione teoretica di tutto il campo investigato. Negli ultimi suoi lavori
(Ontologia dei media, e Dopo la tecnica) la prospettiva teoretica si è andata
ulteriormente approfondendo dando luogo ad una compiuta filosofia dei media e
della tecnica in quanto tale. Alcune opere rappresentative L'estetica dei media
può considerarsi, per i contenuti trattati e per la inedita metodologia di
indagine instaurata e seguita, un libro che apre un nuovo campo di ricerca,
prima del tutto ignorato ed inesplorato dalle discipline estetologiche, quello
appunto della "estetica dei media", da non confondere, ad esempio,
con l'estetica della fotografia o con quella del cinema, alle quali ha comunque
dedicato altri suoi importanti lavori. Il libro in questione segue ai diversi
contributi teorici relativi all'estetica della comunicazione le cui
identificazione, nominazione e formulazione teorica risalgono, e che è ora
rappresentata, nella sola Italia, da numerose Cattedre e indirizzi universitari.
Il sublime tecnologico è considerato il lavoro più noto e più innovativo di
tutta la sua produzione teorica; è in esso che, considerando le conseguenze
indotte nel campo dell'arte e dell'estetico dalla nuova situazione
tecno-antropologica, si parla dell'oltrepassamento della dimensione dell'arte e
delle categorie ad essa connesse, nella direzione di una nuova forma di
sublime, quella appunto del sublime tecnologico, con tutto quello che questo
concetto implica e comporta. La nozione del sublime tecnologico è stata
diffusamente accolta e seguita sul piano internazionale della teoria estetica
ed ha sollecitato un incalcolabile numero di sperimentazioni da parte di
artisti di tutto il mondo. Arte contemporanea ed estetica del flusso traccia le
linee di una nuova estetica e della sperimentazione artistica che da essa può
scaturire. Si tratta da una parte di un violento e argomentato pamphlet contro
l'arte contemporanea, ritenuta “una congerie più o meno sgradevole di nullità
mercantili”, e dall'altra della tematizzazione ed elaborazione del concetto di
“flusso estetico tecnologico”, considerato come ultima e residua possibilità di
sperimentazione per gli artisti e come chiave per comprendere alcuni aspetti
dell'ontologia contemporanea. Dopo la tecnica ripercorre la storia delle varie
epoche della tecnica sottolineandone la discontinuità e la capacità di agire
configurando, ogni volta in maniera diversa, l'organizzazione antropologica di
chi da esse è abitato. Sulla base di questi presupposti, si mostra come la
tecnica, una volta connessa e dipendente dai bisogni umani, si va rendendo
incondizionatamente autonoma forzando l'uomo a vivere dentro di essa, ad
appartenerle e a favorire il suo sviluppo. Altre saggi: “Arte come soprastruttura”,
Napoli, CIDED, Teoria e Sociologia dell'arte, Napoli, Guida Editori, Sulle
funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel
Duchamp, Napoli, M.Ricciardi Editore, Il ‘lettrismo' di Isidore Isou.
Creatività e Soggetto nell'avanguardia artistica parigina posteriore, Roma,
Carucci Editore, Le immagini, la folla e il resto. Il dominio dell'immagine
nella società contemporanea, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Il sublime
tecnologico, Salerno, Edisud, L'estetica dei media. Tecnologie e produzione
artistica, Lecce, Capone Editore, Il ‘lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia,
Napoli, Morra, La televisione e le passioni, Napoli, A.Guida, 1Lo
‘schematismo'. Avanguardia e psicologia, Napoli, Morra, Lo ‘schématisme
parisien'.Tra post-informale ed estetica della comunicazione, Fondazione
Ghirardi, Piazzola sul Brenta (Padova), Sentimento del sublime e strategie del
simbolico, Salerno, Edisud, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria
dell'oggetto tecnologico, Genova/Milano, Co.& Nolan, Il sublime
tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Roma, Castelvecchi,
Tecnologie e costruzione del testo, Napoli, L'Orientale, L'estetica dei media.
Avanguardie e tecnologia, Roma, Castelvecchi, L'estetica della comunicazione.
Come il medium ha polverizzato il messaggio. Sull'uso estetico della
simultaneità a distanza, Roma, Castelvecchi, Dall'estetica dell'ornamento alla
computerart, Napoli, Tempo Lungo, Internet e globalizzazione estetica, Napoli,
Tempo Lungo, New Technologies, Artmedia-Museo del Sannio, oDimenticare l'arte.
Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Milano,
Franco Angeli, L'oggetto estetico e la critica, Salerno, Edisud, La
disumanizzazione tecnologica. Il destino dell'arte nell'epoca delle nuove
tecnologie, Milano, C. et Nolan, Della fotografia senza soggetto. Per una
teoria dell'oggetto estetico tecnologico, Milano, C. et Nolan, Arte
contemporanea ed estetica del flusso, Vercelli, Mercurio, Ontologia dei media, Milano, Post media books, Dopo la tecnica. Dal chopper alle similcose, Napoli,
Liguori. Il lavoro teorico di C. teso, tra l'altro, a definire la nuova epoca
dell'estetico connessa alle neo-tecnologie elettro-elettroniche e digitali, e a
fare in modo che questa si andasse ben configurando e definendo, si è, per ciò
stesso, sempre accompagnato ad un'intensa attività di promozione
estetico-culturale: agli inizi degli anni ottanta organizza a Napoli, col
supporto della RAI-TV, una grande esposizione di videoarte (Differenzavideo); per
sollecitare una riflessione sugli effetti estetico-antropologici indotti dalle
tecnologie della comunicazione, co-organizza (conPerniola) presso l'Salerno, il
Convegno Estetica e antropologia i cui Atti sono, in parte, pubblicati sulla
Rivista di estetica di Torino, necrea, con l'artista Forest, il movimento
internazionale dell'Estetica della comunicazione che presenta in vari contesti (Electra di Popper, al Centre Pompidou a La
Revue parlée di Gautier, ialla Sorbonne, al Séminaire de Philosophie de l'art
di Revault D'Allonnes); dà luogo al primo evento/rassegna di estetica della
comunicazione (L'immaginario tecnologico, Benevento, Museo del Sannio); concepisce
e dirige, presso l'Salerno, Artmedia, Convegno Internazionale di Estetica dei
Media e della Comunicazione; organizza presso l'Salerno un Convegno
Internazionale su estetica e tecnologia; organizza presso la stessa Università
il Convegno "Il suono da lontano". Eventi sonori e tecnologie della
comunicazione"; realizza, per la RAI-TV (Dipartimento Scuola e Educazione)
la trasmissione televisiva in tre puntate: Un'estetica per i media; fa
svolgere, presso la settecentesca Villa Bruno (S.GiorgioNapoli) Technettronica.
Laboratorio di Estetica dei Media e della Comunicazione; presenta per la prima
volta in Italia presso l'Salerno due videoplays di Samuel Beckett; fonda e
dirige, la Rivista Multilingue Epipháneia. Ricerca estetica e tecnologie, fonda
e dirige, presso le Edizioni Tempo Lungo di Napoli, Vertici, una «Collana di
Estetica e Poetiche» aperta alle questioni estetologiche connesse ai nuovi
media (testi di Piselli, Cauquelin, Adorno, C., Solulard, Dorfles); co-organizza a Parigi la Edizione di Artmedia;
co-organizza presso l'Salerno il Convegno Internazionale Tecnologie e forme
nell'arte e nella scienza; organizza presso il Museo del Sannio di Benevento la
Mostra New Technologies (Roy Ascott, Maurizio Bolognini, Forest, Kriesche, Mitropoulos);
norganizza presso l'Salerno la IX Edizione di Artmedia; nco-organizza a Parigi
la X Edizione di Artmedia; norganizza presso l'Salerno un seminario conclusivo
di Artmedia dal titolo "L'oggetto estetico dell'avvenire". Sulle
funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel
Duchamp, Napoli, Ricciardi, C., L'oggetto estetico e la critica, Edisud, Salerno.
C., Il 'lettrismo' di Isou. Creatività e Soggetto nell'avanguardia artistica
parigina, Carucci Editore, Roma,Il 'lettrismo'. Storia e Senso di
un'avanguardia, Morra, Napoli, Si veda anche Signe, forme, schéma, ornement, in
"Schéma et schématisation", L'estetica dei media. Avanguardie e tecnologia,
Castelvecchi, Roma, C.Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica
della tecnologia, Castelvecchi, Roma, Arte contemporanea ed estetica del
flusso, Mercurio, Vercelli. Inoltre: Technology, Artistic Production and the
"Aesthetics of communication", in "Leonardo", Tecnologie e
costruzione del testo, L'Orientale, Napoli, Reti e destino della scrittura. Sulla
diffusione e la rilevanza del suo pensiero, si vedano tra gli altri: Bootz, The
thesis of Benjamin and C., in Bootz, Baldwin, Regards Croisés, West Virginia, Abruzzese,
Il compiersi della pubblicità dal manifesto metropolitano ai linguaggi
elettronici del presente: pretesti, testi e questioni, in Lattuada, Nuove
tendenze ed esperienze nella comunicazione e nell'estetico, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane. Kerckhove, L'estetica dei media e la sensibilità
spaziale. Riflessioni su un libro di C., in "Mass Media",Frank
Popper, L'art à l'âge électronique, Paris, Hazan, C., professore di estetica,
in MCmicrocomputer, Roma, Pluricom. esternalismo/internalismo. – La nozione di
esternalismo (externalism), usata in contrapposizione a quella di internalismo
(internalism), si è sviluppata principalmente in merito ai dibattiti sulla
filosofia della mente e sull’epistemologia ed è attualmente al centro del
dibattito filosofico sulla giustificazione epistemica, sull’epistemologia
sociale, sul ruolo dell’ambiente e dell’esterno negli stati mentali, nei
processi cognitivi e nei processi linguistici e comunicativi; si parla di e./i.
anche in filosofia morale. Nell’e. una conoscenza si considera giustificata se
è causata da processi affidabili derivati dall’esperienza esterna;
diversamente, nella prospettiva internalista, una credenza viene considerata
vera se fondata su esperienze interne al soggetto (per es. il
cogitocartesiano), riconducendo la conoscenza, anche sensibile, del mondo
esterno all’appercezione di stati di coscienza (Kornblith, Epistemology:
internalism and externalism; Bonjour, E. Sosa, Epistemic justification:
internalism vs. externalism, foundations vs virtues). Nella filosofia della
mente, gli stati mentali vengono ricondotti, in prospettiva esternalista, a
connessioni causali con l’ambiente esterno; in chiave internalista, a processi
e fattori interni alla mente. Nella teoria della motivazione morale si parla di
i. allorché si ritiene che vi sia una connessione necessaria fra considerazioni
morali e motivazione, costitutiva della considerazione morale stessa; si parla
invece di e. quando si ritiene che tale connessione si fondi su fattori
concomitanti contingenti. Con l’argomento della ‘Terra gemella’ (twin Earth),
il filosofo Hilary Putnam ha sostenuto che una differenza di estensione, ossia
dell’insieme degli individui cui si applica un concetto o un predicato, è anche
una differenza di significato; questo per dimostrare che i significati non sono
enti mentali, ossia che la medesima parola applicata a due enti diversi (anche
se non apparentemente tali) cambia di significato, benché averne o meno
cognizione dipenda dalla competenza semantica dei parlanti in merito
all’oggetto designato (The meaning of ‘meaning’, Gunderson, ed.,Language, mind
and knowledge). A partire dalle tesi dell’e. semantico (in filosofia del
linguaggio si privilegia la coppia di termini esternismo/internismo) il
dibattito si è esteso alle filosofie della mente e alle scienze cognitive,
indagando se il soggetto cognitivo sia circoscrivibile al cervello e al sistema
nervoso, o se la mente e il mentale includano anche fattori ambientali, sia
fisici sia sociali, ricalibrando i confini fra mente, corpo, ambiente. Nel
dibattito filosofico ha avuto rilievo anche la tesi della ‘mente estesa’ di Clark
e Chalmers (Chalmers, The extended mind, in Analysis; Clark, Supersizing the
mind: embodiment, action, and cognitive extension, ), che riconosce il ruolo
dei fattori extracorporei e ambientali nel costituirsi della mente, ma riguardo
agli aspetti cognitivi non fenomenici (non coscienti). Superando
contrapposizioni troppo rigide fra le due posizioni, nelle tesi esternaliste
più recenti si tende a riconoscere non unicamente la dipendenza causale
dall’esterno del mentale, ma a vedere l’origine del mentale nell’interazione
causale ambiente-corpo-cervello, ciascuno influente nei processi cognitivi e
mentali. In ambito sia semantico sia fenomenico si è differenziato l’e. dall’i.
in base alla possibilità di ‘individuare’ uno stato mentale ritenendo di poter
ricorrere, o meno, a fattori esterni (Wilson, Boundaries of the mind. The
individual in the fragile sciences: cognition). Più recentemente si è teso
invece a privilegiare l’aspetto della realizzazione fisica. Si parla, in tal
senso, di e. del veicolo o anche procedurali, spostando il punto di messa a
fuoco dall’identificazione del contenuto dello stato mentale (intenzionale o
fenomenico) alla natura del sistema di realizzazione fisica di tale stato
(Amoretti, La mente fuori dal corpo. Prospettive esternaliste in relazione al
mentale). Entro l’approccio incentrato sul veicolo e sulla realizzazione fisica
sono state elaborate posizioni differenziate, principalmente riguardo alla
possibilità di comprendervi o meno elementi fenomenici, ossia legati agli stati
cognitivi coscienti.Grice: “Costa uses words in ways we don’t allow at Oxford:
a sign by which nobody signs; and so on.Mario Costa. Keywords: – uomini fuori di sé, blocco comunicante, communicazione sine
contenuto, communicazione fatica, semiotica, estetica della comunicazione,
significante sine significato – segno sine segnato – autoreferenzialita –
asemanticita – sintassi – retorica – codice – intenzione communicative, medio,
messaggio, recursivita, self-reference, meta-linguaggio – linguaggio come
metalinguaggio -- - Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa” – The Swimming-Pool
Library. Costa.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Costa: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della sinestesia conversazionale – scuola di Ravenna –
filosofia ravennese -- filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Ravenna).
Filosofo ravennese. Filosofo emiliano. Filosofo
Italiano. Ravenna, Emilia-Romagna. Grice: “My favourite keyword for Costa is
‘contrassegnare’!” – Grice: ““I love Costa; for one, he improves on Locke; on
the composition of ideas and how to ‘countersignal’ them with ‘vocaboli
precisi’ – I explored that a little in my ‘Prejudices and Predilections,’ when
I attack minimalism and extensionalism, and provide a way which is meant to
resemble Locke’s way of words, or rather Locke’s way of ‘complex’ words, or
‘composite’ (Costa’s ‘comporre’) out of ‘simple’ ones – as in Quine’s worn-out
‘bachelor’ unmarried male that I play with with Strawson in “In defense of a
dogma.” In this respect, it is interesting to see that Costa also wrote on
‘ellocution’ and ‘sintesi’ versus ‘analisi’!” Figlio di Domenico e
Lucrezia Ricciarelli, studia a Ravenna e Padova. Insegna a Treviso e Bologna, a
Villa Costa, Bologna -- è costretto a riparare a Corfù perché sospettato di
essere affiliato alla Carboneria. Può rientrare a Bologna. Altre opere: “I
trattati della elocuzione e del modo di esprimere l’idea e di segnarla con una
espressione precisa a fine di ben ragionare” – Colla profferenza, “Fa fredo,” C.
segna che fa freddo. Il trattato filosofico della sintesi e dell'analisi; i
quattro sermoni dell'arte poetica, un commento alla Divina Commedia, la Vita di
Dante, il Dizionario della lingua italiana, poesie (Laocoonte), lettere e
traduzioni. Letterato neo-classico e
dunque tipicamente italiano e anti-romantico, ammira i corregionali Monti e Giordani
e sostenitore del purismo e del “sensismo” lucreziano in filosofia. Nella
lettera a Ranalli di introduzione al Della sintesi e dell'analisi così riassume
le sue concezioni filosofiche. È necessario, per togliere la infinita
confusione che è nelle scienze ideologiche, di dare all’espressione un
determinato valore. Sostengo che questo non si può ottenere, come crede Locke,
colla de-finizione (horismos) (la quale e una scomposizioni di una idea o di
piu idee), se prima la idea non sia stata ben composta. Sostengo che questa non
si puo compor bene, se prima non si conosce quale ne sieno gli elementi
semplici – soggetto e predicato, il S e P -- Sostengo che un elemento semplice
e una reminiscenza relative a una sensazione, e che la idea si compone di almenno
due di sì fatti elementi – il S e P – la proposizione, ‘segno che p’ -- e del
sentimento del rapporto di una reminiscenza e dell’altra, cioè dei proposizione
– nel indicativo o imperative – il giudizio – il giudicato – e la volizione –
il volute. Da ciò conséguita che l'esperienza (se l'esperienza vale ciò che si
sente mediante l'attenzione) è il fondamento della scienza umana. I kantisti ed
altri filosofi distinguono una idea in una idea soggettiva e in una idea
oggettiva, ed attribuiscono un'origine a posteriori e sintetico alla una ed
un'origine a priori e analitico all’ltra. Questa distinzione può esser buona, ma
non è buona l'ammettere che abbiano origini di natura diversa: a
posteriori/sintetico, dal senso – e a priori/analitico – dall’intelleto – nihil
est in intellectus quod prior non fuerit in sensu. Ogni idea ha un stesso origine. e questo si fa
palese per un solo esempio. Da una idea soggettiva puo nascere sue proposizioni. Una proposizione: "La
reminiscenza S1 e la reminicenza S2 sono in me”. Altra proposizione: “La
reminiscenza S si associa con la reminiscenza P”. Qual è l'origine dell’idea
dalla quale deriva sì fatta proposizione? Il sentimento. Dire che la
reminiscenza del color di rosa è in me, è dire che sento che è in me, e dico:
“Vedo una macchia rosa”. Così direte dell'altra proposizione. Dall’idea
oggettiva puo nascere una proposizione e altra proposizione. Il corpo pesa. La
rosa manda odore. Da che nasce la proposizione? Dal sentimento (senso).
Perciocché dire che questo corpo pesa è lo stesso che dire che sento il peso di
questo corpo; giu-dico, ovvero, sento che la cagione (causante, causans) della
mia sensazione tattile del senso del tattoo è in questo corpo. Così dire che la
rose manda odore è lo stesso che dire che sento l'odore della rosa, giu-dico,
ovvero, sento che l'odore dela rosa ha una delle cagioni in cose fuori, cioè
che non sono in me. Fra una idea soggettiva e una idea oggettiva non vi è altra
differenza, se non che nella che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è nella nostra
persona. Nell’idea che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è in
me (o noi entrambi – nella diada --), nell’idea soggetiva nella cosa (il
reale). fuori. Ma come sentiamo noi che vi sia una cosa (il reale) fuori?
Questo è il gran problema dagl'ideologi non ancora solute. Ma l'ignoranza in
che siamo non dà facoltà legittima alla scuola trascendentali di concludere che
il giudizio dell’idea soggetiva non dipende dal sentire. Il giudicio è un
sentimento, cioè, un rapporto sentito fra una sensazione e altre sensazione,
una reminicenza (il S) e altra reminiscenza (il P); ché se tale non fosse,
nessuno potrebbe dire che l'idea che abiamo di una rosa p.e. ha la sue cagioni
fuori di noi entrambi, perciocché una sì fatta proposizione suppone che l'uomo
che proferisce questa proposizione o explicatura (spiegato) abbia o la
sensazione S e la sensazione P, o le reminiscenza S e la reminiscenza P in
relazione alla sensazione prodotte dalla rosa, e l'idea del sentente. Voi
vedete chiaramente, che nell'uno e nell'altro degli addotti esempii la
modificazione che chiamamo ‘idea,’ e il sentimento dei loro rapporti sono nella
nostre anime ambidue, e che quindi si esprimono falsamente coloro, che dicono
che sentiamo il corpo fuori di noi. Dovrebbero dire, strettamente, che sentiamo
che la cagione (causans) del nostro sentire (sentito) non è in noi entrambe.
Coi fondamenti da me posti si può stabilire una dottrina, se il buon desiderio
non mi acceca, per la quale vadano a terra le opinioni di coloro che disprezzano
il sensismo, e che con odiosa espressione la chiamano dottrina de' “sensuali”.
Con che danno a divedere, che essi mattamente opinano che il materiale organo
del senso (i cinque organi, i cinque sensi) senta e percepisca, senza
accorgersi che se gli occhi (visum) e le orecchie (auditum) e il naso (odore) sentissero
ciascuno separatamente, non potrebbe giammai nascere giudizio alcuno circa la
qualità della sensazione di natura
diversa. L’uomo non potrebbe mai dire che l’odore della rosa mi diletta più del
colore della rosa, e così via discorrendo. Il sentimento di un solo centro,
nostre anime ambidue: e nostre anima ambidue senteno in sé mesima, e non fuori
di sé. Puo parere che questa dottrina del sensismo sia la stessa che quella
dell'idealista irlandese Bercleio; ma essa è diversa, poiché ammette che oltre
la idea vi sieno fuori dell'uomo la cagione (causans) di essa idea. Di questa
cagione (causans) – il reale, il noumeno -- noi conosciamo l'esistenza, e nulla
più. Che cosa e un corpo in se stesso? A questa interrogazione non si può
rispondere se non dicendo che e ignota la cagione della nostra sensazione
condivisa. Sappiamo che esiste, sappiamo che si modifica, e tutto ciò sappiamo,
perché fa della mutazione nell'animo nostro ambedue o nell’anima nostra ambedue.
Dal che si deduce ciò che dianzi vi dissi, che ogni idea ha per loro due primitivi
elementi (il S e P) la sensazione, la reminiscenza, il sentimento che e nelle
nostre anime ambidue, e non fuori di lei. Così la pensa il filosofo chiamato
per beffa dal cattolico romano col nome di sensualista e di materialista.
Materialista a buona ragione si puo chiamare i nostri avversario, o almeno
materialista per metà, giacché ammette che il sentimento del corpo
percepiscano, e giudichino relativamente alla qualità del reale, della cosa
esterna. Leggete le lettere filosofiche di Galluppi stampate non è guari in
Firenze. In Galluppi troverete chiaramente esposte la dottrine sensista, quelle
di Hume circa la cagione, e segnatamente quelle di Kant. Se dalle mie teoriche
si possono ricavare gli argomenti validi a confutare le opinioni del filosofo
trascendentale, o di coloro, che oggi si danno il nome di eclettico – come ha
tempo Cicerone --, io vi prego di compilare alcune note, o vogliam dire
corollarii, pei quali si vegga manifesta la falsità di alcuni principii del
irlandese Bercleio, del scozzese Reid e del scozzese-tedesco Kant, la filosofia
dei quali è fonte della massima parte della moderne follia (Della Sintesi e
dell'Analisi, ed. Liber Liber / Fara Editore). Altre opere: “Alighieri”; “Della
elocuzione” Fara editore, S. Arcangelo di Romagna); “Della sintesi e
dell'analisi” (Giovanni Battista Borghi e Melchiorre Missirini); “La divina
commedia, con le note di Paolo Costa, e gli argomenti dell'Ab.G. Borghi. Adorna
de 500 vignette” (Giovanni Battista Niccolini e Giuseppe Bezzuoli, Firenze, Stabilimento
artistico Fabris,Claudio Chiancone, La scuola di Cesarotti e gli esordi del
giovane Foscolo, Pisa, Edizioni ETS (sulla formazione padovana del Costa, e sulla
sua amicizia giovanile col Foscolo) Filippo Mordani, Vite di ravegnani
illustri, Ravenna, Stampe de' Roveri. Dizionario biografico degli italiani. Una
delle facoltà, onde l'uomo è tanto superiore alle bestie, si è la favella
[fabula – da ‘fa’, speak – cf. fama], mercè della quale i primi uomini non solo
si strinsero in comunanza civile, ed ordinarono la legge ed il governo; ma a
fare più beata e gloriosa la vita crebbero le scienze e le arti, ed ispirarono
con queste l'odio al vizio ed al falso; l'amore della virtù, del vero, del
bello; e i fatti e i nomi degni di memoria ai tardi secoli tramandarono. E qual
cosa è più utile ai privati, ed alla repubblica e più degna e di maggiore
onore, che l'arte di gentilmenle parlare? Per questa ci è aperta la via alla
dignità, alla fortune ed alla fama; per questa le città si mantene ordinata e
pacifica; per questa sono animati i
guerrieri – come Niso ed Eurialo --, encomiato un principio; per questa con più
degni modi si loda e si prega il supremo autore elle cose, e pura e viva si
mantiene nel cuor degli uomini la religione. Laonde, se desiderate onore o
giovamento a voi stessi ed alla Italia, ardentemente volgete l'animo a questo
nobilissimo studio del parlare o discorsare civile. Che se vi fu dolce fatica
l'interpretare e l'imitare gli antichi filosofi romani, non meno dolce vi e il
venire meco investigando il magistero, che è nelle opere loro; imperciocchè,
essendo la favella [la lingua, il parlare] istrumento col quale si commovono e
si traggono gli animi degli uomini, uopo è di volgere sovente la considerazione
alle proprietà dell'intelletto e del cuore umano; il che, pel naturale
desiderio, che abbi mo di conoscere noi stessi, è dilettevolissimo. Mettiamoci dunque
volentieri a quest'opera; e per cominciare con ordine, poniam subitomente al
fine, che si propone chi scrive, perocche non sarà poi difficile temperare ed
ordinare secondo quello il modo del favellare. La favella – nella diada
conversazionale -- intende a *manifestare* (cfr. Vitters) ad altro un pensiero
e un affetto proprio con soddisfazione dell’altro. Ad ottenere questo FINE,
sono necessarie due codizioni. Prima: che la elocuzione sia chiarà – Grice:
“imperative of conversational clarity). Seconda condizione: che l’elocuzione
sia ornata convenevolmente. Parliamo tosto della chiarezza conversazionale, che
poco appresso diremo dell' ornament. La chiarezza da due cose procede. Prima:
dalla qualità dell’espresione, che si pone in uso. Secondo: dalla collocazione –
cum-locatio, syn-taxis -- loro. Prima diciamo della qualità dell’espressione,
L’espressione, che e un *segno* [cf. Grice: Words are not signs] di una idea,
fa perfettamente l'ufficio suo ogni qual volta sia ben determinata, cioè
appropriata a ciascuna idea singolare per nodo, che non possa a verun' altra
appartenere. Per meglio iutendere in che consista la natura loro, bisogna
considerare che ogni idea e composta – il S e P -; e che alcune, differendo da
altre in pochi elementi, abbisognano di segno particolare, per apparire
distinte. Quell’espressione che la distingue dicesi “proprio”. Vaglia un
esempio. L'idea di ‘frutto’ ha per suoi elementi le idee delle qualità comuni a
ogni frutto; l'idea di “melagrana,” oltre i detti elementi, comprende le idee
delle qualità particolari della melagrana: perciò è che, se chiameremo frutto
la melagrana, quando è mestieri distinguerla, non parleremo con proprietà. (cf.
Lawrence: What is that? E un fiore). Ho qui recato il materiale esempio di un
errore, in che è diſficile di cadere, affinché si vegga chiaramente non essere
molto dissimile da questo l'errore di coloro, che d'altre cose ragionando usano
i vocaboli generali (fiore) per ignoranza' de'particolari (tulipano). Tanto
sconvenevol cosa si repula l 'usare una espressione impropria, dice il Casa,
che si hanno per non costumali coloro, i quali, non dan dosene gran pensiero,
pare che amino di essere frantesi, e nulla curino il fastidio di chi si sforza
d'intenderli: all'incontro coloro, i quali usano l’espressione propria,
mostrano di essere civili, essendo solleciti di alleviare altrui la fatica [cf.
Grice, prinzipio di economia dello sforzo razionale], poichè pare che mercè
della espressione proprie le cose si mostrino, non coll’espressione, ma con
esso il dito. I poeti, che sono lodali per la evidenza, onde le cose ci pongono
dinanzi agli occhi ci somministrano
esempi del modo assai proprio. Giovi recarne qui alcuno a schiarimenlo di
quanto abbiamo detto: Come d'un tizzo verde, ch'arso sia dall'un de capi che
dall'altro geme, e cigola per vento, che va via. È qui da notare come
l’espressione “tizzo” e l’espressione “cigola” meglio ci rappresentano la cosa,
che arde, e l'effetto del fuoco, di quello che se Alighieri avesse detto: un
ramo verde fa romore per vento che va via, essendo questa SIGNIFICAZIONE alta a
denotare altra idea non simili in tutto a quella che si voleva esprimere. Cosi
Petrarca disse propriamente: raffigurato alle fattezze conte, piuttosto che
dire alla persona; e Alighieri: levando i moncherin per Ľaria fosca, in vece di
dire, levando le braccia tronche. Qui si vede come l’espressione “fattezza” e l’espressione
“moncherino” sieno meglio usati per essere espressione di SIGNIFICAZIONE
SINGOLARE. Se la proprietà [cf. be as informative as is required – avoid
ambiguity] è si necessaria a SIGNIFICARE la cosa che cade sotto i sensi, quanto
maggiormente nol sarà ella, quando si vogliono esprimere le idee intellettuali
e le morali, che se non fossero determinata in virtù dell’espressione, o svanirebbero
dalla mente nostra, o vi starebbero disordinate e mal ferme? A quel modo che
dalla precisione delle cifre dell'aritmetica dipende la esattezza de’ calcoli,
cosi dalla proprietà dell’espressione dipende quella delle idee e de'
ragionamenti in qualsivoglia delle scienze astratte; e quindi ottima è quella
sentenza del filosofo: consistere il sommo dell'arte di ragionare nel l'uso di
un discorso bene ordinata. Anche Piccolomini ha detto della sua parafrasi di
Aristotele, che la base e il fondamento della elocuzione si ha da stimar che
sia la purità, la netlezza e candidezza – cf. Grice, the imperative of
conversational candour -- di quel discorso, nella quale l'uom parla. Ad
acquistare l'abito di discurrire con proprietà tre cose si richieggono.
Prima, il saper bene dividere le idee
fino ai primi loro elementi. Secondo, il conoscere l'etimologia
dell’espressione (etimo: il vero), per quanto è possibile. Terzo, il rendersi
famigliari le opere degli antichi filosofi romani, ne'quali è dovizia di voci
pure e di modi assai propri. Chi non ha uso delle delle cose è spesso costretto
di adoperare le noiose circonlocuzioni in luogo di un solo vocabolo o di una
breve sentenza, e di abusare de sinonimi. Si dice “sinonimo” l’espressione di una
medesima sigoificazione, o quelli, che rappresentando le stesse idee
principali, differiscono in qualche accessoria. Della prima generazione sono i
seguenti: fine e finimenio; abbadia e badia; consenso e consentimenlo e simili.
Aliri ne trov po nella formazione de' tempi, e de'partecipii, come rendei e
rendetli; visto e veduto; parso e paruto; ma colali sinonimi non sono in gran
numero. La più parle è di quelli che differiscono per aumento, o diſelto di
qualche idea accessoria. Cavallo, corridore, destriero, palafreno, poledro,
rozza, sono espressioni istituite a significare il medesimo animale; ma ognuna
differisce dall'altra. “Cavallo” denola la qualità della specie; “corridore” la
particolarità d'esser veloce; “destriero” ricorda l'uso di menare il cavallo a
mano destra; “palafreno” quello di frenarlo colla mano; “poledro” la qualità
dell'essere giovane; “rozza” quella dell'essere vecchio e disadalto. Le voci
unico e solo sembrano per avventura la stessa cosa; ma il Petrarca disse la sua
donna essere “unica e sola” (one and only), volendo significare che nessun'altra
è nella schiera di Laura, e che nessuna può esserle dala in compagnia. Incontra
alle volte, che le parole istituile a significare un'idea stessa differiscono
per la virtù, che haono di richiainarne alla mente alcun'altra più o men nobile,
o per cagione del suono o vobile o rimesso, o per cagione dell'uso, che di
quella suol esser fatlo in umile o in illustre componimento. Tali sono, a
cagione d'esempio, i vocaboli “adesso” ed “ora”, che significano ‘il momento
presente’, ma “adesso” non sarebbe ricevuto in nobile componimento; dal che si
vede che sebbene ei denoli il punto presente del tempo, come fa l'altro, pure
trae in sua compagnia alcune idee, che il fanno parere di bassa condizione. É
dunque da por wenle che l’espressione, che si dice sinonimo, non sempre ci rappresentano
stesso complesso d'idee; e quindi può intervenire, che ingannali dall'apparenza,
alcuna votla siamo lralli ad usarli impropriamenle. È da avvertire per ultimo,
che ogni espressione antiquale, cioè quelle, che pel consenso universale de’
filosofi sono stale abolite, non hanno più luogo tra le voci proprie. Si uilmente
sono improprie ogni espressione dei dialelli parlicolari, e l’espressione
forastiera, che dall'uso de' wigliori filosofi non hanno avuto la cile
tadinanza. Le quali tutte non sarebbero bene intese dall'intera Italia; e
perciò denuo essere, da chi desidera di discurrire chiaramente, a lullo polere
schivale. Questo basli aver dello della proprietà, che è la prima cosa, che si
richiede a render chiara le elocuzione. Direino poi a suo luogo come il
trasporlare con altra legge di proprietà l’espressione dal significato proprio
all'improprio giovi maravigliosamente alla chiarezza. In virtù dell’espressione
esprimiamo i nostri giudizii, e collegando insieme il giudizio espresso
formiamo i raziocioii, i quali verranno chiari alla menle altrui, qualvolta
sieno osservate le leggi, di che ora faremo parola; ma prima si vuole
avvertire, cha talora il discorso può es sere ordinato secondo le leggi, per le
quali ' riesce chiaro, ma non avere poi quella forza, quella virtù e quella
eſficacia, che avrebbe, se si disponessero le parole diversamente senza però
offendere le delle leggi. A suo luogo direno della disposizione (sintassi)
delle parole, che agagiunge efficacia al discorso. Ora è a dire solo tanto di
quella, che lo fa chiaro. Ogni giudizio espresso dicesi proposizione. Nel
ragionamento, il quale di nolle proposizioni si compone, alcuna vene ba, che
viene modificata dalle altre. Quella, che è modificata, dicesi principale, le
allre suballerne (o minore). Vaglia a ben distinguerle il seguente esempio del
Casa. Menire i nostri nobili cittadini gli agi e le morbidezze e i privuli loro
comodi abbracciano e stringono, l'impera lore, non dormendo nè riposandu, mu
travagliando e fabbricando, ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta.
L'imperatore ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta è la proposizione (premessa)
principale (maiore), le altre, che lei modificano, sono le subaltern (premessa
minore). La proposizio ne principale, a somiglianza della principale figura in
un dipinto, dee fra tutte le subalterne campeggiare e risplendere; per ciò è
che vuolsi evitare la frequenza di queste ultime, le quali, allorchè fossero
troppe, invece di raflorzare la principale o premessa maiore, siccome è loro
officio, verrebbero ad indebolirla. Questa si è la prima avvertenza, che circa
le proposizioni subalterne aver dee colui che discurre; indi si prenderà cura
di ben' collocarle. Prima che veniamo a dire quale sia la buona collocazione
loro, è necessario di osservare, che le delle proposizioni subalterne si distin
guono in espresse ed in implicite. Diconsi espresse quelle, nelle quali tutte
le parli loro sono manifeste, come nella seguente: ľuomo è ragionevole. Diconsi
implicite quando il giudizio che si esprime, e significati dall nome addiettivo
o dal nome sustantivo con preposizione o dall’avverbio, come nelle seguenti.
L’uomo GIUSTO è lodato. Pilade ama Oreste. CON. I romani amarono GRANDEMENTE la
patria. Quando si dice “l'uomo giusto” si viene ad affermare che ad esso si
appartiene la giustizia, che è quanto dire giudichiamo che egli è giusto. Si
dica il medesimo delle altre due proposizioni. Ama con FEDE GRANDEMENTE, La
proposizione IMPLICITA (entimema, implicatura) serve a significar del giudizio,
che per abilo la mente umana FEDE amarono suol fare rapidamente; perciò è che
non si denno usare in vece di quelle la proposizione espressa, SPLICITA
(splicatura), perciocchè impedirebbero la spedi tezza dell' intelletto di
nostro compagno conversazionale. Si dovranno ancora nello scegliere la
proposizione implicita (implicatura, impiegato) schivare le inutili, cioè
quelle, che risveglierebbero le idee, che in virtù del solo sustantivo o del
solo verbo possono essere richiamate a mente, e scegliere quelle, che meglio
qualificano il significato. Sarebbe, a cagione d ' esempio, vano (redundante) e
noioso l'aggiunto di “bianca” alla “neve” (salvo se il caso richiedesse di far
conoscere parti colarmente questa qualità), essendo che l’espressione “neve”
trae seco, senz'altro aiulo, la idea di ‘bianco’ (cf. ‘atleta’ ‘longo’).
Rispello alla collocazione della proposiziona suballerna, sia ella implicite o
espresse, la regola (massima, imperativo) si mostra di per sé: imperciocchè, essendo
intese a denotare alcuna qualità del signato o da' sustantivo o da' verbo o da'
participio, deve chiaramente apparire a quali di queste parti dell'orazione (l’otto
parti dell’orazione – partes orationis) vogliono appartenere; e perciò fa
mestieri collocarle in luogo tale, che mai non venga dubbio se sia poste a
modificare piuttosto l'uno, che l' altro o verbo o participio o sustantivo.
Quao do a ciò si manca nasce perplessità (“misleading, but true) come nel
seguente luogo di Boccaccio. E comechè Aligheri aver questo libretto fallo
nell'età più matura si vergognasse. Qui può sembrare che il libretto sia stato
falto nell' età più matura; che se avesse dello: comechè egli aver futto questo
libretto si vergognasse nell'età più matura, la proposizione sarebbe stata
chiarissima. Alcuna perplessità è ancora in quest'a tro di Passavanti: Leggesi,
ed è scritto dal venerabile dottor Beda, che negli anni domini ottocento sei un
uomo passò di questa vila in Inghilterra. Comechè non sia per cadere nel
pensiero di alcuno che colui, che si parle di questa vita, possa andare in
Inghilterra, nulladimeno, per quella collocazione di parole, la mente di chi legge
resla alcun poco sospesa. Molte TRASPOSIZIONE – Grice: William Blake: love that
told cannot be, love that never told can be --, che si biasimano nella lingua
italiana, sono spesso con venevoli NALLE LINGUA LATINA, perchè, nella lingua
romana, il nome aggettivo, che per le desinenze diverse nei generi, nei numeri
e nei casi si accordano col nome sustantivo, rade volte LASCIANO DUBBIO a cui
vogliano appartenere, e rade volte i casi obliqui si confondono col caso retto,
comunque nella proposizione sieno collocati. Bellissimo è in latino il seguente
luogo di CRASSO, riportato da CICERONE. HÆC TIBI EST EXCIDENDA LINGVA QVA VEL
EVVLSA SPIRITV IPSO LIBIDINEM TVAM LIBERTAS MEA REFVTABIT. Tenendo l'ordine di
queste parole nella lingua italiana si produce falsità nella sentenza. Sconvolgendolo
si perde tutta l'efficacia. Se dico. Questa lingua li è d'uopo recidere: recisa
questa, col fiato stesso la tua sfrenatezza la libertà mia reprimerà’ – Appare che
LA SFRENATEZZA reprima LA LIBERTÀ. Se, per
lo contrario, dico. La libertà mia reprimerà la tua sfrenatezza, toglieremo
alla sentenza molto della sua forza – devuta a una disobbedenza intenzionale
della massima conversazionale d’evitare l’ambiguità. Vedremo a suo luogo la
ragione, per cui la diversa collocazione di una espressione semplice rafforza o
snerva l'espressione complessa. Ora ci basta osservare, poichè cade in acconcio,
che le varie lingue -- parlando ora della sola facoltà, che hanno di PERMUTARE
IL LUGO ALLE PAROLE – “love that never told can be”/”love that told can never
be” -- luttochè sieno alle a qua. Junque
specie di componimento, nol sono ad esprimere uno stesso concetto nella stessa
FORMA – massima conversazinale della forma, non del contenuto --; perciò è che
quando si trasportano le scritture da una favella ad un'altra non dove
l'espositore darsi briga di ritrarre espressione per espressione. Avendo rispetto
al genio della lingua, cerca di produrre per altro convepevol modo nell’animo
di nostro compagno conversazionale gl’effetto che l’espressione in lui operano.
Per fuggire le equivocazioni [cf. Grice, avoid ambiguity] giov ancora badare ne'
verbi alla prima voce dell'imperfetto dell'indicativo – “amava” -- la quale è
simile alla terza, dicendosi “amava” +> “io amava”; “amava” +> “colui amava” – cf. latino: ‘amaba’/’amabaT’
--. Perciò a distinguerle è sovente bisogno di preineltere all’espressione ‘AMAVA’
– latino: AMABA/AMABAT -- il nome o il pronome. Giova spesso alla CHIAREZZA, e
segnatamente nell’espressione complessa o composita, il ben distinguere le
persone e le cose, delle quali si parla (il topico). E perciò sta bene talvolta
il *ripetere* il nome sostantivo per non confondere l’una coll'altra. Imperciocchè,
i pronomi e i relativi sogliono spesso essere cagione di equivoco – confusione
– cf. avoid ambiguity, be perspicuous [sic], the imperative of conversational clarity.
E questo interviene specialmente, quando nella proposizione antecedente sono
più nomi sustantivi di un medesimo genere e numero, che si possono accordare
coi relativi delle susseguenti. Perciò, conviene tal volta o giovarsi di un
sinonimo onde porre in luogo di alcun nome mascolino un femminino. O inulare il
numero del più in quello del meno. O viceversa. Può ancora geverarsi PERPLESSITÀ
nell'usare il possessivo “suo” e “suoi,” invece de relativo lei, lui e loro; e
perciò alle volle è necessario adoperar questo per quello, come nel caso
seguente. “MAI DA SÈ PARTIR NOL POTÈ, INFINO A LANTO CHE EGLI [CIMONE] NON
L’EBBE FINO ALLA CASA *DI LEI* ACCOMPAGNATA” (Boccaccio). Se Boccaccio avesse detto: “fino
alla casa SUA accompagnata”, si sarebbe potuto credere essere QUELLA DI CIMONE!
Per far maniſesta (esplicita, chiarissima) la connessione de'ragionamenti sono
assai opportune le particelle copulative (“e” – He went to bed and took off his
trousers” (Urmson); avversative (“ma” – Lei e povera, ma onesta – Frege,
FARBUNG), illative (“se” – se p, q – FILONE, DIODORO, CRISIPPO) e somiglianti –
e disgiuntiva (“o” – “Lei sta alla cucina o alla stanza di dormire”). Molli
fra' filosofi italiani, ad imitazione de’ filosofi francesi, sogliono scrivere
a piccoli membri, senza congiungerli insieme colle particelle, e in ciò sono da
biasimare, iaperciocchè costringono la mente o l’animo di nostro compagno
conversazionale a passare “di salto” da una proposizione all'altra senza dargli
occasione di scorgere subitamente le attenenze (pertinenza, relevanza – cf.
Grice, category of relation – be relevant – a ‘platitude’ -- Strawson) loro. JILL: JACK IS AN ENGLISHMAN; HE IS, THEREFORE, BRAVE” – deduzione,
induzione, adduzione? --. Affinchè si vegga manifestamente quanto la
mancanza de' legamenti tolga di chiarezza al discorso, leverò dal seguente
luogo di PASSAVANTI le particelle che ne conneltono le parti. Qualunque persona
sogna, pensi se il suo sogno corrisponde all’affezione sua, a quella che più ta
sprona. Se vede che si, non a. spetti che al sogno suo debba altro seguitare.
Quel sogno non è cagione alla quale debba altro effetto seguitare; è l'effetto
dell'affezione della persona. Tale sogno oseservare, cioè considerare donde
proceda, non è in sè male: è l'effetto di naturale cagione. Facciamo congiunti
questi membri colla particella “e”, la particella “imperciocchè”, la particella
“ma” e vedremo il discorso apparire più chiaro (“She was poor and she was
honest”). Qualunque persona sogna, pensi se il suo sogno corrisponde
all’affezione sua, a quella, che più lu sprona. *E* se vede che si, non aspetti
che al sogno suo debba altro seguilare; *imperciocchè* quel sogno non è
cagione, alla quale debba altro effetto seguitare; *ma* è l'effetto del
l'affezione della persona; e tale sogno osservare, cioè considerare donde
proceda, non è in sè male: imperciocchè è l'effetto di natural cagione.” Questi
pochi avvertimenti basteranno, se io non erro, a render cauti i conversatori che
desiderano di conversare chiaramente. Tralascio le wolle cose che i filosofi
hanno ragionato in torno la proposizione, poichè mi pare che, qual volta siasi
imparato a distinguere la proposizione principale (premessa maiore) dalle proposizione
subalterna (premessa minore), e siasi conosciuto che la virtù di queste si è di
modificare le parti dell'altra, non faccia mestieri di *molto sottile* ragionamento
a sapere in che modo elle si debbono collocare nella orazione o espressione
complessa; perciò senza più entro a parlare dell' ornamento. La perſezione
dell'arte del conversare nella LINGUA LATINA, secondo CICERONE, consiste
nell'esporre chiaramente, or nataniente e convenevolmente le cose o il topico,
che a trattare imprendiamo. Di quella chiarezza e di quell'ornamento e decoro –
CANDORE --, che dall’invenzione e disposizione della materia procede, si ragiona
nella rettorica – G. N. LEECH: “H. P. GRICE’S CONVERSATIONAL RHETORIC”. Accade qui di parlare delle suddette tre
qualità solamente rispetto al modo di significare (modus significandi) il
concetto ritrovati. Avendo abbastanza detto della prima, diremo ora delle altre
due, che fanno il discorso – la mozione, mossa, o moto, conversazionale --
accetto a nostro compagno conversazionale. Grice: “I’m not
surprised that the Italians start the cataloguing of the maxims of
conversations by the MANNER, rather than the CONTENT!” -- Prima di tutto si
vuole osservare che la proprietà delle voci e l'ordinata (cf. Grice, be
orderly) composizione loro generano gran parte della BELLEZZA DEL DISCORSO –
Grice: “My maxims aim at rational cooperation, they are not moral or aesthetic
in purpose.”. Imperciocchè
fanno sì, che esso sia inteso senza fatica, che è quanto dire con qualche sorta
di piacere. Ma questo non basta; chè nessuno per verità loda il conversatore
solamente perchè si fa intendere dal suo compagno conversazionale; ma lo
biasima e sprezza, s'ei fa altrimenti. Chi è dunque che faccia meravigliare gl’uomini
e tragga a sua voglia le volontà loro? Chi è applaudito e chi è venerato più
che more tale? Colui che NEL CONVERSARE è distinto, COPIOSO – ma non *troppo*
copioso --, splendido, armonioso, e che queste qualità, onde si forma
l'ornamento, congiunge al decoro – CANDOR – veracita e sincerita. Que' che
conversa co'rispetti, che la qualità delle materia e del compagno
conversazionale richiede, solo merita lode: che qualsivoglia ornamento DISGIUNTO
DAL DECORO diviene sconcezza e deformità. Molto leggiadre ed efficaci sono le
voci proprie, che per cagione del loro suono hanno somiglianza col significato,
o quelle che ne ricordano qualche particolare qualità. E espressione, che
ricorda il significato per somiglianza di suono le seguenti: “belato”;
“ruggito”; “soffio”; “nitrito”; “boato”; “rimbombo”; “tonfo”, e molte al tre,
che per alcuni furono sono termini figure, a differenza di quelle, che, non
avendo soosiglianza veruna col significato, sono delle termini memorativi o
cifre. Fra i termini figure voglionsi annoverare, oltre le voci che abbiamo
teste accennat, quelle che o provengono da altr’espressione, che è segno di
cosa somigliante al signficato che si vuol esprimere o communicare (cf. Grice
on the circularity of analyising ‘signare’ e ‘communicare’), o ricordano
l'origine o gl’usi del significato. L’espressione “spirito” è bella per certa
tal qual somiglianza, che il significato, cioè l’immateriale sostanza, sembra
avere col fialo o con qualsivoglia altra sottil materia, che SPIRI
(onomatopoeia) e preferibile a ‘animo’. Belle similmente e l’espressione
“moneta” e l’espressione “pecunia”. la prima delle quali, venendo da “moneo”, significa
che il metallo ed il conio ammoniscono la gente circa il valore di essa moneta.
La seconda, venendo da “pecus”, ricorda l'origine del denaro, che fu sostituito
ai buoi ed alle pecore, antica inisura delle cose mercatabili. Ho qui posti
questi due esempi ancora perchè si vegga quanto giovi alcuna volta
l'investigare l’etimologia. Concorrono co' termini propri e co' termini figure
a far bella la mozione conversazionale le parole nobili, qualvolta sieno
convenevolmente adoperate. Accade delle parole, dice Pallavicini, che
comunemente accade degli uomini nel civil conversare. Questi acquistano
ripulazione o vilipendio dalla qualità delle persone colle quali usano
farnigliarmente; e le parole dalla qualità delle persone da cui sono sovente
proſerite; e ciò interviene perchè tutti hanno per fermo, che i personaggi
illustri e gl’uomini letterati sieno ESPERTI A CONVERSARE *con legge*, e che la
plebe allo incontro parli e cianci barbaramente. Avviene da ciò che alcune
voci, che significano cose vili o laide [‘the --- bishop fell from the – stairs
– profanity – Grice], sono tuttavia tenute per nobilissime. All 'opposito altre
ve a'ba, che, nobili cose significando, in grave componimento non sarebbero
lodate. Della prima spezie sono in Italia l’espressione “lordo”; “lezzo”;
“tube”; “piaga”, ed altre, che nelle più nobili conversazione sogliono essere
usate. Dall'altro canto, l’espressione “papa”, siccome osserva il lodato cardinale
Pallavicini, la quale nobilissimo personaggio rappresenta, non sarebbe ricevuta
in grave componimento poetico. In tre schiere vengono separate da Pallavicini
le parole rispetto la maggiore o minore nobiltà loro. Nella prima si collocano
quelle, che dal conversatore in nobile conversazione e usata a significare un
concetto grande ed il lustre. Vocaboli di questa specie non si potranno senza AFFETAZIONE
adoperare in tenue argomento, o in famigliare discorso. Che se alcuno
famigliarmente usa l’espressione “pugna” in vece di “battaglia”; “luci” in vece
di “occhi”; “accento” o “nota” in vece di “parola”, certo è che moverebbe a
riso il compagno conversazionale. La seconda schiera è di quella espressione,
che vanno egualmente per le bocche degl’uomini ragguardevoli e del popolo, e
che si possono senza biasimo usare in ogni occorrenza. La terza poi è di
quelle, che sono avvilite nella bocca della plebe, come e l’espressione
“pancia”; “budella”; “corala” e simili, le quali possono essere opportune in
una conversazione intesa ad avvilire alcuna cosa, come e la mossa, noto, o mozione
conversazionale ‘satirica’. Anche le espressione antiche, qualvolta elle hanno convenevole
forma e non sieno passate ad altro significato [non multiplicare sensi piu di
la necessita], vagliono à nobilitare la conversazione. Ma si richiede somma
cautela in co lui che a vila le richiama, poichè una espressione antiquata,
ollrechè spesso portano seco oscurità [cf. Grice, ‘avoid obscurity of
expression, procrastinate obfuscation, be perspicuous [sic]], ‘avoid
unnecessary proliity [sic]’], più spesso fanno l'orazione ricercata e deforme.
E chi oggi potrebbe, senza indurre a riso il compagno conversazionale,
l’espressione “beninanza”; “bellore”; “dolzore”; “piota”, “spingare” ed altre
simili d’usare. Ora diremo della metafora (“You are the cream in my coffee), la
quale, usata opportunamente, è lume e vaghezza della orazione. Prima è a sapere
che gl’uomini selvaggi per essere scarsi di cognizioni mancarono
dell’espressione, e che volendo eglino significare alcuna cosa non ancora
significata, fanno uso naturalmente di quella espressione gia usata, la quale e
inventata a contras-segnare *altra* cosa somigliante in qualche parte all'idea
novella (“You are LIKE the cream in my coffee”). Occorrendo loro, per esempio,
di significare alcun uomo crudele, il chiamarono “tigre” per la somiglianza
dell'indole di colal bestia con quella dell'uomo crudele. Cosi dissero assetate
le campagne asciulle, “volpe” 1'uomo astuto (“sly as a fox” – he is a fox),
“capo del monte” la cima – ‘top of the heap’ ‘New York, New York’ -- e “piè” del
monte la falda di quello. Per gl’addotti esempi si vede questo trasporlamento (meta-bole,
transferenza, trans-latio) di una expression da un significato propio e vero ad
un significato impropio e falso (“You are the cream”) altro non essere che una
similitudine ristretta in una espressione (“You are like the cream –
simplifcata a “You are the cream”); imperciocchè la seguente similitudine
spiegata. La comparazione vera “Costui è crudele COME una tigre” si restringe, per
brevita, in questa forma metaforica falsa. “Costui è una tigre”. È dunque la
metafora una abbreviata similitudine [an elliptical simile], che si fa recando
una espressione dal significato proprio al signficato improprio: e perciò da
Aristotele è detta imposizione del nome d'altri. Siccome la metaſora e da
principio usata per *necessità*, potrà parere ad alcuno che crescendo il numero
delle idee determinate e della espressione propria, la metafora divenga
pressochè inutile – o una figura di retorica --; ma non accade cosi: perocchè,
sebbene fra le conversatori civili e culle non sia tanto necessaria quanto fra
le selvagge e rozze, pure la metafora è e sempre luce e VAGHEZZA della
conversazione per virtù e forza di quelle sue qualità. La metafora presenta
spesso all'animo più chiaramente ogni sorta di concetti, poichè, veslendo di
forma *sensibile* una idea non-sensibile, o intelleltuale (nihil est in
intellectu quod prior non fuerit in sensu), ce le pone davanli agli cinque
sensi. Vuole Alighieri significare che non è meraviglia se per la le nuità
della nostra fantasia non possiamo per venire ad imaginare le cose, che
Alighieri desidera narrare del Cielo; e questo con una metafora dicendo. E se
le fantasie nostre son basse a tant'altezza non è maraviglia. Per tal modo il
concetto, che era tutto non-sensibile e intelettuale, divenne sensibile e per
conseguente più chiaro (cfr. Grice, ‘be perspicuous [sic] – the imperative of
conversational clarity] e più popolare. E se taluno volendo dire che gl’uomini
bugiardi saono talvolta infingersi e comporre gl’atti e le parole a modo di
parer verilieri, dice che la menzogna prende talvolta il manto della verità,
non significherebbe egli il suo concetto assai vivamente. (He said that she was the cream in her coffee, By uttering ‘You’re the
cream in my coffee” U signs – explicitly – THAT the addressee is the cream in
the utterer’s coffee. Fra tutte le metafore poi e più efficace quella
metafora che si cava da una qualità sensibile, corporea, materiale, che si
mostra a le cinque sensi, e forse la ragione si è questa. Alla reminiscenza
della qualità di un corpo, la quale ci vengono all'animo per i cinque sensi,
più tenacemente si associano le idee, che di essi ci vengono per gli altri
sentimenti; quindi è che ogni qualvolta ci riduciamo a memoria una della
qualità sensibile (in questo caso visibile) del reale (un oggetto) quasi tutte
le altre appartenenti a quello pur si risvegliano, e vivamente ed intero lo ci
pongono dinanzi agli “occhi” dell'intelletto. Laonde se belle sono le metafore
– parola dolce. che si cávano dalla qualità, da cui sono affetto: l'odorato
(secondo senso dell’odore), il tatto (terzo senso del tatto), l'udito (quarto
senso dell’audizione) e il gustato (quinto senso del gusto), come queste: odore
di santità – odore santo, durezza di cuore – duro cuore, ruggir di venti, vento
ruggente -- dolcezza di parole; parola dolce -- più bella, per che più viva si
presenta all'animo, entrando quasi per gli cinque organi de’cinque sensi, sono
le seguenti. Splende la gloria (visum). Folgoreggiano gli scudi. Ridono i prali
(udito). Si rasserena la fronte; l’anima è oscurata per tristezza. Piacquero ad
Aristotele sommamente quella metafora, che ci rappresenta (re-praesentatum,
rappresentato) la cosa in mozzo, e principalmente quando la metafora
attribuisce a una in-animato una operazione di un animato.Tali sono queste di
Omero. Le saette di volar desiose; inorridisce il mare. Anche VIRGILIO,
parlando di una satta entrata nel petto di una vergine, dice. Harsit
virgineumque alle bibit hasta cruorem. Si dalla metafora ci pone la cosa
vivamente quasi innanzi agl’organi dei cinque sensi, e per la “novità” o vita
(no morte) loro ci fanno maravigliare. La metafora, siccome dice Aristotele,
partorisce dottrina, facendo conoscere fra le idee alcuna attenenza dianzi non
osservata. Quale attenenza scorgesi tosto fra un manto e la nobillà della
prosapia? Certamente nessuna: pure veggasi come Alighieri ce la fa scorgere. O poca
nostra nobiltà di sangue, ben tu se'manto, che tosto raccorce, sì che se non
s'appondi die in die lo tempo ya d'intorno co' la for Coine un bello e ricco
manto adorna la persona di colui che sen veste, così adorna l'animo d' alcuni
uomini quell'onore che ricevono pei pregi degli avi loro, e che chiamasi nobiltà:
ma, se per virtù novella non si rinfranca, ei viene di giorno in giorno
scemando. Questi pensieri il divino poeta ci reca alla mente colla nuova
similitudine, e ci dilella e ci illumina. Vale eziandio la metafora a muovere
con maggior forza l’affeto, perciocchè, laddove alcuna volta parole proprie
astretti a recare alla mente di nostro compagno conversazionale le idee una
dopo l'altra, la metafora, rappresentandole tutte ad un tempo, assale l’animo
con veemenza. Basti un solo esempio di PETRARCA, il quale rivolto alla morte
così le dice: con saremmo me dove lasci sconsolato e cieco, poscia che il dolce
ed amoroso e piano lume degli occhi miei non è più meco? Quali e quanli
pensieri si destano nella mente all’espessione “cieco” e la frase/espressione
frasale “lume degli ochi miei”! Ma circa l'uso della metaſora nell’aſſetto si
vuole por menle che ella non mostra il
lavoro e la fatica dell’intelletto, perocchè non è verisimile che colui, che ha
l'animo perturbato, si perda a far cerca d'ingegnosi concetti e figure
retoriche. È ancora pregio della metafora di coprire con velo di modestia e di
gentilezza il segnato, che espressa con un termino *proprio* (e non un termino
figura como e la metafora) sarebbero odioso o turpo. Ecco un bell’esempio di Passavanti.
La innata concupiscenza, che nella s vecchia carne e nell'ossa aride era addor meniata,
si cominciò a svegliare: la favilla, quasi spenta si raccese in fiamma; e le
frigide membra, che come morte si giacevano in prima, si risentirono con
oltraggioso orgoglio. E VIRGILIO dice. O luce magis dilecta sorori, Sola ne perpetua
moerens curpere juventa? Nec dulces natos, Veneris nec praemia noris? Questo e
i principale vantaggio della metaſora, onde sovente viene preferita al termino
proprio. Diremo ora dei vizii che talvolta elle possono avere. Se bella e la
metafora che fa scorgere una maniſesta somiglianza tra due segnati (‘you’ ‘the
cream in my coffee’), da che si toglie il vocabolo e l'altra, a cui si reca,
chiaro è che deformi saravno quelle, che tengono ji paragone di rose o polla e
poco somiglianti, e che sono male acconcie al proposto dne (“a woman without a
man is a fish without a bicycle”). Nessuna somiglianza si vede fra le cose
paragonale nella seguente metafora di MARINI. Folendo egli lodare un maestro,
che formara bellissimi esempi da scrivere, esalta la penna di lui, dicendo
ch'ella deve essere divina: Perchè una penna sela, Benchè s'alzi per sè pronto
e sicura, Se divina non è tanto non rola. E qual somiglianza è mai tra il
relare e lo scrivere? E tolta da peca somiglianza quella metafora che volendo
segnare una cosa piccola prende da una cosa grande l'imagine, e al contrario. Mariai
assomiglia le lacrime della sua douna a'lesori dell'Oriente, e Tertulliano il
diluvio universale al bucato. Erro similmente colui che dice a suo amante. Son
gli occhi resiri archiòugiati a ruote, Ele ciglia inarcale archi turcheschi. È
bellissina la metafora che Poliziano tolse al Boccaccio. E le biade ondeggiar
come fa il mare. Sarebbe difettosa quest’altra. E tremolare il mar come le
biade. Viziose come le sopraddeile sono la più parte delle metafore usate dagli
scrittori del secolo XVII, e soprattutto dai poeti, i quali sriscerarano i
monti per estrarne i metalli, face vano sudare i fuochi, ed avvelenavano l'obolio
colp inchiostro. Parmi inutile cosa l'estendermi in questa materia, essendochè
il nostro secolo, sebbene incorra in altri vizii, di così falle baie si mostra
nemico. Della metafora e l’analogia che e alquanto dura, ė da sapere che puo
essere mollificata per certa maniera di dire, quali sarebbero: quasi – per dir
cosi e che alcune ve nha, che sono state ammollite dall'uso, come la seguente:
Fabbro del bel parlare. Ė da biasimare ancora la metafora, che la sorvenire il
nostro compagno conversazionale di qualche bruttura, o di cosa rile, o che disconvenga
alla gravità della trattata materia o topico. Perciò meritamente Casa
rimprovera ALIGHIERI per essere talvolta caduto in questo difeilo, siccome
quando disse. L'allo fato di Dio sarebbe rotto se Lete si passasse, e lal
vivanda fosse gustala senza alcuno scollo di pentinento. E altrove. E vedervi,
se avessi avuto di tal tigna brama, colui poteri ec. Questa e una imagine
plebea e sconvenienti alla gravità del subbietto. Cosi merita biasimo
Pallavicini, comechè sia maestro sommo nel l'arte dello stile conversazionale,
quando disse, che il cardinal Bentivoglio aveca saputo illustrar la porpora
coll' inchiostro, e quando per accennare la qualità, ond'è costituita
l'eleganza della elocuzione, dice: saputi distintamente quali ingredienti
compongono quesla salsa, cioè l'eleganza; i quali modi sono da biasimare,
essendochè nel primo esempio li vedi dinanzi agli occhi la porpora brullala
d'inchiostro, e nell’altro t’infastidisce l'abbietta voce che sa di cucina.
Similmente non paiono degni di lode coloro, che sogliono usare per vezzo della
conversazione un idiotismo, e segnatamente quello, che ha origine da certa
anticha costumanze dimenticata oggidi. Non merita lode Davanzali quando volendo
dire: o nulla o lullo: disse: o asso o sette. Questo proverbio, oltre chè si è
di vilissima condizione, è tolto da un giuoco, che potrebbe essere sconosciuto
a molli. E proverbio, del quale non si sa l'origine, il seguente; e perciò
freddo od oscuro: Maria per Ravenna, invece di cercar la cosa dove ella non e.
Bastino questi pochi proverbi per moltissimi, che qui si po ebbero recare, e
de' quali vanno in traccia alcuni mal accorti conversatori, onde parere versali
nella lingua antica. Aucora è biasimevole alcune volte la metaſora, che si
deriva dalle materie filosofiche; imperciocchè, se il fine, pel quale il
conversatore usa di quella, si è di rendere più chiaro e più vivo i concetto,
questo non si potrà ottenere traendo la similitudine da cose poco nole o malagevoli
ad intendere, come a la metafisica, che spesso, ond'essere chiarita, hanno
bisogno delle similitudini tolle dalle cose materiali; ma di rado somministrano
imagini, che vagliano a cercar recar luce alle prose ed alle poesie. Pure in questi
tempi sono alcuni conversatori, i quali hanno per vezzo l'usare siffatta
metafora, avvisando d'illustrarne la sua mozzione conversazionale, e di mo
strarsi intendente e sottile; ma va grandemente errato, perciocchè non solamente
appor tano ombra ed oscurità (‘avoid obscurity of expression, be clear) alla
sentenza, ma danno segno di affettazione che è vizio sopra tutti spiacevole. si
è dello di sopra che la metafora diletta, non solamenle perchè ci pone dinanzi
agli oc ebi in forma quasi sensibile un pensiero astratto, ma ancora perchè ci
porge ammaestramento col farci apprendere fra le idee alcuna attenenze prima
non osservata; dal che si deduce che il conversatore, i quali vogliono recar
maraviglia, de guardarsi dall' usare una metafora troppo comunale, come quelle,
che, a somiglianza della monete passata per molle mani, sono rimase senza vaghezza.
Non ogni metafora poi, comechè sia ben derivata, potrà convenire ad ogni
conversazione. Poichè tra le metafore ve n'ha delle più o meno illustri,
converrà avvertire che il grado della nobiltà loro non disconvenga alla qualità
del componimenlo. Similmente nel formare la metafora si vuole avere riguardo al
pensare della gente nella cui lingua si conversa. La diversità de'luoghi e de'
climi fa che gli uomini abbiano diversi i costumi e le usanze, e perciò diverse
ancora le idee e le significazioni di esse. Impercioc chè, traendo ciascuna gente
le similitudini dalle cose, che più spesso le sono dinanzi agli occhi, incontra
che alcun popolo deriva una metafora da una cosa campestre, lal altro da una
cosa marittima, tal altro dal combinercio o dalle arti, secondo suo silo e
costume. Il rigore o la benignità del clima poi è spesso cagione che l'umana
imaginativa sia più vivace in un luogo e meno altrove; e quindi è che una
metafora naturalissime nel Trastevere appaia ardila e strana nel Tevere. Anche
l’essere le geoli più o meno civili cambia la natura della metafora; perciocchè
dove sono leggi meno buone, ivi è più ignoranza del vero; e dove è più ignoranza
del vero è più amore del verisimil; il che torna il medesimo, ove è minor virtù
intelleltiva, ivi abbonda la forza della fantasia. Cadono perciò in gravissimo
errore coloro, che, imilando il volgarizzamento di Ossian falio da Cesarolli,
sperano di venire in fama di sommi poeli toglieodo sempre la metafora da'venti
e dalle tempeste, dai torrenti, dalle nebbie e dalle nuvole. Paiono a costoro
inaravigliose squisitezze e delizie i seguenti, e simili modi: sparger lagrime di
bellà - i figli dell'acaciaro il tempestoso figlio della guerra siede sul
brando distruzione di eroi dar. deggiano gli sguardi rotola la morle - urlano i
torrenti. Cotale metaſora, che per avventura e naturale a'popoli selvaggi, sono
in Italia ridevoli e sciocche fantasie. Alla diversa indole delle genti debbe
anche por mente chi dall' una lingua all'allra trasporla i versi e le prose, se
non vuole produrre nell'animo di nostro compagno conversazionale effetto
contrario a quello che l'autore straniero o forastiero o del Trastevere
produsse in coloro, ai quali volse le sue parole. Affiuché si vegga
manifestamente che non lutte lete. metafore convengono a tulti i popoli,
recherò qui alcuni esempi che a questo proposito Tagliazucchi toglie dalla
lingua latina. Bella metafora si è questa presso Virgilio: classique im millit
habenas; deformità sarebbe tradu re in italiano: melte le briglie alla flolla.
Così per segnare il pane corrotto dall'acqua dice lo stesso poeta. Cererem
corruptam undis; mal si tradurrebbe: Cerere corrolla dall'onde. Orazio disse.
lene caput aquae sacrae; e si tradurrebbe malissimo in italiano: il dolce capo
dell'acqua sacra. Per segnare il liero sdegno d'Achille dice: gravem sioma chum
Pelidae; e malissimo si tradurrebbe: il grave stomaco del Pelide. Moltssime
altre metaſore potrei qui recare, che sono proprie solamente della lingua
latina; ma chi ha cognizione della lingua latina conoscerà di per sè la verità
di quello che io dico, ed argomenterà quanto debbono differire nella metafora
la lingua italiana e quelle de'popoli da noi disgiunli e per costume e per
clima, se tanto differiscono l'italiana e latina con islrelto vincolo di
parentela congiunte. Una regola o massima o omperativo da osservarsi nell'uso
della metafora si è di non aminassarle nella conversazione, ma collocarvele
parcamente e di guisa, che paiano, come dice Cicerone, esserci venule
volonterosamente, e non per forza nė per invadere il luogo altrui. È da
avvertire in secondo luogo, che la metafora o non si dee congiungere con altra
metafora o con voci proprie di maniera, che fra queste e quella si scorga
opposizione maniſesta. Se per esempio avrai detto che Scipione è un fulmine di
guerra, non dirai tosto che egli trioníò in Campidoglio. Se paragonerai
eloquenza ad un torrente, non le attribuirai poco appresso la qualità del
fuoco, ma avrai cura che la metafora sia sempre collegata (e no mista) colle
idee prossime di guise, che nostro compagno conversazionale non trovi mai
contrarietà ne' tuo concetto. In questo difetto caddero anche alcuni autori
eccellenti, come Petrarca nel Sonetto XXXII, dove, cominciando dal dire
metaforicamente, ch' egli ordisce una tela, prosegue: ſ ' farò forse un mio
lavor si doppio fra lo stil de'moderni e il sermon prisco, Che (paventosamente
a dirlo ardisco) Infino a Roma ne udirai lo scoppio. Ma non così egli fece nel
Sonetto che comincia Passa la nave mia colma d'obblio, chè in esso avendo preso
ad assomigliare gli amorosi affanni suoi alla nave, da questa imagine non si
diparte sino alla fine. Non intendo io però di affermare coll’esempio di questa
allegoria, che in breve discorso non possano star bene insieme più metafore di
natura diversa; ma di avveitire che assai disconviene il trapassare da una
similitudine ad un'altra inconsideratamente e quasi per salto. Giova moltissimo
talvolta a render chiare e naturali quella metafora, che per se medesime
sarebbero ardite e spiacenti, il preparare per convenevole modo l'animo di
nostro compagno conversazionale. Se taluno volendo dire che gli uomini per mal
esempio altrui caggiono in errore, dicesse caggiono nella “fossa” della falsa
opinione, use rebbe certamente ardita e spiacevole metafora: nulladimeno ella
diviene bellissima, qualvolta per le cose antecedenti ne siamo disposti. Va.
glia l'esempio di Alighieri. Dopo aver ricordata la nota sentenza se il cieco
al cieco sarà guida cadranno ambedue nella fossa prosegue: i ciechi
soprannominati, che sono quasi infiniti, con la mano in sula spalla a questi
mentitori sono caduti nella fossa della falsa opinione. Cosi l’ardita metafora
divenla parte di una vaghissima dipintura, che viene quasi per gli occhi alla
mente, ed ivi s'imprime e lungamente rimane. Sono certi scrittori, i quali
riducono le idee astratte a termini più astratti (obscurus per obscurius) di
quello che si converrebbe cercand a tulto potere di al lontanarle da' sensi: indi
a questi loro soltilis simi concelti uniscono molte metafore repugnanti fra
loro, il che fa che la mente di nostro compagno conversazionale tra questi estremi
e tra questi contrari confusa nulla comprenda, come si può di leggeri conoscere
nel seguente esempio tolto da un libro moderno: A giudizio dei savi scorgesi
palesement, che nelle vedute su blimi della gran madre anche l'emulazione,
principio avvedutamente inserito nella costituzione dell'uom, ' concorrer deve
a scuotere ed a sferzare l'industria, on de riguardo allo sviluppamento di
questa [Oh quanta confusione ed oscurità in tanta pompa di parole! Pare che il
conversatore volesse dire, che i savi conobbero che la natura ha posto nel
cuore dell' uomo il desiderio d'emulare gli altri; e che da questo procede
l'industri; ma accoppiando i vocaboli principio e costituzione, che sono segni
d'idee molto astratte, colla melaforica voce “inserire” ha composto un enigma;
perciocchè nessuno polrà imaginare chiaramente siffallo innesto. Più strana poi
diviene la metafor, quando l'astratto segnato dalla espressione “principio” si
fa a scuolere ed a sferzare l'ind stria falla inopportunamente persona per
trasformarsi losto in altra cosa, che si sviluppa a guisa di una malassa. In
questa forma la metafora, che e vaghezza e luce della favella, diviene tenebre
alla mente e vano suono (flatus vocis) agli orecchi. Conciossiache L’INTENZIONE
del conversatore non sia solamente di render chiaro il concetto, ma di farlo
talvolta dilettevole e maraviglioso, interviene che alcuni, per recare altrui
dilelto e maraviglia, si fango a derivare dalla metafora certe loro
conseguenze, come se in quella non già una simililudine si contenessa, ma come
se la cosa a cui si reca il nome novello, veramente si trasformasse nella cosa,
donde esso nome si toglie. Di questa specie di concetti si presero diletto i
prosatori ed i poeti del secolo decimo settimo, forse per desiderio di avanzare
gli scrittori delle altre elà, ed in fastidirono tutti i sani intellelli. Basti
di ques 1 [Atti dell' Costitulo pazionale. era sti vizi un solo esempio. Ugone
Grozio, per mostrare che non a dolere la morte di Giovanna d'Arco, dopo aver
lodate nel principio di un epigramma le virtù di lei, sog giunse: Necfas est de
morte queri, namque ignea tota aut numquam, aut solo debuit igne mori. Con
l’espressione “fuoco”, imposta a cagione di similitudine, viene il conversatore
a trasformare la misera vergine in vero fuoco materiale; e quindi trae la
strana conseguenza, che ella mai non dovesse morire, o morire nel fuoco.
Similmente si è frivolo modo e sciocco il derivare la metafora dalla
somiglianza ed uguaglianza de'noni imposti a cose diverse, ALLUDENDO all' una
di esse mentre si fa mostra di ſavellare dell'allra. In questo difetto incorse
anche il primo de'nostri poeti lirici quando, piangendo la sua donna, parla del
lauro, ed allude freddamente al nome di lei, come nella canzone, che comincia, Alla
dolce ombra delle belle fronde ed in molti altri luoghi si può vedere. Essendosi
fin qui parlato de' pregi e de'vizi delle metafore, cadrebbe in acconcio il
ragionare degli altri traslati di parole e di concetto e della figura: ma, perciocchè
queste cose sono state definite e largamente dichiarate da tutti i retlorici,
stimo che qui basti il ricordare che siffatte maniera di favellare non e bella,
se non in quanto vengono dal conversatore opportunamente adoperate. Per lo
stesso fine, che la metafora si propone, cioè di rendere più vivo il concetto,
melte bene talvolta il trasportare l’espressione a un segnato improprio o
nominando invece del tutto la parte (metonimia), o invece della cosa la materia,
ond'ella è composta, o il genere per la specie o il plurale pel singolare
(majestic plural – We are not amused), e viceversa. Si può cadere in difetto
usando questo traslato, che fu chiamato “sinedoche”, ogni qualvolla l'imagine
della cosa, da cui si prende l’espressione, non sia bene associata alle idee,
che si vo gliono svegliare in altrui, non sia atta a fare impressione nell'animo
più che le altre ide, che vanno in sua compagnia. Vaglia a dichiarazione di ciò
un solo esempio. Si dirà con maggior efficacia: fuggono per ſalto mare le vele,
di quello ch: fuggono per l'alto mare le prore; poichè l’imagine delle vele
gonfiate dal vento, come quella, che maggiormente percuote la vista di colui,
che mira la nave in alto, più strettamente d'ogni altra idea si associa
all'idea del fuggire: in altro caso però tornerà meglio chiamar la nave o poppa
o carena, cioè quando l'azione, che essa fa, o la passione, che riceve, meno
con venga alla vela che alle altre parti. Veggasi come ne ua Virgilio: vela
dabant laeti. Submersas obrue puppes si nomida ancora talvolla la causa per
l’effetto, o questo per quella: il contenente pel contenuto: il possessore per
la cosa posseduta: la virtù ed il vizio invece dell'uomo virtuoso e del vizioso:
il segno per il segnato ed il contrario; e questa figura, che dicesi “metonimia”,
giova per le delle ragioni, essa pure adoperala opportunamente, a dare evidenza
alla elocuzione. Ma di questi traslati e di quelli di concetto, che consistono
in sentenze da intendersi a contra-senso (ironia), tanto se ne parla, come già
dissi, in tutte le scuole, che qui, facendo la definizione dell'”allegoria”,
dell'”ironia” e di altri simili traslali, avvertirò solamente che questi
saranno diſellosi se verranno a collocarsi nella conversazione senza essere
mossi dagli affetti. Anche rispetto a quelle forme, che sovente adoperiamo per
rendere più efficaci i pensieri, e che si chiama con ispecial nome figura,
ricorderò che alcune ve n'ha, come l’ “interrogazione” e l’ “apostrophe”, che
nascono dall'affetto, ed alcune altre dall'ingegno, come l'”antitesi”
(contrapposizione) e la distribuzione; e che perciò vuolsi avvertire di non far
uso di queste seconde ne'luoghi, ove si possa credere che colui, che favella,
abbia l'animo perturbato. Ma nessuno avvertimento, per ' vero dire, è giovevole
a chi non sente nell'animo la forza degli affetti. Il più delle figure, come
detto è di sopra, muovono dalla passione, e, se dall'ingegno vengo. no cercal,
riescono fredde e di nessuna virtù: perciò è che male s'imparano da' rettorici.
Con più figure favella la rivendugliola, secondo il detto di un illustre
scrittore, contrattando sua merce, che il retſorico in suo studiato serino ne: tanto
egli è vero che procedono più dalla natura che dall'arte. Questo vogliamo che
ci basli aver dello così alla grossa delle figure. Dappoichè abbiamo detto in
che consista la proprietà dell’espressione e della metafore, e come queste e
quelle si debbano collegare per rendere chiaro ed accelto la mozzione
conversazionale a nostro compagno conversazionale, e fatto alcun cenno de'
traslati e delle figure, vérreio a dire, seguitando le dottrine di Palavicini,
degli elementi, onde è costituita la “eleganza” (cf. Grice, ‘aesthetic
maxims’), senza della quale ogni altro ornamento quasi vano riuscirebbe. L’espressione
“eleganza”deriva dal verbo “eligere” ed è usata a segnare quella certa tersezza
e gentilezza, per la quale una mozzione conversazionale non solamente viene ad
essere scevro da ogni errore, ma in ogni sua parte ornato di qualità che da
tutto ciò che ha del plebeo si allontana. Diciamo delle parti, delle quali ella
si compone, che sono quattro. La prima e la brevità (Grice, ‘be brief – avoid
unnecessary prolixity [sic].” La seconda e l'osservanza delle regole
morfosintattiche. Terzo, la civilita o l'urbanità. Quarta, la varietà
(non-detachability). Sebbene la chiarezza (conversational clarity, be
perspicuous [sic]) spesso si ottenga col l'ampio e largo mozzione
conversazionale, pure talvolta colla brevità si rende il pensiero più lucido e
più penetranti (Brevity is the soul of wit). Le parole, dice Seneca, vogliono
essere sparse a guisa della semenza, la quale comechè sia poca, molto
fruttifica. La sovrabbondanza (over-informativeness) delle parole all'incontro
empie le orecchie di vano suono (flatus vocis) e lascia vuote le menti. Perciò
è da guardare non solo che nostro compagno conversazionale non sia distratto da
una vana proposizione subaltern (premessa minore), ma che non sieno affetti più
da un segno che dall’idea segnata. Saranno perciò utili a togliere questo
inconveniente ed acconce a rendere elegante l'elocuzione quella espressione,
che somigliante alla moneta d'oro equivale al valore di più altre, come le
seguenti: disamare, disvolere, rileggere, ed altre molte, e con queste i diminutivi,
gli accrescitivi, i vezzeggiativi, i peggiorativi, de' quali abbonda la nostra
lingua. Vi sono ancora molti modi, che abbreviano la mozzione conversazione, e
questi consistono nel tralasciare o il verbo o il pronome o la particella o l’affissi,
che racchiusi nella diretta favella puo essere SOTTINTESO. (Implicatura). Basta
qui recarne alcuni ad esempio. Se io grido ho di che dammi bere quo ha di belle
cose onde fosti et cui figliuolo andovui il cielo imbianca - vergognando tacque
a baldanza del signore il baltè иот da faccende non se da ciò vedi cui do
mangiare il mio, ed altri moltissimi somiglianti modi, coi quali si ottiene
questa importantissima parle della eleganza, onde rice. ve nerbo l'orazione,
Avend’io delto che la brevità costituisce gran parte della eleganza, non intesi
di affermare che agli scrillori non sia lecito di esporre le cose
particolarizzando; chè questa anzi è l'arte colla quale si produce l'evidenza;
ma volli avvertire chi brama dilettare altrui colle proprie scritture, di ben
ponderare quali sieno le particolarità, che hanno virtù di far luminoso il
concetto, e di tralasciar quelle, che l'offuscano e pongono l’altrui mente in
falica. Secondo, dobbiamo eziandio osservare la regola morfosintattica, cioè
quelle leggi che la volontà de’ primi favellalori e l'uso di coloro, che
vennero dopo, banno imposto alla lingua italiana. Comechè il trascurarle non
induca sempre oscurità (avoid obscurity of expression) pure importa moltissimo
che sieno osservata, poichè ogni elocuzione irregolare apparisce plebea (un
solecismo). E perciò grande si è la stoltezza di coloro, che vando cercando
negli autori antichi i costrutti contro grammatica, e quelli come pellegrine
eleganze pongono nelle scritture: dal che ottengono effetto contrario al buon
desiderio: per ciocchè o portano oscurità nella sentenza, o in fastidiscono i
lettori facendo ridere gli uomini di lettere, non ignari che quelle strane
forme sono la più parte errori, o di amanuensi o di stampatori o di autori
plebei, de'quali non fu piccol numero anche nel bel secolo dell'oro (errata). Terzo,
siccome sono molli' vocaboli, secondo che è dello, i quali usati già da ' buoni
scrittori han no acquistata certa nobiltà e fanno nobile il conversare, così
pure sono molli modi, i quali, avendo in sè certa gentilezza, il fanno elegante,
e non essendo propri degli stranieri, gli danno quel paliyo colore, e direi
quasi fisonomia, per cui ciascuna favella da ogni allra si distingue. In che
precisamente sia riposta que sta vaghezza, che si chiama civilita o “urbanità”,
si è difficile dichiarare; e perciò assal meglio che con parole, si può
mostrare cogli esempi. Porrò qui dunque alcuni modi volgari, ed al fianco di
essi i moderni urbani o civile. Ciò che loro venisse in grado. A chicsa non
usava giammai. Seppegli reo. Ciò che loro piacesse. Non era solita di andare in
chiesa. Gli parve cosa calli va. Fece rivivere. Il prese per marito. “Era il
giorno in cui” -- Egli domandò al servo certa cosa. Ben io mi ricordo. A vila
recò. Il prese a marito. “Era il giorno che” – “Egli domandò il servo di certa
cosa” -- Ben mi ricorda, o ben mi torna a mente. Vicino di quell'isola.
Non-Upper: Viveva a modo di bestia. “Vicino a quell'isola” Upper: “Viveva come
una bestia” Moltissime sono le forme somiglianti a que ste, le quali, sebbene
non vadano per la bocca de ' comunali scrittori, pure sono chiare e naturali, e
per cerla loro indicibile gentilezza recano diletto. Vogliono però essere
parcamenle adoperate, perocchè in troppa copia ſarebbero il discorso ricercato;
e questo difetto dobbia mo schivare anche a pericolo di parere negligenti. La
negligenza è mancanza di virtù (salvo quando e falsa – nulla piu difficile che
falsare la negligenza), che rende meno lodevole il discorso, ma non meno
credibile: e l'affettazione è deforme vizio, che al dicitore toglie autorità e
fede. Modo più sconcio si è quello di coloro, i quali, per vaghezza di parere
eleganti ed SUO esperti della PATRIA LINGUA – LINGUA PATRIA -- patria lingua,
compongono prose con parole e modi fuor d'uso, e costruzioni contorte alla
boccaccesca; e della stessa guisa fanno versi oscuri e senza grazia e senza per
bo, e si argomentano poi di avere imitato Aligheri o Petrarca. Ma che altro per
verità fanno costoro, se non se muovere a sdegno i buoni ingegni, e dare
occasione al volgo di ridersi di quei pochi, che studiano a’libri antichi?
Un'altra generazione di scrillori (e questa è dei più ), alzato il segno
dell'anarchia, gridando che l’USO è l'ARBITRO della lingua (Wittgenstein), si
fa beffe di ogni gentilezza e di ogni proprietà: guida per entro l'idioma
nativo parole e forme forestiere, e il guasta sì, che non gli lascia di se non
la sola terminazione delle voci. Cosi due sette di contraria opinione
vorrebbero partire la repubblica letteraria. L'una tiinida e superstiziosa restringe
la lingua a que' termini, in cui stette nel trecento: l'altra licenziosa ed
arrogante vuole che ogni ar gine si rompa sì, che le purissime fonti del civil
conversare si facciano torbide e limacciose. Affinchè appaia manifesto il torlo
di questi se diziosi, dirò che cosa sia lingua; e dalla sua definizione trarrò
alcune conseguenze. La serie de' segni e dei modi vocali instituiti a rappre
sentare ogni generazione di pensieri, o, per meglio dire, ad esprimerc tulle
quante le idee, ond’è formata la scienza di una patria, è ciò che dicesi lingua
(come l’italiano dal latino, o il pidgin e il creole che e il francese). Da
questa definizione si deduce che nè una sola città nè un'età sola può essere
autrice e signora della lingua italiana – Roma e la citta della lingua romana;
ma che è forza che alla formazione di questa abbia avuto parte la nazione
intera, cioè tutti gli uomini congiunti di luogo e di costumi, che hanno idee
proprie da manifestare; e che a scernere il fiore dalla crusca abbiano dato e
diano opera gl'illustri scrittori. E così avvenne di vero nella formazione e
nell'incremento di questo, che Alighieri chiamò, ironicamente, il volgare
d'Italia, poichè, come dice BEMPO, e un siciliano e un Pugliese e un Toscano e
e un Marchegiano e un romagnolo e un lombardo e un veneto vi posero mano. Tutte
le parole dunque per tal guisa formate, che vagliono ad esprimere con chiarezza
i pensieri, potranno essere con lode usate, sieno elle an tiche o moderne; chè
le moderne ancora deb bono essere benignamente accolle, quando sie no
necessarie a segnare una idea novella. Quella facoltà, che fu conceduta agli
antichi, non si può togliere ai presenti uomini; perciocchè, se non si possono
prescrivere limiti all'umano sapere, nè meno alla quantità dei segni delle idee
si potrà prescrivere (quark, querk). Per la qual cosa ſu e sarà sempre lecito
a' sapienti, qualvolla la necessità il richiegga, l'inventare una nuova
espressione (“Deutero-Esperanto”) e un nuovo modo. Questa risposta è alla selta
dei superstiziosi. Ora ai libertini (Bennett – meaning-liberalismo –
libertinismo semiotico – Locke – liberty) brevemente diremo che la lingua
italica non è la lingua del volgo, ma, come è delto, si è quella, che gli
illustri scrittori di ogni secolo hanno ricevuta per buona, e che perciò quando
si dice che appo l'uso è la signoria, la ragione e la regola del parlare, non
si vuol dire l'uso del volgo, ma de' buoni scrittori. I più antichi die dero
vita e forma alla lingua romana, ed i posleri loro la arricchirono e la
potranno arricchire, non senza grande biasimo potranno toglierle l’essere suo.
Siccome ad ogni mazione è spe ma ciale la fisonomia e certa foggia di vestire,
cosi e speciale al idio-letto le voci ed i modi propri e figurati, i quali
hanno attenenza co'diversi costumi delle diverse genti; e perciò coloro, i
quali vogliono introdurre licenziosamente nell'idioma nativo espressione e modi
forestieri – implicate, non impiegato -- operano “contro ragione”, e, mentre ambiscono di essere tenuti uomini liberi
e filosofi, fanno mostra d'obbrobriosa ignoranza. Non si lascino dunque
sopraffare i gio vanelli da quei beffardi filosofastri, che con trassegnano per
derisione col nome di purista chi studia scrivere italianamente; ma alla co
storo petulanza coll'autorità di CICERONE ri spondano arditamente che colui, il
quale la patria favella vilipende e deforma, non solo non è oratore, non è
poela, ma non è uomo (CICERONE, de orat.). Quarta e ultima, se le parole
fossero sempre composte ugualmente, non sarebbero graziose a chi ascolla o
legge; e perciò un altro elemento della eleganza si è la variet. Il discorso può
ricevere varietà da sei luogh, che ad uno ad uno ver remo a dichiarare
brevemente, seguitando Pallavicini. Accade tante volte di dover nominare replicatamente
la cosa medesima, e ciò produce noia agli orecchi, i quali sopra tutti i sentimenti
del corpo sono vaghi di varietà; onde per isfuggire la ripetizione delle voci
sono molto giovevole il sinonimo, quando la piccola differenza, che è in essi,
non tolga al discorso laproprietà necessaria; per non peccare contro la quale
sarà mestieri aver considerazione, co me allrove si è detto, al vero
intendimento de vocaboli. Se, a cagion d'esempio, dovendo si cambiare
l’espressione “fanciullo”, si prendesse l’espressione “infante”, si osserverà che
questa, venendo dal verbo fari, segna non parlante, e che perciò non può strettamente
essere sempre sostituita a quella di “fanciullo”. Il secondo dai sei luogo
della varietà sta nel ra presentare una cosa pe' suoi effetti congiunti, come,
a cagion d'esempio, se poeticamente dicessimo; il sole velava i pesci, per dire
era il fine dell'inverno: al germogliare delle piante, per dire al tornare
della primavera. Con somma grazia e novità Aligheri rappresentò la sera pe'
suoi effetti dicendo: Era già l'ora, che volge il desio a' naviganti, e
inlenerisce il core lo di, che han detto a' dolci amici addio; E che lo nuovo
peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano, Che par il giorno pianger,
che si muore. Questo fonte di varietà è abbondantissimo, e possiamo vederne un
esempio in Bernardo Tasso, che in cento modi segna il sorgere del giorno. Nel
rappresentare le cose pe' suoi effetti porrai cura che questi non destino al
cun pensiero sordido od abbietlo, e che nel le scritture famigliari la
congiunzione loro coll'oggetto sia mollo nola, sicchè non paia puplo ricercata.
Il terzo luogo dai sei modi sono le definizioni o epiteto o apposizione delle
cose, o sia le brevi descrizioni loro, le quali si possono prendere invece
delle cose stesse, o que ste indicare per alcuna loro speciale proprietà; come
chi per nominare Giove dicesse il padre degli uomini e degli Dei, o per dire la
fortuna, Colei, che a suo senno gi infimi innalza ed i sovrani deprime. Il
quarto luogo dai sei modo si è l'uso promiscuo del signato attivo, medio, o
passivo da un verbio Potrai dire: Raffaele colori questa tavola, ovvero, da
Raffaele fu colorita questa tavola; e secon do che chiederà il bisogno, userai o
questo o quello segno. Il quinto luogo dai sei luoghi è la qualita (categoria
d’Aristotelel'uso negativo (o infinito – privazione) invece dell’affirmativo o
positivo; come chi sosliluisse alla proposizione positiva o affirmative
seguente, ma con signato negativo: Il sole si oscurò, quest' altra proposizione
splicitamente negative, per mezzo dell’adverbo di negazione, “non”: Il sole non
isplendette”. Il sesto luogo dai se luoghi e la metafora (you’re the cream in
my coffee), per la quale si può maravigliosamente variare il discorso, ora volgendo
in “senso” (segnato, strettamente) metaforico – Sensi non sunt multiplicanda
praeter necessitatem – uso metaforico -- un concetto allre volle espresso con
termini propri: ora usando una metafora tolta o dal genere o dalla specie o da
cose animate o da cose inanimate: ora quelle, che si presentano ai sensi: ora
le altre, che si riferiscono agli altri sentimenti del corpo. Ornamento, dal
quale l'elocuzione riceve molta gravità, e la sentenza. La sentenza o dogma o
assioma o principio o adagio o gnomico o proverbo (“Methinks the lady doth
protest too much” what the eye no longer sees the heart no longer grieves for”)
si è verità morale ed universale, segnata con la brevità, che all'intelletto
sia lieve il comprenderla ed il ritenerla. Tali sono le seguenti. Ipsa quidem
virlus sibimet pulcherri. ma ncrces. Quidquid erit, superanda omnis for tuna
ferendo est. La mala ineple non ha mai allegrezza di pace. Proprio de'tiranni è
il temere. La buona coscienza è sempre sicura. Avvegnachè la sentenze sia più
accomodata a quella conversazione che tratta di materie gravi, nulladimeno
possono adornare molte altre specie di componimenti, e perfino le lettere
famigliari, se ivi con moderazione sieno adoperate. Dico che sieno adoperate
con moderazione, perchè il soverchio uso delle sentenze, anche nelle materie
più gravi, è indizio che lo scrittore vuol ostentare sapienza, e perciò il fa
parere affettato. In cotal vizio cadde ro molli scrittori del secol nostro, i
quali me ritamente furono tacciali di “filosofismo” di Borsa, che in una sua dissertazione ra giopò
del presente gusto degl'italiani. Scon venevolissimo è l'abuso e talvolta anche
l'uso della sentenza pe' discorsi, che trattano di cose mediocri o umili. Ma
che diremo poi росо senno di coloro, che guidano in teatro i servied altre persone
rozze ed agresli a parlamentare ed a spular tondo, come se dal pergamo
predicassero? Questo è modo tanto sconcio, che il volgo slesso ne rimane
infastidito, on d'è qui da passare con silenzio. È da lodarsi segnatamente
nelle opere morali o politiche l'elocuzione, che a quando a quando sia ornata,
ma non tessuta di sentenze, la copia soverchia delle quali, stanca i lettori
invece di sollevarli, come si può sperimentare leggendo le opere morali di
Seneca. Lo scrittore dal quale più che da ogni altro si apprende a fare buon
uso della sentenza, è Cicerone, nelle cui filosofia mai non pare che quelle
sieno condotte nel discorso a pompa, ina sempre vi nascono naturalmenle per
recar luce e diletto. Diciamo alcuna cosa anche del concetto, onde viene grazia
o piacevolezza ai componimenti. Concetto propriamente si dice una certa
proposizione, che per essere nuove ed espresso con brevi parole recano altrui
diletto e maraviglia e scuoprono il sottile ingegno di chi le dice. Ve n'ha di
due maniere. La prima è dei delti gravi, l'altra dei ridevoli, che con proprio
nome si chiama una facezia. Gli uni e gli altri nascono da’ medesimi luo ghi, e
differiscono, secondo Cicerone, solamente in questo: che i gravi si traggono da
cose oneste; i ridevoli da cose deformi o alcun poco turpi: ma pare veramente
che a far ri devole un dello, sia necessario, il più delle 1 volle, che esso
comprenda in sè alcune idee discrepanti congiunte insieme di maniera, che la
congiunzione loro ben si convenga con una terza idea. Ciò sia chiaro per un
esempio. Un buon ingegno de' nostri tempi fcce incidere in rame la figura di un
vecchio venerabile con lunga barba, vestito alla francese, ornato di frangie e
di feltucce e tutto cascante di vezzi, e sotto vi pose queste parole. Traduzione
d' Omero di M. C. Tultii ne fecero le risa grandi. Se il ridicolo di questa
figura consistesse nel solo accoppiamento dell'imagine dell'uomo antico e grave
con quella de' giovani leziosi, ci ſarebbe ridere anche l'imagine di una sirena,
che è composta di due contrarie nature; lo che per verità non accade, ed
accadrebbe solamente qualora si dicesse che la bella donna, che termina in
pesce, figura delle folli poesie ricordate da Orazio nella Poetica. Pare dunque
manifesto che il ridicolo di sì falta deformità si generi dalla convenienza che
è tra esse e la cosa, cui si vogliono assomigliare. Per ciò s'intende quanto
diriltamente Castiglione dichiari che si ride di quelle cose, che hanno in sè
disconvenienza, e par che slieno male senza però slar male. Affinchè prima di
tutto si vegga che da’ luoghi, donde si cava la grave sentenza, si possono ancora
cavare i molli da ridere, re cherò l'esempio, che ne dà Castiglione. Lodando un
uom liberale, che fa comuni cogli amici le cose proprie, si polrà dire, che ciò
ch'egli ha, non è suo: il medesimo si può dire per biasimo di chi abbia rubato,
o con male arti acquistato quello che tiene. Di un buon servo fedele si suol
dire: non vi ha cosa che a lui sia chiusa e sigillata: e que sto similmente si
dirà di un servo malvagio destro a rubare. Le maniere de concelli ingegnosi
sono pres sochè infinile, e di moltissime ha ragionalo Cicerone nel terzo libro
dell'Oratore, ma noi toccheremo qui solamenle alcune principali. Cicerone
distingue primieramente le maniere graziose, che consistono nelle parole, da
quelle che stanno nella cosa, o che si esprimono col parlare continuato. Egli
dice che consistono nella cosa quelle (sieno gravi o piacevoli ), che mulale le
parole non cessano di generare maraviglia o riso: tali sono le narrazioni
verisimili, e fatte secondo il costume e le varie condizioni degli uomini, e di
queste molte ve n'ha nel Decamerone di Boccaccio. Una seconda consiste nella
imitazione de’ costumi altrui fatta per modo di parlare continuato, come quella
che fece Crasso, il quale in una sua orazione contraffacendo un uom supplichevole
con queste parole, per la tua nobiltà, per la tua famiglia, ne imitò cosi bene
la voce e gli alti, che mosse la gente a ridere; e proseguendo, per le statue,
distese il braccio, ed accompagnò la voce con geslo e con imitazione si
naturale, che le risa scoppiarono maggiori. Queste sono le due maniere, che
consistono nella cosa, e che si esprimono col parlar continuato. Quelle che maggiormente
si attengono alla materia che qui si tratta sono le maniere di que'concetti, la
grazia de quali sta nella parola. Recbiamone esempi. Alcuni molli graziosi si generano
in virtù della metafora. Avendo Lodovico Sforza duca di Milano eletta per sua
impresa una spazzetta, con che voleva segare se essere disposto a cacciare dall'Italia
gli oltremontani, domanda alcuni ambasciatori fiorentini, che loro ne paresse.
Quelli risposero. Bene ce ne pare, salvochè molle volle avviene che chi spazza
tira la polvere sopra di sè. Più grazioso ė il motto, quando ad alcuno, che
metaforicamente abbia parlato, si risponde cosa inaspettata continuando la metafora
stessa. Tale si fu detto il Cosimo de' Medici, il quale a' Fiorentini
ſuoruscili, che gli mandarono a dire che la gallina cova, rispose. Male potrà
covare fuori del nido. Anche il paragonare cose vili e piccole a cose grandi è
spesso cagione di ridere, come in questi versi del Berni: E prima, iodanzi
tutto, è da sapere che l’orinale è a quel modo tondo, Acciocchè possa più cose
tenere, E falto proprio come è falto il mondo. Dobbiamo in questa maniera della
facezia guardarci dal fare sovvenire il compagno conversazionale di cose laide
e stomachevoli, affiochè la piacevolezza non degeneri in buffoneria: lo che
sovente accade a coloro, che non sono piacevoli per naturale disposizione. Molti
molti ridevoli si formano per via di iperbole [“Every nice girl loves a
sailor”] accrescendo o diminuendo alcuna cosa. Diminui ed accrebbe a un tempo
le cose Cicerone parlando giocosamente di suo fratello, che essendo di piccola
slatura aveva cinto il fianco di una spada' smisurata. Chi ha, disse, cosi legato
mio fratello a quella spada? Dall’equivoco procede spesso i motti freddi ed
insulsi, ma spesse volte ancora gli arguli. Argulo parmi il seguente in biasimo
di una donna, che fosse di molli. Ella è donna d'assai: il qual molio potrebbe
ancora essere usato per lodare alcuna femmina prudente e buona. Molla venustà è
in que’ delli, che invece di esprimere due cose ne esprimono una sola, per la
quale l'altra s'intende (IMPLICATURA, SOTTITESSO). Assai leggiadro è questo in cui si favella di un'amazzone dormiente,
recato ad un esempio da Demetrio Falereo: in terra aveva posto l'arco, piena
era la faretr, e sotto il capo aveva lo scud: il cinto esse non isciolgono mai.
Similmente è grazioso il nominare con buone parole le cose non buone, come fece
lo Scipione, secondo che narra M. Tullio, con quel centurione, che non si era
trovato al conflitto di Paolo Emilio contro Annibale. Il centurione scusasi di
sua negligenza col dire. Io sono rimasto agli alloggiamenti per farli sicuri; perchè,
o Scipione, vuoi dunque tormi la civiltà? Cui rispose Scipione. Perchè non amo
gl;uomini troppo diligenti. Sono assai argute quelle risposte, per le quali si
DEDUCE da una medesima cosa il contrario di quello che altri deduceva. Appio
Claudio dice a Scipione. Lo maraviglio che un uomo ďalto affare, quale tu sei,
ignori il nome di tante persone. Non maravigliare, rispose Scipione, perocchè
io non sono mai 69 blato sollecito d’imparare a conoscer molti, ma a far si,
che molti conoscano me. Per egual modo Parnone rispose a colui che chiamava
sapientissimo il tempo: Di pari dunque potrai chiamarlo “ignorantissimo”, perchè
col tempo tutte le cose si dimenticano. Il concetto della risposta
conversazionale può essere grazioso solamente perchè racchiude alcun
insegnamento non aspettato da colui che fa la domanda. Fu chiesto ad uno spartano,
perchè si facesse crescere la barba, e quegli rispose. Acciocchè mirando in
essa i peli canuli io non faccia cosa, che all età mia disconvenga. Hauno
grazia similmente alcuni detti, perchè mollo convengono al costume della
persona, alla quale si attribuiscono. Essendo un colal uomo beone caduto
inſermo, era assai mole stalo dalla sete. I medici a piè del suo letto
parlavano tra loro del modo di trargli quella molestia, quando l'infermo disse:
Ponsate di grazia, o signori, a togliermi di dosso la febbre, e del cacciar via
la sete lasciate la briga a me solo. loducono a ridere anche que’ detti, che
procedono da sciocchezza o goffezz, finta o vera che ella sia. Tali sono le due
seguenti terzine di Berni: lo ho sentito dir che Mecenale Diede un fanciullo a
VIRGILIO Marone, che per martel voleva farsi frate; E questo fece per
compassione, ch'egli ebbe di quel povero cristiano, Che non si desse alla
disperazione. si può similmente cavare il ridicolo dalle parole composte di
nuov, che esprimono al cuna deformità del corpo, o dell'animo, come furono
queste usate dal Boccaccio: picchia. pello; madonna poco.fila; lava-ceci; bacia
santi. Si falte maniere, che direi quasi deſormità della lingua, poichè
dall'uso si allonta pano, essendo convenienti alla cosa segnata stanno bene, e
perciò inducono a ridere e han lode di graziose; ma se poi in forza dell'uso
divengono proprie, perdono, a somiglianza delle vecchie metafore, alquanto
della grazia primiera. Osserva Demetrio Falereo che la grazia del detto proviene
alcuna volla dall'ordine solamente, quando una cosa posta nel fine produce un
effetto, che posta nel mezzo o nel principio nol produrrebbe, o il produrrebbe
minore. Egli reca l'esempio seguente di Senofoole, che, parlando dei doni dali
da Ciro a certo Siennesi, disse. Gli donò un cavallo, una vesle, una collana, e
che i suoi campi non fossero guasti. L'ullimo dono è quello dove sta la grazia,
parendo cosa nuova, che si donasse a siennesi ciò che egli possedeva: se quel
dono fosse stalo collocato prima degli altri non avrebbe avuto grazia alcuna.
Bello pel medesimo artificio ci pare un detto di Benedetto XIV. Accomiatandosi
da lui due personaggi di religione luterana, egli avvisa di benedirli e di
ammonirli. Era di vero assai agevol cosa il fare che egli no ricevessero con
grato animo quell'atto di amore paterno: ma il venerabile vecchio ollenne il
buon effetto parlando così. Figliuoli, la benedizio ne de vecchi è acceita a
tutte le genti; il Signore v'illumini. Ingegnosissimo si è que sto detto per
l'ordine suo maraviglioso. Colla prima affeltuosa parola, “Figliuolo,” il papa
procacciasi la benevolenza del compagno conversazionale. Nella sentenza, la
benedizione de’vecchi è accetta a tulle le genti, chiude la prova della con
venevolezza di ciò ch'egli vuol fare. In quel l'io io vi benedico, trae la
conseguenza delle promesse. Nella precazione poi ripiglia la dignità di
pontefice, che accortamente aveva quasi deposta da principio e solto cortesi pa
role nasconde il documento, che a lui si ad dice di porgere a chi è fuori della
chiesa romana. Questo ci basti d'aver ragionato pei delli graziosi e piacevol,
chè il voler parlare di tulle le maniere loro o semplici o miste sarebbe
officio di chi volesse trattare solamente di questa materia: e diciamo con
maggior brevità de’ concetli sublimi. Alcuni haimo chiamato sublime
qualsivoglia concetto, coi nulla manchi di grazia e di perfezione; ina qui si
vuol prendere la parola nel segnato, in che viene usata da ' più de' moderni
reltorici e perciò così detiniamo i concetto sublime. Concetto sublime si
dicono quelli, che rappresentano con brevi parole l'idea di alcuna potenza o
forza straordinaria, per la quale chi ode resla compreso di alla maraviglia.
Tali sono i seguenti. Giove nel primo libro dell'Iliade promette a Teli di
vendicare Achill, e dopo il conforto delle sue parole i neri Sopraccigli inchinò:
sull immortale Capo del sire le divine chiome Ondeggiaro, e tremonne il vasto
Olimpo. Questo concetto, il quale ci fa maravigliare della potenza di Giove,
cesserebbe di essere sublime se con lunghezza di parole fosse segnato: perchè
quella lunghezza sarebbe contraria alla rapidità dell'alto divino e farebbe che
il pensiero del poeta non venisse improvviso alla mente di nostro compagno
conversazionale, che è quanto dire non generasse maraviglia. Sublime è ancora
quel luogo di T. LIVIO nella allocuzione di Annibale a Scipione. Ego Annibal
pelo pacem, poichè la parola Annibal reca al pensiero la virtù, le imprese, la
fero cia di quel capitano. Medesigiamente si fa maniſesta una straordinaria
fortezza di animo ne'due luoghi seguenti. Seneca, nella Medea, fa dire alla
nudrice: Abiere Colchi: conjugis nulla est fides, Nihilque superest opibus e
tantis tibi. Medea risponde: Medea superesto Corneille, ad imitazione di Senec:
Nerine: Dans un si grand revers que vous reste- t- il? Med. Moi. In luogo del
nome di Medea il poeta francese pose il pronone, ed ottenne effetto maraviglioso
e colla brevità e con quella cotal pienezza di suono, che è nella voce “moi”.
Il poeta latino col nome di Medea desta nel compagno conversazionale la memoria
della potenza, della sapienza e della magnanimità di quella maga. Divisata così
la natura de' motti graziosi e piacevoli e de' sublimi, e restando a dire al
cuna cosa dell'uso, che se ne può fare, ripe teremo ciò, che già detto abbiamo
delle sentenze, cioè che lo scrittore si guardi dal fare troppo uso de'
concetti ingegnosi e graziosi e de' sublimi, poichè non è cosa tanto contraria
alla grazia e alla grandezza, quanto l'artificio manifesto e l'affettazione. Le
grazie si dipinsero ignude appunto per insegnare che elle sono nemiche di tutto
che non è ingenuo e naturale. La grandezza similmente non va mai disgiunta
dalla semplicità, e piccole appaiono sempre quelle cose, che sono piene
d'ornamenti; imperciocchè la mente soffermandosi in ciascun d'essi riceve molle
e divise imaginet le in luogo di quella imagine sola, che ci rappresenta la
cosa continuata ed una. Male adoperano coloro che non avendo rispetto alla
materia, di che favellano, nè alle persone ne alla modestia nè alla gravità
conveniente allo scrittore, colgono tutte le occasioni, che loro porgono o le
cose o le parole, per trar materia di motleggiare; perocchè invece di mo strare
acutezza d'ingegno appaiono loquaci ed insulsi. Che dovrà dirsi poi di que, che
abusano dell'ingegno per empiere le scritture di freddi e falsi concelti, di
riboboli, di bislicci e d'indovinelli? di que', che tengono per finis sime
arguzie le allusioni delle parole, che erano la delizia del Marino e de' suoi
seguaci? Diremo che nali non sono per ricreare gli ani mi e sollevarli dalla
fatica, e per indur ſesta e riso, ma per noia, fastidio e sfinimento di chi è
costretto di udirli. Se il discorso si fa strada all’animo per gli orecchi, è
necessario che egli sia accompagnato dall' armonia, della quale niuna cosa ha
maggior forza negli uomini. L'armonia ci dispone al pianto e all'ira, e ci
rallegra e ci placa; e lulle le genti, avvegnachè barbare, sono tocche dalla
dolcezza di lei; laonde gran de mancamento sarebbe, se lo scrittore ad ac
crescere efficacia alle sue parole non se ne valesse. Dalla greca voce d.gpótely
(armosin), che segna connettere, è derivata la voce “armonia”. I maestri di
musica insegnano, che essa consiste nell'accordo di più voci sonanti nel
medesimo punto; ma coloro, che parlano del l'arte retorica e della poelica,
presero questa parola quasi nel significato, che i maestri di musica prendono
quella di melodia, come si vede aver fatto Aristotele, che usò in questa
significazione ora la voce melos, ora la voce armonia. La melodia consiste
nella altenenza, che hanno rispettivamente i gradi successivi di un suono nel
salire dal grave all'acut: e noi direino che rispetto al discorso l'armo nia
sta nell'altenenze delle lettere o delle sil labe o delle parole, che si
succedono con quel la certa legge che si affà alla natura dell'or gano
dell'udito. L'armonia, di che parliamo, è di due maniere, semplice o imitative.
L’una ba per fine soltanto la dileltazio ne degli orecchi, l'altra, oltre la
dilettazione degli orecchi, la imitazione del suono e dei movimenti delle cose
inanimate e delle animate, e quella degli umani affetti: colle quali imitazioni
inaggiormente ella si rende accetta all'intelletto e gli animi sigrioreggia. La
dilettazione degli orecchi si ottiene con parole costrutte e disposte in modo
analogo, come è dello, alla natura dell'organo del l'udito e fuggendo tutte le
voci e tutti gli accozzamenli di esse, che producono sensazio ne spiacevole.
L'imitazione poi si fa adope. rando e componendo suoni o gravi o acuti o inolli
o robusti, secondo che meglio si affanno a ciò che si vuole imitare. Diciamo
alcuna cosa più largamente e dell' una e dell'altra armonia, l’armonia semplice
e l’armonia composita o imitativa. Le parole, le quali, come tutti sanno, si
compongono di vocali e di consonanti, sono più o meno armoniche, secondo che le
lettere delle due specie suddelte si trovano disposte con certa proporzione. Le
vocali fanno dolce il vocabolo le consonanti robusto. Ma le troppe vocali, che
si succedono, producono quel suono spiacevole, che si dice iato; le troppe
consonanti fanno le parole aspre e diſficili a pronunciare: così l'incontro
delle sillabe somiglianti produce la cacofonia, Circa le parole non molto
armoniche, ma approvate dall' uso, diremo chę elle non si banno a rigettare; ma
si deve aver cura di collocarle in guisa, che il loro suono disarmonico serva
al l'armonia di tutto il discorso. Anzi sono da commendare quelle lingue che
ricche si trovano di vocaboli diversi di suono, i quali, giunti insieme con
bell'arte, sogliono rendere maravigliosa l'armonia del conversare. Sebbene,
circa l'arte del collocare le parole con armonia, non possa darsi maestro
infuori dell' orecchio avvezzo alla lettura de' classici scrittori, pure non
sarà del tutto vano il dire più particolarmente alcuna cosa delle parti, onde
l'armonia si coropone. E prima di tutto è a sapere che l’altenenza tra le
lettere, le sillabe e le parole, dalle quali risulta l'armonia, sono di due
ragioni: cioè altenenze di tempo, poichè si pronunciano o in tempi uguali o
disuguali; e attenenza di suono, poichè ogni sillaba differisce dall'altra per
aculezza e gravità e per più o meno di dolcezza o di asprezza. Diciamo prima
delle attenenze di tempo. Pie chiamamo I LATINI quella certa quantità di
sillabe, che pronunciandosi in tempi eguali, si potevano misurare colla battuta
del piede nel modo che oggi ancora fanno i suonatori. E, poichè si
pronunciavano più o meno sillabe (attesa la varia conformazione delle parole)
in ispazi uguali di tempo, avvenne che lunghe si dissero quelle che occupavano
la maggior parte del tempo misurato dalla battuta, e brevi le altre, che
occupavano la parte minore. “Coelum”, per esempio, si compone di due sillabe e
si pronuncia in ugual tempo che ful-mi-na, che è di tre: perciò coelum è un
piede di due lunghe, e ſulmina è un pie de di una lunga e di due brevi. I piedi
sono di molte specie, e ciascuna ha il suo nome. Ve n'ha de' semplici di due
sillabe, che sono o due brevi o due lunghe, una breve e una lunga, o una lunga
e una breve: ve n'ha di tre sillabe, che per la varia combinazione delle brevi
e delle lunghe risultano di otto specie: ve n'ha finalmente più di cento specie
dei composti, cioè formali dall' unione di due piedi semplici.
Dall'indelernipala quantità di piedi disposti con legge analoga alla natura
dell'organo del l'udito umano, la qual legge si sente nell'anima e definire non
si può, nasce il numero; e similmeple dall ' unione determinata di varii piedi,
i versi, che sono molle maniere, se condo la qualità de' piedi, onde sono
composti. Dalla varia qualità e quantità de’ versi nascono poi le differenti
specie del metro. A rendere armonioso il verso si congiunge al pu nero il
suono, che, siccome abbiamo accennato, si genera dalla proporzione, con che
sono di sposte le consonanti e le vocali. Da ciò nasce che, sebbene talvolta i
versi abbiano il medesimo número, non hanno il medesimo suono, ma variano nella
loro armonia maravigliosamente: per la qual cosa interviene che dalla unione di
molti versi che abbiano il medesimo numero, come a cagion d'esempio, di esametri,
si possono generare molle ed assai varie armo pie: la diversa upione di queste
armonie di cesi, “ritmo”. Come nella poesia dal ipovimento di molti versi upili
nasce il ritmo poetico, così da quello di minuti membri d' indeterminala mi
sura nasce quello della prosa, il quale pure è di varie sorla, siccome avremo
occasione di osservare in appresso. Ora veniamo a dire del l'armonia della
favella italiana. Gl’italiani non hanno determinata la quantità nelle sillabe,
come si vede aver fatto i latini, per la qual cosa nemmeno i piedi hanno potuto
determinare. Alcuni letterali del sesto decimo secolo, fra' quali il Caro,
tentarono di rinnovare fra noi i versi esametri ed i pentametri, ma quanto poco
(per la in sufficienza della lingua nostra) al buon volere rispondesse l'effett,
apparirà dai seguenti versi di Claudio Tolomei, i quali, se non sono molto
aiutati dall'arte del recitante, non possono ricevere soavità. Ecco il chiaro
rio, pien eccolo d'acque soavi, Ecco di verdi erbe carca la terra ride. Scacciano
gli alni i soli co' le frondi e co'ra (mi coprendo; Spiraci con dolce fato
auretta vaga. A noi servono invece di piedi le sillabe é gli accenti, e quindi
è che da un determinato numero di sillabe e da una determinata positura di
accenti nasce il numero, onde si generano molte specie di versi. Omettendo le
di spute de'rettorici e le loro opinioni circa questa materia, faremo qui alcun
cenno solamente rispetto agli accenti. Le parole sono di una o più sillabe: se
di una soltanto, l'accento è su quella, come in tu, me, no, si: se di più o
egli è nell'ullima, come in mori, o nella pri 79 ma, come in tempo, o nella
penullima come in andarono, o prima di essa, come in concedea glisi. L’indicati
accento si dice “acuto”, perchè alzano la pronuncia: dove questi non sono, si
trova il “grave”, che l'abbassano. Gli acuto e il grave alzando ed abbassando il discorso, por tano
seco certa proporzione di tempo, e perciò tengono fra noi il luogo de' piedi
Jalini, e formano varie specie di versi, che, secondo, la quantità delle
sillabe, si dicono o pentasillabi o senarii o seltenarii o ottonarii o
novenarii o decasillabi o endecasillabi. Dalle varie unioni di questi nascono i
diversi metri. E il ritmo nasce nel modo, che si è detto parlando della lingua
latina, e circa il verso e circa la prosa. Non si contenta l'animo upano
dell'armonia, onde è ricreato solamente l'orecchio, ma gran demente si piace di
que' suoni, che più vivamenle ci pougono innanzi il segnato; e questo
specialmente egli ricerca nella poesia, la quale o avendo, o mostrando di avere
per suo principal fine il diletto, dee apparire più d'ogni altro discorso
ordinala, e splendida: sarà quindi utile cosa l'investigare quale sia la virtù
imitativa delle parole. Questa e l’armonia imitativa. Dalla mescolanza delle
lettere liquide e delle vocali risulta infinita varietà di vocaboli dell’imitazione
delle grida, de’suoni, de’romori e de’movimenti, e chi, porrà mente alla nostra
lingua troverà, secondo che osserva BEMPO, voci sciolle, languide, dense,
aride, morbide, riserrate, tarde, mutole, rolle, impedite, scorrevoli e
strepitanti. Perciò è che variando la composizione di questi suoni si potranno
ordinare.e versi e ritmi, che ogni grido o romore o movimento vagliano ad imi.
tare. Jofinili esempi bellissimi di si ſalta imi. tazione sono nella Divina
Commedia: ma basti qui la sola descrizione dello strepito, che ALIGHIERI udi
nell'Inferno: Quivi' sospiri, pianti, ed alti guai risonavan per l'äer senza
stelle, Perch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole
di dolore, accenti d'ira, voci alte ' e fioche, e suon di man con elle facevano
un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell'aria senza tempo tinta, Come
l'arena, quando il turbo spira. Del medesimo genere sono i seguenti versi del
Poliziano. Di stormir, d'abbaiar cresce il romore: Di fischi e bussi tutto il
bosco suon: Del rimbombar de' corni il ciel rintrona. Con tal romor, qualor
l'äer discorda, Di Giove il foco d'alta nube piomba: Con tal tumulto, onde la
gente assorda, dall'alte cataratte il nil rimbomba. Con tal orror del latin
sangue ingorda Sonò Megera la tartarea tromba.Il Parioi ci fece sentir il
guaire di una ca goolina, e il risponder dell' eco in questi bellissimi vers.
Aita, aita, Parea dicesse; e dall'arcate volte a lei l'impielosita eco rispose.
Siccome il succedersi delle parole ora va lento or celere, è manifesto che
questo, che si può chiamare movimento del discorso, ba somiglianza coi
movimenti delle cose, e che per ciò aver dee virtù d'imitare le azioni loro.
Recherò qui per maniera d'esempio alcuni luo ghi cavali da' poeti. Odesi il
furore e l'impeto del vento in questi versi di Dante: Non altrimenti fatto che
d'un vento Impetüoso per gli avversi ardori, Che fier la selva senza alcuu rallento,
E i rami schianta, abbatte, e porta i fiori; Dinanzi polveroso va superbo, E fa
fuggir le belve ed i pastori. Mirabilmente Virgilio descrisse il tumullo dei
venti all'uscire della grotta di Eolo: Qua data porta ruunt et terras turbine
per flant. Incubuere mari, totumque a sedibus imis Una Eurusque, Notusque
ruunt, creber que procellis Africus, et vaslos volvunt ad sidera flu clus.
Insequitur clamorque virum, stridorque rudentum. Fra i versi che esprimono la
caduta de corpi sono bellissimi i seguenti: E caddi come corpo morto cade; il
qual verso è cadente, come il corpo che cade. Insequitur praeruplus aquae mons.
In queste parole di Virgilio si sente il piom bare dell'acqua precipitosa: ed
eccellentemente fece sentire il medesimo suono il Caro: E d' acque un monte
intanto Venne come dal cielo a cader giù. In virtù di quest'altro verso dello
stesso Caro, una nave sparisce in un subito, e si sente il romor dell'acqua che
l'inghiotte: Calossi gorgogliando e s'aſfondò. Lo stesso con una sola parola
lunga e scor revole dipinse il procedere del carro di Net tuno: Poscia sovra il
suo carro d'ogni intorno Scorrendo lievemente, ovunque apparve Agguagliò il
mare e lo ripose in calma. Nelle seguenti parole di Virgilio quasi sen tiamo a
stramazzare il bue; Procumbit humi bos. Dell’armonia che imita gli affetti col
suono, Onde conoscere per qual modo gli affelli vengano imitati dall'armonia,
uopo è d'inve sligare quali altenenze essi abbiano col suono e quali col
namero. In quanto alle altenenze si ponga mente che ad ogni sorta di affetli risponde
un particolar molo del l'organo vocale, per cui si formano voci di verse
secondo la diversità de' medesimi affetli; all'allegrezza risponde il riso,
alla mestizia il pianto; ed il riso ed il pianto si manifestano con suono al
tutto diverso: così presso tutte le geoli la subita maraviglia è significata
dal l'esclamazione ah, ovvero oh; il lamento dall' eh, o dall’ahi; e la paura
dall'uh. Que ste voci, che da principio sono elfelti naturali delle aſſezioni
dell'animo, diventano poi, merce dell'esperienza, segni di quelle: per la qual
cosa interviene che i vocaboli composti di ma, niera, che facciano mollo
sentire il suono di quelle leltere, che alle predette voci primitive si
assomigliano, avranno virtù d'imitare o questa o quella affezione. Le parole,
che s'in, nalzano per la a o per l'o, che sono lettere di largo suono, saranno
acconce ad esprimere l'allegrezza e gli affetti nobili ed alli: quelle, che
declinano per la é e per l'i, che sono lettere di molle suono, saranno
convenienti alla malinconia ed agli umili e miti affetti. [ Omnis enim motus animi suum quemdam a natura habet vullum, et sonum et
gesium (CICERONE, de Orat. ). quelle, che si abbassano nell' u potranno
e sprimere le cose paurose e le perturbazioni dell'animo, che ne procedono.
Questa particolare virtù delle parole viene poi rafforzata dalle attenenze, che
le passioni hanno col numero. Volgendo la considerazione alle varie passioni,
si potrà conoscere che l' uomo'nell'ira è fatto impetuoso, frettoloso
nell'allegrezza, lento nella mestizia, svarialo nell' amore, immobile nella
paura. Quindi av. viene che la musica non solamente si giova delle note gravi o
delle acute, ma delle rapi de e delle tarde modulazioni a risvegliare ogni
sorta d'affetto. A somiglianza di quest' arte maravigliosa, anche la naturale
favella, il suono ed il numero adoperando, innalza o abbassa gli accenli,
rallenta od accelera il corso delle parole, secondo la natura degli affetti,
che di esprimere intende. Con quest' arte medesima l'accorto scrittore compone
i ritmi diversi secondo la tenuità o la gravità della materia, e secondo le
qualità della persona che parla. Ma di questo avremo altrove occasione di
favellare. Ora in confer. mazione di quanto abbiamo detto intorno gli affetti,
recheremo alcuni esempi. Come la lettera a innalzi il verso e lieto il faccia,
si può conoscere da quel solo verso del PETRARCA: Voi ch’ascoltate in rime
sparse il suono; il qual verso sarebbe rimesso se dicesse: O voi, che udite in
dolci rime il suono; sostituendo 1'i alla a. Veggasi come Dante seppe
significare uno stesso concetto con due diverse armonie, che rispondono a due
diversi affelti. Il conte Ugo lino sdegnalo, e Francesca d' Arimino dolente
dicono all’ALIGHIERIdi esser presti a rispon dere alla sua domanda. Ma lo
sdegnato dice con suono aspro e terribile: Parlare e lagrimar vedrai insieme; e
quella mesta con dolcissimo e tenue suono: Farò come colui che piange e dice.
Maravigliosamente esprime Dante con voci aspre lo sdegno: E disse, taci,
maladelto lupo, Consuma dentro le con la tua rabbia. La velocità de' pensieri,
che procedono dal l'aſſello, apparisce in questo esempio dello stesso poeta:
Dunque che è, perchè perchè ristai? Perchè tanta viltà nel core allelte? Perchè
ardire e franchezza non bai? Un verso, che esprime luogo pauroso e cupo, si è
questo: 10 venni in loco d'ogni luce mulo. Dove si vede che se Dante, in vece
di muto, avesse delto privo, il verso non avrebbe messo nell'animo quel
sentimento d'orrore. La e, che è lettera di suono lento, basso ed oscuro, rende
sommamente imitativi i se gucnti versi: Buio d'inferno e di notte privata
D'ogni pianeta solto pover cielo Quant' esser può di nuvol tenebrata. In virtù
di somiglianli armonie producono gli scriltori que' maravigliosi effetti, che
la più parte degli uomini sentono nell'animo, ene ignorano il magistero. Di
queslo cercai mani. festare la natura, non già perchè io pensi che colui che
scrive debba avere di continuo alle mani la regola; chè anzi ho sempre creduto
la dolcezza e proprietà del suono, al pari d'ogni allra vaghezza poetica ed
oratoria, nascere spontaneamente; ma questo volli fare, perchè stimai che
l'investigar le occulte ragioni del. l'arte aiuti l ' intelletto a dirittamente
giudi carne, e quindi a formare quell'interior senso si necessario a comporre
lodevolmente, e quel l'abito, che prendono gli orecchi alla lettura de'ben
giudicati esemplari. Nulladimeno per compiacere agli orecchi non si vuol mai
turbare quell'ordine delle parole, in virtù del quale diventa chiara
l'elocuzione. Se per esprimere qualsisia o movimento o suono od affello
coll'armonia, o per formare un pe riodo numeroso e grave ci faremo oscuri, nes
suna lode al certo ce ne verrà. Nè solamente dobbiam sempre conciliare l'ordine
domandato dagli orecchi con l'ordine sopraddello, ma spesso ancora con quello,
che rende più evi. denti o più efficaci i concetti, del quale ora ci rimane a
parlare, siccome di sopra abbiamo promesso. Parliemo della collocazione
dell’espressione, per la quale si rende ‘efficace’ la mozzione conversazionale.
È manifesto che in ciascun periodo le pa role o le proposizioni si possono,
senza to gliere la chiarezza, alcuna volta posporre o anteporre l'una all'altra
in più maniere; ma è da por mente che, fra le molte possibili permutazioni,
poche sono quelle che meritino di essere lodate, e che spesso una solamente si
è l'ottima. Ho udito dire da molti che il più delle volte l'ordine migliore
delle parole nella proposizione si è l'ordine diretto, e que sto in verità
nell'italiana favella è spesso da preferirsi all'inverso, segnatamente nei die
scorsi didascalici o in quelli ove non si ma nifesta alcun affetto; ma certo
egli è che l'or. dine diretto (prescindendo dai mancamenti che aver può
rispello all'armonia) è alcuna volla degno di biasimo, siccome freddo ed
inefficace. A quale legge dunque dovremo ubbidire, ol. tre a quella già
stabilita circa la chiarezza e l'armonia, nel collocare le parole e le propo.
sizioni a fine di rendere più vive le descri zioni e più efficace l'espressione
degli affetti? La filosofia ci mostra che le idee tornano alla mente associate
in quell' ordine, che vennero all' anima per l'impressione delle cose ester
88ne, o in quello, che si genera in virtù della forza particolare di ciascuna
idea, essendo che le più vivaci, o quelle che maggiormente si attengono a'
nostri bisogni, si risvegliano pri ma dell'altre; e questo mostrandoci, ella ne
insegna che, se vogliamo fedelmente ritrarre nelle menli altrui cio che abbiamo
veduto o imaginiamo di vedere, v ciò, che sentiamo, ci è duopo di formare la
catena delle parole se. condo quella delle nostre idee, per quanto il comporta
il genio della lingua. Questa verità verremo ora con alcuni esempi mostrando,
Si osservi primieramente nel seguente esem pio, tolto dall'Ariosto, come nella
descrizione delle cose, che non sono in moto, sieno poste innanzi all'animo
dell'ascoltalore quelle idee, che prima farebbero impressione ne' sensi del
riguardante, e poscia succedano a mano a mano le altre secondo loro qualità e
silo: La stanza quadra e spazïosa pare Una devola e venerabil chiesa, Che su
colonne alabastrine e rare Con bella architellura era sospesa. Sorgea nel mezzo
un ben locato altare, Che avea d'innanzi una lampada accesa, E quella di
splendente e chiaro ſoco Rendea gran lume all'uno e all'altro loco. La prima
impressione, che riceverebbero gli occhi di chi mirasse un somigliante luogo,
sa rebbe certamente la forma e l'ampiezza di esso, e tosto occorrerebbe alla '
mente la cosa alla quale somiglia, cioè la devota e venerabil chiesa: indi l'allenzione
del riguardante si indirizzerebbe alle parti del luogo più appari scenti, le
colonne alabastrine e rare: queste chiamano il pensiere a fermarsi alcun poco
sulle qualità dell'architellura, indi alle parli. più minute, cioè all'altare,
alla lampada, alla luce, che si spande d'intorno. Quanto giovi disporre le
parole nell'ordine, in che le idee sono naturalmente impresse nei sensi dalle
successive modificazioni delle ester ne cose, si può conoscere da questo
esempio di Virgilio, il quale, volendo rappresentare all'imaginazione nostra il
greco Sinone trallo al cospetto di Priamo, si esprime cosi: Namque ut conspectu
in medio turbatus, inermis Constitit, atque oculis Phrygia agmina circumspexit.
La collocazione di queste parole è secondo l' ordine, nel quale avrebbero
proceduto le sensazioni di colui, che avesse veduto cogli occhi propri sinone,
e che l'imagine di quella vista si riducesse a memoria. La prima cosa, che gli
verrebbe all'animo, sarebbe il luogo ov'era condotto Sipone, conspectu in
medio; indi la persona di lui colle sue più distinte qualità, turbatus, inermis;
poi l'azione, constitit; poi la parte del' vollo, che subito chiama a sè
l'altenzione del riguardante, co Die quella, che è indizio dello stato dell'ani
ma, oculis; poi le cose, sopra le quali gli occhi si volsero, Phrygia agmina;
infine l'ultima e lenla azione degli occhi dipinta colla tarda parola
circumspesil. go Un altro esempio dello stesso VIRGILIO dimo. slrerà come sieno
poste nel proprio luogo pro posizioni e parole. Ecce autem gemini a Tenedo
tranquilla per alla (Horresco referens ) immensis orbibus (angues Incumbunt
pelago, pariterque ad litora tendunt: Pectora quorum inter fluctus arrecta,
jubacque Sanguineae exsuperant undas: pars cae lera pontum Pone legit,
sinualque immensa volumine lerga. Fit Sonitus, spumante salo, jamque arva
tenebant; Ardentesque oculos suffecti sanguine et igni, Sibila lambebant
linguis vibrantibus ora. و Colui che fosse presente al descritto caso,
osserverebbe primamente di lontano due cose indistinte venir del luogo che gli
fosse al co spetto, gemini a Tenedo; indi le acque per le quali nuotassero,
tranquilla per alta; al l'avvicinarsi di quelle due indistinte cose, egli
comiocerebbe a distinguere il loro divincolare; poi ecco che le due cose, che
da prima indi stinte si mostravano, si vedrebbe essere due serpenti, angues, i
quali più s'accostano e più li vedi, e più discerni l'azione loro; prima del
gittarsi sul mare, poi del girarsi al lido, incumbunt pelago, pariterque ad
litora lendunt; ed a mano a mano più visibili la. cendosi le qualità de'
serpenti, si vedrebbero i pelti erti sui flutti ed alte le creste sangui. gne,
e il rimanente de'corpi con grandi volute nuolare, pectora quorum ec.
Finalmente udi rebbe il suono dell' acque, e ne vedrebbe le spume. Pervenuti al
lido i serpenli, discerne rebbe i loro occhi ardenli e sanguigni, ne
ascollerebbe i fischi, e vedrebbe a vibrare le lingue, fit sonitus ec. Per
l'addotto esempio maniſestamente si vede che nel collocare le parole secondo la
catena di quelle sole idee, che verrebbero al. l'animo di chi il descritto caso
avesse veduto, sta l'arte di rendere evidenti le descrizioni: di qualità che
all'uditore sia avviso non di udir raccontare ma di vedere cogli occhi pro pri.
Nel rappresentare colle parole le sole idee che vengono naturalmente all'animo
di chi mira le cose, e di chi è mosso dagli affetti, consiste l'arte del
particolareggiare: chi tra passasse Test limite cadrebbe nella prolissi tà, e
nella minutezza, la quale rende stucche voli que' poeti che eccessivamente
particola reggiando si pensano di produrre l'evidenza. Siccome poi le cose
hanno più o meno di forza sull'animo nostro a misura che più o meno vagliano a
concitare l'amore o l'odio, o a mettere timore; così interviene talvolta, che
esse al tornar che fanno alla mente tengono quell'ordine, che è secondo i gradi
della ri. spettiva loro forza. Perciò è che qualvolta le idee in virtù delle
parole sieno ordinate con formemente a siffatta legge, il discorso è caldo e
passionato; e freddo e di nessun efletto se l'ordine delle parole discorda da
quello delle idee. Nel libro IX dell'ENEIDE veggendo Niso l'amico EURIALO già presso
ad esser morto dai Rutuli, cosi esclama: Me me (adsum qui feci), in me conver:
tite ferrum, O Rutuli, mea fraus onnis: nihil iste nec, ausus, Nec potuit:
coelum hoc, et conscia si dera testor. Volendo il poeta esprimere le veemenza
della passione di NISO, soppresse il verbo interficile, e pose innanzi alle
altre la voce me quarto caso, poichè la prima idea, che viene all'animo del
giovanetlo, si è quella della propria persona, che egli vuole sacrificare per
l'amico suo; poi vengono le altre parole ordinata Diente seguitando la della
legge. Similipente PETRARCA: E i cor, che indura e serra Marle superbo e fero,
Apri tu, padre, inlenerisci e spoda. Se invece egli avesse dello: Apri tu,
padre, intenerisci e snoda I cor, che indura e serra Marte superbo e ſero,
l'elocuzione sarebbe riuscita fredda, perciocchè la prima imagine che si
presenta al commosso animo del poeta, sono i cuori, i quali egli con quelle
prime parole quasi pone innanzi a Dio, affinchè si piaccia d'intenerirli.
Accade alcuna volta che lo scrittore vuole accrescere vigore alla propria
sentenza, e in questo caso non dee disporre le sue parole a modo, che
all'uditore paia di aver inteso tutto al prinio detto, ma far sì, che le idee
vengano all' animo di lui crescendo gradatamente, come nel seguente esempio: Tu
se' buono, santo, divino. E in quest'altro del Boccaccio: Ri. prenderannomi,
morderannomi, lacereran nomi costoro. Similmente metterà bene il collocare l'ay
verbio dopo il verbo e l'addiettivo dopo il sustantivo, qualvolla sieno posti
nel discorso alfine di accrescergli vigore. Perciò è che me. glio si dirà: io
ti amerò sempre, che io sempre ti amerò: è facile il sentire come questa
seconda collocazione riesca fredda. Molli preclari ingegni, e Ira questi il
Caro, hanno biasimato il Boccaccio, perchè troppo frequentemente pone il verbo
alla fine del pe riodo; e per verità l'hanno biasimato a ragio ne; perchè non
solo con ciò si toglie al di. scorso la varietà, ma anche perchè il più delle
volle si viene a turbare la naturale associa zione delle idee. Alla quale
associazione se porrà mente lo scrittore troverà sempre molivo onde approvare o
disapprovare l'ordine che egli avrà posto nelle sue parole. Lunga opera sarebbe
il trattare qui minutamente questa materia e il prescrivere le regole
applicabili a tutti i casi particolari; queste si possono age volmente dedurre
dalla regola generale, che abbiamo assegnata, e perciò stimiamo che qui 94
basti fare qualche altra osservazione intorno ad alcuni luoghi, ne'quali il
verbo è posto in ultimo. Avendo il principe Tancredi, presso il Boccaccio,
rimproverato Ghismonda di avere eletto per suo amatore Guiscardo di nazione
vile, e non uomo dicevole alla nobiltà di lei, così ella, rinfacciandogli il
fatto rimprovero, gli dice: in che non taccorgi che non il mio pec cato, ma
quello della fortuna riprendi. Qui chiaro si vede che se Ghismonda avesse dello:
non taccorgi che non riprendi il mio pec cato, ma quello della fortuna, avrebbe
par. lalo freddamente. Il figliuolo di Perolla, in LIVIO, sdegnato che il padre suo gli abbia
inpedito di uccidere Annibale, si volge alla patria dicendo: O PATRIA FERRVM
QVO PRO TE ARMATVS HANC ARCEM DEFENDERE COLEBAM HODIE MINIME PARCENS QUANDO
PATER EXTORQVE ACCIPE. Ne'due citati luoghi son poste innanzi le idee, che
prima si presentano all'animo passionato di colui che favella, e in ullimo è il
verbo, che apporta luce alla MENTE SOSPESA dell'ascoltatore. Se T. LIVIO avesse
detto: O Patrin, accipe ferrum ec., oltrechè avrebbe parlalo fuori del modo
naturale di colui che ha l'animo commosso, avrebbe ancora mancato di
quell'arte, che l'attenzione altrui si procaccia: imperciocchè qualvolta egli
ci porge innanzi il ferro, col quale il giovane vuole difendere ostinatamente
la rocca, subito la mente sta attendendo impazientemente che cosa esser debba
di quel ferro; e, poiché ode la risoluzione di esso giovane, resla preso da
subita maraviglia e ne riceve diletto. Nel collocare le parole secondo la
catena delle idee, si vuol porre grande cura di conciliare quest'ordine con
quello che è richiesto dall'orecchio e dal genio della lingua, al quale non si
può contrariare. Qualvolta lo scrittore ciò pervenga ad ottenere, sembra che le
sue parole siensi di persé poste al luogo loro, e che chiunque avesse voluto
dire la stessa cosa l'avrebbe detta a quel modo. Questa si è quella facilità,
che molti avvisano di poter conseguire, ma spesso invano a ciò si affaticano e
sudano. Parliamo del carattere del discorso. Avendovi posti innanzitulli gl’elemenli,
onde si compongono accade ora di ragionare più parlicolarmente delle leggi
della CONVENEVOLEZZA, o sia del DECORO. Come dalla mescolanza de'sette colori
fatta con legge si genera la varietà e la vaghezza nella imagine delle cose dal
pittore imitate, cosi dalla mescolanza degl’elementi predetti, similmente fatta
con legge, nasce la varietà e la venustà della conversazione. Colui che si
facesse ad accozzare e ad ammassare alla rinfusa parole nobili, modi urbani,
mela fore, traslali, igure, sentenze, ec., verrebbe certamente a comporre di
buona materia as sai deforme Perſella riuscirà posizione, allorchè le parole e
i modi e l'armonia e le figure verranno e ben divisale le une con le altre e
lulle insieme, SECONDO I FINI che lo scrillore si propone, secondo la materia
della quale savella, secondo la condizione sua e di coloro che l'odono, secondo
i luoghi in cui parla; chè in queste tutte cose consiste IL DECORO. Dal decoro
nasce la leggiadria, che risplende nelle più belle opere dell'arle, e senza di
esso nessuna cosa al mondo è pregevole. Conciossiachè poi varii sono I FINI speciali,
che lo scrittore si propone, varii i subbielli, di che può ragionare, varie le
umane condizioni e le circostanze, conseguita che varii pur sieno i generi e le
specie de' conponimenti per loro proprio carattere distinti. Il qual carattere,
per le cose delle di sopra, definiremo nel modo seguente: Il carattere del
discorso si è la contemperanza degli ele nepli, da ' quali risultano la CHIAREZZA
e l'ornamento, fatta secondo la legge del decoro. E perciocchè la principal
legge del decoro si è quella, che riguarda IL FINE CHE CI PROPONIAMO QUANDO
ALTRUI MANFESTIAMO I NOSTRI CONCETTIi, a questo volgeremo tosto la nostra
considerazione. Chi scrive intende o a convincere o ä PERSSUADERE o dilettare altrui. Secondo questi tre fini
nasceno tre generi di scrivere o tre caratteri si diversi, che vogliono essere
di stigli e particolarmente considerati; cioè il filosofico, il PERSUASIVO, il
poetico. Di questi diremo prima alcuna cosa in generale, indine accenneremo le
specie. In quanto al carattere del discorso filosofico, Ufficio de'flosofi si è
il mostrare altrui la verità, e perciò le loro scritture intendono a fare che
il lettore od ascoltatore non sola. menle venga di buona voglia nella sentenza
a lui esposta, ma che sia costretto anche suo malgrado a vevirvi, che è quanto
dire ch'egli rimanga convinto. Se pertanto ci verrà fallo di scuoprire quella
virtù del linguaggio, per la quale si genera il convincimento, ci saranno
subito manifeste le qualità, onde il carallere filosofico si distingue dagli
altri. Il convincimento si genera nell'animo o qual volta per via de' sensi
percepiamo l’ATTENENZA ſra alcune qualità, e in questo caso diciamo esser
convinti dal fatto, o qualvolta ci vien posta innanzi una serie di proposizioni
insieme collegate e procedenti da una o da più altre conformi a'falli, le quali
si chiamano principii; ed in questo secondo caso diciamo di essere CONVINTI CON
EVIDENZA DI RAGIONE. A costringere l’animo con questa evidenza intendono i
filosofi, ed a tal fine son loro necessarii i vocaboli di singolare
significazione ed i modi precisi; imperciocchè se nella catena delle
proposizioni che formano il ragionamento, una sola vi fosse di perplesso
significato, o che accrescesse o menomasse di un solo elemento iniportante
alcuna idea, si mulerebbero le attenenze delle dette proposizioni, dal che
procederebbe l'errore, come accade nelle operazioni aritmeliche, qualvolta, no
solo numero si ponga iu luogo di un altro, Se agli uomini venisse dalo (che Dio
volesse) di ordinare la lingua italiana a modo che dalle percezioni delle
qualità semplici delle cose fino alle più complesse idee d'ogni maniera non
fosse vocabolo di mal fer ma significazione, non sarebbe malagevole il
ragionare dirittamente in qualsivoglia altra Ina teria, come si ragiona nella
matemalica; inn perciocchè in virtù de'segni ben determinali si verrebbe al
conoscimento delle attenenze delle idee complesse grado per grado fino ai loro
principii; e per tal forma ciascuno potrebbe sempre rendersi certo della
enunciata verità. Da tutto ciò si raccoglie che nella precisione delle parole e
dei modi sta la virtù di convincere; e che perciò essa precisione esser dee la
prerogativa dello scrivere filosofico. L'uso della metafora pertantoe delle
figure può divenire larghissima fonte d'errori, per ciocchè è facile che
l'animo umano ingannato dalle similitudini, di che si formano le metafore, e
commosso dagli artificii travegga, e quindi si faccia a comporre le nozioni,
non secondo la natura delle cose, ma secondo le apparenze e la capricciosa
indole della fantasia. Il sistema del Malebranche, ch'ebbe tanti se.guaci e
disputatori (per lacere di molli altri ) procede da una similitudine. E si
dovrà dunque nello scrivere insegnali vo schivare ogni metafora ed ogni figura,
e renderlo secco e ruvido, come quello de'ma temalici? V'hanno certamente
alcune malerie (e tale è per avventura la ideologia ), le quali richieggono un
linguaggio pressochè simile a quello della geometria o dell'algebra; ma non è
perciò che le altre parti della filosofia, ed anche talvolta la stessa austera
scienza delle idee, non dimandino ornamento sobrio e ve recondo. Niuna materia
filosofica vuol essere molto mollo fregiala, acciocchè il verisimile, in forza
degli artifizii oratorii, non venga ad invadere. il luogo del vero, nė paia che
il filosofo voglia invescare e prendere altrui: nulladimeno è necessario che a
quando a quando l'intelletto del leggitore, affaticato dal lungo ragionare,
trovi riposo, e venga alleltato, senza che la esposta verità rimanga oscurala.
Perciò il filosofo collo schivare le parole barbare, rance, oscure e
disarmoniche toglie ogni ruvidezza al suo discorso, e gli da grazia e
leggiadria convenevole co' modi urbani e gentili, colle vereconde metafore
scelte a maggiore schiarimento di quanto per le parole ben determinate e
espresso; colla BREVOTÀ e colla varietà de'modi, con alcune naturali figure,
quale sarebbe l'interrogazione, e specialmente coll’armonia facile e piana, e
con tutti gli allri modi naturali alla temperata favella. Questo carattere
filosofico e si ben divisato da CICERONE, che io stimo convenevole cosa di
recare le sue parole temperata e famigliare è l'orazione de’ filosofi: non è
composta di modi popolari; non è legata a cerle regole d'armonia, ma discorre
liberamente. Niente sa d'iralo, niente d'invidioso, niente di inirabile, niente
di astuto. Casla, vereconda, quasi pudica vergine, onde piuttosto ragionamento
che orazione può nominarsi. Parliamo del discorso di carattere PERSUASIVO o PROTETTICO [Grice –
‘protreptic’]. Poichè abbiamo dato contrassegno del carattere filosofico, veniamo
a fare il medesimo della mozzione conversazionale persuasiva. “Persuadere” (“to
influence and being influenced”) segna propriamente far credere altrui alcuna
cosa; dal che manifesto apparisce essere grande la differenza tra il “convincimento”
e la “persuasion”. Perchè siamo CONVINTI è forza che conosciamo ogni
proposizione che compone un ragionamento fino alla prima percezione, dalle
quali dipende il principio fondamentale di quello. Perchè siamo “PERSUASI” basta
che il ragionare abbia per fondamento o l'opinione o l'apparenza o l'autorità
(non come l’intende Courmayeur). Molti dicono, a cagion d' esempio, di essere “PERSUASI”
che il sole si giri intorno la terra, ed altri che la terra si volga intorno al
proprio asse. Gl’uni prestano fede all'apparenza, gli allri al detto degl’uomini
sapienti. Ma di quello che credono non sanno porgere altrui vera dimostrazione.
Da questo esempio, e da infiniti altri, si può vedere che la PERSUASINE non è
sempre generata dal conoscimento – o sceinza, ma credenza -- di ogni
proposizioe che si richieggono nella
dimostrazione, e che per conseguente a trarre le volontà, ed a tenere le menti
del più degl’uomini, non importa semipre il dimostrare sollilmente alla maniera
del filosofo, ma giova di far uso di qualsi voglia verisimile principio: di
comporre imaginazioni che abbiano faccia di verità: di adoperare figure che,
perlurbando l'aninmo di nostro compagno conversazionale, conformino i pensieri
di lui secondo la nostra volontà di guisa, che, se egli sia per venire nella
nostra sentenza, precipitosamente vi corra. Ma tutte queste cose si vogliono
adoperare a modo, che il discorso abbia sempre apparenza di vera dimostrazione;
perciocchè l’uditore di qualsivoglia condizione sempre domanda al conversatore
che sia loro mostra la verità. Converrà quindi dedurre il discorso, per natural
guisa e chiaramente, e da esso rimovere ogni proposizione ed ogni artificio,
nel quale apparisca alcuna ombra di falsità. Primo ufficio del conversatore si
è il provare la sua proposizione nella divisata maniera. Secondo, il dilettare.
Terzo, il commovere; accorgimento si richiede nelle prove; sobrieta dell’ornamento
che intendono al diletto; veemenza nel concitare l’affeto. Con queste arti si perviene a trionfare ed a
governare la volontà di nostro compagno conversazionale. Per le cose dette si
conosce che il conversatore, comechè dice di voler dare esatta dimostrazione di
quanto afferma, questo non fa sempr: del che si può aver prova nella disputa,
che fa in contraddilorin, per le quali talvolta appaiono vere due sentenze, una
delle quali, essendo opposta all'altra, deve di necessità esser ſalsa
(reduction ad absurdum, introduduzione della negazione). Non è dunque l'arte
della conversazione veramente l'arte di dimostrare (prendendo questa parola
nello stretto segnato del filosofo) ma, come la define Dionigi d'Alicarnasso, “l'arte
di farsi credere”. Ma qui potrà per avventura sembrare che, avendo io nel sopra
indicato modo divisata la natura di una mozzione conversazionale persuasiva, de
abbia fat 10 un'arte d'inganno. Chi però cosi pensasse а porterebbe opinione falsissima;
perciocchè non si ſa inganno agl’uomini adoperando a bene quell'arte, che sola
si conſà all'indole della più parte di essi. Pochi sono coloro, che possono
essere falli capaci della verità per via di sollile ed esatto ragionamento;
anzi avviene il più delle volte che, sembrando molti falsissimo il vero e piacesse
a Dio che così non fosse), è forz, per guadagnare l'opinione foro, venire ad
alcuna utile verità per le strade del verisimile; e questo non è certo
ingannare, ma giovare la umana famiglia. Vero ufficio dei conversatori si è l '
usare l'eloquenza non ad inganno, ma per indurre gl’uomini a fuggire il vizio,
a seguitare la virtù e la verità; per metter fine alle conlese, per sedare i
tumulti, per sollevare l'autorità della legge contro il volere di coloro, che
il privato bene antepongono a quello della repubblica: che se alcuni malvagi
intellelli abusano di tutte le arti civili, dovremo per questo sbandirle da
Roma e ricondurre gli uomini a viver di ghiaude? Finalmente e la mozzion
conversazionale di carattere poetico, come in Heidegger. La poesia fou dai
ROMANI inventata per proprio diletto, e poscia dagli autori della vila civile
ad ammaestramento di esso popolo adoperala. Piacque ad aleuni a solo ricreamen
to dell'animo usarla, ma i più nobili poeti sotto il velame delle favole, delle
imitazioni e dei mirabili concetti pascosero la dottrina, e con locuzione
accesa nella fantasia e con soavi armonie si aprirono la strada alle menli
volgari, le quali all'insegnamento dei filosofi sarebbero stale ritrose. Per lo
che niuno può dubitare che chiunque si dispone a fare una mozzione
conversazionale poetica non debba cercare di piacere alla più parte degli
uomini. Questo fece ad imagine degli antichi il nostro Alighieri, la cui divina
Commedia leggevano anche le persone d'umile condizione, e ne traevano documenti
a ben vivere. Questo ſecero l'Ariosto e il Tasso, e cosi dee fare chiunque ha
vaghezza di essere salutato un autore di una mozzione conversazionale poetica. Se
dunque investigheremo quali sieno quei modi che dilettano il più degli uomini,
e quali sieno que' che li noiano, giungeremo a conoscere quali convengano e
quali disconvengano al carattere della mozzione conversazionale poetica. E
primieramente e palese che le espressione apportano diletto e colla materiale
struttura loro e colla qualità delle idea, che recano alla mente; perciò è che
l'essere del carattere poetico dall'una e dall'altra di queste cose dovrà
generarsi. Una delle qualità necessarie alla mozzione conversazionale poetica
sarà dunque la più squisita armonia, onde siano dilettati i sensi ed appagato
l'intelletto in virtù della imitazione. Dell'armonia abbiamo dello abbastanza,
perchè passeremo tosto a dire della natura delle idee dilettevoli. Il diletto
si genera negli animi da ciò che, dolcemente i sensi movendo, fa operare la
mente senza tenerla in fatica: e perciò è che le imagini dei corpi diversi e
tulte quelle cose e que’ concetti, che hanno virtù di risvegliare gli affetti,
ci recano maraviglioso piacere e le idee astratte all'incontro non lo ci
recano, perciocchè, se non sono mollo complesse, fanno lieve impressione
nell’animo; se molto complesse, abbisognano di molta attenzione, e perciò
affaticano la mente. Proprii, saranno dunque del carattere poetico i vocaboli e
i modi acconci a svegliare ad un tempo la rimembranza di molte sensazioni
dilettevoli ed a concitare le varie passioni ed a rendere sensibili coll'aiuto
delle similitudini tolte dalle cose corporee i più sottili concetti della
mente. Cogli aggiunti opportunamente scelti vengono segnata la passione o l’azione,
e gli usi delle cose e le qualità loro proprie, le quali in virtù dei soli nomi
sustantivi non verrebbero all'animo di nostro compagno conversazionale, o ci
verrebbero debolmente; perciò al poeta conviene l'adoperare essi aggiunti più
frequentemente che all'oralore, quale dipinge meno parli colarmente le cose,
siccoine colui che non ha per fine principale il diletto. Colla metafora si dà
corpo a una nozione astratta, coi tropi si pone dinanzi agli occhi della mente
quella sola parte o qualità dell'obbietlo, che prima si presenterebbe al senso
di colui che cogli occhi del corpo il mirasse. Adoperando i predetti modi, si
perviene a dare a’ concetti intellettuali forma sensibile guisa, che nostro
compagno conversazionale, direi quasi, non più per segni percepisce le cose, ma
le vede, e con mano le tocca. Affincho palesemente si vegga questa prerogativa,
che sopra tutt e rende il carattere poetico distinto dagli altri, recherò ad
esempio alcuni concetti intellettuali, convertendoli in forma sensibile. Tutti
i viventi muoiono. La sede del romano impero fu da Costantino trasferitu a Bisanzio
Il popolo facilmente mula consiglio. Quello ch' ei fece dai tempi di Romolo,
sino a quello dei Tarquinii. Quello concetto si dice intellettuale, siccome
quelli che si denno giudicare secondo il segnato proprio di ciascuna parola;
sensibili saranno, qualvolla sieno espressi di maniera che giudicare si debbano
secondo l'apparenza o la similitudine, siccome divengono i predelti Trasformandoli
nel modo seguente. La morte batte egualmente alle capanne de poveri ed a’
palagi de’ re. Posciachè Costantin lo quila volse contro il corso del ciel, che
la seguiu Dietro quel grande, che Lavinia Wolse. Infida è ľaura popolare. E
guel cliei fe' dal mal delle Sabine Al do Tor di Lucrezia. Queste finzioni che
assai di lettano, e perchè contengono manifeste similitudini e perchè racchiudono
veri intellettuali concetti, sono talmente proprie della mozzione
conversazionale poetica, ch'elle sarebbero sconvenevoli nei discorsi, che non hanno
per fine primario il diletto. Come queste poi si addicano più a cerle specie,
che a certe altre, vedrenio a suo Juogo. Ora bastea di avere in genere contra-segnata
la natura del carattere poetico, onde apparisca che tengono mala strada coloro,
i quali cercando "fama tra i poeti fanno pompa ne’loro versi di dottrina e
di soltile ingegno, ed espongono i loro pensieri con ordine troppo minuto e
distinto. I concetti che si cavano dall’intrinseco della filosofia, recanó seco
molta oscurità e difficoltà, specialmente quando vengono segnato co' vocaboli e
commodi loro proprii, e perciò sono contrarii al diletto, che è il fine del
poet, o, come altri vuole, il mezzo necessario ad indurre il giovamento. E
quando si dice che il poeta dev'essere filosofo, non si vuol dire che a modo
dei filosofi debba scegliere, ordinare e segnare il concetto, ma che egli usi
molto di filosofia nello scegliere le materie più utili agli uomini, e nel dare
a quelle e forma e veste conveniente alla natura di ciascuna. Che se talvolta egli
vorrà togliere alcun concetto dalla filosofia, lo toglierà dalla superficie e
non dal profondo seno di lei, in quel modo, che ha fatto il Petrarca, qualvolta
si è giovato della filosofia di Platone, come si vede nel seguente esempio. Per
le cose mortali, che son scala al fattor chi ben le stima, D'una in altra
sembianza potea levarsi all'alta cagion prima. E in altri luoghi moltissimi si
vede con qual arle e cautela dalla flosofia nella poesia egli abbia trasportati
i concetti, gli abbia temperati ed ornati, sicchè non hanno nè ruvidezza alcuna
nè oscurità, ma naturalezza, novità, e magnificenza, che sono qualità popolari,
che è quanto a dire poetiche. C’e una e altra specia del discourse di carattere
filosofico. Le materie, intorno le quali cade l'insegnamento, sono: la
matematica, la fisica, la metafisica, la morale, la politica, l'arte oratoria e
la poetica, le arti liberali e le meccaniche, e tutte le conoscenze che da
queste principali procedono, ciascuna delle quali essendo più o meno astratta,
richiede o maggiore o minore soltigliezza d'ingegno e forza di attenzione in
chi le consider: per la qual cosa interviene che dovendo i conversatori usar
parole e modi con venevoli alla natura di ciascuna delle dette materie, ne risultano
diverse specie di caratteri insegnativi più o meno austeri. Rispelto poi alle
persone, cui vuolsi mostrare la verità, giova osservare che elle sono di due
maniere. Alcune letterale ed alcune mezzanamente istruite. Alle prime, che sono
avvezze al ragionamento, si converrà stretto sermone: più diffuso alle altre,
le quali hanno bisogno che le cose sieno esposte loro per minuto, ed anche
talvolta per via di similitudini e di esempi chiarile. Per tal cagione il
discorso filosofico prende spesso alcuna delle forme del persuasivo, senza mai
perdere però la precisione, che forma l'essenziale sua proprietà. Di tal sorta
sono molte mozzione conversazionale indirizzati all'insegnamento de' giovani, e
i dialoghi e le epistole filosofiche, le quali vengono usate affinchè certe
materie depongano alquanto della nativa loro austerità, ed allin cbè i
conversatori affaticati trovino riposo nelle digressioni e in altre parti
accessorie. C’e una e altra specia di discourse di carattere pesuasivo o
protrettico. Se al mondo fossero uomini dirittamente sapienti e perfettamente
savi, sicchè astuzia e lusinga di oratore non potessero negli animi loro, vana
riuscirebbe l'arte del persuadere, perciocchè tutti richiederebbero di essere
convinti con precisa e poco adorna favella: ma Blo non sono quaggiù nel mondo
cose perfette, e perciò è che, sebbene tutti gli uomini avvisando di poter
essere condotti alla verità per via di vera dimostrazione, sdegnino i manifesti
artificii; pure non v'ha alcuno, che vaglia a resistere alla seduzione di
astuta eloquenza; dal che si ricava che l'arte del persuadere si può adoperare
con ogni sorta di persone; po pendo menle però che quanto maggiore negli ascoltanti
è l'aculezza dell'intelletto e la sapienza, altrellanto esser deve la cura
nell'ora tore di occultare l’artificio. Dovranno dunqne i modi del discorso
persuasivo tanto più avvicinarsi a quelli del filosofico, quanto piu le
persone, cui si favella, sono sapienti ed arcorte; ed all'incontro tanto più
dovranno lingersi, direi quasi, del COLORE (Farbung) poetico, quanto nel
conversatore è minore l'altitudine ad argo nentare sottilmente: e la ragione di
questo si è che, a misura che negli uomini manca l'acı fezza dello intelletto,
cresce la forza della fan. tasia, dell'opinione e delle passioni. Ma no è
perciò che, anche favellando a sì falte persone, debba l'oratore ornare il
discorso d'imagini fantastiche a modo che esso perda le apparenze della buona
dimostrazione; essendo che' il popolo stesso, il qual pure, come è detto,
presume di sapere ragionare sottilmente, sde gna quella orazione che gli par
vuota di ragioni. Dovrà dunque il discorso persuasivo aver sempre l'aspetto di
vera dimostrazione; ma colale aspetto poi sarà diverso, secondo la maggiore o
minor perspicacia delle persone, che si vogliono persuadere, le quali si
possono dividere in tre schiere. La prima è degli uomini letterati: la seconda
degli uomini che banno convenevole discrezione di mente: la terza del popolo
basso. Per le quali tre schiere tre specie di carattere PERSUASIVO procedono.
La prima partecipa alquanto delle qualità del genere filosofico: la terza di
quelle del poelico: la seconda è stile medio e media fra le due. Della prima
specie e l’allegazione, che l’avvocato pronuncia al cospetto de' giudici; della
seconda i discorsi morali, la storia, l’elogio, ed altre opere intese a
persuadere circa il giusto e l'onesto le persone discrete; della terza la
predica e la allocuzione e il parlamento, che si fanno al popolo ed a; soldati.
Siccome poi varia si è la condizione delle persone che favellano, e varie le
cose di cui si può favellare, interviene che secondo queste e quelle verrà il
carattere PERSUASIVO a dividersi in altre specie: e perciocchè le per le cose
si possono considerare di tre ragioni, cioè di nobili, di mezzane e di umili,
piacque a' retorici di restringere sotto tre soli nomi i molli membri del carallere
persuasivo, e questi sono: il sublime, il temperato ed il tenue. Che a ciascuna
di queste specie si addicano e voci e modi particolari, è facile comprendere e
chi non vede che al discorso rivolto a celebrare le lodi di un eroe o di un
sapiente si convengono maniere diverse da quelle, che sarebbero accomodate a
descrivere o a lodare l’amenità della villa? Che la lettera famigliare intenla
a persuadere qualsivoglia verità ad alcuno, dev'e di natura diversa dall' orazione
che tralla della cosa medesima? Paren sone e I 2 domi che qui non sia bisogno
di allargarsi troppo in parole, una sola cosa ricorderò, cioè, che von
solamente si addicano a cfascuna spe. cie particolari maniere, ma ancora
particolare collocazione di parole e particolare armonia. Imperciocchè l'animo
di chi favella, essendo secondo i varii casi o tranquillo o perturbato, o
elevato o umiliato, non è dubbio che, nel seguitare questi diversi affetti,
variamente si devono ordinare le idee, e colle idee le paro le, e che
similmente dee variare l'armonia, se vero è ch'ella soglia naturalmente,
qualvolta favelliamo, accompagnare i moti dell'animo, Oltre di che vuolsi
considerare che que' che parlano alla moltitudine, o scrivono cose da
proferirsi ad alla voce, sogliono muoverla e modularla con diverso andamento da
quello che userebbe colui, il quale famigliarmente ragionasse e tranquillamente
in angusto loco alcun fatto narrasse; e perciò il ritmo di que ste due specie
di favellare è fatto diverso dalla necessità di pronunciare a modo, che le
nostre parole sieno ascoltate volentieri, e quan do in luogo pubblico di gravi
negozii a molti parliamo, e quando in camera a pochi di qual sivoglia materia.
Quale sia poi quella deter minala armonia, che in ciascun caso convenga,
insegnare uon si può. Qui basti l'avvertimento, chè l’esempio de classici
scrittori assai meglio ne può ammaestrare. Penso che sia convenevole cosa il
collocare fra le specie del carattere persuasivo anche quello che si addice
alla istoria; e ciò per le seguenti ni. Uſlicio dell'istorico si è di produrre
coll'insegnamenlo la prudenza civile e militare, il che si ottiene col porre
innanzi all ' animo del lettore i fatti importanti e le cagioni e gli effelli
di quelli. Al qual line, è mestieri di descrivere avvenimenti d'ogni ma piera e
particolari e generali, assalti, uccisioni, incendii, battaglie, saccheggi,
trattazioni, páci congiure, delilli e
virtù; di palesare nelle concioni poste in bocca ai re, ai magistrati, ai
capilani, i gravi consigli e i documenti della politica; di esprimere i
caratteri delle passioni, e di usare le più luminose sentenze. Le quali tulle
cose vogliono essere significate con modi che varino secondo il variare della
maleria. Comechè uguale a sè medesimo sia sempre il carattere della storia,
cioè grave, siccome si addice a chi le gravi cose racconta, certo egli è che
secondo la differenza degli avvenimenti dovrà variare nel sostenersi e nello innalzarsi,
ed apparire nelle concioni più alto ed eſti cace, nelle descrizioni più ameno
ed ordinato, e spesso più veemenle nella persona degli uo mini ivi introdolli a
parlare, ma sempre temperato in quella dello scrittore, che da ogni parteggiare
dee mostrarsi lontano. Non può dunque convenire al caraltere storico nè
l'autorità filosofica, la quale sarebbe contraria alle malerie, nè la poetica
pompa, che torrebbe fede alla narrazione; perciò é forza che gli sieno proprie
le prerogative generali del ca. rattere persuasivo, dal quale differisce sola
mente per le qualità speciali di sopra accennale. C’e una e altra specia del
discourse di carattere poetico. Se ſu bisogno dividere in alcune specie il
carattere persuasivo a cagione della maggiore o minore altitudine delle menti
umane a di scerncre la verità, ciò non occorrerà circa il carallere poetico;
imperciocchè tanto gli uo. mini di sottile ingegno, quanto quelli, in cui la fantasia
prevale all'intelletto, hanno tulli dinanzi al poela una medesima disposizione.
Se il popolo porge orecchio alle finzioni noe. tiche, quasi come a cose vere, i
sapienti le riguardano come simboli della verità e quasi come leggiadri sogni
della filosofia, e in questo loro dolce ricreamento sdegnano ogni austerilà e
fino l'apparenza delle faticose forme filoso. fiche. Perciò è palese che il
poeta rivolge sem. pre le parole ad vomini, i quali, sieno di qual sivoglia
condizione, amano che la mente loro şia condotta ad operare senza fatica. Da
que. sto si ricava che ogni specie di carattere poe tico dovrà avere sempre la
prerogativa di schivare, come dicemmo di sopra, le idee che tengono in falica
l'intelletto, e rappresentare quelle, che vestile di forme sensibili, eserci.
citano la imaginativa. Non sarà dunque diviso in ispecie questo genere per
rispelto della diversità degl'intel letti, ma della condizione del poeta o
delle persone che introduce a parlare, e delle varie cose, che ei ſa subbietto
del canto. Ma, prima di entrare in questo proposito, parni che sia da togliere
una falsa opinione circa la natura della poesia. Sono alcuni i quali avvisano
che 115 ma il l'essenza di lei consista nel metro, e fra que sti è il
Melaslasio, il quale nella sua esposi zione della Poetica d'Aristotele sostiene
che la lavella metrica, per essere l'istrumenlo con che l'imitazione si fa, ne
forma l'essenza. Ma io domanderei voleplieri a coloro che cosi la pensano, qual
nome vorrebbono dare all’ENEIDE tradolla in favella sciolta dal metro? Le daranno
per avventura nome di prosa? L’espressione “prosa” altro non segna che discorso
senza metro, e per ciò verranno a dire solamente che quell'illustre racconto è
fatto sce. mo di quella sola qualità, di che grandemente si diletta l'orecchio,
ma non già di tutte le altre, che stabiliscono la natura dei discorsi composti
a fine di diletto. Dal che appare manifesto che un altro general nome è bisogno
per distinguere i discorsi composti per dilettare. E quale è a ciò più
accomodalo vocabolo che quello di poesia? L’espressione “poeta”, secondo sua
origine, significa facilore o vogliam dire fabbricatore; e perciò poesia sonerà
lo stesso che fabbricazione o finzione, e tali sono di necessità quasi tutti i
discorsi, che si compongono a fine di dilellare, essendo che il nudo vero non è
dilettevole sempre e in ogni sua parle: perciò Varchi dice nell'Erco laro, che
il verso non è quello che faccia principalmente il poeta; e che Boccaccio
talvolla più poeta si mostra in una delle sue Novelle, che in tutta la Teseide.
Ed Orazio afferma che a distinguere la poesia da ciò che essa non è, basta
disgiungerne le membra, cioè loglierle il metro, e allora si vede
manifestamente che il carattere non le si toglie. Conchiudiamo pertanto, che il
metro induce diſſerenza di specie ma non determina la natura del genere; e
stabiliamo che a tutti i discorsi che
hanno per fine il dilettare con metro o senza, si conviene il nome di “poesia”.
Ora veniamo alle specie. Talvolta il
poeta rappresenta la persona d'uomo, che cantando, dice laudi degli Dei e degli
Eroi; talvolta quella, ch'esprime i moti dell'allegrezza, dell'affanno o dell’amore,
o solamente gli scherzevoli con cetli. Le poesie di questa maniera solevano
dagli antichi essere cantate sulla “lira,” e perciò presero il pome di “lirica”,
e tuttora il conservano. Varie essendo le passioni e le cose che esprimere si
possono dal conversatore lirico, interviene che ancora il canto si divide in
varie specie, che tutte poi si riducono a tre, come nel carattere persuasivo:
cioè al sublime, al mediocre ed al tenue. Ciascuno di questi canti ha qualità
sue proprie. Magnificenza e gravità di mod, di sentenze e di arinonia, e splendore
d'illustri parole e di concetti fantastici convengono a chi celebra le laudi
degli Dei e degli Eroi, ed esprime alte e generose passioni: più tenui maniere
e parole e più soave armonia a chi esprime gli affelli meno gravi e canta di
subbielli meno nobili: quegli poi, che dice i mili affetti o gli scherzi o le
umili cose, avrà nelle sue parole piacevolezza e semplicità da ogni fasto
lontana, ed armonia soave e varia, ma sempre tenue. Alla detta varietà
d'armonie, mirabilmente poi servono i metri, alcuni de' quali portano
secofl'umiltà, altri la mediocrità, altri l'allezza dell'armonia. Sono molti
esempi di questa varietà in Petrarca, Si ponga mente ai modi, al metro, al
ritmo delle due canzoni d'amore, una delle quali comincia, Chiure, fresche e
dolci ucque; e l'altra, Di pensiero in pensier, di monte in monte; e si vedrà
la prima essere in tutte le sue parti piena di soavità, di gentilezza e di grazia,
e l'allra di robustezza e di gravità. Talvolta il poeta narra gl ' illustri
ſalli; tal volla i mediocri; e talvolta i piacevoli: indi si generano i poemi
epici, i romanzi, i poemi burleschi e le novelle. Talvolta poi introduce a
parlare o le persone illustri o le mediocri o le umili, e quindi provengono le
tragedie, le commedie, le egloghe pastorali e le pisca torie. Ognuna di queste
specie, siccome è pa lese, ha modi ed armonia convenevole alla maleria ed alla
condizione delle persone. Perciò è che il poeta, specialmente nella tragedia,
nella commedia e nell' egloga, ove se medesimo nasconde introducendo altri a
par lare, dee rendere alquanto umili i modi, l'ar monia di guisa, che lo
spettatore, ascollando le tragiche persone o le coniche, abbia a dire: così
parlerebbero gli uomini di questa o di quella condizione, se loro naturale
favella fos sero i versi. Giovi questo generale avverli mento, perciocchè non
si possono mostrare i certi limili, fra i quali dee slarsi ciascuna spe 118 rie.
Tutte hanno nell'intero loro corpo faltezze particolari, alle quali colui che
ben vede di stintamente le raffigura: pure a quando a quando or questa or
quella viene a parteci. pare dell ' altrui colore di guisa, che l'epico nelle
forti passioni innalza le parole e i modi al pari del cantore degl'inni; e il
più sublime lirico parra alcuna volla, siccome fa l'epico. Lo stesso interviene
delle allre specie, fra le quali per fino la commedia talora si leva a
gareggiare colla Tragedia, e la tragedia al dire l'Orazio, spesso, si duole con
sermone pe destre. Nelle opere dell'arle, siccome in quelle dels la nalura, si
scorge infinita diversilà, ma per questa spesso non è tolto che moltissimi indi
vidui della medesima specie, sebbene molto dissimili, non sieno egualmente
belli e prege voli. Questo vedesi manifestamente per le la vole colorite da'
celebri dipinlori, de'quali uno essendo il fine, cioè quello dell'imitare la
bella natura, non in tutti una apparisce la sembianza del loro dipingere.
Raffaello, Correggio, Domenichino, Caraccio, Tiziano e Paolo, i quali cerlo non
mancano nelle regole invaria bili dell'arte, sono fra loro assai differenti.
Tutti mostrano invenzione lodevole e lodevole composizione, belle forme, ben
disposto colo. rito e conveniente a ciascuna cosa: tutti esprimono i costumi e
gli affelli, ma ciascuno d'essi ſa delle predette e di altre virtù una cotale
mislura, che siamo condolti a dire che nessu. 1 Til no di loro ha la maniera
dell'altro, comechè Tulli sieno eccellenti. Questa, che i pillori chia mano
maniera, è similmente comune a' filosofi, agli oratori, agli storici ed
a'poeli. Quanti scriltori sono tenuli meritevoli di pari commendazione, sebbene
tale fra loro sia la diſſerenza, che spesso ciascuno solamente a sè me, desinio
ed a nessun altro assomiglia? La rinsposizione dell'ingegno e delle affezioni
dela l'animo, che in ciascun uomo è diversa, è cagione che le dette maniere sieno
di numero pressochè infinito. Alcuno de' famosi scriitori ha il pregio della
perspicuità, alcuno della eleganza, allri della grazia, altri dell'aculezza.
Questi è grave e maestoso: quegli delicato e molle: chi è breve e robusto: chi
copioso, chi úrbano e chi veemente: ma tali poi sono tutti, che, se alcuno di
noi desiderasse di ottener gloria di ottimo scrillore, sarebbe incerto a quale
di loro volesse essere somigliante. L'accennata maniera particolare, per la
quale ciascuno scrittore è distinto dagli altri, si è quella che gli antichi
chiamarono “stile” (cf. Tannen, Conversational style), prendendo questa voce
dall'istrumento che per iscrivere adoperavano. La stessa parola “stile”, presa
più largamente che non fanno i filosofi, segna comunemente il carattere in
genere o in ispecie: ma è palese che, filosoficamente parlando, si è bene d'usarla
nel senso leste dichiarato. Ond'è che assai propriamente diremo in generale,
carattere filosofico, caruilere persuasivo o poetico; ed in ispecie carattere
oralorio, lirico, epico, tragico, sublime, medi cre e tenue: e stile di
Demostene, di CICERONE, di Ortensio, di Omero, di VIRGILIO: percioc chè nei
primi fu il solo carattere persuasivo, negli altri il poelico; ma in ciascuno
ebbe una particolare maniera, che modificando il carattere, l’essere suo non
gli tolse. E chi volesse invesligare le cagioni da che proceda colale maniera,
che stile si appella, vedrebbe ch'elle sono le qualità dell'intellello, della
fantasia di ciascuno scrillore, e le qualità degli affetti, a cui egli ha l'
animo disposto: laonde volendo dare alcuna definizione dello stile, paroi che far
si potesse nel modo seguente. Lo stile si è il carattere modificato secondo le
qualità dell'intellelto, della fantasia e degli affelli dello scrittore. Parliamo
sommeramente del modo di acquistare la qualita necessaria a conversare
civilmente. Ora che abbiamo poluto conoscere che cosa sia lo stile, non sarà
indarno l'investigare co me si possa acquistare forza, grazia e vaghezza nello
scrivere; e che è quanto dire come si possa formare lo stile convenevole e
pulito. Se lo stile si genera per la qualilà dell ' in tellelto, della fantasia
e degli affetti dello scrit tore, vera cosa è che, a formarlo convenevole e
pulito, bisognerà rendere perfette le mento vate tre cagioni il più che si può.
L'uomo nasce fornilo dell'intelletto, cioè della facollâ di sentire, di
percepire, di alten. dere, di paragonare, di giudicare, di astrarre, di
ricordarsi, di imaginare, ma d'uopo è che queste lacollà vengano poscia diriltamente
usate ed esercitale, onde sia generala quella virtù pressochè divina, che si
appella la ragione, la quale consiste nell'abito di. paragonare in sieme i
sentimenti distinti dell'anima e le idee, di derivar dai falli pariicolari le
nozioni gene. rali; di anteporre o posporre le une alle altre, di congiungerie
o di separarle, secondo la con venienza o disconvenienza loro, e secondo i loro
gradi di più o di meno. A formare que sl’abito, sarà bisogno di studiare le
opere de' filosoti, che trattano soltilmente delle cose na lurali, delle
proprietà dell'intelletto e del cuore umano; di apprendere l ' istoria, senza
la co gnizion della quale, al dire di Cicerone, l'uo mo si rimane sempre
fanciullo; di osservare la nalura, di pralicare fra le diverse condi. zioni
degli uomini, e di operare ne privati negozii e ne' pubblici. Ad arriccbire
l'imagi. nativa, la quale è l'abito di recare all'animo la reminiscenza delle
qualità sensibili che più ci muovono e dilellano; di congiugnere insie me con
verisimiglianza quelle, che sono di. sgiunte in nalura, e di significare per
siinili tudine delle cose corporee i concelli astralli, non solo metterà bene
di leggere gl'inventori di nuove e vaghe fantasie, ina di por menle a tutto ciò
che ai sensi porge diletlo, sia nelle azioni degli uomini e degli anigali sia
nel l’esteriore aspelto e movimento delle cose inanimate; e soprattullo gioverà
di ben con siderare le somiglianze che fanno fra loro le cose di qualsivoglia
genere e specie; chè que sto si è il fonte, dal quale si derivano le vuo ve e
maravigliose metafore. Di molla ulilità sarà poi all'intellelto ed
all'immaginativa lo sludio de' precelli dell'arte oratoria e della poetica, i
quali, essendo il compendio di quanto ove i filosofi hanno osservato intorno le
cagioni, onde piacciono e dispiacciono le opere degli scrillori, apportano
quella luce, che un uomo solo nel breve spazio della vila studierebbe indarno
di procacciarsi colla sola virtù del proprio ingegno. Vuolsi però sull'osservanza
de'precelli avvertire ciò che nell'arle poetica osserva Zanotti; cioè che le
cagioni del piacere e del dispiacere trovate da’ filosofi, essendo cagioni
universali ed indeterminale, mostrano bensi i luoghi, non vogliono che si
ecceda o si manchi, ma non prescrivono poi a qual segno si debba giugnere o
rimanere, per non ecce dere o non mancare; ond' è che, a fare buon uso del
precello, è bisogno di quella discre. zione, che si acquista con lungo sludio e
fatica. Rispetto agli affelli, io mi penso che, sel) bene sieno da natura, pure
a conciliarli in al trui grande aiuto si possa trarre dall'arte. Se l'amore,
l'odio, l'ira, la mansuetudine, la misericordia ed allre affezioni dell'animo
na. scono da cagioni determinale, come per eseni. pio l'amore da bellezza e da
virtù, l’odio da male qualità del corpo o dell'animo altrui, non v'ha dubbio
che gli aſſelti medesimi si deb bono in chi legge risvegliare per virtù della
viva' rappresentazione di quelle cagioni: dal che si raccoglie che lo
scrittore, considerando le varie disposizioni degli uomini passionali, e le
cagioni, per le quali la passione si genera, avrà materia onde gli animi
perlurbare. Cosi per aiuto dell'arte verrà ad operare in altrui quell'eſello, che
imperſellamente avrebbe operalo mercè della sola naturale sua disposi. zione.
Da quanto è dello apparisce che la scienza avvalora l'intellelto e
l'immaginativa, ed aiuta a muovere gli affetti, e che perciò ella si è il fonte
dello scrivere rettamente. La scienza poi è generala negli umani intellelli da
due cagioni: queste sono: la naturale disposizione delle organo corporale e
l'azione delle cose esterne sopra di esso; sì falte ca. gioni sono di necessità
diverse in ciascuno; perocchè non è da credere che si possano tro vare due
corpi nella stessa maniera conforma li; ed è poi certamente impossibile che uno
riceva dalle cose esterne nell'animo le mede sime impressioni che un altro. Per
la qual cosa avviene che diversa in ciascuno si generi la scienza, e quindi
diversa la forza dell'in gegno e dell'imaginaliya, diversa la qualilà degli
affetti, e per conseguente anche lo stile, che da queste procede, deve riuscire
diverso. Dal che si vede che imprendono opera dispe rala coloro, che si affaticano
ad imitare lo stile d'altri. E alcuni pur sono che andando passo passo sull'
orme di ALIGHIERI, del Petrarca o del Boccaccio, avvisano alla costoro gloria
di per venire; ma le opere loro per verità, in fuori di un poco di pulita
buccia, niun sugo hanno. Che cosa dovremo dunque apprendere dagli scrittori?
Rispondo che si vuole apprendere la lingua e i modi acconci ad esprimere chia
ramente, ornatamente e convenevolmente i no stri concelli. Da questo scrillore
ci sludieremo di procacciare una cosa, da quello un'altra, a seguileremo sempre
la nostra natura, secondo l'esempio di Dante, il quale lasciò scritto di sè: lo
mi son un che, quando amore spira, nolo, ed a quel modo che delta dentro, vo
significando. Che se allrove disse a VIRGILIO: Tu se' lo mio maestro e lo mio
autore, Tu se' solo colui, da cui io loisi Lo bello stile, che mi ha fallo
onore, non intese già d'avere tolto al maestro la ma niera propria di quel
poeta, ma sibbene la qualità, onde il carattere poetico é differente dal
filosofico e dal persuasivo. E chi è che pon senta la differenza che è dallo
stile di Dante a quello di Virgilio? Rimane per ultimo a dire degli autori, che
coloro che amano di scrivere nell'italiana favella, devono scegliere a maestri.
Nulla dirò dello studio della lingua greca e della latina, perciocchè essendo notissimo
che nell'una e nell'altra scrissero coloro, che insegnarono a tutto il mondo, e
che questa nostra da quelle procede, ciascuno conosce di per sé quanta ulilità
trarre se ne possa. Mi ristringerò dunque a fare alcuna parola de' solo il
conversatore italiano, che agli altri si devono preporre. E prima è a sapere
che nel secolo XIV alcuni prosatori ed alcuni poeti diedero al volgar nostro
tanta proprietà e grazia, che nessuno ha poi polulo eguagliarli: che nel secolo
XV questo volgare ſu quasi abbandonalo per soverchio amore della lingua latina
e per pusillanimità degli uomini d’Italia: che nel secolo XVI ſu dal Fortunio e
dal Bembo ridollo a regole deter. minate; e da molti ſu nobilmente adoperato in
varii generi di scritture: che nel secolo XVII fu da talupo acconciamente
impiegato ed ar ricchito di voci perlinenti alle scienze, fu da alcun altro
scrillo con eleganza, ma venne da moltissimi in parte corrotto e rivolto in
vanilà di falsi concelli: che nel XVIII finalmente ſu da pochi bene usato, e da
moltissimi con pa role e modi forestieri vituperato. Tale essendo stata la
fortuna di questa bellissima lingua, chi potrà dubitare che oggi non sia a noi
sa lutevole il consiglio, che ci porgono gli uomini sapienli, cioè quello di studiare
agli antichi esemplari? Se nel buon secolo della lingua la lina si stimava
essere opera di gran probllo ai giovani il molto leggere gli antichi scrittori
del Lazio, quanto maggiormente non si dee credere che lo studiare i nostri sia
per giovare a noi, che viviamo in un secolo, ove gl'ita liani, pressoché tutti,
più delle cose forestiere che delle proprie dilettandosi, scrivono sì, che
punto non pare alle loro scritture che sieno stali allevati in Italia?
Verissimo si ė (anche parlando delle arti) quello che dicono i politi ci, cioè
che qualvolta le cose sieno pervenule a corruzione, bisogna richiamarle ai loro
principii. Questa sentenza dovrebbe essere dinanzi all'animo di tutti coloro,
che amano il profitto de' giovani nelle lettere umane; pure sono al cuni cbe,
deridendo coloro che studiano i lesti della lingua, dicono essere sciocchezza
il darsi tanto pensiero delle parole ogni qualvolta si 1centisti, abbia cura
dei concelli; come se il recare alla mente altrui i nostri concelli non dipenda
dalla virtù di ben accoviodate parole. Colali persone, avendo posla loro usanza
o ne' soli domestici negozii o in alcuna scienza o arte, nè mai data opera allo
studio della lingua, vilipendono ciò che non conoscono, e perciò, non avendo
au. torità, non meritano alcuna risposta. Tutti gli uomini di mente discreta
non si maraviglie ranno, se qui vengono consigliati i giovanetti a studiare
prima nelle opere de’ trecentisti, ne’ quali è dovizia di vocaboli proprii e di
forme gentili, e chiarezza e semplicità e urba nità e maravigliosa dolcezza, ed
a riserbare agli anni loro più maturi lo studio dei cinque che scrissero
eloquentemenle di cose gravi e magnifiche. Ma per avventura alcuno dirà: non
dobbia. ino noi essere intesi dagli uomini del nostro secolo e cercare di
piacer loro seguendo l'usanza? Perchè dunque vorremo che la gioventù studii
ancora quelle opere, ove si trovano, ol tre le voci ed i modi, che sono fuor
d'uso, e barbarismi e pleonasmi e solecismi ed equivocazioni, e talvolta negligenza
e stranezza nel costrutti? Perchè non vorremo consigliarla piullosto a leggere
i soli scrillori del cinquecento, i quali seguitando le regole grammati. cali
dettate dal Fortunio e da Bembo, non solo scrissero correttamente, ma
trattarono eloquen temente di varie ed importanti materie? A queste obbiezioni
risponderemo che si dee se guire l'usanza, del buon conversatore, l'usanza del
volgo; che non si vuole negare che in molle opere del trecento non si trovino
ma non fra la copia delle maniere proprie, nobili e graziose, varii difelli; ma
che per questo non ci rimarremo da consigliare la gioventù di avere sempre caro
sopra tutti quel secolo beato, e di leggere per tempo i suoi eccellenti
scrittori, poichè ci teniamo certi che quanto è difficile il rendersi famigliari
e domestiche le maniere native e gentili, altrettanto è facile di perdere
l’abito di peccare contro la grammatica e contro l’uso. La predetta virtù non
si può acquistare se non con lungo esercizio: il diſello si può togliere assai
agevolmente dopo lo studio della grammatica, e dopoche per la filosofia e per
la erudizione ci verrà dato di ben conoscere il valore delle parole e di ben
distinguere la lingua nobile dalla plebea, e le maniere, che per vecchiezza ban
no perduta la grazia e la forza pativa, da quel le che sono ancora belle ed
efficaci. Quanto allo studio de'cinquecentisti, non du bitiamo che ei sia per
essere ulilissimo, essen do che molli eccellenti scrittori di quel tempo
adoperarono la lingua, che appresero da Alighieri, da Boccacio, da Petrarca e
dagli altri tre centisti, emulando mirabilmente i romani in molli generi di
scrilture: ma teniamo per ſermo che convenga alla gioventù di avvezzarsi al
candore ed alla semplicità del trecento prima di cercare lo splendore, la ma
gnificenza, la copia e l'altezza de' pensieri nei cinquecentisti. Perciocché
lulti coloro, che sfor zano di parere magnifici e splendidi primaché dalla
filosofia sieno ſalli ricchi di cognizioni, fanno l'orazione loro bella nella
buccia, una nell'intrinseco vana e puerile. Non potendo i giovanelli esprimere
con verila se non quei pensieri e quegli allelli, che sono proprii del la
tenera età, troveranno assai comodale al bisogno le parole ed i modi usati
da'trecentisti, la più parte de'quali, come que' che vissero nell'infanzia dell'italico
sapere, scrissero di tenui materie. Verrà poi quel tempo maturo, in che
a'giovani farà mestiero di alzare a'gravi concelli lo stile, ed allora
apprenderanno da Guicciardini gravità e nerbo; dal Segretario fiorentino
sobrietà ed evidenza; dal Carocopia, efficacia e gentilezza; da Casa splendore
e magnificenza; da GALILEI ordine e precisione; d’Ariosto e da Tasso i pregi
lulli, ond' ė divina la poesia. Ma allo studio di quesli e degli altri molli,
che fecero glorioso il secolo di papa Leone, non avranno l'animo ben di. sposto
se non coloro, cui prima sarà piaciuto di allingere ai puri fonti del trecento,
da'quali derivarono i sopraddetli abbondantissimi fiumi. Questo, o Giovani, è
quanto ho stimato op portuno di porvi dinanzi per indirizzarvi nel cammino
delle lettere, alle quali inolti vanno per vie distorte e per lo contrario. Vi
ho mo strato quali sieno gli elementi dell’ELOCUZIONE; come nel contemperarli
secondo le leggi del decoro si loronino i varii caratteri; e final. mente come
lo stile proceda da naturale di sposizione e come col sapere si perfezioni.
Darò fine coll'avvertirvi, se vero è che la scienza e l'esempio fanno l'arte, è
vero altresì che arte senza uso poco giova: onde, se dallo stile cercate onore,
vi sarà bisogno di neditare mollo, di leggere molto e di scrivere mollissimo. Ricerca
Sinestesia (figura retorica) Questa voce sull'argomento retorica è solo un
abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni La sinestesia (dal
greco syn, 'insieme', e aisthánomai, 'percepisco') è una figura retorica, in
particolare un tipo di metafora ("metafora sinestetica"), che prevede
l'accostamento di 2 parole appartenenti a due sfere sensoriali diverse. Ha
largo uso in poesia ed in genere nella versificazione: «L'odorino amaro»
(Giovanni Pascoli, Novembre.) «Voci di tenebra azzurra.» (Pascoli, La mia
sera.) «Venivano soffi di lampi.» (Pascoli, L'assiuolo.) «Urlo
nero» (Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici.) Tra le canzoni, si
può citare Il sogno di Maria di Fabrizio De André: «Quando mi chiese:
"Conosci l'estate?" io per un giorno per un momento, corsi a vedere
il colore del vento.» È usata anche nella lingua di tutti i giorni
("colori caldi", "giallo squillante" ecc.) e quindi anche
in prosa. NoteModifica ^ Angelo Marchese, Dizionario di retorica e di
stilistica, Milano, Arnoldo Mondadori Wikizionario contiene il lemma di
dizionario «sinestesia» Portale Linguistica: accedi alle voci che
trattano di Linguistica Ultima modifica 2 mesi fa di Nima Tayebian, Enfasi
Sinestesia pagina di disambiguazione di un progetto Wikimedia Analogia
(retorica) Figura retorica Wikipedia Il contenutoWikipedia Ricerca
Sinestesia (psicologia) fenomeno sensoriale/percettivo Lingua Segui Modifica
Avvertenza Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non
essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono
il parere medico: leggi le avvertenze. La sinestesia è un fenomeno
sensoriale/percettivo, che indica una "contaminazione" dei sensi
nella percezione. Il fenomeno neurologico della sinestesia si realizza quando
stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle
esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o
cognitivo. Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di una
persona soggetta al fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del
fenomenoModifica Con il termine "sinestesia" si fa riferimento a
quelle situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è
percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi. Nella sua forma
più blanda è presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che i nostri
sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto distaccata dagli
altri. Più indicativo di un'effettiva presenza di sinestesia è il caso in
cui il percepire uno stimolo (come ad esempio il suono) provoca una reazione
netta e propria di un altro senso (ad esempio la vista). Per "forma
pura" si intende la sinestesia che si manifesta automaticamente come
fenomeno percettivo e non cognitivo. Il fenomeno è involontario, ma una
maggiore attenzione prestata dal soggetto può evocarlo con maggiore
consapevolezza, al punto che il sinestesico puro, vedendo i suoni e sentendo i
colori, può riuscire a trarre vantaggio da queste contaminazioni sensoriali; un
compositore che sfruttava questa sua capacità fu Messiaen, così come il pittore
Kandinskij, che affermava di poter sentire la voce dei colori, che per lui
erano suoni, entità vive e lo spiega bene nel suo libro Lo spirituale
nell’arte. Un altro sinestesico fu il pittore e musicista lituano, Mikalojus
Konstantinas Čiurlionis. Il compositore russo Skrjabin era particolarmente
interessato agli effetti psicologici sul pubblico quando sperimentavano suoni e
colori contemporaneamente. La sua teoria era che quando si percepiva il colore
giusto con il suono corretto, si creava "un potente risonatore psicologico
per l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più famosa, che viene
eseguita ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco. Ma la lista degli artisti
sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche affermano che il fenomeno
sinestesico interessi il 4% della popolazione e di questo 4% la maggior parte
sono artisti. Un'altra caratteristica della sinestesia è poi che si presenta a
volte nelle persone mancine, o in concomitanza con altre caratteristiche come
l'allochiria (confusione della mano destra con la sinistra), scarso senso
dell'orientamento, dislessia, deficit dell'attenzione e, raramente, autismo.
Spesso la contaminazione sensoriale avviene a direzione unica: ad esempio, se
vedo una nota musicale come un colore, non è detto che vedendo quel colore la
mia mente evochi quella nota. Questa è una delle caratteristiche della
sinestesia percettiva, l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo Paratico
il mancino Leonardo Da Vinci era affetto da sinestesia. Esperienze di tipo
sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale, mediante l'uso di
sostanze allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD, esperienze di
deprivazione sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di malattie che
colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è detta
pseudosinestesia, in quanto è indotta o non presente dalla nascita. La
sinestesia acquisita sembra riguardare solo le forme di sinestesia percettiva,
e non sono stati documentati casi di sinestesia concettuale acquisita. Le
persone che hanno esperienze sinestesiche nella "forma pura" sono un
numero relativamente ridotto. Studi recenti hanno mostrato una certa
variabilità: 1 ogni 2000 1 ogni 200 Queste esperienze sono quotidiane ed
iniziano sin dall'infanzia. Molti sinestesici si sorprendono scoprendo che
questa esperienza non è provata da tutte le persone. L'esperienza
sinestetica è composta da due elementi: L'evento induttore (inducer).
L'evento concorrente (concurrent). Per esempio, può accadere che un sinestesico
descriva il suono (inducer) del proprio bambino che piange come un colore
giallo sgradevole (concurrent). La relazione tra un inducer e un concurrent è
sistematica, nel senso che a ogni inducer corrisponde un preciso
concurrent. Grossenbacher et Lovelace (2001), distinguono due tipi di
sinestesia a seconda che l'inducer sia percettivoo concettuale.
Sinestesia percettiva: l'inducer è uno stimolo percettivo (per es. la vista di
lettere produce anche la vista di colori "collegati"). Sinestesia
concettuale: i concurrent sono prodotti dal pensare a un particolare concetto
(per es: numero, mese dell'anno, posizione nello spazio). Si utilizza intensivamente
la sinestesia anche nella terminologia utilizzata nella degustazione o
nell'analisi sensoriale. Basi genetiche della sinestesiaModifica
Purtroppo con le competenze scientifiche attuali non è possibile identificare
singoli loci genici che determinino con certezza questo fenomeno
neurocognitivo. Il fenomeno è più probabilmente dovuto a un complesso
meccanismo neurale e non a singole proteine codificate da parti di genoma. In
ogni caso interessanti esperimenti di neuroimaging paiono confermare tale
fenomeno. Sinestesia: grafema-coloreModifica Ramachandran e i suoi
collaboratori hanno notato che la forma più comune di sinestesia è quella
grafema(lettera, numero) - colore e infatti i rispettivi centri cerebrali sono
molto vicini tra loro. Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza magnetica
funzionale) hanno permesso di individuare il "centro del colore" (es.
Zeki et Marini, Brain), l'area V4 nel giro fusiforme. L'area dei grafemi
è stata anch'essa individuata nel giro fusiforme, in particolare nell'emisfero
sinistro vicino all'area V4. L'area si attiva sia in seguito alla presentazione
di lettere sia in seguito alla presentazione di numeri. L'ipotesi di
Ramachandran è che ci sia una attivazione congiunta. La presentazione di un
grafema fa attivare l'area dei grafemi, che fa attivare contemporaneamente
anche l'area del colore, anche senza la presenza di uno stimolo. Questo è
dovuto ad un eccesso di connessioni tra le due aree, non presente in tutte le
persone. Le connessioni che si hanno alla nascita sono un numero
superiore di quello che si trovano in un cervello adulto. Quello che avviene
nei primi mesi di vita è un processo definito pruning (potatura, sfoltimento)
delle connessioni cerebrali. L'ipotesi di Ramachandran è che le connessioni tra
area del colore e area dei grafemi, che normalmente subiscono un processo di
pruning, rimangono invece intatte nei sinestesici. Probabilmente per una
mutazione genetica che fa fallire il processo di pruning. Esisteranno delle
regole che in seguito all'esperienza permetteranno di sviluppare connessioni
particolari tra area dei grafemi e area del colore. Questo spiegherebbe perché
ad un grafema viene sempre associato un certo colore. Ramachandran
ipotizza che l'attivazione del giro fusiforme non implichi un arrivo alla
coscienza delle informazioni. Perché sia possibile essere consapevoli
dell'informazione percepita si dovranno attivare altre aree superiori.
Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la sinestesia non sia dovuta alla presenza
di un numero maggiore di connessioni neurali (le quali non sarebbero presenti
nei non sinestesici); infatti, secondo lo studioso tale fenomeno percettivo è
imputabile al fatto che, nel cervello dei sinestesici, alcune connessioni
neurali risultano ancora attive, mentre non vengono più "utilizzate"
in chi non sperimenta tale modo di percepire. Questo spiegherebbe il motivo per
cui chi assume droghe psicoattive sia in grado di esperire una condizione di
"pseudo-sinestesia", circoscritta esclusivamente al limite temporale
in cui tali sostanze dispieghino il loro effetto, per poi tornare a non
percepire sinestesicamente una volta terminato quest'ultimo. Secondo
Grossenbacher è molto improbabile, infatti, che si siano create nuove
connessioni neurali durante l'assunzione di tali droghe; piuttosto, risulta più
probabile che vengano percorse "strade" neurali solitamente
"disattive". Influenza dell'attenzione sulla percezioneModifica
Esperimento di Ramachandran e Hubbard: caso della figura gerarchica (un 5
composto da tanti 3), se ai soggetti veniva chiesto di fare attenzione a
livello globale vedevano il colore rosso, se invece dovevano dirigere la loro
attenzione a livello locale vedevano verde. Questo esperimento porta a
concludere che l'attenzione influenza il manifestarsi del fenomeno
sinestesico. Sinestesici projector Nel caso di grafema-colore, il colore
è visto come una pellicola che ricopre il numero completamente. Un sinestesico
testato da Dixon, riferiva di provare un'esperienza irritante se il numero era
di un colore incongruente con quello del fotismo (l'effetto della sua
sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli evocava il colore rosso, ma in
realtà era scritto con il giallo. Sinestesici associator Sempre nel caso
di grafema-colore, il colore appare nella mente, e non sopra il numero. In
genere, i sinestesici associator riferiscono che l'esperienza di vedere un
numero con un colore non congruente con quello del fotismo, non è un'esperienza
per nulla disturbante. La percezione del colore "reale" del numero è un'esperienza
molto più intensa del fotismo, per un sinestesico associator. I
sinestesici projector sembrano una minoranza rispetto ai sinestesici associator
(11 su 100, tra quelli intervistati da Dixon e collaboratori). Tra i
maggiori studiosi della sinestesia percettiva, Richard Cytowic, Ramachandran,
E. Hubbard, Sean Day, Bulat Galeyev, Irina Vaneckina. Rapporto con i
canali del calcioModifica Studiando nel moscerino della frutta un gene
coinvolto nell'elaborazione del dolore, alcuni ricercatori hanno creato il
primo modello della sinestesia. Con la tecnica dell'interferenza a RNA hanno
isolato 600 geni quali candidati a interessare possibili geni del dolore. Il
primo ad essere analizzato più in dettaglio è stato quello che codifichi parte
di un canale del calcio noto come alfa 2 delta 3 (α2δ3). Questi canali che
regolano il passaggio di Ca2+ attraverso la membrana cellulare sono
fondamentali per l'eccitabilità elettrica dei neuroni. Con questi canali
interferiscono diversi antidolorifici. Nei topi carenti di α2δ3 si è dimostrato
che questo gene controlli la sensibilità al dolore provocato dal calore sia
nella Drosophila sia nei mammiferi. Indagini condotte con la MRI hanno anche
rivelato che α2δ3 partecipi all'elaborazione del dolore termico a livello
cerebrale. In assenza di α2δ3 il segnale del dolore a genesi termica arriva al
talamo, ma poi non prosegue verso i suoi centri corticali superiori. Le
immagini di fMRI mostrano piuttosto un'attivazione crociata delle aree
corticali per la visione, l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si osserva
anche quando lo stimolo doloroso sia di natura tattile. Emozioni colorate | Le
Scienze, su lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon
Baron-Cohen Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford: Blackwell Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy,
Lascar Publishing, lascarpublishing.com/Leonardo in Internet Archive. ^ Baron-
Cohen Ramachandran et Hubbard, Neurocognitive mechanism of synesthesia" Hubbard1
and Ramachandran, Neurocognitive mechanism of synesthesia, su cell.com il libero. ^ percezione e idee, la sinestesia
| PsycHomer, su psychomer.it Le Scienze:
Non provo dolore, ma ne sento l'odore e ascolto le note Córdoba M.J. de,
Hubbard E.M., Riccò D., Day S.A., III Congreso Internacional de Sinestesia,
Ciencia y Arte, Parque de las Ciencias de Granada, Ediciones Fundación
Internacional Artecittà, Edición Digital interactiva, Imprenta del Carmen. Granada Córdoba M.J. de, Riccò D. (et al.), Sinestesia. Los fundamentos
teóricos, artísticos y científicos, Ediciones Fundación Internacional
Artecittà, Granada Cytowic, R.E., Synesthesia: A Union of The Senses, second
edition, MIT Press, Cambridge, Cytowic, R.E., The Man Who Tasted Shapes,
Cambridge, MIT Press, Massachusetts, Marks L.E., The Unity of the Senses. Interrelations among the modalities, Academic Press, New York, Riccò D.,
Sinestesie per il design. Le interazioni sensoriali nell'epoca dei
multimedia, Etas, Milano, Riccò D., Sentire il design. Sinestesie nel progetto
di comunicazione, Carocci, Roma, Tornitore T., Storia delle sinestesie. Le
origini dell'audizione colorata, Genova, 1986. Tornitore T., Scambi di sensi.
Preistoria delle sinestesie, Centro Scientifico Torinese, Torino, Voci
correlate Takete e Maluma Sinestesia tattile-speculare Altri progettiModifica
Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario
«sinestesia» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini
o altri file su sinestesia Collegamenti esterniModifica Udire i colori, gustare
le forme, su lescienze.espresso.repubblica.it, Le Scienze. TED Talk: "I
listen to color" Portale Psicologia. Qualia aspetti qualitativi delle
esperienze coscienti Locus ceruleus Sinestesia tattile-speculare raro
fenomeno sensoriale/percettivo Wikipedia IlWikipedia Ricerca Sinestesia
(film) film diretto da Bernasconi Sinestesia Lingua originale italiano Paese di
produzione Svizzera Durata 91 min Rapporto1:1.85 Generedrammatico RegiaErik
Bernasconi SceneggiaturaErik Bernasconi ProduttoreVilli Hermann, Imagofilm
Lugano e RSI FotografiaPietro Zuercher MontaggioClaudio Cormio Effetti
specialiFlavio Scarponi, Oltremondo studio Lugano MusicheZeno Gabaglio,
Christian Gilardi ScenografiaFabrizio Nicora CostumiLaura Pennisi Interpreti e
personaggi Alessio Boni: Alan Giorgia Würth: Francoise Melanie Winiger: Michela
Leonardo Nigro: Igor Teco Celio: Padre di Francoise Bindu De Stoppani: Maide
Roberta Fossile: Cathrine Igor Horvat: Martin Federico Caprara: Uomo strano Eva
Allenbach: Segretaria Massimiliano Zampetti: Infermiere Daniele Bernardi:
Fisioterapista Alessandro Otupacca: Proprietario ristorante Sinestesia è un
film del 2010 scritto e diretto da Erik Bernasconi, prodotto da Villi Hermann e
coprodotto da Giulia Fretta per la RSI. I protagonisti sono Alessio Boni,
Melanie Winiger, Würth e Nigro. È stato nominato ai Quartz per la miglior
sceneggiatura, per la miglior attrice (Melanie Winiger) e per la miglior
attrice esordiente (Giorgia Wurth). La pellicola è uscita nelle sale ticinesi. Trama
Il film racconta due momenti della vita di quattro giovani adulti confrontati
con le prove del destino. Alan, sua moglie Françoise, la sua amante Michela, il
suo migliore amico Igor, vivono le sfaccettature del quotidiano dopo un
incidente che costringe Alan su una sedia a rotelle. Per questo la narrazione
si compone, con una struttura circolare, in quattro capitoli: uno per
personaggio, ognuno ispirato a un genere cinematografico. Sono quattro momenti
di una stessa storia, che esplorano le emozioni dei personaggi da quattro
angolature diverse. La trama si basa in larga parte sull'osservazione di fatti
realmente accaduti e affronta con accenti diversi (thriller psicologico,
commedia, dramma…) i temi dell'amicizia, dell'amore, dell'infedeltà e della
disabilità. ProduzioneModifica L'idea del film è partita nel dicembre
2006, con la lettura di un trafiletto in un quotidiano. Poi nell'estate del
2007 il regista e sceneggiatore Erik Bernasconi ha vinto un concorso indetto
dal Dipartimento della Cultura del Cantone Ticino e dalla RSI per progetti di
scrittura di film. Così Erik Bernasconi inizia a collaborare con il produttore
Villi Hermann, della Imagofilm, e parte la stesura della sceneggiatura.
AmbientazioneModifica Il film è stato girato quasi interamente nella Svizzera
italiana, a parte alcune scene girate a Lucerna e Ginevra. Le riprese hanno
avuto luogo nella primavera e nell'estate del 2009.
RiconoscimentiModifica 2010 - Premio del cinema svizzero Candidatura al premio
Quartz per la miglior sceneggiatura Collegamenti esterniModifica ( EN )
Sinestesia, su Internet Movie Database, IMDb.com. Sinestesia, su Rotten
Tomatoes, Flixster Inc. Sinestesia, su FilmAffinity. Modifica su Wikidata
Portale Televisione: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di
televisione Ultima modifica 2 mesi fa di Botcrux Melanie Winiger modella e
attrice svizzera Erik Bernasconi regista e sceneggiatore svizzero
Zeno Gabaglio Grice: “It may be said that my transcendental Kantian approach to
cooperative rational conversation is a response to Costa’s totally empiricist
(or ‘sensista’ as he prefers) invocations of ‘chiarezza’ (my imperative of
conversational clarity), and brevita, eleganza, and all the categories that
inform the maxims. Paolo Costa. Keywords: la teoria sensista della
communicazione – senso – consenso – aesthesis – synaesthesia --– idea dei chi
proferisce la proposizione “Me diletta l’odore di questa rosa piu del colore”,
cooperiamo, e la risponsa di nostre anime e “Contrariamente, a me mi diletta il
colore di questa rosa piu dell’odore” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa”
– The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Costantino: la ragione conversazionale a Roma – la scuola
di Naissus – i romani della Dardania -- filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma).
Filosofo italiano. Naissus, parte dell’Impero Romano, oggi, Nis, nella Serbia, capostipite
della dinastia costantiniana: Cloro Costanzo, romano d’origine illirica e
nativo della Dardania. Madrelingua: latina unicamente. Costantino I. Costantino
I Cesare e poi Augusto dell'Impero romano Testa dell'acrolito monumentale di
Costantino (Musei Capitolini) Nome originale: Flavius Valerius C. Regno
Cognomina ex virtute: Pius Felix Invictus Maximus Victor Triumphator Germanicus
maximus IV Sarmaticus maximus III Gothicus maximus II Dacicus maximus
Adiabenicus Arabicus maximus Armeniacus maximus Britannicus maximus Medicus
maximus Persicus maximus Nascita Naissus
Morte Nicomedia Sepoltura Chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli
Predecessore Costanzo Cloro (per parte dei territori di competenza
amministrati) e Flavio Severo (per la carica di Cesare d'Occidente) Successore Costantino
II (cesare) Costanzo II Costante I (cesare dal 333) Dalmazio (cesare dal 335)
Coniuge Minervina Fausta Figli Crispo Costantina Costantino II Costanzo II
Costante I Elena Dinastia Costantiniana Padre Costanzo Cloro Madre Elena Flavio
Valerio Constantino (Constantino I) Moneta di Costantino con la
rappresentazione del monogramma di Cristo sopra il labaro imperiale Nascita Naissus
Morte Nicomedia Cause della morte naturali Luogo di sepoltura Chiesa dei Santi
Apostoli a Costantinopoli Religione cristianesimo convertito dal paganesimo
Dati militari Paese servitor Impero romano Forza armata Esercito romano Grado
Augusto Comandanti Costanzo Cloro e Massimiano Guerre Guerra civile romana
Campagne germanico-sarmatiche di Costantino Invasioni barbariche del IV secolo
Campagne siriano-mesopotamiche di Sapore II Battaglie Battaglia di Verona
Battaglia di Torino Battaglia di Ponte Milvio Battaglia di Cibalae Battaglia di
Mardia Battaglia dell'Ellesponto Assedio di Bisanzio (324) Battaglia di
Adrianopoli Battaglia di Crisopoli Nemici storici Massenzio e Licinio
Comandante di Esercito romano voci di militari presenti su Wikipedia Manuale
San Costantino I Raffigurazione di san Costantino nella basilica di Santa Sofia
a Istanbul. L'imperatore, che la Chiesa ortodossa ha definito «Simile agli
Apostoli», proclamandolo santo, è raffigurato nell'atto di dedicare la
basilica. Imperatore Nascita Naissus Morte Nicomedia Venerato da Chiesa
cristiana ortodossa Santuario principale Chiesa dei Santi Apostoli Ricorrenza
21 maggio Manuale Battaglie di Costantino I nella guerra civile. Flavio Valerio
Aurelio Costantino, conosciuto anche come Costantino il Vincitore, Costantino
il Grande e Costantino I (in latino: Flavius Valerius Aurelius Constantinus;
iΚωνσταντῖνος ὁ Μέγας?, Konstantînos o Mégas; Naissus, Nicomedia), è un
filosofo italiano. Costantino è una delle figure più importanti dell'impero
romano, che riforma largamente e nel quale permise e favorì la diffusione del
cristianesimo. Tra i suoi interventi più significativi, la riorganizzazione
dell'amministrazione e dell'esercito, la creazione di una nuova capitale a
oriente, Costantinopoli, e la promulgazione dell'Editto di Milano sulla libertà
religiosa. La Chiesa ortodossa e le Chiese di rito orientale lo venerano
come santo, presente nel loro calendario liturgico, col titolo di Eguale agli
apostoli; mentre il suo nome non è presente nel Martirologio Romano, il
catalogo ufficiale dei santi riconosciuti dalla Chiesa cattolica. Le fonti
primarie sulla vita di Costantino e sulle relative vicende da imperatore devono
essere prese con la dovuta cautela. La principale fonte contemporanea è
costituita da Eusebio di Cesarea, autore di una Storia Ecclesiastica che non
manca di esaltare la gloria e la nobiltà di Costantino in quanto imperatore, a
cui fa seguito una Vita di Costantino che ne costituisce una vera e propria
agiografia. Anche Lattanzio, nel suo De mortibus persecutorum, delinea in modo
netto la distinzione fra il pio Costantino e il perverso Diocleziano (Salona).
Distinzione forse non del tutto disinteressata, visto che Lattanzio, nato in
Nordafrica da famiglia pagana e convertitosi al cristianesimo, dove fuggire
precipitosamente da Nicomedia, sede imperiale di Diocleziano, all'alba
dell'ultima persecuzione contro i Cristiani. La stessa cautela deve valere per
la Storia Nuova di Zosimo. Infine, l'appendice alla storia di Ottato di Milevi
sullo scisma donatista racchiude alcune lettere che C. invia ai cristiani del
Nordafrica e che, se autentiche, potrebbero rivelare alcuni tratti del pensiero
dell'imperatore riguardo alla questione. Albero genealogico della
dinastia costantiniana che ha in COSTANZO CLORO (si veda) il vero capostipite.
Costantino nacque a Naissus (odierna Niš, in Serbia), un modesto centro situato
nella provincia romana della Mesia Superiore, figlio di COSTANZO CLORO (si
veda), militare e politico romano di origini illiriche e nativo della Dardania.
Costantino e di madrelingua latina e, ha sempre difficoltà nel padroneggiare il
greco, tanto da doversi avvalere d'interpreti con locutori ellenofoni. Si
conosce pochissimo della sua gioventù. Perfino la sua data di nascita è incerta.
Forse è proprio durante l'adolescenza che gli è affibbiato il soprannome
dispregiativo “Trachala,” da interpretare nel senso di "viscido come una
lumaca". Nominato Prefetto del pretorio delle Gallie (cioè comandante
militare) e in base al sistema della Tetrarchia voluta da Diocleziano, nominato
Cesare dall'Augusto di Occidente, Massimiano, di cui sposa la figliastra
Teodora. Costantino e affidato all'Augusto d'Oriente, Diocleziano, ed educato a
Nicomedia presso la corte dell'imperatore, sotto il quale comincia la carriera
militare: fu tribunus ordinis primi e con questo grado fu al seguito dello
stesso Diocleziano nel suo viaggio in Egitto. Successivamente partecipò
attivamente alla campagna contro i Sasanidi condotta da Galerio per poi tornare
a servizio di Diocleziano con il quale lascia definitivamente l'Egitto
attraversando la Palestina. Combatté ancora tra le file dell'esercito di Galerio
sul confine danubiano, ove si distinse nelle guerre contro i Sarmati. Diocleziano
abdicò a favore del proprio Cesare Galerio e lo stesso fa Massimiano in
Occidente, a favore di Costanzo Cloro. Galerio nomina proprio Cesare il nipote
Massimino Daia e impone a Costanzo, con il sostegno di Diocleziano, come nuovo
Cesare Flavio Severo, un ufficiale di alto rango che aveva militato tra le file
dello stesso Galerio.E in questo frangente che Costantino raggiunse il padre in
Britannia (alcune fonti vogliono che quella di Costantino sia stata una vera e
propria fuga da Nicomedia, dove Galerio avrebbe voluto trattenerlo per
garantirsi la fedeltà di Costanzo Cloro) e condusse con lui alcune campagne
militari nell'isola.Circa un anno dopo, Costanzo Cloro morì nei pressi di
Eburacum, l'odierna York. Qui l'esercito, guidato dal generale germanico Croco
(di origine alamanna), proclama C. nuovo Augusto d'Occidente, mettendo a
repentaglio il meccanismo della tetrarchia, ideato da Diocleziano proprio per
porre termine all'uso ormai consolidato degli eserciti di proclamare di propria
iniziativa gli imperatori. Per tale ragione Galerio, che al tempo era l'unico
Augusto legittimo rimasto in carica, e inizialmente scettico nel riconoscere
l'investitura di Costantino, tuttavia alla fine si convinse a cooptarlo nel
collegio imperiale ma con il rango di Cesare, promuovendo invece come nuovo
Augusto d'Occidente Flavio Severo. Costantino da parte sua accettò la decisione
di Galerio e, per dimostrare come riconoscesse l'autorità di Severo quale nuovo
superiore in grado, cede a quest'ultimo il controllo della diocesi Iberica,
mentre a lui sarebbe rimasto il governo delle Gallie e della Britannia. La
sofferta nomina di C. a Cesare, per quanto gestita e riassorbita nei quadri
della tetrarchia, aveva mostrato la debolezza del sistema di successione per
cooptazione creato da Diocleziano. Infatti Massenzio, figlio dell'Augusto
emerito Massimiano, scontento di essere stato tagliato fuori da qualsiasi
posizione di potere, si fece acclamare imperatore a Roma con l'appoggio dei
pretoriani, dell'aristocrazia senatoria e della plebe urbana. Galerio per
l'occasione decise di agire senza indugi e con durezza, ordinando a Severo, che
risiedeva a Milano, di marciare verso Roma per sedare la rivolta ma, giunto in
prossimità della città, le truppe al suo comando disertarono poiché venute a
conoscenza che Massimiano, per il quale avevano militato prima della sua
abdicazione, si era schierato a sostegno del figlio. Severo, fatto prigioniero,
fu poi ucciso.Galerio allora tenta di organizzare in prima persona una
spedizione in Italia, ma non ottenne alcun risultato e fu costretto a ritirarsi
nell'Illirico. Durante questi eventi, Costantino e impegnato sul confine renano
a combattere con successo i Franchi e si era mantenuto neutrale nella disputa
tra Galerio e Massenzio. Massimiano cerca dunque di farselo alleato e, per
attirarlo alla sua causa, lo raggiunse a Treviri, offrendogli in sposa la
figlia Fausta e il titolo di Augusto. Costantino accettò l'offerta di alleanza
e, dopo essere convolato a nozze, si fa proclamare Augusto sul finire
dell'anno. Tornato a Roma, Massimiano entra in urto con Massenzio, al potere
del quale non voleva più essere subordinato e, costretto a fuggire dalla città
poiché le truppe erano rimaste leali al figlio, fu riaccolto alla corte di
Costantino in Gallia. Galerio, nel tentativo di porre rimedio alla crisi
istituzionale creatasi, convoca a Carnuntum un convegno al quale presero parte,
oltre a lui, anche Massimiano e, soprattutto, Diocleziano. In questa
circostanza e creato Augusto Liciniano Licinio, un commilitone di Galerio,
mentre Costantino fu degradato nuovamente a Cesare e Massimiano dovette
deporre, questa volta definitivamente, le vesti imperiali per una seconda
volta. Contestualmente Massenzio fu dichiarato hostis publicus («nemico
pubblico»). Tornato deprivato di ogni potere, Massimiano inizia a tramare
contro Costantino. Approfittando dell'assenza del genero, impegnato a sedare
una sollevazione dei Franchi, il vecchio Erculio si proclamò per la terza volta
imperatore e, assunto il comando della truppe stanziate a Marsiglia, si arroccò
nella città.[49] Costantino, tornato in fretta dal confine renano, la pose
d'assedio ma, ancor prima che iniziassero le ostilità, i soldati all'interno
della città si arresero e consegnarono Massimiano, a cui fu però risparmiata la
vita.[50] Agli inizi del 310, dopo un ennesimo complotto ordito da Massimiano e
sventato questa volta dalla figlia Fausta, Costantino ordinò la messa a morte
del suocero e successivamente, attorno alla metà dell'anno, decise di
riappropriarsi del titolo di Augusto che gli era stato tolto a Carnuntum,
ottenendo stavolta il consenso di Galerio. Alla morte di Galerio nel 311,
Costantino si alleò con Licinio, mentre Massenzio con Massimino Daia.
Costantino, ormai sospettoso nei confronti di Massenzio, riunito un grande
esercito formato anche da barbari catturati in guerra, oltre a Germani,
popolazioni celtiche e provenienti dalla Britannia, mosse alla volta
dell'Italia attraverso le Alpi, forte di 90 000 fanti e 8 000 cavalieri.[53]
Lungo la strada, Costantino lasciò intatte tutte le città che gli aprirono le
porte, mentre assediò e distrusse quante si opposero alla sua avanzata. Egli,
dopo aver battuto due volte Massenzio prima presso Torino e poi presso Verona,
lo sconfisse definitivamente nella battaglia di Ponte Milvio,[54] presso i Saxa
Rubra sulla via Flaminia, alle porte di Roma. Con la morte di Massenzio, tutta
l'Italia passa sotto il controllo di C. Durante questa campagna sarebbe
avvenuta la celebre e leggendaria apparizione della croce sovrastata dalla
scritta In hoc signo vinces che avvicina C. al cristianesimo. Secondo Eusebio
di Cesarea questa apparizione avrebbe avuto luogo proprio nei pressi di Torino.
Ebbe dalla moglie Fausta Costantina. Augusto d'Occidente Schema della
battaglia avvenuta presso Adrianopoli, dove C., seppure in inferiorità numerica,
prevalse su Licinio, il quale lasciò sul campo secondo Zosimo ben 34.000
armati. Massimino Daia veniva sconfitto da Licinio e si dava la morte.
Entrando in Nicomedia Licinio emanò un rescritto (impropriamente detto editto
di Milano dal luogo dove era stato concordato con Costantino), con cui a nome
di entrambi gli augusti rimasti veniva riconosciuta anche in Oriente la libertà
di culto per tutte le religioni, ponendo fine ufficialmente alle persecuzioni
contro i cristiani, l'ultima delle quali, cominciata da Diocleziano tra il 303
e il 304, si era conclusa nel 311 su ordine di Galerio, prossimo a
morire. Il testo del decreto recita: Cum feliciter tam ego [quam] C.
Augustus quam etiam ego Licinius Augustus apud Mediolanum convenissemus atque
universa quae ad commoda et securitatem publicam pertinerent, in tractatu
haberemus, haec inter cetera quae videbamus pluribus hominibus profutura, vel
in primis ordinanda esse credidimus, quibus divinitatis reverentia
continebatur, ut daremus et Christianis et omnibus liberam potestatem sequendi
religionem quam quisque voluisset, quod quicquid <est> divinitatis in
sede caelesti, nobis atque omnibus qui sub potestate nostra sunt constituti,
placatum ac propitium possit existere» Noi, dunque C. Augusto e Licinio
Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti
gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni
che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo
posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai galilei
e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede,
affinché il divino, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia
pace e prosperità. -- Lattanzio, De mortibus persecutorum, capitolo
XLVIII) Nella prosecuzione il rescritto ordina l'immediata restituzione
ai galilei di tutti i luoghi di culto e di ogni altra proprietà delle
chiese. Costantino e Licinio, che ne aveva sposato la sorella Costanza,
entrarono una prima volta in conflitto
(in seguito alla riappacificazione l'Illirico passò a Costantino). In
seguito alla sconfitta di Licinio, che si arrese dopo le battaglie di
Adrianopoli e di Crisopoli e venne successivamente ucciso, Costantino rimase
l'unico augusto al potere. Questo periodo cominciò con una serie di uccisioni,
a partire da quella del suo antico rivale Licinio. L'anno seguente Costantino fa
uccidere a Pola il figlio primogenito Crispo, figlio di Minervina, per una
presunta relazione con Fausta e inoltre Liciniano, figlio della sorella
Costanza e di Licinio. Quindi anche la moglie Fausta venne uccisa soffocata o
annegata nel bagno termale, riscaldato oltre la temperatura normale. La
leggenda vuole che Crispo sia stato eliminato in seguito all'accusa di Fausta
di averla insidiata, e quindi anche lei venne giustiziata quando Costantino
riconosce l'innocenza del figlio. Forse erano entrambi vittime di falsi
delatori o lei volle assicurarsi l'eliminazione dei rivali dei propri figli
come successori di Costantino. Il rimorso di C. e grande, secondo quanto
riporta ne “I Cesari” il suo polemico successore, il principe Giuliano. Si
erano iniziati i lavori per la costruzione della nuova capitale Nuova Roma sul
sito dell'antica Bisanzio, fornendola di un senato e di uffici pubblici simili
a quelli di Roma. Il luogo venne scelto come capitale nper le sue
eccezionali qualità difensive e per la vicinanza ai minacciati confini
orientali e ai danubiani. Inoltre, particolare non secondario, consentiva a
Costantino di sottrarsi all'influenza invadente, arrogante e irritante degl’aristocratici
presenti nel Senato romano, che tra l'altro erano della religione dell’antica
Roma. Nova Roma e inaugurata e prese presto il nome di “Costantinopoli”. Rispetto
alla vecchia città, la nuova era quattro volte più vasta: dove c'era un'antica
porta Costantino pose un foro circolare, inoltre spostò le sue mura più a
occidente di 15 stadi. La città (oggi Istanbul) resterà poi fino al 1453
capitale dell'Impero romano d’oriente. Diocesi (impero romano) e
Prefettura del pretorio. Riprendendo la divisione della riforma tetrarchica
dioclezianea che prevedeva due Augusti e due Cesari, l'Impero venne ridisegnato
e suddiviso in quattro prefetture, tutte facenti capo a un unico Imperatore: delle
Gallie, comprendente la Gallia transalpina, la Spagna e la Britannia; d'Italia, comprendente l'Italia, la Sicilia,
Sardegna e Corsica, e l'Africa dalle Sirti alla Mauretania Caesariensis; d'Oriente,
comprendente tutte le province orientali con l'eccezione delle isole di Lemno,
Imbro e Samotracia, l'Egitto e la pentapoli di Libia, oltre alla Tracia e la
Mesia inferiore; d'Illirico, comprendente le province balcaniche, vale a dire
dalla Macedonia, alla Tessaglia, a Creta all'Ellade, ai due Epiri, all'Illiria,
a Dacia, Triballia e Mesia superiore, oltre alle Pannonie sino alla Valeria. All'interno
di queste prefetture mantenne rigidamente separati il potere civile e politico,
da quello militare: la giurisdizione civile e giudiziaria era affidata a un
prefetto del pretorio, cui erano subordinati i vicari delle diocesi e i
governatori delle province. I prefetti furono, quindi, privati in parte del
potere militare,[65] lasciando loro ancora compiti di logistica militare,[66] e
diventarono amministratori delle grandi prefetture in cui era diviso l'impero.
Essi svolgevano le seguenti funzioni:[67] la suprema amministrazione
della giustizia e delle finanze (sostenendo anche le spese militari[68]).
l'applicazione e, in alcuni casi, la modifica degli editti generali. controllo
dei governatori delle province, i quali in caso di negligenza o corruzione
venivano destituiti e/o puniti. Inoltre il tribunale del prefetto poteva
giudicare ogni questione importante, civile o penale, e la sua sentenza era
considerata definitiva, al punto che neanche gli imperatori osavano lamentarsi
della sentenza del prefetto. Costantino poi controbilanciava l'importanza e la
potenza dei prefetti del pretorio con la breve durata della carica. Ogni
prefettura, divisa in tredici diocesi, di cui una (Oriente) era governata da un
Conte d'Oriente, un'altra (Egitto) da un Prefetto Augusteo, e le altre undici
da altrettanti Vicari o sottoprefetti, i quali sottostavano all'autorità del
prefetto del pretorio.[69] Ogni diocesi era ulteriormente suddivisa in province.
L'apparato burocratico venne snellito e suddiviso tra gli affari della corte,
affidati a quattro alti dignitari, e gli affari dello Stato, affidati a tre
alti funzionari: costoro, insieme con i prefetti urbani componevano il
Concistorium principis o Sacrum concistorium ("Consiglio del
principe" o "Sacro collegio"). I quattro dignitari che
regolavano le attività della corte erano: il comes rerum privatarum
("ministro degli affari privati"), che si occupava di gestire il
patrimonio privato dell'imperatore[70], il praepositus sacri cubiculi
("preposito del sacro cubicolo"), una sorta di gran ciambellano che
si occupava della vita della corte imperiale e da cui dipendevano cortigiani e
schiavi, due comites domesticorum ("ministro dei domestici"), responsabili
l'uno del personale che svolgeva il proprio servizio a piedi e l'altro del
personale a cavallo e della guardia imperiale. I tre alti funzionari a cui
competeva l'amministrazione dello Stato erano: il magister officiorum
("maestro degli uffici"), un cancellerie che si occupava
dell'amministrazione interna e delle relazioni esterne, il quaestor sacri
palatii ("questore del sacro palazzo"), con competenza in materia di
leggi e di giustizia, che dirigeva inoltre il "Consiglio del
principe", il comes sacrarum largitionum ("ministro delle sacre
elargizioni"), che si occupava delle materie finanziarie statali. La
politica amministrativa di Costantino è controversa e in particolare è stata
aspramente criticata dallo storico illuminista Edward Gibbon, autore di Storia
del declino e della caduta dell'Impero romano (opera composta tra il 1776 e il
1788), che dà di Costantino un giudizio estremamente negativo. Per Gibbon al
tempo di Costantino: si istituì un poderoso sistema burocratico, coniando cariche
sconosciute in antecedenza (magnifico, illustre, conte, duca, ecc.), tali da
creare un controllo vessatorio e di spionaggio su tutte le province; i
pretoriani erano in numero spropositato ed erano di origine armena, con corazze
di argento e d'oro; la capitale trasferita da Roma a Costantinopoli (depredando
importanti opere di Fidia e altri scultori della Grecia classica) accentuò
l'emarginazione del Senato romano; la tassazione esorbitante finì per spopolare
anche una delle regioni (Campania) più produttive dell'Italia; si accentuò,
inoltre, la disgregazione dell'esercito romano, sia con la nomina di barbari al
massimo comando militare, sia con la penalizzazione economica dei soldati che
salvaguardavano il confine (limes) dalle invasioni. Complessivamente, per Gibbon,
neppure Caligola o Nerone fecero più danni all'impero di Costantino.
Politica estera e frontiere Lo stesso argomento in dettaglio: Campagne
germanico-sarmatiche di Costantino, Limes romano, Diga del Diavolo e Brazda lui
Novac (limes). Le frontiere romane settentrionali e orientali al tempo di
Costantino, con i territori acquisiti nel corso del trentennio di campagne
militari. La mappa qui sopra rappresenta anche il mondo romano poco dopo la
morte di Costantino, con i territori "spartiti" tra i suoi tre figli
(Costante I, Costantino II e Costanzo II) e i due nipoti (Dalmazio e
Annibaliano) Già ai tempi in cui era stato Cesare in Occidente, attorno agli
anni 306-310,[71] Costantino ottenne grandi successi militari su Alemanni e
Franchi, di cui si dice riuscì a catturare i loro re, dati in pasto alle belve
durante i giochi gladiatorii. Divenuto unico augusto in Occidente nel 313
respinse una nuova invasione di Franchi in Gallia. Dopo una prima crisi con
Licinio, al termine della quale i due augusti trovarono un nuovo equilibrio
strategico nel 317, ottenne nuovi successi contro le genti barbare lungo il
Danubio. Egli, infatti, batté sia i Sarmati Iazigi sia i Goti. Avendo ottenuto
da Licinio anche l'Illirico, Costantino non solo respinse numerose incursioni
di Sarmati Iazigi e Goti, ma potrebbe aver dato inizio alla costruzione di due
nuovi tratti di limes: il primo nella pianura ungherese chiamato diga del
Diavolo, formato da una serie di terrapieni che da Aquincum collegavano il
fiume Tibisco, per poi piegare verso sud e collegare il fiume Mureș, percorrere
il Banato fino al Danubio all'altezza di Viminacium; il secondo nella Romania
meridionale chiamato Brazda lui Novac, che correva parallelo a nord del basso
corso del Danubio, da Drobeta alla pianura della Valacchia orientale fin quasi
al fiume Siret.[74] Divenuto unico augusto nel 324, affidò ai figli la
difesa dell'Occidente contro Franchi e Alamanni (contro i quali ottenne nuovi
successi e il titolo di Alamannicus maximus, insieme con Costantino) mentre lui
stesso combatteva sul confine danubiano i Goti) e i Sarmati). Divise l'impero
tra i figli assegnando a Costantino II Gallia, Spagna e Britannia, a Costanzo
II le province asiatiche, l'Oriente e l'Egitto e a Costante I l'Italia,
l'Illirico e le province africane. Alla sua morte nel 337 si preparava ad
affrontare in Oriente i Persiani. Costantino nei suoi oltre trent'anni di
regno aveva aspirato a riconquistare, non solo tutti i territori appartenuti
all'Impero di Traiano, ma soprattutto a diventare il protettore di tutti i
Cristiani anche oltre le frontiere imperiali. Egli, infatti, costrinse molte
delle popolazioni barbariche sottomesse a nord del Danubio, a sottoscrivere
clausole religiose dopo averle battute più e più volte, come nel caso dei
Sarmati e dei Goti. Identica sorte sarebbe toccata al regno d'Armenia e ai
Persiani se non fosse morto. Esercito Riforma costantiniana dell'esercito
romano. Mappa della ex-Dacia romana con il suo complesso sistema di
fortificazioni e difesa. In grigio la cosiddetta diga del Diavolo e a destra
(in verde) il Brazda lui Novac, di epoca costantiniana. Le prime vere modifiche
apportate da Costantino nella nuova organizzazione dell'esercito romano, furono
effettuate subito dopo la vittoriosa battaglia di Ponte Milvio contro il rivale
Massenzio nel 312. Egli infatti sciolse definitivamente la guardia pretoriana e
il reparto di cavalleria degli equites singulares e fece smantellare
l'accampamento del Viminale. Il posto dei pretoriani fu sostituito dalla nuova
formazione delle schole palatine, le quali ebbero lunga vita poi a Bisanzio
ormai legate alla persona dell'imperatore e destinate a seguirlo nei suoi
spostamenti, e non più alla Capitale. Una nuova serie di riforme furono poi
portate a termine una volta divenuto unico Augusto, subito dopo la sconfitta
definitiva di Licinio nel 324. La guida dell'esercito fu sottratta ai prefetti
del pretorio, e ora affidata a: il magister peditum (per la fanteria) e il
magister equitum (per la cavalleria). I due titoli potevano tuttavia essere
riuniti in una sola persona, tanto che in questo caso la denominazione della
carica si trasformava magister peditum et equitum o magister utriusque
militiae[80] (carica istituita verso la fine del regno, con due funzionari
praesentalis). I gradi più bassi della nuova gerarchia militare prevedevano,
oltre ai soliti centurioni e tribuni, anche i cosiddetti duces,[65] i quali
avevano il comando territoriale di specifici tratti di frontiera provinciale, a
cui erano affidate truppe di limitanei. C., inoltre, sempre secondo Zosimo,
rimosse dalle frontiere la maggior parte dei soldati e li insediò nelle città
(si tratta della creazione dei cosiddetti comitatensi): «città che non
avevano bisogno di protezione, privò del soccorso quelle minacciate dai barbari
[lungo le frontiere] e procurò alle città tranquille il danno generato dalla
soldataglia, per questi motivi molte città risultano deserte. Lasciò anche che
i soldati rammollissero, frequentando i teatri, e abbandonandosi alla vita
dissoluta.» (Zosimo, Storia nuova) Nell'evoluzione successiva il
generale in campo svolse sempre più le funzioni di una sorta di ministro della
guerra, mentre vennero create le cariche del magister equitum praesentalis e
del magister peditum praesentalis ai quali veniva affidato il comando effettivo
sul campo. Costantino introdusse una riforma monetaria, necessaria anche
per fare fronte alla scarsità di monete d'oro. Venne, quindi, introdotto il
solidus d'oro, con un peso di 4,54 g pari a 1/72 di libbra, cioè più leggero
(anche se più largo e sottile) dell'aureo, che in quel momento valeva 1/60 di
libbra. Si ritornò inoltre al sistema bimetallico di Augusto coniando la
siliqua d'argento, di 2,27 g pari a 1/144 di libbra: il miliarense, con un
valore doppio della siliqua, aveva quindi lo stesso peso del solidus. Per
quanto riguarda i bronzi, il follis, ormai fortemente svalutato, venne
sostituito da una moneta di 3 g, detto nummus centonionalis, cioè 1/100 di
siliqua. Fu una riforma duratura, tanto che il peso aureo del solido
introdotto con la riforma di Costantino rimase invariato per secoli anche
durante l'impero bizantino. Ma a livello sociale le conseguenze furono
catastrofiche: tutti coloro che non avevano accesso alla nuova moneta d'oro,
infatti, dovettero subire le conseguenze dell'inflazione, a causa di una
svalutazione rispetto al solidus delle altre monete d'argento e di rame, che
non erano più protette dallo Stato. Il risultato fu una insuperabile spaccatura
tra una minoranza privilegiata di ricchi e la massa dei poveri. Morte e
successione Albero genealogico della dinastia costantiniana: i
discendenti di Costantino. Costantino morì il
non molto lontano da Nicomedia (in località Achyrona), mentre preparava
una campagna militare contro i Sasanidi. La sua salma fu portata a
Costantinopoli e sepolta in un sarcofago nella Chiesa dei Santi Apostoli.
C. preferì non nominare un unico erede, ma dividere il potere tra i suoi tre
figli cesari Costante I, Costantino II e Costanzo II e due nipoti Dalmazio e
Annibaliano. Costanzo, che era impegnato in Mesopotamia settentrionale a
supervisionare la costruzione delle fortificazioni frontaliere,[86] si affrettò
a tornare a Costantinopoli, dove organizzò e presenziò alle cerimonie funebri
del padre: con questo gesto rafforzò i suoi diritti come successore e ottenne
il sostegno dell'esercito, componente fondamentale della politica di
Costantino. Si ebbe un eccidio, per mano dell'esercito, dei membri maschili
della dinastia costantiniana e di altri esponenti di grande rilievo dello
stato: solo i tre figli di Costantino e due suoi nipoti bambini (Gallo e
Giuliano, figli del fratellastro Giulio Costanzo) furono risparmiati. Le
motivazioni dietro questa strage non sono chiare: secondo Eutropio Costanzo non
fu tra i suoi promotori ma non tentò certo di opporvisi e condonò gli
assassini; Zosimo invece afferma che Costanzo fu l'organizzatore dell'eccidio. Nel
settembre dello stesso anno i tre cesari rimasti (Dalmazio e Annibaliano furono
vittime della purga) si riunirono a Sirmio in Pannonia, dove il 9 settembre
furono acclamati imperatori dall'esercito e si spartirono l'Impero: Costanzo si
vide riconosciuta la sovranità sull'Oriente, Costante sull'Illirico e
Costantino II sulla parte più occidentale (Gallie, Hispania e Britannia). La divisione
del potere tra i tre fratelli durò poco: Costantino II morì nel 340, mentre
cercava di rovesciare Costante, e Costanzo guadagnò i Balcani; nel 350 Costante
fu rovesciato dall'usurpatore Magnenzio, e Costanzo divenne unico
imperatore. Icona ortodossa bulgara con l'imperatore e la madre Elena e
la "vera croce". Il comportamento costantiniano in tema di culto
uffiziale ha dato spazio a molte controversie fra i filosofi -- controversie
particolarmente aspre quando essi hanno preteso di valutare non solo il
comportamento pubblico, ma le sue convinzioni interiori. In alternativa
all'opinione tradizionale, secondo cui Costantino si sarebbe convertito al
cristianesimo poco prima della battaglia di Ponte Milvio, è stata, invece,
asserita la sua costante adesione al CULTO SOLARE, mettendo in dubbio perfino
il battesimo in punto di morte. Secondo altri filosofi, poi, il culto
uffiziale e per Costantino un puro e semplice instrumentum regni. Burckhardt afferma:
«Nel caso di un uomo geniale, al quale l'ambizione e la sete di dominio non
concedono un'ora di tregua, non si può parlare del sacro consapevole -- un uomo
simile è essenzialmente a-religioso, e lo sarebbe anche se egli immaginasse di
far parte integrante di una comunità religiosa. Secondo altri filosofi ancora,
poi, occorre distinguere fra convinzioni private e comportamento pubblico,
vincolato dalla necessità di conservare il consenso delle proprie truppe e dei
propri sudditi, qualunque ne fosse l'orientamento religioso. Da questo punto di
vista è utile distinguere fra il comportamento di Costantino antecedente e
quello successivo alla battaglia di Crisopoli, grazie alla quale consegue il
dominio assoluto sull'impero. Dopo questo, si trova comunque d'accordo
molti studiosi di quell'epoca. Tra costoro, Veyne sostiene con sicurezza
l'autenticità della conversione di Costantino, ricordando, con Bury, che la sua
rivoluzione e forse l'atto più audace mai compiuto da un autocrate in spregio
alla grande maggioranza dei suoi sudditi. E ciò in considerazione del fatto che
la popolazione che segue il culto dei galilei e circa il 8% del totale nel
principato di Costantino.Veyne ha inoltre proposto un'interessante teoria per
tentare di spiegare in modo razionale il fenomeno leggendario della visione che
potrebbe aver spinto Costantino a una conversione solo apparentemente
improvvisa. Veyne ipotizza che un sogno abbia potuto avere azione catalitica su
un terreno psicologico predisposto da esperienze e suggestioni vissute
precedentemente. È comunque fuori di dubbio la sincerità costantiniana nella
ricerca dell'unità e concordia del culto, la cui necessità deriva da un preciso
disegno politico che considera l'unità del mondo condizione indispensabile alla
stabilità della potenza imperiale. Costantino infatti interpreta in questo
senso l'antico tema, caro alla Roma sul principato della “pax deorum”, nel
senso che la forza del principato non deriva semplicemente dalle azioni di un
principe illuminato, da una saggia amministrazione e dall'efficienza di un ben
strutturato e disciplinato esercito, ma direttamente dalla benevolenza del
divino. Mentre però, nella religione della Roma antica, vi era un rapporto DIRETTO
tra il potere del principe e il divino, il principe non puo ignorare istituzioni
che, tramite i suoi vescovi, adita la fonte divina del potere. Costantino non puo
fare a meno di essere co-involto nelle lotte teologiche. Su una tale base
ideologica, questa ricerca dell'unità e della concordia comporta quindi anche
interventi molto duri nei confronti di coloro che il principe considera
eretici, che sono trattati duramente, dei pagani. I conflitti teologici si
trovarono dunque ad avere una ricaduta politica, mentre d'altra parte le sorti
interne del principato sono sempre più dipendenti dai risultati delle lotte
teologiche. Gli stessi vescovi, infatti, sollecitavano continuamente
l'intervento del principe per la corretta applicazione delle decisioni dei
concili, per la convocazione dei sinodi e anche per la definizione di
controversie teologiche. Ogni successo di una fazione comportava la deposizione
e l'esilio dei capi della fazione opposta, con i metodi tipici della lotta
politica. La religione della Roma Antica si era fortemente trasformata: sulla
spinta della insicurezza dei tempi e dell'influsso dei culti di origine
orientale, le sue caratteristiche pubbliche e ritualistiche hanno sempre più
perso di significato di fronte a una più intensa e personale spiritualità. Si
era andato diffondendo un sincretismo venato di mono-teismo (il colto solare di
un divino unico, il re sole identificato con Giove -- e si tendeva a vedere
nelle immagini degli dei tradizionali – altri che Giove -- l'espressione di un
unico essere divino: Giove. Una forma politica a questa aspirazione
sincretistica e data dall'imperatore Aureliano con l'istituzione del culto
ufficiale del Sole Invitto con elementi del mitraismo e di altri culti solari
di origine orientale. Il culto e diffuso nell'esercito, soprattutto
nell'occidente, e a esso non furono estranei né Costanzo Cloro, il padre di
Costantino, né Costantino stesso. Costantino e certamente il primo a
comprendere l'importanza della religione per rafforzare la coesione culturale e
politica dell'impero romano. Fa vietare il concubinato dei mariti, mentre
fu reso più difficile il ripudio, antenato del divorzio. La domenica e elevata
a giorno festivo pubblico. Lo Stato inizia a finanziare il clero pubblico e la
costruzione di nuove edificii o fu l'imperatore a farle erigere personalmente,
ad esempio a Roma (Antica basilica di Pietro nel monte Vaticano), ma
especialmente fuora di Roma: a Betlemme
(Basilica della Natività), Gerusalemme (Basilica del Santo Sepolcro) e
Costantinopoli (Chiesa dei Santi Apostoli). In un decreto concesse che su
richiesta di una sola delle parti contendenti, le cause civili potessero essere
giudicate innanzi ai vescovi. Fu concesso agli ecclesiastici l'esonero dagli
oneri municipali. Moneta di Costantino, con una rappresentazione del Sol
Invictus e l'iscrizione SOLI INVICTO COMITI, "al Sole Invitto
compagno" Moneta di Costantino con la rappresentazione del
monogramma di Cristo sopra il labaro imperiale Le monete coniate da Costantino
forniscono indirettamente notizie sull'atteggiamento pubblico di Costantino
verso i culti religiosi. Quando ancora ricopriva il ruolo di principe, alcune
emissioni si inserirono nel classico filone della Tetrarchia, con dediche «al
Genio del Popolo Romano» ("Gen Pop Romani"), provenienti specialmente
dalla zecca di Londinium (Londra). Ancora per alcuni anni dopo la battaglia di
Ponte Milvio le zecche orientali (Alessandria, Antiochia, Cyzicus, Nicomedia,
ecc.) continuarono a produrre monete dedicate «a Giove salvatore» (Iovi
conservatori). Nello stesso periodo le monete delle zecche occidentali (Arles,
Londra, Lione, Augusta Treverorum, Pavia, ecc) continuarono a coniare monete
dedicate «al Sole invitto compagno» e, nel caso della zecca di Pavia, anche «a
Marte salvatore» (Marti Conservatori) e «a Marte Protettore della Patria»
(Marti Patri Conservatori). L'attributo «compagno» riferito al Sole, che
manca in monete analoghe di precedenti imperatori, è singolare e occorre
chiedersene il significato. Normalmente viene interpretato come «al compagno
(di Costantino), il Sole Invitto»; indicherebbe quindi una indiretta
deificazione dell'imperatore stesso. Il vero significato, però, potrebbe anche
essere completamente diverso. Nell'età imperiale, infatti, la parola latina
comes, oltre che «compagno» indicava un funzionario imperiale e perciò da essa
è derivato il titolo nobiliare «conte». Alle orecchie dei galilei, quindi,
questa strana legenda poteva ricordare che il sole non era un dio, ma una
potenza subordinata alla divinità suprema. A sua volta l'imperatore si presenta
come l'autorità suprema in terra allo stesso modo come il sole lo era in cielo;
autorità, però, entrambe subordinate. Questa interpretazione è confermata
dall'emissione (durante la prima guerra
civile contro Licinio), la cui legenda recita: SOLI INVIC COM DN (soli invicto
comiti domini), che potrebbe essere tradotto come «al sole invitto compagno del
signore», ma che sembra più logico tradurre «al sole invitto, ministro del
Signore». La maggior parte delle zecche sia in oriente sia in occidente
passarono a emissioni laiche benaugurali, fra cui per prima quella con la
legenda «Liete vittorie al principe perpetuo» (Victoriae laetae prin. perp.).Da
quell'anno dalle monete bronzee di Costantino iniziano a sparire gli dei
tradizionali, come Elio, Marte, Giove, sostituiti dall'immagine solitaria
dell'imperatore, che volge gli occhi verso l'alto, ad un divino generico, che
può essere interpretata come Giove. La monetazione aurea invece mantiene ancora
a lungo gli dei tradizionali, forse perché rivolta ai patrizi e a persone di
rango elevato, ancora legate alla religione tradizionale Le monete con
simboli dei galilei o supposti tali sono rare e costituiscono solo circa l'1%
delle tipologie conosciute. La zecca di Pavia (Ticinum) conia un medaglione
d'argento in cui il monogramma di Cristo era riprodotto sopra l'elmo piumato
dell'imperatore. Solo dopo la vittoria su Licinio compare la tipologia con il
labaro imperiale e il monogramma di Cristo, che trafiggono un serpente, simbolo
appunto di Licinio,[99] e simultaneamente scompaiono del tutto dalle monete sia
le immagini del sole invitto sia la corona radiata, altro simbolo apollineo e
solare. Nel 326 appare il diadema, simbolo monarchico di derivazione
ellenistica, e poco dopo il sovrano viene raffigurato con lo sguardo rivolto in
alto, come nei ritratti ellenistici, a simboleggiare il contatto privilegiato
tra l'imperatore e la divinità. L'ambiguitas constantiniana Quanto sopra
osservato a proposito delle monete di Costantino, cioè la volontà imperiale di
presentarsi come un prediletto dal cielo, senza, però, mettere in chiaro quale
fosse la divinità, può essere rilevato in molti altri aspetti dell'impero di
Costantino. Il ruolo determinante giocato da Costantino nell'ambito della
chiesa cristiana (ad esempio tramite la convocazione di concili e il
presiederne i lavori) non deve oscurare il fatto che Costantino svolse funzioni
analoghe nell'ambito di altri culti. Egli infatti mantenne la carica di
pontefice massimo della religione pagana; carica che era stata di tutti gli
imperatori romani a partire da Augusto. Lo stesso fecero i suoi successori
cristiani fino al 375. Anche la battaglia di Ponte Milvio, con cui nel
312 Costantino sconfisse Massenzio, diede origine a leggende discordanti, che,
però, potrebbero risalire tutte a Costantino, sempre attento a presentarsi come
prescelto dal divino, qualunque essa fosse. Per queste leggende si veda la voce
in hoc signo vinces. In questo senso si spiegano sia l'editto imperiale di
tolleranza o l'editto di Milano del 313 (conferma rafforzata di un editto di
Galerio del 30 aprile 311), sia l'iscrizione sull'arco di Costantino: entrambi
citano una generica "divinità", che poteva dunque essere identificata
sia con il Dio cristiano, sia con il dio solare. L'ambiguità dell'Editto di
Milano, però, è ovvia, dato che esso fu proclamato da Licinio. Costantino
persegue probabilmente il proposito di riavvicinare i culti presenti
nell'impero, nel quadro di un non troppo definito monoteismo imperiale. Vi fu
una grande confusione da parte degli osservatori esterni del cristianesimo che
portò molti ad identificare i cristiani come adoratori del sole. Molto prima
che Eliogabalo e i suoi successori diffondessero a Roma il culto siriaco del
Sol invictus, molti romani ritenevano che i cristiani adorassero il sole:
«Gli adoratori di Serapide sono cristiani e quelli che sono devoti al dio
Serapide chiamano se stessi Vicari di Cristo» (Adriano) «…molti
ritengono che il Dio cristiano sia il Sole perché è un fatto noto che noi preghiamo
rivolti verso il Sole sorgente e che nel Giorno del Sole ci diamo alla
gioia» (Tertulliano, Ad nationes, apologeticum, de testimonio
animae) Questa confusione era senz'altro favorita dal fatto che Gesù era
risorto nel primo giorno della settimana, quello dedicato al sole, e perciò i
cristiani avevano l'abitudine di festeggiare proprio in quel giorno (oggi
chiamato domenica): «Nel giorno detto del Sole si radunano in uno stesso
luogo tutti coloro che abitano nelle città o in campagna, si leggono le memorie
degli apostoli o le scritture dei profeti, per quanto il tempo lo consenta;
poi, quando il lettore ha terminato, il presidente istruisce a parole ed esorta
all'imitazione di quei buoni esempi. Poi ci alziamo tutti e preghiamo e, come
detto poco prima, quando le preghiere hanno termine, viene portato pane, vino e
acqua, e il presidente offre preghiere e ringraziamenti, secondo la sua
capacità, e il popolo dà il suo assenso, dicendo Amen. Poi viene la
distribuzione e la partecipazione a ciò che è stato dato con azioni di grazie,
e a coloro che sono assenti viene portata una parte dai diaconi. Coloro che
possono, e vogliono, danno quanto ritengono possa servire: la colletta è
depositata al presidente, che la usa per gli orfani e le vedove e per quelli
che, per malattia o altre cause, sono in necessità, e per quelli che sono in
catene e per gli stranieri che abitano presso di noi, in breve per tutti quelli
che ne hanno bisogno.» (Giustino) Questa scelta liturgica era
inevitabile. Il giorno del sole, infatti, non solo era proprio il primo della
settimana, quello in cui Gesù era risorto, ma anche aveva una valenza
metaforica teologicamente e scritturalmente corretta. L'abitudine di chiamare
tale giorno "giorno del Signore" (dies dominica, da cui, appunto il
nome domenica) compare per la prima volta alla fine del primo secolo
(Apocalisse 1, 10[100]) e poco dopo nella didaché, prima cioè che il culto del
Sol Invictus prendesse piede. Anche la decisione di celebrare la nascita
di Cristo in coincidenza col solstizio d'inverno ha dato origine a molte
controversie, dato che le date di nascita di Gesù fornite dai Vangeli sono
imprecise e di difficile interpretazione. Le prime notizie di feste cristiane
per celebrare la nascita di Cristo risalgono circa all'anno 200. Clemente Alessandrino
riporta diverse date festeggiate in Egitto, che sembrano coincidere con
l'Epifania o col periodo pasquale (cfr. Data di nascita di Gesù). Nel 204
circa, invece, Ippolito di Roma propone il 25 dicembre (e la correttezza
storica di tale scelta sembrerebbe essere stata approssimativamente confermata
da recenti scoperte). La decisione delle autorità romane, tuttavia, di
uniformare la data delle celebrazioni proprio il 25 dicembre potrebbe essere
stata stabilita in buona parte per motivi "politici" in modo da
congiungersi e sovrapporsi alle feste pagane dei Saturnali e del Sol
invictus. La confusione delle date liturgiche fra i culti continuò per un
certo periodo, anche perché ovviamente l'editto di Tessalonica, che proibiva i
culti diversi dal cristianesimo, non determinò la conversione immediata dei
pagani. Ancora ottanta anni dopo, nel 460, il papa Leone I sconsolato
scriveva: «È così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni
cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver
salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano
in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per
questo fatto che viene ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono
astenersi da ogni apparenza di ossequio a questo culto degli dei.» (Papa
Leone I, 7° sermone tenuto nel Natale del 460 - XXVII-4) La
sovrapposizione fra culto solare e culto cristiano ha dato origine a molte
controversie, tanto che alcuni hanno sostenuto che il cristianesimo sia stato
pesantemente influenzato dal mitraismo e dal culto del Sol invictus o
addirittura trovi in essi la sua radice vera. Questa ipotesi si forma durante
il Rinascimento, ma si è diffusa negli ultimi decenni del XX secolo, tanto da essere
considerata (se non accettata) perfino negli ambienti più progressisti delle
chiese cristiane. Un esempio di questa ipotesi ce lo fornisce il vescovo
siriano Jacob Bar-Salibi che, alla fine del XII secolo, scrive: «Era
costume dei pagani celebrare al 25 dicembre la nascita del Sole, in onore del
quale accendevano fuochi come segno di festività. Anche i Cristiani prendevano
parte a queste solennità. Quando i dotti della Chiesa notarono che i Cristiani
erano fin troppo legati a questa festività, decisero in concilio che la
"vera" Natività doveva essere proclamata in quel giorno.»
(Jacob Bar-Salibi) Anche l'allora cardinale Joseph Ratzinger (poi papa
Benedetto XVI) parla della cristianizzazione della festa antico romana dedicata
al sole e agli dei che lo rappresentavano. È introdotta la settimana di sette
giorni e fu decretato come giorno di riposo il dies Solis (il "giorno del
Sole", che corrisponde alla nostra domenica). (LA) «Imperator
Constantinus.Omnes iudices urbanaeque plebes et artium officia cunctarum venerabili
die solis quiescant. ruri tamen positi agrorum culturae libere licenterque
inserviant, quoniam frequenter evenit, ut non alio aptius die frumenta sulcis
aut vineae scrobibus commendentur, ne occasione momenti pereat commoditas
caelesti provisione concessa. * Const. A. Helpidio. * <a 321 PP. V NON.
MART. CRISPO II ET CONSTANTINO II CONSS. Nel venerabile giorno del Sole, si
riposino i magistrati e gli abitanti delle città, e si lascino chiusi tutti i
negozi. Nelle campagne, però, la gente sia libera legalmente di continuare il
proprio lavoro, perché spesso capita che non si possa rimandare la mietitura
del grano o la cura delle vigne; sia così, per timore che negando il momento
giusto per tali lavori, vada perduto il momento opportuno, stabilito dal cielo.»
(Codice giustinianeo) Benché dopo la sconfitta di Licinio il
cristianesimo di Costantino trovi sempre più conferme pubbliche, occorre non
dimenticare che: «Mentre egli e sua madre abbelliscono la Palestina e le grandi
città dell'impero di sfarzosissime chiese, nella nuova Costantinopoli egli fa
costruire anche dei templi pagani. Due di questi, quello della Madre degli dèi
e quello dei Dioscuri, possono essere stati semplici edifici decorativi
destinati a contenere le statue collocatevi come opere d'arte, ma il tempio e
la statua di Tyche, personificazione divinizzata della città, dovevano essere
oggetto di un vero e proprio culto». Probabilmente il progetto politico di
Costantino di tollerare il Cristianesimo, se non frutto di una conversione
personale autentica, nacque dalla presa d'atto del fallimento della
persecuzione contro i cristiani scatenata da Diocleziano. La sconfitta così
clamorosa di Diocleziano aveva dovuto persuadere Costantino che l'Impero aveva
bisogno di una nuova base morale che la religione tradizionale era incapace di
offrirgli. Bisognava, quindi, trasformare la forza potenzialmente disgregante
delle comunità cristiane, dotate di grandi capacità organizzative oltre che di
grande entusiasmo, in una forza di coesione per l'Impero. Questo è il senso
profondo della svolta costantiniana, che finì per chiudere la fase movimentista
del cristianesimo trascendente e aprire quella del cristianesimo politicamente
trionfante. I cristiani furono inseriti sempre di più nei gangli vitali del
potere imperiale. Inoltre, alla Chiesa cristiana, già alimentata cospicuamente
dal flusso delle contribuzioni spontanee dei fedeli, furono concesse numerose
esenzioni e privilegi fiscali, moltiplicandone la ricchezza. Dopo l'esercito,
la Chiesa cristiana grazie a Costantino stava diventando il secondo pilastro
dell'Impero. La leggenda della donazione costantiniana Secondo una tarda
leggenda medievale, Costantino, dopo la battaglia di Ponte Milvio, fece dono a
papa Silvestro I (convinto di essere stato da lui guarito dalla lebbra), dello
splendido Palazzo Laterano (di proprietà della moglie Fausta), consegnando così
al papa romano la città di Roma e dando avvio, con quell'atto di devoluzione,
al potere temporale dei papi, ma la cosiddetta Donazione di C. (nota in latino
come "Constitutum Constantini", ossia "decisione",
"delibera", "editto") è un documento apocrifo conservato in
copia nelle Decretali dello Pseudo-Isidoro e, come interpolazione, in alcuni
manoscritti del Decretum di Graziano (XII secolo). Nel 1440 il filologo
italiano Lorenzo Valla dimostrò in modo inequivocabile come il documento fosse
un falso. Colonna di Costantino I a Costantinopoli. Sotto di essa
l'imperatore avrebbe posto amuleti pagani e reliquie cristiane a protezione
della città La leggenda della donazione quindi probabilmente voleva dare un
fondatore illustre, il primo imperatore cristiano, al successivo disegno
politico di imporre il Cristianesimo come unica religione ufficiale dell'impero
romano. Tale sviluppo però ebbe luogo solo a partire dall'epoca tarda, con
Graziano e Teodosio quindi verso la fine del IV secolo (391). Dopo la caduta
dell'Impero d'occidente, nel 476, la "donazione" divenne la base
giuridica del Papato per legittimare il proprio potere temporale sulla città di
Roma e la sua indipendenza dall'imperatore. La conversione Costantino
mantenne il titolo di Pontifex Maximus che gli spettava come imperatore e
condusse una politica di mediazione tra i vari culti dell'Impero e anche tra le
diverse correnti del nascente Cristianesimo. Riceve il battesimo
cristiano solo IN PUNTO DI MORTE, per mano di un suo consigliere, il vescovo
ariano Eusebio di Nicomedia.[109] Alcuni storici, però, ritengono che questo
racconto possa essere stato tramandato per motivi politico-religiosi e propagandistici.[110].
Va detto che il battesimo ricevuto sul letto di morte da catecumeno era
un'usanza del tempo, quando non essendo stato ancora riconosciuto il sacramento
della confessione si preferiva annullare tutti i propri peccati prima della
morte, che avveniva così in albis. Senza escludere l'utilità politica
attesa da Costantino dall'alleanza con la Chiesa cattolica, alcuni documenti
risalenti al periodo dell'Editto di Milano rivelerebbero un avvicinamento
dell'imperatore al cristianesimo ben più marcato di quanto descritto da parte
della storiografia, in una lettera del 314-315 di Costantino a Elafio, suo
vicario imperiale in Africa, si rivolgeva infatti circa lo scisma donatista con
queste parole[111]: «… non sarò mai soddisfatto né mi aspetterò prosperità e
felicità dal potere misericordioso dell'Onnipotente fino a quando non sentirò
che tutti gli uomini offrono al Santissimo la retta adorazione della religione
cattolica in una comune fratellanza…» solo dieci anni più tardi scriveva
a Sapore II re di Persia con medesimi accenti[112]: «…Io sarò soddisfatto solo
quando vedrò che tutti pregheranno, con fraterna concordia d'intenti,
nell'autentico culto della Chiesa universale…» ciò farebbe pensare che il
battesimo venne amministrato in punto di morte a Nicomedia solo come termine di
un lungo processo di conversione che non fu estraneo a contaminazioni con
ambienti dell'arianesimo, nella cui fede fu battezzato. Tali contaminazioni gli
costarono la mancata canonizzazione cattolica (per la Chiesa cattolica,
coerentemente, la santificazione spetta solo a coloro che sono stati battezzati
secondo le norme cattoliche) e gli concessero l'inserimento ufficiale solo tra
i santi ortodossi; accadde diversamente per la madre Elena, che si commemora il
18 di agosto, il cui battesimo fu invece celebrato in osservanza di tale
liturgia. Fu dunque l'adesione all'arianesimo negli ultimi anni della sua vita,
quelli successivi alla partenza per la nuova Costantinopoli, a indurre la
Chiesa di Roma a prenderne le distanze; ciò avvenne attraverso la riscrittura
agiografica della vita, da parte di papa Silvestro così come descritta negli
Actus Silvestri. Non è altresì da escludere che sulla conversione di
Costantino abbiano influito in modo determinante gli eventi succedutisi dagli
inizi del IV secolo con la constatazione del fallimento delle persecuzioni del
303 e l'editto di Galerio del 311 che tentava di far rientrare la religione
cristiana nell'alveo di tutte le altre religioni ammesse nell'impero, che
tradiva il timore dell'universalismo del cristianesimo che metteva a rischio le
istituzioni romane basate sulle differenze etniche. Dal papiro di Londra
numero 878, che contiene una parte di un editto del 324, e da un'attenta
riconsiderazione storica pare che Costantino fosse animato da "un
effettivo accostamento al sentimento cristiano". Che sia stato per
convinzione personale o per calcolo politico, Costantino appoggiò comunque la
religione cristiana soprattutto dopo l'eliminazione di Licinio nel 324, costruendo
basiliche a Roma, Gerusalemme e nella stessa Costantinopoli; conferì alle
chiese il diritto di ricevere beni in eredità e quelle maggiori furono dotate
di vaste proprietà; diede ai vescovi vari privilegi e poteri giudiziari, quali
quello di essere giudicati da loro pari ponendo le basi al principio relativo
al vescovo di Roma del prima sedes a nemine iudicatur; concesse gli episcopalis
audientia. Fu in epoca costantiniana inoltre, una volta identificata la Chiesa
secondo la definizione paolina di Corpus Mysticum e ritenuta capace di ricevere
donazioni ed eredità, che ebbe luogo il concetto, prima sconosciuto nella
legislazione romana, di persona giuridica nella successiva legislazione.
Il riformatore cristiano Lo stesso argomento in dettaglio: Concilio di Nicea
I. L'icona di San Costantino nel Castello di Lari (Toscana), opera
realizzata per i 1700 anni dell'editto di Milano La politica di Costantino
mirava a creare una base salda per il potere imperiale sull'assioma che c'era
un unico vero dio, una sola fede e quindi un unico legittimo imperatore. Nella
stessa religione cristiana per questo motivo era dunque importantissima
l'unità: Costantino fu promotore, pur non essendo battezzato, di diversi
concili, per risolvere le questioni teologiche che dividevano la Chiesa. In
tali concili presenziò come pontifex maximus dei romani o "vescovo di
quanti sono fuori della chiesa". Il primo fu quello convocato ad
Arelate (primo concilio di Arles), in Francia nel 314, che confermò una
sentenza emessa da una commissione di vescovi a Roma, che aveva condannato
l'eresia donatista, intransigente nei confronti di tutti i cristiani che si
erano piegati alla persecuzione dioclezianea: in particolare si trattava del
rifiuto di riconoscere come vescovo di Cartagine Cipriano, il quale era stato
consacrato da un vescovo che aveva consegnato i libri sacri. Ancora nel
325, convocò a Nicea il primo concilio ecumenico, che lui stesso inaugurò, per
risolvere la questione dell'eresia ariana: Ario, un prete alessandrino
sosteneva che il Figlio non era della stessa "sostanza" del padre, ma
il concilio ne condannò le tesi, proclamando l'omousia, ossia la medesima
natura del Padre e del Figlio. Il concilio di Tiro del 335 condannerà tuttavia
Atanasio, vescovo di Alessandria, il più accanito oppositore di Ario,
soprattutto a causa delle accuse politiche che gli vennero rivolte.
L'imperatore fece costruire numerose chiese cristiane, tra cui le basiliche del
Santo Sepolcro a Gerusalemme, la basilica di Mamre e la basilica della Natività
a Betlemme. A Roma eleva la basilica del Laterano e la prima basilica di San
Pietro. Per la sua sepoltura decise di non farsi seppellire nel mausoleo dove
era già la madre a Roma, ma si fece costruire un mausoleo a Costantinopoli
vicino o all'interno della chiesa dei Santi Apostoli, tra le reliquie di questi
ultimi, che cercò di radunare. Eusebio di Cesarea narra che Costantino fu
munifico e ornò gli edifici di oro, marmi, colonne, e splendidi arredi.
Purtroppo nessuna delle basiliche originali di Costantino si è conservata fino
ai giorni nostri, salvo pochi resti di fondazioni. In tutto l'impero, i templi
pagani, salvo poche eccezioni, non vennero riconvertiti in chiese, ma
abbandonati, perché inadatti al nuovo culto che richiedeva la presenza di
numerosi fedeli all'interno. I culti pagani invece si svolgevano all'aperto,
con la cella del tempio riservata al dio. Vi fu quindi la riconversione ad uso
religioso di un particolare tipo di edificio romano, la basilica civile.
Culto Anche se divenuto cristiano, alla morte Costantino venne divinizzato
(divus), per decreto del senato, con la cerimonia pagana dell'apoteosi, come
era consuetudine per gli imperatori romani. Costantino, nonostante avesse
iniziato a costruire un grandioso mausoleo di famiglia a Roma, lo lasciò a sua
madre (il cd. Mausoleo di Elena) e volle essere sepolto a Costantinopoli, nella
Chiesa dei Santi Apostoli, divenendo così il primo imperatore a essere sepolto
in una chiesa cristiana. Costantino è considerato santo dalla Chiesa
ortodossa, che secondo il Sinassario Costantinopolitano lo celebra assieme alla
madre Elena. La santità di Costantino non è riconosciuta dalla Chiesa
cattolica (infatti non è riportato nel Martirologio Romano), che tuttavia
celebra sua madre[117] il 18 agosto. A livello locale il culto di san
Costantino è comunque autorizzato anche nelle chiese di rito romano-latino. In
Sardegna, per esempio, la festa del santo (nella tradizione religiosa sarda)
ricorre il 7 luglio. Il 23 aprile invece, viene festeggiato a Siamaggiore, in provincia
di Oristano, l'unico paese dell'isola in cui Costantino Magno Imperatore ne è
anche il patrono. Nell'isola esistono due santuari principali dedicati
all'imperatore: uno si trova a Sedilo, nel centro geografico dell'isola, in
provincia di Oristano, dove il 6 e 7 luglio di ogni anno si corre l'Ardia, una
sfrenata e spettacolare corsa a cavallo di origine bizantina che rievoca la
vittoria del 312 a Ponte Milvio; l'altro è a Pozzomaggiore, in provincia di
Sassari. Altre attestazioni minori si hanno in vari luoghi della Sicilia;
l'ultimo sabato di luglio, a Capri Leone, paese in provincia di Messina, si
festeggia la festività in suo onore, dove per devozione paesana egli è divenuto
Santo Patrono. Suggestiva la processione serale, con il simulacro di Costantino
Imperatore portato a spalla dai fedeli. Titolatura imperiale Lo
stesso argomento in dettaglio: Monetazione tetrarchica e Monetazione di
Costantino e dei Costantinidi. Titolatura imperialeNumero di volteDatazione
evento Tribunicia potestas33 volte: la prima volta il 25 luglio del 306, la
seconda il 10 dicembre del 306, la terza nel settembre del 307, la quarta il 10
dicembre del 307 e poi annualmente ogni 10 dicembre fino al 337 (anno in cui
non assunse l'iterazione perché premorì). Consolato. Salutatio imperatoria: la
prima quando è proclamato Caesar, poi
rinnovata ogni anno. Titoli vittoriosi Germanicus maximus; Sarmaticus maximus);
Gothicus maximus); Dacicus maximus; Adiabenicus; Arabicus maximus; Armeniacus
maximus; Britannicus maximus; Medicus maximus; Persicus maximus. Altri titoli Caesar,
Filius Augustorum e augustus; Pius, Felix, Pontifex Maximus; Invictus, Pater
Patriae, Proconsul; Maximus; Victor (in sostituzione di Invictus); Triumphator
(titolo aggiunto tra il 328 ed il 332). Località italiane in cui è attestato il
culto a San Costantino imperatore Calabria Calabria, Provincia di Vibo
Valentia, San Costantino Calabro Calabria, Provincia di Vibo Valentia,
Briatico, San Costantino di Briatico (frazione) Lucania Basilicata,
Provincia di Potenza, San Costantino Albanese Basilicata, Provincia di Potenza,
Rivello, San Costantino (frazione) Sardegna Sardegna, Provincia di
Oristano, Siamaggiore, Parrocchiale di San Costantino Magno Imperatore
Sardegna, Provincia di Oristano, Sedilo, Santuario di Santu Antinu Sardegna,
Provincia di Sassari, Pozzomaggiore, Chiesa di San Costantino (Pozzomaggiore)
Toscana Toscana, Provincia di Pisa, Casciana Terme Lari, Castello dei
Vicari a Lari Toscana, Provincia di Pisa, Casciana Terme Lari, Santuario di San
Martino in Petraja a Casciana Terme Trentino-Alto Adige Trentino-Alto
Adige, comune di Fiè allo Sciliar, frazione di San Costantino/St. Konstantin,
Chiesa di San Costantino Trentino-Alto Adige, comune di Naz-Sciaves, frazione
di Raas, Chiesa dei Santi Egidio e Costantino Note ^ Costantino si attribuì il
titolo Invictus dopo la propria autoproclamazione ad Augusto, nella seconda
metà del 310. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus
Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda
1990, pp. 46-61. Il senato di Roma gli accordò questo titolo dopo la
vittoria su Massenzio. Si veda Lattanzio, De mortibus persecutorum Costantino
adottò il titolo Victor in sostituzione di Invictus nel 324, dopo la vittoria
definitiva su Licinio. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus
Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung,
Stoccarda 1990, pp. 134-144. Costantino adottò il titolo Triumphator al
tempo delle campagne gotiche sul confine danubiano. Si veda nel merito Thomas
Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der
zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda 1990, pp. 147-150. Timothy
Barnes, The victories of Constantine, in Zeitschrift fur Papyrologie und
Epigraphik 20, 1976, pp.149-155. CIL. CIL Iscrizione databile al
319 sulla quale troviamo diversi titoli vittoriosi: «Imperatori Caesari Flavio
Constantino Maximo Pio Felici Invicto Augusto pontifici maximo, Germanico
maximo III, Sarmatico maximo Britannico maximo, Arabico maximo, Medico maximo,
Armenico maximo, Gothico maximo, tribunicia potestate XIIII, imperatori XIII,
consuli IIII patri patriae, proconsuli, Flavius Terentianus vir perfectissimus
praeses provinciae Mauretaniae Sitifensis numini maiestatique eius semper
dicatissimus.» (CIL VIII, 8412 (p 1916)) ^ Y.Le Bohec, Armi e
guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta dell'impero, Roma; Scarre,
Chronicle of the roman emperors, New York. Eusebio di Cesarea, Historia
ecclesiastica; Malalas, Cronografia; IL Alg-1, (Africa proconsularis,
Tenoukla): Dddominis nnnostris Flavio Valerio Constantino Germanico Sarmatico
Persico et Galerio Maximino Sarmatico Germanico Persico et Galerio Valerio
Invicto Pio Felici Augusto XI. ^ Il giorno e il mese sono largamente accettati,
mentre l'anno è talvolta anticipato al 271 o ritardato al 275 o anche molto più
tardi (ad esempio "ca. 280" secondo l'Enciclopedia Europea della
Garzanti. Fonti WEB citano addirittura il 289.). Il suo biografo ufficiale,
Eusebio di Cesarea, dice soltanto che la sua vita fu approssimativamente lunga
il doppio del suo regno, cioè circa 62-63 anni. Purtroppo Eusebio dichiara che
il suo regno durò 32 anni (e non 31), in quanto contava come interi anche gli
spezzoni incompleti dell'anno di nascita e di morte; ciò ha indotto in errore
alcuni storici, che anticipano di due anni la sua nascita. Nel merito si veda
inoltre Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, pp. 39-42.
Sesto Aurelio Vittore, De Caesaribus, 41.16; Sofronio Eusebio Girolamo,
Cronaca; Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 8.2; Annales Valesiani, VI,
35; Orosio, Historiae adversos paganos; Chronicon paschale, p.532, 7-21;
Teofane Confessore, Chronographia A.M. 5828 (testo latino); Michele siriaco,
Cronaca, VII, 3. ^ Il titolo imperiale ufficiale era IMPERATOR CAESAR FLAVIVS
CONSTANTINVS PIVS FELIX INVICTVS AVGVSTVS; dopo il 312 aggiunse MAXIMVS
("il grande") e sostituì INVICTVS con VICTOR, in quanto INVICTVS
ricordava il culto del Sol Invictus. ^ Costantino I, in
Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati.it. ^ Origo
Constantini Imperatoris Barnes, Constantine and Eusebius; Elliott, Christianity
of Constantine, 17; Odahl, 15; Pohlsander, "Constantine I"; Southern,
Odahl, Constantine and the Christian empire, London, Routledge, Gabucci,
Ancient Rome : art, architecture and history, Los Angeles, CA, J. Paul Getty
Museum, Barnes, Constantine and Eusebius; Lenski, "Reign of
Constantine" (CC); Odahl, Drijvers, J.W. Helena Augusta: The Mother of
Constantine the Great and the Legend of Her finding the True Cross (Leiden,
1991) 9, 15–17. ^ Barnes, Constantine and Eusebius, 3; Barnes, New Empire,
39–40; Elliott, Christianity of Constantine, 17; Lenski, "Reign of
Constantine" (CC); Odahl, 16; Pohlsander, Emperor Constantine, 14. ^
Eleanor H. Tejirian e Reeva Spector Simon, Conflict, conquest, and conversion
two thousand years of Christian missions in the Middle East, New York, Columbia;
Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine. ^ Epitome de
Caesaribus, 41.16 ^ Come convincentemente dimostrato in A. Alflödi,
Constantinus... proverbio vulgari Trachala... nominatus, in BHAC (Bonn). Nel
merito si veda anche V. Neri, Le fonti della vita di Costantino nell'Epitome de
Caesaribus, in Rivista storica dell'antichità XVII-XVIII/1987-88, Bologna; Lattanzio,
De mortibus persecutorum, Costantino I, Oratio ad sanctorum coetum Eusebio di
Cesarea, Vita di Costantino Origo Constantini Imperatoris 2, 3. Tra il 299 ed
il 307 i Tetrarchi iterano il titolo Sarmatico massimo per quattro volte e ciò
ben testimonia l'intenso sforzo bellico profuso contro tale popolazione
barbara. Si veda Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later
Roman Empire, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum; Eutropio Lattanzio, De
mortibus persecutorum; Zosimo, Origo Constantini Imperatoris 2,4; Zonara
Epitome de Caesaribus, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 25, 1-5 ^ Moreau,
Lactance. De la mort des persécuteurs, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 26,
1-3; Zosimo Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, p. 71. ^
Pasqualini, Massimiano Herculius. Per un'interpretazione della figura e
dell'opera, p. 87. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Lattanzio, De
Mortibus Persecutoru; Zosimo, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Sulle
deliberazioni di Carnuntum si veda Roberto, Diocleziano, Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, 29, 3. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Lattanzio, De
Mortibus Persecutorum, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum; Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Zosimo,
Storia nuova, Eutropio, Breviarium historiae romanae, Barnes, C. and Eusebius Nella
pianura tra Rivoli e Pianezza: Vittorio Messori e Giovanni Cazzullo, Il Mistero
di Torino, Milano, Mondadori, Zosimo, Storia nuova, II, 26. ^ Zosimo, Storia
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Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, Zosimo, Storia nuova,
II, 30. Zosimo, Storia nuova, Zosimo, Storia nuova, II, 33.2.
Zosimo, Storia nuova, II, 33.3. ^ Ammiano Marcellino, Storie; Gibbon
(Saunders), Zosimo, Storia nuova, Gibbon (Saunders), Per la traduzione di
"comes" con "ministro" si interpreti: Ita etiam qui sacri
Palatii ministeriis ac officiis praeficiebantur, eorumdem ministeriorum ac
officiorum Comites dicti, ut ex infra observandis constat., cfr. Du Cange,
Baroni, Cronologia della storia romana, Eutropio, Breviarium historiae romanae,
Zosimo, Storia nuova, Maxfield, L'Europa continentale, Baroni, Cronologia della
storia romana; Flavio Claudio Giuliano, De Caesaribus, 329c. ^ C.R.Whittaker,
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alla caduta dell'impero, Roma, Lido, De magistratibus; Zosimo, Storia nuova,
Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta dell'impero,
Roma, Zosimo, Storia nuova, Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza,
Einaudi, Più tardi, nel 358, il vescovo Macedonio fece traslare il sarcofago
imperiale nell'attiguo mausoleo del martyrium di S. Acacio. ^ Chronicon
paschale, Bury, Chronicon paschale; Passio Artemii; Zonara, L'epitome delle
storie, In particolare furono uccisi i
fratellastri di Costantino I, Giulio Costanzo, Nepoziano e Dalmazio, alcuni
loro figli, come Dalmazio Cesare e Annibaliano, e alcuni funzionari, come
Optato e Ablabio. ^ Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 9. ^ Zosimo,
Storia nuova, ii.40. ^ Burckhardt, Costantino il Grande e i suoi tempi, tr.it.
Longanesi Ad esempio, Clemente, titolare della cattedra di storia romana
all'università di Firenze, autore di una Guida alla storia romana; Fraschetti,
docente di storia economica e sociale del mondo antico presso la Sapienza di
Roma, autore de La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana; Arnaldo
Marcone docente di Storia romana all'università di Udine, autore di Pagano e
cristiano. Vita e morte di Costantino; Robin Lane Fox, docente di Storia antica
presso il College di Oxford, autore di Pagani e cristiani; e molti altri
titolati studiosi del mondo antico, come Andrea Alfoldi, Franchi de' Cavalieri,
Baynes, Sordi, Bringmann. Veyne, Quando l'Europa è diventata cristiana,
Collezione Storica Garzanti, Milano, Filoramo, La croce e il potere, Mondadori,
Milano; Horst, Costantino il grande, Milano Il ripudio nel tardo Impero: una
costituzione di Teodosio II, su jus.vitaepensiero.it. Dal Gesù storico al
Cristo della fede: la svolta costantiniana, su homolaicus.com. Costantino e la
legislazione antiereticale. La costruzione della figura dell'eretico Notizie in
inglese sulle monete di C. in bronzo con simboli cristiani Apocalisse su La
Parola La Sacra Bibbia in italiano in Internet. La nascita di Gesù è avvenuta
secondo i vangeli circa quindici mesi dopo l'annuncio a Zaccaria della nascita
del Battista. La collocazione di questo evento nell'ultima settimana di
settembre, in accordo con la tradizione cristiana, è compatibile con le notizie
oggi disponibili sul turno di servizio sacerdotale al tempio della classe
sacerdotale di Abia, alla quale apparteneva Zaccaria. Cfr. Data di nascita di
Gesù ^ da Christianity and Paganism in the Fourth to Eighth Centuries, Yale,
Ramsay MacMullen, La scelta del 25 dicembre per celebrare il Natale cristiano:
dal dies natalis del Sol invictus, espressione del culto solare di Emesa e del
dio Mitra, alla celebrazione del Cristo, “sole che sorge”, su gliscritti.it. Burckhardt
Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi; Ruffolo, Quando
l'Italia era una superpotenza, Einaudi, nella sua opera De falso credita et
ementita Constantini donatione ^ Sozomeno, Historia Ecclesiastica, II,34;
Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, IV,61–63; Socrate Scolastico, Historia
Ecclesiastica; Cirro, Historia Ecclesiastica, GIRLAMO (si veda), Chronicon.
Barbero, Costantino il Vincitore, Salerno, Epistula Constantini ad Aelafium,
CSEL; Carile in L'imperatore e la Chiesa. Dalla tolleranza alla supremazia
della religione cristiana (380), alle contese per la cattolicità delle chiese;
Enciclopedia Costantiniana, Treccani Gli Actus Silvestri sono menzionati la
prima volta nel Decretum Gelasianum, documento attribuito a papa Gelasio I,
come affermato in: Marilena Amerise, Il battesimo di Costantino il Grande.
Storia di una scomoda eredità (Hermes Einzelschriften, 95), Franz Steiner
Verlag, München; Wilhelm Pohlkamp n Internet Archive. aveva identificato nei
manoscritti una versione più antica, e una versione più recente. Carile in
L'imperatore e la Chiesa cit. ^ Ranuccio Bianchi Bandinelli e Mario Torelli,
L'arte dell'antichità classica, Etruria-Roma, Utet, Torino 1976, pag 112. ^
Alberto Perlasca, Il concetto di bene ecclesiastico. Anche se si pensa che la
madre di C. propendesse più per la religione ebraica, tanto da restare delusa
alla notizia della conversione al cristianesimo del figlio (Giorgio Ruffolo,
Quando l'Italia era una superpotenza). Scarre, Grünewald, Constantinus
Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung,
Stoccarda; Galerio attribuì questo titolo a C. e Massimino Daia subito dopo il
convegno di Carnuntum, sostituendolo a quello di cesare. Si veda nel merito Stefan, Un rang impérial nouveau à l’époque de la
quatrième Tétrarchie: Filius Augustorum. Première partie. Inscriptions
révisées: problèmes de titulature impériale et de chronologie, in Antiquité
Tardive; Costantino si attribuì il titolo invictus, e con ogni probabilità
anche quello di Pater Patriae insieme alla carica di Proconsul, dopo la propria
auto-proclamazione ad OTTAVIANO (si veda). Si veda nel merito Thomas Grünewald,
Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen
Überlieferung, Stoccarda; Costantino adottò il titolo Victor in sostituzione di
Invictus dopo la vittoria definitiva su Licinio. Si veda nel merito Thomas
Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der
zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda; Ammiano Marcellino, Historiae (testo
a fronte in inglese). Vittore, De Caesaribus (versione latina) Consolaria
costantinopolitana. Chronicon paschale. Costantino I, Oratio ad sanctorum
coetum. Epitome de Caesaribus (versione latina). Eusebio di Cesarea, Vita di
Costantino (latino); Storia ecclesiastica (traduzione inglese). Eutropio,
Breviarium historiae romanae (testo latino), IX-X . Giordane, De origine
actibusque Getarum; Vedi qui testo latino. Girolamo, Cronaca, versione francese
QUI. Lattanzio, De mortibus persecutorum; latino. Origo Constantini
Imperatoris; Vedi qui testo latino e traduzione in inglese. Orosio, Historiarum
adversus paganos libri Vedi qui testo latino. Notitia dignitatum, Notitia
dignitatum (latino) . Panegyrici latini, testo latino. Socrate Scolastico, Storia
ecclesiastica, I. Sozomeno, Historia Ecclesiastica, I. Teodoreto di Cirro,
Historia Ecclesiastica, I. Teofane Confessore, Chronographia (testo latino) .
Zonara, L'epitome delle storie, Vedi qui testo latino. Zosimo, Storia nuova,
traduzione inglese, QUI. Studi Andreas Alföldi, Costantino tra paganesimo e
cristianesimo, Laterza, Roma-Bari; Barbero, Costantino il Vincitore, Salerno
Editrice, Roma, Barnes, The victories of Constantine, in Zeitschrift für
Papyrologie und Epigraphik Timothy Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge,
MA Harvard; Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, Harvard,
Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire,
Wiley Blackwell, Malden - Oxford, Bandinelli e Torelli, L'arte dell'antichità
classica. Etruria-Roma, UTET, Torino, Burckhardt, Costantino il Grande e i suoi
tempi, tr.it. Longanesi, Milano, Carpiceci e Marco Carpiceci, Come Costantin
chiese Silvestro d'entro Siratti - Costantino il grande, San Silvestro e la
nascita delle prime grandi basiliche cristiane, Edizioni Kappa, Roma
Chastagnol, L'accentrarsi del sistema: la tetrarchia e Costantino, Storia di
Roma, Einaudi, Torino, Storia Einaudi dei Romani, Ediz. de Il Sole 24 ORE,
Milano; Cuneo, La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante; Giuffrè,
Diehl, La civiltà bizantina, Garzanti, Milano, Donati e Gentili, Costantino il
Grande: la civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente, Silvana Editoriale,
Cinisello Balsamo, Fraschetti, La conversione: da Roma pagana a Roma cristiana,
Laterza, Bari; Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda
in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda Eberhard Horst, C. il Grande,
Milano, Bompiani, Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica: da Diocleziano alla
caduta dell'impero, Carocci, Roma, Marcone, Pagano e cristiano: vita e mito di
Costantino, Laterza, Roma-Bari, Maxfield, L'Europa continentale, in Il mondo di
Roma imperiale. La formazione, Laterza, Roma-Bari, Mazzarino, L'Impero romano,
tre vol., Laterza, Bari; riediz. e successive rist.; Moreau, Lactance. De la
mort des persécuteurs, Parigi Percivaldi, Fu vero Editto? C. e il Cristianesimo
tra storia e leggenda, Ancora Editrice, Milano, Pasqualini, Massimiano
Herculius. Per un'interpretazione della figura e dell'opera. Roma, Rentetzi,
Costantino, Elena e la vera croce. Modelli iconografici nell'arte bizantina,
Studi Ecumenici. - Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino - Pontificia
Università Antonianum, archive
isevenezia.it/it/ pubblicazioni/ pubblicazioni_dell_ise /rivista_
di_studi ecumenici/ Roberto, Diocleziano, Roma Ruffolo, Quando l'Italia era una
superpotenza, Einaudi, Torino, The paradigmatic value of the depiction of
Constantine in the homonymous arch in the formation of the Christ in Throne's
iconography web.archive.org
/web/.ni.rs/ byzantium/ english.php (Paper presented to the Nis
and Byzantium Symposium”, Nis), Nis, Scarre, Chronicle of the roman emperors,
Pat Southern, The Roman Empire: from Severus to Constantine, Londra, Stefan, Un
rang impérial nouveau à l’époque de la quatrième Tétrarchie: Filius Augustorum.
Première partie. Inscriptions révisées: problèmes de
titulature impériale et de chronologie, in Antiquité Tardive Costantino e le
sfide del cristianesimo. Tracce per una difficile ricerca, a cura
di Tanzarella - Adamiak, Il pozzo di Giacobbe, Trapani. Whittaker, Frontiers of
the Roman empire. A social ad economic study, London, L'editto di Milano e il
tempo della tolleranza. Costantino, Mostra di Palazzo Reale a Milano, mostra a
cura di Paolo Biscottini e Gemma Sena Chiesa, catalogo a cura di Gemma Sena
Chiesa, Ed. Mondadori Electa, Milano. Filmografia Costantino il Grande, regia
di Lionello De Felice, con Cornel Wilde, Belinda Lee e Massimo Serato. Voci
correlate Aeroporto C. il Grande Niš (Serbia) Antica basilica di San Pietro in
Vaticano Ardia Arco di Costantino Arco di Malborghetto Arte costantiniana
Basilica della Natività Basilica del Santo Sepolcro Basilica Palatina di
Costantino (ad Augusta Treverorum, oggi Treviri) Basilica di Massenzio (a Roma)
Basilica di San Giovanni in Laterano Basilica di San Paolo fuori le mura
Cesaropapismo Colonna di Costantino Monumento a Costantino Imperatore Donazione
di Costantino Flavia Giulia Elena In hoc signo vinces Monogramma di Cristo
Statua colossale di Costantino I Terme di Costantino Ponte di Costantino
(Danubio) Costantino I imperatore, detto il Grande, su Treccani– Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Alberto Olivetti, COSTANTINO I
imperatore, detto il Grande, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Costantino I detto il Grande, in Dizionario di
storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, MacGillivray Nicol e J.F.
Matthews, Constantine I, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
Inc. Costantino I, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Costantino I, in
Diccionario biográfico español, Real Academia de la Historia. Opere di
Costantino I, su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte Orientale
Amedeo Avogadro. Modifica su Wikidata Opere di Costantino I, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Costantino I, su Open Library, Internet
Archive. C. I, su Goodreads. Costantino I, in Catholic Encyclopedia, Robert
Appleton Company. C. I, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.it. The Roman
Law Library by Professor Yves Lassard and Alexandr Koptev, su
web.upmf-grenoble. Monete emesse da Costantino I, su wildwinds.com. Sito
dedicato alle monete di Costantino in bronzo, su constantine the great coins. Predecessore
Imperatore romano Successore Costanzo Cloro (con Galerio) Costantino IIVDM
Imperatori romani e relative linee di successione VDM Diocleziano Portale
Antica Roma Portale Biografie Portale Bisanzio Portale
Cristianesimo Categorie: Imperatori romani Santi romani Nati a Naissus Morti a
Nicomedia Costantino I Dinastia costantiniana Santi per nomeStoria antica del
cristianesimo Personalità del cristianesimo ortodosso Personaggi citati nella
Divina Commedia (Inferno) Personaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso) Santi
della Chiesa ortodossa[altre] Costantino. Keywords: implicature. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Costantino.”
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Costanzi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’amore e la morte
– scuola di Pozzuolo Umbro -- filosofia perugina – filosofia umbra -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pozzuolo
Umbro). Filosofo italiano.
Pozzuolo Umbro, Castiglione del Lago, Perugia, Umbria. Grice: “I like Costanzi;
possibly my favourite of his essays is the one on ‘amore’ and ‘morte’ – eros and
Thanatos for the Oxonian!” Si
laurea a Bologna. Ensegna a Bologna. Altre opere: “Pensiero ed essere”
(Perrella, Roma); “Varisco: l’uno e i molti” (Perrella, Roma); “Noluntas” (Perrella,
Roma); “Schopenhauer” (Roma); “L'asceta moderno” – L’asceta -- Arte e storia,
Roma; Spinoza, Universitas, Roma); “Il sentito in Platone” -- Arte e storia,
Roma); “L'ascetica di Heidegger” Arte e storia, Roma); “L'ascesi di coscienza e
l'argomento d’Aosta”, Arte e storia, Roma); “Meditazioni inattuali sull'essere
e il senso della vita” Arte e storia, Roma); “La terrenità edenica del
Cristianesimo e la contaminazione spiritualistica” (Patron, Bologna); “La donna
angelicata e il senso della femminilità nel Cristianesimo” (Patron, Bologna); “La
filosofia pura, Alfa, Bologna); “Il senso della storia, Alfa, Bologna); “Sul
prologo di Zarathustra (Nietzsche e Schopenhauer) con trad. dello stesso
Prologo, in Ethica; “L'etica nelle sue condizioni necessarie, Ed.ni di Ethica,
Bologna); “L'estetica pia, Patron, Bologna); “L'ora della filosofia, R. Patron,
Bologna); “L'uomo come disgrazia e Dio come fortuna” (Alfa, Bologna; “La critica disvelatrice” (Ed.ne dell'Istituto
di Filosofia dell'Bologna, Bologna); “Amore e morte” (L. Parma, Bologna); “La singolarità
della diada: compimento di un itinerario senza vie” (Cooperativa libraria universitaria
editrice, Bologna); “L'equivoco della filosofia cristiana e il cristianesimo-filosofia”
(Clueb, Bologna; e ragioni della miscredenza e quelle cristiane della fede,
Clueb, Bologna); “La fede sapiente e il Cristo storico” (Sala francescana di
cultura Antonio Giorgi, Assisi); “La rivelazione filosofica” (Sala francescana
di culturaAntonio Giorgi, Assisii); Il Cristianesimo: filosofia come tradizione
di realtà” (Sala francescana di cultura, Assisi); “Breviloquio della sera” (Sala
francescana di culturaAntonio Giorgi, Assisi); “L’immagine sacra” (Sala francescana
di cultura, Assisi); “L'identità del Lumen publicum nelle privatezze di Anselmo
e Tommaso” (Il Cristianesimo-filosofia, Le Lettere, Roma); Opere, E. Mirri e M.
Moschini, Bompiani, Milano). Sgarbi torna a Tuoro per presentare l'opera omnia
del filosofo Teodorico Moretti-Costanzi, "Umbria Left. Il filosofo imagliato dal Sessantotto,
"il Giornale"Dizionario Biografico degli Italiani. Wikipedia
Ricerca Al di là del principio di piacere saggio di Sigmund Freud Lingua
Segui Al di là del principio di piacere
Titolo originaleJenseitsdes Lustprinzips Freud Jenseits des Lustprinzips. djvu
Autore Freud Genere Saggio Sottogenere Psicoanalisi Lingua originale tedesco Al
di là del principio di piacere (tedesco: Jenseits des Lustprinzips) è un saggio
di Sigmund Freud incentrato sui temi dell'Eros e del Thanatos, ovvero
rispettivamente la "pulsione di vita" e la "pulsione di
morte" (Todestrieb[e]). Giuditta II di Klimt,, Venezia,
Galleria internazionale d'arte moderna. Achille sorregge Pentesilea dopo averla
colpita a morte, una delle leggende fiorite sull'episodio vuole che l'eroe se
ne innamori proprio in questo momento. Bassorilievo dal tempio di Afrodite a
Afrodisia Il dualismo di EmpedocleModifica Freud formula il conflitto
psicologico in termini dualistici fin dai suoi primi scritti, ma è solo in
questo testo che egli presenta un simile conflitto mediante concetti desunti
dal pensiero di Empedocle, il quale parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi
o forze di Amore (o Amicizia) e Odio (o Discordia). Empedocle di Agrigento
si presenta come una figura fra le più eminenti e singolari della storia della
civiltà greca. Il nostro interesse si accentra su quella dottrina di Empedocle
che si avvicina talmente alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da
indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche
se non fosse per un'unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia
cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. I due
principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e
neikos(discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono,
sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione.»
Il nome di Eros deriva da quello della divinità greca dell'amore, e «tende a creare
organizzazioni della realtà sempre più complesse o armonizzate, [mentre]
Thanatos tende a far tornare il vivente a una forma d'esistenza inorganica.
Queste sono pulsioni. Eros rappresenta per Freud la pulsione alla vita, mentre
Thanatos quella della distruzione. Qualora l'autodistruzione diventasse oggetto
di malattia però Thanatos diviene il nome del conflitto che si crea tra energia
negativa (autodistruzione) e positiva (la rabbia del Thanatos viene utilizzata
per distruggere la malattia stessa).» Freud riscontra anche in un altro
filosofo, questa volta contemporaneo, un'anticipazione della sua scoperta:
"E ora le pulsioni nelle quali crediamo si dividono in due gruppi: quelle
erotiche, che vogliono convogliare la sostanza vivente in unità sempre più
grandi, e le pulsioni di morte, che si oppongono a questa tendenza e
riconducono ciò che è vivente allo stato inorganico. Dall'azione congiunta e
opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni della vita, ai quali mette fine la
morte. Forse scrollerete le spalle: 'Questa non è scienza della natura, è
filosofia, la filosofia di Schopenhauer'. E perché mai, Signore e Signori, un
audace pensatore non dovrebbe aver intuito ciò che una spassionata, faticosa e
dettagliata ricerca è in grado di convalidare? Thanatos non compare negli
scritti di Freud, ma egli, a quanto riferisce Jones, l'avrebbe talvolta usato
nella conversazione. L'uso nel linguaggio psicoanalitico è probabilmente dovuto
a Federn.» Sabina Spielrein e Barbara LowM= Su esplicita influenza di Sabina
Nikolaevna Špil'rejn, citata in nota nel libro, per Freud Thanatos segnala il
desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla
tomba. Concetto che non deve essere confuso con quello di destrudo, vale a dire
con l'energia della distruzione (che si oppone alla libido). Thanatos è
il principio di costanza,accennato fin dal capitolo sette de L'interpretazione
dei sogni e che adesso, sotto l'influsso del pensiero di Schopenhauer, diventa
identico al principio del Nirvana proposto da Low: le eccitazioni della mente,
del cervello, dell'"apparato psichico" non vengono più solo
sgomberate, tenute costanti al più basso livello possibile, bensì estinte,
eliminate sino al grado zero della realtà inanimata. La coazione a
ripetereModifica Nel testo del '20 Freud sostiene che «nella vita psichica
esiste davvero una coazione a ripetere la quale si afferma anche a prescindere
dal principio di piacere.» Sulla falsariga del motto errare humanum est,
perseverare autem diabolicum, essa viene definita per quattro volte
«demoniaca»: Vi sono individui che nella loro vita ripetono sempre, senza
correggersi, le medesime reazioni a loro danno, o che sembrano addirittura
perseguitati da un destino inesorabile, mentre un più attento esame rivela che
essi stessi si creano inconsapevolmente con le loro mani questo destino. In tal
caso attribuiamo alla coazione a ripetere un carattere "demoniaco". La
coazione a ripetere è riscontrabile anche nella nevrosi traumatica dei reduci
della prima guerra mondialeoppure di chi tende a rivivere o reinterpretare gli
eventi più violenti. Freud collocò la coazione a ripetere fra i sintomi
della nevrosi: si ripete il sintomo nevrotico invece di ricordare, si ripete
per non ricordare, con quello che Freud chiama «l'eterno ritorno dell'uguale. Per
la relazione tra pulsione e coazione a ripetere, Freud notò che le coazioni
tendono come la pulsione a una ripetizione assoluta e atemporale, mai
definitivamente appagata, e che tendono a sparire quando un fatto viene
riportato a conoscenza del paziente. Dalla rimozione di una pulsione (a
muoversi ovvero a ricordare un fatto doloroso o traumatico), la coazione a
ripetere trae l'energia per imporsi sulla volontà cosciente dell'Io. La
coazione a ripetere diventa il punto di partenza della terapia psicoanalitica.
Occorre ricordare per non ripetere gli errori del passato, gli stessi dubbi e
conflitti per tutta la vita, in amore, in amicizia, nel lavoro. Freud
rileva questa coazione anche nelle circostanze più ordinarie e naturali,
persino nel gioco dei bambini come quello con il rocchetto usato dal suo
piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il rocchetto lontano da
sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il rocchetto a sé,
rappresenta il ritorno della madre. Imparerebbe così a padroneggiare l'assenza
materna attraverso un duplice movimento, che è sempre seguito dalla
vocalizzazione di un "oooo..." (ted. fort, «via!»), quando il
rocchetto è lontano, e da un "da" (ted. da, «Eccolo!»), quando il
rocchetto è di nuovo vicino. Dopo l'esposizione d'una serie di ipotesi (in
particolare l'idea che ogni individuo ripete le esperienze traumatiche per
riprendere il controllo e limitarne l'effetto dopo il fatto), Freud considera
l'esistenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte, riferendosi al
bisogno intrinseco di morire che ha ogni essere vivente. Gli organismi, secondo
quest'idea, tendono a tornare a uno stato preorganico, inanimato – ma vogliono
farlo in un modo personale, intimo. In definitiva, «sembrerebbe proprio che il
principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte. A questo
punto sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di
dare una risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si presentino nuovi
strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti altresì ad
abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a
quanto pare, non porta a nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che
la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato se la prenderanno
con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni. Implicazioni
Modifica Uno psicoanalista con competenze pure di antropologia filosofica come
Sciacchitano sostiene che «la vera psic[o]analisi fu il frutto tardivo
dell'attività teoretica di Freud. Bisogna aspettare la svolta degli anni Venti,
con l'invenzione della pulsione di morte, per parlare di vera e propria
psicoanalisi. Essa comincia con la rinuncia alle pretese e alle finalità
mediche della psicoterapia. Il nuovo modello freudiano individuava nello
psichico un nucleo patogeno fisso, qualcosa che non si scarica mai, ma continua
a ripetersi identicamente a se stesso e insensatamente, cioè fuori da ogni
intenzionalità soggettivistica e contro ogni teleologia vitalistica. Ce n'era
abbastanza per far crollare ogni illusione terapeutica. Parecchi allievi a
questo punto abbandonarono il maestro che toglieva avvenire, come si dice
terreno sotto i piedi, alle loro illusioni umanitarie». Freud non cambierà più
idea. Ciò significa che il fondatore della psicoanalisi asserirà la sostanziale
"inguaribilità'" del disagio psichico per lo stesso arco di tempo, un
ventennio, in cui egli precedentemente aveva affermato l'esatto
contrario. Reich, in La funzione dell'orgasmo e Analisi del carattere,
propose una propria ipotesi di confutazione alla teoria della pulsione di
morte. La madre morta, Egon Schiele, Vienna, Leopold Museum.
Nell'arte: Schiele Schiele sa che tutto ciò che vive è anche morto, porta in sé
il suo esistenziale compimento, fin dall'istante del concepimento, come attesta
il funesto dipinto: La madre morta, in cui il grembo appare come un lugubre
mantello, un involucro mortuario che racchiude il Sein zum Tode
[Essere-per-la-morte] del nascituro, ne circoscrive la parabola
esistenziale.» (Vozza) Agonia, Schiele, Monaco di Baviera, Neue
Pinakothek. Madre con i due bambini, Vienna, Österreichische Galerie
Belvedere. «Schiele introduce un evento di grande rilievo nell'iconografia della
malinconia e della vanitas, operandone una trasfigurazione tragica: l'uomo non
[...] medita più sulla morte raffigurata in un teschio posto nel suo studiolo
come altro da sé, ma assume sul proprio volto l'icona funebre, diventa morte
incarnata, esibita nel gesto d'esistere, nel godimento del sesso e nella
prostrazione della sofferenza. Nessuna iconoclastìa sopravvive nel gesto
pittorico di Schiele: si pensi all'Agonia, sacra rappresentazione di
stupefacente intensità cromatica, allegoria del dolore immedicabile, emblema di
una eterna e impietosa Passione, sublime omaggio a quell'incomparabile maestro
di sofferenza che è stato Grünewald.» (Marco Vozza) «La Madre con i due
bambini esibisce un volto già visibilmente cadaverico, mentre un infante
osserva sgomento il deliquio orizzontale del fratellino. Nessuno meglio di
Schiele ha saputo render visibile quella che l'analitica esistenziale ha
chiamato Geworfenheit, l'indifeso essere gettati in un mondo ostile. Insieme a
lui soltanto Kokoschka, in seguito Dubuffet e Bacon.» (Marco Vozza)
Quadro che Sabina Nikolaevna Špil'rejn sceglie come modello rappresentativo del
connubio Eros-Thanatos nel film biografico Prendimi l'anima (Roberto Faenza):
Perché Giuditta uccide Oloferne, estratto dal film su YouTube (vedi
screenshot). Freud, Al di là del principio di piacere(1920), in Opere di Freud
L'Io e l'Es e altri scritti; Torino, Bollati Boringhieri, . Ed. paperback
Freud, Analisi terminabile e interminabile, in OSF L'uomo Mosè e la religione
monoteistica e altri scritti, Torino, Bollati Boringhieri; Ed.
paperbackGalimberti, Enciclopedia di psicologia, Garzanti, Torino; Freud
Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri; Jones, Vita e opere di
Freud: L'ultima fase, Milano, Garzanti, Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, a
cura di Luciano Mecacci e Cyhthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi,
Bari-Roma, Laterza, voce Thanatos, The language of psycho-analysis, Karnac,
Paperbacks, books.google.it. ^ Sigmund Freud, Al di là del principio del
piacere; Freud, Freud. Freud; Mugnani, Analisi del testo di S. Freud: "Il
problema economico del masochismo". Pasqua, Al di là del principio di
piacere: sul principio di Piacere e la Coscienza; Laplanche, Jean Bertrand
Pontalis, voce Principio di piacere. su books.google.it. Freud; Laplanche,
Pontalis, op. cit., voce Coazione a ripetere. Anteprima disponibile; Google
Libri. ^ Sigmund Freud; Cf. anche Il perturbante, OSF; Freud Introduzione alla
psicoanalisi,Boringhieri Freud, Al di là del principio di piacere, Torino,
Bollati Boringhieri, Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere; Freud,
op. cit. Sciacchitano, Il demone del godimento, Godimento e desiderio, aut aut,
Vozza, Il senso della fine nell'arte contemporanea, in L'Apocalisse nella
storia, Humanitas, Vozza Vozza, ibidem. Voci correlateModifica Psicoanalisi
Empedocle Eros (filosofia) Eros Il disagio della civiltà Libido Destrudo Morte
Sabina Nikolaevna Špil'rejn Tanato; Edizioni e traduzioni di Al di là del
principio di piacere, su Open Library, Internet Archive. Edizioni e traduzioni
di Al di là del principio di piacere, su Progetto Gutenberg. Laplanche,
Pontalis, The language of psycho-analysis, Karnac, Thanatos, Nirvana Principle,
e Compulsion to Repeat, Portale Letteratura Portale Psicologia
Nikolaevna Špil'rejn psicoanalista russa Differimento Resistenza
(psicologia) ciò che negli atti e nel discorso, si oppone all'accesso dei
contenuti inconsci alla coscienza Teodorico Moretti Costanzi. Keywords: amore
e morte, l’essere, il sentito, ascesi (verbo?), Zarathustra, il singolo della
diada, l’uno e i molti, nolere, nolitum, volitum, amore/morte, eros/tanatos,
immagine sacra, imaginatum, essere, un essere, due esseri, le due esseri
entrambi – rivelazione – la rivelazione filosofica – a new discourse on
metaphysics: from genesis to revelations – un nuovo discorso di metafisica: del
genesi alle rivelazione. – Zarathustra e cristita -- nollere in Schopenhauer --. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Costanzi” – The Swimming-Pool Library. Costanzi
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Courmayeur: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Hegel in
Italia – scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo
italiano. Torino, Piemonte. Grice: “The most interesting thing about
Courmayeur’s philosophy is that he is a count; unlike Locke, or the
common-or-garden English Oxonian philosopher who doesn’t have a dime, this one
has, as the Italians say, ‘all the money in the world’! That helps with
philosophy! His forte is moral philosophy AND HEGEL, which proves that Hegel
becomes the taste of aristocrats and not just dons like Bosanquet!” - Dall'antica
famiglia valdostana dei Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Ottenuta la maturità classica al Massimo
d'Azeglio di Torino, si laurea con Solari con “Hegel” (Torino, Gobetti). Studia
sotto Ruffini e Einaudi la filosofia politica del medio evo e il concetto di costituzione.
Insegna a Torino. Fu capitano di complemento degli Alpini e membro del CLN, dal
quale venne nominato, primo prefetto di Aosta. Fu all'origine dello statuto
della regione autonoma Valle d'Aosta.
Fra le sue opere più note, Il concetto dello stato, è considerata da
molti la sintesi del suo pensiero storico-filosofico. Oltre che filosofo del diritto e storico del
pensiero politico, viene considerato il fondatore della filosofia politica
italiana come disciplina a sé stante, finalmente distinta dalla filosofia dello
stato. Paradossalmente ciò avviene proprio col saggio, “Il concetto dello
stato”. Ben diversamente dall'ordinamento tematico della “Staatslehre” come
pure dall'ordinamento cronologico per filosofi in uso nella filosofia politica,
ordina la filosofia politica secondo uno schema concettuale schiettamente
filosofico: "il concetto di forza – forzare ", "il concetto di
potere" (il verbo ‘potere’); "il concetto di autorità – auctoritas
--". Il concetto di faccia dello stato, secondo una scala di qualificazione
crescente. Il concetto di "forza" (il forzare) e qualificato di un
imperativo, un mando o commando efficace. Il concetto di "potere"
(potere del giurato) contiene il concetto di forza (il forzare – come un mando
o imperativo efficace), ma organizzato in una istituzione e qualificato dal
‘giurato’. Finalmente la terza faccia, il concetto di "autorità" come
contenendo la second faccia del potere del giurato, qualificato da una concetto
di legge variable: la promozione del giurato, la promozione del bene comune (la
res publica), o la promozione della piccolo patria. Altre opere: Il concetto
dello stato (Torino: Giappichelli); “La Valle d'Aosta, Bologna: Boni); “La
filosofia della politica, Torino: POMBA); “Filosofia politica nel medio evo
italiano” (Torino: G. Giappichelli); “La filosofia politica d’Alighieri”
(Einaudi, Torino); “Morale, diritto ed economia, Pavia: Libreria Internazionale
F.lli Treves); “Morale, Roma: Athenaeum); “Appunti di storia delle dottrine
politiche: la filosofia politica medioevale, Torino: Giappichelli); “Il concetto dello stato in Zwingli", in
Filosofia del diritto, Roma); La teoria del diritto e della politica in
Inghilterra all'inizio dell'età moderna, Torino: Istituto giuridico della R.
Università); “Obbedienza e resistenza” (Roma/Ivrea, Edizioni di Comunità). La
piccola patria, Milano: Franco Angeli); Obbligazione Politica, Pensa
Multimedia. Dizionario biografico degli
italiani. Biblioteca civica Passerin d'Entrèves. Ricerca Patria Lingua Nota disambigua.svg
Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Patria (disambigua).
La Patria (dal latino = la terra dei padri) è il concetto di nazione e paese,
natio interiorizzato e idealizzato. L'Altare della Patria a Roma.
Descrizione La patria è un topos prettamente letterario (concetto ricorrente)
che è possibile ritrovare in tantissimi temi trattati e argomentati nelle
scienze umane, con particolare frequenza nell'area umanistica.
BibliografiaModifica Vincenzo Cappelletti, Patria e Stato nel Risorgimento, in
«Il Veltro», Finotti, Italia. L’invenzione della patria, Milano, Bompiani,
Ceccarelli, Patria. Da patria a nazione, in Guido Pescosolido e Giuseppe
Bedeschi (a cura di), Dizionario di storia, vol. 3, Roma, Istituto della
Enciclopedia Italiana “Giovanni Treccani”, «patria» Collegamenti esterniModifica
patria, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. patria, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
Thesaurus Portale Antropologia Portale Politica Portale
Storia Popolo insieme delle persone fisiche che sono in rapporto di
cittadinanza con uno Stato Statista personaggio politico deputato a
governare e regolare gli affari di Stato Sciovinismo forma fanatica ed
esasperata di nazionalismo o patriottismo. Grice: “It’s only natural that
Courmayeur had such an intricate concept of ‘state’ – he was born in a
minority, like Russell, who was born in a place which some called England, some
called Wales. The situation is so borderline that it reminded me of my ancestors,
the Ingvaeonic – and see all the problem the Frisians are having in Germany!
Now they do recognise the ‘anglo-frisiche’ – but hardly allow them to vote!” “It
is not clear how the collectivity has any bearing on the third state of ‘state’
– the ‘auctoritas’ – but then perhaps ‘auctoritas’ is the wrong concept, since
it just means ‘author’ – Courmayeur is making the point that all authority is
legitimate authority. “You have no authority” means ‘you have no legitimate power’ – and you have no power,
means you have no legal force, and you have no force means you cannot command!”
As Courmayeur would say: it’s all different in valaestan, the vernacular of
Aosta, which hardly has the same status as Italian (since giuridically Aosta
belongs to Italy) or French (since French is the official language, along with
Italian). But
don’t ask that imperialist Crystal for an answer!” Alexandre Passerin
d'Entrèves et Courmayeur. Alessandro Passerin d’Entrèves et Courmayeur.
Courmayeur. Keywords: Hegel in
Italia, piccola patria, il concetto dello stato, filosofia politica versus
staatslehre, prima faccia: il forzare come imperativo efficace; seconda faccia:
il potere come il forzare organizzato in una istituzione e qualificato dal
giurato; la terza e ultima faccia: l’autorita, come il potere qualificator da
una legge centrata in un concetto ideale variabile: il giurato, il bene comune
(res publica), la piccola patria. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Courmayeur” – The Swimming-Pool Library. Courtmayeur.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Cotroneo:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della VIRTÙ – [andreia]
– scuola di Campo Calabro – scuola di Reggio Calabria – filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Campo
Calabro). Filosofo italiano. Campo Calabro, Reggio Calabria, Calabria. Si
laurea Messina sotto Volpe con “L’implicatura di Kierkegaard”. Ensegna a
Messina. “Scritti”. “Lo storicismo di Cotroneo”. Altre opere: “Bodin teorico
della storia” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Croce e l'Illuminismo”
(Napoli, Giannini); “I trattatisti dell'arte storica” (Napoli, Giannini);
“Storicismo antico e moderno” (Roma, Bulzoni); “Rareta e storia” (Napoli,
Guida); “Societa chiusa, società aperta” (Messina, Armando Siciliano Editore);
“La ragione della libertà” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Trittico
siciliano: Scinà, Castiglia, Menza” (Roma, Cadmo); “Momenti della filosofia
italiana” (Napoli, Morano); “Questione post-crociane” (Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane); “Tra filosofia e politica” (Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Le idee del tempo. L'etica. La bioetica. I diritti. La pace,
Soveria Mannelli, Rubbettino); “Un viandante della complessità. Morin filosofo
a Messina, Annamaria Anselmo, Messina, Armando Siciliano Editore); “Croce e
altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Etica ed economica” (Messina,
Armando Siciliano Editore); “La virtù” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce
filosofo italiano, Firenze, Le Lettere); “Illuminismo, Napoli, La scuola di Pitagora);
“Libertà” (Napoli, La scuola di Pitagora); “Storia della filosofia, Napoli, La
scuola di Pitagora); “Positivismo, Napoli, La scuola di Pitagora); “Filosofia
della storia, Napoli, La scuola di Pitagora); “Rinascimento, Napoli, La scuola
di Pitagora); “Aristotele e Perelman, Retorica vecchia e nuova” introduzione
(Napoli, Il Tripode); La retorica di Aristotele, retorica antica, Perelman, Itinerari
dell'idealismo italiano, Napoli, Giannini, Raffaello Franchini, Teoria della
pre-visione” (Messina, Armando Siciliano Editore, Croce, La religione della
libertà. Antologia degli scritti politici, Soveria Mannelli, Rubbettino, Il
diritto alla filosofia, Atti del Seminario di studi su Franchini” (Soveria
Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo, Atti del Convegno di studi, Napoli-Messina”
(Soveria Mannelli, Rubbettino); La Fenomenologia dello spirito” (Napoli,
Bibliopolis); Cavour, Discorsi su Stato e Chiesa” (Soveria Mannelli, Rubbettino,
Letteratura critica Giovanni Reale, Girolamo Cotroneo, in Dario Antiseri e
Silvano Tagliagambe, Storia della filosofia, Milano, Bompiani, Lo storicismo di
Cotroneo, Soveria Mannelli, Rubbettino, Giuseppe Giordano, Tra Storia della
Filosofia e Liberalismo, in Bollettino della Società Filosofica Italiana, Roma,
Carocci, Giordano, Rivista di storia della filosofia, Milano, Franco Angeli, C.,
in Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ricerca Virtù disposizione
d'animo volta al bene Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione
– Se stai cercando altri significati, vedi Virtù (disambigua). La virtù (dal
latino virtus; in greco ἀρετή aretè) è una disposizione d'animo volta al bene,
che consiste nella capacità di una persona di eccellere in qualcosa, di
compiere un certo atto in maniera ottimale, o di essere o agire in un modo
ritenuto perfetto secondo un punto di vista morale, religioso, o anche sociale
in base a alla cultura di riferimento. Il significato di virtù ha
risentito di quello di bene, un concetto che assume significati diversi a
seconda delle modifiche intervenute nel corso delle varie situazioni storiche e
sociali. Concezione questa non condivisa dalle dottrine che ne negano il
relativismoconnesso e che intendono la virtù come l'assunzione di valori,
intesi come assoluti, immutabili nel tempo. La parola latina virtus, che
significa letteralmente "virilità", dal latino vir "uomo"
(nel senso specifico di "maschio" e contrapposto alla donna) si
riferisce ad esempio alla forza fisica e a valori guerreschi maschili, come ad
esempio il coraggio. Nella lingua italiana la virtù è invece la qualità
di eccellenza morale sia per l'uomo sia per la donna e il termine è riferito
comunemente anche a un qualche tratto caratteriale considerato da alcuni
positivo. Personificazione della virtù nella Biblioteca di Celso.
La virtù nella filosofia occidentale anticaModifica Il concetto
grecoModifica Niccolò Machiavelli Nella visione della vita secondo la
filosofia anticagreca, la concezione dell'aretè non era connessa all'azione per
il conseguimento del bene, bensì indicava semplicemente una forza d'animo, un
vigore morale e anche fisico. Essa coincide con la realizzazione dell'essenza
innata della persona, sia sul piano dell'aspetto fisico, il lavoro, il
comportamento e gli interessi intellettuali. Questa concezione di virtù
contiene l'eccellenza degli eroi omerici, quella degli statisti Ateniesi, o
quella descritta nel Menone di Platone ovvero la capacità di ben governare. In
questo senso il coraggio, la moderazione e la giustizia erano virtù
morali. Tale sarà, ad esempio, il senso nella concezione rinascimentale
sulla politica in Niccolò Machiavelli che vorrà distinguere l'aretè del
principe moderno, come la capacità di opporsi alla "fortuna" e di
modificare le circostanze ai propri fini di potere e con lo scopo principale
del mantenimento dello stato (senza tener conto del giudizio morale sui mezzi
impiegati), dalla virtus cristiana del sovrano medioevale che governa per
grazia di Dio a cui deve rispondere per la giustificazione della sua azione
politica, diretta anche a difendere i buoni e proteggere i deboli dalla
malvagità. Nel Principe nessuna considerazione morale né religiosa dovrà
ostacolare la sua azione spregiudicata e forte, frutto della sua
"aretè", tesa a mettere ordine là dov'è il caos della politica
italiana. Non diversamente, nella visione di Nietzsche la virtù consisterà
nella "volontà di potenza" in opposizione alla "morale degli
schiavi" nata dallo spirito di risentimento del Cristianesimo nei
confronti degli uomini superiori. Le virtùModifica Platone
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Etica Socrate e Platone. La concezione della virtù
nel pensiero greco antico costituisce il fulcro centrale dell'etica e delle sue
trasformazioni nel corso del tempo. Così in Platone le virtù
corrispondono al controllo della parte razionale dell'anima sulle passioni. Ne
La Repubblica verranno indicate per la prima volta le quattro virtù, che da
Sant'Ambrogio in poi verranno chiamate "cardinali", vale a dire
principali: la temperanza, intesa come moderazione dei desideri che, se
eccessivi, sfociano nella sregolatezza; il coraggio o forza d'animo necessaria
per mettere in atto i comportamenti virtuosi; la saggezza o "prudenza",
variamente intesa dalla speculazione antica seguente, che costituisce, come
controllo delle passioni, la base di tutte le altre virtù; la giustizia è
quella che realizza l'accordo armonico e l'equilibrio di tutte le altre virtù
presenti nell'uomo virtuoso e nello stato perfetto. Le virtù secondo Aristotele
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Aristotele
L'Etica. Aristotele Mentre Platone parlava genericamente di saggezza per
l'esercizio della virtù, Aristotele la distingue invece dalla "sapienza".
La saggezza, o "prudenza", è una "virtù dianoetica",
propria cioè della razionalità comune a tutti che ispira la condotta umana
permettendo il giusto esercizio delle "virtù etiche", quelle cioè che
riguardano l'azione concreta. Tra le virtù dianoetiche che presiedono
alla conoscenza (intelletto, scienza, sapienza) o alla attività tecniche
(arte), la saggezza è propria di colui che, pur non essendo filosofo, è in
grado di operare virtuosamente. Se si dovesse acquisire la sapienza filosofica
per praticare le virtù etiche questo comporterebbe che solo chi ha raggiunto
l'età matura, divenendo filosofo, potrebbe essere virtuoso mentre con la
saggezza, grado inferiore della sapienza, anche i giovani possono praticare
quelle virtù etiche che permetteranno l'acquisto delle virtù dianoetiche. La
saggezza insomma permette una vita virtuosa, premessa e condizione della
sapienza filosofica, intesa come "stile di vita" slegato da ogni
finalità pratica, e che pur rappresentando l'inclinazione naturale di tutti gli
uomini solo i filosofi realizzano a pieno poiché «Se in verità
l'intelletto è qualcosa di divino in confronto all'uomo, anche la vita secondo
esso è divina in confronto alla vita umana.» Virtù eticheVirtù
dianoetiche Giustizia Coraggio Temperanza Liberalità Magnificenza Magnanimità
Mansuetudine Virtù calcolative Arte Prudenza Virtù scientifiche Sapienza
Scienza Intelligenza La saggezza può esser fatta conseguire ai giovani tramite
l'educazione che i saggi, o quelli ritenuti tali dalla collettività, impartiranno
anche con l'esempio concreto della loro condotta. Da questi modelli il giovane
apprenderà che le virtù etiche consistono nella capacità di comportarsi secondo
il "giusto mezzo" tra i vizi ai quali si contrappongono (ad esempio
il coraggio è l'atteggiamento mediano da preferire tra la viltà e la
temerarietà), sino a conseguire con l'abitudine un abito spontaneamente
virtuoso: infatti «La virtù è una disposizione abitudinaria riguardante
la scelta, e consiste in una medietà in relazione a noi, determinata secondo un
criterio, e precisamente il criterio in base al quale la determinerebbe l'uomo
saggio. Medietà tra due vizi, quello per eccesso e quello per difetto» In
medio stat virtus è il detto della filosofia scolastica che traduce il concetto
greco di mesotes. La virtù secondo gli stoiciModifica Magnifying glass
icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Stoicismo Etica. La saggezza,
ossia la capacità di operare con prudenza, è al centro della morale epicurea e
stoicama, mentre per gli epicurei la virtù si consegue attraverso un calcolo
razionale dei piaceri stabilendo quali di essi siano veramente necessari e
naturali, per gli stoici invece il comportamento virtuoso, risultato del
conseguimento dell'"apatia", cioè della liberazione ascetica dalle passioni,
è di per sé portatore di felicità. Per coloro che non riescono a condurre la
loro vita secondo saggezza lo stoicismo indicherà delle regole di condotta che
insegneranno a operare secondo ciò che è più "conveniente" od
opportuno tenendosi sempre lontano dagli eccessi delle passioni. La
morale stoica ispirerà quella dei filosofi come Cartesio, che rivaluterà tra le
passioni quella della "magnanimità", considerata virtù somma, e
Spinoza che afferma che «il primo e unico fondamento della virtù, ossia della
retta maniera di vivere, è di cercare il proprio utile» intendendo per
"utile" solo ciò che «conduce l'uomo a maggior perfezione» infatti
«gli uomini che ricercano il proprio utile sotto la guida della ragione non
appetiscono per sé niente che non desiderino gli altri uomini, e perciò essi
sono giusti, fedeli, onesti» e per ciò stesso la virtù è premio a sé stessa
come portatrice di una vita serena condotta secondo la razionalità. Le
virtù secondo il cristianesimo Il fine di una vita virtuosa consiste nel
divenire simili a Dio Nel pensiero cristiano oltre le virtù umane è possibile
l'esercizio di quelle soprannaturali: le virtù teologali di fede, speranza e
carità che in qualche modo dovranno conciliarsi con quelle dell'etica
antica. San Tommaso conserverà la validità delle virtù
"cardinali" aristoteliche ma considerandole inferiori a quelle
teologali mentre Agostino riteneva false le virtù umane dei pagani che
mascherano sotto il nome di virtù quello che in realtà è l'esercizio di vizi "splendidi",
ma pur sempre negativi in quanto causati dall'orgoglio e dalla ricerca
dell'effimera gloria umana. L'unica grande virtù è la carità, l'amore di Dio il
cui esercizio, per quanto essi facciano, non dipende dagli uomini ma dalla
volontà divina che lo infonde negli spiriti eletti, cioè dalla infusione
nell'uomo della indispensabile grazia divina. Concezione questa che riaffiorerà
con la Riforma protestante e nel Giansenismo. Inoltre uno dei nove cori
delle gerarchie angeliche, viene denominato Virtù ed indica secondo lo
Pseudo-Dionigi il coro angelico preposto a dispensare la grazia divina.
La virtù nel pensiero moderno Nella filosofia dell'età moderna la concezione
della virtù oscilla tra quella che la considera come l'esercizio di un
controllo delle passioni a cui rinunciare e quella che invece la ritiene
rientrare nell'ambito di un comportamento istintivo e naturale dell'uomo. Alla
prima interpretazione si associano le dottrine della corrente libertina da
Bayle a Mandeville che ironizzano sulla effettiva possibilità per gl’uomini
dell'esercizio delle virtù che se anzi fossero attuate provocherebbero la
disgregazione della società. Il vizio è tanto necessario in uno stato
fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile
che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa. Si è sempre
parlato ipocritamente di virtù, osservano i libertini, le quali in realtà sono
la mascheratura dei propri vizi come ben appare nella contrapposizione tra le
ostentate "pubbliche virtù" e i nascosti "vizi privati". La
virtù come sacrificio del singolo cittadino a vantaggio della patria di tutti,
è anche nella concezione politica di Montesquieu che riporta questo
comportamento civile ai regimi repubblicani mentre in quelli monarchici prevale
l'orgoglio e in quelli dispotici la paura. Anthony Ashley Cooper, III
conte di Shaftesbury Nell'etica inglese la virtù è intesa, in opposizione alle
dottrine sull'"egoismo" di Thomas Hobbes, come atteggiamento
impulsivo naturale determinato dal sentimento morale della benevolenza
(Shaftesbury e Francis Hutcheson) che spinge l'uomo a operare senza badare alla
riprovazione morale dell'opinione pubblica, al terrore di una punizione futura
o all'intervento delle autorità, istituite come incentivi alla bontà. L'azione
virtuosa dell'uomo è invece ispirata dalla voce della coscienza e dall'amore di
Dio. Solo questi due fattori spingono l'uomo verso la perfetta armonia, per il
suo stesso bene e per quello dell'universo. Lo stesso istinto alla virtù
secondo David Hume e Adam Smith è quello della simpatia. Le nostre sensazioni
nelle relazioni con gli altri (e le azioni sono valutabili moralmente in
rapporto ad altri uomini), non possono essere ridotte a una dimensione
esclusivamente egoistica: ciò che noi proviamo è condizionato sempre da ciò che
provano gli altri in conseguenza delle nostre azioni.» (David Hume,
Trattato sulla natura umana, Libro terzo, Parte terza, sez. prima-terza) «Per
scoprire la vera origine della morale, e quella dell'amore e dell'odio che
deriva dalle qualità morali, dobbiamo considerare nuovamente la natura e la
forza della simpatia. Gli animi degli uomini sono simili nei loro sentimenti o
nelle loro operazioni, né esiste un sentimento che si produca in una persona di
cui non partecipino, in qualche grado, tutte le altre. Questa disposizione
naturale e spontanea dell'uomo all'esercizio della virtù troverà espressione
nel deismo e in seguito costituirà il nucleo della teoria romantica
dell'"anima bella" di Schiller. La virtù come sforzo. Kant Una
ripresa della concezione della virtù come repressione delle passioni umane è
nella filosofia morale di Kant che distingue una "dottrina della
virtù" dalla "dottrina del diritto". Nel diritto l'uomo si
sottomette alla legge per rispettarne la formalità esteriore senza considerare
il motivo della sua azione ma solo perché così prescrive la norma, mentre nella
morale ci si vuole comportare secondo il dettato morale indipendentemente da
qualsiasi motivo e conseguenza della propria azione: si realizza così la virtù come
soggezione della volontà all'"imperativo categorico". La vetta,
opera simbolista di Saccaggi, che esprime i concetti romantici di Streben (sforzo)
e Sehnuct (struggimento), ossia l'anelito dell'uomo verso un ideale che si
rivela sempre più arduo ed elevato. L'imperativo categorico, ossia la virtù,
implica che l'uomo debba compiere uno sforzo (Streben), combattendo le
inclinazioni sensibili e le passioni, nel conformare la sua volontà a ciò che
l'imperativo comanda, mentre pensare che questo possa avvenire spontaneamente
significa confondere la debolezza umana con ciò che è proprio della santità che
appartiene solo a Dio che non ha nessun dovere nei confronti della legge
morale. Ciò che prescrive la morale è identico sia per gli uomini sia per la
divinità, ma questa, poiché non ha niente che possa ostacolarla nell'osservanza
della legge morale, non ha neppure virtù. Questa visione della virtù
assimilerebbe il pensiero kantiano allo stoicismo che Kant invece rifiuta
laddove questo connette all'esercizio della virtù la felicità. Certo l'uomo
nella sua costituzione sensibile ha bisogno della felicità ma nulla garantisce
che egli possa raggiungerla. Un'esigenza di giustizia vuole poi che l'uomo
abbia una felicità bilanciata al suo comportamento virtuoso ma poiché questo
non accadrà mai nel nostro mondo terreno, egli allora postulerà l'esistenza di
un'anima immortale a cui un Dio giusto assicuri la giusta felicità.
L'etica kantiana, tradotta da Fichte e Schelling nella tensione verso un ideale
infinito a cui l'Io cerca progressivamente di conformare il non-io, pur non
raggiungendolo mai definitivamente, sarà invece messa in discussione da Hegel,
il quale vi vedrà l'espressione di un tipico soggettivismo delle "virtù
private" contrapposto a quella "eticità" antica, ancora valida
nel suo tempo, da apprezzare perché rivolta alla collettività dove si realizza
il bene tramite la famiglia, la società civile e lo Stato.[Le virtù secondo il
BuddhismoModifica Il Buddhismo sostiene la conciliabilità tra saggezza e virtù
come un desiderabile obiettivo per l'uomo buono che ci ricorda l'antica
concezione socraticaispirata a quell'intellettualismo etico secondo cui il
l'uomo fa il male perché ignora cosa sia il bene. Le virtù nel Buddhismo
sono il continuo applicare, come regole di autodisciplina nella vita quotidiana,
dei Tre rifugi o dei Cinque precetti che consistono nello 1. Astenersi
dall'uccidere o danneggiare qualunque creatura vivente 2. Astenersi dal
prendere ciò che non ci è stato dato 3. Astenersi da una condotta sessuale
irresponsabile 4. Astenersi da un linguaggio falso o offensivo 5. Astenersi
dall'assumere bevande alcoliche e droghe Vivendo in questo modo si incoraggiano
la disciplina e la sensibilità necessarie per chi voglia coltivare la
meditazione, che è il secondo aspetto del sentiero. La virtù nella
filosofia cinese La virtù (traduzione di "de" 德)
è un concetto importante anche nelle filosofie cinesi come il confucianesimo e
il taoismo. Le virtù cinesi comprendono l'umanità, lo xiao (solitamente
tradotta come pietà filiale) e zhong (lealtà). Un valore importante, contenuto
nella gran parte del pensiero cinese, è che lo stato sociale di ciascuno debba
essere determinato dall'insieme delle sue virtù manifeste, e non da un
qualunque privilegio di nascita. Nei suoi Analecta, Confucio parla della
pratica che conduce alla perfetta virtù. Le virtù confuciane si sviluppano in
due rami: il ren e il li; il ren può essere tradotto come benevolenza, amore
disinteressato, e l'uomo la può raggiungere praticando cinque virtù:
magnanimità, rispetto, scrupolosità, gentilezza e sincerità. Confucio afferma
che queste virtù devono essere praticate verso il li, che è la parte pratica
della virtù confuciana. Il li consiste in cinque canali relazionali:
marito/moglie, genitore/figlio, amico/amico, giovane/anziano,
suddito/sovrano. Romanus Cessario, Le virtù, Editoriale Jaca, Ancient
Ethical Theory (Stanford Encyclopedia of Philosophy) Ferroni, Machiavelli, o
Dell'incertezza: la politica come arte del rimedio, Donzelli Editore, Platone,
Repubblica o sulla giustizia. Testo greco a fronte, a cura di Vitali,
Feltrinelli, Aristotele, Etica Nicomachea, Aristotele, Etica Nicomachea,
Kambouchner, L'Hommes des passions. Commentaires sur Descartes, Paris, Albin
Michel, BODEI (si veda) Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità:
filosofia e uso politico, Feltrinelli, Eth. V, prop. 41 Eth. IV, prop. Gregorio
di Nissa, De beatitudinibus, oratio 1: Gregorii Nysseni opera, ed. W. Jaeger (Leiden
L'elenco è dedotto dalla prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi: «Rivestiti
della corazza della fede e della carità avendo come elmo la speranza» (1Ts 5,8)
Kostko, Beatitudine e vita cristiana nella Summa theologiae di S. Tommaso
d'Aquino, Edizioni Studio Domenicano, I vizi capitali considerati come gli
opposti delle virtù nella concezione cristiana sono superbia, avarizia,
lussuria, gola, ira, invidia e accidia (in Domenico Galvano, Catechismo della
diocesi di Nizza1) Mondin, Etica e politica, Edizioni Studio Domenicano,
Mandeville, La favola delle api ^ L'espressione si ritrova nell'operetta di
Bernard de Mandeville pubblicata anonima con il titolo The Grumbling Hive, or
Knaves Turn'd Honest (Ronzio di arnie, o Furfanti divenuti onesti), ristampata
con l'aggiunta del sottotitolo Vizi privati e pubbliche virtù e infine con il
titolo Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits (La favola delle
api: ovvero vizi privati, pubbliche virtù) Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, Kant, Metafisica dei costumi Galli e Aa.Vv., Saccaggi: un poliedrico
pittore internazionale su gabbantichita.com, Studio d'Arte e Restauro
Gabbantichità. Nell'opera, intitolata anche La regina dei ghiacci,
l'atteggiamento passionale e implorante dell'uomo si contrappone alla gelida
irraggiungibilità della donna, allegoria della Montagna-Natura. Fraisopi, Adamo
sulla sponda del Rubicone: analogia e dimensione speculativa in Kant, Armando,
Pasquale Fernando Giuliani Mazzei, Kant e Hegel: un confronto critico, Guida; Hua,
Buddhismo: Une breve introduzione, Dharma Realm Buddhist Association, Pavolini,
Buddismo, Hoepli, Chiesa Cattolica,
Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, New Catholic
Encyclopedia, Catholic University of America, Natoli, Dizionario dei vizi e
delle virtù, Feltrinelli UE Scheler, Per la riabilitazione della virtù. Aquino,
Le virtù. Quaestiones de virtutibus, I e V, Testo latino a fronte, Milano,
Bompiani, Paideia Bushidō Moralità Etica Bontà Teoria dei valori Giustizia
sociale Pietà (teologia) Sette peccati capitali Virtù cardinali Virtù teologali
Timè. virtù virtù, Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Virtù Virtù (altra versione),
su Enciclopedia Britannica.Virtù, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Modifica su
Wikidata The Four Virtues, su thefourvirtues.com. The Virtues Project, su
metamind. Virtue Science.com. Portale
Filosofia Portale Religione. Etica ramo della filosofia Etica
Nicomachea opera di Aristotele Virtù dianoetiche ed etiche Girolamo
Cotroneo. Cotroneo. Keywords: VIRTÙ,
retorica, retorica di Aristotele, retorica nuova, retorica moderna, Perelman,
rareta e storia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cotroneo” – The Swimming-Pool Library.
Cottroneo.
Luigi Speranza –
Grice e Cotta: la ragione conversazionale all’accademia a Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. He appears as a character in De natura deorum by Cicerone. There he
presents the points of view of the Accademia. However, he spends some time in
exile and almost certainly studies the doctrine of the Porch and that of the
Garden as well. Gaio Aurelio Cotta. Cotta.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Cotta: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale nella storia del diritto romano
– filosofia fiorentina – filosofia toscana-- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Firenze).
Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Grice: “My favourite
explorations by Cotta are three: ‘per che violenza?” – “dalla guerra alla pace:
un itinerario filosofico” and a secondary-literature study on ‘i concordati’
--- which is MY philosophy. You see, Plato thought that
the soul resided in the brain – cool as he was – but Aristotle corrected him:
it resides in the HEART – Cicero loved that and coined ‘cum-cor’ – i.e.
something like my cum-operare: your hearts convene!” -- Grice: “I would say
Cotta is Italy’s H. L. A. Hart, with a bonus – he wrote on essentialism,
deontic logic, and from war to peace!” Figlio di Alberto,
studioso di scienze forestali, e Maria Nicolis di Robilant. Da parte di madre è
discendente diretto di Eulero. Studia a Firenze presso l'istituto dei barnabiti
La Querce. Si laurea a Firenze. Chiamato alle armi con il grado di
sottotenente, il giorno dell'annuncio dell'armistizio, è in Friuli. Scioltosi
l'esercito, scende in barca lungo l'Adriatico per raggiungere l'Italia non
ancora occupata dai tedeschi. Ammalatosi di malaria, dopo svariate traversie
decide di raggiungere il Piemonte, dove partecipa alla guerra di resistenza come
comandante di una brigata partigiana nella VII Divisione Autonoma
"Monferrato". È tra i primi ad entrare a Torino nei giorni della
liberazione. Per la sua partecipazione alla guerra partigiana gli vengono
attribuite la Medaglia di bronzo al valor militare e la Croce di guerra. Dopo
gli studi sul pensiero politico dell'Illuminismo i suoi interessi si sono
incentrati sulla filosofia giusnaturalistica, che è stato in grado di fondere
con elementi della fenomenologia. Autore di saggi sulla visione politica di
Montesquieu, Filangieri, Aquino ed Agostino, dedicandosi in seguito a
riflessioni teoriche sul diritto e sulla politica. Insegna a Torino, Perugia,
Trieste, Trento, Firenze, Roma, e Teramo. Fu tra i componenti del comitato
promotore del referendum abrogativo della legge sul divorzio. Altre opere: “La
società; “Il concetto di ‘legge’ in Filangieri” (Torino, Giappichelli); “Il
concetto di ‘legge’ in Aquino” (Torino, Giappichelli). “Il concetto di Roma
come città in Agostino”; “Filosofia e politica nell'opera di Rousseau”; “La
sfida tecnologica”; “L'uomo tolemaico” – la ferita narcissista di Galileo – “Quale
Resistenza?, Perché la violenza; “Il normato: tra il giurato e l’obbligato”; “Il
diritto nell'esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica”; “Dalla guerra
alla pace”; “l’uomo, la persona, il diritto umano”; “Il pensiero politico di Montesquieu,
Bari, Laterza); “L’inter-soggetivo giurato”; “I limiti della politica, “Il
sistema di valori e il diritto”; Perché il diritto Quid ius?” (Brescia, La
Scuola). Stante la concessione chirografata dall'ex re Umberto II, C. puo
fregiarsi del titulo nobiliare di “conte”, sia pure del tutto informalmente
stante l'instaurazione dell'ordinamento repubblicano e la XIV disposizione
finale e transitoria della Costituzione. Diritto romano ordinamento giuridico
della civiltà romana Lingua Segui Modifica Con diritto romano si indica
l'insieme delle norme che hanno costituito l'ordinamento giuridico romano per
circa tredici secoli, dalla data convenzionale della Fondazione di Roma fino
alla fine dell'Impero di Giustiniano (565 d.C.). Infatti, tre anni dopo la
morte di Giustiniano l'Italia fu invasa dai Longobardi: l'impero d'Occidente si
dissolse definitivamente e Bisanzio, formalmente imperiale e romana, si
allontanò sempre più dall'eredità dell'antica Roma e della sua civiltà (anche
giuridica). Il Corpus Iuris Civilis in una stampa, che raggruppava
l'insieme di tutte le leggi romane contemporanee e precedenti alla sua
compilazione, avvenuta sotto Giustiniano I «Iuris praecepta sunt haec: honeste
vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. Le regole del diritto sono queste:
vivere onestamente, non danneggiare nessuno, dare a ciascuno il suo.»
(Eneo Domizio Ulpiano Libro secondo delle Regole dal Digesto 1.1.10 principio
[1]) L'importanza storica del diritto romano si riflette ancora oggi in una
lista di termini legali latini. Infatti, dopo la dissoluzione dell'Impero
romano d'Occidente, il Codice giustinianeo rimase in effetti nell'Impero romano
d'Oriente, conosciuto come Impero bizantino. Il linguaggio legale in Oriente fu
il greco. Il diritto romano definisce un sistema legale applicato nella
maggior parte dell'Europa occidentale fino alla fine del XVIII secolo. In
Germania, il diritto romano venne utilizzato più a lungo sotto il Sacro Romano
Impero. Il diritto romano servì inoltre come base per la pratica legale attraverso
l'Europa occidentale continentale, così come nella maggior parte delle colonie
delle nazioni europee, inclusa l'America latina e pure l'Etiopia. Il sistema
inglese e nord americano della common law venne influenzato anche dal diritto
romano, in particolare nel loro glossario giuridico latineggiante. Anche la
parte orientale dell'Europa venne influenzata dalla giurisprudenza del Corpus
Iuris Civilis, specialmente nei paesi come la Romania medievale che creò un
nuovo sistema, un mix del diritto romano e locale. L'Europa orientale fu
inoltre influenzata dal diritto medievale bizantino. Il diritto romano
viene diviso approssimativamente in tre o cinque differenti stadi evolutivi. Dalla
fondazione di Roma alle leggi delle XII Tavole. Magnifying glass icon mgx2.svg Storia del
diritto romano, Ius Quiritium e Mos maiorum. La prima fase, detta del diritto
arcaico o quiritario, comprende il periodo che ha inizio con la fondazione di
Roma e giunge alle Leggi delle XII tavole. In questo periodo, il diritto
privato, compreso il diritto civile romano era applicato solo ai cittadini
romani, ed era legato alla religione. Si trattava di una forma giuridica non
sviluppata, quindi non contenente gli attributi di formalismo rigoroso,
simbolismo e conservatorismo. Il giurista Sesto Pomponio disse:
"All'inizio della nostra città, le persone iniziarono le loro prime
attività senza alcun diritto scritto, e senza alcuna regola fissa: tutte le
cose erano governate dispoticamente dai re". Si ritiene che il diritto
romano sia radicato nella mitologia etrusca, con un'enfatizzazione dei rituali.
Diritto repubblicano fino alla seconda guerra punica. Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Leggi delle XII tavole, Leges
Liciniae Sextiae, Lex Canuleia, Lex Hortensia e Lex Aquilia. L'inizio del
secondo periodo coincide con il primo testo di diritto: le leggi delle XII
tavole. Il tribuno della plebe, Gaio Terentillo Arsa, propose che le leggi
fossero scritte, per evitare che i magistrati potessero applicarle in modo
arbitrario.Dopo otto anni di scontri politici, i plebei riuscirono a convincere
i patrizia inviare un'ambasceria ad Atene, per copiare le leggi di Solone; essi
inviarono poi altre delegazioni ad altre città greche per ottenerne il
consenso. Secondo quanto ci racconta Livio, furono scelti dieci cittadini
romani per mettere per iscritto le leggi. Mentre stavano eseguendo questo
lavoro, gli vennero attribuiti poteri politici supremi, detti imperium, mentre
il potere dei normali magistrativenne ridotto. I decemviri produssero le leggi
su dieci tavole, dette tabulae, ma lasciarono insoddisfatti i plebei. Un nuovo
decemvirato, si racconta, aggiunse due ulteriori tavole. La nuova legge delle XII
tavole venne ora approvata dall'assemblea popolare. Gli studiosi moderni
tendono a non dar credito alla precisione degli storici romani. Non credono in
genere che un secondo decemvirato abbia mai avuto luogo. Il decemvirato si
ritiene abbia incluso i punti più controversi del diritto consuetudinario, e di
aver assunto le funzioni principali a Roma. Inoltre, la questione sulla
influenza greca trovata nel diritto romano arcaico è ancora molto discussa.
Molti studiosi ritengono improbabile che i patrizi abbiano inviato una
delegazione ufficiale in Grecia, come gli storici romani credevano. Invece, gli
studiosi suggeriscono che i Romani abbiano acquisito leggi dalle città greche
della Magna Grecia, serbatoio principale dal mondo romano a quello greco. Il
testo originale delle XII tavole non si è conservato, anche perché furono
distrutte durante il sacco di Roma da parte dei Galli. I frammenti
sopravvissuti mostrano che non si trattava di un codice del diritto in senso
moderno. Non forniva infatti un sistema completo e coerente di tutte le norme
applicabili o nel dare soluzioni giuridiche per tutti i casi possibili.
Piuttosto, le tabelle contenevano disposizioni specifiche volte a modificare
l'allora esistente diritto consuetudinario, anche se le disposizioni erano
valide per tutti i settori del diritto, dove la parte più ampia era dedicata al
diritto privato e alla procedura civile. In seguito le leggi delle dodici
tavole vennero integrate da una serie di nuove leggi come: la Lex
Canuleia, che ammetteva il matrimonio (ius connubii) tra patrizi e plebei; le
Leges Licinae Sextiae che prevedevano restrizioni sui terreni pubblici (ager
publicus), dove almeno uno dei due consoli doveva essere plebeo; la Lex Ogulnia
dove i plebei ottennero l'accesso alle cariche sacerdotali; la Lex Hortensia
dove i verdetti delle assemblee plebee (plebiscita) ora riguardavano tutte le
persone; la Lex Aquilia, che poteva essere considerata come la fonte del
moderno diritto civile. Tuttavia, il contributo più importante di Roma alla
cultura giuridica europea non fu la promulgazione di leggi ben elaborate, ma
l'emergere di una classe di professionisti giuristi e della giurisprudenza.
Questo venne realizzato applicando in modo graduale e con metodo scientifico la
filosofia al soggetto del diritto, tema che i greci stessi mai trattarono come
una scienza. Tradizionalmente, le origini della giurisprudenza romana
sono collegate a Gneo Flavio, il quale sembra abbia pubblicato una serie di
"modi di dire" contenenti il linguaggio giuridico da utilizzare in
tribunale per intraprendere un'azione legale. Prima di Flavio, queste formule
sembra fossero segrete e note solo ai sacerdoti. La loro pubblicazione rese
così possibile, anche per chi non ricopriva cariche sacerdotali, di esplorare
il significato di questi testi di legge. Il periodo che successe dopo la
fine della seconda guerra punica fino all'avvento del principato, corrisponde
storicamente al periodo del diritto chiamato pre-classico. Questo periodo
coincise con una produzione da parte dei giuristi di un grande numero di
trattati, soprattutto a partire dal II secolo a.C. Tra i più famosi giuristi
del periodo repubblicano si ricordano, Quinto Mucio Scevolaautore di un
voluminoso trattato su tutti gli aspetti del diritto romano, che ebbe grande
influenza nelle epoche successive, e Servio Sulpicio Rufo, amico di Marco
Tullio Cicerone. E benché Roma avesse sviluppato un sistema del diritto molto
evoluto, oltre a una raffinata cultura legale, la Repubblica romanavenne
rimpiazzata dal principato. In questo periodo possiamo notare lo sviluppo
di leggi più flessibili per soddisfare le esigenze del momento. In aggiunta al
vecchio e formale ius civile venne creata una nuova classe giuridica: lo ius
honorarium, che può essere definita come "la legge introdotta dai
magistrati che avevano il diritto di promulgare editti al fine di sostenere,
integrare o correggere la giurisprudenza esistente. Con questa nuova legge il
vecchio formalismo venne abbandonato per i più flessibili principi dello ius
gentium. L'adattamento del diritto alle nuove esigenze fu dedicata alla
pratica giuridica dei magistrati, e soprattutto riguardante i pretori. Un
pretore non era un legislatore e non poteva tecnicamente creare una nuova legge
quando emetteva i suoi editti. I risultati delle sue sentenze godevano di
tutela giuridica[19] ed erano in effetti spesso fonte di nuove norme
giuridiche. Il successore del precedente pretore non era vincolato dalle
disposizioni del suo predecessore; comunque doveva rifarsi alle norme contenute
negli editti del suo predecessore che si dimostrassero utili. In questo modo si
generò un modo costante di operare da un punto di vista giuridico, editto per
editto. Così, nel corso del tempo, parallelamente al diritto civile, che andava
integrandosi e correggendosi, emerse un nuovo corpo di leggi pretorie. In
realtà, la legge pretoria venne così definita dal celebre giurista romano
Papiniano. Ius praetorium est quod praetores introduxerunt adiuvandi vel
supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. Il
diritto pretorio è una legge introdotta da pretori per integrare o correggere
il diritto civile per il bene pubblico.» Alla fine, il diritto civile e
il diritto pretorio si fusero nel Corpus Iuris Civilis. I primi
duecentocinquant'anni da Augusto, fino alla morte dell'imperatore Alessandro
Severo corrispondono al cosiddetto "periodo classico". Questo momento
storico rappresentò per il diritto e la giurisprudenza romana il momento più
elevato dell'intera storia romana. I successi letterari e le pratiche dei
giuristi di questo periodo hanno dato una forma unica al diritto romano.
I giuristi lavorarono in diverse direzioni, dando pareri legali: su richiesta
delle parti private; ai magistrati a cui era affidata l'amministrazione della
giustizia, soprattutto i pretori; nella redazione degli editti dei pretori,
quando veniva annunciato pubblicamente l'inizio del loro mandato, su come
avrebbero gestito le loro funzioni, oltre alle formule, in base alle quali
vennero condotti procedimenti specifici. Alcuni giuristi vennero incaricati di
occuparsi di prestigiosi uffici giudiziari e amministrativi. I giuristi
produssero, inoltre, tutta una serie di commentari legali e trattati. Attorno
al 130 il giurista Salvio Giuliano redasse un modello standard di come doveva
essere redatto un editto di un pretore, che poi venne utilizzato da tutti i
pretori da quel momento in poi. Questo editto conteneva dettagliate descrizioni
di tutti i casi, nei quali il pretore avrebbe potuto compiere un'azione legale
e una difesa. L'editto standard funzionava come un codice di legge completa,
anche se formalmente non aveva forza di legge. Esso indicava i requisiti
giuridici per un'azione legale di successo. L'editto divenne pertanto la base
per numerosi commentari giuridici da parte dei giuristi classici di epoca tarda
come, Giulio Paolo e Eneo Domizio Ulpiano. I nuovi concetti e istituti
giuridici elaborati dai giuristi di epoca pre-classica e classica sono troppo
numerosi da menzionare qui. Seguono quindi alcuni esempi: i giuristi
romani separarono chiaramente l'utilizzo di una cosa (proprietà) nel diritto
legale, dalla possibilità di utilizzare e manipolare la cosa (possesso).
Elaborarono anche la distinzione tra contratto e colpa come fonti delle
obbligazioni legali. I contratti standard (di vendita, di lavoro, locazione,
appalto di servizi) furono regolati nei più importanti codici continentali e le
caratteristiche di ciascuno di questi contratti furono sviluppate nella
giurisprudenza romana. Il giurista classico Gaio creò un sistema di diritto
privato basato sulla divisione materiale di personae (persone), res (cose) e
actiones (azioni legali). Questo sistema fu usato per molti secoli successivi:
basterebbe ricordare i Commentaries on the Laws of England di Blackstone, gli
atti francesi del Codice Napoleonicooppure il codice civile tedesco
(Bürgerliches Gesetzbuch). L'ultimo periodo è quello denominato post-classico,
iniziato con la morte di Alessandro Severo
e segnò la fine del principato, dilaniato dalle guerre civiliper la
porpora imperiale e dalle continue invasioni dei barbari del nord e delle
armate persiane. Terminò, quindi, con il regno di Giustiniano. In questo
periodo le condizioni per il fiorire di una cultura giuridica raffinata
divennero meno favorevoli. La situazione politica ed economica generale si era
andata deteriorando, da quando gli imperatori romaniavevano assunto un
controllo più diretto di tutti gli aspetti della vita politica. Il sistema
politico del principato, che aveva mantenuto alcune caratteristiche della
costituzione repubblicana, cominciarono a trasformarsi nella monarchia
assolutadel dominato. L'esistenza di una giurisprudenza e di giuristi che
considerassero il diritto come una scienza, non come mero strumento per
raggiungere gli obiettivi politici stabiliti dal monarca assoluto, non si
adattarono al nuovo ordine di cose. La produzione letteraria cessò quasi di
esistere. Pochi furono i giuristi conosciuti dopo la metà del III secolo.
Tuttavia, mentre la maggior parte della giurisprudenza del diritto classico
finì per essere ignorata e, infine, dimenticata in Occidente, in Oriente prese
piede una fondamentale attività di codificazione delle leggi classiche e della
giurisprudenza e di armonizzazione con le leggi successive, soprattutto grazie
all'opera di Giustiniano I, che avrebbe costituito la base del diritto
medievale. Eredità del diritto romano In Oriente Edizione del Digesta,
parte del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano I. Quando la centralità
dell'Impero romano venne spostata a est della Grecia, apparvero nella
legislazione ufficiale romana molti concetti legali di origine greca. Questa
influenza risulta visibile perfino nel diritto privato inerente ai rapporti tra
persone e alla famiglia, che tradizionalmente faceva parte del diritto che
subiva minori cambiamenti. Per esempio Costantino I cominciò a porre delle
restrizioni all'antico concetto romano di patria potestas, il potere detenuto
dal padre nei confronti della famiglia e dei suoi discendenti, riconoscendo che
le persone in potestate, i discendenti, potevano avere diritti di proprietà.
Egli apparentemente fece delle concessioni al concetto molto più severo di
autorità paterna del diritto greco-ellenistico. Il Codex Theodosianus è una
codificazione delle leggi di Costantino. Gli imperatori successivi andarono
perfino oltre, fino a quando Giustiniano I decretò che un fanciullo in
potestate potesse diventare proprietario di tutto ciò che avesse acquistato,
con esclusione di quanto veniva acquistato da suo padre. L'opera giuridica di
Giustiniano, particolarmente il Corpus Iuris Civilis, continuò a costituire la
base della pratica legale dell'Impero bizantino. Leone III Isaurico emise un
nuovo codice, denominato Ecloga. Gli imperatori Basilio I il Macedone e Leone
VI il Saggiocommissionarono la traduzione in greco del Codice e del Digesto,
parti del codice di Giustiniano, conosciuta con il nome di Basilica. Il diritto
romano preservato nel corpus legislativo di Giustiniano e nella
Basilicarimasero la base della giurisprudenza greca e nelle corti della Chiesa
ortodossa perfino dopo la fine dell'Impero bizantino e la conquista dei Turchi,
formando così la base per gran parte del Fetha Negest, che rimase in essere in
Etiopia. Reintroduzione in Occidente Lo stesso argomento in dettaglio: Regni
romano-barbarici, Diritto barbarico e Diritto medievale. In seguito alle
invasioni barbariche, come fonte principale del diritto, il diritto romano
scomparve in gran parte dell'Europa occidentale. L’imperatore d'Oriente
Giustiniano I promulgò il Corpus iuris civilis che in futuro sarebbe diventato
la base per la reintroduzione del Diritto romano nell'Occidente. Nel Corpus,
Giustiniano fece confluire tutte le antiche leggi di Roma cercando di
armonizzarle con le nuove che nel frattempo erano state promulgate. Il Codice
di Giustiniano fu applicato nei territori italiani sottoposti all'autorità di
Bisanzio, ma le seguenti invasioni barbariche le cancellarono dall'Occidente,
riducendo il diritto romano a mero diritto comune. In seguito, l'insistenza
degli imperatori romano-germanici di proclamarsi diretti successori dell'Impero
romano, in particolare della Dinastia ottoniana di Sassonia favorì, anche
grazie alle università, la reintroduzione del Diritto romano in Occidente,
andando a rimpiazzare le tradizioni giuridiche degli invasori germanici. Nel
Regno di Sicilia il diritto romano fu reintrodotto per volontà dell'imperatore
Federico II con le due assise di Capua e Messina. Il diritto romano venne
riscoperto e dominò la pratica legale di molti paesi europei. Un sistema
giuridico, in cui il diritto romano venne mescolato con elementi di Diritto
canonico e di costume germanico, soprattutto con il diritto feudale, divenne
comune in tutta l'Europa continentale e conosciuto come lo ius commune, termine
che viene indicato nei sistemi giuridici anglosassoni come civil law. Diritto
romano e tutela dei monumenti La protezione delle opere pubbliche e delle
principali opere d'arte come anche, più in generale, dell'intera consistenza
cittadina era disciplinata da un insieme organico di statuti, leggi,
costituzioni e provvedimenti risalenti già alla prima età repubblicana.
Nell'epoca classica si creò una nuova serie di cariche pubbliche che
sovrintesero alla tutela di settori sempre più specifici, regolando e inserendo
in un sistema altamente efficiente una realtà in precedenza già presente,
seppur in forma embrionale, anche nel mondo greco. Le tracce di come un
tanto imponente sistema si sia trasmesso sino ai giorni nostri, influenzando la
nascita delle prime moderne forme di protezione dei monumenti pubblici, sono
fin troppo evidenti. Si pensi, per esempio, all'istituzione dei magistri
aedificiorum et stratarum voluti, nella Roma da papa Martino V. Diritto romano
oggi Oggi, il diritto romano non è più applicato nella giurisprudenza moderna,
anche se negli ordinamenti giuridici di alcuni Stati come il Sudafrica e San
Marinoalcune parti si basano ancora sullo ius commune. Tuttavia, anche se la
giurisprudenza si basa su un codice, si applicano molte regole derivanti dal
diritto romano: nessun codice ha completamente rotto i collegamenti con la
tradizione romana. Piuttosto, le disposizioni del diritto romano sono state
create su misura in un sistema più coerente, espresso nella lingua nazionale di
molti Stati. Per questa ragione, la conoscenza del diritto romano è
indispensabile per capire i sistemi giuridici contemporanei. Il diritto romano
risulta spesso un argomento obbligatorio per gli studenti di legge nelle varie
giurisdizioni di diritto civile. Come passo fondamentale verso
l'unificazione del diritto privato negli Stati membri dell'Unione europea,
viene così adottato il vecchio Ius Commune, che era la base comune della
pratica legale in tutto il mondo, permettendo poi molte varianti locali, ed è
sentito da molti come un modello basilare. Divisioni interne al diritto
romanoModifica Il diritto romano si suddivide in: ius Quiritium (deriva
da "Quirites", sinonimo di "Romani"), costituito da un
insieme di consuetudini ancestrali, non scritte, talmente remote che i Romani
stessi non ne conoscevano l'origine. Riguardava gli ambiti di diritto di
famiglia, matrimonio, patria potestas e proprietà privata, e non comprendeva le
obbligazioni, che in età arcaica non esistevano. Costituisce il nucleo più
arcaico del ius civile. ius civile, era l'insieme delle norme che regolano i
rapporti tra i cives romani, considerato nell'ottica romana come orgogliosa
prerogativa dei cittadini di Roma. Di esso il giurista romano Papiniano dà la
seguente definizione tramandataci dal Digesto giustinianeo: Ius autem civile
est quod ex legibus, plebis scitis, senatus consultis, decretis principum,
auctoritate prudentium venit. Il ius civile è il diritto che promana dalle
leggi, dai plebisciti, dai senatoconsulti, dai decreti degli imperatori e dai
responsi dei giurisperiti.» (Digesto) ius gentium, l'insieme di tutti gli
istituti che trovano tutela, oltre che nell'ordinamento statuale romano, anche
presso altri popoli. ius naturale, la lezione stoica proficuamente accolta da
Cicerone, si trasfuse nella coscienza giuridica romana. I giureconsulti, però,
non essendo filosofi, ne trassero scarsi e rozzi ammaestramenti, interpretando
la natura come atavico istinto comune anche agli esseri irrazionali. Ciò
accadde specificamente nella definizione che ne diede Ulpiano, allorché
stabilisce che "Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a
tutti gli esseri animati. [Da esso] derivano l'unione del maschio e della
femmina, che noi chiamiamo matrimonio, la procreazione e l'allevamento dei
figli. Vediamo infatti che anche gli altri animali, perfino quelli selvaggi,
conoscono e praticano questo diritto. Questo passo di Ulpiano sarà inserito nel
Digesto giustinianeo e insieme con l'intero Corpus iuris civilis costituirà
oggetto di studio per le scuole giuridiche medievali. Gaio propende per una
bipartizione del diritto, cioè che il diritto si divida in ius civile,
creazione artificiale della civitas, e in ius gentium o ius naturale, diritto
comune ai popoli e che trova la sua ragion d'essere nella naturalis ratio, cioè
in una ragione naturale, dunque ritenuto anche eticamente migliore poiché
ispirato dalla natura: in questa visione la schiavitù è considerata come una
situazione naturale già predisposta dalla stessa natura; Ulpiano propende per
una tripartizione del diritto; come Gaio, pensa che lo ius civile sia creazione
artificiale, ma va oltre affermando che il ius gentium riguarda un regolamento
per i soli uomini, mentre lo ius naturale sarebbe quello di tutte le creature
viventi: in questo caso la condizione di schiavo viene vista come una
condizione predisposta dal diritto e non riconducibile alla condizione naturale
dell'uomo. ius honorarium (o ius praetorium), che riguarda le situazioni di
diritto o di fatto che, pur non trovando tutela nelle norme dello ius civile,
sono state regolamentate dall'attività giurisdizionale dei magistrati dotati di
iurisdictio. Lo stesso Papiniano, nel medesimo brano in cui definisce il ius
civile, racchiude il concetto di ius honorarium, che egli chiama ius
praetorium, nelle seguenti parole. Ius praetorium est quod praetores
introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi gratia propter utilitatem
publicam; quod et honorarium dicitur ab honore praetorum. Il ius pretorium è il
diritto introdotto dai praetores al fine di aiutare, aggiungere, emendare lo
ius civileper la pubblica utilità; ciò che viene anche chiamato
honorariumdall'onore dei pretori.» Ius legitimum, il cui nome deriva da
lex è il diritto prodotto in sede assembleare attraverso la votazione e
approvazione di una legge comiziale; lo ius legitimum ha particolare vita in
età repubblicana e fiorisce particolarmente con Augusto per poi scomparire dopo
la sua morte e la trasformazione dello Stato in impero; con il venir meno delle
assemblee a favore del duopolio Senato-imperatore e del successivo monopolio
imperiale del potere la lex perde il suo carattere di comizialità e viene a
identificarsi con la definizione di norme da parte dell'imperatore stesso,
nella forma della "costituzione imperiale". Da questo momento lo ius
legitimum si estingue, confluendo nello ius civile. Durante la repubblica le
principali assemblee produttrici di ius legitimum erano i comitia centuriata e
i concilia plebis, in minore parte le altre assemblee. Eneo Domizio Ulpiano,
Digesto principio. Ad esempio stare decisis, culpa in contrahendoo in pacta
sunt servanda. In Germania, Art. BGB. Valacchia, Moldova e alcune altre
province medievali. Secondo Francisci (Sintesi storica del diritto romano) la
prima fase, denominata del diritto "primitivo", iniziava con la
fondazione di Roma e terminava con la fine della seconda guerra punica. Biondi,
Istituzioni di diritto romano, Ius civile Quiritium. Come ad esempio la pratica
rituale della mancipatio, una forma di vendita. "Roman
Law", in Catholic Encyclopedia, Appleton Company, New York. Jenő Szmodis,
The Reality of the Law From the Etruscan Religion to the Postmodern Theories of
Law, Kairosz, Budapest, Olga Tellegen-Couperus, A Short History of Roman Law,
Livio, Ab Urbe condita libri. Decemviri legibus scribundis. Pudentes,
sing. prudens, o jurisprudentes. Pietro De Francisci, Sintesi storica del
diritto romano. Invece Biondi lo accorpa in un unico periodo con il precedente
e lo chiama "repubblicano". Berger,
Encyclopedic Dictionary of Roman Law, in The American Philosophical Society. Magistratuum edicta. Actionem dare. Edictum traslatitium. Francisci, Sintesi
storica del diritto romano, Tellegen-Couperus et Tellegen-Couper, A Short
History of Roman Law. Ecloga | Byzantine law Britannica, su britannica. Cardini e
Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia. "È
questo il famoso Corpus iuris civilis, nel quale Giustiniano dettò le sue nuove
leggi preoccupandosi però di armonizzarle coerentemente con quelle antiche.
Tale monumento alla sapienza giuridica di Roma sarebbe stato alla base della
rinascita degli studi giuridici e delle istituzioni politiche della stessa
Europa; e costituisce ancora oggi il fondamento sul quale si appoggiano i
sistemi giuridici di gran parte dei paesi del mondo. Cardini e Montesano,
Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, "La pretesa di
questi re di atteggiarsi a imperatori romani non fu priva di risultati anche
importanti: essa fu ad esempio uno dei motivi per cui, a partire dalla metà del
XII secolo, il diritto romano rientrò nell'Europa occidentale e -anche grazie
al lavoro che fu allora espletato nelle università- s'impose come nuovo diritto
sostituendosi in tutto o in massima parte alle precedenti tradizioni giuridiche
ereditate dai germani delle invasioni." Cardini e Marina Montesano, Storia
Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, "Introdusse il diritto
romano, fondò l'Università di Napoli per disporre di un ceto di funzionari
fedeli istruiti all'interno dei confini (altrimenti i suoi sudditi avrebbero
dovuto andare fino a Bologna per studiare) e favorì lo "Studio"
medico di Salerno. Incluse tutte le proprietà private. Campanelli, L'antefatto:
leggi e norme di tutela nel diritto romano, "‘ANAΓKH", I curatores
viarum, operum publicorum, rei publicae, statuarum, ecc. ^ Platone, nel VI
capitolo delle Leggi, cita un tipo particolare di magistrati chiamati astynomi,
storicamente documentati (cfr. Die Astynomenischrift, Atene) dediti alla cura e
alla riparazione dei luoghi pubblici. Con la bolla Etsi in cunctarum. Che per
gli Stoici era permeata dalla ragione divina. Fassò: «Digesto, Fassò. La
ricostruzione dell'intero sistema di diritto romano è basata sul ritrovamento
di fonti giuridiche e storiche più o meno complete. Di seguito, un elenco, certamente
non esaustivom delle principali fonti di
produzione del diritto romano che ci sono pervenute: OTTAVIANO (si veda),
Res gestae divi Augusti, opera divisa in tabulæ, CICERONE (si veda) De legibus,
Codice Ermogeniano. Codice Teodosiano; il contraltare alla codificazione giustinianea,
in sedici libri densi di diritto e innovazioni strutturali, tra cui il Liber
Legum Novellarum Imperatoris Theodosi. Constitvtiones Sirmondianae: raccolta di
16 costituzioni imperiali, che disciplinano materie ecclesiastiche; presero il
nome dal primo loro editore, il gesuita Sirmond. Emanate non furono tutte
accolte nel Codice teodosiano, in appendice al quale sono pubblicate da
Mommsen. Corpus Inscriptionum Latinarum. Decretum Gelasianum, fonte di diritto
canonico più che di diritto romano (da The Latin Library); editto di Costantino
e Licinio; l'Editto di Teodorico, diviso in articoli, è un codice territoriale,
cioè contene disposizioni valide sia per i romani che per gl’ostrogoti.
Ciascuno degli articoli è ricavato da un testo delle leges o degli iura,
soprattutto dai codices, dalle Sententiæ di Paolo ecc. Vi sono anche alcune
norme nuove, di incerta origine: non si sa se di origine ostrogota oppure
derivate dalla pratica. Fontes Iuris Romani Ante-iustiniani in usum scholarum,
divise in libri (sulle Leges, sugli Auctores, e sui Negotia). Fragmenta
Vaticana, frammenti di un'ampia compilazione privata di costituzioni imperiali
e di passi desunti dalle opere di Papiniano, Ulpiano e Paolo. Il palinsesto è
scoperto da Mai nella Biblioteca Vaticana. Le costituzioni imperiali ivi
riportate sono varie. Giustiniano I, Corpus iuris civilis, composto da
Imperatoris Iustiniani Institutiones, (versione latina) -logo.svg; opera
didattica in 4 libri destinata a coloro che studiavano il diritto; Domini
Nostri Sacratissimi Principis Iustiniani Iuris Enucleati Ex Omni Vetere Iure
Collecti Digestorum seu Pandectarum (o Pandectae), antologia in libri di
frammenti estrapolati (non senza modifiche) dalle opere giuridiche dei più
eminenti giuristi della storia di Roma, testo latino; Domini Nostri
Sacratissimi Principis Iustiniani Codex, testo latino: raccolta di costituzioni
imperiali d’ADRIANO (si veda) allo stesso Giustiniano; Novellæ Constitutiones: costituzioni
emanate da Giustiniano dopo la pubblicazione del Codex. Istituzioni di Gaio
(Gai Institutionum). Leggi delle XII tavole (Duodecim Tabularum Leges). Lex
Romana Burgundionum, scritta all'inizio del VI secolo, è articolata in titoli e la si attribuisce a Gundobado, re
dei Burgundi, Gallia Orientale. È destinata ai soli sudditi romani del regno
dei Burgundi. Sententiae Pauli: i cinque titoli delle Sententiae receptae Pavlo
tributæ e i libri delle Pavli sententiarvm interpretatio. Senatus consultum de
Bacchanalibus; Ulpiano, Titvli ex corpore Ulpiani: opera piuttosto elementare,
destinata soprattutto all'insegnamento del diritto, contenuta in un manoscritto
della Biblioteca Vaticana. Secondo la dottrina prevalente, si tratta di una
compilazione post-classica, con molta probabilità dell'epoca di Diocleziano o
Costantino di passi rimaneggiati e rielaborati tratti da opere di Ulpiano).
Storiografia moderna; Annunziata, Temi e problemi della giurisprudenza
severiana. Annotazioni su Tertulliano e Menandro, Scientifica, Napoli, Ruiz,
Storia del diritto romano, Jovene, Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Jovene,
Biondi, Istituzioni di diritto romano, Ed. Giuffré, Milano Burdese, Manuale di
Diritto Privato Romano, Utet giuridica, Burdese, Manuale di Diritto Pubblico
Romano, Utet giuridica, Costabile, Storia del diritto pubblico romano, Iriti,
Francisci, Sintesi storica del diritto romano, Roma Marzo, Istituzioni di
diritto romano, Giuffrè, Milano, Marzo, Manuale elementare di diritto romano,
Utet, Torino Marrone, Istituzioni di
diritto romano, Palumbo, Sanfilippo. Istituzioni di diritto romano, Rubbettino,
Schiavone, Ius: l'invenzione del diritto in Occidente, Torino, Einaudi, 2
International roman law moot court Diritto latino romano, diritto, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Diritto
romano, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Diritto romano,
su Enciclopedia Britannica, Corpus Iuris Civilis: Lion, Hugues de la Porte, Corpus
iuris civilis, su the latin library. The Roman Law Library (Lassard, Koptev)
Dizionario Storico del Diritto Romano Simone Diritto e Storia del Diritto
Romano, Vervaart, Rechtshistorieː A gateway to legal history - Roman Law, su
rechtshistorie. Fonti di diritto romano, su ancientrome (in russo). Portale
Antica Roma Portale Diritto Portale Roma Portale Storia
Corpus iuris civilis raccolta di materiale giurisprudenziale, voluta
dall'imperatore d'Oriente Giustiniano I Digesto Compilazione di frammenti
derivanti da opere di giuristi romani voluta da Giustiniano I. Basilika. Il
conte Sergio Cotta. Keywords: l’inter-soggetivo, il giurato, il normato. La prima
ferita narcissista, Filangieri, giurato, l’uomo galileano, l’obbligato, il
normato, Latin ‘normare’ – not recognized in Dizionario etimologico – il
giurato d’entrambi – il concordato d’entrambi – fenomenologia – Roma citta –
polis, politea, res publica – pubblico e privato -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cotta” – The Swimming-Pool Library. Cotta.


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