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Monday, April 28, 2025

GRICE ITALO A-Z C CO

 

Luigi Speranza -- Grice e Cocconato: l’implicatura conversazionale --  scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).  Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I like Coconato – I used to say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless you are a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato! He spent some time in London, as I did – and he shows that the average Italian philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato, as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore, fu il «primo illuminista della penisola», secondo una definizione di Piero Gobetti. Cocconato matura il suo pensiero anti-clericale nel clima dell'anticurialismo sabaudo ben presente in alcuni settori della corte di Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora tutto della sua prima formazione, verosimilmente affidata a qualche ecclesiastico. Un infelice matrimonio precoce, combinato dalle famiglie, lo coinvolge ventenne, e già due volte padre, in una serie di penosi contrasti il cui significato travalica i conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti della moglie si mobilita il partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a corte in chi appoggia il re sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la Curia romana.  Il grottesco-ironico racconto della sua «conversion pubblicato a Londra e ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion” induce a datare intorno agli anni venti il precipitare della crisi della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto. Nell'opuscolo autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso emblematico di «uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal contrasto tra santoni bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli agostinianisui presunti miracoli operati da un'immagine della Vergine, rinvenuta nel convento agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la fede e come, verso i vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a far uso della mia ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione intellettuale è il viaggio compiuto nella Francia della "Reggenza" tin cui poté ampliare il raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi libertine come La Sagesse di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité contre la Médisance di Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e sviluppo nelle sue opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali, storici e politici redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato clima conseguente alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e Benedetto XIII diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da un riacquisito potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà e per la sua stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a Londra, dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il sequestro e la confisca dei beni.  A Londra pubblica con un discreto successo l'instant book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione di Vittorio Amedeo II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e radicale dei suoi scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che, tradotta da JMorgan, uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo. Nella Dissertazione, che gli costa anche l'esperienza delle carceri della tollerante Inghilterra di Walpole, propugna il diritto al suicidio e all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita filosofia materialistica che scorge nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di senso. Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto individuale alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul suicidio non sia priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni confessione ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente nella gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede, considerano la vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo cristiano, lo stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro eredi.  Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana. Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente, incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le cose.  Definisce l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa intrattiene con il tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia della materia che costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La certezza che ci resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e dagli idola tribus, i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo vicissitudini della materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio londinese e poi olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci giunge fino a Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione, continua ad aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione continua. Come per il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la materia pensata dal Radicati è la materia actuosa che reingloba nel meccanicismo moderno motivi provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui ineriscono direttamente movimento e autoregolazione.  L'universo è un mondo infinito in perpetuo movimento: in esso nulla continua ad essere anche solo per un istante la stessa cosa. Le continue alterazioni, successioni, rivoluzioni e trasmutazioni della materia non incrementano né diminuiscono tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera dell'alfabeto si aggiunge o si perde per le infinite combinazioni e trasposizioni di essa in tante diverse parole e linguaggi. La natura, mirabile architetta sa sempre come utilizzare anche il minimo dei suoi atomi. La fine della nostra individualità costituita dalla morte non è quindi fine assoluta, perché niente si annichila nella materia e il principio vitale che ci anima come non è nato con noi troverà sicuramente altre forme di esplicazione: come la nostra nascita non è avvenuta dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.-- è estranea ogni forma di lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla sua rifiorirà in una delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici della modernità, nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina, Diotima: “Noi moriamo per vivere: Oh, certo, i miserabili che non conoscono se non il ciarpame arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del bisogno e disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della natura, a ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro mondo, non conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da stupirsi che temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho sentita la vita della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò una pianta, sarà poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire dalla sfera della vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti, riunifica le nature? come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti gli esseri?»  Opere Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed economisti del primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, Dodici discorsi morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo, Pisa, Ets Vite parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il Nazareno e Licurgo messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check); edizione e commento di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione filosofica sulla morte, F. Ieva, Indiana, Milano  Piero Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero nel Risorgimento, Torino, anche in Opere completeSpriano, Torino, Einaudi Franco Venturi, Adalberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi,  Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Torino, Einaudi,  Silvia Berti, Radicati in Olanda. Nuovi documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti, in Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini: materialismo, libero pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano, in Rivista Storica Italiana», Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of Modernity Oxford, Cavallo, Introduzione a Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, Pisa, Ets, Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e Licurgo: impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione ad A. Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri Levante, Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in I Quaderni di Muscandia», Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and Unbelief in Early Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves and Others in the Early Modern Period, ed. by Broomhall and JGent, Ashgate, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite Parallele di Alberto Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come uomo politico e consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di filosofo; e la sua filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono a destare interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero come cose inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come il loro autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese su di loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua filosofia. Infatti il Saraceno pubblicando il  Manifesto» e le due  Lettere » indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino, dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P., Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S. Sebastiano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True Light” in “XII Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted” (London. Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row; and sold by the Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication of Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the Crown in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came to repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his Restauration. On a letter frorn the Marquis de T... a Piemonlais now at the Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange; and by the Booksellers and Pamphletsellers of London and Westminster. “A phliosophical [sic] dissertation upon death composed for the consolation of the unhappy, by a friend to Truth” (London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on Ludgate-Hill). Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele III colla quale supplica la prelodata S. M. di voler gradire la dedica della opera da lui composta e già presentata alla fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC. (Arch. Slato Torino - Storia Real Casa - Cat. Ili - Storie particolari). Twelve discourses concerning Religion and Governement, Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by Albert Comte de Passeran, Written by Royal Command, The second Edition” (London, printed for the Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad Westminster). Recueuil de pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes – Rotterdam, Chez la Veuve Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A. R. de P. parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage. Douze Discours Moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration de l'Auteur, Histoire abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne a la tres illustre et tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius neophyte, Epitre à l'Empereur Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la religion des Cannibales modernes par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare les motifs qu'il eut de quitter celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe a Rome par M. Machiavel [sic] imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda fide, con prefazione dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour rendre utile à la Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son maintenant fort à charhe, traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la grande assamblé des Quakers par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée, traduit de l'Anglois a Londres, au depens de la Compagnie. La religion Muhammedane comparée à la paienne de l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem epitre a C.inknin, Bramili de Visa - pour traduit de l'Arabe. A Londres au depens de la Compagnie. Notiamo, ora di queste opere le notizie e di caratteri più salienti. È edita dal Saraceno, nell'opera più volte citata. Il testo rimane nella sua grafia del tutto immutato, con le inconstanze di scrittura (et, ed; chino e hanno) caratteristiche del filosofo; alquanto mutata è invece la punteggiatura, e gli alinea, la prima più scorretta nel testo originale, i secondi inesistenti nel MS., che corre tutto di seguito. Questa lettera con la quale comunica a Vittorio Amedeo II il suo desiderio di fargli pervenire la cassetta e di cui abbiamo notizia sia dalla lett. del March. d'Aix, sia dalla risposta del March, del Borgo, che c'informa pure del suo contenuto, per quante ricerche abbia fatte all'Arch. di Stato di Torino, non mi è stata possibile trovarla. Questa Memoria inedita si trova all'Ardi, di Stato di Torino. Fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata perduta. Delle lettere comprese sotto questi due numeri abbiamo notizia da una lettera del Cav. Ossorio al March. Del Borgo e dalla risposta del Del Borgo. Ma non mi è stato possibile poterle rintracciare. Quest'operetta edita, in un elegante Vili0, dopo due anni di soggiorno in Inghilterra, doveva nella mente dell'Autore essere composta di dodici discorsi. Fu edita invece incompleta contenendo solamente un “Preliminary discourse in wich the Author gives a particular account of his conversion” e il Discourse I, “Of the Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al primo di essi corrisponde alquanto mutato nella forma e nell'estensione il Recit, contenuto nel Recueil. Al secondo corrisponde invece esattamente il Discorso I. Cfr. Twelve Discourses riprodotto poi integralmente dal Discours, Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus Christ, dei Douze Discours, moreaux ecc.editi nel Becueil . Ritornando al Preliminary discourse abbiamo detto che questo discorso fu riprodotto nelle sue linee sostanziali dal Recit incluso nel Recueil, ma molte varianti, e alcune di valore capitale sussistono fra i due testi. Accenneremo, qui, da un punto di vista generale, le caratteristiche più salienti dei due testi, e la maggior importanza che può avere, da un punto di vista biografico, l'edizione inglese; e infatti, pur essendo quest'ultima mancante dell'introduzione che troviamo nel testo di Rotterdam. L'imprimeur au lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di Benedetto XtlI, le numerosissime note esplicative, che svelano luoghi, nomi e date, la rendono di una importanza capitale per la ricostruzione della vita del filosofo. Senza questa edizione, corredata di note e di avvertimenti, veramente preziosi, sarebbe stato impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal semplice testo le notizie importantissime documentanti la conversione del filosofo al calvinismo. L'assenza di note del Recit e l'espressione più attenuata, in taluni punti, del testo inglese costituiscono i caratteri differenziali fra le due edizioni. I titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla Christianity sono i seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the Apostles and Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the Religion of Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption of the Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the great Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the Bishop of Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse VII: That neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by the Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can make use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns and their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere dai titoli i discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli contenuti nei “Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso contenuto nella Christianity del  tutto analogo al primo di quelli contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e facilmente confrontando rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur essendo vi qualche tenue variante di espressione, sintettizzano reciprocamente un analogo contenuto. Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al filosofo, furono fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo potuto rintracciare e confrontar e con l'edizione inglese che possediamo. Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner la couronne en faveur de son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est repenti, avec les raisons et les intrigues secretes qui l'ont porte à entreprendre son rétablissement par le marquis de F*** piemontois, à present à la Gour de Pologne; en forme de lettres écrite au comte de G*** a Londres. S. 1. in Vili. Histoire de l'abdication de Victor Amédé e nel volumetto La politique des deux partis, ou Recueil de pièces traduites de l'anglois de Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione: Génève contenente una seconda lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de filosofo. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris, in 4°, erratament e attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio identificato. L'Oettinger dà una traduzione tedesca dell’Histoire edita a Francoforte. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne, et de sa detention au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit les veritables motifs qui obligerent ce prince d'abdiquer la couronne en faveur de Charles-Emmanuel, son fils, et ceux qu'il eut ensuite de s'en repentir et de vouloir la reprendre. Lettre écrite au Conte de C*** a Londres, par le marquis de Trivié, qui est à présent à la Gour du roi de Pologne, edita nel " Recueil de pièces qui regardent le gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui ont rapport aux affaires présentes de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure attribuita dall'Oettinger al Lamberti. Cfr. OETTINGER, Bibliographie biographique universale, Paris. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne etc. de sa detention au Ghateau de Rivoli et des moyens qu'il s'est servi pour remonter sur le trone, à Turiu. De l'impremerie Royal. Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II,  Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury che il Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de l'abdication de Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau de Rivole, et des moyens dont il s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle édition sur celle de Turin de 1734-, a Londres, 1782. Non abbiamo creduto necessario per quanto il testo inglese rappresenti il testo originale redatto dal P. di annotare le poche varianti che esistono più di forma che di contenuto. N. 9 di questa operetta, che ho trovato solamente al British Museum, catalogata sotto il nome di Thomas Morgan (l'indicazione della bibliografia del B. M. è: " A philosophical dissertation upon Death - Composed for the consolation of the Unhappy (By A. Badicati Count di Passerano translated or edited by John, or rather Thomas Morgan? era data notizia tanto dal Cav. Ossorio, che ne espone in brevissime righe il contenuto e ci avverte che fu causa di prigionia per l'autore e il traduttore, quanto dal Lilienthals, dal Kahl e dall'Henke (1). Completamente dimenticata dai più recenti studiosi del R. compare citata dal Natali senza indicazione nè di data nè di luogo di stampa. Secondo quanto afferma l'Ossorio, l'operetta stesa in lingua italiana dal R. sarebbe stata tradotta da " un de ses compagnons  " en bon Anglois  e sotto il nome di questo traduttore, che si seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa andò per alcun tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata smarrita. La scoperta di questa nuova edizione, ricordata in alcune opere Cfr. HENKE loco cit. LILIENTHALS loco cit. FREYTAG loco cit. VOGT loco cit. BAUER: loco cit., WAHIUS loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove però compare come semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di luogo di stampa, nè di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che i " Discours  siano stati stampati per la prima volta a Rotterdam nel " Recueil , e che quindi sino al 1736 i " Discours  medesimi siano rimasti manoscritti nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista la primissima introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere edita prima per le ragioni stesse che giustificano l'edizione) che il nostro si decise a dare alle stampe i " Discours  dopo aver visto che non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di conseguenza dallo stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più dipesa la possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo l'edizione inglese dei " Discours , la quale messa in confronto con quella di Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese la " Dedica  a Don Carlos (sedizione Rotterdam) e il " Factum  fonte di preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da pag. 1 a pag. 10). mentre che la Declaration de Vauteur  contenente i motivi che hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel suo svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che sotto riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. THE AUTHOR' S DECLARATION. Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the benevolent reader will forgive me for making a short declaration concerning the publication of this work, as follows. BAUMGARTEN: Narichten von einer Ilallischen Bibliothec, ENGEL: Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum omni scientiarum genere rarissimorum - BERNAE, TRINIUS: Freydenken Lexicon. - Leipzig, und Bemberg, Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon. MASCH I Beilriige zur Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK: Cristliche Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig  SCHLEGELS: Kirchengeschichte des 18 Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un Amateur  citato dal QUERARD. Les supercheries litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma parlando del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur grand papier, celui de la Bibliotheque du Roi, et le mien  Di questa edizione, probabilmente in foglio o in 4° grande, (" sur grand papier ) non siamo però riusciti ad averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera indirizzata dal P. a CARLO EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit. In primis et ante omnia. I do declare that this Work was written at the Command of a great PRINCE, who would be plainly inform'd of all the matters contain'd in it: and as that PRINCE was then reputed to be one of the greatest Politicians of his Age, I was oblig'd to proportionate my Labour to his profound Capacity. So that if I have reveal'd some Religious or Civil Mystery, which had generally been conceal'd, I have methink given a suffìcient Reason for it: However, I have alter'd some Passages and soften'd some Expressions, to make them more intelligible and more agreeable to the Reader. I do solemnly declare, that in all this Work I had nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a word, the Good of Mankind in general; and I flatter my self that all who shall peruse it with candour, shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I do declare, that I have kept dos e throughout this Work to the Doctrine and Morality of our Saviour, occording to the best of my knowledge; and I hope I have not advanc'd anything without good authorities. I do protest before GOD and Men, that whatever is said in this Work concerning the Church or Clergy is to be understood of the Popish Church and Clergy only (who really have long since abandon'd and despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER) and not of any other church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very humble, vastly charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and Riches; may justly be stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples, and of those primitive good Prelates instituted by the Apostles. (*) See the 54th page of this Book, and you will fìnd what their duty was, and with what Qualities they were endued. Item. I do declare, that I have not her e opposed the superstitious Tenets of the Popish Church; for this has been so often done ever since the Reformation, and by so many Learned Divines, that it would be vain to attempt it. Besides, Popish Princes little regard at this time wha t is said against Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of Saints, and such like; as  things, which ways affect their temporal Interest: so, whethe r these opinions are well or ill-grounded; whethe r they spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e they to know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to the WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon the proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin; and this is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work. I tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of some service to this Country, particularly at this time, whe n " the Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in every Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age . (*) Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18,  LASTLY, ] declare that I have made use of ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII ) the TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in Mysteries; in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and that of others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish them. But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know myself not to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent Divines of this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my Reason by Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII ) And I farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with this salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha s expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous; nay, mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to rad, calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who labour Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss of Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice, will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz. lond. pag. 1-13; Ediz. Rot. pag. 15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione olandese: uniche varianti sono le seguenti: Pag. 2 - in not a Collins è qualificato: 0  great and goodman  attribut i c h e mancan o nell'Ediz. .  - manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e si trov a a pag. 2 4 dell'Edizion e di Rotterdam. Il Discors o II (Ediz. lond. pag. 14-25; Ediz. Rot.) è pur e ess o integralment e riprodotto. Unich e varianti: pag. 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag. 3 5 ediz. di Bot.) è aggiunt o " and 1 shall not be tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „. nota, dop o le parol e " universally observed „ " généralement observées „ ediz. Rot.) ch e no n si trov a nell'edizion e del 1736: " I say universally observed: for wer e there a Society or Republic, however great it might be, that should be inclined to observe the Laws of Gbrist, it would be obliged for their own preservation, to lay aside the laws of Christ, or suffer themselves to be destroyed by following them. - In a word, a Society of true Christians, wer e they as numerous as the whole Empire of China, could no more make head against a single Infide], who had a mind to plunder them, than a hundred thousand Rabbits could make head against a hungry  Lion, that should fall in among them. But if ali Men, without exception, were good Christians, it is most sure they would be exceding happy. For, being without Ambition, Envy and Revenge, nothing would be capable of di sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult - Bayle's Pensées diverses chap. 141 - continuation des Pensées - Ghap.  „. Il Discorso III (Ediz. lond.; Ediz. Rot. pag. 38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il medesimo riportato in Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è quasi del tutto riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole " le gouvernement de leur Eepublique „,  dell'ediz. di Rot.) il testo prosegue con 2 pagine in più che qui appresso riproduciamo. But they wer e never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles, we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that Religion, and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so many words, that we ar e " not to boast of our good works, but of Faith alone in Jesus Ghrist, for that good works ncither justify, nor save; but to him, saith he, that worketh not, but believeth on him that justifieth the ungodly, his Faith is counted for Righteousness (**) and shall save him „. James, on the other hand, in a few words summing up the Essentials of Religion, and not amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that " Faith without good woorks will neither justify, nor save „; and gives us to' understand that " good works will save us independent of Faith”This Doctrine is highly just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha t avails it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he is cruel, covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5.James II, etc. (***) Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better without that Belief, but good, charitable, and humble? it is much better for a man to be a Christian in practice without speculation, than to be a Christian in speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage, who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian, who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio' he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by building Religion upon various. and different foundations bave caused an infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian Gommon-wealth, by whieh it ha s been,  and will ever be tome asunder most assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets, which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same as those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali ye that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„, and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*) Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond. pag. 73-92; Ediz. Rot.) è riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag. 80, in nota su S. Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue: " Non in Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in operibns misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda simplicium callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates - Cyprian de Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella Edizione di Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot.) è riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg. 125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag. 128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „. Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con " Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag. 165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz. Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By natural right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each individual, whereby each of them is forced or determined to act, according as he finds it necessary for the preservation of his own being. All animals are forced by nature to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they eat, drink, and sleep of natural and absolute right, when they stand in need of them. In the same manner, fish being by nature determined to swim, and the greater to devour the smaller, consequently they enjoy water by natural right, and the greater by the same right devour the smaller. Thus, birds are determined by nature to fly, and by consequence possess the air by natural right, and birds of prey by the same right feed upon the tame. For it is most certain that Nature considered in the general, has an unlimited right over every part of herself: that is, this right extends as far as her power extends, so that every thing that she can do is lawful for her to do. For the power of nature is the very same as that of God, whose right is eternal, and consequently unalterable. Now as the power of nature is the same with that of every individual who make up that Nature, without exception, it follows, that the right of no one is limited, but extends as far as the strength and industry that nature has bestowed on them; and as it is a general law for all beings, that each of them in particular shall perpetuate his kind, as far as lies in his power, without regarding anything save his own preservation. it follows, that the natural right of every indivual is, to subsist and act to that end according to the power which nature has given him. In this state man is not to be distinguished from the rest of natural beings, no more than the words, reason, or wisdom, and folly; virtue, and vice; honest, and dishonest, just and unjust are, etc. Wherefore there is no difference between the wise and the foolish, the virtuous and vicious; for every individual has a right to act according to the laws of his constitution or organization. that is, according as he is determined by nature to such and such a thing, without being able to act otherwise. So that considering man under the empire of nature, as unacquainted with what philosophers call reason, or virtue; and not having acquired a habit of either, they have, I say, as much right to life in pursuing the dictates of their appetite, as they have that live according to the laws of reason, virtue, and justice, with which they have conneted their ideas. That is, that, as he who is called wise in society has a right to do any thing that is dictaded to him by reason, and to live according to the light of it; so the ignorant and foolish man in the state of nature has a right to every thing his appetite suggests, and to live according to its dictates. For, according to the apostle’s opinion before the law, or in the natural state of man, no man could sin. Rom.  It is not then the business of that reason, or justice, to regulate the right of nature, but of the desire or strength of every individual. For, so far is nature from determining us to live according to the law and rules of this reason, that, on the contrary, notwithstanding education, and the penalties appointed in order to natural impulses. Such is the power of nature. New as we are obliged, as far as in us lies, to preserve our natural being, so we cannot do it but by acting in obedience to the laws of appetite, since nature denies us the actual use of that reason, and none of us are more obliged to live according to the rules of good sense, introduced among us by the civilised part of mankind, than an ant is to live according to the nature of an elephant. From whence it follows that, in the state of mere nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things whatever without exception, because nature has given all to every man, and may use it without a crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by entreaties, or threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or endeavours to hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural right, an animal may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his power to support his own individual, or satisfy his inclination. However we are not to imagine that so unlimited a liberty can produce any great disorder amongst animals of the same kind, as many have thought, because nature has previded them necessaries in abundance; upon which foot, they can have none, no, not thel esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves. Foxes with Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the state of nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy, and an implacable hatred reign between one species and another. And this would in reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom consisted in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the pidgeon would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a sufficient strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the same complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint would be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain limited time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that every being may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never be, if an animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must necessarily die to make room for another, it imports little whether he dies in this or that manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's prey, and the wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that have devoured them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion, languish and suffer long before they die, if they die a natural death. Besides, a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's injustice, by making him the prey of innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones, and throughout their whole bodies, which  feeding upon the best and finest substance in their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him without mercy. For, those invisible animals that kill not only a lion, but a man too, and every beast that dies of a natural death has no more thought of the mischief they do in feeding upon their blood, than a lion or a man when he kills another animals for food without mercy, they having ali a power to do so by an absolute and natural right. An animal therefore, far from complaining, tough constantly to thank Nature for her infinite justice and goodnes to him, in giving them a limited life only. For, had she created him immortal, she had shewed herself exceeding cruel; considering we are all assured there is no condition of life, however happy, but what at last grows rneasy and burthensom. As we see by those, who having passed most of their time in the polite world, are desirous of retiring, and leading a private life in the country; so he that lives in solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he that has long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and wishes for a new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may be perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his life; what would it be, were they to live for ever, without ever varying the pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal, who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man, since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man, appears such only because we know things but in part, and because we cannot have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending the immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what reason sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and laws of universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which is really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action of an animal tending to the preservation and propagation of his own individual or his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end, proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender mother of ali Animals, not satisfied with impressing on their mind those notions, has always affixed a proporlional recompense to moral good, and a like punishment to moral evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion to setlle such rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which is Man. And it was for them se appointed them, because knowing they had several cavities in their brains fdled with animai spirits, which by a high fermentalion would so heat their imagination, as to make them fall into a sort of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back from their wandring, has thought lil severely to punisti them, whenever they swerve from their duty and act agreeably to the false notions with whict that madnes inspires them, which notions tend to the destruction of their own individuai, and to make their Species unhappy. I will explain my self. It is well known, that ali Animals, except Man, act according to the notions infused into them by Nature, commonly called Instinct, for instance, knows its proper food, and the actions to be performed in order to live in health, and perpetuate its Species. Consequently to these notions it acts, by chusing at first such places as are agreable to it: some live in Marchs, some in the Fields, some in the Plains, and others on Hills; some swim, other crawl, and in short, some, called amphibious, live bo!h on Land, and in Water. Ali these Animals perceive what they are to do in order to subsist Wherefore they eat, drink, and make use of their females, when they have occasion; mor did, or do, any one of them ever force itself to eat, or drilli or enjoy its females, when it was satisfied; nor did ever any of them ever voluntarily refuse to eat, drink, or make use of their females, whenever Nature required it; thus by denying themselves nothing necessary, and by never forcing themselves to do what is beyond their strength, they lead a healthy and a happy life. But this is not the case of Mankind. For, tho' they pretend to a greater share of wisdom and reason than other Animals, their actions shew they have less than the rest of them; some thro' excessive folly eating and drinking when they are neither hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon  and kill Ihemselves; and forcing themselves upon venereal pleasure when they are exhausted, is so much as to destroy themselves: Others from a contrary madness, denying themselves meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and dragging a miserable life, consume and pine away. Thus by not allowing Nature what she absolutely requires, or forcing her beyond her strength, they are guilty of real moral evil, from whence the Physical takes its rise, which cruelly torments them their whole life time. Anolher madness, to which Mankind are subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches, without making any use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only makes himself miserable, but greatly contributes to the misery of others. There is stili another kind of madness, called ambition, that lords it over Man, which puts most Men upon depriving themselves of what is really necessary to life, for Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili effects of this last folly have not stopped there, but produced the greatest disorders amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For, it has happened, that some of them thinlcing themselves better than others, have endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to the rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from their errore; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a whole Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his naturai right, promised obedience to them, upon condition that they on their side should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and formation of Aristocratical Government.  (Ecliz.) il test o corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo le lievi differenz a qui sott o notate.  - i puntin i di quest a edizione son o son o sostituiti nell'edizione olandes e " le coeur de Nobles en àrbitraire ou absolu „. Pag. 22 3: mancano le ultime due righe del testo di pag. 20 6 ediz. Rol. 11 Discorso (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) Titolo: "Wherein it is proveci that religion was introduced into Society by legislatore, in order to give a sanction to their laivs; and that consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to the Prince „.  Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto dell'edizione olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima parte del titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve riassunto di queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente. Il R. così comincia: My design then in this Discourse is to make Princes sensible that Religion was institued by legislators, in order to give strength and credit to their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration of civil Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1 propose tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil authority in one, and the second, to the People, by rescuing the from the Tiranny of Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us concerning the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi, l'intera pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz. Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag. 524, ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav. Joseph, contra Appion.,  - Edit. 1634, in fol., e " a very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2 eh. 5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il Gharron: " Ile was Canon and Master of the School of the Church of Bordeaux - He lived in Montagne's time, and ivas his intimate freind - See Bayle's Did. Artide, Charron „. E con tutte queste citazioni la dimostrazione è raggiunta: " Wherefore 1 may be allowed to say without any impietg, that lleligion might be subject to the Prince, to Religion „. Dopo di che da pag. 236 a 248 continua con la seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz. Rot. Unica differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter, late Czar of Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant authority io his own power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di Rotterdam. " Enfin chacun fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso  Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è riprodotto integralmente, ed unica differenza è data dalla mancanza a pag. 259 della esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12: Abbiamo già parlato a proposito del N. 11 degli scritti " a-b-c „ contenuti nel " Recueil „ ed a proposito del N. 7 dello scritto " f „ ed abbiamo notato come la loro prima comparsa, eccettuato per il " b „, sia avvenuta in lingua inglese, e quali cambiamenti abbiano subito nella loro ultima redazione francese.  Notiamo invece per le operette " d „, " e „ che il testo dato dal " Recueil „ deve presumibilmente essere l'unico lasciato dal P.; nè infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi, anteriori o posteriori al 1736, nè elementi o prove che suffraghino questa possibilità; potrebbe essere presumibile che queste operette scritte dal R. ancora in Inghilterra e forse già pronte per essere tradotte, siano rimaste a noi nel loro testo originale per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle in Olanda, non avendo più possibilità di trovare un traduttore, le abbia conservate e poi edite nella loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la traduzione dell'operetta analoga dello Svvift: " A modest proposai for preventnig the children of poor people in Ireland from beìng a burden to their parents or country, and for making them beneficiai io the publick „ (1). Non esiste tra le due edizioni alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del testo originale le due uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione del " Recueil „ della parole: " Gastigat ridendo mores „ immediatamente dopo il titolo, e omesso dall'originale; e la sostitutuzione della parola " Spain „ del testo inglese, con la parola " Rome „ della versione del R. Fu fatta nel 1749 a Londra una ristampa di tutto il N. 12 (" Recueil de pieces curieuses sur le matieres les plus interessantes par A. R. comte d. P. a Londre) ma dall'esame di questa nuova ediz. posseduta dalla Bib. Querini-Stampalia di Venezia, è risultata l'identità, persino negli errori di stampa coll'ediz. di Rotterdam. N. 13-14 formano nell'Ediz. originale un volume solo, senza titolo generale, con pagine numerate progressivamente (da 1 a 47 il testo n. 13, da 49 a 104 il testo n. 14). L'attribuzione di paternità al R. del primo di questi opuscoli, e convalidata non solo da quanto afferma il " Dictionary of National Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il Barbier, ma dalla rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei " Twelve discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché originai „ manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del testo ingl.; pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. in: The Works of Swift, London. (2) Cfr. Dictionary of national biography, edited by LESLIE STEPHEN, sotto 'Elicali.’ Cfr. QUERAR D Col. 1231, T III. Cfr. BARBIER: Dictionaire des onorages anonymes et pseudonymes, Paris.  commento e la cit. del testo ingl.; pag. 8, nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere celeste „ manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del testo ingl.; pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del testo ingl.; pag. 17 " ces Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e nota 2: manca la cit. e il comrn. del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je mes Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2: manca la spiegaz. esistente nel testo ingl.; pag. 22: "et comment auroit-il mieux „ manca la nota del testo ingl.;: " Amerique „ manca la nota del testo ingl.; pag. 27 e 28 sino ad: " Enfiti temoin... „ mancano nel testo ingl.; pag. 32, nota 2: manca il lungo coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2; manca la citaz. del testo ingl.; pag. 35: " les hommes hereux „ manca nel testo ingl. la nota corrispondente; pag. 38 dopo le parole "... leur dependence „ manca quasi l'intera pagina 47 del testo ingl.; pag. 40: " mes cheres Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 4 nota 2: differisce dalla rispondente nel testo ingl.;: l'ultimo periodo (“l'esprit... vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In merito al N. 14 l'attribuzione di esso al R., è affermata dal Querard (1) e dal Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo Ali-EbnOmar con il nome del R., è confermata dal fatto che a pag. 100 dell'operetta in una nota l'autore citando se stesso rinvia al " Discorso Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14, sostengono pure lo Henke, il Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di quest'ultimo che viene ad affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene seguita dalla n. 14 con un seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è l'ediz. da noi esaminata), come facenti parli del " Recueil „ edito a Londra e Rotterdam nel 1736, facciamo rilevare come ciò non risponda a verità. A parte la confusione dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese, tanto nell'una che nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si tratta, nè infatti potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute alla luce la prima volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la precedente, nè possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo esaminata, come stralciata dal volume del 0  Recueil „ stante la appariscente diversità dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state edite a Londra, mentre già da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non siamo in grado di dire: forse trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte stampare da qualche suo amico nella capitale inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove era già uscito per i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato? Sono questi tutti interrogativi che ci poniamo senza avere la possibilità di potere rispondere, per mancanza di documenti che giustifichino una ragione piuttosto che un'altra; e questa è un'altra lacuna nella perfetta conoscenza della vita del R. Cocconato.  [H] Desideri:  fenomenologia degenerativa e strategie di controllo 1. I/epithymia nella fenomenologia degenerativa   Il processo degenerativo che dal nobile desiderio per il sapere del filosofo giunge infine alla liberazione e soddisfazione  dei più feroci desideri attuata dal tiranno è innescato, da una  prospettiva psicodinamica, dall'adozione di particolari modalità repressive. Queste, e più in generale le strategie paradigmatiche di controllo del desiderio, sono il nostro oggetto d'indagine privilegiato. La loro analisi ci condurrà direttamente alla disamina delle molteplici specie di desideri, alla caratterologia e alle derive psicopatologiche tracciate da Platone nel libro  Vili, nonché alla dinamica dei processi onirici e alla mania disegnate nel IX. Da ultimo ci soffermeremo sulla contrapposizione strutturale tra repressione e canalizzazione, parimenti  inerente a epithymiai ed eros, che attraversa il grande dialogo.   A monte, Yepithymia platonica è un moto psichico volto a  riempire, soddisfare, generando piacere, una mancanza di origine somatica come di matrice intellettuale; 1 essa viene così a  convergere con l'ampio spettro semantico dischiuso dal termi 1 sull'intera questione cfr. qui voi.  Ili, [H], pp. 251 sgg.; sulla "interiorizzazione" della sfera del desiderio cfr. M.  VEGETTI, L'io, l'anima, il soggetto, in S. SETTIS (a cura di), I Greci, voi. I, Noi e  i Greci, Torino; sul rapporto complessivo psyche-soma, cfr. ROBINSON, Plato 's Psychology, Toronto LA REPUBBLICA   ne "desiderio". 2 Tale estensione, uno dei cardini metapsicologici della fenomenologia degenerativa del libro Vili, fa tutt'uno con la diretta attribuzione ad ogni istanza di una sfera "propria" di desideri esplicitata nel libro IX: siccome tre sono le  parti della psyche, triplici mi sembrano anche i piaceri, ognuno  proprio di ciascuna parte; e similmente i desideri e il loro ruolo  di comando. Con ciò la statica tripartizione delineata nel libro viene calata, retroattivamente,  all'interno della dinamica psico-politica e quindi delle forme  caratteriali disegnata nell'VIII.   Più da vicino, l'attribuzione rende conto del legame tra il  governo del logistikon e il desiderio di sapere del filosofo, il governo dello thymoeide s e il desiderio di onori e gloria del carattere timocratico, e le tre forme caratteriali dischiuse dal governo del polimorfo epithymetikon, contenente tre specie di desideri e piaceri: 1) i necessari», dei quali non ci si può liberare», quali fame, sete ed eros riproduttivo, il cui appagamento è  utile e salutare; 2) i non necessari», che possono essere allontanati», la cui soddisfazione non frutta alcun bene, talvolta  anzi un male;  i paranomoi, fuorilegge, perversi e malvagi, sottospecie dei non necessari, anch'essi allontanabili. Partizione metapsicologica sulla quale poggia la fenomenologia caratteriale: l'avaro uomo oligarchico, dominato dai desideri necessari, nel quale il legittimo desiderio  per il denaro degenera in ossessione; il disinvolto carattere democratico, assediato dalla cangiante moltitudine dei desideri  non necessari; le inquietanti e parzialmente convergenti figure   2 La convergenza con il nostro "desiderio" è già attestata in Marsilio Ficino, Sopra il Convito di Platone, ove Amore è sempre "desiderio di bellezza";  soluzione che venne a sciogliere, indirettamente, le tensioni tra concupiscentia,  appetitus e desiderium derivate dalle letture scolastiche della metapsicologia  aristotelica: cfr., per es., TOMMASO d'Aquino, Summa theologiae; sulla revisione dell'impianto platonico dell'ultimo Aristotele cfr. per es. A.  GRAESER, Probleme der platonischen Seelenteilungslehre, Mùnchen 1969, pp.  22-24.  Vm E IX, [H]   deYL'erottkos e del tirannico, invasi e pervasi dai desideri paranomoi?   Questa diairesi delle specie del desiderio, tassonomicamente inerente d& epithymetikon, eccede euristicamente la catalogazione tipologica su due fronti. Su un versante viene con 3 Sulla convergenza tra la tripartizione delle specie dei desideri e il polimorfo epithymetikon, cfr., per es., HELLWIG, Adikia in Platons 'Politela'.  Interpretationen zu den Bùchern Vili undlX, Amsterdam 1980, pp. 47-50. Ha  sostenuto la forte discrepanza» e aperta contraddizione» tra la tripartizione  psichica e rimprowisata» diairesi dell' 'epithymetikon, N. BlÓéNER, Dialogform und Argument. Studien zu Platons 'Politeia', Stuttgart 1997, soprattutto pp. 61-62, 237-40, -appellandosi alla possibilità che le forme costituzionali e caratteriali potrebbero essere più numerose, e che la partizione psichica  sia forzatamente modellata su quella politica. Sebbene sia vero che rimangano  delle tensioni nel testo - soprattutto rispetto al desiderio necessario del carattere oligarchico: l'ossessione per il denaro potrebbe a rigore esser interpretata  quale elemento appartenente al regno del non necessario - tuttavia Y epithymetikon stesso, in ragione della sua natura polimorfa, supporta perfettamente  i tre tipi caratteriali degenerati, come anche eventuali altre forme "intermedie". Sul rapporto complessivo tra la tripartizione psichica e le cinque forme  politiche cfr. TJ. Andersson, Polis and Psyche. A motifin Plato's 'Republic',  Goteborg. Ferrari, City and Soulin Plato's 'Republic', Sankt Augustin, ha ultimamente sostenuto, di contro a Andersson,  il carattere meramente analogico», non causale» dell'isomorfismo, cfr. soprattutto pp. 50-53, 60, 65-66. Tale tesi implica però l'esclusione della kallipolis e della tirannia (p: 53 e pp. 85 sgg.) nonché, di fatto, della timocrazia; vi è poi una tendenza a caricare eccessivamente alcune tensioni del testo  (cfr. per es. p. 71) e a trascurare la dimensione dialettica e temporale della dinamica degenerativa. Inoltre, Ferrari è costretto a eludere interi brani, come  544d, e nello specifico la dimensione sociale nella quale è calata la degenerazione caratteriale come ove non considera che il giovane timocratico  esce di casa» etc., e che la figura paterna risulta infine sconfitta» perché è collocata in un contesto etico-politico che osteggia il suo modello psicocaratteriale (549c, 550b); analoga la questione rispetto al carattere oligarchico  (pp. 71-71) ove Ferrari elude 553a-d, e rispetto al carattere democratico ove tace. In breve ritengo, di contro a Ferrari, che i due piani, psicologico e politico, siano in una relazione di  corrispondenza biunivoca circolare che garantisce ad ognuno un'autonomia  semi-ontologica dal punto di vista descrittivo, statico, ma che preserva nel     templata la possibilità che i desideri possano essere allontanati  o meno, approccio che mostra come la materia epithymetica  sia analizzata ad iniziare dalle strategie di controllo adottabili  nei suoi confronti. E questa la prospettiva all'interno della quale si articola la catalogazione, non viceversa. Sull'altro fronte,  anche qui sorvolando al di sopra dei contenuti specifici veicolati dalle singole epithymiai, viene rimarcato il peso che la loro  soddisfazione gioca rispetto al benessere o al malessere psicofisico complessivo del soggetto. Questi due fattori, modalità di  gestione tese al contenimento e allontanamento del materiale  epithymetico più pericoloso, insidie e derive psicopatologiche  ad esse correlate, sono i primi due assi sui quali corre la degenerazione che conduce infine alla mania. Essi trovano la loro  unità nel concetto di repressione, dal quale cominceremo, ripercorrendola a ritroso, la nostra ricostruzione della degenerazione.   2. Repressione ed esilio   Kolazomenai: i desideri possono essere e talvolta vengono  repressi:   Fra i piaceri e i desideri non necessari, alcuni mi sembrano essere  contrari alle leggi. Essi probabilmente nascono in ognuno, ma se vengono repressi (kolazomenai) dalle leggi e dai desideri migliori con  l'aiuto della ragione, nel caso di alcuni uomini si allontanano del tutto  oppure restano pochi e deboli, in altri (restano) più forti e numerosi.   La repressione dei desideri non necessari, ed in particolare  di quelli paranomoi, genera una dislocazione topica, bipartita  rispetto alla modalità funzionale, tripartita quanto alle categorie caratterologiche.     contempo la relazione causale circolare dal punto di vista dinamico-temporale, dialettico.   E IX, [H] 475   L'allontanamento: 1) nel primo caso i desideri repressi si allontanano del tutto» (pantapasin apallattesthai). Stesso esito  viene ascritto, più in generale, alla repressione giovanile dei desideri genericamente non necessari: si potrebbero allontanare  (apallaxeien), se ci si prendesse cura di farlo fin da giovani. Ancora: se il desiderio non necessario è represso ed  educato {kolazomene kai paideuomené) fin da giovani, può essere tenuto lontano {apallattesthai) dalla maggior parte degli  uomini» (559b9-10).   b) La permanenza: i desideri repressi permangono esplicitamente (leipesthai) . Esito a sua volta ramificato: 2) in un caso  permangono pochi e deboli» desideri; condizione che non  viene però contrapposta al loro intero allontanamento: le due  forme riguardano la stessa categoria di persone. Nel terzo  caso permangono desideri più forti e numerosi sì che viene  delineata una seconda categoria di persone. Per comprendere la dinamica, la forma, la topica e le conseguenze che comporta l'adozione delle suddette strategie repressive fornisce un contributo essenziale il brano sulla transizione dal carattere oligarchico a quello democratico. Analizzando l'aspro conflitto intrapsichico che lacera il  giovane democratico, 5 Platone traccia anzitutto una esplicita  distinzione inerente alle strategie di repressione e contenimento del desiderio: alcuni desideri (non necessari) vengono distrutti {diephtharesan), altri banditi {exepeson). Abbandonati i desideri banditi al proprio destino, Platone si con- Analoga la ricostruzione, che coniuga le modalità che permettono di  abwenden» i desideri non necessari e il fortdauern» dei paranomoi attestata  dall'analisi dei processi onirici, di VoiGTLÀNDER, Die Lust und das Gute  bei Platon, Wurzburg. Cfr. 559e4-560a2: il conflitto vede ivi schierati su un fronte la specie dei  desideri necessari, "alleati" alla figura paterna, rappresentanti della parte oligarchica, e la specie dei desideri non necessari, fomentati dalle cattive compagnie, rappresentanti della parte democratica. LA REPUBBLICA   centra quindi sull'analisi di altri desideri affini a quelli che sono stati messi al bando», dei quali scrive, in un passaggio nevralgico, che, in talune occasioni, cresciuti di nascosto» (hypotrephomenai), diventano infine molti e vigorosi.   Hypotrephomenai: le epithymiai crescono di nascosto, insensibilmente; carattere subito rimarcato da Platone: esse  unendosi di nascosto [tra loro] ne partoriscono una folla. Essendo tale proliferazione nascosta», segreta»,  furtiva» {lathra), 6 siamo di fronte ad una crescita effettivamente inconsapevole»: ciò alle spalle di cui crescono, ciò da  cui si nascondono non può essere se non ciò che noi usualmente indichiamo con l'espressione coscienza». In breve, sfuggono alla presa di coscienza. La proliferazione dei desideri non  necessari è dunque in questo caso collocata in un luogo intrapsichico oscuro, nascosto, tenebroso, al di fuori della sfera cosciente. Tale sito è quasi certamente lo stesso dei desideri paranomoi repressi nel caso in cui restano forti e numerosi». L'individuazione e concettualizzazione di processi psichici  pacificamente definibili come inconsapevoli» è del resto attestata in diversi altri brani della Repubblica. Ad esempio ove  leggiamo che si deve evitare che i giovani, frequentando persone viziose, ammassino senza accorgersene {lanthanosin) un'unica grande mole di vizio nelle loro psychai» e che, al contrario,  devono crescere tra opere belle» così che la loro aura», fin  da bambini, inconsapevolmente {lanthane)», li conduca all'armonico accordo con la bella ragione. 7 Ed an- Anche HELLWIG sottolinea come le  Begierden gewaltsam unterdriicken» rompano la Harmonie psichica e possano poi rafforzarsi in heimlichem».   7 Jaeger, Paideia, Firenze, parla a questo proposito di inconscio», così come Lear, La psicoanalisi e i  suoi nemici, Milano, XVIII; il termine inconscio» però, in questo caso specifico, non può essere inteso nel senso classico e  ristretto (dinamico) di Freud, poiché slegato da processi riconducibili alla rimozione.   cora ove leggiamo che in certi casi un'opinione esce dalla  mente» in modo involontario, come accade  in coloro che vengono indotti a mutare le loro convinzioni e  che se le dimenticano, perché agli uni il tempo, agli altri il ragionamento, le portano via di nascosto {exairoumenos lanthanei)». Ora, i suddetti processi repressivi sono collocati da Platone all'interno di una ben precisa topica metapsicologica: i desideri repressi, una volta rinvigoritisi e cresciuti di nascosto,  hanno infine conquistato l'acropoli della psyche.  L'acropoli raffigura il centro direttivo della psyche-polis, il luogo nel quale si controlla l'azione, dal quale ognuna delle tre  istanze e le particolari sfere di desideri ad esse pertinenti possono governare l'individuo. I conflitti, lo scontro tra sfere di  desideri alternativi che segnano intimamente la psyche hanno  quindi un obbiettivo ultimo: conquistare la regale fortezza»,  penetrare attraverso i portali» che conducono al cuore del  soggetto, al sé.   La repressione che si limita ad allontanare, ma forse anche  a bandire, e comunque esclusivamente a dislocare topicamente  il desiderio senza distruggerlo, si lascia allora intendere quale  espulsione dall'acropoli e attività di continua difesa, resistenza  e opposizione al loro rientro in essa. Dinamica raffigurata nel  mettere guardie e sentinelle» ai suoi portali, che altro non sono che discorsi, opinioni, convinzioni che sbarrano l'accesso  alla pressione del materiale pulsionale. Anche qui la  politicizzazione platonica della psyche mostra di non esser solo  metafora, ma descrizione, non anatomica o fisiologica, dei processi psicologici di per se stessi, che divengono intelligibili, direttamente, in questa dimensione concettuale.   Un ultimo elemento chiave inerente alle strategie repressive, sempre di matrice psico-politica, è la schiavitù cui sono  soggetti i desideri repressi. Una prima chiara indicazione in tal  senso ci è data nella discussione del carattere oligarchico che  letteralmente rende schiavi», mette in schiavitù» i desideri non necessari (554a7: doulomenos). Modalità che riemerge, in  generale, anche ove leggiamo che bisogna reprimere e mettere in schiavitù» i desideri malvagi» (kolazein te kai  doulousthai). Vedremo meglio come anche nell'analisi dei processi onirici la schiavitù» (douleia), cui sono soggette  le opinioni che sorreggono i desideri paranomoi, svolga un ruolo cruciale. Il punto che ora ci preme sottolineare è che la repressione in taluni casi si configura come un processo seguito  da una forma di controllo radicale, di incatenamento.   In conclusione, la repressione dei desideri, paranomoi ma  più in generale non necessari, è un processo tale per cui essi  vengono allontanati, non distrutti; in alcuni casi essa comporta  la loro esplicita permanenza, in catene, al di fuori della coscienza, dell'acropoli; dimensione dalla quale, rinvigorendosi  di nascosto, inconsapevolmente, possono, in un secondo momento, tentare un attacco alle sue porte.   3. Il ritomo onirico del represso   I desideri paranomoi repressi, scrive Platone all'inizio del  libro IX, sono quelli che si risvegliano nel sonno,  inaugurando così l'analisi dei processi onirici. Disamina che ci  offre un contributo tanto stringato quanto sorprendente per la  sua modernità, essenziale nell'architettura metapsicologica  complessiva delle strategie di controllo deH'epithymia nonché  ai fini della definizione della specie dei desideri paranomoi e  della deriva psicopatologica complessiva della fenomenologia  degenerativa.   II risveglio» avviene quando il resto della psyche - il logistikon e ciò che è socievole e adatto al comando - riposa, mentre la parte ferina e selvaggia, piena di cibo o di vino, si sfrena nella sua danza e, scacciando il sonno, cerca di  aprirsi la via per dare sfogo ai suoi abituali costumi.   Vi è, dunque, una condizione positiva: Yepithymetikon, stimolato fisiologicamente (cibo e vino), si sfrena e respinge via il sonno; ciò comporta il sincronico risveglio» dei suoi desideri;  ed una condizione negativa: il logistikon dorme, perciò non  può dominare la parte desiderante. E associato ad esso anche  ciò che è socievole», 8 probabilmente lo thymoeides.   Il proseguo del brano fa luce su tale stato psicologico: Sai  bene che in un simile stato essa osa fare di tutto, come sciolta e  liberata da ogni freno di vergogna e di ragionevolezza» (571c79). H sonno del logistikon, l'istanza cui va ascritta la phronesis,  e verosimilmente dello thymoeides, al quale possiamo attribuire, quando è sotto l'egida della ragione, Yaischyne, viene quindi  a rappresentare la mancanza di quell'attività di resistenza che  impedisce la manifestazione dei desideri repressi. Il fattore  quantitativo e la struttura dinamica delle due precondizioni sono perfettamente convergenti: al risveglio» indotto dall'eccitazione della parte desiderante, quindi ad una rinnovata pressione dei desideri, segue la loro emersione e soddisfazione permessa dall'inattività delle forze razionali, morali.   Date tali condizioni,   tentare di accoppiarsi con la madre (così s'immagina) non la imbarazza affatto, o con chiunque altro fra uomini, dèi, animali, e commettere qualsiasi assassinio, e non astenersi da alcun cibo.   Quadro edipico», 9 perversione, aggressività omicida.  Questo l'inquietante scenario che si apre dinanzi agli occhi  dell'impotente sognatore.   Posto che l'attività onirica rappresenta la soddisfazione»  immaginaria» o visionaria» di desideri repressi, riprendendo la topica dell'acropoli la loro appari 8 Su hemeron e thymoeides cfr. JAEGER, A New Greek Word in Plato's  'Republic', in Scripta Minora, Roma.   ' Hanno richiamato al riguardo l'edipo freudiano, tra gli altri, POPPER, La società aperta e i suoi nemici, Milano; Kahn, Plato's Theory of Desire, Review of Metaphysics; GlGON, Erlàuterungen, in Plato. Der  Staat, Munchen.   zione e sincronico appagamento potrebbero essere interpretati  come se essi vi penetrassero nottetempo, superando la vigilanza di sentinelle assopite. 10 Trattandosi di una soddisfazione, anche se solo immaginaria, è difatti lecito raffigurarsela nell'unico sito nel quale essa sembra poter realizzarsi. Nel sonno l'acropoli si verrebbe così a configurare come sfera della coscienza, come teatro dell'immaginazione nel quale i desideri impongono la visione della loro drammatica rappresentazione, diventando coscienti e trovando soddisfazione senza però attivare le  funzioni psico-motorie. La ricostruzione di quest'immagine,  priva di riferimenti diretti, mira soltanto a rendere in termini  spaziali il fatto che, come emerge senza incertezze dal testo, il  sogno rappresenta il momento privilegiato grazie al quale è  possibile prendere coscienza di quei desideri repressi e tenuti  in schiavitù che nella veglia sfuggono al suo sguardo. 11   Platone ha così dischiuso e percorso la via regia per l'inconscio» tracciata nel Novecento da Sigmund Freud. A monte,  la repressione platonica si lascia intendere alla luce della rimozione {Verdràngung), o viceversa, anzitutto perché quest'ultima,  che è una forma particolare di repressione {Unterdrùcken), 12 Cfr. anche VEGLEEIS, Platone e il sogno della notte, GuiDOKIZZI (a cura di), Il sogno in Grecia E IL SOGNO D’ENEA, Bari. La più articolata trattazione platonica di ciò che noi indichiamo con le  espressioni coscienza» e autocoscienza» è probabilmente quella di Filebo  33b-42c. Ivi, utilizzando la metafora del pittore, Platone scrive che un individuo vede in qualche modo in se stesso le immagini delle cose dette o opinate, poi che egli scorge in sé anche se stesso» (40a). Il passo della Repubblica, limitato alla percezione di immagini prodotte psichicamente, pare  presupporre una concezione della coscienza» simile.   u Parlano di desideri allo stato di latenza» Kahn, e LEAR (n. 7), p. 142.   12 Ci sono nella vita psichica desideri rimossi. Ci sono non è inteso  storicamente, nel senso che simili desideri sono esistiti e poi sono stati distrutti; per la teoria della rimozione simili desideri rimossi esistono ancora,  ma contemporaneamente esiste un'inibizione che pesa su di essi. Il linguaggio  COMMENTO Al LIBRI Vm E LX, dal carattere morale», 13 tesa a contrastare una sfera di desideri immorali, incestuosi e perversi, o di voglie omicide, sadiche», 14 anziché condurre ad una completa distruzione» 15 dei  desideri, si limita al loro allontanamento» (Entfernung) dalla  coscienza. Questi perciò permangono» (Fortbesteben) al  di là dei confini della sfera cosciente. 17 In una sola parola, il  rimosso è vogelfrei, 18 ovvero "bandito", "proscritto", "fuorilegge".   La rimozione rappresenta, dunque, un'arma a doppio taglio. Su un fronte, al rimosso viene normalmente impedito di  scaricarsi nell'azione reale», gli viene metaforicamente negato l'accesso alla Festung freudiana, la fortezza» dalla quale si     colpisce nel giusto quando parla della "repressione" (Unterdrucken) di tali  impulsi. L'organizzazione psichica, che permette a codesti desideri repressi di  realizzarsi, rimane intatta e utilizzabile» (S. Freud, L 'interpretazione dei sogni,  in Opere complete, 12 voli., trad. it. Torino; DIE TRAUMDEUTUNG, in Gesammelte Werke, 18 voli., rist. Frankfurt a. M. 1999,  voi. Il/in, p. 241; d'ora in poi, tutti i richiami a Freud si riferiscono a queste  edizioni). Freud, L'Io e l'Es; cfr. anche Lo., Breve compendio di  psicoanalisi, FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni'. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI,  p. 201 [FREUD, Neue Volge der Vorlesungen zur Einfiihrung in die Psychoanalyse, voi. XV, p. 98: eine vollstandige Zerstòrung»]; il richiamo successivo  è certamente a Id., Il tramonto del complesso edipico; cfr. anche  S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 290.   16 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 40, e ivi p. 37: la sua essenza  consiste semplicemente nelPespellere e nel tener lontano qualcosa dalla coscienza» [Die Verdràngung]; cfr. anche Lo., L'Io e l'Es, FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 39 [Die Verdràngung, FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 300 [Hemmung,  Symptom undAngst, voi. XIV, p. 185]. FREUD, Al di là del principio di piacere. LA REPUBBLICA   domina la motilità». 20 Sull'altro però esso sopravvive al di  fuori» della coscienza godendo del privilegio della Exterritorialùàt»: 21 una volta estromesso dal dominio cosciente può  sviluppare derivati e annodare connessioni», prolifera per  così dire nell'oscurità», im Dunkeln. 22 Proliferazione che rappresenta la possibilità del suo sempre possibile ritorno». 23 Da  qui la necessità di una costante attività di resistenza» alle soglie della coscienza. In termini spaziali: espulso un ospite indesiderato si deve poi far sorvegliare perennemente la porta  da un guardiano giacché altrimenti l'individuo respinto la forzerebbe». 25   Poste queste premesse, Freud, ricalcando ancora le orme  platoniche, 26 individua nel sogno la via regia per l'inconscio  perché in esso i desideri repressi, approfittando del cedimento  della sorveglianza deU'Io dormiente», 27 e godendo del casuale     20 S. Freud, L 'interpretazione dei sogni  [Die Traumdeutung, voi. II/III, p. 573]. Riprende questa stessa immagine, accostandola ai  conflitti della psyche platonica, M. Stella. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, pp. 247-48 [Hemmung, Symptom und Angst,; cfr. anche Id., Il problema dell'analisi condotta da non medici, Freud, Metapsicologia,  [Die Verdrdngung].  Sui meccanismi di difesa cfr., per es., S. Freud, Metapsicologia, voi.  VILT Sul dispendio psichico della resistenza cfr. per es. S. Freud, Metapsicologia, voi. Vili, p. 41; Id., Inibizione, SINTOMO (GRICE) e angoscia. Sulla  distinzione tra derivati e rimosso originario, e tra rimozione originaria e postrimozione, cfr. Id., Metapsicologia, Freud, Metapsicologia, voi. Vili, p. 43 e nota; cfr. anche Id., Cinque  conferenze sulla psicoanalisi; Id., Introduzione alla psicoanalisi, Cfr. in questo senso anche KENNY [citato da Grice, VOLITING – INTENTION AND UNCERTAINTY, The Anatomy of the Soul – cf. Grice, THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL,  Oxford; FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), Vili E IX, [H] 483   rinvestimento energetico pre-notturno, 28 riescono talvolta a  farsi breccia nelle porte custodite da resistenze» della coscienza. 29 Non dunque nella Festung, la cui porta che conduce alla motilità» durante il sonno viene chiusa» dal guardiano», 30 il sogno rappresenta infatti la soddisfazione allucinatoria», non certo reale, del desiderio. 31 Al di là dei meccanismi  peculiari del sogno 32 e delle possibilità con le quali la censura  inconscia può deformare i pensieri onirici latenti, anche per  Freud accade talvolta, sebbene «raramente», che si formino  sogni che «significano proprio quello che dicono, e non hanno  subito alcuna deformazione dalla censura», 33 «come quello cui  allude Giocasta nell'Edipo re». 34   Infine, considerato che il concetto di inconscio in senso  stretto (dinamico e non descrittivobè direttamente «ricavato»  dalla dottrina della rimozione, nel senso che il rimosso «è per  FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 304; Id., Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), vMetapsicologia; in Id., Analisi terminabile e interminabile, voi. XI,  p. 509, viene ribadito «l'irresistibile potere del fattore quantitativo» nei processi di rimozione; sulla diversità dei vari stimoli cfr. per es. Id., L 'interpretazione dei sogni, Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io;  cfr. anche Id., Autobiografia, Freud, Il interpretazione dei sogni; al limite ci si  può rifare all'immagine delle «guardie alle porte dell'intelletto. Cfr. anche S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi; Id., Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) Cfr., per es., FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni',  voi. X, p. 158.   34 Ibidem. Freud allude qui al passo dell'Expo re in cui Giocasta dice:  «Tu non temere le nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in sogno con la propria madre» (980-82; trad. it. di R. Cantarella). noi il modello dell'inconscio», ove l'elemento essenziale è dato  dal fatto che i desideri confinati «non possono divenire coscienti perché una certa forza vi si oppone», 35 esattamente come accade per i desideri repressi platonici tenuti in schiavitù,  possiamo concludere affermando che, di fronte alle analogie  tra le due concezioni complessive, questi ultimi possono essere  considerati alla stregua di desideri rimossi, dunque inconsci in  senso stretto (dinamico). Difese pre-oniriche La difesa approntata dall’ACCADEMIA per prevenire l'emersione  onirica dei desideri repressi o se si vuole «rimossi» è così delineata: ci si deve «accostare al sonno dopo aver tenuto ben desto il logistikon», facendo nel contempo «rimanere assopito Yepithymetikon» - conducendolo cioè in una condizione tale per  cui non resti né «affamato» né sia «troppo riempito» - ed infiFreud, L'Io e l'Es, voi. Cfr. nello stesso senso JAEGER; GOULD, Platonic Love, London; Lear; HOBBS, Platon and the Hero. Courage, Manliness and the  Impersonai Good, Cambridge; GlGON; MONTONERI, Platone: l'eros, il piacere, la bellezza, in I filosofi  greci e il piacere,Bari; REALE (si veda), Corpo, anima e salute,  Milano. Nello stesso senso, ma un po' più cauti, cfr.  DODDS, Plato and the Irrational SOUL – cf. Grice --, Journal of Hellenic Studies; KENNY [citato da Grice, VOLITING – INTENTION AND UNCERTAINTY. Di diversa opinione FERRARI, 'AKRASIA' – cf. H. P. Grice ‘akrasia, incontentia, weakness of the will -- as Neurosis in Plato's 'Protagoras', Boston Colloquium in Ancient Philosophy, rispetto a Repubblica; egli rimanda  però alla messa in schiavitù del logistikon da parte déH'epithymetikon, che abbiamo visto essere di natura diversa, in quanto tesa allo "sfruttamento" e non all'allontanamento, dalla messa in schiavitù dei desideri paranomoi etc. Ho cercato di affrontare l'intera questione in SOLINAS, Unterdrùckung, Traum und Unbewusstes in Platons 'Politeia' und bei  Freud, Philosophisches Jahrbuch.   ne «ammansendo lo thymoeides»; in questo caso «le visioni  fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle leggi. Rispetto all'emersione" onirica lo thymoeides presenta un  carattere asimmetrico: la sua inattività sembra agevolare l'emersione del materiale represso, il suo risveglio rappresenta  però un pericolo. Ciò è verosimilmente dovuto alla sua costitutiva ambivalenza: privo della guida del logistikon mostra la sua  natura bestiale, aggressiva (cfr. 441a sgg., 590b); caratteristica  che potrebbe suggerire che esso possa contribuire alla manifestazione stessa dei desideri paranomoi nel loro carattere marcatamente omicida, e che renderebbe conto del legame tra il logistikon ed un vago «ciò che è socievole».   Quanto all' epithymetikon, il rimarcare la pericolosità del  lasciarlo «affamato» può esser inteso sia come un richiamo alla  concezione del desiderio quale soddisfazione di una mancanza, sia alla formazione di sogni non appaganti, avvalorata dal fatto che l'attività onirica dell' 'epithymetikon è detta  comprendere oltre alle sue «gioie» anche i suoi «dolori»  (%aipov r\ À.imo'unevov). Richiamo all'incubo che trova  un puntello già nel libro I: l'uomo ingiusto «spesso si risveglia  dal sonno, come i bambini, in preda al terrore» (330e6-7).   Anche rispetto al logistikon, ora nutrito da «buoni discorsi  e ricerche, emerge un'asimmetria funzionale: il sonno  rappresenta l'inattività delle sue funzioni di controllo e resistenza, il suo risveglio non comporta però la capacità di svolgere alcuna attività inibente, è limitata allo svolgimento di funzioni intellettuali interne: «solo in se stesso nella sua purezza» potrà «venire in contatto con la verità. 38 Attività che   37 Anche in Timeo 45e-46a emerge uno stretto legame tra tranquillità e  qualità dei sogni, e in 71c-d tra condizioni pre-notturna e sogno.   38 Cfr. nello stesso senso anche VEGLERIS.  Profondamente diversa è la concezione del Timeo ove<è il fegato a fornire una  conoscenza non razionale che la ragione deve «interpretare con     non ha, quindi, niente a che fare con l'emersione dei desideri  repressi. (Rispetto a Freud si potrebbe pensare alla netta distinzione tra il lavoro intellettuale preconscio svolto nel sonno  dall'Io e l'emersione onirica del rimosso). 39   Platone non afferma del resto mai la possibilità di un intervento diretto (notturno) del logistikon teso a calmare o sedare  o compiere una qualsiasi operazione tesa ad arginare eventuali  intemperanze delle altre istanze. Il loro assopimento, come viene ribadito due volte nel proseguo del passo, deve essere perseguito e raggiunto prima di abbandonarsi al sonno; soltanto  dopo aver assolto questo compito ci si può finalmente concedere il riposo. La non-emersione dei desideri è, dunque, garantita univocamente da un intervento consapevole,  pre-notturno. Le possibilità d’interrelazioni nei processi onirici paiono perciò significativamente ridotte rispetto a quelle  della veglia, tanto da non contemplare casi di vero e proprio  conflitto. Tutt'al più la parte razionale può essere turbata dalle gioie o dai dolori dell' epithymetikon, accenno  che sembra indicare che essa si limiti a percepire passivamente,  ad assistere impotente alle sue turbolente manifestazioni.   In conclusione, il quadro dei processi onirici è così articolato: o il logistikon è desto e le altri parti dormono, ed allora  «le visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle   il ragionamento dopo il risveglio. Sempre diversi da quelli di Repubblica sono i sogni quali appaiono in Fedone, Critone, Leg.,  Epinomide, poiché veicolano messaggi di origine extra-psichica: cfr. al  riguardo Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze. Cfr., per es., S. FREUD, L’io e l'Es: un lavoro intellettuale sottile e difficile, che normalmente richiede una rigorosa meditazione,  può essere effettuato in modo preconscio senza pervenire alla coscienza. Non  vi sono dubbi su casi del genere: essi si verificano ad esempio nel sonno», e  Id., Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni): la  funzione preconscia svolta dall'Io può ben accadere «durante la notte» ma  «non ha nulla a che fare con il lavoro onirico. leggi, ed esso può attivare le sue funzioni intellettuali; oppure  V epithymetikon e verosimilmente lo thymoeides son desti e il  logistikon dorme, ed allora emergono i desideri repressi. Essendo l'esito univocamente determinato da un intervento indiretto e consapevole, tale concezione non ha niente a che fare  con la «difesa» di Freud, incentrata sulla censura onirica, diretta ed inconscia. In Platone, nel sogno, i desideri repressi o non compaiono  affatto o dilagano senza indossare maschera alcuna.   5. Strategie di controllo e caratteri universali   Ora, poiché leggiamo che proprio chi «si trovi in una condizione di sanità e moderazione» deve ottemperare alle suddette misure preventive prima di concedersi il riposo, sì da evitare la manifestazione delle empie visioni, è necessario che sia  presente, anzi incombente il pericolo della loro comparsa. La  ragione metapsicologica fondamentale della precarietà di ogni  forma di difesa nei confronti dei desideri paranomoi, anche rispetto ai moderati, ci è data nel brano che chiude l'analisi dei  processi onirici:   Però parlando di queste cose siamo andati troppo lontano. Ma ciò  che vogliamo capire è questo: in ognuno - anche in quei pochi di noi  che sembrano essere del tutto moderati - è senza dubbio presente  una forma di desideri terribile, selvaggia e illegale, che si manifesta  chiaramente appunto nel sonno.   Il sogno rappresenta, dunque, lo smascheramento delle apparenze, il riconoscimento che «in ognuno», anche in coloro  che più sembrano moderati, nonostante ciò possa parere inam 40 Cfr. per es. S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi; sulla metafora politica del sogno come «conquista» e  sulla «resistenza delle popolazioni soggiogate» cfr. Id., Compendio di psicoanalisi, voi. missibile, ebbene anche in loro, anzi in «noi» - Platone qui  sembrerebbe includere anche se stesso - questa specie di desideri esiste: essa «si manifesta appunto nel sonno». Poiché il moderato è sicuramente colui che ha operato la  migliore repressione, i desideri paranomoi in lui debbono essere stati «interamente allontanati, non sono perciò né  pochi né deboli né schiavi. Ciò nonostante tale operazione lascia aperta la via alla possibilità del loro ritorno. Lo stesso pericolo affiorava del resto nel brano sull'acropoli, ove Platone  scriveva che gli uomini «cari agli dèi», in altri termini i moderati, predispongono la «guardia» alle porte dell'acropoli.   Ta hautou ethe: nel sogno V epithymetikon soddisfa «i suoi  abituali costumi» o «i propri caratteri» (571c7). In questa definizione sta la chiave che spiega l'incombenza del pericolo: siamo di fronte ad una «specie di desideri tremenda, selvaggia e  illegale» che costituisce un elemento strutturale dell' 'epithymetikon. Trattandosi di un'istanza costitutiva e originaria della psyche, la specie epithymetica ad essa connaturata non  può che essere presente in ogni uomo. E universale. Con ciò  Platone sembra fugare ogni dubbio rispetto al fatto che i desideri paranomoi «probabilmente nascono in ognuno» C571b56). Del resto i desideri non necessari bussano alle porte dell'acropoli fin dalla giovane età, come mostrano i molteplici richiami ad operare una loro repressione ed educazione «fin da  giovani.   Certo, il fatto che i desideri paranomoi repressi e allontanati «esistano» anche nei moderati non significa che il loro status  sia lo stesso di quelli repressi e tenuti in schiavitù nei non-moderati. Con ciò veniamo all'intreccio tra i vari tipi di repressione i cui fili è giunto il momento di provare a dipanare.   Bipartiamo dal carattere oligarchico. Egli «rende schiavi» i  desideri non necessari, in altri termini essi «vengono  tenuti sotto controllo con la forza» (554cl: katechomenas bia);  spiega ancor meglio Platone: il carattere oligarchico] con una sorta di apprezzabile violenza su di  sé tiene a freno gli altri cattivi desideri interni che pure lo abitano,  non perché li convinca che non vanno nella direzione migliore, né li  ammansisca con un discorso razionale, ma con il peso della necessità  e della paura (554cl2-d3: èrcieiKeì xivi èonnou pm Karéicei oì>  TteiOcov ot>8' finepcòv A,óy(p). La capacità di convinzione e persuasione {peithó) della sfera razionale è qui direttamente contrapposta alla forza o violenza (bia) di una repressione che, sebbene nei suoi intenti sia  apprezzabile, lodevole (epieikei), con le catene della schiavitù  non risolve il problema. Siamo di fronte a due modelli di gestione del desiderio alternativi: l'uno repressivo, negativo, l'altro persuasivo, positivo. 41   Di contro, è anche vero che Platone discutendo del carattere democratico scrive:   se accade che qualcuno gli dica che alcuni piaceri sono relativi ai desideri belli e buoni, altri a quelli malvagi, e che bisogna praticare e onorare i primi, reprimere e mettere in schiavitù i secondi, in tutte queste  occasioni scuote la testa e afferma che essi sono tutti uguali e di pari  rispetto (561b8-c4).   Poiché qui la messa in schiavitù assume un valore positivo,  sembra emergere una contraddizione. In verità però come il  processo di repressione svolto dall'oligarchico è «apprezzabile» nelle intenzioni, è comunque meglio di niente per un individuo degenerato, così nel «discorso vero» che deve esser fatto  passare nella psyche del giovane carattere democratico, che è  ancora più avanti nel processo di degenerazione, tanto da non   41 Anche D. Hellwig (n. 3), soprattutto pp. 147-54, insiste su  «die Alternative bia-peitho», ovvero tra l'atteggiamento che «mit Gewalt unterdriickt» e quello «durch Peitho», non solo rispetto al carattere ed alla costituzione oligarchica ma nei confronti dell'intera fenomenologia degenerativa; la Hellwig inoltre riferisce tale alternativa, ai paradigmi naturalistici di fondo adottati da Platone.  preoccuparsi ormai di controllare alcun desiderio, sarebbe già  sufficiente se egli comprendesse che deve tentare di contrastare perlomeno i suoi desideri peggiori. Includendo a tal fine l'adozione della strategia più drastica: la loro repressione e messa  in schiavitù. Del resto, tale strategia dovrebbe essere l'unica a  disposizione dei degenerati caratteri oligarchico e democratico  (e anche del timocratico), nei quali il logistikon, l'unico in grado di gestire i conflitti in modo «armonico», è ormai «asservito» 42 all' ' epithymetikon (o allo thymoeides. Stringente il parallelismo semantico e concettuale che si  pone a livello politico nell'oligarchia. Ivi la degenerazione politica e sociale permette la nascita e proliferazione di «ladri, tagliaborse e saccheggiatori» «nascosti» negli angoli della polis  che «le autorità provvedono a tenere sotto controllo con la forza» (ove, èni\i£teiq pUa KoaéxoDow ai àp%ou). Il  circolo della degenerazione, a livello sia psichico che politico, si  avvita su stesso: conflitto e disarmonia generano elementi conturbanti, laceranti, patogeni, annidati negli anfratti di psyche e  polis, di fronte ai quali l'unica arma, ormai, è quella inefficace e  patogena, ancorché lodevole, della repressione violenta. In questo caso la «schiavitù» va intesa nel senso dell'asservimento, dello sfruttamento positivo: «l'una calcolando e studiando il modo di aumentare  le ricchezze, l'altro onorando le ricchezze»; viceversa la schiavitù dei desideri  ha carattere esclusivamente negativo: di incatenamento, espulsione, allontanamento.   43 Sull'armonia psichica instaurata dal logistikon nel filosofo, e sulla sua  contrapposizione con la scissione psichica dei caratteri degenerati cfr. R.  KRAUT, Plato's Comparison of Just and Unjust Lives, in Hòffe, Platon. Politela, Berlin. Diversa la questione che si pone rispetto alla kallipolis,  ove Platone, rimarcando il suo elitarismo e pessimismo antropologico, difende la necessità di «asservire» ai filosofi, ovvero di «imporre dall'esterno le direttive corrette» agli individui ed alle classi sociali da lui considerate non pienamente educabili. Se in entrambi i casi si tratta di una extrema ratio, nell'uno  si fa fronte a differenze antropologiche costitutive, tali per cui l'auspicata armonia sociale trova agli occhi di Platone dei limiti invalicabili; nell'altro inve- Riprendendo i fili delle diverse strategie di controllo dei  desideri non necessari emergono allora quattro modelli paradigmatici (escludendo la loro soddisfazione): due repressivi,  uno misto, uno persuasivo: 1) quello per cui essi vengono «distrutti»; 2) quello che li «reprime e mette in schiavitù»; 3) quello in cui il desiderio «represso ed educato» viene «allontanato»; 4) quello in cui il desiderio, anziché esser «controllato con  la forza», è convinto e ammansito. Ciò considerato, l'indeterminata «repressione» dei desideri paranomoi che conduce al loro intero allontanamento od alla  loro esplicita permanenza in condizione di schiavitù non è  esattamente una medesima operazione repressiva come l'abbiamo interpretata inizialmente, ma rimanda a due strategie affini ma distinte. La prima rientra nel modello che «reprime e  mette in schiavitù» ed ha l'esito univoco di spostare e incatenare il desiderio. La seconda rientra nel modello per cui il desiderio «represso ed educato viene allontanato». Qui la compresenza di repressione e educazione, sì che il desiderio «allontanato» non è né pienamente persuaso né brutalmente incatenato, designa un approccio misto, e spiega l'unificazione in  un'unica categoria di persone, i moderati, di coloro che hanno  interamente allontanato i desideri paranomoi o nei quali permangono ma sono «pochi e deboli». Modalità nella quale potremmo forse inserire anche quei desideri «banditi» che Platone abbandonava al proprio destino: in tutti e tre i casi i desideri vengono repressi, non distrutti, ma si tratta di una repressione per così dire morbida, tendente perlomeno in parte alla loro  «educazione», sì che essi non permangono, in massa, alle porte  dell'acropoli. Viceversa, la strategia puramente repressiva, di   ce viene criticata una modalità di controllo metapsicologica che adotta, a  priori ed unilateralmente, un approccio brutalmente repressivo, lacerante.   45 Cfr. rispettivamente: 1) 560a5: diepbtbaresan: kolazein te  hai doulousthai; anche: douloumenos;  kolazomene kaipaideuomene apallattesthai; anche: apallaxeien; bia katechei oupeitho oud'henieron logo. messa in schiavitù, lascia intonso il potenziale energetico dei  desideri; è questa la via che conduce prima al democratico, poi'  alla mania del tiranno.   In conclusione, l'eventualità che anche nei moderati emergano oniricamente i desideri paranomoi si lascia intendere come se, piuttosto che singoli desideri incatenati che premono  ininterrottamente alle porte dell'acropoli, siano gli ethe originari e costitutivi dell' ' epithymetikon a riuscire talvolta ad approfittare di una certa eccitazione pre-notturna e del sonno del logistikon per mostrare le strutture universali, esse stesse «inconsce», che generano e sospingono in avanti i singoli desideri  paranomoi - come sarà poi per l'Es, non solo per i singoli desideri rimossi, di Freud -, Al di là di ogni modalità di controllo  adottata e adottabile, siano pure le più persuasive, il sogno mostra che è impossibile sradicare definitivamente la «specie» dei  desideri paranomoi in quanto tale, parte propria di quella «bestia policefala», tremenda e selvaggia, che abita ogni uomo, e fa  sentire, di tanto in tanto, la sua minacciosa presenza, «anche in  quei pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati». Jaeger scrive che siamo di fronte alle  «regioni istintive subcoscienti dell'anima»; cfr. nello stesso senso Kenny [citato da Grice, VOLITING – “INTENTION AND UNCERTAINTY”]; Vegleris; Janke, AAH0ELTATH TPAmiMA, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie. Anche Freud opera del resto una distinzione  tra singolo desiderio rimosso e strutture «istintuali», innate ed «inconsce»  dell'Es, cfr. Freud, Compendio di psicoanalisi;  L’uomo Mosè e la religione monoteistica; Id.,  Metapsicologia; sulla differenza tra individuo e specie cfr.  Id., Dalla storia di una nevrosi infantile, voi.   47 Cfr., per es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, tutti gli uomini hanno questi sogni perversi, incestuosi e omicidi», e Id., Alcune aggiunte d'insieme alla Interpretazione dei sogni, I  miei rapporti con Popper-Lynkeus; Gould. Sostengono apertamente l'universalità dei desideri paranomoi, tra gli  altri, Guthrie, A History ofGreek Philosophy, IV: Plato, Cambridge Dal sogno alla realtà: derive psicopatologiche   Se ritorniamo alla degenerazione caratteriale, è facile ora  riconoscere come rispetto alle modalità intrapsichiche di contenimento del desiderio l'approccio univocamente repressivo  alle epithymiai sia il principale responsabile della deriva psicopatologica. La rottura dell'armonia intrapsichica, condizione necessaria dell'integrità, salute e euàaimonia individuale assicurata dal  governo del logistikon, ha inizio con il carattere timocratico,  che colloca sul trono dell'acropoli lo thymoeides. Se egli non rappresenta ancora una figura patologica in senso stretto le conseguenze del defenestramento si  fanno però sentire nella figura immediatamente successiva: il  carattere oligarchico, dominato ormai dai desideri necessari  dell 1 ' epithymetikon, non trova altra strada che reprimere e mettere in schiavitù gli altri desideri. Così facendo egli però non risolve ma acuisce la scissione e la lacerazione intrapsichica: «un  simile uomo non potrà dunque esser libero da conflitti interiori, e non sarà uno ma in un certo senso doppio. In  negativo: «la vera virtù, quella della psyche concorde a armoniosa, fuggirà via lontano da lui.   La stessa strategia repressiva è adottata dal giovane figlio  democratico. Anche lui, dunque, si impegnerà a governare  con la forza quei piaceri che vi insorgono chiamati non; BlRAL, L’ACCADEMIA e la conoscenza di sé, Bari. KAHN; Klosko, The "Rule" of Reason in Plato s Psychology, «History of Philosophy Quarterly;VoiGTLÀNDER;  Lear, con linguaggio freudiano scrive che anche nel migliore dei casi nella  psiche vi saranno sempre desideri paranomoi da rendere inoffensivi o da rimuovere. L'approccio duramente repressivo mostra in questo caso la sua nefasta  presenza nell'interazione psyche-polis: i timocrati sono «educati non con la  persuasione ma con la forza. Necessari. Bice Sri kou oinoc, ap^cov xcòv év anta»  èSovcòv), In questo modo però, se talvolta alcuni desideri vengono distrutti, talaltra invece proliferano «inconsciamente»,  rafforzandosi fino alla conquista dell'acropoli. Saranno allora  «i discorsi cialtroni» di cui si fanno scudo a «chiudere le porte  della regale fortezza» a più miti consigli e ad «esiliare il pudore. 30 Solitamente, tuttavia, superata la lacerante  fase adolescenziale, l'uomo democratico riequilibra parzialmente i suoi desideri e richiama a sé alcuni degli elementi in  passato sconsideratamente «esiliati. Il passo che porta alla mania tirannica, nell'arbitrario determinismo degenerativo disegnato da Platone, è però ormai  cortissimo: l'Eros tyrannos, che raccoglie intorno a sé l'intero  sciame dei desideri paranomoi, facendosene «capo» e «guida», e quelle opinioni che gli fanno da «scorta», si liberano definitivamente «dalla schiavitù», mentre prima, quando  egli «si autogovernava in modo democratico, esse [le opinioni]  si liberavano solo in sogno, nel sonno. 51 Le catene della schiavitù sono state spezzate:   Ma sotto la tirannide di Eros, divenuto in ogni momento della sua vita da desto quello che raramente gli capitava di essere in sogno, non  si asterrà da alcun tremendo assassinio né da alcun cibo né azione.   L'uomo tirannico è «colui che da sveglio è proprio come  l'avevamo descritto nei suoi sogni. Dal punto di vista della fenomenologia degenerativa questa figura è dunque  dovuta, a livello psicodinamico, al «ritorno» di un represso che  scavalca le barriere oniriche: si transita dall'appagamento oni- [Cfr. anche Lear. La comparsa dell'uomo democratico è, in linea di principio, il ritorno del represso nella generazione  successiva»; sull'oligarchico. Se sono le opinioni che si liberano dalla schiavitù, è però l'Eros con i  suoi desideri a riempire di contenuti sia le manifestazioni oniriche sia le azioni  dissolute del tiranno.   rico a quello reale dei desideri repressi, dall'estemporanea rappresentazione della loro soddisfazione nel teatro dell'immaginazione alla conquista permanente dell'acropoli. L'Eros «spadroneggia» ora incontrastato, «governa ogni  settore della psyche abitandovi come un tiranno. I rapporti di forza della psyche-polis vengono  nuovamente ribaltati: è l'Eros a «sopprimere e scacciare fuori  di sé i desideri e le opinioni oneste. Tirannia che  genera una profonda lacerazione, un'espropriazione della volontà. Il soggetto è in balìa dei suoi desideri più selvaggi, rafforzatisi al grado estremo, ne ha perso ormai completamente il controllo e, messo all'angolo dalla loro inappagabile  ed ininterrotta pressione, «ogni giorno e ogni notte», ne cade  preda. Siamo alla mania: l'uomo tirannico è «reso folle dai  suoi desideri e amori. Riepilogando, dal punto di vista intrapsichico il processo  di degenerazione avviato dal defenestramento dell'armonico  ed armonizzante logistikon e concludentesi con la tirannia dell'Eros si configura, perlomeno nelle sue ultime tre fasi, quale  risultato di un approccio brutalmente repressivo del materiale  epithymetico. La repressione permette difatti la permanenza e  il rafforzamento «inconscio», accertato grazie all'analisi dei  processi onirici, dei desideri repressi, i quali, una volta rinvigoritisi, riescono a penetrare nell'acropoli, generando stati psicopatologici di lacerazione, frammentazione, dispersione ed  espropriazione maniacale. Dalla nostra prospettiva psicodinamica è dunque a tale strategia di controllo che deve essere attribuita la più grave responsabilità della fenomenologia degenerativa. Sul doppio livello psico-politico della «schiavitù» e sulla metameleia,  cfr. GlGON, Die Unseligkeit des Tyrannen in ACCADEMIA Staat,  “Museum Helveticum”. all: navvo|iévcp imo èniQv\ii&v te k<xì épcÓTCOV. L 'altra via: la canalizzazione ACCADEMIA, LA REPUBBLICA La strategia antitetica alla repressione è quella della persuasione e educazione del desiderio. L'architrave metapsicologico sotto il quale si dispiega tale modalità è rappresentato dall'adozione di un modello pulsionale "idraulico" che assicura  all' epithy mia, e all'eroi-, una intrinseca malleabilità.   Uepithymia, anzi le epithymiai dal punto di vista dinamico  si delineano quale forza fluida, canalizzabile, come emerge limpidamente nei libri: «Sappiamo che quando le epithymiai di una persona si concentrano con forza in una sola direzione, esse ne risultano indebolite nei riguardi di tutto il resto,  come una corrente lì incanalata. Così, prosegue L’ACCADEMIA, in  quella persona in cui esse (le epithymiai) sono rivolte agli studi  e a ogni attività simile, esse riguarderanno, credo, il piacere  della psyche per se stessa e trascureranno i piaceri del corpo»,  come accade nel philosophos. Se, allora, si considera non Yepithymia nella sua fenomenica e contingente singolarità, si tratti di specifici desideri necessari, non necessari  e/o paranomoi, ma le epithymiai nella loro plurale unitarietà,  esse risultano essere una forza energetico-pulsionale unitaria,  canalizzabile verso mete diverse, anche opposte, secondo un  modello economico. Anche da qui l'insistere di Platone, a  monte, piuttosto che sui contenuti specifici, sulle strategie di  gestione del materiale epithymetico.   Questa è la ragione, dalla nostra prospettiva psicodinamica, con la quale si spiega perché l'estensione metapsicologica  della tripartizione poteva coniugare esplicitamente, in modo simultaneo e complementare, piaceri, desideri e  governi: ogni parte, in conformità con la sua natura intrinseca,  «ha» dei desideri specifici, ma essi possono essere preservati,  rinforzati e quindi soddisfatti soltanto in virtù dell'egemonia  intrapsichica raggiunta dalla singola istanza anche perché le     Resp.: lóonep pev\ia éiceìae àjicoxexE'Uiiévov. COMMENTO AI LIBRI VHI E epithymiai sono una risorsa unitaria e limitata. Modello  rafforzato, descrittivamente, da una sorta di estremizzazione  erotico-caratteriale operata da Platone: si tratti del filosofo o  meno, chi «ama» veramente una cosa la «ama in tutta la sua  forma, come chi «desidera qualcosa la desidera  in tutta la sua forma. Estremismo che conforta la  tipologia caratteriale del libro Vili. L'integrazione tra queste due dimensioni, psicodinamica e  caratterologica, è, infine, rinsaldata dall'eros: unità di misura  comune à tutti i tipi, dal filosofo, letteralmente erastes della verità, 57 aìl'erotikos e al tirannico. La stessa contrapposizione  strutturale tra repressione e canalizzazione risulta così radicalizzarsi nel nome dell'eros. Ai due estremi: su un versante scorre il fiume impetuoso dell'eros tyrannos, ove confluiscono i terribili desideri paranomoi, che trascina il soggetto verso il mare  .aperto deìl'adikia; sul versante opposto si distende l'intensa ma  benefica corrente epithymetica dell'eros filosofico, la sola forza  psichica che in virtù della sua potenza può supportare la lunga  navigazione che permette infine di approdare nel porto sicuro  della dikaiosyne. 38   In conclusione, posta la permanenza di specie di desideri  stabili, indissolubilmente legate alle tre istanze di riferimento,  come quella dei desideri paranomoi, dalle quali non si può mai  svincolarsi del tutto, una parte cospicua del materiale epithymetico, decisivo rispetto agli equilibri o squilibri dei rapporti   56 Cfr. in questo senso anche J. ANNAS, An Introduction to Plato's 'Republic', Oxford -Sulla centralità psicologica, etica e politica dell'eros e la possibilità di  una sua «canalizzazione» o «sublimazione» nella Repubblica ma anche nel  Simposio e nel Fedro cfr. M. VEGETTI, Quindici lezioni su Platone, Torino, Rimarca la necessità di non confinare l'eros nella dimensione subconscia L.H. CRAIG, The War Lover. A Study of Plato's 'Republic', Toronto «a psychology that confines eros to the sub-rational parts of the soul most definitely falls short of the truth. LA REPUBBLICA  di forza intrapsichici complessivi, è intrinsecamente trasformabile, manipolabile. E questa l'energia pulsionale, in gran parte  riconducibile all'universo dell'eros, che non è solo possibile ma  doveroso utilizzare, canalizzandola verso nobili mete, anziché  tentare, inutilmente ed invero assai pericolosamente, di annientarne il potenziale con strategie brutalmente repressive. E  questo lo snodo cruciale di fronte al quale vediamo divaricarsi  i due approcci fondamentali, le due strategie basilari di controllo del desiderio adottate da Platone: repressione versus canalizzazione, violenza versus persuasione, schiavizzazione versus educazione. È questo il bivio dal quale si può imboccare la  via che conduce all'armonia, alla salute, all' 'eudaimonia e alla giustizia del filosofo, o invece il cammino psicopatologico che sbocca, da ultimo, nella mania del tiranno. L'uomo massimamente ingiusto, infelice, malato, espropriato, travolto da una  massa di epithymiai feroci, incontrollabili, ormai liberatesi dalle catene di quella schiavitù che le relegava al di là dei confini  della coscienza, sottraendole ad ogni controllo diretto e permettendo così il rafforzamento fino al massimo grado, e quindi  l'esplosione finale del loro devastante potenziale.  Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato. Keywords: implicature della morte, eros e tanatos, amore e morte. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Coco: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del mutuale prevalente – il contratto di carattere mutuale prevalente – scuola di Crotone – scuola d’Umbriatico – filosofia crotonese – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Umbriatico). Filosofo crotonese. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Umbriatico, Crotone, Calabria. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can play with words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is conversation a work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the ‘codice’ of the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’, short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It sounds slightly fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco is a performativist, so he understands that ius must ‘constitute’ and define: so he goes on to analyse what I’ve been analysing too – what is to cooperate – in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements for mutuality, and so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it provides a framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” --  Dal punto di vista sistematico molto vicino alla visione del grundnorm, teoria da Kelsen.  Si laurea a Napoli. Sostituto procuratore del Re a Cassino. La Regia Procura di Roma. Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Roma. Fondatore dell'Ufficio del Massimario. Insegna a Roma. Noto soprattutto per aver partecipato ai lavori di stesura del nuovo codice civile italiano nonché del codice di procedura civile, entrambi entrati in vigore nel 1942. Si occupa prevalentemente della stesura di leggi in materia del contratto, obbligazione, e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli eclettismi contemporanei e le lezioni di filosofia del diritto” (Lagonegro, M. Tancredi et Figli); “La filosofia del diritto”; “Una quistione di diritto transitorio in tema di farmacie” (Milano, Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo capoverso dell'art. 375 del codice penale” (Milano, Società Editrice Libraria); “Luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed. Meridionale); “Per la tradizione giuridica italiana” (Milano, Società Editrice Libraria); “Saggio filosofico sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Sulla costituzione di parte civile delle associazioni sindacali” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale (recensita da Santi Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, MILANI); “Intorno alla pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma, U.S.I.L.A.); “Raffaele Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro e la impresa cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli, SIEM). Annuario Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna di dottrina, legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista di diritto pubblico. La giustizia amministrativa,  Roma, Società per la Rivista di diritto pubblico e la Giustizia amministrativa, Una vita per il Diritto Giusto, La giustizia penale. Rivista critica settimanale di giurisprudenza, dottrina e legislazione, Società editoriale del periodico La giustizia penale, Tale trasferimento avvenne per via di un suggerimento pervenutogli al Re dagli allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli Salvatore Pagliano e Giacomo Calabria.  La giustizia tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città di Castello, Società tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva. Rivista di diritto e procedura penale, Milano, Vallardi. Nominato pretore di Lagonegro. Pretore di Moliterno, assume in seguito le funzioni di sostituto procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma presso la Procura. Presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione, oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di una solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo, partecipa ai lavori per la stesura del Codice Civile e del  Codice di Procedura Civile.Cura vari aspetti della normativa: contratto, obbligazione, diritto del lavoro. Una delle sue grandi doti è quella di riuscire a non farsi condizionare dal regime dell’epoca. Non accetta la candidatura in parlamento offertagli dai suoi conterranei della Calabria.  “Una Vita per il diritto giusto” si lascia leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno contraddistinto come uomo,  come magistrato e giurista, troveremo, inoltre, la sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica. Sotto il profilo sistematico si accosta alla visione di Kelsen per quanto riguarda l’ordinamento e le codificazioni, nonché, proprio per la ricerca e per l’identificazione di una grande norma fondamentale. Dal punto di vista epistemologico, rappresenta la condanna dell’ideologia e della prassi delle scomposizioni in una galassia di frammenti superficialistici. Lo sguardo al pensiero C. ci consente anche di sottolineare la sua analisi critica, egli non si ferma alla semplice stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei confronti del singolo. Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare come all’accanimento contro la condotta individuale della persona fisica non corrispondesse eguale severità verso gl’atti illeciti e dannosi della pubblica amministrazione. Scrive “la responsabilità della pubblica amministrazione”.  -- è stato anche filosofo e storico al tempo stesso. Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso ricordare. Dal padre, persona di cultu­ra, ricevette  i primi  rudimenti  di storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno, successivamente, in taluni suoi saggi filo­sofici su AQUINO (si veda). Inizia la carriera giudiziaria come pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di Moliterno, per assumere successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore del Re a Cassino. Trasferito a Roma, presso quella Regia Procura, col viatico di rapporti ol­tremodo favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali Pagliano  e Calabria  della Corte d’Appello  di Napoli,  dove  vi  permarrà per passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello. Ottenne  la nomina a Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a presiedere il Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della Corte Suprema di Cassazione. Il giornale  “Il  Tribunale”, pubblicazione mensile  edita a Roma, lo sa­luta a tale nomina. È della nostra famiglia, di quell’aristocratica famiglia giornalistica, alla quale non disdegna di apparte­nere, nonostante  l’altissimo  grado che ricopre nell’ordine giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con quello forense, Presidente di Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di Cassazione sin dagli anni ormai lon­tani della sua felice unificazione. E stato, infatti, tra i fondatori e promotori di quell’Ufficio del Massimario che raccoglie il vasto e prezioso materiale giurisprudenziale  della Suprema Corte. Non appena conseguita la promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica di Consigliere, partecipando attivamente alla fun­zione giudiziaria di così eminente consesso. Ci asterremo, di proposito, da ogni aggettivazione che non sa­rebbe di buon gusto né riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaborato­re; non possiamo, peraltro, esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo di Professore di Filosofia del Diritto nel­la  Scuola di Perfezionamento di Diritto Penale né l’altro, per  noi particolarmente  caro, di Redattore Capo della    Rivista di Diritto Pubblico. La  recente nomina, se indubbiamente  costituisce un nuo­vo riconoscimento dei meriti di così eletto Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore di così ambita carica. Ma l’accoglierà  di  buon  grado, assolvendo anche dal nuovo seggio presidenziale le delicate  funzioni giudiziarie, alle quali porta il va­lido contributo della sua competen­za, ma soprattutto una grande se­renità ed equanimità. Riguardo ai meriti  illustrati dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus honorum non è stato caratterizzato soltanto da so­lidissima dottrina e da rigorosissi­mo lavoro applicativo, ma anche dalla partecipazione costante all’e­voluzione dell’ordine giudiziario, e tappa importante in tale attività, fu la Sua nomina a membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ossia dell’organo po­litico e politico-amministrativo, anche se in base alla legislazione dell’epoca il Consiglio Superiore della Magistratura non aveva ancora il potere e l’importanza che la Costituzione e la successi­va normativa di attuazione gli die­dero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario civile della Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu tra i principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni, perchè all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli e di Palermo (che assunsero anch’esse la denomina­zione di Corte di Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre quella di Roma fu trasfor­mata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare dell’insegnamento di filosofia a Roma. In questo ambito, svolse attività accademica per quel periodo che vide la Scuola annove­rare i più bei nomi della dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano, ancora oggi, alla base della trattatistica più importante. Altro aspetto rilevante della sua eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio del nipote dell’alto Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il Professore Nicola Coco, dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal coerente ri­ferimento alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico quali unica garanzia di contratto sociale. Per questo, il periodo che va  dal  primo  dopoguerra all’ av­vento del fascismo, costituisce una parentesi temporale di efficace  e prorompente elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro e sin­dacale, o “giuslavorismo”, costi­tuendo davvero una novità assolu­ta nelle scienze giuridiche del tem­po. Così, quando si verificheranno gravissime crisi socio0eco­nomiche che metteranno a rischio l’assetto della produzione, la poli­tica e i sindacati troveranno i loro punti d’incontro nel noto  Statuto del Lavoratori, una ri-edizione ag­giornata delle linee guida tracciate, agli inizi del “secolo breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i quali ap­punto C. Altro aspetto qualificante del giurista è l’aver concorso alla stesura del Codice Civile, ai cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e Grandi (che è il sottoscrittore anche del Codice di Procedura  Civile, emanato anch’esso, furono chiamate le più belle e fertili menti di magistrati e giuristi. Cura vari aspetti della normativa (il contratto, l’obbligazione, diritto del lavoro), tant’è, che nell’immi­nenza della promulgazione, il Ministro Grandi gli inviò una lettera personale di ringraziamento per il prezioso contributo offerto per il codice. Sua vita coincide  con  l’immane  conflitto mondiale, con la guerra civile e con la scia di vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga del Re e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad assumere la Presidenza della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e fors’anche la carica di Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta. Ha, nono­stante tale ferma presa di posizione nei confronti del regime fascista, sulla base di taluni articoli che ave­va scritto su “Il Messaggero” di Perrone, di commento a leggi e que­stioni giuridiche di alto livello, ovviamente di epoca fascista, l’occhiu­ta Commissione di epurazione, su decine di articoli scritti in una plu­ridecennale collaborazione, ne sco­va qualcuno che suona come apologetico del Fascismo. Nulla di più falso, quando era nota a tutti la dirittura morale del magistrato in­tegerrimo, del quale va appena ri­cordato, ammesso ve ne fosse biso­gno, che la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli fece pervenire solle­citazioni per una causa che la inte­ressava. Ebbene, Coco pro­cedette secondo coscienza, quindi non nel modo auspicato dalla sorella del Duce! L’epurazione ingiusta, nella quale probabilmente influirono anche motivazioni non occulte di gelosia e invidia da parte di taluni, soprattutto per il fatto che per me­riti poteva benissimo aspirare alle funzioni di Primo Presidente della Suprema Corte, ne mina rapida­mente le condizioni di salute. Negli ultimi mesi non volle proporre ri­corso contro i provvedimenti che lo avevano colpito e rifiuta cortese­mente anche una candidatura in Parlamento, per le elezioni, che i conterranei di Calabria gli avevano offerto con affetto e ri­conoscenza. Spira serenamente, non mancando nel suo testamento di perdonare cristiana­mente quanti gli avevano provocato tanto immeritato dolore. Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa cooperative e della mutue assicuratrici, delle societa cooperative – disposizione generali – cooperative a mutualita prevalente. Articoli: societa cooperative; societa cooperative a mutualita prevalente, criterio per la definizione della prevalenza, requisiti delle cooperative a mutualita prevalente. Del Lavoro. Le Società di MUTO SOCCORSO in Italia. Gobbi, nel suo pregevole saggio Le Società di MUTUO SOCCORSO – cfr. Grice, the principle of conversational (i. e. mutual) helpfulness -- dice che il nome di società di MUTUO SOCCORSO è comunemente assunto d’associazioni, le quali hanno per loro scopo principale di dare ai soci sussidi in caso di malattia o in altre eventualità che interessino la loro famiglia o l’esercizio della loro attività economica, ricavando i mezzi all’uopo principalmente da contributi dei soci stessi. Considerato così il carattere economico-sociale dei sodalizi muralisti, non possiamo sicuramente affermare che le prime traccie  di essi si riscontrino nelle antiche corporazioni d’arti e mestieri, nelle maestranze, nei collegi, nelle università. Queste associazioni  si proponeno scopi di difesa professionale, di perfezionamento nell’arti esercitate dagl’associati. Qualche volta, in via secondaria, l’esercizio di pratiche religiose; e spesso assumeno importanza politica di prim’ordine e conferivano dignità nobiliare, come nell’arti della repubblica di FIRENZE. Abbiamo però nel nostro paese esempi di società mutualiste scaturite dal vecchio tronco della corporazione o del collegio, o meglio  che'di questo possono reputarsi trasformazione. Così e non altrimenti  noi possiamo considerare la società fra i falegnami e fabbri di Faenza; l’altra pure di  Faenza fra calzolai ed arti affini; la società veneta Sovvegno Calafati al R. Arsenale; la Società  Calafati del porto di GENOVA; la Società dei Cappellai di  Padova; il Consorzio degli Orafi ed Argentieri capi d’arte  di Roma. Nè diverso giudizio possiamo recare sui sodalizi  che sorsero nel secolo decimosettimo e nella prima metà del decimottavo. E questi sono: la Società dei calzolai di Cesena; le  due Società Maestri falegnami, ebanisti e carrozzai e fra falegnami  ed arti affini di Torino; la Società fra carrozzai, sellai, fabbricanti di Torino; la Società fra calzolai padroni di Asti;  la Società Archimede fra operai fabbri, meccanici ed affini e fra fabbri  ferrai e serraglieri (proprietari di officina) (1700); la Confraternita  Sovvegno fra israeliti di Padova; le Società Riunite Sovvegni  spagnuoli e tedeschi di Venezia; il Pio Istituto lavoranti Milano, Società editrice libraria, pellai di Torino; la Società Cocchieri e palafrenieri di Torino. Quantunque sorta nel 1738, la Unione Pio-Tipografica Italiana di  Torino può dirsi la prima che abbia assunto dalle sue origini e poi  meglio perfezionati con successivi adattamenti, i caratteri del mutuo  soccorso. Essa fu approvata con Regie patenti e poi  nel suo riformato organismo con Regie patenti 28 settembre 1770. E  ira i sodalizi che sorsero nella seconda metà del secolo decimottavo  e possiamo considerare, al pari della Unione Pio Tipografica di Torino, come le più antiche Società di mutuo soccorso, meritano particolar menzione: la Pia Unione fra lavoranti calzolai di Torino del  i/54 e la Società dei Servitori di Faenza  T . 1 -^ a s ? c °nda metà del secolo decimottavo sorsero quindi in  rippnr, • P rim ? Società di mutuo soccorso, secondo il concetto moDaese affe[>m are che di buon'ora si manifestò nel nostro  Fara il^KfrfSr? 11 6 J° Uta A } P rev idenza sociale. Ed è cosa singoconcettn°df nnl a Che ’ “® ntre secoQdo la evoluzione logica del  Sassari dalIe, f orme più semplici di essa dovrebbe   videnza tipIIa lesse, il risparmio, forma primigenia della pre previdenza mutuaPs/nT 116 0I ! ganicile . sorse in Italia più tardi della  Hlllacoo^fonì qUale C r blna * due elementi del risparmio  auanrìn <yìà ^ !• ^ prime Casse di risparmio sorsero nel 1822,   litaria, la quale si esu M, Jl ns P arm io, che è virtù so adatto a raccoglierlo duò P«p.»?r ma - pa e ® e quando trova l’organo  domestiche, ed in questa anche nel segreto delle pareti   quanto l’economiaVonetaria dp? 0 ^^^ fumare che esso è antico  che l’atto primo deTsodalizfo ? 10va inoltre considerare   contributo che versa il socio 1Sta + e Un atto dl ris P a nmio; il   fini della mutualità, rappresenta La - 1 fondi occorren ti ai   “lata, sottratta alle spese vofottSie sp t np dei SU01 guadagni risparoccorre per i bisogni della vita 6 6 n pUre risecata su quanto   me„fo 0 U“liX a .S a m m uta 4,I?5', ’ ec ?l° 1 . d!,olmo " 0 no rapido l'inoroprimo dofsecoli“orsòrKtcietó Fi ” 0 al  società di MUUO SOCCORSO. di dii Gl0va rammentarle  dl Bergamo . Pr«    ’camnen*»! !’ ls p. tut0 n | armoniTo’dS el Teatr’f) 1 r?Ìni SU Ì“ t ^ municipale Simoiie Mayr    ano. la Pia Unione tessitori in seta areento l a Società di M. S. fra cap’ aigento e oro di Tonno; nel 1884, la Società  Assieme a’gli altri benefici di ordine politico e 'sociale che la  unificazione del Regno ci recò, dobbiamo segnalare anche il rapido  incremento nelle Società di mutuo soccorso. Durante il periodo della  prima metà del secolo decimonono solo 48 Società nuove videro la  luce, come abbiamo veduto. Al 31 dicembre 1885, cioè dopo 35 anni  soltanto, la statistica a quella data denunzia la esistenza di 4896 Sodalizi e ah 31 dicembre 1894, dopo nove anni, ne troviamo 6722, con  un aumento di 1826. Vedremo in seguito quante e di qual forza siano  quei sodalizi al 31 dicembre 1904, secondo la recente statistica, pubblicata dall’Ispettorato Generale del Credito e della Previdenza. Le Società di mutuo soccorso italiane, nella loro generalità, sono  associazioni che esercitano in modo prevalente funzioni di carattere  assicurativo col principio della mutualità, aggiungendo spesso a queste  altre funzioni accessorie dirette ad accrescere le forze economiche  e intellettuali e morali dei soci.   Fra le funzioni di carattere assicurativo ha prevalenza in tutte  l’assicurazione di un sussidio in caso di malattia. Spesso vi si aggiungono le spese funerarie in caso di morte ed un sussidio una  volta tanto ai superstiti. I sussidi di malattia sono commisurati ai  contributi, spesso con calcoli empirici, qualche volta alla stregua  di previsioni tecnicamente calcolate. Quasi tutte le Societàc he concedono sussidi di malattia, per conseguire il diritto al sussidio fissano  un periodo di tempo dall’ ammissione, che comunemente chiamasi  periodo di noviziato. Sono poche le Società che accordano il sussidio  subito dopo l’ammissione: 45 secondo l’ultima statistica (1); tutte le  altre vanno da un minimo di un mese ad un massimo di 24 mesi, e  ve ne ha 120 nelle quali il periodo di noviziato supera i 24 mesi.  Ma il numero maggiore si condenza intorno al periodo da uno a  12 mesi: il 76 per 100 del totale.   Non tutte le Società concedono il sussidio dal primo giorno  della malattia, sono anzi pocchissime quelle che lo concedono; le altre fissano un periodo, che chiamono periodo di carenza, nel quale i  soci non hanno diritto al sussidio. Il periodo di carenza è di ordinario di uno a tre giorni, ma giunge sino a dieci e per poche Società va oltre i dieci giorni.    orefici ed arti aifiai di Bologna, la Società Sant’Anna fra i maestri muratori di Pinerolo; nel'  1835, la Società cocchieri e domestici di Sant’Antonio Abate di Verona; nel 1836, la Società  •di M. S. fra parrucchieri di Novara, la Società di M. S. fra brentatori di Vercelli, la Società  di M. S. fra lavoranti guantai, tintori e conciatori di pelle di guanto di Torino, la Società  operaia di M. S. fra conciatori di Torino, la Società di M. S. fra parrucchieri di  "Torino, la Società dì vi. s. fra barbieri, parrucchieri e profumieri di Bologna; nei  1444, il Pio Istituto di M. S. pei medici e chirurgi della città e provincia di Bologna, la Società fra medici e chirurgi di Lombardia in Milano, la Società di M. S. fra farmacisti, medici e veterinari di Parma, la Società lavoranti calzolai di Pinerolo, la Società di M. S. fra marinai pescatori di Trapani; nel 1846, la Società di M. S. dei medici-chirurgi della città e  provincia di Ferrara, l’Istituto di M. S. fra medici, chirurgi e farmacisti di Roma e sua provincia, la Società mutua beneficenza di Citta di Castello; nel 1847, la Società di M. S. tra  calzolai di Alba, la Società medico-farmaceutica di Padova, l’Unione operaia patriottica fratellanza di Asti, la Società Femminile di M. S. S. Bonifacio di Pinerolo, la Società Generale fra gli operai di Pinerolo, l’Unione per le malattie di Verona, la Federazione  italiana fra lavoranti del libro (compositori) di Tonno; nel 1849, la Società di M. S. fra i  pompieri municipali di Ancona ; nel 1764, la Università dei pescivendoli patentati di Roma  Questi dati e i seguenti concernono le Società riconosciute soltanto, per la quale la  statistica ha potuto registrare notizie più copiose. Si tratta quindi di osservazioni che concernono 1548 Società soltanto.  Nè il sussidio è concesso per tutta la durata della malattia.Società soltanto sussidiano la malattia fino al suo termine; ma nelle  altre assai raramente il sussidio va oltre i 180 giorni in un anno, e il  numero maggiore si conta fra quelle che non vanno oltre 120 giorni  La misura del sussidio di malattia per mo te Società (il 4-2 per  1001 rimane invariata per tutta la durata della malattia, in molte  altre (il 50.4 per 100) varia, sia aumentando dopo alquanti giorni  sia diminuendo. L’assicurazione obbligatoria contro gl infortuni del lavoro tutela  oggi in Italia una larga massa di operai, ma non H tutela tutti:  l’artigianato, la mano d’opera agricola, le industrie ohe non applicano macchine, sono ancora oggi fuori il campo dell assicurazione  obbligatoria. E’ confortante perciò osservare nell azione dei nostri  sodalizi muralisti, in via se pur vuoisi sussidiaria, un aiuto integratore pei casi di infortunio. Per quanto concerne la invalidità  temporanea il numero maggiore delle Società (823 su 965) considerano questa agli effetti-del sussidio come una malattia ordinaria; le  altre danno il sussidio in misura diversa. Piu scarso è il numero  delle Società che danno sussidio in caso d’invahdita permanente  (542), e il sussidio per alcune è determinato sia in un assegno una  volta tanto, sia in forma continuativa;- per altre, e sono il numero  maggiore, il sussidio è indeterminato, viene dato, cioè, secondo la  entità e la disponibilità dei fondi sociali. E ancora in minor numero  sono le Società che danno sussidi in caso di morte per fa,tto di infortunio sul lavoro (464 soltanto); e questi sussidi sono in misura  determinata sotto forma di assegni per una volta o continuativi o  di pensioni o di spese funerarie, o in misura indeterminata.   Quantunque riferentisi alle Società riconosciute soltanto, hanno  valore, come indice tecnico, i dati relativi ai casi di malattia sussidiati, ai soci sussidiati, alle giornate di malattia sussidiate ed agli  oneri finanziari che ne derivano alla Società. Di questi dati ripor Per ogni Società, in media, sono sussidiati 45.1 soci all’ anno,  per 52 6 casi di malattia e per 995.3 giornate di malattia, con una  spesa media di 1007.02. Su 100 soci si hanno 29.1 casi di malattia,  sussidiati e sono sussidiati 25 soci. Per ogni caso di malattia sono sussidiate giornate 18.7; e per ogni socio esistente sono sussidiate giornate  5.52. Questa media può rappresentare l’indice di morbosità nei soci  delia Società di mutuo soccorso ed ha grande valore per il migliore  ordinamento tecnico di questi sodalizi, per una più razionale corrispondenza fra i mezzi di cui dispongono e gli impegni che assumono  con la promessa statutaria. La spesa media pei sussidi di malattia,  annualmente, risulta di lire 5.64 per ogni socio esistente.   Nell’ordine stesso del mutuo soccorso devono porsi i sussidi per  spese funerarie di soci defunti. Molte Società provvedono direttamente alle spese funerarie, alcune concorrono con la famiglia alle  spese stesse. Non sono infrequenti poi i casi di Società che danno  sussidi alle famiglie dei soci morti sia una volta tanto sia in forma  continuativa. Sono relativamente poche le Società che concedono  sussidi di puerperio e di baliatico (l’8.9 per 100). Nè sono molte le  Società che provvedono con sussidi ai soci disoccupati (il 6.5 per 5 100). Questi dati si riferiscono a tutte Società delle quali si occupa  la statistica recente.    Carattere degno del maggiore studio delle nostre Società muiualiste è di aver attinto alla forza delle loro organizzazioni per dar  vita ad istituzioni cooperative a vantaggio dei propri soci. Questa  geniale filiazione della cooperazione dal seno della previdenza mutualista fu rilevata ed illustrata dal Mabilleau in occasione di uno  studio che, per conto del Musee Sociale di Parigi venne a fare in Italia  delle nostre Istituzione di previdenza assieme al Conte di Rocquigny  ed al Rayneri (1). La statistica recente ne dà una conferma luminosa.   Nel quadro seguente è indicato il numero delle Società di Mutuo  Soccorso che esercitano funzioni cooperative. COMPARTIMENTI Prestiti ai soci Magazzini di consumo Cooperative  di lavoro Cooperative  di credito Piemonte. 174 281 2 Liguria 19 15 Lombardia 233 46 1 Veneto 161 32 Emilia. 182  23 1 Toscana.   92 58   1 Marche 128   24 1 Umbria. 72 18  Lazio 63 2 . Abruzzi.   82   5   Campania. 150   10  Puglie 1 • 57   7 1 Basilicata.   27 Calabria 47 14 Sicilia.   95 17 Sardegna 15 Regno . .1597 552   5 2 Nella maggior parte dei casi non si tratta di istituzioni autonome  fondate secondo le norme del codice di commercio, ma di i-ami di  attività della stessa Società di mutuo soccorso operante coi fondi di  questa. Le Casse di prestiti sono principalmente dirette al fine di  produrre un maggiore rendimento coi fondi sociali, e quindi si comprende come esse siano in numero maggiore (il 24.9 per 100). I magazzini di consumo, che sul totale rappresentano 8 6 per 100 delle  Società esistenti, primeggiano nel Piemonte, dove il 21.3 per 100  delle Società hanno annesso il magazzino di consumo, e merita particolare mensione quello della Società Generale operaia di .Torino,  reso ancora più forte dalla alleanza con la Cooperativa di consumo  dei ferrovieri.  La Prévoyance Sociale en Italie - Paris, Armand Colin et C.« Editeurs Fra gli scopi accessori delle nostre Società mutualiste meritano  poi particolare mensione quelli diretti alla istruzione dei soci; le  Società vi contribuiscono mediante biblioteche, scuole serali o festive,  scuole di disegno o industriali, ó pure mediante I’ assegnazione di  premi, la provvista dei libri e così via.   Altri scopi accessori sono il collocamento dei soci disoccupati^  ed alcune Società hanno annessi veri e propri uffici di collocamento;  il conferimento di doti alle figlie dei soci; la costruzione di abitazioni  operaie; la concessione dei sussidi alle famiglie dei soci richiamati  sotto le armi.   Nei riguardi della costruzione delle case operaie la legge del  1903 sulle case popolari contempla in modo particolare le Società di  mutuo soccorso, dando ad esse facoltà di impiegare una parte dei  loro fondi in costruzione di case pei propri soci. La legge vuole  soltanto che le Società, le quali questa impresa intendono assumere,  costituiscano una sezione speciale. E già sotto l’impegno di quella  legge parecchie Società hanno chiesto ed ottenuto 1’ autorizzazione  di intraprendere la costruzione di case Operaie.    Un nuovissimo ufficio assunto delle nostre Società di mutuo soccorso è quello di promuovere la iscrizione, collettiva o individuale,  dei soci alla Cassa Nazionale di providenza per la invalidità e la  vecchiaia degli operai.   Contiamo nel nostro paese Società le quali assicurano pensioni  di vecchiaia tecnicamente calcolate: sono modelli del genere le due  Società, maschile e femminile, di Cremona. E sonovi Società le quali  non pensioni ma sussidi di invalidità o di vecchiaia promettono ai  loro soci in misura e qualità corrispondenti ai fondi disponibili.   E siccome le Società che corrispondono pensioni o sussidi' di  vecchiaia ai soci hanno per tale servizio costituito un fondo speciale  alimentato da speciali contributi o da avanzi di bilancio, la legge  institutrice della Cassa Nazionale di previdenza consente’ a queste  Società di versare alla Cassa i fondi così raccolti e le future contribuzioni, inscrivendo ad essa collettivamente i soci aventi diritto a  pensione ed accorda a quei soci, segnatamente i più anziani, qualche  maggior favore. Quel precetto della legge è provvido, contiene un germe che  dovrebbe essere sviluppato, fecondato da nuove e più larghe concessioni per condurre i sodalizi mutualisti a divenire organi intermedi attivissimi fra l’operaio e la Cassa Nazionale, sull’esempio di  quanto con maravigliosi risultati viene praticandosi nel Belgio.   Alcuni credono che, per mantenere vivo lo spirito di fratellanza  per aumentare gli elementi che fanno fiorire e cementano la solidarietà mutualista, sia opportuno conservare alle Società di mutuosoccorso il servizio di pensioni di vecchiaia, di perfezionarlo. Ed  altri persuasi che quei sodalizi non possono coi soli contributi dei  b^ C n t rni°HAi I ìr e i+ PenS10ni vec ?. hiaia sufficienti ai più elementari  vorrebbero che una parte delle risorse assicurate  - e i ^ preTld ® nza 0 nu °ve risorse affluissero a  quelle Società che intendono mstituire o continuare un bene ordinato  servizio di pensioni di vecchiaia. ordinato  Io non posso, senza venir meno alle mie convinzioni, manifestate  già in pubbliche conferenze, accogliere 1’ una tesi nè 1’ altra. Non  occorrono lunghe considerazioni per dimostrare condannevole la  prima. In un paese in cui è sorto un Istituto, il quale, con mezzi  forniti dallo Stato, può assicurare pensioni di vecchiaia in misura  superiore a quella cui possono provvedere istituzioni o sodalizi privati, si renderebbe un cattivo servizio ai lavoratori consigliandoli a  preferire la cassa pensioni della Società mutualista cui appartengono.  Nè si può ammettere che le inscrizioni dei soci di un gruppo operaio  alla Cassa Nazionale rallenti i vincoli della fratellanza e della solidarietà. La Società, organo intermedio fra il socio e la Cassa Nazionale, non affievolisce perciò i suoi rapporti coi soci, anzi li afforza,  procurando ad essi maggior vantaggio. E poi, come in tutti i fenomeni sociali ed economici, vi sono virtù compensatoci che colmano  le lacune e riconducono rapidamente 1’ equilibrio per un momento  turbato.   La seconda tesi è pericolosa per le conseguenze cui condurrebbe:  il fatale spezzamento delle forze le quali per dare il maggiore effetto  utile devono convergere in un unico grande e solido organismo, nel  quale soltanto può giuocare, in tema di assicurazioni, la legge così  proficua dei grandi numeri.   In un sistema d’assicurazione libera, nel quale, pure come nella  obbligatoria, devono nécessariamente concorrere i tre elementi: lo  Stato, il padrone, l’operaio, non si può ammettere che, accanto all’Istituto nazionale, il quale può funzionare e divenire centro potente  di attrazione soltanto per la larghezza dei mezzi che gli si procurano,  vivano Istituti privati e diano gli stessi buoni risultati anche procurando ad essi aiuti speciali e peggio ancora se questi vengono sottratti all’Istituto Nazionale,   L’esperimento dell’assicurazione libera non può farsi che all’ombra  di un grande Istituto verso il quale convergano le cure assidue dello  Stato, la simpatia delle classi dirigenti, la fiducia dei lavoratori.   La legge operò quindi saviamente quando volle associare alla  grande opera dell’assicurazione per la invalidità e la vecchiaia degli  operai le forze, le iniziative dei sodalizi mutualisti ; ed il legislatore  farà ancora meglio se aumenterà gli stimoli, con un ben congegnato  sistema di premi, per la iscrizione dei soci della Società di mutuo  soccorso.   Intanto sono salutari gl’incitamenti che l’amministrazione del  grande Istituto adopera presso le nostre Società mutualiste, fu provvido il pensiero del Ministero di agricoltura, industria e commercio,  il quale, con R. Decreto 19 marzo 1905, bandì un concorso a premi  in danaro ed in medaglie d’oro e di argento da conferire a quelle  Società di mutuo soccorso che al 30 giugno del corrente anno dimostreranno di avere contribuito efficacemente alla iscrizione dei  propri soci alla Cassa Nazionale di previdenza.   Di queste buone iniziative già si raccolgono copiosi i primi frutti.  Sono molte le società che hanno inscritto collettivamente o procurato le inscrizioni individuali dei loro soci. Si hanno notizie precise  di 73 sodalizi a tutto il mese di febbraio scorso. Queste 73 Società  hanno inscritto alla Cassa Nazionale, 16,078 soci. Meritano particolare  mensione: la Società di m. s. della ditta Ginori, di Sesto Fiorentino  che ha inscritto tutti i soci (587); la Società Generale di m. s. per  le operaie di Milano che ne ha inscritto 568; la Società operaia di  m. s. di Modena che ne ha inscritto 519; la Società di m. s. di Molfetta. (Bari) che ne ha inscritto 512.    3.° La legislazione e la giurisprudenza.   Le Società di mutuo soccorso sono regolate in Italia dalla legge  15 aprile 1886. Questa contempla però soltanto le Società Operaie. Il  legislatore temè che con le forme assai semplici per il riconoscimento giuridico fissate nella legge, senza alcun controllo della potestà politica, potessero rivivere, sotto la specie dell’ associazione mutualistica. le soppresse corporazioni religiose e quindi volle che le  Società composte di operai soltanto potessero chiedere ed ottenere  il riconoscimento giuridico con il procedimento escogitato. La formula rigida della legge è stata però largamente temperata dalla giurisprudenza; la quale ha ammesso che possa considerarsi operaia una  Società costituita in gran parte da operai. E così si è potuto ammettere anche nelle Società operaie l’intervento di soci benemeriti,  di soci fondatori, che con largo concorso pecuniario esercitano il  benefico ufficio del patronato.   Le Società di mutuo soccorso non composte di operai possono  ottenere il riconoscimento giuridico in base all’articolo 2 del codice  civile, come enti morali, e seguendo le norme che all’ uopo furono  tracciate dal Consiglio di Previdenza (1). Qui è opportuno rilevare che la giurisprudenza ha riconosciuto nelle Società di mutuo soccorso i caratteri dell’ ente morale. E quindi non ammette che  in caso di scioglimento, il patrimonio sociale possa essere distribuito  fra i soci superstiti,jjma debba essere devoluto a scopi afllni o in opere  di beneficenza, e vuole che le Società di mutuo soccorso nello  acquisto di immobili, nell’accettazione di doni o di legati siano autorizzate con decreto Reale, ai termini della legge del 1850 che contempla appunto enti morali.  a uà, ^aucenena aei j   naie Civile, depositando copia autentica dell’atto costitutivo e  statuto. statuto.  Le condizioni che la legge vuole adempiute sono soltanto le seguenti :   1. Le Società devono proporsi tutti o alcuni dei fini seguenti:   assicurar ai soci un sussidio nei casi di malattia, di impotenza al lavorò o di vecchiaia ;   venir in aiuto alle famiglie dei soci defunti.   Possono inoltre;   cooperare all’ educazione dei soci e delle loro famiglie ;   dare aiuto ai sòci per l’acquisto degli attrezzi del loro mestiere ;   esercitare altri uffici propri delle istituzioni di previdenza  economica.   2. Gli statuti delle Società devono determinare espressamente;   la sede dèlia Società;   i Ani pei quali è costituita ;   le condizioni, la modalità d’ammissione e di eliminazione  dei soci;   i doveri che i soci contraggono e i diritti che ne acquistano ;   le norme e le cautele per l’impiego e la conservazione del  patrimonio sociale ;   la disciplina alla cui osservanza è condizionata la validità delle assemblee generali, delle elezioni e delle deliberazioni;   la costituzione della rappresentanza della Società in giudizio   e fuori;   le particolari cautele con cui possono essere deliberati, lo  scioglimento, la proroga della Società e le modificazioni degli sta-,  tuti, sempre che le medesime non. siano contrarie alle disposizioni  della legge. La concessione della personalità giuridica alla Società di mutuo  soccorso è quindi secondo la legge del 1886, subordinata soltanto  all’ esame estrinsero dell’adempimento delle condizioni dianzi indicate.  Non si chiede come ne fn manifestato il proposito in alcuni disegni,  di legge presentati prima che si giungesse alla legge del 1886, la  dimostrazione tecnica della corrispondenza fra contributi e sussidi,  non si impone l’impiego dei fondi sociali in determinate specie di  investimenti. Deve però avvertirsi che la legge parla di sussidi  e dalla discussione parlamentare risulta che si volle escludere pensatamente la parola pensioni, implicando un regolare servizio di  pensioni necessariamente la dimostrazione di un ordinamento tecnico adatto allo scopo. Nè si può dire che la facoltà di corrispondere pensioni possa vedersi compresa nella formula della  legge : « esercitare altri uffici propri delle istituzioni di previdenza  economica ». Si tratta di una funzione che ha speciale importanza  che non può essere esercitata senza un ordinamento tecnico preciso,  che implica impegni a lunga scadenza e non si può in modo assoluto ammettere, tenuto conto anche della discussione parlamentare,  che il legislatore abbia voluto concedere di straforo l’esercizio di una .  così importante funzione.   B la giurisprudenza ha confermato il pensiero del legislatore  ammettendo che occorra una speciale concessione governativa per'  esercitare il ramo pensióni di vecchiaia o di invalidità; concessione   subordinata alla dimostrazione di un ordinamento tecnico che dia  sicurezza per il mantenimento degli impegni assunti (1).   Nelle norme preparate dal Consiglio della Prev^nza per a  concessione della personalità giuridica mediante deci eto .R®* 1 ® a “®  Società di mutuo soccorso non operaie, si chiede qualche cosa di  più di quello che la legge del 1886 chiede alle Società operaie. Può  sembrare a una prima impressione, che ciò costituisce una c0I1 ^ 10ne  meno favorevole alle Società che non possono ottenere i 1 1 conoscimento giuridico altrimenti che con un atto del potere esecutivo. Ma  ove si consideri che si tratta di Società fra persone che hanno  qualche maggiore coltura, non sembrerà eccessivo chiedere ad esse  una più razionale discriminazione negli scopi, qualche maggiore dettaglio negli Statuti. E nello stabilire quelle nome il Consiglio della  Previdenza si è anche proposto l’obbiettivo d additarle ad esempio alle Società operaie. La legge chiede il minimo, e non può quinci  escludere che si faccia di più e meglio.    I vantaggi che la legge del 1886 consente alle Società di mutuo  soccorso riconosciute sono i seguenti:   esenzione dalle tasse di bollo e registro, conferita alla Società cooperative dell’articolo 228 del codice di commercio; esenzione dalla tassa sulle assicurazioni e dall' imposta di  ricchezza mobile, come all’ articolo 8 della legge 24 agosto 1877, numero 4021;   parificazione alle Opere pie per il gratuito patrocinio, per  la esecuzione dalle tasse di bollo e registro e perla misura dell’imposta di successione o di trasmissione per atti ira soci ;   esenzione da sequestro e pignoramento dei sussidi dovuti  dalle Società ai soci.   Gli obblighi delle Società registrate, come anche di quelle riconosciute con decreto Reale, si riassumono nell’invio del proprio  Statuto al Ministero di agricoltura, industria e commercio e nelle  comunicazioni allo stesso Ministero dei rendiconti annuali i quali  sono compilati sopra moduli dal Ministero stesso forniti gratuitamente.  Il Ministero esamina i rendiconti annuali e spesso dà buoni consigli  per la migliore gestione del patrimonio sociale, mettendo in guardia  il sodalizio contro la tendenza di spese suutuarie, per un più cauto  impiego dei fondi disponibili. Nessun altra ingerenza il Ministero  esercita nelle Società registrate, nè esercita ufficio di vigilanza sovra di esse, non potendo sottoporle ad ispezioni, scioglierne le amministrazioni, nominare Commissari Regi.   Nè la legge del 1886 nè altre leggi, oltre i vantaggi di ordine  fiscale, conferiscono alle Società di mutuo soccorso aiuti diretti o inni Il Consiglio di Previdenza non espresse divei  del 1897, cosi concepita « Le Società di mutuo so<   lità giuridica ai termini della legge del 15 aprile - -.-e pensioni, ossia rendite vitalizie jn^misuraJìssa e prestabi    i una nota al modello di statuto  spirano ad ottenere la personas possono proporsi di assi  diretti dello Stato. I nostri sodalizi mutualisti vivono esclusivamente, o quasi, eccettuate le non frequenti obblazioni dei benefattori, attingendo le proprie forze alle contribuzioni dei soci. E ciò, a  mio giudizio, costituisce il loro miglior vanto.   Occorre però tener conto degli aiuti di carattere non continuativo e straordinario che vengono ad esse nei concorsi a premio e  da sussidi speciali conferiti dal Ministero di agricoltura, industria e  commercio.   Nel campo dei concorsi a premio meritano particolare mensione  quelli che una volta con alquanta frequenza indiceva la Cassa di  Risparmio di Milano fra le Società di mutuo soccorso meglio ordinate.   Nel 1882 fu bandito un concorso a premio, di lire 3000 (1500 offerte dal comm Besso e 1500 date dal Ministero) per il miglior ordinamento delle Società di mutuo soccorso; enei 1901 ne fu indetto  un’altro dal Ministero con un premio di mille lire, due di cinquecento e con medaglie di argento o di bronzo a quelle Società operaie di M. S. che avessero meglio provveduto ad organizzare e garantire un servizio di rendite Vitalizie ai soci nei casi di inabilità  al lavoro o di vecchiaia, sia direttamente con apposito fondo sociale,  sia mediante l’inscrizione dei soci alla Cassa Nazionale di previdenza.   Ho rammentato più sopra il concorso a premi del 1905.   Incoraggiamenti morali vengono dal Governo alle Società di  mutuo soccorso, mediante concessione di medaglie di benemerenza.  Nella occasione della Esposizione Generale di Torino del 1882, il  Ministero istituì premi consistenti di quattro medaglie d’oro di prima  Classe, cinque di seconda e 12 medaglie di argento da conferirsi a  quelle Società Operaie che avessero dato prova di miglior ordinamento e di più lunga esistenza con risultati efficaci, giovando anche  con le scuole e con le biblioteche alla istruzione degli operai. E  frequensemente il Ministero concede medaglie di Benemerenza ai  sodalizi operai che hanno dato prova per lunga serie di anni di  buon ordinamento e di costante devozione ai principii della mutualità. Nè sono infrequenti i sussidi in denaro, non molto larghi data  la parità dal fondo all’uopo stanziato, che il Ministero dà alle Società operaie che più si addimostrano bisognose di aiuti.    A. Lo stato attuale.   La recente statistica sulle Società di mutuo soccorso, elaborate  dell’ Ispettorato generale del credito della previdenza, registra la  esistenza in Italia al 31 dicembre 1904 di 6535 Società delle quali   riconosciute 1548   non riconosciute 4987 Abbiamo veduto più innanzi che la statistica del 1892 denunziava  al 31 dicembre di quell’ànno la esistenza di 6722 Società di mutuo  soccorso; e quindi nel decennio, in luogo di riscontrare un incremento, come erasi verificata, e notevole, dal 1885 al 1894, si constata  uua diminuzione di 187 Società, e cioè, in cifra media, del 2 - 8 per  cento. La diminuzione più notevole si osserva nell’Italia meridionale  e nell’insulare ed in parte della centrale; si giunge sino al 48. 1 per cent© nelle Puglie. Ma per compenso si ha un aumento nell’ Italia  settentrionale e nel rimanente della centrale; aumento che riuscì  notevole nel Veneto col 24.2 per cento e nella Lombardia col .15.0  per cento. Abbiamo detto più innanzi che la diffusione delle Società di mutuo soccorso, assai lenta nella prima metà del secolo decimonono,  andò accentuandosi dopo la unificazione del Regno, e riportammo, a  dimostrazione, le cifre delle statistiche del 1885 e del 1894. La dimostrazione riesce più evidente classificando il numero delle Società  per anno di fondazione. Dai numeri assoluti si traggono le medie  seguenti su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904: Società fondate prima del 18*0  % . 1.0  dal 1850 al 1859  2.7 dal 1860 al 1869 10 . 3 dal 1870 al 1879 19 . 2  dal 1880 al 1884 18 . 9   » » dal 1885 al 1889 14 . 5  dal 1890 al 1894 12 . 6  dal 1896 al 1899 8.7  dal 1900 al 1904 12 . 1    Il decennio più fecondo è stato quello dal 1880 al 1889, con una  inedia di 33 4: vien dopo il decennio 1890-99 con 21.3; e terzo il  decennio 1870-79 con 19 2. Ma l'incremento più rapido si determina appunto dal 1860 in poi.   Esaminando le cifre afferenti ai vari compartimenti è da notare  che, mentre nell’Italia settentrionale e centrale è piccolo il numero  delle Società instituite negli ultimi anni, questo numero è notevole  nell’Italia meridionale ed insulare. E siccome in queste regioni si  riscontra pure la maggior diminuzione delle Società nel periodo 18951904, si deve concludere che in esse le Società hanno vita più breve.  Tale ipotesi trova conferma nelle cifre seguenti:   Su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1891, numero di quelle  sciolte nel decennio: Piemonte Liguria Lombardia Veneto Emilia.  Toscana   Marche   Umbria    Abruzzi   Campania   Puglie.   Basilicata   Calabria   Sicilia .   Sardegna    Regno    25 . 2  L’indice più alto di diminuzioni lo danno le Puglie; seguono la  Basilicata, la Calabria, la Campania, la Sardegna. °    Delle 6,535 Società esistenti al 31 dicembre 1904    sono composte di soli uomini .  di sole donne di uomini e donne   se ne ignora la composizione . 5,078   252   1,017   189   Le Società esistenti al 31 dicembre 1904, abbiamo veduto, sono  1548. Di queste 42 soltanto sono riconosciute con decreto Reale e  1506 con provvedimento del Tribunale, ai sensi della legge 15 aprile  1886. Al 31 dicembre 1894 le Società riconosciute erano 1156; vi fu  quindi nel decennio un aumento di 392 ed in media del 33. 6 per %•  L’aumento fu più sensibile nell’Italia meridionale. Su 100 Società esistenti, si contano 23.7 Società riconosciute. Quando si consideri che  la legge del 1886 è sufficientemente liberale, non impone vincoli e  formalità costose, lascia ai sodalizi la maggiore libertà di azione nello  esplicamento dei fini che si propongono, sullo impiego dei fondi, non  le asservisce ad alcuna vigilanza governativa, male si spiega il lento  incremento delle Società riconosciute e il loro scarso numero rispetto alla massa. Forse deve rintracciarsi la ragione del fatto in  pregiudizi non ancora rimossi dall’animo dei nostri lavoratori, nella  imperfetta conoscenza dei benefizi che la personalità giuridica reca,  indipendentemente da quelli d’ordine finanziario conferiti dalla legge.  Non vogliamo ammettere che influiscano anche tendenze che esulano  dal campo della mutualità, del fratellevole aiuto. Queste tendenze  trovano più conveniente esplicazione in altre forme di organizzazioni, che in ben ordinato reggimento politico hanno diritto di cittadinanza per la legittima difesa di interessi professionali e per la  protezione del lavoro.   Il,numero dei soci aggregati alle Società di mutuo soccorso, secondo le statistiche alle tre date, risulta nelle cifre seguenti:  nel 1885 730,475  nel 1894 - 933,685  nel 1904 926,026   Siccome però non tutte le Società diedero sulle tre indagini le  indicazioni del numero dei soci, assumendo, per la integrazione, il  criterio della media dei soci per ciascuna Società, si avrebbero le  cifre seguenti :   nel 1885 — 760,085  nel 1894 — 956,328  nel 1904 — 953,455   La media dei soci per ogni Società nel 1885 risulta di 153.2, nel  1894 di 142 . 3, nel 1904 di 145 . 9.   Il numero dei soci è aumentato in tutti i compartimenti dell’Italia settentrionale, escluso il Piemonte: è aumentato anche nell’Emilia, nella Toscana, nell'Umbria e nella Sicilia; ed è diminuito in tutti  gli altri compartimenti. Nel periodo 1895-1904 il numero medio dei  soci è aumentato in Liguria, Emilia, Campania, Sicilia e Sardegna,  si è mantenuto eguale in Lombardia ed è diminuito negli altri compartimenti.   Sopra 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904, la diversa composizione numerica di esse è indicata dalle cifre seguenti:   Sino a 99 soci . — 53 . 6  Con soci da   » » da   » » da   » » da   » » da   » » da   b b da 1000 a 1500 — 0 . 5   b b oltre . 1500  0.3    100 a 199 — 27 . 6  200 a 299 27 . 3  300 a 399  4.5  400 a 499  2.3  500 a 699  1.2  700 a 899  0.8    In complesso, in tutti i compartimenti, esclusa 1’ Emilia ove se  ne ha il 43 . 2 per 100 e la Lombardia ove se ne ha il 46 . 0 per  100, più della metà delle Società conta meno di 100 soci; ed in generale un quarto circa delle Società conta un numero di soci da 100  a 200.   La statistica del 1904 discrimina anche i soci secondo i sessi.  Dei 926,026, soci, 849,418 sono uomini, 76,608 sono donne.    Sul movimento economico dqlle Società di mutuo soccorso si possono fare raffronti con la statistica del 1885; quella del 1895 non contiene alcuna notizia sul patrimonio sociale. Ecco i dati riferentisi  alle due date:    Entrata.  Spese .  Patrimonio    L. 7.    L. 14,632.425  .404.205 » 11.790.028  1.200.840 » 72.395.544    Il patrimonio medio per ciascuna Società, che nel 1885 era di  L. 9.147,97, nel 1904 ammonta a L. 12.-017,85.   Volendo integrare le cifre per le Società, che nei due tempi non  diedero la indicazione del patrimonio sociale, assumendo come criterio il patrimonio medio, si avrebbero le cifre seguenti:    Con lo stesso metodo si possono integrare le cifre afferenti alle  entrate ed alle spese.   Secondo tali risultati,!che non si possono discostare molto dalla  ventarsi ha nel 1904 in confronto al 1885 un aumento di L. 4.919.727  nelle entrate, di L; 5.089.469 nelle spese; e di L 33.748 218 sul patrimonio, nella misura cioè del 75 . 13 per 100.  t 9 o^? trata media .nell’ anno per ciascuna Società risulta di  L. 2,342,43, con un mimmo di L. 861,63 per le Società degli Abruzzi  e con un massimo di L. 3833,27 per le Società della provincia di  Roma. La media delle entrate per ciascun socio è di L. 16 con un  Lombardia L ’ 8 ’ 3 ° Pei> la Calabria e un massimo di L. 18,92 per la   „ n +S„ el ^ m . e ^ Ì prÌ - nc y? a À i .’ di cui si compongono le entrate sono tre:  “SJ on ? dl ® oc ì effettivi, contribuzioni di soci non effettivi, donazioni ed altro (patronato), altre entrate. Sopra ogni cento lire di  entrate nel 1904,1 tre elementi davano le cifre seguenti:   Contribuzioni di soci effettivi .... 68 80   Contributi di soci non effettivi, donazioni, ecc 7 28  Altre entrate . . y . . . 29 * 47   Il cfflpite inabor 6 di entrata è dovuto, come abbiamo già notato, alle contribuzioni dei soci effettivi. E la proporzione diventa  maggiore quando si consideri che le altre entrate slno in malsima  dei fondi impiegati, i quali alla loro  volta derivano dalle contribuzioni dei soci. La media delle entrate  1eT3 V 9 ate 5 8 da nn ^urioni dei Soci effettivi Varia da^ SSmo  Liguria 58 P °° m Basillcata ad un mas simo dall’82 per 100 in  Si hanno notizie più particolareggiate sulle entrate delle Società  riconosciute ; ma queste, desunte dai loro rendiconti, si riferiscono  al 1903. Le percentuali di queste entrate sono le seguenti:    Redditi patrimoniali  Contribuzioni di soci  Introiti lordi Redditi straordinari Rendita di beni immobili ... 1. 69 ( Interessi attivi.17. 13 (effettivi.38.60   ^ non effettivi.0. 99   l di Magazzini di consumo 27. 58   1 di aziende sociali.6.85   .7.16 Anche per queste Società, nella media generale del Regno, il  maggiore delle entrate deriva dalle contribuzioni dei soci effettivi,  esclusi però il Piemonte, la Toscana e la Calabria ove proviene dagli introiti dei magazzini cooperativi, e la Sicilia ove la maggior  parte delle entrate sono dovute alla assunzione da parte di due Società di Palermo, quella fra la gente di mare e l’altra dei capitani  marittimi, di appalti di carico e scarico di merci. In Lombardia le  contribuzioni dei soci effettivi eguagliano quasi i redditi patrimoniali; ivi infatti sono le Società più antiche e con patrimonio più  rilevante.   Le contribuzioni dei soci non effettivi variano dal 2. per 109  nell’Umbria, al 0. 5 per 100 nelle Puglie, perchè appunto nelle Società di questa regione è minimo il numero dei soci non effettivi. La spesa media per ciascuna Società nel 1904 risulta di L. 1902,84  e per socio di lire 13. Nelle medie per Società della spesa si va da  un minimo di lire 679,30 per le Soc età degli Abruzzi ad un massimo  di lire 2925.51 per quelle della provincia di Roma; il minimo ed il  massimo delle spese si riscontrano quindi nelle stesse regioni nelle  quali si hanno il minimo ed il massimo delle entrate. La spesa per  ciascun socio oscilla fra un minimo di lire 6-,67 negli Abruzzi e un  massimo di lire 16,51 in Liguria.   Nello insieme delle Società non è riuscita possibile una minuta  discriminazione delle spese: si è dovuto star paghi alle due grandi  divisioni: spese per sussidi, altre spese. Nel 1904, rispettivamente ad  ogni 100 lire di entrata, si hanno per il Regno le cifre seguenti:    spese per sussidi.51.4   altre spese.29.7   Le spese superarono le entrate dell’1.8 per 100 soltanto in Liguria:  nelle altre regioni le spese furono inferiori alle entrate. Nelle Società della Basilicata, della Calabria, della Sicilia la proporzione delle  altre spese alle entrate è superiore a quella delle spese per sussidi  ai soci e alle loro famiglie, indizio di non buono e parsimonioso ordinamento amministrativo ; nel resto del Regno la parte maggiore  delle spese fu assorbita dai sussidi ai soci e alle loro famiglie.   Come per le entrate così per le spese si hanno più minuti ragguagli nelle spese delle Società riconosciute, erogate durante l’anno  1903. Nelle cifre seguenti si dà la ripartizione di 100 lire di spesa Spese di malattia j f^^se '. ! :  Sussidi di cronicità ed impotenza al lavoro  Sussidi di vecchiaia.    Soci defunti  Altri sussidi l Onoranze funebri Sussidi alle famiglie    19,45  3.01  4,40  10 87  0.75  2.62  1.34 03 ( Magazzini di consumo .   < Altre aziende sociali . ’S g ( Altre spese.   Spese di amministrazione  Spese straordinarie. . .   Le spese per sussidi assorbono il 42.44 per cento del totale  delle spese e vanno da un minimo del 14.21 per cento in Sicilia ad  un massimo del 69.57 per cento nell’ Umbria. In tutte le regioni,  esclusa la Lombardia, si nota che la maggior parte delle spese per  sussidi va nei sussidi di malattie, col massimo del 50 per cento nell’Umbria. In Lombardia invece hanno prevalenza i sussidi di vecchiaia.  Le spese pei magazzini di consumo sono rilevanti nel Piemonte (56.02  per cento), nella Toscana (43.51 per cento), in Calabria (39.97 per  cento). Le spese di amministrazione variano dall’ 8.02 per cento in  Piemonte, al 33.47 in Basilicata.    . 28.78  . 7.05  . 2.6S   . 13.14  . 5.91    La sostanza patrimoniale delle Società al 31 dicembre 1902 che  come abbiamo veduto, è di lire 72.395.544. ragguagliata per Società  e per soci e distinta fra Società registrate e Società non registrate,  dà le cifre seguenti:    patrimonio medio.   per ciascuna Società   Società riconosciuta 24.267,00   Società non riconosciuta 7.887,67   Riconosciute e non riconosciute 12.017,85    per ciascun Sòcio   123.32   60,16   82,50    È più alta la media nelle Società riconosciute; e ciò non dimostra che il riconoscimento giuridico sia stato per quei Sodalizi elemento di singolare prosperità, ma che i sodalizi più forti meglio dotati e quindi più evoluti hanno sentito e voluto tutti i vantaggi della  personalità giuridica.   Dalla media generale del patrimonio per Società si discostano,  nel massimo la Lombardia con lire 20.655,70, nel minimo la Calabria  con lire 4 391,09; gli stessi scarti si riscontrano nella media del patrimonio per socio : 122.97 in Lombardia, 40.15 in Calabria.   Si hanno i dati della composizione del patrimonio soltanto per  le Società riconosciute, e si riferiscono al 31 dicembre 1903. A quella data il patrimonio delle Società riconosciute ammontava a lire 35.976.981 ed era cosi composto. Beni stabili L. 3.580.079 10,0   Titoli pubblici e privati 15.239,047 42,6   Mutui e depositi a risparmio . « 14.648 374 40.7   Altre attività.» 2.50S.461 6,9    La misura massima di impieghi in immobili è nelle Società delle  Calabrie ove si ha il 33.5 per cento, il minimo si riscontra in quelle  della Campania col 2.5 per cento. Negli investimenti in titoli pubblici e privati il massimo è nella provincia romana col 70.3 per cento. Nelle Marche invece si ha il massimo in mutui e depositi a  risparmio con 1’ 81.9 per cento ; la Liguria presenta invece in questi impieghi il minimo col 13.8 per cento. Hanno speciale importanza le cifre che discriminano le Società  di mutuo soccorso secondo la entità del patrimonio da esse posseduto. Riferiamo qui le cifre assolute e proporzionali del numero  delle Società per entità patrimoniale, al 31 dicembre 1904.   Numero delle Società che hanno un patrimonio: Da L. 0 a   999   Cifre assolute  1.517   Su 100 Società  23.6 11 1000 a 4999   2.117 35,3 » 5000 a   9999   9S9 16.5   n 10.000 a   49.999   1.239 20.6   n 50.000 a   99.999   156   2.6   n 100.000 a 249.999 60 1.0   ii 250.000 a   49.1,999   12   0.2   n 500.000 a   1.000.000   5   0.1   Oltre un milione   4   tu   Senza indicazione del patrimonio 535 Di 5999 Società che hanno comunicato 1’ ammontare del loro patrimonio, solo 81, delle quali 54 riconosciute, hanno un patrimonio  superiore a lire 100,000 ossia circa 1' 1.10 per cento. 11 23.6 per  cento delle Società ha un patrimonio inferiore a lire 1000; il 35 3  per cento un patrimonio da lire 1000 a 5000, il 16.5 per cento un  patrimonio da lire 5.000 a 10.0000 ; il 20.6 per cento un patrimonio  da lire 10.000 a lire 50 000 e il 2.6 per cento un patrimonio da lire  50.000 a 100.000. Le federazioni.   Nelle norme preparate dal Consiglio di Previdenza per il riconoscimento giuridico delle Società composte di non operai è ammessa la costituzione di consorzi fra Società riconosciute per formare un fondo di riserva consorziale, per assumere impiegati comuni, per stipulare contratti con medici e farmacie, per mettere in  comune alcuni servizi, o anche alcune assicurazioni. Si può stringere anche un accordo fra Società non tutte legalmente riconosciute  per esercitare un controllo sui soci sussidiati o per regolare il passaggio dall’uno all’ altro sodalizio di quei soci che cambiano resiTa legge francese del 1898 sulle Società mutualiste consente la  costituzione di unioni fra le Società, conservando ciascuna la propria  autonomia, aventi per oggetto principalmente : l’organizzazione a  favore dei membri effettivi delle cure e dei soccorsi indicati nella  legge e specialmente la instituzione di farmacie nelle condizioni  stabilite dalle leggi speciali sulla materia ; l’ammissione dei membri  effettivi che abbiano cambiato residenza; il regolamento delle pensioni di vecchiaia; 1’ organizzazione di assicurazione mutua pei rischi  diversi a cui le Società debbano provvedere, specialmente la fondazione di Casse di pensioni e di assicurazioni comuni a più Società  per le operazioni a lunga scadenza e le malattie di lunga durata;  il servizio del collocamento gratuito.   La statistica ufficiale non registra la esistenza in Italia di Consorzi  o d Unioni costituiti per gli scopi predetti, che hanno alquanta  analogia eon quelli indicati nelle norme. In recenti Congressi regionali di Società di mutuo soccorso fu deliberata la costituzione di  unioni regionali, ma ancora non possiamo dire se furono costituite  e per quali scopi.   Nel primo Congresso nazionale delle Società di mutuo soccorso  tenuto a Milano il 29 giugno 1900 fu deliberato «d'organizzare fra  m loro tutte le Società operaie di mutuo soccorso in federazione  nazionale, salvo studiare il modo di organizzarle razionalmente, con  a nomma di una Commissione esecutiva provvisoria », fissando intanto  a Hi n^ ta 1 o annUa dl, pre,. 5 per le Societ à aventi non più di 100 soci  t pe f <3 £ e i e dl - un numero superiore; e «di indire un  mprf Ha] lavnnn Fede n azl one delle Società operaie, quelle delle CaLa fnlliìl! 6 ?r e Ì Ie delle Cooperative per un’intesa comune ».  con?t^ a aduna " za deI 5 settembre dello stesso anno 1900,   Essa G ha S «Tintento F ri? e n aZ10D H SOn ° P reyaIen temente d'indole morale.  Società federate ed?,?^ ed - ere . alla tutela de ^ interessi delle  nomico delle classi i a JÌ,!f + lb - U ^ re a miglioramento morale ed ecoraS ungeretei intenti ^ per mezzo delIa Previdenza ». Per  aggiungere p ento la Federazione si propone in modo speciale:   previdenza e cooperazionp A n< ?I 6 i ment + ) d '^ istituti di mutualità, di  Sano effettì^SX*teoon P«r Chè ris S°" fare opera di solidarietà con tutte le li“,QM . de ! lavoratori; e,SC ° P0 .iirftr 1 " t‘la<i'asse lavoratrice; “ P6r   slazione che valga a svfiunnare^Am 6 dÌ U ° . si,f tema completo di legia tutelare le ragioni deMavoro “ p pi . u 1 . bene . fiz i dell’associazione,  sulle classi lavoratrici; 6 ad alIeviare i tributi che gravano   nella m^deUo^ ifm^ 00Ì ^ Società federate, intervenendo   mediante pubblicazionrco^fere^ze 0 ÒQWe CÌ * ZÌOn - e 6 di P revid enza,   meZ SelK^ UÌ Ia C ° n tUttÌ 1   mutuo soccorso rTcoifosS^e Sf parte tutte le Soc ietà italiane di  siano inspirate ai5? f a „ 08,? ute 0 di fatto - P^chè videnza. P p l0 ndamentali della mutualità e della pre di iirc 5 se hanno^^numero^i^ff 1 - 6 UDa quota annua anticipata:  se hanno da 100 a 500 soci di k p ® non superiore a 100; di lire 10  ài lire 20 se hanno più di ìooo^om' 1 86 hann0 da 500 a 1000 soci ’   6 «5dfott federa a e hano diritt0:   consigli ed aiuti morali^ ^ oinn: n ss mne esecutiva in ogni circostanza   teresse generale- 1 " 81 d<J1 seryizl che la Federazione stabilirà nell’in àana, monitore della 6 P^derazton^^d^ giorna l e La Cooperazione ItaCongresso; ^aerazione, ed una copia degli atti di ogni   « d) di ottenere gratuitamente consulti legali e pareri di indole amministrativa;   « e) di valersi del giornale La Cooperazione Italiana per trattare  quelle questioni che si riferiscono agli interessi della mutualità e  della previdenza. Gli organi della Federazione sono: il Congresso delle Società  federate; il Consiglio Generale composto di 50 consiglieri eletti dal  Congresso fra i soci delle Società federate; la Commissione esecutiva  composta di nove membri scelti fra i soci delle Società federate e  residenti in Milano; i Comitati regionali, secondo le circoscrizioni  stabilite dalla Commissione esecutiva; il Collegio dei Sindaci composto di tre sindaci effettivi e due supplenti, nominati dal Congresso  fra i soci delle Società federate residenti in Milano; le Commissioni  di consulenza, di statistica, di propaganda, ecc. quando ne fosse reclamata la costituzione.   La Federazione ha organizzato tre Congressi nazionali: quello  di Milano nel 1900; quello di Reggio Emilia nel 1901; quello di Firenze nel 1904. Le Società federate sono andate crescendo nei cinque  anni 1901-1905 nella proporzione seguente: 1901 548 1902 573 1903 720 1904 733 1905 745 In un Congresso internazionale e nel chiudere questa relazione la quale dimostra quale sia la condizione delle organizzazioni  mutualiste in Italia, io non credo che si possano presentare, come  epilogo dei fatti osservati, voti e proposte che abbiano riferimento  alle particolari condizioni delle nostre Mutue ed al loro avvenire.   Credo soltanto possibile esprimere un voto il quale ha necessario  legame con la proposta costituzione di una Federazione internazionale della mutualità, che sarà vanto di questo III Congresso, poiché,  a mio giudizio, una Federazione internazionale deve trovare il suo  principale fondamento nelle organizzazioni federative nazionali. Ed  il voto è il seguente:   Che si promuova in Italia la costituzione di Federazioni od  Unioni regionali di mutuo soccorso, le quali si propongano i fini  additati dalle Norme e meglio specificati dalla legge francese, in  quanto siano applicabili alle particolari condizioni e funzioni delle  nostre Società ;   Che le Federazioni regionali facciano capo ad una Federazione  Nazionale, la quale, pure esplicando l’azione d’indole morale che è  nel programma dell’attuale Federazione, compia anche alcuni uffici  propri delle federazioni regionali, specialmente quello di sovvenire  i soci dei sodalizi aggregati alle regionali, i quali, per ragioni di  lavoro o per altre ragioni, si trovino fuori del territorio nel quale  la Federazione regionale esplica la sua azione.  Uo spirito cooperativo. Se il tracollare di tante impresa o società sorrette  da grossi capitali aggiunge nuove pa^ne ai volume delle  nostre afflizioni, è bello invece vedere per virtù popolana sorreggersi liberi e sicuri nel loro corso anche in  Italia i sodalizii dèlia previdenza e* del mutuo soccorso.  Animati nelle loro operazioni dal sentimento della pietà,  e non mossi da studio di soverchio guadagno, finiscono  col raccogliere anche la ricchezza, come premio della loro  virtù e col dare un'alta pro\a di quella verità che gli  affari più cauti ed onesti sono sempre in (in dei conti i  più lucrosi. Così queste società nuove di operai e di piccoli indaslriali, svincolale dai vecchi rancori, amiche  deirordiiie e della liherlA, v:inno sempre meglio disegnando  ed aiiargaiido i contorni dell' azione, c creando una buona Speranza per l'avvenire della nostra patria. Fatta Tltalìa, è d'uopo per fare gP italiani che alle vecchie e cascanti passioni di un popolo per secoli torpido e povero,  sì sostituisca la fede energica nel lavoro e neir associazione.   Occorrono a ciò quelle tempre d^ uomini gagliardi ai  quali nulla di onesto e di utile pare impossibile, e che  nel meditare al proprio, tornaconto non dimenticano quello  degli altri. Occorre che in tutte le citlà^ d'Italia sorgano  e iiros|u'rino gli spirili benevoli, i quali sappiano inlendere l' iiulirizzo del nostro secolo, e prodighino le opere  buono a quello stesso modo, e sto per dire, con quella  spensieratezza, colla quale i più le stemperano nella cascafigine e nelT ozio. E queste qualità cominciano appunto a ravvivarsi nei  gruppi de' nostri cooperatori, le quali, mef^lio di tanti  discorsi accademici che entrano ed escono dalle orecchie  0 di certi volumi di economia politica, senza lettori, valgono a provare colla evidenza dei fatti, che la maggiore  delle industrie è l'onestà dei costumi, e che il lavoro e  r associazione non accrescono soltanto la nostra fortuna  materiale, ma ben di più» il patrimonio dei nostri affetti  e delle virtù nostre.   Di fronte al movimento d'associazione che si estende  da tutte le parti, è. necessario stabilire i cardini su cui  s' aggiri ben definito l' oggetto e lo scopo dell' associazione. Fino ad oggi te società di commercio e dMndostrla  avevano per unica mira il guadagno di coloro che le dirigevano. Questo guadagno talvolta eccessivo, aveva per   motore l'egoismo, c per mezzi i tranelli, la speculazione  e r aggiolag!2Ìo. E pur troppo mezzi così odiosi hanno  fatto colossali e scandalose fortune con desolazione c rovina di una falange di creduloni e di delusi. Le società cooperative hanno invece per ragione la fraternità, per principio l'eguaglianza, per mezzi l'onore,  la probità e il lavoro dei cooperatori associati ; e per  ìscopo r emancipazipoe di tutti ; la cooperazione dà aispiaiTo d' associazione. r uomo il mezzo di amministrare e di gestire da sè stesso  ciò che gli appartiene, ed a ciascun cooperatore accorda  la facoltà di aver parte air amministrazione delle cose comuni. Còsi la cooperazione sorretta dall' intelligenza, vi*  vificata dair amor fraterno, rivela air uomo T arcano della  sua forza e della sua potenza. Ma peicliè giunga agli  sperati e (Te ili senza deviare dai principii che sono fondamenlo di ogni rigenerazione sociale, si addomanda ai  cooperatori vigilanza attiva e studiosa, saggezza, aniiegazione e virtù; nè, per evitare gli scogli contro cui ruppero tanti, cessino di tenersi in guardia contro i funesti  allctlamenli, i desiderii ambiziosi, le passioni egoistiche  e gelose. Bando sopratutto ai sistemi esclusivi! essi contengono i germi di discordia e di dissoluzione che bisogna sradicare dalla loro prima comj)arsa. Quanto allo socielà cooperative formate lìnora in Italia,  mentre dobbiamo conoscere la devozione, il disinteresse  dei loro fondatori ed aderenti e i risultati abbastanza felici, tenendo calcolo delle difficoltà che erano da superare, converrà sìeno impiegate maggiori forze e sieno  sbandite tutte quelle mezze misure che conducono facilmente air aborto.   Si ha bisogno di uscire al più presto dalie vecchie  abitudini, dai sistemi restrittiyi, e rendersi p^puasi che  un progresso non è realmente buono se non m quanto  possano tutti parteciparvi; che T eguaglianza è T anima  della cooperazionc, come d'ogni giustizia; che il genio  cooperativo nel suo oggetto, nel suo scopo e nelle sue  conseguenze sociali, ha una missione immensa da compiere, e che deve penetrare come il sole, tanlo nelle campagne quanto nelle grandi città.   Ma perchè le società di credito e di produzione possano agire senza ostacoli deesi sgombrare il terreno dell' industria dall'impiccio delle tante braccia strappate alle  campagne e fioriate nelle città a far una disastrosa concorrenza cogli operai. Per togliere dallo stato precario e  dalla miseria, ove si trovano, lutti questi campagnoli che  disertano la gleba per cercarsi lavoro nelle manifatture »  bisognenibbe procurare la loro emancipazione col mclterli  anch'essi in grado di partecipare alla propriclà territoriale per mozzo delle associazioni cooperative. Al che  condurrebbero quando si formassero de' sodalizii agricoli  c industriali, abbastanza potenti per oHrirc un asilo a  coloro che non hanno una via aperta alla loro aUivilà.  Con questo mezzo il commercio e l’industria si troverebbero al riparo dalia concorrensa industriaJi superflui,  poiché ove le società cooperative non propagassero ia loro  azione nelle campagne, e restassero nelle sole pitià, subirebbero i maggiori disinganni.   Ed oltre a questa concorrenza dannosa, aggiunge  quella che i lavoratori si fanno fra essi e che forma  reggette dMndebite lagnanze. E infatti coltivatori, affitjtaìuoli, proprielarii si lamentano troppo spesso dr questa  concorrenza che, a detto loro, impedisce di vendere i  frulli del campo e del lavoro a buon prezzo, e non pensano intanto che la concorrenza de'' produttori coi prezzi moderali suscita un'altra concorrenza, quella de' consumatori; non pensano che se essi hanno quelle vanghe,  quelle zappe, quei martelli, quelle seghe a buon patio, e  appunto per la concorrenza delle fucine che procura a  minor prezzo il ferro di che hanno bisogno per gli isirumenti de' tgro mestieri ; che è la concorrenza dei tessitori e de" granaiuoli che fa comperare ad essi con modici valori il vestito e il nutrimento, e tutto quanto entra  nei bisogni della vita. Ma quando l’equilibrio si rompe anche la concorrenza  diviene dannosa; le braccia divelle dai campi e intrecciate agli ordigni de^ mestieri devono rompere Tarmonia  che è il supremo beneficio d^ogni sociale interesse > ed  è appunto un gran prezzo dell’opera il far in modo che  ì campagnoli restino nelle campagne, nò depongano la  marra e il sarchiello pel maglio o pel telaio.   La concorrenza è ìm gran motore delle attività umane,  e trova la sua perpetua alimentazione nelP interesse individuale. Essa non e che il risultato dello sforzo che fa  ciascuno pel proprio interesse, e porta poi come ultima conseguenza il bene generale. Essa è dunque il principio  deir esistenza Jelle società, poiché dalla concorrenza degli  uni e degli altri promana il vantaggio di lutti; nè permeile ad' alcuno di predominare a scapito degli altri, è  una compensazione che ci facciamo a vicenda.  Senza la concorrenza dei produUori i consumatori pagherebbero tutto ad una esorbitanza di prezzi, e senza  la concorrenza clie i consomatori si fanno tutto cadrebbe  a prezzo sì abbietto che nessuno sarebbe più sollecitato  alla produzione. E chi sconoscerà il vantaggio che ne trae l’emulazione «  che è uno stimolante prezioso per T intelletto e per Fattività deir uomo, e ne sorregge ne^ suoi lavori la meditazione e i sudori per trionfare sui competitori suoi. Per studiare a tale intento, e trovare nuovi processi di  produzione più economica e più abbondante per accorciare  il tempo e conseguire Y esito migliore, e per soggiogare  le forze delia natura, decuplicando e centuplicando la forza  deir uomo?   Chi teme la concorrenza è solo colui che non sa far  meglio degli altri, o clic vagheggia guadagni più ghiotti;  egli sa che il consumatore si rivolgerà al fabbricatore che lavora meglio, e al venditore che spaccia a minor prezzo;  e chi invoca misure restrittive, chi domanda ai governi  la proibizione d' introdurre merci forestiere, attenta alla  liberti, ed è un egoista che vuoi prelevare a suo profitto la differenza tra i suoi prezzi e quelli degli stranieri. Ha quando l’equilibrio delle classi si rompe allora la  concorrenza conduce diviato alla ruina. E pur troppo vediamo i giovani campagnoli non rare volte dalla mal tollerata loro condizione sospìnti a quella delP artigiano delle  città, perchè a questo la giornata si paga più cara che  ad essi, ed ogni sabato esce dall'officina col suo salario  alla mano. Queste braccia divelle dai campi e iuirecciate  agli ordigni degli opificii tolgono le larghe emanazioni di  quella occupazi.one che fin dai primi tempi alimentò l'uomo  «uila terra. Eppure l uomo della campagna quando pensa all'artiere della città, dice: in (jual minor conto siamo  ' noi tenuti! S'inganna esso a partito; nessuno tiene in  minor conto chi guida il solco e l’aratro, ed è necessario che i contadini il sappiano, che abbiano ànch'essi  le loro istituzioni da cui sieno allettati, e che le provvide  virtù camminino fra i popoli agricoli » sotto i tetti di  paglia, tra i novali e i vigneti, e che la vanga e il sarchiello non restino mortificati dinanzi al maglio ed  al telaio. Nicola Coco. Keywords: mutuale prevalente, cooperativa, impresa cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra, giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto, corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione, sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico, unica garanzia del contratto sociale, mutuo soccorso, la societa di mutuo soccorso, le societa di mutuo soccorso, mutualita, mutualita prevalente, contratto di carattere mutuale prevalente, lo spirito cooperativo, considerazione sullo spirito cooperative. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco” – The Swimming-Pool Library. Coco

 

Luigi Speranza -- Grice e Codronchi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del contratto -- giochi d’assardo – contratto – gioco aleatorio – Ercole, l’Ara Massima, e il patto comunitario – scuola d’Imola – scuola di Bologna – filosofia bolgnese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Imola). Filosofo bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Imola, Bologna, Emilia-Romagna. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were not for the fact that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see conversation as: ‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do confess to having been attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’ approach to conversation alla Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the reason I give there for rejecting the view is valid, or strong enough! As for ‘games’ – of course conversation is a game – but I never took that too seriously – perhaps because Austin was obsessed with games and rules of games – and the subject was worn out for me – when Hintikka came along all he did was talk about ‘dialogue games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract bridge!” – such as ‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the ‘conversational game’ – and conversational ‘players’ – “Only this or that ‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto dal padre. In seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue in tre classi di contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è noto il rapporto tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un secondo contrato nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario è fondato sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario si basa su una legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time, I was attracted by the idea that observance of the CP and the maxims, in a talk exchange, could be thought of as a quasi-contractual matter, with parallels outside the realm of discourse. If you pass by when I am struggling with my stranded car, I no doubt have some degree of expectation that you will offer help, but once you join me in tinkering under the hood, my expectations become stronger and take more specific forms (in the absence of indications that you are merely an incompetent meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit, characteristically, certain features that jointly distinguish cooperative transactions: 1. The participants have some common immediate aim, like getting a car mended; their ultimate aims may, of course, be independent and even in conflict-each may want to get the car mended in order to drive off, leaving the other stranded. In characteristic talk exchanges, there is a common aim even if, as in an over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each party should, for the time being, identify himself with the transitory conversational interests of the other. 2. The contributions of the participants.should be dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding (which may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being equal, the transaction should continue in appropriate style unless both parties are agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start doing something else. SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO. C. Sor's incerta vagatur, Fertque refertque vices. Lucan. FIRENZE PER GAETANO CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI TOSCANA &c. &c. etc. Questa operetta che sottopone il CONTRATTO—cf. Grice, quasi-contratto -- d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio, penetrato del la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali desidero con tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi forſe negli uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di arricchire. L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi necessari a sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha voluto che ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo stimola, gli ha inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore; acciocchè se dalla propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi della vita, riconosca però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma sempre operosa accende talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che se medesimo, o un piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa sovranamente in un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che non sian vaste e sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi dell’uman genere ecco i grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato. Quindi è che sempre nuove vie si spianano al commercio, nuovi mezzi si studiano per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano per dilatarlo. Questo ardore medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre inventando un nuovo contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e più estese forme. Chi avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili società, quando altro contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi dell’armento in cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un giorno uomini, che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente, sicura, e da esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta, la soggetta al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane dei mori che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale colla polvere d’or, che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si appoggia solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della fortuna? Il moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli pare che il negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente quantità l'a preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite delle loro sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e questo contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo determinati, o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria a render giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di uguaglianza in tale contratto aleatorio giova maravigliosamente quell’utilissima scienza che arditamente calcola le probabilità e si rende soggetti, per così dire, i sempre vari accidenti della fortuna. Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica politica perchè è stata ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte a 2 del commercio e di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi veglia alla pubblica felicità. Ma io crederò di potere con parità di ragione chiamarla “aritmetica del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra il certo presente e l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato quel seme fecondo che ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee produr nulla meno la sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce dell’onesto e del giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil cosa se io cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una sì vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su di essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al contratto aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia possibile investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura, più o meno esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne determini l’uguaglianza, é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia. Contratto aleatorio io chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un diritto, o vogliam dire di una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei separatae), il buon esito della quale è affidato all’incertezza della sorte (cfr. Grice, “Intenzione e incertezza”). E quì si osservi che si può nel medesimo contratto considerare l’aleatorio relativamente ad ambedue i contraenti. (parola chiave: “ambedue i contraenti”). Quello, il quale talvolta per far guadagno di una tenue somma di denaro ma certa, vende la speranza incerta di un gran guadagno, sottopone all'aleatorio tutto quel di più che avendo buon esito la ceduta speranza, supera la tenue somma in cui la cambio. L'uguaglianza che dopo fissato dalla legge o dalla consuetudine il prezzo della cosa ricercasa nel contratti perchè sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata la cosa che ne forma l'oggetto, ritrovisi in Vedasi più sotto ove si parla del contratto di alii curazione un vero senso egualmente pregevole ciò che danno nel contratto e reciprocamente ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che l'avere un diritto o una speranza è molto più valutabile che il non averla? E se ciò è vero, è manifeſso che questa speranza puo dirsi avere un vero e real prezzo nel commercio degli uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere un prezzo diverso, questa speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per conseguen prezzo calcolarsi in guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello per cui alcuno desideri di farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad una vera uguaglianza. Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo tale TEOREMA. Nel contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza, che gli caratterizzi per giusti. ng Too vorrei potere esporre con la maggior precisione e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone per cui si puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si parla. Il soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi l'opportuna applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per nome di premio si può intendere, e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di estrinseco valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore secondo che è maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento separatamente e senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto* del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’ contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10 bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio* del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà, che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente* l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri. In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111 (a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza necessaria converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo caso il prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e quindi li puo universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle speranze sono in ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o reale sperato (res sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de contraenti stia al premio, come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la porzione che si lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si istituisce il paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei contrari: e così dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro, come i numeri dei caſi ri ſpettivamente favorevoli. Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente, qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza; quali ſiano i veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che convenga alla naturą del contratto in queſtione. Conſiderando at; tentamente la natura e le leggi dei diverſi contratti di azzardo, mi è parſo che preſen tino una facile e natural diviſione, per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi li pof ſono comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura, e dalle diverſe leg gi che gli coſtituiſcono, ne naſce una diverſa maniera di fiſſare i rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri. A tre fi poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo. Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura, e le leggi del contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza, numero determinabile, e ragioni certe, e ſicure. Il ſecondo è quello nel quale per la natura del contratto, non ſi può fondare il rapporto, ſe non che ſulla ſperienza, e ſulle oſſerva zioni eſatte perd, e molte volte replicate; e ſopra cagioni incerte, e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e dei fi niſtri, non può mai eſſer certo, determinato, e ſicuro. Terzo metodo è quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione, parte alla conſiderazione di leggi certe e ſicure, e par te alla ſperienza del paſſato, e a circoſtanze incerte ', e di numero indefinito. Nei contratti adunque della prima fpecie, conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire ſull'oggetto del contratto, ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali poſſono combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei caſi favorevoli ai finiftri. La ſcienza delle combinazioni, e permu tazioni è ſtata nel noſtro ſecolo così illuſtra ta, e dall ’ Ugenio, e dal Bernullio, e dal Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa, che vo lendo io trattarne a lungo, non potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione, e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe, che non laſciaffero un neceffario deſiderio di molte più, intorno alle quali l'intertenermi, oltre paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio; e tanto più, che ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura trattare tutti i caſi par ticolari. Nel venire però eſaminando la na tura dei diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi, ſi vedranno di trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati, ed indicata la maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto, e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed aſtruſi. Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima claſſe debbonſi riferire. Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo Bernulli, per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il numero dei caſi favorevoli e dei contrari, i vantaggi reſpettivi dei giocatori, e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi ſenza rinunziare alla miglior condizione, in cui l'hanno già poſto alcuni colpi favorevoli. So che eſſendo la probabilità, o ſemplice, o compoſta, ne ha queſto gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una curva logaritmica, o di queſta con una pa rabolica, e così ſucceſſivamente aſcendendo alle curve dei gradi più alti. Ma laſciando da parte i profondi calcoli, e i miſteri della fublime Geometria, i quali però ben pene trati ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo, piacemi in quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi del gioco, per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo, come ſi poſſa in eſſo e dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori, e in tal guiſa applicare a queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi. Il gioco di pura ſorte è una ſpecie di con tratto, nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di certe leggi, e condizio ni, ſi diſputano un premio, che ſi rilaſcia a chi ſarà più felice, per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per ve run modo dalla loro induſtria. E quì cade in acconcio fare una rifleſſione comune a tutti i contratti di azzardo. Il dire che una coſa accada caſualmente, non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta; e che non vi abbiamo alcuna volontaria influenza. Per altro quan do fiegue in natura un determinato effetto, qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea ſeguire. Che due dadi gettati ſu di una tavola, ſcoprano piuttoſto un numero, che un altro; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue per le noſtre mani medeſime il tratto. E perd ugualmente vero, che dato quel tal moto alla mano che gli getta, dato quel tal grado d'impeto, e non più nè meno, data la mole dei medefi mi, e il piano ſu cui ſi aggirano, devono neceſſariamente preſentar quel tal dato nu mero e non altro. Così dicaſi dei giochi di carte le combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di meſcolarle, e di dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante; anzi pure non ſolo del gioco, ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di azzardo, e generalmente di qualunque evento fortuito (a ), (a) Non ſolo ne' contratti ove ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente marcati, ma anche in tutto il tenore di una vita diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il premio. Le fatiche, gl'incomodi, le priyazioni dei piaceri formano il primo. Nella gloria, nell'autorità, negli onori, nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo, che molte volte defrauda le meglio fondate ſperanze, o almeno ad effe perfettamente non corriſponde; onde può dirlig.Varie ſono le ſpecie principali dei giochi di pura ſorte, ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il premio.O due giocatori eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective porzioni di depoſito con la legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il quale felice mente s'incontra prima dell'altro in un fa vorevole accidente, che ambi ſi ſono propoſti d'incontrare; o a quello, che in ugual nu mero di faggi, ſotto le medeſime leggi, di pendentemente dalle medeſime condizioni, 6 2 che così in queſte ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui s'inſtituiſcono e ſi celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile divinità creata dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe, e del compleſſo delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi, ma che in tutti i caſi ſuol chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere pertinax. Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli attributi della fortuna, o del caſo, quando ſono uſate dal Filoſofo, hanno un fenſo di verſo da quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia, e il volgo che non ragiona. << tro, così dire nega incontra quelle combinazioni che preſen tano una maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco, e alla quale è at taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco è tale che un ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto certe condizioni, d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di altri ' compoſto, e quale non incontran do, la ſorte s'intende aver deciſo per l'al la ſperanza di cui per tiva, non ha altro oggetto che l'eſito infe lice delle mire dell'avverſario, non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente ve run colpo di gioco. Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i giocatori azzardare una egual fomma, o prezzo, altrimenti reſterebbe manifeſtamente tolta di mezzo la neceſſaria uguaglianza. E' chiaro che allora il prezzo con cui ſi acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell' oggetto; poichè il primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori e il ſecondo è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il totaledepoſito.Ma co me trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli uguale a quello dei ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria? E certamente ſe fi conſiderino i caſi favorevoli, ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei giocatori; non ſi potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque. E' queſta una evidente verità, ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco, per le quali dipendendo la ſorte di un giocatore, non dai ſuoi colpi ſolamente ma da quelli ancora dell'avverſario, i ter mini della proporzione ſaranno ſempre rela tivi, e per conſeguenza variabili. Eſaminata però più maturamente la natura del gioco di cui ſi tratta, fi dee riflettere, che il nu mero dei caſi favorevoli a un giocatore, è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di rettamente, ma dei caſi altresì all'avverſario contrarj; e al contrario il numero dei finiſtri, altro non è che la ſomma degl'infauſti a lui, e dei favorevoli all'avverſario. Ma quando fi giochi con condizioni eguali, queſte due fomme fono eguali: dunque anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il canone della ſtabilita proporzione, e i prezzi ſtare fra loro come i caſi favorevoli ai finiſtri. Da ciò ne ſegue, che ſe due giocatori proponganſi di incontrare la medeſima favo revole combinazione o la medeſima ſomma di accidenti; ma che uno voglia far più ſaggi del gioco, o cercar con più mezzi quelle combinazioni che preſentino maggior ſomma degli elementi del gioco, nella guiſa di ſopra accennata; l'altro in tal caſo dovrà eſami nare di quanto il numero delle combinazioni a ſe favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre, ed eligere che la porzione di depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione quella che egli conferiſce nel gioco. Sia concertato per eſempio, che abbia il premio del gioco quello che fa più numeri con i dadi, ed uno voglia gettarli più volte, o in ugual numero di volte gittarne un mag gior numero, è manifeſto, che dalla natura, e dalle leggi di queſto gioco, ſi potrà con le note regole delle combinazioni ricavare in che proporzione debba egli eſporre all'azzardo ſomma maggiore. Che ſe poi trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata, che è allor.quando uno ſolo dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più favorevoli combinazioni, in un dato numero di faggi, e ſotto certe leggi, e l'altro guadagna full infauſto eſito dell'avverſario, ſenza tentare egli di per ſe alcuna forte di gioco, è più difficile allora, ed è più operoſo il fiſſare gli opportuni termini della noſtra proporzione. L'intenzione e l'oggetto dei giocatori in tal caſo può eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione, o di eſporla diverſa. Nel primo caſo il giocatore che intraprende, e faminata la natura del gioco, e le leggi chę a lui propone l'avverſario, potrà ricavarne il numero dei caſi favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni nelle quali queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi quelle condi zioni nelle quali, il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto quello dei contrari, di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella dell'altro, o al contrario. Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera che ſi ſcuopra la faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una ſol volta, ſiccome ha cin que combinazioni contrarie, e una ſola fa vorevole, converrà, che l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore, altrimente la proporzione reſta alterata. Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da entrambi i giocatori, e ſi voglia più volte ricominciare, erinovare il gioco, converrà oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero dei caſi favorevoli, ſia uguale a quel lo dei contrarj, del che, e relativamente al noſtro addotto caſo, e ai fimili, ne da una eſtefa tavola il gran Bernulli alla propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti tolato ars conje &tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta proporzione è facile a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla prima apparenza, ſenza internarſi profondamente nelle fue leggi. Diffi, quan do fi voglia più volte ricominciare, e rino vare il gioco, per le ragioni addotte dal Ber nulli nel loco citato; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente, egli è evidente che chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6. per eſempio, ed azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario, do vrà chiedere di gettare il dado tre volte; e cid col patto che non s'intendano in queſto numero compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima faccia del dado già ſtata ſcoperta. Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi di più, e ſi conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei giocatori, e l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione, e ſi vedrà che non reſta punto terata la noſtra teoria, benchè coll’eſporre una determinata ſomma ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero dei giocatori (a ). Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di gioco, ridurli ai ſem plici dei quali è compoſto, ed eſaminare in ciaſcuno di effi le ſovra ſtabilite maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a) Vedi il Corollario del Teorema III. che i vantaggi, che ha in alcuni giochi il banchiere, per eſempio nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima carta, ed altri che ha ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono l'uguaglianza, perchè tur bano la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi medeſimi nei quali il premio che dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata dal puntatore, il numero dei caſi favorevoli al primo è maggiore del numero dei favo revoli al ſecondo; o in ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo azzarda più del primo. Si pretende nonoſtante, che ſe ſi conſideri, non la relazione che ha ciaſcun giocatore in particolare al banchiere ma bensì tutto il ſiſtema del gioco, vi ſiano molti rifleſſi che giuſtifichino queſto vantaggio di condizione. Una ſplendida ſomma ſottopone egli alla cie ca ſorte, e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo. Il puntatore per lo contrario può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa for tuna, che tenta in vano di placare; o aven dola provata propizia può aſſicurare i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua volubilità. Oltre 1 1 27 di ciò la ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari giocatori, delle quali alcune per dendo può il banchiere rimanere ftremo, ed eſauſto, ſenza ſperanza di tirar profitto dalla incoſtanza della fortuna; le altre ſe vin ce appena gli recano un tenuiſſimo guada gno; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere medeſimo poſſono baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte ma del gioco. Io preſcindo dall' eſaminare quale, e quanta conſiderazione eſigano le accennate circoſtanze. Due coſe ſolo aſſeri ſco. E che alcune di queſte ſono quantità non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a circoſtanze facilmente alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par te dei puntatori relativamente al banchiere, come par certamente debbaſi conſiderare, la alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in iſvantaggio dei primi, e in manifeſta utilità del ſecondo. Non voglio perd omettere, che eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi del banchiere per ogni pofta femplice, cominciando dalla ſuppoſizione che vi ſiano 52. carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano dell'iſteſſa figura, ſi è rilevato che la media, è il 5. per 100. Ma in tutto un giro quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle paci la forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte, allora la media diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono compenſa zione non variano in modo da efigere que Ita differenza (a ). Non ſi ha dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com penſazione delli ſvantaggi del banchiere. Bi ſognerà dunque per ottenerla, o fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra, e fotto de' quali non poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta: 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno, onde ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo. 29 effendo un di più della poſta medeſima, ma conoſciuto, non altererà le giuſte proporzioni fra il prezzo ed il premio: o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra i con tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge leggi vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità luſinghiera, ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure, alle dotte occupazioni, ed al domeſtico reg gimento delle famiglie, alle quali recano sì di frequente irreparabile ruina; che non è già sì di rado, che una carta di gioco, o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di molti infelici. Si aggiunge a queſto, che la dura legge del biſogno, e la ſevera faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno oneſte, e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo; talchè ſi verificano di troppo i celebri verſi di Madama Deshouliers. Le deſir de gagner qui nuit &jour occupe Eft un dangereux aiguillon; Souvent quoique l'eſprit, quoique le coeur foit bon, On commence paretre dupe, On finit par etre fripon. E quanto il gioco di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi oſſervi le Leggi Romane al tit. De aleatoribus, e nei digeſti, e nel codice, e legga i dotti commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre riguardata come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione di que gl’incauti quos praeceps alea nudat. Io però e nel gioco, e in tutti i contratti di azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra eſpoſta neceſſaria ugua glianza, preſcindendo affatto da qualunque carattere che poſſa rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi, e ai retti coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo, che chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri; cinque dei quali ſi eſtraggono da un vaſo, e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza, che eſcano 31 dall'urna miniſtra della fortuna, azzarda una data ſomma di denaro. Troppo ſon note le leggi di queſto contratto, e troppo è facile il conoſcerne e combinarne gli accidenti, per poter francamente aſſerire che non vi è forſe contratto di azzardo nel quale, e più nota bilmente e più ſolennemente la ſtabilita pro porzione reſti alterata. Sempliciſſimi elemen ti formano il ſiſtema di queſto contratto, e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è baſtevole per far conoſcere, che ſebbene una tenue ſomma di denaro può cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro, pure a fronte di un caſo favorevole ve ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di gua dagnare da quella di perdere, che non la ſomma azzardata dal promeſſo premio per ricco e grande che poſſa parere. Per ſalvare la giuſtizia di queſto gioco, non giova il dire, che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta libertà a queſta diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella convenzione, che ſarebbe al trimenti tanto leſiva. Queſto argomento proverebbe troppo in genere di contratti, e per ciò deve conſiderarſi di neſſun vigore. Sareb be queſta maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e la difeſa di infiniti illeciti guadagni. Oltre di ciò la maggior parte di quelli che giocano al lotto neppure ardiſce di ſoſpet tare, che ſiavi a loro ſvantaggio una sì di chiarata ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come generoſa e prodiga quella mano che premia i vincitori, come ſe foſſe un gratuito dono ciò che non è ſe non una piccola parte di un debito. Più ſolida difeſa potrebbe recarſi riflettendo doverſi in queſto contratto dal padrone del lotto impiegare molti miniſtri, e fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può eſigere ragionevolmente un riſarcimento; ma tutto ciò ancora non baſta a rendere giuſto queſto contratto fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia ridotto. Troppo anche più enorme era la diſugua glianza, prima che con lo ſtabilito aumento foſſe migliorata la condizione dei giocatori; condizione però, che tuttora è aſſai inferio re a quella del padrone del lotto. Quì però fa d'uopo dileguare un inganno comune a moltiſſimi che hanno le vedute corte, e limitate dalla prima ſuperficie delle coſe. Altro è l'aſferire, che il lotto conſide rato ſemplicemente come un contratto è in giuſto; altro è il dire che un Principe giuſto non poſſa ammetterlo nel ſuo ſtato, e debba toglierlo affatto, e ſradicarlo come un mal nato germe della rovina di tanti ſconſigliati. Il lotto può conſiderarſi come un tributo, che viene impoſto a chi ſpontaneamente con fente di pagarlo; cangiandoſi così in vantag gioſo al pubblico, ciò che potrebbe eſſer tan to pernicioſo al privato. Non ſi può deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a cercare in queſta guiſa un propizio ſguardo della for te; nè ſi può immaginare quanto ſia pungen. te lo ſtimolo che ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con una tenue ſomma di denaro, che azzardi, può guadagnare di che ſoſten tare una languente e numeroſa famiglia, o pur talora dilatare i confini del proprio luf ſo, o accreſcer anco tal volta un nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri. Quindi è che tanti, e 34 tanti ſi affollano a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati dall'idea, e ſedotti dalla luſinga di (a) Non può negarſi per altro, che riccome tutte le cofe hanno un grado di valore e di eſtimazione ri Spettiva che naſce dall' uſo che può o vuol farne chi ne è padrone: può conſiderarſi ſotto l'iſteſſo aſpetto anche il denaro. Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal rapporto che egli ha alla maſſa delle coſe che ſono in commercio, può dirſi che un altro egli ne abbia privato e ſpeſſo mutabile, che naſce dalla qualità e quantità deibiſogni, o reali, o di opinione che à nelle date particolari circoſtanze, chi lo poſſiede; Può darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto, levato da una gran quantità, fia una piccola por zione di eſſa, relativamente ſuperflua; onde il ſuo valore ſia ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma ragguardevole che rappreſenta un gran numero di comodi e di piaceri benchè fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado di probabilità, che detto valore nella eſtimazione di chi lo gioca ſia conſiderato come zero, o come una quantità più o meno ad eſſo approf. fimante, formandoſi perciò, per così dire, una nuova e riſpettiva proporzione, ſecondo la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla ſua parte. Queſto ſe non baſta, come ognun yede manifeſtamente, a render giuſto il contratto ſerve a render qualche ragione del traſporto, che hanno a tentar la forte in queſto gioco tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni, e calcolar le ſperanze. 35 quel bene che ſperano, non penſano a mi. ſurare i gradi della ſperanza medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero, getta ſugli occhi loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio filoſofo, e il più freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno che poſſa reggerlo, e non legge che poſſa vincerlo. Se un Principe tol ga dal proprio ſtato queſto oggetto dei co muni voti, la ſconſigliata avidità ad onta delle più fagge leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi precipiterà in altri ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il lotto ſia proibito ed eſcluſo. Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a queſto torrente, accid non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi tutto a pubblico vantaggio, e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano follemente alla loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli per il medeſimo, e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio, neſſun nocumento però ne venga alla Repub blica. Così facendo il faggio Principe, e non 1fi attira la taccia di ingiuſto, e merita tutta la lode di prudente, di politico, di difenſore e cuſtode della pubblica felicità. Di queſta verità ne conoſcono per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial maniera quei popoli, che hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani e benefici, che per l'uſo che fanno del loro erario, anzichè pof ſeſſori, ſe ne moſtrano piuttoſto amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio. Havvi un'altra ſpecie di lotti nei quali non è un ſolo il premio, nè un ſolo il colpo fa vorevole della forte, ma molti ſono i premi, come molti e vari i caſi propizi; e ſecondo l'ordine dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na, o ſecondo altre leggi convenute in pri ma ſi decide del maggiore, o minor premio. Tale è il lotto che ſi è fatto in Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia, nella quale occaſione ſiccome ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità, e penetrazione di ſpirito di chi ha ideato il progetto della grand'ope ſi è diſtinta non meno la finezza, e il di ſcernimento di chi ha regolato il metodo di ra;. 2 37 accumulare le gravi ſomme di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo diſpendio. In queſto contratto come nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare, che varie ſono le ſperanze e molte, perchè vari e molti ſono i premi, e che la ſomma di tutti reſta come venduta a quelli che hanno comprati i viglietti. Sicco me queſti hanno sborſato un ugual prezzo, così devono avere fra loro ugual numero di caſi favorevoli e finiftri relativamente ai di verſi, o maggiori o minori premi; quali eſſendo per lo più vitalizj, l'uguaglianza fra gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de dalle regole, ſecondo le quali ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj. Ma non ſi troverà mai eſatta queſta uguaglianza, poichè una parte notabile del denaro che contribuiſcono gli azionarj, non già nel numero o nel valore dei premi ſi impiega, ma ſi deſtina alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe. In queſto di Murcia però così ſono ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj, e ſono ſtati così grada tamente formati i premi, e in tal numero, e così bene è ſtata regolata l'economia di queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato mai un'altro lotto, in cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma ne ceſſaria alla deſtinata opera, e ſia ſtata me no alterata la proporzione a ſvantaggio de gli azzionarj. Troppo ſon note le lotterie, che con al tro nome chiamanſi dai Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le qualità, e i caratteri di tale contrat to. Dall'economo del gioco ſi mette in un vaſo un certo numero di viglietti, dei quali alcuni ſon bianchi ed altri neri, e ſi vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo eſtraſſe il guadagno di un premio del valore che è notato ful viglietto medefimo. Ognun vede, che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla regola mede ſima, che ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere pubbliche, avuta anche quì in conſiderazione la fatica, e il diſpendio dell'economo del gioco, e riflettendo che in queſto caſo i premi non ſono vitalizj. Questo è un CONTRATTO – cfr. Grice, quasi-contratto -- della natura di quello che dai 39 latini chiamavasi olla FORTVNAE. In simil guisa OTTAVIANO (vedasi) dilettavasi al riferir di SVETONIO (vedasi) di compartir doni ai suoi cortigiani, chiamando così la sorte ad esser ministra della sua beneficenza. Talora un solo è il premio che si disputa fra quelli che giocano alla lotteria, e allora se il premio non è denaro ma un altra cosa qualunque che abbia prezzo, si giustifica più facilmente, giusta l'opinione di Barbeirac, la notata disuguaglianza: e l'economo del gioco può vendere non solo tanti viglietti quanti corrispondono al valore del premio, ma ancora in maggior numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera sua, e il dispendio, quando ve n'ha. Questi lotti si riducono, dice Barbeirac, ad una specie di compra che si fa in comune, a condizione che la sorte decida a chi debba appartenere la cosa comprata. Se ſiavi adunque dell'alterazione nella proporzione, ſi potrà conſiderare come se si fosse comprata la cosa ad un prezzo un poco più alto del corrente; penſando che ciaſcuno tra 1 ! fcuri queſto di più che in altra fpecie di con tratto gli parrebbe forſe notabile, ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più o meno fondata a proporzione che uno ha comprata maggiore, o minor quantità di viglietti. Queſta mallima, che non è certamente di ri goroſa giuſtizia, non ſi potrebbe eſtendere perfettamente a quei lotti nei quali, e molti e di vario prezzo ſono i viglierti, e molti e di vario valore i premi; a tutti quelli in ſomma, nei quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli poſſeſſori di ciaſcun viglietto, benchè lo ſia riſpettiva mente. Prima di paſſare ad altri contratti giovami riflettere, che anche quando il padron del gioco, o qualunque altro che ne abbia di ritto pretende, che ſiano valutate le ſue fa tiche e il ſuo difpendio, non tanto ſi può dire che v'intervenga una compenſazione; quanto che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra proporzione, giacchè quel di più che fi paga, non è a titolo di compra della speranza, ma bensì a titolo dell'altrui di 41 ſpendio, e fatica; e per conſeguenza eſſendo una quantità eſtranea alla detta proporzione non la può in verun modo alterare. Si poſſono ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente a queſta claſſe le ſorti ancora propriamente dette. La ſorte, dice l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria degl'ora coli, è l'effetto dell'azzardo, e come la deci fione, o l'oracolo della fortuna; ma le ſorti fono gli ſtrumenti di cui uno pud valerſi per ſapere qual ſia queſta deciſione. Le ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più antichi popoli; e la forte s'interrogava, o col gettare i dadi colle proprie mani, o col gettarli da un urna: e ai caratteri, ed alle parole che ſu i dadi erano ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che ne contenevano la ſpiegazione. Altre molte erano le maniere di tentare la ſorte, e di a ſcoltarne gli oracoli. E' incredibile poi quan iti, e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di queſta cieca divinità. Baſta leggere gli autori che trattano dei voti che ſi offe rivano a Preneſte, e ad Anzio, e che parlano diffuſamente delle forti Omeriche, e Virgiliane. I verſi dell'immortale Epico Greco, nei quali dipinge con sì vivi tratti l'impeto, e il furore dell'indomito Achille, ritrovati a caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione della rovina delle più floride città, e della deſolazione d'intiere Provincie. E ſe per lo contrario, aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli amabili colori coi quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d' Anchiſe, gli animi tutti non reſpiravan che pace, e quei pochi verſi baſtavano per dar fine alle guerre più ſanguinoſe. Aleſſandro Severo, ſalito al foglio dei Ce fari, credette di averne avuto un preſagio, quando privato ancora, anzi odioſo all'Im peratore Eliogabalo, aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di Virgilio, s'incontrò in quel tratto, ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e piange i'immatura morte di Marcel lo, e preciſamente gli ſi preſentarono quelle parole fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris. Ma io non parlo propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa. Io quì parlo delle ſorti, che chiamanlı elettive, diviſorie, attributorie, e ſimili delle quali brevemente eſporrò la natura e le qua lità, ed applicherò alle medeſime i più volte enunciati Teoremi. Due, o più perſone han diritto ad una coſa medeſima; eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non vogliono gettare, nè tempo, nè denaro in ſuſcitare queſtioni; aſcoltano anzi ſentimenti più miti, e commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè affidarlo alle lun ghe, e diſaſtroſe vie dei Tribunali. Conſe gnano i loro nomi all'urna diſpenſatrice della forte, e quello è giudicato favorito dalla me deſima, del quale vien eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico, e ſolo padrone di quella coſa alla quale avea con gli altri ugual diritto. Che ſia lecito commettere in talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non v'ha dubbio alcuno, giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi ſotto una condizione tale, che il purificarſi la mede fima dipenda dall'incerto, e vario evento della forte. Ora ſe i diritti ſono uguali, ſe quanti fono i concorrenti tanti ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna, ecco che i prezzi che vengono rappreſentati dai diritti che ſi az zardano, ſtaran fra loro come i numeri dei caſi favorevoli ad uno, al numero dei caſi favorevoli a ciaſcuno degli altri riſpettiva mente; ed ecco ſalvata l'uguaglianza di pro porzione fra i favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i riſpettivi prezzi della ſperanza, la ſomma dei quali è l'oggetto della medeſima nel caſo di cui ſi tratta. L'iſteſſo può dirſi a proporzione, quando uno abbia un diritto, per eſempio doppio di quello degli altri; e baſterà che in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome all' urna fata le; e così dicaſi di altri ſimili caſi. E di fatto queſto contratto a farne una giuſta analiſi ſi riduce ad un gioco di pura forte, in cui molti depoſitando ugual por zione un ſolo guadagna tutte le porzioni de poſitate, del quale ſi è di ſopra parlato; e ſi  è detto, che uno depoſitando maggior por zione, pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe. L'iſteſſe maſſime regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano, quando molti avendo un privato diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole dignità, troncano ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte, L'iſteſſo dicaſi delle ſorti diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap poggiano ai medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la proporzione che coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti, Fin quì fi è parlato di quei contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar tengono. In effi fra la ſperanza che ſi acqui ſta, e il prezzo con cui ſi acquiſta ſi può fif fare un eſatta, inalterabile, e matematica proporzione. Note fono tutte le cagioni che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto evento della ſorte, ſi conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le varie combi nazioni, e ſi fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo dei quali queſte fi forma no. E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa applicare lo ſpiritoſo Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota della fortuna, e ſopra di eſla una ſemicirconferen za di cerchio, che con le ſue diviſioni ſerve a regolare quei capriccioſi giri, che ſono l'og getto di tanti voti, e la cagione di tante vi cende dei mortali. Chi intraprende queſti contratti pud, direi quafi, venire alle preſe con la ſorte, e conoſcendone la forza e l'ar mi bilanciare il deſtino della lotta fatale. Non è così certamente nei contratti che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono, ne' quali il rapporto neceſſario a formare l'uguaglianza fra i contraenti, ſi appoggia alla ſola ſperien za del paſſato, e a cagioni incerte, e varia: biliffime. lo ſo bene che ſi ſono pur trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe. La prima, che nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono fortunoſi e irregolari, ſiavi un ordine coſtante, eun'originale diſegno per cui dirette da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate leggi, eſcano a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del mondo. La ſeconda, che l'irregolarità, che non agli eventi medeſimi e alle vicende, ma alle noſtre cortę vedute deveſi attribuire, ſcom parirà finalmente, e replicate l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita, e ſi conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che regolano con sì bella armonia l'intero univerſo. Da queſte due propoſizioni argomentano, che dunque dopo un dato tempo, ſiccome cre ſcendo il numero delle ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un evento, che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza. Ecco ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni FILOSOFI, alla testa dei quali è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi penetrali l'ordine della NATURA, e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto, che non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo. Egli è veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel grande impulſo, che poi la mantiene in moto coſtantemente, e dal quale come da prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima, benchè immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono, e le dan forza. Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele. Le grandi vedute di un politico illumi nato, che formano il ſoſtegno e la forza del Trono, non ſono agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute cure di un ſelvaggio, dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita, e a difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni. Che poi l'Eterna mente che tutto sà e 49 za, o del tutto regola, abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la ſerie delle umane vicende, e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi ſiavi un rapporto più che un altro, un tal'ordine e non un altro, queſto è quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai. Che dopo un certo periodo ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento, chedopo certe rivoluzioni torni l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien potere eterno, e ſovrano? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le idee, che noi abbiamo di ordine, e conneſſione. O non vi è relativamente agli occhi divini ordine e regola; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta; o tutto deve dirſi averla ugualmente. Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di coſe infiniti altri pof fibili, vede un punto che non è ſuſcettibile di quei rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite; o ne vede infiniti altri, per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione. Ma non è forse neppur vero essere più vantaggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta regolarità. Fra le infinite vedute, che l'occhio im menſo ha preſenti per il vantaggio delle ſue creature, chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza dell'altre? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione, e ad allontanarne l'orgoglio: e ſe un padre, ben chè benefico fa l'iſteſſo co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto, che ad animarne la cieca confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore. Non vi è dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi fogliono chiamare fortuiti, e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu che fondamento ſi aſſeriſca, che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta comparir chiara, e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che alla ſcarſezza delle noſtre notizie, e alla mancanza di eſperien ze, in tale ipoteſi deveſi attribuire. SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un evento, oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce, le circoſtanze che lo accom pagnano, e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni. Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare. Da queſto ap punto argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a ſenſo loro dalle noſtre corte vedute, e la regolarità che eſiſte di fatti nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le varie vicende. Replicando adunque le eſperienze, rinovan do le offervazioni, ſi potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza; e a ſquarciare del tutto quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità. Di fatto ſoggiungono, che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è una parte? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto: ed ecco fiſſata la certezza di quegli eventi, che ſi fo no ſempre creduti giochi, e capricci di una irregolare fortuna. E' egli per altro evidente queſto diſcorſo? Potrebb'egli un animo, che non voglia ar renderſi ad altra forza, che a quella della ve rità, dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno hanno tenuto per certo? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei quali ricompariſce l'evento medeſimo, convien riflettere di non notare ſe non quelle volte, nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze. Se così è, e ſe queſte ſono preſſo che infinite, e in finitamente variabili, ne verrà per conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento farà sì vaſta, e il circolo che la rappreſenta sì ampio, che o non ſi potran no da chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote, o sì poche ſe ne po tranno fare, e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai arrivare al grado di confonderſi colla CERTEZZA – Grice, UNCERTAINTY. Tra= laſcio di oſſervare che un evento può com parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed eſſervi nulladimeno tanta va rietà, che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa rebbe sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni, dovrebbeſi ri chiamare. Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti eventi che fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire, e queſte in quante maniere poſſano combi narſi; e vedremo, ſe per quante ſi vogliano replicate ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle circoſtanze che altre volte fi videro accompagnare un evento, la eſiſtenza del medeſimo. Quelle ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi fortuiti hanno conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote, che innumerabili ſono ancor eſſe, e capaci di innumerabili gradi di alte razione. E quì potrei ricorrere a tante fiſiche teorie, le quali dimoſtrano, che un gran fe nomeno può avere la ſua prima ſorgente, tam 54 lora sì rimota che per infiniti giri, e tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare; talvolta sì piccola, che dopo averla conoſciuta, ap pena ſi può credere che da eſſa derivi. E la ragione, e la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al pen fiero l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me, (ſe vogliano porſi in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono, è relative ad oggetti ſimili ) e l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità. Di quì deriva, che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima, che la probabilità di queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza. E quì fa d'uopo riflettere, che la proba bilità, e la certezza ſono due atti eſſenzial mente fra loro diverſi, come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità che arrivi un evento, e la certezza, vi è di mez zo una ſerie infinita di poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına probabilità e viene eſcluſo dalla minima cer tezza, è una barriera inſuperabile, per cui non ſi poſſono giammai fra loro confon dere, ed è quello appunto che le rende (ſia mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili. Le prime oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento, non poſſono dargli che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della irregolarità, e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di verſi, che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo. Siccome adunque per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto moltiplicare per l'in finito, così queſto grado di probabilità do vrebbe ricevere infiniti aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi poſſa chiamare ridotto al carattere della cer tezza. Parlo di caſi nei quali la ſerie dei poſſibili, che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza, è compoſta di cauſe, che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere, e poterſi in infinite maniere combinare. Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render certe, o almeno eſcludenti un pru dente dubbio, alcune ſempliciſſime leggi della natura, dove tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre cagioni poſſibili, che anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi deduce non eſſervi luogo a ſoſpettare che altre ve ne ſiano. E' ben diverſo il caſo noftro ove trattaſi degli eventi che danno occaſione ai contratti di azzardo; e riguardo a quali ſi pretende ſolo di mettere in diffidenza la maſſima che promette che ſi abbia a cangiare in una aſſo luta e rigoroſa certezza, quella che è mera probabilità, e forſe capace di creſcer ſolo pochi gradi. Che non pud fare l'amor di ſiſtema? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a portar lume ai più aſtruſi miſteri della geometria, e ad ana lizzare le coſtanti leggi della natura col più felice ſucceſſo, ſi lancia ardito dal gabinetto $ 7 di un filoſofo, e prefume di porre in mano ai mortali un filo che ſegni la traccia co ſtante degli eventi più incerti, e di aſſoggets tare alla ſua eſattezza ed uniformità, quan to v'ha di più vario, e mutabile. Non ſolo hanno cercato alcuni di ſcoprire un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne riſpettato dai morbi, e dalla ineſorabil morte; ma hanno fperato di poterlo tro vare anche in quegli eventi che più dipen dono da cauſe morali e libere, le quali agi ſcono certamente, non perchè così voglia un ordine e non un'altro, ma perchè così vo glion eſſe, e non altrimenti. Si è perfino tro vato chi ha propoſto le tavole degl'incendii, delle cadute fatali da un precipizio, e di molti altri ſimili fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in eſſi a ſuo tempo regola, ed ordine. Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi fiche cauſe trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie concatenate, in guiſa che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che un'altro; non ſi potrà mai dire 1 1. $$ altrettanto quando vi abbia luogo una libera volontà che non ſiegue ordine, o conneſ fione, e che può produrre un'atto ſenza rap porto a verun' altro che abbia altre volte prodotto, o che ſia per produrre in appreſſo. E ſe è vero, che negli eventi, e nei caſi preſi in compleſſo di tutte le loro circoſtanze, e in quelli ſpecialmente che ſono il ſoggetto dei contratti di cui parliamo, qualche o più proſſima, o più rimota influenza vi hanno le cauſe morali; che ſi può egli penſare di più ſtravagante che il volergli ridurre eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro babilità in certezza? E chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e confuſe foglie, che contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer dotella di Cuma? Ma quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero l'impoſſibilità di arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in qualche certezza la probabilità, pro vano almeno, che per noi, e per ben mol te generazioni queſta farà una ſterile ricer 59 ca; giacchè per molti, e molti ſecoli, (ac cordando anche più di quello certamente, che ſi può ) non ſi potrà vincere quel diſordi ne, e irregolarità almeno apparente, che of ſervaſi nelle umane vicende, e che in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto, che pud conſiderarſi come infinitamente diſtante. Dal fin quì detto per altro non ſi può ra gionevolmente inferire, che dunque dal com mercio degli uomini ſi debbano eſcludere i contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle ſopra indicate clafli. Per provare la verità di queſta aſſerzione convien fiſſare due maſſime conformi alla ragione, e che ſe non erro ſono il fonda mento al quale ſi appoggia la giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza fra i contraenti che è sì neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine vago, e che non ha affiffa alcuna idea, ſe allo ſtato di natura vogliam rimon tare. Il prezzo delle coſe introdotto o dalla legge, o dalla conſuetudine che imitatrice della legge la vince di autorità, ecco ciò che ha chiamata l' uguaglianza a preſiedere ai contratti. Alla ſocietà dunque, e alle fire maſſime deveſi attribuire. Si eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che nelle ſue maſſime generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello ſpirito della medeſima l'eſcludergli, e l' eccettuarli. Si riduce al lora la queſtione, ad eſaminare ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e ſe nelle bilance del pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che recano, o la preciſa offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti, che è tanto neceſſaria generalmen te alla quiete, e felicità degli individui, e al buon ſiſtema, e conſervazione di queſto cor po morale, e politico. Pochi elementi, e poche idee ſciolgono il problema. Induſtria eccitata, commercio invigorito, circolazione ampliata. Vantaggi fono queſti generalmente procurati da tali contratti ben regolati, come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo ſpirito, e le conſeguenze. Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo rifleflo. In queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta ugua glianza di condizione, perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro forte. Ma ciò che manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi. Ad entrambi è egualme ite i gnoto per chi debba eſſere il vantaggio, e per chi il diſcapito, potendo ugualmente nel caſo noſtro, e l'uno, e l'altro a ciaſcun di loro arrivare; e queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale, la quale pud ſupplire a quanto manca alla perfetta uguaglianza. Diſli alla perfetta uguaglianza, perchè le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate, vacil lano ſoltanto, perchè oltrepaſſano certi li miti, dentro dei quali rinchiuſe provano moltiſſimo, rapporto alla uguaglianza che deve eſſere nei contratti della ſeconda claſſe. Inteſe le maſſime con la dovuta moderazio ne, è veriſſimo che eſtraendo da un'urna ove ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti neri, quante più eſtrazioni fi anderan no facendo, tanto più creſcerà la conoſcen za del rapporto che hanno fra loro: è verif fimo che le oſſervazioni ſegnate in tavole danno ai giovani la prudenza dei vecchi: ed è incontraſtabile che quanto più ſpeſſo ac caderà in natura un evento, tanto più ſi po tranno attrappare le circoſtanze che lo ac compagnano, e farà meno irragionevole l'in duzione che dalla eſiſtenza di queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello. Si potrà dun que avere un qualche dato per eſaminare la probabilità di un'evento, e proporzionargli il prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza. Per formare una ſerie dei diverſi gradi di tale probabilità gioverà eſaminare un qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte; poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una giuſta analiſi, o alme no egualmente chiara, ſe fi conſideraſſero le idee in aſtratto, e ſenza applicarle ad un de terminato ſoggetto. Fra tutti i contratti che ridur ſi poſſono a queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente eſaminata l'aſſicurazione, Efla è un contratto per cui uno dei contraenti ſi obbliga a riparare tutti i danni che può un altro ſoffrire nelle ſue merci per naufragio, o altre convenute cagioni; e queſti ſi obbli ga a pagarli una determinata mercede in com penſo del pericolo al quale volontariamente ſi eſpone. 1 Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio per tutto il Levante aveano fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di lo devole induſtria, e fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno ſtato, e che fu ſempre del loro carattere, furon quelli che riduſſero a certe leggi queſto contratto, e gli diedero for ma e credito. Inſegnarono così alle altre na zioni commercianti a tirarne quel profitto, che il profondo, ed illuminato Melon aſſe riſce dover eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di eſperti, ed avveduti aſſicuratori. Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb bonſi i primi capitoli di aſſicurazione che furono diſteſi negli anni 1523., e 1525. A queſti ſucceſſero negli anni 1563., e 1570. le ordinazioni di Olanda. Non è ſtata queſta l'unica occafionein cui abbiano, gareggiato in fatto di commercio queſte due nazioni, la prima delle quali ha faputo ſempre profittar pienamente delle fe lici fue circoſtanze, e la ſeconda compenſare ognora in mille modi i danni della infelice ſua ſituazione; e inſultar quaſi alla natura di ayerla in eſſa collocata. Gli ſcrittori che hanno trattato di queſto contratto lo diſtinguono in due ſpecie. La prima chiamano eſſi aſſicurazione propria mente detta, ed è quando le merci che ne ſono l'oggetto appartengono di fatto a quello che ne chiede l'aſſicurazione; e queſto è ciò che intendono ſotto il nome di riſico dell' aſſicurato; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog gette a pericolo, o com'eſſi dicono a ſiniſtro. Per la validità di queſto contratto ricercaſi la coeſiſtenza del riſico, e del ſiniſtro; ed è quanto dire, che l'aſſicuratore non deve pa gare la ſicurtà, nè l'aſſicurato la mercede, ſe le merci avean corſo già il loro deſtino quan do fi ftipulò il contratto, o ſe non apparten gono all'aſſicurato. Per maggior comodo poi, e dilatazione di commercio fu introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle merci o proprie, ma non nella ſomma che ſi afferiſce, e che cade ſotto l'aſſi curazione: o appartenenti affatto ad altra perſona. In queſto contratto il fondamento conſiſte nella fola eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo ravviſare un'apparenza di Scommeſſa della quale però gli mancano ſe condo molti, alcuni caratteri. Anche in queſta ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le merci ſiano in pericolo ancora quando ſi fa il contratto; benchè in alcune piazze ſi ſoſtenga anche nel caſo che le merci aveſſero già corſa la loro forte quando ſi ſti puld il contratto, purchè però queſto non foſſe a notizia dei contraenti. Per ridurre pertanto in qualche vero ſenſo il contratto di aſſicurazione alla Teoria ſopra eſpoſta regolatrice della uguaglianza neceſ faria nei contratti di azzardo, fa d'uopo con ſiderare due fatta di caufe che influir poſſono full'evento incerto, che ne forma l'oggetto. Altre ſono le cauſe fiſiche che per un puro meccanico impulſo della materia agiſcono in dipendentemente da qualunque libera determinazione di una cauſa ſeconda; il mare cioè più o meno ſparſo di pericoli, agitato da vortici, terribile per gli ſcogli; il vento che tormenta più un ſeno di mare che un altro, e domina più in una ſtagione, che in un altra; la qualità del naviglio, più o me no capace di reſiſtere agli urti, e di inſul tare gli Aquiloni; e finili altre che a que ſte ridur ſi ponno, anzi con queſte confon derſi. Più incerte affai, e più indocili all'eſat tezza del calcolo ſono quelle cagioni che mo rali ſi chiamano, perchè o conſiſtenti nella libera determinazione di un ente creato, o da quella dipendenti almeno mediatamente. La deſtrezza, e la buona fede del capitano: l'abilità dei marinari e dei piloti: il nume ro, e la gagliardìa dell'equipaggio: la mag giore o minor frequenza dei pirati che infi diano fraudolenti, e poi attaccano rapaci; o dei nemici armatori che appoggiano le fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti della guerra, ſono o le uniche, o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali.  i Se il fondare un calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è impoſſibile: il fondarlo che ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo: lo ſarà molto più l'appoggiarlo alle cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione di mo vimenti, e d'impulſi che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che operano per una mera libera determinazione, che per qualunque congettura la più apparentemente probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul momento abbandonarſi, per cangiarla in una affatto diverſa, e talora dia metralmente oppoſta, e contraria. Un canone perd univerſaliſſimo, e da non preterirſi giammai in queſto contratto, parmi quello di non conſiderare neſſuna cauſa, o fiſica, o morale, ſeparatamente o iſolata dalle altre; ma di oſſervare l'influenza reci proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra, e quella non meno che hanno ſulle morali; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto alle fiſiche. Il momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente è combi nata, o temperata colle altre. Per conoſcere però quanto poſſano queſte cagioni, e ſingolarmente preſe, e in complef ſo, è neceſſaria una lunga ſperienza. In queſto contratto, per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte quelle combinazioni, che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore, e perder la nave, nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili violenze, la confe gnano al ſoſpirato porto. Fatta una tavola di accurate, e frequenti oſſervazioni, e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze ſiaſi perduta la nave, e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine; la ſomma delle prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri; e quella delle ſe conde ſi tiene per il numero dei favorevoli; e ſu queſti dati ſi forma la proporzione da noi ſtabilita nel III. Teorema. Queſta è la ſpecifica differenza che paſſa fra i contratti del primo genere, e queſti che al ſecondo appartengono. Nei primi entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini ſtri, e favorevoli, perchè ſi fanno tutti, e ſe ne conoſce perfettamente il numero; noi 1 69 ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto, che dopo una lunga ſperienza ſi ſono oſſervati; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri pof ſibili, i quali perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in proporzione di no tati. La proporzione ſi accoſta tanto più al vero, quanti più ſono i caſi oſſervati, come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto numero di palle bianche e nere: delle quali con tanto minor pericolo di errore ſi può fiffare la proporzione, quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione. In una parola, nei primi è incerto l'eſito della ſorte; nei ſecondi è incerto anche ciò che può determinarlo. Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti perfettamente delle medefine circoſtanze. Fa d'uopo adunque per formare la propor zione ricorrere alle diverſe tavole, ove ſono notate le circoſtanze preſe ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti i dati della proporzione. Scioglie una nave dal Porto, e veleggia per un mare tranquillo, e placido; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione da ſtabilirſi fra il valor delle merci, e il prezzo dell'aſſicurazione; e la tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe queſta nave corra un pericolo di pirati, o di nemici che le altre navi facendo il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai, nel formare la proporzione vi entra anche queſto elemento, la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre naviga zioni benchè fatte in altri mari, e ſi compone il minor pericolo che ha queſta veleggiando per un mare tranquillo; col pericolo che cor ſer altre per la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com poſte di varj elementi, il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole, non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca loro influenza. Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far conoſcere i gradi di probabi lità dell'eſito lieto, o infauſto. Monta per la prima volta un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato naviglio alcuno: infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche ſcoglio che alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei quali ignoraſi per anco il numero, ed il valore, o a meglio dire la violenza della eſecrabile loro ſete dell'oro e del ſangue; chi potrà miſurare i gradi dell'influenza che ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo, e ſull’infauſto l'ardire, e la forza dei ſecondi? In tal caſo per quanto vogliaſi dare un va lore anche a queſte circoſtanze nuove; fon dandolo ſu qualche piuttoſto appreſa, che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però che ſenza una più volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione di cui ſi calcolino i gradi, e ſi nume rino i valori; e ſenza di eſſa non ſi può for mare una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali contratti. Tutto alla fine ci conduce a riflettere, che una e fatta proporzione nei contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai; che in molti caſi ſi potrà avere meño lontana dall' eſattezza; in altri ſi troverà dalla medeſima 72 più rimota, come dal fin qui detto chiara mente appariſce. Ma forſe gli aſſicuratori interrogano que ſte tavole, formano calcoli, e ſciolgon pro blemi? Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni degli uomini e le bilancia, conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi otterrà facilmente, quanto più ſiano frequenti queſte tavole, e numeroſi i caſi che ad eſſe, come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi accorto ed illumi nato le conſulta, o le deſidera; l'indotto, e meno avveduto ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore, o minor frequenza de' fini ſtri nelle date circoſtanze ſeguiti, e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo giudicio più o meno eſatto, e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio dell'incerta forte. In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore, è il valore delle merci, che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all' aſſicurato; quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo. Ma ſiccome fatto il contratto di aſſicura zione, l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare all'aſſicuratore la convenuta merce de, pare a prima viſta che per l'aſſicurato non ſiavi azzardo alcuno; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa la ſua forte; o a dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo alcuno la forte. Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal contratto, per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della ſorte ſicco meancora l'infauſto. Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende il contraente pago, e contento di aver fatto il contratto; talmente che ſe aveſſe pre veduto l'eſito, conſultando ſolo il ſuo van taggio, l'avrebbe nonoſtante fatto, anzi con tanto maggiore alacrità. Per lo contrario infauſto può dirſi quello che in qualche modo gli dà occaſione di pentimento, in guiſa che ſe aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora quantunque 74 l'aſſicurato, fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare la mercede, qualunque ſia l'evento; quando però la nave giunga a ſal vamento, è in caſo di pentirſi del ſuo con tratto; poichè ſe non lo aveſſe fatto, e avreb be avuta ſalva la nave, e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita mercede. In queſto ſolo ſenſo, e non in altro, che ſareb be troppo contrario all'umanità, poichè ſi riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no, che neppur ridonda in proprio vantaggio, ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del ſalvamento della nave; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere di una vera ſcommeſſa, di cui è eſſenziale ſe condo alcuni, che l'avvenimento favorevole ad uno dei contraenti, ſia per l'altro infau ſto, e ſiniſtro. Conchiuſo il contratto, l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità, deſi dera che ſi falvi la nave, ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto. Quello che non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo, ſi è nella perdita di una na ve, la minore, o maggior quantità di merci, ! 75 che ritoglier ſi potranno all'ingordigia dell onde, e ritrarre al lido; lo che ſuccede mol te volte, e fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere egualmente dannoſo; ma diverſi, a miſura, che più o meno delle aſſicurate merci, ſi perde, e ro vinafi. Il poter prevedere, e calcolare in a vanti tal quantità influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te. Ma chi potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile accidente? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di combinazioni; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore? I principj fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto, quando ha per oggetto merci affidate al pericoloſo traſporto di mare, pof ſono facilmente adattarſi alle merci traſpor tate per terra; anzi alle merci, o ſituate nei magazzini, o in altra maniera cuſtodite. Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal accidente, e per quello perire, o deteriorarſi, fi fa eſſere oggetto di queſto contratto. Anzi il guaſto di un incendio divoratore, le ruine 70 di un turbine procellofo che abbatte caſe, porta la deſolazione per le campagne, la vio lenta incurſione di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e alle tenebre della notte dalle timide mani infidiatrici, ed altri pericoli di tal fatta, che a prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di divinazio ne, ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con la ſorte, ſenza che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo e colla maggiore ineſattezza, miſurarla. Un'altro contratto non meno intereſſante, e che appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi vitalizio. Gli uomini non contenti di affidare la loro forte a tante, e sì varie combinazioni che alterano, e modificano sì ſtranamente gli ef Teri inanimati; hanno voluto che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili, ed hanno fatto sì che un uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo tempo sì prezioſo dono del cielo. La vita iſteſſa è venuta tal volta in bilancia con un tenuiſſimo guadagno. Il vitalizio altro non è che l'annuo interesse di un capitale collocato a fondo per duto. Chi colloca in tal guiſa il ſuo capitale lo fa ad oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello che riſerbandoſene il dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con tratto e a coloro che non avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di ſangue o di amicizia, o che non curando le veci dell' uno, o dell' altra, non hanno nulla che gli ritragga dal provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei biſogni che ſono figli del più molle, e faſtoſo luſſo; e a quegl' infelici, che ſenza queſto compenſo condur dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno all'inopia, e allo ſqual lore. Il vantaggio di liberarſi da tante fre quenti, e penoſe cure della domeſtica eco nomia luſinga molto, ed è talor neceſſario, a chi trovandoſi in un'età cadente, accom pagnata per lo più da una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi, rendergli un frutto di gran lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di fare in un colpo l'acquiſto di una ragguardevole ſomma, ma di vedere la vita di quello a cui lo paga non oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca il capitale, e la ſomma degli inte reſſi ordinarj, che egli ne ha ritratti. Aipri mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la ſomına delle an nuali rendite vitalizie, queſta ſuperi il fondo perduto e di più le rendite ordinarie del medeſimo. Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi affretti a troncare prima di tal termine i giorni dell'altro. Ecco lo ſpirito di queſto contratto. Per rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza, e per verificare i noſtri teore mi è neceſſario riflettere, che sborſato il ca pitale che ſi perde, e fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria, vi ſarà un certo nume ro di anni, per il corſo dei quali ſopravi vendo, la ſomma degli ecceſſi della rendita vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capitale. Se quello adunque che perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal corſo d'an ni, non potrebbe eſiger di più di queſta de terminata rendita vitalizia. Ma ſiccome quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un determinato numero d'anni; per poter rendere eguali le condizioni dei contraenti, è neceſſario fiſſare un tal numero d'anni, che la probabilità di ſopravivere ſia uguale a quella di premorire, e che al caſo che uno ſopraviva o due o tre anni, o qualunque altro numero, ſi poſſa con ugual probabilità contrapporre il caſo che muoja un egual nu, mero d'anni prima. Quando dunque ſi tratta di formare un vitalizio, conviene eſaminare quanto abbia ſopraviſſuto un gran numero di perſone, per eſempio mille, all'età di quello che vuol farlo. La ſomma di tutti gli anni che tali perſone hanno ſopraviſſuto di viſa per il numero delle medeſime, dà un numero, che ſi chiama l'età media. Trovato queſto, ſi ſuppone che chi fa il vitalizio deb ba ſopravivere fino a tal termine, e ſi fa il diſcorſo che ſi è detto di ſopra, quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe ſicuro di vivere nè più nè meno un determinato numero d'anni. Nel fiſſare la media ſi ſono conſide rati gli eventi che poſſono favorire il caſo della ſopravivenza eguali in numero a quelli che vi ſi oppongono; uguaglianza che ſi ac coſterà tanto più al vero quanto ſarà mag giore il numero delle vite dalle quali ſi ri cava la media. Ecco dunque, come in queſto caſo la ſpe ranza può dirſi uguale al timore, e per con ſeguenza può aver luogo l'azzardo ſenza op porſi alla giuſtizia, ed ecco finalmente ridot to il contratto ai termini dei noſtri teore mi. La ſomma del capitale più le rendite ordinarie, che è il prezzo eſpoſto da chi perde il fondo, deve ſtare alla ſomma delle rendite vitalizie che formano il prezzo eſpoſto dall' altro contraente, come il numero dei cafi favorevoli al primo, al numero dei caſi fa vorevoli al ſecondo; i quali ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata ragione, ne ſegue che la ſomma del capitale, e delle rendite vitalizie dovrà eſſere eguale alla fom 81 ma del capitale, e delle rendite ordinarie computando tal ſomma fino al termine del la vita media, che per ipoteſi ſi dà ſtabilito per l'indicato calcolo. Si ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a diſtribui re per detto numero d'anni queſta ſomma; o ſia a rendere anche più ſemplice l'eſpreſ fione, ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite ordinarie il capitale diſtribuito per detto numero d'anni. E'evidente che per rendere in queſto contratto le condizioni più eguali convien pigliare un grandiſſimo nu mero di vite per formar la media. E quì ſi oſſervi che ſe poteſſe la probabilità della du rata di una vita fino a un dato numero d'an ni cangiarſi in certezza, ſarebbe tolto affatto l'uſo di queſto contratto: lo che dee dirſi di tutti i contratti di azzardo. Si penſa a can giare la probabilità degli eventi in certezza. Se queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto bandita quella cieca divinità alla quale ſi abbando nano gli uomini per formarne un ramo di commercio. Vogliamo adunque miſurar la forte, non eſpellerla. f 82 Tanto più farà facile in queſto contratto fiſſare la media, quanto più ſaranno ridotte a claſſi diſtinte le perſone delle quali ſi ſom mano le età. Qualità di profeſſione, carattere di temperamento, indole di clima, eligono ſeparate oſſervazioni. In fatti, ſiccome per cali favorevoli s'intendono quelli per i quali ſi prolungano le vite, per contrari quelli che le abbreviano; e i ſecondi, nel fillarſi l'età media vengono conſiderati moralmente ugua li di numero ai primi; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla vera, quanto maggiore ſarà la parità di circoſtanze. Se abbiaſi però riguardo non ſolo alle an nue rendite vitalizie, ma al frutto delle me deſime, potendoſi eſſe, e il frutto loro cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera; fic come quello che paga l'annua rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello che ritrae; dovrà a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia ſull'ordinaria. Queſto però non ſi oppone alla verità del teorema terzo; poichè in tal caſo il prezzo che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non farà più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull' ordinaria, che naſcerebbe dalla fillata proporzione; ma ſarà un ecceſſo tanto mino re, quanto è la differenza del frutto della rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente, e per ferie cangiato in forte fruttifera, dal frutto della rendita ordinaria conſiderata nell'iſteſſa maniera, e così cangiandoſi pro porzionalmente le eſpreſſioni dei due prezzi, non ſi cangerà l'analogia. Non farà difficile il perſuaderſi dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che chiamata la ſorte totale per eſempio A, e una di lei porzione C, alla quale corriſponda l'annuo frutto B, ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve ogni anno nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte, eſpreſſa dalla ſeguente formola. (C + B ) A,(B ) A (C (C + B С N o ſia eſprimendo per Nil numero degli anni ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando il N frutto non ſi cangia in ſorte fi avrà una ſe C_A f 2  rie aritmetica il di cui primo numero cor riſpondente al primo anno farà il capitale col frutto; il ſecondo il capitale col doppio del primo frutto; il terzo il capitale col tri plo del primo frutto. Il valore adunque del frutto del primo anno ſarà la differenza dei termini di queſta ſerie. Siccome poi nel caſo dell'ultima ipoteſi, tanto la rendita ordiną ria, quanto la vitalizia ſi cangiano in forte; fatte le due ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula, e ridotte ai termini individui del caſo di cui ſi cerca, ſi conoſcerà il valore della ricercata differenza. Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj ſtabiliti in quello dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi favorevoli, altro non s'intende, che il numero di quelle per ſone che in parità di circoſtanze hanno ſo pravviſſuto un dato numero d'anni, per ſi niſtri poi il numero di quelle che ſono man cate prima; che queſta parità di circoſtanze vien compoſta talora da molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte no tato; e che la vita dell'uomo dipendendo da cagioni fiſiche e morali, fa di meſtieri riflet tere al diverſo loro carattere, e alla recipro ca influenza delle medeſime. Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole, o regiſtri, nei quali ſi notino la naſcita, la morte, e gli altri accidenti della vita umana; poichè queſte ſole appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti vantaggioſi con tratti; ed elle ſole danno la miſura delle forti, e delle aſpettative dei contraenti. Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun medico regiſtraſſe privatamente le qualità, e gli accidenti dellemalattie che egli tratta; ſiccome quelle del temperamento di ciaſcun malato, che egli libera, o che non può ritrarre dalle prepotenti fauci di morte. Queſte ridotte in ſiſtema, e reſe pubbliche riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne molte formate da indotti oſſervatori, anzi fovente farebbero neceſſarie; poichè l'imperito regiſtratore omettendo tutte le circoſtanze, o alcuna almeno delle eſſenziali, rende inutili le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione all'altrui errore, o irri fleſſione. Benchè e da quali tavole ſi potrà mai rica vare la giuſta miſura della vita d'un uomo? Quot non ſunt caufae, dice S'graveſand intro duft. ad Phil. a quibus vita hominis pendet? Una di queſte tavole forſe la più eccel lente, perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e provincie, è quella di Pietro Süſmlich da lui intitolata: La divina providenza nelle vicende dell'umana ſpecie, dimoſtrata dall'or dine delle naſcite, morti e moltiplicazioni. Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le annue penſioni vitali žie, e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra. Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria, e di curioſità, che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre con la vera, ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche, ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla luce un libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte  í per un lungo corſo d'anni. Più palpabile però, per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo Filoſofo, e più immediata ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla. Vi è tutta la ragione di aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità, ed efficacia dei noſtri Italiani oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente. Già dai regiſtri delle na ſcite, che la noſtra fanta religione rende neceffari, ſonoſi ricavate delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione: ficcome dalle oſſervazioni delle frequenti morti dei bambi ni, ſi è preſa occaſione di rintracciarne la cauſa, e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi, che sì facilmente foc combono anche ad un leggiero urto, e ad una tenue ſcoſſa. Al genere dei vitalizj appartiene quella convenzione, che dal ſuo oggetto chiamaſi: la dote della figlia. Un provido padre sborfa una determinata ſomma di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi prima dell'età nubile, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che l'ha ricevuta; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro, e al pericolo in cui ella è ſtata di morire in tal intervallo, e di per der così la ſomma dal padre sborſata. Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo, che sborſa il padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno prefiffo; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata ſomma, e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita. Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino alprefillo termine, ſta ai ſiniſtri (a), o fia ai favorevoli all'altro; così ſtare la ſom ma sborſata dal padre, più le rendite ordi narie, all'ecceſſo della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma sborſata più le rendite ordinarie. Havvi un'altro contratto per cui un par ticolare, che vuol comprare una conſidera (a) Anche in queſto contratto i caſi favorevoli, e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89 bile carica; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla deſolazione, e all'inopia; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo di anni, pagando, o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore, che ſi obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto della carica, ſe egli muoja prima del termine ſtabilito. La eva luazione della vita, si in queſto, come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab baſtanza commendate tavole. Si oſſervi, che in queſto contratto quello che riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della vita di chi la sborſa, al contrario di ciò che accade nei vitalizj, e negli altri contratti ad eſſi analoghi. Nel for mare adunque la proporzione cangian nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del reſto non vi è dif ferenza veruna. E' queſto un contratto di cui tanto meno importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1 1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo. Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo inven tore chiamaſi Tontina. Non differiſce que fto dal vitalizio, ſe non in ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui, che collocò il ſuo capitale a fondo per duto; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che appartengono alla medeſiına claſſe, e che hanno fatto un ſimile contratto col padro ne della tontina. L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua claffe. A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età. E' celebre la Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni, e godeva 35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire. Dalle tavole di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga. Da ciò il padrone della tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le ren dite; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto, val lo ſteſſo per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere, che hanno quelliche ſopravvivono, pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre. Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni. Si è in oltre trovata la formola che eſpri me, dato qualunque numero di vite coetanee, il tempo in cui uno, o due, o più manche ranno, la formola per il caſo che più perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono, da dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi durante la ſua vita; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione che devono preſtare. E faminate queſte formole, ed avuto in conſi derazione il metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj, ſi ritrova facilmente la medeſima anche per le contine.  1 1 E' oltre ogni credere benemerito dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre, che ha trovate, e applicate le anzidette, e molte altre formole, che ſi trovano nella incomparabile ſua opera intitolata la dot trina degli azzardi. Io non le ho riportate perchè il far ciò e troppo lungo ſarebbe, e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè ſian giuſti; voglio rammentare, che i più illuminati politici hanno deteſtato l'a buſo di queſte pubbliche rendite, come ap punto ſono le tontine, ed altre di fomi gliante natura. E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i germi dell'induſtria, e ad appreſtare alla parte ozioſa, e indolente della ſocietà armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà moto, ed anima al ben eſſere dello ſtato; oltre di che ſi oppongono alla propagazione, allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I  generar figli ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici. En fin je ne me plaindrai plus De l'etoile qui me domine; Il me reſte encore cent ecus Que je vais mettre a la Tontine: O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars eſſuyé le orages, Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages, Je ferai ſur l'etat, et j'aurai penſion. Così cantò un elegante Poeta Franceſe in tendendo così di far la ſatira delle tontine; e pare di fatto che il Poeta potrebbe ora viver quieto ſu queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate, e andate in diſuſo, benchè non così gli altri contratti del genere di cui parliamo. Ma d'altra parte eſſendo utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben dello ſtato il poter ſollecitamente raccogliere una grandioſa ſomma di denaro, ſenza imporre perciò nuo ve contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini, le circoſtanze dei quali rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen 94. fioni vitalizie ſi potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni, per fare un eſame regolato dell'età, e delle circoſtanze di quelli che doveſſero eſſere ammeſſi alla compra delle azioni, e con i neceſſari regolamentipreveni re gl ' inganni, che in queſto articolo intereſ fante poteſſero deludere le pubbliche vedute. Per eſaminare i contratti della terza claſſe ne quali il rapporto su cui ſi fonda l ' ugua glianza fra i contraenti ſi appoggia in parte alla conſiderazione di leggi certe, e ſicure, e in parte alla ſperienza del paſſato, e a cir coſtanze incerte e di numero indeterminato, ſi ripigli l'eſempio dell'urna, nella quale ab biavi un determinato numero, per eſempio di go. palle. Se la ſperanza dell'eſito felice è affidata all'eſtrazione di una palla; per la natura di tal contratto, o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il numero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il numero totale m farà il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1: m - 1 e per conſeguenza l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia -112  Ma ſe ſia vero che la palla alla quale è affidata la ſperanza eſca più frequentemente dall'urna che qualunque altra, e l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle altre ſia Þ; il numero dei caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp; e quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1, la probabilità della ſperata eſtrazione farà Xp L'addotto eſempio è la norma coſtante di tutti i contratti che poſſano mai cadere for to queſta terza claſſe, come comprendenti le condizioni che ne formano il carattere. Di fatti la probabilità dell'eſtrazione della palla fatale dipende dalle leggi del contratto certe, e ficure che danno il rapporto di e dalla ſperienza, ed oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della medeſima, che danno l'ecceſſo di p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre palle nell' urna rinchiuſe, la quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I: m; Non è neceſſario che io offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto ecceſſo p, non 96 dimeno non è ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla, di quello che ne eſca un'al tra. E queſta è una di quelle circoſtanze che io chiamo incerte e variabili. Che ſe ſi trattaſſe di paragonare la pro babilità dell'eſtrazione fra due palle, ſicco rapporto che naſce dalle leggi certe e ſicure è lo ſteſſo per tutte due, eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe attendere ſolamen in te la diverſa frequenza dell' eſtrazione di queſte due palle. A queſto eſempio ſi poſſono ridurre fpe cialmente le offervazioni dei giocatori di lotto, e di quelli che ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi moſtrino più ſovente, o quali facce del volubil dado, ad avvicendare nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la triſtezza. Ben' è vero però che per quanto fiano replicate le eſperienze, in moltiſſimi caſi non apparendo neppure in confuſo una minima conneſſione di tal frequenza con una vera cauſa da cui derivi, non potranno giam mai meritare che le abbia in viſta, chi ragiona ſu dati veri, e non fa caſo di mere e vaganti accidentalità. Se ſi aveſſe a queſte riguardo, molti di quei contratti, che nella prima claſſe ho eſa minati, a queſta terza dovrebbonſi riferire. Ma io per le indicate ragioni, a quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico i mede ſimi appartenere. Anche in tali caſi perd vi ſono inolti che credono doverſi fare ſcrupo lofo conto dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora approverebbero la mia diviſio ne; eſſendo queſta terza claſſe da me confi derata in modo che può, ſe vogliaſi, compren dere le medeſime, anche quando non appa riſca la ſopra indicata conneſſione. Che ſe il numero delle offervazioni ſia grande, e i riſultati coſtanti, ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito della ſperanza, ed una cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora non v'ha dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta terza claſſe, e la diſtingue dalle altre. Vi ſono in fatti molti giochi, nei quali l'eſito fortunato dipende in parte dalla pro g. 98 pizia ſorte, e in parte deveſi alla propria in duſtria o deſtrezza nel combinare gli elemen ti del gioco, e rendergli coſpiranti al termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del premio deſiderato. L'induſtria però di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del gioco, che ſi vanno ſuccefliva mente preſentando, e la replicata ſperienza delle quali porge la norma ai caſi avvenire; o nella deſtrezza maggiore di combinare gli accidenti medeſimi del gioco, di dedurre, di ſcuoprire gli artificj dell'avverſario; e in qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi l'induſtria, è ſempre vero che i giochi che di effa, e della forte ſi chiamano miſli, hanno un filo non traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle dei contratti di azzardo, In un gioco miſto è molto difficile che tornino per appunto le medeſime circoſtan ze; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re lative ſono della natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe appartenenti; in certe cioè, e incapaci di rendere indubitato e ſicuro l'evento, ma fiſabili quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua glianza, acciò il contratto ſia giuſto. Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi ſono dati ſicuri dipendenti dalle loro leggi inva riabili; quindi è che eſſi appartengono alla terza claſſe, perchè regolati in parte da tali leggi, e in parte da cagioni incerte e inde terminate, e dalla ſola ſperienza. Siccome però poſſono eſſere o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito medeſimo, a miſura che queſte ſono in maggiore o mi nor numero, prevale nei giochi miſti l'in duſtria o la ſorte. Inoltre la deſtrezza di combinare, di de durre, di rammentarſi gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite ſucceſſivamente dalla malla totale delle medeſime nel decorſo del gioco, è variabile, come può ognuno of ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a nimo neceſſaria, la perfetta diſpoſizione di ſa lute, e per conſeguenza l'agilità degli ſpiriti, l'elaſticità delle fibre; in una parola l'atti vità neceſſaria per ben riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di mente, e attuazione di fantasia. Conſiderate queſte come cauſe incerte ed indeterminate, e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni fatte giocando col medeſimo avverſario ridurre a calcolo, e quanto alla loro frequenza, e quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco; ecco anche in ciò un motivo per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi miſti, dipende, e dalle invariate e ſicure leggi del gioco, e da circoſtanze incerte, e indeter minate, Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar profitto dai colpi della ſorte, e il gioca tore avveduto, dice la Bruyere, imita in queſto un gran generale, e un abile politico. Al valore del primo, e alle vedute del ſe condo è miniſtra la forte. Arrivano entrambi francamente al loro intento per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo; e che là metton capo, ove forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati, e i piùmeditatiprogetti. Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di cui ſi parlò trattando dei giochi di puro azzardo. O i giocatori tentano con eguali condizioni l'evento medeſimo; o un folo tenta la ſorte del gioco, e l'altro ſta ozioſo ſpettatore, e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto eſito dell'avverſario. Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e dei ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco, è l'iſteſſo per ambidue, ſi riduce a calcolo l'eſperienza ed induſtria, la quale ſi oſſerva nelle medeſime circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco; calcolo che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte. Giacchè farebbe d' uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario; eſſendo la deſtrezza, e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario; e potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno, o reſtar coſtante ſecondo i progrelli, o uguali, o proporzionali, o di verſi, che l'uno, o l'altro facciano nel gio co. E' vero però non meno, che trattandoſi di rapporti, poſſono in qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità di un giocatore riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia quella dell'avverſario. Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva, ma aſſoluta; e fi riduce a calcolo con l'offervare, nelle medeſime combina zioni, o in non molto diffimili per la natura del gioco, quante volte l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto, fotto le date condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale per otte nere il premio dovea pervenire. Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del gioco, in parte dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva, e afloluta induſtria, converrà diſtinguere, e calcolare queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi favorevoli, e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema III.', e nel Corollario. Se non due, ina più ſiano i giocatori, ſi rammenti la regola di ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti, e di eſaminare in 103 ciaſcuno a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto; ſe io voleſſi ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe, e in quelli della feconda. Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove trattaſi dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe e ſicure del contratto, convien ricorrere ai priini; ove poi fia queſtione di offervazioni, e di cauſe indeterminate, conviene eſaminare i ſecondi; non omettendo mai di riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli uni, ſu gli altri, e la varia loro com binazione. Stabilite così le leggi ſulla ſcorta delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque claſſe di contratti di azzardo; non devo diffimulare, che uno dei più grandi Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani. Accid, dic ' egli, queſto cal colo foſſe applicabile, ſarebbe neceſſario, che tutti i caſi che ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario, che gettata infinite volte in alto una moneta, ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca, per eſempio palle, e ſull' altra una diverſa, per eſempio croce, foſſe ugual mente poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle, o croce; e che ſi ſcopriſſero alternativamente queſte due diverſe marche. Ma benchè ciò ſia ugualmente poſſibile matematicamente parlando, non lo è fiſicamente. E queſta di verſità appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità, non è applicabile ai caſi fiſici. Anzi non ſi potrà mai fissare il numero delle volte per il quale duri la possibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia della moneta, e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità, durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo, ed oltre qualunque aſſegnabile numero di getti, la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi della medeſima faccia.: Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per certa: che non è in natura, che un effetto ſia ſempre, e coſtantemente il mede fino; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi, ſi raſſomiglino fra loro. Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro babilità di una combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone accader più vol te, in parità di circoſtanze è tanto più pic cola, quanto queſto numero di volte è più grande, di modo tale che quando queſto è maſſimo, la probabilità è aſſolutamente nulla, o quaſi nulla; e all'incontro quando queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non ne reſta che poco, o punto diminuita per queſto riguardo. Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati della teoria dei probabili, quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica, ſono ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura. Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque arrenderſi, e diſperare della cauſa del noſtro calcolo dei probabili? Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà, o le mede fime reftino ſciolte. Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi efla rinvenire. Se diaſi dunque un caſo, che non cada in modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente poflibili, e che per con ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità; io dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie; ma non concederò mai che per queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet tainente ai caſi, che ſiano di fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria una fre quente e replicata oflervazione. Che ſia fiſicamente impoſibiie (ſe pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un infinito numero di volte la ſtella faccia, donde ſi ricava, fe non dall'avere offervato che una tale continuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade, ma che al contrario ſi vanno alter nando, e cangiando di tanto in tanto le facce della moneta? Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il caſo in cui per un infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia, a meno che non vi ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò non permetta. Se ſi concedeſſe ancora (benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato ) che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad un altro, non che, come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert, che ſi raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro; non correrebbe la parità, per dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti di una moneta, l'uniforme ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile. Poichè vi corre una notabiliflima di ſparità. Tutte le combinazioni le quali fanno, che una coſa non ſia fimile all'altra, danno tanti ios riſultati fra loro diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B, naſceranno tanti alberi fra loro diverſi; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà la diffe renza. Ma dalle diverſe combinazioni che poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia palle della moneta; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili, cioè croce; poichè ogni volta che non ſi ſcopra palle, ſi ſcoprirà croce. Queſto prova che le combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due coſe, formano infi niti rapporti, infiniti riſultati dei medeſimi, infinite diverſe compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni delle particelle della materia di infinite poſſibili diverſe velocità, figure ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi verificano. Di fatto gli elementi che formano la com binazione, che per infinito numero di volte preſenta palle, ſono tutti ſimili fra di loro, ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto. Di modo che ſe ſi ſupponeſſe mutato l'ordine col quale eſce prima la infinita ſerie di palle, e ſi ricominciaſſe il getto, e ritor naſſe di nuovo a ſcuoprirſi infinite volte la faccia che preſenta palle, ne verrebbe un or dine fimiliſfimo al primo, potendoſi dire, che l'iſteſla relazione ha il primo ſcoprimento di palle al milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo, e così dicaſi di tutti. Talmentechè a rigor parlando, non ſi può dire, che fra queſti getti vi ſia ordine che formi fra effi un rapporto piuttoſto che un altro. Non così degli elementi che formano un dato fiore, o albero; eſſendo combinabili fra di loro con infinite varietà di ſopra ac cennate. Gli elementi fiſici adunque delle combinazioni nel caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove nell'eſempio addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene, che la parità non corre; e dalla fiſica impoſſibilità (ſe fi ammetta ) di trovare mol te, o anche due coſe fra loro ſimili; non ne viene la fiſica impoſſibilità che una monetan gettata in aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia. La diſparità compariſce più chiara, fe li rifletta che qualunque vedendo in un dato ſpazio tutte le particelle più minute compo nenti i corpi; e riflettendo alle variazioni poſſibili della velocità, e della figura delle medeſime; e vedendone in un ſimile ſpazio un altro ſimile numero, avrebbe ſubito infe rita l'impoſſibilità di una combinazione ta le, che ne riſultaſſero due alberi ſimili. Laddove vedendo una moneta, e ſapendo che ſi deve gettare in aria infinite volte, non avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non ſi ſarebbe un infinito numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia, e di credere tal combinazione fiſicamente impoſſibile, come la pretende, fondato ſulle addotte ri fleſſioni, il Sig. d'Alembert. In una parola della impoſſibilità (ſe tal vo glia chiamarſi ) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a colpo d'occhio una fiſica meccanica ragione; lo che non può dirſi dello ſcoprimento della faccia di una moneta. Lo stesso a proporzione dicaſi delle diverſe, III combinazioni delle lettere che formano la parola Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà al caſo, dice d'Alembert, che ſi combinino in modo tante lettere che formino queſta pa rola? chi vorrà crederlo poſſibile? Dunque conchiude egli ſarà ugualmente impoſſibile il continuo per infinite volte ſcoprimento della faccia medeſima di una moneta. Queſto eſempio è molto ſimile a quello dei due al beri fimili; e ſi riſponde anche a queſto, che ciaſcuna lettera può variare rapporto a tutte le altre, e che ciaſcun riſultato ſarà diverſo. La Luna, aggiunge il Ch. Filoſofo, gira attorno al ſuo alle in un tempo preciſamente uguale a quello che ella impiega nel deſcri vere la ſua orbita intorno alla terra; e queſta eguaglianza di tempo produce ammirazione, e ſi vuol cercare qual n'è la cagione. Se il rapporto dei due tempi foſſe quello di due numeri preſi all'azzardo, per eſempio di 21: 33, niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo, e non ſe ne ricercherebbe la cagione; e pure il rap porto di uguaglianza è matematicamente parlando ugualmente poſſibile, che quello di 21:33; perchè dunque ſi cerca una cagione del primo, che non ſi cercherebbe del ſe condo? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei pianeti e del rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro, alla sfera. Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to del caſo? perchè queſta combinazione, benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre, ſi riguarda.come effetto di un diſegno, e di una regolarità? E non ſi crederà poi, che il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la quale la moneta ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta fiſicamente impoſſibile, benchè abbia una matematica poſſibilità eguale a quella delle altre combi nazioni? Ma io riſpondo, che di fatto le com binazioni dei citati eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte l'al tre combinazioni; che non vi è forſe argo mento che provi che il caſo non le aveſle po tute produrre; ma che anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente impoſſibili al ſolo caso; ciò è per chè ſon compoſte di elementi infinitamente variabili; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a conſiderare le diverſe cagioni, e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon far sì che i tempi dei due giri lunari non ſia no uguali; e che la zona delle orbite plane tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha infatti; cagioni tutte fi fiche, e meccaniche. Di più dico, che l'uguaglianza dei corſi della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la differenza che fra eſſo, e gli altri paffa, non è che metafiſica; e nulla po ne di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre. Lo ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus. Queſta combinazione di lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola, e che al ſuono della medeſima abbia mo legataunidea; non così a un Turco idio ta il quale non col nome di Coſtantinopli ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare la ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano. Non contento Monſieur d'Alembert degli eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione, l'appoggia ad altre due rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo, contando dal giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni; ſi è pure conoſciuto per mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più ome no è di 32 anni; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata dei regni di ciaſcu na parte d'Europa, che la durata media di ciaſcun regno è di circa a 20 in 22 anni. Si può dunque dic' egli, ſcoinmettere non ſolo con vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non vive-, ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno più di 640 anni in circa; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a 420 anni. Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27. anni la durata media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare, o non dalle di 32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni; oppure portaſſe che 20 Re ſucceſſivi regnaſſero, o molto più, o molto meno di 420 anni, non ſarebbe fiſicamente poſſibile; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando. Dal che riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili, che ſi denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della natu ra. Dunque la combinazione in cui, o infi nite volte, o un gran numero veniſſe ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta, benchè di matematica poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione, dev’ eſſere rigettata. E' nell'ordine naturale, ché un banchiere di faraone, che ha dei caſi favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo. Di fatti ſi oſſerva coſtantemente, che non vi è banchiere, che non accumuli groſſe fomme di denaro. Queſto prova, che quelle combinazioni, che hanno più caſi contrari che favorevoli, ſono alla fine di un certo tempo, meno fiſicamente poſſibili che le al tre; quantunque matematicamente parlando tutte le combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili. Dunque conclude egli, la combina zione, la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa. Per riſpondere a queſti due eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità, che con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle, o aſſai maggiori, o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni; dun que tale combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo dicafi di quella, per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal gioco medeſimo ri dotto all' inopia; caſo che non è poi sì in frequente ad accadere. Dicafi piuttoſto che l'una, e l'altra di queſte combinazioni con tenute nei due eſempi addotti dal chiarillimo d'Alemberţ ſono molto difficili, e tanto più, quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni medeſime ſupera il numero dei favorevoli; lo che conviene appunto con li da me ſtabiliti principj. Venendo poi al caſo noſtro dico, che fo no varie, e moltiſſime in numero le cauſe vere, e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli uomini. Ma trattandoſi del getto della mo neta, non vi ſono principj fiſici diverſi, e tali, che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una, che l'altra delle combi nazioni, che a rigor parlando non ſono che due, come più ſopra ſi è offeryato. L'ordine delle umane coſe, e le fifiche qualità, e coſtituzioni dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita, ſon con ſultati nel primo caſo; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa conſultare a formare il preſagio. Dunque fi pud predire, che ioo o maggior numero di uomini avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di altri 100 uomini; benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal corſo file ſare; così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni, conoſciuto il ſiſtema del gioco del faraone ſi può predire che un numero molto maggiore farà quello dei banchieri che arric chiſcono, che non ſarà quello degli altri che ſi rovinano. E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche cagioni che portano a for mare queſto preſagio, e cagioni che naſcono dal ſiſtema del gioco. Ma chi sà dire qual fi fica ragione addur voglia uno, che vedendo gettarall'aria una moneta, aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che o per un maſſimo, o anche infinito numero di volte, pre ſenti ſempre la ſteſſa faccia? Varie poſſono eſſere le maniere di gettare in alto la moneta. Si può gettare a una gran de altezza, e a una piccola; con poca forza, e con molta; con tale direzione che la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte; o che lo faccia obliquo; oppure in modo che ſia ad eſlo parallela. Si può anche gettare in ma niera che ſomigli quaſi il laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo. Fermiamoci ad eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi vede, che laſciandola in tal modo cadere, ſpecialmente a piccola altezza, anche in finite volte, non vi è ragione di preſagire, che non poſſa eſſere coſtante lo ſcoprimen to della faccia medeſima. La impoffiſibilità di queſto uniforme ſcoprimento, la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo, o negli altri caſi? Se la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica, che il ſolo or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento? Se poi non la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica uni verſalinente la ſua maſſima? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito delle ragioni del Sig. d'Alembert, che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in cui non altro appunto, che un non sò quale fatal ordine della natu ra,potrebbe cagionare la preteſa variazione. Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi, dico che nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto,dell'altezza, della direzio ne; queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere fiſicamente impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte va 120 riabili combinazioni, non ſono che due; o lo ſcoprimento di palle, o lo ſcoprimento di croce; e non ogni variazione, e combinazione di tali cauſe influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad dotti dal Sig. d'Alembert, nei quali trattan doſi di rapporto, o di diverſa conſociazione di parti, ognun vede, che ogni variazione influiſce a produrre un effetto diverſo. O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti; e negli addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che due non potendoſi voltare, che palle, o croce; o ſi ri guardi la diverſità nelle cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe infinite, giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa; nel caſo della moneta non è così, potendoſi dare moltiſſime combinazioni di forza, altezza, direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto; potendoſi anche dare che in infiniti getti, o in un numero aſſai grande, ſi man tenga l'iſteſſa direzione, benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande; l'iſteſſo im 1 1 pero, benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto. Parmi adunque che e queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con quello della moneta; o al più provano una no tabile difficoltà nella combinazione che presenti sempre l'iftessa faccia della moneta; verità che s’accorda perfettamente con gl’esposti principj; poichè le osservazioni me deſime ce lo fanno conoscere,ed io suppongo nell'applicargli, il caso probabile [GRICE, PROBABILITA E DESIDERABILITA], e con la scorta dei medesimi ne cerco il grado di probabilità; dal che ne viene che la teorìa non è applicabile ai casi ove o nessuna o quasi nessuna probabilità del buon esito apparisca, per poterne formare la proporzione. Quando poi cominci il numero in cui non sia sperabile un continuo discoprimento di una sola faccia della moneta, le osservazioni, e non altro, possono mostrarlo. Quelle osservazioni io dico, che io medesimo ho prefe per scorta in moltisimi casi appartenenti alla materia dei CONTRATTI d’azzardo. E' poi tanto evidente che la proposizione d’Alembert non atterra l'uso del CALCOLO DELLA PROBABILITA O CREDIBILITA E DEL CALCOLO DELLA DESIDERABILITA, che anzi in qual che caso se ne possono tirare delle conseguenze che lo conferinano. Chi gettando un dado intraprende di scuoprire per esempio il 6 non vorrà gettarlo una sol volta, quando debba azzardare una fom ma eguale a quella che azzarda l'avverſario; ma vorrà gettarlo più volte. La ſua ſperan za è,che non voltandoſi ſempre l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi ſcuopre, e che può non eſſere il 6, arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6; altrimenti ſe non fcopren doſi alla prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in tutti i tratti ſucceſſivi quel numero che ſi ſcopre il primo, la ſua perdita ſarebbe ſicura. La ſperanza dunque di queſto gio catore acquiſta tanto maggior fondamento quanto più è vero che ſia impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero che alla prima fi ſcoprì; impoſſibilità, che reſta compreſa nel la impugnata opinione del Sig. d'Alembert. Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123 glianza nei contratti d'azzardo, e difeſane l'applicazione non reſta che a deſiderare, che uomini di ſublime ingegno, e di pro fondo ſapere ſi applichino in gran numero ad eſtendere ſempre più l'uſo di una dottri na sì utile. Quanto a me, mi pare di aver ottenuto il mio intento, ſe poſſo luſingarmi di aver formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia in un articolo per una parte sì arduo, e per l'altra sì intereſſante. C. nasce in Imola il ed alla patria e al casato accrebbe lustro e decoro: perchè già rapidamente corsi gli studii delle amene lettere e della eloquenza sotto la disciplina de’gesuiti, e con pubblico saggio nelle materie di filosofia sperimentatosi, puo dallo stesso genitore nelle matematiche, delle quali è egli peritissimo, essere ammaestrato. E col magistero di quella scienza sublime, illuminando la mente già ordinata a diritti giudizii e scorto da precetti delibati dalla scuola non fallibile degl’antichi esemplari, comforma la scrittura alla altezza del pensiero, alla cultura dello spirito ed al candore dell'animo. Nè i gravi studii della giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato (insegnatore monsignor Giovannardi concittadino di lui, e fiore de giureconsulti) gli tolge di coltivare la poetica, alla quale sentesi per tal guisa inclinato, che basta a dettare alcuni componimenti i quali resi pubblici con le stampe trovano grazia e lode somma ne cultissimi, e sì pure tra gl’ARCADII alla cui accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono ne gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori poeti, onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono degni verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver egli con arte maestra saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei modi sceltissimi onde le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil lo, muove in C. con quella spontanea e nobile sempli cità che t'invaghisce nel Canti; 282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che Zappi infioriva le soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato della croce di Santo Stefano, e nella Imolese accademia deg’INDUSTRIOSI di cui è socio si mostra erudito ed elegante oratore e poeta. D'indi a non molto passato per le caro vame a Pisa ha colà lezioni di pubblico diritto da quell'alto spirito di Lampredi, che il tenne in istima d'ingegnoso e di colto, e che lo ha sempre carissimo. Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo gli confere la carica di ispettore delle carovane, e ad un tempo la cattedra di etica; intorno a che compone un trattato quasi corso di lezioni, degno per fermo d’essere fatto di pubblica ragione: ed a quel principe intitola C. una eloquente e dotta orazione composta eletta, per incarico da lui avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed i fasti dell'ordine, che è pubblicata pel Cambiagi in Firenze, dai torchi del quale usce altro grave e prezioso volume col titolo di Saggio sui CONTRATTI e giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di pubblico economista e di FILOSOFO; ed ove la materia gravissima, e che diresti poter so lo dimostrarsi col soccorso del calcolo, per la chiara sposizione pia ma e facile si mostra alla intelligenza comune, Corse intanto tal fama del sapere di lui alla corte di Ferdinando di Napoli, che con reale decreto, il nomina membro del supremo consiglio di Finanze; nel qual tempo venne ad egual carica eletto quel sommo ingegno di FILANGIERI (vedasi), cui C. è poi sempre stretto con vincoli di reciproca stima e di amicizia tenerissima. E ben di questo è prova il parere da FILANGIERI (vedasi) proposto al re intorno all'enfiteusi del così nomato Tavoliere di Puglia che leggesi negli opuscoli di lui pubblicati per Silvestri in Milano ove egli da maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega consigliere C. proposto, quando a questo fine per sovrano volere ha a recarsi in quella provincia. Del quale importantissimo servigio ha onore da maestrati quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il provvedimen to del principe ed il nome del benemerito consigliere in latina epigrafe eternano; e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio: imperciocchè gli di grado di consigliere effettivo con voto, e di sopra-intendente alle dogane ed alle zecche del regno; nel che adopera a maniera, che sommo vantaggio m'ha lo stato per la retta amministrazione di quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te lettere di mano della stessa regnante Carolina onorevolissime lodi. Segue C. la real corte a Palermo quando dovè colà ri fuggirsi: e con essa lei torna al suo impiego in Napoli. Salito al trono il re Giuseppe, volge tosto gli sguardi ad esso lui come a specchio di sapiente reggimento e di non comune interesse, e gli confere la carica di consiglier di stato, di cavaliere del nuovo ordine del le due Sicilie da esso lui istituito. Ma la mal ferma salute che gli vietò continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolge a quel regno ove lascia fama durabile del suo merito, procaccia alla patria il conforto di vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali è desiderio e delizia: e ben l'hanno eglino zelantissimo della pubblica morale, e civile istruzione a quali col più potente dei precetti, l'esempio, è di bel la guida e di stimolo; e per l'importante buon regime delle acque operoso; e di quant'altro puo interessare il pubblico vantaggio studiosissimo: nè mancano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi soccorsi i quali seppe providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a meritato sollievo della vera indigenza. Illi bato del costume e per la esquisita erudizione della quale è fornito nella sociale consuetudine piacentissimo, con la serena calma del giusto vide giungere l'ora estrema del vivere, che a suoi cari ed alla patria il rapì: e della acerba morte di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per la perdita irreparabile di quest'uomo chiarissimo nel quale si ammirarono congiunte a sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lettere, integrità di vita e dovizioso corredo di ogni bella virtù. Whoever has glanced through the pages of  any text-book on mercantile law will hardly deny  that CONTRACT is the handmaid if not actually the  child of Trade. Merchants and bankers must have  what soldiers and farmers seldom need, the means  of making and enforcing various agreements with  ease and certainty. Thus, turning to the special  case before us, we should expect to find that WHEN ROME IS IN HER INFANCY and when her free  inhabitants busied themselves chiefly with tillage  and with petty warfare, their rules of sale, loan,  suretyship, were few and clumsy. Villages do not  contain lawyers, and even in tdwns hucksters do  not employ them. Poverty of Contract was in fact  a striking feature of the early Roman Law, and can  be readily understood in the light of the rule just  stated. The explanation given by Sir Henry Maine  is doubtless true, but does not seem altogether  adequate. He points out 1 that the Roman household consisted of many families under the rule of a Ancient Law.  B. E. paternal autocrat, so that few freemen had what we  should call legal capacity, and consequently there  arose few occasions for Contract. This may indeed  account for the non-existence of Agency, but not  for that of all other contractual forms. For if the  households had been trading instead of farming  corporations, they must necessarily have been more  richly provided in this respect. The fact that their  commerce was trivial, if it existed at all, alone  accounts completely for the insignificance of Contract in their early Law.   The origin of Contract as a feature of social life  was therefore simultaneous with the birth of Trade  and requires no further explanation. It is with the  origin and history of its individual forms that the  following pages have to deal. As ROMAN CIVILISATION progresses we find Commerce extending and Contract  growing steadily to be more complex and more  flexible. Before the end of the Roman Republic  the rudimentary modes of agreement which sufficed  for the requirements of a semi-barbarous people  have been almost wholly transformed into the  elaborate system f of Contract preserved for us in  the fragments of the Antonine jurists. At the most remote period concerning which  statements of reasonable accuracy can be made,  and which for convenience we may call the Regal  Period, we can distinguish three ways of securing  the fulfilment of a promise. The promise could  be enforced either by the person interested,  or  by the gods, or  by the community. When  however we speak of enforcement, we must not think  of what is now called specific performance, a conception unknown to primitive Law. The only kind  of enforcement then possible was to make punishment the alternative of performance. Self-help, the most obvious method of redress in a society just emerging from barbarism, was  doubtless the most ancient protection to promises,  since we find it to have been not only the mode by  which the anger of the individual was expressed, but  also one of the authorised means employed by the  gods or the community to signify their displeasure.  This rough form of justice fell within the domain of  Law in the sense that the law allowed it, and even encouraged men to punish the delinquent, whenever  religion or custom had been violated. But as people  grew more civilized and the nation larger, self-help  must have proved a difficult and therefore inadequate remedy. Accordingly its scope was by degrees  narrowed, and at last with the introduction of surer  methods it became wholly obsolete. Religious Law, as administered by the  priests, the representatives of the gods, was another  powerful agency for the support of promises. A  violation of Fides, the sacred bond formed between  the parties to an agreement, was an act of impiety  which laid a burden on the conscience of the delinquent and may even have entailed religious disabilities. Fides was of the essence of every compact,  but there were certain cases in which its violation  was punished with exceptional severity. If an  agreement had been solemnly made in the presence  of the gods, its breach was punishable as an act  of gross sacrilege. The third agency for the protection of  promises was legal in our sense of the word. It  consisted of penalties imposed upon bad faith by  the laws of the nation, the rules of the gens, or the  by-laws of the guild to which the delinquent  belonged. What the sanction was in each case we  are left to conjecture. It may have been public  disgrace, or exclusion from the guild, or the paying  of a fine. And as some promises might be strengthened by an appeal to the gods, so might others by  an invocation of the people as witnesses.   Agreements then might be of three kinds corresponding to the three kinds of sanction. They  might consist of an entirely formless compact, a solemn appeal to the gods, or a solemn  appeal to the people. A formless compact is called pactum in the  language of the twelve Tables. It was merely a  distinct understanding between parties who trusted  to each other's word, and in the infancy of Law  it must have been the kind of agreement most  generally used in the ordinary business of life.  Such agreements are doubtless the oldest of all,  since it is almost impossible to conceive of a time  when men did not barter acts and promises as freely  as they bartered goods and without the accompaniment of any ceremony. Compacts of this sort were  protected by the universal respect for Fides, and  their violation may perhaps have been visited with  penalties by the guild or by the gens. But intensely  religious as the early Romans were, there must have  been cases in which conscience was too weak a  barrier against fraud, and slight penalties were  ineffectual. Fear of the gods had to be reinforced  by the fear of man, and self-help was the remedy  which naturally suggested itself. In the twelve  Tables pactum appears in a negative shape,  as a compact by performing which retaliation or  a law-suit could be avoided 1 . If this compact was  broken the offended party pursued his remedy.  Similarly where a positive pactum was violated, the  injured person must have had the option of chastising  1 GELLIO. Auct. ad Her. n. 13. 20.  the delinquent. His revenge might take the form  of personal violence, seizure of the other's goods,  or the retention of a pawn already in his possession.  He could choose his own mode of punishment, but if  his adversary proved too strong for him, he doubtless  had to go unavenged ; whereas if the broken agreement belonged to either of the other classes, the  injured party had the whole support of the  priesthood or the community at his back, and  thus was certain of obtaining satisfaction. It is  therefore plain that though formless agreements  contained the germ of Contract, they could not  have produced a true law of Contract, because by  their very nature they lacked binding force. Their  sanction depended on the caprice of individuals,  whereas the essence of Contract is that the breach  of an agreement is punishable in a particular way.  A further element was needed, and this was supplied  by the invocation of higher powers.   II. At what period the feshion was introduced  of confirming promises by an appeal to the gods  it would be idle to guess. Originally, it seems,  the plain meaning of such appeals is alone considered, and their form is of no importance.  But, under the influence of custom or of the priesthood, they assume by degrees a formal character, and it is thus that we find them in our earliest  authorities. Since religion and law – [“as H. L. A. Hart so well knows, since he is a jew” – H. P. Grice] -- are both at first the  monopoly of the priestly order, and since the religious forms of promise have their counterpart in the customs of Greece and other primitive peoples, whereas the secular form is PECULIARLY Roman,  the religious form is evidently the older, and formal contract therefore has a religious origin. Fides being a divine thing, the most natural means  of confirming a promise is to place it under divine  protection. This may be accomplished in two ways, by ius iurandum, or by sponsio -- each of which  is a solemn, Austinian-type performative declaration placing the promise or  agreement under the guardianship of the god, notably GIOVE. Each form has a curious history, and as  this is are the earliest specimen of a contract,  we should discuss them, and we might! Another method, and one peculiar to the  Romans, which naturally suggests itself for the  protection of agreements, is to perform the whole  transaction in view of other people. This publicity ensures  the fairness of the agreement, and places its existence beyond Cartesian – or Berkeleyian -- dispute. If the transaction is essentially a public matter, such as the official sale of  some public land, or the giving out of a public contract,  no formality seems ever to have been required, so  that even a formless agreement in in that case  is binding. The same validity may be secured for  a private contract, by having it publicly witnessed,  and the nexum is but one application of this  principle. In testamentary law – “How my father, Herbert Grice, inherited the property on the High Way of Halborne” – Grice -- it seems probable  that the public will in comitiis calatis is also  formless, whereas in private the testator may only  give effect to his will by formally saying to his  fellow-citizens testimonium mihi perhibetote. Thus the two elements which turned a bare    agreement into a contract were religion and publicity.  The naked agreements (pacta) need not concern us,  since their validity as contracts never received  complete recognition. But it will be the object of  the following pages to show how agreements grew  into contracts by being invested with a religious or  public dignity, and to trace the subsequent process  by which this outward clothing was slowly cast off.  Formalism was the only means by which Contract  could have risen to an established position, but  when that position was folly attained we shall find  Contract discarding forms and returning to the state  of bare agreement from which it had sprung. Ivsivrandvm is derived by some  from Iouisiurandum 1, which merely indicates that  Jupiter was the god by whom men generally swore.  To make an oath was to call upon some god to  witness the integrity of the swearer, and to punish  him if he swerved from it. This appears from the  wording of the oath in LIVIO, where SCIPIONE says: Si  sciensfalloy turn me, Iuppiter optime maxime, domum familiam remque rneam pessimo leto afficias" and  from the oath upon the Iuppiter lapis given by  Polybius and Paulus Diaconus, where a man throws  down a flint and says : " Si sciens /alio, turn me  Dispiter salua urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc  lapidem" A promise accompanied by an oath was  simply a unilateral contract under religious sanction.  And it would seem that the oath was in fact used for  purposes of contract. CICERONE remarks 8 that the oath  was proved by the language of the XII Tables to  have been in former times the most binding form of  promise ; and since an oath was still morally binding   1 Cf. Apul. de deo Socr. 5. a xzii.Off. ni. 31. 111.in the time of CICERONE, though it had then no legal  force, the point of his remark must be that in  earlier times the oath was legally binding also.  From Dionysius we know that the altar of ERCOLE (called ARA MASSIMA) was a place at which solemn  compacts (ovvdfjtcai) were often made 1, while Plautus  and Cicero inform us that such compacts were  solemnized by grasping the altar and taking an  oath 2 . It would seem probable that the gods were  consulted by the taking of auspices before an  oath was made. Cicero says that even in private  affairs the ancients used to take no step without  asking the advice of the gods 8 ; and we may safely  conjecture that whenever a god was called upon to  witness a solemn promise, he was first enquired of,  so that he might have the option of refusing his  assent by giving unfavourable auspices. The terms  of the oath were known as concepta uerba, at least  in the later Republic, and like the other forms of the  period they were strictly construed 4 . Periuriv/m did  not mean then, as now, false swearing. It meant  the breach of an oath 5, the commission of any act at  variance with the uerha concepta There is some dispute as to what were the exact  consequences of such a breach. Voigt 7 thinks that  it merely entailed excommunication from religious  rites, but Danz 8 is clearly right in maintaining that  its consequences in early times were far more serious ;   1 Dion. i. 40. 2 Plaut. Rud. 5. 2. 49. Cio. Flacc. 36. 90.   8 Div. 1. 16. 28. 4 Seru. ad Aen. 12. 13.   6 i.e. 8ciem fallere, Plin. Paneg. 64. Seneca, Ben. in. 37. 4.  6 Off. in. 29. 108. 7 Ius Nat. Ram. RG. n. § 149.     they amounted in fact to complete outlawry.  Cicero says that the sacratae leges of the ancients  confirmed the validity of oaths. Now a sacrata lex  was one which declared the transgressor to be  sacer (i.e. a victim devoted) to some particular god 1,  and sacer in the so-called laws of Seruius Tullius 2  and in the XII Tables 8 was the epithet of condemnation applied to the undutiful child and the  unrighteous patron. So likewise it seems highly  probable that the breaker of an oath became sacer,  and that his punishment, as CICERONE hints, was  usually death. The formula of an oath given by  Polybius 6 is more comprehensive than that given  by Paulus Diaconus, for in it the swearer prays  that, if he should transgress, he may forfeit not  onry the religious but also the civil rights of his  countrymen. This shows that the oath-breaker was  an utter outcast; in fact, as the gods could not  always execute vengeance in person, what they did  was to withdraw their protection from the offender  and leave him tolhe punishment of his fellow-men. The drawbacks to this method of contract were the  same as those of the old English Law, which made  hanging the penalty for a slight theft ; the penalty  was likely to be out of all proportion to the injury  inflicted by a breach of the promise. So awful  indeed was it, that no promise of an ordinary kind  could well be given in such a dangerous form, and  consequently the oath was not available for the   1 Festus, p. 318, s.u. sacratae. 2 Fest. p. 230, s.u. plorare.   8 Seru. ad Aen. 6. 609. 4 Leg. n. 9. 22. B in. 25.   6 p. 114, s.u. lapidem. 7 Liu. v. 11. 16. common affairs of daily life. The use of the oath  therefore disappeared with the rise of other forms of  binding agreement, the severity of whose remedies  was proportionate to the rights which had been  violated; while at the same time the breaking  of an oath came to be considered as a moral, instead  of a legal, offence, and by the end of the Republic  entailed nothing more serious than disgrace (dedecus).  In one instance only did the legal force of the oath  survive. As late as the days of Justinian^ the  services due to patrons by their freedmen were still  promised under oath 1 . But the penalty for the  neglect of those services had changed with the  development of the law. At and before the time of  the XII Tables, the freedman who neglected his  patron, like the patron who injured his freedman 2,  no doubt became sacer, and was an outlaw fleeing  for his life, as we are told by DIONISIO. But in  classical times the heavy religious penalty had  disappeared, and the iurisiurandi obligatio was enforced by a special praetorian action, the actio  operarum*. By the time of Ulpian the effects of  the iurata operarum promissio seem indeed to have  been identical with those of the operarum stipulatio*, though the forms of the two were still quite  distinct.   We may then summarise as follows our knowledge  as to this primitive mode of contract :   The form was a verbal declaration on the part of  the promisor, couched in a solemn and carefully   1 38 Dig. 1. 7. a Sera, ad Aen. 6. 609. 8 n. 10. 4 38 Dig. 1. 2 and 7. 5 Cf. 38 Dig. 1. 10.  1  worded 1 formula (concepta tierba), wherein he called  upon the gods {testari deos)*, to behold his good faith  and to punish him for a breach of it.   The sanction was the withdrawal of divine  protection, so that the delinquent was exposed to  death at the hand of any man who chose to slay  him.   The mode of release, if any, does not appear. In  classical times it was the acceptilatio*, but this Was clearly anomalous and resulted from the similar  juristic treatment of operae promissae and operae  iuratae. Though the point is contested  by high authority, yet it scarcely admits of a doubt  that there existed from very early times another  form, known as sponsio, by which agreements could  be made under religious sanction. This method,  as Danz has pointed out, was originally connected  with the preceding one. It was derived from the  stern and solemn compact made under an oath to  the gods. But Danz goes too far when he identifies  the two, and states that sponsio was but another  name for the sworn promise. The stages through  which the sponsio seems to have passed tell a  different story. The word is closely connected with  airovSij, tnrivSeiv, and hence originally meant a  pouring out of wine 8, quite distinct from the convivial \ocfirf or libatio 6, so that " libation " is not its  proper equivalent. The other derivation given by Dig., fr. Plant. Rud. Dig. 4. 13. 4 Danz, Sacr. Schutz Festus s.u. spondere. 6 Leist, Greco-It. R. O. , note o. Varro 1 and Verrius  from sports, the will, whence  according to Girtanner 8 sponsio must have meant a  declaration of the will, savours somewhat too strongly  of classical etymology. This pouring out of wine, as Leist 4 has  shown, was in the Homeric age a constant accompaniment to the conclusion of a sworn compact of  alliance (optcia iriara) between friendly nations.  The sacrificial wine seems originally to have added  force to the oath by symbolising the blood which  would be spilt if the gods were insulted by a breach  of that oath. In this then its original form sponsio  was nothing more than an accessory piece of ceremonial. The second stage was brought about by the  omission of the oath and by the use of wine-pouring alone as the principal ceremony in making less  important agreements of a private nature. In the  Indian Sutras for instance a sacrifice of wine is  customary at betrothals 5, and comparison shows that  the marriage ceremonies of the Romans, in connection with which we find sponsio and sponsalia applied  to the betrothal and sponsa to the bride 6, were very  like those of other Aryan communities 7 . We may  therefore clearly infer that at Rome also there was a  time when the pouring out of wine was a part of the  marriage-contract; and thus our derivation of the  word receives independent confirmation. In the third and last stage sponsio meant   1 L. L. Festus, «. u. spondere. Stip Greco-It. B. G. . 8 Leist, AlUAr. I. Civ.   8 Gell. iv. 4. Varro, L. L.  Leist, loc. ciu nothing more than a particular form of promise, and  it is easy to see how this came about. At first the  verbal promise took its name from the ceremony of  wine-pouring which gave to it binding force; but in  course of time this ceremony was left out as taken  for granted, and then the promise alone, provided  words of style were correctly used, still retained its  old uses and its old name. Sponsio from being a  ceremonial act became a form of words. Such was  the final stage of its development.   The importance attached to the use of the words  spondesne ?, spondeo in preference to all others 1 thus  becomes clear. Spondesne ? spondeo originally meant  " Do you promise by the sacrifice of wine V "I do so  promise," just as we say, "I give you my oath,"  when we do not dream of actually taking one.   Another peculiarity of sponsio, noticed though  not explained by GAIO, was the fact that it could  be used in one exceptional case to make a binding  agreement between Romans and aliens, namely, at  the conclusion of a treaty. Gaius expresses surprise  at this exception. But if, as above stated, a sacrifice  of pure wine {airovhal a/cprjTot) was one of the early  formalities of an international compact (op/cia mard),  it was natural that the word spondeo should survive  on such occasions, even after the oath and the winepouring had long since vanished.   Sponsio being then a religious act and subsequently a religious formula, its sanctity was doubtless  protected by the pontiffs with suitable penalties.  What these penalties were we cannot hope to know, 1 Gai. in. 93. 2 in. 94. though clearly they were the forerunners of the  penal sponsio tertiae partis of the later procedure.  Varro 1 informs us that, besides being used at betrothals the sponsio was employed in money (pecu/nia)  transactions. If pecunia includes more than money  we may well suppose that cattle and other forms of  property, which could be designated by number and  not by weight, were capable of being promised in  this manner. Indeed it is by no means unlikely 2  that nexum was at one time the proper form for  a loan of money by weight, while sponsio was the  proper form for a loan of coined money (pecunia  nwmerata). The making of a sponsio for a sum  of money was at all events the distinguishing feature  of the afibio per sponsionem, and though we cannot  now enter upon the disputed history of that action,  its antiquity will hardly be denied.   The account here given of the origin and early  history of the sponsio is so different from the views  taken by many excellent authorities that we must  examine their theories in order to see why they  appear untenable. One great class of commentators  have held that the sponsio is not a primitive institution, but was introduced at a date subsequent to the XII TABVLAE. The adherents of this theory are  afraid of admitting the existence, at so early a period,  of a form of contract so convenient and flexible  as the sponsio, and they also attach great weight to  the fact that no mention of sponsio occurs in our  fragments of the XII Tables. While it would  doubtless be an anachronism to ascribe to the early   1 L. L.  a Karsten, Stip. p. 42. J  sponsio the actionability and breadth of scope which  it had in later times, still it may very well have  been sanctioned by religious law, in ways of which  nothing can be known unless the pontifical Commentaries of Papirius 1 should some day be discovered.  As to the silence of the XII Tables on this  subject, we are told by Pomponius that they were  intended to define and reform the law rather than  to serve as a comprehensive code 2 . Therefore they  may well have passed over a subject like sponsio  which was already regulated by the priesthood. Or,  if they did mention it, their provisions on the  subject may have been lost, like the provisions as to  iusiurandum, which' we know of only through a  casual remark of CICERONE’s, The early date here attributed to the sponsio  cannot therefore be disproved by any such negative  evidence. Let us see how the case stands with  regard to the question of origin.   (a) The theory best known in England, owing  to its support by Sir H. Maine, is that sponsio was a  simplified form of neocum, in which the ceremonial  had fallen away and the nuncupatio had alone been  left 4 . This explanation is now so utterly obsolete  that it is not worth refuting, especially since Mr  Hunter's exhaustive criticism 5 . One fact which in  itself is utterly fatal to such a theory is that the  nuncupatio was an assertion requiring no reply 6,   i Dion. in. 36. 2 1 Dig. 2. 2. 4.   8 Off. in. 31. 111. * Maine, Am. Law, p. 326.   5 Hunter, Roman Law, p. 385. 6 Gai. n. 24.   B. E. 2   whereas the essential thing about the sponsio was a  question coupled with an answer.   (6) Voigt follows Girtanner in maintaining that  spondere signified originally " to declare one's will,"  and he vaguely ascribes the use of sponsiones in  the making of agreements to an ancient custom  existing at Borne as well as in Latium 1 . He agrees  with the view here expressed that the sponsio was  known prior to the XII Tables, but thinks that  before the XII Tables it was neither a contract  (which is strictly true if by contract we mean an  agreement enforceable by action), nor an act in the  law, and that its use as a contract began in the  fourth century as a result of Latin influence 2 . In  another place 8 he expresses the opinion that its  introduction as a contract was due to legislation, and  most probably to the Lex Silia. The objections to  this view are that the etymology is probably  wrong, and that the inference drawn as to the  original meaning of spondere iuvolves us in serious  difficulties. An expression of the will can be made  by a formless declaration as well as by a formal one.  And if a formless agreement be a sponsio, as it must  be if sponsio means any declaration of the will,  how are we to explain the formal importance  attaching to the use of the particular words " spondesne ? spondeo. This view ignores the religious  nature of the sponsio, which I have endeavoured to  establish, and (4) it forgets that sponsio, being part  of the marriage ceremonial, one of the first subjects   1 Rom. RG.  Ius Nat.   to be regulated by the laws of Romulus 1, is most  probably one of the oldest Roman institutions.  Again (5), as Esmarch has observed 2, the legislative  origin of the sponsio is a very rash hypothesis. We  only know that the Lex Silia introduced an improved  procedure for matters which were already actionable,  and had a new formal contract been created by such  a definite act we should almost certainly have been  informed of this by the classical writers.   (c) Danz also derives sponsio from sports, the  will; but he takes spondere to mean sua sponte  iurare, and thinks that the original sponsio was  exactly the same as iusiurandum, i.e. nothing more  than an oath of a particular kind 3 . . His chief argument for this view is to be found in PAOLO DIACONO,  who gives consponsor = coniurator. But why need  we suppose that Paulus meant more than to give a  synonym ? in which case it by no means follows that  spondere = iurare. For such a statement as that we  have absolutely no authority. Moreover, as we saw  above, iusiurandum was a one-sided declaration on  the part of the promisor only. How then could the  sponsio, consisting as it did of question and answer,  have sprung from such a source ? especially since  the iusiurandum, though no longer armed with  a legal sanction, was still used as late as the days of  Plautus alongside of the sponsio and in complete  contrast to it ? Girtanner, in his reply to the "Sacrale  Schutz" of Danz 4, maintains that sponsio had nothing   1 Dion. n. 25. 2 K. V. filr G. u. R. W. 3 Sacr. Schutz, p. 149. 4 Ueber die Sponsio, p. 4 fif. to do with an oath, but was a simple declaration of  the individual will, and that stipulatio had its origin  in the respect paid to Fides. This view however  is even less supported by evidence than that of  Danz. Arguing again from analogy Girtanner  thinks that, as the Roman people regulated its  affairs by expressing its will publicly in the Comitia,  so we may conjecture that individuals could validly  express their will in private affairs, in other words  could make a binding sponsio. But this, as well  as being a wrong analogy, is a misapprehension of a  leading principle of early Law. For, as we have  seen, no agreement resting simply upon the will of  the parties (i.e. pactum) was valid without some  outward stamp being affixed to it, in the shape  of approval expressed by the gods or by the people.  In the language of the more modern law, we may  say that such approval, tacit or explicit, religious or  secular, was the original causa ciuilis which distinguished contractus from pactiones. Now a popular  vote in the Comitia bore the stamp of public  approval as plainly as did the nexum. But the  sponsio, requiring no witnesses, was clearly not  endorsed by the people ; therefore the endorsement  which it needed in order to become a contractus  iuris cvuilis must have been of a religious nature,  and that such was the case appears plainly if we  admit that sponsio originated in a religious ceremonial such as I have described.   To recapitulate the view here given, we may  conclude that sponsio was a primordial institution   1 See Windscheid, K. F. fiir G. «. R. W. i. 291. of the Roman and Latin peoples, which grew into its  later form through three stages, It is originally  a sacrifice of wine annexed to a solemn compact of  alliance or of peace made under an oath to the gods.  (b) Next it became a sacrifice used as an appeal to  the gods in compacts not made under oath such as  betrothals. Just as iusiurandum for many purposes  was sufficient without the pouring out of wine, so for  other purposes sponsio came to be sufficient without  the oath, Lastly it becomes a verbal formula,  expressed in language IMPLYING the accompaniment  of a wine-sacrifice, but at the making of which no  sacrifice was ever actually performed. In this final  stage, which continued as late as the days of Justinian,   Its form was a question put by the promisee,  and an answer given by the promisor, each using  the verb spondere. Filiam mihi spondesne? Spondeo? Centum dari spondes? Spondeo. Throughout its history this is a form which Roman citizens alone may use, in which fact we clearly see  religious exclusiveness and a further proof of religious  origin. Why they use question and answer rather than plain statement is a minor point the origin  of which no theory – except Grice’s-- has yet accounted for. The  most plausible conjecture seems to be that the  recapitulation by the promisee was intended to  secure the complete understanding by the promisor  of the exact nature of his promise.   Its sanction in the early period of which we  are treating was doubtless imposed by the priests,  but owing to our almost complete ignorance of the pontifical law we cannot tell what that sanction  was.   Having now examined the ways in which an  agreement could be made binding under religious  sanction, let us see how binding agreements could  be made with the approval of the community.  There is reason to believe that this secular class  of contracts is less ancient than the religious class,  because nexum and mancipium were peculiar to the  Romans, whereas traces of iusiurandum and sponsio  are found, as Leist has shown, in other Aryan  civilizations. Nexvm. There is no more disputed subject in the whole history of Roman Law than the  origin and development of this one contract. Yet the  facts are simple, and though we cannot be sure that  every detail is accurate, we have enough information  to see clearly what the transaction was like as  a whole. We know that it was a negotium per aes  et libram, a weighing of raw copper or other  commodity measured by weight in the presence of  witnesses 2 ; that the commodity so weighed was  a loan 8 ; and that default in the repayment of a loan  thus made exposed the borrower to bondage 4 and  savage punishment at the hands of the lender. We  know also that it existed as a loan before the XII  Tables, for it is mentioned in them as something  quite different from mancipium. To assert, as Bechmann does, that since nexum included conveyance as 1 Alt Ar. I. Civ. I« e Abt. pp. 435-443.   2 Gai. in. 173. 3 Muciu* in Varro, L. L..  4 Varro, L. L. Clark, E. R. L. well as loan " mancipiumque " must therefore be an  interpolation into the text of the XII Tables 1, is an  arbitrary and unnecessary conjecture. The etymology  of nexwm, and of mancipium shows that they were  distinct conceptions. Mancipium implies the transfer  of mami8, ownership ; nexum implies the making of  a bond (cf. nectere, to bind), the precise equivalent  of obligatio in the later law. It is true that both  nexwm and mancipium required the use of copper  and scales, to measure in one case the price, in the  other the amount of the loan. But this coincidence  by no means proves that the two transactions were  identical. A modern deed is used both for leases and  for conveyances of real property, yet that would be  a strange argument to prove that a lease and a  conveyance were originally the same thing. Here  however we are met by a difficulty. If, as some  hold 8 and as I have tried to prove, we must regard  mancipium as an institution of prehistoric times  distinct from the purely contractual nexwm, how  are we to explain the fact that nexwm is used  by Cicero 8 and by other classical writers 4 as equivalent to mancipium, or as a general term signifying  omne quod per aes et libram geritur, whether a loan,  a will, or a conveyance ? Now first we must notice  the fact that neamm had at any rate not always been  synonymous with mancipium, for if it had been so,  there could have been no doubt in the minds of   1 Kauf f Mommsen, Hist ad Fam. 7. 30 ; de Or. ; Top. ; Parad. . ; pro  Mwr. 2.   4 Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallus Aelius in Festas, s.u.  nexwm ; Manilim in Varro, L. L. Scaeuola and Varro that a res nexa was the same  thing as a res mamipata. This Scaeuola and Varro  both deny, and we must remember that Mucius  Scaeuola was the Papinian of his day. Manilius 1 on  the other hand, struck perhaps by the likeness in  form of the obsolete nexum to other still existing  negotia per aes et libram, seems to have made nexum  into a generic term for this whole class of transactions. In this he was followed by Gallus Aelius.  The new and wider meaning, given by them to that  which was a technical term at the period of the  XII Tables, apparently became general in literature,  partly for the very reason that nexum no longer had  an actual existence, partly because need liberatio,  the old release of nexum, had been adopted by  custom as the proper form of release in matters  which had nothing to do with the original nexum,  namely in the release of judgment-debts and of  legacies per damnationem. One peculiarity mentioned by Gaius in the release of such legacies  seems altogether fatal to the theory that mandpium  was but a species of the genus nexum. Gaius says  that nexi liberatio could be used only for legacies of  things measured by weight. Such things were the  sole objects of the true nexum, whereas res maricipi  included land and cattle. Therefore if mancipiwm  were only a species of nexum we should certainly  find nexi liberatio applying to legacies of res mancipi,  but this, as Gaius shows, was not the case.   The view that nexum was the parent gestum per   1 Varro, L. L. vu. . a Festus, s. u. nexum.   3 Gai. . aes et libram, and that mancipium was the name  given later to one particular form of nexum, is worth  examining at some length, because it is widely  accepted 1, and because it fundamentally affects our  opinion concerning the early history of an important  contract. Bechmarm 2 thinks it more reasonable to  suppose that nexum narrowed from a general to a  specific conception. But it is scarcely conceivable  that nexum should have had the vague generic  meaning of quodcumque per aes et libram geritur  when it was still a living mode of contract, and the  technical meaning of obligatio per aes et libram  when such a contractual form no longer existed.  What seems far more likely is that nexum had a  technical meaning until it ceased to be practised  subsequently to the Lex Poetilia, and that its loose  meaning was introduced in the later Bepublic, partly  to denote the binding force of any contract 4, partly  as a convenient expression for any transaction per  aes et libram\ Even in CICERONE (vedasi) we find ‘nexum’ used chiefly with a view to elegance of style  in places where mandpatio would have been a  clumsy word and where 7 there could be no doubt as  to the real meaning. But when Cicero is writing  history, he uses nexum in its old technical SENSE (Grice, Do not multiply senses beyond necessity) and  actually tells us that it had become obsolete. Bechmann, Kauf,  ; Clark, E. R. L. Varro, I. c. Festus,. u. nexum. Cf. nexu uetu&ti " in Ulpian, 12 Dig. .   5 Cic. de Or.   6 Uar. Resp. vn. 14; ad Fam.; Top. As in pro Mur. 2; Parad.   8 de Rep.  and cf. Liu. mi. Rejecting then as untenable the notion that  nexum denoted a variety of transactions, let us  see how it originated. The most obvious way of  lending corn or copper or any other ponderable  commodity, was to weigh it out to the borrower,  who would naturally at the same time specify by  word of mouth the terms on which he accepted  the loan. In order to make the transaction binding,  an obvious precaution would be to call in witnesses,  or if the transaction took place, as it most likely  would, in the market-place, the mere publicity of the  loan would be enough. Thus it was, we may  believe, that a nexurn was originally made. It was  a formless agreement necessarily accompanied by  the act of weighing and made under public supervision. It dealt only with commodities which could  be measured with the scales and weights, and did  not recognize the distinction between res mancipi  and res nee mancipi, a strong argument that  nescum and mandpium were, as above said, totally  distinct affairs. Its sanction lay in the acts of  violence which the creditor might see fit to commit  against the debtor, if payment was not performed  according to the terms of his agreement. Personal  violence was regulated by the XII Tables, in the  rules of manus iniectio, but before that time it is safe  to conjecture that any form of retaliation against the  person or property of the debtor was freely allowed. The fixing of the number of witnesses at five 1,  which we find also in rnancipium, . is the only  modification of nexum that we know of prior to   1 Gai. hi. the XII Tables. Bekker 1 suggests that this change  was one of the reforms of Seruius Tullius, and that  the five witnesses, by representing the five classes of  the Servian ceruma, personified the whole people.  This is a mere conjecture, but a very plausible one.  For we are told by Dionysius 8 that Seruius made  fifty enactments on the subject of Contract and  Crime, and in another passage of the same author 8,  we find an analogous case of a law which forbade the  exposure of a child except with the approval of five  witnesses. But here a question has been raised as to  what the witnesses did. The correct answer, I  believe, is that given by Bechmann 4, who maintains  that the witnesses approved the transaction as a  whole, and vouched for its being properly and fairly  performed. Huschke, on the other hand, claims that  the function of the witnesses was to superintend the  weighing of the copper, and that before the introduction of coined money some such public supervision  was necessary in order to convert the raw copper  into a lawful medium of exchange 5 . This view  is part of Huschke's theory, that neacum had two  marked peculiarities: (1) it was a legal act performed under public authority, and it was the  recognised mode of measuring out copper money by  weight. The first part of Huschke's theory may be  accepted without reserve, but the second part seems  quite untenable. We have no evidence to show  that nexum was confined to loans of money or of   1 Akt.   4 Kauf. Nexum, p. 16 ff. copper. Indeed we gather from a passage of CICERONE (si veda)  that far, corn, may have been the earliest object of  nexum 1, while GAIO (si veda) states that anything measurable  by weight could be dealt with by neari solvtio. No  inference in favour of Huschke's theory may be  drawn from the name negotium per cms et libram,  for this phrase obviously dates from the more recent  times when the ceremony had only a formal significance, and when the aes (ravduscvlum) was merely  struck against the scales. If then we reject the  second part of Huschke's theory, and admit, as  we certainly should, that nexum could deal with any  ponderable commodity, it is evident that his whole  view as to the function of the witnesses must  collapse also. The very notion of turning copper  from merchandise into legal tender is far too subtle  to have ever occurred to the minds of the early  Romans. As Bechmann 8 rightly remarks, the  original object of the State in making coin was  not to create an authorised medium of exchange,  but simply to warrant the weight and fineness of  the medium most generally used. The view of  Buschke seems therefore a complete anachronism.  There is also another interpretation of neawm  radically different from the one here advocated, and  formerly given by some authorities 4, but which  has few if any supporters among modern jurists. This, view was founded upon a loosely expressed  remark of Varro's in which nexus is defined as CICERONE (si veda) de Leg. Agr. Kauf.  4 See Sell, Scbeurl, Niebuhr, Christiansen, Puchta, quoted in  Danz, Rom. RG. n. 25. a freeman who gives himself into slavery for a debt  which he owes The inference drawn from this  remark was that the debtor's body, not the creditor's  money, was the object of nexwm, and that a debtor  who sold himself by mancipium as a pledge for the  repayment of a loan was said to make a nexum. Such a theory does not however harmonize with the  facts. The evidence is entirely opposed to it, for  Varro's statement, as will be seen later on, admits of  quite another meaning. Neither nexum nor mancipium is ever found practised by a man upon  his own person. Nor could nexum have applied to a  debtors person, for the idea of treating a debtor like  a res mancipi or like a thing quod pondere numero  constat, is absurd. Again, if nexum = mancipium, the  conveyance of the debtors body as a pledge must  have taken effect as soon as the money was lent,  therefore by thus becoming nexus he must have  been in mancipio long before a default could occur,  which is too strange to be believed, and (2) being in  mancipio he must have been capite deminutus, which  Quintilian expressly states that no nexal debtor ever  was 4 . Clearly then mancipium was under no circumstances a factor in nexum.   Thus it would seem that the theory which  regards nexum as a loan of raw copper or other goods  measurable by weight, is the one beset with fewest  difficulties. Such goods correspond pretty nearly  to what in the later law were called res fungibiles. VARRONE (si veda), L. L. nexum inire, Liu. vn. Paul. Diao. u. deminutus. Decl. The borrower was not required to return the very  same thing, but an equal quantity of the same kind  of thing. And this explains why neanim, the first  genuine contract of the Roman Law, should have  received such ample protection. A tool or a beast of  burden could be lent with but little risk, for either  could be easily identified ; but the loan of corn or of  metal would have been attended with very great  risk, had not the law been careful to ensure the  publicity of every such transaction. lusiurandum  or sponsio might no doubt have been used for  making loans, but they both lacked . the great  advantage of accurate measurement, which neanim  owed to its public character. It was the presence of  witnesses which raised neanim from a formless loan  into a contract of loan.   This general sketch of the original neanim is  all that can be given with certainty. The details of the picture cannot be filled in, unless we draw  upon our imagination. We do not know what verbal  agreement passed between the borrower and the  lender, though it is fairly certain that payment  of interest on the loan might be made a part of the  contract. We cannot even be quite sure whether the  scale-holder (libripens) was an official, as some have  suggested, or a mere assistant. Our description of the contract may then be  briefly recapitulated as follows:   The form consisted of the weighing out and  delivery to the borrower of goods measurable by  weight, in the presence of witnesses, (five in number, probably since the time of Seruius Tullius), whose  attendance ensured the proper performance of the  ceremony. The ownership of the particular goods  passed to the borrower, who was merely bound to  return an equal quantity of the same kind of goods,  but the terms of each contract were approximately  fixed by a verbal agreement uttered at the time. The sanction consisted of the violent measures  which the creditor might choose to take against a  defaulting debtor. Before the XII Tables there  seems to have been no limit to the creditor's power  of punishment. Any violence against the debtor  was approved by custom and justified by the notoriety of the transaction, so that self-help was more  easily exercised and probably more severe in the case  of nexum than in that of any other agreement. The release (nexi solutio) was a ceremony precisely similar to that of the nexum itself, the amount  of the loan being weighed and delivered to the lender,  in presence of witnesses. We have now examined three methods  by which a binding promise could be made in the  earliest period of the Roman Law. The next  question which confronts us is whether there existed  at that time any other method. The other forms of  contract, besides those already described, which are  found existing at the period of the XII Tables, were  fiducia, lex mancipi, uadimonium, and dotis dictio.  Did any of these have their origin before this time ?  Fiducia is doubtful, and lex mancipi, as we shall  see, owed its existence to an important provision Gai. \.t  of that code. As to the origin of uadirnonium,  we cannot be certain, but judging from a passage  in Gellius 1 we are almost forced to the conclusion  that uadimonium also was a creation of the XII  Tables. Gellius speaks of •' uades et subuades et XX V  asses et taliones omnisque ilia XII Tabhlarum  antiquitas. We know that twenty-five asses was the  fine imposed by the XII Tables for cutting down  another man's tree, therefore it would seem from the  context that uades had also been introduced by that  code. The point cannot be settled, but since the  XII Tables were at any rate the first enactments  on the subject of which anything is known, we may  discuss uadimonium in treating of the next period. The only contract of which the remote antiquity is  beyond dispute is the dotis dictio. DOTIS DICTIO. Dionysius 8 informs us  that in the earliest times a dowry was given with  daughters on their marriage, and that if the father  could not afford this expense his clients were bound  to contribute. Hence it is clear not only that dos  existed from very early times, but that custom even  in remote antiquity had fenced it about with strict  rules. From Ulpian 8 we know that dos could be  bestowed either by dotis dictio, dotis promissio, or  dotis datio. The promissio is a promise by stipulation, and the datio was the transfer by mancipation  or tradition of the property constituting the dowry ;  so that these two are easy to understand. But dotis  dictio is an obscure subject. It is difficult to know  whence it acquired its binding force as a contract, Reg. since in form it was unlike all other contracts  with which we are acquainted. Its antiquity is  evidenced not only by this peculiarity of form, but  9,lso by a passage in the Theodosian Code which  speaks of dotis dictio as conforming with the ancient  law 1 . An illustration occurs in Terence, where the  father says, Dos, Pamphile, est decern talenta"  and Pamphilus, the future son-in-law, replies,  "Accipio"; but we need not conclude that the  transaction was always formal, for the above Code 8,  in permitting the use of any form, seems rather  to be restating the old law than making a new  enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian 4  and by Gaius 5, was that dotis dictio could be validly  used only by the bride, by her father or cognates on  the fathers side, or by a debtor of the bride acting  with her authority. Dictio is a significant word, for  Ulpian 6 distinguishes between dictum and promissum, the former, he says, being a mere statement,  the latter a binding promise. This distinction should  doubtless be applied in the present case, since dotis  dictio and dotis promissio were clearly different.  The following theories seem to be erroneous :  Von Meykow 7 holds that dictio was adopted  as a form of promise instead of sponsio for this family  affair of dos, in order not to hurt the feelings of the  bride and of her kinsmen by appearing to question  their bona fides. That theory would be a plausible  explanation, if dictio could ever have meant a   1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And Reg. Epit.Dig. Diet. d. Rfim. Brautg. p. 5 ff.   B. E. 3 promise, but from what Ulpian says, this can hardly  be admitted. Bechmann 1, again, connects dotis dictio with  the ceremony of sponsio at the betrothal of a daughter.  The dos, he thinks, was promised by a sponsio made  at the betrothal, so that the peculiar form known as  dotis dictio was originally nothing more than the  specification of a dowry already promised. The dotis  dictio would therefore have been at first a mere  pactum adiectum, which was made actionable in  later times, while still preserving its ancient form.  The objection to this theory is tKat it lacks evidence :  indeed the only passage (that of Terence) in which  dotis dictio is presented to us with a context goes to  show that this contract was in no way connected  with the act of betrothal.   (c) Another explanation is given by Czylharz,  ie. that dotis dictio was a formal contract. His  view is based on the scholia attached to the  passage of Terence, which say of the bridegroom's  answer: "Mle nisi dixisset ' accipio' dos non esset."  Czylharz therefore looks upon the contract as an  inverted stipulation. The offer of a promise was  made by the promisor, and when accepted by the  promisee became a contract. Though such a process  is quite in harmony with modern notions of Contract,  it would have been a complete anomaly at Rome.  And we cannot believe that, if acceptance by the  promisee had been a necessary part of the dotis  dictio, we should not have been so informed by  Gaius, when he has been so careful to impress Rom. Dotalrecht. 2 Abt. a Z.f. R. G.  upon us that the dotis dictio could be made nulla  interrogatione praecedente. Thus the view of  Czylharz besides being in itself improbable is  almost entirely unsupported by evidence. Even the  scholiast on Terence need not necessarily mean that ‘accipio’ is an indispensable part of the transaction. He may merely have meant that the bridegroom at this juncture could decline the proffered  dos if he chose, and this interpretation is borne out  by Iulianus 1 and Marcellus 8, who give formulae  of dotis dictio without any words of acceptance. A satisfactory solution of the problem seems  to have been found by Danz. He looks upon  dos as having been due from the father or male  ascendants of the bride as an officium pietatis 4,  and quotes passages from the classical writers in  which they speak of refusing to dower a sister  or a daughter as a most shameful thing 5 . The  source of the obligation lay in this relationship  to the bride, not in any binding effect of the dotis  dictio itself. But in order that the obligation might  be actionable its amount had to be fixed, and this  was just what the dictio accomplished. It was an  acknowledgment of the debt which custom had  decreed that the bride's family must pay to the  bridegroom. In this respect the dos was precisely  analogous to the debt of service which a freedman  owed as an offidum to his patron, and which he  acknowledged by the iurata operarumpromissio. The  dos and the operae were both officio, pietatis, but    Dig.  Dig.  Rom. RO. I. 163.Dig. 3. 2. 5 Plaut. Trin.; Oic. Quint. it became customary to specify their nature and  their quantity. In the one case this was done by an  oath, in the other by a simple declaration, and in  both cases the law gave an action to protect these  anomalous forms of agreement. What kind of  action could be brought on a dotis dictio is not  known. Voigt 1 states it to have been an actio  dictae dotis, for which he even gives the formula,  but formula and action are alike purely conjectural.  We can only infer that the dotis dictio was action-  able since it constituted a valid contract. How or  when this came to pass we cannot tell. A further advantage of Danz' theory, and one not  mentioned by him, is that it explains the capacity  of the three classes of persons by whom alone dotis  dictio could be performed. (1) The father and male  ascendants of the bride were bound to provide a dos  under penalty of ignominia; the bride, if sui  iuris, was bound to contribute to the support of her  husband's household for exactly the same reason;  and a debtor of the bride was bound to carry  out her orders with respect to her assets in his possession, and supposing her whole fortune to have con-  sisted of a debt due to her, it is evident that  a dotis dictio by the debtor was the only way in  which this fortune could be settled as a dos at all.  Thus the hypothesis that the dos was a debt  morally due from the father of the bride, or from  the bride herself, whenever a marriage took place,  completely explains the curious limitation with XII Taf. ii. § 123. 2 24 Dig CICERONE (si veda), Top. FORM OF D0TI8 DICTIO regard to the parties who could perform dotis  dictio. The nature of the transaction may then be  summarized as follows :   Its form was an oral declaration on the part  of the bride's father or male cognates, of the  bride herself, or of a debtor of the bride, setting  forth the nature and amount of the property which  he or she meant to bestow as dowry, and spoken  in the presence of the bridegroom. Land as well as  moveables could be settled in this manner No  particular formula is necessary. The bridegroom  might, if he liked, express himself satisfied with the  dos so specified ; but his acceptance does not seem  to have been an essential feature of the proceeding.  Most probably he did not have to speak at all.   Its sanction does not appear, though we may be  sure that there was some action to compel perform-  ance of the promise. This action, whatever it may  have been, could of course be brought by the bride's  husband against the maker of the dotis dictio.  Perhaps in the earliest times the sanction was a  purely religious one.   Art. 6. Now that we have seen the various  ways in which a binding contract could be made in  the earliest period of Roman history, we may con-  sider briefly the general characteristics of that primi-  tive contractual system. The first striking point  is that all the contracts hitherto mentioned are  unilateral: the promisor alone was bound, and he  was not entitled, in virtue of the contract, to any counterperformance on the part of the promisee. Gai. Ep. The second point is that the consent of the parties  was not sufficient to bind them. Over and above  that consent the agreement between them was  required to bear the stamp of popular or divine  approval. Even in dotis dictio, as we have just seen,  a simple declaration uttered by the promisor was  invested with the force of a contract merely because  the substance of that declaration was a transfer of  property approved and required by public opinion. Thirdly we notice that the intention of the con-  tracting parties was verbally expressed, but that the  language employed was not originally of any impor-  tance (except in the one case of sponsio), provided the  intention was clearly conveyed. We must therefore modify the statement so commonly made that the  earliest known contracts were couched in a particular  form of words. For how did each of these particular  forms originate and acquire the shape in which  we afterwards find it ? By having long been used to express agreements which were binding though  their language was informal, and by having thus  gradually obtained a technical significance. Conse-  quently the formal stage was not the earliest stage  of Contract. The most primitive contract of all was not an agreement clothed with a form, but an agree-  ment clothed with the approval of Church or State. Nicola Codronchi. Niccola Codronchi. Keywords: Su i contratti e giochi d’assardo, contratto, tre tipi di contratto, contratto epistemico, contratto empirico, contratto misto, concordato puo essere informale o formale. tre tipi di concordi formali nell’eta regale, il giuramento per giove, il sponsio (il vino come simbolo del sangue dei vittimi) e il nesso. Il giuramento per Giove e lo sponsio sono ambi religiosi in natura. Solo il ‘nesso’ e secular – e chiede o necessita la presenza della comunita come testificatore – e una forma tipicamente romana e consequentemente piu tard ache le forme religiose che vediamo in altre comuita arie. Il nesso si manifesta nel templo publico – ara maxima per Ercole – e invoca la regola del primo re Romolo, contratti bilaterali, forma dialogica, A esprime la proposizione e B risponde assentendo alla comprehension e all’accettazione di p. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The Swimming-Pool Library. Codronchi.

 

Luigi Speranza -- Grie e Colazza: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into ‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro con l'antroposofia C. apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la «via del pensiero cosciente».  Altre opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur.  A strong anthroposophical influence came from C. and Duke Giovanni Colonna di Cesard. Close to the group, which adopted the name UR, were Kremmerz, founder of the Fraternity of Myriam. Sedute spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico C., e che talvolta si protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE. Il saggio l’Iniziazione mi fu consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da tenere sempre presente come guida.  L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso, che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile, se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi.   Si dice che è importantissimo cominciare sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto di venerazione con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima. L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la gerarchia.  Tale stato di nostre anime destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali, ai quali siamo debitori.  Astenersi dalla critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore, soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima. Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni. Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli, senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un grande nemico. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi. Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. Altra cosa importante da fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di natura vegetale o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una diversa manifestazione delle forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo prolungare in noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in silenzio il sorgere di qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico, genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel mondo spirituale come una ripetizione più sottile delle forme del mondo fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi, nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o lemurico).  È un primo passo verso il riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò, occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione: radice,  fusto, fogliame, fiori, frutto. Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa manifestazione, la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente delle forze insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva è l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita, dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme, realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella sintesi della forma della pianta stessa.  In un certo senso, è come se dalla pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante. Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare. Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta, solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita, distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare, come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGL’ESERCIZI. Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose: si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo, casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico, avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare, quale moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il centro del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di esso si percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il sistema nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli organi interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come attaccati al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione dell’etere di luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e conservata. Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una grande autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla nostalgia del nostro passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina. La parola chiave è Pazienza. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano purezza interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza, a connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva, l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva, paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé: dominio dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei rapporti con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio: positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia: si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e se si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale libertà agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte volte occorre chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi sul fisico, da purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso miglioramento. Per la salute del corpo occorre sopratutto coltivare la chiarezza del pensare e del discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo esterno. Prima di parlare o di esporre una propria considerazione o un’opinione, occorre stabilire con chiarezza il pensiero da formulare in immagini: non è bene difatti cercare a tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la figura d’insieme da cui partire. È l’immagine che deve far scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi un arto della vita universale, una parte di questa, superando ogni senso di separazione. La sostanza divina è solo apparentemente e necessariamente ripartita nel cosmo: lo scopo finale dell’evoluzione è comunque ricostituire un’unica entità spirituale. Bisogna aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli altri fossero. 3- Si deve divenire consapevoli che i pensieri e i sentimenti hanno la stessa valenza e importanza che le proprie azioni: il movimento del pensiero e dei sentimenti è altrettanto concreto quanto le azioni fisiche operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità per il circostante ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si diffondono, comprendendo nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare secondo i puri impulsi dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve prendere coscienza che il corpo fisico, nel quale solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un arto dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una decisione presa; il rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda di un moto passionale o di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti, grati al mondo esterno e allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di Saturno, Tutto era Uomo, e che solo grazie al frutto del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato possibile configurare l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento giornaliero. Considerare la vita e agire in essa, secondo la direzione enunciata nelle precedenti condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata alla vita facendo in modo che le finalità delle proprie azioni siano determinate dalle attitudini sopra descritte. Molte cose devono essere abbandonate, e molte altre acquisite per porsi al servizio del divino. LA POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa perpendicolarmente e orizzontalmente da correnti, che possono favorire o ostacolare la meditazione. Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre pertanto avere la colonna vertebrale verticale rispetto alla superficie terrestre. La posizione distesa, supina, invece accoglie le correnti orizzontali dirette alle specie animali, inducendo automaticamente ad un tipico stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il corpo eterico è percorso da innumerevoli correnti che muovono in senso longitudinale o circolare radiale. Durante la veglia, il corpo astrale rimane connesso spazialmente al corpo fisico; quando si apre nel discepolo la coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in proporzione dello spazio che può essere percepito, ossia diviene grande quanto il suo campo di percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali, fra gli occhi, perché esso è connesso con il risveglio di forze che appartengono alla chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni di sicurezza, del loto della zona basale kundalini e del loto1000 petali, sul capo.  In un lontano passato, i fiori di loto erano attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore. IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno, prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività; le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse all’argomento;  ogni gesto e atto deve essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare, pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità e la giustezza delle proprie aspirazioni;  imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita;  la giornaliera meditazione per interrogarsi sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo interiore.  A volte non è molto altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza. Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’ E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità: anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a due rami, con il compito di portare fuori il corpo eterico. Per mezzo di tale centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione.  Bisogna suscitare un rispettoso silenzio riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni.  Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la percezione delle forme.  Come gli altri, anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni da realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema o da un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente, distaccandosi così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di persone che parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non intervenire correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri deformi e correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé. Controllo delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato dagli istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai movimenti, in modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate da impulsi inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica della Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando sempre a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità, equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera condotta di Vita.  Occorre considerare la totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente, seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione. RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per qualche cosa.  E’ relativamente facile contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente. L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA. Il corpo eterico è di per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate. Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego.  Si ha la percezione che tutto che era la nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo astrale.  Il praticare esercizi in modo non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale). L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2 petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali.  Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva, passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere: costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene: il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio: sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire.  Poi, i rapporti con gli esseri spirituali assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno, ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante la notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di sonno senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà portata dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la stessa pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione, meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza. Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza. LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare: divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in modo immediato, istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve distaccarsi da tale automatismo innato, predisposto in lui.  Il fatto di poter dominare le reazioni e i sentimenti conferisce a tutto l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché le emozioni non hanno autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si deve fondare su di una nuova personalità morale, il quale deve conferire al discepolo la coscienza di ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo spirituale e a ciò a cui deve la ragione della propria esistenza. La Libertà prevede che si sia superato l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di moralità e di equilibrio da poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma per l’umanità.Il discepolo diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori, con la libera decisione di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in tal modo si può parlare di una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui stesso e agli altri. IL GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato pensare, sentire e volere è possibile accedere all’esperienza del guardiano della soglia. LA SOGLIA. Il liberare le facoltà dell’anima significa assumersi direttamente la responsabilità delle proprie azioni. Avendo liberato il corpo eterico e il corpo astrale dagli automatismi del pensare, sentire e volere, si avvicina l’esperienza del guardiano della soglia: si rende obiettivamente visibile il grado a cui si è pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano diviene un essere indipendente, al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era intessuti con lui, ovvero con ciò che rappresenta cosmicamente il nostro essere, ora si presenta esteriormente la nostra interiorità. I propri moti interiori si traducono nella figura esteriore di questo essere. Il guardiano si presenta all’improvviso, appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima esperienza soprasensibile. Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al cospetto del guardiano, che palesa il grado di imperfezione e purezza da noi raggiunto sinora, riconoscono la propria inadeguatezza, la propria immaturità nel sopportarne la visione, quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie limitazioni: i difetti assumono un carattere obiettivo. Solitamente questo essere si presenta per la prima volta al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato, tanto da suscitare terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo che un uomo con il viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto specchiarsi; quale sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando per la prima volta vedrà la sua deformità? Prendere coscienza della propria figura interiore è l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il nostro karma; la sua figura riassume il nostro passato vivente con tutte le cause di dolore e gioia. Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare in volto il guardiano, da quel momento ci si assume coscientemente la responsabilità di pagare i propri debiti karmici, quasi andando incontro a questi. Ci si accorge che ogni tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del proprio karma, provoca un disastro nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza si riflette assumendo forma demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò, quali discepoli, superare il sentimento della paura.  Il coraggio di affrontare il guardiano è contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore, rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di Adonai a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire: offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA. Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare, sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura.  L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo. Breno. Kur. Giardino di Maturità, chiamano certi  antichi saggi il luogo, in cui pone piede  l'uomo allorchè gli divengon palesi gli arcani del mondo. Secondo quei saggi in quel  giardino non ci sarebbe fiore, che non recasse il suo frutto, non uovo, che non portasse .a maturità la vita in esso germinante.  Ma come oscure e- pericolose vengono al  tempo stesso descritte le vie che menano  alla = Porta Stretta , la quale appunto chiude quel giardino. Si assicura, però, che quell'oscurità diviene più chiara del sole e che  quei pericoli non hanno potere contro le  forze di cui ferve l'anima di colui, al quale  queste vie sono mostrate con provvida mano da un mistico da un niziato. Tutto ciò come puerile concezione di un' epoca, in cui nulla si sapeva delle scienze  dei giorni nostri, viene ripudiato dall’ i/luminato, che crede di saper distinguere fra  i vaneggiamenti di una fantasia  brancolante  e le ponderate vedute d'un intelletto  scier- i So ca | oggi  tificamente disciplinato E chi, ciò nonostante, parla oggi di coteste concezioni, può Al star certo di vedere sul volto di molti dei  È, suoi contemporanei un sorriso, se. non di  di : ll sprezzo, per lo meno di compassione. Ta Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci sono  I alcuni che, come quegli antichi saggi, parMAS lano del  rondo dell'anima, e della  paN Cuina 7a dello spirito . Costoro vengono riputati  | fe AMA ì È 3  | persone che parlano di un mondo immagifa nario, figurato loro soltanto dalla propria  Sbrigliata fantasia. Si deplora perfino che essi,  LA in mezzo a un mondo che ha raggiunto  i tanto grandiosi risultati, grazie alla pura e  i, now austera logica, vadano brancolando come ebbranco ‘@& bri, cui ad ogni momento viene meno la  li sicurezza, perchè non si attengono a ciò  È che esiste  positivamente,,.Ora, che cosa dicono questi edbri stessi  i a codesti contradittori ? Quando si sentono  f arrivati all'alto punto, in cui è loro conferito  il diritto di parlare di sè, allora dalle loro   È labbra si odono uscire le parole seguenti. È  Noi comprendiamo benissimo voi, ‘che  dovete essere i nostri oppositori. Sappiamo  che molti di voi sono persone da bene, che  senza riserva si pongono al servizio del  Vero e del Buono; ma sappiamo altresì che Bee a), jr er =>  voi non ci potete capire, fin tanto che pensate come appunto pensate. Sulle cose, delle  quali noi abbiamo da ragionare, potremo diiscorrere con voî, soltanto quando vi sarete  presi voi stessi la pena di apprendere il linguaggio nostro. Dopo questa nostra dichiarazione molti di voi, certo, non vorranno  più oltre occuparsi di noi, perchè crederanno  di aver riconosciuto che al farneticamento  della nostra fantasia si accoppia in noi anche un immedicabile orgoglio. Noi però  comprendiamo voi anche in siffatta affermazione e sappiamo al tempo stesso che  dobbiamo essere non già superbi, ma modesti. Per incitarvi a tentare di entrare nel  nostro ordine di idee non ci resta che una  cosa da dire: Credeteci, noi non riconosciamo un vero diritto di parlare delle nostre conoscenze se non a colui, il quale sia  capace di sentire con voi ciò che vi costringe alle vostre asserzioni, e che conosca a fondo la forza, la potenza convincente  e la portata della vostra scienza. Colui che  non reca in sè la sicura consapevolezza di  poter pensare ponderatamente, scientifica  mente, come l’ astronomo o il botanico 0  lo zoologo più obbiettivo, costui in fatto di    vita spirituale, di conoscenze mistiche do9  e = e Re  vrebbe contentarsi di apprendere, e non  già volere insegnare. Ma non ci si frain‘tenda: noi parliamo soltanto di insegnanti, non di studiosi, Studioso di misticismo può: divenire chiunque, giacchè nell’ anima di    ogni persona si trovano le facoltà, i poteri  presaghi, che si schiudono al ‘Vero. Il Mistico dovrebbe parlare in modo comprensibile, anche pei più indotti; e a coloro, ai  quali, secondo il grado del loro intendimento,  egli non potrebbe dire un centesimo della  verità, ne dirà ‘solo un millesimo. Costoro  oggi riconoscono questa millesima parte ;  domani riconosceranno la centesima. Tutti  possono essere  sfudiosi,, ma  insegnante,,  non dovrebbe voler diventare nessuno, che  sia incapace di assoggettarsi alla disciplina  del più austero intelletto e della scienza' più  severa. Sono veri insegnanti di misticismo  soltanto coloro che sono stati precedentemente rigidi cultori della scienza, e che sanno  perciò che cosa viga nella scienza. Anche  il vero mistico ritiene visionario, inebriato,  chiunque non sia capace di deporre in qualunque momento il solenne paludamento del  mistico per indossare la modesta tunica del  fisico, del chimico, del botanico e dello  zoologo ,  sitori ;' con la massima modestia li assicura  ‘che intende il loro linguaggio e che non si  arrogherebbe il diritto di essere un mistico,  se si sapesse ignaro del loro linguaggio. Allora, però, egli può anche aggiungere di saf |pere, e di saperlo come si sanno i fatti della  Ù vita esteriore, che, qualora i suoi Opposi® \tori imparassero il suo linguaggio, cesserebbero di essere suoi oppositori. Egli sa que sto come chiunque, il quale abbia studiato  chimica, sa che, date certe condizioni, dall'ossigeno e dall' idrogeno si forma l' acqua.  Che Platone non volesse ammettere ai   gradi superiori della sapienza nessuno che   > mon conoscesse la geometria, non significa  già che egli facesse suoi alunni soltanto i li  Y T Così parla il vero mistico ai suoi oppoA    9  U  L  dotti in geometria, ma significa che quei    suoi alunni dovevano essersi educati alla severa, rigida, ed esatta investigazione, prima  che venissero loro schiusi gli arcani della  vita spirituale. Una tale esigenza ci appari  sce nella sua giusta luce se ‘riflettiamo che nelle regioni trascendentali viene meno l'elemento di fatto, a cui si saggia e corregge  ad ogni piè sospinto l' investigazione ordinaria del mondo. Se il botanico si forma  concetti erronei, subito i suoi sensi lo illu  n  conci    Da  (UR IZA minano circa il suo errore. Tra lui e il mistico corre il rapporto stesso che intercede  fra chi cammina su strada piana e chi ascende  una montagna: il primo può cadere a terra,  ma solo in casi eccezionali potrà causarsi  la morte ; all’ altro, invece, questo pericolo  sta sempre dinanzi, E certamente nessuno  che non abbia imparato a camminare può  ascendere una montagna. Poichè ; fatti spirituali non correggono i concetti allo stesso  modo che li correggono i fatti del mondo  esteriore, un pensare rigorosissimo e degno  della massima attendibilità è un ovvio presupposto per l'investigatore mistico.  Quando ci si dà tutti a pensieri siffatti,  si riconosce che cosa intendevano dire quegli antichi saggi, allorchè parlavano dei pericoli che minacciano chi voglia penetrare  negli arcani del mondo. Se alcuno si appressa a questi arcani con mente indisciplinata, essi determinano nella sua anima deplorevoli disordini. Divengono pericolosi come  una bomba di dinamite nelle mani di un  fanciullo. Perciò da ogni investigatore mistico si esige rigorosamente che la normalità del suo pensare, di tutta, anzi, la sua  vita psichica, abbia saggiato le proprie forze  SE E    attorno a problemi gravi e spinosi, prima  che egli si appressi ai compiti più elevati.  Valga ciò come accenno a quel che il mistico intenda dire, quando parla dei primi  gradi della Iniziazione nelle verità superiori. Moltissimi, i quali reputano di starsi SUI Mrfica| più alti gradi della cultura moderna, stimano  che sano pensare e misticismo siano due  termini incolta   sano che una illuminata educazione scientifica debba estirpare dall'individuo qualunque |  tendenza mistica. E costoro trovano in par- b cora di tali tendenze chi conosca gli impor  tantissimi risultati della moderna scienza na| turale. Se avesse ragione chi la pensa così,  | si dovrebbe allora, certo, concedere che la  Mistica non abbia nel nostro tempo se non  | piccola probabilità di trovare accesso alle  anime dei nostri contemporanei; giacchè nessuno, il quale abbia intendimento dei bisogni spirituali di questa nostra età, può dubitare che siano pienamente giustificati i  trionfi della scienza naturale già conseguiti.  e ancora da conseguire in avvenire. Biso- vi MER  Na bilmefite antitetici. Essi pen- K pate    ticolar modo incomprensibile che abbia an)  "fi  LI    Peli so  Naturalistici  itreprimibili do  u + Con una certa tr  ‘ zione cotesti insoddisfatti  <j O  Opère dei mistici, e ]} trovand ciò, I cui le  oro anime han Sete: ]ì gj affaccia loro ino  Copiosa vena IÒ, di cui il loro Cuore ha bj.  Sogno: una effettiva aura di vita Spirituale! Si  In contatto con e Sa costoro sentono |  Propria Crescere; ivi tr aNo ciò che ] uomo |  eve incessanternente ce  vino! D’    rcare: l’ali  Ta parte, Però, essi sj   Petere ;l ito   diate a monito:  Bj   ‘formarvi, mediante Ja cie  rale, un pen |  non vj chiappanuvole vai   monito, l’anima loro sj inaridisce,  econdita, . tò, in fondo all’ an ogni individuo Verità, e   i che grande maestra dell’uomo è la   ]    mande AIR    Chi potrebbe non dare, per intimo consenso,  ragione al Goethe, allorchè dice che dagli  errori e dalle disarmonie degli uomini egli  si ritira sempre con rinnovato contento, rivolgendosi alle eterne necessità della natura? E chi potrebbe leggere senza incondizionato consenso quelle parole, con le quali il grande poeta descrive i sentimenti che lo    assalirono in una solitaria meditazione sulle  ferree leggi, secondo le quali la natura forma    le montagne?  Seduto su di un’ alta e nuda vetta, e  spaziando con l'occhio su di una vasta sottostante regione, io posso dirmi:  qui tu  poggi immediatamente su di un suolo, che    ‘arriva fin giù ai più profondi strati della    terra. In_questo istante, in cui le eterne forze  di attrazione e di movimento della terra    quasi direttamente agiscono su di me, in cui più presso a me aliano e mi avvolgono    gli influssi del cielo, vengo come sospinto  a drizzare l'animo mio a studi più alti sulla  natura.... Così, dico fra me e me, mentre  da questa cima nuda volgo lo sguardo in  giù, così sentesi solitario chi voglia schiudere l'anima propria unicamente ai più primordiali, più antichi e più profondi sentimenti del vero. Sì, egli può dire a se stesso:   SONG). pe    Qui, sull'antichissimo ed eterno altare, immediatamente eretto sul punto più basso  della creazione, offro sacrifizio all'Essere di  tutti gli esseri. E' pur naturale che questa disposizione  d'animo, per cui si resta reverenti dinanzi  alla grande istruttrice Natura, si trasferisca  sulla scienza ‘che ne discorre.   Non deve esistere antinomia fra i sentimenti che pervadono l'anima, quando essa  si approssima alle  austere e profondissime  verità primordiali, circa la vita spirituale,  e quelli che v'irrompono, quando l'occhio si  posa sull'attività costruttrice della natura.   Manca forse intelletto al mistico per cotesta armonia della natura coi sentimenti più  sacri all'anima umana? Tutt'altro; giacchè  al di sopra dell’altare, sul quale il vero mistico offre i suoi sacrifizi, in ogni epoca,  in cui può spingersi l'indagine umana, stette  scritto a lettere di fuoco fiammante, come  legge. suprema: Natura è la grande guida  al divino, e la conscia ricerca umana delle  fonti del Vero deve seguire le orme della  sua recondita, volontà. Se i Mistici seguono questa loro norma  suprema, nessuna antitesi dovrebbe sussistere fra le vie loro e quelle su cui camminano gli investigatori della Natura. E tanto   meno tale antitesi dovrebbe determinarsi in   un'epoca, che tanto deve alla scienza naturale.   Per intendere bene quest’ ordine di de  occorre domandarci:  In che, dune ue  consistere l’ accordo fra la Scienza*fi Lie  e il Misticismo ? E in che potrebbe, invece,  aversi un'antitesi? Ebbene, l'accordo non può venir cercato |  se non nel fatto che le rappresentazioni che   ci facciamo intorno alla entità dell’ uomo  ‘non siano estranee a quelle che abbiamo in| torno agli altri esseri della natura; nel ravvisare, quindi, nel ’opera della natura e nella vita dell'uomo uno stesso e unico tipo di   ordine retto da leggi,. L  Un'antitesi, invece, si avrebbe, se si volesse vedere nell’uomo un essere di specie  "completamente diversa dalle creature naturali. Coloro che vogliono un' antitesi in tal  senso si sbigottirono fortemente quando, più  di 40 anni fa, il grande scienziato Huxley,  informandosi allo spirito stesso della scienza naturale moderna, sulla base della somipigliante struttura anatomica, concluse la stretta  parentela fra l’uomo e gli animali supeori con queste parole:  Possiamo prendere in esame un sistema di organi qualsiasi; l'esame comparativo di essi nella serie  delle scimie ci conduce sempre a questo me- È  desimo risultato: che le diversità anatomiche, per le quali l’uomo è distinto dal gorilla e dallo scimpanzè, non sono tanto grandi  quanto quelle che separano il gorilla dalle  altre scimie inferiori. Una. tale asserzione può, però, sbigottire  solamente quando la si riferisca in modo  errato all’ essezza dell'uomo. Certo ne può.  facilmente rampollare il pensiero:  Ma come  è vicino, dunque, l’uomo alle bestie |, Questa stretta affinità non suscita però nel mistico nessuna preoccupazione, giacchè per  lui ne balza subito anche l' altro pensiero: |  A quali fini superiori, però, possono ser\vire gli organi che ritrovansi nelle bestie,   allorchè sono trasformati in organi umani! Il mistico sa che l'occulta volontà della natura muta la percezione animale in percezione umana cofì lo sviluppare in altra forma  gli-organi animali. Egli segue le sicure orme  della natura e ne continua l'operato. Per lui  i l'opera della natura non è punto terminata  con ciò che essa gli ha donato. Egli diviene  un fido discepolo della natura per il fatto  appunto di portarne l’opera a maggiore al  1  toi    tezza. La natura lo ha portato fino al pensare e al sentire umano; egli, però, non  prende questo pensare e questo sentire come  qualcosa di fissato, d'immobile; ma li rende  capaci di attività superiori. Avviene per opera  della sua volontà ciò, che nell'ambiente naturale esteriore avviene indipendentemente  da essa. Gli occhi, come sono ora in lui,  attestano che gli organi visivi sono capaci  di ben altro ufficio di quello che compiono ® ©  nelle scimie. Così l’ occhio può venir trastormato. Le facoltà psichiche del mistico  evoluto sono, rispetto a quelle dell’ uomo  non evoluto, nello stesso rapporto in cui  sono gli occhi umani rispetto a quelli delle  scimie. Si capisce che chi non è mistico.in- pelende  tende l’anima del_ mistico nella stessa scarsa 64 liel  misura, in cui l’animale può intendere il, mote  pensare dell’uomo. E come alla creatura non  pensante si schiuderebbe tutto un nuovo  mondo, se potesse svolgere in sè la facoltà   del pensare, così il mistico, dopo lo sviluppo delle sue facoltà superiori acquista la  visione di un altro mondo. In questo  altro  mondo,, egli è  iniziato,. Chi_non di- Re  Yiene Mistico rinnega la natura. Ègli non È   a progredire ciò che essa ha prodotto senza   di lui con la propria volontà occulta. Per  di mati Vella lastare Mor pTa ene dPR ULOPY CELL. PI | Peg) AM e? lug las } "El n fe fest NL  Los ; mid : ni gd ed deli è y  villa mM ni collo i fiat 1a CA  di (ANI it pece  iò egli si pone in contrasto con la natura,    giacchè questa trasmuta continuamente le   proprie forme: dal vecchio essa crea eterna mente il nuovo. Ora, chi, conformemente   %@. alla moderna scienza naturale, crede a que sta trasmutazione, crede a questa evoluzione   n) e, ciò nonostante, non vuole trasmutare se   esso, costui riconosce, sì, la natura, ma   A; nella sua propria vita si pone in contradi &l-zione con essa. Non si deve soltanto ricenoscere l'evoluzione, si seno ivato Non si   limitino, dunque, le facoltà della nostra vita   ;, col tener conto esclusivamente della nostra   ‘ parentela con gli altri esseri. A chi per edu cazione mistica diviene un fido alunno della   natura, si schiude il senso per la superiore  evoluzione.   A proposito di questi cenni sulla Mistica   e sulla /riziazione molti diranno: Ma che   ci giova questo discorrere di facoltà a noi   sconosciute! Dateci queste facoltà, e vi cre deremo !,. Nessuno, però, può dare a un   altro cosa che questi rifiuti. E il più delle   volte ciò che incontrano i nostri mistici è   . un brusco rifiuto. Al presente essi non pos sono fare. molto .di più che raccontare le   loro cognizioni mistiche a quelli che vo gliono prestare ascolto. Ciò, naturalmente n nt x  IE RAIPAT cn    potima tl  C j Pa ENTI OT  le ero Art 1 er? che,  I,, a . = ì \ wr  / a) i e. e 7  pederntdt    hern ci tCAns4- 1 È   à a tutta prima un volersela cavare col  RE ce raccontare che cosa c'è in America  a chi ci dicesse:  Ajutatemi ad andarci!,,.  Ma pare, non è realmente una scappatoja,  perchè i processi dello spirito sono diversi  da. quelli fisici Molto tempo prima che  l'uomo sia in grado di fissare la verità im  piena luce, egli ha la possibilità di intravederla, e di accoglierla nel suo sentimento.  E questo sentimento stesso è una forza, che  lo può condurre più avanti. E' questa una  fase per cui è necessario passare Chi segue  con ricettivo abbandono la narrazione del  Mistico, già calca il sentiero che mena alle    verità superiori. Solo l' Iniziatof'comprende  completamente l’Iniziato: ma angie per  vero rende anche il non iniZiato ricettivo  alle parole del Mistico. E questa sua ricettività è strumento con. cui egli lavora a schiudere i propri organi mistici. Ciò che prima-,  mente occorre è che si abbia questo senso |  della possibilità di conoscenze superiori: al- |  lorà not si passa più incurantemente accanto alle persone che di queste conoscenze  superiori tengono parola.   E' stato già detto che anche al presente  ci sono persone che si adoperano a rinnovare la vita mistica.  Up irene Kona diteou@ crt u  pe ud)    fasi cl fa ine piftae 1 Om? eudere } fnmmale    tri rautwews i E    Qui vi voglio intrattenere di due esempi  di tal genere, cioè del libro  // Cristianesimo esoterico, (o i Misteri minori),,, di  Annie Besant, (1), e su  / grandi Iniziati    el geniale pensatore e poeta francese Edoardo  Schuré (2). Ambedue queste opere gettano  luce sulla natura della così detta Iniziazione.  Annie Besant, mostra come il Cristianesimo  debba venire compreso quale risultato di  codesta Iniziazione. Edoardo Schuré tratteggia le figure dei massimi duci spirituali della  umanità, fondandosi sulla convinzione che  le grandi confessioni religiose e le grandi  filosofie cosmologiche da quei duci dispen  sate all'umanità, celano verità eferne, che si  possono cercare e re soltanto in  quelle dottrine filosofiche e religiose. Ambedue queste opere trovano la propria  giustificazione unicamente nel campo del Misticismo. Esse traggono la loro origine da  quella corrente spirituale dei tempi nostri,  che è destinata ad elevare l'umanità da un  incivilimento puramente esteriore all'altezza  Traduzione Italiana di D. e O. Calvari, Roma. Traduzione Italiana edita da G. Laterza, Bari, suh Tor ella Vea dii Conti |  RA    fOdeth4, nu pori? IU) di vedute spirituali. Verrà tempo, in cui il  pensiero scientifico,, non potrà più contrapporsi _ostilmente a questa corrente. La scienza naturale riconoscerà allora che non si comprendé lo spirito col.negarlo, e che  | non si contr lle leogi naturali col_cerre Treo © x iii dpi  uelle spirituali. Non si designeranno  iù i Mistici come oscurantisti, giacchè si  saprà che soltanto pei loro avversari il campo  di cui essi ragionano è oscuro.  E non s'irriderà più l' Iniziazione, come i  non si irride l'esigenza, che chi vuole inda- pla 2    gare la vita dei microrganismi deve prima 4, tyoex94    imparare a userei. microscopio. | "I vv trvalta  L'indagine implica la necessità di adem- ' 3    piere a certe condizioni preliminari. Queste  P** ic;  condizioni per l'aspirante mistico non consistono, naturalmente, in pratiche di tecni- |  cismo esteriore, bensì na osservanza di  un determinato orientamento della..vita si- È  ‘ chica. Grazie a tale A si dischiude Tide  il senso per certe verità, le quali non contemplano ciò che è FARA, ma ciò, di, A  cui, secondo le parole de Goethe  ib.tran-\  itori v Bi n_simbolo . In_s sid | oe  alla esistenza umana giacciono capacità,su- |  CRA i GIONO CA  \periori, come il frutto giace.in grembo al  fiore. E perciò nessuna creatura dovrebbe  TI YOMOMono wu € 0kL Lia  UT E E I ipa  ln Leno el muyert Sace  caprata farvi vtuel' fa P even   ord  LISI    (NE presumere di dire che  nel suo mondo vi  i è qualche cosa di esauriente, di compiuto .  Il Se un uonio ha tanta presunzione, assomii glia al verme che ritiene_come orizzonte  i | della esistenza il mondo dei suoi sensi. Li Giardino di maturità Chiamasi quel  IR luogo, dove divengono palesi gli arcani del  mondo. Per accedere a tal luogo bisogna  tI che l’individuo stesso. tenda la sua volontà  AU x al raggiungimento della propria maturità.  Ù" qultan Vé Bisogna che tu rompa e getti via da te  È, È quse: Vle 1 gusci del tuo essere quotidiano, e svegli  |   see $ ÎN te la vita intima nascosta, se vuoi enn trare per la Porta stretta  Nel  Giardino  È di maturità,.  TAR Come molti uomini insigni, anche il  p Goethe espresse numerose verità dalla profonda vena del suo intuito, enunciandole  non già in diffusi e circostanziati discorsi,  bensì in brevi e spesso enigmatici accenni.  sr Uno di tali accenni è in questo periodo:  dg  Nelle opere dell’ uomo, come in quelle  n e della Natura, sono le intenzioni, che meri / tano specialmente la nostra attenzione.   E' questo un aforisma che verrà compreso in tutta Ia sua profondità quando lo  Î si applichi ai più importanti fenomeni della  vita spirituale umana. Giacchè, come possiamo acquistarci senso e comprensione per  le azioni di un singolo individuo soltanto  quando ne veniamo a conoscere le_intenzioni, così ci accade anche per la storia dell'intiero genere umano. Ma che abisso intercede fra l' osservazione degli atti che si  svolgono palesemente alla luce del giorno,  e il riconoscimento delle intenzioni che giacciono nelle regioni occulte dell'anima! Si  può essere addirittura rudimentali quanto a  intuito e a intendimento rispetto ‘a un altro  uomo, ed essere tuttavia capaci di osser varne le azioni; ma bisognerà avere almeno  un po' delle sue qualità di spirito e della sua  levatura psichica, se si vuole penetrarne le    intenzioni. Senza di ciò la sorgente del suo ! agire rimane un arcano, un enigma, alla cui  soluzione ci manca la chiave, Non accade  diversamente con i grandi fatti della storia  spirituale dell'umanità. Questi fatti stessi son  lì aperti davanti agli occhi dello storico; ma  le intenzioni giacciono in profondità molto  recondite. In queste profondità deve penefrare colui, che vuol procurarsi la chiave per  la comprensione. Orbene, l'iptenzione di un’azione giacerà tanto più profondamente recondita, quanto più questa azione avrà importanza e quanto più ampia sarà la sua portata. L'intenzione di un atto della vita  quotidiana non è difficile a penetratsi. Ma  non può essere così, naturalmente, di azioni,  la cui portata abbraccia una serie di secoli.  Chi a ciò pon mente giunge a presentire  che cosa siano i Misteri: giacchè in cotesti  Misteri sono riposte le irzfezzioni dei grandi  fatti dell’ umana evoluzione, involgenti il  mondo intero nella loro portata. E coloro  che conoscono queste intenzioni e posseno  con ciò conferire alle proprie azioni stesse  \ quel peso che le rende realmente efficaci per  lunga serie di secoli, sono gli /niziati.  Solo chi nella storia del mondo scorge  unicamente una mèra successione di casi  fortuiti, può negare l'esistenza dei Misteri e  degli Iniziati. In tal caso non c'è che da  attendere che un uomo siffatto si ponga un  bel giorno a studiare con occhio amorevole  i fatti della storia. Allora un po’ per volta  albeggerà al suo sguardo un significato, un  nesso, ed egli finirà per non più considerare Tortuiti quei fatti storici, come non considera automa un individuo che veda muoversi ed agire. Giungerà così nella sua investigazione là, donde gli Iniziati dirigono  il progresso umano, secondo le conoscenze  the sono avvolte nell'ombra dei Misteri. AA vila AATZzat fer, i 40 dad    x x £ > it  hu v da ORI ig tivfeco Vellar11W; 7 Di cotesti Misteri parlano i testi religiosi  di tutti i tempi. E ad essi vengono condotti  coloro, che non si fermano alla vita estrinseca dei fondatori delle varie religioni, nè  alle vicende storiche del propagamento delle  loro dottrine; ma che, invece, cercano di  elevarsi alle intenzioni di quei fondatori di |  religioni. Non dovrebbe eccitare stupore il  fatto che queste intenzioni rimangano avvolte in arcana oscurità e vengano comunicate soltanto a degli eletti entro le scuole  di sapienza, che sono appunto i Misteri;  giacchè si fa opera saggia solo quando a  un individuo si comunica ciò che egli può  capire, o, con altre parole, quando gli si  comunica qualcosa, soltanto quando egli si  sia messo in condizione di capirla. Per compiere azioni che abbiano peso e valore occorre possedere un’alta sapienza, e per appropriarsi un'alta sapienza bisogna passare  per un periodo lungo e arduo di preparazione. Così avviene nei Misteri.   L’ evoluzione spirituale dell'umanità procede innanzi per opera delle varie religioni  e cosmologie. Chi co-opera a questa evoluzione mette in movimento le forze spirituali  degli uomini. Bisogna che egli conosca le  leggi da cui dipende questo movimento,  DE: pri    come deve conoscere le leggi della chimica   chi vuol mescolare le sostanze con effettuale  risultato. Néi Misteri vengono insegnate le .  leggi supreme della vita spirituale; viene insegnata la chimica dell'anima. E bisogna   cercare di penetrare nella natura di queste   leggi, se si vogliono sorprendere, o anche  solo presentire, i moventi che stanno alla i  A base delle azioni dei grandi Istruttori della   umanità. All'unisono con tutti coloro che cercano   di schiudersi per tale visione gli occhi spi rituali, Annie Besant parla nel suo libro   Cristianesimo esoterico, (0 I Misteri mino ré) , di un  lato occulto delle religioni, A lea Nell’analisi dei mistici arcani del Cristiane 1% simo, del così detto suo contenuto esoterico, ne. essa luminosamente si addentra e trascina.   d il lettore nell'intimo della questione relativa  sperato! scopo delle religioni. ‘a questo pro- |  Posito l'autrice così scrive. Esse ven gono date al mondo da uomini più saggi    delle masse etniche, alle quali le religioni  Stesse sono dispensate e hanno appunto lo   Vedi pure Il Cristianesimo come fattore mistico  di Rudolf Steiner. (Deposito presso l'Ed. Bem- 7  porad, Firenze). Lolo scrullo du fevomeri sia Pe i  Dul th h Ha DI ire  eSleeml J  > Uibftsore  Sé Lap de  scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità.    Per conseguire ciò effettivamente esse deb- di  bono giungere fino agli individui e avere influenza su loro. Orbene, gli uomini non sono î  tutti allo stesso livello di evoluzione, anzi i  l'evoluzione potrebbe venire rappresentata  come una scala ascendente di gradi, su ognuno asLelo api    dei quali si trovano uomini. I massimamente  evoluti stanno di un gran tratto più su dei  meno evoluti, sia in intelligenza che in ca- A  rattere; ad ogni grado varia la capacità di 4  .. comprendere egualmente che quella di agire. }  E' perciò vano dare a tutti ii medesimo in- FE segnamento religioso; quel che gioverebbe  all'uomo d'intelletto resterebbe inintelligibil  all'uomo ottuso, laddove ciò che leverebbe e  in estasi il santo lascerebbe del tutto indif- Ì  ferente il delinquente...2 LE  La religione deve essere graduata con l’e- =  voluzione, altrimenti essa manca al suc scopo SI  UGANB: Es. Chr.): ;  Il modo, dunque, in cui il maestro di religione parla a uomini di grado evolutivo i . diverso, dipende dai bisogni dello spirito e (1  . del cuore di coloro, ai quali egli vuol giun- N  | gere. Per riuscirvi bisogna che egli stesso  | porti nell'anima propria il nocciolo della sa- "i  | pienza, per mezzo della quale egli ha da  START. agire; e il modo come egli porta in sè questo nocciolo deve essere tale da renderlo  capace di parlare ad ognuno secondo la sua  comprensione. Perciò chi studia i discorsi  degli Istruttori religiosi dal loro lato esteriore, conosce soltanto un lato e precisamente quello più estrinseco della loro sapienza. Acutamente accenna a questi fatti  Edoardo Schuré nel suo libro sui  Grandi  Iniziati,. Ivi egli descrive i grandi Maestri  di sapienza: Rama, Krishna, Ermete, Mosè,  Orfeo, Pitagora, Platone, Gesù, da quello  investigatore intuitivo, da quel nobile artista  dei pensiero, da quell'anima satura di profondo sentimento religioso ch’ egli è. Così  nell'introduzione al libro egli espone il suo.  modo di vedere : Tutte le grandi religioni hanno una storia esteriore ed una interiore; l'una visibile,  l'altra nascosta. Per istoria esteriore sono da  intendersi i dogmi et i miti pubblicamente  © insegnati nei fémpli e nelle scuole, riconosciuti nei culti e nelle superstizioni popolari.  Per istoria interiore è da intendersi la scienza  profonda, la dottrina segreta, l’occulto agire  dei grandi Iniziati, profeti o riformatori che  hanno istituite, sorrette e propagate le religioni predette. La prima la storia ufficiale, quella che si legge dovunque, si svolge alla  vista di tutti, ma non per questo è meno  oscura, complicata, contradittoria. La se‘conda, che io chiamo la tradizione esote- |,  rica, o dottrina dei misteri, è difficilissima €  Î a districare dai veli che l’avvolgono. Essa  infatti si svolge nei penetrali dei templi, nelle  segrete confraternite, e i suoi drammi più  appassionanti hanno intieramente per iscena  l’anima dei grandi profeti, che non hanno  mai nè fissato in pergamena, nè confidato  ‘a nessun discepolo le proprie crisi più acute,  o le proprie estasi più paradisiache. Questa  seconda storia vuole essere indovinata, ma  non appena si è scorta, apparisce luminosa,  organica, sempre in armonia con se stessa.  Potrebbe essere anche chiamata la storia  della religione eterna e universale. In essa  le cose mostrano il loro rovescio e la coscienza umana il suo diritto, mentre la storia non ne offre che il faticoso rovescio. In SD  questa seconda storia cogliamo il punto ge-N  netico della religione e della filosofia, che si ricongiungono all’ altro capo dell' ellisse 9/8,  per mezzo della Scienza integrale. Cotesto \T}  unto è costituito dalle verità trascendenti. N  vi troviamo la causa, l'origine e il fine del tene  prodigioso lavoro dei secoli, l'azione della  RES 1; RARO    provvidenza mediante i suoi agenti terrestri.,,   Questi  messaggeri terreni, lavorano  nell'officina Spiritualistica, nel laboratorio spiritualistico della umanità. Ciò che li abilita  a questo lavoro sono le leggi imperiture della  chimica spirituale ed i processi chimici spirituali che esse operano: vale a dire i grandi  prodotti intellettuali e morali della storia del  mondo. Ma ciò che fluisce dalle loro labbra  è soltanto simbolo, immagine della sapienza  superiore dimorante nella profondità delle  loro anime, immagini e simboli proporzionati all'intendimento di coloro, che ad essi  porgono orecchio. Soltanto a coloro che  adempiono alle condizioni, che garantiscono  la comprensione e il  reffo uso  della sapienza superiore, questa può venire dischiusa.  E allora. nella Iniziazione mistica sentono  l'immediato contatto coi primordiali motivi  spirituali, con le potenze genitrici della esistenza. Ascoltisi ciò che dice un uomo tutto compenetrato di siffatti sentimenti: Clemente  Alessandrino, lo scrittore cristiano del 2° e  3° secolo della nostra èra, il quale prima  del suo battesimo fu un  Misto,, ossia  A EE  un alunno dei Misteri, esalta questi con le  seguenti parole : O veramente santi Misteri! O purissima luce! Una face viene portata dinnanzi  a me allorquando rimiro il Cielo e Dio; io  sono santificato, allorchè ricevo la consacrazione. Gli arcani però me li rivela lo spirito primordiale e suggella in me l’Iniziato  con l'illuminazione; iniziato nella Fede mi  presenta al Tutt'Uno, affinchè io vega ser=  bato in grembo all’eternità. Tali sono le cerimonie iniziatiche dei miei Misteri! Se tu  vuoi, fatti iniziare tu pure, e con le forze  spirituali dell'esistenza tu chiuderai la santa  carola attorno all’ increato, all'imperituro, al  tutt'uno spirito dei mondi, e la favella che  a te dal Cosmo viene inspirata intonerà  gl'inni di lode a questo Tutt'Uno,.. Si comprende la descrizione che fa Annie  Besant dei Misteri, se si riflette che gli Iniziati devono parlare di sè come lo fa Clemente Alessandrino con le parole suriferite:  I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano  il vanto di quella vetusta contrada e i più  nobili figli della Grecia, come ad esempio  | Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi  | iniziare nei Misteri dai maestri della sapienza  | iniziatica egizia. I Misteri Mithriaci dei Per. IDO. JIA    siani, i Misteri Orfici e quelli Bacchici, e  i posteriori pseudomisteri di Eleusi in Grecia, i Misteri di Samotracia, della Scizia,  della Caldea, sono universalmente noti, almeno di nome, come le parole d'uso familiare. Persino nella forma estremamente attenuata dei Misteri eleusini il loro valore  viene altamente magnificato dai più eminenti  uomini della Grecia, come Pindaro, Sofocle, Isocrate, Platone e Plutarco. E nei  Misteri non si mira soltanto all’ ampliamento  del sapere, alla sola spiegazione di cose  ignorate, ma alla elevazione di tutta la natura umana, di modo ch’ essa si compenetri di quella sacra disposizione iniziatica,  che pone in grado di comprendere le fonti  e principi del Cosmo. Il mistico non solo  conosce le cose superiori, ina oltre a ciò la  sua propria natura si fonde con esse. Egli  deve quindi essere preparato al fine di potere accogliere come si deve le fonti di ogni  vita che in lui affluiscono. Appunto nel nostro tempo, in cui si vuol riconoscere come  attendibile soltanto ciò che è scientifico in  senso materiale, diviene difficile il credere  che, circa le cose supreme, quello, che imV. Esot. Chr., a    porta veramente è una disposizione d° animo. Per tal modo si fa della cognizione  un fatto intimo dell'anima umana: e tale  essa è per il Mistico. Si dica a qualcuno  la soluzione di tutti gli enigmi del mondo:  Il Mistico troverà sempre che una siffatta  esposizione è vuota risonanza, che sfiora l'orecchio e svanisce, se |’ anima non. è stata  prima preparata ed innalzata ad un livello  superiore; egli troverà che il sentimento non  ne resta affatto toccato, se non è staîc disposto a sentire l'accoglimenio della sapienza  come un  Sacramento,. Solo chi intende  ciò conosce atmosfera spirituale dal’ alto  della quale discendono certe espressioni del  Mistico, come quelle di Filone:  Sovente,  allorchè mi_riscuoto dal sopore della corpo-4%  reità e rientro in me, distogliendomi dal  mondo esteriore, e penetro dentro me stesso, .  scorgo una mirabile bellezza ; allora io sono  certo di essermi internato nella parte migliore di me; metto in attività la vita vera,  sono unito col divino e in lui fondato, e  conseguo la forza di trasferirmi nel mondo  trascendentale. Quando, poi, da codesta contemplazione dell’ Altissimo, e dopo questo  riposo nell’ elemento spirituale del mondo,  discendo nuovamente alla consueta formazione di pensieri, allora mi domando come  potè avvenire che l’ anima mia si impigliasse  nel vivere quotidiano, posto che la sua patria è pur quella dove testè mi sono soffermato ! Chi sa quale grado di purificazione del sentimento e della funzione  intellettiva sia necessario per arrivare a sentire così conosce anche le ragioni per cui  la sapienza mistica, la sapienza consacrata  non può essere oggetto della vita consueta  quotidiana, nè dell’ insegnamento ordinario,  nè dei documenti della storia esteriore; e  perchè essa stia chiusa nell'anima dei divini messaggeri e debba costituire, come  dice Schurè, il riservato oggetto della  iniziazione in fratellanze appartate. Ma, quantunque questa immediata comprensione della  verità rimanga un fatto d’ insegnamento del  tutto intimo, pure tutti gli uomini partecipano dei benefici della sapienza. Come i  benefici delle ferrovie elettriche ricadono su  tutta la popolazione, pur restando monopolio    degli elettrotecnici la conoscenza delle. leggi  Pe così avviene, quanto ai frutti,  ella efficacia e della sapienza dei Misteri,  E come il beneficio delle cognizioni tecni  che si traduce nelle istituzioni esteriori della  civiltà. così quello della sapienza dei Mistici si esprime e distribuisce nel contenuto  spirituale della vita dell'umanità: cioè nei  suoi miti, nei concetti informatori delle sue  credenze e delle sue religioni, nel suo mondo  di leggende e di fiabe, non solo, ma altresì  nelle sue idee di morale e di diritto, e da  ultimo anche nella sua attività artistica, nelle  sue scienze e nelle sue filosofie. Il Mistico  mostra che la sapienza più profonda della  umanità è la radice di tutti questi vari contenuti della vita, rendendosi ben conto che  essi tutti possono trovare la loro vera spiegazione soltanto in quella sapienza. Clemente Alessandrino parla del fatto che un uomo può avere la fede seriza possedere eru Izione,, ma al tempo stesso proclama essere impossibile che un uomo senza  sapienza comprenda gli oggetti che vengono  spiegati nella fede, (v. Besant, Esot. christ.).   Ogni Mistico conosce questo vero rapporto fra Fede re e sa che tra i  due non può esistere contraddizione j ma  anche alla Mistica egli può fare riconoscere  valore unicamente sulla base della vera scienza. Anche di ciò parla Clemente. Alcuni che si ritengono favoriti da natura, non desiderano di occuparsi nè di filosofia, nè di logica; anzi essi non desiderano di studiare e imparare la scienza naturale; essi richiedono nuda fede soltanto. Io, pertanto, chiamo dotto veramente colui  che tutto mette a contributo per la verità,  così che traendo dalla geometria e dalla musica, dalla grammatica o dalla filosofia stessa,  ciò che è utile, difende la fede da ogni assalto. Quanto è necessario per chi desidera partecipare dei poteri di Dio il trattare filosoficamente soggetti intellettuali! Lo gnostico (Mistico) si vale del rami  dello scibile vene di esercizi ausiliari vreparativi. (A. B. Es. Chr.). Chi ha colto questo profondo accordo della  Fede col Sapere si trova costretto a rilevare sempre di nuovo una caratteristica peculiarità della nostra civiltà moderna, la quale  ha invece scavato un abisso tra Fede e  Scienza.   E. Schurè accenna a questo abisso fin dai  periodi introduttivi del suo libro. Il peggior male del nostro tempo è il  mostrarsi la Scienza e la Religione come  due forze nemiche e irreducibili. Infermità  intellettuale questa tanto più perniciosa in  quanto che deriva dall'alto e furtivamente s' infiltra, ma sicuramente, in tutte le membra, come un veleno sottile che si respiri  nell’ aria. Orbene ogni infermità dell’ iritelligenza diviene a lungo andare infermità  dell'anima e in conseguenza un male sociale.    Fintanto che il Cristianesimo non fece  che affermare ingenuamente la fede cristiana in  seno a una Europa ancor semibarbara, come  era nel medio evo, esso fu la più grande  delle forze morali, e ha plasmato l’anima  dell'uomo moderno. Fin tanto che la scienza  sperimentale, apertamente ricostituitasi nel  secolo 16°, non fece che rivendicare i legittimi diritti della ragione e l’ illimitata sua  libertà, essa fu la più grande tra le forze  intellettuali; essa ha cambiato faccia al mondo, liberato l’uomo da secolari catene, e  fornito la mente umana di fondamenta incrollabili. Non meno energicamente Annie Besant  accenna a questa peculiarità della civiltà  spirituale moderna. Per ognuno che studi l’ultimo immediato quarantennio del secolo passato è chiaro  che persone meditative e morali sono in gran  numero esulate dalle chiesé perchè gl’ insegnamenti che vi ricevevano urtavano, offendevano la loro intelligenza e il loro senso  morale.   E' vano pretendere che l’agnosticismo così  ue. largamente diffuso in questi tempi abbia ra: dice solo nella mancanza di moralità o in  È; una deliberata involuzione della mente. ChiunA que attentamente studi gli esposti fenomeni,  ammetterà che uomini di forte intelletto sono  stati allontanati dal seno del Cristianesimo  per via della rude goffaggine delle idee religiose loro presentate, delle contradizioni  negli insegnamenti delle varie autorità, nelle  vedute circa Dio, l'uomo e l’universo, idee  n che nessun intelletto colto e metodicamente  ; disciplinato potrebbe di leggeri accettare .  a (A. B. Cris, esot.).   Alla domanda:  Che cosa è da farsi in  questa direzione ?, Annie Besant risponde  inspirandosi alla veduta che anche la radice  del Cristianesimo giace in una sapienza occulta e che la Fede deve, quindi, per susI sistere risospingersi a questa radice. Se il Cristianesimo vuol continuare a vi  i co vere, deve ricuperare il sapere che ha e riad | vere la propria Mise € l propri insegnasd cculti; deve di nuovo erigersi come. un istruttore autorevole di verità spirituali,  ma rivestito della sola autorità meritevole. Me, ù   Mes di essere alquanto apprezzata, l' autorità,  cicè, della conoscenza. Se questi insegnamenti ‘verranno recuperati, la loro influenza  sarà subito constatabile nelle più ampie  e più profonde vedute che si avranno circa  la verità, dogmi che ora sembrano meri gusci ed impacci, saranno riconosciuti subito  quali parziali presentimenti di realtà fondamentali. In primo luogo il Cristianesimo  esoterico riapparirà nel /uogo santo, nel Tempio, così che tutti i capaci di riceverlo possano seguirne le linee di pensiero palese, e  secondariamente il Cristianesimo occulto ridiscenderà nell'adito celato dietro la Cortina  che custodisce il  Sancta Sanctorum, in  cui può entrare l’ iniziato soltanto. (A. B.  Es. Chris.). Mediante il senso della vista l'uomo percepisce la natura con cento e cento sfumature di luce è di colore. Sono i raggi della  luce solare che, riverberati dagli oggetti, ne  determinano gli aspetti cromatici variamente  sfumati. Sebbene per tal fatto la percezione  della luce solare sia una funzione abituale  dell'occhio, tuttavia questo non può impunemente fissare la fonte stessa de a luce:  Sole; esso viene accecato dal contatto immediato, diretto, dei raggi solari. Ciò che 0° néi suoi effetti è adeguato al compito quotidiano dell'occhio, dà occasione a una sofferenza, quando, come causa in sè, colpisce  l'organo sensorio. Chi sa applicare nel giusto modo questa immagine alla vita spirituale dell'uomo, comprende perchè  coloro  che sanno  parlano di  pericoli della  Iniziazione ai Misteri. Cotesti pericoli esistono innegabilmente; se non che, chi ne  parla non va preso alla lettera, interpretando  la parola  pericoli,, nel senso usuale. La  intelligenza e la ragione umana sono tanto  poco assuefatte a riconoscere le fonti del  vero nel complesso totale del mondo, quanto  poco è capace l'occhio di fissare direttamente  il Sole. Come l'occhio sente a sè rispondenti gli effetti delia luce, così intelletto. e  ragione sentono a sè rispondenti gli effetti  della sapienza eterna nei fenomeni della natura e nel decorso della storia degli uomini.  Ma come l'occhio viene meno. di.fronte.alla    sorgente stessa della luce, così l'intelligenza umana vigne meno dinanzi alle fonti primordiali della sapienza. Questo umano intendimento nel subito arretra, rinuncia. Or bisogna assimilare nel debito modo ciò che  allora succede nell’ uomo, al fatto dell’ abbacinamento chel’ occhio.subisce dal sole. veg 3 fer: Poichè l'uomo è assuefatto a scorgere nella  Natura e nell'attività dello spirito soltanto  il riflesso della Verità, e non questa immediatamente, egli viene meno di fronte alla  verità stessa, quando questa gli si presenta.  Avvezzo a cogliere soltanto la realtà grossolana, che quotidianamente I prnia, l'uomo  sente le manifestazioni della sapienza superiore come illusioni, come costruzioni di una  fantasiosità irreale: esse non gli possono dire  nulla, sono per lui come forme aeree che  svaniscono quando egli le vuole afferrare,  così come è solito afferrare gli oggetti della  realtà consueta. Questa lo avvince a sè con  mille lacci; ciò che essa gli può promettere  egli lo conosce, lo ha imparato ad apprezzare in mille modi. Chi qui vede giustamente, comprende che cosa intendano dire  le leggende religiose quando parlano del  Tentatore, che promette tutte le magnificenze di guesto mondo a coloro, i quali vogliono intraprendere il sentiero della illuminazione superiore. Se noh è risvegliata in.  loro la forza di resistere a cotesto Tentatore, essi cadono inesorabilmente in sua balia. Con ciò si accenna a quel che s'intende  per  pericoli della soglia,, che occorre  varcare, se si vuole calcare il  sentiero,  della sapienza. Niuno può giungere a questo sentiero se non intende valersi dell’ occhio spirituale, dell'intelletto e della ragione,  diversamente da come vengono adoperati)  nella vita quotidiana. L'uomo deve porre il  piede sulla soglia come un trasmutato, come  "°° uno, il cni°occhio spirituale è stato rafforzato; ed è singolarmente difficile nell’ età  nostra attuale rinvigorire così.quest'occhio, x giacchè appunto dalla nostra scienza esso  viene rivolto o a.ciò che è concreto  li tangibile. Per compiere le sue conquiste  nel campo delle forze naturali esteriori que-, sta scienza dovè rendere quest'occhio cieco  alle potenze spirituali dell’esistenza. Non si  fraintenda tutto ciò, prendendolo per un  rimprovero! Chi vuol comprendere il mec-\l  canismo di un orologio non ha certo biso i}  gno di risalire con l'indagine fino ai pensieri dell’ inventore dell’ orologio ; egli può   mM bene attenersi a quanto ha imparato dalla   [RUN fisica; può comprendere l’ orologio dal suo   stesso meccanismo. a nessuno può com preridere come le forze e le cose che coo perano nell’ orologio siano state originaria mente combinate, se non va in traccia dello   | spirito che le ha combinate e non indaga le ragioni per cui esse sono state così comf frze   Tmnon © SEXI ma ) fe   | fa meda; meo N el Mm NK ke  bt re e  € o’ uc gi Riti fet rextore9 Lo fel #0    A 0 è MT, ui gno PEA Vs. b- parte li (a  È Logan Foe. SP RTTO el ppartnzs ti dae  binate. Il naturalista può comprendere giustamente la Natura solo se in lei stessa ri- le  cerca anzitutto le forze con cui essa opera. Se afferma che queste si sono combinate | ® cudl  da sè, assomiglia a colui che non si perita Y0Me flat  di pensare che un orologio si sia congegnato da sè. S izione-è non il A | lo spirito Ge Le cose, bensì il trasferirlo  alla cieca me/le cose stesse. Superstizioso è,  non colui che cerca l'inventore dell’ orolo  gio, ma colui che nell’orologio stesso immagina ‘uno spirito, il quale manda avanti Π le lancette. Soltanto quando in questo modo ||  sî fraintendono coloro che vanno in traccia  dello spirito dell'esistenza cosmica, si può  metterli in un fascio con quelli che a buon  diritto sono accusati di superstizione e che  cen altrettanto buon diritto vengono oggi  riguardati come turbapace, perchè compromettono i  benefizi, che la nostra coltura  scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio velato da. preconcetti saprà a chi si vuol  alludere nelle due categorie citate).  Chi-pone il piede sulla  Sogliz  che d  accesso alla visione superiore, se vuole riu i scire ad avanzare, deve essere provvisto della 2 sN  forza che mena ad avvertire il Reale là dov@mnn  l'intelletto ordinario e la ragione solita scor- x i  T] x  > l'intolegione I Lie ii pai de Pe Pe Pietà sa desti Ann ie siii nc e a | na ta A in x gono soltanto fantasticaggine ed illusione. Giacchè il perenne e l'eterno sono appunto,  là, dgye all'occhio rivolto soltanto al transi*  torio e temporaneo altro non appare che  fantasticaggine ed illusione. Nessun utile,  dunque, risentirà un uomo che venga condotto dinnanzi alla sorgente della eterna sapienza colgalo corredo.della.sua intelligenza  rdinaria. Perciò nei Misteri, il primo grado  d Iniziazione non consiste nell'impartire un  nuovo sapere intellettuale, ma nella completa trasmutazione delle forze conoscitive  dell’uomo. Con fine intuito pertanto, Edoardo  Scuré descrive nei suoi  Grandi Iniziati,  il cammino di chi tende al  Sapere, mediante i Misteri:    ALE  L’ iniziazione era a leaneno  r, le di futfo l'essere umano ad ascenlere le vette vertiginose dello spirito, dall'alto delle quali si può dominare la vita. E più innanzi egli dice: Per giungere a questa padronanza l’uomo  ha bisogno di una totale rifusione del proprio essere fisico, morale e intellettuale. Orbene, questa rifusione non è possibile se  non mediante |’ esercizio simultaneo della  volontà, dell’intuito e del raziocinio. Mercè  il loro completo accordo l’ uomo può svi  }  ;)  I Fapiecinia TX. iNalonta Ponso ;  I he sli    luppare le proprie facoltà fino a limiti indefinibili. L’ anima ha sensi assopiti ; l' iniziazione li risveglia. Mercè uno studio profondo e un'applicazione costante l’uomo può mettersi in rapporto cosciente con le forze  occulte dell'universo. Con uno sforzo porentoso egli puo raggiungere la percezione  spirituale diretta, schiudersi i sentieri che  portano. all’olt a, al superfisico, e divenire capace di regolarvisi. oltanto allora  può dire di aver vinto il destino e di esSersi conquistato fin da quaggiù la propria  tiliberi divina. Soltanto allora l’iniziato può  vi divenire inizi.tore, profeta e teurgo, vale a  dire veggente e formatore di anime. Infatti  soltanto colui, che comanda a se stesso  può comandare agli altri, e soltanto chi è  libero può liberare .   (Opera cit.).   La missione dei Misteri va intesa in tal  senso, per quel che si riferisce al loro primo  grado. ‘Non si trattava solo fi una DUOSA  scienza, ma della produzione di nuove forze   | pudore ‘L’individuo=doveva. trasmutarsi,    ivenire un altro, prima di venir condotto    al Sole spirituale, alla sorgente della sapienza.  Colui, le cui forze non sono temprate allorchè pone il piede sulla  Soglia, non  sente la realtà dell’eterne. potenze spirituali, (}.  che quivi gli si fanno incontro. In luogo di  entrare in rapporto con_un mondo superiore egli ricade nel mondo inferiore. À questo pericolo trovasi esposto chi va in cerca  delle sorgenti della sapienza. Se egli soccombe, allora ha temporaneamente ucciso  in sè l'eterno germe. Questo era per l'innanzi dormente in lui, ma, pur così dormente, era tuttavia ciò che nobilitava la  passeggera, inferiore natura e la trasfigura. Ingenuo ed inconsapevole, l' individuo  viveva con questo rudimento di spiritualità  superiore. Dal mal riuscito tentativo, di.iniziazione quel latente rudimento JÉne. distrutto. All'individuo non resta che l'istinto    di vivere nel transitorio, di yivere Soltanto  pel regno di guesto mondo. Per il fatto di.  avere sentito come_illusorio il  divino spirituale,, egli divinizza il  sensibile_materiale,. In tal modo, sulla  Soglia,, può  andare perduto per l'individuo il suo più  prezioso tesoro, la sua parte immortale. Questo è il pericolo analogo all’ accecamento  dell'occhio nella similitudine su riferita.   E' ovvio che coloro, cui nei misteri incombeva l'ufficio d’iniziatori, erano per pro- .Wei  Rito  fonda consapevolezza della propria responsabilità, estremamente esigenti verso i discepoli, giacchè tali esigenze dovevano servire  a temprare nel senso indicato le loro forze  spirituali. E. Schuré descrive la scala gra  duale della Iniziazion ‘a_praticata I  riella scuola di Pitagora (a. 582-507 a. C.)    e-la sua descrizione è tutta improntata di  geniale senso d’arte e di mistica profondità.  Mi appoggerò appunto ad essa per parlare  di quei gradi iniziatici.   Erano ammessi all’Iniziazione soltanto coloro che offrivano sicurezza di riuscita per  la costituzione appropriata della loro natura  intellettuale, morale e spirituale. Per costoro  cominciava allora il periodo della  Preparazione,. Per molti anni essi diventavano   itori. Nel tempo nostro, in cui ciascuno  sf crede autorizzato a giudicare e criticare  mon appena abbia appreso qualche cosa, 0,  torse anche più sovente, quando non ha ancora imparato nulla, non è punto facile rendere simpatica l’idea" quel lungo uditorato. All'uditore era imposto il più assoluto  silenzio, inteso non nel senso esteriore di   ‘ astinenza da ogni parola, bensì nel senso di  | astinenza da qualsiasi critica, STdoveva  Accogliere del tutto spregiudicatamente l’istru  due crilica   PESTO, gp    zione, senza turbare questa spregiudicatezza  con una prematura analisi critica. Il saggio  sapeva, e gli uditori avevano fiducia; per un  certo tempo non_.era loro Jlecito..criticare,  giacchè il sapere che ricevevano era appunto  ciò che occorreva per renderli maturi all  critica. Come è possibile che impari vera[mente chi vuole immediatamente criticare \{  quel che apprende? Con questo metodo di  ascoltare in silenzio i Pitagorici hanno reso  maggio a una massima, che sola può fare  ascendere i gradini della conoscenza. Chi  ha percorso la via della conoscenza lo sa.  Egli non può che sentire pietà per coloro,  che si creano intoppi su tale strada coi loro  giudizi prematuri e con le loro critiche. Il  nostro tempo è tutto pieno di questo_immaturo spirito di critica: basta osservare intorno a noi ciò che i nostri oratori dicono  e ciò che i nostri scrittori scrivono.,Se vi  fosse ai tempi nostri solo un pò di spirito  pitagorico, resterebbero. inespressi più dei  nove decimi di quanto vien detto e altrettanto rimarrebbe non stampato di quanto  vien pubblicato. Oggidì, chi ha messo insieme un paio di osservazioni, o si è appiccicato in testa un paio d'idee, si crede  autorizzato a sputar sentenze e giudizi sui  sel  RARI TESE, soggetti più essenziali. Invece un tale diritto spetta soltanto a chi abbia imparato a  contenere per anni il suo giudizio e a porgere ascolto spregiudicat ea quanto i  savi dell'umanità hanno detto.  Esaminate  tutto e tenetevi il meglio,, è una fallace  norma dell'anima di chi non è maturo per  esaminare. Il nostro giudizio non vale proprio nulla, nulla affatto di fronte alla Verità, fin tanto che non lo abbiamo fatto esaminare dalla verità stessa. Invece di dire. Io esamino tutto e voglio tenermi il meglio, molti dovrebbero dire. Io voglio fare esaminare me stesso dalla Verità, e  quando io sia sufficientemente buono per  essa, allora ch' essa mi prenda! Chi non  si è esercitato per anni ad adattare, a inalveare la propria vita in questo illimitato abbandono al giudizio delle sagge guide della  umanità, non arriverà mai a formulare giudizi che siano più che fumo e vacua risonanza. Pa   Una norma siffatta è certamente invisa in  questo nostro tempo  illuminato,, in cui  dominano la pubblica criticaglia, e lo spirito gazzettaio ; invece gli uditori pitagorici  si attenevano appunto a cotesta norma. Raggiunta la voluta maturità, l' uditore vedeva | 4 iena: acli    Neggiunto per lui il giorno d'oro col quale  cominciavano le rivelazioni sull'essenza della  natura e dello spirito umano. A poco a poco  i gli si fa comprendere la zomìa [I am a zoologist – a philosophical zoologist – Grice], le leggi della esistenza corporea e psichica. Be" 1 Voglia afferrare questa romia col non  raffinato intelletto ordinario non ne comprende nulla. Goethe una volta accennò  a questo. Allorchè nel SUO VIAGGIO PER L’ITALIA e per la Sicilia si era dato con tutta  lena allo studio delle piante, e si era formato quelle sue vedute tanto citate ma tanto  poco comprese sulla pianta archetipa,  scrive in Germania che avrebbe voluto  fare un viaggio in India, non per scoprire  qualche cosa di nuovo, bensi per guardare  a Suo..modo_.il già scoperto. Quel che importa, appunto, non è il conoscere le leggi  messe in luce dalla botanica  intellettuale vi  bensi il penetrare coll’aiuto di queste leggi nell’intima essenza della vita vegetale. Si  fica essere un erudito professore di botanica e non capir nulla di questa vita vegetale. | nostri scienziati hauno veramente delle  strane idee a questo proposito. Essi o credono che, in genere, non si possa penetrare nell'intimo della natura, o affermano che la  nosira indagine non è ancora fanto avanzata. Essi non sospettano che con questa  indagine mediante i sensi e l'intelletto possono, sì, moltiplicarsi con effetto benefico  le nostre cognizioni, ma che per investigare  (|  interno,, è, invece, necessaria una maniera di pensare tutta diversa da quella che  essi mettono in pratica. Non vogliono saperne dell’inventore dell'orologio mentre studiano l'orologio alla stregua dei principi della fisica. Poichè non possono trovare nell'orologio nessuno spiritello che  spinge avanti le lancette, o negano lo spirito, che ha congegnato le ruote, o asseriscono che esso è inaccessibile all’umana conoscenza, 0 del tutto o fino ad oggi. Chi parla dello spirito della Natura viene  accusato di sbizzarrirsi in vane parole. Ma  non è colpa sua se gli accusatori non sentono in ciò altro che parole! I discepoli pitagorici, al secondo grado della loro istruzione, venivano introdotti nelloSpirito della  Natura.   Soltanto: dopo RARO al questo grado,  potevano venir condotti alla  grande Iniziazione . A questo punto erano maturi per  accogliere in sè i  Segreti della esistenza;  il loro occhio spirituale era ormai sufficientemente vigoroso; oramai non apprendevano  più a conoscere soltanto lo spirito delia nai tura, ma anche le intenzioni di questo spii rito. Da questo punto in poi non sì può più  i parlare dei Misteri col solito linguaggio, ma  soltanto per via d'immagini, giacchè il no(a stro linguaggio è tutto adeguato all'intelletto e non ha parola adatta alla conoscenza superiore, di cui qui ci occupiamo. In questo  È senso va inteso pure quanto segue. Prima di ogni altra cosa l'individuo apprendeva a spingere lo sguardo oltre la propria esistenza personale. Da ciò traeva l' esperienza che quella sua vita era la ripetiiS . zione di vite anteriori a un nuovo gradino  dell'esistenza. Si poteva convincere che quel  i che è lecito chiamare anima, nel giusto  senso della parola, si rincarna ripetutamente,  e che le capacità, le vicende e le azioni della  Me sua vita presente erano da interpretarsi come  effetti di cause reperibili in quelle sue vite  antecedenti. Egli si rendeva anche conto che  i fatti e gli eventi di quella sua vita presente  dovevano produrre i loro effetti in esistenze  1 avvenire. i  ; Su ciò bastino qui questi pochi cenni,  da perchè ho intenzione di parlare in altro luogo esaurientemente delle grandi leggi della rincorporazione, e della legge cosmica, ovvero, in altre parole, della rincarnazione, e del Karma. Queste verità potevano divenir convinzioni per il discepolo dei Misteri, come è  verità per l'uomo comune che 2 x 2-4; perchè al terzo grado il discepolo era a ciò  maturo. Ma anche a questo grado si può  avere un giudizio completamente sicuro su  queste conoscenze, unicamente perchè si è  ormai acquistata la capacità di comprenderne giustamente il significato. Anche oggi, come in ogni tempo, molto  si criticano tali concetti ;, ma ciò che viene  criticato in realtà sono soltanto le arbitrarie,  concezioni dei critici stessi, che non hanno  alcuna importanza. Del resto, però, si deve  anche pienamente convenire che pure molti  seguaci della idea della rincarnazione non  hanno di essa concetti migliori di quelli dei  suoi oppositori. Non tutti coloro che oggi  difendono queste dottrine, le comprendono  veramente. Anche tra questi difensori ce ne  sono molti che sono troppo scansafatiche 0  troppo.... consci di sè per apprendere in  silenzio prima di far da insegnanti. 0° Cfr. dello stesso autore gli scritti maggiori Teosofia  Scienza occulta  e i minori Azione del Karma. Rincarnazione e Karma come leggi naturali. Ora, se non forse presso i Pitagorici,  c'era, però, in altri Misteri, dopo la grande   Iniziazione rivelatoria,, il grado della vera iniziazione mistica. In essa non soltanto  l'osservare e il pensare, ma tutto il vivere  conscio veniva esteso oltre l'immediata personalità dello individuo. Per essa il discepolo  non diveniva soltanto un sapiente, soltanto un  veggente. Egli ormai non percepiva l'essenza  delle cose, ma la viveva con esse. Molto  arduo è dare una idea di ciò, di cui qui si  tratta. Il veggente non ha soltanto la sensazione degli oggetti, bensì sente regoli oggetti stessi, trasferendosi nel loro interno;  egli non pensa circa la natura, bensì esce  di se medesimo e s'interna, pensando, re//a  natura. (E' questo un procedimento noto al  Teosofo, il quale lo chiama. lo schiudersi  dei sensi astrali. L'uomo intellettuale  non bada ai veggenti: essi debbono esser per  lui dei visionari, se non peggio. Chi, invece,  ha senso per le loro doti, li ascolta con pio  rispetto, giacchè sente parlare in loro non più  una persona umana, bensì la stessa Saggezza  vivente. Essi hanno fatto olocausto delle Cfr. dello stesso autore: Come si acquista conoscenza dei mondi trascendentali v. EA proprie inclinazioni, simpatie, opinioni personali per poter prestare la propria bocca  all’eterno Verbo, mediante il quale furono fatte tutte le cose. Giacchè dove  parla ancora l'opinione umana, dove campeggiano ancora inclinazioni’e interessi, ivi  tace la sapienza eterna. E quando questa  giunge all'orecchio di coloro che non  ‘hanno ancora sentimento per essa, appare  loro soltanto come personale parola umana,  per quanto in essa possa chiudersi una forza  divina. Ma dai veggenti stessi, gli uomini  ‘potrebbero imparare ad ascoltare, giacchè il veggente fa tacere la sua umana personalità quando a lui parla la voce della Verità. Il suo giudizio tace, i suoi interessi, le  sue inclinazioni gli stanno dinanzi altrettanto insignificanti quanto il tavolino che  ha davanti a sè: egli è tutto assorto nel| l'ascoltazione interiore. Solo il veggente ascenderà al grado successivo, che gli antichi chiamavano del  teurgo e che nella nostra lingua può venire designato come quel grado, in cui  si opera una completa riversione, delle  facoltà umane. Forze che, di solito, affluiscono nell'individuo da/ di fuori, ora si effondono da /uîi. In certi campi, nei quali  5 RS a l’uomo è soltanto un servitore, diviene un  dominatore colui, le cui facoltà sono trasmutate. E poichè solo il veggente è in  grado di giudicare la portata e la maniera  a d’'agire di coteste forze, l'uomo che ne verrà  Ti in possesso senza aver raggiunta la purità del veggente, ne farà mal uso. E questa  do  sapienza senza purità,, è possibile a causa  w di un cencatenamento di circostanze, di cui  <a qui non è il caso di tener discorso. Sulla Iniziazione superiore, a proposito dei Pitagorici, E. Schuré ha il seguente magnifico passo : 1  i BRANO Abbiamo, seguendo Pitagora, toccato la cima della iniziazione antica. Da  dr questa vetta la terra apparisce come im- cf ersa nell'ombra, come un astro morente. Di lì si schiudono le prospettive sideree e eri dispiega nel suo meraviglioso complesso. Le Scegatao ii a n 1  la vista dall'alto, l'epifaria dell'universo. Ma \\®s4* scopo dell'insegnamento non era l’assorbire  VITA l'individuo nella contemplazione o nell'estasi.   È le regioni incommensurabili del Cosmo, li  UH aveva tuffati negli abissi dell'invisibile. I veri pauroso pellegrinaggio fatti migliori, più forti  e meglio temprati pei cimenti della vita.  I, Il Maestro aveva condotto i discepoli per iniziati dovevano ritornare sulla terra da quei î  =Sf ia Alla iniziazione della intelligenza doveva seguire quella della volontà, ed era di tutte la più ardua, giacchè ora per il discepolo si  trattava di far discendere la verità nelle profonde latebre dell’ esser suo, e di porla in  azione nella pratica della vita.   Per raggiungere questo scopo ideale occorre secondo Pitagora riunire tre perfezioni: avere realmente la verità nell’intelletto,  la virtù nell'animo, la purezza nel corpo.  Un'igiene sapiente, una regolata continenza  dovevano serbare al corpo là purezza che si  richiedeva non come scopo, ma come mezzo. Ogni eccesso corporeo lascia una traccia e  quasi un imbratto nel corpo astrale, vivente  | organismo dell’ anima, e per conseguenza  anche nello spirito. A questa altezza l'individuo diviene un adepto, e, se possiede  bastante energia, entra in possesso di facoltà  e di poteri novelli. Si schiudono i sensi interni animici, e la volontà si riversa radiosa  negli altri sensi (vedi Schuré). Di tutto ciò che l'uomo compie prima di  raggiungere questo grado, le cause sono da  ricercare in regioni a lui completamente sconosciute. Lo sguardo del teurgo, invece,  | spazia in coteste regioni, e in perfetta consapevolezza, egli irradia da sè quanto  nell'uomo dorme di solito  inconsciamente, nelle più profonde latebre dell'anima,  Egli trovasi a faccia a faccia con la sua Guida, che per l’innanzi lo aveva diretto invisibilmente da tergo.  Col sussidio di siffatti pensieri si dovrebbero leggere periodi come il seguente, tratto dall'antico testo di sapienza chiamato il Mundakopanishad: Quando il veggente vede  l'aureo Creatore, il Signore, lo Spirito, il cui  grembo è Brahman, allora il savi o, dopo che  ha gettato via merito e demerito, raggiunge  immacolato l'unione suprema.  Alle vette, dunque, che vengono così con-.  quistate drizza lo sguardo E. Schuré; e la  mistica fede nella fulgida forza di codeste  vette gli conferisce la capacità di trapassare.  alcuni dei nebulosi veli che nascondono la.  vera natura delle grandi Guide dell'Umani  tà. Ciò lo rende capace di descriverli, questi grandi iniziati,: Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora di CROTONE, Platone e  Gesù. A grado a grado da coteste Guide  sono state irraggiate nell'umanità le forze a_  seconda della maturità raggiunta dal genere  umano nelle diverse epoche. Rama condusse  alla porta della sapienza; Krishna ed Er-.ai mete ne misero le chiavi nelle mani di alcuni; Mosè, Orfeo e Pitagora additarono  l'interno, e Gesù, il Cristo, presentò il Sancta  Sanctorum, l'intimo sacro penetrale.  Sarebbe sciupare tutto il singolare incanto del libro dello Schuré il volerne raccontare il contenuto, nel quale, così com'è  ognuno dovrebbe profondarsi da sè.  Ed, Schurè accenna al fatto che pel tramite del Fondatore del Cristianesimo le  forze della sapienza dei Misteri sono state  riversate nelle vene spirituali dell’ umanità  in forma tale, che le orecchie dell’ umanità  hanno potuto udirla. E anche in questo terreno la verità deve essere cercata pei sentieri che E. Schurè ci presenta. La forza.  che s' irradia dalla personalità di Gesù, è  forza vivente nei cuori di tutti coloro, che  la lasciano fluire in sè stessi. Comprendere  la vivente Parola che in questa forza agi| sce, può solo colui che se ne procaccia la  chiave, mercè la comprensione della sapienza dei Misteri. E a ciò fornisce, per  quanto è possibile, il fondamento Besant col suo cristianesimo esoterico. E' questo un libro, per mezzo del quale l'occulto  | significato delle parole bibliche si svela al  lettore che tutto vi si abbandona,  Sg VI Siffatti libri-chiave sono necessari ai no.  stri giorni. L'umanità era in condizione del  F tutto diversa dall’odierna, quando ricevè l’Evangelo, l'annunzio gioioso. Oggidì l’intelletto ha ben altro allenamento che non  ne avesse 19 secoli fa. Oggi l’uomo ‘può  trasmutare in vita propria la forza vivente  della parola palese soltanto se riesce ad  afferrare cotesta forza mediante la propria  facoltà ragionante. Ma ciò che è vero, resta  $ vero eternamente, anche se il modo come  i l'uomo deve afferrarlo si cambia nel corso  i dei tempi. Che oggi l’ intelletto e il raziocinio facciano valere i propri diritti è una  necessità ; chi conosce l’evoluzione umana sa che deve essere così. E perciò egli dà  oggi all’intelletto, ciò che secoli addietro è  stato dato ad altre forze dell'anima. Da que  sta e da nessun’ altra cognizione dovrebbe  scaturire l'attività del vero teosofo, e così  vuole essere interpretato il  Cristianesimo  esoterico, di Besant. Il teosofo sa  che nel Cristianesimo c'è la Verità, e sa altresì che Gesù, nel quale s'incarnò il Cristo, non è un  Duce di morti, bensi un Duce di vivi,. Il teosofo intende la grande  parola del Maestro. Io sono con voi tutti  i giorni, sino alla fine,,. Alla Guida viven- Bla: £ @ÈS    te, non a quella dei ragguagli storici, si rivolge anzitutto chi, come A. Besant, vuole  spiegare il Cristianesimo. Ciò che la  Parola vivente, ancora oggi,, annunzia all'orecchio che vuol porgerle ascolto, è ciò  che poi proietta la sua luce sul racconto  evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore della  Parola è rimasto qui fino ad oggi e può  dirci come dobbiamo intendere la lettera dei  ragguagli intorno ai Suoi atti e ai Suoi discorsi.   Le buone novelle  debbono essere  intese  esotericamente cioè, bisogna, prima, che sia svegliata dentro di noi la forza  vivente, che imprime su di esse il sigillo di  . Gò che è  Santo,,. E poichè l'intelletto e  il razigcinio sono i grandi strumenti della  civiltà d’oggi, bisogna ch’essi vengano liberati dai lacci dell’ intendimento puramente sensistico, della comprensione meramente   positiva, della realtà. L'intelletto stesso  dell'umanità presente deve tuffarsi nel mare  che lo riempie di vera religiosità, giacchè  non è esatto che l’assennato intelletto non  valga che a distruggere le  illusioni, di  cui il sentimento religioso avvolge le cose.  Ciò è opera solo dell'intelletto abbagliato e  inceppato dai successi riportati nella nozione ALI: 000    e nel dominio delle forze puramente materiali della natura. Gli uomini del presente  e con essi i nostri fisici, i nostri biologi e  i nostri storici, si credono Ziberi nel loro  mondo intellettuale unicamente edificato sul  fatto positivo. In Verità essi vivono sotto  l’azione di una Suggestione dominante su  tutto. Liberi, fino a un certo punto, potreste diventare voi fisici, biologi e storici di oggi, se voleste riconoscere che i vostri concetti di rea/tà anzi di materie e di forze del  mondo, di sforia umana e di evoluzione  della civiltà, non sono altro che  sugge\stioni collettive,. Un giorno vi cadrà la  benda dagli.occhi, e allora soltanto sperimeénterete fino a qual punto è verità e non errore quel che voi pensate dell'elettricità e  della luce, della evoluzione animale ed umana;  giacchè, notate bene, anche i teosofi riguardano le vostre asserzioni non come errori,  ma come verità. Infatti anche la vostra interpretazione della natura è per loro una   professione di fede, e quando essi dicono  di volere cercare il nucleò della verità in tutte le religioni,, fanno ciò non  solo riguardo a Buddha, Mosè e Cristo,  ma anche riguardo a Lamark, Darwin ed  Hickel, ay ( (A   E opere come queile citate di Schuré e di Besant sono destinate a togliervi  la benda dagli occhi, debbono insegnarvi a veder chiaro nelle  vostre suggestioni.  Conseguentemente, in libri siffatti quel che  importa non è tanto il loro contenuto letterale, quanto le occulte forze che mossero  la penna dei loro autori e che si trasfondono nelle vene dei lettori, così che questi  vengono tutti pervasi da un nuovo senso  della verità. 1 lettori che subiscono il giusto effetto di tali libri ricevono sotto un  certo rispetto una /riziazione di tipo, diremo così, intellettuale. Chi a questa frase  mon arriccia il naso, come alla asserzione  di un miracolo, chi è in grado di scorgervi,  invece, qualche cosa di più che una vacua frase, potrà anche comprendere, come  — libri siffatti gli vengano presentati non già  per allettarlo a fare una delle solite letture,  ma con l’altra ben diversa mira ch' essi, per virtù delle forze con le quali sono stati  scritti, debbono suscitare in lui forze dormenti, anche se a tutta prima coteste forze  possano essere soltanto quelle dell'arimia intellettiva.  Al nostro tempo, peraltro, non c’è vera  Iniziazione, che non passi per l' intelletto. Chi vuole in oggi condurre agl’arcani superiori, evitando di passare per l' intelletto, mon capisce nulla dei segni dei tempi, e non può far altro che porre sugsa gestioni nuove al posto delle antiche. Grice: “Of course, Austin thought that the Saturday mornings should be held on Wednesday midnights at Parson’s Pleasure – we were into initiation!”  Giovanni Colazza. Keywords. dell’iniziazione, rito di passagio, rito di iniziazione, iniziazione nel misterio, iniziazione, l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia, il sacrifizio di Bacco, sacrifizio come dolore e piacere, Prosimno, iniziazione di Bacco, la reazione della religione romana al mistero bacchico, iniziazione, iniziazione del giovane romano, la toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colazza” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colecchi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Pescocostanzo –filosofia aquilese – filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescocostanzo). Filosofo aquilese. Filosofo abruzzese. Filosofo italiano. Pescocostanzo, L’Aquila, Abruzzo. Grice: “What I love about Colecchi is that while he was a bad Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare della Nunziatella. Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant. Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo kantiano in Italia.  Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che una idea di un rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale diventa in forza del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia, Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,  Firenze;  Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F. Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa, Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura, filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis, La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema filosofico di C. (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, C., in «Atti della Accademia Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti, Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, C. filosofo e matematico: nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia e d'arte», Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,  II, Milano); Pedagogisti ed educatori, Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo a C., in «Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: C., in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», A. Cristallini, C., un filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari; Garin, Storia della filosofia italiana,  III, Torino; F. Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche, Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di C., Centro di studi vichiani; Io e C.. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore, L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta italica, tenendo dietro alle origini dell’antica lingua del Lazio – la lingua romana -- trasse fuori VICO queste divine idee; ha lello forse BRUNO ancora, perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella scienza nuova, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la sola opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di VICO rimane nello stesso stato in cui avealo lasciato ENEA. Devono le divine idee rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa filosofia, appoggiata all’induzione, si dispone VICO a crear il diritto universale della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma, si risolge in fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella storia, della mitologia, nelle lingue, nel blasone, e pe’ feudi pur anche del medio evo deesi Roma ripelere, e la romana giurisprudenza diventar quel la di tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia, tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto, a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale, educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del poeta vera immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con la sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati, di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi ridurre in fine ad una tortura, per isforzare tutt’imonumenti della storia e delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di VICO, pieghi sempre al modello DI ROMA, NO DI KOESINGBERGA, e la sua civiltà a poco a poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento delle lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner il dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato. Essendo si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.VICO, dobbiamo pur dirlo a Gloria d'Italia,VICO è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua Storia dell'umanità parla pur anche dell'origine e del progresso della civiltà de’ popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga scala, va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. VICO, seguace di Platone e non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra l'immaginazione, la sintesi di VICO sembra lalmente falla l'intelligenza per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della sua filosofia. Niuno più originale di VICO, e pare che l’originalità dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel VICO spenta. De’ suoi principii intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre, che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque, considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e trasmuta in quello che esser deve. La massima di VICO pertanto, ben lunga dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da VICO stesso tolgo le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per VICOla virtù del vero. E chiama virtù del vero l’umana ragione -- la vernunft di Kant -- la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe; ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione; ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari, con questi pochi molli del VICO, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione* di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti – l’eguale è tra fratelli ROMOLO E REMO  o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone. L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro -- --  ed ba luogo in ogni società eguale. Nè osta punto (come crede Grozio, il quale dital  L'occasione poi, per la quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide, trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale. qua. Siegue da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale: conseguenza importautissima, dedotta dal VICO da vero suo priocipio, e sfuggita al positivista CARMIGNANI, il quale fa della morale e del diritto due cose talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo, prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso, se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo secondario, e dal PORTICO conseguenti della natura. Rimontiamo col VICO all’origine di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita: diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto domina la prima: di guise che quando POMPEO, impedito dalla tempesta a partire, disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi, non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma:non esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo. Ma bisogna un VICO per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori, per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità, la qual, dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità, seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè qualche ragione non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela, nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della violenza. Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi. Pare a VICO che tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero, e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che gli uomini, senz’alcun freno di legge, toglievano con la propria mano, ed usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni, usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso, come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti, usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale!  per tre nolti continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne’ governi divini ed eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col diritto delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè dicemmo, si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si ollenevano, con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza frequenta risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e poco fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural pudore, conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore disordine in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori, coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio, la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende; all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama VICO il romano diritto un serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni, delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con certo legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani con una paglia, dellaper. Ciò da GELLIO festucaria. Pernon diral la fine di tanteal tre, l’azione personale chiamata “condictio” non più e l’andar unito il creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia. Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di Anfione vero. Ella è questa, secondo VICO, l'origine ed il progresso dell’universale diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di VICO stesso, in istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti questo gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza, che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer anche meglio l’accordo della filosofia di VICO con la legge morale, basta osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo VICO, una sola virtù, e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli, che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di tutte le virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde VICO, v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica giustizia, e unico diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione, qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero della legge. Sollo queste forme di governo lulla si spiega la moralità dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.  Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo VICO, nei quattro stati su indicati noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio, ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico, in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si facevano nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’ goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo, tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia; secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano: che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò VICO, seguendo GAIO, chiama diritto civile comu. de il diritto comune di ogni popolo. Perchè GAIO, ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio, dalla libertà nacquero, secondo VICO, tre pure forme dello stato. Quella DEGL’OTTIMATI, la regia, e la libera. FONDAMENTO DELLO STATO DEGL’OTTIMATI È LA TUTELA DELL’ORDINE, con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gl’auspicii, il campo, la gente, i connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso legenti i sacerdoti. La regia risplende pel dominio di un solo, ROMOLO, e pel sommo e formisura libero arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda un solo,o come vuole TACITO: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’ sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe ROMOLO si vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede, diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo, il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc chè I primi imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion naturale per le cause di certo diritto, così l'ordine civile per natura sua fa parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza, ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso, altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere  Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini. Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e da GAIO DIRITTO COMUNE  a tutti i popoli, altro non è ch e il diritto naturale, il quale h aperto della parola, o che torna lo stess, non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della legge stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano ed è necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader ancora che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per ignoranza si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e quello stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine o secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano. Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi. Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che VICO distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione, questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione. Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i più prudenti, come vuole VICO, non si propongano per i scopo il diritto vero e che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà: nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella solamente, nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere; di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio, e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè, prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo non era ancora.  La  libertà del diritto, dice VICO, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che, ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione, appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non può avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di VICO si accorda perfettamente con la morale.  All natios bostna viSing to derive merit from the splendonr of their original. And irhere history ii uleot, they fueiuenJiy anpply the defect with fable, THE ROMANS were particnlaHy dcH^OB of being thought DESCENDED FROM THE GODS, m if to hide the meaaDess of their real ancestry. Mueas, the Bon of Veona AocUaei. having escaped ftvm the deitniotioii of Ttey, after'11MU17 adventures and dangers, atrived octet a in Italy, where  Aeneas was kindly received by Latinus, king of the latins, who gave him his daughter Lavinia in marriage. Italy was then, as it is now, divided into a number of small states, independent of each other, and consequntly subject to frequent contentions among themselves. Turnus, king of the Rutnti, is the first who opposes Aeneas, he having long made pret^uions to Lavinia himself. A war ensues, in which the Trojan hero is victorious, and Tornus sfadn. In consequence of this, Aeneas built a city, which was eded  Lavimnm,  in honour of his wife, and some time after, engaging in another war against Hezentius, one of the petty Ungs of the country, he was vanquished in turn, and died in battie, after a reign of four years. Ascanius, his son, succeeds to  the kingdom,  and to him Silvius,  a second son, ^lom be had by lAvioia. It would be tedious  and unninterealing to recite a dry catalogue of the kings that followed, and of whom we know little mtae than the names. It  will be sufficient to say,  that the  sacoesnoD coatiDiied  for  near  four  hundred years in the family,  and  that  Numitor,  the  fifteenth  from Aeneas, is the last king of Alba. Numitor, vho took posseBsitHi of the kingdom in consequence of  his  father's will, had abrpther named Amnlius, to whom are left the treasures which had been brought from Troy. As riches but too generally prev^  against  right,  Amolins made use of his wealth to supplant his brother,a nd aooo foDod means top ossess himself of the kingdom,  ot  content  with  the crime of usurpation,  he added  that  of  murder  also.  Nnmitor's  sons  first  fell  a sacrifice to his suspicions, and to remove all apprehensions of being one day distorbed in his ill-gotten power, he caused Rhea Silvia, his brother's  only  daughter,  to become a vestal virgin,  which office obliging her to perpetual celibacy,  made him less uneasy as to the claims of posterity. His precautions, however, are  all  frustrated  in  the  event;  for  Rhea Silvia,  going  to fetch wator  frqip  a  Qeighbopring grove, was met and ravished by a man,  whom,  pei^tqw  to palliate her offence, she avers to be MARTE,  the god of war. Whoever this lover  of  hers was,  whether  some  person  had deceived  her by  assuming  so great  a name, or Amnlins himself, as some writers are pleased to a£Srm, it matters not.Certain it is, that, in due time she was broug:lit  to bed of two boys, who were no sooner bom than devoted by the usurper to destmction. The mother is condemned to be buried alive -the usual punishment for vestals who had violated their  chasti^,  and  the  twins are ordered to be flung into tbe riverTiber.It  happens,  however, at  the  time  this  rigorous  sentence  was  put  into eieculion,  that  the  river  had  more than  usually overflowed  its  banks,  so that the place where the children are thrown, being at a distance from thei main cnirent,  the water is too  shallow to drown them. In this ntoation, therefore, they continued without harm; and  that  no  part  of  their  preservatioD  might  want  its  wonders,  we are told,  that  they were for some time  suckled there by a wolf,  until Fanstulos,  the  king's  herdsman,  finding  ihem  exposed, brought  them  home  to  Acca  Laurentia,  his  wife,  who brought them up as her own. Some, however, will have it; that the nurse's name was Lupa, which gave rise to  the stoijr vt their being nouriihed by a wolf;  but  it  is  needless  to  vfad    Do,l,,-cdtyS  oirt a  iwglH  MBpg«b«ba%  fian  'venevntB  vbtfe  die  vkote «  omgrowB  with  ftUe.   Boraoloa  and  Bemna,  Ae  twins  thtu  strangely  prcwcved.  Memed  eariy  to  diacover  afai)iti«i  uid  desiret  above  the  me«i-  noH  of  thor  aapposed  origiiuL  The  ahepkenl's  life  be^an  to  di^leaae  them,  aod  fnaa  tending  the  flock,  or  hantiag  wild  beasts,  they  soon  tnmed  their  strength  agsinst  the  robben lonnd the eonntry, whom they efien atfipt of their [daader to share it among their  feUew-shepherds.   In one  of  these  ezcmnons  it  was  that  Remus is  taken priaoner  by  Nvmttor's  berdsmen,  who bring him before  the  king,  and  aoensed  him  of  the  very  crime which he bad ao  t^tea attempted  to sappresa. Bomnlaa, bowerer, beii^  informed 1^  FaiiBtaliu  of his real birth, was not  remisa  in  assembling  ft  munber  of  hia  fbllow^epherds,  in  order  to  resooe  bis  brother  from  posoD,  and  foroe the kingdtmi from  tbe  bands of  tbe  nsnrper.  Yet, being too feeble to act openly, he direcs bis followers to assemUe near the place by different ways, while  Beniiis  with  eqnal  vigilaooe  gm&ed  npon  tbe  dtiuua  within. AmalioB,  tfans  beaet on all sides, and not knowing iriiat expedient to thinkof  for bit seoiuity, was,daring hia  amasenent  and  distraotion,  taken  and daio, while Numitor who had been deposed forty-two  years,  recognised  bis grandscns,  and is restored to the throne.  Nnmitor  being  tints  in  qvet  posiewion  of  the  kingdom,  hot  grandaou  resolred  to  bnild  a  eify  npoo  those hills whoe they had formerly lived as aheiriierda. The  king  had  too  many  oUigations  to  them not to approve  their  des^;  he  appointed  tbem  lands,  and  gave  pennisnoB  to  .snoh  of  hia  subjects    thoo proper  to  settie  in  their  new  colony.  Many  of  the  neil^draariiig  shejdierda  also,  and  sncb  as  were  fond  of  change,  lepabed  to  the  intended  dty,  and  prepared  to  raise.  For the more  speedy oarrybg on  this  work, the  people  were  divided into two parts, each of whioh, it was sapposed, woidd indoatriondy emnlate the otfaer. Bat what  was  designed  fi»  an  advantage proved  nearly  fatal  to  this  infimt  oolony: it gives birth to two factions, one preferring Romulus, the other Remus,who  themselves arenot agreed upon the spot where the city shonld stand. To terminate this difference, they are recommended by the kingto take an omen from the flight of birds; and that be, whose ome should be most favoorable^  afaonld  in  all  reepeots direct die odier. In ooatflSaaoe wiOl this advice,thej both take their  stations  npon  diffra«nt  hilk. To  Remus  appear  six  vultures,  to  Romulus,  twice  that  number,  to  ttwt  each  party  thongfat  itielf  viotoriovi,  the  one  tiaviog  the  *first*  omen,  the  other  the  most  nnmeroiu.  Tbifl  prodnoed  a  contest,  whitdi  ended  ui a batde, wherein Bemoa is slain,  and it is even said, that he was kiUed by his brother, who, facingprovoked at his leaping contemptnoasly over the city  wbU,  itrack  him dead upon  tbe  qrat,  at  the same time proKssio^, that nooe shonld ever inanlt his walla withim punity.  Romoltu, being now sole  coHunuider,  and  eighteen yean of  age,  b^an  the fonndation of  acity, that was one day to give laws to the woild. It was called Rorne after the uaaie of the founder, and bnilt npon the Palatine hill, on which he had taken lus ancceflsfol omen. The city was  at first almost square, oontaining «bont a tlwiisand houss. It was near a mile in compass,  and commanded  a small  territory  ranod  it  of  about eight  miles  over.  However,  smallas  it  appears,  it  was,  ootwithstandiiy,  vone  inhabited;  and  the  first  method  made  uae  of  to  increase  its  numbers  vaa  the  opemng  a  sanctosry  for  all  male&otors,  slaves,  aod  snch  as  wm«  desirons  of  novelty.  These came in  great multitudes,  and  cootibated  to  increase  the  number  of our  legtslatoi'B  new  subjects. To  have  a  just  idea  ther^re of  Rome in its infant  stale,  we have  only  to  iwsgine  a  coUec-  tion  o(  cottages,  sairotinded  by  a  feeble  wall,  rather  built to  serve as a  military  retreat,  than  for the  purposes  of  civil  >o-  cie^,  rather filled  with  a  tnmoltuoas  and  vicious  rabble,  thaD  with  subjects  bred  to obedience  and  control.We have only to conceive men bred to  rapine,  Iwing  in  a  place  that  merelj seemed calculated  for  the  security  of  plonder;  and  yet,  to our astonishment,  we  shall  soon  find  this  tumulbioas  coocouise  unit>  ingin  the  strictest  bonds  of  sode^;  this  lawless  rabble putting OB the most sincere regard for religion;  end,  thouf^  composed  of  the  dr^s  of  mankind,  setting  examples,  to all  the  worid, of  valour  and  riitne.    Doiii,,ih,.   WWLOU   SoARGB  mm  tbe  city rnsed  abore  iti  &niid«tioB.  vhen  Hs  rade  mhalulsBtB  hegaa  to  tfauik  of  gmag  some  fonn  to  their. MoslitBtioii.  Their first  object  was  to  unite  lifoer^  and  empire;  to  fonn  a  kiod  of  mixed  monncby,  by  irfaicfa  all  power  vw  to  be  dividad  between  the  prince  and  the  peopte.  Bo- nlna, by an act of  great geoeromtf, left  them  at  liberty  to dwose whom they wonld for dieir king,  and  tliey  in  gnrtitiide  eoBcmred  to elect their founder; be was accordingly acknowledged as  chief  of  dieir religion, sovereign magistrate of Rorne,  md geoeral of  Ae army. Beside a guard to attend his person, it was agreed that he should be preceded wherever be went by tweW e mCT,  armed with axes  tied  op  in  a  bnadle  of  rods, who were to  serve  as  execntioners  of  the  law,  and to impress  hii  new subjeots with an idea of his authority. Yet  stUl  tUa  aKiboriQr was ondw very great restriotii»ig, as his whole power CMisisted in  caQing  the THE SENATEsenate  togedier,  in  assembling  the  peo  tMibstont  and  fierce  as  the first  Romans,  it  was  wise  to enforce  obedience  t  &6  most  reqnidte  dnty.  lie first care of the new-created  king is to  attend  to  the  interests  of  religion,  and to endeavour to  hnmantse  his  subjects, by the notion of  other  rewards and pnnishnients than diose  of hnman  law. The  precise form of  their  worship  is nn- known;  bat  die greatest  part  of  the  religion  of  that  age con-  siMed  in  a  firm  relianoe  upon  Ae  credit of  their  soothsi^ers,  irito fvetended,  from  observations  on  the flight  of  birds  and  the  entrails  of  beasts,  to  direct  the  present,  and  to  dive into  fntmrity. This pioos fhrad, wbich  first  uvse  from  ignorance, soon  became  a  most  usefnl  machine  in the  hands  of  government.  Romnlns, by  an  express  law,  commanded,  that  no  election  should  be  made,  no enterprise  undertaken,  witfa-  flat  first  conaolting  die  soothsayers. With  equal  wisdom  he ordained, that no new divinities  should  be  introdoced  into  pnhlic  worship,  that  the  priesthood  should  continue  for fif,  and that Aone  shonM be  elected  into it  before  the  age  of  fifty.  He  fort>ade  them to mix  fable  witb  the  masteries  of  their  reUgion;  And,  timt  they  mi^t  be  quaKfied  to teach others, he  ordered  Aat  tiiey  should  be  tiie  iHstoriographns  of  tiie  times;  so  tiia^  while  instructed  by priests  Bk^  these,  the people  cordd  never  degenerate  into  total  barbarity. Of  his  other  laws  we  have  but few  fragments  remmnii. In these, however,  we  learn,  that  wives  were  forbid,  upon  any  pretext  whatsoever,  to separate from  tbeir  husbands;  wUle,  on  the contrary,  the  husbaod  was empowered to repudiate the wife, and  even  to  put  her  to  death with the consent of hef retatioQB, inc ase she was detected  in  adultery,  in  attempting to  poison,  in  making  false  keys,. or even of  having drunk too  much  vine. His laws  between  children and  their  parents  w«'e  yet sdll  more  severe;  the  father  had  entire power over his  offspring,  both  of  fortune  and  fife;  he  conid  ell  them  or  imprison  them  at  any  time  of  their  lives, or in any ttations to which they  were  arrived. The  father  might  expose  his  clnldren,  if  bom  witii  any  deformities, having previoasly eommunicated  bis  intentions  to  his five  next  of  kindred. Our lawgiver  seemed moze  kind  even  to  his  enemies, for his subjectswere prt^hited  from  killing  them  after  they  bad  surren-  dM«d,  m  even  from  sdling  them:  his  ambition only aiaied at    .,Coo  many  endeaToiiTs  to  inoraase  bia  BnbjeotBi  aad  m  mmy  Inra  to  r^nlate  them,  he  next gave ordeis  to  ascertna  tbeir  numbers.  Tbb  whole  amoanled  bat  to  three  tbooMnd  foot,  and about as  many  bnndred  horsemen,  capable  of  beari^  arms. These,  therdbre   were   divided   equally   into   three tribes,  and  to  each  he  asiigaed  a  different  part  of  the  taty. Each  of  these  tribes  were  sabdivided  into  ten  cmin  or  compame,  consiBting of an  hundred  men  each,  with  a  oentnrioB  to  command  it,  a  priest  c^ed  curio  to  perform  the  sacrifioes,  and  two of  the  principal inhatntants,  called  duumviri,  to  distribute jnstioe. Aocordijigly to the  number  of  ooriv he  divides the  lands  into  thirty  parts,  reserving  one  portion  for  public  uses,  and  another  for  religiaus ceremonies. Tbo  «m- phaty  and  fingality  of  tha  times  will  be  best  iindeistood  by  observing,  that  dach citizen had  not  id>ove  two  ictea of  ground  for  his  owB  subsistence.  Of  the  horsemen  mentioned  above,  dtere were  chosen  ten  from  eei^  curia;  tfaey  were  particularly  appointed  to  fi^t  round  the  person  of  the  king;  of  them  hU  gaud  was composed, and from  tbeir  alacrity  in  battle, or  fhuB  the  >ame  of  their  first commander,  ^ey  were  called  ceUrat,  a word  equivalent to  our light horsemen. A goremmcot  thus  wisely instituted,  it may  be suppoaed, nduced  numbers  to  come  and  live under it:  each day  added to  its  strength,  maltitudes  flocked  in  from  all  the  adjacent  towns,  and  it  only  seemed  to  waqt  women  to  ascertain  its  duration. In  this  exiaeiatx,  Romulus,  by  the  advice  of  the  senate, sent deputies among the  Sabines, his  neighbours,  entreatingtheir  alliance,  and upon  these  terms-  ofiering  to cement  the  most  strict  confederacy  with  them.  The  Sabines, who were then considered as the  moat warlike  people  of  Italy,  r^ected  the proposition with disdain,  and  some  even  added  raillery  to  the  refusal,  demanding,  that  as he  had  opened  a  sanctuary  for  fugitive slaves,  why  he  had  not  also opened  another  for  prostitute  women. Tbis  answer  quickly  raised  the  indignation  of  the  Rpmans; and the  king, in  order  to  gratify  their  resentaient,  while  he  at  the  same  time  should  people  hb  ci^,  resolved  to  obtain  by  force  what  was  denied  to intrea^. For  this  purpose  he  proclaimed  a  feast,  in  honour  of  N^tane,  diron^ut  all  the  nMghboitring villagea, and made  the  meet KAPB OF THK BABINBS. t mmgaiAMat  pnftamtkmi  for  it  Tbets  feuta  wen  guan^  preceded  by  sacrifices, and ended in shows of  wreeden,  ^ft-  diaton, and  chariot-^onrses. The  Salnnes, as  he  had  expected, were among the foremost  who  came  to  be  spectalon^  fannging  their  wives  and  daughters  with  them  to share  t^  pkasore  of  the  sight.  The  inhabitants  also  of  maaj  of  tht  ueig^hoariDg  to^os  came, who  were  received  by  the  RomaM  with  marks  of  the most cordial  hospitality. lo the  mean  time the  games  began, and  while  the  strangers  were  most  intent  upon  the  spectacle,  a number  of  the  Roman  yonth  rushed  la  mnoag  them  wiUi  drawn  swords  seized  the  yotingedt  and  meet  beaatilid  women, and earned them off  by  violence.,  In  vain  the  parents  protested  against  this  bre&cfa  of  hospitali^;  in  vain  the  virgins  themselves  at  first  opposed  the  attempts  of  th^  raviBfaers;  perseverance  and  caresses  obtained  those  &•  TOWS  which  timidi^ at firstdenied:  so  that  the  betrayera,  frma  being  objects of  aversion,  soon  became  partners  of  their  dearest  affections. But however the afiront might have been botne by them, it was  not  BO easily pnt  up  by  their  parents;  a bloody  war  ei^  sued. The  cities of  Cenioa,  Antemna,  and  Cnutuminm,  wen  the  &at  who  resolved  to  revenge  the  common  cause,  which  the  Salnses  seemed  too  dilatory  in  pursuing.  These,  by  making aeparate inroads, becamea  more  easy  conquest  to  Romulus,  who  first  ovothrew  the  Ceoinenses,  slew  dieir  king  Acron  in  sio combat, -and made an offering of the royal spoils to Jupiter Feretrius, on the  spot  where  the  capitol  was  afterwards  built  The  Antemnates  and  Crustuminians  shared  the  same.  fate;  their  armies  were  overthrowu, and their cities takes. The conqueror, however,  made  the  most  merciful  use  of  las  victny;  for  instead (rf  destroying their  towns,  or  lessemi^l  tbent  nnmbeis,  he  only  placed  colonies of  Romana  in  them,  to. serve  as a frontier  to  repress  more  distant  invasions.Tattos,  king  of  Cures,  a  Sabine  city,  was  the  last,  althou^  the  most  formidable who undertook to cevuige  the  disgrace  his  country  had  suffered.  He  entered  the  Roman  territoriea at  the  head of twenty-five thousand  men| and not content  with  a  superiority  of  forces,  he  added  stratagem  also. Tarpeia, who  was  daughter  to  the  commander  of.  the  Cajutolme  hill,  happened to  &11  into his hands,  as  she  went  without  4>e  walls  of  the  city  to  fetch  water. Upon her  he  prevailed,  by  meant  of   hrga  pttuSaet,  to  bebrajr  aae  of  the  ^^ates  to  his  army.  Tlie  i«<irwd  she  eagdgei  for  was  vfaat  the  soldiers  wore  on  their  atteB,  by  vfaich  the meaot their  bracelets.  They,  however,  cotber  miataking^  her  meaning,  or  wiUing  to  panish  her  peifidy,  ttvew  tlieir  bncklera  upon  her  as  they  entered,  and  crushed  ber to  death beneath  them. The  Sabines, being  thus  possessed of  the  Capitoline, had the  advantage  of  continning  the  War  at  tbeir  pleasure;  and  for  some  time  only  slight  enconnters  passed  between  them.  At  length,  however,  the  tedionsness  of  this  contest  began  to  weary  out  both  parties,  so  that  each wished,  but  neither would stoop  to  sue  for  peace.  The  desire  of  peace  ofteii  gives  vigour  to  measures  in  war ;  wherefore  boUt  sides  resolving  to  terminate  their  doubts  by  a  detMsive  action, a  general engagement ensued,  which  was  renewed  for  several  days,  with  almost  equal  success.  They  both  fon^t  for  all  that  was  vEduable  in  life,  and  neither  could  think  of  submitting: it  was  in  the valley between  the  Capitoline  and  Qui-  rinal  hills,  that  the  last  engagement  was  fought  between  the  Romans  and  the  Sabines.  The  engem«it  became  general,  and  the  slaughter  prod^ioua,  when  the  attention  of  both  sides  was suddenly  turned  from the scene  of  horror  before  them,  to  (mother  infinitely  more  striking. The Sabine women, who  h^  been carried off  by  the  Romans,  were  seen  with their  hair  loose  and  iheir  ornaments  neglected,  fiying  in  between  tbe  combatants, regardless of their  own  danger,  and  with  loud  outcries  only  solicitous  for  that  of  their  parents,  their  husbands,  and  their  cUIdren.  "  If,"  cped  ihey,  "  you  are  resolved  upon  daughter,  turn  your  atma  upon  us,  since  we  only  are  the  cause <tf  your  animosity. If any  must  die,  let  it  be  us;  since  if  oar  parents  orour  husbands  faU,  we  must  be  equally  miserable  in  being  the  surviving  cause."  A  spectacle  so  moving  could  not  be  resisted  by  the  combatants;  both  sides  for  a  wtiile,  as  if by  mutual  impulse, let fall  their  weapons,  and  beheld  the  distress  -  in  silent  wnazement  The  tears  and  entreaties  of  thdr  wives  and  daughters  at  length  prevaUed;  an  accommodation  ensued,  by  which  it  was'  agreed,  that  Romulus  and  Tatius should  t«ign  jointly  in Rome, with equal power and prerogative;  diat  an  bailed  Sabines  should  be  admitted  into  the  senate;  that  the  city  should  still  retain  its  farmer  name,  but  that  As  citizens  should  bctdled  Qnirites,  after  Cures,  the  principal  town  of  the  Sabines; and that both  nations being thus united.   11   •aoh  of  the  Sabtees  u  i^ose  it  shoiM  be  sdnAted  to  Bniad   eDJoy  all  the  privilegea  of  citizens  oi  Rome.  llaH  erery  •torm,  vhich  seemed  to  threateo  this  growing  empire,  only  served  to  increase itvigour.  That army, wfaich  in  die  mondug  had  resolved  upon  its  destruction,  came  in  the  evetlin^  with  j(^  to  be  enrolled  uiDoag  the  number  of  its  ctttzens.  RomfoloB  saw  his  dominions  and  his  sul^ects  increased  by  more  then  half  in  the  space of  a  few  hours; and, as if  fortune meant every way to assist his greatness,  Tatins,  his  partner  in  the  govem-  ment,  was  killed  about  five  years  after  by  the  Lavinians,  for  having  protected  some  servants  of  his,  who  had  plundered  them  and  slain  their ambassadors; so that by this accident Romulus once more saw himself sole monarch of Rome.   Rome  being  greatly  strengthened  by  this  new  acquisition  of  power,  began  to  grow  formidable  to  her  neighbours ;  and  it -aiay  be supposed, that  pretexts  for  war  were  not  wanting,  when  prompted  by  jealousy  on  their  ride,  and  by ambition  on  that  of  the  Romans.  Fidena  and  Cameria,  two  oe^hbonring  cities,  were  stibdoed  and  tAken.  Veii also, one of the most power Ail states of Etruria, shared nearly the same fate;  after  two  fierce engagements  tiiey  sued  ftM*  a  peace  and  a  league,  which was granted upon giving np the seventh part of tbev dominions, their salt-pits near the river, and  hostages for greater security. Successes like these produced an equal share of pride in the oonqneror. From being contented with those limits which had been wisely fixed to his  power he began to affect absolute sway, and to govern those laws, to which he had himself formerly professed implicit obedience. The senate was particularly displeased at  his  conduct,  finding  themselves  only  used  as  instrom^its  to  ratify  the rigour of his commands. We are not told the precise manner which they made use of to get rid  of  the  tyrant: some say that be was torn in pieces in the senate botise; otiters that he disappeared  while  reviewing  his  army:  eertain  it  is,  that  from  the  secrecy  of  the  fact,  and  the  concealment of the body, tbey took occasion to persuade the multitude, that he was taken np into heaven; thus him whom they oonld not bear as a king,  tbey were contented to worship as  a god: Romnlns reigned tlnrty-seven yean, and after his death bad  a temple  built  to turn under the name of  Quirinus, one of  the Hwrton wilwMly vffiiniaff, that be had appeared to hm, and desired to be isTtAed by that tide. We see little more in the obaraeter of this princ, than vhat mi^t be expected in andk an a^, great temperance and great valour, wbich  generally  make  np  the  catalt^e  of  sar^^e  virtues. Howeva,  the  gnndenr of an empire, admired by the whole irorid, creates in  u an adnuration of tiie founder,  viftoat mnch raamimng' hia. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy enough to check his references to other Italian philosophers – not just Vico, as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!” -- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore, Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima, first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno, Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto, la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione, l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrico – progression arimmetica, progressioe geometrica, la base matematica della filosofia di Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo, padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima universalisabile, l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il vero versus il certo, la nascita della morale dal ordine agglomerazione sociale, la potesta naturale, il dominio, la tutela, la liberta, libero arbitrio e passione, autorita e ragione, forza, autorita e raggione, l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo dell’avo, la societa di equali, il modello della societa romana antica, la societa dell’amicizia, Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come requisite del patto sociale, la parola e il concetto, la formola della parola, verbum/res, res pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine: primo stato dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di inequali, padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo, il paese di Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant, Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colletti: la ragione conversazionale e  l’implicatura conversazionale dei curiazi, ovvero, politica romana – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Colletti – he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma. “Partito Socialista Italiano”. Altre saggi: “Il marxismo e Hegel, in Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, Ideologia e società, Bari, Laterza, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il "crollo" del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari, Laterza, Crisi delle ideologie. Intervista politico-filosofica, Il marxismo, Le ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e politica, Milano, Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto C. voce "contro" di Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo Parlamentare di Forza Italia, Ricordo di C., Roma, Stampa e servizi, Orlando Tambosi, Perché il marxismo ha fallito C. e la storia di una grande illusione, Milano, Mondadori, Ministero per i beni e le attività culturali, C.: il cammino di un filosofo contemporaneo, Roma, Essetre, Pino Bongiorno, Ricci, C. scienza e libertà, Roma, Ideazione, Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, Manifesto libri. C., LaTreccani L'Enciclopedia Italiana.  C. su Camera XIII legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura, Parlamento italiano. La storia di C. di Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza Italia”. Il saggio di C. Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di alcuni temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left Review”, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più esattamente Colletti si propone di chiarire la «differenza tra opposizione reale (la Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e contraddizione dialettica. Si tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione (ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch). La opposizione dialettica è espressa dalla formula A non-A, nella quale ciascun opposto è solo la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e per sé. I poli dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente ciascuno è la negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro. Quindi «entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali, non-cose (Undinge), ma idee». Ciascun opposto ha la sua essenza fuori di sé, nell’altro di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e della stessa dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton genon. L’opposizione reale è espressa dalla formula A e B, nella quale ciascun opposto sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più importante è che Biscuso. Opposizione reale, contraddizione logica e contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà (Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga indicato come il contrario negativo dell’altro. Questo accade ad esempio quando ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè come non-essere». Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc, proprio perché sono senza contraddizione (dove è già implicito, come sarà confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero, segue il modello della contraddizione A non-A. Fuori l’uno dell’altro, cioè al di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali, e l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero infinito. Dunque, commenta C., «dov’era la cosa è ora subentrata la contraddizione logica (– si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver «ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo). Avvertiti di questa difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta con la scienza. Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di Volpe: a costo di liquidare gran parte dell’opera filosofica di Engels in quanto fonte del Diamat, sembrava però legittimarsi l’aspirazione del marxismo a costituirsi come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società. In realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione dell’astratto, filosofia-italiana.net l’inversione di soggetto e predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava nella struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa. Vi sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia di risultare il progetto di una soggettività utopica. Dunque per lo stesso Marx le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente) C. conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti reali, pur non essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità per sé irreali seppur reificate. Teoria dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria. la contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del lavoro, pur essendo intimamente connessi, si danno un’esistenza separata. È la contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata dai maggiori analisti della società civile borghese del Settecento. «La società moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’“unità originaria” dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo, dove l’unità, essendo data, non deve essere spiegata, mentre è da spiegare la divisione. «Seppure modificato, riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E questo, ci si scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico. Hegel versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik (im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die Logik in einer Weise zu erweitern (sog. dialektische Logik), die den Satz vom Widerspruch außer Geltung setzt. Damit versuchte Hegel, die Kantische Widerlegung des sogenannten Dogmatismus in der Metaphysik zu umgehen. Der Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert: „Diese Widerlegung Kants betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die metaphysisch in seinem engeren Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen Rationalismus, der die Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb Widersprüche nicht zu fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in dieser Weise umgeht, stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das zur Katastrophe führen muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen führen. Dies gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke aus dem Gesetz vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die dieses Gesetz akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von Widersprüchen zu sein. Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das meinige, das bereit ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein dialektisches System.‘ Es besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen Dogmatismus von äußerst gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer Theorie und irgendwelchen Fakten. Logisches Quadrat  Das logische Quadrat Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind, bestehen zwischen den unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene Beziehungen:  Zwei Aussagen bilden einen kontradiktorischen Gegensatz genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein können, mit anderen Worten: Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum ist genau dann der Fall, wenn die eine Aussage die Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen trifft das kontradiktorische Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht ein Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h., wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben. Orazi e Curiazi figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orazi e Curiazi (disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono figure leggendarie della Roma antica.   Il giuramento degli Orazi, di David, Museo del Louvre Leggenda Secondo la versione riportata da Tito Livio (Hist.), durante il regno di Tullo Ostilio. Roma e Alba Longa entrarono in guerra, affrontandosi con gli eserciti schierati lungo le Fossae Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al confine fra i loro territori.  Ma Roma e Alba Longa condividevano attraverso il mito di Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa guerra, perciò i rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di rappresentanti le sorti del conflitto fra le due città, evitando ulteriori spargimenti di sangue.  Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli figli di Publio Orazio, e per Alba Longa i tre gemelli Curiazi, che si sarebbero affrontati a duello alla spada. Livio afferma che gli storici non erano concordi nello stabilire quale delle due triadi fosse quella romana; propende per gli Orazi perché la maggior parte degli studiosi sceglie quella versione.  Iniziato il combattimento, quasi subito due Orazi furono uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo lievi ferite; il terzo Orazio, che non avrebbe potuto affrontare da solo tre nemici, trovandosi in difficoltà, pensò di ricorrere all'astuzia e finse di scappare verso Roma. Come aveva previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel correre si distanziarono fra loro, perché, feriti in modo differente, inseguivano a velocità differenti.  Per primo fu raggiunto dal Curiazio che non era stato ferito e, voltandosi a sorpresa, lo trafisse. Riprese a correre e fu raggiunto da ciascuno degli altri due, che a causa delle ferite erano sfiniti, e gli fu facile ucciderli uno alla volta. La vittoria dell'Orazio fu la vittoria di Roma, cui Alba Longa si sottomise.  Camilla Orazia, sorella dell'Orazio superstite, era promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi e rimproverò violentemente del delitto il fratello, tanto che questi la uccise per farla tacere. Per purificarsi dovette passare sotto il giogo del Tigillum Sororium, che da allora i Romani festeggiavano come rito di purificazione dei soldati ogni 1º ottobre. Inoltre, per il processo al delitto di perduellio (delitto contro le libertà del cittadino, reato che in realtà fu istituito dopo la fase regia di Roma), di cui si era macchiato uccidendo Camilla Orazia, la cui vita - essendo ella estranea al duello pattuito - era sacra per legge, Tullo Ostilio istituì, secondo la leggenda rielaborata nel tempo, dei giudici appositi: i duumviri perduellionis (anch'essi da ricondurre, in realtà, alla successiva fase repubblicana).  Le parentele fra Orazi e Curiazi erano ulteriormente intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo Sabina - nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia sorella di uno dei Curiazi sia moglie di Marco Orazio.  Realtà storica Il cosiddetto Sepolcro degli Orazi e Curiazi ad Albano Laziale Nell'antica Roma si trovano testimonianze di età augustea attinenti alla leggenda, come una colonnadel Foro alla quale sarebbero state appese le spoglie dei Curiazi e il Mausoleo degli Orazi al sesto miglio della via Appia.  Ad Albano Laziale, lungo l'attuale via della Stella, si trova un sepolcro tardo-repubblicano detto degli "Orazi e Curiazi", ma si ipotizza che sia tomba di altri personaggi.  Nella realtà la guerra fra Roma e Alba Longa fu cruenta e il re della città sconfitta, Mezio Fufezio, venne squartato.  C'è chi indica San Giovanni in Campo Orazio, nel territorio di Poli, come luogo dove avvenne la cruenta battaglia.  Orazi e Curiazi nelle artiModifica Gli eroi di questa disfida sono citati da Dante (Che i tre a' tre pugnar per lui ancora, Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio.  TeatroModifica Sulla vicenda degli Orazi e Curiazi si basano alcune opere liriche:  Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa, opera in tre atti su libretto di Antonio Simeone Sografi, la cui prima esecuzione ebbe luogo al Teatro La Fenice di Venezia Orazi e Curiazi di Saverio Mercadante, opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, eseguita per la prima volta al teatro San Carlo di Napoli. The Horatian - Three Songs di Heiner Goebbels Orazi e Curiazi è anche uno dei drammi didattici scritti da Bertold Brecht. CinemaModifica Orazi e Curiazi, cortometraggio muto. Orazi e Curiazi, film di Ferdinando Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi, film-rivisitazione in chiave farsesca del mito. Curiosità  La vicenda dello scontro tra gli Orazi e i Curiazi viene rievocata nella miniserie "L'ombra nera del Vesuvio" di Steno con Massimo Ranieri, Carlo Giuffré e Claudio Amendola. Molto evidente il riferimento al mito quando, per regolare i conti tra due clan, si scelgono tre rappresentanti per ciascuna delle due organizzazioni criminali: i fratelli Carità, figli del boss Don Peppe Carità, e i tre fratelli Sposito per il clan di Gaetano Bonanno. Uno dei fratelli Carità è sposato con la sorella degli Sposito, e la stessa sorella dei Carità era promessa come sposa al più giovane degli Sposito. Anche le dinamiche del combattimento e le relative conseguenze sono identiche. Livio, Ab Urbe condita libri, Is quibusdam piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti Horatiae tradita sunt, transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub iugum misit iuvenem.Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di Bernardo Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di Bernardo Santalucia, Orazi e Curiazi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma   Portale Mitologia Tullo Ostilio terzo re di Roma  Gens Horatia famiglie romane che condividevano il nomen Horatius  Il giuramento degli Orazi dipinto di Jacques-Louis David  Grice: “Colletti takes negation more seriously than Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian language allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek ‘anti’ – so that ‘apo-phasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with ‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if not with ‘vocation’ – cf. my extended use of ‘utterance’ to include the characterization of something that need not be linguistic or conventional but a characterization of a deed or a product which may be a ‘sound’ among others. The Germans deal with the ‘widerspruch’ but that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero, the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’ and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and I, allow for the good old tilde ‘~’ being all we need!” Lucio Colletti. Keywords: curiazi, ovvero, filosofia romana, opposition, negazione, la contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian, “Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter – anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario, l’opposto, contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio, dialettica ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colletti” – The Swimming-Pool Library. Colletti.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colizzi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Norcia – filosofia perugina – filosofia umbra -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Norcia). Filosofo perugino. Filosofo umbro. Filosofo italiano. Norcia, Perugia, Umbria. Grice:“By focusing on ‘desire,’ focuses Collizi on Thales who famously, for fixing on the stars, de-fixed from the ground!” Grice: “If I had to chose one philosophical word I adore is ‘desideratum,’ and Collizi tells it right – while Short and Lewis doubt it, to desire is like to consider – and the ‘sidus’ is involved!” Compone il saggio “De amore fundamenta mundis ac ethicae”. C. si è appreso attraverso i riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale dela sua filosofia consiste nell'unione dell'idea di dio come amore con uno spunto, totalmente ri-adattato, di derivazione platonica, secondo cui il reale è emanazione, a partire da livelli di purezza e deità più elevati. Facendo dell'amore la caratteristica principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che il reale coincide con l'amore, in forme più o meno degradate. Da questo concetto fa derivare una forte istanza di svelamento. Nonostante l'apparente neutralità emotiva del reale, il vero fondamento divino, e quindi dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue quindi applicando questo principio ad una apparenza fenomenica, in modo da svelarne il vero essere, cioè il principio di amore – Grice: “Not to be confused with my principle of conversational self-love!” -Il suo passo più celebre, tuttavia, riguarda l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che collega all'espressione “de sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e qualcosa che percepiamo con i sensi, ma senza potere esperire direttamente l'amore che da loro scaturisce, così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la quale si cela un bisogno. Il “de-siderio,” questo tendere all'apparenza, scompare completamente solo una volta compreso fino in fondo il fondamento dell'essere, nella “mystica copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia. La sua filosofia quindi, sembra unire una forte istanza metafisica a un'altrettanto forte istanza etica, cercando nel reale una fondamentale armonia di senso che è compito di ogni uomo, scopertala, riprodurre e preservare. Cf. Bruno, “De l'infinito, universo e mondi,” Bruno,“Praxis descensus seu applicatio entis,”D.Cantimori,“Storia ereticale” (Laterza). Bolgiani, “Ortodossia ed eresia : il problema storiografico nella storia e la situazione ortodossia-eresia agli inizi della storia (CELID). A compimento di questo settimo Libro ed in osservanza alla regola fin qui seguita, rimanci di far menzione di que'nostri Concittadini, che per meriti di santità, o per dottrina, ovvero per singolare valore nelle scienze,se ne resero meritevoli. E primo ci si presenta il Ven. Fr. Agostino da Norcia della famiglia C., emulo delle virtù del suo zio Fr. Giustino da noi ricordato Degl’eroici furori di Bruno Letteratura italiana Einaudi   Edizione di riferimento: Bruno Nolano, De gli eroici furori.Parigi, appresso Baio, in Dialoghi filosofici italiani, a cura di Ciliberto, Mondadori, Milano Letteratura italiana Einaudi Sommario Argomento del Nolano Avertimento a’ lettori Iscusazion  del Nolano de gli Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo Dialogo Dialogo Dialogo Seconda parte de gli Eroici Furori Al molto illustre et eccellente cavalliero Signor Filippo Sidneo Bruno De gli eroici furori ARGOMENTO DEL NOLANO sopra GLI EROICI FURORI: scritto al molto illustre SIGNOR FILIPPO SIDNEO È cosa veramente, o generosissimo Cavalliero, da basso, bruto e sporco ingegno, d’essersi fatto constantemente studioso, et aver affisso un curioso pensiero circa o sopra la bellezza d’un corpo femenile. Che spettacolo (o Dio buono) più vile et ignobile può presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo cogitabundo, afflitto, tormentato, triste, maninconioso: per dovenir or freddo, or caldo, or fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di perplesso, or in atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di tempo, e gli più scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del cervello con mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi monumenti, quelle continue torture, que’ gravi tormenti, que’ razionali discorsi, que’ faticosi pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una indegna, imbecille, stolta e sozza sporcaria? Che tragicomedia? che atto, dico, degno più di compassione e riso può esserne ripresentato in questo teatro del mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi suppositi fatti penserosi, contemplativi, constanti, fermi, fideli, amanti, coltori, adoratori e servi di cosa senza fede, priva d’ogni costanza, destituta d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza riconoscenza e gratitudine alcuna, dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che trovarsi possa in una statua, o imagine depinta al muro? e dove è più superbia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine, avarizia, ingratitudine et altri crimi exiziali, che avessero possuto uscir veneni et instrumenti di morte Bruno De gli eroici furori dal vascello di Pandora, per aver pur troppo largo ricetto dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in carte, rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi, et intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un fracasso d’insegne, d’imprese, de motti, d’epistole, de sonetti, d’epigrammi, de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estremi, de vite consumate, con strida ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli antri infernali, doglie che fanno stupefar l’anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir gli dèi, per quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco, per quel vermiglio, per quella lingua, per quel dente, per quel labro, quel crine, quella veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella pianella, quella parsimonia, quel risetto, quel sdegnosetto, quella vedova fenestra, quell’eclissato sole, quel martello; quel schifo, quel puzzo, quel sepolcro, quel cesso, quel mestruo, quella carogna, quella febre quartana, quella estrema ingiuria e torto di natura: che con una superficie, un’ombra, un fantasma, un sogno, un circeo incantesimo ordinato al serviggio della generazione, ne inganna in specie di bellezza. La quale insieme insieme viene e passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; et è bella cossì un pochettino a l’esterno, che nel suo intrinseco vera e stabilmente è contenuto un navilio, una bottega, una dogana, un mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni abbia possuti produre la nostra madrigna natura; la quale dopo aver riscosso quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a paga d’un lezzo, d’un pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza, d’un dolor di capo, d’una lassitudine, d’altri et altri malanni che son manifesti a tutto il mondo; a fin che amaramente dolga, dove suavemente proriva. Ma che fo io? che penso? son forse nemico della generazione? ho forse in odio il sole? Rincrescemi forse il mio et altrui essere messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a non raccòrre quel più dolce pomo che può produr l’orto del nostro terrestre paradiso? Son forse io per impedir l’instituto santo della natura? Debbo tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo la divina providenza? Ho forse da persuader a me et ad altri, che gli nostri predecessori sieno nati per noi, e noi non siamo nati per gli nostri successori? Non voglia, non voglia Dio che questo giamai abbia possuto cadermi nel pensiero. Anzi aggiongo che per quanti regni e beatitudini mi s’abbiano possuti proporre e nominare, mai fui tanto savio o buono che mi potesse venir voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi mi vergognarei se cossì come mi trovo in apparenza, volesse cedere pur un pelo a qualsivoglia che mangia degnamente il pane per servire alla natura e Dio benedetto. E se alla buona volontà soccorrer possano o soccorrano gl’instrumenti e gli lavori, lo lascio considerar solo a chi ne può far giudicio e donar sentenza. Io non credo d’esser legato: perché son certo che non bastarebbono tutte le stringhe e tutti gli lacci che abbian saputo e sappian mai intessere et annodare quanti furo e sono stringari e lacciaiuoli, (non so se posso dir) se fusse con essi la morte istessa, che volessero maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar il mio caldo non penso che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or vedete dumque se è la raggione o qualche difetto che mi fa parlare. Che dumque voglio dire? che voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio conchiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare sia donato a Cesare, e quel ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne, benché talvolta non bastino gli onori et ossequii divini, non perciò se gli denno onori et ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì onorate et amate, come denno essere amate et onorate le donne; per tal causa dico, e per tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non hanno altra virtù che naturale, cioè di quella bellezza, di quel splendore, di quel serviggio: senza il quale denno esser stimate più vanamente nate al mondo che un morboso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante occupa la terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che caccia il capo fuor di quella. Voglio dire che tutte le cose de l’universo, perché possano aver fermezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri, ordini e misure, a fin che siano dispensate e governate con ogni giustizia e raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomona, Vertunno, il dio di Lampsaco, et altri simili che son dèi da tinello, da cervosa forte e vino rinversato, come non siedeno in cielo a bever nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove, Saturno, Pallade, Febo et altri simili: cossì gli lor fani, tempii, sacrificio e culti denno essere differenti da quelli de costoro. Voglio finalmente dire che questi furori eroici ottegnono suggetto et oggetto eroico: e però non ponno più cadere in stima d’amori volgari e naturaleschi, che veder si possano delfini su gli alberi de le selve, e porci cinghiali sotto gli marini scogli. Però per liberare tutti da tal suspizione, avevo pensato prima di donar a questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il quale sotto la scorza d’amori et affetti ordinaria, contiene similmente divini et eroici furori, come interpretano gli mistici e cabalisti dottori: volevo (per dirla) chiamarlo Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de le quali ne voglio referir due sole. L’una per il timor ch’ho conceputo dal rigoroso supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebono profano per usurpar in mio naturale e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali; come essi sceleratissimi e ministri d’ogni ribaldaria si usurpano più altamente che dir si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de figli de Dio, de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspettando quel giudicio divino che farà manifesta la lor maligna ignoranza et altrui dottrina, la nostra simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et instituzioni. L’altra per la grande dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e quella, quantunque medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto l’ombra dell’una e l’altra: stante che là nessuno dubita che il primo instituto del sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di presentar altro; perché ivi le figure sono aperta e manifestamente figure, et il senso metaforico è conosciuto di sorte che non può esser negato per metaforico: dove odi quelli occhi di colombe, quel collo di torre, quella lingua di latte, quella fragranzia d’incenso, que’ denti che paiono greggi de pecore che descendono dal lavatoio, que’ capelli che sembrano le capre che vegnono giù da la montagna di Galaad. Ma in questo poema non si scorge volto che cossì al vivo ti spinga a cercar latente et occolto sentimento: atteso che per l’ordinario modo di parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi communi, che ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mettere in versi e rime gli usati poeti, son simili a i sentimenti de coloro che parlarono a Citereida, a Licori, a Dori, a Cinzia, a Lesbia, a Corinna, a Laura et altre simili: onde facilmente ogn’uno potrebbe esser persuaso che la fondamentale e prima intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m’abbia dettati concetti tali; il quale appresso per forza de sdegno s’abbia improntate l’ali e dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivoglia fola, romanzo, sogno e profetico enigma, e transferirle in virtù di metafora e pretesto d’allegoria a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a stiracchiar gli sentimenti: e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in tutto disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace, ch’alfine o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire come l’intendo e definisco io, non io come l’intende e definisce lui: perché come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dichiarar che lui se fusse presente; cossì questi Cantici hanno il proprio titolo ordine e modo che nessun può meglio dechiarar et intendere che io medesimo quando non sono absente. D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che io mi essagito in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli, sonetti e stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai delettato o delettasse de imitar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno: se a pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di quell’istante del fiore della sua beltade, e facultà di far figlioli alla natura e dio; tanto manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti in far trionfo d’una perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì pertinace pazzia, la qual sicuramente può competere con tutte l’altre specie che possano far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella vanissima, vilissima e vituperosissima gloria, che non posso credere ch’un uomo che si trova un granello di senso e spirito, possa spendere più amore in cosa simile che io abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mia fede, se io voglio adattarmi a defendere per nobile l’ingegno di quel tosco poeta che si mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Valclusa, e non voglio dire che sia stato un pazzo da catene, donarommi a credere, e forzarommi di persuader ad altri, che lui per non aver ingegno atto a cose megliori, volse studiosamente nodrir quella melancolia, per celebrar non meno il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato amor volgare, animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato delle lodi della mosca, del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie de quali son coloro ch’han poetato a’ nostri tempi delle lodi de gli orinali, de la piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martello, della caristia, de la peste; le quali non meno forse sen denno gir altere e superbe per la celebre bocca de canzonieri suoi, che debbano e possano le prefate et altre dame per gli suoi. Or (perché non si faccia errore) qua [non] voglio che sia tassata la dignità di quelle che son state e sono degnamente lodate e lodabili: non quelle che possono essere e sono particolarmente in questo paese Britannico, a cui doviamo la fideltà et amore ospitale: perché dove si biasimasse tutto l’orbe, non si biasima questo che in tal proposito non è orbe, né parte d’orbe: ma diviso da quello in tutto, come sapete; dove si raggionasse de tutto il sesso femenile, non si deve né può intendere de alcune vostre, che non denno esser stimate parte di quel sesso: perché non son femine, non son donne, ma (in similitudine di quelle) son nimfe, son dive, son di sustanza celeste; tra le quali è lecito di contemplar quell’unica Diana, che in questo numero e proposito non voglio nominare. Comprendasi dumque il geno ordinario. E di quello ancora indegna et ingiustamente perseguitarci le persone: perciò che a nessuna particolare deve essere impreparato l’imbecillità e condizion del sesso, come né il difetto e vizio di complessione: atteso che se in ciò è fallo et errore, deve essere attribuito per la specie alla natura, e non per particolare a gl’individui. Certamente quello che circa tai supposti abomino è quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni spendervi, de maniera che se gli fanno servi con l’ingegno, e vi vegnono a cattivar le potenze et atti più nobili de l’anima intellettiva. Il qual intento essendo considerato, non sarà donna casta et onesta che voglia per nostro naturale e veridico discorso contrastarsi e farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell’amor nelle donne verso gli uomini, che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal dumque essendo il mio animo, ingegno, parere e determinazione, mi protesto che il mio primo e principale, mezzano et accessorio, ultimo e finale intento in questa tessitura fu et è d’apportare contemplazion divina, e metter avanti a gli occhi et orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori, impiegati in due parti: de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi. argomento de’ cinque dialogi de la prima parte Nel Primo dialogo della prima parte son cinque articoli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e principiii motivi intrinseci sotto nome e figura del monte, e del fiume, e de muse che si dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come quelle che più volte importunamente si sono offerte: onde vegna significato che la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive: come pure è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: En ipse stat post parietem nostrum, respiciens per cancellos, et prospiciens per fenestras. La qual spesso per varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa fuori e trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti, oggetti, affetti, instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e prende il possesso nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la converta in Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e determinazione che fa l’anima ben informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la guerra civile che séguita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponimento; onde disse la Cantica: Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia fratres mei pugnaverunt contro me, quam posuerunt custodem in vineis. Là sono esplicati solamente come quattro antesignani: l’Affetto, l’Appulso fatale, la Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante coorte militari de tante, contrarie, varie e diverse potenze, con gli lor ministri, mezzi et organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una naturale contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l’amicizia: o per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e contemperamento, o per qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla concordia, ogni diversità a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi d’altri dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente descritto l’ordine et atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa composizione del furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di contrarietà: la prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove son le speranze fredde e gli desideri caldi; la seconda de medesimi affetti et atti in se stessi, non solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando ciascuno non si contenta di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama et odia; la terza tra la potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e si suttrae. Nel secondo articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi contrari appulsi in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e subalternate contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta o scende: anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son nelle diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesime, viene insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola appartiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella Cantica: Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit. Questa somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima specialmente quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol volere, e gli piace che voglia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non vuol quel che vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal efficacia, secondo che (per consequenza de l’affetto che le attira e rapisce) le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa in aere, vapore et acqua; e l’acqua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma. In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’impeto e vigor de l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del furioso composto, e delle passioni de l’anima che si trova al governo di questa Republica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il cacciatore, l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca, la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì travaglioso conflitto. Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in questo mentre, et è mostro l’ordine, raggione e condizion de studii e fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che si fa scarso di sé. Nel secondo quanto al continuo e non remittente concorso de gli affetti. Nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti. Nel quarto quanto al volontario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condizion di sua fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le antitesi, similitudini e comparazioni espresse in ciascuno di essi articoli. argomento de’ cinque dialogi della seconda parte Nel Primo dialogo della seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello sotto la ruota del tempo. Nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile occupazione et indegna iattura della angustia e brevità del tempo. Nel terzo accusa l’impotenza de suoi studi gli quali quantunque all’interno sieno illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad essere offoscato et annuvolato da quelli. Nel quarto è il compianto del sforzo senza profitto delle facultadi de l’anima mentre cerca risorgere con l’imparità de le potenze a quel stato che pretende e mira. Nel quinto vien rammentata la contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa intieramente appigliarsi ad un termine o fine. Nel sesto vien espresso l’affetto aspirante. Nel settimo vien messa in considerazione la mala corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira. Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazzion dell’anima, conseguente della contrarietà de cose esterne et interne tra loro, e de le cose interne in se stesse, e de le cose esterne in se medesime. Nel nono è ispiegata l’etate et il tempo del corso de la vita ordinaria all’atto de l’alta e profonda contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della complessione vegetante, ma l’anima si trova, in condizione stazionaria e come quieta. Nel decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore tal’or ne assale, fere e sveglia. Nell’undecimo la moltitudine delle specie et idee particolari che mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, mediante le quali vien incitato l’affetto verso alto. Nel duodecimo s’esprime la condizion del studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume prima che vi s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi s’ingolfa e vassi più verso il profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di presunzione, vegnono relassati i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli pensieri, svaniti tutti dissegni, e riman l’animo confuso, vinto et exinanito. Al qual proposito fu detto dal sapiente: qui scrutator est maiestatis, opprimetur a gloria. Nell’ultimo è più manifestamente espresso quello che nel duodecimo è mostrato in similitudine e figura. Nel Secondo dialogo è in un sonetto, et un discorso dialogale sopra di quello, specificato il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro, et il rese sotto l’amoroso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vigilanza, studio, elezzione e scopo. Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro risposte del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è dichiarato l’essere e modo delle potenze cognoscitive et appetitive. Là si manifesta qualmente la volontà è risvegliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e ravvivata dalla volontade, procedendo or l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio se l’intelletto o generalmente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della cognizione, sia maggior de la volontà o generalmente della potenza appetitiva, o pur de l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto quello ch’in certo modo si desidera, in certo modo ancora si conosce, e per il roverso; onde è consueto di chiamar l’appetito cognizione, perché veggiamo che gli Peripatetici nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in gioventù, sin a l’appetito in potenza et atto naturale chiamano cognizione; onde tutti effetti, fini e mezzi, principii, cause et elementi distingueno in prima, media, et ultimamente noti secondo la natura: nella quale fanno in conclusione concorrere l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita la potenza della materia, et il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza vana. Laonde cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è infinito et interminabile l’atto della cognizione circa il vero: onde ente, vero e buono son presi per medesimo significante, circa medesima cosa significata. Nel Quarto dialogo son figurate et alcunamente ispiegate le nove raggioni della inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e potenza apprensiva de cose divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è notata la raggione ch’è per la natura che ne umilia et abbassa. Nel secondo cieco per il tossico della gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e concupiscibile che ne diverte e desvia. Nel terzo cieco per repentino apparimento d’intensa luce si mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto che ne abbaglia. Nel quarto, allievato e nodrito a lungo a l’aspetto del sole, quella che da troppo alta contemplazione de l’unità, che ne fura alla moltitudine. Nel quinto, che sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è designata l’improporzionalità de mezzi tra la potenza et oggetto che ne impedisce. Nel sesto che per molto lacrimar have svanito l’umor organico visivo, è figurato il mancamento de la vera pastura intellettuale che ne indebolisce. Nel settimo cui gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è notato l’ardente affetto che disperge, attenua e divora tal volta la potenza discretiva. Nell’ottavo, orbo per la ferita d’una punta di strale, quello che proviene dall’istesso atto dell’unione della specie de l’oggetto; la qual vince, altera e corrompe la potenza apprensiva, che è suppressa dal peso, e cade sotto l’impeto de la presenza di quello; onde non senza raggion talvolta la sua vista è figurata per l’aspetto di folgore penetrativo. Nel nono, che per esser mutolo non può ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata la raggion de le raggioni, la quale è l’occolto giudicio divino che a gli uomini ha donato questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non possa mai gionger più alto che alla cognizione della sua cecità et ignoranza, e stimar più degno il silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né favorita l’ordinaria ignoranza; perché è doppiamente cieco chi non vede la sua cecità: e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli ociosi insipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del giudicio di suo non vedere, e quelli sono accorti, svegliati e prudenti giudici della sua cecità; e però son nell’inquisizione, e nelle porte de l’acquisizione della luce: delle quali son lungamente banditi gli altri. argomento et allegoria del quinto dialogo Nel Quinto dialogo, perché vi sono introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio paese) non sta bene di commentare, argumentare, desciferare, saper molto et esser dottoresse per usurparsi ufficio d’insegnare e donar instituzione, regola e dottrina a gli uomini; ma ben de divinar e profetar qualche volta che si trovano il spirito in corpo: però gli ha bastato de farsi solamente recitatrici della figura lasciando a qualche maschio ingegno il pensiero e negocio di chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar overamente tòrgli la fatica) fo intendere qualmente questi nove ciechi, come in forma d’ufficio e cause esterne, cossì con molte altre differenze suggettive correno con altra significazione, che gli nove del dialogo precedente: atteso che secondo la volgare imaginazione delle nove sfere, mostrano il numero, ordine e diversità de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che secondo certa similitudine analogale dependono dalla prima et unica. Queste da Cabalisti, da Caldei, da Maghi, da Platonici e da cristiani teologi son distinte in nove ordini per la perfezzione del numero che domina nell’università de le cose, et in certa maniera formaliza il tutto: e però con semplice raggione fanno che si significhe la divinità, e secondo la reflessione e quadratura in se stesso, il numero e la sustanza de tutte le cose dependenti. Tutti gli contemplatori più illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e proprio lume, o parlino per fede e lume superiore, intendano in queste intelligenze il circolo di ascenso e descenso. Quindi dicono gli Platonici che per certa conversione accade che quelle che son sopra il fato si facciano sotto il fato del tempo e mutazione, e da qua montano altre al luogo di quelle. Medesima conversione è significata dal pitagorico poeta, dove dice: Has omnes ubi mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno: rursus ut incipiant in corpora velle reverti. Questo (dicono alcuni) è significato dove è detto in revelazione che il drago starà avvinto nelle catene per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A cotal significazione voglion che mirino molti altri luoghi dove il millenario ora è espresso, ora è significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito, ora per una et un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si prende secondo le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le diverse raggioni delle diverse misure et ordini con li quali son dispensate diverse cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie de particolari non son medesime. Or quanto al fatto della rivoluzione, è divolgato appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de spiriti sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse et oscure regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza che di queste anime che vivono in corpi umani siano assumpte a quella eminenza. Ma tra filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente come tutti teologi grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti, né sempre: ma una volta. E tra teologi Origene solamente come tutti filosofi grandi, dopo gli Saduchini et altri molti riprovati, have ardito de dire che la revoluzione è vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel medesimo che ascende ha da ricalar a basso: come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella superficie, grembo e ventre de la natura. Et io per mia fede dico e confermo per convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le leggi et instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d’affirmare et accettar questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni e sapienti. L’opinion de quali degnamente è stata riprovata per esser divolgata a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può essere refrenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene sempiterne, che sarrebe se la si persuadesse qualche più leggiera condizione in premiar gli eroici et umani gesti, e castigare gli delitti e sceleragini? Ma per venire alla conclusione di questo mio progresso: dico che da qua si prende la raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti, or ciechi, or illuminati; quali son rivali ora nell’ombre e vestigii della divina beltade, or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamente si godeno. All’or che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la qual significa la omniparente materia, et è detta figlia del sole, perché da quel padre de le forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con l’aspersion de le acqui, cioè con l’atto della generazione, per forza d’incanto, cioè d’occolta armonica raggione, cangia il tutto, facendo dovenir ciechi quelli che vedeno: perché la generazione e corrozzione è causa d’oblio e cecità, come esplicano gli antichi con la figura de le anime che si bagnano et inebriano di Lete. Quindi dove gli ciechi si lamentano dicendo: Figlia e madre di tenebre et orrore, è significata la conturbazion e contristazion de l’anima che ha perse l’ali, la quale se gli mitiga all’or che è messa in speranza di ricovrarle. Dove Circe dice: Prendete un altro mio vase fatale, è significato che seco portano il decreto e destino del suo cangiamento, il qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe; perché un contrario è originalmente nell’altro, quantunque non vi sia effettualmente: onde disse lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma commetterlo. Significa ancora che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il firmamento che acciecano, e superiori, sopra il firmamento che illuminano: quelle che sono significate da Pitagorici e Platonici nel descenso da un tropico et ascenso da un altro. Là dove dice Per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi regni, significa che non è progresso immediato da una forma contraria a l’altra, né regresso immediato da una forma a la medesima: però bisogna trascorrere, se non tutte le forme che sono nella ruota delle specie naturali, certamente molte e molte di quelle. Là s’intendeno illuminati da la vista de l’oggetto, in cui concorre il ternario delle perfezzioni, che sono beltà, sapienza e verità, per l’aspersion de l’acqui che negli sacri libri son dette acqui de sapienza, fiumi d’acqua di vita etema. Queste non si trovano nel continente del mondo, ma penitus toto divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano, dell’Amfitrite, della divinità, dove è quel fiume che apparve revelato procedente dalla sedia divina, che have altro flusso che ordinario naturale. Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine intelligenze che assistenti et amministrano alla prima intelligenza, la quale è come la Diana tra le nimfe de gli deserti. Quella sola tra tutte l’altre è per la triplicata virtude, potente ad aprir ogni sigillo, asciòrre ogni nodo, a discuoprir ogni secreto, e disserrar qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la sua sola presenza e gemino splendore del bene e vero, di bontà e bellezza appaga le volontadi e gl’intelletti tutti: aspergendoli con l’acqui salutifere di ripurgazione. Qua è conseguente il canto e suono, dove son nove intelligenze, nove muse, secondo l’ordine de nove sfere; dove prima si contempla l’armonia di ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra; perché il fine et ultimo della superiore è principio e capo dell’inferiore, perché non sia mezzo e vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de l’ultima per via de circolazione concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso, infinita potenza et infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi in altri luoghi. Appresso si contempla l’armonia e consonanza de tutte le sfere, intelligenze, muse et instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’ mondi, l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion della mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano l’alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle superiori, cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che la divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita bontà infinitamente si communiche secondo tutta la capacità de le cose. Questi son que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad essere addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io non vegna a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti altri fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo et il specchio ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano raggioni con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un poeta; la filosofia si mostre ignuda ad un sì terso ingegno come il vostro; le cose eroiche siano addirizzate ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate dotato; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli ossequii ad un signor talmente degno qualmente vi siete manifestato per sempre. E nel mio particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbiano seguitato. vale. avertimento a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti che si trovano nel primo dialogo della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che sono nel medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli suoi tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor, giongete in fine: Onde di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi, giongete in fine: Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et èmmi a lato, farammi illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di trovar, giongete al fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che lemmi a lungo infortunato amante. alcuni errori di stampa piùurgenti Piacciavi, benigno lettore, prima che leggere di corregere. Da A in sino a Q significano gli quinterni; il numero seguente quella lettera, significa la carta; f significa la faccia prima o seconda; l significa la linea. A 1, f 2, l 2: correte a’ miei dolori; A 2, f 1, li 12: ritenendolo da cose; f 2, li 30: homerica poesia; A 4, f 1, li 15: illustre mentre canto di morte cipressi et inferni; A 7, f 1, li 4: la gelosia sconsola; li 11: di regione; B 1, f 2, li 7: potran ben soli con sua diva corte; C 2, f 1, li 2: sappia certo che se quei; lin 4: seguite che parlino; li 23: son divini; C 7, f 2, l 15: suspicientes in; D 8, f 1, [l 26]: Alti, profondi; f 2, l 10, compagni del mio core; E 6, f 1, l 21: intrattiene in quel essere; F 1, f 1, li 16: dice quell’altezza; G 8, f 1, l 2: che fa volgar; I 2, f 1, li 17: per quanto mi si diè; K 5, f 2, li 19: Del gratioso sguardo apri le porte; L 6, f 2, li 21: XII, Cesa; L 7, f 1, l 10: da cure moleste; M 4, f 1, li 15: ergo; Cor.; N 5, f 1, lin penultima: Deucalion; O 3, f 1, li 14: hammi si crudament’ il spirto infetto; O 4, f 2, li 10: Il Nil d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13: intromettea la luce; O 7, f 1, li 6: Aspra ferit’ empio ardor; li 13: appresso Dite; f 2, li ultima: in quello aspira per certo più; O 8, f 2, li ultima: alli quali si mostra, non proviene con misura di moto et tempo, come accade nelle; P 6, f 1, li antepenultima: quale chiumque have ingegno; P 7, f 1, li 12: Siam nove spirti che molt’anni; Q 1, f 1, li 10: Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l 1: De le dimore alterne. ISCUSAZION DEL NOLANO alle più virituose e leggiadre dame De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e Belle, non voi ha nostro spirt’ in schif’, e sdegna; né per mettervi giù suo stil s’ingegna, se non convien che femine v’appelle. Né computar, né eccettuar da quelle, son certo che voi dive mi convegna: se l’influsso commun in voi non regna, e siete in terra quel ch’in ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà sovrana nostro rigor né morder può, né vuole, che non fa mira a specie sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole, dove si scorge l’unica Diana, qual è tra voi quel che tra gli astri il sole. L’ingegno, le parole e ’l mio (qualumque sia) vergar di carte faranv’ossequios’il studio e l’arte.   DE GLI EROICI FURORI Bruno De gli eroici furori DIALOGO PRIMO interlocutori Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori dumque, atti più ad esser qua primieramente locati e considerati, son questi che ti pono avanti secondo l’ordine a me parso più conveniente. cicada Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse che tante volte ributtai, importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole ne’ miei guai con tai versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi mostraste mai, che de mirti si vantan et allori; or sia appo voi mia aura, àncora e porto, se non mi lice altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o fonte ov’abito, converso e mi nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo, avviv’, orno, il cor, il spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in vita, in lauri, in astri eterni. 1. È da credere che più volte e per più caggioni le ributtasse, tra le quali possono esser queste. Prima perché, come deve il sacerdote de le muse, non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invidia, ignoranza e malignitade. Secondo, per non assistergli degni protectori e difensori che l’assicurassero, iuxta quello. Non mancaranno, o Flacco, gli Maroni, se penuria non è de Mecenati. Appresso, per trovarsi ubligato alla contemplazion, e studi de filosofia: li quali se non son più maturi, denno però come parenti de le Muse esser predecessori a quelle. Oltre perché traendolo da un canto la tragica Melpomene con più materia che vena, e la comica Talia con più vena che materia da l’altro, accadeva che l’una suffurandolo a l’altra, lui rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente negocioso. Finalmente per l’autorità de censori che ritenendolo da cose più degne et alte alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il suo ingegno: perché da libero sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una vilissima e stolta ipocrisia. Al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli quali incorse, è avvenuto che non avend’altronde da consolarsi, accettasse l’invito di costoro, che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con quali non si mostraro ad altri: perché in quest’opra più riluce d’invenzione che d’imitazione. cicada Dite: che intende per quei che si vantano de mirti et allori? tansillo Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori: alli quali (se nobilmente si portano) tocca la corona di tal pianta consecrata a Venere, dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio exemplare a gli gesti politici e civili. cicada Dumque son più specie de poeti e de corone? tansillo Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di vantaggio: perché quantunque sieno certi geni, non possono però esser determinate certe specie e modi d’ingegni umani. cicada Son certi regolisti de poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovidio, Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in numero de versificatori, esaminandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo, fratel mio, che questi son vere bestie: perché non considerano quelle regole principalmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in particolare; e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e non per instituir altri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori, equali, simili e maggiori, de diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a coloro che son più atti ad imitare che ad inventare; e son state raccolte da colui che non era poeta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in serviggio di qualch’uno che volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma scimia de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti. cicada Or come dumque saranno conosciuti gli veramente poeti? tansillo Dal cantar de versi: con questo, che cantando o vegnano a delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi dumque serveno le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero, Exiodo, Orfeo et altri poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero. cicada Dumque han torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con l’altra, o perché [non] finiscono gli canti epilogando di quel ch’è detto e proponendo per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere che essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono gli veri poeti, et arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude et ingegno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar là donde l’affezzione n’ha fatto alquanto a lungo digredire: dico che sono e possono essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti et invenzioni umane, alli quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo da tutti geni e specie de piante, ma et oltre d’altri geni e specie di materie. Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e lauri: ma anco de pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sacrifici e leggi; di pioppa, olmo e spighe per l’agricoltura; de cipresso per funerali: e d’altre innumerabili per altre tante occasioni. E se vi piacesse anco di quella materia che mostrò un galantuomo quando disse: O fra Porro poeta da scazzate, ch’a Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni, busecche e cervellate. Letteratura italiana Einaudi 27   Giordano Bruno De gli eroici furori cicada Or dumque sicuramente costui per diverse vene che mostra in diversi propositi e sensi, potrà infrascarsi de rami de diverse piante, e potrà degnamente parlar con le Muse: perché sia appo loro sua aura con cui si conforte, ancora in cui si sustegna, e porto al qual si retire nel tempo de fatiche, exagitazioni e tempeste. Onde dice: O monte Parnaso dove abito, Muse con le quali converso, fonte cliconio o altro dove mi nodrisco, monte che mi doni quieto aroggiamento, Muse che m’inspirate profonda dottrina, fonte che mi fai ripolito e terso; monte dove ascendendo inalzo il core; Muse con le quali versando avvivo il spirito; fonte sotto li cui arbori poggiando adorno la fronte; cangiate la mia morte in vita, gli miei cipressi in lauri, e gli miei inferni in cieli: cioè destinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di morte, cipressi et inferni. tansillo Bene, perché a color che son favoriti dal cielo, gli più gran mali si converteno in beni tanto maggiori: perché le necessitadi parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la gloria d’immortal splendore. cicada E la morte d’un secolo, fa vivo in tutti gli altri. Séguita. tansillo Dice appresso: In luogo e forma di Parnaso ho ’l core, dove per scampo mio convien ch’io monte; son mie muse i pensier ch’a tutte l’ore mi fan presenti le bellezze conte; onde sovente versan gli occhi fore lacrime molte, ho l’Eliconio fonte: per tai montagne, per tai ninfe et acqui, com’ha piaciut’al ciel poeta nacqui. Or non alcun de reggi, non favorevol man d’imperatore, non sommo sacerdot’, e gran pastore, mi dien tai grazie, onori e privileggi; ma di lauro m’infronde mio cor, gli miei pensieri, e le mie onde. 1. Qua dechiara: prima qual sia il suo monte, dicendo esser l’alto affetto del suo core; secondo, quai sieno le sue muse, dicendo esser le bellezze e prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno gli fonti, e questi dice esser le lacrime. In quel monte s’accende l’affetto; da quelle bellezze si concepe il furore; e da quelle lacrime il furioso affetto si dimostra. 2. Cossì se stima di non posser essere meno illustremente coronato per via del suo core, pensieri e lacrime, che altri per man de regi, imperadori e papi. cicada Dechiarami quel ch’intende per ciò che dice: il core in forma di Parnaso. tansillo Perché cossì il cuor umano ha doi capi che vanno a terminarsi a una radice, e spiritualmente da uno affetto del core procede l’odio et amore di doi contrarii; come have sotto due teste una base il monte Parnaso. cicada A l’altro. tansillo Dice: Chiama per suon di tromb’ il capitano tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna; dove s’avvien che per alcun in vano udir si faccia, perché pronto vegna, qual nemico l’uccide, o a qual insano gli dona bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì l’alm’i dissegni non accolti sott’un stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2) Un oggetto riguardo, chi la mente m’ingombr’, è un sol viso, ad una beltà sola io resto affiso, chi sì m’ha punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco m’ardo, e non conosco più ch’un paradiso. 1. Questo capitano è la voluntade umana che siede in poppa de l’anima, con un picciol temone de la raggione governando gli affetti d’alcune potenze interiori, contra l’onde de gli émpiti naturali. Egli con il suono de la tromba, cioè della determinata elezzione, chiama tutti gli guerrieri, cioè provoca tutte le potenze (le quali s’appellano guerriere per esserno in continua ripugnanza e contrasto) o pur gli effetti di quelle, che son gli contrariia pensieri; de quali altri verso l’una, altri verso l’altra parte inchinano: e cerca constituirgli tutti sott’un’insegna d’un determinato fine. Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna chiamato in vano a farsi prontamente vedere ossequioso (massime quei che procedono dalle potenze naturali quali o nullamente o poco ubediscono alla raggione), al meno forzandosi d’impedir gli loro atti, e dannar quei che non possono essere impediti, viene a mostrarsi come uccidesse quelli, e donasse bando a questi: procedendo contra gli altri con la spada de l’ira, et altri con la sferza del sdegno. 2. Qua un oggetto riguarda, a cui è volto con l’intenzione. Per un viso, con cui s’appaga ingombra la mente. In una sola beltade si diletta e compiace; e dicesi restarvi affiso, perché l’opra d’intelligenza non è operazion di moto, ma di quiete. E da là solamente concepe quel dardo che l’uccide, cioè che gli constituisce l’ultimo fine di perfezione. Arde per un sol fuoco, cioè dolcemente si consuma in uno amore. cicada Perché l’amore è significato per il fuoco? tansillo Lascio molte altre caggioni, bastiti per ora questa: perché cossì la cosa amata l’amore converte ne l’amante, come il fuoco tra tutti gli elementi attivissimo è potente a convertire tutti quell’altri semplici e composti in se stesso. cicada Or séguita. tansillo Conosce un paradiso: cioè un fine principale, perché paradiso comunmente significa il fine, il qual si distingue in quello ch’è absoluto, in verità et essenza, e l’altro che è in similitudine, ombra e participazione. Del primo modo non può essere più che uno, come non è più che uno l’ultimo et il primo bene. Del secondo modo sono infiniti. Amor, sorte, l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna, content’e sconsola; il putto irrazional, la cieca e ria, l’alta bellezza, la mia morte sola: mi mostr’il paradis’, il toglie via, ogni ben mi presenta, me l’invola; tanto ch’il cor, la mente, il spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha refrigerio, ha salma. Chi mi terrà di guerra? Chi mi farà fruir mio ben in pace? Chi quel ch’annoia e quel che sì mi piacefarà lungi disgionti, per gradir le mie fiamme e gli miei fonti? Mostra la caggion et origine onde si concepe il furore e nasce l’entusiasmo, per solcar il campo de le muse, spargendo il seme de suoi pensieri, aspirando a l’amorosa messe, scorgendo in sé il fervor de gli affetti in vece del sole, e l’umor de gli occhi in luogo de le piogge. Mette quattro cose avanti: l’amore, la sorte, l’oggetto, la gelosia. Dove l’amore non è un basso, ignobile et indegno motore, ma un eroico signor e duce de lui; la sorte non è altro che la disposizion fatale et ordine d’accidenti, alli quali è suggetto per il suo destino; l’oggetto è la cosa amabile, et il correlativo de l’amante; la gelosia è chiaro che sia un zelo de l’amante circa la cosa amata, il quale non bisogna donarlo a intendere a chi ha gustato amore, et in vano ne forzaremo dechiararlo ad altri. L’amore appaga: perché a chi ama, piace l’amare; e colui che veramente ama non vorrebbe non amare. Onde non voglio lasciar de referire quel che ne mostrai in questo mio sonetto: Cara, soave et onorata piaga del più bel dardo che mai scelse amore; alto, leggiadro e precioso ardore, che gir fai l’alma di sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù d’arte maga ti torrà mai dal centro del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco vigore quanto più mi tormenta, più m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e raro, quando del peso tuo girò mai scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal diretto? Occhi, del mio signor facelle et arco, doppiate fiamme a l’alma e strali al petto, poich’il languir m’è dolce e l’ardor caro. La sorte affanna per non felici e non bramati successi, o perché faccia stimar il suggetto men degno de la fruizion de l’oggetto, e men proporzionato a la dignità di quello; o perché non faccia reciproca correlazione, o per altre caggioni et impedimenti che s’attraversano. L’oggetto contenta il suggetto, che non si pasce d’altro, altro non cerca, non s’occupa in altro, e per quello bandisce ogni altro pensiero. La gelosia sconsola, perché quantunque sia figlia dell’amore da cui deriva, compagna di quello con cui va sempre insieme, segno del medesimo, perché quello s’intende per necessaria conseguenza dove lei si dimostra (come sen può far esperienza nelle generazioni intiere, che per freddezza di regione, e tardezza d’ingegno, meno apprendono, poco amano, e niente hanno di gelosia), tutta volta con la sua figliolanza, compagnia e significazione vien a perturbar et attossicare tutto quel che si trova di bello e buono nell’amore. Là onde dissi in un altro mio sonetto: O d’invidia et amor figlia sì ria, che le gioie del padre volgi in pene, caut’Argo al male, e cieca talpa al bene, ministra di tormento, Gelosia; Tisifone infernal fetid’Arpia, che l’altrui dolce rapi et avvelene, austro crudel per cui languir conviene il più bel fior de la speranza mia; fiera da te medesma disamata, augel di duol non d’altro mai presago, pena, ch’entri nel cor per mille porte: se si potesse a te chiuder l’entrata, tant’il regno d’amor saria più vago, quant’il mondo senz’odio e senza morte. Giongi a quel ch’è detto che la Gelosia non sol tal volta è la morte e ruina de l’amante, ma per le spesse volte uccide l’istesso amore, massime quando parturisce il sdegno: percioché viene ad essere talmente dal suo figlio affetta, che spinge l’amore e mette in dispreggio l’oggetto, anzi non lo fa più essere oggetto. cicada Dechiara ora l’altre particole che siegueno, cioè perché l’amore si dice putto irrazionale? tansillo Dirò tutto. Putto irrazionale si dice l’amore non perché egli per sé sia tale; ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, et è in sugetti tali: atteso che in qualumque è più intellettuale e speculativo, inalza più l’ingegno e più purifica l’intelletto, facendolo svegliato, studioso e circonspetto, promovendolo ad un’animositate eroica et emulazion di virtudi e grandezza, per il desio di piacere e farsi degno della cosa amata. In altri poi (che son la massima parte) s’intende pazzo e stolto, perché le fa uscir de proprii sentimenti, e le precipita a far delle extravaganze, perché ritrova il spirito, anima e corpo mal complessionati, et inetti a considerar e distinguere quel che gli è decente da quel che le rende più sconci: facendoli suggetto di dispreggio, riso e vituperio. cicada Dicono volgarmente e per proverbio, che l’amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli giovani savii. tansillo Questo inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel conveniente a tutti giovani; ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal complessionati quest’altri. E con questo è certo, che chi è avezzo nella gioventù d’amar circonspettamente, amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso e riso è di quelli alli quali nella matura etade l’amor mette l’alfabeto in mano. cicada Ditemi adesso, perché cieca e ria se dice la sorte o fato? tansillo Cieca e ria si dice la sorte ancora, non per sé, perché è l’istesso ordine de numeri e misure de l’universo; ma per raggion de suggetti si dice et è cieca: perché le rende ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. È detta similmente ria, perché nullo de mortali è che in qualche maniera lamentandosi e querelandosi di lei, non la incolpe. Onde disse il pugliese poeta: Che vuol dir, Mecenate, che nessuno al mondo appar contento de la sorte, che gli ha porgiuta la raggion o cielo? Cossì chiama l’oggetto alta bellezza, perché a lui è unico e più eminente, et efficace per tirarlo a sé; e però lo stima più degno, più nobile, e però sel sente predominante e superiore: come lui gli vien fatto suddito e cattivo. La mia morte sola dice de la gelosia, perché come l’amore non ha più stretta compagna che costei, cossì anco non ha senso di maggior nemica: come nessuna cosa è più nemica al ferro che la ruggine, che nasce da lui medesimo. cicada Or poi ch’hai cominciato a far cossì, séguita a mostrar parte per parte quel che resta. tansillo Cossì farò. Dice appresso de l’amore: Mi mostra il paradiso; onde fa veder che l’amore non è cieco in sé, e per sé non rende ciechi alcuni amanti, ma per l’ignobili disposizioni del suggetto: qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon ciechi per la presenza del sole. Quanto a sé dumque l’amore illustra, chiarisce, apre l’intelletto e fa penetrar il tutto e suscita miracolosi effetti. cicada Molto mi par che questo il Nolano lo dimostre in un altro suo sonetto: Amor per cui tant’alto il ver discerno, ch’apre le porte di diamante nere, per gli occhi entra il mio nume, e per vedere nasce, vive, si nutre, ha regno eterno; fa scorger quant’ha ’l ciel, terr’, et inferno; fa presenti d’absenti effiggie vere, repiglia forze, e col trar dritto, fere; e impiaga sempr’il cor, scuopre l’interno. O dumque, volgo vile, al vero attendi, porgi l’orecchio al mio dir non fallace, apri, apri, se puoi, gli occhi, insano e bieco: fanciullo il credi perché poco intendi, perché ratto ti cangi ei par fugace, per esser orbo tu lo chiami cieco. Mostra dumque il paradiso amore, per far intendere, capire et effettuar cose altissime; o perché fa grandi almeno in apparenza le cose amate. Il toglie via, dice de la sorte: perché questa sovente, a mal grado de l’amante, non concede quel tanto che l’amor dimostra, e quel che vede e brama, gli è lontano et adversario. Ogni ben mi presenta, dice de l’oggetto: perché questo che vien dimostrato da l’indice de l’amore, gli par la cosa unica, principale, et il tutto. Me l’invola, dice della Gelosia, non già per non farlo presente togliendolo d’avanti gli occhi; ma in far ch’il bene non sia bene, ma un angoscioso male; il dolce non sia dolce, ma un angoscioso languire. Tanto ch’il cor, cioè la volontà, ha gioia nel suo volere per forza d’amore, qualunque sia il successo. La mente, cioè la parte intellettuale, ha noia, per l’apprension de la sorte, qual non aggradisce l’amante. Il spirito, cioè l’affetto naturale, ha refrigerio, per esser rapito da quell’oggetto che dà gioia al core, e potrebbe aggradir la mente. L’alma, cioè la sustanza passibile e sensitiva, ha salma, cioè si trova oppressa dal grave peso de la gelosia che la tormenta. Appresso la considerazion del stato suo, soggionge il lacrimoso lamento, e dice: Chi mi torrà di guerra, e metterammi in pace; o chi disunirà quel che m’annoia e danna, da quel che sì mi piace et apremi le porte de cielo, perché gradite sieno le fervide fiamme del mio core, e fortunati i fonti de gli occhi miei? Appresso continuando il suo proposito, soggionge: Premi (oimè) gli altri, o mia nemica sorte; vatten via, Gelosia, dal mondo fore: potran ben soli con sua diva corte far tutto nobil faccia e vago amore. Lui mi tolga de vita, lei de morte; lei me l’impenne, lui brugge il mio core; lui me l’ancide, lei ravvive l’alma; lei mio sustegno, lui mia grieve salma. Ma che dic’io d’amore? se lui e lei son un suggetto o forma, se con medesm’imperio et una norma fann’un vestigio al centro del mio core? Non son doi dumque: è una che fa gioconda e triste mia fortuna. Quattro principii et estremi de due contrarietadi vuol ridurre a doi principii et una contrarietade. Dice dumque: Premi (oimè) gli altri, cioè basti a te, o mia sorte, d’avermi sin a tanto oppresso, e (perché non puoi essere senza il tuo essercizio) volta altrove il tuo sdegno. E vatten via fuori del mondo, tu, Gelosia: perché uno di que’ doi altri che rimagnono potrà supplire alle vostre vicende et offici; se pur tu, mia sorte, non sei altro ch’il mio Amore, e tu Gelosia, non sei estranea dalla sustanza del medesimo. Reste dumque lui per privarmi de vita, per bruggiarmi, per donarmi la morte, e per salma de le mie ossa: con questo che lei mi tolga di morte, mi impenne, mi avvive e mi sustente. Appresso, doi principii et una contrarietade riduce ad un principio et una efficacia, dicendo: Ma che dich’io d’Amore? Se questa faccia, questo oggetto è l’imperio suo, e non par altro che l’imperio de l’amore; la norma de l’amore è la sua medesima norma; l’impression d’amore ch’appare nella sustanza del cor mio, non è certo altra impression che la sua: perché dumque dopo aver detto nobil faccia, replico dicendo vago amore? tansillo Or qua comincia il furioso a mostrar gli affetti suoi e discuoprir le piaghe che sono per segno nel corpo, et in sustanza o in essenza nell’anima, e dice cossì: Io che porto d’amor l’alto vessillo, gelate ho spene, e gli desir cuocenti: a un tempo triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo, son muto, e colmo il ciel de strida ardenti; dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo e muoio, e fo ris’e lamenti: son vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli occhi ho Teti, et ho Vulcan al core, altr’amo, odio me stesso: ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso; poggi’altr’al ciel, s’io mi ripogno al basso; sempr’altri fugge, s’io seguir non cesso; s’io chiamo, non risponde: e quant’io cerco più, più mi s’asconde. A proposito di questo voglio seguitar quel che poco avanti ti dicevo: che non bisogna affatigarsi per provare quel che tanto manifestamente si vede, cioè che nessuna cosa è pura e schetta (onde diceano alcuni, nessuna cosa composta esser vero ente: come l’oro composto non è vero oro, il vino composto non è puro vero e mero vino); appresso, tutte le cose constano de contrarii: da onde avviene che gli successi de li nostri affetti per la composizione ch’è nelle cose, non hanno mai delettazion alcuna senza qualch’amaro; anzi dico, e noto di più, che se non fusse l’amaro nelle cose, non sarrebe la delettazione, atteso che la fatica fa che troviamo delettazione nel riposo; la separazioLetteratura italiana ne è causa che troviamo piacere nella congiunzione: e generalmente essaminando, si trovarà sempre che un contrario è caggione che l’altro contrario sia bramato e piaccia. cicada Non è dumque delettazione senza contrarietà? tansillo Certo non, come senza contrarietà non è dolore, qualmente manifesta quel pitagorico poeta quando dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras respiciunt, clausae tenebris et carcere caeco. Ecco dumque quel che caggiona la composizion de le cose. Quindi aviene che nessuno s’appaga del stato suo, eccetto qualch’insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel maggior grado del fosco intervallo de la sua pazzia: all’ora ha poca o nulla apprension del suo male, gode l’esser presente senza temer del futuro; gioisce di quel ch’è e per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di quel ch’è o può essere, et in fine non ha senso della contrarietade la quale è figurata per l’arbore della scienza del bene e del male. cicada Da qua si vede che l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa medesima è l’orto del paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi de la Cabala del cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: chi aumenta sapienza, aumenta dolore. tansillo Da qua avviene che l’amore eroico è un tormento, perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del futuro e de l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto e timore. Indi dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vicini: Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso gli rispose Gioan Bruno, padre del Nolano: Mai fuste più pazzo che adesso. cicada Volete dumque che colui che è triste sia savio, e quell’altro ch’è più triste, sia più savio? tansillo Non, anzi intendo in questi essere un’altra specie di pazzia, et oltre peggiore. cicada Chi dumque sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo è colui ch’è triste? tansillo Quel che non è contento né triste. cicada Chi? quel che dome? quel ch’è privo di sentimento? quel ch’è morto? tansillo No: ma quel ch’è vivo, vegghia et intende; il quale considerando il male et il bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine (di sorte ch’il fine d’un contrario è principio de l’altro, e l’estremo de l’uno è cominciamento de l’altro), non si dismette, né si gonfia di spirito, vien continente nell’inclinazioni e temperato nelle voluptadi: stante ch’a lui il piacere non è piacere, per aver come presente il suo fine. Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della considerazione ha presente il termine di quella. Cossì il sapiente ha tutte le cose mutabili come cose che non sono, et afferma quelle non esser altro che vanità et un niente: perché il tempo a l’eternità ha proporzione come il punto a la linea. cicada Sì che mai possiamo tener proposito d’esser contenti o mal contenti, senza tener proposito de la nostra pazzia, la qual espressamente confessiamo; là onde nessun che ne raggiona, e per conseguenza nessun che n’è partecipe, sarà savio: et infine tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non tendo ad inferir questo, perché dirò massime savio colui che potesse veramente dire talvolta il contrario di quel che quell’altro: Giamai fui men allegro che adesso over: Giamai fui men triste che ora. cicada Come non fai due contrarie qualitadi dove son doi affetti contrarii? perché, dico, intendi come due virtudi, e non come un vizio et una virtude, l’esser minimamente allegro, e l’esser minimamente triste? tansillo Perché ambi doi li contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar su quel più) son vizii, perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno a dar sul meno, vegnono ad esser virtude, perché si contegnono e rinchiudono intra gli termini. cicada Come l’esser men contento e l’esser men triste non son una virtù et uno vizio, ma son due virtudi? tansillo Anzi dico che son una e medesima virtude: perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarietade è massime là dove è l’estremo; la contrarietà maggiore è la più vicina all’estremo; la minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son uno et indifferente: come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo et il più freddo; e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né caldo né freddo, senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente contento e minimamente triste, è nel grado della indifferenza, si trova nella casa della temperanza, e là dove consiste la virtude e condizion d’un animo forte, che non vien piegato da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dumque (per venir al proposito) come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente parte, è differente da gli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma come un vizio ch’è in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in un suggetto più ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo gli suggetti e modi differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada Molto ben posso da quel ch’avete detto, conchiudere la condizion di questo eroico furore che dice gelate ho spene, e li desir cuocenti; perché non è nella temperanza della mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha l’anima discordevole: se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri; è per l’avidità stridolo, mutolo per il timore; Sfavilla dal core per cura d’altrui, e per compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne l’altrui risa, vive ne’ proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri ama, odia se stesso: perché la materia (come dicono gli fisici) con quella misura ch’ama la forma absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava la guerra ch’ha l’anima in se stessa; e poi quando dice ne la sestina ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso e quel che séguita, mostra le sue passioni per la guerra ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver letto in Iamblico, dove tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: Impius animam dissidentem habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum aliis. tansillo Or odi un altro sonetto di senso consequente al detto: Ahi, qual condizioni natura, o sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto (ahi lasso) di tal morte, che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene, d’inferno a le porte, e colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi contrarii eterno, bandito son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene triegua, perch’in mezzo di due scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra mi scuote, qual Ixion convien mi fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan lezzion contraria il sprone e ’l morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto e distrazione in se medesimo: mentre l’affetto, lasciando il mezzo e meta de la temperanza, tende a l’uno e l’altro estremo; e talmente si trasporta alto o a destra, che anco si trasporta a basso et a sinistra. cicada Come con questo che non è proprio de l’uno né de l’altro estremo, non viene ad essere in stato o termine di virtude? tansillo All’ora è in stato di virtude, quando si tiene al mezzo declinando da l’uno e l’altro contrario: ma quando tende a gli estremi inchinando a l’uno e l’altr di quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è doppio vizio, il qual consiste in questo che la cosa recede dalla sua natura, la perfezzion della quale consiste nell’unità: e là dove convegnono gli contrarii, consta la composizione, e consiste la virtude. Ecco dumque come è morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: in viva morte morta vita vivo. Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso: privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo di vita, perché non vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la considerazion de l’alto intelligibile e la compresa imbecillità della potenza; è altissimo per l’aspirazione dell’eroico desio che trapassa di gran lunga gli suoi termini, et è altissimo per l’appetito intellettuale che non ha modo e fine di gionger numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sensuale che verso l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente poggiar e descendere, sente ne l’alma il più gran dissidio che sentir si possa; e confuso rimane per la ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la raggion l’affrena, e per il contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella seguente sentenza dove la raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso risponde in nome di Pastore, che alla cura del gregge o armento de suoi pensieri si travaglia; quai pasce in ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è l’affezzione di quell’oggetto alla cui osservanza è fatto cattivo: fileno Pastor. pastore Che vuoi? fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno Che fai? Doglio. Perché? Perché non m’ha per suo vita, né morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel rio. Dov’è? Nel centro del mio cor se tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te? Sì. Con che? Con gli occhi de l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé? Mercé. Da chi? Da chi sì mi martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che, se cotal follia a l’alma piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché ardir tant’onestà mi tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. pastore Temo il suo sdegno, più che miei tormenti. Qua dice che spasma: lamentasi dell’amore, non già perché ami (atteso che a nessuno veramente amante dispiace l’amare), ma perché infelicemente ami: mentre escono que’ strali che son gli raggi di quei lumi, che medesimi secondo che son protervi e ritrosi, overamente benigni e graziosi, vegnono ad esser porte che guidano al cielo, overamente a l’inferno. Con questo vien mantenuto in speranza di futura et incerta mercé, et in effetto di presente e certo martìre. E quantunque molto apertamente vegga la sua follia, non per tanto avvien che in punto alcuno si correga, o che almen possa conciperne dispiacere; perché tanto ne manca, che più tosto in essa si compiace, come mostra dove dice: Mai fia che dell’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’esser felice. Appresso, mostra un’altra specie di furore parturita da qualche lume di raggione, la qual suscita il timore, e supprime la già detta, a fin che non proceda a fatto, che possa inasprir o sdegnar la cosa amata. Dice dumque la speranza esser fondata sul futuro, senza che cosa alcuna se gli prometta o nieghe: per che lui tace, e non dimanda, per téma d’offender l’onestade. Non ardisce esplicarsi e proporsi, onde fia o con ripudio escluso, overamente con promessa accettato: perché nel suo pensiero più contrapesa quel che potrebbe esser di male in un caso, che bene in un altro. Mostrasi dumque disposto di suffrir più presto per sempre il proprio tormento, che di poter aprir la porta a l’occasione per la quale la cosa amata si turbe e contriste. cicada Con questo dimostra l’amor suo esser veramente eroico: perché si propone per più principal fine la grazia del spirito e la inclinazion de l’affetto, che la bellezza del corpo, in cui si termina quell’amor ch’ha del divino. tansillo Sai bene che il rapto platonico è di tre specie, de quali l’uno tende alla vita contemplativa o speculativa, l’altro a l’attiva morale, l’altro a l’ociosa e voluptuaria: cossì son tre specie d’amori; de quali l’uno dall’aspetto della forma corporale s’inalza alla considerazione della spirituale e divina; l’altro solamente persevera nella delettazion del vedere e conversare; l’altro dal vedere va a precipitarsi nella concupiscenza del toccare. Di questi tre modi si componenti altri, secondo che o il primo s’accompagna col secondo, o che s’accompagna col terzo, o che con correno tutti tre modi insieme: de li quali ciascuno e tutti oltre si moltiplicano in altri, secondo gli affetti de furiosi che tendeno o più verso l’obietto spirituale, o più verso l’obietto corporale, o equalmente verso l’uno e l’altro. Onde avviene che di quei che si ritrovano in questa milizia e son compresi nelle reti d’amore, altri tendeno a fin del gusto che si prende dal raccòrre le poma da l’arbore de la corporal bellezza, senz’il qual ottento (o speranza al meno) stimano degno di riso e vano ogn’amoroso studio: et in cotal modo corrono tutti quei che son di barbaro ingegno, che non possono né cercano magnificarsi amando cose degne, aspirando a cose illustri, e più alto a cose divine accomodando gli suoi studi e gesti, a i quali non è chi possa più ricca e commodamente suppeditar l’ali, che l’eroico amore. Altri si fanno avanti a fin del frutto della delettazione che prendeno da l’aspetto della bellezza e grazia del spirito che risplende e riluce nella leggiadria del corpo; e de tali alcuni benché amino il corpo e bramino assai d’esser uniti a quello, della cui lontananza si lagnano, e disunion s’attristano, tutta volta temeno che presumendo in questo non vegnan privi di quell’affabilità, conversazione, amicizia et accordo che gli è più principale: essendo e dal tentare non più può aver sicurezza di successo grato, che gran téma di cader da quella grazia qual come cosa tanto gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi del pensiero. cicada È cosa degna, o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni che quindi derivano nell’umano ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar un simile amore: ma si deve ancora aver gran cura di non abbattersi ad ubligarsi ad un oggetto indegno e basso, a fin che non vegna a farsi partecipe della bassezza et indignità del medesimo; in proposito de quali intendo il consiglio del poeta ferrarese: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ali. tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la bellezza del corpo non hav’altro splendore, non è degno d’esser amato ad altro fine che di far (come dicono) la razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di tormentarvici su; et io (per me) mai fui più fascinato da cosa simile, che potesse al presente esser fascinato da qualche statua o pittura, dalle quali mi pare indifferente. Sarebbe dumque un vituperio grande ad un animo generoso, se d’un sporco, vile, bardo et ignobile ingegno (quantunque sotto eccellente figura venesse ricuoperto) dica: Temo il suo sdegno più ch’il mio tormento.  tansillo Poneno, e sono più specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mostrano che cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino insensato; altri consistono in certa divina abstrazzione per cui dovegnono alcuni megliori in fatto che uomini ordinarii. E questi sono de due specie perché: altri per esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati et ignoranti, nelli quali come vòti di proprio spirito e senso, come in una stanza purgata, s’intrude il senso e spirto divino; il qual meno può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de propria raggione e senso, perché tal volta vuole ch’il mondo sappia certo che se quei non parlano per proprio studio et esperienza come è manifesto, séguite che parlino et oprino per intelligenza superiore: e con questo la moltitudine de gli uomini in tali degnamente ha maggior admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato un spirito lucido et intellettuale, da uno interno stimolo e fervor naturale suscitato da l’amor della divinitate, della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendono il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente: e questi non vegnono al fine a parlar et operar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici et efficienti. cicada Di questi doi geni quali stimi megliori? tansillo Gli primi hanno più dignità, potestà et efficacia in sé: perché hanno la divinità. Gli secondi seri essi più degni, più potenti et efficaci, e son divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti: gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si considera e vede in effetto la divinità e quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade. – Or venemo al proposito. Questi furori de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in esecuzione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono con cui si procure farsi perfetto con transformarsi et assomigliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezzioni: ma un impeto razionale che siegue l’apprension intellettuale del buono e bello che conosce; a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi, et investirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno. Doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pensiero che de cose divine, e mostrasi insensibile et impassibile in quelle cose che comunmente massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la vita. Non è furor d’atra bile che fuor di consiglio, raggione et atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordinata tempesta; come quei ch’avendo prevaricato da certa legge de la divina Adrastia vegnono condannati sotto la carnificina de le Furie: acciò sieno essagitati da una dissonanza tanto corporale per sedizioni, ruine e morbi, quanto spirituale per la iattura dell’armonia delle potenze cognoscitive et appetitive. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne l’anima et impeto divino che gl’impronta l’ali: onde più e più avvicinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure, dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina et interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando et urtando or in questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a quell’altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa or in quell’altra faccia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né materia di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar l’armonia vince e supera gli orrendi mostri; e per tanto che vegna a dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi instinti, che come nove muse saltano e cantano circa il splender dell’universale Apolline: e sotto l’imagini sensibili e cose materiali va comprendendo divini ordini e consegli. È vero che tal volta avendo per fida scorta l’amore, ch’è gemino, e perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defraudato dal suo sforzo, all’ora come insano e furioso mette in precipizio l’amor di quello che non può comprendere: onde confuso da l’abisso della divinità tal volta dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso là dove non può arrivare con l’intelletto. È vero pure che ordinariamente va spasseggiando, et or più in una, or più in un’altra forma del gemino Cupido si trasporta; perché la lezzion principale che gli dona Amore è che in ombra contempla (quando non puote in specchio) la divina beltate: e come gli proci di Penelope s’intrattegna con le fante quando non gli lice conversar con la padrona. Or dumque, per conchiudere, possete da quel ch’è detto comprendere qual sia questo furioso di cui l’imagine ne vien messa avanti, quando si dice: Se la farfalla al suo splendor ameno vola, non sa cb’è fiamm’al fin discara; se quand’il cervio per sete vien meno, al rio va, non sa della freccia amara; s’il lioncorno corre al casto seno non vede il laccio che se gli prepara: i’al lum’, al font’, al grembo del mio bene, veggio le fiamme, i strali e le catene. S’è dolce il mio languire, perché quell’alta face sì m’appaga, perché l’arco divin sì dolce impiaga, perché in quel nodo è avolto il mio desire: mi sien eterni impacci fiamme al cor, strali al petto, a l’alma lacci. Dove dimostra l’amor suo non esser come de la farfalla, del cervio e del lioncorno, che fuggirebono s’avesser giudizio del fuoco, della saetta e de gli lacci, e che non han senso d’altro che del piacere: ma vien guidato da un sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che altra libertade. Perché questo male non è absolutamente male: ma per certo rispetto al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio Saturno ha per condimento nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose divine, questa saetta è l’impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla prima verità: e le specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso io m’accostai quando dissi: D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio beltà m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù convien ch’io goda, fugga la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal ch’io m’ard’e non mi sfaccio, el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi gela timor, né duol mi snoda; ma tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo tant’alto il lume che m’infiamma, el laccio ordito di sì ricco stame, che nascend’il pensier, more il desio. Poiché mi splend’al cor sì bella fiamma, e mi stringe il voler sì bel legame, sia serva l’ombra, et arda il cener mio. Tutti gli amori (se sono eroici e non son puri animali, che chiamano naturali e cattivi alla generazione, come instrumenti de la natura in certo modo) hanno per oggetto la divinità, tendeno alla divina bellezza, la quale prima si comunica all’anime e risplende in quelle, e da quelle poi o (per dir meglio) per quelle poi si comunica alli corpi: onde è che l’affetto ben formato ama gli corpi o la corporal bellezza, per quel che è indice della bellezza del spirito. Anzi quello che n’innamora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama bellezza; la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli determinati colori o forme, ma in certa armonia e consonanza de membri e colori . Questa mostra certa sensibile affinità col spirito a gli sensi più acuti e penetrativi: onde séguita che tali più facilmente et intensamente s’innamorano, et anco più facilmente si disamorano, e più intensamente si sdegnano, con quella facilità et intensione, che potrebbe essere nel cangiamento del spirito brutto, che in qualche gesto et espressa intenzione si faccia aperto: di sorte che tal bruttezza trascorre da l’anima al corpo, a farlo non apparir oltre come gli apparia bello. La beltà dumque del corpo ha forza d’accendere; ma non già di legare e far che l’amante non possa fuggire, se la grazia che si richiede nel spirito non soccorre, come la onestà, la gratitudine, la cortesia, l’accortezza: però dissi bello quel fuoco che m’accese, perché ancor fu nobile il laccio che m’annodava. cicada Non creder sempre cossì, Tansillo; perché qualche volta quantunque discuopriamo vizioso il spirito non lasciamo però di rimaner accesi et allacciati: di maniera che quantunque la raggion veda il male et indignità di tale amore, non ha però efficacia di alienar il disordinato appetito. Nella qual disposizion credo che fusse il Nolano quando disse: Oimè che son constretto dal furore d’appigliarmi al mio male, ch’apparir fammi un sommo ben Amore. Lasso, a l’alma non cale ch’a contrarii consigli umqua ritenti; e del fero tiranno, che mi nodrisce in stenti, e poté pormi da me stess’in bando, più che di libertad’ i’ son contento. Spiego le vele al vento, che mi suttraga a l’odioso bene: e tempestoso al dolce danno amene. tansillo Questo accade, quando l’uno e l’altro spirto è vizioso, e son tinti come di medesimo inchiostro, atteso che dalla conformità si suscita, accende e si confirma l’amore. Cossì gli viziosi facilmente concordano in atti di medesimo vizio. E non voglio lasciar de dire ancora quel che per esperienza conosco, che quantunque in un animo abbia discuoperti vizii molto abominati da me, com’è dire una sporca avarizia, una vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di ricevuti favori e cortesie, un amor di persone al tutto vili (de quali vizii questo ultimo massime dispiace perché toglie la speranza a l’amante che per esser egli, o farsi più degno, possa da lei esser più accettato), tutta volta non mancava ch’io ardesse per la beltà corporale. Ma che? io l’amavo senza buona volontà, essendo che non per questo m’arrei più contristato che allegrato delle sue disgrazie et infortunii. cicada Però è molto propria et a proposito quella distinzion che fanno intra l’amare e voler bene. tansillo È vero, perché a molti vogliamo bene, cioè desideramo che siano savii e giusti: ma non le amiamo, perché sono iniqui et ignoranti; molti amiamo perché son belli, ma non gli vogliamo bene, perché non meritano: e tra l’altre cose che stima l’amante quello non meritare, la prima è d’essere amato; e però benché non possa astenersi d’amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il suo rincrescimento: come costui che diceva, Oimè ch’io son costretto dal furore d’appigliarmi al mio male. In contraria disposizione fu, o per altro oggetto corporale in similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse: Bench’a tanti martir mi fai suggetto, pur ti ringrazio, e assai ti deggio, Amore, che con sì nobil piaga apriste il petto, e tal impadroniste del mio core, per cui fia ver ch’un divo e viv’oggetto, de Dio più bella imago ’n terra adore; pensi chi vuol ch’il mio destin sia rio, ch’uccid’in speme, e fa viv’in desio. Pascomi in alta impresa; e bench’il fin bramato non consegua, e ’n tanto studio l’alma si dilegua, basta che sia sì nobilment’ accesa: basta ch’alto mi tolsi, e da l’ignobil numero mi sciolsi. L’amor suo qua è a fatto eroico e divino, e per tale voglio intenderlo: benché per esso si dica suggetto a tanti martìri; perché ogni amante ch’è disunito e separato da la cosa amata (alla quale com’è congionto con l’affetto, vorrebe essere con l’effetto) si trova in cordoglio e pena, si crucia e si tormenta: non già perché ami, atteso che degnissima e nobilissimamente sente impiegato l’amore; ma perché è privo di quella fruizione la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual tende: non dole per il desio che ravviva, ma per la difficultà del studio ch’il martora. Stiminlo dumque altri a sua posta infelice per questa apparenza de rio destino, come che l’abbia condannato a cotai pene: perché egli non lasciarà per tanto de riconoscer l’obligo ch’have ad Amore, e rendergli grazie, perché gli abbia presentato avanti gli occhi de la mente una specie intelligibile, nella quale in questa terrena vita (rinchiuso in questa priggione de la carne, et avvinto da questi nervi, e confirmato da queste ossa) li sia lecito di contemplar più altamente la divinitade, che se altra specie e similitudine di quella si fusse offerta. cicada Il divo dumque e vivo oggetto, ch’ei dice, è la specie intelligibile più alta che egli s’abbia possuto formar della divinità; e non è qualche corporal bellezza che gli adombrasse il pensiero come appare in superficie del senso? tansillo Vero: perché nessuna cosa sensibile, né specie di quella, può inalzarsi a tanta dignitade. cicada Come dumque fa menzione di quella specie per oggetto, se (come mi pare) il vero oggetto è la divinità istessa? tansillo La è oggetto finale, ultimo e perfettissimo; non già in questo stato dove non possemo veder Dio se non come in ombra e specchio, e però non ne può esser oggetto se non in qualche similitudine; non tale Lequal possa esser abstratta et acquistata da bellezza et eccellenza corporea per virtù del senso: ma qual può esser formata nella mente per virtù de l’intelletto. Nel qual stato ritrovandosi, viene a perder l’amore et affezzion d’ogni altra cosa tanto sensibile quanto intelligibile; perché questa congionta a quel lume dovien lume essa ancora, e per conseguenza si fa un Dio: perché contrae la divinità in sé essendo ella in Dio per la intenzione con cui penetra nella divinità (per quanto si può), et essendo Dio in ella, per quanto dopo aver penetrato viene a conciperla e (per quanto si può) a ricettarla e comprenderla nel suo concetto. Or di queste specie e similitudini si pasce l’intelletto umano da questo mondo inferiore, sin tanto che non gli sia lecito de mirar con più puri occhi la bellezza della divinitade: come accade a colui che è gionto a qualch’edificio eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa per cosa in quello, si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia; ma se avverà poi che vegga il signor di quelle imagini, di bellezza incomparabilmente maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto et intento a considerar quell’uno. Ecco dumque come è differenza in questo stato dove veggiamo la divina bellezza in specie intelligibili tolte da gli effetti, opre, magisteri, ombre e similitudini di quella, et in quell’altro stato dove sia lecito di vederla in propria presenza. – Dice appresso: Pascomi d’alt’impresa, perché (come notano gli Pitagorici) cossì l’anima si versa e muove circa Dio, come il corpo circa l’anima. cicada Dumque il corpo non è luogo de l’anima? tansillo Non: perché l’anima non è nel corpo localmente, ma come forma intrinseca e formatore estrinseco; come quella che fa gli membri, e figura il composto da dentro e da fuori. Il corpo dumque è ne l’anima, l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Dio, come disse Plotino: cossì come per essenza è in Dio che è la sua vita, similmente per l’operazione intellettuale e la voluntà conseguente dopo tale operazione, si riferisce alla sua luce e beatifico oggetto. Degnamente dumque questo affetto del eroico furore si pasce de sì alta impresa. Né per questo che l’obietto è infinito, in atto simplicissimo, e la nostra potenza intellettiva non può apprendere l’infinito se non in discorso, o in certa maniera de discorso, com’è dire in certa raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che s’amena a la consecuzion de l’immenso onde vegna a constituirse un fine dove non è fine. cicada Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine, atteso che non sarebe ultimo. È dumque infinito in intenzione, in perfezzione, in essenza et in qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il vero. Or in questa vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa appagar il desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: Bramando è lassa l’alma a Dio vivente, et in altro luogo: Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum. Però dice: E bench’il fin bramato non consegua, E ’n tanto studio l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa: vuol dire ch’in tanto l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere in cotal stato, e che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto uomo di questa condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo. cicada Mi par che gli peripatetici (come esplicò Averroe) vogliano intender questo quando dicono la somma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione per le scienze speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in questo stato nel qual ne ritroviamo, non possiamo desiderar né ottener maggior perfezzione che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante qualche nobil specie intelligibile s’unisce o alle sustanze seperate, come dicono costoro, o a la divina mente, come è modo de dir de Platonici. Lascio per ora di raggionar de l’anima o uomo in altro stato e modo di essere che possa trovarsi o credersi. cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può trovar l’uomo in quella cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà mai perfetta per quanto l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto l’intelletto nostro possa capire: basta che in questo et altro stato gli sia presente la divina bellezza per quanto s’estende l’orizonte della vista sua. cicada Ma de gli uomini non tutti possono giongere a quello dove può arrivar uno o doi. tansillo Basta che tutti corrano; assai è ch’ognun faccia il suo possibile; perché l’eroico ingegno si contenta più tosto di cascar o mancar degnamente e nell’alte imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che riuscir a perfezzione in cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una degna et eroica morte, che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito feci questo sonetto: Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il piè l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e vers’il ciel m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi, anzi via più risorgo; ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita pareggia al morir mio? La voce del mio cor per l’aria sento: Ove mi porti, temerario? china, che raro è senza duol tropp’ardimento; Non temer (respond’io) l’alta ruina. Fendi sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì illustre morte ne destina. cicada Io intendo quel che dice: basta ch’alto mi tolsi; ma non quando dice: e da l’ignobil numero mi sciolsi, s’egli non intende d’esser uscito fuor de l’antro platonico, rimosso dalla condizion della sciocca et ignobilissima moltitudine; essendo che quei che profittano in questa contemplazione non possono esser molti e numerosi. tansillo Intendi molto bene; oltre, per l’ignobil numero può intendere il corpo e sensual cognizione dalla quale bisogna alzarsi e disciòrsi chi vuol unirsi alla natura di contrario geno. cicada Dicono gli Platonici due sorte de nodi con gli quali l’anima è legata al corpo. L’uno è certo atto vivifico che da l’anima come un raggio scende nel corpo; l’altro è certa qualità vitale che da quell’atto resulta nel corpo. Or questo numero nobilissimo movente ch’è l’anima, come intendete che sia disciolto da l’ignobil numero ch’è il corpo? tansillo Certo non s’intendeva secondo alcun modo di questi: ma secondo quel modo con cui le potenze che non son comprese e cattivate nel grembo de la materia, e qualche volta come sopite et inebriate si trovano quasi ancora esse occupate nella formazion della materia e vivificazion del corpo; tal’or come risvegliate e ricordate di se stesse riconoscendo il suo principio e geno, si voltano alle cose superiori, si forzano al mondo intelligibile come al natio soggiorno; quali tal volta da là per la conversione alle cose inferiori, si son trabalsate sotto il fato e termini della generazione. Questi doi appolsi son figurati nelle due specie de metamorfosi espresse nel presente articolo che dice: Quel dio che scuot’il folgore sonoro, Asterie vedde furtivo aquilone, Mnemosine pastor, Danae oro, Alcmena sposo, Antiopa caprone; fu di Cadmo a le suore bianco toro, a Leda cigno, a Dolida dragane: io per l’altezza de l’oggetto mio da suggetto più vil dovegno un dio. Fu cavallo Saturno, Nettun delfin, e vitello si tenne Ibi, e pastor Mercurio dovenne, un’uva Bacco, Apollo un corvo furno: et io (mercé d’amore) mi cangio in dio da cosa inferiore. Nella natura è una revoluzione et un circolo per cui, per l’altrui perfezzione e soccorso, le cose superiori s’inchinano all’inferiori, e per la propria eccellenza e felicitade le cose inferiori s’inalzano alle superiori. Però vogliono i Pitagorici e Platonici esser donato a l’anima ch’a certi tempi non solo per spontanea voluntà, la qual le rivolta alla comprension de le nature, ma et anco della necessità d’una legge interna scritta e registrata dal decreto fatale vanno a trovar la propria sorte giustamente determinata. E dicono che l’anime non tanto per certa determinazione e proprio volere come ribelle declinano dalla divinità, quanto per certo ordine per cui vegnono affette verso la materia: onde non come per libera intenzione, ma come per certa occolta conseguenza vegnono a cadere; e questa è l’inclinazion ch’hanno alla generazione, come a certo minor bene. (Minor bene dico per quanto appartiene a quella natura particolare, non già per quanto appartiene alla natura universale dove niente accade senza ottimo fine che dispone il tutto secondo la giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi (per la conversione che vicissitudinalmente succede) de nuovo ritornano a gli abiti superiori. cicada Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spinte dalla necessità del fato, e non hanno proprio consiglio che le guide a fatto? tansillo Necessità, fato, natura, consiglio, voluntà, nelle cose giustamente e senza errore ordinate, tutti concorrenti in uno. Oltre che (come riferisce Plotino) vogliono alcuni che certe anime possono fuggir quel proprio male, le quali prima che se gli confirme l’abito corporale, conoscendo il periglio rifuggono alla mente. Perché la mente l’inalza alle cose sublimi, come l’imaginazion l’abbassa alle cose inferiori: la mente le mantiene nel stato et identità come l’imaginazione nel moto e diversità; la mente sempre intende uno, come l’imaginazione sempre vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà razionale la quale è composta de tutto, come quella in cui concorre l’uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto col stato, l’inferiore col superiore. – Or questa conversione e vicissitudine è figurata nella ruota delle metamorfosi, dove siede l’uomo nella parte eminente, giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e mezzo bestia descende dalla sinistra, et un mezzo bestia e mezzo uomo ascende da la destra. Questa conversione si mostra dove Giove, secondo la diversità de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori, s’investisce de diverse figure dovenendo in forma de bestie; e cossi gli altri dèi transmigrano in forme basse et aliene. E per il contrario, per sentimento della propria nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso eroico inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l’ali de l’intelletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la forma de suggetto più basso. E però disse: Da suggetto più vil dovegno un Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore.  tansillo Cossì si descrive il discorso de l’amor eroico per quanto tende al proprio oggetto ch’è il sommo bene; e l’eroico intelletto che gionger si studia al proprio oggetto che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel primo discorso apporta tutta la somma di questo, e l’intenzione: l’ordine della quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dumque: Alle selve i mastini e i veltri slaccia il giovan Atteon, quand’il destino gli drizz’il dubio et incauto camino, di boscareccie fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia che veder poss’il mortal e divino, in ostro et alabastro et oro fino vedde: e ’l gran cacciator dovenne caccia. Il cervio ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi più leggieri, ratto voraro i suoi gran cani e molti. I’allargo i miei pensieri ad alta preda, et essi a me rivolti morte mi dan con morsi crudi e fieri. Atteone significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Costui slaccia i mastini et i veltri: de quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l’operazion de l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa et efficace che quella: atteso che a l’intelletto umano è più amabile che comprensibile la bontade e bellezza divina, oltre che l’amore è quello che muove e spinge l’intelletto acciò che lo preceda come lanterna. Alle selve, luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non son impresse l’orme de molti uomini, il giovane poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve et instabile il furore, nel dubio camino de l’incerta et ancipite raggione et affetto designato nel carattere di Pitagora, dove si vede più spinoso, inculto e deserto il destro et arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la traccia di boscareccie fiere che sono le specie intelligibili de concetti ideali, che sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s’offreno a tutti quelli che le cercano: Ecco tra l’acqui, cioè nel specchio de le similitudini, nell’opre dove riluce l’efficacia della bontade e splender divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l’acqui superiori et inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; vede il più bel busto e faccia, cioè potenza et operazion esterna che vedersi possa per abito et atto di contemplazione et applicazion di mente mortal o divina, d’uomo o dio alcuno. cicada Credo che non faccia comparazione, e pena come in medesimo geno la divina et umana apprensione quanto al modo di comprendere, il quale è diversissimo, ma quanto al suggetto che è medesimo. tansillo Cossì è. Dice in ostro, alabastro et oro, perché quello che in figura nella corporal bellezza è vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa l’ostro della divina vigorosa potenza, l’oro della divina sapienza, l’alabastro della beltade divina, nella contemplazion della quale gli Pitagorici, Caldei, Platonici et altri al meglior modo che possono, s’ingegnano d’inalzarsi. Vedde il gran cacciator: comprese quanto è possibile, e dovenne caccia: andava per predare e rimase preda, questo cacciator per l’operazion de l’intelletto con cui converte le cose apprese in sé.  (cicada Intendo, perché forma le specie intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son ricevute a modo de chi le riceve. tansillo) E questa caccia per l’operazion della voluntade, per atto della quale lui si converte nell’oggetto. cicada Intendo: perché lo amore transforma e converte nella cosa amata. tansillo Sai bene che l’intelletto apprende le cose intelligibilmente, idest secondo il suo modo; e la voluntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri, que’ cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, et in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la divinità. cicada Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato intelletto e voluntade. tansillo Cossì è: ecco dumque come l’Atteone, messo in preda de suoi cani, perseguitato da proprii pensieri, corre e drizza i novi passi: è rinovato a procedere divinamente e più leggermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena a’ luoghi più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch’era un uom volgare e commune, dovien raro et eroico, ha costumi e concetti rari, e fa estraordinaria vita. Qua gli dan morte i suoi gran cani e molti: qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sensuale, cieco e fantastico; e comincia a vivere intellettualmente: vive vita de dèi, pascesi d’ambrosia et inebriasi di nettare. – Appresso sotto forma d’un’altra similitudine descrive la maniera con cui s’arma alla ottenzion de l’oggetto, e dice: Mio pàssar solitario, a quella parte ch’adombr’ e ingombra tutt’il mio pensiero, tosto t’annida: ivi ogni tuo mestiero rafferma, ivi l’industria spendi, e l’arte. Rinasci là, là su vogli allevarte gli tuoi vaghi pulcini omai ch’il fiero destin hav’espedit’il cors’intiero contra l’impres’, onde solea ritrarte. Và, più nobil ricetto bramo ti godi, e arai per guida un dio che da chi nulla vede, è cieco detto. Và, ti sia sempre pio ogni nume di quest’ampio architetto, e non tornar a me se non sei mio. Il progresso sopra significato per il cacciator che agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor alato, che è inviato da la gabbia in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi alto, ad allievar gli pulcini suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui cessano gli impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural imbecillità subministravano. Licenzialo dumque per fargli più magnifica condizione, applicandolo a più alto proposito et intento, or che son più fermamente impiumate quelle potenze de l’anima significate anco da Platonici per le due ali. E gli commette per guida quel dio che dal cieco volgo è stimato insano e cieco, cioè l’amore: il qual per mercé e favor del cielo è potente di trasformarlo come in quell’altra natura alla quale aspira o quel stato dal quale va peregrinando bandito. Onde disse: E non tornar a me che non sei mio, di sorte che non con indignità possa io dire con quell’altro: Lasciato m’hai, cuor mio, e lume d’occhi miei non sei più meco. Appresso descrive la morte de l’anima, che da Cabalisti è chiamata morte di bacio figurata nella Cantica di Salomone dove l’amica dice: Che mi bacie col bacio de sua bocca, perché col suo ferire un troppo crudo amor mi fa languire. Da altri è chiamata sonno, dove dice il Salmista: S’avverrà, ch’io dia sonno a gli occhi miei, e le palpebre mie dormitaransi, arrò ’n colui pacifico riposo. Dice dumque cossì l’alma, come languida per esser morta in sé, e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o furiosi al core: ché tropp’ il mio da me fatto lontano, condotto in crud’e dispietata mano, lieto soggiorn’ove si spasma e muore. Co i pensier mel richiamo a tutte l’ore: et ei rubello qual girfalco insano, non più conosce quell’amica mano, onde per non tornar è uscito fore. Bella fera, ch’in pene tante contenti, il cor, spirt’, alma annodi con tue punte, tuoi vampi e tue catene, de sguardi, accenti e modi; quel che languisc’et arde, e non riviene, chi fia che saldi, refrigere e snodi? Ivi l’anima dolente non già per vera discontentezza, ma con affetto di certo amoroso martìre parla come drizzando il suo sermone a gli similmente appassionati: come se non a felice suo grado abbia donato congedo al core, che corre dove non può arrivare, si stende dove non può giongere, e vuol abbracciare quel che non può comprendere; e con ciò perché in vano s’allontana da lei, mai sempre più e più va accendendosi verso l’infinito. cicada Onde procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso s’appaga del suo tormento? onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre quel che possiede? tansillo Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’intelletto divenuto all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e la volontà all’affezzione commensurata a tale apprensione, l’intelletto non si ferma là: perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni geno de intelligibile et appetibile, sin che vegna ad apprendere con l’intelletto l’eminenza del fonte de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade. Indi aviene che qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa: da questo che è presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore e maggiore, con ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera. Perché sempre vede che quel tutto che possiede è cosa misurata, e però non può essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è l’universo, non è l’ente absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad esser questa specie, questa forma rapresentata a l’intelletto e presente a l’animo. Sempre dumque dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conseguentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente bello, che non ha margine e circonscrizzione alcuna. cicada Questa prosecuzione mi par vana. tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né tansillo cicada tansillo conveniente che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi finito: percioché non sarrebe infinito; ma è conveniente e naturale che l’infinito per essere infinito sia infinitamente perseguitato (in quel modo di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisica; et il quale non è da imperfetto al perfetto: ma va circuendo per gli gradi della perfezzione, per giongere a quel centro infinito il quale non è formato né forma). cicada Vorrei sapere come circuendo si puo arrivare al centro. Non posso saperlo. Perché lo dici? Perché posso dirlo, e lasciarvel considerare. Se non volete dire che quel che perséguita l’infinito, è come colui che discorrendo per la circonferenza cerca il centro, io non so quel che vogliate dire. tansillo Altro. cicada Or se non vuoi dechiararti, io non voglio intenderti. Ma dimmi, se ti piace: che intende per quel che dice il core esser condotto in cruda e dispietata mano? tansillo Intende una similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si dice crudele chi non si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in desio che in possessione; onde per quel che possiede alcuno, non al tutto lieto soggiorna, perché brama, si spasma e muore. cicada Quali son quei pensieri che il richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa? tansillo Gli affetti sensitivi et altri naturali che guardano al regimento del corpo. cicada Che hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli, né favorirgli? tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la quale essendo troppo intenta ad una opra o studio, dovien remissa e poco sollecita ne l’altra. cicada tansillo cicada sanno. Perché lo chiama qual insano? Perché soprasape. Sogliono esser chiamati insani quei che men tansillo Anzi insani son chiamati quelli che non sanno secondo l’ordinario, o che tendano più basso per aver men senso, o che tendano più alto per aver più intelletto. cicada M’accorgo che dici il vero. Or dimmi appresso: quai sono le punte, gli vampi e le catene? tansillo Punte son quelle nuove che stimulano e risvegliano l’affetto perché attenda; vampi son gli raggi della bellezza presente che accende quel che gli attende; catene son le parti e circonstanze che tegnono fissi gli occhi de l’attenzione et uniti insieme gli oggetti e le potenze. cicada Che son gli sguardi, accenti e modi? tansillo Sguardi son le raggioni con le quali l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa presente; accenti son le raggioni con le quali ci inspira et informa; modi son le circonstanze con le quali ci piace sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor che dolcemente languisce, suavemente arde e constantemente nell’opra persevera; teme che la sua ferita si salde, ch’il suo incendio si smorze e che si sciolga il suo laccio. cicada Or recita quel che seguita. tansillo ch’uscir volete da materne fasce de l’afflitt’alma, e siete acconci arcieri per tirar al versagli’ onde vi nasce l’alto concetto: in questi erti sentieri scontrarvi a cruda fier’il ciel non lasce. Sovvengav’il tornar, e richiamate il cor ch’in man di dea selvaggia late. Armatevi d’amore di domestiche fiamme, et il vedere reprimete sì forte, che straniere non vi rendan compagni del mio core. Al men portate nuova di quel ch’a lui tanto diletta e giova. Qua descrive la natural sollecitudine de l’anima attenta circa la generazione per l’amicizia ch’ha contratta con la materia. Ispedisce gli armati pensieri che sollecitati e spinti dalla querela della natura inferiore, son inviati a richiamar il core. L’anima l’instruisce come si debbano portare perché invaghiti et attratti dal oggetto non facilmente vegnano anch’essi sedotti a rimaner cattivi e compagni del core. Dice dumque che s’armino d’amore: di quello amore che accende con domestiche fiamme, cioè quello che è amico della generazione alla quale son ubligati, e nella cui legazione, ministerio e milizia si ritrovano. Appresso li dà ordine che reprimano il vedere chiudendo gli occhi, perché non mirino altra beltade o bontade che quella qual gli è presente, amica e madre. E conchiude al fine che se per altro ufficio non vogliono farsi rivedere, rivegnano al manco per donargli saggio delle raggioni e stato del suo core. cicada Prima che procediate ad altro, vorrei intender da voi che è quello che intende l’anima quando dice a gli pensieri: il vedere reprimete sì forte. tansillo Ti dirò. Ogni amore procede dal vedere: l’amore intelligibile dal vedere intelligibilmente; il sensibile dal vedere sensibilmente. Or questo vedere ha due significazioni: perché o significa la potenza visiva, cioè la vista, che è l’intelletto, overamente senso; o significa l’atto di quella potenza, cioè quell’applicazione che fa l’occhio o l’intelletto a l’oggetto materiale o intellettuale. Quando dumque si consegliano gli pensieri di reprimere il vedere, non s’intende del primo modo, ma del secondo; perché questo è il padre della seguente affezzione del appetito sensitivo o intellettivo. cicada Questo è quello ch’io volevo udir da voi. Or se l’atto della potenza visiva è causa del male o bene che procede dal vedere, onde avviene che amiamo e desideramo di vedere? Et onde avviene che nelle cose divine abbiamo più amore che notizia? tansillo Desideriamo il vedere, perché in qualche modo veggiamo la bontà del vedere; perché siamo informati che per l’atto del vedere le cose belle s’offreno: però desiderano quell’atto, perché desideriamo le cose belle. cicada Desideriamo il bello e buono; ma il vedere non è bello, né buono, anzi più tosto quello è parangone o luce per cui veggiamo non solamente il bello e buono, ma anco il rio e brutto. Però mi pare ch’il vedere tanto può esser bello o buono, quanto la vista può esser bianco o nero: se dumque la vista (la quale è atto) non è bello né buono, come può cadere in desiderio? tansillo Se non per sé, certamente per altro è desiderata, essendo che l’apprension di quell’altro senza lei non si faccia. cicada Che dirai se quell’altro non è in notizia di senso né d’intelletto? come, dico, può esser desiderato almanco d’esser visto, se di esso non è notizia alcuna, se verso quello né l’intelletto né il senso ha esercitato atto alcuno, anzi è in dubio se sia intelligibile o sensibile, se sia cosa corporea o incorporea, se sia uno o doi o più, d’una o d’un’altra maniera? tansillo Rispondo che nel senso e l’intelletto è un appetito et appulso al sensibile in generale; perché l’intelletto vuol intender tutto il vero, perché s’apprenda poi tutto quello che è bello o buono intelligibile: la potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile, per che s’apprenda poi quanto è buono o bello sensibile. Indi aviene che non meno desiderano vedere le cose ignote e mai viste, che le cose conosciute e viste. E da questo non séguita ch’il desiderio non proceda da la cognizione, e che qualche cosa desideriamo che non è conosciuta; ma dico che sta pur raro e fermo che non desideriamo cose incognite. Perché se sono occorre quanto all’esser particulare, non sono occolte quanto a l’esser generale: come in tutta la potenza visiva si trova tutto il visibile in attitudine, nella intellettiva tutto l’intelligibile. Però come ne l’attitudine è l’inclinazione a l’atto, aviene che l’una e l’altra potenza è inchinata a l’atto in universale, come a cosa naturalmente appresa per buona. Non parlava dumque a sordi o ciechi l’anima, quando consultava con suoi pensieri de reprimere il vedere, il quale quantunque non sia causa prossima del volere, è però causa prima e principale. cicada Che intendete per questo ultimamente detto? tansillo Intendo che non è la figura o la specie sensibilmente o intelligibilmente representata, la quale per sé muove: perché mentre alcuno sta mirando la figura manifesta a gli occhi, non viene ancora ad amare; ma da quello instante che l’animo concipe in se stesso quella figurata non più visibile ma cogitabile, non più dividua ma individua, non più sotto specie di cosa, ma sotto specie di buono o bello, all’ora subito nasce l’amore. Or questo è quel vedere dal quale l’anima vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri. Qua la vista suole promuovere l’affetto ad amar più che non è quel che vede; perché, come poco fa ho detto, sempre considera (per la notizia universale che tiene del bello e buono) che oltre li gradi della compresa specie de buono e bello, sono altri et altri in infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo informati de la specie del bello la quale è conceputa nell’animo, pure desideriamo di pascere la vista esteriore? tansillo Da quel, che l’animo vorrebbe sempre amare quel che ama, vuol sempre vedere quel che vede. Però vuole che quella specie che gli è stata parturita dal vedere non vegna ad attenuarsi, snervarsi e perdersi. Vuol dumque sempre oltre et oltre vedere, perché quello che potrebe oscurarsi nell’affetto interiore, vegna spesso illustrato dall’aspetto esteriore: il quale come è principio de l’essere, bisogna che sia principio del conservare. Proporzionalmente accade ne l’atto del intendere e considerare: perché come la vista si riferisce alle cose visibili, cossì l’intelletto alle cose intelligibili. Credo dumque ch’intendiate a che fine et in che modo l’anima intenda quando dice: reprimet’il vedere. cicada Intendo molto bene. Or seguitate a riportar quel ch’avvenne di questi pensieri. tansillo Séguita la querela de la madre contra gli detti figli li quali, per aver contra l’ordinazion sua aperti gli occhi et affissigli al splendor de l’oggetto, erano rimasi in compagnia del core. Dice dumque: E voi ancor a me figli crudeli, per più inasprir mia doglia, mi lasciaste; e perché senza fin più mi quereli, ogni mia spene con voi n’amenaste. A che il senso riman, o avari cieli? a che queste potenze tronche e guaste, se non per farmi materia et essempio de sì grave martir, sì lungo scempio? Deh (per dio) cari figli, lasciate pur mio fuoco alato in preda, e fate ch’io di voi alcun riveda tornato a me da que’ tenaci artigli. Lassa, nessun riviene per tardo refrigerio de mie pene. Eccomi misera priva del core, abandonata da gli pensieri, lasciata da la speranza, la qual tutta avevo fissa in essi; altro non mi rimane che il senso della mia povertà, infelicità e miseria. E perché non son oltre lasciata da questo? perché non mi soccorre la morte, ora che son priva de la vita? A che mi trovo le potenze naturali prive de gli atti suoi? Come potrò io sol pascermi di specie intelligibili, come di pane intellettuale, se la sustanza di questo supposito è composta? Come potrò io trattenirmi nella domestichezza di queste amiche e care membra, che m’ho intessute in circa, contemprandole con la simmetria de le qualitadi elementari, se mi abandonano gli miei pensieri tutti et affetti, intenti verso la cura del pane immateriale e divino? Su su, o miei fugaci pensieri, o mio rubelle cuore: viva il senso di cose sensibili e l’intelletto de cose intelligibili. Soccorrasi al corpo con la materia e suggetto corporeo, e l’intelletto con gli suoi oggetti s’appaghe: a fin che conste questa composizione, non si dissolva questa machina, dove per mezzo del spirito l’anima è unita al corpo. Come, misera, per opra domestica più tosto che per esterna violenza ho da veder quest’orribil divorzio ne le mie parti e membra? Perché l’intelletto s’impaccia di donar legge al senso e privarlo de suoi cibi? e questo per il contrario resiste a quello, volendo vivere secondo gli proprii e non secondo l’altrui statuti? perché questi e non quelli possono mantenerlo e bearlo, percioché deve essere attento alla sua comoditade e vita, non a l’altrui. Non è armonia e concordia dove è unità, dove un essere vuol assorbir tutto l’essere; ma dove è ordine et analogia di cose diverse; dove ogni cosa serva la sua natura. Pascasi dumque il senso secondo la sua legge de cose sensibili, la carne serva alla legge de la carne, il spirito alla legge del spirito, la raggione a la legge de la raggione: non si confondano, non si conturbino. Basta che uno non guaste o pregiudiche alla legge de l’altro, se non è giusto che il senso oltragge alla legge della raggione. È pur cosa vituperosa che quella tirannegge su la legge di questo, massime dove l’intelletto è più peregrino e straniero, et il senso è più domestico e come in propria patria. – Ecco dumque, o miei pensieri, come di voi, altri son ubligati di rimanere alla cura di casa, et altri possono andar a procacciare altrove. Questa è legge di natura, questa per conseguenza è legge dell’autore e principio della natura. Peccate dumque or che tutti sedotti dalla vaghezza de l’intelletto lasciate al periglio de la morte l’altra parte di me. Onde vi è nato questo malencolico e perverso umore di rompere le certe e naturali leggi de la vita vera che sta nelle vostre mani, per una incerta e che non è se non in ombra oltre gli limiti del fantastico pensiero? Vi par cosa naturale che non vivano animale et umanamente, ma divina, se elli non sono dèi ma uomini et animali? È legge del fato e della natura che ogni cosa s’adopre secondo la condizion de l’esser suo: per che dumque mentre perseguitate il nettare avaro de gli dèi, perdete il vostro presente e proprio, affligendovi forse sotto la vana speranza de l’altrui? Credete che non si debba sdegnar la natura di donarvi l’altro bene, se quello che presentanearnente v’offre tanto stoltamente dispreggiate? Sdegnarà il ciel dar il secondo bene a chi ’l primiero don caro non tiene. Con queste e simili raggioni l’anima prendendo la causa de la parte più inferma, cerca de richiamar gli pensieri alla cura del corpo. Ma quelli (benché al tardi) vegnono a mostrarsegli non già di quella forma con cui si partiro, ma sol per dichiarargli la sua ribellione, e forzarla tutta a seguitarli. Là onde in questa forma si lagna la dolente: Ahi cani d’Atteon, o fiere ingrate, che drizzai al ricetto de mia diva, e vòti di speranza mi tornate; anzi venendo a la materna riva, tropp’infelice fio mi riportate: mi sbranate, e volete ch’i’ non viva. Lasciami, vita, ch’al mio sol rimonte, fatta gemino rio senz’il mio fonte. Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga? Quand’avverrà ch’anch’io da qua mi tolga, e ratt’a l’alt’oggetto mi sulleve; e insieme col mio core e i communi pulcini ivi dimore? Vogliono gli Platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre consista ne l’intelletto, dove ha raggione d’intelligenza più che de anima: atteso che anima è nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì qua la medesima essenza che nodrisce e mantiene li pensieri in alto insieme col magnificato cuore, se induce dalla parte inferiore contrastarsi e richiamar quelli come ribelli. cicada Sì che non sono due essenze contrarie, ma una suggetta a doi termini di contrarietade? tansillo Cossì è a punto; come il raggio del sole il quale quindi tocca la terra et è gionto a cose inferiori et oscure che illustra, vivifica et accende, indi è gionto a l’elemento del fuoco, cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso, et in cui ha propria et originale sussistenza: cossì l’anima ch’è nell’orizonte della natura corporea et incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori, et inchine a cose inferiori. E ciò puoi vedere non accadere per raggion et ordine di moto locale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra potenza o facultade. Come quando il senso monta all’imaginazione, l’imaginazione alla raggione, la raggione a l’intelletto, l’intelletto a la mente, all’ora l’anima tutta si converte in Dio, et abita il mondo intelligibile. Onde per il contrario descende per conversion al mondo sensibile per via de l’intelletto, raggione, imaginazione, senso, vegetazione. cicada È vero ch’ho inteso che per trovarsi l’anima nell’ultimo grado de cose divine, meritamente descende nel corpo mortale, e da questo risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi d’intelligenze: perché son altre nelle quali l’intellettuale supera l’animale, quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale supera l’intellettuale, quali son l’intelligenze umane; altre sono nelle quali l’uno e l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi. tansillo Nell’apprender dumque che fa la mente, non può desiderare se non quanto gli è vicino, prossimo, noto e familiare. Cossì il porco non può desiderar esser uomo, né quelle cose che son convenienti all’appetito umano. Ama più d’isvoltarsi per la luta che per un letto de bissino; ama d’unirsi ad una scrofa, non a la più bella donna che produca la natura: perché l’affetto séguita la raggion della specie (e tra gli uomini si può vedere il simile, secondo che altri son più simili a una specie de bruti animali, altri ad un’altra: questi hanno del quadrupede, quelli [del] volatile; e forse hanno qualche vicinanza, la qual non voglio dire, per cui si son trovati quei che sono affetti a certe sorte di bestie). Or a la mente (che trovasi oppressa dalla material congionzione de l’anima) se fia lecito di alzarsi alla contemplazione d’un altro stato in cui l’anima può arrivare, potrà certo far differenza da questo a quello, e per il futuro spreggiar il presente. Come se una bestia avesse senso della differenza che è tra le sue condizioni e quelle de l’uomo, e l’ignobiltà del stato suo dalla nobiltà del stato umano, al quale non stimasse impossibile di poter pervenire; amarebbe più la morte che li donasse quel camino et ispedizione, che la vita quale l’intrattiene in quel essere presente. Qua dumque quando l’anima si lagna dicendo O cani d’Atteon, viene introdotta come cosa che consta di potenze inferiori solamente, e da cui la mente è ribellata con aver menato seco il core, cioè gl’intieri affetti, con tutto l’exercito de pensieri: là onde per apprension del stato presente et ignoranza d’ogni altro stato, il quale non più lo stima essere, che da lei possa esser conosciuto, si lamenta de pensieri li quali al tardi convertendosi a lei vegnono per tirarla su più tosto che a farsi ricettar da lei. E qua per la distrazzione che patisce dal commune amore della materia e di cose intelligibili, si sente lacerare e sbranare di sorte che bisogna al fine di cedere a l’appulso più vigoroso e forte. Qua se per virtù di contemplazione ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli affetti naturali, onde con più puro occhio apprenda la differenza de l’una e l’altra vita, all’ora vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto; e benché viva nel corpo, vi vegeta come morta, e vi è presente in atto de animazione et absente in atto d’operazioni; non perché non vi operi mentre il corpo è vivo, ma perché l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e come dispenserate. cicada Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al terzo cielo, invaghito da la vista di quello, disse che desiderava la dissoluzione dal suo corpo. tansillo In questo modo, dove prima si lamentava del core e querelavasi de pensieri, ora desidera d’alzarsi con quelli in alto, e mostra il rincrescimento suo per la communicazione e familiarità contratta con la materia corporale, e dice: Lasciami vita corporale, e non m’impacciar ch’io rimonti al mio più natio albergo, al mio sole: lasciami ormai che più non verse pianto da gli occhi miei, o perché mal posso soccorrerli, o perché rimagno divisa dal mio bene; lasciami, che non è decente né possibile che questi doi rivi scorrano senza il suo fonte, cioè senza il core: non bisogna (dico), che io faccia dei fiumi de lacrime qua basso, se il mio core il quale è fonte de tai fiumi, se n’è volato ad alto con le sue ninfe, che son gli miei pensieri. Cossì a poco a poco, da quel disamore e rincrescimento procede a l’odio de cose inferiori; come quasi dimostra dicendo: Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga? e quel che seguita appresso. cicada Intendo molto bene questo, e quello che per questo volete inferire a proposito della principale intenzione: cioè che son gli gradi de gli amori, affezzioni e furori, secondo gli gradi di maggior o minore lume di cognizione et intelligenza. tansillo Intendi bene. Da qua devi apprendere quella dottrina che comunmente, tolta da’ Pitagorici e Platonici vuole che l’anima fa gli doi progressi d’ascenso e descenso, per la cura ch’ha di sé e de la materia; per quel ch’è mossa dal proprio appetito del bene, e per quel ch’è spinta da la providenza del fato. cicada Ma di grazia dimmi brevemente quel che intendi de l’anima del mondo: se ella ancora non può ascendere né descendere? tansillo Se tu dimandi del mondo secondo la volgar significazione, cioè in quanto significa l’universo, dico che quello per essere infinito e senza dimensione o misura, viene a essere inmobile et inanimato et informe, quantunque sia luogo de mondi infiniti mobili in esso, et abbia spacio infinito, dove son tanti animali grandi che son chiamati astri. Se dimandi secondo la significazione che tiene appresso gli veri filosofi, cioè in quanto significa ogni globo, ogni astro, come è questa terra, il corpo del sole, luna et altri, dico che tal anima non ascende né descende, ma si volta in circolo. Cossì essendo composta de potenze superiori et inferiori, con le superiori versa circa la divinitade, con l’inferiori circa la mole la qual viene da essa vivificata e mantenuta intra gli tropici della generazione e corrozzione de le cose viventi in essi mondi, servando la propria vita eternamente: perché l’atto della divina providenza sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore e lume le conserva nell’ordinario e medesimo essere. cicada Mi basta aver udito questo a tal proposito. tansillo Come dumque accade che queste anime particolari diversamente secondo diversi gradi d’ascenso e descenso vegnono affette quanto a gli abiti et inclinazioni, cossì vegnono a mostrar diverse maniere et ordini de furori, amori e sensi: non solamente nella scala de la natura, secondo gli ordini de diverse vite che prende l’anima in diversi corpi, come vogliono espressamente gli Pitagorici, Saduchimi et altri, et implicitamente Platone et alcuni che più profondano in esso; ma ancora nella scala de gli affetti umani, la quale è cossì numerosa de gradi come la scala della natura, atteso che l’uomo in tutte le sue potenze mostra tutte le specie de lo ente. cicada Però da le affezzioni si possono conoscer gli animi, se vanno alto o basso, o se vegnono da alto o da basso, se procedono ad esser bestie o pur ad essere divini, secondo lo essere specifico come intesero gli Pitagorici, o secondo la similitudine de gli affetti solamente come comunmente si crede: non dovendo la anima umana posser essere anima di bruto, come ben disse Plotino, et altri Platonici secondo la sentenza del suo principe. tansillo Bene. Or per venire al proposito, da furor animale questa anima descritta è promossa a furor eroico, se la dice: Quando averrà ch’al alto oggetto mi sulleve, et ivi dimore in compagnia del mio core e miei e suoi pulcini? Questo medesimo proposito continova quando dice: Destin, quando sarà ch’io monte monte, qual per bearm’a l’alte porte porte, che fan quelle bellezze conte, conte, e ’l tenace dolor conforte forte chi fe’ le membra me disgionte, gionte, né lascia mie potenze smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale vale, s’ove l’error non più l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve l’alto oggett’ascende, ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per cui convien che tante emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto predice dice. O destino, o fato, o divina immutabile providenza, quando sarà ch’io monte a quel monte, cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi faccia toccar transportandomi quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno evidenti e come comprese e numerate quelle conte, cioè rare bellezze? Quando sarà, che forte et efficacemente conforte il mio dolore (sciogliendomi da gli strettissimi lacci de le cure, nelle quali mi trovo) colui che fe’ gionte et unite le mie membra, ch’erano disunite e sgionte: cioè l’amore che ha unito insieme queste corporee parti, ch’erano divise quanto un contrario è diviso da l’altro, e che ancora queste potenze intellettuali, quali ne gli atti suoi son smorte, non le lascia a fatto morte, facendole alquanto respirando aspirar in alto? Quando, dico, mi confortarà a pieno, donando a queste libero et ispedito il volo, per cui possa la mia sustanza tutta annidarsi là dove forzandomi convien ch’io emende tutte le mende mie; dove pervenendo il mio spirito, vale più ch’il rivale, perché non v’è oltraggio che li resista, non è contrarietà ch’il vinca, non v’è error che l’assaglia? Oh se tende et arriva là dove forzandosi attende; et ascende e perviene a quell’altezza, dove ascende, vuol star montato, alto et elevato il suo oggetto: se fia che prenda quel bene che non può esser compreso da altro che da uno, cioè da se stesso (atteso che ogn’altro l’have in misura della propria capacità; e quel solo in tutta pienezza): all’ora avverrammi l’esser felice in quel modo che dice chi tutto predice, cioè dice quella altezza nella quale il dire tutto e far tutto è la medesima cosa; in quel modo che dice o fa chi tutto predice, cioè chi è de tutte cose efficiente e principio: di cui il dire [e] preordinare è il vero fare e principiare. Ecco come per la scala de cose superiori et inferiori procede l’affetto de l’amore, come l’intelletto o sentimento procede da questi oggetti intelligibili o conoscibili a quelli; o da quelli a questi. cicada Cossì vogliono la più gran parte de sapienti la natura compiacersi in questa vicissitudinale circolazione che si vede ne la vertigine de la sua ruota.  cicada Fate pure ch’io veda, perché da me stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per quel ch’appare esplicato nell’ordine (in questa milizia) qua descritto. tansillo Vedi come portano l’insegne de gli suoi affetti o fortune. Lasciamo di considerar su gli lor nomi et abiti; basta che stiamo su la significazion de l’imprese et intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma del corpo de la imagine, quanto l’altra ch’è messa per il più de le volte a dechiarazion de l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco qua il primo che porta un scudo distinto in quattro colori, dove nel cimiero è depinta la fiamma sotto la testa di bronzo, da gli forami della quale esce a gran forza un fumoso vento, e vi è scritto in circa At regna senserunt tria. tansillo Per dichiarazion di questo direi che per essere ivi il fuoco che per quel che si vede scalda il globo, dentro il quale è l’acqua, avviene che questo umido elemento essendo rarefatto et attenuato per la virtù del calore, e per conseguenza risoluto in vapore, richieda molto maggior spacio per esser contenuto: là onde se non trova facile exito, va con grandissima forza, strepito e ruina a crepare il vase. Ma se vi è loco o facile exito d’onde possa evaporare, indi esce con violenza minore a poco a poco; e secondo la misura con cui l’acqua se risolve in vapore, soffiando svapora in aria. Qua vien significato il cor del furioso, dove come in esca ben disposta essendo attaccato l’amoroso foco, accade che della sustanza vitale altro sfaville in fuoco, altro si veda in forma de lacrimoso pianto boglier nel petto, altro per l’exito di ventosi suspiri accender l’aria. – E però dice At regna senserunt tria. Dove quello At ha  II. tansillo Appresso è designato un che ha nel suo scudo parimente destinto in quattro colori, il cimiero, dove è un sole che distende gli raggi nel dorso de la terra; e vi è una nota che dice Idem semper ubique totum. Giordano Bruno De gli eroici furori virtù di supponere differenza, o diversità, o contrarietà: quasi dicesse che altro è che potrebbe aver senso del medesimo, e non l’have. Il che è molto bene esplicato ne le rime seguenti sotto la figura: Dal mio gemino lume, io poca terra soglio non parco umor porgere al mare; da quel che dentr’il petto mi si serra spirto non scarso accolgon l’aure avare; e ’l vampo che dal cor mi si disserra si può senza scemars’al ciel alzare: con lacrime, suspiri et ardor mio a l’acqua, a l’aria, al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’, aria, foco qualche parte di me: ma la mia dea si dimostra cotant’iniqua e rea, che né mio pianto appo lei trova loco, né la mia voce ascolta, né piatos’al mi’ardor umqua si volta. Qua la suggetta materia significata per la terra è la sustanza del furioso; versa dal gemino lume, cioè da gli occhi, copiose lacrime che fluiscono al mare; manda dal petto la grandezza e moltitudine de suspiri a l’aria capacissimo; et il vampo del suo core non come picciola favilla o debil fiamma nel camino de l’aria s’intepidisce, infuma e trasmigra in altro essere: ma come potente e vigoroso (più tosto acquistando de l’altrui che perdendo del proprio) gionge alla congenea sfera. cicada Ho ben compreso il tutto. A l’altro. cicada Vedo che non può esser facile l’interpretazione. tansillo Tanto il senso è più eccellente, quanto è men volgare: il qual vedrete essere solo, unico e non stiracchiato. Dovete considerare che il sole benché al rispetto de diverse regioni de la terra, per ciascuna, sia diverso, a tempi a tempi, a loco a loco, a parte a parte; al riguardo però del globo tutto, come medesimo, sempre et in cadaun loco fa tutto: atteso che, in qualunque punto de l’eclittica ch’egli si trove, viene a far l’inverno, l’estade, l’autunno e la primavera; e l’universal globo de la terra a ricevere in sé le dette quattro tempeste. Perché mai è caldo a una parte che non sia freddo a l’altra; come quando fia a noi nel tropico del Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico del Capricorno; di sorte che è a medesima raggione l’inverno a quella parte, con cui a questa è l’estade, et a quelli che son nel mezzo è temperato, secondo la disposizion vernale o autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li venti, gli calori, gli freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse in un’altra parte, e non la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse lasciato d’iscaldarla da quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere, io intendo quel che volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona tutte le impressioni a la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte: cossì l’oggetto del furioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto passivo de lacrime, che son l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de suspiri quai son certi vapori, che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a l’acqui, o partono da l’acqui e vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica appresso: Quando declin’il sol al Capricorno, fan più ricco le piogge ogni torrente; se va per l’equinozzio o fa ritorno, ogni postiglion d’Eolo più si sente; e scalda più col più prolisso giorno, nel tempo che rimonta al Cancro ardente: non van miei pianti, sospiri et ardori con tai freddi, temperie e calori. Sempre equalmente in pianto, quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E benché troppo m’inacqui et infiamme, mai avvien ch’io suspire men che tanto: infinito mi scaldo, equalment’a i suspiri e pianger saldo. cicada Questo non tanto dechiara il senso de la divisa come il precedente discorso faceva: quanto più tosto dice la conseguenza di quello, o l’accompagna. tansillo Dite megliore, che la figura è latente ne la prima parte, et il motto è molto esplicato ne la seconda; come l’uno e l’altro è molto propriamente significato nel tipo del sole e de la terra. cicada Passamo al terzo. III. tansillo Il terzo nel scudo porta un fanciullo ignudo disteso sul verde prato, e che appoggia la testa sollevata sul braccio con gli occhi rivoltati verso il cielo a certi edificii de stanze, torri, giardini et orti che son sopra le nuvole, e vi è un castello di cui la materia è fuoco; et in mezzo è la nota che dice Mutuo fulcimur. cicada Che vuol dir questo? tansillo Intendi quel furioso significato per il fanciullo ignudo come semplice, puro et esposto a tutti gli accidenti di natura e di fortuna, qualmente con la forza del pensiero edifica castegli in aria, e tra l’altre cose una torre di cui l’architettore è l’amore, la materia l’amoroso foco, et il fabricatore egli medesimo, che dice Mutuo fulcimu: cioè io vi edifico e vi sustegno là con il pensiero, e voi mi sustenete qua con la speranza: voi non sareste in essere se non fusse l’imaginazione et il pensiero con cui vi formo e sustegno, et io non sarrei in vita se non fusse il refrigerio e conforto che per vostro mezzo ricevo. cicada È vero che non è cosa tanto vana e tanto chimerica fantasia, che non sia più reale e vera medicina d’un furioso cuore, che qualsivoglia erba, pietra, oglio, o altra specie che produca la natura. tansillo Più possono far gli maghi per mezzo della fede, che gli medici per via de la verità: e ne gli più gravi morbi più vegnono giovati gl’infermi con credere quel tanto che quelli dicono, che con intendere quel tanto che questi facciono. Or legansi le rime: Sopra de nubi, a l’eminente loco, quando tal volta vaneggiando avvampo, per di mio spirto refrigerio e scampo, tal formo a l’aria castel de mio foco: s’il mio destin fatale china un poco, a fin ch’intenda l’alta grazia il vampo in cui mi muoio, e non si sdegn’ o adire, o felice mia pena e mio morire. Quella de fiamme e lacci tuoi, o garzon, che gli uomini e gli divi fan suspirar, e soglion far cattivi, l’ardor non sente, né prova gl’impacci: ma può ’ntrodurt’, o Amore, man di pietà, se mostri il mio dolore. cicada Mostra che quel che lo pasce in fantasia, e gli fomenta il spirito, è che (essendo lui tanto privo d’ardire d’esplicarsi a far conoscere la sua pena, quanto profondamente suggetto a tal martìre), se avvenisse ch’il fato rigido e rubelle chinasse un poco (perché voglia il destino al fin rasserenargli il volto), con far che senza sdegno o ira de l’alto oggetto gli venesse manifesto, non stima egli gioia tanto felice, né vita tanto beata, quanto per tal successo lui stime felice la sua pena, e beato il suo morire. tansillo E con questo viene a dichiarar a l’Amore che la raggion per cui possa aver adito in quel petto, non è quell’ordinaria de le armi con le quali suol cattivar uomini e dèi; ma solamente con fargli aperto il cuor focoso et il travagliato spirito de lui; a la vista del quale fia necessario che la compassion possa aprirgli il passo et introdurlo a quella difficil stanza. IV. cicada Che significa qua quella mosca che vola circa la fiamma e sta quasi quasi per bruggiarsi, e che vuol dir quel motto: Hostis non hostis? tansillo Non è molto difficile la significazione de la farfalla, che sedotta dalla vaghezza del splendore, innocente et amica va ad incorrere nelle mortifere fiamme: onde hostis sta scritto per l’effetto del fuoco, non hostis per l’affetto de la mosca. Hostis la mosca passivamente, non hostis attivamente. Hostis la fiamma per l’ardore, non hostis per il splendore. cicada Or che è quel che sta scritto nella tabella? tansillo Mai fia che de l’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’ esser felice; sia pur ver che per lui penoso stente, non vo’ non voler quel che si me lice; sia chiar o fosch’il ciel, fredd’o ardente, sempr’un sarò ver l’unica fenice. Mal può disfar altro destin o sorte quel nodo che non può sciòrre la morte. Al cor, al spirt’, a l’alma non è piacer, o libertad’, o vita, qual tanto arrida, giove e sia gradita, qual più sia dolce, graziosa et alma, ch’il stento, giogo e morte, ch’ho per natura, voluntade e sorte. Qua nella figura mostra la similitudine che ha il furioso con la farfalla affetta verso la sua luce; ne gli carmi poi mostra più differenza e dissimilitudine che altro: essendo che comunmente si crede che se quella mosca prevedesse la sua ruina non tanto ora séguita la luce quanto all’ora la fuggirebbe, stimando male di perder l’esser proprio risolvendosi in quel fuoco nemico. Ma a costui non men piace svanir nelle fiamme de l’amoroso ardore, che essere abstratto a contemplar la beltà di quel raro splendore, sotto il qual per inclinazion di natura, per elezzion di voluntade e disposizion del fato, stenta, serve e muore: più gaio, più risoluto e più gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che s’offra al core, libertà che si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma. cicada Dimmi, perché dice: sempr’un sarò? tansillo Perché gli par degno d’apportar raggione della sua constanza, atteso che il sapiente si muta con la luna, il stolto si muta come la luna. Cossì questo è unico con la fenice unica. V. cicada Bene; ma che significa quella frasca di palma, circa la quale è il motto: Caesar adest? tansillo Senza molto discorrere, tutto potrassi intendere per quel che è scritto nella tavola: Trionfator invitto di Farsaglia, essendo quasi estinti i tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n battaglia sorser, e vinser suoi nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del ciel s’agguaglia, fatto a la vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma disdegnosa spenti, le fa tornar più che l’amor possenti. La sua sola presenza, o memoria di lei, sì le ravviva, che con imperio e potestade diva dóman ogni contraria violenza. La mi governa in pace; né fa cessar quel laccio e quella tace. Tal volta le potenze de l’anima inferiori, come un gagliardo e nemico essercito che si trova nel proprio paese, prattico, esperto et accomodato, insorge contra il peregrino adversario che dal monte de la intelligenza scende a frenar gli popoli de le valli e palustri pianure. Dove dal rigor della presenza de nemici e difficultà de precipitosi fossi vansi perdendo, e perderiansi a fatto, se non fusse certa conversione al splendor de la specie intelligibile mediante l’atto della contemplazione: mentre da gli gradi inferiori si converte a gli gradi superiori. cicada Che gradi son questi? tansillo Li gradi della contemplazione son come li gradi della luce, la quale nullamente è nelle tenebre; alcunamente è ne l’ombra; megliormente è ne gli colori secondo gli suoi ordini da l’un contrario ch’è il nero a l’altro che è il bianco; più efficacemente è nel splendor diffuso su gli corpi tersi e trasparenti, come nel specchio o nella luna; più vivamente ne gli raggi sparsi dal sole; altissima e principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì ordinate le potenze apprensive et affettive de le quali sempre la prossima conseguente have affinità con la prossima antecedente, e per la conversione a quella che la sulleva, viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime (come la raggione per la conversione a l’intelletto non è sedotta o vinta dalla notizia o apprensione et affetto sensitivo, ma più tosto secondo la legge di quello viene a domar e correger questo), accade che quando l’appetito razionale contrasta con la concupiscenza sensuale, se a quello per atto di conversione si presente a gli occhi la luce intelligenziale, viene a repigliar la smarrita virtude, rinforzar i nervi, spaventa e mette in rotta gli nemici. cicada In che maniera intendete che si faccia cotal conversione? tansillo Con tre preparazioni che nota il contemplativo Plotino nel libro Della bellezza intelligibile: de le quali la prima è proporsi de conformarsi d’una similitudine divina, divertendo la vista da cose che sono infra la propria perfezzione, e commune alle specie uguali et inferiori; secondo è l’applicarsi con tutta l’intenzione et attenzione alle specie superiori; terzo il cattivar tutta la voluntade et affetto a Dio. Perché da qua avverrà che senza dubio gl’influisca la divinità la qual da per tutto è presente e pronta ad ingerirsi a chi se gli volta con l’atto de l’intelletto, et aperto se gli espone con l’affetto de la voluntade. cicada Non è dumque corporal bellezza quella che invaghisce costui? tansillo Non certo, perché la non è vera né constante bellezza, e però non può caggionar vero né constante amore: la bellezza che si vede ne gli corpi è una cosa accidentale et umbratile e come l’altre che sono assorbite, alterate e guaste per la mutazione del suggetto, il quale sovente da bello si fa brutto senza che alterazion veruna si faccia ne l’anima. La raggion dumque apprende il più vero bello per conversione a quello che fa la beltade nel corpo, e viene a formarlo bello: e questa è l’anima che l’ha talmente fabricato e infigurato. Appresso l’intelletto s’inalza più, et apprende bene che l’anima è incomparabilmente bella sopra la bellezza che possa esser ne gli corpi; ma non si persuade che sia bella da per sé e primitivamente: atteso che non accaderebbe quella differenza che si vede nel geno de le anime, onde altre son savie, amabili e belle; altre stolte, odiose e brutte. Bisogna dumque alzarsi a quello intelletto superiore il quale da per sé è bello e da per sé è buono. Questo è quell’unico e supremo capitano, qual solo messo alla presenza de gli occhi de militanti pensieri, le illustra, incoraggia, rinforza e rende vittoriosi sul dispreggio d’ogn’altra bellezza e ripudio di qualsivogli’altro bene. Questa dumque è la presenza che fa superar ogni difficultà e vincere ogni violenza. cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire La mi governa in pace, Né fa cessar quel laccio e quella face? tansillo Intende e prova, che qualsivoglia sorte d’amore quanto ha maggior imperio e più certo domìno, tanto fa sentir più stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al contrario de gli ordinarii prencipi e tiranni, che usano maggior strettezza e forza, dove veggono aver minore imperio. cicada Passa oltre. VI. tansillo Appresso veggio descritta la fantasia d’una fenice volante, alla quale è volto un fanciullo che bruggia in mezzo le fiamme, e vi è il motto: Fata obstant. Ma perché s’intenda meglior, leggasi la tavoletta: Unico augel del sol, vaga Fenice, ch’appareggi col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice: tu sei chi fuste, io son quel che non fui; io per caldo d’amor muoio infelice; ma te ravviv’il sol co’ raggi sui; tu bruggi ’n un, et io in ogni loco; io da Cupido, hai tu da Febo il foco. Hai termini prefissi di lunga vita, et io ho breve fine, che pronto s’offre per mille ruine, né so quel che vivrò, né quel che vissi. Me cieco fato adduce, tu certo torni a riveder tua luce. Dal senso de gli versi si vede che nella figura si disegna l’antitesi de la sorte de la fenice e del furioso; e che il motto Fata obstant, non è per significar che gli fati siano contrarii o al fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e l’altro; ma che non son medesimi, ma diversi et oppositi gli decreti fatali de l’uno e gli fatali decreti de l’altro: perché la fenice è quel che fu, essendoché la medesima materia per il fuoco si rinova ad esser corpo di fenice, e medesimo spirito et anima viene ad informarla; il furioso è quel che non fu, perché il suggetto che è d’uomo, prima fu di qualch’altra specie secondo innumerabili differenze. Di sorte che si sa quel che fu la fenice, e si sa quel che sarà: ma questo suggetto non può tornar se non per molti et incerti mezzi ad investirsi de medesima o simil forma naturale. Appresso, la fenice al cospetto del sole cangia la morte con la vita; e questo nel cospetto d’amore muta la vita con la morte. Oltre, quella su l’aromatico altare accende il foco; e questo il trova e mena seco, ovumque va. Quella ancora ha certi termini di lunga vita; ma costui per infinite differenze di tempo et innumerabili caggioni de circonstanze, ha di breve vita termini incerti. Quella s’accende con certezza, questo con dubio de riveder il sole. cicada Che cosa credete voi che possa figurar questo? tansillo La differenza ch’è tra l’intelletto inferiore, che chiamano intelletto di potenza o possibile o passibile, il quale è incerto, moltivario e moltiforme; e l’intelletto superiore, forse quale è quel che da Peripatetici è detto infima de l’intelligenze, e che immediatamente influisce sopra tutti gl’individui dell’umana specie, e dicesi intelletto agente et attuante. Questo intelletto unico specifico umano che ha influenza in tutti li individui, è come la luna, la quale non prende altra specie che quella unica, la qual sempre se rinova per la conversion che fa al sole che è la prima et universale intelligenza: ma l’intelletto umano individuale e numeroso viene come gli occhi a voltarsi ad innumerabili e diversissimi oggetti, onde secondo infiniti gradi che son secondo tutte le forme naturali viene informato. Là onde accade che sia furioso, vago et incerto questo intelletto particolare; come quello universale è quieto, stabile e certo, cossì secondo l’appetito come secondo l’apprensione. O pur quindi (come da per te stesso puoi facilmente desciferare) vien significata la natura dell’apprensione et appetito vario, vago, inconstante et incerto del senso, e del concetto et appetito definito, fermo e stabile de l’intelligenza; la differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né discrezion de oggetti, da l’amor intellettivo il qual ha mira ad un certo e solo, a cui si volta, da cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne l’affetto, s’infiamma, s’illustra et è mantenuto nell’unità, identità e stato. VII. cicada Ma che vuol significare quell’imagine del sole con un circolo dentro, et un altro da fuori, con il motto Circuit? tansillo La significazion di questo son certo che mai arrei compresa, se non fusse che l’ho intesa dal medesimo figuratone: or è da sapere che quel circuit si referisce al moto del sole che fa per quel circolo, il quale gli vien descritto dentro e fuori; a significare che quel moto insieme insieme si fa et è fatto: onde per consequenza il sole viene sempre ad ritrovarsi in tutti gli punti di quello. Perché s’egli si muove in uno instante, séguita che insieme si muove et è mosso, e che è per tutta la circonferenza del circolo equalmente, e che in esso convegna in uno il moto e la quiete. cicada Questo ho compreso nelli dialogi De l’infinito, universo e mondi innumerabili, e dove si dechiara come la divina sapienza è mobilissima (come disse Salomone) e che la medesima sia stabilissima, come è detto et inteso da tutti quelli che intendono. Or séguita a farmi comprendere il proposito. tansillo Vuol dire che il suo sole non è come questo, che (come comunmente si crede) circuisce la terra col moto diurno in ventiquattro ore, e col moto planetare in dodeci mesi; laonde fa distinti gli quattro tempi de l’anno, secondo che a termini di quello si trova in quattro punti cardinali del Zodiaco; ma è tale, che (per essere la eternità istessa e conseguentemente una possessione insieme tutta e compita) insieme insieme comprende l’inverno, la primavera, l’estade, l’autunno, insieme insieme il giorno e la notte: perché è tutto per tutti et in tutti gli punti e luoghi. cicada Or applicate quel che dite alla figura. tansillo Qua, perché non è possibile designar il sol tutto in tutti gli punti del circolo, vi son delineati doi circoli: l’un che ’l comprenda per significar che si muove per quello; l’altro che sia da lui compreso per mostrar che è mosso per quello. cicada Ma questa dimostrazione non è troppo aperta e propria. tansillo Basta che sia la più aperta e propria che lui abbia possuta fare: se voi la possete far megliore vi si dà autorità di toglier quella e mettervi quell’altra; perché questa è stata messa solo a fin che l’anima non fusse senza corpo. cicada Che dite di quel Circuit? tansillo Quel motto, secondo tutta la sua significazione, significa la cosa quanto può essere significato; atteso che significa che volta e che è voltato: cioè il moto presente e perfetto. cicada Eccellentemente: e però que’ circoli li quali malamente significano la circonstanza del moto e quiete tale, possiamo dire che son messi a significar la sola circolazione. E cossì vegno contento del suggetto e de la forma de l’impresa eroica. Or legansi le rime. tansillo Sol che dal Tauro fai temprati lumi, e dal Leon tutto maturi e scaldi, e quando dal pungente Scorpio allumi, de l’ardente vigor non poco faldi; poscia dal fier Deucalion consumi tutto col fredd’, e i corp’umidi saldi: de primavera, estade, autunno, inverno mi scald’ accend’ ard’ avvamp’in eterno. Ho sì caldo il desio, che facilment’ a remirar m’accendo quell’alt’oggetto, per cui tant’ardendo, fo sfavillar a gli astri il vampo mio: non han momento gli anni, che vegga variar miei sordi affanni. Qua nota che gli quattro tempi de l’anno son significati non per quattro segni mobili che son Ariete, Cancro, Libra e Capricorno, ma per gli quattro che chiamano fissi, cioè Tauro, Leone, Scorpione et Aquario: per significare la perfezzione, stato e fervor di quelle tempeste. Nota appresso che in virtù di quelle apostrofi che son nel verso ottavo, possete leggere mi scaldo, accendo, ardo, avampo; over, scaldi, accendi, ardi, avampi; over scalda, accende, arde, avvampa”. Hai oltre da considerare che questi non son quattro sinonimi, ma quattro termini diversi che significano tanti gradi de gli effetti del fuoco. Il qual prima scalda, secondo accende, terzo bruggia, quarto infiamma o invampa quel ch’ha scaldato, acceso e bruggiato. E cossì son denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il studio, l’affezzione, le quali in nessun momento sente variare. cicada Perché le mette sotto titolo d’affanni? tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina luce, in questa vita è più in laborioso voto che in quieta fruizione: perché la nostra mente verso quella è come gli occhi de gli uccelli notturni al sole. cicada Passa, perché ora da quel ch’è detto posso comprender tutto. VIII. tansillo Nel cimiero seguente vi sta depinta una luna piena col motto Talis mihi semper et astro. Vuol dir che a l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è tale, come si mostra qua piena e lucida nella circonferenza intiera del circolo: il che acciò che meglio forse intendi, voglio farti udire quel ch’è scritto nella tavoletta. Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e tal’or piene svalli, or l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli fai lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e di Libia le spalli. La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è mai sempre piena. È tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende, che sempre tanto bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella: questa mia nobil face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia dire che la sua intelligenza particulare alla intelligenza universale è sempre tale: cioè da quella viene eternamente illuminata in tutto l’emisfero; benché alle potenze inferiori e secondo gl’influssi de gli atti suoi or viene oscura, or più e meno lucida. O forse vuol significare che l’intelletto suo speculativo (il quale è sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et affetto verso l’intelligenza umana significata per la luna, perché come questa è detta infima de tutti gli astri et è più vicina a noi, cossì l’intelligenza illuminatrice de tutti noi (in questo stato) è l’ultima in ordine de l’altre intelligenze, come nota Averroe et altri più sottili Peripatetici. Quella a l’intelletto in potenza or tramonta, per quanto non è in atto alcuno, or come svallasse, cioè sorgesse dal basso de l’occolto emispero, si mostra or vacua or piena secondo che dona più o meno lume d’intelligenza; or ha l’orbe oscuro or bianco, perché talvolta mostra per ombra, similitudine e vestigio, tal volta più e più apertamente; or declina a l’Austro, or monta a Borea, cioè or ne si va più e più allontanando, or più e più s’avvicina. Ma l’intelletto in atto con sua continua pena (percioché questo non è per natura e condizione umana in cui si trova cossì travaglioso, combattuto, invitato, sollecitato, distratto e come lacerato dalle potenze inferiori) sempre vede il suo oggetto fermo, fisso e constante, e sempre pieno e nel medesimo splendor di bellezza. Cossì sempre se gli toglie per quanto non se gli concede, sempre se gli rende per quanto se gli concede. Sempre tanto lo bruggia ne l’affetto, come sempre tanto gli splende nel pensiero; sempre è tanto crudele in suttrarsi per quel che si suttrae, come sempre è tanto bello in comunicarsi per quel che gli se presenta. Sempre lo martòra, perciò che è diviso per differenza locale da lui, come sempre gli piace, percioché gli è congionto con l’affetto. cicada Or applicate l’intelligenza al motto. tansillo Dice dumqueTalis mihi semper, cioè per la mia continua applicazione secondo l’intelletto, memoria e volontarie (perché non voglio altro rallentare, intendere, né desiderare) sempre mi è tale, e per quanto posso capirla, al tutto presente, e non m’è divisa per distrazzion de pensiero, né me si fa più oscura per difetto d’attenzione, perché non è pensiero che mi divertisca da quella luce, e non è necessità di natura qual m’oblighi perché meno attenda. Talis mihi semper dal canto suo, perché la è invariabile in sustanza, in virtù, in bellezza et in effetto verso quelle cose che sono constanti et invariabili verso lei. Dice appresso ut astro, perché al rispetto del sole illuminator de quella sempre è ugualmente luminosa, essendo che sempre ugualmente gli è volta, e quello sempre parimente diffonde gli suoi raggi: come fisicamente questa luna che veggiamo con gli occhi, quantunque verso la terra or appaia tenebrosa or lucente, or più or meno illustrata et illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente illuminata; perché sempre piglia gli raggi di quello al meno nel dorso del suo emispero intiero. Come anco questa terra sempre è illuminata nell’emisfero equalmente; quantunque da l’acquosa superficie cossì inequalmente a volte a volte mande il suo splendore alla luna (qual come molti altri astri innumerabili stimiamo un’altra terra) come aviene che quella mande a lei: atteso la vicissitudine ch’hanno insieme de ritrovarsi or l’una or l’altra più vicina al sole. cicada Come questa intelligenza è significata per la luna che luce per l’emisfero? tansillo Tutte l’intelligenze son significate per la luna, in quanto che son partecipi d’atto e di potenza, per quanto dico che hanno la luce materialmente, e secondo participazione, ricevendola da altro; dico non essendo luci per sé e per sua natura: ma per risguardo del sole ch’è la prima intelligenza, la quale è pura et absoluta luce come anco è puro et absoluto atto. cicada Tutte dumque le cose che hanno dependenza, e che non sono il primo atto e causa, sono composte come di luce e tenebra, come di materia e forma, di potenza et atto? tansillo Cossì è. Oltre, l’anima nostra secondo tutta la sustanza è significata per la luna la quale splende per l’emispero delle potenze superiori, onde è volta alla luce del mondo intelligibile, et è oscura per le potenze inferiori, onde è occupata al governo della materia. IX. cicada E mi par che a quel ch’ora è detto abbia certa conseguenza e simbolo l’impresa ch’io veggio nel seguente scudo, dove è una ruvida e ramosa quercia piantata, contra la quale è un vento che soffia, et ha circonscritto il motto Ut robori robur. Et appresso è affissa la tavola che dice: Annosa quercia, che gli rami spandi a l’aria, e fermi le radici ’n terra: né terra smossa, né gli spirti grandi che da l’aspro Aquilon il ciel disserra, né quanto fia ch’il vern’orrido mandi, dal luog’ove stai salda mai ti sferra; mostri della mia fé ritratto vero qual smossa mai stran’accidenti féro. Tu medesmo terreno mai sempr’abbracci, fai colto e comprendi, e di lui per le viscere distendi radici grate al generoso seno: i’ ad un sol oggetto ho fiss’il spirt’, il sens’e l’intelletto. [tansillo] Il motto è aperto, per cui si vanta il furioso d’aver forza e robustezza, come la rovere; e come quell’altro, essere sempre uno al riguardo da l’unica fenice; e come il prossimo precedente conformarsi a quella luna che sempre tanto splende, e tanto è bella; o pur non assomigliarsi a questa antictona tra la nostra terra et il sole in quanto ch’è varia a’ nostri occhi: ma in quanto sempre riceve ugual porzion del splendor solare in se stessa. E per ciò cossì rimaner constante e fermo contra gli Aquiloni e tempestosi inverni per la fermezza ch’ha nel suo astro in cui è piantato con l’affetto et intenzione, come la detta radicosa pianta tiene intessute le sue radici con le vene de la terra. cicada Più stimo io l’essere in tranquillità e fuor di molestia che trovarsi in una sì forte toleranza. tansillo È sentenza d’Epicurei la qual se sarà bene intesa, non sarà giudicata tanto profana quanto la stimano gli ignoranti; atteso che non toglie che quel ch’io ho detto sia virtù, né pregiudica alla perfezzione della constanza, ma più tosto aggionge a quella perfezzione che intendeno gli volgari: perché lui non stima vera e compita virtù di fortezza e constanza quella che sente e comporta gl’incommodi: ma quella che non sentendoli le porta; non stima compìto amor divino et eroico quello che sente il sprone, freno o rimorso o pena per altro amore, ma quello ch’a fatto non ha senso de gli altri affetti: onde talmente è gionto ad un piacere, che non è potente dispiacere alcuno a distorlo o far cespitare in punto. E questo è toccar la somma beatitudine in questo stato, l’aver la voluptà e non aver senso di dolore. cicada La volgare opinione non crede questo senso d’Epicuro. tansillo Perché non leggono gli suoi libri, né quelli che senza invidia apportano le sue sentenze, al contrario di color che leggono il corso de sua vita et il termine de la sua morte. Dove con queste paroli dettò il  X. tansillo Guarda in quest’altro ch’ha la fantasia di quella incudine e martello, circa la quale è il motto Ab Aetna. Ma prima che la consideriamo, leggemo la stanza. Qua s’introduce di Vulcano la prosopopea: Or non al monte mio siciliano torn’, ove tempri i folgori di Giove; Giordano Bruno De gli eroici furori principio del suo testamento: Essendo ne l’ultimo e medesimo felicissimo giorno de nostra vita, abbiamo ordinato questo con mente quieta, sana e tranquilla; perché quantunque grandissimo dolor de pietra ne tormentasse da un canto, quel tormento tutto venea assorbito dal piacere de le nostre invenzioni e la considerazion del fine. Et è cosa manifesta che non ponea felicità più che dolore nel mangiare, bere, posare e generare, ma in non sentir fame, né sete, né fatica, né libidine. Da qua considera qual sia secondo noi la perfezzion de la constanza: non già in questo che l’arbore non si fracasse, rompa o pieghe; ma in questo che né manco si muova: alla cui similitudine costui tien fisso il spirto, senso et intelletto, là dove non ha sentimento di tempestosi insulti. cicada Volete dumque che sia cosa desiderabile il comportar de tormenti, perché è cosa da forte? tansillo Questo che dite comportare è parte di constanza, e non è la virtude intiera; ma questo che dico fortemente comportare et Epicuro disse non sentire. La qual privazion di senso è caggionata da quel che tutto è stato absorto dalla cura della virtude, vero bene e felicitade. Qualmente Regolo non ebbe senso de l’arca, Lucrezia del pugnale, Socrate del veleno, Anaxarco de la pila, Scevola del fuoco, Cocle de la voragine, et altri virtuosi d’altre cose che massime tormentano e danno orrore a persone ordinarie e vili. cicada Or passate oltre. qua mi rimagno scabroso Vulcano: qua più superbo gigante si smuove, che contr’il ciel s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi studii e varie prove; qua trovo meglior fabri e Mongibello, meglior fucina, incudine e martello. Dov’un pett’ha suspiri che quai mantici avvivan la fornace, u’ l’alm’a tante scosse sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran martìri; e manda quel concento che fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si mostrano le pene et incomodi che son ne l’amore, massime nell’amor volgare, il quale non è altro che l’officina di Vulcano: quel fabro che forma i folgori de Giove che tormentano l’anime delinquenti. Perché il disordinato amore ha in sé il principio della sua pena; attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di noi. Si trova in noi certa sacrata mente et intelligenza, cui subministra un proprio affetto che ha il suo vendicatore, che col rimorso di certa sinderesi al meno, come con certo rigido martello flagella il spirito prevaricante. Quella osserva le nostre azzioni et affetti, e come è trattata da noi fa che noi vengamo trattati da lei. In tutti gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano: come non è uomo che non abbia Dio in sé, non è amante che non abbia questo dio. In tutti è Dio certissimamente, ma qual dio sia in ciascuno non si sa cossì facilmente; e se pur se può esaminare e distinguere, altro non potrei credere che possa chiarirlo che l’amore: come quello che spinge gli remi, gonfia la vela e modera questo composto, onde vegna bene o malamente affetto. – Dico bene o malamente affetto quanto a quel che mette in esecuzione per l’azzioni morali e contemplazione; perché del resto tutti gli amanti comunmente senteno qualch’incomodo: essendoché come le cose son miste, non essendo bene alcuno sotto concetto et affetto a cui non sia gionto o opposto il male, come né alcun vero a cui non sia apposto e gionto il falso; cossì non è amore senza timore, zelo, gelosia, rancore et altre passioni che procedono dal contrario che ne perturba, se l’altro contrario ne appaga. Talmente venendo l’anima in pensiero di ricovrar la bellezza naturale, studia purgarsi, sanarsi, riformarsi: e però adopra il fuoco, perché essendo come oro trameschiato a la terra et informe, con certo rigor vuol liberarsi da impurità; il che s’effettua quando l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani essercitandovi gli atti dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che si riferisca quel che si trova nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore da la madre Penìa ha ereditato l’esser arido, magro, pallido, discalzo, summisso, senza letto e senza tetto: per le quali circonstanze vien significato il tormento ch’ha l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì è, perché il spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri distratto, martellato da cure urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato da spesse occasioni: onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad essere men diligente et operosa al governo del corpo per gli atti della potenza vegetativa. Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha difetto de sangue, copia di malancolici umori, li quali se non saranno instrumenti de l’anima disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, menano ad insania, stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e dispreggio del esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi discalzi. Va summisso l’amore e vola come rependo per la terra, quando è attaccato a cose basse; vola alto quando vien intento a più generose imprese. In conclusione et a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è travagliato e tormentato di sorte che non possa mancar d’esser materia nelle focine di Vulcano; perché l’anima essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma signora della materia corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che volontariamente serve al corpo, dove non trova cosa che la contente. E quantumque fissa nella cosa amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad essagitarsi e fluttuar in mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli, conscienze, rimorsi, ostinazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli mantici, gli carboni, l’incudini, gli martelli, le tenaglie, et altri stormenti che si ritrovano nella bottega di questo sordido e sporco consorte di Venere. cicada Or assai è stato detto a questo proposito: piacciavi di veder che cosa séguita appresso. XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamente, con diverse preciosissime specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice Pulchriori detur. cicada La allusione al fatto delle tre dee che si sottoposero al giudicio de Paride, è molto volgare: ma leggansi le rime che più specificatamente ne facciano capaci de l’intenzione del furioso presente. tansillo Venere, dea del terzo ciel, e madre del cieco arciero, domator d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial per padre, e di Giove la mogli’ altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che squadre de chi de lor più bell’è l’aureo muno: se la mia diva al paragon s’appone, non di Venere, Pallad’, o Giunone. Per belle membra è vaga la cipria dea, Minerva per l’ingegno, e la Saturnia piace con quel degno splendor d’altezza, ch’il Tonante appaga; ma quest’ha quanto aggrade di bel, d’intelligenza, e maestade. Ecco qualmente fa comparazione dal suo oggetto il quale contiene tutte le circonstanze, condizioni e specie di bellezza come in un suggetto, ad altri che non ne mostrano più che una per ciascuno; e tutte poi per diversi suppositi: come avvenne nel geno solo della corporal bellezza di cui le condizioni tutte non le poté approvare Apelle in una, ma in più vergini. Or qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna che tutti si troveno in ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca sapienza e maestade, in Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in Pallade è pur notata la maestà con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una condizione supera le altre, onde quella viene ad esser stimata come proprietà, e l’altre come accidenti communi, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina in una, e viene ad mostrarla et intitularla sovrana de l’altre. E la caggion di cotal differenza è lo aver queste raggioni non per essenza e primitivamente, ma per participazione e derivativamente. Come in tutte le cose dependenti sono le perfezzioni secondo gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma nella simplicità della divina essenza è tutto totalmente, e non secondo misura: e però non è più sapienza che bellezza, e maestade, non è più bontà che fortezza: ma tutti gli attributi sono non solamente uguali, ma ancora medesimi et una istessa cosa. Come nella sfera tutte le dimensioni sono non solamente uguali (essendo tanta la lunghezza quanta è la profondità e larghezza) ma anco medesime: atteso che quel che chiami profondo, medesimo puoi chiamar lungo e largo della sfera. Cossì è nell’altezza de la sapienza divina, la quale è medesimo che la profondità de la potenza, e latitudine de la bontade. Tutte queste perfezzioni sono uguali perché sono infinite. Percioché necessariamente l’una è secondo la grandezza de l’altra, atteso che dove queste cose son finite, avviene che sia più savio che bello e buono, più buono e bello che savio, più savio e buono che potente, e più potente che buono e savio. Ma dove è infinita sapienza, non può essere se non infinita potenza: perché altrimenti non potrebbe saper infinitamente. Dove è infinita bontà, bisogna infinita sapienza: perché altrimenti non saprebbe essere infinitamente buono. Dove è infinita potenza, bisogna che sia infinita bontà e sapienza, perché tanto ben si possa sapere e si sappia possere. Or dumque vedi come l’oggetto di questo furioso, quasi inebriato di bevanda de dèi, sia più alto incomparabilmente che gli altri diversi da quello. Come, voglio dire, la specie intelligibile della divina essenza comprende la perfezzione de tutte l’altre specie altissimamente, di sorte che, secondo il grado che può esser partecipe di quella forma, potrà intender tutto e far tutto, et esser cossì amico d’una, che vegna ad aver a dispreggio e tedio ogn’altra bellezza. Però a quella si deve esser consecrato il sferico pomo, come chi è tutto in tutto. Non a Venere bella che da Minerva è superata in sapienza, e da Giunone in maestà. Non a Pallade di cui Venere è più bella, e l’altra più magnifica. Non a Giunone, che non è la dea dell’intelligenza et amore ancora. cicada Certo come son gli gradi delle nature et essenze, cossì proporzionalmente son gli gradi delle specie intelligibili, e magnificenze de gli amorosi affetti e furori. XII. cicada Il seguente porta una testa, ch’ha quattro faccia che soffiano verso gli quattro angoli del cielo; e son quattro venti in un suggetto, alli quali soprastanno due stelle, et in mezzo il motto che dice Novae ortae Aeoliae; vorrei sapere che cosa vegna significata. tansillo Mi pare ch’il senso di questa divisa è conseguente di quello de la prossima superiore. Perché come là è predicata una infinita bellezza per oggetto, qua vien protestata una tanta aspirazione, studio, affetto e desio; percioch’io credo che questi venti son messi a significar gli suspiri; il che conosceremo, se verremo a leggere la stanza: Figli d’Astreo Titan e de l’Aurora, che conturbate il ciel, il mar e terra, quai spinti fuste dal Litigio fuora, perché facessi a’ dèi superba guerra: non più a l’Eolie spelunche dimora fate, ov’imperio mio vi fren’e serra: ma rinchiusi vi siet’entra’a quel petto ch’i’ veggo a tanto sospirar costretto. Voi socii turbulenti de le tempeste d’un et altro mare, altro non è che vagli’ asserenare, che que’omicidi lumi et innocenti: quelli apert’et ascosi vi renderan tranquilli et orgogliosi. Aperto si vede ch’è introdotto Eolo parlar a i venti, quali non più dice esser da lui moderati nell’Eolie caverne: ma da due stelle nel petto di questo furioso. Qua le due stelle non significano gli doi occhi che son ne la bella fronte: ma le due specie apprensibili della divina bellezza e bontade di quell’infinito splendore, che talmente influiscono nel desio intellettuale e razionale, che lo fanno venire ad aspirar infinitamente, secondo il modo con cui infinitamente grande, bello e buono apprende quell’eccellente lume. Perché l’amore mentre sarà finito, appagato, e fisso a certa misura, tansillo cicada tansillo Giordano Bruno De gli eroici furori non sarà circa le specie della divina bellezza: ma altra formata; ma mentre verrà sempre oltre et oltre aspirando, potrassi dire che versa circa l’infinito. cicada Come comodamente l’aspirare è significato per il spirare? che simbolo hanno i venti col desiderio? tansillo Chi de noi in questo stato aspira, quello suspira, quello medesimo spira. E però la vehemenza dell’aspirare è notata per quell’ieroglifico del forte spirare. cicada Ma è differenza tra il sospirare e spirare. tansillo Però non vien significato l’uno per l’altro come medesimo per il medesimo: ma come simile per il Simile. cicada Seguitate dumque il vostro proposito. tansillo L’infinita aspirazion dumque mostrata per gli suspiri, e significata per gli venti, è sotto il governo non d’Eolo nell’Eolie, ma di detti doi lumi; li quali non solo innocente, ma e benignissimamente uccidono il furioso, facendolo per il studioso affetto morire al riguardo d’ogn’altra cosa: con ciò che quelli che chiusi et ascosi lo rendono tempestoso, aperti lo renderan tranquillo; atteso che nella staggione che di nuvoloso velo adombra gli occhi de l’umana mente in questo corpo, aviene che l’alma con tal studio vegna più tosto turbata e travagliata: come essendo quello stracciato e spinto, doverrà tant’altamente quieta, quanto baste ad appagar la condizion di sua natura. cicada Come l’intelletto nostro finito può seguitar l’oggetto infinito? Con l’infinita potenza ch’egli ha. Questa è vana, se mai sarrà in effetto. Sarrebe vana, se fusse circa atto finito, dove l’infinita potenza sarrebe privativa; ma non già circa l’atto infinito, dove l’infinita potenza è positiva perfezzione. cicada Se l’intelletto umano è una natura et atto finito, come e perché ha potenza infinita? tansillo Perché è eterno, et acciò sempre si dilette, e non abbia fine né misura la sua felicità; e perché come è finito in sé, cossì sia infinito nell’oggetto. cicada Che differenza è tra la infinità de l’oggetto et infinità della potenza? tansillo Questa è finitamente infinita, quello infinitamente infinito. Ma torniamo a noi. Dice dumque là il motto Novae partae Aeoliae, perché par si possa credere che tutti gli venti (che son negli antri voraginosi d’Eolo) sieno convertiti in suspiri, se vogliamo numerar quelli che procedono da l’affetto che senza fine aspira al sommo bene et infinita beltade. XIII. cicada Veggiamo appresso la significazione di quella face ardente, circa la quale è scritto Ad vitam, non ad horam. tansillo La perseveranza in tal amore et ardente desio del vero bene, in cui arde in questo stato temporale il furioso. Questo credo che mostra la seguente tavola: Partesi da la stanz’il contadino, quando il sen d’Oriente il giorno sgombra; e quand’il sol ne fere più vicino, stanc’e cotto da caldo sied’a l’ombra; lavora poi, e s’affatica insino ch’atra caligo l’emisfer ingombra; indi si posa: io sto a continue botte mattina, mezo giorno, sera e notte. Questi focosi rai ch’escon da que’ dei archi del mio sole, de l’alma mia (com’il mio destin vuole) dal orizonte non si parton mai: bruggiand’a tutte l’ore dal suo meridian l’afflitto core.cicada Questa tavola più vera che propriamente esplica il senso de la figura. tansillo Non ho d’affaticarmi a farvi veder queste proprietadi, dove il vedere non merita altro che più attenta considerazione. Gli rai del sole son le raggioni con le quali la divina beltade e bontade si manifesta a noi. E son focosi, perché non possono essere appresi da l’intelletto, senza che conseguentemente scaldeno l’affetto. Doi archi del sole son le due specie di revelazione che gli scolastici teologi chiamano matutina e vespertina; onde l’intelligenza illuminatrice di noi, come aere mediante, ne adduce quella specie o in virtù che la admira in se stessa, o in efficacia che la contempla ne gli effetti. L’orizonte de l’alma in questo luogo è la parte delle potenze superiori, dove a l’apprensione gagliarda de l’intelletto soccorre il vigoroso appulso de l’affetto, significato per il core, che bruggiando a tutte l’ore s’afflige; perché tutti gli frutti d’amore che possiamo raccòrre in questo stato non son sì dolci che non siano più gionti a certa afflizzione, quella almeno che procede da l’apprension di non piena fruizione. Come specialmente accade ne gli frutti de l’amor naturale, la condizion de gli quali non saprei meglio esprimere, che come fe’ il poeta epicureo: Ex hominis vero facie pulchroque colore nil datur in corpus praeter simulacra fruendum tenuia, quae vento spes captat saepe misella. Ut bibere in somnis sitiens cum quaerit, et humor non datur, ardorem in membris qui stinguere possit; sed laticum simulacra petit frustraque laborat, in medioque sitit torrenti flumine potans: sic in amore Venus simulacris ludit amantis, nec satiare queunt spectando corpora coram, nec manibus quicquam teneris abradere membris possunt, errantes incerti corpore toto. Denique cum membris conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam praesagit gaudia corpus, atque in eo est Venus, ut muliebria conserat arva, adfigunt avide corpus iunguntque salivas oris, et inspirant pressantes dentibus ora, nequicquam, quoniam nibil inde abradere possunt, nec penetrare et abire in corpus corpore toto. Similmente giudica nel geno del gusto che qua possiamo aver de cose divine: mentre a quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo aver più afflizzione nel desio che piacer nel concetto. E per questo può aver detto quel savio Ebreo, che chi aggionge scienza aggionge dolore, perché dalla maggior apprensione nasce maggior e più alto desio, e da questo séguita maggior dispetto e doglia per la privazione della cosa desiderata; là onde l’epicureo che séguita la più tranquilla vita, disse in proposito de l’amor volgare: Sed fugitare decet simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque alio convertere mentem, nec servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim virescit el inveterascit alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna gravescit. Nec Veneris fructu sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt sine paena commoda sumit. cicada Che intende per il meridiano del core? tansillo La parte o region più alta e più eminente de la volontà, dove più illustre, forte, efficace e rettamente è riscaldata. Intende che tale affetto non è come in principio che si muova, né come in fine che si quiete, ma come al mezzo dove s’infervora. XIV. cicada Ma che significa quel strale infocato che ha le fiamme in luogo di ferrigna punta, circa il quale è avolto un laccio, et ha il motto Amor instat ut instans? Dite che ne intendete. tansillo Mi par che voglia dire che l’amor mai lo lascia, e che eterno parimente l’affliga. cicada Vedo bene laccio, strale e fuoco; intendo quel che sta scritto: Amor instat; ma quel che séguita, non posso capirlo, cioè che l’amor come istante o insistente, inste: che ha medesima penuria di proposito, che se uno dicesse: questa impresa costui la ha finta come finta, la porta come la porta, la intendo come la intendo, la vale come la vale, la stimo come un che la stima. tansillo Più facilmente determina e condanna chi manco considera. Quello instans non significa adiettivamente dal verbo instare, ma è nome sustantivo preso per l’instante del tempo. cicada Or che vuol dir che l’amor insta come l’instante? tansillo Che vuol dire Aristotele nel suo libro Del tempo, quando dice che l’eternità è uno instante, e che in tutto il tempo non è che uno instante? cicada Come questo può essere se non è tanto minimo tempo che non abbia più instanti? Vuol egli forse che in uno instante sia il diluvio, la guerra di Troia, e noi che siamo adesso? Vorrei sapere come questo instante se divide in tanti secoli et anni; e se per medesima proporzione non possiamo dire che la linea sia un punto. tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in diversi suggetti temporali, cossì l’instante è uno in diverse e tutte le parti del tempo. Come io son medesimo che fui, sono e sarò; io medesimo son qua in casa, nel tempio, nel campo e per tutto dove sono. cicada Perché volete che l’instante sia tutto il tempo? tansillo Perché se non fusse l’instante, non sarrebe il tempo: però il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante. E questo baste se l’intendi (perché non ho da pedanteggiar sul quarto de la Fisica); onde comprendi che voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il tempo tutto: perché questo instans non significa punto del tempo. cicada Bisogna che questa significazione sia specificata in qualche maniera, se non vogliamo far che sia il motto vicioso in equivocazione, onde possiamo liberamente intendere ch’egli voglia dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest d’un atomo di tempo e d’un niente: o che voglia dire che sia (come voi interpretate) sempre. tansillo Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi contrarii, il motto sarrebe una baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso che in uno instante che è atomo o punto, che l’amore inste o insista non può essere: ma bisogna necessariamente intendere l’instante in altra significazione. E per uscir di scuola, leggasi la stanza: Un tempo sparge, et un tempo raccoglie; un edifica, un strugge; un piange, un ride: un tempo ha triste, un tempo ha liete voglie; un s’affatica, un posa; un stassi, un side: un tempo porge, un tempo si ritoglie; un muove, un ferm’; un fa viv’, un occide: in tutti gli anni, mesi, giorni et ore m’attende, fere, accend’e lega amore. Continuo mi disperge, sempre mi strugg’e mi ritien in pianto, è mio triste languir ogn’or pur tanto, in ogni tempo mi travagli’ et erge; tropp’in rubbarmi è forte, mai non mi scuote, mai non mi dà morte. cicada Assai bene ho compreso il senso: e confesso che tutte le cose accordano molto bene. Però mi par tempo di procedere a l’altro. tansillo Qua vedi un serpe ch’a la neve languisce dove l’avea gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo acceso in mezzo al fuoco, con certe altre minute e circonstanze, con il motto che dice Idem, itidem, non idem. Questo mi par più presto enigma che altro, però non mi confido d’esplicarlo a fatto: pur crederei che voglia significar medesimo fato molesto, che medesimamente tormenta l’uno e l’altro (cioè inentissimamente, senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o contrarii principio, mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che richieda più lunga e distinta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete la rima. [tansillo] Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai, sullevi, inondi; e per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or quella parte ascondi; s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che propona o che rispondi, credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo piatoso al tuo tormento. Io ne l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo, avvampo; e al ghiaccio de mia diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova loco: lasso, per che non sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue cerchi fuggir, sei impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie forze richiami, elle son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé chiedi al villan, odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta. Fuga, luogo, vigor, astro, uom o sorte non è per darti scampo da la morte. Tu addensi, io liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami questo mal, io quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti a bastanza del fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per il camino vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene.  interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stimano allor che tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essendo che quello de l’ottava sfera ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che abbiano loco quando domina la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal contrario a l’altro. La revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al medesimo: come veggiamo ne gli anni particolari, qual è quello del sole, dove il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della feccia de gli costumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a meglior stati. Giordano Bruno De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel mio, che questa successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma al nostro riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più ne afflige che il passato, et ambi doi insieme manco possono appagarne che il futuro, il quale è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder designato in questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che fêrno cotal statua che sopra un busto simile a tutti tre puosero tre teste, l’una di lupo che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia volta in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per significare che le cose passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che in effetto ne tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là è il lupo che urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che applaude. cesarino Che contiene quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra il lupo è Iam, sopra il leone Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni che significano le tre parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella tavola. maricondo Cossì farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di chiar, al vespr’oscuro quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si die’, si dà, può dare. Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al presente et al futuro, mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel soffrir, nell’aspettare. Con l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i frutti, la speranza mi minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che vivo, ch’avanza mi fa tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e lontananza. Assai, troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso m’hann’in timor, martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un furioso amante; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualunque maniera e modo siano malamente affetti; perché non doviamo né possiamo dire che questo quadre a tutti stati in generale, ma a quelli che furono e sono travagliosi: atteso che ad un ch’ha cercato un regno et ora il possiede, conviene il timor di perderlo; ad un ch’ha lavorato per acquistar gli frutti de il amore, come è la particular grazia de la cosa amata, conviene il morso della gelosia e suspizione. E quanto a gli stati del mondo, quando ne ritroviamo nelle tenebre e male, possiamo sicuramente profetizar la luce e prosperitade; quando siamo nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo aspettar il successo de l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio Trimigisto che per veder l’Egitto in tanto splender de scienze e divinazioni, per le quali egli stimava gli uomini consorti de gli demoni e dèi, e per conseguenza religiosissimi, fece quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo che doveano succedere le tenebre de nove religioni e culti, e de cose presenti non dover rimaner altro che favole e materia di condannazione. Cossì gli Ebrei quando erano schiavi nell’Egitto e banditi nelli deserti, erano confortati da lor profeti con l’aspettazione de libertà et acquisto di patria. Quando furono in stato di domìno e tranquillità, erano minacciati de dispersione e cattività. Oggi che non è male né vituperio a cui non siano suggetti, non è bene né onore che non si promettano. Similmente accade a tutte l’altre generazioni e stati: li quali se durano e non sono annihilati a fatto, per forza della vicissitudine delle cose, è necessario da ’l male vegnano al bene, dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da l’altezza alla bassezza, da le oscuritadi al splendore, dal splendor alle oscuritadi. Perché questo comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se si ritrova altro che lo guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne, perché non raggiono con altro spirito che naturale. maricondo Sappiamo che non fate il teologo ma filosofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino Cossì è. Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante turribolo che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Illius aram; et appresso l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un ossequio divin credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei nel tempio de la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai che men convegna ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora tanto et ama? Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi pace. Perché volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace? Dite di me piatosi: Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di quella face sei vago sì? Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo tormento. maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un rimagna fisso su una corporal bellezza e culto esterno, può onorevolmente e degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad inalzarsi alla considerazion e culto della divina bellezza, luce e maestade: di maniera che da queste cose visibili vegna a magnificar il core verso quelle che son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto son più rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde, fosca, corrente, depinta nella superficie de la materia corporale, tanto mi piace e tanto mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che riverenza di maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira, ch’io non trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’appaghe: che sarà di quello che sustanzialmente, originalmente, primitivamente è bello; che sarà de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la natura? Conviene dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi amene mediante la ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e participazione di quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi unisca: perché son certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti gli occhi, e mi ha dotato di senso interiore, per cui posso argomentar bellezza più profonda et incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso vegna promosso a l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che il mio vero nume come me si mostra in vestigio et imagine, voglia sdegnarsi che in imagine e vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il mio core et affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: atteso che chi può esser quello che possa onorarlo in essenza e propria sustanza, se in tal maniera non può comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di eroico spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della cattività in frutto di maggior libertade, e l’esser vinto una volta convertiscono in occasione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellezza corporale a color che son ben disposti non solamente non apporta ritardamento da imprese maggiori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali per venire a quelle: allor che la necessità de l’amore è convertita in virtuoso studio per cui l’amante si forza di venire a termine nel quale sia degno della cosa amata, e forse di cosa maggiore, megliore e più bella ancora; onde sia o che vegna contento d’aver guadagnato quel che brama, o sodisfatto dalla sua propria bellezza, per cui degnamente possa spregiar l’altrui che viene ad esser da lui vinta e superata: onde o si ferma quieto, o si volta ad aspirare ad oggetti più eccellenti e magnifichi. E cossì sempre verrà tentando il spirito eroico, sin tanto che non si vede inalzato al desiderio della divina bellezza in se stessa, senza similitudine, figura, imagine e specie, se sia possibile: e più se sa arrivare a tanto. maricondo Vedi dumque, Cesarino, come ha raggione questo furioso di risentirsi contra coloro che lo ri- prendono come cattivo de bassa bellezza a cui sparga voti et appenda tabelle; di maniera che quindi non viene rubelle dalle voci che lo richiamano a più alte imprese: essendo che come queste basse cose deriva- no da quelle et hanno dipendenza, cossì da queste si può aver accesso a quelle come per proprii gradi. Queste se non son Dio son cose divine, sono imagini sue vive: nelle quali non si sente offeso se si vede ado- rare: perché abbiamo ordine dal superno spirito che dice Adorate scabellum pedum eius. Et altrove disse un divino imbasciatore: Adorabimus ubi steterunt pedes eius. cesarino Dio, la divina bellezza e splendore riluce et è in tutte le cose; però non mi pare errore d’admirarlo in tutte le cose secondo il modo che si comunica a quelle: errore sarà certo se noi donaremo ad altri l’onor che tocca a lui solo. Ma che vuol dir quando dice Lasciatemi, lasciate, altri desiri? maricondo Bandisce da sé gli pensieri, che gli appresen- tano altri oggetti che non hanno forza di commoverlo tanto; e che gli vogliono involar l’aspetto del sole, il qual può presentarsegli da questa fenestra più che da l’altre. cesarino Come importunato da pensieri si sta con- stante a remirar quel splendor che lo disface, e non lo fa di maniera contento che ancora non vegna forte- mente a tormentarlo? maricondo Perché tutti gli nostri conforti in questo stato di controversia non sono senza gli suoi di- sconforti cossì grandi come magnifici son gli conforti. Come più grande è il timore d’un re che consiste su la perdita d’un regno, che di un mendico che consiste sul periglio di perdere dieci danaii; è più urgente la cura d’un prencipe sopra una republica, che d’un ru- stico sopra un grege de porci: come gli piaceri e deli- cie di quelli forse son più grandi che le delicie e piace- ri di questi. Però l’amare et aspirar più alto, mena seco maggior gloria e maestà con maggior cura, pen- siero e doglia: intendo in questo stato dove l’un con- trario sempre è congionto a l’altro, trovandosi la mas- sima contrarietade sempre nel medesimo geno, e per conseguenza circa medesimo suggetto, quantunque gli contraria non possano essere insieme. E cossì pro- porzionalmente nell’amor di Cupido superiore, come dechiarò l’epicureo poeta nel cupidinesco volgare e animale, quando disse: Fluctuat incertis erroribus ardor amantum, nec constat quid primum oculis manibusque fruantur: quod petiere premunit arte, faciuntque dolorem corporis, et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfigunt, quia non est pura voluptas, et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum, quodcumque est, rabies, unde illa haec germina surgunt. Sed leviter paenas frangit Venus inter amorem, blandaque refraenat morsus admixta voluptas, namque in eo spes est, unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore flammam. Ecco dumque con quali condimenti il magistero et arte della natura fa che un si strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento in mezzo del tormento, e tormentato in mezzo de tutte le conten- tezze: atteso che nulla si fa assolutamente da un paci- fico principio, ma tutto da contrarii principii per vit- toria e domìno d’una parte della contrarietade; e non è piacere di generazione da un canto, senza dispiace- re di corrozzione da l’altro: e dove queste cose che si generano e corrompono sono congionte e come in medesimo suggetto composto, si trova il senso di de- lettazione e tristizia insieme. Di sorte che vegna no- minata più presto delettazione che tristizia, se aviene che la sia predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso. III. cesarino Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una fenice che arde al sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di quello, dal cui calore vien infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile, nec par. maricondo Leggasi l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol s’accende, e a dramm’a dramma consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo stassi, contrario fio al suo pianeta rende: perché quel che da lei al ciel ascende tepido fumo et atra nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti lassi e quello avvele, per cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin splendore accende e illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel pensiero, manda da l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando, mentre mi struggo e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol di foco infosca col suo stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile. cesarino Dice dumque costui che come questa le nice venendo dal splendor del sole accesa, et abituata d lu- ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo quel fu- mo che oscura quello che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et illuminato furioso per quel che fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli have acceso il core e gli splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si risolve la sustanza di lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e comparazione gli studi di costui, torno a dire quel che ti dicevo l’altr’ieri, che la lode è uno de gli più gran sacrificii che possa far un affetto umano ad un oggetto. E per lasciar da parte il proposito del divino, ditemi: chi co- noscerebbe Achille, Ulisse e tanti altri greci e troiani capitani, chi arrebe notizia de tanti grandi soldati, sapienti et eroi de la terra, se non fussero stati messi alle stelle e deificati per il sacrificio de laude, che nell’altare del cor de illustri poeti et altri recitatori have acceso il fuoco, con questo che comunmente montasse al cielo il sacrificatore, la vittima et il canonizato divo, per mano e voto di legitimo e degno sacerdote? cesarino Ben dici di degno e legitimo sacerdote; perché de gli appostici n’è pieno oggi il mondo, li quali come sono per ordinario indegni essi loro, cossì vegnono sempre a celebrar altri indegni, di sorte che asini asinos fricant. Ma la previdenza vuole che in luogo d’andar gli uni e gli altri al cielo, sen vanno giontamente alle tenebre de l’Orco: onde fia vana e la gloria di quel che celebra, e di quel ch’è celebrato; perché l’uno ha intessuta una statua di paglia, o insculpito un tronco di legno, o messo in getto un pezzo di calcina; e l’altro idolo d’infamia e vituperio non sa che non gli bisogna aspettar gli denti de l’evo e la falce di Saturno per esser messo giù: stante che dal suo encomico medesimo vien sepolto vivo all’ora all’ora propria che vien lodato, salutato, nominato, presentato. Come per il contrario è accaduto alla prudenza di quel tanto celebrato Mecenate, il quale se non avesse avuto altro splendore che de l’animo inchinato alla protezzione e favor delle Muse, sol per questo meritò che gl’ingegni de tanti illustri poeti gli dovenessero ossequiosi a metterlo nel numero de più famosi eroi che abbiano calpestrato il dorso de la terra. Gli proprii studii et il proprio splendore l’han reso chiaro e nobilissimo, e non l’esser nato d’atavi regi, non l’esser gran segretario e consegliero d’Augusto. Quello dico che l’ha fatto illustrissimo, è l’aversi fatto degno dell’execuzion della promessa di quel poeta che disse: Fortunati ambo, si quid mea carmina possuni, nulla dies unquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet, imperiumque pater Romanus habebit. maricondo Mi sovviene di quel che dice Seneca in certa epistola dove riferisce le paroli d’Epicuro ad un suo amico, che son queste: Se amor di gloria ti tocca il petto, più noto e chiaro ti renderanno le mie lettere che tutte quest’altre cose che tu onori, e dalle quali sei onorato, e per le quali ti puoi vantare. Similmente arria possuto dire Omero se si gli fusse presentato avanti Achille o Ulisse, Vergilio a Enea et alla sua progenia; perciò che, come ben suggionse quel filosofo morale, è più conosciuto Domenea per le lettere d’Epicuro che tutti gli megistani satrapi e regi, dalli quali pendeva il titolo [di] Domenea, e la memoria de gli quali venea suppressa dall’alte tenebre de l’oblio. Non vive Attico per essere genero d’Agrippa e progenero de Tiberio, ma per l’epistole de Tullio. Druso pronepote di Cesare non si troverebbe nel numero de nomi tanto grandi, se non vi l’avesse inserito Cicerone. Oh che ne sopraviene al capo una profonda altezza di tempo, sopra la quale non molti ingegni rizzaranno il capo. Or per venire al proposito di questo furioso il quale vedendo una fenice accesa al sole, si rammenta del proprio studio, e duolsi che come quella per luce et incendio che riceve, gli rimanda oscuro e tepido fumo di lode dall’olocausto della sua liquefatta sustanza. Qualmente giamai possiamo non sol raggionare, ma e né men pensare di cose divine, che non vengamo a detraergli più tosto che aggiongergli di gloria: di sorte che la maggior cosa che far si possa al riguardo di quelle, è che l’uomo in presenza de gli altri uomini vegna più tosto a magnificar se stesso per il studio et ardire, che donar splendore ad altro per qualche compita e perfetta azzione. Atteso che cotale non può aspettarsi dove si fa progresso all’infinito, dove l’unità et infinità son la medesima cosa; e non possono essere perseguitate dal altro numero, perché non è unità, né da altra unità perché non è numero, né da altro numero et unità: perché non sono medesimo absoluto et infinito. Là onde ben disse un teologo che essendo che il fonte della luce non solamente gli nostri intelletti, ma ancora gli divini di gran lunga sopraavanza, è cosa conveniente che non con discorsi e paroli, ma con silenzio vegna ad esser celebrata. cesarino Non già col silenzio de gli animali bruti et altri che sono ad imagine e similitudine d’uomini: ma di quelli, il silenzio de quali è più illustre che tutti gli eridi, rumori e strepiti di costoro che possano esser uditi. maricondo Ma procediamo oltre a vedere quel che significa il resto. cesarino Dite se avete prima considerato e visto quel che voglia dir questo fuoco in forma di core con quattro ali, de le quali due hanno gli occhi, dove tutto il composto è cinto de luminosi raggi, et hassi in circa scritta la questione: Nitimur in cassum? maricondo Mi ricordo ben che significa il stato de la mente, core, spirito et occhi del furioso; ma leggiamo l’articolo: Questa mente ch’aspira al splendor santo, tant’alti studi disvelar non ponno; il cor, che recrear que’ pensier vonno, da guai non può ritrarsi più che tanto; il spirto che devria posarsi alquanto, d’un moment’al piacer non si fa donno; gli occhi ch’esser derrian chiusi dal sonno tutta la notte son aperti al pianto. Oimè miei lumi con qual studio et arti tranquillar posso i travagliati sensi? Spirto mio, in qual tempo et in quai parti mitigarò gli tuoi dolori intensi? E tu, mio cor, come potrò appagarti di quel ch’al grave tuo suffrir compensi? Quand’i debiti censi daratti l’alma, o travagliata mente, col cor, col spirto e con gli occhi dolente? Perché la mente aspira al splendor divino, fugge il consorzio de la turba, si ritira dalla commune opinione: non solo dico e tanto s’allontana dalla moltitudine di suggetti, quanto dalla communità de studii, opinioni e sentenze; atteso che per contraer vizii et ignoranze tanto è maggior periglio, quanto è maggior il popolo a cui s’aggionge: Nelli publici spettacoli DICE IL FILOSOFO MORALE, mediante il piacere più facilmente gli vizii s’ingeriscono. Se aspira al splendor alto, ritiresi quanto può all’unità, contrahasi quanto è possibile in se stesso, di sorte che non sia simile a molti, perché son molti; e non sia nemico de molti, perché son dissimili, se possibil fia serbar l’uno e l’altro bene: altrimenti s’appiglie a quel che gli par megliore. – Conversa con quelli gli quali o lui possa far megliori, o da gli quali lui possa essere fatto megliore: per splendor che possa donar a quelli, o da quelli possa ricever lui. Contentesi più d’uno idoneo che de l’inetta moltitudine; né stimarà d’aver acquistato poco quando è dovenuto a tale che sia savio per sé, sovvenendogli quel che dice Democrito: Unus mihi pro populo est, et populus pro uno; e che disse Epicuro ad un consorte de suoi studii scrivendo: Haec tibi, non multis; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus. – La mente dumque ch’aspira alto, per la prima lascia la cura della moltitudine, considerando che quella luce spreggia la fatica, e non si trova se non dove è l’intelligenza; e non dove è ogni intelligenza: ma quella che è, tra le poche, principali e prime, la prima, principale et una. cesarino Come intendi che la mente aspira alto? verbigrazia con guardar alle stelle? al cielo empireo? sopra il cristallino? maricondo Non certo, ma procedendo al profondo della mente per cui non fia mistiero massime aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al tempio, intonar l’orecchie de simulacri, onde più si vegna exaudito: ma venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé, più ch’egli medesimo esser non si possa; come quello ch’è anima de le anime, vita de le vite, essenza de le essenze: atteso poi che quello che vedi alto o basso, o in circa (come ti piace dire) de gli astri, son corpi, son fatture simili a questo globo in cui siamo noi, e nelli quali non più né meno è la divinità presente che in questo nostro, o in noi medesimi. Ecco dumque come bisogna fare primeramente de ritrarsi dalla moltitudine in se stesso. Appresso deve dovenir a tale che non stime ma spreggie ogni fatica, di sorte che quanto più gli affetti e vizii combattono da dentro, e gli viziosi nemici contrastano di fuori, tanto più deve respirar e risorgere, e con uno spirito (se possibil fia) superar questo clivoso monte. Qua non bisognano altre armi e scudi che la grandezza d’un animo invitto, e toleranza de spirito che mantiene l’equalità e tenor della vita, che procede dalla scienza, et è regolato da l’arte di specolar le cose alte e basse, divine et umane, dove consiste quel sommo bene. Per cui disse un filosofo morale che scrisse a Lucilio: non bisogna tranar le Scille, le Cariddi, penetrar gli deserti de Candavia et Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti: perché il camino è tanto sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia possuto ordinare. Non è dice egli l’oro et argento che faccia simile a Dio, perché non fa tesori simili; non gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la ostentazione e fama, perché si mostra a pochissimi, e forse che nessuno lo conosce, e certo molti, e più che molti hanno mala opinion de lui; non tante e tante altre condizioni de cose che noi ordinariamente admiriamo: perché non queste cose delle quali si desidera la copia ne rendeno talmente ricchi, ma il dispreggio di quelle. cesarino Bene: ma dimmi appresso in qual maniera costui Tranquillarà gli sensi, mitigarà gli dolori del spirito, appagarà il core e darà gli proprii censi a la mente, di sorte che con questo suo aspirare e studii non debba dire Nitimur in cassum? maricondo Talmente trovandosi presente al corpo che con la meglior parte di sé sia da quello absente, farsi come con indissolubil sacramento congionto et alligato alle cose divine, di sorte che non senta amor né odio di cose mortali, considerando d’esser maggiore che esser debba servo e schiavo del suo corpo: al quale non deve altrimente riguardare che come carcere che tien rinchiusa la sua libertade, vischio che tiene impaniate le sue penne, catena che tien strette le sue mani, ceppi che han fissi gli suo piedi, velo che gli tien abbagliata la vista. Ma con ciò no sia servo, cattivo, invecchiato, incatenato, discioperato, saldo e cieco: perché il corpo non gli può più tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce; atteso che cossì il spirito proporzionalmente gli è preposto, come il mondo corporeo e materia è suggetta alla divinitade et a la natura. Cossì farassi forte contra la fortuna, magnanimo contra l’ingiurie, intrepido contra la povertà, morbi e persecuzioni. cesarino Bene instituito il furioso eroico. V. cesarino Appresso veggasi quel che seguita. Ecco la ruota del tempo affissa, che si muove circa il centro proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che intendete per quella? maricondo Questo vuol dire che si muove in circolo: dove il moto concorre con la quiete, atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il proprio mezzo si comprende la quiete e fermezza secondo il moto retto; over quiete del tutto, e moto secondo le parti; e da le parti che si muoveno in circolo si apprendeno due differenze di Nazione, in quanto che successivamente altre parti montano alla sommità, altre dalla sommità descendeno al basso; altre ottegnono le differenze medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e del fondo. E questo tutto mi par che comodamente viene a significare quel tanto che s’esplica nel seguente articolo: Quel ch’il mio cor aperto e ascoso tiene, beltà m’imprime et onestà mi cassa; zelo ritiemmi, altra cura mi passa per là d’ond’ogni studio a l’alma viene: quando penso suttrarmi da le pene, speme sustienmi, altrui rigor mi lassa; amor m’inalz’e riverenz’abbassa allor ch’aspiro a l’alt’e sommo bene. Alto pensier, pia voglia, studio intenso de l’ingegno, del cor, de le fatiche, a l’ogetto inmortal, divin, inmenso fate ch’aggionga, m’appiglie e nodriche; né più la mente, la raggion, il senso in altro attenda, discorra, s’intriche. Onde di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. Cossì come il continuo moto d’una parte suppone e mena seco il moto del tutto, di maniera che dal ributtar le parti anteriori sia conseguente il tirar de le parti posteriori: cossì il motivo de le parti superiori resulta necessariamente nell’inferiori, e dal poggiar d’una potenza opposita seguita l’abbassar de l’altra opposita. Quindi viene il cor (che significa tutti l’affetti in generale) ad essere ascoso et aperto; ritenuto dal zelo, sollevato da magnifico pensiero; rinforzato da la speranza, indebolito dal timore. Et in questo stato e condizione si vederà sempre che trovarassi sotto il fato della generazione. VI. cesarino Tutto va bene; vengamo a quel che séguita. Veggio una nave inchinata su il onde; et ha le sarte attaccate a lido et ha il motto: Fluctuat in portu. Argumentate quel che può significare: e se ne siete risoluto, esplicate. maricondo E la figura et il motto ha certa parentela col precedente motto e figura, come si può facilmente comprendere se alquanto si considera. Ma leggiamo l’articolo: Se da gli eroi, da gli dèi, da le genti assicurato son che non desperi; né téma, né dolor, né impedimenti de la morte, del corpo, de piaceri fia ch’oltre apprendi, che soffrisca e senti; e perché chiari vegga i miei sentieri, faccian dubio, dolor, tristezza spenti speranza, gioia e gli diletti intieri. Ma se mirasse, facesse, ascoltasse miei pensier, miei desii e mie raggioni, chi le rende sì ’ncerti, ardenti e casse, sì graditi concetti, atti, sermoni, non sa, non fa, non ha qualumque stassi de l’orto, vita e morte a le maggioni. Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’, e accend’, et emmi a lato, farammi illustre, potente e beato. Da quel che ne gli precedenti discorsi abbiamo considerato e detto si può comprendere il sentimento di ciò, massime dove si è dimostrato che il senso di cose basse è attenuato et annullato dove le potenze superiori sono gagliardamente intente ad oggetto più magnifico et eroico. E tanta la virtù della contemplazione (come nota lamblice) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli atti inferiori, ma et oltre lascie il corpo a fatto. Il che non voglio intendere altrimenti che in tante maniere quali sono esplicate nel libro De’ trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazzione. De quali alcune vituperosa, altre eroicamente fanno che non s’apprenda téma di morte, non si soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimenti di piaceri: onde la speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore siano di tal sorte intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è quella da cui richiede che mire a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti, compisca gli suoi desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende sì casse? maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa presente; atteso che veder la divinità è l’esser visto da quella, come vedere il sole concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato dalla divinità è a punto ascoltar quella, et esser favorito da quella è il medesimo esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri incerti e certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse: secondo che degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto, affetto et azzioni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da quella trovasi absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimento ruina e salva la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o suttrae se non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con questa dumque mi par ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura seguente, dove son due stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto che dice: Mors et vita. cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì farò: Per man d’amor scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie pene; ma tu perché il tuo orgoglio non si affrene et io infelice eternamente reste, a le palpebre belle a me moleste asconder fai le luci tant’amene, ond’il turbato ciel non s’asserene, né caggian le nemiche ombre funeste. Per la bellezza tua, per l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è forse uguale, rèndite a la pietà diva per dio. Non prolongar il troppo intenso male, ch’è del mio tanto amar indegno fio: non sia tanto rigor con splender tale. Se ch’io viva ti cale, del grazioso sguardo apri le porte: mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il volto in cui riluce l’istoria de sue pene, è l’anima, in quanto che è esposta alla recepzion de doni superiori, al riguardo de quali è in potenza et attitudine, senza compimento di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada divina. Onde ben fu detto: Anima mea sicut terra sine aqua tibi. Et altrove: Os meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua desiderabam. Appresso, l’orgoglio che non s’affrena è detto per metafora e similitudine (come de Dio tal volta si dice gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la quale egli fa copia di far veder al meno le sue spalli, che è il farsi conoscere mediante le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le palpebre, non asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via l’ombra de gli enigmi e similitudini. – Oltre (perché non crede che tutto quel che non è non possa essere) priega la divina luce che per la sua bellezza la quale non deve essere a tutti occolta, almeno secondo la capacità de chi la mira, e per il suo amore che forse a tanta bellezza è uguale (uguale intende de la beltade in quanto che la se gli può far comprensibile), che si renda alla pietà, cioè che faccia come quelli che son piatosi, quali da ritrosi e schivi si fanno graziosi et affabili: e che non prolonghe il male che avviene da quella privazione; e non permetta che il suo splendor per cui è desiderata, appaia maggiore che il suo amore con cui si communiche: stante che tutte le perfezzioni in lei non solamente sono uguali, ma ancor medesime. – Al fine la ripriega che non oltre l’attriste con la privazione; perché potrà ucciderlo con la luce de suoi sguardi, e con que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce a la morte con ciò che le amene luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol dire quella morte de amanti che procede da somma gioia, chiamata da Cabalisti mors oscuri? la qual medesima è vita eterna, che l’uomo può aver in disposizione in questo tempo, et in effetto nell’eternità? maricondo Cossì è. VIII. cesarino Ma è tempo di procedere a considerar il seguente dissegno simile a questi prossimi avanti rapportati, con li quali ha certa conseguenza. Vi è un’aquila che con due ali s’appiglia al cielo; ma non so come e quanto vien ritardata dal pondo d’una pietra che tien legata a un piede. Et èvvi il motto: Scinditur incertum. E certo significa la moltitudine, numero e volgo delle potenze de l’anima; alla significazion della quale è preso quel verso: Scinditur incertum studia in contraria vulgus. Il qual volgo tutto generalmente è diviso in due fazzioni (quantumque subordinate a queste non mancano de l’altre), de le quali altre invitano a l’alto dell’intelligenza e splendore di giustizia; altre allettano, incitano e forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi, e compiacimenti de voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene far voglio, e non mi vien permesso; meco il mio sol non è, bench’io sia seco, che per esser con lui, non son più meco, ma da me lungi, quanto a lui più presso. Per goder una volta, piango spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco; perché veggio tropp’alto, son sì cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso. Per amaro diletto, e dolce pena, impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio; necessità mi tien, bontà mi mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio mi sprona, et il timor m’affrena; cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual dritto o divertiglio mi darà pace, e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi scacce, e l’altro invite? L’ascenso procede nell’anima dalla facultà et appulso ch’è nell’ali, che son l’intelletto et intellettiva volontade, per le quali essa naturalmente si riferisce et ha la sua mira a Dio come a sommo bene e primo vero, come all’absoluta bontà e bellezza. Cossì come ogni cosa naturalmente ha impeto verso il suo principio regressivamente, e progressivamente verso il suo fine e perfezzione, come ben disse Empedocle; da la cui sentenza mi par che si possa inferire quel che disse il Nolano in questa ottava: Convien ch’il sol d’onde parte raggiri, e al suo principio i discorrenti lumi; e ’l ch’è di terra, a terra si retiri, e al mar corran dal mar partiti fiumi, et ond’han spirto e nascon i desiri aspiren come a venerandi numi: cossì dalla mia diva ogni pensiero nato, che torne a mia diva è mistiero. La potenza intellettiva mai si quieta, mai s’appaga in verità compresa, se non sempre oltre et oltre procede alla verità incomprensibile: cossì la volontà che séguita l’apprensione, veggiamo che mai s’appaga per cosa finita. Onde per conseguenza non si riferisce l’essenza de l’anima ad altro termine che al fonte della sua sustanza et entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è convertita al favore e governo della materia, viene a referirse et aver appulso, a giovare et a comunicar de la sua perfezzione a cose inferiori, per la similitudine che ha con la divinità, che per la sua bontade si comunica o infinitamente producendo, idest communicando l’essere a l’universo infinito, e mondi innumerabili in quello; o finitamente, producendo solo questo universo suggetto alli nostri occhi e comun raggione. Essendo dumque che nella essenza unica de l’anima se ritrovano questi doi geni de potenze, secondo che è ordinata et al proprio e l’altrui bene, accade che si depinga con un paio d’ali, mediante le quali è potente verso l’oggetto delle prime et immateriali potenze; e con un greve sasso, per cui è atta et efficace verso gli oggetti delle seconde e materiali potenze. Là onde procede che l’affetto intiero del furioso sia ancipite, diviso, travaglioso, e messo in facilità de inchinare più al basso, che di forzarsi ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese basso e nemico, et ottiene la regione lontana dal suo albergo più naturale, dove le sue forze son più sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si possa riparare?  maricondo Molto bene; ma il principio è durissimo, e secondo che si fa più e più fruttifero progresso di contemplazione, si doviene a maggiore e maggior facilità. Come avviene a chi vola in alto, che quanto più s’estoglie da la terra, vien ad aver più aria sotto che lo sustenta, e conseguentemente meno vien fastidito dalla gravità; anzi tanto può volar alto, che senza fatica de divider l’aria non può tornar al basso, quantunque giudicasi che più facil sia divider l’aria profondo verso la terra, che alto verso l’altre stelle. cesarino Tanto che col progresso in questo geno, s’acquista sempre maggiore e maggiore facilità di montare in alto? maricondo Cossì è; onde ben disse il Tansillo: Quanto più sott’il pie l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e verso il ciel m’invio. Come ogni parte de corpi e detti elementi quanto più s’avvicina al suo luogo naturale, tanto con maggior impeto e forza va, sin tanto che al fine o voglia o non bisogna che vi pervegna. Qualmente dumque veggiam nelle parti de corpi a gli proprii corpi, cossì doviam giudicare de le cose intellettive verso gli proprii oggetti, come proprii luoghi, patrie e fini. Da qua facilmente possete comprendere il senso intiero significato per la figura, per il motto e per gli carmi. cesarino Di sorte che quanto vi s’aggiongesse, tanto mi parrebe soverchio. IX. cesarino Vedasi ora quel che vien presentato per quelle due saette radianti sopra una targa, circa la quale è scritto Vicit instans. maricondo La guerra continua tra l’anima del furioso la qual gran tempo per la maggior familiarità che ha con la materia, era più dura et inetta ad esser penetrata da gli raggi del splendor della divina intelligenza e spezie della divina bontade; per il qual spacio dice ch’il cor smaltato de diamante, cioè l’affetto duro et inetto ad esser riscaldato e penetrato, ha fatto riparo a gli colpi d’amore che aportavano gli assalti da parti innumerabili. Vuol dire non ha sentito impiagarsi da quelle piaghe de vita eterna de le quali parla la Cantica quando dice: Vulnerasti cor meum, o dilecta, vulnerasti cor meum. Le quali piaghe non son di ferro, o d’altra materia, per vigor e forza de nervi; ma son freccie de Diana o di Febo: cioè o della dea de gli deserti della contemplazione de la Veritade, cioè della Diana che è l’ordine di seconde intelligenze che riportano il splender ricevuto dalla prima, per comunicarlo a gli altri che son privi de più aperta visione; o pur del nume più principale Apollo, che con il proprio e non improntato splendore manda le sue saette, cioè gli suoi raggi, da parti innumerabili tali e tante che son tutte le specie delle cose, le quali son indicatrici della divina bontà, intelligenza, beltade e sapienza, secondo diversi ordini dall’apprension dovenir furiosi amanti, percioché l’adamantino suggetto non ripercuota dalla sua superficie il lume impresso: ma rammollato e domato dal calore e lume, vegna a farsi tutto in sustanza luminoso, tutto luce, con ciò che vegna penetrato entro l’affetto e concetto. Questo non è subito nel principio della generazione quando l’anima di fresco esce ad esser inebriata di Lete et imbibita de l’onde de l’oblio e confusione: onde il spirito vien più cattivato al corpo e messo in essercizio della vegetazione, et a poco a poco si va digerendo per esser atto a gli atti della sensitiva facultade, sin tanto che per la razionale e discorsiva vegna a più pura intellettiva, onde può introdursi a la mente e non più sentirsi annubilata per le fumositadi di quell’umore che per l’exercizio di contemplazione non s’è putrefatto nel stomaco, ma è maturamente digesto. – Nella qual disposizione il presente furioso mostra aver durato sei lustri, nel discorso de quali non era venuto a quella purità di concetto che potesse farsi capace abitazione delle specie peregrine, che offrendosi a tutte ugualmente batteno sempre alla porta de l’intelligenza. Al fine l’amore che da diverse parti et in diverse volte l’avea assaltato come in vano (qualmente il sole in vano se dice lucere e scaldare a quelli che son nelle viscere de la terra et opaco profondo), per essersi accampato in quelle luci sante, cioè per aver mostrato per due specie intelligibili la divina bellezza, la quale con la raggione di verità gli legò l’intelletto e con la raggione di bontà scaldògli l’affetto, vennero superari gli studi materiali e sensitivi che altre volte soleano come trionfare, rimanendo (a mal grado de l’eccellenza de l’anima) intatti; perché quelle luci che facea presente l’intelletto agente illuminatore e sole d’intelligenza, ebbero facile entrata per le sue luci (quella della verità per la porta de la potenza intellettiva, quella della bontà per la porta della potenza appetitiva) al core, cioè alla sustanza del generale affetto. Questo fu quel doppio strale che venne come da man de guerriero irato, cioè più pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo innanzi s’era dimostrato come più debole o negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato et illuminato nel concetto, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è detto: Vicit instans. Indi possete intendere il senso della proposta figura, motto, et articolo che dice: Forte a i colpi d’amor feci riparo quand’assalti da parti varie e tante soffers’il cor smaltato di diamante; ond’i miei studi de suoi trionfare. Al fin (come gli cieli destinaro) un dì accampossi in quelle luci sante, che per le mie sole tra tutte quante facil entrata al cor mio ritrovare. Indi mi s’avventò quel doppio strale, che da man di guerrier irato venne, qual sei lustri assalir mi seppe male: notò quel luogo, e forte vi si tenne, piantò ’l trofeo di me là d’onde vale tener ristrette mie fugaci penne. Indi con più sollenne apparecchio, mai cessano ferire mio cor, del mio dolce nemico l’ire. Singular instante fu il termine del cominciamento e perfezzione della vittoria. Singulari gemine specie furon quelle, che sole tra tutte quante trovaro facile entrata; atteso che quelle contegnono in sé l’efficacia e virtù de tutte l’altre: atteso che qual forma megliore e più eccellente può presentarsi che di quella bellezza, bontà e verità, la quale è il fonte d’ogn’altra verità, bontà, beltade? Notò quel luogo, prese possessione de l’affetto, rimarcollo, impressevi il carattere di sé; e forte vi si tenne, e se l’ha confirmato, stabilito, sancito di sorte che non possa più perderlo: percioché è impossibile che uno possa voltarsi ad amar altra cosa quando una volta ha compreso nel concetto la bellezza divina. Et è impossibile che possa far di non amarla, come è impossibile che nell’appetito cada altro che bene o specie di bene. E però massimamente deve convenire l’appetenzia del sommo bene. Cossì ristrette son le penne che soleano esser fugaci concorrendo giù col pondo della materia. Cossì da là mai cessano ferire, sollecitando l’affetto e risvegliando il pensiero, le dolci ire, che son gli efficaci assalti del grazioso nemico, già tanto tempo ritenuto escluso, straniero e peregrino. È ora unico et intiero possessore e disponitor de l’anima; perché ella non vuole, né vuol volere altro; né gli piace, né vuol che gli piaccia altro, onde sovente dica: Dolci ire, guerra dolce, dolci dardi, dolci mie piaghe, miei dolci dolori. cesarino Non mi par che rimagna cosa da considerar oltre in proposito di questo. Veggiamo ora questa faretra et arco d’amore, come mostrano le faville che sono in circa, et il nodo del laccio che pende: con il motto che è, Subito, clam. Giordano Bruno De gl’eroici furori maricondo Assai mi ricordo d’averlo veduto espresso ne l’articolo; però leggiamolo prima: Avida di trovar bramato pasto, l’aquila vers’il ciel ispiega l’ali, facend’accorti tutti gli animali, ch’al terzo volo s’apparecchia al guasto. E del fiero leon ruggito vasto fa da l’alta spelunca orror mortali, onde le belve presentando i mali fuggon a gli antri il famelico impasto. E ’l ceto quando assalir vuol l’armento muto di Proteo da gli antri di Teti, pria fa sentir quel spruzzo violento. Aquile ’n ciel, leoni in terr’e i ceti signor’ in mar, non vanno a tradimento: ma gli assalti d’amor vegnon secreti. Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che femmi a lungo infortunato amante. Tre sono le regioni de gli animanti composti de più elementi: la terra, l’acqua, l’aria. Tre son gli geni de quelli: fiere, pesci et ucelli. In tre specie sono gli prìncipi conceduti e definiti dalla natura: ne l’aria l’aquila, ne la terra il leone, ne l’acqua il ceto: de quali ciascuno come dimostra più forza et imperio che gli altri, viene anco a far aperto atto di magnanimità, o simile alla magnanimità. Percioché è osservato che il leone, prima che esca a la caccia, manda un ruggito forte che fa rintonar tutta la selva, come de l’erinnico cacciatore nota il poetico detto: At saeva e speculis tempus dea nacta nocendi, ardua testa petit, stabuli et de culmine summo pastorale canit signum, cornuque recurvo tartaream intendit vocem, qua protinus omne contremuit nemus, et silvae intonuere profundae. De l’aquila ancora si sa che volendo procedere alla sua venazione, prima s’alza per dritto dal nido per linea perpendicolare in alto, e quasi per l’ordinario la terza volta si balza da alto con maggior impeto e prestezza che se volasse per linea piana; onde dal tempo in cui cerca il vantaggio della velocità del volo, prende anco comodità di specular da lungi la preda, della quale o despera o si risolve dopo fatte tre remirate. cesarino Potremmo conietturare per qual caggione, se alla prima si presentasse a gli occhi la preda, non viene subito a lanciarsegli sopra? maricondo Non certo. Ma forse che ella sin tanto distingue se si gli possa presentar megliore o più comoda preda. Oltre non credo che ciò sia sempre, ma per il più ordinario. Or venemo a noi. Del ceto o balena è cosa aperta che per essere un machinoso animale non può divider l’acqui se non con far che la sua presenza sia presentita dal ributto de l’onde: senza questo, che si trovano assai specie di questo pesce che con il moto e respirar che fanno, egurgitano una ventosa tempesta di spruzzo acquoso. Da tutte dumque le tre specie de principi animali hanno facultà di prender tempo di scampo gli animali inferiori: di sorte che non procedono come subdoli e traditori. Ma l’Amor che è più forte e più grande, e che ha domìno supremo in cielo, in terra et in mare, e che per similitudine di questi forse derrebe mostrar tanto più eccellente magnanimità quanto ha più forza, niente di manco assalta e fere a l’improvisto e subito. Labitur totas furor in medullas, igne furtivo populante venas, nec habet latam data plaga frontem; sed vorat tectas penitus medullas, virginum ignoto ferit igne pectus. Come vedete, questo tragico poeta lo chiama furtivo fuoco, ignote fiamme; Salomone lo chiama acqui furtive, Samuele lo nomò sibilo d’aura sottile. Li quali tre significano con qual dolcezza, lenità et astuzia, in mare, in terra, in cielo, viene costui a (come) tiranneggiar l’universo. cesarino Non è più grande imperio, non è tirannide peggiore, non è meglior domino, non è potestà più necessaria, non è cosa più dolce e suave, non si trova cibo che sia più austero et amaro, non si vede nume più violento, non è dio più piacevole, non agente più traditore e finto, non autor più regale e fidele, e (per finirla) mi par che l’amor sia tutto, e faccia tutto; e de lui si possa dir tutto, e tutto possa attribuirsi a lui. maricondo Voi dite molto bene. L’amor dumque (come quello che opra massime per la vista, la quale è spiritualissimo de tutti gli sensi, per che subito monta sin alli appresi margini del mondo, e senza dilazion di tempo si porge a tutto l’orizonte della visibilità) viene ad esser presto, furtivo, improvisto e subito. Oltre è da considerare quel che dicono gli antichi, che l’amor precede tutti gli altri dèi; però non fia mestiero de fingere che Saturno gli mostre il camino, se non con seguitarlo. Appresso, che bisogna cercar se l’amore appaia e facciasi prevedere di fuori, se il suo alloggiamento è l’anima medesima, il suo letto è l’istesso core, e consiste nella medesima composizione de nostra sustanza, nel medesimo appulso de nostre potenze? Finalmente ogni cosa naturalmente appete il bello e buono, e però non vi bisogna argumentare e discorrere perché l’affetto si informe e conferme; ma subito et in uno instante l’appetito s’aggionge a l’appetibile, come la vista al visibile. XI. cesarino Veggiamo appresso che voglia dir quella ardente saetta circa la quale è avolto il motto: Cui nova plaga loco?. Dechiarate che luogo cerca questa per ferire. maricondo Non bisogna far altro che leggere l’articolo, che dice cossì: Che la bogliente Puglia o Libia mieta tante spiche, et areste tante a i venti commetta, e mande tanti rai lucenti da sua circonferenza il gran pianeta, quanti a gravi doler quest’alma lieta (che sì triste si gode in dolci stenti) accoglie da due stelle strali ardenti, ogni senso e raggion creder mi vieta. Che tenti più, dolce nemico, Amore? qual studio a me ferir oltre ti muove, or ch’una piaga è fatto tutto il core? Poiché né tu, né altro ha un punto, dove per stampar cosa nuova, o punga, o fóre, volta volta sicur or l’arco altrove. Non perder qua tue prove, per che, o bel dio, se non in vano, a torto oltre tenti amazzar colui ch’è morto. Tutto questo senso è metaforico come gli altri, e può esser inteso per il sentimento di quelli. Qua la moltitudine de strali che hanno ferito e feriscono il core significa gl’innumerabili individui e specie de cose, nelle quali riluce il splendor della divina beltade, secondo gli gradi di quelle, et onde ne scalda l’affetto del proposto et appreso bene. De quali l’un e l’altro per le raggioni de potenzia et atto, de possibilità et effetto, e cruciano e consolano, e donano senso di dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto intiero è tutto convertito a Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose intelligibili la mente viene exaltata alla unità super essenziale, è tutta amore, tutta una, non viene ad sentirsi sollecitata da diversi oggetti che la distrahano: ma è una sola piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che viene ad essere la sua medesima affezzione. Allora non è amore o appetito di cosa particolare che possa sollecitare, né almeno farsi innanzi a la voluntade, perché non è cosa più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che la bellezza, non è più buono che la bontà, non si trova più grande che la grandezza, né cosa più lucida che quella luce, la quale con la sua presenza oscura e cassa gli lumi tutti. cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si possa aggiongere: però la volontà non è capace d’altro appetito, quando fiagli presente quello ch’è del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque posso la conclusione, dove dice a l’amore: Non perder qua tue prove; perché, se non in vano, a torto (si dice per certa similitudine e metafora) tenti ammazzar colui ch’è morto. Cioè quello che non ha più vita né senso circa altri oggetti, onde da quelli possa esser punto o forato; a che oltre viene ad essere esposto ad altre specie? e questo lamento accade a colui che, avendo gusto de l’optima unità, vorrebe essere al tutto exempto et abstratto dalla moltitudine. maricondo Intendete molto bene. cesarino Or ecco appresso un fanciullo dentro un battello che sta ad ora ad ora per essere assorbito, da l’onde tempestose, che languido e lasso ha abandonati gli remi. Et èvvi circa lo motto Fronti nulla fides. Non è dubio che questo significhe che lui dal sereno aspetto de l’acqui fu invitato a solcar il mare infido; il quale a l’improviso avendo inturbidato il volto, per estremo e mortal spavento, e per impotenza di romper l’impeto, gli ha fatto dismetter il capo, braccia, e la speranza. Ma veggiamo il resto: Gentil garzon che dal lido scioglieste la pargoletta barca, e al remo frale, vago del mar l’indotta man porgeste, or sei repente accorto del tuo male. Vedi del traditor l’onde funeste la prora tua, ch’o troppo scend’o sale; né l’alma vinta da cure moleste, contra gli obliqui e gonfii flutti vale. Cedi gli remi al tuo fero nemico, e con minor pensier la morte aspetti, che per non la veder gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun soccorso amico, sentirai certo or or gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e curiosi studi. Son gli miei fati crudi simili a’ tuoi, perché vago d’Amore sento il rigor del più gran traditore. In qual maniera e perché l’amore sia traditore e frodulento l’abbiamo poco avanti veduto: ma perché veggio il seguente senza imagine e motto, credo che abbia conseguenza con il presente; però continuano leggendolo: Lasciato il porto per prova e per poco, feriando da studi più maturi, ero messo a mirar quasi per gioco: quando viddi repente i fati duri. Quei sì m’han fatto violento il foco, ch’in van ritento a i lidi più sicuri, in van per scampo man piatosa invoco, perché al nemico mio ratto mi furi. Impotent’a suttrarmi, roco e lasso io cedo al mio destino, e non più tento di far vani ripari a la mia morte: facciami pur d’ogni altra vita casso, e non più tarde l’ultimo tormento, che m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo di mio mal forte è quel che si commese per trastullo al sen nemico, improvido fanciullo. Qua non mi confido de intendere o determinar tutto quel che significa il furioso: pure è molto espressa una strana condizione d’un animo dismesso dall’apprension della difficultà de l’opra, grandezza della fatica, vastità del lavoro da un canto; e da un altro, l’ignoranza, privazion de l’arte, debolezza de nervi, e periglio di morte. Non ha consiglio atto al negocio; non si sa d’onde e dove debba voltarsi, non si mostra luogo di fuga o di rifugio; essendo che da ogni parte minacciano l’onde de l’impeto spaventoso e mortale. Ignoranti portum, nullus suus ventus est. Vede colui che molto e pur troppo s’è commesso a cose fortuite, s’aver edificato la perturbazione, il carcere, la ruina, la summersione. Vede come la fortuna si gioca di noi; la qual ciò che ne mette con gentilezza in mano, o lo fa rompere facendolo versar da le mani istesse, o fa che da l’altrui violenza ne sia tolto, o fa che ne suffoche et avvelene, o ne sollecita con la suspizione, timore e gelosia, a gran danno e ruina del possessore. Fortunae an ulla putatis dona carere dolis? Or, perché la fortezza che non può far esperienza di sé, è cassa; la magnanimità che non può prevalere, è nulla, et è vano il studio senza frutto; vede gli effetti del timore del male, il quale è peggio ch’il male istesso: Peior est morte timor ipse mortis. Già col timore patisce tutto quel che teme de patire, orror ne le membra, imbecillità ne gli nervi, tremor del corpo, anxia del spirito; e si fa presente quel che non gli è sopragionto ancora, et è certo peggiore che sopragiongere gli possa: che cosa più stolta che dolere per cosa futura, absente, e la qual presente non si sente? Queste son considerazioni su la superficie e l’istoriale de la figura. Ma il proposito del furioso eroico penso che verse circa l’imbecillità de l’ingegno umano il quale attento a la divina impresa in un subito talvolta si trova ingolfato nell’abisso della eccellenza incomprensibile, onde il senso et imaginazione vien confusa et assorbita, che non sapendo passar avanti, né tornar a dietro, né dove voltarsi, svanisce e perde l’esser suo non altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare, o un picciol spirito che s’attenua perdendo la propria sustanza nell’aere spacioso et inmenso. maricondo Bene: ma andiamone discorrendo verso la stanza, perché è notte. fine del primo dialogo mariconda Qua vedete un giogo fiammeggiante et avolto de lacci, circa il quale è scritto Levius aura; che vuol significar come l’amor divino non aggreva, non trasporta il suo servo, cattivo e schiavo al basso, al fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il magnifica sopra qualsivoglia libertade. cesarino Priegovi leggiamo presto l’articolo, perché con più ordine, proprietà e brevità possiamo considerar il senso, se pur in quello non si trova altro. mariconda Dice cossì: Chi femmi ad alt’amor la mente desta, chi fammi ogn’altra diva e vile e vana, in cui beltad’ e la bontà sovrana unicamente più si manifesta; quell’è ch’io viddi uscir da la foresta, cacciatrice di me la mia Diana, tra belle ninfe su l’aura Campana, per cui dissi ad Amor: Mi rendo a questa; et egli a me: O fortunato amante, o dal tuo fato gradito consorte: che colei sola che tra tante e tante, quai ha nel grembo la vit’e la morte, più adorna il mondo con le grazie sante, ottenesti per studio e per sorte, ne l’amorosa corte sì altamente felice cattivo, che non invidii a sciolt’ altr’uomo o divo. Vedi quanto sia contento sotto tal giogo, tal coniugio, tal soma che l’ha cattivato a quella che vedde uscir da la foresta, dal deserto, da la selva; cioè da parti rimosse dalla moltitudine, dalla conversazione, dal volgo, le quali son lustrate da pochi. Diana splendor di specie intelligibili, è cacciatrice di sé, perché con la sua bellezza e grazia l’ha ferito prima, e se l’ha legato poi; e tienio sotto il suo imperio più contento che mai altrimenti avesse potuto essere. Questa dice tra belle nimfe, cioè tra la moltitudine d’altre specie, forme et idee; e su l’aura Campana, cioè quello ingegno e spirito che si mostrò a Nola, che giace al piano del orizonte campano. A quella si rese, quella più ch’altra gli venne lodata da l’amore, che per lei vuol che si tegna tanto fortunato, come quella che, tra tutte quante si fanno presenti et absenti da gli occhi de mortali, più altamente adorna il mondo, fa l’uomo glorioso e bello. Quindi dice aver sì desta la mente ad eccellente amore, che apprende ogni altra diva, cioè cura et osservanza d’ogni altra specie, vile e vana. – Or in questo che dice aver desta la mente ad amor alto, ne porge essempio de magnificar tanto alto il core per gli pensieri, studii et opre, quanto più possibil fia, e non intrattenerci a cose basse e messe sotto la nostra facultade: come accade a coloro che o per avarizia, o per negligenza, o pur altra dapocagine rimagnono in questo breve spacio de vita attaccati a cose indegne. cesarino Bisogna che siano arteggiani, meccanici, agricoltori, servitori, pedoni, ignobili, vili, poveri, pedanti et altri simili: perché altrimenti non potrebono essere filosofi, contemplativi, coltori degli animi, padroni, capitani, nobili, illustri, ricchi, sapienti, et altri che siano eroici simili a gli dèi. Però a che doviamo forzarci di corrompere il stato della natura il quale ha distinto l’universo in cose maggiori e minori, superiori et inferiori, illustri et oscure, degne et indegne, non solo fuor di noi, ma et ancora dentro di noi, nella nostra sustanza medesima, sin a quella parte di sustanza che s’afferma inmateriale? Come delle intelligenze altre son suggette, altre preminenti, altre serveno ed ubediscono, altre comandano e governano. Però io crederei che questo non deve esser messo per essempio a fin che li sudditi volendo essere superiori, e gl’ignobili uguali a gli nobili, non vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine delle cose, che al fine succeda certa neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in certe deserte et inculte republiche. Non vedete oltre in quanta iattura siano venute le scienze per questa caggione che gli pedanti hanno voluto essere filosofi, trattar cose naturali, intromettersi a determinar di cose divine? Chi non vede quanto male è accaduto et accade per averno simili fatte ad alti amori le menti deste? Chi ha buon senso, e non vede del profitto che fe’ Aristotele, che era maestro de lettere umane ad Alessandro, quando applicò alto il suo spirito a contrastare e muover guerra a la dottrina pitagorica e quella de filosofi naturali, volendo con il suo raciocinio logicale ponere diffinizioni, nozioni, certe quinte entitadi et altri parti et aborsi de fantastica cogitazione per principio e sustanza di cose, studioso più della fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene più incaminata e guidata con sofismi et apparenze che si trovano nella superficie delle cose, che della verità che è occolta nella sustanza di quelle, et è la sustanza medesima loro? Fece egli la mente desta non a farsi contemplatore, ma giudice e sentenziatore di cose che non avea studiate mai, né bene intese. Cossì a’ tempi nostri quel tanto di buono ch’egli apporta e singolare di raggione inventiva, iudicativa e di metafisica, per ministerio d’altri pedanti che lavorano col medesimo sursum corda, vegnono instituite nove dialettiche e modi di formar la raggione: tanto più vili di quello d’Aristotele quanto forse la filosofia d’Aristotele è incomparabilmente più vile di quella de gli antichi. Il che è pure avvenuto da quel che certi grammatisti dopo che sono invecchiati nelle culine de fanciulli e notomie de frasi e de vocaboli, ban voluto destar la mente a far nuove logiche e metafisiche, giudicando e sentenziando quelle che mai studiorno et ora non intendono: là onde cossì questi col favore della ignorante moltitudine (al cui ingegno son più conformi), potranno cossì bene donar il crollo alle umanitadi e raziocinio d’Aristotele, come questo fu carnefice delle altrui divine filosofie. Vedi dumque a che suol promovere questo consiglio, se tutti aspireno al splendor santo, et abbiano altre imprese vili e vane. mariconda Ride si sapis, o puella, ride, pelignus (puto) dixerat poeta; sed non dixerat omnibus puellis: et si dixerit omnibus puellis, non dixit tibi. Tu puella non es. Cossì il sursum corda non è intonato a tutti, ma a quelli ch’hanno l’ali. Veggiamo bene che mai la pedantaria è stata più in esaltazione per governare il mondo, che a’ tempi nostri; la quale fa tanti camini de vere specie intelligibili et oggetti de l’unica veritade infallibile, quanti possano essere individui pedanti. Però a questo tempo massime denno esser isvegliati gli ben nati spiriti armati dalla verità et illustrati dalla divina intelligenza, di prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su l’alta rocca et eminente torre della contemplazione. A costoro conviene d’aver ogni altra impresa per vile e vana. Questi non denno in cose leggieri e vane spendere il tempo, la cui velocità è infinita: essendo che sì mirabilmente precipitoso scorra il presente, e con la medesima prestezza s’accoste il futuro. Quel che abbiamo vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel ch’abbiamo a vivere non è ancora un punto, ma può essere un punto, il quale insieme sarà e sarà stato. E tra tanto questo s’intesse la memoria di genealogie, quello attende a desciferar scritture, quell’altro sta occupato a moltiplicar sofismi da fanciulli. Vedrai verbigrazia un volume pieno di: Cor est fons vite, nix est alba: ergo cornix est fons vitae alba. Quell’altro garrisce se il nome fu prima o il verbo, l’altro se il mare o gli fonti, l’altro vuol rinovare gli vocaboli absoleti che per esserno venuti una volta in uso e proposito d’un scrittore antico, ora de nuovo le vuol far montar a gli astri; l’altro sta su la falsa e vera ortografia, altri et altri sono sopra altre et altre simili frascarie, le quali molto più degnamente son spreggiate che intese. Qua diggiunano, qua ismagriscono, qua intisichiscono, qua arrugano la pelle, qua allungano la barba, qua marciscono, qua poneno l’àncora del sommo bene. Con questo spreggiano la fortuna, con questo fan riparo e poneno il scudo contra le lanciate del fato. Con tali e simili vilissimi pensieri credeno montar a gli astri, esser pari a gli dei, e comprendere il bello e buono che promette la filosofia. cesarino È gran cosa certo che il tempo che non può bastarci manco alle cose necessarie, quantunque diligentissimamente guardato, viene per la maggior parte ad esser speso in cose superflue, anzi cose vili e vergognose. – Non è da ridere di quello che fa lodabile Archimede o altro appresso alcuni, che a tempo che la cittade andava sottosopra, tutto era in ruina, era acceso il fuoco ne la sua stanza, gli nemici gli erano dentro la camera a le spalli, nella discrezzion et arbitrio de quali consisteva de fargli perdere l’arte, il cervello e la vita; e lui tra tanto avea perso il senso e proposito di salvar la vita, per averlo lasciato a dietro a perseguitar forse la proporzione de la curva a la retta, del diametro al circolo o altre simili matesi, tanto degne per giovanotti quanto indegne d’uno che (se posseva) devrebbe essere invecchiato et attento a cose più degne d’esser messe per fine de l’umano studio. mariconda In proposito di questo mi piace quello che voi medesimo poco avanti dicesti, che bisogna ch’il mondo sia pieno de tutte sorte de persone, e che il numero de gl’imperfetti, brutti, poveri, indegni e scelerati sia maggiore: et in conclusione non debba essere altrimenti che come è. La età lunga e vechiaia d’Archimede, Euclide, di Prisciano, di Donato et altri che da la morte son stati trovati occupati sopra li numeri, le linee, le dizzioni, le concordanze, scritture, dialecti, sillogismi formali, metodi, modi de scienze, organi et altre isagogie, è stata ordinata al servizio della gioventù e de’ fanciulli, gli quali apprender possano e ricevere gli frutti della matura età di quelli, come conviene che siano mangiati da questi nella lor verde etade: a fin che più adulti vegnano senza impedimento atti e pronti a cose maggiori. cesarino Io non son fuor del proposito che poco avanti ho mosso: essendo in proposito di quei che fanno studio d’involar la fama e luogo de gli antichi con far nove opre o peggiori, o non megliori de le già fatte, e spendeno la vita su le considerazioni da mettere avanti la lana di capra o l’ombra de l’asino; et altri che in tutto il tempo de la vita studiano di farsi esquisiti in que’ studii che convegnono alla fanciullezza, e per la massima parte il fanno senza proprio et altrui profitto. mariconda Or assai è detto circa quelli che non possono né debbono ardire d’aver ad alt’amor la mente desta. Venemo ora a considerare della volontaria cattività, e dell’ameno giogo sotto l’imperio de la detta Diana: quel giogo, dico, senza il quale l’anima è impotente de rimontar a quella altezza da la qual cadìo, percioché la rende più leggiera et agile; e gli lacci la fanno più ispedita e sciolta. cesarino Discorrete dumque. mariconda Per cominciar, continuar e conchiudere con ordine, considero che tutto quel che vive, in quel modo che vive, conviene che in qualche maniera si nodrisca, si pasca. Però a la natura intellettuale non quadra altra pastura che intellettuale, come al corpo non altra che corporale: atteso che il nodrimento non si prende per altro fine eccetto perché vada in sustanza de chi si nodrisce. Come dumque il corpo non si trasmuta in spirito, né il spirito si trasmuta in corpo (perché ogni trasmutazione si fa quando la materia che era sotto la forma de uno viene ad essere sotto la forma de l’altro), cossì il spirito et il corpo non hanno materia commune, di sorte che quello che era soggetto a uno possa dovenire ad essere soggetto de l’altro. cesarino Certo se l’anima se nodrisse de corpo si portarebe meglio dove è la fecondità della materia (come argumenta Iamblico), di sorte che quando ne si fa presente un corpo grasso e grosso, potremmo credere che sia vase d’un animo gagliardo, fermo, pronto, eroico, e dire: O anima grassa, o fecondo spirito, o bello ingegno, o divina intelligenza, o mente illustre, o benedetta ipostasi da far un convito a gli leoni, over un banchetto a i dogs. Cossì un vecchio, come appare marcido, debole e diminuito de forze, debba esser stimato de poco sale, discorso e raggione. Ma seguitate. mariconda Or l’esca de la mente bisogna dire che sia quella sola che sempre da lei è bramata, cercata, abbracciata, e volentieri più ch’altra cosa gustata, per cui s’empie, s’appaga, ha prò e dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni tempo, in ogni etade et in qualsivoglia stato che si trove l’uomo, sempre aspira, e per cui suol spreggiar qualsivoglia fatica, tentar ogni studio, non far caso del corpo, et aver in odio questa vita. Perché la verità è cosa incorporea; perché nessuna, o sia fisica, o sia metafisica, o sia matematica, si trova nel corpo; perché vedete che l’eterna essenza umana non è ne gl’individui li quali nascono e muoiono. È la unità specifica (disse Platone) non la moltitudine numerale che comporta la sustanza de le cose; però chiamò l’idea uno e molti, stabile e mobile: perché come specie incorrottibile, è cosa intelligibile et una, e come si communica alla materia et è sotto il moto e generazione, è cosa sensibile e molti. In questo secondo modo ha più de non ente che di ente: atteso che sempre è altro et altro, e corre eterno per la privazione; nel primo modo è ente e vero. Vedete appresso che gli matematici hanno per conceduto che le vere figure non si trovano ne gli corpi naturali, né vi possono essere per forza di natura né di arte. Sapete ancora che la verità de sustanze sopranaturali è sopra la materia. – Conchiudesi dumque che a chi cerca il vero, bisogna montar sopra la raggione de cose corporee. Oltre di ciò è da considerare che tutto quel che si pasce, ha certa mente e memoria naturale del suo cibo, e sempre (massime quando fia più necessario) ha presente la similitudine e specie di quello, tanto più altamente, quanto è più alto e glorioso chi ambisce, e quello che si cerca. Da questo, che ogni cosa ha innata la intelligenza de quelle cose che appartegnono alla conservazione de l’individuo e specie, et oltre alla perfezion sua finale, depende la industria di cercare il suo pasto per qualche specie di venazione. – Conviene dumque che l’anima umana abbia il lume, l’ingegno e gl’instrumenti atti alla sua caccia. Qua soccorre la contemplazione, qua viene in uso la logica, altissimo organo alla venazione della verità, per distinguere, trovare e giudicare. Quindi si va lustrando la selva de le cose naturali dove son tanti oggetti sotto l’ombra e manto, e come in spessa, densa e deserta solitudine la verità suol aver gli antri e cavernosi ricetti; fatti intessuti de spine, conchiusi de boscose, ruvide e frondose piante: dove con le raggioni più degne et eccellenti maggiormente s’asconde, s’avvela e si profonda con diligenza maggiore, come noi sogliamo gli tesori più grandi celare con maggior diligenza e cura, accioché dalla moltitudine e varietà de cacciatori (de quali altri son più exquisiti et exercitati, altri meno) non vegna senza gran fatica discuoperta. Qua andò Pitagora cercandola per le sue orme e vestigii impressi nelle cose naturali, che son gli numeri li quali mostrano il suo progresso, raggioni, modi et operazioni in certo modo: perché in numero de moltitudine, numero de misure, e numero de momento o pende, la verità e l’essere si trova in tutte le cose. Qua andò Anaxagora et Empedocle che considerando che la omnipotente et omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto minima che non volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le raggioni, benché procedessero sempre vèr là dove era predominante et espressa secondo raggion più magnifica et alta. Qua gli Caldei la cercavano per via di suttrazzione non sapendo che cosa di quella affirmare: e procedevano senza cani de dimostrazioni e sillogismi; ma solamente si forzaro di profondare rimovendo, zappando, isboscando per forza di negazione de tutte specie e predicati comprensibili e secreti. Qua Platone andava como isvoltando, spastinando e piantando ripari: perché le specie labili e fugaci rimanessero come nella rete, e trattenute da le siepe de le definizioni, considerando le cose superiori essere participativamente, e secondo similitudine speculare nelle cose inferiori, e queste in quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e la verità essere ne l’une e l’altre secondo certa analogia, ordine e scala, nella quale sempre l’infimo de l’ordine superiore conviene con il supremo de l’ordine inferiore. E cossì si dava progresso dal infimo della natura al supremo come dal male al bene, dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al puro atto, per gli mezzi. Qua Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii impressi di posser pervenire alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol amenarsi a le cause. Benché egli per il più (massime che tutti gli altri ch’hanno occupato il studio a questa venazione) abbia smarrito il camino, per non saper a pena distinguere de le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in alcune de le sette cercano la verità della natura in tutte le forme naturali specifiche, nelle quali considerano l’essenza eterna e specifico sustantifico perpetuator della sempiterna generazione e vicissitudine de le cose, che son chiamate dèi conditori e fabricatori, sopra gli quali soprasiede la forma de le forme, il fonte de la luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui tutto è pieno de divinità, verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come cosa inaccessibile, come oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile: però a nessun pare possibile de vedere il sole, l’universale Apolline e luce absoluta per specie suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle cose, la luce che è nell’opacità della materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De molti dumque, che per dette vie et altre assai discorreno in questa deserta selva, pochissimi son quelli che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono contenti de caccia de fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte non trova da comprendere avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani piene di mosche. Rarissimi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser contemplar la Diana ignuda: e dovenir a tale che dalla bella disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’ doi lumi del gemino splendor de divina bontà e bellezza, vegnano trasformati in cervio, per quanto non siano più cacciatori ma caccia. Perché il fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte le altre specie di venaggione che si fa de cose particolari, il cacciatore viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina et universale viene talmente ad apprendere che resta necessariamente ancora compreso, as- sorbito, unito: onde da volgare, ordinario, civile e populare, doviene selvatico come cervio, et incola del deserto; vive divamente sotto quella procerità di selva, vive nelle stanze non artificiose di cavernosi monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da ordinarie cupiditadi, dove più liberamente conversa la divinità, alla quale aspi- rando tanti uomini che in terra hanno volsuto gustar vita celeste, dissero con una voce: Ecce elongavi fugiens, et mansi in solitudine. Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone, facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia; onde non più vegga come per forami e per fenestre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglia a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sensi, come de diverse rime fanno veder et apprendere in confusione. Vede l’Amfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Monade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole nella luna, mediante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emisfero delle sustanze intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensibile, in cui influisce il sole et il splendor della natura superiore secondo che la unità è destinta nella generata e generante, o producente e prodotta. Cossì da voi medesimo potrete conchiudere il modo, la dignità, et il successo più degno del cacciatore e de la caccia: onde il furioso si vanta d’esser preda della Diana, a cui si rese, per cui si stima gradito consorte, e più felice cattivo e suggiogato, che invidiar possa ad altro uomo che non ne può aver ch’altretanto, o ad altro divo che ne have in tal specie quale è impossibile d’essere ottenuta da natura inferiore, e per conseguenza non è conveniente d’essere desiata, né meno può cadere in appetito. cesarino Ho ben compreso quanto avete detto, e m’avete più che mediocremente satisfatto. Or è tempo di ritornar a casa. mariconda Bene. fine del secondo dialogo interlocutori Liberio, Laodonio. liberio Posando sotto l’ombra d’un cipresso il furioso, e trovandosi l’alma intermíttente da gli altri pensieri (cosa mirabile), avvenne che (come fussero animali e sustanze de distinte raggioni e sensi) si parlassero insíeme il core e gli occhi: l’uno de l’altro lamentandosi come quello che era principio di quel faticoso tormento che consumava l’alma. laodonio Dite, se vi ricordate, le raggioni e le paroli. liberio Cominciò il dialogo il core, il qual facendosi udir dal petto proruppe in questi accenti: Prima proposta del core a gli occhi Come, occhi miei, sì forte mi tormenta quel che da voi deriva ardente foco, ch’al mio mortal suggetto mai allenta di serbar tal incendio, ch’ho per poco l’umor de l’Oceàn e di più lenta artica stella il più gelato loco, perché ivi in punto si reprima il vampo, o al men mi si prometta ombra di scampo? Voi mi féste cattivo d’una man che mi tiene, e non mi vuole; per voi son entro al corpo, e fuor col sole, son principio de vita, e non son vivo: non so quel che mi sia ch’appartegno a quest’alma, e non è mia. laodonio Veramente l’intendere, il vedere, il conoscere è quel che accende il desio, e per conseguenza, per ministerio de gli occhi, vien infiammato il core: e quanto a quelli fia presente più alto e degno oggetto, tanto più forte è il foco e più vivaci son le fiamme. Or qual esser deve quella specie per cui tanto si sente acceso il core, che non spera che temprar possa il suo ardore tanto più fredda quanto più lenta stella che sia conchiusa nell’artico cerchio, né rallentar il vampo l’umor intiero de l’Occano? Quanta deve essere l’eccellenza di quello oggetto che l’ha reso nemico de l’esser suo, rubello a l’alma propria, e contento di tal ribellione e nemicicia, quantunque sia cattivo d’una man che ’l dispreggia e non lo vuole? Ma fatemi udire se gli occhi risposero e che cosa dissero. liberio Quelli per il contrario si lagnavano del core, come quello che era principio e caggione per cui versassero tante lacrime. Però a l’incontro gli proposero in questo tenore: Prima proposta de gli occhi al core Come da te sorgon tant’acqui, o core, da quante mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni giorn’al bel sol rinasce e muore? A par de l’Amfitrite il doppio fonte versar può sì gran fiumi al mondo fore, che puoi dir che l’umor tanto surmonte, che gli fia picciol rio chi Egitto inonda scorrend’al mar per sette doppia sponda. Die’ natura doi lumi a questo picciol mondo per governo; tu perversor di quell’ordin eterno, le convertiste in sempiterni fiumi. E questo il ciel non cura, ch’il natìo passa, el violento dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e compunto fa sorger lacrime da gli occhi, onde come quelli accendono le fiamme in questo, quest’altro viene a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì forte exaggerazione per cui dicono che le Nereidi non alzano tanto bagnata fronte a l’oriente sole, quanta possa appareggiar queste acqui; et oltre agguagliansi all’Oceano, non perché versino, ma perché versar possano questi doi fonti, fiumi tali e tanti, che computato a loro il Nilo apparirebbe una picciola lava distinta in sette canali. liberio Non ti meravigliar della forte exaggerazione e di quella potenza priva de l’atto; perché tutto intenderete dopo intesa la conchiusione de raggionamenti loro. Or odi come prima il core risponde alla proposta de gli occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere. liberio Prima risposta del core a gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal s’alluma, et altro non son io che fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina, s’infuma, e veggio per mio incendio il ciel fervente; come il gran vampo mio non vi consuma, ma l’effetto contrario in voi si sente? Come vi bagno, e più tosto non cuoco, se non umor, ma è mia sustanza fuoco? Credete ciechi voi che da sì ardente incendio derivi el doppio varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan abbian gli elementi suoi, come tal volt’acquista forza un contrario, se l’altro resista? Vede come non possea persuadersi il core di posser da contraria causa e principio procedere forza di contrario effetto, sin a questo che non vuol affirmare il modo possibile, quando per via d’antiperistasi, che significa il vigor che acquista il contrario da quel che fuggendo l’altro viene ad unirsi, inspessarsi, inglobarsi e concentrarsi verso l’individuo della sua virtude, la qual quanto più s’allontana dalle dimensioni, tanto si rende efficace di vantaggio. laodonio Dite ora come gli occhi risposero al core. liberio Prima risposta de gli occhi al core Ahi, cor, tua passion sì ti confonde, ch’hai smarito il sentier di tutt’il vero. Quanto si vede in noi, quanto s’asconde, è semenza de mari, onde l’intero Nettun potrà ricovrar non altronde, se per sorte perdesse il grand’impero; come da noi deriva fiamma ardente, che siam del mare il gemino parente? Sei sì privo di senso, che per noi credi la fiamma trapasse, e tant’umide porte a dietro lasse, per far sentir a te l’arder immenso? Come splender per vetri, crederai forse che per noi penétri? Qua non voglio filosofare circa la coincidenza de contrarii, de la quale ho studiato nel libro De principio et uno; e voglio supponere quello che comunmente si suppone, che gli contraria nel medesimo geno son distantissimi, onde vegna più facilmente appreso il sentimento di questa risposta, dove gli occhi si dicono semi o fonti, nella virtual potenza de quali è il mare: di sorte che se Nettuno perdesse tutte l’acqui, le potrebbe richiamar in atto dalla potenza loro, dove sono come in principio agente e materiale. Però non metteno urgente necessità quando dicono non posser essere che la fiamma per la lor stanza e cortile trapasse al core con lasciarsi tant’acqui a dietro, per due caggioni: prima perché tal impedimento in atto non può essere se non posti in atto tali oltraggiosi ripari; secondo perché per quanto l’acqui sono attualmente ne gli occhi, possono donar via al calore come alla luce: essendo che l’esperienza dimostra che senza scaldar il specchio viene il luminoso raggio ad accendere per via di reflessione qualche materia che gli vegna opposta; e per un vetro, cristallo, o altro vase pieno d’acqua, passa il raggio ad accendere una cosa sottoposta senza che scalde il spesso corpo tramezzante: come è verisimile et anco vero che caggione secche et aduste impressioni nelle concavitadi del profondo mare. Talmente per certa similitudine, se non per raggioni di medesimo geno, si può considerare come fia possibile che per il senso lubrico et oscuro de gli occhi possa esser scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la quale secondo medesima raggione non può essere nel mezzo. Come la luce del sole secondo altra raggione è nell’aria tramezzante, altra nel senso vicino, et altra nel senso commune, et altra ne l’intelletto: quantunque da un modo proceda l’altro modo di essere. laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì, perché l’uno e l’altro tentano di saper con qual modo quello contegna tante fiamme, e quelli tante acqui. Fa dumque il core la seconda proposta: Seconda proposta del core S’al mar spumoso fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il cieco varco vien impregnato, ond’è che da voi lumi non è doppio torrente al mondo scarco che cresca il regno a gli marini numi, scemando ad altri il glorioso incarco? Perché non fia che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa Deucalion ritorno? Dove gli rivi sparsi? Dove il torrente che mia fiamma smorze, o per ciò non posser più la rinforze? Goccia non scende a terra ad inglobarsi, per cui fia ch’io non pensi che sia cossì, come mostrano i sensi? Dimanda qual potenza è questa che non si pone in atto; se tante son l’acqui, perché Nettuno non viene a tiranneggiar su l’imperio de gli altri elementi? Ove son gli inondanti rivi? Ove chi dia refrigerio al fuoco ardente? Dove è una stilla onde io possa affirmar de gli occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma gli occhi di pari fanno un’altra dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core Se la materia convertita in foco acquista il moto di lieve elemento, e se ne sale a l’eminente loco, onde avvien che veloce più che vento, tu ch’incendio d’amor senti non poco, non ti fai gionto al sole in un momento? per che soggiorni peregrino al basso, non t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla non si scorge uscir a l’aria aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o adusto, né lacrimoso fumo ad alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di fiamma è raggion, sens’, o pensiero. laodonio Non ha più né meno efficacia questa che quell’altra proposta: ma vengasi presto alle risposte, se vi sono. liberio Vi son certamente e piene di succhio; udite: Seconda risposta del core a gli occhi Sciocco è colui che sol per quanto appare al senso, et oltre a la raggion non crede: il fuoco mio non puote alto volare, e l’infinito incendio non si vede, perché de gli occhi ban sopraposto il mare, e un infinito l’altro non eccede: la natura non vuol ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a tanta sfera. Ditemi, occhi, per dio, qual mai partito prenderemo noi, onde far possa aperto o io, o voi, per scampo suo, de l’alma il fato rio, se l’un e l’altro ascoso mai potrà fargli il bel nume piatoso? laodonio Se non è vero, è molto ben trovato: se non è cossì, è molto bene iscusato l’uno per l’altro, se stante che dove son due forze de quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna che cesse l’operazion di questa e quella: essendo che tanto questa può resistere quanto quella insistere; non meno quella ripugna, che possa oppugnar questa. Se dumque è infinito il mare et inmensa la forza de le lacrime che sono ne gli occhi, non faranno giamai ch’apparir possa Cavillando o isvampando l’impeto del fuoco ascoso nel petto; né quelli mandar potranno il gemino torrente al mare, se con altretanto di vigore gli fa riparo il core: però accade che il bel nume per apparenza di lacrima che stile da gli occhi, o favilla che si spicche dal petto, non possa esser invitato ad esser piatoso a l’alma afflitta. [liberio] Or notate la conseguente risposta de gli occhi: Seconda risposta de gli occhi al core Ahi per versar a l’elemento ondoso, l’émpito de noi fonti al tutt’è casso; che contraria potenza il tien ascoso, acciò non mande a rotilon per basso. L’infinito vigor del cor focoso a i pur tropp’alti fiumi niega il passo; quindi gemino varco al mar non corre, ch’il coperto terren natura aborre. Or dinne, afflitto core, che puoi opporti a noi con altretanto vigor: chi fia giamai che porte il vanto d’esser precon di sì ’nfelice amore, s’il tuo e nostro male quant’è più grande, men mostrarsi vale? Per essere infinito l’un e l’altro male, come doi ugualmente vigorosi contraria si ritegnono, si supprimeno; e non potrebbe esser cossì, se l’uno e l’altro fosse finito, atteso che non si dà equalità puntuale nelle cose naturali, né ancora sarebbe cossì se l’uno fusse finito e l’altro infinito: ma certo questo assorbirebbe quello, et avverrebe che si mostrarebbono ambi doi, o al men l’uno per l’altro. Sotto queste sentenze la filosofia naturale et etica che vi sta occolta, lascio cercarla, considerarla e comprenderla a chi vuole e puote. Sol questo non voglio lasciare, che non senza raggione l’affezzion del core è detta infinito mare dall’apprension de gli occhi: perché essendo infinito l’oggetto de la mente, et a l’intelletto non essendo definito oggetto proposto, non può essere la volontarie appagata de finito bene; ma se oltre a quello si ritrova altro, il brama, il cerca, perché (come è detto commune) il summo della specie inferiore è infimo e principio della specie superiore, o si prendano gli gradi secondo le forme le quali non possiamo stimar che siano infinite, o secondo gli modi e raggioni di quelle, nella qual maniera per essere infinito il sommo bene, infinitamente credemo che si comunica secondo la condizione delle cose alle quali si diffonde: però non è specie definita a l’universo (parlo secondo la figura e mole), non è specie definita a l’intelletto, non è definita la specie de l’affetto. laodonio Dumque queste due potenze de l’anima mai sono, né essere possono perfette per l’oggetto, se infinitamente si riferiscono a quello. liberio Cossì sarrebe se questo infinito fusse per privazion negativa o negazion privativa de fine, come è per più positiva affirmazione de fine infinito et interminato. laodonio Volete dir dumque due specie d’infinità: l’una privativa la qual può essere verso qualche cosa che è potenza, come infinite son le tenebre, il fine delle quali è posizione di luce; l’altra perfettiva la quale è circa l’atto e perfezzione, come infinita è la luce, il fine della quale sarebbe privazione e tenebre. In questo dumque che l’intelletto concepe la luce, il bene, il bello, per quanto s’estende l’orizonte della sua capacità, e l’anima che beve del nettare divino e de la fonte de vita eterna, per quanto comporta il vase proprio; si vede che la luce è oltre la circonferenza del suo orizonte dove può andar sempre più e più penetrando; et il nettare e fonte d’acqua viva è infinitamente fecondo, onde possa sempre oltre et oltre inebriarsi. [liberio] Da qua non séguita imperfezzione nell’oggetto né poca satisfazzione nella potenza; ma che la potenza sia compresa da l’oggetto e beatificamente assorbita da quello. Qua gli occhi imprimeno nel core, cioè nell’intelligenza, suscitano nella volontà un infinito tormento di suave amore, dove non è pena, perché non s’abbia quel che si desidera: ma è felicità, perché sempre vi si trova quel che si cerca; et in tanto non vi è sazietà, per quanto sempre s’abbia appetito, e per conseguenza gusto: acciò non sia come nelli cibi del corpo il quale con la sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che guste, né dopo ch’ha gustato, ma nel gustar solamente: dove se passa certo termine e fine, viene ad aver fastidio e nausea. – Vedi dumque in certa similitudine qualmente il sommo bene deve essere infinito, e l’appulso de l’affetto verso e circa quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna talvolta a non esser bene: come il cibo che è buono al corpo, se non ha modo, viene ad essere veleno. Ecco come l’umor de l’Oceano non estingue quel vampo, et il rigor de l’Artico cerchio non tempra quell’ardore. Cossì è cattivo d’una mano che il tiene e non lo vuole: il tiene perché l’ha per suo, non lo vuole perché (come lo fuggesse) tanto più se gli fa alto quanto più ascende a quella, quanto più la séguita tanto più se gli mostra lontana per raggion de eminentissima eccellenza, secondo quel detto: Accedet homo ad cor altum, et exaltabitur Deus. – Cotal felicità d’affetto comincia da questa vita, et in questo stato ha il suo modo d’essere: onde può dire il core d’essere entro con il corpo, e fuori col sole, in quanto che l’anima con la gemina facultade mette in esecuzione doi uffici: l’uno de vivificare et attuare il corpo animabile, l’altro de contemplare le cose superiori; perché cossì lei è in potenza receptiva da sopra, come è verso sotto al corpo in potenza attiva. Il corpo è come morto e cosa privativa a l’anima la quale è sua vita e perfezzione; e l’anima è come morta e cosa privativa alla superiore illuminatrice intelligenza da cui l’intelletto è reso in abito e formato in atto. Quindi si dice il core essere prencipe de vita, e non esser vivo; si dice appartenere a l’alma animante, e quella non appartenergli: perché è infocato da l’amor divino, è convertito finalmente in fuoco, che può accendere quello che si gli avicina: atteso che avendo contratta in sé la divinitade, è fatto divo, e conseguentemente con la sua specie può innamorar altri: come nella luna può essere admirato e magnificato il splendor del sole. Per quel poi ch’appartiene al considerar de gli occhi, sapete che nel presente discorso hanno doi ufficii: l’uno de imprimere nel core, l’altro de ricevere l’impressione dal core; come anco questo ha doi ufficii: l’uno de ricevere l’impressioni da gli occhi, l’altro di imprimere in quelli. Gli occhi apprendono le specie e le proponeno al core, il core le brama et il suo bramare presenta a gli occhi: quelli concepeno la luce, la diffondano, et accendono il fuoco in questo; questo scaldato et acceso invia il suo umore a quelli, perché lo digeriscano. Cossì primieramente la cognizione muove l’affetto, et appresso l’affetto muove la cognizione. Gli occhi quando moveno sono asciutti, perché fanno ufficio di specchio e di ripresentatore; quando poi son mossi, son turbati et alterati; perché fanno ufficio de studioso executore: atteso che con l’intelletto speculativo prima si vede il bello e buono, poi la voluntà l’appetisce, et appresso l’intelletto industrioso lo procura, séguita e cerca. Gli occhi lacrimosi significano la difficultà de la separazione della cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non fastidisca, si porge come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre cerca: atteso che la felicità de dèi è descritta per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo et alla bevanda, e non con esser satolli e senza desio de quelli. Indi, hanno la sazietà come in moto et apprensione, non come in quiete e comprensione, non son satolli senza appetito, né sono appetenti senza essere in certa maniera satolli. laodonio liberio laodonio Esuries satiata satietas esuriens. Cossì a punto. Da qua posso intendere come senza biasimo ma con gran verità et intelletto è stato detto che il divino amore piange con gemiti inenarrabili, perché con questo che ha tutto ama tutto, e con questo che ama tutto ha tutto. liberio Ma vi bisognano molte glose se volessimo intendere de l’amor divino che è la istessa deità; e facilmente s’intende de l’amor divino per quanto si trova ne gli effetti e nella subalternata natura; non (dico) quello che dalla divinità si diffonde alle cose: ma quello delle cose che aspira alla divinità. laodonio Or di questo et altro raggionaremo a più aggio appresso. Andiamone. fine del terzo dialogo interlocutori Severino, Minutolo. severino Vedrete dumque la raggione de nove ciechi, li quali apportano nove principii e cause particolari de sua cecità, benché tutti convegnano in una causa generale d’un comun furore. minutolo Cominciate dal primo. severino Il primo di questi benché per natura sia cieco, nulladimeno per amore si lamenta, dicendo a gli altri che non può persuadersi la natura esser stata più discortese a essi che a lui; stante che quantunque non veggono, hanno però provato il vedere, e sono esperti della dignità del senso e de l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti orbi: ma egli è venuto come talpa al mondo a esser visto e non vedere, a bramar quello che mai vedde. minutolo Si son trovati molti innamorati per sola fama. severino Essi (dice egli) aver pur questa felicità de ritener quella imagine divina nel conspetto de la mente, de maniera, che quantunque ciechi, hanno pure in fantasia quel che lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua guida, pregandola che lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre orrido spettacolo del sdegno di natura. Dice dumque: Parla il primo cieco Felici che talvolta visto avete, voi per la persa luce ora dolenti compagni che dei lumi conoscete. Questi accesi non furo, né son spenti; però più grieve mal che non credete è il mio, e degno de più gran lamenti: perché, che fusse torva la natura più a voi ch’a me, non è chi m’assicura. Al precipizio, o duce, conducime, se vòi darmi contento, perché trove rimedio il mio tormento, ch’ad esser visto, e non veder la luce, qual talpa uscivi al mondo, e per esser di terra inutil pondo. Appresso séguita l’altro che morsicato dal serpe de la gelosia, è venuto infetto nell’organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la gelosia per scorta: priega alcun de circonstanti che se non è rimedio del suo male, faccia per pietà che non oltre aver possa senso del suo male; facendo cossì lui occolto a se medesimo, come se gli è fatta occolta la sua luce: con sepelir lui col proprio male. Dice dumque: Parla il secondo cieco Da la tremenda chioma ha svèlto Aletto l’infernal verme, che col fiero morso hammi sì crudament’il spirto infetto, ch’a tòrmi il senso principal è corso, privando de sua guida l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede altrui soccorso, sì cespitar mi fa per ogni via quel rabido rancor di gelosia. Se non magico incanto, né sacra pianta, né virtù de pietra, né soccorso divin scampo m’impetra, un di voi sia (per dio) piatoso in tanto, che a me mi faccia occolto: con far meco il mio mal tosto sepolto. Succede l’altro il qual dice esser dovenuto cieco per essere repentinamente promosso dalle tenebre a veder una gran luce; atteso che essendo avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli avanti gli occhi una beltà celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli è stemprata la vista e smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a l’alma (perché gli occhi son come doi fanali che guidano la nave) ch’accader suole a un allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito immediatamente affiga gli occhi a sole. E nella sestina priega che gli sia donato libero passagio a l’inferno, perché non altro che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso. Dice dumque cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il gran pianeta di repente a un uom nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de la cimmeria gente, onde lungi suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume gemino splendente in prora a l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur mie luci avezze a mirar ordinarie bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché morto discorro tra le genti? perché ceppo infernal tra voi viventi misto men vo? Perché l’aure discare sorbisco, in tante pene messo per aver visto il sommo bene? Fassi innanzi il quarto cieco per simile, ma non già per medesima caggione orbo, con cui si mostra il primo: perché come quello per repentino sguardo della luce, cossì questo con spesso e frequente remirare, o pur per avervi troppo fissati gli occhi, ha perso il senso de tutte l’altre luci, e non si dice cieco per conseguenza al risguardo di quella unica che l’ha occecato; e dice il simile del senso de la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo che coloro che han fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli strepiti minori: come è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde il gran fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura. minutolo Cossì tutti color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più difficili e grandi, non sogliono sentir fastidio dalle difficultadi minori. E costui non deve essere discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si dice volontario orbo, a cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come l’attedia col divertirlo da mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in questo mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar male per qualche mal rancontro, mentre va sì attento e cattivato ad un oggetto principale. minutolo Riferite le sue paroli. severino Parla il quarto cieco Precipitoso d’alto al gran profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento de Cataduppi al popolo ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento alla più viva luce ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento: or mentr’ella gli splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose. Priegovi, da le scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e se si scende o sale: perché non caggian queste misere osse in luogo cavo e basso, mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il molto lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma abituale, et al tutto privativa; perché il fuoco luminoso che accende l’alma nella pupilla, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et oppresso dal contrario umore: de maniera che quantunque cessasse il lacrimare, non si persuade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et udirete quel che dice appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare: Parla il quinto cieco Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che del raggio visuale la scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e vegna tale, che possa riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce male? Lasso: credo che sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa e vinta. Fate passar il cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon gli altri tutti uniti e gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo lo rende ch’un de miei occhi un Oceàn comprende. Il sesto orbo è cieco, perché per il soverchio pianto ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto umore, fin al ghiacio et umor per cui come per mezzo diafano il raggio visuale era transmesso, e s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che talmente fu compunto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de tener unite ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta l’amorosa affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato per la vittoria de gli altri elementi, et è rimasto consequentemente senza vedere e senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli circonstanti quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi; fonti, non più fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il spirto e l’alma gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a l’alma conti, sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso speco vo menando i miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi pronto andar, di me piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio pianto m’appagando ho sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio datemi il passo. Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal intenso vampo che procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso a leccar tutto il rimanente umore de la sustanza de l’amante, de maniera che tutto incinerito e messo in fiamma non è più lui: perché dal fuoco la cui virtù è de dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in polve non compaginabili, se per virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi se inspessano e congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è privo del senso de l’intensissime fiamme; però nella sestina con questo vuol farsi dar largo da passare: ché se qualch’uno venesse tócco da le fiamme sue, dovenerebbe a tale che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa calda, che come di fredda neve. Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà che per gli occhi scorse al core formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì prima il visuale umore, sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando ogn’altro mio liquore, per metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non compaginabil polve, chi ne gli atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male avete orror, datemi piazza, o gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se contagion di quel v’assale, crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de l’inferno. Succede l’ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta che Amore gli ha fatto penetrare da gli occhi al core. Onde si lagna non solamente come cieco, ma et oltre come ferito, et arso tanto altamente, quanto non crede ch’altro esser possa. Il cui senso è facilmente espresso in questa sentenza: Parla l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma, punt’acuta, esca edace, forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma, stral, fuoco e laccio di quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor, legò l’alma, e femmi a un punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia piaga, incendio e nodo, ho ’l senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e dèi, che siete in terra, o appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come e dove provaste, udiste o vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra oppressi, tra dannati, tra gli amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor muto: perché non possendo (per non aver ardire) dir quello che massime vorrebe senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa. Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la quale, per esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida del nono cieco Fortunati voi altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal spiegate: esser possete, per merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e grate; di quel ch’io guido, qual tra tutti quanti più altamente spasma, il vampo late, muto forse per falta d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo tormento. Aprite, aprite il passo, siate benigni a questo vacuo volto de tristi impedimenti, o popol folto, mentre ch’il busto travagliato e lasso va picchiando le porte di men penosa e più profonda morte. Qua son significate nove caggioni per le quali accade che l’umana mente sia cieca verso il divino oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le quali: La prima, allegorizata per il primo cieco, è la natura della propria specie, che per quanto comporta il grado in cui si trova, in quello aspira per certo più alto che apprender possa. minutolo Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo certificarci de stato più eccellente che conviene a l’anima fuor di questo corpo in cui gli fia possibile d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo oggetto. severino Dici molto bene che nessuna potenza et appulso naturale è senza gran raggione, anzi è l’istessa regola di natura la quale ordina le cose: per tanto è cosa verissima e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo umano (qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa apparire in questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa regione, perché aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello che viene a proposito e profitto della sua specie. La seconda, figurata per il secondo cieco, procede da qualche perturbata affezzione, come in proposito de l’amore è la gelosia, la quale è come tarlo che ha medesimo suggetto, nemico e padre, cioè che rode il panno o legno di cui è generato. minutolo Questa non mi par ch’abbia luogo nell’amor eroico. severino Vero, secondo medesima raggione che vedesi nell’amor volgare: ma io intendo secondo altra raggione proporzionale a quella la quale accade in color che amano la verità e bontà; e si mostra quando s’adirano tanto contra quelli che la vogliono adulterare, guastare, corrompere, o che in altro modo indegnamente vogliono trattarla: come son trovati di quelli che si son ridutti sino alla morte, alle pene et esser ignominiosamente trattati da gli popoli ignoranti e sette volgari. minutolo Certo nessuno ama veramente il vero e buono che non sia iracondo contra la moltitudine: come nessuno volgarmente ama, che non sia geloso e timido per la cosa amata. severino E con questo vien ad esser cieco in molte cose veramente, et affatto affatto secondo l’opinion commune è stolto e pazzo. minutolo Ho notato un luogo che dice esser stolti e pazzi tutti quelli che hanno senso fuor et estravagante dal senso universale de gli altri uomini; ma cotal estravaganza è di due maniere, secondo che si va estra o con ascender più alto che tutti e la maggior parte sagliano o salir possano: e questi son gli inspirati de divino furore; o con descendere più basso dove si trovano coloro che hanno difetto di senso e di raggione più che aver possano gli molti, gli più, e gli ordinaria: et in cotal specie di pazzia, insensazione e cecità non si trovarà eroico geloso. severino Quantumque gli vegna detto che le molte lettere lo fanno pazzo, non gli si può dire ingiuria da dovero. La terza, figurata nel terzo cieco, procede da che la divina verità, secondo raggione sopra naturale, detta metafisica, mostrandosi a que’ pochi alli quali si mostra, non proviene con misura di moto e tempo, come accade nelle scienze fisiche (cioè quelle che s’acquistano per lume naturale, le quali discorrendo da una cosa nota secondo il senso o la raggione, procedono alla notizia d’altra cosa ignota: il qual discorso è chiamato argumentazione), ma subito e repentinamente secondo il modo che conviene a tale efficiente. Onde disse un divino: Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum. Onde non è richiesto van discorso di tempo, fatica de studio, et atto d’inquisizione per averla: ma cossì prestamente s’ingerisce come proporzionalmente il lume solare senza dimora si fa presente a chi se gli volta e se gli apre. minutolo Volete dumque che gli studiosi e filosofi non siano più atti a questa luce che gli quantunque ignoranti? severino In certo modo non, et in certo modo sì. Non è differenza quando la divina mente per sua providenza viene a comunicarsi senza disposizione del suggetto: voglio dire quando si communica, perché ella cerca et eligge il suggetto; ma è gran differenza quando aspetta e vuol esser cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi ritrovare. In questo modo non appare a tutti, né può apparir ad altri che a color che la cercano. Onde è detto: Qui quaerunt me invenient me; et in altro loco: Qui sitit, veniat, et bibat. minutolo Non si può negare che l’apprensione del secondo modo si faccia in tempo. severino Voi non distinguete tra la disposizione alla divina luce, e la apprensione di quella. Certo non niego che al disporsi bisogna tempo, discorso, studio e fatica: ma come diciamo che la alterazione si fa in tempo, e la generazione in instante; e come veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre, et il sole entra in un momento: cossì accade proporzionalmente al proposito. La quarta, significata nel seguente, non è veramente indegna, come quella che proviene dalla consuetudine di credere a false opinioni del volgo il quale è molto rimosso dalle opinioni de filosofi: opur deriva dal studio de filosofie volgari le quali son dalla moltitudine tanto più stimate vere, quanto più accostano al senso commune. E questa consuetudine è uno de grandissimi e fortissimi inconvenienti che trovar si possano: perché (come exemplificò Alcazele et Averroe) similmente accade a essi, che come a color che da puerizia e gioventù sono consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a tale, che se gli è convertito in suave e proprio nutrimento; e per il contrario abominano le cose veramente buone e dolci secondo la comun natura. Ma è dignissima, perché è fondata sopra la consuetudine de mirar la vera luce (la qual consuetudine non può venir in uso alla moltitudine come è detto). Questa cecità è eroica, et è tale, per quale degnamente contentare si possa il presente furioso cieco, il qual tanto manca che si cure di quella, che viene veramente a spreggiare ogni altro vedere, e da la comunità non vorrebe impetrar altro che libero passagio e progresso di contemplazione: come per ordinario suole patir insidie, e se gli sogliono opporre intoppi mortali. La quinta, significata nel quinto, procede dalla improporzionalità delli mezzi de nostra cognizione al cognoscibile; essendo che per contemplar le cose divine, bisogna aprir gli occhi per mezzo de figure, similitudini et altre raggioni che gli Peripatetici comprendono sotto il nome de fantasmi; o per mezzo de l’essere procedere alla speculazion de l’essenza: per via de gli effetti alla notizia della causa; gli quali mezzi tanto manca che vagliano per l’assecuzion di cotal fine, che più tosto è da credere che siano impedimenti, se credere vogliamo che la più alta e profonda cognizion de cose divine sia per negazione e non per affirmazione, conoscendo che la divina beltà e bontà non sia quello che può cader e cade sotto il nostro concetto: ma quello che è oltre et oltre incomprensibile; massime in questo stato detto speculator de fantasmi dal filosofo, e dal teologo vision per similitudine speculare et enigma; perché veggiamo non gli effetti veramente, e le vere specie de le cose, o la sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e simulacri de quelle, come color che son dentro l’antro et hanno da natività le spalli volte da l’entrata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedeno quel che è veramente, ma le ombre de ciò che fuor de l’antro sustanzialmente si trova. – Però per la aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa, un spirito simile o meglior di quel di Platone piange desiderando l’exito da l’antro, onde non per riflessione, ma per immediata conversione possa riveder sua luce. minutolo Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà che procede dalla vista riflessiva: ma da quella che è caggionata dal mezzo tra la potenza visiva e l’oggetto. severino Questi doi modi quantunque siano distinti nella cognizion sensitiva o vision oculare, tutta volta però concorrenti in uno nella cognizione razionale o intellettiva. minutolo Parmi aver inteso e letto che in ogni visione si richiede il mezzo over intermedio tra la potenza et oggetto. Perché come per mezzo della luce diffusa ne l’aere e la similitudine della cosa che in certa maniera procede da quel che è visto a quel che vede, si mette in effetto l’atto del vedere: cossì nella regione intellettuale dove splende il sole dell’intelletto agente mediante la specie intelligibile formata e come procedente da l’oggetto, viene a comprendere de la divinità BRUNO (vedasi) l’intelletto nostro o altro inferiore a quella. Perché come l’occhio nostro (quando veggiamo) non riceve la luce del foco et oro in sustanza, ma in similitudine: cossì l’intelletto in qualunque stato che si trove, non riceve sustanzialmente la divinità, onde sieno sostanzialmente tanti dèi quante sono intelligenze, ma in similitudine; per cui non formalmente son dèi, ma denominativamente divini, rimanendo la divinità e divina bellezza una et exaltata sopra le cose tutte. severino Voi dite bene; ma per vostro dire bene non è mistiero ch’io mi ritratte, perché non ho detto il contrario: ma bisogna che io dechiare et expliche. Però prima dechiaro che la visione immediata, detta da noi et intesa, non toglie quella sorte di mezzo che è la specie intelligibile, né quella che è la luce; ma quella che è proporzionale alla spessezza e densità del diafano, o pur corpo al tutto opaco tramezzante: come aviene a colui che vede per mezzo de le acqui più e meno turbide, o aria nimboso e nebbioso; il quale s’intenderebbe veder come senza mezzo quando gli venesse concesso de mirar per l’aria puro, lucido e terso. Il che tutto avete come esplicato dove si dice: Spicche fuor di tanti e sì densi ripari. Ma ritorniamo al nostro principale. La sesta, significata nel sequente, non è altrimenti caggionata che dalla imbecillità et insubsistenza del corpo, il quale è in continuo moto, mutazione et alterazione; e le operazioni del quale bisogna che seguitino la condizione della sua facultà, la quale è consequente dalla condizione della natura et essere. Come volete voi che la immobilità, la sussistenza, la entità, la verità sia compresa da quello che è sempre altro et altro, e sempre fa et è fatto altri et altrimenti? Che verità, che ritratto può star depinto et impresso dove le pupille de gli occhi si dispergono in acqui, l’acqui in vapore, il vapore in fiamma, la fiamma in aura, e questa in altro et altro, senza fine discorrendo il suggetto del senso e cognizione per la ruota delle mutazioni in infinito? minutolo Il moto è alterità, quel che si muove sempre è altro et altro, quel che è tale, sempre altri et altrimente si porta et opra, per che il concetto et affetto séguita la raggione e condizione del suggetto. E quello che altro et altro, altri et altrimenti mira, bisogna necessariamente che sia a fatto cieco al riguardo di quella bellezza che è sempre una et unicamente, et è l’istessa unità et entità, identità. severino Cossì è. La settima, contenuta allegoricamente nel sentimento del settimo cieco, deriva dal fuoco dell’affezzione, onde alcuni si fanno impotenti et inabili ad apprendere il vero, con far che l’affetto precorra a l’intelletto. Questi son coloro che prima hanno l’amare che l’intendere: onde gli avviene che tutte le cose gli appaiano secondo il colore della sua affezzione; stante che chi vuole apprendere il vero per via di contemplazione deve essere ripurgatissimo nel pensiero. minutolo In verità si vede che sì come è diversità de contemplatori et inquisitori per quel che altri (secondo gli abiti de loro prime e fondamentali discipline) procedeno per via de numeri, altri per via de figure, altri per via de ordini o disordini, altri per via di composizione e divisione, altri per via di separazione e congregazione, altri per via de inquisizion e dubitazione, altri per via de discorso e definizione, altri per via de interpretazioni e desciferazion de voci, vocaboli e dialecti: onde altri son filosofi matematici, altri metafisici, altri logici, altri grammatici; cossì è diversità de contemplatori che con diverse affezzioni si metteno ad studiare et applicar l’intenzione alle sentenze scritte: onde si doviene sin a questo che medesima luce di verità espressa in un medesimo libro per medesime paroli, viene a servire al proposito di sette tanto numerose, diverse e contrarie. severino Per questo è da dire che gli affetti molto sono potenti per impedir l’apprension del vero, quantumque gli pazienti non se ne possano accorrere: qualmente aviene ad un stupido ammalato che non dice il suo gusto amaricato, ma il cibo amaro. Or tal specie de cecità è notata per costui, gli occhi del quale son alterati e privi dal suo naturale, per quel che dal core è stato inviato et impresso, potente non solo ad alterar il senso, ma et oltre l’altre tutte facultadi de l’alma, come la presente figura dimostra. Al significato per l’ottavo, cossì l’eccellente intelligibile oggetto have occecato l’intelletto, come l’eccellente sopraposto sensibile a costui ha corrotto il senso. Cossì avviene a chi vede Giove in maestà, che perde la vita, e per conseguenza perde il senso. Cossì avviene che chi alto guarda tal volta vegna oppresso da la maestà. Oltre quando viene a penetrar la specie divina, la passa come strale: onde dicono gli teologi il verbo divino essere più penetrativo che qualsivoglia punta di spada o di coltello. Indi deriva la formazione et impressione del proprio vestigio, sopra il quale altro non è che possa essere impresso o sigillato; là onde essendo tal forma ivi confirmata, e non possendo succedere la peregrina e nova, senza che questa cieda, conseguentemente può dire che non ha più facultà di prendere altro, se ha chi la riempie, o la disgrega per la necessaria improporzionalitade. La nona caggione è notata per il nono che è cieco per inconfidenza, per deiezzion de spirito, la quale è administrata e caggionata pure da grande amore, con lo ardire teme de offendere; onde disse la Cantica: Averte oculos tuos a me, quia ipsi me avolare fecere. E cossì supprime gli occhi da non vedere quel che massime desidera e gode di vedere; come raffrena la lingua da non parlare con chi massime brama di parlare, per téma che difetto di sguardo o difettosa parola non lo avvilisca, o per qualche modo non lo metta in disgrazia: e questo suol procedere da l’apprensione de l’excellenza de l’oggetto sopra de la sua facultà potenziale, onde gli più profondi e divini teologi dicono che più si onora et ama Dio per silenzio, che per parola; come si vede più per chiuder gli occhi alle specie representate, che per aprirli: onde è tanto celebre la teologia negativa de Pitagora e Dionisio, sopra quella demostrativa de Aristotele e scolastici dottori. minutolo Andiamone raggionando per il camino. severino Come ti piace. fine del quarto dialogo DIALOGO QUINTO interlocutori Laodomia, Giulia. laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai quel che apporta tutto il successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove bellissimi et amorosi giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del vostro viso, e non avendo speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e temendo che tal disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal terreno della Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la tua beltade giuròrno di non lasciarsi mai sin che avessero tentato tutto il possibile per ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che scuoprir si potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si trovava nel vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico rimedio che divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno dopo la lor sollenne partita, passando vicini al monte Circeo, gli piacque d’andar a veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove essendo gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose rupi, del mormorìo de l’onde maritime che vanno a frangersi in quelle cavitadi, e di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione, vennero tutti come inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito espresse queste paroli: Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse presente, come fu in altri secoli più felici, qualche saga Circe che con le piante, minerali, veneficii et incanti era potente di mettere come il freno alla natura: certo crederei che ella, quantunque fiera, piatosa pur sarebbe al nostro male. Ella molto sollecitata da nostri supplichevoli lamenti, condiscenderebbe o a darne rimedio, o ver a concederne grata vendetta contra la crudeltà di nostra nemica. A pena avea finito di proferir queste paroli, che a tutti si presentò visibile un palaggio, il quale chiumque have ingegno di cose umane, possea facdmente comprendere che non era manifattura d’uomo, né di natura: de la figura e descrizzion de la quale ti dirò un’altra volta. Onde percossi da gran maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che qualche propizio nume (il qual ciò gli mise avanti) volesse definire il stato de la lor fortuna, dissero ad una voce che peggio non posseano incorrere che il morire, il quale stimavano minor male che vivere in tale e tanta passione. Però vi entraro dentro non trovando porta che fermata gli fosse, o portinaio che gli domandasse raggione; sin che si ritrovano in una richissima et ornatissima sala, dove in quella regia maestade (che puoi dire che Apolline fusse stato ritrovato da Fetonte) apparve quella ch’è chiamata sua figlia; con l’apparir de la quale veddero sparire le imagini de molti altri numi che gli administravano. Là con grazioso volto accettati e confortati, si fero avanti: e vinti dal splendor di quella maestade, piegaro le ginocchia in terra, e tutti insieme con quella diversità de note che gli dettava il diverso ingegno, esposero gli lor voti alla dea. Dalla quale in conclusione furono talmente trattati, che ciechi, raminghi et infortunatamente laboriosi hanno varcati tutti mari, passati tutti fiumi, superati tutti monti, discorse tutte pianure, per spacio de diece anni; al termine de quali entrati sotto quel temperato cielo de l’isola britannica, gionti al conspetto de le belle e graziose ninfe del padre Tamesi, dopoi aver essi fatti gli atti di conveniente umiltade, et accettati da quelle con gesti d’onestissima cortesia, uno tra loro, il principale, che altre volte ti sarà nomato, con tragico e lamentevole accento espose la causa commune in questo modo: Di que’, madonne, che col chiuso vase si fan presenti, et han trafitt’il core, non per commesso da natur’ errore, ma d’una cruda sorte ch’in sì vivace morte le tien astretti, ogn’un cieco rimase. Siam nove spirti che molt’anni, erranti, per brama di saper, molti paesi abbiam discorsi, e fummo un dì surpresi d’un rigid’accidente, per cui (se siete attente) direte: O degni, et o infelici amanti. Un’empia Circe, che si don’il vanto d’aver questo bel sol progenitore, ne accolse dopo vario e lungo errore; e un certo vase aperse, de le cui acqui insperse noi tutti, et a quel far giunse l’incanto. Noi aspettand’il fine di tal opra, eravam con silenzio muto attenti, sin al punto che disse: O voi dolenti, itene ciechi in tutto; raccogliete quel frutto, che trovan troppo attenti al che gli è sopra». Figlia e madre di tenebre et orrore – diss’ogn’un fatto cieco di repente, – dumque ti piacque cossì fieramente trattar miseri amanti, che ti si fero avanti, facili forse a consecrart’il core?» Ma poi ch’a i lassi fu sedato alquanto quel subito furor, ch’il novo caso porse, ciascun più accolto in sé rimaso, mentr’ira al dolor cede, voltossi alla mercede, con tali accenti accompagnand’il pianto: «Or dumque s’a voi piace, o nobil maga, che zel di gloria forse il cor ti punga, o liquor di pietà il lenisca et unga, farti piatosa a noi co’ medicami tuoi, saldand’al nostro cuor l’impressa piaga; se la man bella è di soccorrer vaga, deh non sia tanto la dimora lunga, che di noi triste alcun a morte giunga pria che per gesti tuoi possiam unqua dir noi: tanto ne tormentò, ma più ne appaga». E lei soggiunse: «O curiosi ingegni, prendete un altro mio vase fatale, che mia mano medesma aprir non vale; per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti i numerosi regni: perché vuol il destin che discuoperto mai vegna, se non quando alta saggezza e nobil castità giunte a bellezza v’applicaran le mani; d’altri i studi son vani per far questo liquor al ciel aperto. All’or, s’avvien ch’aspergan le man belle chiumque a lor per remedio s’avicina, provar potrete la virtù divina: ch’a mirabil contento cangiand’il rio tormento, vedrete due più vaghe al mondo stelle. Tra tanto alcun di voi non si contriste, quantumque a lungo in tenebre profonde quant’è sul firmamento se gli asconde: perché cotanto bene per quantunque gran pene mai degnamente avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui cecità vi conduce, dovete aver a vil ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un gran piacere; che sperando mirare tai grazie uniche o rare, ben potrete spreggiar ogni altra luce». Lassi, è troppo gran tempo che raminghe per tutt’il terren globo nostre membra son ite, sì ch’al fine a tutti sembra che la fiera sagace di speranza fallace il petto n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai siam (bench’al tardi) avisti ch’a quella maga, per più nostro male, tenerci a bada eternamente cale; certo perché lei crede che donna non si vede sott’il manto del ciel con tanti acquisti. Or benché sappiam vana ogni speranza, cedemo al destin nostr’e siam contenti di non ritrarci da penosi stenti, e mai fermando i passi (benché trepidi e lassi) languir tutta la vita che n’avanza. Leggiadre Nimfe, ch’a l’erbose sponde del Tamesi gentil fate soggiorno, deh, per dio, non abiate (o belle) a scorno tentar voi anco in vano con vostra bianca mano di scuoprir quel ch’il nostro vase asconde. Chi sa? forse che in queste spiaggie, dove con le Nereidi sue questo torrente si vede che cossì rapidamente da basso in su rimonte riserpendo al suo fonte, ha destinat’il ciel ch’ella si trove. Prese una de le Ninfe il vase in mano, e senza altro tentare, offrillo ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima: ma tutte de commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il riferivano e proponevano per rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non tanto per far pericolo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il soccorso di questi infelici, mentre dubbia lo contrattava, come spontaneamente s’aperse da se stesso. Che volete ch’io vi referisca quanto fusse e quale l’applauso de le Nimfe? Come possete credere ch’io possa esprimere l’estrema allegrezza de nove ciechi, quando udiro del vase aperto, si sentiro aspergere dell’acqui bramate, apriro gli occhi e veddero gli doi soli; e trovarono aver doppia felicitade: l’una della ricovrata già persa luce, l’altra della nuovamente discuoperta, che sola possea mostrargli l’imagine del sommo bene in terra? Come, dico, volete ch’io possa esprimere quella allegrezza e tripudio de voci, di spirto e di corpo, che lor medesimi tutti insieme non posseano esplicare? Fu per un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso di color che credono sognare, et in vista di quelli che non credeno quello che apertamente veggono: sin tanto che tranquillato essendo alquanto l’impeto del furore, se misero in ordine di ruota, dove: Il primo cantava e sonava la citara in questo tenore: O rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti, o piani, o valli, o fiumi, o mari, quanto vi discuoprite grati e cari, ché mercé vostra e merto n’ha fatt’il ciel aperto: o fortunatamente spesi passi. Il secondo con la mandòra sua sonò e cantò: O fortunatamente spesi passi, o diva Circe, o gloriosi affanni; o quanti n’affligeste mesi et anni, tante grazie divine, se tal è nostro fine dopo che tanto travagliati e lassi. Il terzo con la lira sonò e cantò. Dopo che tanto travagliati e lassi, se tal porto han prescritto le tempeste, non fia ch’altro da far oltre ne reste che ringraziar il cielo ch’oppose a gli occhi il velo, per cui presente al fin tal luce fassi. Il quarto con la viola cantò: Per cui present’al fin tal luce fassi, cecità degna più ch’altro vedere, cure suavi più ch’altro piacere; ch’a la più degna luce vi siete fatte duce: con far men degni oggetti a l’alma cassi. Il quinto con un timpano d’Ispagna cantò: Con far men degni oggetti a l’alma cassi, con condir di speranza alto pensiero, fu chi ne spinse a l’unico sentiero, per cui a noi si scuopra de Dio la più bell’opra: cessi fato benigno a mostrar vassi. Il sesto con un laùto cantò: Cossì fato benigno a mostrar vassi; perché non vuol ch’il ben succeda al bene, o presagio di pene sien le pene; ma svoltando la ruota, or inalze, ora scuota: com’a vicenda il dì e la notte dassi. Il settimo con l’arpa d’Ibernia: Come a vicenda, il dì e la notte dassi, mentr’il gran manto de faci notturne scolora il carro de fiamme diurne: talmente chi governa con legge sempiterna supprime gli eminenti, e inalz’ i bassi. L’ottavo con la viola ad arco: Supprime gli eminenti, e inalza i bassi, chi l’infinite machini sustenta: e con veloce, mediocre e lenta vertigine dispensa in questa mole immensa quant’occolto si rende e aperto stassi. Il nono con una rebecchina: Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o non nieghi, o confermi che prevagli l’incomparabil fine a gli travagli campestri e montanari de stagni, fiumi, mari, de rupi, fossi, spine, sterpi, sassi. Dopo che ciascuno in questa forma singularmente sonando il suo instrumento ebbe cantata la sua sestina, tutti insieme ballando in ruota e sonando in lode de l’unica Nimfa con un soavissimo concento canta- rono una canzona, la quale non so se bene mi verrà a la memoria. giulia Non mancar (ti priego, sorella) di farmi udire quel tanto che ti potrà sovvenire. laodomia Canzone de gl’illuminati «Non oltre invidio, o Giove, al firmamento,» dice il padre Oceàn col ciglio altero, «se tanto son contento per quel che godo nel proprio impero; Che superbia è la tua? Giove risponde, alle ricchezze tue che cosa è gionta? o dio de le insan’onde, perché il tuo folle ardir tanto surmonta?» «Hai,» disse il dio de l’acqui, «in tuo potere il fiammeggiante ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui l’eminente coro de tuoi pianeti puoi vedere. Tra quelli tutt’il mondo admira il sole, qual ti so dir che tanto non risplende quanto lei che mi rende più glorioso dio de la gran mole. Et io comprendo nel mio vasto seno tra gli altri quel paese, ove il felice Tamesi veder lice, ch’ha de più vaghe ninfe il coro ameno. Tra quelle ottegno tal fra tutte belle, i per far del mar più che del ciel amante te Giove altitonante, cui tanto il sol non splende tra le stelle»; Giove responde: O dio d’ondosi mari, ch’altro si trove più di me beato non lo permetta il fato; ma miei tesori e tuoi corrano al pari. Vagl’il sol tra tue ninfe per costei; e per vigor de leggi sempiterne, de le dimore alterne, costei vaglia per sol tra gli astri miei». Credo averla riportata interamente tutta. giulia Il puoi conoscere, perché non vi manca senten- za che possa appartener alla perfezzion del proposito; né rima che si richieda per compimento de le stanze. Or io, se per grazia del cielo ottenni d’esser bella, maggior grazia e favor credo che mi sia gionto: perché qualumque fusse la mia beltadel è stata in qualche maniera principio per far discuoprir quell’unica e di- vina. Ringrazio gli dèi, perché in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose fiamme non si posseano accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia quanto semplice et innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere incomparabilmente grazie mag- giori a’ miei amanti, che altrimenti avessero possute ottenere per quantunque grande mia benignitade. laodomia Quanto a gli animi di quelli amanti, io ti as- sicuro ancora, che come non sono ingrati alla sua ma- ga Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et aspri travagli, per mezzo de quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno di te esser poco ben riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. Grice: Agostino da Norcia used to quote from Benedetto da Norcia’s emblematic maxim, praise the lord AND WORK – it rymes in Italian: ORA e LABORA --.  Not to be confused with “Benedetto da Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino da Norcia. Norcia. Agostino Colizzi. Giovanni Colizzi. Colizzi. Keywords: implicatura, “De amore fundamenta mundis ac ethicae”, eretici italiani, ortodossi italiani,  dell’infinito, universo e mondi, praxis descensus application entis, amore – l’amore come fondamento del mondo, l’amore come fondamento dalla morale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colizzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’espressione – scuola di Torino –filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I love Colli – his ‘filosofia dell’espressione’ is much more serious than my ramblings, well meant, though, on Peirce! I was only trying to be fashionable! At Oxford, they loved my lecture on ‘meaning,’ which got me into ‘implying,’ and eventually, ‘expressing.’ – My unity developed – Colli was born with it!” Insegna a Pisa. Di una facoltosa famiglia, il padre amministra “La Stampa”, incarico dal quale fu poi estromesso all'indomani della marcia su Roma, su ordine di Mussolini. Studia a Torino, laureandosi sotto Solari con “Politicità ellenica e Platone”. Scorse nella tradizione filosofica classica greco-romana l'autentico "logos" a cui ritornare.  Lo stile di scrittura, profondo e costellato di aforismi taglienti, si caratterizza da un'attenzione maniacale alla musicalità del discorso. Questa dote musicale emerge con chiarezza dalle letture di alcuni passi di Colli recitati da Bene. Il suo saggio principale è “Filosofia dell'espressione” che fornisce, mediante una complessa teoria delle categorie e della deduzione, un'interpretazione della totalità della manifestazione come “espressione” di qualcosa (l'immediatezza) che sfugge alla presa della conoscenza. Comunque, ritiene che sia possibile riguadagnare il fondamento metafisico del mondo portando il discorso filosofico ai suoi estremi limiti e "(di)mostrando" la natura derivata del logos. Importante il suo contributo su i filosofi italici Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di Bacco ed Apollo, dismisura e misura. Al tentativo di interpretare gli enigmi di questi culti a-logici, fra i quali quelli oracolari, viene fatta risalire l'origine remota della dialettica. Altre opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi, Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La nascita della filosofia. Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca”; “Eraclito” (Adelphi, Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione errabonda” (Adelphi, Milano); “Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi, Milano); “La Natura ama nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi, Milano); “Gorgia e Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni su Diofanto di Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone politico” (Adelphi, Milano); “Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e dionisiaco” (Adelphi, Milano); “Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta dello spirito per la potenza, Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino); Organon, Einaudi, Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di Giorgio Colli, Einaudi, Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e paralipomena” (Adelphi, Milano); Nietzsche (Classici Adelphi)  Scritti giovanili; La nascita della tragedia; Considerazioni inattuali; La filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti postumi; Wagner a Bayreuth; Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano, Aurora; Idilli di Messina; Così parlò Zarathustra; Al di là del bene e del male; Genealogia della morale; Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce homo; Nietzsche contra Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume; Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità e il danno della storia per la vita (Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle nostre scuole” (Adelphi, Milano);  La mia vita (Adelphi, Milano); La nascita della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di fede e lo scrittore, Adelphi, Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il servizio divino dei greci” (Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo, Bari); Dizionario biografico degli italiani,  Implicazioni estetiche in C.; Misura e dismisura. Per una rappresentazione di C., ERGA, Genova); L’enigma greco; Apollineo e dionisiaco in C., in Clemente Tafuri e David Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, vol II, AkropolisLibri, Genova); I Greci: annotazioni su alcune traduzioni, in "Episteme", Mimesis Edizioni, Milano); Il Girgentu di Colli, Luca Sossella Editore, Roma.  Wikipedia Ricerca Prosimno pastore della mitologia greca Lingua Segui Modifica Prosimno o Polimno (Πρόσυμνος/Πόλυμνος) nella mitologia greca era un pastore che viveva nei pressi del sacro lago di Lerna (in Argolide, sulla costa del golfo di Argo), reputato essere senza fondo e pertanto assai pericoloso per tutti quelli che vi si volevano avventurare in acqua.  Quando il dio del vino Dioniso andò nell'Ade per salvare sua madre Semele, Prosimno lo guidò verso l'ingresso - conducendolo nella sua barca a remi - posto al centro del lago. Il premio richiesto da Prosimno per questo servizio sarebbe stato il diritto a giacere con il giovane Dio. Tuttavia, quando Dioniso tornò sulla terra per una strada diversa, trovò che Prosimno era nel frattempo morto.  Dioniso volle comunque mantenere la sua promessa; intagliò un pezzo di legno di ficus a forma di falloutilizzandolo per adempiere ritualmente all'accordo che aveva in precedenza stipulato con Prosimno: si posizionò sulla sua tomba e ci si sedette sopra, auto-sodomizzandosi. Questo, si dice, è stato dato come spiegazione della presenza di falli di legno di fico tra gli oggetti segreti che venivano "rivelati" nel corso dei Misteri dionisiaci.  Questa storia non è raccontata in pieno da una delle consuete fonti di racconti mitologici greci, anche se molti di loro accennano ad essa. Il fatto si è ricostruito sulla base di dichiarazioni di autori cristiani; questi devono essere trattati quindi con riserva in quanto il loro obiettivo era essenzialmente quello di screditare la mitologia pagana[1].  Riti notturni annuali hanno avuto luogo presso il lago sacro, sulle rive della palude alcionia, ancora in età classica; Pausania il Periegeta si rifiuta però di descriverceli.  Il mito di Prosimno è stato studiato da Bernard Sergentin "L'omosessualità nella mitologia greca", ristampato nella sua "Omosessualità e iniziazione tra i popoli indo-europei". Questo mito è comunque considerato essere il risultato dell'importanza del simbolismo fallico all'interno del culto dionisiaco.  Igino, Astronomy; Clemente di Alessandria, Protreptikos; Arnobio, Against the Gentiles; Dalby, Pausania, Guide to Greece; Plutarco, Iside e Osiride 35; Dalby, Dionisio-Baco, su geocities.com Mitos del cielo: Dioniso, su mitosdelcielo.iespana. Susana Quintanilla, Dioniso en México o cómo leyeron nuestros clásicos a los clásicos griegos. De op. cit.: Calasso "Las bodas de Cadmo y Harmonía", Barcelona, Anagrama( PDF ) [collegamento interrotto], su redalyc.uaemex. Dalby, The Story of Bacchus, London, British Museum Press, Pederastia Pederastia greca Temi LGBT nella mitologia FontiModifica Arnobio, Contro i pagani, Clemente di Alessandria, Esortazione ai Greci (Protrettico). Igino, Astronomia. Pausania, Descrizione della Grecia, Plutarco, Iside e Osiride. Portale LGBT   Portale Mitologia greca Dioniso dio greco del vino, della vendemmia, dei teatri, della fertilità e dell'ubriachezza  Canopo (mitologia) Pederastia tebana. Che l'esclusione di queste potenze ben presenti e Bi  distinte dalla comunità delle figure dominanti, ed .il sus É  sistere della loro venerabilità, pur tacendo .la vastità É  e profondità loro e più ch’ogni altra cosa, l’orrendo fi  mistero del loro essere, provengano da una particola  rissima valutazione e da una volontà risoluta, si app*  lesa evidentissimo nella figura dominante di tutto que  sto ciclo: Dioniso. La sua virilità, come osserva .J. J.  Bachhofen in modo eccellente, trascina irresistibilmente  seco. l’eterno femminino di questa sfera e ne rimane  assolutamente presa. Il suo spirito s’arroventa nell’inebriante beveraggio, che venne chiamato il sangue della  terra. Istinti elementari, frenesie, dissolvimenti della co-  scienza nello sconfinato, assalgono tempestosamente i suoi  adoratori e agli estasiati si schiudon i tesori del regno.  terrestre. Anche intorno a Dioniso accorrono i morti, che  lo seguono a ‘primavera quand’egli porta i fiori. Amore  e selvaggia ebbrezza, gelidi brividi e beatitudini si ten-  gon per mano e gli fan corteo; ciascuno degli antichis-  simi tratti essenziali della divinità della Terra son in  lui accresciuti a dismisura," ma pure infinitamente ap-  profonditi, Questa figura divina che tutto trascina con  sè è ben nota ad Omero, che chiama il dio « forsennato >,  e ha vivo davanti agli occhi l’andar selvaggio delle sue  accompagnatrici che agitano il tirso. Ma tutto. ciò non è  che similitudine, come quando paragona ad una Menade  Andromaca, la quale presa da oscuro presentimento si  precipita fuor dalle sue stanze (Iliade; cfr.  Inno Omer. a Dem.), come pure quando occasional-  mente narra memorabili storie (Iliade.; Odissea). Nel vivo mondo di Omero le Menadi non  trovan posto e pure invano si cerca Dioniso, che non vi  ha parte veruna. Dioniso « dispensator di gioia » (Esio-  do, Erga 614) gli è altrettanto estraneo quanto l’uomo  doloroso annunziatore dell’al di là. L’eccesso, che gli è  proprio, non s’accorda con la chiarezza che contraddi-  stingue qui tutto ciò ch’è realmente divino.   Da questa chiarezza sono assai lontane anche le al-  tre figure del ciclo della Terra. Sian pure intessute. di  dolcissimo incanto, e portin sulla fronte la più sublime  gravità. Il sapere e la sacra legge stanno loro al fianco.  Ma sono.legate alla materia terrestre e partecipano della  sua oscura pesantezza e necessità. La loro benevolenza  è quella dell’elemento materno, ed il loro diritto ha la  rigidità di tutti i legami del sangue. Tutte arrivano  nella notte della morte, o meglio: la morte ed il passato  risalgono grazie a loro nel presente e nell’esistenza dei  viventi. Non v'è un ritrarsi dal teatro del mondo, nè il  trapassare dall’esistenza oggettiva in una sfera inferiore  nè una liberazione del campo di vita e d’azione da ciò  che una volta fu. Tutto ciò che fu rimane per sempre,  ed. eleva la sua esigenza, sempre con la medesima ron.  cretezza, dalla quale non c’è via di scampo. Ed è solo  una conferma di codesto carattere, il predominio ch’'ha  nel mondo delle divinità di questa sfera, il sesso femmi.  nile. Nella cerchia celeste della religione omerica invece  sì trae in disparte in modo tale, che non può essere casuale. Gli dèi che dominano colà, non solo: son di sesso  maschile, sibbene rappresentano decisamente lo spirito  virile. Ed anche quando Atena si unisce ad Apollo e-a  Zeus in suprema trinità, è lei a rinnegare esplicitamente  il femmineo e a farsi genio del mascolino. I -m   Dirisioti ^LT^b  !-' 0' 25outonV %tt^^\t Hitiratp. THE ELEUSINIAN AND BACCHIC MYSTERIES. A DISSERTATION. TAYLOR, TXANSL4TOH OF PLATO. PLOTINTJS," POEPITIllY," lAMBLICHCS." "PEOCI-nS,'  ABISTOTLE," ETC., ETC. EDITED, WITH INTRODUCTION, NOTES, EMENDATIONS, AND GLOSSARY. WILDER.  Ev Tats TEAETAI2 KaOapcrei'; rjyoyi'Tai (cai ncpip-  pai'TTjpia (Cat ayviiTfjiOL, a nof (v aTTOpprjToi; Spuiixeviav,  (tat TT)! TOD Oeiov |U.€T0U(rias yviJifauiiaTa etaiv.   Pkoclus ; Manuscript Commentary upon Plato, I. AMbiadet. WITH 85 ILLUSTRATIONS RAWSON. by  BulI TDN. The DeVinne Press. TO MY OLD FRIEND   ^cniarti OSuatitcl)   THE GREATEST BOOKSELLER OF ANCIENT  OR MODERN TIMES   CbiB Dolttme is reBpcctfuIl? Jeiiicateli   BY THE PUBLISHER Bacchic Ceremonies. Bacchus ami Nymphs. Pluto, Prosevpiua, aud Furies. Eleusinian Prieatesses. Bacchante and Faun. Faun and Bacchus. Fable is Love's World, Poem by Schiller. Eleusinian Mysteries. Bacchic Mysteries. Hymn to Minerva; Orphic Hymns. Hymn of Cleanthes Klensiiiiiiii Mj'steriea. '"Tis not merely  The human breing's pride that peoples space  With life and mystical predominance,  Since likewise for the stricken heart of Love  This visible nature, and this common world  Is all too narrow ; yea, a deeper import  Lurks in the legend told my infant years  That lies upon that truth, we live to learn,  For fable is Love's world, his home, his birthplace ;  Delightedly he dwells 'mong fays and talismans,  And spirits, and delightedly believes  Divinities, being himself divine.  The intelligible forms of ancient poets.  The fair humanities of Old Religion,  The Power, the Beauty, and the Majesty,  That had their haunts in dale or piny motmtain, Or forests by slow stream, or pebbly spring. Or chasms or wat'ry depths;  all these have vanished.  They live no longer in the faith of Eeason,  But still the heart doth need a language ; still  Doth the old instinct bring back the old names. Schiller : The Piccolomini Apollo autl Muaes. ITolM.'tll.MlS. In offering- to the public Taylor's admirable treatise upon the Elensiidan  and Bacchic Mysteries, it is proper to insert a few words of explanation. These observances once represented the spiritual life of (Ireeee, and were considered  for two thousand years and more the appointed means  for regeneration through an interior union with the  Divine Essence. However absurd, or even offensive  they may seem to us, we should therefore hesitate long before we venture to lay desecrating hands on what  others have esteemed holy. We can learn a valuable  lesson in this regard from the Roman philosophers, who had learned to treat the popular religious rites with mirth, but always considered the Eleusinian  Mysteries with the deepest reverence. It is ignorance which leads to profanation. Men  ridicule what they do not properly understand. Alcibiades was drunk when he ventured to touch what his countrymen deemed sacred. The undercurrent of this  worhl is set toward one goal; and inside of human  credulity  call it human weakness, if you please   is a power almost infinite, a holy faith capa))le of  apprehending the siipremest truths of all Existence.  The veriest dreams of life, pertaining as they do to  " the minor mystery of death," have in them more than  external fact can reach or explain; and Myth, however much she is proved to be a child of Earth, is also  received among men as the child of Heaven. The  Cinder- Wench of the ashes will become the Cinderella  of the Palace, and be wedded to the King's Son. The instant that we attempt to analyze, the sensible,  palpable facts upon which so many try to build disappear beneath the surface, like a foundation laid upon  quicksand. " In the deepest reflections," says a distinguished writer, '' all that we call external is only the  material basis upon which our dreams are built; and  the sleep that surrounds life swallows up life,  all  but a dim wreck of matter, floating this way and that,  and forever evanishing from sight. Complete the analysis, and we lose even the shadow of the external  Present, and only the Past and the Future are left  us as our sure inheritance. This is the first initiation,  the vailing [mnesis] of the eyes to the external.  But as epo])fm, by the synthesis of this Past and Future  in a living nature, we obtain a higher, an ideal  Present, comprehending within itself all that can be  real for us within us or without. This is the second initiation in which is uuvailed to us the Present as a  new birth from our own life. Thus the great problem  of Idealism is symbolically solved in the Eleusinia. These were the most celebrated of all the sacred  orgies, and were called, by way of eminence. The  Mysteries. Although exhibiting apparently the features of an Eastern origin, they were evidently copied  from the rites of Isis in Egypt, an idea of which, more  or less correct, may be found in The Mefamotyhoses of APULEIO and The Epicurean by Moore. Every  act, rite, and person engaged in them was symbolical;  and the individual revealing them was put to death  without mercy. So also was any uninitiated person who  happened to be present. Persons of all ages and both  sexes were initiated; and neglect in this respect, as in  the case of Socrates, was regarded as impious and  atheistical. It was required of all candidates that  they should be first admitted at the MiJo'a or Lesser  Mysteries of Agree, by a process of fasting called ^j«f/'/ficafion, after which they were styled mysfce, or initiates. A year later, they might enter the higher degree.  In this they learned the aporrheta, or secret meaning of  the rites, and were thenceforth denominated ephori, or  epoptm. To some of the interior mysteries, however,  only a very select number obtained admission. From  these were taken all the ministers of holy rites. The  Hierophant who presided was bound to celibacy, and  requii'ed to devote his entire life to his sacred office.  Atlantic Monthly, He had three assistants,  the torch-bearer, the lierux or  crier, and the minister at the altar. There were also a  hasileus or king, who was an archon of Athens, four  curators, elected by suffrage, and ten to offer sacrifices. The sacred Orgies were celebrated on every fifth  year; and began on the 15th of the month Boedromiau  or September. The first day was styled the agurmos or  assembly, because the worshipers then convened. The  second was the day of purification, called also alacU  mystaij from the proclamation : ''To the sea, initiated  ones ! " The third day was the day of sacrifices; for  which purpose were offered a mullet and barley from  a field in Eleusis. The officiating persons were forbidden to taste of either; the offering was for Achtheia  (the sorrowing one, Demeter) alone. On the fourth  day was a solemn procession. The JcalafJios or sacred  basket was borne, followed by women, ciske or chests  in which were sesamum, carded wool, salt, pomegranates, poppies,  also thyrsi, a serpent, boughs of ivy,  cakes, etc. The fifth day was denominated the day of  torches. In the evening were torchlight processions  and much tumult.   The sixth was a great occasion. The statue of  lacchus, the son of Zeus and Demeter, was brought  from Athens, by the laccJiogoroi, all crowned with  myrtle. In the way was heard only an uproar of singing and the beating of brazen kettles, as the votaries  danced and ran along. The image was borne " through  the sacred Gate, along the sacred way, halting by the sacred fig-tree (all sacred, mark you, from Eleiisinian  associations), where the procession rests, and then  moves on to the bridge over the Cephissns, where again  it rests, and where the expression of the wildest grief  gives place to the trifling farce,  even as Demeter, in  the midst of her grief, smiled at the levity of lambe  in the palace of Celeus. Through the 'mystical entrance ' we enter Eleusis. On the seventh day games  are celebrated; and to the victor is given a measure  of barley,  as it were a gift direct from the hand of  the goddess. The eighth is sacred to ^sculapius, the  Divine Physician, who heals all diseases; and in the  evening is performed the initiatory ritual.   " Let us enter the m3\stic temple and be initiated,   though it must be supposed that, a year ago, we were  initiated into the Lesser Mysteries at Agrae. We must  have been mystm (vailed), before we can become epoptce  (seers); in plain English, we must have shut our  eyes to all else before we can behold the mysteries.  Crowned with myrtle, we enter with the other initiates  into the vestibule of the temple,  blind as yet, but the  Hierophaut within will soon open our eyes. But first,  for here we must do nothing rashly,  first we must wash in this holy water; for it is with  pure hands and a pure heart that we are bidden to  enter the most sacred enclosure [(xu(rTuoff (f-nxog, tnusfijios  seJcos]. Then, led into the presence of the Hierophaut, In the Oriental countries the designation nns Peter (an interpreter), appears to have been the title of this personage; and he reads to us, from a book of stone [jreTpajfjia, petroma]^  tliiuii's which we must not divulge on pain of death.  Let it suffice that they fit the place and the occasion;  and though you might laugh at them, if they were  spokiMi outside, still you seem very far from that mood  now, as you hear the words of the old man (for old he  he always was), and look upon the revealed symbols.  And very far, indeed, are you from ridicule, when  Demeter seals, by her own peculiar utterance and signals, by vivid coruscations of light, and cloud piled  upon cloud, all that we have seen and heard from her  sacred priest; and then, finally, the light of a serene  wonder fills the temple, and we see the pure fields of  Elysium, and hear the chorus of the Blessed;  then,  not merely by external seeming or philosophic interpretation, but in real fact, does the Hierophant become  the Creator [(hi-^'ovpyo;, demiourgos] and revealer of all  things; the Sun is but his torch-bearer, the Moon his  attendant at the altar, and Hermes his mystic herald *  [>c7]pu|, kerux]. But the final word has been uttered  ' Conx Om pax.' The rite is consummated, and we are  vpoptit forever ! "  Those who are curious to know the myth on which   the petroma consisted, notably enougli, of two tablets of stone.  There is in these facts some reminder of the peculiar circumstances of the Mosaic Law which was so preserved; and also of  the claim of the Pope to be the successor of Peter, the hierophant  or interpreter of the Christian religion.  * Porphyry.     Introduction. 19   the " mystical drama " of the Eleusinia is founded will  find it in any Classical Dictionary, as well as in these  pages. It is only pertinent here to give some idea of  the meaning. That it was regarded as profound is  evident from the peculiar rites, and the obligations imposed on every initiated person. It was a reproach not  to observe them. Socrates was accused of atheism, or  disrespect to the gods, for having never been initiated.*  Any person accidentally guilty of homicide, or of any  crime, or convicted of witcihcraft, was excluded. The  secret doctrines, it is supposed, were the same as are  expressed in the celebrated Hymn of Cleanthes. The  philosopher Isocrates thus bears testimony : " She  [Demeter] gave us two gifts that are the most excellent; fruits, that we may not live like beasts; and that  initiation  those who have part in which have sweeter  hope, both as regards the close of life and for all  eternity." In like manner, Pindar also declares : " Happy  is he who has beheld them, and descends into the Underworld: he knows the end, he knows the origin of life."  The Bacchic Orgies were said to have been instituted, Ancient Sijmhol-Worsliip. "Socrates was not  initiated, yet after drinking the hemlock, he addressed Crito :  ' We owe a cock to ^sculapius.' This was the peculiar offering  made by initiates (now called kerJcnophori) on the eve of the last  day, and he thus symbolically asserted that he was about to receive the great apocalypse. See, also, " Progress of Religious Ideas," by Child; and " Discourses on the Worship of Priapus," by  EiCHARD Payne Knight.  or iiy)re probably reformed T)y Orpheus, a mythical  personage, supposed to have flourished in Thrace.*  The Orphic associations dedicated themselves to the  worship of Bacchus, in which they hoped to find the  gratification of an ardent longing after the worthy and  elevating influences of a religious life. The worshipers  did not indulge in unrestrained pleasure and frantic  enthnsiasni, but rather aimed at an ascetic purity of   * Euripides : Ehaesns. "Orpheus showed forth the rites of  the hidden Mysteries."   Plato : ProUifforas. The art of a sophist or sage is ancient,  but tlie men who proposed it in ancient times, fearing the odium  attached to it, sought to conceal it, and vailed it over, some under  the garb of poetry, as Homer, Hesiod, and Simonides : and others  under that of the Mysteries and prophetic manias, such as Orpheus,  Musseus, and their followers."   Herodotus takes a different view  ii. 49. "Melampus, the son  of Amytheon," he says, "introduced into Greece the name of  Dionysus (Bacchus), the ceremonial of his worship, and the procession of the phallus. He did not, however, so completely apprehend the whole doctrine as to be able to communicate it  entirely : but various sages, since his time, have carried out his  teaching to greater perfection. Still it is certain that Melampus  introduced the phallus, and that the Greeks learnt from him the  ceremonies which they now practice. I therefore maintain that  Melampus, who was a sage, and had acquired the art of divination, having become acquainted with the worship of Dionysus  tln-ough knowledge derived from Eg>ijt, introduced it into Greece,  with a few slight changes, at the same time rhat he brought in  various other practices. For I can by no means allow that it is by  mere coincidence that the Bacchic ceremonies in Greece are so  nearly the same as the Egyptian.  y  r^isi  Etruscan Kleusiniau Ci-renionies.  life and manners. The worship of Dionysus \yas the  center of their ideas, and the starting-point of all their  speculations upon the world and human nature. They  believed that human souls were confined in the body as  in a prison, a condition which was denominated genesis  or generation; from which Dionysus would liberate  them. Their sufferings, the stages by which they  passed to a higher form of existence, their lafharsis  or purification, and their enlightenment constituted the  themes of the Orphic writers. All this was represented  in the legend which constituted the groundwork of the  mystical rites.   Dionysus-Zagreus was the son of Zeus, whom he had  begotten in the form of a dragon or serpent, upon the  person of Kore or Persephoneia, considered by some  to have been identical with Ceres or Demeter, and by  others to have been her daughter. The former idea is  more probably the more correct. Ceres or Demeter  was called Kore at Cnidos. She is called Phersephatta  in a fragment by Psellus, and is also styled a Fury.  The divine child, an avatar or incarnation of Zeus, was  denominated Zagreus, or Chakra (Sanscrit) as being  destined to universal dominion. But at the instigation  of Hera* the Titans conspired to murder him. Ac * Hera, generally regarded as the Greek title of Juno, is not the  definite name of any goddess, but was used by ancient writers as  a designation only. It signifies doniina or lady, and appears to be  of Sanscrit origin. It is applied to Ceres or Demeter, and other  divinities. cordingly, one day while he was contemplating a mirror,* they set upon him, disguised under a coating of  plaster, and tore him into seven parts. Athena, however, rescued from them his heart, which was swallowed  by Zeus, and so returned into the paternal substance,  to be generated anew. He was thus destined to be  again born, to succeed to universal rule, establish the  reign of happiness, and release all souls from the  dominion of death.   The hypothesis of Mi-. Taylor is the same as was  maintained by the philosopher Porphyry, that the  Mysteries constitute an illustration of the Platonic   * The mirror was a part of the symbolism of the Thesmophoria,  and was iised in the search for Atmu, the Hidden One, evidently  the same as Tammuz, Adonis, and Atys. See Exodus xxxviii. 8;  1 Samuel ii. 22; and Esekiel viii. 14. But despite the assertion of  Herodotus and others that the Bacchic Mysteries were in reality  Egyptian, there exists strong probability that they came originally  from India, and were Sivaic or Buddhistical. Core-Persephoneia  was but the goddess Parasu-pani or Bhavani, the patroness of the  Thugs, called also Goree; and Zagi'eus is from Chakra, a country  extending from ocean to ocean. If this is a Turanian or Tartar  Story, we can easily recognize the "Horns" as the crescent worn  by lama-priests : and translating god-names as merely sacerdotal  designations, assume the whole legend to be based on a tale of  Lama Succession and transmigration. The Titans would then be  the Daityas of India, who were opposed to the faith of the northern tribes; and the title Dionysus but signify the god or chiefpriest of Nysa, or Mount Meru. The whole story of Orpheus, the  institutor or rather the reformer of the Bacchic rites, has a Hindu  ring all through.  FILOSOFIA. At first sight, this may l)e hard to believe;  but we must know that no pageant could hold place so  long, without an under-meaning. Indeed, Herodotus  asserts that " the rites called Orphic and Bacchic are in  reality Egyptian and Pythagorean. The influence of  the doctrines of Pythagoras upon the Platonic system  is generally acknowledged. It is only important in  that case to understand the great philosopher correctly;  and we have a key to the doctrines and symbolism of  the Mysteries.   The first initiations of the Eleusinia were called  Telefce or terminations, as denoting that the imperfect  and rudimentary period of generated life was ended  and purged off; and the candidate was denominated a  mijsfa, a vailed or liberated person. The GreaterMysteries completed the work; the candidate was more  fully instructed and disciplined, becoming an epopta  or seer. He was now regarded as having received the  arcane principles of life. This was also the end sought  by philosophy. The soul was believed to be of composite nature, linked on the one side to the eternal  world, emanating from God, and so partaking of The Divine (IL DIVINO). On the other hand, it was also allied to the  phenomenal or external world, and so liable to be  subjected to passion, lust, and the bondage of evils.  This condition is denominated genemtion; and is supposed to be a kind of death to the higher form of life.  Evil is inherent in this condition; and the soul dwells  * Herodotus: ii. 81 in the body as in a prison or a grave. In this state, and  previous to the discipline of education and the mystical initiation, the rational or intellectual element, which  Paul denominates the spiritual, is asleep. The earthlife is a dream rather than a reality. Yet it has  longings for a higher and nobler form of life, and its  affinities are on high. "All men yearn after God,"  says Homer. The object of Plato is to present to us the  fact that there are in the soul certain ideas or principles, innate and connatural, which are not derived  from without, but are anterior to all experience, and  are developed and brought to view, but not produced  by experience. These ideas are the most vital of all  truths, and the purpose of instruction and discipline  is to make the individual conscious of them and  willing to be led and inspired b}^ them. The soul  is purified or separated from evils by knowledge,  truth, expiations, sufferings, and prayers. Our life  is a discipline and preparation for another state of  being; and resemblance to God is the highest motive  of action.*   * Many of the early Christian writers were deeply imbued with  the Eclectic or Platonic doctrines. The very forms of speech were  almost identical. One of the four Gospels, bearing the title " according to John,'''' was the evident product of a Platonist, and  hardly seems in a considerable degree Jewish or historical. The  epistles ascribed to Paul evince a great familiarity with the Eclectic philosophy and the peculiar symbolism of the Mysteries, as  well as with the Mithraic notions that had penetrated and  permeated the religious ideas of the western countries.  Proclus does not hesitate to identify the theological  doctrines with the mystical dogmas of the Orphic  system. He says : '' What Orpheus delivered in hidden  allegories, Pythagoras learned when he was initiated  into the Orphic Mysteries.; and Plato next received a  perfect knowledge of them from the Orphean and  Pythagorean writings."   Mr. Taylor's peculiar style has been the subject of  repeated criticism; and his translations are not accepted  by classical scholars. Yet they have met with favor at  the hands of men capable of profound and recondite  thinking; and it must be conceded that he was endowed  with a superior qualification,  that of an intuitive perception of the interior meaning of the subjects which  he considered. Others may have known more Greek,  but he knew more Plato. He devoted his time and  means for the elucidation and dissemination of the doctrines of the divine philosopher; and has rendered into  English not only his writings, but also the works of  other authors, who affected the teachings of the great  master, that have escaped destruction at the hand of  Moslem and Christian bigots. For this labor we cannot be too grateful.   The present treatise has all the peculiarities of style  which characterize the translations. The principal difficulties of these we have endeavored to obviate  a labor  whicli will, we trust, be not unacceptable to readers.  The book has been for some time out of print; and no  later writer has endeavored to replace it. There are many who still cherish a regard, almost amounting to  veneration, for the author; and we hope that this reproduction of his admirable explanation of the nature and  object of the Mysteries will prove to them a welcome  undertaking. There is an increasing interest in philosophical, mystical, and other antique literature, which  will, we believe, render our labor of some value to a  class of readers whose sympathy, good-will, and fellowship we would gladly possess and cherish. If we have  added to their enjoyment, we shall be doubly gratified.   A. W.  V'euus ami Proserpina iu Hailes. Rape of Proserplua. As there is nothing more celebrated than the Mys- ^l\^ teries of the ancients, so there is perhaps nothingwhich has hitlierto been less solidly known. Of the  trnth of this observation, the liberal reader will, I persnade myself, be fully convinced, from au attentive  perusal of the following sheets; in which the secret  meaning of the Eleusinian and Bacchic Mysteries is unfolded, from authority the most respectable, and from  a philosophy of all others the most venerable and  august. The authority, indeed, is principally derived  from manuscript writings, which are, of course, in the  possession of but a few; but its respectability is no  more lessened by its concealment, than the value of a  diamond when secluded from the light. And as to the  philosophy, by whose assistance these Mysteries are developed, it is coeval with the universe itself; and, however its continuity maybe broken by opposing systems,  it will make its appearance at different periods of time, as  long as the sun himself shall continue to illuminate the world. It has, indeed, and may hereafter, be violently assaulted l)y delusiv^e opinions; but the opposition will be  just as imbecile as that of the waves of the sea against a  temple built on a rock, which majestically pours them   back,   Broken and A^anquish'd, foaming to the main. Pallas, Venus, aud Diaua.  THE ELEUSINIAN AND BACCHIC. Dionysus as God of the Sun.     a. SECTION I. SJ   WARBURTON, in Ms Divine  Legation of Moses, has ingeniously  proved, that the sixth book of Virgil's  ^neid represents some of the dramatic  exhibitions of the Eleusinian Mysteries;  but, at the same time, has utterly failed  in attempting to unfold their latent meaning, and obscure though important end.  By the assistance, howevei", of the Platonic philosophy, I have been enabled to  correct his errors, and to vindicate the  wisdomof antiquity from his aspersions The profounder esoteric doctrines of the ancients were  denominated wisdom, and attevwnrd philosophy, and also the [piosis  or knowledge. They related to the human soul, its divine parentEleiisinian and   by a genuine account of this sublime  institution; of which the foUowing observations are designed as a comprehensive  view.   In the fii'st place, then, I shall present  the reader with two superior authorities,  who perfectly demonstrate that a part of  the shows (or dramas) consisted in a  representation of the infernal regions; authorities which, though of the last consequence, were unknown to Dr. Warbiu'ton  himself. The first of these is no less a  person than the immortal Pindar, in a  fragment preserved by Clemens Alexandrinus : ^' 'A/J.a %at IJtvoapo^ Trspi xcov sv EXsaacvt {Jiua'CTjpuov Xsycov STrcrpspsL OXpcoc, oart? But Pindar, speaking of the Eleusinian  Mysteries, says : Blessed is he who, having   age, its supposed degradation from its high estate by becoming  connected with " generation " or the physical world, its onward  progi-ess and restoration to God by regenerations, popularly supposed to be transmigrations, etc.  A. W.  " Stroma la, book iii.  Bacchic Mysteries. seen those common concerns in the underworld, knows both the end of hfe and its  divine origin from Jupiter." The other of  these is from Prochis in his Commentary  on Plato's Politicus, who, speaking concerning the sacerdotal and symbolical mythology, observes, that from this mythology  Plato himseK establishes many of his own  peculiar doctrines, " since in the Phcedo he  venerates, mtli a becoming silence, the  assertion delivered in the arcane discourses,  that men are placed in the body as in a  prison, secured by a guard, and testifies^  accordlny to the mystic cerem^onies, the different allotments of purified and unpurified souls in Hades, their severed conditions,  and the three-forJicd path from the pecidiar  places where they tcere; and this was shown  accordiny to traditionary institutions; every  part of which is full of a symbolical representation, as in a dream, and of a description which treated of the ascending and  descending ways, of the tragedies of Dionysus (Bacchus or Zagreus), the crimes of  the Titans,, the three ways in Hades, and Eleusinian and   the wandering of everything of a similar  hind.^^  "Ar/Aot 5s sv <l>7.too)vt xov ts sv   6'. avi^pcoTTOi, aiyirj xtj Trps'iro'jar^ cs^3(ov, xai  ■:7.c -csXsrac (lege y.7.o %7.-'y. -ac tsXs-c/.) (JLCtp-:'jpo{Ji£voc xcov ^La'^optov Xr^^scov -r^; ^^T^'^  %£%ai)-ap|i.£VTj; TS %7.c a^a^aptoy zic, o/joo   rj.lZirjOQ1]Z, r.rjX ZIQ ZS GySGSlC, WJ, V:7.C Xa?   xpio^oDc 7.7:0 x(ov ooGKov 7,7/. x(ov (lege %ai  %7.x7. t(ov), Traipi^cov {)-£a{i(ov ':£7,{i7.ipo[icVOc. a  5'^ z-qc, ao{JL[3o)d%7jc dTuavta ^stopta; sari {xsara,   7,7.L t(OV 7C7.p7. TOIC TZOl'flZrjlC, {)-p'jXXo?J{J.£V(OV   rj.yo^my zs 7.7.t 7,ai)-ooo)v, tcov ts $iovyai7.7C(ov  3'jvi)"^{Ji7.tcov, y.rj.1 xcov TiTy-vizfov onxapiYjixa -(OV XSYOJXSVCOV, 'X.7.1 X(OV sv 4^^'-> TpCOOCOV,  7,7.!. XT^C TZKrjyr^C, Y,rjx X(OV T&tOUTCOV d'7L7.VXa)V." *   Ha^dllg iDremised thus much, I now proceed to prove that the th'amatic spectacles .of  the Lesser Mysteries f were designed by the  ancient theologists, their founders, to signify  occultly the condition of the unpurified soul   * Commentary on the Statesman of Plato, page 374.   t The Lesser Mysteries were celebrated at Agrse; and the persons there initiated were denominated Mi/sta: Only such could  be received at the sacred rites at Eleusis.  Bacchic Mysteries. invested with an earthly body, and enveloped in a material and physical nature; or,  in other words, to signify that such a soul in  the present life might be said to die, as far  as it is possible for a soul to die, and that  on the dissolution of the present body, while  in this state of impuiity, it would experience  a death still more permanent and profound.  That the soul, indeed, till purified by philosophy,* suffers death through its union with  the body was obvious to the philologist  Macrobius, who, not penetrating the secret  meaning of the ancients, concluded from  hence that they signified nothing more than  the present body, by their descriptions of  the infernal abodes. But this is manifestly  absurd; since it is universally agreed, that  all the ancient theological poets and philosophers inculcated the doctrine of a future  state of rewards and punishments in the  most full and decisive terms; at the same  time occultly intimating that the death of  the soul was nothing more than a profound  union with the ruinous bonds of the body. FILOSOFIA here relates to discipline of the life. Eleusinian and   Indeed, if these wise men believed in a  future state of retribution, and at the same  time considered a connection with the bodyas death of the soul, it necessarily follows,  that the soul's punishment and existence  hereafter are nothing more than a continuation of its state at present, and a transmigration, as it were, from sleep to sleep, and  from dream to dream. But let us attend  to the assertions of these divine men concerning the soul's union with a material  nature. And to begin with the obscure and  profound Heracleitus, speaking of souls  imembodied: "We live their death, and we  die their life." Z(o{j.£v tov sxslvcov i)-7.v7.':ov,  TsO-vT/Aajisv OS xov £%£lv(ov jiLov. And Empedocles, deprecating the condition termed  " generation," beautifully says of her :   The aspect changing with destruction dread,  She makes the Uv'okj pass into the dead.   Ex \i.z\i yx^ Cojtuv zv.%-1'. VcXpa siOi a|JLj'.j3ojv.   And again, lamenting his connection with  this corporeal world, he pathetically exclaims:     Bacchic Mysteries. 37   For this I weep, for this indulge my woe,   That e'er my soul such novel realms should know.   KXauaa te v.ai xiuxuaot, lowv «afjv*r]i)'sry. ytupov. *   Plato, too, it is well known, considered the  body as the sepulchre of the soul, and in  the Crcifijlus concurs with the doctrine of  Orpheus, that the soul is x>^niished through  its union with body. This was likewise the  opinion of the celebrated Pythagorean, Philolaus, as is evident from the following remarkable passage in the Doric dialect, preserved by Clemens Alexandrinus in Strom at.  book iii. " Map-cupsovra 5s %c/.t oi TcrjXaifx.  tJ-soXoyoc IS y.r/.i \w,vzzic., 6)C, ^la ziyac, xqj-copiac,   £V a(o{i7.ic XGIJ-Ki) zzd-aizza.i.^' i. e. " The ancient  theologists and priests also testify that the  soul is united with the body as if for the  sake of punishment; f and so is buried in  body as in a sepulchre." And, lastly, Py * Greek it-ayxsiq mantels  more properly proi)hets, those filled  by the prophetic mania or eutheasm.   t More correctly  '* The soul is yoked to the body as if by way  of punishment," as culprits were fastened to others or even to  corpses. See PauVs Epistle to the liomans Eleusinian and   thagoras himself confii'ms the above sentiments, when he beautifully observes, according to Clemens in the same book, " that  wild fever tee see when airali'e is death; and  when asleep,- a dreamt brj^rxio;^ sa-rcv, oxoaa   But that the mysteries occultly signified this sublime truth, that the soul by  being merged in matter resides among the  dead both here and hereafter, though it follows by a necessary sequence from the preceding observations, yet it is indisputably confirmed, by the testimony of the great and  truly divine Plotinus, in Ennead I., book viii.  ''When the soul," says he, '*has descended into  generation (from its first divine condition)  she partakes of evil, and is carried a great  way into a state the opposite of her  first purity and integrity, to he entirely  merged in ivhich, is nothing more than to  fall into dark mire.^^ And again, soon after. The soul therefore dies as much as it is possible for the soul to die : and the death to her  is^ while Mptized or immersed in the present     Bacchic Mysteries. 39   hocly^ to descend into matter * and he wholly  subjected hy it; and after departing thence  to lie there till it shall arise and turn  its face away from the abhorrent filth.  This is what is meant hy the falling asleep  in Ifades, of those who have come there.'''' j   * Greek ^^>^'<], matter supposed to contain all the principles the  negative of life, order, and goodness.   tThis passage doubtless alludes to the ancient and beautiful  story of Cupid and Psyche, in which Psyche is said to fall asleep  in Hades; and this through rashly attempting to behold corporeal  beauty : and the observation of Plotinus will enable the profoimd  and contemplative reader to unfold the greater part of the mysteries contained in this elegant fable. But, prior to Plotinus,  Plato, in the seventh book of his Republic, asserts that such as  are unable in the present life to apprehend the idea of the good,  will descend to Hades after death, and fall asleep in its dark  abodes. 'Oq av |n-r] syrj o'.op:::aj9'a', xto Xo-|'to, c/.tzo twv aXXtov  Ttavxojv a-^jXiuv ttjv too a-irj.x}oj) torav, v.r/'. inzr.zp £v It-'^'/'fJ 5oa  Tcavtcov sXsY/tuv o'.tt,nuy, jj.s v.ata oo^av aXka v.ax' ouatav npofl'U^oofjLsvo?  eXeY/s'.v, £V Traat. xooto'-c anxcoT: x«) Xo'^w oioi-opsufjxa'., ooxs awzo xo  cnY'/O'CiV rj'jozv cpYjas'.^ e'.osva: xov o'ixiui^ s^ovxa. oozz aWo o.-^rj.^-rr^  ooojv; a),),' s: TC'f] ^iocuXo'j x'.vo; fiiaz.xz'Z'j:., ooJ-/j o'jy. £i:'.-rf|iJ.-(^  c'^aTiXja&ai; xoci xov vjv fy.vj ovsipciTCoXouvxa, v.ao ijiivtoxovxa, Tip'.v  jvO'ao' E^spY''^^'*' 5 ^-^ aocio TipoxEpov acp:y.o|Ji.svov xsXscoi;  ETTixaxaSapO-aviiv; ». e. "He who is not able, by the exercise  of his reason, to define the idea of the good, separating it from all  other objects, and piercing, as in a battle, through every kind  of argument; endeavoring to confute, not according to opinion,  but according to essence, and proceeding through all these dialectical energies with an unshaken reason;  he who can not     40 Bacchic Mysteries.   TLVojisvcp 5s Yj [i£taAT;'|L;; rjjjxrjj^ Fcrpvciac yap   '^lavta^raacv sv ^(p rr^c avc/{xoco-Y^T;oc zotzco,  evd-rj. ooQ BIZ r/jizr^y siz 'p^ij^o^joy axorstvov  SGzrji 'jisacov.  A'JToD-VTjay.cc o'jv, (o;; 'j'''>Z''i '^•'^  iJ-avof xctL 6 ^avoLTO? ao'Tj, xai szl sv ^(o  GOiixazi p£J37.7uua{JL£VY^, sv 6Xy^ sarc y-c/.-aoovac,  7C/.C 7tXYjai)"^vac aozr^Q. Kai si^s/a^oaaYj; sxst  %£iai)'7.L, £(oc av7.opa{ji'(j y,c/.t rj/^2kr^ tzcoc, xy^v  G?J;tv £% ZOO fiopjSopo'j. Kac to'jto sb-'. to sv  4*^00 sXiJ-ovra sTzi'/.rj.za SapiJ-stv. Here the   aeeomplisli this, would j^ou not say, that he neither knows the  good itself, nor anything which is pi'operly denominated good?  And would you not assert that such a one, when he apprehends  any certain image of reality, apprehends it rather through the  medium of opinion than of science; that in the present life he  is sunk in sleep, and conversant with the delusion of dreams;  and that before he is roused to a vigilant state he will descend  to Hades, and be overwhelmed with a sleep perfectly profound."  Henry Davis ti-anslates this passage more critically: "Is not  the ease the same with i"eference to the good ? Whoever can not  logically define it, abstracting the idea of the good from all  others, and taking, as in a fight, one opposing argument after  another, and can not proceed with unfailing proofs, eager to rest  his ease, not on the ground of opinion, but of true being,  such a  one knows nothing of the r/ood itself, nor of any good whatever;  and should he have attained to any knowledge of the (jood, we  must say that he has attained it by opinion, not by science  {sKizzfiiirj); that he is sleeping and dreaming away his present  life; and before he is roused will descend to Hades, and there  be profoundly and perfectly laid asleep." vii. 14. Bacchic Mysteries. 43   reader may observe that the obsciu'e doctrine of the Mysteries mentioned by Plato  in the Phcedo^ that the nnpurified soul in a  future state lies immerged in mire, is beautifully explained; at the same time that our  assertion concerning their secret meaning  is not less substantially confirmed.* In a  similar manner the same divine philosopher,  in his book on the Beautiful, Ennead^ I., book  vi., explains the fable of Narcissus as an emblem of one who rushes to the contemplation of sensible (phenomenal) forms as if  they were perfect realities, when at the  same time they are nothing more than Uke  beautiful images appearing in water, fallacious and vain. " Hence," says he, " as Narcissus, by catching at the shadow, plunged  himself in the stream and disappeared, so  he who is captivated by beautiful bodies,  and does not depart fi'om their embrace,  is precipitated, not with his body, but with   * Phcedo, 38. " Those who instituted the Mysteries for us appear to have intimated that whoever shall arrive in Hades unptirified and not initiated shall lie in mud; but he who arrives there  purified and initiated' shall dwell with the gods. For there are  many hearers* of the wand or thyrsus, but few who are inspired."     44 Eleusiniari and   his soul, into a darkness profound and repugnant to intellect (the higher soul),* through  which, remaining bhnd both here and in  Hades, he associates with shadows." Tov   T(ov, Tcai [j--^ ojjfiEiQ^ 00 t(o (j{\)\w-i.^ zr^ os '\'y/ri   -iX.rjXOL^O'jezrM^ BIC, axOTTStVa 7.rj.l azsrj'K'fj TO) vco  [5ai)-Tj, SvO-a T'JCpXo? SV O^d^JJ {JL£V(0V, /.oll sv taoi^a %q:x£t a%iat? oovsaTL And what still  farther confirms our exposition is that matter was considered by the Egyptians as a  certain mire or mud. " The Egyptians,"  says Simplicius, " called matter, which they  symbolically denominated water, the dregs  or sediment of the first life; matter being,  as it were, a certain mire or mud.f Aco xat  AiyuTTtioi TTjV Z'qc, xpcoxr^c C(t)'^/C, y^v 'jdcop Gtj\i|5oAt%(oc sxaXofjv, 67roaxai)-{jLT;v rr^v 'jXtjv sXsyov, oiov ihjv ziya ooaav. So that fi*om all   * Intellect, Greek vouc, nous, is the higher faculty of the mind.  It is substantially the same as the pncH))ia, or spirit, treated of in  the New Testament; and hence the term '^ iiifcUectual," as used  in Mr. Taylor's translation of the Platonic writers, may be  pretty safely read as spiritual, by those familiar with the Christian cultus. * A. W.   t Physics of Aristotle.     Bacchic Mysteries. 45   tliat has been said we may safely conclude  with Ficinus, whose words are as express to  our purpose as possible. " Lastly," says he,  "that I may comprehend the opinion of the  ancient theologists, on the state of the soul  after death, in a few words : tlieij considered^  as we have elsewhere asserted, things divine  as the only realities^ and that all others  were only the images and shadows of  truth. Hence they asserted that prudent  men, who earnestly employed themselves in  divine concerns, were above all others in a  vigilant state. But that imprudent [/. e.  without foresight] men, who pursued objects  of a different nature, being laid asleep, as it  were, were only engaged in the delusions  of dreams; and that if they happened to  die in this sleep, before they were roused,  they would be afflicted with similar and  still more dazzling visions in a future state.  And that as he who in this life pursued  realities, would, after death, enjoy the highest truth, so he who pursued deceptions  would hereafter be tormented with fallacies  and delusions in the extreme : as the one  Eleusinian and   would be delighted with true objects of  enjoyment, so the other would be tormented with delusive semblances of reality."  Denique ut priscormn theologorum  sententiam de statu animae post mortem  paucis comprehendam : sola di\ina (ut alias  diximus) arbitrantur res veras existere, rehqua esse rerum verarum imagines atque  umbras. Ideo prudentes homines, qui divinis incumbunt, prae ceteris vigilare. Impmdentes autem, qui sectantur alia, insomniis  omnino quasi dormientes illudi, ac si in  hoc somno priusquam expergefacti fuerint  moriantur similibus post (hscessum et acrioribus visionibus angi. Et sicut emn qui  in vita veris incubuit, post mortem summa  veritate potiri, sic eum qui falsa sectatus  est, fallacia extrema torqueri, ut ille rebus  veris oblectetur, hie falsis vexetur simulachris. But notwithstanding this important truth  was obscurely hinted by the Lesser Mysteries, we must not suppose that it was gen *FiciNUs: De ImmortaL Aniin. book xviii.     Bacchic Mysteries. 47   erally known even to the initiated persons  themselves : for as individuals of almost  all descriptions were admitted to these rites,  it would have been a ridiculous prostitution  to disclose to the multitude a theory so abstracted and sublime.* It was sufficient to  instruct these in the doctrine of a future  state of rewards and punishments, and in  themeans of returning to the principles  from which they originally fell : for this   * We observe in the Netv Testament a like disposition on the part  of Jesns and Paul to classify their doctrines as esoteric and exoteric, ''the Mysteries of the kingdom of God" for the apostles,  and "pai'ables" for the multitude. "We speak wisdom," says  Paul, "among them that are perfect" (or initiated), etc. 1 Corintliians, ii. Also Jesus declares : "It is given to you to know the  Mysteries of the kingdom of heaven, but to them it is not given;  therefore I speak to them in parables : because they seeing, see  not, and hearing, they hear not, neither do they understand."   Matthew xiii., 11-13. He also justified the withholding of the  higher and interior knowledge from the untaught and ill-disposed,  in the memorable Sermon on the Mount.  Matthew vii. : Give ye not that which is sacred to the dogs,  Neither cast ye your pearls to the swine;  For the swine will tread them under their feet  And the dogs will turn and rend you."   This same division of the Christians into neophytes and perfect,  appears to have been kept up for centuries; and Godfrey Higgins  asserts that it is maintained in the Roman Cliurch.  A. W. Eleusinian and   last piece of information was, according to  Plato in the PJuedo, the ultimate design of  the Mysteries; and the former is necessarily  infeiTed from the present discourse. Hence  the reason why it was obvious to none hut  the Pythagorean and Platonic philosophers,  who derived their theology from Orpheus  himseK,* the original founder of these sacred  institutions; and why we meet with no information in this particular in any writer  prior to Plotinus; as he was the first who,  having penetrated the profound interior wisdom of antiquity, delivered it to posterity  without the concealments of mystic symbols  and fabulous narratives. VIBGIL NOT A PLATONIST. Hence too, I think, we may infer, with  the greatest probabihty, that this recondite  meaning of the Mysteries was not known   * Herodotus, ii. 51, 81.   "What Orpheus delivered in hidden allegories Pythagoras  learned when he was initiated into the Orphic Mysteries; and  Plato next received a knowledge of them from the Orphic and  Pythagorean writings."     Bacchic Mysteries. 49   even to VIRGILIO himself, who has so elegantly  described their external form; for notwithstanding the traces of Platonism which are  to be found in the ENEIDE, nothing of any  great depth occurs throughout the whole,  except what a superficial reading of Plato  and the dramas of the Mysteries might easily  afford. But this is not perceived by modern  readers, who, entirely luiskilled themselves in  Platonism, and fascinated by the charms of  his poetry, imagine him to be deeply knowing  in a subject with which he was most hkely  but slightly acquainted. This opinion is still  farther strengthened by considering that the  doctrine delivered in his Eclogues is perfectly  that of THE GARDEN (L’ORTO), which was the fashionable philosophy of the age of OTTAVIANO; and that there  is no trace of Platonism in any other part of  his works but the present book, which, containing a representation of the Mysteries,  was necessarily obliged to display some of  the principal tenets of this FILOSOFIA, so  far as they illustrated and made a part of  these mystic exhibitions. However, on the  supposition that this book presents us with, Eleusinian and   a faithful view of some part of these sacred  rites, and this accompanied with the utmost  elegance, harmony, and purity of versification, it ought to be considered as an invaluable rehc of antiquity, and a precious monument of venerable mysticism, recondite  wisdom, and theological information. This  will be sufficiently e\ddent from what has  been already delivered, by considering some  of the beautiful descriptions of this book in  their natural order; at the same time that  the descriptions themselves will corroborate  the present elucidations.   In the first place, then, when he says,   faeilis descensus Averno. Noetes atque dies patet atra janua ditis :   Sed revoeare gradum, superasqiie evadere ad aiiras,   Hoe opus, hie labor est. Pauei quos sequus amavit   Jupiter, aut ardens evexit ad sethera virtus,   Dis geniti potuere. Tenent media omnia silvae,   Cocytusque siuu labens, circumvenit atro 1   * Ancient Symhol-Worship, page 11, noie.   t Davidson^s Translation.  " Easy is the path that leads down to  hell; grim Pluto's gate stands open night and day : but to retrace  one's steps, and escape to the upper regions, this is a work, this is  a task. Some few, whom favoring Jove loved, or illustrious virtue     Bacchic Mysteries. is it not obvious, from tlie preceding explanation, that by Avernus, in this place, and  the dark gates of Pluto, we mnst understand  a corporeal or external nature, the descent  into which is, indeed, at all times obvious  and easy, but to recall our steps, and ascend'  into the upper regions, or, in other words,  to separate the soul from the body by the  purifying discipline, is indeed a mighty work,  and a laborious task ? For a few only, the favorites of heaven, that is, born with the true  philosophic genius,^ and whom ardent virtue  has elevated to a disposition and capacity for  divine contemplation, have been enabled to  accomplish the arduous design. But when  he says that all the middle regions are  covered with woods, this hkewise plainly intimates a material nature; the word silva^ as  is well known, being used by ancient writers  to signify matter, and implies nothing more  than that the passage leading to the barafh advaneecl to heaven, the sons of the gods, have effected it.  Woods cover all the intervening space, and Cocytus, gliding with  his black, winding flood, surrounds it."   * /. e., a disposition to investigate for the purpose of eliciting  truth, and reducing it to practice. Meusinian and   rum [abyss] of body, /. e. into profound  darkness and oblivion, is throngh the medium of a material nature; and this medium  is surrounded by the black bosom of Cocytus,* that is, by bitter weeping and lamentations, the necessary consequence of the soul's  union with a nature entirely foreign to her  own. So that the poet in this particular perfectly corresponds with EMPEDOCLE DI GIRGENTI in the  line we have cited above, where he exclaims,  alluding to this union.   For this I weej), for this indulge my icoe,   That e'er my soul such novel realms should know.   In the next place, he thus describes the  cave, through which ^neas descended to  the infernal regions :   Spelunea alta fuit, vastoque immanis hiatu,  Scrupea, tuta lacu nigro, raemorumque tenebris :  Quam super hand ulla? poterant impune volantes  Tendere iter pennis : talis sese halitus atris  Faueicus effundens supera ad eonvexa fevebat :  Unde locum Graii dixerimt nomiue Aornum 1   * Coeytus, lamentation, a river in the Underworld.  \ Davidson’s Trnnslation.  "There was a cave profound and  hideous, with wide yawning mouth, stony, fenced by a black lake,     Bacchic Mysteries. 53   Does it not afford a beautiful representation  of a corporeal nature, of which a cave, defended with a black lake, and dark woods,  is an obvious emblem *? For it occultly reminds us of the ever-flowing and obscin*e  condition of such a nature, which may be  said   To roll incessant with impetuous speed,  Like some dai'k river, into Matter's sea.   Nor is it with less propriety denominated  Aornus, i. e. destitute of birds, or a winged  nature; for on account of its native sluggishness and inactivity, and its merged condi and the gloom of woods; over which none of the flying kind were  able to wing their way unliurt; such exhalations issuing from its  grim jaws ascended to the vaulted skies; for w^iich reason the  Greeks called the place by the name of Aornos" (without birds).   Jacob Bryant says: " All fountains were esteemed sacred, but  especially those which had any preternatural quality and abounded  with exhalations. It was an universal notion that a divine energy  proceeded from these effluvia; and that the persons who resided  in their vicinity were gifted with a prophetic quality. The  Ammonians styled such fountains Ain Omphe, or fountains of the  oracle; o|j,<pY], oniphe, signifying ' the voice of God.' These terms  the Greeks contracted to Nofj-'fY], numphe, a nymph."  Ancient  Mythology.   The Delphic oracle was above a fissure, (jnnnous or hocca inferiore, of the earth, and the pythoness inhaled the vapors.  A. W.  Eleiisinian and   tion, being situated in the outmost extremity  of tilings, it is perfectly debile and languid,  incapable of ascending into the regions of  reality, and exchanging its obscure and degraded station for one every way splendid  and divine. The propriety too of sacrificing,  previous to his entrance, to Night and Earth,  is obvious, as both these are emblems of a  corporeal nature.   In the verses which immediately follow,    Ecee autem, priini sub limina solis et ortus,  Sub peclibus mugire solum, et juga eaepta movere  Silvarum, visaque canes ululare per umbram,  Adventante dea *   we may perceive an evident allusion to the  earthquakes, etc., attending the descent of  the soul into body, mentioned by Plato in  the tenth book of his Republic;\ since the   * " So, now, at the fii-st beams and rising of tlie sun, the earth  under the feet begins to rumble, the wooded hills to quake, and  dogs were seen howling through the shade, as the goddess came  hither "   i Republic, x, 16. "After they were laid asleep, and midnight  was approaching, there was thunder and earthquake; and they  were thence on a sudden carried upward, some one way, and  some another, approaching to the region of generation like stars."     Bacchic Mysteries. 55   lapse of the soul, as we shall see more fully  hereafter, was one of the important truths  which these Mysteries were intended to reveal. And the howling dogs are symbols  of material * demons, who are thus denominated by the Magian Oracles of Zoroaster,  on account of then" ferocious and malevolent  dispositions, ever baneful to the felicity of  the human soul. And hence Matter herseK  is represented by Synesius in his first Hymn,  with great propriety and beauty, as barking  at the soul with devoimng rage : for thus he  sings, addressing himself to the Deity :   Maxap 6c x:c popov oImc,  npacpUY^JV o\r/.'(ixa, v-w. yxc,  AvaouCj a/.p.«tt xoo'^po)  lyyoc, £? t^sov v.xo.vjzi.   Which may be thus paraphrased :   Blessed! thrice blessed! who, with winged speed,  From Hyle's t dread voracious bai'kiug flies,   * Material demons are a lower grade of spiritual essences that  are capable of assuming forms which make them perceptible by  the physical senses.  A. W.   t Hijle or Matter. All evil incident to human life, as is here  shown, was supposed to originate from the connection of the soul  to material substance, the latter being regarded as the receptacle     56 EleMsinian and   And, leaving Earth's obscnrity behind,  By a light leap, directs his steps to thee.   And that material demons actually appeared to the initiated previous to the lucid  visions of the gods themselves, is evident  from the following passage of Proclus in  his manuscript Commentary on tlie first  Alcibiades : sv zaic rj.-(iozazaic tcov tsaskov  Tzrjo zr^z GoO'j Tcapo'jaia? daqiovov /iS'Gvuov £%poAat xpocpacvov~ry.t, -Ani rxr.o aov aypavtcov  ayai^cov zic zr^v ohriy 7ipoy,i7.Xou{JLSvaL /. e. In the most interior sanctities of the Mysteries, before the presence of the god, the  rushing forms of earthly demons appear, and  call the attention from the immaculate good  to matter." And Pletho (on the Oracles),  expressly asserts, that these spectres appeared in the shape of dogs.   After this, ^neas is described as proceeding to the infernal regions, through profound  night and darkness :   Ibant obscixri sola sub nocte per iimbram,  Perque domos Ditis vaciias, et inania regna.   of everything evil. But why the soul is thus immerged and punished is nowhere explained.  A. W.     Bacchic Mysteries. Quale per ineertam lunam sub luce maligna  Est iter in silvis : ubi cfehim condidit umbra  Jupiter, et rebus nox abstulit atra colorem.*   And this with the greatest propriety; for  the Mysteries, as is well known, were celebrated by night; and in the Republic of  Plato, as cited above, souls are described as  falling into the estate of generation at midnight; this period being peculiarly accommodated to the darkness and oblivion of a  corporeal nature; and to tliis circumstance  the nocturnal celebration of the Mysteries  doubtless alluded.   In the next place, the following vivid  description presents itself to our view :   Vestibulum ante ipsum, primisqiie in faiicibus Orei  Luctus, et ultrices posuere eubilia Curte :  Pallentesque habitant morbi, tristisque senectus,  Et Metus, et mala suada Fames, ac turpis egestas;   *" They went along, amid the gloom under the solitary night,  through the shade, and through the desolate halls, and empty  realms of Dis [Pluto or Hades]. Such is a journey in the woods  beneath the unsteady moon with her niggard light, when Jupiter  has enveloped the sky in shade, and the black Night has taken  from all objects their color." Eleiisinian and   Terribiles visu forraje; Lethumque Laborque;  Turn consanguineus Lethi Sopor et mala mentis Gaudia, mortiferumqiie adverso in limine bellum  Ferreique Eumenidum thalami et Discordia demons,  Vipereum crinem vittis inuexa cruentis.  In medio ramos annosaque braehia pandit  Ulmus opaca ingens : quam sedem somnia vulgo  Vana tenere feruut, foliisqlie sub omnibus ba?i'ent.  Multaque prseterea variarum monstra f erarum :  Centauri in foribus stabiilant, Scyllseque biforines,  Et centumgeminus Briareus, ac bellua Lernse,  Horrendum stridens, flammisque armata Chimgera,  Gorgones Hai'pyigeque, et foi'mo tricorpoi-is umbrae.* ^   And surely it is impossible to draw a more  lively picture of the maladies with wliich a   * "Before the entrance itself, and in the first jaws of Hell, Grief  and vengeful Cares have placed their couches; pale Diseases inhabit there, and sad Old Age, and Fear, and Want, evil goddess  of persuasion, and unsightly Poverty  forms terrible to contemplate ! and there, too, are Death and Toil; then Sleep, akin to  Death, and evil Delights of mind; and upon the opposite threshold  are seen death-bringing War, and the iron marriage-couches of  the Furies, and raving Discord, with her viper-hair bound with  gory wreaths. In the midst, an Elm dark and huge expands its  boughs and aged limbs; making an abode which vain Dreams are  said to haunt, and under whose every leaf they dwell. Besides all  these, are many monstrous api^aritions of various wild beasts. The  Centaurs harbor at the gates, and double-formed Scyllas, the hundred-fold Briareus, the Snake of Lerna, hissing dreadfully, and  Chimasra armed with flames, the Gorgons and the Harpies, and  the shades of three-bodied form." Bacchic Mysteries. material natui'e is connected; of the sonl's  dormant condition tlirougli its union with  body; and of the various mental diseases to  which, through such a conjunction, it becomes unavoidably subject; for this description contains a threefold division; representing, in the first place, the external evil with  which this material region is replete; in the  second place, intimating that the life of the  soul when merged in the body is nothing but  a dream; and, in the third place, under the disguise of multiform and terrific monsters, exhibiting the various vices of our iiTational and  sensuous part. Hence Empedocles, in perfect  conformity w^th the first part of this description, calls this material abode, or the realms  of generation,  a-c£p:r£.oc /(opov,* a '^joyless  region^   "Where slaiighter, rage, ami countless ills reside;  EvO'a <povo5 Ts %0'zoc, tj v.rv. rj^Xtuv sftvsa llYjpWV   and into which those who fall, This and the other citations from Empedocles are to be found  in the book of Hieroeles on The Golden Verses of Pythagoras. Bacchic Mysteries. Through Ate's meads and dreadful darkness stray."     And hence lie justly says to sncli a soul,  that   "She flies from deity and heav'nly light,  To serve mad Discord in the realms of night." iSf.v.ti ij.a'.vo,asv(t) -tGOvo;. Where too we may observe that the Discordla  demens of Virgil is an exact translation of  the Nsixst {iaivo{j.£vco of Empeclocles.     In the hues, too, which immediately succeed, the sorrows and mournful miseries  attending the soul's union with a material  nature, are beautifully described.   Hinc via, Tartarei quae fert Aeherontis ad nndas;  Turbidus hie caeno vastaque voragine gurges  ^stuat, atque omuem Coeyto eructat arenam. And when Charon calls out to ^neas to "Here is the way whieli leads to the surging billows of Hell  [Acheron]; here an abyss turbid boils up with loathsome mud and  vast whirlpools; and vomits all its quicksand into Cocytus."      IJiaua auct Calisto.     Bacchic Mysteries. 63   desist from entering any farther, and tells  him,   " Here to reside delusive shades delight;   ''F.or nought dwells here but sleep and drowsy night. Umbrarum hie locus est, Somni Noctisque soporse   nothing can more aptly express the condition of the dark regions of body, into which  the soul, when descending, meets with nothing but shadows and drowsy night : and  by persisting in her course, is at length lulled  into profound sleep, and becomes a true inhabitant of the phantom-abodes of the dead.   ^neas having now passed over the Stygian lake, meets with the three-headed monster Cerberus,* the guardian of these infernal  abodes :   Tandem trans fluvium incolumis vatemque virumque  Informi limo glaueaque exponit in ulva. The presence of Cerberus in the ROMAN description  of the underworld shows that the ideas of the poets and mythologists were derived, not only from Egypt, but from the Brahmans  of the far East. Yama, the lord of the Underworld, is attended  by his dog Karharu, the spotted, styled also Trikasa, the three-headed. Meusinian and   Cerberus haec ingens latratu regna trifauci  Personat, adverse recubaus immanis in antro. By Cerberus we must understand the discriminative part of the soul, of which a dog,  on account of its sagacity, is an emblem; and  the three heads signify the triple distinction  of this part, into the intellective [or intuitional], cogitative [or rational], and opinionative powers. With respect f to the three  kinds of persons described as situated on the  borders of the infernal realms, the poet  doubtless intended by this enumeration to  represent to us the three most remarkable  At length across the river safe, the prophetess and the man,  he lands upon the slimy strand, upon the blue sedge. Huge Cerberus makes these realms [of death] resound with barking from his  threefold throat, as he lies stretched at prodigious length in the  opposite cave."   tin the second edition these terms are changed to dianoietic  and doxastic, words which we cannot adopt, as they are not  accepted English terms. The nous, intellect or spirit, pertains  to the higher or intuitional part of the mind; the dianoia or  understanding to the reasoning faculty, and the doxa, or opinionforming power, to the faculty of investigation.  Plotinus, accepting this theory of mind, says: "Knowledge has three degrees   opinion, science, and illumination. The means or instrument of  the first is reception; of the second, dialectic; of the third, intuition." A. W.   Bacchic Mysteries. characters, wlio, though not apparently deserving of punishment, are yet each of them  similarly im merged in matter, and consequently require a similar degree of purification. The persons described are, as is well  known, first, the souls of infants snatched  away by untimely ends; secondly, such as  are condemned to death unjustly; and, thirdly, those who, weary of their lives, become  guilty of suicide. And with respect to the  first of these, or infants, their connection  with a material nature is obvious. The second sort, too, who are condemned to death  unjustly, must be supposed to represent the  souls of men who, though innocent of one  crime for which they were wrongfully punished, have, notwithstanding, been guilty of  many crimes, for which they are receiving  proper chastisement in Hades, i. e, through  a profoiuid union with a material nature.*  And the third sort, or suicides, though ap * Hades, the Underworld, supposed by classical students to be  the region or estate of departed souls, it will have been noticed, is  regarded by Taylor and other Platonists, as the human body,  which they consider to be the grave and place of punishment of  the soul.  A. W. Eleusinian and   parently separated from the body, have only  exchanged one place for another of similar  nature; since conduct of this kind, according  to the arcana of divine philosophy, instead  of separating the soul from its body, only  restores it to a condition perfectly correspondent to its former inchnations and habits,  lamentations and woes. But if we examine  this affair more profoundly, we shall find  that these three characters are justly placed  in the same situation, because the reason of  punishment is in each equally obscure. For  is it not a just matter of doubt why the  souls of infants should be punished? And  is it not equally dubious and wonderful why  those who have been unjustly condemned to  death in one period of existence should be  punished in another? And as to suicides,  Plato in Ms PJicvdo says that the prohibition  of this crime in the aTzorjfjrfa {aporrheta) is a profound doctrine, and not easy to be  Aporrheta, tbe areaue or confidential disclosures made to the  candidate undergoing initiation. In the Eleusinia, these were  made by the Hierophant, and enforced by him from the Book  of InterpretatInterpretation, said to have consisted of two tablets of stone.  This was the petroma, a name usuallj' derived from j^e^ra, a rock, Bacchic Mysteries.  understood.* Indeed, the true cause why  the two first of these characters are in Hades,  can only be ascertained from the fact of a prior  state of existence, in surveying which, the  latent justice of punishment will be manifestly revealed; the apparent inconsistencies  in the administration of Providence fully  reconciled; and the doubts concerning the  wisdom of its proceedings entirely dissolved.  And as to the last of these, or suicides, since  the reason of their punishment, and why an  action of this kind is in general highly  atrocious, is extremely mystical and obscure,  the following solution of this difficulty will,  no doubt, be gratefully received by the Platonic reader, as the whole of it is no where  else to be found but in manuscript. Olym or possibly from iflD, J)eier, an interpreter. See //. Corinthians. A. W.  PJuedo, The instruction in the doctrine given in the  Mysteries, that we human beings are in a kind of prison, and  that we ought not to free ourselves from it or seek to- escape,  appears to me difficult to be understood, and not easy to apprehend. The gods take care of us, and we are theirs."   Plotinus, it will be remembered, perceived by the interior  faculty that Porphyry contemplated suicide, and admonished  him accordingly.  A. W. Eleusinian and   piodorus, then, a most learned and excellent  commentator on Plato, in his commentary  on that part of the PJuedo where Plato  speaks of the prohibition of suicide in the  aporrhefa, observes as follows: "The argument which Plato employs in this place  against suicide is derived fi^om the Orphic  mythology, in which foui" kingdoms are  celebrated; the first of Uranus [Ouranos]  (Heaven), whom Ki'onos or Satm^n assaulted, cutting off the genitals of his  father. But after Saturn, Zeus or Jupiter  succeeded to the government of the world,  having hurled his father into Tartarus. And  after Jupiter, Dionysus or Bacchus rose to  light, who, according to report, was, through  the insidious treachery of Hera or Juno, torn  in pieces by the Titans, by whom he was surrounded, and who afterwards tasted his flesh :  but Jupiter,enraged at the deed, hurled his  thunder at the guilty offenders and consumed  them to ashes. Hence a certain matter beIn the Hindu mythology, from which this symbolism is  evidently derived, a deity deprived thus of the lingam or phallus, parted with his diviue authority.     Bacchic Mysteries. ing formed from the ashes or sooty vapor  of the smoke ascending from their burning  bodies, out of this mankind were produced.  It is unlawful, therefore, to destroy ourselves,  not as the words of Plato seem to unport,  because we are in the body, as in prison,  secured by a guard (for this is evident,  and Plato would not have called such an  assertion arcane), but because our body is  Dionysiacal,* or of the nature of Bacchus :  for we are a part of him, since we are  composed from the ashes, or sooty  vapor of the Titans who tasted his  flesh. Socrates, therefore, as if fearful of  disclosing the arcane part of this narration, relates nothing more of the fable  than that we are placed as in a prison  secured by a guard : but the interpreters relate the fable openly." Koci z^zi zo {j.'ji>c7,ov  s-jrc/sijOT^pioL TGCOUtov. Ilapa tcp Oprpst xsaaaps^  paaiXsiat 'juapa^c^ovxaL Ilptor^ [jisv, rj xo'j  Oopctvoy, Tjv 6 Kpovoc Sis^s^axo, sxtsij-cov xct  atSota zoo 'irairpoc. Msxa qt^ tov Kpovov, 6   * From Dionysus, the Greek name of Bacchus, and usually so  translated.     70 Elensinian and   Ze'jc £p7.3'J.£'j3£v '/.c/.-aTapxapwaac 'uov 7:7.zz[j^j.. Vjizrj. -ov Ac7. ^Ls^scato 6 Atov'jaoc, 6v  (paac '/.at' £i:c[io'jAY^v rr^? 11^7.^ todc :r£pi a'jto'j  TtTavac STrapaTrstv, %7.c tcov aapxtov a'jtcj   £7,cp7.'JV(03£, X7.t £7, "T^? 7.Cl)-7.AY^C '^03V 7.i:{J-C0V  '(OV 7.V7.50i)-£Vr(OV £s 7.'J':C0V, 6aT^s Y£V0{J-£VY^^  YEVEGil-a^ lO'JC 7.V\)-p(OTrO!JC. Ou 0£l GOV ECa^frj.  Y£CV Y/^i.7.;: £7'J-0'J^, O'J/ OZl 0)^ 5o%£l }v£Y£'.V Y^   Xe^iQ, 5io-'. £v Tiv: 5£C[X(o £a{j-£v xc;3 a(0|X7.rr   TO'JTO Y'^-I^ 5y^).0V £C"^ y.7.l 0'J% 7.V 'ZO'JZO 7.7:0pP(J.-0V £X£Y£, 7./X OZl O'J OSl £^7.Y7Y£LV Y^{J.7^  ka.OZ'j'JZ MC, ZO'J (jO)\XazrjC, Y^{X(0V 5i0V'J3C7.%0U  OVrO:;' 'jX£pO^ Y'^-P '^-'J''^'J £3[1£V, £rj'£ £% tYjC   al^•'yXr^z xwv Ti':7.vcov a'JY/.£qJL£i)-7. y^'->^''^-1^*~   V(OV ZiOy a7.p7,(0V XOrjtOy. '0 {JL£V O'JV ]^(07,p7XY;C £pY^!^ '^'^ 7.7U0pp'^I0V 5£l'X,V'JC, XO'J {J-'Ji)-0'J   0'jo£v 7rA£ov TupoaxiiJ-jxat xoo (o? £v xivi rppo'jpa  £a(JL£v. 'Oi 5£ £^YjYYjT;7.i xov jx'jO-ov xpoaxiO-£7a:v £|(oi)-£v. After this he beautifully observes, " That these four governments signify  the different gradations of virtues, according to which oui^ soul contains the symbols  of all the qualities, both contemplative and  purifying, social and ethical; for it either     Bacchic Mysteries. 71   operates acoording to the theoretic or contemplative virtues, the model of which is the  government of Uranus or Heaven^ that we  may begin from on high; and on this account Uranus (Heaven) is so called irctpa  TOO la avco 6pc/.v, from beholding the things  above : Or it lives purely, the exemplar of  which is the Kronian or Satiu^nian kingdom;  and on this account Kronos is named as  Koro-nous, one who perceives through himself. Hence he is said to devour his own  offspring, signifying the conversion of himself into his own substance : or it operates  according to the social virtues, the symbol of which is the government of Jupiter.  Hence, Jupiter is styled the Demiurgus,  as operating about secondary things :  or  it operates according to both the ethical  and physical virtues, the symbol of which  is the kingdom of Bacchus; and on this  account is fabled to be torn in pieces by  the Titans, because the virtues are not cut  off by each other." Aiyozzoyzai (lege aLVL-ctovtat) 5s zo'jc, ocarpspofjc '^jrj.^\i.o'jc, x(ov apsxtov v.rj.d-' ac, -ri fj{X£xspa ^^yji ayjApoXa e'/oo:ja  Bacchic Mysteries.   iraawv tcov apsKov, icov tis O-scopYj'iL'jctov, otat   yap ')C7.-a xa^ {^SfoprjitTca? svspyst cbv Tza^jo.^sr^xc/. Tj xo'j oopavotj pctaLAsta, lv7. avoiii-sv  ap^a{j.£i)-a, 5io y,at orjp7.voc sipr^'a: irapa xo'j  T7. av(o opcjLV. 'H '/c^i^apTi^o)? C'^j? '^jC 'irapaSstyjxa Y; Kpovsia jiaacXstc/., oio %at Kpovoc stp'Ajtai OLOv xopovofjc tic 03V 5ia zo s7.ytov  6pav. Aio y,7/w xaxamveiv ta ocxsia ysw/){laxa Xsysta^ (o? a'jro^ 'jrpoc saozov sTutatpscpcov. 'H 7,7.1:7. X7.C TcoXtttxac tov arj{j.|3oAov, T)   XOU AlOZ ^7.aLX£t7., OLO %7.t $Tj{J.tGfJpYOC 6 ZstJt;,   (0? TuspL t;7 $£'jr£p7. svspYcov. 'H %at7 tac r^^'l %aC %7C CpDa:7,7.? 7.p£'C7.C, tOV aUV^oXoV, Tj tou   A'.ovfjaou paatXsca, 5co y-ai a^apa-Tsrai, 5wti  O'JT, aviate- AooO-o'jaiv aXXr^Xatc 7.t 7.p£X7.i.  And thus far Olympiodorus; in which passages it is necessary to observe, that as the  Titans are the artificers of things, and stand  next in order to their creations, men are  said to be composed from their fragments,  because the human soul has a partial life  capable of proceeding to the most extreme  division united with its proper natiu'e. And  while the soul is in a state of servitude to Kleusinian Mysteries.  Bacchic Mysteries. the body, she hves confined, as it were, in  bonds, througli the dominion of this Titanical life. We may observe farther concerning  these dramatic shows of the Lesser Mysteries, that as they were intended to represent the condition of the soul while  subservient to the body, we shall find that  a liberation from this servitude, through the  purifying disciplines, potencies that separate  from evil, was what the wisdom of the ancients intended to signify by the descent of  Hercules, Ulysses, etc., into Hades, and their  speedy return from its dark abodes. ' ' Hence,"  says Proclus, " Hercules being purified by  sacred initiations^ obtained at length a perfect estabhshment among the gods:"* that  is, well knowing the dreadful condition of  his soul while in captivity to a corporeal  nature, and purifying himself by practice of  the cleansing virtues, of which certain purifications in the mystic ceremonies were symbolical, he at length was freed from the  bondage of matter, and ascended beyond her   Commentary on the Statesman of Plato. Meusinian and   reach. On this account, it is said of him,  that  He dragg'd the three-mouth'd dog to upper day;  intimating that by temperance, continence,  and the other virtues, he drew upwards the  intuitional, rational, and opinionative part of  the soul. And as to Theseus, who is represented as . suffering eternal punishment in  Hades, we must consider him too as an  allegorical character, of which Proclus, in the  above-cited admirable work, gives the following beautiful explanation : " Theseus and  Pirithous," says he, " are fabled to have abducted Helen, and descended to the infernal  regions, i. e. they were lovers both of mental  and visible beauty. Afterward one of these  (Theseus), on account of his magnanimity,  was Hberated by Hercules from Hades; but  the other (Pirithous) remained there, because he could not attain the difficult height  of divine contemplation." This account, indeed, of Theseus can by no means be reconciled with VIRGILIO’s: sedet, seternumque sedebit,   Infelix Theseus. There sits, and forever shall sit, the unhappy Theseus. Bacchic Mysteries. Nor do I see how VIRGILIO can be reconciled  with himself, who, a httle before this, represents him as hberated from Hades. The  conjecture, therefore, of Hyginus is most  probable, that VIRGILIO in this particular committed an oversight, which, had he lived, he  would doubtless have detected, and amended.  This is at least much more probable than the  opinion of Dr. Warbm^ton, that Theseus was  a living character, who once entered into the  Eleusinian Mysteries by force, for which he  was imprisoned upon earth, and afterward  punished in the infernal realms. For if this  was the case, why is not Hercules also  represented as in punishment? and this  with much greater reason, since he actually  dragged Cerberus from Hades; whereas the  fabulous descent of Theseus was attended  with no real, but only intentional, mischief.  Not to mention that Virgil appears to be  the only writer of antiquity who condemns  this hero to an eternity of pain.  Nor is the secret meaning of the fables  concernmg the punishment of impure souls     78 Eleusinian and   less impressive and profound, as the following extract fi'om the manuscript commentary  of Olympiodorus on the GORGIA DI LEONZIO of Plato will  abundantly affirm:  "Ulysses," says he,  " descending into Hades, saw, among others,  Sisyphus, and Tityus, and Tantalus. Tityus  he saw lying on the earth, and a vulture devouring his liver; the liver signifying that  he lived solely according to the principle of  cupidity in his natiu'e, and tln^ough this was  indeed internally prudent; but the earth  signifies that his disposition was sordid. But  Sisyphus, living under the dominion of ambition and anger, was employed in continually  rolling a stone up an eminence, because it  perpetually descended again; its descent implying the vicious government of himself;  and his rolling the stone, the hard, refractory,  and, as it were, rebounding condition of his  hf e. And, lastly, he saw Tantalus extended  by the side of a lake, and that there was a  tree before him, with abundance of fruit on  its branches, which he desired to gather, but  it vanished from his view; and this indeed  indicates, that he lived under the dominion   Bacchic Mysteries.of phantasy; but his hanging over the lake,  and in vain attempting to drink, imphes the  elusive, humid, and rapidly-ghding condition  of such a hfe." '0 O^uaasa? xaxsX^wv sec   cf'^o'j, oiQZ zoy Slgo^'ov, y.rji z^jV Tcc'jov, '/otc  xov TavraXov. Kc/.t tov {xsv TtTuov, st:'. xt^c  yrj? £t§s %£L[X£Vov, vcat oxc xo r^Trajj aoxoo r^aO-tsv  Y'j'|. To {JL£V GOV T^Tuap GTjiJ-aLvst oxt ya-cct xo   STTtiJ'DJJL'/^XL/.OV fJ-SpOC sCTjaS, XOLl §17. XOfJXO £C3(0   cppovxiCs'co. 'H 5s Y'^j OYjiJiaLvst xo yO-ovtov  a'jxoy '-ppovrjiia. 5s -Itaocpoc, 7,axa xo cp^XoxqjLov, y.7.t O-ujJLOscSsi; C'^aa? sy-uXis xov Xcr)-ov,  %at TuaXtv %ax£cp£p£v, £7U£i5£ T:£pi afjxc/. xaxap p£C, 7,7.7,(0^ 'jroXtX£00{JL£VOC. AtO^OV 0£ £7,oXt£,   hirj, XO axXrjpov, %ac avxixuTcov xyjc auxoa C<'>''JCTov o£ T7.vx7.A0v £t.5£v £v Xt{JLV (lege Xqj.virj)   %7.l OXt £V 5£v5pOtC '^a7.V 07:(0p7.'., ■X,7.L T^{)'£X£   xpuyav, X7.t wj^rjyziQ ^^^v/o^zo ai o^copat.   TOUXO 5£ arj{X7.CV£t XTjV 7,7x7. (p7.VX7.ai7.V Cto'^v.   Aox'/j 5£ aTj[j,7.v£t xo oXiaO-'/jpov 7,7.t ^lopyov,  %7t i9'7.xxov7. 'jLO'!77.yo|jL£vov. So that according to the wisdom of the ancients, and the  most sublime philosophy, the misery which  a soul endures in the present life, when giving itself up to the dominion of the irrational     80 Elensinian and   part, is nothing more than the commencement, as it were, of that torment which it  win experience hereafter : a torment the  same in kind though different in degree, as  it will be much more di'eadful, vehement,  and extended. And by the above specimen,  the reader may perceive how infinitely superior the explanation which the Platonic philosophy affords of these fables is to the frigid  and trifling interpretations of Bacon and  other modern mythologists; who are able  mdeed to point out their correspondence to  something in the natui'al or moral world, because such is the wonderful connection of  things, that all things sympathize with all,  but are at the same time ignorant that these  fables were composed by men divinely wise,  who framed them after the model of the  highest originals, from the contemplation of  real and permanent heing, and not from regarding the delusive and fluctuating objects  of sense. This, indeed, mil be evident to  every ingenuous mind, from reflecting that  these wise men universally considered Hell  or death as commencing in the present life  Baccldc Mysteries. 81   (as we have already abundantly proved), and  that, consequently, sense is nothing more  than the energy of the dormant soul, and a  perception, as it were, of the delusions of  di'eams. In consequence of tliis, it is absurd in the highest degree to imagine that  such men would compose fables from the  contemplation of shadows only, without regarding the splendid originals from which  these dark phantoms were produced :  not  to mention that their harmonizing so much  more perfectly with intellectual explications  is an indisputable proof that they were derived from an intellectual [noetic] source.   And thus much for the dramatic shows  of the Lesser Mysteries, or the first part of  these sacred institutions, which was properly  denominated xsXst-r] [telete^ the closing up]  and [vrrpiz Muesis [the initiation], as containing certain perfective rites, symbolical exhibitions and the imparting and reception of  sacred doctrines, previous to the beholding of  the most splendid visions, or ETuoTutsta \epopteia, seership]. For thus the gradation of  Bacchic Mysteries.   the Mysteries is disposed by Proclus in  Theology of Plato, book iv. " The perfective  rite [rsXsrrj, telete],^^ says he, " precedes in order the initiation [\xorpiQ, muesis], and initiation, the final apocalypse, epopteiay npoY^yst STzoiizziaQ.* At the same time it is proper to  observe that the whole business of initiation  was distributed into five parts, as we are  informed by Theon of Smyrna, in Matliematica, who thus elegantly compares philosophy  to these mystic rites : " Again," says he,  " philosophy may be called the initiation into  true sacred ceremonies, and the instruction  in genuine Mysteries; for there are five  parts of initiation : the first of which is the  previous purification; for neither are the  Mysteries communicated to all who are  wilhng to receive them; but there are certain persons who are prevented by the voice  of the crier [%Tjpu^, herux^, such as those  who possess impure hands and an inarticulate voice; since it is necessary that such  as are not expelled from the Mysteries   * Theology of Plato. Bacchic Mysteries. 85   should first be refined by certain purifications : but after purification, the reception of  the sacred rites succeeds. The third part is  denominated epopfeia, or reception.* And  the fourth, which is the end and design of the  revelation, is [the investiture] the binding of  the head and fixing of the crowns. The initiated person is, by this means, authorized  to communicate to others the sacred rites  in which he has been instructed; whether  after this he becomes a torch-bearer, or an  hierophant of the Mysteries, or sustains some  other part of the sacerdotal office. But the  fifth, which is produced from all these, is  friendship and interior commtmion with  God, and the enjoyment of that felicity  which arises from intimate converse with  divine beings. Similar to this is the communication of political instruction; for, in  the first place, a certain purification precedes,   * Theon appears to regard the final apocalypse or epopteia, like  E. Poeocke to whose views allusion is made elsewhere. This  writer says : " The initiated were styled ebaptoi," and adds in a  foot-note  " Avaptoi, literaWj obtaining or getting." According  to this the epopteia would imply the final reception of the interior  doctrines.  A. W. Eleusinian and   or else an exercise in proper matliematical  discipline from early youth. For thus Empedocles asserts, that it is necessary to be  purified from sordid concerns, by drawing  from five fountains, with a vessel of indissoluble brass : but Plato, that purification  is to be derived fi'om the five mathematical  disciplines, namely from arithmetic, geometry, stereometry, music, and astronomy; but  the philosophical instruction in theorems,  logical, pohtical, and physical, is similar to  initiation. But he (that is, Plato) denominates zTzoizzzirj, [or the reveahng], a contemplation of things which are apprehended intuitively, absolute truths, and ideas. But he  considers the binding of the head, and coronation, as analogous to the authority w^hich any  one receives from his instructors, of leading  others to the same contemplation. And the  fifth gradation is, the most perfect fehcity  arising from hence, and, according to Plato,  an assimilation to divinity^ as far as is possible to mankind." But though s'jroTrTS'.a,  or the rendition of the arcane ideas, principally characterized the Greater Mysteries, yet     Bacchic Mysteries. 87   this was likewise accompanied with the [j.uyjGLc, or initiation, as will be evident in the  conrse of this inquuy.   But let US now proceed to the doctrine of  the Greater Mysteries : and here I shall endeavor to prove that as the dramatic shows  of the Lesser Mysteries occultly signified the  miseries of the soul while in subjection to  body, so those of the Grreater obscurely intimated, by mystic and splendid visions, the  felicity of the soul both here and hereafter,  when purified from the defilements of a  material nature, and constantly elevated to  the realities of intellectual [spiritual] vision.  Hence, as the ultimate design of the Mysteries, according to Plato, was to lead us back  to the principles from which we descended,  that is, to a perfect enjoyment of intellectual  [spiritual] good, the imparting of these principles was doubtless one part of the doctrine  contained in the airoppTjia, aporrheta, or secret discourses; * and the different purifica * The apostle Paul apparently alludes to the disclosing of the  Mystical doctrines to the epopts or seers, in his Second Epistle  to the Corinthians, xii. 3, 4: "I knew a certain man,  whether in Eleusinian and   tions exhibited in these rites, in conjunction  with initiation and the epopteia were symbols  of the gradation of virtues requisite to this  reascent of the soul. And hence, too, if this  be the case, a representation of the descent of  the soul [from its former heavenly estate]  must certainly form no inconsiderable part of  these mystic shows; all which the f ollomng  observations will, I do not doubt, abundantly  evince.   In the first place, then, that the shows of  the Greater Mysteries occultly signified the  felicity of the soul both here and hereafter,  when separated from the contact and influence of the body, is evident from what has  been demonstrated in the former part of this  discourse : for if he who in the present life is  in subjection to Ms irrational part is truly  in ITades, he who is superior to its dominion  is liheivise an inhahitayit of a place totally  different from Hades* If Hades therefore   body or outside of body, I know not: God knoweth,  who was  rapt into paradise, and heard appv]xr/. pYjfxata, tilings ineffable,  which it is not lawful for a man to repeat."   *Paul, Epistle to the PhlUpjnans, iii, 20: "Our citizenship is  in the heavens."     Bacchic Mysteries. 89   is the region or condition of punishment and  misery, the purified soul must reside in the  regions of bhss; in a hf e and condition of  purity and contemplation in the present life,  and entheastically,* animated by the divine   * Medical and Surgical Bejiorter Those  who have professed to teach their fellow-mortals new truths eoncerning immortality, have based their authority on direct divine  inspiration. Numa, Zoroaster, Mohammed, Swedenborg, all  claimed communication with higher spirits; they were what the  Greeks called eniheast  'immersed in God'  a sti'iking word  which Byron introduced into our tongue." Carpenter describes  the condition as an automatic action of the brain. The inspired  ideas arise in the mind suddenly, spontaneously, but very vividly,  at some time when tliinhing of some other topic. Francis Galton  defines genius as " the automatic activity of the mind, as distinguished from the effort of the will,  the ideas coming by inspiration." This action, says the editor of the Reporter, is largely  favored by a condition approaching mental disorder  at least by  one remote from the ordinary working day habits of thought.  Fasting, prolonged intense mental action, gi-eat and unusual commotion of mind, will produce it; and, indeed, these extraordinary  displays seem to have been so preceded. Jesus, Buddha, Mohammed, all began their careers by fasting, and visions of devils followed by angels. The candidates in the Eleusinian Mysteries  also saw visions and apparitions, while engaged in the mystic  orgies. "We do not, however, accept the materialistic view of this  subject. The cases are enftieasHe; and although hysteria and  other disorders of the sympathetic system sometimes imitate the  phenomena, we believe with Plato and Plotimis, that the higher  faculty, intellect or intuition as we prefer to call it, the noetic part  of our nature, is the faculty actually at work. "By reflection, Eleusinian and   energy, in the next. This being admitted,  let us proceed to consider the description  which Virgil gives us of these fortunate  abodes, and the latent signification which  it contains, ^neas and his guide, then, having passed tlu^ough Hades, and seen at a distance Tartarus, or the utmost profundity of  a material nature, they next advance to the  Elysian fields :   Devenere locus Isetos, et amaena vireta  Fortunatoi'uin nemorum, sedesque beatas.  Largiov Me campos gether et lumine vestit  Purpureo; solemque suum, sua sidera norunt. *   Now the secret meaning of these joyful  places is thus beautifully unfolded by Olympiodorus in his manuscript Commentary on  the Gorgias of Plato. "It is necessary to  know," says he, " that the fortunate islands  are said to be raised above the sea; and   self-knowledge, and intellectual discipline, the soul can be raised  to the vision of eternal truth, goodness, and beauty  that is, to  the vision of God." This is the epopteia.  A. W.  They came to the blissful regions, and delightful gi'eeu retreats, and happy abodes in the fortunate gi'oves. A freer and  purer sky here clothes the fields with a purjile light; they recoguize their own suu, their own stars."     Bacchic Mysteries. 91   hence a condition of being, which transcends  this corporeal hfe and generated existence, is  denominated the islands of the blessed; but  these are the same with the Elysian fields.  And on this account Hercules is said to  have accomphshed his last labor in the Hesperian regions; signifying bythis, that having  vanquished a dark and earthly life he afterward hved in day, that is, in truth and light."  Asc 5s st^svai ozi w. Yfpoi uTTspxu'jrxGoaiv zt^q  i)-aXaaa'rj? avco-cspw otjoai. Tt;v oov Tzokizsiay  XTjV 67:£|v7,u^0Laav too fjioo if.rji z'qc, ysvY^ascoc,  {jLa7,7.p(ov VTjaouc '/.''jXo'JOI. TaoTC/v $£ saxi vcc/.t  xo ^qkocjiw TtS^iov. Airy, zoi zoozo xat 6 'Hpay,Xtj^ zeXeozaioy alJ-Xov sv xo:;; saTTspcocc {xspsatv  s'jTorr^aaxo, 7.vxi xax'^jYcovcaato xov axoxstvov jcai yO-oviov pwv, xai Xotirov sv '^^t^spcf., oaxiv  sv rjXrid-sio^ %rxi rp(oxi sC'^- So that he who  in the present state vanquishes as much  as possible a corporeal life, through the  practice of the piu'ifying virtues, passes in  reahty into the Fortunate Islands of the soul,  and lives surrounded with the bright splendors of truth and wisdom proceeding from  the sun of good.     92 Bacchic Mysteries.   The poet, in describing the employments   of the blessed, says :   Pars in gramineis exereent membra paleestris :  Coutendunt ludo, et f ulva luctantur arena :  Pars pedibus plaudunt choreas, et carmina dicunt.  Nee non Threicius longa cum veste saeerdos  Obloquitur uumeris septem discrimina vocum:  lamque eadem digitis, jam pectiue pulsat eburno.  Hie genus antiquum Teucri, puleherrima proles,  Magnanimi heroes, nati melioribus annis,  Illusque, Assaracusque, et TroJEe Dardanus auctor.  Arma procul, currusque virum miratur inanis.  Stant terra defixse hastse, passimque soluti  Per campum pascuntur equi. Quae gratia curruum  Armorumque fuit vivis, quae cura nitentis  Pascere equos, eadem sequitur tellure repostos.  Conspicit, ecee alios, dextra laevaque per herbam  Vescentis, Isetumque choro Pgeana eanentis.  Inter odoratum lauri nemus : unde superne  Pliu'imus Eridaui per silvam volvitur amnis. Some exercise their limbs upon the grassy field, contend in  play and wrestle on the yellow sand; some dance on the ground  and utter songs. The priestly Thracian, likewise, in his long  robe [Orj^heus] responds in melodious numbers to the seven  distinguished notes; and now strikes them with his fingers, now  with the ivory quill. Here are also' the ancient race of Teucer,  a most illustrious progeny, noble heroes, born in happier j-ears,   II, Assarac, and Dardan, the founder of Troy, ^neas looking  from afar, admires the arms and empty war-cars of the heroes.  There stood spears fixed in the ground, and scattered over the  plain horses are feeding. The same taste which when alive      •'i%^!^mm^      Eleusiuiau Mj'steries.     Bacchic Mysteries. 95   This must not be understood as if the soul  in the regions of fehcity retained any affection for material concerns, or was engaged in  the trifling pursuits of the everyday corporeal life; but that when separated from  generation, and the world's life, she is constantly engaged in employments proper to the  higher spiritual nature; either in divine contests of the most exalted wisdom; in forming  the responsive dance of refined imaginations; in tuning the sacred lyi'e of mystic  piety to strains of divine fury and ineffable  dehght; in giving free scope to the splendid  and winged powers of the soul; or in  nourishing the higher intellect with the substantial banquets of intelligible [spiritual]  food. Nor is it without reason that the  river Eridanus is represented as flowing  through these delightful abodes; and is at   these men had for chariots and arms, the same passion for rearing glossy steeds, follow them reposing beneath the earth. Lo!  also he views others, on the right and left, feasting on the grass,  and singing in chorus the joyful pteon, amid a fragrant grove of  laui'el; whence from above the greatest river Eridanus rolls  through the woods."  A peeon was chanted to Apollo at Delphi every seventh day.     96 Eleusinian and   the same time denominated plurimus (greatest), because a great part of it was absorbed  in the earth without emerging from thence :  for a river is the symbol of hfe, and consequently signifies in this place the intellectual  or spii'ituaJ life, j)roceeding from on liigh, that  is, from divinity itself, and gliding with prolific energy through the hidden and profound  recesses of the soul.   In the following lines he says :   Nulli eerta domus. Lucis habitamus opacis,  Riparumque toros, et prata recentia rivis  Incolimus.*   By the blessed not being confined to a particular habitation, is implied that they are  perfectly free in all things; being entirely  free from all material restraint, and purified  from all inclination incident to the dark  and cold tenement of the body. The shady  groves are symbols of the retiring of the  li     ' No one of us has a fixed abode. We inhabit the dark groves,  and occupy couches on the river-banks, and meadows fresh with  little rivulets."     Bacchic Mysteries. 97   soul to the depth of her essence, and there,  by energy solely divine, establishing herself  in the ineffable principle of things.* And  the meadows are syin])ols of that prolific  power of the gods through which all the  variety of reasons, animals, and forms was  produced, and which is here the refreshing pastui'e and retreat of the hberated  soul.   But that the communication of the knowledge of the principles from which the soul  descended formed a part of the sacred Mysteries is evident from Yirgil; and that this  was accompanied with a vision of these principles or gods, is no less certain, from the  testimony of Plato, Apuleius, and Proclus.  The first part of this assertion is evinced by  the following beautiful lines :   * Plato: BepiihUc, vi. 5. "He who possesses the love of true  knowledge is naturally carried in his aspirations to the real principle of being; and his love knows no repose till it shall have been  united with the essence of each object through that jiart of the soul,  which is akin to the Permanent and Essential; and so, the divine  conjunction having evolved interior knowledge and truth, the  knowledge of being is won."     98 EleiiHinian and   Prineipio cfelum ac tei-ras, eamposque liquentes   Lucentemque globum luuas, Titauiaque astra   Spiritus intus alit, totumque infusa per artus   Mens agitat molem, et magno se corpore miscet.   Inde hominum peeudiimque genus, vitseque volantum,   Et qu£e marmoreo fert monstra sub sequore pontus.   Igneus est oUis vigor, et cselestis origo   Seminibus, quantum non uoxia corpora tardant,   Terrenique hebetant artus, moribundaque membra.   Hinc metiiunt cupiuntque : dolent, gaudentque : neque auras   Despieiunt clausa tenebris et carcere csecc*   For the sources of the soul's existence are  also the principles from which it fell; and  these, as we may learn from the Thnams of  Plato, are the Demiurgus, the mundane soul,  and the junior or mundane gods.f Now, of   * "First of all the interior spirit sustains the heaven and earth  and watery plains, the illuminated orb of the moon, and the Titanian stars; and the Mind, diffused through all the members, gives  energy to the whole frame, and mingles with the vast body [of the  universe]. Thence proceed the race of men and beasts, the vital  souls of birds and the brutes which the Ocean breeds beneath  its smooth surface. In them all is a potency like fire, and a  celestial origin as to the rudimentary principles, so far as they  are not clogged by noxious bodies. They are deadened by earthly  forms and members subject to death; hence they fear and desire,  grieve and rejoice; nor do they, thus enclosed in darkness and  the gloomy prison, behold the heavenly air."   \ Timceus. xliv. "The Deity (Demiurgus) himself formed the  divine; and then delivered over to his celestial offspring [the     Bacchic Mysteries. these, the mundane intellect, which, according to the ancient theology, is represented  by Bacchus, is principally celebrated by the  poet, and this because the soul is particularly distributed into generation, after the  manner of Dionysus or Bacchus, as is evident  from the preceding extracts from Olympiodorus : and is still more abundantly confirmed  by the following curious passage from the  same author, in his comment on the Plicedo of  Plato. " The soul," says he, " descends Corically [or after the manner of Proserpine]  into generation,* but is distributed into generation Dionysiacally,t and she is bound in  body PrometheiacallyJ and Titanically: she  fi'ees herself therefore from its bonds by exercising the strength of Hercules; but she   subordinate or generated gods], the task of creating the mortal.  These subordinate deities, copying the example of their parent,  and receiving from his hands the immortal principles of the human  soul, fashioned after this the mortal body, which they consigned  to the soul as a vehicle, and in which they placed also another  kind of a soul, which is mortal, and is the seat of violent and fatal  passions."   * That is to say, as if dying. Kore was a name of Proserpina.   t /. e. as if divided into pieces.   X I. e. Chained fast.     100 We US in km and   is collected into one through the assistance  of Apollo and the savior Minerva, by philosophical discipline of mind and heart purifying the nature." i)zi /.opr^toc {j.sv sic ysvE^tv   'jTzo zT^z Ysvsascoc' npojXY^O-suo? "^s, v.rj.1 Tiza AttoXXcovoc %ol^ rr^c acorrjpac A\)*T;va?, ':r7.{)-a(vT:L'^(oc -(0 oyzi r5'.Xoaorpo'ja7.. The poet, however,  intimates the other causes of the soul's existence, when he says,   Igneiis est ollis vigor, et coelestis origo  Semiuibus *   which evidently alludes to the sowing of  souls into generation, t mentioned in the  Timmus. And fi'om hence the reader will   * "There is then a certain fiery potency, and a celestial oi'igiu  as to the rudimentary principles." /. e. Restored to wholeness  and divine life.   tl Corinthians, xv. 42-44. "So also is the onafitaHis of the  dead. It is sown in corruption [the material body]; it is raised  in incorruption : it is sown in dishonor; it is raised in gloi-y : it  is sown in weakness; it is raised in power : it is sown a psychical  body; it is raised a spiritual body."     Bacchic Mysteries. 101   easily perceive the extreme ridiculousness of  Dr. Warburton's system, that the grand secret  of the Mysteries consisted in exposing the  errors of Polytheism, and in teaching the  doctrine of the unity, or the existence of one  deity alone. For he might as well have said,  that the great secret consisted in teaching a  man how, by writing notes on the works of  a poet, he might become a bishop ! But it  is by no means wonderful that men who  have not the smallest conception of the true  nature of the gods; who have persuaded  themselves that they were only dead men  deified; and who measure the understandings of the ancients by their own, should be  led to fabricate a system so improbable and  absurd.   But that this instruction was accompanied  with a vision of the source from which the  soul proceeded, is evident from the express  testimony, in the first place, of Apuleius,  who thus describes his initiation into the  Mysteries. " Accessi confinium mortis; et  calcato Proserpinse limine, per omnia vectus  elementa remeavi. Nocte media vidi solem.     102 Meusinicm and   candido coniscantem kimine, deos inferos, et  deos superos. Access! coram, et adoravi de  proximo." * That is, "I approached the  confines of death : and having trodden on  the threshold of Proserpina returned, having  been carried through all the elements. In  the depths of midnight I saw the sun glittering with a splendid light, together with the  infernal and supernal gods : and to these  divinities approaching near, I paid the tribute  of devout adoration." And this is no less  evidently implied by Plato, who thus describes the fehcity of the holy soul prior to  its descent, in a beautiful allusion to the  arcane visions of the Mysteries. Ka/.Ao? 3s   TOIS Y^V tOStV X7.[JLirpOV, OTS GOV £UOaL|J,OVt   )^op(p {j-ay,7.pcctv o^iv zz xac O-sav £:ro{jL£vot jjis'La  [jLsv Aio^ T;tJ-£tc, aXXot o£ \xez aXXoo ^scov, £l§ov  t£ 7.71 BzzKO'jyzo T£X£t(ov YjV 0-£|j.ic Xb^biv {i-7.%a pKOXW.TYjV YjV 0pYl7.C0[J-£V oXoX^Y^pOL {JL£V 7.010^  OVr£C, y,7.l 7.'Jr7.^£tC %7.'5t(OV 037. Y^|X7.C £V 63r£p(p  /p<5V(j) 67C£{X£V£V. '0X07cXy^P7. $£ 7,7.1 TLTiXa %7.C  aTp£(J.Y^ %7.t £u5aqJL0V7. rp7.a{J.7.-7. JJLyG'J{JL£VOt T£  7,71 £TC0TCT:£U0V'C£C £V auyTJ %7.9-7.pq: %7.l)-7.pOl  * The Golden Ass. xi. p. 239 (Bohn).     Bacchic Mysteries. 103     TTSpLrpspovrs? ovofxaCopisv oarpsoa xpo':rov 5s  d£3{jL£ujj-£V0L That is, " But it was tlien lawful to survey the most splendid beauty, when  we obtained, together with that blessed choir,  this happy vision and contemplation. And  we indeed enjoyed this blessed spectacle together with Jupiter; but others in conjunction with some other god; at the same time  being initiated in those Mysteries^ which it  is lawful to call the most blessed of all  Mysteries. And these divine Orgies* were  celebrated by us, while we possessed the  proper integrity of our nature, we were  freed from the molestations of evil which  otherwise await us in a future period of time.  Likewise, in consequence of this divine  initiation, we became spectators of entire,  simple, immovable, and blessed visions, resident in a pure hght; and were ourselves  pure and immaculate, being hberated from  this surrounding vestment, which we denominate body, and to which we are now bound   * The peculiar rites of the Mysteries were indifferently termed  Orgies or Labors, teletai or finishings, and initiations.     10-i Bacchic Mysteries.   like an oyster to its shell."* Upon this  beautiful passage Proclus observes, "That the  initiation and epopfeia [the vailing and the  reveahng] are symbols of ineffable silence,  and of union with mystical natures, through  intelligible \dsions.t Kocl yap -q {xor^zic, v.ai r^   * Phcedriis, 64.   t Proclus : Theology of Plato, book iv. The following reading  is suggested : "The initiation and final disclosing are a symbol  of the Ineffable Silence, and of the enosis, or being at one and  en rapport with the mystical verities through manifestations intuitively comprehended."   The ixv>'f\z<.z, muesis, or initiation is defined by E. Pocoeke as  relating to the "well-known Buddhist Moksha, final and eternal  happiness, the liberation of the soul from the body and its exemption from fvirther transmigration." For all mystcB therefore there  was a certain welcome to the abodes of the blessed. The term  cTTOTrcjioi, epopteia, applied to the last scene of initiation, he derives from the Sanscrit, evaptoi, an obtaining; the epopt being  regarded as having secured for himself or herself divine bliss.   It is more usual, however, to treat these terms as pure Greek;  and to render the mnesis as initiation and to derive epopteia from  STCOrtTopiat. According to this etymology an epopt is a seer or  clairvoyant, one who knows the interior wisdom. The terms inspector and superintendent do not, tome, at all express the idea,  and I am inclined, in fact, to suppose with Mr. Pocoeke, that the  Mysteries came from the East, and from that to deduce that the  technical words and expressions are other than Greek.   Plotinus, speaking of this enosis or oneness, lays down a spiritual  discipline analogous to that of the Mystic Orgies : " Purify your  soul from all undue hope and fear about earthly things; mortify        tl'^     £leii8iiiiau Mysteries. Etruscan.     Bacchic Mysteries. 107   TYjC iTpoc xa {jLoatixa "^ta t(ov vo'/^xcov cpaajjiaxtov svcoascoc;. Now, from all tliis, it may be  inferred, that the most sublime part of the  zTzrj'Kisirx \epoptei(i\ or final revealing, consisted in beholding the gods themselves invested with a resplendent hght; * and that  this was symbohcal of those transporting  visions, which the virtuous soul will constantly enjoy in a future state; and of which  it is able to gain some ravishing glimpses,  even while connected with the cumbrous  vestment of the body.f   the body, deny self,  affections as well as appetites,  and the inner  eye will begin to exercise its clear and solemn vision." " In the  reduction of yonr soul to its simplest principles, the divine germ,  you attain this oneness. We stand then in the immediate presence of God, who shines out from the profound depths of the  soul."- A. W. Apuleius: The Golden Ass. xi. The candidate was instructed  by the hierophant, and permitted to look within the cistn or chest,  which contained the mystic serpent, the phallus, egg, and gi-ains  sacred to Demeter. As the epopt was reverent, or otherwise, he  now "knew himself" by the sentiments aroused. Plato and Alcibiades gazed with emotions wide apart.  A. W.  t Plotinus : Letter to Flaccus. " It is only now and then that  . we can enjoy the elevation made possible for us, above the limits  of the body and the world. I myself have realized it but three  times as yet, and Porphyry hitherto not once."     108 Bacchic Mysteries.   But that this was actually the case, is  evident fi'om the following unequivocal testimony of Proclus : Ev airaac zaic, zsXszaic   TzpozEiyoo(ji [xoryfj.Q^ TToXXa $s G'/r^iiaza s^aXazzoyzzc, rpctcvovroir %ru zoze {j.£v azoizMzov a'jrcov xpojBsjBXrjtac «:p(oc, xors 5s sec c(v{J-pcoTTStov {j-opY'/jv £a/'/j{j.axta[JL£vov, ':o':£ os stc  dXXotov trjTTov ';:po£XY|XfjG(o?. /. ^. " In all  the initiations and Mysteries, the gods exhibit many forms of themselves, and appear  in a variety of shapes : and sometimes, indeed, a formless light ^ of themselves is held  forth to the view; sometimes this hght is  according to a human form, and sometimes  it proceeds into a different shape." f This  assertion of divine visions in the Mysteries,     Porpbyiy afterward declared that he witnessed four times,  when near him, the soul or " intellect " of Plotiiius thns raised up  to the First and Sovereign Good; also that he himself was only  once so elevated to the enosis or union with God, so as to have  glimpses of the eternal world. This did not occur till he was  sixty-eight years of age.  A. W.   * I. e. Si luminous appearance without any defined form or shape  of an object.   \ Commentary upon the Republic of Plato, page 380.      Cupids, Satyr, aud statue of Priapua.     Bacchic Mysteries. Ill   is clearly confirmed by Plotinus.* And, in  short, that magical evocation formed a part  of the sacerdotal office in the Mysteries, and  that this was universally believed by all  antiquity, long before the era of the latter  Platonists,t is plain from the testimony of  Hippocrates, or at least Democritus, in his  Treatise de Morbo Sacro.X For speaking of  those who attempt to cure this disease by  magic, he observes : st yap csayjvtjv ts %aGac Xaaaav arpovov 7.7.1 yqy, zat z'rjXka ta zoiotjzo  zpOTzrj, TTOLVca zizi^z/ovzrji sxiataaO-ai, slis 7cac  STc TEAET12N, scxs xoll Ss aXhric, zivoq yvtofj-Tj?  {xsXsrr^^ cpaatv ocot xs scvai 01 zrjjjza btzizt^^sooyzec, ^uaspsstv sjj-oi ys 5oy.£oaaL y,. X. /. e.  " For if they profess themselves able to draw  down the moon, to obscure the sun, to produce stormy and pleasant weather, as likewise showers of rain, and heats, and to render  the sea and earth barren, and to accomplish   *Ennead, i. book 6; and ix. book 9.   t Plotinus, Porphyry, lamblichus, Proclus, Longinus, and their  associates.  X Epilepsy.     112 Eleusinian and   every thing else of this kind; whether they  derive this knowledge from flie Mysteries^ or  from some other mental effort or meditation,  they appear to me to be impious, from the  study of such concerns." From all which is  easy to see, how egregiously Dr. Warburton  was mistaken, when, in page 231 of his Divine  Legation^ he asserts, " that the light beheld  in the Mysteries, was nothing more than an  illuminated image which the priests had  thoroughly purified."   But he is likewise no less mistaken, in  transferring the injunction given in one of  the Magic Oracles of Zoroaster, to the business of the Eleusinian Mysteries, and in perverting the meaning of the Oracle's admonition. For thus the Oracle speaks :   Myj 'puocojc y.akto'f\c, aoxonxoy a-^aKiw.,   That is, " Invoke not the self -revealing image  of Nature, for you must not behold these  things before your body has received the  initiation." Upon which he observes, " that     Bacchic Mysteries. 113   the self-revealing image ivas only a diffusive  shining light, as the name partly declares^ *  But this is a piece of gross ignorance, from  which he might have been freed by an attentive perusal of Proehis on the Timceus of  Plato : for in these truly divine Commentaries we learn, " that the moonf is the cause  of nature to mortals, and the self -rev eating  image of the fountain of nature.^^ "^.zXriyq {isv  acrca zoic, O-vyjzoi? zr^c, ^fO(jSo:)C, to ayioTitCiV rj^^rjX\i.a.  o'j37. xT^c 'izr^'^fr/.iac, 'f'jasco^. If the reader is  desirous of knowing what we are to understand by the fountain of nature of which the  moon is the image, let him attend to the following information, derived from a long and  deep study of the ancient theology : for from  hence I have learned, that there are many  divine fountains contained in the essence of  the demiurgus of the world; and that among  these there are three of a very distinguished  rank, namely, the fountain of souls, or Juno,   the fountain of virtues, or Minerva  and   * Divine Legation, p. 231.   t /. e. The Mother-Goddess, Isis or Demeter, symbolized as  Selene or the Moon,     114 Eleusinian and   the fountain of nature, or Diana. This last  fountain too immediately depends on the  vilifying goddess Rhea; and was assumed  by the Demiurgus among the rest, as necessary to the prohfic reproduction of liimself.  And this information will enable us besides  to explain the meaning of the following i3assages in Apuleius, which, from not beingunderstood, have induced the moderns to  believe that Apuleius acknowledged but one  deity alone. The first of these passages is  in the beginning of the eleventh book of his  MetamorpJioses, in which the divinity of the  moon is represented as addressing him in  this sublime manner : " En adsum tuis commota, Luci, precibus, rerum Natura parens,  elementorum omnium domina, seculorum  progenies initialis, summa numinum, regina  Manium, prima cai^litum, Deoruni Dearumque facies uniformis : quae cseh luminosa  culmina, maris salubria flamina, inferorum de  plorata silentia nutibus meis dispenso : cu jus  numen unicum, multiformi specie, ritu vario,  nomine multijugo totus veneratur orbis. Me  primigenii Phryges Pessinunticam nominant     Bacchic Mysteries. 115   Deum matrem. Hiiic Autochthones Attici  Cecropiam Minervam; ilhiic fluctuantes Cyprii Paphiam Veiierem : Cretes sagittif eri  Dictjninam Dianam; Sicuh trihngues Stygiam Proserpinam; Eleusinii vetustam Deam  Cererem : Junonem ahi, ahi Bellonam, alii  Hecaten, Rhamnusiam ahi. Et qui nascentis dei Sohs inchoantibus radiis iUustrantur,  ^thiopes, Ariique, priscaque doctrina pollentes ^gyptii cserimoniis me prorsus propriis  percolentes appellant vero nomine reginam  Isidem." That is, " Behold, Lucius, moved  with thy supphcations, I am present; I,  who am Nature, the parent of things, mistress of all the elements, initial progeny of  the ages, the highest of the divinities, queen  of departed spirits, the first of the celestials, of gods and goddesses the sole hkeness  of all : who rule by my nod the luminous  heights of the heavens, the salubrious breezes  of the sea, and the woful silences of the infernal regions, and whose divinity, in itself  but one, is venerated by all the earth, in  many characters, various rites, and different  appellations. Hence the primitive Phry   116 Bacchic Mysteries.   gians call me Pessinuntica, the motlier of  the gods; the Attic Autochthons, Cecropian  Muierva; the wave-siUTOunded Cyprians,  Paphian Venus; the arrow-bearing Cretans,  Dictynnian Diana; the three-tongued Sicilians, Stygian Proserpina; and the inhabitants of Eleusis, the ancient goddess Ceres.  Some, again, have invoked me as Juno, others  as Bellona, others as Hecate, and others as  Rhamnusia; and those who are enlightened  by the emerging rays of the rising sun, the  Ethiopians, and Aryans, and likewise the  Egyptians powerful in ancient learning, who  reverence my divinity with cerenioaies perfectly proper, call me by my true appellation  Queen Isis." And, again, in another place of  the same book, he says of the moon : " Te  Superi colunt, observant Inferi : tu rotas  orbem, luminas Solem, regis mundum, calcas  Tartarum. Tibi respondent sidera, gaudent  numina, redeunt tempora, serviunt elementa,  etc." That is, " The supernal gods reverence  thee, and those in the realms beneath attentively do homage to thy divinity. Thou  dost make the universe revolve, illuminate Bacchic Mysteries the sun, govern the world, and tread on Tartarns. The stars answer thee, the gods rejoice, the houi's and seasons retui*n by thy  appointment, and the elements serve thee."  For all tliis easily follows, if we consider it as  addressed to the fountain-deity of nature,  subsisting in the Demiurgus, and which is  the exemplar of that nature which flourishes  in the lunar orb, and throughout the material world, and from which the deity itself  of the moon originally proceeds. Hence, as  this fountain innnediately depends on the  life-giving goddess Rhea, the reason is obvious, why it was formerly worshiped as the  mother of the gods : and as all the mundane  are contained in the super-mundane gods,  the other appellations are to be considered as  names of the several mundane divinities produced by this fountain, and in whose essence  they are likewise contained.   But to proceed with our inquiry, I shall,  in the next place, prove that the different  purifications exhibited in these rites, in conjunction with initiation and the epopteia  were symbols of the gradation of disciplines     120 Eleusinian and   requisite to the reascent of the soul.* And  the fii'st part, indeed, of this proposition  respecting the purifications, immediately follows from the testimony of Plato in the passage already adduced, in which he asserts  that the ultimate design of the Mysteries was  to lead us back to the principles from which  we originally fell. For if the Mysteries were  symbohcal, as is universally acknowledged,  this must likewise be true of the purifications as a part of the Mysteries; and as inward puiity, of which the external is symbolical, can only be obtained by the exercise  of the virtues, it evidently follows that the  purifications were symbols of the pimfying  moral virtues. And the latter part of the  proposition may be easily inferred, from the  passage ah'eady cited from the Phmdrus of  Plato, in which he compares initiation and  the epopteia to the blessed vision of the  higher intelligible natures; an employment  which can alone belong to the exercise of  contemplation. But the whole of this is  rendered indisputable by the following re */. e. to its former divine condition. Bacchic Mysteries. 121   markable testimony of Olympiodorus, in his  excellent manuscript Commentary on the  PJuedo of Plato.* "In the sacred rites," says  he, "popular pui4fications are in the first  place brought forth, and after these such as  are more arcane. But, in the third place,  collections of various things into one are received; after which follows inspection. The  ethical and political virtues therefore are  analogous to the apparent purifications; the  cathartic virtues which banish all external  impressions, correspond to the more arcane  purifications. The theoretical energies about  intelligibles, are analogous to the collections;  and the contraction of these energies into an   * We have taken the liberty to present the following version of  this passage, as more correctly expressing the sense of the original: "At the holy places are first the public purifications. With  these the more arcane exercises follow; and after those the obligations [-jozzaizz'.z) are taken, and the initiations follow, ending  with the epopiic disclosures. So, as will be seen, the moral and  social (political) virtues are analogous to the public purifications;  the purifying virtues in their turn, which take the place of all  external matters, correspond to the moi'e arcane disciplines; the  contemplative exei'cises concerning things to be known intuitively to the taking of the obligations; the including of them as  an undivided whole, to the initiations; and the simple ocular view  of simple objects to the epoptic revelations."     122 Eleusinian and   indivisible nature, corresponds to initiation.  And the simple self-inspection of simple  forms, is analogous to epoptic vision." 'On   QZIQ. Etra ZTZl ZnjJZrjXZ aTZOrjfjr^ZOZZrjrjr ^xszfj, 5s   za'jzac, QOGzaaeic, Tzarjzhr^x'^jrjyrjyzrj, y-ai siri  zaozruQ ixorpBiQ- £v TsXst 5s siroirrscc/i. xVvc/AoyooaL TGCV'JV ai [J-sv TjO-^xat 7,7.^ 7:o/dziY.'y,i apsxa^ XGtc s[xcpavsai y,7,i)'7.p{j-occ. Ai 5s %7.i)"7pii 7,7^ 0371 77C0a7.SU7.C0Vt7t TZaVZO. Zrj. kY.ZOC, ZOIQ   aTTopp'^ro-spoic. Ai 5s xspt ':7 voriza r^scopYpt%7c TS svspYSi7.i zai^ GOGzaoeaiy. Ac 5s to'jtojv  G'jya.irjSJsiQ sec "co ajispiarov X7cc \vyqGZGiy.   Ai 5s CLTZkr/l X(OV 7.7rAC0V SC5(0V 70X0'V.7C t71C   s7U07ursc7t?. And here I can not refrain from  noticing, with indignation mingled with pity,  the ignorance and arrogance of modern critics, who pretend that this distribution of the  virtues is entirely the invention of the latter  Platonists, and without any foundation in the  writings of Plato.* And among the supporters of such ignorance, I am sovry to find   * The writings of Augustin handed Neo-Platonism down to posterity as the original and esoteric doctrine of the first followers  of Plato. He enumerates the causes which led, in his opinion, to  the negative position assumed by the Academics, and to the con   Bacchic Mysteries. 123   Fabricius, in his prolegomena to the hfe of  Proclus. For nothing can be more obvious  to every reader of Plato than that in his  Laws he treats of the social and political  virtues; in his Phcedo, and seventh book of  the RepiibUc^ of the purifying; and in his  Thceafetus, of the contemplative and sublimer virtues. This observation is, indeed,  so obvious, in the Phcedo, with respect to the  purifying virtues, that no one but a verbal  critic could read this dialogue and be insensible to its truth : for Socrates in the very  beginning expressly asserts that it is the  business of philosophers to study to die, and  to be themselves dead,* and yet at the same  time reprobates suicide. What then can such   eealment of their real opinions. He describes Plotinus as a resuscitated Plato. Against the Academics. Phcedo, 21. Kivoovjooos: y^P o'^o- TOY/_otvou-iv op&to? «t:to|j.evo'.  (pcXoaocp'.a? XsXfj^cVai la? aWooc^, bv. odgsv aXXo aoxo'. ziz'.x-ffitiionz'y  Y) aTCofl-VYjoxstv zt xa: TsS-vava:. /. e. For as many as rightly apply  themselves to philosophy seem to have left others ignorant, that  they themselves aim at nothing else than to die and to be dead.   Elsewhere (31) Socrates says : " While we live, we shall approach nearest to intuitive knowledge, if we hold no communion  with the body, except, what absolute necessity requires, nor suffer  ourselves to be pervaded by its nature, but purify ourselves from  it until God himself shall release us. Eleusinian and   a death mean but symbolical or philosophical  death ? And what is this but the true exercise of the virtues which purify '? But  these poor men read only superficially, or  for the sake of displaying some critical  acumen in verbal emendations; and yet with  such despicable preparations for philosophical discussion, they have the impudence to  oppose their puerile conceptions to the decisions of men of elevated genius and profound investigation, who, happily freed from  the danger and drudgery of learning any  foreign language,* directed all their attention  without restraint to the acquisition of the  most exalted truth.   It only now remains that we prove, in the  last place, that a representation of the descent  of the soul formed no inconsiderable part of  these mystic shows. This, indeed, is doubt * It is to be regretted, nevertheless, that our author had not  risked the " danger and drudgery " of learning Greek, so as to  have rendered fuller justice to his subject, and been of greater  service to his readers. We are conscious that those who are too  learned in verbal criticism are prone to overlook the real purport  of the text. A. W.     Bacchic Mysteries less occultly intimated by Yirgil, when speaking of the souls of the blessed ui Elysium, he  adds,   Has omnes, ubi mille rotam volvere per annos,  Lethaeum ad fluviiim deus evocat agmine magno :  Scilicet immemores supera ut convexa revisant,  Eursus et incipiant iu eorpore velle reverti.*   But openly by Apuleius in the following  prayer which Psyche addresses to Ceres :  Per ego te frugiferam tuam dextram istam  deprecor, per Isetificas messium cserimonias,  per tacita sacra cistarum, et per famulorum  tuorum draconum pinnata cuiTicula, et glebae.  Siculae fulcamina, et currum rapacem, et terram tenacem, et illuminarum Proserpinse  nuptiarum demeacula, et caetera quae silentio  tegit Eleusis, Atticae sacrarium; miserandse  Psyches animse, supplicis fuse, subsiste.f That  is, "I beseech thee, by thy fruit-bearing right   * " All these, after they have passed away a thousand years, are  summoned by the divine one in great array, to the Lethfean river.  In this way they become forgetful of their former earth-life, and  revisit the vatilted realms of the world, willing again to return  into bodies."   t Apuleius : The Golden Ass. (Story of Cupid and Psyche),  book vi. Bacchic Mysteries.   hand, by the joyful ceremonies of harvest, by  the occult sacred rites of thy cistae,* and by  the winged car of thy attending dragons, and  the furrows of the Sicilian soil, and the rapacious chariot (or car of the ravisher), and  the dark descending ceremonies attending the  marriage of Proserpina^ and the ascending  rites which accompanied the lighted return  of thy daughter^ and l)ij other arcana  which Eleusis the Attic sanctuary conceals  in profound silence^ reheve the sorrows of  thy wretched suppliant Psyche." For the  abduction of Proserpina signifies the descent  of the soul, as is e^ddent from the passage  previously adduced from Olympiodorus, in  which he says the soul descends Corically; f  and this is confirmed by the authority of the  philosopher Sallust, who observes, " That the  abduction of Proserpina is fabled to have  taken place about the opposite equinoctial;  and by this the descent of souls [into earth * Chests or baskets, made of osiers, in which were enclosed the  mystical images and utensils which the uninitiated were not permitted to behold.   t /• €. as to death; analogously to the descent of Kore-Persephone to the Underworld. Ceres lends lier ear to Triptolemus. Proserpina and Pluto. Jupiter augry.     Bacchic Mysteries life] is implied." Tlepi ^(oov x'ajv svaviiav lo^q {)-ac, 6 5'^ /.^.O-oSoc soTt tcov '|y/cov.* And as  the abduction of Proserpina was exhibited in  the dramatic representations of the Mysteries, as is clear from Apuleius, it indisputably follows, that this represented the descent  of the soul, and its union with the dark tenement of the body. Indeed, if the ascent and  descent of the soul, and its condition while  connected with a material nature, were represented in the dramatic shows of the Mysteries, it is evident that this was implied by  the rape of Proserpina. And the former  part of this assertion is manifest from Apuleius, when describing his initiation, he says,  in the passage already adduced : "I approached the confines of death, and having  trodden on the threshold of Proserpina,  / returned^ having been carried through all  the elements.^'' And as to the latter part, it  has been amply proved, fi'om the highest  authority, in the first division of this discourse. De Diis et Mundo Meusinian and   Nor must the reader be distiu^bed on finding that, according to Porphyry, as cited by  Eusebius,* the fable of Proserpina alludes to  seed placed in the ground; for this is likewise true of the fable, considered accordingto its material explanation. But it will be  proper on this occasion to rise a httle higher,  and consider the various species of fables,  according to their philosophical arrangement; since by this means the present subject will receive an additional elucidation,  and the wisdom of the ancient authors of  fables will be vindicated from the unjust  aspersions of ignorant declaimers. I shall  present the reader, therefore, with the following interesting division of fables, fi'om  the elegant book of the Platonic philosopher Sallust, on the gods and the universe.  " Of fables," says he, " some are theological,  others physical, others animastic (or relating  to soul), others material, and lastly, others  mixed from these. Fables are theological  which relate to nothing corporeal, but contemplate the very essences of the gods; such as   * Evang. Prcepui Bacchic Mysteries the fable which asserts that Saturn devoured  his children : for it insinuates nothing more  than the nature of an intellectual (or intuitional) god; since every such intellect returns  into itself. We regard fables physically when  we speak concerning the operations of the  gods about the world; as when considering  Saturn the same as Time, and calhng the  parts of time the children of the universe, we  assert that the children are devoiu'ed by their  parent. But we utter fables in a spiritual  mode, when we contemplate the operations  of the soul; because the intellections of our  souls, though by a discursive energy they go  forth into other things, yet abide in their  parents. Lastly, fables are material, such as  the Egyptians ignorantly employ, considering and calling corporeal natures divinities :  such as Isis, earth, Osiris, humidity, Typhon,  heat • or, again, denominating Saturn water,  Adonis, fruits, and Bacchus, wine. And, indeed, to assert that these are dedicated to the  gods, in the same manner as herbs, stones, and  animals, is the part of wise men; but to call  them gods is alone the province of fools and Eleusinian and   madmen; unless we speak in the same manner as when, from estabhshed custom, we call  the orb of the sun and its rays the sun itself.  But we may perceive the mixed kind of  fables, as well in many other particulars, as  when they relate that Discord, at a banquet  of the gods, tlu'ew a golden apple, and that  a dispute about it arising among the goddesses, they were sent by Jupiter to take the  judgment of Paris, who, charmed with the  beauty of Venus, gave her the apple in preference to the rest. For in this fable the  banquet denotes the super-mundane powers  of the gods; and on this account they subsist in conjunction with each other : but the  golden apple denotes the world, which, on  account of its composition from contrary  natures, is not improperly said to be thrown  by Discord, or strife. But again, since different gifts are imparted to the world by different gods, they appear to contest with each  other for the apple. And a soul living according to sense (for this is Paris), not perceiving other powers in the universe, asserts  that the apple is alone the beauty of Venus.     Bacchic Mysteries. 133   But of these species of fables, such as are  theological belong to philosophers; the physical and spiritual to poets; l)ut the mixed to  the first of the initiator i/ rites (ze'kszal(;);  since the intention of all mystic ceremonies  is to conjoin us with the world and the  gods.^''   Thus far the excellent Sallust : from  whence it is evident, that "the fable of Proserpina, as belonging to the Mysteries, is  properly of a mixed nature, or composed  from all the four species of fables, the theological [spiritual or psychical], and material.  But in order to understand this divine  fable, it is requisite to know, that according  to the arcana of the ancient theology, the  Coric * order (or the order belonging to  Proserpina) is twofold, one part of which is  super-mundane, subsisting with Jupiter, or  the Demiurgus, and thus associated with him  establishing one artificer of divisible natures;  but the other is mundane, in which Proser * Coric from KopY], Kore, a name of Proserpina. The name is  derived by E. Pococke from the Sanscrit Goure EJeiisinian and   pina is said to be ravished by Pluto, and to  animate the extremities of the universe.  *' Hence," says Prockis, "according to the  statement of theologists, who dehvered to  us the most holy Mysteries, she [Proserpina]  abides on high in those dwellings of her  mother which she prepared for her in inaccessible places, exempt from the sensible  world. But she likewise dwells beneath  with Pluto, administering terrestrial concerns, governing the recesses of the earth,  supplying life to the extremities of the universe, and imparting soul to beings which  are rendered by her inanimate and dead."  Kai yap yj twv iJ-soXoytov "^'^{J-yj, xwv tac aytcoxata? Y/^iiv £V EXsaacvt tsAs-ca? 7rry.pry.o£0(oy,Gxtov, avco, ji£v OL'jr/jV sv xocc {X'ffrjOQ owoic  JJLSV8CV cp'^acv, O'j^ Yj (J-'^r/jp aur^ y-arsaxsuaCsv  sv a[57'0L? £(;Y^pY;{ji£voac too tz^vzoq. Katco §£  {i£'ca nXoD-covoc xcDV yO-ovuov eizapyeiy^ v.rj.i  zooQ ZTiQ YQC, \Loyofjc £':it'cpo7U£U£tv, vcat Cf«^Y^v  £xop£Y£tv ZOIC eyrj.zoic ^oo xavToc, %at ^^/''i^  {ji£ta5i5ovat rote Trap £rjjjzo)y aj^oyoic, 7.ai V£xpot?.* Hence we may easily perceive that   * Proclus: TJieology of Plato Bacchic Mysteries this fable is of the mixed kind, one part of  which relates to the super-mundane estabhshment of the secondarj^ cause of life,* and the  other to the procession or outgoing of life  and soul to the farthest extremity of things.  Let us therefore more attentively consider  the fable, in that part of it which is symbolical of the descent of souls; in order to  which, it will be requisite to premise an  abridgment of the arcane discourse, respecting  the wanderings of Ceres, as preserved by  Minutius Felix. " Proserpina," says he, " the  daughter of Ceres by Jupiter, as she was  gathering tender flowers, in the new spring,  was ravished from her dehghtful abodes by  Pluto; and being carried from thence  through thick woods, and over a length of  sea, was brought by Pluto into a cavern,  the residence of departed spirits, over whom  she afterward ruled with absolute sway. But   * Plotiuus taught the existence of three hypostases in the Divine  Nature. There was the Demiurge, the God of Creation and  Providence; the Second, the Intelligible, self-contained and immutable Source of life; and above all, the One, who like the  Zervane Akerene of the Persians, is above all Being, a pure will,  an Absolute Love  " Intellect."  A. W. Bacchic Mysteries. Ceres, upon discovering the loss of her daughter, with hghted torches, and begirt with a  serpent, wandered over the whole earth for  the purpose of finding her till she came to  Eleusis; there she found her daughter, and  also taught to the Eleusinians the cultivation  of corn." Now in this fable Ceres represents  the evolution of that intuitional part of our  nature which we properly denominate intellect'^ (or the unfolding of the intuitional  faculty of the mind from its quiet and collected condition in the world of thought);  and Proserpina that living, self -moving, and  animating part which we call sonl. But lest  this comparing of unfolded intellect to Ceres  should seem ridiculous to the reader, unacquainted with the Orphic theology, it is necessary to inform him that this goddess, from  her intimate union with Rhea, in conjunction with whom she produced Jupiter, is Also denominated by Kant, Pure reason, and by Cocker,  Intuitive reason. It was considered by Plato, as  not amenable to  the conditions of time and space, but in a particular sense, as  dwelling in eternity : and therefore capable of beholding eternal  realities, and coming into communion with absolute beauty, and  goodness, and truth  that is, with God, the Absolute Being."  Proserpina. Greek.  Bacclius. India.  Ceres. Roman. Demeter. Ktruscan. Bacchic Mysteries evidently of a Saturnian and zoogonic, or intellectual and vivific rank; and hence, as we  are informed by the philosopher Sallust,  among the mundane divinities she is the  deity of the planet Saturn.* So that in consequence of this, our intellect (or intuitive  faculty) in a descending state must aptly  symbohze with the divinity of Ceres. But  Pluto signifies the whole of a material  natui'e; since the empire of this god, according to Pythagoras, commences downward  from the Gralaxy or milky way. And the  cavern signifies the entrance, as it were, into  the profundities of such a nature, which is  accomplished by the soul's union with this  terrestrial body. But in order to underderstand perfectly the secret meaning of the  other parts of this fable, it will be necessary  to give a more exphcit detail of the particulars attending the abduction, from the beautiful poem of Claudian on this subject. From   * Hence we may perceive the reason why Ceres as well as Saturn was denominated a legislative deity; and why illuminations  were used in the celebration of the Saturnalia, as well as in the  Eleusinian Mysteries Bacchic Mysteries.   this elegant production we learn that Ceres,  who was a&aid lest some violence should be  offered to Proserpina, on account of her inimitable beauty, conveyed her privately to  Sicily, and concealed her in a house built on  purpose by the Cyclopes, while she herself  directs her course to the temple of Cybele,  the mother of the gods. Hej:'e, then, we see  the first cause of the soul's descent, namely,  the abandoning of a life wholly according to  the higher intellect, which is occultly signified by, the separation of Proserpina fi*om  Ceres. Afterward, we are told that Jupiter  instructs Venus to go to this abode, and betray Proserpina from her retirement, that  Pluto may be enabled to carry her away;  and to prevent any suspicion in the virgin's  mind, he commands Diana and Pallas to go  in company. The three goddesses arriving,  find Proserpina at work on a scarf for her  mother; in which she had embroidered the  primitive chaos, and the formation of the  world. Now by Venus in this part of the  narration we must understand desire^ which  even in the celestial regions (for such is the Venus, Diana, and Pallas visit Proserpina Bacchic Mysteries residence of Proserpina till slie is ravished by  Pluto), begins silently and stealthily to creep  into the recesses of the soul. By Minerva  we must conceive the rational power of the  soul, and by Diana, nature^ or the merely  natural and vegetable part of our composition; both which are now ensnared through  the allurements of desire. And lastly, the  web in which Proserpina had displayed all  the fair variety of the material world, beautifully represents the commencement of the  illusive operations through which the soul  becomes ensnared with the beauty of imaginative forms. But let us for a while attend  to the poet's elegant description of her employment and abode :   Devenere locum, Cereris quo tecta nitebant  Cyclopum firmata manu. Stant ardua f erro  Msenia; ferrati postes : immensaqiie nectit  Claustra elialybs. Nullum tanto sudore Pyracmon,  Nee Steropes, eonstruxit opus : nee talibus unquam  Spiravere uotis animge : nee flumine tanto  Incoctum maduit lassa fornaee metallum.  Atria vestit ebur : trabibus solidatur aenis  Culmen, et in eelsas surgunt eleetra eolumnas.  Ipsa domum tenero mulcens Proserpina eantu  Irrita texebat rediturje munera matri.  Hie elementorum seriem sedesque pateruas     144 Eleusinian and   Insignibat aeu : veterem qua lege tutmiltum  Diserevit natiira parens, et semiua jiistis  Diseessere locis : quidquid leve fertiu" iu altum :  111 medium graviora caduut : incaiiduit tether :  Egit flamma polum : fluxit mare •. terra pependit  Nee color uuus inest. Stellas accendit in auro.  Ostro fundit aquos, attollit litora gemmis,  Filaque mentitos jam jam cfelantia liuctus  Arte tumeiit. Credas illidi cautibus algam,  Et raucum bibiilis inserpere murmur arenis.  Addit quinqiie plagas : mediam subtemine rubro  Obsessam fervore notat : squalebat adustus  Limes, et assiduo sitiebant stamina sole.  Vitales utrimque duas; quas mitis oberrat  Temperies habitanda viris. Tum fine supremo  Torpentes traxit geminas, brumaque perenni  Fgedat, et a3terno coiitristat frigore telas.  Nee non et patrui piugit sacraria Ditis,  Fatalesque sibi manes. Nee def nit omen.  Prasscia nam subitis maduerimt fletibus ora.     After this, Proserpina, forgetful of her parent's commands, is represented as venturing  from her retreat, through the treacherous  persuasions of Venus :   Impulit Joiiios pra?misso lumine fluetus  Nondum pura dies : tremulis vibravit in iindis  Ardor, et errantes ludunt per cferula flammfe.  Jamque audax animi, fidseque oblita parentis,  Fraude Dioiifea riguos Proserpina saltus  (Sic Parcse voluere) petit. Bacchic Mysteries And this with the greatest propriety: for  obhvion necessarily follows a remission of  intellectnal action, and is as necessarily attended with the allurements of desire.* Nor  is her dress less symbolical of the acting of When the person turns the back upon his higher faculties, and  disregards the communications which he receives through them  from the world of unseen realities, an oblivion ensues of their  existence, and the person is next brought within the province and  operation of lower and worldly ambitions, such as a love of power,  passion for riches, sensual pleasure, etc. This is a descent, fall,  or apostasy of the soul,  a separation from the sources of divine  life and ravishment into the region of moral death.   In the Pluedras, in the allegory of the Chariot and Winged  Steeds, Plato represents the lower or inferior part of man's nature  as dragging the soul down to the earth, and subjecting it to the  slavery of corporeal conditions. Out of these conditions there  arise numerous evils, that disorder the mind and becloud the reason, for evil is inherent to the condition of finite and multiform  being into which we have "fallen by our own fault." The present earthly life is a fall and a punishment. The soul is now  dwelling in ''the gi-ave which we call the body." In its incorporate state, and previous to the discipline of education, the rationalelement is " asleep." " Life is more of a dream than a reality."  Men are utterly the slaves of sense, the sport of phantoms and  illusions. We now resemble those " captives chained in a subterraneous cave," so poetically described in the seventh book of The  Republic; their backs are turned to the light, and consequently  they see but the shadows of the objects which pass behind them,  and " they attribute to these shadows a perfect reality." Their  sojourn upon earth is thus a dark imprisonment in the body, a  dreamy exile from their proper home."  CucJcer's Greek Philosophy,  Eleiisinian and   the soul in such a state, principally according  to the energies and promptings of imagination and nature. For thus her garments are  beautifully described by the poet : Qiias inter Cereris proles, nunc gloria luatris,  Mox dolor, sequali tendit per gratnina passu,  Nee membris nee honore minor; potuitque  Pallas, si clipeum, si ferret spieula, Phoebe.  CoUeetsB tereti nodantur jaspide vestes.  Peetinis ingenio nunquam felicior arti  Coutigit eventus. Nullse sic consona telae  Fila, nee in tantum veri duxere figuram.  Hie Hyperionis Solem de semine nasei  Fecerat, et pariter, sed forma dispare lunam,  Aurora} noetisque duces. Cunabula Tethys  Praebet, et infantes gremio solatur anhelos,  Cseruleusque sinus roseis radiatur alumnis.  Invalidum dextro portat Titana laeerto  Nondum luce gravem, nee pubescentibus alte  Cristatum radiis : prime clementior sevo  Fiugitur, et tenerum vagitu despiiit ignem.  Lseva parte soror vitrei libaraina potat  Uberis, et parvo signatur tempora cornu.   In which description the sun represents the  phantasy, and the moon, nature, as is well  known to every tyro in the Platonic philosophy. They are likewise, with great propriety, described in their infantine state : for     Bacchic Mysteries. 147   these energies do not arrive to perfection  previous to the sinking of the soul into the  dark receptacle of matter. After this we behold her issuing on the plain with Minerva  and Diana, and attended by a beauteous  train of nymphs, who are evident symbols of  world of generation,* and are, therefore, the  proper companions of the soul about to fall  into its fluctuating realms.   But the design of Proserpina, in venturing  from her retreat, is beautifully significant of  her approaching descent: for she rambles  from home for the purpose of gathering  flowers; and this in a lawn replete with the  most enchanting variety, and exhahng the  most dehcious odors. This is a manifest  image of the soul operatmg principally according to the natural and external life, and  so becoming effeminated and ensnared  through the delusive attractions of sensible  form. Minerva (the rational faculty in this  case), likewise gives herself wholly to the   * Porphyry : Cave of the Nymphs. lu the later Greek, v'j|i.'f rj  sigaified a bride. EJeusinian and   dangerous employment, and abandons the  proper characteristics of her nature for the  destructive revels of desire.   All which is thus described with the utmost elegance by the poet :   Forma loci siiperat flores : eurvata tumore  Pai'vo planities, et moUibus edita clivis  Creverat in eoUem. Vivo de pumice fontes  Roscida mobilibus lambebant gramina rivis.  Silvaque torrentes ramonim fi"igore soles  Temperat, et medio brumam sibi viudicat sestu.  Apta fretis abies, bellis aecomoda eomus,  Quercus arnica Jovi, tumulos tectura cupressus,  Hex plena favis, venturi pra?seia lanrus.  Fluctuat hie denso crispata cacumine buxus,  Hie ederae serpunt, hie pampinus indnit ulmos.  Hand proeul inde laciis (Pergum dixere Sioani)  Panditur, et nemorum frondoso margine cinetus  Vicinis pallescit aquis : admittit in altum  Cernentes oculos, et late perviiis humor  Ducit inoflfensus liquido sub gurgite visus,  Imaque perspicui prodit secreta profundi.   Hue elapsa eohors gaudent per florea rura  Hortarur Cytherea, legant. Nunc ite, sorores,  Dum matutinis prsesudat solibus aer :  Dum meus humectat flaventes Lucifer agros,  Rotanti praevectus equo. Sic fata, doloris  Carpit signa sui. Varios turn cjetera saltus  Invasere eohors. Credas examina fundi  Hyblagum raptura thymum, cum cerea reges     Baccliic Mysteries. 149   Castra movent, fagique cava demissus ab alvo  Mellifer electis exereitus obstrepit lierbis.  Pratorum spoliatur honos. Hac lilia fuseis  Iiitexit violis : banc mollis amaraeus ornat :  Heec graditur stellata rosis; haec alba ligiistris.  Te quoqiie flebilibus mserens, Hyacintbe, figuris,  Narcissumque metunt, nunc inclita germina veris,  Proestantes dim pueros. Tu natus Amyclis :  Hunc Helicon genuit. Te disci perculit error :  Hune fontis decepit amor. Te fronte retusa  Deluis, hiinc fracta Cephissus arundiue luget.  j3^]staat ante alias avido fervore legeudi  Frugiferte spes una Dese. Nunc vimine texto  Eidentes ealatbos spoliis agrestibus implet :  Nunc sociat flores, seseque ignara corouat.  Augurium fatale tori. Quin ipsa tubarum  Armorumque potens, dextram qua fortia turbat  Agmina; qua stabiles portas et msenia vellit,  Jam levibus laxat studiis, hastamque reponit,  Insolitisque docet galeam mitescere sertis.  Ferratus lascivit apex, horrorque recessit  Martins, et cristse pacato fulgure vernant.  Nee quae Parthenium canibus scrutatur odorem,  Aspernata clioros, libertatemque comarum  Injecta tantum voluit freuare corona.   But there is a circumstance relative to the  narcissus which must not be passed over in  silence : I mean its being, according to Ovid,  the metamorphosis of a youth who fell a  victim to the love of his own corporeal  form; the secret meaning of which most admirably accords with the rape of Proserpina, which, according to Homer, was the  immediate consequence of gathering this  wonderful flower.* For by Narcissus falling  in love with his shadow in the limpid stream  we may behold an exquisitely apt representation of a soul vehemently gazing on the  flowing condition of a material body, and in  consequence of this, becoming enamored  with a corporeal life, which is nothing more  than the delusive image of the true man, or  the rational and immortal soul. Hence, by  an immoderate attachment to this unsubstautial mockery and gliding semblance of the  real soul, such an one becomes, at length,  wholly changed, as far as is possible to his  nature, into a vegetive condition of being,  into a beautiful but transient flower, that is,  into a corporeal life, or a life totally consist * Homer: Rymn to Ceres. "We were plucking the pleasant  flowers, the beauteous crocus, and the Iris, and hyacinth, and the  narcissus, which, like the crocus, the wide earth produced. I was  plucking them with joy, when the earth yawned beneath, and out  leaped the Strong King, the Many-Receiver, and went bearing me,  grieving much, beneath the earth in his golden chariot, and I  cried aloud. Pioseipiua gathering Flowers.      Pluto carrj'iiig off Pioserplna.     Bacchic Mysteries, 153   ing in the mere operations of nature. Proserpina, therefore, or the soul, at the very  instant of her descent into matter, is, with  the utmost propriety, represented as eagerly  engaged in pkicking this fatal flower; for  her faculties at this period are entirely occupied with a hf e divided about the fluctuating condition of body.   After this, Pluto, forcing his passage  through the earth, seizes on Proserpina,  and carries her away with him, notwithstanding the resistance of Minerva and  Diana. They, indeed, are forbid by Jupiter,  who in this place signifies Fate, to attempt  her deUverance. By this resistance of Minerva and Diana no more is signified than  that the lapse of the soul into a material  nature is contrary to the genuine wish and  proper condition, as well of the corporeal hfe  depending on her essence, as of her true and  rational nature. Well, therefore, may the  soul, in such a situation, pathetically exclaim  with Proserpina :     154 Bacchic Mysteries.   O male dileeti flores, despeetaque matris  Consilia : O Veneris deprensse serius artes ! *   But, according to Minutius Felix, Proserpina  was carried by Pluto tlu-ough thick woods,  and over a length of sea, and brought into a  cavern, the residence of the dead : where by  'woods a material nature is plainly implied, as  we have already observed in the first part of  this discourse; and where the reader may  likewise observe the agreement of the description in this particular with that of Yvngil in the descent of his hero :   Tenent media omnia silvce  Coeytusque sinuque labens, cireumvenit atro.t   In these words the woods are expressly  mentioned; and the ocean has an evident  agreement with Cocytus, signifying the outflowing condition of a material nature, and  the sorrows and sufferings attending its connection with the soul. Oh flowers fatally dear, and the mother's cautions despised :  Oh cruel arts of cunning Venus !   t " Woods cover all the middle space and Cocytus gliding on,  surrounds it with his dusky bosom. Bacchic Mysteries Pluto hurries Proserpina into the infernal  regions : in other words, the soul is sunk  into the profound depth and darkness of a  material nature. A description of her marriage next succeeds, her union with the dark  tenement of the body:   Jam siius iuferno processerat Hesperus orbi  Ducitur in thalamum virgo. Stat pronuba juxta  Stellautes Nox pieta sinus, tangensque cubile  Omina perpetuo genitalia federe sancit.   Night is with great beauty and propriety introduced as standing by the nuptial couch,  and confirming the oblivious league. For  the soul through her union with a material  body becomes an inhabitant of darkness, and  subject to the empire of night; in consequence of which she dwells wholly with delusive phantoms, and till she breaks her  fetters is deprived of the intuitive perception of that which is real and true. In the next place, we are presented with  the following beautiful and pathetic description of Proserpina appearing in a dream to Eleusinian and   Ceres, and bewailing her captive and miserable condition :   Sed tunc ipsa, sui jam non ambagibus ullis  Nuutia, materna faeies ingesta sopori.  Namque videbatur tenebroso obtecta reeessu  Carceris, et ssevis Proserpina vineta catenis,  Non qualem roseis nuper convallibus ^tnae  Suspexere Dete. Squalebat pulchrior auro  Csesaries, et nox oculorum infeeerat ignes.  Exhaustusque gelu pallet rubor. Die superbi  Flamineus oris honos, et non cessura pruinis  Membra eolorantur pieei caligine regni.  Ergo hanc ut dubio vix tandem agnoseere visu  Evaluit : cujus tot p«n£e criminis ? inquit.  Unde hsec infoi'mis macies ? Cui tanta f acultas  In me ssevitisB est? Eigidi cur vincula ferri  Vix aptanda f eris molles meruere lacerti ?  Tu, mea tu proles I An vana fallimur umbra ?   Such, indeed, is the wretched situation of  the soul when profoundly merged in a corporeal nature. She not only becomes captive  and fettered, but loses all her original splendor; she is defiled with the impurity of matter; and the sharpness of her rational sight  is blunted and dunmed through the thick  darkness of a material night. The reader  may observe how Proserpina, being represented as confined in the dark recess of a Bacchic Mysteries prison, and bound with fetters, confirms the  explanation of the fable here given as symbolical of the descent of the soul; for such,  as we have ah*eady largely proved, is the  condition of the soul from its union with the  body, according to the uniform testimony of  the most ancient philosophers and priests.  After this, the wanderings of Ceres for the  discovery of Proserpina commence. She is  described, by Minutius Fehx, as begirt ^dth  a serpent, and bearing two hghted torches in  her hands; but by Claudian, instead of being  gu^t with a serpent, she commences her  search by night in a car drawn by dragons.  But the meaning of the allegory is the same  in each; for both a serpent and a di'agon are  emblems of a divisible hfe subject to transitions and changes, with which, in this case,  our intellectual (and diviner) part becomes  connected : since as these animals put off  their skins, and become young again, so Manteis, /jLavisic, not bpE'.;;. The term is more commonly translated prophets, and actually signifies persons gifted with divine  insight, through being in an entheastic condition, called also mania  or divine fury. Bacchic Mysteries.   tlie divisible life of the soul, falling into  generation, is rejuvenized in its subsequent  career. But what emblem can more beautifully represent the evolutions and outgoings of an intellectual nature into the  regions of sense than the wanderings of  Ceres by the hght of torches through the  darkness of night, and continuing the pursuit  until she proceeds into the depths of Hades  itself ? For the intellectual part of the soul,*  when it verges towards body, enkindles, indeed, a light in its dark receptacle, but becomes itself situated in obscurity : and, as  Proclus somewhere divinely observes, the  mortal nature by this means participates of  the divme intellect, but the intellectual part  is drawn down to death. The tears and lamentations too, of Ceres, in her coiu'se, are symbolical both of the providential operations of  The soul is a composite nature, is on one side linked to the  eternal world, its essence being generated of that ineffable element which constitutes the real, the immutable, and the permanent. It is a beam of the eternal Sun, a spark of the Divinity, an  emanation from God. On the other hand, it is linked to the phenomenal or sensible world, its emotive part being formed of that  which is relative and phenomenal."  Cocker. Bacchic Mysteries. intellect about a mortal nature, and the miseries with which such operations are (with  respect to imperfect souls like oui's) attended.  Nor is it without reason that lacchus, or  Bacchus, is celebrated by Orpheus as the  companion of her search : for Bacchus is the  evident symbol of the imperfect energies of  intellect, and its scattering into the obscure  and lamentable dominions of sense.   But our explanation will receive additional  strength from considering that these sacred  rites occupied the space of nine days in their  celebration; and this, doubtless, because,  according to Homer,* this goddess did not  discover the residence of her daughter till  the expu-ation of that period. For the soul,  in falling from her original and divine abode  in the heavens, passed through eight spheres, Hymn to Ceres. "For nine days did holy Demeter perambulate  the earth . . and when the ninth shining morn had come, Hecate  met her, bringing news. Apuleius also explains that at the initiation into the Mysteries  of Isis the candidate was enjoined to abstain from luxurious food  for ten days, from the flesh of animals, and from wine.  Golden Ass,  book xi. p. 239 (BoJin). Eleusinian and   namely, the fixed or inerratic sphere, and  the seven planets, assuming a different body,  and employing different faculties in each;  and becomes connected with the sublunary  world and a terrene body, as the ninth, and  most abject gradation of her descent. Hence  the first day of initiation into these mystic  rites was called agurmos^ L e. according to  Hesychius, eM'Jesia et '^rav to ayscpoiJ-svov,  an assembly^ and all collecting fogefher :  and this with the greatest propriety; for,  according to Pythagoras, "the people of  dreams are souls collected together in the  Gralaxy.* Atj[jlo^ 5s ovstpcov 7.a.za noO-ayopav   Jcav.f And from this part of the heavens  souls first begin to descend. After this, the  soul falls from the tropic of Cancer into the  planet Satm'n; and to this the second day  of initiation was consecrated, which they  called AXol5s (j-uarai, [" to the sea, ye initiated ones ! "] because, says Meui'sius, on that   * Only persons taking a view solely external will suppose the  galaxy to be literally the milky belt of stars in the sky.  t Cave of the Xymphs. Bacchic Mysteries day the crier was accustomed to admonisli  the mystte to betake themselves to the sea.  Now the meaning of this will be easily  understood, by considering that, according to  the arcana of the ancient theology, as may be  learned from Proclus, the whole planetary  system is under the dominion of Neptune;  and this too is confirmed by Martianus  Capella, who describes the several planets  as so many streams. Hence when the soul  falls into the planet Saturn, which Capella  compares to a river voluminous, sluggish,  and cold, she then first merges herself into  fluctuating matter, though purer than that  of a sublunary natiu'e, and of which water is  an ancient and significant symbol. Besides,  the sea is an emblem of purity, as is evident  from the Orphic hymn to Ocean, in which that  deity is called {^swv ayvtajxa {xsy^^'^^v, tlieon  agnisma megiston^ i. e. the greatest purifier of  the gods : and Saturn, as we have already  observed, is pure [intuitive] intellect. And  what still more confirms this observation is,  that Pythagoras, as we are informed by Por * Theology of Plato Bacchic Mysteries.   pliyry, in his life of that philosopher, symbolically called the sea a tear of Saturn. But the  eighth day of initiation, which is symbohcal  of the falhng of the soul into the lunar  orb,* was celebrated by the candidates by a  repeated initiation and second sacred rites;  because the soul in this situation is about to  bid adieu to every thing of a celestial natui'e;  to sink into a perfect obhvion of her divine  origin and pristine felicity; and to rush profoundly into the region of dissimilitude,!  ignorance, and error. And lastly, on the  ninth day, when the soul falls into the sublunary world and becomes united with a terrestrial body, a hbation was performed, such  as is usual in sacred rites. Here the initiates,  filling two earthen vessels of broad and spacious bottoms, which were called irX'^fj-o/oat,  plemokhoai^ and y-G-cuXoaTcoL, JcotuIusJioi, the  former of these words denoting vessels of a  conical shape, and the latter small bowls or The Moon typified the mother of gods and men. The soul  descending into the lunar orb thus came near the scenes of earthly  existence, where the life which is transmitted by generation has  opportunity to involve it about.   t The condition most unlike the former divine estate.  Goddess Night.  Three Graces Bacchic Mysteries cups sacred to Bacchus, they placed one  towards the east, and the other towards the  west. And the first of these was doubtless,  according to the interpretation of Proclus,  sacred to the earth, and symbolical of the  soul proceeding from an orbicular figure, or  divine form, into a conical defluxion and terrene situation : * but the other was sacred to  the soul, and symbolical of its celestial origin;  since our intellect is the legitimate progeny  of Bacchus. And this too was occultly signified by the position of the earthen vessels; for, according to a mundane distribution of the divinities, the eastern center of  the universe, which is analogous to fire,  belongs to Jupiter, who likewise governs the  fixed and inerratic sphere; and the western  to Pluto, who governs the earth, because  the west is allied to earth on account of  its dark and nocturnal nature. f   Again, according to Clemens Alexandrinus, the following confession was made by   * An orbicular figure symbolized the maternal, and a cone the  masculine divine Energy.  t Proclus: Theology of Plato Eleusinian and   tlie new initiate in these sacred rites, in answer to the interrogations of the Hierophant :  "I have fasted; I have drank the Cyceon; I have taken out of the Cista, and placed  what I have taken ont into the Calathns;  and alternately I have taken out of the Calathus and put into the Cista." Kcj^a-cc xo  a'jv^r^{xa EXsoaivLcov {xoax-r^puov. EvYja-cwaa*   xtatY^v. But as this pertains to a circumstance attending the wanderings of Ceres,  which formed the most mystic and emblematical part of the ceremonies, it is necessary  to adduce the following arcane narration,  summarily collected from the writings of  Arnobius : " The goddess Ceres, when searching through the earth for her daughter, in the  course of her wanderings arrived at the  boundaries of Eleusis, in the Attic region, a  place which was then inhabited by a people  called Autochthones, or descended fi'om the Homer: Hymn to Ceres. "To her Metaneira gave a cup of  sweet wine, but slie refused it; but bade her to mix wheat and  water with pounded pennyroyal. Having made the mixture, she  gave it to the goddess."     Bacchic Mysteries earth, whose names were as follows : Baubo  and Triptolemus; Dysaules, a goatherd; Eubulus, a keeper of swme; and Eumolpus, a  shepherd, from whom the race of the Eumolpidse descended, and the illustrious name of  Cecropidse was derived; and who afterward  flourished as bearers of the caduceus, hierophants, and criers belonging to the sacred  rites. Baubo, therefore, who was of the  female sex, received Ceres, wearied with  complicated evils, as her guest, and endeavored to soothe her sorrows by obsequious  and flattering attendance. For this purpose  she entreated her to pay attention to the refreshment of her body, and placed before her  a mixed potion to assuage the vehemence of  her thirst. But the sorrowful goddess was  averse from her solicitations, and rejected the  friendly officiousness of the hospitable dame.  The matron, however, who was not easily repulsed, still continued her entreaties, which  were as obstinately resisted by Ceres, who  persevered in her refusal with unshaken persistency and invincible firmness. But when  Baubo had thus often exerted her endeavors  Bacchic Mysteries.   to appease the sorrows of Ceres, but without  any effect, she, at length, changed her arts,  and determined to try if she could not exhilarate, by prodigies (or out-of-the-way expedients), a mind which she was not able to  allure by earnest endeavors. For this purpose she uncovered that part of her body by  which the female sex produces children and  derives the appellation of woman.* This she  caused to assume a purer appearance, and a  smoothness such as is found in the private  parts of a stripling child. She then returns  to the afflicted goddess, and, in the midst of  those attempts which are usually employed  to alleviate distress, she uncovers herself,  and exhibits her secret parts; upon which  the goddess fixed her eyes, and was diverted  with the novel method of mitigating the anguish of soiTow; and afterward, becoming  more cheerful through laughter, she assuages  her thirst with the mingled potion which she  had before despised." Thus far Arnobius;  and the same narration is epitomized by  Clemens Alexandrinus, who is very indignant   * FuvT), (June, woman, from y^juvo;, gounos, Latin ciodiks. Cupifl auil Veuus. Satyr and Goat. Baubo, Ceres, and Nymphs.     Bacchic Mysteries at the indecency as he conceives, in the stoiy,  and because it composed the arcana of the  Eleusinian rites. Indeed as the simple father,  with the usual ignorance of a Christian  priest, considered the fable literally, and as  designed to promote indecency and lust, we  can not wonder at his ill-timed abuse. But  the fact is, this narration belonged to the  aiuoppYjxa, aporrheta^ or arcane discourses, on  account of its mystical meaning, and to prevent it from becoming the object of ignorant  declamation, licentious perversion, and impious contempt. For the purity and excellence of these institutions is perpetually  acknowledged even by Dr. Warburton himseK, who, in this instance, has dispersed, for a  moment, the mists of delusion and intolerant  zeaLf Besides, as lamblichus beautifully observes, t "exhibitions of this kind in the  Mysteries were designed to free us from hcen  Uneandidness was more probably the fault of which Clement  was guilty.   t Divine Legation of Moses, book ii.   I "The wisest and best men in the Pagan world are unanimous  in this, that the Mysteries were instituted pure, and proposed the  noblest ends by the worthiest means. Bacchic Mysteries.   tioiis passions, by gratifying the sight, and  at the same time vanquisliing desire, through  the awful sanctity with which these rites  were accompanied : for," says he, " the proper  way of freeing ourselves from the passions is,  first, to indulge them mth moderation, by  which means they become satisfied; hsten, as  it were, to persuasion, and may thus be entirely removed."* This doctrine is indeed so  rational, that it can never be objected to by  any but quacks in philosophy and rehgion.  For as he is nothing more than a quack in  medicine who endeavors to remove a latent  bodily disease before he has called it forth  externally, and by this means diminished its  fuiy; so he is nothing more than a pretender  in philosophy who attempts to remove the  passions by violent repression, instead of  moderate comphance and gentle persuasion.   But to return from this disgression, the following appears to be the secret meaning of  this mystic discourse : The matron Baubo  may be considered as a symbol of that pas * Mysteries of the Egyptians, Chaldeans, and Assyrians. Bacchic Mysteries. 177   sive, womanish, and corporeal life tlirongh  whicli the soul becomes united with this  earthly body, and through which, being at  first ensnared, it descended, and, as it were,  was born into the world of generation, passing, by this means, from mature perfection,  splendor and reality, into infancy, darkness,  and error. Ceres, therefore, or the intellectual soul, in the course of her wanderings,  that is, of her evolutions and goings-f orth into  matter, is at length captivated with the arts  of Baubo, or a corporeal hf e, and forgets her  sorrows, that is, imbibes oblivion of her  wretched state in the mingled potion which  she prepares : the mingled hquor being an  obvious symbol of such a life, mixed and impure, and, on this account, liable to corruption and death; since every thing pure  and unmixed is incorruptible and divine.  And here it is necessary to caution the  reader from imagining, that because, according to the fable, the wanderings of Ceres  commence after the rape of Proserpina,  hence the intuitive intellect descends subsequently to the soul, and separate from it. Eleusinimi and   Notliing more is meant by this circumstance  than that the diviner intellect, from the superior excellence of its nature, has in cause,  though not in time, a priority to soul, and  that on this account a defection and revolt  (and descent earthward from the heavenly  condition) commences, from the soul, and  afterward takes place in the intellect, yet  so that the former descends with the latter  in inseparable attendance.   From this explanation, then, of the fable,  we may easily perceive the meaning of the  mystic confession, / have fasted; I have  drank a mingled potion, etc.; for by the  former part of the assertion, no more is  meant than that the higher intellect, previous  to imbibing of oblivion through the deceptive arts of a corporeal life, abstains from  all material concerns, and does not mingle  itself (as far as its nature is capable of such  abasement) with even the necessary delights  of the body. And as to the latter part, it  doubtless alludes to the descent of Proserpina to Hades, and her re-ascent to the abodes of her mother Ceres : that is, to the  outgoing and return of the soul, alternately  falhng into generation, and ascending thence  into the intelhgible world, and becoming perfectly restored to her divine and intellectual nature. For the Cista contained the  most arcane symbols of the Mysteries, into  which it was unlawful for the profane to  look : and whatever were its contents, we  learn from the hymn of Callimachus to  Ceres, that they were formed from gold,  which, from its incorruptibihty, is an evident symbol of an immaterial nature. And  as to the Calathus, or basket, this, as we are  told by Claudian, was filled with spoliis agrestibus^ the spoils or fruits of the field, which are  manifest symbols of a life corporeal and  earthly. So that the candidate, by confessing that he had taken from the Cista, and  placed what he had taken into the Calathus, A golden serpent, an egg, and the phallus. The epopt looking upon these, was rapt with awe as contemplating in the»symbols the deeper mysteries of all life, or being of a grosser temper,  took a lascivious impression. Thus as a seer, he beheld with the  eyes of sense or sentiment; and the real apocalypse was therefore  that made to himself of his own moral life and character.  A. W. Eleusinian and   and tlie contrary, occultly acknowledged the  descent of his soul from a condition of being  super-material and immortal, into one material and mortal; and that, on the contrary,  by hving according to the purity which the  Mysteries inculcated, he should re-ascend to  that perfection of his nature, from which he  had unhappily fallen. Exiled from the true home of the spirit, imprisoned in the  body, disordered by passion, and becloixded by sense, the soul has  yet longings after that state of perfect knowledge, and purity, and  bliss, in which it was first created. Its affinities are still on high.  It yearns for a higher and nobler form of life. It essays to rise,  but its eye is darkened by sense, its wings are besmeared by passion and lust; it is ' borne downward until it falls upon and  attaches itself to that which is material and sensual,' and it flounders and grovels still amid the objects of sense. And now, Plato  asks: How may the soul be delivered from the illusions of sense,  the distempering influence of the body, and the disturbances of  passion, which becloud its vision of the real, the good, and the  true?"   " Plato believed and hoped that this could be accomplished by  philosophy. This he regarded as a grand intellectual discipline  for the purification of the soul. By this it was to be disenthralled  from the bondage of sense, and raised into the empyrean of pure  thought, 'where truth and reality shine forth.' All souls have the  faculty of knowing, but it is only by reflection and self-knowledge,  and intellectual discipline, that the soul can be raised to the  vision of eternal truth, goodness, and beauty  that is, to the  vision of God."  Cocker: Christianity and Greek Philosophy Bacchic Mysteries It only now remains that we consider the  last part of this fabulous narration, or arcane  discourse. It is said, that after the goddess  Ceres, on arriving at Eleusis, had discovered  her daughter, she instructed the Eleusinians  in the planting of corn : or, according to  Claudian, the search of Ceres for her daughter, through the goddess, instructing in the  art of tillage as she went, proved the occasion  of a universal benefit to mankind. Now the  secret meaning of this will be obvious, by  considering that the descent of the superior  intellect into the realms of generated existence becomes, indeed, the greatest benefit  and ornament which a material nature is  capable of receiving : for without this participation of intellect in the lowest department  of corporeal life, nothing but the irrational  soul* and a brutal life would subsist in its  dark and fluctuating abode, the body. As the  art of tillage, therefore, and particularly the  growing of corn, becomes the greatest possi * " It is linked to the phenomenal or sensible world, its emotive  part (sTitf)ujj.Y)Tixov) being formed of what is relative and phenomenal. Elensinian and   ble benefit to our sensible life, no symbol can  more aptly represent the unparalleled advantages arising from the evolution and procession of intellect with its divine natui^e into  a corporeal life, than the good resulting from  agriculture and corn : for whatever of horrid  and dismal can be conceived in night, supposing it to be perpetually destitute of the  friendly illuminations of the moon and stars,  such, and infinitely more dreadful, would be  the condition of an earthly nature, if deprived of the beneficent irradiations [irfioo5o J and supervening benefits of the diviner  hfe.   And this much for an explanation of the  Eleusinian Mysteries, or the history of Ceres  and Proserpina; in which it must be remembered that as this fable, according to the  excellent observation of Sallust already adduced, is of the mixed kind, though the  descent of the soul was doubtless principally  alluded to by these sacred rites, yet they  hkewise occultly signified, agreeable to the  nature of the fable, the descending of divinity     Bacchic Mysteries. 183   into the sublunary world. But when we  view the fable in this part of its meaning,  we must 'be careful not to confound the nature  of a partial inteUect like ours with the one universal and divine. As everything subsisting  about the gods is divine, therefore intellect  in the highest degree, and next to this soul,  and hence wanderings and abductions, lamentations and tears, can here only signify  the participations and providential operations of these in inferior natures; and this  in such a manner as not to derogate from  the dignity, or impair the perfection, of the  divine principle thus imparted. I only add,  that the preceding exposition will enable  us to perceive the meaning and beauty of  the following representation of the rape of  Proserpina, from the Heliacan tables of Hieronymus Aleander. Here, first of all, we  behold Ceres in a car drawn by two dragons, and afterwards, Diana and Minerva,  with an inverted calathus at their feet, and  pointing out to Ceres her daughter Proserpina, who is hurried away by Pluto in his KiRCHEB : Obeliscus Famjyhilius Meusinian and   car, and is in the attitude of one struggling  to be free. Hercules is likewise represented  with his club, in the attitude of opposing the  violence of Pluto : and last of all, Jupiter is  represented extending his hand, as if wilhng  to assist Proserpina in escaping from the  embraces of Pluto. I shall therefore conclude this section with the following remarkable passage from Plutarch, which will not  only confirm, but be itself corroborated by  the preceding exposition. 'Ozi [xey o'jv y^ TzaXata ^uaio/voyca, xai Trap EWrpi xai Bappa Tcporpoc, %r/x ix'jaz'qpiMOfic, GooXoyca. Ta ts XrjXo'j[j,£V7. Tcov arj'cojxsvcov Gr//fe::ze[jrj. zoic, izoXXoic syovza. Kat zr/. arj'cojisva tcov AaXoy|jLSV(ov  UTTOTrrorspct. AyjXov sart, pergit, £v tolc OpcptY.01Q s-i^sac, y,ac tote Ar^'oirrtaxoic %ai (j^prrfirjiQ  XojoiQ. MaXcara 5s of 'Jispt try.c xsXszac opytaa{j,oc, y,7.c 1:7. $po){X£V7 a'j|x[BoXi%(oc sv zaiQ  cspoapycaie, xyjv tcov TzrjXrjKov sjxrpacvat $iavoirjy.^ i. e. " The ancient physiology,! both Plutarch : Euseh.   i I. e. Exposition of the laws and oi^erations of Nature. Bacchic Mysteries of the Greeks and the Barbarians^ was nothing else than a discoiu'se on natiu^al subjects,  involved or veiled in fables, conceahng many  things through enigmas and under -meanings,  and also a theology taught, in which, after  the manner of the Mysteries,* the things  spoken were clearer to the multitude than  those dehvered in silence, and the things  delivered in silence were more subject to  investigation than what was spoken. This  is manifest from the Orphic verses^ and the  Egyptian and Phrygian discourses. But the  orgies of initiations^ and the sumbolical ceremonies of sacred rites especiallij, exhibit the  understanding had of them by the ancients,'''' MuaxYjp:tuoTj?, mystery-like. A.IB^ Psyche Asleep in Hades.  River Gortrtesses. :::?   THE Dionysiacal sacred rites instituted  by Orpheus,* depended on the following arcane narration, part of which has been  already related in the preceding section,  and the rest may be found in a variety of  authors. "Dionysus, or Bacchus [Zagreus],  while he was yet a boy, w^s engaged by the  Titans, through the stratagems of Juno, in a  variety of sports, with which that period of Whethei' Orpheus was an actual living person has been questioned by Aristotle; but Herodotus, Pindar, and other writers,  mention him. Although the Orphic system is asserted to have  come from Egypt, the internal evidence favors the opinion that it  was derived from India, and that its basis is the Buddhistic philosophy. The Orphic associations of Greece were ascetic, contrasting markedly with the frenzies, enthusiasm, and license of the  popular rites. The Thracians had numerous Hindu customs.  The name Kox-e is Sanscrit; and Zeus may be the Dyaus of  Hindu story. His visit to the chamber of Kore-Persephoneia  (Parasu-pani) in the form of a dragon or na(ja, and the horns or  crescent on the head of the child, are Tartar or Buddhistic. The Eleusinian and   life is so vehemently allured; and among  the rest, he was particularly captivated with  beholding his image in a mirror; during his  admiration of which, he was miserably torn  in pieces by the Titans; who, not content  with this cruelty, first boiled his members in  water, and afterwards roasted them by the  fire. But while they were tasting his flesh  thus dressed, Jupiter, roused by the odor,  and perceiving the cruelty of the deed,  hurled his thunder at the Titans; but committed the members of Bacchus to Apollo,  his brother, that they might be properly interred. And this being performed, Dionysus (whose heart during his laceration was  snatched away by Pallas and preserved), by  a new regeneration again emerged, and  being restored to his pristine life and integ name Zagreus is evidently Chahra, or ruler of the earth. The  Hera who compassed his death is Aira, the wife of Buddha; and  the Titans are the Daityas, or apostate tribes of India. The doctrine of metempsychosis is expressed by the swallowing of the heart  of the murdered child, so as to reabsorb his soul, and bring him  anew into existence as the son of Semele. Indeed, all the stories  of Bacchus liave Hindu characteristics; and his cultus is a part  of the serpent worship of the ancients. The evidence appears to  us unequivocal. A. W. Bacchic Mysteries rity, he afterwards filled up the number of  the gods. But m the mean time, from the  exhalations arising from the ashes of the  burning bodies of the Titans, mankind were  produced." Now, in order to understand  properly the secret of this naiTation, it is  necessary to repeat the observation already  made in the preceding chapter, "that all  fables belonging to mystic ceremonies are  of the mixed kind " : and consequently the  present fable, as well as that of Proserpina,  must in one part have reference to the gods,  and in the other to the human soul, as the  following exposition will abundantly evince :   In the first place, then, by Dionysus, or  Bacchus, according to the highest conception of this deity, we understand the spiritual  part of the mundane soul; for there are  Various processions or avatars of this god,  or Bacchuses, derived from his essence. But  by the Titans we must understand the mundane gods, of whom Bacchus is the highest;  by Jupiter, the Demiurgus, or artificer of  Plotiuus regarded the Demiurgus, or creator, as the god of  providence, thought, essence, and power. Above him was the Eleusinian and   the universe; by Apollo, the deity of the  Sun, who has both a mundane and supermundane establishment, and by whom the  universe is bound in symmetry and consent,  through splendid reasons and harmonizing  power; and, lastly, by Minerva we must understand that original, intellectual, ruhng,  and providential deity, who guards and preserves all middle lives* in an immutable  condition, through intelhgence and a selfsupporting life, and by this means sustains  them from the depredations and inroads  of matter. Again, by the infancy of Bacchus at the period of his laceration, the  condition of the intellectual natui^e is imphed; since, according to the Orphic theology, souls, under the government of Saturn,  or Kronos, who is pure intellect or spirituality, instead of proceeding, as now, from youth  to age, advance in a retrograde progression  from age to youth.t The arts employed by   deity of " pure intellect," aud still higher The One. These three  were the hypostases. Lives which are not conjoined with material bodies, nor yet  elevated to the lofty state which is the true divine condition.   t Emanuel Swedenborg says: "They who are in heaven are     Bacchic Mysteries. 191   the Titans, in order to ensnare Dionysus, are  symbolical of those apparent and divisible  operations of the mundane gods, through  which the participated intellect of Bacchus  becomes, as it were, torn in pieces; and by  the mirror we must understand, in the language of Proclus, the inaptitude of the universe to receive the plenitude of intellectual  or spiritual perfection; but the symbolical  meaning of his laceration, through the stratagems of Juno, and the consequent punishment of the Titans, is thus beautifully  unfolded by Olympiodorus, in his manuscript  Commentary on the PJi(edo of Plato : " The  form," says he, " of that which is universal is  plucked off, torn in pieces, and scattered into  generation; and Dionysus is the monad of  the Titans. But his laceration is said to  take place through the stratagems of Juno,   continually advancing to the spring of life, and the more thousands of years they live, so much the more delightful and happy is  the spring to which they attain, and this to eternity with increments  according to the progresses and degrees of love, of charity, and of  faith. Women who have died old and worn out with age, yet have  lived in faith on the Lord, in charity toward their neighbor, and in  happy conjugal love with a husband, after a succession of years,  come more and more into the flower of youth and adolescence. Eleusinian and   because this goddess is the supervising  guardian of motion and progression; * and  on this account, in the Iliad, she perpetually  rouses and excites Jupiter to providential  action about secondary concerns; and, in  another respect, Dionysus is the epJiof^us or  supervising guardian of generation, because  he presides over life and death; for he is the  guardian or epliorus of life because of generation, and also of death because wine produces  an enthusiastic condition. We become more  enthusiastic at the period of dying, as Proclus indicates in the example of Homer who  became prophetic [[xavxcxoc] at the time of his  death.f They likewise assert, that tragedy  and comedy are assigned to Dionysus : comedy being the play or ludicrous representation  of life; and tragedy having relation to the   'By progression [7rpoo5oc] is here signified the raying-out, or  issuing forth of the soul; having left the divine or pre -existent  life, and come forth toward the human.   t See also Plato : Phcedrus, 43. " When I was about to  cross the river, the divine and wonted signal was given me  it  always deters me from what I am about to do  and I seemed to  hear a voice from this very spot, which would not suffer me to  depart before I had purified myself, as if I had committed some     Bacchic Mysteries. 193   passions and death. The comic writers,  therefore, do not rightly call in question the  tragedians as not rightly representing Bacchus, saying that such things did not happen  to Bacchus. But Jupiter is said to have  hurled his thunder at the Titans; the thunder signifying a conversion or changing : for  fire naturally ascends; and hence Jupiter,  by this means, converts the Titans to his  own essence." ^TzapazzEzai §£ to xa^oXoo  si^oQ £v zTj ysvsasi, [xovctc 5s Ttxavcov 6 Aiovo aoc. Kctr ZTzi^oohqy ^s zriQ 'Hpac ^lozi -/.i vrpetoc, et^opoc, y; ^-boq %at 'Epoo'^o'j. Aio v.ru  aov£'/(o^ £v TTj Wirj.Gi si^avcaTTjatv aozrj, %ai   OlE^fOpSl TOV 5t7. eiQ TZrjCiyrjirjy XCOV SsOXSpCOV.   Kat ysvsascoc aXX(o? srpopoc sartv 6 AcovDao?,  5wrt %ai Cw^js ^^-t tsXsfjTYjC. Zcc/j? |j-sv yap  srpopG?, STTsid'^ .7,at z^qz ysvsaswc, xsXsutTjC 5s  5^0X1 svO-ouacav 6 otvoc ttocsl Kat ';r£pt xyjv  TsXsuTTjV 5s svO-Guatcta'ccxcotspc/t YtvoiJLSxJ'a, coi;   offense against the Deity. Now I am a prophet, though not a very  good one : for the soul is in some measure prophetic."  See also Shakspere : Henry IV. part 1.   " Oh I could prophesy,  But that the earthy and cold hand of death  Lies on my tongue."     194 Eleiisinian and   StjXol 6 Trap 'OiJi'/jpco UpOTcXoc, (JLavTC%oc ys T'/jv {i£v 7,(o[JL(o5tav Tuaiyvcov o'jaav to'j [3tov  TYjv dc Tpayco^^av 5ca xa 7ta{)-rj, %7.t xr^v xsXs'jI'^v. O'jy, apct %aX(oc of y,co{it7,o^ xoi? xpayLy-oi?  syxaXoaacv, (o:; \rq AtovoataTcoic oyar.^, Asyov  Tsc otc oD^sv zwjzrj, xpo? TGV AiovDaov. Kspau VOt §£ TO'JtOl? 6 ZSD^, TOO %£paOV0'J $TjXoaVZ05   X'^v STiiatpo'fSV xupyap stcl xa oivco zivo'J[X£Vol'  S'lriatpsrpsL O'jv aoroa^ zpoc saoTOv. But by  the members of Dionysus being first boiled  in water by the Titans, and afterward roasted  by the fire, the outgoing or distribution of  intellect into matter, and its subsequent returning from thence, is evidently implied:  for water was considered by the Egyptians,  as we have ah*eady observed, as the symbol  of matter; and fire is the natural symbol of  ascending. The heart of Dionysus too, is,  with the greatest propriety, said to be preserved by Minerva; for this goddess is the  guardian of hfe, of which the heart is a symbol. So that this part of the fable plainly  signifies, that while intellectual or spiritual     Bacchic Mysteries. 195   life is distributed into the universe, its principle is preserved entire by the guardian  power and providence of the Divine intelligence. And as Apollo is the source of all  union and harmony, and as he is called by  Proclus, " the key-keeper of the fountain of  life," * the reason is obvious why the members of Dionysus, which were buried by this  deity, again emerged by a new generation,  and were restored to their pristine integrity  and life. But let it here be carefidly observed, that renovation, when apphed to the  gods, is to be considered as secretly implying  the rising of their proper hght, and its consequent appearance to subordinate natures.  And that punishment, when considered as  taking place about beings of a nature superior  to mankind, signifies nothing more than a  secondary providence over such beings which  is of a punishing character, and which subsists about souls that deteriorate. Hence,  then, from what has been said, we may  easily collect the ultimate design of the first  part of this mystic fable; for it appears to be   * Hymn to the Sun.     196 Bacchic Mysteries.   no other than to represent the manner in  which the form of the mundane intellect is  divided through the universe;  that such an  intellect (and every one which is total) remains entire during its division into parts,  and that the divided parts themselves are  continually turned again to their source,  with which they become finally united. So  that illumination from the liigher reason,  while it proceeds into the dark and rebounding receptacle of matter, and invests its obscurity with the supervening ornaments of  divine light, returns at the same time without interruption to the source or principle  of its descent.   Let us now consider the latter part of the  fable, in which it is said that our souls were  formed from the vapors emanating from the  ashes of the burning bodies of the Titans;  at the same time connecting it with the  former part of the fable, which is also applicable in a certain degree to the condition of  a partial intellect * hke ours. In the first   * Partial, as being parted from the Supreme Mind.      Etruscan Kleusiuiaus.     Bacchic Mysteries. 199   place, then, we are made up from fragments (says Olympiodorus), because, through  faUing into generation, our hf e has proceeded  into the most distant and extreme division;  and from Titanic fragments^ because the  Titans are the ultimate artificers of things,*  and stand immediately next to whatever is  constituted from them. But further, our  irrational life is Titanic, by which the rational  and higher life is torn in pieces. Hence,  when we disperse the Dionysus, or intuitive  intellect contained in the secret recesses of  our nature, breaking in pieces the kindred  and divine form of our essence, and which  communicates, as it were, both with things  subordinate and supreme, then we become  Titans (or apostates); but when we establish  ourselves in union with this Dionysiacal or  kindred form, then we become Bacchuses, or  perfect guardians and keepers of our irrational life : for Dionysus, whom in this respect we resemble, is himself an epJiorus or   * The Demiurge or Creator being superior to matter in which  is concupiscence and all evil, the Titans who are not thus superior  are made the actual artificers. Meusinian and   guardian deity, dissolving at his pleasure the  bonds by which the soul is united to the  body, since he is the cause of a parted hfe.  But it is necessary that the passive or feminine nature of our UTational part, through  which we are bound in body, and which is  nothing more than the resounding echo, as it  were, of soul, should suffer the punishment  incurred by descent; for when the soul casts  aside the [divine] peculiarity of her nature,  she requires her own, but at the same time a  multiform body, that she may again become  in need of a common form, which she has  lost through Titanic dispersion into matter.   But in order to see the perfect resemblance between the manner in which our  souls descend and the dividing of the intuitive intellect by mundane natures, let the  reader attend to the following admirable  citation from the manuscript Commentary  of Olympiodorus on the Phcedo of Plato : It is necessary, first of all, for the soul to  place a hkeness of herself in the body. This  is to ensoul the body. Secondly, it is necessary for her to sympathize with the image, as  being of hke idea. For every external form  or substance is wrought into an identity with  its interior substance, through an ingenerated  tendency thereto. In the third place, being  situated in a divided nature, it is necessary  that she should be torn in pieces, and fall  into a last separation, till, through the action  of a life of puiification, she shall raise herself  from the dispersion, loose the bond of sympathy, and act as of herself without the  external image, having become established  according to the first-created life. The like  things are fabled in the example. For Dionysus or Bacchus because his image was  formed in a mirror, pursued it, and thus  became distributed into everything. But  Apollo collected him and brought him up;  being a deity of puiification, and the true  savior of Dionysus; and on this account he  is styled in the sacred hymns, Dionusites."   sauto'j £v TO) a(ojiatc. Tooxo yap sait f^yycooai TO awjjict. Asorspov 5s afjjJLiraO-stv x(p £l5(oXcj), xctxa z^(]v ojiosL^stav. Ilav yap stSoc sTust Eleusinian and   xcti £Lc Tov ZT/az^jy ST.'JTsastv {j.£{jLa[xov. 'Eco?  av oat TT^i; 7,a{>a[>xiT^%'r]v; C^otj? aavaystpat {xsv  eaoTTjv aiTo xou avcop:rta[xo'j, Xoa'/^ gs tov Ssajj-ov XYji; a^j{iYj7:7.i8'£iac, xpopaXXsiai §£ xvjv avso  xou £co(oAou, xctx)-' Erjjjzr^y iaxtoaav iipcoTO'jpYOV  C(OYjV. 'Oxi ta 6{JL0ta [xuO-sosxai, '>c7.i sv xcp  Tzarjaciei'^ixrj.zi. '0 yap Aiovaaoc, on zo scocoXov svsO-'^xs T(o saoTuTTpto XGU-cp scpsairsto. Kac  ouxd)? eiQ zo Tifjy sjispiaiJ-Yj. ""0 5s AttoXXwv aovaystpst t£ aozoy 7,ac avaysi, xavJ-apiwoc (ov  ^£oc, 'x.ai xo'j AcGvoaoD aojxY^p (oc aXcoO-m?.  Kat 5l7. xodto AcovoaoxY^? av'j(j.£tx7.L Hence,  as the same author beautifully observes, the  soul revolves according to a mystic and  mundane revolution : for flying from an indivisible and Dionysiacal hfe, and operating  according to a Titanic and revolting energy,  she becomes bound in the body as in a prison.  Hence, too, she abides in punishment and  takes care of her partial and secondary  concerns; and being purified from Titanic  defilements, and collected into one, she be   Bacchic Mysteries comes a Bacchus; that is, she passes into the  proper integrity of her nature according to  the divine principle ruhng on high. From all  which it evidently fohows, that he who hves  Dionysiacally rests from labors and is freed  from his bonds; * that he leaves his prison,  or rather his apostatizing life; and that he  who does this is a philosopher purifying himseK from the contaminations of his earthly  life. But farther fi'om this account of Dionysus, we may perceive the truth of Plato's  observation, " that the design of the Mysteries is to lead us back to the perfection from  which, as our beginning, we first made our descent." For in this perfection Dionysus himself subsists, establishing perfect souls in  the throne of his father; that is, in the integrity of a life according to Jupiter. So  that he who is perfect necessarily resides  with the gods, according to the design of  those deities, who are the sources of consummate perfection to the soul. And lastly,   *"We strive toward virtue by a strenuous use of the gifts  which God communicates; but when God communicates himself,  then we can be only passive  we repose, we enjoy, but all operation ceases."     204 Bacchic Mysteries.   the Thyrsus itself, which was used in the  Bacchic procession, as it was a reed full of  knots, is an apt symbol of the diffusion of the  higher nature into the sensible world. And  agreeable to this, Olympiodorus on the Pluedo  observes, " that the Thyrsus * is a symbol of  a forming anew of the material and parted  substance from its scattered condition; and  that on this account it is a Titanic plant.  This it was customary to extend before Bacchus instead of his paternal scepter; and  through this they called him down into our  partial nature. Indeed, the Titans are Thyrsus-bearers; and Prometheus concealed fire  in a Thyi'sus or reed; after which he is considered as bringing celestial light into generation, or leading the soul into the body, or  calling forth the divine illumination, the  whole being ungenerated, into generated existence. Hence Socrates calls the multitude  Thyrsus-bearers Orphically, as hving according to a Titanic life." 'On 6 vapO-rj^ aa[x[5oXov  ZQZi zriz svaXo'j $7j{xtC(0pYtac, %ai {xsptatYjc, 5ta   * The word thyrsus, it will be seen, is here translated from  vapd'Yj^, a rod or ferula. Bacchic Mysteries TY]v [laXtaxa StsaTCapiJ-svYjv aovs/scav, o^sv %at  Tixavtxov xo cprjxov. Kat yap t(p Aiovoacp  Tupoxscvooatv aoto), avcc too 'irarpty.oo axY^irxpofj.  Kai xauTTj irpoxaXoovxai a'jxov zic, xov {xspcxov.  Kat {isvcoi, 'jcc/.i vapi^TjTcocpopooacv oc Tixavs?, %at g   ITpGIJLTjiJ'SaC, £V VapO-YjT.l' 'AkZlZZl TO 'EUp, SLTS XO   oupaviov cp(oc see x'A^v ysvsatv xaxaaTucov, stxs  xr;v 4^yX'/jV £1? xo a(0[jLa xpoaycov, stxs xtjv o^scav  £XXa{i-'];tv oXt^v aysvvTjXOv ouaav, see xtjv ysvsatv TTpoxaXouiisvGC. Ata 5s xorjxo, %at 6 -coy-pax'^C xorj:; ttoXXo'jc "JcolXsl vapi)"f]%ocpopoy? Opcpt7,(oc, co^ C^'^vxac Ttxry.vcy.(oc. And thus much for the secret meaning  of the fable, which formed a principal part of  these mystic rites. Let us now proceed to  consider the signification of the symbols,  which, according to Clemens Alexandrinus,  belonged to the Bacchic ceremonies; and  which are comprehended in the followingOrphic verses :   M7]Xa to )(po-ca y,aXv. trap egtcj^wiuv Xi-p^oivcov.   That is,   A wheel, a pine-nut, and the wanton plays,  Which move and bend the limbs in various ways : Eleusinian and   With these th' Hesperian golden-fruit combine,  Which beauteous nymphs defend of voice divine.   To all which Clemens adds saoTU'pov, esoptroii, a mirror, i:oy.oCj polios, a fleece of wool,  and aa-payaXoc, asfragaios, the anMe-bone.  In the first place, then, wdth respect to the  wheel, since Dionysus, as we have already  explained, is the mimdane intellect, and intellect is of an elevating and convertive nature, nothing can be a more apt symbol of  intellectual action than a w^heel or sphere :  besides, as the laceration and dismemberment  of Dionysus signifies the going-forth of intellectual illumination into matter, and its  returning at the same time to its source, this  too will be aptly symbolized by a wheel. In  the second place, a pine-nut, from its conical  shape, is a perspicuous symbol of the manner  in which intellectual or spiritual illmnination  proceeds from its source and beginning into  a material nature. " For the soul," says Macrobius,* "proceeding from a round figure,  which is the only divine form, is extended  into the form of a cone in going forth."   * In Somnid Scijnonis, xii.     Bacchic Mysteries. 209   And the same is true sjrmbolically of the  higher intellect. And as to the wanton  sports which bend the limbs, this evidently  alludes to the Titanic arts, by which Dionysus  was allured, and occultly signifies the faculties of the mundane intellect, considered as  subsisting according to an apparent and  divisible condition. But the Hesperian  golden-apples signify the pure and incorruptible nature of that intellect or Dionysus, which  is possessed by the world; for a golden-apple,  according to Sallust, is a symbol of the world;  and this doubtless, both on account of its external figui'e, and the incorruptible intellect  which it contains, and with the illuminations  of which it is externally adorned; since gold,  on account of never being subject to rust, aptly  denotes an incorruptible and immaterial nature. The mirror, which is the next symbol,  we have already explained. And as to the  fleece of wool, this is a symbol of laceration,  or distri])ution of intellect, or Dionysus, into  matter; for the verb o'jrapattco, sparaffOy  diJanio, which is used in the relation of the  Bacchic discerption, signifies to tear in pieces     210 Bacchic Mysteries.   like wool : and hence Isidoinis derives the  Latin word laua, wool, from Janiando, as  velliis from vellendo. Nor must it pass unobserved, that Xq^jz^ in Greek, signifies wool,  and Xtjvo;, a wine-press.* And, indeed, the  pressing of grapes is as evident a symbol of  dispersion as the tearing of wool; and this  circumstance was doubtless one principal  reason why grapes were consecrated to Bacchus : for a grape, previous to its pressure,  aptly represents that which is collected into  one; and when it is pressed into juice, it no  less aptly represents the diffusion of that  which was before collected and entu'e. And  lastly, the aarpotyaXoc, astragalos, or anJiJehone, as it is principally subser\dent to the  progressive motion of animals, so it belongs,  with great propriety, to the mystic symbols  of Bacchus; since it doubtless signifies the  going forth of that deity into the department  of physical existence : for nature, or that  divisible life which subsists about the body,   * The practice of punning, so common in all the old rites, is  here forcibly exhibited. It aided to conceal the symbolism and  mislead uninitiated persons who might seek to ascertain the  genuine meaning. i\v>'- .../Mm Hercules Reclining. Bacchic Mysteries and whicli is productive of seeds, immediately depends on Bacchus. And hence we  are informed by Proclus, that the sexual parts  of this god are denominated by theologists,  Diana, who, says he, presides over the whole  of the generation into natural existence,  leads forth into light all natural reasons, and  extends a prolific power from on high even  to the subterranean reahns.* And hence we  may perceive the reason why, in the Orphic  Hjjmn to Nature, that goddess is described as  " turning round silent traces with the anklebones of her feet. ^^   And it is highly worthy our observation that  in this verse of the hymn Nature is celebrated as Fortune, according to that description of the goddess in which she is represented as standing with her feet on a wheel  which she continually turns round; as the  following verse from the same hymn abundantly confirms :   Asvao) axpo'-paXiYY- S'oov po/xa o'.vsooooa. Commentary upon the Timceus Meusinian and   The sense of which is, "moving with rapid  motion on an eternal wheel." Nor ought it  to seem wonderful that Nature should he  celebrated as Fortune; for Fortune in the  Orphic h}Tnn to that deity is invoked as  Diana : and the moon, as we have observed  in the preceding section, is the aoro'iriov  ayaXjia rpyasto?, fJie self-revealing emblem of  Nature; and indeed the apparent inconstancy of Fortune has an evident agreement  with the fluctuating condition in which the  dominions of nature are perpetually involved.  It only now remains that we explain the  secret meaning of the sacred dress with  which the initiated in the Dionysiacal Mysteries were invested, in order to the GpovLajxo^  (fhromsmoSy enthroning) taking place; or  sitting in a solemn manner on a throne,  about which it was customary for the other  initiates to dance. But the particulars of  this habit are thus described in the Orphic  verses preserved by Macrobius : Scojxa ti-£00 ji"/,aTT£'.v s^'.a'j-fooq r^zX'.o'.Q.  * Satunialia Bacchic Mysteries flpwxct;j.Ev ap-p'f :«:? evaXcYxcov «xTtvsaa:v   IIsttUv cpo'.vtxjpov (lege -^otvtxjov) -pottxjXov a^cp-paAEO^oc-.   ii'Jxocp 67ispa-j vsi^poio TiavatoXoo sJpu xa*«-|a'.   ^^plxrx Kfjhjzxi-Azrrj ^vjpoc xaxa Sa^tov Jjjulojv,   Aatpoiv o«-5aXftov;j.i|uh;jl' bpoo xz nolo'.o.   Eka r 6;.jp,<).s vs^pY)? xpt>asov UoxY^pa pocXeaS-at   n«;A'favoaiVTa irsp-^ oxspvuiv cpopjj-v fxsya arj|jia   Eo9-u5 ox' EX Ttspaxwv Tac-r]? (paja-wv avopouaiov   Xpoasiai? axxcat,3(x>.-/j poov Oxsavow,   Auyv] o' atjjTjxo? -f], ava S' Spoaoj a;jLcpt;xtYE:aa   Mapixrxirj-fj o'y-rpvj A:zar>iitY(] maxfj. xoxXov,   Ilpoci&s ^£00. Z(ovf] o' ap OTTO axjpvuiv a/ji£xp7]xu>v   <I>aovjx' ap' ily.zrj.wo Kov.Uq, iityx Oau^' ecowsa^ac.   That is,   He who desires in pomp of sacred dress   The sun's resplendent body to express,   Should first a vail assume of purple bright,   Like fair white beams combin'd with fiery light :   On his right shoulder, next, a mule's broad hide   Widely diversified with spotted pride   Should hang, an image of the pole divine,   And dfBdal stars, whose orbs eternal shine.   A golden splendid zone, then, o'er the vest   He next should throw, and bind it round his breast;   In mighty token, how with golden light.   The rising sun, from earth's last bounds and night   Sudden emerges, and, with matchless force,   Darts through old Ocean's billows in his course.   A boundless splendor hence, enshrin'd in dew,   Plays on his whirlpools, glorious to the view;   While his circumfluent waters spread abroad,   Full in the presence of the radiant god :  Eleusinian and   But Ocean's circle, like a zone of light,   The sun's wide bosom girds, and charms the wond'ring sight.   lu the first place, then, let us consider  why this mystic dress belonging to Bacchus  is to represent the sun. Now the reason of  this will be evident from the following observations : according to the Orphic theology, the divine intellect of every planet is  denominated a Bacchus, who is characterized  in each by a different appellation; so that  the intellect of the solar deity is called Trietericus Bacchus. And in the second place,  since the divinity of the sun, according to  the arcana of the ancient theology, has a  super-mundane as well as mundane establishment, and is wholly of an exalting or intellectual nature; hence considered as supermundane he must both produce and contain  the mundane intellect, or Dionysus, in his  essence; for all the mimdane are contained  in the super-mundane deities, by whom also  they are produced. Hence Proclus, in his  elegant Hijmn to the Sun, says :     Bacchic Mysteries. 217   That is, " they celebrate thee in hymns as the  illustrious parent of Dionysus." And thirdly,  it is through the subsistence of Dionysus in  the sun that that luminary derives its circular  motion, as is evident from the following Orphic verse, in which, speaking of the sun, it  is said of him, that     " He is called Dionysus, because he is carried  with a circular motion through the immensely-extended heavens." And this with the  greatest propriety, since intellect, as we have  already observed, is entirely of a transforming  and elevating nature : so that from all this, it  is sufficiently evident why the dress of Dionysus is represented as belonging to the sun.  In the second place, the vail, resembling a  mixture of fiery light, is an obvious image of  the solar fire. And as to the spotted muleskin,* which is to represent the starry heavens, this is nothing more than an image of Nehris is also a fawn-skin. The Jewish high-priest wore one  at the great festivals. It is rendered *• badger's skin " in the Bible.  In India the robe of Indra is spotted. Bacchic Mysteries.   tlie moon; tMs luminary, according to Proclus on Hesiod, resembling the mixed nature  of a mule; " becoming dark through her participation of earth, and deriving her proper  light from the sun." T-qz [isy s/ooaa xo a%o So that the spotted hide signifies the moon  attended with a multitude of stars : and  hence, in the Oi'phic Hymn to the Moon, that  deity is celebrated "as shining surrounded  with beautiful stars " : v.rjXoic, aaz^jOiGi ppyooarj., and is likewise called aaxpap/Tj, astrarche, or " queen of the starsy   In the next place, the golden zone is the  circle of the Ocean, as the last verses plainly  evince. But, you will ask, what has the  rising of the sun through the ocean, from the  boundaries of earth and night, to do with the  adventures of Bacchus ? I answer, that it is  inpossible to devise a symbol more beautifully accommodated to the purpose : for, in  the first place, is not the ocean a proper  emblem of an earthly nature, whirling and stormy, and perpetually rolling without admitting any periods of repose ? And is not  the sun emerging from its boisterous deeps a  perspicuous symbol of the higher spiritual  nature, apparently rising from the dark and  fluctuating material receptacle, and conferring form and beauty on the sensible universe through its light ? I say apparently  rising, for though the spiritual nature always  diffuses its splendor with invariable energy,  yet it is not always perceived by the subjects  of its illuminations : besides, as psychical natures can only receive partially and at intervals the benefits of the divine irradiation;  hence fables regarding this temporal participation transfer, for the purpose of concealment and in conformity to the phenomena,  the imperfection of subordinate natures to  such as are supreme. This description, therefore, of the rising sun, is a most beautiful  symbol of the new birth of Bacchus, which,  as we have already observed, implies nothing  more than the rising of intellectual light, and  its consequent manifestation to subordinate  orders of existence. Eleusinian and   And thus much for the mysteries of Bacchus, which, as well as those of Ceres, relate  in one part to the descent of a partial intellect into matter, and its condition while  united with the dark tenement of the body :  but there appears to be this difference between the two, that in the fable of Ceres and  Proserpine the descent of the whole rational  soul is considered; and in that of Bacchus  the scattering and going forth of tliat supreme part alone of our nature which we  properly characterize hy the appellation of.  intellect* In the composition of each we  may discern the same traces of exalted wisdom and recondite theology; of a theology  the most venerable for its antiquity, and the  most admirable for its excellence and reahtyo   I shall conclude this treatise by presenting  the reader with a valuable and most elegant  hymn of Proclusf to Minerva, which I have Greek, wn;;, nous, the Intuitive Eeasoii, that faculty of the  mind that apprehends the Ineffable Truth.   t That the following hymn was composed by Proclus, can not  be doubted by any one who is conversant with those already extant of this incomparable man, since the spirit and manner in  both is perfectly the same.     Bacchic Mysteries discovered in the British Museum; and the  existence of which appears to have been  hitherto utterly unknown. This hymn is to  be found among the Harleian Manuscripts,  in a volume containing several of the OrpJiic  liymns^ with which, through the ignorance of  transcriber, it is indiscriminately ranked, as  well as the other four hymns of Proclus,  already printed in the Bihliotlieca Grmca of  Fabricius. Unfortunately too, it is transcribed in a character so obscure, and with  such great inaccuracy, that, notwithstanding  the pains I have taken to restore the text  to its original purity, I have been obUged to  omit two hues, and part of a third, as beyond  my abilities to read or amend; however, the  greatest, and doubtless the most important  part, is fortunately intelhgible, which I now  present to the reader's inspection, accompanied with some corrections, and an Enghsh  paraphrased translation. The original is  highly elegant and pious, and contains one  mythological particular, which is no where  else to be found. It has likewise an evident  connection with the preceding fable of Bac EJeusinian and   chus, as will be obvious from the perusal;  and on tins account principally it was inserted in the present discoui'se.   Ek aohnan.   KATOI fJLcU a'.'(lO/0{.0 OiO? TJXO?' Tj Y£VETY]pO(;   IlTjYf]? oY.Tzpo9-opoooa, v.a'. wxpoxaxY,? ano asipa?  Apo£vod'0|j.3- cpspa^iLf jj.cY«-3'2V;5* o,3p:|i,07tarrjp,*  KiV.Xo&r ov/yozo 3' u;xvov £0'f pov: Tioxvia i)'U^uj   'H aO'^'.Tj? ViZXrj.Zrj.ir/. ^iZOZv/^trxC,] TTuXjUlVa;;.   Ka: "/^O-ovuuv orj.^r/.zrj.zrx Oj(ojxaya (p'j)>a •j-'-Y*  '11 %pa3'.r|V saawaai; ajj-UGXiXsutov J rjyrj.v.xo^  Ai&jpo? sv YU«Xc'-a'. p-ipiCo/J-svoo TcatJ Bav-^ou  l\xav(uv oTzo X.'p"-, TiopcC oj 2 Tiaxpt '|)4po'Joa  Ocppa VEOi; ^ouX'rjatv wtt' appYjxo:at xov.yjo?,  Ev. ScJuisXt]? TCcpt xoa^aov avY]^f]av] Alovuooo?.  'Hi; ttsXsx'.? § 6-rjpiu)V xafjivcuv TCpo^£Xu|Jt.va %apv]va  Ilavojpy.ou? sy.oir^; ir«t)£u>v T|VUOj 'iz'^tifK-qv  'H v.paxQC 'Hpar Oc|xvov eY'P"^- ppcixoiv apjxa'iov  H jjioxov v.QajJLTjaoti; oXov uo/.ojiSi';: zz/yrj.'.c,  Azix:oof'^:xry ojprjv || '{^'j'/at-t ^aXXouaa*   'II Krj./ZQ rxv.pOTZo\'.r/.   So|JLpoXov axpoxarq? ixs'(rj.\-r^q azo ixoxvia 0£tpf]?'   * Lege oPptjULOTraxpT),  t Lege f)joaj,3Eia?.  t Lege a|j.oax'. Xuxoo.  § Lege tceXexu?.  II Lege Op;jL-r]v.     BaccJiic Mysteries. 225   'H x8-ova,3coT:ccvE.pa tpt^aa? fxvjtjpa? p-^Xoiv.   K/.oa-: ixEU Y| <pao? ay^ov aiiaoTpaTrxooaa TrpoatououAo? OS;i.oi oXptov op;j.ov aXiuo/xsva rspo yacav.  Ao? -]/ox-/y Y^-oc, GtYvov air' eo^pjiuv oso |jio{).uiv  Ka: ao-^iY]v -/.at jpcoxoc-,j.svoc S's/J-Tivsoaov jpwTi,  Toaaattov, xac towv, oaov /&ov:ojv ajio xoXttojv  A'^spv-r],rpoc OXd|xkov s? Yjf^sa Traxpo^ £o:o,  Ei5j Ttc «/j.T:Xax:-r];x£* xocx-r] f.tototo Sa/uiaCs;.   IXa9.- /x£:X:xo,3ooXj- aao/i,3potj- /Ji7]5s/JL£aoY)? f   Trcjoavat? TOivatacv eXtup xot: xop/xa Ysvsaaot,   KstfAsvov Ev 8aTT:s5otatv, 61: TcO? so/o/jiac swxr   KsxXofl-: xjxXoO-- xa:;xol iitCu^yiv 00a? 6tox£C.   TO MINEEVA.   Daughter of aegis-bearing Jove, divine,   Propitious to thy votaries' prayer incline;   From thy great father's fount supremely bright,   Like fire resounding, leaping into light.   Shield-bearing goddess, hear, to whom belong   A manly mind, and power to tame the strong!   Oh, sprung from matchless might, with joyful mind   Accept this hymn; benevolent and kind !   The holy gates of wisdom, by thy hand   Are wide unfolded; and the daring band   Of earth-born giants, that in impious fight   Strove with thy fire, were vanquished by thy might.   Once by thy care, as sacred poets sing.   The heart of Bacchus, swiftly-slaughtered king, Lege a|xirXaxY]|ULa.  t Lege iKiy: t^C tr^zr^^^.   Eleusinian and   Was sav'd in ^ther, when, with fnry fired,   Tlie Titans fell against his life conspired;   And with relentless rage and thirst for gore,   Their hands his members into fragments tore :   But ever watchful of thy father's will,   Thy power preserv'd him from succeeding ill.   Till from the secret counsels of his fire,   And born from Semele through heavenly sire,   Great Dionysus to the world at length   Again appeared with renovated strength.   Once, too, thy warlike ax, with matchless sway,   Lopped from their savage necks the heads away   Of furious beasts, and thus the pests destroyed   Which long all-seeing Hecate annoyed.   By thee benevolent great Juno's might   Was roused, to furnish mortals with delight.   And thro' life's wide and various range, 't is thine   Each part to beautify with art divine :   Invigorated hence by thee, we find   A demiurgic impulse in the mind.   Towers proudly raised, and for protection strong.   To thee, dread guardian deity, belong.   As proper symbols of th' exalted height   Thy series claims amidst the courts of light.   Lands are beloved by thee, to learning prone.   And Athens, Oh Athena, is thy own !   Great goddess, hear! and on my dark'ned mind   Pour thy pure light in measure unconfined;    That sacred light, Oh all-protecting queen.   Which beams eternal from thy face serene.   My soul, while wand'ring on the earth, inspire   With thy own blessed and impulsive fire :   And from thy fables, mystic and divine.   Give all her powers with holy light to shine.     Bacchic Mysteries. 227   Give love, give wisdom, and a power to love,  Incessant tending to the realms above;  Such as unconscious of base earth's control  Gently attracts the vice-subduing soul :  From night's dark region aids her to retire,  And once moi'e gain the palace of her sire.  O all-propitious to my prayer incline !  Nor let those horrid punishments be mine  Which guilty souls in Tartarus confine,  With fetters fast'ned to its brazen floors.  And lock'd by hell's tremendous iron doors.  Hear me, and save (for power is all thine own)  A soul desirous to be thine alone. It is very remarkable in this hymn, that  the exploits of Minerva relative to cutting  off the heads of wild beasts with an ax, etc.,  is mentioned by no writer whatever; nor  can I find the least trace of a circumstance  either in the history of Minerva or Hecate  to which it alludes.f And from hence, I   * If I should ever be able to publish a second edition of my  translation of the hymns of Orpheus, I shall add to it a translation  of all those hymns of Proclus, which are fortunately extant; but  which are nothing more than the wreck of a great multitude which  he composed.   t If Mr. Taylor had been conversant with Hindu literature, he  would have perceived that these exploits of Minerva-Athene were  taken from the buffalo-sacrifice of Durga or Bhavani. The whole  Dionysiac legend is but a rendering of the Sivaic and Buddhistic  legends into a Grecian dress. A. W.  Bacchic Mysteries.     think, we may reasonably conclude that it  belonged to the arcane Orphic narrations  concerning these goddesses, which were consequently but rarely mentioned, and this but  by a few, whose works, which might afford  us some clearer information, are unfortunately lost.   Musical Couference.Venus Kisiiig troni the Sea.  Since writing the above Dissertation, I  have met with a curious Greek manuscript entitled: "Of Psellus, Concerning  DcBmons^* according to the opinion of the  GreeJiS " : zoo WeWoo xivct Tuspt ^aqiovcov  So^aCooacv 'EXXtjvs? : In the course of which  he describes the machinery of the Eleusinian  Mysteries as follows :  'A oe ys [lo^jzr^iAa xooT(ov, oiov aaxi^a ta EXsuatvia, xov [xod-i^ov  OTUOTcpivsrac 3ia {i^iyvo^ASVov xifj Stjgi, t] "cyj Atjix'/jx£pL, xctt XT] OoYatspsL Tc/.ux'A]? Ospas^axxTj xt]  xctt Kop'^. Etcsiotj 5s sjjisXXov %7.t acppoStaiot  sict XT] {JiaYjGst ytvsa^at aujJi'jrXoxac, avaSostat  iro)? Y] ArppoScx'rj airo xtvcov 'jrsTuXaajj.svwv (JL'rjSs * Daemons, divinities, spirits; a term formerly applied to all  rational beings, good or bad, other than mortals.   229     230 Appendix,   (ov TusAayw^. Etta 5s yafJiYjXioc S'Jrt 'Ctj Kopifj  6[JL£vaio?. Kat s'^a^ouatv of t£Xou{i.£VOC, sx to[jlTuavou scpayov £% %o{Ji[57.X(ov sttiov, sxtpvo'fop'^aa (lege s^spvocpopr^cc/.) utto tov xoLarov  siasouv. TTroT-pcvstaL $£.%at ta^ Stjooc (o^iva?.   Ttat xapocaXytaL Erp' otc ^oii tpaYoa^sXsc {Jtt{x-^{ia TTOLO-atvojxsvov xspi roi? ^l^'jjxo^c' otc xsp   TSpayou (lege Tpayou) opyscc aTrorsjKov, to)  x-oXiro) xauxT^c xaxsO-e'co, (oairsp 5yj y,7.c saotou.  Etc^ xaatv c/i xoy AtovoaoD xqiat, y,at yj xrjauc,  y,ai T7. iroXyoix'-paXa TuoTrava, ^ai of x(o }:^apa CtCO XSXO'JJXSVOC, %X'^50V£C '^2 ^^-^ {XC{J-aA(OV£C, %at   zic, rf/iny XsfJr^Q O£a'jrp(ox£toc y-^M A(o5(ovctcov  yaXv.ziov, -/.rji KopyjBctc aXXo? xai 7,0'jp'rj^ £X£poc, 5at{JL0V(ov {xc{JLYj|jL7.xa. Ecp' ot? Yj Bapfoxooc  (lege Y^ Baupfo xo^c) {J-'^pooc avaaopojj.£V7j, xat  6 yovaixo? %x£ic> oozio yap ovo{xaCoDaL xy^v  ai5(o aia/ovo[JL£VOL Kai ouxco? £v ata/pco xy^v  x£X£X7]v %7.xa)jjo'jacv. /. e. " The Mysteries  of these demons, such as the Eleusinia, consisted in representing the mythical narration of Jupiter mingling mth Ceres and her  daughter Proserpina (Phersephatte). But as     Appendix. 231   venereal connections are in the initiation,* a  Venus is represented rising from the sea, from  certain moving sexual parts : afterwards the  celebrated marriage of Proserpina (with  Pluto) takes place; and those who are  initiated sing : Out of the drum I have eaten,  Out of the cymbal I have drank,  The mystic vase I have sustained,  The bed I have entered.'   The pregnant throes likewise of Ceres [Deo]  are represented : hence the supphcations of  Deo are exhibited; the drinking of bile,  and the heart-aches. After this, an effigy  with the thighs of a goat makes its appearance, which is represented as suffering vehemently about the testicles : because Jupiter,  as if to expiate the violence which he had  offered to Ceres, is represented as cutting off  the testicles of a goat, and placing them on  her bosom, as if they were his own. But  after all this, the rites of Bacchus succeed; the Cista, and the cakes with many  bosses, Uke those of a shield. Likewise the  /. e. a representation of them. mysteries of Sabazius, divinations, and the  mimalons or Bacchants; a certain sound of  the Thesprotian bason; the Dodonsean brass;  another Corybas, and another Proserpina,   representations of Demons. After these succeed the uncovering of the thighs of Baubo,  and a woman's comb (lie is), for thus, through  a sense of shame, they denominate the sexual  parts of a woman. And thus, with scandalous exhibitions, they finish the initiation."   From this curious passage, it appears that  the Eleusinian Mysteries comprehended those  of almost all the gods; and this account will  not only throw hght on the relation of the  Mysteries given by Clemens Alexandidnus,  but likewise be elucidated by it in several  particulars. I would willingly unfold to the  reader the mystic meaning of the whole of  this machinery, but this can not be accomphshed by any one, without at least the possession of all the Platonic manuscripts which  are extant. This acquisition, which I would  infinitely prize above the wealth of the Indies, will, I hope, speedily and fortunately  Jupiter disguised as Diana, and Calisto. Hercules, Deianeira and Nessus.     Appendix. 235   be mine, and then I shall be no less anxious  to communicate this arcane infoiTQation,  than the liberal reader will be to receive it.  I shall only therefore observe, that the mutual communication of energies among the  gods was called by ancient theologists c'spo^  yafiGc, hieros gcimos, a sacred marriage;  concerning which Proclus, in the second  book of his manuscript Commentary on the  Parmenides, admirably remarks as follows:   TaUTTTJV $£ tTjV 7.0tV(l>VtaV, TTOrS {1£V £V ZOIQ GO Gzor^oic, 6p(oac d-zoic, (oi {^ooXoyot) %at vcaXooat  Ya{j.ov 'Hpoic y-^J-i Aloc, Ojpavoo %ac TqQ, Kpovoo v.0.1 Tsac* '7L0ZS §£ ttov T-ara^ssarspcov TzpOQ  xa xpsLtto), %ai v^aXooGi ya^ioy Aco? y-ac AtjjxtjTpac* irors 5s xai £{jL'3r7.Xtv xcov xpsiTiKovcov  xpo? xa 6rp£t[j,£V7., %7.i Xsyouat Atoc %ct: KopTj?  Ya{xov. Etcsl^'A] tcov 0£(ov aXXat jj-sv staiv af  irpoc X7. GDGZoiya 7,oiva)vi7,c, 7.XX7.1 5s at 'jrpoi;  xa xpo 7.'jx(ov' aXXat 5s 7.c xpo? xa |X£X7. xa^)xa.  Kai dsL XYjV £%7.axTj? i5lgxyjx7. /,7.xavo£iv y,7C {j.£ XaY£tV 7.7r0 X(OV 0£(OV £Xt X7. £C57J X'^V XCiC7.0X7]V   dta'jiXoxYjV. /. ^. " Theologists at one time  considered this communion of the gods in  divinities co-ordinate with each other; and     236 Appendix.   then tliey called it the mamage of Jupiter  and Jiino, of Heaven and Earth [Uranos and  Gre], of Saturn and Rhea : but at another  time, they considered it as svibsisting between subordinate and superior divinities;  and then they called it the marriage of Jupiter and Ceres; but at another time, on the  contrary, they beheld it as subsisting between superior and subordinate divinities;  and then they called it the marriage of Jupiter and Kore. For in the gods there is one  kind of communion between such as are of  a co-ordinate nature; another between the  subordinate and supreme; and another again  between the supreme and subordinate. And  it is necessary to understand the peculiarity  of each, and to transfer a conjunction of this  kind froin the gods to the communion of  ideas with each other." And in Tim (mis ^  book i., he observes : y.rj.i zo rrjv wjzr^v (supple   /. e. '' And that the same goddess is conjoined  with other gods, or the same god with many  goddesses, may be collected fi'om the mystic discourses, and those marriages which are  called in the Mysteries Sacred Marriages.''^  Thus far the divine Proclus; from the first  of which passages the reader may perceive  how adultery and rapes, as represented in the  machinery of the Mysteries, are to be understood when apphed to the gods; and that  they mean nothing more than a communication of divine energies, either between a superior and subordinate, or subordinate and  superior, divinity. I only add that the apparent indecency of these exhibitions was, as I  have already observed, exclusive of its mystic  meaning, designed as a remedy for the passions  of the soul : and hence mystic ceremonies  were very properly called a%£7., akea, medicines,  by the obscure and noble Heracleitus. Iamblichus : De Mijsteriis. Saciifice of a Pig. Hercules Drunk. ORPHIC HYMNS.     I shall utter to whom it is lawful; but let the doors be closed,  Nevertheless, against all the profane. But do thou hear,  Oh Musseus, for I will declare what is true. He is the One, self -proceeding; and from him all things proceed,  And in them he himself exerts his activity; no mortal  Beholds Him, but he beholds all.   There is one royal body in which all things are enwombed,  Fire and Water, Earth, ^ther, Night and Day,  And Counsel [Metis'], the first producer, and delightful Love,   For all these are contained in the great body of Zeus.     Zeus, the mighty thunderer, is first; Zeus is last;  Zeus is the head, Zeus the middle of all things;  From Zeus were all things produced. He is male, he is female;  Zeus is the depth of the earth, the height of the starry heavens;   238     Appendix. 239   He is the breath of all things, the force of untamed fire;  The bottom of the sea; Sun, Moon, and Stars;  Origin of all; King of all;  One Power, one God, one Great Ruler.   HYMN OF CLEANTHES.   Greatest of the gods, God with many names,   God ever-ruling, and ruling all things !  Zeus, origin of Nature, governing the universe by law,  All hail ! For it is right for mortals to address thee;  For we are thy offspring, and we alone of all <   That live and creep on earth have the power of imitative speech.  Therefore will I praise thee, and hymn forever thy power.  Thee the wide heaven, which surrounds the earth, obeys :  Following where thou wilt, willingly obeying thy law.  Thou boldest at thy sei'vice, in thy mighty hands,  The two-edged, flaming, immortal thunderbolt.  Before whose flash all nature trembles.  Thou rulest in the common reason, which goes through all.  And appears mingled in all things, great or small,  Which filling all nature, is king of all existences.  Nor without thee. Oh Deity, does anything happen in the world.  From the divine ethereal pole to the great ocean,  Except only the evil preferred by the senseless wicked.  But thou also art able to bring to order that which is chaotic.  Giving form to what is formless, and making the discordant   friendly;  So reducing all variety to imity, and even making good out of evil.  Thus throughout nature is one great law  Which only the wicked seek to disobey.  Poor fools ! who long for happiness.  But will not see nor hear the divine commands. Greek, Aaifxov, Demon. [In frenzy blind they stray a\v;iy from good,   By thii'st of glory tempted, or sordid avarice,   Or pleasures sensual and joys that fall.]   But do thou, Oh Zeus, all-bestower, cloud-compeller!   Ruler of thunder ! guard men from sad error. Father ! dispel the clouds of the soul, and let us follow   The laws of thy great and just reign !   That we may be honored, let us honor thee again,   Chanting thy great deeds, as is proper for mortals,   For nothing can be better for gods or men   Than to adore with hymns the Universal King. Rev. J. Freeman Clarke, whose version is here copied, renders  this phrase "the law common to all." The Greek text reads:  " 7] xoivov a;c vojAciv £v v.-A-Q u/ivstv,"  the term vojj.oc:, nomos, or  Law, being used for King, as Love is for God.  A. W.  Proserpina Enthroned in Hades.  Nymphs and Centaurs.  AporrJieta, Greek aiioppTjTa  The instructions given by the  hierophant or interpreter in the Eleusinian Mysteries, not to  be disclosed on pain of death. There was said to be a synopsis of them in the i^etroma or two stone tablets, which, it  is said, were bound together in the form of a book.   Apostatise  To fall or descend, as the spiritual part of the soul is  said to descend from its divine home to the world of nature.   Cathartic  Purifying. The term was used by the Platonists and  others in connection with the ceremonies of purification before initiation, also to the corresponding performance of rites  and duties which renewed the moral life. The cathartic  virtues were the duties and mode of living, which conduced  to that end. The phrase is used but once or twice in this  edition.   Cause  The agent by which things are generated or produced.   Circulation  The peculiar spiral motion or progress by which the  spiritual nature or "intellect" descended from the divine  region of the universe into the world of sense.   Cogitative  Relating to the understanding: dianoetic.   Conjecture, or Opinion  A mental conception that can be changed  by argument.   Core  A name of Ceres or Demeter, applied by the Orphic and  later writers to her daughter Persephone or Proserpina. She  was supposed to typify the spiritual nature which was abducted by Hades or Pluto into the Underworld, the figure  signifying the apostasy or descent of the soul from the higher  life to the material body.   CoricaUy  After the manner of Proserpina, i. e., as if descending  into death from the supernal world.   D(emoii  A designation of a certain class of divinities. Different  authors employ the term differently. Hesiod regards them as  the souls of the men who lived in the Golden Age, now acting as guardian or tutelary spirits. Socrates, in the CratyJus,  says " that daemon is a term denoting wisdom, and that every  good man is dsemonian, both while living and when dead, and  is rightly called a daemon." His own attendant spirit that  checked him whenever he endeavored to do what he might  not, was styled his Daemon. lamblichus places Daemons in  the second order of spiritual existence.  Cleanthes, in his  celebrated Hymn, styles Zeus oatfiov (daimon).   Demiurgiis  The creator. It was the title of the; chief-magistrate  in several Grecian States, and in this work is applied to Zeus  or Jupiter, or the Euler of the Universe. The latter Platdnists, and more especially the Gnostics, who regarded matter  as constituting or containing the principle of Evil, sometimes  applied this term to the Evil Potency, who, some of them  affirmed, was the Hebrew God.   Distrihuted  'SiQ(hxc&^ from a whole to parts and scattered. The  spiritual nature or intellect in its higher estate was regarded  as a whole, but in descending to worldly conditions became  divided into parts or perhaps characteristics.   Divisible  Made into parts or attributes, as the mind, intellect, or  spiritual, first a whole, became thus distinguished in its descent. This division was regarded as a fall into a lower plane  of life.   Energise, Greek z^z^^-^zw  Ho operate or work, especially to  undergo discipline of the heart and character. Glossary. Energy  Operation, activity.   Eternal  Existing through all past time, and still continuing.   Faith  The correct conception of a thing as it seems,  fidelity.   Freedom  The ruling power of one's life; a power over what pertains to one's self in life.   Friendship  Union of sentiment; a communion in doing well.   Fury  The peculiar mania, ardor, or enthusiasm which inspired  and actuated prophets, poets, intei'preters of oracles, and  others; also a title of the goddesses Demeter and Persephone  as the chastisers of the wicked,  also of the Eumenides.   Generation, Greek Y^^'^t?  Generated existence, the mode of  life peculiar to this world, but which is equivalent to death,  so far as the pure intellect or spiritual nature is concerned;  the process by which the soul is separated from the higher  form of existence, and brought into the conditions of life  upon the earth. It was regarded as a punishment, and according to Taylor, was prefigured by the abduction of  Proserpina. The soul is supposed to have pre-existed with  God as a pure intellect like him, but not actually identical   at one but not absolutely the same.   Good  That which is desired on its own account.   Hades  A name of Pluto; the Underworld, the state or region of  departed souls, as understood by classic writers; the physical  nature, the corporeal existence, the condition of the soul  while in the bodily life.   Herald, Greek y.7]po4  The crier at the Mysteries.   Hierophant  The interpreter who explained the purport of the  mystic doctrines and dramas to the candidates.   Holiness, Greek ooioty]?  Attention to the honor due to God.   Idea  A principle in all minds underlying our cognitions of the  sensible world.   Imprudent  Without foresight; deprived of sagacity.   Infernal regions  Hades, the Underworld.   Instruction  A power to cure the soul.     244 Glossary.   Intellect, Greek voo?  Also rendered j)?^re reason, and by Professor  Cocker, intuitive reason, and the rational soul; the spiritual  nature. " The organ of self-evident, necessary, and universal  truth. In an immediate, direct, and intuitive manner, it takes  hold on truth with absolute certainty. The reason, through  the medium of ideas, holds communion with the world of real  Being. These ideas are the light y^\\\(^\i reveals the world of  unseen realities, as the sun reveals the world of sensible forms.  ' The Idea of the good is the Sun of the Intelligible World;  it sheds on objects the light of truth, and gives to the soul  that knows the power of knowing.' Under this light the eye  of reason apprehends the eternal world of being as truly, yet  more truly, than the eye of sense appi'ehends the world of  phenomena. This power the rational soul possesses by virtue  of its having a nature kindred, or even homogeneous with  the Divinity. It was ' generated by the Divine Father,' and  like him, it is in a certain sense ' eternal.' Not that we  are to understand Plato as teaching that the rational soul had  an independent and underived existence; it was created or  'generated' in eternity, and even now, in its incorporate state,  is not amenable to the condition of time and space, but, in a  peculiar sense, dwells in eternity : and therefore is capable of  beholding eternal realities, and coming into communion with  absolute beauty, and goodness, and truth  that is, with God,  the Absolute Being."  Christianity and Greek Philosophy, Intellective  Intuitive; perceivable by spiritual insight.   Ititelligihle  Eelating to the higher reason.   Interpreter  The hierophant or sacerdotal teacher who, on the last  day of the Eleusinia, explained the petroma or stone book to  the candidates, and unfolded the final meaning of the representations and symbols. In the Phoenician language he was  called ins, peter. Hence the petroma, consisting of two  tablets of stone, was a pun on the designation, to imply the     Glossary. Interpreter  continued.   wisdom to be uiit'olcled. It has been suggested by the Rev,  Mr. Hyslop, that the Pope derived his claim, as the successor  of Peter, from his succession to the rank and function of  the Hierophant of the Mysteries, and not from the celebrated  Apostle, who probably was never in Rome.   Just  Productive of Justice.   Justice  The harmony or perfect proportional action of all the  powers of the soul, and comprising equity, veracity, fidelity,  usefulness, benevolence, and purity of mind, or holiness.   Judgment  A. peremptory decision covering a disputed matter;  also o'.avoLa, dianoia, or understanding.   Knowledge  A comprehension by the mind of fact not to be overthrown or modified by argument. o   Legislative  Regulating.   Lesser Mysteries  The TsXeia:, teletai, or ceremonies of purification, which were celebrated at Agrae, prior to full initiation  at Eleusis. Those initiated on this occasion were styled  fJLuaxai, mystcB, from (xoto, muo, to vail; and their initiation  was called (jiuYjat?, muesis, or vailing, as expressive of being  vailed from the former life.   Magic  Persian mag, Sanscrit maha, great. Relating to the order  of the Magi of Persia and Assyria.   Material do'mons  Spirits of a nature so gross as to be able to  assume visible bodies like individuals still living on the Earth.   Matter  The elements of the world, and especially of the human  body, in which the idea of evil is contained and the soul  incarcerated. Greek oXt], Hule or Hyle.   Muesis, Greek iinrioiq, from ixotn, to vail  The last act in the  Lesser Mysteries, or rsXtza:, teletai, denoting the separating of  the initiate from the former exotic life.   Mysteries  Sacred dramas performed at stated periods. The  most celebrated were those of Isis, Sabazius, Cybelfe, and  Eleusis. Mystic  Relating to the Mysteries: a person initiated in the  Lesser Mysteries  Greek jj.u3Totu   Occult  Arcane; hidden; pertaining to the mystical sense. Orgies, Greek opY-'^'  The peculiar rites of the Bacchic Mysteries. Opinion  A hypothesis or conjecture. Partial  Divided, in parts, and not a whole.   Philologist  One pursuing literature.   Philosopher  One skilled in philosophy; one disciplined in a right  life.   Philosophise  To investigate final causes; to undergo discipline  of the life.   Philosophy  The aspiration of the soul after wisdom and truth,  " Plato asserted philosophy to be the science of unconditioned  being, and asserted that this was known to the soul by its  intuitive reason (intellect or spiritual instinct) which is the  organ of all philosophic insight. The reason perceives substance; the understanding, only phenomena. Being (xo ov),  which is the reality in all actuality, is in the ideas or thoughts  of God; and nothing exists (or appears outwardly), except  by the force of this indwelling idea. The word is the true  expression of the nature of every object : for each has its divine  and natural name, besides its accidental human appellation.  Philosophy is the recollection of what the soul has seen of  things and their names." (J. Freeman Clarke.)   Plotinus  A philosopher who lived in the Third Century, and revived the doctrines of Plato.   Prudent  Having foresight.   Purgation, purification  The introduction into the Teletce or Lesser  Mysteries; a separation of the external principles from the soul.   Punishment  The curing of the soul of its errors.   Prophet, Greek \i.rj.^x'.c,  One possessing the prophetic mania, or  inspiration.   Priest  Greek \xrjyz'.c,  A prophet or inspired person, ispjuc  a  sacerdotal person. Revolt  A rolling away, the career of the soul in its descent from  the pristine divine condition.   Science  The knowledge of universal, necessary, unchangeable,  and eternal ideas.   Shows  The peculiar dramatic representations of the Mysteries.   Telete, Greek tjXext]  The finishing or consummation; the Lesser  Mysteries.   Theologist  A teacher of the literatiu-e relating to the gods.   Theoretical  Perceptive.   Torch bearer  A priest who bore a torch at the Mysteries.   Titans  The beings who made war against Kronos or Saturn. E.  Poeoeke identifies them with the Daittjas of India, who resisted  the Brahmans. In the Orphic legend, they are described as  slaying the child Bacchus-Zagreus.   Titanic  Eelating to the nature of Titans.   Transmigration  The passage of the soul from one condition of  being to another. This has not any necessary reference to  any rehabilitation in a corporeal nature, or body of flesh and  blood. See I Corinthians, Virtue  A good mental condition; a stable disposition.   Virtues  Agencies, rites, inflluences. Cathartic Virtues  Purifying rites or influences.   Wisdom  The knowledge of things as they exist; " the approach  to God as the substance of goodness in truth."   World  The cosmos, the universe, as distinguished from the earth  and human existence upon it. Eleusinian Priest and Assistants. Fortune and the Three Fates.  LIST OF ILLUSTRATIONS. Drawm from the antique. A. L. RAWSON.     A DESCRIPTION of tlie illustrations to this volume properly  includes the two or three theories of human life held by the  ancient Greeks, and the beautiful myth of Demeter and Proserpina, the most charming of all mythological fancies, and  the Orgies of Bacchus, which together supplied the motives  to the artists of the originals from which these drawings  were made.   From them* we learn that it was believed»that the soul is a  part of, or a spark from, the Great Soul of the Kosmos, the Central Sun of the intellectual universe, and therefore immortal;  has lived before, and will continue to hve after this '' body  prison " is dissolved; that the river Styx is between us and  the unseen world, and hence we have no recollection of any  former state of existence; and that the body is Hades, in  which the soul is made to suffer for past misdeeds done in the  unseen world.   Poets and philosophers, tragedians and comedians, embellished the myth with a thousand fine fancies which were List of Illustrations woven into the ritual of Eleusis, or were presented in the  theaters during the Bacchic festivals.   The pictures include, beside the costumes of priests, jiriestesses, and their attendants, and of the fauns and satjrrs, many  of the sacred vessels and implements used in celebrating the  Mysteries, in the orgies, and in the theaters, all of which were  drawn by the ancient artists from the objects represented,  and their work has been carefully followed here. Frontispiece. Sacrifice to Ceres. Denhndler, sculptur.  The goddess stands near a serpent-guarded altar, on which a  sheaf of grain is aflame. Worshipers attend, and Jupiter  approves. Decoratinq a Statue of Bacchus Bom. Campana.  The priest wears a lamb-skin skirt, the thyrsus is a natural  vine with grape clusters, and there are fruit and wine bearers.   3. Bacchantes with Thyrsus and Flute 4   Two fragments. Bom. Camp. Symbolical Ceremony.Bom. Camp Torch and thyrsus bearers and faun. See cut No. 40, and page for reference to pine nut. Bacchus and Nymphs Pluto, Proserpina, and Furies 5    Galerie des Peintres.  The Furies were said to be children of Pluto and Proserpina;  other accounts say of Nox and Acheron, and Acheron was a son  of Ceres Avithout a father. Priestess with Amphora and Sacred Cake Priestess with Musical Instruments 6   9. Faun Kissing Bacchante.  Bourbon Mus Faun and Bacchus.  Bourbon Mus List of Ilhistrations. Etruscan Y A^Y^.MilUngen See drawings on page lOG. Mercury Presenting a Soul to Pluto Pict. Ant. Sep. Nasonion, pi. Mystic Rites.  Arhniranda, tav. Eleusinian Ceremony.  Oes^. Benk. Alt. Kimst, Bacchic Festival. JSarto?*, Admiranda, Probably a stage scene. The cliaracters are the king, who was  an archon of Athens; a thyrsns bearer, musician, wine and  fruit bearers, dancers, and Pluto and Proserpina. A boy removes the king's sandal. Apollo and the Muses.  Florentine Museum The muses were the daughters of Jupiter and Mnemosyne;  that is, of the god of the present instant, and of memory.  Their office was, in part, to give information to any inquiring  soul, and to preside over the various arts and sciences. They  were called by various names derived from the places where  they were worshiped : Aganippides, Aonides, Castalides,  HeUconiades, Lebetheides, Pierides, and others. Apollo was  called Musagetes, as their leader and conductor. The palm  tree, laurel, fountains on Helicon, Parnassus, Pindus, and  other sacred mountains, were sacred to the muses. Prometheus Forms a Woman Visconti, Mus. Fio. Clem. Mercury, the messenger of the gods, brings a soul from  Jupiter for the body made by Prometheus, and the three Fates  attend. The Athenians built an altar for the worship of Prometheus in the grove of the Academy.   18. Procession of Iacchus and Phallus 16    Montfaucon.  From Athens to Eleusis, on the sixth day of the Eleusinia.  The statue is made to play its part in a mystic ceremony, typifying the union of the sexes in generation. Attendant priestesses bear a basket of dried flgs and a phallus, baskets of fruit,  vases of wine, with clematis, and musical and sacrificial instniments. None but women and children were permitted to take  part in this ceremony. The wooden emblem of fecundity was  an object of supreme veneration, and the ceremony of placing  and hooding it. was assigned to the most highly respected  woman in Athens, as a mark of honor. Lucian and Plutarch   Illustrations. say the phallus bearers at Rome carried images (phalloi) at the  top of long poles, and their bodies were stained with wine lees,  and partly covered with a lamb-skin, their heads crowned with  a wreath of ivy. From Etruscan Vases  Florentine Museum. Human sacrifice may be indicated in the lower group. Venus and Proserpina in Hades 28    Galerie des Peintres.  The myth relates that Venus gave Proserpina a pomegranate  to eat in Hades, and so made her subject to the law which required her to remain four months of each year with Pluto in  the Underworld, for Venus is the goddess who presides over  birth and growth in all cases. Cerberus keeps  guard, and one of the heads holds her garment, signifying that  his master is entitled to one-third of her time.   23. Rape of Proserpina. Carried Down to Hades   (Invisibility)  Flor. Mus, Pallas, Venus, and Diana Consulting Gal. des Peint.  Jupiter ordered these divinities to excite desire in the heart of  Proserpina as a means of leading her into the power of the  richest of all monarchs, the one who most abounds in treasures Dionysus as God op the Sun 31    Pit. Ant. Ercolmio.  Dionysus  Bacchus  symbolizes the sun as god of the seasons; rides on a panther, pours wine into a drinking-horn held  by a satyr, who also carries a wine skin bottle. The winged genii  of the seasons attend. Winter carries two geese and a cornucopia; Spring holds in one hand the mystical cist, and in the  other the mystic zone; Summer bears a sickle and a sheaf  of grain; and Autumn has a hare and a horn-of-plenty full of  fruits. Fauns, satyrs, boy-fauns, the usual attendants of  Bacchus, play with goats and panthers between the legs of the  larger figures. Herse and Mercury Pit. Ant. Ercolano.  A fabled love match between the god and a daughter of Cecrops,  the Egyptian who founded Athens, supplied the ritual for  the festivals Hersephoria, in which young girls of seven  to eleven years, from the most noted families, dressed in  List of Illustrations.   Pwhite, carried the sacred vessels and implements used in the  Mysteries in procession. Cakes of a peculiar form were made  for the occasion. Narcissus Sees His Image in Water P. Ovid. Naso.  The son of Cephissus and Liriope, an Oceanid, was said to be  very beautiful. He sought to win the favor of the nymph of  the fountain where he saw his face reflected, and failing, he  drowned himself in chagrin. The gods, unwilling to lose so  much beauty, changed him into the flower now known by his  name. Jupiter as Diana, and Calisto.  P. Ovid. Naso The supreme deity of the ancients, beside numerous marriages,  was credited with many amours with both divinities and mortals. In some of those adventures he succeeded by using a  disguise, as here in the form of the Queen of the Starry  Heavens, when he surprised Calisto (Helice), a daughter of  Lycaon, king of Arcadia, an attendant on Diana. The companions of that goddess were pledged to celibacy. Jupiter, in  the form of a swan, surprised Leda, who became mother of the  Dioscuri (twins).   29. Diana and Calisto.  Ovid. Naso, Neder 62   The fable says that when Diana and her nymphs were bathing   the swelling form of Calisto attracted attention. It was reported to the goddess, when she punished the maid by changing her into the form of a bear. She would have been torn in  pieces by the hunter's dogs, biit Jupiter interposed and translated her to the heavens, where she forms the constellation  The Great Bear. Juno was jealous of Jupiter, and requested  Thetis to refuse the Great Bear permission to descend at night  beneath the waves of ocean, and she, being also jealous of  Poseidon, complied, and therefore the dipper does not dip,  but revolves close around the pole star.  Bacchantes and Fauns Dancing A stage ballet.  Bom. Campana Hercules, Bull, and Priestess.  Bom. Camp 74   Bacchic orgies.   32. Fruit and Thyrsus Bearers.  Boiir. Mm Torch-Bearer as Apollo.  Bourbon Mits Eleusinian Mysteries.  Florence 3Ius List of Illustrations. Etruscan Mystic Ceremony. i?oH«. Camp 94   36. Etruscan Altar Group. JPtor. Mus 106   The mystic cist with serpent coiled around, the sacred oaks,  baskets, drinking-horns, zones, f estoou of branches and flowers,  make very pretty and impressive accessories to two handsome  priestesses. Etruscan Bacchantes. JfiZZm^en 106   These two groups were drawn from a vase which is  a very fine work of art. The drapery, .decoration, symbols,  accessories, and all the details of implements used in the celebration of the Mysteries are very carefully drawn on the vase,  which is well preserved. This vase is a strong proof of the  antiquity of the orgies, for the Etruscans, Tyrrheni, and  Tusci were ancient before the Romans began to build on the  Tiber.   38. Etruscan Ceremony.- m7fo><r/m 106   39. Satyr, Cupid and Venus. ilfo>i?/a«cow; SculpUre . 110   Some Roman writers affirmed that the Satyr was a real animal,  but science has dissipated that belief, and the monster has  been classed among the artificial attractions of the theater  where it belongs, and where it did a large share of duty in the  Mysteries. They were invented by the poets as an impersonation of the life that animates the branches of trees when the  wind sweeps through them, meaning, whistling, or shrieking  in the gale. They were said to be the chief attendants on  Bacchus, and to delight in revel and wine.   40. Cupids, Satyr, and Statue of ^niwvs^.Montfaucon The many suggestive emblems in this picture form an instructive group, symbolic of Nature's life-renewing power. The  ancients adored this power under the emblems of the organs  of generation. Many passages in the Bible denounce that worship, which is called " the grove," and usually was an iipright  stone, or wooden pillar, plain or ornamented, as in Rome,  where it became a statue to the waist, as seen in the engraving. The Palladium at Athens was a Greek form. The  Druzes of Mount Lebanon in Syria now dispense with emblems of wood and stone, and use the natural objects in their  mystic rites and ceremonies.   41. Apollo and Daphne, Galerie des Peint 118   The rising sun shines on the dew-drops, and warming them as  they hang on the leaves of the laurel tree, they disappear,     254 List of lUiisfrations.   Page.   leaving the tree; and it is said by the poet that Apollo loves and  seeks Daphne, striving to embrace her, when she flies and is  transformed into a laurel tree at the instant she is embraced by  the sun-god.   42. Diana and Endymion.  Bourbon 3Ius 118   Diana as the queen of the night loves Endymion, the setting  sun. The lovers ever strive to meet, but inexorable fate as ever  prevents them from enjoying each other's society. The fair  huntress sometimes is permitted, as when she is the new moon,  or in the first quarter, to approach near the place where her  beloved one lingers near the Hesperian gardens, and to follow  him even to the Pillars of Hercules, but never to embrace him.  The new moon, as soon as visible, sets near but not with the sun.  Endymion reluctantly sinks behind the western horizon, and  would linger until the loved one can be folded in his arms,  but his duty calls and he must turn his steps toward the  Elysian Fields to cheer the noble and good souls who await  his presence, ever cheerful and benign. Diana follows closely  after and is welcomed by the brave and beautiful inhabitants  of the Peaceful Islands, but while receiving their homage her  lover hastens on toward the eastern gates, where the golden  fleece makes the morning sky resplendent.   43. Ceres and the Car op Treptolemus 127   P. Ovid. Naso, Neder.  Triptolemus (the word means three plowings) was the founder  of the Eleusinian Mysteries, and was presented by Ceres with  her car drawn by winged dragons, in which he distributed seed  grain all over the world.   44. Pluto Marries Proserpina 127    P. Ovid. Naso, Neder.  Jupiter is said to have consented to request of Pluto that Proserpina might revisit her mother's dwelling, and the picture represents him as very earnest in his appeal to his brother. Since  then the seed of grain has remained in the ground no longer  than four months; the other eight it is above, in the regions of  light. In the engraving a curtain is held up by bronze figures.  This seems conclusive that it was a representation of a dramatic scene. (See pp. 159, 186.)   45. Proserpina, according to the Greeks.  Heck... 138   46. Bacchus after the Visit to India.  Heck 138   A Roman Figure of Geres. Heck 138    Demeter, from Etruscan Vase. IfecZ; 138   49. Venus, Pallas, and Dlana Inspecting the   Needlework of Proserpina. Galerie des Peini . 142   50. Proserpina Exposed to Pluto 152    Ovid. Naso, Neder.  There may have been a mild sarcasm in this artist's mind when  he drew the maid as dallying with Cupid, and the richest monarch in all the earth in the distance, hastening toward her. He  succeeded, as is shown in the next engraving.   51. Pluto Carrying Off Proserpina 152    P. Ovid. Naso, Neder.  Eternal change is the universal law. Proserpina must go down  into the Underworld that she may rise again into light and life.  The seed must be planted under or into the soil that it may  have a new birth and growth.   52. Proserpina in Pluto's Court.  Montfaucon 156   As a personation she was the "Apparent Brilliance" of all  fruits and flowers.   53. Ceres in Hades.  Montfaucon 162   54. Bacchus, Fauns, and Wine Jars.  Montfaucon .... 168   55. Tragic KQTOn.^Bourhon Museum 168   56. A Group of Deities.  Heck 168   Pan and Dionysus, Hygeia, Hermes, Dionysus and Faunus,  and Silenus.   57. Night with Her Starry Canopy.  Heck 168   58. The Three Graces.  Heck 168   59. Cupid Asleep in the Arms of Venus 174    Galerie des Peint.   60. Prize Dance between a Satyr and a Goat 174   Anticld.   61. Baubo and Ceres at Eleusis.  Galerie des Peint. 174  See page 232.     256 List of Illustrations.   Page.   62. Psyche Asleep in Hades 186    From the ruins of the Bath of Titus, Rome.  See page 45.   63. Nymphs of the Four Rivers in Hades 187    Tomb of the Nasons.  "It was easy for poets and mythographers, when they had  once started the idea of a gloomy land watered with the rivers  of woe, to place Styx, the stream which mates men shudder, as  the boundary which separates it from the world of Uving men,  and to lead through it the channels of Lethe, in which all  things are forgotten, of Kokytos, which echoes only with  shrieks of pain, and of Pyiyphlegethon, with its waves of fire."  Acheron, in the early myths, was the only river of Hades.   64. Etruscan Vase Group.  MilUngen Dancers, ETRUscANS.~i¥i//M?, 1 pJ. 27 198   66. Greek Convivial Scene.  Millin, 1 ^9^ 38 198   67. Faun and Bacchante.  Bour. Mus 206   68. Thyrsus-Bearer.  Bourbon Museum 206   69. Bacchante and Faun. 5o«r. Mus 206   These three verj' graceful pictures were drawn from paintings  on walls in Herculaneum.  KiN<T, Torch, Fruit, and Thyrsus Bearer 212   71. Hercules RECLiNiNG.^.^oe5f«, Bassirilievi, 70 212   Here is an actual ceremony in which many actors took parts;  with an altar, flames, a torch, tripod, the kerux (crier), bacchantes, fauns, and other attendants on the celebration of the  Mystei'ies, including tlie role of an angel with wings. Marriage (or Adultery) or Mars and Venus 220    Montfaucon.  See pages 231-2.37. If this is from a scene as played at the  Bacchic theaters, those dramas must have been very popular,  and justly so. To those theaters, which were supported by the  government in Athens and in many other cities througliout  Greece, we owe the immortal works of ^schylus and Sophocles.  Page.   73, Musical Conference (Epithalamium) 228   S. Bartoli, Admiranda, pi. 62,  Written music was evidently used, for one of the company is  writing as if correcting the score, and writing with the left  hand. Venus Rising from the QEA.Ovid. Naso, Verburg.This goddess was called Venus Anadyomene, for the poets said  she rose from the sea  the morning sunlight on the foam of  the sea on the shore of the island Cythera, or Cyprus, or  wherever the poet may choose as the favored place for the  manifestation of the generative power of nature, and wherever  flowers show her footprints. The loves bear aloft her magic  girdle, which Juno borrowed as a means of winning back  Jupiter's affection. The rose and the myrtle were sacred to  her. Her worship was the motive for building temples in Cythera and in Cyprus at Amathus, Idalium. Golgoi, and in many  other places. (See engravings, Jupiter Disguised as Diana, and Calisto Ovid. Naso, Neder.  The gods were said to have the power, and to practice assuming the form of any other of their train, or of any animal.  In these disguises they are supposed to play tricks on each  other as here. Diana is the queen of the night sky, Calisto is  one of her attendants, and many white clouds float over the  blue ether (Jupiter), and are chased by the winds (as dogs).   76. Hercules, Deianeira, and Nessus 234    Ovid. Naso, Neder.  The sun nears the end of the day's journey; he is aged and  weary; dark clouds obscure his face and obstruct his way, but  stUl Hercules loves beautiful things, and Deianeira, the  fair daughter of the king of ^tolia, retires with him into exile.  At a ford the hero entrusts his bride to Nessiis the Centaur, to  carry across the river. The ferryman made love to the lady,  and Hercules resented the indiscretion, and wounded him by  an arrow. Dying Nessus tells Deianeira to keep his blood as a  love charm in case her husband should love another woman.  Hercules did love another, named lole, and Deianeira dipped  his shirt in the blood of Nessus  the crimson' and scarlet  clouds of a splendid sunset are made glorious by the blood of  Nessus, and Hercules is burnt on the funeral pyre of scarlet  and crimson sunset clouds.  Illustrations. The Sacrifice.  Herculaneum, Hercules Drunk. Zoegciy BassirilievU tav. Proserpina Enthroned in Hades-  Archdol. Zeit. 240   The principle of growth rules the Underworld.   80. Bacchante and Centaur.  Bourbon Mus .Bacchante and Cbntauress. Bourbon Mus Eleusinian Priest and Assistants 247   83. The Fates.  Zoeya, Bassirilievi, tav. 46 248   84. Supper Scene 258   85. Bacchic Bull.  Antichi Ou cover. Suppei- Scene.  The Eleusinian and Bacchic mysteries.     Princeton Theological Semmary-Speer Library  PHALLIC WORSHIP: A DESCRIPTION OF THE MYSTERIES   OF THE   SEX WORSHIP OF THE ANCIENTS   WITH THE HISTORY OF   THE MASCULINE CROSS AN ACCOUNT OF   PRIMITIVE SYMBOLISM, HEBREW PHALLICISM,  BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND  THE MYSTERIES OF THE ANCIENT FAITHS, LONDON. The present somewhat slight sketch of a most interesting subject, whilst not claiming entire originality, yet embraces  the cream, so to speak, of various learned works of great cost, some of which being issued for private circulation only, are almost  unobtainable.  During the past few years several philophical  have been written  upon ancient Roman Phallicism in conjunction with other kindred matters f  but not devoting themselves entirely to one ancient mystery y  the writers have only partially ventilated the subject. The  present work seeks to obviate this failing by confining its  attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of the  ancient world. Many of the topics have received only slight treatmenty  being little more than indicated; but the work will enable the  reader to understand and possess the truth concerning the  Phallic Worship of the Ancients .   Those who desire to know more, or to authenticate the  statements and facts given in this book, should consult the large  and important works of Payne Knight, Higgins, Dulaure,  Rolky Inman, and other writers .   It was intended to give with this volume a list of works  and miscellaneous pieces written on the subject, but the length  of the list prevented its being added. Sex Worship has prevailed among all peoples of ancient  times, sometimes contemporaneous and often mixed with  Star, Serpent, and Tree Worship. The powers of nature  were sexualised and endowed with the same feelings,  passions, and performing the same functions as human  beings. Among the ancients, whether the Sun, the Serpent, or the Phallic Emblem was worshipped, the idea was the  same  the veneration of the generative principle. Thus  we find a close relationship between the various  mythologies of the ancient nations, and by a comparison  of the creeds, ideas, and symbols, can see that they spring  from the same source, namely, the worship of the forces  and operations of nature, the original of which was doubtless Sun worship. It is not necessary to prove that in  primitive times the Sun must have been worshipped  under various names, and venerated as the Creator,  Light, Source of Life, and the Giver of Food.   In the earliest times the worship of the generative  power was of the most simple and pure character, rude  in manner, primitive in form, pure in idea, the homage  of man to the supreme power, the Author of life.   Afterwards the worship became more depraved, a  religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a priesthood who were not slow to take advantage of this state  of affairs, and inculcated with it profligate and mysterious  ceremonies, union of gods with women, religious prostitution and other degrading rites. Thus it was not long before the emblems lost their pure and simple meaning and became licentious statues and debased objects. Hence we have in Rome the depraved ceremonies at the worship  of BACCO, who became, not only the representative  of the creative power, but the god of pleasure and  licentiousness. The corrupted religion always found eager votaries, willing to be captives to a pleasant bondage by the  impulse of physical bliss, as was the case in among the Romans. Sex worship personifies became the supreme and  governing deity, enthroned as the ruling God over all;  dissent therefrom was impious and punished. The priests  of the worship compelled obedience. Monarchs complied  to the prevailing faith and became willing devotees to the  shrines of VENERE on the one hand, and of BACCO  and PRIAPO on the other, by appealing to the most  animating passion of nature. This is the worship of the reproductive powers, the  sexual appointments revered as the emblems of the divine creator. The one male, the active creative power;  the other the female or passive power; ideas which were  represented by various emblems in different countries.These emblems were of a pure and sacred character,  and used at a time when the prophets and priests spoke  plain speech, understood by a rude and primitive people;  although doubtless by the common people the emblems  were worshipped themselves, even as at the present day  in Roman Catholic countries the more ignorant, in many  cases, actually worship the images and pictures themselves,  while to the higher and more intelligent minds they are  only symbols of a hidden object of worship. In the  same manner, the concealed meaning or hidden truth  was to the ignorant and rude people of early times entirely  unknown, while the priests and the more learned kept  studiously concealed the meaning of the ceremonies and  symbols. Thus, the primitive idea became mixed with  profligate, debased ceremonies, and lascivious rites,  which in time caused the more pure part of the worship  to be forgotten. But Phallicism is not to be judged  from these sacred orgies, any more than Christianity  from the religious excitement and wild excesses of a few  Christian sects during the Middle Ages.   In a work on the  Worship of the Generative Powers  during the Middle Ages,” the writer traces the superstition  westward, and gives an account of its prevalence throughout Southern and Western Europe during that period.   The worship was very prevalent in Italy, and was  invariably carried by the Romans into the countries they  conquered, where they introduced their own institutions  and forms of worship. Accordingly, in Britain have  been found numerous relics and remains; and many  of our ancient customs are traced to a Phallic origin.   When we cross over to Britain,” says the writer,  we  find this worship established no less firmly and extensively  in that island; statuettes of Priapus, Phallic bronzes. pottery covered with obscene pictures, are found wherever  there are any extensive remains of Roman occupation,  as our antiquaries know well. The numerous Phallic  figures in bronze found in England are perfectly identical  in character with those that occur in France and Italy.”   All antiquaries of any experience know the great number  of obscene subjects which are met with among the fine  red pottery which is termed Samian ware, found so  abundantly in all Roman sites in our island.  They  represent erotic scenes, in every sense of the word, with  figures of Priapus and Phallic emblems. The Phallus, or Lingam, which stood for the image  of the male organ, or emblem of creation, has been  worshipped from time immemorial. Payne Knight  describes it as of the greatest antiquity, and as having  prevailed in Egypt and all over Asia.   The women of the former country carried in their religious processions, a movable Phallus of disproportionate  magnitude, which Deodorus Siculus informs us signified  the generative attribute. It has also been observed  among the idols of the native Americans and ancient  Scandinavians, while the Greeks represented the Phallus  alone, and changed the personified attribute into a distinct  deity, called Priapus.   Phallus, or privy member ( membrum virile ), signifies,   he breaks through, or passes into.” This word survives  in German pfabl, and pole in English. Phallus is supposed     Phallic Worship    ii    to be of Phoenician origin, the Greek word pallo> or  phallo,  to brandish preparatory to throwing a missile,”  is so near in assonance and meaning to Phallus, that one  is quite likely to be parent of the other. In Sanskrit  it can be traced to phal>  to burst,”  to produce,”  to  be fruitful ”; then, again, phal is  a ploughshare,” and  is also the name of Siva and Mahadeva, who are Hindu  deities. Phallus, then, was the ancient emblem of  creation : a divinity who was companion to Bacchus.   The Indian designation of this idol was Lingam, and  those who dedicated themselves to its service were to  observe inviolable chastity.  If it were discovered,”  says Crawford,  that they had in any way departed from  them, the punishment is death. They go naked, and  being considered as sanctified persons, the women  approach without scruple, nor is it thought that their  modesty should be offended by it.”  SYMBOLS OR EMBLEMS   The Phallus and its emblems were representative of the  gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and  Asher, who were all Phallic deities. The symbols were  used as signs of the great creative energy or operating  power of God from no sense of mere animal appetite,  but in the highest reverence. Payne Knight, describing  the emblems, says: Forms and ceremonials of a religion are not always  to be understood in their direct and obvious sense, but are to be considered as symbolical representations of some  hidden meaning extremely wise and just, though the  symbols themselves, to those who know not their true  signification, may appear in the highest degree absurd  and extravagant. It has often happened that avarice  and superstition have continued these symbolical representations for ages after their original meaning has  been lost and forgotten; they must, of course, appear  nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant.  Such is the case with the rite now under consideration,  than which nothing can be more monstrous and indecent,  if considered in its plain and obvious meaning, or as part  of the Christian worship; but which will be found to be  a very natural symbol of a very natural and philosophical  system of religion, if considered according to its original  use and intention.”   The natural emblems were those which from their  character were most suitable representatives; such as  poles, pillars, stones, which were sacred to Hindu,  Egyptian, and Jewish divinities.   Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone, to  be found at Narmada and other places, which is sacred  to the Hindu deity Siva; these emblem stones were  anointed, like the stone consecrated by the Patriarch  Jacob.   Blavalsky further says that these stones are  identical  in shape, meaning, and purpose with the ‘ pillars ’ set up  by the several patriarchs to mark their adoration of the  Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might  even now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta  without its Hebrew derivation being suspected. The Pole was an emblem of the Phallus, and with the  serpent upon it, was a representative of its divine wisdom  and symbol of life. The serpent upon the tree is the same  in character, both are representative of the tree of life.  The story of Moses will well illustrate this, when he  erected in the wilderness this effigy, which stood as a  sign of hope and life, as the cross is used by the Catholics  of the present day; the cross then, as now, being simply  an emblem of the Creator, used as a token of resurrection  or regeneration. iEsculapius, as the restorer of health,  has a rod or Phallus with a serpent entwined.   The Rev. M. Morris has shown that the raising of the  May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom of  India or Egypt, and is typical of the fructifying powers  of spring. The May festival was carried on with great licentiousness by the Romans, and was celebrated by nearly all  peoples as the month consecrated to Love. The May-day  in England was the scene of riotous enjoyment, very  nearly approaching to the Roman Floralia. No wonder  the Puritans looked upon the May-pole as a relic of  Paganism, and in their writings may be gleaned much  of the licentious character of the festival.   Philip Stubbes, a Puritan writer in the reign of Elizabeth,  thus describes a May-day in England :  Every parishe,  towne, and village assemble themselves together, bothe  men, women, and children, olde and younge even indifferently; and either goyng all together, or devidyng  themselves into companies, they go some to the woods  and groves, some to one place, some to another, where  thei spend all the night in pleasant pastymes; and in the     14 Phallic Worship   mornyng they returne, bryngyng with them birch bowes  and branches of trees, to deck their assemblies withall. But their cheerest jewell thei bryng from thence  is their Maie pole, whiche thei bryng home with great  veneration, as thus : thei have twentie or fortie yoke  of oxen, every oxe havyng a sweet nosegaie of flowers  placed on the tippe of his homes, and these oxen drawe  home this Maie pole (this stinckyng idoll rather), which  is covered all over with flowers and hearbes, bound  rounde aboute with strynges from the top to the bottome,  and sometyme painted with variable colours, with two  or three hundred men, women, and children, folio wyng  it with great devotion. And thus beyng reared up, with  handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei  strawe the grounde aboute, binde greene boughes aboute  it, sett up sommer haules, bowers, and arbours hard by  it. And then fall thei to banquet and feast, to leape and  daunce aboute it, as the heathen people did at the dedication  of their idols, whereof this is a perfect patterne, or rather  the thyng itself.” The ceremony was almost identical with the Roman  festival, where the Phallus was introduced with garlands.  Both were attended with the same licentiousness, for  Stubbes gives a further account of the depravity attending  the festivities. PILLARS   Another type of emblem was the stone pillar, remains of  which still exist in the British Isles. These pillars or so  called crosses generally consist of a shaft of granite with a carved head. In the West of England crosses are very  common, standing in the market and receiving the name  of  The Cross.”   These stone pillars were first erected in honour of the  Phallic deity, and on the introduction of Christianity  were not destroyed, but consecrated to the new faith,  doubtless to honour the prejudices of the people. These  monolisks abound in the Highlands, they are stones set  up on end, some twenty-four or thirty feet high, others  higher or lower and this sometimes where no such stones  are to be quarried.   We learn that the Bacchus of the Thebans was a pillar.  The Assyrian Nebo was represented by a plain pillar,  consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an  account of this practice, as also does Theophrastus, who  speaks of it as a custom for a superstitious man, when  he passed by these anointed stones in the streets to take  out a phial of oil and pour it upon them and having  fallen on his knees to make his adorations, and so depart.   In various parts of the Bible the Pillar is referred to as  of a sacred character, as in Isaiah,  In that  day shall there be an altar to Jehovah in the midst oi the  land of Egypt, and a pillar at the border thereof to Jehovah,  and it should be for a sign and a witness to the Lord.”   The Orphic Temples were doubtless emblems of the  same principle of the mystic faiths of the ancients, the  same as the Round Towers of Ireland, a history of which  was collected by O’Brien, who describes the Towers as   Temples constructed by the early Indian colonists  of the country in honour of the Fructifying principle of  nature, emanating as was supposed from the Sun, or the  deity of desire instrumental in that principle of universal  generativeness diffused throughout all nature. According to the same author these towers were very  ancient, and of Phoenician origin, as similar towers have  been found in Phoenicia.  The Irish themselves,” says  O’Brien,  designated them ‘ Bail-toir,’ that is the tower  of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and the  priest who attended them ‘ Aoi Bail-toir ’ or superintendent of Baal tower.” This Baal was worshipped  wherever the Phoenicians went, and was represented by  a pillar or stone or similar objects. The stone that  Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship,  became afterwards an object of worship to the Phoenicians.   The earliest navigators of the world were the Phoenicians,  they founded colonies and extended their commerce  first to the isles of the Mediterranean, from thence to  Spain, and then to the British Isles. Historians have  accorded to them the settlements of the most remote  localities. They formed settlements in Cyprus, and  Atticum, according to Josephus, was the principal settlement of the Tyrians upon this island. Strabo’s testimony  is, that the Phoenicians, even before Homer, had possessed  themselves of the best part of Spain.   Where the Phoenicians settled, there they introduced  their religion, and it is in these countries we find the  remains of ancient stone and pillar worship. LOGGIN STONES, ETC.   Loggin stones are by Payne Knight considered as  Phallic emblems.  Their remains,” he says,  are still  extant, and appear to have been composed of a crone set  into the ground, and another placed upon the point of  it and so nicely balanced that the wind could move it,  though so ponderous that no human force, unaided by  machinery, can displace it; whence they are called  * logging rocks * and * pendre stones/ as they were  anciently * living stones * and 4 stones of God/ titles  which differ very little in meaning from that on the  Tyrian coins. Damascius saw several of them in the  neighbourhood of Heliopolis or Baalbeck, in Syria,  particularly one which was then moved by the wind;  and they are equally found in the Western extremities  of Europe and the Eastern extremities of Asia, in Britain,  and in China.”   Bryant mentions it as very usual among the Egyptians  to place with much labour one vast stone upon another  for a religious memorial.   Such immense masses, being moved by causes seeming  so inadequate, must naturally have conveyed the idea of  spontaneous motion to ignorant observers, and persuaded  them that they were animated by an emanation of the  vital spirit, whence they were consulted as oracles, the  responses of which could always be easily obtained by  interpreting the different oscillatory movements into  nods of approbation or dissent.   Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and  many other places, even in modern times. A physician,  writing to Dr. Inman, says :  I was in Egypt last winter  (1865-66), and there certainly are numerous figures of  gods and kings, on the walls of the temple at Thebes,  depicted with the male genital erect. The great temple  at Karnak is, in particular, full of such figures, and the  temple of Danclesa likewise, though that is of much later  date, and built merely in imitation of old Egyptian art.  The same inspiring bas-reliefs arc pointed out by Ezek. I remember one scene of a king (Rameses II)  returning in triumph with captives, many of whom were  undergoing the process of castration.”   Obelisks were also representative of the same emblem.  Payne Knight mentions several terminating in a cross,  which had exactly the appearance of one of those crosses  erected in churchyards and at cross roads for the adoration  of devout persons, when devotions were more prevalent  than at present. Stones, pillars, obelisks, stumps of  trees, upright stones have all the same signification, and  are means by which the male element was symbolised. TRIADS   The Triune idea is to be found in the system of almost  every nation. All have their Trinity in Unity, three in  one, which can be distinctly recognised in the cross.  The Triad is the male or triple, the constitution of the  three persons of most sacred Trinity forming the Triune  system. In the analysis of the subject by Rawlinson,  we find the Trinity consisted of Asshur or Asher, associated  with Anu and Hea or Hoa. Asshur, the supreme god of  the Assyrians, represents the Phallus or central organ  or the Linga, the membrum virile . The cognomen Anu  was given to the right testis, while that of Hea designated  the left.   It was only natural that Asshur being deified, his  appendages should be deified also.  Beltus,” says  Inman,  was the goddess associated with them, the four  together made up Arba or Arba-il, the four great gods,”  the Trinity in Unity. The idea thus broached receives great confirmation when we examine the particular stress  laid in ancient times respecting the right and left side of  the body in connection with the Triad names given to  offspring mentioned in the scriptures with the titles given  to Anu and Hea. The male or active principle was typified  by the idea of solidity ” and  firmness,” and the  females or passive by the principles of  water,”  softness,” and other feminine principles. Thus the goddess  Hea was associated with water, and according to Forlong,  the Serpent, the ruler ot the Abyss, was sometimes represented to be the great Hea, without whom there was no  creation or life, and whose godhead embraced also the  female element water.   Rawlinson also gives a similar conclusion, and states  as far as he could determine the third divinity or left side  was named Hea, and he considered this deity to correspond  to Neptune. Neptune was the presiding deity of the deep,  ruler of the abyss, and king of the rivers. As Darwin  and his coadjutors teach, mankind, in common with all  animal life, originally sprung from the sea; so physiology  teaches that each individual had origin in a pond of water.  The fruit of man is both solid and fluid. It was natural  to imagine that the two male appendages had a distinct  duty, that one formed the infant, the other water in which  it lived, that one generated the male, the other the female  offspring; and the inference was then drawn that water  must be feminine, the emblem of all possible powers of  creation.   It will be seen that the names and signification of the  gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in  Genesis xxx. 13, we find Asher given as a personality,  which signifies  to be straight,”  upright,”  fortunate,”    happy.” Asher was the supreme god of the Assyrians,  the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male  structure and creative energy. The same idea of the  creator is still to be seen in India, Egypt, Phoenicia, the  Mediterranean, Europe, and Denmark, depicted on stone  relics.   To a rude and ignorant people, enslaved with such a  religion, it was an easy step from the crude to the more  refined sign, from the offensive to a more pictured and  less obnoxious symbol, from the plain and self-evident  to the mixed, disguised, and mystified, from the unclothed  privy member to the cross. The Triad, or Trinity, has been traced to Phoenicia,  Egypt, Japan, and India; the triple deities Asshur, Anu,  and Hea forming the  tau.” This mark of the Christians,  Greeks, and Hebrews became the sign or type of the  deities representing the Phallic trinity, and in time became  the figure of the cross. It is remarked by Payne Knight  that  The male organs of generation are sometimes found  represented by signs of the same sort, which properly  should be called the symbol of symbols. One of the most  remarkable of these is a cross, in the form of the letter  (T), which thus served as the emblem of creation and  generation before the Church adopted it as a sign of  salvation.”   Another writer says,  Reverse the position of the  triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the figure  of the ancient tau of the Christians, Greeks, and ancient  Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of  the cross. It is also met with in Gallic, Oscan, Arcadian,  Etruscan, original Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and  Pelasgian forms. The Ethiopic form of the * tau ’ is the  exact prototype and image of the cross, or rather, to state  the fact in order of merit and time, the cross is made in  the exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf,  having three lobes to it, became a symbol of the triad.  As the male genital organs were held in early times  to exemplify the actual male creative power, various  natural objects were seized upon to express the theistic  idea, and at the same time point to those parts of the human  form. Hence, a similitude was recognised in a pillar,  a heap of stones, a tree between two rocks, a club between  two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with two  ribbons with the two ends pendant, a thumb and two  fingers, the caduceus. Again, the conspicuous part of  the sacred triad Asshur is symbolised by a single stone  placed upright  the stump of a tree, a block, a tower,  spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while  eggs, apples, or citrons, plums, grapes, and the like  represented the remaining two portions, altogether called  Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name which seems  designed to perpetuate the triad, since it signifies c my  Lord the Trinity,’ or ‘ my God is three.’ ”   We must not omit to mention other Phallic emblems,  such as the bull, the ram, the goat, the serpent, the torch,  fire, a knobbed stick, the crozier; and still further personified, as Bacchus, Priapus, Dionysius, Hercules,  Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal,  Asher, and others.   If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as Asshur,  Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was in  his day not symbolically used, but actually employed; for he bluntly says  whoredom was committed with the  images of men/’ or, as the marginal note has it, images  of  a male (Ezek.). It was with this god-mark   a cross in the form of the letter T  that Ezekiel was  directed to stamp the foreheads of the men of Judaea  who feared the Lord (Ezek. ix. 4).   That the cross, or crucifix, has a sexual origin we  determine by a similar rule of research to that by which  comparative anatomists determine the place and habits of  an animal by a single tooth. The cross is a metaphoric  tooth which belongs to an antique religious body physical,  and that essentially human. A study of some of the  earliest forms of faith will lift the veil and explain the  mystery.   India, China, and Egypt have furnished the world with  a genus of religion. Time and culture have divided and  modified it into many species and countless varieties.  However much the imagination was allowed to play upon  it, the animus of that religion was sexuality  worship  of the generative principle of man and nature, male and  female. The cross became the emblem of the male  feature, under the term of the triad  three in one. The  female was the unit; and, joined to the male triad, constituted a sacred four. Rites and adoration were sometimes  paid to the male, sometimes to the female, or to the two  in one.   So great was the veneration of the cross among the  ancients that it was carried as a Phallic symbol in the  religious processions of the Egyptians and Persians.  Higgins also describes the cross as used from the earliest  times of Paganism by the Egyptians as a banner, above  which was carried the device of the Egyptian cities.   The cross was also used by the ancient Druids, who held it as a sacred emblem. In Egypt it stood for the signification of eternal life. Schedeus describes it as customary  for the Druids  to seek studiously for an oak tree, large  and handsome, growing up with two principal arms in  the form of a cross, besides the main stem upright. If  the two horizontal arms are not sufficiently adapted to  the figure, they fasten a cross-beam to it. This tree they  consecrate in this manner : Upon the right branch they  cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’;  upon the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius 9;  upon the left branch * Belenus *; over this, above the  going off of the arms, they cut the name of the god Thau;  under all, the same repeated, Thau ”    YONI   There is in Hindostan an emblem of great sanctity,  which is known as the  Linga-Yoni.” It consists of  a simple pillar in the centre of a figure resembling the  outline of a conical ear-ring. It is expressive of the female  genital organ both in shape and idea. The Greek letter   Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a  house.   Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means the vulva, the womb, the place of birth, origin, water, a mine, a hole, or pit. As Asshur  and Jupiter were the representatives of the male potency,  so Juno and Venus were representatives of the female  attribute. Moore, in his  Oriental Fragments,” says :   Oriental writers have generally spelled the word,  * Yoni/ which I prefer to write ‘ IOni/ As Lingam     24 Phallic Worship   was the vocalised cognomen of the male organ, or deity,  so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight :  The  female organs of generation were revered as symbols  of the generative powers of nature or of matter, as those  of the male were of the generative powers of God. They  are usually represented emblematically by the shell  Concha Veneris, which was therefore worn by devout  persons of antiquity, as it still continues to be by the  pilgrims of many of the common people of Italy ” ( On  the worship of Priapus,” p. 28).   If Asshur, the conspicuous feature of the male Creator,  is supplied with types and representative figures of himself,  so the female feature is furnished with substitutes and  typical imagery of herself.   One of these is technically known as the sistrum of  Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the  fenestrum> or opening, are bent so that they cannot be  taken out, and indicate that the door is closed. It signifies  that the mother is still virgo intacta  a truly immaculate  female  if the truth can be strained to so denominate  a mother . The pure virginity of the Celestial Mother  was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted  Virgin Mary now adored was born. We might infer  that Solomon was acquainted with the figure of the  sistrum, when he said,  A garden enclosed is my spouse,  a spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv. 12).  The sistrum, we are told, was only used in the worship  of Isis, to drive away Typhon (evil).   The Argha is a contrite form, or boat-shaped dish or  plate used as a sacrificial cup in the worship of Astarte,  Isis, and Venus. Its shape portrays its own significance.  The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian  monuments, and yet more frequently on bas-reliefs. Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the  Father, the Trinity; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam,  Esau, Edom, Ach, Sol, Helios (Greek for Sun), Dionysius,  Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma, Vishnu, Siva, Jupiter,  Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden; the cross,  tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others;  while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno,  Venus, Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele,  Ceres, Eve, Frea, Frigga; the queen of Heaven, the oval,  the trough, the delta, the door, the ark, the ship, the  chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial Virgin,  and a number of other names. Lucian, who was an  Assyrian, and visited the temple of Dea Syria, near the  Euphrates, says there are two Phalli standing in the porch  with this inscription on them,  These Phalli I, Bacchus,  dedicate to my step-mother Juno.”   The Papal religion is essentially the feminine, and built  on the ancient Chaldean basis. It clings to the female  element in the person of the Virgin Mary. Naphtali  (Gen. xxx. 8) was a descendant of such worshippers,  if there be any meaning in a concrete name. Bear in mind,  names and pictures perpetuate the faith of many peoples.  Neptoah is Hebrew for  the vulva,” and, A1 or El being  God, one of the unavoidable renderings of Naphtali is  the Yoni is my God,” or I worship the Celestial  Virgin.” The Philistine towns generally had names  strongly connected with sexual ideas. Ashdod, aisb or  esby means  fire, heat,” and dod means  love, to love,”   boiled up,”  be agitated,” the whole signifying  the  heat of love,” or  the fire which impels to union.”  Could not those people exclaim, Our God is love?  (John). The amatory drift of Solomon’s song is undisguised.     26 Phallic Worship   though the language is dressed in the habiliments of seeming decency. The burden of thought of most of it bears  direct reference to the Linga-Yoni. He makes a woman  say,  He shall lie all night betwixt my breasts ” (S. of S.  i. 1 3). Again, of the Phallus, or Linga, she says,  I  will go up the palm-tree, I will take hold of the boughs  thereof ” (vii. 8). Palm-tree and boughs are euphemisms  of the male genitals. The nations surrounding the Jews practising the  Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it is not  to be supposed that the Jews escaped their influence.  It is indeed certain that the worship of the Phallics was a  great and important part of the Hebrew worship.   This will be the more plainly seen when we bear in  mind the importance given to circumcision as a covenant  between God and man. Another equally suggestive  custom among the Patriarchs was the act of taking the  oath, or making a sacred promise, which is commented  upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopadia. He says :   Another primitive custom which obtained in the  patriarchal age was, that the one who took the oath put  his hand under the thigh of the adjurer (Gen.). This practice evidendy arose from the  fact that the genital member, which is meant by the euphemistic expression thigh, was regarded as the most sacred  part of the body, being the symbol of union in the tenderest  relation of matrimonial life, and the seat whence all issue proceeds and the perpetuity so much coveted by the  ancients. Compare Gen; Exod.; Judges. Hence the creative organ became the symbol  of the Creator, and the object of worship among all  nations of antiquity. It is for this reason that God  claimed it as a sign of the covenant between himself  and his chosen people in the rite of circumcision. Nothing  therefore could render the oath more solemn in those days  than touching the symbol of creation, the sign of the  covenant, and the source of that issue who may at any  future period avenge the breaking a compact made with  their progenitor.” From this we learn that Abraham,  himself a Chaldee, had reverence for the Phallus as an  emblem of the Creator. We also learn that the rite of  circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From  Herodotus we are informed that the Syrians learned  circumcision from the Egyptians, as did the Hebrews.  Says Dr. Inman : I do not know anything which  illustrates the difference between ancient and modern  times more than the frequency with which circumcision is  spoken of in the sacred books, and the carefulness with  which the subject is avoided now.”   The mutilation of male captives, as practised by Saul  and David, was another custom among the worshippers  of Baal, Asshur, and other Phallic deities. The practice  was to debase the victims and render them unfit to take  part in the worship ?nd mysteries. * Some idea can be  formed of the esteem in which people in former times  cherished the male or Phallic emblems of creative power  when we note the sway that power exercised over them.  If these organs were lost or disabled, the unfortunate one  was unfitted to meet in the congregation of the Lord,  and disqualified to minister in the holy temples. Excessive punishment was inflicted upon the person who had the  temerity to injure the sacred structure. If a woman were  guilty of inflicting injury, her hand was cut off without  pity (Deut.). The great object of veneration  in the Ark of the Covenant was doubtless a Phallic  emblem, a symbol of the preservation of the germ of  life.   In the historical and prophetic books of the Old  Testament we have repeated evidence that the Hebrew  worship was a mixture of Paganism and Judaism, and  that Jehovah was worshipped in connection with other  deities. Hezekiah is recorded in 2 Kings xviii. 3, to  have  removed the high places, and broken the images,  and cut down the groves (Ashera), and broken in pieces  the brazen serpent that Moses had made, for unto those  days the children of Israel did burn incense to it.” The  Ashera, or sacred groves here alluded to are named  from the goddess Ashtaroth, which Dr. Smith describes  as the proper name of the goddess; while Ashera is the  name of the image of the goddess. Rawlinson, in his  Five Great Monarchies of the Ancient World, describes  Ashera to imply something that stood straight up, and  probably its essential element was the stem of a tree,  an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the  Tree of Life of the Scriptures. This stem, which stood  for the emblem of life, was probably a pillar, or Phallus,  like the Lingi of the Hindus, sometimes erected in a grove  or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi. We  read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh  set up a graven  image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older  reading is in 2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image  or pillar. During the reigns of the Jewish kings, the  worship of Baal, the Priapus of the Romans,  was extensively practised by the Jews. Pillars and  groves were reared in his name.   In front of the Temple of Baal, in Samaria, was erected  an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which e ven survived  the temple itself, for although Jehu destroyed the Temple  of Baal, he allowed the Ashera to remain (2 Kings x.  18, 19; xiii. 6). Bernstein, in an important work on  the origin of the legends of Abraham, Isaac, and Jacob,  undoubtedly proves that during the monarchial period  of Israel, the sanguinary wars and violent conflicts between  the two kingdoms of Judah and Israel were between  the Elohistic and Jehovahic faiths, kept alive by the  priesthood at the chief places of worship, concerning the  true patriarch, and each party manufacturing and inserting  legends to give a more ancient and important part to its  own faith.   It is not at all improbable that the conflict was between  the two portions of the Phallic faith, the Lingam and  Yoni parties. The cause of this conflict was the erection  of the consecrated stones or pillars which were put up  by the Hebrews as objects of Divine worship. The altar  erected by Jacob at Bethel was a pillar, for according  to Bernstein the word altar can only be used for the erection  of a pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or pillar  of stone, in Gilead, and finally he set one up upon the  tomb of Rachel.   A great portion of the facts have been suppressed by  the translators, who have given to the world histories  which have glossed over the ancient rites and practices  of the Jews.   An instance is given by Forlong on the important  word  Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the  Jews addressed their devotions. He says, It should not be, but I fear it is, necessary to explain to mere English  readers of the Old Testament that the Stone or Rock Tsur  was the real old god of all Arabs, Jews, and Phoenicians,  that this would be clear to Christians were the Jewish  writings translated according to the first ideas of the  people and Rock used as it ought to be, instead of ‘ God/  * Theos/ ‘ Lord,’ etc., being written where Tsur occurs .  Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s worship  of Baal in Israel, where praises, addresses, and adorations  are addressed to the Rock, instance, Deut. xxxii. 4, 18.  Stone pillars were also used by the Hebrews as a memorial  of a sacred covenant, for we find Jacob setting up a pillar  as a witness, that he would not pass over it. Connected  with this pillar worship is the ceremony of anointing  by pouring oil upon the pillar, as practised by Jacob  at Bethel. According to Sir W. Forbes, in his Oriental  Memoirs, the  pouring of oil upon a stone is practised  at this day upon many a shapeless stone throughout  Hindostan.”   Toland gives a similar account of the Druids as practising  the same rite, and describes many of the stones found in  England as having a cavity at the top made to receive the  offering. The worship of Baal like the worship of  Priapus was attended with prostitution, and we find the  Jews having a similar custom to the Babylonians.   Payne Knight gives the following account of it in his  work :  The women of every rank and condition held  it to be an indispensable duty of religion to prostitute  themselves once in their lives in her temple to any stranger  who came and offered money, which, whether little or  much, was accepted, and applied to a sacred purpose.  Women sat in the temple of Venus awaiting the selection  of the stranger, who had the liberty of choosing whom he liked. A woman once seated must remain until she  has been selected by a piece of silver being cast into her  lap, and the rite performed outside the temple. Similar customs existed in Armenia, Phrygia, and even  in Palestine, and were a feature of the worship of Baal  Peor. The Hebrew prophets described and denounced  these excesses which had the same characteristics as the  rites of the Babylonian priesthood. The identical  custom is referred to in 1 Sam. ii. 22, where  the sons of  Eli lay with the women that assembled at the door of the  tabernacle of the congregation.”   Words and history corroborate each other, or are apt  to do so if contemporaneous. Thus kadesh, or kaesb,  designate in Hebrew  a consecrated one,” and history  tells the unworthy tale in descriptive plainness, as will  be shown in the sequel.   That the religion was dominating and imperative is  determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous  refusal to listen to the priest was death to the offender.  To us it is inconceivable that the indulgence of passion  could be associated with religion, but so it was. Much  as it is covered over by altered words and substituted  expressions in the Bible  an example of which see men  for male organ, Ezek. xvi. 17  it yet stands out offensively  bold. The words expressive of  sanctuary,”  consecrated,” and  Sodomite,” are in the Hebrew essentially  the same. They indicate the passion of amatory devotion.  It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and  Italy of classic times; and we find that  holy women ”  is a title given to those who devote their bodies to be used  for hire, the price of which hire goes to the service of the  temple.   As a general rule, we may assume that priests who make or expound the laws, which they declare to be from God,  are men, and, consequently, through all time, have  thought, and do think, of the gratification of the masculine  half of humanity. The ancient and modern Orientals  are not exceptions. They lay it down as a momentous  fact that virginity is the most precious of all the possessions  of a woman, and, being so, it ought, in some way or  other, to be devoted to God.   Throughout India, and also through the densely  inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a  class of females who dedicate themselves to the service  of the deity whom they adore; and the rewards accruing  from their prostitution are devoted to the service of the  temple and the priests officiating therein.   The temples of the Hindus in the Dekkan possessed  their establishments. They had bands of consecrated  dancing-girls called the Women of the Ido/, selected in their  infancy by the priests for the beauty of their persons, and  trained up with every elegant accomplishment that could  render them attractive.   We also find David and the daughters of Shiloh performing a wild and enticing dance; likewise we have the  leaping of the prophets of Baal.   It is again significant that a great proportion of Bible  names relate to  divine,” sexual, generative, or creative  power; such as Alah,  the strong one ”; Ariel,  the  strong Jas is El”; Amasai, Jah is firm”; Asher,  <c the male ” or  the upright organ ”; Elijah,  El is  Jah ”; Eliab,  the strong father ”; Elisha, iC El is  upright ”; Ara,  the strong one,”  the hero ”; Aram,  " high,” or,  to be uncovered ”; Baal Shalisha,  my  Lord the trinity,” or  my God is three ”; Ben-zohett,  M son of firmness ”; Camon,  the erect One ”; Cainan, he stands upright ”; these are only a few of the many  names of a similar signification.   It will be seen, from what has been given, that the Jews,  like the Phoenicians (if they were not the same), had the  same ceremonies, rites, and gods as the surrounding  nations, but enough has been said to show that Phallic  worship was much practised by the Jews. It was very  doubtful whether the Jehovah-worship was not of a  monotheistic character, but those who desire to have a  further insight into the mysteries of the wars between the  tribes should consult Bernstein’s valuable work. EARTH MOTHER  The following interesting chapter is taken from a  valuable book issued a few years ago anonymously: Mother Earth ” is a legitimate expression, only of  the most general type. Religious genius gave the female  quality to the earth with a special meaning. When once  the idea obtained that our world was feminine, it was  easy to induce the faithful to believe that natural chasms  were typical of that part which characterises woman.  As at birth the new being emerges from the mother,  so it was supposed that emergence from a terrestrial  cleft was equivalent to a new birth. In direct proportion  to the resemblance between the sign and the thing signified  was the sacredness of the chink, and the amount of virtue  which was imparted by passing through it. From natural  caverns being considered holy, the veneration for apertures  in stones, as being equally symbolical, was a natural transition. Holes, such as we refer to, are still to be seen  in those structures which are called Druidical, both in  the British Isles and in India. It is impossible to say  when these first arose; it is certain that they survive in  India to this day. We recognise the existence of the  emblem among the Jews in Isaiah li. i, in the charge to  look  to the hole of the pit whence ye are digged.” We  have also an indication that chasms were symbolical  among the same people in Isaiah lvii. 5, where the wicked  among the Jews were described as  inflaming themselves  with idols under every green tree, and slaying the children  in the valleys under the clefts of the rocks.” It is possible  that the  hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a similar  signification. In modern Rome, in the vestibule of the  church close to the Temple of Vesta, I have seen a large  perforated stone, in the hole of which the ancient Romans  are said to have placed their hands when they swore a  solemn oath, in imitation, or, rather, a counterpart, of  Abraham swearing his servant upon his thigh  that is  the male organ. Higgins dwells upon these holes, and  says :  These stones are so placed as to have a hole under  them, through which devotees passed for religious  purposes. There is one of the same kind in Ireland,  called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham  Crags there is a place made for the devotees to pass  through. We read in the accounts of Hindostan that  there is a very celebrated place in Upper India, to which  immense numbers of pilgrims go, to pass through a place  in the mountains called  The Cow’s Belly.” In the  Island of Bombay, at Malabar Hill, there is a rock upon  the surface of which there is a natural crevice, which  communicates with a cavity opening below. This place  is used by the Gentoos as a purification of their sins.     Phallic Worship 35   which they say is effected by their going in at the opening  below, and emerging at the cavity above   born again.”  The ceremony is in such high repute in the neighbouring  countries that the famous Conajee Angria ventured by  stealth, one night, upon the Island, on purpose to perform  the ceremony, and got off undiscovered. The early  Christians gave them a bad name, as if from envy; they  called these holes  Cunni Diaboli ” (. Atiacalypsis)    BACCHANALIA AND LIBERALIA FESTIVALS   The Romans called the feasts of Bacchus, Bacchanalia  and Liberalia, because Bacchus and Liber were the names  for the same god, although the festivals were celebrated  at different times and in a somewhat different manner.  The latter, according to Payne Knight, was celebrated  on the 17th of March, with the most licentious gaiety,  when an image of the Phallus was carried openly in  triumph. These festivities were more particularly celebrated among the rural or agricultural population, who,  when the preparatory labour of the agriculturist was over,  celebrated with joyful activity Nature’s reproductive  powers, which in due time was to bring forth the fruits.  During the festival a car containing a huge Phallus was  drawn along accompanied by its worshippers, who indulged in obscene songs and dances of wild and extravagant character. The gravest and proudest matrons  suddenly laid aside their decency and ran screaming  among the woods and hills half-naked, with dishevelled  hair, interwoven with which were pieces of ivy or vine. The Bacchanalian feasts were celebrated in the latter part  of October when the harvest was completed. Wine and  figs were carried in the procession of the Bacchants, and  lastly came the Phalli, followed by honourable virgins,  called canephora, who carried baskets of fruit. These were  followed by a company of men who carried poles, at the  end of which were figures representing the organ of  generation. The men sung the Phallica and were crowned  with violets and ivy, and had their faces covered with  other kinds of herbs. These were followed by some  dressed in women’s apparel, striped with white, reaching  to their ancles, with garlands on their heads, and wreaths  of flowers in their hands, imitating by their gestures the  state of inebriety. The priestesses ran in every direction  shouting and screaming, each with a thyrsus in their  hands. Men and women all intermingled, dancing and  frolicking with suggestive gesticulations. Deodorus says  the festivals were carried into the night, and it was then  frenzy reached its height. He says,  In performing  the solemnity virgins carry the thyrsus, and run about  frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god; then  the women in a body offer the sacrifices, and roar out the  praises of Bacchus in song as if he were present, in imitation  of the ancient Maenades, who accompanied him.” These  festivities were carried into the night, and as the celebrators  became heated with wine, they degenerated into extreme  licentiousness.   Similar enthusiastic frenzy was exhibited at the Lupercalian Feasts instituted in honour of the god Pan (under  the shape of a Goat) whose priests, according to Owen in  his Worship of Serpents, on the morning of the Feast ran  naked through the streets, striking the married women  they met on the hands and belly, which was held as an omen promising fruitfulness. The nymphs performing  the same ostentatious display as the Bacchants at the  festival of Bacchanalia.   The festival of Venus was celebrated towards the beginning of April, and the Phallus was again drawn in a car,  followed by a procession of Roman women to the temple  of Venus. Says a writer,  The loose women of the town  and its neighbourhood, called together by the sounding  of horns, mixed with the multitude in perfect nakedness,  and excited their passions with obscene motions and  language until the festival ended in a scene of mad revelry,  in which all restraint was laid aside.”   It is said that these festivals took their rise from Egypt,  from whence they were brought into Greece by Metampus,  where the triumph of Osiris was celebrated with secret  rites, and from thence the Bacchanals drew their original;  and from the feasts instituted by Isis came the orgies of  Bacchus. DRUID AND HEBREW FAITHS   It seems not at all improbable that the deities worshipped by the ancient Britons and the Irish, were no  other then the Phallic deities of the ancient Syrians and  Greeks, and also the Baal of the Hebrews. Dionysius  Periegites, who lived in the time of Augustus Csesar,  states that the rites of Bacchus were celebrated in the  British Isles; while Strabo, who lived in the time of  Augustus and Tiberius, asserts that a much earlier writer  described the worship of the Cabiri to have come originally from Phoenicia. Higgins, in his History of the Druids,  says, the supreme god above the rest was called Seodhoc  and Baal. The name of Baal is found both in Wales,  Gaul, and Germany, and is the same as the Hebrew Baal.   The same god, according to O’Brien, was the chief deity  of the Irish, in whose honour the round towers were  erected, which structures the ancient Irish themselves  designated Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers,  xxii, will be found a mention of a similar pillar consecrated  to Baal. Many of the same customs and superstitions  that existed among the Druids and ancient Irish, will  likewise be found among the Israelites. On the first  day of May, the Irish made great fires in honour of Baal,  likewise offering him sacrifices. A similar account is  given of a custom of the Druids by Toland, in an account  of the festival of the fires; he says :   on May-day eve  the Druids made prodigious fires on these earns, which  being everyone in sight of some other, could not but  afford a glorious show over a whole nation.” These  fires are said to be lit even to the present day by the  Aboriginal Irish, on the first of May, called by them  Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as  given them in the Highlands of Scotland.   A similar practice to this will be noticed as mentioned in  the II Book of Kings, where the Canaanites in their worship  of Baal, are said to have passed their children through the  fire of Baal, which seems to have been a common practice,  as Ahaz, King of Israel, is blamed for having done the  same thing. Higgins in his Anacalypsis y says this superstitious custom still continues, and that on  particular  days great fires are lighted, and the fathers taking the  children in their arms, jump or run through them, and  thus pass their children through them; they also light two fires at a little distance from each other, and drive  their cattle between them.” It will be found on reference  to Deuteronomy, that this very practice is specially forbidden. In the rites of Numa, we have also the sacred  fire of the Irish; of St. Bridget, of Moses, of Mithra,  and of India, accompanied with an establishment of  nuns or vestal virgins. A sacred fire is said to have been  kept burning by the nuns of Kildare, which was established  by St. Bridget. This fire was never blown with the  mouth, that it might not be polluted, but only with  bellows; this fire was similar to that of the Jews, kept  burning only with peeled wood, and never blown with  the mouth. Hyde describes a similar fire which was kept  burning in the same way by the ancient Persians, who  kept their sacred fire fed with a certain tree called Hawm  Mogorum; and Colonel Vallancey says the sacred fire  of the Irish was fed with the wood of the tree called  Hawm. Ware, the Romish priest, relates that at Kildare,  the glorious Bridget was rendered illustrious by many  miracles, amongst which was the sacred fire, which had  been kept burning by nuns ever since the time of the  Virgin.   The earliest sacred places of the Jews were evidently  sacred stones, or stone circles, succeeded in time by  temples. These early rude stones, emblems of the  Creator, were erected by the Israelites, which in no way  differed from the erections of the Gentiles. It will be  found that the Jews to commemorate a great victory,  or to bear witness of the Lord, were all signified by stones :  thus, Joshua erected a stone to bear witness; Jacob  put up a stone to make a place sacred; Abel set up the  same for a place of worship; Samuel erected a stone as  a boundary, which was to be the token of an agreement  made in the name of God. Even Maundrel in his travels  names several that he saw in Palestine. It is curious that  where a pillar was erected there, sometime after, a temple  was put up in the same manner that the Round Towers  of Ireland were,  always near a church, but never formed  part of it. We find many instances in the Scriptures of the  erection of a number of stones among the early Israelites,  which would lead us to conclude that it was not at all  unlikely that the early places of worship among them, were  similar to the temples found in various parts of Great  Britain and Ireland. It is written in Exodus xxiv. 4,  that Moses rose up early in the morning, and builded  an altar under the hill, and twelve pillars, according to  the twelve tribes of Israel, were erected. It is also  given out that when the children of Israel should pass  over the Jordan, unto the land which the Lord giveth  them, they should set up great stones, and plaster them  with plaster, and also the words of the law were to be  written thereon. In many other places stones were  ordered to be set up in the name of the Lord, and repeated  instances are given that the stones should be twelve  in number and unhewn.   Stone temples seem to have been erected in all countries  of the world, and even in America, where, among the  early American races are to be found customs, superstitions,  and religious objects of veneration, similar to the  Phoenicians. An American writer says :   There is  sufficient evidence that the religious customs of the  Mexicans, Peruvians and other American races, are  nearly identical with those of the ancient Phoenicians. We moreover discover that many of their religious terms  have, etymologically, the same origin.” Payne Knight,  in his Worship of Priapus, devotes much of his work to show that the temples erected at Stonehenge and other  places, were of a Phoenician origin, which was simply  a temple of the god Bacchus. STONEHENGE A TEMPLE OF BACCHUS   Of all the nations of antiquity the Persians were the  most simple and direct in the worship of the Creator.  They were the puritans of the heathen world, and not  only rejected all images of God and his agents, but also  temples and altars, according to Herodotus, whose  authority we prefer to any other, because he had an  opportunity of conversing with them before they had  adopted any foreign superstitions. As they worshipped  the ethereal fire without any medium of personification  or allegory, they thought it unworthy of the dignity of  the god to be represented by any definite form, or circumscribed to any particular place. The universe was  his temple, and the all-pervading element of fire his only  symbol. The Greeks appear originally to have held  similar opinions, for they were long without statues  and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built by  Adrastus  who lived in an age before the Trojan war   which consisted of columns only, without wall or roof,  like the Celtic temples of our northern ancestors, or the  Phyrcetheia of the Persians, which were circles of stones  in the centre of which was kindled the sacred fire, the  symbol of the god. Homer frequently speaks of places  of worship consisting of an area and altar only, which were  probably enclosures like those of the Persians, with an altar in the centre. The temples dedicated to the creator  Bacchus, which the Greek architects called hypathral,  seem to have been anciently of this kind, whence probably  came the title ( surround with columns ”) attributed  to that god in the Orphic litanies. The remains of one of  these are still extant at Puzznoli, near Naples, which the  inhabitants call the temple of Serapis; but the ornaments  of grapes, vases, etc., found among the ruins, prove it  to have been of Bacchus. Serapis was indeed the same  deity worshipped under another form, being usually a  personification of the sun. The architecture is of the  Roman times; but the ground plan is probably that of a  very ancient one, which this was made to replace  for  it exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland,  published in Stukeley’s Itinerary. The ranges of square  buildings which enclose it are not properly parts of the  temple, but apartments of the priests, places for victims  and sacred utensils, and chapels dedicated to the subordinate deities, introduced by a more complicated and  corrupt worship and probably unknown to the founder  of the original edifice. The portico, which runs parallel  with these buildings, encloses the temenss, or area of  sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was  circular, but is here quadrangular, as in the Celtic temple  in Zeeland, and the Indian pagoda before described.  In the centre was the holy of holies, the seat of the god,  consisting of a circle of columns raised upon a basement,  without roof or walls, in the middle of which was probably  the sacred fire or some other symbol of the deity. The  square area in which it stood was sunk below the natural  level of the ground, and, like that of the Indian pagoda,  appears to have been occasionally floated with water;  the drains and conduits being still to be seen, as also several fragments of sculpture representing waves, serpents, and  various aquatic animals, which once adorned the basement.  The Bacchus here worshipped, was, as we learn from the  Orphic hymn above cited, the sun in his character of  extinguisher of the fires which once pervaded the earth.  He is supposed to have done this by exhaling the waters  of the ocean and scattering them over the land, which was  thus supposed to have acquired its proper temperature  and fertility. For this reason the sacred fire, the essential  image of the god, was surrounded by the element which  was principally employed in giving effect to the beneficial  exertion* of the great attribute.   From a passage of Hecatasus, preserved by Diodorus  Siculus, it seems evident that Stonehenge and all the monuments of the same kind found in the north, belong to the  same religion which appears at some remote period to  have prevailed over the whole northern hemisphere.  According to that ancient historian, the Hyperboreans  inhabited an island beyond Gaul, as large as Sicily, in which  Apollo was worshipped in a circular temple considerable for  its si^e and riches. Apollo, we know, in the language of  the Greeks of that age, can mean no other than the sun,  which according to Caesar was worshipped by the Germans,  when they knew of no other deities except fire and the  moon. The island can evidently be no other than Britain,  which at that time was only known to the Greeks by the  vague reports of the Phoenician mariners; and so uncertain  and obscure that Herodotus, the most inquisitive and  credulous of historians, doubts of its existence. The  circular temple of the sun being noticed in such slight and  imperfect accounts, proves that it must have been something singular and important; for if it had been an  inconsiderable structure, it would not have been mentioned     44    Phallic Worship    at all; and if there had been many such in the country,  the historian would not have employed the singular  number.   Stonehenge has certainly been a circular temple, nearly  the same as that already described of the Bacchus at  Puzznoli, except that in the latter the nice execution and  beautiful symmetry of the parts are in every respect the  reverse of the rude but majestic simplicity of the former.  In the original design they differ but in the form of the  area. It may therefore be reasonably supposed that we  have still the ruins of the identical temple described by  Hecataeus, who, being an Asiatic Greek, might have  received his information from Phoenician merchants, who  had visited the interior parts of Britain when trading there  for tin. Anacrobius mentions a temple of the same kind  and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated  to the sun under the title of Bacchus Sebrazius. The  large obelisks of stone found in many parts of the north,  such as those at Rudstone, and near Boroughbridge, in  Yorkshire, belong to the same religion; obelisks being,  as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they  represented both by their form and name .  Payne Knight* s  Worship of Priapus.    BUNS AND RELIGIOUS CAKES   Says Hyslop :   The hot cross-buns of Good Friday,  and the dyed eggs of Pasch or Easter Sunday, figured in  the Chaldean rites just as they do now. The buns known,  too, by that identical name, were used in the worship of the Queen of Heaven, the goddess Easter (Ishtar or Astarte),  as early as the days of Cecrops, the founder of Athens,  1,500 years before the Christian era.”  One species of  bread,” says Bryant,  ‘ which used to be offered to the  gods, was of great antiquity, and called Bonn. 9 Diogenes  mentioned they were made of flour and honey. It  appears that Jeremiah the Prophet was familiar with this  lecherous worship. He says:   The children gather  wood, the fathers kindle the fire, and the women knead  the dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer.  vii., 18). Hyslop does not add that the  buns ” offered  to the Queen of Heaven, and in sacrifices to other deities,  were framed in the shape of the sexual organs, but that  they were so in ancient times we have abundance of  evidence.   Martial distinctly speaks of such things in two epigrams,  first, wherein the male organ is spoken of, second, wherein  the female part is commemorated; the cakes being made  of the finest flour, and kept especially for the palate of the  fair one. Wilford (Asiatic Researches)  says:   When the people of Syracuse were sacrificing to  goddesses, they offered cakes called mullot, shaped like the  female organ, and in some temples where the priestesses  were probably ventriloquists, they so far imposed on the  credulous multitude who came to adore the Vulva as to  make them believe that it spoke and gave oracles.”   We can understand how such things were allowed in  licentious Rome, but we can scarcely comprehend how  they were tolerated in Christian Europe, as, to all innocent  surprise we find they were, from the second part of the   Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge,  in the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in     46    Phallic Worship    the form of the Phallus are made as offerings at Easter,  carried and presented from house to house. Dulare  states that in his time the festival of Palm Sunday, in the  town of Saintes, was called le fete des pinnes  feast of the  privy members  and that during its continuance the  women and children carried in the procession a Phallus  made of bread, which they called a pinne, at the end of their  palm branches; these pinnes were subsequently blessed  by priests, and carefully preserved by the women during  the year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered,  is a euphemism of the male organ, and it is curious to see  it united with the Phallus in Christendom. Dulare also  says that, in some of the earlier inedited French books on  cookery, receipts are given for making cakes of the  salacious form in question, which are broadly named. He  further tells us those cakes symbolized the male, in Lower  Limousin, and especially at B rives; while the female  emblem was adopted at Clermont, in Auvergne, and other  places. THE ARK AND GOOD FRIDAY The ark of the covenant was a most sacred symbol in  the worship of the Jews, and like the sacred boat, or  ark of Osiris, contained the symbol of the principle of  life, or creative power. The symbol was preserved with  great veneration in a miniature tabernacle, which was  considered the special and sanctified abode of the god.  In size and manner of construction the ark of the Jews  and the sacred chest of Osiris of the Egyptians were     Phallic Worship    47   exactly alike, and were carried in processions in a similar  manner   The ark or chest of Osiris was attended by the priests,  and was borne on the shoulders of men by means of  staves. The ark when taken from the temple was placed  upon a table, or stand, made expressly for the purpose,  and was attended by a procession similar to that which  followed the Jewish ark. According to Faber, the ark  was a symbol of the earth or female principle, containing  the germ of all animated nature, and regarded as the  great mother whence all things sprung. Thus the ark,  earth, and goddess, were represented by common symbols,  and spoken of in the old Testament as the  ashera.”   The sacred emblems carried in the ark of the Egyptians  were the Phallus, the Egg, and the Serpent; the first  representing the sun, fire, and male or generative principle   the Creator; the second, the passive or female, the  germ of all animated things  the Preserver; and the  last the Destroyer : the Three of the sacred Trinity.  The Hindu women, according to Payne Knight, still  carry the lingam, or consecrated symbol of the generative  attribute of the deity, in solemn procession between two  serpents; and in a sacred casket, which held the Egg  and the Phallus in the mystic processions of the Greeks,  was also a Serpent. The ark,” says Faber,  was reverenced in all the  ancient religions.” It was often represented in the form of  a boat, or ship, as well as an oblong chest. The rites of  the Druids, with those of Phoenicia and Hindostan, show  that an ark, chest, cell, boat, or cavern, held an important  place in their mysteries. In the story of Osiris, like that  of the Siva, will be found the reason for the emblem being  carried in the sacred chest, and the explanation of one of the mysteries of the Egyptian priests. It is said that  Osiris was tom to pieces by the wicked Typhon, who  after cutting up the body, distributed the parts over the  earth. Isis recovered the scattered limbs, and brought  them back to Egypt; but, being unable to find the part  which distinguished his sex, she had an image made of  wood, which was enshrined in an ark, and ordered to  be solemnly carried about in the festivals she had instituted  in his honour, and celebrated with certain secret rites.   The Egg, which accompanied the Phallus in the ark was  a very common symbol of the ancient faiths, which was  considered as containing the generation of life. The  image of that which generated all things in itself. Jacob  Bryant says :   The Egg, as it contained the principles  of life was thought no improper emblem of the ark,  in which were preserved the future world. Hence in the  Dionysian and in other mysteries, one part of the nocturnal  ceremony consisted in the consecration of an egg.”  This egg was called the Mundane Egg.   The ark was likewise the symbol of salvation, the place  of safety, the secret receptacle of the divine wisdom.  Hence we find the ark of the Jews containing the tables  of the law; we find too that the Jews were ordered to  place in the ark Aaron’s rod, which budded, conveying  the idea of symbolised fertility : showing that the ark  was considered as the receptacle of the life principle  as  an emblem of the Creator.   With the Egyptians Osiris was supposed to be buried in  the ark, which represented the disappearance of the deity.  His loss, or death, constituted the first part of the mysteries,  which consisted of lamentations for his decease. After the  third day from his death, a procession went down to the  seaside in the night, carrying the ark with them. During the passage they poured drink offerings from the river, and  when the ceremony had been duly performed, they raised a  shout that Osiris had again risen  that the dead had been  restored to life. After this followed the second or joyful  part of the mysteries. The similarity of this custom with  the Good Friday celebrations of the death of Jesus, and the  rejoicings on account of his resurrection on Easter Sunday,  will be at once observed. It is further said that the missing  part of Osiris was eaten by a fish, which made the fish a  sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good  Friday brought together, also the Egg, for the origin of  the Easter eggs is very ancient. A bull is represented as  breaking an egg with his horn, which signified the  liberating of imprisoned life at the opening or spring of  the year, 'which had been destroyed by Typhon. The  opening of the year at that time commenced in the spring,  pot according to our present reckoning; thus, the Egg  was a symbol of the resurrection of life at the spring, or  our Easter time. The author of the  Worship of the  Generative Powers,” describes the origin of the hot crossbun at Easter, which is a further parallelism of the Christian  and Pagan festivals. The author also draws a further  conclusion  that the cakes or buns have in reality a  Phallic origin, for in France and other parts, the Easter  cakes were called after the membrun virile. The writer  says :   In the primitive Teutonic mythology, there  was a female deity named in old German, Ostara, and in  Anglo-Saxon, Eastre or Eostre; but all we know of her  is the simple statement of our father of history, Bede,  that her festival was celebrated by the ancient Saxons in  the month of April, from which circumstance that month  was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or Eostermona, and that the name of the goddess had been frequently given to the Paschal time, with which it was identical. The  name of this goddess was given to the same month by  the old Germans and by the Franks, so that she must have  been one of the most highly honoured of the Teutonic  deities, and her festival must have been a very important  one and deeply implanted in the popular feelings, or the  Church would not have sought to identify it with one of  the greatest Christian festivals of the year. It is understood that the Romans considered this month as dedicated  to Venus, no doubt because it was that in which the  productive powers of nature began to be visibly developed.  When the Pagan festival was adopted by the Church, it  became a moveable feast, instead of being fixed to the  month of April. Among other objects offered to the  goddess at this time were cakes, made no doubt of fine  flour, but of their form we are ignorant. The Christians  when they seized upon the Easter festival, gave them the  form of a bun, which indeed was at that time the ordinary  form of bread; and to protect themselves and those who  ate them from any enchantment  or other evil influences  which might arise from their former heathen character   they marked them with the Christian symbol  the cross.  Hence we derived the cakes we still eat at Easter under  the name of hot cross-buns, and the superstitious feelings  attached to them; for multitudes of people still believe  that if they failed to eat a hot cross-bun on Good Friday,  they would be unlucky all the rest of the year.” ARCHITECTURAL PILLARS DEVISED FROM THE  LOTUS   The earliest capital seems to have been the bell or  seed vessel, simply copied without alteration, except a  little expansion at the bottom to give it stability. The  leaves of some other plant were then added to it, and  varied in different capitals according to the different  meanings intended to be signified by the accessory symbols.  The Greeks decorated it in the same manner, with the  foliage of various plants, sometimes of the acanthus and  sometimes of the aquatic kind, which are, however,  generally so transformed by excessive attention to elegance,  that it is difficult to distinguish them. The most usual  seems to be the Egyptian acacia, which was probably  adopted as a mystic symbol for the same reasons as the  olive, it being equally remarkable for its powers of  reproduction. Theophrastus mentions a large wood of  it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so  that we reasonably suppose it to have been employed by  the Egyptians in the same symbolical sense. From  them the Greeks seem to have borrowed it about the  time of the Macedonian conquest, it not occurring in any  of their buildings of a much earlier date; and as for the  story of the Corinthian architect, who is said to have  invented this kind of capital from observing a thorn  growing round a basket, it deserved no credit, being fully  contradicted by the buildings still remaining in Upper  Egypt.   The Doric column, which appears to have been the  only one known to the very ancient Greeks, was equally  derived from the Nelumbo; its capital being the same  •eed-vessel pressed flat, as it appears when withered and dry  the only state probably in which it had been seen in  Europe. The flutes in the shaft were made to hold  spears and staves, whence a spear-holder is spoken of in  the  Odyssey ” as part of a column. The triglyphs and  blocks of the cornice were also derived from utility,  they having been intended to represent the projecting  ends of the beams and rafters which formed the roof.   The Ionic capital has no bell, but volutes formed in  imitation of sea-shells, which have the same symbolical  meaning. To them is frequently added the ornament which  architects call a honeysuckle, but which seems to be  meant for the young petals of the same flower viewed  horizontally, before they are opened or expanded. Another  ornament is also introduced in this capital, which they  call eggs and anchors, but which is, in fact, composed of  eggs and spear-heads, the symbols of female generation  and male destructive power, or in the language of  mythology, of Venus and Mars. Payne Knight .  BELLS IN RELIGIOUS WORSHIP   Stripped, however, of all this splendour and magnificence it was probably nothing more than a symbolical  instrument, signifying originally the motion of the  elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of Cybele,  the bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have  overcome the Titans with his aegis, as Isis drove away  Typhon with her sistrum, and the ringing of the bells  and clatter of metals were almost universally employed  as a means of consecration, and a charm against the destroying and inert powers. Even the Jews welcomed  the new moon with such noises, which the simplicity of  the early ages employed almost everywhere to relieve  her during eclipses, supposed then to be morbid affections  brought on by the influence of an adverse power. The  title Priapus y by which the generative attribute is distinguished, seems to be merely a corruption of Briapuos  (clamorous); the beta and pi being commutable letters,  and epithets of similar meaning, being continually applied  both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many  Priapic figures, too, still extant, have bells attached to  them, as the symbolical statues and temples of the Hindus  are; and to wear them was a part of the worship of  Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find  them of extremely small size, evidently meant to be worn  as amulets with the phalli, lunulas, etc. The chief priests  of the Egyptians and also the high priests of the Jews,  hung them as sacred emblems to their sacerdotal garments;  and the Brahmins still continue to ring a small bell at the  interval of their prayers, ablutions, and other acts of  devotion; which custom is still preserved in the Roman  Catholic Church at the elevation of the host. The  Lacedaemonians beat upon a brass vessel or pan, on the  death of their kings, and we still retain the custom of  tolling a bell on such occasions, though the reason of it  is not generally known, any more than that of other  remnants of ancient ceremonies still existing . 1 It will  be observed that the bells used by the Christians very  probably came direct from the Buddhists. And from the  same source are derived the beads and rosaries of the  Roman Catholics, which have been used by the Buddhist   1 The above description is from Payne Knight's "Symbolical  Language of ancient Art and Mythology."  monks for over 2,000 years. Tinkling bells were  suspended before the shrine of Jupiter Ammon, and  during the service the gods were invited to descend upon  the altars by the ringing of bells; they were likewise  sacred to Siva. Bells were used at the worship of Bacchus,  and were worn on the garments of the Bacchantes, much  in the same manner as they are used at our carnivals and  masquerades. HINDU PHALLICISM The following curious fable is given by Sir William  Jones, as one of the stories of the Hindus for the origin of  Phallic devotion : Certain devotees in a remote time had  acquired great renown and respect, but the purity of the  art was wanting, nor did their motives and secret thoughts  correspond with their professions and exterior conduct.  They affected poverty, but were attached to the things of  this world, and the princes and nobles were constantly  sending their offerings. They seemed to sequester themselves from this world; they lived retired from the towns;  but their dwellings were commodious, and their women  numerous and handsome. But nothing can be hid from  their gods, and Sheevah resolved to put them to shame.  He desired Prakeety (nature) to accompany him; and  assumed the appearance of a Pandaram of a graceful  form. Prakeety was herself a damsel of matchless worth.  She went before the devotees who were assembled with  their disciples, awaiting the rising of the sun, to perform  their ablutions and religious ceremonies. As she advanced the refreshing breeze moved her flowing robe, showed  the exquisite shape which it seemed intended to conceal.  With eyes cast down, though sometimes opening with a  timid but tender look, she approached them, and with a  low enchanting voice desired to be admitted to the sacrifice.  The devotees gazed on her with astonishment. The  sun appeared, but the purifications were forgotten;  the things of the Poo j ah (worship) lay neglected; nor  was any worship thought of but that of her. Quitting the  gravity of their manners, they gathered round her as  flies round the lamp at night  attracted by its splendour,  but consumed by its flame. They asked from whence  she came; whither she was going. ‘ Be not offended  with us for approaching thee, forgive us our importunities.  But thou art incapable of anger, thou who art made to  convey bliss; to thee, who mayest kill by indifference,  indignation and resentment are unknown. But whoever  thou mayest be, whatever motive or accident might have  brought thee amongst us, admit us into the number of  thy slaves; let us at least have the comfort to behold  thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul  seemed ready to take its flight; the vow was forgotten,  and the policy of years destroyed. Whilst the devotees were lost in their passions, and  absent from their homes, Sheevah entered their village  with a musical instrument in his hand, playing and singing  like some of those who solicit charity. At the sound of his  voice, the women immediately quitted their occupation;  they ran to see from whom it came. He was as beautiful  as Krishen on the plains of Matra. Some dropped their  jewels without turning to look for them; others let  fall their garments without perceiving that they discovered  those abodes of pleasure which jealousy as well as decency had ordered to be concealed. All pressed forward with  their offerings, all wished to speak, all wished to be taken  notice of, and bringing flowers and scattering them before  him, said  ‘ Askest thou alms ! thou who are made to  govern hearts. Thou whose countenance is as fresh as  the morning, whose voice is the voice of pleasure, and  they breath like that of Vassant (Spring) in the opening of  the rose I Stay with us and we will serve thee; nor  will we trouble thy repose, but only be zealous how to  please thee/ The Pandaram continued to play, and sung  the loves of Kama (God of Love), of Krishen and the  Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. But the desire of repose succeeds the waste of pleasure.  Sleep closed the eyes and lulled the senses. In the  morning the Pandaram was gone. When they awoke  they looked round with astonishment, and again cast  their eyes on the ground. Some directed to those who  had formerly been remarked for their scrupulous manners,  but their faces were covered with their veils. After  sitting awhile in silence they arose and went back to their  houses, with slow and troubled steps. The devotees  returned about the same time from their wanderings after  Prakeety. The days that followed were days of embarrassment and shame. If the women had failed in their  modesty, the devotees had broken their vows. They  were vexed at their weakness, they were sorry for what  they had done; yet the tender sigh sometimes broke  forth, and the eyes often turned to where the men first  saw the maid  the women, the Pandaram.   But the women began to perceive that what the  devotees foretold came not to pass. Their disciples,  in consequence, neglected to attend them, and the offerings  from the princes and nobles became less frequent than before. They then performed various penances; they  sought for secret places among the woods unfrequented  by man; and having at last shut their eyes from the  things of this world, retired within themselves in deep  meditation, that Sheevah was the author of their  misfortunes. Their understanding being imperfect,  instead of bowing the head with humility, they were  inflamed with anger; instead of contrition for their  hypocrisy, they sought for vengeance. They performed  new sacrifices and incantations, which were only allowed  to have effect in the end, to show the extreme folly of  man in not submitting to the will of heaven.    Their incantations produced a tiger, whose mouth  was like a cavern and his voice like thunder among the  mountains. They sent him against Sheevah, who with  Prakeety was amusing himself in the vale. He smiled  at their weakness, and killing the tiger at one blow with  his club, he covered himself with his skin. Seeing themselves frustrated in this attempt, the devotees had recourse  to another, and sent serpents against him of the most  deadly kind; but on approaching him they became  harmless, and he twisted them round his neck. They  then sent their curses and imprecations against him, but  they all recoiled upon themselves. Not yet disheartened  by all these disappointments, they collected all their  prayers, their penances, their charities, and other good  works, the most acceptable sacrifices; and demanding  in return only vengeance against Sheevah, they sent a  fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at  this attempt, turned the fire with indignation against the  human race; and mankind would soon have been  destroyed, had not Vishnu, alarmed at the danger,  implored him to suspend his wrath. At his entreaties Sheevah relented; but it was ordained that in his temples  those parts should be worshipped \ which the false doctrines  had impiously attempted to destroy.”    THE CROSS AND ROSARY   The key which is still worn with the Priapic hand, as an  amulet, by the women of Italy appears to have been an  emblem of the equivocal use of the name, as the language  of that country implies. Of the same kind, too, appears to  have been the cross in the form of the letter tau> attached  to a circle, which many of the figures of Egyptian deities,  both male and female, carry in their left hand; and by the  Syrians, Phoenicians and other inhabitants of Asia,  representing the planet Venus, worshipped by them as the  emblem or image of that goddess. The cross in this  form is sometimes observable on coins, and several of  them were found in a temple of Serapis, demolished at the  general destruction of those edifices by the Emperor  Theodosius, and were said by the Christian antiquaries  of that time to signify the future life. In solemn sacrifices, all the Lapland idols were marked with it from the blood  of the victims; and it occurs on many Runic ornaments  found in Sweden and Denmark, which are of an age  long anterior to the approach of Christianity to those  countries, and probably to its appearance in the world.  On some of the early coins of the Phoenicians, we find it  attached to a chaplet of beads placed in a circle, so as to  form a complete rosary, such as the Lamas of Thibet  and China, the Hindus, and the Roman Catholics now  tell over while they pray. Beads were anciently used to reckon time, and a circle,  being a line without termination, was the natural emblem  of its perpetual continuity; whence we often find circles  of beads upon the heads of deities, and enclosing the  sacred symbols upon coins and other monuments.  Perforated beads are also frequently found in tombs, both  in the northern and southern parts of Europe and Asia,  whence are fragments of the chaplets of consecration  buried with the deceased. The simple diadem, or fillet,  worn round the head as a mark of sovereignty, had a  similar meaning, and was originally confined to the statues  of deities and deified personages, as we find it upon the  most ancient coins. Chryses, the priest of Apollo, in  the  Iliad,” brings the diadem, or sacred fillet, of the  god upon his sceptre, as the most imposing and invocable  emblem of sanctity; but no mention is made of its being  worn by kings in either of the Homeric poems, nor of any  other ensign of temporal power and command, except the  royal staff or sceptre. The double sex typified by the Argha and its contents is  by the Hindus represented by the  Mymphcea ” or  Lotus, floating like a boat on the boundless ocean, where  the whole plant signifies both the earth and the two  principles of its fecundation. The germ is both Meru and  the Linga; the petals and filaments are the mountains which encircle Meru, and are also a type of the Yoni;  the leaves of the calyx are the four vast regions to the  cardinal points of Meru; and the leaves of the plant are  the Dwipas or isles round the land of Jambu. As this  plant or lily was probably the most celebrated of all the  vegetable creation among the mystics of the ancient world,  and is to be found in thousands of the most beautiful and  sacred paintings of the Christians of this day  I detain  my reader with a few observations respecting it. This is  the more necessary as it appears that the priests have now  lost the meaning of it ; at least this is the case with everyone  of whom I have made enquiry ; but it is like many other  very odd things, probably understood in the Vatican,  or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the  different plants which ornament our globe, there is not  one which has received so much honour from man as  the Lotus or Lily, in whose consecrated bosom Brahma  was born, and Osiris delighted to float. This is the  sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in  oriental mythology, and in truth not without reason, for it  is itself a lovely prodigy. Throughout all the northern  hemispheres it was everywhere held in profound  veneration, and from Savary we learn that the veneration  is yet continued among the modern Egyptians. And  we find that it still continues to receive the respect if  not the adoration of a great part of the Christian world,  unconscious, perhaps, of the original reason of this  conduct. Higgins’s Anacalypsis.   The following is an account given of it by Payne  Knight, in his curious dissertation on Phallic Worship : The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant  grows in the water, among its broad leaves puts forth  a flower, in the centre of which is formed the seed vessel. shaped like a bell or inverted cone, and perforated on the  top with little cavities or cells, in which the seeds grow.  The orifices of these cells being too small to let the seeds  drop out when ripe, they shoot forth into new plants in  the places where they are formed : the bulb of the vessel  serving as a matrix to nourish them, until they acquire  such a degree of magnitude as to burst it open and release  themselves, after which, like other aquatic weeds, they  take root wherever the current deposits them. This  plant, therefore, being thus productive of itself, and  vegetating from its own matrix, without being fostered  in the earth, was naturally adopted as the symbol of the  productive power of the waters, upon which the active  spirit of the Creator operated in giving life and vegetation,  to matter. We accordingly find it employed in every  part of the northern hemisphere, where the symbolical  religion, improperly called idolatry, does or ever did prevail.  The sacred images of ihe Tartars, Japanese, and Indians  are almost placed upon it, of which numerous instances  occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat, etc. The Brahma of India is represented as sitting upon his  Lotus throne, and the figure upon the Isaaic table holds the  stem of this plant surmounted by the seed vessel in one  hand, and the Cross representing the male organs of  generation in the other ; thus signifying the universal  power, both active and passive, attributed to that goddess.”   Nimrod says : The Lotus is a well-known allegory,  of which the expansive calyx represents the ship of the  gods floating on the surface of the water ; and the erect  flower arising out of it, the mast thereof. The one was  the galley or cockboat, and the other the mast of cockayne ;  but as the ship was Isis or Magna Mater, the female  principle, and the mast in it the male deity, these parts of the flower came to have certain other significations, which  seem to have been as well known at Samosata as at Benares.  This plant was also used in the sacred offices of the Jewish  religion. In the ornaments of the temple of Solomon,  the Lotus or lily is often seen.”   The figure of Isis is frequently represented holding the  stem of the plant in one hand, and the cross and circle  in the other. Columns and capitals resembling the  plant are still existing among the ruins of Thebes, in  Egypt, and the island of Philce. The Chinese goddess,  Pussa, is represented sitting upon the Lotus, called in  that country Lin, with many arms, having symbols  signifying the various operations of nature, while similar  attributes are expressed in the Scandinavian goddess  Isa or Disa.   The Lotus is also a prominent symbol in Hindu and  Egyptian cosmogony. This plant appears to have the  same tendency with the Sphinx, of marking the connection  between that which produces and that which is produced.  The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the blue  Lotus, which plant is acknowledged to be the emblem of  celestial love so frequently seen mounted on the back of  Leo in the ancient remains. The following is a translation  of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,  and will be found interesting as showing the importance  attached to the Lotus in the worship of the ancients : We find Brahma emerging from the Lotus. The whole  universe was dark and covered with water. On this  primeval water did Bhagavat (God), in a masculine  form, repose for the space of one Calpho (a thousand  years) ; after which period the intention of creating  other beings for his own wise purposes became predominant in the mind of the Great Creator . In the first place, by his sovereign will was produced the flower  of the Lotus, afterwards, by the same will, was brought  to light the form of Brahma from the said flower ; Brahma,  emerging from the cup of the Lotus, looked round on all  the four sides, and beheld from the eyes of his four heads  an immeasurable expanse of water. Observing the whole  world thus involved in darkness and submerged in water,  he was stricken with prodigious amazement, and began  to consider with himself, ‘ Who is it that produced me ?  whence came I ? 9 ' and where ami? Brahma, thus kept two hundred years in contemplation, prayers, and devotions, and having pondered in  his mind that without connection of male and female an  abundant generation could not be effected  again entered  into profound meditation on the power of the Supreme,  when, on a sudden by the omnipotence of God, was  produced from his right side Swayambhuvah Menu, a man  of perfect beauty ; and from the Brahma’s left side a  woman named Satarupa. The prayer of Brahma runs  thus : O Bhagavat 1 since thou broughtest me from  nonentity into existence for a particular purpose,  accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a  short time a small white boar appeared, which soon  grew to the size of an elephant. He now felt God in all,  and that all is from Him, and all in Him. At length the  power of the Omnipotent had assumed the body of Vara.  He began to use the instinct of that animal. Having  divided the water, he saw the earth a mighty barren  stratum. He then took up the mighty ponderous globe  (freed from the water) and spread the earth like a carpet  on the face of the water ; Brahma, contemplating the  whole earth, performed due reverence, and rejoicing  exceedingly, began to consider the means of peopling the renovated world.” Pyag, now Allahabad, was the  first land said to have appeared, but with the Brahmins  it is a disputed point, for many affirm that Cast or Benares  was the sacred ground. MERU   The learned Higgins, an English judge, who for some  years spent ten hours a day in antiquarian studies, says  that Moriah, of Isaiah and Abraham, is the Meru of the  Hindus, and the Olympus of the Greeks. Solomon  built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which  because mounts of Venus, mons veneris  Meru and Mount  Calvary  each a slightly skull-shaped mount, that might  be represented by a bare head. The Bible translators  perpetuate the same idea in the word  calvaria.” Prof.  Stanley denies that  Mount Calvary ” took its name  from its being the place of the crucifixion of Jesus.  Looking elsewhere and in earlier times for the bare calvaria,  we find among Oriental women, the Mount of Venus,  mons veneris > through motives of neatness or religious  sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see  Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of  a priest. The priests of China, says Mr. J. M. Peebles,  continue to shave the head. To make a place holy,  among the Hindus, Tartars, and people of Thibet, it  was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni,  or Arba. LINGAM IN THE TEMPLE OF ELORA This marvellous work of excavation by the slow process  of the chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards  published a volume describing the temple and its vast  statues. The beauty of its architectural ornaments, the  innumerable statues or emblems, all hewn out of solid  rock, dispute with the Pyramids for the first place among  the works undertaken to display power and embody  feeling. The stupendous temple is detached from the  neighbouring mountain by a spacious area all round, and  is nearly 250 feet deep and 150 feet broad, reaching to the  height of 100 feet and in length about 145 feet. It has  well-formed doorways, windows, staircases, upper floors,  containing fine large rooms of a smooth and polished  surface, regularly divided by rows of pillars ; the whole  bulk of this immense block of isolated excavation being  upwards of 500 feet in circumference, and having beyond  its areas three handsome figure galleries or verandas  supported by regular pillars. Outside the temple are  two large obelisks or phalli standing,  of quadrangular  form, eleven feet square, prettily and variously carved, and  are estimated at forty-one feet high ; the shaft above the  pedestal is seven feet two inches, being larger at the base  than Cleopatra’s Needle.” In one of the smaller temples was an image of Lingam, covered with oil and red ochre, and flowers were daily  strewed on its circular top. This Lingam is larger than  usual, occupying with the altar, a great part of the room.  In most Ling rooms a sufficient space is left for the votaries  to walk round whilst making the usual invocations to the  deity (Maha Deo). This deity is much frequented by  female votaries, who take especial care to keep it clean washed, and often perfume it with oderiferous oils and  flowers, whilst the attendant Brahmins sweep the apartment  and attend the five oil lights and bell ringing.” This oil  vessel resembled the Yoni (circular frame), into which the  light itself was placed. No symbol was more venerated  or more frequently met with than the altar and Ling, Siva,  or Maha Deo.  Barren women constantly resort to it to  supplicate for children,” says Seeley. The mysteries  attended upon them is not described, but doubtless they  were of a very similar character to those described by the  author of the  Worship of the Generative Powers of  the Western Nations,” showing again the similarity of  the custom with those practised by the Catholics in France.  The writer says: Women sought a remedy for barrenness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they  appear to have placed a part of their body, naked, against  the image of the saint, or to have sat upon it. This latter  trait was perhaps too bold an adoption of the indecencies  of Pagan worship to last long, or to be practised openly ;  but it appears to have been innocently represented by  lying upon the body of the saint, or sitting upon a stone,  understood to represent him without the presence of the  energetic member. In a corner in the church of the  village of St. Fiacre, near Monceaux, in France, there is a  stone called the chair of St. Fiacre, which confers fecundity  upon women who sit upon it ; but it is necessary nothing  should intervene between their bare skin and the stone.  In the church of Orcival in Auvergne, there was a pillar  which barren women kissed for the same purpose and  which had perhaps replaced some less equivocal object.” The principal object of worship at Elora is the stone, so  frequently spoken of ;  the Lingam,” says Seeley, and he  apologises for using the word so often, but asks to be excused,  is an emblem not generally known, but as  frequently met with as the Cross in Catholic worship.”  It is the god Siva, a symbol of his generative character,  the base of which is usually inserted in the Yoni. The  stone is of a conical shape, often black stone, covered  with flowers (the Bella and Asuca shrubs). The flowers  hang pendant from the crown of the Ling stone to the  spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the same  as the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly  used in the worship at the symbol, or one lamp with five  wicks. The Lotus is often seen on the top of the Ling.VENUS-URANIA. THE MOTHER GODDESS  The characteristic attribute of the passive generative  power was expressed in symbolical writing, by different  enigmatical representations of the most distinguished  characteristic of the female sex : such as the shell or  Concha Veneris, the fig-leaf, barley corn, and the letter  Delta, all of which occur very frequently upon coins and  other ancient monuments in this sense. The same  attribute personified as the goddess of Love, or desire,  is usually represented under the voluptuous form of a  beautiful woman, frequently distinguished by one of these  symbols, and called Venus, Kypris, or Aphrodite, names  of rather uncertain mythology. She is said to be the  daughter of Jupiter and Dione, that is of the male and  female personifications of the all-pervading Spirit of the  Universe ; Dione being the female Dis or Zeus, and therefore associated with him in the most ancient oracular temple of Greece at Dodona. No other genealogy appears  to have been known in the Homeric times ; though a  different one is employed to account for the name of  Aphrodite in the  Theogony ” attributed to Hesiod.   The Genelullides or Genoidai were the original and  appropriate ministers or companions of Venus, who was  however, afterwards attended by the Graces, the proper  and original attendants of Juno ; but as both these  goddesses were occasionally united and represented in  one image, the personifications of their respective subordinate attributes were on other occasions added :  whence the symbolical statue of Venus at Paphos had a  beard, and other appearances of virility, which seems to  have been the most ancient mode of representing the  celestial as distinguished from the popular goddess of that  name  the one being a personification of a general  procreative power, and the other only of animal desire or  concupiscence. The refinement of Grecian art, however,  when advanced to maturity, contrived more elegant  modes of distinguishing them ; and, in a celebrated work  of Phidias, we find the former represented with her foot  upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of Scopas,  the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an  androgynous animal, was aptly chosen as a symbol of  the double power ; and the goat was equally appropriate  to what was meant to be expressed in the other.   The same attribute was on other occasions signified by a  dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the  polypus, which often appears upon coins with the head  of the goddess, and which was accounted an aphrodisiac,  though it is likewise of the androgynous class. The fig  was a still more common symbol, the statue of Priapus  being made of the tree, and the fruit being carried with the Phallus in the ancient processions in honour of Bacchus,  and still continuing among the common people of Italy  to be an emblem of what it anciently meant : whence  we often see portraits of persons of that country painted  with it in one hand, to signify their orthodox elevation to  the fair sex. Hence, also arose the Italian expression far la  fica, which was done by putting the thumb between the  middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic ornaments extant ; or by putting the finger or thumb into the  corner of the mouth and drawing it down, of which there  is a representation in a small Priapic figure of exquisite  sculpture, engraved among the Antiquities of Herculaneum. LIBERALITY AND SAMENESS OF THE  WORLD-RELIGIONS   The same liberal and humane spirit still prevails among  those nations whose religion is founded on the same  principles.  The Siamese,” says a traveller of the  seventeenth century,  shun disputes and believe that  almost all religions are good Journal du Voyage de  Siam. When the ambassador of Louis XIV asked their  king, in his master’s name, to embrace Christianity, he  replied,  that it was strange that the king of France  should interest himself so much in an affair which concerns  only God, whilst He, whom it did concern, seemed to  leave it wholly to our discretion. Had it been agreeable  to the Creator that all nations should have had the same  form of worship, would it not have been as easy to His  omnipotence to have created all men with the same send- merits and dispositions, and to have inspired them with the  same notions of the True Religion, as to endow them with  such different tempers and inclinations ? Ought they  not rather to believe that the true God has as much pleasure  in being honoured by a variety of forms and ceremonies,  as in being praised and glorified by a number of different  creatures ? Or why should that beauty and variety,  so admirable in the natural order of things, be less  admirable or less worthy of the wisdom of God in the  supernatural ? The Hindus profess exactly the same opinion.  They  would readily admit the truth of the Gospel,” says a very  learned writer long resident among them,  but they  contend that it is perfectly consistent with their Shastras.  The Deity, they say, has appeared innumerable times in  many parts of this world and in all worlds, for the salvation  of his creatures ; and we adore, they say, the same God, to  whom our several worships, though different in form, are  equally acceptable if they be sincere in substance.”   The Chinese sacrifice to the spirits of the air the  mountains and the rivers ; while the Emperor himself  sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom all  these spirits are subordinate, and from whom they are  derived. The sectaries of Fohi have, indeed, surcharged  this primitive elementary worship with some of the  allegorical fables of their neighbours ; but still as their  creed  like that of the Greeks and Romans  remains  undefined, it admits of no dogmatical theology, and of  course no persecution for opinion. Obscure and  sanguinary rites have, indeed, been wisely prescribed on  many occasions ; but still as actions and not as opinions.  Atheism is said to have been punished with death at  Athens ; but nevertheless it may be reasonably doubted Phallic Worship  whether the atheism, against which the citizens of that  republic expressed such fury, consisted in a denial of the  existence of the gods ; for Diagoras, who was obliged  to fly for this crime, was accused of revealing and calumniating the doctrines taught in the Mysteries ; and from  the opinions ascribed to Socrates, there is reason to believe  that his offence was of the same kind, though he had not  been initiated. These were the only two martyrs to religion among the  ancient Greeks, such as were punished for actively violating  or insulting the Mysteries, the only part of their worship  which seems to have possessed any vitality ; for as to  the popular deities, they were publicly ridiculed and  censured with impunity by those who dared not utter a  word against the populace that worshipped them ; and  as to the forms and ceremonies of devotion, they were  held to be no otherwise important, then as they were  constituted a part of civil government of the state ; the  Phythian priestess having pronounced from the tripod,  that whoever performed the rites of his religion according to the  laws of his country, performed them in a manner pleasing to the  Deity . Hence THE ROMANS made no alterations in the  religious institutions of any of the conquered countries ;  but allowed the inhabitants to be as absurd and extravagant  as they pleased, and to enforce their absurdities and  extravagances wherever they had any pre-existing laws  in their favour. An Egyptian magistrate would put  one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora  monkey ; and though the religious fanaticism of the  Jews was too sanguinary and too violent to be left entirely  free from restraint, a chief of the synagogue could order  anyone of his congregation to be whipped for neglecting  or violating any part of the Mosaic Ritual. The principle underlying the system of emanations  was, that all things were of one substance, from which they  were fashioned and into which they were again dissolved,  by the operation of one plastic spirit universally diffused  and expanded. The polytheist ot ancient Greece and  Rome candidly thought, like the modern Hindu, that all  rites of worship and forms of devotion were directed  to the same end, though in different modes and through  different channels. <c Even they who worship other gods, says  Krishna, the incarnate Deity, in an ancient Indian poem  ( 'Bhagavat-Gita ), c< worship me although they know it not.   Knight.  Giorgio Colli. Colli. Keywords: espressione,  L’Apollo romano, L’appollo d’etruria, La mesura d’Apollo, la dismisura di Bacco; l’enigma filosofico, Bacco, Nietzsche, Girgentu, Velia, Crotone, Gorgia, Zenone di Velia, l’implicatura di Prosimno, l’implicatura di Bacco e Prosimno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colli: l’implicatura di Bacco e Prosimno”, misterio bacchico, bacchic mystery, the fig tree branch, phallus, self-sacrifice, self-sodomisation, not without pain, even with pleasure – Higinus., symbolism, the old shepherd erastes eromenos, Bacchus eromenon, the symbolism of the promise, to rescue her mother from hell the role of the widow, female widow, Bacco’s duty to keep his promise. The echo of the sentence, ‘you probably passed it’ – ‘the lake’ the grave. Colli.

 

Luigi Speranza -- Grice e Collini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del naturismo -- naturalismo e naturismo – scuola di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana.  Grice: “If you love birds, you love Collini – he loved ‘pterodattili,’ though and made nice drawings of them, as they fought with ‘uomini’!” Discendente di una nobile famiglia, studia a Pisa. Si trasferì a Coira. Collini venne descritto come scontroso, spesso in litigio. A lui si deve la descrizione dello pterodactylus, un rettile volante, o pterosauro o pterodattilo. Denuncia il fanatismo durante le guerre rivoluzionarie francesi in Europa. Grice: “I often wondered why the conte would flee his family seat in lovely Tuscany for the darker landscapes of the North – till I found out the reason: he had helped one of his noble friends (Ottavio) to do some evil-act on a nobile gentildonna (Malspina): so he had no choice!”. Altro Italiano non ricordato dal Lucchesini, forse perchè assai più tardi aggregato all'Accademia, è C. Narra il Denina che, mentre ea Pisa, aiuta a Domenico Eusebio Chelli, da famglia civile di Livorno, nel ratto della marchesa Gabbriella Malaspina, sicchè dovette fuggirsene. Dopo essersi fermato a Coira, va a Berlino raccomandato da una signora M. (egli stesso non ne dà che l’iniziale) abitante in Firenze, amica di famiglia e sorella della Barberina. Accolto da questa, ormai signora Coccei, con molta benevolenza, attesea studiare, e con baldanza, quando Voltaire venne a Berlino, si presenta a lui, che lo riceve amorevolmente dicendogli, la Toscana è stata una nuova Atene e i toscani sono stati i nostri maestri. Gli si raccomandò per trovare un'occupazione e n’ebbe lusinghiere promesse. Ma il tempo scorreva e il conte ha fretta, sicchè pensa di valersi, oltre che della ballerina, anche di una celebre cantante, l’Astrua, che gli ottenne il posto di segretario dello stesso Voltaire. Stette con lui copiando i suoi lavori e leggendogli la sera il Boccaccio e l'Ariosto – l’uno pienamente con tento dell'altro. “Mon secrétaire», scrive il Voltaire al Thiriot, “est un florentin, très-aimable, tres-bien né, et qui merite, mieux que moi, d'être de l'Académie della Crusca. È compagno al FILOSOFO poeta anche nella sua fuga dalla Prussia e nelle sue pe regrinazioni e vicissitudini per la Germania, la Francia e la Svizzera. Ma nper una lettera nella quale scherzava su mad. Denis, si separa da Voltaire, che tuttavia continua a volergli bene e a corrisponder con lui; e sulle raccomandazioni del Voltaire passa al servizio dell'elettor palatino, che lo fece suo bibliotecario e segretario dell'Accademia di Mannheim. Scrive saggi sulla storia della Germania e su quella del Palatinato, ma più ch'altro di mineralogia. È lodato anche un suo volume di Lettres sur les Allemands, pubblicato anonimo a Mannheim, cui un altro dove seguirne sulla letteratura tedesca. E là dove aveva trovato una seconda patria e una onorevole residenza, mori nel 1806. All'Accademia,alla quale forse furono ascritti anche altri Ita liani oltre quelli ricordati qui e più addietro,e cui è da aggiun gere G. B. Morgagni (3), si riferisce questo brano di lettera del [C. stesso nel suo Mon séjour auprès de Voltaire et Lettres inédites que m'écrivit cet homme célèbre,ecc.,Paris,Collin, confessa la fuga dalla patria e dalla famiglia, m a ne dà per m o tivo una giovanile vaghezza di conoscere il mondo e gli uomini. L'esemplare tipo dell'animale ora conosciuto come Pterodactylus antiquus è stato uno dei primi fossili di pterosauro scoperti e il primo ad essere identificato. Il primo esemplare di Pterodactylus fu descritto dallo scienziato italiano C., sulla base di un scheletro fossile, portato alla luce dai calcari di Solnhofen, di Baviera. C. è il curatore della Naturalien Kabinett, o camera delle meraviglie -- l'antenato del moderno concetto di Museo di Storia Naturale -nel palazzo di Carlo Teodoro, elettore di Baviera, a Mannheim. Il campione è stato affidato alla raccolta, dal conte Friedrich Ferdinand zu Pappenheim, dopo essere stato recuperato da un calcare litografico nella cava di Eichstätt, La data effettiva della scoperta e l'ingresso del campione nella collezione è sconosciuto. Non è stato menzionato in nessun catalogo della collezione, quindi deve essere stato acquistato nell’anno della descrizione di C.. Ciò potrebbe rendere il fossile il primissimo pterosauro descritto. È descritto una seconda specie chiamata Pterodactylus micronyx -- oggi conosciuto come Aurorazhdarcho micronyx --- che però è stata inizialmente scambiata per un fossile di crostaceo.  Ricostruzione di Wagler su uno stile di vita acquatico per Pterodactylus C., nella sua prima descrizione del campione di Mannheim, conclude che si tratta di un animale volante. In realtà, C. non riusciva a capire di che tipo di animale si tratta, ma lo accosta ad uccelli e pipistrelli, per via di alcun affinità anatomiche. Più avanti lo stesso C. ipotizzò addirittura che potesse trattarsi di un animale acquatico. Tale ipotesi non venne avanzata su rigori scientifici ma su una supposizione di C. che pensa che le profondità dell'oceano potevano ospitare animali stravaganti. L'idea che gli pterosauri sono animali marini persiste ancora in una minoranza di scienziati tra cui Wagler, che pubblica nel suo "Anfibi", un articolo che vede gli pterosauri come animali marini con ali disegnate come pinne, ispirandosi ai moderni pinguini. Wagler si spinse fino a classificare lo Pterodactylus, insieme ad altri vertebrati acquatici (come plesiosauri, ittiosauri e monotremi), nella classe “Gryphi”, tra uccelli e mammiferi. Prima ricostruzione di uno pterosauro al mondo ad opera di Hermann. È Hermann che per primo dichiara che il lungo quarto dito della mano dello Pterodactylus vienne usato per sostenere una membrana alare. Hermann è allertato da Cuvier dell'esistenza del fossile di C., che è stato catturato dagl’eserciti di occupazione di Napoleone e inviato alle collezioni francesi a Parigi, come bottino di guerra. In seguito alcuni commissari politici francesi sequestrarono i tesori d'arte e gli oggetti di valore scientifico. Hermann in seguito invia una lettera a Cuvier, dove vi è scritta la sua interpretazione del fossile (anche se lui non aveva esaminato personalmente), dichiarando che l'animale dove trattarsi di un mammifero, e invia anche una bozza di come doveva apparire in vita l'animale. È la prima ricostruzione per uno pterosauro. Hermann disegna l'animale con una membrana alare che si estendeva dalla fine del quarto dita fino alle caviglie e ricoperto da pelliccia -- all'epoca il fossile non presenta ne segni di membrana alare ne di pelliccia. Hermann nel suo schizzo aggiunge anche una membrana tra il collo ed il polso, come quella presente oggi nei pipistrelli. Cuvier d'accordo con questa interpretazione, e su suggerimento di Hermann, pubblica questa nuova descrizione. In uno scritto Cuvier dichiara che non è possibile mettere in dubbio che il lungo dito serve a sostenere un membrana che, allungandosi all'estremità anteriore di questo animale, forma una buona ala. Tuttavia, contrariamente a Hermann, Cuvier è convinto che l'animale fosse un rettile.  In realtà l'esemplare non è stato sequestrato dai francesi. Infatti, dopo la morte di Carlo Teodoro, il fossile è portato a Monaco di Baviera, dove Moll ottene un'esenzione generale della confisca per le collezioni bavaresi. Cuvier chiede a Moll il permesso di studiare il fossile, ma è informato che il pezzo non è trovato. Cuvier pubblicò una descrizione un po' più a lunga, in cui l'animale vienne chiamato "Ptero-dactyle" e confuta l'ipotesi di Blumenbach, che sostene che l'animale è un uccello marino.   Ricostruzione inesatta di P. brevirostris, da parte di Von Soemmerring. Contrariamente a rapporto di von Moll, il fossile non è mancata; fu oggetto di studio da parte di Samuel Thomas von Sömmerring, che tenne una conferenza pubblica sul fossile il 27 dicembre 1810. Nel mese di gennaio del 1811, von Sömmerring scrisse una lettera al Cuvier deplorando il fatto che era da poco stato informato della richiesta di Cuvier per informazioni. La sua conferenza fu pubblicata nel 1812, e in essa von Sömmerring diede alla creatura il nome di Ornithocephalus antiquus. Qui l'animale fu descritto come un mammifero simile ad un pipistrello ma con caratteristiche da uccello. Cuvier in disaccordo con tale descrizione, lo stesso anno fornì una lunga descrizione nella quale ricordò che l'animale era in realtà un rettile.[24] È rinvenuto un secondo esemplare di Pterodactylus, ancora una volta a Solnhofen. Questo esemplare rappresentato da un giovane fu descritto nuovamente da von Soemmerring, come Ornithocephalus brevirostris, per via del muso corto, avendo tuttavia capito che si trattava di un esemplare più giovane (oggi si sa che questo fossile appartiene ad un altro genere di pterosauro, probabilmente un Ctenochasma). Von Sommerring fornì anche uno schizzo dello scheletro[9] che in seguito si rivelò essere sbagliato e impreciso, in quanto von Soemmerring aveva scambiando il metacarpo per le ossa del braccio inferiore, il braccio inferiore per l'omero, il braccio superiore per lo sterno e lo sterno per una scapola. Tuttavia Soemmerring rimase per sempre fedele alla sua idea dello Pterodactylus. Lo avrebbe sempre immaginato come un animale simile ad un pipistrello, anche se a seguito di alcune ricerche nel 1860 ammise che l'animale era un rettile. Tuttavia l'immaginario collettivo dell'animale rimaneva quello di una creatura quadrupede, goffa a terra, ricoperta di pelo, a sangue caldo e con una membrana alare che si attaccava alle caviglie.[26] In epoca moderno alcuni di questi elementi sono stati confermati, alcuni smentiti, mentre altri rimangono ancora oggi in discussione.  Paleobiologia Classi d'età  Esemplare giovane di P. antiquus Come molti altri pterosauri (in particolare il Rhamphorhynchus), l'aspetto degli esemplari di Pterodactylus varia a seconda dell'età e in base al livello di maturità. Le proporzioni di entrambe le ossa degli arti, le dimensioni e la forma del cranio e le dimensioni e il numero dei denti possono stabilire a quale classe di età appartiene l'animale. In passato queste differenze morfologiche hanno portato a credere che si trattassero di specie distinte con caratteristiche anatomiche differenti. Recenti studi più dettagliati e che utilizzano nuovi metodi per misurare le curve di crescita degli esemplari noti, hanno stabilito che in realtà vi è un'unica specie di Pterodactylus ritenuta valida ossia, P. antiquus. Il più giovane e immaturo campione di P. antiquus (da alcuni interpretato come facente parte di una seconda specie chiamata Pterodactylus kochi) possiede pochi denti e i pochi che possiede hanno una base relativamente ampia. I denti di altri esemplari di P. antiquus hanno denti più stretti e numerosi (fino a 90).Tutti i campioni di Pterodactylus possono essere suddivisi in due diverse classi di età. Nella prima classe, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 15 ai 45 millimetri di lunghezza. Nella seconda classe, invece, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 55 ai 95 millimetri di lunghezza, ma sono ancora immaturi. Questi due primi gruppi di dimensione erano a loro volta classificati come giovani e adulti della specie P. kochi, fino a che un nuovo studio ha dimostrato che anche quelli che si credevano "adulti" erano comunque esemplari immaturi, e probabilmente appartengono ad un genere distinto. Una terza classe è rappresentata da esemplari specie tipo P. antiquus, così come un paio di grandi esemLplari isolati, una volta assegnati a P. kochi che si sovrappongono P. antiquus per dimensioni. Tuttavia, tutti i campioni di questa terza classe mostrano anche segni di immaturità. L'aspetto degli esemplari completamente maturi di Pterodactylus esemplari rimane tuttora sconosciuto, oppure potrebbero essere stati erroneamente classificati come un genere diverso. Crescita e riproduzione  Bacino fossile di un grande esemplare, riferito alla dubbia specie P. grandipelvis Le classi di crescita degli esemplari di P. antiquus mostrano che questa specie, come il contemporaneo Rhamphorhynchus muensteri, probabilmente allevava i piccoli in determinate stagioni e questi crescevano costantemente durante tutta la vita. Quindi la riproduzione e il conseguente allevamento dei cuccioli avveniva ad intervalli regolari e probabilmente in ogni stagione. Molto probabilmente poco dopo la nascita i cuccioli erano già in grado di volare ma dipendevano ancora dai genitori per la nutrizione. Questo modello di crescita è molto simile a quello dei moderni coccodrilli, piuttosto che alla rapida crescita dei moderni uccelli. Stile di vita Dal confronto tra gli anelli sclerali di P. antiquus con quelli di moderni uccelli e rettili si è scoperto che lo Pterodactylus aveva uno stile di vita diurno. Questo coinciderebbe con la sua nicchia ecologica, che lo vedrebbe come un predatore simile all'odierno gabbiano, evitando inoltre la competizione con altri pterosauri suoi contemporanei che in base agli anelli sclerali sono stati giudicati notturni, come il Ctenochasma e il Rhamphorhynchus. Paleoecologia Durante la fine del Giurassico, l'Europa era un arcipelago asciutto e tropicale ai margini del mare Tetide. Il calcare fine, in cui gli scheletri di Pterodactylus sono stati ritrovati, è stato formato dalla calcite delle conchiglie e degli organismi marini. Le varie aeree tedesche dove sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus erano lagune situate tra le spiagge e le barriere coralline delle isole europee Giurassiche nel Mare Tetide. I contemporanei di Pterodactylus, includono l'avialae Archaeopteryx lithographica, il compsognatide Compsognathus, svariati pterosauri come Rhamphorhynchus muensteri, Aerodactylus, Ardeadactylus, Aurorazhdarcho, Ctenochasma e Gnathosaurus, il teleosauride Steneosaurus sp., l'ittiosauro Aegirosaurus, e i metriorhynchidi Dakosaurus e Geosaurus. Gli stessi sedimenti in cui sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus hanno riportato alla luce anche diversi fossili di animali marini quali pesci, crostacei, echinodermi e molluschi marini, confermando l'habitat costiero di questo pterosauro. L'enorme biodiversità di pterosauri presenti nei Calcari di Solnhofen, indica che quest'ultimi si erano differenziati tra di loro occupando ogni possibili nicchia ecologica disponibile. Fischer von Waldheim, Zoognosia tabulis synopticus illustrata, in usum praelectionum Academiae Imperialis Medico-Chirurgicae Mosquenis edita. 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Natural History Museum of Los Angeles County and University of Washington Press, Seattle and London ^ Wellnhofer, Die Pterodactyloidea (Pterosauria) der Oberjura-Plattenkalke Siiddeutschlands. Bayerische Akademie der Wissenschaften, Mathematisch-Wissenschaftlichen Klasse, Abhandlungen, Schmitz, L.; Motani, R., Nocturnality in Dinosaurs Inferred from Scleral Ring and Orbit Morphology, in Science, Weishampel, D.B., Dodson, P., Oslmolska, The Dinosauria (Second ed.). University of California Press. Biografia Steve Parcker John Malam, Dinosauri e altre creature preistoriche. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Pterodactylus Collabora a Wikispecies Wikispecies contiene informazioni su Pterodactylus Collegamenti esterni (EN) Pterodactylus, su Enciclopedia Britannica. Pterodactylus, su Fossilworks.org.  Biologia Portale Biologia Paleontologia Portale Paleontologia Rettili Portale Rettili Categoria: Pterosauri.  Syncretism and Style Hypnerotomachia Poliphili and the Italian Renaissance Garden. Most of the history of Western philosophy and theology from Parmenides through H^el has attempted to resolve the inherent contradictions between sensation and cognition, \Tsibih- ty and ideahrt'. However, the paradoxes, antinomies, and incon- gruities that arise in this quest f)erennially inform numerous paradigms that underUe the history of art and ideas. This study promenade through the landscapes and gardens, paintings and poems that have inspired meproposes a sketch of the implications of such poh'semic and equivocal conventions as the\- relate to the histor)' of landscape architectiu-e. The origin of modem European landscape architecture vs-as contemp>oraneous with the rediscover)' of the beaut)' of nature in the early Renaissance. In The Civilization of the Renaissance in Italy, Burckhardt describes this paradigm shift in the perception of the external world, the moment in which the distant Wew, the "land- scape" proper, was first valorized: But the unmistakable proob of a deepening effect of nature on tbe human spirit began with Dante. Not only does he awaken in us by a few \-igorous lines the sense of the morning airs and the trembling light on the distant ocean, or of the giandeur of the stoim-beaten torest, but he makes tbe ascent of k)fty peaks, with the only possible obfect of en^vying the viewthe first man, peihaps, since the days of antiquity who did so.' This appreciation of natural beauty, couched in the poetry of the sublime, was further instantiated in the work of PETRARCA, often cited as the first humanist, indeed the first "mod- ern" man. His relation to the landscape was intense and manifold, poetic and practical, as he was a gardener whose favorite site of med- itation was his own gardens at Fontaine-de-Vaucluse. He describes them in one of his letters: I made two gardens for myself: one in the shade, appropriate for my studies, which I called my transalpine Parnassus; it slopes down to the river Sorgue, ending on inaccessible rocks which can only be reached by birds. The other is closer to the house, less wild, and situated in the middle of a rapid river. I enter it by a litde bridge leading from a vaulted grotto, where the sun never penetrates; I believe that it resembles that small room where CICERONE some- times went to recite; it is an invitation to study, to which I go at noon.^ Two gardens, one for each side of his temperament, inspired either reverie or melancholy; two gardens, one for each extreme of nature, extensive and picturesque or protective and chthonic; two gardens, one leading towards the empirical, the other towards the spiritual. For PETRARCA, as for CICERONE, his predecessor in literature and garden- ing, the landscape was a major source of inspiration, both literary and empirical; for while these gardens evoked the great sites of clas- sic culture, they also constituted a rudimentary botanical laboratory and collection, where Petrarch experimented with different varieties of plants according to meteorological and astrological conditions, geographic placement, seasonal growTih, and so forth. He also used these gardens to amass collections of rare plants. As Gaetane Lamarche-Vadel demonstrates in Jardins secrets de la Renaissance, such secret gardens, "appertain to the double register of the fictive and the real, the physical and the mystic; they echo with the adam- ic garden, the paradigmatic place and origin from which gardens draw their spiritual energy. It is precisely for this reason that the study of gardens necessitates formal, cultural, and psychological analyses: the symbolic significance of any garden is derived from, yet surpasses, its formal characteristics, and can only be grasped in relation to the artistic works that both inspired and were inspired by the site. Petrarch's most celebrated consideration of the landscape is the description of his ascent of Mont Ventoux, recounted in a letter to Dionisio da Borgo San Sepolcro, written in 1336. In this text, he explains the reason for this difficult ascent: "My only motive was the wish to see what so great an elevation had to offer."4 Though inspired by literary motivesspecifically, the tale in Livy's History of Rome^zx recounts Philip of Macedon's ascent of Mount Haemus in Thessaly, with its attendant viewsthe experience shifted from the literary to the sensory, where revelation becomes visual. Indeed, the subsequent history of landscape architecture often reveals mythical tales, literary inspirations, and pictorial models behind the creation of gardens; here, Petrarch's visionis already predisposed to concep- tual density by being couched in myth and history. "At first, owing to the unaccustomed quality of the air and the effect of the great sweep ofviewspread out before me, I stood like one dazed. I beheld the clouds under our feet, and what I had read of Athos and Olympus seemed less incredible as I myself witnessed the same things from a mountain of less fame."^ The force of the poet's vision surpasses all previous literary descriptions. Is it the poet's unique, hyperbolic sensibility, or the inherent magnificence of nature, that is at work here? Or is there a third term that mediates the poetic imagination and the natural world? The letter continues with a detailed appreciation of the mul- tiplicity and uniqueness of the natural world Petrarch witnessed, until the moment he realizes, in a flash of intuition, that the ascent of the body must be accompanied by a concomitant ascent of the soul. Thus, opening a copy of Augustine's Confessions he had with him, he felicitously chanced upon the following passage: "And men go about to wonder at the heights of the mountains, and the mighty waves of the sea, and the wide sweep of the rivers, and the circuit of the ocean, and the revolution of the stars, but themselves they consider not."^ This is the ironic moment of revelation, where experience becomes allegory and visibility becomes a metaphor for spirituality: I dosed the book, angry with myself that I should still be admiring earthly things who might long ago have learned from even the pagan philosophers that nothing is wonderftil but the soul, which, when great itself, finds noth- ing great outside itself. Then, in truth, I was satisfied that I had seen enough of the mountain; I turned my inward eye upon myself, and from that time not a syllable fell from my lips until we reached the bottom again. The three major realms that informed early humanist sensibility were thus interwoven in an allegory of spiritual revelation: inspira- tion from antiquity, sensitivity to nature, and salvation within Christianity. Certain technical, mathematical, and financial consider- ations would be added to these preconditions to localize and system- atize such apperceptions in the creation of the Italian Renaissance garden. The consequent transmigration and intercommunication of symbols and allegories would henceforth enrich all the arts, radical- ly impelling some of them towards their modern forms.^ Within these rubrics, the major influences on the Renaissance transformation of man's relation to nature could be schematized as follows. The theological revolution of Francis of Assisi redeemed nature's state of grace. His "Canticle of Creatures"indeed, every act of his lifeexpressed a mystical rela- tion to a cosmos in which all nature was a reflection of God; thus nature itself was the foundation of spiritual values. As Cassirer explains in The Individual and the Cosmos in Renaissance Phibsophy, a book that will serve as a metaphysical guide to the current study: With his new. Christian ideal of love, Francis of Assisi broke through and rose above that dogmatic and rigid barrier between "nature" and "spirit." Mystical sentiment tries to permeate the entirety of existence; before it, barriers of par- ticularity and individualization dissolve. Love no longer turns only to God, the source and the transcendent origin of being; nor does it remain confined to the relationship between man and man, as an immanent ethical relation- ship. It overflows to all creatures, to the animals and plants, to the sun and the moon, to the elements and the natural forces. In this unscholastic "nature mysticism" we find one of the origins of Western ecological and environmental thought. (Indeed, Pope John Paul 11 proclaimed Francis the patron saint of ecologists.) Yet, more immediately, he not only redeemed the state of nature in a postlapsarian world, but praised naturespecifically the picturesque and fertile central Italian landscape of Umbriawith a glorious and beatific lyricism that has inspired those who would transform nature according to human desire and volition into a new form that would become the "humanist" garden. Yet the major paradigm at work in establishing new ways of experiencing and re-creating the landscape did not stem from theo- logical transformations; rather, they arose from the rediscovery of antiquity and the consequent valorization and appropriation of pagan mythology. This is especially the case insofar as such myths express a profound connection to the natural world, as evidenced most notably in OVIDIO (si veda)’s Metamorphosis, Apuleius's The Golden Ass, Virgil's Eclogues and Georgics, and the writings of Pliny, Cicero, and Horace, with the latter's crucial notion of ut pictura poesis. The rise of a new literary scenarization accounted for the expression of a spe- cific sense of place within nature such that the genius A?a would once again have a voice, as in ALIGHIERI (si veda)’s Inferno, BOCCACCIO (si veda)’s Decameron (describing the Villa Palmieri near Florence), Erasmus's Convivium religiosum, and especially in Petrarch, for whom, as Cassirer notes: "The lyrical mood does not see in nature the opposite of physical reality; rather it feels everywhere in nature the traces and the echo of the soul. For Petrarch, landscape becomes the living mirror of the Ego."^° If one were to formulate this sensibility in relation to the his- tory of landscape architecture, it might be said that the new form of garden is no longer delimited by either cloister walls or restricted cosmological symbolism (the latter allegorically corresponding to the medieval hortus conclusus, or closed garden), but rather by the limits of the imagination responding to the very act of human per- ception. Rather than serving as a static allegorical form, the garden reveals the dynamic, creative relation between humanity and nature. The view shifts from the interior (the cloister, the soul) to the exte- rior, encompassing not only the ambient scene, but also distant views; space is no longer treated as metaphoric, but is revealed in its localized and particularized reality. Nature incarnate, in its vast mul- tiplicity, offers sites of pleasure and wonder, terror and aweprefig- uring the fiiture aesthetic distinctions of the picturesque, the beau- tifiil, and the sublime. Coincident with this new sensibility was the development of a system of pictorial representationthe quattrocento rediscovery and refinement of linear perspectivethat both drew upon and informed the multifarious Renaissance modes of appreciating the landscape." The intersection of mathematics, technology, and aes- thetics in perspectival representations constitutes a major structure that articulates the reciprocal influences between landscape, garden, literature, and painting, one that marlcs the subsequent history of landscape architecture. Here, the varied and often incompatible beauties (ancient and modern) of nature and painting interacted and enriched each other's iconographies. Specifically, three works of ALBERTI (si veda) codified the intricate interrelations between perspective and vision, pictorial representation and landscape architecture: Delgoverno delta famiglia (c. 1430), a treatise on family life that celebrated the advan- tages of country living, thus instilling a taste for gardens and the landscape; Delia pittura (1436), which codified the system of linear perspective; and De re aedificatoria, which, in establishing "rational" architectural rules based on ancient models (notably Vitruvius), necessarily dealt with the question of gardens and sites, with a particular attention to and fondness for the Italian land- scape.^^ For Alberti, the most important aspect of choosing a build- ing site was a sloping terrain with open perspectives from which the countryside could be seen. Though the view into the garden was protected by enclosures, the slope of the terrain established views of the distant landscape. Furthermore, the garden was conceived in direct relationship with the villa as a sort of prolongation of the architecture, thus bringing the outdoors in, all the while linking the cultivated garden with the wild spaces beyond to establish an archi- tectonic continuity between the natural and the human realms. Such strategies, both structural and narrative, offer a dynamic, com- plex synthesis linking the constructed, geometrized spaces of habita- tions with the non-geometric, organic realms of the natural world. Alberti's text proffers many of the characteristics of the humanist gardens of the Italian Renaissance:'^ the use of perspective in the deployment of objects and space, grottos and the "secret garden," symmetrical plantings, groves, clipped and sculpted plants (topiary and espalier), architectural details, and statues of mytho- logical figures as invocations of ancient culture, surprise effects caused by both perspectival and technical means, and especially the myriad uses of waterfountains, pools, canals, panerres, troughs, water staircases and theaters, hydraulic organs and automata, even artificial rain and water jokes {giochi d'acqua). It was through the use of water that both illusion and motion were introduced into land- scaf)e architecture, creating the sort of instability, surprise, and evanescence that would become central to the baroque sensibility, with its taste for motion, dematerialization, dissimulation, and contradiction.'** This irmiijdng of artifice, theatricality, and nature was well expressed in that epoch by the sixteenth-century philosopher JacofK) Bonfadio, influenced by Petrarch: "I have done much that nature, combined with an, has turned into artifice. From the two has emerged a 'third nature,' to which I can give no name."'' Such a "third nature" might well be a synonym of the garden itself, for how- ever "natural" a garden may be (as in the ideal of the eighteenth-cen- tury EngUsh garden, where the desire to dissimulate all artifice estab- hshed a simulacrum of wild nature), its forms always evince aesthetic, even painterly, paradigms (even true for the notion of "vir- gin" nanire in the North American landscape, as will be explored in a subsequent chapter). Yet this "third nature" is never a purely for- mal artifact: it is always enmeshed in both philosophical and narra- tive systems, as exemplified by Petrarch's appreciation of the land- scape. Henceforth, the history of landscape architecture will entail the intertwining and hybrid histories of poetry, literature, philoso- phy, painting, sculpnire, architecture, surveying, hydrauhcs, and botany. In order to grasp the conceptual and cultural systems that influenced the sensibilities, as well as the forms, that underlie the Italian Renaissance humanist garden, a synopsis of the philosophical trajectory of the Platonic ACCADEMIA of Florence, found- ed by FICINO under the auspices of the Medici, is in order. The principal foundational tenets of Renaissance ontology and epis- temology were expressed by Nicholas Cusanus in De docta ignorantia, the initial systematic philosophical study that began to modify the relatively rigid and often dogmatic closure and hairsplitting of medieval scholasticism. According to medieval thought, the closed, ordered, hierarchical universe, that "great chain of being" of ecclesiastic Aristotelianism, was one with a moral and religious systemof judgment and salvation in which the role of epis- temology was a ftmction of man's limited place in that system.'^ Though Cusanus's writings never called the theological foundation of this system into question, they did entail a radical epistemologi- cal shift, insofar as the relation between absolute divinity and finite humanity was no longer taken as dogmatically posited, but was rather analyzed according to human limitations. This revision of the ontological ratio between the absolute and the empirical implies an indeterminable conceptual relation to infinity. Cusanus's key princi- pleexpanding on certain nominalist analysesis that there exists no possible proportion between the finite and the infinite, thus loos- ening the bond that had held together scholastic theology and logic within a homogeneous system. As a result of this separation of realms (human from divine, relative from absolute infinity), the syl- logistics of speculative theology and metaphysics would henceforth become disciplines distinct from logic and mathematics, prefiguring the materialistic quest for a universal systematization of knowledge that culminated in the ideal of the Cartesian mathesis universalis. The amor Dei intellecttmlis (the intellectual component of the love of God, prefiguring the notion of "Platonic love" that inspired the neoplatonism of the Florentine Academy) established a new mystical theology. Yet, by strictly delimiting such mysticism to its proper the- ological domainthe ultimately unknowable realm of the dens absconditus, the hidden godthe ftiture development of the worldly sciences would not be impeded. Theology and mathematics would henceforth proffer incompatible yet complementary worldviews. Central to this speculation is the principle of the docta ignorantia, a "learned ignorance" based not on passive mystical con- templation but on active mathematical thought, revealing the unknowable nature of divinity, which can only be expressed in con- tradiction and antithesis. This results from the unfathomable nature of God, such that the maximal ontological conditions of existence are constituted by a qualitative, not a quantitative, determination whence the cognitive paradoxes that result from all intellectual attempts to resolve the divine mysteries. All human thought oper- ates according to finite determinations, generating predicable and measurable differences; yet beyond any given determination, an absolute term can always be postulated, even if it is not deter- minable. However, between the finite and the infinite there is no common term, thus no possible predication. This is a metaphysics of maximal contradiction, of complicatio, not explicatio. The infini- ty of the godhead is unpredicable and inexpressible. Whence the necessity of differentiating between the infinite and the indefinite, wherein the mutually exclusive relation between the ideal, uncondi- tioned, indeterminable realm of the divine and the empirical, con- ditioned, determinable realm of the human. Where the axiomatic knowledge of mathematics fails, the limits of comprehensibility end, and the realm of negative theology begins. Knowledge, for Cusanus, was the progression of thought towards its incomprehensible limits, in the attempt to understand the fundamental ontological contradictions of existence. Whence the notion of the coincidentia oppositorum, the coincidence of oppo- sitesthe very form of such ignorancewhich is the outcome of this new metaphysical speculation, revealing the limits of the ancient philosophical dichotomy of immanence and transcendence, thought and being. The infinity of the godhead is indeterminable yet appar- ent to human knowledge precisely in terms of our "learned igno- rance," which evolves an intuition of what surpasses the limits of human cognition. As Jaspers explains: "Speculative thinking must remain the thinking of the unthinkable, it must preserve an unresolvable tension. The fundamental concept remains paradoxi- cal."'7 Thus the docta ignorantia establishes a worldly, human domain of knowledge, apart from theological speculation, differen- tiating the calculable and operable mathematical infinity from the impenetrable infinity of God. Here, knowledge becomes an active function of the dynamics of attempting to connect the impercepti- ble universal to the sensible particular, with its attendant concrete symbolizations. Not only did this system offer a foundation for modern science and mathematical speculation, but it also estab- lished the grounds for a new, "rationalized" aesthetics, as explained by Cassirer: The De docta ignorantia had begun with the proposition that all knowledge is definable as measurement. Accordingly, it had established as the medium of knowledge the concept of proportion, which contains within it, as a condi- tion, the possibility of measurement. Comparativa est omnis inquisitio, medio proportionis uteris. But proportion is not just a logical-mathematical concept: it is also a basic concept of aesthetics Thus, the speculative-philosophical, the technical-mathematical, and the artistic tendencies of the period converge in the concept of proportion. And this convergence makes the problem of form one of the central problems of Renaissance culture.'^ In the arts, this is most apparent in the relation between theory and practice in VINCI (si veda) and ALBERTI (si veda), the latter of whom had direct links with Cusanus, utilizing Cusanus's specula- tions in his own work. Yet while Cusanus was mainly preoccupied with mathematical and cosmological issues, the philosophers of the Platonic Academy of Florence were especially concerned with the role of beauty as a spiritual value and so extended his studies into other realms. Following Cusanus, beauty was deemed an objective value determined by measure, proportion, and harmony. Beauty might exist as an intelligible sign of God, but it is gauged according to human proportions, values, and limits. A year before his death, Cosimo de’ MEDICI (si veda) wrote, in a letter to FICINO (si veda). "Yesterday I arrived at my Villa Carreggi, not to cultivate the fields, but my soul. "'9 This sentimentwhere inner and outer nature exist in reciprocal symbolic resonancewas fully in accord with FICINO (si veda)’s philosophical temperament, as it was in the Medici's Villa Carreggi in Florence where Ficino founded his famed Academy. Here, the gardens provided a site of retreat. inspiration, meditation, and discourse, while the villa ofifered a ver- itable compendium of the arts, with its library, music room, and gal- leries of artworks. This would suggest not only that nature and its aesthetic simulacrum, the garden, played a major role in Ficino's philosophy, but also that a consideration of his philosophical system might bear upon our understanding of the landscape and develop- ments in landscape architecture of the period. On the basis of an expanded model of the principle of the coincidence of opposites, Ficino demonstrated the central place of man in the universe. In his cosmology, the soul is the privileged midpoint between the intellectual and the sensible world, mediating the higher and lower realms, dynamically embracing the universe through the process of knowing and self-determination. The soul is the means by which the universe reflects upon itself through a dynamic unity, as opposed to the static hierarchy posited by scholas- ticism. Whence the new status of the dignity of man, who is seen (following Plato's tripartite schematization of the soul) to share attributes with both the lower and the higher beings, midway between the cosmic mind and the cosmic soul above, and the realms of nature and of pure, formless matter below. As the terms of this hierarchy are emanations of God (following Plotinus's mystical read- ing of Plato, and hardly distant, either intellectually or geographi- cally, from Saint Francis's nature mysticism), all cosmic zones par- ticipate in, and somehow symbolize, divine creation. All realms of existence are therefore interconnected, and the cohesion of the cos- mos is reflected in the microcosm of human intelligence. As Cassirer writes of a Ficino dialogue between God and the soul: God says: "I fill and penetrate and contain heaven and earth; I fill and am not filled because I am fullness itself. I penetrate and am not penetrated, because I am the power of penetration. I contain and am not contained, because I myself am the faculty of containing." But all these predicates claimed by the divinity are now equally attributable to the human soul}° As such, fact becomes truth, and the world becomes meaningful, through the ^rf of cognition; symbols can be effectively derived from all facts, objects, and events; thought is liberated to become a cre- ative, and not merely reflective, activity. Inspired by the theory of love developed in Plato's Symposium and Phaedrus, FICINO (si veda) places mystical love (in a manner very differ- ent from that of Saint Francis's more immediately sensual and intu- itive mysticism) at the center of his system, as a cosmological, and not a psychological, principle. Erwin Panofsky elaborates: Love is the motive power which causes God—or rather by which God caus- es Himself—to effuse His essence into the world, and which, inversely, caus- es His creatures to seek reunion with Him. According to Ficino, amor is only another name for that self-reverting current {circuitus spiritualise from God to the world and from the world to God. The loving individual inserts himself into this mystical circuit.^' Whence the much misunderstood notion of ;he highest form of love, "Platonic love," that "divine madness" which is the source of poetic inspiration and genius as introduced by Plato, enriched by Plotinus, Augustine, and the twelfth-century Neoplatonists, and transformed by Ficino. Such love entails a desire guided by cogni- tion, which seeks as its ultimate goal the beauty diffused throughout the universe. The contradictory and oppositional totality of love is symbolized by the two Venuses, celestial and natural, representing sacred and profane love: beauty as supercelestial, intelligible, and immaterial, and beauty as particularized and perceptible in the cor- poreal world.^^ Within this context, three sorts of love are possible: amor divinus (divine love, ruled by the intellect), amor humanus (human love, ruled by all the other faculties of the soul), and amor ferinus (bestial love, which is tantamount to insanity). Love is the factor that mediates the higher and lower worlds, transcendence and immanence, cognition and perception. Cassirer stresses the import of this theory for an incipient humanism: This contradictory nature of Eros constitutes the truly active moment of the Platonic cosmos. A dynamic motif penetrates the static complex of the uni- verse. The world of appearance and the world of love no longer stand simply opposed to each other; rather, the appearance itself "strives" for the idea. Love is both psychological and theological, human and divine, con- templative and active, intellectual and passional; it achieves a central epistemological status due to its vast, synthesizing function; it is ontologically all-encompassing precisely because of its profoundly paradoxical nature—a complex scenario that will be dramatized, in a manner crucial to the subsequent history of landscape architecture, in Francesco Colonnas Hypnerotomachia Poliphili, discussed later in this chapter. In this context, the entirety of creation is an emanation of God, therefore the realm of nature is no longer deemed evil, for only nonbeing is evil. Panofsky: Thus the Realm of Nature, so full of vigour and beauty as a manifestation of the "divine influence," when contrasted with the shapelessness and lifelessness of sheer matter, is, at the same time, a place of unending struggle, ugliness and distress, when contrasted with the celestial, let alone the super-celestial world.^ The human soul is the site of the reflection and expression, if not quite the resolution or synthesis, of these universal antinomies and oppositions. The spiritual is present in the natural world, such that, a fortiori, nature offers itself for human expression in terms of what Panofsky terms zpaysage moralise {moraliTjed landscape). As such, the- ological and cosmological symbolism is not at all obviated by the real- ism and perspectivalism of quattrocento art. Quite to the contrary, it offers a supplemental semiotic layer to imagery and allegory, adding the realm of "perspective as symbolic form," as Panofsky stated it, to previous symbolic systems. In fact, within this theological cosmology, all symbols and objects are simultaneously moralized and humanized. This transformation of vision and knowledge holds great promise for the arts, and especially for landscape architecture, insofar as the benevolence of the natural world is now theorized as a modality of divine love, and thus connected to what will later be subsumed under the rubric of the sublime through the human act of contemplation. In this theory of Platonic love, the artists of the Renaissance found a system that expressed their most profound aesthetic con- cerns, notably that the eternal values of beauty and harmony they sought need be expressed through material forms. Thus the artist is necessarily a mediator of the spiritual and the sensible realms. The very nature of artistic creativity, in all its complexity, paradox, and multiplicity, was expressed therein. Cassirer delineates what is aes- thetically at stake: The enigmatic double nature of the artist, his dedication to the world of sen- sible appearance and his constant reaching and striving beyond it, now seemed to be comprehended, and through this comprehension really justified for the first time. The theodicy of the world given by Ficino in his doctrine of Eros had, at the same time, become the true theodicy of art. For the task of the artist, precisely like that of Eros, is always to join things that are sepa- rate and opposed. He seeks the "invisible" in the "visible," the "intelligible" in the "sensible." Although his intuition and his art are determined by his vision of the pure form, he only truly possesses this pure form if he succeeds in realizing it in matter. The artist feels this tension, this polar opposition of the ^5 elements of being more deeply than anyone else. This new metaphysics of art was in great part based upon the notion of the representable order of nature. The subsequent imaging of the world became a function of the profound affinities between mathe- matical research and aesthetic production, insofar as they both share a sense of form, based on the newly representable order of the cos- mos. Cassirer: "For now, the mathematical idea, the a priori' of pro- portion and of harmony, constitutes the common principle of empirical reality and of artistic beauty. "^^ And as Cassirer insists, regarding the primacy of form in the Renaissance poetry of writers such as Dante and Petrarch, such lyricism does not express a preex- istent reality with a standard form, but creates a new inner reality by giving it a new form: "stylistics becomes the model and guide for the theory of categories."^'' This claim may be generalized for the textu- al arts (philosophy, rhetoric, and dialectics) and extrapolated for the visual arts. It was, indeed, a model for the new nature of thought, where style is not a formal effect bounded by the limitations of sheer representation, but rather where representation itself is a creative act. Within this context, the garden would no longer be conceived as merely a microcosmic or Edenic symbol, nor as a theological alle- gory of the body of the Virgin. In a sense, every theory of the micro- cosm is a theory of mimesis, of levels of representation. Henceforth, there would be a reciprocal relationship between the mimetic activ- ity of art and the perception of nature, such that, concurrently, art would attempt to represent nature, and nature would be seen according to the work of art. Consequently, mimesis would play a decreasing metaphysical role in the light of the new theories of human creativity and productivity. Mediating this reciprocity, the garden would be a "third nature," simultaneously patterned upon the idealizations of art and reinventing the way that the landscape was experienced. This aes- thetic was summed up by Giordano Bruno in Eroicifuroi: "Rules are not the source of poetry, but poetry is the source of rules, and there are as many rules as there are real poets. "^^ "Nature" had always been, and would always be, invented. But now, the verity of this perpetual reinvention, its cultural inexorability, was recognized and thematized as a function of artistic creativity. The ultimate extrapolation of this mode of philosophical specula- tion was achieved by Giovanni Pico della Mirandola (1463-94), a disciple of Ficino who joined the Florentine Academy a quarter of a century after its inception. ^9 Xhe radical aspect of Pico's thought was the reversal of the relation between being and becoming or acting in the cosmic hierarchy, aproblem predicated on the role of freedom. In the scholastic universe, every being, including the human being, had a fixed place in the cosmic hierarchy; the sphere of human voli- tion and cognition was strictly delimited and conditioned. For Ficino, to the contrary, though man's role in the universe was to rec- ognize and celebrate the entirety of creation, human difference and dignity consisted in man's role as a metaphysical mediator between the higher and lower realms. Pico radicalized and potentialized this mediative role by positing the entirety of the cosmic hierarchy as man's proper place. Thus man, endowed with no essential particu- larities, no longer had a fixed place in the cosmic hierarchy: the placement of each person within the cosmos was a function of indi- vidual activity, so that man could degenerate towards the beasts or ascend towards God, according to the value of his acts. Human nature consisted precisely in not having a predefined nature or form. In this proto-existentialist philosophy, man's being is defined as becoming; man's essence is constituted by the unique trajectory of each individual existence. In this system, where existence precedes essence, coincide the roots of both Pascalian anguish and existential optimism; the origins of both a theological anxiety at the eclipse of God and the joys of a radical liberation of the human soul. Though the system still operated within a Christian ethos, it established the preconditions for a secular realm of thought. This openness towards the world implied that human volition and knowledge must traverse the entire cosmos in order to achieve individual spiritual fiilfillment. As Pico wrote, concerning the creation of man, in his Oration on the Dignity ofMan, At last the best of artisans ordained that that creature to whom He had been able to give nothing proper to himself should have joint possession of what- ever had been peculiar to each of the different kinds of being. He therefore took man as a creature of indeterminate nature and, assigning him a place in the middle of the world, addressed him thus: "Neither a fixed abode nor a form that is thine alone nor any function peculiar to thyself have we given thee, Adam, to the end that according to thy longing and according to thy judgment thou mayest have and possess what abode, what form, and what functions thou thyself shalt desire. The nature of all other beings is limited and constrained within the bounds of the laws prescribed by Us. Thou, con- strained by no limits, in accordance with thine own free will, in whose hand We have placed thee, shall ordain for thyself the limits of thy nature. We have set thee at the worlds center that thou mayest from thence more easily observe whatever is in the world. We have made thee neither of heaven nor of earth, neither mortal nor immortal, so that with freedom of choice and with honor, as though the maker and molder of thyself, thou mayest fashion thyself in whatever shape thou shalt prefer. Thou shalt have the power to degenerate into the lower forms of life, which are brutish. Thou shalt have the power, out of thy soul's judgment, to be reborn into the higher forms, which "'° This self-transforming, metamorphosing nature is ever-changing, establishing no fixed form. In the aesthetic realm, Pico's theory of total potentiality and mutability justified a renaissance of artistic cre- ativity, with a newfound juxtaposition and inmixing of forms, styles, and symbols. This metaphysics of action and creativity is at the ori- gin of an aesthetic lineage leading to the baroque and culminating in romanticism. It is interesting to note that Pico's philosophy was dramatized by the Spanish humanist Juan Luis Vives (1492-540) in Fabula de homine (c. 1518), where the full mimetic powers of protean man are acted out on the stage of the Roman gods. After imitating the gamut of natural forms, man achieves a quasi-apotheosis: "The gods were not expecting to see him in more shapes when, behold, he was made into one of their own race, surpassing the nature of man and relying entirely upon a very wise mind Man, just as he had watched the plays with the highest gods, now reclined with them at the banquet."^' But this theatricality did not end with the allegori- cal staging of theology in a mythical setting; Vives also considered the implications of this apotheosis, entailing newfound powers of human creativity in relation to the observation of the natural world, claiming, all that is wanted is a certain power of observation. So he will observe the nature of things in the heavens in cloudy and clear weather, in the plains, in the mountains, in the woods. Hence he will seek out and get to know many things about those who inhabit such spots. Let him have recourse to garden- ers, husbandmen, shepherds and hunters ... for no man can possibly make all observations without help in such a multitude and variety of directions.'^ This protean ontology was not lost on the natural sciences. The specificity of landscape would be determined with increasing preci- sion following the development of the new sciences of geography, astronomy, meteorology, botany, zoology, etcetera; furthermore, the physical sciences would increasingly serve the arts, with all their the- ological and metaphysical symbolism, however archaic or obscure. Already in this epoch, the hortus conclusus, the enclosed clois- ter gardens of the medieval monasteries, gave way to the secret gar- dens of the Renaissance, and later to the more systematically orga- nized botanic gardens, initiated in Venice in the fifteenth and sixteenth centuries, with their increasingly open collections of in- digenous and exotic plants. When the first public botanic garden was created in Padua in 1545, the secret garden gave way to the pub- lic garden. As explained by Gaetane Lamarche-Vadel, The secret garden henceforth became a laboratory of minutious observations of all the states of plants' growth, of their reactions to the seasons, climates, and adoptive soils. Petrarch already gave himself over to such scrupulous experimentations and annotations in his gardens at Vaucluse, The attempts at transplanting pursued a century later accelerated and changed in scale: the '' exchanges were no longer local but intercontinental. Unknown roots from the New World arrived to be planted in the ancient earth of the Old World; new names of plants abounded; exotic herbs, spices, and produce transformed cuisine; old maladies found cures; the eye received novel pleasures. What arrived to incite mystery and wonder slowly gave way to knowledge and order: the notion of the world as a closed microcosm was replaced by the con- cept of an infinite universe, open to sensory observation and increas- ingly rational classification. Each new botanical discovery demand- ed a place on the cosmic great chain of being; as the examples became more and more numerous, and less and less coherent with the previously contrived system of botanic knowledge, the old cate- gories became insufficient to the task, forcing both a new system of classification and ultimately an entirely new conception of the cos- mos (coherent with analogous discoveries in the other sciences, notably those of the great Copernican and Galilean astronomical revolutions). Under the stress of an increasingly heterogeneous empirical field of objects collected, beginning in the fifteenth centu- ry, from the corners of the earth—including all the orders: animal, vegetable, mineral—the old system of classes was subverted and transformed. These objects decorated both cabinets of curiosity and gardens (living, outdoor cabinets of curiosity), radically transform- ing the order of nature—including the aestheticized reordering of nature that is the garden—in a scenario of hybridization beyond any adequately totalizing knowledge. Hybrid species gave rise to hybrid thoughts. However, as this process of demythification was a slow one (evolving over the centuries), each epoch bore a particular ratio of the inmixing of myth and science—a ratio that would remain crucial to all aesthetic representations and transformations of the landscape. Ficino's notion that all of creation is divine and beautiful opened the way for the historicizing of knowledge, which is one of the key tenets of humanist thought, no longer restricted to the Christian limitations of scholastic scholarship. For if all cosmologi- cal levels of the universe participate in divine goodness and beauty, then by extension all historical moments of thought participate, albeit partially, in universal truth. The result was a new syncretism, most immediately effected by Ficino in a reconciliation of Platonic and Aristotelian systems, but also extending to the positive recon- sideration of such thinkers as Plato, Moses, Zoroaster, Hermes Trismegistos, Orpheus, Pythagoras, Virgil, and Plotinus. Further- more, the implications of this intellectual openness and mobility were vast for both philosophical historicism and a theory of natural religion: the fact that consciousness must survey the entirety of the universe implied the necessity of discerning the truth value of every system of thought. Christian or otherwise, insofar as they all partake of a vaster universal truth. Pico's syncretism was even greater than that of Ficino, including not only Ficino's sources but also the Greek, Latin, and Arabic commentators of Aristotle, as well as the Jewish Cabalists. Furthermore, and crucial for modern hermeneu- tics, Pico went beyond the medieval scheme of interpreting scripture at four different levels—literal, allegorical, moral, and anagogical according to a hermeneutic centered on the master narrative of the Bible. Rather, he argued for a multiplicity of meanings to scripture, as heterogeneous and polyvalent as the complexity of the universe to which they pertained. In Pagan Mysteries of the Renaissance, Edgar Wind discusses the implications of Pico's conceptual revolution for art and aesthetics. The notion of the deus absconditus, the hidden God, implies that no single symbolization of God can be adequate, for God is fundamen- tally nonrepresentable. Witness Cusanus's discussion, in De docta ignorantia, of the many names of the pagan gods: All these names are but the unfolding of the one ineffable name, and in so far as the name truly belonging to God is infinite, it embraces innumerable such names derived from particular perfections. Hence the unfolding of the divine name is multiple, and always capable of increase, and each single name is related to the true and ineffable name as the finite is related to the infinite.^'* As Wind suggests, "Poetic pluralism is the necessary corollary to the radical mysticism of the One. This polytheistic, or at least poly- morphic, vision of the deity achieved the reconciliation of theologi- cal opposites in the hidden God, necessitating an application of the intellectual syncretisms of Ficino and Pico. Yet those irreconcilable opposites, w^hich previously could only have been united within God, could now be provisionally reconciled in human conscious- ness. But insofar as this central theological doctrine could only be stated in the form of a paradox, its manifold expressions, whether conceptual, symbolic, pictorial, or ornamental, needed to share the conceptual and ontologicaJ equivocation of its foundation. This would be the source of a new iconographic richness in the arts. Pico was intimately familiar with the ancient pagan mystery religions being rediscovered during his time, as well as with the role of initiation in the acquisition of knowledge; indeed, he had planned to write a book on the subject entitled Poetica theobgia. He discerned the various formal levels of these mysteries—ritualistic, figurative, and magical—all of which were continuously intermin- gled during the Renaissance. Within these systems, truth was always hidden, to be revealed only to the initiated through hieroglyphs, fables, and myths. The dissimulation of truth was a protection against profanation; revelation was thus a function of disguise, dis- simulation, concealment, equivocation, and ambiguity. Wind's analysis of the much-admired Renaissance maxim, ^^- tina lente (make haste slowly), which originated in Aulus Gellius's Nodes Atticæ, is a concrete case in point. This oxy- moron simultaneously sums up, at a poetic level of understanding, the metaphysical principle of divine totalization, the epistemological principle of the limits of human comprehension, and a certain eth- ical principle for regulating one's earthly existence. Here, the meta- physical is reduced to representable (and thus apparently compre- hensible) oxymoronic hieroglyphs or emblems—such as a dolphin around an anchor, a butterfly on a crab, an eagle and a lamb, and countless others—all intended, "to signify the rule of life that ripeness is achieved by a grovi^ih of strength in which quickness and "^*^ steadiness are equally developed. Metaphysics is thus expressed in the realm of popular imagery by reducing philosophy to the emblematic. The result of this reduction of the cognitive to imagery is that while aesthetics always implies a metaphysics, metaphysics is no longer the prime guarantor of aesthetics. This is apparent, for example, in a seminal^'' book in the his- tory of Western gardens, Francesco Colonna's Hypnerotomachia Poliphili (The Strife of Love in a Dream). Here numerous versions oifestina lente are illustrated; each one provides a unique nuance to the idea, specifically attuned to the demands of the narrative. As Wind explains, these emblems in fact serve as part of the initiatory mechanism of the allegory. The plan of the novel, so often quoted and so little read, is to "initiate" the soul into its own secret destiny—the final union of Love and Death, for which Hypneros (the sleeping i,rosfuneraire) served as a poetic image. The way leads through a series of bitter-sweet progressions where the very first steps already foreshadow the ultimate mystery oi Adonia, which is the sacred mar- riage of Pleasure and Pain.^^ The coincidence of opposites is revealed through sundry conjunc- tions, such that not only the marvels and miracles of the world, but also its most commonplace objects, reveal human destiny. Needless to say, if basic imagery is thus manipulated, the most complex forms of expression—the arts, including landscape architecture—^will bear witness to similar metaphysical formations and deformations. These techniques lead to the realm ofwhat, as Cassirer reminds us, Goethe referred to as an "exact sensible fantasy,"^^ where science, nature, and art coalesce in an empirical realm that utilizes its own standards, paradigms, and forms; where abstraction and vision merge; and where fantasy and theory, literature and metaphysics, share a com- mon ground of expression. If poetry and images were but a veil upon the truth, they nev- ertheless offered an alternate entry into the theological system, a means of circumventing the obvious social restrictions of a more the- ological approach. This syncretism was reciprocal: "An element of doctrine was thus imparted to classical myths, and an element of poetry to canonical doctrines. Thus there obtained a hybridization of elements within imagery; theological connotations were granted to secular figures, and, conversely, sacred scenes evinced secular and contemporary truths. What Wind termed a "transference of types'' was in fact more than a stylistic feature of Renaissance art; it estab- lished an epistemological overture that indicated the metaphysical foundations of a major lineage of subsequent art and aesthetics. This syncretism was not lost on the arts. Though earlier hybrid works were evident in both pastoral dramas and mystery plays, the first Gesamtkunstwerk proper, in the contemporary sense of the term, was the opera, developed at the end of the sixteenth century, with the appearance of Peri's Euridice created in Florence in 1600, and Monteverdi's Orfeo created in Mantua in 1607. Monteverdi utilized all the resources of the art, ancient or new. This distinc- tion between old and new, most honored around 1600, held little value for him. Thus on every page one finds archaic connections of tunes, traditional procedures of writing and orchestration, as well as modulations, dissonances, enharmonics, and chromaticisms engendered by tonality, by Greek metrics, and by the rhythmics of declamation. But what pertained uniquely to Monteverdi was his knowledge of gauging, choosing, blending, and ordering all these elements to create a moving and animated work with great lyrical inspiration."*^ Beginning with Orfeo, Monteverdi established a musical synthesis of court airs, madrigals, recitative, canzone, and arioso; this entailed a corresponding scenographic synthesis of the varied arts. As the Cartesian mathesis universalis sought the synthesis of the sciences in a unified theory, so would the opera syncretize the arts on the spatially homogeneous, but stylistically heterogeneous, stage of baroque drama. And yet, structurally speaking, it might be argued that the humanist garden of the Italian Renaissance is the major precursor of the totalizing artwork, insofar as it already served as the ground, synthesis, and scenarization of all the other arts. “Hypnerotomachia Poliphili” of Colonna was published in Venice in 1499."^^ The tale consists of the phantas- mic quest of Poliphilus, presented as an initiatory erotic drama couched in the form of a dream, recounting the protagonist's expe- riences and tribulations as he searches for his beloved Polia. Beginning in the anguishing soHtude of a wild, dark, labyrinthine forest, he finally emerges, by invoking divine guidance, into a beau- tiful, sunny landscape of absolute perfection. Here he discovers a world filled with gardens and palaces, containing enigmatic and emblematic monumental sculptures and ruins representing the arts of the ancient cultures of Egypt, Greece, and Rome, such as pyra- mids, obelisks, and temples, all evincing a perfection lost in the con- temporary epoch. The archaic is brought into the service of the arcane. The allegory then thickens as Poliphilus continues his Neoplatonic quest towards love and truth, encountering five girls representing the five senses, a queen symbolizing free will, and final- ly two young women symbolizing reason and volition. After visiting the palace, guided by the latter two women, he is taken to the three palace gardens, which are ultimate expressions of human artifice: gardens of glass, silk, and gold. This passage is worth quoting at length, as the descriptions of gardens in the Hypnerotomachia Poliphili are of inestimable importance in the subsequent history, imaginary and practical, of landscape architecture. When we arrived at the enclosure of orange trees, Logistic said to me: "Poliphilus, you have already seen many singular things, but there are four more no less singular that you must see." Then she led me to the left of the palace, to a beautiful orchard as large in circumference as the entire dwelling where the queen made her residence. Around it, all along the walls, there were parterres planted in cases, intermixing box-trees and cypresses, that is to say a cypress between two box-trees, with trunks and branches of pure gold, and leaves of glass so perfectly imitated that they could have been taken for nat- ural. The box-trees were topped with spheres one foot high, and the cypress- es with points twice as high. There were also plants and flowers imitated in glass, in many colors, forms and types, all resembling natural ones. The planks of the cases were, as an enclosure, surrounded with slides of glass, gild- ed and painted with beautifiil scenes. The borders were two inches wide, trimmed with gold molding on top and bottom, and the corners were cov- ered with small bevels of golden leaves. The garden was enclosed with pro- truding columns made of glass imitating jasper, encircled by plants called bindweed or morning glory with white flowers similar to small bells, all in relief and of the same colored glass modeled after nature. These columns rested against squared and ribbed pillars of gold, sup- porting the arcs of the vaulting made of the same material. Underneath, it was trimmed with glass rhombuses or lozenges, placed between two moldings. Upon the capitals of the protruding columns were placed the architrave, the frieze, and the cornice in glass, figures in jasper, as well as the moldings around it, golden rhombuses with polished and hammered foliage, such that the rhombuses were a third as wide as the thickness of the vaulting. The ground plan and the parterre of the garden were made of compartments composed of knotwork and other graceftil figures, mottled with plants and flowers of glass with the luster of precious stones. For there was nothing nat- ural, yet there existed, nevertheless, an odor that was pleasant, fresh and fit- ting the nature of the plants that were represented, thanks to some compound with which they were rubbed. I long gazed upon this new sort of gardening, and found it to be very strange.^^ The brilliance and genius of this pure artifice invokes Poliphilus's admiration and wonder; the inherent artificiality of mimesis is revealed. While this garden was never imitated in its totality, it established a certain sensibility, and many of its elements have served as models for both details and major elements throughout the his- tory of landscape architecture—as well as in the subsidiary art of pastry making, with its parallel history. Poliphilus's discovery of these artificial wonders continued: "Let us go to the other garden, which is no less delectable than the one which we just showed him." This garden was on the other side of the palace, of the same style and size as the one made of glass, and similar in the disposition of its beds, except that the flowers, trees, and plants were made of silk, the col- ors imitating those of nature. The box-trees and the cypresses were arranged as in the preceding garden, with trunks and branches of gold, and underneath were several simple plants of all types, so truly crafted that nature would have taken them for her own. For the worker had artificially given them their odors, with I know not what suitable compounds, just as in the glass garden. The walls of this garden were made with singular skill, and at incredible cost. They were assembled with pearls of equal size and value, upon which was spread a stalk of ivy with leaves of silk, branches and small creeping runners of pure gold, and the corymbs or raisins of its fruit of precious stones. And, equidistant around the wall were squared pillars, with capitols, architraves, friezes and cornices of the same metal, resting upon it as ornaments. The planks that served as slides were made of silk embroidered with gold thread, depicting hunting and love scenes so surprisingly portrayed that the brush could not have done better. The parterre was covered with green velour resembling a beautiful field at the beginning of the month of April. 45 They then enter a third garden, in which is located a golden trian- gular obelisk, decorated on its three sides: Logistic turned towards me and said: "Celestial harmony consists of these three figures, square, round, and triangular. Know, Poliphilus, that these are ancient Egyptian hieroglyphs, which have a perpetual affinity and conjunc- tion, signifying: 'the divine and infinite trinity, with a single essence.' The square figure is dedicated to the divinity, because it is produced from unity, and is unique and similar in all its parts. The round figure is without end or beginning, as is God. Around its circumference are contained these three hieroglyphs, whose property is attributed to the divine nature. The sun which, by its beautifiil light, creates, conserves, and illuminates all things. The helm or rudder which signifies the wise government of the universal through infi- nite sapience. The third, which is a vase full of fire, gives us to understand a "4° participation of love and charity communicated to us by divine goodness. The Neoplatonic resonances are worth noting. Continuing his quest, Poliphilus is confronted with three doors, representing the major paths of life, leading towards either the glory of God, the plea- sures and wonders of the world, or love. As Poliphilus chooses the last—justifying the text's extreme voluptuousness—he is led to the most perfect garden of all, Cythera, residence of the goddess of Love (and historic site of the Greek cult of Aphrodite): "That region was dedicated to merciful nature, intended for the habitation and dwelling of beatified gods and spirits."47 The description of the gar- dens of Cythera is so complex as to escape precise visualization and defy synopsis, yet it has inspired much of the Western imagination of landscape architecture. Here, the new Renaissance sense of nature combines with the contemporary exigencies of the arts: cosmic symbolism is reflected in architectural detail, the fecund sensuality of nature is circumscribed by the most rigorously geometricized geography, and the beauty of the landscape is accentuated, or even simulated, by the most refined artifice of the artisan's craft. Each aspect of this site inaugurates a type of perfection later to become stereotypical. The island is circular, with crystalline earth, beaches surrounded with ambergris, and its circumference is defined by ordered plantings of cypresses and bilberry bushes trimmed to perfection every day. The island's river has a shore adorned with sand mixed with gold and precious stones, and banks planted with flowers and citrus trees. The island's major divisions are mathemat- ically organized and separated by porphyry enclosures of artificial foliage and knotwork decorations interspersed with marble pilasters; each of these divisions delimits a different sort of planting: oak, fir, shrubs formed into figures representing the powers of Hercules, pine, laurel and small shrubs, apple and pear, cherry, heart-cherry and wild-cherry, plum, peach and apricot, mulberry, fig, pomegran- ate, chestnut, palm, cypress, walnut, hazelnut, almond and pista- chio, jujube, sorb, loquat, dogwood, service, cassia, carob, cedar, ebony, and aloes. In what appears as a prototypical version of Michel Foucault's "Chinese encyclopedia"—where the introduction of fantastic ele- ments shatters empirical taxonomy—the animals to be found there are no less diverse, so as to maintain the Utopian aspect of the site: satyrs, fauns, lions, panthers, snow leopards, giraffes, elephants, griffins, unicorns, stags, wolves, does, gazelles, bulls, horses, and an infinity of other species (excepting only those that are poisonous or ugly). Furthermore, the decorations within the sundry orchards, prairies, and parterres offer nearly the entire gamut of what shall become the standard features of Western landscape architecture: trellises, bowers, altars, decorative bridges, topiary, sculptural and architectural features, and fountains. There are herb gardens con- taining a variety of medicinal plants as vast as that of medieval clois- ter gardens, including absinthe, birthwort, mandragora, fiimitory, devil's milk, sumac, betony, calamint, lovage, St.-John's-wort, night- shade, peony; and also aromatic and edible plants such as lettuce, spinach, sorrel, rocket, caraway, artichokes, chervil, peas, broad beans, purpura, pimpernel, anise, melons, gourds, cucumbers. chicory, watercress, etcetera. The flowers in the prairies, whose description evokes the millefleurs backgrounds of medieval tapestries such as the unicorn cycles, are no less varied, and the parterres, plant- ed with extremely complex, interlaced, and varied patterns of flowers and other plants, have become classic models for subsequent gardens. Finally, there is the veritable "source" and destination of the quest, the mystical fountain ofVenus (which, most tellingly, remains unillustrated, but for a schematic ground plan), with columns made of precious stones, detailed carvings, and zodiacal and mythological symbols. The source of the water could itself be seen as an allegory for the "third nature" that characterizes the art of gardens: The cover of this marvelous fountain was made of a rounded vault like an overturned coupe without a foot, all of a single piece of crystal, whole and massive, without veins, flaws, hairs, kerfs, or any macula whatsoever, purer than the water spouting from the solid, artless, raw, unpolished rock, just as nature made it."** The Italian Renaissance produced copies, however flawed, of certain aspects of these gardens. Henceforth, mathematics and mythology would join within the art of landscape architecture. Yet, however imperfect the imitation, an entire worldview was evident in these gardens. As Gaetane Lamarche-Vadel remarks, The visions freed by the reveries are not always images of paradise lost; they also sometimes prefigure models of a perfection yet to come. The island where Poliphilus ends his journey is one of those: Venus, in concert with mathe- matical reason, conceived the plans for this garden. Fecundity is allied with order, measure, and proportion."*? The metaphysical allegory is always upheld by the most extreme sen- suality and preciosity. Indeed, one of the inscriptions on the foun- tain may serve as an epigraph for the entirety of the Hypneroto- machia Poliphili: "Delectation is like a sparkling dart. No synopsis of the Hypnerotomachia Poliphili can satisfy, for it is precisely due to the eccentricity of its quasi-encyclopedic char- acter—through the heterogeneous allusions and evocations of each object, and the symbolic interrelations between these objects—that the nature of this synthesizing, moralizing, and aestheticizing sym- bolic system appears. The heterogeneous enumeration shatters the effects of mimesis, giving rise to art as an activity of the autonomous imagination. Such a pluraUstic mode of Usting and narrative para- taxis operates as a conceptual expansion of horizons, utihzing pre- vious symbols, forms, and taxonomic schemes retrospectively to recreate their classic origins; proleptically, they create a modern aes- thetic.^' Here, a vast syncretism rules the combination of botanic (Egyptian, Cypriot, Greek, Syrian, etc.), architectural (ancient Greek, Roman, Italian, Gothic, monastic, etc.), and textual (Pliny, Virgil, Dioscorides, Theophrastus, etc.) elements, establishing a totality imbued w^ith the most extreme, and fruitful, anachronisms. And yet, it is perfectly coherent with the Neoplatonic metaphysical speculation of the epoch; for all classicism is inherently revisionis- tic, transfiguring ancient forms according to contemporary motives. It is precisely here that we can appreciate the allegorical weight of ruins in landscape architecture: signs of an ideal and ide- alized past now disappeared, symbols of a creative consciousness that recuperates and transforms, indices of an aestheticization that combines and refines. Hypnerotomachia Poliphili thus offers not only specific details and general models—based on a synthesis of the contemporary arts—for the subsequent history of landscape architecture; it also proffers an aesthetic of complexity, contradiction, and paradox that will inspire, both consciously and unconsciously, the most profound garden creations. Its style, plot, and characterizations are complex and heterogeneous; ancient, medieval, and Renaissance objects are contemporaneously juxtaposed and overlaid with both sacred and profane symbols; multiple discourses interweave myth and rational- ism, erotic drama and mundane description, fantasy and utility, nature and geometry; varied, often contradictory, ideals of beauty are interwoven. Furthermore, the metaphoric dimension of artifacts is always apparent, revealing the landscape itself as an emblematic, symbolic, or allegorical space parallel to the mental state of Poliphilus, in 2i psychomachia that organizes the dynamic principle of the narrative, as Gilles Polizzi explains: "Such is the book of Colonna that—in the problematic conjunction of its books and its subjects, science and desire, the Apuleian weave of its mysteries and the experiment with natural hieroglyphs—it opens to a polysemy that makes it a world-book or a monster-book. Crucial for the present study is the fact that Hypnerotomachia Poliphili stresses the central importance of narrative in establishing the structure and significance of gardens in general. For not only is the garden a reflection of mental states, but its allegorical structure is based upon the active, and not merely mimetic, aspect of vision as a creative, dynamic, mutable process. This pertains to the garden's visible and mathematical forms as well as to its visionary and mytho- logical dimensions. Thus the "objective" geometry and sciences behind these inventions, the "third nature" realized from combining artifice and nature, are instantiated or activated, as it were, by the narrative phantasms of those who created the gardens, and subse- quently by the phantasms of those who enter them. In Hypneroto- machia Poliphili, the garden is literally a dream; the real gardens of the world, conversely, are sites that evoke reverie. The liberated plas- ticity of the imagination—a major consequence of the new meta- physical system elaborated by Cusanus, Ficino, and Pico—corre- sponds to the historic relativity and alterability of truth in its manifold and often contradictory manifestations. For the conditions of the possibility of any work of art include not only the material and spiritual traditions of the period, but also all the conceivable phantasms, misreadings, variants, and heresies—all the paradoxes and paralogisms—of the arcane and often unstated traditions that are foundational of an epoch. Contradiction, complexity, and paradox are fundamental principles in both the genesis and the structure ofWestern landscape architecture. The coherence, formalism, and stylistic closure all too often sought by historians of gardens in fact dissimulates the inco- herence, heterogeneity, and conceptual intricacies that underlie most great gardens. The organic, dynamic, chaotic space of nature is always at odds with the geometric, static, mathematical space of conceptual form. "Worked through by the Demon of Time whether in its human and historical manifestations as narrative, fan- tasy, and destiny, or in its natural manifestations as seasonal change, growth, decay and death—the garden is a fortiori a dynamic, syn- thetic, syncretic entity, escaping all formalist definition. Syncretism and Style 1 Jakob Burckhardt, The Civilization ofthe Renaissance in Italy, vol. 2, trans. Middlemore; New York: Harper et Row), PETRARCA, Lettres familihes et secrkes (Paris: Bechet); cited in Vadel, Jardins secrets de la Renaissance : Des astres, des simples, et desprodiges (Paris: L'Harmattan), This book is an excellent study of the secret garden, from the medieval hortiis conclusus through the Italian Renaissance giardino segreto to the jardin hermetique. 3 Lamarche-Vadel,Jardinssecrets,11. 4 Francesco Petrarch, "The Ascent of Mount Ventoux," n.t., in Introduction to Con- temporary Civilization in the U^if (New York: Columbia Petrarch, "Ascent," 562. 8 Two classic texts on the trading, inmixing, and syncretism of symbols are: Baltru^aitis, Le moyen dge fantastique: Antiquites et exotismes dans I'art gothique (Paris: Flammarion); and Rudolf Wittkower, Allegory and the Migration of Symbols (London: Thames and Hudson). 9 Ernst Cassirer, The Individual and the Cosmos in Renaissance Philosophy, trans. Mario Domandi (; Philadelphia: University of Pennsylvania) Asthisisprobablythemostanalyzedtopicinarthistory,alonglistofreferences would here be both inadequate and superfluous. As an introductory note, consider several classic texts: John White, The Birth and Rebirth ofPictorial Space (London: Faber et Faber); Pierre Francastel, La figure et le lieu: L'ordre visuel du Quattrocento {?2ins: Gallimard); Samuel Y. Edgerton, The Renaissance Rediscovery ofLinear Perspective (New York: Harper et Row; and Hubert Damisch, L'origine de la perspective {Vaus: Flammarion). The most recent translation is Leon Battista AJberti, On the Art ofBuilding in Ten Books, trans. Joseph Rykwert, Neil Leach, Robert Tavernow (Cambridge, MA: MIT). For example,theVillaLante (Bagnaia),theVillad'Este(Tivoli),theBoboli Gardens of the Palazzo Pitti (Florence), and the various Medici Villas (Rome, Castello, Poggio, Pratolino, and Fiesole), only to name some of the most typical and famous. The literature on the Italian Renaissance garden is vast. For a fine introduction, see Catherine Laroze, Une histoire sensuelle des jardins (Paris: Olivier Orban; Terry Comito, "The Humanist Garden," in Monique Mosser and Georges Teyssot, eds. The Architecture ofWestern Gardens (Cambridge, MA: MIT Press); and John Dixon Hunt, Garden and Grove (Princeton: Princeton University Press, 1986), especially 42-58 ("Ovid in the Garden") and ("Garden and Theatre"). Among the many fine illustrated books and guides, very usefiil is Judith Chatfield, A Tour ofItalian Gardens (New York: Rizzoli). Cited in PUPPI (si veda) Nature and Artifice in the Sixteenth-Century Italian Garden," in Mosser and Teyssot, Architecture ofWestern Gardens, 53. 16 This section on Cusanus is based on Cassirer, Individual and Cosmos. On the great chain of being, see Lovejoy, The Great Chain of Being New York: Harper et Row). 17 KarlJaspers, Anselm and Nicholas of Cusa, trans. RalphMannheim(NewYork: Harcourt, Brace, Jovanovich. The present essay presents only the broadest schematization of these complex philosophical issues—^just enough, it is hoped, to situate their interest in relation to the development of the Italian Renaissance garden, and thus to inspire the reader to further investigations. Cassirer, Individual and Cosmos, 51. On the extension of these issues as they relate to aesthetics in the seventeenth-century debates between the Cartesians and the Pascalians, see Allen S. Weiss, Mirrors ofInfinity: The French Formal Garden and 17th-century Metaphysics (New York: Princeton Architectural Press), Cited in Raymond Marcel, Marsile Ficin (Paris: Les Belles Lettres) Cassirer, Individual and Cosmos, 190-1; see . On FICINO (si veda), see also Kristeller, Renaissance Thought and the Arts, Princeton. Panofsky, The Neo-platonic Movement in Florence and North Italy, Studies in Iconology, New York: Harper et Row. Cassirer, Individual and Cosmos. Panofsky notes that the vast influence of the notion of neo-platonic love is effected in both direct and indirect manners, much in the manner that psychoanalysis is influential for the history of modernism in the arts, even when inadequately understood. This idea is useful in considering the relations between theoretical systems and artistic production, where partial readings and misreadings in no way obviate the efficacy of influence or affinities. Bloom's The Anxiety ofInfluence, Oxford, remains the most subtle analysis of the role of misprision in artistic creation. In relation to the experience of the Italian garden, Hunt, in Garden and Grove, makes a parallel claim, referring to a study by Bruno of an allegory of art and nature in the Villa Lante. Iconographical studies usually consider, as does this, only meanings inscribed in an art work, rarely how such meanings is read by a later visitor. The great value of Hunt's essay is that it accomplishes both feats. Cited in Hauser, The Social History of Art, New York: Vintage Books). See Kristeller, PHILOSOPHERS OF THE ITALIAN RENAISSANCE, Stanford. Pico, Oration on the Dignity of Man, in Cassirer, Kristeller, and Randall, THE RENAISSANCE PHILOSOPHY OF MAN, Chicago Vives, Tabula de homine, in Cassirer, Kristeller, and Randall, Renaissance Phibsophy. Vives, cited in Hale, The Civilization of Europe in the Renaissance (New York: Athenaeum), Lamarche-Vadel, Jardins secrets. On the transformations of epistemology, natural classes, and botanic knowledge, the locus classicus of the subject remains Foucault, The Order of Things, New York: Vintage. Cited in Wind, Pagan Mysteries in the Renaissance, New York: Norton. Perhaps the most familiar contemporary example of this dictum is Alls, float like a butterfly, sting like a bee. The erotic poetics of the Hypnerotomachia Poliphili speddcaWy justifies the use of this adjective. Cited in Cassirer. Roux, cited in Roche, Monteverdi (Paris: Le Seuil/Solftges. Although the identity of the author of Hypnerotomachia Poliphili is not absolutely certain, it is now almost always attributed to COLONNA (not to be confused with COLONNA), a dominican friar of the monastery of SS. Giovanni e Paolo in VENEZIA. There is one theory that “HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI “ is written by ALBERTI (si veda), which, whatever its veracity, reveals the profound affinities perceived between the two philosophers. Hypnerotomachia Poliphili is published, with illustrations, in Italian in VENEZIA by Manutius. An abbreviated translation by Martin appeared, published by Kerver as “Le songe de Poliphile” (Paris: Imprimerie Nationale, ed., and prefaced by POLIZZI). Another translation, “The Strife of Love in a Dream”, appeared in London. The contemporary Italian edition of Hypnerotomachia Polophili is edited by Pozzi and Ciapponi, PADOVA. On the influence of HYPNEROTOMACHIA POLOPHILI in France, see Blunt, The Hypnerotomachia Polophili in France, The Warburg. Blunt’s is an important early study flawed, however, by a less-than- rudimentary comprehension of Renaissance philosophies. The importance of the engravings in the HYPNEROTOMACHIA POLOPHILI for considerations of the landscape are briefly discussed in an essay that is, in its breadth and depth, a model of scholarship on gardens and landscape: Schama, Landscape and Memory (New York: Knopf. For an idiosyncratic and suggestive allegorical reading, see Gomez, Poliphilo, or The Dark Forest Revisited, MIT. We find here the origins of Astroturf. Lamarche-Vadel, Jardiru secrets. On the epistemological problem of lists, see Weiss, The Errant Text, The Aesthetics of Excess (Albany: University of New York). Such usage evokes the sensual and critical aspects of Rabelais (who was directly influenced by Hypnerotomachia), the phantasmic and non-utilitarian inventions of Roussel, and the simulacral metaphysics of Borges. Polizzi, "Presentation," in Colonna, Songe de Poliphile. 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Grice: “Measles is natural, dying from it is not! Dahl’s daughter died from complications of measles – unnaturally so – poor child – God bless her soul.” -- Il conte Cosimo Alessandro Collini. Keywords: naturalismo, naturismo, pterodattilo, filosofia, pisa, Firenze, nobilita, coira. Pterodattilo. Polemica filosofica, Domenico Eusebio Chelli, marchesa Gabbriella Malaspina, Voltaire e la Toscana, “Firenze come una nuove Atene”, Collini su Ariosto e Boccaccio, Collini makes fun of Voltaire’s daughter. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Collini” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colombe: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Galilei – Aristotele e la stella nuova – scuola di Firenze – filosofia fiorentin – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscan. Grice: “If you love stars, as any philosopher must – vide Thales! – you LOVE Ludovico who refuted Kepler’s idea that the thing next to the serpentary’s foot was a ‘star,’ never mind ‘nova’!” Noto per essere stato uno strenuo avversario di Galilei.  Non si sa quasi nulla della sua vita, ma restano diverse sue saggi, nelle quali difende la dottrina aristotelica con un particolare disinteresse sia verso le nuove osservazioni sia verso la coerenza logica.  Scrisse un discorso sulla nuova stella apparsa sostenendo che si tratta di una stella non nuova, ma esistente da sempre. Scrisse un discorso Contro il moto della Terra.  Per conciliare le osservazioni di Galilei sulle irregolarità della superficie lunare con la concezione aristotelica della perfetta sfericità dei corpi celesti sostenne che le valli e gli spazi tra i monti della luna sono colmati da un materiale perfetto e invisibile. Contrario all’idrostatica archimedea recuperata da Galileo, nel suo Discorso apologetico, sostenne che il galleggiare o l’affondare dei corpi dipendesse dalla loro forma. Nella conclusione del discorso usa anche una metafora di questa teoria, affermando che le ragioni dell'avversario per essere troppo argute e sottili vanno a fondo senza speranza di ritornare a galla, mentre quelle di Aristotele, per essere di forma larga e quadrata, non possono affondare in nessun modo. Sono rimaste anche lettere tra C. e GALILEI che stima pochissimo il suo avversario, che soprannominato “Pippione”. Vari accenni a questo personaggio sono nella corrispondenza tra Galilei e i suoi amici. Dizionario Biografico degl’Italiani, Amici e nemici di Galilei, Milano, Bompiani. Aristotelismo. by Drake DIALOGO   DE CECCO DI RONCHITTI  Da Brvzene. IN PERPVO Sir O   De La Stella Nvova. Al Loftrio e Rebelcndo Scgnor Anruogno Squerengodegneriflemo Calonego de Paua, so Paròn. C&n alcune ottave d' Incerte, per la medejlma Stella,  centra Arjlotel^.  ls3 *9 «3 te te te In Padova,  g£Ì Apprcflb Pietro Paulo Tolzx. M.dc.v.   H ikSk tk^s skfjh «^EsS*«JbJU (?X:§(s P AL LOSTRIC. EREBELENDOPÀUO EL SEGNOR Antuogno fquerergo Dennett fimo Calone o de Vjua,  Vedifleo, RebelédoSegnor  Paròn, s'a vee&è on voftro  puouero feruiore,que no fé  me altro, che la boaria, e'1  mefticro de pertegar le cam  pagne, ade-fio, que el la toleflfe co* vn Dottore de quiggi da Paua, per  via de desbuta ? no ve pareraela na botta da  ri re ? mo oncaièj e lì Tè vera, "j a mentre  fé conto c'hò fatto con fèquellù, che le mef  fé la vefta, que n'iera foa,per parer elio dottore. L'è vera, que inchinda da tofatto, ci A 2 me nuTnfaua el me {naturale a~guardare in cito,  e fi a g'haea gran piafere desfeguranto la boa  ra, le falce, i biron, la chiocca, e'1 carro,con  tutto ; mo gnan per quefto a no ghe n'harae  iTapiofaellare, s'a no v'haeffe fentù vù mille, emilliantabotteadire mona confa, mò  n'altra a ftoperpuofito • E fi de fta Stella  nuoua, que dà tanta fmcrauegia a tutto el  roeflb mondo ; per conto de dire on la fea, a  ghe n'hì, per muò de dire, fatto lotomia j  faellanto, edesbutanto co quanti difea, che  la n'iera in Cielo que fé ben a no ve n'adaui,mendecao a me ve cazzaua in le cofte mi,  efia vefentia,efi(femiga a n'ho vncelibrio  fpelucatiuo,com 5 hà de gì akri)a tegnia mcn  te a zò cha difiui. Tonca mò, per que adef  foagihòfmeffiètutteavno in iti fcartabieg  gi, fé conto cha m'ho mettù el voftro gabban, fe'l parerà bon, a ghe n'harì vù Thanore. ma fé, pre mala defgratia, el ghe foeffé qualche fcagarello(cha no'l crezo) que olefle sbregarmelo,el ve toccherae mo anche  a darme alturio,fipiato che l'è voftro. Caro  Paron habbieme per recomadò,cha prieghe  lè pò fempre an rni, Domenedio, que ve daghe vita longa, e fanitè.   Da Paua a l'vhimo de Feueraro, del mille > e fie cento,  ecinque^.   Seruiore della voftra Segnorra   Cecco di Ronchitti, Quiggi, che Rafona.  Matthio. Nale.   Ootta de chi me fé 5 mo  que feccura, que brufamento e que fio ? a sè> che  no vuolpiouere mi, bon  ctt aqua. Mo no difegi,  que a le Vegniefìe l'è a man a manfute  le lagune? Penfeue^elfe ven ape inchin  da a slarilafofina. <td pojfon ajpiettar  de belo, que i fromintinafcira. i nafcìra  condife zJldafchio. N A. a dio, a dio,  Adatthio. quefaellamento el to ? iejliefl  sì fora de ti an\ MA. ben ve gnu Naie 5 mo caro fretto > a no se mi. a m'andafé a lambì canto el celtbrio, per que no pio  uè mi, que fin parfefire de Ht timpt?  gtiè pligoloy che gi ardere del Gordon fé   rompa % rompa, per le pine ? NA. Ver canto de quello, l'è ongrétn dire y que tant ciòtte  el s'ha veZjU nunole "pìoììolèX^itagr Ò ba  da,e fi gi è torne indrio fenz^a bagnare  el fabbton gnan tanto co harae fatto on  pijfar de rana. // evèrtè < que fé l <và  drto così a feron al finimondo mi I p> è e  tutti brusè y le campagne fecebe a muo  noffo \ tanto que a longo andare, nu elbe  Hiame a nopofsonfe lome farla m alarne  tre. MA. Tirate on può fottofla vogara 3 in t* agno muo el gtie pi dvnhora a  fera, da quecrito mo cheU fprociedafo  fccume an ? NA. mo nheto vezju quel  la Stella, chesberlufea la fera \k tn mifi, que laparea nogio de z^ostta) e fi adello la fé <vè la mattina con fé <và a bri*.  fare, que la fa on [pianare belettfèmcì  no t'acuorì^to, che la xè vegnua da fre(co ? e que no la s*ha velati a me pi inan%o  d adejfo ? mo tè ella cafon de Hefmera  uegie, e de Hi ficchi ^fegondo.che dtfe ori  \ dottore da Paua. AIA. Cu in feto ti,  que la no shablne me pi ve&ua ? NA,<*si fen- % ^fentìf altro dial^o vrió,che lez^ea on  certo slibraT^uolo.efiel dì fé a, que la fé  fornente a desfegurare lomè a gì otto  del me fé d'ottubrwpafsc. E (i quel librai^  zjtolo el l' haea fatto on lettran da Panai chel contatta, pò afe con fé. MA.  *Doh cancaro a i fcagarieggi da Patta,  faosfìy per che cjuefììt no l'ha ve&ua ello >  il vuole, che tutti ghecher&a, que me pi  la noghefuppifta ? -Guari mi a n ho mi  *vezM le Toefcarie, e fi leghe xe. NA.  Jidopre conto de quello, el me par pure aria mi, che la fé a nuova. AIA. qlA no  dighe a ì incontragio mi^ tè, che 3 1 so rnuò  de fae Ilare ne ben \fe miga elfoejfeper  gramego, NA. ^4 fé confagòn tonca,  que te nuoua. AIA. Sì, mofeando tanto lunz^i el no pò faere &g que lafippia,  per dire, che la xe ella, que no laga pione  re. NA. ^liedio, lim^i, la n'è gnan  fora a la Luna, per quanto dfea quelli- braz>z*uoia. À4A. Chi eloquellù, e' ha O]  fatto l ItbraZjZ^uolo ? elo pertegaort^ ? NA. Nò, che te Filuonco. <&1A. Lì   Filuo Fituorico ? e ha da far e lasoflluorìa col  mefurarc ? No feto, que on z>auattin  no pòfaellar de fibbie ? El he fogna crerc  a gi fmet amatichi^que gi è pertegaore de  t aire,fegondo y che an mi a per t ego le e a  pagne, e fi a pofjò dire, a rafion 3 quanta  le xe longhe 9 e larghete così an iggi. NA.  El dìfea ben aponto quel libraz^T^uolo 9  che ì Smetamaticht ere, que lafippia elta  de bebi ma che i no l'intende. A4 A. mo  per que no l'intendegi? me truognelo, o  me falò l'amore ? NA. Eldtfi, que i Si f^ maghina, chel Cielo fea fiorrotttbele, e  z^enderabele in quato a onpuoco a la hot  taf e mtga elno poeffe gender ar fi, e fior  romper fé tutto in t'vn fio. quefegi mi ?  MA. On faellegt de fiere fon tfmet ama  fichi an ? S'i Ftà lomefulmefurare>quc  ghefa quello a igg* fi'lfuppi? z^enderabi  le, ò nò. Selfoejfean de Polenta,nopo m raegi ne pi, ne manco tuorlo definirà ?  mo el tne fa ben da rire, con Hefuò sba *~T già fari. NA: Ah te bella, que e Idifi confi de Ha fatta in pur afise luoghi de   quel     quel libra^ZjUolo.sZMÀ. Que vnctu mì> ^*jj  cha ghe faghe mi, fé l'è \oene ? Uga cheH " p " u  s'in caue la vuogia. NA. Eldifea,que  fé lafoejfe sbenderà da nuouo in lo C/c lo,  el boqnerae anche, que rì altrz Stella, o  qualcl) altra corifa fé fo?fje fcorrotta in  so fc ambio liueluondena, h vefinaqueL  la 5 e fi no fé ghe ve negotta de manco.  Ai A. TV parfeche'l faelle con gifmeta  rnatichi ? tamentre l'è tanto fcapu^ZjUa,  cha no poffot afere, mettamofegura>que  onpuoco de Cielo chiue, e n altro puoco li  uè, s'habbi combino a vno^ el s'acuorz^era elio on el manche ? quando fé fa le nu  noie, e le piozje, onfevèelfegnale, que  le fé a He tolte per mettrele wfembrefmo  digamo de la [Iella, on s'è (chi ano L*agie  re, perche el "vuole, che lafappi incende  ra line elltk? Epos'imaghinelo (la ferae  ben da dire al preue ) que tutte le felle  che xè in Cielo fé pofia vere r el ne pos fibule. Eperz^uontena chi me tèn, cha no  pvjfa dire* que trè>o quattro, e ari pi [ielle de quelle menore, che no fé <vea,fe xe   B amucchìh e sì gi ha fatto Ha bei) a <iran~  de? No porae an efifere,que la fé foejfe  penderà in Papere, e pò, chefempre pi  lashaejje alz^a ì tamentre a no vubdi^  refie con/e, per que la ne me firefesfion,  no me ri mudatomi-, bafia > que gnan elo  noparlaben. N *d. E fi el 'vuole polche  quefiofea el neruo de la rafon de Stotene. MA. Toncafipiando così me fero  el neruojutto el so Zjenderamento.e fcor  rompimento ander a in broetto. NA. S'i  nìeruìe sì debole, la carne fera benfroL  la. Eldife, quefe'lfepoeffe Xepderare  in Cielo de le ftekenuoue, el befognerae y  que da tanti befecoli m qua/ in foejfe fcor  rotta qualcuna de quelle >che fempre me  xe Ha vez^ue : que gì è : a no m arecuordo quante : bafagt eparegie\£ fmoghin  manca gnegima, que el lo difettatene.  MA. Pìivh, mo queHa firen%s benfen  l^a penale, chi diambarne ghkndttto che  Jìa Bella nuoua fea na [iella He Ha ? Ce  ben on fpianXare, mo no na [iella. E fi  mt a thè wchtndamo chiama [itila > per   que     que la in par e, fé ben la rì e, corri e le altre.  NA. One eia torte a ? zZ^lA. Que fé gì  mi ? bafa.che la riè na [iella purpiamen.  e file altre fi elle no fé xè me ftorrotte,per  que vi è [Ielle, e fi el Cnloghe riha debefogne dt f Atti fuo : mo no de quefìa, che fipìanto vegnua, l'è anche ti deuere,quc  la vaghe via. E per conio de dire, que  no s'ha me ve&uHelle afeorromperfe^ re  [pundime on può. La terra ( che xè menoredele [ì elle ) s* eia me flramua tutta  in fona botta ? NA. Mo, copeforinfe  la terrafefeambiafea Ho muo^ riandaf  fangi tutti a fca&z>afaJfo ì <£WA. ^A  cherXo ben de sì. tamentre apuoco,a può  coel fefa,efiporae effere,che'lfefaeffe  anche de le [ielle, que xè [ielle. Pure > a  domanderae enti era a queliti dal librai  z^uolo, a comuo el sa, que gneguna fella  no fé fa mèfeorrotta de fatto, che per di  re> que nogh'è me fio homo, che fé rihabli ado, e (jue el Cha ditto Stoterte $ le me  par noellemi. NA. el dife>cjuefefia [lei T „ rf t x  làfoefje m Cielo>tutta la fluori fnatu- cap ' r  C 2 tale raleferae na bagia $ E que Statene ten \  que arZjOnz^antofe na Bella in Cielo.no l  porae muouerfe. AIzA* Cancaro, l'ha  bìo torto Bd Bella, a deroinare così la filuorìa de que fioro. s'afoefiè in iggi a farae e et aria denanz^o al Poe fio mi, e fi a  ghe darae na quarela depujfefsion tmba  t a, e fi a torrae na cedola reale >e per fona  le incontra de ella, per que te casòn, que   f ?&c ni " e Cielo nofemuoue^ tamentre quello Te  manco male^ che el ghe nepancchiie an  di buoni) que cricche* Ino fé muoua.lSlA.   ^j; Mo rì altra, con que re fon (difelo) quei  Cielo de fora xelo da manco de gì altri ?  que elvegniraea ejfer da manco fipiandofcorrottibele,e naffan doghe de le (leU  lenuoue, e no in gi altri, eh* è pi baffi.  IAA. Cancabaro, da quello a zi altri, el  gtie defenientia, per conto de macre, pt %  che né dal monte deB.ua a on gran de me  gio ; ep?rz*>ontena elio fipianto sì grande^  el pò haere de le altre Belle da nuouo^mo  nò fi altri, que gì ha afse dcvnapervno>e phfclghe nafajje anche in iggi quàl   che che flelletta, s'ìmaghinelo, que tutti la  verde defatto f 'o te cottora. NA. Eldi  fé, que per fare el mondo Fptefetto, bogna> che ghefuppì qualconfa incenderàbete, e incorrottibele, e fi la no pò e [fere  altro, chel Cielo. <z7l y fA. El Cielo ? per  que mò cosi el Cielo ? E mi a divenne el  Parafo, che xe defora dal Cielo, xe elio  così puro, co 3 ldife 7 Ho dottore. JSfA. La  ghepar na confa imposfibole^que na biella così gran de tifj^e ma poffa de fatto borir  fuor a in tvna preuifta. MA. E a mi  nò. Quando na Vacca fa on Veello, alt»  hora % che te lomenafìi, te maored'vn  ^Agnello que fé a crefsu inchinda in cao.  per que mo? per que la mare delVeello,  don belpeXzjatto, tè maore, que riè na  Piegora. Fa mo tò conto, che Uà Stella  despetto a tutto el Cielo, no ven a ejfere  gnentepì, con farae onLion^ò n jn Lefan  te defletto ala terra, te parfe mò, que  tè nagranfmerauegia ? N<tA. zslAofe  tè così, a comuò calelajn pè de crefcere,  la Bella adejjo? AIA, ^dcherXo.quela     e p. 4. qjavhe maghe dagnora pi in su mix, e que % l para]  che la cale, per que la ne <va lun&i.NA.  Pian, che el libraÌQUolo df>que i primi  di, che la fé vele la crejcè on btlpuocofe  l'andejfe in su, la no ghe porae tntrare $  per que fempre la ferae cala. MA. &4l  l'hora quella dal libraz^z^uolo difea ef  fere fen&a occhiale. Perche mi a se, que  la prima botta eh a la <vitila me par [egra  denijjema, e que fempre la xè cala, per  muo de dire de grand eXz^a. tamentrefie  refon no me per du fé ami >e fi afaello,per  che quellu dal libral^uolo va majfafuo  ra del fentiero, e fi a ora pure tcgnirloin  carezza. Orbentena>fìnti an quella. eldìfe,que no fé pi) z^enderargnente  in lo Cielo, per que {di feto) el befognerae,  che'l ghe foeffe di contragi, e che ino ghe  pò e fere, f piando que tè ria quinta /una  ^t, òfoHantta\ quefegi mi? A1 A Mo  sì ceole. gi è de quelle boi te de S toetere  quefle> edifuo bri^hente ; ch'i ?io sa s'i  feaviui,e fi 1 1 noi fat Ilare de Culo. A  cher%o,que in Cielo ghe fuppi cosi ben cai   do  de, e fé r do, e mogio, e fn?o % corni an chine mi. per que? no fé ne, eh ci gh'è del fi e f  fo,e del chiarore dei Inferitele dei feuro?  che eggi quìggi ? i né tutti vnfi a l'inco  tragio de l'altro ne no \ mo vuotutà? Ha  [iella ghe poca cffere,e fi no glfiera, e fi  adeffo la ghe xe. ri eh rotfso quejìo ?  moa, l ar uè la boccale fi laga egmrftora  quel, che 7 vuole. E pò elio el fa conto  de desbuta^e confi f net amatichi,e fi \ar  lega de He re fon ? on fita halo catto, que  onmefuraore vaghe Jfelucato sufìenoel  le ? chi ghe l'ha ditto a elio ? NA. Mo  cane aro, el gti arz^onz^e, que fé in Cielo  ghefoeffe terra, aqua, aire^e fuogo elno  fé porae Hrauete con fé fa, franto, che el  doenterae tyejfo, e f curo. AIA. Si fé qui  leminti foejfe della fatta di nuofiri $ mo  gì è pi [prefetti,fegondo, ch\i fentì na  botta adire al mèparon.que el difea.che  Tianton eldifea. N A.Ei dtfe anche 3 que  a fio muo,el Cielo noporae anar a cerca  <via>fianto, che i lemìnti r oa tutti in sii,  in z>o, mo no attorno. <±7ldzA. E fé mi   a diejfe Io  di C  nico a àiejfe a rincontralo, que ìvaanthe  attorno ? El gh' amanca i sletranique di  pinfon ~y£j   terra [e <vol\c a cerca,con fa na  ^! pe " muoia da molin. penfate mo ti de gi altri con la va a faellare, tutti sa frettare > NA Eldife pò, que la fi ella xe ape  la Luna, ma de fot toghe-, e che Ime el no  che pò efserfuovo.1 A..L'ha fatto ben  adire* que no gh'èfuogo, per pi re fon.  NA. E così el tèn, qùe'l fipìa air e, quello, che lecca ci culo (a vuos/idire, el Cielo) de la Luna. <&MA. moa> moa,elpoea  ben dire an quejìasì. NA. E (diftlo) el  u Cielo no pò e fi ere de fuogo,per que fan to  così grande el bruferae tutti gì altri leminti. MA. <z5fy'lo me vegna e l morbo,  che queTiufeanto dottore fe'l fé caejfe la  yeti a^el parerae ri homo, dime oupuc^na  fa! tua fola no bajìeraela a tmpigiare on  paviaro, e pò anche a brufare quanto levitarne fé catta ? NA. A cher%o de sì  mi. MA. E fi quante fornafexe atmen  do, le no porae brufare on Cecchin, che  foefje d'oro, per que mò ? feto per quei mo que loro no fé pò brufarc. e così anche fé gì altri lemintipoejfe brufarfe, baJìeræ onpucco de fuogo, f?r e far l'effetto-, fenXa tanto co Idi fé elo. NA. Lavhe  va la, quanto de quello 5 mo crito pò ù  fremamèn, chel Cielo fea fuogo? AIA.  oA no dt eh e così mi.Uè che'l dottore ciga alturio fenica perpiiofuo ; e fi el le dife  fenz^a metreghe su volto, gnefale. NA.  aPklo finti ti altra, que la ne miga da  manco no. El difè ì que i fmetamatichi  ha de boni ordigni, e de le re fon freme y  ma i no le sa u onerare^. ^IA. <*A comito fé ri elo adb elio ? feraelo me fr elo de  la t or dal Bo? aldime mi. fé on fmetama  fico egmra chiueluondena^e fi el fedirà:  Naie, mi a vub faerte dire quanto gh 'è  per aire da lì a nogara a l'arare; e fi el  lo mefurera co ifuo ordigni fenz^a muouerfe 5 e col l* babbi me furo, e quelite /'babbi ditto y an ti te 9 l mefureriefì co'vnfi  lo, b a qualcti altro muò, e [ite cattertefi  que tè così 5 no che r de reto, che Vvouere  ben ifub ordigni ì NA. Alo sì mi, que   C cade ?  cip. r.  p.l C.  tap.f.cade ? MA. Perche toncaquandoel me  fura na Bella (per muo de dire ) ogiongi  dire y quel no sa fare ? e pò fé 7 falla,  chel falle de millanta, e de milion de me  giara ? fe'l dteffe donpuoco,confarae a  dire, quattro dea, b na fpana,a taferae.  mo de tanto ? l'è maffagnoca. N A. Setopo, querefon de i fmetamatichi^el ven  a contare? MA. T>ì mo. NA. Vnaxè  de tagiar via (di fé lo) on peX^o don cer  cene, e que la Stella, così a no la pofsan  vere, per pi de mezjhora. E n altra de  anarghe fottoapiombm, caminantoghe  al ver fa vinti dìt me gì ari. e fi ti dife.que  le no fa aperpuofìto, fianto> che gì è amo  frare, que la fella fea pi in su de diefe  amegia-y e fan elio di fé, che l'è on belpezZjO pi elta. zZPIA. Cane aro, l'è aguti*Zj>o dal cao groffo 5 mofelcrè,floChriBian, que la Bella vaghe pi in su de diefe megiarì, e fian quelle refon eldife^ tè  fegnale que le riha da far con elio 5 perche tonca mettrele fui so slibr aiuolo, e  pò dir e ^ que le riè a perpuo/ito ì Ste re fori jfo# Ufo fatte (per quanto ì dìfea a Vaua  7^k buoni di) con tra on inasprente di filuorichi de S tot e ne, que althora tegnta  duro, e fremo, che la rìiera pi alta de die  fé amzgta 5 e perz^uontena queliti dallibraZj^uolo die a lagarle Ilare > que le no  ghe daea fall ilio. NA. orbentena, ghe  ne pi? diJJ'e que lù, eh e e attratta iporcieg  gi. an, sì> sì. gianduJfa>mo elgh'e on brut  to intrigo de Prealajfe, e de vere, e de  Luna. que fegimt ? p rifate, che quellù,  che le\ea la diffe 9 e fi la defehiarè p\ de  tre botle.efi gneguno no l'intende. Ad A.  £1 die haerla intriga a polla elio, perpa  vere n homo da 2^0, e da palo, e fi la fera  pò a n altro muo, perche a se ben mt,que  de la Prealajfe el no pò haèr rafon. che  l'è on muo de me furar e per agiere,maffa  feguro. NA. Lagame mo vere sa me rìarecuordejfe onpuoco. eldifeprimamen 9  che no fé pò guardare de meXpfuora a na  lì e Ha 5 e que fiaganto così da /unzji, el  nèposfibole e aitar ghe elme%p,masfimamentre,per que t 'è na confa, (ondale que.   e 2 ma. cap, *7ldA. c Fafi 9 tafìonpub 9 che te ghe ne  ditto pareggie in fon groppo. chi è quel  lu, che cherZja de poerfmirare de me%o  via a no, ftella,fianto> que l'è tanto grof  fa? che cane ab aro de filatuoriefe vaio  a imaghinare ? gh' in falò de pi belle ? que  Ha fera lacrima. V altra, a comuo e attenevo miegio el mez^o d’vn criuello j  mettantoghe gi voce hi ape > ostarganto^  iTb" d et te on belpitoco? NA. zZkfò, fagan toghe  E b uctc et t' ^ a lttnz>i>per que s'aghe foejje a ve sin, a  no porae gna desfegurarlo que flejfe ben.  MA, Guarda mo toncafe tè el vera 9  que no fé pofa cattar el melo^ de le Ftelle \ per che gièlun^i ? %A l'altra. in che  dariflo pifremamen in lo mez^o % con na  occhia Jn quel d*ona ballalo d'on gamiero? NA. CancabxrOi aona balla iper  que co a l'effe giti fi a infdhverfò, la férae giù fra in tutti. M A>E pure elio el  dt fé a l tn con tr agio. NA. Mo elgh'arZjOn&e que gi è {al noffro parere) majfa  pècchemneyper cattargheel meZj0.MA.  sì> el dtfe an §uefta ? e quattro tonca, in) t'onboccon. dime onpuotì. a comuòportfto fallar pi > a dar in mez^o Confondo  da ttnaz^ZjO, o d*on taglerò ? a dighe de  mofìrarlo. NA. Fotta, a por ae fallar  don belpuocopì in f ti fondo da tinaXr  z^o, che in t el tagiero. A4 A. Efielbon  dottore dal libraz^z^uolo dife a l'incontra,  gio. Va modriOy de fa Trealaffe. NA.  Aio no fé podanto fmirare de mtXof r uora a le. fi elle, no fé pò [aere on le fìppia  ( dif lo) perche no fé ve elluogade drioghe. esPI<*A. Ste mettisfi elto gabban  fu ngraile de la me fiala da manie chel  lo f con d effe tutto ffaertfo e at tarme su  quale elfoeffe? NzA*Poo,tè Qn granfa  re. a fiomenZjerae a dire 3 vno, e du, e  tr)> inchinda > chafoeffe Ime, e quando  heffè ditto, con far a e a dire 9 nuoue> e e ha  veeffe 9 che in su quell'altro ghe foffè el  gabban, a dirae, que l'è fui die fé mi.  no vaia così ? AdoA Mo la no pò efsere  altramen ella, e così anche fi vena far e  in lo CielOifeben quel letr anello non s'in  sa adare. Uè benpìgrofso, che né elto raT^Q cap. tf.  «ap  Cip. 6 razzo de Cremona vè$ che ì dtfie> que l'è • s\grandentfisemo.N<tA. Quando aguar  don in la Luna, el noflro vere fé ghe ficca entro (dtfielo) e perz^uontena ho fé pò  fare la prealafiftLJ. <&dA. Chel me fio  che elio (fqua fio eh a thò ditta) a veefiskn  te Belle de fora, chelfiarae on pia/ere,  fé lafioejfe così. NA. Pian, e ha novorae fallare, el me par pure, che'l diga,  que no fé pò vere mela la Luna, negna  mele le He Ile, filanto, che le xe grande %  e'I noflro desfegurameto tira mafifaftret  to, fie ben elfie va pò slargamo. <&14A.  ^yPlade imaginete pure 9 que chiappela  da che cao te vuofi, l'impegola. che me  fa mi quello, fé mtga a no pò fio vere tut  ta la Luna, ne gnan tutta na Bella? no  bafla eh a la vegga on puoco, e cha la me  fkrefegondo quello? NA Aloafìomuò>  te na bagia la que fi a. doh mal drean$  el fie fafiea pò bello, d'haer catto na fpelucation fiottile per fiarghe Bare i fimeta  mattchi. IMA. Seto que le na confia >  che no gtìì me fio penso ? mo per la mare re ib. T' re di can, que inchinda on Veelo thàfk  pia inanXo yfegondo ch'ha gh'hò fentu a [X.  dire ajfe botte al me paron. E fi el no fé %'"££  riha te gnu tanto in bon. NA. vuotu y ' 1 ;. i  ctì andagamo inanXp ? <^/aA. Sì y di \ 28 ° Fr '  NA. F rello te te fari s fi fcompifso da rifo y Whaisfi fentio vn batibugio, que ghe Xèy de <lA> By Ny Oy ^ figì liti f Ì >afl ^, 1? »»   talea offerire, che la Prealaffe e bona,  mo i fwetamatichi no la sa vouerare ;  que flaghe ben. <&14A. Elnodie intendere gnan elio zj> y cheldifi^. Tirate  on può in qua mo 5 vito Hofalgaretto y  che apèfiofofsà ? NA. Sì mi. MA.  *Uito mo quell'albaray che xe lialuon detta vefin a tar&erz_j ? N<tA. Quale?  la grande, la pigola ? MA. Lapec  chenina. N$A. Sì mi eh a la "veggo.  MqA. Orbentena, guarda mo benderto $ qual te pare, che fea a bo da man de Ho falgaretto, e de queltalbara ì  NA. Staganto così, el me pare mu que  talbara egnirae a ejfere a bb da man.  M$A» Tirate mo da ft altro lo. NA.   ave   a njegno. M<tA* F remate chine, e ade/  fi ? N<tA- Mo cane abaro, a jlo muo el  fato aretto farae elio a bo da man, e l' aibara a bo da fuor a. zsllzA. ^rue te fa  mo a ti 3 fé miga te no <vi de meZjOfuora  el falgaro, ne l'albaraf e que danno te  da, -per che te nopuofivere anche elio de  drìo, de tutti du ? N$A. ^Mo gnente,  per que afmirofegondogi *vri de le fiorz^e mi, e no figondo a quello, cha no veggo. <&dA. Elfi fa così anche in agiere  <ve, e que Ha xè na forte de Prealajfe. Torna mo chiue on a fon mi. NA <±A  ghe fon <vegnu mi. a^kttA. Cjuardanto  de cima via aflo falgaretto.puotuvere  queltalbara, cha te difia, fi ben la ghe  xè per mie ? N<tA. Lagame mo guardare.pùuh$ mono mi. AlzA. Stefuùfl  mo tanto lunl^, che guardanto de cima  fuor a alfalgaretto, te credlsfi definiràre derto a mez^alama.e te t o facuorz^tf  fi d'aliar gì vogi 5 qual diritto y che fot fi  fi pi elto de /li du. N<t/1. $A fi ietta cha  ghepenfe on puOco : %A dirae defatto,   que t albata foejfe pi baffa> t*l falgaret  io pi etto mi 5 per que el me parerae così* anche no /tanto elvera. Ad A. Fa ori  può ri altra con fa. va su fi a nogara,cha  fagiere mi. NA. One vuotufare ?  zZl'IA. vaghe, e Po te fenttnefi. NA.  <td gtiandere, fda che te vttò così.  Qt&fA. Pian, chete no te f aghi male.  NA. Ta de mi; mo a mefongifquafo  fcapogio riongia> e mondò vn z^enuogio.  Ai A. G hefìto ancora ben fremo? N A.  Sì mi. que gtie mo ? ^PIA. Torna a  fmtrare quell'albara, che te guardaci  an chi de [otto. NA* E pò ? <&dA.  S mirato a quella dertamen,puotu vere  ftofalgaretto > co te fafìui flpiato de fot  to ? NA. Mo nò mu efìsafoejfe da lu  Xi. così a telta> a dirae, queelfalgaret  tofoefepì bajfo mi. Ad A. Vie tonca locha te contere de belo. NA. E l gif è  puocafatga a f aitar z^ofo. Al A. S intime mò.per que quando te gì eri ab affo,  elfalgaretto tepareapì elto delialbara\  e ftpianto su la nogara, el te parea a   T> l'in   'tincontragìo j perXuontena àn queHo  xe ri altro muo de Prealaffe^j. que  Prealaffe ven a dire, con far ae a dire,  defenientiadeguardamento. Fa moto  conto, che fé t'andiesfìsìt quel moravo,  che xe Ime, elfalgar elio tepareraepì baf  fo dei'albara, eabo da man 5 ettetorniesfipo da IV altro lo,elfalgaretto te ve  gnirae a parere pi elto de l’albata., e et  bo da fuor a. e an. queHo xe ri altro muo  de Prealaffe ^fegondo, che me defchiarlna botta el meparon. ttntindito mo?  NA. Pootta, mo Te pi chtar-a % que riè  on gratto da vacche, a me fmeravegìo a comuo quelli dal IibraXZjUolo,ri ha  fapio faellay e lome d'ona forte de Prea  laffe > Jipiantoghene tre mi A4 A. Elfa  •rae Ho anmafa, fel, ri keffe fatilo con  fé die. Orbentena ?fa mo to conto, que  fé la He Ha nuoua,e la Luna ne foeffe ve sin co èflofalgaretto,a por non, le fisi  le de fora nefarae don bel peXzjOpilim  ZJ> cheriequell'albara. e fi farae popibolo >que no ghe foeffe da ì Spagnaruolt h   ci e i Toifcbì, ei Ptditani^ deferitemi de  guardamento ? e pure tutti la *ve in lo  rftèdìerno luògo, api k quelle [ielle, che i  ghe di fé. quel da la baie [Ira > o che ghe  fita del bolzfon : q ne fé gì mi ? NA. A/lo  el tòfaellamento rièbon,perque nepof  Jìbolofaerc quanto la Luna fé a lun\i $  che elio di fé anquellu dal libralz^uolo a  AIA. Nò al so muò de elio, el no fé pò  faere. mo i fmetamatichi chela catta,  beri gì. NA. oA no fé qui d'irte mi,fe  lome, che the refon da vendere. MA.  Crito mò,chequellu d al libr aiuolo di  rae cosìan e lo ? NA. Se'l lo diefe elfa  raeben 5 tamentre elporae efjere tanto  depinion, queeltegniffe duro. cinque  in vin. Ad A. Che'l tegna pur fremo, e  chel metta a me conto. NsA. ^A no se  miga,a comuòfea Ho posfibole, che'l diga (l'altra, que te fentirè adeffo. ino no Ic,m  dtfelo, che in gnegìm luogo,fe tome, on  el ghe xè fora dertamhì > e apiombw,na  fepòfare lafcoridaruola del Sole? a thò  purvezjua mi, eh' al so. MA. Si'O/tu   2) 2 brio,  IfrOTCII,  apèrto, che ven (fé i cuorui no ghe magna  gi vogi) el fé por a chiarir e,che, per yuan  to a he fentìt a dire, la fé farà. Aio con  que rafonfaellelo a Ho muo ? NA. La  Luna fé va volz^anto (difelo) e filano  fé pò vere dert amen dome quando la xe  in Z aneto. <&14A. Tornami) adire.  NA. El dife elo, che nofipianto la Ltt  na in Z aneto, no la pò fondere tutto et  Sole. ^MA. c Doh giandujfa, fio puòuerhomocrhque la Lunafea nafritag  già elio. Con cane arOychefìanto ella reo  da 5 quiggi, che Ha in Zaneto, gtitnpò  "V ere pi de nu ? ghe ne d altre ? NAl  Sì. que vuol dire Grafalta? &WA.  eA comuo, Grajfalia ? NA. El di fé  elio, que l'ina nuuola a muo latte, vesin a la Luna, e que la ne altramen in  Cielo. <£WA. Oò, a tendendo adejjò.  l'è laflrà de %flwa. NA. <*An sì sì, la  fra de Roma. sOMA. Efìeldife 3 cjue  la ni in Cielo ? N$A. <£Mo, no, difelo.  MA. Con cane abaro ghe dijjangi tonca  nù P Hra de Roma, che vuol dire, Hrk     del Par affo, fé la no foefse ti fufof ] NA.  Cjuarda ti. e sì elfapo delle sbraofarì  contra onFUuorico(eben an divieggi)  che no crea,quelafoeJfe in Cielo, per  che ellodifea Stotene > che la gh'iera.  Ad A. Ofsu andagamo inuerfo e a, que  te fera, in f agno muo a pò fon benfael  larecaminanto sì. NA. Vapurlà.cha  ve gnomi, pooh, el ghe ne que Ut puoche  ancora. el di fé, che la ftella nuoua la  trema>per que la fé va suentolato,quan  do la va a cerca. ^lA. Ghe'lcritotì?  JMA. <*A ghe'l crerat,fe'l noghinfoef  fé paregte delle flette, que va a cerca, e  fi no trema mi. e fi el trema tome quellechexe elle, elte>perque a nopofsonfremarle de vifta, che paghe ben. e anque  fi a Ir emanto la de efler li uè. aPkfdd:  Àdò va, che te sì on Rolando. NaA.  Tamentre que, nofapianto queHù, on  la fé a fi a Bella > elnopo gnanfaere comuo la flpia incenderà 5 e sì le venaej  fere tutte filatuorie, quelle, che 3 Idi fé a  \flo perpuo/ìto 5 ne vera ? <z?J4A. Ala   el ni elle fogna ben > que la fea così. NA.  Orbentena, avuo^cbaft togamo onpuo  dt Fpajfo con gifuo fprenuoBtchi mi i   loren. ^ ^/^. $, q Ue dlfcio ? NzA* El dìft,   que la Beila durerà afte s afte, /e s'imbatte j, che L Sole no la desfaghe, elio.  At^sL El poca an dire, que la durerà  inchinda, que elio va a romprela 5 in  t* avno rnub, con la (e a anda via, el para tegnir fremo, que te fio eilo>cbel'hà  rotta. N<t4. <z?tfo gbe vegna el mal  drean $ quejìa farae ben de porca ! El \ di fé po> eh e* l fera abondantia d* agno  confa, e que l'è na Bella de quelle bone.  J\d<zÀ. Inchindamb la va ben, quanto  de quello, mofe la tegmffe mo fremo con  Bi ficchi 9 a que ftjfangi ? crila purea  tomuo. NtA. T>e gihuomini pò? quel  le puoche con fé. M<t4. Con farae a di   ^; re ? NtA. Con far a a dire^ quei doentera inz^egnofi, e facente-^ e quei fé testura a la verite. AisA. Vete> che'l  se fchiano el fyrenuoBìco inelo.no vito  a comno te agnino \ el ne amposfibolo %   chel cup. li. chel viua, habbìanto tanto e dibrio da  Xoene^j. N^4. T^e me sbertez^à nero ?  dì pìprefto, que el fprenuoUuo è Ho ve  ro in nìi, que a s'haon tegnu a la verite, fé ben elio voi e a archiaparneght^j.  zTkfo/l. T'irà, che f he vento. iVW.  El dife pò anche * que Ha Bella ca7z, \ ra via le giottonarì, le rabbie 5 quf /igi mi ? oJldtA. Sì >Sì, così noJìejfcle  in perorare, le nuollre carte > mo ano  me fmerauegio difuofprenuoHichi,que  tutto el so libr alinolo me pare onfpre  nuoflico mi 5 e que fempre el fraghe a  indiuinare^. N^4. El dife ben, che  el ghe nha vn altro per le t tra da far C1F '  [lampare^. zsì4<iA. Che l foghe preflo,per que feanto vesjn Li ^Marefèma-,  e l farà bon da qual confa an etto.ftgon  do, che que fio n ha fatto rire adejjò y que  l'è da Carleuare_j. N-*A. E quelìlt,  che le&ea diffe, che'l creapurpiamen,  que el l'haefje fatto flambare per venderlo, e gu agn ar qualche marchetta eU lo M$A> Che'l U&re tene* a tfazy   Zjargi,     Lorerc cap. f.  6.     sgargi, e fé ghe nauanZjeffe qualchuno,  chellofagbe in fon reuoltclo y e chelfel  caXjZjt, on fé ca%z^è Tofano le Jp tette 3  che l farà ben meffo in conerà. N<tA.  Lagoni a line, àfebn a cà. <vuotu Rare  a cena con mi ? a fin dare ontiera ve.  Alzs4. <$Al so, mo a nopojfo^ue la Afe  nega rri afptetta 5 tamentre a fin def  grati. AV/. $A T>io tonca.  MzA. sA 'Dio. IIMII     asS a£$5  * 1^/7 >" r»1 ; <rli u TU  1 JL  a. Grice: “If I had to choose between Colombe-Aristotle to Galiei-Plato, I chose the former!” -- Colombo. Colombe. Ludovico delle Colombe. Ludovico Colombo. Keywords: the irregular surface of the moon is filled by an invisible substance, the earth does not move, the ‘nuova’ stella is a misnomer: it has always existed; bodies float or sink according to their shape. Aristotle’s reasons never sink because they are square. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombe” – The Swimming-Pool Library. Colombe.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colombo: l’implicatura conversazionale dell’idealismo toscano – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I love Colombo as I love Wilde – I mean, the sponsor of the Wilde Lectures on Natural Religion! Colombo wonders, ‘can ‘theologian’ be written under ‘profession’? Surely, like me, Colombo distinguishes between theologian and philosophical theologian – if there is no such distinction, and I’m not sure there is – perhaps there shouldn’t be, Colombo would say, the ‘philosophical’ in my ‘philosophical eschatology’ is totally otiose and anti-Griceian!” Insegna a Milano. Si è occupato di antropologia, metafisica e la filosofia italiana -- Rosmini, Martinetti, Volpe, ad Aosta. Altre opere: “Senzo e atto” (Studium, Roma). La morale communitaria (CUSL, Milano); “Pietra angolare: l’chiesa d’Inghilterra” (CUSL-Centro Toniolo, Milano-Verona); “Antropologia” (Massimo, Milano), “L’immanente e il trascendente”; “La correttezza del nome nel Cratilo – il nome corretto -- in  L’origine del linguaggio (Celestian Milani), Demetra, Verona; Il ri-ordino dei cicli scolastici, in "Quaderno di Iter", “Filosofia come soteriologia: L'avventura di Piero Martinetti (Vita e Pensiero, Milano); “Il giusto prezzo della felicità, -- reasonable or rational? -- Edizioni ISU-Università Cattolica, Milano); “Antropologia ed etica (EDUCatt, Milano). Forme e modelli del pensiero filosofico. Introdurre alla   comprensione e  uso dei linguaggi e degli strumenti specifici della metafisica, dell’antropologia, dell’etica;- all’acquisizione di abilità critiche e analitiche per comprendere le dinamiche del vissuto, della società edella storia contemporanea dell’uomo occidentale. Salute     e  salvezza dell’uomo. Il senso della cura e dell’educazione. Una sfida per la ragione e per la fede.Valutazione critica del rapporto metafisica-antropologia-soteriologia in  tre  momenti della storia dell’Occidente. Il mondo antico-classico greco-romano. Il mondo nuovo Cristiano. Il mondo moderno e post-moderno. C., I Greci e l’amore incerto: grandezza e aporia dell’eros platonico: il Simposio, ISU-Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Kierkegaard, La malattia mortale (qualsiasi edizione, purché completa): ai  fini della prova d’esameè richiesta la conoscenza della sola Prima parte: La malattia mortale è la disperazione; J.   p. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Armando, Roma (o altra edizione, purché completa). DIDATTICA DEL CORSO. Lezioni in aula, ricerche e percorsi personalizzati. METODO DI VALUTAZIONE. valutazione di eventuali elaborati scritti o relazioni orali. AVVERTENZEIl docente è a disposizione degli studenti per ogni chiarimento didattico e contenutistico, per l’assegnazione delle tesi di laurea e l’assistenza necessaria alla loro elaborazione.Il docente riceve durante il periodo di lezione presso lo studio, Cap. I. AIIO A. AoxdZ (loi ikqI iov jtw&avtt 1ft$ ovx d(is- 17i  kiztjTos slvca. xcd y«Q lxvy%av ov tcqcoijv sis u6zv o foco- 4 oh <s3 poi* Stallb. Facit, inquit, Plato Apollodorum inter epulas versantem et convivis narrantem ea, quæ  hoc libro continentur. Sed neque epulæ  commemorantur, nec convivæ  Apollodori, ut sane mireris, Stallbaumium in re dubia et incerta certum iudicium exhibuisse. Platonis voluntatem declarant verba. C., quæ  primus Sydenh.  corrupit. Eius couiecturam cum codd. auctoritate probatam reperirent ceceutiores, ad unum omues “taUta” pro “tautA” ediderunt* Verissima autem lectio vulgata est: “ovxoa 8rj iovreS apa xovS AoyovS  itepl avt&v lizoiovpE$a y dkxs,oitEp dpxopevoS EtnoVy ovh ape-  Æ xtjxodS d ovv 6 « nai vptv 6i7]yij<5a6$ai, xavxa XPV  7toutv”. Apollodorus nimirum cum  domo relicta Athenas proficisceretur, sermones in Agathonis convivio habitos ei repetierat, qui ipsum tum temporis comitabatur. Brevi post redeuntem, ut videtur, ex urbe cum alii rogarent, ut eosdem sermones ipsis repeteret: accinctum se paratumque ad rem ostendit ita, ut qui vellet, quando iuberent, quod brevi ante fecerit, idem nunc facere, h. e. inter  eundum narrare. (p. 178. C. “ovtoo 8? IoyxeS apa xovS AoyovZ  TtEpi avroov ItcoiovpeScx”)   TtvvScivEd Se. Vulgo additur “nun” quod nec codices habent exceptis paucissimis, nec FICINO in conversione agnoscit, neque vero sententiæ  ratio exigit, merito omiserunt Belck., Stallb., alii. Præ ter codd. optimorum fidem “notheias” suspicionem movet ipsa  sedes “nun” particulæ, qua sede  effcitur, ut nescias, ad antecedentia pertineat, an ad sequentia  temporalis particula. Schieierm. relata ad “itwBdvetiBE” particula  verba convertit: Ich glaube anf  das, wonach ihr ietzt fragt,  nicht unvorbereitet zu sein. Hoo quoniam dici nequit nisi respecta habito alius temporis, quod præ senti tempori opponatur, otiosam  particulam ietzt censebis rectissime. Nam priori tempore non exegisse viæ  comites sermonum  [“Sttv avicbv (frahjQo&sv. twv ovv yvaglfiav tig oM 6&sv  xatiduiv fis xotftfa&sv ly.uX.t6B, xal xaLfcav a (ice ry xXy6tt, '0 <PaX.ijQtvg, k<py, ovrog, uXoXXoSwqos, ov xbqi-“] narrationem, cor disertis verbis indicetur, caussam non video. Nou rectius alii cum Wolfio:  letet bin ich vorbereitet, euerea Wunsch zu erfullea. Quid euim?  Tempore aliquo non præ meditatum Apollodorum fuisse ut per se intelligitor, ita non erat verbo posito indicandum. Ceterum, ut clarior fiat totius loci ratio, tenendum est, *in medias res* lectores abripi, ut, cum Apollodori comites dixisse fingantur: Narra, si lubet, Apollodore, orationes illas nobis, Apollodorus contra respondeat: Videor equidem mihi ad rem, quam exigitis, optime instructus.  $ a\e poS ev. Phalernm navale Atheuiensium fuit haud procul ab urbe distans. Aunotat  Schol. ad h. 1. $d\7jpoy 6ijpoS  AlavriSoS, IB, ov AnoWo&GopoS,  Quia autem, inquit Hiickertus, ad mare situm Phalerum, ex veterum more dvikvai positum est de eo, qui in urbem tendebat, uti ex urbe Piræ eum petens xccxapaiyeiv  dicitur, cf. Plat, de rep. I. init. xal itai?,GDV dpa ry xXjjdei. locum queudam inesse verbis insequentibus, addito itaigcov  participio declaratur. Variæ autem doctorum hominum sententiæ  sunt dubitantium, ubi iocus lateat. Wolfius in festiva (paXypevS vocis pronuntiatione  iocum deprehendisse sibi videtur, Schiitzius de formula judiciali cogitandum censet, quæ  addito pagi nomine conspicua allocutionem festiva quadam gravitate ornaret. Sed non efficitur nisi superaddito patris nomine formula judicialis, v. c, ^ypod^EYTfS  JijpoCSivovS, TlaiaviEvS, quo exemplo usus est Sebo), ad Plat. LEONZIO (si veda) Adde Aristoph. Nubb, v.134., M. xls £d$’ 6 xoipaS tt/v Bvpav ; 2rp. # siScovoS 1 v\oS 2rpeif)id8?fS, KiJivvv6$£r. Non minus a vero aberrat  huius loci interpres in Scbilleri  Nova Thalia T. II., p. 170. #  quem Stallb. laudat: Ile da, gestronger Herr, Biirger und Ziinftcr von Phaleron. Satis lepida  hæ c sunt, sed ab interprete ficta, non facta a Platone. Ordo verborum mutatus est, atque hominis nomini nomen, quod a demo derivatur, præ positum; scin’quam ob caussam? Plato cum scribere debuisset ^TroAAodeapoS" ovzoS o  $a\7jpEvS, illum verborum ordinem exhibuit, ut, qui Apollodorus vocandus esset proprie, idem  a7roAAodc*>pot; epitheto, quod hominis opportunitatem exprimit, ornaretur. Scribendum igitur est: 6 <Pa\7jpEvS, Eqxrj, ovros, obroAA od&pof, commate p6at ovrof posito, ut nominis per iocum dati potestas elficacius eluceat. OvroS  enim in allocutione cum nomine  proprio coniungi solet, ut in Protag.  193. D., quem locum Stallbaumii industriæ  debeo, scribitur:  onat lyco ttjv tpoavrp' yvovs av-TOV 'imtOHpOLTlfi t Iqxrjv, OVTOf,   pi) n vEODtEpov ayyzXXziS; Sed I  more Homerico nunc disputamus,  r STEpov npoTEpov, Quin statim revertimur ad explicandum, qui in ficto nomine proprio latet.  /isviig; Kayu bntixag niQii^uva. Kal og, 'AitolXodcoQS, S<prj, xal fiTjv xal Evay%os as Itfpcow, fioviofievos 8uatv&i<S&<u xi}v 'Ayu&uvog Igvvovoiav xal Za- E iocnm lepidissimom? '0 $>ot\r)pevi  rectissime ut cpaXijpiS pronuntiandum censet Astius, non, ut calvitium carpatur Apollodori, quod nullum fuisse pari iure contendimus nos, atque luisse Astius suspicatur, sed ut vana Socraticorum morum imitatio notetur. Consentaneum nimirum est, et verbis probatur ov XEpipEVEif, Apollodorum ad Socratis modum festinasse, corporis habitu pedumque positu e longinquo ( [nopfico Sey') conspicuum. Ut igitur Socrates ob incessum (IpivSov in-star fipEvSvedSai dicitur Aristoph.  iN ubb. v* 361, et Syrap.  B., ita Apollodorus $aXrfpis appellatur, quæ  vox eiusdem fere significatus atque fipivSoS, avem aquatilem denotat altissimis pedibus superbam. Sine dubio autem  multo iucuudior erat, quam Astianum illud calvitium, Apollodoro  anoXXo^oapov epitheton, quando quidem ipse Socrates, cui ille aimilliuius videri gestiebat, datum  se donatumque civitati a deo præ dicare solebat, cfr. Apol. Socr, p.30. E., iav yap.ipk anoXTEivrfZE, or> jup&UoS aXXov toiovtov Evpr/dETE aTEXVGof, ei xal  yshoioTEpov einely, npoSxeLpevov  xy noXei vno tov Zeov x.t.X. ov X E p l fl£V ElS. Ilæ c est Stephanianæ  lectio editionis, quam Stallb. in textum recepit, Bekk., Dind., Riickert. nepiplveiS  ediderunt ex auctoritate codicum. Utraque lectio bona eat i utra verior sit, alii videant. Unum hoc certum esse puto: in interpunctione et in accentu codicum fidem perparvam esse aut nullam. Futurum tempus in textum  recepi sensu quodam veri ductus, non ratione. Ad idem fortasse recurrit, futurum an præ sens tempus probuveris, neque est, uisi pronuntiatio verborum, quæ  alterutro recepto tempore iminntatur. xal prjv xal £v ayx 0 ^ ^post pr/Y in vett. cditt. omissum Platoni redditum est e codicibus. De voculæ  veritate consentiunt viri docti, de eius explicatione  non item. Riickert. xal ErayxoS  esse censet neu 1 i c h sch n, xal  prjY autem, inquit, ne quem offendat in orationis principio positum, non esse moneo in principio, sed respicere præ cedens membrum ov itEpiplvetS, hoc sensu: Tu non exspectas? Et tamen ego nuper iam te quæ sivi. Quid? Tu non recte explicas, Riickerte, hanc particulam? Et tamen ego cius significatum ium diu quæ ro. Satis est, exemplum laudasse unum  e multis, quo exemplo Riickerti explicatio reprobetur. Protag. 310. A., 22. navv plv ovy . xal  XapiY ye siti opan, lav axovi/re.  Et. xal pijv xal rj/ieis daX,  iav XiyyS. Stallb. xal pijv  xal ad notissimum comparandi  genus revocat, quo utrnmque comparationis membrum addito xal augetur, e. g. xal ivayxof  de i&jtovv, c osnep xal yvv de  %7]TG). Dubito, num recte. Ut  exemplo utar Protag. supra laudato, certum est, amici non hanc sententiam esse: Uti tu no-XQazovg xal 'AlxifittxSov xal zwv nV.ov tav toti Iv  r a Owditxva auQaysvojiivav jrfpl zav Iqcouxuv 16yav, rivis z\Octv. «AAog yag zig (ioi diqyiizo, «xijxo ag  •bolvixos zov 0Mx aov‘ £<pij di xal Os lidivai. cllkcc  yaq ovdlv el%B Oarptg iiyuv. Ov ovv (ioi St^ytjOak'    bis, ita nos tibi, si dicas, gratias habebimus. Sed ipste videtor sententiam suam  mutasse Stallb. ad Protag. 309. B., 2. ev Vpotye ido&v ( sc.  SiaxeitiSai d 3 AXxi(5id8r}S itpoS  i pe) ovx rpaSta 6e xal xfi vvv  7 ) pipa • xal ydp 7toXXd vTikp  ipov ehte, ftorjSaov i pol, xal  ovv xal apxi an baivov £pXO/iai f convertit enim rectissime: und duher komme ich aoch  eben erst von ihm. Videtor igitor xal ZvayxoS, xal qpels, xal  apri cett. in hoc genere loquendi  cum gravitate quadam dici, quæ   cum affirmatione coniuncta sit.  Prius xal autem in initio positum particulis pr/v, pev t dr/, ovv,  xoi ita inservit, ut easdem ia initio enuntiatiouis ponendas, quoniam per se non possunt euapte vi exordium enuntiatorum esse, suffulciat atque quodammodo  in principem locum orationis in ducat. Exempla permulta huius  xal expletivi reperiuntur, cfr,  Symp. C. xal p7fy 9 eo 3 Epv~  £>ipaxe, ehteiv x ov 3 ApiSroq>dv7j t  aXXy yh tctj iv vqj 2xgo Xeyeiv  x. r. A. Ibid.  199. C. xalpjjv t o o  (piX e UydBoav, xolXgA poi £$o£,a$  xa$T/y7/6ad5ai xov hoyov. Adde  220. D. xal ydp SipoS xoxe rjv y  quo loco cum gravitate caussæ   indicium in prima sede enuntiatiouis positum est;< die Ursache vnr, es war damals  Soromer. Contra in verbis 220.  A. beivol ydp avroSi x ei M c »vif. vis epitheti quoniam caussæ  gravitatem superat, ab initio Setvol  positum est. Cratyl.. B.  itaXaid itapoipia, oti  x d xaXa Isxiv dity $X £t paSelv •  xal 8j} xal xo itepl x tav ovopatGDv ov dptxpur xvyxavei ov  pa$ypa. Iam nostri loci verba  convertenda sunt; Und er sagtet Apollodorus, in Wahrheit,  bucIi neulich schon suchte  ich dich. a\\oS ydp xis poi 8trjyeixo. H. e. Alius mihi iam fuit  harum rerum narrator, quem Phoenix edocuit, Philippi filius; te quoque rem compertam habere dixit; verum euimvero nihil certi narrare potuit; iam tu igitur narra. Proprie ita disposita singula membra exspectaveris: drAAo? ydp xis poi fterjyeixo  aXXa ydp ov6lv elxe 6a<pls Xiyeiy   t<pr\ de xal 6h eiSivai   tfv ovv poi dvfyrjdat. Invertit, ut videtur, Plato ordinem enuntiatorum, ut Glauconis audiendi studium et festinationem vividius exprimeret. dixaioxaXoS yap el . Minus apte in conversione FICINO:  te enim interest sermones amici tui narrare; neque Stallb. satisfacit convertens;  te eniih maxime decet,  amici h. e. Socratis, magistri tui, sermones referre. Verba sic reddam potius: Convenit enim tibi in primis, qui Socrs- Sixonbtaxog yag tl zovg rov balgov Koyovg anayyllluv. ngbttgov 6e pot, ij 6’ og, tini, Ov avtbg nagtyhov  tjj evvovela zavzrj fj ov; Kaya tlnov, ori II uve a- C  nctoiv Iones eoi ovdev diiyytie&ai ecupig 6 Sit]yob(iE- vog, d vmazl qyet vtjv Owove lav ytyovivai tairtjv; tis, amici tui, sermone»  referas. Ceteram ut snpra  <pa\rjpis et deodatns Apollodorus vocatur, ita nunc kxaipoS 2 ah  xpccxovS audit. In verbis insequentibus r/ d* OS legitur; non male. Aptius fortasse est f/6o$,  de quo Schol. ad Piat. Phæ don,  a.v. 17 6* 'Eav plv, inquit, #  dvo piprj A oyov, Hsxai £<p?j  oSy xovxiSxiv £<pi] 81 ovxof.  oi Sb Xeyovdxv, ort auro pavor  drjpaivei xo £<p 7 /. iav $ £r pepoS XoyoVf tsxai <pi\ot f aif  f ASrjvatoi t r) u<pe\oS rir Aiyi- vffxaix. T. A. Bekkerus e contraria  ratione  205. C. oAA* opd>S  7/6?/ scribendum vidit pro oAA*  opcoS 7} 6* ip   oddkv diijyet 6$ai. Ficin.:  Revera, inquam, certi nihil retulisse tibi ille videtur. Cum emphasi dicitur  diijyeid^ai ac non sine acerba  irrisione eius, de qno supra dicitur » diTfyeixo. 9 Nimirum cura  Glauco dixisset: oAAo? yap xiS  pot dujytixo t Apollodorus ovSlr  St ijyetxo dacptS satis malitiose  responsurus erat, quod in orat,  obliq. conversum audit: £oix£ 6ot  od&v di7fyEi6$ai. Riickert. infinitivum præ sentis dtr/yetd^ai  censet, malim imperfecti iuterpretari. Exempla si requiris infinitivi imperf., cf.  176. A.  l<prf da 'avddt xe 6<pds Ttovrf 6a6$at xal $6 arx as xdv $eov  xal xaXXa xct vopiZopeva z pine 6$ oct npds xov notor, quo loco quæ  momentaneæ  actiones  eunt, aoristo, durantes imperfecto  tempore descriptæ  sunt. Adde 174. D. xoiavx* axxa 6<paS  £<prj dia Æ xSirra? Uva* et q.  seqq. Ceterum addito 6a<p&S adverbio indicatur, Phoenicem narrasse quidem, sed narrationem  non ita instituisse, ut res narrata  penitus ab auditore percipi posset. Ilinc paullo supra dicitur  fiovXoperoS dia 7tv$iti$a$  b. e. cupiens rem omnem, quomodo gesta ait, accurate descriptam audire. De præ positione did cum verbo composito  vid.174. A. jpks yap avxov  diifpvyov h. e. heri fugi ipsum  ac vitavi feliciter,SIS. C*  aAAa diepijxocvifda), onatS ...,  sondern du setztest es durch,  dafs Phæ d. 97. C. oot  apa vovS Isxiv 6 diaxodpcov xe  xal navxw alxioS t ubi diaxo tipdov est: omnia excepta re nulla  exornans.   iyroye drj . Bekk. in textum  recepit £y& drj annotans, in  quinque codd, iyaye S 1 ) reperiri* Videtur igitur vir doctissimus codd. auctoritate motus  esse plurimorum, ut lyco di) reciperet. In servanda lectione vulgata nobiscum consentit Riickertus, in explicanda non itera. Ph  dij enim, inqoit, quod caute et  cum restrictione affirmat, ut  Phæ dr. 242. D, Theact. p*  145. D. cum maxime h. 1, aptum  esso censeo. E Ruckerti eenijv IqukJ. 3, togrs xal Ifii xagaytved&ai. Eyeyys fli}. Iloftiv, >)v 6 J lya, ta ttavxcjv; ovx olaft, on xoA,icov iroav ’AyaQ ov Iv&aSe ovx Ixidedqfirjxev ; dtp ov  d’ iya 2 .'oxqutei GvvdiatQlfia xal inifuA.es XEXoljjpat  ixdattjs rjptQas tldzvai 8 n ctv Xiyy y nQcctry, ovSeneo  173 tQuc izi) larlv. n qo toti 6e utQirQt%uv oxy Tv%oifu,  1*1 •   tentia scriptam esse debebat rfyov fxal ye Stj ovxgjZ. Contra iyooyt  6t) sc. ?}yovpai ovxooS } cum gravitate quadam, quam vocare indignationem possis, affirmat: Nun  freilich dachte ich, aucb da  seist dabei gewesen.   7Xo5ev cd rXavxcov ;   Stallb. distinguendum esse docet  a Glaucone, fratre Platonis,  Glaucouem hunc, de quo Apollodorus 173. A. ita iudicat,  ut divitem quidem hominem fuisse, sed a philosophiæ  studio alienissimum recte coniicias. ixoScv  cum vi negandi ita semper adhibetur, ut ad præ cedens verbum  finitum referatur. Dixisset igitur,  explicatius si loqui voluisset,  Apollodorus: TCoStEV r/yst 6v, rjv  6* iyco f eo rXavHcov, atque sic, li. e.  explicatins, Plato locutus est ia  Cratyl. 398. fin.: 6v ix^S  elneiv; EPM. it o$ev, do 9 yo&b,  Uxoo; Adde Menex. C.  M. vvv fibreoi ol/iai iyoo xov  alpeSsvxa ov itavv evitoprjCeiv 2. zoZev sc. olet . . .  do ’ya$E ;   iitid e Sr/pr/xev. Scbol.  s. v. *Ay<&<ovoS xal npoS  lApx&aov xdv fja6iXea gj*£to,  coS MaptivaS vEooxEpof, Verisimile  est, ut Stallb. ad h. 1. annotat,  Agathonis in Macedoniam peregrinationem hic tangi. Quoniam  apud Archelaum tyrannum tam  laute vivebatur, ut qui cum eo    essent, lautitiis quasi sepelirentur,  tectius quidem, sed iocosius, ut  solet, Aristoph. in Ranis v. 83.  idem poetæ  apud Archelaum diverticulum notat: *H. UyaSaoy dbxov 'fxtv; d* oacoTancdv p anoixexoci.  'H. 7Coi yfjS 6 xXrjpoov; J. is  fiaxapoov evaoxfxcS.  Errarem quod attinet Glauconis,  qui rEGoSxi celebratum Agathonis  convivium arbitrabatur: facillime  potuit, cum multos iam annos  Agatho abesset, vel obiter facta  temporis computatio meliora docere. Sed non curasse videtur  homo Xpyp<xn£ TIMOS virorum illustrium sive absentiam sive præ sentiam, nequo studiose secutus  osse nisi quæ  divitias manifesto  augerent.   iiei pe\\s it eitoirj pai.  Sensus est: Seit ich aber mit  Socrates verkehre, und es roir  zum Gesetz gemacht habe, jeden  Tag zu wissen, was er irgeud  spricht oder tlint,' sind noch  nicht drei Jahre verlaufen.   OTCXf xvxotpt. Scriptam exstat in aliquot codicibus otcoi t.  Sermo est de eo, qui, quo veniat  errando, nqn curat. Hinc convertenda verba sunt: temere,   ubicunque versarer, oberrans. Minus recte, ut videtor,  Ficinus, ad cuius conversionem  Stallbaumiana comparata est : antea vero, quocunqua continge  i  xa\ olnfitvig rt itoniv, a&luoligos 17 orovovv, ol>x  rjctov y <Sv vvvl, olofuvog Sslv navia. (t/Mov xqutthv ij <piXo<Soiptiv. Kai fig, Mi] /Sxibjct, tqitj ' uXX’ ilxe  (to i, nate lybvtx o r) 6vvov6la avrrj. Kayixt thtov, ore  JlaiSav ovtcov Tftiav Iri, ots ry tCqixtt]} igciycoSlq iviKtfitv 'Ayatiav, ty vCxiQulq y y r a hnvUux. &!vtv  bat, oberrans, cfr. Piat. Pbæ d. D. toiyapioi rovroiS ptv  \alpnv clxovres avtois, coi  ovx eiSodiv, 0X7} gpxortat.   aSXicor e pos r\ orovovv.  Schol, ad Gorg. ap. Bekk. 847   s, t. a^t]\arovi aSAiof  o xdSt6iv dvtjxistoiiivujxopcvoi.  Pro 7jv volgato o codd. auctoritate 7/ Platoni restituerunt recentiores editores. Eam lectionem scholion Bodl, cod. comprobat s.  / : 'Attlxov roveo, axo  tov ta (Swypypirov • dj/paivt i  rd (a rd vxf/pxov ' Iu ydp  axo tov TfV Tiara SiceAvtiiv ‘icoyixjjy * "OpTjpoS • rj rore xovpoS  la, vvv 5’avri fle yrjpas bearet.  Do 7/ et ijv discrimino Herm.  egit ia præ f. adS. Oed. T. VII*  jt a id cov ovx cov rj pcov it i.  Inverso ordine vulgo hæ c edi  «olent rtoddeov r)pcov orreov hi*  Recte fortasse. Ceteram ambigue  hæ c verba dicta sunt,, ac non  «ine magna Socraticæ  disciplinæ  laudatione. Nimirum itoudctS vocat h. e., non pueros, sed homines pueriles Apollodorus cos, qui Socratica disciplina non imbuti huc illuc eircumferantur., Verba igitur TCaidojv ovxcov j}pcov hi de  eo tetnpore intelliguntur, quo expers fuit Socraticæ  disciplinæ  Apollodorus. Et quoniam tertius annus erat, ex quo Socrati «ese ndiunxerat, tempus convivii definit ita, ut qui his proximis annis tribus convivium Agathonis celebratum neget. Definitione hac non sufficiente neque accurata Apollodorus pergit: ore ry  7tpcdxy zpaycodiit ivlxrj6ev ’Ayd%cov ry vSrtpaUr, rj y rd imvtraot l^vev avtuS ts xal ol x°~  pevraL.  ore t y rt pcdxy r p ay codice. Riickert. ad h. 1.: Non integra trilogia, sed prima e tribus fabula; nam singulis etiam fieri poterat, ut quis victor existeret.  Recte. De tempore, quo prima  tragoedia Agatho victoriam reportavit, vid. Alhen. Deipn. V.  p, 217. ore ydp UyaScov ivixa y  IlXarcov tjv 8exate66dpoov iteov  6 p\v ydp litt d pxovzoS  Evtprj fiov S ecp ccv ovtcii ArjvaiotS. h.e. Olymp, 90, 4. Hoo  temporis indicium perutile quidem est inprimis iis, qui in vitam Agathonis inquirant et in historiam  rerum, quod solertissime fecit Fr.  Ritscbl in Comm. de Agathonis vita, arte et tragoediarum reliquiis, llalis Sax.: frustra eo  utuutur lectores in opusculo Platonis, qui ipse pro scripti sui cousilio nullam eius rationem habuit. licivixia USvev. Solebant  poetæ  victoria reportata festum diem parare iis, qui susceptis  chori partibus, ut populo fabula  placeret magis, effecerant. Quo die quoniam diis sacra fiebant ob  victoriam, factam est, ut ad euni significandam Græ ci formula uterentur td iitivixia Svav. avios tb xa l o t yogivtuL Tlaw, i<pt], aga naXai,  wg 1 'oixtv. dkku rlg 601 diyyeito ; fj cevrog Zkaxgdrrjg ;  Ov (icc xbv Ala, i)v 6’ ly <a, akk’ vgxig <Po Ivixl’ ’Agi&c6di](iog r\v rig, Kvda&rjvcaBvg, Cfuxgog, dwxoSrjros  de l' itagayeyovec 6’ iv ry Ovvovela 2k<axgdxovg tguCTijg wv iv zolg (idhora tav zort, tog i(ioi doxei. rj avrds 2. Unus cod. Vat,  ?/, quam lectionem merito reiecerunt editores. Schleiermacberus  7/ part. potestatem non satis assecutus convertit: etwa Socrates selbst? Quamquam eadem vox  manet, sive y sive ? f scripseris,  tamen hæ  formæ  inter se discrepant vehementer, y posito  omissum cogitatur alterum enuntiati membrum a Ttorepov particula instituendum v. c. notEpov  dXXoS xiS 7/ avxoS 2coxpdxyS;  et quoniam in huiusmodi enuntiato bimembri, ubi ab indefiuito ad definitum transitor, loquentia  ludicium simul involvitur, consentaneum est, omisso quidem,  sed subintelligendo membro priori quæ stionis alterum vi quadam augeri, quam verisimilitudinem vocari licebit. Igitur y non  tam corrigendi vim habet, ut  Stallb. et Hiickert. iudicare video, quam probabilitatis. Contra quando 7/ exhibetur, prius illud  interrogationis membrum prorsus  evanescit, ut, quoniam neque huc  neque illuc interrogationis momentum declinare possit, interrogatio admodum temperetur. Igitur 7/ particula qui utitor, suum  iudicium ab interrogatione secludit, et sive negarit sive affirmarit, qui rogatur, ad utrumvis  audiendum paratissimus est. Exemplum ut afferam, fiunt enim leges  linguæ  luculeutiores exemplis, legitur vulgo in Platonis Menon.  71. B. 3 py oiSa, itais&v,   oitoiov yi xi, el&dyv; y Sonet  6oi olov te eIvcu, oStiS Mkvcovct  py yiyrcStixEi, xonaparcav osxis  isti, tovtov eldivai, eUte xaXoS  7 i. t. A.* Viderunt interpp. scribendum esse y Somei, eorumqne iudicium codd, aucto/itate probatur.  Nihil enim certius est, quam  Socratem ita instituere interrogationem, ut simul indicet, Menonem non posse negare rem interrogatam. Ad nostra verba ut  revertar, Glauco, cum Apollodorum htaipov 2<*mpaxovS indicavisset 6upra, y avxoS 2ao  xpaxys dixit admixta probabilitatis notione: am Endo doch wohl  Socrates selbst. Iam patet, opinor, cur tanta gravitate, quanta  potuisset, Apollodorus responderit: ov pd xov Jia. Graviora  enim negatione opus est in responsis, ubi ita instituta præ cedens interrogatio est, ut quæ  vera non sunt, ea vera putare,  qui interrogat, videatur.   Kv6 a 5 yvaievS. Vulgo legebatur KvdaSyvsvS, quod Fischeri industria correctum est. Steph. Byz.: KvdaSyvatov. SfjpoS ryS riaydioridoS <pvXyS' o  dypoxyS KvSa&yvatevS. Eandem  formam reperies apud Aristophanem, quem ad h. 1. laudat Riickertus, Vesp.   tiptxpoS, arvicoSytoS  a ei* Hæ c epitheta commemorantur eo consilio, ut quibus  ov fiEvtoi alka xai ZkoxQartj y£ ?vta ijdi] avtjQoptiv  m> Ixsivov ijxovda, stat' (io i (ofioloyu xa&axtQ Isceivog dttjyeito. Tl ovv; Etprj • ov diqyqaco (tot; sravrog  tj odog V £t’s atfrt» fautqSda n opEwoftsvotg stat Asystv  stat dxoveiv.   Orna di] lovteg a(ta rovg Aoyoug Jt£gt avtav Aristodemus tanqnam homo Socratis amantisaimus indicetur*  Nempe solent ita iudicare imperitiores, ut ab externo habita  corporis ad ingenia concludant*  2 pvxpoS est, quod nos dicimus :  untersetzt. Apud Xenophontem  Aristodemus pixpoS audit M* I.  4. 2., ibique deos esse negat.  Festis diebus blautis Socrates  usus, est, ut videre licet e  174. A., Aristodemus ut semper  ctyvTCodtftoS fuisse censeatur, addito atl edicitur, quod in ahi  ex plurimorum codd. auctoritate  Ruckert. mutavit. Utrum recte  fecerit, nec ne, alii videant.   iv zois pdXisra rc ov  Ture. h. e. Convivarum illorum,  qui Socratem maxime amaverint, acerrimus amator. Latiore significatu verba tuiv rore Schleierra.  accepit* der war bei der Gesellschaft zugegen gewesen und einer  der eifrigsteu Verehrer des Socrates damaliger Zeit, wie mich  dunkt.   ov yievtot aXXa. xai,  Adhiberi hæ c dicendi formula  solet, ubi commemoratum est,  quod iam satis videri possit ad  rem, quæ  paratur. Apprime respondet LATINORUM: nihilo minus  tamen. Interdum xai omittitur,  quo omisso edicitor, ut id, quod  ante commemoratum sit, minus  probari iodicetur aliudque addatur illo multo probabilius, cfr*  Piat» Meuen. 86. B, n dw    ptv ovv* ov pkvxoi, gj 2&>HpateS, aXX’ iyooye ixelvo av r/dLSta,   Zltep TjpOflTJV TOTtp&JTOV, Hai   Cxetpaijxijv xcti dxovdcujn.  Eodem plane modo xai omittitur  in formula dicendi ov fiovov  dXXitj de qua vide sis, quæ  annotata sunt ad p* 180* A.  ovdiyyr/cco poi. Ut Græ ci,  ita nos: erziihltest du mir das  nicbt? quod ita dictum est, ut  explicandum sit: scio te nolle   narrare, quaro exorandus es mihi. Alia plane ratione Stallb* hanc  dicendi figuram explicat: Ilæ c   interrogatio, inquit, alacritatem  qtiandam animi et aviditatem  sciendi indicat, fere ut LATINORUM: quin tu mihi narres?  Alia ratio est Verborum 2 12.   D. rtaiStf, $<py t ov tixeipetiSe,  ubi ad lectionem codd. trium  (SxeifsadSe Riickertus annotavit:  Aoristum ut non admittendum,  ita non omni ex parte spernendum  duxerim. Male. Vid.annot. Ceterum  T i ovv ab inseqncntibus verbis  maiore interpunctione disiunxi,  nam non possunt, ut videtur, in  una cademqne interrogatione ri  ovv ov couiungi. - itdvxoot 7 } J 6 o f. particulam, veritus Bekkeri auctoritatem, e textu semovi, quamquam Riickerti exemplis edicitur,  ut certum iudicium de eadem  edere dubites. Laudat enim ille  Piat, de Legg. I* 625.^ A.  ftposdoxdi ovx av dt}8&> rjpd?  C irtoiov(ie&cc, i vgte, otcbq ccQ%o^evog tfotov, ovx dfistezrjxcog I '//a. el ovv dei xa l vfilv dirjyytiacfftac, ravra  ^937 iioielv. xal yaQ fyutys xal dXXag, otav [Uv twag  % egi <ptXo 6 ocpiag Xoyovg rj avtog nouafiai y ccXXcov  axovcoy flebis tov 0 ie< 3 ftca tocpeXelti&at, vTteQtpv wg cSg  %ccIq(j' otav 6 s aXXovg zivag, aXXag te xal tovg vfietBQovg tovg tav itXovtilcov xal xqtjimxxlGxlxcov, avxog te  a r&oiiat, vpag te tovg ixaigovg l?.eco, on oceG&e n    D Ttoielv ovdev % OLOvvteg. xal icspt re xoXireiaS xd vvv xal  vopcjv xrjv 8iaxpi/5?jv XiyovxaS  re xal axovovxas apa nara  Trjv nopdav rfonjdetiScti. 7tavtgX 6 9 rj ye ix KvooGov odds  oo$ axovopev, ixavtj x.x.X . Adde  Apol. S. 33. D. xi ptj  avxol ySei-OV, xgjv olxeioov xivds tqjv ixsivcov, itaxipaS xal  adeAcpovS xal aXXovS rovZ itpoST/xovraZ, eiitep vn ipov xi  xaxov litEitovSEfSav avxdtv ol  olxslot, vvv pEpvijdSaz. TcdvtooS  Se 7tdp£i6iv ocvxqdv tcoXXoI lvxavSoi, ovS iyco opta x. x. A* Ceterum convertenda verba DOstra  sunt: Wie nun? sagte er, wolltcst du mir nicht erzahlen? jedcnfalls ist der Weg in die Stadt  gecignet fiir eine gcgenseitige  Unterhaltung wiihrcnd dea Geliens. Picinus habet: apta quidem via est, quæ  ducit iu urbem, et ad audiendum pariter et ad  dicendum. xovSXoyovSrtEpl ClvxgSy,  Nota vim articuli, quo absente  ecnsus existeret hic: Sic igitur  inter eundum de his collocuti  eumus. cfr. 207* A. xavxa X8  ovv Ttdvta iSldadxi p£, oxoxs  nept xc ov iptDXixdjy Xoyovf  nounxo x . A. Addito articulo  sententia hæ c est: Sic inter eundum, quæ  verba fecimus, de his    Icag av v[ie lg i[ie yyeiti&e   fecimus, cfr. 216« C* aAAa  di pov dxovdzxxe t aoi opoioS xi  iStiv ols iyco eixa6a avxov xal  xrjv Svvapzv, Savpadiav   lx?i h, e. et vim, quæ  ipsi  est, quam admirabilem habet.   ei ovv Sei xcqieiv . De  his verbis vide quæ  annotata  sunt ad 172. A. Docet autem  hic locus, qui dilferaut Sei et  Xpi}, de qua differentia verborum  jam a Ruckerto est ad h. 1. 'annotatum. dei necessitatem exprimit, XP 1 ? voluntatem necessitati inservientem, cfr, Æ sch. Or.  c. Tim. 29. 6 vopo^ixijS  aTtadsi^Ev, ovZ XPV 6rjp7jyoptiv  xal ovf ov Sei Xiyszv iv xaa  dijpoo h. e. Manifesto legislator  declaravit, qui velle debeant  coram populo verba facere et  quibus orationem habere non liceat.   v iC8p cpv&S co S xalpv*  Orta est hæ c dicendi formula  ex vitEp<pvGjf x a ip°° et Xatptof  quod cum non intelligerent, qni  describendis libris occupati essent,  factum est, ut coS sæ pius omitteretur. Seusus est totius loci :  lam si etiam vobis narrandum est, volo equidem, quod  feci nuper, idem nunc facere  lubentissime. Namque æque nunc  atque alias sive ipse instituam, xccxodaifiova slvai, xal oto^icu vfiag dhjfrij oi&tJ '  iyco [dvtot vfiug ovx olo/uu, uiX tv olda. Cap. II. ET. 'AH ofioiog st, tn 'AnoXXodoQB' ail yag 6ctvtov rs xaxt]yoQUs xal rovg dXl.ovg, xal Soxng fioi  aTE%v wg ndvtug d&Xlovg tjysi6&ttL xlijv EaxQccrovg,  ano (Savrov aglifievog. xal ono&cv aozl rav tijv tfjv   vive narratos audiam philosophicos sermones, præter quod augeri  me scientia puto» impense etiam  lætor»   Xprj paxi^x ix gjv. Stallb.ad  h. 1, a Vulgo XPWonrti&v- Illud  aptius hoc loco recte indicavit  Fischerns. Præcedit enim n\ov61gov.» Recte xpVf £0LTt StixtaY receperunt editores non satis recta  de caussa» Licuisse enim contendo Græcia dicere: ol it\ovdioi xal XPV paziSxad, ut Latinis  licuit fures ^et malefici dicere, neque dubito, quin lectio  vulgata B. xovS q>i\ov$  xal x ovS itoXtpiovS recipienda  sit» Nostro contra loco, quoniam  non de certo quodam hominum  genere sermo est, h. e. de foeneratoribus, sed homines indicantur  quovis modo lucro inhiantes,  XpTJpocTtftiXGov unice verum est.   l6ooS av vpeiZ, Schleierm» convertit: Vielleicht nuo haltet   ihr wieder eurerseits (lafiir, dafs  ich iibel daran bin, und ich  glaube, ihr mogt ganz richtig  glauben, ich aber glaube es nicht  von euch, sondern weifs es.  Oh6Sai> aXtjSf} . o letiSat ( opSd  SoZdctsiv) eldivai,  vocabula Socratica sunt, quibus  Apollodorus uti videtur li. 1», ut  Socratis discipulum se probet. Ceterum laudaro Plauti versus  lubet petitos c Cas. initio:  Clcostr» Face, Chaline, certiorem  me, quid meus me vir velit»  Chal. Ille edepol videre ardentem te extra Portam Metiam,  Clcostr. Credo ecastor velle.  Chal, At pol' ego haud credo,  sed terto scio.  dei o fio io S it\r)v 2?   X p dtx O v?» Vario modo hæc verba ab interpretibus explicantor. Wolfius Iv pbv yap xoiS  XoyotS dictam esse censuit pro  aX \d yap iv xotS \6yoiS . Frustra.  Astius convertit: unde tandem   nomen pavixoS acceperis, non  perspicio: namque in dmnibus  tuis sermonibus tantum abest, ut  pavixoS sis h, e. nimius et  vehemens in laudando, ut  et te et alios præter Socratem  cum acerbitate quadam reprehendas. Apoll. Et merito pavtxoS a  vobis audio, de me et vobis ita  sentiens. Hanc conversionem nemo  probabit. Nam neque usu qnodam loquendi probatur, pavtxoS  inprimis de laudatorum studiis  valere, neque ex kxaipov verbis colligitur satis, pavixov nimium in laudando significare.  Quid dicam de responso Apollodori, quod ex Astii conversione  iit languidissimum? Pessime do fitavvfiiav UXafltg, ro /icevtxog xaXiUs&ai, ovx oida  sycryt ' Iv /jiv y«Q rolg Aoyotg «fi roiovzog fi' tiav roi  T6 xai zolg aXXoig dyQiatveig xXt)v Zaxgcczovg.   ATIO A. * Si q>lXzccz£, xai dfjXov ys dij, on ovtw  diavoov(iBvog xai xeqi Ifuctrcov xai x£qI vfuav (ictCvo(icu xdt xaQaxcaOi  nostro loco meritu. est Ruckertus, qui, cum non posset, quid  kratpoS sibi voluerit his verbis,  intelligere, scilicet e codd. yahaxoS pro jxavixo? in textum recepit. gUnde tandem mollis appellatus sis, equidem non intelligo; in sermonibus enim semper  talem te exhibes : et tibi et aliis  succenses præter Socratem.» Hæc  ut pugnant cum sequentibus, ita  ut ne pugnare videantur, Riickertus, in verbis Gqlvxqj re xai roiS  aWoif dypicdveiS insaniæ latentem notionem deprehendit, ad  quam respiciens, quamque augens  in maius per indignationem Apollodorus dixerit: o5 <piXtave, xai  dfjXoy ye 6rj x. r, A. Artificiosa  hæc suut, non vera, Neque  Plauti auctoritate nunc movemur, qua uti Riickcrtus potuisset in re sua. Legitur nimirum in Menuechra. Both.   Insanit hic quidem, qui ipse  maledicit sibi. Nam tu quidem berclo certo  nou sanus satis,  Menæchme, qui nunc ipsns  maledicas tibi.  8tallb., quoniam Apollodori ingenium ad morositatem proclive  fuerit, etiam pavixoS de ingepii  * tristitia et morositate intelligendum indicat. Deinde supplendum  ccnsfet opS&S 6h doxeis Xapeiv  avTjjy ante verba iv plv yap  totS XoyoiS æl roiovroS ei. TotovroS autem interpretator /um  xof> tristis et morosus. Ut  libere dicam, quid mihi videatur,  Apollodorus et ad tristitiam et  ad hilaritatem propensissimus erat  ita, ut sive tristis sive hilaris  suarum rerum modum haberet nullum. Nimium ia  tristitia Apollodorum icperimus  Pbæd. p, 117. D. in risu atque  in mærore Phæd, 59* A. in  vitnperio Symp. 178* C.etD.»  et quo animo hominem in magistri laude fuisse censes, qui præter Socratem omnes mortales  infelices indicabat? Ia quo indicio ut ro fjLcrvixov eluceret magis, Plato dypiaiveiv verbo usus  est, quo verbo animi summa  commotio exprimitur. Idem cadit in uvccfipvxqGduevoS participium, quod quo exquisitius, eo  aptius est ad turbas animi exprimendas. Iam patere arbitror,  fxavixoS h. 1. neque de immodica  laudo neque de nimia morositate  dici, sed de laudis vituperiique  immoderatione. Rectissime autem  Stallb, vidit, ante verba iv y\v  yctp roiS A. aliquid supplendum  esse. Solet enim yap particula  ita adhiberi, ut sententia quædam, quum facile e cogitationum  serie supplere possis, omissa indicetur. Stallb. supplendum censet  op^djS 81 doxeis \afieiv avrjjv. Nobis placet ei /i?} lx rcov A oycov. Totius loci conversio hæc  est: Immer bist du derselbe, o  Apollodorus, Immer klagst do  ET. Ovx a£iov xig l r ovtcav, a 'AxoiioSags,  vvv IqI&iv' di A’ Sxeg ideofieftu <Sov, (itj &iiag xoi-qffjjg, aiid diyytjdtti rtvsg tj6av ot ioyoi. • AIIOA. r IJ<Sav tolvvv Ixuvoi roioiSs tivk g. fidiiov d’ UdQZVS v/uv, dff ixeivog diijyeito, xcd lyw xu- . gadofiat dirjyrjdaa&au, 'dich and die andern an, and  scheinst mir ohne weiteres, aufser  Socrates, alie fur ungliickselig za  halten, indem da mit dir selbst  den Anfang maclist. Und woher  da in aller Wclt den Beinamen  da hast, dafs man dich den Tollkopf netfnt, das weifs ich nicht,  Ermufstedenn aut deinen Æufserungeu herstammcn. In diesen  zeigst da dich wirklich so; da  ziirnst dir and den andern, und  zollst allein dem Socrates ein  unmafsiges Lob.   o3 (piXtate 7tapa •  naico. His verbis, quæ de f ia vi xoS nomine annotavimus, confirmari videntur perpulere. 'Ezcu~  poS nimirum cum non nisi to  jaclyihoS xaXiitiSai commemoras se t, consueta vehementia usus Apollodorus paivopat xal 7tapaitaioa dixit. Hæc verba optime  transtnlit summus Schleierm. : 0  Liebster, so ist es jaklar, wenn  ich so denke von mir und euch,  dafs ich toll bin and von Sumen.  Inest tamen aliqaid his verbis, quod  male me habet. Nimirum amicas  dixit: E dictis tuis illud cognomen ortum est, aut eius originem  et caussam ignoro. Ad hæc verba  nnm quadrare tibi videtor Apollodori responsum? Quid quæris ?  res acta est scilicet, sævio et  mente captus sum. Si quid video, ol pavixoi at exaggerant  res, ita rixari amant, ad utrumque nutura ducente. Ad rixas autem se compos^js se Apollodorum  etiam verba amici docent: ovx  a£>iov nepl tovtgdv, 'AtcoXXoScopE, vvv ipi&iv. Quid multis? Posito post napaitaico signo  interrogandi verba convertenda  sunt: O Liebster, ist es denn   nqn schon so ausgemacht, da fs  ich toll bin und von Sinnen,  wenn ich so denke uber mich  and euch?   toioiSs rivi?, Additur  indefinitum pronomen, ut indicetur, sermones non verbo tenus ab  Apollodoro referri. Recte Stallb.  ferehuinsmodi convertit. Sic  paullo infra 174. D. roiavt  arra <5q>dS i(p7j SioXexSevra? Uvau Schleierm.: so ohngeflihr ... Adde A. Adyov roiovtov rivo? xatdpxEtv.  180. C. &ai8pov fikv roiov rov riva Xoyov £q>rj eItceIv .  MaXXov 8i eius est, qui ipse  se corrigit. Habet FICINO (si veda) ; immo  vero a principio eodem ordine,  quo Aristodemus retulit, vobis  ipse nunc recensere conabor, cfr.  188. D. ovra. ) jroAA?/V xal  fiiEyctXrjv, fi.aXXov 8h nd6av  Svva/nv x. t . A. adde 193. E.  Vva xal rd>v X oixcov dxovdajjiev ti ExaCroS ipely pdXXov  8h rt kxdtspo ? * UydSGor yap  xal 2aoxpdr7]S Xoiitoi. 194.  A. si 8h yivoio, ov vvv iyoo  tlpiy yaXXov 81 i'8a>? ov  Stio/iai x t r. A.*Eqsr) yuQ of ZkoxQcm) ivrv%m> leXov/ibov ts xal  tag (Skavrag vxoSeSefdvov, a Ixtivog bliydxig biolti,  Mul iQt6%cu avrov, onoi fot ovta xcdbg yByEvrjiiivog.  xai rbv datlv, oti 'Em, delavov dg 'Aya&covog.  yaQ avrov ddcpvyov roig huvixloig, ipofirj^ilg rbv  Zyhov' 6fiol6yri<5u d’ dg vifoiEQOv mQiGttiftai,. tavta $ij    $q>7) yup ol Scoxpatif,  E nostra cogitandi ratione verba  si spectas, scriptam exspectaveris :  lepr) yap 2cDxpdt£i Ivtvx&v.  Illud genus dicendi ex objectivitate enatum est, qua pro ingenio  suo Græci utebantur in narratione.  Eo autem efficitur dicendi genere,  ut Socratis loti calceisque ornati  imago oculis obversans lectorum,  ut Apollodoro, ita quæstionem  moveat lectori l oitoi tot ovtgj  xaXoi yeyevTjplvoS. Sexcenties  hoc dicendi genus reperias apud  Græcos scriptores, unum exemplum ut laudem, cfr. 174. E.  ol phy yap evSvf nalSa riva  SvdoSev ditavzr\6avta ayetv  n. t .A.   taS fiXavt a£. Schol. habet : v4t o 8r} par a.ol fiXavtia, 6av8dXuz l6xvd. Satis notura est, Socratem perraro calceis usum esse, id quod nostro  loeo colligitur e verbis a ix£ivoS oXiyaxiS iitoiet. Quod raro  fecit Socrates, ut calceis uteretur,  idem Aristodemus nunquam fecisse perhibetur 173. B. *ApiStoSrjpoS yv nSj Kv8a$7]Yai£vZ i  dpixpof, dvvxo Srjt oS a e i. X^^S yap avrov 8 iir  tpvyov . De 8iacp£vy£iv verbi  potestate vide quæ annotata sunt  ad 7* Ceterum brevius quidem Socrates loquitar, non item  obscurius. Sententiarum ordo  hæc est: Iam heriAgatho  me vocavit, sed non im  petravit a me, utfaoerem, quod juberet. Odiosa  enim erat concitatiorum  hominum turba strepens.  Promisi autem ei hodie  ad coenam,   tavta 8i } ixaXXcon rtdaprjv. Rostius V. Cl. %d verba  ixaXXoDTtiddprjv, Iva £g a annotat: ornavi me (et nunc orna  tns sura) ut accedam. Vide Stallb.  ad Piat de rep. V. 472. C.,  qui laudat Rost. Gramm. §. 122.  not 4. b. Herm. ad Viger. p 850.  Buttra. 126. i. Tavta 8ij  interpretes positum esse censent  pro 8ia tavta 8 t} } de quo usu  loqueudi vid. Matth. Gramm.  pl. §. 470. 7. 873* Rectius  opinor, tavta de ornatu intelligitar, ut verba convertenda sint:  Hoc igitur, quem miraris {ovta»  xaXof y£y£vr/p£vo$), ornata ornavi me et nunc ornatus sum, ut  pulcher ad pulcrum accedam, Si  dictam esset supra ortoi for VJ/pepov ovteo xctXoS ysyevTjp^voS, unice probaremus iuncturam  hanc: promisi autem ei hodie  ad coenam, atque eius rei gratia  ornavi mo cet.   TtpoS t 6 i$&\eiv dv  livai a Stephani hanc emendationem, inquit Riickertns, librorum lectionis aviivai a Bekkero, Dindorho, Astio, Sommero,  Stallbanmio receptam, admodnm  dubitanter retinui. Quod enim  in sequentibus simpl, Uvat po9   ixaXAaxiodfitjv, ivu xaXog xaga xakov ia. t?A<la Ov, tj  6’ og, ntUs H £l S XQog t 6 l&iXuv dv livai axhytog Ixl B  Sslnvov} Kciyco, Itpr}, th tov, ori Ovrag, Sxwg dv Ov  xtfav]jg. "Ex ov rolvw, fqpi?, Ivu jc «1 rtjV xagoifilav  Siarp&dgafttv (itra^dXXovrtg, ag aga xal dya&iov liti  Saltas laOiv avtoparoi aya&ot. "0(irjgog (itv ydg xivsitom *st, «t eo non «equitor,  ut etiam h* 1. debeat. Imino si  locus, e quo Socrates cum Arislodemo profecturus erat, inferior  fuit quam is, ubi Agatho habitabat, nonne tum primo loco  poni licuit aviivai, sufficiebat  in seqq, simplex verbum?», Hia  verbis contra eos dispotatum est  rectissime, qui e sequentibus  { a6iv et Urat de dv levat iudicarunt. Atqpe sic Stallb. iudicasse miror annotantem: Codd.  et vett. editiones omnes £$i\eiv  aviivai, quod de Stepbani contectura mutavimus præeunte Astio  et Bekkcro, JSimirum sequitur  deinde la6iv et livai de eadem re dictum . Cæcutiisse  videntur interpretes, ubi scriptor  verborum positu studiose fecit,  nt clare videre potuissent, *Enl  deinvov et ad livai pertinet et  ad axXrjXot) nam ut xaXeiv ini  deinvov recte dicitur, ita axXrjtot ini deinvov he ne habet; rursum livai arctius cum dxXrjxot  coniungendum est, et est in hac  coniunctione enuntiati acumen.  Verba convertenda sunt: Konntest du dich wohl entschliessen,  obgleich uneingeladen,  doch zu kommen zum Gasttnahl. lam concedamus necesse est  Riickerto, aviivai ini deinvov  recte dici, si in altiore loco Agathonis domicilium fuisse constaret,  non recte dici aviivai axXrjxot Ruckerti æquitas concedet    nobis. C. axXrjxov  inoirjdev i X 5 d v x a tov MeviXeoav ini xrjv Soivrjv, ubi rursum indicare licet e posito verborum de scriptoris voluntate.  Adde 174. D. iyoo plv  ovx dpoXoyrj6cn axXrjxot  tj x e i v, aXX' vno 6ov xexXr^pivot. Ceterum ndot Mystt npdt  x 6 iSiXeiv dv verba respondent  nostratium: Wie steht es bei dir  mit der Lust ... pro Hattest du  wohl Lust diopat vpcov dxovdai, nd)S  fet npds td ipfi&dSai niveiv  'AyaS gjv. Iva xal tijv napoipiav pex aftaXXovx et» Socrates haud raro poetarum versus  immutabat, ut mutati contrariam  sententiam funderent. Tangit  liuuc morem Appulei. Flor, 6.  ed. I. Bosschæ: Nec ista re cum  Plautino milite congruebat, qui  ita ait:  Pluris est oculatus testis unus, quam auriti decem. Itnmo enimvero hunc versum  ille (sc. Socrates) ad examinandum homines converteret:   Pluris est auritus testis unus,  quam oculati decem.  Editores fere omnes e codd plurimorum auctoritate pexaftaXovtet receperunt. Prætulit pexapaXXovxet Bastius, quod et codd, nonnulli iique melioris notæ exhibent. Couveitit Stallb. mutatione corrumpamus, participio in  2 dvvivst ov (iovov duttp&eipcu 9 aXXa scccl vpQldat e!$  tavvfjv rijv rcaqoiplav. noirjdccg rov 'Aytqdpvova  C diacptQovTOG ecyadcv ccvdQa    substantivum converso, quo substantivo temporum discrimen velatur. Unice rectum est pxxctfiaXXovteS. Nam qui mutat, eo ipso, quod mutat, proverbium corrumpit.  Vides igitur, 'eiusdem actionis esse  et 6ia<p$sipe iv et fterapdXXetv,  cuius actionis et obiectum et effectus h.l. commemorantur. Hoc  autem videtur doctis viris' fraudi  fuisse, ut putarent, de duplice  actione, quæ temporis discrimen  in se susciperet, Platonem egisse,  eo £ dpa xal dyaScvv.  Schol. ad hnnc locnm : avtoparot 8* ayctSoi 8«Ac3v ini dcnraS la6iv. xavxtjv 81 X iyovdir  tiprjtiSat ini 'HpaxXei, o$ ott  kfStidovto ro3 Kj/vxi £,lvoi iniCxrj*  KpaxtvoS 81 iv IJvXcda jiEtaX*  Xti%a$ avTtjv ypdtpti ovtoof. otd’ av2r’ ijpnS, w? 6 itaXaioS A Jyot, avxopdxovS aya&ovS Uvai  xoptpdjv ini douxa 3 eaxav .  xal EvnoXiS iv Xpvtitk 3 yivtu  E schol. verbis facile colligitur,  vario modo hoc proverbium immutatum fuisse a Græcis, vid,  Athen. Cal, De  primaria autem proverbii forma, quam Schol. indicat, Schleierm.  hæc disputat in den Anmerk. zur  Uebers. Eiu sonderbarer  Gedanke ist es von* dem Scholiasten, dass er uns an das zweite  Spriichwort des Athenæos verweiset, welches von Tapfern und  Feigherzigen handelt (aya$ol SeiXgov), wahrscheinlich in dem  kriegerischen oder feindseligen  Sinn, dass dic Tapfern ungeladen erscheinen und, die Feigherzigen  vertreibend, sich selbst an die     ra scoXffUxa, xov di Mtvt Sehiisseln setzen. Sondern Socrates meint aya$o\ dyaSajv  ini Scuraf, und aagt nor acherzvreise, sic wollten es durch eias  Umdrehung eiumal verderben, iudem sie niimlich den Agathon und seine Gnate ayc&ovf nannten. .... Der Homerische Fall lrisst sich auf das ayaSot ini  8 e iXoHv gar nicht anwenden, weil, wenn nur eine Anwendung uberhaupt da sein soli, Agamemnon  rousste ein 8nXoS sein. Sondern  «ras Socrates dem Homer vorwirft, ist, dass er auf das Spruchwort, ais sei es alter, anspielend  den Menelaus einen ayaSoG nenn». Hæc subtilius, quam verius disputata sunt. Primaria proverbii forma ea est, quam Scholiasta laudat, quæ quomodo mutata sit et ab Homero et a Platone, iam videamus. Nam etiam ii interpretes, qui Schol. formam ut primariam proverbii agnoscunt, de mutationis et corruptionis ratione  male indicarunt. Legitur apud  Homer. II. /5, 408.  ctvxoparoS di oi ?/A3« floTjv  ayaSoZ MtviXaoS, de quibus  verbis Plato ita videtur iudicasse, ut fiotjv aya$oS voce non virtute fortem interpretaretur, idqne verbis ayaSov ra jCoXejxixa  ac. ipya opponeret. Assumto deinde Apollinis iudicio, quod legitor II. p f 588., aperte eloquitur!  ignavum ad fortem accessisse  &xX rjxov h. e. invocatum. Proverbii primitiva forma si est,  nt diximus, avxopocxot 8 9 ciya 3oI8£iAcJt' ini daitai iadtv,  facillime agnoscas licet homcricæ hov fia}.9axov alxfirjrtjv, Qvalav itoiovfiivov xret tOruovrog tov 'styafisfivovos axhjxov ixolrjatv IX&ovxu rbv Mtveltav Isi t>)v Qoivtjv, %dga ovr a Isi rt)v xov « yeivovog.  poeæoa superbiam, qaæ iisdem  verbis eodemqne usa verborum  ordine sententiæ innocentiam ita  pervertit, nt proverbium audiat :  avxoparot 6*' dya^cor 6 et Aoi  ini Saltat ladiv* Iam quod  Homerus fecit, idem licere sibi,  ut proverbium corrumperet, Socrates putabat, Neqæ tamen pro  SeiXdiv, quod in primitiva proverbii forma legitur, ad Agathonis nomen alludens dyaSdir  scripsit, ut Stallbauraium judicantem video,  r forma enim  proverbii elficeretur hæc: avtopatoi 6* ayaSoi dya^av,  qui verborum ordo non reperitur  nostro loco, neqæ xai part.,  ut Riickert. censet, hoins mutationis indicium facit, pertinet  enim vocula ad totam enuntiationem, eoius exemplum habes Symp.  193, C, ei Se rotiro ctpt6tov t  dvayxalov xai zcov vvv naporroor ro xovxov iyyvtdtca  dptdxov elvai. Adde 206, A.  dtp ovr, iq>rj, xai ov povor  elvai, aXXa xai dei elvat,   sed Homericum SetXoi in ayaSoi  mutavit, minus, ut videtur, Agathonis nomen (dyaSdiv), quam  Aristodemi laudem (ayaSol ) respiciens ; avxopaxoi 6 * ayaSdtv  dyaSol 'ini Saltat fadtr.  Comprobatur hæc explicatio nostra perpulere Aristodemi modestissimo responso : IdoDt pivrot  xirdi ryevdod xai iy o> ovx  tiv Xiytit, <w 2oSxpaxet, aXXa  xa%’ "Oprfpov cpavXo t oSv  ini dotpov avSpot Urat SoirrjY  dxXrjto t, Ceterum ad Homericam illam proverbii corruptionem, non ad primariam formam eius Socratem a. Platonem respexisse, etiam ex ordine verborum colligitur, qui est apud Platouem. Homerum enim ex avropaxoi 6’ ayaSoi SeiXcov fecisse  consentaneum est: avxopaxot 5*  dyaSdiv SeiXoL nihil mutata  verborum sede, et tamen mntata sede subiecti. Iam servato, qni  apud Homerum est, verborum ordine Plato scripsit:   dyaSwr avxopaxot aya~   fiaXZaxov alxjiTfTijr.  Fortem et strenuum bellatorem  Menelaum fuisse, e multis Homeri  locis colligitur. Semel apud eundem vocatur paXSaxot alxprjr/fS  II. p f v. 588., ad quem locum  Platonem respexisse multi fuere,  qui annotarunt. Utitor autem illis verbis deus Græcis infestus  atque rerum bellicarum minus  peritus, Apollo, non, ut ignaviam  Menelai notaret, sed Hectoris  euimurn nt excitaret et augeret.  Si displicet igitar, quam supra  commemoravimus, malitiosa fiotjY  aya$ot verborum interpretatio,  (licere autem interdum poetarum  versiculos psr iocum falso interpretari, quis negabit}: quibas tamen displiceat, iis dictum esto:  Menelaum paXSctXOY appellari,  ut Agamemnone inferior, non ut'  ignavus ffcisse indicetur Quid,  quod Aristodemus paullo infra dicit 174. C. "I6&S pevxoi xiv$v~  yevdco cpavXot axv ini 6o<pov  dr8p dt Uvai Soivijr dxXrjxot,  num revera hominem nequam  2 •   Tavz uxovOaq ilitnv £<pt]' *I<Stas pivtot xivSwivOu  xal iyd ov% ag 6v Xtynq, a ZdxQare g, aXla xo&’  " OfiijQOV, tpctvkoq m> ini <5o<pov avSQOg Uvai tooivrjv  D KxXrjtoq. atj ovv aytov (ii ti axoXoytjGu; uiq lyto fiev  ox>x b[io).oyTj<Sa axXr t roq ijxeiv, a/U’ vxo aov xzxXttfd- foisse putas, aot ita moratum, ut  qui ipse tpavXov se esse confiteretur? Si quid video, nihil  aliud indicare Aristodemus voluit  addita tpavXoS vocula, quara se  cum Agathonis sapientia comparatum Agathene inferiorem esse.   ovv aytov pe naxoXoyrjdei; Verba difficillima  sunt ad explicandum. Faciendum  igitur est, ut, antequam sententiam qualemcunque nostram aperiamus, quid alii de hoc loco  consuerint, videamus. Levissima accentus mutatione Astius scribendam coniecit : dp* ovv aytov  pe ti aitoXoyjfdei. Sed duplex  interrogatio ab hoc loco alienissima videtur. Creuzer. Leet. Piat,  ad Plotin. de pulcritud. 5l8.  ay aytov coniecit, quod sæpissime scribarum incuria in ayccv  mutatum reperies. Ea coniectura  Stallbaumio probatur, qui verba  convertit: Nam igitur aliqua ratione excusare poteris, quod me  adduxeris? Addit autem, non  quærere Aristodemum, ecquam  h abiturus sit excusationem, dum ipsum adducat,  sed num futurum sit, ut  possit excusari aliquo  modo, quum ipsum ad epulas secura duxerit* Non  male. Nihil coniectura opus est.  Ut rectius verba intelligantur, ab  Aristodemi responso exordiendum  est, quod legitor 174. B.  ovttoS ( sc. 2x?> ) OTttoS av Cv  neXevys h, e. ibo, manebo, prout  iusseris. Hæe eo consilio dicuntur, ut Aristodemus, quod invocatus veuisset, a nemine posset, utpote qui vocatus esset a  Socrate, rusticitatis accusari.  Socrates contra, ut. hominem ad  suscipiendum iter dulcedine quadam pelliceret simulque itineris  suscepti excusationem a se amoveret, Aristodeme, inquit, dic, si  placet, Agathoui, quod Homerus  fecerit, at verba proverbii corrumperet : avtopatoi 6* dyaSok o  6eiX<uv ln\ daitaS iadiv, idem  te experiri voluisse, atque eius  rei gratia ad ^AyaSt&v Saltas  venisse avto patov d y a3 6 v. Aristodemus autem quum  vereretur, ne q>ax>XoS potius ad  normam Homerici proverbii, quam  dyc&oS ad Agothonem profecturus sit, a Socratica proverbii mutatione adventus excusationem  petitum iri negat, atque iturum  se fastidit, nisi a Socrate vocatus esse dicatur. Iam quo facilius hominis animam obfirmatum  perspicias, aytov scriptum est  non ay aytov in interrogatione,  quam nunc interpretaturi sumus.  Nimirum præsentis temporis participium eam vim habet, ut de  Socratis actione intelligendom simul Aristodemi voluntatem involvat manifesto: ei ayoiS pe.  Sensus est : Wenn i c h mich  von dir fiihren lasse d  wollte. Spreta autem dulcedine illa, quæ in Socratica proverbii mutatione continetur, et  vog. £vv te dv, iq)tj y Iq%ou.Ivg3, tcqo 6 tov fiovXev dujlt&u 0 XI iQOVptV. ctiX t&piV.   Toiavx arra (Upccg Itptj dtalex^tvvccg livai. tov  ovv ZkoxQUxrj iatrup it&g stQogtyovzct tov vovv xccra  ti/v o6ov itoQEvsti&cci VTtoteizopevov, xal stEg^aivovtog    qua dicitur ad bonam accedere  invocatus ayaSof, aliam  iam exigit excusationem uon sibi,  quod accesserit invocatus, sed  Socrati, quod se vocaverit* Hæc  verborum explicatio sequentibus  verbis perpulere probari videtur. Schleierm. convertit: Wirst da   inich also uuch etwas entschuldigeu, weun du mich einfiihrst?  Rectior verborum conversio hæc  est ; Num ig>tur, si duci me a te  patiar, aliud quid habes, quo  possis to, quod me vocaveris, excusare? Quod ad me, ovx  dpo\oyi} 6 a) anArjxoi ?jxttr, aXX  viro 6 ov H&HXrjfJL&voS. Tl pro  rl aXXo positum reperies haud  *aro upud scriptores Græcos, cfr.  Piat, de rep. I. 8S2. C. atXXd  t i oiei ; £<pij. Sed quid aliud tu  censes Mallem tamen b. 1. legere  olKKo tl olti ; Adde Piat. Crit.  50. C. cap. XI. fin., ad quem  locum Stallb. laudat Lanib. Dos.  de Ellips, 27. ed. Schæf. Ut  unum locum o Latinis scriptoribus laudem, apud Terent, legitor  Heuut. Act. I. 8c. L v. 17«  Nunquam tam mane egredior, neque tam vesperi domum revertor^  quin to in fundo conspicer fodere aut arare ant aliquid facere denique,   <jvr tl 8 v, seqq. An notat Stallb. ad h. 1.2 a Alludit  ad II. X. v* 224.," unde suum  hausit Ruckertus scribens satis  negligenter: Hom. II. x • 224.   Pro Xpo o tov, qua^iFischeri confectura est, libri exhibent ad  unum omnes itpo ddov, 'O tov  antiquitus disiunctim scriptum  cui% seriore tempore coniunctim,  ut lit, ederetur, ad mutationem aapte figura pellexit. Ceterum  Xpo o tov nou debebat Stallb. convertere alter altero melius. Socrates controversiæ pertæsus, et sibi et Aristodemo excusatione opus esse concedit. 'Sibi,  quod invitaverit, illi, quod audiens  luerit vocauti. Sensbs est: Inter eundum tu milii, ego  tibi, quid otrique dicendum sit, prospiciamus.   naxa xijv o 8 o'v iroptvEoSai. Habet Ficinus:  Socratem cogitabundum  lento nimis passu gradie ntem exspectasse sæpius, tandem iussisse Socratem, ut præiret. Enarratio hæc est, non conversio  verborum. Ficini verba qui accuratius examinaverit, mecumj& ^a\  suspicabitur fortasse, Græcira po -3  verbis oliro infuisse, quod O r/J   ce uti orum cura sublatum, magna»? ;& ££  molestias Ficino excitaverit.   i it e 181 } Sh y evs 6 $   Stephanus iyiveto scribendum  coniecit, Wolf. do ellipsi 6 vvi{Stt  verbi cogitavit. Ut irttidr?  yevidSai, ita panllo infra ei&vf  8 * ovr &>> I 6 etv. Hæc structura  virtus admirabilis est Græcæ  orationis, qna efticitur h. 1., ut  et de prioris narratoris vivaci- ^   tato, et de alterius narratoris    • >*  ov xeXevuv ngoiivai tlg to XQoOdev. htubr t ds ytvlo&ai hd t)j olida rrj 'Ayaftavog, dvcayfuvt/v xatæ Xafi flavetv xrjv &vqciv, xal u Mtpij ccvzo&i ytloiov naftuv. ol (llv yag tvdvg naiSa uva IvSo&cv dzavti/  fide, aliena, non sun, exhibentis,  lector admoneatur. Exempla huius  structuræ plurima iuterpp. ad li I.  laudant v. c. Piat, de rep. X.  617 . D. d (paS ovv, iiteidi/  d<prx£d^ai, ev$vS 6elv ikrai  itpds ttjv Aaxtdiv. 619. C.,  620. D, 621. B. Ceterum in tota hnc enuntiatione  infinitivi imperfecti 'et aoristi alternant ita, ut aoristicum tempus  actiones momentaneas, imperfectum durantes actiones denotet.   ol p$v ydp. lloc legitur in  Bodl. aliisque codd. non paucis.  Inceptæ stmeturæ potestatem,  de qua modo dictum est ad  ijteidt } yivkdScti, misere turbant rov plv verba, quæ olitn  pro ol yiev edebantm. Facere  autem non potnit Apollodorus, ut,  cum Aristodemum paullo ante loquentem induxisset, nunc desubIto ipse in sc reciperet illius  orationem, id qnod X 6 V piv  scriptura efficitor. Recte igitur  editores ol piv Platoui vindicarunt, quod et Photius præbet in  Lex. s. v. ol. Habet enim: ol  itepidTt&fi&vcoS dvrl t ov kccvxdr  dZvTuvcoZ di ouroz* dvpTtodiov  ol plv ydp ev S vS itaibd riva  luv ivSor (?) ujTocvtijdetvta.   xal xaxaXapfidvetv.  tToc loco ne quis cum Ruckerto  arbitretur, quod in antecedente  orationis membro obiectum sit,  Sn hoc subiectum esse yiaraXapftdvsiv verbi : aytiv abso1ute  positum eat. Structura verborum  hæc est. ?.<prj ol ditavxj)riavTa «ruida dytiv, h. e :    dixit, puerum, qui obviam venisset sibi, ducem fuisse udeurn  locum, ubi ceteri cousedissent, et  £<prj xaTaXapfidveiv t/Stj  Ceterum solebant Græci verbi  transitivi infinitivo, qui idem  snblectum habeat, atque verbum  fiu tum, e quo peudet, subiectum  nou addere ea fortasse de caussa,  nc dupliciter posito accusativo  (subiecti et obiecti) ambiguitas  oriretur sententiæ, atque ut facilius obiectum aguosceretur. cfr.  Enrip. Piioeu. v. SI. TCudiv ittUtoi  TEhiir, ubi non addi potest pronomen personale, quiu ambiguitatem sententiæ efficiat. Huius  loquendi normæ adeo severi arbitri Græci eraut, ut ne in intransitivis quidem verbis, quæ e  dicendi verbis penderent, accusativum pronomiuis casum iuiiuitivo  oddi paterentur. Ubi autem pronomen ponendam erat necessario,  ut in Piat. Parra, 127. 1).  nominativum posuerunt, nou accusativum : .at>roV re ETteifeXStir  $<prj o IloSodupoS xal rov  ILxppevlSrfy.   evSvS 6* ovv. Mtv et 6e  particulæ ita plerumque adhiberi  soleut, ut duorum verborum, quibus apponantur, mutuum relationem iudiccnt. Relatio hæc esse  liequit nisi inter verba, quæ  suapte natura possont alterum ad  alterum referri. Adhibentur itaqne,  ubi nomen nomini, verbum verbo,  particula particulæ respondet.  Igitur nostro loco scriptum exspectaveris, quoniam ol vocuU  nominis» proprii locum obtinet    xrMnozioM.  23    ilavxa cfyuv au xaxixuvxa oi aMoi, xai xutakaujia vuw  y8rj (ittlovtas deutvBiv. tv& i>s 6’ ovv tog Iduv tov  ’Jya&a)va, tpctvcu, '^iQiaxuSyfis, elg xa/.ov yxeig,  Zlxeog evvdunvijOjii' sl 8’ aXXov xivog evexa yX&ig,   ei ulv xur Si 'AyaSava. DeIlex isse autem scriptor a consueto  harum particularum usu videtur,  quod enuntiatio itu conformanda  «rut, ut non solum ol responderet sequenti xdv 'AyaSuvct, sed  «tiam evSvS ad sequens tv$vS  referretur. Duplicem hanc relationem indicare tantummodo scriptor potuit, revera exprimere non  potuit. Scripsit itaque ol pkv  U'3 vS 6£. Sed quoniam hac di«endi ratione nou sublata quidem  et prorsus deleta, sed turbata  tamen atque imminuta est vis  relationis utriusque ol pty  roV 'AyaSooya et rvj&vV ptr  r— tvZvS 6£l ne singula totius  «•nuntiati membra dissoluta viderentur, OVY particulam scriptor  adiecit, quæ ut contiouandi part cula est, ita membrorum hiatum  explet commodissime. Simili ratione scriptum reperies Apol.  8ocr. init, ott p\v vpeif, oj  avSpeS ’A$7/vatoi, xexovSaxs  vxd xc ov £/i6jv xaxr/ydpav, ovh  ol6a * £ y o> 6’ ovv xat avxo$  xnt auioov oXiyov ipaviov £xeAxxSopJfy. Qno loco non vptlS  ptr  £yoj 8£ Plato scripsit,  quod inceptæ enuntiationis ratio  «tiam o xt ptv dsivotaxor  8t flagitabat. OvY priori particulæ additum reperies Symp.  176. B. £y co plv ovy \£yoo  vplv dxt reo ovxi rtdyv jtfÆ*rcJf 1'xo* vxo x ov xoxov   y* a$ 6iopm dvaipvxy* xtvuf, olfiat 6* xa\ vpaiv tovS  «roAAoirf, quo loco chiasmi  ratio, qui plerumque in Uuiosrundi locis reperitur, iyoo non ad A iyes  docet sed ad ^aAtTrciiS’ ^gj referendum esse. interdum ovy  particula omittitur in hoo dicendi genere de industria, ut repugnantia quædam voluutatis exprimatur, verboruraque relatio  minus sibi respondentium deuotet id, quod apud Homerum Cst  Ixc Jy atxovxl ye Sv/igj. E.g.  Piat. Ep. VII. $25. A. TtaXiv  61 fi p a 8 v x ep ov plv,El\x8  8 £ pe ojucof 7 } 7iip\ xd TtparxEiv  xd xoiva >t<x\ noXixixd txiSvpla. Adde Soph. Oed. C. v. 521.  i/YEyxoY xax6xax\ (u B,ivot,  ijveyxov, dxaov plv, $£C>V ioxeo,  xovxgjy 6 * avSaipETOv ovStr,  quo loco Reisig. axojy pav scribendum couiccit, Dubito, unm rect'.  Pessime autem alii docuerunt,  supplendam esse post ukgov ptr  IxaJy 6k oi/. Ceterum huius  structuræ exempla permulta rcperiuntur, quibus ellectura est, ut  scribæ interdum 8 * ovy ponerent, ubi y ovy a Platone exhibitum est.   E is xaXov 7/ X EI S, d X G0>  6vy 6et7tY i/ 6y$. Fortasse e Dawesiana illa lege, quæ cum  couiunctivo aor. I. vetat oXgjS  couiungi, Bekk. v* tivvSet XYt/dEiS coi rexerunt. Frustra.   Stallh. nnnotut ad h. 1.: Vulgatum dx coS 6vv8ti7tvrj6ff> mutari,  non quo coniunctivum aoristi  primi soloecum putaverim, quæ  fuit Grammaticorum quoruudaro opinio, sed quod luturum rei ipsi m a g i s accommodatum sso videbAter. Continet «eim klgccvft ig AvuftccAov ' cog nccl %$zg {tytcSv (Jfc, i-va xctAadccifu, oi?£ olog ** ^ Idslv. aM.cc IkaxQcctr] 7j(iiv icdig  ovtc aysig; Kal lyu\ iq >rj fisra<5TQEq)6pEvog, ovdafiov  uqcS UaxQatT] iitofievov. eItcov ovv, ott xal avtog  Utra UcoTCQatovg ijxoifju, xXrj&elg iri Ixrivov Sevq Ini   cohortationem Aristodemi, ut epulis iuteresse' velit, adeoque indicat, Agathonem persuasum habere,  hoc ab eo factum iri. Nam in  invitandi formulis Qræci sempcr  post O7CG0S iuferuut futurum  tempus, nunquam coniunctivum  aoristi. Scripsit autem V,  D. elS xaXov fjxetS* oxqjS 6vr&£i7tv?j6EiS. Efficitur autem hac  verborum disjunctione, ut Agatho,  ceteroquiu homo elegantissimus,  parum honeste nunc egisse videatur. E Stullb. sententia convertenda sunt Agathonis verba:  Schon, dass du gekommen bistj  •peise nun mit! Hoc non tam  est vocare aliquem ad coenum,  quam exprobrare alicui tecte adventus temeritatem; quasi non  per se intelligatur, eum, qui advenerit, una couvivari. Rectior  explicatio hæc est : Du kdmmst  gerade noch zur rechteu Zeit,  um mit uua zu essen: hoo   modo præposteræ invitationis  odiosa commemoratio vitatur feliciter et rectius simul verba explicantur : Hi xaXov rjxeiS. Scidas habet: ds xaXov ' evxaipaS.  Recte,   cjS xal Urbanitatem   Agathonia ex his verbis coguoscas licet. Sensus eat: Si alius,  rei gratia huc profectu»  es, in posterum di f fer;  idem enim et ego facere  coactus eram heri, cum  te quæreiem, ad epulas ut‘lnvitarera, te nusquam  terrarum conspiciens.   ovx olo S t ij 18 eir. Stallb.  addito verbo nullo f\Y edidit,  quæ vulgata lectio est, pro rf .  Acute Ruckertus: confirmare V   lectionem videntur etiam libri i»»  qui plane omittunt verbum, quod  fieri non potuisset, nisi v abesset, ut interire rf in sequente r  posset. Vide quæ annotata sunt  ad 9.   dXXa Swxpdtij &yeiS,  Rogat propterea, quod scit, eum  semper cum Socrate esse, R iickert Vide ad 173. B. quæ  annotata sunt. Ut illic ex epithetis, ita h. 1. ex Agathonis interrogatione colligere licet, Aristodemum Socrati amicissimum  fuisse,   xal lyv,l<prj fieradt pe<pu pevoS, X, t. A. Comma potu i mas post peraCfpetpoperoS,  delevimus, quod in omnibus edi*  tionibus exstat, post i<prf, quo  deleto sententiæ vigorem auctum  habebis, et errorem Aristodemi  descriptum vividius. Sensus est :  uud ich, sagte er sich mndrehend, / sehe nirgends den Socrates mir folgen. Si qui snnt,  qui post Hqtff interpurfetionem  flagiteut, /iiprjpacToS gratissimi  severi osores, non repugnabimus  quidem: hoc certam est tameu,  nostra interpunctione lepidiorem  Ari»todemi orationem fieri. Ceteium lineolam post pe%adtpe<po  ETMI10EI0N.   dst Jtvov. Kctliog y', %<p?l, nouov <Sv ' «Aia srou Itiuv   ovzog ; Om6&bv ifiov &q n dgyu. alXa ticcuud^a  xal avxbg xov av eti]. Ov axitpu, H<pr), itai, cpcivai 175  zbv 'Ayaftava, xal tlga^BiS Saxffavtj; Ov 8’, rj 8’ os,  'AQiazvdrftis, 7ta(j 'Eov&tiaxov xaxaxllvov.    peroS ponendam cnra?imns, nam  per aposiopeain xal iyco verba  posita sunt. Dicturus nimirum'  Aristodemus erat: xal iyoo ijxco  avxoS pera ScaxpdxovS, converso autem ipsi inter loquendum, quoniam Socrates nusquam comparebat, præ stupore lingua hæsit* Paullo post animo resumto,  ut orationem interruptam expleret, xal iyco repetit ita : ehtov  ovv, oxi. xal avxoS //era 2co~  xpaxovS rjxoipi h e. : ich   sagte nun, dass ich ja anch  gekouimen ware, ich rait  Socrates* Male Stallb,, quem  Riickertus secutus est, xal  avxoS verba arctius coniungenda censet atque convertenda :  dass ich j a e b e n mit dem Sotrates gekommen ware. Ceterum  aikxo-S pexa 2arxpaxovS h. 1.  dicitur, ut sexcenties alias v* c.  in Xeuoph. H* Gr. 2. 2. 17. scriptum legitur: psxaxavxa ypi$Tf  npedfievxtjs is Aaxedatpova  avxoxpdxcapfd exaxoS avxoS.  Numerus ordinalis, quem vocant,  StvxEpoS nou additus est nostro  )oco, quod addito Socratis nomine plane otiosus erat atque  inutilis.   xXijSelS vit ixeivov .  Facit Aristodemus, quod facturum  se esse indicaver.it 174. D.  ooS iyoj phv ovy opoXoyijdta  dxXrjxoS ijxeiv dXXd vito  do v xexXrj pkv oS.   xaXcoS y\ £<ptj, rtoitov  dv * aXXa x. r. A. Octo Bekkeri    codd. yi omittunt; qnf qno sunt  melioris notæ, co studiosiores  editores in expungenda purticula  fuerunt. Fi particulam Platoni  restituit doctissimus Stallb., quem  Riickertus secutus est, motus  Uterqne constanti usu yi particulæ in hac dicendi formula apud  Platonem. Lundat Stallb. ad h.   1. Charmid. 156. A. xaAcSff ye dv, ipr 8* iyoS, ir otior.   Hipp. M. iuit. xaXcoS ye dv  voplZoov. Lnchet. 192. B. op-\   &<oS ye dv X iyajv. Theæt.,   D. o p$coS ye XeycjY. Lysid,  p, 204. A. xaXtoSy, tjy 8*iyco f  itoiovrxeS, quibus adde si placet exemplorum congeriem, quam  addidit Riickertus in edit. Symp,  17* Convertenda verba sunt:  Bene quidem, inquit, factam a te, sed abigentium  est ille?  xal avtoS. Addito xal iudicatur, magnopere mirari etiam  Agathonem ( aXXd nov edxtr  OVXOS ;") absentiam Socratis, Minus igitur placet, quod in uno  cod. Paris, legitur aAAa xal  $avpd$a>, neqne videre possum,  cur id in textum receperint Astius  et Reyuders. . Ficinus habet . *  quare ipse qnoque miror,  nt eundem legisse suspiceris <  aXXd xal avxoS SabpaZ co-, quod  cum correxisset, serior manna  xal avxoS ponendo post SavpaZa> f factum est fortasse, ut 4  xal remaneret ante $avpd?,ca.   ov dxllf>€l. Futurum cum  Cap. III.  Ka\ 2 fiiv Scprj dnovltuv tov aalSa, T va xaxaxloito' aV.ov is uva tajv naiSav tjxuv dyyUkovta,    negatione iu interrogationibus adhiberi solet liaud raro pro imperativo, Potest adiuncta esse  huic dicendi formulæ indignatioliis* iræ, clementiæ notio, prout  verba pronuntiaveris. Servitutem  clementem apnd Agathonem fuisse  servis, verba docent p, 175» B.  itccvTcoS icapaxi^ETt oxt av ftov XrfOSe, iytstdctr ns vuir MV  ifpeSttjxy • d iyv ovSencdxoxs  iirobj6a et q. sqq. Verba convertenda sunt igitur nostri loci:  Wil 1 s t du nicbt einmal nachseheu,  •agte er, habe Agatbon gesagt, and den Socrates hereinfiibren ?   xrrl J?jukr x.t.\."E p£v Bastii  cprrectio præclara scriptnræ Vulgatæ xa\ ifif, quam hodie nemo  explicabilem indicabit. Probatur  his verbis, quod supra annotavimus 22., ad evitandam  ambiguitatem Græcos personale pronomen omittere solere  In transitivorum verborum infinitivis, qui e dicendi verbis peudeant idemque, atque illa, sublectum habeant. Efficitur autem  hæ loquendi norma h, 1., ut  puer Aristodemum abluisse dicatur, non vice versa puerum Aristodemus, quod Græce audiret;  xal leprj axorifieir ?ov Konda.  Puerum li e. servum quod attinet ;  fitallb. toV itaidct videlicet,  inquit, quem antea compellaverat. Riickert. : 6 itaiS est  h. 1. is 6errus, a quo supra  Aristodemum introduci vidimus.  Neuter satis recte h. 1. articuli vim  rnlerprtUtar. 'O raif «t petius servus, cui pedum lavandarum officium mandatum erat.   SVa xax axioix o. Modus optativus cum particulu finali  couiuuctus satis demonstrat, duoruteir non præsentis tempuris,  sed præteriti infinitivum esse.  Vide ud p/ 7. quæ annotata  sunt. Imperfecti participium habes 174. E. &•£oxal  t ur (>£ iva xaXcdtxifji x. r. A. In  vett. editionibus scriptum exstat  ira 7Cov xaxotxioixoy quod nullo modo lcrri potest. Depravatiouia  fontem felicissime Stallb. indagavit. Cod. nimirum Flor., littera a apud Stallb. insignitus,  0 7 tov.   habet ty a xaxaxeotxo.  i r x gJ t cor ysixor o»r  npoSvpu). Vitruv. Arcli. libr*  VI. 10. 7Cp6$vpa, inquit, Græco dicuntur, quæ sunt ante ianuam  vestibula. Addendum est, itpdSvpcc non nisi privatarum ædium  vestibula esse, publicarum ædium  vestibula TtponvXaia Græce vocari, Minus apte igitur Schlcieriu.  npdSvpor con vertit : Vorhof,  quo verbo npoTtvXaia indicantur.  Narrationem quod attinet Aristodemi: Socrates inter proficiscendum meditatus, cum prius itiucris,  quam cogitationum fiuem reperis—  •et, ad vestibulum vicinæ domus  deverterat.   xapov xaXovvxoi. Ilacc  est vulgata lectio. Codd. non  pauci xal 6ov habent, Eekk. ex  optimorum auctoritate codicum  edidit xen or>j caiot patt«eini«na ot* SmxQcttTjs ovtos «vajjopjJtfas Iv xta xiov yutovav  ZQofrvQip tOtrjxe, xaftov xukovvxog ovx i&tte tlsi&vtu.  "Atoxov y', s<pi], kiyug ' ovxovv nutes uvtov xul (tri  utprjGBis; Kal og 'iqirj tlittiv, MijSufica s, ukX iuts uvtov. B    suscepit !n Epliem. Litt. Ienens.  Jul. 1852, N. 1SS. censor Riikkert. editionis : a Fragt es sicli, ob  hier g er ad e Red e odor abhan£ i g o besscr sei, so ziemt die  Jelztere mehr darum, weil sie  das i 11 den Vorder- und das iu  den Ilintergruud der Uuterhaltung Gebdrige schon abstuiend  die das Gesprach der lJuuptpei*soueu unterbrecheude Meldung  des Sclaven glcichsum episodisch  zuriickstcllt. Und gleichwie diese  Form auch iu dem Uebrigeu hervortritt, indein 'kein H<pjj einfiilirt, so sprechen fur xa\ ov,  aul' welches wir schon durch innere Griinde hiugewiesen werdeu (?) i auch enlscliieden dio  besteu llandschriiten, welcben  llekker mit Ilecht gefolgt ist.  Dcnn auch das Einzige, woran  cin Vertheidiger des xdfiov sich  konute halten wollen, das ovxoS  bei ^LtDxpdcxrfS vertragt sicli auch  mit ungerader Rede : dass Socrates hier iu der Niihe stehe.w llæc  speciosius sunt, quam verius disputata. Quid, si ipsa pueri  verba scriptor exhibuit, ut, ad  quæ omnes convivæ aures arrexisse consentaneum est, eadem  jm»e ceteris etiam emineant?  Non dispiciendum est autem,  quid obstet, quominus xa/iov  scribatur, præsertim cum hac  scriptura totius loci vigor augeatur incredibiliter. Iluc accedit,  quod Agatbonis verba atOTtov  y\ &<pr}, Xkyttt et q. seqq. ipsis  nuntii verbis apprimo eoaveniant. Verba conrertenda  sunt: Eiu anderer aber von Agathon's Sclaven sei gekommen  und habe berichtet: Socrates der *  steht beiseit am Hofraum des  Nachbarn, und ich rief ilin mehrmals, aber er will nicbt heroinkommen.   ato*or y, £<PV> XeyttS*  Suut fortasse, qui scribi iubeant  axoitov yk xt, E<prj, XkyuS.  Utrumque geuus dicendi in usu  erat Græcis. Iu formula axoxov yk xi y l<pT), XkyuS, XkytiS  verbum transitivum est, ex ecquo  xl pronomen exaptatur, cui aroXoy est additum. Omisso t\  pronomiue atoxov adiectivum  adverbii vices obtinet, XLytii  absolute pouitur ut nostratium  sprechen; exempla si quæris  huius usus, vide sis Indices. Eadem dicendi formula explicatius  perscripta audiret: axoitov y,  2<p V, Xuyov Xiyetf, Felicissimo  Si hleierm verba convertit : Wundorlicher Bericht! habe Agathon  gesagr.   ovxovv xaXetS aifrov *  xal fu) a(pi/ <$iiS ; Vulgo  male xotXel legitur, paoci r.odd.  etiam soloece exhibent u<pi]6yi  pro aqtijOEiS* Ovxovv vocem  quod attinet, usu loquendi factam est, ut iu interrogatione  non ovxow, qnod ratio exigit,  eed ovxovv scriberetur. Igitur  interrogationi conclusionem additam habes, quæ voluntatem iubentis certissimo describit. Ceterum non possa I   fdos y&Q ti tovx' X%u‘ Ivioth dnoOtag, Znoi, 3v rvffl,  itSTtjxtv. $u Si avxixa, cog fyw olpcu. fir) ow nivtite,    aAA’ lare. ’AkX ovxco %VV    mas huius dictionis nisi hac ratione assequi potestatem, ut convertamus: Du rufst ilio aiso  uud lasseat uicht ctwu  von ihm ab. Mi/ particula  quopiam non ea, quæ revera  fiunt, sed rei alicuius nonnisi  possibilitatem, veuia sit verbo,  cogitatam negat, additis nicht  etwa verbis commode redditur.  Recte Hermauuus ad Soph. Aiæ. /at/ sic positum dubitativdm esse docuit.   l$o? yap xt tovx*  Cave otiosum censeas x\ pronomen. Priscian. XVIII. 1208.  costro loco exemplo utitur, quo demonstret, Atticos scriptores  interdum x\ pronomen abundanter adhibuisse Iu Platon. Hipp.  M. V* 287. B., quem locum  Stallb. laudat, eandem enuntiationem reperies verbo immutato  nullo. Facit inprimis ad agnoscendam xt additi potestatem  Thuc. 1. 132. *ApyiXio? Xvet  x ds inidxoXa? vnovof/da? xt  x oiovx ov TtposeitedraXSat x.  r. X % h. e. Argilius cum suspicaretur, harum rerum aliquid imperatum esse et q seqq.  Adde Pl. Syrop. 191. A.   fX<AY XI TOlOVtOY OpyUYpY, olor   vl dnvxoxopoi. 194. E. onoio?  di xi? av roV oav xavra id&pi/daro. Gorg. 472,C. idxi pbv  ovv ovxoS xt? tpoito $ iXiyxov,  ei? 6v xt olet nat aXXot noXXoi .  Hom. II. 9. . 11. xovxo xl /tot  xaXXidxav M <ppedlv eldexat  tlvat. Verba nostra convertenda  sunt: dat ist «o teiue Art;  okoliIv, il <Joi Soxu, (pavas    ort ot av rv XV  H. e. d« • istens interdum, ubicunque locorum est, ibi consistere solet. Quando iudelinite loquuntur Græci, cum'  verbo finito quietem significante,  non quietis sed motus uotiouem  coniungere amant. Ut igitur de  certo loco dictum supra est Sdfij7<EY lv rcJ TCOV ytlXOYt&Y 7CpOSt Logo, ita nunc, quoniam certus  locus Aristodemi animo non obversatur, Znoi non Znx/ rectissime  scribitur. Illud meliorum codd.  auctoritnte confirmatur, hæc vulgata lectio est, quæ etiam rvxp  habet pro rvxot. Ali. ratio eat  verborum c, I. 173. A, X po  rov Se xeptrpexuv oxy rvxpipt  («c.. xepirpixuv ) ubi posito rvXOipi sc. xeptrpexuv, verbo motum significanti admugitur notio  quietia. Adde Piat. Phæd. 113.  B. ov hcA oi fivotxf s anoOxdSparadvacpvSuSiv, ot iy av  rvxarfi rrjs yyS, quo loco ad  Tvxatdtv supplendum est e præcedente verbo finito participium  motum in aliqnem locum sigivJA  ficans ararpv Purus. Aiioch.  365 C. artioxet 61 SioS :n  ti otfpypopai roSSe rov <puroi xai ruv dyaSur, ætSti/S te  xa l axvPtoS dxoixote xeioopai Orproftevos, eis evids nat  xruSa.la perafiaMuv. de repi  IX. 589. A. uste t^xeOSai  oxy dv ixdvuv oxorepor dyp.  Ibid, VI. 492. C. qtepopivtjv  nata (Sovv, y av ovro s <pepy.   prj ovv xivelxe, aAA’  iaxe avrd v. Valgo xivffte  exhibetur, quod Grammaticorum   tov 'Aya&ava. ukX fjpccs, eo xaiStg, rovg aM.ovg  £< Jtt « T8 ‘ Ttavtas xccqcitI&stb S u ixv ffoviija&s, Ixudav  t ig v/iiv fifj hpte vtjxu' o iya ovSeikoxotb ixohjoa. vvv,  præceptis repugnat. Aristodemo*  autem cum supra dixisset aAA*  idxe ccvxov, eadem verba nimo  repetit cuqj vi maiore, quod servos Agathonis, dicto heri audientes paratos adhuc ad vocandum  Socratem animadvertebat. Ceterum e xtrnr verbo facili negotio Socratis meditabundi imaginem lingere tibi possis. AftreidScn nimirum dicitur, quod  ipsum se non movet. Ad Socratem adhibitum, hominem ostendit sine motu dantem atque rerum externaruimoblitum, qualem,  descriptum legimus infra 220.  C. cfr. 218. C. xal eheov  xtrt/daf aVxcrr, quæ verba de  eo dicuntor, qui sine motu iacet  atque somno quasi sepnltns. Adde  Pl. de rep. I. 829. D. xal  iyoj aya6Se\s ctvrov einorxoS  ravxa, fiovXo piros hi Xkytir  avxor ixirovr xal ditor x.x.X.  Consentaneum est, Cephalum^ finita oratione, rem, de qua dixisset, secum reputantem, sine motu  sedisse, qua propter ixivow  avxor Socrates ait.   a XX ovrct) XPV • v *d. 9,, ac annotata sunt 12. Addendum  est h. 1., discrimen, quod ad  p.* 178. C. inter XPV et cx ”  stare annotavimus, non dbique  apud Platonem exemplis probari.  Reperiuntur enim loci, obi Sii  pro XPV et vice versa XPV pro  6sl adhibetor. Ne igitur Prodici sophistæ instar nimia sedulitate usi esse videamur in indagando verborum discrimine:  hoc certissimum est: nusquam  reperiri in una eademque enuntiatione verbnm ntrumqne,  quin alterum necessitatem exprimat, alterum inservientem necessitati voluntatem denotet.'   navtcoS it apaxiSets. *  IlapaxiSedSai dicitur de cibis  et mensis, ut Lat. apponere  monente Stallbaumio in annot.  ad Piat. Pol. 854. B. In aliquot codd. reperitur xovS aXXovS  idxiaxe ndvxaS xal itapaxi$ixc % *  quod, Thierschio, Reyudeisio,  Ruckerto, probatur. Male. Nihil  enim languidius xovt aXXovf  ndvxaS verbis } correxerunt autem  olim ita, qui de narxoaS vocis  explicatione desperarent. IJdrxaiS 9  inquit Riickerlos, habet, quod  offendat. Quid enim sibi vult  ly 1. omnino, iiberhaupt?  Cogitatione arctius couiungendum  est izarxwS cum oxi ar fiovXv6$£ f ut respondeat nostratium;  Thut ganz, wie ibr wcllt, setxt  vdlJig vor, V.U3 euch beliebt.   iieeiddv xi s vp.tr pif  iipedxtjxy . Satis colligitur  e lectiouis varietate, doctos homines iam antiquitus do huius  loci explicatione admodum dubitavisse. Vix commemorandum  est vpir, quod in aliquot codd.  reperitur pro vpir: gravior varietas est in verbo i<pEdxt}xy.  Pauci sed optimæ notæ codd.  iq>idtrjxei exhibent, tres atpe6xtfX7f, unus itpetdxijxu, alius  itpidtrpiE commendant. Stallb.  convertenda verba censet; quum  nemo vobis præpositus  sit, id quod ego nunquam  feci, In Scliieierm, conversione    30    ijaatqnoz    ovv vofitgovxis xal l/ii v<p vficov «fxX fjo9ai ixl dtZC xvov, *«l rovgSs rovg u/J.ovg Qtgaxeutts, iva viiag  httuvaftev. Mtxu xavxa iqyrj oepcic; (iiv dunvtlv, rov di  ZcoxQocnj ovx slgdvau xov ovv 'Aya&ava ita/j.uxiq  xilivetv aaaxlii^ttOdM xov ZtoxQtxit], X di ovx iav.    legitor 889.; trogt aof,  was ihr wollt, wenn euch  doch Niemand Befehl erthcilt, was ich noch n i e •  mnis g e t h a n habe. Riickertus verba convertit : Apponito  quæcu nque vultis, quam  nemo vobis est præpositus. Ficinus, cuius maxime  conversio probabilis: Ceterum  vos, o pueri, aliis epulas  afferte, et, quodcunque  lubet, apponite: vobis si  quidem nullus præsidet.  Sed nmn credibile est, herum,  qui revera neminem servis suis  præposuerit, dixisse: si quidem nemo vobis præsidet? Plato scripsit fortasse  iitt i, 'r av, x\S i ' ptv MV t*P E ’ tSrjjxp h. e. nam, pueri, aliquis vobis ne sit præpositus. Atque ne cui maior videatur huius s'cripturæ audacia:  scriptum exstat in omnibus codicibns 174. D. itpo odov,  ubi manifestum est, Platonem  vtpo 6 xov exhibuisse. Ceterum  pro ppdtii cum vi ponitur h. 1.  r\S jJ7j ita, ut r is per euphenismum dicatur. Sententia est:  diros aliquis homo vobis ne sit  præpositus.  vvv ovv vopi£ovteS  seqq. Laborat hic locus ex interpunctione mala, quam ut ceteri editores, ita huius libri iaterpres celeb. Schleierm. immutatam retinuit: Denkt also, auch  ich wiire von euch tum Gastmahl    geladen, so wie (?) die Andern,  uud bedient uus so. Commate  post xovS aXXovS deleto et posl  ini Selnvcv posito sententia verborum hæc est : nunc igitur me  quoque ad coensm vocatum existimantes, me et ceteros, voa  ut laudare possimus, curate. Ac  ne cui mira videatur ijti pronominis omissio, dicturus Agatho  erat: vvv ovv vofiigovxsS xal  ipk v <p vpavV%KexXrj6$ai ini  Setnvov Sepanewxe sc. ijifc  Sed quonium non tam se, quam  convivas servis commendaturus  erat, ea dicendi ligurii utebatur,  quæ omisso ipi pronomine inprirois convivas curandos ostendet et. Haud dissimilis est nostro  loco Piat, Pol. I. 329. D. xal iyoo fiovXupEvoS Exi Xi~  yeiv avx 6 v ixivow xal tutov  x. x. X.£ 61 ovx iav. Bekk. ex  aliquot codd. d intextum recepit,  qua lectione oppositionis ratio  turbatur, vid, Malth. Gramm. pl.  f. 536. 1054. annot. Ut  hoc, ita t spernendum est, quod  non recepisse in textam frustra  Bekkerum piguit. Equidem Ruckerti iudicio subscribo, qui in  aunotatione ad h. 1,; Egit, inquit, de hoc ignoto nominativo  pron. pers, Buttm. Gr. pl. I.  291. T. II. 413. seqq. allatis testimoniis grammaticorum,  quibus id quidem edicitur, ut  vix liceat dubitare, quin exstiterit ea forma apud Atticos scrl- fytiw ovv avtov ov nokvv xqovo v, cag da&n, HuccqIipctvtcc, dlka (iah6xa 8(pa$ peOovv dHitvovvtag* xov  ovv 'jiyafravcc, tvy%ccvuv yccQ £<fyarov xazaxei[iBvov t (iovoVy sdtvQ, %(pij q)uvcu> ZaxQccreg, 7tag ips xatdxBuJo,  tvu xal tov fSotpov [ajtxofuvog tSov ] c#oAav<fo, o tfot D ptores, Ternra nt recipere  liceat alio loco, ubi codd.  desit auctoritas, non efficitur. Quare cum in tot  scriptis Platonis ne uno quidem  loco, quod sciam, ullo in codice  hæc forma occurrat, haud scio,  an recte inde colligatur, ab hoc  certe scriptore eam prorsus alienam esse. Ad verba izoWaxiS  xeXtvetv annotatum est ia Symposii ediiione Wolfiana Lips.  1828, 13.2 TtoXXdxtf xeXevur  xnuss vom bJossen Wollcn genommen werden, wie das Folgende zeigt. Male, Sensas est:  Agathoa habe wirklich oftcr den  Befehl gegeben, den Socrates  herbei zu scbaifen, er aber habe  es nicht gestottet.   xov ovv’AydS<avct, rvyXceveiv ydp x. r. A. Haud  raro apud Græcos scriptores ea  pars orationis*, quæ caussam  continet alicuius rei, ei orationis  parti præfigitur, qua res ipsa  continetur. Huius usus exempla  ai quæris, adi Mattii. Gramm. pl,  $. 615. 1242. Exemplo est  etiam hic Jocus, quo prius commemoratum est, cur Agatho Socratem vocaverit, quam id ipsum  dictum sit, Agathonem ad se  Socratem vocasse. Nollem tamen  huius loquendi usus severior art biter exstitisset Riickertus,* qui  ad h. 1. hæc annotat: c Quod   nemo, cui vehementiorem dederit  natura animum, non, ut ego opi*  nor, experitur, scribendo exprimere omnes verentur, Græci,  quorum nondum regulis esset adscriptas stilus, licere sibi putabant, nt inchoatæ sententiæ  aliam insererent mediam, qua  illam vel explicarent vel probarent priusquam totam legisset  audivissetqne, ad quem dirigeretur. Quamquam apud Herodotum,  apud quem exsurgens prosa oratio nullodum freno tenetur, frequentior hic usus, quam apud  seriores prosarios scriptores. »  Quem, quæso, nostratium offendet Platonicorum verborum conversio hæc : • Agathon nun denn zufal liger Weise habe et  allein am letzten Tische seinea  Platz gehabt hatte gerufen:  Hierher, o Socrates u. s. w . Hdxatov xat OLxtiptv ov 9  pQYOV, Interpunctionem ponendam curavimus post xatocxttps.yoy, ut, qui ultimæ mensæ accubuisse dicitur, idem significantius* solus fuisse perhibeatur.  Festis diebus pluribus mensis  utebantur Græci, singulis autem  non nisi ties convivæ accumbere  solebant. Hinc nomen triclinium ortum. Iva. xal tov 6o<pov  [aitto pevoS Oov] aito A pcv 6ao, Ia paucis sed melioris  notæ codd. v, c. in Bodl. omittuntur verba ctittoptvds 6ov,  quibus negari nequit, orationem  paullo rigidiorem fieri atque incomiorem. Nam duobus geni- jrpog&frij totg jrpoO-upoig. djjAov yap ott tvpsg auro  KKt i^Etg • ou.yap «v nQoaxiattjs. Kal rov EcJXQiaij  xa&t&6&at xal ilitslv, on Ev uv fyoi, tpavox, m ’Aya&cov, tl xowvtov rfij rj Gorpla, togr’ bt rov nk^oiortoov  lis tw xivwtQov quv •fjfibv, lav ciTtzojju&cc akh)Xav,    tivis divertas relationis inita  positis facile fiet i possit» ut  verba falso construantur: tov   do<pov dntdpEvoS dov ano •  Xavdoo. Omuia bene haberent,  ai scriptum exstaret: tva anxopevoS 6ov tov dotpov anoXavdco, o doi nposidxy x. r. A.  Videlicet Agatho dnxEdSai xivoS  tropico sensu h. e. de sedis vicinitate intelligeret, Socrates  autem verbum premeret pro more  suo satis festive, atque de contactu materiali intelligeret. Fortasse anxopevoS dov verba e  Socratis responso huc translata  sunt, atque in sede minus apta  posita. Uncis eadem compegimus, ut quibus deletis Agathouis  sententia plane non mntetur, et  flumen orationis minus retardetur. Verba convertenda sunt:  Hierher, Socrates, zu mir  lege dich nieder, damit  ich zugleich der W e i • -heit froh werde, welche  vor dem Hofr&um ‘der  N a ch b a rs chaf t dir beikam. Iam quo sapientiæ laudem in Agathonem converteret, Socrates posito pro xaxaxEidSai  napct xiv a verbo dnrsd^ai rivos, respondit, ut Fiemus quidem verba convertit: Bene se   res nostræ haberent, Agatho a  si sapientia talis esset, ut in vacuum hominem ex pleniore ipso  contactu proflueret, quemadmodum «qua ex pleno calice io  vacuum per lanam influens. Si enim sapientia ita se habet,  permolli facio, quod apud te se*  dto, repleri quippe abs tc uberrima et præclara sapientia puto.   oti yap npo anedxyS.  Sensus est; non enim ah eo  investigando abstinuisses prius, quam id reperis se 3 .^ Supplendum igitur  est: y EvpeS avxo, non ut Stallbaumio visum. est, ei py EvpES  avxo . Negari nequit, interdum  npo præpositionem comt veibis  consociatam temporis rationem eum indicare, qua aliquid  prius fiat, quam aliud quid  evenerit, cfr. Piat. Gorg. 454.   C. onep yap Xiyco y tov k%yS  Ivixa nspaiysGSat tov \6yov  i pando, ov dov ZvExa y aX A* Zva  py ZSiZojptSa vnovoovvxeS  npo apnaZeiv dXX.yX.cov td  Xtyopeya x. r. A. Possis hoc  modo explicare etiam notissimum versum Hom. II. a, $.  noXXds A* ixpSipovS iftvxaS dtdi  npotaipev   ?}poocov,   quo loco npoidnxeiv significet  aliquem prius, quam exigat natura, in Orcum demittere, validum florentemque ætate necare.  Vides, quam bene huic notioni  conveniat Z(p$ipoS epitheton,  quod proprie ad ypcooov referendum est. Adde II. XI., 55. f  noXXaS ltp$ipovS xe<paX.aS a£6t  vpoidipeir- Priore versu usos  es,t Luciun. in epigr. 24» Anthol.   Gr, lacobs. T, II, 25» medicis :w  $  &SMQ zi Iv zaig xvh!-iv &8 g>q zoi (5«? zov IqLov Qtov  lx ttjs irbjQSiStsQas eis tfjv xtvarsQav. d yaQ ovzcog  fyu xal tj Gotpla, nollou ziuiofiai r rjv xaQ« Coi xazct- E  X/UGiv’ olfiat, yaQ fie naga Gov noli fjs xal xabjg Go~  tpiag nXrjQa&rjGEG&ai. rj fitv yaQ ifiri tpavltj ztg av    illudens adeo festive, ut mihi  non obtemperem, quin totum epigramma hic perscribam:   9 Iijtrjp xi i i pol xov lov tplXov  v\6v IrCEjnpEV,  coite pa$elv nap' i pol xccvxa  x d ypapparixd.  c oS Sfc to pijviv æi8e noti  aXy&a pvpi HSrjxev  lyvco, xal xo xpitov xoi68 9  axoXovSov Inoi,  noXXai 6 * ItpSipovi ipvX a S et 'i 6 i n potarfi ev,  ovnhi piv nipnei npoi pe  paSrjdopevov.  aXXa p idcjv 6 narrjpj 2ol plv  Xapiij einev, hraipe •  avxap 6 notii nap e pol xavxct  paSeiv dvvarai •  xalyap iyoo noXXai rpvxdi didi  npoYantaj   xal npoi xovt ovdev ypappatixov 8iopai .   e ii xov xev ojxepov. Hano  Wolfii coniecturam nonnullis codicibus probatam editores receperunt ad unum omnes excepto  Itiickerto, qui eli xo xevcoxepov  retinuit, annotans : Platonem non  de homine, sed de hominis  mente cogitasse, ut eli xo x %  ifpGov esset id, quod inanius  est in alterutro nostrum Artificiosior est quam verior hæc explicandi ratio, qua nemo non  videt nativam orationis pulcritudinem corrumpi»   8ia xov ipiov fi io v. Horum verborum explicatio recta Geelio debetur, qui hæc annotat in Bibi. Crit, Nov. T. H.  p, 274.: a 8ocratcs filum laneum significat» Nam verum hoc eat,  quum duo pocula sibi proximo adiunguntur, quorum alterum  aqua repletum sit, alterum vacuum, ac filum laneum madefactum contiguis horum marginibus ita impouitur, ut pars immergatur aquæ, pars in vacuum  fundum immittatur, fore, ut aliquid liquoris tanquam per canalem transeat. Hic lusus institui  non potest nisi cum poculis»  Hinc apta eius mentio inter convivas.  Eundem lusum scriptor  noster in animo habuisse videtur  Menon, 70. B. J fl Mivcov t npd  xov plv QextaXbl evduxipot  jjtiav iv xoii n E7iXv6i xal i$avpagovxo icp * \nnixy xe ?cal  nXovxcp, vvv 81, coi ipol Soxei,  xal ini docpia. iv$d8e 8e 9  co tplXe Mivooy, xo ivavxioy  nepiidrrjxev • doin e p avxpoS  xts xiji dotplai yiyove,  xal xiv 8vv evei ixtdov8e  tgov xoncov nap 9 vpai  oixedSai tj 6o<pia.   X 7fv napd 6ol xataxXi <$tv. Pro xaxaxXi6ii alio nomino  scriptor usus esset, eoque quidem  a xaxatxeidSai verbo derivato,  si id in liogua Græca exstitisset»  Comparata enim nostra verba  sunt ad Agathonis adhortationem  nap 9 ipe xataxeido, quæ, quoniam contrario seusu Socrates   %    l    tYt] xctl, tjg xl 9 ovaQ ovda' t] de <Srj   X auTtQti *£ y.cd jtoXXrjv laldodiv %oi>o«, rj ye naga dov  viov ovtrog ovtcj GepodQU i^tXaiupe xcu exepuvtjg iyeveto  TtQtonv Iv (i£.qtxhH tcSv 'EXXtjvav icliov rj TQigfivgioig.  'rfctdTrjs li, a<pq, m ZaxQtnes, 6 'Aya%av. dXXcc ravta  fitv xul dXiyov vcStiqov diadixadofie&a lyio ts xai 6v  xsqi rrjs dcxpiag dixadrtj %Qtxi(itvoi rep Aiovvdta • vvv  17C <5 e xqos to dtlnvov ngoxa xgizov.    ntinc cxliibet, ippiitr/i vocator  putillo infra 175« E.   oluat ydp pe itapa dov  nXtf pcaSy <fed$ ai* Scriptum exspectaveris ex lege grammatica, de qua supra dictum est  22. olpai nXijpcD^yded^ai  'itapa. dov. Interdum tamen additur personale pronomen oppositionis gratia, quæ nostro loco  manifesta reperitur. Socrates  enim ad Agathonis adhortationem  respiciens, quæ p, 175. D. legitur, dicturas erat: ut ego a  tc, non tu a me accipias adinirabileni quandam sapientiæ  abundantiam, cfr. Symp. 175.  fi. xov ovv *Ayd5a>va icoWiimS  xeXeveiv peta7t£jJipa6Saz xov  2(a>xpdxy, 'i 8 l ovx iav, Adde  220. E. fin. avxoS izpoSvpoxepoi iyivov xcov dxpaxyydov  iph Xafielv y davxov, qoo  loco avxoS pro davxov scribi  etiam præcedens avtoS non patitor. 223. B. xov plv ovv  3 Epv&ipaxov —o *Apidxo ftyuoS oixed^ai diciovxaS, e  Ztcvqv Aafieiv xoii xaxadapSeiY  x. r. A.   6oq>laS. Wolfium audi ad hoc  verbum laudantem Sydenh. annotationem: Den Ausdruck docpla  braucht Platon sehr oft, und in  »wei verschiedenen allgemeinen. Bedeutungen, lOTOn die eino  znr pliilosopbischen Sprache ge—  hnrtj und da bedeutet docpla dio  Wissenschaft von der Natur und  den ersten Grundursachen der  Dinge. Io der andern gemeinera  heisst es iede Vortrefllichkeit in  irgend einer besonderen Wisænschaft oder Kunat, irgend eia  vorziigliches Talent, Kenntnisa,  Geschicklichkeit, wie es hier vom  Agathon dem Dichter gesagt  wird. S* Piat. Theag. vom herein  und Arist. Eth. ad Nicom. VI* 7*   iv papxvdi xcov *EWyYcoY.y h, e. coram spectatoribus. Satis nota est hæc  signikcalio iv præpositionis, quæ  unde orta sit, facile intelligitur. Ut Latini dicunt in oculis versari, esse in conspectu alicuius, ita etiam Græcos arbitror primitus dixisse: iv  oppadi papxvpoov, deinde cogitasse tontumraodo ita, scripsisse  autem iv papxvdiv . Sic reperiea  sexcenties iv orjpoo, iv dixadxai  iv 3 eoiS, alia* 7tep\ xyS docpla?. Delevimus comma, qnod post docpla?  in omnibus editionibus reperitur,  non ut verba arctius coniungantur nepl trjS docpla? dixadxy  Xpcopevoi diovvdu), sed ut XP°^~  pevoi 8. d. ad præcedens 8ia8ixadopeSa pertinere clarius in Cap. IV.   Mera zctvra, Sq>t), xaraxhvlvrog tov EaxQaroyg  xul HeinvrjGavrog xul xav aMcov, GjtovSdg te G<pug  nocfoaG&at, xul aGuvtug tov &tov, xul ralla tu voptgofiEva, TQtnsGftai XQog tov Ttorov- Tov ovv ITavCuvlav £tpij loyov xoiovrov tivbg xuraQxsiv. Eltv } uv- dicetar. Tlepl rr/S dotplaf autem  verba explicando xavxa pronomini inserviant* Sensas est .*  Hieriiber wollen wir nach einer  kleinen Weile entscheiden, ich  tmd du, narolich iiber die Weisheit, nnd Dionysos soli Ricbter  sein. Continetur his verbis festiva  adhortatio ad bibendam, quod  quo fiat iucundius, rerum seriarum, curæ Bacchi indicio subiiciendæ esse censentor»  xai x 66v aXXav ac. d«7tV7]6avTG)V, nam ad alterum  participium xaxaxXtvkvxoS hæc  verba non referenda sunt. Habet  Ficinus; Post hæc, inquit Aristodemus, Socrate simul et aliis  discumbentibus, libare invicem  et degustare vina sacrificantium  ritu.   xal xaXXa x a vopiZofjLBva . Magna est horum verborum difficultas. Sive spectas  structuram, nescias, quid id sit,  ad quod verba referas xal xaXXa  tol vojiiZopEva, sive ad significatum animum advertis, voluntatem scriptoris explicata difficillimam reperias. Astius scribendum coniecit Marce xa vopigopsva. Censor in Ephem» Littcr. Ien, Iuli 1832. N. 52. xal  &6avxaS xor $edv xa YOjj.iZ6jj.Eva  commendat. Audacias uterque,  ut videtur. Stallb. absolute posita verba ceoset hoc sensu: et  quæ alia suat usitata. Non male. Melius Riickertus  participium aCavxaS ad accusativum utrumque pertinere contendit, nt convivæ et hymnum  in deum et quæ præterea  cani soleant, cecinisse dicantur. Restat, ut explicemus, quid  sit id, quod præter hymnum in  deum cecinisse convivæ perhibentur. Pro adsiv alind verbum  ponitur in Sympos. Xenoph. II,  1. G oS 6’ dep%peS?j(jav ai xpa xtEZai xal idTCeitjavxo xal  in aiavitiar, kpxexai ns h.  x . A. Adde Athen., qui ad nostrum locum respexit.  &S7tEp xal nXdxoDv <pvXa66Et  ieaxd x 6 dvjixodiov pexa ydp  xo bmtvrj6ca tfitovSdf xk cprj6i  itoirjtiui xal xov Seov xaicovi6avx aS xois vopiZojikvoiS yk padiv. Colligi ex his locis potest, verba xal xaXXa xa vojuZopeva addita esse a scriptore,  ut a8eiv vocis simplicitatem explerent atque notionem efficerent  itaiGoviZEiv verbi. Paullo infra  legitur 177. A. aXXoiS pkv  Xi6i Segov vjjvovf xal 7tutu>vaS  tivat X. T, A., ad quæ verba  schol. hæc annotat: xaiavaS *   tj xovS XEyojikvovS 7taidvaS f   vjjvovS eis UxoXXojva iirl xa 3 *   SQtg, <puvcu, riva tQoitov qu<Stu xiofiefra ; iya jisv ovv  Xtya vfiiv, otl ra ovci navv %aXeitas £z a vito tov  ^i>£S izotov, xal deocca dvcaln>xijs tivog, ot(iai de xal  B vfimv zoiig noXXovg. xaQrjte yccQ yfitg. axomtO&e ovv.    ranavdei Xoi/tov’ y Tlomjora  tdv tcov Sediv iatpov * rj nauo- vaS t coi vvv, cJSaS ini evtvxip  xal vlxy, 8id tov gj, iB, ov  xal nauovl^Eiv. Est in hoc  scholio, alienam manam quod  prodat, hoc tara^n certum esse  reor, naiGovigeiv significare et  hymnum in laudem Apollinis aliusve dei canere, et  carmen canere ini £vtv~  Xia xal vixy. cfr. Xenoph,  Hell. IV* 7. Bdetder 6 $eof  xal 61 jJ.lv Aaxedaijiovioiy apZapivGOV toov ano dajiotiaS,  navtsS vjuvrjdoev tov nepl tov  IlodEidco naiava. Alterum verhis expressum est adavtaS tov  Seov, alterum in verbis continetur xal taXXa ta vopi^djiEra.  In conviviis igitur primam libatio fiebat poculis, ut Schol.  lluhnk. habet, tribus: ixipvdovto  yap iv avtcdS ( tais dvvovdiaiS') xpatypeZ tpeiS * xal tov  plv npGDtov Jids 9 OXvjiniov  xal Segov ’OXvjtni(ov iXeyov •  tov 51 Sevtspov 'Hpcooov' tov  61 tpitov 2a)t?jpo£. Libatione  oblata illud facere solebant, quod  naUkJvL2,£iv vocatur. Hoc rite peracto vino se invitabant»  tpinedSai npoS tov  notov . Præcedente tempore aoristo infinitivas imperfecti positus est, ut esset, quo possent momentaneæ, quas vocamus,  actiones, a duraturis discerni»  Tphcsd&ai enim npoS notov  ipsam bibendi actionem exprimit,  quæ ad multam usque noctem  extenditur. Ceterum articulus additas est, ut certa quædam  potatio, ad quam convivas poeta  invitaverat, denotetur.   bIev, av8p£S, (parat.  Schol. ad Politic. annotat: eJbv  ay£ 5rj' rj dvyxatdSedtS jikv  tcov ElprjfiivGQVj 6wa<p?) 6'e npos  ta piWovta, rj ava<panrt]jia  ofioiov tov aWa. Utnntur hac voce ii, qui aliis facile aliquid  concedunt, quo facilius possent,  illis pacatis, quid ipsi sentiant, aperire» Iam qui assentituc, is  habeat necesse est, cui assentiatur» Igitur dicta alicuius præcedant necesse est elsv voci;  quæ quoniam non comparent,  supplenda sunt. Videtnr autem  Agatho dixisse : aWa tpenGQjieSa  vvv npoS tov notov, quæ adhortatio Agathonis .facile eruitur  e verbis dcpaS tpinedSai npoS  tov notov. Agathonis dictum  Pausanias cum audisset, bene  hoc quidem, inquit, o viri, hoc  dictum ab Agathone, - sed qua  ratione bibemus suavissime? Ut  nostro loco, ita etiam in Phædon»  117. A» supplemento quodam  opus est ante eiev. Verba hæc  sunt : xal 6 nais iHeASojv xal  dvyvov xpuvor diarptyaS yxev  dyajv tov jiiXXovta dcodeiv td  epappaxov, iv xvXixi epipovta  tEtpijifj&vov. I8z>v 61 d 2?coxpatyS tov avSpcjnov elev f Utprj,  d> f SeXrtdte, dv yap rovrojv  inidtlj/icov • ti xpy notEiv Patet,  hominem cum poculum afferret,  virus a se parati vim laudasse  ita, ut eius haustui celerrimam  mortem adseriberet. Respondit   tlvt tQoTtcp kv c5g QaCta xtvoiusv. 'tov ovv 'AqiGzotpavrj ihttlv ' Tovzo fiiinoi ev Ityus, ca FlavGavla, zo  xavxl ZQOTtcp mxQaGMvdGaG&ai qccGuovijv uva zijs Jto  Oecus- sc u\ yag avzo$ Eifii tcov z&es @E(icaizc0/iEvav. Socrates: Gnt, o Bester, das  xnasst da ja wissen. Was muss ich non thua? vide quæ annotata sunt  ad 204. C. cap. XXIV. init, .   fi a 6 x a itio /ie$ a. Hæc   est optimorum codd. lectio, quam  in textum receperunt Bekk.,  Stallb., alii. Vulgo 7/8i6ra ntoofie$a exhibetur. Bene Riickertus  od h. 1, Futurum, inquibj propterea h. 1. præferendam est, quod  non, quid debeat neri, Pausanias  rogat, sed quomodo, quod futurum sit, fieri possit commodissime. Indicativum habes etiam  infra 21 4. A. tov 6’ ’Epv%l/iaxov, Uc 5? ovv f cpavaij <J  * A7oafiid8r\, Koiovfiiv ; ovtcof  ovte ti Xeyofiev ini tf/ xvXixt  ovt indSofiev, » a\\* atexv  doSrtep ol 8n}>d)vtES itiofie^a ;  Ceterum Schol. ad h. 1. fiadta  r 6 ?j diota ivtavSa dTjpalvet,  quæ verba laudo, nt facilius intelligatur, unde vulgata lectio  rjdidta fluxerit*   lydo fi sv ovv \eyao. Proprie dicendum erat: Xiyco fiev  tjjjIv olfiet i 6i. De addita  ovv particula, qua Jliv et 66  particularum positara excusatur,  qnæque minus sibi respondentia  orationis membra, quoad eius  fieri potest, inter se conciliat,  vide quæ annotata sunt ad 22.   vfi&v tov S noWovS sc.  S£id^ai dvaipvxyZ* Prorsus eodem modo cap. IV* initio neti  t6jv dWoov positum reperies.  Laudat Stallb. ad h. 1. V). Apol*  Socr, £5. E. tavra iyco doi    ndSoficn, oj Ml\r}te f olfica 81  ovde aX\ov dySpooitcov ovdiva  ac. iteidedSai Coi. Eutyphr. S.  E. a) Wa Cv re vara vovv dyaviei rr)v 8lxr\v, olfiat 81 xal  ifik tijv i/irjv ac. dycov induat. 7ta padxeva dad ^ai.Belk., quem Riickertus secutus est, e  codd. non paucis in textum recepit itapadxevdB,ed^ai. Recte  fortasse, quamquam etiam aoristi  infinitivus habet, quo se commendet. Ceterum ne quis forte seri-,  •bendum censeat itapadxevadad$at 8eiv atque cum Riickerto  convertcudum : Hoc recte dicis,   omni modo esso parandam  commoditatem : Aristophanis voluntas hacc est: Das erachtest   du in der That ganz recht fiir  nothwendig, dass man namlich  sich auf allc Wcise das Trinken  angenehm zu machen suche, Nimirum in huiusmodi enuntiatis  verba Xeyeiv, fjyeidSai, Soxelv,  dB,iovv, vo/ii^etv al. significant:  æquum ceosere, suadere alieni,  necessarium putare, vid. Ilcind*  ad Piat. Prot. p* 346, Stallb.  ad Phæd. 95. B« et ad Polit.  VI. p, 504. E., ubi laudat Ilom.  II. IX. 626. ov yap fiot 8oxiei  j,iv$oio teXevtrj rySs y 68 (y  npaviedSat,   xal yap avtoS. Valgo legitur xal yap xal avtoS. Bodl.  uliique codd. non paoci alterum  tcai omittunt, omiserunt Bekk.  Stallb. alii. Ac Stallb. qoidem,  Videtur, iuquit, 7tal additum esse  ab iis, qui nat yap non solum 'AxoviSavra ovv ttvrav £<pij 'Ego^liiaxov rov 'Axovfitvov, *H xafaos, tpavai, ilyftt. xal t'n hos Siofiai  vfiav axoveai, Xcog fjrei xgog r 6 t§§&09ca ittvsiv ’AyaC 9av; OvSapas, <pavai, ovd’ ccvtds tooatiat. "Egfiaiov  av tb) rifitv, q 6’ os, »s htxs, i(ioi rtjtai 'Agiaxodqfuo 0ten!<n, sed etiam nam et,  nam etiam significare ignorarent* Non repugnandam est codicum auctoritati, minus tamen  Stallbaumii sententia placet existimantis xal yap h* 1. esse  nam et. Id nimirum si exprimere voluisset Plato, scripsisset,  opinor, tuxi yap iyco el/n, uti  scriptum exstat apud Homerum  lliad.IV, 58. xal yap iyoo  tlfu h. e., denn auch ich biu  eine Gottin. Nostro loco malim  xai putare expletivum, cuius  exemplum infra habes 198. C.  xal yap pe ropyiov 6 XoyoS  drepipyyjdxev, ofere x. x. A.  Eodem modo interpretor verba  Pl. Pol. V. 468* D. ’JAXct  pijv xal xa$* r/ Oprjpov xolS  xotoisde dlxaiov xtpdv tcjv  yLcov 0601 ayaSoi . xal yap  "OpilpoS x . r. A., quo loco, quoniam præcedit Homeri commemoratio, xal yap^OpjjpoS verba  significant: nam Homerus.   fiefi anxi6 pkv Conve nit perfecti temporis participium  cum præcedente Pausaniæ dicto:  tcolyv ^aAfTrooS* Ex& vito xov  tzotov. Beftanxi6pevodv  verbi significatum explicat Iacobs*  ad Eueni Epigr. XV* v. 6., ubi  legitur : ftaitxiZei d’ vrtvcp yeixovi  tgj Savaxo ) . tt Clem. Alex. Pæd,  II. 1 82. 29., V7CO p&ijs (5a  TlTlB,6ptVOS tlSVTZYOY. fia7CTi<>£(5$at enim et ii dicuutur, qui  se largius invitarunt vino. Lucian. a Iacobsio laudatus habet    T. III. 8t. 41. xaptjfiapovYTi  xal fteftanti6pivcp loixev . Apud  Plautum Ps. V, 2, 7* reperitar:  madide madere*   xal Exi IvoV* Ficinus in  conversione exhibet: Probe dicitis, atque hoc insuper a vobis  audire desidero. Rectius Schleierznach. : Nur von e in em nuter  euch xnochte ich noch horen,  wie er bei Kraften ist zura trinken. Ceterum idveiv hoc loco  idem videtur esse atque tcoXvv  niveiv olvov, quod paullo infra  positum reperitur; respondet igitur nostratium zecheo*   " E ppatov dv eZrj yj piv  ei vpets yvv aTceiprjxaxe . Ein unverhoflter Gewinn wiire es uns, wenn ihr,  die tapfersten Zecher, dieses Mal  das Trinken im Ernst aufgæbet. Nescit nimirum Eryximachus,  utrum ioci caussa, au serio Agatho  ante locatus sit. Indicat autem  illatus post optativum cum el  part. coniunctum indicativus, de  obiectira alicuius rei veritate  agi, quam verbis exprimere solemus: im Ernste, wirklich, in  Wahrheit. Exempla si requiris  huius structuræ, vide Stallb. ad  Apol. Socr. c. 12, annotationem.  Adde Symp. 177* D. el ovv  Zwdoxei xal vpiv, ykvoix dv  i)piv iv A oyoiS IxavtJ Siaxptftif  Apol. S. 35. A. ei ovr xjpcHv  ol Soxovvxe? 6ia(p&peiy ehe  tiocpLqi etx8 avdput ei'xe dAAp xal &al8pa xal tolgde, ei Vfiets ot 6vv'm<&taxoi it Lieiv  vvv diieiQr\xctxe' ijfiei 'g (ilv yag dei advvaroi. StaxQttttj  8’ lt,aiQC3 Xoyov ' Uavog y«(J xal dp.rpuxtQa, agt i^ccQxetisi avrta qxoxeq av itouofiev. ineidrj ovv fioi doxei  ovSeig rmv itaQovxcov itQodvnag %%eiv xgog ro itokvv    tfnviovv (Sorpiit roiovroi S6ovrat, al6xpoy av sfrf. b, e. Wenn  nun die anter ench, welche fiir  weise, tapfer oder soust tugendbegabt gehalten werden, wirklich s o sich zeigen sollten, so  ware daa aller Verachtnng werth.   iB,aipw Xoyov, Vulgo  i^cdpoj rov Xoyov legitur. Articulum plurimi codd. omittunt,  quem ut minus desideremus,  exempla faciunt Phædr. 242.  B., de Rep, VI. 492. E. alia,  et similium locutionum analogia.  Legitor v. c. in Rep. PJat. L.  II. 357. A. o oprjv Xoyov  dnrjWdxScLi, quo loco articulas in uno tantummodo Paris,  cod. comparet. Neque seriorum  scriptorum auctoritatem nunc curamus, qui articulum addiderunt;  hoc fecisse constat, qui nostrum  locum imitatus est, Aristidem  Orat. II. Tom. II. p, 269. TlXatcjva 8* lt,aif)oo rov Xoyov  ixecvoS yap apupotepa. Articulum addidit, quem non abesse  posse putaret, xcd omisit, quod  non intelligeret. Kal autem ita  positum est, ut indicium primitivæ conformationis verborum  ait: ixavoS xalrovro xal ixava,  pro quibus verbis cum per compendium loquendi dixisset Plato  dp<p6TEj}a, xcd remansit.   dist ££> apx e6 ei avT(p.  Stallb. rectissime : ut satis   habiturus sit, ut ei satisfacturum sit, utrumcunque faciamus,  ovSelf rcor xaportcor.  H. e. Nemo eorum, qui hio  adsunt in convivio. Admoneor his verbis de loco quodam Apol. Socr. p 22. B, c. 7.,  quem hucusque nemo videtur  recte interpretatus esse. oXiyov  avr cov anavTES ol icapovisS av  fttXnov UXeyov xepl gjv avrol  inenoripiEtiar. Convertit hæc verba Stallb.: omnes, qui aderant, melius istis de carminibus solebant indicare,  quæ illi ipsi composuerant. Addit autem, non sine vi  repetitum esse pronomen avtol,  quo graviter significetur poeta»  ipsos de suis ipsorum carminibus  peius iudicasse., quam alios homines, qui illos carmiua recitantes audierint. Melius in explicandis his verbis versatus est  WoIUus: a Nam prope dixerim   omnes pæne, qui hic adsunt,  istis meiins dicerent Ue iis, quæ  isti composuerant; « quamquam  ne hic quidem Platonis voluntatem  agnovit. Non verisimile euiin,  homines fiavavoovS, qui nuuc  arbitri sunt iu iudicio, melius  potuisse de carminibus iudicare,  quam poetas. Sensus est totius  loci: Ich schame mich nnn, ilir  Miinner, ench die Wahrlieit zu  sageu, Dennoch muss es heraus.  Alie, die hier anwesend sind,  wurden fast besser, ais jeue uber  ihre Werke, uber das sprechen,  vas sife irgend selbst gemacht  hiitten (h.e. si qui ex sua qnis  f    itlvuv qIvov, l'dog av lym tcbqI tov (U&vtixeQftai, olov  D ictiy raXri%^ Xiyav rjtrov av eirjv ajjdtjg. ifiol yccg  di] tovro ys oiuca xcctadrjl ov yeyovivai ix tijg Icctqlxijg, ott %ateitbv tolg (iv&QcoTioig 7] (ilfhj loti, xai ovre  ctvxbg bxcqv rivca xoqqqj l&riyfiaitu av iti&iv, ovxs akkco    qtxt arto aliquid fecissent, vid.  Matth. Gr. pl, {.599. 119S.)   idcjS av ifri ~ 7/ xx ov  Av eiijv. Repetita est av  particula in eadem enuutiatione  non negligentia scriptoris, at  olim multi arbitrabantur, nequo  explendæ orationis caussa, sed  at loquentia modestia elaceat magis, qui sperat fore, ut de  ebrietatis natura quæ sit, si verum dixerit, minus fortasse  molestus convivis videatur.  Tari cuuctatiouo et modestia,  quæ tum io verborum modesto  significatu, tam ia singularum  orationis partium dispositione  cernitur, Cie. de oificiis loquitur  L. I. Nam pkilosophaudi scientiam concedens multis, quod est orationis propriam,  apte, distincte ornateque dicere,  quoniam in eo studio ætatem  consumsi, si id mihi assumo,  videor id meo iare quodam  modo vindicare.   ort xaXeirov 7 / JIES 7 /  idxty . Adiectivom haud ruro neutro genere poni seqoente substantivo, ad quod pertinet, femini masculinive generis, satis  hodie notum est. vid. Matth. Gr.  plen. §, 437. 815. Sed non  perinde esse, utrum genus nominis in se suscipiat necne, ndiectivum, Rdckertu» ad h. 1. docuit. Puto autem, inquit, nd7 4oetiva sabiccti genus tum sequi,  quum res aliqua, qualis sit, quæ  que attributa habeat, describatur,    omnino quum do certa re certi  quid pronuntietur} contra neutrum locum habere, quoties  vel de certa re, cui generi  adnumeranda sit, prædicetur, vel de re in universum  cogitata aliquid pronuntietur.  Equidem sic statuo! Adiectivum  substantivi genus in se suscipiens  substantivo subiungi ita, ut, qnod singulæ alicui rei conveniat, significet, contra nentro  genere positum, substantivo  non subiunctum esse, sed ad idem æquiparatnm. cfr, Lach. 192.  ovh dpa zi)v ys roiavtyv  xaprepiav drdpiocv opoXoyi)otis elvat, bceidfptep ov xccXij  idttv, 7/ avdpia xaXov  idttv . Adde Ilipp. Mai. 288.  B. StjXsia imtoS xaXr) ov xaA ov; Ibid, p, 288. C. Xvpa xaXrf  ov xaXov; xvrpa xaXi) ov  xaXov ;   kxcov elvai, Addito infinitivo hominis alicuius liberrima  voluntas significatur ita, ut simul  coerceri posse atque minui libertas illa indicetur, cfr. Phædon,  80. E. idv phv xaSapa (sc„  V fax ?}- ) dnaXXdtTJftai p?/6lv  Tov doopatoS i(peXxov6a dre  ovdtv xoivGjvovda avxai iv rea  fiUp kxovda elvat; utpote  quæ nullam suscipiat, quoad  eius fieri potest, quantum in eius potestate est,  cum corpore cdmmercium. Addendam hoc est atque beue tenendum, non adhiberi Ixojv   GvfifiovXivScani aXXag te xal XQcuTCaXaivra tzi hi rijg  TtQOtiQciiag. ’AXXa [irjv, Hq)ij cpuvai vTtoXa^itvta (balSqov tov MvQQivovelov, eyays Ooi sia&a xti&eodca  aXXcog te xai cczz’ av mqI IcaQixijs As/?;g' vvv 6’ av  fiovXovzcu xal oi XomqI. Tavzcc drj axovSavzag Ovy- E    I   tlvai nisi in iis enuntiationibns,  quæ actionem quandam contineant sive revera additaxn, sive  mente supplendam. Idem cudit  iu omnes figuras dicendi, quæ  nostræ consimiles sunt, v. c. to  vvv elvai. cfr. Lach. cap, SI*  fin, zo 5h vvv elvai ttjv dvv ovdiav SiaXvdGJjuev h. e. wir  vrollcn aber fiir jetzt, d. b. vas  nns fiir jetzt uur zu th uu  iibrig bleibt, nns treuneu,  Finitus nimirum dies erat, noctisque adventas in proximum diem  differri disputationem iubebat;'  quare Socrates aXXct Ttoir/doo,  inquit, gj Avdtpaxe, tama, xal  tf £<0 Ttapd. dl aypiovj iav  Seo* i&4 Xy. Male autem Mutth.  in Gramm. plen. $. 546. 1071.  g liuc trahit Piat, Protag. p, 317.  A. eycj t ovtoiS dnadi xaxa   rovro elvai ov B,vji<pkpojiai,  neque recte, opinor, Stallb. verba  convertit in Protag. ed. p, 45. : mihi yero cum his omnibus,  quantum quidem ad hoo  attinet, non convenit. Kata  tovro eodem prorsus modo h. 1.  positum est, quo in Apol. Socr.  17. B. legitur: el jtev yap  tovto A eyovdiv, opoXoyoiyv  av lycoye ov x at a rovro vs  elvai fitjzcap. Itaque certum  esse reor, Protagorara dicere 1.1. i  mihi vero cum his omnibus hac ratione sophistæ  esse non conducit* Explicatius paullo infra S17* B. eandem sententiam Protagoras prot   fert : iyco ovv xovtgjv xrjv ivavxiav aitadav oSov iAh/XvSa,  xal o^ioXoy gj xe docpidxrjS elvai  7ial xaideveiv av$pGJ7tovS* x. r. A.   dXXcoS xe xal xpantaX&vxa £xi. Exspectaveris  XpantaXojvxi, Infertur interdum  post dativum casum accusativas  augendæ gravitatis caussa. Nam vis quædam est in anomalia habetque, quod præter exspectationem fit, proprium suum acumen.  Ceterum nou poni solet dativo  præcedente accusativus, nisi infinitivus adsit ut nostro loco Ttieiv y  cura qno arctius coniungatur. Similiter iu Pl, Criton. p, 51. D,  ofiojS Tcpoayopevopev xgj i£ovOiav TtETtoupiivai f A$7jyaLcj v xco  povXojikvcp,\ . . igeivai Xafiovxa xd avrov aitievai  OTioi av ftovXr/rar. Lex nimirum Attica, quæ cum gravitate  h. 1. laudatur ajti$i Xapojv  xd ddvrov x. X. A. audisse videtur. Symp. p, 188. I). ovroS  (sc. o"Ep(&S') xyv jiEyidXTjv 8vvajuv kxei xal nadav y/dv  evdcxipoviav 7tapadxevd?,ei xal  dXXyXoiS dvvapkvovS oj.uA.elv  xal <pi\o elvai x. x. A., ad  quæ verba vide annotationem.   lyooys do l el&Sa xel$ed$ai. Interpunctionem post  'XefædSai vulgo positam expungendam curavimus ; verborum  enim dXXojS xe xai ea ratio est,  ut antecedentia cnm sequentibus arctissime coniungant. Eodem %toQtZv mxvrag firj Sia iil&rjs itoir]<Su<s9ai zrjv l v tm itaifovri OvvovUtav, aXX’ ovta, xivovza g XQog iidovtjv.   Cap. V.   ’Exh8t\ tolvw, cpavca rov ’EQvi,liitt%ov, tovto fiiv  deSoxtai, xlvuv '6<Sov av ixaotog (Sovfojzca., Ixavayxeg  modo in superioribus comma delevimus post 6 vp( 5 ovXev 6 aipi et  post itielv, ut ne esset, quod  obstaret, quominus xpainaXarvxa  participium ad infinitivum præcedentem referatur. Ceterum  recte Stallb. monet, art * av XiyrjS cum gravitate dictum esse  pro iav rl XiyyS.   vvv 8 * av fiovXovxai  xal ol A oixzol, Vulgo post  av legitur ev, idque probant  codd. plcriquc. Pro av noa  paucis in codicibus av reperitur;  tredecimcodd. ^ovAcj^tarihabcnt.  lia.stius cum intelligeret, ol AorJ rol non de iis intelligi posse,  qui assensum suum declarassent  in præcedentibus, neque vero ad  ceteros convivas relatum, commode cum insequentibus verbis  conciliari : xavxa 87} axovSarxaS tivyxcoptlv navxas x. r, A.,  scribendum coniecit Spec. erit,  12.: vvv 8’ av iv fiovXevGovxai xal ol Xontoi, hoc ut esset :  modo ceteri quoque bene  sibi consulant. Eodem fere  modo Ficinus in coiit. : nunc si militer, modo ceteri quoque  consentiant. Tliierscli. in Spcc.  edit. Symp. Piat. 8. vvv 8 *  av ftovXotvx * av xal ol X olito i  verbis locnm sanare studnit. Astius  vvv avxa (iovXovxai xal ol  X ontoi exhibuit. Orell. ad Isecr.  de Antidos. maluit 324. : vvv  8* el ftovXovrai xal ol Xontoi.  Wyttenbach: vvv 8* opa ei vel  vvv 8' av et fiovXovxai, quod    Reyndera. In textum recepit.  Riickertus Platonem scripsisse suspicatur : xal vvv 8* av, iav  fiovXovxai xal ol Xontoi: Consueri in omnibus tibi obtemperare, quæ dicis de arte medica,  et nunc quoque (sc. tibi  pbtemperabo) modo velint  etiam reliqui, Stkllb. verbis  nihil mutatis nisi quod ev post  av positum omitteret, hæc exquisita, inquit, brevitate dicta  sunt hoc sensu: uunc vero   rursus idem fiet, quando  quidem etiam ceteri^convivæ volunt. Quam exquisitam boc loco Stallb. laudat dicendi brevitatem, equidem licentiosam appellare malim atque insolentem. Sed pone, verba vvv  8* av jiovXovXat significare  posse nunc vero rursus  idem fiet, quando q ni dem  volunt, num verisimile est,  Phædrum dixisse : Soleo tibi credere cum alias, tum potissimum disserenti super rebus e medica arte  depromtis, nunc vero rursum tibi credam? Nihil  coniectura opus est, ut rectissime  Stallb. censet, neque quicquanx  præter ev vnlgo post av posi •  tum expungendum. Indicat autem  av prægressæ alicuius rei actionisve repetitionem, manifestoque  declarat hoc loon, ftovXovrat  per prolepsin pro itei&ovxai positum esse. Verba convertenda  sunt: Nunc vero rursus etiam ce- Si yrjSiv iivut, ro fi era rovro tlsrjyoviuu rr/v fiiv agri  tlgeX&ovSav avlyrgtSa %algeiv tav, «vlovaav lavry -rj,  lav /JouAijt at, raig yvvai^l raig tvSov, yyag 8's Sue  Aoj/cw «AAijAots (Svvuvcn ro ryyegov. xal Si oiav A oyav, tl (iovAca&E, l&tXa vy.lv slgyyySaS&ca. &avca  teris (fidem habentibus tibi) libitara est (sc. quærere potatio-*  uis qu and ara moderationem.) Hoc dictum ut intelligatur, quam bene cum insequentibus verbis conveniat : Phædrus verba vvv 6 * av  fiovXovxai xal ol Xoiitol dixisse  cogitandus est vultu ad convivas converso quasi rogitaturus: Rectene loquor  atque de sententia vestra?   fi 1 } did Nota huno   usum dia præpositionis. Optime  Scliieierip* convertit: Ilier au f  also waren alie iibereingekommen, es bei ihrem  diesmaligen Zusammeusein nichtauf den Rausch  anzulegen. Paullo infra p.176.  E. eodem modo 8ia Xoyav d/ 1XijXoiS dvveivai. Apposite  Stallb. laudat Piat, de Legg. I,  640. B. 1.6X1 8£ ys xoiavxrj  <Swov6ia, tbttp tdxai Sia  2r}$, ovx dSopvfioS. Plura  exempla si quæris huius dicendi  usus, adi Klattli. Gramm. plen.   d XX* bvx a, 7t lv o y x ai  jxpos ijSovrjv. ctXX* ovxa  sc. Ttotf\6a65ai. Ceterum ovxa  accuratius definitur verbis inseqoentibus itivovxaS 7tpoS ySovrjv,  Male Stallb. coniungenda censet  ovxa itpoS TfdovTfy. nur so  zum Vergniigen. cfr. Symp.  193- C, oxi ovtodS av rjpav  ro ykvoS evSaipov yivoiro, tl    £xx eX& tiatpev rov £ para x. x. X. Adde 215. A.  2 coxpaxTj 6* iya htaivetv, cJ  avdpes y ovxcoS ticixtipytia.  Si bIxqy av . Exempla huius  dicendi usus plurima reperiuntur,  quibus possis adnumerare quale  reperitur in Alcib. I. 105.  cap. 4. oxi avxov 6£ Sei dt>Vadxevsiv £v ry Evpdiry, quo  loco indefinitum avxov præfigitur accuratiori indicio £v xy  Evpany • Ad nostrum locum ut  revertar, Ttpo S' ?}5ovijv apprime  respondet nostratium : nach Wohl-#  gefallen. Probatur hæc verbi  notio verbis sequentibus : nlvtiv  o6ov dv txa6xoS ftovXi/xai, bcavayxeS 6 e prjdlv elvai.   £tz dv ayxeZ pySlr  tlvai. Solebaiit regem (tftyi7C06iapxov') eligere convivæ,  qui bibendi leges daret, quibus  convivæ ad bibendum cogerentur. cfr. Symp. 213. E.  apxovza ovv alpovpai zijs no  6egqS y taC dv vpuS IxavaS  Tityre, ipavxov *ro perci rovro  yovpai. Tope ra rovro cum  gravitate dietnm significat: quod  attinet ad id, quod post hæc  sequitur. Recte autem annotatum est a Riickerto: verba hæc  nunquam temporis solam consequentiam denotare, sed ubique  internum aliquem nexura inter  præcedentia et sequentia designare. ElSrfyovpai verbum quod  177 bt] itavtuq xcd flovXiaft ai xat xsltvuv airov elgijytL6&cu. Elnslv ovv zbv ’Egv!;ltitt%ov, on 'H (ih> ftot  aQyjj tov f.oyov lari xara rr/v EvqmISov MtXavlitittjV  ov yaQ ijibs 6 pv&os, tt/U« <PuldQov tovSs, ov fitiZa    attinet, Hcsycli. interjpretator elft]yeldSai • dv/ifiovXtveiv h. e* suaclere, censere, aliquid faciendum  esse. Apprime verbo respondere  videtur nostratium : etwas zum  Vorschlag bringen,   x i)v yev • av Xrj x p iS a  Xaipeiv lav, Tibicinam dimitti Eryximachus iubet, ut 8id  Xdycov aXX?jXoiS dvveivai convivæ possint. Notari autem h. 1.  Xenophontem, qui in convivio  suo tibicinæ locum dedisset, hominum quoruudam liodie satis  explosa opinio fuit, vid, Boeckh,  de simultate, quæ Platoni cum  Xenophonte intercessisse dicitur  8, seqq. cfr. Protug. 347. C,  Tiocl ydp 8oxei poi xo 7Cepl  7Coir]decoS diaXtyeCSai opoiuxarov dvai xoiS dvpitodloiS xoi$  xgjv q>avXa>Y TtctL ayopaicDV  dvSrpGJTtGDY. xal ydp ovxoi, 8ia  ro pj) SvrctdSai aXXj}XoiS 8i  iavxcZv tivv&Lvai iv tg5 itoxco  pr}8\ 8id xijs kavxcov (pcovijs holi xoov Xoycov xcoy kavxcov  vito ditaiSsvtiiaS, xipiaS noiovdt  xds avXrjxpidaZ, rcoAAov piOSoiytEvoi aAXorpiav cpcovifY  xijv xqjy avXaiv, 7ia\ 8id xifi  ixeivaov qxxvifi aXXijXoiS dvveidtv. onov 8e xaXol xayaS ol  dvurcoxai xal TCuraihtvpirui  elo \v, ovh dv l SotS ovt avXr r  xpidai ovxe opx*/dxpi8aS ovza  ipaXrpias, «AA* avcovZ avxolS  \xavovS ovxaS dvvtivai dvtv  xu)v Xi/pav xe xal ItlXlhlddV  xovxcov dia xijs avx&v (pwpS,  A lyovxaS xe xai dxovoyxas Iv  pipet lavxojy xodplooS, nav    7tdvv itoXvy oivov itioodiv. Perscripsi hunc locum, quo non Platonis sententia Socrati adseripta  contineri videtur, sed ipsius Socratis iudicium exprimi, ut clarius intelligatur, etiam in minutioribus rebus Platonem ad Socraticos mores scriptionem suam  accommodavisse.   xait yvyaiZi talZ Ev8ov, cfr, Corn. Nep. præf. $. 7. Neque sedet (ac. mulier) nisi in interiore parte  ædium, quæ gynæconitis appellatur. Ceterum ut  paullo supra 8ia pi$TjS, fla nunc  8ta Xdyojv positum est adhærente, ni fallor, notione temporis,  quasi dicere voluerit Eryximachus:  8ia Xuyor 8iax pipeiv xtjv  tj ylpav .   ei p ovXe 0% e, i^iXoo.  Differre inter se videntur hæo  verba eodem modo, quo inter  se differaut verba et XPV*  Nimirum eam voluntatem i$£A eiv verbum denotat, quæ cousilio nititur atque intelligentia,  PovXedSai contra adhiberi selet, ubi aliquis impetu quodam animi fortuito abripitur. D. avAovday kavtij,  rj, lav PovXrjxai, xaiS yvvat £,Lv h • r, A. h. e.,' oder wenu  sie Lust liat. Adde 179.  B. xa\ p?/v vjrEpaito$V7}dx£iv  ye povoi ESlXovdiy ol ipaovxeS. Symp. 190. A. lito pEVETO 8t> Op$6v, GjSTZEp YVYf   uTtorlpcjdf povXjfSeitj h. e. nach  welchcr Seite es ihn hintrieb,  cr Lust liattc. Igitur conMysiv. OaiSpog yuQ sxætots xqus (t£ aynvaxztSv Xeyzi • Ov 8uv6v, (prjGiv, u’Eqv^m%e, kXXol g [iiv ruti  &iav vfivovg xal ncamvag sivca vico tiov itoirjtdiv kejcoirjjiivovg, ta di 'Eqciu, rijXixovtcj ovu xal xoGovtto    vertenda snnt verUo nostra : Mit  welchen Reden wir non den Tag  hinbringen wollen, bin icb, so  ihr LUST habt, each vorati schlagen entschlossen. Prorsus  eoden# modo Syrap. 199. A,  a\Xd rd ye aXrj$i} % el fiov X b6$e,  iSiXoj linetv xar ipavrdv.   cpavai drj rtdvra? seqq.  h. e. Es hatten nun alie ja gesagt und sie urollten es and hatten in ihn gedrungeft, er mochte  ihnen die Eroflnung machen.  Coacervatis verborum infinitivis satis vivide turba describitur'  convivarum strepenti clamore sermonum materiam exigentium. Ttard r?}v Ev ptniS ov  MsXav innyv. Versus Euripideus est:   ovx i/ioS 6 pv$oS, aXX’ ipij?   pi/rpo? Ttdpa,  ad quem alludens Eryximachus  dicit ov ydp ipoS o' pv$o?, aXXd  $ai8pov rovSe. cfr. Alcib. I,  113. C. rd r ov EvpiniSov  apa ZvpftaivEi, co AXxifiiddtj,  dov rade xiv8vv ev ei?, aXX 3 ovx  ipov axrjxoevai, ov8* tya/ eij.il  d ravra Xkycov, aXXd 6v. Adde  Apol. Socr. 20. E. xal poi,  a> avSpe? ’A5?jvaioi, jn) SopvfirfirjrE, prj8\ dv dd%Go n vplv  /xkya Xeyeiv, ov ydp ip dv ipcd  rov Xoyov x. r. A. Ad amovendam dictorum invidiam hoc Euripidis versu veteres usos esse sæpenumero, et ab interpretibus  passim annotatum est et exempla  docent, quorum ex numero Apol.  Socr. 20. E. Nostro loco Eryximachus versum Euripideum    laudat, non quo dicti magnificentiam excuset, aut sententiæ insolentiam, qoibus invidia auditorum interdum excitotur, sed  suum cuique tribuendi studio.  Initium orationis, inquit,  ad Euripidis Melanippen  accommodandum est, nam  non mcasant, quæ dicturas sum, sed Phædrus,  qui hic assidet, eadem excogitavit.   vpvovS xal Ttai co v a  Tlaidva? codd. nonnulli habent  et scliol. Verba schol. laudata  35. in hunc modum restituenda  sunt fortasse: rraidiv aS' ij   rovS Xeyopkvov? naiavas,  vpvovS Ei? 'JnoXXava htl xaranavdsi Xoipov. [rj Ilatr/ova r dv  tcov $£gov iarpdv •] 7} naicova?  00? vvv, cddds ini evrvxia xal  vtxy, 8rd rov &j, i% ov xal  natcoviSjEtv. Verba rj Tlanjova  rdv rcov Seiuv larpov uucis inclusimus, quod aut abaliena raauu  addita sunt, aut casu quodam a  sede sua in alienam translata.   rrjXtxovrtp ovrt xal  ro6ovrcj J Ficinus habet:  tantum talem ve deum, Ast.  verba convertit talem tantum q ne. Stallb. tam multorum bonorum auctori et  tam potenti. Exhibet in conversione Schleicrm.: dem Eros  aber, eiuem so grossen  und herrlichen Gotte, Optime Riickcrt. rrjXixovro ? essa  tam vetustus annotavit. Addit idem, Eryximachum querelam B &£a, firjSh £W ndxoTE toCovtav ytyovotov xoiijrdv  jttTKnrjxivca (irjdiv iyxco/uov; tl d£ fiovlu uv axi$a6&ai  tovg ZQijGrovs tiotpxitas, 'IlQuxktovg (iiv xtd uklav    Phædri referre, qtil in oratione  sua hoc ipso nomiue vel maximo  honore dignam amorem prædicet,  quod omnium deorum sit vetustissimus. Iloc igitur ei indignum  videri, quod Hercules quidem,  recens donatus immortalitate, laudatores repererit, Amor autem,  omnibus ipse prior, suis laudibus  careat.   prjSlv iyxwpi ov. Valckenar. Diatr. iu Eurip. Reliqq.  157. scribendum coniecit prjSk  iyxooptov 9 quam scripturam ut  ardori loquentia apprimo convenientem probaremus, si lyxcopiov verbum latiore potestate  careret. Complectitur autem iu  se vfivovj xal TtaidSvaS, ut  Ilgen. ad Scolia XXXVII*  docuit. Queritur igitur Phædrus,  quod, cum in ceteros eosdemque  Erote multo inferiores deos poetæ  hymnos composuissent et carmina  pro salute et felicitate suscepta,  e tanto eorum numero ne unus  quidem in Erotem carmen conscripserit.   sl SI ftov\et av tixlipa65ai dvyyp d <pei v. Ficiuus habet : atqui, si vis, inquit,  o Eryximache, quærere, invenies profecto Sophistas disertos  soluta oratione Herculem aliosqne laudasse, quemadmodum peritissimus Prodicus, quamquam  hoc minus alicui mirum videri  debet, sed etc. Hac conversione  motus Stallb. Platonem scripsisse  censet : EvprjdetS 'HpaxXeovS plv  xai aXXxay i ivyypdtpeiv (sc.  avt ovS.) Dubito, num recte. Nam illud invenies additamentum est, ut videtur, Ficini,  qui concitatioris hominis verba  apta brevitate reddere desperaret,  Riickert. interpunctione post doxpxdxaS deleta et posito post 6x&rpadSai commate sensum vetfborum  ait esse; porro optimos sophistas. Etenim formula, inquit, ei Se ftovXst, cui plerumque non ndditor infinitivus, quem  h. 1. appositum videmus, ita adhiberi solet, ut novum inducat  vel exemplum vel argumentum.  Accusat. rovS <So<px<$xds propter  hanc, quam indicavimus, formulæ  vim nou putem obiecti casum  esse ad tixhpatiSau, quamquam  supplendus hic ipse erit ad hunc  infiuit., sed subiecti ad seq. dvyypdtpeiv. Inde patet, usque ad  SvyypacpEiv omnia pendere e  verbis ov Seiyov. Displicet  hæc interpretatio tribus de caussis. Primum tl Se ftovXet nusquam reperitur cum infinitivis  verborum coniunctum, ut novum exemplum commemorari  denotet; deinde mireris post  6xtif)a6Sai interpunctionem, qua  efiiciatur, ut xovS XPV^ ^ovS 6o~  xpidtds non cum dXEiftadSoct conjungatur, ad quod verba illa  supplenda sint tamen. Postremo  verba tovS xpijdtovS dotpxdxds  e præcedente ov Seiyov apta  tortuosam atque hiulcam sententiam efficiunt. Si quid video,  Phædrus diettirus erat: si 8h   ftovXei av <5xiif>a6$ax rovf XPV~  6rovS 6o(pi6rfx?yHp<xxXEOvS ptv  xaldXXa>y iizaivovS (sc, avTovf)  xataXoydSrfY 6vyypd<pe3Y> tZsxoxahoyaSriv tivyyQacpEiv, 6 pUufStog Tlgodixos   xai tovto fisv ytrov xai ftavfiad rov alX kyaye ?jdrj  nvi lvttv%ov (hpttcd ccvdQog Cocpov, Iv (p ivrjdav ateg i   iCEp O fttXtltftOS Tlp6SlX0S?E p G>t oS 8h ov, tovz ov 5 a vy  fiadx (Sx axov ; Facit nobis* cum in hac reFiciuus, qui paullo  infra addit in conversione: cui  non gravissimum videatur? Sed cum nondum ad  finem enuntiationis pervenisset  loquendo Phædrus, . in mentem  ipsi venit salis quædam laudatio»  qua minus etiam mira Herculis  aliornmque encomium indicari  debeat. Igitur suppressis verbis  "Epc&ti dfc ov, xovx ov Savfioc  dTGnaxoY, statim pergit; xai  tovto puv ytTOY xai Savfia(Stoy, aAA’ fycoys x. r. A.  xovS XP ydTovS. Ironice  hoc dictum esse y ut mox 6 /JeAxtdtoS ITpodtxoS, Stallb. docet.  Sohleicrm. verba convertit: und  willst du dicli auch untcr den  edlen Sophisten umsehen, dass  sie auf den Herakles und Andero  in ungebundener Rede Lobschriften verfertigen, vie der vortrelfliche Prodicus. Riickert. ad h. 1.:  XpydToi, inquit, sunt boni,  optimi, die guten. Adhibetur enim hæc vox iq derisione.  TovS xpyfaovS 6o<pi6raS nou Socratis verba sunt Sophistis infestissimi, sed Phædri, hominis  a studio sophistarum non alieni,  ut laudatio Erotis docet sophia  stica arte composita 178. seqq.  Vehementius autem quam iu poetas, Phædrus in sophistas invehitur, utpote qui, cum siot rerum utilium laudatores  strenui, inprimis Erotem laudare debuerint. Sententia est  totius loci ♦ Ist es nicht achreck  licii, dass andere Gotter von den  Dichtern gefeiert werden, dem  Eros abfcr, dem altesten und segenreichsten Gotte auch vou koinem der vielen Dichter ein L«ed  dargebracht worden ist? Willst  du nuu aber die praktischeu  Sophisten ins Auge fassen : dass  sie uber Hercules uod andere  Lobschriften abfassen, wie der  tuchtigate uuter ihnen, Prodicas  und das ist weniger noch  xu bewundern, aber mir kam  sogar eiumal ein Ruch zu Handen, in dem der Nutzen des Salzes auf bewundernswerthe Art  erhoben war.   xa\ tovto filv yTTOY  xcl\ S av pa6 T ov. Unus cod.  Vindob. et Vatican, liber alterum  hoc xai omittunt probantibus  Bastio atque Thierschio. Sed  recte servant illud ceteri codices.  Pertinet autem ad ?/ttoy, ut sensas hic sit: atque hoc minus  etiam mirum est, quam  hoc, quod in librum qu*udam incidi etc. Nec mirum  est 7/ttoy præmitti voculæ,  quum t ovcodtY habeat. Quam*  quam non in promtu sunt alia huius  collocationis exempla, Stallb.   Iy cj ivrjdav aA,£f, Apto  comparari iubet Stallb. Isocr.  Helen. Laud. 304. tvy fily  yap TovS /5oppv\tovS xa\ xovS  aXaS' xai xd xoiavxa floyXySivTtoY iitaiveiv ovdeis 7too7fore  XoyaY T]7c6p7jdEY. Cic. Brut*  $. 47. Singularum rerum laudationes vituperationesque cou*  scripsit, quod iudicaret hoc lora*  C titaivov davfiuGiov i'xovres xqos w(fi/.uav • y.at aXXa  Toiavta (5v %va XSoie Sv iyxexMiuaGfieva. r 6 ovv xoiovrcov fiev ittQi noXXrjV GxovStjv itoirjOaG&cu, "Egma Se  Hijdtva Tta av&Q dxav ter otyiyxivca tls ravxrjvl xrjv tjpi  toris esse propriom, rem angere  posse laudando viluperandoque  rursus affligere. Vid. Wolf,  Prolegg, ad Demostii. Lept.  XXXV* Restat, ut indicemus,  cur Prodicus Ceus hoc loco fiii lr idxoC audiat. Multam operam  posuisse perhibetur in verborum  discrimine explicando, quæ 8iaipfdtff rcov ovopdxcov vocator  Prolog, 358. A. Iloc studium  acerrime perstringitur Prot. 337.  A., D. et C, laudatur Piat. Lach*  197. §• 26. Hæc StalpedtS  quamquam summopere a Prodico  exculta, tamen Phædro tanti esse  nou potuit, ut fiiXtidrofi Prodicum appellandum esse putaret.  Satis notum est, Prodicum lucri  caussa Epicharmi versum in ore  gessisse: d 81 X £ ^P tc * v X&P a  viP,£i. 8oS n xal Xapi n. vid,  Axibch. 366. C. Sed ne hoc  quidem satis caussæ est, cur  fiiA XidxoS appelletur. Videtur  potius, ut ita piAxiCxoS   de eo valere, qui rerum laudem  non nisi ex earum utilitate exaptat. Prodicus autem ne a diis  quidem rationem utilitatis cohibere solebat, ut videre Jicet e  dicto eius servato apud Sext.  Empir, adv. Mathcm. 9. 18.  i/Aiov xai defajnjr na\ Ttoxapovf xal xpTjvaS xat xaSoAov  itdvta r d cocpsXovvxa xov ftiov  rjpwv ol itaAaiol Seov S ivo puSctv 8ia X7}v ait avxcOv coepi- Anav f KciSditEp ol AlyiJitxioi  xov NeiAov t xa\ 8id xovxorov  Mtv dpxov Ji/prjxpav vopidSijvat xov 8h oivor Jiovvdov nal    x d 8h vSaop Ilodsidcova, to 6h  TXu p n Ilepaidxov xal ehee rcov  evxprjdovxcov ditavxa. Addo  Cic, de N. D* I, 42. m Quid Prodicus Ceus, qui ea, quæ prodessent hominum vitæ,  deorum ia numero habita esso  dixit, quam tandem religiouem  reliquit?» Iam quod Prodicus fecit, ut iu deorum laudatione  non deos, sed rerum utilitatem  laudaret divino nomine insignitam,  idem fero iu Erotis eocomio a  Phædro factum. Nou in indolem  inquirit atque iu naturam dei, sed rerum, quarum auctor Eroa  esse perhibetur, utilitatem exponit j quo maiorem illam videt, eo maiore honore deum exornat  nullo veritatis respectu habito*  Non mirum igitur, si Prodicum  maxime laudandum Phædrus censuit, ad cuius exemplar ipse laudationem Erotis composuit. Ceterum quod Herculis laudationem  attinet, Riickertum audi ad h. 1.  annotantem: Herculis laudationem  scripserat (sc, Prodicus) in libro,  coi oopai titulus, ex quo notissimam de Hercule in trivio fabulam mqtuatus est Xcnoph*  Mem* II*, 20. Prodici quippe  admirator usque adeo, ut, quum  in Boeotia vinctus esset, quo  tempore ibi sophista versabatur,  vade dato ad audiendum eum o  carcere prodiret auctore PJiilostr.  vit. soph. I, 12.   ro ovv x oiovtov  seqq* Vulgo post -dpvij<5<xi  comma positum reperitur, punctum post Wyttenbach*   Qttv a^ltog i(twj<Sai - ukX ornag tffilbftcu toGovtos  S-eos ! Tavxa 8tj poi SoxtZ ev tiyuv ®ccZ8qos. eyui  ow Int&vfico a fi a (ilv tovra iqctvov elgeveyxeZv xal  ^txQiSao&cu, afict de tv tc3 xccqovti itQ&nov jioi 8oxeZ  Bibi. Crit.^T. I. YoL, ra. 10.  oti ante ovxcoS inferciendam cenanit ; Steplianus coniecit a\\’  ovxcaS TjpsAijdSai xodovxoy   Seov. Non mirum, lumines doctos in verborum structura  admodum hæsisse, in qua componenda ipse, qui loquitor, impeditum se atque implicitum sentiebat, Addita ovv particula manifesto indicatur, verba superioribus annectenda esse; sed quoniam omissa sunt illic, e quibus  hæc exaptari potuissent, xovx  vv SavpadxaSxaxoy; factum est,  ut quædam structuræ ambiguitas oriretur, et dicenti, et audienti molestissima. Ex hac structuræ difficultate ut se extricaret Eryximachus, dissecto inceptæ  structuræ filo pro infinitivo indicativum posuit. Hinc bene  habet exclamandi * signum, quod  post &eoS positam est ab interpretibus, minus probem post  vpvijdai, Verba convertenda  sunt: Dass, sage ich, an solche  Dinge viele Miihe verschwendet  wird, den Eros aber Iceiner noch  wiirdig zu feiern versucht hat,  sondern so vernachlassigt wird  ein so segenreicher Gott!   a^icoS v pvrf dat. Wolfiu»  ad verba tc3 6b "Epooxi ptj6bv iyxoopioy annotavit: Man  muss annehmen, und dies scheint  mir das wahrste, dass Platon  vorsatzlich seinen Phædrus etwas sagen lasst, das nicht gegrundet war. Viro doetissimo  concedimus, Eroti laudatores vix  deesse potuisse ; sed cavendum est, ne Phædro aliquid imputemus, quod nec cogitavit nec  dixit. Negat tantummodo repertum esse adhuc, qui laudem  deo dignam ediderit, non negat, prorsus neglectum iacerc atque contemtum a poetis sophistisque deum, Iam quid sit laudem  deo dignam edere s. dB,iooS  vpvijdai (roV Seoy), infra paullo  explicabitur.   ipavov elfey eyxetv h,  e.' symbolam dare. Non caret lepore in symposio philosophico hæc dictio, de cuins tror  pico usu conferri iubet Stal».  Casaub. ad Theophr. Charact,  c. XV.   xo dpijdai xov Seov. Minus qusfcrendum h. 1. est, quid  omnino xodpEiv significet et  aB,iooS v/ivelv, quod paullo supra legitur, quam qua significatione  hæc verba adhibuerit Phædrus. Socratem ipsum interpretem sume  198. E. x 6 dk apa (sc. ro  iyxcopia^Eiv') ov xovxo jjy xd  xa\co$ ixaivEHy oxiovv, aAAcz  xo aZs pkytdxa av axt$ iv at x ai itpaypaxi xal  co S xdWidx a iav x e y  ovxgdS iav xe prf'   el dfc TfiEvdrj, ovdbv ap yv  izpayjxa x. x. A. Atque eodem  fere modo ipse Eryximachus  177. D. Soxei yap poi t inquit,  Xpijyai txadxov ypoSv Adyov  eItzeiv Inaivov *EpooxoS cJ S  av Svvyxat xaWidx ov. v   rj ptv iy \6yoiS . Wolf*  convertit : eine reichhaltige, weit 4  tlvui rjuiv toig xuqovOi xoOfiijtiai rov &tov. tl ow  D £ vvdoxei xai vfilv, ytvoiv’ civ rjfiiv iv koyoig ixavi)  dictTptfir). doxei yaa fioi yjirjvca Zy.utirov i^fiwv kbyov  tiiteiv htaivov "Eqmos 1% i dsha wg av Svvtjrai xakkidrov, a$yuv 61 QcuSqov icgtotov, inudrj xai arpsJrog  xaraxuzai xai 1'tiuv cifia xarr/Q rov koyov. OvStlg  Coi, o3 ’EQv£lntt%£, (favea zbv Eoxqcizi), ivavzla iprjcpitilauftige Materio zum Reden.  ypiv iv X oyotS idem fero est,  atque yperipoiS Ir A oyoiS. Sensus est.* Wenn nun auch euch  wirklich so diinkt, so hatten  wir in aasern Reden sattsame  Unterhaltung» De structura huius  enuntiati vide ad 176. C.  Minus probabilis Stallb. ratio  explicandi est hæc: tl ovv %vv- xai vjuiv, ovtco Ttoicoptv  yevoiro yap av ypiv iv Aoyoi$ ixavy biarpifty.   i tz\ btB,ia. Sic Bekk» Stallb*  alii; Riickertns veterum editionum  lectionem imbLB,ia in tettum recepit usu Homerico nixus, quem  Plato haud raro imitatus sit* Vid.  F»uttm. Lexil. 173» seqq. Fortasse recte habet iitibiByia^ ubi  narratur, quo ordine aliquid factum  sit; contra quo ordine aliqnid fieri  debeat, ubi indicator, rectius  ini 6e%id exhibetur, v. c. in  Piat, de rep, IV, p, 420. £. xai  rovS xtpapia? xaxaxXlvavraS  t inibi%ia Ttpoi ro itvp btanivovrds Tt xai tvcDXovpivovS  H . T. A. De xPV y Cct verbi potestate J es miisse wolleu, vide  annot. ad 176. E.   narrjp rov Xoyov . J7anyp vocis insolentiam Stallbaum*  leniri posse arbitratus est addito  exemplo Phædri 257* B*  &aidp6s re xai iyco Avdiav  rov rov Xoyov nazipa alxioo pevoS. Fortasse EryxtfBachus  rursus ad Euripideum illum versum respexit ovx ifioS o javSoS,  aXX* ipffS jirjrpo S napa, atque a se quidem profectum sermonem negat: patrem eius Phædram esse contendit* y ra i p anxa. De his  verbis vide Commentat. de Piat»  Symp, Certissimum autem esse  existimo, Platonem his verbis lectoris animum ad futuram Socratis orationem tanquam ad caput libelli dirigere voluisse. Ceterum ne mireris, cur, cum Socrates ra ipoxixa initizatiSat  dicatur, Aristophanes Bacchi Venerisque cultor nomiuetur, Agatho et Pausanias indicio addito nullo  ad Erotis laudem celebrandam  promti perhibeantur: Schoi. habet s. v, f Aya$QDVoS  rpa yaSt  ini paXaxia  zaby .  yv b* ovtoS ... itaiSj 'ASyvaioS  .... naibixa JJavbaviov  rov r pay ixov, x. r. A. Qui  mutuo amore se complectebantur,  iis nihil iucundius contingere potuisse consentaneum est, quam  laudationem Erotis. Non commemoratur autem h. 1. Pausaniæ  et Agathonis amor mutuus disertis verbis, quod tum temporis  notissimus erat.   ovbh pyv 9 Api(StO(pdvTjS.  ovbh fiyv illatam post ovre ap  t  rta. ovts yaQ av xov lya c<ito<p>j<5aiui, og ovdiv gtijyt  alio IniGtotGxfai rj ra Igatixa, ovts xov Aya&av xal e  ITavUuviag, ovds yrjv ’AQiOTu<pdvr t g, a xsqI AwvvGov  xal 'AtpQoSktjv xdoct tj diatQcjli), ovds allog ovdelg  tovtavl av lya oQa. xal r oi ovx l| iGov ylyvstai  7jy.lv Tolg vGtcctoig xataxstfdvoig ' ali’ Idv oi xqogQsv  txavu g xal xal wg sYxaOiv, IgaQxtGst r}yZv . alia tvxu    prime respondet Latinorum neque vero etiam, quibus verbis  res quædam induci solet, quæ  maioris momenti est, quam res  paullo ante per simplex neque  commemorata. Igitur cum gravitate Aristophanes totus perhibetur cura Baccho et Venere occupatus esse. De Baccho liquet,  nam res scenica, inquit Stallb.,  Baccho erat sacra, vid. Casaub.  de Satyr. poesi 9. ed. llamb.  Venerem autem commemoratam  h. 1. censet Riickertus, quod  plenæ sint ve n eris Aristophanis  comoediæ. Wolfius ad h. 1. annotat : In wiefern er mit der Venus zu thun gehabt habe, bezieht  sich vielleicht auf einen Umstand, der der Gesellschaft bekaunt sein konnte, fiir uus aber  verloren gegangen ist, vielleicht  auf die Sitten ' des Dichters.  Aliter nobis videtnr de hoc loco statuendum esse, quamquam in hujusmodi tenebris quis clare videre se audeat dicere? Ilaud raro  Socrates nomina propria facili  quadam litterarum mutatione corrumpere solebat atque ita immutare, nt nomen existeret, quod  aive laudem sive vituperium exprimeret. Exemplo est 198,  C., quo loco Gorgiæ Gorgnsque  nomina inter se conferuntur lepidissime. Adhibita accentus  mutatione in ’Ayd$oov et dya~   Scov nominibus ludit 174. B.  Quid, si etiam hoc loco in Aristophanis nomine lusit? Significat  9 Api6xo<pd.V7}S cum, qni optimum prodit. Optimam  autem, veteri proverbio, vinum  et venus est, quod Græce audit:  dptdxov diovvdoS xal *A(ppo~  dlXTf .   x ai x oi ovx i B, Id ov —<*AA. Magnopere se torquent  in huius loci explicatione, qui  xal xoi conianctim exhibuerunt.  Ut gravior esset xoi port. affirmatio, vocula ex scriptoris sententia initio enuntiationis ponenda  erat. Id quoniam vetant fieri  linguæ leges, xai expletivum  præpositum est, do quo 6.  diximus. Latine reddenda sunt  verba: Pol non æqua couditione, qui ultimi consedimus, utimur. Quæ sequitur aWa particula, ita commode explicatur, nt omissum cogitetur, quod facillime suppleri  potest: 7 j/ieiS ovv ovx ipovfiev^  «AA* idv iBiapxidei  Locus nostro simillimus est Parmenid. 128. C. xai xoi GJSnep  ye æl Adxatvai dxvXaxeS ev  pexaSeiS xe xal IxveveiS td  \£X$ivx a. aXXd npuxov fiev  Ce xovxo Aay$dvet, oxi x. x. A,,  quo loco ante aWd facillimo  suppletur ovx zvpeZ xrjv  afa/Seiav. 4 *  !    aya9y xaTaQ%itto OtauSpog xtu lpta[HCc£ha rov "Egona.  Tavta S>) xal ot nXHoi xaw Eg uqu £ we<p«<Sav t e xal  178 helevov axtg 6 Zuxqkti] g. ndvrav ylv ovv a exadros  tfotev, ovre navv 6 'AgiOroSyyog lu.iy.vyto oirt av tyto  « helvos Ueye mxvtct. « ydliGta xal av l<5o£e fioc  d^ioyvrjfiovevtav sivca, tovttov v/iiv iga exdtStov xov  loyov.    tffiiv to iS v6tdx 01 $ xax an eipkv o tS. Dictam supra  est 175. C. xov ovv 3 'Ayd Saova, x vyxdveiv yap kdxotxov  naTaxalpevov, povov * Jevp  cpctvai, oo 2ooxpaxeS f nap  iul xaxaxeido. Sunt igitur ol  vdxaxoi xataxeipevot Socrates  ct Agatho.   xv XV dyaSy. Formula erat,  qua feliciter succlamare Græci solebant iis, qui aut navem conscendebant, ant ad bellum proficiscebantur, aut aliud negotium  suscipiebant, cuius incertus eventus esset, cfr. Griton. 43. D,  dW\ gj Kpitcov, xvxy aya$y.   navxeS dpa £vvk<pa6 av. Wyttenb. scribendum coniecit dpa pro dpa t qua contectura efficitur, ut omnes uno  ore consensisse dicantur. Hoc  consentaneum est convivas fecisse.  Sed quoniam non sine turba et  clamore hoc fieri poterat •* nt  quietius convivæ egisse viderentur, dpa non dpa Plato scripsit.  De hi^ius particulæ significatu vide Heisigii annot. ad Oed. Coi.  Enarr. CCVIH. Ortum dpa est  ab apeo, soletque adhiberi, ubi  ab argumentorum enarratione oratio ad finem tendit, h. e. ad  conclusionem. Et cum singulos  convivas Socrates nominasset ita,  ut simul, cur ad laudem Erotis    prædicandam parati essent, caussam adderet: ' om nes igitur  consensisse perhibentur. Minus  apte Schleierm. in conversione:  Hierrait nun stimmten dann anch  die Uebrigen alie uberein,   ovre navv 6 *Api6t o et 1 J'  poS. De horam verborum fine^  vide quæ dicta sunt in Commentat. de Piat. Sympos. Minut  placet, quod Stallb. attulit ad  ad hunc locum: Caute, inquit,  hæc interposuit, ne legentes in  eam inciderent opinionem, ut has  orationes revera habitas, non  ab ipso cuiusque ingenio convenienter fictas esse putarent.   a^topvypovevtcov  elvai. Codd. plerique a£,io pYTjpovevxoY j Bodl. omisso elvai  00   habet dZtopvrjpovevxov; in Paris, uno, Vindob. duobus pancisque aliis d&iopvijp6v£vta exstat, quod Bekk. in textum recepit, quem Stallb, Riickert. alii  secuti sunt. Videlicet docti viri  negant, a^topvripovevxovS oratores vocari posse, atque non  nisi orationes illo epitheto recte  Insigniri. Aliter nobis de hoc  loco statuendum videtur. Verba  xovxoov vpiv ipoo kxadtoy xov  Xoyov ad præcedentia referantur drv UoB,k poi dZiopvypovevxcov elvai: verba a pa\idra nihil habent, quod ipsis    9 I   Cap. VI.   Flgarov (ih> y«Q, Cstuq Xiya, Irpi) &ui8qov aQ^dftivov tv&ivdt xo&tv ktyuv, ori filyag &tos ut) 6 ”Equs  xal fravfiaatos Iv av&Qthitoig re xal &Eolg, sroA Aa%jj fiiv  xal aXXy, ov% rpiMtd de xatd rtjv yivEdiv. rd 'yuQ Iv  tolg XQtafivzcccav tlvcu tbv &eov, tlyuov, ij 8’ os' tex/iq- B    respondeat. Igitur dubitari nequit de xai voculæ potestate,  Kctl nimirum auget corrigendo  sigoificatque atque potius.  Exempla si requiris huius usus,  vide Stallb. ad Apol. Socr. 23.  A. Convertenda autem verba sunt:  Was mir nun am meisten  oder besser, welche Redner mir  am wichtigsten und merkwiirdigsten zu scin schienen, deren Keden will ich euch einzelu darstellen. Proprie dicendum erat  oi E8o£dv poi p <x\i6xa a.B,iopvjjpovevxoi elvai, xovxarv ....  Genitivi e præcedente d exapta ta  sunt, quod xai addito quoaiam  pæne evanescit, infra positum  habes xovxgov vplv ipdb kxa6tov xov Xoyov. Ceterum ex  his verbis iodicnri licet de Apollodori ingenio, qui orationes non  tam ex orationum rationibus,  quam ex auctoritate et celebritate oratorum indicabat. Simili  ratione paullo infra 180, C.  non orationum, sed oratorum oblitus esse dicitur Apollodorus his  verbis: $al8pov p\v xoiovzov  riva \6yov Z<pij tinuv, pera  $at8pov aAAovS’ tivaf,  (li. e. oratores non orationes,)  elvat, ojy ov jtavv dispvt]liovev ev.   icp&xov p\v yap. Phædrus demonstrare studet, Erotem  deum antiquissimum et honoratissimum esse, atque summorum  bohorum, virtutis atque felicitatis  benignissimum auctorem. Vide Comment. de Piat. Sympos. Ceterum de Phædro, Pythoclis filio, quem Socratis æqualem fuisse  negat Athenæus XI, p, 505. F.,  et qui in Protag. 315. C. inter Calliæ convivas memoratur,  rectissime Stallb, m Erat inquit,  homo mollis ac delicatus, <Soq>oS  T a ipGDZixd vid, Phædr. 227*  A, Sectatus autem rhetores Siculos, iuprimis Tisiam et Lysiam,  mirifice sibi placebat in oratione  comenda et calamistris ornanda»  vid. Phædr, p, 227.» 273**  al. Itaque oratio, quam Tlato  hic ab eo habitam facit, habet  nescio quid fucati coloris et ornamenti, ut facile appareat, hominis ingenium et mores ut ceterorum convivatum, q Platone  ad ipsam veritatem esse expressos.   rd yap iv xoiS iep£6fivr  xaxov. Sic optimi codd. Legebatur olim iv roiS TtpetipvtdXoiS sequente elrat xc ov Segov.  Non dubium est, quin dixerint  antiquitus Græci iv xoiS itpstipvtdtoiS Tipedftvtarov et iv  raiS nps6pvrdxaiS itpstipvtaxr\v\ sed usu loquendi factum  paullatim est, ut non solum iv  xo U ltpE6fivtaxoS dicaretur, sed  qiov de tovtov' yovijg yc<Q "Eoatog ovz elolv ovre ktyovrcu vtc ovdevog ovre ISiutov ovre TCoitjzov, aAA’  'HaioSog xquwv filv %aog yeveO&ca (ptjOlv, ' avtdp inerra    etiam iv Toi? rtpedfivtdry, Videlicet ea amplitudine verba £ v  toi? esse voluerunt, ut quæ generis discrimen non suscipiant, quasi  dicas, omnium rerum, quæ cogitari possint, antiquissimam, maximum, pulcherrimum.  Exemplum huius structuræ est  173. B. napayeyovei 8* iv  ry dvvovdine 2ooxpdrov? ipetCrrj? cov iv toi? paXidra tcor  rore. Adde Symp, 178. C.  iv xoiS 7tpedftvraro? elvai.   tifiiov, i / 5* o? . In upo Vindob. exstat eido? pro y 8’ d?,  ex qua scriptura, dupliciter posita rifiiov vocis syllaba finali,  rijiiov ovetSo? effinxit Creuzerus  ad Plotin, de Pulcritud. p, 146.  Consentire videtur nobiscum vir  doctissimus, tlpior verbum hoc  loco "admodum frigere, neque  nilo modo præcedentibus dei  epithetis ^avpadro? et piya?  respondere. Exspectaveris potius  superlativum, qui exstat apud  Aristot. Metuph. 1. 3. rifUQora*  rov yap rd Ttpedftvrarov, Non  mutandum est y 8 1 5?, quibus  verbis ipsissima Phædri verba  premi manifesto indicatur. Phædrum nutem dixisse reor: r o yap  iv rot? nptdfivrarov eivat rdr  3coV ov rifuov . Addita negatione et interrogatione instituta  efficitur, ut" orationis vigore vis superlativi compensetur. Ceterum  eo facilius scribæ passi sunt negationem a præcedentis verbi  syllaba finali absorberi, quo minus iotelligerent, interrogandi  signo forte, ut fit, oblitterato, qui possit non honorifica esse  laus antiquitatis. T EXfltf ptov 8 £ TOVTOV.  Hacc verba si abessent, a nemine desiderarentur, et facilius suaviusque flumen oratiouis procederet. Cui euim non arrideat,  enuntiatorum iunctura hæc : rd  yap iv t 61? 7fp£(jpvraxov elvai  rov Stov ov xt/uov; ?/ 8 9 u?,  yovy? 8e,”Eporo? x, r.A. Cave  tamen otiosum additamentum  T exuypiov tovtov verba cen seas. Nimirum orationis continuitatem ita intercidunt h. J.,  ut gravior fiat caussæ commemoratio; simulque indicant, quoniam oratorum, ut videtur, propria sunt, Phædri orationem  verbo tenus referri,# Huius rei,  h. e. accuratissimæ repetionis,  iudicium sunt etiam ?/ 8 ds verba,  quæ Apollodorus posuit, ut clarius indicetur, iuitium orationis  non nisi Phædri sententias, Aristodemi, non ipsius Phædri verbis descriptas ( ap^dpevov iv$£v6e itoSiv') contiuere, nunc  autem ita pergi in repetenda  oratioue Phædri, ut etiam ipsa  eius verba repetantur. Ceterum  perraro xexpypiov 8i, paprvpiov 8i, similia ponuntur, quia  in subsequentihus yap part. reperiatur, v. c. Plat, de Legg. VII.  821. E. r expypiov 8i, iycd  tovtov ovre vio? ovre itaXat  axyxoa depov.   ovx eld\v ovte i.iyovtaiy II. e. neque sunt revera  parentes Erotis, neque esse a Vat £vpv6xspvo?, Ttdvtcoy e8o? a<5(paX\? aiei f  ’H8’ "EpoS.   &rj(Sl {ietcc ro %aog 6vo rovta yeviti&cu, yrpv re  'Aoi "Eqch tcl. IIccQpsvldr ( g 8e trjv ttvttiiv liyzi,    quoquam perhibentur. Non esse  revera parentes Erotis, non probator; non dici a quoquam ita  tantummodo confirmatum liabes,  ut allatis versibus quibusdam,  quid Hesiodus et Parmeuides de  Erotis ortu tradiderint, edoceare.  Notabis igitur, quam Plato carpit, levitatem argumentandi.   ovxe i 8 1 cozov . ’l8iarr?]f  latissimi significatus verbum est,  quod plerumque ex opposito accuratius definitur. Igitur non  placet Ficini conversio: Id   autem ex eo c o 11 s t at, q u o d  parentes Erotis a nullo  vel poeta vel alio quovis descripti sunt. Nec  prosarium scriptorem cum Stallb.  interpretari velim Idiooxi]? vocem. Antiquiores enim philosophi, ut  Parmenidis exemplo docemur,  prosa oratione non usi sunt, cfr.  Olympiod. ad Phædon» p, 65«  E* izoiTjxaS XeyEi ( sc. o JlXd ro ov) llapjiEvL8?fv f 'EpTttdoxXiot,  *Entxappov* ovxoi ydp x. t\ A.  Consentaneum est autem, philosophos et poetas ibi tangi, non  poetas et prosarios scriptores,  tibi in Erotis originem inquiritur»  Convertit Schleierm.: von irgend  cinem Dichter oder andern  Erzahler» Exempla si quæris  IduaXTj? vocis ex opposito explicandæ, legitur infra 178. D.  ovxe tcoXiy ovxe ISiqjxtjy h. e*  vreder ein ganzer Staat nocli ein  einxelner Biirger. Prot. 322.  *C» ei? Ixooy laxpixijv itoXXoiS  IxctvoS l8icoxatS x* x. A.   tprjdl pexa ro x^oS    x a i ”E p m r a. Hæc verba quoniam cum autecedentibus nullo  modo consociari possunt, Ileindorf., quem Schleierm» secutus  est, post Iloio8oS pronomen relativum o? ponendam ceusuit,  Wolfins <pij6\ 67 scribendum  existimavit. Ileynius, Astins,  alii, verba glossema censent, quod  iudfcium Riickertus probaret, si  Socratis hæc verba essent, non  Phædri hominis inepti* (?)  Sed ipsum audi Kiickcrtum: In   Phædri, inquit, oratione nihil decerno, quæ tota tam inepta  ei/, ut ii tollere velis omnia t  quæ displiceant, haud scio, an  nullum versiculum sis incolumem  habiturus . (!?)  Plato poetarum versus laudare solet duplici  modo» Aut nudos versus afiert,  aut commemorat aliquid, quod  idem in sequentibus versibus  continetor iisque comprobatur.  Atque huius quidem rationis  exemplum occurrit p, 195. D.  n OytjpoS ydp *Ax?}v Seoy xe  <pj]6iv ejvcn xa\ ditaXr/v' xovt  yovv 71 6 8 a S avxij? dita~  Aou? Etv at, XlycoY   Tij? piv$' djraXol TiddeS*  ov ydp iit ov6eoS  niXvatai y aXX’ apa 1 ) ye  xax* dv8poav xpdaxa fiaivei.  Prioris rationis exemplum est  197. C. Nusquam, quantum  scio, poetarum versus laudat ita,  ut prolatis ipsis eorum prosariam  explicationem addat. Fortasse  cum Riickerto foedidam quandam  Phædri sedulitatem Platonem notaturum fuisse contendis. Audio, / f »   npoitititov pkv * Epcora Itetur pijritSato xavrojv.   C Htitodu 81 xal ’Axov<slk ag ofiokoyti. ovta itolkct%6&tv  neque probo tamen. Nam hoc certe negari nequit, Phædrum  recte loqui potuisse, ut non credibile sit, eundem hoc loco balbutientium instar locutum esse.  Scribendum videtur esse:  dAA’ 'Hdlodof xpturov plv xdoS  tp?j6l yevidSat  avtap Ixeixa   tpj]6l   yai’ ev pv 6t epv oS, nav tcov 28oS adqxxMs alsi  rj 8 * "EpoS.   Repetitum tprjdlv est, quo magis  pateret, ab obliqua oratione ad  ipsa poetæ verba trausiri. Factum  autem videtur esse casu quodam,  ut tprjdiv a sede sua in eo loco,  quo id codd. exhibent, collocaretur, ubi ansam dedit nescio cui  sciolo Hesiodeos versus prosaria  oratione explicandi. De tprjdi  verba ipsa poetæ indicante A. $al8poS yap b«xQTore itpoS pe dyctvcottoov Aiyet* ov 8eiv6v, tprjdiv x.r. A.  Adde p, 202. C. Tcal iyco eluor,  TtCOSTOVTO, 2<pTjv, \iyeiS. Alcib. II, p, 142. c. 8. A iyei 8i  xooS tu8i * Zev fiocdikev, r a plv  a, <prj6i, xai evxopivoiS  Ttotl avevHTOiS ctppi SiSov, rcc  di 8eiva xa\ evxopivoiS axaA dB,eiv yteXe-vei.   Tlap pevidrjS 81  tcov, Hæc quoque verba sunt,  qui expungenda censeant. Omisit  ea cum superioribus tprfdl pera  ro xdoi 8vo zovzgo ' yevidSai,  yrjv re xal " Epcora, Stob. in  Kclog, phys. I. 154. Verba sanissima esse iam colligere possis e præcedentibus verbis ov8l  idtturov ovre icotrjtov, Quibus  ! commemoratis et poetarum et  philosophorum certe unum exemplum laudari debebat ; si Hesiodum solum Phædrus laudare volebat,  philosophorum mentionem facere  non debebat. Verba sanissima  esse etiam e rectius explicato  TevidecoS verbo patebit. Sic  statuo: Duæ sunt in Mythologia  Græcorum Veneres, quarnm altera maior, altera minor ætate,  Atqne minor quidem dea, *Aq>poSirrjS nomine insignita, a poetis celebrabatur, a populo colebatur. Maior natu dea, quam  numen rectius voces, iis tantummodo nota erat, qui omne  studium in coguo&cendis rerum  caussis ponebant, b. e. viris philosophicis, Factum autem videtur philosophorum inter se dissentientium industria, ut plus minus  divinæ dignitatis dea maior nata  particeps haberetur, et cum vario  modo spectaretur, ne certo quidem nomine insigniretur. Tivediv eam vocarunt, et $i\lav f  et XaoS ; æque, qui fons est  magnæ confusionis, ab A<ppo8l r rjS nomine abstinuerant, quin  maiori illi deæ interdum attribuerent. Sic Plutarch. Erot,  756. F. UtppoSityv posuit pro  Tevedet, sed addita Ipycav voce,  qua nominis mutatio satis excusatur: 8io IIappevl8ijS plv axotpcdvei r ov "Eptura rtuv ’AcppoSirrjS ipycov xpetifivrocrov iv  zy xodpoypacpia ypdtpcav * xpoSzitirov plv * Epoota h. r. A. rive 6iv autem Parmenidei versas  subiectum esse, etiam Aristotelis  verbis probatur Mctaph. 1. 4.  xal ydp ovroS (sc. fla p pe opoAqgtirtu 6 *Eqc>s iv rofe XQE<S(Svtatos tlvai. XQtaflvtorros ol tw ptybSxsov &ya9mv ij ftw a?ttos itfrtv. ou    viSrfS) xctxadxEvdZoov rrjv tov  navxoS yivediv' npcvxidxov p&v,  tprjdiv f "Eparxa Sevtv pr/xldaxo  ndvxcov. Notasset enim, si revera abesset, sabiecti absentiam  philosophus. Satis notus autem  Græcismus est» quo dicitur  trjv Ovediv Xiyei  nptoxidxov  x. r. X, pro Akytt * npoSxidxov  ptv rj rivEdiS *Epooxa Segqy  pTjxidctxo ndvxoov. Iam patere  opinor, Hesiodeos versus cum  Parmenidis testimonio optime  convenire. Nam quod Xaos apud  illum est, ttyedis Parmenidi vo catur, Igitur nullo modo probanda est ea evplicandi ratio, qua Phædrus callide dicitur subiectum versiculi reticuisse, ne  quod testimonium pro sua sententia afferat, quod idem contra  ipsum testari nimis manifestum  sit. Verendum nimirum erat, ne  quis convivarum, qui Parmenidis  versum memoria teneret, erroris  atque fraudis loquentem accusaret, aut, si non teneret, e vestigio subiectum rogaret. Ceterum  quod terram simul Hesiodus commemorat, (videlicet ut esset, quo  incedere Eros posset), id ei non  officit, qui deorum antiquissimum Erotem probaturus est. Addere placet Simplicii ad Arist»  Phys. 9. revidecaS definitionem. Indicat nimirum, Parmenidem habuisse $eg5y alxiav Scripovct iv pido» ndvxarv, T] navxct  Hvftepra, quam 3 Avdyxrjv s.  xrjy xAydovyov Stallb. minus  accommodate interpretatur,   xal *Axov diXe uf o /iodo y e 2. Suidas habet; *Axov~  diAaoS, Kafia vlof 9 ‘ 'ApyeioS ano KepxdSoS noÆaS, ovdtfi  AvAiSoS nXrjdiov, IdxopixoS  npedftvxaxoi * iypanpe <5£ yeveaAoyiaS ix 6iXx oov  ds XoyoS evpelv tov naxipa  avxov opv&avxd riva xonov  xrjS oixiaS avxov . Hinc de Clem,  Alex, testimonio iudicabis, qui  Strqm. VI, 629. A. Acusilanm  nihil nisi Theogoniam Hesiodeam in prosam orationem convertisse docet. Phædrum Acusilai auctoritate temere usum esse  contendit Stallb. Habet, inquit,  hominis oratio, ut iam supra  dictum est, nonnihil sophistici  acuminis et tumoris. Aliter nos,  atque fecit Stallb,, de Acusilai  testimonio indicamus. Videtur  Acusilaus Argivus non Hesiodi  solum mythos collegisse atque  in prosam orationem convertisse, sed etiam aliorum poetarum  narrationes addidisse, ut fecisse  constat omnes eos, qui Logographorum nomine insigniuntur. Iu  tanta autem, quanta erat antiquitatis farrago mythorum, critica  abhibita sedulo caverunt, no  discordia etinter se pugnantia colligerent. Fieri igitur poterat, nt  Acusilaus interdum ab Hesiodo  discreparet; igitur illius testimonio Phædrus uti potoit satis  commode, cfr. Otfried Mulier ia  den Prolegg. zu einer *isseuschaftlichen Mythologie 13.:  Iudcssen hatten sie (die Logographen) zugleich die Absicht,  die Mythen zu ordnen und io  Zusammenhang zu briugen, woriu  ihnen auch schon die kyklischeu  und geueslogischen Epiker vorangegangen wareo. Bel diesem yuQ %yay typ tlxsiv o zi fieltov louv ccya&otUtov&vs  vtco uvzt, ij iQætijS * Kt tQCKSzi] ncadixu « yag    Ordnen mussten natiirlich oft  Mythen vorgezogen und aufgenommen, andere zuriickgestellt  und iibergangen, es mnsstc eiue  gewis.se Kritik geubt werden.  ovtcj 7t oWaxoSev opoXoy eiTai. Parmenidis Tersum  delere dubitarunt interpretes non  pauci ideo, quod ridiculum e&set,  solo Hesiodi et Acusilai testimonio laudato ita pergi : ovzca   xoXXaxfaty opioXoyEitau Hæc  verba num excusabiliora censes  testimoniis allatis tribus? Speciosius quam verius annotat ad  h. 1, Wolf, : Er braucht, wiewohi  er nur drei Gcwahrsmanner on-gefiihrt Hat, TtoXXaxo^EV, weil  em jeder von diesen das Haupt  einerSekte war, au deren Gruudsatzen sich eine Menge anderer  bekannten. Quid tandem? Num  ad Phædri confugiendum est  sophisticum illum tumorem? Non,  placet. Ovtgd seiungendum est a  tfoXXaxb$EY verbo, non arctius  cum eodem coniungendum, quod  interpretes ad unum omnes fecisse video. Ovtcj est, ut alias  sæpissime, hac, qua dixi, ratione, hoc modo. Scbleierm,  verba convertit: Von so vielen  Seiten her wird dem Eros zugestanden, unter die altesten zu  gehdren» Phædri hæc potius  mens est: Auf diese Weiao  wird noch von vielen andern zugestanden, dass  Eros der alleralteste i st.  Ovtcj vocis sic positæ si exempla quæris, cf. Piat. Menex.  240. A., ubi commemorata Persarum regum felicitate hæc leguntur: ai di yvwpai dedov- i    Xcjpivai a7tocvtcov dv&pujecay  ?]dav • ovtcj noXAd xal peyaXa xal pdxipa ykvij narotdEdovXojpkyrf t/v Tf TJtpdcoy  dpxrf t h. e * hac ratione factam  est, ut multæ et magnæ atque  fortissimæ olim nationes Persa- 4,  rum potestati subiicerentur. Adde  Symp. 188. D. ovtcj KoXXr t y  nat piydX?jy, paXXov 6£ itdtiav  dvvapiv ix Et HvXXt/PSrjr p\y  6 7CaS "EpojS, quo loco e» sententiarum nexu patet, ovtcj esse  hac ratione, hoc modo.   itpEdftvTaToSdecjy peyidTcoy ct y a $ gj y ijplv  aftloS IdtlY, Ficini, ut videtur, horum verborum conversione  motus: Cum vero talis sit,  maximorum bonorum nobis est caussa, Bastius scribendum coniecit: irpoS dfcrouro»  tmr % peyidtcov h. t. A. Frustra.  Transitur his verbis ab altera  oratiouis parte ad alteram, h. e. ab ætatis ad beneficiorum commemorationem. Non omni ex  parte Græcis verbis respondet  conversio Stallb. ; Quem ad modum autem est deorum  antiquissimus, ita idem  nobis est auctor maximorum bonorum. Est enim, quam ille non reddidit convertendo, species argumentationis  verbis admixta, quam sophistarum  sectatores captare solebant.   ov yap iycoy noti  ipadxjj tc aiStxd. Riickertna  ad h. 1. annotat: Non accurate hæc disposita sunt; quum enim  esiet dicendum: nullum est maius bonum homini,  XQrj ctv&Quxoig yyEi6&ccc itavros rov (Uov toTg t-dlhivGt, Aul cos (hmOst&ttt, tovto ovte fcvyyivsuc ola re tfinotuv quam A PRIMA IUVENTUTE probus AMATOR, et postea  AMANTI PUER similis, sic  eloquutus est, quasi otrumque ad verba evSvS vico ovxi esset referendum, Quod fieri non potest, nec voluit cogitari orator. Notandum hoc duxi, sicut alia  multa in hac oratione, quo magis  fiat perspicuum, quam multis ea vitiis laboret in omnibus, quæ ad sententias earumque cohærentiam pertineut. Quod quum  perspectum fuerit, qua cautione  in textu talium locorum castigando utendum sit, plane iotelligetur. Cur de uno eodemqne  homine accipienda sint hoc loco,  non DE DUOBUS HOMINIBUS MUTUO AMORE se amplectentibus, vioS et  ipatitijs verba, equidem caussam  nou video. Ruckerto non rectius  Sdfileierm, verba interpretatas  est: Dean ich meiues Theiles weiss nicht zu ssgen, was ein  grosscres Gut ware fur eiuen  Iiingling, ais gleich ein wohlmein en der Liebhaber oder  dem Liebhaber ein Liebling. Ad xaiStxa repetendum interpretes censent jf/aj/dta. Minus  apte, ut videtur. Nam nihil melius esse iuveni quam probum amatorem, Phædrus ita profert, ut iureni opus esse indicet homine aliquo, cuius præceptis et  exemplo melior fiat. Non potest  autem is, qui melior reddendus est, eius, qui meliotem reddit,  h. e. AMATORIS epitheto ornari.  Si igitur XPV& *oS nomen repetendam est, ad ipadty referendum est, non ad kaidixa. Ceterum Riickerto assentimur de  structuræ molestia querenti, qua et ad AMATOREM et ad amusium verba non referri non possint: ev$vS vico ovrt, de lectionis veritate non assentimur; sedulo  enim cavendum est, ut nimio  studio servandæ alicuius lectionis  ne iniusti simus atque vitia v alicui  imputemus, qui nulla commisit. Ne multis, scripsisse Plato videtur: o v yap iyooy &X& sIxeiy,  oxi pst£ov itixiv dyaSov ev$vf  vico ovxi, Tjipadrrjs xal   ipadtjj, (sc. XPV&&) V ^ou6txei 0  Sententia verborum hæc est:  Denn ich kenne kein Gut, das  eiuem gleich von dea friihesten  Iahren an dienlicher ware, ais  ein verstiindiger Liebhaber, und  das diesem ( dem verstaiidigen  Liebhaber} dienlicher ware, ais  ein Liebling.   avSp cotcoiZ rjyzi6$ ail  De jjyEidSai verbi structura vide  sis Indices. Ceterum interpositis  verbis pluribus a verbo, ad quod  pertinet, seiunctum est xoiS piXXovdi xaXdoS fttQo6E62ou, ut  vis maior esset enuntiati. Sensus est: deno was den Menscheu  ein Leitstern sein muss des ganzen Lebens, nam licii denen,  welche recht zu lebeu wunschen,  cfr. p» 198. E. ro 81 apa, (gJs’  Hoixey, ov tovto rjv x 6 xa~  XcoS iit ot.iv eiv otiovv x.  T. X. f ad quem locum vid. ann.ad  202. C. tj xoXprj6aiS dv tiva.  pij <pavai xaXov x e xal svdaipova $ Eooy elvca ;   tovto ovtE Hvyyivsia  x, t. X. Pro Hvyyiviia Wyttenb, Epist. erit, p, 9. evyiveui  D ovta jeaAros ovts tifial ovts nlovtog oi W «AAo ovSiv  (o S £qo S . tiya 8's 8rj il tovto ; rijv iarl fisv totg cdaxQocs  al6%vvT[v, Ixl de totg xaloig tpiXoufilav. ov yuQ Zauv  avtv tovtav ovts ttoXiv ovts Idiatqv (isyaA.cc xal xcda  %Qya QtQya&GSai. tolwv lyio avdgcc ostig Iqcc,  scribendam coniecit, quod fuerunt, quibus magnopere placeret*  Stallb. gvyykvEiav gratiam esse contendit et auctoritatem, qua quis propter hominum potentium affinitatem apud alios valeat. Rectioris explicationis gloriolam mihi præreptam vides a Riickerto, qui B,vyykvEiav de ipsis necessariis accipit, de eorum disciplina, maxime autem de pudore, quo  horum cogitatio iuvenem afficiat. l)icit enim, Riickertus ait, in sequentibus, nec matris nec patris  tantopere, si quid peccet, pudere,  quam eius, quem amet, pariter  que AMATVM AMATORIS AMANTE AMATO. Conferri  iubet præterea Legg, I. 627.  C, nxeo vtgjv jj.Iv xoor itovifpdjv {j te olxia xal 7} B,vyykreia avrij 7ta6a ytrcov havtfjS  Xkyoix av. V, 320. B. itoXiv  te xal <pi\ovZ xal B,vyykvEiav,  Adde Alcib. I. 105. cap. V,  xal ov t inixponoS ovte dvyysvijf ovte aAAoS' ovdels IxavoS rtapaSovvai ttjv dvvapiv  x., T. A. Restat, ut de verbis  dicamus ovtco naAoiS, quæ a  viris quibusdam impugnata sunt  ac permutata, Reyndersius nimirum pro ovtcj xa\<jj£ scribendum  censuit ovte xaWoS infarcto ante  IpitoiEiv verbo ovtcjS. Iacobsius  legendum proposuit : ifutottiv   ovtcjS 9 ovte xaXAoS x . r, A.  Ovtcj xaAcjS verba Phædrus  addidit, ut indicaret, aliquid conferre ad corrigendos mores tara parentum admonitiones tum honorum divitiarnmque faturam possessionem : sed his maiorem esse atque  validiorem amorem. Igitur mutationi non locus est, neque satisfacit Stallb, dicens.; quamquam  pulcritudinis mentio in talibus  frequens est, tamen non ita necessaria videtor, ut libris invitis aliquid inferciendum sit y  præsertim quum addantar hæc:  ov t aKKo ovSkv, quibus verbis  cetera | quæ vulgo bona habentur, significari manifestum  est. Verbis ov x aAAa  ovdkv amicorum favor, gloriolæ  dulcedo, alia hoc genus subintelligi possunt, pulcritudo non  potest. Patet enim, non nisi de  bonis sermonem esse, quæ recto  vitæ modo servantur augenturqne, cadunt malo. Polcritudo  autem non metuendam est, ne  malefactis imminuatur; igitnr ea  non movetur, qui pulcher est et  malus, malos mores ut corrigat.  Igitur ab hoc loco pulcritudinis  commemoratio alienissima est.  Bene FICINO: hæc natem nobis neque genus neque  divitiæ neque honores  præstare citius ac melius quam amor possunt.   \kyta 81 81} ti tovto;  Scriptum 'est in aliqnot codicibus: A kyo 81 6jj ti tovto \ quod Bastius recepit. Iniuria.  Sententia enim foret nostro loco  minime conveniens: Num est  aliquid id, quod dico?  et ti al<S%Qov itouov xcadSijlog ytyvoixo rj itdoyav vito  tov, di avavdQiav (irj iqivvoyitvog, ovt av vito itaxgog  offntivxa ovrag dlyijiScci ovts vnb halpuv ovts vit  ailov ovdtvog ag vit 6 itaidixiZv. xavtov Ss tovto xal E  xov iQcofiivov oQajisv, Btt SiatpeQovtag tovg tQu6tag    aut demto interrogandi signo j  Est autem revera aliquid,  quod dico. Sexcenties apud  Platonem rcperies mediæ orationi  interrogationes interseminatas,  quibus efficitur, ut ad rem, quæ  proferatur, lectores attentiores  reddantur. Vid. A st. ad Piat, de  P* 29. Heusd. spec. erit,  87. cfr. Sympos. 206. E.  itavv pkv ovv, £<pj / • xi 8 ?) ovv  TTjS yevvtjdeooS; Ceterum Stallb.  hæc verba explicat: zi de 8?}  tovto idxiv, o XiycD, Commodior videtur explicatio hæc, ut,  cum primitus dicatur A iyco di)  tovto, interposito interrogandi  verbo ti, verba illa immutata  maneant Xiyco 8?) - ti tovto.  Ad huius dictionis exemplar verba  Phædon, p, 73. C. emendanda  sunt: ap ovv xal to8e 0 // 0 A 0 yov/iev, dzav ixidn/pr/ itapa yiyvr/rai rpoxeo toiovto), ava/ivi/div alvai ; Xeyoj 8e tiva  Tpoxov tovtov . In codd. aliquot bonæ notæ riva pro tiva  reperitnr. Stallb, scribendum vidit esse Xeyco dfc riva Tpoxov;  Tovtov*, neque tamen ipse sibi  satisfecit. In verbis, ^juæ interrogationi præcedunt, cave  credas, Tpoxov verbum ita positum esse, ut quod in sequente  interrogatione qxplicandum proponatur. Scripsisset enim Plato,  hoc si, edicere voluisset, A iyco  6h Tpoxov tiva tovtov; Scripsisse videtur autem: A iyco 6}  riva rpoxov tovto; sc, t 6 dva~    pvr/dw eivai zo Ixidn/pr/v i totpayiyvEdSca.   <prip\ toivvv iy<o . h. e.  Meino Meinuug ist also  nun. Quæ brevius ante dicta  erant, ea nunc a Phædro referuntur explicatius. In sequentibus cum Astio et Riickerto  comma ponendum curavimus post  vxo tov, ut 8i avavSpiav artius cum pi/ apvvopevoS couiungendum esse indicetur. Verba  ovt av vxo xarpoS o<p$evTct  Ruckerti explicationem £,vyyi~  vtiav præcedentis confirmant.   MV a fivv opev of, Nam  viri fortis esse potabatur iniuriam acceptam ulcisci et punire.  Stallb.   zavtov 81 tovto. Duplicem structuram hæc verba admittunt. Aut enim absolute posita  cogitari possunt, aut ab in- equente opaopev apta. Prior  explicandi ratio rectior. Sed  audi Stallb. annotantem ad hunc  locum: In his, inquit, tavtdv  Tovto absolute positum est. Cf.  Phileb. 37. IX pdov ovx op$rjv ptv do£av ipovpev, av  dpSoTrjxa itixXh tovtov 81 7/8 ovr/v; ubi Tavrov 8i absolute  accipiendum: pariterque voluptatem. Cratyl. 404. E,  tavrov 6h xal xspl tov 'AxoAAgq.  Protagor. 344. D. xal yscopyov x&tenv &pa ixeXSovdat  dpr/xavov av Seir/ xal laxpdv  zavzd tocvta. Menon, 90. D,    «2    ai<fywET«i, otav 6(p&y iv cdtixQV tLVl et v - d ®w  %avrj rtg yivoLto, cagre noXiv yeveg&ai xj axgccxoxeSov  tQaOxav Ti xal nui8ucdv, ovx k'<Sxiv oitag av cc/iavov  olxfcsiav xxjv sccvtdv jj axE^uficvoi xiavxav xdv aia%gdv  xccl xpdounovpevot xgdg dMqiovg. xul (iccxoftivoi y av    ovxovv xoc\ 7txp\ CCVfofySeOOf xal  ruv aWaov ravxa xavxa icoWi /  avoict ItiTiv, ftovXajiivovS x. x.X.  Demosth. Midian. 526. extr.  cd. Reisk. fæiS* 6 nXrjyeif  ht&voS vito xov TIo\v$i/\ov  ravto xovxo iStoe dtocXvodyeroS ovd’ elSijyays tov IIoXvZijXov. Loquendi genus tum  alibi, tum hoc loco viros doctos  fefellit.   iv aidxpfi ttvt cov. * Ev  a . X. eIvoci est defixum ^sse in  re turpi, versuuken scin im B6sen, im Argen seinj hoc dicendi  genus breviloquentia quædam  est, supplendumque mente verbum est, quod cum iv præpositione commode consocietur. Pro  iv oddxpd* xtvl a)V primitus di xisse videntur Cræev iv al6xp<fi  rivi xtijuevoS, ut iv fiopfiopu)  xeidExoci legitur Pl. Phæd. 69.  C« De similibus dicendi formis :  iv olva> £ivai t iv xy x iyyy  elvai y iv itoztjdEi ylyvedSai ai.  vide Matth. Gramm. pien. J. 577,  1140.   el ovv p7jx av V Xl * Y&voixo . Sensus est: Wenn   es sichnuumachen 1iesse,  dass ein Staat entstunde  oder eine Kriegsgesellenscliaft aus Liebhabern  und Lieblingen, so konnten sie ihren Staat nicht  besser verwaltea, ais  owenn sie sich alles Hiisslicheu enthielten und  ei ner dea an dem zam Best cn aufmunterte. His verbis aliquid iuesse videtur, quod  minus cum sententiæ ratione conveuiat. Etenim civitatem non  melius administrari posse, quam  si a turpibus abstineant chrcs, bonis studeant, hoc non tam in  amantes et amasios cadit, quam  in homines universos. Debebat  potius ita loqui Phædrus: neminem, si civitas existerct AMANTIVM AMANTE AMATO, melius civitatem administraturura esse, quam AMANTES AMANTE AMATO.  Non dubium est, quin vitium  verba contraxeriut, quod ubi lateat, quis audeat, codicibus tacentibus, fidenter dicere? Videtur nobis apEivov vox tanquam scioli additamentum expungenda esse, qua deleta verba convertenda sint: Wenn nun ein Staat  von Liebenden und Geliebten  entstunde: so konnten dies e  deuselben gar nicht an-»  ders verwaltea, ais so,  dass sie das Hassliche  ver abscheueten und das Gute rait gemcinsamer Anstrengung zu vollbringen s \\q h t e n . Iam admireris licet MVTVI AMORIS utilitatem. Ut  enim nunc in civitatibus multa  pessime geruutur, turpia laudantur, honesta expelluntur, ita in  civitate cx amantibus composita  Eros efficeret, ut cives ne possent quidem male aliquid agere,  sed nt optime h. e. malarum rerum fuga, bonarum studio, civitatem administrarent. (itr aXXyXmv o l xovovxoi vmcoev av, okiyoi ovrsg, cog  &rog BfouZv, itavxag dv&Qcort ovg. bqcjv ydg dvr/g vnb  TZcadixcov oyftrjvca ij Xiticqv xa%iv q OTtXa a7tof}(tffl>v r\ txov av dtjrtov Si^acxo rj V7to Ttavrcov xcov aXXcov, xal  7cgb xovxov x i&vdvai av TCokXdiug ikoixo * xai (irjv ly • 7tct\ /jotxo fiev oi y*. ITæc  propter antecedens ?/ 6xpar6ize8ov adiiciontur, quo effectum  etiam est, ut in præcedentibus  additum habeas xijv tavTGov;  nam verbis his uou opus erat,  si alio loco posuisset aut prorsus  omisisset rj 6xpax6Tt(.8ov verba  scriptor. Ceterum certam 'quandam txcnpiav Phædrum in mente habuisse, v. c. sacram Thebanorum cohortem, haud credibile est  propterea, quod antecedit el ovv  pi 1X av V tl y yivotto. Significant autem hæc verba, poni, aliquid fieri posse, quod revera aut nequeat fieri aut quod adhuc factum non sit   dtS litof Etieeiv. Phædrus  ne nimius in laudando videatur  esse dicens, paucos facile superaturos esse homines omnes,  cdS titoS eItceiv addit, quibus verbis vis iudicii paullisper imminutur. Pertinent autem non solum ad 7cdvxaS dv5pc>SjtovS, ut  Stallb. iudicantam video, sed  etiam ad d X.iyovf, ut alteri  verbo addatur aliquid, alteri dematur. Vide quæ de £icoS  eiiceiY verbis annotata sunt ad  215. I).  Xiitriv ait o ftaXoov .  Nam \EiitOTa£,ict turpissima .habebatur., Lex Attica, cuius meminit Lysias Or. xaxd <Pl\covoS  Compadia? T, V. 887. ed.  Rcisk, et Demosth. adv. Neær.  T. II. 1353. roy kiicovxa tijv  td&iv d7C£Xrt$ai 4 ayopaS pijxe    dxecpctvovdScn prjt eISiIvcu sl$  t d Ispd ra St/poxEXtj. Nec minor erat infamia eorum, qui arma  turpiter nbiecissent: de qua re  fuse disputavit Klotz. ad Tyrt*  10, 27. cfr. ’de Rep. B., de Legg. XII. 945.  Stallb. Adde Arist. de Morib.  V. 3. TtpOSXGtXXEl l) YO/IOS, Xal  ra rov dvdpeiov Ipyct icouly,  olov pi} XeiitEiY t i/y rdt,iv,  /irjSk tpevyELY, pr/61 filxtnv xd  oitXa .1 } vico 7t d yt oo v rcov aAXcjy. IIctYTES ol dXXoi inprimis parentes suut, fratres, amici,  vide ann. ad 178. C. tovto  ovtE ZvyyivEia ola te ipnotEiv  ovv oo xaXdoS ovte xipai ovte  nXovxos eqS ZpvS. JJpd  xovxov sc. 7t po rov 6<p$fjvai  V7CO iroadixdov.   t e$ v dv at dtv TtoXXdmS,  Schleierm. convertit: und dafiir  wiirde er lieber oftmals sterbeu  wollen. Græci ut nos : und dafiir wiirde cr lieber hundert Mal  todt sein wollen. Videlicet adeo  invisum omnibus est ro oraro$vr}dxEiv, ut pro eo Græci te Svavai dixerint, nostrates dicant todt sein. Huius temporis usus ita iuvaluit, ut id adhiberent Græci etiam, ubi proprio  præsens tempus ponendum erat.  Sic Criton. init, legitur: if t d  icXmoY a<pixtai, ov 8 eI aq>t - 4  xopkvov Te$vdvai ps, Vide  Stallb, anaot* ad Apol. Socr,    Ixardbxiiv ys r a xaiSixa i} (iij porj&rjOai xivSvvevovu  oi3d£t$ ovta xttxog, 3 vtiva ovx av avtog 6 "Epag  Iv&iov xotrjæio itQog uQitijv, ugtB ofiowv dvai tu  B fhji6tip xpvOu. xal aTi%vag, o tqn) "OfiijQog, (itvog iftjcvivaca Ivioxg tnv yQauv rov &tav, tomo 6 "Epug tolg  IquOi naQijtt, yiyvofitvov xaQ avtov.    SO. B. Igitur non asseutiendum  Buttmanno ia Gramm. pleo. j,   114. 161. «D«* Streben   nach Nachdruck hat deo Perfektbegriff ale entechiedener uod gewisscr Jautcnd au dia Stella des  Præsens gebracht.»   xal pt/v iyxaraXixeiv  y e. Non sine magna animi commotione hæc a Phædro proferuntor, qui vix cogitari nedum  fieri posse contendit, nt AMATOR aut deserat amasinm, aut periclitanti auxilium non ferat. Hac  commotione animi, quam indignationem vocare possis, factum est,  ut aposiopesis orta sit, quam  oculis legentium addita lineoia  indicavimus. Non nliter Astios  in «nuet, ad Convers. Symposii  279.: Der Text ist unverderbt; xal yt/v  yt ist ja  auch, d. h. in diesem Zusamxnenhange v o 1 i e n d s, und die  ubgebrochene Rede, die mit einem  allgemeinen Satze endet ( OVOllS  ovia xaxoS x. r. X . ) charakterisirt treffend deu Phædros ais  leidenschaftlichen Erotiker, den  der Gedanke, dass der Liebhaber  den Geliebten verlassen und ihm  in der Gefahr nicbt beisteben  solite, empdrt und fast ausser  sich setzt. Ceterum xal pr/Y  yt particula» Astius, ut modo indicavimus, vo lien da, Schleierm.  gar converterunt. Apta oobis  visa est »d Phædri exprimendum  ardorem utriuaqua vocis coni unctio, nt verba convertenda sint:   \ olleuds gar den Liebling im  Stiche lasseu, oder ihm nichl  bcispringen in der Noth. cfr.  Symp, p 196. C. xal fitjv  eis yt aySpetay ’ Epcort ovSi  “jtprjS avSioxaxai. Alia ratio  est particularum 202. B. xal  pi}v, T)V S tyoo, opoXuytirai ye  napa xdvxooy peyaS StoS tivcct,  ad quaa verba vide annot.   xtvSvvevovti »c. av reo.  Nimirum xaiStxd verbum non  nisi unum amasium significat.  Laudat Ruckert. Phædr. 2S9.  A. ovre 657 xpeixxa ovtc ItSovptvov Ixtuv ipadxrjS xat&ixu  aveSexai, rjxxa> 61 xal V7IOStiiSxtpov ad dxepydderat.  Phædr. 240. A. • Ixi roiwr  ayapoY, axatSa, aotxov on  xXtitSxov xp°yov xaiStxa ipadxrjs evSatxo av ytvtaSot. Vide  sis de generis mutatione Theæt.  146. B. a\Ad xwy fittpaodcov  xwa xtXevt dos dxoxplredUca.  Prot. 315. D. xxjv 6’ ovy iSear  xdvv xaXoS, ubi papdxtov  præcedit,   avxo S <%E P gj S. Phædrus  neminem adeo mala indole cen' set esse, quin ab ipso Erote ad  virtutem propelli possit. Quæritor, quid sibi velit avroS pronomen hoe loco? Fischerns commode explicari censet, si opposita existimentur præcepta virtutis, leges, educatio atque quæ Cap. m   Kai fftjv viriQcoto&vrjaxuv yi fiovoi l&iXovGw ol  tQavreg, ov (lovov ou &vdQsg y dUa xal cd ywaTxeg. præterea ad virtutem adducere  possint. Hac explicandi ratione  num minas otiosum pronomen  censes $ Stallbaumio visum est  ita frigere, nt corruptam censeret atque in ovxgdZ immutandum;  verba convertit idem : Nemo   adeo malus est, quem AMOR non possit tanto incendere virtutis studio,  ut vel optimo nihil cedat.  Sed ipsi huic sententiæ inest,  quod admodum displiceat. AMATOREM AMASIUM periclitantem deserere posse Phædrus præfracte negavit. Eius rei argumeutum  nura credibile est eundem Phædrum hoc addidisse: Nemo adeo malus est, quem non possit AMOR tanto incendere virtutis studio, ut vel optimo nihil cedat ? Dicendam potias erat:  neminem adeo malum esse, quem  AMOR non revera incendat. Nihil mutandum est, et omnia  beno habent. Abstractum pro concreto positum est, h. e., dei  nomen pro re, cui ille præpositus est. Sensus est verborum. Nemo, QVI AMAT, adeo mala indole præditus est, quin IPSO AMORE suo fortissimus fiat atque  iis simillimas, qui optima indole  gaudent fortissimique sunt non amore, sed natura ad virtutem docente. Annotat Riickertus ad  h. 1.: ttvtoS o"Ep<oS f ipse Amor,  h. e, hoc ipsum, quod  amat, etiamsi sit alioquin ignavus. Virum doctiss. in huius loci rectiore explicatione  nobiscum consentire magno cum  gaudio vidimus. Ceterum monemur hoc loco de verbis Alcib. II.  1 88. B. : Ovxovy doxei <5ot  sroAA^f 7Cpop7]$daS ye 7tpoCdti65ai y uncos pjj XrjtSet xis avtov  eijxopevoS ptydXa xaxa, doxoov  6 ayaSa ; oi £fol tvxgoGiy  iv xccvxy ovxeS xy ££ei, iy y  diSoadiv avxol a xif evxopevoS xvyxdvei; Frustra Buttra.  ad h. 1. libenter, inquit, carerem voce avxoi . Sensus est:  Nonne igitur magna cautione tibi  opus esse videtur, ne forte aliquis bona precari opinatus, maxima mala sibi expetat? diique  ita morati sint, ut qui ipsi, h. e.,  nullis precibus moti, faciles, mittant, quod quis sibi expetat?   o Uqnj "OprjpoS* Laudavit  Fisch. ad h. 1. Hom. II. x. 482.  r&5 6’ tpnvEvtiz pivoS y\avx£>*A5Tjv7j. et II. o, 262. cj $  tirtaor Hpjtvevtie pevoS pkya.  itoipkvt A ocoSy. Iu sequentibus  Orell. ad Isocr. Or. Ttepl arxtS. .  825. ob præcedens ivioiS  xqjy yptooav scribendum coniecit  toiS ipcodi ita6i i tap£x et *  Frustra, Non enim quæritur,  utrum omnibus an paucis quibusdam hoc præstet Eros, ut  fortes fiant, sed de ratione agitur, qua ad virtutem AMANTES impellantur. Neque verum est,  omnes AMATORES ad VIRTUTEM [andreia] impelli AMORE etiam ii  AMANT, qui natura fortissimi sunt,     tovtov 6's -mu tj lltXiov dvyarrjQ "JXxtjUne Lxavriv fiaQ  ut illo Erotis impetu lucile indigeant.   y ty v apev ov rcap avtov.  Omisit hæc verba Schleierm. in  conversione: Ia gewisa was Homeros sagt, dass c inige der Helden eiu Gott mit Muth beseelte,  das leistet Eros den Liebenden.  Neque aliter FICINO: hoc AMOR AMANTIBUS efficit. Verba non otiosa sunt, indicant euim, eam vim esse atque potestatem avxov  tov ipdv, ut ignavos virtute  augeat. Pertinent uutem ad præcedens Tovto, a qua voce scriptor eadem seiunxit, ut eorum  vim augeret, vid. ad. p.,178,- C*  d yap Xprf av 5 peon 01S ?}yeb  6Scn navroS xov (iiov xolS  piXXo vtil xaXaiS (iicStie6$ai> Adde Pl. Cratyl. 423«  fin. el xiS avxo xovto pipeitfSai Svvaito, kxaCxov t^v  ovdiav h. e. venn jemand es  selbst nachabmen konnte, ich  mei ne, die Wesenheit von iedem. Convertenda verba nostra  sunt : Das gewahrt Eros den Liebenden, and zwar unmittelbar aus  sich.   xal pyv vn epan o%vy 6xeiv ye. De nat pyv yk  particularum potestate supra dictam est ad 64. Solent eædem adhiberi, ubi commemoratur,  quod aut præter exspectationem  accidit, aut qnod fidem superat  hominum, aut in rebus summæ  gravitatis* Apprime igitur commotiori animo conveniant Phædri, qui has maluit, quam consequentiæ particnlas adhibere,  quarum usum orationis conformatio flagitare videtur. Debebat  nimirum Phædrus, laudata Erotis  vi, sic pergere proprie; Hinc  £eri solet plerumque, ut soli AMANTES.  clXXcl xal ai yvv atxeS .  Hanc lectionem, quam verissimam  ducimus, Clark, exhibet aliique  codd. non pauci. Satis notum  est, Græcos substantivis duobus,  quæ pariter definita atque per  ov povov a\\d xal, ovx  oti aXXa xal sim. coniuncta  sunt, aut addere articulum duplicem, aut demere. Sic in Protag. 342. D. legitor! eidi  iv zavxaiS xaiS noXediv ov povov avdpef ini naidevdet peya  tppovovvxes, aXXa xal ywatxtS  h. e. ut viri, ita mulieres «...  scribere etiam potuisset Plato  nullo sententiæ discrimine ov  povov ol avSpeS aXXa xal  ai yvvaixtS. Xenopli. Mem. II,  9. 8. ovx^oti povoS 6 Kpixcjv  iv 7/dvxia rjv, aXXa xal ol  qjiXoi avxov. Ad huiusmodi exempla H. Stephanus respiciens,  cum legeret aXXa xal al yvvaixeSy nostrum locum hoc modo  emendandum censuit: ov povov  oi avSpeS, aXXa xal ai yvvaixtS, qua coniectura sanissimus  locus corrumpitur manifesto. Sive  addis sive demis in huiusmodi  locutionibus duplicem articulum,  eiusdem dignitatis, pretii, ponderis substantiva esse indicantur, quæ per ov povov, ovx  oxi aXXa xal coniunguntur. Sed quoniam feminæ viris  multo debiliores sunt, Phædrus, quo gravius vim Erotis extollelet, feminarum nomen pondere  prævalere hic voluit ita, ut non  viri solum, sed quod mirere  magis, feminæ quoque dicantur  voluntariam mortem oppetere.  Hoc efficitur addito ai articulo.  Eodem fere modo alteri substantvqiclv inlg rovds tov A oyov etg xovg "EX  tivo articulas additus est, omissus in altero Alcib. I. 104.  B. cap. IV. iav 6* ivSdde piyi6xoS y ?, xal iv xols dXXoiS  n EXX7/6iv * xal ov pdvov iv  "EXX 7 / 61 V, aWa. xal iv x 01 S  fiapfidpoiS, 0601 iv xy avxy  7 /ptv olxovd iv yneipcp. Amplissimas terras barbaros habitare, satis notum erat eo tempore, quo Alcib. I. conscriptus  est. Ut igitur regnandi cupido,  qua Alcibiades teneretur, validius  emineret, præcedentibus iv "EA\r\6iv verbis barbarorum nomini  articulum scriptor adiunxit. Sensus est: Wenn da aber in Attica der grdsste warest, meintest  du es auch uuter den iibrigen  Griechen zu werden, und nicht  allein unter Griechen, sondern  was noch viel mehr sagen  will, auch unter deu Barbare»,  rfb viel deren mit uns dasselbe  Festland bewohnen. Adde Ælian.  Var. H. II, 41. 181. ed. Abr.  Gronov. KXeigo, cpa6iv, eis  dpiXXav lov6a ov yvvaiBX povaiSy aXXa xai xois dvSpadi  ro!> dvpitdxaiS detvoxdxr/ itiziv  7/v xai ixpdzei itdvxcov h. e.  Kleio, wird erzahlt, konnte ausserordeiitlich trinken und wetteiferte hierin nicht blos mitWeibern, sondern, was weit mehr  sagen will^ mit Mannern, die  mit ihr dem Zechen ergeben  waren, und ubertraf sie.   xovxov vitip xovde  xov A oyov, Schleierm. convertit : und dessen giebt una   schon Alkestis». die Tochter des  Pelias, hinlanglichen Beweis fur  diese Wahrheit ... Recte V. D.  verba servavit, quæ frustra sunt,  qui expungenda censent. Heind.  ad Protag, * locum sic interpretatur: ut huic dicto   fidem faciam. Heindorfio  Stallbaumius assentitur. Riickertus ad h. 1. Nos sic, inquit, statuimus, si Socratis hæc oratio esset, intolerabile hoc additamentum  nobis appariturum; quam Phædri  sit, ineptum quidem esse et languidissimum, attamen consulto  posse a PJatone adiectum esse. Si scriptum exstaret xovxo di  xai 7 } TleXiov Svydxr/p x. r. A.,  sedulo interpretes tantum non  omnes annotarent: inceptæ stru  cturæ Phædrum oblitum esse/  liuiusmodi confusionis exempla  plura reperirij Platonem h. J.  satis eleganter non præmeditatæ  orationis indicium edidisse. Ao  possit sane commodius rotrro explicari, quam xovxov l sed  etiam xovxov bene habet. Revocandum nimirum hoc dicendi  genus est ad oratorum consuetudinem post apodosin prægressam protasin repetendi. Vide quæ annotata sunt ad p, 186.   B. Ut v. c. in Apol. Socr, 20.   C. dicitur: ov ydp di/nov   tiovye ovdiv xcov aXX&v  itepixxoxepov itpaypax ev opiv ov, inetxa xoCavxrj  tpt/pr/ xc xolI XdyoS yiyovEv> e I   xi £ 7cpaxteS aXXoiov  fj oi TtoXXoiy ita nostro looo quidni liceat oratori xovxov  præcedens verbis interpositis pluribus ita repetere, ut simul accuratius definiat anctiusqne exponat? Verba convertenda sunt:  Hiervon giebt auch des Pelias Tocher, Alkestis, einen hinlanglichen Beweis liber das eben  Gesagte. Ceterum non nisi oratoribus, quorum interdum oratio altius exsurgit, neque vulgaribus prosæ dictionis re- 5 •     JLijvasi i&sh}(Ja(la (lovq vniQ tov avvqg <xv8qo s anoC &uviiv, ovxav ccvta nccrgog te xal firjtQog' ovg ixrfvt)  toOovtov vxBQtficdtTo ty tfiXLq dia tov "Equxcc, iSgre  anodilgai avtoi/g allotQlovg ovtag tgj viti xal ovognlis tenetur, hoc loquendi genu»  largiendum, a ceteris scriptoribus  prorsus seiungeudum est.   *AXxif6ttf* Schol. ad h. 1. ?}  nepl rrjs * A\xrjdxi8oS vnoSediS  TOUXVTTf T is idttv • 'AxoXXgoy  pxrjdaxo napa xcov Motp&v,  onatS d' v A8ppxoS xeXevxav peXXcjv napadxp tov V7ilp tavxov  1x6 vr a xeSvrjiiopeYov, ira idoy  xgj npoxipa) xp6vov &i6Q' xal  St) v AXxijdxiS 7] yvn) xov  x ov ineScoxer kavxt/r, ov8e xepov tcor yoricov SeXpdavioS  vix ep xov naiSoS dnoSavelv.  Stalibaumius laudat Senec. ad  Hei 7. c. 17. Nobilitatur carminibus omnium, quæ se pro conioge vicariam dedit»   eis xovS "EXArjvaS. Vulgo  ad sequentia hæc verba trahuntur»  Male. Pertinent ad præcedens  papxvpiav . Ceterum non assentimur Stallbaumio ad h. 1. annotanti: Neque vero eis pro iv  dictum putari debet, sed cum vi  pro dativo positum est, ut Latine  reddi possit coram. Nimirum eis præpositio quoniam motum indicat ad finem qucndam, cum verbo transitivo primitus coniuncta, id agit, uth.l, actionem  simul involvat eius, qui clarus esse dicitur. Sic inidffpoS elS  Stjpov eum denotat, qui se clarum insiguemque coram populo  fecit, contra inidrjpoS Iv Stjpat  is est, quem clarum populus  existimat atque laude dignum.  Hinc intelliges, h. 1. de actione  Aleestis sermonem esse, quæ    dou tam populi laudibus inclaruerit, quam voluutaria morte  immortale virtutis testimonium  ipsa populo dederit» Exempla  si quæris huius usus, e Stallbaumii penu depromam hæc  Menex, p 239. A. noAXa 81 xal  xaXd ipya dne<pt)vavxo elS  navxaS drSpainovS xal idiot  xal Srjpodiqt, ad quem locum  vid. Engelh. anuot» ed. 260.  Protag. 312. A, dv 8±  ovx dv aidxvvoio eiS rovS "EXXrjvaS avxov dotptdxpr napeX&v i Gorg» 526. C. eis 81  xat navv iXX oytpoS ytyore  xal eis xovS a\XovS "EXXrfvaS  ’Aptdxei8ijS 6 Avdipaxov, quo  loco yiyove cum eiS præpositione coniunctum est eodem  modo, quo 8id præpositio cum  dvveivat verbo coniungitur  176. D, ijpaS 81 8ici Xoyatv  aXXrjXoiS dvreirai pro rjpaS 8 i  8ia Xoyatv Siatpifirjv noieid^ai.  vid. ad 43. aunot*   l&eXjj dada povrj . De  ISeXeir potestate verbi dictum  supra est ad 44. De re ipsa  cf. Eurip. Alc. v. 15.  narras 8* iXeyZaS xal 8ie£,e ASgdy tpiXovS  naxipa yepaiar 7 } dtp irixxe  prjxtpa,   ovx evpe nXrjr ywaixoS, yriS  7/$eXe   Saveir npd xeivov . »   rp tptXiqe, 8ia w Epoora.  Perperam minuscula littera exhiberi solet ipeoxa. Hoc enim AMANTIBUS Eros præbet idque    Bigitizdd bfCjodgFe :  pati povov itQosrjxovras. xal tovx’ iQyaOaflivrj x 6 Zoyov  ovxu xctkov i'So£ sv IpyatSati&ai ov fiovov av&Qcbjtoig,  akku xal Qeois, Se t£ itokkSv nokka xal xaku tQyaCapivav EVttQi&nijtoig di \ ritiiv tdoGav xovxo ytQU g oi quidem ex «e profectam, ut soli  mortalium alter pro altero voluntariam mortem oppetant, quod neque %vyy£veicc efficere potest, ut  Admeti exemplo docemur, neque honos et divitiæ, quarum summam facultatem regi fuisse, quis  negabit? Restat, ut de <piXiqt dicamus, quæ vox non nisi feminis  convenit et amasiis. Epav dicuntnr omnes non feminæ, sed VIRI, qui amant. Feminæ contra, ut alias, ita in amore viris debiliores habitæ, et amasii, ætate iuniores, quam AMATORES, tpiXovdt  tantummodo, capi se ac teneri  patiuntur. Sic Antig. Sophocl.  t. 523.   ov x oi Gxxvki&eiY aXXa dvpqnXeiv itpvr •  Amasii qnXlaS si requiris exemplum, 182, C. legitur oyap  jipidtoyeiroYOS £pooS xal rj \ Ap /xoSLov <piXla /UficaoS yeropivTj  TtareXvdey avr&v xr\y apxV v *  Adde 183. C. xal xu ipav xal x 6 q>lXov$ yiyvedSai xolS  ipadxaiS. AMATORIS esse to ipav  patet e verbis 180. A, Al6x v A oS 61 (pXvapei qxxdxaoY faiXA ia UaxpoxXov ipar, 0 * r\y  xaXXicoy x, x. A.   oj$xe artodeiZai avxovt  dXXoxpiavS, Ut ostenderet,  illos n fflio alienos esse et nomine tantum cogn atos, h. e, ut  efficeret, ut flHftiderentur tantum esse cogtlJPPfacta comparatione eius umorft, quem ipsa illi  probavisset, et cognatorum, qui  noluissent pro eo mori, t» t ai 1 b. Iuvat laudare Scolion incerti  auctoris, quod in lacobsii Anthol.  Gr. T. I. 90. reperitar et quo iuvenis admonetur, ut non nisi  forti amatori sese tradat:  \A8pijtov XoyoYj cJ ’xaipe, paScuv  [tovS]aya$ovS <p(X.ei, [teUv] 8eiiA 6’ dxexov  yvovS oxi 8eiXoiS oXlytf x a P lSt   xovxo yepaS. Articulum addiderunt Fischerus, Wolfius,  Astins. Frustra, Tovxo sublectum est, yepaS prædicatum,  cfr. Apol. Socrat. 18. A. 5xxadxov plv, yap avxrj aperi},  ptjtopoS 81 xaX.ij$ii Xeyeiv. Piat,  de Legg. p, 683. B. vvv 81 8rj  xttdptij xiS rjfUY avtij itoXif,  ei 81 fiovXetiZe, &voS ?/xei xaxoixiZdperoy. Ib, VIII. 829.  D. rovro aTio8i8dvxQov avtois  yepaS. de rep. I. 331* U»  ovx dpa ovtoS o poS Idxl  dixaiodvvris x. x. A,   (3 ST s 7toXXcjy itoXXcc x,  r.A. Rursum habes oratoriæ dictionis exemplum, quod^ prosæ orationis leges h. e. ad  logicen examinatum summopere  displiceat. Scriptum enim exspectaveris: Atque hoc facinus cum patrasset, adeo  pulcrum visum est non solum hominibus. sed etiam  diis, ut, quod alias npu  uisi paucissimis, qui præclaras res gessissent, tribuerent honoris loco,  idem admiratione commoti facinoris huic concederent, # Sed si sententiæ  Otol, ii "AlSov TCahv uvtlvai ttjv 4>v%t]v, aXX.a zqv Ixti0 vr/s aveiUav dyaO&ivze g Ttp ovra xal &eoi xr/v   xcsgl x ov "Egena Gnovbijv re xal agexrjv (laXiGxu ufiaOiv.  exprimendæ ratio, quæ Phædro  placuit, cum lodicis regulis minas convenit, habet contra, e rhetorica arte rem si iudicas, quo se vehementer commendet auditoribus, Cave igitur, hoc loco  quicquam mutandum censeas. Pro  alpyadpEvtoY, quæ vulgata lectio  est, codd. melioris notæ ipya Capkvtov habent, quod a Bekkero, Stallbaumio, aliis receptum  est. Recte, Aoristicum enim  tempus perfecto tempore multo  aptius hoc loco.   dWa xrjv ixeivrjS avet6av, Vulgo post aAAa legebatur xal, quam voculam ex XXII,  codd. auctoritate recentiores editores omiserunt. Addidit autem  eandem aliquis olim, ut loco mederetur, quem uos quoque corruptissimum censemus. Quid  enim? Censent dixisse Phædrum:  X)eos paucas quasdam animas ex  Orco remisisse honoris loco, sed  Alcestidem remisisse cum admirati o affari n oris ? Quid diiferuut  inter onoris loco et eam  admiratione facinoris, re- misisse et remisisse? Neque satisfacit Stallb, ad h. 1,  annotans: Ipondus huic sententia a  addunt verba ay a6$ £vxeS  xp Epyto, ut tota verborum  comprehensio possit explicari sic:  Hoc facinus eius diis adeo  '. probatum est, ut cum non  nisi paucis quibusdam cx  inferis redire concesserint, huic non solam tribuerint hoc beneficiam,  sed cum admiratione tantæ animi magnitudinis concesserint. E duplice vitio locus laborat, sed facillima  mutatione utramque emendatur. Alterum vitium in avewai latet,  pro quo dvikvat scribendam est.  Sensas est: Paucas animas passi  sunt dii ex Orco redire, sed  Alcestidem ex Orco remiserunt, Alteram iu dya6$ivreS  participio reperitur, quod, verissime annotante Ruhnkenio ad  Tim. L. V. Pl. p, 9, si nostrum locum excipias, nusquam apud Platonem cum dativo coniunctum reperitur. Scriptum antiquitus erat  aveitiavavayxatiSivTeS, Syllaba  nltima aveitiav verbi cum sequens  av absorbuisset, editum esse videtur: aveldav ayxaCS&vxeS,   ex quo enatum est aveidav aya CSlvxeS. Haud absimili ratione  Phædon, 78, A. cum'scripsisset Plato 5xt av svxatpdxEpov  dvaXldxoixe, scribarum incuria  exhibitum est dveyxaipoxepov  et dvayxaipdxepov. Serior manus ut uostro loco x, in hac  forma p expunxit, habentqne  Bas. 2. Bodl, Tub: Venet. avayxaiQxepov, Ad nostrum locum  ut revertar, sensas est verborum :  Wenigen, die viel Schones vollbracht hatteu, gestatteten dieGotter, um  sic za ehren, das, dass sie  wieder insLeben % zuriickk e h r e n konn t e n, a b e r   diese sendjjfepn sie, gezwangen d^Rn ihre herrliche That, an das Licht  zuriick. Avayxa65kvx& confirmari videtur schol. verbis!  'HpaxXiovS lni8r}pr]6avxoS Er ?1    OQ<pla di tbv Olayoov ArtXrj aitintpiiav Zrfitiou,  <p<x(S[icc dellzccvteg zrjg yirvaixog, l(p ijv ipav> ccvzijv 61  ov dovztg, o ti iKtXftaKi&dftcn tdoxei, ars av xi^agadbg,    rg GertaXla SiaGcS&rat fiia6 ap iv ov xovS jfioviovS $eovs ned depeXofievov xi)v yv~  vaina. Nimirum Phædrus hunc  mythum pro consilii sui ratione  interpretatus est ita, nt Alcestidis virtutem cum Herculea virtute compararet, alteramque alteri substitueret*   ov t o nal Seol. Convertit  Schleierm, : So wollen auch die  Uotter den Eifer und die Tiichtigkeit in der Liebe vorziiglich  ehren. lloc foret ovt cd nal ol  $£oi, sed nusquam articulus reperitur. Sensus est potius: Sic  etiam ipsi dii summo honore  virile studium amantium dignum  censent.   1 Optpia 81 xor Oldy pov.  Stallb. annotat ad h. 1.: Etiam   iu hac narratione de Orpheo  quædam insunt a vulgari fabula  discrepantia, quæ Phædrus aut  ipse pro consilii sui ratione immutavit aut repetiit ab iis, qui  rem ita memoriæ tradideraut,  ut facile omnia possent accoihmodari præsenti disputationi. ndXitir a T ifioS 6 iv, nam^  ut cum Terentio loquar, quod habuerunt summum, pretium persolveruut illi.   (p u6 fi a 6 el&avT£$ xijS  yvv aixoS. OVIDIO (si veda) Metomorph. Hanc simul et legem Rhodopeius  accipit heros  Ne flectat retro sua lumina, donec Avernas  Exierit valles, aut irrita doua futura    Carpitur ucclirus per muta silentia trames,  Ardnus, obscurus, caligine densos opaca Nec procul abfuerunt telluris margine summæ.  Hic, ne deficeret, metæns, avidusque videndi  Flexit amans oculos: et protinus  illa relapsa est  Bracliiaque intendens, prendique  et prendele captans  Nil nisi cedentes infelix arripit  auras.   i q> tjv f/nev. Abest a codicibus longe plurimis, c^uod  vulgo legitur hxoov post dtp i/v  positum. Qui factum sit, ut iu  textum irrepserit hoc verbum,  aliis indagandum relinquo. dxe dSv hi$ apa>8 6 S. Cithara non paucarum chordarum instrumentum nativa hormoniaram varietate aures audientium permulcere quidem putabatur, sed  animorum robur paullatim infringere atque quasi colli quefacere.  Igitur quod de arte tibicinum  dicitur iu Piat, Gorg. 501. E,  xijv ijSovtfV porov Sidtneiv,  aAAo o Jdb' q>povxi2,eiv, idem   io citharam cadit. Qua cum usus  esset in Orco Orpheus, Nasone teste Metamorph. 10, 41,  Exsangues flebant animæ, nec  Tantalns undam Captavit refugam, stupuitque Ixionis orbis,  IJec carpsere iecur volucres, urnisquo vacarunt  Belides, ioque tuo sedisti, Sisyphe, saxo.  1  xcd ov roAfuev Evtxu xov "Egenos djto9vrjOxuv, ogafp  Alxt]<SXig, ulla 6iu[iTi%av&6&(H £<»v tlgiivcu elg "Aidov.  xotyagtoi 8uc xuvra dtxqv avrtS tntftsclav, xul InoiTjaav  xov ftavurov avxov vxb yvvaix wv ytvt(S&cu, ov% d>gmg  Tum primam lacrymi* victarum  carmine fama est  fcumenidum maduisse genas, nec  regia coniux  Sustinet oranti, nec qui regit  ima, negare. Igitur non mirum, paXSaxlge6$at visum esse eum, qui citharæ adhibitis sonis alios delenire maluit, quam ipse fortis  animi specimen edere atque Zvtxa  x ov "EparcoS mortem oppetere.  Ceteram maiuscula littera Erotis  nomen scribendam curavimus,  nam ut supra 179* A. ovziret  ovx av avroS 6 "EpcoS ZvSeov  XOtTjtiete x. t. X. abstractum pro concreto positum est, ita non  intelligitur, cur non idem in nostrum etiam locum cadat.   xiSikvai eis n Ai8 ov. Quoniam qui in Orcum se conferunt,  e superiore loco in inferiorem  descendunt, pro eisitvai positum  exspectaveris eundi verbum cum  xata præpositione coniunctum.  Sed miuus h, 1. 1 regionis ratio  habetur, quam versus proficiscuntur, qui Orcum appetant, quam  xei, quæuxn veteres Orcum comparare solebant. Petita nimirum  a sepulcris imagine, quæ ædes  sunt mortuorum, Zv " 'Aidov sc.  Sopois et eis r Aidov sc. dopovS  dixerunt. Ædium autem notioni  tiSikvai et ZS,ikvai verba apprime conveniunt. Igitur nostro  loco nulla ratioue habita regionis subterraneæ tisikvoa dicitur  fis Aidov sc. dopovS. Simili  ratione paullo supra legitur areXrj    ait Zite pip av Aidov sc. 66pcov ; contra. C. Z&  a Atdov dviivai reperitur et dveitiav sc, ZB, n Aidov. Adde Piat,  de rep. I. 527. xaxkfiijr  aiS Ileipaid, et paullo infra 7tpoSEv%dpevot anypey  itpoS zq a6rv.   xoiyapxot dia xavxa.  Hæc verba ita posita sunt, ut  sive xotyapxoi sive dia ravra  omiseris, sententiæ ratio prorsus  non mutetur. Cave tamen prorsus otiosum alterutrum verbum  existimes. Nimirum Græci accuratiori alicuius rei indicio præmittere amant verbum latioris  significationis, tum orationem ut  expleant grata quadam ubertate  verborum, tum, ut adsit, cui facilius sequentia annectantur. Verba  convertenda sunt: Dahcr legten   sie ihm denn also wegen dieser  Schwache eine Strafe auf. Idem  dicendi genas paullo infra reperitur 184. A. ovrcj df/ vito  xavtijS xrjS xtixiaS, .   xai Zitoirjdav xov $dvaxov. Nota vim xov articuli,  de qua supra dictum est ad 12.  ovxgj Srj iovxeS dpa xovS XoyovS itepl avxdjv ZitoiovptSa.  Noluit dicere Phædrus, deos  morte poetam puniisse, sed tantummodo effecisse, ut eo tempore,  quo tempore Orpheo moriendum  esset, poeta a mulieribus interficeretur. Rectissime Schleierm.:  Deshalb haben sie ihm Strafe  aufgelegt, nnd veranstaltet, dass  sein Tod durch Wtiber cr  £itif e a£y ^CTu  *A%i Xlka rov tijg Qitidog viov ItlprjfSav xal elg fiaxagav E  i rijtiovg aitETtEprpccv, ort jtETivtipEvog itaga tijg {irjtgog, cog  ttttofta.voZto aTtoxTELvag "Extoga, (irj %ou]6ag di xovxo  o”xccd’ iX&cov yiiQcuog xeXsvrrjGot,, ItoXprjdEv Elt<5&ai folgte. Addo Symp. 195. E.   iv ydp 7 }$e6iy xtjy oixrjdiv  ZSpvxau   ovx <vfit£p *Ax^XXia i xi p 7/ 6 a y . Hauc brevilo quentiam, quam vernaculo sermone assequimur, Schleiermach.  aspernatus est in couversione :   9 Deshalb anch habeo, sie ihra  Strate aofgelegt nicht ihu, wie  den Achilleus, deo Sohn der Thetis, geehrt und in der Seligen  Inselu gescbickt. Recte Stallb.  orationem hoo modo explendam  esse censuit : aAA* ovx ixtprjdccY  avtoY £>S7tEp ^zAA^or, dv xal ei f paxapcov vijdovS dnirrepipav,  ori x. r. A. Legitur paullo infra p, 189. C. ipol 8 oxov6iy  avSpooitoi SvtiLaS dv rtoiEiv  pEyidxaS, ovx coSnep yvy rov tqjy ovSey yiyvsxai itepl avxov.  Exempla plura huius structuræ  Stallb. collegit ad h. 1., Heind,  ad Gorg. 592. A. et ad Frotag.  841. A.   eis paxdpGov vydovf*  De insulis beatorum vide Hesiod.  "Epy. xal 7/. v. 170.   xai xo\ piv valovOiv axrjSia  Svpov UxOYTtS  iv paxapoov vi]6o%6i rtap 'Elxia YOY fta^vSivTfY   oA fi tot rjpoJEf, zoloi peXi tjdiat   XCLpTtOY   rpiS SxeoS SdXkovxa (pipet   SiDpoS apovpa   Multi fuerunt, qui in insulis beatorum Achillem versari narrarent.  Aliter Hom. Od. XI, 487., obi  Ulysi felicitatem Pelidæ prædicanti respondet Achilles:  pr} 6rj poi Solyccxov ysrtapavSa,  <pai8ip 'O6v0dev,  fioyXotprjv x indpovpos Igov  STfXEVEpEY aXXcp  ecvdpl rtap* dxXrjpcp, co pr} filo*  xoZ izohvS eItj  i} itadiv yexve66i xaxacpSipivoi6i olv&6<$eiy %  Ad hos versus ætate Phædri  haud dubie notissimos ille nunc  non respexit, sed aliorum testimonia prætulit, quæ rem suam  melius probarent.   rtsitvdpivoS 7tapd x rjS  prjXpoS. Hæc cum Homero  conveniunt, vel ex eodem potius  depromta sunt^ cfr. Il..  ojxvpopoS 8rj jxaiy xixoS, iddeai.   oj^dyopEveis*  ocvxtxa ydp xoi Actito. peS*  n 'Europa 7tdxpoS hxolpoS.   p?} rtoirjdax 8b xovxo.  Hæc est lectio vulgata, quam  ex VIII. codicum auctoritate in  pif artoursivaS Sb xovxoy immutarunt Bekkerus, Astius, Stallbaumius. Hoc certum est, verisimilius esse, ad explicandum p?)  noir/daS dk xovxo margini adscriptum, post in textum receptum esse pr} drcoxXElvaS 8b  Xpvxov f quam vice versa ad hoc  explicandam glossema fuisse pr}  itoirjdaS dfe xovxo. Fidenter igitur vulgatam lectionem in textum  recepimus.   fiprjSr)<$a$ fw ipadxy  Jlax po x\<jp xal Xtpaprj    180 (SoqQqiSas no tQaOTij TlarQoxkw xal rifiUQTjaces ou! ftovov vxEQUxo&aveCv, ulXa [xal] inaxoftavuv titeÆvtijjtor i. o9ev St] ) ud vxtQayttO&Evug oi frsol St-atpiQotncog    6 aS, Wolfias ad h. 1. annotavit: Es kann fioySydaS nicht   vou einer wirklichen Hulfe in der  Schlacht verstandeu werden : deim  da Patroclus umkam, war seiu  Freund noch nicht wieder ira  8chlachtfelde, uud er erfuhr die  Nachricht davon erst durch den  Antilochus. Recte. Kai igitur  ante xipOJpljdaS explicativum est,  cuius exemplum paullo supra reperitur. xoiydpxoi  Sia xavra 8ixyv~ avxcp ineSevav na\ ixoiydctv n. X. A. Adde  p, 179. E. ovx doSxep *Axi AA«x  tov xyS GixtdoS vldv ixipydav  na i eis pandpcov vrjdovS aniittpipav. Nostra verba convertenda sunt: indem er dem   Patroclus beistand, d. h.  ihn rachte. Argutius quam  verius de his verbis Riickcrtus  iudicavit exsulto Phædrum (ioy$EtV verbo usum esse censens. Quum enim, inquit, non tulisset  opem Achilles, quamvis prope  abesset a certaminis loco, ne  quid probri iude videretur in  ' eum, quem laudaret, redundare,  abducendi erant ab hac cogitatioue quantum heri posset auditores, id quod hoc ipso verbo  factum esse puto.   dXXd na\ iitcritoSccvetY»  Vitii aliquid hæc verba contraxerunt nat addito, quod nullo  modo explicari potest. TitepanoSaveiv adhibetur, ubi aliquis  pro aliquo eoque vivente  moritor, ut Alceste mortua esse  dicitur pro Admeto 179. C.  &$e\y6a6a povy vitep tov  avxyS dvdp6*i dnoSav ilv .  ETtaico^aveiv est : mori pro aliquo, qui iam mortuu*, est. Ficinus verba convertit: nec pro  illo mori solum, sed et  peremto illo interfici.  Igitur utrnmquc fecit, et mortuus est pro Patroclo superstito Achilles, et mortuo illo  morti se dedicavit. Phædrum  aliud quid dicere voluisse certissimum est. Expungendum est  nat, quod uncis includendum  curavimus nimiæ audaciæ crimen  fugientes. Est autem ov povov   aXXd eius, qui alterum membrum orationis, quod per ov juovov commemoratur, negat, alterum probat se ipsum corrigendo.  Sensus est: non dicam vitepa itoSavetv, sed potius Inarto Savelv. Vide 11. de ov pevroi  aXXd et ov pivxot  aXXa nat .cfr. Alcib. II.  142. A. 61 61 apidxa 6onovv xeS avxoov rtpdxxeiv, 6ia 7roAXqjv mvdvvoov iXSuvxeS ncA  yjoficjy, ov pov ov iy xavry  xy Cxpuxyyict, a A A*, iitei eis  xyv tavzajv naryXS ov, varo  xgjv (SvnocpavxGbv rtoXiopnovpevot itoXiopniav ovSiv iXaxx a>  xyS vrto xdov rtoXepiaav 6ie.xeXetiav, vSre n. x. A.   o2e v 6?} na l iitoielto.  Hæc verba si abessent, nemo  opinor desideraret. Nihil enim  coutineut aliud, quam præcedeutium verborum meram repetitionem. Sed de industria hæc repetiit orator, ut quanti a diis  æstimetur virtus amatoris, durius eluceret» Eadem de caussa,  atque ut exemplo demonstretur,  avtov Irliitjcsccv, oti xov lQaOtr\v ovtbj xbqI itoXXov  ixoiuto. AlCyvXog d's cplvuQU cpcctSxav ’A%Mtcc JJoxqoxAou iquv, fig r\v xaXtiuv ov (iuvov IlatQoy.Xov, aXkce amasiorum quam amatorum virtutem maioris æstimari, paullo infra dicitur 180. B. : dia.   xctvxct xcti tov *AxiMict xrjS  'jJbtrjtiTiSoS paWov ixLptjOav,  eis paxccpav vrjtiovS dnonepiltavxeS,   ovtco itepl rtoXAov. Dupliciter ovzcj vocula in huiusmodi euuntiatis adhiberi solet,  atque aut præfigi præpositioni  aut eidem postponi. Nou perinde  est, utram sedem occupet. Præpositioni ubi præmittitur, aut  ad præcedens dictum respici significat, quod eandem rem, quæ  nunc commemoretur, enarratam  contineat, aut hominum opinionem tangit memoriamve auditorum, qui bene/ teneant id, da  quo nunc agatur. Sic nostro loco  ovxcd nepl noXXov explicandum  est: quod amatorem, ut supra  dictum est, tanti fecisset.  Adde Piat, de rep. III. 391.  D. fiy toivw, 7 / v 6* £ya), p^re  rade neiSaopeSa, pyx' idjpev  Xiyeir, qjS QrjtievS Uo6ei6wYoS  vlds IletplSovS te JioS (SppijGav ovzcoS ini deivcis apitayaS x. r. A., quo loco ovxaoS  manifesto significat: ut hominum opiuio est, ut vulgo  putant. Minus recte igitur  Stallbaumius ad h. 1. annotasse  videtur: ovzcoS ini 6eivds apitayaS h. e. i<p ovxco detrds  apnayds. Non aliter explicandus est tovus Xeuoph. Cyrop.  II. 2. 13» fin. opcoS ovzcoS iv  TtoWii dzipia ijpdS ixeiS, ubi  ovzgoS convertendum est: ita,  ut nunc facis, ut facientem te videmus, cet. Contra  præpositioni postposita ovzcoS  vocula proximum verbum ita extollit, ut additamento opus sit,  qno illud accuratius definiatur.AitixvXoS cpXvapei .  Phædri oratio ad eum finem tendit, ut Achillis allato exemplo  probetur, deos amasii amore magis delectari, quam amatoris fide.  Factum autem tragicorum fabulis  erat, ut homines illo tempore  Achillem amatorem non  amasioui Patrocli putarent. Priusquam igitur eo, quo tendebat, Fhacdri oratio pervenire poterat, illa hominum opinio corrigenda erat et emendanda. Hino  verba Aidx^XoS. 6e "OprjpoS  necessaria ad rem censenda sunt,  /ruslraque fuerunt, qui ea expungenda censuerunt,Valckenarius  ad Euripidis Rell. 13., Wolfius, Beckius, alii.   xal iri ayivetoS. Pulcherrimum omnium Achillem  fuisse discas ex Iliad. p, 673.  NipevSy ds xaXXiGzoS avijp vno  "IXiov tjASe  Z(2v aXXcov docvaoov, per dpvpova IhjXelcova,  Patroclo iuniorem verba indicaut  Iliad. A, 787.   x ixvov ipoy, yevey p\v vn apte poS idziv 'AxiXXavS,  TtpeGfivtepoS 61 6v l66i, '  Adde Od. A, 469.   AXotvxoS oS dpidzoS itjv eidos  re Sipas re  rcov dXXcov davadiv, pex apvpovcz IbjXeloova .  Imberbem adhuc fuisse "nusquam  apud Homerum indicatam repe- M     xal t(ov fjQcbav ccjtavxuv, xal ta uytvuos, Ixtita vttaTEQOS Itolv, <3g CptfiLV "OjllJQOS. ctkKu yaq xcj ovxi (iukiOta (itv ravxijv xi)v doeri/v ot 9col UficSoi zijv xeqI  B xbv "Eqara, fid/J.ov fttvxot ftuviux^ovat xal ayavxat xal  ries. Hinc factnra est, opinor,  ut Riickertus lectionem vulgatam  revocaret atque in textum reciperet d\ X dpa xai. Colligebatur enim, inquit, magis ex Homero, omnium pulcherrimum Achillem fuisse (atque adhuc imberbem) quam ut disertis verbis ab eo dictum esset . Sed facile dpa voce caremus, quam  optimæ notæ libri non agnoscant. Efficitur enim verbis (*>S  <pr\6iv "OfirjpoS, quæ cum præcedentibus htEixa vearcepoS itoXv  arctius coniungenda sunt, ut  Phædrus non nisi de ætate  Achillis poetæ testimonio usus  esse videatur, pulcrum autem imberbemqne eum vocet ©x artilicum statuis indicium capiens.  Hæ statuæ imberbem, ut constat,  Achillem repræsentabant, barbatos heroes ceteros, v. c. Hectorem, Agamemnouem, Ulixem, alios. Ceteram ne otiosa verba censeas xal Ixt dyivEiof; amasius non nisi imberbis pulcher  habebatur. Verba convertenda  sunt: Æschylus aber faseft, wenn er sagt, dass  Achilles der Liebhaber des Patroclus sei. Er war  nicht blos schoner, ais  Patroclus, sondern auch  schoner, ais alie Helden,  und noch bartlos, dann um vieles jiinger, wie Homer es ausdrucklich bezeugt. %   aWa yap rcu ovxi. Rectissime Stallb. monet, verbis deletis Aldxvtos, di Owpof,    non aXXa yap, sed xal yap  ponendum fuisse. Indicatur autem  aAAtr yap particulis, Æschylum  ne ita quidem Homericam narrationem pervertisse, ot Achillis  laudem augeret facinusque eius  clarius redderet. Nam deos laudare quidem et admirari virtutem AMATORUM, magis tamen admirari et laudare amasios, qui  pro AMATORIBUS mortem voluntariam oppetierint. 1 r i)v Ttepi t(jv w EpGoxa.  Haud raro accuratiores definitio*ues verborum a verbis, quæ definiunt, seiunguntur plurimis interpositis verbis augendæ gravitatis caussa. Vide quæ ad  66. annotata suut. Convertenda verba sunt : Dic Gotter eliren diese Mannhaftigkeit ganz  ausserordentlich, ich meine  die, welche der Liebhaber zu  haben pflegt ; cf. Piat. Hipp. M.  294. A. 7/pEiS yap nov ixuro  igrjxovjxev, go n dvxa xa xaXa.  Ttpdypaxa xa\a t itixiv, ooSTtep  c5 jectvxa ta peyaXa itixl pxyaka> xqo v7C£pix oyr u   $av paZovd i x al dy artat xal ev itoiov 6iv sc. xavr rfv xrjv dpex-qr tijv 7tepl xor  "Epwxa. Ceterum ayadSai ita a  SavpaZEiv verbo differt, ut admirationem cum laude coniunctam  exprimat. Bene Schleierraacherus  in conversione verba t reddidit •  weit mehr jedocb bewundern  und loben und vcrgelten sit  es dyarttji . Quoniam in sup«~    zr Ninos ion.  77    IV xoiovdiv, orav 6 inwatvog tov iQa<St)]v uyanu i}   OZCiV 6 BQCtOTTjS TU XCUdtXtt. &SIUXBQOV yccQ (QUOTTIS Ttcadixmv ‘ iv&eog yaQ ion. dia xavta xal tov 'AydXia tijs  'AXxrjOndos palXov itifir^av, ds (luxaQav Mjtfovg an o  rioribus de significata verborum  diximus ipav et <pi\tiv, iam  videamus etiam de notione aya rtav verbi. Mediæ est autem,  quod vocant, significationis verbum, maiorem quam (piXEiv, minorem, quam ipav potestatem  habens. Hinc raro adhibetur,  ubi de vero amore sermo est.  Legitor autem apud Xenoph.  Mem. I, 5. 4. x a S” TtopvaS  dyanoovxa pdXXov t) xovS  kxaipovS. Piat. Dion. 4. 175.  itpiXt/daXE CtVXOY <*)$ TCCttEpOC  xal i/ y a 7Cij doct e gjS ev e p yijxrjv. Symp. 181. C,  ro <pv6ei ipficopEYEdXEpoY xal  vovv paXXov %x ov dyan&vTE?*  Videtur ayaitav verbum circumscriptum esse iu Simonidis dicto,  quod legitur Piat. Protag. 345*  D. mxvT aS 81 Inalvrjti i xal  tpi\hx> irtwv oSTtS f.pSy /vjSlv  al^xpov. Nostro loco Phædrus  hoc verbo usus est, quia neque  <pi\eiv neque ipav ad ntruraque  enuntiati membrum h. e. ad AMATOREM et ad amasium referri poterat.   $ siot e pov ydp ipa6tyj S itai8txd>v. De neutro  genere StiotEpov verbi vide quæ  annotota sunt ad 176. D. ott  XaXEito v xoiS dvSpcoiroiS 7/  idxlv. Sententiam quod  attinet, cfr. 179. A. ov8e\S  ovxod xaxoS, ovxiva ovx dv  avtoS d "EpoaS ivSeov itoirj6Ete  xpoS dpETtjv, dpoiov slvai   tc5 dpidxcp <pv6ei, quæ verba  in amatores tantummodo, non  item in amasios dicuntur. Ce  terum otium nobis fecit Riickerti  unnotatio ad h. 1., ed. 46. :  Phædrus sic est ratiocinatus :  qui amat, non suo, sed divino  impulsu agit, est enim ZySeoS;  contra qui amatur, eo caret, Iam  qui alieno et quidem divino impulsu agit, ei facilius est, magna  perpetrare, præsertim amanti,  qui non potest non subvenire  amdto, quam ei, qui huiusmodi  incitamento caret . Atqui quo  difficilius cuique est præclare  agere, eo maior virtus est, si fecerit i igitur qui non amat, maiore dignus est admiratione, quam  qui artiat * Sola enim caritate   facit id, quod amatorem ut faciat, vis divina impellit,  tov 'AxtXXea xrjs 'AXxi]6xi8o$. Interdum ipsas feminas Erotis auxilio gaudere, cap.  VII. initio Phædrus docuit. Recto  igitur scripsisse nobis videmur  179. C. ovS ixElvtf xo6ovxov  vnepEffdXexo xy ipiXint 8id xov  w Epoora, c oSXE x. X. A. Alcestis  enim et ipsa UvSeoS. Minoris  autem a diis Alcestis habebatur,  quam Achilles, nam illa Erote  ad mortem ducente mortua est,  hic pietate erga Patroclum motus,  mortem oppetiit.   ovxoo Srf HyatyE. Aliquot  codd» habent ovxui 81 ) xal fyooye  Mple. Iu sequentibus ter positum est xal, ut epitheta Erotis,  quæ dei laudem efficiunt, significantius extollantur. Comparari  potest cum nostris verbis 180.  B. paXXuv pivxoi $avpd%ovd7   jr i[i4'avTeg. o vtco drj iycyys cprjfu *EQ(oza %mv xccl ttqeC^vtcctov xal r ipidt azov xal xvQudtarov uvai slg aQETrjg  xa l Bvdatjioviag xr rjow av&QaTtotg xal £c5oi xal zeÆv%r}<Sa(Siv.    xal ayavxcn xal ev iroiovdiv .  Sensas est: Hac igitnr, qua dixi»  ratione equidem contendo, Erotem et antiquissimum deorum  esse ct honoratissimum et ad virtutis felicitatisque assequendam  frugem et viventibus et mortuis  auctorem potentissimum. Sed  ipsa hæc verba mirum est, quam  male cum præcedentibus conveniant. Etenim Phædrus cum  dixisset : maioris æstimandam   esse virtutem eorum, qui nullo  Erotis auxilio adiuti fortes se  præbuerint, quam quorum virtus  non nisi divino quodam instinctu  quasi excanduerit, num recte ita  perrexit: ovxco 87) iycoyi (prjpi  n Epcoxa $£gov xal npedfvxazov  xal xvp iGoratov elvai  eis a pexi} 5 xxrjdiv x, x. A.   roiovroV xiva Xoyov.  Vide ann. ad 15. Sequentia  verba aXXovS xivaS tlvat convertenda sunt: nach Phædrus   wiiren einige andere an der  R e i h e gewesen. Pactum nimirum erat, ut eodem ordine, quo  sederent, convivæ placita sua  proferrent, cfr. 177. D. 80xel poi xPV vat exadxov \6yov  etostr inauror "EpcoxoS ini 8eBtiu apxeir 8\ <Pai8por npcoT or. Sed non verisimile est, inter Phædrum Pausaniamque locum habuisse omnes eos, quorum  orationes ab Aristodemo prætermissæ sunt, vel quas Apollodorus, quippe memoria non dignas,  oblitus erat. (cfr. 178. A.  nav Tcav pkr ovr, a ZxacdxoS  elnev, ovxe navv 6 *Apidxo8ij  fioS iyiyvT^co, ovx 9 av lyco t o  IxeivoS iXeye, Ttavxa). Igitur  Riickertus in uberiore expositione  convivii §61. quæsivi, inquit,  doctus videlicet nihil negligere  zn Eia tonis libris, in quibus  haud raro res gravissimæ ad  perspiciendum scriptionis consilium ex istiusmodi minutis vestigiis eruendæ sunt, cur hoc loco  omissionem Aristodemus indicasset, ceteris reticuisset . Et olim  quidem mihi risus sum reperisse,  aliter tum etiam statuens de  ipsis orationibus, in quibus temporis quendam ordinem observari  putabam, quo singulæ, quarum  placita proferret, sectæ sese excepissent philosophorum . Post,  mutata sententia rursus eo deductus sum, ut nescirem . Commode possis hac ratione hanc  rem tibi explicare, ut Aristodemus quidem, qui Symposio interfuit, accurate locos indicaverit,  quibus locis et aliorum et suam  ipsius orationem omiserit, ut  Apollodorus autem satis habuerit  memoriæ mandare, quid convivæ  dixissent, nou item mente tenuerit, quo loco quorum orationes ab Aristodemo non repeterentur. Ut tamen aliqno modo  commemorandarum orationum  paucitatem excusaret, Phædri  relata oratione alios quosdam  fuisse nniversim narrat, quorum  orationes Aristodemus non retulerit. De sua ipsius memoria  tacet, quamquam panllo supra  178. A. in minatis rebus debiliorem confessas. Cap. VIU.    #>«[(5(301' fiiv toiovtuv riva Ivyov hfn) tlxuv, fi Era c  Ss 9 uISqov aXkovg uvas iivca, uv ov nciw die^vtj^i  tuv ov itavv 8 1 tfivi; fi 6vevev. Comparari cum his potest Piat. Lacii, p, 189. C. iav  81 fiitaB,v dXXoi Xoyot yiv covxaiyOv ndvv jiiyvTjycn, ad quem  locum Engelhardtus de oi3 itayv  vocularum potestate disserens h.  e., inquit, plane non recordor.  Sic ov ndvv sæpissime} cfr.  Theæt. 156. C., Phædr.  228. E,, ul,, nec non in responsis, v. c. Xeooph. Mem. S. III'  i, 12. Eodem modo latinum  non sane sæpe idem siguificat,  quod ov ndvv i. e. plane  noni de quo vide Heindorfium  ad Horat. sat. II. 3. 138., S04 Ov ndvv xi autem non satis,  non sane multum explicandum esse videtur, cfr. Locian»  Contempl» I, 506. elni pot,  Ct8?/poS tpvExai £v Avdiot ;  ov ndvv xi i. e. non sane multum. Piat. Eutyphr. init, ovd  avxoS ndvv x i yzyvcodxco, to  EvSveppov, r ov av8pa i. e. neque ipse hominem satis novi. Pronomen indefinitum quod attinet, certum equidem esse reor,  xi in huiusmodi enuntiatis non  ad ov ndvv pertinere, sed ad  verbum finitura. Quis enim neget, ut ad Eutyphronis locum  modo laudatum revertar, Græce  dici yiyvdrfxEiS xi x ov avdpa,  ut rectius Platonis verba convertenda sint: ne ipse quidem magnopere usquam hominem novi. Luciani verba ov ndvv x t converterim: non sane usquam  sc* reperitur. Rectissime autem  Stallbaumius io annotat, ad verba ApoL Soc^ 41. D. 95. ed.:  8id rovxo xal £ph ovSapov  dnixptipe x 6 tiijfiEiov, xal Hyaoye  xoiS xaxarl>r}(pi<jajAbvoiS pov xal  r oiS xaxtjyopoiS ov ndvv X a ^~  natvcd h. e. haud sane, non  magnopere, nicht eben, qua formula nos qooque cum  Elpcoviict loquentes gravius negare solemus. Hæc, quam  Stallbaumius laudat, ov ndvv  vocularum uotio apprime ad nostrum locum quadrat. Apollodorus nimirum alios quosdam fuisse  narrat, qui Erotis laudationem  edidissent, factum autem esse illarum laudatiounm mediocritate,  ut earum non magnopere recordaretur, Earum autem prorsus oblitum ne fingere quidem tibi Aristodemum possis,  qui Phædri, Pausaniæ, aliorum  orationes memoriter recitarit.  Restat, ut dicamus de Lachetis  loco supra laudato, qui sane docere videtur, ov ndvv significare  prorsus non. Verba sunt  hæc : iycj ptv yap xal iniXavSdvopai 7/6 tj xd noXXa 8ia xrjv  rjXvtlar (Zv dv 8ictvo7j^d> £p£6$aij xal av d dv axov6a).  iav 81 ptxat,v aXXoi Xoyot yi - *  vgoyxoci, ov ndvv pipvrjpau  Nonne frigidissimam conversionem censes hanc: Ich pflege   namlich Alters halber immer das  meiste zn vergessen, was ich im  Sinne habe, sie zu fragen, and  so auch, was ich hore (h. e.,  was sie antworten)* Falleq aber  noch qndere Erdrterungen dazwischen, so erinnere ich mich   vevev * ovg TtccQELQ tov Jlavdavlov Ao yov dirjyeixo. slitelv  d’ av toVy ot l   Ov fcaktog f 101 6oxtl y o5 <&ai$QE, XQOpEpXijO&cu 7jgiZv 6  nicht eben leicht des Vorigen? Multo nptins lectores censebunt Lysimachi verba converti:  Fallen aber noch andere Erdrterungen dazwischen, so ist es  mit mei nem Gedachtniss g a n zlich aus. Sed neque Hæc conversio recta est, neque omni ex  parte Platonis verba recte exhibentur. Maior interpunctio post  axovdco poni solet, pro qua si  comma posueris, optime sibi respondentia verba habebis irtiXav^dvopai ra itoWa et ov  itavv fiipytffiat . Lysimachi   sententia hæc est: Denn ich vcrgesse Alters halber das Meiste  von dem, was ich im Sinne habe  sie zu fragen, und erinnere mich  wicderom nicht an das, was ich  hore, d. h. was sie auf meine  Fragen antworten, besonders wenn  anderweitige Gesprache dazwischen fallen»   tov JJavdaviov Xoyov.  Phædrum, qui iracrj/p tov A o; yov vocatur, Pausanias vituperat, quod nihil accuratiore definitione usus Erotem laudandum proposuerit. Etenim  ut duplicem Aphroditen, ita Erotem duplicem esse, ut Phædrus,  si recte atque ordine habendarum  orationum materiam edere voluisset, anto indicasset, uter Eros  laudandus sit. His præmissis  Pausanias in utriusque dei naturam inquirit, ac Pandemum quidem h. e. vulgarem minus laudabilem iudicat, contra summis laudibus extollendum Uraniam  existimat. Idem iudicium optimarum civitatium legibus, quæ sint de AMORE, probari censet. Athenienses enim et Lacedæmonios Erotem per se spectatam neque laudandum censere nequo  contemnendum, sed accurate semper cognoscere studere, virtuti»  an voluptatis studio AMATOR AMASIUM AMET, AMASIUS AMATORI se tradat, atque eum solum AMOREM admittere et probare et laudare, qui homines ad virtutem impellet. De Pausania paucissima  sunt, quæ scimus. AMATOREM Agathonis fuisse Pausaniam e Protag. p.S15. E. colligas. Adde  Xenoph. Symp. c. VIII. §. 32.  Scholiasta, cuius verba laudavimus, Agathonem amasium  fuisse tradit Pausaniæ tragici. Ælian. Var. Hist. II. cap. 21. narrat, Pausaniam una cum Agathone apud Archelaum regem  vixisse : tls *Apx £ Aaou icotk ctcpixovto o te ipadtrjs xoci 6 iprifiEvoS ovtoi ; de quo diverticulo  vide annot. 8. Dixit autem  Ælianus 1. 1. eIs *Ap x £ Xaov  eodem dicendi compendio, quo  eif *Ai6 Ov dici solet, quæ ratio dicendi Aristophanis ætate  ^ fortasse usitatissima ansam dedit  comico diverticulum illud eludendi Ran, v. 83- Ceterum non minus, quam Agathonem, Pausaniam mollitiei atque luxuriæ deditum fuisse, ex eius apud Archelaum tyrannum diverticulo  coniicere possis*  r 6 «jrAca? ovtu) yt . r. A.  b. e. definitione addita  nulla, tam simpliciter,  sine ulla explicatione accuratiore. Quæritur, stru loyos, ro ecxAag ovra xceQyyyel&ai lyxmfuaguv “Egcora!  fl filv yaQ tlg yv 6 "Eq0 g, xaXug av sl%s. vvv SI  ov yag louv tlg- prj ovzog Se Ivog, 6q&6z£qov Ioti    ctnram verborum quod attinet,  utrum nominativo an accusativo  casu posita hæc verba rectius  accipiantur. Ut verba vulgo exhibento?) nihil certius esse reor,  quam nominativum casum unice  probari posse. Efficiunt enim  X 6 anXcoZ ovtcoS verba præcedentium verborum appositionem:  Nicht gut scheiut mir, o Phædrus, die Aufgabe gestellt zu sein,  namlich so schlechthin aufzuge1 ben, den Eros zu loben. Neque  probaverim accusativum casum,  qui Riickerto placet» Caussam enim, inquit, proponit, cor non  recte proposita dicendi materia  sit, quatenus cet. Nimirum  hac structuræ ratione frigidiorem orationem effici censemus  atque sedatiorem, quam quæ  Pausaniæ, homini inprimis ipcoxixfi, conveniat. Fortasse hoc  modo Pausaniæ verba scribenda  snnt, ov xaXc jS poi Soxei, gj  $alSp £, 7tpofi£ft\f/6$cti ijjiiv 6  XoyoS • ro anXoaS ovtoo napr\yyiXScci iyxcopia^eiv " Epcoxa !  qua verborum distinctione quantopere vi augeatur totum enuntiatum, sponte apparet. Habes  enim vituperationem Phædri  coniunctam illam cum indignatione summa, quam per me licet  etiam irrisionem interpretari: Wie  kann man nur so schlechthin die  Aufgabe stellen, den Eros zu loben ! Atque, si quid video, hæc  natis malitiose a Pausania proferuntur ita, ut ad præcedens  Phædri dictum comparentur, C. io ovv xoiovtov phr  itkpi TtoXXjjv (xxovdrjv noirjtia- 6$ai y"Ep(oxa&k pT}8ha ita> av - SpQOItCDV TEToXflTjxlvai tfe XCCVTtfvl xrjv rjpkpav aZlooS vjuvtj Coa! Ceterum iu aliquot codd*  non malæ notæ ovtgo? exhibetur, quam formam h. 1, unice  probamus» Sed fusius de ovrvt  et ovtgdS formis infra disputaturi sumus.   vvv 8h ov yap l6xiv  sis* Hæc verba sunt, qui nno  tenore pronuntianda censeant; v»  c. Engelhardtus ad Apol» Socr*  83* B. 221. ita iudicat, nt  nullam prorsus omissionem verborum Græcos sensisse statuat»  Sed neque hoc indicium probaverim, neque vero iis accesserim,  qui vvv dh ov yap verba lineola apposita disiungunt, vide  licet ut esset, quo legentium oculis «aposiopesis*  indicaretur. Aposiopesis enim  non nisi in iis locis reperitur, in  quibus aliquis ita commoto animo  loquitur, nt pauca verbis exprimat, cetera legentibus divinanda  relinquat. Non igitur aposiopesin agnosces in verbis : Hoc   vidi, neque vero illud, æd  omissionem præcedentis verbi finiti, quod, quoniam facillime e  præcedentibus suppletur, ne nimia abundantia oratio laboret,  lectoribus supplendum relinquitur, Idem in nostrum locum cadit, ubi, cum præcedat xaXcoS  av £?££, facillime post vvv da  suppletur ov xaXcoS $X ei - I an *  quid differat aposiopesis ab  omissione verborum, quam  'ellipsin vocari licet, statim apparet. Aposiopesis reticentia  P •xaotEQOv xgo^QTj&rjvai vxolov det Ixcavuv . lya ovv nu» p«(Jof(«t tovto ixavoQ&uOaO&aL, xqutov fiiv "Egara  eorum est, quæ aliquis additurus rebatur potius, uter eorum laucrat, sed propter ammi comraodandus esset, quam qualis esset  tionem disertis verbis non ex- is, quem laudari oporteret. R ii Impressit; ellipsis contra elegantem kert.   verborum omissionem indicat, inavopSudatiSat. Huquæ in præcedentibus leguntor, ius yerbi potestatem Ficiui conet quorum repetitio foedam quau- versio non satis assequitur: hoc  dam abundantiam dictionis eifi- itaque emendare conabor,  ceret. Ad nostrum locum ut re- Ea nimirum ini præpositionis  vertar, lineolam post vvv 8e cum verbis compositæ vis est,  verba ponendam curavimus, ut ut aliquid post aliquid fieri  e præcedentibus verbis aliquid significet, cfr. 180. A. oti  supplendum esse clarius indicetur. nenvdpivoS napa tijS prjxpoS  Simillimus nostro loco est Lachetis ais’ dn o$ av olxo ixoXprfp. 200. E. el fikv ovv iv xols tfev •— ov jiovov vnepanoSaSiaXoyoiS xols apxi iyco plv veiv aXXa inanoS av elv,  Itpdvqv elSooS, xooSe 81 p?) quo loco quid differant anoelSoxe, Sixatov av rj iph / ia - $av&65ai et inanoSctvtiv,  Xidxa ini xovxo x 6 ipyov na - sponte intelligitur. Adde Protag.  paxaXeiv' vvv 81 opoicof 328. E. vvv 81 nbteidpai *  ydp itavxeS iv ctnopia iyevo- nXr,v dpixpov xi poi ipnoScdv,  pe$a, quo loco post vvv Se o 8f/Xov oxt TlponayopaS (ictsupplendum esse ratio loci docet: 8la>S in ex 8 18 dB,ei, ineiSi}   ovx ig>dv7fv eISojS. nal xa noXXa xavxa it,e8l 7t poxepov n po ij - 8a%ev. xal yap el piv xiS   vai . Hæc. verba ex abundantia nepl avxdov tiityyevotxo oxojovv  quadam posita sunt, quam etiam xdiv Srpirjyopoiv, xa% dv xal  Latini adamarunt dicentes : prius xoiovxovS XoyovS axovdeiev ij  præfari. Simili modo supra IlepixhiovS i) dXXov xivoS xoov  p* 177. D. dicitur: apx £ ^v 8h Ixavcov elneiv * el inave4?al8pov n pdixov, neque no- poixo xiva xi, Gjfi tep (iifiXia  strates ab Jmiusroodi diccudi ge- ovSev i'xov6iv ovxe dnoxpivanere abhorrent. Quem enim of- 6$ai ovxe avxol ipidSai, aAA*  fendat conversio hæc: Phædrus iav rtS xal dpixpov inepta hahe zuerst den Anfang gemacht? Xrj6y x i xtav prjSivxtav, Ssnep  Nostra verba Schl ei erm ac heras xa x a hxela nXrjyevxa paxpov  convertit: dasi zuvor bestiramt rfx £ 1 xdl anoxeivei, iav prj  werde. Græcis verbis magis re- imXdfirfxai xiS, xal ol fiijxopeS  spondet: dass zuvor vorausbe- ovxta dpixpa iptaxrjS ivxes 8ostimmt werde. Xixdv xaxaxelvov6i x ov Xoyov.   6 nolo v 8 el in aiv £iv ., Perscripsi totum hunc locum, ut  Nondum licebat oitoxepov dici, lectores e vestigio de Stallbaumii  s quia quot Amores essent, nondum sententia iudicare possent. Jn   erat definitum ; accedit v quod, his, inquit, vereor, ne vitium alietinmsi esset, tamen non id quæ- quod lateat. Quum enim in av t i ' i  (pQtzGcu ov 6tl Inaivtlv, insita Inaivioai a^tcag tov  &sov. navzss yag Zapsv, on ovx isziv civiv "Egazos    p £ 6% a i sit interrogare aliquid  præter illa, quæ ipsi oratores  dixerunt, haud scio an deinde  parum accurate dicatur In e p cj Ti) 6 Tfl. Equidem scriptum malim  av EpGDtrj dp, h, e . interrogando denuo attingat,  Quamquam codices veterem lectionem tuentur omnes. -Nihil  mutandum est, et omnia bene  habent. f Enav£pid%ai est alienius rei, de qaa paollo ante  dictam sit, caussam et rationem sciscitari. Enepcoxdv  contra eius est, qni audita quadam oratione alicuius sententiæ  sire repetitionem sive enarrationem flagitat. Sensus verborum est:  lefzt aber glaube ich es, Nur  eine Kleinigkeit ht mir noch im  Wege, die Protagoras ^ gewiss  nachtraglich recht gut beseitigen  wird, da er iiber so Vieles mir  Belehruug gab. Wenn freilich  Iemaud iiber denselben Gegenstand mit eiuem der gewdhnlichen  lledner sich bespriiche, so mdchte  er leicht solclie Reden horen, sci  es von Pericles oder von irgend  einem andern, der zu reden versteht. Fruge dagegen Iemand  nachtraglich nach Grund und  Ursache irgend eines Satzes, so  haben sie, wie die Biicher, keine  Antwort und bleiben stnmm ; biito  Iemand aber um die Wiederholuug nur eines kleinen Satzes, so  sind diese Redner vrie Erz, das  lange klingt und tont, wenn man  es nicht anfasst, und geben ia  solcher Weise (vide ann. 58, nam ut illic ovxgj noXXaxoSEV, Protag. loco ovxco dpixpa positam est) auf eine kleine Frage  einen unendlichen Sermoo» Ad    nostrum locum ut revertar, verba  convertenda snnt : ich will nun  versuchen, diesen Fehler nachtraglich zu berichtigen.   npootov 'jtlv " E p coxa.  <p p a 6 cci . Ne quis forte xoci  particulam desideret, qua hæo  verba præcedentibus commodius  annectantur: Sol ent Græci,  verissime notante Stallbaumio ad  Apol. Socr. 22. A., eas sententias, quæ aliis sub  iiciuutur explicationis  causia, ita addere, ut particularum et conjunctionum vincula omittant.  Effici autem videtnr hoc asyndeto, ut gravitate quadam oratio  augeatur, quæ addita xai particula prorsus evanescat. Hoc dicendi genus tam simplex est atque omnis expers artis, ut non  mirum, idem iam apud Homerum  reperiri, cf. II. a, 504. seqq.  coS zco y dvxifiioidi pax^ddapeveo inktddiv  dvdtT/tTjy • Xvdav 6 * dyopt/v  napa vsvdlv Axaiar.  IJqXeiSqS psv ini xXidiaS xal  vijaS ildaS  rfie, dvv re Mtvoixiu.br) 7ca\ oli  Ixcepoidiv *   9 Atptibr)i 6 * upa vija $or)v  aXabe npoipvddtv,  is 6* ipirai i-xpivsv x. r. A.   Adde Phædon, 91. B. XoyiB,opai ydp, oo <piXe Ixcfipe. xal  Sioedoa gjS nXeovexTixtiS • tl  pev tvyxdret dXrjSrj ov xa cc  Xiyoo, xaXcoS 6t { xo nei dSrjvai* eI bl prjbbr idxi xeXttrxijdavxiy dXX ovv rovxov  yt x ov xpovov avxdv tov itpd  tov Savatov ijxxoY xoiS na-6 * .    ’Aq>Qo6ltt]. (tiag (ilv ovv ovGtjs ttg av Tjv “Egag' hct 1 dt  8q 8vo Igtov, 8vo dvayxrj xal "Eqqhb tlvav. xag 8' ov    povdiv u7j6i} 5 Idopoa. odvpoptVOf.   c tB,loo S tov 5eov. Hæc  verba vario modo interpretari licet. Possunt de elegantia laudationis intelligi, de sinceritate  laudatoris» de laudationis veritate  cett. Sed horum nihil Pausanias  in mente habuisse videtur. ’A£UgjS  tovSbov esse: ita deum laudare,  ut nihil omittas eorum, qnæ deo  conveniant atque ad prædicandam eius laudem pertineant, verbis indicatur 180. E. a 8 ’  ovv huctrepoS eTlKtjxe, itEipaxkov  Elireiv.   TtdvTsS ydp tdpEV*  Omne s, inquit, s c i m u s, Aphrodite n' non esse sine Erote.  Sed quod omnes scire dicuntor,  idem fieri interdum potest, ut  scire se opinentur tantummodo,  revera non sciant. Eandem igitur argumentandi sive levitatem  sive audaciam habes hoc loco,  qua Phædrus in oratione sua  usus est 178. B. yovijs ydp  KpcDToS ovt sidlv ovte Xiyovxai vit* ovSevoS ovte iSicorov  ovte noirjTov f ad quæ verba  vide ann. 55. Cur Aphrodite  sine Erote non sit quærentibus  variæ caussæ se offerunt, quarum  aut una vera est aut nulla. Eas  nunc recensere eo facilins omittere possumus, quo minas ipse  ^Pausanias de caussis rei cogitasse videtur, quam rem omnes compertam habere narrat. Ceterum  ut TtdvtES ydp Idpsv h . t. A.  Pausanias dicit, ita Socrates dissimulato ingenii acumine 202.   B. neti jnjv, inquit, ?jv 6* iycd 9  opoAoyeirai ye napd ndvxoov  pty/US etvai.   «    ptciS p\v ovv ovdtj S*. Veteres editt. habent TavrrjZ 8\  pia* phr ovdrjS, quod fuerunt,  qui probarent. Sed non dubium  est, verissime notante Stallbautnio, quin id grammatico alieni  debeatur. Bekkerns e codd. non  pancis piaS p\v ovdtjS edidit,  quod sane habet, quo magnopere  se commendet. Tantnm enim  ponderis enuntiationi, quæ quasi  fundamentum eat totius disputationis, infert, qnantnm eidem apprime convenire videtor. Sed  codd. optimorom auctoritas respicienda est, qui coniunetivam  particulam exhibent. Probatur  eadem nobis etiam propter duplicem relationem, quæ hoc loco  manifesta est, et de qua fusins disputavimus p, 22. et 2$. Proprie dicendum erat: pia? p\y  ovdrjSf sii av ijv^Epwg' Svolv  8^ 8r) ovt o iv, 8vo dvayjcrj xal  EpcoTe slvaiy sed eandem enuntiationem etiam hoc modo cogitari Pausanias voluit, E i p\v  pia Tfv, eU dv t/v^EpcoS- insl  <$?/ 8vo idTov, 8vo dvdyxrf  v.a\ "Epare elvai. Duplicem  hanc et nominum et particularum relationem mutuam indicare  Pausanias tantummodo potuit, non  item disertis verbis exprimere*  Indicatur autem ea, pkv vocnla  ad prius nomen apposita, 8s  autem cura posteriore particula  coniuucta ptaS p\y iitEi dL  Sed hac scribendi ratione repugnantia quædam exoritur singularum orationis partiam, quæ  addita alterutri sive nomini sive  particulæ ovv particula mitigatur atque lenitur. Riickertus  ad h, I* ita disputat, ut Pausaniæ  6vo Tio &ea; rj (iiv yk loti itQEOjivztQa x«l afi^rap,  OvQavov &vyutr]Q, tjv Srj xal OvQavlav l%ovo(iatfiiiiv '    Teri) a corruptissima ceuseat atque  non nisi verborum mutatione sananda. Videtur enim, inquit,  hæc ipsa varietas, quod alii  tavTTjS 8 i, alii ovv addiderunt, argumento esse, antiquius  hic vitium latere, quod variis  modis sarcire stpduerint librarii. Itaque in mentem mihi venit olim,  essetne Platonis manus hæc ;  *Aq>po8ixrf % j]S ytiaS plv  ovdTjS, Cui si quando accidisset, ut negligens librarius pro  *Aq> poSitjj ?fS scriberet *Acppo~  6 It rj S, Jieri postea non potuit,  quin ~6 abiiceretur, quo facto alias  coniungendi verba rationes iniri  oportebat, quarum ad nos duæ  pervenerunt. Perscripsijhæc  verba, ne deesset, quibus nostra  displicerent, quo commodius Pausaniæ verba explicarent.   7t 65 i 8 * ov 8 vo x oo $ ea.  Vulgo xa $ed; sed miuus usitatum hoc apud Atticos ex præcepto Grammaticorum. Eodem  xnodo reperitur rcJ 68 co in Piat,  Gorg. 524. A» Plura huius  loquendi usus exempla Matth.  congessit Gramm. ampl. $. 456.  1. 812. Ceterum hæc interrogatio ex eo genere est, de quo  diximus ad verba c.VI. 60. Xkya  8tf xi xovxo; Mediæ orationi  interrogationes immisceri haud  raro, ut vigor orationis structuræ  mutatione augeatur, satis notum est. Hoc vigore, quem oratorium vocare licet, Pausanias ita utitur,  ut argumentorum absentiam obtegat, quibus duplex deæ numen  probandum erat,   ?} pkv yk itov Ttptd flvtkpat, Riickerto yk particula   videtur non argumentationi, sed  expositioni ante dictorum inservire. Frustra. Quod modo annotatum est ad præcedentem interrogationem, optime cum huius  particulæ vi, quæ est vis argumentationis, convenit. Rectissime  Buttmanni præceptum ad Dem,  Mid. 46. laudavit Stallbaum:  Quum quis uno argumento,vel  exemplo aliquid probat, potest  hoc ut suiliciens afferre : quod  fit particqla ydp ; potest etiam significare, plura quidem posse  desiderari, sed hoc unum satis  grave esse : quod fit addito yk,  certe, saltem. Restat, ut de  tcov particula dicamus, cuius potestatem non satis recte Riickertus interpretatus est. Annotat  nimirum ad h. 1.; Addita part.  itov urbanitatis declaratio est, '  qua speciem exhibet qui dicit '  etiam de re certissima dubitationis atque ad lectoris assensum  provocationis . ' Non aliter Buttmannus de eadem vocula indicat  in Indic, ad Piat, Dial. IV. Berol. MDCCCXXII, Sed quam  hi urbanitatem dicunt, equidem  in Pausaniæ oratione arrogantiam  interpretari malim. Nimirum 7tov  vocula e dicendi genere ov xl  Tt ov depromta est, atque iu interrogatione positum significat,  mirari atque indignari eum, qui  interroget, si quis aliter atque ipso  de aliqua re indicaturus sit» IIov  vocula igitur non tam wol convertenda est, quam doch wol,  doch sicher, doch gewiss.  Usu loquendi factum paullatim  est," ut nov particula significet,  notissimum aliquid esse ita, ut  de eo dubitari nequeat. 5ic in ij 8e vecotIqcc Aioq xai Aicovrjgy yv 8% ITavdrjfiov xæ Xovusv. avayxaiov 8rj xai * 'Eqcotcc tov (iiv ty hijpqc  jfrvSQybv IIdvdypov 6 q$ ag xcUsid&ac, zov di Ovq&vlov. Alcib. I* 129. C. 'O di XP°^~  pEvoS xai (L xpip ai °vx aXXo ;  TIgoS A eyeiS ; "fhSTtEp tixvtoxojioS xipvei itov tojjeI xai  d/it\y xai aXkoiS opydvoiS.  Adde Criton. 44. A. IIuSey  rovro TExpatipg ; EyoS Coi ipaj.  x\f yttp ttov vCxspaia Sei pe  ditoSvijCxeiv, if v dv Z\$oi to  tcKoiov h. e. den Tag darauf mus»  ich, wie du weisst, sterben, wenn  das SchifF zuriickgekommen sein  wird,   xai Ov p avia. De Venere  Urania atque Vulgivaga secundum Platonis sententiam disputarunt Apulei. Apolog, 281*  cd. Oudend., Io. Lydus de mentibus 89. seqq. Alios laudavit Astius ad h. 1. Qudd autem  illa dicitur dprjxcap 7 pro magna  deorum laude haberi solere, quod  alterutro parente careant, docte  demonstravit Wesseling, Obserr.   II, 10, p, 177. seqq. De Venere  Vulgivaga ex Iove et Dione nata  v. interpp. ad Cic. de Nat. Deor.   III, 23. Elmeuhorst, ad Apulei,  328. seqq. et quos laudat  Bach. ad Xenopb. Symp. VIII. 19.  Ceterum vix est, quod moneam,  totum hoc argumentum a Pausania ita tractari, ut fabulas de  Amore et Venere pro consilio  ano mutaverit eique accommodaverit. Stallb.   iit aiv eiv piv ovv det  itavtaS SeovS. Vario modo  sollicitarunt hæc verba interpretes. Bastius scribendum couiecit  inaiYEiv pkv ov dei itavxa (sc.  w EpGDxa ). Orsilius ad Isocr. de    Antidos. p.326. iitaiveiv juv  3cod 5* expungenda censuit. Riickertus Astio assentitur, qui vel superstitionis caussa vel propter  metum verba addita esse iudicat,  videlicet ne Pausanias deos contemnere videretur. Stallbaumius,  ne Pausanias sibi contradicere  rideatur, facto inter litaiveiv et  iyxajpidpEiv discrimine verba  convertit ; Omnes deos cum  honoris significatione  commemorate pietatis  est; non autem omnes encomio digni haberi possunt, Hanc verborum interpretationem cave probandam  censeas. Non yerum est enim,  quod Stallbaumius inter hcaiveiv  et iyxwpidpEiv discrimen statuit, neque idem scriptorum locis probatur, cfr. Piat. Menex.  235. A. yorjxevovdiv T\pdtv  ras ipvxaS xai xrjv ito\iv  iyxoopidpovxeS xaxd itavr aS xpoxovS xai xovi texeXevTTjxoxaS iv x<p noXipw xai  TovS TtpoyovovS ?}pcjv dnavxaS  tov f ipitpoCSsv xai avxovf  TjfiaS xovS Zxi ZrivxaS Ijtaivovvxss x. r. A., ad quem locum  Engelbardtus verissime annotavit  241. ed.: irtaiv ovvr e$ nihil est nisi repetitio  quædam præcedentis  iyxcopidP,ovx eS ob enuntiati longitudinem adiecta. FICINI conversio, ne verbo tenus quidem facta, audit : laudare quidem deos omnes  decet, sed utriusque AMORIS opera distinguenda  Pausaniæ mens hæc estx Male   ’ Enaivilv yh> ovv dei fiavtag ftsovg' « et ovv txattQog  *’i hj%B, XBiQceriov tlitilv.   Uda a yag ngd^ig <od’ fyti' aixrj hp avtijg figar- Phædra» nihil definitione nccuratiore usus Erotem laudandam  proposuit. Duo enim sunt Erote». Duo igitur (ovv) nunc  Erotes laudandi sunt, quoniam  omnes dii, ut dii, non possunt  non laudari. Ea laudatio ut recte  fiat atque digne deis, quid utri**  que Eroti datum sit muneris,  iam dicendum est. Pausanias igitur, quod in laudatione Erotis a Phædro proposita duos  E rotes commemoret, alterum  Ovpdviov, alterum ndvSypov,  eius rei excusationem petitum  iri putat et a negligentia Phædri, qui Erotem laudandum  propovicrit dei naturam duplicem  non respiciens, et a pietate quam  diis omnibus mortales præstare debeant. Restat, ut de ovv particula dicamus, quæ h. 1. dupliciter posita est. Prior part. continuandæ orationi inservit, de  ulterius potestate dictam supra  est 22. et p, 84,   o(vt fj i<p avtyS itpatropivy. HpatTopevy participium adeo suspectum visum est  hominibus quibnsdum doctis, ut  tanquam inutile additamentum  expungendum censerent. Neque  his assentimur, nec Stallbaumio  credimus, quod annotat ad h. 1.:  Poterat omitti participium, fateor: et omisissent fortasse alii, qui non  haberent Pausaniæ ingenium, Ficinus in convers.participium non expressit, cuius tamen  parva in huiosmodi rebus auctoritas. Quid? quod Gellius, verba græca laudans N. A, XVII, 20.  participium edidit, idem in latina  conversione omisit. Participii vis  hæc est: itatict yap itpct%iS  c o6 9 ix*f avty avtrjS  TtpdB,iS o v 6 a ... h, e,. Mit •  aller Handlung verhiilt  es sich so: so fern sie an  und'fiir sich Handlung  ist,ist sie weder gut uocli^  schlecht. Haud raro Græci  scriptores verbis transitivis utuntur ita, ut addito obiecto nullo,  non aliquam actionem denotent,  sed meram verbi notionem exprimant. cfr. Symp. p, 184 . B,  av t eu epyetovpevoS eis XPVpara. p y nata<p povij 6y  h. e,, wenn er in Beziehung auf  Geldgeschenke oder auf Befdrderungen im Staatsdienste s e i n e  Verachtung niclit zeigt.  Pl. Gorg. p, 489, D. y olei pe  Xeyeiv, idv CvpqtetoS 6v\ Xepy  6oi> Xcov 9tal 7tocYto8ot7td)V avSpcoitGQV pySevoS d£,ia>v rtXyv  iocj? tc 3 dajpazi itixvpfcaOSai,  xal ovroi <pd>6 iY t avia tavuc  elvat vojptpa; in his verbis,  cum prægnantem, quam vocant,  g>dvai verbi siguifteationem non  perspicerent, Heindoriius, Buttmannus, lleusdius, ad coniecturas ingenii confugerunt, xal  ovtoi <poo6iv est: und (wenn)  diese das Wort nelimen,  ihre Stimme erheben. Protag. 384. D, coSicep ovv dv el   ItvyXOLVOV VltOXGDtyOS cov, <5ov  av xP 7 } yai t tlnep epeXXis /tot  diaXkZetiBai, pelP t ov cp$tyyeCSai y itpoS tovS dXXouS,  ubi pei2,ov positum est pro pdA181 TOfiivtj ovzs xcdrj ovzs ale^Qa. olov 8 vvv tfftus holov   ptv, nlvsiv Tj aSuv rj duxkeyto&cu, ovx i'<J n zovzay, >   avzo xafr’ ccbzb xaXov ovSlv, ai. A’ Iv zy sipaiju, a ;  av nqayfiy, tocovtov «jrifJij* xcdas (itv yaq nqaxzb   fiivov xal oq&w s xcdbv ylyvszai, prj OQftas de alctyQOv .  ovza 8rj xal zo Iquv. xal 6 “Equis ov nas eOn xaXbi;  ovdi agto<; lyxujiui&<5%at,, aiX b xaXw$ nQOZQtnuv  Iqcxv. Aor, ut esset, quod verbis q>$oyyov itapexeiv (b. e. tpSiyye 6Sai) conveniret. Adde Apol. S.  80. D. idv ipl ditanteivrjxe ovx ijj.1 pel^QD fiXaifrete rj vpaS avzov$ t quo loco  ad utrumque dicendi genus respicitur. Hac significatione verborum prægnanti factum est, ut  multa verba cum genitivo couiungi soleant, ubi quartum casum  exspectaveris cfr. Protag. 851. E*  itorepov ovv, rjv 5* iyc et, tfti  fiovXei ijyepovevEiv (h. e. 7jysjj.Gov elvat) xrjs dnhpeooSy rj iyco  ijydopai ; JixaioS, £<prj f 6v TjyeiG$ai' 6v yap xal xaxdpx  xov Xoyov. Ne præteritum pro  xorcdpXEtf exigas, sensus est; da  bist ia auch der Urheber der  Rede. Menex* 237* cap. 6* xijS  8* Evyereiaf icpcoxov vxrjp^e  toiSSe i} tgoy Ttpoyovaov ylve^  6i$ tu T, A. h. e. war die Ursache* Adde e latinis scriptoribus, apud quos rarior hic usus,  Plaut. Asia. v. 256. Both. Ætatem ego velim servire (h. e. servus esse), Liburnum ut conveniam  modo.  roiovrov ditiftTj* Tropum  aliquetn in mente Pausaniam habuisse, certum est* Fortasse  proverbium erat, ad quem allusit: talem farinam prodire solere, qualis in mola parata sit*  ovtoo 8ij xal to ipav. Post ipav nulla interpunctio reperitur neque in codicibus uequ s  in libris editis ; graviorem posuimus nos, qualem sententiarum  ratio exigit. Pausaniæ mem  hæc est: ut quævis actio  per se spectata neque turpis est nec pulchra: sola  ratioue agendi cognomentum accipit: ita nitiii  in se habet % Q ipay per  se spectatum, qnod veli  vituperes vel laudes: ex  sola amandi ratione indicatur. Quod sequitur xai non  mera copula est, sed fortiorem  significatum habet, quo apud Latinos poni constat adhærento  consequentiæ notione atque  pro atque igitur* Verba convertenda sunt: So verhalt es  sieh auch mit dem hieben,  Und ist also nichtieder  Eros schon und eines b esonderen Lobes wiirdig,  sonderu nur der, welclier auf eiue schone Weise  zur Liebe treibt.   ooS dXySooS Ttav 8 rj jio  Quid sibi velit goS «A?;3o3s', a  nemine demonstratum video. Significat autem, propria potestate  adhiberi, h. e. adieotivum esso  non nomen, 7tdv8rjjioS. Recte  igitur aliis in locis mihi videor  K t    'O (Tsv ovv Ttjg HavSy/iov 'AcpQoStzrjg eos aArj&cog  JtavSrifiog eOzc xul itiegya&tai o xi av xv%y xal ovxog B  lozt/v, ov ot tpavAoi xmv dv&Qtltxcov igatiiv. £ga( H 6s  ol xoiovxoi ngdhov (iiv o&% fjxxov yvitcaxav i} itaiSav,  IWf hxa, eoi/ jcal tQcoGi, zov Gufiuzav puAA ov xj zav    m«inscnla littera UdvSyfioS «eripsisæ.   iZepyagexat 3 xt  «Y xvxy^ Vett. edd. pro xvXQ  exhibent xvyoi, Male. Ad xvxy  •imple* verbum e præcedentibus  repetendam est, uon compositam i&pya$Qp£YQf, ut visum est Stalibaumio, Sensos est: und  was irgend noter seine Hande  Itomnrt, das henutzt er oh ne  vr e i ter es fur seinen Zweck.  Huius structuræ exempla permulta reperiuntur. cfr. Phædon.  P- ( 64, C. 6H(ij!<ti St}, <J dyaSl,  £av apa xal dol %w8oxy, aixep  Xal £fio\ (ac. doHtl,') Pari modo  affirmativum verbum repetendum  est præcedente verbo negativo  Platon. LEONZIO (si veda) <ft A'  iav Ttepi zov dfupidftnxtjdatdi  xal prf <pfj o exepos x ov Sxe(>ov opS/wS Aiyuv fj fit } o'atptaS JC. tpy, Sententiam ipsam  quod attinet cfr. Piat. Prot*g- P- 353. A. xi SI, o! 2aS~  HpccxcS, §ei ?) licis 0xoixei6$ca  T?jy tgm* 7toXXcov Sdfcctv ctv~  Spomtaiv, o'{ oxt av xvxoodi,  xovxo Uyovdiv, Adde Piat, Criton. p, 44, O.   xal ovxoS idxxv, ov x.  X, A. Pausanias si brevius loqui  voluisset, verba audirent xal  tovzov ipwdtv, Illam oratoriam dicendi figuram etiam infra reperies 182. A. ovxot  yap cldiv ol x. x. A,, 186.  C. xal xovxo idxxv, fi ovofia  %o iaxpiHov et alias sexcenties.  Ceterum ipdv coniunctum cum  quarta essu verbum transitivum esse, cum genitivo, prægnanti,  quæ vocatur, potestate adhiberi,  ut idem sit, atque amatorem esse  alicuius, supra annotatum est  88. Hinc nostra verba convertenda sunt; und das ist der,  welchen die minder Gebildeten  unter den Menschen lieben.  Liebhaber aber «ind solebo  zuerst, nicht minder von Weibern ais von Knaben,   cos av Svvatvxai avotjxoxaxoov. Stallbaumii ad h. 1,  annotatio hæc est: Tribus partibus ait constare diiferentiam  inter asseclas Amoris coelestia  atque vulgivagi, primum sexu,  qui ametur, deinde parte, quæ  ametur, postremo amandi modo.  Itaquo mutavimus lectionem vulgatam avo7/XQxdxa>Y Schiitaio  obsecuti, cuius coniecturam firmant codd. aliquot non malæ  notæ (Paris, et duo Vindobb.) Satis speciosa est, neutiquam tamen vera hæc verborum interpretatio. Tantum euim abest,  ut temeritate tanquam argumento  Pausanias utatur, quo tpavAovS  il'v%ibv, htuxu m g av Svvavtai' avorjxoxazmv, jrpog ro  ' diangdl-aO&ai fiovov fi /.{novies, a/eel ovvteg de xov xaAcJg ij [trj. o&ev 6rj %v[ifiatvu avrols o rt, av xvfjaGi,  xovxo ngdxxuv, opotcos pev ccya&i>v, opoias Si xovvavC riov. laxi yag xal ano xijs &eov vecoxega g xe ov6t]S  nolv rj xijs exigas, xal pexe%ov<3ris Iv rjj yeviæi xal   I •   tu>v avSpcdnoDy Pandemum amaro quam pueros, deinde corpus magis   probet, ut potius allatis argumen- quam animum amant, postremo  tis tribas Pandemi amatores te- natu minores»  mernrios esse doceat intempe- icpdf x 6 Siart pd£,a6Sai.  raritesque atque eorum, in quos* Ut paullo supra i^epya^ed^at,  cunque inciderint, ineptissimos ita hoc loco dianpaB,ad%ai verbi  corruptores. Nullo enim, inquit, di- latissimo significata turpissimæ  scrimine facto etmulierum etpue* rei notio obtegitur. Schleierrn. rorum AMATORES sunt, deinde sire in conversione habet: indem sie mulierem amant sive puerum, cor- nur auf die Befriedigung sehen,  poris quam animi pulcritudinema- unbekiimmert, ob auf sebdne  gis delectantur, postremo, quain Weise oder nicht. Ceterum perfieri maxime potest uum i ne- pulcre hoc additamento explicatio  p tis simo m od o Pausaniam di- nostra dyoj/xotdxcjy verbi proxisse censes? quid ineptius in bari videtur. Ætate enim pro amore cogitari potest, quam cor- vectiores cordatique homines haud  pore magis quam animo delectari? facile ab iis corrumpi possunt,  K evocanda lectio vulgata est avorj- quos temerarios libidinososque  ToxarcDYy quam Riickertus quoque amatores esse intelligOnt. Contra,  in textum recepit, minas tamen quorum ætas prudentia caret,  recte verbom interpretatus. Avorj- quo facilius fraudi obnoxia est,  j oraro i enim h» 1. non stuleo cupidius ab illis  tissimi sunt, sed infirmio- Edti ydp jcai  ris ætatis. Hinc verba ex- 5 eov. Cave Riickerto crcda»  plicabis 181. D. xp V v dk xal annotanti ad Jianc locam, davo/iov tdvctt pyj ipay it a i 8 cov t riorem omissionem verborum esse  fya pjj eis adfjXoy tcoAAtj dirovdi/ o "EpGOS ovtoS, nulla videlicet  arrjAitixero ' x. r. A., ad quæ in proximis præcedente Erotis  verba vide annot» Quid? qivH, mentione. Brevior Pausanias esse  quæ his verbis præcedunt, no- maluit atque, quæ facillime supetram explicationem apertissime pleri possint, eadem -audientibus  probant: aXX* ovx i^anarf/day- supplenda relinquere, quam oraxe£, iy aq> p o dv y y Xaftov - tionera exhibere nimia verbositate  x eS cis* viov x. T, A» Pausa- laborantem. Proprie euim dtniæ igitur voluntas hæc est: cendum erati eidi ydp xal and   Pandemi amatores non nisi e ge- xovxov rov "EpaxoS, oS idxtv  nere temerariorum hominum sunt; and xi/S Seov x . T» A. Similiter  quorumcunque ipsis potestas est, Pausanias brevitatis studio dixit  eos Amant, non miuus feminas 181. C. ol ix tovxov xov    oppetitur.  and x ii s   ahjtaos xal aQQtvog. o 61 tijg OvQccvtag tcqStov ftlv ou  (izxzyovdijg &t]A.sog, a A A’ ctQQBvog ftovov xal Igxlv  ovtog o tojv italdav Eqco g 1'sr utk itQEGfivttQcig, yfigcag   CC(lolQOV. 0&BV 6tj iJU tO UQtjBV TQZTCOVXai 01 £x XOVtOV   rov “Ego rog Mxvoi, ro <pv6e i iggauBvzdtzgov xal vovv  fiuMov Myov ayuTtavttg. xal ng av yvotrj xal tv avry    EpGDToS hnnvoi pro ol ix tovTOV TOV^EpcuroS tov <X 7 CO xavTtjS rijS iitiitvoi. Cetcrnm   ne mireris itoXv voculæ post  comparativum posituram, ita loquuntur interdum Græci, ut sedis insolentia verborum potestas  augeatur» Exempla huius locutionis non rara • supra reperitur  180. A. xal itt aykvEioS,  hcEira VEooTEpoS 7to\v, <2s <prjdiv "OprjpoS. Adde Piat. Gorg.  p» 488. E. ol yap xpEixxovf  fisAxiovS itoXv xaxa rov dov 4  \ 6 yov. Plura exempla Stallbuumius laudavit ad h. 1. ed. 50.   xal ^rfX^os xal a?/3/5eYOf, Ilis verbis explicatur, qui  fiat, ut TlarSjJpov asseclæ et  femineo et masculo sexu delectentur. Hoc quamquam disertis  verbis non commemoratum est a  Pausanid, tamen colligere licet  ex iis, quæ paullo infra leguntur: aW afifisvof povov   xal idxir ovxos 6 xwv itaiScjv  "EponS quæ verba immerito  tanquam glossema expungenda  censuerunt Wolfius, Schiitzius,  Astios. Sensus est: und darauf beruht das W e s e n der  Knabenlicbe. OvxoS autem  pronomen positum est e generis  haud rara assimilatione prorotiro.   vfipscoS a/ioipov . In his  asyndeton improbantes Astios et  Orellios alter xk inseruit, alter  apoipoS scribendum existimavit.    Frustra. Solent addita eopola  nulla ens partes orationis enumerare Græci, quarum suam  quæque pondus habet, cf. Symp.  P 17 3. B. ’Apt<5To8t//toS 7/y xiS,  KvSaSijvauis, apixpoS, dv vnoSijroS dei. 175. C. rov ovv  AyaScava, xvy x dvctv ydp ?d X arov xaxaxclperor, yiivov. Ceterum vfiptaS d/ioipos Urania  dicitnr ita, ut simj|,* 0 P a „demon Aphroditen oratio dirigatur,  cuius Swepyos perfidos et cavillatores asseclas reddit, cf. 181.  D. aAA^ ovx iSoxaxijCavxeS, iv  dtppo6vvy XapoVTtS cjV viov,   xaxayeXddavxes oi x ji   d £ d $ ct i ije \ccX\oy djzo  xpi X ovx£S x. x. A.   oSev 8xf trixinvoi.  Hæc accuratiori explicationi inserviunt præcedentium xal Hdxiv  ovxos o xtiv itaiSov *Epa>s.  quæ verba quoniam ita exhibita  snnt, ut pro concreto, quod vocant grammatici, abstractum positum sit, nostro loco concretum  ha^es h. e. masculi generis amatores in abstracti nomiuis locum  substitutos. Cave igitur h. 1.  de inutili præcedentis «licti repetitione cogites, "Exixvoi vocem qnod attinet, cfr. Piat. Menon.^p. 99. D. cpaipiv civ Seiovs  xe tLvai xal IvSovtiidZetv, inlTtvovS ovxaS xal xar£ X opevovS  ix xov Seov. Adde etiam Phædri verba. Br xal dxeXvdiS, S £<pi) ” Opi/pof, pivoS   Ttj muSigatitla tovg tUtxgivcSs vno xovtou tov * 'Egatog  D oQiirjfdvovs. ov yag igmat nalfa iv t «M* ix$Ldav rjdq    i/iitvevdai Mot$ xgjv ypcocjv  TOV jSfoV, TOVTO 6 "EpGOS T OlS   i paxSi Ttapixei yiyvo/ieyoy itap  avxovx   tq cp vdet ififxu/isyidTepov x. r. 'A. cfr. Piat, de rep.  V. 455. D. ovdb' dpa idxir,  c 5 <pi\s, imxtfSevpa tgov noXiv  dioixovvTGDY yvvaixoS Stoxi yv vy), ov8 * avdpoS 616x1 dvtjp,  aX A* 6/1 oie os 6iEditap/iEvai ai  cpvdtiS iv a/jypoiv xoiv Z&oiv,  xai icdvroov plv pexexsi yvvrj  faixjfdevpdtGrv naxa cpvdiv,  irarxGJY 6 l ayijp, in\ icadi 6h  adSevidxepw yvvjj avdpoS.  Ceteram came h. 1. Pausanias  dyanwvxeS participium exhibuit,  tie forte aliquis, si ipcovXES dixisset, rei iutelligentiam perverteret explendæ voluptatis notio*  nem simul adiungenx.   nat tiS av yvoiij xal  iv avxy xy icai8 spadxia »  Inest his verbis, quod male me  habet. Nullum in codicibus vestigium est deprationis, igitur  commendanda tantummodo lectoribus, non item in textum inferenda scriptura hæo est: xai  tiS av xai yvotrj iv avxf/ ty  izaidepadxioc K. x. A, Nihil frequeutiua apud scriptores Græcos  dicendi genere xai T\S xal, xal  Tivef xal, similibus. Unum huius dictionis exemplum nt commemorem, in Piat. Criton. p,4$.  A. legitur; ZvvrjSrjS. JjSrj jaoI  idxtv, <y 2 &lx parces t 6id xo  jr oXXaxiX Sevpa q>oixdv’ xal  ti xai evepyeretxai vk i/iov,  quo loro Stallhnumia rectius  Buttniauuuf edidit evepyexelxat,  ille evepyhrjxca in textum re  cepit. Sensus est; Er kennt  mich scliou, o Socrates, da ich  oft hierher komme \ dann uud  wann bekommt er aufch etwas  von mir. Ad nostram locum ut  revertar, certissimum esse reor,  Platonem non scripsisse xai far  aruxy xy ica\8epadxla. Satia  enim erat dixisse far* avxy xy  itaiSepadxlq. aut addita xal vocula xa\ iv xy TCcaSepadxla.   elXixpiy dt X k Etymol. M.  298, 56. Sylb.. elXixpivrjS'  6 xaSapoS hqi\ d/Mtfifc kxepov.  icapd xo eXv, 1 } Sep/iadia, xal  xo xpivGOy q iv xy £Xtf xexpi/ævoS. Alii aliter hanc vocem  explicare studuerant; nobis, unde  hæc vox depromta sit, quærentibus sponte se obtulit salia  comparatio, quod coquendo purius fit et clarius. Salinatoribus  igitur vox antiquitus propria  fuisse videtur; deinde, ut fit, ia  quotidiauao vitæ consuetudinem  ita abiit, ut propria eius significatio prorsus evanesceret, cfr*  Symp. 211. E* xi 8rjxct, iqrq,  olopeSa, el xoo ykvQixo avxo  xo xaXov 18eiy elXixpivls,  xa$ a pov, a/iixxov, dXXd.  /xi} avaicXecov dapxcov xe av$ p coTziv-ojv xal xpGopdxGov xal  aXXyS itoXXi}? <pXvaplaS $vrjxrjS, aAA* avxo xo, Seiov xaXov 6vvaixo jaov o$i8hS xaxi8e\v ; Adde Piat. Menex.  245. cap. 17^ 8ia xo eiXixpivdoS elvca h £X\7/yeS xal dpiy&ls  fiapfidfiGJY. Sunt igitur, Riickertus inquit, ol eiXixpivcaS vico  Xovxov xov "EpooxoS capptjpivoi,  qui pure, sincere, ab hoc Amore  aguntur, nec admistum habent  agxavtcn vovv ”6%uv • roxho Ss itlijOuc&i t< 3 yivuadxuv. XKQBOxsvccOfievoi yuQ, olfiat, tlalv ol ivrev&tv agxu/iE qnicquam de viliore illo et vulga ri.^   ov ydp i p oj 61 it ai8 cov,  «AA* ineiSav x. x. A. Hæc  est librorum omnium lectio,  quam H. Stephaniis primus ita  immutavit, ut aAA’ iitsiddv verbis 7 voculam interponeret. Ea  scriptio tum aliis tum Stallbsomio adeo probabilis visa est, ut  eam in textum reciperet. Constat autem, aAA* ?/ voculis duplicem rationem, quæ proprie  non nisi duabus enuntiationibus exprimi potest, in una euuntiatione coniunctam indicari. Sic  nostro loco dicere possis ov ydp  (npoxepov) ipcodt naidcov 7  iiteidav jjSrj apx&vxai vovv  $6X £lv t dicere possis etiam ov  ydp ipcooi izaldGov, aAA’ (ipu>~  6iv avtoov) insidar 7/67 apX<&vt ai vovv 1 l6x £ iv ’ His enuntiatis in unum couflatis dicendi  genus efficitur hoc : ov ydp   ipdodi nalScov, aAA* 7 / iiceiSdv  X. t. A. Hoc per se spectatum,  cur reprehendas, non habebis.  Nam quod Riickertus ad h. 1,  dubitare se ait, num recte jral8tS dici possiut ii, qui iam pubescant, eo quidem argumento  lectores non admodum movebuntur. Quæritur autem, an Pausanias ita locutus sit. Certi quid  equidem statuere non ausim, verisimile tamen mihi videtor, Pausaniam, cum paullo ante AMATORES nominasset, qui eo delectentur, quod validius natura sit atque intelligentia emineat, nostro loco non nisi oppositionis rationem habuisse, Ttald&v nomen  autem ita posuisse, ut idem sit  atque dvorjxoxdxav.  B. reperitur. Eodem SIGNIFICATV paullo infra dicit: XPV y ^  vopov elvat jn) ipav naiS 00 v  ( h. e. pueros immaturos ), ivct  p7) elS dd?jAov iroAAr) freovSt/  dv7]At6xEro. xo ydp xdov n acida) v xiAoS aSr/Aov, ol xeÆvtcc  xaxlaS xal dpexi/S. Ceterum  ellipticam enuntiationem habes,  quam cave per aposiopesin explicandam censeas. Expletior  enuntiatio audit: ov ydp ipcodt  icaiScov, aAA* ineiddv ?/8 tj dp Xcovxai vovv l6x £iv y r dxe ipdj6iv avxGJV. Sensus est: Sio   sind nicht Liebhaber von noch  unausgebildeten Knaben, sondern  zeigeu sich ihnen erst dann ais  selche, weun iene anfangen Verstand zu bekommcn. Schleiermacheri conversio: Dean sic Heben nicht Kinder et q. seqq.,  ea -de caussa minus nobis probatur, quod illud nomen de  utroque sexu intelligitur, h, 1,  antem non nisi de masculo sermo est. Noluit autem Pausanias dicere: orAA* 7/67 vovv {(Sxovxcov,  quia significantius indicatura»  erat, amato ies id agere, ut  ea ætate, qAMASIOSua intelligentia  efflorescere posset, omni studio  excolerent, consilio adiuvarent,  exemplo meliores reddereut. Hinc  apx £ <S$ctt verbum appositum habes temporis momentum significans, quo tempore amasiorum  ingenia excoli possint, atque  7toXAy 6itov8y amatorum, quæ<,  181. E. commemoratur, erudiri, porro iireiddv finali particula Pausanias usus est, tardum  maturitatis proventum depingens,  x g 5 yeveidtixeiv. Ne hoc  quidem, inquit Stallb., Pausaniæ  roi igav cog tov filov Szavra gvvetfofitvoi xal xoivy  OvfijiiaOofisvoi, alf! ovx t^cczccrrj 6 avrig, iv dtpQotivvr/  J.ajiovzig wg viov, xazuyiluGavtts olxrfitQ^ai lz’ aliov    ingenio indignam est, quod ætatem illam adolescentium diligentias indicat, qua perveniant ad  maturitatem quandam rationis, et  qua iam liceat veris illis, quos  dicit, amatoribus eorum uti consuetudine, Nimirum pubertas est  {/fit} ^nyjzetfrnr//, ut ait Nom. Od.  X. 279. De hoc loco vid. Comm.  de Symp. Platonis.   itape6xEvct6 pivoi ydp,  olpat, Eidiv seqq. Verba  hæc Stallbnumius convertit: Nam  qui inde ab hoc tempore amare  incipiunt, ii se ita comparaverunt, ut velint per totam vitam  cum amasio suo versari, non  quum eum, quippe quem deprehenderint iuvenem, imperitum et  imprudentem fefellerint ac deceperint, cum risu et contcmtu ad  alium aufugere. Participia igitur ita posita censet Stallbaumius,  ut ad præcedentis participii explicatiouem sequens fucer® existimet. Sic iv dfppotivvy A afidvTEf toS viov. quæ verba  Orellius in £zr' dtppo6vvy XafidvttS mutanda censuit, ovx  iB,anati}6avTES verbis explicaudis inservire arbitratur. Nostro  arbitratu non dubium est, quin  i^axarrj(javTcS participium verbis supra lectis tcov datpdtcav  fiaXXov v T&jy rpvx&v, iv drppo 6vvr? XafiovtES o oS viov, intifbc  cjS dv dvvGovtai dvoTjzoTarajv  respondeat. Igitur hoc loco participia propriam ac suam potestatem habent, id quod Orellius  Eix pro iv scribendo indicaturus  erat. Verba convertenda sunt:  Deno entschlossen sind, meino    ich, die, welche das mannliche  Gesclilecht von diesem Alter aa  zu lieben beginnen, die gauze  Lebenszeit mit ihm zusammen zu  sein nud ein gemeinsames Leben  zu fuhren, nicht Betrug an  ihm zu dben, nicht es in  seinem Iugendunverstande zu iiberlisten, nicht  mit Hohn davon zu gehen,  indem sie zu einem andern abspringen. Ceterum participia cu mulari solent vinculis nullis colligata, quando loquens inducitur,  qui est animo commotiore, cfr»  Gorg. 471. B. favidaS xal  xarapESvdaS avrov re xal tov  viov avrov ’A\i%av6pov, dveifnov avrov, cfredoV r/A ixigjttjv,  i p fiaXodv e 1$ ltpaB,av 7  vvxrcop i^ayaycjv ani6<pa£,Ev x. t. A. Adde Symp.  2 1 0 . D . xal fiXiiearv 7tpo$ noXi)  7/677 ro xaXov, prjxin r 6 itap  Ivi  dyanuv x. r, A.   i 71 dXXov dxor p i x° y   T E S. Aliquo modo hoc loquendi  genus vernaculo sermone assequimur quidem, sed repugnante  plerumque dicendi usu. Aliena  enim a nostræ linguæ indole  illa facilitas est, quam felicitatem vocare possis, qua scriptores Græci complurium actionum  rationes in una enuntiatione coniunctas exhibuerunt. Schleicrmacherus habet in convers.: und  von ihm zu einem cmdern zu  entlaufeu.   XPV v ^ xal vdpov  tlvat x . r.A. De XPVVU 1 verbi  notione supra dictum est 12 .  dncrtQiyovtu;. XQ, 1 V vofiov ilvai firj igdv mxiScav,   ivcc fitj tls aSrjkov xolfo) Onovdij dvr t liaxtxQ. zo ydg zwv e  Ttaldav zti.og udrj?.ov ol Tlievza xaxiag xal ctgctqs   Significat autem: Debere aliqnem  aliquid facere ita, ut, si id omiserit, officio suo defuisse censeatur. Imperfecto eiusdem temporis exprimitur: Debuisse aliquem  aliquid facere, quod revera non  fecerit olTicium suum male exsecutus. Iam nostro loco quoniam  non comparet, cui male servati officii crimen imputare possis,  verba hoe modo convertere licet ; Eigentlich hiitte, wenn es nach Fug und Recht gehen solite,  ein Gesetz da^seiu miissen etc.  Ceterum cave av particulam XP*j y  verbo adiungendam censeas. Ea  enim si adderetur, particulæ potestas esset, ut, quod olim fieri  oportuisse dictam sit, idem nunc  non opportere fieri indicetur. Sed  oflicii quovis tempore eadem  conditio est, ut nou possit aliquo tempore officium esse, quod  idem alio tempore non officium  ait. Alia ratio est Selv verbi,  quod quoniam necessitatem indicat extrinsecus illatam h. e. certis quibusdam de caussis ortam,  £8ei dv commode dicere possis  ita, ut cedentibus iliis caussis vetere proverbio effectus  cessisse cogitetur; 18 ei dv  autem significat, olim necessarium fuisse, nunc autem non  amplios necessarium esse. Et  quoniam sæpissime contittgit; ut  non amplius necessarium videatur  præsenti hora, quod olim maxime necessarium fait, non mirum est, $8ei av crebro opud  veteres scriptores reperiri ; contra XPV V nusquam, quantum  scio* occurrit apud veteres, coitis rei argumentum est, quam supra commemoravi, officii constantia.   tva ut) eis aSrjXov  avTj XioxET o. Codices aliquot  dvaMoxoixo exhibent, quæ lectio bene haberet hoc loco, si  Pausanias non nisi de possibilitate, quam vocant, xov dvaXi -'  tiHEdSca ageret. Indicaturus autem  ille aperte erat, sæpe iam factum esse, ut AMATORES AMASIOS  frustra ad virtutem propellere  studerent, ut unice rectum censendum sit avtjXLoHETO . Optativi  modi exemplum est Alcib. I. p„  105. E. YEGOXtpGD filEV OVV OVXl  doi xal itplv xodavxrjS iXxidoS  yipEiv, gj £ ipoi doxEiy ovx sia.  6 5eoS diaXayeoSai, iva prj  fxaTTjv StaXey oiprj v. Optativo autem modo Socrates hic  utitur, quod revera non expertus  erat, ut in erudiendo Alcibiade  frustra operam consumeret. Adde  Menon, 89. B. ouff TjptiS dv  TtapaXaftovxEf ixtivoov djzoepijvdvxcDV icpvXaxTopEV Iv dxpotcoXei ivot pij8 eis avxovS  8lE<p$EipEV, aXX ETtElS)}  dtpLXoivxo eis xijy 7/Xixlav xp*jCipoi ylyvoivxo xals itoXtdiv.  Plat. Criton. 44. D. ti yap  dxpEXov f cJ KpitcQV, oIoIxe eivat  ol noXXol x d piyi6xa xaxdf.£ep~  yd&CSau tv u oloixs i)6av  xal aya$d xd pkytdxa. vid r  Rostii Gramm. §. 122. 12.   to yap x&v 7tai8wv xkXoS x. x.'X. Duplici significata  TtaiSajv nomine Pausanias utitur,  ut id aut masculum genus denotet cfr. 181. C. xal idxiv   4’vxrj s te jrtot xal 6ca(iaros. ot (uv ovv ccya9ol rov  vopov tovtov avtol avrolg exovteg ri&Evraf x9V v ^    ovtoS 6 tcov itai§Gdv w EpcoS  oSev 8 rj ini to afifiev tpinovtat x. t • A., «ut veootipovS significet, ut hoc loco. Schleiermacheriis hæc verba convertit:  Denn bei den Kinderji ist der  Ausgang ungewiss, wo es hineus  will, ob zur Schlechtigkeit oder  Tugend der Seele und des Leibes. Ut V. D. convertendum  censuit, h. e. virtutem a vitiositate disjungendam, non conjungendam cum eadem, ita Græca  verba scribenda sunt; nullo enim  modo ferri potest, quod in omnibus editionibus exstat xccxlaS  xal apErrjS . Constat autem  sæpissime xal pro r/ et 7} pro  xal exhiberi in libris, ut non  audacias agere censeri queat, qui  sensu flagitante verborum alteram  vocem in alterius locum substituat. Scribendum igitur h. 1.  puto esse xaxiaS r/ apEtijs. Genitivos quod attinet xaxiaS et  apEtrjSy qui e præcedente loci  adverbio pendent, vide Matth.  ampl. $. 324. 632.   avtol avtols %xovxeS  tiSEVtai» Media forma Pausanias usus est TtSivat verbi,  quod qui legem scribunt, iidem  illi legi sese subiiciunt. Eodem  modo apud Xenoph. Oecon. 9.  14. scriptum reperitur iv tatS  EvvopovpivaiS noXsdtv ovx ap* XEIY SoXEt TOtS XoXltaiS, 7 JY  vopovS xaXovS ypa~  if> cjy t at, quo loco Pausaniæ  verba abundantia quadam exhibita esse doceare. Satis erat  dixisSe r ol plv ovv dya$ol  tOY YOpOY TOVtOY ixOYtES tlSevtai. Addidit autem avtol  avtolS 9 ut æquitas illorum ama  torum clarius eluceret, qui ipsi  nulla necessitate nrgente, sed liberrima voluntate {biovtES') illam legem scribant.   tovtovS tovS itavStfpovS ipadtaS, OvtoS pronomen nominibus præponi solet  ita, ut significet, de aliqua re  sermonem esse sive landanda sive  turpi, quæ alias iam innotuerit*  Igitur et laudis et ignominiæ  exprimenda* notioni inservit. Ac  nostro quidem loco non obscuram esse potest, quo significatu  pronomen accipiendum sit, et  recte Stallbaumius annotat, ovtoS  cum contemtu dici. Exempla  huius usus ubivis obvia sunt.  Laudat Stallbaumius Piat. Criton.   45. A. ovx opacS tovtovS  x ovS 6vxog>dvtaS coS EvTeXeiS,  quilus verbis occasionem datam  video, de Sycophantarum nomine  quid mihi videatur, aperiendi. Admodum enim displicet, quod Schol.  annotat, ad Piat, de rep. I. apud  Bekk. Comment. Crit. T. II.  397* dvxotpavTTjS XkyEtat d  iffEvSddS ti xtv oS xatTjyopdiv.  XExXijdSai 8* ovra> nap ./ISi/vaiotS TCpdrtov EvpESivtoS rov  t pvxov rtjS dvxtjf, xal 8ta tovto  xgoXvoytcjy iZayeiv ta dvxa,  tc ov dk (paivoYtGJV tovS i£dyovtaS dvxoq>avtcoY xXr]^h'-~  TGJVy dvviftrj xal t ovS 6na>So\jr  xarrjyopovvtaS ttvurv tptXane X^TfpovooS ovtoj npoSayops->j $ijvai % Duplex schnl. eat ad  Aristoph. Plut. 37. Alterum ctim  Platonico convenit, alteram hæc  habet : Xipov yEvopivov iv r y  9 Attixy tivls Xa$pp taS dvxxS  taS atpiEpcopivaS toiS SeoiS  ixapicovvtOy pera 8h rav:at xui rovtovg tovg navdrjfiovg tgatixag itQogavayxa&iv    to roiovrov, wgittQ xal tc5v   EvSrjviaS ' yevope vtjS xanjyopovv TOVZGDV rivis, xcti £xel$ev dvxocpctvrai Xiyovzai, Mæ  narrationes non dubium est,  quin fictæ sint, qnibus 6vxoqxxvr&v nomen explicetur. Percit schol. Aristopli, evpijrai 61  itepl tovto v xcd hvepct Idropia itavv ipvxpd, Sed ipsa illa  schol, explicatio admodum friget,  2vxo<pavTcov nomen a 6axxv<pavT7jS descendit, dc qua voce  Pollux habet X. 192. otav drj jLiodS&vrjS Eiitrf GaxxvcpdvTaS,  rovS itXixovraS rctiS ywcnBX  XEXpvcpaXovS axovovdiv, Hoc  genus hominum consentaneum  est loquacissimum fuisse et curiosissimum nequitiaque refertissimum, atque in omni re tonsoribus, obstetricibus, aliis simillimum, Factum est autem usa „  loquendi atque, ut in Piat, Cratyl. est p, 421. C. dia ro  navraxy GrpicpedSai ra ovo para, ut nomen 6vxxo<pdvnjS  audiret, ex quo 6vxo<pdvTi\S  enatum, it poSav ay xd2,tiv to  roiovrov . Pauci libri pro  t d roiovrov habpnt rdHv roiovroov. Exspectabas, inquit Stallbaumius, oldyitep idrl tovto, ori  xal ro ov iXEv^Epoav y . it . avtovS  p?) ipav. Sed nihil mutandum.  Annotat Riickertus ad h. 1,: Spectat pronomen ad snpra lecta  verba pyj ipav itaidoov. Neque  habet duplex accusativus huic  verbo iunctus quicquam, quod  offendat. Alia ratione nobis  hic locus explicandus videtur,  Pausanias nimirum cum prædicasset eorum amatorum iustitiam  et æquitatem, qui^ipsi tibi lu  ite v&igav ywaixav xqos beatissime illam legem imponant, nunc id agit, ut non cogendos Pandemi AMATORES AMANTE AMATO censeat, ut  eandem legem sibi scribant, atque ab immaturis pueris abstineant, sed statim ad rationem cogendi abit, modumque indicat, quo modo viles isti AMATORES AMANTE AMATO ab immaturis retineri possint. Sententia igitur verborum hæc est. Die guten Liebhaber legen sich dieses Gesetz aus eigenem Antriebe aufj non muss man eigentliph auch deo Anhiingern des  Pandemos dieses Gesetz aufdringen, ganz in der Weise,  wie wir sie nach Kraften nothi  gen, freigebornen Frauen ihro  Liebe nicbt zu widmeu. Pronomina generis neutrius cum articulo coniuncta haud raro sic adhibentur, ut absolute ponantur  atque adverbii vices obtineant. Sic in Piat. Phædone legitur  65. B. olov ro roiovde XeycD,  quo loco to towv6e absoluto  positam est, vehementerque differt a verbis, quæ leguntur  Eutyphr. 13. B. olov toiovds  se, Xiyco. Symp, 178. E., ad  qnem locum vide annotat, 61.,  t avrdv 6e tovto xcd rdv ipeo pevov op&fiEV, on x. T. A. ubi  T avrov tovto est : ganz auf diesflbe Weise. Adde Piat, de Tep„  X. 605. B. t avrdv xal rdv  piprjrixov itotfjrr/v (pyjdopev  ipitoieiv x . r. A. Prorsus eodem  modo ro roiovrov positum est  nostro loco. De plv ov v Si  particulis vide aunot. p, 22»  r qoy £Xev$& pcov ywai xgjv prj ipav. Liberæ  mulieres ex hominum conspecta  quam heri potuit maxime remo 7 182 avayxatofiev ccvrovg, xa&’ 5 Oov dwapi&a, fiif igav.  ovroi yag tlaiv oi xai to oveidog ntnoirpimtg, ujtftt  rivas toAj iiav kiytw, co$ aloxgov jjK(x'£tC0ai IgaOralg.  X iyovai 5a sl$ rovrovg unofiXbiovns, ogwvrig avrdv  rrjv axuigiav xai ddixlav' htd ov Sr/ xov xo6(Uas yi    vehantur, cfr. Symp. 176. E.  tals yvvailA raiS IvSov,  ad qnera locum Nepotis præfat.   $. 7. laudavimus 44. Mens  Pausaniæ hic esse videtor: Debete, si heri posset, pueros  immatoros domi manere absconditos, ut liberæ mulieres domi  maneant, hominum adspectum fugientes, ne amatorum prava sedulitate corrumpantur.   ovxoi ydp eidiv oi xai  x* t. A. Pronomen sequente articulo cum contemtu positum est,  ut supra tovrovS r ovf TtavSifpouS. Sic 181. B. non sine  adhærente ignominiæ notione  dicitur xai ovtoS idtiv, ov ob  cpavXoi rcov dv^pcditcov ipdodiv,,  Kal vocula hoc modo explicanda  est: Isti enim cum aliorum malorum, tum etiam auctores illius  rumoris sunt, quoad quidem nonnulli dicere non dubitant, torpe  • esse amatoribus gratificari. Pro  < Sire TivdSf quæ optimorum codicum lectio est, vulgo tuSre rtvd  legitur. Sed singularis numerus  minus aptus hoc loco, non quod  sequitur pluralis numerus Xiyovdi  81 x. r. A., sed ne forte lateat lectorem, non certi cuiusdam viri,  sed populi rumorem hic tangi.  Ad to oreiSoS Riickertns annotavit: Græci, quamvis frequentissimus usus sanxisset quodammodo hunc amorem, tamen ut  probarent eum, nunquam induxerunt animum, immo turpitudinis nota erat, non quidem amasse    pueros amatoribus, sed pueris  amori eorum satisjecisse . Aliter,  atque Riickerto visum est, super  puerorum amore iudicarunt Græci. Vide Commentat. de Symp.  Platonis.   avrcov tTjy axaipiav  xai aSixiav. cf. 181. D.  i&aKazrjdavreS, iv dtppodvvy  XafiovreS coS viov, xatayeXadavtts olxytfedScu iit aXXov  dnotplxovxES. Ibid. 1. B. itpoS  to 8ianpd£>ct65ai pdvov fiXeitovTtS, dpeXovvteS 61 tov xaAcuff ?/ firj et q. seqq,   i x el ot) Srjxov yi .  Hæc est optimorum codicum lectio; vulgo male ov Srjitov  re exhibetur, ri ad verba pertinet, quibus appositum est, et  conditionem indicat ita, ut apprime Latinorum si quidem  respondeat. 8tjxov voculam quod  attinet, supra de itov particulæ  significatu dictum est ad 180.  D. Eius significatus vis 8tf accedente, cui ironica potestas est,  ut in Piat. Menone 86. D.  iireiSij 6h dv davxov pkv ov8'  imxetpeis apxtiv, tva 8 rj iXevSepoS tjS, maximopere augetur.  Ficiuus verba convertit satis frigide, ut videtnr: nihil autem,  quod n\odeste etlegitime  fit, vituperare decet. Verba  convertenda sunt potius: Dena   es ktnn doch offenbar wol irgend eine Handlung, wenn anders sie mit Maass und Fug unxai vofilfiag orwvv Ttgayucc nQuvcbtitvov i poyov av Sixaiag tptQoi.   Kul 8rj xal 6 xcgl tov tgcoza vvfiog iv fiiv ra is  ctM.cug itoktGt, vorjecu gudiog' anXag yag SquStcu ' o  6’ iv&dds xal v iv AaxtSulyiovi TtoixUog. iv "HXiSi B    ternommen wird, tiicht mit Recht  getadelt werden. Prorsas eodem  modo dicitor in Apol. Socr. notissimo loco 20* C. o v ydp  djfrtov dovye ovdev xcov aAA.Gov  nepixxoxepov npaypaxevopivov,  t7TF.iT a toGavxij tprjpTj xe xal  AoyoS yiyovev x. r. A.., quo  loco interpunctionem post dovye  delendan^ curavimus» Sensus est:  Denn es hatte doch offcnbar wol,  vvenn auders du nichts weiteres  gethan hiittest, ais die andern,  eia solches Gerede und Geschwatz  nicht entstelien kdnnen»   xal 8?) xal . Harum particularum notionem Sehleiermacherus in conversione non reddidit,  neque Ficinus easdem convertendo  expressit. Exhibet enim: lex utique de AMORE et q, seqq. Biickertus ad h. 1. hæc annotat Particulæ coniunctæ xal 6r} xai  ibi locum habeut, ubi a generaraliore sententia ad specialem  transitur, h. e., quum id, quod  in universum disputavimus, etiam  de certa aliqua re valere dicimus, quo in nexu semper aliquid  conclusionis est. Habet igitur  harum vocum quævis vim suam  nativam; quarum prima copulat  cum prioribus, altera vel conclusionem indicat, vel rem pro certa  ponit, quam particulæ 8rj vim  velim ostensivam appellare, tertia adiungit, fierique subsumtioriera docet»  Negari nequit,  xal 8rj xai particulas interdum  ita a scriptoribus adhibitas esse,  ut iis transiri significent ail  ea, quibus, quæ antea in universum dispntata essent, probentur. Cave tamen, omuibus in  locis hanc particularum SIGNIFICATIONEM VERAM habeas. Ac nostro quidem Joco Pausanias ad  novam rem, b. e. ad civitatium  leges transit ita, ut, cum coramemorusset p 182. A. duplex  de AMORE iudicium Atheniensium,  quorum alii ipsum laudent, alii  vituperent, aliorum civitatium  iudicia annectat, et quomodo inter se differant, exponat. Ad  eum rem commemorandam aditum patefacit 8rj particula, quæ  quo magis emineat, initio  enuntiati ponenda erat, atque  eidem xai expletivum, quo suffulciatur, præfigendum, vide  annot, 5*  an ydp <2 pitixa i. E  recta ditA&S vocis explicatione  sequentis verbi itoixiAoS recta  explicatio sequitur. Illud denotat actionis reive alfeuius simplicissimam conditionem, qua efficitur, ut facile possis et quasi  primo obtutu, quid sit actio sivo  res inspecta, cognoscere. Jlot. xi\oS contra de plurimarum rerum inprimisque de colorum  compositione valet, quæ ita  comparata est, ut nequeas dicere  statim, cuius coloris sit id, quod  noixiXov vocatur. Hinc ad hominem relatum noixiXoS eum  significat, quem non tam versicolorem, quam varium appellafiev yaQ kcc I Iv Boiorolg, xal ov firj docpol Alysiv>  ca tAiJg vEvqfio&itrjtai xalov eo %aQl£E6ftcci Ipatiraig,  xal ovx av ug tlxoi ovts veog ovts itcdcuog d>g alti iQQVy iva, olfiat, ^XQaypcn? t%atit Aoyco «stgi»rnnt et versipellem ROMANI. No //oS"; iroixiXoS est igitur lex, quao  ex ambiguitate sententiæ laborat. Eius ambiguitatis in Atheniensium et Lacedæmoniorum  lege Erotica exemplum explicatius enarratam habes 182*  D. seqq.   iv "IIAiS i plv yap\ seqq.  Triplex apud Græcos de AMORE lex obvaluit. In Elide et in  Rocotia atque in iis civitatibus omnibus, quæ eloquentia carebant, obsequi amatoribus pulcrum habebatur. Apud Iones  eosque, qui barbaris subiecti erant, ut philosophicæ gymoasticæque exercitationes, ita obsequium erga AMATORES dedecori  erat. Ambigua lex erat apud  Athenienses et Lacedæmonios,  ambiguumque indicium. Nimirum  ro xapl<Sa<$$ai ipadralS et pulcrum et turpe habebatur.   vEvopo^irrjrai. Sydenh.  annotat, ad h, 1, laudatus u  Wolfio :• Dies Wort, wie das vorhin nnd mehrmals gebrauchte vopoS, muss man nicht von einem  geschriebenen Gesetz, von einer  positiven Satzung in ausdriicklichen Worten verstehen, sondern von Gcwohnheit und Gebrauch, der nach und nach das  Ansehn eines Gesetzes gewiunt. D. rjyrjdair av  •xaXiv altixtdrov ro roiovrov  ivSaSe v o pi^ed^ai. In Piat.  Cratyl. 384. v. 16. Bekk. ov  ydp tpvtiei kxddrca necpvxivat  dvopa ov8hv ovdevi, dPiA.cz v o  pep xal rc ov iSitidrtarv   te xal xaAovvtcDV, Ib. 388,  Hermogenes interrogatus a Socrate, quis nominum usum suppeditaverit, cum id nescire se  confiteretur, ille ap ovxl, inquit,  d vopoS doxei doi tlvat 6 xolpadidovS av ia i   Iva prj Ttpaypar  x. r. A. His verbis Pausaniæ indicium continetur demonstrantis, qui factum sit, ut cautione  adhibita nulla pæderastia in  Boeotia et in Elide pulcra indicaretur, Sed ex ambiguitate quadam hoc indicium laborat, de  qua interpretes nihil annotarunt.  Aut enim licere obsequi amatoribns  dicit, ut impetrent amatores,  quod lege prohibente iuvenibus  nunquam persuadere possint, ut  ipsis concedant, aut propterea  legem illam latam censet, ut iuvenes, quos Boeoti atque Elidenses admonitione non possent, AMORIS vi ad virtutem impellerentur. Utra explicatio rectior  sit, in Commcnt* de Symp. Platonis explicatum habes.   r 7 } S 8 h 9 IcDviaS xal «AXoSt n oAAaxov. Quid Pausanias dicere voluerit, ut facillime intelligitur, ita difficillima  structuræ ratio est, quam nemodum sati3 explicavit. Plerique  interpretes ad coniecturas ingenii confugerant, quarum numero  pon minus turbatum te senties,  quam ipsa difficultate Platonici  loci, H. Stephanus scribendum  coniecit rrjs 81 IooviaS jroAAafitvoi ntiftuv rovg veovg, Sn aSvvcttoi Ikyuv. r rj$ di  'I avias xal aklo&i xoXku%ov altSxQov vtvo[u<Stai, cicJot  vito fiaQfiuQoig olxovGi. rotg yag fiæfidQOi s Sicc rag  TVQawidus aloxQo v tovxo ys, xal % yt <pdo<Soq>la r.al C   ' x°v xal aAAoSz x. r. A.; Thier«chias ty 6i luriæ, Astius rois  6 h 'iGDviaS conieceruut. Ut elios  silentio præteream, ingeniose  Riickertns scribendam duxit rijS  * IcarlaS xal aAAoSt #oAAaXov al6xpov vevopidzat, pa\i6xcl 6 * o6ql vno fiapfidpois  olxov6iv. Stallbaumius, vide,  inquit, ne genitivas pendeat e  pronomine vdoi vel potius e pronomine demonstrativo ante 0601  intelligendo. Nemo enim olTenderet in his TrjS 61 'iooviaS xal  dXXuv noXkuv x^pdjy 0601  vno fiapfidpois oixovdt, napd  t ovroiS ai6xpov vevopidrat.  Quum autem orator post r 7/S 61  'iuvlaS posuisset adverbia <*A~  Ao.9i noXXaxov, addidit statim  aldxpovvevopidTcti, quæ sic non  poterant commode alio Joco collocari, atque deinde demum ad  inchoatam structuram, quam in  mente habuit, reverti putandas est. Hæc explicatio impeditissimæ structnræ et ipsa impeditior est. Riickerti ingeniosa quidem sed audacior coniectnra est, atque cura veritate rei non  satis conveniens. Ceteræ coniecturæ omnes ita comparatæ  sunt, ut intelligere sane non possis, qui factam sit, ut lectio ad sensum facilior in difficiliorem  sit mutata. Ut meam, qualiscunque est, sententiam proferam,'  cum in præcedentibus Pausanias  iv*H\i8i pev yap xal iv BoiutotS xal ov pi) Cocpoi XiyEiv  dixisset, pev particula adhibita,  verba secutura esse indicavit, quæ illis verbis opponerentur,  Ilæc oppositio ut validius emineret, ita instituta est, ut altero membro oppositionis ad ulterios  exemplar comparato adhibitoque  chiasmo gratissima varietate delecteris. Igitur cum proprie dicere debuisset Pausanias iv 61  zy 'ioDviot, ut supra legitur iv  v H\i6i  xal iv BoiuzoiS, dixit rif 'luvlat, nomen ad præcedens ov comparans; pro aXXoov  TtoXXuv x<* opuv, quod optime  cum sequente otioi olxovdiv  conciliaretur, «AAo3t ^roAAa^ov  posuit, ut esset, quod præcedentibus dativis cum iv præpositione coniunctis respouderet.  Iam certam est, genitivum r rjS  *Iuvia5 per se spectatum non esse explicabilem ; excusabilem autem indicabis, si ad prius oppositionis membrum respexeris.  xal i} ye tpiXodo epia. Gymnasia philosophorumque scholas matres fuisse et altrices pæderastiæ, a multis vantiquitatis  scriptoribus traditum Cst. Unum  ut laudem, cfr, Cic, Tuse, Q,  IV. 53. Mihi quidem hæc in  Græcorum GINASSIO nata consuetudo videtur l in quibus isti  liberi et concessi sunt AMORES. Bene ergo Ennius: Flagitii principium est nudare inter cives  corpora, Persecuti autem esse  barbari dicuntur pari vehementia  et filiam et matres, quia elatiores animos hominibus ingignerent,  novarumque rerum studio pectora  incenderent. t) (pUoyvfivaarla. ov yag, olfiat, <Sv/uplgsi roig SqXOVOi tpQovrjfiaTa fttydXa lyylyvs<s9at rav ag%ofievcov,  o«(5e tpiltag loxvgctg xai xotvmvLag, o drj fuelusxtt tpthi tu re ulla narra xai 6 "Egcog ifinoieiv. igya 6h  tovto Pfia&ov xai oi tv&uSe xvgavvot' 6 ydg 'AgiGxo  ov y <x p, olfiat. Olfiat  rerbam haud raro modestiæ indicium est, indicatque, qui eo utitur se nnimi iudicium pro opinione  haberi velle. Nostro loco non sine  acerba ironia adhibitum est, cuius usus exemplum est Piat, de  rep. I. 337. A., ad quem locum vide Stallbaumii annot.   <p po vrj pax a peydXa  fc 5 v upxopiroor. Minus  apte Sdileierroacherus convertit:  grosse Einsichten. Amore  efficiuntur potius atque procreantur elatiores animi h. e. grossartige, kiihue Gedanken. cfr. Mejæx.p.239. fiu. cj v 6 ptr np&XoS, KvpoS, l\£v$FpGo6aS TllptiaS rovs avrov TtoXlzaS tgj  avrov <p povr)fLaTi cepa xai  rot)? diuitoTaS MifiovS idov Xoodaxo x. r. A. Pro tgjv apXOpivoov io aliquot codd. reperitur r diS apxopirotS, quo casu  Plato non usus est, ut duplicis dativi vel ambiguitatem vel  simplicitatem vitaret. Ne mireris autem lyylyvt6$ai verbum  siæ dativo positum esse: paullo  infra legitur o 81} paXiOxa cpiXu 6 *EpcoS ipzou.lv. Adde,  quem locum lluckertus laudat  Piat, de rep. V. 464. D. tjSovdt re xai aX yijBovas ipzoiouvtaS }$la>v ovxoov idlaS.   o 8 1 } pdXi6x a epiXei,  Adhiberi solet singularis numerus  pronominis relativi, quando ad  plura nomina refertur, quæ plurali numero posita sunt. Ultra  pluralem numerum egredi non  licuit, igitur singularis repertus  est generis neutrius, quo præcedentia comprehenderentur,   ra re dXXa narra. Annotat ad hæc verba Schleierroacherus: Dieses andere al  les kann doch nur Philosophia  tmd Gymnastik sein, uud fur  diese wenigeu Falle ist der Ausdruck etwas zu reich. Allein,  wo so viele Biicher alie schweigen, und die Nothweudigkeit  nicht sehr dringend ist, da ist  andern vorwitzig. Eine solche  Nothwendigkeit scheint aberwobl vorhunden zu scin. Igitur pro  narra V. O. scribendum censuit  xavxa, quam couiecturam Riikkertus vulgatæ scripturæ præfert. Monet contra Astius: sensum esse verborum: præ ceteris  omnibus maxime amor. Hoc explicandi genus et Stallbaumio  placet, et nobis probatur. Pausaniæ mens hæc est: nihil esse, quod non odium moveat tyrannorum, philosophiam, gymnasticam, musicam, poesin  alia hoc genus: nihil autem mugis illis invisum esse, quam puerorum amorem, quo iuprimis  elatiores animi, firmæ amicitiæ  atque contubernia efficerentur.   xax iXv6 ev avrcov rrjv  dpx V v ' Pausaoiam h, 1. in historia Pisistratidarum errasse primus, ut videtur, Abrah. Gronoytltovog Hq<os xcu tj 'Jgfiodlav tpMu filfiaiog ytvofiivt/  xctttXvOtv avrdv xfjv KQ%i)v. ovuog, ov fiiv al6%Qov  tte&i] xaQi&e&ai £Qct<Staig > naula rdv ftipivav xuxcu,  xdv fitv aQxovxov it Xtovd-ia, rdv Si ciQxofiivav avav- W  8(/ia' ov dg xaXov aitldg Ivouia&rj, Sia xyv rdv 9e- vins rectissime docuit in annotat,  ad Ælian. V. H. XI. 8. Tantam eaim abfuit, at interfecto  Hipparcho libertas civibus Atheniensibus redderetur, ut potias  Hippiæ tyrannis durissima secuta  sit. cfr, Thucyd. VI. 54. Neque  hic error solius Pausaniæ fuit,  sed Atheniensium fere omninra,  qui ob libertatem restitutam Harmodium et Aristogitonem summopere colebant. Sic in spolio nobilissimo, quod apud Athenæum  exstat XV. 695. B. dicitur: Ev pvptov xAordl to BiitpoS  (pOf)lf Ogj   &SitEpApp68ioS x *Api6xoyeircav,  ore rov xvpavvov xxavlxj/v  ItiovopovS r *A$ tjvaS licoirj6dxrjv. Nihil igitur mutandum, neque  interpretatione xataAveiv verbi  potestas mitiganda est, qua aperte  indicatur, Pisistratidarum dominationem funditas eversam esse. Restat, at paucis dicamus de verbis fiifiatoS yerdfiim/, quæ opposita esse videntur xaxeAvOev  verbo. Minus placet Schlciermacheri conversio : denn des Aristogeiton und Harmodius zu einer  festen Freundschaft gedieliene  Liebe zerstorte ibre Herrschaft.  Converterim equidem potias:  Denn so wie die Liebe des Aristogeiton and die Neigung des  Harmodius Halt und Festigkeit  gcwonneu hatte, stiirzten sie die  Herrschaft der Tyrannen. Ka  xeAvdev autem dictam est, non  xoneAvdar, at significantius indicetur, nou viros ipsos, sed animum elatiorem, qui EX MUTUO AMORE natus sit, interitas auctorem fuisse.   xaxiac rc ov 5 epiv cov. ol  Siperotf ut sequentia docent, et  tyranni sunt, et ii, qui tyrannis  sublecti sunt. KetdSai, de tabulis  solenne, quibus leges inscribebantur, de more dicitur, qui hominum pectoribus intixus est atque  quasi innatus. rijs i>vxy S apyiav. Sapra dictum habes: tva f oipai,  pr) npaypax ixatit A oya> nei pcopevoi TCeiSnv xovS viovS.  Recte igitur apyiav xijS tyvxijS  converteris: Tragheit, Stumpfheit  des Geistes.   'Ey$ vpTjSivzi y ctp. Hia  verbis quid respondeat in proximis, non reperies. Igitur Pausaniam inceptæ verborum structuræ oblitum recte existimaveris, ut Stallbaumias censet, qui  Ex hoo loco, inquit, Pausaniæ ingenium plane cognoscas,  qui plurimis sententiis coacervatis magooque cnm studio collectis deinde inchoatæ structuræ  adeo obliviscitur, ut videatur ia  alia omnia abiisse, donec ad extremum in memoriam eorum redeat, de quibus ab initio coepe rat dicere. Nos Stallbaumio  clementiores oratori nou præmeditato largiendum esse ceu  I   fdvcav TTjS *l>vxrj$ agylav. Iv&ude Sl itokv tovxcav xctkXlov vevofio&iTijTcu xal, SjtEQ tlxov, ov {tudiov xatavoijCui.   Cap. X.   'Ev&vfirj&Evu yccQ, ott Ityecat. xaXkwv r 6 tpavE* ptag Iq&v rov lu%Qa, xal fuxfooxa vav yEwmotatav   semus hoc, at interdata, sententiarum accedente mole, quæ meditatione in ordinem non digesta  sit, ab incepta structura oratio  deflectat. Æstu sententiarum  refrigerato Pausanias ad orationem suam revertit p, 183. C.  rauxy plv ovv otySeirt av xi$  x, T. A. ut eum dicturum fuisse  colligas : <pi\odo<pla$ xd piyidta  xapnotx dv oveldrj, ndyxaXov  6 o£eiev av vopigedSai iv xy8e  xy ndXei xal xd ipdv xal rd  <pi\ov$ yiyvedSai xois ipadxcaS.   rd q>avEp&$ ipdv rov  XdSpa. Aperte amare pulcriua  esse, quam tecte amare nusquam,  si lionc locum exceperis, apud  Platonem commemoratur. Consentaneum, est autem, Athenienses sic consuisse, ut ab improbo  bonus amator facilius discerneretur. Convenit cum nostris  verbis, quod infra legitur 184.  A, rovrovs 87} ftovXexai o ypitepoS vopos eu xal xaAdoS fiatdavi^Eiv x, r. A. In sequentibus yervaidraroi iuvenes intelliguntnr nobilissimo loco orti ;  aptdxoi sunt, qui optima indole gaudent, aldxlovS autem epitheton de corporis, non item de  animi habitu accipiendum est.  Sententia verborum est; Dicitur  h, e. censetur ( nara Xiytxai  eiusdem h. 1. significationis est    atque vopi^exat, neque dubiam est, quin hominum iudiciam tangatur, quod vopoS a Pausania  vocatur, vid. annot* 100.), dicitur igitur pulcrius esse aperte quam tecte AMARE iubetnrque AMATOR AMARE quam maxime fieri potest, nobilissimos atque optima indole præbitos, etiamsi minus formositate excellant. ovx &S tl aidxpdv 7CoiO vvxi. Stallbanmius hæc verba  arctius cum præcedentibus coniungenda censet, quæ hanc in se  . » h   sententiam contineant: xal oxt  7) napaxtXzvdiS rrJ ipdUvxi napdt  itctvx&Y ylyvtxai ok $ av p a dxov xi itoiovvxi, Displicet  hæc explicatio duabus de caussis } primum aliud quid sensisse  Pausanias perhibetnr, quam qaod verbis expressit, deinde si ponas,  cum ita sensisse, admodum frigent sequentia xal itpoS xo ini XEipelv i^ovdiav 6 vopoS  6 £8 coxe rej ipadxy Savpadxa Ipya ipyaZopevcp iitat VEitiSaif de quorum verborum  sensu mox dicetur. ' Verba ovx  <yf xi aidxpov 7Xoiovvxi ad rc3  ipwrxi pertinent, apposita autem  sunt propter napaxeXevdiX  padxtf verborum ambiguitatem.  JJapaxiXsvdiS enim et iis fit,  qui aliquid facere jubentur, et  iis, qui aliquid ut ne faciant,  admonentur. Possit igitur li. 1.  xal agldtav, xav al6%iov g cUrav wGi, xal ori au tj  xagaxblevG ig ta igairu maga jcavtav davfiaGz!] ov%  ag %i al6%gov itowvvxi xal eXovti te xculor Soxtl  ilvai xal (it/ slovri alti%g'ov, xal ngog ro etii^uqhv e  tkuv i^ovGlav 6 vouog dlSaxt tcj iga&ty &av(ia6ta  %gya Igyaifiiiiva tnaivEiG&ai, a ei ng roXfup// tcoleiv  aXti Iruovv diaxav xal povXuuevog biaitgalaa&ai icXr/y 183    re» ipiUvTi xapaxiÆvdiS etiam  ita intelligi, at uoa amplius AMARO AMANS iubeatur. Sed ne hæc verba sic intelligerentar, Pausanias ovx fifr xi aldxpdv noiovvxi  verba apposuit* Sententia totius  loci hæc est: Si quis reputat   apud se, ingentem ab omnibus cohortationem fieri amapti  non quasi turpe aliquid  faceret et q. seqq,   xal kXovxi xe xaXov,  K venatione repetuutur verba in  re amatoria usurpari solita; qui  amat, duaxei, si res succedit,  alpel XOV ipcopevov, AMATUS  aXtdxexai. Riickert* N 011 sine caussa iisdem venatoriis verbis  Plato etiam de vero indagando  utitur, cuius usus exempla non  rara sunt. cf. Stallbaumium ad  Piat, Phædon, C6. A. Ceterum cum eodem Stallbaumio e  præcedentibus verbis dxi particulam repetere nolumus; etenim  iam his verbis Pausanias ab incepta structura verborum deflexisse videtur. xal 7tpoS x 6 iittxei pstv  ZitaiveidSai, Non caret  hic locus difficultate. Stallbaumius verba convertenda censet:  et quod attinet ad studium amasii capiendi etiam laudari licere quamvis AMATOREM mira  lacientem. Quæ conversio e duplici vitio laborat, quorum alterum  est in male intellecta 7CpoS præpositione, de altero paullo iufra dicetur. Certissimum hoc est, atque xal ante „ xe xal  vocula posita probatur, verba  kXovxi xe xaXov 8oxel elvat,  xal p?} kXovxt aldxpoy posita  essp, ut confirmentur præcedentia ovx ri aldxpoy Ttoiovvxi.  Interdum enim Græci, qnæ addita caussali particula proferenda  sunt, præcedentibus copula adhibita annectunt. Possis igitur  verba convertere: nicht, ais   vena er etwas hassliclies tbate,  denu wer Beute fing, dem wird  Lob zu Theil, dem beutcloseu  folgt Sclimach. Recte igitur post  Savpadxri et post aldxpoy lineolas posuisse nobis videmur,  quippe quibus legentium oculis, quæ enuntiationes arctius  coniungendæ sint, indicetQr. Iam  non dubium est, quin verba ori  av rj TzapaxtXivdi? rw tpajpxi  napa ndvxQjv Savpecdxij de  studio amasii dicantur, quod infra vocatur xo imxsipEiv kXetv.  Non verisimile igitur, Pansaniam  cum cohortationem amatoris commemorasset h. e. cius, qui cupiendi amasii cupidus est, itu  perrexisse: xal itpd? xd iiti Xeiptir kXetv et quod attiuct  ad studium amasii capiendi» Desideratur nimirum rovro, [(piXotSoyiag'] ra (ityiata kccqi rott av ovsidrj. tl  yag »; X9W a ra fiovlofiBvos i tagd rov lafieiv fj ccQxr/v  ag^ai i j tlv akXrjv dvvctiuv idtloi xouiv ola neg ol    yi particula, qua respici indicetur  ad id t de qno iarn sapra dictnra  sit: xai TtpoS ye x 6 Imxetpety  ?(. x. A. Non parvi æstimandum  Astii evpTjftat, quo illud desiderium mitigatur: xal npoS x<p   tjnxnpuy kXeiv x. x. A. Cave,  tamen coniecturam aliquam probes, ubi codd. lectio commode  explicatur. Rectissime autem  Ficinus verba convertit : Ad AMATUM sibi conciliandum; codcmque modo Schleierm icherns:  u m den Versuch z 0 ' m a i- heu, ob er i'lin gewinnen  konue. Quod verba attinet  t&ovtitay 6f.6g. ixf lucuveraSctij mira Stallbaumiana explicandi ratio, qua lex permittere dicitur AMATORI AMANTE AMATO,  ut laudetur. Quamquam satis intelligitur quidem, quid sit, quod  dicitur permittere alicui,  ut laudetur, tamen non laudabilem hanc dictionem merito censeas. Non autem id agit h\x  ad augendum amasii capieudi studium, ut, quamvis mira faciat amator, tamen eundem Inudandum censeat,  sed ea sine dedecore facere permittit, quæ si  quis alius h. e. non amans  facere auderet, summopere vituperaretur. Positura igitur participium pro' infinitivo est, infinitivus participii  Jocum obtinet notissimo Græcorum usu, qui iam apud Homerum haud infrequens. oS xenia rroAA* Ip6e6xtv  t'5ci)v pro oS itoAAa xaxd ipGuv Proprie igitur Pausanias dicturus erat: xal TtpoS  x 6 litixtipcty kXely iZovdlccv 6  YopoS SlSwce xg> lpa6xy $avpa<$td Mpya i py agetiS ai xai  ( sc. dldooxe ) litatvFitiSai lit\  xovtcj . Ad 816coxf e præcedentibus ne l£,6v6iay nomen addendum censeas, videunnot. 89.   [ip i\o 6 oq>iaS] x a plyi~  6ta xapitotx’ dv oyeidtj.  Uncis inclusimus <pi\o6oq>iaS  nomen, quod nullo modo ferri  potest. Idem Bekkerns fecit rectissime. Stallbaumius, ut veritatem illius nominis probaret» verba convertenda censuit; quæ  si quis faceret alias, eruditorum maxima acciperet opprobria. Sed agitur  hoc loco non tam de eruditorum  indicio, quam de totius populi  existhnatioue, neque aliud tangit  Pausanias, nisi roV TtEpl XOY  "EpeJta vdpor, ad quem con•titiieuduin eruditorum iudicia  aliquid conferunt tantummodo,  non omnem constituunt. Iam  quæritur, quo modo hæc vocula  iu textam irrepserit. Diximus  de hære in Commentat. de Syrapos. Platonis, ad quam lectores  ablegamus.  7 / t iv* aX \ tj v &v vapiv.   Uniusmodi zeugmata non rara  sunt apud scriptores Græcos,  quotidiani sermonis indicia, non præmeditatæ orationis ornamenta. Idem dicendi genus ROMANIS in usu fuit, siquidem apud Terent, exstat in Andr. Quod plerique omnes faciunt adu ' lesccntuli ;   tQtttiTtti ngog ra naiSixd, Ixttflag te xtd dvTifioXriOug  iv Tcclg dirjdiCt noiov/itvoi, xal opxovg 6 /ivvvrcg, xal  xoifu/O sig in i frvQtug, xal i&iXovtag SovXtiag dovXeveiv    Ut animam ad aliquod studium  udiungaut, aut equos Alere, aut canes ad renandum, aut ad philosophos,  Horum ille nihil egregie præter cetera  Studebat. Idem dicendi genus patillo infra  recurrit: xal xoipr)6etS ini 5vpai$, quo loco frustra xotpGopEvoS Bastius addendum, Riickertus  transponenda verba esse censuerunt. Alia ratio est Piat. Apol. S.  23. D. xccvxa Xlyovdiv, oxi x a  /.UTc&pa xal ra vno jniS, xal  SeqvS /«?} vopi?,Eiv xal xuv yxxo 0  A oyov xpeixxGO n oze/K, quibus  verbis variæ hominum susurra**  tiones ielicissime depinguntur  adiuncta simul temporis, quo  edebantur, diversitate. Ac temporis quidem diversitatem mutatio structuræ indicat, fiuitorum  verborum omissiones hominum  opinantium, hæsitantium, aliquid aut nihil  scientium sermones depiugunt.  Brevius de eadem re et significantius, adde sis lepidius, Socrates  loquitur Apol. S. 18, B. ipov  yap ttoAAoi xaxrjyopot ytyoradi npo 1 » vpds, xal naXai  itoXXa 7/drj Hxtj xal ovSlv aXeA eyovTES7 quibus verbis et  multos iam annos accusatores  exstitisse dicuntor nihilqoe veri dixisse; his tertium additur, quod  verborum sono Socrates assecutas est. Dixit nimirum itaXai jcoXXayjSijecrj, quod sonat ut  natJcdXtj, atque vanos accusatorum susurrationes rumoresque  lepidissime describit. xal o p no vi d j-ivvvte?.  Num iureinrando non nisi amanti  uti licuit? Quid, si quis pecuniam ab aliquo sumsit, non debere censendus est ad reddendum  se inreiorando obstringere ? Aut  qui rei publicæ administrandæ  præponendus est, eine cives se  iniurato subiicient? Non dubium  est, quin upxovS dpvvvtES de  periurio inteliigendum sit, quod  iu quavis alia re turpissimum, IN AMORE, e Pausaniæ certe sentent a, maxime excusabile est. Quæritur autem, qui possit opxovS  o/.ivuvteS periurare significare, Pluralis numerus upxovS  indicat, ut videtur, iusiurandum semper in ore gerere, at, quicquid dixeris,  eodem confirmes. Hoc qni  faciunt, iurmuraudi sanctitatem  non magui æstimare solent, eodemque haud raro confirmare,  quod est fulsissimnm. Iliuc factum, ut upxovf oprvvrfS haud  raro peri uros significet.  xal xoipijdeis ini 3*JpaiS. Amatores pernoctare solebaut ante fores amasiorum, ut  severitatem eorum misericordia  adhibita/ infringerent. Notum  Nasonis præceptura est:   Auto fores iaceat; crudelis ianua!  clamet»   xal eXoyt af 5oijA eiaS 8 ovXevetr, Vulgo  l$£\ovtdS legitur, quod immerito Astius in iSeXorxai immutandum cenauit, Recentiores edi*  tores ad unum omnes /SeXoi'T£S  probaverunt, quod plurimorum  ”3*. olag ot56’ av dovlog ovdelg, l/ixoSt£oito av ftrj it patii thv ovtci tjjv XQcrhv xal vito (pD.av xal vtcd effipav,  t(5v [tfv vveidi^ovrcov xo kaxdas xal KveÆv&epias, tav  de vov&etovvtuv xal ala^wo/ilrm’ vnep avtcaV ra 6’  fpuvn navta tuita noiovvu %a.Qi s iitedti, xal dtdotai    codicum auctoritate confirmatur,  u Stullbaumio autem ita explicatur, quasi positum sit pro  xal iSeXovzl SovÆiaS 8ov~  ÆvovxaS. Eius videlicet loquendi  normæ memor est, de qila diximus  p 106. Præplacet nobis i%eAov~  xaS, quod arctius cum dovXevetv  iuhnitivo coniunctum notionem  c ilicit iSeAoSovÆUtS, quæ infra  commemoratur p* 1S4. C. avtjf  av i/ i5tAo8ovÆla ovx ai6xpd  tlvai ov8s xoAaxda. Adde præterea i84. B. c Zsnep ini xolS  ipadxaiS fjy dovAtvetv iSeAoYxa  ifYTivovv SovÆiav x. r. A.   ijnt o 8 igoiT o av pj)  7 T pdx r eiv Impediendi verba  vel cum solo infinitivo exhiberi  soleut, vel addito infinitivo, qui  cum jn} couianctus est, si impediri significant, ne quid  t‘i a t. Contra ubi cautio indicanda est, ne fiat, quod iam  sæpius factum sit, infinitivus  cum prj et articulo* exhibetur.  Exemplo e$t Thuc. III. 1., quem  Incani Riickerti industriæ debeo,  flpyw xo J17J TtpOE^lOVlLXS XWV  OitAojy xd iyyvS rijS 71 u ÆcoS  Xtthovpytlv.   xal aldyvv o ji iveay vnlp  (xvttv y- lTep\ ovtcHv B ii cicer to  videtur non ad actiones referendum esse, quas aliquis commisit,  sed ad homiuem, a quo sunt patratæ, Habet hæc explicatio,  quo so commendet, neque oilicit  eidem pluralis numerus, ad quem  a singulari numero Græci solent  interdum transire, Præplacet  tamen nobis ea explicandi ratio,  quam cum ceteris interpretibus  Schleicrtnaclierus recepit. Verba  convertit: indem dieso ihm   Schmeichelci und INiedrigkeit vorwerfen, ieue ihn zurecht weisen und sich dariiber acharnen  wiirden.   xal Sedoxat t )ico rov  r 6 jio v dvev 6 v e 18 ovS np .  Prorsus eodem modo, quamquam verbis paullisper immutatis, 182. E. xal iZovdiav  6 vdpoS 8i8coxe rc3 Ipadxjj  Savjiadra ipya ipya? t opeva)  iitaiveidSai. Iu sequentibus pro  bianpaxxopLvov veteres editt,  codicesque pauci 8ianpaxropiv(p  ex 'libent, quæ scriptio quoniam  ad explicandum facilior est, quam  illa, minus est hoc loco probanda.  Possis conferre cum nostris verbis, quæ leguntur 182* C,, xal oxi av 1 } napaxiÆvdiS rc3  ip&vri napd ndvxoov Savjxac ni} ovx <*jS xi aidxpov noi OVYTl.   o 8 e 8 eiYoxaxov x, t. A.  Rarior hæc structura, eademque  oratorio dicendi generi apprime  couveiiieus ; vide Matth, Gramm,  ampl. 482, 806, Verba  convertenda suntvQ uod autem  gravissimum est, h o p est,  quod cet. Quæ sequuntur  verba, &S ye Akyovdiv ol noAA ol et ad præcedentia referri vxo tov v6(iov ccviv oveiSovg xquvcuv, wg xayxttXbv.  u jtQayfi a SiaXQcmofiivov. o di duvbtarov, Sg yt XtyovGiv oi jtoXXol, on xal opvvvti fiova Ovyyvatfii] naga  &ec5v ixfidvrt jwv oqxov ' utpQodiGiov yctQ opxov ov  (fdGiv elvcu. ovto xal vi &eol xal o i av&gazoi xaGav    possunt, et ad sequentia; quæritor, utra relatio rectior sit Ruckertus ad h. 1. Verba, inquit, gjS yt Atyovdiv ol itoXKol  non ad seqq. referenda sunt,  quasi dicat: quod vulgo dicunt  veniam esse cett., hoc enim ipse  sentit Pausanias pariter atque  vulgus, in eo autem discrepat,  quod vulgus hanc rem gravem,  admirabilem putat esse, qnipJ|  quod caussam ignoret; ipse auten^  gnarus caussæ, non admiratur.  Pertinent igitur hæc verba ad  adiect. 8tivotaxov\ Quod autem  gravissimum est ex vulgi quidem  sententia, hoc est, quod cet. Rectius quam Ruckertus f fecit,  Schleiermacherus et Astius de horum verborum explicatione censuernnt. Verba nimirum ojS yt  Xkyovdiv ol TtoXXol ad sequentia trahenda esse, ipsius Pausaniæ verbis, quæ insequuntur,  demonstratur. Dicit nimirum  d<ppo8i6iov yap opxov ov <p ceti iv elvccij a quibus verbis, quoniam suum indicium Pausanias  secludit, satis apparet, eundem  de impunitate periurii certe dubitavisse. Quid, quod Pausanias  183. E. turpis amoris indicium censet, si quis amasium  ætate provectiorem relinquat,  jcoWovS A oyovS xalvnodx&<> £1 * xqraidxvvaS,  umn verisimile est, eundem periurii impunitatem credidisse?  Certissimum igitur est verba cjS  yt Aiyovdtv ol zoAAol ad se  quentia pertinere, quibus ea præposita sunt, ut clarius appareat,  vulgus, non Pausaniam sic iudicare*   ixfidvti t gj v opxoov.  Stnllbaumius FJekkerum secutus  ut exquisitius tov opxov in textum recepit, quæ lectio Vindobb*  duorum est ; eadem apud Cyrillum adv. Iulian. VI. 187. reperitur. Sed minus placet numerus singularis, (vid. 107.)  et genitivi, quem plurimi codd*  habent, certissimum exemplum  Ruckertus suppeditat de rep. I*  538. E. tov tovtov ixfialvovra xoAd^oudir, Vix iutelligitur autem, cur Plato hoc loco  exquisitiorem verborum structuram admiserit, alio loco eandem  probaverit minus. dcppo8 i diov y a p opxov. Schol. habet ad h. U  d(ppo8idtoS opxoS ovx Ipnoi vipaS, ikl ttav 6i Hpt&TOt dpvvvtgjk itoXAaxis xal intopxovvtcov ptpvrfxai 81 tavti/S xal  'IldioSoS Aiyarv,   ’Ex tovS’ opxov £St/xev aptivova dvSpcoxoidt,  vod(pi8laov ipyoov ittprl Kvitpi 8oS.   xal TIA.d.toav iv. Svputodicp. cfr*  Aristænet. II. 20. 105. tov£  8h opxov? avrol (parh p?} itpoSTtikd&iY zois g )dl tgov Secor.  Adde Epigr. Callim. IX. v. 3*  in Anthol* Gr. Iacobsii. C llovtilctv ntJtoirjxatii tu tQavn, wg o v6(iog (prjdv o  ivftads. rccury [ilv ovv ohftdrj av ng nayxaXov vofiiet 0 &cu iv ryde rij ndXu xal ro igav xcc i ro xplXovg  ytyv£0&ai toig igaOtaig. insidav da naidaycoyovg ini CryOav rsg oi narigsg tolg igcsuevoig firj ico6i diaXsyeti&ca xolg igaCralg, xai ra naidayaytp rctvta ngogre- tofioCev' aXXd Xlycvtiiv aXifiia, ita aggressos est, ut 183. D.   rovS iv ipcoxi diceret: eif xavxa xiS av dpxovS pij Svvetv ovar is aSa- fiXitfuxS» His verbis ioest autem,   4 h * vutgjy. quod minos bene habere videtor.   ovtcd xa\ ol 2 eoi. Si Constat quidem, 5i purtjcnlam   non addita essent verba coS 6 adhiberi sæpenumero, ut ad   vdfioS (pjjolv d ivScide, ncmi- præcedentia orationem recurrero nem esse puto, qui Pausaniæ eaqoe quasi resumere indicetur, argumentationem non rideret. sed ita tamen noster locus com Colligeret nimirum ille e vulgiJkuratus est, ut foitiorem partide periurio sententia, eoius ve-^Ptulam desiderare videatur. Eauritatem ipse addubitare se osteu- dem in lectione vulgata habes :  dit, d«*os revera summam agendi eis 6r t xavxa XiS av ftX itpaS, • licentiam AMANTIBUS concessisse. quam recepissem in textum, si Addito autem d)S d vdpoS (ptj6iY plurimorum codicum auctoritas   6 ivSade nihil, quod reprehen- non obstaret. De pædagogis,   das, habebis. Ceterum discas ex qui puerorum et puellarum doliis verbis, qua potestate vofioS ctores fuerunt atque doctores,  nomen Pausanias exhibeat. Si- Stallbaumius laudavit Piguorium gniiicat enim nihil aliud, quam De Servis 116. seqq.   rulgi opinionem. ftif ico6i SiaXeyetiSai   xavxy /ilv ovv olrj^eitf x otS i p a6x ais . Ad senten av xiS. Si quis igitur reputat tiam quod attinet, nihil est in   apud se, pulcrum haberi xd ipdv bis verbis, quod reprehendas, ita, ut, qui amet, potitus amasii Dicuntur nimirum patres familias laudetur, eidemque iurato periurii pueris præficere, qui prohibeant,   poena apud deos nulla esse ere- no cum amatoribus congrediantur   datur, is dubitare non potest, quin coufabulenturque. Sed si ad   iu hacce civitate pulcherrimum cen- conformationem enuntiationis reæatur et amatorem puerorum esse spicis, duplici dativo offenderis,   et amatpri amasium gratificari, quem Græci scriptores perraro  iiteiddv 51 7t ai6 ay co - admiserunt, quippe osores acerbo vS. Plenius si dicere Pausa- rimi fortuitæ ambiguitatis. Unum nias voluisset, verba audirent exemplum huius rei ut afferam, ineiddv de xiS opii, oxi ine6xy- Plato insolei^iorem verborum   6av ol natepeS tjyijcaix' dv structuram admittere maluit, quam   x. x. A. Sed ipsam rem h, e, duplici dativo ambiguam oratio xo i7tt6xTjvat xovS TtaxipaS x. nem edere atque e nominum s^ x. A. non intercedente upa verbo millima terminatione laborantem  tayniva y, rjfoiudtTai de xccl eraigoi dveidl£co6iv, euv  xi ogatii roLovro yiyvofievov, xcd rovg 6 veidi£ovtag .av  oi 7tQS0pvtfQ0i (i?'j 6ucxco?.vcoCt prjdh koidoQcoCtv cdg ovx D  OQftug Myovrag, elg de ravta ng av fiAi^ag rjyyCcxLx av  naXiv td6%i6xov ro tolovtov ivftade vopltecftai.   Td de, oluca, cJd’ ov% ccTthovv iouv, onsg. C. OV tivjupfpu TOlS  a pxov 6 1 tppovijpaxa peydXa  iyylyve6$cti zoS v dpxopevcov, ad quem locum vide  annotationem 102. Nostra  verba quod attiuet, videtur duplicem dativum Flato admisisse*  ne nescias, amasios an amatores  confabulandi facultate privare  dicantur amasiorum patres. Quoniam autem amatorum proprium erat, ut loquendi cum  amasiis initium facerent, non  amasiorum, ut cum amatoribus:  optime Orellius pro xaiS ipa tirc&S scribendum esse vidit xovS  ipadxds,   z 6 6^, oi/utt,   To 8i poni solet, ubi ab opinionum falsarum mentione ad id,  quod rectius est et verius, tranaitur. Hinc re vera autem  verborum SIGNIFICATIONEM esse  Biickertus censet. Recte. Principium, inquit, hic usus duxisse  videtur, ab eiusmodi enuntiatis,  quale hoc nostrum est, ut ro 8i  revera esset illud autem, subiectique vim haberet suo in membro, quod deinde alterum exciperet d<5vv8ixG)X, at h.l., postea  contracta sunt in uuum duo hæc  membra, et quidem vel sic, ut  td maneret subjectum, quod ad  rem, de qua sermo esset, respiceret, suumque haberet subsequens prædicatum, vel at subiecti vim plane amitteret. xal ro3 naidaycoycp  r avxa xpoSxezaypera y.  h. e. and dem Fiihrer dies ausdriicklich xur Pflicht gemacht ist  sc. fttf idr xotS Ipcouf.voiS 6ia- }  AiyttiSaci xovzipatixdr. Iu sequentibus libri ad unum omnes  ixepoi exhibent, quod præennte  Heiudorfio ad Piat. Pbædr. 210.  plerique editores in ixalpoi immutaverunt. Schleiermacherus,  quem Riickertas secutus est, uimia cura, ut videtur, JVepot retinuerunt. Adnumerandus hic  locus iis est, quos summa constantia male exhibuerunt codd.  Vide p 21. annot, ad verba npo  6 xov.   ovx anXovr l6x\v y oizep  seqq. Respicit Pausanias ad verba  cap. VIII. TcaCa ydp' itpa£,iS  gj6* avtt) lq> ccvxijs TtpatTopkvTj ovxe xaXjj ovxe aiCxpd  d\\’ iv ry npa£ei, d>> av  npax^ift xoiovxor dnifir/. Fuerunt, qui uegutionem ante nr^Aotiv  positam uncis includerent tanquam ineptum scribarum additamentum; alii alia ratioue locum sanissimum emendare studuerunt, v. c. Astius eivoct omisso, quod in codd. aliquot non  comparet, scribendum censuit:  ovx chzXajS idxlr, onep IB, apXyS &\&x2V > ovxe xaAov avtd  xa$*avx6 ovxe aitixpov . Qoo  minus recte verba intelligerentur,  interpunctio impedimento fuit,  quam post iXix$V * n omnibus  £* aQxrj s IA s%fhj ovts xakov ilvca avxo xa&' atrto  (wtb cdaxQov, dXka xakug fisv ngccrrofievov xukbv,  altSxQag 6i cdtSxQuv. cdOxQajg (itv ovv iorl tcovj]qc 5 re  xal itovrjQhig %uQit,t d9ai, xakidg i5s jjpjjffroj te xal xæ koog. novrjQog d’ itsnv ixtivog 6 IgaOrr/g 6 itavdtjiiog,  o rov (Suficcrog fidkkov yj rijg ilwpjg eqdjV xal ydg  obSi /luvLjiog iauv, ars ovdi (lovlfio v Igav ngayfiarog' ccfia yag tcS rov Gcjjiarog av&Et foyyovti, ovjreji editionibus repertam delevimus. Subiectum enuntiati est ro <ptXelv s . ro x a pfe*i 1$oci ipatizaif,  SensOs est: Gratificar i amatori uoo simplex actio  est, quoad quidem stat i m ab initio actio per se  spectata nec pulcra esse  nec turpis dicta est, sed  pulcre acta pulcra, malo  acta mala est.   cti(S XP&Z p\v ovv * Hæc  est codd. plurimorum lectio, quam cum olhn io sequentibus  KOtXov 8s legeretur, in aldxpov  pev ovv immutavit II Stcphanus. Nunc illud codd. consensu  probatur, igitur xaXajS 6e scribendum est etiamsi non in quatuor codd. exstaret. Ceterum  non recte Stallbaumius ad al6xp&$ et xaXcjS censet e superioribus intelligeudum esse TcpazT6iv . Nimirum iu superioribus  181. B. seqq. Pausanias cum  de ipav actionis ambiguitate locutus esset, nunc eo orationis finem direxit, ut et de amasii  amore h. e. de tpiXtiv, quid videretur, ediceret. Sensus est:  'Hassliche Liebe nun ist  beim Liebling, wenn er  sich einem Schlechten  auf schlehte Weise e r giebt.   ixtivoS o ipa<5z?jS. Ille, de quo dictum est 181. B. Collocata verba ita sunt, ut necessaria articuli repetitio conteintum qnendam exprimat, quo maliim amatorem Pausanias atFiciat. Padem articuli repetitio honorifica est. E. xal ovtoS  itiziv o' xaXoSf 6 OvpdvioG, o  t rjs Ov pavias Mov6rjS "EpcaS*  Igitur neque honorifica neque IGNOMINIOSA SIGNIFICATIO ixeivoS  verbo cum duplici articulo conjuncto eilicitur, sed extollit tantummodo verba, quibus apponimur, quæ verborum sublatio pro  sententiæ ratione in bonam aut  in malam partrm accipienda est»  offerat ukotcz a pzv os.  Hæc verba ex Homero II. ^,71*  depromta sunt, ut primus Fischerus vidit. Reperiuntur eadem haud  raro apud poetas serioris ævi, ut  apud Mare, Argentar. 1.  opvi, zl fioi cpiXov vvtzov acptfp 7ca6a$ ; ?}8v 6h II vfifijjS  EidcDXoy xoizjjS (&x £Z dnonza.pevov. Ceterum quam bene Homerica  dictio rei describendæ conveniat,  iam vide. AMATORIS am^siique  coniunctio cum mimæ et corporis conjunctione comparatur, quæ  nisi coniuncta sunt, esse non  possunt. Amator igitur amasium  deserens levitate sua, quæ azco- I   i tjQct, ot %tT<u a7CoitT<x[isvoSj itollovq Zoyovg xal vitotf%E<SEig xcaai<S%vvug. 6 8 e rov ij&ovg %Qr}6 rov ovrog  egatirrig duc p Lov [ievel, ars iiovifico Gvvray.ug. rov rovg 8ij povlezca o rmitEQog vofiog ev xal jccdiug paGavltuv, xal roig ]itv %aQL($cc<sftcu, rovg 8s 8tcc<psv yuv. 8ta recura ovv tolg fuv duoxeiv itaQaxEXBV&caiy  roig $£ (pEvyEiv, ayavo&etdjv xcd Patiavl^cov jtoztQav  7toxs iGnv 6 eq&v xcd jrotEQav 6 6QcZtiEvog. alita 6q    ittdyevoG participio expressa.  Umbræ imaginem repræsentat;  amasius ab amatore derelictas  miserrimam conditionem ostendit  quasi corpus sine anima iacens. Sensus est totius loci : Denn er (o itdrdijfioS ) ist nicht  treuhaft, da er nichts  dauerndes liebt. Denn  mit dem Verwslkon der \  Bliithe des Korpers, die  er Jiebte, schwindet er  fiatternd daron nnd  xnacht viele Worte' nud  viele Versprechungen  z u ni chte .  r ovrovS 6 rj fiov\ st ai  seqq. Verba convertit Schleierm.:  Diese also will unsere  Sitte, dass man wohl and  rccht priif j, nndden einen  gefallig sci, die andern  aber meide. Iisdem fere verbis in convers. Symposii usas  est Scbnlthessius 75 Riickertus verborum sensum esse ait:  Velle legem explorare  amatores, facta autem exploratione pueros aliia  obsequi, alios vitare. Aliter atque doctissimis viris visum  est; nobis de his verbis statuendum videtur; sed ut Pausaniao  voluntatem fucilins cognoscamus,  brevi repetitione opus est sententiarum, quæ in eius oratione continentur. Athenis nimirum  legimus fuisse de amore legem  ambignam, cfr. 182. B. Eius  rei caussam esse, quod quævis  actio per se spectata et pulcra  esse possit et turpis. Actionem  enim non cx actione sed ex agendi ratione recte iudicari. » A. Hinc BONVM AMATOREM AMANTE AMATO, qui BENE AMAT, malam, qui male. A.  fin. Pari modo amasium malum  vocari, qui male se tradat AMATORI AMANTE AMATO, bonum, qui bene, cfr.  183. D. AMATOREM, Pausanias  pergit, ad persequendum amasium omni modo impelli lege Attica. D., amasium contra ab eius congressu retineri. % cfr*  183. C. Hoc quo consilio fiat, iam dicendam est. Utrosqæ  videlicet, h. e, et amatores et  amasios, lex Attica explorare  studet, atque bonis amatoribus  araasiisque favere, malos pellere.  Huic explicationi Græca verba  optime respondent excepto uno,quod de legis efficacitate dictum  admodum friget, Atacptvyeiv,  si quid video, depravatum est,  scripsitqæ Piato (pvyaSeve iv.   8ict roruta ovv toiS iikv  seqq. Totam hanc enuntiationem  delendam censuerunt Schiitzius  et Astius. Mitto aliorum coniecturas commemorare, quibus non  8  vxo rav tijs tijg atrius XQtarov [liv ro aXlGxtG^ai  ta% v altSxgov vtv6(u<Srai, iva %qovos iyyivrytai, og Srj  Soxti tu xo Xka xahas fieafavl£eiv ' ixura ro vito %qj]B [turav xal vxo xoXvttxav Svva/iitov aitovai (iIg%qov,  luv rs xaxcos xa6%cov xryfy xai /irj xaQtipyGy, av t  tviQyetov(iEvo$ elg ZQijfiara i) eis Sucxga^ei, g xohuxas    sonatur, sed corrumpitur locus  sanissimus. Mens Pausaniæ hæc  est: Um nun die Sinnesart  der Liebenden kennen zu  lcrnen, mnntett das Gesetz die Liebhaber znr  Verfolgung derLieblinge,  die Lieblinge zur Fluclit  vor den Liebhabern auf,  und ^ichtet nun and priift,  wes Geistes RinderLiebhaber uud Lieblinge sind,  ob sie zu den schlechten  oder zu den guten gelid •  ren. Eodem fere modo in conversione Ficinus : et hos quidem sequi iubet, illos fugere, diiud icar, s et examinans, quæ quis amet  et quæ in quovis amentur, Nam ex iis, quæ quis  amat, cognoscere possis, utrum bene amet necne,   ovtej 8 rf vxo x avxrjS  xyS aixiaS, Hac igitur, qua  dixi, ratione atque ea de caussa  sc. ut amantium ingeuia accurate  examinentur, vide annotat, ^  xpcoxov p\v xo aXl6x£~  6^ at. Statim capi atque teneri amasio dedecori est, quod  intercedente tempore nullo amasius de amatore indicare non potest, fierique potest, ut malo  se tradat.   oS 8rj 8 o x ei. cfr, Meleagri  Epigr, LXII. in Iacobsii Authol.  EItte AvxatviSi AopxaS' F6’ ok  £xixr)xta tptXovda   "HXgqZ. ov xpvxret xXaCrov  ipeota xpovoS.   xo vxo XPV t 1 *** cov aXdjvat. Divitiis atque  potentia in civitate capi,  h. e. si quis invenis diviti viro  et potenti se tradat, non qao  mores probet, sed quia* divitem  eum esse videat atque poteotem;  quod quibus modis heri possit,  in æqq. statim exponitur} membra enim, quæ seqnuntnr, iuueta  particulis iav xe  av xe, non  nova quædam continent, quæ  ubi locum habeant, torpe sit  amati obsequium, quem sensam  Astii versio exprimit, sed duplicem viam indicant, qua - possit  heri, ut divitiis aut potentia quis  capi se patiatnr, si aut male  tractatos ab amatore præpotente  reformidet, nec audeat fortiter  resistere, immo metu se submittat,  aut beneficiis pellectus non contemnat, sed tradat se homini,  qn» pecuniam det, in reboa publicis gerendis adiuvet, Riikkert. De xaxa(ppov?/6y verbi  significatu supra dictum est ad  87.   vxo noXtx txGov 8vydpec ov. h. e. spe magnæ in  civitate auctoritatis et  potestatis, vid. Wyttenbach.  ad Plut. de Ser. Num. Vind.  58. StaUb. Eodem modo posi- prj xctTCKpQovrjtffl, ovdlv yap 'SoxeZ rovtav ovrs fiiflcaov  OVTE fLOVLflOV ElVUl %dQl$ tOV fMfdi 7tE(pVxlvai ai£ CiVTCDV   yEwalav tpiklav. pia 8rj Ieltcstccl r<3 ^psziQtp vopcp  oSog, et (iskkeo nakng %ctQieZ<5&cu iQa&rjj jcaidwa. fifrt  yaQ rjpZv vopog, &Q7UQ Irii roZg iQaCtaZg ijv dov Xevuv i&tkovra qvtwovv dovkeiav icaidu&olg pfj xoka- C    tam habet 178. D. ovxe xipal ovte irkovxoS h. e, neqæ  honoram neqæ divitiarum futara  possessio, vid. annot. 60.   iav te xax&S zadx oav  X. X. A. Expressit hæc Phædrus  p* 178. D. hoc modo* ei xi  alOxpov zoidZv xaxaSf/koZ ylyvoixo 7f 7tCt6XG>V VICO xov 6i  avavdpiav prj dpvYopEYoS, ad  quæ verba vide annot, 61.   XMpif xov pijdl 7tE(p vxkvai . Recte Stallbaumius:  præterquam quod ne oritur quidem inde generosa  amicitia. Eadem dictio reperitur Symp. 173- C. xgo/jI?  xov ofedSai QotpEktidSai vnep<pvooS c oS X a tp°°* Exempla plura  huius dictionis Stallbaumius congessit ad Apol. Socr. 35. B.  fin, : x&P^S et r V s 8o5y*> cJ  dvdpES, ovSl Sinaiov fioi Soxei  elvai x, r. A $ikiav cave  latiore sensu dictam putes $ non  enim valet nisi de amasii erga  amatorem benevolentia, vid. annot. 69.   ' %6xi yap ijpiY vopoS  seqq. Hæc Verba, ut vulgo disppsita sunt, non nisi per anacoluthiam explicari possunt. Dicere debebat Pausanias : l6xi yap  rjpiv vopoS, Ssicep iitl xoiiS  ipadxalS tjy SovÆveiy ovtgo  xal uWtjy piav iiovrjY 6ouA eiav kxovdiov tivai x. x. A.  Acquiescentem, in anacoluthi*    Stallbaomium video, quæ in huius enuntiationis brevitate satia  molesta est. Displicuit eadem  et aliis, qui vario modo locum  sanare studuerunt. Aliquid vitii  verbis inesse videtur, sed non  mutauda verba sunt pia poY7f 9  de quibus Thierschius egit Spec.  Crit. 47. seqq. et Schæferus  Melett. Cr. 19. Plura exempla  attolitStallbRumius ad h. 1. Rectissimum est, quod in uno Bekkeri  codice legitur, oSitep pro daSzep\  verba hoc modo disponenda sant:  £ 6 xi yap i}piv vopoS t oSnep  inX xoiS kpadxalS 7 }V • dovkeveiv  kSkXoYta ifvnvovY dovXeiaY  itaidixols p?} xoXaxeiav elvat  pr/de £zoYEi 6 t 6 xoY * oyxeo 87 }  xal aXkrj x, x. A. Sensus est:  Lex nimirum nobis est,  quam AMATORUM esse supra diximus: Si quis quolibet modo serviat amasiis, eam servitutem non  ignominiosam esse, lam  nt amatori, ita amasio  etiam lex est eaqne sola,  quæ serviri amatori concedit  quidem, sed non nist ita, ut id  fiat virtutis ergo. Iutelligent  prudentiores, quid homo sibi velit. Apprime huc pertinet Xenoph. Symp. c. VIII. $ 32.   xaixot TLai) 6 aviaS ye, 6 *Aya Sgovo? xov TtoiTjxov £pa 6 xijS 9  dzokoyovpEYoS vnlp tgjv axpadia dvyxvXiYdovpEYODv, eZpijxev, coS xat dtpaxEvpa cifoa8 •  xdav dvv.i pijdl iitovtiduS tov, ovtco drj xcct alit] pia  povq Sovlda ixovdiog Idrttrai ovx htovdSitixog. avri]  di iduv rj xeqI zqv ccQBttjv.NsvopiGtca ya.Q drj fjpiv, idv ng t&ily uva &£QttJtevtLV rjyovpsvog 8i ixelvov apelvav HcBti&at, rj xcczcc  (iocplav riva ij xaza cillo oxiovv pigog dgszfjg, ccvrq  au % l&Elodovltla ovx cdo%Qd tlvai o vdb xolaxela.  ficorarov dv ykvotzo in nauSi xojv te xal ipadzcov.   i} nata dotpiav riva.  De latiore tiotpicxS significatu,  quæ qn\o6ocpia. paullo infra vocatur, vide annot. 34. Satis  autem erat dixisse: y Maza. 60rpitxv riva ij holS* onovv fiipoS dpEZrjS, Sed haud raro  Græci iu rebus, quæ genere  non differunt, specie discrepant coniungendis vtWoS  nomeu -addunt, quod qua ratione  fiut, infra docebitur. Exempla  sunt huius usus Symp. 188.  A. civ$pGj7toiS "Hat zotS aAXoiS  ZqjoiS T£ HCtl (pvzoiS. Gorg. p,  473. C. ZtjXgdtuS qqv nat cvdaipovt%dpevoS vi zo zaiv itoXtzdjv  xai z<yv aXXcov gtva) v. Alcib,  I. 112. B. xal al paxen ye  xal oi Sdvazot dux zavryv trjv  dicupopav toiS ze 'AxaioiS tux\  to2s aAAoiS Tpco6iv iyivovro.   %v /tftaleiv cis tavto.  Bene Riickertus, duæ, inquit,  hæ leges in unum quasi locum  conferendæ sunt, h. e. cura  agenda est/ ut harum legum utraque valeat atque observetur, quoties amatori puer se dedut, ut  ille nihil recuset facere atque  pati, quo dilecti gratiam consequatur, hic eo flagret sapientiæ  atque virtutis studio, ut cum fugiat, qui ad hanc nihil conferre  possit, contra qui virtutis auctor  sit, ci se tradat, nihilque, quo  gratus illi sit, facere recuset.   ro ipadty itaibrxa x a ~  pitiatiScei. Plerumque solet  duobus nominibus hoc modo iunctis articulus demi, si in universum de toto genere sermo  est cfr. Piat. Eutyphr. cap. IV.  dvodiov yap etvai zo vi 6 v  itazpi <dovov I xe&iivai. Symp,  1 84. B. cl ftiXXei xaXcvS x a ~  pul6$ai ipa&cy naidixet. Tw  ipcttizy autem, quamquam sensu  nou cassum est, tamen, quoniam  sententiæ rationi minus convenit,  præ pauciorum codd. lectione zo  ipa6zy postputandum est. Etenim non dispicias, cur suo  quisque amatori amasius rectius dicatur, quam iu universum amatori amasius gratificari.   otav yap e Is zo avzo   l f Sensus verborum  est: Weun uumlich Liebhaber and Liebling den eincu Zweck  vpr Augen haben, velcher sicli aus der Vercioigung ihrer hei- 6e Z Sfi xa vufia xovta ^vfificduv elg ruito, xov re  itegl t>)v mu8iQu6tiuv xal xov % egi t>)v epdotiotplav r t 1J  xal rijV aU.ijv dgtzijv, el fisXXn ^vafir/vai xaXov ytveOftcu xo IgaOrfj xtcadixu xagl<Sa(SQai. otav yag elg  r 6 tcvx o iX&coOiv iguGxrjg xe xal naiSixcc, vo/xov %% cov  ixaxtQOg, 6 (i iv %aQ(J5ayLtvoig xcadixoig vxi/geuav ouovv  Stxulag av v7tt]QBTBLV, 6 de xa xoiovvu avtov Corpov  xe xal aya&ov Sixaiag av ouovv av vnovgyelv, xal 6  (itv dvvafiivos elg tpQovrjOev xal xrjv aAXijv dgextjv £i\u(iaXXeO&ai, 6 Se Stotnvog elg nalSevOiv xal xijv aV.rjv e    derseitigen Gesetze ergiebt. Copiosius paullo infra 1S4. E»  dicitur: rore rodrmv ZvvioYtc av eIs x avtov xgjy ropcav.  Minus recte RiickertusJ Quum  enim conveniunt.   na l ti}v &XXrfv d p ex ?}y  Bivfi{jdXA.e6$ai. Verba transitiva, quæ vi quadam pronuntianda sunt, ut iis seutcntiæ  caput contineatur, haud raro absolute ponuntur. Verba convertenda sunt*, indem der eine in  Beziehung auf Weisheit und Tugend Befordcrer zu seiu verraag,  der anderc in Bezieliung auf Bildung und Weisheit Besitzer zu  sein verlangt ... Vide, quæ de  absoluto usu verborum supra annotata sunt p, 87. Eius usus  ut unum exemplum hic addam,  legitur Symp. 175. A. napov  naXovYtos ovn fæXei eisiEYca,  quo loco, quid differat naXe.lv  et naXeiY xivd, edocearis; rectius igitur, quam factum a me  est 27., verba convertenda sunt:  und ich rief mehrmols, h. e,  liess mehrmals den Ruf ergehen.   xox e 61 / eis xavxovX gdy YvpGDY. Wenn dann,  sage ich, dicse Gesetze zu einem    Zweck sicli vereinigen. di/  particula positu est, ut filum  orationis interpositis verbis abruptum rursum anuecteretur. Prorsus eodem modo 183. D. t.is  61 } xavtd xiS av (IXtipaS, ad  quem locum vid. anuot. 110.  Pertinet autem b. 1. tore Stj n.  x. A. ad, præcedens otocv }'dp  eIs tu avxo £A $a> 6 iv n. r. A.  Coniecturis verba frustra sollicitarunt Astius et Bastius.   B,v p it i nx Et xo naXoY  elvai . Phavoriuus : 6t>j.iitl Ttt E iy XiyErai nal xo tivpftaiveiy et s. v. 6v/iftE<SeiY : <5tyiiriittEiY • opov yEvk6Sai • oi  /uS? "Oprjpov trjY Æfciv nal  inz xi’xypd>Y aTtofiaGEWY tiSeadiY. Stallb.   tovxcj. Convertit  Schultbessius : Selbst sicli hieri n getauscbt zu finden, briugt  keine Sebande. Schleiermaclicrus, cuius verba Riickertus probat, exhibet in convers. : i n   diesem Falle. Ficinus verba reddidit; in hoc utique falli turpe  non est. Unice vera Stnllbaumii  interpretatio est: quum sic a f- '  fecti sunt animo. Errat  'autem Ruckeitus, xo ititcutaxu- <3o<piav maci&ca, r6te Srj tovtcov kvviovrav tlg xavrov  xav vofiav (iova%ov Ivrav&a fcv/ixlserei to xaX ov elvai  XcuSixk IqccG xjj %aQlQa6&UL, aAXofrc de ovda/iov. ini  zovToy xal Hganaxqfrijvai ovdiv alaxQoV ini fis rotg «XXoig nceifi xal i^anarafiiva alo%vvr t v tpiqa xal fitj. ei  185 yecQ «S tQaarjj ag nXovdicp nXovxov evexa xaQiQa^ievog  htanaxri&eiri xui ur/ Xafioi XQVf lccta ) ivcupuvivxog tov d$ai ad solam amasium pertinere censens, non item ad AMATOREM AMANTE AMATO. Etenim quæ sequuntur  exempla, quamquam non nisi de  amasio loquuntur, tamen simul  amatoris imagiuem involvant,  qui vel amasium frustratur falso  amore, vel ipse amasii studio falsissimo decipitur. Verba convertenda sunt: Bei solcher   Absicht ist selbst die  Tauschnng deseinenoder  des a"n dem nichtschimpflich. Bei ieder undern  Absicht dagegeu bringt  Lieben undLiebling sein  Sebande, mag nun einer  getauscht werdea oder  nicht.   lB,cntaTi\% elrj xal jxy  Xdftoi. Si quis spe excideret  h. e. si non acciperet. Igitur  xal h. 1 . explicativum est, de  qua vide sis Indices, cfr. Alcib. II, 143- c. 10. xaxov  apa  idrlv rf tov fieXxidxov  dyvoia xal xo dyvoelvSo fie Axidxov. Dc iusequentcava^nrW*'TOS Riickertas <K ava<paive6$ai f  inquit, verbum proprie significat  ex inferiore loco emergendo apparere $ hinc subito apparere,  dicitarque haud raro de iis, quæ  cum speciem quandam habuissent  antea, falsam illam, subito, qualia revera sunt, se ostenderunt,» Displicet hoc subito,  quod ne quis, verum habeat, videat Piat, de rep. VI. 484.  A. oi pty di} <piXodocpoi xal  ol /ii} dux /laxpov xivoS dieZeXSovtoS Xoyov /loyiS it co s  dve<pavTj6av olol eldiv a/ii poxepoi . Neque debebat Riickertus exemplum putare, quo  sententiam suam probet Symp.  213. C. eicSSeiS l€,aCpvi)S  ava<paived$ai onov iyoj di/u/v  r/xidxa de idedSat, quo loco  neutiquam abundat i%al<pv7jS  verbum,   XO y e avxov: quod ipsum  qttinet, quantum quidem  in ipsius potestate est.  Wolfius verba convertit: seinen Charakter, seine Gesinnnug, quod quamquam ferri  potest, tamen propter iusequens  to xa$ avxov etiam aliis  minus probatur.   ovdiv jjxxov aldxpov  h. e, non minus turpe est,  quam si AMATOR revera  dives esset, AMASIUS igitur non deciperetur atque pecuniam acciperet.   xav ei' xiS <»£ dyaSai.  De xav el particularum significatu disseruit Buttmaunus ad Demosth, Mid. p, 33. Nimirum  quoniam non nisi ad modum verbi  alicuius referri potest dv particula, conseutaneum est in fdr- Igadrov xlit/ros, ovdhv qzzov alexQov. Coxsl yng o  toiovtos xo ye avxov budet%eu, oxi svBxa %gyiia xav  oxcovv av oxaovv vxtyQtxoi' xovxo Se ov xakov. xaxd  xov ctvzbv 6r/ luyov xav el ug ®g aya&m jragvSafUvos  xai oevxos wg dfidvcav toofuvo g Sia X rjv epiHav xov  tQaOzov i^aitazri&tlT}, dvcupavevxos Ixdvov xaxov xal B  ov XExxijfiivov ccQtzijV, oncas xcdtj rj dxaxtj. doxei ydg    mula xav ei, av particulam ad  alterum post ei verbum pertinere, Igitur recte dici Battmannos ait xal, ei xovxo  itoioirjv, ev av itoioirjv et  6oxco jiot xav t ei xovxo  noioirjv, ev itoieiv, Interdum præcedente xav, quod od  apodosin refertur, verbo in apodosi posito av superadditur,  ut recte dicatur Græce tioxm  jxoi, xav, ei tovro itoioirjv,  ev av Ttoieiv . Nostro loco quoniam apodosin uon habes, ad  quam av particulam referas, caput enuntiati esse xai ei i£ait axrj $ eirj censendum est.  Et quoniam xal el conditionem  exprimit, qua revera fieri  posse significatur illud, quod in  couditione continetis, haud abs  re visum est scriptoribus av  particulæ in hoc dicendi genere  additamentum, quo possibilitatis, notio in verisimilitudinis notionem immutetur, Sensus est: Anfdieselbc Weise nun, wenu einer,  indem er einem sich ergiebt, ais  einem guten, um selbst. besser  eu wenlen, getcuscht wird (and  das kann gar leicht gescliehen and ist schon oft  geichehen), s. Gesetzt nun,  es wiirde einer wirklich betfogeu, indem er cett.   6ia rrjv qnXiav xov  l pati tov. Deerat olimroti ar  ticulus, quem ex octo codicibus  addiderunt interpretes. In annotatione Riickertus habet : s u am  caritatem erga amatorem,  Schleiermacherns : durch die  Freuudscliaft 'seines Liebhabers. Scbulthessius: durcli  seine Fren,ndschaft. Amasius, qui AMATORI sededtrrat, quem bonum putaverat, ubi frustra id  se fecisse videt, non caritate  erga amatorem deceptus est,  sed malo amdre amatoris.  Verba 6ia xrjv <piMav xov ipatixov prorsus repuguare videntur  iis, quæ de (piXiaS notione supra  annotavimus. Neque tameu  illic non recte iudicare nobis videmur, et commodissime huius  loci verba explicantur. Satis  notum est, viros, quarum ignavia notunda sit, feminas interdum  appellari. Exemplo est huius  usus notissimam Homeri dictum  'jixatdeS ovx ix* *Axcuol. Nou  minore, ut videtur, cum acerbitate virorum ignavia notatur addito, quod solis feminis laudi  est. Quis feminas dou laudet  in nendo subtemine diligentes?  at Herculem colo assidentem quis  uon vituperet atque derideat?  tpiXiav Achillis, Patrocli amasii,  summis laudibus eilert Phædrus  180, B. Alcestidis laudat  179. C., nam et amasiis et mulieribus propria <pi\ia\ vide anai xal ovzog t o xa& avrov StStj Xaxtvai, on uQEtijg  y svExa xal tov jleXztav yEVE<S#ai ndv av navtl tzqo%vfi7]&ehj ' zovzo Sb av nuvzav xakhdzov. ovzco itavrog ys xaXov dpiZTjg ivexa %uqI%e<5%(U. ovzog Idriv  6 tijg OvgcivLag &eov "Eqoq xal OvQaviog xal noXXov  utjiog xal xoXei xal USuircug, xoXXijv tx^iXetav, dvay   not., nostro loco amatoris  <pi\ia ita commemoratur, ut malam, effocminatum, turpem amorem siguificet. Similiter feminis  a serioribus præcipue scriptoribus ipcoS nomen attribnitur adhærente ignominiæ notione.  Caute igitur Phædrus, Alcestidis  laudans in amore virtutem, non  8i ipeaxa dixit, quo verbo omnis  laudatio misere periret in licentiæ crimen conversa, sed (pi~  "kicLY commemorat, qua parentes superarit mulier  fortissima 8 ia x6v*EpGJxa*   xal o v x exxTjpiv ov  dpexrjv. Prorsus eodem modo  supra dictum est 185. A, i£anazTjSehj xal prj Xaftot XPV~  / iaxa, ad quæ verba vide uunot.  Adde 185. C; apexijS y £v£xa xal xov fieXxiaov yevitiSaz  X. t. A. In sequentibus o/idoS  xdAjJ tj anati} verba convertenda sunt: tamen non ignominiosa fraudatio est,  ignominia cum fraudatione amasii non coniuncta est. Sic 184. E. ini  tovto) xal i%aitat?]$jjvai ovdlv  aidxpov.   Soxez yap av xal ovtoS*. Kai scriptor posuisse censeri potest ita, ut ad præcedens  8oxet yap 6 toiovxos Im8tlB,at x, T. A. respexerit. Habet tamen hæc dictio, quod  mihi quidem admodum displicet. Quid, si scripsit Plato Soxel yap  av xal ovz gjS? h. e. videtur  eoim etiam hac conditione i. e.  etiam si hoc ei contigerit, nt ab  amatore deciperetur, quantum in  ipsius potestate est, declarasse  satis et q. seqq.   ndvrcos: ye xaXov ape xij$ ivexa h. e. Hac igitur  ratione in universum pulcrum virtutis ergo amatoribus gratificari. In  permultis codd. yi legitur post  dpetrfi, quam particulam recentiores editores delerunt Riickerto  excepto, qui eandem in textum recepit. Particulam non exhibent Bodl., Vatie. Vindob., quorum librorum tanta auctoritas  est, ut recipienda particula sit,  si hi eandem exhiberent contra  ceterorum auctoritatem. Ut res  nunc se habet, particula delenda est.   ovroS’ l6tivot ijSOvpav ia$ $ eoi)”Ep gdS. Ut ovxa  haud raro significat: hac ra tione, qua dixi, ita ovtoS h.  1. convertere possis: Ecce talis est, qualem descripsi,  Uraniæ Eros, Quod sequitur OvpavioS nomen maiuscula  littera scribendum curavimus,  nomen enim revera est, non  adiectivum. Minus apte Schleiermaclierus verba convertit : Dieses  Ist der Eros der himmlischen  Guttin und scibst himmlisch.  v t£iki xatov, MlBltS&ai 3CQ0 S ttQEtifV TOV TS Iq 10VTU‘ ttVTOV C   ctvrov xal tov igcoftevov' oi 6’ ersgoi navus T ^S Btiqus, rijjs ITavSrftiov. Tama <joi, iipij, cog ix tov nuQu%Qrj[ia, (o <PaiSQB, nsgii "Egenos OvfifSuklofiai.   TlavOctviov Se navGafiivov didatSxovSi yag fis  Ida Xtyuv ovtadl ot Oocpot Igpjj 6 ^QiOzodrjfios    Alia ratio ndvSjjfiof verbi, qnod  supra 181. B. ut adiectivum  positam est : d fib' ovv t ljs  Ilcevdtjftov 'AfppodhijS coS a\?/~  itctv Si] fxo S idziv x.t.X.  Perfacile autem fieri potuit, ut  aliquis cum ovpavioS littera minuscula scriptum exstaretin codd.,  xat adderet, quo orationem, quam  censeret mutilatam, expleret. In  codd, nullum vestigium depravationis est, igitur ne uncis quidem voculam inclusimus, nimiæ  audaciæ crimen fugientes.   tov te ipcovta xa\  tov' i poS fievov . Post roV   ipco/ievov rursus iutelligas avzdv  avtov. Frustra Bastius et Astius  tov ipcopkvov scribendum putarunt: quod si ab ipso Platone  esset profectam, ordo verborum  hic, opinor, foret: tok ipajvxct  avtov te avtov xal tov ipoo pkvov. Nunc sententia liæc  est: Eros Uranius utrumqæ, et amatorem et eum, qui amatur, impellit et  cogit, ut omnem coram  ponat in studio virtutis  et sapientiæ. Stallb.  Eodem modo verba intellexit  Scbleiermacherus in convers.  405. *. indem er den Liebenden  nothiget viel Sorgfalt auf seine  eigene Tugeud zu weuden, und auch den Geliebten. coS ix tov itctpaxpT/ fia.  Schol. habet:, ix tov avxopatoVf ix tov itpoxeipov. Apposite Stallbaumius ad h. 1. Xenoph, laudat Hell. I. 1. 21. A £yeiv ta p\y anu tov nctpaxprjpof, ta 6h fiov\ev6atp£voi'S*  Non dubiam est autem, quin  additis his verbis Pausauias excusare voluerit orationem suam,  quam elegantiorcm atque politiorem edere potuisset, si ad  eam rem aliquid otii datum  fuisset.   Ilavdaviov 8e tfavdapkvov. De sophistarum irrisione hic agi, qui similes sonos  verborum studiose quæsiverint,  iisque orationem suam exornaverint, conseutiens iudiciom est  interpretum omnium. 9ed non  verisimile est, Apollodorum TIavdavlov 81 7Cav6af.ie.vov verbis  ita usum esse, ut ad Pausaniæ  orationem non respiceret, in qua  illius studii sophistici nullum vestigium reperitur. Præcellit  autem hæc oratio præ ceteris  verbositate, ut non videam equidem, quid obstet, quominus in  hanc verbositatem Tlavdavlov  navdapkvov verba directa esse  censeamus. Fuerunt, ut ipse  Apollodorus indicat sequentibus verbis, magistri dicendi, qui similitudines verborum discipulis  commendarent. Sed commendarunt eas ita, ut quibus aliquid efficeretur, quod modo indicatum  est esse h. 1. iuanis cuiusdam  verbositatis satis acerbum vita- 6'siv fiiv Agiarorpccvij Xiyuv, t v%dv 8e avta uva rj  vno srAijfffiov^s rj vito rivos allov A vyya liaitmraxvlav xal ov% olov re elvat Xiyuv, aAA’ tliteiv avii tbv iv z)j xarto yag avrov rov laxgbv ’E(>v!;!pa%ov  xcaccxeia&ai r £l ’EQv%l(ia%s, d mulos d ij itavOai    pcriiim. Non igitur illos dicendi  magistros Apollodorus carpere voluisse censendus est, ad quorum præceptum ipse verba sua  composuit, sed eos commemoravit tantummodo, ut eorum auctoritate dictionis iusolentiara excusat et. Restat, ut de conversione verborum Tlavdavlov Sl  navdapivov dicamus: Schleiermucherus exhibet; Ais nun Pausanias ausgesugt hatte. Schulthessius habet: Nachdem ntm   Pausanias pausirt hatte. Astius  verba reddidit: Nachdem Pausanias eudlich geendet, quæ couversio Orellio displicet, quod nimis longa oratione Pausanias  usus esse dicatur. Sed ea ipsa  de caussa Astiaua illa conversio  r.obis magnopere placet. Est tamen nobis, qnod Græcis verbis  mugis respondeat, quod si durias videbitur atque minus elegans,  non magnopere dolebimus, quippe  exhibituri, quod revera excusatione indigeret tg ov dotp&vx  Ais Pausanias nuu ansposaunt  hatte,   ovTGodl oi do <pol . TovS  tiocpouS dicendi magistros esse,  supra indicatum est. vide quæ  de docplaS notione annotata sunt   $4.   SI avrcp riva   ii vyya. Scbol, ad h. 1. varias  singultus caussas laudat eiuaque  sanandi modos studiosissime refert, quos hic repetere longum est. Unum hoc ex eius annotatione depromam, quo prndentiores de Aristophanis voluntate  certiores fieri possunt: zo rov  A vypov dvpnzcopa irtiylvezat  tgj dtopaxoo Sta 7t\ij pojdtv  rj xiv od div r) if>v % iv, iviote  xal dia 8rj£,iv Spipe arv  vypo)V xal (pappaxoaS&v zalS  noidztdiv. Pluribus de Aristophanico singultu dicturi sumus in  Commeut. de Symp. Platonis, ad  quam lectores ablegamus,   iv x y xdteo. Hæc est lectio codicum plurimorum. Vulgo  iyyvtdzcD legitur, quam lectionem Astius retinendam censuit.  Frustra. Non enim de vicinitate  hic agitor, sed de ordine sedentium; quandoquidem Eryximachus præcepit: Zxadrov \6yov  eltceiv hcaivov "EpcjroS ini 8e£,id. Sæpissime autem ivzoS,  iyyvS, iv x\j xdra>, iyyvrdzco,  similia, commutata reperiuntor in  libris, ut non defuerint, qui etiam  Lachetis loco ditficiliimo 187*  $• 13. iyyvzata vocem mutandam censerent. Beue tamen id  habet eo loco. Verba sunt hæc:  ov poi Saxeis elSivai, dzi ds  dv iyyvzata 2a)xpdzovS y  A oya>, c Zsnep yivet, xal n\r/—  Qid^y SiaXeyopevoS, quæ verba  quoniam nullo modo explicari  possunt, in hunc modum emendanda suut: ut; poi SoxeiS eiSirai, ori ds av' iyyvzata 2iuxpdzovS ift A oyoj, &snep yvvatxl nXrjdid^et SiaXeydpevoS, fis xijg Ivyyog, q liysw vxig Itiov, smg av iyd xavCafiai. Kal xov ’Egv£liia%ov slntiv, 'Alia xoiqe a  dfitpoTSQa tavxa. iyd fiiv ycig igd iv xd <5(5 fiigsi,  6v 6’ insUlav xavtiy, iv r a ifid' iv a S’ av iyd  liyca, idv fi iv <Soi iftihj dxvtvOxi l%ovxi aolvv %go  xa\ dvdyxij av ro3 x.r.X, Agitnr autem satis lepide de mulieribus, qui severissime in virorum suorum vitam inquirunt, neque prius ab interrogando atque  explorando desistunt, quam omnem  vitam, quomodo gesta sit geraturque, cognoverint. Verba convertenda sunt : Du scheinst mir  nicht zu wissen, dass wer dem  Socrates zu Leibe geht,« der  gleichsam mit einem eifersuchtigeo Weibe anbindet, und er  muss, wenn er auch vorher -von  etwas ganz andcrm zu reden^begonnen hat, ohne Aufhdren sich  von ihm im Zirkel herumfiihren  lassen, bis er sich endlich vervrickelt, und gesteht, wie er ietzt  lebt und wie er geiebt hat.   dixaio? el rj navtial pe  x. r. X. De SlxaioS vocis significatu supra dictum est 6,  Male Ficinus in conver», exhibet:  O Eryximache, tua tunc (nunc?)  iuterest. Ceterum dixaio?  h, 1, Eryximachus dicitur duabus  de caussis. Nam medicus erat,  ut siugultui mederi posset atque  a dextra sedebat, ut ad eum perveniret dicendi munus, si Aristophanes, quominus ipse loqueretur, singultu prohiberetur. Quæ sequuntur verba, eoo? av iyco  itavdoofiai abundantia quadam laborare videntur, quandoquidem personali prouoraine facillime carueris. Cave tamen id mutandum censeas aut delendum. Dicturus Aristophanes erat; Dicere tnte debes, donec  ego possim. Sed inter dicendum factum est et hic et  alias haud raro, ut, cum structura verborum ad verbnm comparata sit, qnod scriptor iu  mente habuisset, pro illo verbo subito aliud poneretur, quod cum incepta structura verborum mions  Cfcuveniret. Optime igitur se haberet scriptura hæc: 7/ Xlyetv  vnlp ijiiov 7 Eoo? av iyoo Xiyeiv  dvvoopai, sed non minus bene  dicitur Ego? av iyoo  rfau(S oo fica.   idv ftiv 6o i i$iXp   el /i r/. idv fiiv præcedente  scriptum exspectaveris idv 8i y  ut legitur iu Piat, Protag.  848. A. idv fisv fiovXy Exi epoo rav, Etoipo? elpi 6ot napiXeiv anoxpivopevo ? • idv  fiovXy, 6v Ipol ndpa6x£y nepl  co v petaS,v inctv6ape$a 6ie B,wvxe?, rovroxs’ reWtf iniSelvai. Passim annotatura est ab  interpretibus, el interdum poni  idv præcedente, eiusque rei caussam indicare studuit Engelhardtus ad Piat. Menex. 237,  ed. non satis, ut videtur, veterum scriptorum voluntatem assecutus: particulæ idv, inquit,  inest notio exspectationis manifestum fore, sitne id, tjuod hypothetice ponimus, necne. Si ergo  duæ res hypothetice opponuntur,  iam tufjicit, semel hanc notionem additan¥ esse, et quidem  priori membro, quia id prius po - vov ituviGftai v) Avyl' tl 51 (ilj, vScezi uvaxoyxvllæ Oov. d S’ aga itavv lo%vga Idziv, avaXujiijv zi zoiovzov, oim xivfacus av zqv (uva, itzagt' xal lav zovzo    nere solemus, quod nostra magis  interest ; superflua hæc notio in altero membro est.* Nos sic statuimus. Ubi idv phy idv  6e ponitur, duæ enuntiationes  hypotheticæ sibi æquiparantur,  in quibus, quod fieri ponitur,  idem facile fieri posse certis quibusdam de caussis exprimitur.  In æquiparandis enuntiatis veteres te T £ particulis sæpius  utuntur, quam fiiv - 8£ t igitur  sæpius idv TE idv te reperias, quam idv phv idv 8£.  Exemplum habes Symp. 184. B,  init. Pro altero iav veteres scriptores etiam si posuere. Sic legitur noatro loco idv phv sl Si, nusquam  cutem £dv te eX te reperias.  Colligitur inde, el post idv positum non eiusdem potestatis esse  atque iav præcedentem particulam, sed alius, quæ cum 8£ adversativo commode consocietur, non  item cum te vocula, de cuius  potestate supra diximus, conveniat.  Ut paucis dicam, iav poni aliquid  signiiicat,H|uod fieri posse cogitatur certis quibusdam de caussis, el cum adversativa particula  coniunctum exprimit id poni,  quod contra exspectationem revera contigerit. Ad nostrum locum ut revertamur, dicit Eryximachus : Vide, an tibi ditvtv  Cz l ixovTi h. e. animum reprimenti aliquod tempus singultus  abeat, (et credo, fore, ut abiturus sit, experientia edoctus)  sin vero minus h. e. wenn  dcrSchlucken aber gegen  ali es Erwarten wirklich  nicht weiclit..cf.Plat*derep, C. pvypeta 5*   avTOlf XOLL Svtiiotf TJ/V Tt6\lV  8ypo6la jtoieiv, idv xal ?} TIv$ia B,vvavaipy (neque dubito,  quin id factura sit Pythia) coS  daipodiv’ ei 8h py (&z.£,vvaivaipEi h. e. contra exspectationem non, revera non) eoS’ EvSatpoCi te xal SeoTZ, Hoc dicendi genus quid diflerat ab eI   eI oh pi/ sponte intelligitnr.  cf. Piat. Churmid. c, 14. Heind.  ed. 190. eI ovv Coi <pt\ov,  i$£X co Cxoieeiv pera Cov • ti  d£ p ?/, idv. Adde quem Stall—  baumius laudat ad PJat. Piiacd.  p v JB8. ed. Isocrat. Archid. 44.  #11. ed. Lang. idv phv yap  iSiXcopEv djtoSvjjCxEiv vithp  t&v dixalcov aCtpaXdjS yplv  iZtCTai r,ijv m tl 6h <pofiySyCope$a tovS xivbvvovs x. T. A,  Ceterum post y Xvy% supplendum censent ev %X £t Minus nobis placet hoc explicandi genus;  meliorem explicationem iu conversione huius loci dedimus.   v 8 aTt av axo yxvXladov. Schol. habet: dvaxoyx vXiuCai t 6 xXvtiai ryr cpdpvyya } d Xiyopsv avayapyapiCat .   oXoo x ivyC aiS dv Tyv  piva ♦ Vulgatum xivyCaiS,  quod codd. omnes exhibent, et  Athenæus servat V. 2. 187*  iv 8h Tofis xnto&yxaiS tov xap tpovS > tva Tyv piva xivy6a$  TtTapy, itapiypt % mutatum in  xvyCaiS apud Stob., Florii. Tit.  98. 542. reperitur. Eam lectionem cum aptiorem censerent  Wyttenbachius, Creuz. ad Plot. 2 noirj6]iS «Jfal ij 5lg, xal sl itaw 1 <S%vqu t<Sn, 3iav~  (Sectu. Ovx av cp&avois liyav, cpavai xov ’A QKScocpavi j'  ly w di Tttvra noti^a. Einuv 6rj tov ’Eqv!-!iikxov'  de palent,», Astius, alii, nemo  luit excepto Riickerto,. qui vulgatam lectionem defendere atque  in textum revocare auderet, Riickerto autem tutius visum est  retiuere, quod libri darent, a a tque nisi bonum, at. non  absurdum esset. Aliud nobis de vulgatæ lectionis præstautia iudiciutn est. Kivei v nimirum nou SIGNIFICAT solum movere, sed movere ita aliquid, ut id se moveat. Sic  iu AMORE verbum usitatissimum, adhibeturque, ubi aliquis ad nequitias allicitur, Pari modo in proverbiali dictione dicitur pijxiVEiv,  tov ev 'heIjievov videlicet, ne is,  qui moveatur, ubi motum se senserit, moventi molestias paret»  Iam vides xiveiv r?/V f)lva esse,  movere nasum atque -excitare  ita, ut se moveat h. e. ut oriantur nxappoi, Bekkerus xvjfdaio  habet, quod apud Stobæum legitur. Sternutatione mota  pelli singultum probatur Mippocr*  Aphor. VI. 13- t; 7to Xvypov £*opivaj ittapfiol iitiyEvopEvoi Auov6i xov Xvypov.   xal eI 7tavv l6xvpa  idxiv . De xal el et eI xai  part. ita disputavit Heind, ad  Platon. Gorg. p, 509. A., ut  negaret, couditionulis enuntiati  seutentiam mutari, sive xal eI  sive ti xai scripseris. Consentit cum Heindorfio Matth. Gr,  ampl. T, II. 1252. Nostra  verba etiam t um, si vel maxime pervicax sit, cessabit Eugelhardtus interpretator 5 rectissime idem de xal el et el  xal purticularnm discrimine disserit ad Apol. Socr. pag. edit.  196. Ex eius annotatione hæc  laudare iuvat: el xai rem aut  ponit, aut indicat fieri posse, ut  ait, ita ut latiue reddendum sit  quamquam, etsi vel quamquam fortasse. Kal eI semper de incerta hypothesi  usurpatur, quam sive ponit aliquis sive non ponit, tamen id  fieri oportet, quod in apodosi  ponitor. ovx av q> 5 av o tG Xiyoov.  Schol. habet: ini ccor eIg 5 T$paG ayovTGJV aZioatilv tivoG //>/7 tcj nipas iiei^EvxoS avx\j. Proprie verba significant: Mit dem  Reden kannst du nicht zu frxih  komme^ h. e. quin statim loquere. Hæc annotavi, ut liqueret, interrogandi signum ab hac  dicendi formula non abesse non  posse, quod in Phædone positura  est apud Stallb. p, 100. C.  akXa prjv, l(pr\ o KifirfG, coG  8 i86vtoG 601 ovx av cpSavoiG  itepaivav ;   eIkeiv 8\ tov 9 Epv%l/ iaxov . Eryximachus medicus,  qui nunc dicturas est, Acumeni  medici filius, Hippiæ auditor ana  cum Phædro aliisque fuisse traditur Piat. Protag. 315. C.,  Phædro AMICUM fuisse discas e  Piat. Phædr. 268. A., ubi  Socrates cum Phædro colloquens el xiG, inquit, 7tpoGE A$qjv t (3 kraipfp 6ov ’Epv%ifjiaxcp V ‘&^ 7tar P' t &VXQV ! 'Ahqv /.ievco tircW x.t. A. Cap. xn. AoxeZ roivw fio i ccvayxcaov tivca, timSi/ Tlav186 6avlag OQ^rfias htl rov kbyov xabag ov% txuvas aiteteXeGe, 6 s Zv ifis XEigaGftai teAos htifrElmn rc5 Aoj/gj.  tb fisv yag Saikovv tlvai xbv "Egara SoxeZ [ioi xaxaXco ? ov x Inavco?. Ex  Eryximachi sententia Pausanias  rectissime disseruit de duplici  Erote atque de utriusque dei natura, minus recte de erotica vi  locutus est, quæ vis latius pateat, nec solum in animis mortalium, sed etiam ia universa rerum natura eillcacissima conspicietur. Respicit autem, Stallba umius ait, Eryximachus haud  dubie ad nobilissimam illam et  inultis, ut videtur, posteris temporibus probatam sententiam vetferum quomndam FILOSOFI, qui statuerunt elementa totius  rerum universitatis inter se pugnantia per concordiam et amicitiam ( tpiXiav ) esse inter se  conciliata et in ordinem redacta,  vid. Arist. Metaphys. I. 4. et  quos laudant interpp. ad Aristopli.  Avv. v. 695. seqq.   zcAo? iniSslvai rc3 Ad' y<*>» * EitiSEivcti ex artificum   officinis depromtura est, qni eam  reliquum corpus sive hominis  sive animalis arte elaborassent,  capite ad postremum elaborato  caput imposuisse dicantur  simul atque opus ad finem  perduxisse. IJæc formula  iam apud Homerum reperitur II.  r, 107. tfjEv6xrj6Ei? ovd* av re  xiX o? /iv$cp imSfoeiS. Adde  Piat. Alcib. I. l^D. xov Tccv yap Ooi arfJthov xcov    Siaro?/juarGjy x JX o? inite^r/vat  avev i/iov advvaxov. Cratyl.  S95. A. xivSvvEvei yap xoiovroS xi? tlvai 6 'Ayapkpvcav,  olo?, a av dcZeiev avufj 6ia7iov£i6$cn xal jtapTEpEtv, riXo?  inniStl? xol? SoZatii di’ a pEtrjv.   oxi < 5 £ ov /iovov &6xlv  seqq. Schleiermacherus convertit: dass er aber nicht a Ilein iiber die Seelen der  “Menschen w altet in Beziehung auf die schonen,  sondern auch auf vieles  Andere and auch in allen  andern Dingen Quæri   potest primum, quid sit id, ad  quod, præter pulcros homines  Eros in animis hominum insitas  pertineat. Deinde si Schleiermacherianæ conversionis sensum  Eryximachus exprimere voluisset,  haud dubium esse potest, quin  dicere debuisset ov /iovov idrlv  in\ tat? Tpvxai? xcov av^peoTtcov ctXXd yioct iv xol? aX~  Xoi? Quoquo modo verba specte*,  distorti quid enuntiationi huic  inesse senties, quod deleto xai  post rtoXXa posito optime removeri potest. Verba nimirum per  chiasmum explicanda censeas, nt  non solum in animis hominum formosæ iuven—  tutis, sed etiam aliarum  rerum multarum Eros in  aliis rebus habitare dicatur. kag SicXla&KL' on 8s ov (tovov Ifiriv ini taig cjivya lg tav av&Qconav jrpog rov$ xcdovs, dii-cc xal tiqos  «AAa 3Coi-i.cc xal iv tolg ai.i. 0 tg, rolg re Oci^aGL tui/  ndvrav %d>uv xcd tols iv ry yy tpvofievois, xal, mg  fjtog tlntlv, iv nccGc tols ovGl, xa&toQuxtvaL ycoi  8oxa ix vfjs luTQLxrjs, rijs ryitxiQag TeyvySt wg (dyas  xal &av{ia<St6$ xcd ini ndv 6 fttog ttLvu xal xaz’ B    Posses etiam hac ratione verba  emendare: ort ov [IOVOV ini   x aiS ifwxcfis tgjv txvSfjQQitoav  xaz 7 tpos xov? JutXuvS', a XX a  xal npo? aXXa noXXa xal iv  toiS aXXoiS x. r. X. Hæc olim  scripseram. Sed neutra mutandi ratio nunc placet et omrfSa bene  habent, modo Moi post itoX Xa  positum non und sed aach interpreteris. /   co? Eno? elneiv, vide annot* 63- Schol. ' autem hæc  verba explicat: gg? maivExai, cbs  iv Xoycp sinetv, addmjue: xovxo  dxVM ar ^ £taz Kapa xois na A aioi? xal cJ s e in st v EnoS  xal eo? inoS einetv xal co?  ino? (pavai xal guS’ opavai  inoS, Exi dfc xal Sia pia? Xi~  %egoS ixtpcoveixai, olor goS <pavai xal as slneiv. drpial vei 81 x 6 avxo . ol 8s <pa(5iv  av xi xov co ? <p aiv ex ai xeiC$ai i f avxl xov ooS iv A oycp  e in Eiv . Converterim verba :  in den Korpern aller 1 ebenden Wesen und in den  Erzeugnissen der Erde,  und, ich vage es zu be haupten, in alleu Dingen,  Adhibentur nimirum verba ilia,  ubi aliquis aliquid dicturus est,  quod fidem hominum superare,  ipse sentit,   go? ftiyaS xal   6x 6 5. Stallbaumius in his, in  quit, ~co? significat nam, quippe, usu haudquaquom infrequenti.  Male. Præcedenti protasi, cui  apodosin Eryximnchus præmisit,  altera apodosis additur, alterius  potestatemquæ amplificat et  auget. Hæc verborum structura  ex oratorio genere dicendi depromta est. cfr. Apol. Socr. p,  20. C. o t; y ce p 8 rj nov dovye ov8ev xgov a XXgov n eptxx ox e pov np ay /xax ev opivov, ixetra xo6avx?j (pqprj  te xal Xdyo? yiyovtv, e i /ir/  xi Enpaxxs? aXXotov rj  ol noXXoL Compara cum his  verbis Symp. 211. E. xi 8i)xa,  iq>7j,oio[iE§a, sl xod yivoixo  avxo x 6 xaXov i8slv eIXi xptvE?, xa$ a pov, agtxx ov, aXXa /n) dvdnXeaov uap xgov te avSpoDnivGDV xal XP&p areor xal dXXi)? noXXijS epXvapia? $V7]T7] ?, a A A* avxo xo  Seiov xaXov Svvaixo  pov oei 81? xaxt8 Etv, Adde  Cicer. Orat, pro Rose. Amer,  e. V, §. 14. Atque ut facilius intelligere possitis,  ludie#*, ca, quæ facta sunt, indigniora esse, quam hæc sunt,  quæ dicimus, vobis exponemus,  quo facilius et huius hominis innocentissimi miserias et illorum audaciam cognoscere possitis et rei publicæ calamita- av^gajuva xal xara &na jigdyfiaza. ccq^oucu Se airo  rijg Icczgixfjg ktyuv, iva xal ngta^eva(iev zr/v zt%vi]v.   'H yag (pvGig rcov Oafirczav zbv Sutkovv "Egena  zovzov ex,ei. ro yag vyiig tov tidfiazog xal ro voCovv buo7.oyoviii.vag ezegbv re xal avvftoiov eozi. ro  Se dvopoiov avofiolmv izci&vfiei xal ega. akkog fiev  ovv o eztl za vyieiva egag, akkog 6 e b tjtl ra voOibSei. eCzi Si ), dgneg agzi JIavOaviag ekeys zoig    tem. Huic loquendi generi non  adnumeranda sunt verba Alcib.  II* 138. B., quæ sunt, qui  corrupta censeant ; sed ut clarius  videas, corruptelæ indicia ipsis nulla inesse, hoc modo disponenda  sunt : ooSKEp TOV OiSlnovv avzlxa (padiv ev&ad$ai xoAxgj 8ie->  A sdSai rd narpifia rovS vleiS’  l£,6v OVTCk) TC OV TZCtpOYTGDV aVTGJ  xaxoov anozpomjv riva tv£,a~  ti$cu, crepa npoS roiS vitap *  Xov6i xaxypdzo.   xal ini nav o5£o?. Ne  forte ad SavpadxoS supplendum censeas idriv et scribendum xal  cjS ini nav, tria dei epitlieta  sunt: magnus, admirabilis,  late potens. Dicitur cutem  ini nav xeivet pro ini nav  teIvov idriv vid. annot.  87. Sensus est totius enuntiationis: Dass er aber uicht  blosden See1en der Menschen in Beziehung auf  das Schonc, sonderu auch  i u Beziehung auf vules  indere auch den anæren  Dingen einwohnt, sowohl  den Leibern der gesammten Thierwelt ais den  Erderzeugniss e n and, ich  wage es z u sagen, a 11 en  nur vorhandenen Dingen,  glaube ich aus der Medi  cin, meiner angestammten Kunst, ersehen zu haben, dass ^ros s nnd wunderbarund ei n flus s reich  auf alles der Gott ist, so  in mgnschlichen, so in  gottlichen Ange1eg en h eiten. Ut n(#tro loco ab hominibus ad animalia, ab animalibus ad mineralia transitur, hæc  tria autem verbis comprehenduntur : ndvra z d ovra, eodem   modo in Riædon. 70. D. legitur : prj toivvv xar avSpGoncov dxonei povov rovro, aWa  xal nara Zwgdv navrojv xal <pv tgov xal BtvWiffidrjv. odanep  ix& yivediv, nept navtcov ideafiev, ap ovzojdl yiyvetat  ndvra.   iva xal n p ed fiev gdjjlev .  Explicat Schol. ad h. 1. npe—  dfiEvcopev npozipeopev, peyaXvYGOpEV. npEdfieveiv riva est  aliquem ut senem venerari, alicui ut seni primum locum attribuere. Non iniuria Phædrus dixit  Symp. 178. B. zo yap iv  rols npedfivrarov slvai  [ov]  rifiiov ; Eryximachus autem dicit: ut simul primi loci honorem nostræ arti attribuamus.  Kai enim ita explicandum est,  ut proprie verba audire dicantur:  iva xal A eycopsv nepl xovzcdv  xal npEdfie.voDfj.Ev x. z. A. (i\v clyadoig zcdov xaQl&Gftai rtdv kv&qcojt av, roig c  di axolaOtoig alOxgov, ovra xal Iv avroig roig GcSftadi roig fiiv dyadoig exkGtov tov Ga fiarog xai vymvoig xcdov yaol^iGxTui xai dii, xai rovro iGnv a  fivo/ta r 6 iatQixov, rois di xaxoig xai voGadiGiv alGxQov  r e xai dii dxaQiGrtiv, it iiii.Xu ng nxvixog tivai. tori  yctQ latQixtj, tag Iv xiipaXaia ilmiv, ixiGr^i] rav  rov Otoiiurog igamxav nQog xXtjGfiovTjv xai xivuOiv,    Itepor re xal avopotov.  Rectissime annotatum est ab Astio  et Stallbaumio, Thierschium frustra scribendum coniecisse PrzpoY  ti xal avopoiov. Nimirum  Zxzpov h. 1, non alind sed  diversum est, quæ verbi signi'  ficatio non rara apud Platonem,  cfr. Alcib. I. 11 4. B. xorzpoy  81 ravrd i6ri 8lxaia rz xal  <Svp<pkpovra, y erzpa. Adde  Piat. Protag. 833. A. notepov  Xvdcopev rcJ v Xoycoy; ro  fy M juoror Ivavtiov zlvai, y  ixetvov, iv cp iXkytro at ep ov  etvai daxppotivvyC do<pia   : xal irpoS rep trzpov zlvai xal  avopoia x. r. X.   xaXov x a pineti Sai tgoy  txvS pant oo y. Verba rdov ay SpconcoY seiuncta snnt ab iis  rerbis, e quibus pendet rolS p\v  ayaSoiS, ut pondere augerentur.  Huius exemplum structuræ verba  aunt 178. C. o ydp XPV av~  $pG07toiS yytZ6$ai nayroS rov  piov rolS pkXXovdi xaXcuS pia$<5e<5$ai x.r.X. Urgendum autem prounntiando est tgjy dySpeoTteoY  ideo, quod, cum Pausanias in hominnm tantummodo animis dixisset Erotem versari, Eryxixnachus contra etiam in corporibus habitare deum narret,  indicandum erat atque demonstrandum auditori, quibus modis ab illius oratione medici oratio,  diflerret.   xal rovro Idrtv gj uvopa ro larptxdv h. c. und  darin besteht das Wesen dessen, was wir das Medicinischo  nennen. Prorsus eodem modo  185. B ovrco nccynoS yz xaXoy apztyS y Zyejicc xapiZe6$ at. Ovr 6 S itirtY 6 fijs  OvpctvictS SzoxPEpaoS xal Ovpd YtoS X . T. A.’ Ad ea, quæ insequuntur, apte laudatur ub interpp.  Hippocr. De morbo sacro sub Cu.  Xpy  py avZziy r d vov6ypara, aXXa <5 iczv8ziy rpvxztv,  7rpoS<pzpovtaS ry yovCco to' itoXepicoraroy kxatfry, pt) r 6 epiXoy xal 6vvySZS * vn 6 ptv ydp  T7/S' CvYijSEiaS SdXXzi xal aij&z-,  rai f vito 81 rov noXzplov <p$lvzi xal apavpovrai .   %6rt ydp larpixy. Hippocr. de flatibus : r d IvavricL   rc oy irarrloav itiriy Irjpara.  larpixy ydp i<Sn xpoCSeCif  xal d(pa{pz(itS‘ dg>aipzOiS plv  rooY v 7f zppaXX oYroyy, 7tpo6$f6iZ  dlroor iXXzin ovrco v' o Ss xdXXidra rovro noizcov apitiroS  lyrpoS. Articulum ne desideres,  omittitur, ubi per se positum  spectatur nomen, cfr. Piat. Lach.  191. c. 18. rovro r oiyvv  alriov iXeyoY, das also  9    130    riAAT&NOZ    xui 6 Siayiyvmoxav iv zovzoig zov xakov re xal  D aioxQov " Egaza, ovzog lottv 6 lazgixdzazog' xai 6 jitrajidlkuv noicdv, dgze dvri zov tzigov "Egeor og zov tregov xzrjOtta&cu, xal ot<j [irj bveOuv "Egcog, dii <5’ lyytviafrcu, IxiOzo^itvog i/XTeoiijOai xai ivovra ifcksiv, aya  meinte icli mit dem Worte altiov.  Alcib. I. 133. c. 57* o 87 }  xal xo pijv xaXovjtev : Was   wir auch mit dem Worte xop7j  bezeichnen ; Symp. 196* C*  civai ydp opoXoyEitai 6a><pp 0 6VY7J tO XpOLTElY IjdoVGJY  xal iirt^vjiuav, dcun unter der  Be/.eichnnng: 6coq>po6v V7j wird  allgemein yerstaaden Itaque  hoc Eryximachus dicit: Es ist  namlich, was wir * iatpi X 7/ » neunen, der Hauptsache n a c h cet*   xal o diaytyvcSdxcov  iv tovtoif. Difficillimam  esse atque gravissimam morborum e symptomatis petitam cognitionem, quam diagnosin medici  vocant, iutelligunt etiam ii, qui  artis medicæ imperiti sunt*   xal 6 yi Et a ft aXXeiv  not djv. sc. td i porrixa tcov  (jayiaTCJV j hinc post cJsre supplendum est td tioopata. Cavendum est enim, ne quis tov £T£pov subiectum esse censeat enuntiationis» Quæ sequuntur verba a xai incipientia, præcedentium verborum explicationem eflicinut.  Sensus est : Wer die Neig u « gen der Kdrper so  umaodert, dass sie anstatt der einen Neigung  die andere erlangen d. h.  wer es verateht, Korpern  eine Neigung einzupflanzen, die ihnen nicht einwolint, aber ihnen c i n w o hnen muss, und die einwohnende, die nicht einwohnen darf, heraus zu treiben, iitidtapEvoS i/iTtoiif 6ai xal ivovta IB,eXeiy. >  Quod de duplici Erote hic dicit  Eryximachus, Socrates de morbo  profert in Piat, de rep. I. 333*  E. ap * ovv xal vodov o6tiS 8eiyoS <pvXatia65ai xal ptj Xa~  $etv, ovtoS deivotatoS xal  iyutoirj6ai, quem locum interpretes propter xal jutj XaSeiv  verba vario modo sollicitarunt.  AaSeiv, quæ vulgata lectio est,  rectissime e duorum codd. auctoritate in TtaSitv mutaverunt. Non  est autem assentiendum Stallbaumio xai ante pnj TtaSetv delenti.  Nodov <pvXd%a6$ai positum  habes propter antecedentia : ap *  ovx o natabat SeivotaroZ iv  pdxy ritE nvxtixy tltE tivl  xal dXXy, ovtoS xai <pvXaB,aOSai, quæ si non præcederent, pro <pvXd£,a6$ai Socrates  alio verbo usus esset, quod cum  YOtioS nomine melius consociaretur, Veritus autem, ne quis  yotiov tpvXdgatiSai non satis  iutelligeret, accuratiorem explicationem verborum statifei addidit,  quæ in verbis xal yirj TCo&EtY  continetur. Kai igitur explicativum est, atque hoc est, id  est, significat.   a y aS 6 Z dr 8 tj p tov py 6 i.  Ad 8 yfiiovpyoS Stallbaumius i .e.  ttog 'Sv rft] drjiaovQyos. SsT yag Si/ rn SjftuSut mna  iv tcj Softari fpD.a olov t ilvcn noteiv xal Igiiv akfo)>.av. ?< ito lybiOta tcc Ivavxudtara' 4 'vzqov itio fio),   zixgdv ykvxtl, $>]quv vyQtjj zavra rcc roiccvra. roinoig •  ime uj9elg "Egma iyzoiijeai xal oydvoiav d TjfikcQog E  inquit, iarpof. Sed /admodum  hæc verba languerent, si præcedente superlativo sequeretur  dyaSoS larpof. Eryximachus  ab artis medicæ theoria ad praxin transit ita, ut, cum larptxuraror appellasset eum, qui  malum et bonum Erotem in corporibus dignoscere posset, aya J3oV drjpiovpyor practicum  medicum vocet, qui medicina  adhibita malum Erotem e corpore removere, bonum in corpus immittere possit.   <pi\a olovr elvai notat v xal i par aWijX&v .  Sublatum discrimen vides in Eryximachi oratione, quod intef (piXt~ir t  <piMa f q>i\o$ et Spei S*, ipdr exstare supra annotavimus p.69,quibuscumcf.annot p.lS2. Docemur  autem hoc exemplo, qui Hat, ut vocabulorum significationes vergente  ætate sæpius immutatæ sint.  Verba nimirum quasi alSaXa  sunt cogitaudi rationis, quæ ratio ubi mutatur, corrumpi necesse est atque perverti verborum significationes.   narra rar otavr a. Wolfiu* asyndeto offensus xai ante  narra ponendum coniecit. Possumus nos quidem in eiusmodi  dictionibus copula non carere,  qua propter Schleiermachenis ia  conversione und a lies dergleichen exhibuit. Verum  non solum Græci sed etiam  Romaui copulam omisere, quippe    efficatius eo indicantes, verba  narra ra rotavra eiusdem potestatis et iuris esse, atque præcedentia, quæ dOvrSercjS enumerantur, exempla, cfr. Gorg,  503* E. olor tl fiovhet idatr  rovS ZwypaqjovZf rovS oixodo povS f rods* ravnrjyovS, rov£  dXXovS ndrraS SrjpiovpyovS ortiva fiovXai avrdUr. Demosth.  Orat, pro corona c. 74., quem  locum Stallbaumianæ industriæ  debeo: para ravra dvdrdvroov  olf ?}r impeXlS iph xax&S  notetv, xal ypacpds, tvSvva?,  tlsayytXlaS, narra rotavra  inayovrt&r x. r. A.Verba  mxpur yXvxti a sciolo quodam  addita censent, præsertim quum in nostri loci repetitione non  reperiantur 188. A., Astiua  Stallbaumius, Riickertus. Atque  Riickertus quidem, quatuor hæc,  inquit, frigidum, calidum, siccum  et humidum t sæpius in corpore esse diversasque eius mutationes  procreare dicuntur : at ntxpoV  et y Xvxv in corpore huntano  quid sibi Velint, non intell igitur.  Accedit, quod injra p, 188. A.  ipse E ryx irn achus repetens huius  loci dicta cætera enumerat, haec  omittit . Cavendum est, ne quia  his assentiatur. Nimirum 188.  A., ubi nixpor yXvxal verba non  reponuntur, ne poterant quidem  apte poni, quoniam anui mutationibus, de quibus illic sermo  est, neque cum acerbo neque  cum dulci qnicqunm commercii    XQoyovos 'Aoxkijjuoe t <Zg <pa6tv oTSe o i xoiijtcu xal iyu  mi&ouat, 0vvt<Sti]6E rr/v ijfUztQav ze%vt)v. est. Nostro contra loco verba  i['t'Xf)6v Seppry, itmpov yXvxtt,  Bypov vypcp, Ttavxa rd xoiavxa  nou corporis conditioni describendae, sed explicando inserviunt  praecedente verbo xa ivavxiaoxctxa. Sensus est totius enuntiationis ! Er muss namlich  das Feindlichste ira K d rper sich befreunden lasse n u n d zu gegenseitiger  Neigung umstimmeu kdnnen. I c h verstehe ab er  «n ter dem Worte iv av xt cjxaxa (ride anno't. 129.)  dic reinen Gegensiitze:  kalt und warm, bitter nud  suss, trockan und feucht,  und alles dergleichen*  Ceterum ne quis forte putet  itavxa xa xoiavxa verba rectius  poni, ubi duo exempla aliata  sint, quam ubi tria posita repenantur: legitur in Piat* LEONZIO (si veda).,  quem locum Heiudorfius laudat. D. ixitopi&w, iar plv  xeivy xa doipata yjpcov, dixia  idv di fnyco, Ipaxia, dxpGopaxa, vxoStjpaxa, aXXa, gjv  epxsxai CoSpaxa eis imSvpiav.  Dubito autem, num reperiatur  locus, in quo duobus tantum  exemplis laudatis zdvxa xa  xoiavxa, dXXa t simileve sit positum*   zovxoiS Itci dxtjS e/f seqq.  xovroiS ad tu ivavxtcdxaxa referendum est, non ad singula xoov  iyavxiooxdxcDV exempla, quae  non nisi ad explicandam vocem  xa ivavxuoTaxa apposita sunt. E p coxa i pno irj d ai xal  6 pov oiav . Supra iam annotatum est ad verba cptXa olov x    iivaixal ipdv dWr/Xcjv, signi»  beatum verborum (ptXelv et €pav t  <piXia et £poj£, similium, in Eryximachi oratione prorsus mutari,  "EpeoS igitur nostro loco nihil  alind siguificat, qn <m rerum  sibi repugnantium concordiam. Huius nominis vim  ipse Eryximachus additis xal  6 povoiav verbis declarat, ubi  xai rursus explicativum est:  Liebe d. h. Einklang. Si  quaeris autem, cur amandi verbis  •> nominibusque Eryximachus utatur, memineris velim, laudandi  Erotis cQUssa orationem ab Eryximacho haberi, atqna eundem  statim ab initio orationis suae  ita censuisse, ut etiam artes ab  Erote regi atque per cum esse  contenderet, cfr. infra 187*  C. xi]v 81 opoXoyiav nadi xov zoiS, GjS7tEp ix£i rj ieexpim }, lvzav$a j/ povdix? } IvxiSrjdiv,  *EpGDxa xal 6 povoiav aXXijXoav  ipxon'/dada.   o?8e ol TtoiTjtai dicitur  propterea, quod adfuerunt Agatho  et Aristophanes : wie die Dic hterzunft da behauptet»  Testantur autem poetae, Aesculapium medicorum npoyovov esse:  artem medicam euudem constituisse, ut qui res in corpore  contrarias sibi conciliant, non  testantur. Igitur minus apte  verba Schleiermacherus convertit :  Dass diesen Liebe und  Wolwollca unser A h n herr Asclepios einzuflossen verstand, dadurch hat  er, wie die Dichter hier  sageu und ich es glaube,  unser e Lunst gegriindet.  ”H te ovv laxQMTj, <og itEQ liya, ituOa dut TOV  9eov tovtov 'xvfiegvutai, agavrag 6'e xai yvfxvaOttxlj    7f' t s ov v lar pixr}, o)S 71 £ p Xiy cd seqq. Si scriptam  exstaret rj x e ovv latpvkr}, cofnep  Xiyoa, nuda. dia xov $eov tovtov xvfiepvaxai xai yvpvatitiXT] xai yeoDpyia, nihil esset,  quod lectorem olleuderet. Nam  et medica ars, et gymn.<stice dicerentur atque agricultura dei ope  gubernari. Accedentibus verbis  coSccvxcdS di, manente Te particula, dicendi genus eilicitur,  quod certe minus usitatum est.  Non nescimus quidem, xe di  sibi respondere saepeuumero, sed  tum scriptum exspectamus : i/ xe  ovv iaxpixi] .... xvpepvaxai,  yvptatixixi) xai yeoipyia  GjSavTGoS. Huc accedit, quod  post xi Graeci scriptores di «on  admittunt nisi in rei, quae praecedentem gravitate superat, commemoratione, ut Lutiue convertendum sit: et vero, et vero  etiam. Ea gravitas nostri loci  verbis convenire frustra docet  Stallbaumius ad Piat, de rep. II,  367. C. Cave tamen, quicquam mutarum censeas. Eryximachus in^Hae structurae oblitus, quasi dixissset ?/ /ikv ovv  principio enuntiationis, coSaiixcoS  di dixit. Vide de piv ovv  di voculis annot, 23. Alia  ratio verborum est Piat, de rep.  III. 494. C. iv xe xy xmv  &K& v x oirjdei itoXAaxov de xai  a\Ao$i, ubi plus ponderis in  altera] enuntiati parte est, quam  in altera, ut ti * di apprime  respondeat Latinorum cum  tum. Adde Piat, de rep. VI.  489. C. ix di xoivvv tovxqov  xai iv xovxoiS ov fiadiov evdompelv TtoXv dfc peyidxy xai    Idxvpoxdxtf dtafioXrf yiyvexat  xy tpi\o6ocpioc x. t, A.   wSitep A iy<a. Praesens  tempus A iyeiv verbi de sententia loquentis valet, praeteritum  ad praecedentia eius verba lectorem revocat cfr. Apol. Socr.  17. B. ovxoi piv ovv, cofnep  iyco Ai^or^ut mihi videtur) y  xi y oidlv aXySl* elpi]xa6iv.  Adde Symp, 221. D. ei ^ prf  apa oh iy oj A iyoo diteixa^oi  TiS avxpv .   yv pvatix ix?} xai yecop yia . Articulum haud raro  omitti in artium nominibus,  Schaeferus, Ileindorfius, alii docuerunt. Nostro quidem loco eum  omitti eo magis etiam mirum,  quod antecedit fj TE ovv iaxpixi] .  Si quid video, non piomiscue  veteres artium nominibus aut  addiderunt articulum aut demserunt. Addidisse videntur, ubi  de re sermo est, quae omnibus  nota est, vel qbae definitione praemissa nunc innotuit. Demseruut  articulum, ubi de re nondum  explicata, aut in universum de  aliqua re dixerunt. Nostro loco  artis medicae definitionem Eryximachus dederat in superioribus,  ut de huius artis natura certiores facti auditores intelligerent,  quomodo per Erotem ars medica  dicatur gubernari. Hinc iaxpixi ]  verbum articulo insignitum est  utpote definitum atque notura,  non insignitae sunt yvpvadtixif  et yecopyia, quotam uon explicatae sunt atque accuratius de-finitae: Die Arzncikunst nua  wird mei ner Ansiclit nacli  gunz dur ch diesen Gott  187 xul yeagyiu. fiovGix!/ de xal navxi xurciSijAog ra xcd  Gfuxoov oJtqogtypvti zov vovv, ori xazct zavza lyei zovtois, ogneQ iGcog xal 'IlguxXei zog (iovXerca Xtyiiv, g f 1 e i t e t, ani gleiche   Wcise auch das, vas Gymnastike und Georgia g en u n n t wird. Ceteram Sydenliainium audi laudatum a WolGo;  Per E u d z w e c k der Arzlieikuust i s t Gesundheit, und der GymnastikStarke  des Korpers. Ab er in deu  Mitteln, lvodurch b e i d e  K u n s t e ihren Ziveck zu  erreiclien suchen, indem  sie der g u t e u korperlicheu Anlage uachgeben,  und der schlechten e n t gegen liandeln und sie  verbessern, sind sie ei nande i- ganz aualog. So hat  auch die Eigenschaft des  Bodens Analogie mit dem  Tempcrament des Kdrpers und die vershiede*?  lien Gattungen von D ii n gung mit deu Nahrungiund Anzueimittelu* Eia  guter Boden gewinnt  durch eine homogene B e handlung, ein schjechter  wird durch eine entgegenr  gcsetzto Bchandluugsart  bosser, und iindert se i ne  Icatur. Was iibrigens die  M etaphcr von der L i e b e  lietfifit, so brauclit mao  diese in d e r Land wirth-r"  scliaft auch h e u t zu Tage*  Auch wir sagenreinBaum,  einePflanze liebtdiesen, 1 i e b t j e n Boden.   naxa tavxa £xet xovXoiS h. e, arti medicæ et iis,  (|uæ gymnastice et georgia appellantur. Pe xaxpc præpositionis significatu vide annot. 41.  Paullo infra eodem modo 187.  E. xal iv pov6ix\ \j 6t) xal iv  iaxpixy Xal iv xoiS p:AA oiS  itd6i sc. artium nominibus sive  terrestrium sive divinarum.   cjSirep iticoS xal 'Hpa~  x\f ix o S. Heraclitus Ephesius Ut morum asperitate, ita orationis  dura quadam obscuritate insignis, Schol. ad Piat, de rep. VI. habet  'HpdxXeiroS, BaSiurvoS, 9 EcpeOioSy pef'QtA.p<ppGDV yeyovwS xal  v7tepo7txrjS Ttctp oyxiyovy. Orationis obscuritas cum ex brevitate quadam dicendi, tum e neglecta singularum orationis partium iunctura orta est, ut Aristoteles narrat Rhet. III. 6. Videtur ea ipsa de caussa Heracliti  oratio cum maris fluctuatione  comparata esse, qnæ cum innumerabiles undas exhibeat, ut sententiolas illa, neqoe finem neque initium undarum discerni patitur. Lectorem igitur Heracliti,  ne mole seutentianyn quasi fluctu  undarum immergatur ( fl? xd p?}  (tnojtviyfjvai iv avfcS), djjXiov  XoXvpfit/TTfv esse debere Socrates censuit, Ut quqsi brachiis validis,  fi. e. interpunctione posita, continuum tenorem discerneret ac  disiuugeret verborum, jJtjAioi  XoXvpfirjxai celeberrimi erant  plurimumque natando pollebant,  vide Wachsmuths Alterthumsk.   II. 1. p, 404., qui laudat piog.  Lært. %y 22. 9, 11, Ipterpunctionem omissam, nop verba ipsa  obscuritatem illam effecisse, ut  clarius appareat, fragmeptum laudabo Heracliti, quod in dissert.  txel tois ys QTrj/iuatv ov xaAw? Atyfi. ro Sv y«P, qn]al,  StawEQo^ov avrb «fap tvficpiQSO&ai, &&*<) ««f/  V iav roiov re x«l fi»» S'e ™AA>7 aAoyt'« «r    de Samo -Thraces nnminibns explicare studnit Schellingios: iV  to dorpov povvov MyedSai  ovx tiitet xal i&fAtt Z)/ro?  ovopa.   ro i \y yap, <pi]di, Statpep&pevov seqq. Caute distinguendum est, quid Heraclitus o  CxuzilvoS his verbis exprimere voluerit, et quomodo Kryximachus  eius verba explicaverit. Medicus  nimirum de musica loquens verba  illa laudat ita, ut non nisi de  re musica dicta intelligeret, i. q.  ex additamento perspicitur, quo  Siatpcpd piva explicat 187.   B. rov o Sio s xal ftapioS  atque e subiecti mutatione. Appoviav nimirum reo ivi Eryximachus substituit. Heracliti autem  voluntas hæc videtur esse: Das  Eins ist in sich selbst entgcgengesetzt Eins, wie die Eiuheit  des Bogens und der Lyra h. e.  das Eins ist nicht absolut Eins,  sondern momeutan zusamrængeseut aus Gegensatzeu, wie die  Eine Kraft des Bogens (Schuss)   momentane Verschmelzung ist  xwreier Gegensiitze, oder der  Eine Klang (Accord) der Lyra momentane Verschmelzung mehrerer Uissouanzen. Non recte  autem, ut videtur, 'interpretes to  fV totam rerum universitatem significare censucruut,  neque recte Simplicii testimonio  ntuutur ad Aristot. Pbys. 11»  A. iveSeixwxo Si (sc. HpaxXtiroS') ti}v iv ty ytvidu ivapfioviov piSiv tuiv ivavuurv,  quæ senteutia ex enuntiato illo  derivata est, atque eidem, tan  quam in basi, innititor. Probatur hoc Plutarchi testimonio Do  animi procreat, 1026. ^B.  'IIpdxteiToS SixaUvxponov appovhjv xodpov, oxgdS xep AvpijS xal ToSov. Erostra autem  in dicto Heracliteo aliquid mutandum censuerunt Astius, Bastius, alii. Ad Hcracliteæ dictionis exemplum supra laudatum ut  revertamur, videtur Schellingio  interpunctio ponenda esse post  ovxiSiXei; nobis hæc verborum  dispositio placet: ir 10 dotpov  povvov AiyedSai ovx ISitei xal  l$i\n ZtjyoS ovopa. Absolut  Eins ist nur das W e i s e,  Absoluta unitas nostræ rationi  repugnat, eam repugnantiam ita  expressit Heraclitus, ut diceret:  es will nicht und will  Eins genannt sein der  Name des Zeus. Audi Goethii nobilissima verba, quæ similem rationis repugnantiam felicissime describunt AVer darf ihn nennen?   Und wer bekenncn:   Ich glaub’ ihn?   Wer empfinden   Und sich unterwindcn   Zu sagen; ich glaub’ ihn rycliU.   yiyovcv V7t d TrjS pOVdtxijS tixrV*- Vulgo additur V dppovia, quod additamentum per se spectatum non_  habet, quo offendat. Sæpius  enim subiectum e præcedentibus  repetitur, non tam augendæ gravitatis caussa, quam perspicuitatis. Sed non agnoscunt nostro  loco XXI. codd. 7/ dppovia verba,  fioviav ipdvca SiaiptQfGftai jJ ix dtatptgofilvav $n  tlvcu. aX£ 1'aag toSe ipovksto Xiyuv, on ix diacptB gofiivav xgotegov, rov 6 |eog xal ftagtog, 1'xuru  vOteqov onoXoyrjedvrcov yiyovev vito zijg (lovaixrj g xi%vrfi, ov yag 8g xov Ix Siaq>sgo[iEvav ye izi tov oj-iog  xal fiagiog agfiovla av ity. rj yag agfiovla evfupavla  lari, Cvfupuvla ds ofioXoyla zig' f>(ioXoyiav ds Ix Sux,<pego[isvav, sag av Siacpigavzai, advvarov tlvai' dta(ptgoiitvov ds av xal firj ofioXoyovv advvaxov uQuoOai.    igitnr cnm Bekkero, Stallbaamio,  Rukkerto delenda curavimus. De  verbis insequentibus ov yap 8tf  nov vide annot. p, 85 et 98«   rj yap ap povia* Bene  Schleiermacherus in conversione:  Denn Harmonie ist Zusammenstimmuug, Zusammcnstimmang aber Eintracht; Eintracht aber  kann unter entzweitem,  solange es entzweit ist,  nnmoglich sein ; und das  entzweitenicht e i n t r a c htige kann wieder unmoglich ausammeiutimmen,   dZfnep ye xal 6 fivSpof*  8ensus est verborum : quemadmodum, ut hoc unum exemplum commemorem, rythmns. Indicat igitur yk particula,  plura exempla afferri potuisse,  quibus res probari posset, unum  sufficere, vid. annot.   8ievrjvey pkv wy xtpoxepov. Ante 8 levrfveypkvoov omnes  \ fere codices ix præpositionem  habent, quam cum tacide omisissent interpretes, Riickertus solus  exstitit, qui in verborum ordinem  revocaret. Sed dubito, num aliquo modo excusari possit. Aut  repugnandum est codicum auctoritati, atque ix e verborum or  $   \ a    dine tanquam inutile additamentum expellendum, aut scribendum est ojsxep ye xal 6 /5uSpoS 6 ix tov rorato?? xal fipa*  8 ioS, ix 8 iEV 7 ]ytypkvojv itpoxepov, vtixepov 61 6po\oyrj0dv  toov ykyovev. In sequentibus  codd. non pauci habent "Epasta  xal opovoiav aAA^Aozf, quæ  lectio unde orta sit, haud difficile est ad intelligendum. Nimirum scribæ seducti sunt vicino ipnoieiv verbo, ut dativum  pfo genitivo exhiberent, quem  nunc novem tantummodo codd*  exhibent. tyAozf autem, ut  et Riickertus vidit, non satis  commode explicari potest; aut  igitur «AAr/Aiwv scribendum est,  quod in textum recepimus (de  ipnoieiv vid, annot.)  aut exhibendum avxoiS y cuius  vocis ne unum quidem in codicibus vestigium apparet.   xal iv pkv ye ctvty ty  6v6x a 6 et x, r. A, Stallbaumius ad h. 1. annotat: Jn ipsi*  rationibus musicis, h, a. in harmonia et rhythmo t nullo negotio  ait cognosci et animadverti posse  X a i p a) x ix d, h. e, quæ sint  consona et congruentia : simplices  enim illas esse et quæ non patiantur discrepantiam aut diver- t  s itate m ullam i sed in usu et ex  r   a' /    &gitzg ys xal o $v&[wg ex zov ta% zog xal (fgadzos  dievtjVCyfiBvoiv itgoxzgov, v6zsg ov 5 e of loloyrjOdvzav yt- c  yovs. rrjv SI ofiokoylav ituOi zovzoig, agxf g IxeI fj  latQLxrj, lvzav%a y (lovtSixrj EvrlftrjGLv, "Egazu xal 6ftovoiav akkrjkav l(i]tou]Oa<Sa' xal lazw av fiovtSixt] nzgl  agfioviav xal gv&jj-bv Igertixcav Imazyfirj. xal Iv fitv  ys avxy rjj tivOzadEt. agfiovias te xal gv&fiov ovdev  Xakenov ra iganixa Siayiyvbi6xuv, ov Se 6 SiTtXovg 'Egag  ivzccv&u ncog ttinv’ ak£ inziSuv Sky itgog z oi>s dv&gwercitatione musices -plurimum in ter esse, quo modo illis utaris,  atque hic cerni vim duplicis illius Amoris, coelestis et vulgivagi* Mira est sententia, fateor :  sed non sine caussa Eryximacho  tributa* Ineptit enim nunc acerrimus iste Heracliti cavillator  adeo, ut propter inanem illam  sophistarum imitationem misere  vapulet . Perperam igitur Schiitzius hæc : ovSh 6 $iit\ov S  *E p oo S ivi av$ a irtuf idtiv  delenda iudicavit. Isimirum non  intellexit vir acutissimus hominis ineptias. Non rectius Platonis verba Schleicrmacherus interpretatas est io eonvers. 408.  Und in dem Aufstellen des Wollautes und des Zeitmaasses selbst  ist es wol nicht schwer, die Liebesregungen zu erkennen, noch findet sich hierin jener zwcifache Eros. Hoc  si dixisset Eryximachus, merito vituperaretur» at vituperandus est Riickertus ad h. 1, annotans:  Ego nescio, quo hic stupore tenear, cui, ut ineptias videam, plane non contingat. Nihil mutaudum  est, neque quicquam e verborum  ordine expellendum, sed rectiore  explicatione opus est enuntiati,  quam a nemine hucusqde repertam esse miror. Verba nimirum    ovSh o 8in\ovs"Epoo$ iviccvSci  yrooS 1 idtiv elliptice posita 'sunt,  atque supplendum e præcedentibus est £tfA£7roV. Mens Eryximachi hæc est: In derblos  schematischen Aufstel1ung der Harmonie und  des Rhythmus ist es nicht  schwer, die erotischen Elcmente zu erkennen, noch macht der zwiefache Eros 'hier irgend Beschwerden. Quæ sequuntur, optime cum hac verborum explicatione conveniunt.   a\X' iiteidav 6iy itpoS  rotis 1 ctv$ ptortovS x. r. X.  Schleiermacherus exhibet in conversione: Allein wenn man vor  den Menschen Wollaut und  Zeitmaass in Anwendung bringen soli; quæ si mens fuisset  Eryximachi, scripsisset haud dubie  iv dvSpooitoiS. Ficinus non satis explicate, sed Schleiermachero  rectius, ut videtur, verba interpretatur: sed tunc demum, cum ad alios rhythmo et harmonia  est utendum. Nobis Eryximachus  de rhythmi' atque harmoniæ usu  eo loqui videtur, qui hominum  utilitati inserviat. Rectissime  Matth. Gramm. plen. J. 591-  1180. seqq, ita de ifpoS præpositionis potestate disputat, ut D jrovg xara-/Q^<S^ca Qv&fiai te xal ccq/iovm tj noiovvtu,  o &rj fuloTtouav xcdovtiiv, rj %qc!>hsvov 6q&(5$ roig 7iejro»;fi£votg ( uiketii re xal fierpoig, 3 bi) ncudeia Ixlq&rj,  Ivrav&cc dt] xal %oÆnhv xal dyct&ov SrjfuovQyov dei  ncihv yuQ ijxei 6 aviog loyog, o« rofg n'tv xodfiioig  plerumque dxoftEiv verbi notionem loquentia animo obversari  diceret. Possis igitnr nostro loco  7 t poS TovS avSpodirovS Græce explicare: itpoS ti/V xgjv av Spamwv utpiXeiav dxoitovvtfc.   o 81 } peXoit oit a v x a Xov 6 iv . His verbis exemplo  usas est Mattii. Grarom. plcn. §.  475. C. p, 891», quo probaret,  pronomina relativa iu explicativis  enuntiatis haud raro ad præcedentium nominum genus conformari. Interdum ad sequentis nominis genus effingi pronomen,  notissimum est. Utroque dicendi genere, quorum alterum accuratius, alteram elegantius est, Latini quoque usi sunt Vide sis  Kriiger, de Attractione Lat. Liug.  $. 56. 129.   o Si) TtaiSeia  cfr. Piat, de rep. If. 376. E.  c. XVII. TiS ovv ?} naiStla ;  T/ x a Xt7t6v evpeiv piXtico ryS  vito tov noXXov xpovov EvpijpEvrjS; i.6tt Se 7tov 7 } p\v ini  yv/tvcttitix?/, ij 8 ini  vxf/ povdVHjj. Adde de 7tai- StiaS notione verba Waclismuthii  in libro; Hellenische Alterthuraskunde Th. II. Abth, II. 4.  Recte ad h. 1. Riickcrtos, Omnis,  inquit, institutio liberalis apud  Græcos duas habebat partes, y v/iv adnxijv et povdixijv,  quarum illa ad corpus pertinebat, hæc ad animi culturam, atque in poetarum maxime carmi  nibus legendis ediscendisque versabatur, addita sonorum modorumque arte . Ceterum ne offendas in temporis mutatione, cum  supra o 81 } xaXovgev, nostro  loco o 81 } ixXy&rj dicatur: illud  est: vias man nennt; hoc significat: was man gewohnlich nennt  s, Mas man zu nenuen pflegt.   ivT otv 5 a 87 } xotl £aA£7 t o y x. r. A. se. ta ipootixa  8 iayiyvoS 6 xeiv. Scriptum exspectabam equidem ivxavSa 81 }  xat goAaroV, ut ad verba respiceretur ou<$£ o SiicXovS EpoiS  ivravSa ncoS itirtv. Nam ro  SiayiyvGjdxEiv theoriæ, quam  vocant, ut medicæ (vid. 186.  D. init,} ita poeticæ artis couvenit. Nostro autem loco non  de theoria poeseos sermo est,  quam Eryximachns tetigit verbis  iv piv ys avty ry dvdraCEi  X. T, A., sed de eius usu hominum utilitati accommodato, ut  haud sciam, an non et aliis probabilis videatur verborum conversio hæc: Aber weun man Rhythmus und Harmonie zum  Nutzen der Men&chen in Anwendung bringt, da macht der  zwiefache Eros grosse Beschwerde,  und es bedarf eines tuclitigcu  Pruktikers.   naXtr yap yxei 6 avroS  X oyoS, Riickertus ad Pausaniæ verba liic respici docet,  quibus præcipiatur: iis tantum AMATORIBUS obsequium præstanziov av&Qwxmv, xal ag ccv xoafueyzeQOz ylyvoivro oi  (hjjtm ovze g, Sei xaQifea&cu xal (pvXctzzuv zov zovtav  "E(iaxtt, xal ovzog i6ztv b xaXbg, b Ovquvios, b rijg  OiiQavlag MovOrjg "Egcog 6 Se Ilokvfiviag, b IlccuSt]- E  ( tog, ov Sei evkaflov[ievov TZQOgtptguv otg «v TtgogqiiQij,    dum esse ab amasiis, qui et ipsi  virtutem colaut, et ad eam colcudam amasios adhorteutur. Hioc  factum, ut Eryximachi contortiorem censeret et obscuram et subineptam orationem. Certissimum est autem, præceptum  medicorum ab Eryxiraacho tangi,  quod legitur p, 186. C. lv ctvrolS  tols 6oopaoi, rols ply dyaSol?  ixddrov tov dooparoS xal vyutroiS xaXov x a ptfe6$ ai *dl  xal tovtq Idxiy y co ovopa tu  laxpixuy, %oiS 61 xaxols xal  YodcoSedty fddxPOY re xal 6ti  dx<xpidT£iv> ei yeXXei ris texyixoS. elvai. Mens Eryxituaclii  hæc est- ut illic medicus corpori, ita nunc poeta sive magister consulere debet animo ADOLESCENTIUM, atque bene moratis, et quo liant meliores, ita prospicere, ut nulla res, cuius laude  corrumpi possent, laudetur,   o trjs Ov parias Mov-r  6t]S "E paS . Hæc verba cave   ad præcedens "Ep&ta verbum  referas. Pertinent potius ad ro  Xapi&dSat et x 6 cpvXdtTEiv,  quæ nomina e prægressis facillime eruuntur. Ov%oS autem e  generis haud rara assimilatione,  de ‘qua vide annot. 129. positum  est. Sensus est : Gutgearteteliinglinge zu beriicksichtigen und ihre  naturliche Neigqng zu bewahre»,  darin besteht das Wesen des  Eros der Urania* Vide etiam auuot. 126.    o' Sfc TloXvpviaS. Poly-,  hymniam Musam cum Pandemo Aphrodite comparari ab Eiyximacho nemo non videt. Iam quæritur, quo iore id fiat. Polyhymnia vulgo cantuom multitudinem sili i fica t; possis igitur ea de caussa  illam comparationem institutam  putare, ut cum AMASIORUM multitudine, quæ a Pandemi asseclis  ametur, illa carmiuum multitudo  comparetur. Possis etiam, quæ Riickerti sententia est, ita judicare, ut numero abunda ntiora  rarioribus viliora censeas. Neutra explicandi ratio nobis nunc  placet, neque credimus, Polyhymniam nostro loco carminum multitudinem denotare. Agitur de  Jiarmoniæ atque rhythmi motatione, quæ iusto sæpius in carminibus admissa TloXvpviaS nomine insignitur. Ut igitur Ilar6)jpov asseclæ ab uno amusio ad alterum transeunt, non virtutis, sed LIBIDINIS ergo, quæ e  varietate amatorum oritor, ita  poiitæ, asseclæ llav6i)pov, qui  HoXvpviaS £,vvtpy6$ est, siguificautur harmoniæ atque rhythmi  varietatem captare, aurium, non  animi oblectamenta.   npoScpipEiv oU dv 7tpos~  (pepXJ. Vulgo male olS ar  TtpoSiplpoi. Minus accurate hæc  verba Ficinus reddidit ! cui summa  cautione indulgendum est, ut  voluptatem quidem homines hauriant, incontinentiam vero devitent,, Sensus est: quem, qui*?    1  twreg av zyv /xev ySovyv avzov xagjtd<S7]zai, dxoluclav 6e (lyStfiiav tftsronjtf}/, tog xtg iv ry yy, triga  xi%vy fiiya 1'gyov raig jitgl z yv oiponouxyv ri%vyv imftvfitaLS xaXtag XQyOScu, togr’ ctvtv voOov zyv ydovijv  xagnddao&a*. xal iv yovOr/.y Sy xal iv lazgixy xal  iv rotg ctlXoig ndai xal roig dv&gaittiotg xal _ toig  &tiotg, xu\r' ot Sov Jtagdxti, tpvXaxztov ixdztgov xbv’'Egcoxa’  188 ivtazov yug.  bus adhibetur cunque,  magna cum cantione adhiberi oportet, nt suavitate quidem eius fruatur,  qui eo ntitnr vel poeta,  vel lector, sed turbas  devitet atque ordini* corruptionem. Harmoniæ autem  atque rhythmi commutationes legibus artis poeticæ probantur  ita, ut paucis quibusdam in locis,  quibus conducere possint, modice  admittantur v. c. in exprimendis  animi allectibus. Iu sequentibus ad xapjtGjdrjxat pronomen  indefiuitnm subintelligendum est,  qnod et ad poetas et ad lectores  referatur. Ad poetas refertur ita,  ut artis poeticæ opera componendo, ad lectores, ut eadem  legeudo sibi cavere moneantur,  ue rhythmorum atqne harmoniæ  ordinem concinnitatemque turbent, vel non satis recte agnoscant. Clarior res fit exemplo,  quod Eryximachus statim addit.  Nimirum artis coqninuriæ delicias medicis in universum probari negat. Interdum tamen licere ait eas delicias hominibus commendare, quæ et delectent  et damni nihil aderant. xa& o6ov itapeixei.  Convertit hæc verba Stallbaumius: quoad eius fieri potest. Recte. Laudat idem nostrum locum in annot. ad Piat.  Polit. II., 574. E. 6p 6*  uvx anobtiTaatkov, o6oy y av  bvvapiS irapeixq. Ceterum verba  sunt non pauca, quæ omisso subiecto suo transitivam vim  amittunt, atque ut verba impersoualiu adhibentur. Quem usum  huius verbi cqm non notum haberent librarii, factam est, ut in  eius scriptura libri non consentirent. Bodl. enim aliique codd,  itapijxEt exhibent. Ceterum conferri iubet Riickertus ad h. 1.  Thucyd. III, 1, TCpoSfioXcA iyl yvovxo TG7Y * A^i}v cxxqdv inithov,  onxf icapeixoi. Soph. Philoct.  1048. ic6\X av Xiynv ix ol M l  TCpoS ta xovd’ hcr\ eE, pot itapeixot.   xa\ rj tcov eo p cov tov Iviavxov 6v6x adiS, Schleiermacherus exhibet in convers.  409. Die Anordnung der Iahres  zeiten und der Witterung. Ficinus verba convertit ; Anni temporum constitutio. Neutra 6vOxadiS nominis conversio nobis  nunc placet satis ; verbum desideramus potius, qno significantius  exprimatur, de finibus atque de  initiis anni temporum hio agi.  Nimirum consentiunt medici, nihil perniciosius esse corpori humano animalibusque et plantis,  quam subitas coeli mutationes.   '/Sarti arcti rj twv wQiav tov Iviaircov OvtSraOig /is 6tf) laziv IXtUpOtfQUV TOVTCOV, 5 tttl ixSlSaV fllv ICQOg  a IX>;?. a tov xoOfiLov tv%\) "EQcnog 8 vvv St] lyu tk tyov,  za re &EQ(itc xal tu ilrv%Qcc xal |i;p« xul vyga, xal cpl toviav xal xqkClv AajSy CwcpQovu, jjjactc yigovTu tvetij v. c. si frigus acerbissimum sequatur subito æstus ferventissimus. Patet igitur, Eryxiinucbum  .medicum non tum / de ipsis anui  temporibus, quam de eorum finibus iuitiisque apte coniungendis  agere, ut tivtiratiiS nomen convertendum sit: Verkuiipfung, Verbiudung.   xal dppovLav xal x pati iv. Vulgo omittitur xal ante  apporiar positum, quo omisso atque commate post vypa deleto  sententia verborum hæc evadit :  Si calida et frigida houesto  amore consociantur, porro si sicca  et humida harmoniam et mixturam aptam admittunt.*. Hæc  quominus probemus, vetant a  rvr 8tf iXeyov verba, quibus  t d re Seppa xal rd ipvxpd xai  £,r}pu xal vypa arctius couiungenda esse docemur. Ceterum  ad ea hæc comparata sunt,  quæ de musica arte supra dicuntur. Ut illic xo dS,v xal  fiapv, tq tax v xal fipadv commemorantur, uostro loco habes  rd Seppa xal rd if/vxpa t rd  £rjpa xal rd vypa. Kpatiif  tiojippoov autem in re rhytii mica  evpv^plar gignit, quæ eodem  modo iuvenum moribus erudiendis inservit, quo, modo sanitatem generis humani auimaliumque et plantaram progignit eve  rrjpia. Apte Stallbaumius comparari iubet Piat. Phileb. 26*  B. ovxovr ix rovrcov copai re  xal otia xaXd narra rjptv yiyove, rcor re dnelpcjv xal  rcbv nepas ixorroav £,vppiXSerrar ;   tico cppova. Substantiva haud  raro a verbis, e quibus pendeant, seiungi, ut gravitate exhibeantur auctiora supra indicavimus 59. et 66. Pari  modo a substantivis adiectiva  disjunguntur, cuius usus noster  locus exemplum est. Sensus est: Wenn das Warme and das Kalte,  Trocknes und Feuchtes gegenseitig des geordneten Eros sicli erfreut, und es einer Harmonia  und einer Mischung, namlich einer  ganz zweckmdssigen, theilhaft  wird ... xal ovSlr ?jdixtjtiev.  Aoristicum tempus præcedente  tempore præsente i/xei ne quem  offendat, habet præteriti fere  potestatem yxeiv verbum, cfr*  Piat. Crit. 43* A. apri 6h  jJxeiS 7f naXai ; kamst da  eben erst oder schou lange? Igitur ijxei epepovta idem fere est  atque ijve^xev. Proprium aotem  aoristicum tempus in rebus, quas  experientia docuit, recteque præcipiunt grammatici, haud raro  giav TE xai vyiuav av&Qcoicoig xai xoig aklotg tcootg  te xai cpvxoig y xcd oijScv xjStxijdEV" oxav Ss o uncc xijg  vPgsiog "Egag byxQaxiexEQog ntgi xag xov Iviavxov agag  B ysvtjrai, 6d(p&EiQS x e xokka xcd •fjdtxrjtlEV. oi! xe yag  koiftoi gidovOi ylyvEO^ca 1% xav xocovxav xcd ak£  uvojioitt 7to?J.a [vo<3>juaxa ] xai xoig fhjgloig xai tofcf    aoristum usurpari, ubi indicetur,  aliquid fieri solere. Eodera  modo explicanda verba sunt, quæ  paullo infra leguntur; 8 i e cp$ e ipe v, 7f8 ixrj6ev . Alia ratio est Piat. Phædon, 84. D.  xai Ss 1 axovdaS iyeXa6i re  7 jpepa xcd qn\6iv .. etenim ab  aoristico tempore ad præsens  subito transitur, quoniam nunc  non narratur, quid Socrates dixerit, sed ipsa eius verba afferuntur: Hoc audito ille   cum subrisisset: Væ, inquit, o Sim mi a. Adde Piat,  de rep. VI* 508. D. otav  per, ov xataXapnei ab/ $ eia.  re xai ro ov, tls rovto dnepeior/rai (ac. ?j if> vx/f) evoi\6e  re xai Eyveo avxd xai vovv  If^erv (paLverat . Quo loco quid  anima facere soleat, aoristo, loqucntis de animæ conditione iudicium præsente tempore exprimitur. Ne plura huiusmodi exempla  afferam, lioc in universum tenendum est, aoristo et præbente in  eadem enuntiatione positis non  eandem potestatem esse, sed aoristum quod fieri soleat, aut quod  factum * sit indicare, præsens  tempus vel facti veritatem exprimere, vel aliquod iudicium loquenti? in se continere.   xai d XX dv 6 pota TtoX*  \u v o pax a 4 Hæc verba   Corrtipta esse multi fuerunt,  qui annotarunt eademque emendaro studuerunt, Ficiuus habet: Testes siquidem ex /iis oriri consueverunt, aliique morbi permulti  et vani brutis ac plantis infia sci. Igitur legisse eum Stallbunmius censet xa\ aXXa noXXa  )xal nocytola vodijpara* Schiitzius scribendum couiecit xai  aXX’ opota, Orellius ad Isoctf. do  Antid. 330. : ciXX’ dv opoia. Astius aXX * axr opoia, quod  Stallbaumio probari video. Fateor, harum mutationum nullam  mihi placere. Olim scribendum  putabam xai aXX * dvopa noXXci  [ vo6rj pacta .] Ac v 067 ) para quidem etiam nunc persuasum habeo  glossema esse eius, qui, cum  recte intellexisset avopoia t ut  et alii intelligerent, verbi explicationem margini adseripserit*  Memor autem Eryximachus verborum erat p* 186. B. ro 81  dvopotov dvopoloDV huSvpei  xai ipa, ad quæ respiciens  avopoia dixit, ut simul ad in  tGDV X OtovTGOV supplendum sit  avopoioov xov iviavx6v (opcSv .   xai tols $tjpiotf' t xai  toiS epVtolS . Eryximachus  cum supra dixisset dv^pcbnoii  xai xoli aXXoiS ZgjoiS re xai  cpxnoiS, humani generis nunc videtur esse oblitus* Verum licet  medicis de re medica loquentibus homines animalibus adnumerare : den thierischen und vegetabilischen Korpern,  xai ipvdifiat» Timæus  iu L, V, Pl. : ipvtiifiai piXxoa - cpvrolg * xal yag ita%vat xal %aXat,ai xal iQVtiSfiai ix  Tckeovs^lag xal axodplag Jtsgl aXXijXa zwv zolovzuv yi~  yvezca sp&zixcov, av iitufziyfiq adzgav re q)ogag   xal IvLavztiv agag adzgovopta xaXzlzai. %xi roivvv xal  ftvdiai itadai xal olg [lavuxij htidrazel zavza 69  l6zlv rj negl fteovg ze xal dv^gtbnovg jcgog t&XXiqXovg C    drfS Spodos • itax y V SpodoS   XiovqoStjS. Hesych. ipvdiftrf. vo 6oS riS æpoS iitiyevopivT} toiS  cpvtotS xa i xapnoiS. Pro yi~  yverai pluralem numerum exhibet Stobæus, quem numerum  Fischerus et Wolfius reposuerunt. Frustra. Naturæ phænomena quoniam verbis impersonalibus exprimi atque describi  solent, substantiva etiam, quæ  cum his cohærent, ut infinitivi, quibus deest subiectum certum,  tractantur. Vide Astii annot. ad  Flat» Polit» 400. Adde Matth.  Gramm. plen. $. 303- 603*  ojv ire tdnj p.7j xaXetr at. Fuerunt, qui hæc verba delenda  censerent; alii eadem coniecturis teutarunt» Primus Astios monuit, meteorologiam et astrologiam veteribus astronomiam appellatam, neque meteorologiam  antiquitus ab astronomia disiunctam fuisse» Id factum ideo,  quod astrologorum non solum  erat, sidera observare, sed etiam  tempestatis mutationes, quæ siderum indicari solent vel ortu  vel obitu, prædicere. Quod autem, Stallbaumius ait, Eryxijnachus hanc defiuitionem astronomiæ addit, atque mox etiam  defiuitionem pavrixi}S\ id nemo  inepte aut temere fieri arbitrabitur, qui reputaverit, hominem  sophistarum artibus assuefactum  ridicule captare inanem quandam  doctrinæ speciem atque umbram. Aliter nobis videtur de his verbis iudicandum esse. Solebat vulgo astronomia definiri ita, ut  imdri/prf adrpu>v re {popoiv  xal iviavtcov copcov vocetur.  Hanc definitionem veram esse  Eryximachus negat, astronomiam  inidtTjfirjy ip GJtixoJV itepl adrpav re q>opaS xal  ivi avt air copaS esse contendens.   iri roivvv xal Svdiai  TCadai . Hæc est xneliornm  codd. lectio, quorum iu numero  primus est Clarkianus. Probatur ea  lectio fiekkero, Astio, Stallbaumio. Alii habent xal al SvdLai  aitadai ; minus apte, ut videtur»  Non enim ita de sacrificiis loquitur Eryximachus, ut singula quæque sacrificia significet intelligcnda esse, sed in universum  sacrificiorum mentionem facit  Convertenda verba sunt : Ferner  auch alie Arten von Opfern und  das, woriiber die Mantik gesetzt  ist. Memorabilis hic locus est,  quo veterum de religione iudicium continetur. Dupliciter cum  diis agi Græci censuerunt, eorumque numina aut sacrificiis adhibitis placare studuerunt propter  vitæ anteactæ scelus, aut pavtixg usi sunt, cuius auxilio  de deorum voluntate certiores  fierent, futurainque viam ad eandem dirigerent» Vide Wachsmuthium, qui nostrum locum laudavit ia libro; Helleniiche Al** xoivavta ov xepl «AAo xi lotiv tj xeqI "Egcrtog tpvXaxyv te y.cd TaOiv. tcccGcc yciQ ij aGtfiua tpiktZ ylyvEGfrai, tuv fiTj tls toj xoGpla ”Equti ittQltfiTcu (irjdh ripa  tcrtliumslunde II. T. II. 222. In sequentibus xavxa non solum  ad verba pertinet ols pavxixi }  iitidxaxel, sed cliam ad Svdiai  itadat. Recte igitur Schleiermacherus in conversione: denn  dies insgesammt ist die Gemeinschaft der Gotter und Mcnschen unter einonder. Ceterum  ut melius intelligas, verba X avxa  6* idxlv i } nepl $eov* xe xal  dvSpcJnovS npoS dXXTfXovS xoi VGQvtac immerito a Schiitzio in  suspicionem vocari : Eryximachi  mens hæc est: Ferner sind pun  auch alie Opferungen und das,  wortiber die Mantik gesetzt ist dies zosatmnen aber ist nach  der gewohnlichen Meinung fiir'  den vrecbselseitigen Verkehr zwischen Gottern und Menschen cigentlich nichts anderes, ais  die Bewahrung und Htilung des Eros,  Epi*Epa>xoS tpvXaxrjy xe xal tadiY. "EpcjS  hoc loco generaliter positum significat et malos et bonos affectus- Pluralem numerum paullo infra liabes 188. C. fin. a 61 }  nposHxaxxai xfi /tavxixp ini Cxoniiv x ovi " EpcoxaS xal larpeveiv. Adde p, 188. D. ubi  6 naS *EpG>$ legitur.  nuda ydp 1 } adi fi eia.  Nihil in his verbis comparet lectionis varietatis. Mallem tamen  abesset articulus, ut de impietate  in universum, non de impietate in certis quibusdam actionibus  Eryximachus loqueretur, cfr, p*  188 . D, fidXXov 61 nddav 6v ra/nv fyei x. x. X. Paullo infra nadccv ij/itY eVdaipoviaY.  Restat, ut de cpiXeiv verbi potestate dicamus, qtfam vulgo non  satis accurate interpretantur docti  homines. Annotant enim, Græcorum (piXetY atque Latinorum  amare haud raro rebus actionibusque ita apponi, ut quibus esse  fierive solere res actionesque  indicentur. Merito autem quæritur, quid differat hic qnXeiv  verbi significatus ab aoristorum  temporum usu, de quo 142«  diximus, et quibus itidem solere aliquid fieri significatur. cfr. Eugelliardtus ad Piat.  Menex. 240. ed., Stallbaumius ad Plat, de rep. VIII, 650.  B., ed. 183. Matth. Gramm.  plen. J. 602. 3 > 954. Aoristum poni adhærente notione s oIere verbi, ubi de actionibus sermo  ait, quæ iam sæpius factæ sint,  satis notum. $iXeIy contra adhiberi solet de rebus, quæ non  tam factæ sunt iam sæpius,  sed quibus vim quandam inesso  indicatur, qua necessario  fiant. Et quoniam quæ necessario fiunt, sæpias iam facta esso  possunt, multis in locis perindo  est, utrnm aoristicum tempus, an  tpiXeiY cum præsentis temporia  infinitivo coniunctum posueris»  Sic nostro loco, quoniam pestis  Atticam terram sæpius invasit,  Eryximachus etiam dicere poterat: ol xe ydp Xotjiol iyi rOYXO ix T(k)Y TOIOVXCDV x.r. A,  Adhibito 9»iÆiV verbo hæc eius voluntas est: Nam pestis ea natura est, nt quæ facillime ex hie zs tevrov xal TCQEBpEvy Iv Ttavr l fpy», «Ala rov eteqov,  xal 7tEQi yoviag xal t,avtag xal xtTtltvzrjxbtag xal xeqI  foovg. a 6 tj TtQogxiraxtai zy (uxvuxrj inuSxontlv zovg    exoriri possit et qaæ seqq. Conferri potest cum hoc <ptXeir verbi  usus iStXeiv et fiovXedSat verborum in rebus inanimatis ; sic  v. c. legitur in Piat. Phæd. p.74. D. ovxovv opoXoyovpEv,  oxar x iS xi idcjy ivroijdy, oxt  fiovXexai plv xovxo, o vvr  iydo opcj, elvai olov dAAo xi   XGQV OVXQDY, Mei 8h XCtl OV  dvvaxai xoiovxor elvai x. x. A.,  quo loco non dubium est, quin  eadem rerum natura, quam cum  instincta animalium comparari  licet, tangatur, ad quam etiam  cpiXeiv verbum referendum est.   iav fiif x iS seqq. Notabis  hic usum Græcorum in collocanda negatione a nostro discedentem. Nos enim, cum non  ipsam sententiam negamus, sed  partem aliquam sententiæ, curam  agimus diligentissime, ne negationi» particulam collocemus ita, ut  cum verbo possit coniungi, recte  facientes, ut opinor. Sic nostro  loco non x 6 x a P^ £ ^ at negatur, sed asseritur aliquis X a P^ m  c>ed$ai quidem, at non ta xod/iioo sed fc3 hxepa "Epcoxi. Id  nos sic exprimimus: Wenn Iemand nicht dem gesitteten Eros  folgt, sondern dem andern. Contra Græci ita amant negandi  particulam cum coniunctiouibus  ei, iav, oitGDS aliis, arte coniungere, nt perspicuitatis illa lego  neglecta breves certe voculas, ante illam ponendas, post eam reiiciant. Quod in pronomine indef.  xis maxime fit. cfr. Crat. 453*  C. ei jirj xi xaXaS ixe&q dictum  pro et n firj xoXgjS Xenoph. Hell. VI. 4. % ei pij xiS  iaorj avtovopovS xaS noXeiS  elvai. Non negatur ibi ro id v  riva, sed affirmatur xo prj iav.  Pariter ante xal Tbucjrd. VI, 60.  collocat: hceidev avxov cuf XPV  el jxjj xal 6e6paxev x.x.X. pro  ei xal prj didpaxer. Quin etiam  ante ipsam coniunctionem ib. VI.   18. xov yap xpovxovxa ov  jiovoY iitiovxa xis ayvvexai,  a?iAd xal prj oitaS iiteidi itpo xazahafifidvei. Riickert.   d XXa xov Zxepov. Vulgo  aAXct nepl xov ixepor, quod ferri  potest nullo modo. Illud in Vindob. 2. et apud Stobænm reperitur Ecl. phys. 24. Memorabile exemplum, quo probatur,  interdum falsum esse, quod codd.  fere omnium consensu exhibetur.   d 6 r) 7tpo Sxlxaxrai.  Schulthessios: Desshalb ist es  eben das Amt der Wahrsagekunst.  Astius habet: qua in caussa.  Schleiermacherus : w o r i n eben  der Wahrsagekunst obliegt. Care *  scribendum censeas, quod olim  mihi in mentem venit: d dij  icpoSxhaxxai xy pavxixy inidxoiceiv xal xovS *Ep coxas ia rpevei >o. d enim est: in welcher  Beziehung s. und in dieser Beziehung liegt es der Mantik ob,  die Neigungen zu betrachten und  Heilung anzuwenden.  xal idxtv av i ) fiiavxixj}*  Spectat av 'ad 188. C, xavxct  o idxlv ?} Titpl $eovS te xal  dvSpooTtovS izpoi aAXyXovS xoi varia. Definitur autem 7 f yarZixrj nane ita, ut dicatur conci10  $  Ega zag xal largtvuv, xal %6nv ccv f\ (mvzzxrj tpMag  I) ftttZv xal dv&gnxav 8t](uovgyog za htiGzuGfrai za xazu  av&ga>7tovg igaztxa, o6u ztivu ngog depiv xal a<Stjleiav. orto xokXrjv xal (isydX rjv, fiaMov 81 naGciv  8vvu(uv %vM.rjf}8tiv (itv 6 xag "Egcog, 6 81 sr egi  tcc «ya&d atra <Saq>go<3vvr]g xal Sixai oGvvqg caiozeAovptvos xal xag xal itagd. &solg, ovzog zrjv   (liyiazrjv 6vva[uv iysi xal xaOocv ‘tjixiv tvSaifiovlav  itagadxeva&i, xal «AA>]Aotg Sirvafilvovg ojuXelv xal  (pllovg uvai xal zoZg xgelzzoGiv ijfiuv &eoZg. "iGag  E utv ovv xal lya zov * 'Egaza txaivcov xoXXce naga-kdxa, ov (itvzot, kxav yf    liatrix esse amicitiæ inter deo*  et homines eo» qaod sciat, quid  ad procreandam et pietatem et  impietatem habeant in homines  Krotes potestatis. Auctor definitionum 4l4. B. habet: parXIX}], iltltiTljuTJ $EG)ptjTtxf/ tOV  OVTOS XOtl ptXXoYTOS Zgjgj $V7]tgo. Yerior hæc definitio illa,  quam Eryximachus profert, quæ  ad duplicis Erotis naturam hominibus inhabitantem comparata est. ovtu 7 Co\\t}y xal peyaAljn' seqq. Convertit Schleierxnachcrus : So vielfache and grosse  oder vielmehr alie Kraft besitzt  Eros iiberhaupt... Errat iisdem  pæne verbis usus Schulthessius»  Ovtgj seiungendum est a verbis  insequentibus et ad totam enuntiationem referendum : Hac ratione multam habet magna m q u e potestatem Eros»  vide ad p* 58. Sequentia verba  ZvXXrjfidrjV p\v 6 7taS "EpuS  clare docent, Eryximachum, quoad  eius fieri posset, se accommodare  Phædri proposito voluisse: iyxco pia&iv " Epcata . Idem Pausaniam  fecisse annotavimus ad p» 180»  akX (X tt i^sXuiov, Oov £q~    E. htaivnv ptv ovv dei tcolvx aS SeovS.   xal aXXrjXot^ dvvapikvovS opiXeir, vid, adp.4l.,  ubi dvvaplvovS pro SvvatiScti  rjpaS dictum esse censuimus. Igitur participii accusativam accomdatum censeas ad ?}pdS pronomen, quod ad opiXeiv supplendam est. Non assentimur autem  Buckerto, qui xai ante tolS  xpeitto6iv rfpeov SeoiS expungendum putat. Cohærent inter  se xal aXXrjXoiS xal xoiS  xpeitrodtY tjjic&v SeolS, atque  ea cohærentia horam verborum  ut, emineret magis, dwapevovS  a Platone scriptam est, non 6vvapkvoit.   xal iyco. Ut Pausanias, ita  fortasse etiam ego multa intacta  relinquo. Tempore præsente  Eryximachus ntitnr, ut ad auditorum sententias oratio comparata sit magis, qui forte censeant, oxi noXXa itapaXeixet  ’Epv%ipaxoS, De insequendum  verborum explicatione liteidq xal  rjjs Xvyyos xatavCai audias Fiyov, c S 'AgiGtocpctVES, avaxXr]Q<3(Sai' Jj ll stas alias  iv va %xns lyxaftid&iv rov 8eov, lyxa/iltt&, Insidr/  xal rtjs Ivyyos ninavaca.   jExfcfaftEi/ov ovv £q»] shniv rov 'AQiGToyttvt] on 180  Kal {iaX htu.v6u.to, oi5 fihvtot scyfo ys rov straQ/iov  stQOSEvtx&rjvai avry, agts fie &avfia£uv, el r 6 xo<S[uov rov amfiaxos htfovfiil rotovrcov s^ocpav xal yuyycch6[iuv, olov xal 6 straQfios ItSti. stavv yay ev9vs  istavGato, htEtZSrj avra rov strayfiov stgosrjvEyxa.   Kal rov 'Eqv^iiuxov, r £l 'ya&E, cpavat, 'JyiGzocpuvEg,  oya tl stottlg ; yElarostouis (isllav liytiv, xal tpvlaxa (te rov loyov avayxatfivs yiyvEG&ai rov esavrov, scherum: Particula xal a Stephano ciici non debebat . Nam  Eryximachus ostendit, partes disserendi iam Aristophani susciiendas esse non modo propter ordinis rationem, sed etiam propter ea, quod singultibus non impediretur, quibus sedatis promisisset se verba esse 'de Amore  facturum . Prorsus eodem modo dicitur paullo infra olov xal 6  7trappoS idrtv, ubi xai addito  indicatur manifesto, non solum  sternutationem hic tangi, sed  cetera etiam, quæ Eryximachus  præscripsit, remedia singultus,  ov fisvtoi itpiv ys itpof ev ex$V v ai ccvtji i.   Dixerat Eryximachus. E.  tl d’ apa itavv Itiyvpd idnv,  dvaXaftdv n toiovrov, oVfp xivijoaiS av rijv f)iva, nrdpe.  Vides igitur, cur articulum Aristophanes adhibuerit rov ittapfiov . h. e. sternutationem  eatn, quam præcepisti. (3sre pe £ avfidd,szv .  Hæc est lectio codd, omnium.  Bekkeros, Astius, alii, ia textum    receperunt «stf lp\ SccvftaZetv  ea opinor de caussa, quod præcipi solet, particulas non pati  iuxta se positam encliticara formam pronominum. Huius regulæ rationem quoniam neque nos perspicimus, neque ab aliis satia  explicatam reperimos, codicum  auctoritati, quam mutandi libidini  obedire maluimus. Sententiam  quod attinet, Stallbaoinias ad h.l. ridet, inquit, quæ Eryximachus  disputavit supra 187. D. et E,  Audi Riickerti annotat, ad h. 1,:  habet etiam Eryximachus, quod  respondeat, non r 6 xod fiiov  illud appetere, verum r d axo  6fiov hac ratione expellendum esse. Id non facit respondentem Eryximachum, ne urbanitatem violaret i lectori reliquit inveniendum, erant que inventuri f  qui mores hominis nossent, facillime, nec potest latere attentum lectorem, qui totum hoc episodium de Aristophanis singultu  quorsum spectet, secum reputaverit » Vide Comment. de Sympos.  Platonis,   ijtstdq avrdi . Ia aliquot   10 iav n yeXoiov tixys, ll,ov Ooi Iv tlffrjvy Xlytiv. Kal  tov ’ AQiOtoipavr] ytXcKSavta tlntiv, Ev Xiyug, a ’Egv£l(ia%£, v-al fiot, t6ta aggr/tu tu fifnjfiLva. aXXa fir/  fis tpvXatts' tog fy 0 * (pofiovfiat ntgl twv fisXXovtav  QjjftijOttSfrcu, ov n, fiij ysXoZa sYxa, tovto fisv yag av  xigdos tfij xal tijg r/fistsgag MovOrjs truxagiov, clXXa  fir/ xatayiXuGui. BaXav y£, giavai, a ’Agi<Sto<pacodd. avnj repentur, quæ lectio 'eorum sedulitati debetur,  qui pronomen ad trjv Xvyya referendum censuerunt, Riickertus  ad h. 1.: Non habet, iuquit, neutrum hoc, ad quod reteratur. Nolim avtdj neutrum putare.  Quamquam enim Eryximachus r ijS  A vyyoS nomine usus est, tamen  hoc loco quasi tov Xvy/iov dixisset, pOSUit CtVTGJ. iav ti yiXoiov etayS,  Sensus est: Vide v, quid agas.   Rides sententiam meam, qui ijiso  nunc dicturus es, meque custodem esse iubes orationis tuæ,  ai quid ridiculum forte  proferas, cum tamen liceret tibi securo tutoque orationem  habere.   i£,ov 601 iv elprfvy Xiysiv Grammatici in i&ov,  6iov, aliis participiis nominativam absolutam agnoscant. Hæc participia, quoquo modo explicaveris, nam certa explicandi ratio  non reperietur in dicendi formis,  quæ quotidiano usu loquendi  quasi sancitæ cum linguæ legibus minus conveniunt, recte cum  nostratium formulis comparantur:  vorausgesetzt, dass; angenommen, dass.   ov ti, ilt} yeXoia efarm.  Stalibanmius ad h. 1. rectissime:  Hoc ov 1 1, inquit, connectas cum cpofiov fiat. Nam sententia hæc est : Noli me   custodire: nam ego vereor de iis, quæ nunc dicturus sum, non quidem,  ne ridicula proferam  hoc enim lucrum foret et  comicæ Musæ nostræ  consentaneum, sed ne deridenda. Revocandum est ov  Ti aXXa ad notissimam formulam loqudbdi ov Xiyco oti  aXXa, de qua vide annot. 66. Verba convertenda sunt: Gieb  auf mich uur nicht so genau  Aclit, dena ich iiirchte mich,  liber die gestellte Aufgabe sprechen zu miissen, nicht etwa, dass  ich durch meiue Worte Laclien  erregto, sondern dass ich Thdrigtes vorbringen konnte,   ^ ytXoxa  xaray iXa6ra* a Dicitur yeXoia ex mente  Aristophanis, qui narrat de aliis,  quæ risum moveant, vel omnioo  res alienas in partem profert ridiculam. Qua in rp quum nonnihil sit artificii positum, totaquc comici professio in co vertatur, ut moveat risum audientibus, non timet hoc, immo in  lucro .ponit, si contigerit. At  ‘KaxaykXa6xa qui dicit, sui ingenii fatuitatem prodit, sunt  enim deridenda. Est igitur verum discrimen, quod hic a poeta  ponitur, in ipsaque fundatum ety- vf g, o Xsi htxpsvfcsaftcu; nXXa TtQogsys tov vovv xcci  ovtGf$ Isye dos dcoOcov loyov. iGas (isvtol> av 86 C  ffOt, U(pTj(JCO as.  Cap. XIV.   Kal \Lrp>> iS *Eqv%Iim%s > slittlv tov 'jiQUStoyavrj,  SXly yk ity Iv vtp Ikyuv y y Cv re xal JlavGa  mologia, at vulgari in usu non  observatam, cai xaxaykXadra  quidem semper sunt deridenda. C. ivEVorjda  tote apa xaxaykXatfxoS c ov.  Apol. 28. D. tva pi) iv$a8e  pkvco xataykXadxoS icapct vrjvdl  xopcovidi. Ibid. S5. B, xa9ykXadxov xrjv noXxv noiovv teS ; ysXolov vero est quodcunque risum movet, sive consilio  eius, qui facit dicitve, sive imprudentia. cfr. iufra 199. D.  yeXoiov ipcoxijpa i. c. xaxayk Xadxov 213. C. ubi Aristophanes yeXoioS dicitur h. e. dedita opera risum excitans.» Hæc Iliickerti verba sunt optimo  de discrimine yeXoiof ct xaxaykXadxo? verborum disserentis.  Minus bene V. D. addit: Itaque,  et quum minime sit huius loci  vocum discrimina explicare, neminem esse puto, quin Prodici in  his agnoscat disciplinam, modo  sit memor eorum, qnæ de hoc  homine discimus e Protag. A., 341. A., Crat. 384.  B., Euthyd. 277. E», Lacii,  197. B.Vide Conuncnt. de  Piat. Symposio.   fiaXcov y e  oZei kxcp e v~  B,e6%ai; Suidas ed. Kiist. ftaXcov tpEvgsdSai  oZei ; itpoS tovS xctxov xi 8pa davtaS xol\ olopkvovS lx(psvyetv. IIoc proverbium e rc militari petitum est, uh! aliquis  misso in hostes telo tela hostilia vitaturus recedit. Riickertus  proverbium hoc modo reddendam  censet: Ia, nachdem du abgcschloss en, denkst du  davou zu kommen.   av 8 6 B,xi po t. Si videbi0 tur h. e. si rationem reddideris,  qnæ' satis mihi et sufficiens esse  videbitur.   xal /u}r >elxeiv tov  9 Api6r o cp dvtj. Aristophanem  intelligi comicum poetam, comoediarum lepidissimarum auctorem, extra dubitationem positum  est. Eius oratione recreabuntur,  qui Pausaniæ Eryximachique orationes legerint. Nam et a dictionis elegantia pulcherrima est,  et ad rem si respicis, tanta referta venustato, ut dubitari nequeat, quin multam studii in ea conscribenda Plato consumserit.  Orditor autem Aristophanes a  prædicanda Erotis laude, cuius  naturam non cognoscere possit,  nisi qui prius in hnmauam naturam inqnisiverit atque in 7ta $i}f.ictTa eius. Aliam, atque nunc  sit, olim fuisse narrat, quatenus  quidem non duplex fuerit, sed  triplex antiquissimis temporibus  genus humanum *Av8p6ywov  enim, cuius non nisi nomen reliquam sit idque ia igaominia  IIAATSINOE vias tlnirriv. i/iol yag 8oxov6lv av&Qcoitoi it avraitatSt  rtjv rov ’ 'Eqozos Svvafuv ovx ijO&fjti&ai., litti cdoftav 6  positam, tertiam genas exstitisse  viribas pollens, felicissima integritate gaudens atque tanto animorum superbia præditum, ut  ipsos deos aggrederetur. Iovcra  autem ceterosque deos dia hæsisse inopes consilii, neque, quomodo eius superbiam infringerent, habuisse. Tandem lori in  mentem venisse Androgyni dissectionem, qua eftecta Androgynum periisse, neque remansisse  nisi segmenta hominum, quæ  amissæ integritatis desiderio vehementissimo agerentur. Huic  desiderio AMOREM nomen, eiusque tantam vim esse, ut, ubi partem suam pars repererit, ab eodem  nunquam discedat. Igitur summorum bonorum hominibus auctorem Erotem esse, ntpote qui ad  pristinæ integritatis felicitatem homines perducat.  xal /i 7} y 9 co ’Epv Zlfiaxe*   Male ad h. i. Ruckertus : Videntur, inquit, ad Eryximachi verba  respicere xal prjv particulæ,  ut oppositionem contineant . Quum  enim spem faciat Eryximachus,  fore, ut dimittat Aristophanem,  hic tale quid videtur dicere :  Cupio equidem me dimitti, sed tamen vereor  ut fiat, sam enim aliam  viam a vestra diversam  ingressuras* cfr. Menex.  234. cap. 2. init, xal prjv, co  IMevIUeve, TtohXaxv xivSvvevei  X. t. A., quem locum laudo, ut  lectores tutius de Ruckerti explicatione 7tal pijv vocularum  iudicent. Ut nostro loco, ita ia  Menexeno xal pjjv nihil nisi gravem affirmationem exprimit. Astios habet: ac nimirum,  quod nullo modo probari potest. Unice rectam particularum interpretationem Schleiermacherus exhibet in conversione: Allerdings. KaL expletivum est;  vide annot. 6. et 38,   elrtitTjv. Bekkerns, quem  secutus est Astius, eliterov edidit. Stallbaamius cum audaciam  eorum non probaret, qui secandam personam dualem nunquam  a tertia diversam fuisse docerent  (Elmsl. ad Arist. Acharn. v. 773»  ad Eurip. Med. v. 104 1., Monk.  ad Eur. Alcest. v. 282. ), hrc  certum esse annotat: apud sciW  ptores veteris dialecti Atticæ secundam personam sæpenumero  in ttjv terminari. Schæferas,  quem laudat Stallbaamius ad  Schol. Apoll. Rh.  annotat: prisca græcitas dualpm certe activi in his  temporibus videtor bifariam flexiss e etoy, et ov  et kxr\Y, itrjy, sed posteriorum usus temporum,  grammatica subtilius an  argutius exculta, terminationem in oy assignasse  secundæ personæ, in tjv  tertiæ. Secundæ personæ in  Ttjv terminatio sæpius reperitur  apud Platonem, exempla collegit  Stallbaamius ad h. 1. cfr. præterea Duttm. Oraram, plen. Vol*  II, 417. Matth. Gramm. T.I.  $. 195. n. 1. 347.   itavt anadt ovx y 6$ijat. Negat Aristophanes, Erotis vim hominibus satis notam  esse, atque aperte indicat, prorsus aliter, atque Phædrus, Pau-i. i   (itvol ys (liyiOz av avtov lega xmttGMvaOtti xul (ta )(lovgy xai &v<Ji<x$ av sioiuv (ityiorus, ov% agnig vvv    sanias, Eryximachus dixerint, de  deo sese dicturam esse. Idem  paullo supra disertis verbis expressum est : &AAy yk Tty, in quibus verbis nou urbanitate, ut  Hiickerto videtur, sed ironia Attica factum est, ut aAAu verbi  austeritas addita 7ty voce mitigaretur? ejn weuig anders.  Hac ironia Socrates haud raro  usus est, ut summam rem tanquam minutam exilemquc proferret. Exemplo est PJat. Prot.  828. E. vvv itkitttdpat, 7tfo/v  (Spixpov ri jnoi ijixoSaoy, d 8ijAov, oti tlpooxayopas fiqtSkoS  I7cex8i8d£,et f iiteidr} xai td noXAa xavxa i%E$ida%Ev,   ipol ydp 6 oxov div ctv-.  SpooTtoi. Hæc est codd. lectio plurimorum, Wolfius e tribus  ol dv^pcJ7COi in textum recepit,  ©e gerere in universum hic ar poortoi dictum putari sententiæ ratio non patitur, neque  vero cum contemtu homines commemorantur h, 1. Nihil igitur  esse vides, quo possis articuli  defectum explicare. Fortasse  scribendum est dv^pco7toi eodem  modo, ut avSpcDTCoi nunc haud  raro apud Platonem reperitur. cfr,  Symp. p, 206. A. ooS ovSkv ye  aXAo i6x\v f ov ipdUtitv avSpcojcoi, ad quæ verba Stallbaumius  annotat; Non opns articulo, cuius omissio admodum usitata est  in eiasmodi vocabulis, qualia sunt  avjjp, adeAtpos, yvvrj, yij, aliis,  quum de genere posita sunt. Vigiuti codd. articulum addunt.  Fortasse et 1». 1., quoniam degenero humano verba non putamus accipi posse, av$p<*)itoi scri  bendum est. De formæ huius  veritate vide Apollonium iu Bekkeri Anecd» gr. II. 495. 24.  apeivov ovv. itapa8k%a6$ot.i dtoptxrjv peraSEtiiv xov J eis xo  a, xal gjS' 6 avijp dvrjp y o «y*  $pGD7TOS aV$pG)7COS 9 OVXCJS XO  ixepov Sdxspov idxiv.   ixel altiSavd fiev ol ys.  Aptissimus hic locus, ad quem  de ItieI vocis natura et potestate,  quid videatur, dicamus. Satis  notum est, atque exemplis ubivis  obviis probatur, etCel nou solum  consequentiæ, verum etiam caussæ notionem habere. Eius notionis origo est liteita vox, quæ  loquendi usu, ut fit, iu breviorem  formam mutata ita adhiberi solet, ut temporis notio cum consequentiæ caussacve notioue  commutetur. Iu vernaculo sermone eodem modo e temporalibus daun et wann factum est  caussale d e n n, et coqditionalo  nv e u n . Sic cap. XIII, initio  ijtsl XOLl 7} TGJV GOpcZv XOV  iviavxov 6v6ta6iS jtE6tij idxiv  dpfporkpcov xovtoav x, x. A,,  quo loco eadem ixei vocis potestas est, atque iitEixa . Eryximachus nimirum cum dixisset,  in arte musica et in medica duplicem Erotem reperiri, ita pergit :  Hernach ist auch die Yerknupfung  der Iahreszeiten voli von diesca  beiden. Non repugnabimus autem  si quis verterit; Denu auch  die Verkniipfung cet., quoniam  in omnibus artibus et rebus duplicem Erotem reperiri  dictam erat, quibus verbis procedentibus efficitur, ut quod postea sequi dicatur, idem illius HAA TS&N02    tovtcov ovdtv ylyveua itsgl avtov, Siov itavtav (laAidta  D ylyvs<S&ai. €<fn yug &Eav tfnlav^ganotatos, Ixlxovgog  te uv tav avftganmv xal largos tovttov, av la&ivtcov (isylOTTj av Ev6cu[iovla rei av^gamla ytvEi eitj.  lyto ovv xugaOouai vytlv ElsrjytjOaO&ai tyv 8vvay.iv  avtov, v(itls 8s rav aXkav 8i8d<SxaXoi ttiEC&E. 8eI Se  itgatov vyag fia&elv tffP dv&gazivjjv qwOiv xal ta xa~  ftrjyazu avTjjg. dicti veritatem, ut caussam veritatis, comprobet, cfr. Apol. Socr.  26. D. jua At, c5 av8peS  6ixa6ta \, inel rov p\v t/Xior  XiSov (prj6\v etvai, r i}v 8\ d£A rjvrjv yifv. In Alcib. II. 143.  C. ixeidr) ovtoa 6ot 8oxti 6<po 8pa Seirov Elrai ro jtpaypa,  Ssre x, r. A., imi pro litEi8r\  scribendum est; scribæ enim  inei vocis significatum non percipientes 6jj addidisse videntor.  Battm. ad h. 1. bteiSij 86 scribendum censuit» Dubito, num  recte. Adde Prot. 334. B. ei 6 f  i$6\oiS hti xovS mopSovS xal  tovff viovS TcXtavaS InifiaKkeiv  (sc. TTjY 'H07tp0V) TtOVXCL dnoXA v6iv iitel xal r d iXaioy  roiS plv <pvxoiS anadiv Itixi  ituyxccKOV x. r. A. Adde.  C. d St rfjs OvpccriaS rtpdSxov  f-tlv ov pexexovdtfS StjA-eoS, aAA*  dfifieroS fiovov xat idnv  ovxoS 6 rcor TtalScov " EpcoS  in e ix a izpetifivxipaS, vfipEGDS  dpolpov, quo loco iittira consequentiæ notionem habere videtor. Dieser aber gehort zur  Urania, welche zuvorderst nicht  Theil hat am Weiblichen, sondern bloss am Manolichen  welche folglich die Æltere  und ohne Uebermuth ist. Antiquissimis eoim temporibus illis  masculum genas exstitit tantummodo, non item femininam» Adde  180. A. S! r\v xdWiov ov  povov JlaxpoxXov aA\’ apa  xal xoay rjpcdcjv dnavXGtv, xal  iri ayivEiof, ineixa vecotEpoS  Ttohv, <2s (p7]6iv n OpiipoS. Ad  nostram locum nt revertamur,  litei temporalem potestatem habet, quo simul effectum est, at  sequentes infinitivi e præcedente  finito verbo 8oxov6iv exaptarenrentor. Sensus est: Denn mir  scheint, dass die Menschen durchaus des Eros Bedeotung nicht verstanden haben, hernach, dass sie,  wenn sie dieselbe verstanden  hatten die grossten Heiligthiimer erbaut haben wiirden...  Simillimus nostro loco est Xenophontis, quem Stallbaumias  laudat, Hell. VII. 1. 38» 7 tpoS  dfe rovroiS xal ro rcor XPV~  lid.XGov7t\i}$oS dXaZoveiar avxcp  doxEiv slyai iqnj, in si xal rijy  vfivovpbrqv av xpv6rjr itXdxavov ovx Ixavrjv elrai rkxnyt  tfxtccv napix^y*   fitiy t6r av avrov lepa.  Wolfius ad h. 1. annotat: Schoo  aus diesen Worten hatten manche  Sammler von Mythologien lernen konnen, dass Amor keine  Gottheit war, die der Volksglaube  zu cincm Gegenstaud der eingefiilirten Religion gemacht, son- 'H yuQ xaXai yficov cpvOig ov% avtrj rjv Sjiteg vvv,  dXX’ dXXoia. xqiBtov [ilv yuQ rgla fjV ta yevrj ta.  TtZv dv&QUXMV, OVI «S**0 vvv 8vo, u$Qtv xal frijlv,  ctXXa xcd tqItov xgogijv xoivov ov d[icpottQow tovtarv, E  ov vvv ovofia Xoatov, avto 81 ^tpavuStai. dvdgoyvvov yciQ tv tore [ilv ryv xal sidog [xal Svo[ia ], autpotegav xoivov, tov te ccQQevog xal frqXeog, vvv 8’  ovx Sotiv aXX’ y iv oveidei ovo[ia xeljxtvov. exeircc    ilern mehr ein Abstractam, das  den Dichtern seinen Platz im  01} rap zu danken hatte. Ceteram  xaxadxev adai aoristicum tempus positam est sequente itottlv  imperfecti infinitivo, at actio  præteriens, qualis est templorum ædificatio, a sacrorum ferendorum consuetudine discerneretur. Vide Engelhardtum ad  Meocx. pag. 234. c. 2. xal  yap tacpf/S xaXrjS xe xal fieyaXonpeitovS rvy^ayn, xal  iav rtivrjS xiS uiv xeJLevxrfdp,  xal iitaivov av itvxe, xal  idv <pav\oS j} x. x. A.   ovx vSrtsp' vid. ad 179.   E. annotat. Oratio plenior foret  «AA* ovx av litoiow, usitep  vvv, o xi xovrarv ovSlv yly vexat. Nvv autem Tocula non  solum de præænte tempore intelligenda est, sed etiam de veritate rei. De verbis insequentibus 6 eov 7 tavTGDV paXidxa yiyvedSai, vid. ad 131. i%ov  doi iv elpyvy A kyeiv.   litlxov poS x £ &v. Addito  elvat verbi participio epitheti  veritas indicatur, ut convertenda  verba sint: denn er ist unter  den Gdttern des menschenfreundlichste and der walirhaftige  llclfer der Menschen and Arzt    der Uebel, deren Heilung dem  Menschengeschlechte zur grossten  Gliickseligkeit gereichen miisste.   vjjieiS 61 xoHvdXXcDV 8i- '  8a6xaXoi i&edSe, Hæc  verba vario modo explicari possunt. Fortasse Aristophanes vulta ad serenitatem composito, tanquam summæ veritatis rem probaturas satis festive, ut comicum  decet, doctoris formam imitatus  Vobis, inquit, ego, vos ceteris præceptores eritis.   ovx avxrj rjv, rjitep vvv.   Bekkerus, quem secuti sunt Astius  et Reyudersius ex Euscbii Præpar. Evang. XII. 585. C. i)  avxrj in textum recepit. Fiemus  habet: neque enim, qualis  nunc est, olim erat, sed  longe diversa. Nihil mutandum est. Verba proprie audiunt generis assimilatione omissa:  7} ydp Ttakai rjpcov cpvdiS ov  tovto ijv, Zizep vvv, aAA* aAA owv xt. Sed minus adamatum  hoc dicendi genus fuit Græcis;  quamquam enira rectius censeri  potest, atque exprimendæ sententiæ convenientius, tamen minus elegans est atque durius.  Hinc factum, ut generis assimilatione adhibita scriberetur ovx  avtrj tjxEp . Diximus de  hoc genere dicendi 139. «Aov rjv hiouSt ov tov &v9q<6xov to slSog, GtQoyyvA ov,  vojtov y.al kXevqus xvxXa %ov. %HQas Si xtrtaQas  tljE, xui Gxibi tu %6u tuis X e Q^' *«* Xqosuzu Svo    avdpoyvvovydp e v r ote y\v rjv xal eido S [xal  ovo/ia.] Ficinus Tcrba convertit: Androgynum quippe tunc  erat et specie et nomine, ex  maris et feminæ sexu commixtum. Eum secutus est in conversione Schultliessius: Deuu dazumal war das Mannweib wirklich wie im Namen, so in der  Gestalt vorhatiden. Stallbaumius  od h. 1. deest, inquit, ev in multis codicibus, itidem apud Stobæum ct Eusebium. Quod vide,  ne omittendum sit. Riickertus  %v verbo servato verba convertit : Androgynum enim tunc unum  erat non minus genus quam nomen, ex utroque conflatum, virili et muliebri ; nunc non est  nisi nomen opprobrii caussa inditum, Displicet hæc conversio eo nomine, quod repetitionem iuutilem continet præcedentium verborum : crAAoc xal rpixov (sc.  yivoS) itposijv xoivov « 7 / 90 xipCDv rovx&v x. t. A. Porro caussam frustra quæsiveris, qui  fiat, ut commemorato in prueee-»  dentibus yevo$ verbo nunc elSoS  idem significet atque yivoS. Postremo male se habet: Tore h. e.  tum temporis unum fuisse et genus et nomen avdpoyvvov,  quasi non et Platonis ætate unum  nomen avdpoyvvov fuisset. Ev  voce deleta sententia hæc est  verborum: Mannweib war damals  in Beziehung auf Gestalt uud  Numen aus beiden, dem MannJichen. u. Weiblicheu ausatnmen gesetat. Sed rursnm quæras, nuin  Aristophanis ætate Androgyni    nomen ex ntriusqne generis nomine non compositum fuerit?  Si qnid video, ineptum scioli  additamentum est xal ovo/ia,  quod præcedentibus verbis ov  vvv ovofia A ontov nullo modo  explicari potest. Deleto eo optime  huius loci verba se habent. Aristophanis mens hæc est : sed et  tertium genus insuper erat utriosque generis et masculi et feminini particeps, cuius nunc nomen superstes, ipsum t periit*  Videlicet androgynum (ut nunc  nomen, ita) tum temporis nnum  erat etiam eldoS utriusque particeps generis, masculi femineiqne.   v v v d’ ovx tdxiv aAA* rj  i v 6 v eide t ovo y a xeiy evov. Ietzidagegen istes (das Androgynum) niclits auderes, ais ein  schimpflicher Name. Scripsi aAA  pro vulgato aAA*. * Vide Engelliardtum ad Piat, Apol. Similiter scribendum est LEONZIO (si veda). A. trAA*, 7/, xo  Xeyoyevov, xaxomv hopxijS rfxo pev xal vdxepovjiEV \ Non ubivis autem scribendum <*A A ?/  esse, Phædonis Jocus docet 81.  B. goSte yt/dlv dAXo doxelv  BLVCLi aAijSlZ aAA* ij xo dcojiaX oeideis x. t. A,, ad quem locum Stallbaumius rectissime:  Orta est,' inquit, hæc locutio ex coniunctione duarum loqnendx  formularum, quarum altera oppositionem altera comparationem  indicat. Hcrmannus disiungendas esso has particulas iocet atque  7J cum altero 7/, quod in me mbro  orationis supplendo comparcat, In' av%ivi xvxXoteqcT, ouoicc itavty xscpceXrjv 8 ' In 190  aiKpoxiaous rovg ngoganoig ivavxloig nEx/ihoig [ilav,  xai coxa xlxxaQa, y.al alSola 8vo, xal talla navxa ug iungen xal talla navxa ug    iungendura. Nimiram expletiorem  orationem esse, ut v. c. nostram  locum ad Hermanni præceptum  exornemus: vvy 8 ’ ovx l 6 xiv  d\\’ V et v dvelSei oyopa  xei/isvov r) ovx ol 8 a iv ct  xsixai. Sed falsam esse, Ed.  Hænischius ait in annot. ad Amat., hanc explicandi rationem,  hinc maxime apparet, quod, si  yera esset, nemo sic diceret, nisi  qui aut ipse se rem suam parum compertam habere profiteretur, aut id, quod certo sciret et eloqueretur, ita afiirmaret, ut,  si non verum id esset, se de suo  ipsius indicio desperaturum esse  significaret. Pro dXX ?/ interdum 7 tX?}v r/ reperitur, neque rarum Tt\f\v olK X ?/, quibus formulis similes sunt formulæ nostratium ausserals, uls nur,  ausser ais nur. De xsiG$at verbi potestate dictum est  ad 100. Ut de legibus civitatis, ita de usu loquendi recepto sæpissime apud scriptores  reperitur. Ceterum Riickerto non  assentimur, ovopa iv ov sidet  xsiuevov eodem modo dictum  censenti, atque Xafislv iv cpipvy  ^Svpiav y Syriam dotis loco  accipere. Ut Homerico J SsgUv  iv yovvadt xsixai fatura inflexibile significatur, ut iv ftop”  popeo xsidSai in Phædon, 69.  B. de æternitate vitæ miserrimæ  dicitur, sic ovopa iv oveiSst  xsipsvov usus recepti constantiam exprimit.   dvdpoyvvov . v. Suid. s.  r* dvdpoyvvoS et Muson. Fragm.  p« 208. ed* Peerlk* Alter habet:    6 xa avdpoS rtoiGov X&l xd  ywcnxwv TzaoxGDv. Alter: ol  ys dvkxovxat avdpoyvvoi xal  yvvaiXG) 8 etS opatiSai ovxe ? 9  onsp s 8 ei (pevysiv iB, anavxoS,  si 87 ) roi> dvxi avdpss 7/tiav,   Urtsixa. Præcedente irp<atov psv, quod male Ficinus convertit a principio,» htsixa 8 s scriptum exspectaveris. Sexcenties  autem iizsixa reperitur omissa  8 i particula, quoniam htsita tantæ gravitatis est, ut ipsum possit, hoc est, non adhibita dfc particula, oppositionis pondus sustinere. Unum e multis exemplum ut laudem, 194. E. legitur! iy<d 81 87 } (iovXopai  xtpooxov p\v tlittiv, y XPV M e  elrtEtv, IneiXOL shtsiv . In se quentibus Ruckerti annotatione  factum est, ut post xo EiduS  comma poneremus. Riickertus  autem. Me oppositio, inquit, quæ  hic adest pristinæ integritatis  et insecutæ postea dissectionis  admonuit, ut oXov prædicatum  esse censerem, quam interpretationem haud scio an commendet etiam vocis locus ante 7/v y  quem vix teneret, si cum sldoS  esset conuectenda. Dicit igitur  hoc: Deinde iutegra erat   hominis figura, rotunda, dorsum et latera circa habens (non,*  ut nunc, dorsum, latera et pectus.}   xEEpaXrfY 8 * plav. Quis  non Iani meminerit, Latinorum dei antiquissimi, quem uno capite, facie duplici insignem venerabantur? Erat autem Ianus dito rovtcov &v rig tlxdaniv. litoQtveto 51 6q9ov,  agitSQ vvv, oitoztQaOs fiovXq&ilt] ’ xal ditor e xu%v oq(itjGut &siv, iSgittQ ot xvfiiatavrig slg oq&ov tcc Oxalrj  itsQitpsQOfisvot xv)3 MJtiutft xvxha, oxuo Tore ov<5t tolg fitXs~  Civ aitEQEid6[iEvoi xa^v Itpiqov to xvxlco o yv da Sia taura pacis dens, nt verba Aristophanis  iu Erotem directa et Iano conveniant: l6xi Seoov cpiXotv^pcoTtQTCtTOS, $7tlxOVp6f TE G$V XGOV  dvSpdiccdv 7 (ai laxpoS xovxgdy,  cor IocSevxcjv psyidrr/ av evSaipovioc rc5 dv^pcjTteiw ykvEi  fi?;. Adde 191. D. $6xi 6?}  17/ f dpxalaS q>v6£GDS 0vvaycoyevf, xal inixEipivv 7Xoiijdai  'ev lx Svotv xal latiadSai xrpr  tpvtiiv x tjv dvSpGDTtivTjv. Quid, quod ipsum nomen Iani aliquam haberevidetur cum {aivco verbo cohærentiam? Romaui bellorum  quam amoris intentiores rixis,  CONCORDIÆ AMANTIVM AMANTE AMATO pacem pacisque conditiones videntur substituisse.   ijtOpEVEXO OpSor,  GjSrXEp rvr. Koti vulgo ante  vpSov positum deest in codd.  non paucis, Bekkerus vocem in  textum recepit, uncis Stallbau»  mitis et Dindorfius incluserunt.  Ficini conversio hæc est: Incedebat hoc tunc et rectus, ut nunc, in utram vellet  partem. Kai vocis tuemluc  provinciam suscepit Ruckertus his verbis usus: Duplex incessus pristinorum hominum narratur,  erectus, quem nunc etiam habent, eo tantum ab hodierno diversus,  quod tum, utram in partem vellent, pariter præcedebant, /z. e,  prorsum et retrorsum, alter rotationi quam meatui similior •  Sequentia igitur verba hoc modo  exhibere voluit : Jtal, dxots xaxv    oppyjdEie $Etv, ooSTtEp ol 7wfhCxdvreS x, X. X., nam in eius  editione comma post Ttai non comparet. Sensos est: Er ging  aber aufrecht, wie jetzt, nach  welober Seite hin er wollte, und,  wenu der eine oder der andere  schneller sich bewegen wollte ete.  Vulgo pro opfiJjdeu legitnr opprfCei pro %eiy verbo IXSeiy, Male.   <k)S7XEp ol XVfildXGOYXES*  Derivatur hoc verbum a xv(bj >  quod idem aotiquitus significasse  perhibetur, atque XEqjaXij. Igitur primaria xvfit6xdv verbi significatio videtur esse: capite   insistere, se præcipitem dare,  cfr. Hom. XElpOYX lyx^Xvk? x e hclI Ix^veS,, o*l xotra Sivaf   ol xotra xaXa fissSpa xvfiidxcor  $v$a xcii $vSa.   Erat autem apud Græcos saltationis genus, quo qui utebantur,  caput deorsum, pedes sursum  proiicere solebant, non nisi pedibus solum attacturi. Summa  corporis atque inprimis spinæ  mobilitate opus erat saltantibus,  quare Patroclus Kebriouc, Hectoris auriga, iuterfecto, satis  acerbe II. 16* 745. hæc profert   <L nbxoi> r\ pdX 9 iXatppoZ dvrjp,  fisla xvfhtixd   et v. 749. <6$ vvv Iv txeSIgj IB,  itctcoov pEta xvptdxd  r) fia xal iv TpdedCi xv(h6xqrr/peS iadiv.tqlcc ra ylvr) xal roiavta, on r 6 fitv kqqiv rjv r ov rjXtov B  t rjv «QXV V Pxyovov, to Se %rjXv Trjs yijs, to Se aiupoTSQC3V iitzs%ov vfjs OiXrjvrjs, ori xal rj Gelrjvtj a[i<poreQatK yiEzl%u. TtEQirptQrj Se Sr) yv xal avrcc xal rj noQsia  avrav Sia zo rotg yovevOiv ofioia elvai. rjv ovv xrjv Tangit fortasse hoc saltandi genos Herodotus 6, 129. 6'btizoxÆiSyS ixiÆvdi oi riva  tpanaZav iSevEtxai * iASovtiyS  8h ryS rpaTtE&jS n patra plv in  avrijs oopxyoaro Aaxaovtxd &XV~  paria’ pera. 81 a\Aa *Arnxd •  to rpirov t ?/ v xecpaArjv   ipeidaS ini r rjv rpane%av roidi 6xiXe6i ix «ipovopyde. Schol, ad nostrum  locum iusto brevius : xvfiidryp 6  opxydryS xal xvfiidtav to opXsiGSai.   eis opSov ra dxiAy n.  Ante eiS in plerisque codd,, quatuor exceptis, xai legitur, quæ  depravatio textus est manifesta.  Omiserunt voculam editt. omnes. Orta ea lectio est e mala intelligentia præcedentium verborum,  quæ intellexit, quisquis fuit, qui  xai interposuit, hoc modo : ino pevsro 81 opSov (3snep vvv,  xal, sc. (inopsvero) ditare tax t)  opprjdeie Seiv, ooSnep ol xvftidravrsS ’ xal eis opSov x. r. A. oxtgj tore ovdi. Vulgo  legitor rore oxrcJ x. r, A. Transposuit verba, qui putaret, rore  ad præcedens onore pertinere. Probari posset vulgatus verborum  ordo, si scriptum exstaret: rore  rolS uxtgd piÆdiv anepEiSope voi x.t. A. Sed non addito Articulo, ovdiv autem participio  adhibito, cur is ordo verbornm  unice probandus sit, quem cdd,  omnes probarunt, facile iutelligitur.    7/v dk Sia Tavta Tpla  Ta yivy xal toiavra. Ad  certam quandam philosophiam  comicum poetam respexisse, quam- quam a multis annotatum est,  tamen ut credamus, animum inducere non possumus. Vulgatum  euim hoc erat, et vero etiam  nominum terminatione firmatum,  TfXiov, solem, virili potestate  esse, yyv, tellurem, feminea,  qua propter etiam rerum mater vocata est. Fieri igitur facillime potuit, ut philosophia advocata nulla, mera vulgi opinione  nixus solis prolem masculum genus vocaret, terræ femineum Aristophanes. Restat ut de Androgyni origine dicamus, quod cur Lunæ prolem dixerit, disertis verbis indicatum est; ori xal  ?} dsAyvy dptporipoov perixei.  Atque ipso nomioe deXyvyS hæc coniunctio terræ ac solis indicata est. Dorica forma est (?£A avaia, quam convertere possis Glauzerde. Solebant  autem veteres novam quandam  in huiusmodi rebus opinionem  prolaturi, argumentorum loco er  ipsa rerum natura petitorum, alias  res conquirere, quibus illam probarent, Sic Pausanias, ut duplicem Erotem esse probaret, ad  duplicis Aphrodites mentionem  confugit, quarum suum utrique  Erotem assignaret,   n epitpepij 8h 8?) yv. Non  gkreisformig,» quod in  Astii et S chleier macheri Itfrvv 8 uva xal xijv qcoiiijv, xal xa tpQovrniWK (itycda  tl%ov, lnt%dqvfiav de zoig &eolg, xal o kiyu "OfitjQos  3 csqI Ecpiccltov xs xal ”ilrov, jtejh Ixdvav Xeyixai, xo  C ds tow ovgavov dvafiaGiv im%UQelv noielv, ag Ixi&iy  Gofiivav xoiig tteois. versionibns legimus (adde  etiam Schulthessii conversionem  88. ed. Orellii,) quis enim  circuli formam corpori  tribuat, sed kugclformig.  Riickert. In sequentibus 8ia  to opoia eivai verba Schleiermacheros convertit: um ibren Erzeugern ahnlich zu sein. Rectius Ficinus: quia parentum  similia.   xal ta (ppovrfiiaT a pe*  ya\a elxov. Schleiermacherus: nnd hatten auch grosse   Gedanken. Minus accurate. Articulo enim addito efficitur, ut  sensus sit: und der Hochmuth,  den sie hatten, ging ins Un*  geheuere. vide annot. 12. Articulo non addito supra legitur  182. C. ov yap, olpai, dvptpipei toiS apxovdi tppowjpara  peyaXa lyyiyvedSai, quem laudo  locum, ut de nostri loci articulo  facilius certiusque iudicari possit  a lectore. MeyaXa <pporj}para  dicuntur autem habere, qui contra dominos conspirant, cfr.  182. C. ov, yap, olfiat, dvpq>epei toiS apxovdi (ppovrjpata  fieydXa lyyiyvedSat tgjv dpXoiUvoov ad quem locum ' vide  annot*. 102. Comparativum  exspectaveris, non positivum ; ille  tameu in hac formula solennis. o Xkyei "O prj poS. Od.   11. Sl4.   "Oddav iic OvXvjiitto pe*   padav SepEY, avtap £tz   "Oddy   JlrfXiov elv o diq>v\\ov,lv*  ov pavos apfiaxoS etr/.   ooS litiSr] 6 o pkv gjy roiS  SeoiS. Riickertus iungenda hæc, inquit, cum Ttepl ixeivGOV, quæ  structura propter interiectum  membrum to tcoieiy, in quo  avxovS subiectum est, aliquid  incommoditatis habet. Ad  l7Ci$t]6op£vcjv supplendum est  potius avTCDY. Exhibetur autem  genitivus participii cum gjS, ubi  aliquis refert quod aut ex aliorum opinione depromtum est, ant quod ab aliis vult cogitari, ut  in Piat. Apol. Socr. 30. B.  itpoS lavra, (pocbpr av, cJ av—  8 pes *A%r]vaioi, rj nelSedSs  *Avvxcp rj pjj oj S ipov ovk  av itoiijdovroS «AAo x,  T. A., h, e. de me ita cogitate,  me nunquam quicquam facturum  esse aliud.   *0 ovy Z evS xal ol a AAot $ 80 i. Omnem hanc narrationem de deorum consultatione  et quid facerent, dubitatione, nt  cupierint quidem punitam humani  generis protervitatem, sed nec severitate uti ausi fuerint, quam  læsa maiestas exigere rideretur,  nec aliud invenerint remedium,  quo et illi poenas darent et suus  honor salvus maneret, donec ad  postremum Iapiter ægre aliquid  excogitaverit, hanc,, inquam, a d  deorum derision em comCap. XV.    'O ovv Zevg xa l ol «A Aoi 9iol Ijiovltvovto o «  %(M} avtovg 'MHrjtScu xal TjXoQow. ovte yag onag axo  positam esse neminem poto  non videre. Riickert. Male;  vide Comm. de Piat. Symposio»   oti XPV ctvtovS rtOtij6 at. Ne quis pro indicativo optativum reponendum censeat, quod  Astius olim fecit, post infectum, voluit: Græci ingenii tanta est vivacitas, ut structuras verborum  doas, quarum ntraque suam quandem iucunditatem habet, confunderent atque commiscerent, videlicet ne, cum alteram prætulissent alteri, alterius gratias  simul amitterent. Igitur oxi  XPV avtovS rtoii}6ai compositum  est ex oratione obliqua oti XP E ty  avtovS it. et ex oratione recte  ti XPV ocvtovS Xotijtica   xal ojSitep, rovS ylyav taS xepavrccHj arreS. Stallbaumius, intellige, inquit, post  yiyavtaS tfq>avi6otv ex proximo  ctqxxvldEiEV, cuius breviloquentiæ exempla collegit Wyttenbachius od Selecta Princip. Hiator. 364. Riickertns verba sic inngenda esse censuit : ovte  yap eIxov ortcoS drtoxTEtvcæv  (sc. avtovS) xal ro ylvoS dtpa . vldaiEv, XEpavvGotiavtES GDinep  rovS yiyavtaS . Neutra explicandi ratio nobis placet. cuV itep  h. 1, non similitudinem indicat, sed  agendi rationem describit, ylyavteS autem homines vocantor  illi ipsi, qui e masculo et fenrineo genere compositi viribus freti  ac robore, elatiores animos alebant. Sensus est: Sie wussten iiberhaupt weder einenRath, dass sie sie todteten, und besonders w i e  sie, nach Erlegung der  Riesen durch den B 1 i t z das  ganze Geschlecht verdiirb e n . Disertis verbis ylyavtES commemorantur, ut esset, quod  sequenti ykvoS opponeretur. Quoniam autem homines nondum dissecti erant, fieri non potuit, quin  cæsis hominibus illis totum genus hominum misere periret, atque nemo remaneret, qui deos  veneraretur.   ai tipal yap avtolS   7/ <p avi$£t o. cfr. Symp. 198.  C. vit ai6xvvr]S oXiyov artodpaS <px^PV v ? KV MX 0V Nemo Stallbaumio melius de indicativo huius loci explicando  disseruit. Eius verba hæc sunt: *  Aoi istas et imperfectum sine av  particula positum in talibus SIGNIFICAT certo et haud dubie  aliquid fuisse futurum, pr opter ea  quod habeat obiectivam, quam  dicunt, necessitateniy ut Lat^ futurum erat: accedente autem av  particula etsi pæne idem significatur, tamen conditionis et  mudalitatis, quam vocant philosophi, accedit notatio, ab hoc  loco, pæne prorsus aliena . Quocirca non tantum XPV V > £5 Et,  npoSijxEV, ut Lat, oportebat,  decebat, debebam, ita usurpatum  est, sed multa alia verba, irtprim slvaiEV ii%ov xal 'cos it£Q, tovg ylyavzag xsgawdeavreg, to ytvog oxpavLaaitv, al rifial yag avroig xal  rcc tfQcc ra naga rwv av&Qamov rjtpavl&ro ov& oitag  latv aCilyaivuv. fioytg 8rj 6 Zsvg IworjtSag Xlyu, ore  zloxd fioi, %<pi], %%uv iiTjiavijv, wg av iliv te uv&gaicoi  D xal xavOaivro t ijg axoAaOlag aG&tvtGztQoc ycvofuvou    vvv (iiv yag axnovg, £cprj    mis ea, quæ natura sua continent aliquam obiectiuæ necessitatis significationem. Indicativo in hypothetica enuntiatione Latini osi sunt plerumque ita, ut non tam obiectivæ necessitatis, qoam temporis rationem haberent, quo tempore aliquid, quominus fieret, impeditum esset, cfr. Tac. Histor. II.  46. iamquo castra legio-^  dum exscindere parabant, ni Mucianus sextam legionem opposuisset, h. e.  achon waren sie daran, das Lager der Legiouen zu veruichten,  hatte niclit zur rechten Zeit  noch Mucianus die sechste Legion entgegen geworfeu. Adde  notissimum Horatii locum Od. II.  17* 28. Me truncus illapsus cerebro sustulerat,  nisi Faunus ictum dextra  levasset h. e. Mich hatte  der auf mein Haupt stiirzende  Stamm getodtet, hatte niciit  noch zur rechten Zeit  Faunus durch seine llechte die  Kraft der Wucht gebrocheu.  Temporis hanc notionem quando  assequi volunt Græci scriptores,  eodem dicendi geuere utuntur  quidem, sed non nisi addita  iv3v$ particula temporali, cfr.  Thucyd. VIII. 86., quem locum  Stallbaumins laudavit iv gj datpidxaxa 'looviav neti 'i&U?/dtarenco $i%a exadtov, xal    difovtov evSvS’ eTxov ol ito TUfiioi,   doxdj fioi, £<PVt  Quod supra annotavimus 159.  ad verba o n XPV olvtovS itoitjdai y id iis vehementer displicebit, qui omnino duas verborum  structuras confundi atque commisceri neguut. Negant autem,  qui non intelligunt structuræ  originem. Etenim rem animo  suo ita informant, ut censeant,  scriptores positis dnabus verborum structuris artificiose ex utriusque quibusdam fragmentis tertiam composuisse. Nobis persuasum est, hoc structuræ genus  non e scriptorum officina prodiisse, sed e quotidianæ vitæ  sermone iu scriptorum libros immigrasse. Pertinet huc noster  locus, ubi præmisso ott, quod  indicium est orationis obliquæ,  ipsa alicuius verba laudantur. Patet autem, proprie dicendum fuisse Aristophani : \iyet, ori domi ol Ixew prjx ay yv r. A.  Factum autem Græci ingenii facilitatemne dicas an felicitatem,  ut servato obliquæ orationis indicio rectam orationem retinerent,  atque orationis suspensæ continuitatem cum rectæ orationis  vigore coninngerent. De hac  structura vide etiam Mattii.  Gramm. plen. $. 623. 2. b. p*  1270.    a  «pa fiev &0&svl<3teQOi $<Sovzai 9 apia %Q7]diu6TEQoi  Tjfilv dia ro irXEtovg tov dgi&ndv ysyovEvai' xal fia- *  diovvtai O 0 #oi liti dvoiv dxsXoiv. lav d 9 Htt, doxaCiv  aGzXyuivEiv xal firj e$eXco0iv i]0v%iav ayeiv, itdXiv 'av,  %(pr] 9 refiu dl%a, wgz’ Ecp kvdg xoQEvdovzai OxtXovg  doxcoXia^orreg. ravza thtcov Sze^vs rovg dv^Qunovg di%a,  &g%EQ oi za da zipivovzEg xal (isXXovzEg zapixsvsiv, ij E  xal ajia n'ev adSeri6tepoi idovz ai. Sensas est:  nane eos dividam bifariam, at et debiliores homines sint et utiliores  nobis, quippe nam ero  auctiores. Amant Græci,  quæ de certissimo eventa actionis præcedentis dicantur, ea xal  addito superioribus annectere.  Paullo infra legitur naXiv av  te/ico 8ixa, Sst iq> kvoS nopsvdovtai x.T.X., ubi bene haberet xai pro gjSte positum ; hoc  tamen scriptor prætulit, quod  reiterata divisio cogitatur tantummodo, non tanqaam actio,  quæ hat aliquando certissime,  proponitur.   7tdA.iv av t Zcptf, teji c 3  Sixa. Rursum exemplum habes  verbi, quod casu suo spoliatum  ita exhibetur, ut notio verbi prematur magis, quam vis actionis,  Minus recte Schleiermacherus iu  conversione: So will ich sie,   sprach er, noch einmal zerschneiden. Rectior conversio liæc est:  So wiederhole ich die  Theilung noch einmal.  Atque obiter ut hoc moneam, ut Græci naXiv av, ita nos  nochmals wiederliolen,  pleonastice loqui solemus.   txdxcoXt ccZoyteS. Schol;  ad h. 1 . a<jKG)\id?,Eiv xvpicoS  filv tu ini tovS adxovS aAA«  d$an dXrfXippkvovS, iq>* ovS  in7fdc.iv yaXoiov ivsxa • TivlS  xal ini tcoy Cvf.tnE(pvx6<5i  zotS dxkXEdiv dXXo/ikvcDV. . ?fdrf  61 TiSkadi xal ini tov aAÆ69 ai to YEvpov (Bekk. legendum censet roV Sr Epov ) took  noddUv avkxovTa^ rj a>S vvv  ini OxkXovS kvoS fiaivovTa. %6ti  61 xal to x^XatYEiv. E Schol.'  ad Aristophan. Plut 1130., ubi  complures ddXGoXtdgEtv verbi  explicationes reperiuntur, male  autem adxcoXia vocatur iopTtj  tov Jiovvdov, nisi fortasse latiore significatu accipiendum est  hopTif verbum, ex huius, inquam, Schol. annotatione selegi hæc : xvpioS ddxciXidZbiy iXEyov to ini tciy ddxoov  aXXEdSai ZvExa tov yk Acoro: noiEtv • iv /ikti& 61 tov  $sdrpov ZtISeyto adxovS ns(pvdifpkvovS xal aAijXififikvovS,  fis ovS ivaXXufiEvoi ivaXiOSaivov xaSansp EvftovXoS cpifdi •  xal npoS ys tovto ctdxov elS  fikdov xazaSkvTES, EtsdXXedSa  xal xayxd&Te ini rols xarafifikovdtv . ddxooXia^Eiv 'eXeyov To ivdXXsdSai tois doxols,  ?/ to ini ivds nodos dXXedSat.  Hæc satis de significatu adxcjXia&iY verbi. Non dubium est  autem, quin h. 1. doxa>XutP,EiY  uno pede saltare significet»  Ut, cum humanum genus primi11    162    II AA TSINOE    wgmo ot tu (bu xaTg ovrtvu fie rifioi, rov 'Aitbkha  ExtktVE T 6 TE TtQO gtOJCOV flETU0TQEtpElV XUt TO TOV ClVyivog ijfiiGv tcqos Ttjv rofiijv, tvu &Etbfiivog rtjv avxov  TfirjGiv xoC/ucoTEgog d'rj 6 av&Qmnog, xal tukka ia6&at  IxiklVE V. O 61 TO TE KQogUltOV liETEtiTQEqiE, XUt GVVtkxaV    tos nvfiuStav dicatur, post ln\  Svoiv dHeXoiv fiaUiZEiv, futoro  tempore ddxooXiddEtv dicatur.  Uno pede etiam hodie saltari in  Helvetia, Italia, Græcia, satis notum est.   &S 7t ep ol r d da xkpy ovtf? nal pkXXoy x eS xapiXeveiv. Lectio vulgata est c oa,  quam merito interpretes recentiores improbarunt. Nimirum legitur in L. V. PJ. Timæi: da  dxpodpvojy eldoS pr/XotS pixpois iptpepis. Colligitur inde, Platonem hoc verbum commemorasse in scriptis. Ilaud facile  autem locum Platonis invenias,  cui vox illa magis conveniat. Interpretantur, qui harum rerum  periti sunt, da sorba (Arlesbeeren, quæ condita esse, nt diutias conservarentur, non pauci  sunt, qui tradidere; cftvVarr.  de re rust. I, 69. ( Putant manere) sorba quidam dissecta et  in sole macerata, ut pira, et  sorba per se ubicunque sint  posita, in arido facile manere.  Quæ sequuntur verba, spuria censuerunt Sydenhamius, Bastins, Astius. Frustra. Quamquam enim  prorsus nescimus, cur in ovis  dissecandis crinibus usi sint veteres, hoc certum est: duobus   allatis exemplis Aristophanem et  facilitatem et artificium  dissectionis indicare voluisse: ao  Jexcbt, wie man Arlesbeeren  zum Einmachen spaltet, so fein  und kunstlich, wie man Eier mit Ilaaren theilt. Eodem modo  explicanda sunt verba Plut. Amat,  770. B. ojSittp cdov avrtdv  Tpify Siaip&tiSai t rjv cpikiav.  Male igitur Rtickertus ad h. 1. Hoc quidem, inquit, concedimus,  languidiusculam esse alteram comparationem, concedimus, fieri potuisse, ut ab alio adderetur; sed  additam esse tantum abest, ut contendamus, ut facetiarum captatori Aristophani recte tributam esse censeamus. Ceterum coniicio equidem, ovornm per  crines dissectionem ludi genus  fuisse; fortasse ex ovorum dissectione per crines facta convivæ futura prædicere solebant.   7t p o 5 xr)y xoprjv. Ut in  præcedd. ad xa cJa supplendum  est e proximis xiproyxeZ, ita h. 1.  psxa6xpl<peiy recte repetieris.  Toprf significat proprie 'id, quod  ex aliqua re abscissum est ; nostro loco corporis eam partem  denotat, quæ dissectionem passa  est. Similiter topi j apud Hom.  II. a, 234. positum repentur:  va\-pa rode dxijnxpov,  To p\y ov%ot e (pvXXa xa\  d £ov?   $>vdei, iiteidr} TCpddxa t opijy iy opeddt XeXoi7tev,  quo loco truncum denotat, ex  quo sceptrum abscissum erat. In  sequentibus pro Trjy avxov xpijdiy, quod recentiores editores  omnes habent, plurimi codd.  avxov exhibent. Non male, si  3 iuvtct%ofttv r 6 SsQjia Ixl xrjv yaCtiga vvv xaXov(ikvi]v, SgntQ ta eioxaUxa (iaXavtuc, tv 0 x 6 ( 1 « xoicov ankSh xaxce (ii(St]V xrjv yaOxtQa, .0 Srj vvv 6 (upcd 6 v xaXovOi.  xal rag (iiv aXXag Qvxldag xag xoXXag igtlLcuve, xcd xa 191  Gzrforj dujp&QOv, ijrcw n xoiovxov ogyavov, olov ol Cxv  avrov pro avxoSi positum accipius ; melius tamen illud habet.   xalraAAa ladSai ixeA evev. Schleicrmacherus ia  conversione habet ; u n d das  ubrige beiahl er ihm auch  zu hei 1 en. Scriptum quidem  exspectaveris xa\ navxa iadSai  ixiXcvEv ; addita auch particula  insolentia verborum non mitigatur.  Ficinus verba convertit: reliquis  autem mederi iussit. Alia nobis  explicandi ratio placet. xaXXa  a sequente infinitivo seiungendnm  est, iddSai absolute positum est :  und iibrigens befahl er ihm Heilung an. De hoc usu verborum  sæpius iam annotavimus, vide  anuot. 22., 27* al. Paullo  \ v infra eodem modo 8ioatavEd$ai  positum, ut non actio, sed notio  verbi exprimatur tva ittojdpovi) yovv yiyvoiTo xi}$ 6wovdiaS xal dianavoivro h. e.  ut satietas esset amplexandi et  quies.   ln\ xr)v yadrepa vvv  xaXov pivrjv. Schlciermacherus : tiber das, was wir   jetzt deu Bauch nennen.  Non satis accommodate, ut videtur. Cum vi pronnutiandum est  yadripa, ut ne vernaculo quidem sermone articulus recte addi  possit. Structura verborum primaria hæc est: ItzI to yadz?'fp  vvv xaXovpsvov, quam structuram ut minus elegantem incomtioremque ætas Græcorum excultior nou tulit.    <3 Sirsp ra dvdnadxa ftaXavxia. Poli. V. Si. in recensendo venatorio apparatu xv»  vovxof, inquit, 8ipya podx^ov t  lis o brciSexai ro Sixxvov, rcJ   6XVP<* XI TCHlOnjpbvOV, (3 Sit E p  xa dvdnadxa ftaXavzia.  Ficinus convertit: tanquam contracta marsupia. Articulo addito effici videtur, ut  sententia sit: in Form von zusammengezogenen Beutcln, -wio  ihr sio ja kennet.   o 6 7 vvv o ptpaXov xaA ovdi. Codd. omnes habent  o 8i) xov u/i<paXov xocXovdi,  idque editores in ordinem verborum receperunt. Male ; urgenda  est vox ojutpaXof, atque vi quadam pronuntianda, quæ vis addito articulo funditus perit. Similiter Sjrmp. 180. E. ov 8?}  ndvdtjfiov xaXovpev, de rep.  I. 332. C. r) xidiv ovv xi  dito8i8ovda xixyrj iarpixj)  xaXEixai 191. B. o 8?} vvv  yvyaixa xaXovpev. Menon,  81- B. o 8tj artoSvyjdxEiv  xaXovdiv. Alcib. II. 140. B,  ovS 8ij xaXovpEv iaxpovS. ib«  p; 187. D. o 8jf pEXonottav  xaXovdiv., Ibid. *L 382. D.  yj x idi x i ano8i8ovda   xixrv payEipixrj xaXtixai. vide  annot. 129 et 130.   xi xoiovxov op yavov. De indefinito pronomine supra dictum est 28. ad  verba £3 o r yap xi xovx £*«.   11 *  IUAT&N02    rotofiOi, xiqI rov xaXccnoda Xeatv ovreg rag tav dxvrmv  QvrlSccg' b Xlyag 6 e xaxlXmi, rag mqI avrrjv n)v yaStega  mu rov ofitpaXov, (m/ftaov dvca rov nctXcaov xa&ovg.   'Enubi] ovv r; (pviiig Sixa no&Ovv exaGrov   ro t}fu6v ro avrov tvvfai, xai neo^aXXovre.g rag %UQug  xal £v[inXex6/i£V0i uXXt/Xoig, em&vfiovvrsg Ovfirpvvai, aneto 9 tn] 6 xov vnb Xiuo v xai rrjg aXXijg agyiag dea ro (iTjdev  e&iXuv %w@ls aXXijXtov noielv. xai onore ri ano%avoi    Quibus verbis ut respondere annotavimus nostratium J d as  so sfeine Art, ita verba nostra convertenda videntur esse:  indeift er etwa ein soKchesWerkzeug hatte, wie  die Lederschneider, Creuzerus Lect. Piat* 525. censet,  ut 185. E. dicatur dvaXaftobv  xi roiovtov, ita h. 1* satis esse  l 'x&v n roiovtov. F rastra*  nepl rov xaXditodot  XsaivovtsS. Pes ligneus videtur fuisse, super quem coria extendebantur, quo facilius et explicarentur et ad pedis formam  adaptarentur. Etym. habet xaAoVovV XvplooS o ZvXivoS itovS*  xaXov ydp xd B,vXov. Suid. s.  v. xdXaf xaXov ydp rd B,vXoy %  ig ov xai xctXoTrovS, 6 gvXivoS  itovS. E Pollucis auctoritate, qui  habet X. l4l. rd dxvrordpov dxevij uaXd/tovS, iv rc J  dvpitodicp y Bckkerus, Stallbaumius, alii dederunt xaXditoda,  codd. non pauci xctXo7Co8ec exhibent. Fortasse utra^ue forma  Græcis scriptoribus usitata fuit*  rov itctXaiov itdSovS .  h, e. rjLitfacjf, ?/v titaSsv o dv~  SpGoitoS iv r<ji TtdXaicp xpovoo.  cfr, p* 189* D.   insidi) ovv 7} tpvdiS.  Annotat Riickertus ad h* I. : Offendit Astium nude positum vocabulum, post quod avrdov  vel rjfi&v excidisse putat. Offendit nos quoque $ sed putamus  ipsius Platonis peccatum esse  posse . Etiam Stallbaumius ad  h. 1. avt&v supplendum esse  censet. Aliter nos statuimus de  hoc loco; Articulum exhibuere  veteres scriptores haud raro, ut  ’ indicarent, de re sermonem esse,  quam in præcedentibus iam tetigerant. cf. 189. D. ?/ ydp  TtdXai ij/tcov <pv6i$ ovx avnj  7jv rjitsp vvv x. r. X. Mens  Aristophanis est; Da non die  urspriingliche Einheit der Korper, vou der oben gesproclien  worden ist, gelosst war cet. Exem*  pia si quæris huius usus articuli,  vide anuot. 12.,   vito Xipov xai rrjs aXXt}S apyiaS. Vulgo vito rov  Xiuov legitur, quæ lectio cur  ferri nequeat, e prægressa annotatione colligitur. Ceterum aX AoS 1 rebus apponi, quæ genere  non differant, specie discrepent, supra annotatum est  116. Restat, ut dicamus, quo  iure id fiat. Riickertus ad h. 1.  Videtur, inquit, aXXrf alia verti  non posse, neque negare licet  aAAo? non nunquam ita dictum  esse græce, ut propriam hanc vim neutiquam exerceret, de qua  ffi>v yfiteeav, t 6 81 lutp^sit], zo letcp&ev aXko IfiJ tu  xai avvmkixezo v eize yvvcuxog tijg o ki/g hrcv%oi Jjfiian,  o Sr/ vvv yyvcuxu xakovfi sv, iit’ avSgog' xai ovroig  attiiiXkvvto. ekerjSag Se 6 Z evg cckhjv [ij]%avt}v xogltexai, ■  xai fuzazt&rjtiiv avzuv tu aldoia elg ro jtgoO&ev zeag  yag xai zavza exzog (l%ov, xai lylvvcov xai Izixxov ovx  elg akkijkovg, akk’ elg yfjv, agxsg ol zexziyeg. fiezi&rjxt C  re ovv ouzag avta elg ro XQod&ev] xai Sta zovxav    re non est, cor hic pium dicam,  qui nostrum locum, ex hoc numero excipiendum esse censeam.  Nam cxpyla non segnitia est, sed  cessatio, vacatio a re quacunque,  sicut ager dicitur <£pyo$ t dum  cessat a cultura. Jam igitur Aifivv in genere xfjf ctpyiaS esse  apparet, est enim cessatio a capiendo cibo, licuitque dicere,  homines illos, cessantes et a cibo  capiendo et ab omni opere suscipiendo emortuos esse. Ridiculi aliquid inest his verbis;  quis enim ferat cibi capiendi  cum ipyoo comparationem? Deinde  male Ruckertus posteriori nomini  tantam vim tribuit, ut ad id dirigeretur prius. "AAAoS semper  ita adbibetur in huiusmodi dicendi genere, ut priori nomini  addatur, quod cura eodem  cohæreat, quod ex eodem  genere sit, quod cognatum sit cum eodem. Primitus autem dixisse arbitror veteres, ut ad nostrum locum revertar, vito Aipov xai tov dAAov,  li. e, fame et ceteris, quao  cum ea cohærent. Accedente autem appositione ad verba  tov dAAov, ne incomtius existeret  atque inelegantius dicendi genus,  tov aAA.ov, apyiaS, admissa generis assimilatione xrjs dAAi]S,  apyiaS edictum eat. Sic com  mode explicatur Piat. Gorg.  473. C. etyAcoxoS tov xai evbaipovi?,6fuvoS vito t<Sv icoAixgjv  xai xgov dAA.Gov (sc. ) HevQov.  Alia exempla, quibus nostram  explicandi rationem probare possis, laudavimus iu aunot, 116,   ooSitep ol xixxiy eS. Audi  Wolfti ad h. 1. annot. : Sie thun  dieses vermittelst eines Stacbels,  den das Weibchen aui Hintertheile luit, and der eiu Dritttbeil  der Langte des gauzen Thieres  Husmacht. Damit bohren sie in  die E«de, dDnen ihu und lasseu  die Kier in deu Sand fallen, wo  sie vou der Sonne ansgebriitet  werden. cfr. Ælian. H. A. II, 22,  tals acpvaiS o* itijAoG yiveais  id xi' bi aAAi/Acov 61 ov xtxxovdiv avbh iniyivovxai x.x.A.   f.t£T i ^ TJX i X E OVV OVtGOf  avxtov elS xo it. OvtgjS iu  multis codd. non comparet, quare  id uncis inclusit Dindorfius, Reyndersius expunxit. Idem Stallbaumius servandum censet rectissime, Plerumque enim hæc vox  ita adhiberi solet, ut ad aliquid  respici significetur, quod in præcedentibus est conteuturo. Spectat autem nostro loco ovtcoS ad  verba iXEijdaS bl 6 ZsvS, et  convertendam est: hac ratione» qua dixi, vide annot.  i   ryv yhvtOiv iv aXXyhnq IxolyGB, dia rov UQQtvos Iv Tqj  ftrjXei, tuvSi tvBxa, iva Iv ry GvfixXoxy afia fiiv ei  avrjQ yvvaixl ivzvioi, yivvaiv xal yiyvouzo to ytvog,    63- et 146. Deinde qninqæ  melioris notæ libri pro avtcov  exhibent avta, quod a Stallbauroio, Astio, aliis io verborum ordinem receptum est. Audacias  fortasse quam rectius. Avta  verbi avToov correctio est, avxdov  autem scribæ alicuius sedulitate e  prægressis olvtgjv ta al8ola eis  to izpoCSev huc translatum est.  llectissime, ut videtur, Ruckertus ad h. 1.: Mihi, inquit,   Plato videtur scripsisse: fi £T £te ovv ovtcoS eis to  itpodSev. FICINO (si veda) verba convertit : cum vero ad anteriora transposuisset, ut  legisse eum censeas, quod Riickertus dedit, e( nos unice probamus. Ceterum verba fisti2yxe te ovtGoS eis to itpodSev  repetiit Aristophanes, ut cum  sequentibus artias coniuugerentur:  8ux tovtoov trjv yevediv Iv  aXXyXoiS irtolydev, quæ couiunctio per ti xal particulas  instituta quam vim habeat, nunc  dicendum est. Coniunguntur  duæ hæ actiones ita, ut eodem fere tempore gestæ  esse dicantur: Simul atque   ea ad anteriora transposuit, per  da tyv yevediv effecit. cfr.  Flat. Phædon. 73. D., qui locus huius SIGNIFICATAS luculentissimum exemplum est: iyvoodav te trjv Xvpocv xal iv trj  Siavolqt iXaftov to eldoS tov  iraiSoSj ov tjv rj A vpa. Ad hæc  verba Stallbaumius aoristi, inquit, indicant, rem identidem  fieri solitam. Essent ex hoc præcepto verba convertenda: Sie    pflegen die Lyra ru erkennen  und das Bild des Geliebten, dem  die Lyra gehorte, in der Seele  aufzufasseu» Verum tenendum*  est accurate, quod in superioribus Cebes dixit: Reminisci non  solum eius esse, qui aliquid agnoscat, sed qui aliud, ab illo diversum, mente simul complectatur, ut hoc non ex eadem  perceptione animi h. e. e perceptione animi præsente, sed ex  alia eaque priore ( ov y v y Xvpa)  pendeat. Probatur hæc sententia imagine amasii, quæ AMATORIS animo statim obversetur,  simul atque hic lyram conspexerit, quam amasii esse iam dudura observaverat. Non ingratum lectoribus erit exemplum e  Taciti Hist. petitum I. 76, quo  doceatar, quomodo illam dicendi normam Romani sint imitati: Primus Othoni fiduciam addidit ex  Illyrico nuntius, iurasse in eum  Dalmatiæ ac Pannoniæ et Moesiæ legiones. Idem ex Hispania  allatam : laudatusque per edictum Cluvius Rufus et statim cognitam est, conversam ad Vitellium Hispaniam., nal ylyvoito to yivoS.  In his verbis Riickertus hæsit  non immerito; Iovem enim fecisse, quæ fecisse narratur, nt  nasceretur genas humanum, (Astius habet: ct progenies  existeret) quis probet? Schleiermacherus in conversione exhibuit»  und Nachkommenschaft  entstiind e. Id dicturus vide licet erat Aristophanes. Fortasse afia 6’ tl xal u^qy/v ilpoivt,, itl^apovij yovv yiyvoiro  rrjg GwovOtus, xal diaitavoivzo xal htl rd fpya rpsTtoivto xal xov dXXov /3i'ov tmiiiXoivro. 'idn drj ovv ix    aliquid vitii verba contraxerunt,  lluckerto scribendum videtur xal  iti yiyvovto to yivoS. Facilior, ut videtor hæc coniectura  est : holI yiyvoiro yovoS. Facillime nutem demonstrari potest,  qui factum sit, ut manus Platonis corrumperetur. Incuria nimirum scribarum syllaba finali  yiyvoiro verbi dupliciter posita  erat: yiyvoiro r 6 yovoS, Quod  cum seriore tempore alii mendosum esse intelligerent, ro ye voS scribendo locum emendare  atque sanare stndueruut.  a // a 8 9 ei n a l a /3 f>tjv   afifievi. In quatuor codd. Flor,  ct apud Stobæum afjjiev legitur  pro afifajv, quod plurimi libri  habent. Illud Stallbaumius in  textum recepit ut exquisitius.  Masculinum genas neutro prætulimus propter præcedens et  avijp yvvaixi. Reddidit verba  Schleiermacherus : Wenn aber ein Mann dem andern.,., omissa  xai particula, de cuius significatu  interpretes ad h. 1. nihil annotarunt. Schulthessius habet: zugleich aber, wenn Mann und  Weib sich einten . ... vitio, ut  videtor, typothetarum. Sententia  est totius loci: damit in der   Umarmung, wenrf dem Weibe  ein Mann zu Theii wiirde, sie  der Zeugung sich ergiiben und  Nachkommenschaft entstiinde,  -wenn aber dem Manne auch (h.  e. wieder) ein Mann, wenigstens  et quæ seqq,   7t\ij <$ p ovr} yovv . Postquam dissecta corpora fuerunt,  parte» dimidiæ amplexari se adhuc non desierant, immo mutuis  in amplexibus deperibant. Ut igitur plane abstinerent a complexa,  non potuit Iupiter efficere, nimium enim urgebat vis naturæ.  Itaque quum totum consequi non  posset, novo instituto, quantum  potuit assequi, molitus est, ut  satietate caperentur coeundi intervallaque facerent. Hinc yovv  cnr positum sit, intelligitur, Riickert,  na\ Siartavoivto. Hæc  codicum est lectio. Vulgo 8ux—  vcntcivoivxo, quod unde ortum  sit, facile intelligitur. ^Margini  enim interpres aliquis avoc7tccv~  oivxo .adseripsit, ut 8ia.7t<xvb6%oii  verbi raritatem explicaret. Post  alius nimia sedulitate ductus in  ava   textq posuit 8icc7tavoivxo t ex  quo factum est 8iavanavoivxo.  Ceterum non opus est ad 8iol  Ttavoivxo suppleas avtijS. Verbum absolute positum est: und  sie Ruhefanden und sich der  Arbcit zuwendeten und Sorgo  triigen fur ibren weiteren Unterhalt,   ini rd ipya. Hæc verba  de agricultura intelligcnda sunt  noa minus, quam quod supra  legitur 191 . B. vno Xipov  xal ttjs aXXr/S dpyiaS. O  ftioS in se res omnes complectitur, quæ ad vitam sustentandam  necessariæ sunt. De scriptura  imytXolYTo cfr. Thomas M.:  impiXopai xaXXtoy >j inipeXovpai. Adde Buttm. Gramm.  ampl. T. II. I- 187. : Die   C   DtoOov o "Eqcxs tyywos aXXrjXav xolg ccv&qkmois xcd  rijg agyaiag cpvGmg Gvvayayevs, xal Imysigav xoiijacu.  'iv ix dvolv xal laGaoftcu zljv tpvOiV trjv txv&gaxivqv.   Cap. XVI.   "ExaG rog ovv rjfiwv iGzlv kv&qq irtov fcvfijioXov, are    Formen des Compositi imjJEX?}Copai etc. werden gewohnlich  za i7ti/i£\ei6$ai gestcllt, welches  eiue ganz gleichbedeutende Nebeulbrm von iitiftiXedSca ist,  die aber von den Atticisteo fiir  xninder gut erkliirt wird. Beide Formen sind iudessen in nnsern fiucliern so haufig, dass  wenigstens an den einzclnen Stel' len sicli nicht entscheiden lasst,  ob wirklich der Schriftsteller so  geschrieben. Doch ist kein Zweifcl, dass lnifi£\E6$cti das altere  ist, ond die Flexion von faipeXijdopai urspjiinglich dazu gehurt.   wSitEp al Tpijttai. Piscium  genus iprjrtai Græcis notissimum, quandoquidem Callonice in  Aristoph, Lysistr. v. 116. dicit:  ' fyo$ 6i y <* v > uSitEpeX tprjtrav 8ox65   dovrat av ipaxrcfjs xapra/tovdoc  Srjpidv   ad quem locum male Schol. iprjrtot, inquit, opYEOv rerprjpEvov  nata ro pidov cJ S oi 6q>ij x e S. XeyEi ovv, ori xav dvpfifi  ripvE6$ai ro ijju6v jiov ftovTiopoci. Rectius Schol. ad nostrum iocnm annotat: ix$v8iov   n rcov irXocriw 7 } ipijrra £x  Svo $ Ep parco v 6vyxEi6$ai rrjv  idEav doxovv, o rives davSdTaov uaXovdWf oi 6'e fiovyXGod<Sov, xaxooS 8 e. dXXa yap idti  ravta. Colligitor px bis verbis,  Tfxrjrrav cum in altera corporis  parte os, oculos, nares posita habere, tum ca corporis figura esse, ut dissecta censeri queat, atque non integra nisi cum altera  couiungatur. Facit igitur nostro  loco ifxrjrrta v mentio ad describendam figuram androgyni dissecti, contra ' ZvpfioXov nomen  nataram et conditionem eins exprimit. &vpfioXov nimirum tessera  hospitalitatis est, annuli, astragali, alius cuiusvis rei pars altera, quam hospes hospiti conr  credere solebat, ut alter ad alterum veniens haberet, qno agnosceretur familiariterque exciperetnr. Hoc facto uterqne a fraude  tutus erat. Nam si quis peregrinus ficticia hospitalitatis tessera prolata sibi exposceret, quæ  non nisi amicis amici præstare  solebant, receptaculum, cibi ac  potus facultatem, alia hoc genus, tessera admota tesseræ rem veram aperiebat.   Zr/ret 8?) ro avtov %xa6roS £,v p$ oXov. In aliquot  codicibus 8£ legitur pro 8t}. Illud, minus aptum hoc loco, ut ia  sententia communi; nam d?j apud  nostrum ceterosqne prosæ orationis scriptores haud raro eiusdem potestatis est, atque r oi  particula apud tragicos poetas,  quamquam etiam huius particulao  frequens est apud illos usus. cfr.  Matth. Gr. plen. $. 627. 1281.  " ExatitoS cum Bekkero et StolltBT{it]iilvog mgxEQ at i’rjrrai, i£ e vos Svo. Srj ad   1 6 avrov exaiSTog £vti(iokov. ooot (iiv ovv r tov dvSgcov  tov xoivov t fiij/xa sltSiv, o di] tore avSgoywov ixaÆlto, (piXoyvvaixtg te eIoI xal ot sroAAot rcov fioi%tav  ex tovtov rov yivovg ytydvaOt • xal oOat av yvvalxig £  rpikav&Qoi te xal (ioi%EvtQiat, Ix tovtov tov ytvovg yt~    baumio ex codicum auctoritate  in textu posuimus pro vulgato  2xa6xov, quod Iluckertus frustra  reposuit. Ficinus verba convertit: quærit autem sui quisque dimidium. Nam ut mittam geuus masculinum, quod et  præcedit et insequitur, ut exa6xov vix ferri posse videatur:  etiam ambiguitas quædam exoritur vulgata scriptura admissa, cuius vitandæ Græci studiosissimi  erant. Certum est enim, verba  non hoc modo intelligenda esse:  ixa6xov £,vfi(joXov etyXEt a e i  To ccutov. Sententiam quod attinet, homines dissecti cum peA  egrinis comparantur* qui habent  tesseram hospitalitatis, sed hospitem reperire non possunt, illam  qui agnoscat, ipsosque comiter  excipiat, eaque, quibus opus sit,  ipsis suppeditet,   o 6 t} tore av 8 p 6 yvv ov  ixaXsixo, h. e. quod tum  temporis androgynum vocari diximus. De genere neutro relativi pronomiuis vide annotat. 138. Ceterum dicendi,  indicandi, similia verba in huiusmodi enuntiatis sæpissime reticentur ita, ut infinitivi, qui ex  iisdem penderent, id tempus assumant, quo tempore dicendi  verba proterenda erant. Exempla huius usus permulta reperiuntur. cfr. Piat. Alcib, I.  106, D, ovxovr xavxa povov  ottiSa, a Ttap’ aXXcov £fia$eG t    V ovtqS l&Evpe£ ; nbi oldSa  dictum est pro eldivai XiysiS.  Ibid. p, 111. E. Ti 8* eI povXtjSdrjfUv Eivat jjt} povov noioi  avSponol Eidiv, aXX* onotoi  vytEivol rj voGc&dsiS, apa \xavol jxv rjfj.lv tfCav (pro i-cptjfisv  av Eivat ) 8i8d(jxaXoi ol itoXXoi; Adde Piat. Crit. 47. D.  cp eI ftrj axoXovSrjdofiEV, 8ia <p$ EpovjJEY ixEtvo xal XajfiijdojJESa, o tg3 Sixaitp fiiXrtov  iyiyvsxo, xcp 81 d8lx(p a7tGoXXvr o, Vide præterea Engelhardtura ad Piat. Lachetem  185. ed. 28., qui ad locum modo laudatum verissime  hæc annotat: Quamvis disertis  verbis hæc sententia nondum  sit dicta, continetur tamen quodammodo in præcedentibus. Postquam enim recta exercendi ratione corpus melius reddi, prava  perdi ostendit, sic pergit Socrates : ovxovv xal xaXXa, co Kpl zooVf ovtgjZ, Iva prf itavxa 8ii Qjfjtv, xal 8 j) xal nEpl rcov  Sixaie&v xal adlxcav x. t. A.,  ubi verbis xal xaXXa TCavxot  omnia complexns iam id sibi  concedi vult Socrates, animam  iniustitia et pravitate perdi;  quare pergere licuit: o tgj jj\v   8ixaicp fieXxiov iyiyvsxo, rc3  ddiHoo anaXXvxo. Eodem  modo, h. e. supplendo dicendi  verbo explicandus versus est Me*  leagri in epigr. XII, 5« T* 1»  6, ed. Iacobsii. yvovzca. odæ di zcbv yvvcax&v yvvccixog Z(irj(id sidiv,  ov 7tdvv avzai zolg avdQadc zov vovv itQogiyovdiv,  dXXa pdXAov itpbg zag yvvalxag zErpappivca tldi, xai    ?/ taxet xovvop’ %x £t tavxov  povov, ipya 81 xpedd cov,   ubi Ixet positum est pro ixetv  XeyeiS* Malimi tamen ix 01 legere, quod positum esset pro. ?/  taxet tpairjS.   xai bdai av yvvaixeS  yiyvovtai. Av plerumque ita ponitur, ut eadem alicuius actionis reive conditio indicetur, quæ in prægressis reperitur» Hinc fit, ut av posito  sæpissime verba omittantur, quibus conditio illa exprimatur. Expletior oratio hæc foret: xai  odai yvvaixeS tov xoivov xpijpa eldiv % 6 8tj tote avdpoyvrov ixacXetto, tpiXavSpol t* eidi xai al noXXoil xgjv jioixsv tpicbv ix tovtov tov ytvovS  yeyovadiv. Sed nemo non videt, e nimia verbositate hæc  verba laborare ; quapropter av  vocula adhibita, qua ea, quæ in  præcedentibus continentur, suppiendaque esse siguificantur, nostro loco omissa sunt. Et quoniam  præcedit ix tovtov tov yivovS  yeyovadiv, haud scio, an non  insiticia verba sint ix tovtov  tov yevovS yiyvovtai ; quibus  omissis neque sententiæ vigor  minuitur et comtior fit elegantiorque oratio. Sed nihil mutaudum contra codicum auctoritatem, qui ad unum omues verba  illa exhibent, EaMem etiam Ficini conversio probat: Rursus  quæ cunque mulieres virorum cupidæ moechæque sunt, hac stirpe  nascuntur,   ov navv ciXXd paX  Xov. Dictam supra est de ov  navv vocularum significatu io annotat. 49* Recte ibi contra  Engelhardtum monuisse nobis videmur, ov navv non esse plane non, sed non magnopere, non sane. Exemplorum, quæ illic laudavimus, nullum esse puto, quod probandæ  huic sententiæ magis inserviat,  quam nostrum locum. Addito  nimirum paXXov comparativo  statim intelligitur, Aristophanem  dubitanter loqui, atque illarum  mulierum erga viros amorem non  prorsus negare.  xai al htaip idtptai.  Timæus 123. Itaipidtpiai'  al xaXovpevai xpifiadeS, ubi  Bnhnkenius : tales crissantes, in™it, mulieres, quæ aliis nominibus Lesbiades, tribades, frictrices et subagitatrices vocantur,  in telligi t Clemens Alex. Puedag,  II, 264. yvvaixeS avSpi%ovteS napd. <pvdiv. Stallb, Tetigit nostrum locum Wachsmuthius in libro: Hellenische Alterthumskunde T, II. Abth. H,  48 et 49,   bdoi 8h dflpevoS tpijpa. Ut concinnitati singularum partiam orationis cousoleret,  Bastius scribendum coniecit odoi   afifreveS afifævoS tpijpa el dtv. Recte fortasse, neque audacior hæc coniectura censenda  est. Factam est enim scribarum incuria haud raro, ut, ubi  scriptor duo verba iuxta posuit,  quæ inter se aut plane non differrent aut non multum, alterum at iTaigldTQiai Ix tovtov tov ytvovg yiyvovrca. oGoc  iis k$qsvos tfirjiia d<St, rcc a§§iva SuoxovGi, xal Tiag  fihv av accidis u<Hv, are Tcicu%ca orna tov aggivog. chartæ mandarent, alteram omitterent. Hoc modo depravatas est  v* c. locus pulcherrimus Platonis,  Crit. p.45 A et B.; verba hæc sunt:  2. apri 81 Tjxet S 7 ) TtakcLi; Kp.  iniExxooS itdXai. 2. sita 7tdo?  ovx evBrvS iitjjyeipaS pe, aXXd  diyy itcrpaxdSjjtiou ; Kp. ov,pd  tov di\ <0 2ojxpattS i ov8*  dv avToS ?/3eAov iv to~  davrp te ay pv it vi at xal  Xi >7ty elvai • aXXa xal  dov naXai $av pa^Go al.dSavopevoS, co? t/SegoS  xa$ £V 6 EiS . Faoit Stallbaumius in annot. ad h. 1, ed. p»  102. Critonem loquentem : Ne  ipse quidem vellem in  tanta insomnia tantoque  moerore versari, in' quo  revera sum, tibi autem, *  cui tam gravis imminet  calamitas, hæc tua quies  non videbatur turbanda  esse. Cur Socratem e somno  non excitaverit Crito, caussam  justissimam habes * placidissima  quies non videbatur turbanda esse. Cur tacide consederit (diyjf 7tapaxaSt/dat), ei quæstioni quid  respondeat in Critonis responso,  frustra quæras. Tantum enim  abest, ut verba; ne ipse quidem vellem in tanta insomnia tantoque moerore versari aliquo modo cum  Socratis quæstione illa conciliari  possint, silentiumque excusent,  ut potius ipsa inepti quid habeant atque excusatione indigeant*  Verba Critonis depravata sunt*  atqne eo modo, quo Bastius nostrum Symposii locum emendare studuit, corrigenda. Satis notum  est, summam animi anxietatem  eam esse, quæ silentium non  patiatur. Quid multis? Scripsit  Plato: ov pd tov di*, oi*S* av  avTvft avav8o? iSeXor x. t. X.  Hæc verba scribarum incuria  in hunc modum depravata sunt:  Ov8 9 dv avroS avavToS, ut scripserunt Symp. 174. D. itpo  o8ov pro t tpo o rov ; post alii,  cum dv avroS verba male repetita esse putarent, pro dv av ToS avavroS scripserunt dr av toS, Sensus est totius loci ; Socr.  Warum wecktest du dann (quæ  vox quomodo cum d e n n cognata sit, dixi.) mich nicht  sogleich auf, soudern setztest  dich schweigend ' neben lier?  Krit. Ceim Zeus, o Socrates,  ich selbst vermochte es  bei so grosser Unruhe and  Traner nicht uber mich  2 u bringen (vide, quæ de  iSeXsiV verbi potestate dicta  sunt ia annot. 44.) ganzlich lauti os zu sein; und  doch bewundere ich dich schon  lange, indem ich bemerke, wie  sanft du schlafst. Emendatione  nostra quantum gratiarum Critonis responso accedat, prudentiores persentiscent. .1   xal TiajS plv dv itat 8 e? G)di. Memorabilis hic locas, quo relativa potestate tegjS  positum est. Astius præter nostrum locum cum nullum in Platonicis scriptis reperisset, qui  eadem potestate exhiberet tIgoS  vocem usurpatam, egoS scribeudum coniecit. Tego? in textu tpilovOi xovg av$QKg xal %aiQovGi dvyxcttcixtlfiivoi  192 xal avpKtxltyulvot roig dvdQccGt • xal d6iv ovroi (itXttOrot tau nalScov xal [itigaxCcov, uve dvdQuozaroL  ovrtg tpvOU’ tpaol 6 'e dy rivtg ainovg dvaiOyvvrovg  Eivai, . ipEvdouEvoi ' oi5 yccQ vit dvatOyvvxlag zovro  dgwOtv, dXX’ vito &<x$Qovg xal dvdQtiag xal ccQQEvaposuit prudentissime Stallbaumius, cuius silentium aliter, atque Riickcrtum fecisse video, ego  interpretor. Ipsum Riickcrtum  audit Tacet, inquit, de h. I.  Stallbaumius, sed mallem dixisset, si quid haberet, quo defenderet T iooS relative usurpatum. Si repcritur in veterum libris,  quod contra consuetum dicendi  usum est, codd. autem auctoritute probatur, a mutando abstinendum notauduque est, si eo opus  •it, novitas rei. Nostro loco  T tcoS non idem atque MgoS esse,  quem lateat? sed quo id defendat, quis habeat?   cpiXovtil to v 5 d v 8 p a S  x ots avS patii v . $iXttv  verbum feminis amasiisque plerumque convenire supra annotatum est p* 69. Ceterum præcedente XOvS dvSpaS in sequentibus scriptum exspectaveris fortasse pro xoiS avdpatii pronomen avroif, quod cur non posuerit Aristophanes, caussa in  prompta est. Solent enim interdum veteres præcedente aliquo  nomine non pronomen exhibere,  sed ipsum illud nomen repetere,  nt id significantius emineret lectorumque animis maiore cum  gravitate insinuaretur. Igitur nostro loco pueri, quatenus segmenta sunt integrorum VIRORUM, VIROS AMARE dicuntur, atque cum VIRIS lubentissime congredi, ut io universum significetur, PUEROS illos non nisi VIRORUM societate delectari. In sequentibus  pro xai tltiiv ovroi fUXtitiroi  scribendum coniioio na i tltiiv  ovroi oi (iiXntiroi. Articulus finali syllaba ovroi verbi absorptus  est, ut factum est haud raro. Unum  depravationis huius exemplum ut  laudem, in plerisque codd, male  exhibetur 179. B. ov ftovov  ori avSptX, aXXd xal yvvaixtS. Alio loco de superlativo vel cum articnlo vel sine  eo exhibendo dicemus, quam  rem nemo Grammaticus, quautum scimus, adhuc satis accurate  tetigit.  ars avSptiotar oS ovXtS (pvtitl. Alludit Aristophanes lioc loco ad avSptioX  nominis ambiguitatem. Significat enim et fortem ct eum, qui cum VIRIS aliquid habet coniunctiouis, similitudinis, commercii. Neque dubium est, quin ARISTOFANE illam nominis significationem ex hac derivatam esse  censuerit. Verba couvertenda  sunt: Et sunt hi quidem OPTIMI PUERORUM ET IUVENUM, quo AD MASCULO SEXU DELECTANTUR MAXIME ideoque natura fortissimi sunt*   tpatil St} tivsS x. x. A,  Eandem rem Pausanias tetigit  182. A. his verbis: ovroi ydp  tltiiv ol xal to ovtidoS ntitoirjxottS, cafr e xivaS roXpav Xtytiv, o)S* altixpov x a P^ etiSai  ipatitouS, Ceterum etiam hoc  xi 'as to fifiotov cnrroig acsxa^o/iivoi. (liyct di te x/iiigiov  xal ydg xckEa&svxsg fiovot ccxopatvovGiv clg xu itohxtxd avdgs g oi xoiovzoi' enstdav de avdgca&aiGi,  mudegaOxovOi xal itgog ydgovg xal itutdoitouag ov B  itgogi%ov6t rdv vovv cpvtiu, dk).d vnb xov vu { uov dvayxu^ovxui ' ulk’ tgagxsi avxotg ft£t’ dkkrjkav xaxagijv    loco Riickerti sententia de Græ-corom saper PÆDERASTIA iudicio,  quam supra exposuimus iu annotat satis reprobatur.  TiveS enim h. 1., ut illic x iva$,  quamquam de populi quodam rumore accipiendum est, tamen non  omnium Græcorum constans  de PÆDERASTIA indicium exprimit 3 d fi fi ovS xal dvSpstaG  xal dfifiEvaitiaS» Opponuntur hæc tria nomina præcedenti avat 6 xvrtiaS nomini oratorie» ut indicetur» quantum numero superent præcedens nomen hæc tria nomina tantum  etiam ei prævalere significatus  potestate. Tantum enim abest ut pudore illi PVERI  careant» ut potius VIRILI sua indole ducti AD VIROS se convertant. Ceterum illa nomina haud multum inter se  differunt siguificatu. 'AfifiercDitia enim VIRILEM INDOLEM significat non minus quam dv 8 peia t cuius indicium est Sctfifiu$ h. e. fiducia audacia; animi  fortitudo Laudat Fischerus Etym. M., in quo d fi fiev coniaS notio sic explicatur: afifievcDitds   ix x ov ufifiijv dfifi&voS xal r ov  d)if> oonoS, o tiijpaivti rd itpoSco7 ior, dfifisvcojtds 6 afifievoS jtpoScoitov 8 x ojy > xaxd dvVExSoxi / y .  yyovv o dvdpelo S xal idxvpdf  xal dvvdpevoS it poS cx$pdv dvTvrax$fiyai. idxi xaxd 6vvexSoxy v ano pipovs rd oXov.  xal yap xe\e&%evxeS —avS pES ol xotovtoi, Picinus verba convertit: Iluius evidens argumentum est, quod cum adoleverint, soli ad civilem  administrat ionem conversi, viri  præstantes evadunt. Nou rectius Schleiermacherus in conversione: dass wenn sie voll kommen ausgebildet sind, solclie  Manner vorziiglich fur die Angelegenheiten des Staats gedeihen. Unice vera Orellii explicatio verborum est in Scbulthessii  convers. 92. : Deutlich eihellet dies daraus » dass solchc allein » wenn sie heran wacbseu»  in den Angelegenheiten des Staates sich ais Mauner beweiscn.  Eodem modo verba intelligenda  esse docuit Rtickertus ad h. 1.   vito xov vdpov av ay xagortai * Apud Stohacum  Serm. 65. 4 10. legitur: *Znapriatav rd/ioS rdxxEi ZypiaZ,  ryv ptv npcdxyv dyaptov xfiv  SevXEpav uiptyaplov xyv rpixyv 8 \xaxoyapiov. Utrum apud  Athenienses ayapiov lex exstiterit, necne, in incerto est* Vide  Wuch&muthii librum: Hellenische  Altcrthumskunde T. II. Abth. I*  §. 98. 266., Meier u. Schom.  Att. Proc. £87. Cuvendum est  autem, ne quis forte nostro ioco probari ceuseat, legem dya piov Athenis latam fuisse. Nam  vdfioS ambigua significatione apud  Platonem adhiberi solet, ut et  legem, et morem receptum» ccyafiotg. stuvTug fitv ovv 6 toiovtog 3tai$SQcc6r>']g re  xcd <pt2cga<STt)g yiyvtrat, au r 6 igvyytvtg aO}ttt^6[icvog.  orctv fitv ovv xai avrtp Ixdvcct Ivtv%iq tu ccvtov y/ilttu  xcd 6 naLSegaOtrig xal cckkog xag, rore xcd 9av(ia0td  C lx7tfo'iTTOvrcu cpckict re xcd olxuoTrytc xcd Hquti, ovx  i&D.ovttg, ug Enog tbteiv, %UQi&6&ac aAAjjAov ovSb  consuetudinem, exemplum  significet. Vide annotat, 100.   nai8epa6xr}S xe xal <piXepadxi/S. Non de pueris hic  sermo est, sed de viris, qui integri viri segræuta sunt. Merito igitur roirere it ai8 £ patiit/ S  verbi cum cpiXtpatiTtjS coniuuctionem. Interpretes verba convertunt: Knabenliebhaber und   LiebhabertVeund, ut alterum verbum ad viros, alterum ad amasios pertineat» Sed fac, hanc ARISTOFANE mentem fuisse, quæritur, cur ordinem verborum inverterit, adraiseritque vdxepov  itpuxepov, quod rectissime etiam  a Riickerto not.itur. Sed quam  hic verborum illorum explicationem exhibuit, eam fateor mihi  neutiquam probari. Eam, inquit,  rationem inii, ut tpiXepaOxj/v  dictum hoc loco putarem amicorum amatorem ad analogiam naiSt patir/fS, quasi non a  cplXeco, sed a (piXoS petita esset  pars prior nominis. Jam idem  est, ac si dicat it a i 8 cov X £  xal cpiXoov i padxi/v. Sensus hic est: Ex hoc genere qui   est, js semper AMATOR est, sive  PUERI sunt, quos AMAT, sire AMICI Quos enim PUEROS AMAVIT, eosdem amicos habet, postquam adulti sunt, ita ut horum etiam AMATOR magis, quam AMICUS sit, Displicet hæc explicatio duabus de caussis. PUERI enim,  qui AMANTVR, non minus AMASII sunt quam AMICI AMATORVM. Deinde non dicitur Græce cplXoov  ipadxqS sed posito ipadxijS nomine itaideS s. itaiSixa adiungautor necesse est, coutra cpiXcov ubi ponitur, non ipadxrfv sed  qiiXov adiungi usus loquendi flagitat. Possis itai8epa6x?}s xe  xal qnXepa6tr}s: ita explicare, ut VIRVM inlelligi censeas, qui neque alios vituperet AMATORES puerorum, et ipse pueros amet. Dubito tamen, num hæc significatio cum tptXepadxtj S verbo satis conveniat. Supra annotavimus p»   cpiXeiv adhiberi haud raro,  ubi de actione sermo sit, cui  vis quædam, qua necessario  fiant, inesse indicetur. Eadem  significatio interdum in iis nominibus obtinere videtur, quæ cum  cpiXeiv verbo composita sunt.  Sic in Alcib. I. 122. C nod  dubium est, quin de indole Lacedæmoniorum jfrmo sit, qua  ad labores suscipiendos, ad æmulationem summam et ad honores consequendos ferantur. Verba sunt: ei 8* av iSeXt/tieiS elS  (ScjippodvvTjv xe xa\xo6piu>ri]ict  aitofiXeifiai  xal (piXonoriav  xal (piXoveixiav xal tpiXoxipiaS  xaS AaxeSaipoviaiv x. x. A. Eodem modo verba 189. D. intelligenda sunt: l6xi yap Secor  tpiXavSpGHioxaroS quæ ita de Erote dicuntur, ut deus sua natura perhibeatur homines maxime AMARE. Adde verba. Giuy.qov xquvov. xccl ot SucraiovvTtg fiiz’ dlXylav Sm  .fiiov ovzol tlOiv, ot ovS’ av %%oitv dmiv, o zi (3owXovzai 6<pl<5i 7 ta</ ccV.t) Xav ylyvt6&ai. ovdh yctQ av  So^hb tovz’ ilvai r/ zav utpQO&iolav tivvovoia, tog  ciga tovtov iviy.a. ezegog iztQca %aigu ‘gvvcov ovz ag  ini fuyaXzjg 6mvdijg' «AA’ SXXo zi flovAofitvi] tua  C. (piXoyvvaixe?, 191. E.  qxiXavdpoi, quæ de naturali quodam instinctu dicta esse, etiam e  verbis paullo infra positis colligitur: aXXa paXXov npos raS  yvvaixat t et p a ppkv a i eltflvy quibus verbis qnXoyvvaixeS  nomen manifesto explicatur. Ad  nostrum locum ut revertar, <pzÆpadr/jS idem est, atque ipadn}S  tpvdet, quo nomine supra utitur ARISTOFANE B. itat depadtovdi xal itpoS yctpovS  xal 7tai8o7ZoitaS ov tc poSexovdt  tov vovv cpvdti Igitur ARISTOFANE mens hæc est: Omnino igitur talis puerorum AMATOR est atque naturali quodam insctinctu, quippe integri VIRI segmentum, ad pueros AMANDOS fertur. xal aXXoS it ai. Valet,  quod hic do solis iis dicit, qui  ex integro VIRO dissecti suut, de  ceteris quoque, mulierum et androgynorum segmentis } de quibus quum nolit copiosius dicere,  solis hisce verbis additis ad hos  quoque id pertinere significat,  Riickert .  tpiXia te xal olxeiotiftt  xal i p coti. Exspectabas ordinem nominum inversum, quoniam priori loco positus est itat depadrr/i, ad quem Ipcoi nomen referendum est. Vide annotat. Sed minus veteres in  huiusmodi rebus accurati fuisse  videntur. Ceterum olxeiotqS Ad androgynum referri possit, ad integram feminam cpiXia. Sed dubito, num id recte fint. Tria  potius nomina ARISTOFANE adhibuit amoris, ut esset, quod cum  præcedentibus verbis Sav/iadta  ixTcXrjttovtai conciliaretur, atque  recuperatæ integritatis gaudio responderet,   xal ol SiateXovvr ei  ovtoi e id iv, oi x.t.X. Picinus verba convertit : jitque hi  sunt, qui per omnem vitam amare pergunt: neque quid potissimum a se vicissim expetant, exprimere possunt. In conversione Schleiermacheri exstat: und die ilir gunzes Leben lang mit einauder verbunden bleiben, diese  sind es, welche auch nicht einmal zu sagen wiissten, was sie  von einander wollen. Non aliter  Schulthessius verba convertit»  Sed admodum languent j si quid  video, probata hac verborum explicatione ovtol eldiVy oX verba, Aristophanes hoc potius dicturus  erat: Mirum esse in AMORE hoc, quod AMANTES, cum  veliut per totam vitam  conioncti esse, i id em huius voluntatis ne caussam  quidem habeant satis gravem, quippe nescientes,  quid alter ab altero sibi  fieri velit. Est igitur, quod  fugisse VV. DD. miror, diateX ovvtei non præsentis, sed futuri temporis participium. D ztQov y 4>v%r] StjXri idziv, o oi3 Svvarcci tlnuv, aJUa  f lavztvtzai o fiovkezai, xa i ulvizztzcu. xca tl avtoig  iv zm avrcj xcetdcxtifuvoie imazag 6 ”H<pui<Stos, lyav  zd OQyavcc, Iqolzo ' „TL £o&’ o (SovkiQ&E, o av&gcomoi, vfilv na(i’ dkb'jXwv y« >la&cu; n xal tl anoqovv gJ ? a pa rov rov Uvexa. Tovtov pronomen generis neutrius ad præcedentia verba tg3k  d<ppo8i<jlcov 6vvov6iot referendum est. Soiet autem neutrum  genus pronominis relativi et demonstrativi jexhiberi, si præcedit v  tota enuntiatio, ad quam pronomen pertinet, vel si præcedens  nomen e pluribus verbis compositum est, velut nostro loco rj  tgjv cteppo8i6icov 6wov6ict. LATINI eodem modo neutro genere  pronominis interdum utuntur; sæpius aliquod nomen latissimi significatus pronomini addunt: quæ res* Adde Piat,  de rep, I. 329. C. it&S, £q>n,  <J ^otpoxXeiS, fyetS’ itp&S za(ppodloia xai oS, JEiv<pTjfi£t y  to avSpvne' dtipavaizazac  pivzoi avzo diticpvyov x . r. A.,  ad quem locum rectissime Stallbaumius monet, pronomine singularis numeri etiam contemtum  rerum Venerearum exprimi, ut gd£  dpec tovtov Zvaxa convertendum  sit: dass dieser Armseligkeit halber cet. In sequentibus ovzcoS,  latioris significatus verbum accuratiori deliuitioni, uti solet, præmittitur. cfr. 192. E. ixal av  iv AiSov. Adde Alcib. I. 105.  c. 4. dzt ocvtov 6e 8el 8vva6zevtiv iv zf/ Evpojxy. Vide  anuot. 43- Censet Riickertus  ad li, 1. ovrooS ix\ payaXijS'  <Sxov8fj$ pro l<p’ ovtcj paydXrjS  tfxovdi/S positum esse. Eam metathesin verborum Græci admit ty * tuntin verbis xaw, xoXXv, aliis;  num in ovzcoS verbo admiserint, vehementer dubito.   o o v dvvazai sixelv  x. T. X . Vis amoris hæc est, ut  amantes impellat ad aliquid, quod  quid sit, ipsi f qui amaut, prorsus ignorant. Quod autem petvravec 1$ai atque alvizzefBai dicuntur, hoc est, diviuare atque  cæco quodam animi præsagio  sentire id, quod sibi fieri velint,  idem Margarethæ verbis notissimis in Faustio Goethii pulcherrime expressum est.   ixidz as o "Hpatdz o f,  rdopyavax.x.X. Si  germina duo salicis aliusve arboris, aut fructus 4uo mali, piri,  pruni, filo adhibito ita colligantur, ut alterius latus cum alterius lateri .firmissime connexum  sit, fieri solet haud raro, ut e  duobus germinibus fructibusve  prodeat unum. Hæc res, nostris temporibus PUERIS satis nota, non dubium est, quin et Græcis innotuerit. Ad eandem ARISTOFANE fortasse allusit. Iam iutelliges, za opyava verbis cuius  generis instrumenta significantur. Vincula sunt et compages,  quibus adhibitis duo homines ita  colligantur, ut germinum frnctuumve instar firmissime connexi alter ab altero discedere  nequeat atque duo in unum concrescant. Minus apte Riickertus  ad h. 1. Semper mihi, inquit, visus est Elato his, qu-ac de Fui - rag ccvrovg staXiv Zqoito' -J-Aqu ys tovSs Ixi&vpuxe, Iv tc 5 avuS ytviG&ca ou (icchti tu txXXyXoig, wgxs  xal vvxra xal rjutQav fii) rxxofainMS&ai alhjkav ; sl  yccQ tovtov ixt&vfieiTE, tQiXa vaag Ovvrjj^ai. xal E  <Svpcpv6ttt, tlg xo avxo, ugxs 6v bvtag sva ysyovivav,   £ cano dicentem facit Aristophanem, Homericam fabulam respicere de Martis ac Veneris amoribus, Odyss . VIII, 266. seqq.  maxime propter Mercurii verba }  quibus ille, etiam si ter tantis vinculis constringi debeat,  omnesque deos deasque spectatores haberi, tamen se Veneris  fructum vel hoc pretio emturum fore profitetur .   apa y e xovSs irtiSvpstx e. *Apa peponi solet, quando  is, qui interrogat, veram esse opinatur, quam rem sciscitatur, cfr.  Piat. Polit. 1, 328. A. xal o  USeipavToS, Apa ye, rj 8 oS,  ov 8 9 Xdxs, ori XapitaS idxai  rtpoS kdnkpav acp 9 Initoov xjj  5c<y; Nescire revera Socratem  ceterosquo Adimantus suspicatur  r ij£ Xapzd 8 o? celebrationem,  quod abitum parantes conspiciebat. Adde Piat. Crit. 44. E. apa  ye pr/ ipov npop-q^et xal rcbv  dXXcoY ijCiX 7 j 8 eia)Y ; ubi supplendum est: aliam certe recusationis caussam non reperio*  Alcib. II. 138. A. apa. ye  xpoS rov Seov 7 tpo<rev£ 6 pevof  Tcopevei ; ubi verba quædam  omissa sunt, ad quæ yk particula referenda est : Coronatum te  certe conspicio sacrificantium ritu. Nostro loco Vulcanus cum  animadvertisset, SxepoY hxkpqo  Xaipeiv B,vv 6 vxa ini peydXTjS  ditov 8 ijS, yk particula usus lianc  cogitationem interrogationi admiscet; Videmini certe velle al  ter alteri se artissime adiungere. '   dvvr rjZat xal dvptpvdai, 'ZwxrpiEiv verbo Plato  supra usus est 183* E. o 8h  rov rjSovS xPV^ t0 ^ ovroS ipa dtrjs Sia fiiov pkvei axe povl pqu dvvxaxeis. Proprium est do  fabri ferrarii arte, qui metalla  colliquefacit, ut ca artissime  couiungat. Vide Ruhukenii an—  not. ad Tim. L. V. Pl. 139«  Pro dvptpvdai codd. non pauci  6vp<pv6ijdai exhibent, quorum  in numero sunt Bodleianus, Vaticani duo, alii. Hinc non mireris, dvptpvdrjdai a Reyndersio  atque Riickerto in ordinem verborum receptum esse, præsertim  cum fabri ferrarii opificio verbum apprime conveniat. Nobis  cur unice probetur, quod Bekkerus et Slallbauraius dederunt,  dvp<pv(ftxi, ex annotatione imdxaS 6 r 'H(pai6toS f Ix&v ta opyava verbis subiecta patebit. Sio  in Piat. Epist. VI. 323. C. legitur: oipott yap 8ixxi xe xal  al8oi xovS itap 9 fjpdoY ivxev$ev iXSovxaS XoyovS, el pr\ xt  r 6 XvSlv pkya xvxoi yev operor, inqoSr/S xjsxivosovv pdXXM  dv dvptpv 6ai xal dvP&tf6 at TtaXiv elS njv itpotitidp^  Xovdav tpiXotrjxd xe xal xotYGQviaY. Ad nostrum locum LIZIO videtur respicere De rep*  II, 4.; xaSanep iv toiS ipoorixoiS Idpev XkyoYta roV *Apidxoqxivrjv, ooStuv ipwvxGOv 8id  12  xal eco$ t av ZijtSy wg evoe ovtet, xoivtj dfitpmsQovg  £rjv, xal httidav dno^avrjtB, IxeZ av iv "Aiiov dvtl  dvslv tvet tlvai XOtvfj TE&VEWTE. cUA’ OQatE, M TOV tov eqccze xal e^ccqxel vpiv, av rovtov TvyrpiE ravta  dxcvOag ttifiEv, on ovd’ av tlg i&Qvq&Eit], ovd’ &XXo,tt 1 6 (SepuSpee (piXtiv i7Ci$vpx>vrrcor 6vptpvvai xal yeveOBat  ix 5t;o ovtg>v dpcpoxepovS ira,   cjS ira arra. Valgo pro  ovxa igitur brraS, qoæ lectio  non nisi tribas Belkeri libris  confirmatur. Non dubium est,  quin brraS in textum irrepserit  scribarum errore, quj, qum paullo  supra legerint &Sxe 8v * ortas,  etiam hoc loco pluralem numerum admiseruut. Quamquam autem non falsum est c bs ira urraCy tamen ipsa oppositionis ratio, quæ inter o oSxe 8v uvxaS  ct cdS ira orta manifesta reperitur, singularem numerum exigere videtur.   ixei av iv Aidov era  elrai. De verbis ixei iv  Aidov supra dictum est 43*  " Era elrai e præcedente <3ffre  particula pendet, quæ non opus  est, ut hoc loco repetatur. Quæritur autem, qui possit "HcpcatiToS  ix&v X( * opyara corpora AMANTIVM AMANTE AMATO ita coninngerc atque colligare, ut et in Orco manes codiuncti maneant. Explicanda hæc  res est e veterum de animorum  post mortem conditione* Man^s  enim quasi umbræ erant ad similitudinem hominum mortuorum accuratissime conformatæ, qua propter apud Homerum haud raro fipoTOJV efScoXa vocantur,  cfr. Odyss. 11. 475. Adde II.  23. 65.   yXSe 8' in\ ipvxp TlaxpoxXrjoS  SeiXoio    itarx* avxcj, piyeSbs te xal  bpuara xaX* elxvta -v  xal tpannjr, xal xola nepi xpot  ei pax a e6xo.   Ex veterum igitur opinione qui  in vita breviorem alterum pedem liubebat, etiam in Orco solebat claudicare, monocolos non  nisi unius oculi lumine gaudere.  Sequitur inde, qui in vita ita  colligati fuerint u Vulcano, ut  in unum corpus concreverint, eosdem etiam in Orco coniunctissimos esse. Pro arxl Svoir /  quæ lectio vulgata est, arxl  Sveir edidimus cum Bekkero et  StallFaumio, Bodleiani codicis auctoritatem secuti. Jvoir præter Riickertum etiam Matth. verum habet in Gramm, f. 138.  262. Annotat tamen ille ad  nostrum locum: minime, inquit,  dubium nobis est, quin a Platone usurpata fuerit hæc forma ( 'Sveir ), cuius sat multa vestigia in codd . reliqua .   el tovtov i pax e. Ilæc  brevius dicta sunt; expletior oratio audiret: orAA* opaxe, et tov to idxir, ov ipdte .. Sequentibus verbis tavxa axovCaS Io per  dxi ovS * av eis x. r. X. apodosis efficitur ad verba 192. E.  init, xal ei ecvToiS ir tqH av toj xaxaxeipiroiS exi6tds x. r.  A. Annotant autem interpretes,  Aristophanem avTolS pronominis  in protasi positi non amplius memorem, simularem numerum ia  uv cpavett) povXiftsvos, &XX’ axt%vag olo it’ ccv axtjxo Lvtxi  tovto, S icaXai ccqu 6vvtX\nltv xal Ovvzaxtl $ zu   iQMjjLtVtp IX dvELV EIS yEVtO&al. Tovro yaQ ttfr i zo alziov, ozi r] &Q%aia cpvOi g  f/iuov i]v Kvzrj xal yixtv oXou tov oXov ovv ztj lici  apodosi posuisse, atque eum proximo ov8 av efc accommodasse.  - ov8* av eIs. Ov8h sis ita  differt ab av8ets, ut hoc nullum significet, illud, quoniam  interposita av vocula vis negationis augetor incredibiliter, neminem denotet ne uno quidem excepto. Unum exemplum huius usus ut laudem, Piat. Hiæd.  100. C. cpaivExai ydp pot,  eX tL Itiriv aXXo xaXov nXrjv  aveo x 6 xaXov, ov8e 8* ev  dXXo xaXov elvai rj 8 l6xi  JdETEXtl ZxeLvOV TOV TioXoV.  l J iura exempla Stallbanmius congessit in aonot. ad Piat, de  rep. I. 353. D.   «AA* 'Atexv&S   verbum apud Platonem sæpissime  reperitur, ibique vario modo explicandum est. Primaria verbi  significatio est, ut etymologia docet, anXadrcji?, aSoXcoS, a qua  reliquæ verbi significationes facili negotio derivantnr. Nara  quæ sine artificio dicuntur aguuturve, ea clare a per te que,  certissime, ad<paXco£ 9 lucidissime, tpavspmS, simplicissime, anXcoS j sum -n  matim, naScinat, pronuntiantur. Nosftro loco possis etiam  de tempore voculam dictam intelligere, ut conversio audiat verborum : und ieder wird so gleich, oh ne Weiteres das  gehort zu habeu vermeinen, woruach cben er lange schon strebte. Scboliasta ad Eutyphronem    habet apud Bekkerum, Comment,  critt. in Platonem T: II 325.  atEx y d>S‘ xavreXcoS' ? axXcoj tj  xaStarraZ, IfavpCDS, rj teXIgdS.  ol 81 iv l6(p xgj ovxi, xal aXrj$eiqc* ol 81 SrfXovv xo itapa xav xal xaSoXov, xax * aXtj Ssiav.   oloi x* av axi} xokv cti +  Ad ofozr’ av ex præcedento  ovdfc eU intellige Zxa6xoS. De  rep, II. 366. D. xojv ye «AXcov ov8e\s Ixcov 8ixcnoS, aAA*  rxo avavSpiaS  ifriyet xo  aSixEiv, aSwaxcov avxo 8pdv.  Horatii Serm. I. 1, 1,  Qui fit, Mæcenas, ut nemo,  quam sibi sortem  Seu ratio dederit, seu fors obiecerit, illa   Contentus vivat, laudet diversa sequentes  h. e. sed quisque laudet cet.  Stallb . Comparari potest cum  hoc dicendi genere ea verborum  structura, qua haud raro e præcedente verbo negativo affirmativum repetendum est; eam indicatam reperies iu Indicibus,  Ceterum Riickertus censet non  ZxatixoS sed 6 dxovoaS subintelligendum esse.   tovto yap xo alxiov. FICINUS verba convertit: Huius caussa est, quia prisca  hominum natura hæc erat integrique eramus. Eodem modo  Sclileiermacherus : Hie v o n ist  sun dies die Ursache. Neque  12 * 193 dvfita xal tficog u "Eqos ovofia. xal xqo tov, SgJtCQ  liya, tv tjfLiv • wvi Swc rrjv adixltxv diaxtofhjfuv  ixb tov &eov, xa&aTtcQ 'AqxccSe $ vito AaxEdcafiovUov.  defuerunt, qui tovtov pro rot>to in verborum ordinem inferrent. Si pro yap legeretur Si  particula, ut in Piat. Apol. Socr.  31. C„ ipsi tovtov scribendum censeremus: yap part. genitivam pronominis non admittit. Referenda autem canssalis  particula est ad præcedens idjuv:  Scimus ne unum quidem  eorum, qui hæc audirent,  ea recusaturos esse in  caussa enim h/ic est, quod  natura nostra primitus  talis erat integrique eramus. Epeo S ovopa. Erotis nomen maiore cum vi hoc loco  pronuntiandum est; igitur, quo validius emineat, articulo caret.  Exempla si quæris nominum sine articulo positorum, vide annotat,  129. Fortasse etiam eadem  de caussa in Piat. Gorg. 448.  E. lectio vulgata vera est, quam  codd. lectioni posthabuerant interpretes. ov yap azExpivdprjv, ori sXrj xaXXidrij. Codd* plerique articulum exhibent 7}  xaXkidTT}. Ceterum hoc loco interrogandi signum in punctum  mutandum censemus, quod ironicæ dictioni convenit apprime. Polus enim hoc dicit; Videlicet non respondebam eam  xa\ XidTJjv esse. Quæ  sequuntur verba, xal Ttpo tov  ev qptv, meram repetitionem sentiæ supra probatæ continent, ut  uemo ea desideraret, si abessent. Hanc repetitionem perspicuitatis  caussa admisSam ne quis ægrius ferat, <2fæp Xiyco verba    addita sunt, de quibus diximus  in annot. 133. ad verba 7/ re  ovv laTpiHt), doSiup Xiyco, icada  x. T. X. '   xa$ ait s p 'Apxa&eS vxo  AaitsSa ipor Igov, Ad quam  rem Aristophanes Arcadum Lacedæmonumque laudato exemplo alluserit, notum est atque ab interpretibus satis indicatum. Laudant Xenoph. Hell. V. 2. 7. ix  81 tovtov xa^xfpV^V J&v to  teixoS, SiajxldSrf 8 "k 7} MavTiveu TEtpaxv • Aristid, Orat. T.  II. 287. ed. Iebb. SiaoxidSTjdav Si ye MamvEiS vno AaXESaipovicov rjSrj rijs eipt/vjjS  opoopodpivrjS, Alios Riickertus  laudat ad h, 1. Adde Wachsmuths HeUeniscbe Alterthnmskunde. : Vor alleu  war Mantinea eiutrachtig und  kriiftig. Aber auch gegen diese  Stadt machte Sparta mit emporeuder Ge wa 1 1 die Sat/ung  des Friedens geltend; sie wurde  Olymp. 98. 3, 386 v. Chr, in  Ortschaften aufgelbst, aus denen  sie vor etwa einem Iahrhundert  entstanden war. Constat autem, eo tempore, quo Mantinea a Lacedæmoniis eversa est, plcrosque  convivas symposii, quod et ipsam  celebratum est Olymp. XCVIII*  4. h. e. 386. a Chrt n., iam  fuisse morfruos, Anachronismum igitur h. 1. Platonem admisisse interpretes annotant simulque Symposium post Olymp.  XCVIII. 4. conscriptum docent. Comparationem ipsam quod attinet, frustra tertium, quod vo- tpojlo s ovv Iotlv, lav ftij xoOfiioi tj/isr xgdg rovg  deoiig, vTCag (irj xai av&ig xca xe ql ifiev £’z°vzes wsxeq ot Iv tulg etijla tg xctta yQcccprjV    ca»t, comparationis quæsivi. Vellem annotasset aliquis interpretum, quo iure hominum dissectionem cum Mantineæ eversione comparatam putet. Non dubitarem equidem, xc&aitep ApxdSef  vno AaxtSoupovicav insiticia  putare, nisi præcederet dtooxi < iSijfisv verbum, quod aperte ad  hæc verba comparatum est. Prætervidit hoc Cornarias, qui di£6xi6^Tffi£V scribendum coniecit.  Sed nec hoc nos prohibet, quominus certe depravationis aliquid  verbis, inesse censeamus; vide  Excors., ubi fusius de hoc loco  disputabimus.   <poftoS ovv $6xiv, Vulgo  ivetixiv legitur, quod ne Græcum qoidem censuerim in huiusmodi enuntiatione. Sequentibus  verbis xo6f.no ? icpoS xovS SeovS  ad primævum hominum genus  respicitur, quod iu ipsos deos impetum fecit. Ex quo genere quoniam, qui nunc vivunt, homines orti sunt, cavendum est, ne forte  natura ad impietatem ducente illis similes sint, eandemque, quam  illi, corporis dissectionem experiantur»   GjSnep ol iv rctiS 6x?jXcCtS IxXEtVTtGDflk V O l.  Annotat Stallbaumius ad h. 1. :  Locus videtur hoc modo explicandus esse. Veteres -artifices  vasa, signa, alia, ita cælabant,  ut ea ostenderent figuras extra  prominentes, interdum totas, interdum dimidiatas. Et hæ quidem vocabantur itpoSxvica, illæ  vero nepupavij et ixtpavij. v. Salinas, ad Solin. Quum  igitur ixxvjc ovv omnino sit cælare adeoque de figuris utriusque generis dici soleat, perspicuitatis causa additur xaxii ypacpjjv, picturæ s. tabulæ  pictæ modo, quo additamento efficitur, ut cogitandum sit  necessario de xpoSxvicoiSs. crustis.Hanc verborum  xaxu ypaqnjv explicationem  fateor mihi noli placere, neque  omnino video, quomodo clariua  fiat illis verbis additis, de c rastis sermouem esse. Schleiermacherus verba xaxd ypcupffV  plane non expressit: Dass wir  nicht noch cinmal zerspaltet werden und so  herurngehen miissen, wio  die auf den Grabsteineu  ausgeschnittenen,die m i t  ten durch die Nase gespalten sind. Atque fortasse  interpres doctissimus de figuris  cogitavit ab impia incultæ plebeculæ manu violatis. Quis  enim alias unquam de dissectis figurarum naribus in veterum monumentis quicquam audivit ? # Altera explicatio est, qua dicuntur  homines in monumentis non a  facie tota, sed a parte faciei altera efiormati esse atque ideo  dissecti vocari. Si hoc modo  rem animo suo informarunt VV»  DD. : potuisse cuiquam huiusmodi artificia intuenti dissectionis cogitationem in mentem venire, constanter negamus. Quid enim? Rem quamque ut in operibus cælatis, picturis, aliis, ita  in rerum natura ex altera tanIxrervmofilvoi, SunXE7CQi6fiivoi xuru rus &vag, yeyovotss SsitEQ Xlanui. akku rovrav svtxa nuirc’ uvSgu tummodo parto conspicimus, totam uno obtutu non comprehendimus. Nara cuiquam in mentem venit de dimidiatis vel monte, vel domo, vel alia quavis re cogitare? Ut in rerum natura alteram tantummodo rei cuiusvis  partem conspicimus, alteram supplemus meute, ita etiam in artis operibus ex altera parte effictis, quæ uon videmus, mente  supplere solemus. Alia verborum explicatione opus est, atque,  si quid video, litterulæ unios  mutatione. Vulgo legitur xccxaypciupijv, quod primus Ruhnkenius vidit in annot. ad Timæi  L. V. Pl. 175. in xaxa ypa.~  (pyjv mutandum esse. Ortum nobis  illud est ex xocxctjfyatpiiv, scripsit autem Plato xccxa fiatprjv .  Hæc scriptara quam bene conveniat Aristophanis sententiæ,  iam vide. 2x7/\7j est Suida teste  lapis in altum erectas, figura  quadrata, idemque figuris haud  raro exornatns. K Pa(pr\ compages est laterum duorum, angulum efficientium. Iam patere opinor, figuras in statuis quadratis  xaxa fitCL<pvv IxxEXvnwpiva^  non aliter intelligi posse, quam  in ipsa duorum luterum compagine positæ. Eo loco dissectione  figuræ opus erat, ut altera eius  pars iu altero, altera in altero  latere poneretur. Uckermanni,  viri humanissimi industria factum est, ut quadri effigies tabulæ lapideæ incisa apponi posset, qua clarius redderetur lectoribus, quid Aristophaues verbis  xaxa jbcupijv adhibiti* intelligi  voluerit. XQrj taucvtu xagaxtievsa&ai tvatfitlv xegi btovg, iva B  rct itiv ixqwyea(iev, rmv di rt faca/uv, tov 6 "Eqcos qfiiv Habes duornm virorum segmenta duo, quorum alteræ partes  non conspiciuntur quippe positæ in statuæ lateribus, quæ cum  hoc latere cohærent, sed ab hac  parte statuæ non comparent*  Vide autem, quam bene hæc  segmenta conveniant cum verbis  supra lectis 190. D. idv 6 *  Mxi 8 o?tGo(5 iv doEXyctivtiv  ndXtv av x ejxai dixct, gqSx'  i<p hvoS no pevtiovr at  6xi\o vS ddKGoXidZovT eS. Adde dissectarum narium narrationem, quam optime repræsentatam habes jiorum segmentorum effigie; Ne autem de veritate figurarum xaxa fiatpi/v effictarum dubites, ipsi veterum  monumenta sepulcralia vidimus, in quibus huiusmodi dissectiones  admissæ erant. Eas admisisse  videntur artifices ea de caussa,  ut fabulæ, quam figuris describerent, continuitatem, continuo figurarum ordine certius assequerentur. Quod autem artifices  plastici sibi licere arbitrati sunt,  figuras ut dissecarent, idem haud  raro poetæ in versuum finibus  imitati sunt» Nullus enim dubito,  quin verba, quæ et ipsa sunt  figuræ artificiosæ et quasi imagines rerum, in versuum finibus  recte dissecari possint. 8ianen pi6 fiivot xaxd  tds fitvetS. Ne qnem offendat hoc loco 8iaKE7Epi6fxivot  verbum, depromptum est e comparatione sequente dfertep A Idnai,  Tali enim serra dissecari solebant.  Prorsus eodem modo 193. A.  de hominum dissectione dicitur  dtuJxltfStfftfv, quo' loco    CSrjfLEY Cornarium frustra coniccisse supra monuimus. Aitiltott  autem vocem Schol. ad b. 1. explicat : al A eiat xai bctsxpt/i- pivai xai dnvyot A lar, xai ol  diaizEnpuSfdvoi d6xpdyaXoi . ol  te *A5i/vaioi Xitinoi xaXovrrat  Teo £JC Ttjs iv TGJ XGOXTjXctTElY dwEXovS iepidpaS avzovS aito yXovxovS elvat, Stallbaumios  ad li, 1. oi 8ian£npi6fUvot, inquit, aCxpdyaXoi quid sibi velit, inlelligitur e Scholiis Euripideis ad Medeam v, 610.: ol  t imB,EYOVfiEYoi xi6tv, adxpayaA ov xaxocxipvovxES, SaxepoY  jur ocvroi xocxeixov pipoS, $aTEpor 8h TCaXtXipTtOCVOY TOlS  vno&E%apkvoiZ, Iva, si 8ioi naXiv avrovS jj T ovS IxeIyqoy  .irtiZtruvuSai npds dXXtf\ovj> 9  inayofuvoi to fjju6v adxpayaX tov, dvaviolvxo Ttjv Zeviav.  EvflovXoS &ov$oir x i not  idxiv azavxa 8iartEitpi<Sptva  7}pi6EQoS, dypifio jS nep ete xa  CvpfioXa. ovxooS 'EXX d8ioS. Non dubium quidem est, quin  Aristophanes ad hospitalitatis tesseras respexerit, quæ A i(5nai vocabautur, verum, ni fallor, eadem tessera etiam modus dissectionis indicatur. Tali enim non  in medio dissecari solere consentaneum est, sed ab imo angulo - ad alteram versus.   [ cjy o"EpcoS 7 } fity ifyeft oo y, Vulgo legitur oaS pro  tiov, quod in ordiuem verborum  recipiendum esse primus vidit  H. Stephanus. Eum secuti sunt  Bekherus, Stallbaumius, alii. Riikkertus ooS reposuit motus codicum auctoritate, qnortun exiguus  numerus oov exhibeat. Sed no- ijyEfiwv vml aTQttvriyos- « ftijfielg Ivuvrta jtQcmtra'  jtQccttu 6 ’ Ivavtia, ogTis &tolg rpUtu   yaQ yEvofiivoi xcu SiaXXayivtEs zcy &tta igtVQyGo^iEV   ' «•    lait dicere Aristophanes, faciendum esse, ut eo modo, quem  Eros indigitet, pristinæ integritatis participes fieri studeamus ;  (alio enim modo eam nemo assequi potest); sed ut eorum compotes fieri studeamus, ad quæ  Eros ducat. Necessario autem  b)V ponendum est etiam ideo,  quod x&v 8i t cum ra pkv satis  explicetur præcedentibus, non  eatis explicatum est atque definitum. Ceterum TjyEjuoov xal  GxpaxyyoS abundanter dictum est  ornatus gratia, quod moneo, ne  quis forte maiorem ipsis vim  tribuat, quam qua Aristophanes  eadem exhibere Voluit,   /iTjSelf ivCLVtlct ItpCLX*  texo). Hæc verba prorsus eadem gravitate dicta sunt atque  verba p, 189. D,; iyoa ovv Tttipadouai vffiv ElSyyydocdSai  xyv dvvapiv avxov y vjæiS 8h  - x eo v a A Xayv 6 1 5 d d xaXo i  %ded$£. Vide anuot. p, 153.   iZevpy dopkv xe xa\  Ivxev&,6jme% a, Latinis non  licet diversæ etrnetaræ verba  ita coniungere, ut sequentis nominis terminatio tantummodo accommodetur ad unius verbi naturam.  Neque Græce licet, accurate si  rem spectas, huiusmodi structuras verborum adhibere. Nam  nostro loco re xad particularum  ea vis est atque potestas, ut prioris verbi finiti pondus imminuant,  posterioris adaugeant, quasi si  dixisset Aristophanes IB,evp y d oyxeS ivx£vB,6 p.£% a..  Haud raro etiam nominibus, quæ a verbis diversæ structuræ derivantur, conjungendis, re xa\  particulæ solent apponi, v, c.  147. E. icapadxaxyS xe xal  doozyp' In nominibus quidem  harum particularum non constans  usus, ac facile quidem iisdem,  ubi non comparent, caremus, nullum autem apud veteres scriptores locum repereris, ubi verba  diversæ structuræ adiuuctoque  aliquo nomine per simplex noci  coniuncta sint.   XolS y jæx e p oiS avz&Yt  Ingeniosa quidem est, sed minime probauda Bastii coniectura :  xoiS yfiitojioiS avz65r . Exempla non rara sunt, quæ avxoS  pronomen cum possessivo pronomine coniunctum exhibeant.  Idem usus iam apud Homerum  obvaluit, v. c. Odyss.1. v. 7.   avxoov yap dq>£xkpydiv axaCSaXiydiY oAovro*  Alia exempla Motth. congessit in  Gramm. plen. §, 466. Verba nostra convertenda sunt: unsern eigensten Lieblingen.   o XG)V vvy oXiyoi noi OvdiY h. e. quod eorum, qui  nunc vivunt, faciunt pauci. IToieiy interdum, ut Latinorum  facere, non actionem describit,  sed vitæ conditionem, quare  recte Schleiermacherus verba convertit : Was ietzt nur w c  nigen begegnet. Invaluit  hic 7COIEIV verbi usus ideo, quod vitæ conditio talis plerumque esse solet, quales fuerunt actiones præcedentes. ib xal ivttv£6(iB&a rolg xca8t,xo Tg toig ^fwtlpotg avrav, S rav vvv 6Uyoi noiovoi, xt£ (ir/ (ioi vnoi.d(ig ’Eqv^ax og xoficoScov tov koyov, cog IlavGavluv xal jirj pol vitoXa ftp .  Hæc est Bodleiani aliorumque  nonnullorum lectio, quam receperunt Bekkerus Slallbuumius, alii.  Vulgo legitur xal Jiu} / iov vito \ctfiy, quod unice probans Riikkertus : Reposuerunt, inquit, dativum casum recentiores editores omnes, Cuius rei necessitatem ego nullam me confiteor  videre . Est enim hyperbaton  pov ad roV Xoyov referendum,  sicut haud raro Græci pronominis casum obliquum in principio ponunt sententiæ ita t ut 9  regens vocabulum in fine demum  sequatur. Speciosa hac annotatione cave seduci te patiaris. Non  negamus quidem, pronomina aliusque generis verba interpositis quibusdam voculis ab iis verbis sæpissime seiungi, ad quæ proprie pertineant, tenendum autem est,  huiustnodi verborum disiunctionem non admitti a scriptoribus,  nisi ita, ut vi quadam augeatur  vel prbnomen vel aliud quivis  verbum a verbis suis disiunctum.  Igitur nostro loco si scribitur  7 ta\ prj fiov vnoXafty 9 EpvB,ijtaxoS xcopipScov tov Xoy ov,  sententia existit næc; Ac ne  meam suspicetur Eryximachus orationem ridens, me Pausaniam et Agathonern tangere ; sed hoc  neque potuit neque voluit Aristophanes dicere. .Unice verus  dativus casus est, quem ethicum  grammatici vocant; explicatur is  commodissime hac  I Ne mihi accidat 1   ximaclius orationem meam ridens  suspicetur, me Pausanian! atqæ    conversione^  )c, s ut EryAgathonem hic tangere. Exempla dativi ethici Matth. congessit  Gramm. pleu. $. 389. 713.   XG>p.u)Sd)V tov Xoyov. Stullbaumius ad Piat. Apol, Socr.  31. D.: oxi pot Selov r i xal  Saupdvtov yiyvtrctif o hi) xal  iv ry ypoupy iitixcopcodcov Mf\?}ToS dypaxfwtTO, Fischeri annotationem laudat hanc, ed.  61»: ln:iHU>pcjdu.v est ridere,  notare, nt HopooSeiv et 6iaxcoftcaSelv idem valent, quod dux- '  dvp&0r, dUCOTtTElY, X^ £v< x% aiy »  v. Poll> IX. 148. Caussa est,  quia in comoedia vetere vitia  hominum describebantur et homines quasi notabantur. Quid  igitur de Aristophanico Socrate  iudicabis in Nubibus? Num ibi  vitia hominis sanctissimi notantur? Non credo, neque milii satisfacit Fischeriana xcopooSetY  verbi explicatio. KopcpdEtv non  eius solum est, qui vitia notat,  sed etiam, qui res serias in ridiculam partem ' interpretatur. Quo consilio ct modo id Aristophanes in Nubibus fecerit, alio loco explicabimus. Nostro autem  loco, quoniam Eryximachus medicus censorem se fore minitatus  erat orationis 189. B., Aristophanes vereri se simulat,  ne forte ea, quæ hucusque dicta  essent, in ridiculam partem interpretaretur atque in Pausaniam  Agatlionemque orationem directam  explicaret.   Ida $ plv yap apjtBveS. Quod fortasse dicantor bonoram illorum b* e. pri- y.ctl Ayafrava llya ' Xaog ' [ikv, yctg xal ovzot rovzav  Cxvy%uvov6cv ovzeg xal tlalv dficpuzEgoi rrjv cpvSiv ct$$ivtq, Ityu 8e ovv iycoyE xe.&' citavrav xal dvSgiov xal  yvvaixav, uzi ovzag civ fjtiwv zo yevog tvdcdfiov yivoizo,  ii ixztltGaitxiv zov Igaza xal zcov naiScxav zcov auzov  exaOzog xv%oi elg zrjv ag%aiav dxEi&ov cpvGiv. ii 81  iovzo agiGxov, avctyxa tov xal zcov vvv nagovzav zo  rovzov lyyvzdzco dgiGzov ilvai. zovzo 8 ’ iGzl mu8ixcov zvyeiv xazci vovv avza xscpvxoxcov. ov 8t) tov acU zcov &eov vfivovvzig Scxaiag dv vfivoifisv "Egcoza, og ev  te tcp xagdvzt y[idg xteiGza ovlvyGcv elg zo oIxelov stinæ felicitatis integritatisque  participes cssc, id satis spinosum Fortasse alterius figura altero procerior erat, ut ne cogitari  quidem potuisset, alterum alterius partem esse. De altera parte  huius enuntiati xai eldiv d/upuTSfJOL Ti)v cpvfSiv afifieveS vario  modo interpretes iudicarnnt. Bastius pro dppeve G scribendum coniecit dfjpevoG, Orellius ad  Isocr. loco mederi cen»  suit scriptura afifitvoS kvo G,  Stalihaumius ad h. 1. appevtG  idem esse censet atque dfifievoS  bvuS. Videtur appeveG cum  emphasi positum esse, ut supra  192, A. dvdpeG nomen, Moititiein autem utriusque poetæ  notat .Aristophanes, atque ad  porum nomina respicit, ut, cum  Fausaniam et Agathoncm summorum bonorum compotes atque revera viriles dicat,  3 laixSapivovG rcov dyaSav intelligi velit, h. e. homines parum virilitate gaudentes, sed elumbes, nominatos, enervatos. Probatur hæc nostra verborum explicatio  verbis sequeutibus : ei txrekidai/tev tov £ parta. Tetigimus hunc locum in Gemment, de Sympos. Platonis. rcov vvv 7t apo vrcov. Td  vvv napovra sunt, quæ in præsenti nostra conditione fieri possunt, nostraque sunt in potestate. Quum enim illud assequi non  possimus, ut plaue coalescat natura nostra, cum altera nostri parte, sicut omnino in rebus Jiumauis, ita bac quoque iu re optimum illud est habendum, quod  ad idealcm illum, in quo olim  fuimus, statum quam proxime accedat. Riiclcer.t*   naxa vovv avt gj. Iu permultis codicibus pro avrcp legitur avtGJf quæ lectio ab iis reperta est, qui frustra quærerent,  ad quod avr<o referrent. Subtectum cum alias haud raro oroit-titur, tum boc loco omissum facillime feras, quod præcedit : xal  rcov 7caidixoov r gov avrov  2xa6r oG rvx°i A. Ceterum xara vovv avrco it. apprime respondet nostratium; seiuem  Gesclimack entsprechend, 9   eli ro olxeiov &yoov .  Do thyeiv verbi usu absoluto suctymv, xal ilg *<> bttvta etotftag /icylazag ituQtytxai,  Tjuiov nttQixofdvcov XQog 8tov g tvtskfiticcv, xazccdzi/aag  ffflag tlg zt/v doyalav q>vGt,v xal luadfievo g f taxuQwvg  xai evSalfiovag xoiijeau   Cap. XVII. Ovtog, ?yt/, ta ’Egvl!na%E, 6 iftog Xbyog i<su xbqi    Effatos, tMolog »; o Oog,  xaficpdr/dyg avzbv, Tva xal  exaozog (qu, (uxkXov 5e r l  ZaxQa rtjg XolxoI.   pra diximus annot. 22. Quid  significet x 6 obedor, frustra io  Ficiui conversione quæras: dum  in suum igniculum quemque conducit. Recte Schleiermacheras  verba convertit: indem er uns zu  dem verwandten hinfuhrt. Ne  qais autem scribendum censeat  eis Xov olxtiov, quo significentur 7tai8ixd xara rovv izetpv: xota : AMANTgenus neutrum seri- 1  ptores adhibere in sententiis»  quæ in universam proferantur.   l\7ti8aS jieyltiraS TtapiXBtai xax a6xr\ daS  rtoiij 6 ctl. Participium xaxa 0xr^6aS post iXxiSaS 7tapiXtxai ponitor, quia/AjrfdaS’ izap&X& eiusdem fere significatus est  atque dtixvvpi, SrjXoGD, quæ  verba participium adsciscunt.  Vide de hac verborum structura  Mattii. Gramm. plen. 549*  6. 1077. De 7C0iij<Scti aoristi infinitivo vide Heindorfium  nd Piat. Phæd. 48., Stallbaumium ad Piat. Phileb. 204«  Ceterum eodem verbo Aristophanes usus est in couditionali enuntiato xapexexcu, ypcov «rap  wgjciQ ovv ISeifotjv Gov, /ii/  zav Xoixaiv dxov6<o/uv zl  lxdzsQ 0 $ • ’Aya%av yccQ xal E    exo/tivar nt efficacior ev«- derct via conditionis.   ovtoS, ttprj, c v ’Epv£iM a X e i d d/jo s XdyoSx. r.X.  Respicit Aristophanes ad verba  189. C. xal fti/r, <« ’Epv£lfiaxe &XXr) y£ it; £r va>  Xiysiv i) y 6v te xal TlavOaviaS ilntnjv. OvtoS hic  SsixttxiuS positam est. at verba  convertenda sint: Ecce talis  est oratio mea. cfr. Mattii.  Gramm. plen, 471. 12.  875. 'O ifioi autem cnra vi pronuntiandam est. significat enim :  oratio, quam habere debni.   firj xa> fiu>8r/<Sij S uvtdv.  vide annotat, 185- "ClSxep  £8e7/$z/v uov verba spectant ad p, .  189. B. aXXa fu/ fis tpvXazts,  tds iycv ipofjoviiai iccpl xoov.  fieXXdvtwv fyi/ST/iSsd^ai x. t. X,  et 19S. B. xai ftij fioi vitoXcifl’,1 ’Epv£ifiaxoS xcofttaStiv  roV Xoyov, tvS llaviaviav xal  'jiyaScova Xsyu. De verborum  fidXXov 8s significatu vide anuot. 15.  Alia neldoftal 601, l'<pij tpavai rov ’Eqv%1(iccxov'  nui j mq uoi 6 loyo s Jjdl ag 9 '?#'?• xal el fir) gwjj Seiv Zmjxqutu te xal Aya&ave Seivoig ovdi negl ta  egcotixa, na w av icpoftovfiijv, [i/tj anogydadi loyav Sia    xa\ yap poi 6 \6yoS  yj 8 i gdC i fi fi7j,$7j. Spectant hæc  verba ad 189. C. idcoS p&vTOt  dv 8oB>xf yoi, a<p?}da> de. Eryximachus igitur vel ipsa Aristophanis oratione pacatus vel motus  verbis Iva xal tgov Xoindov  thiOvdoDjxEv, nolle se iam promittit iuiuriam sibi illatam  189. C. ulscisci. ’Efifij/$?j scripturam quod attinet, vulgo ififii$7} legitur, quam formam Buttroannns in Gramm. plen. p, 121.  iis scriptoribus tribuendam censet, qui non sint attici. Annotat enim: Aus den Werken alterer Sr.hriftsteller ist diese Form  durch die Autoritiit der Handschrifteu ietzt vielfaltig entfernt.  vide Lob. ad Phryn. 447.  Bekk, ad Æsch. 2. 34, 124.  ISicht selten steht sie aber auch  grade in den bessern Ilaudschriften.   ei pn} %vvy 8 etv Sei  voiS ovdiv . Rariore usu dvveLSevai rivi ri ponitur hic pro  uliquid de aliquo scire»  Isocr. Archidam. 229. dvveiSozef *A$rjvaioiS IxXiicovdi rrjv  %cdpav vitkp x t}$ ru )v uXX.gov  i\ev$epiaS. Id. Arcopagit. dvvoiSa re r otS xXeltixoiS  avrvv ?padra x a ^P ox) 8iv. Piat.  Phædon, 92. D. lyuid^roiS  Xoyoifv B,vvoi8a ovdiv a\a?,dCiv. Stallb. Alia huius stru-*  cturæ exempla Matth. laudat in  Gramm. plen. 548. 2. 1075.,  quibus adde, quem Riickertus locum laudat Piat. Protag, $48.    B. aXX* rftoi SiaÆyedSco rj  ehcerao, ori ovx iStlei 8 1 aXiyedSai, iva r ovraj ptv rocvta  dvveiSdopev,   prj a.7t o p ?/ d co 6 1 . Coniunctivi modi post præteritum positi exemplum habes 174. A.  fio. ravra 8rj ixaXXGoniddfxyv,  fva i'co, ad quæ verba vide  unnot. 16. Nostro loco artificio quodam dicendi et non  timere se significat Eryximachus,  ne non habeant, quippe maxime  erotici, Socrates et Agatho, quod  dicant, et rursus timere propter  ingentem præcedentium sententiarum a convivis prolatarum copiam, ne oratione sua uterque  et philosophus et poeta indigeat,  Possis hæc verba etiam hoc modo interpretari: nitvv av £<po~  fiovprjv (aXX* ov cpofiovpai vvvl f pi) dicoprfOGo6i, ut magis ad  sententiæ efficaciam dicatur scriptor orationem direxisse, quam  ad verborum grammaticam conformationem. Eam explicationem  verba, quæ insequuntur, probare  videntur vvv 8 ’ op&S Safipai,  Sed non dubito equidem, quin  liæc verba etiam cum priori struturæ explicatione conciliari possint.   naXcdS yap avroS yy condar, Schleiermacherus verba convertit : l)u hast eben deine Sache gut bestanden. Schultliessius: da hast deine Rolle   gliick licii nusgespielt. Rukkertus jtaXaS riihmlich convertendum censet. Ficiuus in zo itoU.cc xal jtavtodana dQijo&ai' vvv df ofiag ^aggco.  Tov ovv ZaxQurr] tlxuv, Kalag yccQ avtbs TjycovLOctt, a ’EQvi-![itt%s. d 6s ytvoio ov vvv lyco dui, fiallov ds lOtog ov t do ficu, hcudav xal 'Aya&av drtij, iv  conversione exhibet: strenne  et ipse certasti. Aliud quid Socrates xa\ds verbo adhibito videtur exprimere voluisse,  quod quid sit, e præcedentibus  et insequentibus facillime colligitur. In præcedentibus enim  Eryximachus vereri se dixerat  summopere, ne non habeant  Socrates et Agatho, quod proferant, quoniam a plerisque iam  multis modis de Erote dictum esset, non vereri se dixerat, ne non  bene uterque locuturus sit. In  sequentibus Socrates non dubium  est, quin verbis ov vvv lyd  elfiiiy ftaXXov 5k IdcjS ov Idojicti x, x. A. ordiuem sedentium  significaverit, quo factum sit, nt  sibi de Erote dicturo nihil, quod  proferret, relictum sit. Sequitur  inde, Socratem Eryximacho non  dixisse: bene enim ipse dixisti. Hinc verba ita disponenda esse censebam : xaXds yap t  (sc. SafifSEi?) avxoS ijydvidai,  G) EpvB,lfiax& h. e. Du kannst  ganz guten Muthes seiu: deine   Rede ist vorviber. Sed scripsisset, si hoc voluisset exprimere.  Flato: xaXds ydp, cj ’EpvB>t/iaxe‘ avxoS tjyojvidai. Igitur  nunc xaXaS de tempore accipiendum esse autumo, ut idem  hæc vox significet atque slS xaX6v y de quo diximus annotat,  24. Socrates hoc dicit: Du hast  gut von Muth reden, (vide  de supplenda enuntiatione quadam ante ydp particulam quæ  annotata sunt 14.) zu guter  Zeit hast du deine Rede    gehalten, warest du aher wo  ich ietzt bin oder vielmehr wo  ich nach Agathons Rede sein  werde cet. Ceterum iam supra  sedis inopportunitatem notatam  habes a Socrate 177. E. xal  r ot ovx Zdov ylyvExai i)filv  xo'iS vdxdxoiS xaxaxuf.ii.voiS   «AA* idv ol xpodSev ixavcoS  xal xaXcoS tincodiv ., lUapxiGei 1/f.ilv. Ceterum patet, Socratem Eryximachi verba aliter interpretari, quum medicus ea intelligi voluit. Dicturus enim erat:  nunc non metuo, ne non habeaut  Socrates et Agatho, quod proferant. Socrates contra ita respondit, qua^i ille dixis,set: Nunc  mihi securo esse licet, ne, quod  proferam, nOn habeam. Sed solent, qui cum acerbitate loquuntur,  interdum non ad sententias respicere, sed singula verba captare  iisque ad suam sententiam coutorsis responsa accommodare.   el ykvoio, ov vvv  lydi e i fit . Eandem fere sententiam hoc modo expressit Terentius in Andr. Act. II. S. 1.  9. Facile omnes cum valemus  recta consilia ægrotis damas»  Tu si hic sis, aliter censeas. De insequentibus verbis xal Iv icavxl e1lr)S vide annotat. 62. Recte ea Stullbaumius interpretatur: in summa  consilii inopia, in summo  timore versari. Deinde ev  xal fidXa rarior dicendi formula est, pro consuetiore ev fidXa .  Addiderant interdum veteres seri- xal fiaJ.’ av cpofioZo, y.al Iv mxvrt tcqs, Sgmg lyco vvv.  (PagfictTTHV fiovÆi fis, co Ikoxgcatg, tlntiv rov ’Ayaftava, iva Qtogvjiri&m dtcc ro ohti&ca r 6 ftiargov ngogSoxi av neyukr t v i%uv, tog sv igovvrog luov, 'EniXtfiimv  fdvt’ av tl'tjv, w ’Aya%uv, tlntiv r bv Zwxgdry, d id uv ptorcs Taxi particulam, qua significarent, cum vi maiore et ev et  puXct pronuntiandum esse. Non  mate Riickertos ad h. 1, Ttai  addito effici censet, ut eadem fere cogitatio bis ad animum afferatur. Huic dicendi generi apprime respondet nostratium gat  und g e r r», quibus verbis utuntur, qui animi sui sedulitatem  ostensuri sunt.   cpappatteiv fi ovX st jus.  tpappaxrEiv fascinare significat  herbarum adhibito succo, deiude  etiam de aliis remediis valet, inprimis autem de magniloquentia, qua aliquis ita sui impos  reddi posse credebatur, ut nihil  eorum, quæ vellet, neque facere  posset nec dicere. Sic in Piat.  Phædon, 95. B. legitur: IA  ’ya$l t Utpi/ 6 2?cjHpdxr/S^, pi/  piya A iye, p)} xt? Tjp&v fia< ixaviot 7tfpiTpeip?j rov Xdyov  xov plXXovxa XiysdSai. Ceterum nihil aliud voluit Socrates laudato Agatliouis nomine efficere, quam ut accuratius locus definiretur, quo sibi esset dicendum. Poterat enim iud« loquendi  difficultas expendi. Igitur notabis, quain manifesto Plato hic carpit, vanitatem Agathonis verba  Socratica in suam virtutem dicoudique artem directu censentis.   ro Siarpov ev   £ puvvroS ipov. ro  rpov h. 1. de convivis intelligendum est. Eius vocabuli insolentiam ne mireris, adhibitum est t  Platone, recte monente Wolfio ?  ad h. 1., ut sceuicum poetam  hic loqni lectores ^oneantur. De  gdS cum genitivo participii coniuncto vide anuot. 158.   EiiiXi) 6 pcav pkvx* av  siijv. Recte monet Riickertus  ad. h, 1., pivTift interdum nnd  adversandi, sed asseverandi potestate adhiberi. Eandem significationem xai xoi habet, quod  disiunctim scribendum esse supra  monuimus 51. Fortasse etiam  pivxoi, ubi asseverandi vi positum est, scribendum est piv xoi t  neque dubito, quin Græci, quos  studiosissimos fuisse constat verborum recte pronuntiandorum,  pronuntiando discreverint •ptvx  dv et piv r* av. 'EitiXijtipeov  verbum quod attinet, senum decrepitorum constans epitheton  est, »ut et oblivionis atque ridiculæ stultitiæ significationem  habeat» Schleiermacherus in conversione exhibet: Sehr vergesslich miisste ich dann sein. Eodem modo Ficinus verba reddidit: Nimis, o Agatlion, obliviosus essem. Neutra nobis ItxiXijtipGDV . ^ocis explicatio arridet,  seque tamen facile verbum repertum iri concedimus, quod  ilii vocabnlo satis respondeat.   T7/v 6i) v dv $ p tiav  dv a fiaiv ov x o S n. x. A.  Laudat hunc locum Mutth. in  Gramm. ampl. J. 466. 1. 864.,  t))v cijv uvSqsmv mu nsyaXoqiQoavvrjv avctfialv ovtos hd 11  tbv vxQifitxvta (liza tcSv vitoxQLuav i tal (tttipavrog  ivcivcla toSovtu (liXXovzog esudEi^ttj&ai Cav um kuyovg, xul ovd’ bnagnovv IxTcXaytvzog, vvv o lr r  Stlrjv oe %oQv(irj9>;OtG&ao evExa i/fubv, oXiyav uvftQcaxwv. ub i complura Innas structuræ exempla congesta sunt. e. c. Arist.  Ach.93. ixuoipeii ye xopaB, itazaZaS tov yt 6 ov (ocpSaXpov')  tov n p i 6 (i e cjS . Ceterum dubitari nequit, quin Socrates Agatlionis virtutem animositatemque  prædicet ironia consueta usus;  pauli o infra enim ipsum pugnare  secum ostendit, ut, ni Phædrus  eius pudori succurrisset, hominem  misere turbatum eiusque animum elatiorem prostratum humi cerneres. Hoc ironiæ artificium,  quo eximia laudatio acerrimæ  notæ præmittitur, videlicet ut  elatiores cadant miserius, ex epicorum arte depromptum est, qui  heroum solent, quorum cædes  narranda est, ipsi huic narrationi  summam laudationem virtutis, magnanimitatis, pulcritudiuis præmittere.   x iitt tov oxpift Civ x a .  Schol. ad h. 1. oxpifiavxa, in-/  quit, r 6 Xoytiov, i<p ov ol  xpaycoSol jjyoovi^ovxo’ tivt ?  Se xiXXifiavxa tpidxeXrj (padiv,  i<p’ ov iCtavxai ol vxoxpixal  xai xa ix peteojpov Xeyovdiv.  Adde Fhotii verba : oxpifiaS ’ to  X oytiov, i<p’ cj ol xpaya)8ol  tfy<k)vi£ovto. xcti nXdteov 6  tpiXo6o<poS Svpitodioo x£XPV rca  T ai ovopaxi. Timæus hæc habet : oxpipaS' nijypa to lv xa 5  $e axpeo TiSipevov, iq> 9 ov  idxavto ol xa Sr/podia AcyovteS * SvpiXy yap ovSinos  tjv. Hesychios exhibet; fi&Xtwv    tpavat to Xoytiov, £<p* ov   i&xavxo ol tpaycpSol i/ ol, vnoxpixoLl ix pexeoSpov xal iXeyov.   fiXirJ; avxoS ivavxia to 6ovtcj $ e at pco . 9 EvavtUt >  fiXiittiv de bellatoribus dicitur, qui intrepidi hostem adventantem intuentur. Pro TOdovTCJ  Searptpy quæ plurimorum optimorumque codicum lectio est,  vulgo rodovxov Scarpov legebatur, id quod in hac loquendi  formula usitatum fuisse Stallbaumius rectissime negat. Iu  sequentibus davxov A oyovS ne  quis articulum desideret, quem,  si in codicibus exstaret, nemo  non probaret: Socrates hoc dicturas est: iudem du im Bpgriif  standest, eigene Compositioueu  bekaunt zu macheu.  T L Sal. Codicum baud exiguus numerus ti Se exhibet.  Multis in locis, nbi xt Sai scriptum reperitur, de lectionis,veritate dubitari potest. Nostro  loco nihil certius est, quam tl  Sai bene se habere. Miratur  enim, Riickertus inquit, quem  consentire nobiscum gaudemus, Agatho Socratis orationem, qui  multitudinis se nimio studio teneri insimulet; verissimum autem illud est, quod Stallbaumius  ad Fhilebum 6. notavit, xi  Sai locum habere, ubi admiratio quædam esset exprimenda. Quoniam autem admiratio ulicu- Ti dal, to ZdxQccTBS, tov 'Aya&avcc <puvca, ov tfij itov  fit ovra StaTQOv (itOtbv fjyu, dgts xa\ ayvotlv, oti vovv  i'%ovu oXlyoi %nq>QOVES xolXdv dipQovuv (poftlQUtcgoi'  C Ov fiivT av xa/.dg itoioltjv, tpdvai tov ZaxQdrrj, ol  ’Ayudav, xbqI Oov ti iyd aygoixov do^utuv. ciV.’ tv  olScc, uti, ti tiOiv Iv xv%oig, ovg yy oio Cotp ovg, (idXXov    ins re! hand raro cum quadam  indignatione coniuncta est, quæ  e rei alicuius insolentia, quam  dtoniav vocant Græci, enascitur, zl 8aL plerumque ita exhibetur, ut rem aliquam veram esse  neget is, qui illis voculis utatur.  Exemplo est Piat. Gorg. 461.  B. zi Sal, 2 cox p dzrj S ; ovzoo   xcti dv xepl zij ? pijtopixfjs 8oB,a?>EiS, &S7tEp vvv XtytiS ;   ov 8 y 7COV/.IEOVTG3 seqq.  Hæc est codicum lectio, quam  Themistius confirmare videtur  Orat. XXXVI. Sil- B., qui  nostra verba imitatus est: ov   8r} Ttov pe za Siazpa ovzooS dyandv i/ysid^E, qjSze ayvotlv,  ozi oXlyoi lyuppovES noXXcov  aqjpuvcjv rc5 A kyovzi cpofjtpcJTEpot . H. Stephanus scribendum  coniecit dv 8? ) itov jxe x. r.  A., quam scripturam verissimam  c«nserem, si iu sequeutibus scriptum exstaret: ozi vovv ^xovxi  oAiyoi itoXX&v (popepootEpoi.  Hidiculum enim foret, si Agatho quæreret de re, quæ Socratico dicto pro certa iam posita esset. Dixerat nimirum Socrates, fieri  noa posse, ut Agatho paucorum  homiuum præsentiam extimesceret, cum coram ingenti multitudine animatum se ostenderit atque intrepidum. Ad quæ verba pessime responderetur ab Agathone: Profecto non ita me spectatornm applausu elatum indicabis, ut qui nesciam, prudenti    paucorum hominum, quam multitudinis iudicia timenda esse  magis. Additis autem verbi*  ipqypovE? et cttppov av nihil  certius est, quam Platonem ov Srj  itov pE scripsisse. De 5 ? / 7tov  verborum siguificatu vide annot.  98. Verba convertenda sunt:  Da wirst micli doch olTeubac  vvohl nicht so vom Lobe der  Zuscliauer eingenommen halten,  dass ich nicht wusste-, dass das  Urtheil weniger Besonneuer weit  melir zu furchten ist, ais der  Uuverstnnd der Mengef   iCEp\ dov ti iyco. Nota  vim pronominum 1, quorum ordine hoc exprimitur} de te,  viro tanto tamque insigni ego,  homo vilis. Ceterum Ruckertum  audi, annotantem ad h* 1. : aypoi xov. fcSic dedi cum edd. rec.  inde a Wolfio, vehementer licet  dubitans de Grammaticorum illo  præcepto, quod inter aypoixoS  et aypoixoS hoc discrimen poni  iubet, ut dypoixoS eam denotet,  qui rusticis moribus sit, aypoixoS t  qui ruri habitet. Timæns :  dypoixoS dxXrjpoS xal anai**  SevzoS, rj 6 iv aypoi xatoixcov*  Esse accentuum discrimen nolumus negare, sed utrum idem  etiam significationis sit, an potius dialectorum aut ætatum,  dubitamus,   « A A a p?} ovx ovrot  ijpels cjfiev Alio loco dicturi sumas de usu prj ov ne- av tt&rav (pQOvd^oig y xwv noXlav. ulla f ti? oi% ovT 01 tjflSLS 10UEV. TjlUlS y-EV yCiQ XCtl IxtL TtUofjfltV XCil   jjfuv rdv xoXXiSv. el Si ailoig lvTv%oig 6o(poig, xk%  itv alOyvvow avrovg, t” ti 16 cos o toto alaygov ov   noiiiv. rj Ttcog kiyi ig; 'AXrftry tiyug,' cpavca. Tov g   Si xollovg ovx av alo%vvoco, t" rt oioco aldygov D    gationura Nuperrime de iis egit  Bellermannns ia Commeat, de græca verborum timendi structura, censetque esse apud Græcos eandem et cavendi et timendi verborum structuram, qua,  quicquid molesti instare sibi arbitrentur, præmissa indicent fxrj  particula, cui alteram insuper  addant negationem ov, si quod  exspectent malum, in eo contineri dicant, quod quid non sit  eventurum. Hæc sententia cur  nobis non probetur prorsus, alibi  dicemus. Ad nostrum locum ut  revertar, convivas ex ordine tgov  i/Kppovcov esse, Socrates non negat quidem disertis verbis, sed vereri se tantummodo ait,  ne non aint tales, quales  esse ab Agathone perhibeantur.   si aWotS ivtvxoiS  doepotS. 2o<poiS nomen a  verbo, ad quod pertinet, sejunctum est, ut sensus sit: si aliis  iidnne sapientibus, de qoo  vernorum dispositione sæpius  iam diximus ; vide aunot. 59*  129* al. Ne autem scriptum  exspectes pro doq>otS verbo docpGOtepoiS rjfiaov: Socrates et se  et ceteros convivas multitudinis  imprudentiæ prorsas æquiparat,  ixl quod etiam colligitur V verbis : 7 plv neti ixel napjj- fXEV TCCti 7Jfl£V T(OV TtoXkwv*  e£ rt tdeoS oloio al   dxpor ov rtoieiv. Stallbaumius ad hunc locum, non est,  inquit, quod ov participium cum  Astio delendum putes, si quidem  sententia hæc est: si quid   facere te putares, quum tamen turpe esset, sc. tcoteiv . Participium revera in Stallbauxniana textus recensione omissum  miror. Ceterum ponderosior est  eius explicatio ov participii. Si  abesset, nemo, opinor, id desideraret. Addito eo nihil nisi rei  veritas exprimitur, ut verba convertenda sint: si qnid forte  facere te opineris, quod  revera sit turpe.   na\ tov $ a 18 p o v, £ q> 77,  VTtoXafiovx a. Supra iam  dictum est, Agathonem, cum non  haberet, quo se posset Socraticis  retibus extricare, pudore suffusum obmutuisse, Phædrum autem miserrimæ eius conditionis  miseritum, atque ut finis esset  silentii ingratissimi, <pt\e   *Aya$GOV et quæ sequuntur verba  protulisse» Ut igitur esset, quo  etiam oculis legentium illa Agathonis reticentia indicaretur, post  aidxpov iroieiv lineolam ponendam curavimus*  lav (X7tOKpivv ^co reparet h, e. si pergas respondere. Amant enim Græci)  ut vim augeant verborum, ipsa  verba ponere pro eorum infinitivis cum aliquo finito verbo   13 noiiiv; Kal t dv &aid(>ov I tpr} vitolajiovTa timiv,  r Si cpli Ie 'Ayuft ov, lav anoxglv]) ZkoxQaru, ovdlv eu  dwiGei avra, dxrjovv tov ivdude otlovv yiyveaftta,  lav fiovov h'%y ora diaXtytjTaz, cilkag te xal xakcii.  iya de ydeco s (itv ccx ova ZJaxQaTovs d caley ofievov,  dvayxalov de fiot eMfuhj&yvat tov iyxafiCov za  "Egau, xal uTCodt^aG&æ nag’ evds txuGzov vumv tov coniunctis. Diximus de hoc genere dicendi in aunot. 169«  Sic in Piat. Phædr. A.  legitur axap, <J Ixaipe, petaZv  ta)Y Xdyarv 9 ap* ov rode i\v  tu 8/v6pov, i<p’ uitep yyeS  i)fict9 } quo loco ijyeS cum vi  positum est pro ayeiv IflovXov.  Adde Engelhardtum ad Platonis  Lachetem ed. 29* Meus autem Phædri hæc est : Cave   Socrati respondere pergas» nam ubi perrexeris»  nihil ipsius intererit,  quomodo ea, de quibus  dicere constituimus, peragantur, dummodo ipse  habeat, quocum colloquatur. Magnam fuisse constat  Socrati aviditatem colloquendi,  quæ haud raro apud Platonem  descripta reperitur. cfr. Apol.  Socr. 38. A. idv x* av Xiyco 9  oxi xal xvyxavei piyi6xov  dyaSov ov avS pedit (p xovxo,  kxdtixtjf ijpipaS itepl dpexijs  xovS XoyovS noieuSSat xal xcov  dXX cov x . r. A. Adde Phæd.  61. E. xi yap av xi9 xal  Ttoiot dXXo iv r&5 pexpi ijXlov  8v6pdov XP° V( ? 8C * V poSoXoydv te xoCl diadxoiteiv nepl  x. r. A. De more Socratico a^tem abeundi a proposito atque  alips ab eo abducendi vidp Piat.  Lachetem 187* 13* ov poy  foxeif eldiyai, Zxt o? av ly. r    yvxaxa ZEooxpaxovS Xy A oya 9  $Snep yvvaixi Tc\r\6idZ,ii 8ia A eyopevoS xal dyayxrj avx<p 9  idv dpa xal itepl aWov  X ov it potepov d p Ztjx a i  SiaXiyedSai, prj i tavetSSrat  vito xovxov nepiayopevov tg j  A oyaj 9 itplv dv ipnitiy eis x d  didovai itepl avxov Xoyov x,  X. A., ad quem locum vide quæ  annotata sunt 122.   d AAgj> te xal xaX(S. De  his verbis, quæ cave falso interpreteris, vide Commeat» DE SYMPOS. PLATONIS,  xal ano SigatiSai itap*  kvo9 kxatixov. Dixerat Eryximachus 177. D. Soxel yap  poi XPV V at adtovijpGov  Xoyov eineiv inaivov ” EpcoxoS  ini SeZtd cj 9 dv bvvrjxai xaXXidxovx. x. A., quod dictum cum probassent convivæ ad unum omnes, unumquemque Erotis laudatione habenda obstrictum recte censeas. Igitur non mirum,  quod Phædrus hoc loco anoSeXetiSai verbo utitur; id enipi de  debito accipiendo solenne. Cum  vi autem Phædrus anodeB,ct6$ai et paullo infra anoSovS  verba adhibet, ut commoneatur,  Socrates, super alia re non disputandum esse prius, quam debita Erotis laudatio exsoluta sit.  Apposite Stallbaumius ad h* 1.    «t   Zoyov. dnodoiig ovv txdrtQog ra fhu oikag r\8rj diaZeyc69a. AUm v.ahZg kiyug, d <H>cci8qs, tptcva i rov E  'Aya&avcc, xal avdtv fie xaZvu Ztyecv' 2axQuzu yut>  xal av&ig tOxat, nolldxi g &ux).tyt(Sft<u.  ’Eyd de < 5 >} (Sovkoficu tcqwtov (iiv einelv, r) %q>]    laudat Piat. Politic, 173* B. xa \coS xal xa$ ait e p eI xpz&S  ditidcoxaS poi rov Adyov,  ovtcjS ?/8 7} diaXeye6$a).  Ovzcd haud raro ita in veterum  scriptis positum reperiri, ut aliquam conditionem in universum  insigniat verbisque insequentibus  accuratius definiatur, supra indicavimus p, 43Contra ubi accurate descriptæ actioni postponitur, illam vim prorsus amittit; ridiculum enim foret atque  inutile, si quis iu universum id  describeret, quod accurate descriptum præmiserit, Aliam igitur vim habet, de qua solertissime, uti solet, disseruit Engelhardtus ad Piat. Lachetem ed.  52-: Ovrcj, inquit, repetit notionem participii  tanquam cum sequente  actione (h, 1* SiaÆyetiSai)  caussæ, conditionis, rationis ineundæ similiqne  notione coniunctam, Exempla si quæris huius structuræ, cf. Piat, Apol, Socr. p,  29. B. xal ei 8ij ra> (Soparepos rov <pait)V slvat, rovrco dv 9  ori ovk el8coS IxavcoS it epi raiv  iv n Ai8ov ovrco xal oiopai ovk  sldivai. Piat. Phæd p, 61. D.  xal apa Asycov ravra xaSrjxe  ra 6xiArf ano rijS xAivrj? iitl  Trjv yijr, xal TiaSeZopevoS ourcoS ?j8?] ra Aonta 8iEÆyEZo>    Piat. Protag, 314, C. tv* ovv   pi} drsXifS ysvoiro ( sc, d Aoyo?) a A Ad dianepavdpEvot ovtgjS’ elsioiptv x. r. A. Piat, do  rep. IX. 576. E, xaradvvreS  eis diradav (r rjv itoAiv) xal  iSovref ov ra 8o£av anocpaiveops^a.   xal ovSiv pe xcdAvei  A kysiv. Atytiv h. 1, est orationem habere atque deum laudare.  Qui paullo ante obmutuerat, cum,  quod respouderet, non haberet,  nunc eifugiQ opportunissimo usus,  recuperata animi audacia, Socrati, inquit, etiam posthac sæpe  erit respondendi facultas,   iycd d £ Si} povAopai*  Queritur in ipso orationis initio Agatbo, quod omnes, qui ante %  se dixerint, non Erotem laudaverint, sed homines felices prædicaverint ob bona, quorum ipsis Eros sit auctor. Omne autem  encoraium' pergit esse debere ita  comparatum, ut priori loco eius  natura describatur, cuius encomium exhibendum sit, posteriori  loco bona commemorentur ^quæ  ab illo proficiscantur, His^Pæmissis ad ipsam dei laudationem  abit, tantosque honores in ipsum  confert, ut in Agathonem potissimum verba Socratica directa videantur, quæ infra leguntur  198. D. r d 81 apa, (sc. rdArj$i\ AJysiv x*r. A.) toS ioixev,  13 *  [is ehtuvy Inuret dnuv . doxovGt, yctQ poi narres oi  nQoGftev, elgqxoTsg ov tov %eov eyxG vpi&fciv, alXa tovg  av&Qi&novg tvdacftovl^BLV teov ayaftcov 9 av 6 &ebg « 5 tolg aluog. onolog de ug avtog dtv ravta edoQrjGazo,  195 ovdelg eX prjxev. elg dh tQonog oQ&og navxog Inaivov  neQi navxog > koyco diekfteiv olog oicov cuuog av xvy  ov tovto f?v ro xa\ goS lituiveiv oxiovYy aXXa ro gjZ /ilyi 6xu dvaxi%Evcti r& npd/jxati  xat oJs’ yidX\.i6xa > lav xe y  ovtoai ix oy xu > Idiv re pr).  Nam beatissimum Erotem vocat  omnium deorum et pulcherrimum  et fortissimum» Hæc epitheta  tum ut firmentur, tum ut augeantur, alia multa accedant,  quæ singula enumerare nunc non  labet. Altera pars orationis, in  qua dei dona recensentur, ita  referta est antithetis aliisque ornamentis orationis, ut Gorgiæ discipulum invenili ardore exsultantem facile agnoscas. Ut  autem auditores Aguthonis finita  eius oratione hominem summopere admirati esse narrantur p»  198. A», ita universis Atheniensibus ipse GORGIA acceptissimus  erat atque iucutidissimus, ut teste  OlympiocToro, quem Stallbaumius  laudat ad Piat. GORGIA p, 447» B.  eos dies, quibus artem suam publice ostentabat spectandam, festos (hopxaS) et orationes ipsas  lampades vocarent. Hoc nomen  quam bene conveniat oppositioni bm^jipepissime repetitis, antithetis Captatis, cincinnis orationis delicatulis, patere opinor.  AapitabeS enim faces intelliguntur, quæ certis quibusdam festis  diebus per nocturna spatia huc  illuc -circumferebantur. Ut hæ  faces in Xa/maSovxiu, quæ et  ipsa Xajmds vocabatur et \ujx  itaSoSpojiia, mox hunc, mox illum locum campi illustrare solebant, ita illis orationis artificiis  adhibitis sententiæ oratoris splendidæ reddebantur atque luce clariores.  XP 7 ? P E eliteiv. Sio editores omnes præter Ruckcrtum,  qui e codicum plurimorum auctoritate gjS XPV ordinem  verborara recepit. Addit idem,  noo minus recte habere gjS quam  y, utramque enim vocem exhiberi, ubi quomodo quid fiat  aut fieri debeat, oblique rogetur. Interest tamen aliquid,  utrum goS an y posueris. Exemplo ut clarior res fiat, y XP V M E  ehteiv est, qua ratione dicendum sit 5 verbum autem XP 7 ?  non nisi expletivum est, ut qna  ratione ego debeam dicere  nihil aliud siguificet, quam qua  ratione dicendum sit. Contra  cJs’ XP 7 ? M E eliteiv significo t accentu orationis in scqnens postea? verbum transmisso, quo modo  debeam dicere. Pari modo  explicandus est locus Piat. Eutbypbr. 4. E. xuxgoS eiSoreS  ro Seiov as $x El T °v oCiov re  itkpi HCti tov dvo6iov . Adde  Polit, 304. E. it o\e prjrkov htu6roiS oli av itpoe  XtopeSa icoXejiEiY» Protag.  338. D. 7t£ipado/iai avrcp 6eZ—  B,ai y coi iyoj (pypi XP 7 / ya 1 roxr  ditoxpivopevov <x7toxpive6^at 9  Legg. A. in srA eiaa   yavti ntgl ov av 6 ).oyog f/. ovta Stj zov "Egavct xal  Tjfxug Slxaiov htcuviGca ngatov avzov ol6g tGtiv,  Intuta xag SoGtig. (ptjjxl ovv lya navum v &t mv tvSatjiov av ovxav "Egaxa, ii 9t(ug xal avtiitGtytov 1 1ntlv, tvdai[iovtGzazov tlvat «vxav, xaUMixov ovta xal  agiGtov.    ti! av ctnoi nepii ya/uav, ai 5  Xp)} ycepslv. Quibas exemplis  male ita usus est Riickertus, ut  probaret, oJ? prorsus eadem potestate atque y usurpari» Agit  autem nostro loco Agatlio cum  vi de ratione dicendi, ut rectius y scribatur, nou item, quomodo debeat dicere, indicaturus est; certa enim quædam  dicendi ratio non præscripta est  ab iis, qui Erotem laudandum  convivis præceperunt, Eryximachus et Phædrus. De HitEiza  verbo præcedente npcoxov jxkv   aAAa xovS av% p(ditov$  ev8ai/. toviZEiv Urgendum  est pronuntiando EvSaipovl^eiv  verbum. Sensus est: Alie, dio  vorher gesprochcn haben, sclieinen mir nicht den Gott zu loben, sondern die Menschen den  Gdttern gleich zu stellen.  Sequentem genitivum casum quod  attinet, notum est, verba, quæ  affectum animi exprimant, geuitivo casu eas res adiunctas habere haud raro, quæ allectus  caussæ nominantur. Laudat  BiickertU8 ad h. 1. Thucyd.  VI. 36. xovS ayykXkovxaS  roiavta xa\ itepupopovS vjiiiz  rtoiovvtaS x i)S ptv zoXprfi ov  $avjidel(*>, xfjS 8$ a&i>vE(jiaSy eI  fxrj olovxai £v8y\oi elvai. Piat.  Crit. p.43- B. itoWdxiS dssvSai jxovida tov xpoicov. Adde Piat.  Phæd. 68. E. ev8aip.uv yctp yioi avrjp ifpaiveto • xal tov  xpoicov xal xojY Xoycov x. r.A.  Alia huius structuræ exempla  Matth. congessit in Gramm. ampl. §. 368. 681. Plerumque  illo casu ponuntur res inanimatæ. Dubito, num eadem structura usi sint scriptores, ubi homines affectuum auctores narrantur.   olo i oicjv alxioi <uv,  Frequentissimum hoc genus dicendi est, quo adhibito et graviorem reddiderunt et ornatiorem  orationem Græci. Laudat Stall—  baumius Eurip. Alcest. v. 145.  oiaS oloS dpapxavEiS. Soph.  Trach. olaiS oloS qdv  IXavvEzai. Ceterum ut recte  intelligantnr iCepl icavxuS verba,  mens Agathonis hæc est: Iu   quavis laudatione dei liomiuisve  unam tantummodo laudandi rationem esse, ut explicetur, qualis sit  et quorum bonorum auctor is,  qui laudetur.   ovxcj 8y x ov " Epcota  xalffpdZ. Exspectaveris scriptum ovxgj 8)j xal xov y Epcoxa.  Respicit autem Agatho nunc magis ad laudandi rationem, quam,  qui ante ipsum locuti sunt, ser»  vaverunt, quam ad rem laudandam. Hinc factum, ut advocato  7 ifxacS pronomine xal cum pronomine, non cum Erotis nemiue  coniungeretur.   svdaipo vkdxaxov stvat   avtGJY . Apud Stobæum Serm. "Eeu de xaXhdzoe ov toiogSe. xgatov fuv vtoB taxos v, m Oatdge. fteya Se texpfawv tta loyn av%og Ttttgex neu, cpevyav (pvyy zo yijgag, za%i) ov StjXov  LXI. S96., quo loco tota Agathouis oratio repetita est, pro  clvt&v legitur avtov. Sed nihil mutandum est. Stallbaumium  audi hæc annotantem ad h. 1. :  Sic avtoS sæpius post nomen  substantivum vel pronomen per'  redundantiam quandam infertur.  Infra 200. A. XotEpov 6 £pa>S  ixeivov htiSvpEi avtov. Xenoph Cyrop. I. 3 • 15. itEipa (Sopaci tcp xditn&, ayaSdjy \nItEGOV xpatuStoS gjv ixXEvS,  advppaxElv avt(£. Ibid. I, 4.  5. al. Ceterum Agatho non  minore, quam Pausanias providentia (v. 180. E. InaivEiv  jiEY ovv 6 ei xavxas SeovS) hic  agit Omnes enim deos excepto nullo beatos esse præfatur, deinde cautione hac præmissa omnium beatissimum vOcat, si quidem ita  dicere liceat, Erotem. VECDtat o S Segdy, gj $ai6 pe. Ne mireris, cur Phædrum  alloquatur Agatho, Erotem deum  nutu minimum dicens: Phædrus  Erotem iv toti xpsdfivtatov  esse dixerat 178. B. Igitur  ad eum potissimum oratio dirigitur, cui maxime ab Agathone contradicitur. Apertius paullo  infra poeta iyaj 81, inquit,   8pcp TtoXXd S\Xa opoXoycijv  tovto ovx dpoXoyaj, &s"EpeoS  Kpovov xa\ *Ia7tEtov apxcnorepoS iotiY, aXXct q)Tjpi veotatatov avtov sivai x. t. A.   ep ev y gdy cpvyy ro yy  p a* h. e. summa contentione, quam fieri potest  maxime, fugiens senectutem. Magnopere augetor notionis alicuius gravius, si dua  verba eiusdem radicis iuxta ponuntur, ut hoc factum est nostro  loco. Quæ sequuntur verba  taxv ov drjXoYoti itposkpXEtai Bastius delenda censuit  motus, ut videtor, (jctoxla sententiæ. Recte autem servantur ab  editoribus, quippe Agathonis ingenio, apprime convenientia. Ceterum vulgo drjXoYOTi legitur,  quam scripturam Stallbaumius ex optimorum codd. auctoritate in  df/XoY otl immutavit. Recepimus nos drjXovoti Buttmanni  iudicium probantes, quod in Indicibus continetur ad Platonis  Dial. IV. Berol. MDCCCXI. Servari, inquit, forma diaiuncta solet, ubi commode et solenni modo  otl vocula sequentibus se adaptat, scriptura autem continua adhibetur, ubi pars saltem eorum,  quæ ex otl pendent, iam præcessit. Snut vero alia etiam exempla, ubi integra, quæ ex ort  particula pendet, f)rj6LS præmissa est, ut in fine locatum sit  dtfXoYoti. Legitimam autem esse  etiam ad antiquorum mentem  scripturam coutiouam, inde apparet, quod etiam in structura,  quæ fit per accusativum cum  iufinitivo, formula illa servatur,  ubi dissolvi nequit v. c. Alcib.  II. B. tov yap $eqy ovx lav  drjXovuti.   ov8 * ivtoS xoXXov xXtjdict%EiY+ Libri ad unum  omnes exhibent ov8 ovtoS xoXX ov itX}]6id?,EiY, quam lectionem exstiterunt, qui tueri atque  6tt • ftdtxov yovv xov dsovzos rjfuv 7tQogEQ%etat. 8  drj nitpvxsv "Eq&s fudstv, xal ovd’ ivxos^coAAov xAt]Gux&iv. [iBra 6h vicov dei fcvvetit i ts xal itizw' 6 yccQ explicare studerent, Apud Stobæura legitur, ovd’ ivtoS, quod  hodie ab omnibus in verborum  ordinem receptum est, atque  Thucydidis loco confirmatur, qui  Astii industriæ debetur, II 77.  EvxoS yap itoAXov x™p{°v  xijS rtoÆuS ovx ijv iteAdtiai.  Ad jtoAAoi; autem nostro loco neque x<&ptov, neque, quod Stallbaumio placet, dia6xrpiaxoS % supplendum est, licet id in huiusmodi formulis haud raro additum reperiatur docente Lamb.  Bos. de ElJips» 103» seqq ;  non video enim, quid obstet,  quominus neutro genere positum  per se multum spatii significet. Pro itAytfia&iv in aliquot  codicibus legitur 7tAT}6id£ei f quod  nullo modo probari potest. Proprie dicendum erat o Si) 7ri<pv xev"EpcoS fiidstv goSx’ ovd* ivxoS noAAov 7tArj6id8,eiv ; sed sn-<  pra iara monuimus sæpius, Græcos haud raro, quæ per caussæ  consequentiæve particulas proferenda essent proprie, copnla addita præcedenti actioni annectere,  lam cum mens Agathonis sit*:  quam natura' Eros odit, ut  ne eminus quidem accOd a t, patere opinor et odium et  fugam senectutis cx Erotis indole atque natura exaptanda  esse, id quod efficitur itAi/did*S,eiv scriptura. Ceterum Stallbaumius ad li. 1. Ad irArfdid&iVt  inquit, intelligas <xv rc5. Id præceptum cur improbemus, haud  difficile est ad explicandum. 37A;/6id&iv absolute positum est,  prorsus ut nostralpLinT Welches    Eros seiner Nator nach hasst ohne  sich die entfernteste Annalieruag  zu gestatten.   / n   •fiExd dfc vicov dei Hvvedti re xal idxiv* Et in  his et in præcedentibus verbis  reddendis negligentissimus fuit  Ficinus: eamque (sc. senectutem)  Amor natura odit fu gitque, iuvenibus vero se miscet. Bastius tautologia offensus verborum  ZvvEdxi re xal Idxiv scribendum censnit pexa 8's vicov B,vve6xi  x b xal dei idxiv, cuius conjecturæ ipsnm postea pocnituit» Schleicrmacherus verborum quæsita similitudine verba convertit:  Mit der Iugend aber gesellt er  sich und gefallt sich* Schulthessius In conversione exhibet :  Pagegen naht er sich (?) der  Iugend und weilet bei ihr. Aliud  quid Agathonem nostris verbis  exprimere voluisse certissimum  est. Laudat Stallbaumius ad h»  1. Fjutarchi locum, quem cum  nostris verbis Wyttenbacliiua  comparavit ad Plut. de Ser. Num.  Vind, 5G. > dc Is. et Osir.  352. A. nap’ avxij xal pex  ctvxijf orta xai Gvvovxa; quo  docemur, simplicis verbi potestatem sequente composito interdum  augeri, sed ad npstri loci insolentiam mitigandam nihil sane  confert. Negamus autem, Græcos ita locutos esse, ut præmisso composito verbo simplex  verbum adderent, quod cudi  illo eiusdem actionis notionem describeret» Nos  ellipticam enuntiationem essecen- i  4    iV   xcdaiog luyog tv £%h, ag opoiov opola dcl mXd% u.  iyib SI QfalSga jroAAa ulla bpoloyav rovro ov% opoXoyto, ug ’Ega g Kguvov xal ’Iccm rov dgycaurcQvs ttSuv,  C «A A« qitjpt vEtbtKt ov avzov elvca &b<op xal dii vtov,    semus, quæ hoc modo supplenda  est: pera 81 vicov dei Zvredrl  re xal æl veoS i&tlv h. e. ut  semper cum iuventute est,  ita ipse æterna iuventute gaudet. Ellipseos simillimæ exemplum infra habes  213. C. oiao& et nS aXXoS yeAoioS* l6xi re xal fiovXetai sc.  yeXoloS elvoci. Ceterum cum  hac nostri loci explicatione quam  bene conveniat insequentis proverbii mentio, nemo non videt. Ne autem dubites de verborum  structura pera nvoS Zwelvai,  laudat Stallbaumius ad Piat, dc  rep. V. 464. A. ovxovv  per a rovro v rov 8 6 y p ar of re xal /)?} paroS iq>afxev &vvaxo Xo vSeiv ras re  ?}8ovaS xal rds XvnaS xoivp,  præter nostrum locum Piat, de  legg. I. 639. C. pera xaxcov apxovroov dvvovdav.   opoiov opoicj æl iteXd?,ei. Laudat versiculum Schol.  quo et Plato usus est:  ojS ai e l rov 6 poiov a yez  $eoS coS rov 6 poiov >  quibus verbis hæc adduntur:  ini rdSv rovi, tponovS napaTtXrjtiicov xal dXXtjXoiS æl 6vvdiayorreov, iB, 'Opijpov Xafiovda r rjv dpxr/v. pipvrjrai 8h  avrrjS nXarcjv xal iv AvdiSi  xal iv 2vpno6ioj, xal Mivav 8poS 2vwcovUt» Satis nota Tullii conversio est huius proverbii  in libello de Senectute 3. pares  cum paribus ( veteri proverbio )  facillime congregantur.  coS^EpcoS Kpovov xal  9 Ianerov ap^atorepof.  Ridet Agatho allatis Crooi Iapetique nominibus Phædri sententiam censentis, omnium deorum  antiquissimum Erotem esse. Quid  enim antiquius cogitari potest  Iapeto, cuius vetustate Suida et  Ilesychio testibus usi sunt veteres ini Siativppcf ), aut Crono,  h. e. ipso tempore, cuius ille  deus esse putabatur? cfr. Moe-r  ris, quem Stallbaumius laudat,  200. 'laneroS' dvrlrov yipojv.  xal TiScovos xal KpovoS ini  rejv yepovrojv,   a*H6io8oSxal Ilappevi8i]S, Stallbaumius ad h. 1.  Nomen, inquit, Parmenidis Astius  mutandum censet in 9 Enipevi8ijS  propterea, quod de theogonia  Parmenidea nihil memoriæ traditum est. Quid vero? si Parmenides in altera carminis parte,  nunc deperdita, vulgi opiniones  de diis eorumque rebus gestis  exposuerit? Quod si veram esse  ponimus  nam pro vero affirmare nemo audeat in tanta certorum testimoniorum penuria  manifestum est, Agathonem præ nimio doctrinæ  ostentandæ stadio, quid  inter Hesiodi atque Parmenidis narrationes in'teresset, prorsus non vidisse adeoqne nane dissimillima temere inter se  confundere ac miscere. Viri doctissimi iudicio adstipuIflnlui Kuckertus et Schleiermaza. Ss ctu7.tt.ia ccqdyfiara xsqi &tov$, a 'Hotodos xal IlaQ{lividijg UyovGiv, ’Avayxy xal ovx "Eqcotc ytyovivcu,  d ixdvot d7.rj&f] tktyov. ov yccQ av ixxofia 1 ovdh drti/ioi  uX7.y7.uv lylyvovxo xccl ci.7J.tt tcoa/.cc xcd fUaia, d "Eqwg    cheras. Equidem sic statuo:  Parmenidis versiculum esse a  Phædro laudatum 179. B.  præter Phædrum etiam alii testantur, v» c. Aristot. Metapli.  1. 4.; quo iure auctorem Empedoclem Goeltliugius narret  ad Hesiodi Theog. v. 120., non  reperio. Ipse autem ille Parmenidis versus, quippe theogouiæ  alicuius fragmentum, testis est,  theogoniam Parmenidem conscripsisse. Utrumque autem et Hesiodi et Parmenidis versum Phædrus J*  c. ita laudat, ut quibus probetur,  Erotem deorum antiquissimum  esse, atque pareutibus carere.  Recte ad eam rem probandam versus adhibitos esse, neque, quæ  virorum doctorum opinio est,  Hesiodum atque Parmenidem inter se pugnare, supra demonstare studuimus annotat, 57.  Sed tertiunl est, quod allatis  Hesiodi atque Parmenidis versibus Phædrus videtur probare voluisse. Cogitasse nimirum censendus est ita: Nisi indicaturi  fuissent Hesiodus atque Parmenides, omnia, qbaccutique gesta  sint usque a principio rernm,  Erotis auxilio gesta esse, Eroti  non primum in theogonia sua locum concessissent. Hinc verba  Phædri recte explicabis : itpEOftvxaxoS cor pEyidxcov dyaSgov rjylv ccLTioS idxiv. Sed  cani ipse sentiret, antiquis temporibus gesta esse, quæ cum Erotis natura ncutiquam conciliari possint, ad bonorum descriptionem subito confugisse videtur, quæ ex mutuo amore et  amasio et amatori enascantur*  Ad Agathonem ut revertar, poetam non latuit Phædri artificium, atque ut ille autiquissimum depm vocaverat i deo que summorum bonorum auctorem, ita hic et natu minimam laudat et necessitati, quod fatum interpretari licet, adseribit, quæcunque Homerus et Parmenides e Phædri certo  sententia per Erotem facta esse  dixerunt. Elliptico igitur dicendi  genere usus est Agatho. Expletior oratio audit: xd itaAata  npdypaxa, d 'HdioSos neti FlapjjEvidr/S Aiyovdiv *EpGoxi yey ov kv cli, *Avdyxy xal ovx  "Epcoxi yEyovkvai.   e i ixsivoi dXrj^rij ZÆyo v. Ficinus verba convertit:  Si modo illi vera narrarunt*  Exhibet Schleiermacherus : wenn  iene anders wahr erzahlt haben.  Iisdem fere verbis Schnlthessius  usus est in Symposii conversione,  quam Orellias denuo edidit  100. Dixisset opinor Agatho, si  hoc exprimere voluisset, eI ixsivoi dXtfStf Elpijxadi s. Akyov-i  div. Quis porro ferat hauc sententiarum coniuuctionem : vetera  illa facinora Necessitati, non Eroti  patrata suut, si vera illi dixerunt. Ut paucis fungar, aliud  quid Agatho dicturus erat, quod  quid sit, quoniam tectius locutu* est atque brevius, interpretes non perspexerunt. Sensus  verborudi hic est: veteres   deorum rixas, quas per  Erotem factas narrant  iv ftvroig rjv, cpMa xal tlgrjvt], tognt Q vvv, tfc ov   "Egcog «ov &Btov (iatiitevu. Neo s filv ovv edn, ngog Se ra vtca aitaXog. itoii]D tov S’ k'ouv Ivdeijg, olog r t v "Opygog itgog x 6 ImSet^cu  9eov «xcdonjra. "Onijgog yag ”Axi]v &eov te cprfiiv  Hesiodus atque Parmenides, dixissent, opinor, si vera dicere voluissent,  Necessitate non Erote factas esse. Noluit autem dicere Agatho a Xiy ov 6tv,  iXeyov av 'Avayxtj xal ovh  * Epcon yeyovivai, ei aAr/Sr/  iXeyov, ne ter posito Xiytiv verbo oratio incomtior fieret atque inelegantior. Possis etiam  lianc primitivam verborum conformationem putare: ra di ita Xaid 7tpdypattx, a'H6io$oS xal  Jlappevi&rjS ÆyovtSiv (Epcuri  yeyovivai ), 5 'Avdyxyf xal ovx  E pari yeyovivcu, ( d ixelvoi  IXeyov av,) ei dXrjSij iXeyov.   i xx opal ovSh 6 e 6 fio i.  Conferri iubet Stallbaumius ad  li. 1. Piat. Euthypbr. c. 6. avrol  yap ol avSpanoi tvyxdvovdi  voptiefav teS rov 4 ia zcov Sfoov  dpiorov xal 6ixaiozarov, xal  rovrov dpoXoyovdi rov avrov  itaripa dijdcu, on tovS vieiS  xarimvev ovx iv 6 lxtj, xaxelvov ye av rov avrov itaripa  ixrepeiv 8i* irepa roiavra;  his adde, quæ paullo infra leguntur xal itdXepov apa i/yel  6v elvai rd> dvn iv r ois SeotS  itpoS aXX rjXovS xal iffipaS ye  8eivds xal /xaxaS xal dXXa  roiavra itoXXa, ola Xiyerai re  imo rc5v itoirjx&v x . r. A. cfr.  Hesiod. Theog, 164 seqq.   xoiyjro v 6 * idriv iv 8 B 7) S x, t* A» Huius looi Terb*    Bekkerns et Stallbaumius ita disposuerunt, ut comma ponerent  post "OpijpoS, Efficitur hac interpunctione, nt arctius coniungantur verba itoirjrov tdnv  iv8et}s itpoS ro imdeiZai $eov  ditaXorifra, quæ iunctura sane  molesti quid habet atque spinosi. Ficinus verba convertit:  Opus autem est tali quodam poeta, qualis Homerus exstitit, ad  teneram Amoris mollitiem demonstrandam . Sed hæc verba  non satis respondent Græcis,  Quis, quæso, probaret dicendi  genus hofc : Ad demonstrandam dei  mollitiem deus poeta eget, qualis Ilomerus fuit?, Omnis hæc  orationis difficultas removetur  commate post "OpijpoS deleto,  posito post ivde )/S, quæ verborum dispositio etiam RLickerto  placuit. Seusus est: Tali autem  poeta Eros eget, qualis Homerus  fdit ad divinam mollitiem describendam. Videtur autem se ipsum  poeta tangere, utpote qui mollitie atque teneritate in carminibus componendis ne Homero quidem cedat,   tovS yovv ito8aS av TrjSaitaXovS elvai • Addidit hnec verba Agatho, ne quis  aut 1 imprudentia aut fraude factum opinetur, ut * Attf ditaXij  dicatur, exemplo allato non nisi  pedum mollities probetur* Frustra Orellius ad Isocr. 330. verba TovS yovv ft alvei censuit expungenda esse. Stallbautlvai xul uitaXrjV * rous yovv xodag Kvvtjs axalovg uvta,  Xiycov   Tijs pivS’ aitaXot xoScS' ov yap iit’ ovSa  niXvoctui, aXX ’ dpa r) yt nat ’ avSpcor npdtata fiodret.   KttXta OVV SoXEL fiot TEXtVJQLlp t»)v aXaloTTJXCt uxotpaimius ad h. 1. : Ista, Inquit, versuum Homericorum recitatio non  indigna est Agathonis ingenio,  quem iam antea vidimus inani quadam se iactare doctrinæ  ubertate atque elegantia. Vide  annotat 200. Diximus autem  de hoc versuum recitandorum  more annotat, 55. Ceteram Homerici versus leguntur II.  XIX. 92. qui, ut mollissimi sunt  atque exquisita elegantia compositi, ita Agathonis ingenio maxime conveniont. Pro ov8eoS f  quæ plurimorum codicnm lectio est, apud Homerum ovdtt legitur. Illud eorum sedulitati debetur, qui versuum fines similiter cadentes non ferendos censuerunt. Versus similiter cadentes veteribus mollitiei indicium fuisse videntur. Apprime igitur convenit ovSei lectio nostro loco,  ubi mollissimis versibus allatis  Agathonis ingenium describitur.  Similiter cadeutium versuum exemplum, quod apud Persium legitur, acerbissimum efleminatorum poetarum osorem, hic laudare iuvat petitum e Sat.  Torva Mimalloneis implerunt cornna bombis   Et raptum vitulo caput ablatura  superbo Bassaris, et lyucem Mænas flexura corymbis Evion ingeminat: reparabilis adsonat Echo. Qni his versibus præcedit: Quidnam igitur tenerum, et laxa cervice legendum et qui sequuntur:  Hæc fierent, si testicnli vena  ulla paterni  Viveret in nobis?   Persii iudicium continent, qnod  idem fuit totius antiquitatis, Alio  loco Persius Sat. I, v. 93. dicit  de enervato aliquo poeta:  Claudere sic versum didicit:  Berecyntius Attin  Et qui cæruleum dirimebat Nerea Delphin   TCal 7}flElS   Riickertus ad h. 1. annotat: Bekkerus, Dindorfius, Astius, S tali—  baumius > utamur. Quos cur sequar, non video j licuit enim hoc quidem Agathoni,  ut semet ipse eohortabundus conianctivum poneret ; at non minus licuit, quid facere vellet, indicare: eodem igitur nos argumento utemur. Et coniunetivo  et futuro uti licet in huiusmodi  dictionibus, neque facile dignoscas, ubi utrumque libris commendatur, coniundtivnm an futurum  scriptor exhibuerit. Coniunctivum plurimi codices exhibent, pauciores sed optimæ notæ libri futurum habent. Inprimia  codex Bodleianus nominandus est,  ex quo rectissime Stallbaumius  XpTjtiobfieSct in ordinem verborum recepit. vuv, ou ovx ini OxhjQov fiatvei, aXX ini fiaX&axov.   E xa ax ha 8>) xal ryitlg xQxjOaiie&a xcxfit]QCq) mgl  ’ 'Egaxa ort ccnalog. oi5 yaQ ini yijg jS aivu ovb ’ in i  xqaviav, a idxuv ov naw /icdaxa, ctkX’ iv xolg palaxaxaxoig xav ovxcov xal ficrivu xal olxu. Iv yaQ xj&cdi  xal xpv%aig ftecov xal av&Qanav x rjv oixyaiv idQvua,  xal ovx av e£ijg iv nuGcag raig xfn>%aLg, cllV xjtlvl av  OxlrjQov xfiog l%ov<5r) lvxv%y, antQXitai, y 8’ av fictkaxov, olxifcxai. anxoptxfov ovv ad xal noal xal navxy  iv /laAaxtoxaxoig xcov (laXaxmaxaxv, anaXuixaxov avay- 196 xrj uvai. veuxaxog (iiv  oini xpaviav, a idxtr  ov naw pa\axa. Hoc  loco confirmatam habes, quod  supra de ov naw vocularum  potestate monuimus 79. Nam  prorsus non mollia virorum  capita hic intelligi nullo modo  possunt. Sed et rectius explicata hæc verba ita comparata  sunt, ut non possis non mirari  inconstantiam Agathonis, qui  modo laudata Homeri in describenda divina mollitie peritia nunc  eundem corrigit atque capita virorum non admodum  mollia censendo auditorum risui poetam exponit.   r xal ovx av k%i}S, Ficinus  i» convertit : neque tamen in  quibuslibet animis. 'E5)}€  significat continua serie; dicitur igitur non promiscue  in omnibus animis habitare, sed  selectu facto eas tantummodo  .! sibi eligere, quarum mollis sit  ac tenera indoles.   xal 7todl xal itdrtfl*  Fedum mentio fit propter comparationem cum Ate homerica, cuius non nisi pedes teneros fe  8tj lau xal anaXaxaxog'  cit poeta. Riickert. Qnao  sequantur verba, iv paXaxcatdtoiS tq5v paXaxcotdtcDV, ana XcJraroVf ipsius Agathonis mollitiem describunt, quæ si audiret Persius Flaccus, rursus diceret :  Hæc fierent, si testiculi vena ulla  . paterni   Viveret in nobis?   vypoS to eidoS  *TypoS  verbum est latissimæ significationis. Primitus videtur li umidus, madidus significasse.  Qnod autem madidum, idem  etiam lubricum est atque haud  raro splendore quodam insigue*  Hinc apud Homerum sexcenties  legitur vypa xiXevSa, quod non  minus de splendore undarum dicitur, quam de earnm flexibilitate; utramque autem notionem  micandi verbo expresserunt  Latini. Qaarn notionem nostro  loco habeat, e dxXrjpoS nomine  colligitor, quod paullo infra positum illi opponitur. Recte Stallbaumius monet, vypoS sæpe de  rebus lubricis, lentis, flexibilibus,  mollibus dici atqæ frequenter ngog is Tovroig vygog ro tISog, ov yag av olog r’  rjv Ttdvzy itiQi7trv66ia%ai ovds Sia itdayg ipv%ijs xai  tigudv to ngcotov Xav&aVBiv xai i^iav, fl tSxlygdg yv.  dvfiiiiTQOv 81 xal vygag ISiag jitya ttxjirjgiov y svC%t]fio6vvt], o St/ duaptQovrag i» nuvrav djiokoyovfiivcog "Egag %%u' a<fp/fio<Svvy ydg xai "Egeni ngbq  aU.rji.ovg «si Ttouaog. %goa g 8s xaUog y xar’ av&y  SLaira tov fteoi 5 ayfiaivH ’ avav&e i ydg xal ihtyvfty-. xori xai (Suijiati xai ipvx\ j xai aUn oraovv ovx lvl£ei B  "Egag, ov 8’ av tvav&yg te xai tvuStig zoitog y, Iv  rav&a xai i£ei xal (i&ve a ad Amorem transferri. Apposite  Riickertus Piat. Theæt. laudat  162, B. /n) SXxeiy itpos xo  yvpradiov dxXjjpov rfdrj orta  (h. e. ætate provectiorem atque  corpore robustiorem) rc5 8 fc 61 }  vecoxipoo re xal vypotipcp ovxi  TCaXaUiv .   6 vppixpov 8 i x&l t5 y p aS 18 iaS. Acute vidit Astius,  dvppetpoY referendum esse ad  7tepi7Ctv66E6$ai, Amor enim,  quia potest itav xq itEpiitxvddE C$ai, recte dvppsxpoS vocatur.  Itaque ne hic quidem audiendus  est Orellius, qui dvppEXpoS pro  (Svjijiixpov legendum putabat. Aristænet. I. 1. 4. ed. Abr.  ov xcd pivxoi dvppsxpa xal xpv pEpci. xrj5 Aat8oS xa plX 7, coS  vypo<pvcZs avxtjf XvyiZEdSai  ta odxa ro3 7CEpi7txv66opivcu.  Stallb. Ficinus habet in conversione: aptæ vero t compositæ  jlexibilisque formæ, vitio, ut  videtur, typothetarum. Non dubium enim est, quin scripserit:  apte vero compositæ et quæ  •eqq.   o 8rj diatpepovTGoS Pronomina relativa haud  raro præcedentis nominis, ad  quod grammatice referenda sunt,  genus non sequuntur, ut indicetur, nomen collectivum, quod  vocant, ipsum illud nomen esse,  atque complures notiones in so  continere, quæ genere neutro  pronominis relativi consummentur. cfr. Matth. Gramm. ampl., ubi et noster  locos laudatur, sed addita auto  SiaqjepOYXojS vocula xai t quam  ex optimorum codicum auctoritate Stallbaumius expunxit, Riickertns uncis inclusit. Eandem  prorsus delere Y. D. noluit, quod  vim habeat h. 1., quæ ad rem  pæne necessaria videatur. Etiam  Bekkerus xai expungendum curavit, neque idem in Ficini conversione expressum est: qua   (sc. figuræ concinnitate) Amor  omnium maxime procul dubio decoratus est.  ?/ xax * aY$ij 8 ia ix a. Notabis levitatem argumentabdi,  quasi non cogitari possit, ejun,  qui deformis sit, pulcra amare,  turpia fugere. Respexisse videtur Agatho ad proverbium, quo Cap. XEX.   IIcqI /J-lv ovv xdklovg tov &bov xal tccvru txavcc,  xal l'rc itoXka Xtfottzai. Jlcgl ds agsrijg "Egarog (X£t«  similis simili gaudere dicitur. Verum noti probatur tamen eo, quod  probandum erat hoc loco. Sequentia verba quod attinet, ov  6* dv ivavStS te xal evo odtjS  roitot y), ivxavSa xal i£ei xal  pavet, cfr. Soph. Antig. v. 781  seqq. "EpooS dvixaxE pdxctv  *EpcoS y o? Iv xxypadi niitTEiS  o? iv paXaxalS napsialS  r e dy id o S ivvvxzv eiS •  Adde Aristæueti Platonicorum verborum imitationem II. 1.  73. Abr. avavSet yap xal  anrjv^ijxoxi dojpaxi ov netpvxe TtpoSulavEiv 6 "EpcoS,   nspl Sh dpetijS x. r. A. Laudat Agathio AMORIS virtutes ita, ut,eius iustitiam, temperantiam, fortitudinem, prudentiam ordine celebret j quæ quidem virtutum cardiualium, quas vocant, recensio et ipsa habet nescio quid inanis ostentatiouis atque redolet ingenium hominis, qui præter poesin etiam philosophorum sapientiam degustaverat, sed fortasse nonnisi primis  labris degustaverat. Observes præterea, quam artificiose Agatho verba composuerit, quara lepide paria paribus retulerit et ut similiter caderent, elaboraverit,  S tali b. otid’ afiixei. Prorsus repugnant hæc cum aliorum poetarum sententiis, tum iis, quæ apud Sophocl. leguntur in Antig v« 191« dv xal dtxaiav aShtovS  (ppevaS napadnaS ini Xcofict  dv xal zo6e veixoS dvdpcov  B,vvatpov %x £l S rapd£aS.   ov te y a p avtoZ piet  7t uCxti* xi re a <Sx £t ‘ Hæc verba Schleiermacherus convertit : Denn weder widerfahrt ihm  selbst gewaltsam, weon ihm etwas widerfahrt. In Schulthessii conversione exstat: denu er selbst leidet nie Gewalt, es wi- '  derfalire ihm, was da woile. Ficinus verba interpretatur: non enim ipse vi patitur, si quid  patitur. AvxoS pronomen ita  explicandum est, ut oppositum 1 cogitetur verbo cuidam, quod  nunc non comparet, quoniam structuram verborum, quam in  mente habuisse videtur, Agatho  immutavit. Dicturus videlicet  erat : ovxe yap avxoS pia   na<Sx £l > Xl itddxsi' ov r*  d A A o s oSxiS ovv pia nadxtt  x. x. A. Structuræ verborum ita  mutatæ, ut cogitatam structuram singula verba sequantnr,  quæ cum structura revera posita  uon satis conveniant, exempla  non rara sunt atque a grammaticis ita explicantur plerumque, ut ad sententiam, non ad verba  directa esse dicantor. Verba  pia icadx^i quod attinet, quæritur, qui fieri possit, ut aliquis  patiatur aliquid, neque tamen plexv experiatur. TlaSoS enim ne cogitari quidem potest nisi  coniuuctum cum vi quadam exruvTu Æxteov. to fiiv [ityiOrov, ou "Egag ovt’ dSixEi  • oik’ udixEitai ov&’ imo 9eov ovte &eov, ov&’ vn av  %QUitov ovte av&Qonov. ovte yaQ avrog (Ua nuOyEi,  si' n ita<S%ET m (ila yaQ "EgaTog ov% uxtetcu ' ovte xouiiv  jtoiEi onag yccQ ixav "Equu ndv vji)}$eteZ' cc 6’ pv C trinsecas illata. Ov ftitt jradxEl  contradictio est in adiecto, quam  rocant, quam hic admissam esse ab Agathone admodum dobito. Aliud quid poeta videtur exprimere voluisse illis verbis, quod  quid sit » e rectius explicatis et  T i 7tadx £t verbis patebit. Supra  monuimus annotat, 169. Græcos haud raro, ubi infinitivus  verbi alicuius ponendus esset  proprie cum finito aliquo verbo  couiunctus, omisso hoc verbo infinitivum eo tempore collocare,  quo finitum verbum ponendum  erat. Sic legitur Piat. Alcib. I* . c. 7. ovxovv Tctvrct  fiovov oldSa, a netp* aWcov  ipaSeZ rj avtoS i%evpeS, quo loco iam supra monuimus, oidSct  positum esse pro eldevat AfyeiS, Eodem modo Agatho nostro loco ad fubulas quasdam  respiciens, in quibus rtdSrj Erotis narrantur, et r i itauSx El posuit pro et xi itadxsiv A eyerai. Hinc sententia verborum  existithæc: Weder er ist es, der  etwas erleidet, wenn man gexneinlich sagt, dass er etwas erleidet, cett. filet autem positum  est, ut eo 7cddx £iy verbi potestas augeotur, ad utrumque  autem negatio præcedens tanquam ad notionem unam refertur.   ov re itoidov Ttoiel. In  paucis quibusdam codicibus, in  Vindob. uno et Paris, uno itoidov  participium non comparet, hinc Bvickertus ad h. 1.: habet, inquit, primo adspectu speciei nonnihil hæc omissio, quid enim  iucundius procedit, quam hæc oratio: ovte avtoS fila Ttddxsi,  ovte itoiei ? neque tam necessaria est h. 1. conditionis additio,  quam altero iu membro; agere  enim Amorem aliquid nemo dubitat, utrum patiatur an minas,  incertum. Attamen non puto  n Platone omissam vocem esse,  sed solam duarum similium viciniam hanc lectionem peperisse. De hoc genera corruptionis  vide quæ annotavimus. Præterea codices nonnulli exhibent ovte filet noiGDV noiei,  quod ab iis additum est, qui  bene sentirent, fila nostro loco  e præcedentibus repetendum esse.  Sed ut clarius videas, fila non  Platonis manum esse, posita vox  est in loco ineptissimo, eodemquo  modo se habet, quasi supra scriptnm exstaret ovte yap avroff  Ttddx&f st Ti fila Tta6x E t*   naS yap kxcov. Si dixisset poeta b<Gjy dixovrl ye SvjMp, nemo eius verbis offenderetur. 'Exgdv nude positum multorum poetarum de sævitia Amoris querentium refutatur exemplo. Moneo hæc, ut habeas,  quorsum referas verba Socratica 198. E. to dpa OV TOVTO 1}V TO ■HOLXgjS htOLl   veiv ltiovv y aXXci to coS peyidxa dvctTiSlvcti tgj npdypart  xat oo» HaWtdTUp idv te y ixmv Ixovtt ofioAoyydy, cpadlv ot itoAtag padiAijg vopoc  dlxaia tlvca . itgog ds ry dixaiotivvy daxpgodvvyg hÆItizyg iitxk%u. ilvai yag opoAoyElzæ dGJtpgodvjnj r 6 xgpr elv ydovav xal lsu9v(uav 9 "EQCozog $6 [lydsutav ydovi]V xqeizzco uvæ. eI 6e ytzovg, xqozolvz’ av vtc "Egorog, 6 de xgaz ot. xgarcov dh ydovtdv xal Irtidv/iuav 6  "Egeog diacpEQovrcog av Gcocpgovoi. xal fiyv stg ys dv~  D dgsiav "Egooze ovde "Agyg dvftlGrarai. ov yag e%el "Egeor a  * 'Agyg, dAA’ "Egeog "Agtj, 'Atpgodlryg, wg Aoyog. xgeizzcov    ovtajf $xovTO£ f iav re fiTf' el  tpevSrj, ovdtv dp * tjy Ttpay pa. Nostro loco Erotis æquitas probanda erat, quod quibus  fieret argumentis, verisne au  falsis, non magnopere curabatur. fn sequentibus verbis d 6 *  dv Ixojy e paucissimorum codicum auctoritate tiS ante kxcov  positum servarunt Bckkerus,  Stallbaumius, alii. Riickertus,  quem secuti sumus, voculam expunxit. Qui factum sit, ut in  ordinem verborum irrepserit, per  æ intelligitur.   ol noXeco? /SadiXijS vdpoi. Hæc Bodleiani codicis  lectio est. Florentini quatnor  fiadiXixrjS habent, vulgo ftadiX ilS legitur. Bastius conferri iubet Arist. Rhetor. III. 5tqdy ndXecov fiadiÆlZ vdpovS.  In Piat. Gorg, 484. B. dictum  Pindaricum laudatur: vdpoS 6  ndvTcjy ftadi\f.vS Svcctqjy te  xal dSavdtGJV.   elvai yap opoXoy eit ai  6<o<p p o dv vt) . In Definitionum libello 'Platoni vnlgo ad•cripto 412. A. legitur: do>tppodvvTf o perpidtrjS ttjs i>vxrf$  irepl tds iv avr?j xata <pvdiv  yiyropevccs &m$vpias te xal    ySovaf. eficep/iodrla xal eutaB,ia ipvxyS xpds rds xatei  tpvdiv ijdovd? xal Xviraf. Adde  Aristot. Rhet. I. 9. ~GD(ppodv~  vrj dpetr}y 6i' ijv npoS taS 7/<5ovaS tov dajpatoS ovta>S %X ovdiVy goS d vopo£ xeXtvei. Neque aliter monente Stallbanmio  ad h. I. da)(ppodvv7]Y definit ipse  Plato, cfr. Phædon, 68. C.  de rep. IV. 431» A.   xpat&v i}8oygjv. Facta conclusione hac nemo non  videt, in dwtppodvvjjy aperte  illudi ab Agathone, homine huius virtutis, ut videtur, expertissimo eodemque Pausaniæ amasio, quem non puduit Xenophonte teste Symp. c. VIII. 32.  dnoXoyeldSai vitep tgjk dxpadia dvyxvXivdovpevcDY. Sed non  dubium est, quin ipse Agatho  behe senserit, huiusmodi nugas sophisticas auditoribus minimo probatum iri. Ut igitor haberet,  quo posset futuræ convivarum  reprehensioni sese subtrahere, in  fine orationis suæ hæc apposuit: ovto? o nap * ipov   XdyoS tca 3eoj avaxeioSco,  rd p\v Ttaidids ta 81 ditov 8ijs petplaS perlxoJY.   xal pyv - eZs ye . De    *    /   ds 6 ffccav rov ixofiivov. rov d 9 dvdgBioxdtov rcov  &U.C3V xgaztov stuvrav dv dvdgEiorarog sYrj. xsgl fiiv  ovv dixcuoOvvrjg xai OcocpgoOvvyjg xai dvdgelag rov fteov  BiQqtca, TtEQt de Oocpiag teliterai. o6ov ovv dvvcctov,  nugaxeov f vi ) Ikteinuv. xai TtQwtov pav, iv 9 av xai  iycb x t\v fj^Exigav xeyyr\v n^6co, agneg 9 Egvlzt[ia%og rqv  iccvxov, Ttotrjrtjg 6 {#£05 6o(pog ovxcog, Sgts xai dklov E  %oii\dai % ndg yovv itoirprig yiyvEtai, xuv cl[iov6og $  ro xgiv, ov av "Egcos aiptjtau to drj ngirtu Tjpag pug  Kai fiijv ye voculis vide annotat. 64. Patet autem, Homericam narrationem hic taugi,  quæ legitur Odyss. VIII. v, 267»  seqq. Ceterum non opus est,  ut ad A<ppo8ixt 7? nomen, quod  fiaullo infra legitur, nomen appellativum ipaS suppleatur. Dei  enim nomen sæpissime appellativum nomen simul exprimit.  Unum exemplum ut laudem, legitur 197. B. o$er 6r) xai  xaxstixEvddSrj 'xeov $eojv tot  itpdypaxa "EpcoroS iyysyopi vov 8t]\ov ori xaAAovf.   it Etp ariov ptf l\\ei7 tEiv. ÆiitEiv verbum cum iv  præpositione compositum iis verbis adnumerandum est, quæ  amissa vi transitiva non actionem aliquam exprimunt, sed absolutam verbi notionem indicant ;  iXXflitElv icitur idem significat  atque iXXEiieoyra elvai . Hinc  accedente indicio rei, quam aliquis prætermittit s. negligit, genitivus casus exhibetur, non accusativus. Vide, quæ de hoc genere verborum diximus 87»   tv* av xai iy cJ. Tres  Bekkeri codices exhibent 7va ri  xai iyoo. Non male. Sed nihil   videtur mutandum esse. Etenim    av vocula reiterationem significat actionis, quæ indicata est  186. B. tva xai TtpEoflevoofiey r tjv xtxvrjv ; xai autem  pronomini additur, ut significantius indicetur, aliquem olim  fuisse, qui idem fecerit. Verum  inest tamen nostro loco, quod  attentiorem lectorem merito offendat. Nimirum notum satis  est atque a nobis commemoratum annotat, 5., Græcos scriptores comparationis membra ita exhibere, ut nat iu posteriore  comparationis membro ponant,  quando idem in priore positum  sit, contra id illic omittant, si  in priore comparationis membro  non comparuerit, Iam nostro  loco, quoniam &$7tEp vocula duæ  actiones indicantur inter se comparari, Platoni scribeudum erat  vel dicendum Agathoni ex præcepto supra laudato : iv av xai  iyoj t?/V r/jiExspav xix v V y Tl ~  ptjdco y GD^TtEp xai 9 EpvB,ipaxoS  t 7}v kavxov sc. ixiprjdev. Potuit  etiam hoc modo hæc enuntiatio proferri : tr * av lyco x tjv  rjpexipav xkx v7 l v Xtptjdoo, u tS7Up 9 Epv£i/j.axoS xtjv kavxov.  Exemplum est xai in comparatione dupliciter positi Piat. Phædon. 64. G. tixiipai 8ij, <3  14    ^ - A xv (fla xofi<S%ai, 3« xoiTjttjS o ”Eqg>S «yafrog lv xecpcclala ituGciV noiri<5iv rt]v xaxct (lovOutrjV « yciQ ng i}  flfj ?J(El 1 J fd/ oldtv, OVt’ Sv BTEQCp SotT] OVl' CCV «AAoV    ’ya$h, <fav apa xarl 601 E,vv doxy, a«rtp wai. i/io/. Alia  huius structuræ exempla Stallbaumius laudat nnnot. ad Piat.  Apol. Socr. 22. D. Nam  præter nostrum locum aliud exemplum apud veteres scriptores  reperiatur, quo in priori comparationis membro xai positum, in  altero omissum sit, vehementer  dnbito.i   ita 5 yovv nonjxifS y iyvEtat x. X. A. Audi Stallbaumium annotantem ad h. 1.: Alludit iudice Valckenario Diatrib.  in Eorip* Fragm. 207* ad  versus Steneboæ Euripideæ :   iroiTjxtjv 8* dpa.  *EpGo£ 8t8d6xei xdv apovdoS y  xo npiv . Quæ sequuntur verba, aliquid vitii contraxerant, quod facta verborum incisione duplici optime  sanari videtur. Annotat Stallbaumius : Ne quid desideres in  verbis sequentibus, rtuoav noiy-  6iv X7jv xata povtiixyv arcte  connectas cum ctyaSoS. Perperam  enim in vett. editt. post ayaSof  interpungitur. Addit vero xj)v  naxa jiovdixtjv propterea, quod  deinde TtoirjtitZ et itoirjxyS latiore sensu de cuiusvis generis  procreatione et generatione dicit. Itaque nunc de poesi, quæ  in carminibus pangendis cernitur, cogitari cupiens, commemorat  jcoltjdiv rrjv xaxd povdixtjv Exhibet Schleiermacherus in conversione: Uml zucrst nun, damit auch ich uusere Konst ehre,  Vtie Eryximachus die seinige, ist    der Gott so knnstreich (dotpoS  o vxgoS') ais Dichter, dass er  uuch andere dazu macht. Iedcr  wenigstens vrird ein Dichter»  war er auch den Musen frerad vorher, den Eros triilt. Was  wir also wohl koonen ais Beweis brauchen dafiir, dass Eros  ein trefdicher Kiinstler ist ( [itotij X7/S ayaSoS) iedes hervorzubringeu, was zur Konst der Musea  gehort. Ut Schleiermacherus, ita  ceteri interpretes non satis accurate interpretati sunt verba  docpoS noiyxyS et dyaSoS noiyxyS, quorum verborum rectio^  explicatio viam aperit totius loci  rectius explicandi. Eryximachus medicos, ad cuins exemplum Agatho suam artem celebraturas  est, de theoretico et de practico medico {xexyixoS,, iaxpixcotaxoS et dyaSoS SypiovpyoS)  disseruit 186. C. et D, ; vide  annotationem Puri modo  nuno Agatho de theoretico et de  practico poeta agit ita, ut docpov  itoltjTljv vocet eum, qui poeticæ  artis theoriam calleat, dyc&or  Ttonjtyv practicum poetam nominet. Mens Agathonis igitur  hæc est : Die Theorie der Dichtkunst liat der Gott so iune, dass  cr auch andere iu Dichtern  macht. Ieder wenigstens wird  ein Dichter, den Eros ergreift»  wenn er vorher der Dichtkunst  auch nocli so fremd war. Quæ  sequuntur, revocata post ayaSoS  interpunctione vulgata hoc modo scribenda sunt : co 8y TtpETtEt  ypdS papxvplcp XPV O^ai, oxt  tcoiyxyS o^EpooS ctyaSik, lv xz~ vSida^nc. xccl [ilv di] zijv ye rav £aa v holt]6iv nuvzmv 197  rtg lvavtt(i}<Stzai ]iij ov%i "Eqotos tivca 0o<plav, y yiyvtzat te xai cpvEzai navza tu £wa; aXka zyv rav zr/vuiv  qraXaioo Ttaticcv xohjdiv, rrjv,  Tiarcc povdixijv. Sensus est:  Dies raag uns zum Beweise dienen, dass Eros practischer Dichter ist, wie iiberhaupt in aller  Kunst, so in der, welche sich  auf Poesie bezieht. Sed ne hoc quidem modo verba Platonis satis recte se habere videntur. Fortasse scriptor exhibuit ordinem verborum hunc : iv xecpaA aleo nadav noitfGiv, xata trjv  /iovtiixijv.   a yap riS i} fi rj 7 )  firj ol 8 ev. Præcedentium verborum explicationi favent ix £ltr  et eidevai verba, quorum alterum ad artis- usum, alterum ad  eius theoriam refertur. Idem ia  sequentia verba cadit didovai et  SiSdtixeiv. Ceterum cavendum  est, ne quis ovre dv præcedente  ovte av minus elegans iudicet  aut rei exprimendæ non satis  conveniens, ideoque facillima  litterulæ unius mutatione scribat ovre av: frequentissima est,  Stallbaumio annotante ad Plat. Apol. Socr. 81, E. in huius  modi dictionibus dv particulæ  repetitio. Sic in Apol. Socr. loco  laudato legitur  ndXai av  anoXdoXr) xal jovt’ dv vfidf  cocptXijHTf ovSev ovr* dv ifiavrov. Addit Stallbaumius Piat.  Fhileb. p, 43. A. SrjXov 61 }  tovro ye, do Saoxpdrrff, coS  ovre ijdovj) ytyvoix* dv iv r<w  xoiovrco itork, ovr* dv ns XvTtT}. Xenoph. Hier. V. 3 . dvsv  yap tijS tzoXeodS ovr* dv 6qjZs6 $ at Svvairo, ovr * av evdaiftoveiv .xal p.\v 81} tTfv ye. Picinus in conversione: Quod utique per Amoris sapientiam animalia cuncta gignautur atque  nascantur, quis dubitet? quod  sane negligentius est interprer  tandi genus, quandoquidem xai  ftlv 87 } yk vocularum potestas delitescit. Fischerus scribendum censuit xa\ ftijv 6?/,  quæ nonnullorum codicum hodie ab omnibus editoribus improbata  lectio est. Kal ftkv 8rj yk  eadem prorsus potestate adhiberi  videtur atque xal firjv yk, do  quo vide annotat, 64. ; utrumque enim ita ponitur, ut commemorari significet, quod aut  præter exspectationem accidit,  aut quod fidem superat hominum,  aut in rebus summæ gravitatis.   aXXa ovx  t dfiev. Lenis ironia htiic dicendi generi  inest, quæ adhiberi solet, ubi  plane fieri nequit, quin nesciant,  quod nescire confitentur, qui ita  loquuntur. De aitofialveiv verbi  tropico usu vide annot. p, 88.  Aoristicum autem tempus positum  est de re, quam experientia docuit,  cfr. annotat, p, 144. Ceterum  Hesycluus, quem Stallbaumius laudat, habet: tpavov' '(pcoreivox xal XafLTCpov . Apte Schleicrmucherus: in Ruhm und   Glanz . ' %   r o&ixijv ye ft?}v. ri  particula argumentatioui inservit  ita, ut indicetur, alia multa exempla ailerri posse, sed pauca  nunc sufficere. Diximus de hoc  osu yk particulæ anuot.   di/f uovpyluv ovx ttf/uv, on ov uiv av o deos ovto$ 616i«5xcdos ylvrjtai, iXA.6yi(ios xal (pavos axe^rj, ov 6’  av "Epa s (irj iyayrjtai, Gxozuvog ; to\ixi { v ya f irjv  xal latpixrjv xal pavtixqv 'AxoXXaiv uvevpev, ixidv(ilas xal "Epotos rjyefiovevGavtos, dgte xal ovtos  Ii "Epotos av iitj (la&tjtris, xal MovOtti fiovGixrjs xal  "HtpaiOtos %«A)££ia:s xal 'Adrjva iOtovpyias xal Ztvg  xvfieQvijGEos &edv te xal avdpdxov. < o&ev 61 ] xal  xatsOxEvdadi] tdv de ov tu xpayiiata "Epotos eyye  et 1S6, In seqnentibns ma.  iuscula littera scribendum curavimus Erotis nomen, ut alibi  sæpe, nal enim h. 1* explicati vum est, de quo vide anuot»  ISO. 132. «1, De ijyti<53«i, verbi absoluto usu supra  dictum est annot» 59.   nal Movtiai ftovdinr,^.  Magnopere in explicanda horum verborum structura interpretes se torserunt. Astius eam ita expedire studuit, ut nominativos casus ad avevpev referendos censeret et ad pc&rjxijS av ebj,  genitivos autem casus e verbis  imSvplaS nal "EpootoS ijyepovavdavxoS e præcedentibus repetendis exaptaret. Annotat Riickertus ad h. 1. : Simplicissimum  hoc esse videtur, ut proxime  præcedens membrum GdfXB   fiotSrjTTjs plane negligi in seqq»  dicamus et quasi in’ parenthesi  positam, de reliquis autem sic  statuamus, sensisse Agatliouem, AMOREM illum, quo duce Apollinem dixisset artium inventorem  exstitisse, non esse alius rei,  quam ideæ artis, apud mentem  couceptæ et spectatæ; quum igitur dicendum esset Mov6ai  pQvtiiHtfv avtvpov"EpGotos ijys  povev6avroS 9 quia povtiinrjS ille  AMOR esset, contrahentem omnia  hæc, quæ plene posuisset de  Apolline, unum in membrum,  subiectum posuisse, omisisse prædicatum ex superioribus repetendum, suo cum accusativo supplapdo illo ex genitivo, quem  apposuit, quique ab ’'Epa>Ti  aptus est, quod et ipsum supplendum. Stallbaumius ad nominativos e superioribus mente repetendum censet EpcotoS av elrjxSotv paSrjxai, ut genitivi pov6ixi}S, goAxela? cet, a nomine  jia^rftai peodeant. Et Astii  et Riickerti contortior est explicandi ratio. Quam Stallbaumius  laudat, ea proxime ad verum accedit» Nollem autem, genitivos  jiovdtxf/S, xodneiaS cet. cum paSrftai coniungendos ceosiiisset.  Nihil certius est, quam pov6i HfjS ceterosque genitivos ab Erotis nomine regi, quod in verbis  supplendis "EpaxoS av elrj6av  pa% 7 }Tcti continetur. Musica autem ut xoB,vnr} 9 laxpinr}, pccvxi Tcrf . inventa est imSvpiaS nal EpcotoS (sc. povtSinijS xo^tni)S f  iaxpintjf, cet.) rjyepovEvtiavxoS.  Ut igitur Apollo, illarum inventor  artium, paSijXrfi vocatur Erotis,  ita Musæ, musicæ artis inven  tSTMnomoN.   vousvov dijkov ori xakkovs' ai6yti yag ovx l'mdriv "Egeas- n go xov 61, togjr tg tv cegxfi tinov, jroAla xal duva fnois lylyvsto, tog Uyttai, dia rfjv rrjs  'Avceyxrjg pcctidttciV Inudi) 6’ 6 &eo$ ovtog %<pv,   ex rov igccv zav xcdeav navi’ aya&ct yiyove xal C  ^ £0 r S xal txvftguTtois. orneas fftol 6oxu, <J  6gs, ’ 'Egeas ngeotos avros uv xalXmos xal agi «jtos fj.tr et rovto tois akkois akkeov zoiovxeav ainos elvai.    trice», hoc loco diicipulæ vocantor "Epatot /jovOixfjS, Vulcanus discipulus EpGaTOS X a ^-~  xelaS x. r. A.   xa i -ZevS xi ipepvg tSea>S.  Mira lioc loco codicum varietas  repentur, cuius originem caussamque frustra quæsivi. Undecim libri Bekkeri exhibent: HVfispvdv pro HvfiEpvi/dEGoS, tres  alii apud eundem HvfiEpvdv xa  habent, in uno xvfitpvwv repentur.   xqdy S ecvv xa itpaypax a. Iutelliguntur rixæ illæ, quarum iam supra Agatlio mentionem fecit 195. C. : xa S\  TtaXaia npaypaxa nepl ScovSf  et quæ paallo infra verbis insigniuntur: noWa "nat Stiva   StolS iyiyvEXO. In sequentibus  "EpooxoS iyyevopivov Sijlov art  TidXXovSj rursus nomen proprium ita positum habes, ut simul appellativi nominis potestatem obtineat. Hinc xff AAouf genitivum explicabis.  aldx Y*P ovh iite (St iv *EpoS . In Basii, uno legitur ivEdtiv pro SltEdxiv. Unus  Paris, paucissimique ulii libri exhibent idtiv ; Porsonius Advers.  p, 58. tvi scribendum coniecit,    qua coniectnra facile caremus.  Ut supra dicitur. U. ovh  ini dnXrjpov fialvEi aAA Ini  paXSaHoi ), ita quidni hoc loco  dicatur: aXdxti ovh inedxiv ? Neque audieudus est Astius, qui  collitis verbis 201. A. al 6xpMV ydp ovh Eli] " EpGJf scribendum esse ceusuit aXdxovS  ydp ovh Idxiv "Epcof.   JlpdjxoS avxoS «jv ndX\ldxoS. Ficinus habet in conversione l Ila mihi videtur, o  Ehacdre, AMOR ipse primum pulcherrimus optimusque esse, Legisse igitur videtur npcZzov  pro npoozoS. Illud etiam apud  Stobæum reperitur, atque WolHo  adeo placuit, ut in ordinem verborum recipiendum duceret. Frustra. Agathonis mens hæc est:  Ante natum Erotem pulcrum non  erat; ille omnibus et diis et hominibus pulcritudinis auctor; ipsuna  igitur deum prius, quam omnes,  alios, pulcherrimum et optimum  fuisse necesse est: nam quæ   quis ipse nou liabet, alii haud  facile largiatur (vide p, 196.  E. fin.)   iitlpxeta* V 01 k' *•   «ubit me dicere, valetque  IxipXitiSai de ea memoria, quam  no« verbo unwillkuhrlich  ’ 'E7ciQ%eTttt, SI fioL n xal lymttQOV tlneiv, ott, ovzog bsziv o xoicSv  elprjvrjv fiev iv dvSpaSicoif, iteXdyei Sh yaXrjvrjv,  vrjvepiav dvifjoov xoizrjv, vicvov z’ ivi xijdeu    insignimus. Ceteram nt versas  195. D. ita laudati sunt, ut  sua mollitie, quæ cum in ipsorum  verborum placidissimo quasi flumine, tum in finibus similiter cadentibus conspicitur, Agathonis  ingenium ad mollitiem proclire depingant, ita nostri loci versus  non dubium est, quin habeant in  se, quo Agatho notetur. De qua  re nemodum' interpretum quicquam annotavit. Notatur autem,  •i quid video, in bis versibus  artificium, quo siugula verba  carundem litterarum repetitione  iuter se comparantur. Sic  pijvrjv ykv iv av $ p QJitoiS  positum ita habes, ut inverso  ordine, quæ litteræ in verbo  eipijvrjv continentur p et r,  easdem habeas in dv^JScoiCoiS  nomine positas; idem cadit in  sequentia verba iceXdtyst 81 ya %l}vijv. Idem artificium in verbis VTjvepiav dvejiGDY conspicitur, sed auctius et clarius,  quod verba sunt eiusdem radicis.  Restat, ut de xoIzt\v vicvov z 3  ivi xr\8ei dicamus, in quibus videmur equidem nobis aliquid vitii deprehendisse. Lectio vulgata ivi jajSei a Bekkero, Stallbaumio, aliis iu ordinem verborum recepta est, ac Stallbauraius quidem ivlxijSei ita explicat, ut esse dicat iv zols xtjdopevoiS, Accuratius opinor verba  ivi XjjSei explicantur zt6lv ivi  xr\8ei ovtfiv. Sed sire hanc, sive  illam explicationem probes, certum hoc est, hominum, maris, ventorumque præcedente mentione non bene commemorari  zovS x?]8o/.iivov£ s. zivds iv  xrj8ei 6vraS t et cum eipijvrjv iv  dv$poJ7toiS non aliter intelligi  possit, quam iv xijfiop.lv oiS, hoc  loco iv x?j8ei admodum friget. Ac  ne quis cum Stallbaumio censeat,  non offensurum ess^ queroquam  iu sententiæ ratione parum diligenter expressa, qui meminerit,  Agathonem hos versiculos ludere  a Platone iussum esse, ut sibi  ipse quasi illuderet: alio loco de  consilio Platouis dicemus, excusationem autem Stallbaumianam  quod attinet, vide, ne probata  ea, ne manifestissimum quidem in huiuscemodi versiculis  vitium mutando tollere possis.  Quicquid euim vitiosum ibi deprehenditur, poetæ, non scribarum negligeritiæ vel ignorationi  imputabitur. Magna autem est in codicibus varietas lectionis.  Ero vicvov Z 3 ivi xi/Sei Vindob.  unus habet vicvov ze vtxrj8et .  Quatuor Flor, aliique non pauci  vicvov ze vrfxijSij s. vicvov zevijxi]8ij exhibent. Hinc variæ  doctorum hominum coniecturæ.  Dindorfius scribendum censuit:   vijve/dav dvipoiS, xoiry  vicvov vrpoj8ij.   quæ coniectura verissime monente Stallbaumio propter zi alieno loco positum improbanda est.  Vix commemorandum Bastii commentum est vicvov z 3 ivi yij^tt,  Ficinus, quem veram Platonis muovtos ds rjficcg dJJoTQioTijtog fiiv xtvoi, olxetoTTjtoe D  fia nJrjQol, rag TOiagde |j woSovg (itr’ dZJ.Tjt.av natiag  u&tlg £vvi tvai, iv toQTatg, Iv %oQolg, Iv Ovoiaig yi~  yvojuvog rjyifiav ’ jrpaorijra [ilv x oql^ov, aygwTTjra  nam habuisse suspicor, versiculos sic convertit: qui pacem largitur hominibus, qui mari tranquillitatem, qui ventis requiem,  cubile viventibus omniumque ( Stallbaumius somnumque rectissime censuit legendum)  securum. Viventibus autem verbo adhibito animalia,  ut videtur, exprimere voluit, quæ  videtur et ipse Agatho in mente  habuisse, sed more poetarum adhibito unius animalis nomine expressisse, ad quod nomen reperiendum ultro duxit TteXayovS commemoratio. Scripsit enim Piata: : KoitTjvvitvov r * irlxtjte t  Ut autem melius intelligas, quam  facile xtftEi in xijSst mutari potuerit: Hesychius xijtei affert   pro dTEprjdEif iprjpla, dicens  xrjroS esse non solum «Snr\ol66iov ix$vv nappEye^rjy sed  etiam ait o piar . Iam aliquis olim Platonis commentator non  indoctus, cum xjjtEi de fero marino  non intelligi posse opinaretur,  dc ait opia verbum dictum intellexit, atque, ut intelligentiæ  faciliori versiculorum consuleret,  xffiEi scripsit. Ut autem præcedentia verba earundem litterarum reiteratione inter se comparantur, ita nunc Sioiirjv et xrjTEt  eodem ornatu gaudent.  raS roids 8 e b,vv 6 8 ov S  fitz* aWijXtoy, His verbis  conventus significantur similes Agatlionis convivio. Ilinc uiiuus accurate legitur iu, Schulthessii conversione: indem er  manclierlei Vereine und Zusammenkiinfte stiftet. Schleiennacherus verba convertit: Und dieser eben entlediget uns dea  Fremdartigen und sattiget uns  mit dem Angehorigen, indem er  nur solclie Vereinigungen uns  unter einander anordnet cet. Non  reddidit V. D. itddaS vocem, quæ  et nobis molesta est. Si quid  video, vitium liis verbis iuest,  quæ hoc modo emendari videntur: raS toiasSs gvvodovS juet'  d\Xi}Acjy narras ti$e\s B,vvikvai. Ne quis autem hanc scripturam iusto audaciorem censeat,  facile fieri potuit, ut scribarum  aliquis, cum præcederet feminini  generis substantivum, ad id dirigendum censeret itavraS verbum, idque in itatiaS mutaret.  Sensus est: Hic solitudinem a  nobis cohibet, familiaritatis studio nos implet, quippe huiusce modi conventibus omnes inter se  conciliari iubens. Quæ sequuntur nopi^Go^, i&opiZooy participia optime a Schleiermachero  conversa sunt : Mildheit dabei  verleihend, Wildheit aber zerstreuend. Captat enim Agatho  et hoc loco et in sequentibus syllabarnm similes sonos.   qn\o 8 <n p oS ev psr siaS  x. r. A. Hæc verborum structura, rarior apud prosæ orationis  scriptores, propria est tragicorum  poetarum, vide Matth. Gramm.  ampl. §. 339. 647. ubi præter alia laudantur Soph. Oed. C.  6’ 1!-oqI%cov' (pMSaQOS «vft tvuag, uS&qos dvgtit vsictg’ iliag dyaSolg, Statos 6oq>oT§, ayaot og Seoig'  iijXatos dfiOiQOts, xtrjtos tVfioiQOig ‘ TQVcprjs, afigo TJJTOg, JjAlfljjg, JJKpfcwv, IflSQOV, XO&OV JtaTlJjJ ’ SJU,. drrfve/tos xbcvtwy xafiajrcav, Eurip. Med, 671. ovx  idjuby evvrjs &%vysS yapjjXiov.  Eur. Phocn. 834. axex\oS (pocpioov .   fAsca? ayctSotS. Consentiant codices in scriptura! quam FICINO in conversione expressit: propitias, beneficus, spectandas sapientibus. Sed nemo non videt, aya 2uS scriptura probata singaloram  huius enuntiati memborum concinnitatem turbari, qaam studiose ab Agathone quæsitam esse  supra annotavimus. Rursam igitur exemplum habes corruptelæ,  quæ omnium codicam consensa  tuetur. Apud Stobæum ayc&o~i$  legitur, quod primas recepit Wolfias, quem ceteri editores secuti  sunt. Mollities, deliciæ. Derivatum nomen est  a #1 /m verbo, calore solvo,  mollio, deliciis frango.  Stallb. Timæus habet Lex.  V. P1 . x A 1 8 V * ZxXvdif yal  paXocxUx. tiprytai 8 e arro  rov IxkictvSai a6$tvzia xov  Sepjiov, ad quæ verba vide annotationem Ruhnkenii p,  176 .   i V 7t 6 Y6J, iy (pofiMy lv  Tioyco x. t . A. Magno iugenii  acumine de his verbis egit Schutsias in Ltct. Platon. Specitn. I.  4. Quam ibi verborum emeodationem profert, quamquam ut  eliis, ita nobis minas probatur, tamen ita egit V. D., ut non  sine fructu et delectatioue lectorum eius dissertatio repeti videatur. Sententiarum, inquit, iuter  se relatarum oppositionem turbatam esse, nullo negotio perspicitur. Primum enim inter nova  et A oyoj prorsus nulla est relatio, quæ inter (poficp et noSw  satis clara intercedit, deinde qnorsnm omnino hic iy A oyco  pertineat, aut quam vim habeat,  intelligi vix potest; denique quatuor illi nominativi xvfiepvijrrji,  imfiaTTji, napadrdtrff xai deorijp quomodo ad quatuor dativos iv itovGO, iy <pofiax y iv no *  £ca, iv A oyoj referantur, ut singula singulis ad sententiam respondeant, haud apparet. Itaque  cum vix credibile ait, Agath^uis  operam in concinnitate sententiarum assectanda positam extrema in parte claudicasse, librariorum culpa nonnulla hic  turbata esse arbitamur. Ut paucis defungamur, ita nobis Plato videtur scripsisse : iv (poficp, iy  itoScpy iy itovep, iv poyoo, xvfispvT/T inifjdxifi, TtapadrarrjS xcci 6cor ijp dpi6roS . Iam  primum totam imaginem e re  nautica petitam esse existimamus.  Nautis eoim sæpe timor naufragii, desiderium terræ, 1 abor in difficultate navigandi,  ærumna nauseantibus, fame  periclitantibus, cum tempestatibus conllictantibus accidere solet. In timore igitur illo quid  guberuatore, in desiderio t  fitXfjS aya&av, dfieAys xaxcov' iv nova, iv (popa,  iv no&to, iv Aoyta xv^egvi/ttfg, inifiarijs, n«QaOta- e  zrjg *s xa\ (Jot?)p aptoroc, gvfindvrav ts %ciav xal  dv&QojTcav y.udfios, t)yeiiav xdXhtito $ xal cptSroff. a quid socio itineris et comite ( irtifidry ), in labore  quid auxiliatore (xapadxdxp) in ærumua quid sospitatore  (Gartij pt) optabilius? Hæc igitur officia uuum Amorem omnia  præstare amantibus docet. Deinde  hac unius litteræ mutatione uniusque vocabuli transpositione hoc  efficitur, ut 'singula singulis ad amussim respondeant. Ut enim  iv q>of$Gp ad malorum, sic iv arJad bonorum exspectationem  refertur; ut itovoS molestiam iu  agendo, sic poyoS molestiam in patiendo designat; tandem xufiepv?jtrj3 ad tpuflov, ixifiarijS  ad noSov ( quis enim flagrantis  desiderii sensum melirfs lenire  possit, qnam socias itineris, qoicam colloqueudo horas tardius euntes fallere possis?) itapadtdT rjS ad icovoVf similitudine a remigantibus ducta, deniqne 6corr/p ad poyov aptissime refertur.  Hæc Schutzii ingeniosa et periucunda explicatio ideo non probanda est, quod codicum lectioni  adversatur, quæ et ipsa commode explicari potest. Neque tamen Asthma verborum explicatio placet, quam Stallbaumio  probari video. Censet nimirum  Astius, Xdyov h. 1. bene habere,  quod nouuisi inanes verborum  similitudines Agatho quæsiverit;  ad negamus nos, quamvis o* fxv$oS ICqd^tj, o XdyoS djtajXeto  apnd Platonem sæpe reperiatnr.  Verba iv ito vgj, iv iv   xoSgo, iv Xoyw e * j AMATORIA depromta sunt, affectusqne amatorum exprimunt, donec congrediendi confabulaudique cum AMATIS potestate fruantur. JIovoS curam denotat, quam quis animo coucepit AMASIO conspecto; tpoftoS timorem, quo cruciatur, qui AMAT, ne ab alio AMASIUS sibi  præripiatur, indicat; jr 6$oS DESIDERII summi indicium est, A J-»  yoS confabulandi cum AMASIO  potestatem quæsitam describit.  Atque A ofov 7iv (jEpVTjzijS Eros  dicitur, ut qui ilumen orationis  largiatur idque ad optatum finem  dirigat, izoSov irtifidtTjS Eroa  audit, quod cupienti se adiungit,  itapadrdrrjS iv <p 6(i&, quid significet, sponte intelligitur, dc ux ifp autem iv itovcp nc quis  opiuetur non recte dicr: periret  amans, nisi Eros accederet animosque ac spem potiundi amasii  adderet»   eu XPV Sittd&ott. Hæc,  est codicum plurimorum lectio.  Vulgo dei tnedSai exhibetur.  Recte illud recentiores editores  probarunt. Non enim de necessitate quadam hic sermo est,  quam propter non possit nou sequi, quisquis est humana conditione natus, sed de lege agitur,  quem quisque ipse sibi imponere  debeat. Vide de 6el et XPV verborum significata auuot.»  Recte verba Ficinus convertit:  quem profecto sectari debet  præclarisque hymnis venerari vir  quisque cantilenæ illius parti %Qrj iittG&ca nrxvTu &v8qk itpvjivovvxcc xakag, xalrjg  adi]s jiBxejjovta, ijv i xSet ndvxav &tav te   xal dvxtQbjTtcov vorj(ia. Ovzog, tcpij, o jt ag’ ifiov /16yog, (o 0c/.l8qb, x aj &eoi dvuxu6&(j, xd jj.lv  itat8idg, x a de 67tov8ijg jiixQLtxg, xad’ voov lyo J dvvajicu,  jiixlxav. 8 Efot&v tog de xov Ayd&avo g nuvxug l'<pt] 6 ’Aql exoSrjjiog dvu&OQv(lijatn xovg tcuqov xag, wg icqizovceps, qaam Amor ipse concinit,  mentem deorum horainumque permulcens. KaXijS post xaXojS  positam permulti codices non  habent. Potuit facillime, cum  præcedat xaXdoS, scribarum incuria vel addi vel omitti xaXijS,  ln textum id receperunt Bekkerus et Stallbanmius,. Astius scribendum censnit xf/S a o8?jS /iexeXovta y Orellius scribere maluit  nati rfjS oodijs /iexExovxa y Riickertus verbum uncis inclusit*  Sed neque uncis opus est, neque mutatione verbi.  ‘7fv  ^stXyoov pro rjr ddcov SeAysi  positum est, de qua verborum  structura vide Indices.   ta /ilv itaiSiaS. Si quæris, quo consilio hæc verba ab Agathone proferautur, vide annotat. 208.   dv aS o pv firj <3 av. Prorsus  eodem modo in Piat. Protag.  334. 6. eItcovxoS ovv xavxoc  avxov ol TCapovxeS aveS opvfSijoav goS ev Xiyot, Ut 1. 1. nudus optativus, ita nostro loco  genitivus participii opinionem exprimit eorum, qui magno cum  clamore exsurrexisse narrantur,  vide annot. 158.    fiXlty avxa EiS xov *Epv  Zipaxov. cfr. 198. E.   7t(Xi El /17} B,VV7j8ElV ^GJTfpdxEl   xe xal ’Ayd3covi dtivols ov6i  TtEp\ xd ipcorixd., itdvv av  i(poftov/i7jv, /n) aitopi}<5<M)6i Ao'ycov 8ta rti noXAd xal itavxoSana eipt/CSai, vvv o/igdS  $a fi ad quæ verba Socratis allocutio nunc refertur.   aSs^S TtaXai 8ioS 5«'SiEVai. Suid. laudatus a Stallbaumio habet T. I. 48. ddtlS  8e8ias 8eoS Xeyo/iEvov n £oxi  ini xgov xd /n} q>o(jEpa <pofiov /livcov. JldXai exprimendæ  præteriti temporis notioni ita  inservit, st cum perfecto tempore coniunctum plusquamperfecti  temporis notiouem efficiat, quæ  cum præsente tempore aliquam  habeat couiuuctionem : Nuni   frustra metus, quem habeo, fuerat meus? Convenit cum hac notione Ammonii  explicatio 8eoS verbi: ÆqS xal  q)6(ioS 8ia<pipet. AioS /itv ydp  i axi ito\i>xpovioS xaxov vicovoia, cpufioS 6 i i} napavxixa  7CX07}6iS, 8io7tep t Hpo8oxoS iv  xy xexapxy • ' H/ilaS ex « cpoftoS xe  xal 8eoS. Contra nbi cum præsente tempore naXai coniongi.  rmg tov vsavtOxov ilgrjxoTog xal ctvtcS xal r<u &Ba.  Tov ovv 22axQa.Tr) ilntiv (iAhparna tlg tov 'Egv^ifia%ov, ’Aga Ool Soxa, (pa vca, a nal ’Axov(tevov, adiig  ituAai Sto g deddvca, a AI’ ov (luvuxag, « vvv 8rj £Æyov, ilrtstv, ori ’Ayd&av %avpuGTug Iqol, lya 8’  dxogqGoifu; To fiev etiqov, tpavai tov Egvli)ia%ov,  HavrLxdg Soxtlg (ioi rfgtjxiva*, on ’Ayct& av iv Igel'  to di oi ajioQijOuv, ovx oiuat. Kal jtdg, to (laxagtE, B  ' tlntlv tov 22axQurr), ov gula ctxogeiv xal lya xal  aAAog ogugovv, fitAAav Ai\uv gixd xaAov xal nuv totar, perfecti notio efficitur, at  in Piat. Apol. Socr. 18. B.  ipov yap itoXXol xaTt/yopoi  yeyovatit itpds vpd$, xal ndXai noXXa tjStj Itrj xal ovSlv  dXrj^tS XiyovreS, quo loco izaXai XiyovxeS idem est atque ei prjxoreS . Noluit autem ipsum  perfecti temporis participium exhibere Plato, ut significantius  et præsenti hora accusatores meras nugas proferre dicantur atque  credularum anicularum inanes susurrationes. vide aonot. 107 Ceterum schol. ad h. 1. habet:  dSete 8iof M tav rd prj a%ia  tpofiov SeSioxuv. opoiov xovxo  xal to ijtofpoberjs avSpconos.   d vvv 81 } iXeyov . Nvv  8 r} sæpissime a librariis confunditur, neque pauci loci exstant,  ubi pro vvv 8 tj scriptum reperitur 6j} vvv, et pro 8 rf vvv  vice versa vvv 8 f\. Utraque  verborum compositio propriam  potestatem habet, ac 8 ?) vvv  quidem in adhortatioue soleune,  atque nostratium also nun  apprime respondet, aut ad rem  præsenti tempore notissimam refertur cfr. 191. A. o 8 /} vvv  optpaXov xaXovOiv 191* B. I   o St} vvv yvvaixa xaXovpev,  Nvv 81 } autem de tempore accipiendum est, ut signiheet nunc  igitur. Vide Boechhiuui ad Piat.  Min. 90. et Stallbaumium ad  Piat. Phileb. 105 seqq.   on 'AydScov $ av pati t cos ipoi. V ulgo legitur ipei,  quod ferri nequit propter insequentem modum optativum; accedit huc Bodleiani aliorumque  optimæ notæ codicum auctoritas,  qui ipoi optativum reprææntaut. In sequentibus dnopijtiaipi vulgo edebatur. Recte Bekkerus, Stallbaumius, alii, futurum in ordinem verborum receperant.,   xal Tt&Sj cJ paxdpie .  Kat h. 1. mere expletivam est,  de quo vide annot.  ai. MaxapioS nomen quod  attinet, haud raro apud Platouem  ita reperitur, ut blaudæ appellationi exprimendæ inserviat. Interdum id apud eundem, docente Stallbaumio ad Piat, de rep. I. 335.  E., ad ingenii sapicutiæque præstantiam refertur, cfr. Piat. Menon* 70. B. xlvSwsvcj tioi  Soxeiv paxapioS xiS elvai,  dpextjv yovy f site SiSaxrov,    t  Sccnbv ovto Aoyov gq&ivTa ; %a\ ra piv aXla* ovy  ouolcog &avpcc<5Tu; zb de In l zetevzijg zov xaXXovg    fl'3’ oxrp xputfcp irapayiyvetai,  eidevat. Adde Piat. Menex.  249. D. M. N?) Ai ', cj 2d■xpaxeS, paxaplav ye A eyeiS  ttjv 'A6na6i(xv, ei yvm) ov6a  toiovtovS A oyovS oia z' l6x\  6vvri%ivai.   xal rtOLvroS artov ovxcj.  Apud Bckkerum legitur pera  xa\ov ovxco xal 7tavxo8ait6v  A. /5» Uterque verborum ordo  codicum non paucorum auctoritate nititur» Equidem non dubito, quin ovxco vocem ei verbo  Plato apposuerit, quod maiora  cum vi pronuntiandum est; igitur 7tavxo8a7tuv ovxco in verborum ordinem recepi. Recte  autem Stallbaumius ad verba xal  TtavroSartov ovxcd annotat ‘Multiplicem vocat Agathonis orationem quippe quæ videatur omnia attigisse et percurrisse,  quæ ad laudem Amoris pertineant»   xa\ xa p\v aWa ovx  6 poicoS $ av pa6x a\ Sic  Beltkeriis et Stallbanmius omisso  piv] quod post opoicoS in omnibus fere codicibus reperitur.  lliickertus ad li. 1.: Habet sane,  inquit, quod mireris, piv particula in eodem orationis membro repetita. Attamen hoc ipsum  cautionem imponit critico, cni  nihil magis est mctnendnm, quam  ne librariorum vel grammaticorum' correcturas in textam recipiat. Quos quum multa hic  illic correxisse constet ex iis libris, in quibus ipsa correctoris  manus cernitur, quid est magis  consentaneum, quam iis quoque  in locis, ubi insolentius dictum aliquid pars codd. non agnoscat,  omissionem ab antiquiore critico  institutam in libros receutiores  receptam esse. Quam ob rem,  ut ratio reddi nullo modo possit repetitionis, servandam tamen  particulam equidem existimo. Sed vide, an possit sic defendi, ut prius pev membrorum oppositioni, alterum sententiæ inservire dicas; et cetera quidem,  non sunt illa quidem similiter admirauda. Si  recte Riickertura intellexi, eius  explicandi ratio nullo modo probari potest; non perspicio enim,  quomodo membrorum oppositio  non item sententiæ oppositio esse  possit. Ceterum exempla nonnulla laudavi supra ( cfr. annot.  21. et 216.), quibus probatur, interdum falsum esse, quod  omnium codicum consensu coniirmetur. Nostro loco duo Bekkeri codices piv post opoicoS  positum omittant, ex quorum auctoritate id recte omiserant Bekkerus et Stallbaumius. Ceterum  male post SavpaOxa punctum  ponitur. Schleiermacherus verba  convertit : und wemi auch das  Uebrige wol liiclit alles eben so  bewundcrnswerth gewesen ist;  aber die Schonlieit der Worter  und Redcnsarten am Ende, welcher Horer ist nicht- uber diese  erstaunt? Hæc quamquam cum  oratione Agathonis apprime conveniunt, tamen quoniam vitoperium continent prioris partis orationis, præter consuetudinem Socraticam sunt, de qua vide annot. 191 Signo interrogandi  post $avpa6xa posito locus sanatur. Sensus est : Et cetera qui tiov ovoficciav xal Qijuatav tlg ovx av it-utXcc ytf  axovav; ixu syays Iv Sv[iovjisvog, on avios ov% ol6$   dem nnm non pari modo præstantissima sunt?   to Sh iitl xrjXevti) S rov  ndXXov 5 . Hæc verba Riickcrtns ita explicat, utro' de voculas censeat cum sequeDte rov  xdXXovf genitivo arctius cooiungeudas esse. Addit idem, genitivum nominis alicuius coniunctiim cnm nominativo articuli  genere neutro positi prorsus non  differre ab ipso nomine, quod  cum suo articulo exhibeatur;  perinde igitur esse, utrum to  rov xaX XovS, an to xdXXoS scribatur. Idem præceptum  Matthiæus dedit in Gramm.  ampl. 285. 574., quod ta-,  men neutiquam probari potest.  Nominis periphrasis effecta illa  per articulum neutro genere positum semper aliquam nominis  adjuncti conditionem indicat, quæ  e verborum contextu facillime  eruitur. Posses igitur nostro  loco, y scriptor ro' 6e tov xaXXovS arctius coniungi voluisset,  verba convertere l Vim autem  pulcritudinis et verborum et dictionum cet. Non aliter, quam  Riickertus, verba converterant  Schleiermacberus in conversione  427. et Schulthessius 106. ed. Orellii. Persuasam nobis est,  to 61 irci t eXevTrjS ita positum esse, at, cum præcedentia  verba Ta plv dXXa reliquam ab  initio orationem denotent, hoc  nihil aliud denotet, qqam: verba  posita sub finem orationis» Tov  xaXXovS autem genitivus e verbo  oi^enXdytf pendet, de quo genere  structuræ vide annotat, 197»  et Matth. Gramm. ampl. $. 868.  681« Sensas est; Quod autem verbaattinet snb finem orationis posita, quis  pulcritudinis verborum  dictionumqne non summa  admiratione tenebatur  audiens? Ceterum aoristo tempore Plato usus est temporis rationem habens, quo Agatbonis  audita est oratio. Rarissimo verba magnum animi affectum indicantia alio, quam aoristo tempore ponuntur. In caussa boo  est, quod animi commotio maior,  ut subitanea, ita fugitiva est,  non dnrans, ut iam præterierit  necesse sit eo tempore, quo qnis  eius mentionem facit. Perfectura  tempus infra babes«p» 211. D,  ad quem locum vide annotat.   T&v ovopaxcov xa\ farfp d T os v . * Ptjpctxa sententiæ '   sunt, ovopata singula verba»  Hinc Eryximachus non singala  Heracliti verba, sed integram  sententiam vituperans male verbis expressam 187. A. dicit J  coSTtep tdcoS xal 'JIpdxXeiTof ftov Xexat XeyeiVj inel t ois ye fir}padiv ov xaXwS Xeyei. Infra  legitur 221. E. Toiavxet icotl  ovo pax a. xal fjTjpara i&<vBev  itepiapnix°vTai x. r. X. Adde  Piat. Apol. Socr. 17. H. ov  pev t ot } pa dt\ avdpeS 'ABp vaioi, xexaXXieTtrfpkvovS ye AoyovSj (Ssxep ol Tovxoovy fitjpa6 i Te xal ovopadiv ovde xexodprjpevovS x. T. A. Piat. Cratyl. 899. A. otov 4il  < piXoS * tovto iv a avzl fiijpar oS ovopa rjpiv yhnjrai, ro te  Vxepov avxoBev iooxa igiiXoper  x. t. A.   ixel iycoye ivBvpov psvoS x. r, A. Pe ixei vocis  C t’ iaouca <rv8’ lyyvg rovxav ovStv xttXov elnelv, v%  a.ia%vvr/g oXlyov dxoSgdg cjj%6fit/v, sl xr/ tl%ov. xal  yuQ f ib Togylov 6 loyog dvE(ii(ivt]6xsv, agtE drejrvag  rd tov 'Ofit/Qov EJiHcov&rj' i<fojioi\u>]v, fit/ /ioi xiktv caussali. potestate atque de eias  origine supra diximus annotat.  151. Ad verba, quæ sequuntur,  oXlyov dnobpaS qtxoprjv Stallbaumius rectissime aunotat; ne  quis scribendum suspicetur oXi* yov dnodpaS ar Gajfppijv, €en ~  tenti a verborum hæc est : ego  præ pudore pæne aufugeram, siqua potuissem.  Vide præterea annotationem  159.   et ny elxov. Vulgo legitur 71 oi pro ny» Hoc optimi  plurimique codices præbent* Atque videtur, Riickertus inquit,  ny etiam verius est; non tam  enim, quem in locum fugeret,  curandum Socrati fuerat, quam  quæ fugiendi ratio et via esset,  possetue an non. Utrumque  licet, sententiam si spectas, in sermone familiari, et locum, quem  versus aliquis fugam parat, et  rationem, qua fugi possit, sine  maguo sententiæ discrimine commemorare, neque nostratium vituperaretur, qui diceret: ich war  schon halb auf der Fiucht, vrenn  ich nur wusste, wohin aut wenit  ich nur wusste, wie. Sed araatrt '  Græci, ut supra indicavimus annotat. 28., verba motum in  aliquem locum significantia cum  quietis notione coniuugere; hinc  non dubium est, præsertim cum  codd. optimi, quorum in numero Bodieiunus est, ny exhibeant,  quin Plato Ttoi non exhibuerit, Ceterum dnodidpatixeiv verbum de servis soleune, qui,    quod hero debent, id non solvunt aufugientes. Debent autem  hero servitium. Apte igitur ano6 paS h. 1. Socrates dicit, quod  claucnlum aufugiendo, quam promiserit, non præstiturus esset  Erotis laudationem.   xal ydp pe Topy io v o  XoyoS. Gorgiæ Leontini celeberrimi sophistæ et dicendi  magistri illius ætatis, cuius omne  artificium in verborum ornatu et  magnificentia (Xap.nd. 8 eS, vide annotat, 196 ) constabat, id quod  abunde discimus ex Phædro Platonis. Duæ declamationes, quæ  eius nomine feruntur, Helenæ encomium et Palamedis defensio  quibus de coussis suspectæ fidei  habeantur, nescio ; id scio, proprietatem Gorgianæ eloquentiæ  in iis reperiri. Riickert* cfr.  Pliilostratus de Vit. Sophist. I.  xat 'AyaScov dt 6 rijs tpaya)6 iaS noitjzi}s, ov 77 xoipcpSla  Cotpdv re 71 al xaXXienij olde,  noAXaxov tg5v lapfieicjv yop yidZei.   in enbvSrq * Hanc formam  Atticis usitatam cum parum notum habuissent librarii, factum,  est, nt sæpe mutarent. Vulgo  legitur InenovSeiv. Bodleianus  codex inenovSet exhibet, cfr.  Matth. Gramm, ampl. J. 198. 4.  360 Buttmanni Gramm. uropl.  T. I. 432. Rem extra dubitationem ponit Eustathius ad Ilom.  Odyss. 1946. ed Rom., quem  Stallbaumius laudat: napaStdcodi  ydp 'HpaxXeidTjS, ori 'AttihoI tcov 6 'Aya&cov rogytov XEcpakrjv dsivov liyuv Iv r tp  Xoyca ini rov iftov koyov nipt^ocg ccvtov pe At&ov ty  atpavl-a itomtius. xal ivsvorjOa tote aget xocrayii.a<5rog  coV, 7 jvlxu ifiLV cS [toAoyovv iv rui pigti pE&’ vp& v    tOVS TOlOVtOVt V7tEp6wte\lXOVi   iv rui ijra povcp icepazov6iv f  TfSrj Aiyovzef xal ivero/fxrf   XoA i 7t£7COirfX7f HOLI OVZGD   tprjoi llavaizios ex £ tv ypettpaS Ttapa IlXdzoavi' xal &ovxi8i8?}S 8h xixPV rat X( p toiov zrp *Aztix<j) cfr. Stallbau mius ad Piat, de rep. I. 329*  B. ubi eadem eiusdem verbi forma in omnibus fere codicibus depravata reperitur.in ijC£7t6v$£iY,  Fopyiov he < p aXtjv 8et v o v Kiytiv . Annotant interpretes, ad Homeri Odyss. A.  632. respici, ubi hæc leguntur:   ’Ejje 81 jkmtpov 6ioS yp£i,  'Mt/ poi ropyeujv HEtpaXrjv 6ci VOIO TtEXttpQV.   *E% at8ov 7tijitl>£i£v ayavrj Il£p de<p6v£ia.   Gorgus adspecto capite mortales  in lapides mutari, veterum opinio erat» Iam vide, quam lepide  Socrates in LEONZIO (si veda) Gorgusque  nominibus lusit. Tanquam conspecto Gorgus capite, audita Agathonis oratione, ue in lapidem  mutaretur h. e» lapidis instar  avavSoZ sederet, veritum se esse  dicit. Ceterum quod apud Homerum est 8£ivolo neAcopov  nunc satis festive Seivov Aiyeiv  dicitur adhærente notione monstruosæ dictiouis.   ini rov ipov A oyov.  AoyoS hoc loco orationem significat, quam Socrates habiturus  est ; igitur verba convertenda  sunt: io faturam orationem meam. Rependit autem Socrates satis  festive, quæ ab Agathone dicta  erant 194. A, qtappdxzeiv   fiovA-El /i£, cJ StOXpaztS   Uva $opvfiri$(Z. Pro A faov  zy atpcovia consuetius dicendi  genus est p?)  pl dfpaovov noi rjCEitv aSTTEp A i$ov, sed multo  lepidius est atque præcedenti  comparationi convenientius Ai$ov  zy dgxovia.  xal iv ev 6 t} 6 a zoze apa  xazayiAadxoS gjv, Aoristicum tempus positum habes  tempore præcedente imperfecto,  ut momentanea actio a durtua  discernatur, de quo significatu  temporum vide annot. 36.  xaxayekadxoS nominis siguificatum supra tetigimus annot. p»  148. Ceterum cave zoze cum  iv£vo7fda coniuugendum censeas,  pertinet enim ad sequentia verba  tempus accurate exprimens, quo tempore Socrates deum laudare  promiserit. "£lv imperfecti par*  ticipium est : oratio enim recta  audiret: zoze apa xazay iAatfzoS  7)V i/vixa x. z. A. Respicit autem  Socrates ad 177. D. ovSeiS doi,  gj *Epv£,lpaxe, ivavzia  < pielxai . oirze ydp av itov iyoo  (iizoLpaidaipt, o£ ovdiv cptpit  «AAo InidxadSai i) za ipeozixd x . r. A.   iv reo pipet pe$’ vpdSv.  Socrates sibi ridiculus videri  sc simulat, non tam, quod Erotem laudare promiserit, quam  quod iis promiserit, quibus nemo  elegautiorem et pulcriorem Ero D iy%(d[iucCs6ftat rov "Epota xctl l(pr\v ilvcti dsivos tu  iCQOtuccc, ovdlv Side os cepa tov npciy fiatos, os edsi  iyxa(ucc£uv btiovv. iyd (ilv ydp vit dfieXreplas (S(i?]v  detv tdXq&ij kkyuv sceql exccGtov rov lyxo(ua^0(iivov 9  nat tovio (ilv vitdp%eiv, avxdv 81 xovxov tu xaU.i<Sza ixktyo(iivovs &s evxQSTt&Ctaza ttdivau xal itavv    tis laudationem exhibere possit.  Vides igitur» accentum orationis in verbis ponendum esse iv roa  fxipEi vficjv, quo facto   ironiæ acerbitas incredibiliter  angetur. Quæ sequuntor verba  .xai tcpr\v eivai betvoS xd ipeo»  nxd non satis cum Socratico  dicto 179. D. conveniunt. Modestius euim illic Socrates locutus est. Ne mireris igitur, quid  sit, quod vehementius Socrates  hic t se vituperet : omne vituperium in convivas convertitur, qui non veriti sint, coram Socrate, homine maxime erotico,  rerum eroticarum imperitiam suam  pro sapientia vendidisse.   iyd p\v ydp vn* dfte ArepiaS x. r. A., Hi* verbis auditis verisimile est, erubuisse,  qui de Erote verba fecerunt. A(i£\xeptocS teste Stallbaumio  Bodleiani codicis lectio est aliorumque plurimorum librorum.  Riickertus non nisi in Bodleiano,  Vaticano ono, Angelico uno, ct(iE\tepiaS reperiri annotat. Iloc  certum est, codices permultos  afiefarjpiaS præbere, quæ lectio  unde originem duxerit, haud dif-"  ficile est ad explicandum. Librarii enim cura non ad etymologiam respicerent df\eX.TEpia  nominis, sed ad analogiam vocabulorum in ?jpta desinentium,  ad dfieXxrjpia lormam recipiendam proclives erant.    KEp\ kxccOxov rov IYt  xcj yidS,oy iv ov. Ficinushæc  verba convertit: Putabam equidem ob ruditatem meam, do  quocunque quod laudatur a nobis, vera oportere referri; quod si verbis exprimere  voluisset Plato, scripsisset haud  dubie o iyx&judZExai. Schleiermacherus exhibet in conversione; Ich duchte namlich in  meiuer Einfalt, man miisse die  Wahrheit sagen in iedem  Stiick von dem zd preis senden, quam conversionem  verborum nemo facile probaverit*  Kiickertus idem esse contendit  Zxatixov x o iyxa>yiaZ6j.ievov 'atque xo æl iyxa>/ucu}6y£vov f sed  exemplis hic loquendi usus probandas erat, quod V. D. facere  omisit. Vulgo legitur : Ttipi Ixa <Sx ov xoov lyxooptctZofiivGDv,  quæ lectio Schleiermacliero placuisse videtur. Nobis ea- non est, nisi coniectura eorum, qni  TCepl bcatixov xov iyxGopiaZoflivov explicari posse diffiderent.  Scripsit fortasse Plato : TCepzkxdOtov iyxG>yta£o/i£rov h. e. de  omni re, si laudatur; fortasse etiam verba xov iyxGDj.uaZo pivov glossema sunt, quo facillime,  si abesset, careremus. Nam cum  præcedat ovbtv eISgjS dpa xov  itpdyyaxoS, cJ? ibtt iyHGoyid?,Elv oxiovVf satis patere opinor,  izepl kxaoxov per se positum  rem laudandam significare. dfj (ieya IqiQovovv m$ tv Iq<ov, wg flStd g ti/v  ftuuv xov ixaiveiv ouovv. xd de ccqb, cog Houctv, 01J  tovxo rjv xo xakmg htcavelv ouovv, dlXcc xd tog (ii- E  yufxa uvaxitiivtu xa Ttodyuait, xal d>s xedhaxet, iav  xe y ovxag £%ovxa iav xe (irj. ei Se 4>tvSij, ovSiv «p’  tjv XQayfia. XQOv^Qtjdy yaQ, mg foexev, uxiog exuOtog    xal tovto fitv vnapXBtv, Bastius paru*n perspecta VTtapxetv verbi potestate 7tal  tovto npdotov pkv rei pkyiStov  fikv vnapx&y scribendum couiecit. Frustra. Rectissime Stallbaumius xal tovto plv vnap inquit, est: et hoc debere orationi subiectum  esse argumentum. Nam  verissime Scbneiderus ad Xenoph. Oecon. XXL 11. vnap X&iy dicuntur a Platone quæc ungue fundamenti loco adesse  debent, ubi quis quid exsequi voluerit,   to SI a, pa, cjsHoihev,  ov tovto 7/r x, t. A. De xo  6 k vocularum significatione vide  annotat, 111. Adde Stallbanmium ad Flat. Apol. S.  23. A. " Apa conclnsivæ notionis  particula hoc loco ironiæ augendæ inservit. Præteritum tempus falsam opinionem aut spem  fuisse indicat, quam aliquis olim  susceperit atque per aliquod templis veram habuerit. Utuntur  autem hac formula satis cum dolore aut acrimonia ii, quos eventus docuit, aliter atque antea  putaverint, rem se habere. Eodem modo paullo infra legitur 199. A. aAAa ydp iyco ovx  ydij apa tov tpoxov tov inai•vov x . T. A. Egit de hoc genere dicendi Stallbaumius ad Piat.  Phæd. p* 68. B., ibique Homerum laudat, Odyss. XVI, v. 418,    'Avtlvo', vfipiv £x gdv * xaxopkjXav&, xal 61 6k tpa6iv  iv Stjpoo 'l$axi]S pe$ * optjXixtxS  ippev' dpidtov   fiovXy xal pvSotdi * 6v 6 * ovx  apa toios hjdSa.   Pro irpporfccto interdum in hoc  dicendi genere præsens tempus  reperitur, v. c. in Piat. Gorg.  469- E. t /2 'ScoxpaxE5 i ovtgj  pkv navtES av pkya Svvaivto,   IkeI xav ipnpjjdSEirj olxla rodtqo ra5 tponoo rjytiv' av 6oi do - /   xrjy xal ta yE 'ASrjvaicov vsapia xat rpii/pEiS xal ta nXoia  navta xal ta drjpotiia xal xd  idta. aAA’ ovx apa rovt*  l6ti xd pkya Svva6$ai, to not eiv d Soxei avtqj, DiiTert a  præteriti præsentis temporis usus  ita, ut illo posito evento aliquis  indicet se edoctum esse, rem aliter se habere, atque olim existimaverit, præsente autem tempore indicatur, indicare aliquem  ita, ut iudicium eius adhuc uoa  probatum sit eventu.   aAAa to goS pkyitira  avatiSkv ai t& npdypa ti. *Avaxi$kvai verbum solenne  est de donis, quæ diis ab hominibus consecrantur» Idem etiam eum significatum habet, quo aliquis alicui aliquid attribuere dicitor. Neutra verbi notio ad  nostrum locum satis quadrat.  Nimirum ironia consueta Socrates usus et pietatem d£ia diis   15  ijfiwv xbv "Eqcotu lyxauiateiv dot-ei, oi>% ortas lyxa(uaGtxai. 8ia xavxa 8i), olfiat, rtavxa kbyov xivovvxcg avati&exs xa "Epazi, xal ycczt avxbv xoiovxov rs  109 tivcu xal xoGovxav aixwv, orta$ av (patvtjxai tbg xakliOrog xal olqiCxos dijkov oxi xoig M yiyvuGxov- consecrantiam et mentientium  impudentiam notaturus est. Deest vernaculo sermoni verbum, quod  utramque notionem exprimat; nam  quod mihi nunc in mentem venit, aufhiingen, de fore suspendendo intelligas facilius, quam  de corouis, quibus templorum  parietes exornabant veteres. Sed  pone, vernaculum illud Græcorum verbo dvaxpEfxairvvvai apprime respondere, alteram notionem adde, qua dicimus : i e mandem etwasaufhiingen, et expressum habebis avariSivai verbum. In Latina liugua verbum est, quod Græcorum verbo ad unguem respondeat:  imponere alicui aliquid»   iepovf$f>i}$7}ydp,G)Sgoixtv. Socrates ex orationibus,  quæ hucusque habitæ erant,  conclusionem facit ad Eryximachi medici voluntatem. D», eiusque verba ita interpretatur, ut non veram Erotis laudationem, sed arbitrariam, hoc  est, vel veram vel falsam laudationem exegerit. Hinc verba explicabis coS UotxsVf quæ ita proferuntur a Socrate, ut ad convivarum orationes respici significetur. Sensus est: Deun die  Aufgabe war, wie aus den gehaltenen Hedeu crhellt cet.   iy xoo fiiaZeiv 8o%ei t  ovx 0 7tQ3s: iyxooj^iiddETat.  Fiemus bæc verba convertit :  Nihil ‘fenim referre, faisaue an    vera sint, cum propositum sit, non quomodo Amor ipse  laudetur, immo ut quisque AMOREM laudare quam  maxime videatur. Indicativo futuri rei veritas indicatur, quæ arbitrio opponitur, quo quis Erotem laudandum censent,  Paullo obscurius Socrates loquitar. Verborum sensus hic esso videtur: Convivas non Erotem, sed se ipsos landasse ita, ut suam sententiam de Erote laudando maxime celebraverint»   xavxa Xoyov xivo-vvxeS avaxiSe te x &"Ep gdxi.  Ruckertus ad h. 1. XoyoS 9 inquit, utrumque SIGNIFICAT, orationem et orationis materiam, xtveiv Xoyov, excitare sermonem  vel excitare, de quo dicatur»  Hinc sensus est, nihil, quod dici  possit ullo modoy prætermittitis, quin AMORI tribuatis. IldvTot  Xoyov xiveiv neque de oratione neque de materie orationis  accipiendum est, sed de genere  dicendi ac de modo res animo concipiendi; verba converterim: iedo mogliche Rede- und Be- trachtoqgsweise auwenden. cfr.  Piat, Phileb. 15. -E. o 8 l  xpcotov avrov yevodpevoS hxddTOTE XGOV VECJV tfd$ElS ttfS* XlYCt  dofpiaS EvprjHooS Sqdavpdv vq>*  ijSovrjG ivBovdia te xal xavxa  mvtt Xoyov h. t. A. Adde Piat.  Theæt. 163. A * tovxov *aptv td xoXXa xal arojta rav-<Siv' ov yaQ av otov xotg ye e16o6l xal xctAag y'  £%ei %al asfivag o htatvog. uM.it yaQ lya ovk ydq  figet rov x qotcov xov BTtctLVOv, ovd’ eidas vfilv c o^oAoyijtia otul ainog iv % c3 hbqu ineat ve<SE6&au y yXdrta  ovv viti6%ETO, fi (pgqv ov. drj. ov yitQ    ra ijiivrjdctjJTjv . Piat. de re pub.  V. 450. A. o6ov Aoyov itaAiv, QjSXEp apxy$> xivsixe  zepl rijs noAixtlaS. Ad avatLSeze cogitando repetendum cenæt Riickertus navia A ayov vel  supplendum avxov, quod ad  jtavxa Aoyov referatur. Frustra,  *Avazi%kvai hoc loco absolate  positum est, ut idem sit atquo  txvd%i6iv itoeltiSat.   t oiovtov xe elv cti xa\  r o 6ovx av ah iov . His verbis indefinite positis et natura  Erotis et utilitas dei vario modo in convivarum orationibus descriptæ insigniuntur. Igitur roiovtov talem significat, qualis a  convivis diversis modis descriptus  est, lodovicjv talium auctorem  tantorumque, qualium et quantorum auctorem illi Erotem prædicaverunt.   xal xaAas y * $\eix. r.A,  Eadem fere ironia Socrates utitur in Plat. Apol. Socr. 20.  C. xai iyco i ov Eutfvov ipaxdpitfa, ei aS aArjS&S lx £l  T<xvrr,v xifv xix v V y Ka ' L °vxcjS  cpptXdii 8i8a6xei. lyd yovv  noti avios ixaAAvvo/njv te xa\  JjftpVV OflTfV <XV y eI 7/7tl(jxdp7fY  xavra * «AA* ov ydp initira/ tat, ($ uvdpES ’A$rjvdioi. Cave  igitur, serio dicta censeas verba  xdi xaAd>S y ’ tx £L tepraf  o Zrt aivoS.   a A A d ydp iydf. Duæ cogitationes insunt in sequentibus :    Promisi me verba facturum esso  de Erote ; Ignaras eram rectao  laudandi rationis, quam vos secuti estis. Ad olterum cogitationem yap refertur, ud alteram  aAAd. Huiusmodi cogitatione*  quoniam sæpius in nna enuntiatione comprehenduntur, aAAd  ydp haud raro coninnctum reperitur. Quod sequitur ov8 ’ e1dtuS' Latine expressum audit r Sed  enim ego non noveram buuc modum laudationis, non scieus autem vobis promisi, ut ceteri,  ita et ego ipse dei laudationem. Positum igitur habes ovd’ eido oS pro ovk e16gj£ 86. Efficitur autem illa scriptura, ut accentus orationis, proprie in ovh  lidcoS 8i ponendus, in sequens  finitum verbum transeat.   ?} y A arra ovv v it e 6 x £ to, 7 ) 8 fe tppTrjv ov. Legitur  apud Euripidem, ad quem Socrates respicit li, 1., Hippolyt. v.  612.   7 } yAc566 * ojjgSjjqx’, 6t tppi} v  avapox oi  Haud raro in Platonicis scriptis ad hunc versum alluditur, v. c,  Theæt. 154, D. EipiitlSeidv  xi HvpjpijdEiai' tf plv ydp  yAdoxxa aviAtyxxoS ijpiv forat,  7 } cppifv ovx avEÆyxxof.  Adde etiam Cicer, de ofif, 111, 29*  108,: Nou enim falsum iurare  periurare est, sed quod ex animi  tui senteutia iuraveris, sicut verbis concipitur more nostro, id  15 *ftt lyxafua£<o rovtov rov rgoxov ov yag av Swalfiijv' ov (iknou akka ta ye dkqdq, el fiovkte&e,    non faceie periariam est. Scite  enim Euripides:   Iuravi lingua, mentem iniuratam  gero.   Ad Socratem nt revertamur, Euripideis verbis laudatis hoc efficere voluit: Promisisse sese quidem Erotis laudationem, sed non  talem, qualem ediderint, qui ante  6e locuti sint. Aut igitur tacendum sibi esse, quippe promisso suo ad Erotem illa ratione laudandum non obstrictus, aut  eam laudationem proferendam  esse, qualem, cum promiserit, in  animo habuerit., ov ydp kri iyxapiaZa  xovxov tov tporcov. Breviloquentia est : hæ enim sententiæ verbis insunt: laudaturus  eram, at non amplias laudaturus sum, si huuc in modum  laudatio instituenda est. Riickert.  *EyxoopidS,co absolute positum  est, ut non tam actionem, quam  ipsam verbi notionem cum vi repræsentet : iyxcjpia^cov el/ii.   Hinc facile intelligitnr, quid sibi  velit hi hoc loco.   ov ydp av dvvaiprjv .  ov /jLevxoi . Admodnm dubitant viri docti de horum verborum iuterpunctione recte ponenda » alii punctum post ov f.Uvtoi  ponendum, alii omnem prorsus  interpunctionem post ov fievtoi  delendam censent. Atque sic  Bekkerus verba edidit, quem Riickertus secutus est annotans ad  hunc locum: tftraque verba interpuogendi ratio vera est grammatice; sensum si spectes, roirere, quid sibi velit tam fortis    ac vehemens negatio, qualis fatura sit, si ov pkvtoi cum præcedentibus iungatur. Contra si  iungas ov pkvtoi aXAa, multo  lenior erit oratio, sensumque  præbebit hunc: Vestro isto modo AMOREM laudandi consilium plane  abieci, non possim enim, etiamsi  forte velim. Attamen hoc ita  accipi nolo, quasi dicere omnino  recusem, immo vera quidem cet,  Equidem non dubito, quia  Ov pevtoi verba per anadiplosin  rectissime ab Stallbaumio explicata sint, cuius exempla si quæris, adi Stallbaum. edit. Sympos.  97» Quod autem scire se negat Riickertus, quid sibi fortis  negatio velit h. 1., exprimendæ veritati enuntiatiouis negativæ  inservit, ut verba convertenda  sint : ich konnte es auch nicht,  wirklich nicht,   ei ^fiovXedSe, i$k X oj  xa x 9 ifiavxov . De (5ov Af6%at et kSkXeiv verborum significatu vide aunot. 44. Ka T a præpositionem quod attinet,  vide Piat. Apol. Socr. 17. B,  el phv ydp tovro Xiyovtiiv,  opoXoyoiyv av iycoye ov nata.  xovtovS elvai jirjtcop. Piat.  Prot. p, 517- A. iyd 8e tovtoiS  aita6i xaxet tovro elvai ov  Hvp<pepopai t de quo loco supra  diximus 41. Adde præterea annotat. 134. n Iva prj ykAo ota o(p\cD . cfr. Apol. Socr.  17. C. ov ydp av di/ itov Ttpk - 7Toi, cj dvdpeS, tp8e ry uda  toSjzep psipaxlaj TtXatTovti A dyovS eis vpaS elsdvai, quem  locum eo aptiorem hic censebis, l&tfaa tljteiv xcct’ Ifiatnov, ov itqos rovg v(istigovs B  koyovg, ivu (lij yikattu. ocpfao. oga ovv, cj <X>aidQt, {I   > i    qno certius est, Socratem ætate  provectiorem fuisse eo tempore,  quo Agatho ItuyIxuk celebravit,  h. e. 412. a, Cfi. Ceterum  ocpXt o cum quadam ironia in malam partem dicitur, ut supra  183. A, a ei xiS toXpoSrj itotetv  aXX oxiovy nXrjv tovto, za  piyidxa xotpnoiz 9 av oveidrj.  Eodem modo d.7ZQXav£iv verbd  Græci utuntur, cfy* Piat, dc legg.  910. B. xal itada ovtgdS f\  TtoXiS aitoXavxf xgdv adefi&v  zpoitov riva dixcdcof.   opa ovv, <u $ai8pe t ei  xi xal zotovzov Xdyov  6iei 7tep\ "Epcox os . Stallbaumius per epexegesin verba  addita censet zdXifSif Xeyopeva dxoveiv, cuius structuræ permulta exempla reperiuntur. Unum  exemplum ut laudem, cfr. Piat.  Phæd. 103. A. cap. 51. xal  ziS eh te xdov xaporxcov dxov 6aS itpoS Secjv, ovx iv roiS  XpodSev r\piv XoyoiS avxo to  ivavxlov xdbv vvvl Xeyouivcov  copoXoyeiro y ix xov iXaxxovoS  zo pei2,ov yiyvedSai xal ix xov  pdZovoS xo tXaxxov, xal axeXv&$ avxTj elvai j/ yivedi? rots  ivavxioiS, ix xoov ivavxi&v;  Ceterum male rerba disposita sunt, quandoquidem comma  non post diei ponendum est, quo  loco id posuerunt editores ad  unum omnea, sed post "EpGoroS.  Sensus est: Vide agitur, o  Phædre, num forte tibi  etiam huiusmodi Erotis laudatione opua sit, ln e.  vera, non mendaciis cuiusvis generis referta. ovopadi 81 xal Sidet  firf/idxGov roiavtg. *Ovopara et fi?jpaxa quo significatu poni soleant, supra dictum  est annotat, 221. Sententiam  quod attiuet, duo suut, quæ a  Socrato in orationibus couvivarum vituperantur : sententiarum  falsitas, verborum enuntiationumque nimius ornatus. Igitur seri'  ptura non opus est uqius codicis Vindob., quæ magnopere  placuit Schæfero (ad Dionys. de  compos, verb. 28.), ovopadei  81 xal Sidet fcrjpdruv toiavXXf* In sequentibus ditola av  tiS XVXV iiteXSovda additum reperitnr in permultis iisque pptlmæ notæ codicibus di particula, quæ nullo modo ferri potest. Admissa ea sententia verborum existit hæc: Vere dicta  pudire, nominibus autem  et positu enuntiationum tali (b. c. vero) et qua lis cunque forte «eæ obtulerit loquentl. Fortuitum  b. e. non exquisitum sententiarum verborumque positam facile  probes, verum positum quamquam cum veritate rei convenientem interpretari possis, tamen minus probabilem h, 1. indices. Igitur di post ditola  collocatum, quo efficitur, ut zotctvxy ad præcedentia non ad  sequentia verba referatur, atque  ut commemorata posituras veritate simplicitatis notio adiungatur verborum atque dictionum, ex ordine verborum semovimus. Idem fecerunt Bekkerus, Stallbaumiua, alii. Ficinua verba  convertit: Vide itaque, Phædre } Xi xal toiovtov Xbyov diti 'Egcotog, Talr^si] Xi yufiwu uxovt iv, vvofiaGi 8s xai &i<Ssi gtjfiatav roiavry,  inoia &v ns hul»oS6a. Tbv ovv QaidQov   tcprj xai rov S cckkovg xtkivuv Uyuv, bny aixbg ot 'oiro Sstv ilnsLV, rctvry. "En roivvv, tpavuv, a <I>aldQe,  xaQig fiot Aya&mva a/iwg’ arta Igia&ca, tva, «voC fioXoynHansvoe ««?’ «vtov ovtag r/St] Uya. ’AU«  TUiQiyi-u, tptxvca tov OcuSqov' ulk igata. Msza  tavra brj rov 2axgdrg hv Lvd&vSe xoftlv aglaGftca. utrum vobis 'placeat orationem  fiuiusmodi nunc audire, quæ de  Amore vera duntaxat enarret,  verborum nominumque, utcunque  accidit, compositione procedens.   Uri roivvv, tpavai, <a  $ai8pe, TtapeS pou Car  ad Phædrum potissirauih et hoc  loco et sapra Socratis eratio se  convertat, si quæris, vide 197*  D # iyco 8} rjSioos; pkv axovat  ^SooxparovS 8ia\eyojitvov, dvayytaiov 8i poi ImipeXqSijvai rov  iyxcopiov ro5 "Epcon xal amo  SeZadSai nap* bvoS txutixov  vjigdv rov Xoyov. o it q avro? olotro 8 si v  elmeiv, ravty. Commode  abesse posset ravtft, quæ vox  e præcedente on rg suppleri solet alias haud raro. Posita nostro loco est, atque in fine quidem totius enuntiati collocata,  ut significantias Phædri ceterorumque convivarum verba red-r  de ren tu r, quæ obliqua oratione  liunc exhibentor. Dixerunt autem illi: omjf avtoS olei 8tiv  Xeyeiv, ravry elnk.   ovrcoS rj8 tj Xeyco. vide  annotat, 195* Schleiermacheras verba convertit: damit icli  mit ihm eioverstanden a 1 s d n n n  welter rede. Recte } displicet ta*  men vocula w ei ter, qua rectius  carueris. Nam X£yco t ut XoyoS  in præcedentibus sexcenties de  Erotis laude, vide annot. 187.,  de laudatione incipienda intelligeudum est : Damit ich, wenn ich  mit ihm mich verstandigt habe,  alsdaun den Eros au loben beginne*   iv$£v$e Xo%kv. Vide annotat. Stndiose id agit  scriptor, ut lectores seraper admoneantur, orationes convivarum  non accurate neque verbo tenus  referri, quod quo consilio fecerit, in Comment* de Syrapos. Platonis indicavimus.   xa\a>£ poi lt8o%a$'KCC$TjyijtiatiSai rov Xoyov,  li, e. disputationem exorsus esse. Deest, quod mea  culpa potius factum puto, quam  quod onmino nullum sit, sed deest  mihi exemplum verbi ita usurpati cum genitivo. Non desunt,  ubi accusativus sequatur, velat  Thcæt. 200. E. 6 xaSrjyovptvos rov notapSv. Riickert*  Verba transitiva haud raro ita  adhiberi, ut non tam actio, quam  verbi notio urgeatur, sæpius  annotavimus, v. c,p. 22. p» 59. Cap. XXL   Kal ftijv, e» (pile 'Aya&av, xalwg fios tdofcg  xadyyrjtiaB&ai zov Ivyov, Isyav, 3« xqwzov tt£v  6'tot ccvzov iTaStL^ai vnoiog zig iotiv 6 “Encog, vBztqov Ss tu k'pya avzov. zavzrjv zr;v uQX>i v naw aya[itu. Xfh ovv uoi tcsqi "Eqsazog, insidi; xal ralla xalag xal peyal07tQS7iu g 6iijl%sg olog ia ti, xal %6i$s D    tizi' jcotSQov iau zowvzog    Hoias usa» ut unum tantummodo  exemplum laudem, legitur p, 178«   C. o ydp xpi? dv^poonoiS?/yeuSSai navxoS x ov filov xcdS  ptAAovdi xaXwS fiicooetiSai,  quod idem valet, atque o ydp XPV  tOtS CtV%pC£> 7 tOlS &mp ffl'EyGOV  elvca navxoS x ov fiiov. Sic no«tra verba posita sunt pro xaAo? fioi £doB,aS xaSrjyijxtjs elvat x ov Xoyov.   oxt np doro v p\v S eoi.  cfr. Cic v de ofF. I. c, 2. $. 7* Placet igitur, quoniam omnis disputatio de officio futura est y ante definire, quid sit officium,  quod a Panætio prætermissum  esse miror * Omnis enim y quæ  a ratione suscipitur de aliqua  re institutio, debet a definitione  proficisci, ut in !el ligatur quid  sit id t de quo disputetur * Ad  hanc instituendæ disputationi»  legem Socrates etiam in Menone  respiciens 77* E. docet: ante  dicendum esse, quid sit id, quod  virtus appelletur, quam possit,  utrum doceri queat necne virtus,  diiudicari.   tavtrjv trjv apxrjv navv aya pax. y Aya<S$ai verbo  utuntur, qui et AMARI et laudari a  se rem aliquam indicaturi aunt.   olog eivcd nvog o Egag    cfr. Piat. Protag. 935. D.Vl rtal  1 IititoviHOVy ct ptkv Zycoyl tiov  trjv <pi\o6oq>iav ayajiai, axap  xal vvv inaivdo xal cpiXco x.  t. A. h. c. quod s em per facio, tuam sapientiam ut amem laudemque, idem etiam nunc mihi  contingit. Minus probem Stallbaumii annotat, ed. 97. Haud  cio, inquit, an alicui scribendum  videatur axap vvv xal btaivdr  xal tpiXdo, quo clarius appareat  ratio oppositionis. Sed nihil mutandum, siquidem xal non cum  vvv, sed cum atdp arcte connectendum, ut significent voculæ:  quin etiam .   olof etvai ttvoS o "EpcoS lp oo . Repentur hic verborum ordo apud Bekkerum,  Astinm, Stallboumium, qui Bodleiani codicis «t Vindobb. doorara auctoritatem seguti sunt.  Eum verborum ordinem Riickertus frustra impugnat, dicens, minus bene habere subiectum inter  prædicatum et pendentem inde  genitivum insertum. Nam huius  structuræ artificium et apud Græcos et apud Romanos acriptores æpennmero reperitur. Suspectum autem fit mutatione sedfe  $pa>S nomen j nam vulgo verba  inverso ordine exhibentor oloS 1 m    f ovStvog; Ipcota 6’ ovx, tl {v>itq6s rivos % noxios  iou yiloiov yap av th] xo igatrjua, tl "Epias  bsxlv 1’gag scapos rj [irjtQos  «AA’ to $jctp &v tl cnko  tovto xcatQa jpdrov, uqu 6 xarijp iaxt xarqp w ilvai nvof IpaS 6 "EptsaS, Uodecim codices ipcoS nomen prorsus omittunt. Verbum omisimus  nos, quia sive ante J *Epa)S ponatur, sive eidem postpouatur,  cum sequentibus nullo modo convenire videtur. Etenim si scripsisset Plato oloS elvai nvoS ipGoS  6 "EpcoS s. rivos 6 *EpooS HpoaS,  nemini auditori ac ue ipsi quidem Socrati in mentem venire  potuisset patris matrisve cogitatio, quæ verbis sequentibus continetur. Iam cum omisisset SpoaS  nomen, ambiguaque potestate posnisset "EpaoS nomen propriam,  ne interrogatio, ut potuit male  intelligi, ita revera male intelligeretur, verba statim addidit:  ipanco 6 * ovx, el prjrpoS t tro$  7} natpos idxtv,   yeXoiov yap etrj to\  £ p oj r ?}/i a, Socrates Erotis nomine ita posito in præcedentibus, nt non deum sed dei vini  iutelligi vellet, additoque vituperio eius, qui interrogationem  sio interpretaretur, ut de Erote  deo, non de amore sermonem  esse censet, satis acerbe incu-r  rium eorum vituperat, qui dei  nomine adhibito tum deum, tuut  vira eius expressissent non indicantes, utra potestate nomen  proprium accipi voluerint» Aliter Ruckertua de his verbis indicat, cuius verba hæc sunt; Id  nihil, inquit, habet ridiculi, rogare, Amorne patrem vel matrem  habeat, id quod infra rogat ipse  SOS, A, At ita rogare, ut    prædicatum ponas ZpcoS, ac deinde  genitivi sensum velis esse lionc, quem negat esse, id vero ridiculum est. Ridiculum igitur hoc  quoque, si quis, quod recte interrogatum sit, ac ne male accipi possit, addito prædicato ipooS  præcautum, tamen ita accipiat  aut accipere simulet. Pertinet  igitur hoc ad sophistarum captiones fraudesque deridendas, babetque vim hand exiguam ad firmandum io præcedentibus positum IponS contra libros eos, qui  id omittunt*   ei avto tovto itatkpet  iJpojtGDV . Imperfectam cum  el particula coniuuctum in hujusmodi enuntiatione aliquid sumi  fieri indicat, quod revera nou  fiat ; aoristus addita av particula  actionem exprimit, quæ sine dubitatione futura esset, si fieret  illud, quod fieri tantummodo sumitur. Paullo aliter Stallbaumius  ad h. 1. : Imperfectum, inquit,   indicat id, quod nunc fieret, si fieret: aoristus autem SIGNIFICAT rem ita esse comparatam, ut  e vestigio possit perfici et abaolvi. Avto tovto icatipa minus recte Stallbaumius censet  idem plane esse, atque natipct  avto tovto, oitep l6tw. Neque  recte Schleiermacherus verba convertit: Wie wenn ich nach ei nem  Vater selbst fragte. Schulthessius eodem fere modo: wie wenn  ich grade vom Vater ftagte.  Avto tovto sequente uomine articulo tuo destituto significat, vog, ov; tfæs av 6>'j xov (iot, d IfiovXov xa%w$  axoxQlvaO&at,, oti t&ziv visos ys V dvyccTQo s 6 xatrjQ  ittttrjQ • ij ov ; ITavu ys, tpuvca rov 'Ayafrwvtt. Ovxovv xai rf /tijtijQ ascevras; OfwkoysiOftut xai E   V  verbum, quod in superioribus commemoratum sit, nunc materialiter, ut verbo hoc utar, usurpari,  «t conversio audiat : Aber gleichwie wenn ichdas Wort Ttaxrjp  selbst aufnehmend fragen wollte cet. Plura exempla si quæris verborum materialiter positorum, indicata reperies in Indicibus*   tlitet av Stj itov poi, el  iftovXov* Ei ifiovXov positum est b. e. imperfectum tempus fiovXe6$cn verbi, quod ponitur velle Agathonem respondere, sed revera non fieri, ut voluntas illa respondendi se ostendat proptserea, quod responderi  nequit, ubi interrogatio nulla  proposita est. EhceS av rursus  eodem modo positum est, ut  paullo supra, significatque, Agathonem haud dubie dicturum esse,  si interrogatus a Socrate respondere vellet*   xai 7) pptpp gdS avtGD$ .  !i* e. Stallbaumius inquit, ovxovv xai nepl pjjtpos ooSavtaS  %X £L ? dubito, nam recte. Nam  ut taceam articuli ante prjxpoS  ponendi omissionem, quo carere  non possumus io huiasmodi enuntiat io ne, expletior oratio audit  potius: ovxovv xai r\ prjrrjp   vlioS ye rj SpyarpoS prjtpp.   o poXoy ai6$ai xai tov ro* Hæc tredecim Bekkeri codicum lectio est, mups apud eundem opoAoysid&a habet, tinus  &>poAoyai6$ rursum unus oi  yel<$$&   poAoyeidSaz. Editores excepto  Riickerto, qui opoXoyetdSai dedit, vulgatum opoXoyijdai in  ordinem verborum receperunt.  Hiickertus ad h. 1* aut opoXo yEioScti scribendum esse censet  aut 6fioXoyti6$G). Posterius,  inquit, propterea improbandum,  quia addi debebat, si hoc Piato  dedisset, <pavai vel alius dicendi verbi infinitivus, vpoAoyetdSai autem non habet, quod  offendat, modo passivum esse teneas: concessum esse, immo commendationis aliquid ex eo.  habet, quod in sequentibus quoque præsentis infinitivus opoA oysfa- et infra p* 20 1. A* «wpoXoyat imperfectum non aoristus legitur, Dedimus opoA oyau5%at codicum auctoritate  moti, nou quod præsens tempus magis nobis placeat, quam aoristicum tempus, neque magnopere curamus præsentis atque  imperfecti usum in sequentibus,  nam et imperfecti et floristi infinitivus in huiasmodi enuntiatis frequentissimus est. Neque admodum probamus illud conces- #  sum esse, quod haud scio, an  cuiquam satis probaturus sit Riickertus, Alia de caussa in textu  posuisse opoAoyatdSai libnit, videlicet quia proxime ad PJatoaia  manum accedere videtur, atque  viam aperit genuinam lectionem  restituendi* Etenim scripsisse Platonem arbitramur opoXoyatv nat  tovto, quæ scriptura quam fa- tovto. "En rolvvv, slnslv xov ZaxQ&xrj, dxoxgivca  oUym itltiu, Zvu fiaXXov xaxa/ice&ijg d |SovAof«a. si  yuQ ipotftijv, Ti 6i; ddsbtpbg avxb tovto oxsg %6nv,  ioxi xivog a$iX<pog, ij ov; Oavai slvai. Ovxovv  aStlyov ij ddsAtpijg; ' OfioXoysiv. JTugdi Si/, cpdvai, xal xbv”Egaxct slnslv. o "Egtog tgag ioxlv ovbsvog  SOO ij xivog ; Tldw [isv o vv ’i<Sxiv. Tovxo /ihv xolwv,  slnslv xbv Zu xguxrj, rpvka^ov nagd tiavztp fisg.v>]fitvog    cile potuerit xai, ut fit, incuria  scribarum dupliciter posito in  opoXoyeTtiSai mutari, e verbo maiusculis litteris perscripto patebit, Scriptum nimirum olim  exstabat: OMOAOrEINKAI KAITOTTOy ex quo factum est  OMOA OrElCQAlKAI TO TTO,  ei yap ipoiprjv, ti 8e;  d8e\<po $ avtu tovto oitep  iZdtiv* Optativo modo coninucto cum ei particula iubetur  boc loco Agatho sibi cogitare  ea, quæ revera fiunt, tanquam si  fieri possint. Utuntur autem hoc  dicendi genere ii, qui interrogare aliquem aliquid cupiunt, neque tamen interrogationem cautione adhibita nulla proferre audent. Nostrates dicere solent:  Denke dir einmal, ich fruge,  quibus verbis interrogationem  ipsam annectunt. Hinc vides,  ipsa interrogatione posita facil4 lime abesse posse supplementum,  quo in huiusmodi dicendi genere  opus esse interpretes passim annotare solent: ti av tpaitjS ;  Ipsi autem interrogationi, h. e,  non suspensæ ex aliis verbis, apprime convenit interrogandi signnm post ti de; Riickertus edidit ti dk adeXtpoS duabus de  caussis, quas nullius momenti  eise existimo: quod, postquam de matre dictum sit ovxovv ?/ pi\trjp cjSavtGoS;' ad ea commodius  adiungi videatur interrogatio ti  de a8e\(p6s ; quid porro frater,  quam ti de; d8e\g>oS, . . quid  autem ? frater ., « qua novi quid,  non tertium exemplum proferri  videatur, deinde, quod ea distinctio esse videatur librorum  omnium. Alterum nobis argumentum, quo probemus ti 86;  scripturam, hoc est, quod adeA(poS arcte cum insequentibus verbis coniungendumest; nam adeA<po$ avto tovto oTtep £($tiv nobis est: Das Wort a8t\(pu$ in  seiner absolutesten Bedeutung.  Hinc ne comma quidem post  adeXfpoS posuimus, quod in iis  editionibus comparere videmus,  in quibus posito interrogandi  signo, ti de; a sequentibus verbis disiunctnm est. Restat, at  de 8ad vocula dicamus, quæ h.  1. et apud Bekkerum et apud  Stallbaumium in di particulæ  locum substituta est. Aai non  ponitur, nisi ubi maior animi  commotio indicanda est, ut admiratio, indignatio, ira ; vide annotat 191* Merito igitur mireris, duumviros criticos eandem  retinuisse in tam quieto disputandi genere, quale hoc loco est  manifestissimum, CODEX BODLEIANVS exhibet aliique libri non otov ' roOovSe Se elice, itoregov 6 v Eg uq ixelvov, ov  $Onv 1’otog, exirtvfiel avrov, rj ov; Tlavv yt, (pavæ. Tlvtegov iyav avro, ov iiudv/tei re xal iga, elrcc  bu&vfiEL re xal iga, rj ovx lycov; Ovx iyav, costo elx og ye, tpavai. Uxoitet S>), ebttlv tov Zaxgar>] t  avrl tov elxvrog, el dvayxq ovrag, ro liri&vfiovv ha&v(iecv ov ivSeeg lOnv, rj perj eici^vuilv, iav iu ) iv~  deis r]. ifiol fiiv yag &av/ia0 rug dumi, co Idya&av, B    pauci ; non dubitavimus igitur  iu ordinem rerborum id recipere*  Idem Riickertus fecit.   c pvXagov itotpd davrc 5  fi£ pvrjpiv oS otov. Ilæc  verba hodierni editores plane  non distinguunt interpunctione,  iunguntqne Astius certe et Schlei-ermacherns sic : <pv\a5,ov itapd  0avT(fi nefivrjfiivoS tovto otov  *c. itiriv. Sed in hac interpretatione displicet nimis magno  intervallo a tovto pronomine,  quocum cohæret, divulsum otov  eo magis, quod, si a /iSfivTjfiero$ seiungendum est, sic nude  ac sine ulla vicina voce, quacum  coniungatur, vix ullus bonus  scriptor collocaverit* Addidisset  Plato, si ita verba accepisset,  idriv. Accedit, quod tovto h.  1. vix ad sequens aliquid, immo  ad præcedentem concessionem,  Amorem alicuius umorem esse,  referendum est. Quibus de caussis veterem distinctionem verborum, qua ante /.leyvipUvof comma ponebatur, revocavi. Est igitur sensus : hoc igitnr apud animum serva ( sc. alicuius esse,)  atque cuius sit, memento. Hanc Riickerti ad h. 1. annotationem integram perscripsi, ut  mclins possent, qui hoc libello  ntuntur, de ca iudicaro. Mihi  non persuasit V. D. Optime    Platonis verba convertit summus  Schleiermacherus : Dieses nun,   habe Socrates gesagt, lialte nocli  bei dir fest in Gedauken, wovou  sie (er) Liebe ist.   iit l$V fXEl OtVTOV. Dc  pronomine repetito vide annotat*  198*   oJs ro' elxoS y £ * Agatho  finem Socraticæ institutionis atque stragem futnram rerum suarum odoratus, nt haberet, quo  posset rebus perditis salvus elu-»  bi, quæ non poterant non concedi, e verisimilitudine dnntaxat  concedenda censuit* Hinc ojS  ro sixoS ys satis astute addit.  Sequentibus docemur, quam male  ei hæc res cesserit. Nam aVrl  tov eIhotoS, Socrates inquit,  videamus, eI avdyxrj ovtcjS x.  r. A. Ceterum verba dvx\ T ov  sixoToS brevius quidem dicta  sunt, neque tamen obscurius.  Sensus est: 2xoJt£i Si)    av tI tov A iyeiv d>5 ro elxof  ys, eI avdyxij ovtco S*. Convertenda verba sunt accentu orationis  in dxoitet verbo posito: Untersuche nun lieber, anstatt  dass du sagst, «wie es den An•chein hat,® ob nothwendiger  \Vei&c es sich so verhiilt*   S av/Ltadrdjs 6oxei, cJ   'AyaZtov, wS dvdyxrj tl* «6g dvdyxt] tlvca. <Jol dt noog; Kdftol, cpavai, doxel.  Kcd ag Xiysig. ciq’ ovv (iovXoit’ av tig fieyag av  fityccg tlvca, ij 1<>%vq6s av la%VQog ; 'ASvvmov Ix  ruv afioXoytjfiivcav. Ov yuQ xov ivdtijg av th)  xovtav o yt av. 'Alrj&tj Xiyug. EI yaQ xal  lG%VQog av PovXolto IcJyvQo g tlvca, cpavai t ov ZkoxQuzij,  xal xa%vg av za%vg, xal vyirjg av vyujs, S  yaQ 3v zig tavza oItj&uij xal nuvxa tu xocavta    v Oii, Non sine ironia quadem,  et quo gravius se opponeret Agathoni in re apertissima gqS to eIxoS ys dicenti^ Socrates verbis utitor SavpaQtGoS Soxei, goS avdyxtj  x. X. A. Ceterum Stallbaumius  ad h. I, Ne quis, inquit, miretur, tanto intervallo ab  juaoTcoS remotam, alia huius ge*  neris exempla notavimus Piat.  Phned, 95. A. Bastius Spec.  Crit. 139. $av/iadT<oSi ooS  verborum seiunctione a$eo offensus est, ut de loci veritate  dubitaret. Diximus de coS cum  aliquo adverbio coniuncti structura apnotat, 12., cuius structuræ originem qui reputaverit  apud se, is mirabitur magis adverbii cum ai? artissimam conjunctionem, quæ epud Platonem  veteresque scriptores Græcos sæpissime reperitur. Unum exemplum ut laudem coS ab adverbio  suo disiuncti, legitur in Piat.  Theæt. p, 157. D. Savpad Tt£(  (paiyexai cos fynr Xdyov .   ix r&r oa poXoyrj /livar.  Respicit Agatho ad verba ro iiti Svpovv iitiSvpelv, 'ov IvdsiS  idriVy ij fi?) iittSvyeiv, iav p?)  ivdelf y. Patet igitur, præsenti tempori dpoXoyovpivoov  hio non locum esse, quod vulgo  edebatur.   eI yap xal idxvpos < 3 *  fi ov \oit o . Socrates ad eum  iinem tendit, ut Erotem omni  ornatu privet, quo eum, qui ante  se locuti essent, donaverint. Et  cum iu superioribus esset judicatum, Amorem alicuius rei appetitum esse, cardinem rei nunc in  eo versari vides, ut, neminem id  appetere posse, quod possideat,  atque vice versa non possidere,  si quis, appetat, quod appetat,  probetur. In qua re ne sophistico quodam artificio circumveniretur, Agathoque ad indoctiorum hominum sermonem confugeret, qui cum alia male, tum etiam hoc sibi indulgeant, ut dicant iycj vyiaLvoav fiovXopai  xal vyiaivEiv, ipsum hoc dicendi  genus Socrates nunc adit, atque  quid sibi velit, exponit. Singula  verba quod attinet, anuotftt Riickertus ad h, 1. rectissime: Protasin ponit auctor, cui deinde  parenthesin subiungit, qua rationem reddat eorum, quæ in  protasi dicta sunt, atque cur  liceat ea ponere, ostendat. In  qua quum plura fuissent dicenda, ita ut etiam periodi complures existerent, non potuit  simpliciter reddere protasi apodosin, sed novam instituit: aAA*  Ztav tiS Xiyy } quam deinde sequitur apodosis, qua quid tali ho- zovs ovras ta tolovtovs xai iyovxag ravta rovrov, C  ancg $x ov(Sl > tTCL&v^iuv. iv’ ovv (irj e^axart]d‘d (uv, rovrov tvtxa Xtya. rovtovq yccQ, w 'Ayaftav, d  Ivvodg, £%Uv fiiv exaOrov rovrmv Iv rai naqovri,  avctyxrj, a %ovtftv, lav re fiovXavtai tav re p 17, xai  rovrov ye 6 rj tcov rts av haftvfirjætsv ; aXX’ orav ng  Xiyy, ori ’Eya vyiuLvcov fiovXouat xai vyialvuv, xai aXov  tav fio vXofiai xai xXo vreiv,   mini respondendam sit, demonstratur. Est autem inter utramque protasin hoc discrimen, ut»  in priore ponatnr aliquis hoc dicere simpliciter atque sic, ut  plane non quæratur, fiatue id  rerera aut fieri possit, necne, in  posteriore autem, postquam demonstratum est, fieri posse, res  pro certa' et vere eveniente perhibeatur.   rovrovS yap, 0 0 'Aya$gjv, ei kvvoeiS. Hæc est vulgata lectio, quam præter  Riickertum omnes editores improbarunt. Pauci sed ii optimæ  notæ codices rovtoiS exhibent»  Utrumque ferri potest atque commodissime explicap, sed magis  placet accnsativus casus, ei ivYOErS Ruckertus cum nostratium formula comparat: verstehst du wohl? quæ formula cum Græca nihil commune habet, quam verbi finiti usum absolutum, ei iv- YoeiS potius est: si sapis, wenn  du verstandig sein willst.  .xa\ rovrov y e dij itov  r is av litiSv p.rj6eiev . Sic in omnibus editionibus legitnr, neque quicquam verbis inest, quo offendaris. Sed quæritur, an non  facillima accentus mutatione scribendum sit: »al rovrov ye 6 r}  nov us av ixi&vjLt?j(Seiev, quo    xai eni9v[ia avriav rovrov, Scriptura orationis accentus in  ijttSvpijtieiev ponitur, significantiusque indicatur, ne cogitari  quidem posse, ut aliquis, quod  possideat, id possidere cupiat. Ceterum Stallbaumius annotat ad  hunc locum : Refertur rovrov ad  prægressum exadrov rovrajv, a  ix.ov6tVy ita ut iu universam intclligendum sit o Rectius,  opinor, Mxetv suppletur, quo facto luculentior fit insania eorum,  qui et habent atque illud ipsum  habere concupiscunt»   iytA vyiaiveiv (iov\opai jcal vyiaiveiv. Vulgo  Tccci deest ante vyiaiveiv et  ante irXovreiv. Idem Ficinus in  conversione non agnoscit: At  ego, sanus dum sum, volo equidem sanus esse, et dives dum  sum, esse dives. In ordinem  verborum voculam recepit Stallbaumius Bodleiani codicis aliorumque non paucorum librorum  auctoritate motus. Frustra Riickertus ad h, 1. : Profecto dubitare, inquit, aliquis possit, an  Platonis manus xai particulam  addiderit. Kat enim ut aliquem  sensum hoc loco habeat, addendi  vim habere Oportet. Iam quod  additur, non potest esse to  vyiaiveiv et ro likovreiv, quis  enim ferat dictum; Ego qui sa- a i%a, £xoijisv av avta, ori Zv> to avdpmxe, n).ovD tov xtxTTjtuvos 'Ma vytuuv xcd l(S%vv (iovXu xal ilg  rov ibici ra %qovov rubra xexrij<f&cu ' insl Iv roJ ys   VVV XttQOVTl, tltl (iouXu £LTB flT], fjJStg. (SXOXEl OVV, OTUV   tovto Xiytjg, ori Esn&v^ito rixiv naQovrcov, ei ccXXo n  Xiyus V toSe, ori BovXofiai ra vvv xaQovru y.cd tig  tov Zituzu xqovov TtccQtZvai. aXXo n ofioXoyoi av; X vptpavai ¥qnj rbv Aya&ava. Ebttlv 6tj tov 2koxQutt],    nos sum, copio etiam sanus esse?  Immo hoc licet: Ego qui «ura  sanus, etiam cupio ut sim. Quod  igitur additur, To (iovAt6$ai  est. Iam quæritur, liceatne sic  post illam vocem, cui additur,  xai particulam collocare, Addita xai particula optime habet  hoc loco, quo id agitur, ut error  eorum clarius appareat, qui huiusmodi dictione utantur.   aWo ri o/ioAoyol av;  o ti cum vi hoc loco ponitur, cum in præcedentibus iam  eo usus sit scriptor Cxotcei ovv  ei «AAo ti XfyetS rj tovto.  Non raro autem Græci r/ cum  suis verbis omiserunt in interrogationibus brevitatis studiosi  atque nolentes, quæ facile ab  auditore suppleri possent, eadem  disertis verbis commemorare.  Sic nostro loco expletior oratio  uudiret: «rAAo ti ?} tovto d/*oA oyoi av ; Factum deinde est  usu loquendi, ut etiam in eiusmodi interrogationibus aAAo ti  ponerent Græci, in quibus nihil  cogitari potest, quod cum ?] supplendo suppleretur* *w4AAo ti  igitur, recte annotante Matthiæo  Gramm. ampl. 487. 9.  914, interrogativæ particulæ  vices obtinuit, ut cum vi ex*  pvimeretur, rem nou aliter se    habere, atque in interrogatione  expressa sit. cfr. Piat. Hipparch.  226. E* <rAAo ti ovv oiyi  <piXoxep8iiS <pi\ov6i to xipdoS;  Piat. Charmid. p, 167. B. aAAo  ti ovv s tavta Tavra av elrj fiia TiS iitldTlj/irf ; Vide præterea Hensdium Specim. Crit. in  Piat. 59«, Stallbaumium ad Euthyphr, 104, Paullo infra  200. E. aAAo ti S&etv 6 "Epcof   Itp&TQV p\v TlVCJVf httlTCL TOV  tgdv, G)v av iv8nct rtapij avtw ;   ovxovv tovto y * &6x\v  ixeivov ipav. Vulgo post  ovxovv 6 1 / particula additur, quæ cum iu plerisque codicibus  non reperiatur, e textu semota  est a EeLkero, Astio, Stallbaumio.  Btickertus, ne parum verecundus  videretur librorum auctoritatis,  uncis 8 7f includendum curavit,  quod nisi codicum auctoritas obstaret, in ordinem verborum recepturus fuisset,   u o viteo itoijiov avTtjj  i6tiv ov8h Sanissi mam horum verborum distinctionem deleto post Zxett posito poat  &6tiv commate Kiickertus corrupit. Negat autem V. D., to  iis tov hteita xpovov tu  vvv Ttapovra esse posse tovto  pronominis defiuitionem accuratiorem, quod ipav ixeivov non Ovxovv tovto y’ l6rlv ixelvov Igdv, o ovito eroipov  avrei Itiriv ovde S%u y ro elg rov Situra %gbvov ravra  tlvai cwtc 5 Oco^opsva r a vvv itagovra; Tlaw ye, cpa- E  vai .Kal ovrog aga xal aklog itdg 6 hu&v[uov rov  pr] iroipov liudvfjLSL xal rov [irj itagovrog, xcd o /u?)  Syei xal o [it] Sdriv avzog xal ov tvderjg i<5n y roiavz  arra iti tlv cov 7] hnftvpta rs xal 6 Sgcog Itiri. Tlaw  y, elituv. *Iftt di]\ tpavat rov 2koxgazr] y dvopoAoyrjtiarespondeat, tat elvai, sed r»  fiov \s 6$ a i elvai ravra avrc o 6co%6fUva. Fugit autem Riickertum e verbis præcedentibus  fiovXopai ra vvv itapovra xal  cis rov Mneita xpovov xapcivai  nostri loci verba petita esse ita,  ut, quoniam proxime præcedat  fiovXopat verbum, id ipsum e præcedentibus facillime supplendum omitteretur. Conversio verborum hæc est: Also bedeutet  dies eben, namlich ( vide annot.  59.) (dass auch fiir die Zukunft der gegenwartige Besitz  crhaltcn werde, das bcgehren,  vas cincm nicht zu Gebote steht  und er nicht liat. Ceterum ut  apud nostrates, ita apud Græcos  pronomen relativum et subiectum  est et oblectum enuntiatiouis,  cuius rei inde petitur excusatio,  quod sive accusativum sive nominativum posueris, forma pronominis eadem manet.   xal ovtoS dpa xal aAX.oS it a S o* i 7Ci$ v /x at v rov  p t} kzoipov IkiSv pcl x.  T. A. Ne loquacitatis Socratem  nccoses, qui commemoratis rov  pr) kzoipov verbis insequentes  definitiones reticere debuisset:  hoc agit vir providentissimus, ut  ancoras penitus præcideret, quibus peritura Agathonis navis teneri atque servari possit.,  Sy, (parat tor Sco*  xparrf. Utitur nunc Socrates  ad refutandam Agathonis sententiam hac argumentatione: Quæ  cupimus, inquit, ea nondum possidemus. Amorem autem cum  dixeris pulcritudinis cupiditate  teneri, necesse est, eam ille non  habeat. Alioquiu enim non cuperet. Quum autem pulcrum atque bonum idem sit, caret Amor  etiam bono. Stallb»   av opoXoyijdoops^a ra  clprj pev a h. e. repetamus,  quæ hucusque dicta sunt  ita, ut eodem modo, atque hoc factum est paullo  supra, de iis inter nos  conveniat. Haud raro Græci  scriptores brevitatis studio verba  ita commutant, ut pro verbo linito cum aliquo adverbio vel  adiectivo coniungendo verbum  ponant eiusdem atque adverbium  radicis. Sic paullo infra 202.  A. legitur prj roivvv avdytca^e,  o pi) xaXov idtiv, alCxpdv £tvai x. r. A., ad quem locum  vide annotat.   dXXo n l6nv 6 *EpfoS.  De trAAo ri significata atque de  jj particula omissa vide annotat, 238.   iit e ira rovratr* His verbis accuratior continetur definifu &a ru dQtjjikia. iikko n ItStiv 6 'Epos xqotov (ihv  SOI TLvdv, Ibuira tovtuv, av av SvStia rtaQy avta; Neu,  tpavui. ’Enl Si] tovtoig dvafivrjG&Tjri, Tivav tcpyO&a  iv tiS koya tlvcu rbv ’ 'Egma . d Se fiovkti, iyd Ge  avuiivijGa. oinai yaQ <Se ovrwaL itag dntZv, ou roig  &eolg xatsGxBvuG&r] ra XQuyfiata Si "EQana xakdv’  mlo%Qav yotQ ovx Biy 'Epcog • ov% ovtaxsi mog Hkeytsf  Ehtov yuQ, cpavai rov 'AyaQavcu  Kut limixdg  ys kiysig, d izaiQB, qtuvai tbv ZaxQazr]. xal tl  tovto ovxag cikko w 6 "Eq os xalkovg av tiij  tio eornm, qnorom Amor amor i,  desiderium est. Sensos est : Erstlich ist Eros Liebe eu etwas (vide 200. A.) uud das ist zweitens das, vroran es ihm gebricht.  Ceteram ne mireris, cum ia superioribus Socrates simplici verbo  semper usos esset idtiv in eiusdem sententiæ efformatjone, cur  nunc compositum 7tapy exhibeat: itapeivai hoc loco non  attributum describit, sed aliquam  Erotis conditionem internam, sine  qua ille ne cogitari quidem possit: ein Mangel, der ei ne fiedingung ist seines Wesens,   ei dfc povXei* Duplici  modo consilii mutatio apud Platonem indicatur, aut enim pix AAok di ponitur, de quo supra diximus annotat, p* 15., aut ei Sl  fiovXei. Multum interest autem,  utrum hac an illa dicendi forma  utaris» MixXXov 6i poni solet,  abi res e loquentis iudicio apta  est, qui vel ipse se corrigit, vel  alium, nt se corrigat aut aliquid  mutet, adhortatur. El dfc fiovAu autem non nisi ita usurpatum reperies, nt loquens suum  iudicium ab re prorsus secludat,  omnem alius voluntati liberrimæ    subiiciat» Sic nostro loco Socrates, quicquid Agathoni placuerit»  id se facturum profitetur. Contra 173* r\6av roivvv rota de* paXXov di apxtjS vfiiv  itEipa.6op.ai StTfyTjdad^at.  Apollodorus mutato consilic rectius se acturum censet, si ab  initio rem narrare studeat.   aidxp^y y&P ovx elrj  v EpajS, Dixerat Agatho p, 197B. oSev 6t) xal xaredxevddSrf  tgov $egjv x a 7tpdyjiata ”EpGQ~  roS lyyevofikvov 6rjA.ov ori  xaAXovS. aldXEt yap ovx htedriv "EpcoS. Hæc Socrates cum  minus accurate repeteret, verba  addidit ovteodi TtcoS, Ceterum  scriptum exspectaveris: aldxp&v  yap ovx eivai "Epcora* Optativo posito scriptor aliquid indicare voluisse videtur, quod ad^  missa accusativi cum infinitivo  coni aucti struetnxa prorsus periret atque evanesceret. Hac  nimirum structura verborum nihil indicat scriptor, quam sententiam eins, qui priori tempore  locutus sit, nunc referri* Optativo contra, qui præcedenti accusativo cum iufinitivo conjuncto annectitur, etiam verba il- ?gag, ai(S%ovg d’ ov;  'Slf/Myti. Ovxovv ofioluyijTca, ov tvdcijs t<5u xal Ifca, rovtov Iguv;  Nal, ihtilv. 1 'EvSsrjg &Q* xal ovx %%u 6 'Egcog B  xaXXog. ’Avdyxr}, epuvui. Ti 8 b; to tvStlg xdXkov e xal (iijCufiy xsxTtjfdvov xaXXog aget XiyEig 6v  xaXov tlvai ;Ov Sijra. "Eu ovv onoXoyd g "Egatcc xaXov Eivca, d reditu ovrag  Kal rbv ’Aya&ava dittZv, KevSvvevco, to ZXbxQareg, ovdhv sidi  T t r ~T7~ \ s . . T f T    vai ov tore euzov. n.ca prjy  ’Ayuftov. alXa tiptxQov   lius referri significat, ant si  hæc non repetantur revera, tanquam talia, qualibus ille usus  esset, referri. Ubi autem ipsa  verba laudantur, aut tanquam ipsa,  consentaneum esse videtnr eum,  qui ita loquatur, illis verbis malus, quam aliis, pondus tribuere*  Jam si reputamus, Socratem id  agere, ut ostendatur, Erotem polcro bonoque prorsus carere, eam  potissimum Agathonis sententiam  ab eo tangi consentaneum est,  qnæ huic consilio maxime officeret: aldxp &Y Y<*P ovx  ^7t£6riv M EpcoS. Verba convertenda sunt: Denn ich meine,  dass du ohngefahr folgender  JMaassen sprachst : dass die Angelegenheiten der Gotter dnrch  den Eros znm Schonen vollkomxnen in Ordnung gebracht worden waren, denn des Ilasslichen wiire kein Eros.  Eadem prorsus verborum structura apud Xenophontem repentur Hell. III. 2, 23. dxoxpivafjiivcov 6e tc3 v * HMdajy, ori ov  7tovj<Seiar xotvra • iittXrjtS aS  y a. p i xoi&v r a S tiqXeiS*  <ppovpav iqnjvav ol upopoi.  Dixerunt autem, ut videtur, Elidenses: imXrjidaS yap Uxopev    yt umg, <puvcu, o  thd • rayccfta ov udi C   x aS 7Co\eiS. Adde Hell. VT*. 5.  36. o 6e itXndroS ijv XoyoT, cJ?  xara xovS upxovS fiorjSriv dioi.  ov ydp ddixj/tidvTGyv 6(pd>y  ijttdparevotey ol 'Apxadss xal  ol ptr * avrcjy xoiS AaxeSaipoyiotS • Præter hos Jocos alios  nonnullos Riickertns laudavit anmotat. ad h. 1., quam vide.   ov ivSeijs idri xal pi)  Non opus est, ut accusativum pronominis relativi repetas e prægresso ov genitivo;  verba enim xal p?j ixei posita  sunt usu Græcorum liaud infrequenti pro wSre p?j Ixziv; p?}  IjttV autem absolute positum  est, atque nihil nisi meram verbi  ZxttY notionem negat  xal prjy xaXco $ ye el7teS. Annotat Riickertus ad b.  ]*: Et tamen pulcre quidem dixisti. Laudaverant omnes convivæ Agathouem, ut qui pulcre  et præclare dixisset, nec minorem, ut videtur, ipse de se habuerat opinionem. Quare quum  postremo eo sit deductus, ut nihil se scire confiteatur eorum,  quæ tum dixerit, hæc subiicit  Socrates; quibus quanta sit- ironia, qua et ipsius Ag?thooi« fa16    f  y.uMi Soy.EL aoi ilvai; 'E/ioiyt. EI ccqci 6 "Eq ® g  rcSv xaJhov IvdsrjS ^OTl, tu di ayn&cc xaXu, xav tuv  riyuftuv ivdltjS sttj. Eyd, (pctvca, oJ EdxQOlig, 6oi  ova av Svvcdfirjv uvrdiynv, ais.’ ovtwg ^trra, dg Gv  tiyug. Ov fiiv ovv ty dhftilu, qjavai, d tpUov/iEvs  ’Ayaft av, dvvaGat. civuliyHV Inii Ecoxqutu yc oudiv %ttkiit6v.    stus et amlitornm vani opplansos perstringantur, etsi nemo  non debet sentire, tamen locum  plane non intellectum video a  Schleiermacliero, qui verterit :  Gur recht m a g s t du daran  wohlhaben. Tmrao vertendam :  Und da hast ia doch tchoo gesprochen. Socrates acerrimus  haud raro eorum cavillator, qui  fasta maguiloquentiaque vanitatem suam obtegere studebant,  mitem iis statim sesc ostendere  solebat, qui errores suos confiterentur. Quod cum præter exspectationem subito fecisset Agatho, homo alioqnin pollens ingenio, xai fxt}v xa\wS ye elzeS  verba Socrates ita exhibuisse  consentaneam est, ut id remissa  omni ironia atque cavillatione  fecerit» Rectissime igitur Scbleiermacherus verba cepit, ad quem  Riickertus recurret, quando desierit nat fitjv et tamen interpretari. Vide annotat, 6»  rdya$d ov xat x aXd x.  r. A. Habes syllogismum per  inversionem, quo qui utantur,  id agunt, ut alterum membrum  enuntiationis, quod priori loco  positum atque in conclusione repetitum est, præ ceteris verbis  extollatur vique augeatur. Ilem  quod attinet, concessa pulcri bonique æqualitate Agatho gravissimam stragem suæ orationi ipse    intulit, eiTecitqne, ut ne bonus  quidem Eros esse diceretur. Xam  mireris vel inertiam Agathouis,  qui noluerit, quod argumentis non confirmatum sit, id itnpuguare, vel Socratis negligentiam, qua non argumentis probarit, quod ab Agathone impugnari posset  facillime: bonum idem esse atque pulcrum» Sed monendum  est, Græcos boni pulcrique notionem ita animo conceptam habuisse, ut alteram ab altero seiuuetum non cogitarent. Quod pulcrum, iisdem et bonum fuit, neque bonum iudicatum est ab iis, quod nou et pulcritudine gauderet; Ilinc Socrati uon metuendum erat, ne forte Agatho negaret, bonum idem esse atque puierum, adeoque argumentis sententiam confirmare supersedere poterat, ut si addidisset, nimia  sedulitate id factum auditores  existimaturi fuissent.  i y co do i ovy< dv 8 v •  vaiyLi}v dvxiXkyziv, Utrumque et non pulcrum et non  bonum Erotem esse, Agatho concessit sed diverso modo. Non  pulcrum, sincere et candide, non  bonum, adhibitis sophistarum artificiis, ut non rem ita esse concederet, sed suam disputandi imbecillitatem confiteretur. Igitur  accentus orationis in vocalis €yoo  et doi ponendus est, quns *cri~  I   Kal fl£ n&v ye tfdrj hx<Sa> • tov 6s Xbyov rov xtfA D  tov "Eqcjtos, ov jcot’ jjxovect yvvcaxbg Mavttvtxrjg zhotlfiag, ?} tccvtu te <Socpr) i] v y.al aU.a aro Xla, v.al  ’J%qvaloig note dvaafUvotg arpo rov Xoifiov Stxa foj    ptor, quo validius præ ceteris  verbis eminerent, ipso enuotiati  initio collocavit» Sensus est: Mea imbecillitate, non falsitate sententiæ meæ factum est, ut ego a te,  homine peritissimo disputandi vincerer. Verborum  conversio hæc est: Ego, (homo imbecillis), tibi, (peritissimo disputandi) (etiamsi vellero,) contradicere non  possem, sed (vincerer, st contradicerem, igitur) res se habeat, ut tute dicis. Ad verba ovx ar bwaipjjV supplendam est, ut in conversione  indicavimus, ei xal fiovXoifitjri  soletque haud raro in enuntiatis  conditionalibus alterum enuntiati  membrum omitti; exemplum huius omissionis si quæris, vide  annotat, p, 201. Pro aXXa particula aliam exspectaveris, quæ  non oppositioni, sed conclusioni  indicandæ inserviat. Ni fallor,  brevitate quadam dicendi Agatho usus edt, quam commotiori  eius animo apprime convenire arbitror. In loci conversione indicavimus, quomodo verba expleri possint atque a\Xa præpositionis usus excusari. ov ovv tp aXtj$ eip  h. e., Stallbaumius inquit, imo vero cobtra veritatem non  potes disputare: nam con tra Socratem tibi facile est.  Ov f.ibr ovv voculis  Socrates ita utitur, ut indicet,  recte quidem Agathonem negasse,  sed non in re negationem adhibuisse, quæ revera necanda esset.  Exprimunt igitur ov fikv ovv  voculæ lenem correctionem h. e.  rectiorem interpretationem prægressæ sententiæ, quæ aliquid  veri contineat, sed cum veritate  non prorsus conveniat. Das  heisst also, lieberAgatho, du Jcannst der Wahrheit nichtentgegen sprechen, deun dera Socrates  ist es keine Schwierigkeit*   xai p£vyei/8y£d~  ($<o. Respicit Socrates ad  199. B. Uri xoivvv  n apeS  fioi ’Aya$&iva dpi?cp * artet £p£~  6$ai X. r. A. > ut verba nostra  significent: Ac te quidem,   quem pauca quædam interroga rp me velle supra  indicavi, nunc mittam.,o rror* rjxovdaywaixo S MctvtivixijS. Vulgo pavttxr/S legitur; illud pauci sed optimæ nolæ codices commendant. Vulgatæ scripturæ originem solertissime indagatus est Stallbaumius: Vocatur, inquit, Diotima  Mavtixi } ut infra 211. D.,  quum proprie deberet Mavtivif *  16  avu(ioXr)V Inolrfii rrjg votiov, rj drj xcd Ifie r a tgat <x« Ididafcev, ov ovv Ixtivtj PXtye Xoyov, nugaOoaude factum est opinor, ut grammatici scriberent / lavxixijS. At  enim solent nomina possessiva  liaud raro occupare locum nominum gentilium, de quo loquendi  genere vide Davis* ad Max. Tyr. \  p, 588* et Fischerum ad Welleri Gramm. Non recte autem addit V.  D. : Neque eatis ad rem accommodatum est, quod vu/go lege batur, f.tctvziH7}. Quæ enim Viotirna de amore disputasse narratur, ea non vaticinandi arti  debuit y sed ingenii sui præstantiæ ac virtutis. Eodem enim  iure cogitare possis pavxiKt) positum eæe, quo scriptum legitur  paulio infra dvaftoXrjv inolyde  tijS vodov, neque necessariam est, ut, cum dicatur orationis  auctor fuisse mulier fatidica, vaticinandi arte orationem compositam censeas. Porro mulieri  eique peregrinæ datam esse orationem hanc, ut convivæ rideantur, qui, quum divinioris amoris  vim et naturam plane non caperent, tamen in dei laudibus  celebrandis mirifice cxsultareut,  Stallbaumio non credimus. Quem  enim pudeat a femina meliora doceri, cuius sapientia præclaro facinore, h. e. dvaftoXy  TtjS vodov probata sit, et quam  ipsius Socratis, sapieutissimi hominis, magistram fuisse, huius loci verba testantur. Num Periclem  autipsum Socratem puduit Aspasiæ  Milesiæ præceptis edoceri ? Addit Stallbaumius: Cur Diotimæ  potissimum has parte* Plato tribuerit, neque Aspasiæ aut alii  chidam nobili feminæ illius ætatis, id quidem exquiri nullo  modo potest propterea, qnod a  scriptoribus æqualibus aut snpparis ætatis de ea nihil memoriæ traditum est. Quæ autem  seriores scriptores de eadem narrant, ea maximam partem ex hoc  ipso loco hausta, aut temere conficta-esse, exploratum habemos.  Quæ quum ita sint, hoc uuum  tenendum putamus, quod, ex hac  oratione discimus, fuisse eam  mulierem prudentia et vaticinandi  arte nobilem, quæ quum diutias  Athenis esset aliquando commorata, magnam nacta esset sapientiæ famam. Diximus de  Diotima Mantineensi in Comment. de Symp. Platonis, ubi, curStallbaumii iudicio non adstipulemur,  indicatum reperies.   xal 'AStjv aioiS 7torh  $vdap£voiS repo rov X.o tr pL o v . Pestis Atticam terram invasit Peloponnesiaci belli anno  secundo h. e. a» 450. Impetum  in eandem fecisse etiam a, 440»  ex hoc loco colligi possit; cfr»  Thucydidis L» II. c. 47* p*  214. ed. Haæk. xod ovtoov avtcjv (sc. tcov Aaxedcujuovlcor)  ov noXXds 7 Cgj rjpepaS iv xy  *Axxttc\} ij vodoS Ttpcoxov ypBfCtxo  yevkd^at toiS *A$rjvaioi$ Xey o/t ev ov xa\ icpotE pov it oWaxo 6'E iyxotra.d x f/il* a i xal 7tspl Aijpvov nai  iv dXXoiS Pro $v dajiivoiS H. Stephanus scribendum coniecit Svdapevy, videlicet ut esset, quo explicetur ratio et modus xrjS avaftoArjS.  Frustra, Suspicari licet, quo  l wa vpXv dtfXfttlv l x tav dfioKoyrjfihov Ifioi xctl  'Ayaftcovt, avtog l%* ificcvtov, oncog av dvvofiat. d'ec modo retere* pestem abigi potaisse crediderint, mutare verba  eo minus licet, quo certius est,  .Platonem ipsum xijs avafioArjS  modum indicare noluisse.   ov ovv ixeivrj £\eyev .  Redorditur abruptum sermonis  filnm ita, ut, quæ illustrationis  caussa addidit, ca nunc paucis  comprehendat illata particula ovv.  Nam omitti poterant hæc: ov  ovv ixeivjf £A eye Aoyov. Sta11b.   avxoS ix * ijiavx ov. Vulgo legitur avxoS an* ipavxov ;  illud Bastii coniectura est, quam  præter Riickertum editores omnes  iu textum receperunt. Riickertus autem avxoS an* ipavxov  ita explicat, ut nolle Socratem  contendat reliqua ex alio elicero  per colloquium, sed quæ audierit, ex se ipso proferre ano  jAVTjfiTjS. Sed aligd est an* ipavxov, aliod avroS an* ipavrov t atque illis verbis concedimus sensum, quemRuckertus ait,  inesse posse, verbis contra avxoS  <x7t* ipavxov nihil aliud exprimitur, atque mea sponte,  AvtoS in* ipavxov legitur io  Piat. Alcib. I. p 114. A. el p\v  fiovÆi, ipoox&v pe, Ssnep iyco  6 e, ei 61 xal avxoS ini 6avtov, \6ycj 8ie&e A£e, quo loco  ex oppositis colligitur, avxoS ini  (jctvxov esse: disputatione  remissa, continua oratione aliquid proferre.  Probatur hæc verborum significatio etiam Piat, Soph, 217.  C. itoxepov elcoSaS fjSiov avroS ini davxov paxpti A oytp  dteSttvai Æyajv topro, o av    iv8ei%a6$al xcp ftovAjjSpS, rj  6t* ipcjx?f(jeaov, x. r. A. Igitur  hoc loco cum ceteris editoribus  avxoS in* ipavxov in ordinem  verborum posuimus. Schleiermæberns verba convertit: vou  dem ausgehend, woriiber ich mit  Agathon iiberein gekommen bin,  sonst aber ganz fiir mich allein, s o gut ich eben kanu. Sensas es* potias: N&chdem ich mit  Agathon iibereingekommen bin, werde ich versnchen, Diotimas  Rede in einer zusamrænhangeuden Darstellung euch iviederzugeben. Verba autem ona>S av  Svvcduai excusantis sunt orationem minus elegantem atque incultiorem; quæ verba, quoniam  Socratis dictio bona est et recta,  in eorum orationes convehuntur, qnæ nimia cura elaboratæ  sunt atque inutili ornatu condecoratæ.   &snep dv dirjyrjd co . cfr.  195. A. ovrco 6rj z6v"EpGoxa  xal ijpds dixaiov inaivedai  npdoxov avxov, olds idxiv, innixa xaS doOeiS.   Eiepa xotavta iÆyov.  n ExepoS vocis significatio primaria est: alter: respicit igitur  ad alterum, qui alteri vel similis est vel dissimilis. Hinc iit,  nt ixepoS diversum denotet,  cuius notionis exemplum est  Sp mp. 186. B. Zxepov xe xal  pcvopoiov i6xiv . Nostro contra  loco, ubi similitudinem inter alteram et alterum exstare comparatio instituta docuit, ixepoS  verbum fere idem siguificat.  Recte Stallbaumius verba con- 6>), m 'Ayct&av, agntg Gv 8iryyi)&», 8uX%t tv ainbv  jB ngatov, xlg iGuv 6 "Egeo g xal nolo g ng, Inura xa  igycc ccvtov. Soxst ovv fioi gnGxov tivai ovrca ditXSftlv, as xtox' kfie rj £,tw) avaxgivovGa Snju. GytSbv  yag xi xal lya ngog avrfjv triga toutvta D.tyov,  olccntg vvv ngos (fit ’Ayd9av, as &>1 w *Egas ptyas    &toS, ili) 8t zav xaXav.  koyoig, olgntg iya rovtov, vertit : itidem talia. cfV.   Gorg. 482. A, vo/iige toiwv  xa l nap* ifiov xPV y0( * £xepa  rotavta dxoveiv % Adde Protag. 3^6. A. Interdum comparatione admissa nnlla exepoS novæ rei accessionem denotat, at  in Alcib, II. p, 138. C. tcepot  rtpoS xoiS vnapxovdi xaxijpd ro, h. e„ nova mala præsentibus  addidit precando. Ibid. 149.  evprjdEiS de xal nap 9 t Opijp<p  &c£pa itapanXijdioc xovxoiS elpr/pfra,   p£yaS SeoS, Sydenharaius  dyctSoS $£of scribendum esso  censuit. Nisi fallor, minus est  «pitheton, quo omnia continentur,. quæ ab Agathone Eroti attribuuntur, quam 5eoV substantivum urgendum, Quamquam enim  in proximis de epithetorum veritate agitur, tamen de iisdem  iam disputatum est in superioribus, Nunc retractantur eadem, ut facilius ad sententiam  eam aditus pateat, qua deum esse  Erotem Diotima negat. Insequentia verba rectissime Stallbaumius  interpretatus est: KaXcjv, inquit,  pendet ex "Epeo? t quod etiam hio  positum est, ut Ip6. D. Adde  præterea 204. D. l<$n /ily  ydp 6tj Toiovroi nal ovtcoS  yeyorwi q "Epca*, $dxt 8k xooy    rjXtyyt di) fit Tourotg rotg  ag ovxt xaXog tii ) xatci   xaXcSy. cfr. annot. 209.  Verba convertenda sunt: Dass   Eros ein prosser Gott, und dass  er die Liebe des Schdnen sei.   ovx ev deis . Rii ckertus ad hæc verba h. e. inquit; bona verba, quæso. Dubito, nuru recte. Bona verba  apprime respondet nostratium :  Nur gemacli, nicht za liitzig, iisque verbis utuntur, qui iratos,  minitautes, iuiuste accusantes illudunt. Sic Davns in Andr. Ter.  Act. I. Sc, II, v. 33. cum herus  dixisset; ubivis facilius passus  sim, quam in hac re, me deludier, Bona verba, quæso, respondit. Cui herus rursum; Inrides, inquit, nil me fallis. EvqxtjpElv verbo respondet Latinorum favere linguis, utrumque autem dicitur, ut sibi caveat aliquis, no mali ominis verba  pronuntiet. Sic in Piat, de rep.  I. 329. C. f cum aliquis Sophoclem ætate provectiorem iuterrogasset Ixt oloS X * el yvyaixl dvyyiyvedSat, respondisse  ille fertur; LvcpijpEt, qj avSpGD1 te. Adde Alcib, II. 143. C.  *A\x. Evipiput npoS JioS, gj  2o oxpocfEf,, JS, ot; xoi roV A iyovxa, gJ UXxifipadtf, goS ovx  dv iS&ots: dot xavxa TtEnpd.XSaij Exxprjpeiv det de xeXeveiv,  d\Kd pdXX ov noXv ei xts tei     ' . ETMnOEION. 24 ?   tov 1/J.ov koyov ovxs dyu^og. xul iyui, /7ws ktytig,  k'(fr]v, a z/tortfta ; cda%Qo g uga 6 ’Ega g loxl xcd xaxog; Kal i/, Ovx tvtpTjyyOtis ; £<PV' V olet, <" xi av  fijj xakbv y, avuyxatov avxo uvul alaygov, Md- £oi  h&ca ye. *// xal dv yy <Soq>ov ctyaDig ; y ovx  yO&yOai, on latt n yuxu.lv <Soq>tæ xul aua&lag;   Ti xovxo ; To 6 q9cc do|«£av xal civiv tov I^hv  loyov Sovvai ovx oi<J&’, irpy, on ovx e hititix aGftui    ivavxla Xiyoi' iitel (67) ov' toj doi Soxei (jtpoSpa  8 e iv 6 v elvai r 6 7t p a y  fM)C f &ST 9 OUfifi f>7fTEOV   tlvai ovzcdS elxij x.x.X.   7 / xal av fxrj docpov df.ia3 Astios ij, qucd vulso  legitur, servandom duxit, ut quod  ad præcedens tj ^ *• 1,0   tn fortasse censes, referendum  sit. Frustra. Illic male vulgo 7 £  exhibetur, uostro contra loco 7  plena interrogatio est: Num etiam censeas . vide annot. Ceterum frustra huno locum vitiosum censuerunt viri  docti. Stephanus ori post 1 /  inferciendum censuit, Wolfium  ossentientem habuit. Stallbaumio  e superioribus zi repetendum videtur. Nos deleto post do(pov  commate pleniorem orationem  audire arbitramur: 7) xat av   otoio ’/«/ docpov apaSis ; vide  quæ dicta sunt 10. Probari  autem vides, quæ illic de r/ et  7 / dillercntia disputavimus; num  7 / 0 U 1 cum veritatis specie profertur, quam reddere latine possis fortasse. Ea veritatis species, ut mutata particula remaneret, ad verbum post 7 supplendum dv additum est.  xal dv£v tov ix etv ^oyov Sovvai. Stallb. HCCf    deleto, quod ab inepto grammatico additura censet, sententiam  verborum ait haac esse: llccte  indicare ita ut iudiciitui  non possis reddere rationem, nonne putas esse neque scientiam neque inscientiam? Cum eo Sclileierm. consentit verba convertens: Weun  mau richtig vorstellt, ohue iedoch  Ilechenschaft davon gelren zu  lednnen. Stallb. addit præterea  si xal verum esset, reliqua haud  dubie sic se habereut : xai 0*'X  £xeiv Xoyov Sovvai. Multo deterius Huchertus in explicandis  his verbis versatus est : AoB,a2,eiy  u/jSa xal dvev tov %x £iv  yov Sovvai h. c. : vel ita, ut  non possit, aucli ohne Reclienschaft gebeu zu kounen. Qu«  in sententia quum bene habeat  part. xai, nolim eam deleri, quæ  Stallbaumii coniecturafuit. Num  fieri posse censes, ut recte opinetur aliquis ita, ut rationem  reddere possit? Non credo equidem. Quid igitur sibi vult vel  ita, ut non possit rationem reddere? Aov,a apprime  respondet Latinorum opinioni,  8o&a?,eiv igitur opinari est.  Diilert autem opinio a iudicioita x  ut hoc cum ratioue iudicii couiuuctum sit. Qui opinionem habet,  nationem reddere uon potest. $6uv ctioyov yctQ nguyiui nas «v eYij ;   ovtt auccxHu' t o yaQ tov ovxos x vy%uvov nas «v &1  ccfta&lu; taxe 6i 6y nov xolovxov fj uq&i) 56|a, fiexa^v  (pQovrjGtas y.cu duu^dlug. ’A?.7]&fj, xyv 6 ’ eya, Jitytig. B Mtj xoLvw dvdyxage, o fiij xaXov laxiv, alaygov eheu,    False et recte opinari aliquis  potest, ut iudicare eum crederes,  si haberet sententiæ suao rationem. Fieri potest autem interdum, ut aliquis, qui rationem  reddere non possit, tamen interrogatus rationem reddat forte  fortuna repertam, non mente atque iutelligentia quæsitam. Iam  agnosce Platouis voluntatem, quæ  clarior fit suppleto ad roy  infioitivo \6yov 6ovvai." Sensusest: D i e ( zu f a 1 1 i g) ri chtigeMeinung and d i e ( z ufcillige) Angabe des Grandes, ohne eigentlich einen Grund augebeu zu  konnen, das weisst du  doch, sagte sie, dassman  diese weder wahrhafte  Wissenschaft, nochganzliche hn wissenheit nenn en kaun.   d\oyov ydp ^pctypct, h,   e. Denuein Gegenstand, derwirklich ohne Hechenschaft ist, (wenn  gleich dieselbe aus Zufall einmal gegebeu wird), wie kdnnte  der Wissenschaft sein? Nam qui  recte opinatur aliquid, rationem interdum reddere postest, sed quæ aliis sufficiat, 1 non sibi, ntpote quam mente atque jntelligentia non teneat.   ro yap tov ovroi xvy Xdvov, To ov SIGNIFICAT id,  quod revera est} id quoniam opponitur ei,, quod esse videatur  tantummodo, revera noo sit, factum est, ut ro ov absolutam veritatem denotet. Recte igitur Stallbaumius ad h. ]. ro ov idem  esse monet, atqne ro' aXijSte,  atque ne quis de ideis dictam  accipiat, caveri iubet. To tov  bvroS r vyxctvov autem non tam  eum animi habitam describit, qui  veri compos fiat, quam eius, cui  forte fortuua accidat, ut veri sit  compos»   £drt 61 8r} irov toiovtov, Convertit Schleiermacherus : Also ist offenhar»   Astius exhibet: Est igitur nimirum. Riickcrtus, qui de addendo post ToiovTov o v participio cogitat : immo est,  qu.um talis sit, vera opinio inter scientiam et inscitiam.  aJ£ particula neque  conclusioni indicandæ inservit,  neque est 6)j itov immo. Nescio, cur noluerint interpretes  verba convertere: Es ist aber  doch offeubar wohl cet.,  quæ verba ita dicta sunt, ut  præcedenti ovts - i<$Tiv,  ovte $6riv cum vi quadam  opponantur. Ac ne forte, quod  Riickerto acc disse video, t i  ante toiovtov additum desideres-, toiovtov nude positum accuratissime alicuius rei notionem  describit, ut prorsus tale aliqnid esse dicatur, quale insequentibus verbis esse significatur» Ti  addito pronomine indefinito vis  ilia minuitur, neque prorsas  talo aliquid esse indicatur, quæt    (njSs o (irj aya&ov, xaxov'  ixtidi] avros ujiokoyug (irj  (itjdiv tl liakXov oYov dsiv  rivai, aXXa n fiera^v, itprj  iya, ofioXoyuTal ye ttaQa   le sit aliud, sed ita comparatum,  ut fere tale esse æstimetur,  cfr* Piat, de rep. I. S40. E,  xoiovxov ovv drj 601 xai iph  VTCuXafte vvv ye drtoxpivcttiSai,  quo loco falsum foret atque Thrasymachi sententiæ contrarium roiovro»' n. Adde ib. IX.  590. E. Jrj\oi de ye, rjv o  iyoo, xai 6 vopos, oxi xoiovxov  fiovÆxai, tcu 6 i xoiS iv x y noA ei KvppaxoS gjv.   y,i} xoivvv av ayxaS,e,  Supra diximus annotat.  de verbis, quæ ex adiectivo  proprie cum elvat verbo aut ex  adverbio cum dicendi verbo coniuugendo conformantur. Mrj xoivw avayxage igitur positum est pro prj xoivvv avayxalov elvat A eye. Minus apte  Schleiermacherus verba convertit: Folgere also nicht,  neque recte Astius exhibet: Ne  igitur coutendas. Possis etiam alia ratione avayxa^etv  verbum explicare, quæ tamen  nobis minime probatur, ut avay xageiv cogendi potestate rebus  adhibeatur, quæ cogi ifequeunt,  quasi cogi possent : Zwinge doch  also Dinge nicht, die uicht sclion  sind, hasslich zu sein. Inverso  ordiue Agatho, cum neque turpem neque malum Erotem esse  intelligeret, pulcherrimum optimumque deum esse censuit. Ceterum o prj xaAov i<$ xiv idem  fere est, atque d pij xaA.ov elvca opoAoyovpev, de quo di  ovtfo da xai rov "Eqcoto:  rfvcu ayaftbv firjSi xaXov,  av rov aitJxQov xai xaxov tovroiv. Kal fiijv, r\v d’  ttccvzav [tsyag &ebs rivat.   cendi genere vide, quæ annotavimus 207.   ovxcj dl xai x 6 v "E p gj X a. Legitur ia nonnullis libris  6 rf pro de, neque confiteri dubitamus, illud quam hoc nobis multo  magis placere. Sed rectissime  ad h. 1. Riickertus ouXoj d?f, inquit, per se non male. Nam  quum a generali sententia nd  certum et deiiuitum aliquod subicctum transimus ita, ut,' <£uod  ia universum valeat, ad hoc  quoque pertinere doceamus, colligimus aliquid et concludimus,  idqne licet conclusiva particula  significare. At non est hoc ita  opus, ut tam exigua librorum auctoritate mutari quid liceat, immo  sufhcit etiam addidisse signum  transitus ab una re ad aliam,  quod fit de particula»   ceAXa xi pexaB,v, %(prj,  xovx oiv . M E<prf si abesset,  nemo desideraret. Cave tamen,  id otiosum censeas. Solet enim  dicendi verbum verbis apponi,  quæ ab eo dicta sunt, cuius  oratio refertur. Diximus de hoc  usu dicendi verborum annotat,  56. Hinc non mireris dicendi verbum duplex positam  v. c. in Sympos. 177. A.  <PaidpoS ydp kxddxoxe 7 tpoS pe  dyavaxx&v Akyei’ ov deivov,  qjffdlv, eo ’Epv£ipaxe, aAAotS  plv et quæ sequuntur Phædri  ipsa verba. Eodem modo 202.  C. legitur xai iyoo ebtov, vcgdS   t   i   Tia v f ii ) eldotoVj »7ravTG)v” Xtyeig /J suet tujv etdv rcuv; Sv^avrov {liv ovv. Kal i) yeAdOafSa, Kcd Ttvog  Sv, B(p)j, w IkixQCCTtg, vfioXoyoiro {ityccg fteog uvai   C TtCCQGC TOVtOV, 01 (pCCOtV CCVTOV Ovtil &EOV llVCi l \ TL~   Vtg qvtoi; y\v d’ tyfp- Elg (iiv, t<prj, <Sv, pice d’ iycu.  rovro, itptjr, XlysiS j Ac ne  forte, L r (p7 ? cet. verborum   inediæ oiationi immixtorum significatum minus recte a nobis  indicatum censeas, si interdiim alicuius verba non verbotenus repetita auimadverteris, nam liuiusmodi exempla reperiuntur, tenendum est, eum, qui illo genere  dicendi utatur, si revera alicuius  verba non repetierit, tamen eo  nnimo fuisse, ut ipsa verba proferre voluerit idque addito dicendi verbo indicaverit.   TGJV f.nj HSo ZGDV, e<pv,  andvroov XeyeiS. Verba ita  disposita sunt, ut ex eorum ordine facillime possis Diotimæ  voluntatem agnoscere. Nimirum  ( pm dixisset in proxime præcedentibus Socrates: maguum deum  Erotem vocari 7C apd itdvtGov,  Diotima istud jxdvtaiv, inquit,  Citrum de iis intelligenduin est,  qui rei,non periti sunt, au etiam de sapientibus. Urgendum igitur pronuntiando est rtavTcov,  quod quo fieret facilius, ndvTGJV  «nite A iyeiS positum est. Genitivum autem casum Diotima retinuit non tam propter antecedentem irapd præpositionem,  quam quod vocabuli, quod aliquis  pronuntiando urget, ea forma repeteuda est, quam, qui antea  locutus est, exhibuit. Uiuc ne  iucomtior existeret oratio hæc:  rovS fir) clduTOtS y £<ptf 9 TtdvXGDV  XeyetS x. x. A„ xqvS fitj ecduras    verba eodem casu posita habes,  quo lictvTCDVt ’   S,v fX7Z d vx w psv ovv .  Ovv particulam in responsione  adhibent ii, qui obfirmate aliquam rem affirmant, quam sunt  iuterrogati. Eius notionis origo  hæc est, quod, qui interrogantur, ut fortius respondeant graviusque affirment, ita statim se  comparant, quasi rem negasset  Ss, qui interroget, atque huiusmodi interrogationem proposuisset; OVH OVV %V).l7cdvtGDV fibV i  Ad hæc verba igitur respicientes, iisdemque utentes excepta negatione, non nisi mutato verborum ordiue respondent : B,vpndvrcov pdv ovv. Schleiermacherus verba convertit: Von allen  iusgesammt. Sed neque hæc  couversio Græcis verbis satis  respondet, neque scio, an orouino dicendi genus in vernaculo  sermone reperiatur, quo illius via  responsionis commode reddatur.   x al ?/, fi a 6 i cj S £ q> ij. h. e,,  Stallbaumius inquit, facile ac  uullo negotio rem tibi  explicabo. Aliter uobis de huius adverbii explicatione statuendum videtur. Eo docemur, qua  potestate dicta sint verba 7tdSs  rovro A lyeiS. Sbcrates nimirum summopere miratus Diotixnæ sententiam, qua et ipse Erotem dicatur deum negare, hacc  profert: ndtS rovro A iyeiS li. e. Wie k anu st du das sagen? Vide de hac verborum potestate Kal iyu airov, Ilag rovro, Srptjv, liytig; Kal rj, 'PaSiag, $<py. Xiye yag fiot, ov itavxag ftiovg cpijg tvSaifiovag tlvca xai xaXovg; y roliiyOaig ccv uva fiy  tpavai xaXuv xs Kal ivtSalaovc: &cuv elvai; Mu xli',  ovx i'yay ’, 'iyyv. EvScdfiovug Se Sy Xiyug ov xovg  annotat, 169. Ad hæc Diotiroa: perfacile, inquit, sc. hoc  dicere possum.   xaXov te xal ev Saiji ov a. $e&v elvai, Vulgo legitur 3eoV, quæ lectio, umle orta sit, neminem latere potest.  Nobis rectissimum videtur SeGoV t  quod Bodlcianus exhibet aliique  libri non pauci, Etenim, si Seov  probaveris, riva prouoræn indefinitum mirum quantum displiceat : An auderes aliquem negare pulcrum atque beatum esse? Ssaiv contra a verbo, ad quod  pertinet, verbis interpositis nonnullis disiunctum, quanta vi ponatur, ex annotatione patebit  59. Sensus est: An aude res aliquem bonum beatumquo negare deorum?  Respicit autem Diotima quæstione  hac proposita ad vulgarem de  diis opinionem, quos nemo fuit,  quin felicissimos beatissimosque  prædicaret. Eius .opiniouis et  se, antequam cum Diotima disputaverit, Socrates narrat participem fuisse; hinc graviorem negationem explicabis Ma di,  ovm iyoayB» Veritum euim se  ostendit, ne negata re deorum  iram odiumque excitaret,   ev 5 a i j.i o v aS 8 8ij Aiyei$ x. T. A. Annotat Mattii*  Gramrn. ampl. Ilaud raro ov negationem in interrogatione verbo finito postponi atque verbis præfigi iis, quorum canssa tota interrogatio suscepta sit. Præter  nostrum locum idem laudat Piat,  de rep. IX. 590. A. jj 8’ avSaSeiec xal 8v6xo\ia ovx urav  X d 'A.eovx6o8eS te xclL o(pc(a8ES  <xv%7jxai; Caussam huius strncturæ Riickertns censet esse,  quod incepta sit enuntiatio ita,  ut nulla iuterrogundi voce opus  sit. Licuisse enim dicere evSaljiovaS 8l 8tj A iyeis rovs  xexxyffiEYOvS salvo tenore sententiæ. Media autem iu sententia loquentem paullulum substitisse, quasi exspectet, ut addat  reliqua interlocutor; quod quum  uon fiat statim, perrexisse ov  xovS xctyaSa. xal xa\d xexx ?/fxkvovS ; Nobis ita statuendum videtur. Cum in præcedentibus id ageret Diotima, ut  dii pnlcri beatique esse concederentur, in sequenti enuntiatione id verbum iuitio posuit, quod  beatitudinis notionem exprimeret, ratiocinantium videlicet exemplum secuta, qui semper ab  eo verbo enuntiationem ordiri  solent, de quo iu proxime præcedente enuntiatione ab adversario concessum est. Migravit  banc ratiocinandi normam Plato  201. C. t quo loco cum præcederet pulcritudinis notio, Socrates hoc modo perrexit: rnfya%a ov xal xa\u 8oxel 6oi  elvai; Illud verbum autem cum  plerumque penderet e finito verbo, ut nostro loco Ev8<xiiiovaf   D tayafra xal xa?.ci xextyfiivovg ;  Tlavv ye. 'A).fo'<  /irjv "Egesta ye wfioloyjjxag St' evSnav ttov ayadcov xal  xakav Im&vfitiv avtiov tovttov, tov tvtier/g iotiv.  ^ijiokoytjxa yag.Ilcog S’ Sv ovv fteog ety o ye  nov xaiav xal aya&wv aftoigog; OvSafiag, Sg y’  ioixev. ; 'Ogag ovv, ?<p »;, ori xal Gv "Egcrca ov frtov  vo(it£eig;    XkyeiS, non mirum videri potest,  si id statim assumitur negationi  præpositum.   ov t ov S xdyaSa xal  xaXa. Bodleianus ftalii nonnulli  codices xayaSa xal x d xaXa  exhibent, quam scriptaram Bekkerus et Stallbaumius receperunt  in ordinem verborum. Annotat  lliickertus ad h. 1. rectissime :  t dya$d xal xa xaXd res bonæ sunt et res pulcræ, quæ diversæ esse declarnnturj contra  r dyaSa xal xaXa res bonæ et  pulcræ. cfr. 202, D. 6i’ £vSetav zaiv ayaSaiv xal xaX&v et  Trois 6 * av ovv SeoS efy o ye  tgov xaXcov xal ayadcov ayoipoS. 203. D, iniftovXoS idxi  xols dyaSoiS xal xoiS xaXoiS  x. t. X. Aliam legem in articulo nominibus substantivis præfigendo Græci scriptores secuti  sunt, de qua fusius disputavit  Engeihardtus ad Piat. Menex,  237. B. $. 6. ed. 252.   ojyo Xoyr/xd ye. Assensus  Socratici vestigium in præcedentibus reperitur nullum. Erotem earum rerum, quæ appeteret, expertem esse, Agatho concessit 201. B. *Ev6er)s ap *  £dxl xal ovx k'xet o " EpcsS xccXXoS. 'Avdyxtj, tpavai.  Iam cura Socrates eadem fere  Diotimæ se dixisse dicat 201.  B. ( dxedoy yap ti xal iyco    itpoS avtrjv £xepa xotavxa l\tyov, oldnEp vvv npds £/il  *Ayd$GDV ) quæ Agatho sibi dixerit, verisimile est, Socratem,  eadem Diotimæ concessisse, quæ  Agaibo Socrati. Hinc opoXuyrfxa positum explicabis.   ov 6 apeo S, &>S y * Eoixtv.  Socrates Erotam deum non esse'  ita tantummodo concedit, ut e Diotimæ ratiocinatione id colligi posse dicat. Piuribus disputavimus de verbis (Ss y* £oixev a Socrate hic adhibitis in  Comm. de Symp. Platonis. Opds ovv, oxt xal tft)  "Epoox a ov $ e 6 v v o pi^eiS;  Stallbaumius laudat ad h. 1. Piat.  Apol. Socr. 24. D. xov 61  6rj fieXxiovS noiovvxa tSi eiitk  xal pjjvvdov avxolS xis idxiv.  opiis, oJ MiXexe, ori dtycis xal  ovx £x El $ elicelv; Piat. Menon,  80. E. yavSavGo, olovflovX et Xkyeiv, dt Mtvouv * 6paS  xovxov cos ipidnxov Xoyov xaxayeiS ; Verissime addit: In his  locis omnibus opaS ita præmittitur reliquis verbis, ut alterum  rei præsentis statum et conditionem ipsum iam perspicere indicet, non sine aliqua admirationis  vel etiam irrisionis significatione.   x i ovv av, £tprjv, eirj 6  "EpmS . *Av particula a modo  verbi, ad quem pertinet, haud  raro seiuncta reperitur. Scriptum Cap. XXIII.   Tt ovv clv, Sq>tjv, drj 6 "Eqcos ; &vt]t6g ; "HxiOra  ys. 'AXka r l firjv ; "Slgneg za xgozega,  iuza£v tivrjxov xal d&avazov. TL ovv, u Aiotljia ; Aciliiuv (liyag, a Eaxgazig. xal yag itav zb Sai  autrm exspectaveris ti ovv, Etpyv,  ehf dv 6 "Ep&S. Non perfode  est, ntro loco dv particulam posueris, neque ti ovv dv, £<prjv>  ii?f idem prorsus siguificat atque  ti ovv, iqnjv, eXrj av. Iam videamus, quid inter se hæ dictiones differant. Optativus modus aliquid fieri posse indicat  ita, ut non addita sit vel probabilitatis vel dubitationis notio,  "Av particula adiuncta efficitur,  ut, quod fieri posse fodicatur optativo modo, id certis quibusdam  de caussis fieri posse significetur adhærente notione verisimilitudinis. Iam patere opinor, ti ovv  eXrj o "EpuS eius esse, qui de  Erotis natura incertissimus nesciat prorsus, utrum ait aliquid necne Eros, fieri tamen posse  opinetur, nt sit aliquid, idque  nunc sciscitetur. Contra ti ovv  iXt] av 6 "EpwS eius verba sunt, qui compertum habet, Erotem  aliquid esse, idque quid sit, iam  quærit. Ad nostrum locum ut  accedamus, av positum quidem  habes, sed disiuoctum ab optativo modo, quo dicendi genere  scriptor exprimere voluisse videtur aliquid, quod medium esset  inter ti eitf et ti bXtj av . Socrates nimirum Diotimac argumeutatione captus necdum liberatus  a popularis superstitionis vinculis huc illuc vergit plenissimus dubitationis, atque revera aliquid esse Erotem potat et rnrsnm aliquid esse posse dubitat. Verba convertenda sunt: Wasware denti  nun also wobl, sagte icb, wenti  er etwas ware, Eros. Eodem  modo explicandus est locas Piat,  de rep. A. ttpoS ys  vnodrfpdtaiv av, olpai, <paijjS  xtijdiv, h. e. (palrjS av, ei <pair}$.  . A. quo loco cave, indicium tuum impediri patiaris verbo addito 60 x 01 : *I 6 ooS  yap dv, Xcprj, 60 x 01 ti Xiyeiv  6 tavta Xtyoov. Adde Protag.  312. D. X6co5 dv, i/v 6 * iyoj,  dXrjSij Xtyoipev, ov pivtoi  IxavooS ye,   Gj? 7 tep ta itpotepa, $<prj.  Hæc verba convertit Schleiermacherus: Wie oben, sagte sie,  zwischen dem sterblichen and  nnsterblichen. Recte. Sapplendum  autem est ex prægresso ti ovv  dv eXrj tempus præsens X. 6 ti,  nt verba explicatius perscripta  audiant tovto, o l 6 tiv wSitep  ta 7 tpotepa (cfr. 202» A. % 6 tt  6) j tcov toiovtov rj opSr)  6 o£a, pEtagv d/taSiaf xal  ppovr/tieoDS ) petant) Svijtov  xal dSavatov.   xal yap 7tav x 6 6 aipo viov ♦ b. e. denn die gesammto  Damouen welt liegt ZWISCHEN GOTTHEIT UND MENSCHHEIT raitten foue*  Ad nostram locum multos fuisse seriores scriptores, qui respice- r    E poviov [isra^v ititi ftsov te xal ftvrj tov. - TLva, rjv 6 i  lydt^ dvvccfuv %%ov; 'Equtjvevov xal 6ia7ioQ%ptvov  •O £olg ta xaQ 9 avftQconcov xal dv&Qciiioig rd Ttccpcc  8ewv, x cov (iiv xag dEifieig xcd ftvtilag, xdjv 61 xag  faixat-Big te xccl d(ioi($ccg xav &v<2l(5v. iv piceo 61 ov    rent, Stallbaumius ad h. 1. annotat. Addit idera: Quid quod a  Proclo in Parmenid. ap. Rentlei.  Epist. ad Millium 455. ed.  Lips. hæc omnia e doctrina Orphicorum repetita esse narrantur ? Quæ quidem sententia quum  confirmetur quodammodo eo, quod  carminis Orphici fragmentum ap.  Clem. Alcxaudr. Strom. V.  724. fere eadem coutiuet, quæ  Diotima hoc loco Socratem docuisse narratur; eo minus de huius narrationis veritate dubitamus, quo certius exploratum habemus, Platpncm non raro ad  Orphicorum doctrinam allusisse  et respexisse.   hpfxrjvevov xa\ 8ia*>   7t O p$ /.l£VOV $EOlS tCCTtap*  dvZpaJrtGOV X. r. A. Satis notum est, Græcos in formulis,  quæ ex articulo et nomine aliquo cum præpositione coniuncto compositæ sunt, præpositionem haud  raro mutare atque eam poiiere, quæ cum verbo enuntiati principe conveniat, cfr. Fischerus ad  Platonis Phæd. c. 22. Stallbauroius ad Piat. Apol. Socr. ed.  63* et 64. Mattii. Gramm. $.  596. a. b. p, 1193* Engelhardtus  ad Piat. Lachet. ed. 23. Huiusmodi formulæ ubi per se spectantur, plerumque præpositionem quietem significantem repræsentant, ut nostro loco rd nap*  dv^pconoiS et t d napa  Accedente enuntiati principe verbo, quod motum siguiiicot, illa præpositio aut in præpositionem  motura exprimentem mutatur, aut,  ut id factam est nostro loco,  cum eo casu coniungitnr, qui motum exprimat. Non satis recte  autem napa præpositionem cum  genitivo coniuuctam putant propter antecedens SianopSuevov,’  non item propter kppj/vevov,  neque satis placet Schleiermacheri conversio: zu verdolmet—  schen und zu iiberbringen. Non  rectius apudFicinum legitur: interpretatur et traiicit. Non dubium est, duplicem itineris rationem indicari illis participiis,  atque kppTjvsvov quidem, quod  cum verbis consociandum est  dv%pG)itoiZ tartapa $Ecby t viam  describit, quæ a diis ad homines  ducit, diaitopSpevov autem de  via dicitur, qua proficiscitur,  quicquid ab hominibus nd deos  se confert. AiaitopSpEvov nimirum cum Gharonte cohæret,  qui itopSrfiEvS a Græcis vocatus est, et qui animas solebat c terra  ad sedes deorum transvehere 5 £ppifvevor eiusdem est, &tx\ucEppr/S  radicis, qui deorum iussa hominibus obnuntiabat, non vice versa  ad deos transferebat, quod ipsi ab  hominibus mandatura esset. Significat igitur Mercurii instardeorum iussa obnuntiare. Iam patere opinor, non  solum propter StanopS/iEvov,  sed etiam 'propter kpprjvtvov  cum genitivo coniuuctam esse  Kapa præpositionem. Hinc non d/i<poTsgm’ avfinbjQol, i3gre ro xav avto avrq) £w8sSeO&cu. Sici rovtov xal rj fiavuxi] xdau %uqu, xal ?/  rav ieQtuv xiyyrj rmv re xeni rag ftvaiug xal rag  relerag xal rag tnipSag xal rr\v (tavtelav ndoav xal 203  yorpceiav. &eog Se dvQQaxco ov jxLyvvrui, alia Sia placet Stallbaumii annotatio ad  h. 1.: J&eoiS' td it ap* av S p cJ it cd v . Non dixit it a p*   dvSpciitoiS et ita pa SeolS : nam alteram constructionem  requirebat verbum SianopS/f sii ov.   CvpitXif poiy (Ztxe ro  itdc v x. r. A, Ficiuus liabet ia  conversione : In utroqnc medio  constituta (sc. dæmonum natura)  totum complet, ut universum secum ipso tali vinculo connectatur. His verbis seduci se passi  sunt Keynderslus) qui td o\ct  dVfUtAl/poi scribendum coniecit,  et Orellius nd Isocr. 331*»  ubi (SvpitXripoi ro itdv, dista  avto avroj &vv5c8i<j$ai manum Platonis esse suspicatus est.  Sed nihil mutandum est, neque  quicquam supplendum. Sensus  ?st: indem er aber in der Mitte  sich befindet von beiden, bildet  er die Ausfiilluug, Vermittlung,  s. fiillt es aus ; nam nostra quoque lingua transitiva verba in terdum ita adhiberi patitur, ut  non actio, sed notio verborum  urgeatur. Vide de hoc usu verborum transitivorum apud Græcos annot. 230*   xal i) ftavrim } itd6a  Xoo p ei. Duplici potestate hæc verba intelligi possunt, ut aut  de felici successu, qui dæmonibus debeatur, aut de spatio viæ,  quod eundo superetur, accipiantur, Ficioas verba convertit: Per hanc (sc. dæmonum naturam) vaticinium omne procedit  cet., ubi verborum ambiguitatem  servatam habes, neque dubium  videtur, quin eandem et Plato de industria admittere voluerit  ea de caussa, ut de felici  successa et de meatu per medium  inter coelum et terram locum verba accipiantur, SeoS 6 e dvSpfoitM ov  piyvvr ai x. r. A. Articulum omissum habes in utroque huius enuntiati nomine, ut indicetur,  sententiam proferri generalem  quam vocant. Vide Indices s. v.   Artic. Ceteram dæmont medium  inter coelum atque terram locum  obtinere dicuntur ita, ut per  eos esse atque meare artes perhibeantur omnes eæ, quæ;  homines cum diis arctius coniungant. Hæc coniunctio quoniam potior est eo, quod homines deorum iussa exsequuntur, quam quod dii hominum precibus obtemperent, recte ponitur h. 1. ?} SidXsxtoS  SeoiS irpoS dvSpGdrtovS, non  item avSpdmoiS itpoS Seov?,  quod Heusdius in verborum ordinem inferciendum censuit, ut  esset, quorsum referrentur verba  sequentia xal lypijyopodt xal  xaSevSovtiiv. Annotat Stallbaumius ad h. 1. : Defendi potest lectio vulgata ita, ut verbo- '  rum constructionem dicamus couformatatu esse potius ad sententiam ipsam, quam ad grammati- «   tovvov naOu iativ i } byuliu xal % Sudexrog dsoig itgog  av&QixiKovg, xal lyQijyoQo 61 xal xa&ev 8 ov 6 t. xal o  f ilv xcqI tcc Toiavxu 6 oq>os 8 ca[ibviog avrjQ, b 81 cclXo  tl tiotpog coV rj' jrfpl r(%vug rj %UQ 0 VQyLag uvag, fiavav6 og. ovtoi dr; oi Salfiov eg nokXol xal nurrcoSanot tl 6 iv'  slg 81 tovtqv J<Srl xal 6 "Egag. Iluigog Si, t)v 8 ’ lye>,  tivog Itfrl xal [ir^Qog; Muxqotiqov (iiv, %<pr], d^yr/Oa  cam subtilitatem ac diligentiam.  Quum enim dicatur opiXslv rivi  et diaXeyeCSai rivi, etiam opiA ia xal didXsxroS rivi recte  dici potuit» Et quum antea non  dixisset: 7ta6ct idri SeqI? tj   opiXia xal 7 ) didXExro? avSpcS7COi?, sed perspicuitatis caussa  usus esset præpositione TtpoS  addito casu accusativo, nunc ad  legitimam constructionem revertens, neglecta grammatica diligentia, dativum post accusativam  recte inferre potuit. iiuiusxnodi grammaticæ diligentiæ negligentia si ullo loco ferri potest, huic loco apprime convenit,  ubi Socratis sermonem non præmeditatum illam, sed ano rov  tiro paro?, ut Græci dicunt, habitum refert Apollodorus. Verum  est tamen aliquid in hac verborum explicatione, quod displiceat. Negligentem esse structuræ grammaticæ verborum licet  quidem interdum in sermone familiari, sed ita, ut verisimilitudo adsit negligentiæ, h. e. ut  verba ita remota sint ab iis,  quorum structuram sequi debeant,  ut eius revera obliti esse,, qui  loquantnr, videantur. Nostro loco verba proxime adiuncta sunt  f verbis, quorum structuram sequi  debent, ut saue intelligi nequeat,  cur dativum maluerit, quam accusativum scriptor exhibere. Cer  tissimum est, aliquid exprimere  voluisse' scriptorem structuræ  mutatione, quod quid sit, iam  videamus. Si scriptum exstaret  iyprjyopipiozaS xal xa$evdov~  ra? t interpunctio delenda esset,  quæ post avSpGoitov? in omnibus editionibus posita reperitur,  unoque tenore legendum esset  $Eoif rtpof dvSpwitovS iypTjyoprjxora? xal xaSsvSovtaS. Dativo admisso participia a præcedentibus verbis seiunguntur  ita, ut verba 7 } opiXia xal 7 }  SiaXexToS $eoi$ rtpo? avSpaSTtov S unam notionem efficiant,  quam cum uno verbo exprimere  non posset’, structura verborum  Plato assecutas est. Verba convertenda sunt: Gottliches be ruhrt das Menschliche nicht,  sondern alie gottliche  Offenbarung wird Wachenden und Traumenden vermittelst des Dani on is oh en zu Theil.   7 ) xstpov pyla? riva?,  fiavav6oS . Schol. ad Theætetum in Bekkeri Comment. Critt.: fiavav6ov'‘  ol kdpaloi ZExyirai xal 7(apde  fiavvcp, o ion xapivaj tl £pyov dianSipEvoi, ol 6 e fiavav6 ov rov anavSp&ndv xal vtce  pr\<pavov. bnoi 61 fiavav6ov  XEipds zijs vfipi6xixij? f) rsxyt 0%at' 0 /nag 8b Gol Ipw. ote yap lytvtxo 7j 'AtpQoblrr;,  ttotiaino oi &£ot, oi ts aXIoi jmm 6 trjg MijtiSos vios  IIoqos. trcEiSrj 6s iSiijivrjGav, XQoqaiTqGovOa, olov  iva%La$ ovaris, mpixeto rj IJtvia xal rjv jiiqI rag dvQag. 6 ovv IIoqos fiidvGfrels r.6v vextuqos oivog yag  ovjto tjv tls *ov tov Alos xijrtov dscl&tov (Sepugr]litvos rjvStv. rj ovv Ihvia iiCi^ovIevovGa dia ttjv av  StjXoi dk tovS’ x 6l Porixv<x£  xal drjpiovpyovS. Diotimæ  mens hæc est: virum dæmoniam  recte appellari eum* qui cognoscendi* diis deorumque consiliis  operam navet coniuuctionis illius  gnarus, quæ inter deos atque  homines per dæmones exstet;  contra j SavavOov vocari, qui  terrestribus rebus intentas deorum consilia minas curet. <   o tf ydp iyiveto. Quæ  hucusque narrata sunt a Socrate,  Erotem cx senteutia Diotimæ e  dæmonum ordine esse, h. c. medium inter deos atque homines,  atque pulcro carere quidem, sed  yehementissimo eius appetita teneri, ea nunc repetuntur in mytho  insequenti, quem vario modo  FILOSOFI interpretati sunt. Hac  narratione mythica certissimum  est, Diotimam s. Socratem non  confirmare voluisse, sed explicate potius atque illustrare tamquam imagine sententiam suam.  Satis notum est autem, Græco ram iugeqium ita comparatum fuisse, ut facilias iutelligerent,  cupidius arriperent, memoria melius tenerent, quæ mythica aliqua narratione, quam quæ nuda  demonstratione exposita essent.  Pluribus de huius mythi fine diximus in Commeat, de Sympos.  Platonis.    olv oS ydp orjTCco 7/ v . Adduntur hæc, ut tempus indicetur, quo facta sint, quæ hic  narrantur. Vinum antiquissimis  temporibus Græcis notum fuisse,  Homerus docet atque Hesiodus.  Hinc iudicabis de rei narratæ  vetustate. Ad nostrum locum  respexit Porphyr. A. A. c. 16.  ni? itapd nXdr&vt d TIcpoS  tov rhirapoS 7tX?]6$tis • ovnto  ydp olvos ?}v.   eis tov tov AioS H7J7COV  e lseX^GJ v. Cave credas meta pho ricam significationem h. 1.  verba habere A 10 S xi}7Cov t  Horti mentionem Diotima fecit  vitæ quotidianæ usam imitata.  Hortam enim hospitis convivæ  bene poti adire solebant atque  loca frigidiora sibi eligere, ubi  hausti vini calorem mitigarent  animosque concitatiores somno  compescerent. Adde Stallbaumii  annotationem verissimam : Quæ  de hortis, inquit, lovis hic narrantur, non solius ornatas gratia  adiecta sunt, sed properaodum  necessario commemorari debuerant. Qaum eDira Pori atqæ  Peniæ natura et ingenium tantopere discreparent, per se parum verisimile videri debuit, illum cum hac potuisse habere  consuetudinem. Itaque quo narratio maiorem nancisceretur similitudinem, poeta philosophus   17   C r jjg txxoQlav stcaSlov xoirjGaGftca Ix toti JJoqov, xataxXlvEtcd te scccq’ avtcp xcd ixvt]GE % ov "Eqmtcc. Sto Srj  xcd ri ~js 'AcpgoSiTijg 'dxoXov&og xcd &EQcc3icov •yeyovcv o  'Egag, yewtfteis iv roig ixslvqs 'ysff&Xioc g, xcd d(ict  tfvOtc iQtt6Ti)g uv jceqI to xuXdVj xcd r>]s ’A(pQ0SultjS  xaXijg ovdrjg. ktb ovv Ilogov xcd Ilevtag viog i ov 6  *Egag iv roiauzi/ tv%]/ xu&l6xr t xE. tcqutov filv nivtjg    ini sdn, xcd xoX/.ov Sei  ol itoXXol oiovTcu, txXXcc   Pornm finxit in convivio illo in  Veneris honorem instituto ebrium  factum se in hortum Iovis contulisse, ibi vero Peniaxn, quæ  ei struxisset insidias, sine arbitris convenisse. Vides, quam  necessaria sit hæc fabulæ particula: nt profecto miranda sit  operosa industria eorum, qui de  istis Iovis hortulis splendida  quædam commenti sunt mendacia^7 Ci ftovXev ovd a 8ia xyv  avxijs ano piav . ’EirifiovXevelv verbum sequente infinitivo  eam potestatem habet, nt studium significet cum insidiis coniunctum. Prorsus eodem modo  legitnr in Xenoph. Symp, IV.  52. ald^avopai yap rivaS  i7tifiov\£vovtLXS SiaupSelpai avTov. Adde Piat, de republ. VIII*  566. B. idv di ddvvaxoi ixfidWeiv avxov gqoiy t} ditoxxiivai biafidWoYteS xy rt 6A ei, fiiaia) 8ij Savaza iitifiov A evovdtv areoxtivvvvai A aSpac.  Plura huius structuræ exempla  si quæris, adi Stallbanmium ad  Piat* Protag. p, 343. C.  «d. 119*   8ia rr/Y avtrjS areo pia f'. Indicatur his verbis,    anccXog te xcd xcdog, olov  CxXijgog xcd avftiijpog xcd   cur Fenis mater esse cupiens, e  Poro potissimam concipere voluerit. Etenim qaoniam ipsa,  quod futuro filio daret, non habebat, ut minus olim sentiret  puer maternam egestatem, Porum,  deum omnium ditissimum, patrem ei esse voluit. Minus explicate Schulthcssius in conversione Symposii exhibuit; Nun  sann Penin ihrem Mangel zn  steuetn, anf die List cet*   dio 8 1 ) xal tij S 'A <ppoSixyS dxdXovSof . Veneris  comes ac minister Eros dicitur,  quod est pulcri amator, et quod  Venus pulcra est. Minus clara  verba sunt yevvrjSeiS iv xols  ixELvyS yEYE$\ioiSj ad quæ verba 8io præcedens spectat præcipue. Nam si quis ipsis alicuius natalitiis oritur, non sequitur inde, eundem comitem esse  atque ministrum illius. Videtur  autem mens Diotimæ hæc  faisse: Erotem Veneri ortum debere; nam si ad huius natales  celebrandos non convenissent dii,  Peniam nunquam e Poro concepturam fuisse. Igitur factura  esse cura pulcri appetita naturali, tum pietate, nt Eros se  Veneri adinnxerit.  uwxodTjtog xal aoixog, %a[iai7UTrig asl uv xat a6re>m- D  ros, t7cl ftvQaig xal Iv odoig vxai&Qiog xoip.cou.Evog,  t ijv tijg firjTQog <pvOiv £%av, dii Ivdiice. ^vvouog. xara  Si av xov xaxtQu ixlflovXvg late xoig dyu&oig xal  xoig xcdoig, avSgdog av xal Xxtjg xal Ovvxovog, &)f  Qiirxijg Suvog, ad xivag xkbxav [ir^avag, xal cpQoinjCiag tm^viirjxtjg, xal xuQtuog, xpiXcGoxpav 6 ut navxog  xov §lov, Suvog yorjg xal (paQpaxivg xal CotpKSxrjg'  xal ovxb tbg a&avaxog nitpvxBV oilte ag Qvtpbg, E    axe ovv Ilopov xal IIsvlaS vloS. Erotis nator», qoaiem sibi Socrate* effinxerat, factum est, at Porum atque Peni am parentes putaret. Inverso  nunc ordine a parentum iudolo  ad blii naturam concludit, ut,  quod in illis conspicias, id coniunctim in se habeat filius. Probatur igitur et his verbis, et sequentibus p, 203.,C. xard 81  av xov naxepa, quod supra annotavimus 257., mythicam  hanc narrationem ideo proferri  a Diotima, ut imagine quadam  proposita indoles atque natura  Erotis illustretur. In sequentibus Erotis epithetis xal habes  quater repetitum, quod, ut molestiam quandam parat audienti,  ita epithetorum indicandæ multitudini apprime inservit.   ini SvpaiS xal iv o*dois’ vn aiSpioS xotpcope- oV o f. Paullo supra de matro  Erotis dicitor, 203* P- a<pi7MTO xal r)v nepl xds  paSy quapropter nostris verbis ap-*  positum habes trjv xijs ptjtpoS  (pv&lY 'ixatv, quæ verba cave  epitheti loco posita ceuseas $  caussam enim indicant præcedentium epithetorum. Ceterum  pro vitafa pioS, quæ optimorum    codicum lectio est, vulgo edebatur vitateploiS, Male.   av 6 p eioS c ov xal Ixrji .  Schol. habet: IxrjS' Hdx&p, ini 6X7}jj.c*)Y> <aV ivxai>$a. flaverat 61 xal ini xov ixapov  xal SpatieaS, Nisi forte aliunde  hoc scholion depromtum est,  sane mireris verba oJs’ ivravSa,  quæ rectissime haberent, si post  verba legerentur: Xapfldvexai  xal. Hesychius, 1'ti/S, inquit,  IxajioSy $pa6vS. rj Xtixcop tj  initixi/pav . Cum dvSptioS nomine couiunctum legitur KtrfS  etiam Piat. Protag. 349. E.  noxepov xovS dvSpelovS SafiflaXiovS XiyeiS r\ dXXo xi;  Kdtl l'xaf ye t Eqnj, Itp* d ol  xoXXol qjoflovvxat iivat h. e.  xal ixas ye ini xavxa, l<p’ et  x . r. A. Ceterum haud scio, an  non vitii aliquid in his verbis  lateat, quod xal ante tivvrovoS  posito removeatur. Nam ut sequitur STjpevxijs 6etvo>, ita fortasse melius habeat xal ItrjS  (SvvxovoS, quam xal itifl xal  tfvvxovoSi   xal tppovi} 6ecoS iiei$v»  firftrj i f xal nopipot. Riickertus ad h, 1. deleto post iiti *   $vpi \xrfi commata: longo, ia*   17 *, aU.lt tots ficV Trjs crinrjs ftakXti rs xal %y,   orav ivitOQyOy, tots fis azo&vrjiSxu, itai.iv fis avapiaCxEtca duc rijv tov itargo $ cpydiv. rd 6s itogigo/ievov a£t vzexqh, c&grs ovre. ccjtoQti ”Eqb>s zots ovt e  zlovttl. Oocpictg te av xal a[ta9lag Iv fuflw idziv.    quit, liæc cumDindorfio in unum,  ut hæc sententia prodeat: Amorem et cupidum esse prudentiæ et ad parandam  idoneum. Astius 7 topt/ioS  esse censet: opibus et co piis affluens; Recte 8nidas Ttopi/ioS, inquit, 6 dvvdiv  7j htivdiav ££<»k. Quæ sequuntur verba rpi\otio<pGJV 8ia  rtavzoS tov fjiov, præcedentis  epitheti caussam continent, et ipsa  epitheti vices obtinent. Sensus  est itopipoS vocabuli: der alie s durchsetzt, iiberall  durchkdmmt, dem u11es,  vas er uuternimmt, von Statten geht.   d eiv o S y d rj S n a\ q> a ppaxevS xal 6o (pKSrjj $ .  Neminem fugiet, quam prudenter philosophus hoc loco vulgares de Amore opiniones et fabulas  coniunxerit cum suis ipsius placitis. Stallb,   a\\ct x 6 1 e. ptv  orav  e vir opi} 6ij h, t. A. Ficinus  verba convertit : neque immortalis omnino secundum naturam  neque mortalis: sed interdum   eodem die pullulat atque vivit,  quotiens exuberat, interdum deficit cet» Sic interpretes ad  unum omnes Platonis verba explicaverunt, neque quicquam eos,  quod miror, in iis offendit. Pugnant autem hacc verba cum iis,  quæ. A. seqq. de Erotis natura dicta sunt. 'Docuit illic Socrates s. Diotima: Erotem non esse AMOREM h. e. DESIDERIUM  nisi eius rei, quam ipse nou possideat. Iam quæritur, qui hoc  loco dici possit 3-aAAn re xal  ?,jj, ozav tv7topr}6xf. Nullus  dubito, quin pro orav evitopt}<$rf Plato scripserit orav aitoprfoTf. Ad sequentia autem rore  dizoSvijtixei e præcedentibus supplendum est '-orav et hropytiVf qaod supplementum quum  aliquis forte, ut fit, margini adscripsisset, scribarum incuria vel  imperitiorum Platonis interpretum industria pro aitopijdp in  ordine verborum tvTtoprjo^f positum est. Id fieri potuit eo facilius, quo magis in hac re a  ceteris dæmonibus diisque differt  Eros. Solent enim Erote excepto omnes, quo maiorem rerum suarum evito picer experiantur, eo magis, ut cum Platone  loquar, efflorescere atque vigere. AMOR contra rerum expetitarum  potitus perit, sed paullo post  rursum emergit .novarum rerum,  quas possidet pater, DESIDERIO reviviscens.  5 1 a r ifv tov it a r pos <pv6 iv. Ilæc verba quid -sibi velint hoc loco, a nemine interprete explicatum reperio. Scriptoris mens hæc esse videtor:  Erotem mori, ubi ea sibi comparaverit, quorum desiderio antea Eros fuerit. Quoniam antem  Poros, h, e. deos divitiarum atque omnium rerum summæ ab   t%u yctQ aSi. 9u ov ovSeIs tpd.oeotpti ovS’ Soi   Coipos ytvtOftcu. tori yaQ. ov3’ ti rtg aAAog Goipbg,  ov <piXoGocpti . ovS’ c.v oi afia&Eig ipikoOoipovOiv   ovb’ lm9v(iov6i Gotpol yevtO&ca • cevro yaQ rovr 6 ion  [ lalizov ] „d/itt&ia,” xo ptj bvta xalbv xaya&bv fnjdi cndantiæ finem non habeat regni  sui, sed aliis alia semper addat,  rerumque facultates in infinitum  augeat, fieri solere, ut Eros, ubi desiderio expleto perierit, novarum reruta desiderio tangatur atque reviviscat*   dei vitEKpei. 'VjtExpciv  verbi significatio hæc est, ut  exprimatur, abire aliquid atque  evanescerfe ita, ut nescias prorsus,  quomodo id fiat ant quo abeat.  Apprime respondet Græco verbo  nostratium: es gelit ihm nuter den Hiinden verloren. Schleiermachcrus verba convertit: Was  er sich aber acbafft, geht ihm  immer wieder fort.   «uro' yap tovto id ri  IxttXettov] ajuaSta, Hæc  verba non recte sc habere, iam  pridem ab interpretibus annotatum est. Sydenhamius a/taSiqt  scribendum coniecit vel «urco  Tovtgj ; illud in cod. Veneto reperitur agnosciturque a Ticino:  JJoc enim habet ignorantia pessimum, quando qui nec pulcher  et bonus est neque sapiens, sufficienter hæc habere se censet,  Attius corrigendum vidit: amo  yap tovto idn ^«Acjr ov d/utx ov fit) ovtcl xa\ov naya$ov pj/de (ppovtpov Soxtiv auro ixavov, Idem etiam fyet  verbis Platonis inferciendam ceusuit vel scribendum apaSiaS pro  apaSla. Annotat Stallbaumius  ad hunc locum: Hæc ne cui in posterum sollicitanda videantur  amo tovto absolute positum est,  ut idem sit, quod 5i amo tovto : quæ autem sequuntur: ro  pi) bvxa  ixavov, ea per appositiouem, quam vocant grammatici, addita sunt. Nec Sydenhamii neque Astii verborum  medelæ placent, neque satisfacit  verborum explicatio Stallbaumiana. Concedo quidem, quod  permultis locis probari potest,  «uro' tovto ita dici, ut significet 81 * avro tovto, nusquam  autem ita positum reperias, ut  non sequatur particula finalis.  Deinde ne Græce quidem dici  videtur: auro tovto idn ^aÆTtdv apaSlot pro amo tovto  idn xarAftfoV ?/ dpaSia. Differt enim subiecti forma a prædicato suo ita, ut illud articulo  insignitum sit, hoc articulo careat. Sententiam autem quod  attinet, merito quæras, cur de  difficultate quadam molestiave  rei maluerit Socrates, qcain de  ipsa re dicere? Si quid video,  XolXe7Cov inutile est otiosumque  scioli alicuius additamentum, quo  enuntiati facilitas admodum impeditur. Auget voSiiaS suspicionem sedis mutatio, quandoquidem in duobus codicibus F>ekkeri pro £aA«roV dpaSict legitur dpaSia £« A ejcov et dpaSitt  XaXEnov . Igitur uncis inclusimus x«A ETtov, quod neque cum verborum structura satis conveniat, neque, dialecticum acumen  <Pq6vi[iov Soxuv avrc : > tlvai txavov. ovx ovv ixudvfiit  8 (iij oiouevog Ivdpjs tlvcu ov av fiy oirpzæ hudttti&eu.  Ttvcg ovv, %cptjv iya, to Acoztfia, o t epiloCoepovvxts,  B ll (l/jzs o£ Cocpol /lyre ot ttfiu&Hg ; Afjlov Srj, fg np,  Tovzd y£ fjSij xai jtaiSl, ori o i fiezal-v zovzav dpiq)otsq(ov, tov av xal 6 "Eqi ag. l&u yaq dtp tcov xcdHCzcov i) Coepta, "Eqcos 8’ Icrlv iprag mgl zo xakov,  agzs avuyxalm "Egaza tpilbaoepov uvæ, qnXoGoepov •S respicis, quo Socrates hic utitur, sententiarum consecutione  probatur Sensus est verborum :  Dena das eben ist ia, was vir  Amathia nennen, vide annotat. dass einer, der nicht schdn  und gut noch verstandig ist,  •ich selbst geuug zu sein vermeint.   6i/\ov Stf, Icpyjy rovxo  ye 7/677 xat xaidl. Hæc  prorsus conveniunt cum nostratium: das kann ja schon eia  *Kind einsehen. Utitur autem  hac formula Diotima, non tam,  quod res ipsa intellecta facillima  ait, sed quod, qui præcedentia  vecte ceperit, is adhibita analogia possit verum reperire. Hinc additam habes: oov av xa\ 6   Epeo?. Sæpius enim in præcedentibus præpositis rebus duabus vera neque altera fuit  neque altera, sed tertia quædam, media inter utranique, reperta est Anget autem narratæ rei verisimilitudinem Diotimæ hæc indignatio, quandoquidem et lectores Socraticam inertiam (quam care non simnlatam habeas) non possunt non  mirari. oov av xal 6 ’Epaf,  Vulgo legitur oov av xal o"E-s  poDS ; quod cum nullo pacto hic  ferri posset, Brkkerus e duobus  libris dedit av, quod præter  Riickertum editores recentiores  in ordinem verborum receperunt,  Biickertus autem annotat ad h*  1 . ; Ne huic quidem, inquit, particulæ satis commodus videtur  locus esse. Qua re suspicatus sum, essetne Jorte neutrum verbum (av, av) a Platone scriptum, sed av quocunque modo  ortum ex oov, inde autem in ctv  mutatum. Quapropter voculam,  ut dubiæ fidei, uncis inclusimus. Frustra. Sæpissime av particula ponitur in enuntiatis iis,  qnæ minus accurate exposita ad  prægressæ alicuius enuntiationis  formam effingenda erant. Nostro  igitnr loco quoniam præcedit  ori ol ptxa£,v rovrcjv apepoxipoov, av particula indicat, av  av xal 6 "EpaS proprie sic proferendum fuisse: per a&,v cuV xal  6 "EpooS idriv.   <pi\o 6 o(p ov 6k ovxct  apaSovC. Sequitur hoc ex  iis, quæ supra disputata sunt.  Nimirum qui cupit aliquid, is non  potest, quod cupit, idem habere. $i\odoq)OS igitur, quoniam  est appetens sapientiæ, sapientiam non habet, neque vero  ignorantiæ addictas est; nam qui  ignorat aliquid, is id ipsum, quod  ignorat, non appetit*   de Sirtct (lEtalv elvca docpov Y.cil d K uct&ovg. alrla de  avrco xal tovrov f} ylvedig' iturgog fikv yag docpov  Idn xai evxogov, fiyrgbg de ov docpijg xal dxogov.  i\ ftlv ovv (pvdtg r ov daipovog, co (pile 2?o r/.gcctsg,  ccvxi]. ov de 0v wq&qg "Egeor a elvca, a YavpacSzbv ov - C  dev eituft eg. cirjfojg de, cog ifiol doxec texficagofievj/   *£ cov dv leyeig, ro Igcopevov ''Egeor A elvca, ov ro  Igcov. dea renixu doi, o l^ca, Ttuyxcrf.og lepedvexo o    alrla 81 avt cJ xal r ovr cdv i / y iv e 6 iS . Vide quæ  supra annotavimus ad verba  203. C, ed. 259.   ov Se dv cjtj $i]S*Ep ait a  tlvai, Savfiadrov x. r, A.  Frustra in horum verborum explicatione Rtickerti industria versata est censentis, dv pro uti  roiovtov poni non posse; id  enim Plato si exprimere voluisset, non dubium esse, quin scriptum exstet olov Se dv gJt}$7/£. Addit autem Riickertus: Mihi cogitationum seriem iutuenti sic  res se habere videtur, quod mirum esse negatur^ non esse illud  præcedentibus verbis contentum, sed verbis quidem non expressum, humauitatis caussa, ex iis autem,  quæ et dixit Agatho et statirn addit Diotima, facillimum ad intelligendum sc. ori icdyxaXoS  oo i i<podr£To, cuius erroris caussa prior error est, quod AMOREM cum AMATO confudit. Certo sic omnia bene videntur cohærere. Quem autem tu opinatus es AMOREM esse, nhiil tibi mirum accidit (quod pulcherrimum esse putabas.) Opinatus autem es AMATUM AMOREM esse, non AMANS. Ea de caussa videlicet pulcherrimus tibi AMOR videbatur. (Id autem non est mirum), Nam cet. Semper  meminerint lectores, orationem  hanc tanquam vere habitam coram convivis Agathonis hic proponi, ut interdum aliquid etiam  pronuntiationi singulorum verborum tribuendum sit, qua assequuntur haud raro loquentes,  quod verbis positis non indicatum  est, "Ov igitur relativum ubi pronuntiando argetur, uti Diotimam  hoc lecisse consentaneum est,  tantum abest, ut pronominis relativi potestatem solam obtineat, ut ei rei indicandæ inserviat, de qua præcipue agitur. Quam autem tu opinabaris est igitur accentu orationis  in pronomine relativo posito:  Quod autem talem tantumque deum esse ominabaris. Vide  de hac relativi pronominis significatione Mattii. Gramm, arapl.  §, 480. 3. 899. seqq.   Sia x aio x a. doi, oipai,  7 t dyx aXo ff l<paivero. cfr.  201. E. dxeddv yap ri xal  iyco itpoS avtjjv t.ttpa xouxvtoc  HXtyov, oldntp vvv rcpbs iph  9 Ayd$cov, caS etrj 6 "EpcjS peyaS J9coV, eiij Se t&v xaXcov,  r 6 rcS ov tt xaXov xal  afipov. Mirum est, StallbauEqcos. xai yccQ Etfw ro IguCtov tb Ta bvtt xa kov xal ajigbv xccl ttltov xal . (laxagiGtbv• tro  5s ys igav aU.7jv ISiav zoiavrtjv £%ov, oiccv lym  Svijl&ov, mias inquit, istud dppov, quod  suspicor ia ayaSov esse mutandum. Neque enim DE AMORE  nunc sermo est, sed indicat Diotima in universum, quid illud sit,  quod ab hominibus soleat summo studio expeti ct desiderari,  videlicet ipsum pulcrumpcr  se spectatum (ro t<o ovxi  xaX ov) ct quod supra dixerat  cum pulcro artissime co ni unctam esse, ipsum per se bonum. Hinc addit deinceps  xal xIXeov xal jxaxapitixdv, Non dubium est, quin verissimum sit appov verbum. Quamquam enim concedi potest, pulcro per se spectato melius convenire propter aute commemoratam cum bono coniunctionem  dyaSov nomen, quam appov  epitheton : tamen boc maluit Plato pro illo exhibere, ut clarius indicetur verisimiliusque videatur, quod 201* E. legitur,  6 o cratem idem fere de Erotis  indole atque natura Diotimæ  dixisse, quod Agatho supra protulerit. Vidimus autem, poetam  mollitiei teneritatisque laudem  {dnaXoXTjxa') Amori attribuisse,  ut verisimile «it, Diotimam  appov epitheton ita exhibuisse, ut consensisse olim cum Agathone indicaretur Socrates, simulqne Agathonis illa sententia leviter carperetur. Addit  antem Diotima, ne qnis posito  dppov nomine de veri pulcri natura dubitaret, commemorarique  forte indicaret aliud quid, quam ipsam illam pulcri ideam, tiXeov   et /laxapitirov.   aXXrjv i$£ar x oiavxrjv  ix° v sc. i<Sxiv . Cave dXXoi   xoiovxoS confundas cum £r epoS  xoiovxoS', de quo supra diximus  annot. 245. Sensus est verborum: Contra id, quod AMAT,  aliam naturam habet et  i n d,o 1 e m atque talem quidem, qaalem ego descripsi.   ele v 8 i) 9 co xa AoS? yap XeyeiS^ Diximus  de elev verbi potestate annotat.  p r 36-, ibiqne annotavimus, hac  voce uti eos, qui facile aliis  aliquid concedant, quo facilius  possent illis pacatis, quid ipsi  sentiant, aperire. Non prætermittendum est autem, elev verbo adhibito ita seraper concessionem fieri, ut nesciæ prorsus, utrum persuasum sit necne  •i, qui aliquam rem concedit, de  ipsius huius rei veritate. Hinc  additum habes nostro loco xaXcoS  yap \iyeiS t quibus verbis indicatur aperte, Socratem Diotimæ  sententiam probare. Recte Fictuus verba convertit: Esto,  ut ais, hospes, præclare  enim loqueris. Non igitur  audiendus est Stallbaomius docens annotat, ad Piat, Phæd., A. ed., caassale  enuntiatum, quod post elev positum reperiatur, non tam ad  $lev pertinere, qnam ad insequentia verba, quibus præpositum sit. Specie non caret hoc    % •*   Cap. *xrv.   Kdt lym sTnov, Elev Srj, « fa»j’ xcdcog yag  Hyeig. toiovtog <Sv 6 "Eqg>s xlvcc xQstav ijrK xolg    præceptam, si ad verba respicis. Piat. Phæd. 117. A., quorum rectiorem explicationem dedimus annot. 36. Restat, ut  dicamas de verbis 213* E.  ineidi) St ■yiaxtnXivTj, ih telv *  Ehv Srj, avSpt$, Soxeixe yap  fioi vrjtpeiv . Rursus enim etiam  in his verbis, ut supra 176.  A*, supplemento quodam opus  est, quoniam non comparet,  quorsum Alcibiadis assensionem  referas, habeat autem necesse est,  quiassentitur, dictum aliquod, cui  assentiatur. Neque supplementum illud diu quærendum fuit»  Consentaneum est enim, couvirarum aliquos, cum consedisset  Alcibiades, hominem rogitasse:  Nam liabes, qui hilariores esse  possimus te præsente? Ad qnæ  ille, ehv Srjt inquit, Soxelts ydp  pot vtj<peiv. Possis etiam ita  rem tibi informare, ut statuas,  Alcibiadem, cum consedisset, vulta subtristi circumspexisse specumque edidisse eius, qui magno  alicuius rei desiderio teneatur. Quod cum animadvertissent convivæ, Alcibiadem rogarunt : Num  quid est, quod minus apud nos  tibi placeat? Ad quæ ille, id vero, inquit, sit revera, videmini enim mihi nimium vino abstinere.   t OlOVtOS GJV O *£pGOt'   II. Stephanus post toiovxoS inferciendum censuit 6£ particulam, quæ res documento esse potest, eum prorsum eandem verborum interpunctionem habuisse, quam nos unice probamus. Riickiertus quum ehv Sij nihil nisi  transitum denotare censeret, elev  Sr/, xoiovxoS gjv convertit ; Age  iam, hospita, quum talis  sit. Nos neque H. Stephaui  commentum probamus, neque Riickerti conversionem verborum  laudabilem censemus. Asyndeton  autem quod attiuet, notandus  usus est Græce loquentiuto, quo  post €i£V Si), cui caussale enuntiatum additum est, Si particulam aliamve copulam omiserunt.  Neque ratione caret hic usus loquendi, quandoquidem satis constat, asyndeta gravitate quadam  augeri. Ei gravitati autem inprimis locus est ibi, ubi aliquis  aliquid facile concedit, ut ant  suam sententiam celerius proferre possit, ut pl 213. E., aut ad  novam quæstionem studiosius  abeat, ut hoc fit nostro loco, et  Piat. Phæd. A. ehv, $cprj>  et fttXxitixe, 6i) ydp xovxgov  iititixtjjtGJV. ti XPV xoietv. Ceterum gjv participium quod attinet, supra annotavimus ad p»  174. D. dp* ovv dyojv p£ ti  aTtoXoyijdei, participiis ita interdum scriptores Græcos uti,  ut obiectivam veritatem cum subjectivo loqæntis indicio coniunctam exprimant. Nostri igitur  loci sententia est; Si talis est,  et credo talem esse, qualem descrip si st i, natura  Erotis: quam utilitatem  affert hominibus?  av&Qcoitoig ; Tovto di] ]itvd rccvt 9, ?<p;, cJ Z*5x(>aDTfg, 7tELQ<x<5o}iccL 6s didcc^cu. e6ti (ilv ydg dt) t oiovrog wxl ovzcsg ysyovag 6 EQag, %0 xl, oh xav xcd&v,  ioc 6v qpyg. ei de ng 'tjixug Iqolxo ' TL rc5v y.cdcov  10 xlv o*Eqg>s 9 w 2Ti oKQdttg re xai Aiotipcc; c ode dh 0ayictEQov lga> '0 bq(5v tcov xak&v xi iga ; Kcd    riva xpelctv Ox £t * cfr.  201. IT dei 67 /, cJ Uyd^ajv,  &67tep 6v 8 17] y i)(5gj, 8ie XSeiv  \ r av7ov icp&xov xis ioXIV O*EpG0S  ycal noloS xiS, hteixa xd Opyct  itvtov. Quæ sequunt u e verba  tovto 8t) pexa xavxa x. r. A\,  rernacolo sermone expressa audiunt: das ist nun der zweite  Punct, den ich dir auseinaoder  zn setzen versuclien will.   0 . 6 x 1 pev yap 81 } x,oiov roS n. X. A. Socratica sciendi  aviditas cum tanta esset, ut percepta priori disputationis parte  nimio impetu ad alteram ferretur, id quod asyndeto expressum  est : xoiuvxoS qdv o "EpwS riva  Xpciav xols dvSpanoiSj  Diotima, ut impetum illum paullisper retardet, ac ne inceptus  ordo dispatatiouis turbetur, veretis, verba adhibet: 06xi jxhv  ydp 8t} xoiovxoS u. r, A., quibus cum gravitate positis Socrates admonetur, ut et quietius  cum Diotima agat, et partes disputationis memoria teneat studiose. Tecte autem ipsis ' his  verbis carpitur Agatho, qui cum  in ipso orationis exordio recte  indicasset, quo ordiue Erotis laudatio procedere debeat, ordinem  disputationis male turbavit,   7 (a\ ovxa>$ y ey ov qjS .  Dindorfius, Stallbaumius ovxcoi,  quam Florentinorum librorum lectio uem esse accipimus. Sed  caussam hic, cur ovxcoS' scribatur medio in commate et sensu,  non videmus. Riickert. Iam  supra annotatum est a nobis, non omnino nobis probari præceptum  eorum, qui omnibus in locis ovTco ante consonam scribi iubeant,  neque ovx&f probent, nisi id  verbo cum vocali incipiente præpositum sit. Satis docemur haud  infrequenti consensu codicum  meliorum, Ovxgj? etiam subsequente consona Græcis in usu  fuisse ibi, ubi aut ipsum ovxcoS  not enuntiati particula, in qua  ovxcjS’ collocatum sit, cum vi  quadam proferatur. Hoc in nostrum locum cadere nequit negari,  igitur recte ovxoai servasse nobis videmur, cfr. præterea Stallbaumius ad Plat. Gorg. 516.  C., 522* C. ad Protag, p*  351. B.   el 80 tiS r}pa$ Opoiro.  Omissæ apodoseos exemplum  habuimus 199. F. el yap  ipoiprjv, Ti 80; dBeXcpoS avxd  rovxo oitep l6xiv, 06xi xivoS  aSeXtpoS rj ov ; $dvai el  vat f ad quæ verba vide annotat. 234. Nobis pari modo  præsertim in familiari sermone  loqui licet: Wenn uns aber ie—  mand friige : In wiefern eigentlich ist denn, o Socrates und  Diotima, Eros die Liebe zum  Scbduen ? ich will es aber deutlicher so ausdrucken : Einer, der tyit turov, oti Ftvia^ai avtcji. ’Al\’ in no&u, iyrj,   ?; cjroxpwJtg tQCDtt]( J lv toluvSb' TL i&tui txtivcp, <J  ct.v yivtjtai tu xala ; Ov ndw itpijv in i%nv lyco   ItQUS tttVTl]V tljV igattjOlV TCQOXcLQCJS dxOXQlVUCS&Ul.   'AI /i, itp>], bjgxfQ uv ii ng fitzapuldv, dvzl zov xu- E  lov zcj dya&cS %Quynvog, hvviHxvolzo' (frige, a 2.(6- . das Schone liebt, was liebt dena  der eigentlich?   ori Fer id $ a i a v reo .  Mecum fatebuntur lectores*, se  haud facile responsuros fuisse,  si Diotimæ illa quæstio sibi proposita esset, quod Socrates respondit, mirarique licet, Socratem, cum alias fatuitatem quundam simularet, ut et infantem ca  videre posse Diotima censeret,  quæ ille non videre se simulabat. D., tam feliciter ac  subito respondisse. Sed quæstio Diotimæ revera facillima  est ad expediendum, si ipav  verbi potestatem accurate perpendas, et si accentum orationis  non in xi ponas, sed in ipet  verbo. Diximus. de ipav  et <pi\tiv verborum discrimine,  illud viris hoc feminis atque  amasiis attribuimus. Atque ut  illic annotavimus, (piXelv eorum  tantummodo esse, qui capi se ac  teneri patiantur, ita h. 1. addendum est, ipav non nisi eos dici, qui capere atque tenere concupiscant. Haud multum igitur  differt ipav ab ixiSvpeiv; tantum modo ab eo discrepat, quod,  qui ipav dicitur, h, e. stadio  cupiuudæ alicuius rei teneri, is  virili robore gaudere cogitatur  atque viribus, quarum auxilio  possit, quod amet, eo potiri, cfr.  200. E. xal ovro? apa xoii  «AA oS itaS o ixi$vpd>v tov prj  ktoipov ini$vpel xal roO pij    i rapovroS xai o pj/ £*« xal 8  )i?) icJnv avcoS xal ov ivdeyS  icriv, rotavi arra itiriv, cov  7j lxi$ v pia te xal 6 "EpcoS  iOziv.   a A A* ixi xo$ei, £(pij.  Bodi., Vat., Vindob, Angel. habent «AA* ixixo$il. ceteri d\X* 7 ... i   iri XO$ti. Hoc præstautius illo  est. Suspicor tamen, quod et  Riickerto in mentem venit, utramque lectionem coniungendam esse  Platonemque scripsisse: aAA*^ri  ixixo$Ei f præsertim cum legatur in Piat. Protag. 329, D.  rot>r itirtv, o in ixixo$<» f  h. e., das ist es, was ich noch  hinzuwunsche. Paullo infra p»  205. A. xal ovxin x poSvei  ipi<5$ai x. t. A. Ceterum x o$£iv s. ixixo$Eiv de rebus inanimatis dicitur, ut i$i\etv 9  fiov\e6$ai, (fiiXeiv, ut vis quædam describatur rebus illis iuhabitans, quæ cum instinctu animalium comparatur. Diximus de  hoc usa verborum annotat,  144.   < oSxep av ei tiSp.£tafia Aalv. llecte Ficinus participium convertit: mutatis vocabulis. Nimirum cum 201.  C. concessum esset ab Aguthone, pulcrum idem esse atque bonum,  in pulcri locum substitui iubet  Diotima bonum, ut Socrates, cum viderit, quid futurum sit ei, qui  bono potitus sit, deinceps dicat,   i   TCQceas, 6 iodv tav dycc&eiv zL Iqu-,  rtvio&ai, r\v  d' iya, aurei. Kal n ttizcu ixtiveo, « av yivryzai  05 V nycc&cc;  Tovz’ evzoqcotcqov i]v d’ iyio, 'tya dn oy.QivaG&ca, ozi Eudalfim’ tazeu. Kzr/SEi yag, leprj, dya&cov oi EvdalfiovEs tvdcdfiovEg. Kai ovxizi ngogdei  .tQiG&cu, ‘ "Iva xi di pwltzai svSalficav sivai 6 (iovXu[ttvog; cilia zU.og do xtl zyziv r/ dnoxQKSig. 'Alrftrj  liyug, linov lyde.  Tavzijv dij zijv (iovlijdcv y.cd zov quid ei eventurum sit, qui pulcri facultate gaudeat. Ceterum  cur hoc loco aofisti participium  probrmus, 174. B. nou nisi  præseutis participium admiserimus, ratio in propatulo est. Illic enim de actione, quæ lutura  sit, agitur; hoc loco conditiouale  enuntiatum habes, in quo exemplum continetur, quoil noti tanquam fiat, proponitur, sed quasi  factum revfera Socratis animo inducitur,  2tnx paxeS, q  t{>VY rcDY dy aS ojy . Hæc  est unius Bekkeriani codicis lectio, quam et Bekkerus et Stalllaumius in textum receperunt;  undecim codices apud eundem  habent (jcoKpaxtS i pii o ipcov,  in uno tiatxpctref ipd iptor  comparet. V ulgo 6conpaxeS ipcj  p ipGOY legitur, quod Rticker- r  tus iu textum recepit convertens:   Feriude ac si quis mutatis vocabulis roget ^«ic,  age Socrates, dicam, qui  amat cet. Epeo autem ea de  caussa non spernendum censet,  quod iu familiari sermone sæpius dicendi verbum præter  necessitatem mediis verbis  iuscratur. Sed illud præter  necessitatem minime nobis  p lucet ; vide annotat, neque ipeo ad dicendi genus revocari potest, quale est   C. 7 <ou iy<o funoY, n&S rovto,  i<ptjv, \iyetS ; quæ sententia  Ruckerti est. Nara ut ne commemorem quidem, quod Ipeiv  nusquam inseritor hoc modo, sed  (pdvai verbo scriptores semper  utuntur, etiam prima persona  ipeS verbi, quæ in tertiam mutanda erat, Riickerti sententiæ  officit. Postremo ridiculum foret, inserto dicendi verbo ipsa  alicuius rerba indicare eo  Joco, ubi præcedentibus oaSlttp  av ei verbis satis demonstratur,  certi alicuius hominis verba non  afferri. Restat, ut dicamus, qui  factum sit, ut in tara multos codices ipeo verbum irrepserit.  Scribarum aliquis cum iutelligeret, bono in pulcri locum substituto eandem quæstionum seriem nunc repeti, quam iu præcedentibus Diotima Socrati proposuisset, atque verba o ipcov  jcov ayaScov xi ipd apprime  respoudere præcedentibus o’ ipdjv  Tcoy xaXcov xi ipd, factum est,  cum alteram quæstionem cum  altera compararet, atque illic  ipoj præpositum reperiret, nt id  verbum vel negligentia vel imperita quadam sedulitate iu nostrum locum transferret.   HXtjdei yap oi evdaiiQttta TOVTOV 3t&t£Q« XOLVOV tXtt tlVtXl ItUVTOV (IVftQcbitav, xal ltavzag t aya%u flou/.eOftca avroig arca  Kfi, ij nag liyug ; Ovtag, rjv 8’ tyto' xoivov ilvai  navTCJV.TL 8rj ovv, Scpr/, ai ZkbxQateg, ov ndvtag  egav (pttfilv, si 'juq ye itavTf g twv avrav £qg>Oi xal B  ubi, «Ua nvag (pauev egav, tovg d' ov; 0avfiaia i,  f t v 8’ lyd>, xal avrog. ’yJ/.ka fit] &av(iat;’, Stptj’ cttpeXovxeg yaQ ccqu tov fparog tv eidos 6vo(ii£o[iev xo lioveS . Hæc Terba ita conformata sunt, at Etprj non addito ea facillime putare possis uon  Diotimæ sed Socrati aduumerauda esse. Neque opus est, ut  affirmandi vocabulum supplendum censeas, ad quod yap rereferatur. Diotimæ verba arctius cum præcedentibus coniungenda sunt, ut perinde esse indicetur, quis dicat, Socratesue an  Diutima, modo veritas dicendo  eruatur. Iluiusmbdi dicendi generis permulta exempla aperiuntur. cfr. 200. B. dp’ ovV  fJovXotz* dv x is pfyas cdv jtiya? elvai, ij idxvpoS wv idxypoS ;  f A8vvaxoy ht xcdv cJ- s  poXoyjpuvojv. Ov yap z ov  ivSei)? dv eiij tovtaov o ye &v.  Piat. Gorg. 492. E. 2?. ovx  dpa opSoHS Xtyovtai ol pi]8evoS deopevoi evSaipove? elvai .  K. ol A i$oi yap dv ovtao ye  TiOLi ol v ex pol evSaipovidxaxoi  elev .   xv a x i de (i ovÆt ai. Dicitur ira xi ilermauno annotaute  ad Viger. 849. per ellipsin.  Plene, inquit, in constructione  præsentis temporis iva xl yivrjxai, in constructione præteriti  Hva xi yivoixo. Sclileiermamacherus verba convertit: Und  hier bedarf es nun keiner weitern Frago mehr, w e s ha1b    docli der gliiclcselig sein will,  der es virili. Haud facile vernaculam dictionem reperias, quæ  Uva xi verbis respondeat. Ceterum ut recte huius Idci sententiam percipias, (iov\E6$at et hic,  et paallo infra ftovXl]6i5 nomen  ad significandam eum vim, quæ hominibus innata est atque cum oatura eorum couiunctu, adhibetur : der  Trieb. Vide qnæ <1& fiovÆOSai  verbi potestate, atque quomodo  id differat ab iSeÆiv, diximus  44. Igitur xo fiovke6$at  tvdal/tayv ELvai caussam primariam describit studii beatitudinis, ultra quam caussam progredi nemo possit.   xi 6l) ovV. Sententia liæc est: Si omnes homines eiusdem  rei, h. e. beatitudinis sempiternæ  AMATORES sunt, mirum videri potest, cur alios amare dicamus,  alios non dicamus. Sed explicator hoc eo, quod a notione  xov ipdv seiungimus partem aliquam, qua pariendi et generandi  studium exprimitur, idque xov  ipdv atque xov "EpcoxoS verbis insignimus, aliis nominibus  ad ceteras tov ipdv partes describendas utimur.   xiv ds q> apev xov? 8*  ov. Scriptura exspectaveris xov?  ) uev  xov? 6 ov . Positum   tov oXov htitiXtivng ovo/ia rpcorce, ta Ss &XXa aXXots xaTayguixs^a ovofiaGiv.''SlgxEQ rt; ijv d’ lya.  "SlgittQ tads. oiO^ oti itolrjOig iori n TtoXv. ?; yag   ZOL EX TOV fit] OVTOg ctg TU OV loVTl OTlpOVV ahtU XatStt  iGtl jioir\Gig, «gr£ xal cd vno xaScag rafg rlyyai g  C igyaoiai xoujtiu g tlol xal o i tovtcjv SrjtuovQyoi itavTig itoitjzaL  'AXiftij Xeyeig. AXX’ o[ia g, j; d’ ij, olo&’    autem habes pro TovS jiev, quibus verbis uequa conditio prioris atque posterioris membri indicatur, TivuS, ut lector moneatur, pauciores esse, qui amatores et amare nominentur,  inulto plures, qui et ipsi AMATORES AMANTE AMATO sint, aliis nomiuibus insigniri.   dtp e\oyt e £ ydp d p a. In  permultis codicibus dpa omittitur, velut' in Bodleiuuo, Vaticano uno, Vindob., aliis. Rectissime Riickertus ad b. 1. : Ægerrime, inquit, caream dpa particula, qua id efficitur, ut sententia hæc non . pro certa et explorata ponatur sic simpliciter,  sed colligi tantum ex aliis videatur hunc fere in sensum: si  recte ego observavi,   noiqGis s6ri r i 7toXv  h. e. scis id, quod itotydiv vocemus, latioris significationis esse  notionem ( ein weitschichtiger  Begriff). Quicquid euim, cura  nihil fuerit antea, post ita movetur, ut sit aliquid, huic caussam ortus fuisse dicimus noit}6iv.  Apte laudant interpretes ad h„  ]. Piat. Soph. 219- B. ritiv  dreep dv prj npoTepdv TiS uv  vtizfpov ds oixuiav dyy, tov /ikv  dyovxa noielv, t 6 dyojævov 7toiei6$ ai tcov tpapev .  Rodem modo, quæ latissimi signi  ficatus verba sunt, adhibentur a  nobis ita, ut certum quondam,  eamque artioribus finibus circumseptam -actionem exprimant. Sic  dichten de arte poetica, w i rken de textoria, handeln de  mercatura usurpari quem fugiat?   it oirjtiiS ydp tovto poyoy. Ad tovto repetendum est e  superiroibus ro 7(Ep\ r ijv jnovdl W/v xai td fihpa. In sequentibus exovteS tovto eodem supplemento opus est, quod ne minus convenire censeas cum £ xoy rtfparticipio poetæ enim non  habent id, quod dicitur ro' 7tepi  tjjv f. iov6iw)v H. r. A., sed eius  periti sunt ita, ut in carminibus  paogeudis eo utantur, tenendum est: Ix&v verbum haud raro  idem significare atque cognitum habere, ea de caussa,  quod qui aliquid animo percepit  atque ita mente tenet, ut eo  recte uti possit, idem id etiam  habere dici possit commodissime.   ovtgj Toivvv Tiai rtepl  Tov £p G>xa. Hæc brevios  sunt dicta, non item obscurius.  Diotimæ mens hæc est: Quod  de poesi modo dictum est, idem  in amorem cadit. Poesis proprie de omnium rerum caussa  efficiente dicitur, sed usu loquendi  factam est, ut pQcseos nomen ou ov xcdavvTM n oirjrctl, alia alia tyovGiv ovo fiam  aito 6s TtnarjS xijg itoirjGsag %v (toQiov ucpoQia&iv rb  jrfpi rtjv fiovGix tjv xal xa fiixQci x ra xov oAov bvbaaxi  xCQogayoQtvixca. noi^Gig yag tovxo (tovov xaltixca,  xal o t k'%ovx£g xov to x b uoqlov xljg noitjGtag noirycai.  kiyug, ttpijv.Oura xolvvv xal niQi   xov Squtk ' xo jitv wtpuktubv £<J« nuGa rj rcov aya- D    noii niii ad eam poi-seoa particulum describendum adhibeatur,  quæ in re musica et metrica  versetur. Iam ad verba accedamus to fihv xEtpaXaiov ipoaS  Ttctvziy quæ ad hunc usque diem  interpretum studia misere eluse*  runt. Stallbaumius expungenda  censuit verba o piyidTof te xal   'HoXepoS SponS itavxi. Riickertus  contra se ita semper sensisse  annotat, quoties vel secum hunc  locum tractaverit, vel cum aliis,  miro eum ornatu spoliatum iri,  si vel una hic litterula sublata  aut mutata foret. Recte igitur  Lticiauus ait epigr. V, v. 3. Antholog. Iacobsii .   * ovdlv iv ctv^pGDrtoiui SiaxpiSov  idn voTjfia,   aAA * o dv $avj.id%EiS, rovt  kxepoidt yiXaS,   Ratio verba tractandi, quæ Stallbaumio placet, ut audacior, ita  miuus commendabilis est. Riickertus autem totius loci sententiam plane non perspexisse videtur: Ut particulam tantummodo eorum hic repetam, quæ  in eius annotat, ad h. 1. ed.  169. leguntur: Quod vos de vestro soletis Amore prædicaro,  maximum deum esse et callidissimum, qui neminem non decipiat y id multo valet magis de  beatæ vitæ cupiditate, qua omnes omnino homines velint  nolint plane irretiti sunt du -*  cunturque naturali quadam necessitate non aliter, ac si magicis artibus sint delimti. Quo sensu ipse supra 203- -D. $£tvof  yoyS xal tpappaxEvS xal doq>idTtj$ audit. Diolimæ voluntas hæc est; Loquendi usum ut  in poesi, ita in amore nomine  insigniendo versatura esse, atque  amorem et amare et nomen  amatorum iis tantummodo tribuisse, qui amoris particulam unam  sequantur. Summam autem amoris  omnem bonorum cupidinem esse,  atque beatitudinis quidem cupidinem esse maximum doXcpoy)  amorem (iravtl). Vides igitur,  to /xk v xEtpaXaiov et tov svbaipovtiv sc. T tjv &itl$vp'iav sublecta enuntiati e$e. To XEcpdXaiov autem primariam alienius  rei notionem describit ut in Piat.  Gorg. 453. A, hiystS, otl  izeiSovS drj/uovpyoS Idxiv ?/  fnfxopixi } y xal 7 } 7tpaypaxdot  avxijS aitada xal to xecpdAaiov eIS tovxo TEXevxa h. e. Stalhbaaraio interprete : dicis rhetoricam esse persuadendi opificem omnemque eius operam atque  summam ad hos tanquam ad finem suum referri, ut aliis persuadere possimus, quod volumus.  Iam nostra verba convertenda  sunt: Der Grundbegriff  &av hiitivula xal tov tvSaipovsiv, 6 lilyctitog re  xal SoIiqos %qg>s navtL • <x)J.’ ot fiiv ciXbj rgexofiivoi.  ltoX}.a%rj in’ avtov, rj xaxcc xgr^auGfiov tj xaxcc qii}.oyvava6rLav ij xaxcc cpti.oGocpiav, ovt’ igav xaXovvT at, ovt IgaGtai, oi de xaxcc tv n elSog tinnis rs xai  IcSnovSaxoTig ro tov oXov livocia ia%ov<Uv, agaxd re  xai iQuv xal igccGzaL KcvSvvevus dh]&rj Xiyuv,  hcpijV lya. Kal Xiyetai fiiv ye ug, icprj, Xoyos, co$    der Liebe ist iedes Streben nach dem Guten, and  das Strebcn nacli dem  liochstcn Gute, d. i. nach  Gliickseligkeit, ist die  grosstc Liebe. Restat, ut  dicamus de verbis xal doÆpoS  TtOLVXly quæ nou dubium est,  quin corrupta sint. Antiquitus scriptum fuisse suspicor: KAIKOIKOCEPflCTIANTI, in qua scriptura tripliciter peccatum est a  librariis. KOI enim, quod haud  fere multum discrepat a KAI,  omissum videtur ab cq esse, qui  xai dupliciter posituin putaret.  Hinc enata est, cum forte, ut  fit (vide annot, p* 170.) J$F£IC  duplicaretur, hæc scripturæ forma: KAI NOCE mCErflC ITANTI i ex qua dictum est, una lineola in littera N deleta, ut non  nisi A figura remaneret: xal  Sodtpt HpGDf Tiartl. Ex hoc  autem sciibam aliquem, qui  callidum Erotem sciret, fecisse  verisimile est xal doXepof ipoot  itavxi. Ut autem couiecturam  nostram xal Xoivds^EptoS itavxi  ipsi probemus > præcedentibus  verbis efficitur 205. A. rort;t 7jv Sl Tt}v ftovXvdtv xal tov  i p cata tovtov itotepa xoiyoy  oi n . etvai izdvrayv dv^pcjitcov  xal navtaS xayaSa fiovÆoSai  avtolS tivai adi, ?)' tzcjS Æ  yeiS ; OvtcoS, jjv d * iyco et  quæ sequuutur, quibus verbis  accurate examinatis doceberis,  nostro loco xoivvS nomen vix  abesse posse. In Schleiermacheri conversione legitur: Soauch  vas die Liebe betrifft, ist im  allgemeinen iedes Begehren des  Guten and der Gliickseligkeit  die grossle und heftigste (?)  Liebe fiir ieden. Iu Schnlthessii conversione edita ab Orellip  123. exstat: Im Allgemeinen niimlich ist iegliches Yerlangen  nach dem Guten und nach  Gliickseligkeit fur iedeu die  grbsste, ihn bestrickende  Liebe* Ficinus verba convertit^  Nam summatim quidem omuis  bonorum felicitatisque appetitio,  maximus et insidiator amor  est cuique.   aXX* ol p\v ot-Wy x. x. A.  UAXd particula adhibita, a rei  commemoratione, qualis revera  est, ad loquendi usum traositur,  quo non res integra suo nomine  vocatur, sed rei alicui parti inintegræ rei nomen attribuitur,  cfr. 204. A. £n. rl 8if ovv,  gJ ^GonpaTtS, ov izdvxaS ipdv  (paptYy eh zep ye itavxeS xcav  avtaiv ipcAoi xal æl } dXXa  xivaS epapev ipdv, xovS 6 * ov; Tpenopevoi de indole atque  naturali quodam instinctu dici—    ot av to SfoutSv iumav fyjTuGiv, ovroi IqucSiv ' 6 6’ E  ifiog koyos ovxs ^fiiæog <pt]6iv ilvcu tov £q(otcc cirts  olov, eav fit] xvy%ctv]] yi xov, m Itcciqe, ayaQov ov'  ix fi avrav ye xal xodag xal x^Qctg tfttlovOiv axot tftveiS&ca ot «v&qcjxoi, iciv avtoig doxjj r a iavtav  XovtjQa efoai. ov yaQ ro iavtcSv, otfuu, txaGtoi aona£ovtai, tl fit] i'i ng to fiiv aya&ov olxtiov xaXil  mi eavtov, to 61 xaxov akkotQiov. ag ovdiv ys aUo    tor, at 191. E. udat Si tdcrv  yvrauaSy ywaixoS d (5iv y ov Ttavv ctvxai xols av~  Spa6i tov vovv TtpoSexovdiv,  d\Axx pctWov itpoS xaS yvval xaS xexpajupivai eidlv.  Pro ol ptv a\Ay vulgo legitur  non male oi ptv aWoi f quæ  scriptura quoniam codicum optimorum auctoritate improbatur, e  verborum ordine expellenda est.  Minus nos movet Ruckerti argumentum dicentis, ol piv et  ol Si sibi opposita esse. Quem  enim fugiat, præsertim cum æqualitate quadam careaot, oppositionis membra interdum verborum numero et conditione non  apprime sibi respondere. xal Xeyexai jxiv ye,  Miv ye particularum cognoveris vim et potestatem, qnando  xal Xiyexat ykv et xal Xiyexai  ye seorsim utrumque posueris. Altera particula efficitur, ut Diotimne sententia hominum quorundam opinioni opponatur,  qnam Aristophanes protulit, altera vis oppositionis augetur atque extollitur.   ovxot ipaititv. Sæpias  iam diximus de transitivorum  verborum usu absoluto, cuius ea  natura est, ut casu adiuncto nullo non actio quædam, sed notio prematur verbi. Positum  igitur hoc loco habes ovxot  ipadiv pro ovxot IpcovxiS  \tidiY, Ceterum Wolfius annotat ad h. l.j Was Aristophanes liber die Trennung derMenschen sagte, wendet Socrates  hier zu einer ernsteren Absicht  an. Alles, was iener vorgebracht hatte, beruhte anf einem  falschen Gebrauch eines Ausdrucks, der damals beinaho  spriichwortlich gewesen za seia  scheint, dass Liebhaber ihre aaderen Ilalften aufsuchen.   &itel avxcvr ye xal noSaS xal xelpaS x. r. A. Do  iitil potestate vocabuli supra dictum est annotat. Ceterum adhibito pedum manuumque exemplo, qnas sibi abscindi iubeant, qni illas non bonas  esse cognoverint, Aristophanicao  orationis argumentum concidit*  Fieri enim nequit, ut dissecti  homines tanto ardore, qnantom  Aristophanes descripsit, alteram  sui partem expetant, cnm et ex  altera, cuius ipsis potestas sit,  exscindi patiantur, quæcunque  vel mala sint,, h. e. morbosa  et doloribus afiecta, vel ad usum  parum idonea.   ei / 11 } ei rtf. De ii particula post ei jujj repetita M&t18   206 i&tlv ov igoldiv av$Q€Oitoi r) tov aynftov. rj dol 80xovdr, Ma At ovx &iiovy£, yv 6* lyeo. *Ag ovv>  y S’ ijy ovtcog aizlovv It Iri Xeyeiv, ori ot av&QGMot tov  i fcc&ov igcSac; 2 Val, Zcprjv. TL de; ov XQog&et&ov,  iqrrji ori xai eivai 1 6 dya&o v avtotg egco6i ;  IJpog&8TSOV. r Ag ovVy %<p*h xcu ov (tovov eivai, akka  ual dei uvcu\ *— Kcd tovxo itQogftexiov» "Edtiv    thiæns egit in Graram. ampl. $.  617. d. 1249., obi laudantur Thucydides I. 17. inpa%Sjf di z* ctvteHv ov6\v ipyoY  dZioAoyov, ei fit} ei xi npdt  tteptoiHovS tovS avtdSv kxdOtoiS. Piat, de rop. IX. 581.  1 ). tl ftt/ ei nS ckvtqSy dpyvpiov Ttoiei. Prorsus eodem modo LATINIS id usu est nisi si.  Ditfert autem el fit } ab ei fit/ el  Ita, ut el fn} nihil denotet, nisi  exceptionem, quæ ad id refertur,  quod sequentibus verbis expressum est; el fit} el autem, exceptionem per se poni indicam videtur ciqne conditionem quandam subiuugi, ut si nliquid fiat  aut non fiat, exceptionem revera adesse docearis. ov Ipcodiv avSpcjirot,  jj tov dyaSov. Aliquot libri ol dv^pamoi, Sed non opus  articulo, cuius omissio admodum  usitata est in eiusmodi vocabulis, qualia snnt dvt/p, d8eA(pot f  yvvtj t yij, alia, quum de genere  posita sunt. Stallb. De genitivo, qui in verbis continetur  ?/ tov aya&OV Mnttbiæus disseruit in Gramm. ampl. $. G31»  2. 1299., ibiqnc ?/ r ov acya *'  3ou positum esse monet pro  t) tq ayaSov. Nominativum  incepta verborum structura exigit quidem, sed cave, tov aya  $ov minos recte habere censcaa  aut loqueudi usui parum accommodatum. Nam verba, quorum terminatio ad præcedentium verborum structuram conformanda sunt,  loquendi usus iubet, ubi duplex  structura in præcedentibus reperitur, ad eorum verborum structuram accommodari, quæ vi  quadam præcipue emineaut. Cum gravitate nutem h. 1. dictum est  ipaidiv, quandoquidem nou de  actione verbum accipiendum est,  sed de efficacia notionis, quæ  verbo finito expressa est. Vide de liac verborum transitivorum potestate annotat.  Positum igitur est ov ip&idv  arSpooTtoi pro ov ipadrai el6iy ar^pooicoi. Ad geuitivum  autem relativi pronominis, cum  deberet proprie ad verba d)S ov~  6iy ye dXXo Idxiv referri, relatum censent interpretes i/ tov  Ctya^ov. Recte, Possis fortasse  t/ cum genitivo etiam ad id diceudi genus referre, quo ponitor  haud raro præcedente aliquo  comparativo ?/ cum genitivo, cfr.  Mattii. Gramm, ampl. §. 450.  2. 844.   t ) 6 vi 6 oxovdiv sc.dAAov  TtvoS ipadtai eivai i/ rovxov.  Tf vulgo edebatur olim, quod  primns fuit Astios, qui in y mutandum censeret.  aga fcuZAyjldi/v, fqyij, 6 1'gog rov to ayccdov avxw elvai  de L 'Jhj&etixaxa, ErpijV 4yw, liyet-g.   Cap. XXV.   "Oxe d>j rovxov 6 Eqoj g eOxlv, rj 6’ i}, ruv riva, xqo- B  xov duoxovtav avxo xal Iv xLvi xgdfei tj Cxovdrj xcd    ap 9 ovVy rj 8* 7/ 1 ovroaS  anXovv, Vulgo legebatur i/6rj  pro 7} 8* rjt quod Bekkero debetur.  Illud potest ferri quidem, sed hoc  non dubium est, quin sit rectius  atque verius. OvtooS ditkovv est:  non addita accuratiore  definitione, tam simpliciter» Non perinde est autem,  utrum præponatur an postponatnr ov^goS vocabulum verbo, ad  quod pertinet. Ubi postpositum  est eidem, ovtooS ad præcedentia verba respicit signiilcatque .*  hac, qua diximus, ratione; contra suo verbo præpositum, quamquam illum SIGNIFICATVM non amittit, tamen notionem aliquam adiungit, quam dubitativam interpretari possis»  Eo nimirum animo est, qui verbis ovtgdS aitXovv utitur, ut qui  aibi rem non plane probari indicet. Hinc mireris simplicem  Socratis assensum val, £<p7jv 9  qui documento est, Socratem fatuitatem quandam simulare, de qua supra diximus annotat.   xal ov jiovov elvai t  exXXd xal æl elvai. Vulgo  ctXXdc oiel elvai legebatur omisso  Hod vocabulo, quod hb iis deletam est, qui putarent, xal  iam in præcedentibus positura esse xal ov povov elvai.  Frias istud nui autem non du  bium est, quin ad totam enuntiationem pertineat, additumque  sit, ut significetur, aliquid, quod  in præcedentibus contineatur, hoo  loco repetendum esse, ut expletior oratio audiat: ap’ ovv, Hqrtf  ov xal 7tpo6Seriov a ov povov  elvai y aXXa xal dei elvai . Diximus supra annotat, p» 74. de  ov povov dXXa xal et oi *  povov aXXa. Hectissime autem  Stallbaumius ad li, 1. ov poyov aXXdj^ inquit, omisso  xal Tion nisi iis dicitur locisy  quibus alterum orationis membrum tantam habet vim et gravitatem, ut quod in priore membro dictum erat, id corrigatur et  quasi prorsus tollatur .   ore dr) rovrov o $pv)S  idriv. Additur vulgo dei  post ititiv, quam voculam suspicor eidem deberi, qni 204E. scripsit $epe, cJ ZSoZxparef,  ipdo, Toiy dyaScov rl ipa. Vide  annotat, p 268. Explicabilem  tamen voculam censuit atque iu  ordinem verborum recepit Riickertus, qui et vulgatum rovro,  quod Bastio praccunte editores  fere omnes' iu rovrov immutarunt, probavit annotans ad h. 1.  Dejendi librorum structura posse  videtur . Quamquam enim quid  vulgari in usu rebusque humanis  amor vocetur, nondum est  probatum, tamen quid esset, 18 *  jj Cvvradiq egas Sv xctXoito ; tl tovto tvy%dvu ov r o  £gyov;' £%hs tlxiZv ; Ov plvz *&v <5s, Bgnjv iya, ut  AwtlffM, tfrav[iaf:uv tnl (Sotpia xal tcpokav tcuqu ai  avta tuvra iia&rjaofievog. ’slXX’ lyco tfot, h<p>J, iQu>lati yciQ tovto tonos *v xaXa xal naxa to Odifitt xal  xctta tt/v ipv%7jv. Mavtilus, tjv 8’ iyco, SsCtat o tl    affatim docuere, quæ præcedunt.  Si igitur statuamus huiusmo di hic  Jieri • transitum: quandoquidem  AMOR hoc est sernper (bonorum  sc. sempiternæ possessionis appetitio), age iam quid vulgo AMOR appellatur ? quis est, qui reprehendat? At hunc ipsum sensum  verba fundunt, si tovto legitur ♦  Becte tovto lUickertus retinuisse videtur, quamquam minus recte  enuntiationis totius sententiam  explicavit. Non enim commemorata erotis natura quæritur,  quid vulgo amor appelletur, sed  a theoria, quam vocant, erotis  ad praxia transitur ita, ut cui  studio Erotis et cuius rei appetjtui erotis nomen conveniat,  Diotima sciscitetur. Ceterum  perinde est, utrum dicoxovtoov avto scripseris, an 8icdxovtcov ccvtov y adest enim in  præcedentibus, quorsum utrumque referri possit. Vulgatum  hoc est, illud codices optimi  præbent, idque a nobis in verborum ordinem receptum est, quod  sane Sigjxeiv commodius ctyn re  aliqua, quam quis persequitur,  quam cum Erotis nomiue consociatur.  rt tovto tvyxaY&i <> v  ro tpyov ; txeiS elrcelr;  Post tpyov interposui signum  interrogandi, quo maiorem haberet oratio vigorem et alacritatem, Qna in re secutus sum auctoritatem Heindorfii ad Piat. Charmid. p.l62.B. nbi hæc leguntur :  tl ovv dv elt) nort td rd tavrov npdrteiv; txetS dnetv ; Infra 207. B. rd Sc Sijpla r/S  ahia ovrutS iputnxutS SiariSe6$ai ; A tyciv ; S t a 1 1 b.   ov pevr’ dv di, tcppv  lycd, ut dioripa, iSavpa^ov irci dotplqi. De altero conditionnlis enuntiatiouis  membro omisso vide quæ supra  annotavimus annotat, 242.  Ceterum Græci accuratiores quam  nos Savpapeiv riva irci rivi  dixerunt pro Savpd&iv tl nvoS. Illius structuræ exemplum  est Tlat. Menon, 70. B. co  Mtvutv, rtpd tov ptv fltrraXol  evSdxipoi rjeav iv rois KAA 77 Qi xal iHavpdSovio iip’ Inmxy re xal nXovrut, vvv St,  cos i pol Soxei, xal ini doqtiqc. tPoitdv verbum frequentativum est, atque ire et redire  significat, cfr. Plat. Critou.  43- A. SvvifiqS t/Sij pol idrty,  ut 2utxpateS, Sia rd no XX a XIS Sevpo qtoitdr. Hinc  solenne est de discipuli» scholam frequentantibus. Iam expendas Socraticæ modestiæ acumen, quo ille etiam alias haud  raro utebatur, ut sententias aliorum facilius eliceret. Diotima  autem missis ceteris verbis, quæ  ad rem non pertinerent, quasi  nihil aliud, quam ovx olSa iyatye Socrates dixisset, trAA iyut  iput respondit.  xors Xlyeis, xal ov fiav&ava. 'AIX' lya, y 8’ i}, Oatpi- C  Crepor £pta. xvovCi yccQ, Ecptj, w Xaxqcxxes, narres  av&qaxoi xal xara ro (Sapa xal xara rrjr xtyw/fl», xal  baiSccr Er rivi j/Atxta ytvcavxca, rlxreiv badvpsi rpiav  rj < jniGig . xixxtiv d"s iv fuv alc%Q<p ov Hin) cacti, Iv 6h  rcy xaltS. xal ov par Sarto. Interdum Græci, quæ per caussalem  particulam proferenda erant, copula adhibita cum præcedentibus coniunxerunt. Sic hoc loco  pro xai ov pavSava), quibus  verbis caussa continetur, cur dicat Socrates pavxsiaS delxat, o  ti 7tote XlyeiS, ex nostra certo  Latiiiorumque dicendi consuetudine scriptum exspectaveris: ov  yap fjiavSttVGd. Exempla non  rara sunt huius dicendi osus.  Unum ut aderam, in quo vis illa  xal vocabuli præcedentis verbi  significatu tectiore panllisper obscurata est, legitur in Plat. Lachete 194. c. 22. 2. jjxovtias,  do AapjS ; A.*Ey<oye* xal ov  (jtpodpa ye pavSdvcj D Xfyei,  quæ verba rectissime explicata  suut a Ribbekkio, quem Engelhardtus laudat ad Lachct. ed.  60. Annectitur, ille inquit, ov  yavSavcj ver iis fycoye axtjxoa  non ut oppositum, sed ut effectus,  Minus id quidem sentitur, quia  negativum enuntiatum sequitur,  sed inest ei affirmativum • SavpaZoo (ov ydp pavSdvGo o ti  Tfyti) Sic nos optime diceremus:  Ia ich habs gehort und wundre  inich, wie er so etwas sagen  kann. Displicet in hac verborum explicatione uuum hoc, quod  affirmativum verbum negativo enuntiato inessc dicitur. Illud  3 « vfictdjiiv inest potius iji Socratica interi ogatioue i/HOvdaS',    co Aaxqti quæ verba 8ocratfcm  protulisse consentaneum est vultu  summam Critiæ admirationem  exprimente: Eodemne, quo ego, o Laches, stnporo  atque hominis admiratione verba hæc audisti?  Cui ille, audivi, inquit, nam  haud æque, quid sibi velit, i ntelligo.   tjpdov rj tpvdif, Cum præcedat itdvxeS avSpaoitoi, scriptum exspectabas avxcov rj <pv<5iS. Nihil ad hunc locum annotatum reperio ab interpretibus, ut mirer, neminem in verbis rjpdtv  7 ) tpvdiS offendisse. Schlciermacherus verba convertit : Alie Menschen namlich, o Socrates, sprach  sie, sind fruchtbar sowol dem Leibe ais der Seele nach, und wenn sie  zu einem gewissen Alter gelangt  sind, so strebt unsero Natur zu  erzeugen. Mitigata est Platonicæ  dictionis durities Ficini couversione hac: Omnium, o Socrates,  hominum prægnans et gravidum corpus est, prægnans et anima;  et cum primum ad certam ætatem per venerimus (ysvcjyXOLi ), parere 'nostra natura cupit, Illam duritiem, quæ mitigata est, ut dixi, Ficini conversione, non item excusata, quomodo ego excusem, non habeo, nisi fortasse in 6crmone familiari, qualis hoc loco refertur,  dicendi quamlam licentiam at'r   'H yag avSgog xal yvvruxbg Svvovala roxog idrlv,  ?<m da tovto &uov to ngdyy,a, xal tovto Iv &vrjrc3  ovn tc 5 %com afravarov Ivtativ, t/ xvrjdtg xal rj yivvrj<5ig. ravra 8’ iv ta avaguoStm ddvvarov yevtci&ai.   D avdguoOrov 8’ fOrt to alo^gov navrl rta ftdip, ro di  xalbv dgjiovcov. Moiga ovv xal ElXtl&via rj xakXovi} quo negligentiam concessam esse  credideris.  ?/ ydp avtipdf xal yvvaiHoS 6vv ovdia xoxof  Itiriv. His verbis adeo offensi  sunt Astius et Ruckertus, ut delenda censueriut. Hiickertnm  audi annotantem ad h. 1« : Verba  hæc qui legat, nec ceteram Platonis rationem perspectam habeat, non potest is aliter existimare, quam unicum Platoni eum  amorem esse, qui utriusque sexus  mutua consuetudine contineatur,  Neque enim aut præter cetera  hunc quoque significat partum esse, requireretur tum xal  semel vel bis positum, aut  primum se hunc amorem tangere  velle indicat, ac deinde de ceteris generibus, immo in sequentibus de universo amore agit ita,  ut nihil in præcedentibus de singulari quodam eius genere dixisse videatur. Atque Plato tantum abest, ut solum illud commercium amorem putet esse, ut  in hoc ipso congruat vel maxime  eius Tatio cum ceterorum Græcorum ratione, quod nec solum  existimat, nec potissimum hunc  amorem immo ad vilius hominum  genus eum putat pertinere. Hæc  verba licet habeant aliquam speciem veritatis, tamen non ita  nobis persuasit V. D., ut cum  eodem verba delenda censeamus.  Neque probumus, quæ Stallbauinio placuit, verborum 'explica  tionemhanc: Nam nt primum  dicam de viri mulierisque coitu, is nihil aliud est nisi ToxoS,  In quo protecto cernitur divina  quædam vis, ut hominum genus  propagetur atque nanciscatur immortalitatem. Diotimæ mentem verba declarant xvovdi ydp  itdvreS avSpcoitoi xal xara  ro deupa xal xard tt)v  iftvxVYy quibus aperte indicatur, disputationem de partu in  duas partes divisum iri, atque  in altera parte de corporis, in  altera de animi partu sermonem  futurum esse. Ac de corporis  quidem partu disserens aliud exemplum laudare non potuit, quam  viri mulierisque conjunctionem,  neque opus erat additis quibnsdam voculis indicare, etiam alterum genus esse toxov, quod  hæc indicatio satis manifesta  facta est verbis xal xatd njv  fvxqv.   xal tovto er SvTjTa  orriTu{uffi dSavazov  Ir edriv h. e. xal o Iv  $v7/r<jS orti roJ Zcitp d 3 rixar ov {veOtiv, tovto  iOT iv, 7} XVT/Sif xal ij  y tvY7]<Sl5, Sententiam quod  attinet, cfr. Piat, de legg. IV,  721. C. yap&v SI Siar 0 T/S>cvTa, a )S iOrir, y to drSpooTtivov ycvoS qiv6et Ttrl  ptxdhjiptv dSavadiaS • ov xal  trttpvxey ImSvpiav idxzry  ttuCar. 46 ydp yevcOZtai xAti  itft* rj/ yevldsi. 6ux taura ototv [tiv xaXeS jr&o&ieia$y xo xvovVj ilscov x s yiyvsxai xal evq>Qaiv6fUvov  dutis Itat xal tlxxu ts xal yiwa * otav ds cdOxQMy  tixv&Qaaov ts xal Xvnovfisvov CvtinuQaxca xal anotQhtsxat xal avelXXsxai xal ov yswa, «AA* Xti%ov xo  xvytia xalenws qp£$£t. d&ev 6 i] zcp xvouvxi xs xal    vdv, xal jxp dvdovvnoY xeidSai  ter eÆvtjjxdxa, xov xoiovxov  idrlv imSvyfa. yivoS ovv  dv^pdmaov itiri • xi %vft<pvh&  x ov navtoS xpovov t o 8ia te AovS aura) dvvenetat xal 6werpetcti, xovtw xo5 x poncp d$avaxov ov' xoo xaidaS naiSoDV  xaxaXiitopevov, xavtdv xal %r  ov dei yevetiei, rijs aSavadlaS  4 iexetXytpevca. xovrov 8rj anoeSxepelv bcdvxa kavtov, ovSenore odior. ix npovoiaS 8*  dxodtepel oS* dv naldcov xal  yvvatxds dpeXy. Adde. A. xal 8r/ xal 3 rd,  fynpodSev tovtcdv fnjSlvxa, ds  Xpy Xfjt deiyevvovS (pvdsajS  dvxtxxGScti, rci5 TtaldaS jratS&iv  xaxaÆiitovxi dei r<f> Stco vnt/ pexaS JvS’ avtov napadi8orai. Motpa ovv xal ElXei 3 vt a ?} xaAAovj} x. x. A.  Quia dv8poS xal yvvaixd S dvv ov 6 i a est divinam quiddam, divinum autem non nisi cum pu1cto habet couionctionem; proptcrca pui erit udo est  qnasi qvædam obstetrix et conservatrix (?) vitæ.  Stallb. Non mirum, Moipocv  una cum Ilithyia hic commemorari. Nam ut apud Homerum sexcenties cum Morte coniuncta  repentur, tTl numen SIGNIFICATVR,  quod fiocm vitæ adduxerit, ita  eadem h. 1. propter iuitium vitao laudatur. Convertit verba Schleierraacherus: Eine einfiihrende und geburtshelfende Gdttin also ist die 8chbnhcit der  Erxeugwng.   iÆojv te yiy vexat. Repentur post xe particulam vulgo  8ij additum, quod sane habet, quo  se lectori commendet; verura qaoniam in codicibus plurimis optimisque non comparet, ex ordino verborum expellendum fuit.  8iax^lxai verbum, quod paullo infra legitur, summam animi  liilaritatcm indicat, qua prueeprdia quodammodo explicantur atqno dilVunduntur. 8ut][ii(j$at  verbo nostratium aus gelassen sein apprime respondet. E coii; trario vernaculum Angst ab  angusto Romanorum derivatum eam animi conditionem describit, qua præcordia contra  huntur atque nimio sanguinis confluxit premuntur. Hinc explicabis dvdneipdxai verbum, quod paullo infra occurrit, et  quod Scbol. explicat: dvdn Elptixai • tfvdtpetpexat.  xal dvelAAtrai. Summa  exstat apud Grammaticos discrepantia in scribendis verbi ftMfct*  A td$ai formis. Nostram scripturam, quæ et apud Bekkerum et Stallbnumium reperitor, Bodkianus exhibet, adde  Vimlobb. tres, Florentinos duos  •liosque non paucos. Vido lltrfuikenium «d Tim. L» V, Piat.   E fjdrj Citapywvn itoXlrj rj Ttrotydig ylyovs nsgl xo xaXov dia xo psydXijg codivog dnoXvtw xov Inorna. Idti  •yccQ, cJ ZaxQares, ignj, ov zov xaXov 6 tpcog, tSg dv  oXh. AXXa rl iirjv;  Tijg yswijdBGig xal tov roxov  Iv r« xaXa.  Elsv> v\v d’ kyej.  JIaw plv ovv,  &pi]. Tl drj ovv tijg yswqasag;  "Ort dsiyBvig  Idzt xal d&avazov cog &v7jza rj yewrjdig. dftavaoiag  207 dh dvayxalov itudvjuZv (iszd dyaftov Ix zav «S /toAo  69. In uno Bekkeri codice aViXXexai legitur, quod Atticum  esse censet Astius ad h. 1. Apud  Phrynichum exstat : dvetXeiv fitfiKior 81 * IroS X xaxidzov  «AAa 8ia r qjy duo avdXXEir,  ad quem locum vido annotat.  Jjobeckii 29*   «AA* tdxov zd xvypa  X& Xs7C gjS '<pep£i . Notabis  Jioc loco Græcæ linguæ idiotismum, quo verbum finitum est,  quod participio Expressum esse  oportuit, participio expressum est,  quod verbum finitum esse nostra  dicendi consuetudo exigit. Proprie igitur verba scribenda erant:  <*AA ?<?£« z o xvypa xaX£7tu>S  tpipov. Vido Indices»   o&by 8 y t<jj xvovvxt T 8  Hal y8y dTtapycjYTii apyuvxt quid significet, schol. ad  li. !. explicavit: oppcoYXt, opyoovxi, zapaxxopivoD, y av~  Sovyzi. XapfldvEroci 81 xal  in i zgjy padS&iv TCinXypoapkyody ydXaxtoS. Timæus habet:  dnapvcSda • zapatxofikvy vito  2A iif>£G)S xal 8eopivy IxxpiCtooi tiyoS. Coniuncta participia habes za5 xvovvxt zs xal  fj8y dnapytavxt ita, ut posterius  prioris notionem contineat quidem, sed eandem impense augeat. Describit autem dnap - yacv verbum ad philosophiam  translatum eius hominis conditionem, qui ardenti cupiditate  sciendi ductas haud procul a  sciendo se abesse sentit, idque  iam ia eo est, ut consequatur*  Iu sequentibus vulgo legitur  itoXXt) y itolydiS, quæ scriptura  nullo modo ferri potest. Felicissime Abreschius io Dilucid.  Thucyd. 420. scribendum esso  vidit itoXky ?} ictolydiS. Jlxoly6 iS animi commotionem exprimit, qua efficitur, ut aliquis impos  sui reddatur. Hacc nominis notio quam bene cum dnapyntv  verbo conveniat, neminem non  videro arbitror,   8 ia zd peyaXyS  foV  IXOYza h. c. quod sciant magnis doloribus se liberatum iri,  si phlcro potiantur. Repetendum igitur est ad Ixovxa participium avzo.   doS dv oIei. cfr. p, 201. E.  dx^dv yap zi xal iyoo npoS  avxyv izspa zoiavxa. iXeyoY, car efy d "EpooS piyaS SeoC,  ely 81 zcoy xaX&Y. Paullo  ante ne mireris i<py additum  esse in enuntiato, cui oou præcedant alius personæ, sed Diotimao verba, vide annotat,  249. Verba nostra convertenda  •uot : Es iit nam licii, oSo- $  ytjiiivav, dbtSQ rov raya&ov £ correo tivat as i 5 sgas  iozlv. dvccyxaiov 8fj Ix zovrov rov ioyov xal zijg u&avaoiag rov Spara slvat.  Cap. XXVI. Tavta ts ovv navta IdlSaOxs fis, bnvts ftegl riov  tgauxcav Xfryovg jrotoiro, xal aors ijgsro' TL oi'st, u    crate», waren IhreWorte,  die Liebe nicht das Streben nacb dem Schdnen. Quibas auditis Socrates sciendi  motus aviditate, quo celerius,  cuius rei Eros esset, edoceretur,  verbo eo usus est, quod Diotimam proprie adhibere oportuit:  dWdc, Stallbaumius post ri pyv  supplendum esse censet aAAo, de  cuius verbi haud infrequenti post  T i omissione supra diximus annotat. Nostro loco minus hanc aXko verbi omissionem  probaverim j accentus orationis  nou in ri, sed in prjv ponendus  est ; respondent autem Socratis  hæc verba apprime nostratium:  •ondern was d e n n f   Elert yy 8 9 iyco. Lineolam posuimus post iyoS, qna indicetur, Socratem nimis impatientem disputationis tardius procedentis, coucessisse quæ audisset, inconsiderantius, ut celerius  cetera perciperet. Sed priusquam novam suam quæstionem  institueret, Diotima gravitate rem  . rursum affirmavit quasi admonitione hac usa; Hem accuratius  perpende, neque quod non aatis  perceperis, concedere noli. Diximus de fikv ovv voculis annotat. 250.   rt 8y ovv tyt ytvrr} 6eoof; Haud dubium est, quia  aliam quandam quæstionem in  mente habuerit Socrates, cum elev  responderet. Admonitus autem 9t  Diotima, ut consultius rem examinaret, rl St) ovv TtjS yevvygoS dixit. Nihil auteih ad xrfi  ysvvjjdeooS genitivum supplendum est. Petitum enim r yS  ytvyjjOscoS verbum esuperioribua  est ita, ut indicetur, hoc potissimum in Diotimæ enuntiato  præcedente accuratiore explicatione indigere. Ceterum 5?/  ovv et ovv 8y ita diilerre ait  Stallbaumius annotat, ad Piat*  Critonem ed. 128., ut differant vernacula also nun et  n[un also.   wf Svyto) h. e. quantum  eius fieri potest in eo, quod  per se spectatum morti obnoxium est. Recte igitur Riickertus ad hunc locum, verbis  $vf]T(k) limitationem quandam  inesse censuit. cfr. Matth. Gramm.  ampl. §. S88. a. 710*, ubi  Sophoclis laudatur Oed. C. v.  2Q. jxctxpdv yap, oot yipovxi t  npov6rd\yi o8ov . Piat. Soph.  226. C. r ax&ocv, coS ipoi,  tixhpiv licixdxxzis,   elitEp rov rdyaSov  kcrvza) elvai asl d HpatS  i 6 X i v . Sic Bekkerus et Stall2koxQcct£s, vtTttov tlvat xovxov tov iourog xai xijg tiudufiiag; y ovx alo&dru tog dsivwg diaxt&sxai navxa xa &yqLu, Insidar yswav im9vity6jj, xai xa ns£a xai xa  B nxyyu, voSovvrd rs navxa *ori igauxws diaxi9i(iBva    tanmius locum emendarunt, qui  vario modo depravatus repentur*  Vulgo legitur elitep tov ctya$ou. In Vindob, ono rayaSov  comparet, hinc emendationis illius præstautiam expendas. Sed  etiam, Biickertus inquit, vulgata  lectio, quam plurimi libri tuentur, proba est. Construe : ehtep  Toi) dyaSov EpaS idtiv, quibus  iZyyTftiXGoS addita sunt verba  iavtco tlvat dei. In quibus supplendum est subiectum 6 EpcoS,  quod adest EpcoS, prædicatum  est, nisi forte mavis cum Bekkero, Dindorfio, Astio, Stallbaumio inserere 'sine libris articulum, quo fiat, ut subiectum adait, prædicatum supplendum relinquatur.   OltOZS Tt£p\ ZGJ n ipGDtl xtxdUv \6yovS noiolxo*  Sæpius igitur Diotima de rebus  eroticis cum Socrate disputabat,  id quod etiam colligere licet e  verbis 206- B.* ov pAvx* dv  dfe iSavpafiov iic\ docpu* xal  iipoircov irapd de aind ravra  paSr/dopevoS. Ceterum ne forte  scribendum censeas esse xovS  XoyovS Ttoiotro, vide quæ annotavimus 12. Fingit autem Socrates hoc loco, factum  esse aliquando, ut, cum iu eroticas res disputatio incidisset,  Diotima et alia, et hoc quæsivisset: xl ohi altiov eivat zovtov TOV EpCJZoS hol tijS liti3t yilaS ; -, v f   V ovH.aidSacvei cu s det  rc &S x. t. A. Non statim patet,  qui fiat, ut Diotima animalium  mentionem faciat hoc loco* Commemorat ea ideo, opinor, ne fortasse A oyidpov caussam eroti a Socrates dicat Paullo infra habes : z ovS pkv ydp av^pamovS  oXoiz * dv ziS bt Xoyidpov zavxa Ttoielv xa 61 Sjjpia z ii  ahia qvxgdS iputixoaS 6 tariS e6$ai; quæ verba lmic quæstioni præmisisset Diotima haud dubie, si accuratius loqui voluisset*.  Sed et hæo cogitationum series  ferri potest iu sermone familiari* 8eivgoS explicatur insequeutibus vodovvzd re -jcdvxoc  xai ip&TixcoS SiaziSe/ieva. litcnim magno dolore afficiuntur, ut  indicatum est supra p* 206. E.»  omues, qui procreare gestiunt*  Optime Schleiermacherus verba  convertit: in ivelchem gewaltsamen Zustande sich die Thifero  befinden* Ceterum vodeiv verbum rectissime annotante Stallbaumio ad Piat. Phacdr. 228.  B. aTtavTvda? rrJ rodovm  7Ctp\ Aoycoy axoi/v, ut Latinorum ægrotare dc vehementioribns cupiditatibus poni solet, quao  homines vclut morbo quodam  afficiunt.   xat Et oi pd idziv vnl-fy  r o v T a> v . Cave post 7tai o  superioribus cjS particulam repetendam censeas, quæ etsi possit  suppleri, tamen, qui Græci ingenii volubilitatem compertam  hubet, structuram verborum hoc itQtotov filv 71 fq\ ro | vftfuyfjvai dlhjXoig, httira n tgl ttj v  rgorprjv to£f ycvofihov, xal ixoifia tdtiv vn I q tovtov  xal du<(iux£(}&ott, tu da&ivsercna zoig l<J%vQOTceTOig xal  vxepanodvfoxsiv, xal ama roi Xiiiio xciQuzuvuatva [<3sr’J  loco motatam non ægre feret. Neque sine caussa huiusmodi mutationes structurao a scriptoribus admittuntur. ."Negari enim  nequit, suspensam orationem, quæ  longiuscula sit, languidi quid habere atque molesti, quod mutata structura felicissime removetor. Deinde inesse senties ipsis  ocrbis, quæ ab incepta structura  recedant, gravitatem, quæ nostro  loco apprime convenit, ubi amoris  vis atque potestas describitur. Exempla huiusmodi structuræ mutationis ubivis obvia sunt. C. Zv$v/nrjSel5 cJs* SeiyojS  SiaxEivtai Spaoti tov ovojiadtol  ytvkd^ai xal xXkoS eis tov irceita  Xpovov aSdvatov xata&kdSat  xal vn\p tovtov xivdvvovf te  xivdvveveir Ztoi/ioi eidi x. r.  A. Nos eodem modo loqui possumus: Oder weisst du etwa   nicht, in welchem gewaltsameu  Zustande sich alie Thiere betinden, wenn sie zu erzengen streben, sowohl die ungefliigelten  uls die gelliigelten, nud wie sie  sammtlich krank und von Schnsuclit geplagt sind zuerst in Beciehung auf die Begattung, dann  wegen der Nahrung des Erzeugten, und sie sind bercit,  fur diese zu kampfen, die Schwacheren mit den Starkereu, und  fur sie zti sterben. Ceterum ne  (^nem oilendat pluralis numeras  viil.p rovtaov præcedente singulari tov ytropkvov, 1 6 ytvoftevov e genere est collectivorum | quæ post se positum singularem numerum rarius admittunt. xal avta t o5 Xipcj itapateivo pexa [cJsV] ixeiva ixt pkcpeiv. Hæc verbA  non dubium esse arbitror, quin  labem contraxerint. Namque qui  totius loci structuram accuifftius  examinaverit, eum non fugiet,  opinor, verba xal avtci rc5 Azp<j> 7tapateiv6peva x. r. A. b  præcedente xal Ztoipa Zdtir  pendere. Huius structuræ non  intelligentes grammatici, ut loco  mederentur, <juem depravatam  censebant, ufcr textui intulerunt,  quod vocabulum nostro quidem  arbitratu inutilissimum est. Ficinus verba convertit j et j>ro  illis occumbere parata sunt, ac  fame dejicere, modo filios nutriant, et aliud quodlibet audacter aggrediuntur. In Schleiermacheri couversione exstat : u m  nur ienes zu ernabren.  Sed coSte particula nunquam ita  adhibetur, ut consilii notionem  exprimat, quin potius necessitatem consequcutiæ describit et  alicuius rei couditiouem eam,  quæ alia propter ante commemorata esse nequeat. Hiuc vides, quam male habeat præcedente xal avta tep Xipd* napateivofieva verba gjS t Zxelva Zxtphpetv. Ridiculum enim  est: animalia Fame ita extenuari, ut liberos nutriant atque educaut. Ferri toSte posr.et hoc loco, si scriptum exstaret (ySt * kxfiva ix  Ixuva IxtQitpuv, xccl aU.o nav noiovvzct ; rovg f ihi  yag uii&Qchjcovg, ecptj, oeoiz’ av rig ix AoyiGfiov ravra  C noetiv • t« de &rj()ia ri g ahia ornas tgarexag Suxti- o&£tf&eu ; *3C £1 S Æyecv; JSfai iyd av D.tyov, ou ovx  bIScltjv. "II 8’ dite " Aiavoil ovv 8uvog Xotc yivrfizC&cu, ra iQauxa, lav rccvrce f ir/ tvvoijg ; AXXa 8 ea  rccvTtt m, <b Æozi(iu, oxeg vvv Srj tlt iov, nagee <Je fjxa,   ' J   Tpi<pe6$at, quamquam etiam verbis in hanc modum conformatis inesse senties, quod admodui# displiceat. Hinc factam  est, at &SX£ insiticium censerem,  idque uncis includerem, ne, si ex  ordine verborum reiecissem, audacias egisse censear. Sensas  est : et parata s d*n t ipsa   fame pæne enecta illa  nutrire et educare. Quæ  sequuntur verba: holi aXXo nav  •noiovvxoL, artius ea cum verbis  avx d tgj Xifi. c3 itapaxetvopeva  coniungenda nihil habent in se  offensionis,   tgS Xipd i. Supra 191. B.  legitur: ank5v7\6xov vito Xipov  xal xfjS olXXtj? apyiaS x. x. A.,  ad quæ verba Stalibaumius, inepte', inquit, vulgo vito xov  Xi/iov, Quæritur, cur illic  damnaverit articulum, hoc loco  ne verbo quidem tetigerit? Mallem etiam hoc loco articulas abesset,- quem certissimnm est a  nemine desideratum iri, si revera non compareret. o vxgoS i p goxixgoG . OvTcuS h. 1. significat, eo modo,*  quo in superioribus indicatum  sit, nmore affectum esse. Vide  uuuot. 58. De interrogationis genere tis alxla, UxeiS tiTtslv ; supra diximus annotat,  276.  xal iyoo av ZXeyov. Vulgo legitur av pro av ; hoc Bekkerus et Stalibaumius ex optimis  codicibus receperunt. Merito  Ruckertum mireris, qui, cum  constet, av et av sæpissime  commutata esse in libris, tamen  av iu textu posuit. Ut bene,  inquit, haberet av, si sæpius sibi exposita narraret Socrates, ut respondere sæpius posset  se nescire, ita, quum semel tantum hæc disputata perhibeat, av ineptum videtur, av vero eo  aptius, quod in prioribus iam suam ignorantiam confessus est* At  superest tamen, ut minus iiic dicas Platonem  curasse, quod semel tantum hæc dicta fingeret,  indeque av posuisse negligentius quam verius»  Qua de caussa probatis  licet av nihil tamen mutare volui. Hoc argumentum fateor mihi prorsus videri  nullum. Est autem, cur rursum se nou habuisse Socrates confiteatur, quod responderet»  Simulat enim, ut sæpius iam annotavimus, fatuitatem quatidam  animi, qua facilius atque tutius aliorum seuteutias elicere  possit.  yvovg, oxi SiScaSxdXav 6eo pai. ccXla (ioi Xlyt xal xovrav xfjv cdtiav xal xav ctf.lav xi5v xegl xa igcoxixa. EI xol vvv, %xpi], iu<5xtvug Ixtivov tlvai cpv6ti xov  tgaru, ov xoXkdxig «SftoA oytjxafitv, fiy &av(ia&. tvxav&u yag xov avxbv txuva Xoyov y ftvytrj qjvtiig D  fyftti xaxa xo Svvaxov ad xs tlvai xal d&avatog.  dvvaxai 81 xavxy (ibvov xrj yivtGti, ou dtl xaxaXtiSiavoet ovv 8eivo? itote. Haud raro apud Græcos  et Latinos continuandi alinsque  potestatis particulæ ita adhibentur in interrogatione, ut indignationem quaudam interrogantis  exprimant. Mutata interrogatione  in quietius dicendi genus verba  audirent: Lass dir nur nicht einfallen, irgend Erotischer Dilige  kundig zu werdeu, wenn du dessen dir nicht bewusst bist. Sic  tlta. reperitur in Piat, Critone  p, 43» B., quo loco Socrates  postquam iam diu Critonem in  carcerem intrasse audivit, elta,  inquit, n&S ovx evSvS inijyeipaS pe. Hæc verba recte intelligent, qui cum indignatione  dicta arbitrabuntur: Wie kommt  es denn nur nun, dass du mich  nicht sogleich wecktest,   ciWd 8id tavTct. Elliptica et hoc loco, ut plerumque  in responsionibus oratio ita supplenda est, ut addas cogitando:  non puto, aute aWct, quod est  immo convertendum. Videtur autem hoc, quod de responsiouibus  dixi, repetendum esse a summa  Græci ingenii alacritate et in  cogitando celeritate, qua fiebat,  ut cum mens longe præcurreret  linguam, in dicendo etiam, quæ  ullo modo possent, omitterent  vel in unam contraherent, Riickert . Oitep vvv 8t) etirov •  cfr. 206. 11. ov / tivt ’ av  iqnjv iya>, <y Aioxiya, i$av—  jiaZov ini Coepio. xal icpolx gjv  itapd avrd xavra paSTjtiopevoS.   el roi vvv, £<py, ittdteveiS x. t. A. In omnibus  editionibus legitur xoivvv pro  toz vvv, quod nobis placet.  Apud Ficinum verba conversa  sunt: Si credis, illius natura   amorem esse, cuius sæpe iam  diximus, ne mireris, Schleiermacherus exhibet: Wenn du also  glaubst, sprachsie, dass die Liebe  von Natur auf das gehe, woriiber wir uns oft schon eiuver—  standen haben, so wundre dich  nur nicht. Socrates rem, quæ  in superioribus sæpius tractata  est, memoria non teneBs, eandem rogatus a Diotima, obmutuit non habens, quod responderet, Eadem res igitur, quoniam  hic repetitur, Diotima hominis  memoriæ, ut videtur, illudens,  Noli mirari, inquit, si nunc  firmiter tenes memoria,  caussam naturalem AMORIS esse eandem, de qua  supra sæpius inter nos  convenit,   r) Svtjti} epvCiS Zytti  xatd r o 8vv atov. Vide  annotat, ad verba 206, E»   net eicQov vaov dvzl zov italaiov' htu xal Iv to  tv sxaarov rav £iocw £ijv xaXslzat xal tlvca zo avzo,  olov Ix naiSaglov 6 avzug llytzai eas «v xgeofiuzrjg    ori aayevis l6xi xal aSavazov tus 2vijrc3 r) yivvr)6iS.   ravzx! yovov x-jj yevi6ci. Caminate post yovov posito Riickertus sensum verborum  esse ait: liac sola ratione,  per procreationem. Dubito, num recte interpunctionem  adhiberi liceat ibi, ubi scriptor advocata generis assimulatione arctiorem demonstrativi pronominis cum insequente nomino substantivo coniunctionem admisit, Hoc certum est, verba  proprie audire: tovtoo novor,  ty yevidei, sed ab huiusmodi  dicendi genere utpote incomtiore,  excultior Græcorum actas abhorruisse videtur. Assimilutionis  exemplum est 190. E, noti  dweXxGov 7tavraxo5ev zo 6epfiet ini r?jv yadzipa vvv  xaXov pivTfv, ad quæ verba  vide annotat, p, 163, Nemini,  autem Riickertus persuadebit,  tavxy h. 1. adverbii vices obtinere, quo ratio describatur,  qua quid possit, quod mortale  sit, immortalitatem adipisci.   inel xal iv gj Sr ix actitor ZGOV %GO GJV X. T. A,  Nam etiam eo tempore,  quo unumquodque animal  vulga* i opinione vivit  atque seraper idem est,  nullam que experiri mutationem partium suarum  putatur, veluti quum quis,  inde a pueritia usque ad  senectutem idem semper  esæ dicitor, tantum abest, Qtiumper unum idemque maneat, nt aliis partibus quasi de nuo iuvernescat, aliis privetur et  orbetur. Verborum sententiam  per se minime obscuram paullulum impeditam reddit structuræ  insolentia . Quum enim pusi  TCpedfivTTjf yivtjrai subiici deberent hæc: ojigoS ovdinote zd  avzd ix El et avrcJ, a\Xd td  pkv dei vior yiyvtzat, zd  anoAAvdiv, quæ referrentur ad  primariam sententiæ partem: ab  inchoato orationis tenore sic deflexit, ut reliqua omnia ad eam  accommodaret particulam enuntiati, quæ continet exempli rei clarius illustrandæ gratia interpositi commemorationem. Itaque nihil mutandum censemus Stallb, Hæc Stallbaumii explicatio et a difficultate structuræ nobis improbatur et a  sententiæ incommoditate. Exemplo nimirum Socrates explicaturus est, quo sensu æl elvai dicatur atque dsdvatzov elvai  T7}V Svi/xr/v <pvdiv, ut non verisimile sit, exordium huius  enuntiati esse posse: inel xal  iv g5 ev Sxadzov zgjv P.oocjv  S, i}v xakzLxea xal elvai zo avro . Astius huius rei iutelligens,  scribendum coniecit: iv cj tv   Zxadzov tgov Zcjgdv xa\eizai xal elvai zd avzd, quam  scripturam ipse post improbavit. Nobis scribendum videtur  inel xal iv d> ' ev txaoxov  xd)v Zidcjv $f/v xaXtlzai, xaA etzai xal elvai fd avzo.  Neque audaciorera censemus hanc  coniectux&m iudicatum iri, cum  yknjtai ' ovrog (ibroi ov&tnots, zu ccvra tyav Iv iavto), ofwog 6 ttvzos xaXilrat, akla vio g ad yiyrofitrog,  xot bs ai roUvg, -/«l scaia rag ep^trg jtal Capxa «c«l    satis constet, Verba dupliciter posita haud raro librariorum incuria simpliciter exhibita esse, et  vice versa dupliciter interdum  posita esse, quæ simpliciter a  scriptore posita essent. Exempla si quæris huius rei, vide  quæ annotavimus 171* et  254. Qoac sequuntur verba  otov ix izcuSaplov 6 avxoS Xeykxeti ( sc. tIs" ) x % r. X. optime  cum nostra præcedentium verborum scriptura conveniunt.   ovxoS pkvxoi ovSkxox 8 xa. avxtf $X a,v «vtcj x. x. A. In FICINO (si veda) conversione legitor: JZnimvcro eo ipso  in tempore, quo animalium unumquodque vivere dicitur, idemque  esse, (ut a pueritia ad senectutem) quamvis idem dicatur, nunquam tamen in se ipso eædem contine t, sed novum  semper efficitur et vetera exuit.  Sic etiam ceteri interpretes  ovSbtoxs negationem ad verba  trahunt ta avxct V.xoov iv lavtoj f quæ verboroui struendorum  ratio propter insequens aXXot  vtoS asl ytyvopevoS minimo  nobis none probatur. Inepto  enim loco positum habebis hoc,  ai illam explicandi rationem probaveris. Neque defueruut, qui  de verborum transpositione cogitarent hoc loco. Facilior verborum struendorum ratio hæc  est, ut ovSiitoxE negatio a'd primarium enuutiati verbum xateixai referatur. Verba autem boc  modo scribenda censemus: ovx oS pkvxoi ovd£7roxc, rcr cxvxa  iioav iv avia?, u/ici?5 6 avioS    xaXslxai, aXXa vkoS æY yvyva/ ievoS x. x. A. Sensus est : Dieser iedoch wird nietnals,  w e i 1 er ein unddasselbe  au uitd in’ sich hatto,  gleichermaassen derselbo  geuannt, sondern (er wird in  dem Sinue dersclbe genaunt,)  wreil er sicli immer ver  iiingt, iudera er das Veraltete abwirft. Ut boc loco, ita etiam in Piat. Euthyphr.  B. c. 2. opooS in o/idoS mutandum est: xcu ipov yotp xot,  oxocv xi Xkytm iv xy ixxXr/6ict  7tEp\ xcov SeIgov, itpoXeyGor auXotS xti pkXXovra, xixxaytAdo<xiv gdS’ jiaivoitEvov* xai xot  ov8lv o xi qvh aXrj^es sVpiptet  GOV 7tpOEl7COV. aXX* dpooS (p$o— vovfov 7/piv Ttdoi xdis xoiov xuiS. Minus aptum est, quod  vulgo edi solet, opwZ : Nihil nisi  vera dixi, tamen nobis omnibus  vera dicentibus invident. Qain  potius commemorans Euthyphro,  quid ipse perpeti soleat, cum vera dicat, Socratis exemplo præmisso, communi vera dicentium iufortuuio sc consolator.  Iam ut Diotimæ sententia melius perspiciatnr, rem breviter repetam ; Quod supra de hominum AMORE dictum est, idem in  animalia cadit et in omnem naturam rerum Vult nimirum natura, quoad eius heri possit, semper vigere» atque immoTlalis esse  idque generatione assequitur. Neque hoc ita inteljigeudnm est,  ac si singula quæque res immortalis esse dicatur: sed ut homo  aliquis a pueritia usque ad se- E 6q za xal al[ia xal %u[ixav zo GiJfia. xal (iij ori xara  to (Scotia, aAA a xal xarcc rrjv ‘tyvxftv ot zqoxoi, za  tj, dofci, htcdvjilai, rjdovai, Xvxai, tpufioi, rovtav  exutSta ovdexoze za avra xuQeaziv sxaGzcp, «AAa za  (itv ylyvszai, za de axdilvzai. xoiv de xovrnv   azoxdzegov In, on xal at extOzfjiiui (i>) ori at  208 ftw' ylyvovxai, at de axolXvvrai yiiiv, xal ovdexoze  of avzoi icS/iev ov de xara rus kxiGztjtias, a AAa xal  f ita txuGrrj ziov eXLGzrjiudv zavzov nu6%u. o yag xai.eizai (leltzav, u>s l^wvOris heri zrjg exiGxrjfirjs' tiftrj  ydg exiGrr^firjs ifcodos, fieXirij Ss xui.LV xaivtjv t/xnectatem idem Tocatnr, non nt  qui habeat in se setnper easdem corporis partes, sed quod  eas mutando, inveteratas abiiciendo quasi novus semper existit, ita etiam animalium genus rerumque natura partium renovatione immortalitatem consequuntur.   rd 6h drtoWvS. His verbis, quibus non præcederet rd  p.iv, multi interpretes offensi  aunt. Wolfius rd plv nposXajj,fidvoDV vel simile quid addendum censuit, Bastius ad ra de  addi iubet itaXaia. Alii alio  inodo locum, -in quo librariorum peccatum reperisse sibi viderentur, sanare studuerunt.  Stalibaumius aWa vkoS de\ yi~  yvofievoS idem valere censet  quod aX\d rd pkv vkoS æl  yiyvojievoS. Maluerim ita statuere, ut Græcis licuisse contendam quotidianæ vitæ sermone utentibus interdum omittere,  quæ e sequentibus facillime suppleri possint, eque ra fiiv  supplendum esse videtur, sed ra  /ikv aAAa.   xal ptij ori aXXd xaL  Ne forte ante oAAa' xal requi  ras prj povov, efficitur povov  omisso sententia hæc: At quo  ut mittam ea, quæ ad  corpus pertinent, etiam  quæ animi sunt, consuetudines, mores, opiniones, cupidines, gaudia, tristitiæ, metus, hæc omnia nemini eadem manent, sed alia oriuntur,  alia depereunt. Ceterum  apposite ad h. 1. Riickertus :  Noli, inquit, ex his colligere  aliisve similibus iu iis, quæ sequantur, Platonem sibi non constare, quod, quum alibi natura ‘  sua immortalem animum dicat  humanum, hic eatenus duntaxat  ei immortalitatem tribuat, quatenus et ipse, quas sui partes  amiserit, assamtis aliis suppleat.  Non ipsum enim animum, naturam divinam, hic iu mente habet, sed ea tantum in animo,  qualis in hisce terris est, quæ  ex coniunctione cum corpore  enata cum eodem intereunt. Ex  quo genere omnia sunt, quæ  deinceps recensentur. Quas enim  mox liti(Sripxa£ affert, earum vel  unus pluralis numerus satis est  argumento, non loqui Platonem  tioiovtia dv rl xrjg diuovGxjs (ivrjfiyv (Scissi x yv IrnCtrjiiTjv, SgtE xyV avxyv Soxelv elvca. xovta  yag xc> XQoitcp xtav x 6 dvytov ov x<5   TtavxdrtaGi xo avxo dzi elvat,, SgxtEQ xo fteiov, dM.cc  xc) xo ditirbv xal xaAaiovfievov bxeqov vtov lyxata- b  Mbtuv y olov avxo yy. xavxy xy ffl%ctv y, co 2Jc6 XQctteg, Zcpy, %vyxbv d&avaolag (iEze%eiy xal Gcopa  wa xaM.a itdvxa, aftavaxov Se &M.y. yy ovv &avpafey el xo avxov ditofyXaGtyya rpvtiei ndv xi\La' d&avatilag yuQ %ccqiv ttavzi avxy y Gzovdy xal 6 tgcog  67csxau    de ipsa scientia, quæ nna est  eademque semper, quamqoe non  potuit animo informare nisi  perennem et immortalem, quin  ipse sui oblivisceretur. Immo  notitiæ sunt rerum in sensus cadentium, quæ nec affuerunt animo prius, quam vitam hanc ingrederetur, neque ultra eius termiuos apud eum permanebunt.   itoXv xovxcjv aro itaSxEpov Irt. Pro £tt, quæ  Bodleiani aliorumque paucorum  codicum lectio est, vulgo i6xiv legitur. Illud Bekkerus et Stallbaumius in ordinem verborum  receperunt, hoc tuetur Riickertus. * Eri, inquit, ut vulgato  melius esse concedam, attamen  tam paucorum fide recipere eo  minus ausim, quod quam sæpe  liæ voces intfr se permutentur  haud sum ignarus. Utor his  Riickerti verbis, quibus £ti recte  habere probem. Nam si melius  est sententiæque convenientius,  quod in melioribus codicibus reperitur, id verum est haud dubie. In ceteros autem plurim osque libros irrepsit id, quod  facillime cum illo permutatur.   6 ydp xaXeltai pe\e  rav cof i ZiovtirjS id t\ xyS  ixidxy /iy $ . Vide de hoc placito Piat. Phæd. 72. E. xal  prjv, iqyq o KiftyS VTtoXafidrv,  xal xax* ixelvov ye x ov Ao'yov, cJ SwxpaXEff, si dXy^yS  itixiv, ov 6v ettoSaS $a/ia  MyeiVy on ypiv r\ paSydiS  ovx a\Xo XI 7j dvapvr]6iS x vy- Xctvet ov6ot, xal xata xovrov  avayxy itov rjfiaS iv xpoxipaj  xivl xpovw pEpaSrjxivat a vvv  dvapipvytixopeSct x. t . A.   vSiCEp xo Ssiov, Auctor  Definitionum 411. A. J GteoV,  2,ajov dsdvaxoVf ctvxctpxsS npoS  EvSaiuoriav, ov6ia dtSio?. ’At8iov, xo xctxa ndvxa. xpovov  xal TtporEpov ov xal vvv prf  6iE(p$otpp£vov.   a$ avatov dfc ct\Ay,  Displicent hæc Verba ideo potissimum, quod modo indicatum  est, quomodo id, quod immortale est, h. e. ro Seiov, immortalitate gaudeat. Hinc factum  est, ut Creuzerus Lect. Piat.  528. scribendam couiiceret: aSv  vaxov aAA#. Recte, ut videtur, Riickertus existimat Platonem, si hoc exprimere voluis- Rui iya uxovaag rov tiryov Iftavuuacc re xal  ihtov' Ehv, rfi’ 8’ lydi, a Ooqxxnatr] Aiotlfiu ' ruvra  C Sg db]&w$ ovuog l%u ; Rui ij, cSgnsQ ot xtktoi tfo  set, haud dubie tzAAp 81 dd vvaxov scripsisse. Sed de veritate verborum aSdvazov 81 «AA r} nobis non convenit curo eodem. Stallbaumius od liunc locum annotat: Hæc, inquit, addita videntor propter verba extrema xal TaAAa itavxa, quæ  ne falso intelligerentur, sane cavendum fuit.  Num credibile  censes, quemquam esse posse,  qui cum verba legeret xal 6(n/ta t  in sequentia xal TaXAa ndvxa  male intelligeret atque ro Stiov  admisceret, quo de paullo ante  dictum est? Sed pone fieri posse,  ut aliquis verba illa falso iutelligat: num recte sibi opponi hoc  loco censes Svrjxoy et a$drazov, ubi Svjjxoy adiectivi vices  habet, atque cum insequenti xal  dco/ia xal xctXAa rtavxa arctius  couiungitur? Huc accedit, quod  ne ipsum quidem aSavarov,  pro quo Selor scriptum exspectaveris, satis recte habere videtur. Scribendum est, si quid  video, $dr ax ov 81 afAA#,  qnæ coniectura et a corruptiouis verisimilitudine, cum præcedens  verbum in a desinat, et a sententiæ veritate sese commendat.  Ceterum ne mireris accusativum  casum, cum præcedat aSavadlaS  fxtX ix ei: solent interdum Græci  e præcedentibus, in quibus compositum verbum contiuetor, noa  compositum repetere, sed simplex. Diximus de lioc loquendi  ysu «uuotat. 89. eItxov EleVf tjv 6 * lydi.  De dicendi verbo in huiusmodi  enuntiatis dupliciter posito vide  quæ annotavimus 249. Ehv  verbum quod attiuet, vide annotat. 86. et 264. liisequetis  interrogatio xavxa d>S aAr/SdiS  ovxqdS lx ei > fatuitatis indicium  esse arbitramur, quam Socrates  cum Diotima de Erote disputaus  constanter simulat. Nimirum quum,  adhibito thv vocabulo quasi ad  alia quædam quærenda abiturus,  confestim concessisset, quæ a  Diotima dicta essent, rursum ad  eadem redit quærens : num revera hæc ita sese habeant?   gSstjt ep ol zlÆoi 6o<pid xal. Stallbaumius minus recte: Ridet, inquit, sophistas, de  quibuslibet rebus ita disputantes,  ut videri vellent earum veritatem prorsus habere perspectam  atque exploratam. Neque Wolfianæ ed. explicationem probamus Lips. 1828. 97 : die bei  ihreu philosophischen Vortriigen  nicht ia dem zweifelnden Tone  des Socrates sprachen, sondern  in dem entscheidrtiden Tone des  Orakels ihre Meinungen fur unuinstdssliche Wahrheiten ausgaben. Eadem sententia etiam  Schleiermachero probatur, ut ex  eius conversione huius loci videre licet: Und sie, wiedie rechten Meister im Wissen pflegen,  sprach, Das sei nuu versicliert,  o Socrates. Quid Socrates ad <pi6Tal, Ev IWt, H<pi], cj EdxQtttes' IntL ye xttl  zav uvdQioitav ei i&eÆig tig ttjv <pdon(ilav (i/.iipcu, &av[ia£oig av rrjs uXoyiag hiqi a lya eipryxa,  tl (irj Ivvoeig Iv&vfiij&elg ag deivag Euxxuvtai %otc  rov ovofiaOTol yevee&ai.    bibitis illis verbis efficere voluerit, optime e Protagoræ loco  cognoscitur 328. E. seqq. ’«ft  xai AjtoWoSoopov, a 's xaptv  tioi ix&\ uti tcpovxpeifrd? pe  tvSe agtixkdSau noXXov ydp  7i oiovpai axyxokrai a dxijxoa  TIpGDTayopov' iyoj pkvydp kvxco  ZfiTcpooStv xpoveo yyovpyy ovx  elvai dy^pconlyjjv iizipiXetav,  y ol ayctSoi ayaSoi yiyvovtoa,  vvv 8\ itiicet6jicn. nXyv 6pixpov ri poi kpizoSdbv, o 8ijXov t  oti Tlpojxayopa? fiaSlcj? heex8i8dB,u, inei8y xai xd noXXa  xavxa iutdidafe. xai ydp el  pkv xi? nepi avx&v xovxgjv  dvyykvoixo oxeoovy xaov 8ypyyopcov, xax* ay xai xoiovxov?  Xoyov? dxov6£iev y IJepixXkov?  7} dXXov xivoi Tcjy Ixavcov eliteiv * ei 8 e inavlpoixo xivd xi t  S?7tep fiipXla ovdiv ixovdiv  ovx e altoxpiva6$ai ovx e avxo i  ipitSSrai, a XX* lav xi? xai  Cptxpov lite p coxi)6y vide  annotat.xi xaoy prj$£vxgoy, d)?XEp xd x a Xxela nXyy kvx a paxpdv  yx £ * xai a 7t 0 x eiv e 1, kav  jiy i rtiXa fiy x ai xi ?, xai  ol pyrope? ovxcj dpixpa  i p coxi] 5 kvx e? 80X1x0 v xa •z ax e tv ovdi xov Xoyov, Ipse autem orationis longitudini Socrates illudit, quod facere solent, qui alicuius vitii alienam,  reprehensionem evitaturi sunt.   ei iSkXeiS Savpd£01? av • II . Stephanus, ut verba usitatiori generi loquendi  adaptaret, iSkXoi? scribendum  coniecit. Frustra. El iSkXei? CxkipaL idem fere est atque el  Cxk^aiS, differt tantummodo ab  illa dicendi forma optativus modus, quod hic cogitati alicuins  possibilitatem, quam vocant, exprimit, quæ et ipsa cogitata est,  non ducta e veritate rei. Illa  contra aliquid fieri posse indicat,  iit prorsus ex alius arbitrio psndeat, utrum fiat revera necne.  Exempla haud rara sunt el particulæ coniunctæ cum præsente  tempore iSkXeir s. fiovXe6$aL  verbi, cui adiectus est infinitivus cum optativo et «v.  Legitur paullo infra 221. E.  el ydp kSkXet xi? r gjy ZZ&xpd*  xov ? axoveiv Xoycov, 1 pdyuev  dv 7tdvv yeXoloi xo Ttp&xov.  Cum hoc dicendi genere care  commutes exempla ea, quæ el  particulam cum præsente alicuius verbi tempore coniunctam  exhibent et optativum av particula adhærente $ cfr. A pol. Socr,  25. B. TtoXXr) ydp dv xiS  ev8aipovla efy 7tepi xov? vkov? y  el el? pkv povo? avtov? 6 1 a <p 3 elp et . Adde Piat. Symp.  p, 176» C. *Eppaiov av efrj  yptv el vpel? vvv dneipyxate, ad quem locum vide  annotat, 38. Ceterum x&v  dvBpcj7ca>y in alieno loco positum videtur, quem ne mireris  atque ut Platonis voluntatem  perspicias, Riickertam audi anno 19 *  nai xAioS eis tov æ\ xpovov aSavatov xaraS&SSiu,  xai vniQ rovrov wvdvvovg ts > uvSwevuv ttoifiol  dii xdvras En iiallov jj vntQ ruv xcdSav, xai tantem ad h. 1. i Qnod hic TGoy  avSpGJrtaw addidit, idque loco  posuit illustrissimo omnium, propterea factum, quod ia præcedentibus de bestiis non minus,  immo magis fere, quam de hominibus disputatum est, quanta  cura esset sobolis tuendæ conservandæque. Quæ euim de  humano corpore animoque disputata sunt, nonnisi probandæ  sententiæ inserviebant, non esse  alinm immortalitatis adipiscundæ  rationem naturæ mortali, quam  per propagationem. Itaque iam  de solis hominibus locuturus recte  lioius rei indicem in fronte posuit.   $ av paZoiS dv xrjt aXoyiaS Ttepl x. x. A. Verba FICINO convertit: Etenim si gloriæ stadium', quod hominibus inest, considerare volueris, admiraberis ruditatem tuam, quod ea, quae dixi, non satis comprehenderis. Hoc sane  mirum. Schleiermacherus exhibet; Denn wenn du auf die Ehrliebe der Menschen sehen willst,  «o miisstest du dich ia uber die  Unvernunft wundern in dem, was  ich schon angefiihrt, wenn du  nicht bedenkst cet. Schulthessios verba reddidit : denn fassest du nur der Menschen ehrsiichtiges Bestreben ins Auge, so kannst du ihre Unvernunft in  Beziehung auf das von mir angedeutete durchaus nicht begreifen, wenn du nicht erwagst cet. Negari nequit, paullo impeditiorem verborum structuram esse    atque gravitate quadam inepta  affectam, qua usus esse sophistas consentaneum est, qui ad  ante dictorum explicationem atque enarrationem transirent. Sic  tg oy dv$ poATtcoy, principe enuntiationis loco positum, de quo  Riickcrti indicium modo retulimus, quid aliud est, rem si accurate perpendens, quam vanae  gravitatis indicium? Adde el  iSiXeiS verba, wenn du dich  entschliessen, es iiber  dich bringen kaunst (vide  annotat, 44.) et parnm definitura illud : xepl d iyoi eTpijxa y nonne haec plena suut sophisticae artis? Proprie verba  hoc modo dispouenda suut : eu  Ixel ye xa \, el £$iXeiS el£ x rc oy av^peonoov  gnXoxiplav pX iipai, Savpdgoi?  dr x ijs aXoylaS ( b. e. Savpd  Ce av ix ot rt J s dXoyiat') xovxcdv, d iyoj elprjxa. Sensus est: Da gieb recht acht, o Socrates ; denn auch, wenn du dea  Ehrgeiz der Menschen ins Auge  za fassen gesonnen bist, koou—  test du dich wohl iiber die Ungrtindlichkeit dessen wundern,  woriiber ich gesprochen habe,  wenn du dir nicht vergegenwar—  tigest, indem du cet.   (»s detvooi Sidxtivr ai %  Haec et sequentia ad eandem dicendi normam conformata snnt, qua verba legnnter 207. A. r/  ovx aiCSdveiy aoS SeivdoS SiaxlSexai Ttctvta xd Sijpia x. r. A.,  ut adeo idem valeat de structura  verborum xal viup xovrov (tara dvccXfoxsiv ml itovovg xovuv ovgnvagovv xai D v7tEQcacoftvt]<Sx£Lv * ijtel o Xu  'Adprpov ajto&avEcv ccv, ij vitEpcntoSvrjdxEiv, quod de verbis monuimus 207. B. xai  Ftoipa idtiv VTtkp xovxov XUL  vTCEpaieoSvrftixeiY x. r. A. Ac  de industria quidem iisdem paene  verbis Diotima usa est eademque mutatione structurae, quo  facilius et illius loci auditor recordaretur, et clarius videret, de  eodem et illo et hoc loco Erote  sermonefti esse.   xai x\ io 9 elS tov d e l  xat a$ £d$ ai h, e. Immortalem gloriam posteritatis memoriae tradere  conservandam. Nam xaxati$Ed$at est deponere custodiendum s. servandum  tradere, vide Valcken. ad  Herodot. VI. 73. Stailb. Ceterum neminem latet, hexametrum versum esse verba xai  xXloS  xataSedSai, quae a  praecedentibus atque insequentibus verbis seiungenda curavimus.  Unde hic versus petitos sit,  nescire confitemur, hoc tantummodo comperti habemus, depromtum eum ex carmine esso  alicuius poetae, ad cuius auctoritatem atque testimonium Diotima auditores ablegavit, xai vitip tovtov xivdvy ovS xivdvvEveiv. Dicendi  formulae, in quibus nomen aliquod  cum verbo eiusdem radicis coniunctnm reperitur, ita plerumque adhiberi solent, utrem, de qua sermo  est, quam heri possit maxime,  angeant atque extollant. Jwy6vvovS xiy&vyeveiv est igitur  summa atque gravissima  6v, AkxtjOriv vitlg Ayilkia IJarQoxkto tnaitopericula a^Hire, Igitur cum  Riickerto pro 7 tavta? 9 quod Bekkerus et Stallbauraius in ordine verborum posuerunt, codicum  meliorum auctoritatem secuti, vulgatum nuvttS recepimus. Nam  TtavtaS xivdvvovS xixSvyeveiv inutile additamentum continet, quo non augeri sed minui  senties rei augendae potestatem,  TldvtES autem etiam eo nomir  ne nobis probatur, quod omnes  haud dubie a Diotirha significantur  laudis atque gloriae studio teneri cfr. 205. D. xd plv xetpakaioY idxi xtada 7 } xcjv  dyaScox l?tiSvpia xai tov tvdaifioveiv 6 /.liyidxds te xai  xoivoS HpoyS Ttavti. Adde  208. D. du IA*, olpat, vntp  dpsxi/S aSaxcttov xai xoiav xij$ do&rjS evxAsovS 7t dxxeS  itdvta itoiovdtx . Nostrae verborum explicationi Schleierma cheri conversio favet : u n d d ieserhalb sind alie bereit,  die grdssten Gefaiiren zu  b este lien. In sequentibus  xdxovS itovEiv ovSXixaSovv est :  labores suscipere quam velis gravissimos, ubi ovStivaSovx non  nisi de iis laboribus intclligendum est, qui snnt gravissimi.  Contra minus probem Plot. Apol,  Socr. 22. A. &ec &if vpix xtjv  ipijy nXxxvijv ixiSel&ai Gjsrttp  itdvovS xixds noiovvroS, quo  loco pro xixaS scribendum esse  videtur tixds.   "AXxiidxiv vnip *. 'A6p ?/•  tov x.x.X. Exhibentur eadem,  quibus Phaedrus usus est, exem4  8 avtiv, TCQoaxo&avuv rov vfisreQov Kodgov vxlg rijs  (i aci 1 Atiu$ rov ncddav, (irj olofiivovg  aSavcctov pvypTjv apertis   «£ qI avtav Etisadcu, yv vvv tjfius J'j£0{t£v; IIolAov yt  dtt, Stprj, uAA’, olycca, vittg ctQttfjg a&avazov y.al roitwtt ] g So^rjs evxAsovs navus itccwtt xoiovOiv, 0 Oa Sv  E afitivovs tofo, xocSovrcp (idAAov * rov yag d&avdrov  pla ; ut respici indicetur etiam ad  eas orationes, quae ante Socratis atque Agathonis orationes  habitae essent. Sed quoniam  Diotima loquens inducitur, quae  orationes in Agathonis convivio  habitas non audivit, ut casu vi-,  cieatur exemplis illis usa esse,  tertium adiungitur, Codri regis  interfectio. Audi Scholiastam,  qui de Codro haec tradit t  oS  nal V7t\p xijS narpidoS attiSave  t porca) roupde. voXepov roiS  JcopievdiY qyxoS itpoS 3 J5tjyaiovS, ixpt}6ev 6 $eo$ totS  JatpievfSiY aiprj6eiv xds ’A5ij*  vaSy ei Ko8pov rov fta6iXia / it}  q>ovev6(M>6f yvovS 8k xovxo 6  Jjfodpo? 6xeiXaS kctvxdv evreXei  tixevy coS ZvXidtTjv xal SpertavoY XafioaVj izl rov xdpctxa  rdov 7toXepicjY icpoyei, 8vo Sk  averi d7tctYxy6dvxcdv 7 toXepicoy  tov pkv &va 7tardB,aS xarifta^  Xev, V7td 81 rov hxepov dyvotf SeiS, otixiS 7 /y t * Xtjyc\S dvi$avc, yaraXivcoY Xtjy dpxtfY  Medovxt xri vpetifivxipoa xgoy  T taidcoY v. x. X . Hutus facinoris  memoria superbiise Athenienses  videntur, ut si quis peregrinus  ipsis adulari vellet, rov v pete pov Kodpov diceret. Male  vulgo rov yphepov legitur, quæ  lectio prorsus aliena ab hoc loco  est, ubi Diotima, mulier peregrina, loquitur*    vvlp apextjS aSctYcctov . Hæc verba cum non satis apta reperiret Diotima ad  mentem suam exprimendam, alia  addidit, quibus hæc explicarentur. Kai igitur explicativum  est, cuius exempla laudata habes in Judicibus. Verba convertenda sunt: der unsterblichen Tugend balber d. h*  wegen des herrlichen  Ruhms der Tugend. Nou  licere igitur opinor aperi} S nomen hoc loco virtutis laudem interpretari, quæ Riickerti  sententia est, qui frustra annotat: Non magnum discrimen esso  inter dpexijS d^avaxov et 60 Ep]S EpxXeovS, sed aliquod tamen, quodque maius etiam videri potuisset Platoni propter alterius vocabuli sensum latiorem*   d$dv axov pvypr\Y apeTtjS. Hæc verba, hexametri  versus fragmentum a ceteris verbis seiungenda curavimus» . Hv  vvy rpieiS t x°P €v i ta dictum est,  ut aliquid supplendum sit, quod  his verbis opponatur; futuro  tempore posteriores habebunt» Paullo iufra etiam verba  eis rov iiteixa XP°vov a prosa  oratione secludenda curavimus,  quod quo iure fecerimus, io propatulo est»  IquSiv. ot fiiv ovv lyxvfiovtg, stata Ouficaa   ovtcg XQog tag yvvalr.ag pallov tQinovzai xui tavtg  tQomy.oi d<Si, Sia stuiSoyoviag u%uvu6lav scca pvrj(iT]y  suci tvdai[iovlav, wg oiovtca, avtoig  iis x oV bcetta xpovov  xcivta xogi^ofiivoi' ol Se scuta tyv ^vfl\v  tloi yaQ £09  ovv, '£<pri, di iv xaig il>v%aig scvovtiiv eu ftaAAov    scal ev 8 axfioviar, c is  olovtai . Cornarius pro coS  oloviat scribendum esse censuit  coS olov xe t quam coniecturara  Iliickcrtus, quamquam in textu  coS olovxat posuit, probare videtur. Nobis non dubium est,  quin Plato co? olovxai scripserit, quo adhibito Uiotima indicatura fuit: eroticos, qui liberis  procreandis immortalitatem sibi  comparare studeant et felicitatem  æternam, falli posse sæpenumero. Non iniuria. Nam moriuntur interdum patribus superstitibus liberi, interdum impietate parentes lædunt, ut illi pro  immortalitate exoptatissima magnum malum sibi acquisivisse  videantur.   eidi ydp ovv, rdp ovv  particularum eadem pæne SIGNIFICATIO est atque ydp apa particulis, quæ exempli causa. B. reperiuntur: dq>eXovxtS  ydp apa xov ipcotds x i eldoS  oYopd^of.iEY x 6 rot> oXav iirizi$ivxeS ovopct Spooxa. Non  promiscue autem his particulis  Græci scriptores usi sunt. Ubi  demonstratum aliquid est exemplo, ydp dpa poni solet ; ubi  non nisi indicatum est, yap ovy  particulis locns datur. Nostro  loco simpliciter commemorator  in præcedentibus : esse, quixaxa  ipvxijv procreare cupiant, contra B, poeseos exemplum affertur, ad quod, quæ deinceps  dicuntur, diriguntur. €eterum  quæ post eidi yap ovy leguntur, inceptam verborum structuram nou mutaut, sed prorsus destruunt. Nibil enim reperitur in  sequentibus, quod cum illis verbis consociari possit. Iucepta  sententia verbis absolvitur; x ou*  xoav 6’ av oxaY xiS h.x.A.,  quæ verba cum illis nullo modo  couiungi possunt. Sunt autem  huiusmodi figuræ dicendi, gratæ uegligeutiæ indicia, præcipue in familiari sermone haud  infrequentes. o? lv iai$ ipvxaiS xvov6 iv. KvovdiV valgo legitur;  aliquot Bekkeri codices xvavdiv  Labent, quod ipsi Bekkero probatur et Dindorfio et Riickerto.  Illud Stallbaumius aliique in textu  posuerunt. Buttmanni indicium in  Gramm. arapl. 177., quod ct  Stallbaumius probandum censuit, (  lioc est: Den Gebraucli festzusetzen von hvcj und xveco ist  scliwer, da es in den hauligst  vorkommeudcn Forinen nnr eino  Accentverschiedenheit ist, tvie  xvei, xvil u. s. w, Bei Flato  indessen, wo der Accent sonst in  allen Handsclmfteu schwankt nud  Tbeæt, 151. B. auch dic  Schreibart xvoYta und Hvqvy- TJ Iv Tols Gt0[ic(6iv, a Ipv%ij XQOgrjxa xai xvijGai xai  xveiv. zl ovv XQogrjxu ; qQovrjdiv %e xai rf/v cekbjv  u qeztjv' dv S>j eidi xai oi jcoiijzai xavtes yewf/votpes  xai zav StjfuovQycjv 0601 Xtyovzai bvqezixoI tlvai.  nolit de (leyiGzjj, eqirj, xai xaV.iGzt] trjs tpQovytieas f\    %a, itt an folganden Stellen in  allen Handschriften Theæt.  210. A. xvovftev Symp. 206.  E. xvovvxij 209. C. ixvei,  wodarch, wie mir scheiut, fiir  diesea Schriftsteller dei: Aus scMag gegebeo wird.   itpo Zyxet xai xvijdai  xai xveiv . Ficinas verba  convertit : Hi sane concipiant ea,  quæ animæ et concepisse  et concipere convenit. In  Schleiermacheri conversione legitur: was der Seele ziemt z u er-»  zeugen and erzengen za  w o 1 1 e n, Schulthessius yerba  reddidit: dena fiirwahr, es giebt  solche, die rælir mit dem Geiste  ais dem Deibe zeugen und  erapfangen, Haud dignoscas ex bis verborum conversionibus,  quo iare boc loco et aoristi et  præsentis temporis infinitivi ponantur eiusdem verbi. Aoristus  autem non nisi notionem exprimit  actionis in universum spectatæ j  præsens tempus actionem cum  efficaciæ notione coniunctam describit. Sensus est verborum:  quorum procreationem animus et cupere debet et  revera efficere.  ti ovy itflQfjjxet; De interrogationibus medio sermoni  interpositis, quibus ad rem attentiores auditores redderentur,  supra diximus annotat, 60.   xq\v' 51 peyiGtr]  xai    yaWiixr) Xv s q>povrjGegjS. Hæc e Græcismo quodam dicta sunt, ut adiectivo  præmisso sequatur substantivum  nomen com illo proprie per nominativum casum coniungendum, casu genitivo. Vis huius structuræ hæc est, ut adiectivnm extollatur atque potestate augeatur,, Verba convertenda sunt:  Die grosste und schonste  Erscheinnng der YVeisbeit,   diaxotfpifdeif. Vulgo 6iaXodfirjdi^, quod ab eo profectum  yidetur atque in textum illatam  esse, qui insequens pronomen  relativum ad præcedens nomen  pertinere censeret.   tovrcov 6 ’ av qxav rts  Xx t. Magna est difficultas  horum verborum, quæ vario modo a viris docti» sollicitata sunt.  Quæritur %£iq£ cov verba atrum  cum præcedente %l}v ipvxqv coniungi oporteat necne, deinde  ipsum jllud SeioS miram   quantam displiceat. Quod sequitur xai t eo melius careremus. Primus H, Stephanus n)v  Ipvxtfv $eio$ &v coniungendum  Censuit. Contra Stallbamniq*  monet, tyxvficpY rrjy Tpvxrjv  hic dici oppositionis ergo, cum  eorum i& superioribus mentio facta sit, qui corporis auxilio immortales fieri studeant, SeioS  V>v rrjy i/ivxijv nos etiam eo  pomine improbamus, quod SeioS Jtfpl rag Tav itoltav te xal olxy&Eav diaxoa/iyUsig,  y Stj ovoua lott, CatfQodvvy te xal dixatoOvvrj. tovr cov 6’ ai orav ug Ix vtov lyxifiarv y TijV ilwpjv, B  ftuog <3v xal yxov6tjg rijg yfoxiag xixtuv te xal yEvvav  ySy Itcl&vueL famil Sn, oi[ica, xal ovrog uspudv to    tvv to dcopa ne cogitari quidem  possit. Heusdius scribendum censuit Tovtcov 8* ctv orctv r iG  ix riov iyxvpcov y rr}v ipvxyv,  tr/v <pv6iv j&cZoS’ qjy x, r. A.,  quibus verbis verborum difficultas non removetur. Kai ante  7/xovdr/S positum Stallbaumio  videtur non copulandi, sed intendendi potestatem habere, neque  ad participium tantummodo, sed  ad totam enuntiationem pertinere. Sensum ait totius loci  esse: Horum fgitur si quis  a puero prægnans est ad  animum, quippe divinus,  etiam appropinquante ætate, quæ 'pariendo et  generando idonea est,  parere gestit atque generare. Alia via II. Stephanus xai explicandum censuit  scribens iitiSvpy* qua coniectura efficitur, ut apodosis non a  tovtgjv 8 av terbis incipiat,  sed ab insequrnte enuntiatione;  etyTEi 8i/ x. r. A* Probatur hæc  explicandi ratio Astio et Riickerto. Ficinus verba reddidit:  Quisquis ergo virtutum huiusmodi natura plenus et gravidus  est ideoque divinus, ætate debita imminente parere iam generareque affectat. In Schleierroacheri conversione legitur : fFer  7 iun diese ais ein gottlicher schon  von lugend an in seiner Seele  trdgt, der wird auch, wenn die  Zeit heran kommt, Lust haben  zu befruchten und zu erzeugen.    Nobis xai indicium est, ante  ijxovdr/S aliquid excidisse, quod  quid sit, facilius indicatur, quam  qui factum sit, ut exciderit, cfr.  208. E. ol jtkv ovv iyxvfioveS,  icpr/ f xaid 6 capax a ovteS npoS  taS yvy alxaS pdXXov xpkTtovrai xal ravty ipcotixol  tldiv, quibus verbis edocearis,  quid sit id, quod nostro loco  .exciderit. Dicuntur enim, qui  ad corpus præguantes sunt, iidem ad femineum sexum natura ferri, atque corporis auxilio immortalitatem sibi quærere. Qui ad animum prægnantes sunt, num verisimile est, eos  ætate appropinquante tam nude  dici et pariendi et geoeraudi cupidissimos esse. Nonne dictum  oportuit; eos etiam ad animam ferri atque animi auxilio immortalitatem sibi quærere? Scribendum igitur coniicio : tovtcoy 8 av oxav tiS ix  vtov iyxvpcov y tt/y ‘ibvxrjv,  g ov, xal xara rt/v tf)v xf}Y yxovdi/S r jjs yXixLaS tixrciv  TE xal yEvvdv i/8 ?] ixi^v/tEl,  Sensus est: horum, inquam,  si quis est a puero prægnans ad animum, is,  quippe divinus, etiam  animo, si ætas advenerit, pariendi atque generandi c upidus est. Verba  autem xara ipvxtfY nou intellexerunt, qui xai copulandi potestate positum censerent. Hinc  ea expunxerunt.    298    HA A TS1N02    xcdov iv tp uv ytvvtjautv’ Iv t<p yuQ aiGxQtp ovSi-^  XOTE ylwijOH. tu TE ovv 6 wuuta tu xuXu (luV.OV Ij  tu cd6xQu uexut,txai ats xvav, xul luv Ivtvxy 4'vxij  xuXy xul ytvvulu xul ivrpvH, nuvv Sy uSTta&tui tb  fcwtXUtpotlQOV, xul 3CQ0S tovtov tov aV&Q(07t0V EV&V?  tvxoQU Xbyav Mgl uQttfjs xal jciqI olov xQ’l ^ val    C tov uvSqu tov ayu&ov xul  XuiSeveiv. amo/ievo g yug,   P,rftit St) to xuAov,  Iv m x. T. A. Primo obtutu  sciiptum exspectarem Spjrei 6//  xaAuv ti, Iv oj av yevvijdeiev. Sed optimo habet TO xa\bv %  Sensus est: Quærit igitur  etiam hic (ut alius, qui ad  corpus prægnans est) multo  cnm studio pulcrum illud,  quod aptum esset, in quo  procreare at^ue generare  possit,   it a v v 8 rj d 6 Tt d% et cti.  Tum rero plane utrumque, et corpus et animum  pulcrum amplectitur. Neque enim 87 } in his est scilicet, nempe, ut putabat Astius, sed positum est nt in formulis  iv$a 8 r), ivravSa 87 /, rore 8 rf,  atque refertur ad prægressa illa  £dv hvtvjft ipvx y 7ta\y*  8 tali b .   xal Ttepl olov XPV  vat tov av 8 pa. H. Stephanus vitii aliquid in his verbis  odoratus scribendum esse censuit xal nepl tov olov XPV  vat x. T. A. Bekkerns præpositionem nucis inclnsit, Astius etiam  xai vocula adeo odendit, ut eiiciendam censeret. Stallbauraius  olov non masculinum, sed neutrum genus esse contendens ver  u BTUtqdsvHV, na i hti%UQ&  oi[iat,, tov mlov nal opi /horum sensum hunc esse ait: quale sit, in quo tractando versari debeat is, qui  boni viri nomen et dignitatem ohtinere velit.  Riickertus improbata hac explicandi ratione Bekkeri exemplum secutns itepi præpositionem uncis inclasit. Nostro arbitratu neque delendum aliquid est neque  addendum. Articulum solent quidem haud raro scriptores in hulusmodi enuntiatis addere, sed  necessitas additionis nostro loco  nulla est* Proprie Diotima dictura erat: Ttepl apeti/S xal   olov xfiV tlvai x. r. A., quibus  verbis nihil inest, quo offendaris. Sed noluit ea hoc modo  exhibere, ne parum explicatam  sit, utrum de uno an de duplici  disputationis argumento nunc agatur. Præpositionem igitur repetiit, liberiore dicendi genero  usa, quod in familiari sermone excnsabile censebis. In hoc nimirum dicendi genere aliquyl tribuendum est pronuntiationi verborum, quatenus consentaneum est,  Diotimam prolatis verbis Ttepl  dpetijS xal Ttepl linguam paullulum repressisse, post verba  olov xprj elvai tov av8pct x.  r. A. ita pronuntiasse, ut auditor  intelligeret, eflicere ea unum argumentato disputationis, et qaasi  luiv ctvttp, a italai Ixvei, r Ixtei xal yewa, xal itagcbv xal  dxdv (isfivypivog, xal r 6 yswTjfrsv tivvtxTQttpzi xoi~  vrj fiet’ Ixeivovy Sgre tcoXv xowmrlav tfjg rc5v   Ttaidcov rtQog ccAkrjAovg ol xoiovxoi ifjxovtii xal cpiHav  fofiaLOTeQav, dts xakhovcov xal d^avatatigcov ncddov XBxoLvavrjxotBg. xal ndg dv depacto iavtq) r oiovtovg itaidag paXlov yeyovevai rj tovg av&Qanlvovg, xal D  $lg "0(itjQOV ccTtofitiipag, xal 'Htiiodov xal xovg al- unam notionem ut præcedens   dperfjs.   xal 7tapa>v xal aitcjY  /i Epvij /x£roS . Neminem fugiet, alterum participium, napcov,  superfluum esse. Cave id prorsus otiosum censeas. Etenim au-?  gendo orationis vigori inservit.  Satis notum est Latinorum nolens, volens; quo iure,  qua iniuria, simii. Paullo  infra legitur, 215. C. T a ovY  ixelvov idv re dyaOroS av\  Ti)s avXy. iav te tpavXr) avArjtpif, pova xatkxE6%ai noiEi  xal SijAol x. r. A. Huius dictionis vim nou assecutus est Astios,  qui xal expungendum censet,  quod in duobus codicibus ante  to yEvvijSiv omittitur. Eidem  ' Kiickertus adstipolatur. Quid  enim, inquit, sibi vult pulcri invenis recordatio dum præsens est? At  procreati in eius pectore  fetus, recte mentionem faciat, cuius facile potest  fieri ut obliviscatur,  certe si voluptati magis  quam virtuti sit deditus.   trfi T dSv naiScov sc. xoivcoviaS. Frustra Bastius scribendum ceusuit tg&v naiSovS vgov vel 7 Cai 8 o 67 c 6 paov. Stallbauraius xoivcoviav tqjy rtaldoov esse censet coniunctionem  ex liberorum procreatione oriundam, Respici  consentaneum est ad maris femiuacque coniunctionem, quam  sæpias Diotima tetigit in præcedentibus, v. c. 208. E. ol  plv ovv iyxvpovEf, £<prj, xard  dcopara ovte* icpoS taS yvval xaS fiaAXov rphtovrai x. t. A.,  ut h. 1. consentaueura sit coniunctiouem commemorari, quæ  procreandorum liberorum caussa  inita post, procreatis liberis, auctior atque firmior evadit.   ola Ixy ov a havtdjv xa~  r aA$iit ovdir. Olo ? et 060 S  haud rjjiro pro on T oiovtoS, oti  T odovtoS poni, exemplis demonstravit Mattii. Gramm. ampl. $.  480. 3. P* 899. Pronomeu relativum o S in sermone familiari eadem potestate adhiberi interdum, supra annotavimus 263.   xal eis “Opijpov djco /3 A hf)aS  ZijAujv. Participia interdum exhiberi copula  addita nulla, sapra indicavimus  annotat, 94. Ibidem, qua po-^  testate participia ddvrSETcHit ponantur, explicatum ieperios. Ea  potestas quoniam hoc loco non  exprimitur, admodum nobis displicet participiorum ratio. Neque tamen Astii medelam verXovg itoirpcag Tovg aya&ov g fyXiUv, ola ixyova iavtljv xataXiMvrSiv, a ixtivoiq a&uvaxov xXiog xal  fivijfujv 'Xttfjiyira.i ama roiamu orna' el 81 flovXsi,  icpij, olovg Avxoiifyog n alSag xarsXixsTO Iv AkxeSaifiovi. OaxiiQag trjg AaxeSa!(iovog xal, ag Img. d7 tdv, Trjg 'ElkaSog. ti/«os 8s tcccq’ vyiiv xctl EoXcov  E Sia rtjv Tuv vo(i(OV yivvrjOiv, xal aXkoi aXXo%i xoXf.axov uv&Qtg, xal iv "EXXrjOi. xal iv (iag^agoig, %oXXa. xal xaXa axorpyvauevoi iQya, yevvrjtSavrsg Xav%qiav aQitrjv' (Jjv xal uqci icoXXu rjSi] yiyovB Sia tovg    Eorum probamus, qui Sr/Xolr)  pro S,r)X(Sv soribendum couiecit.  Stallbaumius verborum structujram ait esse: TtaS av SiUaiTO  t avtd j xoiovtovS itai8aS jj.cc AJtoy ytyoyivoLii r t rovs avSpa)nivov* Zrjk&Y xal r ' Ofirjpoy xal  ' Hi>io8oy xal x ovS aAAo.v? 7totrj T uS xovS ayaSovS, eIs ixelvovS  (tizofiXaipaS, ola Ixyoya kavTgjy xata\Eiitov<$iY' Nemo negabit, hæc Yerba optime se habere } sed nura eo ordine, quo  PlntQ ea exhibuit, eum sensura  habere possint, quem StalJbuumius putat, alia quæstio  est, quam certe addubitare licet. Ruckertus commate post  'JitilodoY posito prius membrum  enuntiati esse censet xal elS  "Ojityjov d7tofi\h{>aS xal 'Hoto8ov, alterum xal xovS dXXovS  1 taij]T<}s tqvS dyaSov? Z?jXd>v.  Quamquam hæc explicandi ratio  admodum nobis placet, tameu  esse aliquid censemus, quod merito vituperetur. Non recte enim  dici arbitramur xal eIs" O pijpov  ct7tof3XixJxaS xal 'Htiiodoy pro  xal Eis "Ojirjpov ccTtoftMipaS xal  .tls 'HtiioSov* Igitur post aito~  (3A.£lJ>a$ comma ponendum curavimu«, quo efficitur, ut cum    admiratione aliquis dicatur  ad Homerum respicere,  atque Hesiodum ceterosque poetas bonos cum invidia quadam prosequi»   ei 8 e fiovXei, Hcprj,o?ovS Avxov pyoS . Brevius  hic locuta est Diotima quippe  supplenda auditoribus relinquens,  quæ facillime suppleri poterant:  ei 8 ftovXei, ZjjXtkiy Avxovp yov, otovS nalSaS x. r. A. Ceterum assimilatiouem generis, dc  qua supra dictum est annotat, p»  286., hoc loco admissam arbitror. Primitus neutrum genus  relativi Flato in mente habuit,  cui TcalSaS odiungeret appositionem. Post elegantiæ studio genus relativi mutavit, idque ad  sequentis nominis genus direxit»  Pro xaxeXbzexo vulgo xate~  fehzEzo legitur. Recte illud recentiores editores e codicum auctoritate in verborum ordinem  receperunt.   &y xal lepd TtoWd. cfr»  Wachsmuths Hellen. Altertbumsk» xavxa p\v ovv  xdv  6 v pvTj $ elrjS h. e. quæ  hucnsqne dicta sunt de  roiovtovs nalSaq, Sia de rovs uv%Qani^ovg ovSe*  vog na.   Cap. XXVIII.   Tavra (ilv ovv ru iganxa ”<Saq, m Xaxgarig,  xav Ou fivtj&ihjs ' tu da relta xai Inontixa, av tve* 210  xct xai Tavra lonv, luv rig og&us fisruj, ovX oid \  tl olo s t’ av tfys- iga fiiv ovv, £<pr ), iyiS x al ngo*  Qvfiiag ovdcv unoldipa' nuga SI txiaftca, av o!o$  ta ys- dat yag, rov og&ag lovra ini tovro  Erote, cornm tu quoque  mysta iactus es fortasse*  Iam iis, quæ Diotima protulit,  t d reXsa xai izontixd opponuntur, ut facillime intelligatur,  quid sub verbo Tavra intelligendum sit. Nimirum cum illa  verba ipsa arcana significent,  ad quæ spectanda, qui mystæ  esse cupiant, non admittuntur,  nisi ante quinquennali purificatione, quam xaSapCiv Græci  vocant s. xaSappov, ad rem  idonei facti sint, tavra ipsam  illam xaSapdiv denotare consentaueum est. Qninque autem  fuerunt, ut Theo Smyrnæus narrat Mathem. p, 18. initiationis  gradus, quorum primus xaBap~  f.ioS vocatus est, secundus tJ rijS  teXerr/S napaSoCiS, tertius inonreia, quartus avaSetiif xai  Crappareov btiSsCiS, quintus ro'  SaocpiXls xai Seotf Cw8iairoS  evSaipovla. Harum graduum  verisimile est singulum quemque  annum unum sibi exegisse,   ovx ol8* s el olo St* av  eItjS. Hic quoque e mysteriis  similitudo petita est. Haud raro enim, qui mystæ fieri cuperent atque arcana spectare, ^priusquam quinquennium præterlapsum esset, impatientes moræ  consilium mutabant atque a proposito abhorrebant, cfr. Piat*  Phæd. p, 69. C. eIcI ydp 6tfr  <padv ol Ttepl rat r eXard? y vap%rjxoq>6poi plv izoXXol, paxXoi Se re rcavpou Ut autem  melius intelligas, quo iure doctrinam de Erote Diotima cum  mysteriis comparet, pergit Socrates 1. c. : ovroi 8 ’ elcl Xard  t tjv i/iTjv 6u£av ovx dXXoi ij  ol 7tE<piXo6o(pyxoTES Op3(ZS.  gjv 6jj xai Sycaye xara ya ro  dvvaruv ovSlv dniXinov iv  rui pico, dXXa itavrl t porceo  npovSvpijSiiY yevtCSat. eL 6 e  opSdiS TTpov^vpij^tfV xai rl  7fvv6a/i?fv, IxeICe IXSovteZ ro  Cæpi S aldupaSa, idv SiuS ISeXy, oXiyov vdrapov, coS i pol  donat. Comparat igitur Diotima  rei iosequentis difficultatem cum  quiuqueunii illius molestia, atque, ut mystæ impatientes moræ, ita ne Socrates difficultate  rei ab audiendo deterreatur, vereri se indicat.   TCEip GJ 8\ E7C SC$ ctl. "&71E CSat verbum sæpissime adhibet  Plato, ubi auditores excitari siguifieaturus est, ut attentius aurb xgayfia %q%e6&iu (ilv vsov ovra levui 1x1 x «  xala CtoftarK, xal XQatov y.iv, luv oq&ws fjy^rai 6  xjyov/isvog, ivog avxbv Cioftarog igav xcel ivzuvda  diant accuratiosquo, quæ doceantur, percipiant. Petitum autem hoc verbum est e mysteriis,  ubi ducentibus ad arcana spectanda iis, qui itept t aS te\er aS erant, mystæ sequi iubebautur.   p\v v e ov oV“  ra. Hecte Ficiuns verba reddidit: Oportet eum, qui ad hoc  recto sit tramite progressuras,  statim ab adolescentia pulcra corpora contemplari, et primum  quidem, si modo recte ducatur,  unum corpus amare. Ceterum Sydenhamius, quem Wollius laudat,  optime annotat: Der Grund  hiervon ist der, weil das  innere Auge sich zur E mpfindung der Schonheit  eben so offnet, ais zur  Erkenntniss der Natur. Unsere Seele fangt immer bei einem einzelnen  sinnlichen Gegen stande  an, geht da nn zu einem  andern fort, vergleicht  beide, und siehtiniedem  das, was beidegemein haben, So fiihrt sie fort,  sammelt und vergleicht  mehrere andere Individuen dieser Gattung, bis  sie in allen diesen Individuen einerleildee, eine  und ebendieselbe Natur  wahrniinmt, So gelangt sie endlich zu einem vo11standigen Begriffe dieser  sowohl de ii Arten ais der  Gattung selbst gemein schaf tlichen Natur, iener ewigen und un veriinderlichen Idee, die eine und  ebendieselbe in allen ist.  Inseqnentibus singuli gradus percensentur, quibus initiari debeat  is, qui ceteram pulcri ideam  concepturus sit. Itaque Diotima,  Stallbaumius inquit annotat, ad  b. 1., primum ait initiationis  illius gradum esse, quo ad unum  nos applicemus corpus pulcritudiiie insigne, ex eoque virtutem  et bonorum sermonum fructum  procreare studeamus. Secundum  esse hunc, ut non unum aliquod  corpus amemns, sed omnia, quæ  emineant pulcritudine, corpora  amore complectamur. Tum progrediendum esse ad consectandam  animi pulcritudincm, præ qua  corporis forma omnino contemnenda sit atque id agendum, ut,  quod iu moribus, legibus, institutis pulcrum sit, id animadvertatur atque diligatur. Denique  perveniri ad sapientiæ atque  philosophiæ studium et amorem,  quo qui incensi sint, eos demum  ait intueri pulcritudinis veræ,  constantis atque æternæ divinam formam atque imagiuem.  hv 6 S avtOV dcbpLCtTOS  ipav. Bekkerus e quinque codicibus edidit b>o$ avt&v  yiaroS Ipav, quæ scriptura, nt  Stallbaumius atque Ruckertus iam  monuerunt, nullo modo ferri  potest. Pronominis repetitio primo obtutu molesti quid habere  videtur in verbis iittiTCt ouroV x. T. A., re accuratius perpensa repetitam videbis, quo vaycwav Xoyovg xcdovg' Exuta 6tl avtov xotavoijaui,  ori to v.aXXog zo ixl ougovv Gci/ian ra> Ixl triga B  0Bfiau aStXqjov lari, xcd tl bu dicoxuv to Ix’    lidias graduum enumeratio emineret, alterque ab aitero significantius discerneretur. Et quum  in huiusmodi singularum rerum,  quarum altera ab altera accurate  seiungcnda est, usitata prope sit  verbi finiti repetitio non dubitavimus præclaram Stallbaumii conjecturam, quæ et a facilitate  commendatur, in ordinem verborum recipere, atque dei pro  de exhibere: ineita dei avtov  Xatavoijdai. Verba autem quod  attiuet: kvoS avtov CcdpazoS  £pav, quoniam præcedentibus adiuuguntur, nontanquam novi gradus SIGNIFICATIO iisdem opponuntur, avtov pronomen nobis quoque admodum displicet, ut Bekkero displicuit, ex cuius scriptura  eruimus, quod unice verum esse  videtur: kvoS av toiv dcopazoov  ipav. Av particula, ut supra  indicavimus annotat, 209., e  superioribus aliquid supplendum  esse docet, ut expletior oratio  audiat: rtpajtov /Av dei rov op$qqS lovta ini tovto td npdypa ivoS zcdv (jojpdtcjv ipdv.   ori t d y d XX o S ad e A(p 6 v i6tt. AdeXqjov rarius  cum dativo casu coniunctura reperitur, quam cum genitivo ; in  caussa hoc esse arbitror, quod  rarius tropico, quem vocant, quam  proprio sensu exhibetur. Substitutum h, 1. est ddeXqjov nomen  in opioiov s. d/ioiotazov verbi  locum ideoque eius casum adscivit. /   to in eldei xaXov. Wytteubachius ad Eunap, Yol, II,    247* h. 1. dicit to in* eT8ei xaA ov dialectice dici pulcrum in  specie, quæ generi opponatur. Gai assentitur Stallbaumius.  Male, si quid video. Est enim  pulcritudo, quæ in forma est atque sensibus percipitur» Hinc etiam ei dei dicSxeiv  dictum vnoSezixdiS. Ruckert.  Schleiermacherus verba reddidit :  und es also, wenn er dem in der  Idee schdnen nachgehen soli,  grosser Uuverstand wiire cet,  Schulthessius ; uud weil doch das  Schdne der Gesummtgattung angestrebt werden miissecet. Recte  Wyttenbachius et Stallbaumius  verba ceperunt. Ficinus habet :   Et si sequi decet, quod in specie pulcrum, absurdum est cet,   yai eI det diGJXEiv X a AA o S . His verbis tertius  gradus continetur, ut quinque  etiam eroticæ initationis gradus  nominentur. Vide annotat, p,  3f)l* Sed hæc verba tauquam  alicuius gradus significationem  Flato non attulit, ne nimia, opinor, singulorum membrorum similitudine oratio laboraret. Proprie scribendum erat; eneixa dei  avtov Zv te xai tavtov ?}yei6$ at to ini niidi toiS dot/tadi  xaXXoS xai dicjxeiv avto ov  in* eldei xaXov. Sed quoniam  hoc gerius dicendi præcedeut| enuntiato simillimum est, verens  scriptor, ne nulla varietas esset  orationis, condilionali particula  addita id genus dicendi exhibuit,  qi/od in libris comparet. Quæ  uutem sequuntur > tovto 6* £v~    1 tiSst xalov, x oXlf/ avo icc (irj ov% tv re xal r avrov  cjyeiG&ai ro Icci ctaGi roig GiojiaGt xalAog • rovro 8 ’  IvVoijGccvrcc xaraOtfjvai ctavtav rav xaiwv Gafiarcov  iQaOrrjv, hos 8 e ro GqjoSga rovro %a)JcGai xaracpgovrjGavra xal G/uxgov tjytjGafiBvov ' ftsra da ravta ro  Iv raig pv%ais xaAlog ti/ucattgov rjyyGaG&ai rov iv  tfii Gajiau, agre xal, av btcuxrjg cov rqv us  VOtjdavttt xara6ri]Vai rursuni  ad verborum præcedentium bt etra det avrov xarctvoij6ai exemplar conformata sunt, quartum gradum eroticæ initiationis  exprimentia, ut expletior oratio  audiat : httira 6ei avrov ivvorj->  Cavra xara6ri]Vai x. t. A.   bvos db ro dtpodpa rovro. 'EvoG sc. xaXov tiooparoG.  Sensus est: nimium autem  illum unius corporis amorem, (quo de supra dictum est  210. A. xal TZpcorov pbv  IvoG av r cov 6copdxcov ipctV  et quem qaotidie videre licet,)  cum contemtu remittere  oportet. Minus apte Ruckertus annotat ad b. 1.: quod autem rovro posuit, eo factum f  quia cum > Socrate loquitur Dio tima f est enim eadem ilpoove.iA t  quam ubique Socrates usurpat  Platonicus j ut ad amorem puerorum propensiorem se esse simulet. Tantum enim abest, ut  propensiorem Socrates se ostendat Diotimæ bis verbis laudatis  ad puerorum amorem, ut potius  cur non sit, et esse nolit, eius rei  rationem indicatam habeas. Prorsus autem rei intelligeutiam Riickertus pervertit, de puerorom fimore hic cogitans, *EvoG ro 15<po Spa rovro potius ad utrumque sexum pertinet, atque sive femina sit  sive puer qui ametur, unius amor (die ausschliessliche Liebe ei nes Gegenstandes) vituperatur c Ii Sr e xal dv xal 6 pixpd v avSoG i XV’ Vulgo iav  additor ante Cpixpov. Annotat  Stallbaumius ad h* 1* : Horum  verborum constructio quam valde  laboret, etiamsi non observaverint interpretes, tamen vel mediocri animi attentione neminem  potest latere. Quum enim doGre  Xai referendam sit ad igapxetv  avrqj, apparet eorum verborum,  quæ interiecta sunt, rationem  iav bis illato mirifice perturbati. Neque tamen medicina longe  petenda est. Deleto enim altero iav omnia sarta tecta erunt. Nam ita xal tipixpoV positum,  ut Piat. Criton, c. V. extr. et  n xal 6pixpov ypcoV ocpeXoS  7/v et sexcentis aliis locis. Idem  de hoc loco nnper visum esse  Astio non sine animi lætitia video, Sententia igitur hæc est: si quis proba sit animi indole et vel tantillum  pulcritudine corporis floreat, Multo probabilior et,verisimilior hæc coniectura est,  quam Sommeri commentum, qui  cov participium in y immutandum censuit. Pro iav, quod  ante irtietxjjG positum reperitur  inultis in codicibus, vulgo txv  legitur, quod Bekkerus iu oidi—  nem verborum recepit, quem    xnl [lav] 6juxQov av&og lyy, eiagy.nv avrco xal tgttv C  xal xijdiaitca xal xlxxuv koyovg r oiovrovg xcd t^ryriiv,  omveg jtoiijaovOi fiO.rlovg rovg veovg, Uva avayxaod fi  av &taoua&ui ro iv rolg ixirrjdevfiatii xal rolg vofioig  xakoi', xal zovto ISnv, ort jcav ai no avu5 fcvyytvig  tduv, tva to siegl ro Ouaa xa/.ov tiiuxguv n %yrfii]rai uvca ' (tstic 6« ta tTti,xr t Sivy.ara Isti rccg ixiOrrjfias    secuti sumus, nt esset, cnr acribæ uon intelligentes huius vim  particulæ ante tijuxpov idv  inseruerint.   xal t Ixxeiv \6y ovS t oi OvzovS x al ?,7/z etv. Verba  xal ZtjzeIv Astius ineptnm glossema habet, neque quiequam post  rixxsiv \6yovs xoiovtovS locum  habere arbitratur, quam xat ix T pl<pEir, Quod verbum si compareret in libris, a nemine non  probaretur; sed habet etiam # 7teiv, quo sese lectori commendet. Stalibaumius ctTjxsiv verbi  patrocinium suscipiens, Diotima,  inquit, hoc dicit: talem amatorem uon modo ipsum parere quasi  et ex se procreare, sed etiam  aliunde quærere et investigare  eiusmodi sermones, qui iuvenes  reddant meliores. Quibus verbis significatur maxima hominis  contentio et stndium, qni niteri  omnibus rpodis prodesse cupiat.  Recte.   oltiVES It Oli} dovtfl. Iland  raro Græci scriptores futuro tempore utuntur, quo significent,  aliquid haud dubie futurum esse  atque fere necessaria de caussa :  welche die Iiingliuge besser rnaclien m ii s s e n .   tva dvayxa.6$i/ ivct  x 6 n spl x. x. A. "iva particulæ repetitio hoc loco sutis molesta est. Huiosmodi repetitiones admittuntur quidem a scriptoribus, sed eo fiue, qui a nostro loco alienissimus est. Nimirum quando cum gravitate  singulæ alicuius rei actionisve  partes enumerandæ sunt, haud  raio scriptores voculis npdoxov  pkv  insita s. insita 64  utuntur. Hæ partes, ubi per  Runles particulas inferuntur, haud  raro etiam illæ voculæ omittuntur, atque particula finalis repetitur. Vide lud. s. v. Repetitio. Quam aliena hæc dicendi ratio  a nostro loco sit, sponte intelligitur. Hinc Astio assentimur, ivct  posterius expungenti, quod quomodo ia ordinem verboium irrepserit, facillime potest indicari*  J*rnecedit enim idti, quod»' itpsAxioxixov dnte interpunctionem  assumsit, cuius vocabuli syllaba huulis iucuria scribarum duplicata ansam dedit corruptioni.  Totum Jocum Astius sic scribi  iubet: iva avayxa6$EiS av   SsacSaCSai to iv tois Inixr}Qsvpatii xal rois vopoiS xaXov xal xovt* i6slv, oxt ndv  avxo avxcp ZvyysvsS i6xi, ro  mpl to 6 copa xaXov 6/Jtxpov  . xi tjyjjorjxai slvau Neque probamus Stallbauraianum argumentum, quo dicitur admissa conjectura Astii totius sententiæ ratio  perversa esse. Quippe ita, Stati 20    t    t,   uyayuv, f 'vct TSy av ixusrtjfuSv xaiUos, xal fifJxav  D XQos nohv fjdrj r. 6 xaKov, (irjxtri ro xuq evi, montq  olxttrjs, uyaxwv, xutduyiov jkUAos V uv&qwxov uv os    banmius inquit, ea par* enuntiati, quæ continet rei longe  gravissimæ significationem, participio indicatur, altera, quæ  rem minoris momenti denotat,  per verbum finitum exprimitur. De hoc verborum structura vide  ludiccs 8 . v. Participium,   pera 8i x a kn iXTf Ssv para  ay ay eiv, Hic ut  taceam tot verbis interpositis denuo novam periodum ab illo detV  in principio posito suspensam,  nonnihil offensionis habere, illud  vix excusare possum, quod sublectum etiam mutavit Plato, atque ab eo, qui ducitur, transiliit ad eum, qui ducis et magistri personam agit. Est enim  plena sententia: Ssi Xov 7/yovp£vov dyayeiv avxov x. r. X.  Hoc Riickerti iudicium est, quod  esse suspicor qui probaturi sint. Nobis neque 8« verbi omissio  incommoda est, neque vero sobiecti mutatio excusatione indigere videtur. Suut enim verba  magis ad sententiam, quam ad  grammaticam subtilitatem conformata, Atque mirari non possumus, hoc loco pro eo, qui initiandus sit, eum commemorari,  cui iuvenilium animorum initiation sit commissa, cum idem etiam  in præcedentibus commemoretur*  cfr. p 210. A. 8ei yap, £<prj,  xov opSdfc lovxa btl rovro ro  irpaypa apxtdSai piv veov  ovra levat irci ra xaXa 6(dpata r xal npcorov piv, iav  opScoS 7\yr}tai 6 r\yox>pevof, kvoS av x. x. A.  prjxixt xo 7tap * ivido Sf tep oixirrfS dyandov. His  verbis inesse quod minus bene  habeat, statim lectores inteliigent.  Bastius SovXevgov ineptum glossema habet, quod oixkxTjS verbi  explicandi caussa margini olitn  adseriptum post in ordinem verborum irrepserit. In aliquot codicibus pfo ptpte xt xo legitur  pyjxit* ha), uude Bekkerus atque Schleiermacherus scribendum  ceusuerunt pTjxezi rw. Astius scribendum couiecit: prjxexi xo  7 tap* ivi, QoSnep olxixifS, dyartGov xaXXof, y avSptanov xivoS 7? ijtitTjdsvpaxo $ IvoS, x,  r. A. Vulgo verba hoc modo  interpunguntur : 7£poS noXi) ijSjj  ro xaXuv, prptkxi xo nap - ivi,  ddsnep oIxext}? ayandov naibapiovy xdXXoS, t} dv$pGD7tov x 1 YOS X. X. A. Stullbaumius ad h.  1. Nihil, inquit, mutandum videtur præter interpunctionem,  quam nbi emendaveris in hanc  modum: xal (iXincov npds noXv  7/drj xo xaXdv, pTjxizt xo nap’  ivi, doSitep oixixTjS, ay vendor  itaibapiov xaXXoS x . r. A., haud  scio au omnia satis expedita futura sint. Nara ad ro nap*  ivi, quod connectendum est cum  dyaitdov, rursum intelligas xaXov, Apto vero additur c Zsnep  oixknfiy quoniam, qui unius tantum admiratur polcritudinem, is  ei tanquam servus quasi emancipatus videtur. Porro nihil habent offensionis, quæ deinceps  sequantur: naiSapiov XaXXoS   iittXTfSEvpaxo » ivoS, quæ nemo est, quin videat, apposita esse  *o  \  y imTTjdlvfiaros {vug, dovktvmv (pavXog y xal 0 /jixqqkoyog, cAA’ tal ro nokv nikayog xecQamiivog rov xakoii xcd &taQdov xolkovg xcl uaXovg ivyovg uai (it  præcedenti ro nap* kvl explicationis gratia, ita ut pro to xaX uv nunc dicatur nuiverse xaAAoS\ Denique nec participiorum cumnlatio quidquam habet,  quod ab loquendi consuetudine  alienum sit. Nam fiXbroDV npoS  noXv ro xaXov arcte cohæret  eam pipiETi ro nap * kvl dyanckiv f atque indicat modum et  rationem, qua fiat, ut amator non  amplius unius tantnm admiretur  pulcritudiuem, 4ov\evgjv autem  reiereudum est ad q>avXo$ y xal  6p ., ita ut idem sit, quod dia  Tu BovXeveiv* Quocirca sententiam verborum sic fere reddiderim: post studia illa   ad scientiæ genera adducendus est, ut sapientiæ intueatur pulcritudioem, atque eo, quod latissimum puteri campum spectat, non i a m unius,  sicuti servns, admiretur  pnlcritudinem eaque servitute vilis existat et  pusillus, sed ad immensum pulcritudinis.mare  conversus etc. Iloec egregia verborum explicatio est, qua et  codicum lectionem servatam fet  Platonis ingenio haud indignam  gententiam repertam habes. Unum  tantummodo est, quod in hac  verborum explicatione minus nobis placeat, oixBTt}? nomen. Satis apertam esse reor, Platonem,  si servilem conditionem eius  describere voluerit, qui unios  hominis vel rei udmiratidne atque AMORE captos teneatur, 6 o d\oS non oixittjS nomen ad  hibiturum fuisse. Sic infra  219. E. xctTatdefiovXayiEro? re   DfCO TOV CtV$(XO7t0V G)S OvStlf  V7t ovSeyqS d\Xov icfpiya . k, cui innumeros alios locos  addere possemus, quibus proburetur, ad servilem conditionem describendam Platonem nusquam o fxkxyjS vocabulo nsum esse. Scribendum est autem pro oixixtjS  nomine 6 IxitrfSy quæ vocabula  passim confusa esse Iacobsins  monuit annotat, ad Meleagri  epigr. XXXII. v. 2. De Initr/S  vocabulo amatorem unius hominis  describente, vide Excurs.   &it\ to noXv niXayoS  tet pappivoS rov xaXov .  Picinus verba convertit: verum  in profundum pulchritudinis se  pelagus mergat. Stallbaumius exhibet: sed ad immensum pulcritudinis mare conversas. Videtur nemo ioterpretum verbis offensus esse to noXv niXayoS,  qoæ sane, præsertim cura præcedat xal ftXbtcov xpuS noXv  ydij to xaXov t nimis ponderose  prolata snnt. Satis erat dixisse  ini to niXayoS rov xaXov  vel ini ro noXv r ov xaXov Utrumque verbum h* 1. adhibetur prorsus eodem modo, quo aX AofT cum nomine aliquo coniungitur. Ceterum apte conferri iubet> Stallbaumius Plut. Quæst,  Piat. 1001. E. ro piyi6rov y ccdtoS iv Svpnodtco Sidatixoov, rttoS 6si toIs ipoarixoir xpydZaij perdyovra rrjv  i>vyt)v ano tcov afoSyrcov xaXdjv ini ra votjrd, napeyyvd  pijrs CooparoS tivoff pyz’ im20 •   ‘yaXoitQtxtig rixrij xccl duevotjfuna tv rpiioGotplct atpftovto, eag av ivrav&a QGXS&alg xal avfy&fls xattSij  tiva bu&truirp (ilav Toiavrrjv, fj loti xaXov toiovSt.   E IlHQa 6s ftot, hffj, tov vovv XQogt%uv tSg olov  r t (laXitita.   Cap. XXIX.   "Og yuQ av (lifflt ivruv&a XQog t « iQatixa xaiSaya  tijSev/icttoS fitjr’ btttirijftriSxaXAft fiids v7totErdx$cn xal 8ov~  A eveiv, aXX* dnoOtdvxa xij$  itepl xavta pixpoAoylaS ini xo  noAv tov xaAov itiAayoS xpi7te<$$ai.   $e&)pG)v  rixrxj xal  8 tay 01 } p at a x. t, A. ricina*  exhibet ia conversione : abi ipso  iutaita multas præclaras atque  magnificas rationes intelligentiasque in philosophia abunde  pariat. Attius, dqiSovGQ verbo  oifeusas | acpSova scribendam  eoniecit. Nobis transpositione  verborum opus esse videtur propterea, quod præcedens 3en>pcjy participium sequente accusativo, qui ad id non pertineat, satis inepto loco positam videtor. Supplendum censent ad $£(u)p(k)V interpretes avzo, sed supplemento illo ordo verborum ^eoopGjy noAAovS xal  xaAovS A oyovS xal peyaAonpeneiS haud excusabilior redditur. Scribendum igitur videtur  esse: aAA* btl td noAv nekayoS ZExpappeyoS rov xaAov  xal SEwpobv zoAAovS xal xaAovs AdyovS xal 8iocvoi}pata  xixxy iy <piAo6ocpia dq>$ovaa.  Seusus est: sed ut conrsrs o s a d 'im m e n sam pulcritudiui.s copiam atque intuens pulcrorum atque præclarorum lermonnm  immensam materiem (vide annotat, 333.) pariens sit  in philosophia ditissima. De verborum transitivorum absoluto usu, quo nostro loco xi~  XTQ dicitur pro tixxoDV y, sæpius iara diximus. Vide Indices.  tiva initixrfprfv piav  x oiavtrjv h. c. scientiam  eam, quæ est ideæ pulcritndinis, ad quam cognoscendam Socratem Diotima adhortatur ut animo attento essa  studeat. Ceterum xazidy miuus  apte Schleiermacherus reddidit:  bis er erblicke; xaxiSel-y est  potius: mit dem Blicke erfassen,  agnoscendique notionem videndi  notioni addit. Sic 172. A.  legitur roJv ovv yycopipooy r/J  oxiCSe xatidcSy pe xdfipcj&ty ixoÆde x. x. A. h. e. : einer  meiner Bekanntcn, der mich von  hiuten sali and erkannte. Paullo  infra 210. E npds riAuS ySff  icoy t&jy ipasTixcdy i^aitpyr/S  xaxdip ex ai xi SctvjiaCxov  x. x. A.   piypi iytav£a. Sic libri  meliores omnes pro vulgato //iXptS, Quod enim Phrynichtu  6., Herodian. Philet. 451.,  alii grummatici veteres, pdxp* el  axfn tanquam Atticam probant, fttG>ntvo$ i<pt*fjs ts xal oq9& s ra xaXa, srpog  riAog fjdy iwv zuv igauxiJv t^alcpvyg xazvipizui n ftav(iciGzov tijv tpvGiv xaXov, tovto txiivo, a £ioxQccceg,  ov 8rj tvcxEv xal o£ ZfixQoo&iv zcavzig novot zjaccv,  ngarov (tiv ccei ov xal ovts yiyvofisvov ovts utzoX!.v(1£- 211  vov, ovts av^avofisvov ovts qp&ivov, ezcaza ov zy (ilv  tcaAuv, zy 8’ alOxQov, ovds rora [ilv, rora 6 ' ov’, ovds  arpog (ilv ro xcdov, sgog da rd uIoxqov, ovd' Ev&a    filxpiS antem et axpiS improbant, id verissime dictum esso  testantur Platonis codices meliores omnes, qui tanto consensa  tuntaque constantia ea de ro  consentiunt, ut vix sex septemvo  apud Platonem loci' reperiantur,  obi altera forma communi firmetur librorum consensione. Nam  quæ Heindorfius ad Piat. Gorg. collegit, ea nunc omnia  ex codicibus emendata suat.  Stallb.   Secj/isv o$ i<pe£ijs re  pcal opS-d)? h. e. die Grado  des Schdnen in seiner 1'olgp und  Richtigkeit. De tl pronomine  indefinito, adiectivis nominibus  vel præfixo vel postposito, Matthiæus disseruit Gramm. ampl., ubi et noster locus laudatus est.   iCpoS tiXoS y$tf ioov. TIpoZ tiXoS ikvcti dicebantur ii,  qui superatis gradibus tandem ad  spectanda arcana admittebantur.  Hinc factam esse videtor, ut ipsa  illa arcana, quorum caussa multi  labores suscipiendi erant, TfiSv  teXcov nomine insignirentur. Rectissime Wachsmuthius Hellen.  Alterthomsk. I, 1. $24. annotat: Die Grnndbedeutnng des vielsagenden VVortes tiXoS ist  niclit die des Endes, ais der eintretenden Nichtigkeit voo etvas Vorhandenera, des Eintritts  einer Leere statt der friiheren  Fiille, sondern vielmehr, kraft  der Ableitung von tiXXca (zum  Dasein kommen, hervorwachsen,  reifen) der Bcgriff, dass etwas  •ich verwirkliche, eu dem Stande der Reife kumme, sein Ziel erreiche, seinen Zweck crfuUe,   rouro ixeivo sc, idrlr.  Diotima nunc de pulcri idea locutura, cuius caussa tota oratio  suscepta est, rouro pronomine  demonstativo recte utitur. Exeivo addit, ut significet, eiusdem  pulcri ideæ iam prius mentionem factam esse. Hinc rjdav  explicatur, imperfectum tempus. Significat enim : cuius caussa esse  diximus labores omnes. Ut  Græci tovto Ixeivo, ita Latini hoc illud adhibent hand raro,  atque interdum satis cum acrimonia; cfr. Terent. Andr. A. I.  sc. 1. .   Quæ sit, rogo. Sororem aiunt  esse Chrysidis.   Percussit illico animum. Atat  hoc illud est,   Hæc illæ lacryinæ, hæc illast misericordia. it pdotov æl ov xat  o t’tfi x. X. X. Satis notum est,  atque eti«uu vernaculi sermonis (ilv xcdov, iv9a 8s alcSynov, <5g rtfil (ilv ov xcekcv,  ual Se alexQoV ovS’ av q>avxa09^<Stvai avxo [16 xalov]  olov TtQoganov tt ovfis jjfipfj ovfis alio ovStv ov  (Swfia [itte%sL, o vd£ xtg koyog oi)6a xtg btasximij, ovSi  jtov ov ev iteQa nvl, olov Iv £w<a rj Iv yjj rj Iv  B ovgava > jj l'v xtp aXXtp, alia avxo avxo fit&   ttinov (iOVOuSeg a et ov, r a fia alia navra xala Ixeivov (texixovxa xqoxov uva xotovxov, olov ytyvofievav  te xov allav wtl dzollv(dvav p/Siv exetvo (ii/xe te    probatur exemplis, duas res, quarum altera alterius explicatio sit,  copula adhibita haud raro arcta couiungi. Huius usus exempla  si quæris, ludices adi 8. r. xat  explicativum. Sententiam quod  attinet, cfr. Cic. Orat, c. 8* Has  rerum formas appellat ideas Plato, easque gigni negat, et ait  •emper esse, ac ratione et intelligeutia coutiueri, cetera nasci,  occidere, fluere, labi, nec diutius  esse uno et eodem statu.  ovdfc npoS plv T 6 xa \6v. Hæc verba ut vulgo ex*” bibentur, articulo gravi iusignito, aliquid iucommodi habent}  quis est enim, qui non censeat,  si ro nocXoy exhibitum est, articulum cum nomine subsequente  coniungendum esse? Idem cadit  in verba to aidxpov, quæ paullo  infra leguntur. Gravem igitur ia  acutum immutavimus, quem etiam  exigit pausa, quæ, si recte bæo  verba recitaveris, post ovSfe TtpoS  plv ro comparebit. Ceterum TtpoS  plr to, npoS TO duplicem  rationem indicant, qua res terre*  strea spectari licet, ideam pulcrl  spectari non licet,   ot>d* av <p avta<$$7j de *•  tat avxo [r o xaXov]. Bekkcius, quem Dindorfiu* et Riickertus secuti supt, e codicibus,  ut videtur, avT(fi pro avxo edidit, Hoc avTcJ, Stsllbaumius  inquit, probare uoli. Idtelligitur  enim ipsa puteri species et forma. Recte; sed mious nobis  placet To xaXov, quod, quam facile potuerit ab eo, qui avro  recte iutelligeret, in ordinem verborum inferri, statim apparet.  Avxo nutem prorsus eodem modo  positum esse videtur, ut 210,   E. TOVTO IXEIVO, OV 6f) £VEHEV   xat ol tyjcpo6$Ev TtavTES no voi rfiiav. Uncis igitur inclusimus verba ro' xaXov,   a XX' avxo xu$* avxo  peS* avtov. Apte Schleiermacherus verba reddidit : sondern an und fur sich und in sicb  liberali dasselbe seiend.   t a Sb aXXa narra 7cadx et y ptfdiv* Dicuntur  emuia, quæ in terris pulcra vocantur, sensibusque subiecta sunt,  non ipsa ideam esse pulcri,  sed cum ea cohærere tautummodo, ut cum hæc oriantur atque intereant, illa neque augeatur, neque minuatur, neque ulli  ' mutationi obuoxia sit. Hæc pizijf ideaS quomodo intelligenda sit, a Stallbaumio explicatum habes annotat, ad h. i.; 4 nXiov (irjtt (Xctrrov yiyveidai (it]d's natixuv (itjdtv.  orav bt/ rts ano rmvSe dia r 6 oq&us naiScgaoniv  Inaviav Insivo to xaXov aQ%i}un xaQoQciv, 0%eSbv civ  ti antoiro tov reXovg. tovto ' yrcQ Sr) ian ro bgftug c  ini ra iganxa livai $ vn aXXov uyso&a i, ciqxoiibvov  ano ravds tav xaXwv ixeivov tvixa tov xaXov clil  inavdvai, togneg tnavafia&ftolg XQwficvov, uno tvog  ini 6vo, xal uno dviiv Ini narra ra xaXa edficcra,  xal ano tav xalav Oafidzav Ini ra ' xaXa InmjSsv- Quæ bona, pulcra, honesta sunt,  ea putabat Plato bona, pulcra,  honesta facta esse eo, quod referrentur ad ipsam bonitatis,  pulcriludinis atque honestatis  speciem, eiusque quasi partem  aliquam in se continerent.   olor yiyvopevoov re  tcov aXXoov x. r. X. Dc olor  sequente infinitivo vide Matth.  Gramm. atnpl. $. 535. Laudat  Btallbaumius Piat. Apol. Socr c.  18. iyoo rvyxtxfc* tov toiovtoS,  oloS vTto tov Seov r y itbXei  8e8o6$ai. Adde Piat. Protag.  1 >. 330. C. Msttv apa toiovtov  t} SixaioOvvy olov Sixaiov lirat. Ibid. n. 330. D TCoTtpov  tibvtovto avto ro itpdypd (pate toiovtov tCKpvxlvat olov  avodiov elvat y olov ouiov ;  ibid. 831. A. ovx apa icSzlv  odtorrj $ olov Sixaiov elvat  rcpaypa, ad quem locum Stallbaumius rectissime, li. c inquit,  toiovtov Ttpdypa, olov dixatov  elvat, Pro ixtlVOf quæ optimorum .codicum lectio est, vulgo  exeivoo legitur, quod et Ficinus  tuetur: cetera vero omnia, quæ  pulcra sunt, illius participatione  pulcra, ea scilicet conditione,  ut nascentibus et intereuntibus  alus nihil subtrahatur "illi aut    addatur y neque passionem ullam incurrat . Beue dativus haberet ixeivoo y ai verba abessent  py8h nadxetv pySiv, quibus  additis pleonasmus oriretur hoc  loco non ferendus. Igitur Ixeivo  Unice probandum ducimus.   ozav 8y ziS asto zdovSe Vulgo  legitur ozav 61 St} nf, quod  Biickertus retinuit, quia defendi  posse videatur» Illud Bodleiani Codicis lectio, Vatie, unios, Vindobonens. unius, quam Bekkerus,  Stallbaumius, alii intextum receperunt. Rem hic tangit Diotima, quæ iam in superioribus  commemorata est, cfr. p 210. E.,  ut nullo modo ferri possit Se  particula. *dteo tcdvSe autem ad  præcedentia respicit yiyvopk voov ze tcov aXXcov xal ctnoX Xvpsvosv, resque describit, quarum natura mortalis cum immortali idea pulcri aliquam communionem habet.   tovto yap 8 y itinv.  His et sequeutibus verbi* ratio  agendi summa lim repetitur, qua  uti «debeat, qui verus AMATOR esse  velit. Eam agendi rationem  cum scala comparat Diotima, qna  ab imis ad suprema ascenditur.  Hinc enaviivat verbum positum  et draPaH poiS nomen. Iu Flo(itera, scal ano x av xaXiov Inixtjdev/idxatv in l ta scala  (ia&y(iccta, igr’ av ano xav (ta9t](idxav ts t ixtivo   x 6 (idditfia xtievxytfy, o laziv ovx dlXov y avxov  ixelvov xov scaloti (id&tyia, scal yvoi auro xeXevxmv o  D Voti, scalas/, tvtav&a xov (iiov, a qitte Zcoxgarfg, itptj  rj Muvuvixr) | ivij, el' n I q jcov aXXoth, 0mo xov ctv&Q<ancp, 9eco(itv(p auro xo • scaldv. a tdv stors ’ftys,    rentinis aliisque libris non paucis avafiad/iOiS reperitur, quam  scripturam etiam Phrynichi iudicio probatam habes, qui  824. fiaSfxoS, inquit, ' IotKov 8ict  *ov 5, 8td xov 6 *Axtixov. Sed  ut vulgatum retinuerimus, Lobeckii annotatione factum ad !•  c. Prorsus igitur asseutimur S tali—  baumio et Biickerto, qui ava fiaS/xoiS in textu posuerunt. Ceterum ne parum accurate et initium, a quo exordium facere, et  finem, ad quem teudere debeat  verua amator, descriptum atque  explicatum indices : numeri diversitate verborum aico xoav6e  tg ov xaXcov ixtivov i vena xov  XaXov efficitur, ut de Diotiroæ  voluntate vix dubitare possis.  Quæ enim in terris pulcra habentur, quoniam multa sunt, plurali numero, contra, quoniam una  est eademque semper, idea pulcri  singulari numero descripta est.   $$t’ av rtXsvTt/dp»  Primus Stallbaumius monuit, nostrum locum si exceperis, nullam esse Platonis, iu qno &V*  av reperiatar Hinc sane oritor aliqua voStiaS suspicio, quæ codicum nonnullorum auctoritate  augeri videtur. Etenim Rodlciatitts, Florentini, aliique libri m»u  pauci pro £ft av habent xai,  quam voculam u« propter sequentia minus aptam iudices, pro  teXevxiJujf in aliquot codicibus  TtXtvxiftSei legitur. Hinc Stall-  baumius scribendum esse suspicatur, xal ano xc5v fiiaSijudxoov in * ixetro xo jiaSrjua xtXtvxrjdtt. Sed cum hac scriptura prorsus nou convenire videntur, quæ sequuntur: xal yvoS  avxo xtAtvxdUv o l6xi xaXov,  quæ si velis in xal yvoSdtxat  avxo x, o l6xi xaXov immutare,, monendus es, ne iu uno quidem codice aliquam yvo o scriptnræ varietatem reperiri. Verba  convertit Stallbaumius: atquo  ad extremum cognoscat  ipsam pul critudinis id e av, quod præcedente xal  xtXtvrijdei qui probare potuerit,  non video. Licet igitur ist* av  præter nostrum locum nusquam  apud Platonem reperiatur, tamen  iu textum recipiendum est. KaL  autim, qaod pro iSx* av in aliquot codicibus comparet, ab iis  profectum esse putandum est y  qui ist* av alias apud Platonem  non reperiri intellexissent. Ut  nostro loco £sx* av, ita 191.  E. T ioof relative usurpatum habet, quo offendat; neutrum exceptis Jouis illis 'apud Platonem  reperitur, utrumque autem servandum est. quo magis a Platonica dictione alienum < st, co  studiosius. Ceterum xtXevtuv ov xtrccc %qv6iov te xal ia&rjrct xal tovg xakovg xal6dg te xal veavicSxovg 56 |ei eoi tlvai, ovg vvv vgav  ixxixfojgca, xal eroiuog el xal 6v xal aU oi xoUol,  ogcovteg ta xacdud xal twovreg æl avtoig, tf ncag  oiov t’ r/V, (itjte ia&ieiv [irjte xlveiv, aU.a fHdo&at  fiuvov xal jiweivac. xl drjra, Irprj, ' olo(it9a, el tat  ytvoLto avto xo xakov ISe Iv elhxQiveg, xa&agov, E    < '.ni tt enatam est tx Epxc<S3ai  tcXtvruvia ini Tt, quod contractionis genus apud Græcos scriptores irequeiitissimum,  SeGopivaj avto xo xaXov. Recte hæc verba a præcedentibus addita interpunctione  seiunguntur, continent enim accuratiorem ivravSa x ov /5iov  verborum explicationem. Sensus  est: Si usquam alias vita  vitalis. eat homini, tum  est, quum ipsum illud pol*  erum in tuetur.   ov naxa XP vtiiov h. e.  non ad aurum, vestimentum, al. comparandum illud iudicabis. Nam nata  præpositio ia talibus similitudinem indicat. Vide Piat. Apol.  Socr, init. opoXoyohjv av ty <*•  ye ov nata xovxovS elvai (bjta>p. Stallb. Diximus supra  de hoc nata præpositionis SIGNIFICATV annotat, 4l. Ceterum memorabilis locus est  propter verba TtaiSaS xe nai  veavidxovf. TIaidcov enim nomen Attico usu loquendi sufficiebat ad pueros iuvenesque significandos. Nemo autem mirabitur, veaviCnovS etiam commemorari, qui reputaverit, Diotimam, feminam peregrinam, hic  loqui. Eadem quæri potest cur  x di yvvalnai taS naXaS non  commemoraverit.  Ot)f VVV O p GJ V ix7t£Verba eflectum animi  judicantia aoristo tempore plerumque ponuntur, de quo usu  vide annotationem. Alia  tempora admittuntur tum, quum  non de re vere facta sermo  est, sed animi commotio inmmaita tautummodo commemoratur,  ut fieri posse vel solere indicetur. Hoc in nostrum locum cadit, ubi præcedente oparv participio conditio expressa est: quos  ut nunc res* se habet, si  vides, animo percelleris  atque paratus es et to et  alii multi, amasios semper videre semperque cum  iis esse, si unquam id fieri  possit, neque edentes neque bibentes cet. Vides igitur, participia infinitivorum loco,  infinitivos participiorum loco positos esse, cuius dicendi usus. exempla indicata reperies in Indicibus s. v. Participium.   a\\a $ ea 6 Sai fiovo t  nai B>w eiv ai. Hæc verba  grammaticam verborum juncturam  ai spectas, e præcedente na\%tot• po$ el nai dv nai aXXoi sroAA oi apta sunt; quibuscum, si ad  sententiam respicis, minus ea  cotiveoire senties. Non enim  amatores parati promtique sunt  tolo amasiorum adspectu atque  eorum societate delectari, Sed    ¥  I1AAT&N02    afuxrov, «/Urc (irj tivanlmv «JorpxiSi» re avftQaittvtav  xal % Qcofidrcov xcd aXk.rjg Ttoklijg tpXvaQlas rjg,   ukk’ avto ro &ciov xukov dvvairo (xovoudis xazideiv;  aatis est ipsis amasiorum societas et adspectas. Igitur liberiorem verborum stracturam Plato hic admisit, quam et alias ia  familiari sermone haud raro reperias. Eius originem putare  possis participiorum usum opaovteS xal HwoyxeS, de quo modo diximus. Nam cum dictum  esset xal ixoipoS el xal 6v xal  aAAoi 7 C 0 XX 0 I opdSvxtS   xal B,vv6vxe5  M 7 h £ i-GSieiv  pi/XE itivEtv f illaque participia  pro opdv ct Zvveivai posita essent, facillime scriptor infinitivis  uti potuit SeadSai et B,wiivai  in dictione, quæ præcedentibus  infinitivis itiSUiv et itivEiv opponitur. Ceterum de illorum  verborum absoluto usu vide Iudices.   d\\a py dv ttitXzwY .  Astius aWa abesse cupit. Contentus esset, opinor, ai xal ptj  scriptum esset. At Græci, ubi  nos dicimus and uiclit, ita ut  prædicatum prædicato opponatur,  pariter xal ovh et aAA* ovh  usurpant. Riickert. cfr. Piat.  Protag. 841. D. 7 roAAod ye  6 eI, £<py, ovxcoS $x Blv ' et IJpoSixe. aXX iyoa ev 016 dxi xal  2 ipovi 8 ijS xo *«A«roV E\eyev onep ypiit ol dWot, ov  to xaxov, aXX o dv py jbdSiov  y, d\\d 8ia zoAXcov icpaypa -•  Tvv yiyvyxai.   xal dWyS noWijs q>\vcr p laS 3 v tj x i} S’. I 11 Piat.   Phædone, quem Stallbaumius laudat annotat, ad h. 1. 66. C.  legitur: ipojxoov xal £ict2v- picov xal epoftcor xal eA8ooXgov  itavxoSaizMV xal q>AvapiaS ipninXyCtv rjp&S jroAAt/f, ubi Olympiodorns : cpXvaplaSxaA el 6 TJAdxcov nav to it£pixxdv t  ov povov xo iv \6yois, aA Ad  xal xo iv IpyoiS. Convertit  Schleiermacherus (pAvapiaS nomen: nnd andern sterblichen FJitterkrames. Aliter nobis de huius  vocabuli significatione statuendum videtur. Schol. ad Apoll.  Rhod. 1. 275. habet: cpAv ?,E iv  xvplcDS xovS Aifirjxds cpaptv  xaiopivovS avafidAAsiv xo vdop. Duplici igitur significatu  tpAvapla, quod cuui illo verbo  cohæret, videtur a scriptoribus  adhibitum esse, ut aut rem significet, quam aliquis, qui commotiore animo est vel vesanus  pvofert, aut nugas denotet resque expertes veritatis, quæ strepitu vel splendore quodam insignitæ sint. Priore significatu  ipsum (pAv&iv usurpatum habes  iu Meleagri epigr. 119. 5.   iroAAd 5 ’ 0 TtixpoS  aloxpd xaS 9 ypExipyS i<pAvde  nap^EviyS   'ApxtXoxoZ.   Adde Piat. Apol. Socr. 19. C.  xavxa ydp tapdxe xal avxol  iv t?J *Api6xo(pavovS xcopcpdto ; 9  2 cjxpdxy xivd ixtl itEpzpepopevov (pcxdxovxd te dipafiaxeiv xal dAAyv 7to\ Ayv q>Avapiav q>\vapovvxa, quo loco  non nugæ commemorantur, sed  vesaui hominis deliramenta. Altem significatu positum habes  £q’ oTst, tcprj, tpavXov ptov ylyvt6&itl Ixtids (Ittxov- 212  x o$ avdQtoxov xal ixuvo Srj fteafievov xal £vvovxog avta ; ij/ ovx Iv&vfisi, icprj, ou ivxav&a aura    Piat, de rep. IX. 581. D.   h ctTtvoY xal (pXvapiav.   d AA* auro xo Setov xaA d v 6v v air o pov o eidis  H. X. A. Abesse posseut sine  a! Ia sententiæ mutatione verba  fitVairo et xariSetv, quia præcedit cf rw yivotxo ISeiv,  Posita autem sunt haud dubie,  atque si ita dicere licet, e præcedentibus repetita, quod præcedentia a nostris verbis interposita aliqua enuntiatione nimis  remota sunt. Sed mireris, si particulam non item repetitam esse,  cuius abseutiam nemo interpres  aliqua excusatione indigere ceusuit. El Platonem revera omisisse certissimum est. Iluiusmodi autem omissiones in sermone  familiari haud infrequentes sunt,  ubi et pronuntiatione verborum  et habitu loquentis excusantur.  Ceterum Sydenhamius annotat  ad h. 1. laudatus a Wolfio : So  lange der Mensch in dieser Welt  lebt, und noch die Fesselu des  Korpers an sich tragt, ist er  selbst nach Platons Ideen uicht  fahig, sich zu einem so erhabenen Anblick in die Geisterwelt  erapor zu schwiugen. xal ix e tvo 8 f} $ e GD/iev ov.  Vulgo legitur xal ixeivo u 6ei  $£QOpkvQV i quæ lectio, quamquam non prorsus inepta est  possis eoim de necessitate dictam interpretari, qua, qui via a  Diotima monstrata incedat, divinum pulcrum non possit non  videre,  tamen admodum languet frigetqæ. In codice Bodle t   ia no pro o Sei reperitur oj Sei;  hinc Astius, quem Stallbaumius  secutus est, oj 6ei scribendum  coniecit. Speciosissima fit hæo  coniectura verbis intra positis  opaUvti gj opaxov: sed ut gj  dei scribatur, qnoniam opajvxi  oj opaxov paullo infra legitur, necessitas nulla est. Vulgatum autem o, quam facile oriri  potuerit syllaba finali ixeivo vocabuli forte, ut fit, duplicata,  facile iutelligitor. Id in cj immutavit, qui iutelligeret, o admodum frigere ; correxit fortasse  etiam, quod in sequentibus legit opdovxi oj opaxov . Iam pro  Sei in tribus codicibus, Paris.,  Vatie., Palat. Vat., legitur fit/,  quæ formæ sexcenties commutatæ reperiuntur. Hinc Schleiermacherus scribendum coniecit xal  ixuvo Srj $£GJ/i£vov, verbaquo  convertit: Me in st duwohl,  dass das ein schlechtes  Lcben sei, wenn einer  dorthin sieht und ienes  erblickt und damit umgeht? Hæc coniefctura Bekkero adeo placuit, ut in ordinem verborum reciperet. Id et  nos fecimus eius exemplum secuti.  In Ficini conversione legitur:  Jtfum vitant huiusmodi parui facis ? hominis videlicet ipsius t  qui illuc suspicit, qui tam præclarum spectaculum contuetur,  qui illi cohæret . Ex quibus  verbis colligi, potest, Picinum  quoque 6rj t non Sei, legisse.   ( f iova%ov ytvtjOtTiu, Sqcjvti a 6q<xtov to xuXov, zlxzuv  ovx tiSala agetijs, ars ovx tiSm^ov hpaxzofiivco,  akV dky&rj, et re zov dfoftovs iqiamoftiva, zexovzi   £s dgcTtjV ahftij xai Qg^a^iiva vitaQ%ii %£ 0 <pi?.ti yevto9tu xai, eixeg toj di.ho av&Qunav, d&avazn xai  Ixelva ;   B Tavzu Srj, <J Oax&gi zs xai ol dXloi, Hcprj (tiv  Aiozifia, 3 linueuat, d’ iyu' Tttnuaatvog di iteigafica xai rovs aXJ.ov s ittiftEiv, ozi -zovzov zov xzqfiazos    are ovx eiSeSXov Itpasrtopev co x. r. A. Prorsus eodem modo Pausanias 183- E.  xai ydp ov6h povipoS i6tiv y  axe ovdh porlpov ipcov npdyfiatoS. 6 rov t/SovS   Xprj6Tov dvroS ipatiti}* dia  fiiov pivei, are povipoa 6vv taxeis. Ceteram colligere licet e  nostri loci verbis, quomodo Diotima vel Socrates Orphei mytilum sibi explicaverit, cui ex  Orco redeunti <pa6pa ostenderant dii. cfr. p, 179. D.   aAA’ d\rj$ij t Sæpias iam  monuimus in superioribus, repetendum esse haud raro e præcedentibus verbis, in quibas compositum verbum contineatur, non  compositam, sed simplex. Vide  annotat, 89. et 290» Eadem dicendi norm^ etiam in nominibus interdum admittitur ea  lege, ut ex prægresso nomine,  quod rei notionem cam epitheti  alicuius notione coninnctam repræsentet, sola notio rei repetatur. Cave igitur eldoaXa et  ttXrfSi} sibi opponi censeas hoc  loco, ut somniis falsisque imaginationibus, quæ uno verbo cldooXcov comprehenduntur, veræ sc»  imaginationes opponantur. Hinc explicabis pluralem numerum  aXrj^ij verbi, quem Plato nou  fuisset admissurus, si illam dicendi normam adhibere coluisset. Sed alia etiam explicaudi  ratio adest, qua ccA. 77 .Sj 7 singularis numeri accusativum interpretari possis atque e prægressi»  apettjv supplere; futuros esse  iam prævideo, qui illam explicandi rationem inclumaturi, neque oisi faciliorem hanc probaturi sint. Utraque explicandi  ratio nostro arbitratu vera est;  utra verior sit, dijudicari nequit.  Res ex accentu orationis judicanda est, quo singula verba Diotima exornavit. Si pronuntiando  £i'8cj\a extollitur, prior explicandi  ratio verior est hand dubie; contra posterior rectior erit, si accentum orationis ita posueris, ut  et eid&Xa et apetrjS præ ceteris verbis emineant. Quamquam sequitur infra apetrjv aXrj$ 1 7, tamen inconsultius cave indices atque præpostera cara alterum genas explicationis alteri  præferas.   tiitep rc 0 dXXoj arSpo')7(0) v. Ex huinsmodi locis satia  docemur, Græcos accuratissimos  fuisse verborum pronuntiandorum,   - t'   rf/ uvftganda <pv<su ewcgybv cciidva "Egenos ovx av  rCg gaSUag lafioi. Sib Si/ ?yays (prjfii ygijvai narra  avSga rov "Eguxa npav, xal avrog rigui ra tgatixcc  xal Siaftgovtag aOxto, xal roig «AAotg xagaxilivofiaiy xal rvv rs xal a*l iyxcofiulta tijv Svvag.iv xal  dvSgdav rov *Egenog xafr’ odor olog t’ tlfil.   Tovrov ovv rov Xoyov, «J 0cuSgt, tl (ilv jiovXu, 0  ibg lyxcofuov tlg Egena vofiioov tlgrjo&ai, d 61, 3  rt xal oxi j x a ‘Q £L G bvofiatav, rovro ovofiafe. quandoquidem toj a A Aoo et roo  ctAAcp pronuntiando discreta esse  certissimum est, Pro aVS-ptJTtoov, quæ omnium fere librorum  lectio est, vulgo dvSptdiu * > edebatur. Falso. Nara sententiæ  gravitati gravior verbi fornia  convenit magis. Ceterum haud  raro huiusmodi enuntiationes,  qualis est Einsp rea aAÆa dvSfjcjxcov, Græci scriptores adhibere solebant, quibus sententiarum prolatarum vim augerent  atque quodammodo amplificarent.  Sic supra reperitar 211. D.   ivrotvSct rov /UoVf ElTttp   itov aAXoSi, fiioarov avSpcanea  x. r. A.   lq>r) jt\v  n in ei6 jiai  6 * i y eu' h. c. utilia dixit.  Ita ego credo. Quæ sequuntur ite7iei<5p&.voS 6 l neipco jxai xal tovS dAAovS nei^Eiv  cum Aristophanis verbis couveniunt 189. D. iyo» ovv 7tEi~  pdoojiai vjj.lv ElSr/y/fGa<S$ai n}v  .Svvajuv avrov, vjleIs 61 rdiv  aAAaor 6i6a6xaA.oi ioEtiSe.   ry av$ p con eiot q>v6ei.  Sæpius iam annotatum est in  superioribus, <pv6iS cum adiectivo aliquo couiunctum nominis  periphrasin efficere, quod eius  dem est atque adjectivum radicis, Ty dv^peansia tpv6n igitur idem fere sigmificat atque  xoiS avSpeoitoiS. Ceterum cuna  gravitate dictum existima ty  avSpaamlx q>v6si, ut humanue naturæ debilitas, noa  solum humana natura, periphrasi illa significantius indicari significetur. ei ‘61, o rt xal oity £a/petS. Consuetius dicendi genus præcedente sl jiiv est eI 61 jirj,  Quod cave hoc loco ponendum  censeas ; neque perinde est, utrum  eI 6e an eI jtrj legatur. Exhibetur autem ei 6i h. 1. ita, ut  utrum Phædrus facturus sit, hoo  Socrates sibi placiturum esse promittat, quasi diceret: sive pro  laudatione Erotica orationem  meam acceperis, sive non acceperis, perinde est. Si accipis,  laudationem eam nomina, si  noa accipis, quo libuerit nomine appella. Ceterum conferenda  cum nostro loco verba sunt Piat*  Protag. 358. A. site yap yjSO  elre rspTtvuv AiyeiS sire %aptov, e ite oitoSsv xal oxgoS X°d~  psiS ra rotavta ovopa^oav  rovro jiot jcpoS d (1 ovAojioa  dxoxptrixu    t . - Cap. XXX.   Elxiytog 5h zavta xov Ecaxgatovg rovg fisv txacvtlv, zov dh 'AQuJxocpavTj J.iyuv ri hu%uguv, on    rovS fi\v drttitretr. Hæo  et sequentia rursus obliqua oratione proferantur, quod ab Aristodemo relata finguntur. Supplendum est igitur etpij 'Apidxd677 / 10 ?. t ov 61 *Api6xo<pdvrj x.  r. A. Cum Socrates Aristophanicum mythum tetigisset vel «otasset potius verbis 205 E.,xa\ Xiyercct pev ye rtf, £<pij,  XoyoS, cJ? ot dv x 6 fjjttdv tctvzpjv Zrfxu>6tv, ovxot iftoodiv x.  T. A., nihil certius est, quam Aristopliauem aliquid contra monere voluisse, quo vel suam de  Erote sententiam tueretur, vel  Socraticæ orationis veritatem  impugnaret. Quo . consilio quid  proferre* -potuerit aut voluerit,  prorsas nescimus ; neque ipse  scriptor habuisse videtur, quo  loquentem Aristopliauem induceret, Cur igitur illam Aristophanis voluntatem commemoravit? In huiusmodi locis Platonis artem scenicam admirari licet, qua hic efficitur, ut  tpvrjS verbi notio non solum  verbo posito indicetur, sed re  ipsa vividissime exprimatur. Vides enim, Aristophanem iam indicasse externis quibusdam signis,, se aliquid contra Socratem,djctqrum esse ; ium paratos convivarum animos j^abes ad eius  rverba percipienda: cum subito   .pulsatæ fores sonitum ederent,  tibicinæ clangor audiretur, tujnultus strepitusque quasi comissaturum oriretur.   trjv avXeiov Svpav.    j   Harpocr. s. v. avXeioS 7  dito xijS 060 v npuixrj Svpa xijS  oixtaS, ad qnem locum Valesii  annot. laudat Bremius ad Lysiam  9.; avXeioS $vpa sunt fores vestibuli, quæ aulam clauduut versus viam; aulam autem  si quis permea rat, veuiebat ad  pixavXov Svpav, per quam ex  aula introitus erat in ipsam domum. Qu; igitur domo exibat,  ei primum erat per /xixavXov  Svpav transeundum, tum per  aulam et per avXeiov Svpav la  viam.   Svpav xpox ov pivtj,  Hæc vulgata lectio «st, quam  codicum lectioni Svpav xpovo plvjjv potiorem ducimus. Schol.  ad Aristoph. Nubb. v. 133. xis  €($$’ 6 xoipaS xrjv Svpav ; docet : ini jikv xcov ££a)Sev xpov ovx gov xonxeiv Xiyovdiv^ ei  6 fc idc o$ev (sc. xpovovdiv ) tyo<peiv. Ex his verbis patere opinor, xpoveiv xijv Svpav de  utroque pulsandi genere obvaluisse, Niiiil igitur habet, quo  displiceat hoc loco xpoveiv verbum. Sed num ideo rectius sit  et verius, quain xpotetv, quod  h. 1 . vulgo legi supra indicavimus, alia quæstio est. Quid, si  verbo insolentiori ( xpoveiv )  pulsandi insolentiam qualis est  comissatorum, scriptor indicare  voluit ? cfr. Meleagri Epigr.  CXXV. v.3.   apti yap idnepioi vvptpaS ini  dixXidtv dxew   Aturo!, xal SaXd/AGov inXatayevvxo Svpa t     31 «    avrov kiyuv 6 2,'<axp«rj?s xeqI tov loyov, xcci  t$cti(pv>js rrjV kvXelov Qvqov XQOrovpivyV itoXvv fo (pov xacMtildv «as xafucCuiv,  uv. tov ovv 'slyu&uva,   ad qnem locum Iacobsius annotat Comment. Vol, 1. 1.  140. ixXatayevvto de saltantium ad fores strepitu accipiendum, qui proprie xpoxoS. Hesychitis nXaraytiv idem esse docet, atque xporelv. Igitur nostro  loco tantum abest, ut xpoTovpivyv  minus aptum censeamus, ut potius' verissimum iudicemus atque  rei descriptæ apprime conveniens. Sensus est verborum I  Pldtzlich sei an die Thiir  angedonnert worden, und  sie habe gedrdhnt, ais  wenn nach11ich e Schwar mer davor waren. Ceterum  Stallbaumio praceunte post itapa6x&y comma delevimus, quod  Bekkerus in textu posuit. Illo  annotat ad h*. 1. a»? xcopa6 1 <3 v connccteudum est   cum itoXvv ifjocpov napa hoc sensu; vestibuli ianuam pulsatam ingentem fecisse strepitum  quasi comissatorum n. e. quasi comissatores eum  excitarent. Recte. Prorsus  conveuit etiam cum h. 1. Schol*  Aristophanis ad Plut. v. 1097. ed.  Bekk. Vol. II. 256.: xontEiv; jpotpely xal xXavouir ri}v $vpav 6ia<pip£i‘ xortteiv plvyap  Xsyerai, oxav eistiroct ris pi\Xy yta\ njv Bvpav iB>( j$ev  nXytxy cos* rit i6$’ 6 xd^aS  xijv Svpotv ; ifMxpeir orrav iZtpxontv 6s nf au*  x t}r vicaroiyoi xal yx<>v  % ira oltc o xeXy. o rotovx os yap VX oS iJj 6 <pos nancti avlytgidog cpcovyv axovdeg> qtccvuL, ov (Sxeiptti&s ; D   Xeixai, Zxctv 81 vx' dvir  uov xirijxai portj xal ?}*oi'  riva, ix rovrov artor eXi), o  roiovtoS i /xoS i} r pitipuS xXavOiav A eyexau   xal avXyx pl 8oS tpcovifv  dxov £iv . cfr. Melcagr. Epigr.  LXIV. v. 1.   w A6xpot xal r) q>i\£poo6i xaXdv  (palvovda SeXtfvy  xal NvB,, xal xodpcoy 6vpnXavov dpydviov, . . .  ad quem locum Iacobsius: Sivo  tibiam, iuquit, sive facem  iutelligit. IIoc probabilius,, Lectis nostri loci verbis itate animatum seutias, ut  de tibia poetam cogitasse censeas. Ceterum recte Stullbaumius eos vituperat, qui <ptay?ir  hoc loco de tibicinæ voce iuterp retarentur. Certissimum est  enim, tibicinam tibiæ souos edidisse, quibus se* commendaret  intus sedentibns. Ceterum miro  modo 7tapa<$x£v præcedente,  quod subiecto suq non caret, positum sine subiecto legitur axoVElVFacit autem subiecti omissio ad  describendas turbas, quas, qui  ante fores vestibuli starent, excitant ut. Neque r tr£s supplendum  est, uam omnes sonitum tibino  audierunt, neque itetvzaS satis  aptum videtur, qno hic supplemento utaris. Sed indefinite dicitur dxQveiv ita, ut Latinorum  respondeat auditum esse,   ov (SxiipadSei Aoristum,  quem iu dictione r/ OW O v   ytjOco vidimus p» 173» R» ut non  xal lav ptv rtg rav Intrrfidav y, xalelrs • el (ir/ t  ktysTE, on ov tcivouev, a).lu dvanavofit&a ySrj. Kal  OV Jtoltl VOTEQOV ’AXxifluxdoV X>jV tp(OVt]V dxovuv Iv  xy avly OtpodQU lU&vovxog xal fiiya fioavzos [ £(wo  admittendam, ita non omni ex  parte spernendum ducit Rtickertus. De aoristo cum negatione  coniuncto in interrogationibus supra diximus annotat, p 11., ibique eius usum a nostro loco alienissimum indicavimus. Male igitur in aliquot codicibus ov 6xiif;a6SE ; Vario autem modo futuro tempore veteres in interrogatione usi sunt, ut indignationem, iram, clementiam exprimerent. Vide annotat, 26.  Hoc loco quo sensu verba dicantur ov <5xeif>e6$E f dictu haud  difficile est. Agatho enim audita ante fores turba ut illico  Irent, videreut, vocarent vel remitterent, servis mandat. Verba  igitor convertenda sunt: seht   sogleich nach.   xal iav plv xaXeixe.  KaXsixs hoc loco absolute positum est nt 175. A. xctpov  xaXovvxoS ovx iSeXei tlsikvai. Exstat autem hoc et illo loco aliquid discriminis inter xaXaiv et  xaXalv. Nam in verbis xa/iov  xaXovrxoS verbum illud nihil  aliud significat, quam quod nos  dicimus rufen : ond ais ich rief.  Nostro loco xaXalv invitandi notionem habet, de qua vide annotat. 17. ad verba axXrfXoS  ini Ssinvov. De iav eI  prj vide annotat, 128. ct 124.  Verba convertenda sunt: Und  solite es etwa einer der  Erennde sein, so ladet  ein, wo nicht, so sprecht,  dass wir nicht trinken cet.    xal ov noXv vdxe pov-.  Servi Agathonis dicto obedientes statim ubiisse cogitandi snnt,  atcjue aula superata xrjv avXttOY  Svpav aperuisse. Quo facto  illico clamor Alcibiadis audiebatur.   xal pkya fio&vxo?,  [ ip <w r gjv rof]. Vulgo legitur piya (iodjvzoS xal ipGzxajvr oS. Copulam e melioribus codicihus interpretes fere omnes  expunxerunt. Sed hac ratione  non ab omni labe hunc lorum  liberatum putaverim. *Epa>xd5vX OS enim participium, quomodo  probem, non habeo; quin magna  suspicio adest depravationis, siquidem facillime fieri potuit,  ut aliquis, quo fioGovxoS verbum paullo insolentius a Platone positum explicaret, IpGdXgjvxoS margini adseriberet, quod  deinde nimia scribarum sedulitate in ordinem verborum receptum est. Haud raro fioav vino gravatis ita attribuitur, nt  addito quodam eorum dicto dicendi vel iuterrogandi verbum  non præmittatur. Sic legitur in  Asclcpidæ Epigr. XIX. v. 5.  xy 6s xo0ovx’ ifioijtia fiefipeypivoS' axpi xivoS, Z ev ;   Z sv tpiXs, 0iyrj6ov, xavxoS  Ipav ijiaSEf.   quo fidelicet loco non potnit  metri caussa aliquid inferciri,  quod ip6r}6a verbi significatum  illustraret. Ad nostrum locum  ut revertar, sunt alii quoqne vel  færunt potius, quibus ipurtcov  ZTMI10ZI0N. 321   tavxog ], oitov ‘Ayd&av, xcd xe&evovtog dyuv nag  ’Ayafrava. dyuv ovv avxov netoa <5<pdg rijv ts a vXtjtglSa vitoXafiovtiav xal aklovg tivcig rav axolovfttov,  xal tmazfjvcu bil rag. dvyccg iotupavcj/xtvoV avxov rot participium displiceret. Certe  dao (iotnvxoS, ipcjtcjvro^ participia iuxta posita displicuere iis,  qui xal, quod vulgo legitur, interponendum censuerunt. Quominus ipcDXGJvxoS participium prorsus expungeremus, recentiorum  editorum auctoritas impedimento  fuit, quorum ne uni quidem depravationis suspicio in mentem  venit. Igitur uncis verbum inclusimus.   oxov 'AyaSav > xal x&Xevo vx o S dy e iv n a p* A yaStnra, De industria hoo  loco Agathonis nomen repetitum  est. Scia’ quam ob caussam? Infantes, quod concupiscunt, id  unum solent variis membrorum  gestibus appetere, neque hilo  unquam ab eo abstrahi» Infantibus ebrii cum aliis nominibus, tum  etiam eo similes, quod rem, quam  desiderant, vario modo proloqui  solent, neque ab ea nominanda  prius absistere, quam ipsam sint  consecuti. Itaque Alcibiades vino  plenus, magno clamore, heus,  inquit, ubi est Agatho, ducite ad Agathonem. Ceterum cave xeXevovxoS arctius cum  sequente ayhV infinitivo coniungendum censeas. Plato enim  rem ita proponit, ut quasi ipsa  Alcibiadis verba tradere videatur.*  oxov *Ayoi S gdV; ayEiV (h. e.  ayere) xap* 'AydSoova. KeXevoVtoG StyEiv igitur non convertendum est : ducliussitad  Agathonem, sed servis imperavit! u dncite «d Agathonem**    l   vn o Xaftovda y, vxoXa/ipdveiv est sublevare, brachio supposito sustentare  cfr. Piat, de rep. V. 453. D*  ubi e codicibus hodie legitur:  ovxovv xal ijtiiv vevGxeov xal  XEipatior dGjgetiSai ix rov  XoyoVf lftoi dsXqjivd xlv * &xi^ovxai 7}paS vxoXapsly ar  oi) xtva aXXrjy dxopoy <Storiy  piav. Ruckort.   xal litt6trjy at ixl raS  SvpaS, Hæc verba convertit  Schalthessius J und stellten ihn  eu ihnen vor die Saalthiir hin.  Minus apte. Fores enim, quæ hic commemorantur, fiiravXoS  $vpa sunt, qua de re supra dictum est adnotat. p» 318. Io  Schleiermacheri conversione legitur: Er sei aber in der Thtir  stehen geblieben. Ut accuratius  reddatur Platonicum ; ix l ra$  SvpaC, verba convertenda sunt i  er habe sich aber ia (s. an)  die Thiir gestellt. Sic haud raro  rectiore verborum conversione  præpositionum casuumque cum illis coniunctorum structura commodissime explicatur. Pari modd Grammatici Latini præcipiunt, ponendi collodandique verba in præpositionem cum ablativo coniungendam assumere, cetera verba  motum io aliquem locum significantia in præpositionem et accusativum casum requirere* Prioris illius præcepti neque ipsi  tradunt, necjue lectores iutelligont rasionem. Ea optime o  recta collocandi ponendiqne verborum conversione perspicitur. E xmov x i xtvi Gtirpava) dadst xai fmv, xai taivlag  rovxa ini rijs xcqiaXrjs naw noklas, xai tinuv • “Avfiofg, jraiptrs ' fie&vov ra tivSQct adw Otpodga dt&adt  Ovyndxjjv, tj dn.iay.tv dvadtjOavxtg yovov ‘Aya&ava,  Ponere enim et collocare  non significat, quod nos vocamus : setzen, stcllen, logeo ; ridicula enim foret, si hacc ipsis  significatio esset, i n præpositionis atque ablativi casus couiunctio ; sed denotant: fest ste1len, fcstsetzen, befesti*  g e n. Quæ significationes ubi  discipulorum animis inhærebunt,  haud verendum erit, nc 'quis  nuquam in ponendi collocandi ve verbis in præpositionem cum accusativo casu coniungal,   xai raiviat %x° yr01 *  Timæus s. V. r aiviaS avaSovpivoi * toiS vixijtiadi ara Srjtiat ratvlaS. Annotat Stallbaumius nd h. 1, : Mos erat, incinit, capita hominum vel publice bene meritorum, veluti victorum, vel amicorum et familiarium lætis diebus ac solcmuitatibus coronis, vittis, tæniis redimiendi et ornandi, vide Ruhnkenium ad Tim. Gloss. 246 seqq.   "ArdpsS, xaiptte. Alio  loco de hac salutandi formula  dicturi sumus. Huiusmodi formulæ ex quotidiana vita petitæ  si accuratius spectantur, mirum  quantum faciant ad populi, qui  iis utitur vel usus est, ingenium,  mores, naturam oranemque habitum cognoscendum. Eodem  modo præcipue de bis formulis  Goethios egit io Opp. Tom. 27*  125. Guto Nncht! So konnen  vrir Nordlamler zu jeder Stunde  sagen, wenn wir im Finstcrn  seheiden: der Italianer sagt : felicissima notte! nur einmal, und  ewar, wenn das Licht in das  Zimmer gcbracht wird > indem  Tag und Nacht sich seheiden $  und da heisst es denn ganz etwas auderes : So uniibersetzlich  siud die Eigenheiten jeder Sprache: denn vom hochsten bis eum  tiefsten Wort bezieht sich ulles  auf Eigentluimlichkeiten der Nation, es sei nuu in Charakter,  Gesinnung oder Zuslauden.   biSiEdSt 6v J.i7t utrjv. Ilæa  Bodleinui codicis lectio est aliorumque paucorum librorum. Vulgo 8£Za6$E legitur posito post  7}\$OfXEV puncto pro v. signo interrogandi. Illud recentiores editores ad unum omnes probant.  Quod ne male se habere censeatur: sententia est: Einen Mann,  der schon getiunken hat, miisst  ihr, wenn er mit euch triuken  soli, recht freundlich aufnehmen, oder cr gcht wieder fort,  wenn er nur den Agathon bckrauzt hat, wozu er gekommen  ist. ardpa haud raro poni pro  pronomine personali ipi, tragicorum potissimum poetarum lectoribus notissimum. Tragicis  avrjp ote, avSpoS tovSe x. t. A.  pro iyo&i ipov admodum usitatum est.   iyco yctp roi. Cum nemo responderet Alcibiadi, neque ipsum,  ut accederet accubaretque, vocaret,  omnesque tacide hominis erroniav admirarentur, illo adventum suum excusaturus loqui per }rp’ oitSQ “il9ojitv ; lya yczQ roi, (pdvca, jjQts (i'ew  ov% olvg t’ lytvoatjv dq>tXB6&cu, vvv da yxm tnl ty  xecpaly lyav rclg xcavlag, iva thto rljg fuiys xtfpalijg  tt]v tov Gocpardrov xai xa/.Udzov xitpaXyv iav    git. Heri vocato sibi ab Agnthotie, quominus veniret, certa  quædam impedimenta fuisse. Venisse se nuuc Agathouem tæniis  ornaturum. Ilisu exorto consivnrum Alcibiades excusationem  suntn quasi fictam derideri putans vera se loqui affirmat. Post  interrogatione illa satis impatienter atque inclementer repetita  abitum paraturus erat, ni omnes  convivæ consurrexissent, atque  ut maneret, ipsum rogassoat. .   iav ei7tco ovt u>dl. Ilæc  non dubito, quin corrrupta sint  ab imperitis librariis. Nam quod  Wolfius ea dixit significare ut  ita dicere liceat, itu ut Alcibiades putandus sit ceterorum  convivarum invidiam his verbis  amoliri voluisse, eam interpretatiouem non fert loquendi consuetudo, quæ postulabat ovtgd6\  tlneiv. Itaque Astius scribendum ccnsuit : TtetpaXTfv dvadijdcj.  dpa, iav £LitcJ ovioj6i t naxayeXcttietiSE pov n. x, A., qua tamen coniectura vereor, ut omnes  tollantur difficultates. Certe quidem transpositionis audaciam nemo probaverit, qui meminerit, divam criticen ferrum et ignem  odisse. Quid mihi de hoc loco  videatur, iam satis declarare opinor uncos illos, quibus hacc verba  u reliquis seclusimus. Nam quum  grammaticus aliquis ca in margine aut inter versus adseripsisset, quo explicaret proxima illa :  dpa HaxceyE\d6E6$E ueSvoyTOS ; postea temere in conteitadi    orationem recepta, et, ut fit,  alieno loco interposita sunt,  8 t p 11 b a u m. Rene quidem Vir  doctissimus de aliorum, quos laudat, vel interpretatione vel emendatione egit, sed quam ipse iniit  sanandorum verborum rationem,  ea milii quidem prorsos displicet. Perscripsi nutem totam eius  annotationem,, ut facilius lectores de ea iudicare possent. In  libris nulla varietas est lectionis  præter quod Vindob, et Plorent,  unus inverso ordine verba exhibent: ovxcd6l n&pcikxjv avet6 t}6gj, qua mutatione doceare satis, ctiara librarios iuhisce verbis offendisse, eaque transpositione adhibita aliquo modo explicare studuisse. Risisse convivas verbis indicatur apa naxaye\dtfe(j5i pov cJf f.te$vovxoS j  quam risus caussam Alcibiades  sibi finxerit, supra diximus et  verbis indicatur fiov cJff //ej&tforToS, h. e. quasi ego ebrietatis caussa meras nugas  narrem. Hinc addit iycJ Sij  Ttdv v/fEtS yeXdxE, ojivti ev  ot8 *, oxi trA?/3j/ X6y&> Veram  risus caussam nemo interpretum  aperuit. Videamus primum huius  loci conversiones. Ficinns habet :  Heri quidem interesse nequivi J  hodie veni vittas ferens, ut a  meo capite sapientissimi pulcherrimique caput, si ita prædixero,  circumligarem, an me quasi ebrium deridebitis ? In Schulthessii  conversione exstat: Denn gestem  koimte icit micli nicht einl/ndcn J  jetzt aber bin ich da 30 mit Bin21 * '  E    tinca ourool dvadycJa. ctQtt xcttaytAdcSed&i jiov d>s  213 (is&vovrosi lydi de, xdv v/tag yeldte, oucag ev o'S\  on dAijfty Xeyca. dU.a f coi Uytxt ccvrotiev, h tl <5>;tofg  tisico, y M j <J vy.itlt6&£, y ov ; Hamas ovv dva&ogvpycSca xcd xiitvuv tlsdvai xcd v.uxaxXiveciitat,, xal  xdv 'Aydftava xciXuv ctvtov. xcd xCv levat dyofisvov  vnn xdv dv&QCJTtGiv, xal j tegiaiQOVfisvov ana tus *«»via s tog uvaSydotna, InhtQod&tv x m> drp&cdficav exorna    dcn nmwnnden, damlt icli voti  meinem Haupte her daa Ilaopt  " des nllerweisesten uml schonsten  wenn ich so sagen darf  bekrauze. Lacht ihr etwa meincr, weil ich tranken bin ? Mecum iutelligaut lectores, nihil in  laudatis Fucini Schulthessiique verbis contineri, quo, cur convivæ riserint, explicetur. Neque  apud Schleiermacherum explicatam illam caussam reperies : Denn  gestern, habe er hinzugefiigt,  war es mir nicht moglich za  kommen; jetzt aber bin ich da, aul' dem Haupte die Rander, um von meinem Haupte das Huopt  dieses weisesten und schonsten  Mnnncs, wenn ich so sagen darf,  eu uimvinden* Wollt ihr mich  auslachen ais truuken? Causam putare possis, quod Alcibiades  bene potus ab bibendum veniat,  sobriosque ebrius ad vinum hauriendum excitet. Uoc sane est  aliquid, neque tamen nobis nuno  sufficit. Ridiculum latet iu verbis iav eIltcco ovroodt, quæ miro  modo depravata sunt. Verba hoo  modo scribenda sunt: iav elnov,  ovtcjOI ayad/fdco. Quæ correctio ne audacior censeatur, prO  iav facillima accentus mutatione  acriba aliquis edidit iav, quod cura alius deinceps legeret iav  elrcov ovroaol avadtjdco, corruptura habuit rectissime, sed  vitium in verbo sauissimo deprehendisse sibi visus, tinov in  ebeoo mutavit. Nimirum cum ad  iostar ebriorum Alcibiades, quod  facturum se esse ostendit, id gestibus expressurus esset, sustentari se a tibicina servisque noluit, qoo facilius, quod veJIet,  faceret* Igitur iav Etnov dixit  hoc sensu: Dixi iam sæ pius, mitti me velle liberum a vestris manibus*  Servi autem dicto audientes, cnm  herum misissent, qui itn vino plenus erat, <Zste pjfdl toiS  idioiS itodiv idxadSai (vide  Athen.  ) lactum est, ut  verba proferens ovtcodl avaStfdcj vel concideret vel titubando  ridiculos gestus ederet.   aXXa poi A kytxE avtoSey. De his verbis iam  supra dictum est annotat, 3^3*  AvtuSev autem dupliciter adhiberi solet, partim de loco, partim de tempore, ac de tempore  quidem, quoniam loci temporisque ratio haud raro commutatur*  Recte igitur h* I. interpretes  avro^Ev stati m, illico significare annotant*   ini fitjrolf. Spectant hæc  verba ad 212. R. pB^vovrd  dvdfja tcavv 6<po$pa 6a- i   ov xanSuv rw SaxQiat], cfvUa xa&l&a&cu nuQti tov  Ayd&covu Iv pioio Suxqutovs ts xal Ixilvov • itaQuXaQificu yuQ tov ZaxQaxri c5g IxeZvov xu9ifciv. nctQa- B  xa&e^ofuvov 6 s ccvruv denatea&at te tov 'Aytxftcova.  xui dvaSclv. ilnuv ovv tov 'Ayuftava ‘ 'TnoAutre,  aaidtg, 'AUxiftiddijv, Zva ix tqitcov xaraxttjrai. Jlaw  yt, (hceZv tov ’AXxi(iuZ8t]v' d.Xkd xtg i)(tiv oSs tqitos  pvpjiozus ; t£ai app fUTuatQEtpditivov avTov ogav tov    SedSt 6v finoTTiv, tj ait icar   ptv H, X. A. Siguificaut enim:  Sed illico mihi respondete: Vulti • n e mciutroiro sub conditione supra indicata,  an non? Atque no quis se male  intelligat conditionis illius haud  memor, statim addit : <jv/i7rl£6%B  y ov ; Male Ruckeitus ad h. 1.  Reddunt, inquit, sub ea conditione, quam dixi, At  nullam dixit adhuc \ videtur que  omnino hoc dicendi genus ita  usurpari, ut sequatur conditio,  non ut præcedat, quæ h. 1 . incst interrogationi subiectæ Ovji7[U(j2e y ov ;   tj;ro‘ xdov avSpGJTtGDY. Intelliguutur servi, a quibus sustentatus Alcibiades ad Agathouein venit. Miro modo autem horum  verborum pluralis numerus convenit cum nostratium loquendi;  usu, quo dicimus: die Lcute,  ministros atque ancillas significantes,   ov x axid eiv tov Scoxpaxy, Vide de xaxiSeiv  verbi significato annotat.  Aute oculos habuit ct vidit Socratem, sed eum non agnovit.   vjcoXvaxr  fvct&nxpix cov xaxaxkyt at. cfr.p. 175.  A. xal E plv F.(py dnoviZEiv  xov nou6a, tva naxaxloixo.    lilio xo inoXvitv, hoc loco r 6  anoriPyeiv omissum est, neque  videntur ullo loco scriptores  utrumqua verbum ndbibuis&e. Unum enim ad utramque uctiouem indicandam satis erat. Ceterum non nisi ea de caussa ira  ix xpiTGor commemorasse videtur Agutho, quam ut Alcibiades  statim eum agnosceret, qui iusta  ipsum tertius sederet. Sed alia  etiam caussa est illius dicti. Veteres euitn non sedebant ad rneusam, sed eidem occumbebant.  Ubi duo convivæ mensæ accumbebant, illa calceorum solvendorum pedumque lavandorum cura  minus necessaria erat. Poterant  enim ita duo convivæ mensæ  accnmbere, ut neuter neutrum  pedibus tangeret. Tertio accedente conviva, qui, quorsum pedes protenderet, versus unum  convivarum non potuit non pro  tendere, uecessaria erat, ut calcei solverentur pedesque lavarentur, ne forte aliquis convivarum  macularetur.   aAAti xis ypiv xpltoS  u 8 fi. Hæc vulgata lectio, quam  in ordinem vcrboium recipere non  dubitavimus ideo, quod Alcibiades præcedente Agaliionis iliclo  atqnu præcipuo verbis ix Xpiroov commonefactus r p ix o £  JOaxQnrr ], ISuvta avaXTjdfjGai xa\ thtilv' '£l r HqaxA«g, zovzl zl rjv ; 2ZaxQccTt]s ovzog lAi lo^tov av fis  <? Ivzav&a xaztxtiGo, tZgxtQ thl/ftus i^alcpvt] g avatpalvtG&ai qtcov tyd (pfirjv ijxusza Ge HotG&ca. xal rvv  tL Tjxsig ; xal ti av ivzav&a xaztyJ.lv/js, <og ov na qd   nomen priori loco collocare de- diiti. De ovroS pronomine in  buit: tertius iste, quem allocutione liaud infrequente viile   commemoras, qnia est? annotat, 4. Quæ sequuntur  In Bodleiano codice aliisqne per- verba : (Zsnsp eltoSeif i£ai(prJ/S    paucis legitur vpuv ude xpixoS,  quem verborum ordinem Bekkcrus, Stallbaumius, alii probarunt.  *- *i2 *H p a x\e i S, xovxlri   ? /v. Alcibiades averro vultu do  eo, quod modo oculis conceperat et quod non videt umplius,  quid vidi ? exclamat. Huius dictionis vim atque imperfecti quidem potestatem non expressit  in conversione Scldeicrmacherns 2  W as ist nun das? quibus verbis prorsas deleri senties exclamationis illius vigorem omnem. Cur Herculem nominet Alcibiades Socratis adspcctu quasi  attooitns, haud facile nesciri potest. Veteres enim eum deum  semper nominare solebunt, cuius  auxilio maxinie indigerent. Herculem scimus fortitudinis atque  roboris deum esse $ robore autem  ac virtute ei opus est maxime, Cuius animus inopinato subitoque  adspecta percellitur. Ceterum sex codices Bekkeriani pro xovxl xi  tjy exhibent xovr ehteir, quod  moneo, ut intelligatur, interdum  etiam complurium codicqm consensu, quæ falsissima sunt, tueri. -2Sgj xpatijS ovroS tAAoX&v otv  xare xeitio.  Magna cum acerbitate participium  præponitur verbo finito in allocutione; Nempe rursus mihi iuaidiatus hio c 0 n t, e - dva<palv£6$cct x. r. A. satis docent, iu præcedentibus ivxavSa  vocem orationis accentu insigniendum esse. Schleiermacherna  adhibito interrogandi signo post  £6£<5$a.i verba convertit : Da Socrates, liegst du mir auch hier  schon wieder auf der I.nuer, wia  du immer pflegst plotzlich zu erscheinen, wo ich atn weuigsten  glaube, dass du sein wirst ? Sed  minusplacet propter interrogationes insequentes imec ratio explicandi, Alcibiades enim cum non  sine acerbitate Socratis studia  illa convivis aperuisset, non tanquam rerum suarum incertus sequentes interrogationes profert,  sed ut vera se dixisse Socratis  responso convivæ docerentur. Igitur VVY in verbis xal vvV  xi f/XtiS eam vim habet, ut  quæstio explicatior audiat:. Atque nunc responde, quid  veneris? Av vocula, qiintri  sæpius iam annotavimus supplementi alicuius iudicium esse, (vide Indices,) hunc sensum fundit:  Et nunc confitere, Uie  quid consederis cet,   ov itctp a *Api0x o (parti. Stallbaumius ad h. 1. inquit, est quippe, nam,  ut mox in verbis cJs' » ipol o xovrov HpoaS ov (pavXov itpdy pa yeyovtv, et <&S lyco x i/v   'AgiOtotpuvH obi5 ' h ug «AAog ytXoiog Fort re xai  fiovAttai ; akka dicfitjxavtjau, ojrog nayu tm xcdXlOup  ttov Hvdov xaraxelaci. Ku\ rw ZaxQaxti, '& 'Ayccn>MV, cpavui, oQct, fi' (ioi bcapvvtls' ug fjuoi 6 xovxov  fpug roi5 af&gusrw ou tpccv Aov HQccyfia yeyovev. an  tovrov parcar 1 ufifiooSao. Nobis iuterrogaudi signo, quod post  TtarexXirTjS legitur, transposito  post (iovÆrat verba hoc modo  convertenda esso videntur : Uhd  nuu sage, warum setztest du  dicli grado dahin, ais zum Bcispiei nicht nebeu Aristophanes,  aocli niclit nebeu irgend eineu  undern, der uitzig ist and witzig  au scio Lust liat ? Ad fiovÆrat  supplendum est yeAdioS tlvai. Vide annotat, 200. Ceterum  J Miror t Riickertus inquit, /i. /.  yf.Aol.ov et H(xAAi6tov tibi opponi. Attamen vereor, ne sit  audacias, de Aristophanis forma  inde aliquid colligere. Nihil hia  verbis oppositionis iuest. Miratur  autem et indignatur Alcibiades,  quod non apnd alium Socrates  consederit, v. c, apud Aristophanem, hominem plenum festivitatum, sed dedita opera ex pulchris pulcherrimo se adiunxerit.   a A Ad biapT}X ay V^  'JAAit vocabulo magna est vis ironiæ; id cave cum præcedente ov negatione cohærere censeas. Per se enim positum  est, atque veram rei statum  describit. 4tap?}x<xvd(S5ai verbum fortunæ notioni opponitur, qua quis vel hunc vel  illum socium biaosciscitur. Sensus est : Aber naturlich, da hat  deiue Schlauigkeit es so einznleiten gcwusst, dass da nebeu  den Schonsten von allen, die  Lier siud, dicli setzcn masstest. opa, ei poi fatapw  Valgo opa, tf pot inapvvetS legitur; quod quamquam non falsum est a t-rnen band scio, au  «ion rectius sit atque verius, quod  reuentiores editores, si Riickertum exceperis, de H. Stephani confectura dederunt ihtapvveiS. Probatur idem Ficini conversione;  vide, ai quo pacto mihi  succurrere potes. Riickertus autem concedit quidem, ia  huiusmodi dicendi genere faturam tempus usitatum fuisse Græcis, neque omnino negat, Platonem id tempus h. 1. adhibuisse :  verum necessarium non esse existimat; cur enim, inquit, non  possit præsens tempus adhiberi,  frustra quærimus. Latini : vide,  an me defendas. Nos : Sieh zu,  ob du micl) vertlieidigst. Lecta  hac V. D. annotatione mireris,  ipsum apvvetS in texta posaisse  tamen. Nobis autem præsens  tempus in hoc dicendi genere ita  a futuro videtur dillerre, ut illo  adhibito de voluntate agatur eius,  qui alicui opitulari rogatur, futuro tempore ad eventum illius  actionis respiciatur. Vides igitur, futurum longe gravius esse  in illa dictione, quam præsens  tempus. Illud est: Vide, an  mihi opitulari velis. IIoc  est: Vido, an possis mihi  opitnlirri, h, c. omni virium contentione mihi  o p i t n 1 a r o.   ov (pctvAov itp&ypa.  txilvov yctQ xov %qovov, dtp' ov xovxov ^qdo^t/v, oi5xD In lt,iOxl (loi’ ovxs TtgosftJ-Eipca ovxe diatez&ijvai  xcif.iS ovSivl, i) ovxool fcr^.oxvTtdiv fts xal tp&ovuv  &av(ia0xa tgyd&zcti xal koitjoguxal x( xal xd %hqb  ( toyig axi%t uti. oQa ovv, ut/ tl xal vvv ipydot/xai,  ctXXu diaXXa |ov tj/iag, tj, idv lm%EZQy fhtx&G&cu, htd~  pwE, <x>s lyd xr/V \qvzqv /laviav tj xal q>UEQaoxiav Ficinui: Amor quippe hoiuj ho~  mini* haud iove quiddam mihi  exsistit, Schleicrmæherus : Deno  dieses Menscheu Liebe hat mir  tchoo zu gar uicht wenigem Ver**  druss gereicht. Schulihessius ;  Demi die Liebe dieses Meoschea  ist fur mich kein kleines Leideo.  De hac notione npaypa verbi  etiam in aliis dictionibus vide  lodices s. v. jtp&ypa,   r) Q$%o6\ grj \QTV7t(k) v s  Prorsus eodem modo nos Joqui  solemus. Recte Stallbaumins H.  e., inquit, aut, si id facio,  præ æmulatione et i n t  Y idi&cet. Conferri iubet Riickcrtns annotat, ad h. i. Piat,  Theæt. p f 173. E. xov%6 ye  6 <po6pa v? ntiyveixo leavzGov 8iaq>£peiv avxoS. 2. Nt) dia, gj  • rj ovdsfa y * av <xvx<3  &ietey$xo r   tijr xovtQv paviar re  fca\ <pi\$ patitiav. Schleiertnacherus ; denn seine Tollheit  ' nnd veriiebtes Wesen, soloeca  pro und sein v. Wesen. De  tpifapatfxlaS significatu vide annotat, p, 174, Mavlay antem  eius esse 1,, qui nimius sit  in amando, annotatio docet verbis subiecta 173* D. xal ohq *  $ev itoxl xavxtjv trjv tnwvpiav iXafttf, ro pavtxoi naleuSSai r, A, p, U, Ceteram  vix o'pns est, qt moneamus, fiidZe6%ai verbuin, quod in superioribus legitur, absolute positum esse, ut significet; vim  adhibere, >.   jr dw O fi fi 60 6 o3, Ex schol,  Aristoph, ad Plut. v, 122, liate  depromam: o fi fico 8 do itdvv,  ofifioodd) Xeyexai xo <pofiovpai  £x pexaqjopaS xo ov Zgogoy xgov  8td x ijS ovpaS detxvvvxcov x d  deoS, efoSe yap xavxa <pofirjSevxa 6wayttv % rjv ovpdv tvX oS xcov pijpcov. Ridiculum autem ac ne verum quidem est,  quod sequitur: 1 / oxi rc5y <poftov->  pivcov efaSev d dfifios TtpcoxoX  l6po\)v. Aliis iudicandum relinquo, nam verum sit, quod apud  eundem scholiastam legitur: xal  xvpicoS pkv i#l xov rdiY a\oycoy dfovS,   d\A* ovx l6xiv. Cogitandum est, Agathonem ad resistendum se parasse; qood cum animadverteret Alcibiades memor fortasse proverbii, quo ne Hercules quidem duobus aptus esso  dicitur, futuro tempore, ubi rursum peccaverit, etiam buius criminis poenas Socratem Initurum  Osse profitetur. trjv x q v % o v xavtrjvl  T7jv. Iteratio hacc articuli non  caret idonea ratione. Nam verba  aio connectenda sunt; Xtjv xov mxvv <5<5(5raflw. 'Ali’ ovx ton, (f avea rav 'AlxiflidStjv,  Ijiol xal Coi diallayrj. cilia zovvojv fiiv elgav^tg as  nfioQC/aofiai' vvv di fioi, 'Ayd&av, cpdvat, [istuSog  tcov zaiiH mv, iva avad ifia Steel rrjv rovrov ravrtjvl E  TTjv &av(iaatijv x«palr)v, xal fuj /tot [d[i<piytai, ore ea  /isv avidrjOa, avtdv ds vlxiovtu iv loyoig mxvzaq avVgazovs, ov fidvov ZQuajv, agztQ Ov, «Aii’ «ai, Inuxa    tov xetpaljjv Sav/iadrrjy. cfr,  Mattii, Gramm. $.278, Stallb,  Flora huius structuræ exempla  StallbaUroius collegit ad Piat.  Gerg. 502. B. : rl 81 7$   tiepvr) avt)f xal %avpa6xr\ 1 }  t i}S rpaya)8LaS nolrjtiiS. Herodot. VII. 196. o' vavxixds 6 xcov  papfiapoov (SxpaxoS. Thucyd. I.  25. xal 7 } ovx X}xi6xa fi\aipaocr 7j AoipGo67]£ vdtioS, Piat,  de rep. V1JI. 565. D. xo iv  'ApxaSia xo x ov dwS xov Avxalov lepor. Hoc autem 11011  prætermittendum est, edici hoo  geuere dicendi, ut quicquid verbis contineatur, id gravitate quadam augeatur. Atque nostro quidem loco articuli repetitione summus Alcibiadis araor indicatur  ita, ut verba cum Latinorum comj arari queant; te volo, tc  ipsum, vir admirabilia,  coronare.   avxoy dfc vix&vt a i v  jidyotf. Libri Florentini aliique avxoy t quod in textum recepit Ruckertus, crvXQV hic non logeum habere contendens. Frustra.  Illud Bekkerus atque Stallbaumius  exhibent. Ac Stallbaumius quidem Non dixit, inquit, awtov, sed avxoy propter  oppositionis rationem.  Nobis ita videtur statueudum  esse, nt indicium Alcibiadis de  Socrate etiam tauquam em ipsa    Socratis mente proferri dicamus,  qui ita rem cogitare posse fingitur : ixeivov pbr dviStfCy&v,  i ite dfc riKavxa ovx dvi8rf6ev. Quam sententiam Alcibiades si e Socratis tantummodo  animo proferre voluisset, dixisset opinor: xal fnj poi pifitptftat, oxi tfk piv dvad?}6iupi t  avxov 8h vixcorxa iv Tioyois  icuvxaS avSpGOTtovS ovx  ava8ij6aipi. Si ex sua tautumtnodo sententia eandem rem idem  edicturus fuisset, non avtov, sed  avxov exhibere debuit. Habes  igitur hoc loco coufusionem structurarum duarum, quæ quantum  habeat in se venustatis, eos non  fugiet, qui hunc locum satis accurate examinaverint.   Ineixa ovx av e8i]6 a • Eiteixa in hainsmodi dictionibus  semper ad præcedens participium  refertur, atque proprie præmittitur ei, quod /actiouein,  quæ participio continetur, sequi  debeat. Usu loquendi deinde  factum est, ut satis cum ironia  consequentiæ notio cum contrario, h. e, cum eo, quod actioriem participii nou sequi debeat, coniuugeretur. Et cum latior sit participiorum significatio, fieri potest, nt e, c, vt xcovxa sit postquam vicit  ac vincit; possis igitur inttta  tamen convertere.    330    nAATaNO£    ovx avcdijOa. Kai ccya avtov laftwna x tav tcaviwv  avadeiv xuv 2J(oy.Qatrj xctl xttTuxkivEG&cu. InuSq di xaxtxkivt], ibcilv.   Cap. XXXI.   Eltv Srj, 6v$Qeg ' dozftrs y&Q po* rijgxiv o ovx  btiTQtnxlov vtiiv, ct/Aci ntrtiov ' (5poA<5)fijTai ycip xav&’  iiy.lv. clcQ%ovza viiy (xltjovym xjfo jtoGeag, iug $v vytis  ef er 61 /, avSpeS, So~  xeixe ydp. Hiximas de hoc loco annotat, 265., quam ride.  Verba quod attinet GjpoXdyTfxat  ydp x av$' ijpiv, cfr. 215. A.  a\ Aa poi A iyere ccvxoSet, ini  fiyxotS eIsIgo, tj jiTj ;, 6 v/i 7 tls 6 $E t  ?/ qv ; navxaS ovv dvaSopvfli}-*  Oai xat xeXeveiv eIsieycci x.  T. A. In æqueutibus post ovx  intxpEnxiov vulgo legitur ovv . Recte id ex optimorum codicum  auctoritate delerunt Bekkerns,  Staltbaumius, alii. Eo addito  sententiæ vigorem admodum refrigescere senties atque propemodum evanescere.   d pxovta ovv alpovpai  tifS n 6 6 E ga S. Vide annotat,  43. Adde Wachsmulhs Hellen. Alterthumsk. II. 2. 28.  et 29.» ubi Christius laudatur de magisteriis veterum in poculis. 1745. Non elegerunt autem,  Stallbuumius inquit, antea convivæ regem, qui bibendi leges  ediceret, sed constituerant, ut  suo quisque genio, quantum vellet, iudulgeret.   aXXd <pipE t nat, (pavat,  xdv ipvxxij pet ixEiv ov ^  Schol. ad h. L $vxxi}p, inquit,  OxevoS' IvSac diavlctovtii xci    noti} pia, i) noxrjpiov eiSoS, g*s  E vpinidrjS TrjXiqxa. Timæus  ed. Ruhukenii 278. habet  ipvxxrfp • noxT/pwr fiiya xai  nXaxv e Is rjjvxportotiiotv rtapEOxevaOpivov, Laudat præterea  Ruhnkenias Gramm. Ms. :  xxijp* OxevoS, iv (o xdv olvor  Hipvxov t x 6 xoiygjS XeyofiEvov  .upvcoxijpiov. . Vides, TpVHXTfpec  vas nominatum fuisse, quod usui  convivarum non ita destinatum  erat, ut ex eo vinum haurirent.  Hinc non mireris, Athenæum  huius loci respectu habito IV. 27. dixisse: napd rc3 nXaxcovt  xovxgov ovSlv iifijiExpov, aXXd  ttivovdt p\v xodovxov, coSxe  fi7/8k xols IdimS noOlv l6xct6$ai.  dpa ydp *//A xifitdSrjv o>?  dOxtfpovEi, ol 61 «AA oi xdv  dxxaxdxvXov rf> vxxijpa nivovOt  npocpaOEGoS XafiofiEvoi, in tine p  avxovS npoEiXxvOsv UXxtfiui6i/S.   l8ovxa avxov nXiov i}  X. x. A. Alcibiades Agasonem  rogat, ut maius poculum atterrr  iubeat, post, conspecto aliquo vasi,  quod refrigerando vino inserviebat, magnitudine eius delectatus  sententiam suam mutat, idque  afferri iubet. Ad verbum xoxvXaS Schol. anuotut : rplzov  faavco g jchjzi, l(i«vzdv. dkka qtgiza ’Ayd9av, ff zi  lOziv (xxu(iu [itya, iiakkov 81 ovSiv Sei, aAAa q>£gt,  nai, tpavcti, zdv tlivxzijQa IxiZvov, ISovza avzdv xkpov 214  ij dxza xozvkag yaqovvza. zovzov l(ixkr]6d(iEvov zcgazov  filv avzdv Ixititlv, licaza za EaxgatEi xeXevelv lyyfiv,  xal aua eiittiv ITqos [Uv Saxgdzq, cS avdgeg, zo  C.6q>i6(td (ioi ovSiv ' bitoGov ydg av zikevg zig, zoGovzov IxTtimv ovStv fiakkov (iij jrors (iidvG&rj. Tdv (ilv  ovv ZoxQurrj iy^tavzog rov ttcudog xLvuv ' zov 6’ ‘Eqv  fiepoS 7/ xoxvXrj trjS xoivwoS.  Yido Wachsmuths Hell. Alterthum.sk. II. 1. 78. Annotasse  liic suilicit, immensa muguitudiue ifkVXTrjpa fuisse.   i pnX7/ 6 d per ov. FICINUS:  Cum vas implevisset. Astius :  implevisse. Immo implendum curasse. Quæ vis est  medii; neque verisimile, ipsum  fecisse Alcibiadem, quod statim  post, ut Socrati fiat, imperantem audimus. Riickert.  Tu 6 6 q>i6 n a jiot ovd iv.  h. c. in Socrate ars mea  inutilis. Ludit Alcibiades ia  dofpidpa nominis cum if}7j<pidpa t  ut videtur, similitudine. Hoc  enim dicturus est : Bibendi magister frustra se exercebit, ut  Socratem ceteris convjvis similem  reddat h. e. ebrium atque Baccho plenum. Quantum ipsi aliquis imperet, tantum bibens non metuendum, ne unquam magis ebrius  factus sit. Pro xeXsvfl, quoil  Bekkcrus et Stnllbauinius in textum receperunt Bodleiani codicis  oliorumque pauciorum auctoritatem secuti, vulgo xeXevtiy legitur, quod Riickertus edidit. Utraque lectio bona est sentontium si spectas, quam Alcibiades prolaturos erat. Certe non dispiciendum est, cur dicere non  potuerit : quantum ipsi aliquis imperaverit cet. Difficillimum igitur ad diiudicundum,  quid Plato scripserit. Sed tnnta  tamen nobis, qnanta debet, Rodleiaui codicis auctoritas fuit, ut non  dubitaremus, præsertim cnmVV.  DD., Bekkero et Stallbanmio  placuerit, xeXevtj in coutextam  orationem recipere. Sententiam'  quod attinet, cfr. 220. A.  iv r* av xaif EvGoxUn? puro*  anoXaveiv oloS t * 7jv, x d x*  aXXa xal iclveiv ovx i$£Xmr,  6 nox 9 dvayxa6%ei7j, ndvtaS  ixpaxei xal o navzGDV 3avpadxoxaxov, ^cjxpdxr/ vovxa ovdelS nojitoxe ieopaxev  dv$poo7ta)v.   x ov 6 * 'EpvZipaxor t  II(£s ovv noiov/iEv. Cur  Eryximachos potissimum hic prodeat, statim intelliget, qui loci  meminerit 177. B. C. atque  inprimis ibid. D. i/iol yap dt)  tovto ys olpat xcctd8tjXov yeyovkvai ix xijS latpixijS, ori  XaXenov xotSdvSp&noiS t) pc$rj itizi* xal ovxe ctvxoS iScXrjdaipt dv itielv, ovxe dX X<p  CvpfiovXEvdatpi, dXXcjS te xai    m   jfyiOKOVj Ilag ovv, g?<ma, cS 9 AAxc{$ux6r], noiovfiev.  B ofrrog ovr$ rt Æyopev htl xy xvkixi ovr* Inadops v;  &IA' &xe%vag c3 gneg ol diipcovTBg Ttiout&a j Tov ovv ’AA oapiudtjv elnelv, *&l 'EQV^tfiaxB, /3 HxlGtb fieXxlOxov naxgog xal (SacpQOVBOtatov, %cdpe. Ketl yap 6v, <pdvai  zdv 1 EQV%iyM%ov * cUAa r£ noicopev,* w cv <5i)   itjxpoS ydp avijp xoXXojv avxd£io$ dWoov.   Intreme ovv o tt- fiov/Ly, yfxovdov §rj, dntiv xbv   xpctntaXdvxa Ixi ix xijs rtpoxepaictS. Do verbi* Eryximachi  medici h. i. laudatis : tigoS ovv,  tpdvai, cj 'AXxifiiddtj, xoiov ptv uon recto Stallbaumius :  JSt quis, inquit, coniunctivum  requirat, qui est deliberantis:  eodem modo nos : IV i e nun   thun wir, habe Eryx ima c/ius gesagt? Eryximachut  cum bibendi molestam necessitatem feliciter evitasset.  B., ne nuuc ad bibendum cogeretur, et Alcibiadis immoderatione indignatus, quam omnino  pestiferam hominibus supra ceusuit, Quid nunc facimus verba  ita profert, ut explicatius andiant:  qua insania nuuc agimur,  tantumque abest Eryximachu», ut,  quid faciendum sit, roget, ut potius præsentia satis acriter reprehendat, Quod qno facilius appareat, interrogaudi signum in puuetum immutavimus. ovtoS ovxe ti Xiyopev  ixi xy xv X ixi, OvxgjS, at  in præcedeutibus redis, plenum  indignationis atque acrimoniæ.  Sensus est: liac igitur ratione,  b. e. hac igitur insania allectis  neque sermo ullus . neque cantus  iuler pocula erit? Ceterum ixd6optv ia textu posuimus, quæ  Bodleiani codicis lectio est. Valgo ovte xi adojMY.   xov ovv  yaipE. Alcib i a(|ls Eryximaclii admonitione  tactus cum statim, quod responderet, uon haberet, ut non negaret id, cui contradicere non posset, neque probaret, quod probare nollet, Eryximuche, inquit,  optime fili optimi patris atque sapientissimi, salve. Sed non  delinitus hac re Eryximachus,  salve tu quoque, respondit, nam  et iu te cadunt omnia ea, quæ  super me modo dixisti, sed quid  vis faciamus ? His auditis Alcibiades satis gratiosus omnem rem  ex Eryximachi arbitrio iudicandam propinat,   IrfXpoS ydp ctvr} Versas Homericus est petitus ex II,  A. De scriptura insequentium  verborum ini di£>id, vide annotationem p. 50. Vulgo enim  etiam li. 1. et paullo infra imSiB,ia legitur. Structuram autem quod attinet verbornin xctl   XQVIQV xal OOTGO TOVS dXA jOvS, Stallbaumii indicio subscribendam est annotanti V: Accusativus ponitur, ac si præcessisset dixaiov i<Snv, huquc  'EqvUimxov yfitv y jiQtv ah dgtlfitiv, Wo|« XQ^cu Ini  ds|t« exaGtov iv ftion koyov sicgl "Erjazog tlnsiv rag c  dvvraro xdkkiGTOv, xal lyy.au.wGai. ol fitv ovv cckkot  xarzts VfitTs thppwfuv ' Gv 8’ ixsiSij ovx eiQrjxct; xal  mximaxag, 8ixaiog tl tlnuv, tlnav 8’ imrce^ai ZaxQatu  o tl av (iovhj xal Tovtov ro Ini 5t£ut, xal ovr a rot)g  akkovg. 'Akkd, tpuvai, u ’EQV$ifict%e, rdv 'AktupidStjv,  xakug fitv kiyuq, (ttOvovt a 8h uvSqcc } tagcl vytpovtav  kuyovs izaQctftdkkuv fit) ovx 1% Igov y. xal afia, a verba sic interpreteris : nai tovtov dixaiov itfnv intrdUat   T(b ini 6 e£,kx. Structuræ variatio nec per se ingrata est>  et per sententiæ rationem pro—  pemodum necessaria. ol p\v ovv aXXoi. Apollodorus, nt ipsius verbis docemur p. 180. C» quoruudam hominum orationes, quas memoria  non teneret, non retulit. Hoo  moneo, ne quis miretur, non  nisi sex orationibus relatis Eryximuchum nunc loqnentem induci : ol piv ovv dXXoi nav TeS elpijxapev,   aXXd, gravat, ca *Epv%lpax e, t 6 v ! 'AXHifiiadrjv,  Vefba aXXd  oJ *EpvB,ipax&   xaX6oS piv XiyeiS dubitanter Unguntur ab Alcibiade pronuntiata esse, qui verebatur, ne  hominis ebrii oratio sobriis auditoribus satis displiceret vel  etiam ridicula censeretur. Indicium est huius rei verborum  dispositio, quæ ita comparata  est, nt intermixtis gravat et  tdv AXxipidSrjv verbis orationis  initium co modo distraheretur,  quo ab Alcibiade pronuntiatum est.  Simile huius artificii exemplum  reperitu» p. 175. E. vftptdT7j€el, tgnj, eJ 2 coxp aTEt,  6 AyaScov, quæ verba AgathoUem ita pronuntiasse consentaneum est, ut illudi sibi magno  cura pudore sentiat eumqne pudorem atque confusionem animi iuterrupta voce prodat,  ÆSvovTa 6i dvdpa nap d vrjgrovTtov X 6 y o v S.  Vario modo sanissimum hunc locum  viri docti couiectnris tentarunt. Eas hic repetere longum. Astitis  verborum sensum esse contendit:  Æquum non fuerit homineme—  bnum cogere, ut inter sobriorum  hominum sermones habita oratione fiat ridiculus y quam verborum conversionem nemo probabit, Stallbaumius verba hoc modo interpretatur: Ebrium virorum componere cum sobriorum orationibus haud sane æquum,  (quod breviter dictum est pro)  ebrium virum provocare, ut æmuletur sobriorum orationes, haud  æquum fuerit. Sed ne hæc quidem interpretatio satis nobis nunc  placet. Notum est Homericum illud xopai Xapitsddiv opoiai,  quæ dicendi brevitas haud rara  apud veteres scriptores. Exemplo  noster locus est, ubi pro pe&vovros dvdpos Xoyov dicitur D fiauuQis, xtt&e i xl 6» Zcixquttis u>v vQtt ilitzv ; ?}  oitsQa, oxi xovvavxlov Igt'i itciv i) o iisyev ourog ydg,  hxv riva lyw InaivLaco xovxov jtagovxog q &sov ij dv&Qcoxcov dU.ov rj xovxov, ovx utptiixai fiov xio %£iqe,^  Ovx evtpijtiijoiig ; (pava t toti Eoxgdxrj. Mu xdv IIoouda, dntlv xdv 'Akxifiiddijv, (iqdht liys xgdq xavxa,    / tcSvovxa avSpa. Sensu» esi:  Aber die H e d e ei nes trnnkcnen M an nes in e i no  R e i h e mit den Reden  niichterner Manner zu  stetlen, mochte wohl nicht  nns dem glcichen h. e. nicht  passe nd se in. Iliickertus eodem fere modo: vereor, no  parum sit æqua conditio,  si homo ebrius cum ora*  tione sua sobriorum cum  orationibus componatur.  Ceteram cum hoc loco conferri  potest Piat. Gorg. 455. E.  oltiSat ydp 8rf nov, ori ra yego~  pia ravra xai ra reixy rddv  f A^7]vaicDV xai t} rdov Xiyevcov  xaradxev?) bc r rjS OepidroxXeovS dvpfiovXrjS yeyove, ra  d’ ix rijS TlepixXiovS, d X X*  ov x ix r g5v 8r) yiovpy 6ov y  quo loco consentiens vox esc codicum omnium in verbis ix rdov  dijpiovpydov. Buttmannus et Heindorfias scribendum coniecerunt  ix tijS djjpiovpydov 5 Schæferus  ed Apoll. Rhod. Tom. II. 141.  ix rrjs rdov 8rjpiovpyd/v maluit. Sed nihil opus esse mutatione,  instituta cam Symposii loco comparatio docebit. Adde, quæ verbo  infra legantur 217. D. dvenavero ov v iv ry ixopevy  ipov xXivy h. e. in lecto,  qui meo lecto proximus erat.   xal aua, cJ paxapts,    xelSet ri di x. r. X. Alcibiades verbis prolatis xat dfut proprie dicturns erat : Et simul ne  possem quidem, etiamsi vellem,  Erotem laudaro Socrate præsente. Sed mutr.to consilio ita  perrexit: Num tibi quid quam eorum, quæ modo  locutus est, Socrates persuasit? Sensit enim homo sagacissimus, verbis contra Socratem directis fidem prorsus defuturam esse, nisi illius dictum  aute oppugnatum sit, atque in  mendacii suspicionem vocatam.  Recte igitur Stnllbaamius annotat. ad b. 1. Alcibiadis interrogationem ita interpretator, nt  sensum eius este dicat: Noli  quid quam eorum credere,  quæ modo dixit Socrates: nam plane contrariam verum est. Ceterum ad  verba hic respici consentaneam  est 213- C. T jfa 'AyotS cov, dpa, el poi iitapvvEiS. cos i/ioi  d rovrov ipcoS rov dvSpoonov  ov <pavXov npaypa yeyovev.  an* ixeivov yap rov xpdvov,  aq> ov rovrov ijpddSyv, ovxexi i&edti poi ovre npoSfjXeipat ovre SiaXexSffvai xaXdi  ovSevi, i} ovrodl ZrjXorvrtdoy  //£ xai tpSovGov Sav/iadra ipya<$erai jcal X oidopeltai re xai  reo x&f J£ jidyiS anlxEtai x.  r. A. Satis lepide autem iisdem  fere verbis hic utitur Alcibiades, tog lyio ovd’ c'v svn ulhav fauuvt<Sruju Oov JtaQuvtog.   owrca ao In, gravat rov ’EQv£lpa%ov, el fiovlei'  Ecoxqcixt] InaLvtOov. litos Atyttg { dxtiv rov ‘AXxt(iuxdijv' doxei XQ*i vttl > ® 'Egv^ifiaxt ; ijci&cofiai rei E   kvSqi xal Tt[iugT]6to[iai vfiav Ivavtlov ; Ovtog, tpuvcu  zov EcoxQa.tr], 1 1 h> va £%h$ ; Ini tu yiXoiotEQti fit    quæ Socrates 1.1. exhibuit, <*oepi&eral pov tca X^P £  ovx ei) epij ptj det$ $ Negatio cum futuro tempore couittncta quam potestatem habeat,  supra dictum est annotat,  26. Eveprjpetv verbi significatum quod attinet, explicatum reperies annotat, 246.   taS’ iyco 0v5* av iva a AXov h. e. nam dc me ita  cogitato, ut qui te præsente prorsas neminem  alium laudaturus sim. tctoS XiyetSj doxel  Xpr/rat, oJ *Ep v^ipax^i  Supra 21B. D. Alcibiades impediebatur, quominus iniuriam,  quam a Socrate sibi illatam putabat, ulscisceretur j nunc data  ultionis occasione magna cum  animi lætitia atque huius rei necopinatam opportunitatem miratus, Quid ais? inquit, censen’ me etiam debere hoc  facere? Accentus oratiouis in  Xpijyca verbo ponendus est, quo  facto, quod antea, ut faceret,  non licuerit Alcibiadi, id nune  idem etiam d e b e re facere judicatur.   iit i rei yeXo tore pa pe  i Ttcx.iv id eiS ; Duplici modo  Rtickertus putat yeXoiotepa compafativuiti explicafi posse, tfel  ut admissa dicendi brevitate dictas sit pro za yeXowzepa 7 }  aXi/SedzepeZj vel ut significet:  ita laudare, nt quo sint quæque magis ridicula, ro laudanda  sumas studiosius. Neutra comparativi explicatio probari potest. Stallbaumius ad h. 1,, ifi  talibus, inquit, quæ sit vis et  significatio comparativi, neminem, opinor, fugiet. Neque sane  difficile est indicatu, quid significer. Primum loci meminisse  iurat 189. B„ ubi Aristophanes hæc profert: coS' iyco epo pov pexi Ttepl tgov /teXXdvzaov  firjSj/dedSext ov n, p?) yeXolot  eiitea), rovzo p\v yexp av xip 60S eii} xal zijs rj perspexi Mov OrjS ijtixodptov, «AAa pi) xa~  rayiXadza. Ad quem locum cum annotatum sit 149. >  yeXoia ea significare, quæ risum  moveant, xazayiXadza contra  fatuitatem denotare eius, cui  xaxexyiXexdta convenire dicantur, dubitari nequit, quin nostro loco comparativus yeXoiov  vocabuli nihil aliud exprimat,  quam quod illo loco xazayk Xadta vocetur. Ceterum Bekkerus edidit: ini rit yeXoio  X£p(t pe iitctiv&det, quuo scriptura ex errore euata est olim  disseminato : iitaivelv verbi faturum tempus noa iitaivedco sed  iitaivedopcei audire.  tmavidng ; rj x l jron}<Jj(-g ; TuXrj&rj Igm. aXX’ 5p«,  tl magiris. ’AXXu fitvroi, qxtvca, x& ye aXrj&rj n agfajfU x«l xeXeva Xlyuv. Ovx Sv ip&avoifu, tlnslv  rov 'AXxi^iddryv. xal fitmoL ovxaol molt]6ov‘ idv tt  fu) dXrj&es Xkyar, /.ata^v h tiXafiov, av fiovXtj, xal  215 tlju, uri zovto tl’Svdofiai. extnv yag tlvai ovbtv feveofiau idv (itvroi dva(u[iv>]0x6iuv os dXXo lilXofttV   ov yag tl §ud iov xryv Otjv     xaXrjSij ipc J, Vide de his  Verbis Comment. de Platonis Symposio. Quæ sequuntur verba,  aXX' opa, el izapb/f, ludibrii  caussa addita suut, quasi rogari  oporteat virum eum, qui per  omnem vitam veritatis amorem  profitebatur, utrum vera dici velit necue. Monemur autem hoc  loco de verbis Piat. Apol. Socr.  17* C. ; xal piv tot nat  rtavv y G) avdpes *A^i]vaiot >  xovro vpc ov diopai xal napie pai. Phavorinus napisoBai rov to, inquit, Soxel rov napai xtldSai dvvapiv £*«*'. Timæus  L. V. Pl. 207. napisiACti'  napaitovpai, ad quem locum  Ruhokenius: Huius rarissimæ, inquit, notionis ratio nondum, quod  aciam, explicata pendet ex indole  mediorum. Ut irjpi et itphjpt  est mitto, %Epat et itpiepat  mitti mihi volo, i. e. cupio, peto, sic napirjpi admitto, napiepat ad me admitti volo SIGNIFICAT, h. e,  precor, deprecor. Speciosa quidem est, sed, quoniam  usu ioquendi non probatur, neutiquam probabilis rtapiepat verbi  explicatio. Neque Socratis ingenio, qui, ut virum sapientem  decet, fortiter atque viriliter iudicibus' respondit, rogandi verbum duplex positum satis Convenire videtur. Significant potias verba xovto vpcov diopeti  nat xapiepat : hoc vos rogo  mihique indulgeo. ovx av q>5.dv oipu De  signo interrogandi post hæc verba non admittendo, atque de  huius dictionis significatu supra  diximus annotat, p, 125. Quæ sequuntur verba, xal pivxoi ov TOJdl noir/dov, aliquid vitii contraxerant, quod miror a nemine interprete deprehensam esse.  Schleiermacherus verba convertit: nnd da thue so, quod  ita dicitur, ut, dum Alcibiades dicat, si qaid forte minus  recte dixisset, Socrates iubeatur  id corrigere, lloc modo etiam  ceteri interpretes verba acceperunt. Sed duo sunt, quæ displiceant. MSVXOI CUm OVTGOdl  noirfdov vix videtur commode  ooniungi posse. Deinde 6v pronomine haud careas in enuntiatione, qua quid Socrati faciendam  sit, præcipitur. Facillime unius  litteræ mutatione locus sanatur.  Scribendum est xal pivxoi ot$x cedi noitjddov idv x i pij aXrjXiyco, pera%v iniXaftov  x. x. A. Sensus est: Et si hac,  qua dixi, ratione acturas,  falsi quid forte dixero,  interpellu, si placet, 1 orlromav ud’ ?yovu tvnogag y.al Itpt^fjg xccraQt9(iyaat. ZcoxQuxy 6’ iyu htcuvtiv, oj ardqtg, oiitag iTtiyuqt]dco, 8t’ dxov av. ovxog jiev ovv ’i6ag olyasxcu tirl  rcc ytXotaxtQa, taxat, 8’ y tlxcov xov aAi;&ovg tvty.a, ov  xov ytkolov.   Cap. XXXII.   yaq 8rj ofiototcnov avxov tlvat xotg UstJLijvotg  qoentem atque falsa narrantem redargue.   kxav y<*p elvoti, Dc infinitivo in huiusmodi dictionibus  vide annotat, 40. Sensus est:  quantum ex me pendet,  mendacium non dicam.   ov yap xi j) adiov. Cave  pronomen indelinitum cum fa(idzov aTCte counecteudum censeas. Pertinet id ad negationem  atque ov tt apprime respondet  nostratium: denn es ist gar  nicht etwa leicht. Quæ sequuntur verba cjd* ix^YXi duplici modo explicari possunt. Aut  enim ad Socratem referuntur aut  ad Alcibiadem» Ad Socratem relata Alcibiadem ita animatum  ostendunt, ut qui diflicillimum  esse putet, Socratici ingenii miras virtutes coram Socrate sobrio expedite atque ordine quasi  in digitis enumprare. Jl 18 ' %x ov ~  roS", quod fortasse sunt, qui desiderent, prorsas alium sensum  funderet, atqoe axonictS Socraticæ inserviret veritati describendæ ; esset enim idem cj 8 $x ov ~  XoS atque xtjv 6i}v axoniav gqS  £££ 1 ?. Sed possunt etiam coS  1-XOYXi verba ad Alcibiadem referri,' ut homini ebrio Alcibiades dilficillimum esse censeat Socratis axoTtlav expedite atque  ordine referre. Quamquam eadem via est sententiæ, hoc an illud  explicandi genus magis probaveris, tamen cum recentiorihus  interpretibus de Alcibiade verba  coS" Ixoyxi dicta accipiam.   ovx gdS St* £ 1x6 v cov.  Addita verba habes 61 * elxovoDVy  quibus quod præcedit ovxcdS vocabulum accuratius defluitur. Vide  annotat, 43., ubi et hic locas laudatus est. Ad sequentia  oltjdexat iizl x a yeXoioxepa  Stailbaumius supplendum censet:  me ipsum laudaturum esse.  Non recte. Meliora docent sequentia verba H6xai 8* 1} e  XOJV XOV aXl]^OVS LVETiCL X.  x. A., ut igitur ad illa verba  suppleudum sit: 81* eixov cov  pe imxEip&Y htaweiY. Fortasse etiam plaue nihil supplendum est, siquidem cogitari potest, Alcibiadem iici xa yeXoioxepet verba quodammodo ex sententia Socratis repetiisse. Verba  igitur convertere possis: Er wird  wahrschcinlich bei sicli denken  )t inl xa ye\owxepa lc : des Bildlichen bediene ich roich indess  nur der Wahrheit wegen, nicht  um zu verhdhnen.   xoiS 2 ei\l]v olS rouxoiS xots iY x 01S k p /t o y\v<peioiS xaSTjpeYoiS.  Schol. nd h. 1 . 2i\tjvo\ Jio22    B tovtoiq tolg Iv tolg tQUoylvcftiotg xadypivotg y ovg  rtvag lgyut,ovtca ot drjfu&vQyol Ovgiyyag y avkovg  l%ovtag'’ di ftgadfi dtOL%&tvr£g tpaivovtat tvdofrtv vtyak  vvdov xopfvral napa ro rftAAofivttv y u l6xt 6xojitxeiv  Atyopevoi [jtapd xovS TtotovS].  Adde Schol. ad Aristoph. Nobb. xi pe xaÆiS, g) '<p>}~  pepe. gj avSpcDire. iXiyeto  6i d Stoxpdrr/ff xrjv uifuv 2etArjvcp itapeptpodveiv. 6 1 po S xs  y dtp tux \ (paAaxpd $ i)V. xepieSyxev ovv ctvxcp olov xov  napo. JJtvddpop SetXtfvov cpcov)}Yx. x. A. Patet autem o uostro loco, nam nusquam  «lias rem commemoratam reperias statuarios capsulas, quibus  artificia reconderent, ad Silenolum formam effinxisse, eorumque  sedentium quidem, nt latius  intus spatium artificiorum recondendorum daretur. Hæ capsulæ  felicissime cum Socrate comparantur etiam eo, quod externo  cultu minus conspicuæ erant atque negligentius elaboratæ Athenæus L. I. c. 15. C. statuam  Thebis exstitisse narrans Cleonis cantoris hæc addit : vito   xovxov xov dvSptavxa, oxe  AAiZardpoS x cis QtjfiaS xaxe(Sxanxsy <ptfC\ noÆparv, <pevyovxa xtva xpv6iov eis x 6 ipaxiov xotXov ov ivSitiSai • xal  6vvoixt2,oplvr}? xffS itoÆaS ixaveASorxa evpeiv ro' xP v< *i° v  pexa hy Xpiaxovxa. Sed nihil  habet hæc narratio, qnod aliquo  modo possit cum nostri loci verbis comparari. Hoc tantummodo  ex ea discimus, magna religione  illis temporibus homines artium  operibus pepercisse.   o? 6ixa8e 8ioix$£y*£f.  H. Stephauus 6ixa6e verbo offensus, quod nusquam alias apud  Platouera reperiatur, 8ix<* scribendum couiecit, quæ correctio  fuerunt quibus admodum placeret. Recte receiitiores editore!  8ixa8e reposuerunt. Verba converterant Ficinas : qui si bifariam dividantur y reperiuntur intus imaginem habere deorum.  Schleiermacherus; ia dei, en man  uber, wenn man die eine Halfte  wegnimmt, Bildsaulen von Gdttern erblickt. Schulthessius ;.  Schiebt man sie auseinander, so  erblickt man inwendig Gotterbilder. Rem intellecta facillimam fecerunt interpretes difficiliorem. Res sic se habet: In  contrariis Silenorum lateribus duobus duo foramina erant, quæ  epistomio quodam claudi poterant. Iam si qnis artificia intus  j^econdita spectare vellet, non  opus erat, ut singulæ partes  Sileui solverentur. Ex altero  enim Sileni latere, ex utro aliquis vellet, per alterum foramen  spectatio erat, ex altero lateris  parte per alteram, quod in cg  erat, foramen lux incidebat. Sensus est verborum: Di ese zeigen, da sie auf beiden  Seiten nach deu Durchschnittspuncten hin OefTnungen haben, in ibrem  Innem die Gestalten von  Oottern. Ceterum non sino  magna vi ultimo enuntiati loco  positum hahes $£G)v ‘nomen,  nt significantius indicetur, res  summæ gravitatis vili atque pæne ridiculo tegumento h. e. Socratici cojpoiis turpitudine ob\i  I   ftam fyovtes ftecov. v.a.1 cprjfii av loitdvai ccvtov rtp  2.'ax vQip, ra Magaba. ou fiiv ovv xo ye eidos fifioiog  tl tovtois, a Ewxqox fg, ovd’ avrog dij xov d(upLCj}ri vnlutas esse. Nostrum locum  imitatus est Iulianus Orat. VI.  184. A., sed memoriter atque  mitius accurate, ut carendum  sit, no quis ad eius exemplar  Platonis verba emendare studeat:  <pypl yap dy njr xwtxrjv  <piAooo<piav opoioxdxyv eivai  xolS 2 eiAtjyoiS xolS iv xolS  EppoyAvqjeioiS naSypEVoiZ, ovSxivaS ipyaZovxai ol dypiovpyoi 6vpivyaS rj ariAoris Exovxas, o? 61? dioix^Evxes Evdov  tpaivovxai dydApaxa ExovxeS  SecZv.   xai tptfpt xcri 2 ar ripa), tcj Map6vot. MapcriaS,  Schol. inqnit, otriArjtl /ff, ’OAvpitov vloS, oS xoris ariAoris *A$yvaS /jnpddt/S dia xd iva6xypovEiv avxoiS drtAoptvoS rjpt (Siv 3 AitoAAcovt itspl pov6txijS t  xal y xxy$y, xal itoivyv didcoxe x 6 dlppa dapetS. Docemur hac Schol. narratione, Marsyam formam faciei minus curasse, utpote qui tibiis canendo excelluerit, quas, quoniam faciem  deturpant, repudiavit Minerva,  cfr. Appulei. Florid. I. 8. Eo  (Hyagni) Marsyas cnm in artificio patrissaret tibicinii, Phryx  cetera et barbaros, vultu ferino,  trux, h spidus, illutibarbus, spinis et pilis obsitus fertur pro  nefas cum Apolline certavisse.  Thersites cum decoro, agrestis  cum erudito, bellua cnm deo. Ceterum quid Marsyæ mytho veteres exprimere voluerint, statim  intelligitor. Musica nimirum orte  hominum ferocitas deliuilu morumque asperitas- deposita est,  sicut pellis Mursyæ spinis atquo  pilis obsita, quam Musarum indicio Satyrus deposuit,   orid 9 ari ro ? dy itov dp<pt6fiijxi/dais. Ilæc est lectio vulgata, quum duorum auctoritate codicum- in dpqjiCftyTr/tiElS immutarant interpretes»  Ac potuit quidem Plato' ita scribere, non scripsit revera. Etenim quæ certissimu sunt atque 11 *  luce clariora Alcibiadi, ea idem  quasi dubia ex Socratis mento  aptat, non ut incertus esse rei,  sed ut simulare tantummodo videatur irooiæ caussa aliquam  dubitationem. Unius optativi exemplum, quo satis acerbe aliquis aliquid, quod compertam  habet atque perspectum, tamquam  dubium ex alius mente aptat,  apud Meleagrum reperitur Epigr.  LXIII.   "Eyv&v, ori p* EA a$£S. r i Seori?-,  ori yap pe ÆA yBaS.  "Eyv&v * prjxixt vvv opvw  irdvx* EpaSov.   Tavx yv, xavx iitiopxe ; povy  6v itaAiv, povy vitvoiS  t oApyf xal vvv, Vvv Ext  tpydl povy.   Aliud exeipplum a Reisigio laudatum reperies in Commentat. de  vi et usu av particulæ 131. *  Theocr. Idyll. XVII. v. 60.   <prjs poi navxa douev * xax&  6 * v6x epov orid * dAa doiyS>   quæ verba a puella pronuntiari  Reisigius censet, quæ AMATORI AMANTE AATO 22 o  1  3-WI    T^dBig • uig de xal ralla Eoixt/g, fina rovzo axovs.  'rfiguirr/s et ' ’>] ov ; irtv yccQ f uj oito loyjjg, (iitQrvottg  nKQtto[icn. all’ ovx Kvh]rrjSi noli) ye Sw/ttttftcorfpog  C Ixtivov ' o fitv ye dt ogycivav exijlu rov g av^ganors  tij r< jio zoy CTofiazos dvvujiei, xai En vvvl og ccv r a  Dinlta pollicito hyperb<pl i cum  fere aliquid et incredibile imputare lepide confiteatur. Ilis verbis, Reisigius inquit, si uv vel xe adderes y vah,  quantum periret Veneris . Lasciva  puella, quod ipsa minime credit, loquitur, nec vult videri  serio se credere, sed tentat dissimulare tanfum : qua ironia eo  fit amabilior, et auget amoris  flammam. Tale fere quiddam  est in nostratium more, ubi dicimus; am Ende : v eluti, am   Ende giebst du mir gar nidus. SimiMus Reisigianum exemplum Platonis verbis est, quam  quod supra laudavimus exemplum  Meleagri, quamquam id accuratius examinatum eadem dicendi  ratione gaudero iutelliges.   v fip 1 6 r y S ei' y o v ; Hæc  verba Schleiermaclierus reddidit :   . Rist du ubermiithig, oder niclit?  Sed magnopere displicet, quam  V, D. secutus est, verborum interpunctio, neque verisimile est,  eum, qui testes adhibere possit,  quibus rei prolatæ veritatem  probet, sic locutum esse: vfipi6ti)S el y y ov ; Sententiam verborum quod attiuet, prorsus eodem modo Socrates vfipuStyS vocatur ab Agathone 175. E.:  TppitiztjS el, £<py, gj ScjxpateS 9 d *Ayd$(ov. 'TfipiOx&v  autem nomine omnes insigniuntur, qui aliquam rem ita torquent atque volvunt, ut aliam vel speciem vel notionem potestatemque repræsentet, eatnque  quidem contrariam ei, quæ primitus ipsi inest. Sic et vfipiS,eiv verbum de Homerica pioverbii corruptione adhibitum legitur 174. B. "OpypoS jttv  yap mvSvvevEi ov puvov Sta <p$ttpO(.iy d\\a xai v fi pluat f.ls  ravryv tyv napoiplav, ad quæ  verba vide annotat, 19. Ut  autem Sileni in artificum oiricinis sedentes aliud in se habmt,  aliud externa forma ostendunt,  quod illi maxime contrarium est,  ita Socrates haud raro cogitationes suas obtegens aliud quid,  quam quod sentiret, verbis -exprimere solebat. Hinc institutæ comparationis et, Socratis ct  Silenorum expendas veritatem. i av yd p fii } o poXoyy  Tdp particulæ potestatem recte  intclligcut, qui interrogationis  præcedentis significatum cognoverint. * II ov ; enim verba ita  proteruntur ab Alcibiade, nt rem  a Socrate negari posse negaret  quasi diceret: Rem negare   non potes. Paullo aliter Stallbaumius de yap particula disseruit annotat, ad h. 1. : Particula  yap t inquit, referenda est ad  sententiam ex reliqua oratione  facile supplendam : el fikv ovv.  Utra rectior sit atque naturæ Joci accommodatior explicatio, lectores ipsi videant.   crAA* ovx avXyzy S- t Re  Ixtlvov ttvXjj. a yag "OXvfixog ij vXei, MuqOvov liyco,  rtivtov didcct-avTos. r a ovi) ixtlvov, iav re dya&og  avXtjrrjs ciiiky, edv re qiavXrj avXtjrglg, ( wva xcccij reti&at itoLSL, xal Sijloi rovs tcov &ecov te xal reXeroJv  dtofiivo v$ 6 ut to &tla etvau oi> d’ ixtlvov roOovrov    ctissime H. Stephanus, quod ia  editt. valg. omittitur, post avXvrtjs signum interrogandi posuit. AAAa autem e licto Socratis responso repetitum est, qui  vfipi6xijv quidem se esse confiteatur, avAtftfjv se esse non  concedat : vfiptuTJ/S y* tipl,   Oj IA* ovx avAtjxrfc,   xal ixi vvvl oS ctv x u  ixtlvov avAy. Docemur his  verbis, Olympi harmonias etiam  Platonis ætate superfuisse, quibus tantum veneris attribuitur,  ut sane pulcherrimas fuisse inde  couiicias. Phrygias harmonias  fuisse ivSovdiafyiov procreantes Boeckhius docet ad Piat,  Minocm 26.   M apCvov Mycoj xovi ov 8 i5a£, av x uS. Consentit  Schol, «d Aristoph. Eqq. v. 9.  &vvavAux. ZwavAla xaXtixai,  otav 6vo avXi/Tixl to avro Ai-.  ycjdtv. 6 ” OXvpTtoS povCi xoS Tfv, Mapdvov pa$7)rifi.  iypcnjxt Sk avXrjrtxovS xal  $p?/vyxixovf vopovS. Yopoi 8e  7 ( 0 tXovvxat oi tis $toi>S vpvot  x. x. A.   iav te aya$uS aJA i/rpis. Etiam tibicinarum cur  hic mentionem faciat Alcibiades,  si quis quærat, nihil ab interpretibus annotatum reperict. lloc  certissimum, neminem olferisurum esse iu verbis iav xt uya5uS avXt/xj/S avAf/y iav te ipav  Ao?. Ut nunc verba se habent,  de artis dexteritate dicta accipere possis, ut non nisi viri in  arte tibiciuaria boni dicantur,  mulieres autem artis expertes tibicinariæ non nisi mediocritatem  quandam teuere. Sed hanc non  fuisse scriptoris voluntatem, nobis quidem persuasissimum est.  Alcibiades proprie dicturus erat :  iav xs avAr/r ?/?, iav re av A ijxpiS y iav re ayaSuZ ns,  iav xt tpavAoS, sed brevitatis  studio oppositionem ita instituit, ut non substantiva solam  sed etiam adiectiva sibi opponantur. Ceterum vide annotat. ubi huuc locum landavirnus.   pova xaxexz6S at  xal d ij Aoi. Frustra hæc verba emendare studuit Orellius ad  Isocratem 333* Scribendum  enim coniccit puvovS xarix^d^c ri  7ruit2 xal xtfAtt. Hæc correctio  cum alia de caussa, tum co nomine nobis improbatur, quod  harmoniarum Phrygiarum vim  admirabilem minuit atque urctioribus finibus iucludit. JMovvt  plane eiusdem potestatis est atque (tvxd, eamque illarum harmoniarum præstantiam describit, quæ sua vi emergit, neque  ullo artiiicum adminiculo indiget, quo emineat magis elficaciorque evadat. Recte inde colligas, simplicissimas illas harmonias luisse.  (torov SittcpiQt ig, on avsv 6 gyccvav, ipdotg loyoig ravD tov rovro noieig. r/fiug yovv orav fitv rov ullov dxovcoI uev Ityovrog xcd itavv dya&ov grjtOQog cA kovg Xoyovg,  ovdlv ftfAft, ag £'xog tlxtlv, ovoivl' inuSuv 5e fiov avev 6 py a v ody, rptXol?  Xoyoi?, Comma posuimus post  opyaycoYt quo tautologia verborum facillime vitatur* IFiAol  Xoyoi enim h. 1. ajipositum est,  ut clarius indicetur, quid significent veitoa : avev dpydvoav   TavTuv rovro notel?. Ceterum  notandum est, alteram etiam  significationem Alcibiadem tecte  indidisse verbis iJnXoi? X oyoi?,  WiXoi? enim idem fere sonat  atque diXXoi?, ut satis lepido  ad Socraticam illam ironiam alludatur, qua virum sapientissimum usum esse acerbissima nemo  nescit.   ov 6% v jiiXei 9 oa? in o?  eineiv, ovSevl. De vario  ordine, quo Græci gJs - ino? el~  Ttnv verbis usi sunt, vide annotat. 127. Significatum quod  attinet huius dicendi figuræ, annotationem adi 63- Latiore  autem significutu serioribus temporibus, ut videtur, hanc formulam adhibebant Græci, angustiore, quem ipsa verba exprimunt, antiquioribus. Nam si quis  autiquitus verbo aliquo usus esset, quod rei describendæ minus  convenire intelligeret, ut id intelligere videietur, verbique veniam peteret, illam diceudi figuram adhibuit. Perinde autem  erat, utrum Q)? ino? eineiv diceret, an &S eineiv Itio?, Utroque enim verborum ordine uti  licuit in dictione, quæ nihil  aliud significabat, quam quod ipsa  verba exprimebant. Serioribos  temporibus loquendi usu factum    est, ut scriptores eadem dicendi  formula adhibita veniam peterent  uou unius verbi minus accurate  usurpati, sed complurium, ueque  verborum solum, sed etiam seutentiarum. Iam quo magis nptio, quam usus loquendi alicui  formulæ indidit, a proprio verborum significatu recedit, eo debiliora verba fiant necesse est,  nt quasi torpore quodam teneantur, qui ordinis mutationem non  facile admittat. Exemplo proverbia snnt, quorum verba singula eodem ordine plernmque recitantur, Exemplo etiam formula  est d>? Ino? ehteiv, quæ simulatque latiore significatu adhiberi coepit, liberiore verborum  ordine gaudere desiit.   xdv navv q>avXo? %f o  A eycov. Potuisset etiam h. 1,,  si oppositionem adhibere voluisset, Alcibiades dicere xdv ndw  aya$o? o} xav ndvv <pavXo?  6 Xiycov, de quo dicendi genere supra diximus annotat,  299., et cuius exemplum paullo  sapra legitur, 215. C. Idv re  dyaSo? avXrjr?}? avXy, idv re  (pcwXrj avXrjTpi?. Quod moneo,  ut recte varba explicata credas  209. C. dnropevo? yap, oipai,  rev xaXov xal opiX&v av roJ,  d ndXat ixvei, rixrei nui ysvVijc, xal n aped v xal anco v  pejivjfpivo?, xal r 6 x, r. A,   idv re yvvrj - xareXopeSa. Omnes Socraticis  dictis percelli ait Alcibiades atque teneri quasi vinculis sive fe- ug axovfj fj zb5v GiSv k&y av, akkov kiyovzog, xav tzuvv  q>avkog y 6 ktyav, la v te ywtj dy.ovtj lav tt arrjff i dv  t» ftuijaxuw, lx7Ujtkrjy(itvoi i<5fihv xal xaTE%6(i.Eda. lyety  ovv, <x> avdffEg, ti p} Sfukkov xofuSy du£uv (u&velv, eimina sit, quæ ea audiat) sive vir,  sive adolescens. Hæc dicta quoniam comparantor cum Olympi  harmoniis, quæ addito artificio  nullo, ipsa per se animos audientiam capiant, merito verba  mireris illic addita: xal SrjXot  xovS xcov Sedov te xal xeXcxcjv  beopivovS 8ui x 6 2 Eia elvai .  Neque placet, quod Riickertus  annotat ad hæc verba : Non  omnes hac harmonia ad  divinum furorem excitati  sunt; qui autem essent,  cos ad divina mysteria  percipienda factos esse  hoc ipsum declarat* Nolo  pluribus huius sententiæ axoniav y quæ manifestissima est,  perstringere ; persuasum autem  habeo, verba Platonica vitio aliquo laborare. Pro 8i]Xoi xovS  xt ov $egjv scribendum esse videtor: SrjXoi SvijtovS xav Segov,  quæ scriptura quam apte hoic loco conveniat, statim intelligitur.  Quid enim aptius est, quam mortales una commemorari, ubi sermo est de arctiore cum diis per initiationes coniunctione? Neque carent verba corruptionis verisimilitudine. Primæ enim ONHTOTC vocis litteræ quam facile in OI mutari potuerint, apparet. Cum autem 8ijXot verbum, quod proxime præcedit, in OI exeat, fieri  facillime potuit, ut ulterunl OI  absorberet alteram. H autem expunctum ab iis est, qui ACCADEMIA scripsisse arbitrati sunt,  quod hodie in omnibus editionibus legitur: 6?jXoi r ovS.    Eyooy' ovv, cJ av6peS.  Iiæc vulgata lectio est. Iu tribus Bekkeri codicibus paucisqur  aliis iyco yovv comparet, quod  haud scio, an non probandum  sit. Nam si io priore alicuius  enuntiationis parte aliqui commemorantur, quibus, qui ia posteriore enuntiationis membro loquens inducitur, non est adiunctus, iyoj 6* ovv vel lywy'  ovv poui solet, utrumque pio  oppositionis vel exceptionis ratione, quam scriptor indicare voluit. Contra ubi in priore particula enuntiationis alicuius aliqui commemorati suat, quibus  adiunctus est, qui ia altera particula loquitur, uou lycoy ovv  sed ly<6 yovv locum habet. Iloc  Bekkerus probat Comment. Cril.  in Piat., idem A&tio  placuit atque Riickerto. Stallbaumins in altera Symposii editione lycoy* ovv reposuit.   el /i)} HpeXXov xopi8y  66 B, E tv. Schol. ad h. 1. wopi8q, inquit, xvplooS pev xo  impeXuS, o$ev xal opEoxopoS  xal yEpovxoxopoS * i 6 o 8 v v ajx ei Sfc xal x c3 6 <p 6 8 p a  xal xeX£a)S t xopi8y dpixpd 6(po8pa 6pixpa. Ceterum  sensus est verborum huius loci:  Ego certe, o viri, nisi viderer præ nimia ebrietate meras nugas narrare,  dicerem vobis loramento  interposito, quæ mala  in me ab huius orationibus pervenerunt et quæ     rtov vftocag av vfilv olcc Srj nticov&a avzog vito zmv zovtov J.vyav xal ndayco Ixi xal vvvl. ozav ydg axovo), itokv  E fioi (idllov tj tcov xoQvfiavzicovrav ij tb xagdla irtjda  xal ddxgva lx%tizai vi tb zav l.oyuv zav zovzov. oga  de xal akkovg ita/utoXXovg zcc avza itdayovzag. Ilegixbeovg de axovcov xal akbcov uya&cov grjzoQav ev fiev  tjyovfirjv beyeiv, zoiovzov d ’ ovdev ixaGyov, ovdi zttiogvfiryzb fiov % t^vyrj ovd’ rjyavaxzei ag dvdgano  perveniant etiam nunc.  Annotat Riickertas: Non dicerem tantum, uti nunc dico, sed iusiurandum adderem. Satis nobis  liæc explicatio displicet. Quasi  si quia mira narret ebrias, addito iuramento ebrior esse,  indicetur. E hcov ojjodaS av   nihil aliud SIGNIFICAT quam: dicerem dictu mque iuranænto interposito confirmarem, Ut autem rectius  Alcibiadis verba intelligas r homo  ebrius, quæ perpessus sit, ea  ita mira esse sentit, ut a nemine facile credantur* Igitur ne  vino prorsus immersus indicetur,  ai illa retulisset atque eorum Veritatem affirmasset, rem silentio  præterire apud se constituit.  Post autem non tam mutato consilio, sed quod res ita ferebat  atque loquacitatis, quam vini vis  indidit, libidine ductus, quicqui^l  perpessus sit, aperuit tamen.   V * &v no pv fi av x i oov~  tcov. Annotat Schol. ad h. l.j  iv$Ol)6lG)VXGt)V ?/ riva opX7}6iv  ippctv)}' opxovpivcov, ano tgoy  K opvfidvxcov, oi xal x potpeiS  xcu (pvXccxsS xal 8i8ddxaXoi  xov 4ioS eivat pv$oXoyovvTai,  TiveS 8 e rovS avxovs roiS Kov ptjtiiv etvai tpadiv. elvai 8e  xal x ijf ‘PeaS vnadovZ, ano xgjv xov JioS Saxpvcov yeys~  vrjpEvovS’ ojv apiSpov ol ptv  3*, ol 81 i Xkyovdiv. Timæus  habet xopvfiavxtav' 7tapepj.iaiv£6$at xal ivSovtiiadxiHuS xi~  YEtdSai. IldSoS autem rcov xo pvfiavticovxcov vocabatur xopvfiavriadfioS, Quo morbo qui  correpti erant, tibiarum cantum  audire sibi videbantur ad saltationem excitantem, neque temperare sibi poterant, quin saltarent. Vides igitur, quam apta  hoc loco sit xciov xopvfiavxicjvxcov commemoratio, cum Socrates cum Marsya tibiis canendi  peritissime comparetur, cfr. Piat.  ‘Crit. 54. D, xavta, ai (piX&  ttaipE [ Kpixcov ], ev ?b3z, oxi  iyco Saxei) axovEiv, &)Szep ol  xopvfiayriGivTES tcov avX&v <$o~  xovdiv axovEiv. Adde Piat.  Phædr. p.227. B. dzavtijdas 8h  rd v o 6o v vx i zspl Xoycov  dxorfv, iScov phv, 18 odv 7/<537/,  ori eB,ei xov dvyxopvfiavxicovTa  x. x. X.   ev jtlv xjyovfirfv Acyetv. Piæterito tempore Alcibiades bic utitur, quod Pericles  eo tempore iam obmortuus erat,  quo Agathonis ixivixia celebrata sunt. Ceterum ipsa verba  docent ev pbv rjyovpijv Xeyeiv,  quam necessaria lormala coS EizoS    'irillgteed   /\r «•' • Sadwg dtaxEiplvov. cxXX’ vito tovtovX rov MciqOvov  stoXXaxig drj ovta Ster idrjv 9 Sgrs poc do^ca prj fiica- 212  rov elvat l%ovn log 1%©. xal ravtcc, o Uiaxga reg,  oix Iqels cSg ovx aAq&ij. xal Eu ye vvv £vvoid 9 Ipavrq>, ori, ei l%i). oipv TtaQeyew tu ara, ovx av xaQtSQTj<faipi> cMa tuita av itdG%oipt . dvayxd&i yaQ pe  opoXoysiv, ori vtoXkov tvde^s av avtdg En Ipavtov  fikv dpeXc5 > tu 6 9 'Afojvuiav itQaztco. fila ovv, agitEQ    elneiv verbis sit 215, D.  ijpeis yovv otav pev rov aAXov dxovtopev Xiyovzos xal  navv ayaSov /)7fzopoS aAAouS’  A 6yovS t ov8ev pe\ei  ovSevl.   De pov pronomine nomini  sao prælixo, quo dativi commodi, quem vocant, vel incommodi notio exprimitur, vide Quttmanni annotat, in Indic, ad Piat,  Dial, IV. BeroI, 1822.   •$X oyrt Satis   usitata hæc dicendi ratio tragicis poetis, quam rov evtprjpelv  ergo adhibebant miserrimam vitæ conditionem indicaturi. Sensus est: Ut mihi miserrime  viventi vita non amplias  vitalis videretnr.   ovh ar xapr epij C atpi. Conscios mihi sum, Alcibiades ait, me etiam nnnc, si vellem  aures præbere illi, eius illecebris non restiturum esse, sed  eadem, quæ antea, experturum  h. e. dySpano8co8d)S diaxEiCeCSat.   dvayxd^ei yap pe opoA o y eiv x. r. A. Argumentum  his verbis expressum habes eius  libelli, qui Alcibiades primos  inscribitur. Eum libellum negant hodie viri docti a Platone  conscriptum esse. Ac lieri potuit facillime, ut aliquis ACCADEMIA AMATOR AMANTE AMATO, qui hæc verba legisset, de hoc argumento ad ACCADEMIA dialogorum exemplar  dialogum conscribere apud so  constitueret. Quæ autem verba infra leguntur . B. ?}rrrfpiva>  ti)S npijs rijs vito,rojv jroAXgjv, comparari possunt cum Alcibiade I. 1S5. fin. ftovXol prjv dv Ce xal 8iaxeX/:Cai' o’/3ficjScj 6l, ov n xyj 6ij cpvCet aniCrcSv, aAAa rr}v rfjs no\ ecoS  fiuprjv, pi) ipov re xal Cov  xpan/Cy.   fiiot ovv, cosnep ano  z&v Setpijvcav x. r. A.  Abreschius Lect. Aristæn. 147.  cum fiict commode explicari posse  diffideret, fivcov scribendum coniecit : (Uvoav ovv dsnep ano  r&v Seipijvoov iniCxopevot ra  tora oixopat tpEvycov . Recte  Stallbaumius hauc correctionem  improbat etiam ea de canssa,  quod illa odmissa verborum iunctura existeret legibus elegautiæ  orationis coutraria. Quis enim,  Stallbaumius iuquit, ferat ita loquentem: Obstruens aures,  tanquam ab Sirenum canta cohibens aures, fugio  virnra. hia cum olxopai  tpevycov Stallbaumius coniungendum censuit, quæ verborum iunctnra nullo modo probari potest. ano uSv Uuprjvav, tni<3%o(itvo$ rct iura, ofyofiat qjtv•yav, iva (irj axrtov xa&ijyivog napa rovuo xaraytjQaB Oa. ntnov&a ds ngog rovrov fiovov av&gconav, o ovx  av rig oiot.ro Iv Ipol Ivtlvat, ro alojfvveo&ai ovnvovv. iya da rovrov /rovov alo^vvoficu. | vvoiAa yttQ    Satis notum est exemplisque per  multis probatur, oixopat tpev ycov eam fugiendi rationem describere, quæ celerrima sit atque subitanea. Iam cum hac illius dicendi formulæ notione  quomodo (5i(t conciliari possit,  equidem non video* Nam quæ  fihp aliquis facit, h. e. ut apud  Homerum legitur btriv æxovzl  ye is cunctanter agit at que animo minus obfirmato. Dubitari nequit, quin / Via ad liti CxoptVoS referendam sit, ut Alcibiades vix ac ne vix quidem a  Socrate quasi a Sirenum cantu  dicatur aures cohibere posse, eo  facto autem in celerrimam fugam  ee couiicere. Ceterum' ad Hom. Odyss. hoo loco respicitur M. v.  59. et sqq.   iva ni) avxov xa$rj utros itapa tov rw xazayripdooj. Summam laudem hia  et præcedentibus verbis contineri Socraticæ facundiæ, nemo  non videt. Eam enim Socraticæ orationis vim esse Alcibiades contendit, ut omnes ea audita per omne vitæ tempus eius  auditores esse cupiant. Eius laudis eo maior vis est, quod ab homine proficiscebatur, de quo Nepos in Vita Alcib. hæc tradit:  disertus (fuit), ut in primis dicendo valeret, quod  tanta erat commendatio  oris atque orationis, ut  nemo ei posset dicendo resistere. His, adde verba illa, quibus Pericle Socrates dicitur plus in dicendo valuisse.  Periclem autem peritissimum dicendi fuisse accipimus, cfr* CICERONE (si veda),  de Orut. III., 54* In eius  labris veteres comici,  etiam cum illi maledicerent, leporem habitasse  dixerunt, tantamque in  eo vim fnisse, ut iu eorum mentibus, qui audissent, quasi aculeos quosdam relinqueret.   o ovx av xi$ otoixo iv  Ipol iveivoti. Probatam habes bis verbis levitatem Alcibiadis supeibiainque eam, quam scriptores Veteres passim tradunt Ceterum cave eodem significatu  dici censeas iv rivi ivttvai et  elvai Zivi. Conferri possunt  hæ dicendi formulæ cum LATINORVM: alicui inesse vel in  aliquo inesse et esse alicui. Ut elvai zivi ita Latinorum esse alicui adhiberi solet, cuhi alicui aliquid esse dicitur non addita, quæ inter possidentem et rem, quæ possideatur, intercedat, ratione. Evtivat  contra iv rivi et Latinorum in  aliquo inesse de eo plerumque dicitur, cui aliquid est, quod  cum ipsius naturu, ingenio, indole artissime sit coniunctom.  Platonis verba Schleiermacherus  reddidit : w os einer nickt in mir  suchen solite. Hæc nostratium  dicendi formula apprime respon- tfiuvTtp avullyuv fih> ov Svvafilvcp, mg ov Bel noaiv  u ovtog xsXevh, £xh8ccv 8's &sc£l& cj, tijg   Tifiijs t% vtio zav tzqVjSv. dQajzsrsva ovv avtov xal  qisvya, xal ozav Z8a, alGyyvouai za wfiokoytj^iva.  xal itoXXay.Lg fiiv IjfSiag av i'dotiu avtov uij ovza Iv C  det ACCADEMIA sententiæ, sed verbi  ivetvat iv tivi nativam vim  non exprimit. Ea ut emineat  magis, verba sic reddiderim: Was  einer wohl nicht leicht meinem  Wesea eigentliiimlich glauben  mochte.   xij 5 ttftijs xrj s v it 6 xgjv  7t o X Xco v. Nequis forte scribendum censeat trjS aito xeov 7toX~  A cor, ut honor signiiicctur, qui  a populo proliciscatur : amant Græci substantivorum passivam, quam vocaut, notionem ab activa  discernere atque, ut exemplo utar  XifiijS vocabulo, accurate disiuugere honorem, qui ab aliquo in  uliquein confertur, ab honore, quo  aliquis aliquem dignatur. Ti/S xiji)}S igitur idem significare atque  tov XifiadSat addita vjto præpositione indicatur. Sed liberior  etiam huius præpositiouis usus  est. Haud raro enim cum verbia  neutris coniungitur, quæ verba  possuut aliquo modo, quoniam  per se spectata neque actionem  indicant, neque itaSoS aliquod exprimunt, cum nominum ambiguitate comparari. Hæc nomina enim utrumque significare  possunt et actionem et itaSoS,  ut recte dicautur per se spectata neque hanc neque illam   uificarc. Sed ita ditfert vn 6  præpositiouis usus in nominibus  substantivis et in neutris verbis,  ut illis addita notionem, quæ  ipsis inest, extollat, cum his coniuncta notionem novam quasi pariat, quæ notio no utris verbis  proprie non inest. cfr, Hora, II.  319.   iv$a xtv avxe TpdoeS dpifi(piXoov vtc *Ax<xtG>v  " IXiov eiSavEfiTjticcv avaXxeiXfit Sajievxs? Adde II. S36.  cridooS pkv vvv ySe y dp?ftqjiXoav vn *Axai(vv  "IXiov eteavafiijvoa, avaXxeiy6i SafievxaS.   His locis, quibus alia addi possunt innumerabilia, edoceare, liberiore vno præpositionis usu  elfici dicendi brevitatem, quæ  sane gratissima est et venustissima. Ad nostrum locum ut  revertar, statim intelligitur, quid  Alcibiades confiteri cogatur a Socrate, et cuius rei pudor illum  hoc conspecto subeat. Nimirum  qui rtoXXov ivdei/S convincitur esse (vide 216. A.), is  se percolere debet, non administrare civitatem, quod fecit  Alcibiades populi aura delectatus.   ij 8 £o)S dv i8 oipt h. e.  rfSoifi7\v dv avtov ISqjv. Vides  igitur, magis ad adverbium, quam  ad optativum modum IStiv verbi av particulam pertinere. Id  probatur etiam eo, quod omisso  adverbio dictio existeret prorsns non ferenda: xal izoXXaxiS  ptv i&oifi dv avtov pp ovxa avftQQMtois' tl 6* av rovto yivoito, sv old\ on itokv  fiel^ov clv «%9olgif]v, cj^tb ovx b%g) S xi XQrjGttpa t  Tovtcp r (3 dvftQcina. xcd vito piv di] xav ccvArjfidtav  itat lyco occa dAAoi itoXAot xoiavxa it BTtov&aOiv vnu  tov 8 b rov 2 <xxvqov.    iv dvSpcditoiS. Nulla enim adest caussarum cohærentia, per  quam fieri possit, ut Alcibiades  Socratem inter vivos non videret. Adest, ubi gavisurum se  esse Alcibiades dicit, si non videret Socratem inter vivos. Itaque quid de Platonicis verbis  rfdicjS UV VSoifii statuendum sit,  iam vide. Brevitatis studio t/SkcoS  i8oif.it ita positum est, ut duo  liæc verba unam notionem efiiciant, quacum av particula commode consocietur. Simul supplendum aliquid relinquitur,  quod quid sit, ex ipsis jjSkcDS  av iSojfii verbis elicitur. Oratio enim expletior audit r tjSkcoS dv  i'8oiftlj tl idotfit. Similis verborum structura in Piat. Lachete  occurrit 182. c. V. fin. AaXtjtoS 8’, tl n napa xavxct  Akyei, ndv avxoS ijdkool cotovCaifUy quæ verba explicatius  enarrata audiunt : ndv avxol ?}6kcoS dnovdatju, tl dxovuaifii  AaxrjxoS, tl r i Ttapd Tama Afyti. Satis autem docet hæc enarratio verborum, quæ tl dupliciter atque diversa potestate (wcnn,  ob) posito satis ingrata est, quantum orationi admiss? illa verborum structura suavissimæ brevitatis accedat.   no Ai) pti2,ov dv dx$oi*  fiijv. Pro fitigov scriptum exspectaveris fiacAAov. Iliickertus  nd h. 1. : ut piyotj inquit, verbis  iuuctum est valde, v. c, Hom.   II. /i. 2u.    A.oS 81 roi ayytXol et/u  oS avtvSev £aj v, fit}' a   7tjj6ezai 7] 8* lAtaipu  et v. 333.   gjS icpccc. *Apytioi 81 ftty  iaxov K t r. A.   sic etiam fiei^ov magis, vehementius. Dictum pro fitiZov dv &x$oS txoifu, Frustra rationem quæras, cur apud Homerum fikya verbis iunctum valde significet, et cur  nostro loco fitigov dv dx$oiftrjv non tam positum sit pro  fitigov dv dx^oifiijVy quam potius idem atque illud significet.  In caussa hoc esse reor, quod  Græci haud raro verba co significatu adhibebant, quem satis inepto nomine, vocant Grammatici  prægnantem. MkyaK w)8txea igitur non tam est : v ai 1 d o  providet saluti tuæ, quam  magnam tui curnm agit.  Eodem modo 9 Apyttot fiky  Iaxov explicandum est : Sie   schrieen gross h. e. sie erboben  grosses Geschrei. Plura huius  usus exempla laudata reperies  anuotat. 87,   coite ovx ott XPV  dcofiai. Pro xPVoMfiai libri  omnes XplfeOfLat exhibent, quam  lectionem lluchertus, nimis rcli^  giose, ut solet, in textum recepit. Sed quid facias in contexta oratione scriptura, quam  ipse, qui eam recepit, explicaCap. XXXIII. "AXkct de epov axovGccre,  tyto aixatiu avrov, xal ryv    oSg 3 (loiog re tCziv otg  dvvcc[uv io s %avpc(Oiav    bilem atqne rei describendæ accommodatam negat ? Certum quidem est, scriptores haud raro formula dicendi nsos esse gjSts  ovh Hxv oti xPV^o^ioctj cuius  exempla Stallbaumius laudavit ad  Piat. Gorg* edit. 85 ( ., sed  haud perinde est, coniunctivo an  futuro utaris. Ac nostro quidem  loco si xPV<S°M<xi scribitur, nescire se præsenti hora  Alcibiades confitetur»  quid cum Socrate faciat,  facturum autem aliquid  sese esse uua promittit*  Quæ sententia quam inepta sit  atque ab huius loci .sensu aliena,  nemo non videt. Contra coniunctivo adhibito penitus nesciri  ab Alcibiade, quid in universum  dc Socrate consilii capiendam  sit, quæve eligenda ratio hominem tractandi, exprimitur. Quæ  sententia, quoniam aptissima est  huic loco, quid xpfo&M&i vel contra omnium auctoritatem codicibn non recipiatur, XPV^°M°^  autem ineptæ sententiæ lectio  non reiiciatur, caussam equidem  non reperio.   neti vito j.tlr 8 y tcov av\y p dz w V7C 6 tot j Se  tov Sazv pov. Av Xypaxa  Socraticos sermones significare,  Satyrum Socratem, nemo mirabitur, qui Socratis cum Marsya comparationem legerit. Ordinem  verborum quod attinet, proprie  dicendum erat xai V7cd ply Si }  tgov otvArjpdrcov tov tov tov  2£aTi>pov. Sed de industria Alcibiades hacc verba verbis compluribus interpositis seiunxit, ut  maiore vi afficiantur verba rovSe  tov Scnvpov . Vide de hac   seiunctione verborum annotat,  59., 129., al. Ceterum imo  præpositionem non sine vi repetitam habes. Nam cnm ea   eius potestas sit, nt cum Ttd $ovS notione plerumque couiungatur, ideoque ipsa quasi colore  imbuta sit notionis illius: dupliciter posita haec praepositio  non quidem 7td$oS duplex exprimit, sed ndSov ST vehementiam,- qualis descripta est 215*  E. noXv pot paXkov y td>v xopvfiavTicdyrcjv y re xapSia nySqi xal Sdxpva ixxeltat.  aWa 5 et i pov ctxov6 at e. Vulgo aAAa Sy legitur;  praeterea codices nou pauci pov  pro ipov exhibent. Riickertns  inde di pov edidit annotaus ad  h. 1. Nobis, inquit, nulla in  pronomine vis esse visa est,  propter quam codicum lectionem mutaremus. Itaque Si pov dedimus :  Miror, Biickcrtum ita  iudicare potuisse. Etenim qnao  hucusque narrata sunt ab Alcibiade, ea, siquidem homini fides habenda est, et aliis acciderunt* Ea igitur satu nota esse  Alcibiades contendit, adeoqne nihil facere ad Socratis indolem  accurate cognoscendam, nt prae- i%H. tv yag la ts, ori ovdilg vficov r ovtov yiyvaOy.u'  D dXXu tyco drjZadn, tjielxsQ vgaxs yag, on  ter Re neminem censeat ipsam cognitam perspectamque habere.  Quod igitur none Alcibiades probaturus est, id se tautummodo  expertum' docet atque se esse  unum, ex quo audiri possit vera  Socraticae indolis atque naturae  descriptio. Nihil igitur certius  est, quam ipov scribendum esse,  non fiov. Et quoniam mala modo commemorata etiam alii perpessi sunt, haud dubiam est,  quin nova quaedam relaturus Alcibiades dXXct dixerit, non aX.Xci ; ea autem mala, quoniam  malis supra commemoratis opponuntur necessario, etiam di recte  habet, non 8t}, Nobis quidem  de scripturæ veritate aXXa 6k  ipov y vel aXAct 8* ipov, quod  Bekkerus habet, ita persuasum est,  ut etiamsi omnium codicum deesset auctoritas, verissimam censeremus. Sed adminiculo suo non eget scriptura illa. Florentiui  enim codices aliique libri pauci  quidem sed non mulæ notæ eam  repræsentant.   ev yap idxe. Qui ad verha 208. C. xal r/, u>S7tep ol  xeXeoi dotpidxcA, Ey tdSi, iqrrj  sophisticum orationis colorem,  quem Plato verbis cu Sittp ol do<pidxctl indigitavit, in verbis ev  id$i deprehensisse sibi visi sunt,  Wolfius, Astius, Schleiermacherus, ii in verbis ev Idxe nihil,  quo Sophisticam artem odoratos  esse coniicias, annotarunt. Concedimus quidem, heri potuisse,  ut sophistæ 1 insto sæpius illa  dicendi formula uterentur, sed  non ideo sophista sit vel sophisticam artem imitetur, qui hanc formulam exhibet in oratione,  præsertim cum id facit, ut fecit  Diotima . semel,   d XXd iyta dyXcodco, $neinep ij p&a prjv. Cum emphasi verba pronuntianda sunt  dXXa iycj 8yXGD6co sc. oloS  id nv atque inprirais iyoS pronomen, quod ue exhibuisset quidem Plato, si in præcedentibus scripsisset aXXa de pov axovdaxe, Ceterum supra annotavimus ad verba 2 15. D. iycj  yovv, co ctvdpeS, ei p>) ipeXXov xopidy 8o£,eiv peSvetv, eiTtov opodaS d v vpiv olat 8?)  jciitovScL X. T. A*, Alcibiadem noluisse primum, quid ipse perpessus sit atque adhuc patiatur  Socrate auctore malorum, enarrare, post consilium mutasse loquendi lubidine abreptum. Ea consilii mutatio ne forte artiheiosior  videatur atque minus ex humanæ naturæ indole petita: omnium  rerum difficillimum esse solet initium. Eo superato gaudium cor subit, quia superareris atque animus olterius progrediendi. Post  ne infectum relinquatur, iu quo  aliquid operæ consumseris, totum  opus perficiendum suscipitur. Subit animum dulcissima memoria  versuum e Goethii Fausto petitorum, quos cnm Platonis verbis iiteiitep ijpBtdprjv comparare  possis:   Das Mogliche soli der Entschluss   Beherzt sogleicb am Schopfe  fasseu   Er will cs dann nicht  fahren lasse n   Und wirket w ei ter, tveil  er must. HaxQatyjs (gauxtog diaxtirai rav xctXi 5v xai «eI x&ql  rovrovg EOzl xai butiickipam., xai av ayvotl mxUz a xai    i/jmrixojf Sidxeirat  roov xa\djv. Annotat Ruckertos ad h. 1.: Genitivus tgdv xa\65v pendet ex ipooTtxdjS e more  Græcorum vocibus derivatis eundent casum addendi, quem verbum secum habet . Eodem modo  de hoc structuræ genere Matthiæus disseruit Gramm. ampl. Possis etiam  ita tibi rem explicare, ut ipeoxixvS SidxEttiSai unam notionem if^xv verbi efficere censeas  atque eius structuram assumere.  Ceterum nemo non videt, ipeoTixcoS StaxEitiSai multo graviore SIGNIFICATV esse, quam ipav  verbum. Apprime enim Latinorum  perdite amare respondet, qua  formula dicendi inprimis comici  Latini usi sunt. Mirari autem licet Græcæ illius et huius formulæ  diversitatem. Nam quod Latini  adverbio, Græci verbo expresserunt, quod Græcis adverbio, LATINIS verbo indicatum est,   xai av ayvoel itavxa  xai ovdhv o 16 e v, coS 1 6  uXVM a a vx o v. Vulgo hæc verba ita edebantur, ut nulla  post avrov interpunctione posita verba r 6 6xi)f*ct avrov   ad subsequentia traherentur. Quibuscum ut aliquo modo convenirent, H. Stephaniis scribendum  coniecit : ci? x 6 <$X*/M a avrov  ov deiXffYGoSeS, Hæc scriptura  Fischero probata est et Bastio  et Wolfio; recentioribus interpretibus merito ea displicuit»  Longum est, omnes ingenii coniectnras repetere, quibus hunc  locum docti viri sollicitaruut.  Stallbaumius omnes loci difficultates sublatas putat recepta, quam  Bekkerus et Schleiermache rus post  avrov posuerunt, interpunctione.  Videlicet, vir doctissimus ait,  csf xo <$XVl l0C carro v significat;  quemadmodum eius forma  et habitus est h. e, queoadmodum ipsa eius forma  et habitus prodit. Eadem  Riickerti sententia est, quæ cur  nobis non placeat, paullo infra  dicetur. Priusquam enim singula verba adeamus, totius loci  sententia paullo accuratius examinanda est. Omnis Alcibiadis  oratio in duas partes dividitur:  altera res continet convivis satis  notas, sed quæ ad cognoscendum Socratis ingenium haud multum faciunt, in altera commemorantor, quæ ex Alcibiade solum audiri possunt fefr. 216.  C. «?AA a 81 ipov axovdars) e®  quibus solis ad Socratici ingenii indolem cognoscendam auditores ducuntur. Ac de posteriore illa orationis parte infra  dicetur; prioris initium verba  sunt opaxe yap. Quæ verba  præcedentibus opponuntur ; tv  yap fdtE, oxt ov8e\s vpdov rovx ov y ty y ai 6x Et. Tangi igitur videtur opdxE verbo incogitantia convivarum, qui, quod  oculis cernant, id credant, cum  non debuissent credere, contra  quod debuissent, nou videaut.  Iam ad particula, quæ in verbis repentur xai av ayvoEiy  indicatur et hæc et subsequentia verba eadem conditione, quam  præcedentia, poni, ut expletior  oratio audiat: xai o par e, oxt  ayvoE i x. r. A. de qua vi av  particulæ vide annotat. Nura cum hac orationis confm(XvSlv ocdsv, log to (>XW a ocvtov. tovto ov Gcifoivcj*  6sg; Gqjodga ye. tovto yag ovrog negLpapAyTcxi,   cogiteg 6 tykvppivos 2J6ifa]v6$' kvdo&ev 6s avorfitig  n otiijg, ofetfte, ysuti, iJ ccvdgtg <5 v[ix6tcu, aacpgodi Jmationc satis convenire censes verba cjS to <SXVl ia clvtov,  quemadmodum ipsa eius  forma et habitas prodit?  Sed hoc ut mittam, turpi vultu  protervoque Socratem fuisse accipimus, fatuo a nemine scriptore  traditum est. Neque cura turpitudine atque protervitate vultus  fatuitatem coniunctam esse necesse est. Recte autem inspectis  Platonicis locis, ubi inscientium  Socrates et vero etiam fatuitatem  quandam animi ostendit ( cfr.  annotat, 290.)» doceberis, verbis atque libera rei confessione,  non forma et habitu vultus corporisque id fieri. Nemo igitur  oculis cernere potnit, sed auribus tactum percipere inscitiam  Socratis, ut male xal av (opdTf)gd$ to 6XVM a ccvtov  verba coniungi censeas. Verba  autem ayvoei TCavia xal ovSev  oldev etsi aliquo modo defendi  possunt, tameu habere, quod offendat, prudeus lector intelliget*  Deleta autem litterula una et  tautologia nobis quidem ingratissima removetur, et commodiore  sensu coS To 6xtyM a ocvtov verba  afficiuntur. 'Scribendum nimirum  esse censeo : xal av ayvoei   navTa xal ovSh oldev, cJs" to  ( 5XVM a ocvtov. Iam sensus est  totius loci: Oculis vestris  videte (atque credite), Socratem iuvenes pu1cros perdite amare semperque iis se adiungere  eorumque summa admiratione teneri, et rursas  omuia nescire, ac ne scire  quidem, qui ipsi sit habitus externus h, e. ne curare quidem corporis cultum et vestitum. Olim coS  to 6XW& avrov convertendum  censebam: wie cr sich das  Ansehen^giebt, quæ conversio optime conveniret cum  opdre verbo. Sed Alcibiades  hoc loco narraturus, qqge in Socrate oculis cernantur, cum pulcrorum iuvenum studium commemorasset, quod revera simulabat  Socrates, et inscitiam, quam interdum vel gloriabatur, incuriam  corporis, quapi immunditiem vocare possis, nullo modo silentio  transire potuit. Satis notum enim  fuit, Socratem raro lavasse, rarius  capillos compsisse atque omniuo  ceteram corporis curam adeo neglexisse, ut v. c. Aristodemus  cum lotum conspexisset atque  calceatum Socratem, insolentiam  rei meratus ex eo quæreret:  quonam iret ovteo xaXoS yeyevrj pivoS . Vide Sympos. A. Ceterum dxt/poc vocabulum de cultu corporis atquo  de vestitu significando Græcis  in usu fuisse, satis docere possunt Plauti verba Amphitr. Prol.  V* 116.:  Nunc ne hunc ornatum vos  xneum admiremiui  Quod ego huc processi sic cum  servili djjqpa Veterem atque antiquam rem novam ad vos perferam:  Propterea ornatus in novum incessi modum. v>;g; iGxe, oxi ovx’, tl rtg xaAos loxi, jitXti avxaJ ovSev,  kU.u xatacpgovtZ xoOovxov, o6ov ovd’ av tlg olrj&tit], e  ovx’ tl xi s irkovOLog, ovx’ tl alXr\v xivd xijirjv iyav  xuv vito itkrfiovg jxux.uQitoy.ivav. ijyuxat 8i itdvxa    Sequentia verba rovto ov (SeiXtjvc38eS ambigua potestate dicuntur, ut iis ad alteram partem  orationis paratum aditum habeas, qua verum de Socratis ingenio iudicium continetur. ^SsiXrfVco8eS enim de externa figura ita  dicitur, ut Socratis vultum indicet similem fuisse Silenis; et ad  cetera, quæ præcedunt, verba  tractum Socratem similem Silo  norum perhibeat. Iam iudicare  possis de verbis (Sqpodpa ye, quibus titramque 6ei\ijvaoe5 vocabuli relationem Alcibiades sibi  probari indicat. Sed alteram  tantummodo verbis sequentibus  exprimit hoc agens, opinor, ut  subita novæ rei commemoratione,  ud quam rem audiendam animi  convivarum minime parati essent,  acutissimi iudicii admirationem  et gloriam certius atque celerius  assequeretur.   rovto ydp  7tepifl&pXijrat, rdp particula duplici relatione hoc loco posita  est, ut et ad rovto GeiXtjvg)8eS pertineat et, ad notaudum  convivarum errorem, qui Socratem talem esse putaverint, qualem oculis viderint, ad verba referatur 216. C. ev yap fore,  Zri ov8elS v/uav rovtov yiyvojtixeu Sensus est: Namque  miram hanc Silenorumque  protervitati atque immunditiei consimilem formam ille induit Silenorum instar, in artificum  officinis sedentium, qui    intus reconditas statuas  deorum pelle x sua contegunt.   7to6rj^ f oVe6$e t ye/tei.  Haud raro mediis interrogationibus verborum interponuntur secundæ personæ singularis atque  pluralis numeri, quibus provocantur, qui rogantor, ut ipsi uua  rem interrogatam iudicent, atque quid ipsis videatur, aperiant.  Hic dicendi usus Græcis haud  infrequens, neqæ a nostratium  more alienus est. Duo autem  snnt, quæ verbis hoc modo interpositis efficiuntur: gravitas augetur interrogatæ rei, et alacritas interrogationis amplificatur. Compluria huius structuræ exempla apud Græcos scriptores  Stallbaumius attulit ad h. 1.,  Ruckertus ad Piat. Symp.  202. B.   d A. A a nat aqxpovEi  oX. r. A. Hæc proYsus conveniant cum Diotiinæ præcepto  laudato a Socrate . B.  &vo? ro CcpoSpa rovto^arXdtjoti xauxppuvijdavra xa\  tfptxpov 1 /yTfddj.iErov. Quæ insequuntur verba ovd av tiS  scribæ alicuius imperitia in ot;dfl? dv mutata sunt, quam lectionem unus exhibet codex Bekkeri. Alibi notavimus ovSs tls  significare prorsus nomo,  de quo significatu  sub v. ou6£ ei?. Hæc verba  etiam ibi exhibere amant scriptores, ubi allectatam orationis gravitatem rejvacsenUut. Possis ea   23  ravrcc t d xzyfiaza ovtisvdg «|t« xal qpag ovdlv tlvat,  tlgavEvi^uvog Se xal icai^av nonna w filov itQog tovg  av&ganovg duratei. tSxovSaOavzog de avzov xal avo iZ&tvzog ovx olda, fi ug e ai pax e tu ivzog dyalfiaza' a te'  lyto ijdi] noz’ tldov, xal fioi 1'do^ev ovza titia xal  SI 7 jjpvtfa «&>» xal ndyxala xal tiavfiudza, Sgzt nouy    h. 1. convertere: nemo gentium. Verba convertit Stallbaumius: quantopere nemo  quis quam crediderit.   xal i/fiaS ovSlr elvat,  Ileusdins Spec. Crit. pro r/puS  scribendum censuit XlpaS. Non  recte t neque placet verborum  conversio Stallbaumiana : atque  nos, qui talia appetamus»  nullo in numero habendos censet. Verba convertenda sunt potius : atque nos,   qui talia possideamus, flocci  pendit. Loquitur enim Alcibiades, homo ditissimos atque oxnoium rerum honore, quas multitudo admiratur, abundans. Qui  cum se contemtum a Socrate  vidisset (cfr. 219. A. seqq.),  insuetæ rei experientia motus  verba proTert xal rjpaS ovSkv  elvat. Sed ne ingenuitatem Al-,  cibiadis forte non agnoscas, animique nobilitatem, TjpaS ovdlv  tlvcn verborum magis etiam, quam  nos fecimus supra, lenienda est  interpretatione asperitas. Significare igitur contendimus: omnes, qui talia possideamus iisque gloriemur, flocci pendit.   tlpovevopevoS Si xal  7t algor, cfr. Cic. de Orat. 2.  Urbana etiam dissimulatio est,  cum aliter sentias ac loquaris.  In hoc genere Fannius in annalibus suis hunc Æmiliaoum fuisse et cum Græco verbo appellat eYpojya, sed uti ferunt, qui  melius hæc norunt, Socratem  opinor in hac tlpoveia dissimulautiaque longe lepore et humanitate omnibus præstitisse.  Adde Cic. de off, I. c. SO : de Græcis autem dulcem et facetum festivique sermonis atque io omni  oratione simulatorem, quem rfpoora Græci nominaverunt, Socratem accepimus, v   ta £vt of dyaXpata.  Respicit Alcibiades ad Silenos in  artificum officinis sedentes, quos  idem dixit 215. B. 8tj (aSe  8totx$ivraS ostendere ayaXpaxa J&ecav. Hinc explicatur facillime, qui fiat, ut cum drtovSctuai verbo avoix$yvai verbum coniungatur. Sileni eaim  cum aperiuntur, fraus detecta est  Silenique nihil nisi capsulæ esse  reperiuntur rerum divinarum.  Recte Ruhnkenitis ad. Timæi L.  V. Pl. ayaXpa proprie dici monet quodeunque grata sui  specie oculos delectet.  Recte igitur Stallbanmins annotat : ra ivtoS ay aXfiat a  intelligi species illas virtutis in animo Socratis  conspicuas. Præter alios,  qui Platonis locum imitati siut,  scriptores, idem Ciceronem laudat Legg. I. 22. Qui se ipse  norit, aliquid se sentiet  habere divinum mgenium  xiov elvai Iv Pqcc%bl o n xelsvoi EaxgdtrjS- yyov[itvos  de avrov ionovSaxivai iit l r y Ifiy aga Sgficuov yyyadfnjv tlvai xtu £vTv%Tffia Ifiov &avfiaUTov, cjg vxdg%ov [tot %ttQiaa[iiv<j Etoxgdrct nave’ ccxovGai, oGan cg ovrog fjdct. itpgovovv yccg drj ini ty i aga &av(idoiov ocJoi/. zavxa ovv diavoy&als, ngo tov ovx    que i n N s e sunm sicut simulacrum aliquod dedicatum putabit.   nai jioi ido£ev. In aliquot  codicibus pro pol legitur Ipoi,  quod Bekkerus in ordinem verborum recepit* Iniuria, ut videtur. Ey g> pronomen in præcedeutibus verbis necessaria de  caussa positum esse, videlicet ut  aliis, qui forte dyaXpaxat io  Socrate latentia spectaverint, Alcibiades se opponeret, extra dubitationem positum est. Sed ideo  non necessarium est, ut et in  sequentibus verbis pari gravitate pronomen exornetur. Plane alio  verbo accentus orationis ponendus est, quem si tenaciter in  pronomine posueris atque ipoi  scripseris, vide, ne sensus efficiatur ab huius loci natura alienissimus. Diceret enim Alcibiades holi ipoi i6o&£Y non alio sensu, ac si opinaretur, esse posse  illorum dyaXpdxoov spectatores,  quibus ea non divina, aurea, pulcherrima et summa admiratione  digna videantur.   <2sta itoirjr kov  o tt  xaXevoi 2ajxpdtrjS h. e.,  ut illico Socrati me emancipatum censerem, neque  quid ego, sed quid ille vellet, faciendum putarem. Pro xehevot vulgo xetevst legitur. Illud ex optimis  codicibus recentiorum editorum  consensa receptam est.  Zppaior fiyrjtfd prjv elV au De Zppdtov vocis significatu vide annotat. 88. Ceterum Schol. Bodl., quem Kukkertus laudat, hæc habet : ippaiov ru dnposdowfxor nipdoS  ano xcov ir xalS oSoi X anapX&r t aS ol odoinopot xare65lov6i t 7ta\ yap iv xaiS odols  ZSoS ijv ISpvoSai tov * Eppijv,  itap o xa\ ivodioS \iyexai.  Quod sequentia attinet noti evrv Xrjpct ipov SavpadTov, ud hæc  verba Riickertas, Duplicem, inquit, video pronominis explicandi rationem y vel ut in ipov  vim inesse dicas, quod Alcibiades sibi hoc, non aliis contigisse  gaudeat j Socratis ut amorem excitaret: eximiam meam fortunam; vel ut pronomen possessivum pro dativo usurpatum interpreteris: eximia mihi hoc  fortuna contigisse . Quarum utram præferam, nescio.  Neutra nobis placet. EvTV£ipACt  ipov eodem modo dictum est,  quo nos dicere solemus: meiu  gutes Gluck.   v   itppov ovr yap St/. Pro  Sij vulgo r/drj legebatur. Illud  fiekkero debetur, qui id ex optimis codicibus restituit. De ironica 6rj particulæ potestate vide  Indices sub v. 6i/. Rem quod  attinet, iuprimis conferendus est  locus Piat. Alcib. 1, 104. A.  xa yap vndpxovxd tSoi peyaAxt  23 * EiaQcog ccvtv axol.ovftov fiovog fisz’ avtov ylyvEG&ai,  tote dzozk^zav tov axbkovftov fibvog (SwEytyvof tyv.   B Ssi yap zgog vpag zuma r afai&ij eItcelv. alia ZQoge%ete tov vovv' neti tl ipEvSofiai, ZwxQccTEg, l£tisy%sCWEyLyvo^rjv yap, avdgtg, pbvog povco, xal (pjirjV  avTLxet diakli;E<f&at, avtov poi, cczeq dv Igatityg zaiducolg iv igrjpla diaXz%%Elri, xcd tyaiQOV. tovtov 6’  oi3 pdl.cc lylyvETo ovdiv, alti uszeq zlvjftzi, Scateri vai, gq$T£ jiijSevoS SettiSaif  ano tov dcopazos dp&apsva xsÆvtgovtci eis xrjv iftvxrfy ' olei  ydp 8 i/ elvat npootov per xaXkitixoS te xal pkyi6xoi* xal  xovxo fic v 8 ?} navxl drjXov  iSalv, uxi ov ipevSy.   07 *x eImSgoS dv ev cixoXovSov povos per* awxov y. Hæc verba ne falso interpreteris) Alcibiudemqæ forte  statuas solum Socratem ita convenisse, nt semper tertius adesset: Athenienses ditiores domo  non exibant, quin servam sccum  ducerent, qui, si quid opus esset  in via, id curaret. Hinc factum  est, ut Alcibiades quoque tum ad  alios, tum ad Socratem nunquam solus accederet, sed semper pedisseqnunt una adduceret. ansp.dv  SiaXsxS  Opinabatur Alcibiades, Socratem  talia sibi dicturum esse, qualia  soleat, ubi solus sit cum amasio, umator dicere, atque vehementer gaudebat. Gaudii caussam expressam habes verbis p,  217. A. 6 j? vndpxov poi x<*pitiapkvco 2coxpdz£i it dive axov dat, udanep ovxoS y8et. Solebant enim amasii amatoribus gratificaturi obsequii præmia sibi  expetere, neque se dare, nisi,  quicqnid expetiexint, consecuti    t   essent. Cfr. Piat. Menon, 76.  B., ubi hæc leguntur: M. aXX f insi8dv uot <Sv  tovt 9 tinyS, oo 2rixpateS, ipdS 6oi.   2. xdv xaxaxExaXvppkvoS nS  yvotr/, oJ Mevgjv, StaXeyo pkvov 6ov, oti xaXoS ei,  xal ipadxal 6oi hi eldiv .  M. tl 8?};   2. oti ovdlv aXX* rj inirarteiS iv roiS XoyoiS' unsp  noiovdiv ol t pv<p<5vTES, UTE  tvpavvEvuviES, ccdS dv iv  g opa &)6iv. aXX* c SfnEp eIgjSei, 8ia\£X$£ } iS [av] poi  ctmc ov. Annotat Stallbaumins ad h. 1. :  Pertinet, inquit, dv particula ad  universam sententiam ideoque  connectenda est cora verbo principe enuntiati coxeto, ita ut indicet actionem sæpius repetitam:  solebat identidem discedere, de quo loquendi genere  optime disseruit Rostius Gramm. Itaque non  est quod cum Astio corrigamus  arra poi, aut cum  uno cod. Yiudob. dv deleamus. Perscripsi integram viri doctissimi annotationem studioseque legendam Symposii lectoribus commendo. Nobis quid do sr.  jrfolg [ av ] fwi 6vvt]{iiQtv<Sag (yycro (\xiav. (itra  ruvra GvyyvfivafcGdcu trgovxaj.ov/ujv avzov xai G wt- c  yi>y,va£6[t>]v, Sg x t ivrav&a mouvcov. Gvvcyv(ivatcro  ovv (io i xai XQogimi/.aic itoXlaxis ovSsvog nuQovzog.  xca tl Su kiyuv ; ovSev yccQ /tot itltov ijv. InuSi/ dh  ovSccfiij ravTij tjvvtov, ido^i /tot tzi&txiov eivctt rei  ctr6pt xaza ro xagzeQov xca ovx avtttov, lnu6i)xtQ  iy/.iyiiQr[xr}, akka iaziov IjSt], ti ian ro 7CQayua. tcqo o hoc loco videatur, si quæris,  hoc est: Contra Alcibiadis voluntatem contendimus esse istud :  solebat identidem discedere, quem haud verisimile est,  cum, quod speraret, sæpius non  evenisset, quoties cura Socrate  congrederetur, toties exspectasse  avtixa SiaXeZedSai avrov x.  t. A. Etenim quem sæpius spes frustrata est, is sensim sensimque ei diffidere solet atque lætissimam, quam antea habuit,  exspectationem ex animo removere. Igitur si sæpius rem illam factam accipias, vereor, ut  etiam xai ixaipov verba satis  bene habeant. Verborum ordinem quod attinet, dv particulam  eo loco positum habes, quo minime exspectaveris, Iam cum necessarium non sit, ut res ab Alcibiade narrata sæpius facta esse  cogitetur, eius autem repetitio cum singulis ALCEBIADE verbis no  conveniat quidem satis, nihil veriti codicum auctoritatem, quos  in falsissimis interdum consentire vidimus, av particulam uncinis includendam curavimus.   tivyyvfivacledS at itpo vHaXov pijv avrov . Vide  quæ annotavimus ad verba xai  7 } ye <ptXo 6 o q> ia ed.p. 101’.  Rem quod attinet, semel fastam esse contendimus. Nam quod  paullo infra legitnr TtpoZfitu.A ais ito7(\axiS ovdevoS napovroS, ita intelligendum est, ut,  dum GYMNASTICA cxerceicnt Socrates atque Alcibiades, sæpius  non aff uisse docearis, qui una se  exercerent aut luctantes spectarent.   xai ti deiXiyBiv, IJac  formula dicendi uti solent, qui  sunt animo commotiore, remque  sibi injucundissimam quam fieri  potest paucissimis verbis enarrare cupiunt. Accentus autem  orationis in Xkysiv verbo ponendus est, quod prægnanti significatu positum idem fere denotat atque doXtxov xataxtl VBiv tdv A oyov. Quæ sequuntur verba ovdlv yap poi : nXiov  rjy, recte Stallbaumius interpretatur: nihil enim pro ficicbam.   xa\ ovx iit e tSijit e p  lyx£X&ipVxy. Hæc prorsus  conveniunt cum verbis supra lectis 216 0 aAXa iym 6yXadcJ, izeinep i/pbdptjr, ad quæ  verba vide auuotut. S50.   aXXd idt iov IjSrj ti idti  to itpayya. Solent haud raro  Græci scriptores commemorato  eo, quod faciendum sit, additoque, quod non faciendum sit,    358    nAATSINOS    xcriLovfiai Stj ccvtov ftQog zo GvvSukvhv, dzc^yag togitCQ ipadzrjg itaidixoig ImflovtevQV. xat fioi ovSe  D zovzo za%v vnfjxovGtv, ofiag S ’ ovv %Qova indaftrj.  ixudrj da atplxtzo to xquzov, Semv/jGag andvai  Ifiavltzo. xal tote fiav ai6xvv6iuvog dcprjxa avzov.  av&ig da ijctflovAtvGctg, httiSt] idcdiixvyxu, SisXsyofitjv 7 to(i$o) ztZv vvxzav, xcii IzEiStj tfiovhEzo ajrta  quasi, quid faciendum sit, non  commemoraverint, id verbis paullisper immutatis atque aXXa particula adhibita oppositionis augendæ gratia repetere. Idem  igitur significant verba £8o£ii pot  iniSexkoy elvai rw avdpl xat a  to xapzepoy et IdxkoY i)8tj t L  idn to itpaypa, Exemplum est  huius structuræ 210. O. pexa  Sk toL imrrfdsvpocxa hei xaS  iiet6xt}paS ayayeiv, %ya i6y  ctv imdTrjpcjy xaXXoS xai  fiXkncov itpos txoXv i/Stj  to xaXdv pijxkrt to nap M Qtyanory  d A A.* liti to  txoXtj itkXayoS xexpappkvoS x. T, X . Wyttenbachius  Bibi. Crit. V. I. I.  scribendum coniccit aXX Itiov  hti to itpaypa, quafc scriptura eo nomine nobis improbatur, quod cuiu præcedentibus  verbis, quibuscum convenire debet, poi iitiSerkoy eirat   rcJ dvdpl xaxa rd xaprepov,  multo minus, quam aXXa IdxkoY  t/St}, tI idn to itpdypa f consociutur. Idtkoy verbum quod attinet, ub Idtiv derivatum esseceoseut iulcrpretes, ut seusus sit;  videndum est, explorandum est. Vide Butttnuiini  Grarnm. ampl. Nobis «b tidkycn semper derivandum cs»e videtur, neque tamen  sciendum e * t recte converti.    sed faciendum est, nt sciam.  Vide annotat, 207«, 169. al.   vSitep ipadxijS  7 t aid txojs kitiPovXevcov.  cfr. 213. C. xal xov 2coxpaTTjj do 'Aya^cov, cpavai, opa,  et pot InapwiiS' ce? ipdl o  TOVT0V ipcoS xov av^pooitov  ov (pavXoy Ttpaypct ykyover x.   T. X. t quæ verba nostris expiicautur. Xpoyco, quod sequitur est: multo tempore præterlapso.   rd TTpdoxov, dsinvifdaS.  Olim posita ante T o TtpdxTOY distinctione hæc verba cum sequentibus iungebantur . Quod ita  recte fieret, si semel venisset  Socrates atque tum initio quidem  abire post coenam voluisset, postea vero a proposito destitisset .  Quum autem tum revera discesserit, fuit utique ita distinguendum, ut Jactum est inde a Bekkero, llitckert.   It 6 (i f> 00 TQOV Y v X T 00 V h. C.  in multum usque noctem*  cfr. Piat. Protag. 310. C. xai  Ixi per iyextlprjda evSvS napd  dh levat, 'intixd poi Xiav nopfacd £8o£e zdoy vvxxuv elvai,  ad quem locum Stallbuumius laudat p, ed. 24.1 Æschinem adv.  Ctcsiph. $. 122. for} 6h 7tO{5()u  rijS r)pkpa$ ovdrjS* Ceterum ne  vcu, <Sxt]m6(iEvos, ou otiis tirj, XQOSTjv&yxaGa avtov  fiiveiv. avtnavtro ovv iv rjj ixo/iivy ijiov xMvy, iv  yitfQ IStinvu, xai ovSslg iv ta olxrjfiau tiklog xa9tjijSsv rj ijfis ig. ^XQ 1 ovv Sij Ssvqo tov bbyov E   xaXas ccv %ot xai tcgog ovuvovv Xtytiv tb 8 ’ ivttv&ev ovx av nov rjxovGcns Ityovxog, tl (ir/ xqwtov  ( iiv, tb Xsyofievov, otvog avsv ts acudcov xai fisxa    pluralem numerum mireris, vvhteS non noctes sunt, sed horæ  nocturnæ, de quo significatu  vvxxeS yocis vide Stullbaumii  annotat, ad Piat. Phileb. 158.  Quod sequitur xai inEtdi) ifiovXexo dnikvat, eodem modo, ut  præcedens amkvai ifiovkEto non  convertendum est: abire volebat, sed velle se abire  dixit. Vide annotat., * t   dxrjnx optv of, ori  eXrj. Timæus habet L. V. Pl.  ^MjittOfiEvoS. npoq>adi^6pevoS.  Kecte. Etenim qui ipse non habet  in se, quo aliquid probet aut excuset, eum niti oportet in re  extrinsecus petita, h. e, npotpadet rivi iv ty lx» /tcvy l)iOv  xXivjf. De horum verboram SIGNIFICATA supra dictum est annotatione. ct 334. Præter locos illic commemoratos confer etiam R. Kubnerum ad CICERONE, TUSC. DISP., ubi laudantur Pind. Olymp.  I. init. prjd' 'OXvpniaS ayaya (pkpxepov avdddopev ibique  Boeckhii annotat, 104., CICERONE (si veda)  T. D. I. 1. $. 2. : quæ tam excellens in omni genere virtus  In ullis fuit, ut sit cum maioribus nostris comparanda ?  xaXtiS aif A kyetv. Scriptum exspecta  veris primo obtutu naXdjS av  Hx<n ojSte npoS ovuvovv Acxxkov elvai, Kai pro gjSxb posito vario modo verba explicari  possunt. Facillima explicandi ratio videtur ea, qua post xai,  Eivat verbi optativus subintelligitur. Optativum autem sty recte  omitti posse contendimus tura,  quum antecedit, ut hoc loco, alius  verbi optativus modus, ex quo  ille facillime eruitur. Explicatius igitur enarrata verba audinnt: pkxpt pev ovv 8r) Ssvpo  tov Xuyov xaXdtS dv %x ot C°  iX eyov) xai eltj npoS ovxtvovv  Xkyeiv . itp&xov filv, olvoi  avev x £ naid&v xai pexa  ital8a)V r/v «A tj $ r}$. Vetus  proverbium : olvoS xai aXjfSeia,  ad quod hic respicit Alcibiades,  Cfr. Athenæus II. 37. E,  $i\6xopo$ 8k tprjdLV, oxi ol niyovxeS ov pdvov havxovS kpipavlB,ov6tv ol xivkS eldiv, aXXa  xai xgjv dXXoav txadxov dvaxaXvitxovdi, na/ifiqdiav ayovxes. oSev Oivof xai d\?}$eia  Xkyexai . Idem II. 38. B. Anr  tiphanis versus laudat hos:  Kpvtyai, $eidia,  anavxa xaXXd xiS dvvatx* dv,   nX?}v Svoiv   olvov xe nivoav eis ipoora t*   kpitEdQJV. 1   itaiSav jv dXy&js, imita &<pa V l<Sai ZaxQutovs %ov  vKQfoavov el s imuvov U&ovza &6ix6v fiot tpalvezui. apcporspa fiTjvvEi ydp dito tc2v   (3\EUpd.TGDV   7ca\ to5v A oyaov rav$\ g)$te  tovs dpvovpivovS  fia\l($TGL roVTOVS XatCKpaVEiS  avrovs iroieiv . Schoh præter notissimum oivo S  Tioci aXrjSsia, quod dici ait £n\  t<uy iv fteSj/ x t}v ciXt/Seiav Acyovrcov, alterum proverbium laudat : ro £v ry xapSine rov v?jq>ovroS ini ry yXd>66y rov pt&VOYTOS, Illud proverbium nostro loco ita laudatur, ut verba  addita sint dvtv re naldcov xal  pexa Ttotidooy, quod additamentum vera crux fuit interpretum  omnium, Ficinus habet: Vinum  «t cum pueritia et sine pueritia  est veridicum. In conversione Schleiermacheri legitur : Bis hierher nnn kdnnte man die Sacho  noch unbedeiiklich iedermann ersahlen ; das folgeude aber wiir—  det ihr wohl nicht von mir  Jioren, tvcnn nicht zuerst nach  dem Spriichwort der Wein  mit o d e r ohoe Kinder die  Wahrheit redete. Prorsus eodem modo Schulthessius verba  reddidit hoc tantum a Schleiertnacheri discrepans conversione,  quod naidoov nomen Knaben  convertit. Stallbauniius verborum sensura esse ait: vinum  efficit, ut verum dicatur,  sive PUERI epuli s intersint, sive noa intersint;  h. e, virium non pueros tantum, sed alios omnes n d  verum proloquendum s uC1 tnt. Aliter nobis videtur de  limus loci explicatione statueudum'esse. Accurate tenendum  quæ hio narret Alcibiades, ea ita proferri f ut errores exponantur auditoribus, in quos ille  olim inciderit, et quibus præsenti tempore non amplius obnoxius sit; Colligitur hoc cum  ex «diis locis, tum e verbis p,  217. A. yyovpevoS 8'e av rov  £<jnov8axivai fnl ry £py d/pa  Bppaiov ?}yrj6dp?/v elvat x. r.  A. fieri autem solet haud raro,  ut aliquis, quem dirus error olim  vexabat, ubi ab eo 'liberatum se  sentit, ipse in errorem illum quodammodo illudat. Neque pugnat hoc cum æstimatione ea, quam, qui  nunc vivant, significantius quam  rectius, egoismum vocant. Nam  qui erravit, errorem autem agnovit atque correxit, is magna cura  hilaritate animi alium, atque fuerit antea, se nunc esse intelligit. In errorem igitar illudens aliquis, cui olim obnoxius fuit, non  tara in se illudit, quippe ab errore  liberato, quam alteri illi, qni errore  devinctus fuerit atque qaasi obcæcatus. Non mireris igitur,  Alcibiadem ipsum sibi illudentem  induci verbis 217. A. Itppovoyv yap 8 rj ini ry copæ 5avpadtov u6ov y neque mirum, eundem etiam verbis olvoS av ev  re 7t ai 8 cov x al pera itai 8 cjv tjv uXrjSpS gravius in se  invehere. Respicit enim ad errorem illum Alcibiades, quo existimabat, fore, ut servo remisso,  quem secum habere solebat, Socrates opportunitate loci gavisus  ad AMATORUM modum secum colloqueretur. A. ravra  ovv SiavojjSets, xpd rov ovx  eIgjS&S avtv axoXox>$ov pavos  pet avrov yiyvEdSai, tore  unant pnw %av dxoXovSov poht bl to rov 8q%&tvtog vito rov cos sea9og v&\£i  t%u. (patii yaQ itov rcvcc rovzo itu&ovza vix iftiktw    voS Cweyiyv6f.n]v. tivveyiyvoprjv yap, jiovoS juovWfXal  difirpr avxlxa StaAl^euSai avxov ficn aizEp ctv ipatinjt naidixoiS iv iprjpia diaXexSeirj,  nat Hxaipov. Ad hanc igitur  rem respicieus, cumque errorem  tatis lepide taugeus, Nunquam,  inquit, hoc ex mc audituri  essetis (j&v vxovtiart) si  proverbio illo vinum,  quod neque præsentiam  neque absentiam servorum curat, non esset veridicam.   litEixa a<p av l6ui   epalv erat. Cum præcedat eI  pi} Trpwzov pev r\v, scriptum exspectaveris btElxa  aStxov /tot itpaivero. Cavendum est autem, ue quis loquentis scribentisvc uegligentiæ imputet, quod augendi sententiæ  yigoris caussa commissum est, ut  incepta verborum structura relinqueretur. IlpGJTov plv iVrczxcl hoc loco Lat. vim habet: c u m  tum potissimum, istud  potissimum autem mutatione  structuræ efficitur. Ceterum  dtpavidai verbum minus «apte  8ch)eiermacheras reddidit: verbergen, neque rectius Scholthessius: verhehlen. Aliud quid Alcibiades atpavidoti verbo  expressurus erat. Facinus illud  nemini nisi Alcibiadi atque Socrati notum, neque verisimile erat, Socratem quidem cuiqnnm eius narrationem facturum esse. Intolligit igituf Alcibiades, rei memoriam prorsus perituram esse, nisi ipse  eam divulget. Iam dcpavtunn  verbum quid significet, inteliiges. Est enim, quod nos dicimus, etwas der Kenntniss der  Welt giiuzlich s entziehen. Ad  V7CEprj(potvov Uuckcrtus ; vnepij<pctvov, inquit, voci h* 1. grata  quædam ambiguitas est ab eaque persona, quam hic Alcibiades agit, minime aliena. Homo  enim, qui sentiret quidem veritatis vim, quæ ad morum honestatem spectat, at uon agnosceret, ne se cogeretur accusare,  nonne Socratis hoc facinus poterat pro superbissimo habere?  immo debebat, qui tantam suam  pulcritadinem tam foede contemaisset. Ne multis hanc sententiam perstringam, quæ meo quidem iadicio falsissima est, ct  qua prorsus pervertitur scriptoris consilium, verba laudare sufficit 217. A. i<pp6vovy ydp  tir) ini xjj &poL Savjiddwv  odov.   iri 6'e r 6 rov drjxSirXoS x. x. A. Triplex caussa  est, cur Alcibiades cum convivis  impertiendum censet, quibus modis Socrati sit insidiatus. Vini  hausti vim veridicam iu superioribus commemoratam habes atque augendæ Socraticæ laudis  studium. Tertio loco viperæ  morsus commemoratur, quo ct sd  laborasse Alcibiades narrat. Nescimus quidem, quid facere soleant atque loqui, quos Vipera  momordit. Non dubium est autem, quin Alcibiades eos iusuniu  quadam corripi significet, qua  circumacti et agant et loquantur,  quod sanis hominibus non possit  non mirum videri. Et qneniam  ipsum se gravioris viperæ morsu 218 Uyuv olov r\v itXrjv roig SiSr^y^ivoig, wg f. tovois yvaOofitvo Jg ze xal OvyyvatSoutvois, el itixv izoXfia &quv  rs xul Xiyuv vito rijs odvvtje • ly® ovv Stdtjyu,tvos ts  vito ttXyuvoziqov xcii ro aXyuvozczzov wv av ttg  Sij%9sli] z rjv xaqdtav yug r; ipv^tjv tj o zt Sei avzo  vvouaOta xXtjyels zs xal S>ix&tls vad zmv Iv (fiXoColæsuro indicat, vehementiore insania se circumactum describit,  qua fecerit atque locutus sit,  quod paullo infra exposituro habes. Morbo igitur, cui obnoxius  fuerit, facta et dicta excusatum  iri sperat convivis, quippe qui  eosdem illius morbi dolores perpessi sint. Qui si non perpessi  essent, nunquam se commissurum fuisse, ut ipsis illorum narrationem exponeret,   iyoS ovv SeSijy pivoS" x.  r. X. Stallbaumium audi egregie  de horum verborum structura disserentem : Anacoluthia, inquit,   prorsus egregia et rei ipsi accommodato, quippe quæ loquentia impetum animique commotionem, qua de illo dolore loquitur, plane exprimat et veluti  imagine aliqua repræsentet. vxo dXyetvor ipov xal  ro dXystror arov, Suspecta  nobis est xai vocula, quæ quamquam explicari potest, tamen, quod  vehemeutissimæ orationis impetum paullo impeditiorem reddit,  huic loco minus convenire iudicamus. Amant autem veteres  commotius loquendi genus edituri  copula addita nulla verba iuxta  ponere, qualia sunt vno aXyeivozepov ro dXyeivozazoY. Interposuit, si quid video, >caL, qui  desiderabat, quorsum præcedens  re referret. Dicturus autem Alcibiades erat: iya o&v 6e6rfy  pevos re xal nenXtiyplroS vno  dXyeivozepov ro dXyeiYOtazov  X. r. X.j sed mutata inter loquendum voluntate xal nenXijypevoS vetba reticuit, atque iis  sequentibus exhibuit nXrjyeis re  xal An fortasse rectio rem verborum juncturam censes  esse : iyco ovv bedrjypevoS re   xal  nXi/yeis re xal 8rjx$ets ?  Non crfdo equidem, ideoque, ut  quid rectius esset, interpunctione  rectiore legeutium oculis indicatum sit, post ovopadai comma  ponendum curavimus, xi] y xapdiav y a p ovo patiat. Sensus est: Die  Worte des Socrates erregen einen unerklarbaren, heftigen  Schmcrz : man weiss nicht, ob  mati korperlich oder geistig oder  wie sonst leidet: gewiss ist nur  das Geftihl der Verletzung und  der Zerrissenheit,   o*l ^ovrat x. r. X.*Exovrat verbum ne careret casu suo,  Rostius V. D. comma delendum  censuit post dyptcozepov, idque  post aqwovS ponendum curavit.  Quo facto vide, ne orav XdfiooYtat verba' admodum frigeant.  Neque necessarium esse contendimus, ut Ex £( 5$ at verbum, ubi  firmiter inhærere SIGNIFICAT, rem, cui inhærere aliquid  dicitur, semper adiunctam habeat. Græci eodem modo atque nos : Welcheschreck(pia Uyav, o'l fyovm i%i8vt]s aygiditEgov, vlov Iwyjs  (ii] acpvov s oxav Adfiavtcu, xal itoioiiai i)gdv te xal  Hyuv ortovv  xal ogcSv av QcdSgovs, ’Jya9covas,  ’EQv£iud%ovg, JlavGavlas, 'jQiazodrjuov? te xal ’Aqi- u  crocpuvag' EaxQar rj fil avrov r t SeI xal Xiyuv, xal  oooi aAAoi ; xavces yag XEXOWavqxcnS xrjg qwloOocpov lichcr ais Nattern haften,  w e d n sie einmal orst an  einem iugendlichen Herz e n Anhalt gefunden habe n .   xaVApidxoqxxv aS. Vulgo  'ApidxotpdvEtS legitur. Illud cod.  Bodl. habet, idque cum Grammatici præcepto convenit in Bekheri Anecdot. III. 1131^1  81 xal xovxo yirudxEiy, Zti ol  \ Axxixol iiti xd)V Eis 7/?, eis  ovs i*oVr cor x ?}v yEvixrjy,  xal iic\ xqdv xcqjct x 6 E$oS  8ia x ov a icoiovdi tfjr alxiaTixrjv xooy nXrj^vyxixcoy, olor  6 Ar\yLOd^brt\S, x ov drjpod^ivovS, xovS drjpiodSiyaS, o  ’Aptdxo<pdvrfS, xov *Apidxotpa yot;?, xovS *Aptdxo<pdvaS .Nomina propria prorsus eodem  modo plurali numero poni censet Engelhardtus ad Piat. Menes',  ed. 204., quo nostrates haud  raro de singulis viris loquentes  plurali numero utantur. Hoc  recto quidem annotatum, sed  inde nou iuteliigitur, qui factum sit, ut et Græci et nostrates singulorum hominum nomina plurali numero exhibeant.  Neque tamen diu quærenda est  huius dicendi usus caussa. Brevitatis enim studio ut Græci, ita  nos pro: indem ich Manuar sehe, wie Agathon, Eryximachu» cet.  dicimus omisso verbo, quod plurali numero positum est, atque ipso illo uumero ad nomina propria translato : indem Ich Agathone, cet., sehe,   Scoxpdxrj 8% avtovXiysiY. Ne mireris, cur Socratem hic commemoret Alcibiades, nbi non nisi eorum mentio  erat facienda, qui eodem modo  atque Alcibiades Socratici sermonis aculeis læsi sunt : Alcibiades hoc agit, ut ostendat, se  nou nisi cum iis mala, quæ perpessus sit, impertire, qui ipsi  iis obnoxii fuerint. Iam cum recenseret omnes, quos sibi socios  putaret morbi illius, Socratem  forte conspiciens, quid istunc,  inquit, commemorem, morbi auctorem? Ceterum versus laudare  iuvat petitos ex epigrammate Meleagri, quibus Diopysii alicuius  amator non nisi eos alloquitur,  qui ipsi amoris flammam senserint ; Meleagr. Epigr,   "WvXpOTtOtai 6vSEpCOXES, vdoi   <p\oya x r/y cpik6%ai8a  of3are, xov mxpov yevda. flEVOl flijLlXOS,   Ipvxpoy vdcop yiipaif ifryxpoy,  xaxoS t ctpxi xccxEidrjS  lx zioroS xy ‘MV æpl  xpaSiy. Quibas auditis omnes, qui non  auiant, hominis insaniam ridebunt videlicet frigidam sibi circa  præcordia circumfundi iubentia.   tijS <pi\o6oipov pavias  XE xal ftaxxdaS. Hæc verba  fiavlag te mu (iety.ydag' Sio ftdvtES uxov6e<S9e. avyyvioOEO&E yaQ Toig rs tote tcqc<x9eIoi xat roig vvv  Xeyo[tivoig. ot da olxircu, xcil il' r tg «AAos toti /ti-fiqP.og te ) icti dyQoixog, avlag nuvv fisyteXag roig wtfiv  fatl&tif&t. 'EheiSi] yaQ ovv, io kvSqeq, o ts kvyv og  C xei, xal oi nalSsg a|(u rfiav, ?do|s' ftoi XQtjvai fit/div  xomU.Eiv noog avzov, akV tAao^aowg eixeiv d f wi    præcedentibus explicantur.   A. nXrfyeis re xal fo/jfSeis' vito  rav iv <pi\o6o(pioL Xoycov,   ol SI ohikx cli x. r. A. Cum  in superioribos dixisset Alcibiades. E, vinum veridicum  esse sive servi narrationi intersint, sive non intersint, nunc  rursum servos iubet aures occludere, ut ne verbuqi quidem audiant, Num forte sibi contradicere censes hominem ebrium ?  Non credo, # quamquam contradictionem verbis inesse non negamus. Notum euitn fuit Alcibiadi quoque, quod Ovidius ait:  Nitimur in vetitum semper cupimusque negata,  atque ut magis pateat, vinum  etiam servis præsentibus veridicum esse, servos, quos tibi finge  arrectis auribus adstitisse cupidissimos audiendi, ne audire velint iubendo, ad audiendnm alacriores reddit atque paratiores.  IIoc efficitur etiam eo, quod ad  versum Orphicum Alcibiades respexit : cpSeyZopai ols SifiiS   fori • S vpotS S* iitiSetiSt (tiftrjAoi, qua re animadversa quantam omvuiuin ctuses luis .e exspectationem futuræ narrationis ?   yijSlv TtOtxiXXElY itpoS  avtov. Vide annotat,  tibi de icoixiXoS nominis significatu dictum est. Possis itotxiXA elv li. 1, explicare : non obscure, quod Stallbaumio probator, sed ambigue loqui,  quaudoquidem varii coloris oratio ita comparata est, ut quem  colorem habeat, nescias, et quouiam huiusmodi oratio comploret colores, qui cum significationibus comparantur, repræsentat, complures significationes habere h. e. ambiguam esse recte  dixeris. Facile autem iotelligi  potest, qui colorem cum Significatione orationis veteres comparaverint. Ad consuetudinem  enim respexerunt AMANTIUM, qui  floribus arte consertis sibique invicem missis exprimere solebant,'  quod claris verbis indicar metus prohibuit aut pudor. Non  obscure anlem floribus missis,  sed ambigue, quid vellent, exprimebant, vel nihil omnino, ut  videtur, exprimebant, sed e modo atque ratione, qua, cui miserunt, is flores exciperet, missos 'm    idoxn. xal UTtcrv xivyGag avzov. UtixQaz tg, xcc% tvdn$ ;  Ov drjza, ?; d’ osOlo&cc ovv a (101 6 tSoKica ;  Ti (laluSza ; i'ipy. £v ijiol doxus, >}v d’  iyto, ifiov igaOrris a^tog ytyovivai (lovog, . xal (ioi  (palvu oxvstv /avt;(>&t]vtu xqos fic. lyd> 81 ovxaoi i/to'  mxvv dvoryzov yyov(iai tlval 601 fiij ou xal zovzo  XaglfcO&ai xal tl' xi alio fj xtjg ovGiag xrjs tuijs dtoto  y xav (pllav xav Ifiav. ifiol (ilv yccg ovdtv lou, xge- D  GjivxeQov xov a>s oxi fiilx usxov ifis yivLo&ai, zovxov  8 ’ olfiul (io 1 OvllrjitzoQa 0 vSivu xvquozcqov ilvui Gov.  iya 8y xolqvuo avdgl itolv (idllov dv (iy %uql£6[ie  qæ interpretaretur, voluntatem  eius explorare solebant»   xal einov xivf/das avxov. De xiveiv verbi sicnificata vide annotat, 29., ubi  etiam hic locus laudatus est.   xi paXidx a ; Itpr/. Ma Xtdxa interrogationi additum efficit, ut is, qui interroget, curiositatem prodat sciendi,  quid sit id, quod modo audiverit, aut quo sensu dicatur, cfr.  riat, Menon. D. 2. 7tcf  vovpyoS e 1, cS Mlvcjv t xal 6X iyov iZTjTtdxrjtiaS pe. M. xi  pdXidxa, c3 2ooxpaxt5 ;   xai poi tpaivei oxvelv  pvT/dSijv ai icpds pe. cfr*  Alcibiad. I. init. 2. nai KXei viovy olpaL <Se SavpaZeiv, oxi  7rp(Zxo's ipadx?js dov yevope~  voG y xcjy aAAcov nexccvplvcDVy  povoS ovx ctnaXXdxxopai, xal  oxi ol plv dXXot 8t o^Aot» iyevovxo 6ot SiaXeyopevoi, iyaa  xodovuov ixcov ov8l irpoZ~  einov.   iy co 81 ovxcodl  7t:dvv avo?/ xov . Præclare  Stallbaumius ad h. I. : Quæ inserviunt, inquit, explicandis verbis ovxcodl &X 60 j ea de more  advvSixcoS adduntur. Quam loquendi rationem, quum nou tenerent grammatici, pro  scripserunt, quod in vett.   editt. migravit.   6v8iv Idxt xpedfl vxep ov . Mihi nihil antiquius est, proprie : nihil,  cui malim primi loci honorem concedere, quam huic.  Vide annotat, 128.   xovxov 8’ olpal pot  dvXXi/itxopa x. x. X. Sensus  est : neminem esse rcor,  qui mihi integræ huius  reiadiutor te sit potior.  In oinuibus fere codicibus pov  legitur pro poi, quod Stallbaumio unice probatur propter structuram dvXXtxpfiavEiv verbi*  Coniongitur enitn plerumque cum  genitivo rei atque cum dativo personæ. Hiickertus dativum  pronomidis cum elvai verbo cohærere censet. Dativus pronominis commodi potius, quem vocant, dativas est, atque recte ad  totum verborum complexum refertur. Apposite Stallbaumius  vog al6yvvotfirjv tovg (pgovipovg, rj %agi^6pBvog tovg  tb itoXXovg xal acpgovag. Kal ovtog axovdag pdXcc  tlgovtxmg xal Gcpodga lama slco&otag IXb^bv * f Sl  {pile ’AXxifhadr] 9 xivdvvivug ta ovrt ov (pavXog dvai 9  E bixeq abj&ij tvy%avsc qvxcl a A iysig xegi epov, xal  t ig i(tv* iv ipol dvvaptg, <5V qg dv dv ytvoio dfislvav,  dfirjxccvov tb xaXXog ogarjg dv Iv Ipo i xal vijg xaga  dol BvpLOQ(plctg itapnoXv dcafpegov. il dfj xa&ogriiv avto  xoivaGadftai %b poi im%eigeig xal aXXd£aGftai xaXXog  dvxl xiXXovg y ovx oXiycp pov xXbovbxvbiv diavoeZ, iXX    laadat Xenoph. Memor. II. 2. 12*  ira ctyaSov doi yiyvrjxca  dvAXt/nz&p* i   dprjxavov te xdWoC op gStjS a y . Locus admodum  salebrosus, quem sine novorum  codicum accessione nunquam ita  restitutum iri puto, ut, quid Plato  scripserit, legere tibi videare. Ia  Bodleiano cod. aliisque perpaucis  pro re legitur roi, Aid. Bas. alii  non pauci rl exhibent, quod Bekkerus recepit colo post a/uivGov  posito. Aliam rationem Schleiermacherus iniit, qui dpijxavdv  te cet. verba cum præcedentibus 8i’ rjS dv dv ykvoio ajxeivgdv connectenda censet hoc sensu:  wenn das wahr ist, was  da von mir sagst, und es eine  Eigenschaft in mir giebt, durch  welche da besser werdea konntest, und dann eine gar aonderbare Schonheit an mir erblicktest, die deine Wohlgestalt um  gar vieles ubertrifft. Stallbaumius veterem lectionem, h. e. zl 9  retinendam ceoset eamque distinctionem singularum orationis partium edidit, ut verba dpTjxavov  te cet. e prægresso ehtep aptentur. Sententiam verborum hanc esse ait: videris profecto  non contemnendas esse,  si quidem vera sunt, quæ  dicis de me, hoc est, si in  me vis quædam inest,  quæ te reddat meliorem  atque cernere in me potes et conspicere immensam p ul cr i C ud i ne m tuaque formositate multo  præstantiorem. Recta Stalibauraium via incedere mihi quidem persuasissimum est, sed est  tamen, quod me male habeat;  av particula cum ei potest quidem coniungi, uti docueruut,  quos /itallbaumius laudat, Schæferus Melett. Critt., Apparat. ad Demosth.,  Schneiderus in Addoud. ad Xenoph. Politic. 472., Heindorfius ad Protag. 535., Hermannus ad Vig. 830., sed admodum dubitari potest, num ea hoc  loco Plato usus sit, ubi verba  præcedunt 6i' tfS dv dv yivoio apeivov. Quis enim non  videt, av particulam, quæ in his  verbis comparet, facillime ad nostra verba transferri potuisse ?   avtl 6 6 $tjS aXr}$ eiav  HtzXcovh. e., Stallbaumius inavr\ tioJ-rjg aAqfteiccv xuAcov xx aoftai iiti%siQBig, xal 210  tg) ovrt %qv 6sa xaAxetav dia{ts[ps6ftca voslg. &AA’, cS   fiaXCiQLE, ttflBLVOV tiXOTCEL, (ITJ 6 £ AavftaVG) Ov 6 iv G)V.   ij rot rrjg diavoiag oipig aq%ttai o£i fiAixsiv, oxav tj  tixiv dppaziQV tijg dx^iijg Aqyuv liuxsLQy* <5v di xovrav Hxi Jto$QCO. Kayco axo v<Sag> Tct fiiv tcccq* Ipov,  i(prjv, tttvz 9 Itixlv, ©i; ot5(5«> aAAag Bifnjxai tj cog diavoovfuxi ' 6v di avxog ovxgj (IovÆvov, o n OoL xs  &qi(5xov xal ifiol rjyBt. *Ak A f y £cprj y xovxo ys sv AiyEig.   Iv yCCQ TG) IsUOVU ZQOVCp POVÆVOIIEVOL TCQa^OyLBV o Sv    qnit, arx\ xaAdav, a 8oxd xa *  A a elvai, xxadSai imxeipels xa A*r, a l6xiv aJs aArfScoS. In  proximis alludit ad Ilom. II, «?.  t. .   m Ev$r* avte FXavxcj KpoviSjjS  (ppira* i&iÆxo ZevS  ds npoS Tvdeidtfv 4i o/u/Sea  xevx** upsifie   Xpvdea x a Axei&v 9 hxaxopfiot  ivveapoicov.   r\xot x ijs dtavoiaS oif>iS  X» X. A. Errant interpretes, qni  potant, verbum reperiri vernaculum, quod xoi vocabulo respondeat. Neque probem, quæ  Stailbanmii sententia est, ailirmandi vim et significationem habere xoi vocabulum in sententiis  communibus. Significat potius,  sententiam, cni additum sit, communem esse, eamque ideo et alias et  nunc valere. Rectissime Schleiermacherus spretis vocabulis, quæ  xoi particulæ respondere arbitrati sunt interpretes, j a, j a  doch, aliis, verba reddidit: Das  Auge des Geistes f ii n g t  erst an scharf zu sehen,  wenn das leibliche von  seiner Schiirfe schon v e rlieren willj minus apte, quæ sequuntur, hoc modo annectit:  und davon tiist du noch welt entfernt. Fines enim sententiæ  communis hoc additamento sublatos habes atqne omnem seutentiam cum reliqua oratione male  commixtam. Recte in contexte  oratione colo præmisso scribitur  6v 81 xovxaov hi xoffyao. Restat, ut verbo commemorem Rtikkerti opinionem censentis, xoi  h. 1, argumentationi inservire,  cuius loco etiam ydp particulam  poni licuerit. Qua ratione Rtikjcertns vehementer errat, si Promethei verba in Æsch. Prom*  Vinct. r. 700. explicanda censet,  A iy\ ixdidadxs' xois vodovdl  xoi yAvxv (   ro' Aotuov akyoS npovZeni(SradSat xopcoS.  cZ>v ovdlv a AA«? efpqxa ix. X . A. C. :UdoiU yoi xpijvat itoi xiAÆir xpos avxov, aAA' iÆvSipcoS eindv a poi idonei. Sensus est: Dixi, quæ dixi,   neque quicquam eorum  aliter, atque sentio, edictum est.   6v 8 i avxoS ovtoo ftov Ævov. Verba convertit Fici-*  B tpalvrjxai vav xcsqL ts xovtcov xal xeqi xdv aU.uv  uqlGzov. ’Eya (ilv 8t] xavtcc axovOas re x«l tlmav,  y.al dtpilg Sgnsg ficXt] xizgaG&at avxov Ojirjv. xal  dvciGxdg ye, ovdh Ixizgtipas rovtio tintiv ovdtv Ixi,  K[icpd<Sas xo iy.dxLOV xo ipavxov xovxo  xal yug ijv    nus : tu autem ita dei i b era, ut et tibi et mihi m elius fore censes. AvxoS  vocabulum reddere omisit, iu qua  positus est acceutns orationis.  Alcibiades enim cum dixisset,  quid sibi videretur, ne ulterius  progrederetur atque nimiæ audaciæ crimeu fugiens : tu autem,  inquit, quasi meam sententiam non aperuissem, ad  meam voluntatem prorsus non respiciens, ipse  te cum delibera.   axov6aS re xal e Iit id v.  Exspectaveris fortasse inversum  ordinem participiorum, quem revera in conversione exhibuit  Schleiermacherus ; Nach dieser  E ede und Antwort. Felicius rem  expediit Schulthessius; Das war  die Antwort auf meiue Ucde.   xal atpels &S7tep fiiXy,   ' Inteilige x ovS Xoyovf. Solent  enim ^ verba Stallbaumii sunt,  quæ vel acute vel acerbe in aliquem dicuntur, cum telis comparari. Similiter Latini dicunt  verba iacnlari, vibrare,  torquere.  cfr. Piat. Protag. 34-2. E. ei ydp iScXei  xiS Aaxedaipovi&v tc.l cpavXorccTcp tivyyevEtiSai, x d y\v no\Arr iv xols XoyoiS evprjdEi avrov (paivvptvov, terra:, oitov  av rvxv tdSr A eyojiircoV, kvkfiaXe pijfia dt,iov Xoyov fipaxu  xal dvvedxpappkvo v ooSizep 8eivoS axortusi/js ; Similis Græcorum LATINORVMque dicendi usui formula est, qua nostrates ntnntur de bullis paparum: deuBannstrahl schleudern. Ceterum pauciorum codicum lectio est pkXij,  vulgo fitXet legitur, quod emendandum esse Abreschius Lect.  Aristæn. 207. primus vidit.   d p <pti 6 aS rd Ipdxiov  xo i p avxov xovxo. Librorum plurimorum lectio est X ovxov j vulgo xovxo, quod et Ficiuus habet iu conversione: surgensque ue verbum quidetn ulterius loqui permisi: et hunc amictum, quem videtis,  circumdans (erat enim liiems )  snb strato huius pallio veteri recubui. Vulgatam lectiouem reieccrunt editores, quod non verisimile esset, Alcibiadem eodem  pallio usum esse, quod aliquot  annis ante gestasset. Sed vide,  ue præpostera hæc sit xovxo  vocabuli interpretatio. De eodem quidem pallio verba accipienda sunt Piat. Protag. 335.  D. xal Itpa xavxa elncov avi6xdpt)v cd? dniGQY. xal poo  dvioxapivov iTuXapfitxvixai 6  KaXXiaS xi}S x&ipoS xy 6et,nx t  xy 6’ dpidztpa dvzeXd/jtzo zuv  zplficovoS zovzovl, xal thcev w  verba nostri loci non item. Tovio  enim nihil aliud significare videtur, qunm Alcibiadem tum trnipoiris simili pallio indutum luisse, atque quo nunc utatur.  Quiil igitur proh.bet, quominus  yU/lUV VICO TOV TQtfiaVK XOUCjtklViig TOV TOVTOvt,  TCiQijicdiov rta %£iQ£ tovup tu dcafiovico wg txb/9ag  xai &av(ia<STtp, xartxdfuiv tijv vv/.vce okt/v. sml ov&s C  ravta w Zoixgareg, Igdg ori lpivSofiai. 7 iou)okvrog de brj Tuvtce i/iov ovrog toGovtov TCtgityLvtTo^   censeamus, pallio suo, quali  hibertio tempore uti consuesceret, iudutum Alcibiadem Socraticum tegumentum subiisse? Tovtov autem lectionem ideo improbamus, quod dubitari nequit,  quin alius verbi participio usurus fuisset Alcibiades, si exprimere voluisset, se Socrati in  lectulo iacenti pallium superimposuisse, Sin forte statuas, Alcibiadem eodem pallio, quo ipse  esset indutus, etiam Socratem  involvisse, repugnantem ordinem  verborum habebis, quatenus quidem scriptum esse deberet: vito  tov Tpiftoova xaraxXivels tov  rovrovt, a/uputia? r o ipatiov  ro ipavzov tovzov x. r. A.   vito tov Tpifiaova. Schol.  ad h. 1. Tplficjv, inquit, idrl  (StoXij TiS foveto Grpitla cj$  ypajiijiuzior Tpificovtov 81 l/tdtiov itaXatov xai zezpip/iivov.  Hoc scholion iam Fischerus impugnavit annotat, ad h. 1. rectissime, Non est autem dubium,  quin recta sit Stallbaumiana rpifSoov vocabuli interpretatio: pallium longo usu detritum,  quale solebant gestare  philosophi. Hinc iocum expeudus Aristophanicum in Nubb.  v. 175. ed. Reisig. atque risum  auditorum, qui cum audissent,  Socratem nocturno tempore lunæ  vias atque cursum ore hiante spectantem a stellione maculatum esse,  iiuuc etiytra pallio illo detrito privatum docerentur, quod ille inter docendam deposuerat. Versus Aristopliauici adhuc non satis emendati, ut videtur, ab interpretibus hoc modo scribendi  snnt :   M. ix$eS 6£ y* tjph> 8a7itvov  ovx tjv hCntpaZ .   2. elev • zl qvv npos xa\<piz   inaXapydaTO ;   M. xaxd xijs rpait&tyS xaranadaS Xenxijv t ecppctv  xdutftaS ofteXidxov, eira  diafitfirjv XafSoovZx tiS itaXaidrpas Solpatiov vipdXezo. Quoniam autem sentit Strepsiades, a discipulo aliquo pallium  ablatum esse, pa^TjTUVy inquit,  h. e. discipulus esse cupio Socraticus, ut eodem modo aliquid  furari discam,   xa\ o v 8 £ T a.v x a, do 2 coxpctx£& Bekkerus post zavza  posuit au, quam voculam vulgo  edi solitam Stallbaumius ex plurimorum codicum ' auctoritate tacite expunxit. Eam reposuit in  texta Ruckertus. Iuiuria. Nam  si scriptum exstaret : xai ovx  ipels av, gJ 2boxpaxa $, ozi  zavza ifievSopat, illa particula  vix csrcre possemus. Oude zavza  autem cum legatur, ov6i vocabulum illam particulam in vicinia poni nullo modo patitur. todovtov itepieyiv et o.   Ia his rodoviov dictum est 8aixzixuS et per quandam exclama- ts xa\ xaTS<pQ 0 VT]as xid xaxtyikaæ xijg l(t!jg agas  xu\ vfigioe' xaljteg ixsivo ye $(ir]v xi elvat, a SvSqis  Sr/MOtai' dixocaxal yag laxe xrjg Eaxgaxovg vxsgr t tpavictg. tv yag Xaxe, (id 9eovg, fid &eag, ovSlv  £ xtgixxoxegov ‘ xaradedagdxjxdg uvtaxqv fiexd Eaxgaxovg ij tl (iexcc nsngbg xa&?jvdov ij &8ek<pov xgecsflvregov. tionem, ut sigpificet: mirum  quantum me vicit. S t a 1 1 b.  Dubito, nura huias structuræ exempla reperiantur apud scriptores. Ut nobis videtur, aliam  verborum structuram camque legitimam quidem Alcibiades in  mente habuit, qua altera quædam enuntiati pars per «oSfce particulam præcedentibus annexa effectam tov iCeptysvid^at describeret. Fortasse ita dicturas  erat : noiydavxoS 8 'k x avtct ipot 1  ovxoS rodovrov leepieylvexo,  <3 sxe xal xaxatppovydai xal xaxaytXdoai xrjS if.njs &paS xal  % 'fipidai. AMAT autem interdum oratio concitatior legitimæ orationis vincula spernere, atque  prout in buccam venerint, verba  verbis adiungere, id quod nostro loco factum est.   xalitep ixeivo <ppyv n  ttvai. cfr. 217. A. ig>pdvovv yap 8rj ixl xy upa $avpaOtov odor, quibus verbis optime expositam babes, quid sit,  quod nostro loco adhibitum est  rl slvai . Discas autem ex  huius loci sententia repetita,  quanti olim Alcibiades formositatem suam uestimaverit, CeteTum ne mireris, Ixetvo vocis  neutrum genus positum esse, non  femininum : exeivyr nihil aliud  denotaret, quam xyv cjpav> ixeivo coptra paullo latioris SIGNIFICATAS est atque cum emphasi ad  verba refertur : # ipy wpat.   f)v8lr itepixt ot£pov,  Colon ponendum curavimus post  itepixxdxepov, quo vigorem oratiouis incredibiliter augeri senties, atque quoniam fortiora sunt,  quæ sunt breviora, sententiæ  vim maguo opere corroborari.  Scitote etiim, Alcibiades inquit, nihil præterea. Quæ  sequuntur verba, præcedentibus  verbis explicationis caussa addita, de more adwdtXGjS annectuntur. y el pexa icatpoS. Nepos ad hunc locum respiciens,  Vit. Alcibiad. c. 2, In e ante,  iuquit, adolescentia AMATVS AMANTE AMATO est a multis more Græcorum, in eis a Socrate,  de quo mentionem facit  Flato in Symposio. Nsmque eum induxit commemorantem, se pernoctasse  cum Socrate, neque aliter ab eo sarrexisse, ac  filicfs a parente debuerit.  y aSeXipov it ped fivripov. Ne mireris, hoc loco iratrem natu maiorem commemorari, cum possit sola fratris notio ad rem sufficiens videri :  npedftvxipov non ideo additum  est, ut significetur, quod de fra- . To St] (lixa rovr o riva o&is&e fie Siavoiav £%uv,  ^yovfuvov fiiv otjrifuxo&ai dyct/ievov de xi)v rovrov  tptioiv re xai eocpQoOwijV xai avdQilav, lvrtxv%riitbzct  dv&Qejncf) roLOVtu, oZ » eyw ovx av afirjv note Ivrv%elv tlg <pqom]0lv xai elg xaQrtQMV ; wg re ovff’ oza>g    tre natu maiore valeat, id non  item de fratre natu minore valere, sed ad Socratis ætatem  Alcibiades respiciens, cum cum  patre atque fatre natu maiore  comparat.   riva ofedS- £ jie 6ia voiav De interroga tionibus mediæ orationi interpositis sæpius iara diximus. Vide  annotat, 60. Paullo supra eodem modo 216. D. legitur  SvSoSev 8k aroLxStkk TCoOrjS ote6$e ykfiEi f a avtfJES Ovpnotat, 6<*)<ppo6vv?]S ; Efficitur autem his dicendi formulis, ut attentiores ad rem auditores reddantur, aut, quod in nostrum locum cadit, ut rei narratæ vis  amplificetur.   xrjv xovtov (pvdiv. Verba  convertit Schleiermaclierus : und  doch aucb an des Manues Natur  mich erfreute. Dubito, num  vernaculum nomen Græco nomini  satis respondeat. Solent Græci commemorato nomine aliquo, quod  totam aliquam rem in se contineret, per xi  Ticd  nat eas  eius partes annectere, quæ inprimis extollendæ sint atque urgendæ. Igitur verba convertenda censuerim: da icb mich  verachtet glaubte, und doch des  JY1 annes ganzem Wesen besonders  seiuer besouuenheit und Charakterfestigkeit mit aller Liebe zugethan bin.   olo) i yco ovh av gj p r) v  nox\ iv xvxeiy. Proprie verba hoc ordine proferenda erant: olco iyco cjprjv ovh av nox E  ivxvXElV, quod moneo, ut facilius iutclligas, quorsum av particula referenda sit. AMANT autem Græci verbum dinitum, o  quo alia quædam verba apta sunt, mediis illis verbis interponere haud raro, quo ordine  verborum vis enuntiati magnopere  augetur. Ceterum ut eximiam  laudem Socratis, ita non parvam  æqualium vituperationem his verbis contineri senties. on&S ovv 6 pyiZoiprjv.  Prorsus eodem modo ovv IN SVSPENSA ORATIONE reperitur in PJat,  Protag. 322. G. ipeara ovv  *EpyfjS Aia, xlva ovv xponov  doitf SbtTfv nal aioc 5 av$pco~  7l0iS. Noli, Stallbaumius inquit  annotat, ad b. 1., Ovv sollicitare,  quod Stephanus vacare iudicabat.  Indicat enim ratiocinationem loquentis, qui quasi secum consilia pectore agitans inducitur.  Quippe ea est virtus linguæ græcæ, ut multa, quæ alii populi  nonnisi oratione recta possunt  enuntiare, ea etiam oratione obliqua exprimere valeat. Quod  quid sibi velit, hoc uno exem- *  m   ouv vQyt£ol(i>jV Ei%ov xai uaoan(jTjd'th]V Ttjg tovrov  <Swov6tug, ov$’ o Tty trQogttyayolftr/V avrov tvxvgow.   E tv yt':Q ySij, ori XQt//icc6i re Tto/.ii (tullov rcrparog i]v  Mivtuxij rj CidijQCJ 6 Aiug, «a te difiijv avrov fluvio  ixAcotiEO&cu, SiankpEvyi fit. tjnoQovv &>], xaraSiSov^a(dvos ts vito tov dv^gunov us ovSels vn' ovdsvog    p!o satia patet. Recta enim oratione dici aic debebat ; irroS ovv  opylgGjjjai nat ctnuOzrpTj^co rijS  rovrav dvvovtiaS ; quomodo  igitur ei irascar ei usque  consuetudine mc abstineam? Quæ convertens Alcibiades in suspensam orationem  eleganter retinet voculam igitur, quæ animi consilia agitantis gravius indicium facit,   ov6’ ony itpoSayctyolfl 7J V ac V TOV Evito p ovv .  TlpoSctyeiv riva sensim sensimqne aliquem sibi assuefacere, lente aliquem  sibi conciliare prætentis quibnsdam illecebris  significat. Hinc iudicabis de  <x7C0(Srepri^Eii]v verbi significatu,  quod illi oppositum est» Ceterum opyiZoifiTjv verbum primo  obtutu habet, quo ollendaris,  quandoquidem haud verisimile est,  Alcibiadem ob repulsam a Socrate acceptam eidem non iratum  fuisse. Fortas sq o pyrgo iprjv xa\  dno6rep7f$eirjv positum accipere  possis pro dpyiZoptvos anodzepijSelrjv y nt sensus sit totius  loci : »o dass ich weder weiss,  wie ich mich in hochster Aufwallung seiuer ganz erledigen,  noch wie ich mich seiner allgemach bemaclitigen soli. His adde,  quæ supra leguntnr 216. B.  ^paicEttvco ovv avrov xal <psvyco et quæ sequuntur.    ev ydp ori xpy)padi re. Vulgo ye legitur pro re,  quod e septem codicum auctoritate, quorum in numero Bodleianus est, Bekkerns, Stallbauxnius, alii iu ordinem vetborum  receperunt. Riickertus ye vulgatum reposuit annotans : Non   hæc est sententia: Et pecunia  eum capi non posse mlellige banij et quo solo cet., iramo potius hæc: quomodo eum mihi  conciliarem, non videbam, Probe  enim sciebam, pecunia quidem  eum nullo jpodo capi posse ; quoque solo eum captum iri putaveram, id ejju gerat . Vereor equidem, ut præcedente  Xpr/padi ye non w re o opyv ponendum fuerit, sed qj di, cuius  scripturæ nullum iu codicibus  vestigium comparet.   arpGoroS rjv navraxy  7f dldlfpa) 6 AlaS . Aiacern  Telamonis lilium invulnerabilem  fuisse, compluribus locis narratur. Vide Nitsch. mythol. YVorterb. Ortam puto inde fabulam,  quod in Iliade Aiux non vulneratur; pugu&Ds licet fortissime cum  fortiss.inis. Riickert. Ad rectiorem verborum interpretationem navraxy verbum spoute ducere videtur, quo) verbo de scuto  immenso monemur, quod gerens  Aiax ab omni telo tutus erat,   8 tau i<p evy i //£. Hæc  paucorum librorum lectio est,  i r iun 0110 a t . 373 rj.kov iteouja. 1 rartd rt ydg /toi ctncivta Ttgovytyovu,  xnl f utcI T.rtvTu (Irganiu tj/iiv dg JlotiSaiav lyivvto  Xvivrj } cal (JvvtffiTovfisv txd.   Ugcoxov /ih' ouv xou; itovoig ov fiorov fuoiT ittQtijv,  tlkf.d stal tav iiXkav ujidvtav. ojcote yovv avayxccO&dqftev axokeup&tvtes stov, ola 8tj dtQaxBtctg, 2Jo  '« quam editores immerito reiecisse  videntur. Plurimi 8iene<pevyei pe  exhibent, quod Stallbaumius, unus  Siatetpevyei pe, quod Bekkerua  iu textam recepit. Nolo, quod  dedi, tanqaam certum atque extra omnem dubitationem positum  lectoribus commendare, dedi tamen, quod Alcibiadis animo apprime convenire videbatur. Ille  enim rem actam neque quicquam  spei sibi relictum esse docens  hæc ait: Experientia do ctas sum, eam pecunia  inalto minas commoveri  posse, quum Aiacem, scuto immenso tectam i‘erro  vulnerari, et qua re sola  eum capi putabam, eam  eludeus elapsus est,  tavtd te ydp poi. Nemo  interpretum de ydp particula  quicquam annotavit, quæ quo  iure h. I, posita sit, non statim  intclligitur. Schleiermacliems in  conversione eam prorsus non reddidit: Dies nun war alles friilicr gesebehen cet. Dubitari autem nequit, qnin verbis, ad quæ  relationem habet, præmissa sit,  de quo usu loquendi vide Indices s. v. ydp. Consuetior ver-*horum ordo foret, opinor: Jial  pera tavta tavtd te ydp poi  uTtavta npovyeyovai <5tpateia ijfiiv eis Tloridaiav iyiveto n. r, A. Potidæam urbem  quod attinet fttqno bellum, quem    contra incolas eius gesserunt  Atheniensis, andi Riickertum annotantem ad hunc locum: Potidæa Corinthiorum colonia in Pallene pæninsula ad sinum Thermæum postquam Atheuiensiuin  dominationem pertulit cum ceteris illius oræ civitatibus aliquamdiu, defecit 01. 86. 2. a*  Chr, 435. belloque pressa per  quiuqueiHiiuni iterum in ditionem venit 01. . 3- a Clir. In horum igitur aliquem  amiuin incidunt, quæ hic ab  Alcibiade narrantur.   o jr <5 r e yovv ar ay xct •  6 3 e i?j per. Rursum locum habes, in quo edendo novorum codicum auxilium maxime desideratur. Quam edidi, Stallbaumianæ editionis lectio est, quæ meliorum codicum auctoritate nititur. Sed cum vulgo legatur  ondtav yovv avayxatiSefo/pev,  quis audeat, præsertim cum exempla reperiantur apud bouos  scriptores onotav cum optativo coniuncti, vide Mattii. Giamm.  ampl, $. 521. Aun. I. 1007.,  quis aipl eat, inquam, utra lectio  verior sit, cum aliqua certe veritatis specie dijudicare ? Tovv  in codicibus melioribus, quorum  auctoritate nititur 6 itote lectio,  omittitur. Quod, quoniam vix  abesse potest, si receperis, co  ipso oitote lectionis auctoritatem  infringes. Optime autem yovv  ciSiTBiv, ovdtv ijeav o£ (ikkoL n gdg tu xagregeiv. tv r  av r uls tvcoyfaig (i6vog dnokaveiv ottig r’ rjv, td %  akl.a, xcd nlvtiv ovx t&tkav, unor’ avuyxuGfrtlti, n dvrag IxQ&t ei, xal i 6’ ndvtav dav/xatirutarov, 2kaxgart]  (itfrvovra ovSslg noinot’ icogaxtv civftQoiJtav. rovrov  fitv ovv it oi doxei xcu avrlxa 6 %ksy%og i'<fe<S&ai. ngog  6 i av rdg rov %iL(iuvog xagregijGsig 0uvol ydg av- Stallbnmnius explicat: Confir mat yovv, inquit, ut Latinorum  i certe quideui, antecedentia  cum aliqua restrictione, hoc est  ita, ut indicet, hoc certe, quod  nunc commemoretur, veritatem  s eorum, quæ antea dicta sint, satis testari ; sed nlia etiam posse  afferri^ quæ tamen nunc reticenda esse videantur.   dn o\ e i cp % k v x sS 7tOV,  Astius drtoArfipSiifxeS scribendum  coniecit, quod hodie ab editoribus omnibus ia ordinem verborum receptum est. Sed codices  miro consensu ditoÆi<p$ivxE$  exhibent, quod, quoniam explicari posse arbitramur, in textu  retinuimus. Rectum quid esset,  Heusdius vidit, qui scribendum  coniecit dnoAsup^ivxES Cixov ;  sed mutatione nulla opus estj e  sequente enim afStxetv infinitivo  6ltov genitivus facillime ad ditoAtupSiv T£$ suppletur, FICINO  habet ; et si quo in loco,  ut accideresolet i u bello,  ccfro meatus deficeret*   iv r* av tais ev G>xiaiS. Ad hæc quoque verba recte referuntur, quæ præcedunt; ola  6q ini dxpaxeiats, h. e. pro varia fortuna belli. Militum  enim ea fortuna, ut nunc omnium  rerum felicissima copia abundent,  nunc no habeant quidem, quæ    ad sustentandam vitam necessaria suat. Huiu? rei fortunam  nemo Socrate melius perferre  potuit.   navxaS in patet. Rarior  structora est npatEiv verbi cum  quarto casu ea de caussa, quod  Græci hoc verbum sæpius prægnanti, quem vocant, quam proprio significatu adhibere solebant, Kpaxelv ttvoS enim idem  fere est atque npaxovvxa elvai  XtvoS, victorem esse alicuius, de quo SIGNIFICATA vide  annotat, 87. KpcciEiv xivd  contra proprio significatu adhibitum prorsus dicitur ut LATINORVM vincere ali que ni.   ov 8 eIs nd nox e hd pane v. Codicum auctoritate motus, in quorum numero Bodleiauus est, Bekkerus kapdxei in  textum recepit, quæ lectio item Riickerto probatur. Non placet.  Non enim hæc est mens Alcibiadis, Socratem tum temporis  a nemine 'visum esse vino gravatum, sed nunquam gravari vino dicitur in universum, eiusque rei luculentissimum indicium  mox convivas habituros esse Alcibiades promittit,   Seivot yap avxoSi x ei ~  p dives. XEipwveS articulo suo  privatum latiore significatu accipiendum est, ut verba, couver <S   zo&> yup&veg ftav padia elgydteto xtx te $ AAa, xai fs  itote ovtog Tiayov oTov Suvmutov, xal xavtav y ovx  1'iiivtov EvSo&ev, >], d tis ittoi, i)p<piEOpivav xe  &av(icc6xa Sij ooct xal vxoSsSepivGni xai IvEikiypEvcov  xovg xoSag Eig xikovg xal uQvaxlSag, ovtog 6 Iv  xovtoig 11] jei lyav [pclt iov ptv totovrov, olov xeq xal  XQortQOV eIoj&ei <poQUv, awnoSrycog Se Sia tov xqvtcnda sint : denn W i n t e r in  dortigcr Gegeud sind fiirchterlich.   ra te aXXa, xai itote.  Hæc dicendi brevitas etiam paullo supra in verbis conspicitur tu  re dXX a, xal itlveiv ovx  Xgov, quæ explicatius audire  Stallbaumius docet annotat. ad  lu 1. t a re aXXa, xal 8t} xab  rovto, ori nireir itavta S  ixpdtei. Alias breviloquentiæ  exemplum in sequentibus verbis  continetur xai itote ovtoS nayov olov 8 eiv ot dt ov, ubi.  explicatius verba enarrata sonant: xai note ortos itayov toiovroUy oluS biti 8eivbtatoS, de  quo loquendi genere vide Mattii.  •Oranira. ampl. §. 473- Ann. 2.  885. Ceterum vulgo legitur  ortoS tov nayov. Bodlciani cod,  aliorumque paucorum auctoritatem secuti Bckkerus, Stallbauinius alii articulum e textu reiecerunt. Utramque lectionem  commode explicari posse, nemo  dubitabit, atque sententiam si  spectas, perinde tere esse censemus, utrum addatur an omittatur articulus. In huiusmodi locis codicum auctoritas cum maxime valere debet. Igitur et nos  articulum omisimus, quem Riickertus in textu reposuerat.   t) ovx l Bti 6 v to)v £ v 6 o -$ev «c. e tabernaculis, quorum notio facillimo mento suppletur. "Ev8oSev Scliieicrmacherus convertit hinaus. Recte  quidem e nostra loquendi consuetudine; aliam Græcorum fuisse, H.v8o$ev vocabuli notio docet, Etenim Græci quicquid scripserunt dixeruntve, eius quasi  imagiæm quandam ante oculos  habuerunt prius, quam scriberent loquerenturve. Dicturus igitur Alcibiades : neminem militum  e tabernaculis exiisse, rdm ita  proponit, ut imaginem ante oculos habuisse coniicias militum o  tabernaculis exeuntium. Hinc  HvSoSev vocabulum Explicabis,  Convenit cum nostro loquendi  usu, quod legitur. E. ol  y\v ydp evSvS n<n8d uva IV8o$ev dnavti\6avta dytiv x.  r. X. Innumerabiles autem loci  opud scriptores Græcos reperiuntur, quibus illa ingenii indoles probatur. Cfr. præterea an ->notat, ad verba TLxpr\ ydp ofc  ScoxpatTf . 16., eis niXovS xal apruni 8 a S. Schol. ad h. 1. nlXoS  Ipdtior IB» ipiov ntXrjdecoS yivoperoVy eis vetav xal *«/*<»“  VGor afxwav . dpvccxideS 8e  apvGov HotSia. Suidas, apvaxlS t inquit, ro' tov apvoS xqd8tov, to pefd xvv ipicov 8eppa r.   dra/.AOv quov Ijcoqbvsxo tj ol akkoi vitoSstisfiivoL oi   dl tiTQCCTUJTCCl VTttfikeitOV CCVtOV UQ XCCZCC(pQaVOVVTCC   c (Stpiuv. xai ravta plv drj tccvzcc.   Cap. XXXVI.   Olov A’ av tu 8 ’ ipeUs xal ixX r/ xapTEpoS avi/p    Nostrum locum frustra, ut videtur, Valckenarius ad Herod. III»  199. 95. Musonium imitatum  esse censuit apud Stob. I. 17.  51., cuius verba laudare invat  tamen : ov8a/icuS xaXov ovte  iuS/fusdi noAXai? xaTadxinEiv  TO dGOpa ovts TOLlviaiS XOCXElXeiv ovre x f tpttS te xal no8aZ  nepiSidEt niXoov rj v<padpaTGyv  tivgjv paXaxvvsiv. Quod sequitur, ovtos 8* LATINORVM respondet: hic, inquam, quo verbo  pronomini addito, ut 8i particula,  vis augetur pronominis et filum  orationis verbis interpositis compluribus dissectum rediutegratur.   V7Z £ fi\E7t OV CtVTOV (Di   xotr atp pov ovyt a d<pav .  Limis oculis eum intuebafitur, quum eos suæ  ipsorum mollitiei puderet, odeo que Socratis p atieutiam et fortitudinem  moleste ferrent, quippe  quem ipsos despicere opinarentur. Ceterum Socratem  algoris ct caloris fuisse patientissimum testatur etiam Xenophon Memorab. ct I. 6.  2. al. Stallb* Conferri Riickertus iubet annotatione ad h. 1»  Piat. Criton. 53< B. xal odoi 7CEp XljdoVTOLl TtoV aVTGDV TCUXeoov f vuopkbfrovTai Ce 8 ia~  tpSopta yyov/uvoi r uv vegov,   olov 8* a v  l’ p £ £ e   X. t. A. Versus Homericus est,  culus initium Alcibiades immutavit, ut versus cum cetera oratione melius consociaretur. Legitur autem in Odyss, IV. v. 245.   dk A* olov to 8 * lpz£,E xal  irXrf xapTEpoS dvrjp   SrjftGj ivi TpoSaov, uBi nu&X € T£ nt/par ’ Axaioi .   ixei ini drpar e laS,  Solent Græci, quando cum gravitate aliquam actionem descripturi sunt, huic præmittere vocabulum, quod actionis rationem  in universam indicaret, post actionem ipsam accuratius definitam exhibere. Sic legitur p»  177. E. ndyrcfS /tt/ 8id piSr/S  nou/dad^ai Ti/v iv tgj napdvn  dvvovdlav . dXX ovra>, nivovtaS TtpoS ?}6ov)jv, ad quæ verba vide annotat, 43. Idem  valet de locis, quorum mentionem graviorem ita faciunt scriptores, ut præmisso verbo, quod  iu universum locum aliquem significat, accuratiorem loci descriptionem exhibeant. Sic igitnr  hoc loco ixsl  ini drpaTtiaS  legitur, quo docearis, ad Potidneam gestum esse, quod nuuc  Alcibiades narraturus sit.   £vvv 07 } d ctS e\6t )/ xci  2,7/TCk jv, Socrates aliquid cum  animo suo reputans a primo maue  narratur meditabundus constitisse, atque re non feliciter proccdeute, quasi defatigationem   exe! norh Eithjt (StQcctslag, fil-iov axovdca' £wvcy<5ag  yccQ avtofh Sa&bv n e[6x)]xei 6xojtcov, xai insidi} ov xqov%(6qsi avtcS, oyx aviti, (Md efotijxti  %7)t&v . xai rjdy f\v iiEtirjuPQla, xai av&QCMiot, ycftavovtOy xai &av^d^ovtsg aXXog dkXco tksyEV, oti Zcoxganjg iafhvov (fgovrltcov ti eOrrjTce . teXsvTMvzEg corporis sentiret nullam, in stataria meditatione perstitisse. Huius consuetudinis mentunem facit etiam Apollodorus, qui cum  Agatho servos iussisset Socratem  vocare 175. B. laxe avxov,  inquit, £3of yap n xovx* £*«.  ivloxe aitodxcis o7roi dv xvxv  %6 xmiev. Quæ addit verba ijtiei  81 ccvxlxa, &s iycjpat, non ita#  accipienda sunt, quasi Apollodorus revera opinatus esset, Socratem mox venturum esse. Qui  enim Heri potuisset, ut compertum habuisset Apollodorus, quo tempore Socrates meditationum  Unem reperturus sit ? Neque nesciebat, quippe doctus experientia, Socratem, si constitisset semel meditabundus, iuterdum multum temporis meditando consumere. Nihil igitur aliud voluit  ij£,ei 8i avxixcc, ck* iycfypæ verbis efficere, quam Socraticæ meditationi consulere, ne forte servorum acclamatione turbaretur.   icccl i} 8 r\ y6$ av ovxo.  Non verterim cum Stallhoumio: und schon war es Miltug, ais  mau es er st merkte ; corrumpitur enim, ut ego existimo, vera  sententia addita voce erst, quæ  in Græcis non repentur; iromo  »*nd schon war es Mittag, und  die Leute fingens on zu merken  (malim: und den Leuten fiel es auf ); non enim quautum temporis ante præterierit, quam sentirent homines, ALCIBIADES SIGNIFICAT [cf. Grice: “What do you signify?”], sed quam diu steterit,  et quid acciderit, quod partim loco movere Socratem debuerit, partim rei augeat miraculum.  Idem verba significant, ac si  narret Alcibiades: Iam meridies erat; attamen perseverabat;  iam sentiebant homines; at non  discessit. Hanc Riickerti annotationem, cum idem indicare intellexissem, atque quod ipse seraper de huius loci explicatione  statuendam censerem, viri doctissimi assensu gavisus, integram recepi.   Zajxp axi]? l&> IgdSiv ov  q> p ov x l % a v xi $ d x tj x e . Hæc tanquam ipsa verba laudari  censemus hominum Socratis axoTclctv mirantium. Hoc colligere  possis e structura verborum, quum si forte ad firmaudam sententiam  nostram facere negas, ei certe  non repugnare concedes. Hoc satis nunc nobis. Suhest enim gravius aliquod argumentum, quo  ipsa hominum illorum verba laudari probemus, tppovxi^GJV participium. De quo quoniam pau!lo fusius dicendum est, longiorem autem explicationem plagellæ huius angustiæ non capiunt,  in Comment. de Piat. Symposio  disseremus.   xeXe vx g 3 vxeS 8k xtves  Xt ov 'i&YGor. Consentaneum  est, non Athenienses, quibus mas  «78   6i uves «w 'Javtav, htuSt) ttiniga Suxvrfiavtts,  D nal yctQ &{qo s rore yi rjv, yctutvvia i£evtyxu[itvoi  tlfia (itv iv Z(p i)v%Ei uct&ijvSov, a(ia 8s ItpviatTov  avzov, st xal njv vvxza t<5r>;|o4. 6 <5a e ianjy.cc fitXQi  eas lytvixo xal tjkioe dvioxtv hiutu c>xtz ’ amdv    ille Socraticus notissimus erat,  nunc observatum ivisse e tabernaculis atque sub dio lectulos  stravisse; sed Ionum, qui una  cum Atheniensibus Potidæam obsidebant, aliqui narrantur, cum  ex Atticis militibus de more illo  audissent, nt oculis viderent,  quod fando audissent, sub dio  pernoctasse.  xal ydp SipoS tote y$  T/r. Annotatione SI* indicavimus, solere haud raro scriptores Græcos partem orationis eam,  quæ caussam alicuius rei contineat, parti orationis rem ipsam  describente præfigere. Exemplum  est huius loquendi usus 175*  C. xov ovv 'AyaSojya, rvyxdveir ydp £6x aToy .xaxaHtipevov, jiovov * devp, £<pt/ (parat, 2fcjxpattS x . r. A. Sed  huuc locum cum nostri loci conformatione non recte conferri,  vel obiter instituta comparatio  docebit. Quæritur, quo pacto  xal ydp StpoS tote ye i}v explicandum sit. Tacent interpretes, quo silentio non nihil unimus commovetur mens. Num verba tam plaua sunt, ut explicatione non indigeaut? Schleiermacherus in conversione exhibet;  Eudlich ais es Abend war und  n an gespeiset hatte, trngeii  einige Ionier, denn dama Is war es Sommer, ihre  Schla fdecken hinaus, theils  um im Kulilen zu schlafen cet.,  qua couversione mitigatam habes mutato verborum ordine difficultatem loci, non item explicatam,  SchuUhessius vertendo; es war  eben Sommer, explicaudi genus  admisit, quod sane levissimum est.  Dillicultatem enim vdp particulæ ita, ut ydp reddere omittas,  noa expediveris. Scriptum autem  exspectabamus : 6ei7ivr t 6av teS   xal, SepoS ydp tote ye ip',  4Xapevvia i^evEyxdpEvoi. Sed  cave non rectum ceuseas verborum ordioem, quem libri exhibent. Participia §EWVi]($avT£Z,  l&tYEyxdpEVOi, de more advv6 etcjS posita suut, in verbis autem xal ydp StpoS tote y£ ?/v,  caussæ indicium præ ceteris verbis scriptor, eminere voluit, idqirt)  ideo in principe loco enuntiati  posuit, h. e. in initio. Cuius loci quoniam suapte vi non potest  caussalis particula sustinere gravitatem, xal explicativum præpositum est, quo illa eodem  modo susteutatur atque Latinorum enim, addito e t (etenim)  fortius iit, atque principi enuutiati loco idoneum. Vide de xal  expletivo annotat 6. cfr. præterea 219. B. ap<pt?<SaS ro  IpecTiov ro ipavtov tovto xal ydp 7/v x £l M ( et v r » A .  Contra ubi verbum aliquod in  enuiitiatione parcuthetica continetur, quod significatus gravitate  ceteris verbis autecedit, id principe loco poni solet. Sic legitur  220. A.Seivoi ydp av TuSt  rtQogEvldtnvos rw yllco. tl SI (iovktfi&e Iv retis f*«%aig ' tovto yceg Sij Sixcuov yt avrc5 dxoSovvat. ort  yctQ i) ftfczv 'h v i VS f/td xal zagiOreict 'iSoiSav oi  evQomjyot, ovSbIs aklog ifii laaow dv&gmxcav y ovrog,  rs tgafuvov ovx i&tkav azohntlv, a).ku GwSdauGe E eiSiffov \s<S$s iv ratS  /udxttiS. Bene Stallbmiroius  orationem hoc modo explendam  censet j ei 61' (3ovA.e6$e axovCai, oloS iv x ais puxaii V v %  ifjui xal x ov$* vpiv. Nollem  tamen per aposiopesiu verba explicanda esse dixisset. Certum  esse reor, tl particulam aposiopesin nunquam admittere» conditionalis enim enuntiatio ex ordi e temperatiorum dictionum est»  quæ cum aposiopeseos vehementia non conveniunt. Possis etiam  verba ad præcedentia referre  220. C. xal xavxa plv Si/xavccr  oiov 6 ’ av x 68* £pt£,e xal izXrj  XQtptepoS dvrjp ixel noxa iitl  OTpaxtiaS, aB,iov attovdai. Quæ  verba cum Alcibiades hoc modo edixisse sibi videretnr: ei (iovA e6$e dxoveiv, olor 8* av  xo8 * UpeB,e xal £rA?/ xapxepos  avtjp 9 nunc ita perrexit: ei 6fe  fiov XetiSe (sc. dxoveiv, olov 6*  av x 68 * Bpe&e xal ix\rj xapxe - opo$ cevrjp ixel xoxh) iv xal?  paxaiS, (sc. ipa xal tov$’  vplv. y   oxe yap fj fiaxv V v - Hia  pugna. Ponit euim rem pro  certa otnnibusque nota. Narrat,  quorum hic meminit Alcibiades,  Plutarclt. Alcib. p 194. C. F., sed  ita, ut aut omnem materiem ex  hoc loco hauriat, aut studiose cum  in narrando respiciat. Riickert,   i B, ys i po i xal xdp i6 X e ia. Ex præpositio hoc loco temporali potestate posita est,  quod moneo contra Riickertum,  qui annotat ad h. 1. : Secundum quam. Caussam euim  pugna præbuit, cor darentur Alcibiadi virtutis præmia. Sed  bene monitos lectores velim, ne  ix quovis loco temporali potestate  poni posse opinentur. Ponitur  tum tantummodo, quum temporis indicio simul adhæret notio  quædam, quæ ix præpositioni  propria est. Minus accurate  Schlciermacherus : hei welchem   ( Gefecht ) mir die Heerftihrer  deu Preis zuerkanuten ; non rectius Schulthessius: dena in der  Schlacht, wo mir cet.Restat  ut de xal vocula dicamus, quam  u nemine interprete explicatam  video. Supplemento aliquo opus  est, quo advocato, quid xal significet, statim intelligetur: ure  yap i/ paxv rjv, y avry, i£  r/S i/ioi xal xdpuS^ua ISoOav.  denn ais ieue Schlacht wnr, diesclbe, ais die, nach wclcher die  Heerfuhrer mir deo Preis zuerkannten.   x ex pat fiiv ov ovx i$iA cdv. Vulgo hæc verba inverso  ordiue exhibentur) codices plurimi atque optimi texpcofiivov  ovx iSiXtov. Vehementer errant,  qui uter verboi*um ordo rectior  sit, e sententiæ ratione dignosci  posse arbitrantur. Nam uterque,  quo se commendet lectori, habet.  Sola igitur meliorum codicum au n a at a no r   xai T a ZnXa xai avtov l[it. xai tyul /xh’, w £(6xgrtTfg, xai T('m Ixtktvov Coi didovac zagtOzt ia tovg  Ozgazrjyovs, xai zovzo ys (ioi oiizt [itfiipH oiks igsig  (In t luvSojiai ' dkXd ydg tmv tizgazr/ywv xgog z<> i/wv  iit ioifia dzojV.ixuvzeJv xai (iov/.vulvcjv ifiol dtdovca  ctoritas respicienda est, quorara  lectionem Bekkrrus, Stallbaumius  alii in textam receperunt.  a A Ad tivv 8 ikC a> Ce xai  t it onAa xai avTov i fi i.  Priori loco xd oicAa commemorautur ea dc caussa, quam expositam habes annotat, 63.  De verbrs cum 8ia præpositione  confundit annotat, adip. 7* Verba converterim; und er braclite  WaflVn und Menschen, beides,  retteod hiudurch. Ceterum iucst  aliquid his verbis, quod si abesset, omnes uno ore Græcismum laudarent atque locis ex  Homero inprimis petitis confirmarent. Nullum in codicibus vestigium depravationis, nihil igitur mutandum, præsertim cum  negari nequeat, non minus Græce  dici, quod nunc legitur, quam  quod milii in mentem venit dAAa  CvvSikCcoCe xai xd uxAct xai  avtov.   xai rore. Annotat Stallbaumius ad h. 1. Ne quis, inquit,  in his hæreat, xai «d universam sententiam, non ad solum xoxe  referendum est, at respondeat  proximo xai in verbis xai tovxd  ys pot ovte fitjjipei. Veritatem huitu sententiæ Ruckertus  agnoscit; nobis aliter de explicandis ual tore verbis statuendum videtur. Meus Alcibiadis  hæc « st . Non solam præsenti  tempore se ita iudicare, ut Socratem dignissimum censeat ptæmiorum Hlornm, sed etiam tum  temporis ita se censuisse atque  tussisse quidem, nt duces Socratem pruefniis illis dignentur.  Quæ sequuntur verba pepibei atque ovn ipet* ijxi Tpf.v6opai  nostrum explicationem confirmant.  Mkptpei enim ad præsens Alcibiadis iudicium referendam est,  qno Socrate negatur præmiorum illorum aliquis dignior esse,  verba autem ovx ipEiS oxi ijjEvSopai recte ad verba retuleris  ixkÆvov Coi SiSovat rapior eia  x ovS CrpaujyovS.   itpoS T 6 ipov dZi&pa.  cfr. PJat. Alcib. I. 104* B.  Ineixa (sc. (p?}s elvai') veavixcDtdxov yivovS Iv xy Ceovtov  itoÆi ovCy pcyiCty xaSv 'EA^ArfvidcDV' xai ivxavSa itpoS  narpoS xk Coi (piAovS xai B,vyyeveis tcÆICxovS elvai xai dpi 6x ov£, ot, et xi 8kot, vmjpexoiev  av Coi . xovtoov 81 Totif xpoS  fitfxpoS ov8\v xdpovS ot56* iAaxrovS ' Zvpitdvxarv 81 mv elnov  ptiZoi) otei Coi Svvapiv vitapTlepixAka xov AavShtnov,  or 6 Ttaxrjp iitixponov xaxkAmk  Coi, oS ov povov iv xy8e  xy icoÆi dvvaxai itpaxxeiv o n  av fiovArjxaiy aA A* iv naCy xy  'EAAddi, xai tqjv fjctpfidp&v iv  noAAolS xai peyaAoiS ykveCiv,  Mutre nsus est Alcibiades Dinomache, Megaclis filia celeberrima, patre Clinia, cuius virtus  in pugaa ad Artemisium pugnata     zTMnozroN.    881   xdgtGxHa, avxo g noo&vtioxiQog lyhttv xwv 0TQCtrr t y{Zv  tui /.ajitiv jj GavTuv. Ixi xoivw, <J avdgtg, cchov  9/i' tituGaGftca ZaxQclxtj, oxe ano /JgMov qnyf/ ave- £21  Xoigei xo OxQCtronedov. £xv%ov yag nagaytvofievog innov .  l'zarv, ovtog <5 a onAa. dvtyoigu ovv iaxtdaouivav f    inclaruit. Non sine caussa igitur Socrates in Piat. Alcibi&d. I.  init. Alcibiadem allnquens dicit:  ' 11 7tcti KXetriov, Vide, quæ  de dicendi formulis rtaxpoSev et  nal? xivo? docet Wachsinnthiua  in libro: Hellen. Alteithumsk. L  I. 320. Beil. 10.   i ph Xafielv i} tiavxov.   Nihil certius est, quam Platonem   aveo? scripsisse vel ovx avToS, uUi oppositionis rationem  habiturus fuisset, quæ quantopere angeatur tiCtVTo? scriptura  nemo est, quiu videat. Alio loco de  hac structura oppositionis augendæ caussa admissa locuti sumus.  Vide Indices s. v, Accus. prou.   - uf£ ano J //Aio v tpvyy  ct r exGjpei. *Avaxeepeiy proprie  est : in locum altiorem se conferre, iuprimisque de piscatoribus obvuluit, qui undis ora superantibus celerrimu iiiga altiora  loca petierunt. Hinc ad rem militarem tranr.lutum verbum lugam  militum describit, qui e peregrina terra, tanquam undas mare,  hostes evomente quasi iu altiorem atque tutiorem locum, in patriam terram fugif^es se conferunt. Deinde, quMnam, qui naves relinqniiut atque mare, cum  patriam terram petituri sunt, altiores regiones petuut, factum  est, ut redeundi verba plerumque cum ara præpositione coniungercutur.  Schol. s. v. drjXtov • x Q opLov xjjS LouaxiaS,  Athenienses ad Delium urbem a  Thebanis^prorfio victos Thncyd. \  narrat IV. 76 seqq. Proelium scimus fuisse Ol., 1. Idem proelium u Lachete commemorilnr in Piat. Lach. 181.B. xui ptjv, go Avtiipaxi, p?}  atpUoo ye- xavSpoS' gjS iyos  &XX oSl ye avxov iStacdptji'  ov povov tov naxlpa dXXd  xal xi)v Tzaxptda’ opSovvxa. iv  ydp xf/ and Jr/Xiov <f>vyy pix  ipov cvvavexcjpiti xayaZ <5ot  Xiyco, oxi, ei ol aXXoi iJSeXov rotovxot tlveti, dp$j) av ijpwv  7 } TtoXi? r,r xal ovx av initia  tote xo xoiovxov nxdopa. De  re ipsa Engelhurdtus ad h. I. ed.  14 : Cum Boeotorum, inquit,  nonnulli imperium Lacedæmoniorum ægre ferentes ope Atheniensium democr&tiam in Boeotiæ civitatibus instituere ctiperent, inter eos atque Atheiiieusium duces Demosthenem et Hippocratem convenit, ut ipsi Atheniemibus urbes Siphas ad sinum Ciisuenm, et Cbæroncam prope Orchomenum Minycum traderent,  Athenienses nutem eodem «lio  Delium Apollinis sacrum iu finibus Boeotiæ et Atticæ vernus  Euboeam situm vi occuparent.   Sed ct Demostheni ad Siphas occupandas profecto res Boeotis  iam prodita infeliciter cessit, et  Hippocrates, qui serius, quam  convenerat, Delium pervenit,  postquam vallo præmunire atque  præauliu instruere contigit, Boeo- *t a  4 ijdrj tcov av&Q(07tG)v ovtos n apa xal Aaxrjg * Xfti  2yw 7 teQitvy%dv et, xal Ida tv ex>ftvg vtagaxefavopuL rs  avTolv ftaQQeiv xal SXsyov, art oi5x djtotefyco avzoj.  Ivzavfta St} xal xdkXiov l&EaOuprjv EttXQazrj ?;  JTozidala • avrog yap ^trtn/ Iv gro/xo 7} dia ro Ig^’  ' wnrou £itm* jrpwrov juv otfov ntQiijv Aaxrjzog za  B HpxpQCov sivat * Sjtsiza Zpoiye idoxsi, oJ *AQi6zocpavsg   to tfov 6'ij rovto xal .&cct diajtoQ£v£<S&ai (Sgzeg xal tis fere omnibus interca ad Delium collectis, turpi clade in fugam conversus est. Quos autem  Delii relinquerat Athenienses, castello die post proelium XVII.  yi expugnato, partim interfecti,  partim capti sunt exceptis iis, qui ad naves pervenerunt. xal iyco ns pixvy xdv p»  Nota præsens historicum, quo  incredibiliter orationis vigor augetur. Exempla huius dicendi  usus Matthiæus collegit Oram ni.  ampl. $. Eo  tempore Alcibiades etiam.  C. utitur: npoxaXovpai 8t) avtov 7tpuS x 6 dvvdeizveiv, dxe~  Xv&S ooSTCEp ipa6xt/S nai8ixoii  inifiovXevGov Hoc tempore utuntur, qui narrant aliquid, non nt  rem de industria tanquam præsentem auditoribus exponant, sed  narratoribus rei memoria abreptis  res tanquam præsens obversatur,  tanquam præsentem igitur exponunt. Sed inter loquendum  sæpe ad se rursum redeunt et  ad auditores, atque temporis rationem agnoscunt, quo lacto ad  præterita tempora verborum subito recurrunt, ut hoc fit loco  nostro: xal idcov ev$vS napaxeXEvopai te avxolv Sapptiv  xal £A syov.  insita ipoiys idoxez  ro* <Sov 6 7 } tovxo. Verba ro 6or 81 f xovto lineolia  adhibitis a præcedentium et nb  insequentium verborum iunctura  seclusimus, no quis forte haco Verba ex i8oxei apta censeat. Ad iSoxst enim o JSa?xpdr?/f  supplendum est ; Xo 6ov 81} TovX O autem absolute positum est  prorsus nt ro' Af yopevov et aliao  huiusmodi figuræ dicendi. Versus, ad quem respicit Alcibiades  in Nubibus Aristophanicis fcoutinetur 561.   oxi fipEvSvEi x iv xaitiiv 080IS  xal XM<p$a\pGo napapaXÆiS,  ad quæ verba Schol. annotat:  fipevSvEt * anotispvvvEiS 6eavxov iv ro3 6xppaxi xal xavpij8ov opaS. xopitdBftiS xal  yjtEpoizxixuS fiaSifyiS. Idem ad  Aristoph. Pac. v. 25.  xovxo 8* vito <ppovi]paxo£ ftpsvSvEtai xe xal <payEiv ovx  a£,ioi   annotat: ro fipsvSvEXai avii   xov pkya (ppovEi. ol pb* ano  (IpivSovS rosi cpvxov, ol 6f,  (iique ialsisflpi quidem, ut patere opinor ex annotat, p.4. et  5.) pvpov E1S0S, c5 xpi ° v a 1  ywaixES xal in 9 avxcp piya  <ppovov6iv. Timæus L. V. Pi.  fipevSvopevoS • yavpovpivoS  xal uyxvXopsvoS pexa fidpovS.  Recte igitur Stalibaumis f ipev- Ivftads, Poev&viifitvog xal t(3q>9ak(id> xaQafidlkov,  ygifia jrapafJjtojrcw xal tovg '<plkov g xal tovg xoki/ifovg,  Sijlog <dv ttavt l xal 3taw it6$ga&ev, ort, «l Tig atpetai  xovtov rov dvdgog, ftdXa i^gauivag apvvti tai. dio  xal doqiaXag dstysi xal ovrog xal 6 etegog. a%t8bv ydg  ti tav ovxa Siaxufttvav Iv tm ttoUfia ovdi axroytai, dkbx tovg itQoigaxddyv ysvyovta g Siuxovo:. C  xokld (uv otw L > tig xal cikkcc typi Ecjxgaty Izm SveCBcn est, inquit, superbire  maguoque cara fastu i u »  cedere. Minus recte, at videtur, tcotp^aXfito napaftdX\oov  esse ait torvo vultu oculos  huc et illuo coniiciens,  Recte Scliol. x avpT/dov dpti?.  Bobus torvum vultum esse nemo concedet, qui huius animalis oculos  accuratius inspexerit. Tavpqdov  autem Scliol. dixit, ut esset, quocum tranquillitas vultus compararetur rov fipivSov. Exprimitur autem illa tranquillitas cum  incessu superbo, tum oculis iu  obliquum conversis, quales iu ciconiis persæpe auimad vertimus. Sententiæ nostræ verba favent  t/pEpa TtapatixoTzeiov, quibus manifesta continetur proxime præcedentium explicatio. Miror autem, etiam Stallbaumiura probusso  coniecturara Bekkeri, 7t epitixoirdjv scribentis, quæ, si quid video, e Fichii conversioue hausta  est ; deinde mihi visus est> o  Aristophanes, quod et ipse ais, ibi non aliter quam hic incedere  superbus, et o cpl is. quiete  omnia circumlustrans, cauteque examinans singula. Qui circumspicit, non providentiam solum prodit, quæ ipsa apud probos scriptores circumspectio  audit, sed etiam timiditatem  quandam animi quippe undecunque do periculo vitæ metneif. Ceterum xal dupliciter posito in  comparutione: xal Ixel duxno  peveOSai wSnep xal £v$a8t,  nihil frequentius apud scriptores Græcos.   xal rov? tpiXov? xal  xov? ito\£ fiiovS. Eadem religio, qua scribæ propter insoquens 7to\Efjlov? scripsere qnMov?, recentioribus impedimento  fuit, quominus, quod vulgo legitur, tpL\oi>? iu ordinem verborum recipereut. Yide annotat,  13.   8f/Xo? cjv  itavv n J/3fia^Er, Similiter Apollodorus»  qui Socratis incessura imitatus est  xgjv ovv yvGopljx oov xi?, inquit,  OKl6$E xaxid GJV p,E 710 P(J G0Sev ixaXs6Er, x. r. A. it por p ondbrjv . Annotat  Schol. ad h I. npoxpoitdSijv   TtpoSvflGD?, dpEXadXpETtti, /lEXtZ  nporponij? r/ eI? xovpnpooHiY.  Ficiuus verba convertit : Fer. ne  enim qui ita incedunt, nemo  eos iuvadit, sed eos, qui efl isa  fuga deferuntur. Tt pronomen  indefinitum ad perlinens, neque Latino neque vernaculo sermone reddi potest satas  commode. Efficitur autem eo,  ut ov verbi potestas paollisper imoiinuatur. Sensus est viocci xal davfiatiia • akXa t Crv fdv aXXtov iitmjStvHurav t u% uv ug xal itigl ciXlov rouzvra rfjtoi' ro  de (itjStvl civ&Qu>ituv ofioiov tivai, (itjte uxrv utaX.ttlMV UljTB TCOV VVV OVTCuV, TOVTO CC^LOV ftttV TOg &aV- ficcrog. ciog yciQ ’A%iXlivg    totius enuntiati ; Denn es geschieht ia wohl, dass auf die,  welche sich so im Kriege benehmen, fast nicht einmal ein  Angrili' gemncht wird, soudern  nur die werdeu verfolgt, welche  ia wilder Hast iliehen.   TtoXXa fi\v ov v av xiS  xal d XX a. E nostra loquendi  consuetudine Alcibiadis verba audirent: noXXci a\Xa Savpdtita'.  Vieles audere wunderbare. II cctius Græci xal vocula adhibita  disiunxere verba, qua re edicitur, ut singulum quodque verbum  suum pondus habeat propriamque potestatem accipiat. Persæpe  Luiosmodi dictionis exempla reperiuntur; interdum tamen etiam,  «]uue cum nostro usu loquendi  couveniant, reperias. cfr, Symp,  195. B, iyoa 81 <Pai8poj xoXXd a A Xa opoXoy&v xovxo ovx  bjzoXoydi x . t. A., quo loco rovzo  pronominis vis nou passa est,  opinor, ut xai addito 7toXkct  «AA a verba validius emineant.  Jb. D. y xavxa te 6o<py  yv xal dXXa 7toXXd. Cfr. præterea Matth. Gramm, ampl.   22a>xpdxy inaiv e6 at.  "Vulgatæ lectioni 2(*>xpdxouS  præferendum ducimus meliorum  librorum scripturam) exquisita  **uirn dictio est neque multo usu  protrita inaivetv xivd xi, quam  recte comparavit Astiu3 cum formula A dyuv xiva xi. Etiam io-tyivtxo, (i7C£ixcc(S£UV av tl$    fra 222. A. e melioribus libris recepimus a iyta 2<axpdxy  InaivGj. S t a 1 1 b.  «AAa xdov p.\y aXXcov  littxydev p ctXGDV. Genitivus  cum sequente xoiavxa cohæret;  quod quo sensu dicatur ut iotelligas celerius : expletior oratio   audit : aXXa x&v plv aXXcov  Imxybevpdxwv a EÆyov, xdx  civ xiS xal 7tF.pl aXXov xoiavxa  efjroi. Huius genitivi absoluti  qui quidem argumentum indicet  sequentium verborum, multa exempla Matth. collegit Grapnm. ampl., quæ  quidem omnia ita comparata esso  videntur, ut e verbis facillime  supplendis aptentur. Dubitari  igitur licet, num Græci genitivo casu ita usi sint, ut eo posito expresserint, quod Latinis ia  asu est: quod spectat ad,  quod pertinet ad, cet.   roiro d£ibv 7cavroS  SavfxaxoS. Ficiuus vei ba reddidit : Verum illa præcipua io isto, per quæ nemini  aliorum hominum neque antiquorum neque novorum esse similis  reperitur. Quam conversionem  si recte intelligo, Ficinus sensum  verborum esse ait hunc: Præter  ea, quæ in Socrate, esse Alcibiades dixerit, alia nova esse, quæ  cum nemine comparari possint.  Sed proreus aliud quid Alcibiadem dicere arbitror. Agit nimirum de integritate hominis, quam    Di  t>- «ai Bga6l8ccv xal aXXovg, xal otog av tlegixXijg, xai  NiiSxoga xal 'Avxrjvoga, dal 81 xal txtgot, • xai x&vg d  aXXovg xara ravx’ av ug djtBLxdfyi ' olog 8e ovxodl  ytyovt. xrjv uxoidav av&gamog, xai avxog xal ot Xoyoi  avxov, ov8’ iyyvg av tvgoi ug ir/xuv, ovxs xuv    individualitatem vocant recentiores» Singala quidem ait, quæ  in Socrate sint, passim apud alios  quoque reperiri, integrum hominem autem si spectes, neminem  esse, quocum Socratem comparare possis» Bp adiS av, Brasidas rir Juvenis fortissimus, dux Lacedæmoniorum, præmatura morte exstinctus in pugna ad Amphipolin. H. e. a.- Ceterum nota iuversum nominum ordinem, quo in altero  enuntiati membro Achilles priori  loco positus est, in altero posteriori Nestor et Antenor, quo nominum ordine hoc, opinor, indicatur I Antiquitas viros habet,  qui cura nostrorum temporum hominibus quibusdam comparari possunt, rursum nostris temporibus  sunt et fuertfnt, qui antiquitatis viris similes esse reperiuntur.   oloS ovrodl ykyove  xrjv dtonlav av$ pGoitoS,  Ovxo 6 i paullo infra accuratius  definitur verbis avxoS" xccl ol  Xoyoi avxov, quibus verbis additis Alcibiades aditum paraturos  est ad ea commemoranda, quæ  in superioribus commemorare omisit» Sic paullo infra eodem modo  legitur : avxov,  avxov xal  XovS XoyovS. Laudat Stallbaumius apposite Piat. Criton. 50.  E. ovxl rpikxipoS rjtiSa $ot>Aof, avxos te xal ol 601 izpoyoroi; Soph» Oed. Coi, v, 452*    iita&oS p\v OlSlitovf xaxoixtldai   avxoS xe naidks $r* aib*.  et .   xoiyap 6l, xocvtov xal yk "vo? ro 6ov Becov   d txavxa A evddojV "HXtos doitj  filov   xoiovxov .   In hoc genere dicendi quoniam  copulam bis posuisse videantar  veteres, Riickerti industria etiam  nostro loco dupliciter poni iubet,  atque revera edidit avxov xe  xal xovS A oyovSf quæ scriptura  in aliquot codicibus comparet»  Potuisse Platonem copulam bis  ponere nemo negabit, qui exempla supra laudata legerit $ sed  cur non item dicere licuerit Græcis avxov xal xov* A 6yovS> frustra rationem quæras. OVTE XGJV VVV OVXB X CQ V  TCaXai gj v. Suspicionem moverit hæc verba depravationis, quæ fieri potuit facillime, ut e  præcedentibus verbis 221. C.  r 6 ptjdEvl avSpoditGov opotov   elvai pijtE xdrv itaXocuav fnjiE  Xgdv vvv ovxojp, huc transferrentur. Suspiciosa autem verba  sunt, non, quod cum rls pronomine indefinito coniungi debeant,  tjuo facto sane sententia existetet neUtiquam probabilis, neque,  quod nimis remotum sit iyyvs  iromen, ex quo genitivi illi pendent,  tantam autem vim habet  kyyvf principe enuntiati loco politum, ut huiuamodi structuræ vvv ovte tm> a ahxiuv, fl /w/ uga olg ly o Xeya> txxeixagoi rtg ttvxw, av^ganav fiiv /ir/devl, toij da 2,'ecXrjvolg xal EatvQoig, avtov xal tov$ Xoyovg. Cap. XXX VII.   ICal yag ovv xal rovto iv roig XQoitoig nagtiutov.   pondus facile sustineat, sed  Platonem scripsisse arbitror, si  verba addidisset ovte rc ov vvv  ovte r&v tcaXaidctv : ovdiva ovd  lyyvS dv evpoixiS ZtfXGor. Ficinus  exhibet in conversione: Sed qualis Socratis est qoalisque eius  mira dicendi ratio, nemo prope  ad eius similitudinem accedet neque veterum neque eorum, qui  nunc sunt.   el ptr) dpa. Post dpa cod.  Bodleianos aliique pauci ei habent, quod Bekkerus et Stallbaumius in ordinem verborum receperunt. Atque hic quidem ad  ei firj apa e præcedentibus repetendum censet: evpoi xi$. Admodum dubito, num cuiquam lentorum placere possit, quod hoc  supplemento edicitur, dicendi genus impeditissimum. Riickertus  alterum hoc ei e textu semovit.  Recte, ut videtur.   xal yap ovv xal. Duplex  xal ne quem offendat hoc loco :  xal yap ovv xal ex eo dicendi  genere esse contendimus, de quo  supra dictum est annotat, 5.  et 6. Recte autem nobis videmur ibi annotavisse, prius xal  in liuiusmodi dicendi formulis expletivum esse, atque particularum quarundam levitatem ita aggravare, ut principis in enuntiatioue sedis gravitatem sustinere  possint. In harum particularum  numero etiam particula caussalia  est, quam veteres nunquam in  enuntiationis alicuius initio posuere. Alteram xal diximus gravitate quadam verbum, cui præpositum sit, ornar j, quæ cum  aflirmatione sit coniuncta. Iatr»  cum supra Alcibiades dixisset  215. A. iav pivxoi dvaut fivjjdxopevoS aWo a\\o$ev A iycj, pTjStv Savpadyf, verisimile  est, eundem nunc ad ea respexisse, atque exemplo malam memoriam comprobasse. Kal yap  ovv xal verborum paullo dilficilior vernacula conversio est. In  Schleiermacheri conversione legitur l Und dies habe ich gleich  zuerst noch ubergaogen, quod  cum Græcis verbis minus convenire arbitror. Mens Alcibiadis  respicientis, quod accurate tenendum est, ad verba.  A., hæc est : Denn da ist ja  nun der Beweis, dieses habe ich  zn Anfang ausgelassen.  T oiS dioiy ojiev oi$. Sæpius iam de usu verborum annotavimus, quo omittuntur alia quædam verba, quorum additamentum, secundum nostram loquendi  consuetudinem si rem iudicas, ad  rem necessarium est. Ut exemplo utar, dioiyexai dicitur pro  8iolye65ai Svvaxai, dioiyojiivovS pro StoiyeGSai dvvaptivovSy quibus exemplis statim edocearis, qua conditione hujuscemodi omissiones Græci scriptores admiserint. Fusius (ie hoc  dicendi genere supra diximus annotat. ., al.   ei yap t5e\ei zt$. Hæc ion xal ot loyoi avxov otiowxaxot tlst xolg SuXrjvoTg  xolg dwiyofiivoig. tl yag IfthXet, xig ' xav Eaxgdxovg e  uxoveiv Xoycov, qiavEitv av itaw ytkoloi x 6 xcgmov’  xoiavxa xal ovufiaxa xal gijfiaxa ^a&ev rtegia/ixe%ovxui Zcetvgov av uva vfigiGtov dogav. ovovg yag    plurimorum atque optimorum codicum lectio est, præ qua multo  deterius est, quod vulgo edebatur ISlkoi, Diximus de ei particula cum indicativo coniuncta,  præcedente vel subsequente optativo et av 'annotat, 38. ibique potestatem huius structuræ  explicavimus. Supra Alcibiades  dixit 216. A. xal In ye'rvv  Hvvoid' ipavzoo, ozi, ei i$6Xoifit itapexwv za atra, ovx av  xapZ7fp//(Saipi x. r. A. et panllo  infra filat ovv oa?nep ano zdav  2 'eipjjvcov, inidxopevo? za aræ  oFxojuai tpevyoov x. z. A., quæ  verba ideo laudo, ut melius perspicias, qui fiat, ut Alcibiades  potissimum dicat ei yap iSehei  T i? x. z. A, h, e, denn wenn einer wirklich das Ilerz hat, die  Reden des Socrates zu veroehroen. Quivis alius, qui non expertus esset, quæ sibi accidisse  Alcibiades narrat, non dixisset  ei yap i$£\et zi? x, z. A,   2azvpov av xivavfipt6tov 6opav, h. e., Stallbaumius inquit, ol A oyoi avxov  totavza ovopaza xal firjpaza  ixovtiiv &snep av ei SZwSev  7tepiapn^x otyTO 2azvpov ziva  vfipidxov dopav : sermones  eius talibus nominibus  et verbis compositi sunt,  quasi Satyri quadam irrisoris pelle extrinsecus  amicti sigt. Porro ne quis  av particulam suspectum habeat,  verbo omisso in oppositione po  sita, sententiam hoc modo explicandam censet : oia av efrf   Sazvpov zi? ijfipitfzov 6opa .Ceterum quo magis pateat, propriam dictionem cum tropica per  elegantem quandara breviloquentiam conflatam esse, interpunctionem post nepiapnlxovzai vulgo  positam delevit* Riickertus improbata hac omissione interpunctionis comparationis significationem in ziva' pronomine indefinito deprehendisse sibi videtur verbaque convertenda censet 1  talibus nominibus et verbis extrinsecus involuti  sunt, quasi Satyri quadam pelle» Ficinus habet in  conversione; Nomina quippe et  verba exteriori aspectu Satyri  cuiusdam contumeliosi habitum  præ se ferunt. Satis nobis displicet ziva pronomen indefinitum,  neque, quomodo interpretibus satisfacere potuerit istud: Satyri  quadam pelle, intelligimus; FICINO (si veda) pronomine offensi liberior  conversio: Satyri cuiusdam  pelle; sed ne hoc quidem, si  in Græcis legeretur XiVot, setia  bene habere videtur. Respicitur  enim ad Marsyam, cuius mentionem supra fecit Alcibiades. Av autem particula admodum dubito, num recte explicari possit*  Pone recte a Stallbaumio explicatam esse: o£nf av eXrj 2a->   rvpov xi? vfipidtov &opd : hoc  certissimum est, enuntiationem  addita hac av particulæ notione  frigidiorem fieri atque languinjATaNOs  I  xav&rjXiwe Afy» xal uvag xal dxvroropoug    xal (IvQGodtipæ, xai au dia    dSorem. Itaqne non dnbium eat   nobis, quia verba dv ttva depravata sint. Scribendum est: totavtct xal 6v6f.ta.ta. xal faijfiatct  HZaoSev 7t£piafi7texovtai f 2arvpov avtixa vftptdtov 8opav .  Quam facile avtixa, cuius vocabuli usum non intelligereat librarii, in av tiva mutari potuerit, ipse, lector, vides. Adhibuere autem illud vocabulum scriptores ia exemplis argumentisque  afferendis atque in comparatione  haud raro. cfr. incerti auctoris  Alcib. II. 138. C, tSsnep tov  OiSinovv avtixa <pa6\v evB»a~  6$ai SieXidZat ta na  tpoHa tovS vlelS x . t. X. Ibid.  189. B. navtaS ovv av <pdv reS, oj AXxifiidSrj, rovS a<ppo vaS ftaivedSat, opSwS av (paitjpev. avtixa tc ov ddov 77 A 1 xtootcov et tiveS tvyxdvovdtv  acppovLS ovteS, &Snep eidi, xal  tgjv iti npedftvtipoov. Ibid.  144. C. ovxovv ol firjtopes a yrixa, ytoi eldotes &vftfiovXevetv rj obfSevteS eldivai x. t. A.  Piat. Protag. 359. E. aXXd  fikvtoi, i<prf, co 2c6xpateS, ntiv  ye tovvavttov idtlv ini a ol  te deiXol ipxovtai, xal ol av 6peioi. avtixa eis tov noXeftov ol fiev iSeXovdiv levat, ol 0  61 ovx iSiXovdtv. Piat. Gorg.  472. D. avtixa npcotov,nepl  ov vvv 6 Xoyos idrl, dv ?}yet  olov te eivai, elvat ftaxapiov  avdpa adixovvta te xal d6txov, etnep x. r. X. fii loci accurate inspecti satis docent, per  avtixa vocabulum exempla afferri talia, qualia loquentia animo illico offerantur. Quoniam autem exempla,  tov avtav ta avtct <paiquæ loquentis animo inter loquendum offeruntor, non semper aptissima sunt neque omnium  optima, quæ afferri potuissent :  avtixa vocabulum indicat, alia  exempla reperiri posse fortasse,  quæ rectius nunc laudentur, sed  loquentem, quod primum ipsi se  obtulisset, id exhibuisse, Inest  simul caussæ indicium, cur exemplum laudatum scriptoris animum primum subierit. Sic io  Alcib. II. 139* B. quoniam  cum Alcibiade loquitur So-crates, rjXixidotai Alcibiadis per avtixa vocabulum exempli caussa laudantur. In Piat. Prot. 559.  E. SelXqjv et avSpeicov nomina  ultro ad bellum laudandum loqoentem duxerunt. Rem extra dubitationem ponit, ut alios locos  prætermittam, ACCADEMIA, LEONZIO (si veda). D. avtixa npdotov, nepl  ov vvv 6 XoyoS idtiv. Neque  mirum, Socraticos sermones cum Satyri pelle addito avtixa vocabulo comparari, cum ipse. Socrates paullo ante cum Marsya  comparatus sit. Iam nostro loco  avtixa pro dv ttva ubi posueris, verba vertenda sunt: So1che  (b. e. so litcherliche) Worte  und Satze haogen auswendig durum heram, eben  eine wahresSatyrfell. Ceterum quod Stallbaumius censet  nOn opus fuisse in hac comparatione 00 S particula : coS 2atv~  pov dv ttva vftptdtov dopav,  quoniam et Græci, et Latini  scriptores haud raro eam appositioni vim tribuerent, ut haberet simul comparatiqpis significationem : coS particulam nostro  loco ne ferri quidem posse con veta* leyuv, agrs SltEigog «ai dv<njTog Sv9qox og zdg  &v tuv f.6yav xcaayeXdaus. duuyopivwg 81 Id av av 222    Undtmn>. 'ili 2atvpan> Sopav  foret : quasi Satyri peJle amicti  sint; 2axvpov Sopav autem similitudinem ita auget, ut Satyri  pelle r er er a amicti dicantur*  Recte igitur a nobis in conversione additam nomen: wahr.   Eodem modo loci explicandi sont,  quos Stallbaumius laudat annotat,  ed h. 1.: Aristopb. Aw. y. 169.  et Plat. v. SI 4. dv 6* *ApidxvXXoS vitoxddxcov ipeiS t ad quæ  yerba frustra Scliol. X sinet 81,  Inquit, to coS 6 *ApidxvXXoS aiCxpovpyiaiS nexr}vo6s. Tibuli.  ipse seram vites  rusticus, quo loco illud ipse  æram quasi rusticus admodum ieiunum foret. Horat.  6erm. I. 1. 99. hunc liberta  • ecuri divisit medium fortissima Tyndaridarum.   ovovS yap xavSTjXlovS  Scliol. s. v. navSrjXiovS * xovS  fipaSeiS, inquit, voijdai r) a <pvels ano navSavoS, oS idxiv  tvoS, elprjpkvoi, oS naXiv ano  to ov xav^njXiGov, xcjv inixiSefikvcov avtqS inindpnxcev B,vXa)v, xovxidxi daypdxoov, ovo paP t Exai ovxcoS. Idem sub T,  fivpdo8kif>aS* tovS xas fivpdaS  ipyapopkvovS nal paXazxov taS, Socraticum hunc morem, res  vilissimas atque tritissimas cum  aummis miscendi multi loci Platonis repræsentant. Sic io Piat.  Euthyphr. p, 13. legitur: 2. nal  naXdiS yk poi, cJ EvSvtppov,  <paiY£i Xkyeiv. aXXa dpixpov  rivoS ht Mei/S elpi. xrjv yap  $epaneiav (sc. rc5v Seobv) oviccd  G vritlfit rjvxiva ovopapaS. ov  yap itov Xkyeif ye, oleti nep  nal ai nepl za aXX* Sepanetai  eidi, toiavxrjv nal nepl xovs  SeovS. Xkyopev yap itov, olor (papev, innovS ov naS  inidxaxat Scpaneveiv, aXX’ d  inmxoS. r\ yap; E. navv ye,  2. r\ yap itov Innixi} Inncov  Sepaneia; E. vai. 2. ov8k ye  nvvaS naS inidxaxat Sepanev€iy, aXX* d xwipyenxds. E.  ovxgos. 2. ij yap nov nvvrjyexim } xvvgoy Sepaneia; E vai.  2. t\ 8k ye fiorjXaxim/} ^ocov ;  E. navv ye. 2. rj 81 6 q odtoxnS  re xal evdkfieia Segov c o EvSvtppov ; ovxooS XkyeiS \ E. iycoye.   nal dnvxoro fiovS cfr.  Piat. Gorg. 490. E. rov dxvtoxdpov IdcoS pkyidxa Sei vno Sijpaxa xal nXetdxa vnoStSe pivov nepinaxeiv. K. nola vnoSipiaxa tpXvapeiS ix cor; quæ  Callidis verba optime transtulit  Stallbaumius annotat, ad h. 1.  ed. 157. Was liast du nur, dass  du doch immer von Schuhen  achwazzest. Quæ seqnuntur verba xal dei 8id xcov avtcevxd  avxa (paivezai Xkyeiv optimo  probantur Callidis verbis in Piat.  Gorg. 490. E. cos dei xavxa  XkyeiS, gj 2cdxpaxeS. 2. ov po~  vov ye, cJ KaXXixXetS, aXXa  nal nepl xdev avzaov. K. vi}  rovS Seovf, dxexy&s ye æl  tinvxkaS xs nal nvatpkaS nal  payeipovS Xkycev nal ipcxpovS  ov8lv navet coS nepl xovxcoy  rpiiv dvxa xov Xoyov.   StotyopkyovS dhiScev  av xiS. Bekkerua pro av, quæ  omnium librorum lectio est, av  in ordinem verborum recepit.  Eum secuti sunt Astius et Dindorhus. Recte Riickertus videtor ttg xccl fvrog «vrinv yiyvv/isvog ngcorov pev vovv  fyorrag l'vdov (iwovg tv(n]au rav koycov, inuta ftuotdtovg xal nktloxa, ccycdjjiccta ugerrjg iv ctvrolg E%ovcag  zcd Ini TtktiOtov ttlvovcag, (idXlov di Ini jtav, oGov  ngogr/xu GxonBcv tc 3 [liXXovu, xcdco xayadqi iOECidcu.   Tavt’ istiv, « avdgeg, a lya Evxgdr-q incava’ pcv particulam etiam eo nomine improbare, quod, si eam exhibuisset scriptor, alio loco popuisset : 8iozyo/.iivovs av   idejy. Male autem {Scov av explicat : idv TiS I8y: si quis  forte viderit. Nihil enim  certius est, quam IScjv dv idem  significare atque el fdot dv, quam dicendi formulam frustra negantur  scriptores Græcos interdum adhibuisse, Alio tempore explicatius  de idv TiS fd#, eI tiS I801 dv,  Similibus dicendi formulis discemus, nunc hoc tantummodo annotare iuvat, eI particulam cum  optativo et ay coniungi, ubi  heri aliquid pouitur, quod vix  heri possit, et quod si fiat,  ex insperato accidisse putatio  dum sit.   h# 1 irroS ccvzgjv yiyvopEvoS. Hæc verba Schleiermacherus convertit: Wenn sie  aber eiuer geoflhet sieht und  inwendighineintritt. Hecte quidem verba Græca conversa sunt, sed hæc ipsa vehementer dubito, num bene se habeant. diotyojxevovS participium satis docet, Alcibiadem ad Silenos respicere in artificum officinis collocatos, Iam si quis  (jtydXjiaux in illis recondita volebat intueri, epistomio ab utriusque lateris foramine remoto ad  alterum foramen propius accedebat, non in concavum Silenum    descendebat ; scribendum Igitur  videtur esse: xa\ iyyvS Ctvtcoy  yiyvojievoS. De ivtoS, iyyvS,  al. sæpissima in libris commatatione vide aunotat.  fiOYOVS evpjjaci TGOV  X6ya)v. MuvovS Statlbaumius  eodem modo dici censet, atque  . C, pova HaTExzGSoti  ItoiEi, h. e. eximie. Sed vide  annotat, ad hæc verba.  Hoc potius Alcibiades dixisse censendus est: Solum Socratis sermonem in se habere, quod vodv  h. e. iutelligentiam fere divinam prodat. Quod ita dici ab  Alcibiade nemo mirabitur, qui  quidem legerit, quæ 215. D.  et E» de Socratico seiraone dicuntur. Ey8ov Ruckertus additum censet propter oppositionem sophistarum, quorum orationes extrinsecus quidem splendeant, magnamque veri speciem  præ se ferant, intus autem, si  quis accuratius exploraverit, omni  veritate careant. Dubito, num  hac ratione ivdov vocabuli potestatem satis recte explicatura  habeas, "Ev8ov potius additum,  Ut lector moneatur significantius,  sermones Socraticos cum Silenis  comparari, qui in artificum officinis sedentes intus in se simulacra recondita habeant deorum.   pdXXov 8 e . MdXXoy 8e  eius est, qui arctioribus finibus  circamscrih^t, quæ proxime præ- i by'Cyo<j[c  zrMnosioN .  'acu ccv, 8 (lificpofifu <Svf lul^ccg, vfiiv ilitov a fis vj}gi6e.  xal (dvtoi ovx Itis fiovov ratha nsxolrjxev, alia xa i  XccQfildtjv rov riavxuvos xal EvftvSr]fiov rov a ho xltOvg xal allovg naw xollovg, ovg ovrog l^axarov  c5g sgaGTrjs xaiSixa fiallov avzbg xu&iozutcu, dvz’  Iqu6tov. a 6rj xal Ool Isya, a ’Jyd&cn>, fitj locata  cedentibus minus accurate erant  atque latius patentia enarrata.  Vide annotat, 15.   tavx* £dtlv y qj avdpeS  v (5 pld ev* Vulgo iuterpun  ctio comparet post pipqiopai,  quam BekJcerus iu textum recepit, Stallbaumius delevit, Riickertus post dvppi£>aS transponendam curavit. Nos et post dvp»  pl&<xS et post av 3 quod cum inæquente eluor arctius coniungeudum est, comma ponendum curavimus. Sensus est: Hæo  sunt, o viri, quæ mihi iu  Socrate laude uda videntur  et rursum dixi vobis, laudationi vitupcrium adjungendo, quanta superbia necum egerit. Quam  Wolfins foci interpunctionem probavit : a iycj 2ooxpdxrf iitaivQa t  xal av a pkpcpopai. tivppl&ctf  vfiiv eItxov, a pe vfipidav, ea  ne rectam quidem sententiam  fandi t.   X a ppiSijv rov r\av xcdvoS. J)e Gharmidc. Glauco  uis lilio, vide ACCADEMIA, Charmidem,  Xenopb. Memor, Sympos.  III. 9-> IV. 29. coli. WyttenLach. ad Select. Princip. Ilistor,  411. Iuvenis fuit et genere  nobilissimo Gritiarum oriundus et  præclara animi indole præditus. Enthydemus intelligitur Dioclis filius j idem est, qui cum    Socrate colloquens inducitor apud  Xenoph, Mera. IV. 2. 40* Male  eum Wolfius confudit cum Euthydemo Sophista, cuius nomine  Platonis dialogus Euthydemus inscriptus est. Stallb.   itaiSixa fiaXXov avr of.  Socrates hominibus pulcris ita  insidiari solebat, ut eorum amore  captum se simulans ipsis vehementissimum amorem iniiceret  sui. Respicitur ad hanc rem iu  Piat. Alcib. I. fin. A. xal itpoS  tovxoiS psvxoi toSe XeyG i, oxi  XivdwEvdopEV fiExafiaXtiv xo  6]pjltu % g3 2<nxpocteS, ro plv  dor £y<v, dv Sk xovpov . ov  yap Idxiv oncoS ov itaidaya)yijdco ds ano xijsde trjS rjpipaS, dv 6* vit * ipov itaiSayayrjdEi. 2. yevvale, iceXapyov apa 6 ipoS ipnoS ov6lv dioidei 9 si itapa dol £vVEaxxtvdaS tpeoxa vitoitXEpov  vito tovtov Ttakiv $Epa7tEVdsrau /   a 8?j pr) £Za7tatad$ai vico tovtov. Bodleianus codex, in quo interdum  manifesta indicia correctoris nou  indocti reperiuutur, ttiaitaxa,dSe exhibet, quod quamquam  aptum est et bonum, tamen  recte postponitur lectioni vulgatæ. Per epexegesin enim pt }  iZartaxadSeii verba præcedenti  relativo pronomini apposita sunt,  idque genus dicendi, quoniam  i  jiaathnoz raO&cn vito tovxov, ali' dxo rov fjpexiQav Tca&yfiuxav yvovtct tvXaptj&yvai, xal (itj xotzd vqv 71uqoiuluv,  SgitEQ injTCiov, xu&bvrci yvuSvat.  Cap. XXXVIII.  C Ehtbvtog Srj xccvvu xov 'Alxifhudov, yikma ysvlaftcu Ini xy na^Qyisla ccvxov, on idoxei in Igcoxixws i%uv xov Suxquxovs. xov ovv Eaxqccxij, Ntj- suum quoddam pondus habet,  Græcia adamatam est magno  opere. Eius ut unam exemplum  alleram, legitur io Sophocl. An*ig. v. 446. 8v 8’ tini poi pfj pijxoS j  aAAd dvvxopa  ySyS xd xrjpvx^ivxa, prj  npatfætr r a8e ;   Ceterum quod relativum prono*,  mea attinet, quod ad præcedens  tia semper refertur secundum  præcepta grammaticorum, præclare Stallbaumius annotat, ad  b. 1. Plene, inquit, Alcibiades  dicere poterat sicj ex quibus  quæ consequuntur, ea  etium te moneo, videlicet ue ah hoc decipiaris, oxctxd rtjy TC a p oiplpr.  Respicit Alcibiades ad Hom, Il.   aXKd d’ iytuy dvaxooptj*  davxa xe\eva>   IS nXr/^vv liycu, pt/8’ mV xioS tdxad’ i/tuo  nplr xi xaxdv naSietv- fieX$tr di xe yi/nios lyra,   $cho]. nd Ii. 1. annotat; fiexShr  Si Xf. vyttiQf iyvay ini reo r  peia xu naSelr dvviivxajy xd  apaptrjpa. figd xd avxd txipu  papoipia' d «Atetifr n Ayyeis y ovy ipvdft. qxxGt    ydp aXiia ayxidxpevorxa, inei~  Sdy dnddtp xo 5 A Ivoo xov ix$vv,  xtf x n Pl npotayaydvxa xaxiXeir, ira prj <pvyg . xvvxo 61  dvrtjSatS noiovyxa vno dxopxtiov icXr/yrjvat' xal tine onXtiyels yovv cpvdetS, xal pr\yixt npoSayeiy ig ixetvov xtjv  Xtipa. "E<Sxi xal xpixrj opaloidv prj naSyS, ov prj p aSr/S. iXix^t/ 61 ini Tipatrof  Xov ptdavSptdnov ptjxhi npoStepirov x ovi xoXaxaS, Apud  Hesiodum legitur, quod propius  etiam videtur ad Platonis verba  accedere Opp, 216. naStdy Si  Xt vr/moS lyvat,   ini xy nafi/tr/dlce avxov. Ipse Alcibiades 217, E.  xd 8' ivxtvSttv, inquit, ovx av  pov tjxovdaxe XiyovxoS, el ptj  npdxor pb> xd A eydpeyov olyoS avev xe nalScov xal pexa  naiSatv r/v dXt/Btjs, quibus verbis napfttjdiay excusari manifestum est.   xdy ovv 2<» xpdrijt Mira  arte, quæ sequuntur, excogitata  sunt atque præcedentibus annexa- Etenim cum orationem  Alcibiades finiisset^ quæ ingentem cautineret Socratis laudem,  fieri non potuit, quin Socrates  aliquid responderet. Exspectabas  urio fer« quid responsurum esse,  %   m    q>t tv (ioi tipxs Ig, tpavai, <o ‘AhufiiaSri’ ov yctg Sv  nors ovza xouipcSg oxvxXty X£QifiaU.6[isvog utpavloai  ivt%siQu; ov evexa zavza navza dgtjxag, xal cSg tv  uaQtQycp drj Uyov ixl zetevpjs avxo Edjjxag, tog ov  navza zovzov tvtxa elfnjxag, zov £(i'e xai h fya&ava  tiucpaXluv, olofitvog deiv tfii (itv Cov Iqav xal fitjSs- o  vog allov, 'Aya%ava 6'i vxo Oov iguodai xal ftijd’  i(p' tvog aU.ov. alX’ ovx tXadtg, akla zo UazvQixov    quale, qui laudantur, edere solent, modestiæ documentum. Id  si Socratem proferentem induxisset scriptor, verendum 6aue  erat, ne rerum ab Alcibiade expositarum fides imminueretur vel  vis atque vigor infringeretur. Contra si nihil respondeutem fecisset ad laudes illas, neminem  esse arbitror, qui Socraticum silentium non superbiam et arrogantiam sit interpretaturus. Ne  igitur ad laudes Socrates respondeat atque ne superbire videatur,  finem Alcibiadeæ orationis aggredientem Piato fingit, atque a  laudatione animos auditorum feliciter deflectentem. Qua ratione id fiat, exponere nolo} ipsi  lectores verba examinent, studiose singula expendant, Platonisque artificium, quod ipsi deprehenderint perse nserintque, admirentur. ovx a xopip 00 ^ h. Stallbaumius inquit, tam scite  artificiose. Idem xo/iqfreve6$ca rectissime annotat. ad Piat,  de rep, IV, 4 36. D. de oratione festiva, arguta et ad capiendos auimos auditorum apta  interpretatur Timæi laudans L,  V. Pl. p, 154. seqq. Verba *«kAo>7 nepifiacXXopevoS esse docet  multis orationis ambagibus usus. Fortasse ad Alcibiadis verba Socrates respicit. A. iav fUvxoi dvajJtipvTjtixopxvoS aWo aWoSev XSyco,  fiTjdlv SavpdtiyS' ov yap xi  fipSiov xrjv (??jv axoxiav gj< 5  ftovn evnopooS xai itpeZrjS xaxapi%pij6au De a<pavi6ai verbi potestate supra dictum est annotat. 561.   x.al cJ s iv itaptpyop  tdi} particulæ ironicam significationem. de qua vide Indices s. v.  6rj, etiam ex hoc loco cognoscere possis. Sensus est verborum : Et scilicet quasi præter propositum at*  que consilium tuum,   r ov ipl xal 'AydSoora  § iap aWeiv . cfr. Piat. de.  rep.. C. firj 6iafiaX\e, jjv 6* lyw, i/ih xal SpaQvpayov apxi (plXovX yeyovoxaf, Qvdfc Ttpq % ov i%$pov$  ortas,   oiofteros 6elr tfil. D.  (Uiv verbi potestate supra dictum  est annotat, p, 12. Non sino  acerbitate hoc loco positam est,  simulque vanitas opinandi Alcibiadea perstringitur: indera du dir einbildest, ich miisse uuuragiinglich cet, Prorsus eodem  tpodo Alcibiades paullo infra  222- E, oiexai pov 6elv navraxi KBpuwccu \ .* I Oov dQC!(ia tovto xal OeiXrjvixbv xataStjkov lyivEto.  ' bAA’, tJ <plle 'Ayaftuv, fitjdlv ‘nUov avttp ytvrjtai,  «AAa naoa<S>isva£ov, oxag ifih xal al [lydels 6ia(id At;  Tov ovv Ayd&uva. tlmlv, Kal firjV, i b ZdxQatEq, xivdwt vug cckrj&rj i.tyuv ’ rtxfiatnouai, 5s xal «a g xateE xltvrj Iv pii 1(o sftou rs xal tSo v, Zva %aq\q jj/iag 6iuJLufiy. ovdsv ovv xkiov avtcS Sotai, «AA’ lyd xagd dAAa ro Sarvpixdv  6ov 8 p a p a tovto xal  SeiXtjvixoy. Recte intellipet hæc verba qui meminerit,  non nisi ante actis fabulis tragicis Spapaxa 2atvpixa edita  esse. Duo autem sunt, quæ iis  commemoratis Socrates reprehendit. Alterum, quod in fine  orationis Alcibiades posuerit ea,  quæ primarium locum obtinere  debuissent, si apertius sensa sua  ille depromere voluisset. Alterum, quod Satyri Silenorumque  comparatio ea taatum de caussa  instituta sit, ut orationis finis  Alcibiadisque consilium facilius  tegi possit atque velari. Satyricum illam poesin quod attinet,  apud Zenob. legitur: tqvS SazvpovSv6TEp6v 28o%tv ccvToiS npQEtsdyEiv, foce jit) 8ox&Giy liti\avSavE(5Sai t od $eov. Probat  hanc sententiam Wachsmuthius  in libro: Hellen. Alterthumslr.: Ais die Tragocdie des urspriinglichen voti Dionysos haudelnden Inhalts sich  entdussert hatte, und wie eia  freigewahltes und au den Dioliysosfesten nur ausserlich hinzugefiigtes Kuustgcbilde erschien, vrurdp, man mogte sogen aus eiucr Art von religiosem Bedenken  tmd zur Eriuneiung an die an*fftnglichc Beschafienheit des Chors  das satyrische Drama eingefiihrt,  das freilich rait seineu StolTeu auch nicht nuf den Kreia dionysischer Mythen beschrankt, und  dessen iunerer Ton und Haltung  tveder von dem tragischen Ernste  noch dem komischen Scherze  streng gesondert war, dessen eigenthiimliches Weseu daher wohl  nnr in der Wiedereinfiihrung des  ehemaligen Satyrchors zu suchen  sein mochte.   pTjdlv itXkor avTQj yk vrjxai, h. e, Stallbaumius inquit, opa, pt) te TcKtov avTGj  ykvijrai. Dubito, nui n hao  ratione veiba recte explicata sint.  Scriptum certe exspectaveris : pt/8lv tc\Lqy atheo ykm/rai, xal  xapadxF.vdctov, oizgdS ipk xat  Ce pt/SsiS 8iafid\y. Non recte  enim in eadem enuntiatione consociari videntur opa d A.A. d  itapaCxeva£ov> Mj/81y  ykvr/xai in eum potius cadere videtur, qui suarum rerum certissimus eloquitur, quod non sit  futurum: Oewinn soli er da von  tilcht huben, \  Zvct x&pl* vpds 8iaXdfty, Dictum hoc eleganter  cum amphibolia qqadam, ut et  de spatio possit cogitari et do  animorum disiunctione, Stallb.   a\X’ ei pt/ ti dAAo, g5  $ avpaCiE, Alcibiades cum  Socratem se potiorexn esse animadverteret in capiendis hominum animi;, oj SavpdCu op ztmiiozion  fi! iX&wv xccTaxhvfoofiai. Tlavv yi, <pavcu rov HaXQattj, Sivqo vnoxata ifiov xataxlivov. 'SI Xtv, cl~  mlv rov ’AXxi(iiadt]v, ola av na<S% co vxo rov uv&q<6jcov. o’uzai fiov Sslv xavzayfi «SQiBtvca * aXX’ tl (itj  n aXXo, o) &avuc((hE, Iv pioco rj(i<av tu 'Ayu&avcc  xataxslo&ca. 'A XX’ aSvvazov, (pavæ, rov JkaxQanj.   <Sv filv yccQ lui httjVEGas, 8b t fi’ i(i's av rov Ixc dt^ta    pellatione usus est, cnias potestatem aut non explicarunt interpretes, aut non satis recte*  Gav/iageiv verbum haud raro  ita adhibetur, ut rem magicam  significari indicetur. Sio in Aristoph. Nubb. v. 180.   ri 6t/t* ixetvov rov QaXrjr  Sav/HxZojxev 5   De Thalete præstigiatore sermo  est, quem axpov pr\xavix6v vocat Schol. ad hunc locum. Gavfiaxa præstigiæ sunt. cfr. Plat.  de rep. VII.p. 514. B. xap*   7jv (sc. 060 ^) TEtxlov ita  poDxodoppjnirov y coSTtep xolG  $CtVpaTQ7tOlOlS 7CpO XCk)V CLV$pGD7tG)v ifpoxeixai xd napa 1 ppaypaxa, vitlp gov t a 2avpaxa SewvvaGiv. Sic etiam, opinor, SavpadioS hoc loco ita  ab Alcibiade adhibetur, 'ut præstigiatorem significet Socratem,  quippe qui mira arte hominum animos deliniat atque vel nolentes ad se trahat.   figi 5* ij.th av rov iit\  8 b£,zol. Vulgo avxov legitur  pro av xoY, quod de Bekkeri  coniectura hodie omnibus probatur. Patet autem, a principio  ita consedisse Agathonem atque  Socratem, ut hic ad Agathonis  dextrum latus cubaret. Alcibiade  accedente, quem medium inter  utrumque consedisse rrperimus,  ordo hic erat : Ad dextrum Alcibiadis latus consedit Socrates,  ad sinistrum Agatho. Iam cum  laudasset Alcibiades Socratem, et  hic quidem Agathonem iuxta considere iussisset, patere opinor, ad  dextrum latus ipsum considere  iussisse quippe hominem laudatione ornaturus. Iam iutelligitur,  «juid verba significent iv p&6a»  7JJ.IUV, Rogat enim Alcibiades, ut  Agatho ad sinistrum latns Socratis  considat, quo facto ille medius inter Alcibiadem atque Socratem consideret. Ilaic Socrates: Vellera  quidem, inquit, tibi obsecundare, si possem; sed  non possum ego. Etenim  me laudando tu, qui es  magister bibendi, legem  edidisti, secundum quam  dextrorsus alter alterum  laudare debet. Necessitatem igitur milii impositam vides Agathonem  laudandi. Iam.si medius  inter nos Agatho consideret, me laudandi provincia ad eum abiret. Sed  non sperandum est, qui  modo a te laudatus sit,  eum alteram laudationem  ex Agathone auditurum  esse. Sine igitur, Agatho ad dextram iuxta me  considat, eiusque laudationi ne invideas.   QV 6?} 7tov i fih za\iv  iitatv i (Sex at. Supra diximus *\ (o  ixaivuv. tav ovv ino <Joi xaraxhvy 'Ayaftav, ov 6rj  nov ifih Ttctiw Incuvidtrox, nglv in’ tfiov (iaU.ov  inaivt&ijvau aM.’ EaOov, d datfi6vis, xal [l t) <p&oS33 vrjdys *<? fiBigaxlco in’ ifiov Ixaws&rjvaL • xal yag  naw iniAtvudi avtov lyxafuaGeu. 'Iov Iov, cpavat  rov ‘Jya&ava, 'AXxifiuxSrj, ovx Ead’ onag av Iv&ade  (tilvaifu, akka neturos (ia?.lov fiiravætTjOofiat, Zva  ino JEaxgaxov g Inaivs&a. Tath’ bulva, (pavæ rov  'AAxipucdrpv, ta elaftoza ' Zaxgarovg na.gov tog rem   da 67}7C0V Tocolarnm «ignifica dis fortunam commiseratos dltione annotat, p, 98. Provocat xisæ videri possit: Wchc, vrehe,  entem plerumque ad alterius iu- armer Alcibiades, ich kann hier  dicium, qni his voculis utitur, nicht blciben, soodern muss um  ita, ut rem extra dubitationem alles den Platz wachseln, damit positam esse una significet. Jif Socrates mich lobt. Diilicile est  eutem voculæ irouica potestas ad diiudicandum, utra explicatio  satis manifesta est converti con- rectior sit. Hoc unum certum  tra eum, qui forte, quod certis* est, contra Alcibiadem hæc omola  simum sit, addubitare audeat vel dirigi, qui si commiseratione manegare. MdXXov ante incagis commoveri censebitur, quam  veSijvat positum cohæret cum lætitia Agathonis, non dubium  dicendi formula ^idXXov 8£, quam erit, quin iov iov hoc loco sit  eius esse, qui ipse se corrigat, 6x*xXia6xtxdv inifjfiTjfia,  xavxct ixeiva ra tlaoSora, Diximus de xavxa i XEiva verbis annotat, p.309.,  ixeiva autem dicitur, quia ad  aliquid plerumque, quod prius est cum acerbitate respicitur,  curavimus licet commate sequente; ea enim vis est syllabæ finalis, quæ accentus vigorem paullisper infringi non patiatur., %, IOV iov Mfifana est eorum, Mn xovxo xo xaxov,   quorum animus subito com- 0 ^ cctzoXqoXexev. inoretur, lætitiamque non mi- Sed perrara sunt xovxo duplicinus, quam tristitiam exprimit. ter positi exetppla. Aliqua eaque  Interpretes lætitiam iov iov vo- perpauca exempla Matthiæus lanculis Agathonem prodidisse nrbi- dat Gramm. anipl. §o471. 11.  trantur, neque nos huius expli- Ceterum non diu quæcatiouis veritatem negamus : hoc renda fuit vernacula dictio, quatautummodo contendimus, etiam cum Græca verba comparare posde contraria animi commotione sis : Da haben wir das alte Lied.  boo loco voculas accipi posse, Satis trita hæc hominum iuferioquatenus quidem Agutho Alcibia- rem ordinum locutio, cui eadem   l Ad præsentem rem respicient  Strepsiades in Aristoph. Nubb., ait ;  supra annotavimus. Couvertenda igitur verba sunt: ante quam a me potius (rectius) laudatus sit. '   iov iov t tpdvai x 6 v  'AydSaova, *lov scribendum   xaldiv petaXafciv dSvvcnov Skhp. xai vvv, tj? evaoqo£ xal niAtavwi loyov evpev, ogTB n cap uwr<p voviovi  xaraxeuS&aa.. Tov (ilv ovv ‘Jya&ava tog xtctaxuOoptvov stupa b  ta HcoxQatei avhSrcca&ai' 'li-aifpvrjg 6s xapcttitag ryxuv  scap.stoD.ovg ixl rag fhjgag, xal ixixvyfivtuq avtaypivaig, kfciovtog uvog tig to uvtcxpvq, scoQtveti&at scapi    atque Græcis verbis ironia plerumque admixta est.   ojS evitopcj$ xal itt  vov Xoyov. Duo suut, quæ  miratur Alcibiades, unum, quod  tam facile rationem invenit, alterum, quod tam probabilem et ad  persnadendum aptam. Riickert. Tov plv ovv i£al<pvrjf. Supra iam diximus annotat. 318. de artificio, quo adhibito scriptor noster, quæ subito gesta esse narrantur, noa  solum igacicpvTiS vocabuli usu  exprimere, sed actionum felicissima iuuctura legentium oculis  quodammodo exponere soleat atque vividissime describere. Sio  cap. XXX. initio legitur: e/novxoS 61 ? ravta tov 2ojxpccrovS tovS jxlv inaivetVf tov 6&  *Api6To<pavrf Xkyeiv tl liztxetpelv, oti ipvtj6^Tf avrov \£yoDV 6 2ooHpd T7/S izepi tov Aoyov, xal iZaitpvTjS %. r. A.  Eodem modo hic lB,cd<pvr\S vocabulo actionis alicuius narratio  præmissa est, cuius exitum eodem  studio, atque illic Aristophanica  verba, lectores prosequuntur: cum  subito factum esse commemoratur, quod illius actionis tenorem  illico interruperit. xoifiatitdf Ijxeiv TCajjt  froAAovf. Grex comissatorum    nemine vocanto poetæ cabicaluin  ingressus incredibiles turbas excitat ordinemque omnem convivii  pervertit. Noli mirari, quod aliqui ipsi se iuvitasse narrantur  atque non vocati multo cum strepitu in Agathonis domicilium' !r*  rupisse. Lenæis enim Dionysio  sacris vino solebant largius se  invitare homiues, ebriique per  plateas vagari atque intrare, ubicunque fores adopertas reperireut, Neque erat, qui liuius rei  miraretur insolentiam. Viui enim  hausti virtus hæc est, ut homiucs cum hominibus arctius coniungat, omnesque sibi amicissimos reddat. Adde Agathonis liberalitatem, quam qui norunt,  eo minus dubitarunt invocati eius domicilium adire.   £B,ioytoS tivoS xo  &v nxpvs, ico p ave 6$ at.  Cum aliquis eorum, qui  apud Agathonem essent,  exire vellet, pessulo retracto fores aperiebat,  atque per ens iam exiturus erat, cum continuo turba comissatorum  intro se coniecit. Dubitant  interpretes, utrum ad sequentia  an tui præcedentia referenda sint  verba eis to avTtxpvS. Sohleiermachcrus exhibet in conversione:  iodem einer hinaosgegaogen ih 6(pag xal xataxXivtG%ai, «ai dogvflov ficata aavza  elvai, «ai mixtu Iv xuGaco ovdcvl avayxa&G&ai. nlvuv Ttafinolvv olvov. rbv fitv ovv, EgvlLy.ayov xal  tov OaldQov xal aU.ovg uvas %<pt] 6 'jQiatoSrjfios  oi%eG&ui aiubvraq, 2 <5 e vtcvov lafieiv, xal xataSag-. C ©e iv navv xoXv, ats fiaxguv uov wxtuv ovabav,  l^tygeG^ai 61 tcqos i/fiigav fidi] aXixxgvbvav aSovtav l&ygbfitvos de ISciv rovs fiiv aXXovg xa&evdov nen entgegen, waren sie eingedrungen. Apud Ficinum legitur:  nam pauIlo ante quis coutra exierat. Stnllbaumius contra elS z 6  dvnxpvS cum TtopeveCSai conjungens verborum sensum esse  ait: recta ad ipsos accessisse, quod explicandi genus  minime probamus, neque placet,  quod exhibuerunt, qui paullo supra  laudati sunt. ’EZi6vroS nvoS eis  to avzixpvS imaginem proponit  comissatorum, contra nitente eo, qui iam exiturus erat, aditum vi expugnantium» Comma igitur,  quod Riickertus post i%idvzoS  TivoS ponendum curavit, recte  expunxisse nobis videmur.   dvayxd2e6$ ai ziveiv  na pitoXvv olvov. Frustra  subiectum quæras, quod ad d~  vayxaZeGSai referas ; quare Riickertus auuotat. ad h. 1. explicandum esse censit: Se et reliquos cogi coeptos esse.  In recta, inquit, oratione avay 9ide}£6$ai foret rJvayxaZopsSa,  Non se enim solum intelligere  Aristodemum videmus ex eo, quod  aliorum statim mentio fit ita, ut  lioc quoque ad eos pertinuisse  appareat; de solo coepto accipiendum esse item docent sequentia, ubi, quibus quisque viis necessitatem aut eviturit aut pertulerit, edocemur.  Rectior loci explicatio hæc est: avayxa&6Sai verbum absolute positam  est, ut idem fere significet atque  dvdyxyv elvai. Hæc bibendi  nova lex quibus displicebat, ii  clanculum abierunt, quod moneo,  ne quis forte Ruckerti sententiam  probet censentis : de solo coepto  dvayxd$e6$ai verbnm accipiendum esse.   rov p\v ovv 'EpvgipaXOV . Eryximæhum et Phædram recte scriptor abeuntes fecit.  Conf. verba 176. D. /pol plv  yap 8rj zovzd ye olpai xazaSyXov yeyovivai ix zijs latpixijS, ori r oiS av^poS icoiS y piSy i6rl' xal ovte avzoS Ixcjv elvai noppaa iSeXy6ctif.n dv itieiv, ovte dWoo 6vp($ov\ev6aij.n, d/.XcjS ze xal xpaiTtaXaivza Izi ix zrjs nporepalaS .  JXXd pyv, £<py cpavai vno\a fiovza $aZ8pov rov Mvfifiivov6iov, iytayi 6oi etoSa nei$e6Sai ze xal azt r av   ftepl iatpixijs XlyyS.   dttiovz at, 5? dfc vtcvov  Xafieiv, Vulgo legitur uitidvzas oUxaSe vtcvov Xaftelv, Optimi codices illud habent. Ut iuter  se conciliaret utramqne lectionem,  Comarius scribendam coniecit:  aniovzaS oixade,,2 vtcvov  Xafleiv. Sed verisimillimum videtur, olxa8e glossema esse, quod  ras xal ol%ofitvovg, 'Ayaftava 8s xal 'Agiotoipavti  xai 2-axQdtrj In fiovovg iygrjyoQtvai, xal nuvtiv ex  qnulrjg [leyubjg ini da| ia. rov ovv Hay.Qazrj aviolg  HialeyeG&cu. xal ra ixiv ulla 6 AgLGroSrjfiog ovx iqyq  (isfivi}6&at. rcov loycov ovre yag t| ag^ijg nagayevitfOttt, vnovvGta^tiv re ’ x 6 {itvroi xeqxilaiov Etpij, 0  mgogavayxa&iv rov Zkoxgattj 8(ioloyelv avtoiig, rov  tcvrov avdgog elvca xofiipSiav xal tgaycpSiav ini- sciolus olim margini ad scripserit,  videlicet ut intelligerent lectores,  Eryximachum atque Phædrum  •ivisse domum.   axe paxpcov rcor rvxxoor ovdair. cfr. Schol. ad  Aristoph. Nubb. v. 2,   au Zev ftadi\e v, x 6 XPW a TGJY VVXTQdV 06OY. Aiorvdtaxov yap ortos xov 6 papctxoS dvredtaA^ai xaS rvxraS  avayxrj 6ux to xoiovxv xcnpcS  xmoniitteir xd Aiorvdta.   t/Stj dXexx pvo va>r ddorxcor. Hæc ut recte intelligantur, tenendum est, incolas terrarum versus Orientem sitarum ante  solis ortum exsuscitari solere,  qui gallorum gallinaceorum cantu  iudicatur. cfr. Aristoph. Nubb. v. 4.  xal pr\r TtaXai y dXexxpvo ros jjxovd ’ iyoj'  ol 6 olxixai fiiyxovtiiy  Igitur tardius se surrexisse Aristodemus narrat, utpote qui, cum  galli gallinacei iam cecinissent  diesqne illuxisset, somnum expulerit.   iZeypoperos di idelr.  De nominativo participii vide annotat. 22., qua explicatum reperies, cur participii structura non  ad præcedens £ pronomen directa  sit. Positum autem illud pronomen est, quod obiectum est, non  aubiectum enuntiationis»    xa^evSovtaS xal olxofilr ovS. Fipinus, quem receutiores interpretes omnes secuti  sunt, verba convertit:. Somno excitum invenisse, quod alii quidem  partim dormiebant partim discesserant. Qui sciunt, quum sæpe  xai et ?j in libris commutata reperiantur propter scripturæ compendium, quo alterum vocabulum  ab altero interdum vix dignoscitur, nimiæ audaciæ eum non accusabunt, qui forte scribendum  censuerit : xaSevdorxaS rj ofrojxevovS. Cogitari potest etiam xai  prima xaSevSorxaS participii syllaba Absorptum esse, ut integra  verba audiant: xal xa$ev8orxaS xal olXouirovS . Sed nihil  mutandum videtur. Præcedente  euim personarum distinctione,  Græci quippe orationis leniter ac  leviter procedentis studiosi actionum distinctionem non admiserunt. Quam si addideris, vah,  qnautum moræ verbis inferes!   *Ay a5 cor a xai ' 'Api  6 x.o <p a rrj xal 2. Egregie  hæc Socratis temperantiam, moderationem et constantiam declarant, qui quum per totam noctem cum hominibus epularum  amant issimis bibisset, tamen sobrius neque vino vigiliisque confectus a convivio discessit. Ne  talia quidem negligenda sunt iis,  qui de dialogorum Platonicorum  <Sxa6dai stoieTv, xal xov xtyyr) XQayuSonoiov ovxct xai  KU/iuSonoiov tlvut, xavxa dq dvayxa£ofievovs ccvrov$  xal ot5 <S<po8Qa faopivov$ wOt xal hqcoxov ftev  xaxadaQ&eiv xov ’AQi6roq>avri, ^8r/ 81 Tjiiegag yiyvo(jLtvt]g xov 'Ayddcava. xov ovv ZaxQaxt] xcczaxoLfirjdavx’ ixetvovg, avaiSxdvta aicdvai, xal avtog et gittQ  eludet, foetidat, xal eXdovxa elg Avxetov, axoviipaftevov, ugmQ dlkoxt xrjv akX-qv 7](ieQav diaTQifhtv, xal  o vra StaxQhpavta elg ttixigav olxoi avanavetidau argumento et consilio prudenter  iudicare volunt. S t a 1 1 b.   xa> ptp Siar xal xpaytpSiar initixatiSai noielv.  Facillime intelligitur, qui factum  sit, ut de hac materie Socrates  disputarit. Ipsa Lenæa aasam  dederunt de poesi ac de variis  eius generibus disserendi, et quum  Socrates cum Aristophane dissereret, comico poeta suæ ætatis  celeberrimo, et cum Agathone, qui  tragoediarum granditate nobilem  se fecit, colloquium quasi ultro  eo delatum est, ut inprimis de  tragoedia atque de comoedia quæstiones instituerentur. Ceterum frustra Stallbaumius eorum sententiam impugnat, qui e Schol. ad Aristoph. Ran. aliisque locis colligunt, Agathouem non solum tragoedias sed etiam comoedias scripsisse. Nam quod  etiam Agatho hoc loco narratur  Socrati oblocutus esse censenti, et  comoedias et tragoedias posse ab  uno eodemque poeta scribi, id  Iride, ne parum validum rei argumentum sit. Quid, si Agatho  comoedias scripsit revera, quas  ipse tragoediis a se scriptis multo deteriores esse intelligeret, nonne  fortius potuit quippe experientia  doctus Socraticam illam sententiam impugnare ?  x p ay gj$ oit oiov ovxa  xal x a pu>8on oior elvau  Vulgo TpayGoSionoiov et xgo/zcoSzoffotoV, quæ formæ ab Atticorum usu alienissimæ sunt.  Moeris habet: xoDpcodoitoioS'   ! 'Atxixg xcoptpdiojzoioS' 'ivi-\7fVlX(k>S> xal avxoS, toiitep slcoSei, exedSat. B.  xapayeyorei 6* iv xjj tivrov 6 i(f 2a)xpdTovS ipa6xj]^ dSv iv  toti /uxAtdta xdov xoxe, gJ S  ipol 6oxet.   xal ovxa eli Av Xtiov. DE LYCEO, GYMNASIO extra urbem sito vide Wucbsmuthii librum ; Hellen. Alterthumsk. II, 2. 56. Ibi Socratem versatum Stallbaumius annotat propterea, quod sophistæ in eo scholas habebant, quorum  inscitiam solebat couviucere, et  quod plurimos illic adolescentes nansciscebatur, quibuscum sermones instituere posset. EXCURSUS Scribendam confecimus 179. C. : xa\ xovx* ipyatictpivTj r<>  ipyov ovxcj xaXov £8o£er ipyadatiSai ov povov dr^pcaxoiC,  a XX a kolL Scois, goSxe noXXdav itoX Xa -noti xaXa ipyadctplvwv  evapiSyr/xoiS 81} xi6iv ZSotiav xovxo yipaS ol 3eol, IB, AiSov  nctXiv dvikvat n)v ipvxyv, aXXa xijv ixeiyrjs ctveitiav avayxad$krx e £ tgo Ipyco.   Ad hæc verba Scholiastes annotat : *AXxrjdxiS 7 } IleXiov Svycexrjp vnopcLvatiot vn\p tov l8iov av8poS XEXsvxydoct 'HpaxXkovS  lni8r]pi)davroS iv ry ©ExxaXin. Stadco^sxai fiiadapkvov xovS *5oviovS SeovS xal dcpeXofiEVOv xrjv yvvaixa. Hic mythus veras  esse videtur; quod Phædrus dedit, mythi artificiosa interpretatio est. Vix intellexit autem Scholiastes, quam utilis ille mythus faturus esset explicationi verborum supra laudatorum. Confirmat enim  fiiadapkvov participium avayxad^kvxES scripturam, Herculem autem quod attiuet, doceri possis herois mentione, quomodo olim  populi mythos genus hominum eruditius interpretatum sit. Recte  nobis annotatione indicasse videmur: Phædrum hunc mythum pro consilii sui ratione ita interpretatum esse, ut Alcestidis virtutem cum Herculea virtute compararet, alteramque Alteri substitueret. Quo clarior res fiat atque ut simul iutelligas, artifices in artis operibns haud  raro eruditorum, quam populi iudicium secutos esse magis, AMORIS imaginem gemmæ incisam infra addendam curavimus sub Nr. I,  Petita hæc imago est e Winckelmanni libro: Monumens inedits de l’antxquite, Paris. Pellis leonina, qna Amor  indutns est, et clava, quam gerit, Herculis insignia sunt. Claves  quid sibi velint, iam videamus, Winckelmannus. hæc  habet: L’Amour portait ces cies ou pourouvrir qtfermer a son gre 1’appartement de Venus, ou pour designer les plaisirs, dont il etait le dispensateur, On  peut-dtre aussi pour faire al Iasion aux cies portes»  par les pr£tres et les pr£ tresses. Horum nihil in nostram imaginem cadif, qnn« audaciam, constantiam, duritiem, non dnlce  risn» Cupidinis prodit. Rectius igitur « laves gerere AMOREM censeas  et clavam et leoninam pullem, quod Herculea vi inferos deos cogendo Orci p u r t n s recludit. De altera, quam apposuimus. Imagine Winckelmannus sio fodicat : Cette pierre gravie reprisente un petit amour avec un Jiam beau allumi, hatant sa marche pour embrasser un jeune homme  extriment afflige, et dunt on aperpoit lea efforts pour fuir. Cette al ligor ie peut assur ement a' interpreter de diverses mani eres, et prepare des torturcs a Vcaprit des savans, Pour moi 9   j'y vois tout simplement l' expression de la passion de l’amour dont le disespoir est temperi par un rayon d’esperance. La  jeune homme, abandonni par l’objet de ses tendres affectione cherche d mettre fin d ses peines. Le monte au, dont il s’enveloppe, annonce la froide humuditi de la nuit. L ’ attitude de  son corps plii en avant etait, selon Aristophane Lysistr. r.  1002, propre d ceux qui, marclrant la nuit, portaient une lanterne, et tachaient d ’ empecher le vent d J en eteindre la lumiere,   Le rocher, qu'on aperpoit, devient le symbole de V expedient 9 qiCil  a choisi pour se donner la mort. Loraque le jeune homme veut se livrer d son desespoir, L’Amour en arrete /* ejfet sinistre  en faisant briller Vcspirance d ses yeux ; son Jlambeau allumi devient le symbole du coeur de sa maf tresse, qui, blessee par V Amour,  va brtcler pour lui du mime feu, dont il brhle pour elle. Les deux  passions contraires de V espirance et du desespoir sont designees  dans ce jeune homme, d’un cote, par l’attitude de son bras, qu*il  tient iloigne de son visage, et de l ’ aut re coti, par son second  bras, qui embrasse l’Amour.   Habet hæc huius imaginis explicatio, quo admodum sese com-  mendet. Quæritur tamen, num infertilissima illa rupes non etiam  de vilitate unius rei amoris intelligi possit; fax certe elata et me-  dia in imagiue posita non spei solius symbolum est, sed etiam my-  steriorum, Iam cfr. 209, E. Tama p\v oZv x a. Ipooxixa tdaP,  gj oxpaxeS, xav 6x> pvrjSdt}?, xa xlXea xai litonrixd, cov  evena xcri xavxa Zdxiv, Iav xiS opSaiS per ovx 016’ el oloS  r* av eVtjS. A Et yap xov op^GoS lovxa liti xovxo xo itpdypa  apx^d^ai pkv vlov ovra levat lit\ xa xaXa dedpaxa, xal itpcoxov phv, iav opS goS ijyijxat d ijyovpevoS, kvo£ av xgov Oaopa-  xojv ipav xal ivravSa yevvdv XoyovP xaAovS, liteixa Sei  avxov xaxavorjdat, oxi xo xctXAoS xo liti oxgoovv dcdpaxi xgj liti  Ixipo) dofpaxi abeXtpov Idxi x. r. X. Etenim non sine caussa duo  Amores ab artifice exhibiti sunt, alter laterna, alter face insignes.  Necessitas autem illa nimium unius corporis amorem remittendi  quantos dolores amatoris animo afferat, amatoris effigie vividissime  i expressam habes» Iam ipse, lector* vide, atram imago tibi proposita aliquid lacis e Platonis verbis laudatis accipiat necne. Nos  unam boc addendum liabemas, Magna virium contentiouc opus est,  •i quis primum initiationis gradum superare cupit. Quem ubi superaveri lætius, liberius circumspectius incedet, id quod alterius AMORE AMANTI AMATO figura repræsentatum est» Flamma autem facis ventis circumagitata, mox nimium effulgens, mox pæne exstincta, superato primo initiationis gradu laternæ inclusa temperatius quidem?  sed æquabilius fulget. Legitur. A. xal itpo x ov t wSitep \£ym, ev 7/pty *  wvl 8& Sta xrjy dSixiay SicpxiC^ifpey vito xov Seov, xctSditep  'ApxadeS vito AaxedatpovicDy. Hoc loco utuntur interpretes ad definiendum tempus, quo Symposium ACCADEMIA conscripserit. Alii post conscriptum  censent, quo tempore scimus Mantineam a Lacedæmoniis eversam  esse, alii ante hoc tempus compositum potant, sed denuo editum  post 01» . 4. Concidet hæc temporis definitio simulatque est demonstratum, verba depravata esse, ad quæ illa defiuitio directa  est» Age igitur primum de anachronismo videamus verborum xa Saitep *Apxa8eS vito AaxedaipoyiGOV 9 quid statuendum sit. Anachronismos passim admisit Plato, de qua ro vide Engelhardti doctissimi annotationem ad Plat. Menex. 236. Eos cur admiserit,  daplex caussa cogitari potest. Aut negligentia fecit atque per obli-  vionem, aut de industria et assequendi alicuius finis studiosus. Atque iu Meuexeno quidem Socratem de re loquentem inducens,  quæ post huius mortem facta est, anachronismum admisit, acer-  bissimi ludibrii commodissimum vehiculum. Etenim in oratores  invehitor, scriptores laudationum locis communibus refertarum quibus data occasione facili negotio atque satis leviter rei adaptatis  ntercutor. Ipsa audi ACCADEMIA verba cap. II. init,: xot\ fiijv, <a Me-  y{£eve, itoXXaxV xiySvvevei xaXuy elrai r 6 tv noXi.fiw dito-  SrijtSxeiv. xal yap racpi/S xaXijS re xal peyaXoxpexovs rvyxa-  vn, xal iay xivtjS riS cov reXevrt/ey, xal inaiyov av Ervx xal iav ipavXoS y vx’ dvSpcov 6oq>oiv re xal ovx  elxy ijtaivovvreor, aXXa Ix iroXXov xpoyov XoyovS  xapedxev a<5 pev cor, o? ooro xaXmS inaivo v 6 1 v,  tSste xal ta hpoSoyra xal t a pij s tepl txa'6rov  XlyovteS, xaXXuSr d xai toti ovopou >t xoixlXXov-  TtS, yoqt evovdtr 1 } p <2v taS t/ivxaS x. t. X. Iam cam  dixisset Menexenus, oratoris electionem subito fieri, quo facto orator non possit non subitaria oratione uti, Socrates omnibus oratoribas orationes, napepya otiosi temporis, recondita facere conten-  dit, atque ipse huiusmodi orationem, h. e, sententiis communibus  refertam profert, quam, quo acerbius vituperiura sonet, ab Aspasia  sibi traditam narrat. Intelliges, opinor, anachronismi acumen. Ad  nostrum locum ut revertar, nihil reperitur, quo anachronismum excusare possis. Huc accedit, quod omnem verisimilitudinem Platonicæ narrationis ita pervertit, ut et habitum revera sjmposinm docearis et non habitum. Negligentiane igitur anachronismum adhibitam censeamus atque maculam artificio præstantissimo additam? Credant, qui velint, nobis nunquam persuadebitur. Sed mittamus anachronismum, comparatio per verba xaSanep  'ApxaSeS vno AaxESaipoviatY instituta quid sibi velit, videamus. Nolo ApxadtS nomen nimiam premere j fieri enim potuit, ut avijp  *A^rjvaloS de Mantineæ eversione illa loquens pro MavtireiS diceret ApxaSsS, sed, si eodem modo propter iniuriam homines dissecti esfce narrantur a deo, quo modo Mantineenses in varios pagos  distributi sint a Lacedæmoniis, merito tertiam, quod vocatur, comparationis quæras. Caussam dissectionis si spectas: hominibus dissectis iniuria, qua ipsi utebantur, perniciei fuit, Mantineen.sibus  iniuria Lacedæmoniorum; diremtum ipsum quod attinet, homines  bifariam divisi sunt, Mantineenses Xenophonte teste Hell.  TETpaxi/ > auctores diremtus his dii, illis Lacedæmonii fuere, divisi hic sunt omnes homines, illic Mantineenses. Una restat dissecandi dirimendique ratio. Utrique et humanum genus et Manti-  neenses vi et ferro dissecti sunt. 8ed num verisimile est, eius rei  describendæ gratia, quam ia prægressis expositam habes, et quæ ipsa per se intelligitur, allatam esse Mantineæ eversionem a Lacedæmoniis patratam? Ut paucis rem absolvam, scripsisse Plato videtur: yvvl 8 £ 8ia tijv adtxiav 8ia>xi6^7]pEv vno tov Seov, xa-  Sdnep 'ApxabeS aito Aaxe8aipov}<aY. Arcadiam inter et Lacedæmonctn scimus montes altissimos sitos esse, quibus utriusque terræ arctior coniunctio prohibetur. Proverbialis autem dictio fuisse  videtur xaSansp *Apxd8eS ano Aaxa8aipovia)Y f quo utebantur,  qui naturalem firmitatem alicuius fissuræ describebant atque impossibilitatem, (venia sit verbo,) restituendæ integritatis. Annotatione. Platonis verba, quæ leguntur, hoc modo scribenda censuimus: pera 81 r a iititrj8&vpara iit i ra( imCnjfiaS dycty&v, 7va {8y av bn&cijp&v xaAAo?, xa\  fiXiitcov npoS itoXv ydrf tu xaXuv, pi\xkxi tu irap ' lv \, wsnep   0 ixiryfi ctyaitcSv itaiSaptov xaXXoS ij av^pamov rivo 5 rj iittrrjdev/xaxoS hrof, SovXevarv qiavXoS y xai opixpoXuyoS x. r. X.  Constans omnium librorum lectio est c ZsitEp olxkxT/S, quod Stallbaumius ceteroqnin optime de huius loci explicatione meritas hoc  modo explicandum censet, ut apte additum dicat, quod, qui unius tantum rei admiretur pulcritudiuem, is ei tanquam servus emancipatus  rideatur. Sed scripsisset, opinor, Plato, si hoc exprimere voluisset, ooSTttp dudXoS. JovXoS enim nomen proprium est de contumeliosa servitute, quam hoo loco requirimus, et quæ explicatius descripta est a Pausania. A. ei ydp  iSlXoi rtoieir olaxep   01 ipa6xecl itpoS x a iraidixd, ixexeiaS te xat dvxipoXi/tiEis: iv  tolis 6et/(5£(ji Ttoiovpevoiy xal opxovS opvvvxeS xal xoifiijCEif  iit\ SvpanS, xal iSkXovxaS SovXeiaS 8ov Xeveiv, oiaS ov8 av 8ov- Aof otldeif x. T. A. Olxixijf autem nomen apte cura LATINORVM familiaris confertur, de quo Macrob. Satum.: nam et maiores,  inquit, nostri omnem dominis invidiam, omnem 6ervis contumeliam detrahentes dominum patrem familias, servos familiares appellaverunt. Non ignoramus quidem, hoc nominum discrimen hand raro Græcos scriptores neglexisse, atque multis io locis olxixrjS posuisse,  ubi douAo? nomen exspectaveris. Sed hoc fecerunt de servis loquentes, non fecerunt io comparatione, qualis hoc loco reperitur. Quoniam igitur oix&TijS nomini hic nou locus est, ultro ad o lxk~  Tt/S scripturam ducti sumus, quæ et a corruptionis verisimilitudine maxime commendatur ( vide Iacobsii Comment. ad Antbolog. Gr.  Melcagr. Epigr. XXXII, ) et ad significatum si respicis, ita apta reperitur, ut haud sciam, an aliud verbum, quod magis ad rem quadret, excogitari possit. Nota vis est amoris, Ea amatorum animi ita percellantur turbanturqæ, ut vitam  non vitalem putent atque da salute desperent, si forte repnlsam tulerint. Quidvis igitur faciunt, fingunt, inveniant, at eius animum sibi concilient, qnem amant, neque, ut propitium sibi reddant,  a precibns abstinent et a suppliciis, Quid multis? Huiusmodi AMATORE AMANTE simillimum esse reperimus homini, qni in summa vitæ versans discrimine ad deorum aras confugit, auxilium rogans, et vitam et salutem j apte igitur bdtTjy vocari censemus. Loci desunt, quibus de AMATORE AMASIUM perdite AMANTE Ixforjv nomen melioris  «etatis scriptoribus in usu fnisse probemus, J Apud seriores sæpissime reperitur, v, c, apud Meleagrum Epigr., Aathol,  Gr. lacobsii quod epigramma, quoniam falsissime a  Iacobsio explicatum est, de rectiore carminis explicatione et emendatione age, iam videamus. Versus hoc modo apud Iacobsium leguntur; npoSoxai tfrvxv> tcoo^qov xrJvef, ailv £v ££$3  KvnpidoS otpSaXpol /JA ippaxa xptoptyoi, Tfpnadax 1 aAAov "Epoox, apves Xvxor, ola xopoovrj  dxopnloy, cJs - r kfppy nvp vnoSocXnopeyoy. 6pa$' o xi nat fiovXedSe. r i poi ver oxtd pira  Sdxpva, itpos 6* Inkxijy avxopoXelcs taxos;  onxadS Iv xctXXet, xv<ped$‘ vnoxaiopiyox vvv,  axpoS Inu ipvxyS idxl payeipoS "EpwS. Argumentum epigrammatis Iacobsius ait esse hoc! Poeta in oculos invehitur, novi semper amoris novique cruciatus auctores. Rectius dixeris argumeutum epigrammatis esse; Invehi in oculos poetam, qui, cum antea semper amasios petierint, uonc mutata consuetudiuo  amatoris animnm pellexerint. Probatur hoc inprimis disticho secundo, quod huc modo scribendum est;   i}pna0av 9 aXXoy "Epoax* t apyes A vxov, ola xopo&rrj  dxopnloy, c Js xktppij nvp vnoSaXn operor. Non recte Iacobsius, apud quem x itppq legitur, sensum verborum  esse ceuset  uovura AMOREM rapuistis et excitastis veluti ignem sub cinere latentem; quæ explicatio cum præcedente disticho, in quo naidcjy nomen xorcodir habet, prorsus non convenit. Quid euim  sibi vult hoc: Oculi, qui semper pulejis pueris insidiari soletis,  novum amasium rapuistis; nonne frigero sentis atque languere ?  AXXoS "EpooS haud dubium est, quin genus amandi mutatum indicet, ut, qui antea AMATOR AMANTE fuerit puerorum, is nunc subito amasius  factus esse perhibeatur. Gopferri possis Æliani Var. Hist. II, 12.  xal x <£> y p\r hxaip&y dnkdXTj (sc. 6 &epidxoxXijs ), r/pa 61  ipGoxa Sxepor, roV xijs noXixeiaS xcov A^rfraiaur. Insequentia  exempla nostram interpretationem comprobant. ! ApveS Xvxor enim  nihil aliud siguiEcut, quam amasium pellexisse amatorem. Sæpissime cum lupis amatores comparantur, cum ovibus amasii. Vido  Stallbaumium ad ACCADEMIA. Phædr.V., Iacobsium ad Anthol. Gr. Ad luporum atque ovium comparationem, quæ in proverbium abiisse videtur, ceten^ exempla directa sunt ola xopoovtj dxopniov et ooS xk<pprj nvp vnoSaXno/ievov. Vides enim, quod debilius natura est, atque natu miuus, fortius e Y. x  nata maius dlcl superasse. Nihil aptius est his exemplis ad describendam infirmitatem eius, qui, ot opud Platonem legitur, ro itap iv\ fiXbcoov contumeliosam servitutem In se suscepit. Sequens disticlion Brunckius ex Bouherii coniectura sio scribendum esse putat:  6pd5' ott xev fiov\jj<5$8. tl p .01 vevoti6peva xdxe  daxpva, npoS 8* i\pxxr\v avxopoXelxe rdxce.  censetque, suos poetam alloqui oculos, quorum in amore ditXTjdxiay et itoXvfiavlav incuset. Ingeniosa emendatio, Iacobsius inquit, et  fortasse vera; quamvis et sic aliquid relinquitor, quod palatum  paullo morosius offendat, cum e}px xi/S in hoc imaginum contextu  vix satis apte mentio fiat. Recte Iacobsius xey et sequentem  coniunctivum improbat, non recte pro ixlxrj v fortasse scribendum  esse lipxiTjy putat. IxhrjS enim amator est, ad quem, poiita frustra reluctante, oculi quam celerrime sese convertunt. Iam intelligetur, quid sequens disticlion significet, quod sic scribendum est:  Gj7ttd65 *Iv xaXXei, tv<pe6^ t vnoxoLioptvoi rvv t  axpoS ii nl ipvxijs idx t pdyeipoS "EpcaS. Olim vobis ilammam attulit puerorum, quibus insidiamini, pulcritudo, nunc fumum et lacrymas excitat admota flamma eius, qui vobis insidiatur, nam sive amator sive amasius sis, animam Eros mi-  sere coqait. Pausania, do not multiply loves beyond necessity – l’ambiguita di ‘amore’ – L’Afrodita celeste no participa della natura femmina, solo della natura ‘maschile’. Pausania parla solo a maschi, ai maschi virili, al maschio virile. L’amante o amatore e maschio virile, l’amato o l’innamorato e maschio virile. L’amore celeste (ouranios) participa solo della natura maschile. Criterio d’amabilita, l’amabile. Giuseppe Colombo. Keywords: idealismo Toscano, atto, attualismo, actualism, actum, senzo, sensus, sense, morale communitaria, pietra angolare, Chiesa d’Inghilterra, Cratilo, origine del linguaggio, glossogenia, glossotesi, gossogenetic, semio-genesi, il soteriologico, immanente/trascendente, aporia dell’amore platonico, eikesia, ‘Daddy wouldn’t buy be a wow wow’ true iff Daddy wouldn’t buy me a bow wow – correctness of iconicity of ‘daddy’ and ‘bow wow’ --.  Heteroerotismo – Il discorso di Alcibiade – analisi del simposio, l’elogio dell’eros. Il discorso di Pausania. Ero demone,  Ficino, il convito, convivium, Pausania, Alicibiade, puerile, uomo puerile, Socrate, Agatone, Aristofane, il mito, il maschio, il vocabolario dell’amore: amore, amare, amans, amante, amator, amatore, amatum, amicus, amasium, amore mutuo. Desiderio, il vocabolario latino, il vocabolario transliterato, erote, il vocabolario translato, il vocabolario in Toscano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombo” – The Swimming-Pool Library. Colombo.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colonna: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio.Filosofo italiano. Roma, Lazio. There is already an entry for this; in Italian it is ‘Egidio Colonna’ --  giles di roma, Rome, original name, a member of the order of the Hermits of St. Augustine, he studied arts at Augustinian house and theology at the varsity in Paris but was censured by the theology faculty and denied a license to teach as tutor. Owing to the intervention of Pope Honorius IV, he later returned from Italy to Paris to teach theology, was appointed general of his order, and became archbishop of Bourges. Colonna both defends and criticizes views of Aquinas. He held that essence and existence are really distinct in creatures, but described them as “things”; that prime matter cannot exist without some substantial form; and, early in his career, that an eternally created world is possible. He defended only one substantial form in composites, including man. Grice adds: “Colonna supported Pope Boniface VIII in his quarrel with Philip IV of Franc eand that was a bad choice.” The Latin is EGIDIVS COLUMNA. The “Corriere” has an article as his book being a bestseller of the Low Middle Ages!” Cosnisder the claims here: ‘essence and existence are really distinct in creatures – and each is a thing – prime matter cannot exist without substantial forml – eternal and created world is not a contradiction – there is only ONE substantial form in compostes, including man.   Grice: “Must say I LOVE Colonna, or COLVMNA as the printing goes – of course the “Corriere della Sera” hastens to add that he wassn’t one! In any case, my favourite of his tracts is of course the one on Aristotle!”. Egidio Romano, O.E.S.A. arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Incarichi ricopertiArcivescovo di Bourges   Nato Roma Nominato arcivescovo Roma. Manuale Egidio Romano, latinizzato come Ægidius Romanus. Dopo la sua morte, gli furono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps. Discepolo d'Aquino. Insegna filosofia. Fu inoltre il tutore di Filippo il Bello al quale dedica il saggio “De regimine principum”, sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo. Considerato tra i più autorevoli filosofi di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam di Papa Bonifacio VIII e per il ruolo significativo che assunse il Mæstro degli Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In Colonna rileviamo subito una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico. Infatti è possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il “De regimine principum”, saggio dedicato a Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente alla naturalità dello stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel “De Ecclesiastica potestate”, invece, afferma la superiorità del “sacerdotium” rispetto al “rex” o “regnum”, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia papale. In seguito alle condanne di Tempier, difende la tesi d’Aquino, per la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene sospeso dall'insegnamento. Gli avversari del papato trovano in Aristotele gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta in discussione la sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale, di compenetrazione fra stato e chiesa, all'interno del quale Agostino viene a giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo “De Civitate Dei” conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della “Civitas Dei Cælestis” e il piano temporale della vita terrena che è “Civitas Peregrina”), che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del sacerdotium rispetto al rex e regnum, costituendo un vero e proprio “partito del Papa”. Rivendica la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva dell'auctoritas del Papa in quanto “homo spiritualis”. Sostituisce al concetto agostiniano di “ecclesia” quello di “regnum” al fine di estendere gli ambiti del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico, il Papa, dove esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire l'ordine mediante una forma di “dominium” che coincide con la sua stessa missione spirituale. Atre opere: L'edizione critica dell'opera omnia è stata intrapresa, per Olschki (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), da Punta.  “Quaestio de gradibus formarum” Ottaviano Scoto, Boneto Locatello. “In secundum librum sententiarum quaestiones” Francesco Ziletti); Opere, Antonio Blado; “In libros De physico auditu Aristotelis commentaria”; Ottaviano Scoto; Boneto Locatello, “De materia coeli” Girolamo Duranti,  “Quodlibeta”. Silvia Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano, “Le opere prima”; “I commenti aristotelici”, "Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale", Dizionario biografico degli italiani. DEL GOVERNO DI SÈ. Del sommo bene. Quale è la maniera di parlare nella scienza de're e de' principi. Quale è l'ordinanza delle cose che si debbono dire in questo libro. Come grande utilitate ei re e' principi ånno in udire e in intendere e in sapere questo libro. Quante maniere sono di vivare e come l'uomo die méttare il sovrano bene di questa mortal vita in queste maniere di vivere. Com'è grande utilità e a' re ed ai principi che ellino conoscano il loro fine e'l loro sovrano bene di questa vita mortale. I re ne i principi, non debbano mettere il loro sovrano bene in diletto corporale. I  re ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere ricchezze. I  re ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere onori. I re ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere gloria o gran rinomo di bontà. Nè i re né i principi non debbono méttare il loro sovrano bene in avere forza di gente. I re ne i principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle uopere della prudenzia cioé del senno. Come ei re e' principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle opere della prudenza e del. Il prezzo e'l guidardone dei re e dei principi bene governanti il loro popolo, secondo legge e ragione, è molto grande. senno. Della virtù. Quante potenze à l’anima e in quali potenze e la virtù di una buona opera. Come la virtù di una buona opera e divisa nella volontà e nell’intendimento dell'uomo. Quante virtù di buone opere sono, come l'uomo die préndare il numero di esse. Delle buone disposizioni che l'uomo à, alcune sono virtů, alcune sono più degne che virtù, alcune altre sono apparigliate a virtù. Alcune virtú sono più degne d'alcune altre e più principali. Che cosa è la virtù dell’uomo ch'è chiamato senno, over prudenza, over sapere. Ai re ed ai prenzi conviene es sere savi. Quanto e quali cose conviene ai re e ai prenzi avere acciò che ellino siano savi. Come și re e i prenzi possano fare loro medesimi savi. Quante maniere sono di drittura ed in che cosa è drittura e come drittura è divisata dalie altre virtú. Senza drittura e senza iustizia ei reami non possono durare, nè nulla signoria di città. I re e i prenzi debbono intendere diligentemente acciò che essi siano dirilturieri e che drittura sia guardata nelle loro terre. La forza di coraggio e. e quali cose ella die essere, e come ei re e i prenzi le. possono avere. Quante maniere sono di forza e secondo la quale ei re e i prenzi debbono essere forti. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama temperanza e in quali cose quella virtù die essere, quante parti a la temperanza, come noi la potemo acquistare. Ched elli é più disconvenevole cosa che l’uomo sia distemperato in seguire LI DILETTI DEL CORPO che in essere paurioso. Il principe debbe essere temperato nel diletto di suo corpo. La virtù che l'uomo chiama larghezza e'n quale cose cotale virtù de' essere, e come noi la potemo acquistare. Che a pena può essere el re o'l prenze folle largo e come è troppo sconvenevole' cosa che essi sieno avari e ch'ellino debbono essere larghi e liberali. Che cosa è una virtù che l’uomo cjiama magnificenzia e'n quali cose quella virtù die essere, e come noi potemo avere quella virtù. Come è cosa isconvenevole che i re e i prenzi sieno di piccola dispesa e di poco affare, e che maggiormente s'avviene a loro essere di grande spese e di grande affare. Che condizioni à l'uomo che è di grande spesa e di grande affare, e che conviene maggior mente averle ai re ed ai prenzi. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama magnanimità, cioè a dire virtù di grand'animo e in quali cose quella virtù di essere e come noi potemo essere di gran cuore. Quante condizioni à l'uomo che è di gran cuore, e che maggiormente si conviene ai prenzi d'averle. Come ei re e i prenzi debbono amare onore, o quale è la virtù che l'uomo chiama virtù d'amare opore. 68 Cap. XXV. Ca insegna che amare onore ed èssare umile possono essere insieme e che quelli che è di gran cuore e di grande animo non può essere senza umiltà. Che cosa é umiltà de la quale il filosafo parla e in quali cose ella die essere e che maggiormente conviene ai re ed ai prenzi essere umili. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama dibuonairetà, ed in che cose la buonairetà die essere e che conviene ai re ed a i prenzi essere dibonarie. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE PIACEVOLMENTE e in che cose la detta virtù die essere e che si conviene che i re e i preozi sieno piacevoli. Che cosa è verità e in che cosa ella die essere usata e come si conviene al principe ch'esse sia veritiero o sincero. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama sollazzevole, quasi dica di sapere sollazzare, e di essere allegro e gioioso, là ' ve si conviene, e per la quale' l'uomo si sa avvenevolmente rallegrare nei sollazzi, come ei re e i prenzi debbono essere allegri e sollazze voli. Conviene al principe avere tutte le virtù, perciò che perfettamente l’uomo non ne può avere una senza le altre. Quante maniere sono di buoni e adi malvagi uomini e quale maniera di bontà ei re e i prenzi debbono avere. Delle passione. Quanti movimenti d'animo sono e donde essi vengono. Quali movimenti d'animo sono principali che gli altri e come essi sono ordinate. Come il principe debbe amare e quali cose debbe amare. Come il principle debbe desiderare e che cosa debbe desiderare. Come ei re e i prenzi si debbono portare ayvenevolmente in isperare e in disperare. Come avvenevolmente ei re si debbono portare in avere ardimento. Che differenza elli à intra corruccio e odio, e come ei te e i prenzi si debbono avvene volmente contenere nei corrucci e ne le di bonarietà. Come ei re e i prenzi si deb bono ayvenevolmente avere nei diletti. Come alcuni movimenti d'animo sono mantenuti e ritornano ad alcuni altri movimenti. Ched ei movimenti dell'animo alcuni sono da biasmare ed alcuni sono da lodare e come ei re e i prenzi si debbono conferire nei movimenti detti dinanzi. Della costume. Quale costume e quale maniere de giovani uomini fanno da lodare, e come il principe debbe avere essa costume ed essa maniera. Quali costumi e quali maniere dei giovani uomini fanno da biasmare, e come ei.re e i prenzi debbono ischiſare cotali maniere e cotali co stumi. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da biasmare, come ei re e i prenzi ei debbono ischifare. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da lodare. Che costume e che maniera ha il gentile uomo, e come il principe debbe avere. Che costumi e che maniere anno l’uomo ricco e come ei re e i prenzi ei debbono. Che modi e che maniere ánno coloro che sono possenti ed anno signorie, e come li re e li principi si debbono avere in verso la gente convenevolmente. Avere. DEL GOVERNO DELLA FAMIGLIA. Della moglie. L'uomo die naturalmente vivare in compagnia, e che i re i prenzi il debbono sapere. Che, acciò che la casa sia perfetta, si vi conviene avere quattro maniere di persone, e come e' conviene questo secondo libro divisare in tre parti. Quella casa è perfetta ove v'à assembramento di un uomo e di una femmina, un figliuolo, e servi. L'uomo naturalmente si die ammogliare e che quelli che non vogliono vivare in matrimonio, o elli posono bestia, o ellino sono migliori che l’uomo. Ciascuno uomo e ciascuna femmina, e medesimamente ei re e i prenzi che sono ammogliati, si debbono tenere in matrimonio senza partirsi o senza divídarsi. A ciascun uomo die bastare una femmina, e che i re e i prenzi e ciascun altro uomo si die tenere appagato a una femmina. Un uomo die bastare a una femmina, e che una femmina si die chiamare contenta d'un uomo. L’uomo non die prendare moglie la quale sia troppo presso a lui di parentato o di lignaggio. Come le moglie dei re e dei prenzi e di ciascuno altro uomo debbono avere abbondanza di beni temporali. Come nè i re né i prenzi, nė cia scuno altro uomo non debbe chiėdare solamente ei beni temporali delle loro mogli ma anco ei beni del CORPO e quelli dell'anima, e ciò e il bello e il casto. L’uomo non die governare nė tenere la moglie nella maniera ch'elli die tenere e governare il suo figliuolo. L’uomo non die tenere nė governare la moglie nella manera che l'uomo die tenere e governare e fanti. Che elli non si conviene nė ai re nè ai prenzi ned a nessuno altro uomo, ch'ellino usino il matrimonio in troppo giovano tempo. L’uomo die piuttosto fare l'opera del matrimonio nel verno che nella state. Come alcune cose sono nelle femmine che sono da biasmare. Come ei re e i prenzi e ciascuno altro uomo die avvenevolmente governare e addrizzare la moglie. Come gli uomini si debbono portare con le loro mogli. Come la femmina maritata deb bono convenevolmente adornare il loro corpo. Né I re ne i prenzi, nė li altri uomini, non debbano essere troppo gelosi delle loro mogli. Che cosa è ' l consiglio della femmina, e che 'l suo consiglio l'uomo non die credere se non in alcun tempo. Com’l’uomo non debbe dire il suo secreto alla sua moglie. Dei figli. Il padre die essere curioso di guardare il suo figliuolo. Che ciò s'avviene maggiormente ai re ed ai prenzi, cioè ch'ellino sieno guardatori e curiosi dei loro figliuoli. Il padre governa il suo figliuolo per L’AMORE ch'elli à in lui. L’AMORE NATURALE il quale die essere da padre a figliuolo prova sufficientemente che il padre debbe governare i suo figliuolo e il figliuolo debbe ubbidire il padre. Nel quale dice che i re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine insegnare la fede ai loro figliuoli. I re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine insegnare ed appréndare ei buoni costumi e le buone maniere ai loro figliuoli. Il figliuolo del gentile uomo debbe apprendere le scienze della chericia, ciò sono, morali, naturali e matematice. Quale arte il figliuolo di un gentile uomini debbe apprendere. Quale die ėssare il tutore del figliuolo di un gentile uomo. Il padre die insegnare al suo fanciullo a parlare e a vedere ed a udire. In quante maniere l'uomo puó peccare in mangiare e come il garzone si debbe contenere. Come il padre die insegnare al suo fanciullo acciò che si sappiano portar avvenevolmente nel bere e ne' diletto della femmina. Come il garzone si debbe contenere nel diletto del corpo. Come in giovanezza l'uomo die schifare le malvagie compagnie. Che guardia l’uomo die avere de' figliuoli da che sono nati, insino a’ sette anni. Che guardia l'uomo die avere de' fanciulli da sette anni fino a quattordici. Che guardia l'uomo die avere del figliuolo da quattordici anni innanzi. Che il padre non die insegnare al figliuolo uno medesimo travaglio di corpo. Della casa e dei servi. L'uomo die diterminare e parlare delle cose donde la vita umana può esser sostenuta, volendo governare la sua famiglia e la sua casa. Il casino della villa del’uomo, die esser fatto sottilmente ed in buon áire. Il casamento dei re e dei prenzi, e di ciascuno altro uomo, die esser fatto in luogo dove abbia abbondanza di buona acqua e di chiara. Naturalmente l’uomo die avere possessione in alcun modo e che quellino che rifiutano le possessioni, non vivono come uomini, anzi sono migliori che uomo. Elli è grande utilità alla vita umana, che l'uomo possa vivare della sua propria ricchezza. Come l'uomo die usare dei beni temporali, e quale maniera di vivare è buona e onesta. Nel quale dice che ciascuno uomo, e medesimamente ei re ei prenzi, non debbono desiderare troppo grande abbondanza di ricchezze ne di possessioni. Quante maniere elli sono di vendere e di comperare e perchè ei denari fuoro prima mente fatti e trovati. L'usura è generalmente malvagia, e ch'ei re ed i prenzi la debbono difendare ch’ella non sia fatta nella loro terra. Nel quale dice ch’ei sono diverse maniere di guadagnare denari e che alcuna di queste maniere è avve nevole ai re ed ai prenzi. Alcuna gente è serva per natura e ch'elli è loro utilità ch'ellino sieno suggetti ad altrui. Nel quale dice che alcune genti che sono servi per natura e per legge. Nel quale dice ch’ellino sono alcune genti le quali sono serve per prezzo ed alcuna gente che servono per l’amore ch’elli ánno ai suo signore. L'uomo die dare gli ufici ai suoi fanti nelle case dei re e dei prenzi. Come ei re e i prenzi debbono provvedere ai loro sergenti robe e vestimento. Che cosa é cortesia e ched e' conviene ai fanti dei re e dei prenzi ched ellino sia cortese Nel quale dice come ei re e i prenzi si debbono contenere inverso ei loro sergenti. Che quelli che servono e quelli che mangiano alla tavola dei re e dei prenzi, e generalmente che il gentile uomo non debbe molto favellare. DEL GOVERNO CIVILE. Detti dei filosofi nel governamento delle città. Nel quale dice che la villa e ordinata e stabilita per alcuno bene. Fu grande utilità alla vita umana che colla comunità della villa e delle città, li uomini ordinassero la comunità del reame. Nel quale dice ceme Platone e Socrate dissero che l’uomo dovea ordinare e governare le città. Nel quale insegna che i re e i prenzi debbono sapere che tutte le cose non debbono essere COMUNE siccome Platone e Socrate dissero. Nel quale dice quanti mali avverrebbero se il figliouolo fusse comune. Nel quale dice come la possessione debbe essere proprie, e come debbono essere comuni, secondo l'utilità delle ville e delle città. I re ei prenzi non debbono sofferire che una medesima gente duri sempre in una medesima signoria. Nel quale dice che l'uomo non die cosi ordinare la città come Socrate disse, che dovieno essere ordinate. Come l'uomo può trarre a buono intendimento le parole che Socrate disse, al governa mento delle città. Come un filósafo, ch'ebbe nome Fal lea, disse, che l'uomo dovea ordinare le città. Le possessioni non debbono essere eguali, siccome disse Fallea. Come quelli che signoreggia alcuna città, elli die più principalmente intendare a cessare le malvagie volontà e i malvagi desideri e convoitigine, ched elli non die intendere a cessare la disuguaglianza delle possessiono. Nel quale dice, come un filósafo ch'ebbe nome Ippodamo, disse che l’uomo dovea ordinare le città. Nel quale dice quali cose sono da riprendare in quello che Ippodamo disse del governamento della comunità. Della migliore maniera di governare le città. Il quale insegna come l’uomo die governare le città in tempo di pace, e quante cose l’uomo die guardare in cotale governamento. Quante maniere sono di signorie e quali sono buone e quali sono rie. Ched o' val meglio che le città e ' rea mi sieno governati e retti per un solo uomo che per molti e che quest' è la migliore signoria che sia quando un solo uomo signoreggia ed elli intende il bene comune. Nel quale dice per quali ragioni alcuna gente volsero provare ched e’ valeva meglio che le terre e le città fossero governale per molti uomini che per un solo e dice in questo capitolo ciò che si die rispóndare a cotali ragioni. Ched e' val meglio che le terre e le signorie e' reami vadano per redità per successione DEL FIGLIOUOLO che per elezione. Nel quale dice quali sono le cose ne le quali il re die sormontare gli altri, e che diversità elli à intra'l re 'e'l tiranno. Nel quale dice che la signoria del tiranno è la peggiore signoria che sia e che i re ei prenzi si debbono molto guardare ch'ellino non sieno tiranni. Quale dia esser l'ufficio dei re e dei prenzi, e com’essi si debbono contenere in governare le loro città e i loro reami. Quali sono le cose che’ l buono re die fare, le quali il tiranno mostra di fare ma non le fa nèmica. Nel quale dice per quante cautele il tiranno si sforza di guardare sė ne la sua signoria. Ched elli è molto isconvenevole cosa ai re ed ai prenzi ched ellino sieno tiranni, perciò che tutte le malizie che sono nell’altre malvagie signorie, sono ne là signoria del tiranno. Nel quale dice che i re e i prenzi debbono molto ischifare la compagnia del tiranno, perciò che per molte cose ei soggetti aguaitano ed assaliscono il loro signore quand’elli é tiranno. Nel quale dice quali cose guardano e salvano la signoria del re e ched e'conviene fare al re sed e' si vuole guardare ne la sua signoria e nel suo reame. Quali cose fanno a consigliare e di quali l'uomo die avere consiglio. Nel quale dice che cosa è consiglio, e come l'uomo die fare ei consigli. Nel quale dice che consiglieri ei re e i preozi debbono avere ai loro consigli. Nel quale dice quante cose conviene sapere a quellino che consigliano ei re e i prenzi e in quali cose l’uomo die préndare consiglio. Nel quale dice che tutte le cose donde l’uomo giudica, l'uomo die giudicare secondo le leggi e che l’uomo die fare pochi giudicamenti e dare poche sentenze per arbitrio o per credenza. Nel quale dice come l’uomo dic fare ei giudicamenti: e ch’e giudici debbono vetare che li uomini che piateggiano non dicano parole dinanzi al giudice che’l possa muovere ad amore nè ad odio contra ad alcuna de le parti. Nel quale dice quante cose conviene avere a’giudicatori a ciò ch’ellino giudichino bene e drittamente. Nel quale dice quante e quali cose conviene riguardare al giudice, acciò ch’elli perdoni e sia più di buonarie che crudele. Nel quale dice ched e’ sono diverse maniere di leggi e diverse maniere di giustizia e che al dritto natu rale ed al diritto iscritto tutti gli altri dritti sono ridotti e ramenali. Quali debbono esser le leggi umane e ched elli fu grande utilità ai reami ed a le città a fare cotali leggi. Nel quale dice che ciascuno non die némica istabilire nė ordinare le leggi; e ched e' conviene che le leggi sieno publicate é fạtte sapere acciò ch’ell’abbiano forza d’obbligare le genti. Quante opere e quali le leggi ch'ei re e i prenzi istabiliscono ed ordinano, debbono contenere. Nel quale dice quale vale meglio o che le città o i reami sieno governati per un buono re o per una buona legge. Nel quale dice che co la legge naturale e co la legge iscritta e' conviene che l’uomo abbia la legge di Dio e la legge del Vangelo. Come l’uomo può, si die guardare le leggi del paese e ch'elli non è utile ch'elle si rimutino ispesso. Nel quale dice che cosa è città e che cosa è reame e chénte die essere il popolo ch’è ne le città e ne' reami. Nel quale dice che allora è la città e’l reame trasbuono e 'l popolo trasbuono, quand’elli v’à molte di mezzane persone. Nel quale dice ched elli é grande utilità al popolo di portare grande riverenza al prenze ed al signore e ched ellino guardino diligentemente le leggi che i re e i prenzi ánno ordinate. Come il popolo e generalmente tutti quelli che dimorano nel reame, si debbono mante nere saviamente, acciò che’l re o’l prenze non abbia corruccio nė odio contra loro. Come ei re ei prenzi si deb bono mantenere, acciò ch'ellino sieno amati e temuti dal lor popolo. Ed insegna questo capitolo che tutto debbiano ei re ei prenzi esser amati e temuti dal lor popolo, ellino debbono maggiormente volere essere amati che temuti. Del governo in tempo di guerra. Che cosa è cavalleria e da ch'ella é ordinate. Nel quale insegna in quale terra sono e’migliori combattieri e quali l’uomo die iscegliere per combattere dell’uomini che debbono andare a la battaglia. In quale tempo l'uomo die acco stumare il fanciullo all' opere dela battaglia e per quali segni l'uomo può conosciare ei migliori battaglieri. Nel quale insegna quante cose e quali e' conviene avere a' buoni battaglieri, acciò ch'ellino si combattano bene e giustamente. Nel quale insegna quali sono migliori battaglieri o i gentili uomini, oi villani, o quellino che nel campo dimorano, ciò sono ei lavoratori. Nel quale insegna ch’elli è grande utilità ai baltaglieri chedellino sieno bene esercitati all'arme; e che l’uomo die ei battallieri apprendare a correre ed a saltare ed andare ordinatamente. Nel quate insegna ched e’si conviene appréndare ai battaglieri molte altre cose che quelle che sono dette, cioè a córrare ed assaltare ed andare ordinatamente. Nel quale insegna che l’uomo die fare nell’oste fossati e castelli. Ed insegna questo capitolo come l’uomo die fare ei castelli e quante cose l’uomo die guardare in farli. Nel quale dice quante cose l’uomo die guardare quand’elli vuole o die imprèndare battaglia comune. Nel quale dice ch’elli è grande utilità ne le battaglie di portare bandiere e gonfaloni: e che l’uomo die ordinare capitano e maggiore a ciascuna ischiera. E so - nemici migliantemente questo capitolo insegna quali debbono essere e banderari e i capitani di quelli a piè e di quelli a cavallo. Nel quale dice che avvedimenti die avere e che die fare il signore dell’oste acciò che la sua gente non possa essere gravata dai nemici per la via. Nelquale dice come l’uomo die ordinare le schiere e le battaglie, quando l’uomo si die combattere contra I Nel quale insegna che l'uomo die ferire il suo nemico nello battaglia di puntone e non di ramata. Nel quale dice quante cose fanno gli avversari più forte che quelli dell’oste é come l’uomo die assalire ei suoi nemici. Nel quale insegna come ei battallieri si debbono tenere quando vogliono ferire ei loro nemici, e com’ellino ei debbono inchinare e come l'uomo si die trarre in drieto quando la battaglia non porta utilità. Nel quale insegna quante maniere ei sono di battaglie; e in quanti modi l’uomo può prendare le città e le castella ed in che tempo l’uomo le die assediare. Come quelli dell'oste si debbono fornire e come l'uomo può vénciare le castella per cava. Come per l’ingegni del legno che l'uomo può menare al muro del castello, l’uomo lo può prendare. Come l’uomo può e die edificare le castella acciò ch'elle non sieno leggermente prese ně come l'uomo può e die guérnire le castella acciò ch'elle non possano esser prese. Nel quale dice come quelli che sono nel castello assiso possono e debbonsi difendersi da la cava e dai tra bocchi e dalli altri ingegni che quellino dell'oste vi fanno. Come l'uomo die fare le navi, e come l'uomo si die combattere nell'acqua o nel mare, da che cosa tutte le battaglie debbono essere ordinate assediate. Che cosa è una virtù che l’uomo chia ma piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE piacevolmente con le genti, e in che cose la detta virtù die essere, e che si conviene che i re e i prenzi sieno piacevoli. Appresso ciò che noi avemo detto che cosa è debonarietà, noi diremo d’un'altra virtù, che l’uomo chiama piacevolezza. E dovemo sapere che le opere e le parole dell'uomo sono ordinate a tre cose, si come ad avere piacevolezza e verità, ed avere diletti e giuochi nei solazzi e nelle allegrezze. LA PRIMA RAGIONE: E la piacevolezza si è, in SAPERE BENE CONVERSARE, unde quelli che sa onorare e riverire gli uomini convene volmente e secondo ragione, si à la virtù della piacevolezza. La SECONDA ragione si è, che le opere e le parole dell’uomo sono ordinate sie a verità che, per le opere e per le parole dell'uomo può l'altro uomo conosciare chi egli è (“Conversation maketh the man”). Donde, verità non è altro se non che l'uomo non sia vantatore e che nè per parole nè per fatti elli non dimostri maggior cosa in lui che vi sia, nè che l'uomo non si faccia ispiacevole nè per parole nè per fatti oltre quello che ragione insegna, perchè elli sia gabbato ne dispregiato. La TERZA RAGIONE a che l'opere e le parole dell'uomo sono ordinate, si è, acciò che l'uomo sia sollazzevole convenevolmente, e si sappia bene portare nei giochi, e nelle allegrezze e nei sollazzi. Donde, se l'uomo vuole CONVENEVOMENTE CONVERSARE e' die essere giochevole e piace vole e veritiere. E di queste tre virtù noi diremo partitamente, ma prima diremo della piacevolezza. E dovemo sapere che, NEL CONVERSARE, alcuni si mostrano troppo piacevoli, si come sono e lusinghieri, e quelli che’n ogne cosa vogliono piacere altrui, che acciò che piacciano altrui, si lo dano tutti ei fatti è tutti ei detti di ciascuno uomo. E alcuni sono, che anno troppo gran difalta NEL CONVERSARE co le genti, si come sono ei malvagi e quellino che sono battaglieri, e tenzonieri; e questi fanno contra a ragione. Chè neuno die volere essere si piacevole nè si compagnevole, ch’elli ne do venti o ne sia lusinghieri, e piacere a tutti gli uomini, nė neuno die essere si pieno di contenzione e di noia, che li con venga cessare della compagnia delli uomini, ma quelli è da lodare che si sa mezzanamente portare e secondo ragione, nel CONVERSARE. Donde la virtù che l’uomo chiama piacevolezza cessa la contenzione dell'uomo e tempera il lusingare, e quello per lo quale l'uomo vuole a tutti gli uomini piacere. E perciò che l'uomo è per natura compagnevole, si come dice il filosafo, si conviene dare una virtù per la quale ne le parole e nei fatti sappia CONVERSARE COOPERATIVAMENTE E convenevolmente e secondo ragione. E questa virtù che l'uomo chiama piacevolezza, tutto sie cosa che, tutti quelli che vogliono essere piacevoli e vivare in cooperazione, compagnia ed in comunità con l’altro, conviene ch'elli abbiano, acciò che siamo cortesi e piacevoli, non perciò debbiamo essere si cortesi ne si piacevoli ad uno come un altro: chè la dritta ragione insegna, che, secondo la diversità dei due conversatori, l'uomo si die portare in maniera appropriata con l’altro. E perciò che troppa amistà e troppa gran compagnia mostrare ad ogni uomo fa l’uomo ispiacevole e vile; il gentile uomo si debbe più alteramente contenere che l’altro, acció che l'uomo lor porti più onore e più reverenza, e che la dignità de la loro grandezza non sia abbassata nè avvilata. Donde il filosafo dice che i re e i prenzi debbono mostrare ch’ellino sieno persone degne d’onore e di reverenza. Chè si come noi vedemo che alcuna vianda fuôra soperchio a uno infermo che non basterebbe ad uno sano, cosi è nell'essere piacevole e cortese, che alcuna piacevolezza s’aviene a’re secondo ragione, che non s’aviene cosi ad un’altra persona comune. L’Enciclopedia italiana cura l’edizione critica del “Il regime del principe”,  testimoniato da nove manoscritti, tra cui il codice della Biblioteca di Firenze (sig, che si distingue sia per motivi cronologici (nell’explicit reca la data) sia per la veste linguistica, in prevalenza senese, verosimilmente molto vicina a quella dell’originale, ciò che lo rende un documento di lingua privilegiato rispetto alle coeve attestazioni di varietà toscane non fiorentine tra fine Due- e inizio Trecento. L’opera discende dal “Il regime del principe”, composto da Colonna filosofo tra i più autorevoli della sua epoca, nato a Roma. Dedicato a un principe, di cui Colonna fu tutore e ispirato alla Retorica, la Etica, e la Politica di Aristotele, esuddiviso in tre libri concernenti la “morale», ossia l’etica (disciplina dell’individuo), l’oeconomia (della casa), e la politica (della città o reame o villa) - è il più corposo trattato basso-medievale sul regime del ‘gentile uomo’ ed ebbe non solo una straordinaria fortuna in Italia fino a tutto il XV secolo come elogio della cavalleria. Esercita una notevole influenza sul Convivio, sul “De vulgari eloquentia” e sulla “Monarchia” di Alighieri. “E lasciando lo figurato che di questo diverso processo dell’etadi tiene Virgilio nello Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita [il filosofo appartenne all’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino ne dice nella prima parte dello Regime del Gentile Uomo. L’ampia Introduzione, oltre a tracciare il profilo biografico di Egidio illustrando contenuto, fonti e storia della ricezione del suo capolavoro, esamina nei dettagli il debito di Alighieri, la fortuna figurative o iconografica del trattato (l’affresco giottesco della Cappella degli Scrovegni di Padova, precisamente nella Virtù; l’Allegoria ed Effetti del Buono Governo realizzata da Lorenzetti a Siena, specie nella particolare raffigurazione della giustizia commutativa e la giustizia distributiva alla sinistra dell’affresco -- i rapporti tra il De regime e il Livre dou gouvernement (una drastica riduzione non sempre perspicua, di cui sono noti trentasei manoscritti) e tra questo e il Livro del governamento, la prima traduzione, pur parziale, di opere che solo successivamente furono volgarizzate nella loro interezza, ad opera di un anonimo senese, come avevano già ipotizzato, tra gli altri, Segre e Castellani. Inoltre si auspica - e intanto s’imposta in modo acuto e pregnante - un commento dedicato alle fonti del “Regime”, ormai indispensabile alla luce della ri-valutazione della filosofia nel vernacolare tra Medioevo e Rinascimento portata avanti dalla bibliografia più recente. Grazie infatti agli studi degli ultimi due decenni, siamo oggi più informati sui modi in cui la cultura vernacolare interagì con quella antica, bolognese, tradizionalmente ritenuta ‘più alta’, e sul diverso pubblico, dichiarato o reale, cui si indirizzava la trattatistica filosofica dei secoli dal XIII-XIV in avanti. Infine, si passano in rassegna le altre versioni del De regimine (quella senese è bensì la più antica, ma non l’unica: se ne conoscono almeno altre cinque).  Nella parte prima della Nota al testo si dà conto della tradizione manoscritta dei testimoni completi e dei testimoni parziali (descrizione esterna, descrizione interna, bibliografia), offrendo dati preziosi sulla tradizione a stampa del De regimine e sulle edizioni del Governamento. Nella parte seconda si indicano i criterî di edizione e gli usi del copista.  L’appendice prima alla Nota al testo raccoglie le aggiunte inter-lineari e marginali al Governamento del manoscrito fiorentino, mentre in una seconda appendice si riportano alcune annotazioni sulle relazioni fra i testimoni del Governamento. La prima e fondamentale caratteristica della tradizione è che tutti i mss. paiono al tempo stesso testimoni molto vicini tra loro tanto che è dimostrabile la presenza di un archetipo a monte della tradizione, ma non per questo facilmente classificabili nei loro rapporti reciproci, principalmente perché spesso contaminati dal ricorso alla versione nella lingua antica. Il secondo volume è interamente dedicato allo spoglio linguistico sistematico sull’intero testo, tendente per quanto possibile «all’esaustività delle allegazioni per ciascuna forma»: grafia, fonetica, morfologia, sintassi.  Chiudono il volume un ricco repertorio bibliografico e gl’indici onomastico, toponomastico, dei nomi e dei manoscritti. Grice: “Poor Ockham is known as Ockham – god knows, but he is not telling, what his surname was, if any! On the other hand, the rather pompous Romans have Egidio as a ‘Colonna,’ even if,  as the Treccani notes, ‘the links with the Roman family are unclear’!” -- Romano: Egidio Romano,  arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Template-Archbishop.svg   Incarichi ricopertiArcivescovo di Bourges Roma Nominato arcivescovo25 aprile 1295 Deceduto22 dicembre 1316, Roma. C., latinizzato come C., indicato anche come C. (Roma), filosofo. Generale dell'Ordine di Sant'Agostino. Dopo la sua morte, gli sono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps. È discepolo d’Aquino a Parigi, dove insegna, prima di diventare generale degl’agostiniani e arcivescovo di Bourges. È inoltre il precettore di Filippo il Bello per il quale scrive il trattato De regimine principum, sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo.  --  è considerato tra i più autorevoli filosofi di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Questo filosofo è generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo VITERBO (si veda), per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam di Bonifacio e per il ruolo significativo che assunse il maestro degl’eremitani d’Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In C. rileviamo subito una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico. Infatti è possibile rintracciare il De regimine principum, scritto per Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista (AQUINO (si veda)) inerente alla naturalità dello stato italiano, erigendola a difensore della potestas regale. Nel De Ecclesiastica potestate, invece, C. afferma la superiorità del sacerdotium rispetto al REGNVM, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia papale. La riscoperta del LIZIO e l'agostinismo politico In seguito alle condanne di Tempier. C. difende la tesi d’AQUINO, per la sua qualifica di bacca-laureus BACCA-LAVREVS -- formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene sospeso dall'insegnamento. Gl’avversari del papato trovano nel pensiero del LIZIO gli strumenti per svolgere un'analisi politica che mette in discussione la sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno di compenetrazione fra stato italiano e Chiesa, all'interno del quale Agostino viene a giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo De Civitate Dei conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della Civitas Dei Cælestis e il piano temporale della vita terrena che è ROMA CIVITAS PEREGRINA), che ripropone la teoria delle due città e riafferma la superiorità del sacerdotium rispetto al REGNVM, costituendo un vero e proprio partito del Papa. C. rivendica la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva dell'auctoritas del papa in quanto homo spiritualis. C. sostituisce al concetto agostiniano di ecclesia, quello di REGNVM al fine di estendere gl’ambiti del potere del SOVRANO ecclesiastico. Il SOVRANO ecclesiastico, il papa, dove esercitare la sua sovranità anche sul POTERE TEMPORALE al fine di garantire l'ordine mediante una forma di DOMINIVM che coincida con la sua stessa missione spirituale.  Opere: Frontespizio delle In secundum librum sententiarum quaestiones L'edizione critica dell'opera omnia è stata intrapresa, per Leo S. Olschki, (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), dal gruppo di ricerca di Francesco Del Punta. Quaestio de gradibus formarum, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, In secundum librum sententiarum quaestiones,  1, Francesco Ziletti. In secundum librum sententiarum quaestiones,  Ziletti, Opere, Antonio Blado, In libros De physico auditu Aristotelis commentaria, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, De materia coeli, Girolamo Duranti, Quodlibeta, Domenico de Lapi. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Lambertini, Giles of Rome, Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Stanford,. Briggs e Eardley, A Companion to C., Leiden, Brill,. Silvia Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano: I. Le opere prima: I commenti aristotelici. "Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale", Gian Carlo Garfagnini, Egidio Romano, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Francesco Del Punta-S. Donati-C. Luna, C., in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Filippo Cancelli, Egidio Romano, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Papa Bonifacio VIII Teocrazia C. su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Ugo Mariani, C., in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio Romano, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. su ALCUIN, Ratisbona.  Opere di Egidio Romano, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. su Egidio Romano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. C., in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Cheney, Egidio Romano, in Catholic Hierarchy. Lambertini, Giles of Rome, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information, Stanford. Biografia a cura dell'associazione storico-culturale S. Agostino, su cassiciaco. Predecessore Arcivescovo metropolita di BourgesSuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Simone di Beaulie Raynaud de La Porte.  NUMISMATIC NOTES  AND MONOGRAPHS. ITALIAN ORDERS OF CHIVALRY  AND MEDALS OF HONOUR GILLINGHAM THE NUMISMATIC SOCIETY  Wonr nl PUBLICATIONS  The Journal of Numismatics. With many plates, illustrations, maps and  tables. Less than a dozen complete sets of  the Journal remain on hand. Prices on  application. The numbers necessary to  complete broken sets may in most cases be  obtained. An index to the first fifty volumes has been issued as part of Volume  LI. It may also be purchased separately.    The American Numismatic Society. Catalogue  of the International Exhibition of Contemporary Medals. March. New and  revised edition. The Numismatic Society. Exhibition of Colonial Coins. NUMISMATIC   NOTES et MONOGRAPHS    Numismatic Notes and Monographs  is devoted to essays and treatises on subjects relating to coins, paper money,  medals and decorations, and is uniform  with Hispanic Notes and Monographs  published by The Hispanic Society of  America, and with Indian Notes and  Monographs issued by the Museum of the  American Indian Heye Foundation. Publication Committee Baldwin Brett, Chairman Russell Drowne Reilly, Jr.   Editorial Staff  Noe, Editor Wood, Associate Editor Earle, Assistant . Italy (savoy) Order of the Most Sacred Annunciation Plaque ITALIAN ORDERS OF  CHIVALRY AND MEDALS OF HONOUR. GILLINGHAM. THE NUMISMATIC SOCIETY Press of The Lent et Graff Co. ITALIAN ORDERS OF CHIVALRY  AND MEDALS OF HONOUR  Gillingham. Students have always found the coinage  of Italy of more than passing interest, and  the country of the early Romans is still a far from exhausted field of numismatic research. Few sections of Europe have had  such a varied history. Few have been more ought over. Greeks, Romans, Vandals,  Goths, Franks, Germans, Normans, Spaniards, Austrians and the Papal Authorities  have had a hand in the mismanagement of the country’s affairs, and all have left traces  of their influence, but nowhere more definitely than in the field of numismatics. The changing coinage has always been  interesting, and the publication of the Corpus  Nummorum Italicorum, undertaken by His Majesty, Victor Emmanuel III, is a magnificent demonstration of the value of numismatic research.  In the time of OTTAVIANO, Italia is  divided into sections. In the feudal  period many of these had been governed for  centuries by members of the same family.  It is a normal condition for these clans to  wage war one upon the other, and this state  of affairs exists almost uninterruptedly  until the middle of the Nineteenth Century. The destinies of Italy were decided in the  cabinets and on the battle-fields of Northern  Europe—a Bourbon at Versailles, a Haps-  burg at Vienna or a thick-lipped Lorrainer,  with the stroke of his pen, wrote off province  against province, regarding not the population who had bled for him or thrown themselves upon his mercy.” Through it all, the  Papacy has exerted a powerful influence. In  the early period such a shifting of control was  not to the best interests of the inhabitants.   The Kingdom of Italy, as we know it  today, did not exist, of course, until 1870.  With the fall of the French Empire under  Napoleon III, the assistance of France was no longer available, and Rome came under  the dominion of Victor Emmanuel. All of  that gieat mountainous peninsula was  united and free. For over seventy years the  country has been governed by a Prince of the  House of Savoy. Its population has prospered more during that period than for many  preceding centuries.   These changing conditions were not without effect upon the organisations which we  class as Orders of Knighthood. Many of the  Orders of Chivalry founded by the Ducal or  Princely rulers of Italy were named for their  patron saints. It has seemed expedient in  this article to treat of the Orders and Decorations of all of these changing principalities  separately. Insofar as is possible, any  repetition which this course involves has  been avoided. Lucca, the most northern province of  Tuscany, lies between the Apennines and  the Mediterranean Sea. Its principal city,  Lucca, on the River Sarchio, is famous for a  remarkable bridge which is said to have been  built about 1000 A.D. From the time of  the Narses, in the Sixth Century, Lucca was  an important city. Here and at Pisa, the  earliest Italian school of painting flourished  in the Twelfth and Thirteenth Centuries.  Lucca became an autonomous commune  from the death of Matilda (1115). In 1314  Uguccione della Faggiola seized the reins of  Government, but later he was superseded  by the powerful Castruccio Castracani.  Louis of Bavaria, after having occupied it  by his troops, sold it to a Genoese banker,  Gherardo Spinola; it was seized by John,  King of Bohemia, pawned by him to the  Rossi of Parma, sold to Florence, relinquished to Pisa, nominally liberated by  Charles IV (Emperor of Germany, 1346-  1^78) and governed by his vicar. Lucca, MEDALS OF HONOUR   5   subjected to endless vicissitudes, managed  first as a democracy and after 1628 as an  oligarchy, to maintain its independence,  alongside of Venice and Genoa, and painted  the word “Libertas” on its banner until the  French Revolution. In 1805, Napoleon I  gave Lucca to his sister Eliza, who had  married Bacciochi. It was occupied by  the Neapolitans in 1814, and from 1816 to  1847 it was the Duchy of Maria Louisa of  Parma (who married her cousin, Charles IV  of Spain), and was ruled by her son, Charles  Louis. It later formed one of the provinces  of Tuscany. Under the rule of the Lombard  Dukes, Lucca possessed a coinage of its own.   MILITARY ORDER OF SAINT GEORGE  OF LUCCA. Duke Charles Louis Ferdinand, a Spanish Bourbon, founded this  Order on June 1, 1833. It was called Or dine  di San Giorgio per il Merito Militare, and  was awarded for military services to the  Duchy. It was also issued to officers and  privates whose service exceeded three years.   The Decoration is a Maltese cross, enam¬  elled white. It is edged with gold for the first class, with silver for the second, while  for the third class it is silver without the  enamel. In the centre is a white medallion,  upon which there is a gold figure of St.  George slaying the dragon, surrounded by  the words AL MERITO MI LI TARE on a  green band. The reverse shows the initials  of the founder, C.L., crowned, and the date  183J. The ribbon is bright red with a white  stripe.   ORDER OF SAINT LOUIS. Founded  on December 22, 1836, by Duke Charles  Louis, and awarded for civil merit. It was  reorganized in 1849 by his son, Charles III,  Duke of Parma, a Bourbon, for Civil and  Military service; it is, therefore, classed  with the Orders of Parma also. See page 19.   The badge of the first class is a white-  enamelled cross, with heavy gold lines and  with a large fleur-de-lis at the tip of each  cross-arm. The obverse bears a shield upon  which is an effigy of Saint Louis in golden  armour; the reverse has a shield bearing the  Bourbon crest of three lilies. The second  class cross is of silver and white enamel,    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. 1     Parma   Order of Saint Louis  while the third is all silver but without the  crown. The ribbon is blue with a yellow  stripe on either side.   MEDAL FOR MILITARY SERVICE.  Created on June i, 1833, for officers who had  served over thirty years, and called the  Medaglia di Anzianita. The obverse bears  a gilt Maltese cross with the initials C.L. and  a crown above; on the reverse are the Roman  figures XXX, denoting the years of service.  The ribbon is blue, with yellow stripes—  four of the former and three of the latter.   CIVIL MEDAL OF MERIT. This Dec¬  oration was also instituted by Duke Charles  Louis. It is of silver and bronze. The  initials of the founder, C.L. intertwined, ap¬  pear on the obverse, and the reverse has  inscribed thereon the words, AI BEN EME¬  RITI DELLA SALUTE PUBBLICA. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR. Mutina, as Modena was then  called, was a Roman colony. For more than  twelve centuries there were constantly  changing rulers. In 1288 A.D. Obizzo II  (1240-1293), of the princely house of Este,  received the lordship of Modena. The  Este family was one of the oldest of Northern Italy, dating back to about 917 A.D.  Through the marriage of an heiress of the  house of Welf, of Bavaria, with a younger  son of the house of Este, this family became  connected with the houses of Brunswick  and Hanover, from which are descended the  Sovereigns of England, through the house of  Guelph. At various periods, the Estensi  received the sovereignties of Ferrara, Modena  and Reggio. The male branch of the family  lost the duchies of Modena and Reggio on  the death of Hercules Rinaldo, who died in  1803. His only daughter, Maria, married  Ferdinand of Austria, son of Francis I and  Maria Theresa. Their son, Francis IV, in  1816 became the first Hapsburg duke of    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS    Modena. He died in 1846, and when his  son Francis V died in 1875, the male line of  the Austrian Estensi became extinct and the  title passed to Francis, son of Archduke  Charles Louis. Members of the Este family  and their descendants had held the Duchy  of Modena almost continuously from 1288  until i860. In that year the territory by  a plebescite was declared part of the King¬  dom of Italy.   ORDER OF THE EAGLE OF ESTE.  Founded by Francis V on December 27,  1855, and awarded for military and civil  merit. The number of the members of the  Order was limited to 20 for the Grand Cross,  40 for the Commander Class and 120 for the  Class of the Knights. The decoration was  surrendered on the death of the Knight.  The insignia is a gold Maltese cross with  gold knobs at the points, white-enamelled  and edged with blue. Between the arms of  the cross are gold scrolls, and the letters  E.S.T.E. are distributed in the angles. On  the blue medallion is the white-crowned  eagle of the house of Este, surrounded by a    NUMISMATIC NOTES         ITALIAN DECORATIONS    Pl. J L     Modena   Order of the Eagle of Este    white-enamelled band, inscribed PROXIMA  SOLI MDCCCLV. The reverse centre of  white enamel bears the figure of Saint Con-  tardo holding a cross. It is surrounded by  a blue-enamelled band bearing three stars  and inscribed S. CON TARDUS ATESTI -  NUS. The ribbon is white, edged with blue  stripes. When awarded for military merit,  the cross is surmounted by a trophy of arms;  for civil merit, by an oak wreath.   MILITARY MEDAL FOR LOYALTY.  Francis IV, the first Hapsburg duke of Mo¬  dena (1816-1846), caused a medal to be struck  and awarded to those of his troops who re  mained faithful during the riot of February   4, 1831. This disturbance was organized  by Ciro Menotti, and forced Francis IV to  flee from his capital. It was thought by  some that the Duke was in league with  Menotti, but as the Duke caused Menotti  to be put to death when the Revolution was  suppressed, this is doubtful. The silver  medal given to his supporting troops bears  the inscription FIDELI MILIT 1  MDCCCXXXI. Within a wreath of laurel, NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR   1 3   and below are two crossed swords. The  reverse is inscribed FRA NCI SC US IV DUX  MUTINAE. The ribbon has three stripes,  equal in width; the middle one white, the  side ones blue.   CROSS FOR SERVICE. Authorized by  Francis V, May 16, 1852. This medal was  awarded to officers who had served 25 years  under the banner of the house of Este. It  is a silver cross with a gilt edge. In the  centre is the white eagle of Este, surmounted  by a crown and the letters F. V. The reverse  bears the Roma n figures XX V. The cross  is surmounted by the ducal crown, and the  ribbon is white, edged with blue.   MILITARY MEDAL OF MERIT. This  decoration was created in 1852 for the junior  officers and privates. It is silver. On the  obverse appears a bust of the duke facing  left, and the legend FRANCESCO V DUCA  Dl MODENA EC. EC. ARCIDUCA D’AUS¬  TRIA ESTE EC. EC. On the reverse, within  a laurel wreath, PEL MERITO MI LI TARE.  The ribbon is blue, edged with white.    AND MONOGRAPHS MEDAL OF FIDELITY. Francis V ap¬  pears to have been in a struggle with his  subjects during most of the thirteen years  of his reign. He was compelled to seek  refuge in Austria in 1849, but he returned to  Modena after the battle of Novara on March  24th of the same year. Ten years later he  was again forced to flee. In i860 Modena  became part of United Italy. To reward  those of his subjects who had remained  faithful to him during his exile, he created  the Medal of Fidelity in 1863. It is bronze,  32mm. in diameter. On the obverse it bears  the effigy of the duke and the inscription  FRANCESCO V AUST. ATESTENUS  DUX MUT 1 NAE ; on the reverse, the  words FI DELI TATI ET CONSTANTIAE  IN ADVERSIS MDCCCLXIIL surrounded  by a wreath of oak leaves. The ribbon is of  blue and white horizontal stripes, edged with  blue and white.    PARMA.   Parma was the Eastern section of Gallia  Cispadane at the time of Constantine. It  lies in the Lombard plain, north of the  Apennines, south of the River Po and west  of Modena. For the first fifteen centuries  of the Christian era, the many rulers of  Parma were of various nationalities. The  duchy came into the possession of the Far-  nese family during the early part of the Six¬  teenth Century. Eight dukes of that family  ruled over the destinies of its people. From  Antonio, who died childless in 1731, the  duchy passed to Charles of Bourbon (Don  Carlos), Infante of Spain, who became King  of Naples in 1735. Both Austria and Spain  governed it at various times. At the Con¬  gress of Vienna in 1815, the duchy was  granted to Marie-Louise (daughter of Fran¬  cis I of Austria), second wife of Napoleon I.  She died in 1847. Spanish and Austrian  rulers again came into possession. Charles  III, a Bourbon and the grandson of Victor  Emmanuel I of Sardinia, reigned until his assassination. During the regency of his son Robert, Parma  was incorporated in the Kingdom of Italy.   ORDER OF CONSTANTINE. Authori¬  ties differ with regard to the date of the insti¬  tution of this Order. It has been said that  it was founded by Constantine the Great  about the year 313 A.D. Others give credit  to thle Byzantine Emperor Isaac II (Isaac  Angelus Comnenus), and fix the year as  1190. This seems the more probable date.  The Order is also called the Order of Saint  Angelus, the Order of the Golden Chevaliers,  and the Military Order of Constantine of  Saint George, it being under the patronage  of that Saint and Martyr. Late in the  Seventeenth Century its control appears to  have been sold to Francis I (Francis of  Farnese), Duke of Parma, who became the  Grand Master. The Order came into high  repute because of the rules he observed in its  distribution, and also because of the large  domains he conferred upon it, including the  church of the Madonna della Steccata at Par¬  ma. Clark attributes its revival to Charles V.    In 1734 or 1735, after the extinction of the  male line of the Farnese family, the heir  to the Duchy of Parma, Infante Don Carlos  (son of Philip V of Spain and Elizabeth Far¬  nese), became the Grand Master. He trans¬  ferred the Order to Naples when he ascended  that throne. It was abolished in Naples  by Joseph Bonaparte in 1806 but continued  in Sicily. Revived in 1814, it remained in  existence until the unification of Italy.  Owing to its transfer to Sicily, it is fre¬  quently classed among the Orders of the Two  Sicilies. The members of the Order consist  of Senators, Commanders, Knights, Serving-  brothers and Squires.   On August 8, 1922, the Count d’Caserta  of the Austrian line of Bourbons, and a dis¬  tant cousin of the King of Italy through the  female line, honoured one Michael Cangiano,  the official Interpreter of the Superior Court  of Cambridge, Massachusetts. Signor Can¬  giano was made a Knight of the Order of  Constantine of Saint George of Parma and  of Sicily. This indicates that the Order  has been continued as a Family Order by the  old rulers of those Duchies Pl. Ill     Parma   Order of Constantine       MEDALS OF HONOUR   19   The insignia is a red-enamelled gold cross,  fleurv. On the arms are the letters I.H.S. V.  (In hoc signo vinces). In the centre is the  Labarum, or Standard. Greek letters X  and P crossed,and A (Alpha) and et (Omega).  Harold Bayley, in his book entitled Lost  Language of Symbolism, London, 1913,  writes,—“The Latin P has the same form as  the Greek letter named Rho. One of the most  famous emblems of early Christianity—  known as the Labarum, the seal of Con¬  stantine, or the Chi-Rho monogram—is the  letter X surmounted by a P. The two letters  Chi and Rho are assumed to read Chr, a  contraction for the name Christ, but the  symbol was in use long ages prior to Chris¬  tianity.” The first class members of the  Order wear a gold figure of Saint George  slaying the dragon, suspended from the  cross. The ribbon is light blue moire.   ORDER OF SAINT L OUIS. Charles III,  Duke of Parma, revived this order at Parma,  August 11, 1849, as an award of merit. His  father Charles Louis (or Charles II) had  originated the order in Lucca in 1836. There    are five classes and the insignia is a cross,  composed of four fleurs-de-lis, bound together  by their leaves. On the centre of the  obverse in a blue-enamelled shield are three  gold lilies. On the reverse is a figure of  St. Louis, surrounded by the motto DEUS  ET DIES (God and light). The Grand  Cross and that for Commanders and Cava¬  liers of the first class have a gold figure of  St. Louis surmounted by a gold crown. The  cross for the second class Cavaliers has a  silver figure with a silver crown, and the  fifth class is of enamelled silver without a  crown. The ribbon is light blue and yellow.   MEDAL OF MERIT. Founded during  the reign of Marie Louise. Marie  Louise was the mother of the Little King  of Rome who, fortunately for Italy, never  reigned. The medal is silver, 20 mm.,  and bears on the obverse, AI BENEMER-  ENTI DEL PRINCIPE E DELLO STATO.  On the reverse is the head of Marie Louise  and the inscription, M. LOUIS ARCID. D. D.  AUSTRIA DUCA DI PARMA PIAZ. E.  GUAST. The ribbon is light blue and light red.    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR   #   21   SAN MARINO.   When Marinus, the Dalmatian monk,  and his companions settled in the Eastern  Apennines, in the third century, they little  thought they were establishing a community  with such a future. For a long time San  Marino was something like a buffer state,  between hostile Italian dynasties in that  vicinity. In 1631, the Independence of San  Marino was acknowledged by the States of  the Church. Napoleon I preserved its sep¬  arate existence in 1797, and Napoleon III  protected it from the designs of Pope Pius  IX in 1854. At the unification of Italy,  1859-1860, San Marino was still allowed its  independence, and today it is the smallest  Republic in Europe.   ORDER OF CHIVALRY OF SAN MA¬  RINO. Sometimes called the Equestrian  Order of San Marino, created on August 13,  1859, by the Council of the Republic, in  commemoration of the fifteenth century of  its foundation. The purpose of its founda-    AND MONOGRAPHS ITALIAN    DECORATIONS   f    Pl. IV    San Marino   Order of Chivalry of San Marino       MEDALS OF HONOUR tion was to reward those who were promi¬  nent in the welfare of the country and its  people. There are five grades: Grand  Crosses, Grand Officers, Commanders, Offi¬  cers and Chevaliers. The badge or cross,  which is surmounted by a gold crown, is a  gold-edged, white-enamelled cross moline  with a gold ball at the end of each arm. Be¬  tween the arms are four gold towers. The  obverse centre bears the effigy of Saint  Marino to left, surrounded by a blue band,  inscribed SAN MARINO PROTETTORE.  The reverse bears on a gold shield, in the cen¬  tre, the arms of the country—the three  towers. The shield is surrounded by a blue  band bearing the words MERITO CIVILE  E MI LI TARE. The ribbon is of seven  equal stripes, four of blue and three of white.   The writer has four specimens of this cross.  Two have full-faced busts of San Marino,  with white hair and beard. One has a  younger face to the left, with black beard  and hair, while the fourth has a bust in gold,  facing to the left, but on a white-enamelled  field. Two of the specimens bear on the  reverse MERITO CIVILE. Elvin and    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND    Lawrence-Archer give the inscription as  “Merito Militare,” while the Catalogue  Musee de VArmte has it “Merito Civile.”  Cappelletti and Puca, the Italian authori¬  ties, give the former wording, and the figure  of San Marino facing to the left; and this,  no doubt, is correct.   MEDAL OF MERIT. Instituted on  March 22, i860. This is octagonal in form  and of gold, silver and bronze, according to  the importance of its award. In the centre  of the obverse is the Arms of the Republic,  the three towers, within an oak and laurel  wreath, below which is the word LIBERT AS;  around this is, REPUBBLICA Dl SAN  MARINO. On the reverse, within an oak  wreath, is the word ANZIANITA if the pur¬  pose of the reward is military, or MERITO,  if for civil award. The ribbon is light blue,  edged with red.    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR   25   SARDINIA, SAVOY AND THE  KINGDOM OF ITALY.   Sardinia, one of the islands of the King¬  dom of Italy, is known to have been settled  by the Carthaginians in 512 B.C. Thence¬  forward Romans, Vandals, Goths, Saracens,  and the Genoese ruled the island. In the  year 1325 A.D, the king of Aragon took pos¬  session. From that time until 1403 Sardinia  was an Aragonese province. After the union  of Aragon and Castile, it became Spanish  and so remained until 1713, when it was  ceded to Austria by the treaty of Utrecht.  In 1720 it w r as given to Victor Amadeus II  (1666-1732), Duke of Savoy, in exchange for  the island of Sicily, and he became King of  Sardinia; the title of King of Savoy was con¬  ferred upon him the same year. This title  of King of Sardinia and Savoy continued  until the unification of Italy in 1859-1860.   MEDAL OF VALOUR. Created in 1793  by Victor Amadeus III (1727-1796), King of  Sardinia. It is of gold and silver, 38 mm.    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS    in diameter, and bears on the obverse a  bust of the king facing to right and VITTORIO-AM ADEJJS III. The reverse has a  wreath of oak leaves, within which is a tro¬  phy of arms and flags, and the words AL  V A LORE. The ribbon is dark blue.   About 1404 Amadeus VIII, (the first Duke  of Savoy), extended his provinces. The  teriitory over which he later reigned extend¬  ed from the Lake of Geneva to the Mediterranean Sea, and from the River Saone (in  France) to,the River Sesia in Italy. The  Duchy of Savoy also included Nice. This  section remained almost continually in the  possession of the house of Savoy until i860.   It is said that Napoleon III had a secret  treaty with Count Cavour, the Italian states¬  man, before the French army went to assist  the Sardinians to drive the Austrians from  Northern Italy. At the Peace table, Savoy,  the cradle of the house of that name, as well  as Nice, was given to France. Of this set¬  tlement, Garibaldi is reported to have said,  “That man (Cavour) has made me a foreigner  in my own house.”   Inasmuch as the Kingdom of Italy has    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR   27   been ruled by princes of the house of Savoy,  it seems proper to describe, in the subsequent  pages, the decorations generally known as  Italian Orders of Chivalry and Medals of  Distinction.   ORDER OF THE MOST SACRED  ANNUNCIATION. This Order is the high¬  est in rank and most important of all the  Italian Decorations. It ranks with the  Golden Fleece of Spain and the Garter of  England. Authorities differ as to its origin,  though many of them give the year 1362 as  the date of its foundation. In that year,  the Order of the Neck Chain 01 Order of the  Collar of Savoy was founded by Amadeus  VI, Count Verde of Savoy. His  grandfather, Amadeus V, called the Great,  assisted the Knights of the Order of Saint  John of Jerusalem at Rhodes, and compelled  the Turks, under Mahomet II, to abandon  their siege of that island in 1310 or, as some  state, in 1315. For this service Amadeus V  was presented with a collar, bearing the let¬  ters F.E.R.T. Fortitudo ejus Rhodum tenuit  (By his bravery Rhodes was held). He was also granted for his Arms, the use of  the white cross of the Crusaders, which later  became the Cross of Savoy (H. W. Finch-  am’s “Order of St. John of Jerusalem in  England”). Although authorities differ as  to the exact meaning of these letters  F.E.R.T., the above is the more generally  accepted explanation, and is that given by  Bernardo Giustinian, the Italian authority,  in 1692. In 1518, new statutes were formu¬  lated for the Order by Charles III, Count of  Savoy. At that time the name was changed  to the Order of the Most Sacred Annuncia¬  tion. Several changes in the Order have  been made by various Counts of Savoy since  that time, among whom were Victor Emman¬  uel II in 1869 and Humbert I in 1889. There  is but one class of Members—Chevaliers or  Knights, whose number, exclusive of the  Sovereign and Church Dignitaries and  Princes, is limited. They must also be of  the Roman Catholic faith. The insignia  consists of a gold medallion on which is a  representation of the Annunciation, above  which is a dove, symbolising the Holy Spirit.  This is surrounded by a group of symbolic    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. Italy (savoy)   Order of the Most Sacred Annunciation    30   ITALIAN ORDERS    knots of ribbon (lacs d’amour), on which are  numerous roses, a possible reference to the  Mystic Rose. The whole is suspended from  a gold chain, composed of alternate knots of  ribbon and roses, with the letters F.E.R.T.  interwoven. The plaque, or star, is similar  to the badge, surrounded by eight rays of  flame, with the letters F.E.R.T. on the sides.  The ribbon is blue moire. (Frontispiece.)   ORDER OF SAINT MAURICE AND  SAINT LAZARUS. The Order of St. Mau¬  rice was instituted in 1434, at Ripaille,  near the lake of Geneva, by Amadeus VIII  (13^3-1450), Count and first Duke of Savoy.  The Order took its name from the patron  saint of Savoy. Amadeus VIII conferred  this Order on ten of his courtiers when they  accompanied him to his retreat at the priory  of Ripaille. He was elected Pope in 1439,  taking the name of Felix V, but he resigned  in 1448 and retired to the solitude of Ripaille,  where he died in 1450. He is buried at  Lausanne. Shortly after his death, the Or¬  der became dormant. It was revived in    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. Italy (savoy)   Order of St. Maurice and St. Lazarus        1572 by Duke Emmanuel Philibert of Savoy,  to encourage the Catholics to resist the Cal-  vinistic reforms attempted in Savoy. The  Dukes of Savoy were Grand Masters.   The Order of Saint Lazarus was gen¬  erally supposed to have been founded about  the year 1060, during the earlier crusades,  although there was a Fraternity of Ecclesias¬  tical Knights who as early as 366 A.D.  founded a hospital at Jerusalem to care for  the lepers. These were known as the  Knights of St. Lazarus. Elias Ashmole,  in his “History of the most noble Order of  the Garter,” London, 1715, writes—“At  length, through the incursion of the Barba¬  rians, and Injury of Time, it (the order)  lay extinguished, but was revived when the  Latin Princes joyned in a Holy League to  recover the Holy Land. . . . For in that  Time the Monks of this Order added Martial  Discipline to their Skill in Physick; and for  their Services against the Infidels, begat a  great Esteem from Baldwin II, King of  Jerusalem, and some of his Successors.”  The Order was inactive for a long period.    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR   33   In 1490 it was united with the Hospitallers  of St. John at Rhodes, but in 1565 Pope Pius  IV restored it and granted additional privi¬  leges. In September, 1572, Pope Gregory  XIII, at the request of Emmanuel Philibert,  Duke of Savoy, restored the Order of Saint  Maurice and united it with that of St. Lazarus, under the title of the ORDER OF  SAINT MAURICE AND SAINT LAZARUS.  Pope Gregory XIII also appointed the Dukes  of Savoy Hereditaries and Masters, and as  Ashmole writes—“oblig’d them to furnish  out two Gallies for the Service of the Papal  See, to be employ’d against Pyrates.”   There have been many changes in the Or¬  der by the various sovereigns, but at present  there are five grades: Knights of the Grand  Cross, Grand Officers, Commanders, Officers  and Chevaliers. The number of the last  grade is unlimited. Many foreigners have  been decorated with this grade. The pres¬  ent form of decoration was established by  Duke Charles Emmanuel I (1562-1630). The  badge consists of a white-enamelled cross,  treflee, of St. Maurice, conjoined at the   *   AND angles with the green Maltese cross of St.  Lazarus, which is ball-tipped at the points.  The badges of the four higher grades are sur¬  mounted by a Royal crown, the size of the  cross and of the crown indicating the par¬  ticular grade. It is suspended by a bright  green watered ribbon. The eight-rayed star  of the Order is silver. In the centre is a  reproduction of the badge or cross, without  the crown.   MEDAL OF SAINT MAURICE. Insti¬  tuted for Military services by King Charles  Albert, 1 King of Sardinia, on July 19, 1839.  It was intended as further recognition of  those officials who had received the cross of  the Order of St. Maurice and St. Lazarus,  and who had served under the flag 11 per la  durati di died lustri” (lustri meaning a five  year enlistment, and died lustri, therefore,  fifty years). The Medal is gold, bearing on  the obverse the equestrian figure of the pa¬  tron saint of Savoy, St. Maurice, holding the  flag of the Order in his right hand. Around  this are the words S. MAURIZIO PRO-    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR TETTORE DELLE NOSTRE ARMI. The  reverse is inscribed as below,   AL C A V A LI ERE   MAU RIZIA NO   PER DIECI LUSTRI   NELLA CARRIERA   MI LI TARE   BENEM ERITO   space being reserved for the name of the  recipient. There are two sizes of the medal.  The larger, 55 mm. in diameter, is for Gen¬  erals or Admirals who had received the  higher decoration of the Order of St. Maurice  and St. Lazarus, and the smaller, 39 mm.,  for officers who had received the lower grades  of the same Order. The ribbon is green, the  same as for the Order.   ROYAL MILITARY ORDER OF SAVOY.  Founded at Genoa, on August 14, 1815, by  Victor Emmanuel I (1759-1824). Its pur¬  pose was to reward acts of valour and  magnanimity. The Order was modified on  September 28, 1855, by Victor Emmanuel  II, later king of Italy, who also changed the    decoration to the present form. There are  five classes: Knights of the Grand Cross,  Grand Officers, Commanders, Officers and  Chevaliers. The cross, which is white-  enamelled with curvilinear tips, is edged with  gold. It rests upon a wreath of laurel  leaves. On the red background of the medal¬  lion is the white cross of Savoy, around  which on a circular band are the words AL  M ER 1 TO MI LI T A RE. The reverse medal¬  lion of red enamel has two crossed swords,  points up, above which is the date 1855, and  on either side, the initials V. E. The cross  of the first three classes is surmounted by  a Royal crown, that of the fourth class by a  trophy of flags and arms, while the fifth class  cross has but the suspension ring. The ribbon  is blue moire, with a red band in the centre.   The star, which is of silver, has eight rays;  in the centre is a duplication of the obverse of  the decoration, without the crown. Prior  to 1855, the star or plaque bore the motto  AL MERITO ED AL VALORE.   CIVIL ORDER OF SAVOY. Founded at  Turin, on October 29, 1831, by Charles    Pl. VII     Italy (savoy)  Military Order of Savoy    38   ITALIAN ORDERS    Albert (1798-1849), King of Sardinia and  Savoy. During most of his reign of eighteen  years, he was at war with Austria. Follow¬  ing the revolution of 1848 in France, he  began war for the Independence of Italy  but was compelled to abdicate in 1849 after  his defeat by the Austrians at Novara. The  object of the Order was to rewaid ‘those of  other professions, not less useful than that of  the army, who have become through long and  profound study the ornaments of the State to  which they have rendered important service.’   There is but one class to the Order, known  as Knights, and it is seldom conferred on  foreigners. The decoration is a light blue  Savoy cross edged with gold. The medallion  on the obverse is white with a gold rim; in  the centre are the intials of the founder,   C. A. The reverse has AL MERITO  CIVILE 1831, in gold lettering on a white  field, on the centre medallion. The moire  ribbon is of three equal stripes—light blue  with white either side.   ORDER OF THE CROWN OF ITALY.  Created on February 20, 1868, by Victor    Pl. VIII     Italy (savoy)  Civil Order of Savoy  ITALIAN ORDERS    Emmanuel II (1820-1878), the first King of  United Italy, to commemorate the annexa¬  tion of Venice to that kingdom. This is  sometimes called the Order of the Iron  Crown. Doubtless the origin of the name  arose from the fact that at the coronation  of Agilif, King of the Lombards (592-615),  a crown was used, composed of gold and  precious stones, inset with a band of iron  which was said to have been forged from a  nail of the true Cross. Tradition says that  this crown was kept in the Cathedral of  Monza and removed to Mantua in 1859.  When Napoleon I became King of Italy in  1805, it is said he was crowned with this  crown. The Order of the Iron Crown of  Italy, founded by Napoleon I in 1805, was  abolished in 1814, although revived in  Austria in 1816 by Francis I as the Austrian  Order of the Iron Crown.   The first distribution of the Order of  the Crown of Italy, as founded by King  Victor Emmanuel II, occurred on April  22, 1868, when the heir-apparent, Humbert,  married Princess Marguerite of Savoy.  There are five classes of the Order—Grand    Pl. IX     Italy   Order of the Crown of Italy        Cordons, Grand Officers, Commanders,  Officers and Knights. The grade of Knight  or Chevalier is frequently conferred on  foreigners. The insignia is a white-enam¬  elled cross-pattee edged with gold, and  convex, with knots of gold cord connecting  the arms. In the blue-enamelled medallion  is a gold crown. On the reverse medallion  is the crowned eagle of Savoy. On its  breast is a red shield, bearing the white cross  of Savoy. The ribbon is of red with a white  stripe in the centre. The star of the order,  for the highest grade, is of eight silver rays,  on the centre of which is a gold crown on  blue field, encircled by a white band, in¬  scribed VICTORIUS EMMANUEL II  REX I TALI A E MDCCCLXVI. This device  is surmounted by a crowned eagle bearing the  Arms of Savoy on its breast. The star of the  Grand Officer is an eight-pointed silver star,  on which is a reproduction of the Cross.   ORDER OF INDUSTRY. By a decree of  May 9, 1901, Victor Emmanuel III created  a Decoration called the “Cavalieri del  Lavoro” (Knights of Industry). It is    awarded to those prominent or proficient in  the Industrial, Commercial or Agricultural  work of the Kingdom or of its Colonies.  The decoration consists of a green-enamelled  Savoy cross, edged with gold. On the  obverse is a white medallion, bearing the  words AL MERITO/DEL/LAVORO/1901  The reverse medallion bears the initials of the  founder, V. E., in gold on a white field. The rib¬  bon is dark green with a red stripe in the cen¬  tre. There is but one class to this order, and its  award carries with it no particular privileges.   COLONIAL ORDER OF THE STAR OF  ITALY. Founded in 1911 by King Victor  Emmanuel III. Its purpose was to reward  those deserving of especial recognition who  were prominent in the work of the Colonies.  There are five classes to the Order: Knights  of the Grand Cross, Grand Officers, Com¬  manders, Officers and Chevaliers. The  decoration consists of a white-enamelled  star of five points, edged with gold and ball-  tipped. On the obverse medallion of red,  is the gold monogram (V. E.) of the founder,  with crown above. A green-enamelled circle    AND MONOGRAPHS  ITALIAN ORDERS    has at the bottom of it 1911. On the  reverse red medallion are the words AL/ ;  MERI TO /COLO NI ALE in gold letters.  The ribbon is red, with narrow white and  green bands on either side. All grades of  the star have a crown above, except that of  Chevalier, which is plain. The plaque, j  which is worn by the first and second classes  only, consists of thirty-five silver rays, on  which is the uncrowned star described above.   MILITARY CROSS FOR SERVICE.  On November 8, 1900, Victor Emmanuel  III authorized a cross for long and faithful  service, called the “Croce per anzianita di  servizio Militare.” It is of gold for Officers,  and of silver for the troops. The decoration  is a Maltese cross; on the obverse, a medallion  bearing the Royal cipher V E crowned, and  on the reverse Roman characters, denoting  years of service —XXV for the Officers and  XVI for the troops. If the officers have  served forty years and the troops twenty-five  years, the Roman characters vary accordingly,  and the cross has a crown above. The ribbon is  green, with a wide white stripe in the centre.    NUMISMATIC NOTES  ITALIAN DECORATIONS    Pl. X     Italy   Colonial Order of the Star of Italy    46   ITALIAN ORDERS    MILITARY MEDAL OF VALOUR. As  early as 1793, during the war between Pied¬  mont and France, Victor Amadeus III,  King of Sardinia (1727-1796), created a  Medal of Valour. This was awarded for  individual acts of bravery, and was struck  in gold and in silver. Victor Emmanuel I  revived the award in 1815, at the time of the  downfall of Napoleon I, but abolished it in  August of that year when he created the  Military Order of Savoy. When Charles  Albert was King of Sardinia and Savoy,  he reinstituted the medal in 1833, for acts  of valour not sufficiently important to war¬  rant the M ilitary Order of Savoy. From the  time of its inception to 1887, it was always  awarded in gold or silver, but in that year  Humbert I decreed that a bronze medal  should be given for acts of valour of a lesser  degree. This medal ranks in Italy almost  as highly as does the Victoria Cross in Great  Britain or the Medal of Honour in this  country. It is frequently called the Sar¬  dinian Medal of Valour. The earliest model  was 38 mm. in diameter, having on the  obverse the bust of the king facing to the    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. Italy (savoy)  Military Medal of Valour  ITALI AN ORDERS AND    right and the words VITTORIO AMADEUS  III. The reverse had a wreath of oak leaves,  within this is a trophy of arms and flags and    the words AL V A LORE. About the time  of the Crimean war, the design was changed.  The size was reduced to 33 mm. The  obverse has the Arms of Savoy, surmounted  by a crown in an oval. Below are a palm  and laurel branch, tied at base with a ribbon;    and around the whole, the words AL V A LO¬  RE MI LI TARE. The reverse has two laurel  branches tied with a ribbon, with a space  in the centre for the recipient’s name. The  name of his campaign is placed on the outer  edge. The ribbon has always been a dark  blue moire. Victor Emmanuel II caused a  number of these medals, in both gold and  silver, to be given to the British and French  troops who took part in the Crimean war.  Two of these are in my collection, and have  been awarded to Frenchmen. The reverse  has the name and title of the recipient en¬  graved at the centre, while around the outer  edge of one are the words SPEDIZIONE  D’ORIENTE 1855-1856, in relief. The  second specimen has the same words en-      NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR      graved. The Musee de VArm'ee of Paris has  a medal with the recipient’s name engraved  and GUERRE DTTALIE 1859 in relief.  This was for the war with Austria. Another  has in relief CAMP A GNA DELLA BASS A  ITALIA 1860-1861 . Mr. C. S. Gifford, of  Boston, has in his collection a variant of  this Medal of Valour. It is but 25 mm. in  diameter. The reverse has around the edge,  outside the wreath, in relief, the words  GUERRA CONTRA VIMPERO D’AUS¬  TRIA.   Many of these medals have been awarded  to the men of other countries who have  assisted Italy in her campaigns. It was a  Military Medal of Valour, of gold, which  General Diaz placed upon the grave of the un¬  known American soldier at Arlington on Nov¬  ember 11,1921, by order of the King of Italy.   CIVIL MEDAL OF VALOUR. Au¬  thorized by King Victor Emmanuel II on  April 3, 1851. It was given in gold, silver  and bronze. Under a decree of April 29,  1888, Humbert I authorized a bronze medal  also. These are awarded to civilians for per-    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND    sonal acts of courage and valour, such as  rescues at fires and at sea. The medal is  34 mm. in diameter, bearing on the obverse  the Arms of Savoy in an escutcheon, with a  Royal crown above. Around this at the  top are the words AL VALORE CIVILE.  The r everse has a wreath of oak leaves, with  space in the centre for the recipient’s name.  The writer’s medal is engraved D’ONOFRIO  GIO. ANTONIO CERVINARA (AVEL-  LINO) 22 XBRE. 1868. The ribbon for this  medal is of the Italian National colours.  Three equal stripes—red, white and green.   NAVAL MEDAL OF VALOUR. Insti¬  tuted in March, 1836; modified in 1847, and  again by Victor Emmanuel II in i860, to  reward the men of the Navy for heroism.  In 1888, Humbert I established three grades,  gold, silver and bronze, according to the  character of the award. The obverse bears  the Arms of Savoy on a shield, with a crown  above, and encircled by a palm and laurel  branch tied at the bottom; and round the  outer edge is the motto AL VALORE DI  MARINA. On the reverse is an oak    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR  wreath (less full than that of the Military  medal of Valour) with a reserve in the  centre for the name of recipient and mention  of the act for which the medal is awarded.  The ribbon is dark blue moire, with one wide  and one narrow white stripe at each side.   MEDAL OF MERIT FOR PUBLIC  SAFETY. This decoration was first insti¬  tuted on September 13, 1854, by Victor  Emmanuel II and was called “La Medaglia  di Benemerenza per i Benemeriti della  salute pubblica” Its purpose was to reward  the services of volunteers in epidemics of  contagious diseases and those who took part  in other ways beneficial to the health and  safety of the public.   It is given in gold, silver and bronze.  On the obverse is a bust of the King to left,  around which is inscribed UMBERTO I  RE D'IT ALIA. On the reverse are oak  and laurel branches, surrounded by the words  SALUTIS PUBLICAE BENEMERENTI-  BUS. A reserve at the centre is left for the  name of the recipient. On the earlier  models the bust and title of Victor Emmanuel    AND MONOGRAPHS II appeared on the obverse, and the reverse  motto read AI BEN EMERITI DELLA  SALUTE PUBBLICA . The ribbon is light  blue, edged with black.   MEDAL FOR VETERANS GUARDING  THE TOMB OF THE KINGS. This medal  was authorized on July 14, 1879, and altered  on January 1, 1880. It was established to  honour the veterans of the war of 1848-1849  who guarded the tomb of Victor Emmanuel  II. It is 30 mm. in diameter and of silver.  The ribbon is blue with a white stripe in the  centre, with one edge green and the other  red. The first model has on the obverse a  wreath of laurel with a superimposed, five-  pointed star bearing at the centre the bust  of the King and the words UMBERTO 1°  RE D’lTALIA; on the reverse, VETERAN!  1848-49 / GUARDI A D’ONORE / ALLA  TOMB A DEL RE / VITTORIO EMA-  NUELEII. After the death of Humbert I,  Victor Emmanuel III altered the medal.  The obverse bore his own bust and title, and  the reverse read / AI/VETERA Nl 1848-1870  /GUARDIA D’ONORE / ALLE TOMBE    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. XII      Italy   Veteran Guard of the Tomb of the Kings       54   ITALIAN ORDERS    DI RE / VIT TO RIO EM AN UELE II / E  UMBERTO I. A specimen of this design  is in my collection.   LIFE SAVING MEDAL. Authorized by  Royal Decree on March 8, 1888 . This  decoration is awarded to those, not in the  Navy, who have risked their lives to save  others from drowning, or shipwreck, or for  other forms ot personal valour at sea. It is  issued by the Ministry of the Marine. The  medal is in silver and in bronze only and is  not to be worn on the person. The obverse  bears the effigy of the King, facing left, and  the inscription VITTORIO EMANUELE  III RE D J IT ALIA. The reverse has two  circles, one within the other; in the outer  circle occur the words MIN1STERO DELLA  MARIN A, while the inner one is left blank  for the name of the recipient, the date and  the statement regarding the occasion of the  award.   MEDAL OF MERIT. Authorized by a  Decree of May 6, 1909. This medal was  awarded to all persons, including many    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. XIII      Italy   Medal of Merit    56   ITALIAN ORDERS AND    foreigners, who from philanthropic or  charitable motives went to the relief of the  inhabitants of Sicily and Southern Calabria  at the time of the earthquake of December  28, 1908. It is 34 mm. in diameter, and  was issued in gold, silver and bronze. The  obverse bears the effigy of the King, facing  left, and the words VITTORIO EMA-  NUELE III. On the reverse, the inscription  TERREMOTO / 28 DICEMBRE 1908  /IN CALABRIA / E IN SICILIA, sur¬  rounded by a wreath of oak leaves. The  ribbon is green with a white stripe on either  side. A variation of this medal was issued,  bearing on the obverse the bust of the king  surrounded by the inscription VITTORIO  EMANUELE III RE D’I TALI A. The  reverse reads MEDAGLIA/COMMEMO-  RA TI V A / TERREMOTO / C ALABRO  SICULO/28 DICEMBRE /1908. The  ribbon for this has 5 stripes, alternately  white and green.   The writer possesses an interesting medal,  for the official issuance of which no authority  has been found. It is of silver, 33 mm. in  diameter. The obverse bears the head of    NUMISMATIC NOTES        MEDALS OF HONOUR    57    the King of Sardinia and Savoy, facing left,  with A CARLO ALBERTO at the sides.  Under the bust, the letters S.J. (probably  standing for Stephano Johnson). The  reverse reads I VETERANI/ITALIANI  /IN/PELLEGRINAGGIO /ALLA SUA  TOMB A /A SUP ERG A . The ribbon is dark  blue with a yellow stripe each side. It is  believed that these medals were given to the  veteran soldiers of Charles Albert who made  the pilgrimage to his last resting place.  The Abbey of Superga was founded by  Victor Amadeus III near Turin. In its church  rest the remains of the Princes of Savoy.  Charles Albert (1789-1849) died at Oporto in  1849. His body was buried on the heights of  Superga. Italy later recognized his devotion,  and pilgrims still journey to his tomb.   CRI MEAN M EDAL. Italy was not back¬  ward in awarding what are commonly  known as Campaign or Service Medals but  which the Italian authorities style “Medaglie  Commemorative.” That for the Crimean war  was the first. It was authorized on October  22, 1856, and was issued to the Piedmont    AND MONOGRAPHS  ITALIAN ORDERS AND    troops serving during that campaign under  General La Marmora. The medal is of  silver, 35 mm. in diameter. On the obverse  appears the effigy of the King, facing left,  and the inscription VITTORIO EM AN U ELE  II. The reverse has in large letters, in  relief, CRIMEA/1855-1856. The ribbon is  light blue with a narrow gold edge. Some  authorities assign a ribbon of the Italian  National colours—red, white and green.   MEDAL FOR THE LIBERATION OF  SICILY. This medal was issued to com¬  memorate the dethronement of Ferdinand  II and the union of the ancient Kingdom of  Sicily with the Kingdom of Italy. As a  result of that insurrection, Garibaldi with  his thousand troops landed at Marsala, and  in three weeks was master of Messina. The  medal (30 mm.) is of silver and bronze.  On the obverse is the bust of the king and  the words VITTORIO EM AN U ELE; below  the bust, the initials S.J., probably standing  for Stephano Johnson, the maker. The re¬  verse is inscribed IT ALIA / E CASA DI  SA VOIA / LIBERAZIONE DI / SICILIA    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR. The ribbon is red, with one white  and one green edge.   STAR OF THE THOUSAND. Here might  appropriately be mentioned a unique dec¬  oration. On January 9, 1861, General Turr  went to the island of Caprera to carry to  that great Italian patriot, General Giuseppe  Garibaldi (1807-1882), the Star of Honour  which his famous thousand companions had  offered him. It is a gold star of seven points,  loosely set with diamonds. In the centre  on a blue-enamelled field in letters of gold is  ARTURO (a star which is said to protect  any one with an ideal). On this is super¬  imposed a gold Trinacria, the emblem of  Sicily. This is surrounded by an enamelled  band of white, green and red, inscribed in  letters of gold I MILLE AL LORO DUCE  (The thousand to their chief). This was  the only decoration which that great  General consented to wear; and after his  death at Caprera on June 2, 1882, the star  was given by his sons to the Quirinal Museum  in Rome where it may now be seen.    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS    MEDAL OF THE THOUSAND, or  MARSALA MEDAL. Issued by the city  of Palermo, and authorized by the Italian  government in 1865. It was presented to  the troops of Garibaldi who entered the City  in i860, and is called LA MEDAGLIA DEI  MILLE. The obverse has in the centre an  eagle with raised wings, standing on a fillet  inscribed S. P. Q. R. Around this are the  words AI PRODI CUI FU DUCE GARI¬  BALDI (To the brave men who were led by  Garibaldi). On the reverse within a wreath  of laurel is IL MUNICIPIO/PALERMI-  TANO / RI VENDICA TO / MDCCCLX.  Around this, outside the wreath are the words  MARSALA CALATAFIMI PALERMO.  The medal was issued in silver and in bronze.  The ribbon is bright red, with a gold stripe each  side, and on the face of the ribbon is fastened  a silver Trinacria, the emblem of Sicily.   MEDAL OF ITALIAN INDEPENDENCE.  This decoration was authorized in 1862. It  is of silver, and 32 mm. in diameter. On the  obverse is the head of the king, to left,    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. XIV     Italy   Medal of the Thousand    62   ITALIAN ORDERS    around which are the words VITTORIO  EMANUELE II RE D’I TALI A The  reverse depicts a standing female figure,  symbolizing Italy, holding in her right hand  a spear, and in the left, a shield with the  Arms of Savoy. Around the whole is in¬  scribed GUERRE PER LTNDIPENDENZA  E V UNIT A D’IT ALIA. The ribbon is  composed of six narrow stripes of the  National colours—green, white and red.  Bars or barrets are issued in silver to be  attached to the ribbon, as follows: 1848-  1849 (war with Austria), 1855-1856 (Cri¬  mean War), 1859 (war with Austria), 1860-  1861 (Garibaldi’s expedition in Sicily and  the Campaign in central Italy), 1866 (war  with Austria), 1867 (Campaign against  Rome), and 1870 (Capture of Rome).   MEDAL FOR UNITED ITALY. This  medal was authorized in 1883. It is 32 mm.  in size, and of silver and bronze. On the  obverse is the effigy of the King and the  words UMBERTO I RE D’lTALIA. On  the reverse, within a laurel wreath the in¬  scription UNITA/D’ITALI A/1848-1870.    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. XV     Italy   Medal of Italian Independence    ITALIAN DECORATIONS    Pl. XVI     Italy   Medal for United Italy           MEDALS OF HONOUR    65    The ribbon has a broad green stripe with a  white and a red stripe on both sides.   Unlike the British campaign medals, few  of the Italian medals are inscribed on the  edges. The writer has a group of three  medals, inscribed PHILIP FIGYELMESY  COM ANDANTE USSERI UNGHERESI.  These are for the Campaign of United Italy,  Liberation of Sicily, and for Italian Inde¬  pendence.    MEDAL FOR AFRICA. Created on  November 3, 1894; sometimes called the  “Medal for Abyssinia.” It was awarded to  the forces of the Army and Navy which took  part in the operations in Abyssinia, especially  in that portion bordering on the Red Sea,  called Eritrea. This included the campaign  of 1887-1897 against Menelik II, who was  the Negus of Abyssinia. The medal was  issued in bronze, 32 mm., and bears on the  obverse the crowned head of King Humbert  I, facing right. On the reverse, within a  laurel wreath, are the words CAMPAGNE  D } AFRICA. The ribbon is red with blue  borders. Silver bars, suitably inscribed,    AND MONOGRAPHS          66   ITALIAN ORDERS    were issued to the troops taking part in the  following expeditions, viz: Campagna 1887-  1888, Saati, Dogali Saganeiti, Keren,  Asmara, Adua, Agordat (1890), Halat,  Serobeti, Agordat (1893), Kassala, Halai,  Coatit, Campagna 1895-1896 and Cam¬  pagna 1897.   MEDAL FOR THE FAR EAST. Au¬  thorized on June 23, 1901, and also known  as the “Medal for China/’ or the “Medal  for the Boxer Uprising.” At the time of  that unfortunate affair, when so many of  the Nations went to the relief of their lega¬  tions at Pekin, Italy was among the first.  To all those taking part in this expedition,  and to those who remained as guardians of  the territory until the end of the year 1901,  this medal was given. It is of bronze,  32 mm., and bears on the obverse the effigy  of the King facing left and the words VIT-  TORIO EMANUELE III RE D’lTALIA;  on the reverse, within a wreath of laurel,  CINA 1900 - 1901 . The ribbon is yellow,  with four dark blue stripes. Another medal  for China is exactly like the above, excepting    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. XVII     Italy   Medal for Africa  ITALIAN ORDERS    that the reverse bears the word CINA only.  This was given to the troops and sailors  who served in China from December 31,  1901 to April 1, 1908. The ribbon is  similar.   MEDAL FOR THE TURKISH WAR OF  1911 - 1912 . But a few years ago Italy and  Turkey were fighting desperately for the  control of Tripoli, a section of Northern  Africa which had been under Turkish rule  for several centuries. It was at this time  that Germany all but precipitated a Euro¬  pean war by insisting upon certain methods  of settlement. Fortunately conflict was  averted by the treaty of Lausanne. To  commemorate the triumph over Turkey and  to honor those engaged there, a silver medal  of 32 mm. was authorized on November 21,  1912. The medal was issued to all men of  the Army and Navy who took part in the  operations against the Ottoman Empire,  whether in Africa or in Turkish territory.  On the obverse of the medal is the head of  the King, facing right, and the inscription,  VITTORIO EM A N V ELE. III. RE    NUMISMATIC NOTES Pl. XVI 11     Italy  War Cross  ITALIAN ORDERS    D* I TALI A. On the reverse, within a  wreath of laurel, the words GUERRA /  ITALO-TURCA,/ 1911 - 1912 . The ribbon is  of six narrow blue and five narrow red stripes  of equal width.   MEDAL FOR THE WAR IN LIBYA.  The treaty of Lausanne did not stop all war  operations on the part of Italy. The tribes  of the newly acquired Colonial possessions  continued to make trouble. To reward the  troops taking part in such campaigns, a  silver medal of 32 mm. was authorized on  September 6, 1913. This was identical with  the Turkish war medal, except that the re¬  verse bears the words GUERRA/IN LIBIA.  The ribbon is of the same design and colour.   WAR CROSS OF ITALY. Authorized in  1918. It was awarded to those worthy of  official recognition during the World War,  but whose service was not of sufficient im¬  portance to warrant the Medal of Military  Valour. The Decoration is of bronze, 38  mm., in the form of the Savoy Cross. On  the obverse is inscribed MER 1 T 0 Dl    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. XIX     Italy   Medal for the World War    72   ITALIAN ORDERS    GUERRA, above which is the King’s  crowned monogram, V. E. and III. On the  lower arm of the cross is an upright sword  entwined with a branch of oak. The  reverse has a. star in the centre surrounded  by rays. The ribbon is dark blue with  two white stripes.   MEDAL FOR THE WORLD WAR.  Created on July 29, 1920 and made from  captured Austrian cannon. It is bronze,  32 mm. On the obverse appears the hel-  meted bust of the King, encircled by the  inscription, GUERRA PER V UNIT A  D' I TALI A 1915-1918 and three branches of  oak leaves. The reverse has an allegorical  figure of Victory, standing on a support  borne by two helmeted soldiers, and the  inscription CONIT A NEL BRONZE N E-  MICO (Coined from enemy bronze). The  ribbon has eighteen narrow stripes of green,  white and red—six of each colour. Bars  were issued to be worn on the ribbon to  designate the years of service in the war.  These bear the dates of 1915, 1916,1917 and  1918 .    NUMIS M ATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. Italy   Medal of National Gratitude       74   ITALIAN ORDERS    VICTORY MEDAL. Created on De¬  cember 16, 1920, but not issued until 1922.  The medal is bronze, 36 mm. As with the  Victory medals of the other allies, the winged  Victory is the dominant feature. This  figure stands facing on a triumphal chariot  drawn by four lions. The reverse shows a  tripod above which two doves of peace are to  be seen. At top the inscription GRANDE-  G VERRA-PER-LA-Cl VILTA . In field, at  each side of tripod MCMXIV-MCMXVIII,  below, in two lines, AI COMBATTENTI  BELLE NAZIONI/ALLEA TE ED ASSO¬  CIATE. The badge is suspended by the  rainbow ribbon as are all the Victory  medals.   MEDAL OF NATIONAL GRATITUDE.  This medal is awarded to mothers who lost  sons in the World War. The obverse shows  an allegorical figure presenting a wreath to  a fallen warrior. Standing alongside is  another female in an attitude of grief. The  reverse has an inscription in eight lines  IL FIGLIO / CHE TI NACQUE / DAL  DOLORE / TI RINASCE “0 BEAT A”  /    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. Italy   Victory Medal  ITALIAN ORDERS AND    NELLA GLORIA / E IL VIVO EROE /  “PIENA DI GRAZIA” / E PECO. The  ribbon is grey with center composed of  narrow green, white and red stripes.    MEDAL FOR WAR ORPHANS. This  medal has also been authorized but no  information has been received concerning it.    ITALIAN UNITY MEDAL. This medal  has not as yet been distributed and details  concerning it are lacking. It is to be sold  and the money received is to go to the widows  and mothers of those killed in the war.    MEDAL FOR WAR VOLUNTEERS,  Notice has been received that a medal will  be issued shortly to those who volunteered  in the World War.    CROWN OF MERIT. At this writing,  and before any confirmation could be secured,  advices have come that the Councils of  Ministers have proposed a decoration to be  awarded to clerks and workingmen who have  remained faithful to their employers for    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR twenty-five years or more. Presumably this  medal is intended to stimulate a spirit of co¬  operation between the employed and em¬  ployer. No decision as to the design has  been announced.   Several of the municipalities of Northern  Italy issued medals to honor those who aided  in the efforts to free that country during the  strenuous days of 1848-1849. None of  these medals of the cities are official medals,  and consequently few if any of the authori¬  ties mention them. They are inserted here  in order that the numismatist may have  some facts relating to them.   Como had a medal inscribed on the ob¬  verse, COMO LIBERATA NELLE GLORI-  OSE GIORNATE 18-22 MARZO 1848 .  The reverse bears the Arms of the city and  the words AL VALORE DEL CITTADINO.   Bologna issued a medal inscribed VIT¬  TORIO BOLOGNA 8 ./ 8 . 1848 . On the re¬  verse, QUANDA IL POPOLO SI DESTA  DIO SI PONE ALLA SUA TESTA.   Livorno’s medal bears on the obverse  AI V A LOROSI DIFENSORI DI LIVORNO  10 E 11/5 18 49. The reverse bears the    AND MONOGRAPHS         78   ITALIAN ORDERS AND    Arms of the State and the words MUNICI-  PIO DI LIVORNO. The ribbons for the  above medals are red and white.   Milano likewise had a medal to show her  appreciation of the efforts of her citizens for  freedom. It bears on the obverse a figure  of Victory and the dome of the Cathedral.  The reverse has the Arms of the State and  the inscription COMMUNE DI MILANO.  The ribbon is red and yellow.   Cadore, Vicenza and Brescia are also said  to have issued medals, but a dependable  description has not been obtainable.   During the war of 1848-1849 against  Austria, and the several Principalities of  which Italy is now composed, Rome, too,  became involved. At the time of the  Insurrection of 1848, Pope Pius IX fled to  Gaeta, where he remained until 1850. On  February 9, 1849, Rome was declared a  Republic. To those who took part in the  Insurrection, and who aided in the formation  of the short-lived Republic, as well as for  connection with subsequent events, Rome  awarded several medals. As with the others,  authentic information is difficult to obtain.    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR   79   MEDAL OF MERIT. Issued for the  battle of Vicenza on June io, 1848. This  medal was of both silver and bronze, and  30 mm. in diameter. On the obverse within  a wreath of oak leaves, the Arms of the city  of Rome—a crowned shield, bearing the  letters S. P. Q. R. (Senatus Populus que  jRoman us —The Senate and the people of  Rome). Around this device is the inscription  ALMAE VRBIS COSS BENEMERENTI.  On a plain reverse is the motto, P VGNA  STRENVE / AD VICETIAM/PVGNA TA  / IV.EIDVS VINIAS / M.DCCC. XL VIII.  The ribbon is of equal stripes of magenta  and yellow—the colours of Rome.   MEDAL OF MERIT (Rome). Issued in  silver and bronze. The obverse has in the  centre, the she-wolf with Romulus and  Remus. Around this is BENEMERITO  DELLA PATRIA, with an oak and olive  branch beneath. The reverse has in the  centre a group of flags and a trophy of arms,  surrounded by the inscription INDIPEN-  DENZA ITALIAN A 1848 . The ribbon is  similar to the preceding. AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS    MEDAL OF MERIT. Struck in silver  and bronze, and is said to have been issued  by the Republic of Rome to those who dis¬  tinguished themselves during the Insurrec¬  tion of 1848. It is 30 mm., and has on the  obverse the she-wolf with Romulus and  Remus, standing on a pedestal, bearing the  letteisS. P. Q. R . The reverse reads AL  MERITO, surrounded by an oak wreath.  The ribbon is magenta and yellow.   Another medal is described by one au¬  thority as a reward to the combatants of  1848. It is 23 mm., bronze, and bears on  the obverse an allegorical female figure,  holding a spear in her right hand and a  cornucopia in her left. At her feet is a  globe surmounted by an eagle. Above is a  rayed .star. On the edge is inscribed  REPUBLIC A ROM AN A. On the reverse  is the motto ALLA VIRTU CITTADINA  within an oak wreath. This is surrounded  by the inscription LA P ATRIA RICONO-  SCENTE. No ribbon is described.   According to Padiglione still another  Medal of Merit was issued in commemora¬  tion of September 20, 1870, when Rome was    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXII     Rome. Battle of Vicenza  Rome. Medal of Merit    82    ITALIAN ORDERS AND    admitted into the Kingdom of Italy. Scul-  fort, a French writer, says this medal was  given to commemorate the proclamation of  the Republic of Rome in 1848; although  preference is here given to the Italian  authority’s version. The medal was issued  in silver and bronze, 30 mm. in diameter.  On the obverse is a shield bearing the Arms  of the City, surmounted by the she-wolf  with Romulus and Remus. This device  rests upon two crossed battle axes and an  oak wreath. The reverse bears within an  oak wreath ROMA /RIVENDICA TA,/AI  SUOI/LIBERATORI, surmounted by a  star. The ribbon has narrow alternating  stripes of magenta and yellow. Some rib¬  bons have nineteen stripes; others have  eleven.    NUMISMATIC NOTES  MEDALS OF HONOUR THE TWO SICILIES   Even more so than with Italy proper,  Sicily has been a battle-ground from the  earliest times. And this condition, as is  usually the case, has made the numismatics  of Sicily of great importance. Before the  period of coinage, the Sikels dwelt in the  land. Later the Carthaginians disputed  with the Greeks for its control, both yielding  ultimately to the Romans. In addition to  the struggles between the Normans and the  Spaniards for its possession, it had to with¬  stand the onslaught of the Saracens.   Sicily, especially in the mediaeval period,  has shared the fate of the kingdom of  Naples, or, as they came to be known, the  Kingdom of the two Sicilies—a title which  in itself is a commentary of the relative  importance of Naples. After the Lombard  rule in the nth century, the Normans,under  Count Roger, brought about a consolidation  of Naples and Sicily. The conquest dates  from 1130 A.D., when he assumed the title    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND    of King of Naples and Sicily. There were  two periods of separation—1282 to 1442  and 1458 to 1504, but after the last-named  year the two kingdoms remained under one  crown until the unification of Italy in 1861.   It is unnecessary here to dwell upon the  constantly changing rule for the two king¬  doms more than to mention the conflict  between the House of Anjou and of Aragon  through the 14th and 15th centuries. Under  Charles VIII (from 1494), the French ruled,  while between 1504 and 1707 the Spanish  were in control. They were followed by  the Austrians (until 1720). After that  date Spanish Bourbons held possession.   The Napoleonic rule on the mainland  dates from 1805, while Ferdinand IV con¬  trolled the island of Sicily. The downfall  of Napoleon at Waterloo saw the two  kingdoms again united under the Bourbons.  The wars for the independence of Italy, and  the efforts of Garibaldi in 1859 and i860,  finally brought both sections into the  Kingdom of Italy and under the rule of the  house of Savoy.    NUMISMATIC NOTES        M EDALS OF HONOUR   85   ORDER OF THE SHIP. In 1269, St.  Louis founded in France the Order of the  Ship or of the Double Crescent. Upon his  death in 1270, his brother, Charles d’Anjou,  established this order in the Kingdom of  Naples. Owing to the design of the collar,  this order is sometimes given a third name—  The Order of the Sea Shell. The insignia was  a gold collar of scallop shells, alternating with  double crescents. From this was suspended a  medal with a ship as its design. The motto  is NON CREDO TEMPORI. Clark, an Eng¬  lish writer, describes an order founded in 1382  by Charles III, King of Naples, called the  “Order of St. Nicholas,” while Elias Ashmole  styles it “The Order of the Argonauts of  St. Nicholas.” Both give the motto as NON  CREDO TEMPORE Apparently, therefore,  this is a survival or a later form of the  Order of the Double Crescent.   ORDER OF THE CRESCENT. Favine  states that this order was founded in An-  giers, France, in 1464, by Rene, Duke of  Anjou, King of Jerusalem and Sicily.  Ashmole quotes St. Marthes as giving 1448    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND    as the date for its foundation. Rene was  unable to hold his island kingdom very long.  The order was not popular, and those  honoured with it were afraid to wear the  badge. The insignia consisted of three gold  chains from which is suspended a gold  crescent, bearing three letters in red, L.O.Z.,  which signify, according to Favine, L’oz en  croissant (Praise by increasing). To the  crescent were attached gold tags indicating  the battles and feats of honour in which the  knights had been engaged. 2   Aragon controlled the Island Kingdom of  Sicily from 1282 to 1442. In 1351 Louis I,  King of Sicily, founded the ORDER OF THE  STAR to replace that of the CRESCENT  MOON. This insignia was a Maltese  cross, in the centre of which is an eight-  pointed star. This Order seems to have  been discontinued in 1394. Giustinian, the  Italian writer in 1692, gives a list of eighteen  Grand Masters of the Order of the Crescent  Moon and of the Star from 1268 to 1667.  This would seem to indicate that the Orders  described above were connected or continued  by the several rulers under different titles.    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR   OO   ^4   ORDER OF THE SPUR. Founded in  1266 by Charles d’Anjou, King of Naples  and Sicily, to commemorate his triumph over  Manfred near Benevento. The insignia is  a white-enamelled cross, each of the arms  having double points. A spur is attached  at the base. The Order was shortlived.    ORDER OF THE KNOT OF NAPLES.  Created in 1351 by Louis of Taranto when  he married the Queen of Naples. This was  also termed the “Order of the Holy Spirit  of the Right Desire.” It ceased to exist  after the death of the founder. The  insignia is a knot of cord entwined with  i gold thread.    ORDER OF THE REEL AND LIONESS  (Naples). This Order, of short duration,  was instituted by partisans of the house of  Anjou, during the troubles of 1386-1390.  The insignia is a yarn reel and a lioness, the  significance of which is difficult to learn.  Clark, writing in 1784, states that the  followers of Louis II, Duke of Anjou, were  divided into two factions, one of which wore    AND MONOGRAPHS  ITALIAN ORDERS AND    on its arms an embroidered reel as a sign  of contempt for Queen Margaret, widow of  Charles III, who desired to hold the reins of  government. This faction took the name  of “Knights of the Reel.” The other, the  Knights of the Lioness, wore on its breast  the figure of a lioness with feet tied, indi¬  cating that it looked upon Queen Margaret  as one tied by the leg.   ORDER OF THE ERMINE (Naples).  Founded in 1463, by Ferdinand I (1423-  1494) Aragon, King of Naples, at the end  of the war which he had been waging against  John of Anjou, Duke of Calabria. He was  led into this war by his brother-in-law,  Marinus Marcianus, Duke of Sesso, who  conspired to murder Ferdinand. Marinus  Was not only pardoned for his treachery but  was admitted into this Order. The motto  was MALO MORI QUAM FOEDARI  (Death is preferable to dishonor), and the  patron was St. Basil. The badge is a gold  ermine suspended from a gold chain. Au¬  thorities differ as to the exact date of both  the creating and discontinuance of this Order.    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR   89   ORDER OF THE GRIFFIN (Naples).  Attributed to Alphonse by Perrot and by  De Genouillac. The date of its founding is  given as 1489. As Alphonse died in 1458 and  was succeeded by his son, Ferdinand I, who  reigned until 1494, it may, therefore, have  been instituted by Ferdinand. No description of the insignia can be found.   ORDER OF SAINT MICHAEL (Naples).  This Order is likewise attributed to Ferdi¬  nand I, and the insignia is described by  Ashmole as an oval, bearing the word  DECORUM . No other record has been  found.   ORDER OF SAINT JANUARIUS (of the  Two Sicilies). Founded on July 6, 1738, by  King Charles of Sicily (1716-1788), to cele¬  brate his marriage with Princess Amelia,  daughter of Augustus III of Poland. Charles  was of the Spanish Bourbons, and second  son of Philip V. His army had conquered  Sicily, and he became its King in 1735 at  the age of eighteen, having previously borne  the titles of Duke of Parma and Grand-Duke    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS    of Tuscany. In 1759 he became Charles  III of Spain, at which time he resigned his  Neapolitan and Sicilian Kingdom in favor  of his son, Ferdinand. Charles formed the  Noble Order of the Immaculate Conception  of the Virgin Mary, often also called “The  Order of Charles III of Spain.” It was he  who, as King of Spain, joined France in  sending assistance to the American Colonies  in their war of Independence. At the Peace  Treaty following that conflict, he recovered  Florida for Spain from England, to whom it  had been ceded in 1763.   Saint Januarius (San Genaro), for whom  this Order is named, was the Patron Saint  of Naples. Relics of this Saint, to whom  miraculous cures are attributed, are pre¬  served in the cathedral named for him in  that city. When the French invaded  Naples in 1806, the Order was abolished in  that country, though it continued in Sicily,  whither Ferdinand had fled. It was revived  after 1814. At the present time it is classed  among the non-active Orders of Italy.  There are two classes: Knights and Honor¬  ary Knights. The badge of the Order is a    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. Two Sicilies  Order of Saint Januarius     ITALIAN ORDERS AND    gold Maltese cross, enamelled red with  white edges; gold Bourbon lilies in the  angles. The obverse centre has a figure of  the patron saint, San Genaro, clad in a red  robe and hat, with an open book in the left  hand. The reverse shows an open book and  two receptacles partly filled with the mirac¬  ulous blood of this martyr. The ribbon is  bright red. The plaque is of silver, the same  design as the cross, and bears the words  IN SANGUINE FOEDUS (the Covenant  in Blood).   ROYAL MILITARY ORDER OF SAINT  CHARLES. Instituted by Royal Decree of  October 22, 1738, by King Charles, its  purpose was to reward citizens and members  of the army and navy who had shown  exceptional zeal and fidelity to the crown.  This Order supposedly never received the  Apostolic confirmation of the Pope, and  according to an Italian writer, Ruo, was  shortlived, all record of its existence having  been lost when Charles, its founder, assumed  the throne of Spain in 1759.   The decoration is a fou r-armed cross, each    NUMISMATIC MEDALS OF HONOUR   93   arm terminating in the form of a lily, and  the whole surmounted by a royal crown.  The centre medallion bears the image of  Saint Charles. No description of the  reverse is given. The ribbon is violet.   ORDER OF SAINT FERDINAND and  OF MERIT. Founded on April i, 1800 by  Ferdinand IV, King of Naples (also Ferdi¬  nand III of Sicily and I of the Two Sicilies).  It was instituted in commemoration of his  having been restored to his Kingdom after  the defeat of the French by the united  forces of England, Austria, Russia and   I Turkey. The object of the Order was to  reward the Neapolitans who had remained  faithful to the King and his monarchy.  Lord Nelson, Duke of Bronte, was one of  the first foreigners to have this Order  bestowed upon him. He was made a  Knight of the Grand Cross. Like the Order  of Saint Januarius, this was suppressed in  Naples when the French under Joseph  Bonaparte controlled that country. It was  continued in Sicily until 1814 but is said to  have been definitely abolished in i860.    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS    There were three classes: Knights of the  Grand Cross, Commanders and Chevaliers.  The cross of this Order is a gold star of six  branches, in the form of rays. In the angles  are Bourbon lilies. The whole is surmounted  by a crown of gold. The gold-centred  medallion bears a figure of St. Ferdinand in  Royal robes and crowned, holding a laurel  wreath in the left and a sword in his  right hand. The encircling blue-enamelled  band is inscribed FI DEI ET MERITO.  The reverse centre of gold is inscribed FERD.  IV. INST. ANNO 1800 . The plaque of the  Order is similar to the obverse of the cross,  without the crown. A dark blue ribbon with  red edges is used for suspension of the cross.   MEDAL OF HONOUR. By a decree of  July 25, 1810, Ferdinand IV added a gold  and silver Medal of Honour. This was  33 mm. in diameter, with the obverse similar  to the cross. The reverse was inscribed  FI DEI ET MERITO. This was worn with  a similar ribbon. Officers and privates of  the Army and Navy were awarded this  medal for distinguished services.    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXIV     Two Sicilies  Medal of Honour    96   ITALIAN ORDERS AND    MEDAL OF MERIT FOR LOMBARDY.  Ferdinand IV instituted a medal of silver  for the Neapolitan troops who assisted him  in the campaign in Lombardy against the  French in 1796. This was 38 mm., bearing  on the obverse the helmeted effigy of the  king and the title, FERDIN. IV UTRI  SICILIAE REX P.F.A. ( P-Pio, devout,   F-Forte, brave, A-Augusto, august). On the  reverse, within a laurel wreath, FI DEI/  REGIAE DOM US / PA TRIAE / PROPUG-  NA TORI /OB / EG REGIA FACTA . In the  exergue, E. V.A/MDCCXC VI.   MEDAL OF MERIT FOR SIENA. This  medal was of gold and awarded by Ferdi¬  nand IV to the troops who distinguished  themselves in the Siena campaign in 1797.  On the obverse is the helmeted effigy of the  king and his title FERDIN AN DUS IV  UTRIUSQ. SICILIAE REX P.F.A. On  the obverse is an allegorical figure of a  woman crowning a soldier with a laurel  wreath. Surrounding this, an inscription  reads MI LI TIB US BENE DE REGE AC  PATRIA MERIT 1 S. In the exergue is    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR E. V.A./MDCCXC VII. The ribbon is blue  and white, edged with narrower stripes of  blue (Sculfort, p. 176).   MEDAL OF HONOUR FOR THE SIEGE  OF GAETA. When Napoleon I sent his  brother Joseph Bonaparte to rule over the  kingdom of Sicily, Ferdinand IV fled to  Gaeta. This fortress was gallantly de¬  fended in 1806 against the French under  Marechal Massena, but was finally forced to  capitulate, and Ferdinand fled to the island  of Sicily. To reward those who valiantly  assisted him to hold his kingdom, Ferdinand  IV instituted this Medal of Honour. It is 35  mm., and was struck in both gold and silver,  and is suspended from a deep red ribbon.  The obverse of the medal has a bust of the  king facing to right, the head wearing a  helmet, laurel wreathed and surmounted by  a dragon. The inscription is FERDI-  NANDUS IV. D.G. SICILIARUM REX.  The reverse has in the centre a view of the  fortress of Gaeta, surrounded by the motto,  MERITO ET FI DEI CAJETAE DEFENSORM AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND    ROYAL ORDER OF THE TWO SICI¬  LIES. Created on February 24, 1808, by  Joseph Napoleon, when King > of Naples   It was issued in three classes: Grand Officers,  Commanders and Chevaliers. Joachim Mu¬  rat, when ruler, modified the Order in 1811;  its purpose was to reward those who had  assisted in the conquest of the country.  The decoration is a red-enamelled star of  five points, ball tipped and with gold edges.  Above this is the Imperial eagle surmounted  by a crown. In the centre medallion is the  Arms of Sicily, a Trinacria or Triquetra,  having a face in the centre. This me¬  dallion is surrounded by the title, JOS. NA-  POLEO SICIL. REX INST 1 TUIT. The  reverse medallion bears a prancing horse,  the Arms of Naples, encircled by a blue-  enamelled band inscribed PRO RENO V A TA  PATRIA. The ribbon is dark blue with a  red stripe in centre.   Following the death of Murat on October  13, 1815, the Kingdom was restored to  Ferdinand IV, who changed the design of  the above decoration. The star was at¬  tached to the surmounting crown by a lily    N U M I S M ATIC NOTES MEDALS OF HONOUR   99   (replacing the eagle). The obverse medal¬  lion contained the Arms of Sicily and of  Naples, surrounded by the inscription  FERDINANDUS BORBONIUS UTRI-  USQUE SICILIAE REX P.F.A. (Pio Forte  Augusta). The reverse medallion had in  the centre a Bourbon lily and the motto  FELICITATE RESTITUTA X. KAL.JUN.  1815 . The ribbon was changed to azure blue  with a red stripe in the centre. This Order  was finally abolished in 1819 and replaced by  the “Order of Saint George of the Reunion.”   MEDAL OF HONOUR FOR THE PRO¬  VINCIAL LEGION. On March 29, 1809,  Joachim Murat, instituted this medal for  the Provincial Legion. It is of silver and  bronze, and bears on the obverse the effigy  of the King, facing to left, encircled by  the words GIOACCHINO NAPOL. RE  DELLA DUE SICIL. On the reverse is a  group of fourteen flags and a royal crown,  the outer flags bearing, respectively, the  words SICUREZZA/INTERNA. Around  this device is the inscription ALLE LEGIONI    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND    PROVINCIALI 26 MARZO 1809 . The  ribbon is light blue moire. Ruo, the  Italian writer, states that the inscription on  the obverse is Gioacchino Napoleone, but the  previous description is taken from a medal  and various French authorities.   MEDAL OF HONOUR FOR NAPLES.  Murat authorized another Medal of Honour  on November i, 1814, to reward the guard of  Naples for its devotion to his cause. It is  of gold and silver, in the form of a wreath of  oak and laurel leaves, tied with a ribbon and  surmounted by a crown. Superimposed  on the wreath are two crossed flags, enam¬  elled in the colours of the kingdom. On  the obverse centre medallion of white is the  bust of the king, facing to left, and the title  GIOACCHINO NAPOLEONE (or GIO¬  ACCHINO RE DI NAPOLI ). On the re¬  verse medallion are the words ONORE ET  FEDELTA. The ribbon is magenta. The  Medal for Civil Merit is similar to the above,  except that the reverse is inscribed ONORE  ET MERITO.    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR   IOI   MEDAL OF HONOUR. After the death  of Murat at Pizzo, a medal of 38 mm. was  authorized by Ferdinand IV. It was issued  in gold and silver, and worn with a bright  red ribbon. On the obverse is a crowned  effigy of the restored king, facing to left,  and the inscription FERDINANDUS IV  UTRI USQUE SICILIA E REX P.F.A.  The reverse has in the centre a large Bourbon  lily, surrounded by the inscription OB  EGREGIAM URBIS PITH FIDELITA-  TEM. In the exergue, POSTRIDIE NO¬  NAS OCTOBRIS/ANNI R. S./MDCCCXV.   MEDAL OF HONOUR (Sicily). By de¬  crees of August 9 and 30, 1816, bronze  medals were authorized and awarded to  soldiers and sailors who were faithful to the  cause of Ferdinand IV. This is a green-  enamelled Maltese cross with gold Bourbon  lilies in each angle. The centre medallion  bears the effigy of the king to right, and the  words FERDINANDO IV INSTITUI 1816 .  The reverse has in the centre a lily and the  inscription CONSTANTE ATTACCA-  MENTO. This was worn with a red ribbon.    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS    SECURITY GUARD MEDAL. Created  on May 30, 1816, and issued in gold and  silver; it was worn with a Bourbon red rib¬  bon. The medal is surrounded by a wreath  of oak leaves and surmounted by a crown,  attached by laurel branches. On the  obverse is the effigy of the king surrounded  by the title FERDINANDO IV RE DELLE  DUE SI Cl LIE P.F.A. The reverse bears  a lily and the motto ALLA GUARDI A Dl  SICUREZZA. In the exergue, PER LA  GIORNATA DE 22 MAGGIO 1815 .   ROYAL MILITARY ORDER OF SAINT  GEORGE OF THE REUNION. This  order was created on January 1, 1819, by  Ferdinand IV. It commemorated the  reunion of Naples and Sicily, and was  awarded for valour, military distinction and  loyalty. There are four classes: Knights of  the Grand Cross, Commanders, Officers and  Chevaliers, the decoration varying in size  according to the grade. This Order was  discontinued in i860, with the formation  of the present Kingdom of Italy. The  insignia is a red-enamelled cross, fleuree, with i    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXV     Two Sicilies   Order of Saint George of the Reunion  ITALIAN ORDERS AND    concave arms. Two gold swords cross at  the angles, and a wreath of green-enamelled  laurel connects the arms of the cross and  the swords. The medallion bears a figure  of Saint George slaying the dragon; around  this is a blue-enamelled band inscribed IN  HOC SIGNO VINCES. The reverse is the  same, with the word VIRTUTI above.  The ribbon is light blue moire. The decora¬  tion of the Knights of the Grand Cross is  distinguished from the other grades by a  gold pendant of St. George and the dragon.  The Chevalier’s cross has no such pendant;  and on the reverse is the word MERITO.   MEDAL OF ST. GEORGE. In addition  to the “Order of Saint George of the Re¬  union,” gold medals were awarded for  heroism in war, and in silver for continued  service. These are 28 mm., bearing in the  centre the figure of St. George slaying the  dragon, encircled by a wreath and the words  VIRTUTI or MERITO according to the  purpose of the award. The obverse and  reverse are the same. The ribbon is blue  with yellow edges.    NUMISMATIC NOTES  MEDALS OF HONOUR  ORDER OF CONSTANTINE, (described  on page 18). Instituted in Naples and  Sicily by Don Carlos in 1734. Joseph  Bonaparte abolished it in 1808, although it  continued in the island of Sicily. Upon the  return of Ferdinand IV to Naples in 1814,  it was restored in both Kingdoms.    ROYAL ORDER OF FRANCIS I.  Francis I, upon the death of his father,  Ferdinand IV, became King of the Two  Sicilies on January 4, 1825. He was of the  Neapolitan branch of the Bourbon family.  On September 28, 1829, he founded the  Royal Order of Francis I. Though usually  conferred as a reward for Civil Merit, the  army was not debarred from its honours.  There are five classes: Grand Cross, Com¬  manders, Officers, Knights and Chevaliers.  The fourth and fifth classes receive, re¬  spectively, the gold and silver medals,  described later. This Order was discon¬  tinued in i860 when the Kingdom of the  Two Sicilies became part of Italy, though, as  a family Order, it was continued for a while  longer. The decoration is a four-armed,    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND    double-pointed cross of white enamel with  gold edges, surmounted by a gold crown.  Bourbon lilies of gold are in each angle.  The medallion is larger than in most of the  other Orders. In the centre, on a field of  gold, appear the initials of the founder, F.I.,  with crown above. These are surrounded  by a laurel wreath of enamel. On the blue  encircling band are the words, DE REGE  OP TIME MERITO. The reverse bears the  inscription FRANCISCUS PRIMUS IN-  STITUIT MDCCCXXIX, within a green  wreath. The ribbon is bright red with  blue edges. The star or plaque of the order  is a silver cross without the crown, and  with the same centre medallion.   The gold and silver medals, worn by the  fourth and fifth classes, are 36 mm. in diam¬  eter, bearing on the obverse the portrait  of the founder, within a laurel wreath, and  the inscription FRANCISCUS I.D.G.UTRIUSQUE SICIL. ETHIER. REX. The reverse  has three Bourbon lilies in the centre within a  wreath, and the motto DE REGE OPTIME  MERITO 1829 . The ribbon is dark red with  blue edges; not as wide as that for the Cross.    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXVI     Two Sicilies  Order of Francis I    io8   ITALIAN ORDERS AND    MEDAL OF CIVIL MERIT. Authorized  by royal decree of December 17, 1727. It  is of gold and silver and worn with a red  ribbon. The obverse bears an effigy of the  king, and the title FRANCISCUS I.D.G.  REGNI UTRIUSQUE SICIL. ET HIER.  REX. On the plain reverse is engraved  the name, date and cause of award. A medal  similar to this was awarded during the reign  of Ferdinand II and may be found with  either of the following inscriptions: FERDI-  N AN DUS II REGNI UTRIUSQUE SI CI¬  LIA E ET HIERUS. or FERDINANDO II  RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE.   Another MEDAL OF CIVIL MERIT was  issued, 44 mm. in size. On the obverse are  busts of Francis I and Queen Maria Isabella,  facing to right, surrounded by branches of  laurel. On the reverse is a Bourbon lily,  crowned.   MEDAL FOR MESSINA. Francis I was  succeeded in 1830 by his son, Ferdinand II,  who died in 1859. Ferdinand II instituted  the Medal for Messina for troops faithful  to him, in that city, during the Revolution    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR   109   of 1847. It is of bronze, and 30 mm. On  the obverse, within a wreath of oak and  laurel leaves, is the word FEDELTA with  one Bourbon lily. The reverse reads,  MESSINA 1 SEPTEMBRE 1847 . The  ribbon is light blue and white. A variant  of this medal has on the obverse the effigy  of the king and the words FERDINANDO  II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE;  and on the reverse the word FEDELTA.    LONG SERVICE MEDAL. Ferdinand  II also created a bronze medal for Long  Service. It is 38 mm. and bears on the  obverse the king’s bust on a pedestal,  surrounded by implements of war and flags.  Above is FERDIN ANDO II. The reverse  reads LODEVOLE SERVIZIO MI LI TARE  DI 25 ANNI. The ribbon is red.    MEDAL FOR THE SIEGE OF MES¬  SINA. After the long siege of the citadel  of Messina in 1848 by Ferdinand II which  resulted in his reconquest of Sicily, a com¬  memorative medal was authorized by the  king. This was to reward the troops who    AND MONOGRAPHS no   ITALIAN ORDERS    had taken part in the campaign. The  medal for the senior officers was of gold and  enamel, 35 mm. in diameter. On the  obverse within a green-enamelled laurel  wreath, is a pentagonal fort; in the corners  are five bombs, the flames of which rest  upon the wreath. In the centre is the  fleur-de-lis of the Bourbons, in relief. The  reverse is similar, except that in the centre  of the pentagon is the legend, ASSEDIOJ  DELLA 1 CITTADELLA / DI MESSINA /  18 ^ 8 . The ribbon is red. For the junior  officers and soldiers the medal was of bronze  and of the same size, without enamel.  Obverse and reverse are identical, and the  medal was worn with a red ribbon. A variant  of this medal has a plain reverse, no fort, or  bombs, but with the same inscription in relief.   MEDAL FOR SICILY. Created for the  troops who, under the leadership of Filan-  gieri, suppressed the Insurrection of 1848-  1849. This is of bronze-gilt, and displays  the effigy of Ferdinand II facing to right  within a wreath of oak leaves. Outside, the  wreath are two draped flags, the whole is    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl.     Two Sicilies  Siege of Messina   Long Service Medal, Ferdinand II    112   ITALIAN ORDERS    surmounted by a Bourbon lily. The plain  reverse has CAMPAGNA DI SICILIA 18 J/. 9,  in relief. The ribbon has three equal stripes  of light blue and white.   MEDAL FOR CAMPAIGN OF 1860 .  Francis II came to the throne of Sicily in  1859, about the time of the Garibaldi  campaign for the Independence of Italy.  His reign was short. The Medal for the  Campaign of 1860 was created by him for  those troops who were loyal to him and  opposed to Garibaldi. It is bronze, 37 mm.,  and bears on the obverse the effigy of the  king, facing to left, within a wreath of oak  leaves. Surrounding this is FRANCESCO  II RE DELLE DUE SI Cl LIE. The reverse  bears the words, TRIFRISCO, CAIAZZO,  S.MARIA,S. ANGELO, GARIGLIANO, sur¬  mounted by three Bourbon lilies. Around  this inscription appear the words, CAM¬  PAGN A DI SETT. OTT. 1860 . The ribbon  is red with a blue stripe in the centre.   CAMPAIGN OF EASTERN SICILY.  Authorized in i860. It bears on the obverse    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. XXVJ1I      Two Sicilies   Medal for Sicily, Ferdinand II    the effigy of Francis II facing to right, and  the words SICILIA OCCIDENT ALE/  APRILE E MAGGIO/1860. On the reverse,  within a wreath of laurel, the words AL   V A LORE. This is bronze, and 27 mm. in  diameter. A variant of this medal was  issued without the likeness of the king on  the obverse.   MEDAL FOR THE DEFENSE OF  CATANIA. The obverse bears the effigy of  Francis II, a trophy of arms, and the words  CATANIA 31 MAGGIO 1860; the reverse,  within a wreath of laurel, the words AL   V A LORE.   MEDAL FOR GAETA. Issued to the  refugees who fled to Gaeta with the Royal  family in 1860-61 when Garibaldi entered  Naples. The medal is silver, 36 mm.,  having on the obverse the jugated busts of  the King and Queen Maria Sophia of Bavaria  and the words FRANCESCO II—MARIA  SOFIA. The reverse shows a view of the  city of Gaeta, with GAETA 1860-1861 in  the exergue. A variation of this medal has    NUMISMATIC NOTES  ITALIAN DECORATIONS    Pl.Two Sicilies   Medal for Gaeta, Francis II        on the reverse the fortress of Gaeta only,  with the same inscription in the exergue.   After the Garibaldi campaign of 1860-  1861 for the freedom of Sicily, and after the  Royal family had given up the Kingdom of  Sicily, Francis II by a decree dated March  12, 1861, authorized medals for all his  soldiers who took part in the second siege of  Messina. It appears that dies were made  but only one medal is known to have been  struck. That rests in the famous Ricciardi  collection in Naples. The writer is in¬  debted to Sig. Guido de’Mayo’s article in  the May-June 1922 issue of Miscellanea  Numismatica, which describes this medal.   It is silver, 35 mm., and bears on the  obverse the jugated busts of the King and  Queen, facing to left (similar to the Gaeta  Medal), and the titles, FRANCESCO II—  MARIA SOFIA. The reverse has a design  of the pentagonal fortress of Messina; in  the corners of the pentagon are five bombs,  the flames of which rest on the wreath which  surrounds the fort. In the centre is the  Bourbon fleur-de-lis. The exergue reads  CITTADELLA DI MESSINA.    The ribbon is given as red with blue  stripes.   MEDAL FOR SICILY. This is said to  have been awarded to those who took part  in the uprising against Ferdinand II in 1848,  in the movement for a United Italy, but the  purpose of this award cannot be verified  from the several authorities consulted. It  was issued in silver and bronze, 30 mm.,  and suspended from a ribbon of the Italian  National colours—three equal stripes of  green, white and red. On the obverse is an  allegorical figure of Sicily, armed with a  sword; at her feet is a shield with the Arms of  Sicily, while in the sky, a brilliant sun bears  the Arms of Savoy. In the distance is Mt.  Aetna in eruption. The reverse has in the  centre SICILIA/1848. Around this is the  inscription, INIZIO DEL RISORGIMBNTO  D’lTALIA.    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND    TUSCANY   Tuscany, the ancient Etruria, lies south  of the Apennines. On the east it was  bounded by the districts of Umbria and the  Marches, while to the south lay the section  known in Classical times as Latium, but  which later, with the rise of the Church,  was usually known as the Papal States.  None of these provinces had boundaries that  were fixed for any great length of time, and  their geographical history is very com¬  plicated.   Between the ioth and 16th Centuries,  Tuscany was composed of several self-  governed communes or Republics, the most  important of which were Lucca, Pisa,  Florence and Siena. The Medici family  was a dominant factor in the government for  a long period. In 1735 the country came  under Austrian rule. Francis, Duke of  Lorraine and afterwards Emperor of Aus¬  tria (1708-1765), became Grand Duke of  Tuscany. He succeeded John Gaston, the  last of his line, and thus the Duchy passed    NUMISMATIC NOTES  MEDALS OF HONOUR from the control of the Medici and into that  of the Hapsburg family. This had been  arranged by treaty.   The Hapsburgs continued in control until  the entrance of the French in 1799 under  Napoleon I, though the battle of Waterloo  in 1815 brought back once more their rule  in the domain. Ferdinand III (1769-1824)  was succeeded by his son, Leopold II, who  lost the Duchy of Tuscany when the constit¬  uent Assembly voted for its inclusion in the  Kingdom of Italy on August 16, i860.  From that time all the Orders of Tuscany  have been discontinued.   ORDER OF SAINT STEPHEN. This  Order was founded at Pisa in 1561 or 1562,  by Cosimo I de’ Medici, Duke of Florence,  afterwards the first duke of Tuscany, to  commemorate his victory over the French at  Siena. The battle took place on St. Stephen’s  day, August 2, 1554 (or August 6 accord¬  ing to some historians). The inhabitants  of the city and the troops under Henry II,  after withstanding a siege of fifteen months,  finally capitulated. In 1567, Pope Pius V    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS    granted Cosimo the title of the first Grand  Duke of Tuscany. The Order was named in  honour of Stephen IX, Pope and martyr,  once bishop of Florence, on whose festival  Cosimo de’ Medici gained his victory. It  is said to have been discontinued in 1565,  but Elias Ashmole states that new statutes  were approved in 1590. He also lists it as  one of the Orders extant in 1715; though  Hugh Clark informs us that the Order was  “revived in 1764 and put on a respectable  footing.” Whatever its status in the  interval may have been, the Order was  reorganized in 1817 by Ferdinand III,  Grand Duke of Tuscany (1769-1824), and  its regulations were altered by him at that  time. The insignia is a red-enamelled, gold-  edged cross, similar to that of the Knights  of Malta. In the angles are golden fleurs-  de-lis and above the cross is a ducal crown of  gold. The ribbon is bright red.   ORDER OF SAINT JOSEPH. Founded  by Ferdinand III on March 19, 1807, when  as Grand Duke of Wurtzburg he was ad¬  mitted to the Confederation of the Rhine.    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXX     Tuscany   Order of Saint Stephen    Upon the downfall of the Napoleonic control  of Tuscany in 1814, Ferdinand restored the  Order in Tuscany when he again assumed  control of the Duchy. The Order was for  meritorious service and was awarded to  civilians, ecclesiastics and the military,  whether native or foreign. Generally the  honour was confined to those of the Roman  Catholic faith. There are three classes:  Grand Cross, Commanders and Knights.  The Decoration of the first class is silver,  a double-pointed, six-armed cross, with  rays between the arms. An oval medallion  in the centre bears the figure of St. Joseph;  around this on the band, likewise of silver,  is the motto UBIQUE SI MI LIS (Everywhere  the same), with a branch of laurel and oak.  In the lower centre of the band is the letter  F. The cross of the second class is gold,  and similar to the star of the first class,  though smaller. It has white-enamelled  arms, and the rays and the medallion band  are of red enamel. It is surmounted by a  gold crown and a suspension ring for the  ribbon, which is bright red, with a white  stripe at each edge. The reverse medallion    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. Tuscany   Order of Saint Joseph    AND    has in the centre S.J.F .1807 (SanctoJosepho  Ferdinando —Dedicated by Ferdinand to  Saint Joseph). The third class cross is  smaller and worn with a narrower ribbon.    ORDER OF THE WHITE CROSS.  Instituted by Grand Duke Ferdinand III  in 1814. This was a decoration solely for  the military faithful to him. It is sometimes  called the “Cross of Loyalty.” A MEDAL  OF HONOUR was also founded in 1816 for  those who had distinguished themselves in  the Duchy. No description of these two  insignia is obtainable from the several  authorities consulted.   MILITARY MEDAL. Authorized in 1815  for distinguished service. It was awarded  only to junior officers and soldiers. This  medal is silver, bearing on the obverse a  bust of the founder facing to right, and the  title FERDINANDO III.A.D.A.GRAND.  DI TOSCANA. The reverse has in relief  AI PRODI E FED ELI TOSCANI 1815 .  (To the brave and faithful Tuscans.) The  ribbon is half red and half white.    LONG SERVICE MEDAL. Founded in  1816 and issued to junior officers and sol¬  diers. It is bronze, 37 mm., and bears on  the obverse two crossed swords, with a  shield bearing the letter F superimposed.  Above this device is a crown, and below is  1816, the date of its creation. The reverse  reads, in relief, AL LUNGO E FED EL  SERVIZIO. The ribbon is half red and  half white.    MEDAL OF MILITARY MERIT. This  was founded by Leopold II on May 19, 1841,  and bears the effigy of the Duke and the  words LEOPOLDO II GRANDUCA DI  TOSCANA. The reverse has in relief  FI DELTA E V A LORE. The ribbon is  half red and half black.    ORDER OF MILITARY MERIT. In¬  stituted on December 19, 1853, by Leopold  II. The decoration is a five-armed white-  enamelled cross of gold on a gold laurel  wreath, which is surmounted by a gold  crown. The obverse medallion is inscribed  L II. surrounded by the words MERITO    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS    MILITARE. On the reverse medallion,  1853 records the date of its creation. The  ribbon is of red and black in equal stripes.   MEDAL OF 1848 . Founded by Leopold  II for the war of Italian Independence.  This was a service medal for his troops  taking part in that campaign. It is bronze-  gilt, and bears on the obverse the effigy of  the Grand-duke and title LEOPOLDO II  GRANDUCA DI TOSCANA. On the re¬  verse within a laurel wreath is the inscription  GUERRA/DELLA/INDIPENDENZA /  ITALIANA/18^8. The loop for the ribbon  is a wide bar-like affair, similar to that for  many of the Italian medals. The ribbon is  blue, bordered with two red stripes.   MEDAL OF MERIT. Attributed by but  one authority to Ferdinand IV. Issued  in five classes; gold, of 40 mm. and 30 mm.;  silver, of 49 mm. and 30 mm., and bronze,  45 mm. in diameter, according to the impor¬  tance of the award. On the obverse is a  bust of the Grand-duke and FERDINANDO  IV GRANDUCA DI TOSCANA. The re-    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. Tuscany   Order of Military Merit, Leopold II    verse bears the inscription AL MER1T0  within a wreath. The ribbon is dark blue  with black stripes at the sides.   LONG SERVICE MEDAL. Instituted  by Leopold II in December, 1850, for officers  of the Army who had served at least thirty  years. It is 36 mm., a gilt Maltese cross,  having in the centre medallion of silver the  head of Leopold II to left, encircled by  LEOPOLD II G. D. DI TO SC. On the  reverse medallion is the word ANZIANITA,  with a crown above. No information  concerning the ribbon is obtainable. NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS  Plate Venice. Defence of Venice Tuscany. Long Service Medal. At the time of Augustus, there was no  city of Venice, and Padua was the chief city  of the district which has since come to be  known as Venetia. This district occupied  the Northeastern section of that country  from the Alps on the North and East to the  Adriatic Sea, and to the River Po on the  West. From the Sixth and Seventh Cen¬  turies, after the foundation and the growth  of Venice, it developed a considerable com¬  merce with its island domains and became a  great maritime power. For many centuries  an independent Republic was maintained,  governed by a Senate and a Doge, elected  by the people; his authority, however, was  limited. Constant wars with neighboring  peoples and with the Turks did not exhaust  the wealth of Venice; and until the Eight¬  eenth Century Venice wielded great in¬  fluence in European politics. The Republic  was unable to withstand the French army,  however, and on October 17, 1797, was  divided—one half of the territory going to    NUMISMATIC Austria and the other half to the Cisalpine Republic. The Ionian Islands go to France.  For years the Venetian Republic  maintains its independence, and exhibits  a form of government which commands  universal admiration. GIUSTINIANO (si veda) states that Leoni was the first Grand Master  of the Ordine di San Marco.  He also lists a number of the Grand Masters  from that date to 1688, and gives several  authorities. Other writers fix the date of  its origin as 828, when the remains of Saint  Mark were taken from Alexandria to Venice.  No exact information is obtainable as to the  discontinuance of the Order, though Ashmole  indicates its existence in 1672, as does Clark  in 1784.   The insignia is a gold chain to be worn  around the neck. From this a gold medal¬  lion is suspended. On the obverse is the  Arms of Venice —the winged lion of St.  Mark, seated with a sword in the right paw,    and with the left paw resting on an open  book, on which is the motto PAX TIBI  MARCE EVANGELISTA MEUS (Peace  to thee, Mark, my Evangelist). The reverse  is believed to have been plain, although  Ashmole asserts that it had the name of the  Doge then living as well as a portrait—if  that is what may be understood by his words  “a particular impress.” This Order was  conferred by the Senate or by the Doge,  and later was called the Order of the Doge  of Venice. On late forms, the insignia was  changed to a blue-enamelled cross, on the  centre of which was a medallion with the  above described Arms. The reverse bore  the effigy of the reigning Doge, sometimes  represented as on his knees receiving a  standard from the hands of St. Mark.  All recipients of this Order had to show  records of noble birth and were known as  the Knights of Saint Mark. MEDAL FOR THE DEFENCE OF  VENICE. This medal was issued  in 1849, during the second year of the short-lived Republic of Saint Mark —as Venice  was at that time called. It was of silver and  bronze, 27 mm., bearing on the obverse the  Arms of the Republic. Around this are  the words INDIPENDENZA ITALIAN A.  On the reverse is the cross of St. Maurice  surrounded by VESSILLO DI VIT TORI A  18^8. The ribbon is crimson with a narrow  gold stripe at each side. (PI. XXXIII.)   MEDAL FOR BRAVERY. Also issued  in 1849. It was of silver and bronze, but  32 mm. in diameter. The obverse has the  lion of St. Mark and GOVERNO PROVISORIO.   On the reverse, within an oak wreath, are  the words DI FEN SORE DI VENEZIA.  The ribbon is red with gold stripes at the  sides.   MEDAL FOR THE CIVIL GUARD.  Authorized. It was silver and  bronze gilt, oval in form, 40 mm. by 34  mm. On the obverse appear two crossed  flags and the words GUARDI A Cl VIC A  VENETA. The reverse reads VV/  VI TALIA. The ribbon is yellow.  OBSOLETE ORDERS The following Orders listed by the several  authorities consulted, as having been formed  in Italy, have long been discontinued. Order of the Golden Star of Venice, date  not given.   Order of the Golden Stole, date not given. Order of the Royal Crown of Mantua, was,  according to Genouillac, created by  Prince Louis of Gonzaga (son of Witikind,  King of Saxony), in honour of his marriage  with Adalgise of Lombardy, daughter of  Gisulf, due de Frioul.   Order of the Eagle of Italy. Created  February 15,941, by Hugo II of Gonzaga, to  perpetuate the memory of his marriage with  Princess Elizabeth of Gonzaga and Lombardy. New statutes were formed for the  Order in 968.   Order of Holy Mary, Mother of God.  Founded in Italy in 1233. Its creation is  attributed to Bartholomew, Bishop of  Vincenza. The purpose of its foundation  was to quell the discords which arose    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR between the Guelphs and the Ghibellines  and also to defend and support the Roman  Catholic religion. It was approved by  Pope Martin IV, who placed the knights  under the protection of St. Augustin. It was  called by some the “Order of the Brothers  of the Jubilation,” later the “Order of St.  Mary of the Tower,” and the “Order of the  Chevaliers of the Mother of God.” Towards the end of the Sixteenth  Century the Order had entirely disappeared.   Order of the Black Swan of Italy, founded  in 1350 by Amadeus VI and other Italian  Princes, for the purpose of preventing feuds,  then so prevalent.   Order of St. George of Genoa. Founded  by Frederick III of Germany. It  was to reward the Genoese for the reception  he received during his journey to Rome,  where he received the Imperial Crown.  The Order was short-lived. The badge is  a plain red cross suspended from a gold  chain. This Order is not to be confused with  the Order of St. George of Austria, founded  by the Emperor Frederick. and monographs Order of St. George of Ravenna. Founded  in 1534 by Alexander of Farnese (then  Pope Paul III). Its award was confined  to those who defended the city and its  vicinity from the attack of the Moslems  or Corsairs. On the death of its founder  it ceased to exist. Cappelletti says it was  suppressed by Gregory. The insignia  was a red-enamelled star of eight points,  over which was a gold ducal crown.   Order of the Lily. Founded in 1546 by  Alexander of Farnese.   Order of the Lamb of God of Tuscany.  Founded in 1568 by John III.   Order of the Redeemer or of the Precious  Blood of our Saviour. Founded by  Vincent Gonzaga, Duke of Mantua.   It was in honour of the marriage of his son  Francis with the Princess Marguerite, the  daughter of Charles Emmanuel I, Duke of  Savoy. The Order survived about a  century and lapsed in 1708 on the death of  Ferdinando Gonzaga, Duke of Mantua.  An attempt was made to revive it but without success. The insignia was an  oval medallion, in the centre of which were    two angels in adoration. Around this was  the motto NIHIL HOC TRISTE RECEPTO.   Order of the Conception. Instituted on  September 8, 1617, by Ferdinand 1 of  Gonzaga, Duke of Mantua, in honour of  the conception of the Virgin and placed  under the protection of St. Michael the  Archangel. Like many other Orders founded  about this time, the members swore allegiance to the Church and agreed to fight  against the infidels.   Order of the Virgin or the Order of the  Virgin Mary the Glorious. Created in Italy  by three gentlemen of Spella, named Peter,  John the Baptist, and Bernard, surnamed  Petrignani. The Order was approved by  Pope Paul V in 1618, and placed under the  protection of the holy Virgin. The members agreed to defend and uphold the Roman  Catholic religion and make war on the in¬  fidels. No record has been found of the  discontinuance of the order.   Order of Saint Rosalie of Palermo. Founded by Alderon de Carreto. Charles Albert was of the line of  Savoy-Carignano which was founded by Thomas  Francis, son of Charles Emmanuel the  Great. Carignano, a town in the province of Turin,  was bestowed by Charles Emmanuel I upon  his son Thomas Francis, who was known as the Prince  of Carignano. The present reigning king of Italy is  of this house. Ency. Brit. At this Crescent was fastened as many' small  Pieces of Gold fashion’d like Columns and enamell’d  with Red, as the Knights had been engag’d in Battels  and Sieges; for none could be adopted into this Order  unless he had well trod the Paths of Honour.”  Ashmole, E., Hist, of Order of the Garter. Ashmole. ‘‘It was approved and confirmed by Pope Urban, and the Rule of  St. Dominick prescribed to the Knights.” Armani, E. Insegne Cavaileresche e Meda-  glie del Regno d'ltalia. Rome, Ashmole, Elias. The Institution, Laws and  Ceremonies of the Most Noble Order of the Garter.  London.   Ashmole, Elias. The History of the Most  Noble Order of the Garter. London NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR Burke, Sir Bernard. The Book of Orders  of Knighthood and Decorations of Honor.  London Cappelletti, Licurgo. Ordini Cavalle-  reschi. Livorno 1904.   Cibrario, Luigi. Descrizione e Storica degli  Ordini Cavallereschi. 2 vols. Torino Clark, Hugh A. A Concise History of  Knighthood. London.   Cuomo, Raffaele. Ordini Cavallereschi  antichi e moderni. 2 vols. Naples 1894.   Elvin, C. N. Handbook of the Orders of  Chivalry. London 1893.   Favine, Andrew. The Theatre of Honour  and Knighthood. London.—Translated  from a French Edition of Genouillac, H. Gourdon de. Diction-  naire historique des ordres de Chevalerie. Paris.   Genouillac, H. Gourdon de. Nouveau  Dictionnaire des ordres de Chevalerie. Paris Giorgio, Florindo de. Dellc cerimonie  Pubbliche della onorificenze della nobilta e  de'Titoli e degli Ordini Cavallereschi net Regno  delle Due Sicilie. Naples Giustinian, Bernardo. Historic degli Ordini militari, etc. Venezia.    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND  J. S. The History of Monastical Conventions and Military Institutions, etc. London.   Lawrence-Archer, Major J. H. The  Orders of Chivalry. London.   Mennenii, Francisci. Deliciae Eqyestrivm  sive Militarivm Ordinvm et Eorundem Origines,  etc. Coloniae Agrippinae Perrot, A.-M. Collection J Historique des  Ordres de Chevalerie. Paris.   Puca, Antonio. Gli ordini cavallereschi del  Regno dTtalia. Naples.   Ricciardi, Eduardo. Medaglie delle due  Sicilie. Naples 1910 and 1913.   Ruo, Raffaele. Ordini Cavallereschi instituti nel regno delle Due Sicilie. Naples.   Saint Joachim. An accurate historical account  of all the Orders of Knighthood, by an Officer of  the Chancery of the Order of Saint Joachim.  London 1802. (Said to be by Sir L. Hamon).   Sculfort, Lieut. V. Catalogue; Decorations  et Medailles du Musee de VArmee. Paris Trost, L. J. Die Ritter- und Verdienst  Or den, Ehrenziechen und Medaillen aller Sou-  ver'dne und Staaten. Wien et Leipzig 1910.    NUMISMATIC NOTES  MEDALS OF HONOUR    Lucca   Civil Medal of Merit. 8   Military Service Medal. 8   St. George, Order of. 5   St. Louis, Order of. 6   Modena   Cross for Service. 13   Eagle of Este, Order of. Fidelity Medal. Military Medal for Loyalty.Military Medal of Merit. 13   Parma   Constantine, Order of. 16   Medal of Merit. 20   St. Louis, Order of. San Marino   Medal of Merit. 24   Order of Chivalry. 21   Sardinia, Savoy and Kingdom of Italy   Africa, Medal for. 65   Boxer Uprising, Medal for (Medal for Far   East). 66   China, Medal for (Medal for Far East). AND MONOGRAPHS Civil Medal of Valour. Civil Order of Savoy. Colonial Order of the Star of Italy. Crimean Medal. Crown of Merit. Crown of Italy, Order of.  Far East, Medal for.  Industry, Order of. Italian Independence Medal.   60    Italian Unity Medal. Liberation of Sicily, Medal for. Life Saving Medal. Marsala Medal (Medal of the Thousand). Medal of Merit. Medal of Merit (Battle of Vicenza).  Medal of Merit (Rome). Medal of Merit (“S.P.Q.R.”). Medal of the Thousand. Military Cross for Service. Military Medal of Valour.  Most Sacred Annunciation, Order of. National Gratitude, Medal of. Naval Medal of Valour. Public Safety, Medal of Merit. Royal Military Order of Savoy. St. Maurice, Medal of.  St. Maurice and St. Lazarus, Order of. Star of the Thousand. NUMISMATIC NOT   E S MEDALS OF HONOUR    Turkish War of 1911-1912. 68   United Italy, Medal for. 62   Valour Medal. Veterans Guarding Tomb of the Kings   Medal. Victory Medal. War Cross of Italy. War in Lybia Medal. War Orphans Medal. 7War Volunteers Medal. World War Medal. 72   See also Obsolete Orders. 134   The Two Sicilies   Campaign of 1860. 112   Civil Merit, Medal of. 108   Constantine, Order of. Crescent, Order of the. Defence of Catania, Medal for the. Double Crescent (Order of the Ship). Eastern Sicily, Campaign of. Ermine (Naples), Order of the. 88   Francis I, Royal Order of. 105   Gaeta Medal. Griffin (Naples), Order of the. Holy Spirit of the Right Desire (Order of   the Knot). 8 7   Knot (Naples), Order of. Lombardy, Medal of Merit for. 96    AND MONOGRAPHS Long Service Medal. 109   Medal of Honour. 94   Medal of Honour Medal of Honour (Sicily). Messina, Medal for. 108   Naples, Medal of Honour for. Provincial Legion, Medal of Honour for the 99   Reel and Lioness, Order of. 87   St. Charles, Royal Military Order of. St. Ferdinand, Order of, and Order of   Merit. 93   St. George, Medal of. 104   St. George of the Reunion, Royal Military   Order of. St. Januarius, Order of.  St. Michael (Naples), Order of. 89   Security Guard Medal. Ship, Order of the. Sicily, Medal for (Ferd. II.). no   Sicily, Medal for (Nationalist). Siege of Gaeta, Medal of Honour for the. . 97   Siege of Messina, Medal for the. Siena, Medal of Merit for. 96   Spur, Order of the. Two Sicilies, Royal Order of the. 98   Tuscany   Long Service Medal. ^5   Long Service Medal (Leopold II). NUMISMATIC NOTES  Medal of 1848. 126   Medal of Merit. 126   Military Medal. Military Merit, Medal of. 125   Military Merit, Order of. 125   St. Joseph, Order of. 120   St. Stephen, Order of. White Cross, Order of the (Cross of   Loyalty). See also Obsolete Orders. Venice   Bravery, Medal for. 133   Civil Guard, Medal for the. 133   Defence of Venice of 1848, Medal for the. . 132  St. Mark, Order of. 131   Obsolete Orders   Black Swan of Italy, Order of the. 135   Conception, Order of the. 137   Eagle of Italy, Order of the. 134   Golden Star of Venice, Order of the. 134   Golden Stole, Order of the. Holy Mary, Mother of God, Order of the. . 134  Lamb of God of Tuscany, Order of the. Lily, Order of. 136   Precious Blood of Our Saviour (See Order   of the Redeemer). 13b   Redeemer, Order of the. AND MONOGRAPHS 146   ITALIAN ORDERS    Royal Crown of Mantua, Order of the. St. George of Genoa, Order of.  St. George of Ravenna, Order of. 136   St. Rosalie of Palermo, Order of. 137   Virgin, Order of the. NUMISMATIC NOTES Numismatic Notes and Monographs Noe. Coin Hoards. plates. Newell. Octobols of Histiaea, plates. Newell. Alexander Hoards   Introduction and Kyparissia Hoard.  1921. 21 pages. 2 plates. 50c.   4. Howland Wood. The Revolutionary Coinage plates. Westervelt. The Jenny Lind   Medals and Tokens. plates. Baldwin. Five Roman Gold Medallions. plates. Sydney P. Noe. Medallic Work of A.   A. Weinman. plates. Gilbert S. Perez. The Mint of the Philippine Islands. pages. 4 plates.  50c.   9. David Eugene Smith, LL.D. Computing   Jetons. plates. Newell. The First Seleucid  Coinage of Tyre. plates. Numismatic Notes and Monographs   (Continued)   11. Harrold E. Gillingham. French Orders   and Decorations. 1922. no pages. 35  plates. $2.00.   12. Howland Wood. Gold Dollars plates. Whitehead. Pre-Mohammedan   Coinage of N. W. India. plates. $2.00.   14. George F. Hill. Attambelos I of   Characene. 1922. 12 pages. 3 plates. Vlasto. Taras Oikistes (A Con¬   tribution to Tarentine Numismatics).  1922. 234 pages. 13 plates. $3.50.   16. Howland Wood. Commemorative Coin¬   age of United States. 1922. 63 pages.  7 plates. $1.50.   17. Agnes Baldwin. Six Roman Bronze   Medallions. 1. 39 pages. 6 plates.  $1.50.   18. Howland Wood. Tegucigalpa Coinage plates. Newell. Alexander Hoards—   II. Demanhur Hoard. 1923. 162   pages. 8 plates. $2.50. Egidio Romano. Egidio Colonna. Colonna. Keywords: conversazione cortese, conversazione gentile, padre/figlio, amore naturale, principe, cavalleria, cavaliere, cavalier attitude, cavalier implicature.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colonna” – The Swimming-Pool Library. Colonna.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colonnello: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della voce di Boezio – vox significativa – voce che e segno – parola usata metaforicamente – nome, voce che e segno – significativa – scuola di Benevento – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Benevento). Filosofo campanese. Filosofo italiano. Benevento, Campania. Grice: “I like Colonnello; as a typical Italian philosopher, he has philosophised about ‘all,’ from, first, of course, Croce, to the ‘tedesci’! – But also about ‘guilt,’ and my favourite, the ‘transcendentale,’ which in Italian, for lack of ‘n’ becomes ‘trascendentale’ – how many? Colonnello thinks more than one, if the plural is of any guide!”  Insegna a Callabria. Privilegia l'arco tra criticismo trascendentale e fenomenologia, esistenza, ermeneutica di Pareyson, storicismo di Croce, Nicol, Dussel. La sua proposta è verificare l'interazione, in chiave storico-critica, del kantismo, della fenomenologia e la filosofia dell'esistenza.  Altre opere: “Esistenzialismo kantiano” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Croce e i vociani” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Tempo e necessità” (Japadre, L'Aquila-Roma); “Tra fenomenologia e filosofia dell'esistenza” (Morano, Napoli); “Ermeneutica esistenzialista del concetto di ‘colpa” (Loffredo, Napoli); “Percorsi di confine: esistenza e libertà” (Luciano, Napoli); Croce (Bibliopolis, Napoli); “Ragione e rivelazione” (Borla, Roma); “Melanconia ed esistenza” (Luciano, Napoli); “Storia esistenza liberta. Rileggendo Croce, Armando, Roma);  Martin Heidegger e Hannah Arendt, Guida, Napoli); “Orizzonte del trascendente e dell’immanente, Mimesis, Milano); “Inter-soggettivita riflessiva” L’itinerario dei corpi” (Mimesis, Milano). Corpo, mondo, Fenomenologia (Mimesis, Milano); Fenomenologia e patografia del ricordo, Mimesis, Milano Udine).  Primum oportet constituere, quid nomen et quid verbum, postea quid est negatio et adfirmatio et enuntiatio et oratio. sunt ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum NOTAE et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce. et quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. quorum autem haec primorum NOTAE, eaedem omnibus passiones animae et quorum hae similitudines, res etiam eaedem.de his quidem dictum est in his quae sunt dicta de anima, alterius est enim negotii. est autem, quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus sine vero vel falso, aliquotiens autem cui iam necesse est horum alterum inesse, sic etiam in voce; circa conpositionem enim et divisionem est falsitas veritasque. Nomina igitur ipsa et.verba consimilia sunt sine conpositione vel divisione intellectui, ut homo vel album, quando non additur aliquid; neque Titulus ex   nisi quod de  gr. in lat. om. hic, hahet in suhscriptione. enim adhuc verum aut falsum est. huius autem SIGNUM hoc est: hircocervus enim significat aliquid, sed nondum verum vel falsum, si non vel esse vel non esse addatur, vel simpliciter vel secundum tempus. Nomen ergo est vox significativa secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars est significativa separata. in nomine enim quod est equiferus ferus nihil per se significat, quemadmodum in oratione quae est equus ferus. at vero non quemadmodum in simplicibus nominibus, sic se habet etiam in conpositis. in illis enim nullo modo pars significativa est, in his autem vult quidem, sed nullius separati, ut in equiferus ferus. secundum placitum vero, quoniam naturaliter nominum nihil est, sed quando fit nota. nam designant et iuhtterati soni, ut ferarum quorum nihil est nomen. Non homo vero non est nomen. at vero nec positum est nomen, quo illud oporteat appellari. neque enim oratio aut negation est, sed sit nomen infinitum. Catonis autem vel Catoni et quaecumque talia sunt non sunt nomina, sed casus nominis. ratio autem eius est in aliis quidem eadem, sed diifert quoniam cum est vel fut vel erit iunctum neque verum neque falsum est, nomen vero semper; ut Catonis est vel non est, nondum enim neque verum dicit neque mentitur. Verbum autem est quod consignificat tempus cuius pars nihil extra significat, et est semper eorum quae de altero dicuntur nota. dico autem quoniam consignificat tempus, ut cursus quidem nomen est currit vero verbum, consignificat enim nunc esse. et semper eorum quae de altero dicuntur nota est, ut eorum quae de subiecto vel in subiecto. Non currit vero et non laborat non verbum dico. consignificat quidem tempus et semper de aliquo est, differentiae autem huic nomen non est positum; sed  sit in finitum verbu, quoniam similiter in quolibet c.est, vel quod est vel quod non est. similiter autem vel curret vel currebat non verbum est, sed casus verbi. differt autem a verbo, quod hoc quidem praesens consignificat tempus, illa vero quod conplectitur. Ipsa quidem secundum se dicta verba nomina sunt et significant aliquid. constituit enim qui dicit intellectum et qui audit quiescit. sed si est vel non est, nondum significat;  neque enim esse signum est rei vel non esse, nec si hoc ipsum est purum dixeris. ipsum quidem nihil est, consignificat autem quandam conpositionem, quam sine conpositis non est intelleger. Oratio autem est vox significativa; cuius partium aliquid significativum est separatum, ut dictio, non ut adfirmatio. dico autem, ut homo significat aliquid, sed non quoniam est aut non est, sed erit adfirmatio vel negatio, si quid addatur. sed non una hominis syllaba. nec in eo quod est sorex rex significat, sed vox est nunc sola. in duplicibus vero significat quidem, sed non secundum se, quemadmodum dictum est. Est autem oratio omnis quidem significativa non sicut instrumentum, sed, quemadmodum dictum est, secundum placitum. enuntiativa vero non omnis, sed in qua verum vel falsum inest. non autem in omnibus, ut deprecatio oratio quidem est, sed neque vera neque falsa.et ceterae quidem relinquantur; rhetoricae enim vel poeticae convenientior consideratio est; enuntiativa vero praesentis est speculationis. Est autem una prima oratio enuntiativa adfirmatio, deinde negatio; aliae veroconiunctione unae. necesse est autem omnem orationem enuntiativam ex verbo esse vel casu. etenim hominis ratio, si non aut est aut erit aut fuit aut aliquid huiusmodi addatur, nondum est oratio enuntiativa. quare autem unum quiddam est et non multa animal gressibile bipes neque enim eo quod propinquedicunt ur ununi erit, est alterius hotractare negotii. est autem una c. oratio enuntiativa quae unum significat vel coniunctione una, plures autem quae plura et non unum vel inconiunctae. nomen ergo et verbum dictio sit sola, quoniam non est dicere sic aliquid significantem voce enuntiare, vel aliquo interrogante vel non, sed ipsum proferentem. harum autem haec quidem simplex est enuntiatio, ut aliquid de aliquo vel aliquid ab aliquo, haec autem ex his coniuncta velut oratio quaedam iam conposita. est autem simplex enuntiatio vox significativa de eo quod est aliquid vel non est, quemadmodum tempora divisa sunt. Adfirmatio vero est enuntiatio alicuiusde aliquo, negatio vero enuntiatio alicuius ab aliquo. quoniam autem est enuntiare et quod est non esse et quod non est esse et quod est esse et quod non est non esse et circa ea quae sunt extra praesens tempora similiter omne contingit quod quis adfirmaverit negare et quod quis negaverit adfirmare: quare manifestum est, quoniam omni adfirmationi est negatio opposita et omni negationi adfirmatio. et sit hoc contradictio, adfirmatio et negatio oppositae. dico autem opponi eiusdem de eodem, non autem aequivoce et quaecumque cetera talium determinamus contra sophisticas inportunitates. Quoniam autem sunt haec quidem rerum universalia, illa vero singillatim; dico autem universale quod in pluribus natum est praedicari, singulare vero quod non, ut homo quidem universale, Plato vero eorum quae suntsingularia: necesse est autem enuntiare quoniam ines aliquid aut non aliquotiens quidemeorum  alicui quae sunt universalia, aliquotiens autem eorum quae sunt singularia. si ergo universaliter enuntiet in universali quoniam est aut non, erunt contrariae enuntiationes. dico autem in universali enuntiationem universalem, ut omnis homo albus est, nullus homo albus est. quando autem in universalibus non universaliter, non sunt contrariae, quae autem significantur est esse contraria. dico autem non universaliter enuntiare in his quae sunt universalia, ut est albus homo non est albus homo. cum enim universale sit homo, non universaliter utitur enuntiatione. omnis namque non universale, sed quoniam universaliter consignificat. in eo vero, quod praedicatur universale, universale praedicare universaliter non est verum; nulla enim adfirmatio erit in qua de universali praedicato universale praedicetur, ut omnis homo omne animal est. opponi autem adfirmationem negationi dico contradictorie, quae universale significat eidem, quoniam non universaliter, ut omnis homo albus est, non omnis homo albus est nullus homo albus est, est quidam homo albus; contrarie vero universalem adfirmationem et universal negationem, ut omnis homo iustus est, nullus homo iustus est. quocirca has quidem inpossible est simul veras essehis vero oppositas contingit in eodem, ut non omnis homo albus est est quidam homo albus. quaecumque igitur contradictiones universalium sunt universaliter, necesse est alteram veram esse vel falsam et quaecumque in singularibus sunt ut est Socrates albus, non est Socrates albus; quaecumque autem in universalibus non universaliter, non semper haec vera est, illa vero falsa. simul enim verum est dicere quoniam est homo albus et non est homo albus, et est homo pulcher (probus) et non est homo pulcher (probus). si enim foedus (turpis, et non pulcher (probus); etfit aliquid, et non est. videbitur autem subito inconveniens esse idcirco quoniam videtur significare non est homo albus simul etiam quoniam ut om. esfet est © (xat habent Arist. codices praeter duos) pro v.aX6q et cctaxQos in editione prima posuit pulcher et foedus, in editione secunda probus et turpis jiemo homo albus. hoc autem neque idem significat neque simul necessario. Manifestum est autem quoniam una negatio unius adfirmationis est; hoc enim idem oportet negare negationem, quod adfirmavit adfirmatio, et de eodem, vel de aliquo singularium vel de aliquo universalium, vel universaliter vel non universaliter. dico autem ut est Socrates albus, non est Socrates albus. si autem aliud aliquid vel de alio idem, non opposita, sed erit ab ea diversa. huic vero quae est omnis  homo albus est illa quae est non omnis homo albus est, illi vero quae est aliqui homo albus est illa quae est nullus homo albus est, illi autem quae est est homo albus illa quae est non est homo albus. Quoniam  ergo uni negationi una adfirmati opposita est contradictorie et quae sint hae dictum est et quoniam aliae sunt contrariæ et quae sint hæ et quoniam non omnis vera vel falsa contradictio et quare et quando vera vel falsa. Una autem est ADFIRMATIO et negatio quæ unum de uno SIGNIFICAT vel cum sit universale universaliter vel non similiter, ut ‘OMNIS HOMO ALBVS EST’ – Grice: (x) all --, ‘NON EST OMNIS HOMO ALBVS,’ ‘EST HOMO ALBVS,’ ‘NON EST HOMO ALBVS’, ‘NVLLVS HOMO ALBVS EST, ‘EST QUIDAM HOMO ALBVS’ – Grice : Ex: some (at least one) --, si album (‘shaggy’) unum SIGNIFICAT. sin vero duobus unum Vel—singularium om. postremum vel om. T aliquis MT est homo albus ed. II. Ar.: h. a. est codices (hæ) Mc locus in paucis admodum codicibus exstat; habent lianc falsam versionem ex BOEZIO expositione natam: Manifestum ergo quoniam una negatio uuius affirmationis est. quoniam aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae et quae sint hae dictum est. duplicem versioncm et superiorem veram et lianc falsamexhibent solam veram D, falsam omisso initio: Manifestum — aff. est. E, veram in marg. Xsint edictum et om. BE uel quoniam uel quando E est homp a. non est h. a. om. nomen est positum, ex quibus non est unum, non est una adfirmatio, ut si quis ponat nomen tunica homini et equo, est tunica alba haec non est una adfirmatio nec negatio una. nihil enim hoc differt dicere quam est equus et homo albus. hoc autem  nihil  differt quam dicere est equus albus et est homo albus. si ergo hae multa significant et sunt phires, manifestum est quoniam et prima multa vel nihil significat; neque enim est aliquis homo equus. quare nec in his necesse est hanc quidem contradictionem veram esse, illam vero falsam. In his ergo quae sunt et facta sunt necesse est adfirmationem vel negationem veram vel falsam esse, in universalibus quidem universaliter semper hanc quidem veram, illam vero falsam, et in his quae sunt singularia, quemadmodum dictum est; in his vero, quae in universalibus non universaliter dicuntur, non est necesse; dictum autem est et de his. in singularibus vero et futuris non similiter. nam si omnis adfirmatio vel negatio vera vel falsa est, et omne necesse est vel esse vel non esse. nam si hic quidem dicat futurum aliquid, ille vero non dicat hoc idem ipsum, manifestum estquoniam necesse est verum dicere alterum ipsorum, si omnis adfirmatio vera vel falsa. utraque enim non erunt simul in talibus. nam si verum est dicere quoniam album vel non album est, necesse est esse album vel non album, et si est album vel non album verum est vel adfirmare vel negare; et si non est, mentitur, et si mentitur, non est. quare necesse est aut adfirmationem aut negationem veram esse. nihil igitur neque est neque fit nec a casu nec utrumlibet nec erit nec non  erit, sed ex necessitate nomen quod(quod est M) affirm. una una neg. differre et om. E dicere equus est MT est autem MT6 veram esse vel falsam D Ar. omnia et non utrumlibet. aut enim qui dicit verus est aut qui negat. similiter enim vel fieret vel non fieret; utrumlibet enim nibii magis sic vel non sic se habet aut habebit. amplius si est album nunc, verum erat dicere primo quoniam erit album, quare semper verum fuit dicere quodlibet eorum quae facta sunt, quoniam erit. quod si semper verum est dicere quoniam est vel erit, non potest hoc non esse nec non futurum esse. quod autem non potest non fieri, inpossibile est non fieri; quod autem inpossibile est non fieri, necesse est fieri. omnia ergo qua futura sunt necesse est fieri. niliil igitur utrumlibet neque a casu erit; nam sia casu, non ex necessitate. at vero nec quoniam neutrum verum est contingit dicere ut quoniam neque erit neque non erit. primum enim cusit adfirmatio falsa, erit negatio non vera et haec cum sit falsa, contingit adfirmationem esse non veram. ad haec si verum est dicere quoniam album est et magnum, oportet utraque esse; sin vero erit cras esse cras; si autem neque erit neque non erit cras, non erit utrumlibe, ut navale bellum; oportebit enim neque fieri navale bellum neque non fieri navale  bellum. Quae ergo contingunt inconvenientia haec sunt et huiusmodi alia, si omnis adfirmationis et negationis vel in his quae in universalibus dicuntur universaliter vel in his quae sunt singularia necesse est oppositarum hanc esse veram, illam vero falsam, nihil autem utrumlibet esse in his quae fiunt, sed omnia esse vel fieri ex necessitate. quare non oportebit neque consiliari neque negotiari, quoniam si hoc facimus, erit hoc, si veroho, non erit.nihil enim prohibet in millensimum annum hunc quidem dicere hoc et quod hnp. 1et cum liaec oportet esse cras ut est oportet E aHa om. affirmatio et negatio oppositarumj oppositionem eorum quidem futurum esse hunc vero non dicere. quare ex necessitate erit quodlibet eorum verum erat dicere tunc. at vero nec hoc differt, si aliqui dixerunt contradictionem vel non dixerunt; manifestum est enim, quod sic se habent res, et si non hic quidem adfirmaverit, ille vero negaverit; non enim propter negare vel adfirmare erit vel non erit nec in millensimum annum magis quam in quantolibet tempore. quare si in omni tempore sic se habebat, ut unum vere diceretur, necesse esset hoc fieri et unumquodque eorum quae fiunt sic se haberet, ut ex necessitate fieret. quando enim vere dicit quis, quoniam erit, non potest non fieri et quod factum est verum erat dicer semper, quoniam erit. Quod si haec non  sunt possibilia: videmus enim esse principium futurorum et ab eo quod consiliamur atque agimus aliquid et quoniam est omnino in his quae non semper actu sunt esse possibile et non, in quibus utrumque contingit et esse et non esse, quare et  fieri et non fier. et multa nobis manifesta sunt sic se habentia, ut quoniam hanc vestem possibile est incidi et non incidetur, sed prius exteretur. similiter autem et non incidi possibile est. non enim esset eam prius exteri, nisi esset possibile non incidi. quare et in ahis facturis, quaecumque secundum potentiam dicuntur huiusmodi: manifestum est, quoniam non omnia ex necessitate vel sunt vel fiunt, sed alia quidem utrumlibet et non magis vel adfirmatio vel negatio, alia quare quod quare quoniam praedicere habeat habeanfc E et si non ego: etiamsi non b: uel si (om. non) codices neg. ille vero aff. G alt. in om. E habeatest erat habere et in quibus sese ©Tincidetur — exteretur b: inciditur — exteritur codices facturisque {om.cumque futuris quaecumque negatio uera est Tvero magis quidem et in pluribus alterum, sed contingitfieri et alterum, alterum vero minime. Igitur esse quod est, quand es, et non esse quod non est, quando non est, necesse est; sed non quod est omne necesse est esse nec quod non est necesse est non esse. non enim idem est omne quod est esse necessario, quando est, et simpliciter esse ex necessitate. similiter autem et in eo quod non est.et in contradictione eadem ratio. Esse quidem vel non esse omne necesse est et futurum esse vel non; non tamen dividentem dicere alterum necessario. dico autem ut necesse est quidem futurum esse bellum navale cras vel non esse futurum, sed non futurum esse cras bellum navale necesse est vei non futurum esse futurum autem esse vel non esse necesse est. quare quoniam similiter orationes verae sunt quemadmodum et res, manifestum est quoniam quaecumque sic se babent, ut utrumlibet sint et contraria ipsorum contingent necesse est similiter se habere et contradictionem. quod contingit in his, quae non semper sunt et non semper non sunt. borum enim necesse est quidem alteram partem contradictionis veram esse vel falsam, non tamen hoc aut illud, sed utrumlibet et magis quidem veram alteram, non tamen iam veram vel falsam. quare manifestum est, quoniam non est necesse omnis adfirmationis vel negationis oppositarum banc quidem veram, illam vero falsam esse. neque enim quemadmodum in bis quae sunt, sic se habet etiam in his quae non sunt, possibilibus tamen esse aut non esse, sed quemadmodum dictum est. Quoniam autem est de aliquo adfirmatio signifi- ut add. b: om. codices necesse est post cras MT futurum quidem eorum A omnes adfirmationes uel negationes codices et b (Arist.) oppositionum esse post quidem illam autem hic ficans aliquid, hoc autem est vel nomen vel in nomine, unum autem oportet esse et de uno hoc quod est in adfirmatione (nomen autem dictum est et in nomine prius; non homo enim nomen quidem non dico, sed infinitum nomen; unum enim quodammodo significat infinitum, quemadmodum et non currit non verbum, sed infinitum verbum), erit omnis adfirmatio vel ex nomine et verbo vel ex infinito nomine et verbo. praeter verbum autem nulla adfirmatio vel negatio. est enim vel erit vel fuit vel fit, vel quaecumque alia huiusmodi, verba ex his sunt quae sunt posita; consignificant enim tempus. quare prima adfirmatio et negatio est homo, non est  homo, deinde est non  homo, non est non homo; rursus est omnis homo, non est omnis homo; est omnis non homo, non est omnis non homo. et in extrinsecus temporibus eadem ratio est. quando autem est tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. dico autem ut est iustus homo; est tertium dico adiacere nomen vel verbum in adfirmatione. quare idcirco quattuor istae erunt, quarum duae quidem ad adfirmationem et negationem sese habebunt secundum consequentiam ut privationes, duae vero minime. dico autem quoniam est aut  iusto adiacebit aut non iusto, quare etiam negatio. quattuor ergo erunt. intellegimus vero quod diciturex his quae subscripta sunt. est iustus homo, huius negatio non est iustus homo; est non iustus homo, huius negatio non est non iustus homo. est enim hoe loco et non est iusto et non iusto adiacet. haec igitur, quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt innomine ego ex ed. II: in nominat Qm vel innominabile codices item quodammodo significat et (ut add. S) non uerbum est inf. nom. et uerbo erit MTES vel fit om.cons.—tempus om.consignificat T) ergo erunt] enim sunt huius disposita. similiter autem se habet et si universalis nominis sit adfirmatio, ut omnis est homo iustus, non omnis est homo iustus; omnis est homo non iustus, non omnis est homo non iustus. sed non similiter angulares contingit veras esse.contingit autem aliquando hae igitur duae oppositae sunt, aliae autem ad non homo ut subiectum aliquid addito, ut est iustus non homo, non est iustus non homo; est non iustus non homo, non est non iustus non homo. magis plures autem his non erunt oppositiones. hae autem extra illas ipsae secundum se erunt ut nomine utentes non homo. in his vero in quibus est non convenit, ut in eo quod est currere vel ambulare, idem faciunt sic posita ac si est adderetur, ut est currit omnis homo, non currit omnis homo; currit omnis non homo, non currit omnis non homo. Non enim dicendum est non omnis homo sed non negationem ad homo addendum est. omnis enim non universale significat, sed quoniam universaliter. manifestum est autem ex eo quod est currit homo, non currit homo; currit non homo non currit  non  homo. haec enim ab illis difiPerunt eo quod non universaliter sunt. quare omnis vel nullus nihil aliud consignificat nisi quoniam universaliter de nomine veladfirmat vel negat. ergo cetera eadem oportet adponi. Quoniam vero contraria est negatio ei quae est omne est animal iustum illa quae significat quoniam  nullum est animal iustum, hae quidem manifestum est quoniam numquam erunt neque verae simul neque in eodem ipso, his vero oppositae erunt aliquando ut non omne animal iustum est et est aliquod animal affirmatio sithaec ac uero non om. non ullus T ergo et opponi apponi E ut E, om. ceteri et om. quoddam et est iustum om.B c. iustum. sequuntur vero hae: lianc quidem quae est nullus est homo iustus illa quae est omnis est homo non iustus illam vero quae est est aliqui iustus homo opposita quoniam non omnis est homo non iustus. necesse est enim esse aliquem. manifestum est autem, quoniam etiam in singularibus, si est verum interrogatum negare quoniam  et adfirmare verum est, ut putasne Socrates sapiens est? non; quoniam Socrates igitur non sapiens est. in universalibus vero non est vera quae similiter dicitur, vera autem negatio, ut lO putasne omnis homo sapiens? non. omnis igitur homo non sapiens. hoc enim falsum est. sed non omnis igitur homo sapiens vera est; haec autem est opposita, illa vero contraria. Πρῶτον δεῖ θέσθαι τί ὄνομακαὶ τί ῥῆμα, ἔπειτα τί ἐστιν ἀπόφασιςκαὶ κατάφασις καὶ ἀπόφανσις καὶ λόγος. Primum oportet constituere quid sit NOMEN et quid verbum, postea quid est negatio et ADFIRMATIO et ENVNITIATIO et ORATIO. First we must define the terms 'NOMEN' and 'VERBVM, then the terms 'NEGATIO' and 'AD-FIRMATIO', then ‘ENVNTIATIO' and 'ORATIO'. Ἔστι μὲν οὖν τὰ ἐν τῇ φωνῇ τῶν ἐν τῇ ψυχῇ παθημάτων σύμβολα, καὶ τὰ γραφόμενα τῶν ἐν τῇ φωνῇ καὶ ὥσπερ οὐδὲ γράμματα πᾶσι τὰ αὐτά, οὐδὲ φωναὶ αἱ αὐταίὧν μέντοι ταῦτα σημεῖα πρώτων, ταὐτὰ πᾶσι παθήματα τῆς ψυχῆς, καὶ ὧν ταῦτα ὁμοιώματα πράγματα ἤδη ταὐτά. Sunt ergo ea quæ sunt in voce earum quæ sunt in anima PASSIONVM NOTÆ, et ea quæ scribuntur eorum quæ sunt in voce. Et quem admodum nec litteræ omnibus eædem, sic nec eædem voces. Quorum autem hae primorum notæ, eædem omnibus PASSIONES ANIMÆ sunt, et quorum hæ SIMILITVDINES, res etiam eædem. A spoken word is the SYMBOL of a mental experience and a written word is the symbol of a spoken word. Just as all men have NOT the same writing, so all men have NOT the same speech sounds. The mental experiences, however, which these directly symbolize, are THE SAME for all, as also are those THINGS (res – Locke, way of things) of which our experience is the image. περὶ μὲν οὖν τούτων εἴρηται ἐν τοῖς περὶ ψυχῆς, ἄλλης γὰρ πραγματείας De his quidemdictum est in his quæ sunt dicta de anima -- alterius est enim negotii. This matter has, however, been discussed in the essay about the soul, for it belongs to an investigation distinct from that which lies before us. ἔστι δέ, ὥσπερ ἐν τῇ ψυχῇ ὁτὲ μὲν νόημα ἄνευ τοῦ ἀληθεύειν ψεύδεσθαι ὁτὲ δὲ ἤδη ἀνάγκη τούτων ὑπάρχειν θάτερον, οὕτω καὶ ἐν τῇ φωνῇ περὶ γὰρ σύνθεσιν καὶ διαίρεσίν ἐστι τὸ ψεῦδός τε καὶ τὸ ἀληθές. Est autem, quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus sine vero vel falso, aliquotiens autem cum iam necesse est horum alterum inesse, sic etiam in voce; circa compositionem enim et divisionem est falsitas veritasque.As there are in the mind thoughts which do not involve truth or falsity, and also those which must be either true or false, so it is in speech. For truth and falsity imply combination and separation. τὰ μὲν οὖν ὀνόματα αὐτὰ καὶ τὰ ῥήματα ἔοικε τῷ ἄνευ συνθέσεως καὶ διαιρέσεως νοήματι, οἷον τὸ ἄνθρωπος λευκόν, ὅταν μὴ προστεθῇ τιοὔτε γὰρ ψεῦδος οὔτε ἀληθές πω. σημεῖον δἐστὶ τοῦδεκαὶ γὰρ τραγέλαφοςσημαίνει μέν τι, οὔπω δὲ ἀληθὲς ψεῦδος, ἐὰν μὴ τὸ εἶναι μὴ εἶναι προστεθῇ ἁπλῶς κατὰ χρόνον.Nomina igitur ipsa et verba consimilia sunt sine compositione vel divisione intellectui, ut 'homo' vel 'album', quando non additur aliquid; neque enim adhuc verum aut falsum est. Huius autem signum: 'hircocervus' enim significat aliquid sed nondum verum vel falsum, si non vel 'esse' vel 'non esse' addatur vel simpliciter vel secundum tempus.Nouns and verbs, provided nothing is added, are like thoughts without combination or separation; 'man' and 'white', as isolated terms, are not yet either true or false. In proof of this, consider the word 'goat-stag.' It has significance, but there is no truth or falsity about it, unless 'is' or 'is not' is added, either in the present or in some other tense. Ὄνομα μὲν οὖν ἐστὶ φωνὴ σημαντικὴ κατὰ συνθήκην ἄνευ χρόνου, ἧς μηδὲν μέρος ἐστὶ σημαντικὸν κεχωρι- σμένονἐν γὰρ τῷ Κάλλιππος τὸ ιππος οὐδὲν καθαὑτὸ σημαίνει, ὥσπερ ἐν τῷ λόγῳ τῷ καλὸς ἵππος .Nomen ergo est vox significativa secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars est significativa separata; in 'equiferus' enim 'ferus' nihil per se significat, quemadmodum in oratione quae est 'equus ferus'.Chapter 2 By a noun we mean a sound significant by convention, which has no reference to time, and of which no part is significant apart from the rest. In the noun 'Fairsteed,' the part 'steed' has no significance in and by itself, as in the phrase 'fair steed.' οὐ μὴν οὐδὥσπερ ἐν τοῖς ἁπλοῖς ὀνόμασιν, οὕτως ἔχει καὶ ἐν τοῖς πεπλεγμένοιςἐν ἐκείνοις μὲν γὰρ οὐδαμῶς τὸ μέρος σημαντικόν, ἐν δὲ τούτοις βούλεται μέν, ἀλλοὐδενὸς κεχωρισμένον, οἷον ἐν τῷ ἐπακτροκέλης τὸ κελης.At vero nonquemadmodum in simplicibus nominibus, sic se habet et in compositis; in illis enim nullo modo pars significativa est, in his autem vult quidem sed nullius separati, ut in 'EQVIFERVS' <'FERVS'>.Yet there is a difference between simple and composite nouns; for in the former the part is in no way significant, in the latter it contributes to the meaning of the whole, although it has not an independent meaning. Thus in the word 'pirate-boat' the word 'boat' has no meaning except as part of the whole word. τὸ δὲ κατὰ συνθήκην, ὅτι φύσει τῶν ὀνομάτων οὐδέν ἐστιν, ἀλλὅταν γένηται σύμβολονἐπεὶ δηλοῦσί γέ τι καὶ οἱ ἀγράμ- ματοι ψόφοι, οἷον θηρίων, ὧν οὐδέν ἐστιν ὄνομα."Secundum placitum" vero, quoniam naturaliter nominum nihil est sed quando fit nota; nam designant et inlitterati soni, ut ferarum, quorum nihil est nomen.The limitation 'by convention' was introduced because nothing is by nature a noun or name-it is only so when it becomes a symbol; inarticulate sounds, such as those which brutes produce, are significant, yet none of these constitutes a noun. τὸ δοὐκ ἄνθρωπος οὐκ ὄνομαοὐ μὴν οὐδὲ κεῖται ὄνομα τι δεῖ καλεῖν αὐτό, —οὔτε γὰρ λόγος οὔτε ἀπόφασίς ἐστιν ἀλλἔστω ὄνομα ἀόριστον. 'Non homo' vero non est nomen; at vero nec positum est nomen quod illud oporteat appellari -- neque enim oratio aut negatio est -- sed sit nomen infinitum.The expression 'not-man' is not a noun. There is indeed no recognized term by which we may denote such an expression, for it is not a sentence or a denial. Let it then be called an indefinite noun. τὸ δὲ Φίλωνος Φίλωνι καὶ ὅσα (16b.) τοιαῦτα οὐκ ὀνόματα ἀλλὰ πτώσεις ὀνόματος.'Catonis' autem vel 'Catoni' et quaecumque talia sunt non sunt nomina sed casus nominis.The expressions 'of Philo', 'to Philo', and so on, constitute not nouns, but cases of a noun. λόγος δέ ἐστιν αὐτοῦ τὰ μὲν ἄλλα κατὰ τὰ αὐτά, ὅτι δὲ μετὰ τοῦ ἔστιν ἦν ἔσται οὐκ ἀληθεύει ψεύδεται, —τὸ δὄνομα ἀεί,— οἷον Φίλωνός ἐστιν οὐκ ἔστινοὐδὲν γάρ πω οὔτε ἀληθεύει οὔτε ψεύδεται.Ratio autem eius est in aliis quidem eadem sed differt quoniam, cum 'est' vel 'fuit' vel 'erit' adiunctum, neque verum neque falsum est, nomen vero semper; ut 'Catonis est' vel 'non est' -- nondum enim aliquid neque rerum dicit neque mentitur.The definition of these cases of a noun is in other respects the same as that of the noun proper, but, when coupled with 'is', 'was', or will be', they do not, as they are, form a proposition either true or false, and this the noun proper always does, under these conditions. Take the words 'of Philo is' or 'of or 'of Philo is not'; these words do not, as they stand, form either a true or a false proposition. Ῥῆμα δέ ἐστι τὸ προσσημαῖνον χρόνον, οὗ μέρος οὐδὲν σημαίνει χωρίςἔστι δὲ τῶν καθἑτέρου λεγομένων σημεῖον. VERBVM AVTEM EST QVOD CONSIGNIFICAT TEMPVS cuius pars nihil extra significat. Et est semper eorum quæ de altero prædicantur nota. A verb is that which, in addition to its proper meaning, carries with it the notion of time. No part of it has any independent meaning, and it is UN SEGNO of something said of something else. λέγω δὅτι προσσημαίνει χρόνον, οἷον ὑγίεια μὲν ὄνομα, τὸ δὑγιαίνει ῥῆμαπροσσημαίνει γὰρ τὸ νῦν ὑπάρχειν. καὶ ἀεὶ τῶν ὑπαρχόντων σημεῖόν ἐστιν, οἷον τῶν καθὑποκειμένου. Dico autem quoniam consignificat tempus, ut ‘cursus’ quidem NOMEN est, 'currit' vero VERBVM -- consignificat enim nunc esse -- ; et semper eorum quæ de altero dicuntur nota est, ut eorum quae de subiecto vel in subiecto. I will explain what I mean by saying that it carries with it the notion of time. 'CVRSVS' is a noun, but 'is ‘CVRRIT' is a verb. For, besides its proper meaning, it indicates the PRESENT existence of the state in question. Moreover, a verb is always a sign of something said of something else, i.e.,of something either predicable of or present in some other thing. τὸ δὲ οὐχ ὑγιαίνει καὶ τὸ οὐ κάμνει οὐ ῥῆμα λέγω προσσημαίνει μὲν γὰρ χρόνον καὶ ἀεὶ κατά τινος ὑπάρχει, τῇ διαφορᾷ δὲ ὄνομα οὐ κεῖταιἀλλἔστω ἀόριστον ῥῆμα, ὅτι ὁμοίως ἐφὁτουοῦν ὑπάρχει καὶ ὄντος καὶ μὴ ὄντος. 'Non CVRRIT' vero et 'non LABORAT' non verbum dico. Consignificat quidem tempus et semper de aliquo est, differentiæ autem huic nomen non est positum. Sed sit infinitum verbum, quoniam similiter in quolibet est vel quod est vel quod non est. Such expressions as 'NON CVRRIT', 'NON LABORAT', I do *not* describe as verbs. For,though they carry the additional note of time, and always form a predicate, there is no specified name for this variety [cf. Grice, UN-PUBLICATION]; but let each be called an indefinite verb, since it applies equally well to that which exists and to that which does not. ὁμοίως δὲ καὶ τὸ ὑγίανεν τὸ ὑγιανεῖ οὐ ῥῆμα, ἀλλὰ πτῶσις ῥήματοςδιαφέρει δὲ τοῦ ῥήματος, ὅτι τὸ μὲν τὸν παρόντα προσσημαίνει χρόνον, τὰ δὲ τὸν πέριξ. Similiter autem vel 'CVRRET' vel 'CVRREBAT' non verbum est sed *casus* verbi. Differt autem a verbo quoniam hoc quidem præsens SIGNIFICAT TEMPVS, illa vero quod complectitur. Similarly 'CURRET' or 'CVRREBAT' is not a verb, but a *case* of a verb. The difference lies in the fact that the verb indicates present time. The CASVS of the verb indicates a different time which lies outside the present. αὐτὰ μὲν οὖν καθαὑτὰ λεγόμενα τὰ ῥήματα ὀνόματά ἐστι καὶ σημαίνει τι, ἵστησι γὰρ λέγων τὴν διάνοιαν, καὶ ἀκούσας ἠρέμησεν, ἀλλεἰ ἔστιν μή οὔπω σημαίνειοὐ γὰρ τὸ εἶναι μὴ εἶναι σημεῖόν ἐστι τοῦ πράγματος, οὐδἐὰν τὸ ὂν εἴπῃς ψιλόν αὐτὸ μὲν γὰρ οὐδέν ἐστιν, προσσημαίνει δὲ σύνθεσίν τινα, ἣν ἄνευ τῶν συγκειμένων οὐκ ἔστι νοῆσαι. Ipsa quidem secundum se dicta verba NOMINA sunt et SIGNIFICANDI aliquid -- constituit enim qui dicit [Grice, UTTERER] intellectum, et qui audit [Grice, RECIPIENT] quiescit -- sed si est vel non est non dum significat. Neque enim 'esse' SIGNVM est rei vel 'non esse', nec si hoc ipsum 'est' purum dixeris. Ipsum quidem nihil est, CONSIGNICANT autem quandam compositionem quam sine compositis non est intellegere. A verb, in and by itself, is substantival and has significance, for he who utters such an expression arrests his addressee's mind, and fixes his attention. But iy does not, as it stands, express any judgement, either affirmative or negative. For neither is 'ESSE' or 'NON ESSE' the participle 'EST' significant of any fact, unless something is added. For it does not itself indicates anything, but IMPLIES a copulation, of which we cannot form a conception apart from the things coupled. Λόγος δέ ἐστι φωνὴ σημαντική ἧς τῶν μερῶν τι σημαντικόν ἐστι κεχωρισμένον ὡς φάσις ἀλλοὐχ ὡς κατάφασις. ORATIO autem est vox SIGNIFICATIVA cuius partium aliquid significativum est separatum -- ut dictio, non ut affirmatio. A sentence is a significant voice, some parts of which have an independent meaning, that is to say, as an utterance, though not as the expression of an affirmation. λέγω δέ οἷον ἄνθρωπος σημαίνει τι, ἀλλοὐχ ὅτι ἔστιν οὐκ ἔστιν ἀλλἔσται κατάφασις ἀπόφασις ἐάν τι προστεθῇ ἀλλοὐχ τοῦ ἀνθρώπου συλλαβὴ μία οὐδὲ γὰρ ἐν τῷ μῦς τὸ υς σημαντικόν, ἀλλὰ φωνή ἐστι νῦν μόνον. Dico autem ut 'HOMO' significat aliquid -- sed non quoniam est aut non est; sed erit affirmatio vel negatio, si quid addatur -- sed non una ‘HOMO’ -- 'HOMINIS' syllaba. Nec in hoc quod est 'SOREX' 'REX'  SIGNIFICAT sed vox est nunc sola. Let me explain. The word 'HOMO' [cf. Grice, ‘shaggy’] *has* meaning, but does not constitute a proposition, either affirmative or negative. It is only when aother word is added that the whole forms an affirmation or denial. But, if we separate one syllable of the word 'HOMO' from the other – HO HO HO – Santa Claus – You called her a prostitute three times --, it has no meaning. Similarly in the word 'SOREX', the part 'REX' has no meaning in itself, but is merely a sound – cf. PIROT.  – or the fart of a voice, as Occam prefers – vocis flatus. ἐν δὲ τοῖς διπλοῖς σημαίνει μέν, ἀλλοὐ καθαὑτό ὥσπερ εἴρηται. In duplicibus vero significat quidem sed non secundum se, quem admodum dictum est. In composite words, indeed, the parts contribute to the meaning of the whole. Yet, as has been pointed out, each part has not an independent meaning. ἔστι δὲ λόγος ἅπας μὲν σημαντικός οὐχ ὡς ὄργανον δέ, ἀλλὥσπερ εἴρηται κατὰ συνθήκην ἀποφαντικὸς δὲ οὐ πᾶς ἀλλἐν τὸ ἀληθεύειν ψεύδεσθαι ὑπάρχει οὐκ ἐν ἅπασι δὲ ὑπάρχει οἷον εὐχὴ λόγος μέν ἀλλοὔτἀληθὴς οὔτε ψευδής. Est autem ORATIO omnis quidem significativa non sicut instrumentum sed (quem admodum dictum est) secundum placitum. Enuntiativa vero non omnis sed in qua verum vel falsum inest. Non autem in omnibus, ut deprecatio oratio quidem est sed neque vera neque falsa. Every sentence has meaning, not as being the natural means by which a physical faculty is realised, but, as we have said, by convention. Yet, every sentence is not an enunciative sentence. Only such is a proposition as has in it either truth or falsity. Thus, a prayer is a sentence, but is neither true nor false. οἱ μὲν οὖν ἄλλοι ἀφείσθωσαν, ῥητορικῆς γὰρ ποιητικῆς οἰκειοτέρα σκέψις, δὲ ἀποφαντικὸς τῆς νῦν θεωρίας. Et cæteræ quidem relinquantur (rhetoricæ enim vel poeticæ convenientior consideratio est. ENUNTIATIVA vero præsentis considerationis est. Let us therefore dismiss all other types of sentence but the enuntiative sentence, for this last concerns our present inquiry, whereas the investigation of the others belongs rather to the study of, not dialectics, but rhetoric or of poetry. Ἔστι δὲ εἷς πρῶτος λόγος ἀποφαντικὸς κατάφασις, εἶτα ἀπόφασις οἱ δὲ ἄλλοι συνδέσμῳ εἷς. Est autem una prima ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, deinde negatio; aliæ vero coniunctione unæ. The first class of simple propositions is the simple affirmation, the next, the simple denial. All others are only one by conjunction. ἀνάγκη δὲ πάντα λόγον ἀποφαντικὸν ἐκ ῥήματος εἶναι πτώσεως καὶ γὰρ τοῦ ἀνθρώπου λόγος, ἐὰν μὴ τὸ ἔστιν ἔσται ἦν τι τοιοῦτο προστεθῇ οὔπω λόγος ἀποφαντικός διότι δὲ ἕν τί ἐστιν ἀλλοὐ πολλὰ τὸ ζῷον πεζὸν δίπουν, οὐ γὰρ δὴ τῷ σύνεγγυς εἰρῆσθαι εἷς ἔσται, ἔστι δὲ ἄλλης τοῦτο πραγματείας εἰπεῖν.Necesse est autem omnem orationem enuntiativam ex verbo esse vel casu. Et enim, HOMO hominis rationi si non aut 'EST' aut 'ERIT' aut 'FVIT' aut aliquid huiusmodi addatur, nondum est oratio enuntiativa. Quare autem unum quiddam est et non multa 'ANIMAL RESSIBILE BIPES -- neque enim eo quod propinque dicuntur unum erit -- est alterius hoc tractare negotii. Every proposition must contain a verb or the tense of a verb. The phrase which defines the species 'HOMO', if no verb in past (FVIT), present (EST), or future (ERIT) time be added, is not a proposition. It may be asked how the expression 'a risible animal with two feet' can be called single; for it is not the circumstance that the words follow in unbroken succession that effects the unity. This inquiry, however, finds its place in an investigation foreign to that before us. ἔστι δὲ εἷς λόγος ἀποφαντικὸς ἓν δηλῶν συνδέσμῳ εἷς, πολλοὶ δὲ οἱ πολλὰ καὶ μὴ ἓν οἱ ἀσύνδετοι. Est autem una oratio enuntiativa quae unum SIGNIFICAT vel coniunctione una, plures autem quæ plura et non unum vel inconiunctæ. We call those propositions single [ATOMIC] which indicate a single fact, or the conjunction of the parts of which results in unity. Such a proposition, on the other hand, is separate and comprises many an atomic proposition in number, which indicate more than one fact, or many facts, or whose parts have no conjunction. τὸ μὲν οὖν ὄνομα καὶ τὸ ῥῆμα φάσις ἔστω μόνον ἐπεὶ οὐκ ἔστιν εἰπεῖν οὕτω δηλοῦντά τι τῇ φωνῇ ὥστἀποφαίνεσθαι, ἐρωτῶντός τινος, μὴ ἀλλαὐτὸν προαιρούμενον. Nomen ergo et verbum DICTIO sit sola, quoniam non est DICERE sic aliquid SIGNIFICANTEM voce ENUNTIARE, vel aliquo INTERROGANTE [Grice: ?p] vel non sed ipsum proferentem. Let us, moreover, consent to call a noun or a verb an expression only, and not a proposition, since it is not possible for a man to speak in this way when he is expressing something, in such a way as to make a statement, whether his utterance is an answer [?q] to a QUESTION [?p]  or an act of his own initiation. τούτων δ μὲν ἁπλῆ ἐστὶν ἀπόφανσις, οἷον τὶ κατὰ τινὸς τὶ ἀπὸ τινός, δἐκ τούτων συγκειμένη, οἷον λόγος τις ἤδη σύνθετος. Harum autem haæ quidem simplex est ENVNTIATIO, ut aliquid de aliquo vel aliquid ab aliquo, hæc autem ex his coniuncta, velut oratio quædam iam composita. To return: of propositions one kind is simple, i.e. that which asserts or denies something (“shaggy”) of something (“Fido”), the other composite [MOLECULAR], i.e. that which is compounded of simple propositions. Ἔστι δ μὲν ἁπλῆ ἀπόφανσις φωνὴ σημαντικὴ περὶ τοῦ εἰ ὑπάρχει τι μὴ ὑπάρχει, ὡς οἱ χρόνοι διῄρηνται. Est autem simplex ENUNTIATIO (“Fido is shaggy”) vox significativa de eo quod est aliquid vel non est, quemadmodum tempora divisa sunt. A simple proposition (“Fido is shaggy”) is a statement, with meaning, as to the presence of something (shagginess) in a subject -- or its absence or privation --, in the past, present, or future, according to the divisions of time. Κατάφασις δέ ἐστιν ἀπόφανσις τινὸς κατὰ τινός, ἀπόφασις δέ ἐστιν ἀπόφανσις τινὸς ἀπὸ τινός. Affirmatio vero est enuntiatio alicuius de aliquo, negatio vero enuntiatio alicuius ab aliquo. An affirmation is a positive assertion of something about something, a denial a negative assertion (“It is not green” – Grice, “Negation”). ἐπεὶ δὲ ἔστι καὶ τὸ ὑπάρχον ἀποφαίνεσθαι ὡς μὴ ὑπάρχον καὶ τὸ μὴ ὑπάρχον ὡς ὑπάρχον καὶ τὸ ὑπάρχον ὡς ὑπάρχον καὶ τὸ μὴ ὑπάρχον ὡς μὴ ὑπάρχον, καὶ περὶ τοὺς ἐκτὸς δὲ τοῦ νῦν χρόνους ὡσαύτως ἅπαν ἂν ἐνδέχοιτο καὶ ὃ κατέφησέ τις ἀποφῆσαι καὶ ὃ ἀπέφησε καταφῆσαι ὥστε δῆλον ὅτι πάσῃ καταφάσει ἐστὶν ἀπόφασις ἀντικειμένη καὶ πάσῃ ἀποφάσει κατάφασις. Quoniam autem est enuntiare et quod est non esse et quod non est esse et quod est esse et quod non est non esse, et circa ea extrinsecus præsentis temporis similiter omne contingit quod quis affirmaverit negare et quod quis negaverit affirmare; quare manifestum est quoniam omni affirmationi est negatio opposita et omni negationi affirmatio. Now it is possible both to affirm and to deny the presence of something which is present or of something which is not, and since these same affirmations and denials are possible with reference to those times which lie outside the present, it is possible to contradict any affirmation or denial. Thus, it is plain that every affirmation has an opposite denial.Similarly, every denial has an opposite affirmation. καὶ ἔστω ἀντίφασις τοῦτο, κατάφασις καὶ ἀπόφασις αἱ ἀντικείμεναι λέγω δὲ ἀντικεῖσθαι τὴν τοῦ αὐτοῦ κατὰ τοῦ αὐτοῦ, μὴ ὁμωνύμως δέ, καὶ ὅσα ἄλλα τῶν τοιούτων προσδιοριζόμεθα πρὸς τὰς σοφιστικὰς ἐνοχλήσεις. Et sit hoc contradiction (~p – Grice, “Lectures on negation”), affirmatio et negatio oppositæ. Dico autem opponi eiusdem de eodem, non autem æquivoce et quæcum quecætera talium determinamus contra sophisticas importunitates. We will call such a pair of propositions a pair of contradictories. An affirmative proposition and a negative proposition are said to be contradictory which have the same subject (Fido) and predicate (‘shaggy’). The identity of subject and of predicate must *not* be equivocal (He is in a grip of a vice, but he is not in the grip of a vice). Indeed there are definitive qualifications besides this, which we make to meet the casuistries of sophists. Ἐπεὶ δέ ἐστι τὰ μὲν καθόλου τῶν πραγμάτων τὰ δὲ καθἕκαστον, λέγω δὲ καθόλου μὲν ἐπὶ πλειόνων πέφυκε κατηγορεῖσθαι, καθἕκαστον δὲ μή, οἷον ἄνθρωπος μὲν τῶν καθόλου Καλλίας δὲ τῶν καθἕκαστον, ἀνάγκη δἀποφαίνεσθαι ὡς ὑπάρχει τι μή ὁτὲ μὲν τῶν καθόλου τινί ὁτὲ δὲ τῶν καθἕκαστον. Quoniam autem sunt hæc quidem rerum universalia, illa vero singillatim (dico autem universale quod in pluribus natum est prædicari, singulare vero quod non, ut 'HOMO' quidem universale, 'PEGASVS' vero eorum quae sunt singularia, necesse est autem enuntiare quoniam inest aliquid aut non, aliquotiens quidem eorum alicui quæ sunt universalia, aliquotiens vero eorum quæ sunt singularia. Some things are universal, others individual. By universal I mean that which is of such a nature as to be predicated of many subjects, by individual that which is not thus predicated. Thus 'HOMO' is a universal, 'CICERO' or ‘PEGASVS’ an individual. Our proposition necessarily sometimes concern a universal subject, sometimes an individual. ἐὰν μὲν οὖν καθόλου ἀποφαίνηται ἐπὶ τοῦ καθόλου ὅτι ὑπάρχει μή, ἔσονται ἐναντίαι ἀποφάνσεις, λέγω δὲ ἐπὶ τοῦ καθόλου ἀποφαίνεσθαι καθόλου οἷον πᾶς ἄνθρωπος λευκός, οὐδεὶς ἄνθρωπος λευκός  ὅταν δὲ ἐπὶ τῶν καθόλου μέν, μὴ καθόλου δέ, οὐκ εἰσὶν ἐναντίαι, τὰ μέντοι δηλούμενα ἔστιν εἶναι ἐναντία, λέγω δὲ τὸ μὴ καθόλου ἀποφαίνεσθαι ἐπὶ τῶν καθόλου, οἷον ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος, οὐκ ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος καθόλου γὰρ ὄντος τοῦ ἄνθρωπος οὐχ ὡς καθόλου χρῆται τῇ ἀποφάνσει τὸ γὰρ πᾶς οὐ τὸ καθόλου σημαίνει ἀλλὅτι καθόλου. Si ergo universaliter enuntiet in universali quoniam est aut non, erunt contrariæ enuntiationes (dico autem in universali enuntiationem universalem ut 'OMNIS HOMO ALBVS EST', 'NVLLVS HOMO ALBVS EST’). Quando autem in universalibus non universaliter, non sunt contrariæ, quæ autem SIGNIFICANTVR est esse contraria (dico autem non universaliter enuntiare in his quæ sunt universalia, ut 'EST ALBVS HOMO', 'NON EST ALBVS HOMO’. Cum enim universale sit homo, non universaliter utitur enuntiatione; 'OMNIS' namque non universale sed quoniam universaliter CONSIGNIFICAT. If, then, a man states an affirmative and a negative proposition of universal character with regard to a universal, these two propositions are contrary. By a proposition of universal character with regard to a universal, such a proposition as 'OMNIS HOMO ALBVS EST', 'NVLLVS HOMO ALBVS EST' are meant. When, on the other hand, the affirmative proposition and the negative proposition, though they have regard to a universal, are yet not of universal character, they will *not* be contrary, albeit the meaning intended is sometimes contrary. As an instance of such a proposition made with regard to a universal, but not of universal character, we may take the proposition 'EST ALBVS HOMO', 'NON EST ALBVS HOMO'. 'HOMO' is a universal, but the proposition is not made as of universal character. The word 'OMNIS' does not make the *subject* a universal, but, rather, gives the proposition a universal character. ἐπὶ δὲ τοῦ κατηγορουμένου τὸ καθόλου κατηγορεῖν καθόλου οὐκ ἔστιν ἀληθέςοὐδεμία γὰρ κατάφασις ἔσται ἐν τοῦ κατηγορουμένου καθόλου τὸ καθόλου κατηγορηθήσεται, οἷον ἔστι πᾶς ἄνθρωπος πᾶν ζῷον. In eo vero quod prædicatur universaliter universale prædicare universaliter non est verum. Nulla enim affirmatio erit, in qua de universaliter prædicato universale praedicetur, ut 'OMNIS HOMO OMNE ANIMAL'. If, however, both predicate and subject are distributed, the proposition thus constituted is contrary to truth. No affirmation is, under such circumstances, true. The proposition 'OMNIS HOMO OMNE ANIMAL EST' is an example of this type. Ἀντικεῖσθαι μὲν οὖν κατάφασιν ἀποφάσει λέγω ἀντιφατικῶς τὴν τὸ καθόλου σημαίνουσαν τῷ αὐτῷ ὅτι οὐ καθόλου, οἷον πᾶς ἄνθρωπος λευκόςοὐ πᾶς ἄνθρωπος λευκός, οὐδεὶς ἄνθρωπος λευκός ἔστι τις ἄνθρωπος λευκόςἐναντίως δὲ τὴν τοῦ καθόλου κατάφασιν καὶ τὴν τοῦ καθόλου ἀπόφασιν, οἷον πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος οὐδεὶς ἄνθρωπος δίκαιος. Opponi autem affirmationem negationi dico contradictorie quæ universal SIGNIFICAT eidem quoniam non universaliter, ut 'OMNIS HOMO ALBVS EST', 'NON OMNIS HOMO ALBVS EST' – Grice: “(x), all” --, 'NULLVS HOMO ALBVS EST,' 'QUIDAM HOMO ALBVS EST' – Grice: “(Ex), some (at least one)” -- ; contrarie vero universalem affirmationem et universalem negationem, ut ‘OMNIS HOMO IVSTVS EST,’ ‘NVLLVS HOMO IVSTVS EST.’ ;An affirmation is opposed to a denial in the sense which I denote by the term contradictory, when, while the subject remains the same, the affirmation is of universal character and the denial is not. The affirmation 'OMNIS HOMO ALBVS EST' is the contradictory of the denial 'NON OMNIS HOMO ALBV EST, or again, the proposition 'NVLLVS HOMO ALBVS EST' is the contradictory of the proposition 'QUIDAM HOMO ALBVS EST'. But two propositions are opposed as contraries when both the affirmation and the denial are universal, as in the sentences 'OMNIS HOMO ALBVS EST', 'NVLLS HOMO ALBVS EST', 'OMNIS HOMO IVSTS EST’, ‘NVLLVS HOMO IVSTVS EST.  Grice: “I used ‘body’ informally in my ‘Personal identity’, where I suggested, that “I fell down the stairs” could be replaced by “MY body fell down the stairs” – there is yet an essential indexical. Different if two wrestlers unison say, ‘Both our bodies are oiled” – where again the dual “both our” is used. We have not the second person but the FIRST PERSON dual. “Our bodies” “Both our bodies”. Pio Colonnello. Colonnello. Keywords: la voce, rivista La Voce, Croce e i vociani, patografia, German for ‘body’ Lieb, cognate with ‘life’ so that ‘Das Leib ohne Leben’ would be odd. The Anglo-Normans solved the problem with ‘corpse’, corpus, vita, corpore, vita, vivere, German ‘leben’, ‘live’ meaning with ‘remain’, creature construction, thing, living thing, living body, personal human living being. Bodily movement. Method in philosophical psychology, manifestation in behaviour, bodily behaviour, brain state, different from bodily movement, voce, ‘vox significativa’ ‘voce significativa’, voce che e segno di… la voce dei animali, uso metaforico di ‘voce’ – the voice of Alighieri, la voce di, la voce di Mussolini, la voce di, voice, etimologia di voce. phone, phonic, suono – voce e suono – immagine acustica del suono, riconoscimento della voce, voce come sinonimo di parola, o espressione – una ‘voce toscana’ --  ‘la voce umana’ – ‘sine voce’ – the voiceless – voce come schema distintivo – voiced and voiceless – nome come voce, verbo come voce, predicamento. Voce come SIMBOLO dell’afezione dell’animo, ma SCRITTURA come SEGNO della voce --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colonnello” – The Swimming-Pool Library. Colonnello.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colorni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della diadologia – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “To understand the passion in Italian philosophy, as the pasdsion I experienced with Austin in the postwar and with Hardie on the golfcourse in the good old days, one has to understand Colorni – he was a socialist, and thus an empiriociritic! He found opposition in the Gentileians. Oddly, Colroni’s main interest is the ‘monad,’ but he also explored what we would at Oxford call ‘science’ – rather than philosophy. Lay the blame on his tutor at Milano!”. Promotore del federalismo europeo. Mentre era confinato a Ventotene, su saggio, “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Figlio di Alberto Colorni, di Mantova, e Clara Pontecorvo, milanese di famiglia pisana (zia di Pontecorvo, del regista Gillo, del genetista Guido e del giurista Tullio Ascarelli).  Studia al ginnasio di Milano. Si appassiona al Breviario di estetica di Croce. La sua formazione adolescenziale, come raccontò egli stesso nella “Malattia filosofica”, fu influenzata dal rapporto intrattenuto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio Sereni, tutti più grandi di lui. Fu Enzo, che era un convinto socialista  ad esercitare su di lui una forte influenza ideale. Studia sotto Borgese e Martinetti. Si laurea sotto Martinetti con “Il concetto di individuo”. Strinse amicizia con Guido Piovene, che però verrà interrotta per via di certi articoli anti-semitici scritti da Piovene su L'Ambrosiano. Partecipa nel gruppo goliardico  per la libertà di Basso e Morandi. Saggio sull'estetica d’Ardigò. Si accosta alla divisione milanese del “Giustizia e Libertà”. Collabora in seguito col nucleo giellista torinese, che fece capo prima a Ginzburg e poi a Foa.  Incontra Croce, con il quale conversa a lungo.  Saggi per Il Convegno, La Cultura, Civiltà Moderna, Solaria e la Rivista di filosofia di Martinetti, e presso la società editrice "La Cultura" di Milano, uno studio critico su L'estetica di Croce.  Saggio sulla monada e la diada, vinse il concorso per l'insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima assegnazione al liceo Grattoni di Voghera, ottenne la cattedra di filosofia a Trieste. Qui conobbe e frequentò, fra gli altri, Saba (ritratto poi in Un poeta) ed anche Gambini, Pincherle ed Curiel.  Nella collana scolastica che Giovanni Gentile diresse per Sansoni, pubblica “Diadologia”. La diadologia lo costrinse ad affrontare studi di logica e semantica. Riparte da Kant e dalla problematica kantiana, e medita sulle conseguenze che la fisica quantica e la psicanalisi potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali. Quando, come si legge in Un poeta,Saba gli domanderà, ‘Perché fa filosofia?’, Colorni concluse che da quel giorno, ‘io non faccio più filosofia’. Non e la filosofia che rifiuta, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano seguaci Croce come Gentile e Martinetti. In occasione di un congresso di filosofia a Parigi, incontra Rosselli eTasca. In quanto ebreo e rinchiuso a Varese. I giornali pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli “di razza ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti in Italia e all'estero”.  La sottolineatura sul “complotto ebraico” serviva a giustificare la legislazione anti-semita appena varata in Italia dal regime, per potersi così allineare alla linea politica seguita dagli alleati nazisti. Confinato a Ventotene, dove prosegue i suoi studi filosofici, e conversa intensamente con gli altri compagni confinati, Rossi, Doria e Spinelli. Un'eco fedele di quelle discussioni si ritrova in “Conversazioni di Commodo”. Risale a questo periodo la sua adesione alle idee federaliste europee, stesurando il Manifesto per un’Europa libera e unita. Saggio: Problemi della Federazione Europea, che raccoglieva il Manifesto ed altri scritti sul tema. Nella sua "Prefazione" al Manifesto, auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro “universalista”, come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra. In tale ottica, la creazione di una federazione di stati europei era da lui considerata come condizione indispensabile per un profondo rinnovamento sociale, anche per iniziativa popolare, che partendo dagli enti territoriali avrebbe coinvolto tutta l’Italia e, quindi, l’intera Europa.  Circa le dinamiche che portarono alla stesura del Manifesto, è generalmente ricondotto ai soli Spinelli e Rossi il contributo maggioritario del testo, sebbene, alcuni recenti studi storiografici, abbiano seriamente rivalutato il suo ruolo. Di trinità si tratta, e lo spirito santo della situazione è lui, che partecipa alle discussioni preparatorie alla stesura del Manifesto assieme a poche altre persone, ed ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo e di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista, verso i due autori del documento, fino al suo trasferimento a Melfi, benché comunque i contatti non cessassero del tutto. Grazie anche all'intervento di Gentile, riusce ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante lo stretto controllo della polizia, riusce ad avere contatti con alcuni degli anti-fascisti locali.  Assieme con Geymonat, elabora il progetto di una rivista di metodologia scientifica.  Riuscì a fuggire da Melfi, rifugiandosi a Roma, dove visse da latitante.  Dopo la capitolazione di Mussolini si dedica all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nato dalla fusione del PSI col gruppo del Movimento di Unità Proletaria.  Partecipò, assieme a Spinelli, Rossi, Doria, Braccialarghe e Foa, in casa di Rollier a Milano, alla riunione che diede vita al Movimento Federalista Europeo. Il movimento adottò come proprio programma il "Manifesto di Ventotene". Svolse nella capitale un'intensissima attività nelle file della Resistenza. Prese parte alla direzione del PSIUP e s'impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione Socialista Italiana e nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti.  “Io ero da poco stato nominato segretario della Federazione Socialista per suggerimento e per decisione di Pertini, che era membro della segreteria del partito in quell'epoca. Avevamo organizzato una chiamiamola brigata, anche se era un gruppo armato che era comandato da Colorni che poi è  assassinata alla vigilia della liberazione di Roma. Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestine. Così Pertini ricorda il suo impegno per la stampa del giornale socialista:  «Ricordare l'Avanti! clandestino di Roma vuol dire ricordare prima di tutto due nostri compagni che a forte ingegno unevano una fede purissima, entrambi caduti sotto il piombo fascista: C. e Fioretti. Ricordo come C., mio indimenticabile fratello d'elezione, si prodiga per far sì che l'Avanti! uscisse regolarmente. Egli in persona, correndo rischi di ogni sorta, non solo scrive gli articoli principali, ma ne cura la stampa e la distribuzione, aiutato in questo da Fioretti, anima ardente e generoso apostolo del socialismo. A questo compito cui si sente particolarmente portato per la preparazione e la capacità della sua mente, C. dedica tutto se stesso, senza tuttavia tralasciare anche i più modesti incarichi nell'organizzazione politica e militare del nostro partito. Amava profondamente il giornale e sogna di dirigerne la redazione nostra a Liberazione avvenuta e se non fosse stato strappato dalla ferocia fascista, sarebbe stato il primo redattore capo dell'Avanti! in Roma liberata e oggi ne sarebbe il suo direttore, sorretto in questo suo compito non solo dal suo forte ingegno e dalla sua vasta cultura filosofica, ma anche dalla sua profonda onestà e da quel senso del giusto che ha sempre guidato le sue azioni. Per opera sua e di Fioretti, l'Avanti! era tra i giornali clandestini quello che aveva più mordente e che sapeva porre con più chiarezza i problemi riguardanti le masse lavoratrici. La sua pubblicazione veniva attesa con ansia e non solo da noi, ma da molti appartenenti ad altri partiti, i quali nell'Avanti! vedevano meglio interpretati i loro interessi. Nella Roma occupata dalle forze naziste, in una tipografia nascosta di Monte Mario, fece stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine intitolato Problemi della Federazione Europea, contenente il "Manifesto di Ventotene".  Pochi giorni prima della liberazione della capitale, venne fermato in via Livorno da una pattuglia di militi fascisti della famigerata banda Koch. Tenta di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, muore sotto l’identità di ‘Franco Tanzi’. Indomito assertore della libertà, confinato durante la dominazione fascista, evadeva audacemente dedicandosi quindi a rischiose attività cospirative. Durante la lotta antinazista, organizzato il centro militare del Partito Socialista Italiano, dirigeva animosamente partecipandovi, primo fra i primi, una intensa, continua e micidiale azione di guerriglia e di sabotaggio. Scoperto e circondato da nazisti li affrontò da solo, combattendo con estremo ardimento, finché travolto dal numero, cadde nell'impari gloriosa lotta. Tre lapidi esistenti, una, posta dalla III Circoscrizione del Comune di Roma è semilleggibile perché scurita dal tempo, un'altra, posta dal Partito Socialista Italiano, è spaccata in due e un'ultima, posta sempre dalla III Circoscrizione del Comune di Roma, contiene un errore.  Foto delle tre lapidi.  Altre opere: “Scritti, Norberto Bobbio, la Nuova Italia, Firenze); “Il coraggio dell'innocenza, Luca Meldolesi, La Città del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli); “Un poeta” (Il Melangolo, Genova); “La malattia della metafisica” (Einaudi, Torino). Dizionario Biografico degli Italiani. L'itinerario politico di C., in Id., Il socialismo riformista tra politica e cultura, Il socialismo federalista di Eugenio Colorni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze, Anno Accademico, Gaetano Arfé, Eugenio Colorni, l'antifascista, l'europeista, in, Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli, Milano, Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra. Piovene e C., Einaudi, Torino e Hoepli, Milano,. Geri Cerchiai, L'itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di Storia della Filosofia», Stefano Miccolis, C. e Croce”. Talvolta non si distingue debitamente fra l’emergere originario di un testo nell’opera di un filosofo e il suo riemergere, o diffondersi, in altri tempi o contesti. In tal modo, proprio la tragedia del Novecento ha spostato spesso, rispetto alla composizione, la diffusione di scritti intrisi di attualità. Poche volte, come nel Novecento, è stato così vistoso il fenomeno delle letture differite. Ora, e al di là della nota di polemica che affiora da un montaggio tendenzioso fino al limite delle falsificazione – questo è quanto è all’incirca avvenuto per Colorni: scoperti (o riscoperti), dopo la morte dell’autore, in quel particolare contesto del quale si sono nutrite le due stesse riviste, “Analisi” e “Sigma” – che, insieme con «Aretusa», li hanno per prime pubblicati, a tale contesto sono rimasti giocoforza legati, venendo così ad essere proiettati all’interno di una tradizione e di un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro, condotto in un altro linguaggio. Si è parlato, a proposito di tale linguaggio, dello spirito del ’45, e sovente si è visto in esso, da parte degli stessi animatori, una vera e propria prosecuzione, in campo culturale, delle istanze portate avanti dalla Liberazione. Alla “dittatura dell’idealismo”– il cui [Razionalismo e prassi a Milano: La cultura milanese vive profondamente quello “spirito del ’45” fatto anche di semplificazione e di attivismo, di fiducia ingenua nell’anno zero, nella svolta politico-sociale in corso, ma soprattutto di un nesso inscindibile con la liberazione e la Resistenza. La dittatura dell’idealismo è il titolo dato da Cantoni ad un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini. Espressione di un comune sfondo sociale e di una comune struttura economica, le filosofie di Croce e Gentile si sarebbero unite, nella prospettiva di Cantoni, in una sorta di convergenza sociologica con il regime, riuscendo così a rimediare una posizione di singolare monopolio per la cultura idealista. Certamente, e una grossolanità speculativa e un errore storico identificare il destini del fascismo col destino dell’idealismo, anche se questa identificazione di fatto si verifica nella persona del maggior rappresentante filosofico dell’idealismo italiano, Gentile. In realtà, molti idealisti, dal Croce al De Ruggiero, staccarono, prima o dopo, le loro sorti da quelle del regime. Eppure, al di sotto della dichiarata e sincera avversione, un filo, inconscio spesso ma tenace, lega tra loro gli avversari e ne permetteva una, sia pure scomoda, convivenza. Questo filo era costituito dal loro comune, e inconfessato carattere *conservatore*. Lo spiritualismo idealista agì come una dittatura logica. Avendo in mano cattedre e riviste, gli idealisti facevano il bello e il cattivo tempo nella filosofia, facendo decadere al piano della non-filosofia gli avversari positivisti ed logico-empiristi. Alcune opinioni sul crocianesimo che, oltre ad essere meno drastiche, risultano per certi aspetti accostabili ad analoghi spunti della critica colorniana. Vale la pena di rimettersi a una revisione intelligente dell'idealismo italiano, rimanendo idealisti] filosofia viene assimilata alla sorte del regime – si è così tentato di opporre una filosofia più aperta al dibattito contemporaneo ed internazionale, fosse esso identificabile con le correnti fenomenologico-esistenziali o con quelle più strettamente epistemologiche ispirate al positivismo o empirismo logico del Circolo di Vienna. Quest’ultimo, d’altro canto, viene in Italia presentato da Geymonat con parole quanto mai indicative del clima che ne accoglieva i principi. L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato è e vuole essere un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla ragione un valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantano il medesimo nome. Gli è che il razionalismo deve essere ben più agguerrito e penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati. Deve essere: critico, ossia capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la pura ragione dalla filosofia mistica e decadente; costruttivo, cioè in grado di soddisfare le esigenze di ri-costruzione e di logicità caratteristiche della nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano. Gli Studi per un nuovo razionalismo, che raccoglievano le ricerche di un intero ventennio (il testo più datato, Le idee direttive del neo-empirismo, era stato pubblica Ciò che si può apprezzare in Croce, da questo punto di vista, è il suo tentativo di sciogliere il pensiero dai legami colla filosofia metafisica per avvicinarsi a una filosofia intesa come chiarificazione dell’esperienza, intesa cioè come trapasso dalla metafisica alla metodologia. Croce si sarebbe in tal modo inserito nella corrente più viva della filosofia, non riuscendo tuttavia (e in questo consisterebbe il suo maggior limite) a rompere completamente i ponti con la metafisica specuativa. Croce non ha quindi tanto combattuto la metafisica speculativa quanto sostituito alla metafisica trascendente la metafisica immanente. Per una ricostruzione più esaustiva delle diverse posizioni di Cantoni su Croce, si rimanda a R. Franchini, Remo Cantoni critico di Croce, in C. Montaleone e C. Sini (a cura di), Remo Cantoni, filosofia a misura della vita, Milano, Guerini, Cfr. Bobbio, Introduzione, in C., Scritti, Firenze, La Nuova Italia. Avviene la crisi dell’idealismo, cui segue la ricerca di nuove vie, proprio ad opera della generazione di C. le vie battute per uscire dalla crisi sono soprattutto due: quella che passa attraverso una riflessione sulle trasformazioni avvenute in seno al sapere scientifico e che dà origine a una filosofia scientifica, risolutamente anti-metafisica, qual è il positivismo logico, cui aprono la strada gli studi di Geymonat; e quella che passa attraverso l’esistenzialismo (Abbagnano, il primo Luporini)». Geymonat, Studi per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore. Come ha fatto notare Mario Dal Pra, e a conferma di quanto si scriveva di sopra, l’accostamento in questo passaggio dei termini “ricostruzione” e “logicità” sembra diretto a far pensare che «l’avversione alla metafisica del neoempirismo e l’avversione alla dittatura fascista da parte del movimento di liberazione abbiano per Geymonat una comune radice» (M. Dal Pra, Il razionalismo critico, in Bausola, Bedeschi et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza. Geri Cerchiai 4 to per la prima volta con il titolo Nuovi indirizzi della filosofia austriaca), fu significativamente fatto uscire con la medesima data di stampa del giorno della Liberazione di Milano; e in quello stesso mese di aprile apparve il primo numero della rivista «Analisi» che, come si è accennato, contribuì fra le prime, con la pubblicazione del frammento intitolato Filosofia e scienza, alla diffusione dell’epistemologia colorniana9. Ed è proprio da una lettura di «Analisi» e «Sigma» che è possibile sommariamente inquadrare il contorno di quel periodo storico al quale si deve la prima scoperta dell’epistemologia colorniana. Voluta da Fachini, «Analisi» fu stampata per cinque numeri, mutando il nome, nel corso delle pubblicazioni, in quello di «Analysis». L’«esperienza personale che io avevo fatto», racconta Fachini circa la nascita della rivista, mi aveva convinto della necessità di una piattaforma di incontro interdisciplinare. Allora in Italia mancava qualcosa di simile. La guerra spezzò agli inizi i miei tentativi. Gli eventi bellico-politici stessi, per conto loro, mi portarono a profonda solidarietà mentale con Gratton. Nasce così l’idea di «Analysis»: con ambizioni editoriali infantilmente dissonanti col momento. Trovammo poi nel Buzzati-Traverso un biologo “fisicalista” ma aperto ad ogni esperienza. Tra i filosofi professionali (a formazione cioè tradizionalmente filosofico-letteraria) Banfi, cui mi ero rivolto, mi indica l’allievo suo Preti, come fornito di interessi e preparazione fisico-matematica, allora rara nel filosofo. Per inciso, ricordo i miei contatti con un altro filosofo con preparazione e interessi analoghi: C. I temi portati avanti dalla rivista furono sostanzialmente due: l’interesse per la metodologia delle scienze – attraverso la quale indagare la possibilità di un fondamento comune alle diverse discipline – e la volontà di mantenersi all’interno di un’impostazione strettamente antimetafisica. La collaborazione fra 8 In «Rivista di filosofia». Cfr. C., Filosofia e scienza, in «Analisi». D’ora innanzi si indicheranno gli scritti raccolti in questa edizione col solo titolo seguito dal numero di pagina. Di «Analisi» e «Sigma», con specifico riferimento alla figura di C., si è occupato M. Quaranta, La scoperta di C. nelle riviste del secondo dopoguerra. Gli scritti sulla relatività, in Cerchiai e Rota (cur.), C. e la cultura italiana fra le due guerre, Manduria-Bari-Roma, Lacaita. “Analysis”: testimonianza di Fachini, in Analisi. Milano, riletta da Quaranta, con testimonianze di Fachini, Ceccato, Geymonat, Gratton, Poli, Bologna, Forni. Aggiunge Fachini, a proposito della sua formazione, che l’impulso a uno sforzo collettivo interdisciplinare era sorto in me dai primi contatti con l’ambiente mentale del neopositivismo logico», ma che la soluzione positivista, verso cui ero in un primo tempo quasi costretto, mi si rivelò presto insoddisfacente per l’irrigidimento formale, verso cui stava avviandosi. Il «periodico», si affermava nel Programma pubblicato sul primo numero, era «inteso ad offrire un luogo di libera discussione a quanti abbiano interesse ai problemi di metodologia e di critica della scienza, nello sforzo di purificare ed universalizzare il linguaggio  Cinque scritti metodologici di C. 5 scienziati e filosofi fu uno degli aspetti qualificanti della pubblicazione, ma fu anche d’impedimento ad un’armonica composizione delle sue diverse anime, concorrendo in definitiva alla conclusione dell’esperienza. L’incontro con i fondatori e la rivista, racconta a questo proposito Ceccato, avvenne per chiamata gentile. Io mi trovavo in parabola positivistica o logico-empiristica discendente. Il filone che comincia ad interessarmi era ormai piuttosto quello di Bridgman e Dingler, comunque un filone operativo. Questo difficilmente avrebbe permesso una intesa con i filosofi del gruppo, Geymonat e Preti. Una collisione non poteva tardare anche con il più aperto filosofo ufficiale, Banfi, più storico, più umanista. Un certo divario di lavoro si venne a creare anche con gli scienziati in quanto per lo scienziato di discipline assestate e floride, come la fisica, la biologia, l’anatomo-fisiologia, etc., la metodologia si può aggiungere come ornamento, come divertimento. Ma non per me. Così terminate le pubblicazioni di «Analisi», la sua eredità venne raccolta, in quello stesso anno, dalla rivista romana «Sigma», fondata da Somenzi e Giuseppe Vaccarino. Il periodico – che riporta il sottotitolo di «Conoscenza unitaria» – si propone di riunire, come si legge nella seconda di copertina, una limitata quantità di elementi atti a determinare una concezione unica della conoscenza. La nota di presentazione della rivista precisava poi i confini all’interno dei quali si intendevano muovere i curatori: «si va facendo evidente che esaurire la scienza nel tecnicismo dello specialista è dannoso – non solo ai fini della costituzione di un sistema unitario della conoscenza scientifica, ma anche nei riguardi degli stessi progressi tecnici nei singoli settori. Da qui specialistico verso una comune impostazione dei modi fondamentali, pur essi comuni, con cui si edifica e modifica il sapere scientifico». Unico limite, in tal senso, era quello di non «travalicare di là dalla metodologia in una sistematica della scienza [per] fare della metafisica insaputa e inutile» (Il programma, in «Analisi»). “Analysis”: testimonianza di Ceccato, in Analisi. Milano. In una lettera a Vaccarino, Somenzi rilegge la storia di «Sigma»: “Sigma” è nata con la modesta intenzione di pubblicare il vecchio materiale tuo, di C. e Cotone, mio. E di esaurirlo coi primi numeri. Poi si è visto che, se non altro dato il costo della carta e stampa, conveniva pubblicare un tentativo di sintesi organica, sia pure provvisoria, del tuo – e limitare quello dei due C. e mio a ciò che può avere ancora interesse dal punto di vista filosofico. Infine è sorta l’idea, con la crisi di “Analisi”, di prenderne il posto con il programma serio di Metodo. Già l’impostazione dei primi due numeri ci alienerà le simpatie dei Castelli, Blanc, Fantappié ecc., ma anche dei Filiasi e Geymonat (l’interessamento di quest’ultimo è condizionato alla possibilità di una nostra conversione al materialismo dialettico/razionalista tipo “La Pensée”). Attualmente spero solo nei Servadio e magari Spirito, Savinio e stop» (“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Somenzi, Attività professionale, Carte di lavoro non organizzate, Collaborazione con Vaccarino, b. 1, Vaccarino. Da ora in avanti, il Fondo sarà abbreviato con la sigla “FS”, seguita dall’indicazione dei riferimenti completi d’inventario. La conoscenza unitaria, in «Sigma». Scriveva Vaccarino a Somenzi riguardo a questa nota. Rileggendo la tua edizione riveduta della conoscenza unitaria penso che possa andare come presentazione anonima, specie se sarà da  Geri Cerchiai 6 avrebbe anche dovuto discendere il ruolo della ricerca metodologica, che – comprendendo un discorso più largamente critico-filosofico – avrebbe dovuto fissare le norme dirette ad unificare in sistema le scienze particolari o la conoscenza in genere. Come «Analisi», anche «Sigma» ha però vita breve, e dopo sei numeri una nota editoriale ne annunciava la confluenza nella rivista «Methodos». Questo fu dunque lo sfondo culturale che vide nascere l’interesse per la filosofia colorniana, un interesse che, attraverso la pubblicazione di alcuni testi del filosofo milanese, richiamava alla ricostruzione della filosofia empiristica italiana (come la proposta del ebraico-britannico Ayer a Oxford) come tradizione anti-metafisica e anti-idealistica e capace di attuare un profondo rinnovamento negli orientamenti teoretici nazionali. D’altra parte, che il pensiero di Colorni fosse in certa misura vicino alle posizioni espresse da «Analisi» e «Sigma» è testimoniato, oltre che dalle singole scelte di politica editoriale delle due riviste, da quanto raccontato dagli stessi protagonisti: «Ricordo con precisione», ha scritto ad esempio Fachini sul secondo numero di «Analisi», le conversazioni di quell’epoca: credo di poter affermare, per esperienza personale, che C. sia stato tra i primi italiani di preparazione filosofica a tentare di accogliere e di comprendere, in modo serio, le nuove affermazioni epistemologiche. La più gran parte dei suoi saggi sono inediti: molte pregevoli cose egli ha lasciato: e forse potrebbe indicarci vie nuove. Gli amici di «Analisi» auspicano di poter far conoscere in cerchio vasto il suo lavoro, a vantaggio della ricerca metodologica e in omaggio alla sua memoria Somenzi, a sua volta, scrivendo a Vaccarino della pubblicazione degli scritti colorniani su «Sigma», afferma: Per Sigma convinciti che i nostri scritti, incomprensibili per virtù proprie dalla maggioranza dei competenti, l’hanno irrimediabilmente “condannata” e che quelli di C. sono ancora i migliori che potessimo o possiamo esibire, oltre che i più vicini al nostro ordine di idee. “Fisica teorica e filosofia” di Colornimerita senz’altro la pubblicazione sul numero che spero di riuscire a dedicare a questo argomento. Rievocando poi il Progetto di una rivista di metodologia scientifica – da C. discusso fra gli altri con Geymonat durante gli anni della guerra – ante ulteriormente ampliata. Effettivamente rileggendo il mo testo subito dopo averlo scritto non avevo avuto una buona impressione. Ma ora mi è piaciuto» (FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, gen. 28, 135, Vaccarino. La conoscenza unitaria. Cambi, Razionalismo e prassi a Milano, G. Fachini, C., in «Analisi». Si tratta di C., Critica filosofia e fisica teorica. Lettera di Somenzi a Vaccarino. Alcuni inediti riconducibili a tale progetto sono presentati in M. Quaranta, La scoperta di C., cit., cfr. in part. le pp. 126-130. Per i testi di FS destinati alla rivista metodologica. Saggi metodologici di C.  7 cora Somenzi ha sottolineato come esso corrispondesse «nella sostanza a molte realizzazioni degli ultimi quarant’anni, da riviste come “Analysis” a collane di volumi di filosofia della scienza e di storia della scienza quali quelle impostate a Milano e Torino dallo stesso Geymonat e da Rossi. A partire da queste premesse, appare evidente come la storia della riscoperta colorniana nel dopoguerra possa concorrere a gettare luce su alcuni fondamentali aspetti dello stesso pensiero dell’autore; essa ne evidenzia difatti la novità di prospettiva e la conseguente, connaturata disposizione a dialogare coi più avanzati ambienti filosofico-culturali del nostro Paese. Ciò che tuttavia rende affatto esemplare la filosofia colorniana, concorrendo a fare di essa un importante «contributo alla comprensione del travaglio della filosofia italiana al momento del declino della preponderanza idealistica, non è soltanto la particolare modalità della sua ricezione, ma anche la complessiva parabola intellettuale seguita dal giovane studioso per giungere alle posizioni metodologiche degli ultimi anni. C. è allievo di Borgese e Martinetti a Milano. Nel raccontare della formazione universitaria di c., Tagliacozzo scrive. Va ricordata l’influenza che sui suoi studenti ha allora una personalità come quella di Borgese, che C.  e compagni chiamano scherzosamente G.A. Era uno di quei pochi professori che non disdegnano allora di soffermarsi a discutere dopo la lezione con i propri studenti. Altra influenza determinante per i suoi studenti quella dell’austero Martinetti che spiega Kant alle otto del mattino. Martinetti avvia gli studenti al rigorismo dell’etica kantiana, mentre il brillante G.A., più alla mano, discute di estetica e letteratura comparata. I debiti con l’insegnamento di Borgese, d’altro canto, sono resi espliciti dallo stesso C., che in un suo curriculum universitario afferma: Durante i miei studi mi sono occupato specialmente di problemi filosofici ed estetici e, sotto la direzione del Borgese, ho redatto lavori su L’estetica d’Ardigò.  21 V. Somenzi, C. filosofo della scienza, in «Filosofia e società»,  Bobbio, Introduzione, cit., p. VI. 23 Tagliacozzo, L’uomo C., in «Tempo presente». Prosegue poi Tagliacozzo nella pagina seguente: «Martinetti indusse [Eugenio] ad approfondire Kant, amò Spinoza dopo la prima infatuazione per l’idealismo italiano. E chi in quegli anni non lesse Croce e Gentile, ma specie Croce? Eugenio conobbe Hegel, ma non è mai hegeliano. Studiò dal punto di vista filosofico Marx, ma non fu mai marxista. Dopo un’esercitazione sul positivismo – e si noti l’influenza borgesiana nell’approfondimento dei problemi estetici – si indirizzò verso Leibniz» (ivi, p. 54). Geri Cerchiai 8 gò e del positivismo italiano, L’estetica bergsoniana e L’estetica di Croce. Quest’ultimo studio è stato pubblicato più tardi a Milano dalla casa editrice “La Cultura”24. Più complesso, e forse maggiormente studiato, è il rapporto di C. con Martinetti, col quale l’autore si laurea su Sviluppo e significato dell’individualismo leibniziano. Il primo, fondamentale impulso all’approfondimento di Leibniz; l’introduzione alla filosofia di Kant; il rifiuto del metodo dialettico; l’urgenza di rinvenire una nuova, diversa organizzazione del nesso fra individuale ed universale, sono elementi che stringono C. al magistero martinettiano e che risultano fondamentali per la più generale formazione del filosofo milanese. Al di sotto di tutti è poi presente l’esigenza di individuare il corretto rapporto fra l’analisi della realtà e la sua organizzazione sistematica, esigenza il cui movimento e la cui parabola all’interno della propria maturazione intellettuale sono così descritte, ne La malattia filosofica, dallo stesso protagonista: 24 Curriculum vitae di Colorni, s.d., in Archivio Hirschmann, Roma, citato in Gerbi, Tempi di Malafede. Guido Piovene e C.. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra, nuova edizione Milano, Hoepli. Cfr.: C., L’estetica di Croce. Studio critico, Milano, La Cultura; Id., Ardigò, in «Pietre», firmato con lo pseudonimo di Carlo Rosemberg; per una storia di questa pubblicazione rinvio ad Vigorelli, Antifascismo: il caso di “Pietre”, in Eugenio C. e la cultura italiana, a cura di G. Cerchiai e G. Rota); lo scritto sul bergsonismo è tuttora inedito. È lo stesso C., ne La malattia filosofica, a raccontare come si svolgevano, durante le lezioni di Borgese, le esercitazioni dalle quali è nato ad esempio lo studio su Croce. All’università si dà continuamente battaglia contro Croce. Ogni settimana, uno studente sale sulla cattedra per discutere coi compagni e col professore. Salire anche lui su quella pedana, gli piacerebbe tanto: ma per che dire? Tenterà, ad ogni modo» (C., La malattia filosofica). Sul rapporto fra C. e Borgese rimando a Riosa,  Borgese e C.  tra letteratura e politica, in Cerchiai e Rota, C. e la cultura italiana. Nello stesso periodo nel quale si laurea C., altri due allievi di Martinetti, Barié e Gadda, venivano indirizzati dal maestro allo studio del filosofo di Lipsia. Si veda, a mero titolo di esempio, quanto lo stesso Martinetti scrive a Gadda: «Se fra tre o quattro anni Ella potesse uscire con una bella esposizione di Leibniz (non tema d’avere concorrenti in questo argomento!) la via dell’università (per storia della filosofia) Le sarebbe aperta» (Lettera di Martinetti a Gadda; in Martinetti, Lettere a Gadda, a cura di Lucchini, in «I quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani», Cfr. anche: Cerchiai, Due inediti di Emanuele su Leibniz, in «Rivista di storia della filosofia»; C. lettore di Leibniz, in C. e la filosofia italiana. Si veda la testimonianza di Tagliacozzo riportata poco sopra. Per il clima nel quale poteva essere riletto Kant durante le lezioni martinettiane (con particolare riferimento alle vicende relative a C.), si rimanda a S. Gerbi, Tempi di malafede, cit., p. 39. 27 Una delle poche citazione dirette di C. presenti nel libro sull’estetica crociana rinvia proprio allo scritto di Martinetti intitolato Il metodo dialettico,Rivista di filosofia, là dove C. scrive: «perché, per quale forza o per quale principio questa implicazione dei contrari debba presentarsi quasi come una generazione dell’uno da parte dell’altro, è difficile a intendersi. Perché si deve dire che il Non-io, il quale è, per la sua stessa definizione, inseparabile dall’Io, sgorga, si svolge, si origina da esso? Che il particolare nasce dall’universale?» (C., L’estetica di Croce). Cinque scritti metodologici di C.. Il problema che lo occupa è sempre il posto, la collocazione delle facoltà nel mondo dello spirito. A un certo punto, gli balena la possibilità che questi elementi di cui cercava con tanto accanimento l’ordine e la collocazione, non patiscano alcun ordine: possano vivere così, separati, paralleli, autonomi. L’idea lo entusiasma. Gli sembra di avere ora fatto veramente un passo innanzi. E non pensa più tanto a definire e a ordinare, quanto a descrivere. Ma questo procedere dovrà pure avere una sua giustificazione teorica, dovrà pure inquadrarsi in una visione del mondo, avere un suo nome che termina in -ismo. Pierino [alter ego di C.] si butta sui pluralisti, sugli empiriocriticisti: studia Mach e Avenarius, si addentra nel labirinto di Leibniz. Su queste basi, si può dire che quello che altrove ho definito il “problema dell’ordine” divenga, talvolta anche solo per contrasto, uno dei fili conduttori dell’intera riflessione colorniana: impostato fin da L’estetica di Benedetto Croce, esso cercherà una prima, instabile sistemazione nella filosofia di Leibniz, per trovare poi nella rilettura metodologica ed epistemologica del criticismo kantiano una soluzione – o, come potrebbe dirsi: dissoluzione – affatto originale. Al fine di seguire il movimento del pensiero di Colorni da questo punto di vista, può essere utile rileggere le parole dell’autore stesso. C., La malattia filosofica; cfr. anche ibidem, n. 19 del curatore. Di Leibniz dirò in seguito, in questo stesso paragrafo. Per quanto riguarda l’accenno agli empiriocriticisti, si rimanda a quanto scritto da Guzzardi, il quale, esaminando precisamente la radice dei riferimenti colorniani a Mach, Avenarius e Schuppe, ne ha riconosciuto l’origine proprio nell’insegnamento di Martinetti. C., spiega Guzzardi, trova una valutazione positiva di questo pluralismo, nonché delle filosofie dell’esperienza di Schuppe, Avenarius e Mach, nell’Introduzione alla metafisica di Martinetti. D’altra parte, M. indirizza allo studio di Mach, Avenarius e Schuppe, un allievo, Pelazza. Tali circostanze, secondo Guzzardi, fanno ritenere», insieme con altre che dovrebbero essere approfondite, che l’interesse originario di C. per l’empirio-criticismo sia da collegare a Martinetti e Pelazza (Guzzardi, Lo specchio della natura. C. e la cultura del suo tempo, in C. e la cultura italiana, a cura di Cerchiai e Rota). Prosegue Guzzardi. Non solo Schuppe e Avenarius vengono citati da C. nella recensione all’Introduzione alla metafisica. Qui si trova pure accennato fra i meriti di Martinetti quel concetto di esperienza pura e obiettiva che egli sembra indicare come via di uscita dalle difficoltà in cui il pensiero moderno si trova impigliato” – e l’esperienza pura [reine Erfahrung], attorno a cui Pelazza ha costruito la propria presentazione dell’empirio-criticismo, aveva costituito il punto d’approdo della filosofia di Avenarius. La recensione Sull’“Introduzione alla metafisica” di Piero Martinetti si trova nell’edizione Einaudi degli scritti colorniani. A tutto ciò si può aggiungere che C. accostò all’empirio-criticismo anche la filosofia di Croce. L’individualismo del Croce non è necessariamente in contrasto col suo idealismo: risolve piuttosto il principio dell’auto-coscienza – che è essenziale all’idealismo – in una coscienza del pensiero nella effettualità del suo pensare; identifica il punto di partenza soggettivo col suo necessario correlato oggettivo, l’universale col particolare. In questo senso si avvicina piuttosto a forme di contingentismo e di empirio-criticismo; e in questo senso appunto è giustificabile il suo tenersi al dato e partire da esso: in quanto questo dato non può essere inteso che come uno stato d’animo, un’esperienza che debba essere vissuta intensamente, e da cui si debba trarre a volta a volta l’assoluto. C., L’estetica di Croce.  Cfr. Cerchiai, L’itinerario filosofico di C., in «Rivista di storia della filosofia, Cerchiai. Nel libretto su Croce, il problema dell’ordine è inquadrato a partire dalla questione del rapporto fra la «soprastruttura» 30 dialettica del sistema e l’effettivo valore delle singole osservazioni: «Ciò che sta sotto l’organizzazione esteriore», scrive C., è nel crocianesimo il vero sistema, non ancora chiaro e formulato, ma agile e ricco di molteplici possibilità. Ricercare tale ricchezza sotto un’impalcatura in gran parte insoddisfacente è il compito che s’impone a chiunque viva quel pensiero come un’esperienza della propria vita. E seguirne la possibilità di sviluppo anche di là dalla forma che ha dato a se stessa, ci pare il miglior omaggio che si possa rendere a una filosofia31. Se il “metodo individualistico” così identificato nella filosofia di Croce conduce C. a liberare le singole osservazioni «dall’interpretazione che Croce stesso ne ha data allo scopo di adattarle ad un suo schema presupposto di organizzazione», per cercare di «renderle di nuovo pure» e «ravvisare» di conseguenza «in esse» un sistema «non imposto in precedenza, ma derivante e identico coi dati stessi forniti»32, non può stupire l’interesse teorico nutrito dal filosofo milanese per il secondo dei suoi “auttori”, ossia per il pensiero di Leibniz. Quest’ultimo, infatti, pare offrire precisamente la possibilità di chiudere in un circolo coerente l’analisi empirica del particolare e l’organizzazione sistematica del tutto. Scrive C. Leibniz non parte mai con l’intento esplicito di costruire un sistema. La sua attività filosofica si presenta a tutta prima come una grande raccolta di prese di posizione particolari. Eppure il sistema non manca in esse: è anzi continuamente presente. I singoli problemi si mostrano a poco a poco connessi l’uno all’altro; le soluzioni convergono, si giustificano e confermano a vicenda. Il sistema non è una pura esteriorità, un concordanza sopravvenuta; è anzi l’anima di ciascuno osservazione, attraverso cui tutto si spiega e si giustifica33. Per tali motivi, Leibniz rappresenta quasi il contraltare dello storicismo crociano o, meglio ancora, il rimedio alle sue lacune; «Leibniz», infatti, «differisce [proprio] in questo da altri pensatori, apparentemente più coerenti e organizzati, ma la cui ricchezza va cercata al di là del sistema, nelle varie formulazioni particolari: vi differisce cioè per il fatto che, come si è visto, il suo sistema si C., L’estetica di CROCE (si veda), cit. Scrive ancora C.: «chi parta dal mondo stesso e, rendendo eterno e universale ciascun dato di questo, voglia costruire una scienza delle forme possibili di questa universalizzazione e di qui giungere ad una visione complessiva dei modi eterni della realtà e delle loro reazioni reciproche, non pone il sistema all’inizio, come premessa della sua ricerca; ma ad esso giungerà al termine ideale del suo cammino. C., Nota bio-bibliografica, in G. W. von Leibniz, La monadologia, preceduta da una esposizione antologica del sistema leibniziano, a cura di C., Firenze, Sansoni. Il riferimento sembra rinviare precisamente alla critica della filosofia crociana. Cinque scritti metodologici di C.11 sviluppa spontaneamente dalle singole osservazioni e l’insieme si mostra nella sua completezza attraverso il complesso dei suoi aspetti. E tuttavia, lo scacco della prospettiva leibniziana giungerà a sua volta quando, muovendo da simili presupposti, Colorni dovrà constatare il carattere prettamente soggettivo del tentativo di sistematizzazione da quella realizzato: Leibniz, spiega così C. nel suo ultimo scritto sull’argomento, applica all’ordine spirituale quella continuità, quel passaggio ininterrotto, quel procedere da ogni legge ad una legge più vasta, che egli crede di scorgere come l’essenza più profonda del mondo naturale. Che questa stessa continuità e questo allargarsi sia, più che una legge della natura, un’esigenza dello spirito nella considerazione della natura stessa, egli non sospetta36. L’insuccesso del punto di vista leibniziano consentirà però anche a C. di schiudere un più libero sguardo, sciolto ormai dai condizionamenti delle diverse scuole filosofiche, sul criticismo kantiano e sugli strumenti da questo forniti per lo studio dei meccanismi di funzionamento del pensiero. C. aveva anticipa le due linee – leibniziana e kantiana – della propria filosofia, là dove aveva scritto, in Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà, che la monade di Leibniz avrebbe dovuto completarsi con la dottrina kantiana, di modo che l’«universalità della monade, intesa come realtà cosciente, puo coincidere con la trascendentalità del conoscere, inteso come conoscenza reale»37. L’effettivo passaggio ad un più maturo kantismo segna tuttavia per Colorni un punto di svolta fondamentale o, come afferma l’autore stesso, una vera e propria «operazione di cataratta»38, capace di conquistare una diversa prospettiva sul mondo: esso, infatti, consente al giovane studioso di voltare le spalle alla “conoscenza filosofica” e di approdare infine a quella particolare metodica ch’egli presenta come conoscenza prettamente scientifica, intesa cioè come padronanza di un processo. La domanda impossibile (senza senso) della filosofia, spiega così Colorni, pur nella loro rigida formulazione teoretica, sono sempre espressione di qualche tendenza, di qualche profonda esigenza dell’animo. La risposta si dà dunque divenendo padroni del meccanismo psicologico mediante cui la domanda viene posta; essendo capaci di riprodurlo, di seguirlo nelle sue fasi, di variarlo all’infinto. Al problema della realtà, si risponde fabbricando animi per cui l’expressione “realtà” non ha senso. Alla domanda se esiste un mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo non sia uguale a due angoli retti, si risponde costruendo una geometria in cui tale somma sia effettivamente maggiore o minore di due retti, e mostrando che tale geometria non è né più né meno vera di quell’altra; ma è, rispetto all’altra, essenzialmente nuova C., Libero arbitrio e grazia nel pensiero di Leibniz, C., Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà. C., Critica filosofia e fisica teorica, C., Filosofia e scienza. C., Critica filosofia e fisica teorica; Cerchiai 12 È in questo contesto, all’interno del quale Colorni ritiene di essere definitivamente guarito dalla sua «malattia filosofica»41, che vanno collocati i titoli di seguito trascritti e conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. Di tali scritti, e degli altri pubblicati dalle riviste «Aretusa», «Analisi» e «Sigma», è lo stesso Somenzi a raccontare la storia nel già citato testo su C. filosofo della scienza. 3. La metodologia colorniana negli scritti del Fondo Somenzi «Nel 1945», scrive difatti Somenzi, comparve sulla rivista «Aretusa» un Ricordo di C. scritto dall’amico Guido Morpurgo-Tagliabue, accompagnato da due inediti stimolanti: Il bisogno dell’unità e Sul complesso di Edipo. Altri inediti mi pervennero attraverso la rivista «Analisi» […], e di questi una parte venne pubblicata su «Analisi» e sulla rivista romana «Sigma» che ad essa si affiancò per iniziativa di Giuseppe Vaccarino e mia. Dal carteggio fra Vaccarino e Somenzi emergono altre importanti informazioni sui dattiloscritti conservati in FS, che con ogni evidenza i due fondatori di «Sigma» si inviavano in reciproca lettura. Di quanto scriveva Somenzi a Vaccarino nel maggio del ’47 si è già reso conto nel § 1. Il 27 gennaio di quel medesimo anno, è Vaccarino a dire a Somenzi di sperare «tra qualche giorno di inviar[gli] i C.»; il giorno appresso, e quello successivo ancora, Vaccarino aggiunge poi quanto segue: Spero domani di inviarti i Colorni. Molto interessanti e brillanti. Comincerei con i dialoghi di “Commodo”, combinandoli in modo che abbiano tra di loro un certo legame. Ieri sera ho riletto i C., che ti rimando tranne l’ultimo, che ti invierò tra qualche giorno. “I dialoghi” si potrebbero pubblicare in 3 puntate – (La seconda notevolmente più lunga delle altre 2) – Vi è una quarta puntata sull’economia, che mi piace meno. Nel testo ho cambiato qualche parola a matita (in modo che tu possa eventualmente ricorreggere). Ho creduto anche opportuno evitare il “dialogo nel dialogo” nel primo n°, introducendo invece del “fisico ribelle” il “Curiosus” del secondo n°. L’Apologo ed il Ritorno alla natura vanno anche benissimo. Forse si potrebbero pubblicare unitamente al terzo dialogo, che è molto breve. Le idee di Colorni mi sembrano meglio espresse nei dialoghi che nel capitolo sulla fisica, data la forma brillante 41 La malattia filosofica è per l’appunto il titolo che C. diede alla sua più completa biografia intellettuale, già qui ricordata nelle pagine precedenti. Somenzi. Prosegue poi Somenzi citando di fatto alcuni dei titoli dei quali si sta qui discutendo: «La rivista doveva contenere articoli di fondo dedicati a problemi come: il concetto di esperienza, costanti universali e unità di misura, l’illusione finalistica nella fisica e nella biologia, l’illusione realistica nella fisica, geometria ed esperienza, l’assiomatica dei principi della meccanica, l’assiomatica della teoria della relatività e quella della meccanica quantistica, fisica puntuale e fisica di campo, il concetto di istinto, la polemica tra meccanicismo e vitalismo, la costruzione di una economia indipendente da premesse psicologiche. dell’espressione. In quanto alle opinioni espresse (l’io, la storia, l’amore, ecc.) non c’è coincidenza con la metaconoscenza, anzi piena opposizione43. Su «Analisi», uscì Filosofia e scienza44, mentre un più consistente numero di titoli apparve su «Sigma»; si trattava, in particolare, dei testi seguenti: Apologo su quattro modi di filosofare; Della lettura dei filosofi; Del finalismo nelle scienze; Dell’antropomorfismo nelle scienze; Sugli idoli della scienza fisica; Critica filosofica e fisica teorica; Il ritorno alla natura; Filosofi a congresso45. Oltre a questi – e presumibilmente appartenenti al medesimo gruppo di testi del quale Somenzi afferma di aver pubblicato solo una parte – in FS sono conservati altri dattiloscritti, di cui sono qui trascritti quelli maggiormente compiuti46. I primi tre scritti appartengono con ogni evidenza al gruppo di testi destinati dall’autore alla rivista di metodologia scientifica progettata con GEYMONAT (si veda). Questa, oltre a note di varietà, rassegne e recensioni, avrebbe infatti dovuto ospitare una sezione dedicata ad «Articoli e saggi», fra i cui titoli C. indica per l’appunto Geometria ed esperienza e Assiomatica delle leggi della meccanica. Il testo intitolato II: Relatività generale è, come mostrato dalla numerazione romana, il secondo paragrafo di Sull’assiomatica della teoria della relatività (anch’esso menzionato nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica), il quale comincia proprio con l’indicazione di un paragrafo (I) La relatività ristretta. Tutti e tre i testi fanno riferimento al discorso intorno all’idea di esperienza che per C. discende dalla scoperta del carattere relativo delle categorie: «la coscienza che abbiamo acquistato della nostra possibilità di modificare [i] dati elementari»48 della conoscenza, infatti, costringe secondo C. sia a riformare i concetti di a priori e di a posteriori, sia a rivedere coerentemente la nozione di esperienza. «A priori», spiega così C., «non significa più della ragione. A posteriori non significa più dei sensi. Sia i dati della ragione, sia i dati dei sensi, ap43 Lettere rispettivamente del 28 e del 29 gennaio 1947; quest’ultima è scritta di seguito all’epistola del giorno precedente, sul medesimo foglio. Il 17 gennaio 1947, Vaccarino aveva informato Somenzi del suo scritto sulla metaconoscenza, col quale confronta qui gli scritti colorniani: «Avevo preparato uno scritto sui rapporti tra la conoscenza e la religione, il quale in definitiva risultò troppo lungo ed infarcito di considerazioni metagnosologiche. Ho pensato perciò che è meglio direttamente attaccare la questione della metaconoscenza». Tutte le lettere sono in FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, Vaccarino Giuseppe. Il “fisico ribelle” è probabilmente il Fisico che Colorni inserisce quale interlocutore (appunto: quasi come dialogo nel dialogo) in Del finalismo nelle scienze, e che nella stampa definitiva su «Sigma» non viene poi effettivamente sostituito dal Curiosus interlocutore di Dell’antropomorfismo nelle scienze. Il testo comprende parzialmente anche: Sul concetto di esperienza e Intorno al principio di identità.  Cfr. infra, la Nota del curatore. C., Filosofia e scienza. Cerchiai 14 paiono come elementi in cui il fattore soggettivo e quello oggettivo si presentano mescolati, ma di cui è in nostro potere, mediante un procedimento logico e psicologico insieme, modificare la struttura»49. L’esperienza, a sua volta, «anziché rivelare leggi naturali», dovrà suggerire, secondo le contingenti necessità degli studiosi, «determinate forme di definizione e di misura», utili a proseguire nel lavoro di ricerca scientifica51. Siamo qui di fronte a quel progetto di “liberazione” della fisica «dalle premesse realistiche-finalistiche» che deve per Colorni rappresentare non solo «uno degli scopi essenziali della rivista»52, ma anche il fine ultimo della sua stessa critica epistemologica. Di tale progetto il più lungo e strutturato Programma contribuisce a tracciare ulteriormente i contorni teorici. Il nucleo dello scritto ruota intorno alla considerazione secondo la quale la «filosofia odierna dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine. Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato». La constatazione del carattere condizionato della realtà diviene in tal modo, e nuovamente, il punto di partenza – tutto kantiano – della metodologia di C.. Il criticismo trascendentale, aggiunge però l’autore, «ha messo tutti sul chi vive», sì che «la curiosità di vedere al di là del velo di Maja delle categorie si è fatta sempre più intensa»; sarà tuttavia soltanto la capacità della conoscenza scientifica di disubbidire all’«ammonimento di Kant» per trascurare «i limiti» da questo imposti che consentirà, ancora una volta, di compiere il secondo, decisivo passo lungo la strada già intrapresa dalla Critica della ragione pura: «La domanda da porsi», chiarisce Colorni in un passo cruciale di Critica filosofica e fisica teorica, Non [è]: “È il mondo del nostro pensiero, o non è, quello reale?”; bensì: “Come potrebbe essere conformato un mondo di pensiero diverso dal nostro?”. La prima domanda parte da quella esigenza di sicurezza e stabilità che è sempre collegata col pensiero del reale [e che appartiene all’atteggiamento filosofico]. La risposta che essa cerca è una risposta che assicuri tale sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi; nel reale, o in qualche cosa che lo sostituisca. La seconda domanda [propria dell’atteggiamento scientifico] muove invece da una esigenza di novità […]. Si tratta qui del secondo passo della rivoluzione copernicana. Il primo era consistito nell’accorgersi che le leggi della realtà non sono che forme del nostro intelletto. Il secondo consiste nel domandarsi se queste forme siano proprio necessarie ed immutabili e irresolubili. Anzi, non 49 Ibid. A priori diviene perciò il «nostro potere di modificazione che si riferisce sia agli oggetti della nostra ragione, sia a quelli dei nostri sensi. Mentre poi «la geometria definisce gli oggetti su cui opera mediante i suoi assiomi, la fisica definisce quei medesimi oggetti mediante definizioni reali, cioè facendoli corrispondere a determinati fenomeni naturali. Mentre dunque la prima gode di una completa libertà nella scelta degli assiomi, la seconda è legata alle conseguenze implicite nella scelta di quelle particolari definizioni; libera però di mutare le definizioni, qualora le conseguenze non la soddisfacessero. C., Sul concetto di esperienza. Cinque scritti metodologici di C. 15 nel domandarsi se siano irresolubili (domanda che presuppone l’uso di quelle forme stesse) ma nel tentare senz’altro di scioglierle53. In tal modo, spiega C. al termine di Programma, è la conoscenza scientifica a raggiungere quell’“al di là” che alla prospettiva kantiana era negato, ma l’“al di là” al quale essa perviene «non è una negazione del “di qua”, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie», un mondo al quale si viene portati, in primo luogo, dalla consapevolezza che la «legge essenziale della natura è la ragione, e la ragione è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto l’uomo non fa che proiettare fuori di sé l’essenza della propria natura»54. L’ultimo testo qui trascritto, Commodo a Ritroso, appartiene ad un gruppo di dialoghi, noto come Dialoghi di Commodo, stesi a più mani durante il periodo del confino a Ventotene55. Commodo, come ha spiegato la moglie Ursula Hirschmann in occasione dei primi tentativi di pubblicazione integrale dei frammenti colorniani, è lo stesso Colorni; Ritroso è Ernesto Rossi56. Lo scritto prende spunto da argomenti economici per chiarire alcune questioni che, venendo a teorizzare una sorta di “dilettantismo metodologico”, rendono conto della stessa natura dell’indagine colorniana. L’«appartenenza professionale», dice C. all’amico Ritroso/Rossi in uno dei dialoghi già [C., Critica filosofica e fisica teorica. 55 Racconta Altiero Spinelli nella sua autobiografia, ben descrivendo non solo la genesi dei Dialoghi di Commodo, ma anche l’atteggiamento di Colorni nelle discussioni: «Parlavamo ogni giorno delle cose più varie, di politica, di geometria non euclidea, di nostri compagni di confino, delle nostre letture, delle nostre storie personali, dei grandi della storia, ma sentivo che [Eugenio] stava sempre attento a scoprire un qualche mio coperto punto malato, che egli avrebbe messo in luce, curato e guarito – poiché la vocazione del guaritore d’anime l’aveva proprio nel sangue. Mi affascinava la precisione quasi infallibile con la quale scopriva il punto errato di un ragionamento, il punto equivoco di un atteggiamento, il momento retorico di un’espressione. Talvolta uno di noi, ripensando la sera alle parole scambiate durante il giorno, le proseguiva scrivendo un dialogo nel quale diceva la sua e immaginava quel che l’altro avrebbe risposto. Talvolta il dialogo aveva un seguito, scritto dall’altro, prima di terminare a voce» (A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Bologna, Mulino). 56 Gli pseudonimi principali utilizzati negli altri dialoghi sono i seguenti: Severo è Altiero Spinelli, Manlio Rossi-Doria è Modesto, Ursula Hirschmann è Ulpia. Così scrive Landi a Hirschmann. Penso che  i tempi stiano maturando per un’edizione in volume degli scritti lasciati da C.: come sono maturati, dopo tanti decenni, per la ripresentazione ai lettori italiani di quelli diVailati, che fu studioso per tanti versi affine ad Eugenio e che, rimasto quasi sepolto fin da prima della Prima Guerra Mondiale, ricomparirà ora presso Laterza e presso Einaudi su mia iniziativa». RossiLandi faceva poi riferimento alle pubblicazioni di «Analisi» e «Sigma». Ho potuto prendere visione della corrispondenza relativa ai diversi tentativi di pubblicazione degli scritti filosofici di C. (prima presso l’editore Laterza e poi per la Feltrinelli) grazie alla cortesia di Renata C., che ancora conserva una parte del carteggio e che qui debbo ringraziare per la sua disponibilità. 57 Esso va dunque letto insieme a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella ed. Einaudi alle pp. 322-342. Per una più precisa contestualizzazione dei frammenti economici colorniani cfr infra, la Nota del curatore.  Cerchiai 16 pubblicati da «Sigma» nell’immediato dopoguerra, «comporta un legame così stretto con la scienza e un interesse così diretto ai vari problemi particolari in cui la ricerca si articola momento per momento, che è difficile avere la possibilità di riprendere in esame i problemi iniziali e i principi fondamentali da cui si è partiti»58; proprio per questo, secondo Colorni, i «dilettanti e gli outsider», sono forse maggiormente in grado, attraverso l’esercizio di un «tranquillo, pacato, spregiudicato esame dei punti di partenza e delle definizioni iniziali»59, di «sconvolgere dalle fondamenta tutto l’edificio del proprio sapere»60. Certo, dovendo rispondere all’accusa di «presumere di rivedere i principî di tutte le scienze, senza averle mai praticate»61, lo stesso C. – che alla scienza è giunto passando per la filosofia – parla in qualche modo pro domo sua. E tuttavia, egli va anche a puntualizzare, in tal modo, il «arattere pragmatistico del proprio pensiero, il quale deve giocoforza confrontarsi con le più differenti discipline scientifiche. In Commodo a Ritroso, C. riprende questi medesimi argomenti, insistendo però con maggior vigore su quello spirito d’indipendenza – indispensabile ad un proficuo sviluppo dell’opera scientifica e filosofica – il cui significato teorico è già stato indagato in Programma. Scrive C.: «Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sbagliate e confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo, desideroso di scontri e di battaglie». Emerge qui, accanto alla consapevolezza di un metodo teorico ormai chiaramente precisato, una componente particolare del carattere del giovane filosofo: quella irrequietezza, ironicamente descritta ne La malattia filosofica, che contribuisce a rendere conto della stessa, febbrile attività politica colorniana. Essa rivela una vivacità intellettuale che si mostrò sempre incapace di fermarsi ai risultati volta per volta raggiunti e che, trascorrendo dai primi studi storico-filosofici a quelli metodologici degli ultimi anni, viene a costituire l’anima, per così dire, anche dei dattiloscritti colorniani conservati nel Fondo Somenzi. C., Dell’antropomorfismo nelle scienze. Com’è noto, e a dispetto della sua formazione umanistica (lit. hum.), Colorni si cimenta direttamente nella ricerca fisica, con particolare attenzione alla teoria della relatività. Cfr. nello specifico i titoli seguenti: Unités de misure et relativité; Le trasformazioni di Lorentz come caso particolare e Deduzione del campo elettromagnetico di una carica in movimento rettilineo e uniforme. 63 E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Nota del curatore I testi di Colorni in FS – tutti dattiloscritti – sono per lo più approntati per la composizione a stampa, spesso con indicazione del corpo e della impaginazione da utilizzarsi. Alcune correzioni e integrazioni, la segnalazione «a penna» talvolta riferita ai titoli o alla firma, i commenti a margine sulla opportunità o meno della pubblicazione, fanno supporre che ci si trovi per lo più di fronte a trascrizioni battute a macchina dagli originali. Salvo che dove diversamente segnalato (come ad esempio – per i motivi lì esposti a pié di pagina – in Programma), ci si è generalmente attenuti al criterio di integrare le eventuali sviste od errori ortografici direttamente nel testo, senza ulteriore indicazione. Ugualmente ci si è comportati per le correzioni e gli interventi a penna o a macchina. Il dattiloscritto di Programma presente in FS conserva la conclusione, che risulta invece assente nelle precedenti edizioni in volume. Oltre ai titoli qui riportati, e a quanto si dirà qui appresso, in FS sono conservati anche i testi seguenti: Il bisogno dell’unità; Sul complesso di Edipo; I primitivi e le categorie dello spirito; Filosofi a congresso; Sul concetto di esperienza; Costanti universali e unità di misura; Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta, tutti già raccolti nelle diverse edizioni dei frammenti colorniani. A partire da Sul concetto di esperienza, le pagine sono numerate, a mano o a macchina, in sequenza, sì da creare un complesso unico comprendente anche: II. Relatività generale (da inserirsi dopo Relatività ristretta), e di seguito: Sull’assiomatica delle leggi della meccanica e Geometria ed esperienza. In FS sono inoltre presenti due ulteriori scritti di argomento economico: Batti, ma ascolta! e Ritroso a Commodo: meno compiuti degli altri, essi saranno da me trascritti in un volume di prossima uscita. Già nella nota introduttiva a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella edizione Einaudi alle pp. 322-342, si ricostruiva, anche grazie agli elenchi dei titoli stesi da Ursula Hirschmann per Rossi-Landi, la genesi degli scritti economici colorniani, che qui ci si limiterà dunque ad integrare con quanto emerge dai titoli presenti in FS. Dello psicologismo in economia risulta composto da tre blocchi. Il primo, intitolato È possibile costruire una scienza economica indipendente da premesse psicologiche e sociologiche?, è citato anche nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica fra i possibili «Articoli e saggi», e prosegue dall’inizio del dialogo fino al terzo capoverso: sarebbe una differenza di grado e non di natura. Del secondo (Robbins considera), che comincia subito dopo il primo e termina in ivi, E m’invita a prendere tutto l’argomento non troppo sul serio»), è conservato in FS il solo ultimo foglio, del quale così scriveva Silvio Ceccato a Somenzi il 5 febbraio del 1943: «Ho guardato fra le carte di Colorni. Spaiato trovo un foglio, numero 5, che mi sembra appartenere al dialogo fra Commodo e Severo [che in effetti è l’interlocutore di quella parte del dialogo]. Se vuoi te lo mando, o lo do a Vaccarino. Altro non c’è, mi sembra, che possa interessarti. Stampa pure. Quando hai ben deciso, fammelo però sapere, che, per cortesia, ne avvisi la sorella» (FS, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, 1, Sigma Analysis, b. 5, Analysis Methodos (Ceccato). Il terzo blocco, Vedo che riprendi (cfr. C., Dello psicologismo in economia), rappresenta il nucleo centrale e la con- Geri Cerchiai 18 clusione del dialogo. Per quanto riguarda i titoli di FS: Ritroso a Commodo – come si evince dai numerosi riferimenti a Vedo che riprendi – prosegue il dialogo già iniziato in quest’ultima parte di Dello psicologismo in economia; Commodo a ritroso è la risposta a Vedo che riprendi; Batti ma ascolta è l’«accluso foglietto» menzionato in Commodo a Ritroso. Le note in calce ai testi sono tutte del curatore. Desidero Ringraziare Giovanni Battimelli, Responsabile del Fondo Vittorio Somenzi, e Libutti, Direttrice della Biblioteca del Dipartimento di Fisica (“Sapienza” Università di Roma), per la disponibilità e cortesia che mi hanno dimostrato durante la consultazione dell’Archivio. G. C. Cinque scritti metodologici 19 II. Relatività generale1 Se vogliamo estendere quanto si è detto per la relatività ristretta3 al caso di sistemi in movimento qualsiasi4, il problema della relatività generale diverrà quello di determinare le misure spazio-temporali per un osservatore in movimento qualsiasi rispetto ad un sistema inerziale nel quale valga la geometria euclidea. La determinazione di tali misure sarà fatta di nuovo assumendo come fissa la distanza fra due punti5, e come costante la velocità della luce. In linea generale risulterà che la geometria tridimensionale del sistema in questione non sarà euclidea. Viceversa dovrebbe essere dimostrabile che se le misure assunte da un osservatore col metodo di cui sopra, danno luogo ad una geometria non euclidea, si potrà sempre trovare un sistema i cui punti siano mossi rispetto all’osservatore in questione in modo tale che la sua geometria sia euclidea. In tale sistema non vi sarà alcun campo gravitazionale. Una tale impostazione del problema differisce un poco da quella classica della relatività generale. Non si tratta qui di trovare una formulazione delle leggi di natura che sia invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, e quindi di attribuire ad ogni sistema la geometria richiesta dal campo gravitazionale in esso vigente, ma piuttosto di trovare le trasformazioni che permettono di passare da un sistema ad un altro qualsiasi6, avendo assunte per tutti i sistemi determinate convenzioni7 riguardo alle misure spazio-temporali; e questo senza fare alcuna ipotesi riguardo alla forma delle leggi naturali. 1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, Sigma Analysis, b. 6, Articoli, Il titolo è cancellato nel dattiloscritto, così come è barrata la numerazione “5” (a penna) della pagina, numerazione che, insieme con quella romana, segnava il foglio come seguito di C., Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta (cfr. la Nota del curatore), del quale lo scritto è il secondo paragrafo. 2 All’inizio del dattiloscritto sono inserite a penna delle virgolette basse (chiuse al termine del terzo capoverso), che spiegano l’intervento del quale si rende conto infra, n. 4. 3 Il riferimento è a Sull’assiomatica della teoria della relatività, che infatti è numerato: La relatività ristretta. A penna è stato qui aggiunto: «prosegue C.». 5 Cfr. E. Colorni, Sull’assiomatica della teoria della relatività. Anziché assumere come unità di misura fondamentali una lunghezza o un intervallo di tempo per poi dedurne le altre grandezze cinematiche, si potrebbe assumere come unità primitive la distanza fra due punti dati e la velocità di propagazione di un dato fenomeno». 6 Si tratta qui precisamente dell’idea di revisione del concetto di esperienza in relazione a quello di definizione che costituisce uno dei nuclei del programma metodologico colorniano. 7 Sono molti i riferimenti di Colorni al carattere convenzionale della scienza e delle sue definizioni. Riporto, per il suo carattere “generale”, quanto affermato nella Postilla al programma della rivista di metodologia scientifica (in M. Quaranta, La “scoperta” di C.): «Si tratta, in breve, di partire da una concezione “convenzionalistica” o “idoenistica” della scienza; non limitandola però, come fa in sostanza la scuola di Vienna o anche il Gonseth, alla interpretazione filosofica dei fatti scientifici; applicandola invece ai concetti basilari su cui poggia l’edificio della scienza, e mostrando come un chiarimento rigoroso delle ipotesi che sono implicite nell’assunzione di tali concetti possa trasformare effettivamente e rendere più chiare molte formulazioni scientifiche, e forse risolvere alcuni dei problemi più scottanti della scienza moderna». C. 20 Formulando in questo modo il problema, si giungerebbe probabilmente alle medesime conclusioni della relatività generale riguardo alla gravitazione; ma la nuova impostazione permetterebbe forse di aggredire in maniera diversa da quella consueta altri problemi (in particolare quello dell’elettromagnetismo). Non si tratterebbe più in questo caso di formulare le leggi del campo elettromagnetico in forma invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, ma di rendersi ragione della loro struttura, studiando sistematicamente il comportamento di cariche in movimento, mediante “Transformation auf Ruhe”. Questo saggio si riferisce a studi ancora in corso e ben lungi dalla conclusione8 ). 8 L’ultimo capoverso è barrato a penna nel dattiloscritto. L’inciso fra parentesi riprende quello analogo – non riportato nelle edizioni dei testi colorniani, ma presente nei dattiloscritti di FS – posto al termine di Sull’assiomatica della teoria della relatività. I.- Relatività ristretta, il quale recita nel modo seguente: «Questo saggio si riferisce ad un lavoro già terminato, in cui lo sviluppo qui descritto viene eseguito» (FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, Scatole grigie, 1, C. e Cotone, b. 3, C.). Sull’assiomatica delle leggi della meccanica. Il principio d’inerzia è notoriamente una definizione camuffata. Esso definisce come non soggetto ad alcuna forza il corpo dotato di movimento uniforme; quindi come soggetto ad una forza il corpo dotato di movimento non uniforme. È possibile considerare i principi della conservazione della quantità di movimento e dell’energia come delle estensioni del principio d’inerzia, cioè anch’essi come delle implicite definizioni della forza? Crediamo di sì. Consideriamo infatti un sistema di due corpi. Diremo che il sistema non è stato sottoposto all’azione di alcuna forza, non solo quando i due corpi proseguono nel loro moto rettilineo ed uniforme, ma anche quando hanno modificato tale loro moto dopo essersi urtati. Ciò che dovrà essere rimasto immutato nel sistema non sarà dunque più il moto dei due corpi, ma una funzione di tale moto; funzione che si tratta di determinare, ponendole delle condizioni derivanti da esigenze plausibili. Anzitutto si può richiedere che il mutamento provocato dall’urto nello stato di moto di uno dei due corpi sia misurato dal mutamento provocato dal medesimo urto nell’altro corpo: cioè che ciò che rimane costante nel sistema sia la somma delle funzioni in questione riferite a ciascun corpo. Individuato poi ciascun corpo mediante una costante caratteristica di esso (la sua “massa”), si può richiedere che il cambiamento provocato in un corpo successivamente da due altri corpi di uguale massa e uguale velocità, sia identico al cambiamento provocato da un corpo di massa doppia e di uguale velocità: il che equivale a dire che la nostra funzione dovrà essere della forma mf(v). Si potrà poi osservare che la funzione in questione deve poter esprimere sia un mutamento nel valore assoluto della velocità di ciascun corpo, sia un mutamento nella sola direzione: le funzioni in questione devono cioè essere due, l’una vettoriale, l’altra scalare. Infine si osserverà che, poiché due corpi in movimento uniforme rispetto ad un sistema inerziale lo sono pure rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale, la costanza delle nostre funzioni deve essere invariante rispetto a trasformazioni di Lorentz. Tutte queste condizioni limitano la scelta delle nostre funzioni in modo da determinarle univocamente; e ne risultano le espressioni relativistiche della quantità di movimento e dell’energia. Ciò è stato mostrato da Langevin2, il quale parte però da premesse un po’ diverse. Gli sviluppi precedenti possono avere un’importanza per il seguente motivo: la teoria della relatività giunge alle sue espressioni dell’energia e della quantità di movimento, partendo dalle equazioni di Maxwell, che suppone assicurate dall’esperienza. Ma il controllo sperimentale di tali equazioni suppone che si 1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole grigie, 1, C. e Cotone, Nel dattiloscritto, le pagine riportano la numerazione, a penna in rosso, da 6 a 7 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e la Nota del curatore). Langevin e un fisico francese che, non diversamente da Eddington – altro autore colorniano e griceiano – fu abile divulgatore scientifico. disponga di una definizione dell’energia e della quantità di moto. Inoltre, quando si siano definiti i principi fondamentali della meccanica indipendentemente dall’elettromagnetismo, rimane aperta la possibilità di dedurre le leggi stesse dell’elettromagnetismo servendosi di alcuni risultati della relatività, e raggiungendo così una più profonda comprensione di quelle leggi. (Anche questo articolo si riferisce a studi in corso, di cui la prima parte, riguardante la relatività ristretta e l’elettromagnetismo, è terminata; ma avrebbe carattere troppo tecnico per la rivista4.) 3 Assente nel testo. 4 Per un’analisi degli scritti colorniani sulla teoria della relatività, si rinvia a M. Quaranta, La “scoperta” di C. sulla teoria della relatività. Per l’inciso fra parentesi, cfr. supra, II. Relatività generale. La rivista è la progettata rivista di metodologia scientifica, sulla quale si rimanda ancora a quanto scritto supra, § 3. Cinque scritti metodologici 23 Geometria ed esperienza1 Gli assiomi della geometria sono delle definizioni implicite, o meglio rappresentano delle limitazioni imposte alla nostra libertà di definire gli oggetti ai quali essi si riferiscono. Tali oggetti però possono essere di due tipi: o sono tali che per ottenerne una rappresentazione concreta è necessario immaginarli realizzati da un fenomeno fisico (p. es. la linea retta realizzata dalla traiettoria di un raggio luminoso nel vuoto); in tal caso la definizione implicita negli assiomi è una definizione “reale” (Zuordnungsdefinition2 ), e gli assiomi limitano il numero degli oggetti o dei fenomeni che possono essere assunti per realizzare fisicamente quel determinato ente geometrico. Oppure l’ente geometrico in questione è tale da poter essere definito mediante un’opportuna combinazione di altri enti precedentemente definiti (p. es. l’angolo uguale ad un angolo dato può essere definito senza ricorrere ad alcuna sovrapposizione, quando sia stata definita precedentemente la distanza fra due punti); e allora gli assiomi limitano il numero degli accorgimenti che noi possiamo usare per definire quel determinato ente geometrico. Agli scopi della costruzione fisica di un sistema galileiano, è opportuno distinguere questi due tipi di definizione; e può essere utile studiare da questo punto di vista le “Grundlagen” di Hilbert3. Non è detto che si possa sempre trovare un insieme di fenomeni fisici capaci di realizzare contemporaneamente tutti gli assiomi di una geometria. Per esempio, se si vuol realizzare la geometria mediante raggi luminosi assunti co1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole grigie,1, C. e Italo Cotone, b. 3, C., . Numerato a penna 8 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e Nota del curatore). Il titolo è anch’esso sottolineato a penna con l’indicazione: a mano. A margine, scritto a matita in rosso e cancellato, alcune segnalazioni per il tipografo: «Corpo 10/10 tondo // Giustezza 27». Scrive Colorni in Filosofia e scienza. Ora, mentre la geometria definisce implicitamente gli oggetti di cui tratta, mediante gli assiomi, la fisica li definisce direttamente, mediante definizioni reali (Zuordnungsdefinitionen). Con queste parole, C. richiama il concetto reichenbachiano di Zuordnungsdefinition, per cui cfr. H. Reichenbach, Axiomatik der Raum-Zeit-Lehre, Braunschweig, Vieweg et Sohn Akt.-Ges.,; Id., Philosophie der Raum-Zeit-Lehre, Berlin- Leipzig, W. de Gruyter et Co. In una lettera firmata da Hirschmann (ma in realtà scritta da Colorni) e indirizzata a GEYMONAT (si veda) per il tramite della moglie Virginia, l’autore afferma di possedere il primo dei due titoli, e a questo rinvia per la comprensione del proprio pensiero. Noi abbiamo qui l’importante saggio di Reichenbach, “Axiomatik der relativistischen Raum-Zeit-Lehre”, che mette le cose da un punto di vista molto affine a quello che Eugenio vorrebbe sviluppare. La lettera, conservata nel Fondo Geymonat presso la Biblioteca del Museo civico di storia naturale di Milano, è citata da M. Quaranta (La scoperta di Eugenio Colorni), il quale commenta: «Ora, se è rintracciabile in Kant una nozione rigida dell’a priori, letture kantiane sviluppate in quegli anni da Cassirer e Reichenbach, in Italia da Preti, vanno nella direzione di accogliere la fecondità del “metodo trascendentale”; le indagini epistemologiche di Colorni si inseriscono in questa linea di ricerca. Questo capoverso, da Agli scopi fino a Hilbert, è cancellato a penna nel testo dattiloscritto. Il riferimento è ai Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della geometria) di Hilbert. me rettilinei e di velocità di propagazione uniforme, non è detto che risulti verificato l’assioma di Euclide; e questo assioma, se è verificato per il sistema costruito da un determinato osservatore, necessariamente non è verificato per il sistema costruito da un altro osservatore, dotato rispetto al primo di movimento non uniforme. Cinque scritti metodologici Programma1 Supponiamo che l’uomo viva in un palazzo le cui porte sono tutte chiuse. Egli non ha le chiavi. Cioè egli ne possiede un mazzetto, ma non sa se esse si adattino alla serratura, né quale chiave a quale serratura. Prova, riprova, si costruisce nuove chiavi nella continua speranza di potere un giorno abitare tutto il palazzo. Lo scienziato è un uomo al quale è riuscito di aprire una porta. Una chiave, per sua fortuna, o per sua abilità, ha girato nella toppa. Egli apre, e trova nella camera immensi tesori, li utilizza3, li mette a disposizione degli altri uomini che lo ringraziano ammirati. Da quel momento4 la camera è accessibile a tutti. Entusiasmato, lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte5. La chiave comincia a diventare uno strumento pericoloso nelle sue mani. Egli la vuole usare dappertutto. Il risultato è che sfonda le serrature. Ci vorrà6 poi una gran fatica per accomodarle e per trovare o costruire una nuova chiave che permetta di aprirle (Fuor di metafora: p. es. la medicina è stata rovinata per secoli dall’ossessione del metodo meccanicistico, che aveva fatto meraviglie nel campo della fisica. E si è voluto risolvere tutto a base di anatomia, di rapporti e di modificazioni di tessuti. Nella maggioranza dei casi non si è cavato un ragno dal buco). Il filosofo, invece, cosa fa? Egli non ha avuto la fortuna o l’abilità di aprire una porta, ma anche lui è preso dall’ossessione di aprirle tutte. Con la chiave9 dello scienziato o con un’altra di sua fattura. La sua ossessione è forte, meno pericolosa10 che quella dello scien1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929- 2000, 2, Scatole grigie, 1, C. e Italo Cotone, b. 3, Colorni. Nel dattiloscritto un primo titolo, barrato, recita come segue: «SCIENZA E MATERIALISMO // È un caso che tutti gli scienziati tendano ad essere materialisti? // PROGRAMMA». A margine, scritto a penna, il titolo è fissato così: «SCIENZA E REALISMO». Un asterisco rimanda alla seguente nota manoscritta: «(V[edi]. l’“Apologo su quattro modi di filosofare”, altro inedito di C., in Sigma. Sempre a margine, si ha l’indicazione di stampa, a penna: «Corpo 10 tondo 11 // giustezza – 10 su 12. Poiché lo scritto si discosta spesso – nella forma, mai nella sostanza – dalle precedenti edizioni (nelle quali esso risulta per altro incompiuto), è parso utile indicare in nota le differenze fra le diverse versioni. Per questo stesso motivo ho talvolta esplicitato le correzioni e gli interventi sul dattiloscritto. La sigla FS rimanda al testo presente fra le carte di Somenzi; la sigla E a quello dell’edizione Einaudi. Benché sia barrato, e per consentire una più chiara identificazione, si è preferito mantenere il titolo Programma. 2 per sua fortuna, o per sua abilità FS: per sua fortuna o per sua abilità E. 3 immensi tesori, li utilizza FS: immensi tesori. Li utilizza Di seguito nel testo di E. 5 lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte FS: lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte E. 6 le serrature. Ci vorrà FS: le serrature, ma ci vorrà E. 7 (Fuor di metafora FS: di aprirle. (Fuor di metafora E 8 Il filosofo, invece, FS: Il filosofo invece, E aprirle tutte. Con la chiave FS: aprirla con la chiave E. 10 è forte, meno pericolosa FS: è forse meno pericolosa E. Eugenio Colorni ziato, ma più intensa. Per lo scienziato essa è necessaria accessoria11. Il massimo sforzo è già stato compiuto12 nel trovare la chiave. Il tentativo di allargamento è spesso solo abbozzato. Il filosofo, invece, è tutto fatto di questo bisogno. Egli è abbastanza accorto per avvedersi che il correre da una parte13 all’altra con la medesima chiave si risolve in un danno e in un disordine. Egli vuole soddisfare alla sua esigenza in un modo sistematico, che non lasci residui. La sua ossessione è che il palazzo sia completamente abitabile, aperto in tutte le camere, dai saloni ai ripostigli. Che cosa fa per soddisfarsi? Si costruisce un palazzo a suo uso e consumo, simile il più possibile a quello vero, in cui tutte le serrature siano apribili con una sola chiave, o con le varie chiavi che ha a sua disposizione. Lì si rinchiude; lì15 gli sembra di vivere tranquillo. Ma il palazzo è di cartapesta. In poco tempo crolla. Le camere sono identiche a quelle dell’altro palazzo, ma sono vuote. Il poterle aprire non dà all’uomo maggior ricchezza e maggior17 potenza. A volte avviene che nel lavoro di costruire, al filosofo venga fatto di scoprire o inventare una chiave nuova, che gli altri uomini possono usare, e provare nelle varie serrature. In questo caso egli sarà ammirato e studiato solo per questa invenzione fortuita o strumentale, che nelle sue intenzioni non doveva essere che un dettaglio del grande edificio. E il grande edificio scompare. Dopo un secolo nessuno ci crede più, nessuno può più abitarvi dentro. Lo si considera come un bel rudero, come l’interessante documento di un’epoca; lo si apprezza per un certo impulso che indirettamente, nei coi suoi contorni, ha dato alle lotte e alle ricerche dell’umanità. Gli storici, gli esegeti, cominciano a scuoterlo per vedere se, non potendosene più servire in blocco, non si trovi del buono fra il materiale della costruzione. E cominciano a distinguere “ciò che è vivo e ciò che è morto” e a manipolare il sistema ai propri fini. Ne risulta che ogni pensatore viene, di regola, apprezzato dai posteri per motivi che egli non avrebbe immaginato e che sono estranei alle sue intenzioni fondamentali. Quello che egli aveva creduto il suo vero apporto alla cultura e alla civiltà viene considerato inutile. Il dispendio di energie è enorme. Vediamo gli uomini più intelligenti dell’umanità dirigere tutti i loro sforzi per raggiungere mete che andranno poi completamente perdute; e 11 necessaria accessoria. FS: accessoria, sopraggiunta. E.  già stato compiuto FS: già compiuto E.  parte FS: porta E. 14 sola chiave, o con FS: sola chiave o con E. 15 Lì si rinchiude; lì FS: Là si rinchiude, là E. 16 di cartapesta. In poco tempo crolla. Le FS: di cartapesta, non di mattoni veri. In poco tempo crolla, si disfa. Le E. 17 ricchezza e maggior FS: ricchezza o maggior E. scoprire o inventare FS: trovare E. 19 possono usare, e provare nelle varie FS: possono usare nelle varie E. 20 rudero FS: rudere E. 21 nei coi suoi FS: nei suoi E.  scuoterlo FS: smontarlo E. ogni pensatore viene, di regola, apprezzato FS: ogni pensatore (come spesso anche ogni poeta) viene di regola apprezzato E. 24 immaginato e che FS: immaginato, e che E. Cinque scritti metodologici: 27 siamo costretti a racimolare con fatica alcuni residui del loro lavoro. Nella25 scienza le cose sembrano andar meglio. Siamo per lo meno nel palazzo vero, dove le camere sono piene di ricchezze; e là dove la chiave ha aperto la porta, la potenza dell’umanità ne è stata infinitamente aumentata. Ma se la porta non si apre? Dai Greci al Rinascimento, per duemila anni, gli uomini si sono affaccendati a costruir26 chiavi di tutti i generi e magnifici palazzi di cartapesta. Ma nessuna porta dell’edificio vero si è aperta ai loro sforzi. Da Galilei e Bacone27 in poi, alcune sembrano cedere. Una, quella28 del meccanicismo fisico si è addirittura spalancata. Ma quante restano ancora chiuse[!]?29 Quale sarà per esse la chiave giusta? L’abbiamo già in mano o dobbiamo ancora costruircela? E come sfuggire alla continua tentazione di usare per ogni porta quella che ha fatto una volta buona prova, col rischio di rovinare tutto? La filosofia odierna, anziché costruire bei palazzi di cartapesta, dovrebbe proporsi il compito di affacciarsi a questi problemi, e tentare di mettere un certo ordine, allo scopo di evitare sforzi inutili e raggiungere risultati il più possibile concreti. Dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine coi quali noi affrontiamo il reale e cerchiamo di renderlo utile ai nostri usi. Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano31 radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato. Ciò che noi chiamiamo realtà è evidentemente condizionato non solo dai nostri sensi, ma da tutto l’insieme delle forme, delle categorie, dei criteri associativi e interpretativi senza dei quali non ci è possibile di pensare e di percepire alcunché. Criteri che noi potremo studiare, scomporre, modificare; senza però poter mai uscire dal campo di un’attività del soggetto costitutiva della realtà stessa. Noi34 non possediamo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, alcun nesso mezzo per eliminare il sole lato35 soggettivo della nostra nozione della realtà; anzi abbiamo seri elementi per propendere a ritenere che la nozione di una realtà oggettiva, da noi indipendente,36 sia un’ipostasi della nostra mente,37 do25 A capo in E. costruir FS: costruire E. Da Galilei e Bacone FS: Da Galileo a Bacone E. Una, quella FS: Quella E. 29 Chiuse[!]? FS: chiuse! E. 30 d’indagine a penna nel testo FS: ermeneutici E. che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano FS: che – ormai ciò è chiaro a tutti – trasformano E.  Queste righe, e quelle immediatamente successive, rappresentano una sorta di compendio della filosofia colorniana, ossia del ruolo essenzialmente critico-metodologioco che, muovendo «dalla grande scoperta kantiana» (E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 240), essa dovrebbe svolgere. A capo in E.Di seguito in E. alcun nesso mezzo per eliminare il sole lato a mano nel testo FS: alcun mezzo per eliminare il polo E. 36 oggettiva, da noi indipendente, FS: oggettiva da noi indipendente E. 37 mente, FS: mente E. C.  vuta ad un nostro fondamentale bisogno di contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci contro qualche cosa, di polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un passivo ed un attivo. Vedi Fichte (Trascendenza interna)38. Ciò che chiamiamo realtà non è dunque né l’oggetto né il soggetto39, ma alcunché nella costituzione del quale il soggetto, con i suoi criteri e le sue categorie, ha una gran parte e41 che noi, per comodità di studio, consideriamo per un istante come dato di fronte a noi, coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi qualche cosa cui partecipiamo noi stessi. Ora questo “qualche cosa” gli uomini si sforzano di manipolarlo ai loro usi, di penetrare nella sua costituzione, di prevedere il suo divenire, di costruire in base alle previsioni. A seconda che si accentui il carattere oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo consideriamo un “penetrare nelle leggi della natura” oppure un estrarre dalla natura un certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, un cedere alla natura” o un “farle violenza”, e si chiamano positivisti o pragmatisti. Ma questa distinzione riguarda il significato metafisico dell’attività umana, non la sua conformazione, i suoi procedimenti, il suo fine: che è ciò che c’interessa qui di indagare per contribuire al progresso dell’umanità46. Lo scienziato non conosce concretamente un problema del carattere pratico e teorico47 della sua attività. Egli non si domanda mai, seriamente, se ciò che lo spinge alla ricerca sia il “bisogno di sapere” inteso come fine a sé stesso, o la speranza che gli uomini possano ricavare un utile dalla sua scoperta. Egli si dedicherà secondo la sua attitudine ad un campo più vicino alla ricerca pura o più vicino alle applicazioni. Ma nella sua mente ricerca e applicazione costituiscono un tutto unico di cui solo per comodità di studio e per la necessità della divisione del lavoro egli scinde a volte le parti. La scoperta si considera come la naturale, evidente premessa dell’invenzione:51 l’invenzione come la conseguenza della scoperta. L’antitesi positivismo-pragmatismo non ha senso per lo scienziato, e non moVedi Fichte (Trascendenza interna) FS: (Vedi Fichte, Trascendenza interna) E. Su questo aspetto della metodologia colorniana, si legga quanto affermato da Ferruccio RossiLandi, che rileva fra l’altro, negli scritti colorniani, la presenza di «quel disimpegno dalla visione realistica del mond che è merito della migliore critica idealistica, soprattutto negli sviluppi dell’attualismo» (Su i saggi di C., in «Rivista critica di storia della filosofa né l’oggetto né il soggetto FS: né il soggetto né l’oggetto  il soggetto, a mano nel testo FS: l’uomo parte e FS: parte; e E. A capo in E. un estrarre dalla natura un certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, FS: un “estrarre dalla natura un certo numero di elementi, regolarli per usarli a loro vantaggio”; E. 44 “un cedere FS: un “cedere E. 45 violenza”, e FS: violenza”. E E. 46 per contribuire al progresso dell’umanità FS: per raggiungere risultati utili e teorico FS: o teoretico sé FS: se E. 49 dedicherà secondo la sua attitudine ad FS: dedicherà, secondo le sue attitudini, ad E. Ma nella sua mente ricerca FS: Ma, nella sua mente, ricerca  dell’invenzione: dell’invenzione; E. Cinque scritti metodologici: difica in nulla il suo agire. Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che egli ha di fronte a sé e della quale sono elementi costituenti alcune “forme” e “categorie” che provengono dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela rendono comprensibile e afferrabile. Di queste forme o categorie egli ne considera alcune come appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di fuori di sé. Quali sono? Sono quelle cui egli si sente necessariamente legato, di cui non può in alcun modo fare a meno, senza le quali gli sarebbe impossibile vedere e pensare. Kant ne ha elencato5 alcune: spazio, tempo, causalità, numero ecc. Egli ha riconosciuto sì che esse vengono imposte alle cose dallo spirito dell’uomo; ma col dare ad esse un carattere necessario ed a priori, ha ammonito gli uomini sulla impossibilità di uscire da esse. Infatti gli uomini comuni, senza preoccuparsi della loro provenienza e accontentandosi del fatto che di quelle categorie non si può fare a meno, le attribuiscono senz’altro alla realtà. Ma l’osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive; e la curiosità di vedere al di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta sempre più intensa. Si può dire che la filosofia si sia scissa a questo proposito in due opposte direzioni, a seconda che l’ammonimento di Kant sia stato seguito o no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati60 hanno continuato a considerare le categorie come reali, e a lavorare in un mondo costruito sulla base di queste categorie, contentandosi a volte di mantenere nello sfondo l’ombra di un inconoscibile (Spencer, positivisti), oppure62 di acquisire coscienza della relatività dei loro sforzi, limitando63 il compito della scienza alla costruzione di ipotesi semplici e maneggevoli (Poincaré, pragmatisti). Su questa via essi hanno continuato ad ottenere un buon numero di successi, proseguendo quell’indagine e quello sfruttamento della natura che era cominciato con Galilei e Newton, e che consisteva nell’uso sistematico di quelle categorie che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche tempo l’impressione che il campo stia per esaurirsi e che non restino da fare in questa direzione se non scoperte particolari di importanza ristretta. I filosofi invece, insofferenti di qualsiasi dualismo o relativismo, e preoccupati di saldare l’unità del reale, preferiscono eliminare la tentazione del52 A capo in A capo in E. 54 impossibile FS: assolutamente impossibile E.  elencato FS: elencate E. spazio FS: Spazio E. numero ecc. FS: numero, ecc. E. A capo in E. filosofico FS: filosofico scientifico E. 60 no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati FS: no. (I) Fra quelli che l’hanno seguito gli scienziati E. categorie, contentandosi FS: categorie; contentandosi  positivisti), oppure FS: positivisti); oppure E. sforzi, limitando FS: sforzi; limitando E. 64 Newton, e FS: Newton e  di FS:, di  I filosofi invece, FS: (b) I filosofi, invece, C. 30 la “cosa in sé” col negarne addirittura l’esistenza; e attribuire realtà assoluta al pensiero nella sua forma universale68. In tal modo essi soddisfecero contemporaneamente all’esigenza Kantiana69 di non uscire dalle leggi del pensiero e al bisogno tipicamente filosofico di risolvere senza residui il problema della realtà; incuranti d’altronde se questo loro sistema li conducesse o no a un qualsiasi risultato apprezzabile che non si limitasse alla soddisfazione del loro bisogno di completezza. Coloro invece71 che “hanno disubbidito” sembrano a tutta prima disprezzare l’ammonimento di Kant e trascurare i limiti da lui posti: ma in realtà sono essi suoi figli molto più che gli ubbidienti. Quel limite, quella barriera appunto li ha eccitati ad andare al di là: ha indicato loro la direzione verso cui rivolgersi Cominciamo74 questa volta dai filosofi. a) - Il filosofo vuol gustare il frutto proibito. Ma egli sa oramai che non potrà mai raggiungerlo con le categorie, con75 le quali Kant gli ha indicato così chiaramente i limiti. Egli abbandona per sempre le illusioni della metafisica e della teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed76 è alla continua ricerca di un altro strumento che gli permetta di raggiungere il suo scopo. Volontà, fede, intuizione, ispirazione: in una parola l’irrazionale è ciò cui egli si affida. Ad esso egli attribuisce tutte le possibilità che mancano alle categorie della ragione. Con esso egli afferma di poter aprire tutte le porte del palazzo. Ma che garanzie gli dà la nuova chiave? Semplicemente di non essere79 la vecchia. Ogni interpretazione irrazionalistica del mondo, là dove non consista in esplosioni di entusiasmo, è una polemica contro l’impotenza della ragione. Polemica spesso acuta e giusta, ma che non costituisce un motivo bastante per accettare come criterio definitivo tutto ciò che ragione non è. Le80 esplosioni d’entusiasmo81, invece, sono a volte più interessanti e fruttifere. Esse ci permettono di penetrare, sia pure in modo confuso, nella costituzione interna di queste attività irrazionali; di conoscere un po’ meglio quali siano i loro procedimenti. Ciò che ha paralizzato però tale indagine e non le ha permesso di dare finora se non scar e FS: ed E. Evidente riferimento all’idealismo nei suoi diversi modelli. 69 Kantiana FS: kantiana E. 70 se FS: che E. 71 Coloro invece FS: (2) Coloro, invece, E. disubbidito” FS: disubbidito”, E. appunto FS: appunto, E. 74 Di seguito in E. 75 categorie, con FS: categorie delle E. 76 teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed FS: teologia – cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione – ed E. 77 parola FS: parola, E. 78 A capo in E.  essere FS: esser E. A capo in E. d’entusiasmo FS: di entusiasmo E. Cinque scritti metodologici: 31 sissimi risultati,82 è che tali attività sono sempre state descritte appunto col presupposto e con l’esigenza di attribuire ad esse un valore assoluto, molto superiore a quello della ragione. Preconcetto il quale ha naturalmente deformato la descrizione ed ha impedito qualsiasi seria indagine sull’uso che di questi atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare. Anche qui la fretta di chiudere il circolo e il bisogno filosofico di rinchiudersi in un edificio abitabile in tutte le sue parti ha impedito di compiere qualsiasi vero progresso. E le interpretazioni irrazionalistiche della realtà si sono succedute l’una all’altra senza condurre l’umanità ad alcuna conquista stabile. È questo un fenomeno che si ripete da secoli; ché la constatazione delle insufficienze della ragione e il tentativo di affidarsi ad attività irrazionali non data da Kant, ma è vecchio, si può dire, quanto la nostra civiltà. E la massa di esperienze che si è venuta raccogliendo è83, se non ordinata, pure imponente; e dà l’impressione di una grande miniera inesplorata85 in cui il materiale prezioso è unito con le scorie. Siamo qui ad uno stadio di evoluzione e di sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo della ragione. Il materiale della ragione è stato esplorato a fondo, inventariato, ordinato dal pensiero greco e dalla scolastica. Con Galilei e Newton ha trovato il campo cui applicarsi, conducendo ai vastissimi risultati che conosciamo. Kant infine88 ne ha tracciato i limiti segnando insieme (forse un po’ in anticipo) l’esaurirsi della miniera dal89 quale esso traeva ricchezze. Il campo dell’irrazionale probabilmente comprende regioni infinitamente più vaste che quelle della ragione, contenenti materiale dal carattere più eterogeneo, atto agli usi più disparati. Il fatto solo che siamo abituati a classificarlo secondo la rubrica negativa del “non rientrare nella ragione” ci mostra lo stato disordinato delle nostre conoscenze al proposito. Ordinare questo mondo in modo che ci possa servire, analizzarlo con mente tranquilla e senza preconcetti entusiasmi od avversioni, liberarlo dal continuo incubo del confronto con la ragione ed infine tentare se alcuni dei dati così ottenuti ci possono90 servire come criterio per risolvere qualche problema, come chiave per aprire qualche porta: ecco il compito che s’impone oggi alla nostra indagine91. Va92 da sé che i metodi da usarsi non saranno i medesimi che si sono usati per il mondo razionale: e che l’ordine ottenuto non assomiglierà neppure da lontano a quello che noi conosciamo nel campo logico-matematico. La parola 82 risultati, FS: risultati E. raccogliendo è, FS: raccogliendo, è, E. 84 imponente; FS: imponente: E. 85 inesplorata FS: inesplorata, E. 86 unito FS: misto E. 87 A capo in E. 88 Kant infine FS: Kant, infine, E. dal FS: dalla possono FS: possano Nietzsche», afferma C. in Critica filosofica e fisica teorica aveva indicato, con acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi lo seguì col pacato distacco dell’indagatore, ove il riferimento è chiaramente al metodo psicoanalitico. Di seguito in E. Eugenio Colorni stessa “ordine” non vuole avere qui che un significato analogico. Si tratterà di attingere nel mondo stesso dell’irrazionale per trovare in esso dei punti intorno a cui quella materia possa coagularsi e offrirci dei punti di appiglio per essere da noi usata. Sarebbe assurdo e avventato dare qui direttive e indicazioni. La riuscita di questo lavoro dipenderà dalla fantasia e dal fiuto di chi lo compie, dalla sua capacità di servirsi liberamente di esperienze fatte in altri campi senza lasciarsene suggestionare, dalla mobilità e ricchezza della sua facoltà di combinazione. Il risultato massimo sarà di mettere l’umanità in possesso di una o più nuove chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale o, se preferite, di costruire nuovi sistemi di concordanze che si offrano al nostro uso e ci permettano di soddisfare alcuni nostri bisogni. b) - Lo scienziato che dalla messa a punto kantiana ha ricevuto l’impulso ad andare al di là delle categorie, non s’indugia però nella ricerca dell’irrazionale, che non offre, finora, alcuna presa ai suoi metodi. La sua mentalità è ancora imperniata completamente sul razionalismo logico-matematico, che ha permesso ai secoli scorsi di compiere le grandi scoperte di cui vive la nostra civiltà. Ed il superamento che egli vuol compiere non98 è un superamento di principio, trasportandosi di un salto in un mondo completamente diverso, ma graduale, volta a volta seguendo le esperienze che non sono giustificabili mediante le leggi finora conosciute. Egli non si domanda quale sia la realtà assoluta che si cela agli occhi degli uomini dietro il velo delle categorie; ma piuttosto come sia possibile apprendere e organizzare il materiale secondo categorie che siano diverse da quelle finora usate. In questo senso egli è molto meno realista che il del filosofo idealista o mistico o che lo dello scienziato positivista. E in questo senso si può quasi dire che egli porti una conferma sperimentale, se non alla necessità a priori delle categorie kantiane, almeno alla dottrina kantiana delle categorie. Lo scienziato di regola non ha letto Kant. dei FS: quei E.  campi senza FS: campi, senza E. concordanze FS: concordanza E. E. logico-matematico, che FS: logico-matematico che compiere non FS: compiere, non E.  di un FS: d’un E. e FS: ed E. che il del FS: che il E. 102 che lo dello FS: che lo E. Proprio in questo comune punto di arrivo», scrive Colorni in Critica filosofica e fisica teorica trattando delle diverse forme della filosofia e della epistemologia postkantiane, «in questa medesima esigenza, in questa eguale preoccupazione di raggiungere una base stabile cui si possa attribuire un valore obbiettivo, tali diversi modi di procedere riconoscono forse tra di sé quella parentela di premesse e di fini che permette loro di attribuirsi il nome comune di filosofia. La scienza, al contrario, e precisamente perché figlia della rivoluzione kantiana, rifiuterà al contrario di operare secondo il criterio delle affermazioni di verità per muoversi attraverso un procedimento di composizione e scomposizione della propria materia. sperimentale, se FS: sperimentale se E. 105 Kantiane FS: kantiane E. Kantiana FS: kantiana E. Cinque scritti metodologici. Ma l’atmosfera diffusa del Kantismo e la nozione stessa della categoricità del reale gli suggeriscono di porsi, di fronte ad una nuova esperienza inspiegabile, nell’atteggiamento di colui che attribuisce tale inesplicabilità alla violenza che le categorie tradizionali operano sulla ricerca organizzando ogni dato secondo le loro forme. Dal quale atteggiamento deriva direttamente il tentativo di modificare le categorie e provarle di nuovo, così modificate, sul metro della interpretazione scientifica. Modificare, ho detto, non abolire. Qui si mostra la modestia dello scienziato, il suo voler provare una dopo l’altra le chiavi, il suo volontario limitare il proprio orizzonte. Da quando egli si è accorto di usare delle categorie nella formulazione delle sue leggi, è continuamente tentato di provare che cosa avverrebbe se queste categorie fossero fatte altrimenti. Come si comporterebbero i fenomeni in uno spazio che non sia quello euclideo? Materia, energia, sostanza, causalità. Che aspetto avrebbe un mondo in cui queste categorie si presentassero con caratteri diversi da quelli che hanno finora avuto? L’elemento a priori del reale, divenuto cosciente nell’uomo, comincia ad eseguire un gioco di spostamenti, di retrocessioni, di modificazioni tale da trasformare completamente l’immagine della realtà sulla quale gli uomini lavorano: come un obbiettivo che abbia imparato ad aprirsi e a chiudersi, a mettersi a fuoco a seconda delle esigenze dell’oggetto da ritrarsi. E se da un lato si può dire che questo accomodamento delle categorie viene imposta dalle modalità della ricerca scientifica, cioè dalle esperienze e dalle osservazioni che non è possibile far rientrare nelle categorie finora usate (cioè quelle dell’universo newtoniano), d’altro lato è avvenuto forse che gli scienziati, tratti dalla vaga sensazione di essere sul punto di crearsi nuovi strumenti per l’apprensione del reale, fossero attratti appunto da quelle esperienze che dei nuovi strumenti potessero aver bisogno. L’esperienza non è mai evidentemente qualche cosa di puramente passivo, e vi è sempre un motivo perché lo sperimentatore raccolga la sua attenzione su di un fatto piuttosto che su di un altro108. Comunque se la conformazione delle singole categorie è stata fortemente modificata dalla scienza moderna, non è stata modificata, anzi è stata rafforzata la coscienza della categoricità del reale. Il filosofo può giungere con ragione alla conclusione che le nuove teorie fisiche non hanno intaccato la concezione Kantiana del mondo. Noi diremmo che esse hanno tratto da quella concezione le uniche conseguenze che aprono alla mente umana nuove indefinite prospettive di ricerca. Le quali non consistono in una vaga e problematica evasione dalle categorie, ma in una tranquilla accettazione del fatto che non è possibile prescindere da una “categoricità”. Accettazione che permetta però la continua revisione delle esistenti. Kantismo e la nozione stessa FS: kantismo e la nozione stessa E. Da questo punto comincia la conclusione assente nelle precedenti edizioni del testo. Sulla revisione colorniana del concetto di esperienza, cfr. supra § 3. 109 C. non si astiene mai dal sottolineare, nei suoi scritti metodologici, «quanto vantaggio derivi alla scienza stessa dall’eliminazione del suo substrato metafisico-finalistico» (C., Del finalismo nelle scienze. Cfr. p.e. Id., Critica filosofica e fisica teorica. Non c’è miglior propaganda per un nuovo atteggiamento intellettuale e morale che il fatto che esso si dimostri una chiave capace di aprire molte porte nel campo della scienza e della conoscenza». C. 34 categorie; cioè di quelle categorie dalle quali la mente umana al suo stato attuale non può prescindere. Non è forse inutile precisare che tale revisione non ha nulla a che fare con quelle discussioni sulle classificazioni delle categorie di cui i filosofi così spesso si dilettano. Non si tratta affatto di discutere se le categorie siano dodici o dieci, o quattro o una. Se il “finalismo” costituisca una categoria a sé o rientri in un’altra. Se l’“economico” e l’“estetico” siano modi autonomi o meno di considerare le cose. Non si tratta di organizzare le forme conosciute del pensiero, e accordarsi su quali si debbano considerare originarie, quali derivate. Il lavoro da compiersi è molto più profondo e creativo. Si tratta di dare allo spirito umano la possibilità di vedere le cose in modo completamente diverso da quello usato finora; di fornirlo di un nuovo senso, mediante il quale egli possa scoprire cose finora sconosciute, risolvere problemi finora insolubili. L’atteggiamento “critico” in senso kantiano si mostra così come l’ultima fase di tutta un’epoca e di un modo di prendere contatto col reale. La scienza messa nella possibilità di prendere piena coscienza non solo dei propri metodi, ma delle premesse necessarie di ogni sua costruzione, riceve da ciò l’impulso a superare tale necessità ed a crearsi premesse nuove. Il lavoro che qui compie lo spirito non ha solo i caratteri di una ricerca intellettuale. Ne fanno parte alcuni atteggiamenti che possiamo raccogliere sotto il nome generico di morale. Si tratta di uno sforzo violento contro un modo di considerare le cose cui tutto ci tiene legati, di tendenze alla liberazione, di salti fuori dal mondo cui si apparteneva. Si cerca di rifarsi una “nuova mentalità”, di vedere le cose con occhi diversi, di ritornare semplici, di rifiutare le costruzioni già fatte. Ci si affida alla fantasia, all’invenzione, all’intuizione, per immaginarsi mondi diversi da quello che siamo abituati a vedere. Tutti questi movimenti di conversione dello spirito, che siamo abituati [ad] attribuire al mistico o all’uomo desideroso di purificazioni o di visio. È questo il tema affrontato fra l’altro nel dialogo di Commodo dedicato a Dell’antropomorfismo nelle scienze, là dove C., stabilendo la necessità di rovesciare l’umana tendenza a ricreare una natura fatta a propria immagine e somiglianza, distingue due differenti forme di antropomorfismo, a seconda che si sia o meno consapevoli – e si sappia quindi controllarne i risultati – della nostra impossibilità di prescindere dalla “categoricità del reale”: il primo antropomorfismo è «una constatazione, o meglio una necessità, dalla quale non siamo riusciti a uscire, l’altro è invece una esigenza. Ora io odio le esigenze. Non ho nemmeno alcun motivo di amare le necessità, ma da queste non vedo alcun modo per liberarci, se non illusoriamente. Evidente riferimento allo storicismo crociano, su cui Si mostra qui, in tutta la sua originalità, il senso più profondo che Colorni attribuisce al kantismo all’interno della storia del pensiero filosofico e scientifico della modernità. C., Critica filosofica e fisica teorica, ove si sottolinea il carattere essenzialmente morale che caratterizza il primo impulso alla scoperta scientifica: «alla base di ogni grande scoperta, di ogni rivoluzione nel campo della scienza, c’è una conquista morale; l’abbattimento di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le pieghe della nostra anima, di cui è estremamente difficile accorgersi, estremamente doloroso liberarsi; idolo fatto per lo più di un cieco ed infantile amore per noi stessi, di un bisogno di sentirsi circondati da forze a noi congeniali, di veder ripetuto nell’universo, nella realtà oggettiva, ciò che sperimentiamo nel nostro intimo». Cinque scritti metodologici: 35 ni, non devono essere stati estranei a chi si è sforzato per il primo di immaginare la terra rotonda anziché piana, o il sole immobile e non la terra in mezzo ai pianeti, o lo spazio a quattro e non a tre dimensioni. Solamente che mentre il mistico suole descrivere molto accuratamente il processo della conversione, ma si ferma solo ad esso e non ci dà alcuna garanzia quando comincia a parlare di ciò che egli trova “al di là”, lo scienziato invece compie la conversione silenziosamente, spesso quasi inconsciamente; ma giunto al di à, cioè al nuovo punto di vista, è sollecito ad occuparsi solo di ciò che sia non dico vero in senso assoluto, ma usabile, cioè organizzabile in un ordine, in una legge. E per giungere a ciò escogita esperimenti e controlli che gli diano la garanzia di camminare su un terreno sicuro, sul quale sia possibile ai suoi strumenti di far presa. L’“al di là” non è affatto una negazione del di qua, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie che pretendono di essere più vaste, di comprendere in sé anche le vecchie. Rotondo anziché piano, meccanismo anziché finalismo, probabilità statistica anziché determinazione causale. La validità delle nuove chiavi è determinata dal loro uso, cioè dalla maggiore o minore possibilità che esse offrano di spiegare fenomeni, di risolvere problemi, di formulare leggi. La maggiore difficoltà consiste nell’abituarsi al nuovo modo di vedere. Non esiste neppure un vocabolario che permetta di esprimere le cose nei termini delle nuove categorie, e si è comunemente costretti a ricorrere a metafore tratte dal mondo vecchio. Gran parte del lavoro, nei primi tempi, consiste nell’escogitare una formula di trasformazione che permetta di passare agevolmente dai termini delle vecchie categorie a quelli delle nuove. Come le leggi della prospettiva mi permettono di rappresentare su un piano ciò che ha un volume nello spazio, così le “trasformazioni di Lorentz” mi permettono di usare gli strumenti a mia disposizione (calcolo, misura, ecc.) nello spazio normale, per il nuovo spazio einsteniano; analogamente la psicanalisi tenta di tra Il dominio della natura è divenuto così il prezzo dell’incredulità. È come se la grazia venisse a toccare proprio colui che ha cessato di sperarla. Il coraggio di riconoscersi abbandonato da Dio, di rinunciare ad essere il centro e lo scopo dell’universo, apre immediatamente l’occhio agli uomini, li arricchisce d’un immenso patrimonio. A bella posta abbiamo espresso queste cose in un linguaggio mistico. Quando Kant parla di rivoluzioni dovute all’ardimento di un sol uomo, di illuminazioni subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi brancolava alla cieca, c’è in lui sicuramente la coscienza che una vera grande conquista conoscitiva è sempre frutto – più che di uno sforzo logico o di uno sviluppo dialettico – di un capovolgimento affettivo e morale; di una inversione di valori, di una vittoria conquistata contro se stessi e contro ciò cui con più profondi e tenaci ed inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per primo un capovolgimento deve anzitutto combattere nel suo intimo una lotta non molto diversa da quella che combatte l’uomo che voglia raggiungere lo stato di perfetta passività ed umiltà di fronte al suo dio. Molinos diceva che non bisogna chiedere nulla a Dio, neppure la propria salvazione. Lo scienziato deve pure rinunziare all’idolo di una natura che parli il suo medesimo linguaggio, di un mondo organizzato in vista dei suoi bisogni e dei suoi organi. Solo questa assoluta vuotezza e purità, questa mancanza di anticipazione gli permetterà di aprire gli occhi su se stesso e sul mondo». L’osservazione rientra pienamente nell’antirealismo della metodologia colorniana. D’altra parte, risulta di particolare interesse il tentativo di delineare le caratteristiche che dovrebbero assumere le nuove categorie rispetto a quelle che volta per volta si vanno ad abbandonare. Eugenio Colorni sformare in termini della coscienza ciò che è inconscio. Mediante tali trasformazioni si aiutano anche gli altri uomini a trasportarsi sul nuovo piano; si forniscono loro, per così dire, gli occhiali che permettono di vedere con la nuova illuminazione, finché non si sarà tanto avvezzi da poter fare a meno di occhiali, ed usare un linguaggio diretto. Ma il linguaggio appunto serba sempre le tracce di ciò, e le etimologie documentano spesso tali mutamenti di registro. Tale è, presso a poco, lo stato delle cose attualmente. Si veda, fra i riferimenti colorniani alla psicoanalisi e a mero titolo di esempio, quanto è dall’autore affermato nel dialogo intitolato Della lettura dei filosofi. La psicanalisi è una scienza ad uno stadio che corrisponde circa a quello dell’astronomia prima di Copernico, e dell’alchimia prima della chimica. Ha individuato in modo vago, mitico, pieno di pregiudizi e di troppo rapide generalizzazioni, delle relazioni e dei rapporti finora inosservati. Ha abbozzato una parvenza di metodo di ricerca: metodo talmente incerto e malsicuro che il più delle volte conduce a risultati opposti a quelli che si volevano ottenere. Ma insomma, si muove in un campo completamente sconosciuto, e il materiale che sta portando alla luce è di un tale interesse, che il rifiutarlo solo perché non è stato ancora capace di organizzarsi secondo gli aurei schemi del metodo scientifico mi sembra il colmo del filisteismo professorale». L’accenno alla possibilità di una condurre una vera e propria analisi categoriale attraverso lo studio del linguaggio è forse uno degli aspetti più interessanti ed originali di queste pagine Cinque scritti metodologici Commodo a Ritroso Vedo che non sei sazio di facili vittorie. Se il tuo scopo era di dimostrare che tu sai l’economia e io no, l’hai raggiunto pienamente, a tua perenne gloria e soddisfazione. Ma se io volessi ritorcere le tue intimazioni sulla mia abilità nelle scienze di cui mi occupo, ti direi che, con tutta la tua bravura, non sei stato neppure capace di chiarire il mio dubbio. Non te lo dico, perché sono sicuro che ci saresti riuscito facilmente, solo che ti fossi occupato di capire attraverso gli sbagli e le imprecisioni, quello che ho cercato di dire, anziché limitarti a sfogare a tua rabbia. Se un dilettante o un principiante di teoria della scienza mi viene a parlare di corpo rigido in un senso errato e diverso da quello usato dai fisici, io cerco di capire quale concetto egli cerchi di adombrare dietro al termine improprio; e mi guardo dal cedere alla meschina soddisfazione di prenderlo in castagna ad ogni parola. Il fare così, con tua buona pace, si chiama in italiano pignoleria. Io non voglio prendere sul serio questo tuo modo di discutere che è probabilmente solo una reazione alla mia aggressività, e il riflesso di arrabbiature prese non in questa ma in altre discussioni. E non ho ancora perso la speranza di trovare in te un esperto ed aperto iniziatore ai problemi dell’economia, anziché un geloso e gretto sacerdote del tempio della scienza. Questo metodo, hai ragione, è supremamente irritante e presuntuoso; ma a me è molto utile, perché mi permette, fra l’altro, di appropriarmi i concetti fondamentali con maggiore consapevolezza, senza subirli, e mantenendo rispetto alle scienze quel certo distacco che è pur necessario al critico e al metodologo. Una nozione si forma molto più salda nella mia mente, quando ha resistito vittoriosamente ai miei ripetuti attacchi, che quando l’ho dovuta imparare dalle pagine di un manuale. 1 FS, sez. 1, Carte personali, serie 2, Documenti diversi, b. 3, Inediti di C. Per la storia di questo scritto in relazione agli altri dialoghi economici colorniani, si rinvia alla Nota del curatore. Così si rivolge Commodo a Ritroso in C., Dell’antropomorfismo nelle scienze. Mi pare che tu sia un po’ troppo attaccato, o Ritroso, alle prerogative professionali. Sei proprio sicuro che l’aver frequentato una scuola ufficiale e aver letto molti trattati, e avere una lunga consuetudine coi ferri del mestiere, sia una condizione assolutamente necessaria per capire qualche cosa dei principî fondamentali di una scienza? Non vi è mai capitato di dover dire a una persona una di quelle cose scottanti, dopo le quali non si ha più il coraggio di guardarsi negli occhi? Ebbene, se voi scegliete il partito di prenderlo in disparte con tono mansueto e fraterno, mostrandogli comprensione ed affetto, e lo consolerete, e cercherete di addolcirgli in tutti i modi la pillola; se farete questo, siete dei volgari istrioni, innamorati di voi stessi, infatuati della vostra funzione, incapaci di comprendere e di amare l’amico. Voi vorreste assestargli il colpo che darà inizio per lui a una dolorosa lotta contro se medesimo, e in più avere la sua gratitudine, la sua ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente basso e spregevole, apparirgli voi come l’arcangelo liberatore, il puro, il disinteressato, l’immacolato. Se vi prende a calci, è il meno che possa fare. Ditegli invece le medesime cose in un accesso di rabbia, in una lite violenta, in cui voi avrete almeno altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia queste verità come veleno che schizzi dalla vostra lingua; dategli un appiglio per difendersi, un’occasione di odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite come falso e malvagio. Il vostro  C. Non so se questo possa servire agli occhi tuoi da giustificazione. Non credere che questo metodo sia in me qualche cosa di cosciente e di voluto. Me ne accorgo oggi per la prima volta, cercando di analizzare perché le tue accuse mi colpiscono e insieme non mi colpiscono. Delle tue osservazioni incasso senz’altro la lezione sulla matematica; io non avevo avuto altra intenzione che di riinventare per conto mio quell’ombrello; e naturalmente l’ho inventato più brutto, più goffo e confuso di quello che c’è già. Il solo punto che non mi è ancora chiaro è quello indicato nell’accluso foglietto. Mi basta che tu risponda a monosillabi e credo che non ci perderai più di un quarto d’ora. Da principio mi sono preso una solenne arrabbiatura, e ti avevo già risposto una lettera piena d’insolenze. Poi, nel rileggere tutto insieme a mente più calma, ho visto che in fin dei conti hai tutte le ragioni. Ma, poiché le tue accuse mi toccano solo in un certo speciale modo, vorrei spiegarti quanto segue a puro titolo di chiarimento personale: Da uno che si avvicina ad una scienza che non conosce è giusto di pretendere che lo faccia “con le ginocchia della mente inchine” pronto ad apprendere anziché a criticare. Gli s’impone, e ben a ragione, un lungo e silenzioso noviziato, solo finito il quale gli si potrà accordare voce in capitolo. Tutto questo è giusto (e lo dico senza la minima ironia). Ma il risultato è che un uomo, di solito, di questi noviziati ne fa uno solo, e vi resta legato per tutta la vita. Si specializza in una materia, e da essa non esce, salvo che per excursus curiosi e dilettanteschi. Ora a me questo non è concesso, giacché i miei interessi più specifici si rivolgono alla metodologia delle scienze. E dato che mi farebbe schifo risolvere il mio problema dall’alto, escogitando un paio di criteri filosofici e applicandoli poi come chiavi capaci di aprire tutte le porte6; sono costretto ad avvicinarmi a insegnamento allora penetrerà nel suo cuore in modo umano, lieve, benefico. Egli sarà libero di accoglierlo come cosa sua, e avrà modo di stimare se stesso per non avervi serbato rancore. Nella sua accettazione ci sarà il senso di fare una conquista, di costruire qualche cosa. Non vi temerà. Che sia questo il senso del mito di Nereo, l’indovino col quale bisognava azzuffarsi perché si decidesse a profetare?». Su questa immagine del mito di Nereo, rinvio ad A. Cavaglion, «Il mio poeta». Colorni, Saba e la psicoanalisi, in G. Cerchiai e G. Rota, C. e la cultura italiana fra le due guerre, Cfr. quanto spiegato nella Nota del curatore. Citazione a senso da Vergine bella, che di sol vestita, dal Canzoniere di Petrarca. E. C., Giustificazione, Colorni disprezza coloro che chiamano filosofia l’aver trovato una formula per interpretare il mondo. La metafora della chiave è spesso utilizzata da Colorni per indicare precisamente l’errore di scambiare la ricerca filosofico-scientifica con la scoperta di un criterio esplicativo unico ed onnicomprensivo. Su tale metafora cfr. anche Programma. ciascuna scienza, non per esserne genericamente informato, ma con l’impegno di osservarne con occhio critico gli interni meccanismi e cavarne conclusioni non genericamente filosofiche, ma che possono aiutare il procedere della scienza stessa. Se voglio far questo è chiaro che non posso pretendere di sfuggire al noviziato più severo, in ciascuna delle scienze cui mi avvicino. E non mi sogno di sfuggirvi. Posso però cercare di rendermelo più piacevole. Il metodo che, inconsciamente, ho trovato, è questo: Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo, pronto ad imparare e ad adagiarmi nell’ordine della loro esposizione, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sballate e confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo, ed inventando ombrelli, desideroso di scontri e di battaglie. Da ogni scontro esco ammaccato e contuso (come da questo con te) ma con un’idea più chiara. Ogni knoch out subito mi fa fare un passo avanti nella comprensione della scienza. Così non evito naturalmente, lo studio; e della lettura dei trattati non posso certo fare a meno: ma mi riesce più piacevole leggerli come appassionati combattenti, piuttosto che come amorosi pedagoghi. A patto, s’intende, di non impuntarsi mai, e di essere pronto a riconoscere la sconfitta. Laboratorio dell’ISPF. Geri Cerchiai ISPF-CNR, Milano. Laboratorio dell’ISPF. Saggi di Colorni conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Somenzi. In essi Colorni espone alcuni dei punti chiave della propria metodologia, delineando una proposta epistemologica destinata ad essere riscoperta e apprezzata dopo la caduta del regime fascista, nel secondo dopoguerra.  Carlo Rosenberg. ‘G. Rosenberg’. ‘Agostini’. ‘Franco Tanzi’. Oggettivismo e armonia. - L a filosofia leibniziana ha ai  suoi inizi un carattere nettamente oggettivistico. Intendiamo  'lire con questo che non si trova al cent ro di essa alcun problema che riguardi la maggiore o minor validità della nostra  conoscenza delmondo esterno, nè in genere che tratti dei rapporti fra conoscente e conosciuto. 11 relativismo che deriva al  sofista dall’osservazione che « l’uomo è misura di tutte le cose »  è estraneo a Leibniz: egli studia il reale in sè stesso, nella sua  essenza divina od umana, secondo le sue leggi razionali o empn iene. Egli parte dal dato di fatto del mondo in tutti i suoi  aspetti, che vuole scrutare, comprendere, ridurre a unità, a  formule semplici e facilmente apprendibili, trasportando nel  campo filosofico e metafisico l’atteggiamento onde i suoi grandi  predecessori o contemporanei, Copernico, Galileo, Newton, ave\uno improntato la loro indagine del mondo fìsico: un tentativo di visione complessiva, armonica, coerente di tutti i  latti presi a studiare; una ricerca di ipotesi che diano una  spiegazione del tutto, quanto più omogenea e lineare possibile.  A un tale atteggiamento egli si avvicina, piuttosto che a quello  di Cartesio, il quale vuole dedurre il mondo con le sue leggi  da un solo principio posto inizialmente come unico valido.   . me ! ltre con la filosofia cartesiana molti saranno i rapporti  di Leibniz nella formulazione e nello sviluppo dei vari proficui 1, egli se ne differenzia però fondamentalmente per la sua  concezione essenziale del mondo come un complesso a sè stante,  di cui si debba ricercare un principio unificatore, e non come  qualche cosa di inizialmente problematico, la cui esistenza e   le cui leggi debbano venir dimostrate e dedotte. Se in quest'ultimo atteggiamento si vuol far consistere la linea direttrice del moderno gnoseologismo e in genere della filosofia moderna, bisognerà dire che da tale direzione Leibniz si discosta,  tenendosi piuttosto per questo riguardo sulla linea del pensiero  greco, in un atteggiamento che potremmo avvicinare a quello  di Aristotele.    La filosofia (sapientia) consiste essenzialmente nella conoscenza perfettissima della natura. E da che cosa, se non  dalla filosofia, sono dimostrate con tanta evidenza non  solo l'essenza e le funzioni della natura, ma la cura speciale che essa ha per ogni singola cosa, e il fatto che essa  non si è limitata a creare ima volta le cose dal nulla, ma  continuamente le crea e risuscita ? Devo dire che, quando  ebbi compreso tutta la forza di questi ragionamenti, esultai e mi rallegrai per la filosofìa, la quale sembra finalmente  volersi l’appacificare con la religione; con la quale, non  per sua colpa, ma per le opinioni e i giudizi temerari degli uomini, o anche a causa di espressioni e termini mal  scelti, sembrava male conciliarsi. Cessino dunque gli uomini  pii e accesi dallo zelo della gloria divina, di aver timore  della ragione; basta che si studino di raggiungere la ragione retta.... E i filosofi, dal canto loro, tralascino di  riferire tutto all' immaginazione e a figure, e di accusare  come vanità o impostura tutto ciò che si oppone a quelle  nozioni crasse e materiali, nelle quali taluni credono di  poter circoscrivere tutta la natura.   (Dialogo Pacidius Philalelhi).   Questo studio oggettivo della natura nelle sue leggi, e questo  sforzo di una visione unitaria del tutto, conduce Leibniz a  complessi e armonici panorami, in cui fede e ragione, mondo  divino e mondo umano, scienze naturali e scienze metafisiche  si organizzano in un ordine omogeneo. L'arniomo è ciò cui  egli tende con tutte le sue forze di scienziato e di pensatore.  Fin dai suoi anni giovanili, il miraggio di un'armonia universale è al centro dei suoi pensieri.  L fisici dei nostri tempi, ricercando le cause materiali  delle cose, trascurano quelle razionali. E invece la sapienza  dell Autore supremo riluce principalmente nell’aver così  costruito I orologio del mondo, che tutto ne derivasse come  per necessità, per la suprema armonia dell’ universo. Vi è  dunque bisogno li filosofi naturali che non introducano  soltanto la geometria nel campo delle scienze fisiche (dato  che la geometria manca di cause finali) ma rendano anche  manifesta nelle scienze naturali un’organizzazione, per  così dire, civile. 11 mondo è infatti come una grande repubblica in cui gli spiriti corrispondono agli uomini liberi  (cittadini o nemici) le altre creature agli schiavi.   (Lettera al Thomasius).   In questa su prema armonia tutte le scienze, tutti i modi di  considerazione del mondo si conciliano ed unificano. Risolvere inizialmente il labirinto del continuo e del  movimento, che avvolge nelle sue complicazioni tutti gli  ingegni, è impresa di grande importanza per stabilire i  fondamenti delle scienze e rintuzzare la vanagloria degli  scettici ; per dare una solida base alla geometria degli indivisibili e alla aritmetica degli infiniti, generatrici di tanti  e così importanti teoremi; per elaborare un" ipotesi fisica  di coerenza universale; infine, e questo è l'essenziale,  per arrivare a dimostrazioni assolutamente geometriche, e  finora mai raggiunte, sull intima essenza del pensiero e  sull eternità dello spirito (1) e sulla causa prima. Di qui  sgorgano le fonti della bontà e dell’equità, del diritto e  delle leggi, così chiare e limpide, così piccole d’estensione  e insieme profonde di contenuto, da poter valere come  grandi volumi, e da poter bastare alla soluzione di qualsiasi problema, con una compendiosita stupefacente per   []. CON LA PAROLA ‘SPIRITO’ TRADURREMO IL TERMINO LATINO “MENS”] chi ne faccia uso, e di cui il volgo, io erodo, non ha  neppure 1’ idea (1).   (Hgpothesis phyaica nova, T /noria motus abstracti, pref.). A quest’ idea della coincidenza di ogni forma di realtà e di  ogni metodo d’ indagine nella suprema armonia e coerenza della  natura, si riallacciano i progetti, perseguiti da Leibniz lungo  tutta la sua carriera, di un’organizzazione sistematica delle  scienze, di un’ Enciclopedia in cui di tutto il sapere si desse  una visione complessiva, concordante e concaten antesi in tutte  lo sue parti; progetti, questi, che richiamano alla Pansofia  eomoniana e per realizzare i quali Leibniz si fece promotore  di società scientifiche e fondatore di accademie.   Quest'armonia, però, come si è visto, non deriva in alcun  modo da un concepire tutte le scienze come prodotto dello  spirito umano, quindi soggette alle leggi di esso; essa è l’espressione di una realtà divina oggettiva, a sè stante, con le sue  leggi concordanti e armoniche. La scienza scopre questa unità  noi mondo, attraverso lo leggi dello spirito, che corrispondono,  in virtù dell armonia stessa, alle leggi del mondo.   Verità di ragione e di fatto. - Questa realtà oggettiva  può presentarsi sotto due aspetti : come verità di ragione «  verità di fallo ; anno questi i due modi di essere del reale, retto  ciascuno da leggi proprie, ciascuno con proprie inconfondibili  caratteristiche, cui corrispondono poi anche i due diversi modi  di apprensi one del reale: razionale e sensibile. Ecco due definizioni di questi due tipi di verità, prese da due opere distantissime per data e per argomento:   Le verità di ragione sono necessarie, quelle di fatto  sono contingenti. Le verità primitive di ragione sono    (1) Quale sia il significato (lei termini .j ni adoperati (continuità, indivisibile, infinito, pensiero, ecc.), si vedrà in seguito. Comenio, noto principalmente nel campo  della pedagogia per la Bua Dì*ìar.tica Magne r, concepì il sapere come un'organizzazione di ogni elemento della conoscenza secondo leggi universali  (Pansofia), trasformando il concetto di enciclopedia da quello di una semplice  raccolta di dati, a quello di una sistemazione unitaria dei dati stessi. Leibniz  conobbe ed apprezzò grandemente le sue opero. quelle che io chiamo con nome generale identiche, poiché  sembra che esse non facciano che ripetere la medesima  cosa, senza insegnarci nulla. Esse sono affermative o negative. Le affermative sono sul tipo delle seguenti: Ogni  casa è ciò che è. e in qualsivoglia esempio A è A, lì è B;  io sarò quel che sarò; ho scritto quel che ho scritto. Le proposizioni copulative, le disgiuntive, e altre, sono  pure suscettibili di tale identità; e io considero affermativa anche la seguente: Non-A è nou-A; e l'ipotetica:  se A è non-B, ne segue che A è non-B. Similmente se non-A  è BC, ne segue che non-A è BC. Vengo ora a parlare delle identiche negative che sono  rette o dal 'principio di con trad izione (1) o da quello dei  disparati. Il principio di contradizione è in generale il seguente: una proposizio-ne è vera o falsa. Il che contiene  due enunciazioni vere: l una che il vero e il falso non sono  compatibili nella medesima proposizione, ovvero che una  proposizione non può esser vera e falsa contemporaneamente ;  l'altra che l’opposto o la negazione del vero e del falso  non sono compatibili, ovvero che non vi è via di mezzo  fra il vero e il falso; o, in altri termini, che non è possibile che una proposizione non sia nè vera nè falsa (2). Óra.  tutto ciò è vero anche in tutte le proposizioni particolari immaginabili, come: ciò che è A non potrebbe essere  non-A,...   Quanto ai disparati, sono quelle proposizioni che dicono che I oggetto di un’ idea non è l’oggetto di un’ altra  idea; per esempio, che il calore non è la medesima cosa  che il colare, oppure che uomo e animale non sono la medesima cosa, per quanto ogni uomo sia mi animale. Tutto  questo si può stabilire indipendentemente da qualsiasi Leibniz, come molti altri, chiama « principio rii contradizionc >; quello  che dovrebbe essere chiamato più esattamente « principio di non contradizionc ». È questo il principio che si suole chiamare del «terzo escluso»,    prova o dalla riduzione all' assurdo o al principio di contradizione, quando tali idee siano abbastanza evidenti da  non aver bisogno di analisi: ma in caso contrario c’è pericolo d’ ingannarsi: infatti, dicendo che triangolo e trilatero non sono la medesima rosa, si cadrebbe in errore:  perchè, a ben considerare, si vede che i tre lati e i tre  angoli vanno sempre insieme. Dicendo che il rettangolo  quadrilatero e il rettangolo non son la medesima cosa, si  sbaglierebbe ancora, perchè solo il poligono a quattro  lati può avere tutti gli angoli retti. Tuttavia si può sempre  dire in astratto che il triangolo non è il trilatero, o che  le ragioni formali del triangolo e del trilatero non sono  le medesime, per dirla coi filosofi. Sono espressioni diverse  della medesima cosa.   Taluno, dopo aver ascoltato con pazienza ciò che abbiamo detto finora, la perderà infine, e dirà che noi ci  divertiamo a fare frivole enunciazioni, e che tutte le verità  identiche non servono a nulla. Ma un tale giudizio dipeli derrebbe dal non aver abbastanza meditato su queste materie. Le dimostrazioni di logica, per esempio, procedono  dai principi dell - identità : e i geometri hanno bisogno del  principio di contradizione nello loro dimostrazioni per assurdo. Contentiamoci qui di mostrare l’uso delle proposizioni identiche nelle dimostrazioni degli sviluppi di  ragionamento.   Segue lo sviluppo di queste tesi e altre considerazioni sulI applicazione del principio di contradizione ai procedimenti  logici.   Ciò mostra che anche le pili pine e apparentemente  inutili fra le proposizioni identiche, sono di grande utilità  TI tonnine è scolastico-aristotelico, come del resto tutti i concetti logici di cui si parla in questo brano.  nei procedimenti astratti e generali: e ci può insegnare  che non si deve disprezzare nessuna verità. Quanto alle verità primitive di fatto, sono le esperienze  immediate interne di una immediatezza di sentimento.   (Nuovi   saggi).   Bisogna avvertire che tutta l'arte combinatoria si  rivolge a teoremi, o proposizioni di verità eterna, che  hanno validità non per arbitrio di Dio, ma per loro  propria natura. Quanto alle proposizioni singolari e per  cosi dire storiche, come p. es. « Augusto fu imperatoredei Romani ». o alle osservazioni cioè alle proposizioni  clic sono sì universali, ma la cui verità non si fonda sull’essenza ma sull’ esistenza, e che sono vere quasi per caso,  cioè per arbitrio di Dio. come p. es. « tutti gli uomini  adulti in Europa hanno cognizione di Dio»; di tali proposizioni non si dà dimostrazione, ma induzione, salvo il  caso in cui sia possibile dedurre un’osservazione da  un'altra osservazione attraverso un teorema. A tali osservazioni si riferiscono tutte le proposizioni particolari che  non siano inverse o subalterne di una universale (2). È  chiaro da ciò in qual senso si soglia dire che dell’ individuale non si dà dimostrazione, e per qual ragione il profondissimo Aristotele abbia collocato nella Topica i luoghi  degli altri argomenti in cui le proposizioni sono contingenti  e le ragioni probabili, mentre il luogo delle dimostrazioni  è uno solo: la definizione (3). Ma quando di una cosa si  deve dire ciò che non si desume dalle sue stesse viscere, I/artc combinatoria, cui questo passo si riferisce, verrà presa in  considerazione in seguito. Inverse o subalterno di una universale sarebbero per esempio le prò  posizioni particolari dei sillogismi, le quali hanno sempre carattere analitico.   (3) Aristotele tratta nei libri Topici dei «luoghi » (TÓ7tot)o aspetti sotto  i quali ciascuna cosa può venir considerata. Ivi tiene anche conto dei criteri di probabilità, di induzione; mentre la dimostrazione e il sillogismo  venzono trattati nei due Analitici.     p. es. che Cristo è nato a Betlemme, nessuuo potrà arrivare a tali proposizioni attraverso le definizioni, ma la  materia sarà fornita dalla storia, e i testi sovverranno  alla memoria. (Ars Combinatoria). Lo verità di ragione si fondano dunque su puri principi logici ; quelle di fatto invece sull’esperienza. Le une riguardano  1 'essenza, le altre V esistenza-, quelle il necessario, queste il contingente.   Le verità di ragione sono analitiche. Esse non tanno ohe sviluppare ciò che è già contenuto nelle viscere di ciascun concetto, non aggiungono cioè nulla alla nostra conoscenza delle  cose; costituiscono la base del ragionamento deduttivo. Le  scienze che da esse derivano sono le logiche e matematiche;  i principi su cui si fondano sono quelli di non còntradizione, del  terzo escluso, che poi si riducono tutti al principio di identità.   Le verità di fatto sono empiriche. Nelle proposizioni che da  esse derivano il predicato non è, come in quelle di ragione,  già contenuto nel soggetto: vi si aggiunge come qualche cosa  di nuovo, che lo aumenta ed arricchisce, ma che non gli appartiene necessariamente per la sua stessa essenza; la cui presenza  deve invece essere concretamente constatata, sperimentata volta per volta. Ad esse si applica 1’ induzione ; di esse si occupano le scienze naturali, quello storiche, tutte le indagini che  partono dal dato concreto e contingente. Si reggono, queste verità, sul principio di causalità odi ragion sufficiente. (Ofr. p. 17 ss.). LE VERITÀ di ragione come possibili. Le v erità di ragione hanno dunque su quelle di fatto il vantaggio della assoluta certezza e necessità, o dell’ impossibilità del contrario;  esse costituiscono una incrollabile base su cui tutta la realtà  poggia, un punto di riferimento assoluto e infallibile. D’altra  parte, però, hanno una staticità che non permette loro alcuno  sviluppo nè variazione: rimangono immobili nella loro fissità.  Le verità di fatto, invece, sono bensì casuali, contingenti;  non dipendono da nessuna legge a priori ; ma appunto questo  carattere di non poter venir dedotte da principi già conosciuti,  quindi di non essere mai dimostrabili, ma solamente percepibili attraverso i sensi, fa di esse lo portatrici di ciò che è  nuovo, imprevisto, mutevole; le pone come l’espressione della realtà del mondo nel suo concreto divenire. Si potrebbe dire  che le verità di ragione costituiscono l’ordine necessario di  relazioni, di rapporti entro cui tutte le cose avvengono, quasi  la cornice, la forma della realtà: e le verità di fatto il contenuto, la realtà stessa in tutti i suoi particolari. E infatti, le  verità di ragione vengono da Leibniz concepite piuttosto come  relazioni che come cose-, il che egli esprime col dire che le verità di ragione, necessarie, ci dànno la sola 'possibilità delle  cose, che non implica ancora affatto la loro realtà effettiva.   Infatti, se ogni possibile, e tutto ciò che ci si può immaginare (anche se assolutamente biasimevole) dovesse avvenire un giorno, se ogni favola o finzione fosse stata o  dovesse divenire storia effettiva, in tal caso non vi sarebbe  nuli’ altro che la necessità e non vi sarebbe nè scelta nè  provvidenza. (Polemica pubblicata nel Journal de# Savants). Questo mondo delle possibilità, datoci dalle verità di ragione,  può assumere infiniti aspetti, conformarsi in infinite guise, che  rappresentano tutte le forme in cui potrebbe manifestarsi la  realtà; la quale poi concretamente si manifesta in una sola di  esse. Ciò che noi vediamo e sperimentiamo è la realtà d[ fatto,  che si svolge e manifesta entro l’ambito segnatole dai principi  della ragione (infatti qualsiasi fatto concreto non potrebbe derogare al principio di non contradizione). Tali principi però  potrebbero inquadrare infinite altre forme di realtà, diverse  da quella di questo mondo, concretamente esistente. È questo  il principio dell’ infinità < lei mondi possibili, cioè dell’ infinità  delle possibilità che sono racchiuse nelle verità di ragione,  schemi logici necessari entro cui si svolge ogni e qualsiasi realtà. Quando dico che vi è un’ infinità di mondi possibili, intendo che non implichino contradizione, così come si possono fare romanzi che non si effettueranno mai e che sono  tuttavia possibili. Per essere possibile basta che una cosa   sia intelligibile. (Lettera al Bourguet).   È chiaro quale sia un’ idea vera e quale falsa. Vera è  un’ idea, quando la nozione ne è possibile, falsa quando implica contradizione. La ]x>ssibilità di una cosa. poi. la conosciamo a priori o a posteriori. A priori, quando risolviamo una nozione nei suoi elementi, cioè in altre nozioni  di riconosciuta possibilità e sappiamo che in esse nulla vi è  di contradi ttorio...; a posteriori quando sperimentiamo attualmente resistenza della cosa: infatti ciò che esiste o è  esistito attualmente, è senz'altro possibile (I). E ogni qualvolta si ha una conoscenza adeguata, si ha la conoscenza  della possibilità a priori; condotta poi l'analisi a termine,  se non si manifesta alcuna contradizione, la nozione è  certamente possibile.   (i Meditai iones de Cogitinone, Ventate et 'de in, 1684, G. IV, 425).   Alle verità di ragione c di fatto corrispondono anche i due  modi di conoscenza razionale e sensibile. Ma quelle verità appartengono anzitutto - all'ordine oggettivo del reale. In questo  senso si deve intendere l’opposizione di Leibniz alle idee chiare  e distinte poste da Cartesio come criterio delle verità di ragione.  Tale criterio non consiste per lui in una qualsiasi evidenza  conoscitiva, ma nella possibilità e non contradizione.   Egli [Cartesio] aveva posto come criterio della verità la  nostra percezione chiara e distinta. Cioè, la verità del  fatto che il circolo sia la figura di massima area con  dato perimetro non sarebbe secondo lui altrimenti riconoscibile se non attraverso la chiara e distinta percezione che  noi abbiamo ili tale sua proprietà. E se Dio avesse conformato la nostra natura in modo che noi avessimo chiara  e distinta percezione del contrario, il contrario sarebbe  vero. Questa è la sua opinione, che io non approvo punto.  E non è assolutamente vero quel suo principio metafìsico  universale, che di tutte le cose che pensiamo o di cui  ragioniamo sia necessariamente in noi l' idea, p. es. del po  li) Oiòsignilìca che resistenti) deve rientrare nelle leggi della possibilità,  ma cho queste leggi possono anche andare molto al ili fuori dal campo  dell’attualmente esistente.  ligono di mille lati o dell'ente sommamente perfetto: principio col quale, come armato dello scudo di Achille, egli  disprezzo non senza arroganza tutti coloro che dubitarono  delle sue dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Con tale argomento, egli avrebbe certo potuto facilmente far sì che in noi  fosse anche 1' idea di cose impossibili, p. es. del movimento  sommamente veloce; fra le quali cose impossibili, coloro  che vogliono opporsi alle sue dimostrazioni porranno anche  l'ente sommamente perfetto, lo so, per parte mia. clic  altro è l'ente sommamente perfetto e altro il movimento  sommamente veloce: ritengo però che i ragionamenti di  Cartesio siano imperfetti, e che chi li voglia condurre a  compimento, vi debba aggiungere molto di suo.   (Frammento).   Dio e i,e verità di ragione e di fatto. - Con queste affermazioni, Leibniz sottomette de idee chiare, e distinte al criterio oggettivo della pos sila 1 ita logica, o «non cont ra dizio ne ».  E a questo criterio sottomette anche il concetto dell’ente  sommamente perfetto, sul quale si fonda la cartesiana prova  ontologica dell esistenza di Dio (2). L' idea dell’ente sommamente perfetto, egli dice, potrebbe essere contradittoria, come  quella della velocità massima o del numero più grande di tutti  (iflee contradittorie, queste, perchè sarà sempre possibile concepire una velocità o un numero maggiori di una qualsiasi  altra velocità o numero presi a piacere: quindi non si potrà  mai giungere al massimo) v J)eirente perfettissimo, dunque, non  basta aver l’idea: bisogna anche dimostrarne la possibilità, dimostrare cioè che esso non appartiene solo al mondo delle  nostre rappresentazioni, ma anche al mondo delle verità eterne  di ragione. Questa data mi 6 stata gentilmente comunicata dal prof. Ritter,  direttore della Commissione leibniziana dell'Aceademia delle Scienze di  Berlino.   (2) La prova ontologica, clic Cartesio ha ripreso da Anseimo d'Aosta  (1033-1109), afferma che Tessere sommamente perfetto deve contenere, fra  le sue perfezioni, anche resistenza: quindi esiste. Tale prova considera  quindi l’esistenza come un attributo dell'essenza dell’essere perfettissimo.   L'obiezione di Leibniz contro la prova ontologica si ferma  generalmente a questa dichiarazione di incompletezza; e non  mancano poi in lui le affermazioni che l'ente sommamente  perfetto sia effettivamente possila le e implichi la propria esistenza. Tuttavia in lui già è chiaro il concetto che le verità  di ragione e quelle di fatto appartengono a due sfere diverse  e - per cosi dire - incommensurabili, sì che non sia possibile  far rientrare l’una nel campo dell’altra.   Ma in generale non si può dire che Leibniz si preoccupi  troppo di provare resistenza di Dio. Abbiamo già visto che  il suo problema non è tanto di dimostrare e dedurre i concetti  fondamentali del suo sistema, quanto di organizzarli in unità  armonica. Dio è una premessa dalla quale Leibniz parte, non  una conclusione cui egli arrivi.   Quale ora il rapporto fra Dio e le verità di ragione c di fatto (  Anche a questo proposito la posizione di Leibniz si contrappone a quella di Cartesio ; il (piale, dedotta a priori l'esistenza  di Dio, fa poi discendere da Dio, per un atto libero della sua  volontà, tutto il mondo delle verità, sia di ragione, sia di  fatto (1). A questa dipendenza delle verità di ragione dall'arbitrio divino, Leibniz si oppone recisamente. Per lui sono  rappresentato, in queste verità, relazioni assolute regolatrici  dell’ univorso, tali ohe in esso si devono inquadrare perfino  i decreti della volontà divina. Si è già visto che le verità  di ragione valgono «non per l'ar bitrio divin o ma per loro  propria natura»; e tale opinione circola in tutti gli scritti di  Leibniz, fin dalla sua prima giovinezza.   È necessario che tutto si rifaccia ad una qualche ragione, nè ci si deve fermare finché non si arrivi alla prima. C'fr. per esempio, Meditazioni metafisiche, Risposte alle seste obbiezioni,!). U: «...lo dico che è impossi bile che una tale idea [del bene o del vero]  abbia preceduto la determinazione della volontà di Dio.... in modo che questa idea del bene abbia portato Dio a scegliere l'una cosa piuttosto che  l’altra. Por esempio, non per aver visto cho era meglio che il mondo fosse  creato nel tempo piuttosto cho dall’eternità, egli ha voluto crearlo nel tempo;  o non ha voluto cho i tre angoli di un triangolo fossero uguali a due retti per  aver visto cho non poteva essere altrimenti, etc. Ma all'opposto: per il fatto  che egli ha voluto creare il mondo nel temilo, per questo ò meglio così che  se fosse stato creato dall'eternità; e solo perchè egli ha voluto che i tre angoli di un triangolo fossero necessariamente uguali a due retti, ciò è ora vero  o non può essere altrimenti; e così di tutte le altre cose».   E iiuale. è dunque l’ultima ragione della volontà divina?  L’ intelletto divino. Quale la ragione dell' intelletto divino?  L’armonia delle cose. Quale dell'armonia delle cose ? Nulla.  Per esempio, della proposizione 2:4=4 : 8 non si può  dare alcuna ragione, neppure attraverso la stessa volontà  divina. Quella verità dipende dall'essenza stessa o idea  delle cose. i   (Frammento De resurrectione corporum).  L’ intelletto divino è insomm a determinato dalle verità di  ragione, e la volontà divina non può agire se non nell’ambito  segnato da esse. La volontà divina, ora, si esplica nelle verità  di /atto. Esse, ed esse sole, sono create da Dio per un atto  libero della sua volontà. Dio è la ragione prima delle cose : poiché quelle che sono  limitate, come tutto ciò che noi vediamo e sperimentiamo. sono contingenti e non hanno nulla in sé che renda  la loro esistenza necessaria; essendo chiaro che il tempo,  lo spazio e la materia, uniti e uniformi in sé stessi, e indifferenti a tutto, avrebbero potuto ricevere movimenti e  figure totalmente diversi e in tutt' altro ordine. Bisogna  dunque cercare la ragione dell esistenza del mondo, che è  tutto l'insieme delle cose contingenti: e bisogna cercarla  nella sostanza che contiene la ragione della sua esistenza  in se stessa (1), e che, per conseguenza, è necessaria ed  eterna. Bisogna pure che tale causa sia intelligente: poiché dato che questo mondo che esiste è contingente, essendo egualmente possibili ed egualmente pretendenti all'esistenza per così dire al pari di esso una infinità di  altri mondi, bisogna che la causa del mondo abbia avuto  rapporto e riguardo a tutti questi mondi possibili, por  determinarne uno. E questo riguardo o rapporto di una Tale sostanza è Dio. Cfr. la prima definizione dell’ FI tea di Spinoza:  Per caiuiam e ui intelligo id, cujus esse alia invaivi t existenliam; vive id,  cujus natura non potest concipi, nini existensv.  sostanza esistente con semplici possibilità, non può essere  altro che 1‘ intelletto che ne ha le idee; e a determinarne  una non può essere altro che l'atto della mhmtà che sceglie.  Ed è la potenza di questa sostanza che ne rende la volontà  efficace. La potenza tende all'essere, la saggezza o l' intelletto al vero, la volontà al bene. E questa causa intelligente deve essere infinita in tutti i modi, e assolutamente  perfetta quanto a potenza, saggezza e bontà, poiché essa  tende a tutto ciò che è possibile. E siccome tutto è connesso. non vi è ragione di ammetterne più di una. 11 suo  intelletto è la fonte delle essenze, la sua volontà è l'origine delle esistenze. Ecco in poche parole la prova di un  Dio unico con le sue perfezioni e, per suo mezzo, l'origine  delle cose.   (Teodicea).   Le verità di ragione sono dunque il contenuto fieli intelletto  di Dio, le verità di f atto il prodotto della sua volontà, fra  le infinite possibilità che potrebbero realizzarsi entro gli schemi  del principio di non contradizione, Dio ne sceglie una, e la  pone in atto. Anche in questo, Leibniz si oppoue a Cartesio,  il quale ritiene che la materia assuma tutte le forme possibili.  Egli cita, per confutarlo, questo passo dei Princip { rii Filosofia  (parte III, art. 47): a Poiché la materia assume successivamente tutti' le forme di cui è capace, se consideriamo ordinatamente queste forme, giungeremo infine a quella che appartiene a questo nostro mondo, in modo che non sia da temere  alcun errore per colpa di una eventuale falsa i potesì.  Leibniz risponde:   Non credo che si possa enunciare una proposizione più  pericolosa di questa. Poiché, se la materia riceve successivamente tutte le forme possibili, ne deriva che non si Cartesio ò costretto alla concezione che tutti i mondi possibili siano  effettivamente esistenti, dal suo impegno di dedurre il mondo dalle sole  idee chiare e distinte o di ragione. Leibniz, col suo principio di una netta  separazione Ira la possibilità c l’esistenza, può esimersi da questo passaggio  per tutte le forme della possibilità, e risolvere il problema dell origine del  mondo sensibile con un diretto ricorso al principio delle verità di fatto. VERITÀ DI RAGIONE E DI FATTO possa immaginare nulla di tanto assurdo nè di tanto bizzarro e contrario a quello che noi chiamiamo giustizia,  che non sia accaduto o che non debba accadere un giorno.... È questo, a mio avviso, il 7rpwxov tpeòSoq (primo inganno) e il fondamento della filosofia atea, la quale non  tralascia mai, in apparenza, di dire belle cose di Dio. Ma  la vera filosofia deve darci ben altra nozione della perfezione di Dio, che possa servirci tanto nella fisica, quanto  nella morale.   (Lotterà al Philippi).    Il principio di ragion sufficiente. La realtà contingente posta in atto da Dio è il mondo sensibile che noi sperimentiamo. Per la giustificazione di esso, le immutabili leggi  della logica non sono sufficienti. TI mondo, la realtà di fatto è,  ma potrebbe anche non esserci, o essere diverso da quello che  è. Esso non deriva da nessuna verità assoluta. 11 principio logico clic si dovrà applicare per rendersi conto di esso, non è  il principio di non conti-a dizione, ma quello di ragion sufficiente, quel principio cioè per cui da un dato di fottìi si risale  alla sua causa, e da essa di nuovo alla causa, e cosi fino alla  causa jprima, cioè Dio.   11 principio universale nihil esse sine catione (1) risolve  quasi tutte le discussioni metafìsiche.... Is’ulla avviene, del  cui esser stato prodotto piuttosto che non essere stato  (cur factum sit polius quam non sii) Dio, se voglia, non  possa render ragione.   (Frammento sulla Selenita Media).  È il principio di ragion sulKcicnle. Non bisogna far confusione fra  questo, che Leibniz chiama a volte anche semplicemente - principio di ragione », e le verità di ragione. 11 pri n c imo d i rag ione è la forma generalo che  regola lo verità di fatto. Le verità di ragione si contrappongono invece a  queste ultimo, e si fondano sul principio di non contradizione. La somiglianza di due termini dal significato così differente e quasi opposto, deriva  ila un diverso uso del termino « ragione ». Nella locuzione principio di ragione » osso equivale a « motivo, causa ». Ora bisogna elevarsi alla metafisica, servendoci del gran  principio, comunemente poco impiegato, il quale afferma  che nulla si verifica senza una ragione sufficiente, cioè che  nulla accade senza che sia possibile a colui che conosca  sufficientemente le cose, di dare una ragione che basti a  determinare perchè è così e non altrimenti. Posto questo  principio, la prima domanda che si avrà il diritto di porre,  sarà : Perchè ri è qualche cosa piuttosto che nulla ? poiché il  nulla è più semplice e più facile che il qualche cosa. Inoltre. supposto che cose debbano esistere, bisogna che si  possa rendere ragione del perchè esse debbano esistere così,  e non altrimenti.   Ora questa ragione sufficiente dell esistenza dell universo  non si può trovare nell' ordine delle cose contingenti, cioè  dei corpi e delle loro rappresentazioni nelle anime : poiché,  essendo la materia indifferente in sè stessa al movimento  e al riposo e a questo movimento o ad un altro, non si  può trovare in essa la ragione del movimento e ancor  meno di questo movimento. E. benché il movimento attuale che è nella materia derivi dal precedente, e questo  ancora da un precedente, non si avanzerà affatto, per  quanto lontani si possa andare: poiché resterà sempre la  medesima domanda. Così bisogna che quella ragione sufficiente che non ha più bisogno di un'altra ragione, sia  fuori di questo ordme di cose contingenti, e si trovi in  una sostanza che ne sia la causa o che sia un essere necessario il quale porti con sè la ragione della sua esistenza :  altrimenti non si avrebbe mai una ragione sufficiente, alla  quale arrestare il processo. E questa ultima ragione delle  cose è chiamata Dio.   ( Principe# de la nature et de la grane).   La causa FINALE E il « mkiliore ». Dio è dunque la causa  o ragion sufficiente rii tutte le verità di fatto, cioè del mondo  sensibile. Ma con quale criterio ha egli scelto, nella sua creazione, fra le infinite possibilità che gli si offrivano, proprio  questa e non un altra? Che cosa lo ha guidato nella scelta?   Nulla avviene senza un perchè sufficiente, o senza una  ragione determinante. In virtù di questo principio, che ci  conduce oltre i limiti raggiunti dai nostri predecessori, Dio  non cambia mai volontà e operazione senza averne qualche valida ragione. E quando la cosa di cui si tratta è  di natura uniforme e semplice, siamo in condizione di  giudicare (per quanto povere creature si sia) se vi può  essere una ragione o no. Quando la volontà di Dio è impiegata da sola, senza che nella natura delle creature vi  sia la ragione di questa volontà, nè il modo del suo operare, si tratta di un puro miracolo : criterio poco opportuno in filosofia, come se Dio volesse (per esempio) che i  pianeti si muovessero in linea curva senza essere spinti  da altri corpi Ogni volta che noi conosciamo qual che cosa delle opere di Dio, vi troviamo dell' ordine.   (Lettera allo Hartaoekcr).    II principio della ragion sufficiente, dunque, come vale per  risalire attraverso le cause dai dati esistenti lino a Dio, cosi  lieve essere applicato a Dio stesso, il quale, creando questo  mondo, non ha agito arbitrariamente, ma è stato guidato da  un criterio della sua azione. Non ha agito, neppur lui, senza  una ragione del suo agire; e questa ragione che. determina  la sua volontà, è i l criterio del massimo be ne, della massima  perfezione.   A q uest o criterio Dio si è ispirato nel creare il mondo, e a  questo criterio si deve ricorrere dunque come alla ultima ragione di tutta la creazione. Il bene e la perfezione come motivo  dell esistenza delle cose, viene chiamato A n '\{ è±.   Io ritengo che, ben lungi dal dover escludere le cause  finali dalla considerazione fisica, come pretende Descartes  nei Principi di Filosofia, parte 1, art. 28, sia piuttosto  per mezzo di esse che tutto si debba determinare, poiché la causa efficiente delle cose è intelligente, avendo una  volontà e perciò tendendo al bene.   (Lettera al Philipp!, 1080, 0. IV, 281).   Dio mette in opera, dunque, uno solo degli infiniti mondi  possibili ; ma è retto da un criterio in tale creazione. Questo  criterio fa sì che il mondo da luf scelto sia il migliore fra i  mondi possibili.   Questa infinita saggezza, unita ad una bontà non meno  infinita, non ha potuto fare a meno di scegliere il migliore;  poiché, come im male minore è, in certo senso, un bene,  cosi mi minor bene è, in certo senso, un male, se fa  ostacolo ad un bene più grande: e vi sarebbe qualche  cosa da correggere nelle azioni di Dio, se vi fosse modo  di far meglio. E come in matematica, quando non vi è  nè massimo nè minimo e nulla, insomma, di distinto,  tutto avviene ugualmente, o, quando ciò è impossibile, non  avviene addirittura nulla ; si può dire lo stesso a proposito  della perfetta saggezza, la quale non è mono regolata che  la matematica : che, se non ci fosse stato il migliore (optimum) fra tutti i mondi possibili, Dio non ne avrebbe prodotto nessuno. Chiamo mondo tutta la serie e tutto 1 insieme di tutte le cose esistenti, affinchè non si dica che  più mondi hanno potuto esistere in differenti tempi e  in differenti luoghi. Giacché bisognerebbe considerarli tutti  insieme come un solo mondo, o se volete, come un universo.  E quando si riempissero tutti i tempi e tutti i luoghi,  resta pur sempre vero che si sarebbero potuti riempire in  una infinità di maniere, e che vi è ima infinità di mondi  possibili, di cui Dio deve aver scelto il migliore, perchè  egli non fa nulla senza agire secondo la suprema ragione.   (Teodicea).   Dio dunque non scoglie arbitrariamente. Anche qui egli si  ispira ad un principio - il principio del migliore - che regola la sua azione nel metterò in opera la realtà del mondo. In  che cosa consiste questo principio? Che cos’è il «migliore»,  questa causa finale deile verità di fatto? Un criterio di massima realizzazione, di massima perfezione, di massima felicità,  bontà, etc. : insomma di armonia, che tende a che nei limiti  della possibilità venga realizzato il massimo di esistenza possibile.   Discende dalla perfezione suprema di Dio che, producendo T universo, egli abbia scelto il miglior piano possibile, nel quale vi è la massima varietà, col massimo  ordine; il terreno, il luogo, il tempo meglio organati; il  massimo effetto prodotto coi mezzi più semplici; il massimo di potenza, il massimo di conoscenza, il massimo di  felicità e di bontà nelle creature, ammissibile nell' universo.  Infatti, dato che tutti i possibili pretendono all'esistenza  nell intelletto di Dio in proporzione delle loro perfezioni,  il risultato di tutte queste pretensioni deve essere il mondo  attuale, il più perfetto che sia possibile. Altrimenti non  sarebbe possibile rendere ragione del perchè le cose siano  andate così piuttosto che in altro modo.   (Pricipes de la Nature et de la (brace).   È un mio principio, che tutto ciò che può esistere ed  è conciliabile con le altre cose, esista. Poiché la ratio exiatendi a preferenza di tutti gli altri possibili, non deve  essere limitata da altra ragione, se non da quella che non  tutte le cose sono conciliabili fra di loro. L' unica ragione  determinante è dunque ut exislant / totiora, quae plurimum  involvant realitatis.   (Ii'rammonto del 1070, C. 530).   Vi è una ragione in natura per cui esiste qualche cosa  piuttosto che nulla. Ciò è una conseguenza del grande principio che nulla avviene senza una ragione, così come deve  esservi anche una ragione per cui esista una cosa piuttosto che un' altra. Tale ragione deve essere in qualche ente reale o causa.  Infatti la causa non è altro che una realis ratio, e le verità di possibilità e di necessità (cioè di cui viene negata  la possibilità del contrario) non produrrebbero nulla se  le possibilità non si fondassero su qualche cosa di attualmente esistente.   Questo ente poi dovrà essere necessario: altrimenti si  dovrebbe ricercare di nuovo (contro l' ipotesi), di là da  esso, una causa per cui esso esista piuttosto che no. Quell'ente è insomma l'ultima ragione delle cose, e in una  parola lo si suole chiamare Dio.   Vi è dunque una ragione per cui 1 esistenza debba prevalere sulla non-esistenza. e cioè Ens necessarium est existentificans.   Ma quella causa che fa sì che qualche cosa esista, cioè che  la possibilità esiga l'esistenza, fa anche sì che ogni possibile abbia una tendenza all'esistenza; poiché non si può  trovare in generale una ragione di restrizione all esistenza  dei possibili. Così si può dire che ogni jmsibile è un inizio  di esistenza ( I ) in quanto si fonda su di un ente necessario  attualmente esistente, senza il quale non vi sarebbe alcuna  via per la quale potesse possibilmente giungere ad attuarsi. Ma da questo non deriva che tutti i possibili esistano: ciò avverrebbe sì se tutti i possibili fossero compossibili.   Ma poiché vi sono alcune cose che sono incompatibili  con altre, ne segue che alcuni possibili non giungano all'esistenza. E le cose possono essere incompatibili non  solo relativamente al medesimo tempo, ma anche universalmente parlando, perchè nelle cose presenti sono implicite le future.   Intanto però, dal conflitto di tutti i possibili che pretendono all' esistenza, deriva questo almeno, che esista    (1) Traduciamo così il termine existilurire.     quella serie di cose per la quale giunge all'esistenza il  massimo numero di cose, cioè la serie massima di tutti i  possibili. E questa serie unica è determinata, così come  tra le linee è determinata la retta, tra gli angoli l'angolo  retto, tra le figure e i solidi quelle di massima capacità,  cioè il circolo e la sfera. E come vediamo che i liquidi si  raccolgono spontaneamente in gocce sferiche, così nell' universo esiste la serie di massima capacità.   Esiste dunque la massima perfezione; e non consiste se  non nella quantità di realtà.   Inoltre la perfezione non si deve soltanto ravvisare nella  materia, cioè in ciò che riempie il tempo e lo spazio, la  cui quantità sarebbe sempre costante in qualsiasi modo,  ma nella forma o varietà.   Ne consegue che la materia non è ovunque simile a sè  stessa, ma viene resa dissimile dalle forme; altrimenti non  otterrebbe tanta varietà quanta . le è possibile....   Ne consegue anche che ha prevalso quella serie dalla  quale derivava il massimo di pensabilità distinta.   E la pensabilità distinta dà ordine alla cosa e bellezza  a chi pensa. L 'ordine, non è altro infatti che relalio plurium dislinctiva, e confusione si ha quando sono presenti  bensì più cose, ma non vi è un criterio por distinguere  l una dall'altra.   Cade così il concetto eli atomo e in generale di qualsiasi corpo in cui non vi sia un criterio di distinzione  di una parte dall'altra.   E ne deriva universalmente che il mondo è un y.óapoc.  un organismo armonico, cioè fatto in modo da soddisfare  massimamente chi comprenda.   Il piacere di chi comprende (voluptas intelligentis ) non è  altro infatti che la percezione della bellezza, dell' ordine,  della perfezione; e ogni dolore contiene qualche cosa di  disordinato, ma solo riguardo a chi lo percepisce, perchè,  assolutamente parlando, tutto è ordinato. Così, quando alcunché ci dispiace nella serie delle cose,  ciò deriva da un difetto di comprensione. Infatti non è  possibile che ciascuno spirito comprenda tutto distintamente; e a chi osservi solamente alcune parti piuttosto  che altre, 1’ armonia non può apparire nel suo complesso.   Consegue da ciò che nell'universo è osservata anche la  giustizia, non essendo la giustizia altro che un ordine o  perfezione riguardo agli spiriti.   (Frammento).   Necessità e libertà. - Anche questo criterio di perfezione,  di bontà, di armonia è, aqalogamente alle verità di ragione,  assoluto, oggettivo, a sè stante, indipendente dalla volontà di  Dio, imposto dalla necessità delle cose. Dio sceglie il migliore:  ma non avrebbe potuto scegliere altrimenti. Siamo qui in  presenza della celebre questione della conciliazione fra necessità e libertà-, la quale riguarda solo da lato il nostro argomento,  e rientra piuttosto nel problema della Teodicea. Anche a questo proposito Leibniz si oppone a Cartesio.   Contro coloro che sostengono che non vi è bontà nelle opere di Dio  o che le regole della bontà e della bellezza sono arbitrarie.   Io sono molto lontano dall'opinione di coloro che sostengona che non vi siano affatto regole di bontà e di  perfezione nella natura delle cose, o nelle idee che Dio ne  ha; e che le opere di Dio non siano buone se non por la  ragione formale che Dio le ha fatte. Poiché, se ciò fosse, Dio,  sapendo che egli ne è l'autore, non avrebbe avuto ragione  di guardarle in seguito e trovarle buone, come testimonia  la Sacra Scrittura (1), la quale non pare si sia servita di  questo linguaggio umano, se non per mostrarci che la loro  eccellenza si riconosce a guardarle in se stesse, anche  se non si fanno riflessioni su questa semplice denominazione esteriore, che le riattacca alla loro causa. E ciò è Leibniz allude qui al racconto del Co p. I della Genesi, in cui a ciascun atto della creazione seeue la frase: «E Dio vide che ciò era buono». tanto più vero, in quanto proprio attraverso la considerazione delle opere si può valutare chi le ha operate. Bisogna dunque che queste opere portino in sè il suo carattere.  Confesso che l'opinione contraria mi sembra estremamente  pericolosa e molto vicina a quella degli ultimi novatori (1),  i quali ritengono che la bellezza dell' universo e la bontà  che noi attribuiamo alle opere di Dio non siano se non  chimere degli uomini che concepiscono Dio a modo loro.  Cosi, dicendo che le cose non sono buone per nessuna  regola di bontà, ma per la sola volontà di Dio, si distrugge,  mi semina, senza pensarci, tutto l'amore di Dio e la sua  gloria. Infatti, perchè lodarlo di ciò che egli ha fatto, se  egli sarebbe ugualmente lodevole facendo tutto il contrario? Dove sarà dunque la sua giustizia e la sua saggezza, se non rimane che un certo potere dispotico, se la  volontà tiene il posto della ragione e se, secondo la definizione dei tiranni, ciò che piace al più potente è, appunto per ciò, giusto? Inoltre sembra che ogni volontà  supponga qualche ragione di volere, e che questa ragione  sia naturalmente anteriore alla volontà. È per questo che  io trovo anche molto strana l’espressione di altri filosofi,  i quali dicono che le verità eterne della metafisica e della  geometria, e conseguentemente anche le regole della bontà,  della giustizia e della perfezione non sono che effetti della  volontà di Dio, mentre mi sembra che esse non siano che  conseguenze del suo intelletto, il quale non dipende affatto  dalla sua volontà, così come non ne dipende la sua essenza.   Contro coloro che credono che Dio avrebbe potuto far meglio.   Non posso neppure approvare l’ opinione di alcuni moderni (’.i) i quali sostengono arditamente che quello che Dio Allude agli spinozisti (cfr. l’ed. cit. del Ijestibnnk). I/opinione che  Lei lini/, ha della dottrina di Spinoza, è per molti aspetti errata e turbata  da preconcetti. Cartesio (cfr. ibid.). Gli scolastici del suo tempo (efr. ibid.). fa. non è l’assoluta perfezione, e che egli avrebbe potuto  agire assai meglio. Poiché mi semina che le conseguenze  eli questa concezione siano assolutamente contrarie alla  gloria di Dio. Ufi minus malum habet ratiouem boni, ita  mimi* bomttn habet rationem mali. E si chiama agire imperfettamente, agire con minor perfezione di quello che  si sarebbe potuto. E trovare a ridire sull' opera di un architetto il mostrare che egli avrebbe potuto farla meglio. Questi moderni credono anche di provvedere così alla  libertà di Dio; come se non fosse la piìi alta libertà quolla  di agire in perfezione seguendo la ragione sovrana. Poiché  credere che Dio agisca in qualche cosa senza aver alcuna  ragione della sua volontà, oltre che apparire impossibile, è  opinione poco conforme alla sua gloria. Per esempio, supponiamo che Dio scelga fra A e li. e che egli prenda A senza  avere alcuna ragione di preferirlo a B: io dico che questa  azione di Dio, per lo meno, non sarebbe affatto lodevole;  poiché ogni lode deve essere fondata su qualche ragione  che non si trovi già ex hypothesi . Ritengo invece che Dio  non faccia nulla per cui non meriti di essere glorificato.   (Discours de métaphysique).   I l criterio della, bontà e del «migliore», non è dunque conseguenza della volontà divina: è piuttosto la volontà divina  che si ispira a questo criterio, il «piale ha una validità oggettiva a sé stante, altrettanto come le verità di ragione. L'azione  di Dio è da un lato circoscritta dai limiti della possibilitòj  dati dal principio di non contradizione, nell’ambito del «piale  essa si devo svolgere: dall’altro lato è determinata da epiesto  finalismo, da questo principio del « migliore », della bontà,  che costituisce l’oggetto necessario della sua scelta. D'ambo i  lati dunque, essa si trova determinata: e questa determinazione costituisce la legge stessa «Iella sua perfezione.   Necessità nelle verità di ragione, dunque, poiché i principi  di esse sono inderogabili, tali che non potrebbero venir concepiti diversi da «piel che sono; necessità anche nelle verità  di fatto, in quanto la loro ragion sufficiente non può non essere  il principio della suprema perfezione e bontà. Ma queste due forine «li necessità onde consta l' intelletto e la volontà divina,  quindi tutte le cose del mondo, non sono identiche fra di  loro: se lo fossero, cesserebbe, si può dire, ogni distinzione  fra verità di ragione e di fatto, e le une discenderebbero dai  medesimi principi che le altre, si baserebbero sulle medesime  leggi. La necessità di fatto ha invece caratteristiche sue proprie.  Essa non implica quella impossibilità «lei contrario che è essenziale caratteristica della necessità di ragione.   La necessità morale. - La necessità di ragione è una legge  regolativa dell’ intelletto divino. La necessità di fatto e la  ragion sufficiente che determina la volontà di Dio: e questa  ragione è necessitante sì, ma non in modo che il contrario  sarebbe impossibile. Questo secondo tipo di necessità, Leibniz  lo distingue a volte dalla necessità di ragione col chiamarlo  motivo inclinante (contrapposto a necessitante), necessità inorale.    Bisogna distinguere tra necessità assoluta e necessità  ipotetica. Bisogna pure distinguere fra una necessità che  ha luogo perchè l’opposto implica contradizione, e che vien  chiamata logica, metafisica, o matematica, ed una necessità olio è morale, che fa sì che il saggio scelga il migliore,  e che ogni spirito segua l' inclinazione più grande.   La necessità ipotetica è quella che viene imposta ai  futuri contingenti dalla supposizione o ipotesi della previsione e preordinazione da parte di Dio.11 bene, sia vero sia apparente, in una parola il motivo,  inclina senza necessitare, senza imporre cioè una necessità  assoluta. Infatti, quando Dio, per esempio, sceglie il migliore, ciò che egli non sceglie e che è inferiore quanto a  perfezione, non cessa di essere possibile. Ma se ciò che  Dio sceglie fosse necessario, ogni altra scelta sarebbe impossibile, contro T ipotesi; poiché Dio sceglie tra i possibili, cioè fra vari partiti, dei quali nessuno implica contradizione.   Ma dire che Dio non può scegliere se non il migliore,  e volerne inferire che ciò che egli non sceglie è impossibile, è confondere i termini, la potenza e la volontà, la necessità metafisica e la necessità morale, le essenze e le esistenze. Giacché ciò che è necessario, lo è per la sua  essenza, poiché l'opposto implica contradizione; ma il contingente che esiste deve la sua esistenza al principio del  migliore, ragione sufficiente delle cose. Ed è per questo  che io dico che i motivi inclinano senza necessitare; e che  vi è ima certezza e ima infallibilità, ma non una necessità  assoluta nelle cose contingenti.   Ed ho mostrato a sufficienza nella mia Teodicea che  questa necessità morale è felice, conforme alla perfezione  divina, conforme al gran principio delle esistenze, che è  quello del bisogno di una ragione sufficiente; mentre la  necessità assoluta e metafisica dipende dall' altro grande  principio dei nostri ragionamenti, che è quello delle essenze, cioè quello dell’ identità o della contradizione; poiché  quello che è assolutamente necessario è l’unico possibile  fra i vari partiti, e il suo contrario implica contradizione.   (Polemica con Clarke).   Bisogna distinguere tra il necessario e il contingente,  quantunque determinato. E non solo le verità contingenti  non sono punto necessarie, ma anche i loro legami non sono  sempre di necessità assoluta, poiché bisogna riconoscere  che vi è differenza, nel modo di determinare, fra le conseguenze che hanno luogo in materia necessaria e quelle  che hanno luogo in materia contingente. Le conseguenze  geometriche e metafìsiche necessitano, ma le conseguenze  fìsiche e morali inclinano senza necessitare; avendo il fisico stesso in sé qualche cosa di morale e di volontario  rispetto a Dio, poiché le leggi del movimento non hanno  altra necèssità che quella del migliore. Ora Dio sceglie liberamente, benché egli sia determinato a scegliere il meglio.  E, poiché i corpi stessi non scelgono (avendo Dio scelto  per essi), 1’ uso ha voluto che fossero chiamati agenti  necessari ; denominazione cui non mi oppongo, purché non  si confonda il necessario col determinato, e non si vada  ad immaginare che gli esseri liberi agiscano in una maniera indeterminata: errore, questo, che ha prevalso in alcuni spiriti e che distrugge le più importanti verità, ed  anche l'assioma fondamentale che nulla accade senza ragione; assioma senza il quale nè l' esistenza di Dio, nè  altre grandi verità potrebbero essere ben dimostrate. (Nuovi Saggi). Su questo argomento della necessità e libertà, come su moltissimi altri con questo comiessi (origine del male e sua giustificazione nel mondo, libero arbitrio, responsabilità etc.) si  imperniano molteplici problemi, riguardanti un altro aspetto  del pensiero leibniziano, che non dobbiamo qui esaminare:  ([nello della Teodicea. Verità di ragione e di fatto sono dunque ciò di cui è costituita là realtà. Le une assolute, necessarie, imi versali, ma di  una universalità astratta, che ha luogo solo nel mondo ideale  delle possibilità, delle essenze. Le altre concrete, tangibili, esistenti, ma insieme contingenti, individuali, tali che la loro  esistenza non può venire ilimostrata a priori, nè discendere  matematicamente da alcuna forma inerente alla costituzione  del reale. La necessità morale, basata sul principio ili ragione  e finalistico, non elimina, come si è visto, la contingenza:  non dà quella assoluta certezza clic appartiene alle verità di  ragione e deriva dall’ impossibilità del contrario.   Il problema di Leibniz è ora la ricerca di una universalità  anche nel campo del contingente; o, in altri termini, la riduzione del principio di ragion sufficiente a una linea altrettanto  fissa e immutabile che quella del principio di non contradizione. La sostanza individuale sarà la soluzione di questo problema: e con essa Leibniz raggiungerà a suo modo, e sempre  nell’ambito della sua concezione oggettivistica della realtà, una  sintesi di universale e individuale. La carattkkistica. - Miraggio di Leibniz è ili ottenere una  certezza matematica in tutte le cose conosciute, in modo ila  eliminare tutto ciò che si fonila sull'opinione, e di ridurre ogni  ragionamento a un calcolo. È questo il fondamento di quella  Scienza generale, Caratteristica, Ars inveniendi di cui egli vagheggia 1 idea, a partire dal suo saggio sull’Arte Combinatoria, fino alla fine della sua vita. Posso dire senza vanità che, tra i miei contemporanei,  sono uno di quelli che pili ha approfondito la scienza matematica; ed ho scoperto metodi e procedimenti completamente nuovi, che portano questa scienza di là dai limiti  che le erano stati prescritti. 1 saggi che ne ho dati hanno avuto successo in Francia  ed in Inghilterra: e mi sarebbe facile darne ancora molti  altri ; ma io non faccio gran caso delle scoperte particolari,  e ciò che desidero maggiormente è di perfezionare l’arte  d’ inventare in generale, e di dare piuttosto metodi che  soluzioni di problemi; poiché un solo metodo comprende  un’ infinità di soluzioni.  E poiché ho avuto la fortuna di perfezionare considerevolmente l'arte d' inventare o analisi dei matematici, ho  cominciato ad avere certe concezioni nuovissime, per ridurre tutti i ragionamenti umani ad una specie di calcolo  che servirebbe a scoprire la verità, nei limiti ili ciò che è  possibile ex datis, posto cioè quel che ci è dato o conosciuto.  E quando le conoscenze date non bastano a risolvere la questione proposta, questo metodo servirebbe, come nelle matematiche, ad accostarsi il più possibile alla soluzione e a  determinare esattamente ciò che è pili probabile.   Un tale calcolo generale formerebbe nello stesso tempo  una specie di scrittura universale che avrebbe i medesimi  vantaggi che quella dei cinesi, perchè ciascuno la potrebbe  intendere nella sua lingua. Ma supererebbe infinitamente  la cinese in quanto la si potrebbe imparare in poche settimane, avendo essa caratteri ben collegati secondo 1 ordine e la connessione delle cose; mentre i cinesi hanno  una infinità di caratteri secondo la varietà delle cose, e  occorre la vita di un uomo per imparar tiene la loro scrittura. I caratteri cinesi si avvicinerebbero, secondo Leibniz, a quelli della  sua caratteristica, in quanto rappresentano, così come i geroglifici egiziani,  non le lettere di cui ciascuna parola ó forniate, ma l'oggetto stesso che essa  Questa scrittura o LINGUA (se si rendessero enunciabili i  caratteri) puo essere presto accolta nel mondo, perchè la si puo imparare in poche settimane, e fornirebbe un mezzo generale di comunicazione: il che sarebbe  di glande importanza per la diffusione della fede e per  1 istruzione dei popoli lontani. Ma questo sarebbe il minore dei suoi vantaggi; giacche  questa medesima scrittura sarebbe una specie di algebra  geneiale, e darebbe modo di ragionare calcolando, sicché,  invece di discutere, si potrebbe dire: contiamo. E si troverebbe che gli errori di ragionamento non sono che errori  di calcolo, riconoscibili mediante prove, come nell’ aritmetica. Gli uomini avrebbero così un giudice delle controversie  veramente infallibile. Poiché potrebbero sempre sapere se  è possibile decidere la questione j>er mezzo delle conoscenze  che essi posseggono già, e quando non fosse possibile  soddisfarsi intieramente, potrebbero sempre determinare  ciò che è più verosimile. J ci giungere dunque a questa scrittura o caratteristica,  che contiene un calcolo così sorprendente, bisogna cercare  le definizioni esatte dei concetti. Poiché infatti le nostre  parole sono assai oscure e non ci dà imo spesso che nozioni  confuse, si è obbligati a sostituire ad esse altri caratteri,  la cui nozione sia precisa e determinata; ora le definizioni  non sono se non un'espressione distinta dell’ idea della  cosa.   E avendo io studiato con cura non solamente la storia  e le matematiche, ma anche la teologia naturale, la giurisprudenza e la filosofia, ho portato molto avanti questo  progetto, e mi sono fatto una quantità di definizioni. Per rappresenta. Differiscono però dai geroglifici inquanto «sono forse più filone;. e sembrano fondati su considerazioni più intellettuali, come quelle  chedànno i numeri, l’ordine, le relazioni ». (Lettera inedita citata in J. Bakuzi,  Leibniz et l' organisation reXigieuse de la terre, Paris).  esempio la definizione della giustizia per me è la seguente :  La giustizia è la carità del saggio, o una carità conforme  alla saggezza. La carità non è altro clxe la benevolenza  generale; la saggezza è la scienza della felicità, la felicità  è lo stato di gioia durevole, la gioia è un sentimento di  perfezione, la perfezione è il grado di realtà.   Penso di poter dare definizioni analoghe di tutte le passioni. virtù, vizi e azioni umane, quanto ve ne è bisogno.  E con questo mezzo si potrà parlare e ragionare con esattezza. E siccome i nuovi caratteri comprenderanno sempre  le definizioni delle cose, ne segue che essi ci daranno modo  di ragionare calcolando, come ho appunto detto sopra.   Ma per portare a termine un progetto di tanta importanza. il quale fornirebbe al genere umano una specie di  strumento così adatto a perfezionare la vista dello spirito  come gli occhiali servono a quella del corpo, occorrerà  molta meditazione ed un poco di assistenza.   (Lettera al Duca <li Hannover, 1 ti86 ( I ), il. Vii, 25-27).   È principalmente per attuare questo vastissimo progetto  che Leibniz propugnò durante tutta la sua vita la fondazione  di società di scienziati ed accademie. Il progetto rimase sempre inattuato. Ma è interessante lo sviluppo che gli studi compiuti per esso dettero al pensiero di Leibniz. 11 metodo per  raggiungere quegli elementi semplici o « caratteri " dalla cui  composizione derivano tutti gli oggetti della conoscenza umana, è un metodo di scomposizione delle idee che troviamo di  fronte a noi già composte, partendo dalle loro definizioni. Data comunicatami da Ritter. Ecco la primitiva formulazione di questo metodo nell’Arte Combinatoria:    i L'analisi avviene nel modo seguente: Dato un qualsiasi termine, lo si risolva nei suoi elementi formali, cioè se ne ponea la definizione; questi clementi  si risolvano di nuovo in elementi, cioè si ponga la definizione dei termini della  definizione stessa, fino agli elementi semplici o termini indefinibili; poiché  „ non di tutte lo cose si deve ricercare la definizione. E questi ultimi  In greco nel testo: citazione da Aristotele. Con tale metodo sarà possibile qualsiasi dimostrazione. Conosciuta, infatti, 1 intima costituzione di ciascun concetto, si  potrà sempre stabilire in qualsiasi proposizione se il predicato  rientri nel soggetto, abbia cioè con esso in comune i suoi elementi costitutivi.   Di qualsiasi cosa, nulla ci può essere dimostrato, neppure da un angelo, finché noi non conosciamo i termini  costitutivi (requisita) di essa. Infatti in ogni verità tutti  i termini costitutivi del predicato sono compresi fra i termini costitutivi del soggetto, e i termini dell’effetto ricercato comprendono i mezzi che sono stati necessari per  produrlo.   (Initia et specimina scientiae generali).   termini non si comprendono più per definizione, ma per analogia. Trovati tutti questi primi termini, si pongano in una classe, e si indichino con  segni qualsiasi; il più comodo sarà numerarli. Fra i termini primi si pongano non solo lo cose ma anche i modi o rapporti (**•). Poiché i termini  composti variano in distanza dai termini primi, a seconda del numero di  termini primi di cui si compongono - cioè a seconda dell’esponente della  combinazione, - si facciano tante classi, quanti sono gli esponenti, e in ciascuna classe si pongano i termini che constano di un ugual numero di termini primi. I termini sorti da una combinazione di due non si potranno  indicare altrimenti che scrivendo i termini primi di cui si compongono; c  poiché i termini primi sono indicati da numeri, si scrivano due numeri che  indichino i due termini. Ma i termini derivati da una combinazione di tre  o anche da una combinazione di maggior esponente - cioè quelli che sono  nella classe terza e seguenti - si possono indicare ciascuno in tanti modi  diversi quanto sono le combinazioni che compongono il suo esponente, considerato non più come esponente, ma come numero Per esempio, siano   alcuni termini primi indicati dai numeri 3, 6, 7, 9; sia un termine composto della classe terza, cioè formato da una combinazione di tre, p. es.  dai tre termini semplici 3, 6, 9; e siano nella seconda classe le seguenti  combinazioni: I.°) 3.6; 2.<>) 3.7; 3.°) 3.9; 4.°) 6.7; 5.®) 6.9; fi») 7.9. Pico  che quel dato termine della classe terza si può scrivere o cosi : 3. 0. 9, Per analogia Leibniz e Grice intendeno un modo di apprensione più immediato e diretto che non sia il processo logico definitorio; per esempio un’ immagine sensibile. Altrove egli dice che i termini semplici si apprendono coi  sensi. Questo significa che i termini semplici non si devono intendere solamente come dati concreti, di fatto, sensibili, ma comprendono anche dati  astratti, relazioni ecc. Quale sia la vera natura di questi termini semplici  o molto poco chiaro, o Leibniz si ò espresso in proposito sempre in modo  vago e impreciso.  Criterio della  verità è dunque che il predicato rientri nell'ambito del soggetto; e questo rientrare è perfettamente calcolabile. Ma tale  criterio vale solamente per le verità di ragione ohe sono analitiche. In esse sole il predicato è già contenuto nel soggetto,  poiché solo in esse tutto ciò che si afferma (predica) a proposito di una cosa deve essere già nella cosa stessa. Se io dico  che gli angoli di un triangolo sono uguali a due retti, non faccio  altro che mettere in rilievo, nel concetto di triangolo, una qualità già implicita in esso. Il predicato (essere uguali a duo retti)  fa parte già a priori del soggetto (angoli di un triangolo). Ma  posso io affermare che nel concetto di GIULIO (si veda) Cesare, per  esempio, sia già contenuta, a priori, l’azione di PASSARE IL RUBICONE? La proposizione: Cesare passò il Rubicone—GIULIO CESARE PASSA IL RUBICONE – (Grice, Actions and Evnts) non  è analitica, il suo predicato cioè non è già compreso nel sog esprimendo tutti i suoi termini semplici; oppure esprimendo un semplice o,  in luogo degli altri duo semplici, la loro combinazione, p. es. così ; 1 /2 -9 oppure 8/2 . 6, oppure 5 / 2 .3..Ogni qualvolta un tonnine composto viene usato  fuori della sua classe, lo si scrive sotto forma di una frazione il cui numero  superiore o numeratore è il numero d’ordine nella classe, e quello inferiore  o denominatore il numero della classe. È più comodo, nell’ indicare i termini oomposti, di non scrivere tutti i termini primi, ma gli intermedi, per  diminuirne il gran numero, e fra questi intermedi di scegliere quelli che più  facilmente vengono in mente a chi consideri quella determinata cosa. Ma  sarebbe più rigoroso scrivere tutti i termini primi. Stabiliti questi principi,  si possono trovare tutti i soggetti 0 i predicati, sia affermativi sia negutivi,  sia universali sia particolari. I predicati di un soggetto dato sono infatti 1  suoi termini primi; così pure tutti i termini composti più vicini di esso ai  primi, i termini primi dei quali sono compresi nel soggetto dato. Se dunque  il termino dato che viene considerato come soggetto è scritto in funzione  dei suoi termini primi, sarà facile trovare quei primi che di esso si predicano,  o si potranno anche trovare i composti che di esso si predicano, se si conserverà l’ordine nel formare le combinazioni. Se invece il termine dato è indicato corno una composizione di composti, o in parte di composti, in parte  di semplici, tutto ciò che si può predicare dei composti che lo compongono  si può predicare anche del termine dato In tal modo sara facile indagare per mezzo del calcolo tutto ciò che si può predicare di qualsiasi soggetto  dato. ARS COMBINATORIA).  P. es. 5/2 . 3 significa la combinazione del termine semplice 3 col termine composto che ha il quinto posto nella seconda classe; e cioò, secondo  la lista indicata sopra, con 6.9. La notazione 5 /2 - 3 indica dunque il termine  composto 3.6.9. Questo ò, in sostanza, lo schema dol procedimento sillogistico, in cui iò che si predica del termine più generale si può predicare anche del particolare in esso contenuto. getto, ma vi viene aggiunto per esperienza diretta, contingente. Questa proposizione appartiene alle verità di fatto. Ora, è possibile una dimostrazione rigoros.a in questo campo, se ogni dimostrazione è, come si è visto, un semplice calcolo per stabilire che i termini componenti il predicato fanno parte del complesso dei termini componenti il soggetto? Leibniz dice a volte che la dimo strazione, quanto alle proposizioni di fatto, da solo IìT PROBABILITÀ e non la certezza – cf. Grice, “Probability, Desirability, and Mode Operators”. Ma egli  tenta anche di fondare in modo più rigoroso la sistemazione  logica di queste verità, e di far rientrare anche esse nella regola del predicato contenuto nel soggetto. A tale scopo egli  si serve del principio di causalità, cui sottostanno tutte le verità di fatto. I termini dell’effetto ricercato - si è visto comprendono i mezzi necessari a produrlo. L'effetto (measles), cioè, comprende già nella sua nozione tutte le cause (those spots) che 1’hanno determinato. E, reciprocamente, potremo dire che la nozione della  causa racchiude in sè già implicitamente tutti gl’effetti – cf. Grice, CONSEQUENTIA -- cui  da luogo. Ora, poiché ogni dato di fatto appartiene alla serie delle cause e degl’effetti, ed è insieme effetto e causa,  si può affermare che ogni nozione individuale contiene in se  le nozioni delle cause che 1’hanno prodotta e degl’effetti cui  da luogo. Questa causa e questi effetti a loro volta conterranno le loro cause e i loro effetti, e così via, fino alla causa prima del tutto e causa di sè, cioè il divino. Sicché ciascun singolo dato e collegato, attraverso tali rapporti causali, con tutto l’universo. La conoscenza di tutti questi infiniti nessi causali è superiore alle forzi dell ingegno umano, il quale perciò si contenta di ricorrere all’esperienza del dato di fatto, rinunciando a dedurlo dalle sue cause. È però, in linea di  principio, possibile. Le proposizioni certe per sè stesse sono di due tipi; le  ime hanno la loro validità nella ragione, e cioè nel contenuto dei loro termini e io le chiamo note per sè stesse o anche identiche. L’altre sono di f'atdoT e ci sì manifestano attraverso esperienze indubitabili. Tali sono  anche le testimonianze immediate della coscienza. Anche le proposizioni di fatto hanno le loro ragioni,  e perciò potrebbero essere risolte nella propria costituzione. Ma noi non potremmo conoscerle a priori attraverso le loro cause, se non conoscendo la totalità dell'universo – COGNITA TOTA SERIE RENIVI -- il che supera la forza  dell' intelletto umano. Perciò le apprendiamo a posteriori, sperimentalmente. Ma poiché spesso dobbiamo agire riguardo a cose per le quali manchiamo di una sicura scienza,  è preferibile che almeno sappiamo di sicuro che una certa  proposizione è PROBABILE. Præ-cognita <id Encyclopatdiam). L’apprensione per via sperimentale e il metodo della PROBABILITÀ derivano dalla imperfezione della conoscenza umana. In linea di principio, anche di qualsiasi verità di fatto si può  avere una nozione ANALITICA A PRIORI tale che contenga in sè  già sviluppati tutti i predicati, cioè tutti gl’effetti e le cause. Il segno d’una conoscenza perfetta si ha quando non c'è nulla della cosa trattata di cui non si possa render  ragione, e non vi sia nessun avvenimento di cui non si  possa predile l'avverarsi. Frammento De la Hagense). Ora, tale conoscenza a priori dei contingenti, se è impossibile alla mente umana, non è impossibile a Dio che li ha scelti  e li ha messi in atto. Di qualsiasi verità si può rendere ragione. Infatti, la  connessione del predicato col soggetto o è evidente eli per  sè, come nelle proposizioni identiche (“Grice = Grice, relative to time t), oppure si deve spiegare, il che avviene con la scomposizione dei termini. E  l'unico c massimo criterio della verità, beninteso nelle proposizioni astratte e non derivanti dall' esperienza, è di risolversi nell’identità – VT SIT REI IDENTICA VEL AD IDENTICAS REVOCABILIA. Di qui si possono dedurre gl’elementi della  eterna verità e il metodo in ogni problema, purché si sap Oioè potrebbero essere considerate come analitiche.  pia procedere in modo altrettanto dimostrativo che nella  geometria. Così, tutto viene compreso da Dio a priori e al modo delle verità eterne; poiché egli non ha bisogno  di esperienza, ed ogni cosa viene conosciuta da lui in modo adeguato, mentre da parte nostra quasi nessuna  cosa è conosciuta adeguatamente, poche a priori, e le più  per via sperimentale. E per quest'ultimo modo di conoscenza si devono usare altri principi ed altri criteri. (Ve Synthesi et Analysi universali). Qualsiasi cosa creata, dunque, nella sua considerazione a  priori, così come è nella mente di Dio, contiene in sè come  predicati tutti gl’altri contingenti che sono stati o saranno  in una qualsiasi connessione causale con essa. In una parola, tutto il suo passato e tutto il suo avvenire. Ciò che sono i  termini semplici nella costituzione dei concetti di ragione, sono,  nelle verità di fatto, questa serie di cause e di effetti. Intesa ciascuna verità di fatto in questo modo, come soggetto di infiniti predicati, Leibniz la chiama sostanza individuale. Essa racchiude in sè, quando sia intesa in tutta la sua  comprensione, con gl’infiniti suoi collegamenti, tutto l'universo. Per distinguere l’azioni di Dio e delle creature, viene spiegato in che consista il concetto di sostanza individuale. Poiché l’azioni e le passioni appartengono propriamente alle sostanze individuali (actiones sunt mppositorum), è necessario spiegare che cosa sia u mutale sostanza. E pur vero che quando si attribuiscono piìi PREDICATI ad un medesimo soggetto, e questo soggetto non si attribuisce come predicato a nessun altro, lo si chiama sostanza individuale. Ma ciò non è sufficiente, ed una tale spiegazione non è che nominale. Bisogna dunque considerare che cosa significa l'essere attribuito veramente ad  un certo soggetto. Ora è evidente che ogni vera predicazione ha qualche  fondamento nella natura delle cose, e quando una proposizione non è identica, quando cioè il predicato non è compreso espressamente nel soggetto, Insogna che vi sia  compreso virtualmente: ed è ciò che i filosofi chiamano  in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto. Così occorre che il termine del soggetto comprenda sempre quello del predicato, in modo che colui che intende perfettamente la nozione del soggetto, giudicherebbe anche che il  predicato gli appartiene. Posto ciò, possiamo dire che la natura di una sostanza  individuale o di un essere completo è che la sua nozione è così compiuta, da bastare a comprendere e a farne  dedurre ogni predicato del soggetto cui questa nozione si attribuisce. Mentre l’accidente è un essere la cui nozione non comprende affatto tutto ciò che si può attiibuire al soggetto (GRICE – HAZZING AND IZZING) al quale si attribuisce questa nozione.  Così la qualità di re che appartiene ad Alessandro Magno – o GIULIO (vedasi) CESARE, o meglior, ROMOLO,  facendo astrazione dal soggetto, non è abbastanza determinata ad un individuo, e non comprende affatto le altre qualità del medesimo soggetto, nè tutto ciò che è compreso nella nozione di quel principe o dittatore. Mentre Dio, vedendo  la nozione individuale o /«eccetto* d’Alessandro o GIULIO (vedasi) CESARE, o meglior ROMOLO (vedasi) vi vede  nello stesso tempo il fondamento e la ragione di ogni predicato che gli si possono veramente attribuire, come  per esempio che egli vince Dario e Poro – o ch’è assassinato da suo proprio figlio – o ch'assassina a suo proprio fratello --, fino a conoscervi a priori, e non per esperienza, se egli è morto di  morte naturale o per veleno o coltello – o come sacrifizio dai sequaci di Numa; cose che noi non possiamo sapere se non dalla storia della ROMA ANTICA. Inoltre, quando si consideri bene la connessione delle cose, si può dire che vi sono d’ogni  tempo nell’anima d’Alessandro o GIULIO CESARE o ROMOLO resti di tutto ciò che gli e  Cioè, nelle proposizioni identiche (analitiche) il predicato è contenuto  nel soggetto per la conformazione del soggetto stesso (espressamente). Nelle  proposizioni di fatto, invoee il predicato è contenuto nel soggetto in quanto collegato ad esso da una relazione di causa ad effetto (virtualmente)] accaduto, e segni di tutto ciò che gli accadrà, perfino  tracce di tutto ciò che accade nell’universo; benché non  appartenga che a Dio di riconoscerle tutte (Discours de métaphysiqtu:,-- hence ‘God knows’ – cf. Kenny, The god of the philosophers, the Wilde Oxford lectures on natural religion).   A questa stregua possiamo dire che l’atto di PASSARE IL RUBICONE – essempio di Grice, “ACTIONS AND EVENTS” -- non si aggiunge alla nozione di GIULIO (vedasi) Cesare come qualche cosa di nuovo, di contingente, d’imprevisto. GIULIO (vedasi) Cesare, per chi intenda questa nozione in tutti i suoi collegamenti, contiene in sè già a priori tutto lo sviluppo della sua personalità, COMPRESSO L’ATTO DI PASSARE IL RUBICONE -- il quale, quando si attuerà, non è che la CONSEQUENZA (Grice, CONSEQUENTIA) necessaria delle cause che 1’hanno  prodotto, quindi lo sviluppo ili ciò che è già contenuto  in esse. Libertà e causalità. Sorge qui di nuovo, analogamente a ciò che si è visto poc’anzi a proposito della determinazione di Dio a scegliere il migliore, il problema della libertà – cf. Grice on FREE FALL in “Actions and Events”. Se  ogni fatto contingento È presente nella mente di Dio, non  cessa esso di essere contingente? Non è per ciò stesso necessario, pre-determinato? E non cade così anche qualsiasi  libertà nell azione dell’uomo, la quale si svolge nel campo delle verità di fatto? E insieme con essa, ogni responsabilità umana nel biute e nel male? Anche a proposito di questo problema, strettamente collegato con l'altro citato, Leibniz fa una  distinzione fra connessione necessaria e inclinante. Poiché la nozione individuale d’ogni persona comprende una volta per tutte ciò che mai le accade, si redono in essa le prove a  priori dell’avverarsi di ciascun avvenimento, o le ragioni per cui  è avvenuta una cosa piuttosto che un’altra. Ina queste verità, benché  sicure, nondimeno sono contingenti, in quanto fondate sul LIBERO ARBITRIO di Dio o delle CREATURE – cf. Grice/Pears/Thomson, Freedom of the will, the Oxford seminars --, la cui scelta dipetuie sempre da ragioni che inclinano senza necessitare. Bisogna cercare di risolvere una grave difficoltà che può nascere dai fondamenti che abbiamo fissato qui sopra. Abbiamo detto che la nozione di una sostanza individuale comprende una volta per tutte tutto ciò che le può  mai accadere, e che, considerando tale nozione, vi si può vedere tutto ciò che si potrà veramente enunciare di essa,  come possiamo vedere nella natura del circolo tutte le proprietà che se ne possono dedurre. Ma semi ira che venga con  ciò distrutta la differenza fra le verità contingenti e le necessarie, che non vi sia più alcuna libertà umana, e che una  fatalità assoluta venga a regnare su tutte le nostre azioni  come su tutto il resto degli avvenimenti del mondo. Al  che io rispondo che bisogna fare distinzione fra ciò che è  certo e ciò che è necessario: tutti sono d'accordo che i  futuri contingenti sono assicurati, poiché Dio li prevede;  ma non si riconosce, dicendo ciò, che siano necessari. Ma,  si dirà, se qualche conclusione si può dedurre infallibilmente da una definizione o nozione, essa sarà necessaria. Ora. dato che noi sosteniamo che tutto ciò che deve  accadere a qualsiasi persona è già compreso virtualmente  nella sua natura o nozione, così come nella definizione del  circolo sono comprese le sue proprietà, la difficoltà sussiste  ancora. Per risolverla in modo plausibile, dico che la connessione o consecuzione è di due specie : l’ una è assolutamente necessaria, e il suo contrario implica contradizione  (e questo modo di deduzione ha luogo per le verità eterne,  come quelle di geometria). L’altra non è necessaria che ex  hypothesi e, per così dire, accidentalmente, ma in sè stessa  è contingente: e ha luogo quando il contrario non implica  contradizione. E questa connessione è fondata non sulle  pure idee e sul semplice intelletto di Dio, ma anche sui  suoi liberi decreti e sull'ordine dell’universo.   Veniamo ad un esempio: poiché Giulio Cesare diverrà  dittatore perpetuo e capo della repubblica, e rovescerà la  libertà dei Romani, tale azione è compresa nella sua nozione, poiché noi supponiamo che la natura di una tale  nozione perfetta di un soggetto sia di comprendere tutto,  affinché il predicato vi sia compreso, ut possit inesse subjecto. Si potrebbe dire che non è in virtù di questa nozione o idea che egli deve commettere questa azione, poiché essa non gli conviene se non perchè Dio sa tutto.  Ma si insisterà che la sua natura o forma risponde a  questa nozione, e poiché Dio gli ha imposto questa parte,  gli è ormai necessario sostenerla. Io potrei rispondere invocando l’analogia dei futuri contingenti, i quali non hanno  ancor nulla di reale se non nell’ intelletto e nella volontà di  Dio, e poiché Dio ha dato loro inizialmente questa forma,  bisognerà in ogni modo che vi rispondano.   Ma preferisco risolvere le difficoltà che giustificarle con  l’esempio di altre difficoltà simili; e ciò che dirò, servirà  a chiarire sia l una sia l'altra. È dunque ora il momento di  applicare la distinzione fra le connessioni; ed io dico che  ciò che accade conformemente a questi precedenti è sicuro,  ma non necessario: e se qualcheduno facesse il  contrario,  non farebbe nulla d’ impossibile in sé, quantunque sia impossibile (ex hypothesi) che ciò accada. Poiché, se qualche  uomo fosse capace di portare a termine tutta la dimostrazione in virtù della quale potrebbe provare questa connessione del soggetto che è Cesare col predicato che è la  sua fortunata impresa, mostrerebbe effettivamente che la  dittatura futura di Cesare ha il suo fondamento nella sua  nozione o natura: che vi si vede una ragione per cui egli  ha deciso di passare il Rubicone piuttosto che di arrestarvisi, e per cui egli ha vinto piuttosto che perso la giornata di Farsaglia, e si vede pure che era ragionevole e  perciò sicuro che ciò sarebbe accaduto, ma non che ciò  fosse necessario in sé stesso, nè che il contrario implicasse contradizione. Press’ a poco come è ragionevole e sicuro che Dio farà sempre il migliore, benché ciò che è  meno perfetto non implichi affatto contradizione.   Infatti si troverebbe che tale dimostrazione di questo predicato di Cesare non è altrettanto assoluta che quella dei  numeri o della geometria, ma che essa presuppone l’ordine  delle cose che Dio ha scelto liberamente, e che è fondato  sul primo Ubero decreto di Dio - il quale comporta di fare   sempre tutto ciò ohe è più perfetto - e sui decreto che Dio  ha fatto (in seguito al primo) riguardo alla natura umana,  cioè che l’uomo farà sempre (per quanto liberamente) ciò  che parrà il migliore. Ora ogni verità che sia fondata su  questa specie di decreti è contingente, benché sia certa;  poiché questi decreti non cambiano affatto la possibilità  delle cose e, come ho già detto, benché Dio scelga sempre sicuramente il migliore, ciò non impedisce che ciò che  è meno perfetto non sia e non resti possibile in sé stesso,  sebbene non accadrà ; perchè non è la sua impossibilità,  ma la sua imperfezione che lo fa respingere. Ora nulla è  necessario, di cui sia possibile l’opposto.   Si sarà dunque in condizione di risolvere queste specie  di difficoltà, per quanto grandi appaiano (ed infatti esse  non sono mono impellenti a questo riguardo che tutte le  altre che si sono mai riferite a tale materia), purché si  consideri bene che tutte le proposizioni contingenti hanno  ragioni per essere piuttosto così che altrimenti, oppure  (ciò che è lo stesso) che esse hanno delle prove a priori  della loro verità, le quali le rendono certe e mostrano  che la connessione del soggetto e del predicato di queste proposizioni ha il suo fondamento nella natura dell’ imo e dell'altro: ma che esse non hanno dimostrazioni  di necessità, poiché queste ragioni non sono fondate che  sul principio della contingenza o dell'esistenza delle cose,  cioè su ciò che sembra il migliore fra varie cose ugualmente possibili : mentre le verità necessarie sono fondate  sul principio di contradizione e sulla possibilità o impossibilità delle essenze stesse, senza riguardo, in ciò, alla  volontà libera di Dio o delle creature.   ( Discour « de métti physique).   D’altra parte, Leibniz usa anche altri argomenti per salvare la libertà e la responsabilità in questa connessione causale  universale. Libertà non è sempre necessariamente un contrapposto di determinazione causale.  Quanto al libero arbitrio, sono dell' opinione dei tomisti (1) e di altri filosofi, i quali credono che tutto sia  predeterminato: e non vedo ragione di dubitarne. Ciò però  non impedisce che noi abbiamo ima libertà esente non  solo dalla costrizione, ma anche dalla necessità: ed in ciò  la nostra situazione è analoga a quella di Dio stesso, il  quale è pure sempre determinato nelle sue azioni, poiché  non potrebbe fare a meno di scegliere il migliore. Ma se  egli non avesse da scegliere, e se ciò che egli la, fosse 1 unico  possibile, egli sarebbe sottomesso alla necessità. Piu si è  perfetti, più si è determinati al bene, ed anche più liberi  nello stesso tempo. Poiché si ha una facoltà e conoscenza  tanto pili estesa ed una volontà tanto più rinchiusa nei  limiti della perfetta ragione.   (Lettera al Bayle).   Quantunque tutti i fatti dell’universo siano ora certi in  rapporto a Dio. o (ciò che è poi lo stesso) determinati in  sé stessi ed anche legati fra di loro, non ne viene di conseguenza che il loro legame sia sempre di una vera necessità. cioè che la verità la quale stabilisce che un fatto  è conseguenza dell altro, sia necessaria. Ed è questo principio che bisogna applicare particolarmente alle azioni  volontarie.   Quando ci si propone una scelta, per esempio di uscire  o di non uscire, il problema è se, con tutte le circostanze  interne od esterne, motivi, percezioni, disposizioni, impressioni. passioni, inclinazioni prese insieme, io sia ancora in  istato di contingenza, o se io sia necessitato a scegliere,  per esempio, di uscire. Cioè è da domandare se la proposizione vera ed effettivamente determinata: « in tutte queste  circostanze prese insieme io sceglierò di uscire », sia con- Il principio ohe il mondo sensibile sia retto dalla leggo di causalità  appartiene alla tradizione ari»toteliea, ricevuta da Leibniz attraverso la  scolastica. tingente o necessaria. A ciò io rispondo che è contingente;  perchè nè io nè alcun altro spirito più illuminato di me  potrebbe dimostrare che l'opposto di questa verità implichi contradizione. E supposto che per libertà il' indifferenza et intenda una libertà opposta alla necessità (come  ho or ora spiegato), io accetto tale concetto della libertà.  Poiché sono effettivamente d'opinione che la nostra libertà,  così come quella di Dio e degli spiriti beati, è esente non  solo da coazione, ma anche da una necessità assoluta;  benché essa non possa essere esente dalla determinazione  e dalla certezza.   Ma io penso che in questo argomento sia necessaria una  grande precauzione, per non cadere in una concezione chimerica che urta contro i principi del buon senso: la quale  sarebbe ciò che io chiamo indifferenza assoluta o di equilibrio: concetto che taluni introducono nella libertà, e che  io ritengo chimerico. Bisogna dunque considerare che questo legame di cui ho parlato, assolutamente parlando non  è punto necessario, ma che non jier questo è men vero;  e che in generale, ogni volta che. in tutte le circostanze  prese insieme, la bilancia della deliberazione è piìi carica  da una parte che dall’altra, è certo e immancabile che questo partito vincerà. Dio, o il saggio perfetto, sceglieranno  sempre il migliore conosciuto, e se un partito non fosse migliore dell'altro, essi non sceglierebbero nè l'uno nè l’altro.  Nelle altre sostanze intelligenti, le passioni spesso terranno  luogo di ragione, e si potrà semine dire, riguardo alla volontà in generale, che la scelta segue la jiiù grande inclinazione-, nella quale io comprendo sia le passioni, sia le  ragioni vere o apparenti.   So bensì che qualcuno immagina che ci si determini  qualche volta per il partito meno carico di ragioni, che  Dio scelga qualche volta, tutto considerato, il minor bene,  e che l’ uomo scelga a volte senza motivo e contro tutte le  sue ragioni, disposizioni e passioni; insomma che si scelga a volte senza che vi sia alcuna ragione che determini la  scelta. Ma ciò, io lo ritengo falso e assurdo, poiché è uno  dei massimi principi del buon senso che nulla accada  senza causa o ragione determinante.   Così, quando Dio sceglie, lo fa secondo il criterio del migliore; quando l'uomo sceglie, sceglierà il partito che l'avrà  colpito maggiormente. E se scegliesse ciò che vede meno  utile e meno piacevole, sarà magari perchè gli è divenuto  piacevole per capriccio, per spirito di contradizione, o per  analoghe ragioni di gusto depravato; le quali però non  per questo saranno meno determinanti, anche quando non  fossero concludenti. E non si troverà mai un esempio contrario a ciò.   Così, quantunque noi abbiamo una libertà di indifferenza  che ci salva dalla necessità, non abbiamo mai una indifferenza di equilibrio che ci esima dalle ragioni determinanti. C’è sempre qualche cosa che ci inclina e ci la scegliere, ma senza che ci possa necessitare. E come Dio e  sempre portato infallibilmente al migliore, per quanto non  vi sia portato necessariamente (se non per mia necessità  morale), noi siamo sempre portati infallibilmente a ciò  che ci colpisce di più, ma non necessariamente. Poiché  il contrario non implicava alcuna contradizione, non era  punto necessario nè essenziale che Dio creasse alcunché  nè che creasse particolarmente questo mondo: benché la  sua saggezza e la sua bontà ve lo abbiano indotto.   (Lettera al Coste, 1707, 6. Ili, 400-102).   Previsione e predeterminazione. - Posto ciò, è possib ile  pensare che la previsione dei predicati contingenti da partedi Dio non contraddica alla libertà. P reveder e non significa  predeterminare. Dio sceglie fra i possibili una serie nella quale  soiuTdpaT contenute determinate azioni col carattere di libertà. Nello sceglierle, egli non le crea nè le determina: non  fa che metterle in azione, attualizzare la loro possibilità. Nel  farlo, egli vede tutta la serie, ne prevedo gli sviluppi: con ciò non ha però determinato quelle azioni, le quali mantengono,  nella serie attuale come in quella possibile, la loro caratteristica di libertà.    Dio inclina la nostra anima senza necessitarla ; non si ha il diritto  di lamentarsi, e non si deve domandare perchè Giuda pecchi, ma  solamente perchè il peccatore Giuda sia ammesso all' esistenza a preferenza di altre persone possibili. Imperfezione originale prima del  peccato e gradi della grazia.   Quanto all’azione di Dio sulla volontà umana, vi sono  moltissime considerazioni assai difficili, che sarebbe lungo  esporre qui. Ciò nonostante, ecco che cosa si può dire  all' ingrosso: Dio, concorrendo ordinariamente alle nostre  azioni, non fa che seguire le leggi che egli ha stabilite;  egli conserva, cioè, e produce continuamente il nostro essere, in modo che i pensieri ci arrivino spontaneamente  o liberamente nell'ordine determinato dalla nozione della  nostra sostanza individuale, nella quale essi si potevano  prevedere fin dall’eternità. In più, in virtù del suo decreto  secondo cui la volontà tende sempre al bene apparente,  esprimendo o imitando la volontà di Dio sotto certi aspetti  particolari, riguardo ai quali questo bene apparente ha  sempre qualche cosa di reale, egli determina la nostra  alla scelta di ciò che sembra il migliore, senza però necessitarla. Poiché, assolutamente parlando, essa è nell’ indifferenza, in quanto la si oppone alla necessità, ed ha  il potere di fare altrimenti o anche di sospendere affatto  la propria azione; l'uno e l'altro partito essendo e rimanendo possibili.   Dipende dunque dall'anima di premunirsi contro le sorprese dell’apparenza, attraverso una ferma volontà di fare  riflessioni, e di non agire nè giudicare in determinate occasioni, se non dopo aver maturamente deliberato, fi vero  però, ed anche è assicurato da tutta f eternità, che qualche  anima non si servirà affatto di questo potere in una tale circostanza. Ma chi ne ha colpa? può essa lagnarsi d'altri  che di sè stessa ? Poiché tutte queste lagnanze post factum  sono ingiuste, quando sarebbero state ingiuste ante factum.  Ora quest’anima, un poco prima di peccare, avrebbe motivo di lagnarsi di Dio come se egli la determinasse al  peccato? Essendo le determinazioni di Dio in questa materia imprevedibili, d’onde sa essa di essere determinata  a peccare, se non quando essa pecca già effettivamente?  Non si tratta che di non volere; e Dio non potrebbe proporre condizione più agevole e piii giusta; così tutti i  giudici, senza cercare le ragioni che hanno disposto un  uomo ad avere una cattiva volontà, si fermano a considerare soltanto quanto questa volontà sia cattiva. Ma forse  è fissato da tutta l’eternità che io peccherò? Rispondete  voi stessi: forse no. E senza pensare a ciò che voi non  potete conoscere e che non può darvi alcun lume, agite  seguendo il vostro dovere, che conoscete.   Ma qualche altro dirà : D onde consegue che quest'uomo  commetterà sicuramente questo peccato ? La risposta è  facile: è che altrimenti non sarebbe quest’ uomo. Poiché  Dio vede dall’eternità che vi sarà un certo Giuda la cui  nozione o idea posseduta da Dio contiene questa azione  futura libera. Non resta dunque se non questo problema:  perchè un tal Giuda, traditore, che non è se non possibile  nell’ idea di Dio, esista attualmente. Ma a tale domanda  non è da aspettare risposta quaggiù, se non che in generale si deve dire che, poiché Dio ha trovato giusto che  Giuda esistesse nonostante il peccato che egli prevedeva,  bisogna che questo male si compensi ad usura nell - universo,    che Dio ne tragga un bene maggiore, e che insomma questo  ordine di cose, nel quale l'esistenza di tale peccatore è compresa, sia il più perfetto fra tutti gli altri ordini possibili. Questo concetto del male come parte integrante e necessaria dell’armnnia universale, sarà il tenia fondamentale della Tendiceli. Ma spiegare sempre l' ammirevole economia di questa  scelta, non si può, durante il nostro passaggio su questo mondo; e basti saperlo, senza comprenderlo. Questo  è il momento di riconoscere altitudinem divitiarum, la  profondità e l’abisso della saggezza divina, senza voler  sviluppare problemi di dettaglio, che implicano considerazioni infinite.   Si vede però bene che Dio non è la causa del male.  Poiché non soltanto dopo la perdita dell’ innocenza degli  uomini il peccato originale si è impossessato dell' anima,  ma ancor prima vi era una limitazione o imperfezione  originale connaturale a tutte le creature, che le rendeva  soggette al peccato e capaci di errare. Così non vi è maggior difficoltà riguardo ai supralapsari (1) che riguardo  agli altri. Ed a ciò, a mio avviso, si deve ridurre l'opinione di S. Agostino e di altri autori, che l’ orìgine del  male sia nel nulla; cioè nella privazione o limitazione delle  creature, alla quale Dio rimedia graziosamente col grado  di perfezione che gli piace di dare. Questa grazia di Dio,  sia ordinaria o straordinaria, ha i suoi gradi e le sue misure,  è sempre efficace in sé stessa a produrre un certo effetto  proporzionato; ed inoltre essa è sempre sufficiente, non  solo a preservarci dal peccato, ma anche a condurci alla  salvazione, supponendo che l’uomo si unisca ad essa per  quanto dipende da lui. Ma essa non è sempre sufficiente  a superare le inclinazioni dell' uomo, perchè altrimenti egli  non terrebbe più a nulla; e ciò è riservato alla sola grazia  assolutamente efficace, che è sempre vittoriosa; o che lo  sia per sè stessa, o per l'accordo delle circostanze.   (Discount de mélaphysiqne). L supralapsari sostenevano, contro gli infialapsari, che la predeterminazione divina si esercitasse anche prima del peccato originale (sujrra  lapsum, prima della caduta) e che quindi il fallo di Adamo non fosse stato  compiuto per un atto di libera volontà. Leibniz, con questu sua conciliazione di predeterminazione e contingenza o libertà, rende ozioso il problema, Leibniz, La monadologia. Ma a parto questi problemi di necessità, libortà, previsione  predeterminazione, che rientrano piuttosto nell’ambito della  Teodicea, il punto essenziale toccato qui è V universalità della  sostanza indimdmle che, con lo infinite connessioni che racchiude in sè, diviene l’universo stesso visto da un particolare  punto di vista. Essa comprende il proprio passato e il proprio  avvenire, e insieme il passato e l’avvenire di tutto l'universo;  raggiunge cioè il massimo del l'universalità: è una visione totale, complessiva del tutto.   E d'altra parte conserva tutta la sua individualità. 11 punto  di partenza è sempre il singolo dato di tatto, specifico, particolare, contingente. Esso non scompare nel tutto: rimane ben  chiaro e visibile come capo dell’ immenso filo svolgentesi alI' infinito, al seguito di tutte le connessioni causali. Rimane  e garantisce un punto di appoggio, una possibilità di percorrere ordinatamente tutto 1’ interminabile cammino. E d’altra  parte ammette la possibilità di infiniti altri punti di partenza.  Le sostanze individuali sono tante quanti sono i dati di fatto,  cioè infinite. E ciascuna è tutto l’imiverso. Ma ciascuna da un  diverso punto di vista, con diverso punto di partenza. L’universo è uno: ciascun particolare è una infinitesima parte di  esso: ma da ciascun particolare si ha la possibilità di risalire  alla totalità nel suo complesso. In questa unione di particolare  e universale nella sostanza individuale, sta la prima grande  scoperta di Leibniz, il nu cleo fon damentale del concetto di  monade. Un altro campo del! attività di pensiero loibniziana è la filosofia della natura; campo ben distinto da quello che si è visto  fin ora, e trattato con strumenti e metodi di tutt’altro genere.  I problemi qui analizzati hanno particolare affinità con quelli  dello scienze fisiche: c ostituzione della m ateria, esistenza o meno  degli atomi, del vuoto, origine e funzione del movimento, dell’energia, etc. Leibniz non fa discendere la soluzione di questi  problemi dai principi generali della sua filosofia metafisica:  li tratta per sè stessi, secondo una tecnica ad essi propria,  seguendo in questo il suo uso di entrare sempre nel vivo di  ogni ricerca e di appropriarsi le caratteristiche particolari di  ogni scienza. In seguito poi, una volta giunto a determinate  soluzioni e ad atteggiamenti definitivi, li metterà in rapporto  con le soluzioni ottenute negli altri campi, giungendo così a  sintesi sempre più ricche e comprensive.   La continuità e la materia. - Le idee di Leibniz nella  filosofia fisica subiscono una profonda evoluzione, dalla giovanile Hypothesis physica nova, alle concezioni più mature. E  nel corso di questa evoluzione si formano i suoi concetti fondamentali in questo campo. Egli comincia come atomista, al  seguito del Gasa elidi, il quale rinnovava le dottrine  di Epicuro e di Democrito, e concepiva la materia in tutti  i suoi aspetti come formata dalla varia combinazione degli  atomi nel vuoto. Ben presto però Leibniz abbandona questa  teoria, la quale è inconciliabile col suo principio di continuità. È questo uno dei fondamenti del suo pensiero, e si applica  non solo alla considerazione della materia, ma anche a molti  altri aspetti della sua speculazione. Per esso non esistono arresti,  interruzioni, distacchi nello sviluppo delle cose. Per esso natura  non facil saltus. Applicato alla considerazione logica del mondo  sensibile, questo principio è il fondamento del passaggio ininterrotto dalla causa all’effetto e dall’effetto alla causa, senza  ammettere posto una volta il miracolo iniziale della creazione nuove creazioni ex novo, nuovi miracoli. Per questo principio tutto il mondo è comiesso in tutte le sue parti; sì che dalì’una si può, attraverso un procedimento ininterrotto, passare a  qualsiasi altra.   Nulla avviene ad un tratto. Una delle mie grandi massime, e delle più ricche di applicaziomi, è che la natura  non fa mai salti : 1' ho chiamata legge della continuità; e l’uso di questa legge è molto importante nella fisica:  essa stabilisce che si passi sempre dal piccolo al grande e  viceversa, attraverso il medio, nei gradi come nelle parti,  e che mai mi movimento nasca immediatamente dal riposo, nè vi giunga se non attraverso un movimento più  piccolo; che non si possa mai finire di percorrere alcuna  linea o lunghezza prima d’aver percorso una linea più  piccola; quantunque coloro che hanno formulato finora  le leggi del movimento, non abhiano affatto osservato  questa legge, credendo che un corpo possa ricevere in mi  istante un movimento contrario al precedente. Tutto ciò  permette di stabilire che anche le percezioni evidenti^derivano per gradi da quelle che sono troppo piccole per  essere osservate. Giudicare altrimenti significa non conoscere a sufficienza 1’ i mm ensa sottigliezza delle cose, che  implica sempre e ovunque un infinito attuale.   (Nuovi Saggi, Prefazione). Applicato alla considerazione del mondo materiale, il principio  di continuità stabilisce che la materia è divisibile all’ infinito,  e che non è possibile concepire un arresto in questa divisibilità,  o pensare un elemento che sia indivisibile e possa rappresentare  un punto ili partenza per la costituzione dei corpi. Viene così  a cadere la dottrina dell’ atomo (1) come elemento primo e  semplice, dalla cui composizione derivino i diversi aspetti della  materia. Qualsiasi elemento materiale, sia pur piccolissimo, è  concepito come composto di parti.   Poiché il continuo è divisibile all'infinito, qualsiasi atomo  sarà, in certo modo, come un mondo di infinite specie,  e vi saramio mundi in mundis in infinitum.   ( Hypothesis pkyeica nova, Theoria molli e concreti). Tutta la natura è piena di corpi organizzati, cioè animali  e piante o altre specie ancora, e non vi è atomo che non  contenga un mondo di creatine, poiché tutto è diviso attualmente all' infinito.   (lettera a Burnott).   Il movimento. La materia, dunque, non è formata di  atomi: è divisibile all’infinito, continua, omogenea, tale che  mai si potrà arrivare all’elemento più piccolo di essa. D’altro  lato, essa non è riducibile a pura estensione, come voleva Cartesio. Tale concezione, che terrebbe conto nella materia dei  soli elementi geometrici e la considererebbe solo in funzione  dello spazio che occupa, non è sufficiente per Leibniz. La materia è per lui qualche cosa di più: è anzitutto compattezza,  movimento, inerzia. È ciò che oppone resistenza. Che la natura normale della sostanza corporea sia costituita dall’estensione, mi pare sia affermato da molti con  grande sicurezza, ma da nessuno dimostrato; certamente,  non derivano dal l’estensione nè il movimento o azione,  nè la resistenza o passione; e neppure le leggi della natura  che regolano il movimento e l’urto dei corpi. E veramente  il concetto dell'estensione non è primitivo, ma risolubile ATOfioq significa appunto indivisibile.   (2) Ricordiamo che Cartesio, nella sua deduzione del mondo da Lio,  prende come punto di partenza le due sostanze: ree cogitane (principio spirituale) e ree exietcne (principio della materia).  in altri. Infatti, da ciò che è esteso si richiede che sia un  tutto continuo in cui coesistano vari elementi. E, per dir  tutto, all estensione, il cui concetto è relativo, è necessario  qualche cosa che si estenda o sia continuo, così come nel  latte la bianchezza, nel corpo ciò stesso che ne costituisce  l’essenza. La ripetizione di questo quid (qualunque esso  sia) è l’estensione. E io sono pienamente d'accordo con  lo Huygens ( I ) (del quale ho grande stima in questioni  naturali e matematiche), cho spazio vuoto e pura estensione siano un solo e medesimo concetto: nè, a mio giudizio, la mobilità o la dcvriTUTtla (2) possono spiegarsi con la  pura estensione, ma solo con un soggetto dell’ estensione il  qualo non solo determini, ma riempia anche uno spazio. (Animadvtraionee in pariem generabili Prinoipiorum eurtesianorvm, prima  del 1692, G. IV,   I)a che cosa derivano, ora, queste qualità della materia?  Questa azione, questa resistenza etc., in cui consiste l’essenziale di essa? Nei suoi primi studi, Leibniz fa derivare tutte  le qualità della materia dal movimento.   La materia prima è la massa stessa, nella quale non è  nuli altro che estensione e àvTiTtmta, ovvero impenetrabilità: ('estensione le deriva dallo spazio che riempie;  ma la vera natura della materia consiste nell'essere alcunché di denso (crassum) e impenetrabile, e in conseguenza  tale che, incontrandosi con qualche cosa d'altro, si muova  (dato che l’uno dei due deve cedere). Questa massa continua che riempie il mondo mentre tutte le sue parti ri  ti) Cristiano Huvobns grande scenziato olandese, autore  della teoria ondulatoria della luco e primo applicatole del principio del pendolo alla costruzione degli orologi, 6 uno di coloro ohe hanno maggiormente  influito sullo sviluppo dello idee scientifiche di Leibniz. La loro amicizia c corrispondenza dura da iranno della loro conoscenza a Parigi finn alla morte della Huygens. E fin dal 1669, Leibniz aveva tratto dalle leggi di Huygens  sugli urti lo spanto per alcune sue idee sulla costituzione della materia.   (2) Antitypia è il termine usato da Leibniz por indicare la compattezza e  impenetrabilità della materia.  mangono in quiete, è la materia prima, dalla quale ogni  cosa deriva attraverso il movimento, e nella quale tutto  si dissolve attraverso la quiete. In essa non vi sarebbe’  infatti nessuna diversità, ma una pura omogeneità, se  non vi fosse il movimento....   Dalla materia passiamo ora alla forma. Se supponiamo  che la forma non sia altro che figura, troveremo di nuovo  una mirabile concordanza. Infatti, poiché la figura è il  limite ( terminus ) del corpo, per formare le figure della  materia sarà necessario un limite. E per far sorgere vari  limiti nella materia, bisogna ricoiTere alla discontinuità  delle parti, dato che (piando le parti sono discontinue,  ciascuna di esse ha termini separati (infatti Aristotele definisce i continui come quelli il cui limite è uno (1)); ma  la discontinuità, in quella massa inizialmente continua, può  essere prodotta in duplice modo : o togliendole insieme anche la contiguità, il che ha luogo quando avviene una separazione fra le parti, in modo che si produca un vuoto;  oppure conservando la contiguità, come quando le parti,  pur rimanendo accoste, si muovono tuttavia in direzioni  diverse: così per esempio due sfere, comprese l una nell'altra, possono muoversi in direzioni diverse e tuttavia rimanere contigue cessando di essere continue. Di qui è  chiaro che se la massa è stata creata inizialmente discontinua o interrotta da vuoti, alcune forme devono esser  state create contemporaneamente alla materia; se invece  la massa è inizialmente continua, è necessario che le forme sorgano dal movimento perchè dal movimento deriva   la divisione, dalla divisione il limite delle parti, dai limiti delle parti le loro figure, dalle figure le forme, quindi  dal movimento derivano le forme. È chiaro da ciò che  ogni tendenza alla forma è movimento: e questa è la soluzione della contrastata questione sull’origine delle forme lu greco nel tosto: uv Tà cacata sv.    Ci resta da occuparci dei mutamenti. Come mutamenti  si enumerano volgarmente (e giustamente) i seguenti: generazione, corruzione, aumento, diminuzione, alterazione,  e mutamento di luogo o movimento. I moderni ritengono  che tutti questi mutamenti si possano spiegare attraverso  il solo mutamento di luogo. E la cosa è chiara quanto  all’ aumento e alla diminuzione : infatti mutamento di quantità avviene, in un tutto, quando una parte muta di luogo  e si aggiunge o viene tolta. Resta da spiegare attraverso  il movimento la generazione e la corruzione e l’ alterazione.... E tanto la generazione e la corruzione quanto  l’alterazione possono spiegarsi attraverso mi sottile movimento delle parti: per esempio, poiché è bianco ciò che  riflette molta luce e nero ciò che ne riflette poca, saranno  bianche le cose le cui superficie contengono molti piccoli  specchi; e questa è la ragione per cui la spuma dell’acqua  è bianca, constando di innumerevoli bollicine che sono altrettanti specchi.... E chiaro da ciò che i colori derivano  dal semplice mutamento di figura e di situazione nella  superficie ; altrettanto potremmo facilmente spiegare, se ne  avessimo lo spazio, della luce, del calore e di tutte le qualità. E invero, se le qualità mutano a causa del solo movimento, per ciò stesso muterà anche la sostanza: mutati  infatti tutti gli elementi (perciò anche alcuni di essi) si  elimina la cosa stessa; per esempio, se elimini o la luce  o il calore, avrai eliminato il fuoco.   (Lettera al Thomasius).   Tutto dunque deriva, nella materia, dal movimento; e senza  il movimento, quando cioè sia in quiete, essa perde ogni sua  solidità e consistenza, quindi ogni sua caratteristica di materia.  Leibniz afferma ripetutamente « nullam esse cohaesionem seu  consistenliam quiescentis.   Devo dire che Cartesio ha tutt’ altra opinione, sembrando  a lui che alla stabilità della coesione nei corpi non necessiti altro elemento collegante ( gluten ) che la quiete. Io  sono di opinione contraria : questo glutine è il movimento. Ciò che è in quiete è spazio vuoto.   (Lettera ali’Oldenburg, Ale.).   Bisogna spiegare la causa della connessione maggiore o  minore e quindi della eterogeneità nei corpi. Si domanda  perchè i corpi abbiano le parti più o meno coerenti: affermo che non si deve cercare altra causa di ciò se non  nel fatto che queste parti stanno o si muovono insieme.  Si muovono insieme perchè in una così grande varietà di  movimenti generali in tutta la massa complessiva era in  ogni modo necessario che alcune parti si allontanassero  di molto dalle loro vicine, altre poco in paragone. E la  medesima causa che ha fatto sì che queste parti poco o  nulla si allontanassero dalle loro vicine, fa anche sì che  esse tendano a perseverare nel medesimo stato, perchè la  causa permane. La causa è la combinazione stessa dei movimenti generali : e i movimenti generali permangono sempre. Li turba dunque chi muti improvvisamente un qualsiasi effetto da essi prodotto e stabilito, e nel quale tutta  la natura consente. Ne deriva chiaramente che la pressione esterna è la causa prima della solidità, e che la  quiete o il movimento cospirante delle parti ne è la causa  prossima, ma soltanto quando deriva da una causa esterna  permanente. Così dunque come la concomitanza, cioè la  quiete o il movimento cospirante costituiscono il corpo  solido, analogamente il movimento vario delle parti costituisce il liquido. E questo è il principio della diversità specifica nei corpi, e del fatto che alcuni sono più  densi degli altri, cioè più solidi o composti di parti solide più grandi. Questa tesi è anche confermata dall’esperienza.    (Lettera a zFabri, FABRI (vedasi). li. «conatcs». — Il concetto di materia dun que si dissolve in  quello di movimerfto. Ma "come avviene, ora, tale creazione di  materialità'? Qual^dl punto di partenza dell'azione del movimento ? K su che cosa si svolge, inizialmente, tale azione?  Leibniz non può ricorrere agli atomi, come elementi primi,  avendoli già negati in nome del principio di continuità. Egli  modifica il suo punto di partenza, rendendolo privo di estensione: considerandolo non più come la particella più piccola  di materia (la quale sarebbe pur sempre materiale, estesa),  ma come un limite o un inizio, qualche cosa quindi di inesteso.  In tale principio, che egli chiama, riprendendo un termine dello Hobbes, comtus, fa coincidere l’ inizio della materialità e  l’ inizio derTìTTTvtrnrnto.   Vi sono degli indivisibili o inestesi, altrimenti non sarebbe concepibile nè l’inizio nè la fine del movimento corporeo. Ecco la dimostrazione di ciò : Si vuol trovare 1’ inizio o la fine di uno spazio, di un corpo, di un movimento   0 di un tempo qualsiasi: sia, ciò di cui si vuol cercare   1 inizio, indicato da una linea ab il cui punto mediano  sia c, e il mediano fra a e c sia d, e quello fra a e d sia e,  e così via. Si cerchi 1‘ inizio della parte sinistra, verso il  lato a. Dico che ac non è 1‘ inizio, perchè gli si può togliere de senza toccare I' inizio; nè lo è ad, perchè gli  si può togliere ed, e così via; non si può mai dunque  considerare come inizio ciò a cui si può togliere qualche  cosa dalla parte destra. Ciò a cui non si può togliere alcuna  estensione, è inesteso; dunque 1’ inizio del corpo, o dello  spazio, o del movimento, o del tempo, (cioè il punto, il  conatus, I istante) o è nullo, il che è assurdo, oppure è  inesteso, il che era da dimostrarsi. Il /muto non è ciò che  non ha parti, e neppure ciò di cui non si considerano le  parti; ma ciò la cui estensione è nulla, cioè ciò le cui parti  non hanno distanza fra di loro, la cui grandezza non è  da considerarsi, è inassegnabile, è minore di qualsiasi grandezza die possa avere un rapporto non infinito con una  altra grandezza sensibile ; minore di una qualsiasi assegna     Iòle: e ciò è il fondamento del metodo di Cavalieri (1) e  dimostra in modo chiaro, la verità di quel suo principio  per il quale si concepiscono dei rudimenti, per così dire,  o inizi delle linee e delle figure, minori di qualsiasi assegnabile 11 conatus sta al movimento come il punto allo spazio,  cioè come l’unità all' infinito; è cioè 1’ inizio o la fine del  movimento. Perciò tutto ciò che si muove, sia pur debolmente, sia pure urtando contro qualsiasi ostacolo, propagherà il conatus all ’ infinito per tutto ciò che gli si oppone nella materia, e perciò imprimerà il suo conatus a  tutte le altre cose : nè si può negare che, quando anche  cessi di procedere, tuttavia abbia un conatus; e perciò tenda ( conetur ), o — che è lo stesso imprima un  inizio di movimento a tutto ciò che gli si oppone, anche se venga superato da questi ostacoli. Così in ciascun corpo vi possono essere contemporaneamente più conati  contrari. Nel tempo di una spinta, di un urto, di un incontro, i  due estremi dei corpi, o pimti, si penetrano, ovvero sono  nel medesimo punto dello sjxtzio : infatti quando, di due  corpi che s incontrano, l'uno tende a penetrare nel luogo  dell altro, comincerà ad essere in esso, cioè comincerà a  penetrare in esso, a unirsi con esso. Infatti il conatus è  inizio, penetrazione, unione; quei due corpi sono perciò  all inizio dell unione, cioè i loro estremi si uniscono:  dunque i corpi che si premono o spingono, hanno coesione.  Infatti i loro estremi sono uno, poiché le cose i cui termini sono uno (2), sono continue o coerenti, anche pel  li) Bona vkstuka Cavai.ihri, autore della Geometria indivisihiliurn. ebbe, eoi suo concetto di indivisibile, «rande influenza sul pensiero  matematico di Leibniz. T3«!i può essere considerato forse come il principale  precursore della scoperta del calcolo infinitesimale, dovuta al Leibniz e al  Newton.   (2) In greco nel testo. Cfr. sopra, p. 55.    definizione di .Aristotele; e se due cose sono in un solo  luogo, l’una non può essere spinta senza l’altra.   (Hypothe.sis phyatea nova, Theoria molun abftraeti).   Corpo e spirito. il conatus è dunque, per così dire, l' inizialo punto di contattoTra “materia e movimento: l'atto in  cui il movimento, applicandosi 'ad un punto" spaziale, segna  I' inizio del corpo. Ma che cos’ò il movimento rispetto alla materia, se non un principio spirituale?   La lisica tratta della materia e della unica affezione  risultante dalla sua combinazione con altre cause, cioè  del movimento. Lo spirito (mena) infatti, per ottenere una  figura e situazione delle cose buona e a lui gradita, fornisce alla materia il movimento. Infatti la materia di per  sè è priva di movimento. Principio di ogni movimento è  lo spirito.   (Lotterà al Thouiasius).   Così Leibniz, in una formulazione ancora immatura: e, giunto  al concetto di conattie . in esso egli fa consistere il principio  dello spirito. L'estendersi e svilupparsi del conati ts nello spazio,  dà luogo alla materia; l’estendersi nel tempo (sotto forma di  memoria) dà luogo allo spirito. TI corpo sta così allo spirito  come l’ istante sta al tempo; lo spirito al corpo come il punto  allo spazio.   Nessun conato senza movimento dura più di un istante,  se non negli spiriti (in mentibus). Infatti ciò che nell'istante  è il conato, quello è nel tempo il movimento del corpo:  qui si apre la porta a chi vorrà proseguire verso la vera  distinzione di corpo e spirito, che non è ancora stata  spiegata da alcuno : Dinne enirn corpus est mens momentanea, seu carena recordalione, poiché non ritiene per piìi  di un istante insieme il proprio conato e un altro contrario ;  due elementi, infatti, sono necessari alla sensazione e al  piacere o al dolore, senza i quali non vi è sensazione alcuna: l'azione e la reazione, cioè la comparazione e quindi Y armonia ; perciò il corpo manca di memoria, manca del senso  delle azioni e delle passioni, manca di pensiero (cogitatio). (llypothesis physica nova, Theoria motus abxtracli.   Come le azioni del corpo consistono nel movimento,  così consistono le azioni dello spirito nel conatun o, per  così dire, nel minimo movimento o punto; infatti anche  lo spirito stesso consiste propriamente soltanto in un punto  dello spazio, mentre il corpo comprende spazio, li questo,  per parlare popolarmente, lo dimostro dal fatto che lo  spirito dev'essere nel luogo d : incontro di tutti i movimenti che ci vengono impressi dagli oggetti dei sensi. Dato  che, quando voglio stabilire che un dato corpo è oro,  prendo insieme la sua lucentezza, il suo suono, il suo peso,  e ne conchiudo che è oro, bisogna dunque che lo spirito  sia in un luogo in cui tutte le linee della vista, dell’udito  e del tatto si incontrano, cioè in un punto. Se noi dessimo  allo spirito uno spazio maggiore che un punto, esso sarebbe già un corpo e sarebbe divisibile in parti; e perciò  non sarebbe sempre intimamente presente a sè stesso e  così non potrebbe anche riflettersi su tutti i suoi elementi e  le sue azioni. Eppure in ciò consiste proprio l’essenza dello  spirito. Posto dunque che lo spirito consista in un punto,  è indivisibile e indistruttibile. Da questi principi e da altri  ancora, ho dimostrato molte cose meravigliose riguardo  alle caratteristiche dell'anima umana e in generale di tutti  gli spiriti intelligenti; cose alle quali nessuno finora aveva  pensato, benché da esse sgorghi in modo finora mai visto  la verità della religione, della provvidenza divina, dell immortalità della nostra anima e la possibilità di molti sublimi misteri (come quello della giustizia divina, della  predestinazione e della presenza nel sacramento). Ed io  spero una volta di poter mostrare tutto ciò nel modo più  chiaro possibile, e di acquistarmi così qualche benemerenza presso tutti gli uomini intelligenti, ehe odiano l’ateismo  oggi invadente e si preoccupano dell’ eternità.(Lettera al duca ili Hannover).   Da questo contatto fra sostanza spirituale e materiale nel  conatus, Leibniz trao le sue prime conclusioni verso la funzione della spiritualità nel mondo fisico, e 1 importanza dello  spirito in rapporto a qualsiasi elemento corporeo e materiale.   Sono capace di dimostrare dalla natura del movimento  nel campo fisico, da me scoperta, che il movimento non  può esistere nei corpi presi per sè, se non vi si aggiunga  lo spirito;.... che lo spirito è incorporeo; che lo spirito  agisce su sè stesso, che nessuna azione su sè stesso può  essere movimento, che l'azione ilei corpo non è se non il  movimento, e che quindi lo spirito non è corpo. Che lo  spirito consiste in un punto o centro, e che perciò è indivisibile, incorruttibile, immortale. Come nel centro concorrono tutti i raggi, così concorrono insieme nello spirito  tutte le impressioni sensibili attraverso i nervi; e dunque  lo spirito è un piccolo mondo concepito in un punto, il  quale consiste delle proprie idee così come il centro consiste degli angoli, poiché l’angolo è mia parte del centro,  nonostante che il centro sia indivisibile. Così può essere  spiegata geometricamente tutta la natura dello spirito.   (Lettera al duca di Hannover, 1071, U. 1, (il). La conservazione della forza. Queste sono le teorie  fisiche del giovane Leibniz. Ha una nuova scoperta fa sì che  egli abbandoni il suo concetto del movimento come essenza  dei corpi, e lo sostituisca con quello di forza.   Cartesio aveva affermato la immutabilità e costanza della  quantità di movimento nell’universo; cioè, ehe quanto movimento viene perduto da un corpo, tanto viene acquistato da  un altro, sì ehe la somma complessiva neH ! universo sia sempre  costante: intendendo per quantità di movimento il prodotto  della massa per la velocità. Leibniz dimostra che tale principio nou è esatto, e che ciò la cui somma rimane costante  non è la quantità di movimento, ma la quantità di forza viva   0 ! azione motrice, che è eguale al prodotto della massa per  il quadrato della velocità.   Quale sia la portata di questa scoperta nel campo fisico,  non è il caso qui di notare. Per intendere l'uso che Leibniz  ne farà in questioni filosofiche e metafisiche bisogna osservare  che I azione motrice non rappresenta più come la quantità  di movimento - la semplice traslazione di un corpo da un luogo  ad un altro, ma la possibilità di produrre un determinato effetto, per esempio, di sollevare un corpo ad una determinata  altezza. Questa azione motrice di Leibniz è quella che oggi si  chiama energia.   In generale la forza assoluta deve essere stimata per   1 effetto violento che essa può produrre. Chiamo effetto  violento ciò che consuma la forza dell'agente, come, per  esempio, imprimere una certa velocità ad un corpo dato,  elevare un corpo determinato ad ima determinata altezza,  etc. E si può giudicare comodamente la forza di un corpo  pesante, attraverso il prodotto della massa o della pesantezza per 1 altezza alla quale il corpo potrebbe salire in  virtù del suo movimento.... Quando un corpo pesante ha  progredito discendendo liberamente, ed ha acquistato impeto o forza' viva, le altezze a cui questo corpo potrebbe  allora arrivare non sono affatto proporzionali alle velocità,  ma al quadrato delle velocità. Ed è per questo che nel  caso della forza viva le forze non sono affatto come le  quantità di movimento, o come i prodotti delle masse  per le velocità. Si verifica per via di ragione e di esperienza, che è la  forza viva assoluta - quella determinata dall'effetto violento  che può produrre - che si conserva, e non già la quantità  di movimento. Poiché se questa forza viva potesse mai  aumentare, si avrebbe un effetto più potente che la causa,  oppure si avrebbe il moto perpetuo meccanico, cioè mi  movimento che potrebbe riprodurre la sua causa e qualche cosa di più ; il che è assurdo. Ma se la forza potesse diminuire, essa perirebbe alla line completamente perchè, non  potendo mai aumentare, e potendo però diminuire, andrebbe via via decadendo : il che è senza dubbio contrario  all'ordine delle cose. Anche l’esperienza lo conferma. Adesso mi piace di guardare la questione da un altro  punto di vista, e di mostrare anche la conservazione di  qualche cosa di più prossimo alla quantità del movimento,  cioè la conservazione dell'azione motrice. Ecco dunque la  regola generale che io stabilisco. Qualunque cambiamento  possa accadere tra corpi concorrenti, qualunque sia il  loro numero, bisogna che vi sia sempre nei corpi concorrenti in un sistema chiuso la medesima quantità di azione  motrice nel medesimo intervallo di tempo. Per esempio, v i  deve essere durante questa ora tanta azione motrice nelT universo o in dati corpi che agiscono fra di loro in un  sistema chiuso, quanta ve ne sarà durante un'altra ora  qualsiasi.   Per comprendere questa regola, bisogna spiegare la valutazione deh' azione motrice, tutta diversa da quella della  quantità di movimento, intesa la quantità di movimento  secondo l’uso che si è spiegato sopra. Ora, affinché 1 azione  motrice possa essere valutata, bisogna prima valutare 1 effetto formale del movimento. Tale effetto formale o essenziale al movimento consiste in ciò che è cambiato dal movimento, cioè nella quantità della massa trasportata, e  nello spazio o nella lunghezza attraverso cui questa massa  è trasportata. È questo l'effetto essenziale del movimento,  o il cambiamento che esso determina: poiché il tal corpo  era lì, ora è qui: il corpo è tanto grande e la distanza  è tanta. Bisogna ben distinguere quello che io chiamo 1 effetto  formale o essenziale al movimento, da ciò che ho chiamato  più sopra l' effetto violento. Poiché 1 effetto violento consuma la forza e si esercita su qualche cosa di fuori; ma l'effetto formale consiste nel corpo in movimento preso in  sè stesso, e non consuma affatto forza, anzi la conserva:  poiché la medesima traslazione della medesima massa si  deve sempre continuare, se nulla dal di fuori non F impedisce. È questa la ragione per cui le forze assolute sono  come gli effetti violenti che le consumano, ma non già  come gli effetti formali.   Ora sarà più facile d' intendere che cosa sia F azione motrice: bisogna diuique stimarla non solo per l’effetto formale che essa produce, ma anche per il vigore e la velocità  con la quale essa lo produce. Si vogliono far trasportare  100 libbre alla distanza di un miglio; questo è l’effetto  formale che si domanda. Uno lo vuol compiere in un’ora,  un'altro in due; io dico che Fazione del primo è doppia  di quella del secondo, essendo doppiamente rapida, su ili  un medesimo effetto. Questa definizione dell azione motrice si giustifica abbastanza a priori, perchè è chiaro che in un' azione puramente formale presa in sè stessa, come è qui quella di  un corpo in movimento considerato a sè, vi sono due punti  da esaminare: l’effetto formale o ciò che è cambiato, e  la rapidità del cambiamento; poiché è ben chiaro che  colui che produce il medesimo effetto formale in minor  tempo, agisce di più.   (Enfiai/ de Dynamique sur lei laix dii mouvemenl, M. VI, 218-21).   La forza come attività.  La forza, l’energia, è dunque  sostituita al movimento. Dalla' semplice e obbiettiva traslazione dei corpi HaTun luogo all’altro, Leibniz sposta il centro  della attenzione su ciò che della traslazione è la causa, su  ciò che contiene già in sè - per così dire - il movimento allo  stato potenziale, e lo produce. Il movimento perde così realtà  a favore della forza. La forza viene considerata come assoluta  e il movimento come relativo.   Bisogna sapore anzitutto che la forza è qualche cosa di  assolutamente reale, anche nelle sostanze create: ma che lo spazio, il tempo e il movimento hanno qualche cosa  dell’ente di ragione, e non sono veri e reali per sè stessi,  ma solo in quanto attributi divini involventi 1* immensità,  l’ eternità, l'azione o la forza delle sostanze create. Ise consegue che non esiste un vuoto nello spazio nè nel tempo,  che il movimento separato dalla forza, cioè quando non  si considerino in esso se non le caratteristiche geometriche,  cioè la grandezza, la figura o i loro mutamenti, non è  altro che un mutamento di luogo; e che perciò il movimento, rispetto ai fenomeni, consiste in una semplice relazione-, il che fu anche riconosciuto da Cartesio, quando  definì il movimento come una traslazione dalle vicinanze  di un corpo alle vicinanze di un altro corpo. Ma nel trarne  le conseguenze, dimenticò la sua definizione, e stabili le  regole del movimento come se il movimento fosse qualche  cosa di reale e assoluto. Bisogna dunque ritenere che,  quando più corpi qualsiasi sono in movimento, non è possibile dedurre, dal loro aspetto esteriore, in quali di essi  sia un determinato movimento assoluto oppure la quiete;  ma ciascuno di essi a piacere può essere considerato in  quiete, pur restando uguali le manifestazioni esteriori.   (Specimen Dynamicum).   1 1 movimento è relativo: la forza sola è assoluta. E il concetto  di forza ha, molto più che quello di movimento, una chiara  impronta di attività. Pare che in esso il conatus degli scritti  giovanili abbia trovato il suo completamento e la sua realizzazione.   Abbiamo altrove avvertito che negli esseri corporei vi  è qualche cosa al di là dell'estensione, anzi prima dell’estensione : la forza della natura, riposta ovunque dall’autore supremo, la quale non consiste soltanto in una  semplice facoltà, come si contentavano di dire gli scolastici, ma anche in un conatus o sforzo, il quale avrà il  suo effetto pieno se non sia impedito da un conatus contrario. Questo sforzo si mostra da ogni parte ai nostri  sensi; e, a mio parere, può essere dimostrato per via razionale ovunque nella materia, anche là dove non è evidente ai sensi. Che se questa forza non si deve attribuire  a Dio come un miracolo, bisogna certamente che sia immessa da lui nei corpi, in modo da costituirne 1' intima  natura; poiché l'agire è il carattere essenziale delle sostanze,  e l’estensione, lungi dal determinare la sostanza stessa, non  indica altro che la continuazione o diffusione di una sostanza già data, la quale tenda e si opponga, cioè resista.  Nè importa che ciascuna azione corporea derivi dal movimento, e il movimento non derivi se non da mi altro  movimento esistente già da prima in quel corpo o impressogli dal di fuori. Infatti il movimento (così come il  tempo) non esiste mai, a considerare la cosa rigorosamente; giacché non esiste mai tutto, non avendo parti coesistenti. E nulla vi è in esso di reale, se non quel quid  istantaneo che consiste nella forza tendente al mutamento.  A ciò dimque si riduce tutto ciò che è nella natura corporea al di fuori dell’oggetto della geometria, cioè al di  fuori deH’estensione.   (Speri intra Jji/namicum).   11 corpo, la materia, contiene dunque in se una t’i*s adiva  clic supera, la materialità ed ha carattere spirituale.   Tò Su o ii.ty.óv, la potenza, 1 è duplice nel corpo: passiva  e attiva. La forza passiva costituisce propriamente la materia o massa, quella attiva la entelechia o forma. La  forza passiva è la resistenza stessà^per la quale il corpo  resiste non soltanto alla penetrazione, ma anche al mo  li) Entelechia, da èvreXé? (compiuto) e exetv (avere) ò il termine usato  da Aristotele per indicare la lorma pienamente realizzata. Leibniz lo riprende  per definire l’aspetto attivo della sostanza e della monade. Questo termine  6 anche usato spesso da lui come sinonimo ili monade. Cfr. Monadologia vimento. e per la quale avviene che un altro corpo non  possa subentrare al suo posto senza che esso ceda: d altra  parte, esso non cede se non ritardando alquanto il movimento del corpo che lo spinge, e così tende a perseverare nel proprio stato anteriore, in modo non soltanto da  non scostarsene spontaneamente, ma anche da resistere a  ciò che tende a mutarlo. Così vi sono due resistenze o  masse: la prima, quella che chiamano antitypia o impenetrabilità; la seconda, quella che Keplero chiama inerzia  naturale dei corpi e che Cartesio in qualche luogo del  suo epistolario riconobbe dal fatto che per essa i corpi  non accolgono un nuovo movimento se non per forza, e  perciò resistono al corpo che li preme e ne indeboliscono  la forza. J1 che non avverrebbe, se nel corpo, oltre all'estensione, non vi fosse tò Su jo gtxó, cioè il principio delle leggi  del movimento, per il quale avviene che la quantità delle  forze non può essere aumentata, e che un corpo non può  essere spinto da un altro corpo se non diminuendo la  forza di quello/   La forza attiva, che si suole anche dire senz altro forza,  non è da concepirsi come la semplice potenza volgare della  scuola, cioè come ima recettività di azione, ma implica  un conatus, cioè mia tendenza all'azione, cosicché, se non  vi sia impedimento, ne derivi l'azionepE in ciò propriamente consiste l'entelechia, mal compresa dalla scuola:  una tale potenza infatti comprende 1 atto, nè permane una  semplice facoltà, benché non sempre proceda direttamente  all'azione cui tende; a volte infatti vi si oppone un impedimento.! In secondo luogo, la forza attiva è duplice,  primitiva'? derivativa, cioè sostanziale o accidentale. La  forza attiva primitiva, che vien chiamata da Aristotele  la prima entelechia (è'.veXé/ev/ •?) 7tpoVr/;) e nel linguaggio  comune forma della sostanza, è il secondo principio naturale che, insieme con la materia o forza passiva, costituisce la sostanza corporea; la quale è in sè un unità, cioè non un semplice aggregato di più sostanze: come  per esempio vi è grande differenza tra un animale e un  gregge di animali. E perciò questa entelechia è o un'anima,  o qualche cosa di analogo all'anima, e sempre attua naturalmente qualche corpo organico, il quale, quando fosse  preso separatamente in sè stesso, cioè toltane o allontanatane l’anima, non sarebbe un'unica sostanza, ma un aggregato di molti, insomma un artificio della natura....   La forza derivativa è ciò che alcuni chiamano impetus,  cioè conatus, o la tendenza, per così dire, ad un qualche  movimento determinato, attraverso il quale la forza primitiva o principio dell'azione viene modificato. Quanto a  questa forza, ho mostrato che non si mantiene sempre la  medesima nel medesimo corpo, ma che, comunque sia distribuita in piìi corpi, rimane sempre nella medesima  quantità complessiva, e differisce dal movimento stesso,  la cui quantità non si conserva..,.   A stabilire una forza attiva nei corpi ci inducono molte  ragioni, e principalmente l'esperienza stessa, la quale mostra che nella materia vi sono movimenti i quali devono  bensì essere attribuiti originariamente alla causa universale delle cose, cioè a Dio; ma immediatamente e specificamente devono essere spiegati attraverso la forza posta  da Dio nelle cose^'infatti, dire che Dio nella creazione  ha dato ai corpi una legge di aziono, non è altro se non  dire che ha dato ad essi qualche cosa in virtù di cui quella  legge sia osservata; altrimenti dovrebbe sempre egli stesso  procurare continuamente per via straordinaria l'osservanza  di quella legge; mentre è piuttosto la sua legge stessa che  ha efficacia, ed egli ha reso i corpi attivi, cioè ha dato  ad essi ima forza insita} Bisogna inoltre considerare che  la forza derivativa e l'azione sono qualche cosa di modale,  perchè sono soggetti a mutamento. E ogni modo consiste  in qualche modificazione di alcunché di pexsistente, o meglio di assoluto. Come la figura è in certo modo una limitazione o modificazione della forza passiva o massa estesa, così la forza  derivativa e l'azione motrice è in certo modo una modificazione non già di qualche cosa di puramente passivo  (altrimenti la modificazione o limite conterrebbe più realtà  di ciò stesso cho è limitato), ma di qualche cosa di attivo,  cioè dell' entelechia primitiva. Onde la forza derivativa e  accidentale o mutevole sarà una qualche modificazione della  vìrtus primitiva essenziale che perdura in qualsiasi sostanza  corporea. Perciò i cartesiani, non riconoscendo alcun principio attivo sostanziale modificabile nel corpo, furono costretti a negare ad esso qualsiasi azione ed a trasferire  l'azione nel solo Dio: un Deus ex machina, principio tutt' altro che filosofico.   ( Frammento).   Valore metafisico della forza. Questa entelechia, questa forza di qui è formata la materia, che ne costituisce anzi  la piii intima essenza, è qualche cosa di analogo all'anima.   La materia ha essenzialmente in sè il principio del movimento, ma secondo me ciò non si deve intendere se  non nel senso che vi sono delle anime nella materia, le  quali sono indivisibili e indistruttibili (Lettera a Burnett, G.).   E questo principio delTanimazione della materia che spinge  Leibniz ad una considerazione del mondo corporeo diversa da  quella puramente meccanica: che gli fa vedere in esso, attraverso il principio spirituale, un elemento finalistico e, attraverso questo, la mano di Dio.   Devo dichiarare inizialmente che a mio parere tutto  avviene meccanicamente nella natura e che, per rendere  una ragione esatta e compiuta di qualsiasi fenomeno particolare (come per esempio della pesantezza o della elasticità), bastano le nozioni di figura e ili movimento. Ma i principi stessi della meccanica e le leggi del movimento  sorgono a mio parere da alcunché di superiore, che dipende  piuttosto dalla metafisica che dalla geometria e che non  si può raggiungere con 1 immaginazione, benché lo spirito  lo possa molto ben concepire. Così io penso che nella natura, oltre alla nozione di estensione, convenga impiegare  quella di forza, che rende la materia capace di agire e di  resistere. E per forza o potenza non intendo il potere o la  semplice facoltà; che non è se non una possibilità prossima di agire e che, essendo come morta, non produce  neppur mai un'azione senza essere eccitata dal di fuori  Ma intendo qualche cosa di mezzo fra il poterete l’azione  che implica imo sforzo, un atto, un’entelechia, poiché la  forza passa per sua virtù all" azione finché nulla ne la  impedisce. Questa è la ragione per cui io la considero  come 1 elemento costitutivo della sostanza, essendo essa il  principio dell azione che della sostanza è il carattere  essenziale(^l)   Così io vedo che la causa efficiente delle azioni fisiche  deriva dalla metafisica; nella quale opinione sono molto  lontano da coloro che non riconoscono nella natura se  non ciò che è materiale o esteso, e che perciò si rendono  sospetti con qualche ragione presso le persone pie. Ritengo pure che il concetto del bene o della causa finale,  I>er quanto contenga in sé alcunché di morale, si possa  anche impiegare utilmente nella spiegazione dei fenomeni  naturali; poiché l'autore della natura agisce secondo il  principio dell ordine e della perfezione, con una saggezza  alla quale nulla si può aggiungere: e ho mostrato altrove,  a proposito della legge generale dell" irraggiamento della  luce, come il principio della causa finale basti spesso a  scoprire i segreti della natura, finché non se ne sia trovata  la causa prossima efficiente, che é più difficile a scoprirsi. Tì)   (Système novi eon jkivr erpliqvtr la nature des subitanee», primo  abbozzo, 1(395, G. IV, 472).  La vera scienza tìsica deve essere tratta dalle sorgenti  ilelle perfezioni divine. Dio infatti è l' ultima ragione delle  cose, e la conoscenza di Dio è il principio delle scienze,  così come la sua essenza e la sua volontà sono i principi  delle cose. Quanto piii si è versati nelle profondità della  filosofia, tanto più facilmente si riconosce ciò. Ma pochi  finora sono riusciti a dedurre, dalla considerazione delle  proprietà divine, verità di qualche importanza nella scienza.  Vi sono forse alcuni che potranno essere spinti da questi  esempi. La filosofia si santifica così coll’ immissione in  essa delle correnti sgorgate dalle sacre sorgenti della teologia naturale. E così lontana dal vero è la tesi che si  debbano rifiutare le cause finali e la considerazione di uno  spirito sapientissimo che agisce secondo bontà (onde la  bontà e la bellezza diverrebbero arbitrarie o soltanto relative a noi e non attribuibili a Dio: opinione quella, di  Cartesio, questa di Spinoza ( 1 ), che invece, dalla considerazione dello spirito, si possono dedurre principi essenziali  della fisica.   (Principium quoddam generale, M. VI, 134).   In questa organizzazione divina del mondo noi vediamo la  forza pervadere e permeare tutta la natura. Non più atomi  corporei: qualche cosa di altrettanto unitario e indivisibile,  ma privo di qualsiasi materialità. Queste unità sostanziali  stanno al confine fra materia e spirito, potendosi sviluppare  in ambedue le direzioni ; e racchiudono in sé una forza che  permette loro una spontaneità di sviluppo verso l’universale.  In tale spontaneità e attività consiste il carattere spirituale  degli elementi della sostanza corporea, ciò che li avvicina all’ anima e all’ io.   Poiché è necessario che vi sieno nella natura corporea  delle vere unità, senza le quali non vi sarebbe affatto    (1) Cartesio fa derivare, secondo Leibniz, le regole della bontà e dell’armonia dall’arbitrio di Dio (Cfr. sojira, p. 13). Per Spinoza invece la bontà  è un rapporto della creatura individuale alla Sostanza assoluta, cioè Dio.  Tri    molteplicità uè aggregati, bisogna che ciò che costituisce  la sostanza corporea sia alcunché di rispondente a ciò che  si suol chiamare io in noi, che è indivisibile e tuttavia  agente; poiché questo io, essendo indivisibile e senza parti,  non potrà essere un essere composto, ma, essendo agente,  sarà qualche cosa di sostanziale.   (Syitcmc un uveali, primo abbozzo, I 695, G. IV, 47ii).  Costituzione e funzione della monade. - Si sono studiati nei capitoli precedenti due principi fondamentali della filosofia leibniziana: l’universalità della sostanza individuale, e il  principio spirituale della f orza n el mondo materiale. Il primo,  derivato dalla elaborazione dT” concetti logici; il secondo dal  rigoroso pensamento di teoremi fisici. L’unione e la fusione  di questi due principi, dà luogo alla mònade (1). Ciò ebe essi  hanno in comune è il fatto di racchiudere ambedue in sè, allo  stato potenziale, un infinita possibilità di sviluppo: la sostanza  individuale, punto di partenza di una catena di causo e di  effetti che racchiude nelle sue maglie il passato e l’avvenire  di tutto 1 universo; l'unità animata del mondo corporeo, forza  capace di svilupparsi in movimento e, pur col suo carattere  spirituale, di dar luogo ad una formazione di materialità. Dei  due elementi, l’uno è universale ma astratto, puramente logico; l’altro concreto, reale, spirituale, ma ancora privo di universalità. Nella loro fusione l’uno fornisce ciò che all’altro  manca: e la monade sarà un principio spirituale e universale  insieme, ma pur concreto, tale che di esso consti effettivamente il mondo esistente. La monade è « l’atomo della natura  e 1 elemento delle cose ». Ad essa vengono dati da Leibniz  nomi diversi: entelechia, anima, sostanza, etc., a seconda delle  varie occasioni in cui ne parla. Monade ò parola greca ebe significa unità. ]| termine è stato usato  anche da Giordano Bruno per indicare gli elementi primi delle cose. Non è  però sicuro ohe Leibniz abbia derivato da lui questa denominazione. L : atomo di Epicuro, benché fornito di parti, è ima  cosa unita nel suo interno, mentre l'anima, quantunque  senza parti, racchiude in sé un gran numero, o meglio un  numero infinito di varietà, per la molteplicità delle rappresentazioni di cose esterne, o piuttosto per la rappresentazione dell'universo che il Creatore vi ha posto.   ( Osservazioni al dizionario del Bayle).   Le monadi sono i principi primi c più semplici onde è  costituito il mondo: non sono materiali, ma da esse deriva  tutta la materia: sono individuali, molteplici (in quanto sono  sempre punti di vista particolari presi sull’universo, e i punti  di vista possono essere infiniti); e d’altra parte ciascuna racchiude in sè una visione del tutto.   L’unità sostanziale richiede un essere compiuto, indivisibile e indistruttibile per natura, poiché la sua nozione  involve tutto ciò che gli deve accadere; e ciò non si potrebbe trovare nè nella figura nè nel movimento, che implicano anzi entrambi alcunché d’ immaginario - come  potrei dimostrare —, ma bensì in un’anima o forma sostanziale, sull’esempio di ciò che si suol chiamare io. Sono  questi i soli veri esseri compiuti, come avevano riconosciuto gli antichi e soprattutto Platone, il quale ha ben  chiaramente mostrato che la sola materia non è in sè  sufficiente a formare una sostanza. Ora 1’ io sopraddetto,  o ciò che gli risponde in ciascuna sostanza individuale,  non può essere nè fatto nè disfatto dall'avvicinamento o  dall'allontanamento delle parti, procedimento puramente  esteriore a ciò che è la sostanza. Non saprei dire precisamente se vi siano altre sostanze corporee effettive, oltre  quelle che sono animate, ma almeno le animo servono a  darci qualche conoscenza delle altre per analogia.   (Lotterà ad Arnauld).   Non so se sia possibile spiegare la costituzione dell' anima  meglio che dicendo: l.° che è una sostanza semplice, ovvero ciò eli e io chiamo una vera unità; 2.° che tale unità  esprime tuttavia la molteplicità, cioè i corpi, e che li  esprime il meglio possibile secondo il suo punto di vista  o il suo rapporto ; 3.° che così essa è espressiva dei fenomeni  secondo le leggi metafisico-matematiche della natura, cioè  secondo 1 ordine più conforme alla intelligenza e alla ragione. i\e deriva inline, 4.° che 1" anima è una imitazione  di Dio, nel massimo grado possibile alle creature, che essa  è come lui semplice eppure anche infinita, e avvolge tutto  attraverso percezioni confuse; ma che, riguardo a quelle  distinte, essa e limitata. Invece tutto è distinto nella sostanza sovrana, dalla quale tutto emana, e che è la causa  ilcll esistenza e dell ordine e, in una parola, l'ultima ragione  delle cose. Dio contiene 1 universo eminentemente, e l'anima  o l'unità lo contiene virtualmente, essendo imo specchio  centrale, ma, per così dire, attivo e vitale. Si può anche  dire ohe ogni anima è un mondo a parte, ma che tutti  questi mondi si accordano e sono rappresentativi dei medesimi fenomeni, secondo rapporti differenti; e che questa  è la maniera più perfetta di moltiplicare gli esseri quanto  è jiossibile, ed il meglio possibile.   (Lettera a) Bayle, 1702, G. Ili, 72).   Il concetto di sostanza individuale è stato formulato da  Leibniz por la prima volta nel Dìscours de Méta physìque del  1686. La parola monade è introdotta da lui nel 1696. Verso  il mezzo della sua vita, cioè, egli è giunto in possesso dell’elemento fondamentale onde per lui è costituito il mondo. Trovato questo, il problema che gli si pone è di spiegare, attraverso tale elemento, la costituzione del mondo stesso. Come  nell arte combinatoria' si dovevano trovare, per mezzo della  scomposizione dei concetti, i termini semplici di cui consta il  pensiero umano, e poi, attraverso la varia combinazione di  essi, formare di nuovo ogni possibile concetto, così ora un’ indagine analitica nel campo logico, fisico, metafisico, ha condotto  alla nozione di monade come sostanza semplice, costituente il  mondo. Si tratta ora di mostrare concretamente come il mondo consti di monadi, come ogni aspetto, ogni fenomeno di esso  sia spiegabile attraverso le combinazioni, le modificazioni, i  diversi aspetti delle monadi.   Inizio e fine della monade. - Donde nasce la monade?  Che cosa 1’ ha prodotta? Qnal’è la sua origino?   Noijl è possibile concepirla come derivata da ini qualsiasi  ente naturale: essere prodotta significa sempre in qualche modo  essere causala ; c, poiché essa comprende già in sé tutta la  serie infinita delle causo e degli effetti, non si può attribuirle  una causa al di fuori di sé stessa: qualsiasi sua causa sarebbe  sempre compresa nel suo interno. Analogamente, non è concepibile neH’ordine naturale la fine della monade; implicando  tale fine un interruzione nella serie delle cause e degli effetti,  che è invece continua e infinita. L’origine e la fine delle monadi  deve essere dunque ricercata fuori deU’ordino causale dell' universo; o piuttosto si può dire che le monadi non hanno origine: sono nate insieme con l’universo stesso, sono concreate  ad esso; e il creatore di esse è il medesimo creatore deH'universo: Dio.    Quanto all' inizio e alla fine di queste forme, anime, o  principi sostanziali, bisogna dire che esse non possono avere  origine se non dalla creazione, e non possono aver fine  se non da un annullamento compiuto espressamente dalla  potenza suprema di Dio.... Così queste forme non cominciano nè finiscono naturalmente. E perchè non avrebbero  esse il medesimo privi egio degli atomi, i quali, secondo  i seguaci di Gassendi, devono sempre conservarsi? Tale  privilegio bisogna accordarlo a tutto ciò che è veramente  una sostanza; perchè la vera unità è assolutamente indissolubile. Dato ciò, bisogna credere che queste sostanze  sono state inizialmente create insieme col mondo.   (Syslème noiweau, primo abbozzo). Così (eccezion fatta per le anime che Dio vuole ancora  creare espressamente) fui obbligato a riconoscere che le forme costitutive delle sostanze sono state create insieme  col mondo e che sussistono in eterno.   (Syntènu nouveau, seconda stesura, 1095, G. IV, 479).   Individualità e universalità della monade. - Lo monadi  hanno in se stesse il doppio carattere di essere ciascuna un  elemento costitutivo del mondo, e insieme di implicare ciascuna, in se, 1 assoluta totalità di sviluppo del mondo stesso.  11 mondo è composto di monadi: ma ciascuna monade è, da  un certo punto di vista, il mondo stesso. Da va certo punto  di vista : questo è il criterio che permette di conservare e conciliare quelle due caratteristiche. Ciascuna monade mantiene  la sua individualità* e la sua distinzione dalle altre, in quanto  implica e rappresenta il medesimo tutto, ma da un diverso  punto di vista. E i punti di vista sono infiniti; così sono infinite le monadi. L individualità della monade si concilia in  tal modo con la sua universalità.    Benché ciò possa parere paradossale, è impossibile a noi di  avere conoscenza degli individui e di trovare il mezzo per  determinare esattamente l'individualità di qualsiasi cosa.se  non prendendo la cosa stessa: infatti tutte le circostanze  possono ripetersi; le piti piccole differenze ci sono insensibili; il luogo e il tempo, lungi dal determinare, hanno  anzi bisogno di essere essi stessi determinati dalle cose  che contengono. Ciò che vi è di più notevole in questo  principio, è che Y individualità involve l'infinito; e solamente colui che è capace di comprendere ciò, può aver  conoscenza del principio di individuazione di questa o di  quella cosa: principio il quale deriva dall" influenza rettamente intesa di tutte le cose dell' universo le une sulle  altre. E vero che non sarebbe punto così, se il mondo  fosse composto di atomi, come vuole Democrito; ma in  tal caso non vi sarebbe pure alcuna differenza tra due individui differenti aventi la medesima figura e la medesima  grandezza.    [Nuovi Saggi. Proprio Inaili versali tà della monade è ciò che garantisce la  sua individualità. Due atomi di ugual forma e grandezza, con  le medesime caratteristiche esteriori, sarebbero indistinguibili  1 uno dall altro. Due monadi non possono invece essere indistinguibili e perfettamente 'identiche. II fatto di essere due,  implica che esse rappresentano il mondo da due punti di vista:  e ciascun punto di vista comporta legami e rapporti all’ infinito che necessariamente saranno diversi da quelli di ciascun  altro punto di vista. Due monadi perfettamente identiche in  tutto il complesso dei rapporti implicati, non sono concepibili: sarebbero una sola e medesima monade. È questo il principio che Leibniz chiama della identità degli indiscernibili. Per  esso ogni monade ha garantita la sua individualità e inconfondibilità fra tutte le altre.   K eli grande importanza in tutta la filosofia e anche  nella teologia il principio che non esistono denominazioni  puramente estrinseche; e questo a causa della connessione  delle cose tra di loro. Due cose non possono diff erir e solo  locabnente o temporalmente, ma è sempre necessario che  interceda tra di esse qualche altra differenza interna. Così  non è possibile che vi siano due atomi simili per forma e  uguali per grandezza : per esempio due cubi uguali. Queste  sono nozioni matematiche, cioè astratte, non reali. Tutto  ciò che è differente deve distinguersi per qualche cosa; e  la sola posizione non basta a differenziare le cose reali.  Per questo principio si sconvolge tutta la filosofia puramente atomistica. In primo luogo, non è possibile che vi  siano atomi, altrimenti vi sarebbero due cose che non differirebbero se non dall’esterno. In secondo luogo, se la  sola posizione presa per sè non costituisce un mutamento,  ne deriva che non vi è alcun mutamento che sia puramente di luogo. E, in generale, il luogo, la posizione, la  quantità (come p. es. il numero), la proporzione, non sono  se non relazioni che risultano da altre cose che costituiscono per sè stesse il mutamento. Così, essere in un  determinato luogo, astrattamente parlando, non sembra indicare altro che una posizione. Ma effettivamente bisogna  che ciò che è in un determinato luogo, esprima in sè quel  luogo stesso; cosicché la distanza e il grado di distanza  implica anche un modo di esprimere in sè la cosa distante,  di agire su di essa, e di essere da essa affetto. Ed effettivamente la posizione implica un grado di espressione. Tutte le cose da noi qui esposte derivano dal principio  fondamentale che il predicato è contenuto nel soggetto;  principio che colpì l’Arnauld(l) quando una volta gliene  feci cenno: - j’ en ay esté frappe - mi scrisse.   (Frammento).    Rappresentazione e appetito. - Proseguiamo nel caratterizzare la struttura della monade. Essa contiene in sè tutto  il proprio sviluppo futuro, insieme con lo sviluppo del mondo.  Ma quello che determina la sua particolarità e il suo valore,  è di contenerlo non esplicito ed esteso nel tempo e nello spazio,  ma implicito, in modo pregnante, allo stato potenziale.   Se noi volessimo immaginare in ciascuna monade, attualmente  sviluppato, tutto il suo svolgimento completo, perderemmo,  per così dire, il vantaggio essenziale della monade: avremmo  di fronte a noi il mondo stesso in tutta la sua immensa e inafferrabile molteplicità. Il vantaggio consiste proprio nel raccogliere la molteplicità del mondo nella individualità; di contenere allo stato implicito ciò che allo stato esplicito sarebbe  Superiore ad ogni facoltà di percezione o di apprensione.   Ora, come si svolge e quale aspetto assume concretamente,  nella monade, tale implicazione della totalità ? Assume l’aspetto  di forza o appetito da un lato, di rappresentazione dall'altro.  Ciascuna monade ha una rappresentazione di tutti gli stati  futuri che essa contiene in sè, e contemporaneamente ha un  impulso, una tendenza che la spinge a passare a questi futuri,  dal presente in cui si trova. In tali due forme si svolge, nelI - individuo, il passaggio all'universale.    (1) Antonio Arnauld (1012-1604), teologo e filosofo francese di scuola  cartesiana e giansenistica, intrattenne una lunga e importantissima corrispondenza col Leibniz. Lo stato dell'anima, come quello dell'atomo, è imo stato  di cambiamento, una tendenza: l'atomo tende a cambiare  di luogo, l'anima a cambiare di pensiero; l'uno e l’altro  cambiano nel modo piìi semplice e più uniforme che il  loro stato permetta. Come mai allora (mi si domanderà) c'è  tanta semplicità nel cambiamento dell'atomo e tanta varietà nei cambiamenti dell'anima? Il fatto è che l'atomo  (così come lo si i mm agina, benché veramente non esista  in natura), quantunque sia composto di parti, non ha  nulla che determini varietà nel suo tendere, poiché si suppone che queste parti non mutino i loro rapporti reciproci ;  mentre l'anima, per quanto indivisibile, contiene una tendenza composta, cioè una molteplicità di pensieri presenti  dei quali ciascuno tende a un particolare cambiamento, a  seconda di ciò che esso contiene; e questi pensieri si trovano tutti insieme nell'anima, in virtù del suo rapporto  essenziale con tutte le altre cose del mondo. E anzi, è  fra 1 altro la mancanza di tale rapporto che rende impossibili in natura gli atomi di Epicuro. Infatti ogni cosa o  parte dell' universo deve rappresentare tutte le altre; Sicilie 1 anima, quanto alla varietà delle sue modificazioni,  non deve paragonarsi all'atomo materiale, ma piuttosto  all universo, che essa rapprasenta dal suo punto di vista,  e anche in qualche maniera a Dio, di cui essa rappresenta  in modo finito 1 infinità (a causa della sua percezione confusa e imperfetta dell' infinito).   11 sentimento del piacere, per esempio, sembra semplice,  ma non lo è; e chi lo volesse notomizzare troverebbe  che esso implica tutto ciò che ci circonda e conseguentemente tutto ciò cir conila ciò che ci circonda. E la ragione  del cambiamento dei pensieri nell'anima è la medesima  ragione del cambiamento delle cose nell’ universo che  essa rappresenta. Infatti i rapporti meccanici che sono  sviluppati nei corpi, sono riuniti e, per cosi dire, concentrati nelle anime o entelechie, ed hanno anzi in esse    0. — Leibniz, La monadologia.   la loro origine. È vero che non tutte le entelechie sono,  come la nostra anima, immagini di Dio, poiché non tutte  sono fatte per essere membri di una società o di uno stato  di cui egli sia il capo; ma esse sono sempre immagini dell'universo. Sono mondi in compendio, a modo loro: semplicità feconde ; unità di sostanze ; ma virtualmente infinite,  por la molteplicità delle loro modificazioni; centri che  esprimono una circonferenza infinita.   (Polemica col Bayle).   Non potrebbe Dio forse dare inizialmente alla sostanza  una natura o forza interna che le faccia produrre ordinatamente (come in un automa spirituale o formale, ma  libero, in quanto gli è attribuita la ragione) tutto ciò  che le accadrà, cioè tutte le impressioni o espressioni che  essa avrà ; e ciò senza 0 soccorso di alcun' altra creatura ?  Tanto più che la natura della sostanza richiede necessariamente e implica essenzialmente im progresso o un cambiamento, senza il quale essa non avrebbe la forza di  agire. E poiché questa natura dell'anima è rappresentativa  dell" universo in modo esattissimo (benché più o meno distinto), la serie delle rappresentazioni che l'anima produce  in sé risponderà naturalmente alla serie dei cambiamenti  dell’universo stesso.   (Syxtème nouveau, lt>95, G. IV, IS.">).    Una monade, in sé stessa e in un istante, non può essere  distinta da un'altra, se non per le sue qualità e azioni  interne, le quali non possono essere altro che le sue percezioni (cioè le rappresentazioni del composto o di ciò che  sta al di fuori, nel semplice), e le sue appetizioni (cioè il  suo tendere da una percezione all'altra) che sono i principi del cambiamento. Infatti la semplicità della sostanza  non impedisce la molteplicità delle modificazioni che si  devono trovare insieme in questa medesima sostanza semplico; e tali modificazioni consistono nella varietà dei rapporti rispetto alle cose che stanno al di fuori. Così in un  centro o punto, per quanto semplice, si trova un' infinità  di angoli formati dalle linee che ad esso concorrono.   ( Principe « de la Mature et de la Grace).   Tn tal modo si viene anche a configurare il concetto di rappresentazione e in generale di conoscenza, come Leibniz lo  tratta dal punto di vista gnoseologico. Percezione è espressione  delia molteplicità nell’unità; e, d’altro lato, è azione.   11 pensiero, essendo l’azione di una cosa su sè medesima,  non ha luogo nella figura e nel movimento, i quali non  possono mostrare il principio d ima azione veramente interna: d’altronde è necessario che vi sieno esseri semplici,  altrimenti non vi sarebbero esseri composti o esseri per  aggregazione, i quali sono piuttosto fenomeni che sostanze, ed esistono piuttosto \óp<p che (potrei (cioè piuttosto moralmente o razionalmente che fisicamente) per  parlare con Democrito. E se non vi fosse cambiamento  nelle cose semplici, non ve ne sarebbe neppure nelle composte, tutta la realtà delle quali non consiste se non nella  realtà delle cose semplici. Ora i cambiamenti interni nelle  cose semplici sono analoghi a ciò che noi concepiamo nel  pensiero, e si può dire che in generale la percezione è  V espressione della molteplicità nell' unità. Ella non ha bisogno, Signore (1), di questi schiarimenti sulla immaterialità del pensiero di cui Ella ha parlato in modo ammirevole in molti luoghi. Tuttavia, unendo queste considerazioni con la mia ipotesi particolare, mi pare che l'una  serva a dar luce alle altre.   (Lotterà ni Bayle).   (1) Piotro Bayle (1647-1706), cui Leibniz qui si rivolge, b il principale  rappresentante della lilosofia scettica in quel tempo. Fondatore delle 1 Voltvelles de la republique des lettres, autore del Dictionnaire historique et crilique,  ebbe col Leibniz lunghe od interessantissime polemiche su vari argomenti,  quali l’ipotesi dell’armonia prestabilita, e il problema della conciliazione fra  fede o ragione. I pensieri sono azioni; e le conoscenze o verità, in  quanto sono in noi, anche quando non vi si pensa, sono  abitudini o disposizioni; e noi sappiamo molte cose alle  quali non pensiamo punto.   ( Nuovi Saggi, 1701 segg. I, I, § 26, G. V., 79).   Mi meraviglio, Signore, che Ella insista nel volgere le mie  opinioni in modo completamente diverso da ciò che io  intendo. Ella pretende che, secondo me, noi non facciamo  altro che accorgerci di ciò che avviene dentro di noi. Non  so d onde Ella abbia ricavato quest’ idea; io ritengo invece che noi facciamo tutto ciò che avviene in noi.   (Lettera al Jaquelot).   II pensiero come unità della molteplicità e come azione:  ecco due concetti che saranno propri della filosofia idealistica  postkantiana, cui Leibniz giunge già qui con l’ approfondi mento  del concetto di monade come spirito.   Le piccole percezioni. - Da tale concetto Leibniz trae  anche argomenti per affermare l’ innatismo, contro la negazione del Locke, il quale nel suo * Saggio sull’ intelletio umano,  si era opposto al razionalismo cartesiano affermando che tutto  viene aU’anima esclusivamente dai sensi, cioè dal di fuori,  come segni che si imprimano su di una tabula rasa. I Nuovi  saggi sull’ intelletto umano di Leibniz sono tutti destinati ad  una presa di posizione di fronte alle tesi del Locke. Di essi  verrà trattato in un volume a parte. Qui ci interessa solo notare come raifermazione dell’ innatismo in Leibniz non si fondi  soltanto, come in Cartesio, su motivi razionalistici. Ciò che è innato allo spirito, non deriva per lui unicamente dalle idee di ragiono. È innato anche tutto ciò che è contenuto nell’anima,  intesa come monade, cioè tutta la serie dei rapporti di causa  e di effetto di cui essa ha rappresentazione. Tutto ciò costituisce il contenuto dell’anima, e non viene ad essa dal di fuori  ma fa parte di essa già fin dalla sua creazione; tutto 1 universo, insomma, è già insito a priori nell’anima.   Ma l’anima non ha nozione attuale di tutto questo suo contenuto. Il campo della sua conoscenza è limitato e si estende LA MONADE solo a ciò che le è pili immediatamente a contatto. Come si  concilia questo con la sua universalità e con l’innatismo?  Leibniz ricorre a* questo proposito alle piccole percezioni o percezioni insensibili, le quali non cessano di influire sull’anima,  pur senza giungere alla sua coscienza. Esse appartengono bensì  dia rappresentazione deH’anima: l’anima però non ne ha consapevolezza. In tal modo si viene a far concordare l’assoluto  innatismo di ogni verità, sia necessaria sia contingente, sia  di ragione sia di fatto, con la limitazione attuale delle nostre  conoscenze. Le piccole percezioni permettono a Leibniz di concepire la monade limitata insieme e universale.   La questione dell’origine delle nostre idee e dei nostri  principi non è preliminare nella filosofia, e bisogna esser  molto avanzati per risolverla bene. Credo tuttavia di poter dire che le nostre idee, anche quelle delle cose sensibili  vengono dal nostro proprio intimo.... Non sono affatto favorevole alla tabula rasa di Aristotele; e vi è del giusto  in ciò che Platone chiamava reminiscenza. Vi è anzi di  piii, giacché noi non abbiamo soltanto una reminiscenza di  tutti i nostri pensieri passati, ma anche un presentimento  di tutti i nostri pensieri futuri. È vero che ciò avviene in  modo confuso e senza distinguere questi pensieri, press’ a  poco come quando io odo il rumore del mare: odo allora  il rumore di tutte le onde particolari che compongono il  rumore totale, pur senza distinguere un'onda dall'altra.  Così è vero, in un certo senso, ciò die ho spiegato : cioè  die non solo le nostre idee, ma anche le nostre sensazioni  (sentiments) nascono dal nostro fondo, e che l'anima è più  indipendente di quanto non si pensi; benché resti pur  vero che nulla avviene in essa che non sia determinato,  e che nulla è nelle creature, che non sia continuamente  creato da Dio.   (Suri' Essay de l'entendement liutnain de Momùur Loci. dc.j o il ]( f-3, G.Y, l(i).   Si tratta di sapere se l' anima in se stessa sia compietamente vuota, come delle tavolette in cui non si sia ancora scritto nulla (tabula rasa), secondo l'opinione di Aristotele  e dell'autore del Saggio, e se tutto ciò che vi è tracciato  derivi unicamente dai sensi e dall'esperienza: oppure se  l'anima contenga originariamente i principi di varie nozioni  e dottrine che gli oggetti esterni risvegliano soltanto nelle  varie occasioni, come credo io, d’accordo con Platone e  anche con la Scuola e con tutti coloro che prendono in  questo significato il passo di S. Paolo (Rom. 2,15), dove  egli dice che la legge di Dio è scritta nei cuori....   Possiamo noi negare che vi sia molto d’ iimato nel  nostro spirito, dal momento che siamo innati - per così  dire - a noi stessi, e in noi stessi vi sono l’essere, l'unità,  la sostanza, la durata, il cambiamento, l'azione, la perfezione, il piacere e mille altri oggetti delle nostre idee  intellettuali? Ed essendo questi oggetti immediati al nostro intelletto e sempre presenti (benché non possano esser  sempre percepiti a causa delle nostre distrazioni e dei  nostri bisogni), perchè meravigliarsi se noi diciamo che  queste idee ci sono innate con tutto ciò che ne dipende?  Mi sono servito anche del paragone di una pietra di marmo  che abbia delle venature, anziché essere tutta unita come  le tavolette vuote o ciò che i filosofi chiamano tabula  rasa. Poiché, se l'anima somigliasse a queste tavolette  vuote, le verità sarebbero in noi come la figura d' Ercole  è in un marmo, quando questo marmo è completamente  indifferente a ricevere questa figura o qualche altra. Ma  se vi fossero delle vene in quella pietra, elio indicassero  la figura di Ercole a preferenza di altre figure, questa  pietra sarebbe piii determinata, e Ercole vi sarebbe come  innato in qualche maniera ; quantunque sarebbe necessario  un certo lavoro per scoprile queste vene e polirle, eliminando ciò che impedisce loro di apparire. E in questa  guisa le idee e le verità ci sono innate come inclinazioni,  disposizioni, abitudini o virtualità naturali, e non come  azioni; benché queste virtualità siano sempre accompanate da qualche azione, spesso insensibile, ad esse rispondente.... D'altronde, vi sono mille segni i quali mostrano  che in ogni istante vi è in noi un' infinità di percezioni,  prive però di appercezione e di riflessione, cioè cambiamenti nell’anima stessa, di cui noi non ci accorgiamo  perchè le impressioni sono troppo piccole o troppo numerose o troppo unite fra di loro in modo da non aver nulla  che lo distingua partitamente ; ma, unito ad altre, non  mancano di produrre il loro effetto e di farsi sentire per lo  meno confusamente nell’ insieme. Così l'abitudine fa sì che  noi non ci accorgiamo del movimento di im mulino o di  una cascata, quando vi abbiamo abitato vicino per qualche  tempo. Ciò non significa che tali movimenti non continuino a colpire i nostri organi, e che non avvenga anche  nell’anima qualche cosa che vi risponda ...., ma queste inpressioni che sono nell’anima e nel corpo, prive dell'attrattiva della novità, non sono abbastanza forti per attirare  la nostra attenzione e la nostra memoria, le quali sono  rivolte ad oggetti più interessanti. Giacché ogni attenzione  richiede memoria, e spesso, quando non siamo per così dire  ammoniti ed avvertiti di prestare attenzione a talune delle  nostre percezioni presenti, le lasciamo passare senza riflessione e senza neppur notarle; ma se qualcuno ce ne avverte subito dopo, e ci fa osservare per esempio un qualsiasi suono che si sia appena inteso, ce ne ricordiamo, e  ci accorgiamo di averne avuto poco fa una sensazione. Così si trattava di percezioni di cui non ci eravamo accorti immediatamente, derivando in questo caso l'appercezione solo dall' avvertimento venuto dopo un intervallo  sia pur minimo. Non si dorme mai tanto profondamente da non aver  qualche sensazione debole e confusa, e non si sarebbe mai  svegliati neppure dal più grande rumore del mondo, so Appercezione » significa percezione cosciente (A j>ercevoir: accorgersi)  Cfr. Monadologia non si avesse una qualche percezione del suo inizio, che  è piccolo; cosi come, neppure col più grande sforzo del  mondo, non si romperebbe mai una corda so essa non  fosse tesa e allungata un poco attraverso sforzi minori;  per quanto questa piccola estensione da essi prodotta, non  appaia.   (Nuovi .Saggi, Prelazione). Do Ila rappresentazione e percezione si parlerà più a lungo  nel volume che tratterà dei Nuovi Saggi. Qui è interessante  notale come lo sviluppo del concetto di monade influisca direttamente anche su tutti i problemi gnoseologici. La monade assume sempre più le caratteristiche dello spirito. Universale, priva di estensione, eterna, indistruttibile,  dotata di rappresentazione e azione, essa diviene come la  pietra con cui l’edificio deH’universo è stato costruito. Essa  è spirito; ma tutto, anche la materia, consta di monadi; sia,  il mondo materiale sia il mondo spirituale la devono assumere come punto di partenza. Da questa concezione della  monade come elemento costitutivo del mondo, e dall’ impegno  di giustificare tutto attraverso essa, sorgono nuovi sviluppi.  Non si tratta più ora di studiare questo principio sostanziale  nella sua. intima costituzione: si tratta di vederlo agire nel  mondo.   I problemi che si pongono a questo proposito si possono  ridurre a tre: quello dei rapporti della monade con la suprema  sostanza spirituale, cioè Dio; quello dei rapporti delle varie  monadi tra loro; e quello della giustificazione di una natura  corporea. Vedremo corno questi problemi siano vicendevolmente collegati.   Le monadi e dio; accordo tra le monadi. - La rappresentazione di tutto l'universo e la tendenza alla propria  realizzazione che ciascuna monade tiene in sè, sono analoghe  alla tendenza e alla rappresentazione che caratterizzano la  divinità. Per questo riguardo la monade non è diversa da Dio.  L) altro lato essa è una creatimi di Dio; e il suo aspetto di  creatura consiste proprio nel punto di vista particolare da cui essa agisce e si rappresenta il mondo. In tale rappresentazione  ciascuna monade è completa in sè stessa, nè è possibile che  alcunché provenga ad essa dal di fuori: tutte lo sue affezioni,  passate, presenti e future, sono già contenute in ossa. La sua  rappresentazione del mondo è già chiusa in sè: il suo contenuto  corrispondo al contenuto delle altre monadi, allo stosso modo  che due panorami di una città da punti di vista diversi si  corrispondono senza influenzarsi a vicenda. Questa completezza della monade chiusa in sè stessa, è espressa da Leibniz  con due detti celebri: il primo, che le monadi non hanno finestre', il secondo, che basta all’esistenza e universalità della  monade, che ci sia Dio ed essa sola al mondo.   Dio produce diverse sostanze, a seconda delle visioni differenti che  egli ha dell' universo -, e, attraverso V intervento di Dio, la natura  propria di ciascuna sostanza fa sì che ciò che accade all' una, corrisponda a ciò che accade a tutte le altre, senza però che l’una agisca  immediatamente sull’ altra.   È in primo luogo chiarissimo che le sostanze create dipendono da Dio, il quale le conserva, anzi le produce continuamente per ima specie di emanazione, così come noi  produciamo i nostri pensieri. Infatti, dato che Dio volge,  per così dire, da tutte le parti e in tutte la maniere il sistema generale dei fenomeni ch’egli crede bene di produrre  per manifestare la sua gloria, e guarda tutti gli aspetti  del mondo in tutti i modi possibili (poiché nessun rapporto sfugge alla sua onniscienza); ne consegue che il risultato di ciascuna visione dell’universo da un determinato  punto di vista, è una sostanza che esprime l’universo in  modo conforme a tale visione, se Dio crede bene di rendere  il suo pensiero effettivo e di produrre tale sostanza. E  poiché la visione di Dio è sempre veritiera, lo sono altresì  le nostre percezioni : ma ciò che ci inganna sono i nostri  giudizi, che dipendono da noi.   Ora noi abbiamo detto sopra, e discende dalle nostre ultime affermazioni, che ciascima sostanza è come un mondo a  parte, indipendentemente da qualsiasi altra cosa all’ infuori  di Dio. Così tutti i nostri fenomeni, cioè tutto ciò che ci  potrà mai accadere, non è che una conseguenza del nostro  essere. E poiché questi fenomeni conservano un certo ordine conforme alla nostra natura, o. per così dire, al mondo  elio è in noi - onde possiamo fare osservazioni utili a  regolare la nostra condotta e giustificate dall' avverarsi  dei fenomeni futuri, e possiamo spesso arguire senza errare  1’ avvenire dal passato . basterebbe questo per dire che  tali fenomeni sono veri, senza preoccuparsi se essi siano  fuori di noi e se anche gli altri li percepiscano. Tuttavia  è pur vero che le percezioni o espressioni di tutte le sostanze si rispondono vicendevolmente, in modo che ciascuno, seguendo accuratamente certe ragioni o leggi che  ha osservate, s’ incontra con l' altro che fa altrettanto ; così  come, quando più persone si sono accordate di trovarsi  insieme in un determinato luogo e in un determinato  giorno, lo possono fare effettivamente se vogliono. Ora.  nonostante che tutti esprimano i medesimi fenomeni, non  per questo le loro espressioni sono perfettamente simili,  ma basta che siano proporzionali: così come vari spettatori credono di vedere la medesima cosa, e infatti si intendono vicendevolmente, per quanto ciascuno veda e parli  secondo la misura della sua vista.   Ora solamente Dio (dal quale emanano continuamente  tutti gli individui, e il quale vede l'universo non solo  come lo vedono essi, ma anche in modo completamente  diverso) è causa di tale corrispondenza dei loro fenomeni,  e fa sì che ciò che è specifico di uno sia comune a tutti;  altrimenti non vi sarebbe alcun legame. Si potrebbe dunque dire — in certo modo e in senso esatto, per quanto  lontano dall'uso comune che una sostanza particolare  non agisce mai su di un'altra sostanza particolare nè è  affetta da essa, se si considera che ciò che accade a ciascuna non è che una conseguenza della sola sua idea o  nozione completa ; poiché tale idea contiene già tutti i predicati o eventi, ed esprime tutto l’universo. Infatti,  niente ci può toccare se non pensieri e percezioni, e tutti  i nostri pensieri e le nostre percezioni future non sono  che conseguenze (sia pur contingenti) dei nostri pensieri  e percezioni precedenti; in modo che, se io fossi capace  di considerare distintamente tutto ciò che mi accade o mi  appare in questo istante, vi potrei vedere tutto ciò  che mi accadrà o mi apparirà in eterno; e ciò non verrebbe a manóare e mi accadrebbe pur sempre, se anche  tutto ciò che è fuori di me fosse distrutto, purché non rimanesse se non Dio e io stesso. (Discovra de métaphysique). La differenza fra la monade e Dio consisto dunque in ciò,  die la monade è rappresentazione del mondo da un solo punt o  di vista; mentre Dio li raccoglie e riassume tutti in sé. E  <|uesto è anche il fondamento dell’accordo delle monadi fra  di loro, pur mantenendo ciascuna la sua autonomia e indipendenza. Le percezioni confuse e l’azione reciproca delle monadi. - Ma anche per un altro lato si distingue la monade da  Dio: perla minor chiarezza e precisione della sua rappresentazione. Con le percezioni confuse Leibniz riprende il concetto  delle piccole percezioni. Ma mentre quelle servivano a dimostrare in ogni anima la presenza - sia pure incosciente e indistinta - di tutto il contenuto del mondo, queste fanno  ravvisare in tale incoscienza e confusione la causa della imperfezione propria di ciascuna monade. Nella rappresentazione delle monadi sono contenuti bensì  tutti i legami di causa ed effetto che costituiscono l’universo:  ma non come percezione chiara, distinta, perfettamente sviluppata. Man mano che ci si allontana dal punto di partenza  che costituisce 1 individualità essenziale di ciascuna monade,  tale percezione si fa indistinta e confusa. E la deficienza deriva  dalla imperfezione che è propria delle creature. In Dio, che è  il luogo, per così dire, di tutte le monadi e raccoglie in sé  gli infiniti punti di vista, la rappresentazione dell’universo  nella sua totalità è sempre perfettamente chiara e distinta.  Le percezioni dei nostri sensi, quand' anche sono chiare,  devono necessariamente contenere una qualche sensazione  confusa; poiché, dato che tutti i corpi dell'universo simpatizzano, il nostro riceve 1’ impressione di tutti gli altri :  e quantunque i nostri sensi siano in rapporto col tutto,  non è possibile che la nostra anima possa por mente a  tutto particolareggiatamente. Questa è la ragione onde le  nostre sensazioni confuse sono il risultato di una varietà  di percezione assolutamente infinita. Così il mormorio confuso che vien udito da chi si avvicini alla riva del maro  deriva dalla riunione delle risonanze di imvumerevoli onde.  Ora, se fra varie percezioni (che non s'accordano affatto  a costituirne mia complessiva) non ve n’è alcuna che eccella al di sopra delle altre, e se esse producono press’ a poco  impressioni di uguale intensità o ugualmente capaci di  determinare l'attenzione dell'anima, l'anima non può accorgersene se non confusamente.   ( Discoltra de mélaphysique).   La differenziazione nella chiarezza della percezione è dunque  ciò che costituisce l'individualità di ciascuna monade e ciò che  differenzia le monadi una dall’altra. E anche spiega, in certo  qual modo, come si possa parlare - impropriamente però di azione, di una monade sull’altra.   Poiché noi attribuiamo ad altre cose, come a cause che  agiscano su di noi, ciò che percepiamo in un certo modo,  bisogna considerare il fondamento di questa opinione e  ciò che vi è in essa di vero.   L'azione di una sostanza finita sull’altra no>i consiste se non nell’accrescimento del grado della sua espressione, unito alla diminuzione di quello dell'altra, in quanto Dio le obbliga ad accordarsi.   Ma senza entrare in una lunga discussione, basta ora,  per conciliare il linguaggio metafisico con la pratica, osservare che noi attribuiamo a noi stessi, e con ragione, piuttosto i fenomeni che esprimiamo più perfettamente;  e clie attribuiamo alle altre sostanze ciò che ciascuna di  esse esprime meglio. Così ciascuna sostanza, clie è di estensione infinita in quanto esprime tutto, diviene limitata per  il modo della sua espressione più o meno perfetta. In tal  modo dunque si può concepire che le sostanze si impediscano e limitino vicendevolmente; e quindi si può dire  in questo senso che esse agiscono l’ima sull'altra e sono  obbligate, per così esprimersi, a adattarsi l una all'altra.  Giacché può avvenire che un cambiamento che aumenti  l’espressione dell - una, diminuisca quella dell'altra. Ora la  virtù di mia sostanza particolare è di bene esprimere la  gloria di Dio; ed è questo l'aspetto onde ossa è meno limitata. E qualsiasi cosa, quando esercita la sua virtù o  potenza, cioè quando agisce, cambia in meglio e si sviluppa, in quanto agisce. E dunque, quando avviene un  cambiamento da cui più sostanze sono affette (e effettivamente ogni cambiamento le tocca tutte), credo che si  possa due che quella che per questo cambiamento passa  immediatamente ad un maggior grado di perfezione o ad  una espressione più perfetta, esercita la sua potenza e  agisce; e quella che passa ad un grado minore di perfezione, mostra la sua debolezza e 'patisce. Ritengo inoltre  che ogni azione della sostanza che abbia una qualche percezione, comporti un qualche 'piacere ; e ogni passione un  qualche dolore, e viceversa. Ma può tuttavia accadere che  un vantaggio presente sia distrutto da un male maggiore  in seguito. D’onde deriva che si può peccare pur nell' agire  o nell’ esercitare la propria potenza e provando piacere.   (Discovra de méiuphysique).   Le percezioni confuse come corpo. - Percezione distinta  è dunque nella monade l’elemento attivo; percezione confusa  l’elemento passivo. Ora noiT si e già visto, a proposito delle  leggi della forza e del movimento, che Leibniz definisce l’azione  come il principio spirituale, e la passione (o passività) come  quello materiale? Le percezioni confuse, in quanto passive,  rappresentano nella monade il principio corporeo.   Ho già detto che da un punto di vista rigorosamente  metafisico, considerando come azione ciò che a va- iene alla  sostanza spontaneamente e dal suo stesso fondo, tutto  ciò che è propriamente una sostanza non fa (thè agire, poiché tutto le proviene da sé stessa dopo che da Dio, e non  è possibile che una sostanza creata abbia influenza sull’altra. Ma, considerando come azione un esercizio di perfezione, e passione il contrario, non vi è azione nelle vere  sostanze se non quando la loro percezione (e io attribuisco  percezione a tutte) si sviluppa e diviene più distinta; e  non vi è jxissione se non quando diviene più confusa. Di  modo che nelle sostanze capaci di piacere e di dolore,  ogni azione è un avviamento al piacere, e ogni passione  al dolore.   ( Nuovi Saggi).   Le ideo e verità innate non possono essere cancellate;  ma sono oscurate in tutti gli uomini (al loro stato attuale)  dalla loro tendenza verso i bisogni del corpo, e spesso ancor  pili dalle cattive abitudini sopravvenute. Tali caratteri di  illuminazione interna sarebbero sempre splendenti nell" intelletto e darebbero calore alla volontà, se le percezioni  confuse dei nostri sensi non si impossessassero della nostra attenzione. È questa la lotta di cui parla la Sacra  Scrittura e anche la filosofia antica e la moderna. Nuovi Saggi. Si ha ragione di chiamare, coi filosofi antichi, perturbazione o passione ciò che consiste nei pensieri confusi, in  cui vi è dell' involontario e dello sconosciuto ; ed è ciò che  nel linguaggio comune si attribuisce non ingiustamente alla  lotta fra corpo e spirito, poiché i nostri pensieri confusi rappresentano il corpo o la carne, e costituiscono la nostra imperfezione.   (Polemica eoi Bayle).    D’altro lato, è interessante notare elio Leibniz, proprio contemporaneamente alla definizione delle percezioni confuse come  provenienti dalla natura corporea, riafferma che esse non hanno  nulla di essenziale che no distingua la natura da quella delle  percezioni distinte; che è come dire che la natura corporea  non differisce essenzialmente dalla natura spirituali'.    Si concepiscono generalmente i pensieri confusi come di  un genere completamente diverso dai pensieri distinti, e il  nostro autore (1) giudica die lo spirito sia più unito al  corpo attraverso i pensieri confusi che attraverso quelli  distinti. Ciò non è senza fondamento, poiché i pensieri  confusi indicano la nostra imperfezione, le nostre passioni, la nostra dipendenza dall' insieme delle cose esteriori o dalla materia, mentre la perfezione, forza, dominio, libertà e azione dell’anima consistono principalmente nei nostri pensieri distinti. Tuttavia non è men  vero che, in fondo, i pensieri confusi non sono altro  che ima molteplicità di pensieri in sé stessi uguali ai  distinti, ma tanto piccoli che ciascuno separatamente  non eccita la nostra attenzione e non è distinguibile.  Si può dire anzi che nelle nostre sensazioni ve ne è compresa insieme una quantità veramente infinita. E in ciò  consiste proprio la grande differenza fra i pensieri confusi   e quelli distinti.... .   Così non bisogna punto concepire le sensazioni contuse  come qualche cosa di primitivo e di inesplicabile ; altrimenti le si mettono press’ a poco a pari con le antiche qualità di alcuni filosofi scolastici, (2) alle quali non si farebbe    (1) Il benedettino Francesco Lami, autore di una Connotane de soy, nènie ( Parici, 1«99), con cui Leibniz è qui in polemica.   (2) Leibniz allude qui alla concezione scolastica Becondocuiognisensa.  zinne deriva da differenti « qualità sensibili » che si muovono dai corpi esterni che sostituire queste sensazioni se si volesse sostenere tale  differenza essenziale; e ciò non sarei) he che spostare la  difficolta. E, quantunque sia vero che la loro spiegazione  completa superi le nostre forze a causa della troppo grande  molteplicità che esse implicano, non si cessa tuttavia di  penetrarvi sempre più, per mezzo di esperienze che fanno  scoprire in esse i fondamenti dei pensieri distinti. La luce  e i colori ci forniscono esempi di ciò. Queste sensazioni  confuse, non sono neppur esse arbitrarie; e io non sono  d’accordo con l'opinione accettata oggi dai più e seguita  dal nostro autore, che non vi sia somiglianza o rapporto  fra le nostre sensazioni e le loro tracce corporee. Direi  piuttosto che le nostre sensazioni rappresentano ed esprimono perfettamente tali tracce. Taluno dirà forse che la  sensazione del calore non assomiglia al movimento: sì.  senza dubbio, non assomiglia a un movimento sensibile  quale quello della ruota di una carrozza; ma assomiglia  all' insieme dei piccoli movimenti del fuoco e degli organi  che ne sono la causa; o piuttosto non è se non la loro  rappresentazione. Così la bianchezza non assomiglia a uno  specchio sferico convesso, e tuttavia non è che 1' insieme  di una quantità di piccoli specchi convessi quali si vedono  nella schiuma, guardandola da vicino. E se noi potessimo sempre scoprire con la medesima facilità la causa  delle nostre sensazioni, troveremmo che essa si riduce  sempre a qualche cosa del genere.   (Addition à l'Explication du systeme nouteau).   Corporeità nella monade. Immortalità. - Si è giunti  dunque a concepire il corpo come un semplice aspetto dello  spirito: o meglio, corpo e spirito come due diversi aspetti della   per penetrare in noi. Tale concezione faceva di ogni sensazione alcunché di  primitivo, originario, irresolubile. Le varie sensazioni derivano invece per  Leibniz dal differente comportarsi di un’unica sostanza, e la differenza fra  confuso e distinte — cioè fra anima e corpo - è differenza di grado, non essenziale. I.kihniz, La monadologia.   sostanza semplice originaria, o monade; la quale non è in sè  corporea, ma può, anzi deve svilupparsi in quanto aumenti  o diminuisca il suo grado di perfezione - come spirito o come  corpo. Le percezioni possono infatti divenire da confuse distinte, e viceversa.   Oltre alle percezioni di cui l'anima ha ricordo, essa ne ha  una quantità infinita di confuse, di cui non viene in chiaro;  e attraverso queste, essa rappresenta i corpi esterni, e  giunge a pensieri distinti diversi dai precedenti : perchè i  corpi che essa rappresenta sono passati d’ un tratto a qualche cosa che colpisce fortemente il suo. Cosi l’ anima passa  qualche volta dal bianco al nero o dal sì al no, senza sapere come, o almeno in modo involontario. Poiché ciò  che i suoi pensieri confusi e le sue sensazioni producono  in essa, si attribuisce al corpo. E non Insogna dunque  meravigliarsi se un uomo che mangia un dolce, e si trova  punto da un qualche animale, passa immediatamente, suo  malgrado, dal piacere al dolore. Intatti l animale era già  in relazione col corpo dell'uomo avvicinandosi ad esso  prima di pungerlo, e la rappresentazione di ciò colpiva  già la sua anima, ma insensibilmente. Tuttavia a poco a  poco F insensibile passa al sensibile, nell' anima come nel  corpo ; e così l’anima si modifica da sè anche contro la sua  volontà; poiché essa è schiava, attraverso le sensazioni e  i pensieri confusi che si formano secondo gli stati del suo  corpo e degli altri corpi in rapporto al suo. Ecco dunque  per quale meccanismo i piaceri si interrompono, e a volte  succedono i dolori senza che l'anima ne sia sempre avvertita o vi sia preparata; come per esempio nel caso che  l'animale il quale pungerà si avvicini senza rumore; oppure, se fosse per esempio una vespa, quando una distrazione ci impedisce di fare attenzione al ronzio della  vespa che si avvicina. Così non bisogna punto dire che  non è avvenuto nulla di nuovo nella sostanza di questa  anima, per cui essa passi alla sensazione della puntura: sono i presentimenti confusi o, per meglio dire, le disposizioni insensibili dell'anima che rappresentavano la disposizione alla puntura nel corpo. Osservazioni al Dizionario del Bayle, G.).   Discende anche necessariamente da tutto ciò che ogni monade, e perciò ogni anima, sia fornita di un corpo. E, poiché  ogni monade è eterna e ind istrutt ibile, non solo l'anima è  immortale, ma è anche indistruttibile il corpo; e di morte, a  ligoie, nella natura, non si può parlare, ma solo di una composizione e scomposizione di vari elementi semplici tra loro.   Io ritengo non solo che queste anime o entelechie abbiano tutte con sè un qualche corpo organico proporzionato alle loro percezioni; ma anche che Io avi-anno sempre  e lo hanno sempre avuto da quando esistono: così non  solo l'anima, ma anche l'animale stesso (o ciò che è analogo all anima e all animale, per non fare questioni di  parole) permane, e la generazione e la morte non possono  essere se non sviluppi e involuzioni di cui la natura ci  mostra visibilmente alcuni saggi, secondo il suo uso, per  aiutarci a indovinare ciò che nasconde. E quindi nè il  terrò, ne il fuoco, ne tutte le altre violenze della natura,  qualunque rovina portino nel corpo di un animale, non possono impedire all'anima di conservare un qualche corpo  organico, in quanto l'organismo, cioè l'ordine e l'artificio,  è qualche cosa di essenziale alla materia prodotta e organizzata dalla sovrana saggezza: poiché la produzione deve  sempre conservare traccia del suo autore. Questo mi fa  pensare anche che non vi sia alcuno spirito separato Quanto è qui affermato contraddice solo in parte all' ipotesi dell’armonia prostabilita, secondo la quale corpo e spirito sono due sistemi separati, privi di influenze reciproche. Le percezioni confuse dell’anima sono  qui intese non come veraracute corporee, ma come rappresentatrici nell'anima di ciò ohe avviene nel corpo. È innegabile però clic Leibniz a volte  attribuisce invece alle percezioni confuse un carattere nettamente corporeo. completamente dalla materia, salvo l'essere primo e sovrano.   (Lettera a Mnsham).   In natura e secondo un rigore metafisico, non vi è nè  generazione nè morte, ma solo sviluppo e involuzione di  un medesimo animale. Altrimenti vi sarebbe un salto eccessivo, e la natura uscirebbe troppo dal suo carattere di  uniformità per un cambiamento essenziale inesplicabile.  L’esperienza conferma tali trasformazioni in alcuni animali,  nei quali la natura stessa ci ha mostrato un piccolo saggio  di ciò che essa nasconde altrove. L' osservazione anche  permette ai più accorti osservatori di notare che la generazione degli animali non è altro che un accrescimento aggiunto alla trasformazione; il che consente di giungere alla  conclusione che la morte non può essere se non il contrario; consistendo la differenza solamente nel fatto che  in un caso il cambiamento si produce a poco a poco, e  nell’altro d’ un tratto e come violentemente. D'altronde,  l'esperienza mostra anche che un numero troppo grande  di piccole percezioni poco distinte, come quelle che vengono quando si è ricevuto un colpo alla testa, ci stoidisce: e che in un deliquio avviene che noi ricordiamo  - e dobbiamo ricordare  così poco di tali percezioni, come  se non ne avessimo avute affatto. Dunque la regola delT uniformità ci deve permettere di non giudicare diversamente anche della morte degli animali, secondo l'ordine  naturale; poiché la cosa è facile a spiegarsi in tale maniera già conosciuta e sperimentata, ed è inesplicabile in  qualsiasi altra maniera. Non è intatti possibile concepire  come cominci o termini 1 esistenza o 1 azione del principio  percettivo, nè la sua disgregazione.   (Lettera alla regina Sofia Carlotta di Prussia).   (1) Cioè Dio, in uni non esistono percezioni oscure, nò passività, e in cui  tutto ò realizzato.  Gerarchia delle monadi. - La concezione delle percezioni  distinte e confuse come criteri di perfezione o imperfezione,  dà a Leibniz il modo di stabilire una graduazione tra le varie  monadi. Le percezioni più elevate e complesse saranno segni  distintivi delle monadi più elevate. Si forma così una vera e  propria gerarchia, i cui gradi inferiori rappresentano gli infimi  staili della vita vegetativa, i superiori le più alte vette della  spiritualità. La monade dell’uomo sta al culmine di questa  ascesa; e ciò che le attribuisce tale titolo di nobiltà sono le  percezioni riflesse, onde essa giunge alle idee astratte, all’autocoscienza, alla memoria di sè che le garantisce la conservazione  dellasua personalità individuale. AI di sopra di tutto poi, come  percezione sommamente distinta e completa, e oggetto pure di  ogni percezione particolare da parte delle monadi, è Dio. Ogni monade, con un corpo particolare, costituisce una  sostanza vivente. Così non vi è solamente vita dappertutto, imita alle membra o organi, ma questa vita si mostra in un' infinità di gradi nelle monadi, dominando le  une più o meno sulle altre. Ma quando la monade ha  organi così bene adattati, che per loro mezzo vi sia rilievo  e distinzione nell' impressione che essi ricevono, e quindi  nelle percezioni che rappresentano tali impressioni (come  per esempio quando, per la conformazione degli umori degli  occhi, i raggi della luce sono concentrati e agiscono con  maggior forza), allora ciò può giungere fino al sentimento,  che è una percezione accompagnata da memoria, della  quale cioè resta a lungo una certa eco, per farsi sentire  occasionalmente. E un tale essere vivente è chiamato animale, così come la sua monade è chiamata anima. E  quando quest’anima s’ innalza fino alla ragione, essa è  qualche cosa di più sublime, e la si annovera fra gli spiriti,  come spiegheremo or ora. È vero che gli animali sono a  volte nello stato di semplici esseri viventi e le loro anime Questo termine (sentiment) è stato da noi a volte anche tradotto con  la parola « sensazione ». nello stato di semplici monadi: quando cioè le loro percezioni non sono abbastanza distinte perchè ci se ne possa  ricordare, come nel caso di un sonno profondo senza sogni,  o di uno svenimento. Ma le percezioni divenute interamente confuse si devono sviluppare di nuovo negli animali.... Così è bene far distinzione fra la percezione, che è  lo stato interiore della monade che rappresenta le cose  esterne, e la appercezione, che è la coscienza o conoscenza  riflessiva di quello stato interiore, e non è data a tutte  le anime, nè sempre alla medesima anima. Vi è nelle percezioni degli animali un legame che ha  qualche somiglianza con la ragione, ma non è fondato  che sulla memoria dei fatti o effetti, e non sulla conoscenza delle cause. Così un cane fugge il bastone da cui  è stato colpito, perchè la memoria gli rappresenta il dolore che questo bastone gli ha prodotto. E gli uomini, in  quanto empirici, cioè nei tre quarti delle loro azioni, non  agiscono che come bestie: per esempio, prevediamo che  domani farà giorno perchè si è sempre fatta una tale esperienza: ma solo l'astronomo lo prevede per via di ragione.  E anche questa previsione fallirà una volta, quando la  causa del giorno, che non è eterna, cesserà. Ma il vero  ragionamento dipende dalle verità necessarie o eterne,come  quelle della logica, dei numeri, della geometria, che costituiscono la connessione indubitabile delle idee e le conseguenze immancabili. Gli animali nei quali tali conseguenze  non si osservano, sono eliiamati bestie. Ma quelli che conoscono queste verità necessarie, sono propriamente quelli  che si chiamano animali ragionevoli, e le loro anime sono  chiamate spiriti. Queste anime sono capaci di compiere  atti riflessivi, e di considerare ciò che si chiama io, sostanza, anima, spirito, insomma le cose e le verità immateriali. Ed è questa facoltà che ci rende partecipi delle  scienze o dello conoscenze dimostrative.   ( Principe* (Iti la nature et de la yrucel).   Differenza fra gli spiriti e le altre sostanze, anime o forme sostanziali ; e dimostrazione che V immortalità di cui si vuol sostenere  l’esistenza, implica la memoria.   Supposto che i corpi che costituiscono unum per se,  come l'uomo, siano sostanze e abbiano fonile sostanziali,  e che le bestie abbiano anima, bisogna riconoscere elio  tali anime e forme sostanziali non possono perire completamente, non meno che gli atomi o le ultimo parti  della materia, secondo l’opinione degli altri filosofi; giacché nessuna sostanza perisce, per quanto possa mutarsi.  Esse esprimono tutto l’universo, benché più imperfettamente che gli spiriti. Ma la principale differenza consiste  nel fatto che esse non conoscono ciò che sono, nè ciò che  fanno, e quindi, non potendo fare riflessioni, non possono  scoprire verità necessarie e universali. La mancanza di  riflessione su sé stesse è pure la ragione per cui esse non  posseggono alcuna qualità morale : ne deriva che, passando  esse per mille trasformazioni - press’a poco come un bruco  si muta in farfalla - ciò equivale per la morale o pratica a dire che esse periscono. Si può anzi dirlo, da un punto  di vista fisico, così come diciamo che i corpi periscono  per corruzione. Ma l' anima intelligente, conoscendo ciò che  essa è, e potendo dire quella parola io che ha un così profondo significato, non solo permane e sussiste metafisicamente anche piii delle altre, ma rimane la medesima anche  moralmente, e costituisce il medesimo personaggio. Giacché è il ricordo o la conoscenza di quell’ io che la rende  passibile di castigo o di ricompensa. Così 1’ immortalità  ciie si richiede nella morale e nella religione non consiste  nella sola sussistenza perpetua che appartiene a tutte le  sostanze; poiché, senza il ricordo di ciò che si è stati, non Morale, ha per Leibniz e per tutti i filosofi del suo tempo anche il significato di pratico, contingente, empirico. Si ò già visto (p. 27 ss.) come la  nooessità morale si applichi alle verità di fatto e si contrapponga alla necessità di ragione, che dà l’assoluta cortezza, l’impossibilità del contrario.  avrebbe nulla di desiderabile. Supponiamo che un privato  qualsiasi debba divenire ad un tratto re della Cina, ma  a condizione di dimenticare ciò ch'egli è stato, come se  nascesse di nuovo. Ebbene, in pratica e quanto agli effetti di cui ci si può accorgere, non è forse come se egli  dovesse essere annientato, e dovesse venir creato nel medesimo istante al suo posto un re della Cina? Cosa che  questo privato non ha alcuna ragione di desiderare.   Eccellenza degli spiriti, che Dio considera a preferenza delle altre creature. Oli spiriti esprimono piuttosto Dio che il mondo, ma  le altre sostanze esprimono piuttosto il mondo che Dio.   Ma, per permettere di giudicare attraverso ragioni naturali che Dio conserverà sempre non soltanto la nostra sostanza, ma anche la nostra persona, cioè il ricordo e la conoscenza di ciò che noi siamo (benché la conoscenza distinta  ne sia a volte sospesa nel sonno e negli svenimenti), bisogna  unire la morale alla metafisica: cioè non bisogna soltanto  considerare Dio come il principio e la causa di tutte le sostanze e di tutti gh esseri, ma anche come il capo di tutte  le persone o sostanze intelligenti, e come il monarca assoluto della più perfetta città o repubblica, quale è quella  dell' universo, composta di tutti gli spiriti insieme; essendo  Dio stesso insieme il più completo di tutti gli spiriti e il  massimo di tutti gli esseri. Sicuramente infatti gli spiriti  sono le sostanze pili perfette e che esprimono meglio la  divinità. Ed essendo la natura, il fine, la virtù e la funziono delle sostanze nuli’ altro che di esprimere Dio e l’universo (come è già stato spiegato a sufficienza) non vi è  ragione di dubitare che le sostanze che lo esprimono con  conoscenza di ciò che esse fanno, e che sono capaci di  conoscere grandi verità riguardo a Dio e all' universo, non  lo esprimano incomparabilmente meglio che quelle nature  che sono o brute e incapaci di conoscere le verità, o completamente prive di sentimento e di conoscenza: e la differenza fra lo sostanze intelligenti e quelle che non lo sono  è così grande come quella che c’è fra lo specchio e colui  che vede.   E poiché Dio stesso è il piii grande e il più saggio degli  spiriti, è facile comprendere che gli esseri coi quali egli  può, per così dire, entrare in conversazione e perfino in  società comunicando ad essi i suoi sentimenti e le sue  volontà in modo particolare e in guisa che essi possano  conoscere ed amare il loro benefattore, lo devono interessare infinitamente pi fi che il resto delle cose, le quali non  possono essere considerate se non come strumenti degli  spiriti: così come noi vediamo che tutte le persone sagge  hanno molto maggior stima dell'uomo che di qualsiasi altra  cosa, sia pur preziosissima. E la pili grande soddisfazione  che possa avere un’anima, per altri riguardi contenta, è  di vedersi amata dagli altri. Vi è tuttavia, riguardo a Dio,  questa differenza: chela sua gloria e il nostro culto non possono aggiungere nulla alla sua soddisfazione; non essendo  la conoscenza delle creatine se non una conseguenza della  sua sovrana e perfetta felicità, ben lungi dal contribuirvi o  dall’esseme in parte la causa. Tuttavia, ciò che è buono e  ragionevole negli spiriti finiti, si trova eminentemente in  lui. E come noi loderemmo un re che preferisse conservare  la vita di un uomo che quella del più prezioso e più raro  fra i suoi animali, così non dobbiamo affatto dubitare che  il più illuminato e il più giusto di tutti i monarchi non  abbia il medesimo sentimento.   Dio è il monarca delta più perfetta repubblica composta di tutti  gli spirili-, e il suo principale intento è la felicità di questa città  di THo.   Effettivamente gli spiriti sono le sostanze massimamente  sus*cettibili di perfezione. E le loro perfezioni hanno questo  di particolare: che non si intralciano a vicenda, anzi si  aiutano; poiché soltanto i piti virtuosi potranno essere i più perfetti amici. Ne segue chiaramente che Dio. il quale  tende sempre alla massima perfezione universale, avrà più  cura degli spiriti e darà ad essi non soltanto in generale  ma anche a ciascuno in particolare, il massimo di perfezione permesso dall'armonia universale.   Si può anzi dire che Dio. in quanto è uno spirito, è  l'origine delle esistenze; altrimenti, se gli mancasse la volontà per scegliere il migliore, non vi sarebbe alcuna ragione affinchè esistesse un possibile a preferenza di altri.  Così la qualità posseduta da Dio, di essere egli stesso uno  spirito, precede tutte le altre considerazioni che egli può  avere riguardo alle creature: solo gli spiriti sono fatti a  sua immagine, appartengono quasi alla sua razza e sono  come i figli della casa, perchè essi soli possono servirlo  li fieramente e agire coscientemente ad imitazione della natura divina: un solo spùito vale tutto un mondo, perchè  non solo lo esprime, ma lo conosce pure, e vi si comporta  al modo di Dio. Così sembra che, quantunque ogni sostanza esprima tutto l'universo, pine le altre sostanze esprimono piuttosto il mondo che Dio, ma gli spiriti esprimono  piuttosto Dio che il mondo. E tale natura così nobile  degli spiriti, ohe li avvicina alla divinità quanto è possibile a semplici creatine, fa sì che Dio tragga da essi gloria  infinitamente maggiore che dagli altri esseri : o piuttosto  gli altri esseri non fanno che dare agli spiriti argomenti per  glorificare Dio.   Questa è la ragione per cui quella qualità morale di Dio  che lo rende signore o monarca degli spiriti, lo tocca,  per così dire, personalmente in modo affatto smgolare. È  in ciò ch'egli si umanizza, ch'egli soffre rapporti umani,  eh' egli entra in società con noi, come un principe con i  suoi sudditi; e tale rapporto gli è così caro, che lo stato  felice e fiorente del suo impero, consistente nella massima  felicità possibile dei suoi abitanti, diviene la suprema  delle sue leggi. Poiché la felicità è per le persone ciò che la perfezione è per gli esseri. E se il primo principio dell'esistenza del mondo fisico è il decreto di dargli il massimo di perfezione possibile, il primo disegno del mondo  morale o della città di Dio, clie è la parte pili nobile dell'universo, sarà di diffondervi il massimo di felicità possibile.   Non bisogna dunque affatto dubitare che Dio non abbia  ordinato il tutto in modo che gli spiriti non solo possano  vivere sempre, il che è inevitabile, ma anche ch'essi conservino sempre la loro qualità morale, affinchè la sua  città non perda alcuna persona, così come il mondo non  perde alcuna sostanza. E quindi gli spiriti saranno sempre  ciò che sono, altrimenti non sarebbero suscettibili di ricompensa nè di castigo: il che d'altra parte appartiene  all'essenza di qualsiasi repubblica, ma sopratutto della più  perfetta, nella quale nulla può essere negletto.   Ingomma, essendo Dio contemporaneamente il più giusto  e il più benevolo dei monarchi, e non richiedendo se non  la buona volontà, purché sia sincera e seria, i suoi sudditi  non potrebbero desiderare una condizione migliore. E, per  renderli perfettamente felici, egli vuole soltanto che lo  amino.    Gesù Cristo Ita scoperto agli uomini, il mistero e le leggi ammirevoli del regno dei cieli e la grandezza della suprema felicità che  Dio prepara a coloro che lo amano.   I filosofi antichi non hanno abbastanza conosciuto queste importanti verità: Gesù Cristo solo le ha espresse divinamente bene, o in modo così chiaro e famigliare, che  gli spiriti più grossolani le hanno potute concepire. Così  il suo Evangelo ha cambiato completamente la faccia delle  cose umane: egli ci ha mostrato il regno dei cieli, o quella  perfetta repubblica degli spiriti che merita il titolo di città  di Dio, di cui ci ha scoperto le leggi ammirevoli: egli  solo ha mostrato come Dio ci ami, e con quale esattezza  abbia provveduto a tutto ciò die ci riguarda; che. preoccupandosi dei passerotti, non trascurerà le creature ragionevoli che gli sono infinitamente più care; che tutti i capelli della nostra testa sono contati; che cadranno il cielo  e la terra, prima che sia cambiata la parola di Dio e ciò  che riguarda l'economia della nostra salvezza; che Dio ha  più riguardo alla minima anima intelligente, che a tutta  la macchina del mondo; che noi non dobbiamo temere ciò  che può distruggere il corpo ma non può nuocere all' anima,  perchè solo Dio può rendere l'anima febee od infebee; che  le anime dei giusti sono nella sua mano al coperto da  tutte le rivoluzioni dell'universo, e nulla può agire su di esse se non Dio solo; che nessuna delle nostre azioni viene  dimenticata; che tutto viene messo in conto, anche lo parole oziose, anche un cucchiaio d’acqua ben impiegato:  infine, che tutto deve riuscire per il maggior bene dei  buoni; che i giusti saranno come dei soli, e che nè i nostri  sensi nè il nostro spirito non hanno mai gustato nulla che  si avvicini aUa febeità che Dio prepara a coloro che lo  amano.   ( JJiecours de mélaphysique.   Così termina il Discours de métaphysique : nel quale, dal  principio della differente chiarezza di percezione nelle varie  monadi, si giunge ad una gerarchia degli esseri, e alla definizione deU’anima o della personalità umana in sè e nei suoi  rapporti con la natura divina. Tale costruzione permette a  Leibniz uno di quegli sguardi armonici e complessivi su tutto  ("universo, in cui fenomeni tìsici, concetti scientifici o filosofici, principi morali, dogmi religiosi coincidono in una suprema  armonia.  La materia come aggregato. - Si è studiata finora la  natura del corpo come elemento essenziale della monade, inseparabile. dall'anima. Ma c’è per Leibniz un modo rii considerare il mondo materiale da un altro punto di vista. La materia  può essere vista anello altrimenti che come forza passiva, appartenente a ciascuna delle sostanze fondamentali onde consta  il mondo, o come ciò che vi è di confuso e indistinto nella  percezione della monade. Materia è, pili concretamente, tutto  ciò che ci sta intorno; tutto ciò che, nei suoi vari aspetti, cade  sotto i nostri sensi. Ora, questa materia, a volerla analizzare  più a fondo, consterebbe anch essa di unità sostanziali, di  monadi: pur tuttavia ci si presenta, così composita, senza caratteri di attività o di spiritualità. La sua materialità non  dipende dalle unità che la costituiscono (e sappiamo che non  esistono unità che siano puramente materiali), ma dal fatto  stesso di non essere un’unità, ma un gruppo di unità: un <kj gregaio.   Quanto alle forme sostanziali o entelechie primitive...,  io non le approvo se non quando le si considera sostanze  semplici, capaci di percezione e di appetito, insomma anime,  o qualche cosa che abbia analogia con l’anima, e che si  potrebbe chiamare principio di vita: e ritengo infatti che  tutta la natura sia piena di corpi organici viventi. Così  non ritengo in verità che una pietra sia essa stessa una  sostanza corporea animata o dotata di un principio di    Ilo  unità o di vita; ma ritengo che in essa vi siano dappertutto di tali principi; e che non vi sia alcuna parte di  materia nella quale non si trovi un animale o una pianta  o qualche altro corpo organico vivente (quantunque di  organico vivente noi non conosciamo che le piante e gli  animali). Così una massa di materia non è propriamente  ciò che io chiamo una sostanza corporea, ma un'ammasso  e una risultante ( aggregatovi ) di una infinità di tali sostanze, come lo è un gregge di pecore o un mucchio di  vermi.   ( Éclaircissement sur les natures plastiques, G.).   Non dirò, come mi si accusa, che ci sia una sola sostanza  di tutte le cose e che questa sostanza sia lo spirito. Vi  sono invece tante sostanze distinte quante sono le monadi,  e tutte le monadi non sono spiriti. E queste monadi non  compongono affatto un tutto effettivamente unitario. Questo tutto, se esse lo componessero, non sarebbe in nulla  uno spirito. Mi guardo pure dal dire che la materia sia  un'ombra o un nulla. Sono espressioni esagerate. Essa è  un ammasso, non substantia seti substa ntiatum, cosi come  sarebbe un esercito, un gregge; e in quanto la si consideri  come componente una cosa unica, è un fenomeno; fenomeno ben reale effettivamente, ma la cui unità è determinata dal nostro concepirla.   (Frammento, G.). L aggregato come eenomeno. - La materia, intesa in questo modo, non viene ad avere nulla di reale. La sua essenza  consiste appunto nel fatto di essere una riunione di sostanze  reali: in sé stessa, essa è dunque qualche cosa di costruito,  (li artificiale. Quando viene osservata a fondo, si dissolve necessariamente nei suoi componenti. Leibniz esprime ciò col dire  che essa ha natura fenomenica { 1).    (1) Fenomenico (da «palvopai, appaio), è termine usato fin da Platone  per indicare ciò che non ha realtà assoluta, ma è una apparenza. Sembra che a rigore i corpi non meritino affatto il nome  di sostanze; e questa pare esser già stata l’opinione di  Platone, il quale ha osservato che essi sono esseri transeunti, i quali non sussistono mai più di un istante. Ma  questo è un punto che richiede più ampia discussione; e  io ho altre ragioni importanti che mi conducono a rifiutare ai corpi il titolo e il nome di sostanze, metafisicamente parlando. Perchè, per dirla in una parola, il  corpo non ha affatto una vera unità; non è che un aggregato, che la scuola chiama puro accidente ; un insieme,  come mi gregge. La sua unità deriva dalla nostra perfezione. È un essere di ragione o piuttosto di immaginazione,  un fenomeno.   (Evlretien de Philarète et d’ Ariste, G. VI, 58(>).   I corpi non possono essere sostanze propriamente dette,  poiché sono sempre solamente delle unioni, risultanti di  sostanze semplici o vere monadi, le quali non sono estese  e perciò non sono veri corpi. Onde i corpi presuppongono  sostanze immateriali.   ( Lettera a Masham).   II continuo e il discreto. — Di qui Leibniz trae nuovi  argomenti per dimostrare 1 irrealtà della natura corporea in  generale e la necessità di ricorrere, di là da essa, a qualche  cosa che sia fornito di più solida validità. Acquista anche  nuova forza la sua negazione del concetto di estensione. La  monade in sè non è estesa; non è considerabile se non come  un « punto metafìsico ». L'*estcnsione non può derivare che da una  molteplicità, una ripetizione: in questo senso essa è puramente  fenomenica, così come lo è l’aggregato. La differenza consiste  nel fatto che la materia come aggregato è discreta, cioè composta di un ammasso di unità indivi si biìn e Féstensione invece è continua, cioè divisibile all" infinito. A maggior ragione  essa non sarà nulla di reale, ma un semplice ordine di rapporti  spaziali, così come il tempo è un ordine di rapporti successivi.   Non vi sono se non gli atomi di sostanza, cioè le unità reali  e assolutamente prive di parti, che siano le origini delle azioni e i primi principi assoluti della composizione delle  cose, e come gli ultimi elementi dell’analisi delle cose sostanziali. Si potrebbe chiamarli punti metafìsici : hanno alcunché  di vitale e una specie di percezione, e i punti matematici  sono i loro punti di vista per esprimere l'universo. Ma  (piando le sostanze corporee sono ristrette insieme, tutti  i loro organi non costituiscono se non un punto fisico riguardo a noi. Così i punti fìsici non sono indivisibili se non  in apparenza: i punti matematici sono esatti, ma non sono  che modalità; e solo i punti metafisici o sostanziali (costituiti dalle forme o anime) sono esatti e reali. E senza di  essi non vi sarebbe nulla di reale, poiché senza le vere  unità non vi sarebbe alcuna molteplicità.   (Syslème noureau).   Benché la materia consista in un ammasso di sostanze  semplici innumerevoli, e la durata delle creature, così come  il movimento attuale, consista in un ammasso di stati  momentanei, tuttavia bisogna dire che lo spazio non è affatto composto di punti nè il tempo di istanti, nè il movimento matematico di momenti, nè la tensione di gradi  estremi. Il fatto è che la materia, lo scorrere delle cose,  e insomma ciascun composto attuale, è ima quantità  discreta, ma che lo spazio, il tempo, il movimento matematico, la tensione e l’ accrescimento continuo nella velocità e in altre qualità, e insomma tutto ciò la cui valutazione appartiene al campo delle possibilità, è una quantità continuata e indeterminata in sé stessa, o indifferente  alle parti che vi si possono prendere e che vi si prendono  attualmente in natura. La massa dei corpi è divisa attualmente in modo determinato, e nulla non vi è esattamente  continuato; ma lo spazio o la continuità perfetta che è  nell' idea, non indica se non una possibilità indeterminata  di dividere come si vuole. Nella materia e nelle realta  attuali, il tutto è un risultato di parti: ma nelle idee e  nei possibili (che comprendono non solamente questo imiverso, ma anche qualsiasi altro che possa essere concepito  e che T intelletto divino si rappresenti effettivamente), il  tutto indeterminato è anteriore alle ilivisioni, come la nozione dell' intero è più semplice che quella delle frazioni,  e la precede....   Per meglio concepire la divisione attuale della materia  all' infinito e l'esclusione che vi è in essa di ogni continuità esatta e indeterminata, bisogna considerare che Dio  vi ha giti prodotto tanto ordine e tanta varietà, quanto  era possibile di introdurvi finora, e che così nulla vi è  rimasto di indeterminato, mentre 1' indeterminazione è l'essenza della continuità. Questo apprende il nostro spirito  dalla perfezione divina; e l'esperienza lo conferma attraverso i sensi. Non vi è goccia d'acqua così pura, che non  vi si possa osservare qualche varietà, guardandola bene.  Un pezzo di pietra è composto di determinati granuli, e al  microscopio questi granuli appaiono come rocce nelle quali  vi sieno mille giochi di natura. Se la forza della nostra  vista aumentasse continuamente, troverebbe sempre campo  per esercitarsi. Dappertutto vi sono varietà attuali, e mai  una perfetta miiforinità. Nè vi sono due parti di materia  completamente simili l ima all’altra, sia nel grande, sia  nel piccolo.   (Lotterà alla elettrioe Sofia di Hannover).   Materia trema e seconda. - Il continuo è dunque spazialità (o temporalità eco.) astratta; il discreto è aggregato, o  materia. E della materia Leibniz ha due concezioni diverse:  da un lato quella che abbiamo vista al Capitolo 111, come  potenza passiva primitiva, come quel substrato di resistenza,  densità, « anti tip' a», al quale si applica la forza, trasformandola  in attività, entelechia; d’altro lato questo concetto di aggregato, composizione, costruzione artificiale posteriore alla monade, non avente in sè una vera e propria sostanzialità. Per  distinguere tali due modi diversi di considerare la materia,  Leibniz usa i due termini di materia prima e materia seconda. Leibniz, La mvnailoloi/ia.  Nei corpi io distinguo la sostanza corporea dalla materia, e distinguo la materia prima dalla seconda. La materia seconda c un aggregato o composto di varie sostanze  corporee, come un gregge è composto di vari animali. Ma  ogni animale e ogni pianta, dal canto suo, è una sostanza  corporea, la quale ha in sè il principio dell' unità che fa  sì die sia veramente una sostanza e non un aggregato.  E questo principio di unità è ciò che si chiama anima,  oppure qualche cosa che ha analogia con l'anima. Ma oltre  al principio dell’ unità, la sostanza corporea ha la sua  massa e la sua materia seconda, che è ancora un aggregato di altre sostanze corporee più piccole, tino all' infinito. Tuttavia la materia primitiva o presa in sè stessa,  è ciò che si concepisce nei corpi mettendo da parte tutti  i principi dell' unità, è cioè ciò che vi è in essa di passivo.  Di qui derivano due qualità: resistenti a et restitantia vel  inertia. Cioè, un corpo non può essere penetrato, e cede  piuttosto a un altro corpo, ma non cede senza difficoltà  e senza diminuire il movimento complessivo di quello che  lo spinge. Così si può dire che la materia, in sè stessa,  involve, oltre l'estensione, ima potenza passiva primitiva.  Ma il principio dell’unità contiene la potenza attiva primitiva, o la forza primitiva, la quale non si perde mai  e persevera sempre in un ordine esatto delle sue modificazioni interne che rappresentano quelle esterne.   (Lettera a Burnett).   L’anima e il corpo. Attraverso il concetto di aggregato,  Leibniz spiega anche la costituzione dei .corpi organici e degli  animali. TI loro corpo, egli dice, è un aggregato, con una monade, per così dire, dominante e ordinatrice, di natura sujieriore. Tale monade è l’anima e costituisce l’elemento permanente di ciascun individuo.   Definisco 1’organismo, o macchina naturale, come una  macchina, ciascuna parte della quale sia una macchina a sua volta (1). Perciò la sottigliezza del suo artificio va  all ? infinito, poiché nulla è tanto piccolo da poter essere  trascurato; mentre le parti delle nostre macchine artificiali  non sono a loro volta macchine. Questa è la differenza  essenziale fra la natura e forte, che i nostri moderni non  hanno ancora considerato abbastanza.   (Lettera a Lady Magliari), G. Ili, 356).   lo distinguo: fentelechia primitiva o anima. La  materia prima o potenza passiva primitiva. La monade,  composta di queste due. La massa, o materia seconda,  o macchina organica, a formare la quale concorrono innumerevoli monadi subordinate. 5.°) L'animale o sostanza  corporea, la cui unità è determinata dalla monade dominante nella macchina.   (Lettera al Le Volder).   E attraverso i due concetti di materia prima c seconda, si formano pine duo concetti differenti di anima. Il primo, come  principio attivo insito nella monade, inseparabile dalla sua passività ; l’altro, come quella monade a carattere più strettamente  spirituale, che permane in ciascun individuo, mentre le monadi  formanti la massa del suo corpo variano e si trasformano.   La materia, senza le anime e forme o entelechie, non  è che passiva, e le anime senza materia non sarebbero che  attive: poiché la sostanza corporea completa veramente  una, chiamata dalla scuola unum per se (opposta all'essere  per aggregazione), deve risultare del principio dell' unità,  che è attivo, e della massa che costituisce la molteplicità  e che sarebbe solamente passiva se essa non contenesse  se non la materia prima. Invece la materia seconda o  massa, che costituisce il nostro corpo, è tutta composta  di parti che sono in sé sostanze complete quando sono Con la parola macchina Leibniz intende qui, come già altrove, un  organismo composito, cioè formato di parti eterogenee. altri animali o sostanze organiche animate o attuate a  parte. Ma l'ammasso di queste sostanze corporee organizzate che costituisce il nostro corpo, non è imito alla nostra  anima se non per quel rapporto che deriva dall'ordine dei  fenomeni naturali rispetto a ciascuna sostanza particolare.  £ tutto ciò mostra come si possa dire da un lato che l' anima  e il corpo sono indipendenti l'uno dall'altro, dall'altro che  limo è incompleto senza l'altro, poiché in natura l'uno  non è mai privo dell'altro.   ( Additimi il l’explication <lu lyslèine noiueau, U. JY, 572-3). Le lecci del mondo materiale e del mondo spirituale. In qualunque modo la si intenda, sia come materia prima o  potenza passiva, sia come materia seconda o aggregato, la  natura corporea ha dunque qualche cosa di irreale. Nel primo  caso essa è un’astrazione, anteriore, |>er così dire, alla monade;  qualche cosa che senza la forza attiva di essa non è ancor  nulla: semplice aspetto inizialmente passivo di quella che sarà  un’attiva unità. Nell'altro caso è pure un'astrazione; posteriore, questa volta, alla monade: una riunione, un aggruppamento che rimanda però sempre alla monade come al suo  elemento costitutivo essenziale.   D’altro lato, però, la materia non è eliminabile dalla monade.  Essa le si accompagna sempre, come un momento, quasi, della  sua natura. Momento astratto sì, ma essenziale; attraverso il  quale necessariamente si deve passare per raggiungere la vera  concretezza dell’entelechia, o perfectihabies, nella traduzione di BARBARO (si veda). Questa materia che, analizzata nel  fondo della sua costituzione, si dissolve e perde ogni realtà,  puro ha ima parte fondamentale nel mondo concreto, naturale e umano, come se lo rappresenta Leibniz. La monade è  immateriale, si è visto, eppure ritiene un suo aspetto materiale; così non vi è anima senza corpo. Affermato questo,  Leibniz va più in là, dimenticando quasi le sue premesse che  fanno della materia qualche cosa solo in funzione dell’anima;  e cerca leggi autonome e proprie del mondo materiale, ben  distinte da quelle del mondo spirituale. Egli ritorna quasi  alla concezione cartesiana, che aveva sempre combattuto, dell'anima e del corpo come due sostanze separate. E, per giudtifìcare la distinzione, attribidsce al corpo la legge meccanica  sella causa efficiente, all'anima la legge vitale della finalità. Questo due leggi, che abbiamo viste unite là dove il principio  della ragion sufficiente, nelle verità di fatto, rimandava direttamente a Dio (1), ora sono applicate separatamente all’anima  e al corpo.   Ciò è giustificabile anche, in parte, con la natura della monade.  Essa, si è visto, contiene in sè tutto lo sviluppo futuro dell’universo allo stato di implicazione causale: l’effetto, cioè, è già  contenuto nelle cause che dovranno necessariamente produrlo.  E questa connessione causale puramente meccanica e deterministica, ha carattere materiale. Per tale aspetto, la monade è  materia: è cioè un punto dell’universo perfettamente e necessariamente determinato dalle cause da cui discende. D altro  lato però, l’universalità si esplica nella monade come rappresentazione e appetito. La totalità dei rapporti è contenuta in  essa allo stato di implicazione pregnante, cosciente e attiva.  In questa percezione e appetito, che Leibniz immagina tendente  al bene e retta dalla causa, finale del v migliore », egli fa consistere l’anima. Leibniz fa anche coincidere questa nuova distinzione di anima-corpo, con l’altra in cui si concepisce il corpo  come percezione confusa e l’anima come percezione distinta. Tutto nei corpi avviene meccanicamente, cioè attraverso  le qualità intelligibili dei corpi, quali la grandezza, la figura,  e il movimento; e tutto nelle anime deve essere spiegato  vitalmente, cioè attraverso le qualità intelligibili dell anima,  quali la percezione e l’appetito. E nei corpi animati noi  vediamo esservi una mirabile armonia tra vitalità e meccanismo, se ciò che avviene nel corpo meccanicamente viene  rappresentato vitalmente nell’anima; e ciò che viene percepito esattamente nell’anima, nel corpo ottiene la sua  completa esecuzione.   Ne deriva che, conosciute le qualità del corpo, possiamo  curare le malattie dell’anima e, conosciute lo qualità dell’anima, curare le malattie del corpo. È infatti a volte  più facile sapere ciò che avviene nell’ anima che ciò che  avviene nel corpo; a volte viceversa. E ogni volta che  noi usiamo delle indicazioni dell’ anima per essere d aiuto al corpo, possiamo parlare di una medicina vitale : metodo  questo che ha più ampia estensione di quanto non si creda  comunemente, perchè il corpo non soltanto risponde al1 anima nei movimenti che vengono chiamati volontari,  ma anche in tutti gli altri; quantunque, per l'abitudine che  ne abbiamo, noi non ci accorgiamo che l’anima viene influenzata o consente coi movimenti del corpo, o che questi  corrispondono alle percezioni e agli appetiti dell' anima.  Infatti le percezioni del corpo sono confuse, in modo che  la corrispondenza non appare così facilmente. E l'anima  comanda al corpo in quanto abbia percezioni distinte, gli  obbedisce in quanto abbia percezioni confuse. Ma pure,  chiunque abbia una qualsiasi percezione nell’anima, può  essere certo di avere un qualche effetto di essa nel corpo  e viceversa.... E le cose avvengono in modo tale, che a  volte anche nei fatti naturali noi ricerchiamo la verità attraverso le cause finali, quando non si può giungere facilmente ad essa attraverso le cause efficienti.   (Frammento).   Separazione dei due mondi.  Ora, formulata questa distinzione, Leibniz rinuncia, in certo senso, a proseguire per  quella via che, attraverso la concezione del rapporto di causa  ed effetto come un rapporto di soggetto c predicato, lo aveva  condotto alla sostanza individuale e gli aveva permesso la  risoluzione dei concetti di corpo e spirito l’uno all’ altro.  Qui egli accentua invece la distinzione: corpo e spirito divengono due mondi separati, due entità parallele ma prive di rapporti fra di loro. La loro situazione viene ad essere analoga  a quella di due monadi distinte: il contenuto di ciascuna cori ispoude a quello dell altra, senza che perciò si possa dire che  I una influisce sull altra. Così, ciò che avviene meccanicamonte nel corpo, corrisponde a ciò che è nella rappresentazione  dello spirito: ma non per influenza dell'uno sull’altro o per  una qualsiasi unificazione. 1 rapporti dovranno essere stabiliti  attraverso un intervento della divinità.  Cfr. sopra, p. 89 ss. Noi sperimentiamo che i corpi agiscono fra di loro secondo leggi meccaniche, e che le anime producono in sè  stesse azioni interne. E non vediamo alcun modo di concepire l'azione dell'anima sulla materia o della materia  sull’ anima, nè alcunché di analogo, poiché non è affatto  spiegabile attraverso un qualsiasi artificio che lo variazioni  materiali, cioè le leggi meccaniche, facciano nascere una  percezione; nè che dalla percezione possa derivare un cambiamento di velocità o di direzione negli spiriti animali e  negli altri corpi, siano essi sottili o grossi a piacere. Così,  sia l' inconcepibilità di un'altra ipotesi, sia il buon ordine  della natura uniforme in sè stessa (per non parlare qui  di altre considerazioni), mi hanno portato alla conclusione  die l'anima e il corpo seguano perfettamente la loro legge,  ciascuno la sua separatamente, senza che le leggi corporee  siano turbate dalle azioni dell'anima, nè che i corpi trovino finestre per far penetrare il loro influsso nelle anime.  Si domanderà dunque: D'onde viene questo accordo delf anima col corpo?   (Lettera a Masharn).   L’armonia prestabilita. - 11 problema che sorge ora è  quello di questa corrispondenza del mondo corporeo con  quello spirituale. Ma una così netta distinzione dei due mondi  non era necessaria alla dottrina della monade. Leibniz fu  forse indotto ad accentuarla, dal fatto di trovarsi in polemica col Malebranche e con gli occasionalisti (1) e di aver  trovato un’ ipotesi più plausibile per risolvere il loro medesimo  problema. 11 desiderio di correggere 1' ipotesi occasionalistica  e di applicare la propria, gli fece forse formulare il problema  negli stessi termini che i suoi interlocutori, più di quanto non Malebranche autore della Recherete de la viri té  h il rappresentante principale dell'occasionalismo, dottrina che spiegava la  corrispondenza tra l'ordine corporeo e l’ordine spirituale attraverso un intervento continuo di Dio. In occasione di ciascun fatto avvenuto nel mondo  corporeo, Dio, secondo questa dottrina, suscita la corrispondente rappresentazione nello spirito, e viceversa. Questo problema presuppone naturalmente una netta separazione fra l'ordine corporeo e l’ordine spirituale:  separazione di marca prettamente cartesiana. Avessero riohiesto i precedenti della sua dottrina. L’ ipotesi di  cui parliamo è quella famosa dell’ armonia prestabilita, di cui  riportiamo qui alcune fra lo molte esposizioni lasciatene dal  Leibniz.   I mmaginate due orologi che si accordino perfettamente.  l 'iò può avvenire in tre maniere : la prima consiste nella  mutua influenza di un orologio sull’altro: la seconda nella  cura di mi uomo che vi provveda: la terza nella loro propria esattezza. La prima maniera è quella dell’ influenza. La seconda maniera di far sempre accordare due orologi  anche cattivi, potrebbe essere di farvi sempre provvedere  da un abile operaio che li accordi ad ogni istante: e questa  è quella che io chiamo la maniera dell’ assistenza.   Infine la terza mainerà sarà di fare da principio queste  due pendolo con tanta arte e giustezza, da potersi assiemare il loro accordo per il futuro. E questa è la via dell’accordo prestabilito.   Mettete ora l'anima e il corpo al posto di questi due  orologi: il loro accordo o simpatia avverrà pure in una  di queste tre maniere. La maniera dell' influenza è quella  della filosofia volgare; ma poiché non si possono concepire  particelle materiali, nè specie o qualità immateriali che  possano passare dall’ima di queste sostanze nell’altra, si  è obbligati ad abbandonare questa opinione. La maniera  dell assistenza è quella del sistema delle cause occasionali:  ma ritengo che ciò significhi introdurre un Deus ex machina  ili un fatto naturale e ordinario, nel quale, secondo ragione,  egli uon deve intervenire se non nolla medesima maniera  nella quale concorre a tutti gli altri fatti della natura.  Così non resta che la mia ipotesi, cioè la maniera dell'armonia prestabilita attraverso un artificio divino preventivo, il quale, fin da principio, abbia formato queste sostanze in un modo cosi perfetto e regolato con tanta  esattezza che, non seguendo se non le sue proprie leggi  ricevute insieme col proprio essere, ciascuna si accordi tuttavia con l’altra: proprio come se vi fosse una mutua  influenza o come se Dio vi mettesse continuamente la  mano, oltre il suo concorso generale.   (Tetterà).   Vi è ordine e connessione nei pensieri, come ve ne è nei  movimenti; poiché l’uno risponde perfettamente all'altro,  quantunque la determinazione nei movimenti sia bruta,  e sia invece libera o con scelta nell’ essere che pensa, il  quale non è se non inclinato ma non costretto dal bene  e dal male. Infatti l’anima, rappresentando il corpo,  conserva le sue perfezioni; e, benché essa dipenda dal  corpo (se ben si guardi) nelle azioni involontarie, ne è  indipendente e fa dipendere il corpo da se stessa nelle  altre. Ma questa dipendenza non è se non metafisica, e  consiste nel riguardo che Dio ha per l’uno regolando l'altro,  o più per 1’ uno che per l’ altro, a seconda delle perfezioni  originali di ciascun individuo; mentre la dipendenza fisica  consisterebbe in un’ influenza immediata che l’imo riceverebbe dall’altro, dal quale dipenderebbe.   (Nuovi Saggi).   L'armonia prestabilita fa sì che al cane entri il dolore  nell' anima, quando il suo corpo è colpito. E se il cane  non dovesse essere colpito ora, Dio non avrebbe dato fin  dall’ inizio alla sua anima una costituzione tale da produrre  attualmente tale doloro in esso, e la rappresentazione o  percezione che risponde al colpo del bastone. Ma se (cosa  impossibile) Dio si pentisse e, senza mutare la natura dell’anima e il corso naturale dello sue modificazioni, mutasse  il corso delle nature corporee in modo tale che il colpo Abbiamo già visto come in ragione delle sue percezioni più distinte  o più confuse, ciascuna monade partecipi più dello spirito o del corpo, abbi»  cioù maggiore o minore perfezione. Cfr. sopra, p. 94 ss.    non arrivasse, ramina sentirebbe ciò che corrisponde a  questo colpo, mentre il suo corpo non lo riceverebbe affatto. Ma - dirà il signor Bayle - io comprendo le ragioni  per le quali il corpo del cane è colpito dal bastone, ma non  comprendo affatto come mai l'anima del cane che prova  piacere mentre mangia con appetito, passi così subitamente  al dolore senza che il bastone ne sia la causa (come vorrebbe la tesi scolastica), nè ne sia causa Dio in particolare  (come vorrebbero gli ocxasionalisti). Ma il signor Bayle  non comprende neppure come mai il bastone possa influire  sull’ anima, nè come possa avvenire l'operazione miracolosa attraverso la quale Dio accorda continuamente l'anima  ai corpi. Invece io ho cercato di spiegare come tale accordo avvenga naturalmente, col supporre che ogni anima  sia uno specchio vivente rappresentante l' universo secondo  il suo punto di vista, ed eminentemente in rapporto col  suo corpo. Così le cause che fanno agire il bastone (cioè  l’uomo posto dietro al cane, preparato a colpirlo mentre  esso mangia, e tutto ciò che nell'ordine corporeo contribuisce a disporre quell’uomo a quell'azione) sono anche  rappresentate fin da principio nell'anima del cane in modo  esatto sì, ma debole, per mezzo di percezioni piccole e  confuse e senza appercezione, cioè senza che il cane se ne  accorga; perchè anche il corpo del cane non ne è influenzato se non impercettibilmente. E come, nell’ordine delle  nature corporee, queste disposizioni conducono finalmente  al colpo ben assestato sul corpo del cane, analogamente  le rappresentazioni di queste disposizioni conducono nell'anima del cane alla rappresentazione del colpo di bastono: rappresentazione la quale, essendo distinta e forte  (come non lo erano le rappresentazioni delle predisposizioni. poiché le predisposizioni influenzavano solo debolmente anche il corpo del cane), il cane se ne accorge  ben distintamente: ed è questo che determina il suo dolore. Così non si deve affatto immaginare che l'anima del cane, in questo caso, passi dal piacere al dolore senza  alcuno sviluppo e senza alcuna ragione interna.   (Osservazioni al Dizionario del Bayle)  Nel corpo tutto avviene meccanicamente secondo le leggi  del movimento, e nell'anima tutto avviene moralmente o  secondo le apparenze del bene e del male: in modo che,  anche (piando si tratta dei nostri istinti o delle azioni involontarie alle quali sembra partecipare solamente il corpo,  vi è nell'anima un appetito di bene o una fuga dal male  che la spinge; benché la nostra riflessione non possa ben  districarne la confusione. Ma se l'anima e il corpo seguono  così ciascuno separatamente le sue proprie leggi, come si  incontrano essi e come avviene che il corpo obbedisca all' anima, e che l'anima risenta del corpo? Per spiegare  questo mistero naturale bisogna ben ricorrere a Dio, così  come quando si tratta di dare la ragione primordiale dell’ordine e dell'armonia nelle cose. Ma questo ricorso non  avviene che una volta per tutte, e non come se Dio turbasse le leggi dei corpi per farli corrispondere alle anime,  e viceversa. Egli ha invece fatto fin da principio i corpi  in modo tale che, seguendo le loro leggi e le tendenze naturali dei movimenti, essi verranno a fare ciò che l'anima  chiederà quando ne verrà il momento; e d'altra parte ha  fatto le anime tali che. seguendo le tendenze naturali del  loro appetito, giungeranno anche sempre alle rappresentazioni degli stati del corpo. Giacché, come il movimento  conduce la materia di figura in figura, così l’appetito conduce l'anima di immagine in immagine. E così l’anima è  inizialmente dominante ed obbedita dal corpo nella misura in cui il suo appetito è accompagnato da percezioni  distinte che la fanno pensare ai mezzi adatti quando essa  vuole qualche cosa; ma è soggetta al corpo, pure fin dal1’ inizio, in misura delle sue percezioni confuse. Noi sperimentiamo infatti che tutte le cose tendono al cambiamento; i corpi per la forza movente, e l’anima per 1 appetito  che la conduce a percezioni distinte o confuse, secondo  la sua maggiore o minore perfezione. E non bisogna affatto  meravigliarsi di quest’accordo primordiale delle anime e  dei corpi, essendo tutti i corpi organizzati secondo le intenzioni di uno spirito universale, ed essendo tutte le anime  essenzialmente rappresentazioni o specchi viventi dell universo, secondo la portata e il punto di vista di ciascuna,  essendo essi perciò altrettanto durevoli che il mondo stesso.  È come se Dio avesse variato 1 universo tante volte quanto  sono le anime, o come se egli avesse creato tanti universi  in compendio, accordantisi nel fondo o differenziati nell'apparenza. Non vi è nulla di così ricco come questa semplicità uniforme, accompagnata da un ordine perfetto. E  si può ben pensare come ciascuna anima in sè stessa debba  essere perfettamente disposta, essendo ciascuna ima particolare espressione dell'universo e come un universo concentrato; e ciò risulta anche dal latto che ciascun corpo,  e quindi il nostro pure, è affetto in qualche modo da  tutti gli altri, ed anche l'anima dunque vi partecipa. Ecco  in poche parole tutta la mia filosofia.   (Lettera alla regina Sofia Carlotta di Prussia).    Tale ò l' ipotesi dell'armonia prestabilita; la quale termina  e corona il sistema di Leibniz, ma non si può dire che aggiunga  molto di essenziale alla dottrina della monade. TI principio  qui introdotto è quello medesimo onde viene dimostrata la  corrispondenza del contenuto di ciascuna monade con quello  di tutte, pur senza un’ influenza reciproca. Ma l’applicarlo ai  rapporti fra anima e corpo, obbliga ad una distinzione e separazione fra l’ordine corporeo e l’ordine spirituale; mentre  proprio nel superamento di tale separazione e nella sintesi dei  due ordini abbiamo ravvisato il valore piu specifico del concetto di monade.   Ma questa separazione è posteriore idealmente a quel concetto. Nell’ applicare i principi trovati, nel far agire la sua monade come elemento costituente del mondo, Leibniz ricade a volte in posizioni da lui già inizialmente superate, e mal interpreta sè stesso. Ciò che rimane essenziale in quanto si è visto  ilei suo pensiero è la struttura interna del concetto di monade :  questa sintesi di universale e individuale, di materia e spirito,  ili attività e passività, che è un punto di arrivo e un punto  di partenza nella storia della filosofia. /La monade, di cui parleremo qui, non è altro che  ima sostanza semplice che entra nei composti; semplice,  cioè senza parti.   2. ° E bisogna che vi siano sostanze semplici, dato che  vi sono composti; poiché il composto non è altro che un  ammasso o aggrega tum di semplici.   •1." ^ h-a. dove non vi sono parti, non vi è nè estensione,  nè figura, nè divisibilità possibili (2). E queste monadi sono  i veri atomi della natura; in una parola gli elementi  delle cose.   4.° Non vi è neppure alcuna dissoluzione da temere,  e non vi è alcuna maniera concepibile nella quale una  sostanza semplice possa perire naturalmente.   ó.° Per la medesima ragione, non v'è alcun motivo per  il quale una sostanza semplice possa aver principio naturalmente; poiché essa non può essere formata per composizione.  1 m ricerca (logli eleuiyuti semplici, (la cui cleri vano per composizione tutte  le altro cose, è una dello idee fondamentali di Leibniz. Applicato al campo  logico, questo concetto dà luogo ai progetti di arte combinatoria, carattcristica, scienza generale, lingua universale ecc. Cfr. p. 33 s. Sul concetto  di aggregato, cfr. p. 100 s. Si toglie così olla monade ogni carattere di materialità. Atomi immateriali, metafisici; non naturalmente le particelle materiali indivisibili di cui parlano gli atomisti, e che Leibniz combatteva.  Così si può dire che le monadi non possono aver  principio nè fine se non d un tratto; cioè esse non possono aver principio se non per creazione, ne fine se non  per annullamento; mentre ciò che è composto comincia o finisce per parti (1).   7» Neppure c'è modo di spiegare come una monade possa essere alterata o cambiata nel suo interno da  qualche altra creatura; poiché in essa non e possibile  trasposizione, nè è concepibile movimento interno che vi  possa essere eccitato, diretto, aumentato o diminuito,  ciò invece è possibile nei composti, dove si danno cambiamenti fra le parti. Le monadi non hanno finestre pei  le quali qualche cosa vi possa entrare o uscire. Gli accidenti non possono staccarsi nè passeggiare fuori delle sostanze. come facevano una volta le specie sensibili deg  scolastici. Così nè sostanza, nè accidente, non possono entrare dall’ esterno in ima monade (2).   8° Tuttavia occorre che le monadi abbiano qualche  qualità; altrimenti non sarebbero neppure degli esseri. E  se le sostanze semplici non differissero affatto per le loro  qualità, non si avrebbe modo di accorgersi d. alcun cambiamento nelle cose, poiché ciò che è nel composto non  può venne se non dagli ingredienti semplici; e se le monadi  fossero prive di qualità, sarebbero indistinguibili una dall'altra. giacché esse non differiscono neppure nella quantità: e quindi, ammesso il pieno, ciascun luogo non riceverebbe mai, nel movimento, se non l'equivalente (lei movimento che aveva già avuto : e uno stato di cose sarebbe  y indiscernibile dall altro.   deducono dall’ immaterialità delle monadi la imposeibilUtà   r ^   C,t (2) a N°elS monade, soggetto eomprendentegt arnese   può dire cl/e £ de™ da, di lucri, se  tutto quanto le avviene è già compreso m essa. Occorre inoltre che ciascuna, monade sia differente  da ogni altra. Poiché non vi sono in natura due esseri  che siano perfettamente uguali, e nei quali non sia possibile trovare una differenza interna o fondata su di una  denominazione intrinseca. Considero inoltre come ammesso, che ogni essere  creato, e quindi ogni monade creata, sia soggetta a mutamento: e anzi che questo mutamento sia continuo in  ognuna. Da quanto abbiamo detto, consegue che i mutamenti naturali delle monadi derivano da mi j)rinci]iio interno, dato che ima causa esteriore non potrebbe influire  sul loro interno. Ma occorre pure che, oltre il principio del mutamento, vi sia un dettaglio (3) di ciò che muta-, il quale determini, per così dire, la specificazione e la varietà delle sostanze semplici. Tale dettaglio deve implicare una molteplicità nell'unità o nel semplice. Infatti, poiché ogni cambiamento  naturale avviene per gradi, qualche cosa cambia e qualche  cosa resta; e quindi bisogna che nella sostanza semplice  vi sia una pluralità di affezioni e di rapporti, benché essa  non abbia parti. Lo stato transitorio che implica e rappresenta  una molteplicità nell’unità o nella sostanza semplice, non   (1) Nei §3 8-9 è affermata la differenziazione fra le varie monadi; In  quale deve fondarsi su alcunché di qualitativo, interno alla monade stessa,  riguardante la sua intima costituzione, e non le sue relazioni esteriori. Questo  principio intorno di ditTerenziazione è costituito dal diverso punto di vista,  secondo cui ciascuna monade rappresenta l’universo. Sul principio dell’ identità degli indiscernibili, Il mutamento nolla monade consiste nello sviluppo c nella realizzazione di quanto è già implicito in essa. In questo sviluppo essa manifesta  la sua facoltà attiva o quella conoscitiva: percezione c appetito. Traduciamo cosi, non trovando vocabolo migliore, la parola ilétail,  che altri traduce con a particolarità » o in modo affine. Essa vuole indicare  uno sviluppo completo, disteso e particolareggiato in tutti i suoi dettagli. è altro che ciò che si chiama percezione, da distinguersi y  dalla appercezione o dalla coscienza, come si vedrà in seguito. A cpiesto proposito i cartesiani hanno gravemente  errato, non avendo tenuto conto delle percezioni di cui non  ci si accorge (2). E ciò puro li ha indotti a ritenere che i  soli spiriti fossero monadi e che non vi fossero affatto  anime di bestie nè altre entelechie; ed a confondere, come  fa il volgo, un lungo stordimento con la morto propriamente detta: il che li ha fatti anche cadere nel pregiudizio  scolastico delle anime interamente separate, ed ha pure confermato gli spiriti mal disposti nell'opinione della mortalità dell'anima. L’azione del principio interno che determina il  mutamento o il passaggio da ima percezione ad un altra,  può chiamarsi appetizione ; è vero che l’appetito non sempre può giungere completamente all’ intera percezione cui  tende; ma ne ottiene pur sempre qualche cosa, e giunge  a percezioni nuove. Noi stessi sperimentiamo una molteplicità nella  sostanza semplice, quando troviamo che il minimo pensiero La percezione, questo fatto dolio spirito, permetto dunque la sintesi  dell’uno e del molteplice, necessaria a conciliare l’unità e immaterialità della  monade oon la varietà e mutevolezza del suo contenuto. Percepire è cogliere  una molteplicità e riferirla ad un unico soggetto. 11 contenuto, diremmo noi.  è molteplice, la forma ò una. Cosi è nella monade; e ciò spiega conio la varietà e mutevolezza in essa venga concepita da Leibniz in termini di percezione. Accorgersi « traduce il francese aptrCLVoir. Appercezione (aptreeptiev)  significa dunque l’accorgersi, cioè il percepire coscientemente, contrapposto al  percepire senza accorgersene, come nel caso delle piccole percezioni. Cartesio, che considera ogni attività conoscitiva come razionale,  quindi cosciente, non può attribuire tale attività se non all’uomo, e la tiene  nettamente separata da tutto ciò che è corporeo. Pi qui gli inconvenienti  sopra elencati, cui Leibniz vuole ovviare col suo concetto di una percezione  di cui non ci si accorge, e priva di ragione (la piccola percezione), che  sia quindi attribuibile anche agli animali e che segni come un punto di contatto fra la materia e lo spirito. L’appetito ò l’altra attività della monade, secondo cui essa può passare dall’uno al molteplice. Cfr. p. 80 ss.  di cui ci accorgiamo, implica una varietà nell'oggetto. Così  tutti coloro che riconoscono che l’ anima è una sostanza  semplice, devono riconoscere questa molteplicità nella monade; e il Bayle non avrebbe dovuto trovarvi difficoltà,  come ha fatto nel suo dizionario, all'articolo Borariua.  Peraltro bisogna pur riconoscere che la percezione  e ciò che ne dipende, è inesplicabile mediante ragioni meccaniche, cioè mediante ligure e movimenti. E supposto  che vi sia una macchina la cui struttura faccia pensare,  sentire, aver percezione, si potrà concepirla ingrandita,  conservando le medesime proporzioni, in modo che vi si  possa entrare, come in un mulino. E posto ciò, non si troverà, visitandola al! interno, se non pezzi spingentisi vicendevolmente, ma nulla di che spiegare una percezione.  E dunque nella sostanza semplice e non nel composto o  nella macchina bisogna cercare la percezione. Anzi, non  vi è se non questo che si possa trovare nella sostanza  semplice: percezioni e i loro cambiamenti. E solo in ciò  possono consistere tutte le azioni interne delle sostanze  semplici. Si potrebbe dare il nome di entelechie a tutte  le sostanze semplici o monadi create, poiché esse hanno  in sè stesse una certa perfezione (l/oum tò è tsXéc); vi è  una autosufficienza (afiràpxet*) che le rende fonti delle  loro azioni interne, e, per così dire, automi incorporei.   l‘J.° Se vogliamo chiamare anima tutto ciò che ha  percezioni e appetiti nel senso generale che ho spiegato or  ora. tutte le sostanze semplici o monadi create potrebbero  essere chiamate anime; ma siccome il sentimento è qualche Nell’artieolo Korarius dei suo Dizionario, Bayle discute l’ipotesi leibniziana dell'anuouia prestabilita; e a questo proposito trova contradjttoria la. tesi cho una sostanza semplice e priva di parti sia soggetta a cambiamento. Ragioni meccaniche, lìgura, movimento sono caratteristiche della pura  in viaria. Leibniz le contrappone alle cause finali, che sono proprie del mondo  immateriale e spirituale. Cfr. p. 116 ss. cosa di più che ima semplice percezione, io acconsento a  che il nome generale di monadi e entelechie basti per le  sostanze semplici che non hanno se non la pura percezione: e che si chiamino anime solamente quelle la cui  percezione è più distinta e accompagnata da memoria. Infatti noi sperimentiamo in noi stessi uno stato  in cui non ci ricordiamo di nulla e non abbiamo alcuna  percezione distinta; come quando cadiamo in deliquio o  quando siamo immersi in un sonno profondo senza sogni.  In questo stato, l'anima non differisce sensibilmente da ima  semplice monade; ma siccome questo stato non è durevole, e l’anima se ne Ubera, essa è qualche cosa di più. E non ne consegue punto che in tale stato la  sostanza semphee sia priva di percezione; ciò non è anzi  possibile, per le ragioni suddette; poiché essa non può perire. nè può sussistere senza qualche affezione, che non è  poi altro che la sua perceziome. Ma quando vi è una grande  moltitudine di piccole percezioni, nelle quali non vi è  nulla di distinto, si è storditi; al modo che quando si gira  continuamente nello stesso senso per più volte di seguito  si è presi da una vertigine che può farci svenire e che  non ci permette di distinguere nulla. E la morte può determinare questo stato per un certo tempo negh animali.   22. ° E, poiché ogni stato presente di una sostanza semplice è naturalmente conseguenza del suo stato precedente,  sicché il presente in essa è gravido dell’avvenire; dunque, poiché, appena desti dallo stordimento,  ci si accorge delle proprie percezioni, bisogna pure che se    (1) La percezione pura e semplico, incosciente o priva di appercezione  tasta a costituire la monade; ma le monadi più complesse c perfette si distinguono appunto per una percezione più perfezionata, dotata di coscienza,  di memoria eoe. Leibniz introduce qui incidentalmente un suo principio fondamentale:  il principio di causalità o di ragion sufficiente. Ogni stalo della monade  deriva da cause e produce effetti, c se si segue tale connessione causale in  tutto il suo sviluppo, si va all’ infinito e si comprende tutto l’universo passato e avvenire. ne siano avute immediatamente prima, quantunque non  ce ne siamo accorti ; poiché una percezione non può venire  in natura se non da un'altra percezione, come un movimento non può venire in natura se non da un movimento. Si vede da ciò. che se noi non avessimo nulla di  distinto e, per dir così, in rilievo e di un più forte sapore  nelle nostre percezioni, saremmo sempre in uno stato di  stordimento. E questo è lo stato delle monadi pure e  semplici. Così noi vediamo che la natura ha dato percezioni in rilievo agli animali, dalla cura che essa si è presa  di fornirli di organi che raccolgono più raggi di luce o  pili vibrazioni di aria per aumentarne l'efficacia con l’unione. E vi è qualche cosa di simile nell'odorato, nel gusto  e nel tatto, e forse in una quantità di altri sensi che ci  sono sconosciuti. E spiegherò fra poco come ciò che  avviene nell’anima rappresenti ciò che avviene negli organi. La memoria fornisce alle anime una specie di  concatenazioM che imita la ragione, ma che deve esserne  distinta. Noi vediamo che gli animali, quando hanno percezione di qualche cosa che li colpisce e di cui hanno già  avuto anteriormente una percezione simile, si attendono,  per la rappresentazione della loro memoria, a ciò che vi  era unito in quella percezione precedente, e sono portati a  sentimenti simili a quelli che avevano provati allora. Per  esempio, quando si mostra il bastone ai cani, essi si rammentano del dolore che esso ha loro causato, e abbaiano  e fuggono. Si riferisce qui al principio di continuità, secondo il quale natura  non facil saliti)). Leibniz stabilisce, in questi paragrafi e nei seguenti, i tre gradi della  gerarchia: lo monadi pure c semplici fornite di sole percezioni incoscienti;  quelle fornite di momoria, o animali, quelle fornite anche di ragione, o spiriti. E la forte immaginazione che li colpisce e li commuove, deriva o dall’ intensità o dal numero delle percezioni precedenti. Poiché spesso un' impressione forte produce d’un sol tratto l’ effetto di una lunga abitudine o di  molte percezioni mediocri ripetute. Gli uomini agiscono come le bestie, in quanto la  concatenazione delle loro percezioni non avviene se non  per il principio della memoria; assomigliano, per questo  riguardo, ai medici empirici che hanno una semplice pratica senza teoria; e noi non siamo che empirici nei tre  quarti delle nostre azioni. Per esempio, quando ci si attende che domani faccia giorno, si fa ciò empiricamente,  perchè finora è sempre avvenuto così. Soltanto l’ astronomo giudica ciò per Ada di ragione. Ma la conoscenza delle verità necessarie ed eterne  è ciò che ci distingue dai semplici animali e ci dà la ragione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi  e di Dio. E ciò si chiama in noi anima ragionevole o spirito. Inoltre, mediante la conoscenza delle verità necessarie e delle loro astrazioni, noi siamo elevati agli atti riflessivi  che ci fanno pensare a ciò che si chiama io, o considerare  che questo o quel contenuto è in noi ; ed è così che, pensando a noi, noi pensiamo all’essere, alla sostanza, al semplice e al composto, all' immateriale e a Dio stesso, col  concepire che ciò che in noi è limitato, è in lui senza limiti.  E questi atti riflessivi forniscono i principali oggetti dei  nostri ragionamenti. I nostri ragionamenti sono fondati su due grandi   principi: quello delia contradizione, in A T irtù del quale giudichiamo falso ciò che implica contradizione, e vero ciò che  è opposto o contradittorio al falso; Passa ad altro argomento: le grandi forme costitutive della realtà, c  insieme i fondamentali principi logici: verità di ragione, rette dal principio  di non contradizione, verità di fatto, rette dal principio di ragion suflìciente  o di causalità. Cfr. p. (i ss., 17 s.   e quello della ragion sufficiente, in virtù del quale  consideriamo clic nessun fatto può esser vero o esistente,  nessuna proposizione veritiera, se non vi è una ragione sufficiente per cui sia così e non altrimenti; benché tali ragioni il più delle volte non possano esserci note. Vi sono pure due specie di verità: quelle di ragione e quello di fatto ; le verità di ragione sono necessarie  e il loro opposto è impossibile; quelle di fatto sono contingenti e il loro opposto è possibile. Quando una verità  è necessaria, se ne può trovare la ragione per mezzo dell'analisi, risolvendola in idee e in verità più semplici, finché si giunga alle primitive. Così nelle matematiche i teoremi speculativi e i  canoni pratici sono ridotti, per mezzo dell’analisi, a definizioni, assiomi e 'postulati, Vi sono infine idee semplici, di cui non si può  dare la definizione; vi sono pure assiomi e postulati o,  in una parola, principi primitivi che non possono essere  dimostrati, e non ne hanno bisogno ; e sono le proposizioni  identiche, il cui opposto contiene un'espressa contradizione. Ma la ragion sufficiente deve trovarsi anche nelle  verità contingenti o di fatto, cioè nell'ordine delle cose diffuse nell'universo delle creature ; nel quale la risoluzione  in ragioni particolari potrebbe procedere fino a un frazionamento senza limiti, a causa della varietà immensa delle  cose della natura e della divisione dei corpi all' infinito.  Vi è un" infinità di figure e di movimenti presenti e passati,  che entrano nella causa efficiente della mia scrittura attuale; vi è un' infinità di piccole inclinazioni e disposizioni della mia anima, presenti e passate, che entrano  nella causa finale. È questo il metodo ilollu « caratteristica» e « combinatoria »; cfr. p. .'iUtss(2) La causa liliale, che Leibniz usa con significati diversi secondo le occasioni, rappresenta qui, per cosi dire, una causa efficiente rivolta verso  l’avvenire. ICssa dà il fine, lo scopo, l’intenzione secondo cui una determinata E siccome tutto questo dettaglio non implica se  non altri contingenti anteriori o più dettagliati, ciascuno  dei quali ha ancora bisogno di una simile analisi perchè  se ne possa rendere ragione, per questa via non si procede  affatto; e conviene che la ragion sufficiente od ultima sia  fuori dell’ ordine o seriett di questo dettaglio di contingenze, *  per quanto infinito esso possa essere.   38. ° E cosi la ragione ultima delle cose deve consistere in una sostanza necessaria, nella quale il dettaglio  dei cambiamenti non si trovi se non in modo eminente,  come in una fonte; e tale sostanza noi la chiamiamo Dio. Ora, essendo tale sostanza ragion sufficiente di  tutto quel dettaglio, il quale inoltre è concatenato universalmente, non vi è che un nolo Dio, e questo Dio è suflì-V  dente. È da ritenere inoltre che questa sostanza suprema, che è unica, universale e necessaria, non avendo  nulla fuori di sè che sia da essa indipendente, ed essendo  semplice conseguenza dell'essere possibile, debba essere incapace di limiti e contenere la massima quantità possibile  di realtà. Donde consegue che Dio è assolutamente perfetto; non essendo la perfezione altro che la grandezza della  realtà positiva intesa precisamente, eliminando i limiti o  confini nelle cose che ne hanno. E là dove non vi sono  confini, cioè in Dio, la perfezione è assolutamente infinita.    cosa è avvenuta. Contribuisce quindi a determinare Je « ragioni della cosa  stessa e rientra cioè nella sua ragion sufficiente. Da causa tinaie serve a Leibniz per indicare un aspetto più spontaneo, attivo, spirituale, morale del principio di ragion sufficiente. Essa si contrappone in questo senso alla causa  efficiente, la quale indirà un rapporto puramente materiale e meccanico.  Cfr. pp. li) s., 1 lfi ss.   (1) Questa dimostrazione di Ilio è basata sul principio di rugion sufficiente. Dio è la causa prima di tutta la serie delle cose del mondo, delle verità  di fatto empiriche e contingenti. Egli non può però appartenere all’ordine  delle cose contingenti, altrimenti dovrebbe avere una causa fuori rii sè, e  non sarebbe più causa prima. Appartiene quindi all’ordine delle essenze  necessario.   Ne consegue pure che le creature ricevono le loro  perfezioni dall' influsso di Dio, ma che derivano le imperfezioni dalla loro propria natura, incapace di essere senza  limiti. Poiché in questo appunto esso sono distinte da Dio.  Tale imperfezione originaria delle creature, si riscontra nelf inerzia naturale dei corpi. È anche vero che Dio è non solo la fonte delle  esistenze, ma anche quella delle essenze in quanto reali,  o di quanto vi è di reale nella possibilità. Infatti V intelletto di Dio è la regione delle verità eterne, o delle idee  da cui esse dipendono; e senza di lui non vi sarebbe nulla  di reale nelle possibilità, e non solamente nulla vi sarebbe  di esistente, ma neppure alcunché di possibile. Infatti, se vi è mia realtà nelle essenze o possibilità, o nelle verità eterne, bisogna pure che questa realtà  si fondi su qualche cosa di esistente e di attuale; si fondi  quindi sull - esistenza dell'essere necessario, in cui l’essenza  implica l’esistenza, o cui basta di essere possibile per essere  attuale. Così Dio solo, ovvero l'essere necessario, ha  questo privilegio: che. se è possibile, bisogna che esista.  E siccome nulla può impedire la possibilità di ciò che  non implica alcun limite, alcuna negazione, quindi alcuna  contradizione, ciò solo basta per riconoscere a priori la  esistenza di Dio. Noi l’abbiamo anche dimostrata per Perfezione è per Leibniz il massimo di realtà, di fatto compatibile eoi  principi della possibilità, determinati dalle verità di ragione. Cfr. p. 21 ss.  Imperfezione è una limitazione di realtà. L’intero complesso del mondo  dunque, cosi come 6 messo in opera da Dio, rappresenta il massimo di realtà  possibile, ed è perfetto. Solo le cose particolari sono imperfette, in ragione  appunto della loro particolarità. Questa concezione àia medesima die Leibniz svolge nella Teodicea. Questa è la prova ontologica del resistenza di Ilio. Leibniz lui aggiunto  alla formulazione cartesiana di essa il criterio della possibilità. Bisogna anzitutto, secondo lui, dimostrare che il concetto dell’ente perfettissimo ò possibile, cioè noninvolve contradizione. Sia poiché esso è effettivamente possibile, ne segue che esso contiene in sé anche l'attributo dell’esistenza. Cfr.  p. 13 ss. mezzo della realtà delle verità eterne (1). Ma l'abbiamo dimostrata or ora anche a 'posteriori, poiché esistono esseri contingenti, i quali non possono avere la loro ragione  ultima o sufficiente se non nell essere necessario che ha in  aè stesso la ragione della sua esistenza. Tuttavia non bisogna punto immaginarci, come  fa taluno, che le verità eterne, essendo dipendenti da Dio,  siano arbitrarie e derivino dalla sua volontà, come sembra  aver inteso Cartesio e dopo di lui Poiret. Ciò non è  vero se non delle verità contingenti, il cui principio è la  convenienza o la scelta del migliore : laddove le verità necessarie dipendono unicamente dal suo intelletto e ne sono  l'oggetto interno. Così Dio solo è f unità primitiva, o la sostanza  semplice originaria di cui tutte le monadi create o derivate  sono prodotti; e queste monadi nascono, per così dire,  per fulgurazioni continue della divinità, di momento in  momento, limitate dalla recettività della creatura, alla  quale è essenziale di essere limitata.  \ i è in Dio la potenza, che è la sorgente di tutto,  la conoscenza che contiene il dettaglio delle idee, e la volontà che determina i mutamenti o le produzioni secondo  il principio del migliore (5). E ciò corrisponde a quello che  nelle monadi create costituisce il soggetto o base, la facoltà percettiva, e la facoltà appetitiva. Ma in Dio questi  Teologo protestante. Questa affermazione correggo in parte quunto fc stato attenuato ai  SS 43 o 44. Le verità di ragione, clic danno la possibilità delle cose, hanno  pure una loro realtà di esseri possibili. Questa realtà deriva loro da Dio.  Ma la loro conformazione in quanto principi regolativi dell’universo, ha una  validità a sò stante, indipendente anche dalla volontà di Dio. Solo le esistenze o realtà di fatto sono messe esplicitamente in opera da lui, secondo  il criterio del «migliore». L’intelletto divino Ita come contenuto le verità di ragione; la sua  volontà mette in opera le realtà di fatto. attributi sono assolutamente infiniti e perfetti; e invece  nelle monadi create o entelechie (o PERFECTIHABIES, secondo  la traduzione di questa parola data da BARBARO (si veda)) essi non sono se non imitazioni, in ragione della  perfezione di ciascuna.  La creatina è detta agire verso l’ esterno in quanto  essa ha perfezione, e {Mire da parte di un’altra in quanto  è imperfetta. Così si attribuisce azione alla monade in  quanto essa ha percezioni distinte, e passione in quanto ha  percezioni confuse. E ima creatura è più perfetta di un'altra, in  quanto si trova in essa ciò che serve a render ragione a  priori di ciò che avviene nell'altra; ed appunto per ciò  si dice che l una agisce sull’altra.   51. ° Ma nelle sostanze semplici non si tratta che di  un' influenza ideale di una monade sull’altra; influenza che  non può avere il suo effetto se non per 1" intervento di  Dio, in quanto, nelle idee di Dio, una monade pretende  con ragione che Dio, regolando le altre fin dal principio  delle cose, abbia riguardo ad essa. Infatti, giacché una  monade creata non può avere influenza fisica sull' interno  dell'altra, solo per questa via può verificarsi una dipendenza dell’ima dall’altra. Per questo appunto, fra le creature, le azioni e  passioni sono reciproche. Infatti Dio, paragonando due  sostanze semplici fra loro, trova in ciascuna ragioni  che l’obbligano ad adattarvi l'altra; e quindi ciò che è  attivo per certi riguardi, è passivo da un altro punto di  vista; attivo in quanto ciò che in esso vien conosciuto distintamente serve a render ragione di ciò che accade in  un altro; e passivo in quanto la ragione di ciò che accade  Filologo e filosofo italiano, tradusse in latino vario  opere di Aristotele. Sulle percezioni confuse, in esso si trova in ciò che vien conosciuto distintamente  in un altro. Ora, poiché vi è un' infinità di universi possibili nelle idee di Dio, e invece non ne può esistere che uno  solo, bisogna che vi sia una ragione sufficiente della scelta  di Dio, che lo determini a scegliere uno piuttosto che l’altro. E questa ragione non può trovarsi se non  nella convenienza o nel grado di perfezione che questi  mondi contengono; poiché ogni possibile ha diritto di  pretendere all'esistenza, in ragione della perfezione che  racchiude. E ciò appunto è la causa dell’esistenza del  mondo migliore, che la saggezza fa conoscere a Dio, la  sua bontà gli fa scegliere e la sua potenza gli fa produrre. Ora questo legame o adattamento di tutte le cose  create a ciascuna singola, e di ciascuna a tutte le altre,  fa sì che ogni sostanza semplice contenga in sé rapporti Le monadi, ohe sono senza Maestre, non possono agile l una  sull’altra. Il contenuto di ciascuna corrisponde a quello di tutte le altre,  in quanto ciascuna è un punto di vista preso sul medesimo universo. Ciascuna contiene nel suo intimo tutto il proprio sviluppo;  e tutto le viene dal suo intorno, nulla dal di fuori. Solo in senso improprio  c metaforico si può parlare d’influenza di una monade sull’altra. 11 diverso  punto di vista dal quale l’ universo viene rappresentato, costituisce la  particolare individualità di ciascuna monade; esso viene indicato dalla diversa sfera delle percezioni distinte che rappresentano, per così dije, la  zona centrale di ogni monade, mentre le confusene rappresentano la periferia. Questa varia collocazione reciproca dei centri e delie periferie ò ciò che permette una differenziazione fra le varie monadi. Ora, se  si vuol chiamare attivo il centro, incili si hanno percezioni distinte, e passiva la periferia che ha solo percezioni confuse, si potrà parlare anche  di una sfera di attività in ciascuna monade, cui corrisponde una sfera di  passività nelle altro; insomma di una certa azione ideale dcH’una sull’altra. I mondi possibili, cioè concepiti dall’ intelletto di Dio secondo i principi di ragione, sono influiti. Dio sceglie fra di essi uno, il migliore, cioè il  piò perfetto. È più perfetto quello che, una volta attuato, cioè passato dalla  pura possibilità alla effettiva esistenza, contiene il massimo di realtà. Ogni  possibile, insomma, è tanto più perfetto, a quanta maggior quantità di esistenza può dar luogo. clic esprimono tutte le altre, e sia per conseguenza uno  specchio vivente perpetuo dell'universo. E come una medesima città, guardata da differenti punti, sembra diversa ed è come moltiplicata in  prospettiva, analogamente avviene che, per la molteplicità infinita di sostanze semplici, vi sono come altrettanti  universi differenti, i quali non sono peraltro se non le  prospettive di un universo solo, secondo i differenti punti  di vista di ciascuna monade.   ò8.° È questo il modo di ottenere il massimo di varietà possibile, ma con quanto pili ordine si può; cioè il  massimo di perfezione possibile. Dunque solo questa ipotesi (che io oso dire dimostrata) esprime in modo adeguato la grandezza di Dio. Ciò fu riconosciuto anche dal Bayle, quando, nel suo Dizionario (articolo Rorarius), mosse ad essa obiezioni; fu  anzi spinto a credere che io attribuissi troppo a Dio, e  più che non sia possibile. Ma egli non potè addurre alcuna  ragione che dimostrasse 1' impossibilità di questa armonia  universale, la quale fa sì che ogni sostanza esprima esattamente tutte le altre per i rapporti che ha con esse. Si vedono fi altronde, in ciò che ho esposto, le  ragioni a priori per cui le cose non potrebbero procedere  diversamente. Dio infatti, regolando il tutto, ha avuto  riguardo a ciascuna parte, e particolarmente ad ogni  monade; la cui natura essendo rappresentativa, nulla  la può limitare a non rappresentare se non una parte  delle cose; benché sia vero che questa rappresentazione non è se non confusa nel dettaglio di tutto l'universo, e non può essere distinta che per una piccola parte  delle cose, per quelle cioè che sono o più vicine o pili  glandi rispetto ad ogni monade; altrimenti ogni monade  sarebbe una divinità. Non nell’oggetto, ma nella modificazione della conoscenza dell'oggetto, le monadi sono li  mitate. Esse tendono tutte confusamente all’ infinito, al tutto; ma sono Limitate e differenziate secondo i gradi  delle percezioni distinte. E i composti in ciò corrispondono ai semplici.  Intatti, siccome tutto è pieno (il che fa sì che tutta la  materia sia concatenata), e siccome nel pieno ogni movimento opera qualche effetto sopra i corpi distanti in  ragione della distanza, di modo ohe ogni corpo non solo  è affetto da quelli che lo toccano e risente in qualche  modo di tutto ciò che accade ad essi, ma anche per mezzo  loro risente di quelli che toccano i primi da cui esso è  toccato immediatamente; ne consegue che questa comunicazione va a qualsiasi distanza. E quindi ogni corpo  risente di tutto ciò che avviene nell' universo; sì che chi  avesse la facoltà di veder tutto, potrebbe leggere in ciascun corpo ciò che avviene ovunque, ed anche ciò che è  avvenuto e avverrà; osservando nel presente ciò che è  lontano, sia secondo il tempo, sia secondo lo spazio:  ffup.7r.oia 7ràvTa, diceva lppocrate. Ma mi' anima non  può leggere in sè stessa se non ciò che vi è rappresentato distintamente; essa non saprebbe svolgere in una  sola volta tutte le sue pieghe, perchè esse vanno all' infinito. Così, quantunque ogni monade creata rappresenti  tutto l'universo, essa rappresenta piii distintamente il corpo  che lo si riferisce particolarmente e di cui essa costituisce  l’entelechia: e siccome tale corpo esprime tutto l'universo  a causa della connessione di tutta la materia nel pieno. Ciascuna monade, in quanto rappresentativa ili tutto l’universo, è  analoga alla divinità. Solo la minor foiza di questa rappresentazione la  rende imperfetta e la ditTerenzia dalla divinità e dalle altro monadi. In Dio  tutto è chiaro e distinto. Nella monade sono distinte solo le percezioni più  vicino al contro, come si è già visto. Leibniz non ammette il vuoto, per il suo principio della continuità  applicato alla materia.Ecco un’altra formulazione della concatenazione universale secondo il  principio di causalità, considerato questa volta nel suo aspetto fisico. i Tutto ù conspirante ». l’anima, nel rappresentare questo corpo clie le appartiene in  maniera particolare, rappresenta insieme tutto runiverso. Il corpo appartenente ad una monade che ne è  l’entelechia o l’anima, costituisce con l’entelechia ciò che  si può chiamare un vivente, e coll'anima ciò che si può  chiamare un animale. Ora questo corpo di un vivente o  di un animale è sempre organico; poiché, essendo ogni  monade a suo modo uno specchio dell’ imiverso, ed essendo  l'universo regolato in un ordine perfetto, bisogna pure che  vi sia un ordine nel rappresentante, cioè a dire nelle percezioni dell’ anima, e per conseguenza nel corpo, secondo  il quale l'universo è rappresentato nell’anima. Così il corpo organico di ogni vivente è ima specie  di macchina divina o di automa naturale che supera infinitamente tutti gli automi artificiali. Perchè una macchina  fatta dall’arte dell' uomo non è macchina in ciascuna delle  suo parti. Per esempio, il dente di una ruota di ottone  ha parti o frammenti che non sono più per noi qualche  cosa di artificiale e non hanno più nulla con carattere di  macchina riguardo all'uso cui la ruota è destinata. Ma le  macchine della natura, cioè i corpi viventi, sono ancora  macchine nelle loro più piccole parti, all' infinito. Ciò determina la differenza fra la natura e l'arte, cioè fra l’arte  divina e la nostra. E 1 autore della natura ha potuto operare questo  artifìcio divino e infinitamente meraviglioso, perchè ogni  porzione di materia non solo è divisibile all’ infinito, come  hanno già riconosciuto gli antichi, ma è anche suddivisa  attualmente senza fine, ogni parte in parti, ognuna LI corpo - commenta il Boutroux, attraverso lo  infinite percezioni confuse relative all’univerBO che esso determina ncll’auima, ò il nesso che riunisce l’anima al resto del mondo, che fa cioè comunicare lo anime fra di loro. È questa un’altra applicazione del principio di continuità alla materia. Lkiuniz, La monadologia. delle quali ha qualche movimento proprio; altrimenti sarebbe impossibile che ogni porzione della materia potesse  esprimere tutto l’ universo. Donde si vede che vi è un mondo di creatine,  di viventi, di animali, di entelechie, di anime anche nella  minima particella di materia. Ogni porzione di materia può essere concepita  come un giardino pieno di piante, e come uno stagno  pieno di pesci. Ma ogni ramo della pianta, ogni membro  dell' animale, ogni goccia dei suoi umori, è ancora un giardino, uno stagno. E quantunque la terra e l'aria interposta fra le  piante del giardino, o l’acqua interposta fra i pesci dello  stagno, non siano punto pianta nè pesce, esse ne contengono tuttavia ancora; ma per lo più di una piccolezza  a noi impercettibile. Cosi non vi è nulla di incolto, di sterile, di morto  nell'universo; e non vi è caos nè confusione se non in apparenza; press' a poco come apparirebbe confusione in uno  stagno, ad una distanza dalla quale si vedesse un movimento confuso, un brulichio, per così dire, di pesci, senza  discernere i pesci stessi. Si vede da ciò che ogni corpo vivente ha una  entelechia dominante che è f anima nell'animale; ma le  membra di questo corpo vivente sono piene di altri viventi,  piante, animali, ciascuno dei quali ha ancora la sua entelechia, o la sua anima dominante. Ma non bisogna immaginare, come fece taluno  che aveva male inteso il mio pensiero, che ogni anima  abbia una massa o porzione di materia propria o applicata  ad essa per sempre, e che essa possieda quindi altri viventi inferiori, destinati sempre al suo servizio. Poiché  tutti i corpi sono in un flusso perpetuo, come fiumi; e  parti vi entrano e ne escono continuamente. Così l’anima non cambia di corpo se non a poco  a poco, per gradi, di modo che essa non è mai spogliata  ad un tratto di tutti i suoi organi; e vi è spesso metamorfosi negli animali, ma non mai metempsicosi nè trasmigrazione delle anime; non vi sono neppure anime completamente separate, nè genii senza corpo. Dio solo è staccato  interamente dal corpo.Perciò anche non vi è nè generazione assoluta,  nè morte perfetta, intesa rigorosamente, come separazione  dall’anima. E ciò che noi chiamiamo generazione, è sviluppo  e accrescimento; come ciò che noi chiamiamo morte, è  involuzione o diminuzione. I filosofi sono stati molto imbarazzati sull’origine  delle forme, entelechie, o anime; ma oggi che ci si è accorti, per mezzo di ricerche esatte sulle piante, sugli insetti e sugli animali, che i corpi organici della natura  non sono mai prodotti da caos o da putrefazione, ma sempre dai semi nei quali vi ora senza dubbio qualche preformazione, si è ritenuto che, prima della concezione, vi  fosse già non solo il corpo organico, ma anche un’anima  in questo corpo, insomma l'animale stesso; e che per mezzo  della concezione questo animale sia stato solamente disposto ad una grande trasformazione per divenire un animale di un'altra specie. Si vede pure qualche cosa di simile fuori del campo della generazione; come quando i  vermi divengono mosche e i bruchi farfalle. La menade, elio ò assolutamente immateriale, non è però priva  di un suo aspetto di materialità. La materialità viene definita da Leibniz  in vari modi: come percezione confusa; come aggregato. Sempre però come un modo di essere della monade, un suo  particolare « fenomeno ». Posto ciò, e dato che la monade è eterna e indistruttibile non si può a rigore parlare di morte neppure nella materia;  si potrà parlare solo di aggregazione e di disgregazione, di passaggio do uno  stato all’altro. Cosi non si può parlare  di una materia clic sia pura materia, separata da un’anima che sia pura  anima. Le teorie biologiche del suo tempo servono qui a Leibniz come sostegno e conferma delle sue concezioni metafisiche. Leibniz, La monadologia.  Gli animali dei quali alcuni sono elevati al grado  di animali più grandi per mezzo della concezione, possono  essere chiamati spermatici-, ma quelli fra di essi che rimangono nella loro specie, cioè la maggior parte, nascono,  si moltiplicano, e vengono distrutti come i grandi animali, e  non vi e che un piccolo numero di eletti che passi ad un  teatro più vasto. Ma questo non era che la metà della verità; ho  dunque ritenuto che se 1 animale non ha mai inizio naturalmente, non avrà neppure fine naturale, e che non solo  non vi sarà generazione, ma neppure distruzione intera,  nè morte rigorosamente intesa. E questi ragionamenti fatti  a posteriori e tratti dalle esperienze si accordano perfettamente coi miei principi dedotti a priori qui sopra. Così si può dire che non solamente l'anima (specchio di un universo indistruttibile) è indistruttibile, ma  che lo e anche 1 animale stesso, benché la sua macchina  perisca spesso in parte, e lasci o prenda spoglie organiche. Questi principi mi hanno dato modo di spiegare  naturalmente l’ unione o conformità dell'anima e del corpo  organico. L' anima segue le sue proprie leggi, ed il corpo  le sue; ed essi si incontrano in virtù dell'armonia prestabilita fra tutte le sostanze, poiché le sostanze sono tutte  rappresentazioni di un medesimo imiverso. Le anime agiscono secondo le leggi delle cause  finali, per appetizioni, fini e mezzi. 1 corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o dei movimenti. E i  due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause  finali, sono armonici fra di loro. Cartesio ha riconosciuto che le anime non possono  attribuire forza ai corpi, perchè vi è sempre la medesima Questa teoria ha il suo corrispondente nella dottrina della gerarchia  delle monadi, secondo cui solo alcune di esse possono elevarsi agli  stadi superiori di animale o spirito ragionevole. Sui rapporti fra le cause efficienti e le finali, cfr. la nota a] j; 3fi.quantità di forza nella materia. Pur tuttavia egli lia creduto che l’anima potesse cambiare la direzione dei corpi.  Ma egli credeva ciò, perchè ai suoi tempi non si conosceva  la legge naturale che stabilisce anche la conservazione della  medesima direzione totale nella materia: se egli avesse  notato questa legge, sarebbe giunto al mio sistema dell’armonia prestabilita. Tale sistema stabilisce che i corpi agiscono come  se (ipotesi assurda) non vi fossero anime; che le anime  agiscono come se non vi fossero corpi; e che entrambi  agiscono come se l’uno influisse sull’altro. Quanto agli sjnriti,o anime ragionevoli, benché io  ritenga, come ho detto or ora, che tutti i viventi e animali  siano in fondo conformati ugualmente (cioè che l’animale  e l'anima comincino col mondo e non finiscano se non  col mondo stesso), vi è però di particolare negli animali  ragionevoli, il fatto che i loro piccoli animali spermatici, fino  a che non sono che tali, hanno soltanto anime cornimi o  sensitive: ma appena quelli che sono eletti, per così dire,  pervengono per ima effettiva concezione alla natura umana,  le loro anime sensitive vengono elevate al grado della ragione e alla prerogativa degli spiriti. Tra le differenze che intercedono fra le anime  comuni e gli spiriti, e di cui già ne ho notato alcune, vi  è anche questa: che le anime sono in generale specchi    Questo leggo tisica, secondo cui si oonserva anche la direzione totale (o  quantità di progrosso) - cioè a qualsiasi cambiamento di direzione, in un sistema chiuso, deve corrispondere un altro cambiamento di direzione eguale  o contrario-, contribuisce a fare del mondo meccanico un sistema a sè, chiuso  a qualsiasi influenza elio provenga dall’esterno, por esempio dnll’aninia. Cartesio credeva alla oonsorvazione della quantità di movimento (cui Leibniz  sostituisce la conservazione della forza viva); ma non conosceva la conservaziono della direzione totale. Egli pensava cioè che l'anima potesse mutare la dirozionedi un movimento, lasciando invariato il sistema. Una tale  influenza dell’anima è impossibile, posta la legge di Leibniz. Anima e corpo  rimangono due sistemi separati, privi di influenze reciproche, cosi come lo  sono le monadi fra di loro. E il loro accordo dovrà essere stabilito attraverso  l’armonia prestabilita. Sulle leggi tìsiche leibniziane, viventi o immagini dell'universo delle creatine; ma che gli  spiriti sono anche immagini della divinità stessa, o dell’autore stesso della natura; capaci di conoscere il sistema  dell universo e di imitarne alcunché, per mezzo di saggi  architettonici; essendo ogni spirito come una piccola divinità nel suo ambito. Appunto questo fa sì che gli spiriti siano capaci  ili entrare in una specie di società con Dio, e che egli sia  rispetto a loro non solo quello che un inventore è per la  sua macchina (ciò che Dio è rispetto alle altre creature),  ma altresì quel che mi principe è per i suoi sudditi, ed  anzi un padre per i suoi figli. Donde è facile concludere che l’insieme di tutti  gli spiriti deve compone la città di Dio, cioè il più perfetto stato possibile sotto il più perfetto dei monarchi.   86. ° Questa città di Dio, questa monarchia veramente  universale, è un mondo morale nel mondo naturale, è ciò  che vi è di più di elevato e di più divino nelle opere di  Dio. E proprio in essa consiste la gloria di Dio; poiché  non vi sarebbe gloria, se la sua grandezza e la sua bontà  non fossero conosciute ed ammirate dagli spiriti; e anche  solo in rapporto a questa città divina egli è propriamente fornito di bontà, laddove la sua saggezza e la sua potenza  si mostrano ovunque. Come abbiamo stabi lito pili sopra una perfetta  armonia fra due regni naturali, l’uno delle cause efficienti,  1 altro delle finali, dobbiamo notare qui anche un’altra  armonia fra il regno fisico della natura e il regno morale  della grazia, cioè fra Dio considerato come architetto della  macchina dell universo, e Dio considerato come monarca  della città divina degli spiriti. Tale armonia fa sì che le coso conducano alla  grazia per le vie medesime della natura, e che questo globo, per esempio, debba essere distrutto e riparato per  vie naturali, nel momento in cui il governo degli spiriti  lo richieda, per il castigo degli uni e la ricompensa degli  altri.  Si può dire ancora che Dio, in quanto architetto, soddisfa in tutto a Dio in quanto legislatore; e che così i  peccati devono portare con sè la propria pena per ordine  di natura e hi virtù anche della strattura meccanica delle  cose; e che analogamente le belle azioni debbono attirare  a sè la propria ricompensa por vie meccaniche rispetto ai corpi; benché ciò non possa e non debba avvenire sempre immediatamente. Insomma, sotto questo governo perfetto, non vi  sarebbe azione buona senza ricompensa, nè cattiva senza  castigo; e tutto deve risolversi nel bene dei buoni, cioè  di coloro che non sono malcontenti in questo grande stato,  che si fidano della Provvidenza dopo aver fatto il loro  dovere, e che amano e imitano come si conviene l’Autore  di ogni bene, compiacendosi nella considerazione delle sue  perfezioni, secondo la natura del vero puro amore veritiero, che fa prendere piacere alla felicità di colui che si  ama. E ciò fa sì che le persone sagge e virtuose lavorino  a tutto ciò che sembra conforme alla volontà divina presuntiva o antecedente, e si contentino, d'altra parte, di  ciò che Dio fa accadere effettivamente per mezzo della sua volontà segreta, conseguente e decisiva; riconoscendo  che, se noi potessimo intendere a sufficienza bordine dell'universo, troveremmo che esso supera tutti i desideri dei  piii saggi, e che è impossibile renderlo migliore di quello  che è, non solo quanto al tutto in generale, ma anche  La volontà presuntiva o antecedente rappresenta ciò che deriva  dalla natura stessa di Dio, ohe ò connaturato con la sua essenza; la volontà conseguente e decisiva rappresenta l’atto effettivo con cui Dio ha  messo in opera la realtà di fatto: atto non necessario, quindi non prevedibile, « segreto ». Questa distinzione richiama quella fra le verità di ragione, necessarie, e le verità di fatto, contingenti. quanto a noi stessi in particolare, perchè ci teniamo legati, come è giusto, all'autore del tutto, non solamente  come all architetto e alla causa efficiente del nostro essere,  ma anche come al nostro signore e alla causa tinaie che  deve costituire tutto lo scopo della nostra volontà, e solo  può procurarci la felicità. E qui accennato al concetto fondamentale della Teodicea, secondo  cui tutto oiò che apparo come malo cessa di essere tale, quando venga considerato in connessione con l'arinonia del tutto, nella quale anche i lati  oscuri hanno una loro funziono, e le ombreggiature contribuiscono alla perfezione del quadro. Cfr. p. 4(5 ss. Eugenio Colorni. Colorni. Parole chiave: diadologia, il concetto dell’individuo, l’idealismo filosofico como malatia, indice alla malatia metafisica, scritti filosofici curati da Bobbio, scienza unificata, ebreo-italiano, ebreo-britannico Ayer, circolo di Vienna, Reichenbach, Hilbert, Eddington. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colorni” – The Swimming-Pool Library. Colorni.

 

Luigi Speranza -- Grice e Consoli – l’italiano come lingua universale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo catanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Lingua nazionale della terra. Linguaggio mondiale. Ling du mond. Ling nazionel de le ter. Vox mondiel. Il latino lingua universala, Storia della letteratura latina. Catania. Santi Consoli Sindaco di Catania Durata mandato Predecessore Salvatore Di Stefano Giuffrida Successore Salvatore Di Stefano Giuffrida C. è stato un filosofo, storico, letterato e politico italiano. Filosofo, storico e letterato, C è insegnante di letteratura latina e filosofia romana a Catania.  Divenne sindaco di Catania. Organizza l'«Esposizione agricola  siciliana», che venne inaugurata da Vittorio Emanuele. Termina il suo mandato e torna ad occuparsi dell'insegnamento.  Scrive anche alcuni saggi sulla storia della Sicilia.  Pubblica numerose opere tra cui Italiensk grammatik til brug for norske og danske, Catania, Letteratura Norvegiana, Milano, De C. Plinii Caecilii Secundi rhetoricis studiis, Catania), L’autore del De origine et situ Germanorum, Roma; Brevi annotazioni critiche alle Satire di Persio, Roma, Il neo-logismo (deutero-esperanto) in Plinio il Giovane, Palermo, Sicilia gloriosa, Catania). Santi Correnti, La città semprerifiorente, Catania.  Santo Daniele Spina, Andrea D’Amico Franz, commediografo e politico in Catania, Agorà.  Opere su MLOL, Horizons Unlimited.Predecessore Sindaco di Catania Successore Salvatore Di Stefano Giuffrida Salvatore Di Stefano Giuffrida. Portale Biografie: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biografie Categorie: Storici italiani del XX secolo Letterati italiani Politici italiani Sindaci di Catania [altre]. Ricerca Libri aiuta  i lettori a scoprirci libri di tulio il mondo e conseiil c ad aulun ed edili in di ragg i ungere un pubblico più ampio, l'imi cffclluarc una ricerca sul Web  nell'intero testo di questo libro da |.-.-;..-[! e. comi Jkj^àj, à?JL garbarti College li&rarg  CONSTANTIUS FUND   EstiblJshed by Professor E. A. Sofhoclbs of Harvard   University for " the parchase of Greek ud ritiri  books, (the utdenl elusici) or of Arabie  hook», or of hooks illustratine or ex.  soch Greek, Latin, or     Arabie t     ' Will)     Jii^. .1.^.0.1,. !>   I I V IL NEOLOGISMO NEGLI SCRITTI DI PLINIO IL GIOVANE Altre opere di C. ITALIENSK GRAMMATIK til "for-u.gr     for IbTcrslce cgr  Catania L  esposte , secondo il metodo scientifico , agli alunni   delle scuole secondarie classiche.   Catania (E ALLO Siili) IL 1. N.  Torino TJI Milano  liettet*atat*a Ho^eQtena   Milano. De C. Plinii Gaecilii Secanti     RHRTORICIS STUDIIS.   Catinae, 1897. L. 3 (esaurito).     e   IL NEOLOGISMO   NEGLI SCRITTI DI PLINIO IL GIOVANE CONTRIBUTO AGLI STUDI SULLA LATINITÀ ARGENTEA Libero docente di letteratura e lingua latina nella R. Università di Catania PALERMO LIBRERIA ALB. REBER  • r   &/. X? & >RD CÓQ;     Ql -VL-^./UOl-/W rfcLu-ó xu^x-oL (Catania, Via Maddem, n. 160)     Tipografia editrice BARBACALLO & 8CUDERÌ , in Catania. MARGRETHE CONSOLI  nata GLÒERSEN   MIA DILETTA E VENERATA MOGLIE  NEL III ANNIVERSARIO DELLA SUA MORTE Il ne faut point dédaigner les études  qui ont pour objet d*écl«ircir méme tei  ou tei petit point particulier de la langue  d' un auteur.   0. RlEMANN. È noto che neiprimi tempi dell'impero romano, tanto  per i inutamenti politici avvenuti quanto per il progresso  lento, ma costante, del ' sermo plebeius' che tendeva  a prevalere sul ' sermo urbanus ', la lingua letteraria  era divenuta, a poco a poco, una lingua artificiale che  ogni scrittore, non più vincolato dall'uso del linguaggio delle conversazioni colte, soleva per lo più plasmare  da sé, secondo i suoi gusti e secondo i fini letterari che  si era proposto di raggiungere. 1 Tale tendenza, che costituisce appunto uno dei caratteri precipui della latinità argentea, abbiamo potuto osservare in particol&r  modo negli scritti che ancora ci rimangono di Plinio  il giovane ; e, poiché dell' arte retorica di lui ci siamo  occupati di proposito in» un nostro lavoro stampato di  recente, 2 ora ci proponiamo dimettere in rilievo i neo   1 Cfr. O. Riemann, Études sur la langue et la grammaire de  Tite-Live, Paris, Thorin,   DeC Plinii Caecilii Secundi rhetoricis studiis, Cat'msLOy . cod. Vatic.  ;   F = cod. Florentin. già della bibl.- S. Marco 284 ;  D = cod. Dresd. D 166 ;  [R = cod. Riccard. 488];  p = -o :: o- I -- :Da quanto ci è dato argomentare , considerando i resti della letteratura romana pervenuti sino a  noi, pare che Plinio il giovane sia ricorso per il primo  ai temi degli aggettivi ' sinister ' e ' socialis  per formare le due voci nuove ' siriisteritas ' e ' socialitas \  . l.° Il SIGNIFICATO di ' sinisteritas ' non si può disgiungere da quello delle voci ' stultitia ' e ' rusticitas  ; e  indica perciò « goffaggine , inettitudine » , l' antitesi ,  in somma, di ' dexteritas '. Se ne ha la conferma nei  seguenti passi di Plinio : Quae tanta grauitas ? quae  tanta sapientia ? quae immopigritia, adrogantia, sinisteritas ac potius amentia, in hoc totum diem inpendere, ut offendas, ut inimicum relinquas ad quem tamquam amicissimura ueneris ? ' Epist. VI 17, 3.  ' Plerique autem, dum uerentur ne gratiae potentium nimium  inpertire uideantur, sinisteritatis atque etiam raalignitatis famam consequuntur. ' Epist. IX 5, 2.   2.° L' altro sostantivo ' socialitas ' vale lo stesso di  ' comitas ' = « affabilità , cortesia , socievolezza » : ce  lo affermano i seguenti due luoghi di Plinio: ' Non remissionibus tuis eadem frequentia eademque illa soci a1 i t a s interest ? ' Pan. 49, 4.  ' Primum est autem suo  esse contentimi , deinde quos praecipue scias indigere  sustentantem fouentemque orbe quodam socialitatis  ambire. ' Epist. IX 30, 3. È nondimeno da notarsi che  nelP ed. a leggesi ' societatis ' invece di ' socialitatis \   6) Plinio, memore forse d'un ben noto precetto oraziano sulla ' callida iunctura ' di parole note, 1 formò  per il primo , a quanto pare , mediante composizione,  quattro nuovi sostantivi : ' cauaedium, sesquihora, duumuiratus, laudiceni. Cauaedium ' risulta dalla fusione intimadelle due  voci cauum aedium ' , che> troviamo appunto usate in  stretta dipendenza tra loro, ma separate (cioè: ' cauum  aedium ' ), da Varrone, 2 Vitruvio 3 e Plinio il vecchio 4 ;  e vale « cortile, corte » , quello spazio nel mezzo delle  case romane, dove cadeva la. pioggia dal tettò. Si può.  assomigliare il ' cauaedium ' all' ' inpluuium ' , voce usata da Cicerone e. da Livio 5 ; ma se ne differenzia in     i Horat. Epist II 3, 47-48. Cfr. Cic. De oraL III 38, 154.    Varr. De Un. Lat V 33, 161 e 162 (Spengel).   3 Vitrvv. De arch. VI 3, 1.   4 Plin. sen. Nat hist XIX 1 (6), 24; XVII 21 (35), 166.   5 Cic. In Verr. act see. I 23, 61; 56, 147. Liv. XLIII 13, 6.  ciò che T i inpluuium ' solevasi costruire nelle case piccole, mentre il ' cauaedium ' era di maggiori dimensioni,  adatto alle case più grandi. 1 Plinio il giovane scrisse :   Est contra medias (se. porticus) cauaedi u m hilare '.  Epist II 17, 5. E nello stesso passo si ripete la voce  ' cauaedium ' : ' A tergo cauaedium'.   2.° La voce i sesqui ', irrigidita, servi , prima ancora  dell' età augustea, a foggiare alcune voci composte. 2 Anche gli scrittori del primo secolo dell'impero usarono  nuove voci composte col numerale ' sesqui \ 3 Dovette,  per ciò, Plinio il giovane sentirsi quasi abilitato dai numerosi esempi, accolti nelP uso comune, a formare la  voce ' sesquihora', che vale «un' ora e mezzo »: ' Egeram horis tribus et dimidia, supererat sesquihora'.  Epist IV 9,9.   3.° Dal numero delle persone elette a cooperare per  uno stesso ufficio, ne venne la denominazione di alcune  magistrature romane, come p. es. ' triumuiratus, quin    Vedi E. Guhl und W. Koner, Dos Leben der Grieehen und  Rómer nach antiken Bildwerken dargestellt, 419. J. Overbeck,  Pompe ji in seinen Gebàuden, Alterthùm. und Kunstwerken,  I, 241.   2 Ne «iano d’esempio le seguenti : ' sesquialter, sesquilibra,  sesquimensis, sesquimodius, sesquioctauus, sesquiopus, sesquipedalis, sesqui pes, sesqui plex (sescuplex), sesquitertius ', etc. :  per le quali voci vedasi il Georges, Ausfuhrliehes lateinischdeuisches Handwòrterbuth, 7 a ediz., Leipzig, 1880, 2° voi., coli.  2363-2364. Per le seguenti voci composte con * sesqui ' si hanno soltanto esempi negli scritti del primo secolo dell'impero : 'sescuncia,  sescuplus, sesquicullearis, sesquicyathus, sesquidigitalis, sesquidigitus, 8esquiiugerum, sesquiobolus, sesquiopera, sesquipedaneus, sesquiplaga ', etc. queuiratus ', etc. 1 Dello stesso modo troviamo in Plinio  per la prima volta la voce ' duumuiratus ' :' ' Hunc Trebonius Ruflnus... in duumuiratu tollendum abolendumque curauit. ' Epist IV 22, 1. Ma certamente il sostantivo ' duumuiratus ' dovette essere accolto prima  nell'uso comune dei contemporanei di Plinio e, fors'anche, nell'uso dell' età anteriore. 2   È noto, in fatti, che Cicerone accenna, in una sua  orazione, all' ufficio dei ' duumuiri perduellionis ', 3 e  Cesare a quello dei ' duumuiri municipiorum \ 4 Livio,  inoltre, in più luoghi fa cenno dei ' duumuiri ', distinguendoli in a) ' duumuiri nauales o ' duumuiri  nauales classis ornandae reflciendaeque causa ' (IX 30,  4; cfr. XL 18, 7 e 8); b) ' duumuiri sacrorum ' (III 10,  7) ovvero ' duumuiri sacris faciundis ' (V 13, 6; VI 37,  12) o ' sacris faciendis' (VI 5, 8); e) 'duumuiri ad aedem faciendam ' (VII 28, 5 ; cfr. XXII 33, 8) o  i La voce ' seruatio * riappare, più tardi, nella Vulgata,  E8dr. IV 8, 21-22; e in Cael. Avrbl. Celer. uel acut pass. Ili  4,45.   « Cic. In Pis. 34, 84.  Vare. Rer. rust II 1, 16.  Cfr. Vlpian.  in Big. XLVII 14, 1, §§ 2 e 4. Calustrat. in Big. Non teniamo conto della congettura del Gièrig che  legge : ' abacta hospitum iumenta cerneres ', così lon-*  tana dal testo quale è stato conservato dai codici, tranne il e, e dalle più antiche edizioni del Paneg. E, dall'ai-?  tro canto, la congettura dell' Ernesti : ' abactus hospitum  exercèretur ' o ' exercerentur ', attenendosi all'uso passivo del verbo i exercere ', lascia intatto il neologismo  1 abactus ', a cui si riferisce la nostra osservazione.   3.° Il nome ' praelusio ' si nota nel seguente passo  di Plinio: 'Tu tamen aestima, quantum nos in ipsa pugna certaminis maneat, cuius quasi praelusio atque  praecursio has contentiones excitauit '. Epist. VI 13, 6.  Perciò * praelusio ' si equipara alla voce ' prolusio ', l  che significa « preludio, prolusione, saggio ». 2   Alcuni vorrebbero sostituire nel passo citato dell'epistola pliniana a ' praelusio ' la voce i prolusio ', prima usata  da Cicerone, per evitare, forse, d'attribuirsi a Plinio la  novità del vocabolo ; ma si farebbe cosa inesatta, perchè alla sostituzione osta V unanime conferma della  voce ' praelusio ', che vien data dai codici più autorevoli dell' epistolario di Plinio. 8     i Cic. De orai. II 80, 325; Diuinat in Caec. 14, 47. .   2 Nella tarda latinilà riappare la voce l praelusio ' : per es.:  Evmen. Pro restaurandis scholis (Augustoduni) oratio, 2 : * Ibi  armantur ingenia, hic proeliantur ; ibi p r a e 1 u s i o, hic pugna  committitur ' (edit De la Baune, il quale nella nota a pag. 142,  col. 2 a , sospetta: * praelusio forte prolusio').  Ambros. De  exeidio urbis Hierosolymitanae III 8: 'Praelusio quaedam  belli * ( Migne, Patrolog. curs., ser. I, toni. 15 , col. 2077 ) ; etc.  Per altri esempi vedii lessici Forcellini - De Vit (tom. 4° [1868], col. 2 a ), e Georges (voi. 2° [J880J, col. 1658). >   3 Non è, forse, infondata la congettura che presume sostituire ' praeludit ' a * proludit ' nel passo vergiliano : ' Arbori^  Più per un ricordo omerico che per la simmetria  della frase, pare che Plinio siasi indotto a formare, in  antitesi a ' nutus ', il nome composto ' renutus ': ' Vide  in quo me fastigio collocaris, cum mihi idem potestatis  idemque regni dederis, quod Homerus Ioui optimo maxi mo nam ego quoque simili nutu ac renutu re spondere uoto tuo possum \ Epist I 7, 1-2. Talché ' renutus ', in opposizione a ' nutus ', vale lo stesso che  ' recusatio ', cioè « far cenno di no, accennare di no ,  rifiutare ». l   e) Plinio si avvalse anche di temi verbali per formare i due nuovi sostantivi : i unctorium ' e ' auocamentum '. *   1.° Nei bagni degli antichi Romani e' era , di solito ,  un luogo apposito dove i bagnanti si ungevano il corpo,  dopo essersi lavati nelle vasche de' bagni. In tutte le  opere degli scrittori latini , anteriori a Plinio, che sono  giunte integre o a frammenti sino a noi, non c'è parola  che serva ad indicare tale luogo di unzione. Primo ad  indicarlo, valendosi della voce ' unctorium ', apparisce  Plinio (Épist II 17, 11 ): e tuttavia pertanto tempo prima di lui si era fatto uso del luogo di unzione, sì necessario a complemento del bagno. Non sarebbe quindi  improbabile che il nome ' unctorium ' fosse stato accolto  nelP uso letterario in tempi anteriori a quelli di Plinio;  tanto più che e Plauto e Cicerone avevano usato le voci     obnixus trunco, uèntosque tacessi t | Ictibus, et sparsa ad pugnato i) r o 1 u d i t* barena ' (Ribbeck); il quale passo si nota  identico in Georg. Ili 233-234 ed Aen.   i Cfr, Hoic IL XVI 250. unctor, unctio, unctura ' l , derivate, come ' unctorium ',  dal tema del verbo ' ungere ' o ' unguere \   2.° Col suffisso -men-to- aggiunto al tema del verbo  composto , 30.  Qvintu,. //mi/, orat VI 3, 61.   Martial.. Epigr. XIV 20 (Schneidewin. 19), 1; XI 58, 9. Cfr.  Vlpian. in Dfg. XXXII 52, § 8 ; etc.  In uo luogo di Varr.  Rer. rust. I 48, 1 leggevasi un tempo la voce * theca' : 'ut  grani t li e e a sit gluma et apex arista ': nella recente edi?. del  Keil (Lips., Teubner, 1889, pag. 59) si legge: 'ut grani apex  sit gluma et arista'. ellenismi, alcuni de' quali sono rappresentati da voci  semplici, altri da voci composte.   a) Alcuni de' grecismi dedotti da voci sempiici furono da Plinio latinizzati nella desinenza; altri conservarono la desinenza greca originaria.   ad) Si presentano con la desinenza latinizzata :   1.° ' Baptisterium ', « bacino per bagnarsi e nuotare,  bagno ». Se ne ha la conferma nei seguenti due luoghi di Plinio : Inde apodyterium balinei laxum et talare excipit cella frigidaria, in qua baptisterium  amplum atque opacum \ Epist V 6 , 25.  ' Inde balinei cella frigidaria spatiosa et effusa, cuius in contrariis parietibus duo baptisteria uelut eiecta sinuantur\ Epist. Nel passo che abbiamo citato per il secondo , la lezione del cod. D i duobus aptisteria ' differisce da quella  comunemente accettata; ma si scorge evidente che l'amanuense fu tratto in errore da ciò che, essendo scritte  neir esemplare tutte di seguito le due voci ' duo baptisteria ' in modo da formare ' duobaptisteria ', egli credette dividere il nesso in ' duob. aptisteria ', ritenendo  la prima parte un' abbreviazione di * duobus \ Quanto  al passo citato sopra per il primoj se si accoglie la lezione ' sphaeristerium ', che presentano lo stesso cod. D i Per gli scrittori ecclesiastici la voce ' baptisterium ' passò  a significare il luogo in cui si amministra il sacramento del  battesimo; ma in un luogo dell'epistola 2* del Iib. ir Apollinare Sidonio continuò a conservarne il significato pliniano: 4 Huic  basiiicae appendix piscina forinsecus seu, si graecari mauis,  baptisterium ab oriente connectitur ' (Migne , Pairolog.  tur*., ser. I, tona. 58, col. 475). è l'ed. p, non resta menomata per nulla la nostra osservazione sulP ellenismo ' baptisterium ', che è conferà  mato per neologismo pliniano dal luogo della Epist.  II 17, 11.   2;° Nei seguenti passi del libro delle epistole di Plinio all'imperatore Traiano si legge per la prima volta il  grecismo i buleuta % avente il significato di « senatore   greco, consigliere »: ' Claudiopolitani ingens balineum   defodiunt magis quam aediflcant, et quidem ex ea pecunia quam b u 1 e u t a e additi beneficio tuo aut iam  obtuleruntob introitimi autnobis exigentibus conferunt\  Epist X 39 (48), 5.  ' Superest ergo ut ipse dispicias,  an in omnibus ciuitatibus certum aliquid omnes qui  deinde b u 1 e u t a e legentur debeant prò introitu dare '. Epist. Adfirmabatur mihi in  omni ciuitate plurimos .esse buleutas ex aliis ciuitatibus '. Epist X 114 (115), 3. 1   3.° ' Eranus ' significò propriamente « gradevole compagnia »; poi si disse ' eranus ' un' associazione privata in Grecia, avente lo scopo di assicurare ai suoi membri un appoggio nel caso che cadessero nella indigenza, ma a patto che il beneficato dovesse restituire  all' associazione il soccorso in danaro ricevuto, ove la  sua condizione economica si fosse migliorata. In conseguenza, valse poi a significare anche qualunque tassa o contribuzione o colletta imposta per venire in soccorso ai bisognosi. L'uso della voce buleuta si trova ripetuto presso Ael.  Spartian. Seuer. 17, 2: * Alexandriuis ius buleutarum dedit * (Peter). Vedi i lessici Freund-Theil (tom. I [1855], pagina 368;. e Georges (voi. l.° [1879], col. 819).   * Dell' ' eranus ' de' Cristiani trattò Flor. Tbrtvll. Apologet. Cicerone fa uso del vocabolo in esame, ma conservandolo tale e quale, con le stesse lettere greche * . Plinio lo latinizzò : ' Datum mihi libellum ad eranos  pertinentem his litteris subieci'. Epist X 92 (93). Il  vocabolo si trova anche latinizzato nella lettera di risposta dell'imperatore Traiano a Plinio, Epist. X 93 (94).   Il Beroaldus fece bene a restituire nel passo di Plinio, sopra citato, la grafia legittima ' eranos ', invece  della grafia ' heranos ' portata dall' ed. A.   4.° i Idyllium ' indica un genere ben noto di poesia  pastorale: * Siue epigrammata siue i d y 1 1 i a siue eglogas siue , ut multi , poematia seu quod aliud uocare  malueris licebit uoces '. Epist IV 14, 9.   È da notarsi che la grafia della voce ' idyllium ' non  è conservata costante nei codici e nelle più antiche edizioni di Plinio. Alla grafia ' idyllia ', che è presentata dai codd. M, V, e accettata dal Beroaldus, si avvicina la grafia ' edyllia ' dell' ed. p; perciocché è ben noto che nelle parole greche latinizzate il dittongo et davanti ad una vocale si rappresentò in latino tanto con  e quanto con i : ma 1' uso prevalente dell' e è più antico, mentre nel primo secolo dell' impero il suono vocalico i rappresentò più spesso il dittongo greco che  stiamo considerando.   Da ' edyllia ' a ' edullia ', grafia accolta dall' ed. a,  il passaggio era facile, stante che il suono vocalico greco o ebbe per primo suo rappresentante in latino Yu:     aduers. gent. prò Christ, cap. 39 (Migne, Patrolog. cura., ser.  I, tom. 1°, col. 468 e col. 470).  i Cic. Epiai, ad Att. XII 5, 1.  Cpiwqli  II Neologismo puntano, cfr. ' cumba * e c cymba \ Solo per disaccortezza del  copista si trova scritta nel cod. F la forma ' dullia '  invece di ' edullia ' : non vi si vorrà certo scorgere lina poco spiegabile aferesi.   La grafia ' hedylia ' del cod. si deve attribuire all' uso inesatto del segno dell' aspirazione h ed alla riduzione abusiva del doppio suono liquido l, per la considerazione, forse, che in alcune parole era rimasta  oscillante la scrittura latina tra F uso d' una sola o di  due l, l   Non si scorge chiaro per quale via siasi pervenuto  a rappresentare ' idyllia ' con ' dugtia ' nel cod. /?.   5.° ' Poematium ' vale « breve componimento poetico,  poemetto ». Veramente noi e' immaginiamo la forma  del singolare ' poematium ', ma la parola ci viene presentata nella forma del plurale ' poematia ' tanto nel  passo precedentemente citato della Epist IV 14, 9, in  proposito del grecismo ' idyllium ', quanto nel passo  seguente : ' Audiui recitantem Sentium Augurinum cum  summa mea uoluptate, immo etiam admiratione. poematia appellai'. Epist IV 27, 1. 2     i Vedi la nostra Fonologia latina^ ediz. cit., n. 27, pp. 31-32.   2 La voce ' poematium ' si osserva, sempre nelle forme del  plurale, in due luoghi degli Opuseula di Deg. Magn. Avson. :  XVII, Cento nuptialis (verso la fine) : * Probissimo uiro Plinio  in poematiis lasciuiam, in moribus constitisse censuram '  (Peiper); IX, De bissula: 'Poematia, quae in nlumnam moara luseram rudia et incohata ad do mestica e soiacium cantilenae ' (Peiper, pag. 114). Ma si deve avvertine che  nel luogo citato per il primo, il cod. Laurent. 51 , 13 presenta la forma € poematis '; e in quello citato il secondo, nel  cod. Tilianus o Leidensis Voss. lat. Q. 107 (prima Voss. lat 191)  si preferisce la forma ' poema.ta \ Cosicché, ove si accolgano      35    Neil' ammettere ohe Plinio abbia introdotto il grecismo ' poematium ', ci siamo attenuti, tanto per il primo passo citato dell' Epist IV 14, 9 quanto per il secondo passo, ai codd. M, V. Ma la lezione ' poemata ' è  ammessa , per tutti e due i passi pliniani sopra citati,  dal cod. F e dall' ed, a. Anche la ed. p presenta per  il passo dell' Epist IV 14, 9 la lezione ' poemata ' ; e  dello stesso modo il cod. R presenta ' poemata ' per il  passo cit. dell' Epist IV 27, 1. '   La lezione ' poematica ', presentata con notevole persistenza, in tutti e due i passi che abbiamo riportati  sopra, dal cod, />, verrebbe a dare forma adiettiva al  sostantivo 'poematia': e ci sarebbe sempre un neologismo di fonte greca, non usato da alcuno scrittore latino i cui scritti ci siano rimasti. Ma il lessico la ripudia, tuttoché la lezione ' poematica ' sia ammessa anche dalla ed. p nel passo dell' Epist. IV 27, 1.   Avvertenza.  Del diminutivo di fonte greca ' sipunculus ' ci siamo occupati sopra, a pag. 27.   * Vb) Plinio conservò la desinenza greca nei seguenti  tre grecismi, che egli per il primo introdusse nelP uso  letterario latino :   Buie SIGNIFICA consiglio, senato o collegio  dei decurioni nelle città elleniche e in quelle città che     le varianti presentate dai detti codici, non si può ammettere  con oerte2za che Ausonio abbia continuato Fuso della voce  » poematium \   1 II Vallauri , che registra nel suo Lex. Latini Italique  sermoni* tutti i neologismi pliniani, ommeite soltanto ' poematium \      36    erano rette secondo le norme amministrative greche.  Ne troviamo esempi nel libro delle epistole di Plinio  a Traiano, nelle forme dell'accusativo e dell'ablativo  del singolare: ' Qui uirilem togam sumunt uel nuptias  faciunt uel ineunt magistratum uel opus publicum dedicane solent totam b u 1 e n atque etiam e plebe non  exiguum numerum uocare '. Epist X 116 (117), 1. Vedi per altri esempi Epist. X 81 (85), 1; 110 (111), 1;  112 (113), 1.   2.° ' Lyristes ' significa « sonatore di lira », e osservasi per la prima volta nei segg. luoghi pliniani: Epist  I 15, 2; IX 17, 3; 36, 4; 40, 2. l  Quanto alla grafia sono concordi i codd., l'ed. p e le più antiche edizioni dell' epistolario pliniano : si eccettui il cod. M che,  nel passo citato dell' Epist. IX 17, 3 presenta al nominativo ' lyristis ', come se ai tempi di Plinio il suono  vocalico greco -q avesse avuto il valore dell' i. *   3.° i Phantasma ' significa « fantasma , spettro , visione , larva » : i Igitur perquam uelim scire , esse  phantasmata et habere propriam figuram numenque aliquod putes, an inania et ùana ex metu nostro  imaginem accipere '. Epist VII 27 , 1. Il Casaubonus  credette sostituire a ' phantasmata ' la voce ' phasmata ', per evitare, forse, che si attribuisse a Plinio Pin   ì Della voce ' lyristes ' si valse, di poi, Apollin. Sidon. Epist.  Vili 11 (Migne, Patrolog. curs., ser. I, tona. 58, col. 605).   2 In proposito della pronunzia dell' ij, che Y Inama osserva  essere stata oscillante fin dai tempi di Platone, leggasi la memoria d9l D* Ovidio, ' Di un luogo di Plato*  ne addotto a prova dell' antichità dell' itacismo ', pubblicata  negli « Atti della R. Accademia di scienze morali e politiche  di Napoli o, voi. 24°, a. 1891, pagg. 217-237.      37    troduzione del neologismo ' phantasma ' nell'idioma latino, poiché la voce greca ' phasma ' era già nota come  titolo di una commedia di Menandro, * e per F indicazione di un mimo. 2 Ma contro la sostituzione proposta dal Casaubonus sta F affermazione concorde dei codici e delle più antiche edizioni delle epistole di Plinio.  E da notarsi che Plinio, benché avesse introdotto Fuso  della voce ' phantasma ', pure nella stessa epist. 27 ,  lib. VII, invece di ripetere il nuovo grecismo , si avvalse delle voci latine rispondenti a * phantasma ' : ' efflgies ' {Epist VII 27, 8 ; III 5, 4) ,  che nella forma mediale ha il significato di «e distribuire ». Si oppone nondimeno al legame di discendenza tra il cit  verbo greco e la voqe ' diamoerie ' il tramite attico e  quello della koiné, per cui le voci elleniche si trasfusero nella lingua latina negli ultimi tempi della repubblica romana e nei primi secoli dell'impero; poiché si  sarebbe dovuto ottenere nella trascrizione latina della  voce greca, al caso genitivo del singolare, la forma  * diamoerias o * diamoeras e non ' diamoeries ' o , secondo la ed. A, ' diamories \   La grafia ' diamones ', data dall' ed. a , non si saprebbe a quale voce greca riferirla; e perciò la si deve  credere il risultamento di un' inavvertita spostatura di  lettere della voce ' dianomes Cosi T interpreta il Lagergren Vedi il lessico Porcellini - De Vit, tom. 2, pag. 696, col. l.«  L' osservazione fu accolta dal Vallauri a pag. 207, col. 1.% del  Lexicon Latini Iialique ter/noni*.   s II Dizionario Georges-Calonghi, che registra tutti gli ellenismi introdotti da Plinio, non nota ' dianome ' nò ' diamone '  mentre nelT Ausfuhrl. Handioòrterb. del Georges ò registrata  la voce 'dianome', coL Procoeton VALE anticamera. Deinde uel  cubiculum grande uel modica cenatio, quae plurimo sole,  plurimo mari lucet ; post hanc cubiculum cum proc o e t o n e , altitudine aestiuum, munimentis hibernum \  Epist. II 17, 10.  Per altri esempi vedi Epist. II 17,  10 e 23.   Se è vero che Terenzio Varrone nel proemio del libro  secondo Rerum t+usticarum usò la voce  ^ i     1 Ma in non poche edizioni dei tre libri Rerum rustìcaram  di Varrone la voce ' procoetona ' del proemio del libro 2 3 resta  conservata con le lettere greche , come per es. nelt* edizione  * cum notife Iosephi Scaligeri, Adriani Turnebr, Petri Vicfcorii et  Antonii Augustinl ; Amstelodami, 1623', pag. 56; nell'adizione  ohe sotto la denominazione Les agronome» latin» è compresa  nella Collection Nisard, pag» 100, col. l a ; nell'edizione di ' Ioannes Gymnicus, Coloniae, 1536 \ pag. 96 ; eto.  NelF edizione  del Keil (Lipsia, Teubnér, 1889, pag. 70) si trova accolta la  forma in lettere latine ' procoetona \ ma in nota si avverte che  nei codici consultali dall' editore si legge invece ' procoeoona considerando in primo luogo gli aggettivi di fonte nominale, poi quelli di fonte verbale , indi gli aggettivi  composti, e, in fine, gli aggettivi dedotti dal greco.   A.  Riconosciamo come d' immediata derivazione  da nomi sostanti vi i seguenti cinque aggettivi: * orarius,  bellatorius, castigatorius, praecursorius , sacerdotali^ ',  quantunque, eccetto il primo, gli altri quattro si riferiscano a sostantivi aventi il loro fondamento in temi   verbali.   1.° ' Orarius * deriva da ' ora *, « costa, spiaggia del  mare », e perciò vale ad indicare la qualità di cosa  appartenente alla costa, avente, per così dire, relazione  con la spiaggia o lido; quindi ' oraria nauis ' o ' oraria  nauicula ' significa « piccolo naviglio da costeggiare ».  Plinio si valse dell'aggettivo ' orarius * nei seguenti due  luoghi: l Nunc destino partim o r a r i i s nauibus partim  uehiculis prouinciam petere \ Epist X 15 (26).  * Rur sus, cum transissem in orarias nauiculas, Bithy niam intraui '. Epist. X 17A (28), 2.   Il Keil, pur conservando nel testo pliniano la lezione  comune ' orariis nauibus ' e ' orarias nauiculas * , avverte in nota , rispettivamente , ' fortasse onerariis '  e ' fortasse onerarias ' ; ma la congettura di lui non  pare accettabile : nei due luoghi citati il testo pliniano non presenta nei codici variante alcuna. E, del  resto , la sostituzione dell' aggettivo i oneraritts *, se  vale a rimuovere da Plinio la menda d'avere introdotto  un neologismo non necessario, non rende il testo migliore di quel che è in fatto, conservandosi il neologismo ' orarius \   2.° Da ' bellator ', « battagliero, guerriero » , Plinio foggiò P aggettivo i bellatorius \ che applicò in traslato  a ' stilus ' per indicare lo « stile polemico » , proprio  delle dispute; ma, riconoscendo egli stesso l'arditezza  del traslato, lo mitigò con l'aggiunzione della minorante ' quasi ' : ' Scio nunc tibi esse praecipuum studium orandi ; sed non ideo semper pugnacem hunc et  quasi bellatorium stilum suaserim'. Epist. VII 9,  7. Se non che è da avvertire che nel luogo citato il  cod. D e V ed. p presentano la lezione .' quasi bellorum stilum \ l   3.° Plinio dedusse 1' aggettivo * castigatorius ' dal nome i castigator ', per indicare qualità propria di chi  castiga o corregge; e nell'esempio seguente unì appunto la qualità indicata da ' castigatorius ' col nome  ' solacium ', a fin di significare quel conforto con cui  ci si studia di consolare una persona afflitta, trovando  da biasimare il dolore eccessivo che la opprime. Certo è  ardito associare 1' epiteto i castigatorius ' con l' idea di  conforto rappresentata da ' solacium '; e però l'autore,  ad attenuare lo stridente contrasto , premise , come al  solito, la parola ' quasi'. Il passo è il seguente : ' Proinde siquas ad eum de dolore tam iusto litteras mittes ,     i Ambi. Marceli*, usò anche , ma in senso proprio , l' aggettivo ' bellatorius ' : * Ideoque hoc ni mia cauendum , quod militem colsi nominis cum bellatoriis iumentis extinxit '.  (Rer. gest. XXIII 5, 13. Gardthausen). Cfr. XXXI 2, 22. Si deve  riconoscere pure il significato proprio di ( bellatorius ' nel seguente luogo dell'antica traduzione latina di Irbn. Deteet et  euer*. falso cognomin. agnition. seu contro, haereses IV 34, 4:  'la tantum transmutationem fecit, ut gladios et lanceas b ella torias in aratra fabricauerit ipse ' (Migne, Patrolog. curi  ser. Graeca et Orientai., toni. 5, col. 985). memento adhibere solacium, non quasi castigatori u m et nimis forte, sed molle et humanum '. Epist  V 16, 10. «   Notisi che nel luogo cit. il solo cod. M presenta la  voce ' castigatorium ' : V ed. a dà la lez. ' castigatorum ', che si potrebbe intendere nel modo stesso che  si è detto sopra intorno a ' bellorum ' sostituito a  4 bellatorium \ Tuttavia , come bene avverte il Gierig, 2  il genitivo plurale ' castigatorum ' non si adatterebbe  con gli aggettivi che seguono ' forte, molle, humanum \  e nocerebbe all' efficacia della frase.   4.° Un altro aggettivo , formato , come i due precedenti, da temi di ' nomina agentis ', è ' praecursorius ',  da ' praecursor ', e significa « preventivo, che precorre,  che precede » : ma V arditezza dell' immagine è attenuata , come nei due neologismi precedenti , dalla pa^  rola premessa ' quasi ': ' Interim ne quid festinationi  meae pereat, quod sum praesens petiturus hac quasi  praecursoria epistula rogo \ Epist. IV 13, 2. Così  il passo di Plinio si legge nei codd. Jf, V e nelP ed. p.  La lezione ' praeciirsori ' data dal D deve essere considerata come grafìa monca , poiché il dativo singolare  del nome ' praecursor ' non può coordinarsi con le altre parole del testo.     1 Apollinare Sidonio fece uso più acconcio dell'aggettivo  ' castigatorius ', associandolo alia voce 'seueritas': Epist. IV  1 :,' Aetatulam nostrum, mobilem , teneram , crudam , modo  castigatoria seueritate decoqueret , modo mandato*  rum salubritate condirei ' (Migne, Patrolog. curs., ser. I, tom.  58, col. 508).   * Gierig op. cit., tom. 1°, pag. 446, col. 2. a  Consoli  il Neologismi) puntano, 4 Altra volta Plinio, invece di valersi del nuovo aggettivo ' praecursorius \ foggiato per esprimere la precedenza * , usò la voce greca ' pròdromos \ che HA IL VALORE di «" precorrente, che corre innanzi» 8 : v. Epist  IV 9, 23. Nel luogo cit. dell' Epist. IV 13, 2, alla voce  ' praecursoria ' trovasi sostituita ' praeceptoria ' nel  cod. F e nelFed. a. E il Gierig 3 avverte che neicodd.  Vosslail., Oxon., Arhzen. , Hamburg. ( Lindenbrogìana  excerpta) , Bongars. si legge pure * praeceptoria \ Per  ispìegare quest' altro neologismo ( che ' praeceptorius \  supposta l'ammissione di esso in sostituzione di 'praecursorius', sarebbe sempre un aggettivo di formazione  plinlanà , sul tipo dei precedenti aggettivi derivati da  ' nomina agentis * in -tor) si ricorre do alcuni commentatori di Plinio al contenuto dell'epistola di cui  Si tratta ; e poiché vi si parla di ' praeceptores ', se  ne trae la conclusione che i praeceptoria epistula '  dovrebbe avere il significato di epistola concernente  i precettori : interpretazione inesatta, perchè nel passo  cit. della Epist IV 13,2 non si accenna atìcora al  concetto di i praeceptores \ che viene in seguito , do   * V agg. • praecursorius ' fii adoperato nello stesso significato da Amm. Marcell. Rer. gest. XXXI 3, 6; XV 1, £; **»  e da Avrel. Cassiod. In psalt expos, p$a\m. XXXIX 8; Variar.  Ili epist. 51 (Migne, Patrolog. cura., ser. I, tona. 70, col. 290 ; e  totù. 09, col. 606). Vedi A. Corradi , In C. Plin. Caec. Seeundum obÈeruationes ad orationem uerborumque construetìonem  et usimi pertinente*; Bergamo, frat. Cattaneo, 1889; pag. té.  Vedi anche il lessico Forcellini-De Vit, tom. 4 (\%m), pag.78ì,  col. l a e 2*. .   « V. Aeschyl. SepL adii. Thtb. w. 80, 195, SophòA. Antig.  v. 108.   * Gierig op. cit., tom. 1°, pag. 339, col. 1.*      51    pò che se ne rende avvertito il lettore con le parole :  ' prius accipe causas rogandi \ Vi si accenna, invece,  alla fretta dell'autore ed a ciò che l'autore stesso avrebbe chiesto all' amico suo Tacito, se fosse stato in presenza di lui.   Ma se si vuole accettare per genuina la lezione ' praeceptoria \ bisogna darle il valore lessicale di ' praecursoria ', ricorrendo al verbo ' praecipere ' ( donde  ' praeceptor ' e ' praeceptorius '), il quale per Cesare,  Livio, Lucrezio, Virgilio ed altri ebbe pure il significato di « prendere prima, anticipare, prevenire ».'   5.° Dalla voce composta ' sacerdos % il cui secondo  elemento si riattacca al tema del verbo ' dare ', Plinio  dedusse il nuovo aggettivo ' sacerdotalis ', che , in rispondenza alla sua origine, significa « spettante ai sacerdoti, sacerdotale » : * Proximis sacerdotalibus  ludis productis in commissione pantomimis \ EpisL VII  24, 6. E per ' ludi sacerdotales ' si debbono intendere  quelli che davano i sacerdoti al loro entrare in carica. 2   Qui è necessario avvertire che abbiamo conservato  tra i neologismi pliniani la voce ' sacerdotalis ', non  ostante che l'uso di tale aggettivo si sia notato 3 nella  frase di Velleio Patercolo II 124, 4: 'Proxime a nobi   i Caes. De b. e. Ili 31, 2.-Liv. IH 46, 7; XXX 8, 9; XXXVl  19, 9.  Lvcret. De rer. nat VI 803 e 1048.  Vero. Bel. Ili  98.  Val. Flac. Argon. IV 341 (ma neir ed. aldina si legge  4 praeripiunt ').  Stat. Theb. Vili 328; etc.   * Sveton. io Ùiu.AuQUSt. 44 parla di Mudi pontificale*;*.   * la fotti, nel Dizionario Georges-Calonghi, [Torino, 1896],  col. 2396, si trova notato il vocabolo ( sacerdotalis ' con l'autorità di Plinio e di Velleio Patercolo. B lo stesso osservasi nelYAmf&hrL Handtoorterb. del Georges, voi, 2.° [J880], col. 2183.     _ so   lissimis ac sacerd-otalibus uiris desti nari praetoribus contigit ' (Halm) ; perciocché tanto nell'apografo di Bonifacio Amerbach , (il solo che ci resti della  storia romana di Velleio ; che, cohie è noto , il codice  Murbacensis , scoperto da Beato Renano verso il 1515,  si è perduto) , quanto nella ' editto princeps ' di Basilea, 1520, la lezione accertata, è ' sacerdoti bus uiris ' :  poi, per una congettura dello Scheffer si sostituì a ' sacerdotibus' Y aggettivo ' sacerdotatibus \   Dopo Plinio, si dilagò l'uso della voce ' sacerdotalis*,  massimamente negli scritti ecclesiastici : ne abbiamo  eziandio una conferma in diverse iscrizioni, in luoghi  di Ammiano Marcellino e di Macrobio, ! in alcune costituzioni imperiali raccolte nel Codice Teodosiano, 2 etc.   B.  Plinio ricorse ai temi dèi verbi ' haesito ' e  ' monstro ' per formare i due nuovi aggettivi i haesitabundus ' e ' monstrabilis '.   l.° ' Haesitabundus ' ha il significato del participio  presente ' haesitans ', che vale « esitante, dubbioso, confuso » : ' Expalluit notabiliter, quamuis palleat semper,  et haesitabundus « interrogai^, non ut tibi nocerem, sed ut Modesto » '. EpisL I 5, 13.   2.° L'altro aggettivo verbale fc iiionstrabilis' è sinonimo di ' insignis, illustris % e significa « notevole, cospicuo, illustre, insigne, chiaro » : 'Est enim probitate     i Amm. Marcell. Rer. gest. XXVlII 6, 10. Màcrob. Saturn.  Ili 5,6. Vedi inoltre i lessici Forcellitii-De Vit (toni. 5 [1871],  pag. 288, col. 2 a ), Freund-Theil (toro. 3 [ 1865 ], pp. 143-144),  Georges (voi. 2° [1880], col. 2183).   * Cod. Tkeodos. XII 1, 145; XII 5, 2; XVI 10, 20 (Haenei).  morum, ingenii elegantia, operum uarietate monstrabilis'. Epist. VI 21, 3. '   C.  I nuovi aggettivi composti, che appariscono per  la prima volta negli scritti di Plinio, hanno la maggior parte per primo elemento componente la particella negativa ' in- : due soli sono formati con la particella 4 per- premessa, ed uno con la particella ' prò- \   a) È stato giustamente osservato che nella latinità  argentea, per amor di vivezza nei contrasti, si preferiva formare l'antitesi di un aggettivo col premettere  allo stesso la particella negativa 'in-', invece di accompagnare all' aggettivo V avverbio ' non ' o di ricorrere a eleganti circorìlocuzioni, come l'uso prescriveva  neir età aurea della prosa latina. Plinio non si allontanò dal gusto prevalente ai tempi suoi, e, oltre all'accettare P uso di aggettivi in tal modo formati da scrittori suoi contemporanei, egli stesso ne formò altri sette, premettendo la particella negativa, 'in-' a due aggettivi semplici ed a cinque aggettivi composti.   aa) 1.° L'aggetti vq  ,299), * ob die  sogenannten senteutiae Varronis Varronisches enthalten ist  ganz unsìcher*.   * Cic. Tusc. diap. Ili 34, 81 ; De legib.h 11, 32. Vero. Georg.  IV 94; Aen. IX 548.- Stat. Theb. IX, 109.-Tac. Agr.9; Ann.  XII 14; Hiat. 1.» ' Incongruens ' significa « inconseguente, incongruente, disconvenevole *. Plinio se ne valse nel seg. passo: ' Quibus sententi^ Caepionis placuit, sententiam  Macri ut rigidam durjimque reprehendunt: quibus Macri, illam alterarli dis^olutam atque etiam in congruente ni uocant \ Epkt. IV 9, 19. l   2.° D3II0 stesso modo, per indicare ' qui non reueretur \ « chi ha poca stima, i' irriverente » , il nostro  autore premise la par(,ic3lla negativa ' in- ' al partieir  pio presente del verho ' re-uereor ', e die origine al  neologismo * inreuerens', che si legge nel luogo se^  guente: ' Sum enim deprecatus ne quis ut inreue^  r e n t e m operis arguepet, quod recitaturus \ Epist. VIH  21, 3. 2   Non nuoce alla nostra osservazione sul neologismo  pliniano ' inreuerens ' il considerare che nel cod, M si  trova la lezione ' ut inreuerenti ', perchè la differenza  del caso, importante senza dubbio per V ordine sintattico della frase, non contrasta al valore lessicale della  parola.     1 A. Gell. Noci. AH. XII 5, 5 continuò V uso dell' aggettivo  * iucou^ruens ' ; e Avhkl. Avgvst. De don, perseu. 22, 01 (M-~  gne, Patrolog. eurs., §gr, }, tom. 45, col. 1030; 1' accolse n$Ua  forma del grado superlativo. Vedi per altri esempi presentati  da Lattanzio il Georges, Ausfùhrl. Handwòrterb., voi. 2° (1880)  coi. 133.   * Aleute tracce della continuazione dell* uso dell'agg. ' tnre-*  uerens ' troviamo in Ael. Spartian. Carae. 2, 5 (secondo il Peter);  e particolarmente in Flou. Tertvll. De orai. 16; Ad nat. I 10;  Aduers. Mare. II 14 (Migqe, Patrolog. cura., ser. I, tom. 1 , col.  1173,575; tom. 2, col. 302). Vedi altri esempi nei lassici ForcelUni-Da Vit (tom. 3 [1865], pag. 623, col. 2 J ), e George* (voi. 2'  [1880], col. 381).  Dàlia forma participiale ' ascensus \ premessa la  particella negativa ' in- ', si è formato ' inascensus ',  che vale « non prima salito, dove nessuno è salito »,  e perciò « inaccessibile ». Plinio se ne servì per il primo nel Pan. 65, 3: 'Inascensum illum superbiae  principum locum terere\ Nel riferire il passo di Plinio  abbiamo seguito la lezione presentata dai codd. d, e; poiché la lezione ' inaccensum ' del cod. d non pare che possa adattarsi, per contrasto di significato, alle seguenti.  parole della frase citata : ' illum superbiae principum locum \ Non contrasterebbe al concetto di tutta la frase la  congettura del Lipsius, per la quale si viene a sostituire al neologismo ' inascensum ' la voce ' inaccessum ',  usata da Virgilio e da altri x ; ma sarebbe grave errore posporre la lezione genuina data da codici autorevoli, la quale non contrasta col senso dell' intera frase,  ad una congettura, per quanto questa possa apparire  più gradita all' interprete e sia proposta da un filologo  insigne.   4.° Nel seguente periodo del Pan. 4,7:' Iam firmitas, iam proceritas corporis , iam honor capitis et dignitas oris, ad hoc aetatis i n d e f 1 e x a matur itas nec  sine quodam munere dèum festinatis senectutis insignibus ad augendam maiestatem ornata caesaries, nonne  longe lateque principem ostentant ? '  presentasi l'aggettivo nuovo ' indeflexus ', che risulta dall'unione della  particella negativa ' in- ' con una forma participiale del     1 Vero. Aen. VII 11 : Vili 195. Senec. Herc. '[furens] 606.Sil. Ital. Pun. Ili 516. -Plin. sen. Nat. hist VI 28 (32), 144;  XII 14(30), 52. Tac. Hist IV 50; e altrove.  Poi Macrob.  Saturn. V 17, 7 ; etc.          verbo ' de-flecto \ E però ' indeflexus ' significa « non  piegato » ; e, riferendosi ad ' aetatis maturi tas ', assume il significato di « non indebolito » , non mai di  « invariabile », come inesattamente qualcuno interpreta.?   Il Beroaldus, forse per evitare il neologismo, ha sostituito nel testo di Plinio a ' indeflexa '. la voce ' inflexa ', senza avvertire che V uso ha determinato un valore non negativo alla particella ' in- '• preposta al verbo  ' flectere '. E, di fatto ,  Ivvbkal. Sii i 1, &   t Vlfiak in Din XXkVll 11, 4 Cfr. Porphyr. Hor.epist  1 20, IO, citato dui Georges ne\Y Amfùhrl Handworterb., voi. 2°  (18S0), col. 1212.   * Vedi Cic. De orai II 80, 325; Pro Cluent 21, 58; De legibtt* Il 7, 16; Epint ad Ali. IV 16a, 2; XVI 6, 4; etc.  che consideriamo, si spiega con la forma mediale del  verbo greco corrispondente. l   2.° Dal tema della voce ' uber ', passato par il tramite di * ubertas ' o di * ubertus \ * Plinio formò il verbo l ubertare ', avente il significato di « fecondare, fer*  tìlizzare, rendere fecondo o abbondante » : * * Et caelo  quidem ftumquam benigni tas tanta, ut omnes si nini ter-*  ras u b e r t e t foaeatque \ Pan. 32 , 2. Tale è la lezione del cod. A ; ì codd. d, o, d presentano la lezione i uberet % che sì adatta anche bene al concetto che  Fautore volle esprimere nel luogo citato del Panegi^  fico. Ma il verbo * uberare ' non può èssere considerato come un neologismo introdotto da Plinio , poiché Puso del Verbo 'uberar^' è stato accertato in Columella 4 ; ed è noto cbe Columbia fu contemporaneo     1 L* uso del verbo ' prooemiari ' fu accolto poi da Ivl. Victv  Are rhet 15, (nella ed. Orelli delle opere di Cicerone [1833],  voi. 5, parte 1", pag. 244); da Apollin. Sidon. Epìst. ad Ma*  meri Claudian. (Migne, Patrolog. curs. t aer. I, tom. 53, còl 781).  Vedi A. Corradi op. cit., pag. 35, nota.   « L'aggettilo 'ubertus' ha per sé l'autorità di &.Oell. Noci.  Att VI (VII) 14, 7. Non teniamo contò d*un passò di Solfilo fcl,  & ' solo pla&ò u b e r t o q u e ', presentato dal òod* Aogetomom  I, 4, 15, e dal feod. Sangallòns. 187, ma rifiutato dal Motnttisert  òhe sì avvale deli* autorità di altri codici : il óod. Parisin» 68 te  presenta invece : ' Pannonia solo planò uberiqufe '.   • Riappare molto tardi il verbo * ubertare ' in Evmén. Ornilo*.  aetio Cbnstànlino Aug. Mauienèium nomine, 9: ' Agros diuturno  ardore sitiòntes expetitus uotis imber u b e r t a t ' • ( Mìgae» Pdtrótog. extra. , sar. I, toni. 8, col. 649).   * Colvm. De re rtist. V 9, 11. Vedi atìcbe Pallad. De re  rud. X! fòatòber) 8, 3.      64 -~   di Seneca il filosofo, è scrisse i suoi libri prima di Plinio il vecchio. *   B.  Di verbi nuovi, composti con preposizioni, Plinio ne presenta soltanto quattro : ' indecere, defreraere,  interscribere, pertribuere '. Li considereremo successivamente come sono stati enunciati, secondo P ordine  della lettera iniziale del verbo semplice. ,   -1.° Il verbo ' indecere _' significa « sconvenire* essere  disdicevole, star male ». Non pare che Plinio sia stato  il primo ad usarlo, tuttoché negli scritti di lui si osservi per la prima volta la forma verbale ' indecent \  In fatti, tanto la forma participiale ' indecens ', adoperata in senso di aggettivo, quanto la forma avverbiale  6 indecenter ' si trovano negli scritti dei contemporanei  di Plinio. - Il passo pliniano che presenta il verbo  ' indecere ' è il seg. ': ' Nam iuuenes confusa adhuc  quaedam et quasi turbata non indecent'. Epist. Ili  1, 2. *   I cQdd. M e V danno nel passo citato la lezione Mndicent', la quale non si adatta al concetto che informa     1 Thuffsl-Schwàbe, G. d. r. L. », a. 293, pag. 713,   • Per la voce ' indecens ' v. Vitrvv. De arch. VII 5; Patron.  Sai. 128, 3; Qvintil.- Imi orai. XI 3, 158; Martial. Epigr. II  11, 4; V 14, 7; XI 61, 13; Svlton. Diu. Claud. 30. Per Taw,  4 Indecenter' v. Qvintil. ìn$L orati 5, 64 ; Martial. Epigr. XII  22, 1 ; etc. ; e per la forma superi. * indecentiesime ': Qvintil.  Imst. orai. Vili 3, 45. Cfr V Antibarb. del Krebs , y. 'indaoere'.   * Osservasi il v rl>^ ' indecere * nel seguente luogo di A, G 4 bll.  Noci. AtL VI (VII) 12, 2. ( Feininisque solis uestem longe late-.  que diffu?am in dece re existimauervint ad ulnas cruraque  aduersus oculos protegenda ' (ed. Hertz: ma sbcondo la ' lectio  Gronouiana ' é da leggerti 4 decorarti * i a vece di ' indec^re ').      65    il periodo, e nemmeno corrisponde al verbo della proposizione seguente ' conueniunt '. È necessità, dunque, accogliere il neologismo ' indecent ' per non cadere in una  dissonanza sintattica e in una stortura del senso del periodo.   2.° Il seguente luogo di Plinio, letto secondo il cod. M:  ' Ego et modestius et constantius arbitratus immanissimum reum non communi temporum inuidia, sed proprio crimine urgere , cum iam satis primus ille impetus defremuisset et languidior in dies ira ad iustitiam redisset, .... mitto ad Anteiam ' etc. Epist IX 13,  4;  ci ha dato argomento di notare tra i neologismi  pliniani il verbo composto ' de-fremere % che vale « cessar di fremere »*. Ma la lezione ' deferuissèt \ presentata dal cod. D e dalle edd. p f a, e P equivalente lezione ' deferbuisset ', data dalle edd. prealdine del Laetus, del Beroaldus e del Catanaeus, non sono da trascurarsi , poiché il verbo ' deferuescere ' ( ' déferuere '),  che significa « cessar di bollire, finir di fermentare »,  e, in senso traslato, « sbollire, quietarsi, calmarsi », si  adatta meglio ad esprimere quello sbollimento d' ira,  quella calma succeduta allo sdegno, che Plinio accenna in modo non dubbio con le frasi : ' primus ille impetus', ' languidior in dies ira', ' ad iustitiam redire', 2     i Ne vediamo continuato l'uso da Apollin. Sidon. Epp.l 5; IV  12; IX 9 (Migne, Patrolog. eurs., ser. I, tom. 58, coli. 455,518,  623 ). V. i lessici Freund-Theil (tom. 1° [1855], pag. 753) e  Georges (voi. 1° [1879J, col 1860).   2 Nel Dizionario Georges-Calonghi non è notato il verbo  20. >•**  Cfr. V 6, 21 e 6, 27.   2.° ' Cohors ', come termine tecnico militare:, valse a  significare la decima parte di una legione , oonteaente  tre ' manipuli ' o sei ' centuriae ' ;, si: ebbe anche il significato di « schiere ausiliarie » : ma in tutti e dite  significati si riferì sempre ai soldati di fanteria- o pe*  doni (' pedites '). Plinio riferì anche ' cohors ' alla cavalleria (' equites '), scrivendo: ' P. Accio Aquila, centurione e o h o r t i s sextae equestris'. Epist. X 106  (107). Ma nell& risposta dell' imperatore TrAittno st? li   l Colvm. De re rust. X 362 ; XI 2, 30.      renio (Epist X 107 (108): ' Libellum P. Aedi Aquilae, centurionis sextae equestris) , la voce ' cohortis ' è evitata ,  come ben si osserva nella ed. A: per una congettura del  Beroaldus si legge la voce ' cohortis ' premessa alle parole ' sextae equestris ' nel testo della cit. epistola di  Traiano.   Donde s' indusse Plinio ad associare il concetto di  ' cohors ' con quello di ' equites ' ? Probabilmente non  dall'essere in quella sesta coorte commisti insieme cavalieri e pedoni , come suppone il Lagergren , riepilogando l'opinione del Forcellini l , (che militarmente ciò  avrebbe prodotto una dannosa confusione), ma dalla necessità di dare un termine adatto ad una parte dell' i equitatus ' , ricorrendo , per somiglianza di ordinamento militare, ai nomi delle divisioni della fanteria.  Cicerone aveva, però, ben chiaramente distinto 1' i equitatus' dalle 'cohortes'. 2   3.° ' Species ' nell' uso della latinità aurea ebbe o il  significato attivo di « vedere, guardare », o quello passivo, di « aspetto, apparenza, figura, imagine ». Plinio  se ne valse per significare « ipotesi, caso particolare »,  facendone un sinonimo di ' casus ' ; e con tale significato, trasmesso per tradizione, la voce ' species ' si conservò nel linguaggio dei giuristi. 3 Nei seguenti passi di  Plinio abbiamo la conferma del nuovo significato del  sostantivo ' species ' : ' Nam haec quoque species in   1 Lagergren, op. cit, pag. 74.  Vedi il lessico ForcelliniDe Vit, tona. 2° (1861), pag. 264, col. l. a  * Cic. Pro M. Marcello 2, 7 ; EpisL ad fam. XV 2, 7.  3 Vlfiàn. in Dig. cidit in cognitionem meam\ Epist. X 56 (64), 4.   ' Mox ipso tractatu, ut fieri solet, diffundente se crimine  plures s p e e i e s inciderunt \ Epist. X 96 (97), 4.   Per quale tramite sia venuta la significazione di ' species ' adottata da Plinio, non può dirsi con certezza.  Tuttavia F essersi indicato da Cicerone e da Varrone 1  con la voce ' species ' anche le « specie di un genere »  ci dà una probabile spiegazione; poiché, essendo le specie come i casi particolari di un genere , si rendeva  non difficile il passaggio dalla significazione di « specie » a quella di « caso ».   4.° La locuzione particolare ' uenia sit dicto *, usata  tra parentesi, la quale corrisponde alF espressione italiana « sia permesso di dire, sia detto con permesso,  mi si permetta di dirlo », è dovuta a Plinio : ' Vsque  adhuc certe neminem ex iis quos eduxeram mecum  (uenia sit dicto) ibi amisi. Epist V 6, 46. Dal  passo citato si presume che Plinio abbia fatto uso  della locuzione * uenia sit dicto ', per allontanare da sé  r ira degli dei, che, secondo la credenza popolare romana, F avrebbe colpito , se egli immodestamente si  fosse vantato. In un altro luogo per esprimere lo stesso concetto, in proposito di una convalescente da grave  malattia, Plinio scrisse la frase ' inpune dixisse liceat'  (Epist Vili 11, 2. 2   B.  I nomi sostantivi di fonte verbale, che si ebbero da Plinio un significato nuovo, sono un ' nomen     i Cic. Top. 7, 30 ; De ìnuent. I 27, 40. Varr. Rer. rust. Ili 3,3.  s Lagergren, op. cit., pag. 75,      78   agenti» ' in rsor e quattro ' nomina actioois' in -Ho o   l.° Il nome ' mensor ', dal verbo i metiri *, si ebbe  da prima da Orazio il significato di « misuratore », in  generale. 1 Poi Ovidio e Columella ne fecero un sinoniBM eli . ' deeempedator \ cioè « misuratore dei eampi,  agrimensore ».* Plinio attribuì alla voce  ', ehe Quintiliano adoperò al singolare* col significato  di « annotazione^ nota » ; 4 ma Plinio, usandolo al plurale, attribuì ai vocabolo il significato di « osservar  ùonì scritte al margine di un libro > : ' Nuno a te Mk  brum urmmn cum adnotatioaibiis tuis expecto.'   ìiptet; VK 30, &   3.° Il sostantivo ' excursio ', considerato come temniiie     1 HoaAT. Carnkn l. 28, %  Cfr Mauxuiì, Epigr. X 17> &   t Ovid. Metam. I 106. Col vm. V l. Cfr. per 'deeempedator*  Cic. Philip. XIII 18,37.   3 V. in proposilo l'osservazione del Gbsner, cit, da A. Corradi, pagi 3&   * Qvintil. Imi. orai X 7, 31.     tecnico Al cose militari, valse ad indicare, fla dall' età  aure^ cjell'idiopia Latino, la sortita da una città ( f eruptio ') *, la scorreria (• discursio milHaris ') 2 e la soarawucci$ (' prima incursio militaris 'X 3 Plinio per il pripjo attribuì al vocabolo il significato di qualsivoglia  4 qp#r$a, gita, scappata in paese »: ' An, ut solebas, Uttaglione rei farai liaris otoeundaei crebris excursiouibus  a^acaris ? \ Epist. I 3, 2. Del resto , noa è estraneo fi  tale accezione della voce ' excprsio ' V uso cjke in pi»  Jpogttf Plinio stessa fece del verbo * excurrere \ dwde  * excur^Q. \ per indicare de' viaggi intrapresi : ' Gnpa  juiblicufp opus m,ea pecunia inchoaturus in Tuseos  e,]fcuciirrUsera.' Epist III 4,2.  'Destino eròe»,  si tamen offlcii ratio permiserit, excurrere isto \  ffeist. JII 6, 6.  ' Nunc uideor commodissime . po&K» in  rem praesentem excurrere.' Epist X 8 (24), 3* 4   4.° Nel periodo della latinità aurea il nome ' ppaeeeptip ' significò « precetto , insegnamento * , e aocihe  « preconcetto, pregiudizio ». 5 Plinio attribuì a ' praeceptio ' il significato di « prelevamento o prelevazione » di  parte di un'eredità prima degli altri coeredi: 'Saturninas autem, qui nos reltquit taeredes, quadrantem rei  publicae nostrae, deinde prò quadrante praeceptionem quadringentorum milium dedit'. Epist V 7,1.     t Cabsl P* k a II 30, 1.   « Cic. De prou. cons. 2,4; Pro * Deiói 8, 2& Liv. XXX VII  143.   3 Usl XXX 8, 4 ; 1 1, a XXX VII 18, 4.   4 II, giureconsulto Scovala conservò il significato pliniano di  'e;xpursp/ u^Dig. XXXIII 1, L3, in fine.   5 Cip. Pari orai. Con ciò Plinio si attenne più da vicino alla fonte della  parola, che è il verbo ' praecipere '=« prendere innanzi, prendere prima »; talché, invece di dare un significato nuovo al nome ' praeceptio ', restituì allo stesso  il valore lessicale originario che, a poco a poco, si era  modificato nell'uso: tanto più che Plinio stesso usò il  verbo ' praecipere ' nel significato di « ottenere prima,  percepire innanzi , prelevare da un' eredità » , come  osservasi in Epist, V 7, 1 ; X 75 (79), 2.   Nella lingua dei giureconsulti romani la parola in  esame conservò sempre il significato anzidetto; e. si  diede appunto la qualità indicata dall' aggettivo ' praecipuus' a quella parte di eredità, prelevata, che non  entrava nella divisione dell' asse ereditario; 1 mentre  * praecipuum ' sostantivato aveva avuto presso Cicerone  il significato di « preminenza, eccellenza, vantaggio ».*   5.° ' Praesumptio ' non fu voce accolta nella latinità  aurea. 3 Plinio l' usò nel senso di « godimento prema   1 Vlpian.ìii Dig. XXXIII 4,2. Papinian. in Dig. XL 5,23, § 2;  XXXI 75 e 76. Cfr. Apollin. Sidon. Epist. VI 12 (Migne, Patrolog. cur8. % ser. I, tona. 58, col. 560-561). Del resto, tale uso può  considerarsi come una conseguenza del significato attribuito  fin dai tempi antichi all' espressione ' pars praecipua ' o ' res  praecipua'. Vedi Plavt. Rudens 188-189; Terent. Adelph. 258.   * Cic. De finibus II 33, 110: 'Homini.... praecipui a natura nihil datum e3se diceraus ? '   8 Leggevasi in un luogo di Cicerone, De diuinat. II 53, 108 :  'Praesumptio tamen.... non dabitur*. Ma in realtà i codd.   Leidens. Voss. 84, Leidens. Voss. 86, Leidens. Heins. 118, Vin 189  dobon. 2Qjr danno concordemente ' praesensio ', invece di * praesumptio \ Il Pearcius vi sostituì, per mera congettura, la voce      81    turo, uso prematuro », facendone quasi un sinonimo  della voce ' praeceptio \ Ma, nell' assegnare al nome  ' praesumptio ' tale significato, Plinio si allontanò dall' uso che ne fecero i suoi contemporanei. Quintiliano ,  in fatti, P adoperò come termine di retorica, per indicare la figura ' prolepsis \ 1 D' altro canto , Seneca 2 e  poi Giustino ed altri 3 attribuirono alla voce ' praesumptio ' il significato di « speranza, fiducia , aspettazione ,  opinione ». Plinio, invece, conservò alla voce il significato più vicino all' etimologia della stessa (' prae ' e  4 sumere '), cioè « uso o godimento anticipato » , equivalente perciò , come dicevamo sopra , a quello del  nome ' praeceptio ', ma non facilmente assimilabile ,  come suppone il Lagergren 4 , al significato della voce  ' anticipatio ', che per Cicerone vale « prenozione, prenotizia, idea anticipata ». 5   La conferma del significato pliniano del sostantivo  ' praesumptio ' è data dai seguenti luoghi : ' Rerum     ' adsumptio' : lo seguirono il Christ (nella 2. a ed. Orelliana, Turici, 1861; voi. 4, pag. 554), il Nobbo (Lips., 1850, pag. 1162, col. 2. a )  ed altri.   i Qvintil. Inai. orai. IX 2, 16 ; 2, 18.   2 Senec. Episi. mor. XIX 8 (117), 6. Cfr. A. F. Rosengren ,  De elocut. L. Annaei Seneeae commentano; Upsaliae, Wahlstròm (senza data della pubblicazione, ma è, probabilmente,  del 1849-1850), pag. 38.   s Ivstin. Epit hist Phil III 4, 3.  Spartian. Hadr. 2, 9.  Si valsero anche della voce * praesumptio ', in significato simile, i giureconsulti Papin. in Dig. XLI 3, 44, § 4, e Vlpian.  in Dig. XXIX 2, 30, § 4; XL 5, 24, § 8; XLIII 4, 3, § 3; etc.   * Lagergren, op. cit., pag. 57. '   s Cic. De nat deor. I 16, 43; 17, 44.   Consoli  II Neologismo Pliniano, 6      82    quas adsequi cupias praesumptio ìpsa iucunda est'.  Epist. IV 15, 11.  ' Ego beatissimum esistitilo qui bonae mansuraeque famae praesumptioDe perfruitur certusque posteritatis curii futura gloria uiuit '. Epist.  IX 3, 1.   Il significato attribuito da Plinio al nome ' praesumptio ' si deve non al dotto arbitrio dì autorevole scrittore, ma all' efficacia che Bull* accezione di ; praesumptio ' esercitò, con molta probabilità, V uso che lo stesso  Plinio fece del verbo ' praesumere ', accostando al significato primitivo di « prendere prima » anche i significati di « adempiere prima, porre prima, pregustare »,  che risultano dai segg. esempi: Epist. II 10, 6; III 1, 11;  VI 10, 5; Vili, 11, 1; Pan. 79, 4.   C.  Quanto al significato dei grecismi ' cataracta ,  paedagogìum, sipo ', Plinio presenta delle novità che  ' ne presso gli scrittori dell' età aurea, né presso i contemporanei di lui ci è dato osservare.   I.° ' Cataracta ' o ' cataractes ' servì ad indicare, per  antonomasia, le cascate o cateratte del Nilo. ■ Livio se  ne valse per denotare le « saracinesche » alle porte  delle fortezze. ! Plinio, invece, indica con ' cataracta ' o  • cataractes ' la « chiavica o cateratta » che è nei fiumi  por reggere il corso dell'acqua: 'Si nihil nobis loci     i Vitrw. De arch. Vili >.  Sknkc. Nat. quaest. IV 2, A.  I'lin. sBN.'jVflt hit!. V 9 (IO), 54 e 59.   * Liv. XXVII 28, 10 e 11.  Cfc Vboet. Epit rei mil. IV 4.  Lo slesso significato notasi in Plvtar. Anton. 76, 2 : cfr. anche dello stesso Plutarco Aratus 26, 1.      83    natura praestaret, expeditum tamen erat cataractis  aquae cursum temperare. ' Epist X 61 (69), 4. l   2.° La latinità classica non si avvalse del grecismo  4 paedagogium ' 2 : cominciò a servirsene la latinità argentea. Svetonio con la frase ' ingenuorum paedagogia '  alluse alla sfrontata prostituzione e seduzione dei tempi  di Nerone, se pure nel testo svetoniano non si voglia  preferire alla lezione ' paedagogia ' l'altra lezione 6 proagogia. 3 Seneca e Plinio il vecchio indicarono con ' paedagogium ' , per metonimia , i fanciulli educati in un  istituto, ossia la scolaresca. 4 Ma Plinio il giovane restituì a ' paedagogium ' il significato di luogo o istituto dove erano educati i fanciulli destinati ad impieghi o uffici superiori : ' Puer in paedagogio mixtus  pluribus dormiebat. ' Epist VII 27, 13.   L' etimologia mista greco-latina della pretesa voce  ' paedagium ', la quale fu accolta dalla ed. p nel luogo  cit. dell' epist. pliniana, potrebbe solo tentarsi per ispie-,  gare una parola nuova che dai codici concordemente  si attesti essere stata usata dal nostro autore, come, per  es., la voce ' cryptoporticus ' ; ma si deve sempre rifiutare, quando con essa si voglia tentare V accettazione     1 Cfr. Rvtil. Nàmàt. Dered. suo I 481: ' Tum cataractarum claustris excluditur aequor * (Baehrens, Poetae Latin, min.  voi. 5°, pag. 21 : ma nel cod. Vindobon. 277 (387; si accoglie la  grafia ' catharactarum ').   * Vedi per il significato della voce greca considerata: Demosth.  Orai, de corona 258 (313, 10-12) ; Plvtar. Pomp. 6, 2.   3 Sveton. Nero 28.   * Senec. Dial VII {De uita beata) 17, 2 ; Dial. IX (De tranquii animi) 1, 8; Epist mor. XX 6 (123), 7.  Plin. sen. Nat  hist XXXIII 12 (54), 152,      84   di una parola che non è accolta dai codici né registrata   nei lessici, ma soltanto proposta come congettura d'interprete. Molto meno si può fare buon viso alla congettura del Lipsins ', che, movendo dal presupposto che  ' paedagogium ' dovesse riferirsi soltanto alla riunione  degli alunni, non mai al luogo della riunione, voleva  sostituire la espressione ' puer e paedagogio ' alla lezione data dai codici ' puer in paedagogio '.   3." Il grecismo ' sipo ', che vale « corpo vuoto o  cavo, sifone », penetrò nella lingua latina dopo 1' età  di Cicerone -; e se ne valsero gli scrittori dell'età argentea per indicare « sifone , canale, pompa per alzar  1' acqua », oper termine di confronto a cosa somigliante     1 Ivsti Lipsi Ad Annales C. Taciti liber tommentarius, Parisiis, N. Buon, 1606; pag. 236, Ad librum XV Ann.: ' Vides  ergo ubique paedagogia prò coetu et quasi collegio puerorum. prò loco non accipiò, ne epud Plinium quidem lib. VI]  epist. « Puer io paedagogio mistus pluribus dormiebat ». rescriboque : « Puer e paedagogio >. intellegit enim puerum paedagogianum'.   » Si è preteso riconoscere la parola 'siphone' iu un luigodi  Lucilio, cit. da Cic, De flnibusll 8, 23; ma lalezkmu é incerisi  Il cod. Palat., ora Vatic. 1513, presenta 'hirsizon'; l'altro cod  Palat., ora Vatic. 1525, presenta 'hrysizou': gli altri codd. ,  come il More)., 1" Erlang. 38, il Vratisl. IV F 180 danno ' hirsiphon". Nella 1" ed. dell' Orelli, del 18;8, si legge ' hir sìpliovo ';  e quasi consimile lez. ' fir siphoue' si osserva in quella  del Medvig. L' Ernest! la trasformò a dirittura in ' si pitone ' ;  ma 11 Bailer (2* ed. Orellian», Turici, 1861, voi. 4', pag. 103} la,  restimi alta Torma 'hirsizon', data dal 1° cod. sopra cit. del secolo XI. A noi parrebbe meglio conservarsi la lez. del cod. Vatic. 1525, ' hrysizou ' p. ' hrysiazon ', part. pres. del verb') greco  rhysiàio, Torse 'rhysizo. Ma, in tanta incertezza, nulla si può affermare che rispanda sicuramenle al vero.     r      85    al sifone K Plinio se ne servì , attribuendo alla parola  il significato di « tromba da incendio », e venne così  a determinare in un caso particolare il significato  generico di « tromba per acqua » : i Alioqui nullus  usquam in publico sipo, nulla hama, nullum denique  instrumentum ad incendia compescenda \ Epist. X 33  (42), 2. 2 Ma è probabile (e, nell'incertezza della conclusione, ci siamo indotti a notare la voce i sipo ' tra i neologismi di fonte pliniana) , che Plinio non sia stato il  primo a designare con ' sipo ' la tromba da incendio ;  perocché il retore Musa, citato da Seneca il retore 3 , con  la frase 'caelo repluunt ', detta in proposito dei sifoni,  accenna al significato in generale di tromba che schizzi  l'acqua in modo che questa, ricadendo in forma di pioggia, sembri che ripiova dal cielo. 4   Sez. II.  Altre parti del discorso.   A.  In due soli aggettivi ci è stato dato di osser   1 Senec. Nat. quaest. II 16.  Colvm. De re rust. Ili 10; IX  14.-Plin. sen. Nat hist II 65 (66), 166; XXXII 10 (42;, 124.   Ivvenal. Sai II 6, 310.   * Anche Ulpiano accenna a ' siphones ' per gli incendi in  Big. XXXIII 7, 12, § 18.   3 Senec. rhet. Controuers. X praef., 9.   4 Nel Dizionario Georges-Calonghi, v. * repluo ', col. 2341, e  v. ' sipho ', col. 2500, si afferma ripetutamente, ma non sappiamo renderci convinti del motivo, che da Seneca il retore si attribuì alla voce ' sipho ' il significato di  (1880), col. 2412, e riferita contemporaneamente tanto al significato eine Spritze, quanto al  significato Feuerspritze.      86    vare che il significato attribuito ai medesimi da Plinio  si allontana dal significato che si ebbero nell'uso dell' età anteriore e in quello dei contemporanei di Plinio  stesso. Tali aggettivi sono : ' octogenarius ' e ' otiosus \   1.° L' aggettivo ' octogenarius ' fu da Vitruvio e da  Frontino adoperato a significare una misura. ' Plinio se  ne valse per indicare « vecchio di ottanta anni, ottuagenario, ottogenario »: ' Femina splendide nata , nupta  praetorio uiro, exheredata ab octogenario patre \  Epist VI 33, 2.   2.° L' aggettivo ' otiosus ', che significa propriamente  « ozioso, inoperoso, disoccupato », ed equivale a ' uacuus muneribus ', soleva essere riferito anche a cose  inanimate, p. es. a tempo, età 2 , discorso, 3 etc. A questo uso si accostò Plinio, scrivendo: 'Per hos dies libentissime otium meum in litteris conloco, quos alii  otiosissimis occupationibus perdunt. ' Epist IX  6, 4. Ma nessuno prima di Plinio aveva riferito V epiteto di ' otiosae ' alle somme di danaro non date ad interesse, ' non occupatae ' : ' Pecuniae publicae, domine,  prouidentia tua et ministerio nostro et iam exactae  sunt et exiguntur; quae uereor ne otiosae iaceant. '  Epist. X 54 (62), 1.   Anche il giureconsulto Scevola applicò alla ' pecunia ' non data ad usura la qualità di ' otiosa \ 4     i Vitrw. De areh. Vili 7 ('fistulae octogenariae';.  Frontin. De aqu. urb. Rom. 58 : ' Fistola octogenaria diametri digitos X\   * Cic. Epist ad Q. fratr. Ili 8, 3 ; De seneci 14, 49.  3 Qvintil. Inst. orai Vili 2, 19; I ), 35.   * Scabvol. in Dig. XXII 1, 13, § 1: « Pro pecunia otiosa  usuras praestare debeat ' (Mommsen : ma nel cod, Florent. dei  Digesta è scritto ' pecunia uitiosa ').  Come si è già avvertito, Plinio fu parco d' innovazioni quanto ai verbi. Egli, in fatti, attribuì significato non noto agli scrittori dell' età anteriore , né , a  quanto appare, accolto dai contemporanei, ai tre verbi  * exseri bere, per colere, prosecare ', conservandoli sempre  in senso proprio.   l.° La latinità aurea presenta V uso di 'ex-scribere '  nel significato di « trascrivere, copiare », ed anche nei  significato di « notare, registrare, mettere per iscritto ». 1  Plinio, invece, assegnò al verbo ' exseribere ' due signiAcati nuovi, 1' uno proprio e 1' altro figurato , che non  troviamo negli scritti dei contemporanei di lui. Il significato proprio , di cui ora interessa intrattenerci ,  (che, al suo tempo, tratteremo del verbo ' exseribere ' in  senso traslato) è: « dipingere, disegnare , rappresentare » : ' Herennius Seuerus, uir doctissimus, magni aestimat in bibliotheca sua ponere imagines municipum tuo rum petitque exseribendas pingendasque de legem '. Epist IV 28, -1. Donde tale significato ?   È noto che ' scribere ' ebbe anche il significato di  «e disegnare, dipingere ». 2 Plinio il vecchio, a determi^  nare meglio il lavoro di copiatura di una pittura, si valse  del verbo ' transcribere \ 3 Appare probabile quindi che  Plinio il giovane, attenendosi allo stesso ordine di concetti, meglio che della preposizione ' trans ' si sia servito della preposizione ' ex ', che esprime con maggiore  esattezza l'idea di « trarre fuori, dedurre », e, pre   l Cic. in Verr. aet. see. II 77, 189. Varr. Rer. rust. II 5, 18.   * Cic. Tu8c. dìsp. V 39, 113.  Catvll. Carm. 37, 10.   3 Plin. sen. Nat. hist XXV 2 (4), 8: * Veruna ot indura falla* est colori bus... multumqu 3 riamente significa « usatto,  piccolo socco, calzare leggiero », che si soleva portare  dalle donne e dai damerini effeminati. Ma poiché il socco era usato dagli attori comici per la rappresentazione della commedia, e quindi, per figura metonimia, venne a significare la commedia, così Plinio che, adoperando il linguaggio scenico , aveva chiamato una sua  villa, presso al lago Lario, col nome ' comoedia ', ne indicò il sito basso, rasente il lido del lago, col diminutivo ' socculus \ Ecco il passo pliniano : ' Huius (lacus)  in litore plures uillae meae, sed duae maxime ut delectant ita exercent. altera inposita saxis more Baiano  lacum prospicit, altera aeque more Baiano lacum tangit, itaque illam tragoediam, hanc appellare comoediam  soleo ; illam, quod quasi cothurnis , hanc , quod quasi  s o e e u 1 i s sustinetur \ Epist IX 7, 2-3.   La lezione ' oculis ' che, invece di ' socculis ', è data  dal cod. D e dalle edd. p, a, non ci pare in alcun modo  attendibile, prima di tutto perchè vien meno il parallelismo che l'autore vuol mettere in evidenza tra la villa  chiamata ' tragoedia ' e quella che porta il nome di  6 comoedia ' ; in secondo luogo, perchè bisogna forzare  il senso della frase per supporre omogeneità tra ' sustinetur cothurnis ' e ' sustinetur oculis \ Preferiamo, dunque, la lezione ' socculis ', che è presentata dal cod. IH  e dalle edizioni prealdine.      97    10.? Dicevasi propriamente ' sportula ', diminutivo di  i sporta ', quel canestrino di cibi, che si soleva dare dai  patroni ai clienti, allorquando questi si recavano da loro  per salutarli. In senso traslato, Plinio se ne valse per  indicare quelle largizioni che per lo più da autori, di  poco merito si solevano dare ai ' laudicene, per essere  applauditi di continuo da questi durante la recitazione  dei loro lavori letterari : ' Sequuntur auditores actoribus similes, conducti et redempti: manceps conuenitur:  in media basilica tam palam sportulae . quam in  triclinio dantur. ' Epist II 14, 4. .   Pare che Quintiliano si sia accostato al concetto di  Plinio con l'avvertire che è sconveniente per gli oratori  ' inter moras laudationum ' il * respicere ad librarios  suos,. ut sportulam dictare uideantur. ' l E da avvertirsi inoltre che il nome ' sportula ' fu anche usato,  in senso traslato, dall' imperatore Claudio per indicare  i « brevi giochi dati al popolo I sostantivi di fonte verbale, innovati nel loro  senso traslato dal nostro autore , si possono ordinare  così : a) ' nomina agentis ' formati col suffisso -tor ;  b) ' nomina actionis ' col suffisso -tion ; e) sostantivi  formati da temi di verbi per il tramite del tema del  participio presente; d) sostantivi verbali aventi diverso  suffisso.   a) Non molto è da dirsi dei quattro ' nomina agentis ':     i Qvintil. InsL orai. XI 3, 131.  « Sveton. Diu. Claud. 21.   Consoli  li Neologismo puntano*      98    *   * debitor, frenator, gestator, reductor, '  che nei loro  significati in traslato presentano tracce d' innovazione.   1.° Il nome ' debitor' significò propriamente « chi  deve una somma di danaro ad un suo creditore ». l  Accolto in traslato, indicò « chi è obbligato , chi è tenuto a qualche cosa », la quale veniva espressamente  enunciata, per es. * uitae , animae , uoti, etc. ' 2 Plinio  accolse tale significato del nome ' debitor *, considerato  in traslato, ma vi apportò la novità di adoperarlo assolutamente , cioè senza indicazione della cosa* per cui  si restava obbligato : ' Cuius generis quae prima occasio  tibi, conferas in eum rogo; habebis me, habebis ipsum  gratissimum debitorem. ' Epist. Ili 2, 6.   2.° La voce ' frenator ' appare per la prima volta  nella latinità argentea, e riferita sempre a cose materiali, per es. il giavellotto, 3 il cavallo. 4 Plinio lo riferì,,  per traslato, ad argomenti morali : ' Contemptor ambitiónis et infìnitae potestatis domitor et frenator animus ipsa uetustate florescit. ' Pan. 55, 9.   3.° Quanto al nome ' gestator ', che significa « portatore per guadagno, facchino », ed è perciò sinonimo di ' baiulus ' p ' baiolus ', voce usata da Cicerone 5 ,  Plinio lo riferì a un delfino che portava sul dorso i  figli : * Incredibile, tam uerum tamen quam priora, delphinum gestatorem collusoremque puerorum in     i Cic. De off. II 22, 78.  Senec. De bene/. VI 19, 5.  Modestia in Dig. L 16, 108.   2 Ovid. Ex Pon. IV 1, 2; Triti. I 5, 10.  Martin Epigr.  IX 42, 8.   3 Val. Flac. Argon. VI 162.   4 Stat. Theb. I 27..   5 Cic. De orai. II 10, 40 ; Parad. IL-, 2, 23.      99   terram quoque extrahi solitum harenisque siccatum,  ubi incaluisset, in mare reuolui. ' Epist. IX 33, 8.   4.° Il nome ' reductor ', considerato in senso proprio,  significa « riconduttore, chi riconduce » : e in tale skgniflcato T usò Livio. 1 Ma Plinio adoperò ' reductor '•  nel senso traslato di « restauratore » : ' (Titinius Capito)  colit studia, studiosos amat fouet prouehit, multorum  qui aliqua conponunt portus sirius gremium , omnium  exemplum, ipsarum denique litterarum iam senesceiitium reductor ac reformator. ' Epist. Vili 12, 1.   6) I. quattro ' nomina actionis ' : ' descensio , dispensalo , egestio , nutatio ', formati da temi verbali , presentano le seguenti innovazioni nel loro uso traslato.   l.° ' Descensio ' indica propriamente « discesa, l'azione  del discendere ». 2 Plinio ne preferì V uso metonimico  per indicare i luoghi stessi nei quali si discende per  mezzo di gradinir 'Frigidariae cellae conectitur media,  cui sol benignissime praesto est; caldariae magis : pròminet enim. in hac tres descensio nes, duae in  sole, tertia a sole longius, à luce non longius. * Epist  V 6, 26. Talché, come bene avverte il Gierig , le ' deseensiones ' erano non le scale, ma ' lacus, in quos per  gradua descendebatur. ' 3     i Liv. II 33, il.   « Cic. De flnibus V 24, 70: ' Quem Tiberina descensio,  festo ilio die, tanto gaudio ad feci t, quanto L. Paullum, cum regem Perseo captum adduceret, eodem flumine inuectio?' (Citiamo il passo di Cic. secondo il ood. Palat. (Vatic) 1525 e la  ed. Cratandrina del 1528; che, invece di 'descensio', si legge  ' dissensio ' nel cod. Morelian., e ' decursio ' nella prima ediz.  dell' Orelli, 1828).   8 Giehig, op. cit., tom. 1°, pag. 409, col. l. a     . 100   Che Plinio sia stato veramente il primo ad introdurre nella lingua letteraria tale uso metonimico della voce ' descensio ', c'induce a dubitare l'avvertenza del Nàgelsbach 1 , che soventi volte ad alcuni casi mancanti  nella flessione dei nomi verbali in -us si suppliva coi  corrispondenti casi dei nomi verbali in -io. Or , tanto  in Irzio 2 quanto in Virgilio 3 , trovasi usato 'descensus'  in senso metonimico di « via che discende » : e se, come nota opportunamente il Lagergren 4 , ai casi non  usati della flessione di * descensus ' si dovette supplire  coi corrispondenti casi della flessione di ' descensio ' ,  questo nome non poteva non avere il valore metonimico di ' descensus ' ; e quindi è assai probabile, sebbene  non si abbia alcuna prova diretta in conferma, che il  significato metonimico attribuito a 'descensio' sia anteriore all' età di Plinio.   2.° In dipendenza dal significato fondamentale proprio  del verbo ' dispensare ', che vale « pesare esattamente,  dividere o distribuire proporzionatamente », il sostantivo verbale * dispensatio ' si riferì a cose materiali, indicandone la distribuzione economica o l'amministra-zione o il maneggio, per es; ' dispensatio aerarii 5 , annonae '* etc. Plinio riferì la voce ' dispensatio % in senso traslato, anche a cose morali, scrivendo all'imperatore Traiano : * Iulius... Largus ex Ponto nondunr mihi  uisus ac ne audi.tus quidem.... dispensationem     i Naegelsbach, Lateinische Stilistik 3 , pag. 151 eg.  « Hirt. De b. Gal. Vili 40, 4.   3 Vbrg. Aen. VI 126.   4 Lagergren, op. cit., pag. 56.   5 Cic. In Vatin. 15, 36.   « Liv. X 11,9. Cfr. IV 12, 10.      10Ì    quandam ' mihi erga te pietatis suae ministeriuniqùó  mandauH. ' Epist. X 75 (79), 1.   È probabile .che la via per giungere al significato  pliniano della voce 4 dispensatio ' sia stata aperta dall' uso, accolto da Cicerone e poi da Livio , Seneca ed  altri, del verbo 4 dispensare n riferito ad argomenti immateriali. l   3.° 4 Egestio ', sostantivo nato dal verbo 4 egerere '=»  « portare fuori, condurre via », è voce che apparisce  per la prima volta nella latinità argentea, col significato proprio di « trasporto », ed anche, particolarmente, di « egestione, evacuazione ».* Plinio, riferendolo per  traslato ad 4 opes publicae', ne fece un sinonimo di  4 effusfo ' di danaro, voce già usata da Cicerone. 3 Il passo di Plinio è il seguente : ' Hoc tunc uotum senatus ,  hoc praecipuum gaudium populi, haec liberalitatis materia gratissima, si Pallantis facultates adiuuare publicarum opum egestione contingeret. ' Epist. Vili 6, 7.   4.° Il verbo 'nutare' fu gradito ai poeti dell'età augustea : a Cicerone nemmeno dispiacque farne uso nel  senso traslato di « vacillare nel giudizio, essere incerto » 4 . Ciò non ostante, il sostantivo verbale 4 nutatio '  non pare che sia stato accolto dalla latinità . aurea. I  contemporanei di Plinio V usarono in senso proprio di  « barcollamento, vacillamento ». 5 Plinio, invece, Tado   i Cic. De orai. I 3i, 142.-Liv. XXVII 50, 10; XXXVIII 47, 3.   Sbnec. Dial. VI (Ad Mare, de eonsol) 11, 1  * Sveton. Diu. Claud.O.  s Cic. Pro Rose. Am. 46, 134.   4 Cic. De nat. deor. I 43, 120,-Cfr. Tac. Hist. II 98; III 40;  IV 52.   5 Srnkg Nat quaest. VI2, 6, Qvintil. ln*t. orai. però in senso figurato, riferendolo a ' res publica ', per  indicare «decadenza, rovina dello Stato»: 'Cogi porro  non poteras nisi periculo patriae et nutatione rei  pùblicae. ' Pan. 5, 6.   La nostra osservazione si poggia sulla premessa che,  nel passo citato, la lezione ' nutatione ',' presentata dal  Cuspinian. e dal cod. Liuineii, sia da preferirsi alla lezione * mutatione ', che è data concordemente dai codd.  A } 6, o 9 d.      e) I due sostantivi verbali formati per il tramite del  tema del participio presente sono 'audentia' e 'instantia'.   1.° Il nome ' audentia ' non fu accolto dalla latinità  aurea. Nella latinità d' argento se ne fece uso per si' gnificare « arditezza, coraggio », in dipendenza dal significato del verbo ' audere ', da cui proveniva. ' Ma  Plinio trasferì: il significato di 'audentia' all'uso delle  parole, per indicare « ardimento -, audàcia nel dire »" :  'Si datur Homero et mollia uoeabulà et Graeca ad leuitatem uersus contrahere, extendere, inflectere, cur tibi similis audentia, praesertim non delicata sed necessaria, non detur ? ' Epist. Vili 4, 4. :   2.° Il sostantivo ' iftstantia ', conformemente al verbo  ' instare ', da cui prende origine, significò « imminenza  immediata ». 2 Plinio attribuì ài vocabolo, che adoperò  in traslato, due significati : a) « veemenza del discorso »•*  ' Habet quidem oratio et historia multa communia ,  sed plura diuersa in his ipsis quae communia uiden   1 Tac. Ann. XV 53; Germ. 31 e 34. Cfr. 'audentior' nei Deal  de oratoribus, 14 (Halm ; ' ardentior * per il Bàhrens) e in Qvintil. Inst. orai. XII 10, 23.   * Cig. De fato 12, 27.      103    #   tur haec uel maxime ui amaritudine instanti e,   illa tractu et suauitate atque etiam dùlcedine placet/  Epist V 8, 9-10.  b) «diligenza, studio assiduo»: ' Quid  est enim quod non aut illae occupationes inpedire aut  haec instantia non possit efflcere ? ' Epist. IH 5, 18.  Per il primo dei due significati predetti Quintiliano si  era. già avvalso dell'avverbio ' instanter V   d) Resta a parlare dei tre sostantivi verbali: ' iadtwcatus, motus, retinaculum \   l.° La voce i aduocatus ' nei tempi della Repubblica  romana designò V uomo perito nella conoscènza del diritto, che veniva chiamato a dare i suoi coitigli in tòtano ad una questione giuridica da trattarsi dinanzi ai  magistrati, e sosteneva poi co' suoi suggerimenti e fcftft  la presenza una delle parti litiganti dinanzi ai wi&gl 1  strati stessi. 2 Neil' età imperiale * adiiocatufc ' tìivéhitè  sinonimo di ' patronus causae ', cioè « difensore o pà*  trocinatore; causidico, che assiste e conduce il pi*oc&&ò *.  E di questo secondo significato di ' aduocatus ' Plinio^  al pari de' suoi contemporanei 3 , ci presenta àlquahtl  esempi. 4 Ma Plinio stesso attribuì anche alla voce ' aduocatus ' un significato in traslato , riferendola non &     1 QtfitffriL. tnsì. orai. IX 4, 126: ' Vbicunque acriter erit, i nstànter, pugnaciter dicendunT (Bonnell;.   « Cig. Pro Sul. 29, 81 ; Pro CluenL 40, 110; De orai il 74,  301 ; De off. I 10, 32; Epist. ad fam. VII 14, 1 ; etc.  'Aduocatus ' per « aiuto » in genere, v. Pro Caectaa 9, 20.   3 Qvintil. Inst. orai. XII 1, 13.  Sveton. Dia. Claud. 15 e  33.  Diàl. de oratoribus, 1.   * Epist. cause ò liti o questioni giuridiche, ma alla ' abstinentia ' : ' Id uero deerat, ut cum Pallante auctoritate publica ageretur , Pallas rogaretur ut senatui cederet, ut  illi superbissimae abstinentiae Caesar ipse aduocatus esset. ' Epist. Vili 6, 9.   Quanto abbiamo osservato sul significato pliniano della voce ' aduocatus ', considerata in traslato , non sarebbe accettabile, se nel luogo citato, invece di ' Caesar  ipse aduocatus esset', si leggesse, come si suòle  comunemente: ' Caesar ipse patronus aduocaretur'.  Così appunto è presentata la lezione dall' ed. a, con la  ripetizione del pronome ' ipse ' dopo ' patronus ': ' Caesar ipse patronus ipse aduocaretur '.   2.° Dalla radice del verbo ' mouere ' col. suffisso -tu- si  formò il nome ben noto ' motus ', che in traslato, óltre  ali! indicare « il moto dèi sensi e 1' attività o energia  dello spirito, la commozione dell'animo, la passione »,  servì a significare « i motivi, le cause, i moventi » di  un dato divisamente. Plinio fu il primo ad adoperare  la voce ' motus ' in tale significato: 'Audisti consilii mei  motus'. Epist. Ili 4, 9.   3.° Il sostantivo i retinaculum ', non discostandosi dal  significato proprio del verbo ' reti nere ', da cui deriva,  servì ad indicare qualunque oggetto potesse servire a  trattenere o a tener fermo; perciò, secondo i casi particolari , significò « cavezza \ gomena o fune 2 , briglia  o redina 3 , vimini pieghevoli per legare le viti 4 », etc.  Plinio per il primo attribuì un significato figurato alla     i Horat, Sai I 5, 18.   2 Ovid. Metam. XIV 547; XV 696.   8 Vbrg. Georg. I 513.   i Vbrg. Georg. I 265.      105    voce ' retinaculum ', per indicare « i legami o vincoli  morali della vita » : ' Adfuit tamen deus uoto, cuius ille  compos , ut iam securus liberque moriturus, multa illa  uitae, sed minora r e t i n a e u 1 a abrupit.' Epist I 12, 8.  Nella stessa epistola , § 4 /egli chiamò questi ' uitae  retinacula', in modo più diretto , * preda uiuendi,' come li aveva detto, prima di lui, Plinio il vecchio ! ; ed  al § 3, li disse * uiuendi causae '.   C.  I grecismi nei quali, considerati in senso traslato, si nota l'innovazione pliniana sono due: ' cratér *  e ' xenium '.   1.° ' Crater ', « grande coppa, cratere, vaso da mescere », è un grecismo accolto nella lingua latina e latinizzato nella forma ' cratera*'. Passò al senso traslato  per P uso particolare che ne fecero i poeti, per significare « voragine vulcanica V vaso per Polio » 3 , e anche  una costellazione 4 , ete. Ma Plinio fu il primo, e forse  il solo, ad usare il grecismo ' crater ' nel senso traslato  di « conca o bacino d' acqua » : ' Fonticulus in hoc, in  fonte crater'. Epist V 6, 23.   2.° ' Xenium ' rappresentava, secondo l'etimo greco 5 ,  il dono ospitale, fatto, cioè, agli ospiti o ai commen   1 Plin. sen. Nat hist. XXII 6 (7), 14: 'Addidere uiuendi  pretia deliciae Juxusque * (Mayhofl). Tacito indica i ' uitae  retinacula ' come 'pretia nasceadi' (Germ. 31; ma in più codici si legge * noscendi ').   * Lvcrbt. De ter, nau VI 701. Ovid. Metam. V 424.  Cfr.  Plin. sen. Nat hist. II 106 (110), 237; III 8 (14), 88.   » Verg. Aen. VI 225.  Cfr. Martial. Epigr. XII 32, 12.   4 Ovid. Fast li 244. Cfr. Cic. De nat deor. II 44, 114 {Arati  phaenom. 219).   5 Vedi Svidàs Lexic. Graee. et Lai, vol2°, col. 1032 (Bernhardy).      Ì06    sali. E in tale significato, oltre gli esempi di Vitruvio,  Marziale ed altri ', abbiamo l'esempio di Plinio stesso:  ' Summo die abeuntibus nobis, tam diligens in Caesare  humanitas, xenia sunt missa'. Epist. VI 31, 14. Ma  Plinio assegnò inoltre al grecismo * xenia ' il significato triaslato di « dóni fatti a certe persone per ottenere da loro qualche favore », ed in particolare i doni  che si facevano agli avvocati o causidici per patrocinare con maggiore impegno le cause: ' Quam me iuuat  quod in causis agendis non modo pactione dono munere  ùerum etiam x e n i i s semper abstinui ! ' Epist V 13  (14), 8. E, dopo P esempio di Plinio, si ampliò àncora  di più il significato della voce ' xenium ', indicandosi  con essa i doni che si offrivano dai provinciali ai proconsoli o ad altre autorità 2 .   Sbz. ii. -^ Aggettati.   Li distingueremo in aggettivi derivati da fonte nominale ed aggettivi formati con temi verbali.   A. «-* 1.° L' aggettivo ' enodis ', formato dalla preposizione.' e' e dal tema del sostantivo 'nodus'» nel significato proprio vale « liscio , senza nodi ». In tale  accezione 1' usò appunto Virgilio , che lo riferì quale  attributo alla voce ' truncus \ 8 Plinio l'adoperò in senso  traslato, riferendolo ad alcune poesie per indicarne la  scorrevolezza e la facilità : ' Recitabat.. f erudit&m sane     1 Vitrvv. De afòh. VI 9. Martial. Epigr. XIII 3, ì-2 e 5-6.  * Vlpiàì*. iti Dig. I 16, 6, § 3.   i 'V'fcRG. Georg. Il 78 : ' Rursum e n o d e s trunci resecantur '  (Ribbeck).  Cfr. Plin. sen, Nat hM, V 1, 14.      ìot    I   luculentamque materiam. scripta elegia* erat fluentibus  et teneris et e n o d i b u s , sublimibus etiam, ut poposcit locus. ' Epist  Hamatus ' derivato da ' hamus ', in senso proprio  significò «fornito d'amo»; e Cicerone l'usò in tale significato. l L' accezione in traslato dell' aggettivo * hamatus', per indicare cose che , insidiose come l'amo ,  si mettono in opera per ottenere vantaggi maggiori, si  deve a Plinio, che lo riferì a ' munera ' con -P intendimento d' indicare quei doni che si fanno col fine sottinteso di ricavarne maggiori remunerazioni : i Hos ego  uiscatis hamatisque muneribus non sua promere  puto, sed aliena corripere '. Epist. IX 30, 2. Plinio dovette certamente venire all' uso traslatò di ' hamatus ',  indottovi dal significato attribuito in traslato al nome  4 hamus ' da scrittori a lui anteriori e da scrittori contemporanei. 2   3.° ' Inamoenus ' appartiene a quella serie di aggettivi sì graditi alla latinità argentea, formati col premettere all' aggettivo la particella negativa i in- ' : significa P opposto di ' amoenus ', e perciò « spiacevole,  sgraziato, disameno ». Ovidio se ne valse per indicare  PAverno. 3 Plinio ne fece, per traslata, un attributo di  certi lavori letterari « senza attrattiva, spiacevoli, inameni »: ' Oratiunculam unam alteram retractaui. quàhiquam id genus operis inamabile, inamoenum magisque laboribus ruris quam uoluptatibus simile '. Epist  IX 10, 3. - .     l Cic. Acad. priòr. II 38 121.   * Huràt. Sai. II 5, 25.  Martial. Epigr. V 18, 7; VI 63, 5.   Vedi anche Plin. Pan. 43, 5.  3 Ovid. Metam. X 15.  Cfr. Stat. Sii II 2, 3*3,      Ì08    4.° L' aggettivo ' peracerbus ' vale lo. stesso di * acerbus ' con un rafforzamento indicato dalla particella preposta ' per'; significa perciò, in senso proprio, « molto  aspro , molto acerbo » , come disse appunto Cicerone  dell' uva immatura. ] Plinio adoperò in traslato V ag. gettivo ' peracerbus ' per significare un che di « doloroso , assai spiacevole » : '• Mihi quidem illud etiam  peracerbum fuit, quod sunt alter alteri quid pararent indicati. ' Epist VI 5, 6.   5.° L'aggettivo ' saxeus ' propriamente significa « sasseo, di pietra ». Plinio attribuì a ' saxeus ' il significato di « insensibile », duro come di pietra, che non  sente impressione di alcuna cosa bella : ' Ego Isaeum  non disertissimum tantum uerum etiarn beatissimum  iudico. quem tu nisi cognoscere concupiscis, saxeus  ferreusque es .' Epist II 3, 7. Ma in ciò egli si avvicinò all' espressione di Ovidio : ' Mater ad auditas stupuit ceu s a x e a voces ' 2 ; nella quale l'epiteto ' saxea '  vale attonita per la meraviglia dolorosa, come se fosse  divenuta di sasso. Forse, nel l'attribuire alla voce 'saxeus',  in senso figurato, il significato anzidetto, Plinio ebbe  presente la frase che si legge nel v. 258 del Prometti,  uinctus di Eschilo.   B.  1° e 2.° Tra gli aggettivi di fonte verbale, che  si ebbero da Plinio un nuovo significato in traslàto, si  annoverano 'adductus' e ' circumscriptus ': entrambi  dotati della forma del comparativo.   ' Adductus \ che propriamente significa « angusto ,     1 Cic. De senect. 15, 53.   * Ovid. Metom stretto », si ebbe in traslato vari significati , uno dei  quali riferito in forma comparativa da Plinio air oratore, vale « più serrato, più breve nelF espressione »•  Similmente ' circumscriptus ', che in senso proprio significa « circoscritto » , in senso traslato fu da Cicerone riferito alla frase, ali" ambitus uerborum M , mentre da Plinio fu riferito, anche in forma comparativa,  all' oratore stesso per indicare la qualità della concisione, che fregia il discorso di lui. Eccone la conferma:  ' In contionibus idem qui in orationibus est, pressior  tamen et.circumscriptior et adductior'.  Epist I 16, 4.   3.° Il significato proprio di ' incustoditus ' è « non  custodito, senza guardie ». La latinità argentea attribuì  a ' incustoditus ' due significati in traslato, uno considerato in passivo, ed è dovuto a Tacito ; P altro considerato in attivo,' ed è stato per la prima volta determinato da Plinio. Nel primo significato vale « inosservato », 2 o pure « non contegnoso, non celato » 3 . Nel  traslato attivo, secondo l'accezione pliniana, * incustoditus ' significa « improvvido, incauto, imprevidente, senza precauzione » : ' Tuitus sum Iulium Bassum ut i ncustoditum nimis et incautum ita minime malum \ 4  Epist. VI 29, 10.   4.° Dal significato proprio che all'aggettivo ' inductus '  proveniva dalla sua qualità originaria di participio per   1 Cic. OraL 12, 38; cfr. 61, 204.   * Tao. Ann. II 12; XV 55.  3 Tac. Ann. XII 4.   * In proposito il Gierig, op. cit., tom. 2, pag. 91, col. 2% aggiunge il* commento: ' Puer enim, qui non custoditur, noglegens, remissus nimis esse solet '     . no    fetta del verbo ' inducere ', Plinio, lo volse in traslato, e lo attribuì a ' sermo ' per indicare un linguaggio  straniero : ' Inuidéo Graecis, quod illorum lingua seribere maluisti. neque enim coniectura eget, quid sermone patrio exprimere possis, cum hoc insiticio et i n d u ct o tam praeclara opera perfeceris \ Epist IV 3, 5,   6 Totam uillam oculis tuis subicere conamur , si nihil  inductum et quasi deuium loquimur.' Epist V 6, 44.  Cfr. Epist. Ili 18, 10.   Nulla osta ad ammettere che Plinio si sia permesso di  attribuire a ' inductus ', in senso traslato, il significato  anzidetto, per aver tenuto presente che già Cicerone  si era servito ad un fine consimile del verbo * inducereV   5.° Nel luogo testé citato della Epist. IV 3, 5, si osserva eziandio che Plinio per il primo adoperò in senso  traslato l'aggettivo ' insiticius ' , derivato dal verbo  i inserere ', a fin di significare il linguaggio importato  dal di fuori, in antitesi alla lingua materna. La voce  ' insiticius ' nel significato proprio di ,« innestato » era  già stata accolta nella lingua letteraria, molto tempo  prima di Plinio. 2   Sez. III.  Verbi.   I verbi ai quali, considerati in traslato, Plinio attribuì un significato nuovo, sono , eccetto uno, tutti composti ; e la ragione ne è manifesta, perchè nell'ampliare le funzioni del traslato ha molta efficacia la particella che forma il primo elemento della composizione.     i Cic. Philip. XIII 19, 43.   * Ne sia d'es. Varr. Rer. rasi. II 8, 1. Vedi in prcfposito la  osservazione del.GESNER, riportala da A. Corradi, pag. 33.     r  Ili    A.  Esamineremo da prima i verbi composti che  provengono da un tema semplice originariamente verbale , e poi i verbi composti nel cui tema si contiene  un tema nominale.   a) I vèrbi composti della prima serie saranno trattati secondo l'ordine alfabetico della lettera iniziale del  tema verbale semplice.   l. Q 11 verbo ' in-arescere ', come P incoativo 'arescere ', originariamente ' arere ', ebbe il significato proprio  di « disseccarsi, inaridire » : e, oltre non pochi scrittori fioriti al tempo della latinità argentea, ne dà la  conferma lo stesso Plinio : ' Buxus, qua parte defendltur tectis, abunde uiret; aperto caelo apertoque uento  et quamquam longinqua aspergine maris inarescit'.  Epist. II 17, 14. Ma Plinio attribuì anche al verbo ' inarescere ' il significato di « finire », riferito a oose immateriali : 'Sed quod cessat ex reditu frugalitate suppletur/ex qua uelut fonte liberalitas nostra decurrit :  quae tamen ita temperanda est, ne nimia profusione  inarescat. ' Epist. II 4, 3-4.   La sola ed. p presenta, invece di ' inarescat', la pa^rola * marcescat ', che pare un' emendazione fatta dall' editore per fare rieritrareF espressione di Plinio nelP uso traslato del verbo ' marcescere ', che Livio e 0vidio riferirono alle voci ' desidia, otium V   2.° Il significato proprio del. verbo ' per-domare ', che  vale « soggiogare, domare », si riferì costantemente ad  esseri animati, come per es. ' uiri, 2 gentes,* canes, 4     l Liv. XXVIII 35, 2. Ovid. Ex Pon. II 9, 61.   * Tibvl. II 1, 72.   8 Vell.' Paterc. Hist Rom. II 95, 2. Cfr. Liv. XL 41, 2.   4 Tibvl. I 2, 52.      m    «   serpentes, tauri, l età; ovvero a regioni designate invece  dei popoli che le abitano, per es. il ' Latium ', 2 la ' Britannia ', 3 una regione in generale. * Plinio applicò in  traslato il verbo ' perdoniate ' al suolo che si coltiva :  ' Tantis glaebis tenacissimum solum, cura primum pròsecatur, adsurgit , ut nono deraum sulco perdomet u r. ' Epist V 6, 10.   Gli scrittori contemporanei avevano agevolato a Plinio la via per venire all'uso traslato del verbo ' perdonare', poiché lo avevano riferito, in generale, a cose  inanimate. Così in Seneca si osserva la frase ' perdomare farinam ', che significa « dimenare la farina con  l'acqua e farne una pasta » 5 ; e in Stazio, la frase 'perdomita Ceres ' 6 . Ma a Virgilio fu più gradita l'espressione figurata ' imperare aruis ' 7 per riferirla a chi  ' exercet frequens tellurem '.   3.° Il significato proprio del verbo ' con-fodere ' fu  « trapassare , trafiggere , ferire ». Plinio 1' adoperò in  traslato per indicare quel segno fatto con una linea trasversale sulle parole d'uno scritto, che dovevano essere  cancellate o emendate 8 : ' Expecto ut quaedarn ex hac  epistula, ut illud « gubernacula gemunt » et « dis ma   i Ovid. Heroid. 12, 163-164.  « Liv. Vili 13, 8.   3 Tac. Hist. I 2.   4 Liv. XXVIII 12, 12.  Martial. Epigr. IX 43, 8.   5 Senec. Episi. mor. XIV 2 (90;, 23.  Stat. Theb. I 524   7 Vbrg. Georg. I 99.   8 Vedi in proposito di tale segno le *Notae XXIquae uersibus apponi consuerunt * (cod. Paris., 7530), ripubblicate dal Keil  nella collezione dei Grammatici Latini, voi. VII, pagg. 533-536.      113    ris proximus », isdem notis quibus ea de quibus scribo  confodias. ' Epist IX 26, 13. La differenza tra V accezione pliniana del verbo ' confodere ', considerato in  senso traslato, e il significato che allo stesso verbo attribuì, anche in traslato, Tito Livio, sta in ciò che questi lo riferi ad argomento morale o giuridico, 1 mentre  Plinio lo applicò ad indicare l'azione materiale del segnare i luoghi da emendare d'uno scritto. 2   4.° Da una composizione multipla risultò il verbo ' recom-ponere ', il cui significato proprio è « racconciare,  mettere in ordine ». 3 Plinio indicò con ' recomponere *  il concetto di « placare, calmare, acchetare , rappattumare » : ' Quo magis quosdam e numero nostro inprobaui, qui modo ad Celsum modo ad Nepotem, prout hic  uel ille diceret, cupiditate audiendi cursitabant, et nunc  quasi stimularent et accenderent, nunc quasi reconciliarent ac recomponerent, frequentius singulis ,  ambobus interdum propitium Caesarem.... precabantur. '  Epist VI 5, 5.   È uopo avvertire che la lezione ' recomponerent % nel  passo citato, è data' in modo approssimativo dal cod. flf,   e   che presenta la parola scritta in guisa incerta: ' re omponerent\ Invece il cod. D e le edizioni p, a danno la  lezione ' reconciliarent componerentque ' : la quale , se  venisse accettata, renderebbe inutile la nostra osservazione, poiché il verbo ' componere ' nel senso traslato  di « acchetare, pacificare, riconciliare » era stato già  usato, prima di Plinio , nelle frasi : ' componere bel * Liv. V il, 12.   « Cfr. Cic. Epist adfam. IX 10, 1. Horat. Epist. II ,3, 446-447.  3 Ovid. Amor. I 7, 68.  Consoli  Il Neologismo puntano 8     - 114    lum, 1 componere controuersias,* componere lites, 1 componere seditiones ', 4 etc.   5.° Il verbo ' ad-radere ', nel suo significato proprio  di « radere , accorciare , mozzare » , si rapporta alla  barba, ai capelli e anche ai rami degli alberi. Plinio  lo accolse in traslato per significare il concetto di     103    »    44    »    16    »    75    »    120    >    102         una ijuaiu si nana, uei u   abactus^ Pan. 20, 4.  acor 3 : VII 3, 5.  actiuncula t : IX 15, 2.  adductus 3 : I 16, 4.  adnotatio 2 : VII 20, 2.  adnotator x : Pan. 49, 6.  adradere 3 : II 12, 1.  adsistere aduocatus aposphragisma ,: X 74   Q6Ì. 3. baptisterium t : II 17,   11; V 6, 25.  bellatorius buie! IH defremere ,: IX 13, 4.  » 99 descensio 3 : V 6, 26.  » 116 destringere 3 : Pan. 37,   2 (cfr. Ili 5, 14).  > 45 dianome,:X 1 16(1 17),2.  » 100 dispensatio 3 : X 75  (79), I.  73 districte , : IX 21, 4.  11 duurauiratus,: IV 22, 1.   ecclesiali 10 (111),1.  egestio 3 : Vili 6, 7.  eiecta { : II 17, 11.  electa t : III 5, 17.  enodis 3 : V 17,2.  eranus t : X 92 (93).  excursio 2 : I 3, 2.  exscribere 2 : IV 28, 1.  exsoribere 3 : V 16, 9.  exsecare 3 : II 12, 3.  exultantius t : III 18, 10.   Pag. 98 frenator 3 : Pan. gestator à     »    55    »    109    »    64     52 haesitabundus t :1 5, 13.  15 haesitator^V 10(11), %.  J07 hamatus ? : IX 30, 2.  40 heliocammus^II 17,20.  38 hetaeria , : X 34 (43),   1; 96 (97), 7.  68 historice t : II 5, 5.     idyllium , : IV 14, 9.  inamoenus 3 : IX 10, 3.  inarescere^; li 4, 4.  inascensus ,: Pan. 65,3.  incongruensj: IV 9, 19.  incustoditus 3 :VI 29 f 10.  indecere t : II J 1, 2.     Pag. 56  » 25   » 109        Pag.  »     »     Pag.     »  »     53  58  55  71   110  102   66   54   119   40   61   91     indeflexus ,: Pan. 4, 7.  indignatiuncula x : VI   17, 1.  inductus 3 : III* 18, 10;   IV 3, 5; V 6, 44.  ingloriosi^: 1X26, 4.  inperspicuus,: 1 20, 17.  inreuerens,: Vili 21,3*  inreuerenter^ il 14,2;   VI 13, 2.   insitici us 3 : IV 3, 5.  instantia interscribere,:VII 9, 5.  inturbàtus { : Pan. 64, 2.  inumbrare 3 : Pan. 19,1,  iselasticum , : X 118   (119), 1; 119 (120).  iselasticus,:X 118(119)   1-2; 119 (120),  iuba 3 : V 8, 10.     89 Latine , : VII 4, 9.  92 latitudo 3 : I Ì0, 5.  13 laudiceni t : II 14, 5.  120 lectkare 3 :VII 17, 4.  38 lyrica , : III 1, 7 ; VII   17, 3; IX 22, 2.  36 Jvristes , : I 15, 2; IX   17, 3; 36, 4; 40, 2.   78 mensor 2 : X I7B , 5;   18 (29), 3.  41 mesochorus t : II 14, 6.  28 mettila , : V 6, 35.  41 muniambij: VI 21,452 monstrabihs,: VI 21, 3.  68 mortifere t : III 16, 3.  104 motus . : III 4, 9.  9? muscufus % : V 8, 10.      181      Pag. 93 numeri 3 : III- 4, 5.  » 101 nutatiog : Pan. octogenarius 9 :Vl 33,2.  27 offendiculuir^:IXll,l.   61 opisthographus L : III   5 17.  47 orarius , : X 15 (26) ;   17A (28), 2.  86 otiosus g: X 54 (62), 1.   83 paedagogium-, :VII 2.7,   13.  108 peracerbus 3 : VI 5, 6.  88 percolere 2 : V 6, 41.   58 pereopiosus ,: IX 31, 1.   59 perdecorus^ III 9, 28.  Ili perdomare 3 : V 6, 10.  119 perseuerare 3 :VI20,19.   94 pertica , : Vili 2, 8.  66 pertribuere t : X 86B   (18), 2.  36 phantasma »:VII 27, 1.  34 poematium , : IV 14 ,   9; 27, 1.   79 praeceptio 2 : V 7, 1.  49 praecursorius.:IV 13,2.  21 praelusio f : VI 13, 6.   116 praesternere 3 : V8, 14;  Pan. 31, 1.   80 praesumptio 2 1 IV 15,   11; IX 3, 1.  46 procoeton 4 : II 17, 10;   17, 23.  59 prominulus 4 : V 6, 15.   62 prooemiari t : II 3, 3.  88 prosecare 2 : V 6 , 10.  42 protopraxia l : X 108   (109), 1.  121 proxirae.,: I 10, 11; IV   29 1' V 7 4.  69 puellariter,: Vili 10,1.      recomponere 3 : VI 5, 5.  » 99 reductor s : Vili 12, 1.  71 redundanter ,: 120, 21.  118 reformare a : Pan. 53, 1.  18 reformator 1 :VHI 12, 1.  22 renutus t : I 7, 2.  117 resultare.* : VIII 4, 3;   Pan. 73, 1.  104 retinaculum^: I 12, 8.        »     Pag. 51  » 122        Pag.     108  69  19  11  94  9   84   27   96  10   76   95   97   119   14     sacerdotalis ,:VII 24,6.  salubriter 3 : I 24, 4;  VI 30, 3.  saxeus 3 : II 3, 7.  scurriliter ,: IV 25, 3.  seruatio.rX 120(121),1.  sesquihora t : IV 9, 9.  singultus 3 : IV 30, 6.  sinisteritas x : VI 17, 3;   IX 5, 2.   sipo 2 : X 33 (42), 2.  sipunculus t : V 6, 23;   6, 36.  socculus 3 : IX 7, 3.  social itas t : IX 30, 3;   Pan. 49, 4.  species o : X 56 (64), 4;   96 (97), 4.   spoliarìum 3 : Pan. 36, 1.  sportula 3 : II 14, 4.  subsignare 3 : III 1, 12;   X 4 (3), 4.  subterraneum 4 :IV 11,9.     63 ubertare , : Pan. 32, 2.  77 ueria , : V 6, 46; Vili unctorium xenium zotheca zothecula Epist. Epist. Epist. Epist. Epist.  ^»s& Epist. Epist. J^rtst Epist. Panegyr. L'AUTORE DEL LIBRO DE ONRAR BISI (ERMANOKYA RICERCHE CRITICHE Libero docente di letteratura e lingua latina nella R. Università di Catania DERE ROMA.  Ermanno LoescHER & Co  (Bretsehneider e Regenberg)  Librai di S. M. la Regina d’Italia Catania, via Maddem   MII    Tipografia editrice BARBACALLO & SCUDERI, in Catania.  Pad  «TI  AG    -YC16 A RoBERTO DI CARCACI    MIO ALUNNO NEGLI ANNI 1889 = 1894 Nel presente libro si compendiano i risultamenti di  un lavoro paziente di ricerche, durato per più anni. Le  conclusioni, alle quali siamo pervenuti, sembreranno a  taluni molto ardite ; e, forse, non tutti coloro che degneranno il libro di una lettura attenta, stimeranno che  si debbano fare a tali conclusioni « accoglienze oneste  e liete ». Ma chiunque esamini il nostro libro con animo alieno da preconcetti, non potrà, pur dissentendo  dalle conclusioni, disconoscere che le nostre indagini  critiche sono state sempre obiettive e senza il disegno  di far prevalere, ad ogni costo e in qualunque, modo,  una tesi prestabilita. Delle osservazioni che ci saranno  fatte, terremo il debito conto, ringraziando fin d’ ora  i lettori benevoli.   È opportuno, inoltre, avvertire che, quanto al testo  di Tacito, abbiamo seguito l’ ediz. curata dal Halm ; e  per la nat. Rist. di Plinio, l’ ediz. Jan-Mayhoff. Quanto  al testo della Germ., abbiamo preferito attenerci alla  recente ediz. di Ioannes Mueller (Wien u. Prag , F.  Tempsky ; Leipzig, G. Freytag: 1900, ed. II maior).   Citando di Tacito un intero capitolo o più parti d  uno stesso capitolo, si è omesso di indicare il num. del  rigo accanto al num. d’ ordine del capitolo. Degli autori che sono citati nel corso del libro , abbiamo conservato i testi tali quali si presentano nelle edd. consultate, senza variarne menomamente la grafia, ancorchè  questa apparisca, talvolta, inesatta. TTI DT NR gi TÀ  + + GND è + CHIND è + GHIND è + HD + è qu» 00:  LL tt rit ‘rl    eee e asi  _ > _ «= ++ «mm è  Malatano li sen a cut NA limiter sociali leva st E rc Dell’aureo libretto de origine et situ Germanorum 1,  che indicheremo, come altri han fatto prima, con l’abbreviatura Germ., non trovasi fatta menzione nell’ antichità, sia perchè non se n’ebbe notizia dagli scrittori    1 Il tit. de origine et situ Germanorum è indicato per la prima volta dal Panormita, in una lettera dell’ aprile 1426 diretta  al Guarini di Verona (vedi cod. Marciano XIV 221 f 95; cod.  Classense 419, 8 f. 3: cit. dal SABBADINI, notizie storico-critiche  di alcuni codici latini, in Studi italiani di filol. class. VII pp.  122-125), ed è confermato dai codd. Vatic. 1862 e Vatic. 1518.  In una nota di Pier Candido Decembrio (cod. Ambros. R 88  sup. £. 112: vedi SABBADINI, il ms. hersfeldese delle opere minori di Tac., in Rio. di filol. e d' istruz. class. XXIX 262) leggesi il tit. de orig. et situ Germaniae, ripetuto dal cod. Neapol.  Il cod. Leidens. dà: de origine situ moribus ac populis Germanorum : cf. WoELFFLIN, sum Titel der Germania des Tac.,  in Rhein. Mus. N. F. XLVIII 2, 312.    CoNsoLI : L’ autore della Germania, 1    sad    le cui opere sono pervenute sino a noi; sia perchè, sebbene ne avessero avuto notizia, essi credettero di mettere il libretto in non cale; sia anche perchè quanto  potè essere scritto intorno allo stesso, non si conservò  intatto dall’ azione del tempo. Quale di queste tre ipotesi risponda al vero o a questo più si avvicini, nello  stato presente delle nostre cognizioni sull’ antichità  classica, non può con certezza affermarsi. Nemmeno un  cenno sull’autore della Germ. è pervenuto sino a noi;  e tutto quello che ci è dato sapere in proposito si può  soltanto dedurre dal contenuto della Germ. stessa 1.  Nessun dubbio, però, si può avere sulla romanità del1’ autore, il quale, in tutto quanto scrive sui Germani,  mostra che ha costantemente l’attenzione volta alle condizioni morali, politiche e militari di Roma, che talora  gli son causa di vive inquietudini. Ma degli scrittori  romani che trattarono delle relazioni, in pace e in guerra,  dei Romani coi Germani, dopo quello che ne aveva  scritto il ‘ summus auctorum diuus Iulius ?, ® ce ne sono  parecchi, nel primo secolo dell’ impero. * Tito Livio a  4 Qualcuno, spingendo all’ estremo le conseguenze del silenzio degli antichi sul nome dell’a. della Germ., è giunto a negare l'autenticità del libro: vedi quel che scrive in proposito  A. GeFFRoy, Rome et les barbares, étude sur la Germanie de  Tacite, Paris 1874, pp. 55-56.   2? Germ. 28, ì.   3 Vedi W. ScHLEUSNER, quae ratio inter Taciti Germaniam  ac ceteros primi saeculi libros Latinos,in quibus Germani tangantur, intercedere uideatur. Acc. loci quidam Amm. Marcellini. 1886. A. LUECKENBACH, de Germaniae quae uocatur Taciteae fontibus. Marb. 1891. A. GUDEMAN, the sources of the Germania of Tacitus, in Transactions and proceedings of the  American philological association, 1909, vol. XXXI, pp. 93-111.    aa    veva già trattato dei Germani nel corso delle sue storie, scrivendo delle imprese di Giulio Cesare! e delle  spedizioni di Druso. ? Dello stesso argomento si era certamente dovuto intrattenere l’imperatore Ottaviano Augusto, tanto nelle sue memorie, * quanto nell’elogio che  egli scrisse per il figliastro Druso 4; e, dopo Ottaviano,  anche Vipsanio Agrippa nella sua autobiografia *;  Giulio Marato, liberto e biografo di Augusto $; e forse  Cremuzio Cordo ne’ suoi libri de rebus Augusti ?: chè  notevoli furono, durante l’ impero augusteo, i conflitti  tra Romani e Germani. Di poi Velleio Patercolo, menzionata la disfatta di Varo, promise intrattenersi dei  Germani. * Non potevasi escludere un cenno della poli  l Vedi il principio dell’epit. del 1. CIV : ‘ prima pars libri situm Germaniae moresque continet ’.   ? Epitomae dei Il. CKXXVII, CXXXVIII, CXXXIX e CXL.   8 Sveron. Aug. 85; Claud. 1. Cf. G. BERNHARDY, Grundriss d.  r L.5 $ 46,261. TEUFFEL-SCHWABE, G. d. r. L. 5 $ 220, 3,468.   4 Vedi l’ epit. ll CXL di Livio. Sveron. Claud. 1. Cass. Dion.  r. Rom. LV 2, 2.   5 Intorno all'autobiografia di Agrippa vedi la menzione che ne  fa Serv. comm. in Verg. georg. II 162,235, vol. 3°, fasc. 1°,  rec. Th.   6 SveToN. Aug. 79.   7 Vedi SEN. dial. VI 1, 3; 22,4; 26,1 e 5. Tac. ann. IV 34 e  35. Cass. Dion. r. Rom. LVII 24, 1-4. Sveron. Tib. 61; Calig.  16. Neli’ ed. Bonnell di QvinTIL. X 1,04, vol. 2°,163 non si  fa menzione di Cremuzio Cordo; e dove alcuni pretendono leggere ‘ nec immerito Cremutii libertas '’, lo Zumpt coi migliori  codd. legge: ‘nec immerito remitti ( cod. Bamb ‘ rem uti ’ )  lib., dix. uel noc. *   8 VeLL. PaTERC. A. R. II 119 ‘“ordinem atrocissimae calamitatis , qua nulla post Crassi in Parthis damnum in externis gentibus grauior Romanis fuit, iustis uoluminibus ut alii, ita n 0 s  conabimur exponere: nune summa deflenda est’ (Halm).     di    tica romana, quanto alle relazioni coi Germani, nelle  autobiografie degli imperatori Tiberio ! e Claudio * ; e  di proposito si dovette trattare delle lotte, sì varie e  persistenti , contro i Germani negli scritti di Cornelio  Lentulo Getulico, che fu a capo delle legioni della Germania superiore 3, e nei commentarii di Cn. Domizio  Corbulone , che fu anche’ a capo degli eserciti romani  in Germania e mosse guerra contro i ‘Chauci?. ' Nè  può presumersi che le importanti vicende delle armi  romane nella Germania siano state lasciate senza alcuna  menzione nelle Ristoriae di Cornelio Bocco, Servilio Noniano, Cluvio Rufo *, Fabio Rustico e di altri istoriografi, ai quali pare che si debbano riferire le affermazioni generiche ‘ memorant , ‘ quidam opinantur ’, ‘ adhuc extare ’, che si notano nel cap. 3° della Germ.  Storicamente è accertato che trattarono dei Germani  e delle guerre germaniche Aufidio Basso e ©. Plinio  Secondo. Il lavoro di Aufidio Basso aveva per titolo  belli germanici libri", e probabilmente formava parte    1 Sveron. Tib. 61; Dom. 20.   2 Sen. lud. de m. Claud. 5, 4. PLIN. n. Ah. XII 17 (39), 78  Sveron. Claud. Al.   8 Cass. Dion. r. Rom. LIX 22, 5: cf. SveToNn. Galb. 6. Ma il  Jahn (Pers.CXLII) ammette che Lentulo Getulico non abbia  scritto propriamente una storia, sibbene un carme sulle spedizioni contro i Germani ed i Britanni.   4 Tac. ann. XI 18 e 20.   5 Il GIORDANI, studi sopra Tac., crede che si accenni a Cluvio  Rufo nel celebre elogio di QvintIL. i. 0. X 1, 104 ‘superest adhue et exornat aetatis nostrae gloriam uir saeculorum memoria dignus’, cet. Vedi opere di P.G., pubblic. da A. Gussalli,  vol. 12°, pag. 215; Milano, Sanvito, 1857,   6 QUvINTIL. i. 0. X ], 103.    Vea  d’un altro lavoro storico più ampio, scritto da lui  stesso !. Plinio Secondo narrò in libri trentuno @ fine  Aufidii Bassi la storia de’ suoi tempi, in continuazione di quella scritta da A. Basso ?, e perciò vi dovette includere la trattazione delle relazioni dell’ impero coi Germani: dovette in particolar modo trattare di tali relazioni nei due libri de vita Pomponii  Secundi, il quale fu legato in Germania sotto Claudio,  e, per la vittoria sui ‘Chatti’ devastatori; si ebbe lo  onore del trionfo. Plinio scrisse inoltre venti libri  bellorum Germaniàe! o Germanicorum bellorum î, nei  quali trattò (ripetiamo le parole del nipote di lui, Plinio il giovane) ‘omnia quae cum Germanis gessimus bella”.6 La storia pliniana delle guerre germaniche si conservò in Germania sino al sec. XVII;  poi sparve e non se n° ebbe più notizia: ma non si è    perduta la speranza che il prezioso ms. si possa ritrovare, ?       1 TEUFFEL - ScHWABE, G. d. r. L.5 S 277, 2,664. CL R.  NicoLa1, G. d. r. L. Magdeb. .1881, n. 107,616,   ? PLIN.n. h,, praef. 20. PLIN. epist. III 5, 6: vedi anche V_ 8,5,   3 PLIN. epist. II 5, 3. Tac. ann. XII 27 e 28,   4 PLIN. epist. III 5,4.   5 Tac. ann. I 69,6. SyYMMACH. epist. IV 18 ad Protadium, 152: ‘ enitar, si fors uotum iuuet, etiam Plinii Secundi Germanica bella conquirere”.   6 PLIN. epist. III 5, 4. La frase di Plinio il giovane è ripetuta da Suetònio :' ‘bella’ omnia, quae unquam cum Germanis gesta sunt, XX uoluminibus comprehendit’: v. C. SveTon. TRANO. deperditorum librorum reliquiae, ed. Roth, 1882, 300. i   © H. F. Massmann; Germ. des C. Corn. Tac., Quedlinburg u.  Leipzig 1847,179, noja 6, riferisce un passo dei monumenta    ME    Sicchè non sarebbe fuor di luogo il supporre che  quanto si contiene nel libretto de origine et situ Germanorum avesse potuto, per intiero o in parte, in una  forma identica a quella con cui è pervenuto sino a noi  o alla stessa somigliante, costituire, come un’introduzione geo-etnografica o in altro modo, parte integrante dei lavori storici sulla Germania di Aufidio Basso o  di Plinio Secondo; e particolarmente di quest’ ultimo  che, oltre al continuare l’opera di Basso, trattò più  ampiamente e, con migliore e più esatta conoscenza dei  fonti e dei fatti il tema delle guerre germaniche. Se  non che ad ammettere ciò pare che contrastino alcuni  luoghi notevoli del testo della Germ., poichè in essi,  secondo quel che comunemente affermasi, si menzionano fatti posteriori alla morte di Plinio Secondo (a. 79  d. Cr.). Infatti, nelle parole ‘ac rursus inde pulsi ( sc.  Germani) proximis temporibus triumphati magis quam  uicti sunt” (Germ. 37, 26) si vuol vedere un’allusione  al trionfo di Domiziano sui ‘Chatti?, a. 83 d. Cr.! Si  pretende riconoscere nelle parole del cap. 42, 9 della  Germ. ‘raro armis nostris, saepius pecunia iuuantur ’  (sc. Marcomani et Quadi), l’usanza invalsa sotto Domi  Paderbornensia del FuEeRsTENBERG: ‘Plinii XX uwolumina de  bellis Germanis... quae Conr. Gesnerus Augustae Vindelicorum,  alii Tremoniae in Westphalia apud Casparum Swarzium patricium Tremoniensem exstitisse tradiderunt’. La nota del  Massmann è ripetuta dal Geffroy, op. cit.,85, n. 3.   1 Sveron. Dom. 6 ‘de Catthis Dacisque post uaria proelia  duplicem triumphum egit’. Cf. Dom. 13, in fine. Le monete in  cui si dà a Domiziano il tit. di ‘Germanicus’ sono del principio dell'a. 84. Vedi EcKkHEL VI 378; 397: e MommsEN-DE RuGGIERO, le prov. rom. da Ces. a Dioclez., Roma, 1887; cap. IV, 139, e nota 1* nella stessa pag.     7  ziano di dar danaro ai capi dei barbari per tenerseli:  ubbidienti e dar loro i mezzi di accrescere il numero  dei partigiani dei Romani. ! Si scorge nel cap. 45 della  Germ. un accenno intorno alle notizie sulle. regioni  nordiche, pervenute a Roma dopo la spedizione di Giulio  Agricola ?. Osservasi inoltre che l’annessione dei campi  decumati, indicata nel cap. 29, 19 Germ. con le parole  ‘mox limite acto promotisque praesidiis sinus imperii et pars prouinciae habentur (sc. agri decumates)’,  si compì al tempo di Domiziano o di Traiano, 3 Si fa menzione nel cap. 33 Germ. dello sterminio dei ‘ Bructeri/,  che vuolsi avvenuto verso l’ a. 100 d. Cr. Infine si. adduce come prova evidentissima che la Germ.. fu scritta  e pubblicata verso la fine del secolo I d. Cr., il computo degli anni presentato nel cap. 37, 6 per, indicare  la durata della lotta coi Germani: ‘sescentesimum et  quadragesimum annum urbs nostra agebat, cum primum Cimbrorum audita sunt arma...... ex quo si ad  alterum imperatoris Traiani consulatum computemus,  ducenti ferme et decem anni colliguntur *.  Consideriamo l’ uno dopo l’altro i ll. citati..    I.  Germ. 37, 23 ‘ mox ingentes Gai Caesaris minae  in ludibrium uersae. inde otium, donec occasione discordiae nostrae et ciuilium armorum expugnatis legio  1 Cass. Dion. r. Rom. LXVII 7, 3-4 (Xiphil.).   2 Tac. Agr. cc. 10, 12 e 33 in fine.   3 Così affermasi nei comm. alla Germ: di I. F. K. Dilthey  (Braunschweig 1823,187 sg.), di Th, Kiessling (Lps. 1832, 119 sg.). di U. Zernial (Berl. 1890,60), di A. Pais (Torino  1890,49), di G. Marina (Romania e Germania ovvero il  mondo germanico secondo le relazioni di Tac., Trieste 1892, 97), etc.    RR era  num hibernis etiam Gallias adfectauere; ac rursus inde  pulsi proximis temporibus triumphati magis quam uicti  sunt’. Nella lotta, dunque, contro i Germani, il passo  cit. ci rappresenta successivamente i sgg. fatti : a) la  spedizione poco seria di Caligola; d) la sospensione di  qualsiasi spedizione militare sotto Claudio e Nerone;  c) l'insurrezione dei ‘ Bataui ” guidati da Giulio Civile,  la quale si estese anche alle Gallie ; d) un trionfo di  nessuna importanza, sui barbari. Tale trionfo non può  essere altro che soltanto quello di cui menò vanto Domiziano sui ‘ Chatti ’ ? A noi pare, invece, che l’ autore abbia voluto riferirsi ai vantaggi, di poca efficacia  e poco duraturi, riportati dalle armi di Vespasiano sui  ‘‘Bataui’ e sugli alleati di questi. Se, in vero, l’autore  avesse voluto riferirsi al trionfo di Domiziano, non avrebbe certamente tralasciato di menomarne, in un modo  qualsiasi, 1’ importanza, come appunto si legge nel de  uita et moribus Iulii Agricolae * e in altri scritti che  menzionano o fanno allusione alla vantata vittoria di  Domiziano. * Si aggiunga che l’ autore, avendo mal animo contro Domiziano ; se per Caligola disse poco  prima, notando il ridicolo delle imprese di lui contro       1 Tac. Agr. 39, 3 scrive di Domiziano: ‘inerat conscientia  derisui fuisse nuper falsum e Germania triumphum, emptis per  commercia, quorum habituset crines in captiuorum speciem  formarentur. ’   ? PLIN. pan. 16, 3 ‘accipiet ergo aliquando Capitolium non  mimicos currus nec falsae simulacra uictoriae, sed imperatorem ueram ac solidam gloriam reportantem ’ e. q. s. Cass. Dion.  r. Rom. LXVII 4, 1. Oros. hist. adu. pag. VII 10, 3 e 4. Loda,  invece, MARTIAL, ep.IX 6; e FRONTIN. sfrat. I 1, 8; 3, 10. II 3,  23; 11, 7. IV 3, 14 (ed. Gundermann) mostra di non dubitare  menomamente dell’ importanza della spedizione di Domiziano,    i. Gas    i Germani : ‘ ingenies Gai Caesaris minae in ludibrium  uersae ’, ! avrebbe scritto parole più gravi contro Domiziano , ove avesse voluto DIADIESI alla iattanza di  EI imperatore.   D’ altro canto, la frase ‘ proximis temporibus triumphati magis quam wicti sunt" non può riferirsi all’ onore trionfale concesso, nell’a. 50 «dd. Cr., a Pomponio Secondo che aveva sottomesso i ‘ Chatti ’ e liberato, dopo  lunghi anni di cattività, alcuni dei soldati -di Varo,  caduti prigionieri nella battaglia di Teutoburg ?; poichè l’ insurrezione dei ‘ Bataui ’, dilatata nelle Gallie,  alla quale si accenna con le parole ‘ expugnatis legionum hibernis etiam Gallias adfectauere ’, * è posteriore  di circa venti anni alla vittoria di Pomponio Secondo.   E però le parole citate del testo della Germ. ‘ proximis temporibus triumphati magis quam uicti sunt’,  non possono che riferirsi al tempo in cui Vespasiano  riusciva a sedare l’ insurrezione batavica; e, sebbene  intorno a ciò non sia dato d’ avere dirette notizie da  Tacito, perchè le historiae di lui restano interrotte nel  lib. V 26, appunto quando lo storico insigne si accingeva  a trattare della fine dell’insurrezione di Civile,e della vittoria riportata dalla politica di Vespasiano sulle sedizioni germaniche, pure il trionfo di Vespasiano sui ‘ Bataui? e i loro alleati germanici è indicato chiaramente  dalle parole ‘ uidimus sub diuo Vespasiano Velaedam  diu apud plerosque numinis loco habitam ? (Germ. 8, 8).    1 Lo stesso apprezzamento notasi in Tac. Agr. 13,11. rist. IV  15, 9. Cf. A. RIESE,der Feldzug des Caligula an der Rhein, in  Neue Heidelberger Jahrbicher, vol. VI, fasc. 2. i   2 Tac. ann. XII 28.   3 Vedi anche Tac. hist. IV 17 e V 26.    40    Veleda, vergine fatidica di nazione bructera, ebbe, come è noto, una parte principalissima, insieme col suo  popolo e con altri popoli germanici, nel movimento insurrezionale sollevato da Civile. ! Essa fu, dunque, veduta a Roma, non pregiata nè tenuta in onore da  Vespasiano, come fu poi onorata da Domiziano la vergine Ganna, che a lei succedette nell’ arte del vaticinio ?, ma prigioniera *, probabilmente incatenata presso al carro trionfale del vincitore. 4   Un’altra ragione c’induce ad ammettere che nel passo  considerato della Germ, si tratti del trionfo di Vespasiano, verso l’a. 70 d. Cr, e non di quello arrogatosi,  insieme col titolo di Germanico >, da Domiziano.   I popoli che presero parte all’ insurrezione di Civile  furono, anzi tutto , i ‘ Bataui”, ai quali si unirono i  ‘ Canninefates’, i ‘ Frisii”, i ‘ Bructeri”, i ‘ Tencteri”, etc.0  Essi prevalsero da prima, mentre Roma era dilaniata  dalle guerre civili tra i pretendenti all’ impero, tanto  che ‘expugnatis legionum. hibernis etiam Gallias adfectauere ?. Perciò gl’insorti, di cui immediatamente dopo    1 Tac. hist. IV 61; 65. V 22; 24.   2 Cass. Dion. r. Rom. LXVII 5, 3 (Xiphil.).   3 STAT. silu. I 4, 89 sgg. ‘non uacat Arctoas acies, Rhenumque rebellem, | captiuaeque preces Veledae, et (quae  maxima nuper | gloria) depositam Dacis pereuntibus arcem |  pandere’. Vedi MommsEN-DE RucGIERO, op. cit., cap. IV, pp.  132 e 135.   4 U. Zernial, commentando la voce ‘ uidimus’ del |. c.,30,  dice esplicitamente: « Wir haben gesehen, n. zu Rom, auch  Tacitus selber, der sich des etwa im 15. Lebensjahre gesehenen  Triumphes ueber die Bataver sehr wohl erinnern konnte ».   5 Sveron. Dom. 13.   6 Tac. hist. IV 15; 16; 21.    Leida   sì dice ‘ rursus inde pulsi’ e. q. s., altri non sono che  gli stessi ‘ Bataui ed i loro alleati, che erano stati capitanati da Civile, e dei quali poi, stante il sopravvento  delle armi di Ceriale, menò trionfo Vespasiano, L° imperatore Domiziano , invece, si vantò del trionfo sui  ‘ Chatti’, non sui ‘ Bataui ’. È vero che, in origine , i  ‘ Batani” furono ‘ Chattorum quondam populus et seditione domestica in eas sedes transgressus, in quibus  pars Romani imperii fierent’ ( Germ. 29, 3); ! ma, al  tempo dell’insurrezione di Civile, erano del tutto separati dai ‘ Chatti” : e questi non si trovavano uniti coi  ‘Bataui’, già abbattuti da Vespasiano, quando Domiziano  fece irruzione, al dire di Suetonio, ‘ sponte in Catthos ” ?.   Non puossi, inoltre, non mettere in evidenza che, se  l’autore della Germ. avesse voluto riferire le sue considerazioni d’ordine politico e militare a Domiziano, non  si sarebbe valuto di un’allusione generica, spiegabile  solo per chi scrive in tempi di oppressione e di tirannide. Si conviene comunemente che la Germ, sia stata:  scritta e pubblicata verso il 98 d. Cr., allorchè ‘rara  temporum felicitate’, come scrisse Tacito stesso, ‘ ubi  sentire quae uelis et quae sentias dicere licet’ } 1° imperatore Nerva aveva riunito ‘res olim dissociabiles,  principatum ac libertatem’, e l’ imperatore Traiano  aveva accresciuto ‘ quotidie felicitatem temporum’;  sicchè ‘ nec spem modo ac uotum securitas publica, sed    1 Vedi inoltre Tac. hist. IV 12, 6 ‘ Bataui, donec trans Rhenum agebant, pars Chattorum, seditione domestica pulsî extrema  Gallicae orae uacua cultoribus..... occupauere ’,   2 Sveron. Dom. 6.   3 Tac. hist. 1 1, 19.    n ia   ipsius uoti fiduciam ac robur adsumpserit’!: e per  tanto, sein un lavoro che si suppone scritto prima della  Germ., cioè nel de vita et moribus Iulii Agricolae, lo  autore, non più preoccupato delle ‘conseguenze della  sua franchezza di linguaggio, chè i tempi di Domiziano  erano finiti per sempre, dichiara, con frase forse eccessiva, falso il trionfo di questo imperatore sui (Germani *, qual motivo poteva avere l’autore della Germ.  per indicare la stessa cosa con una timida e lontana  allusione, mentre si godeva da tutti piena libertà ?   In generale, poi, è da avvertirsi -che la frase più  volte citata ‘triumphati magis quam uicti sunt ’, se indubitabilmente è detta per i ‘ Bataui” ed i loro alleati,  nel pensiero dell’ autore si doveva eziandio estendere  dalla bravura dei ‘Bataui’ all’indomabile fierezza dei  Germani. Dello stesso modo Floro, riferendosi al breve  gaudio delle vittorie di Druso in Germania, ne concludeva in generale : ‘ quippe Germani uicti magis quam |  domiti erant ’?.    II.  Quanto ai ‘ Marcomani’ ed ai ‘ Quadi’ si avverte, nel. cap. 42 della Germ., che avevano avuto prima i loro re della nobile stirpe di Maroboduo e di Tudro, ma che poi avevano accolto re stranieri, il cui potere fondavasi sull’autorità di Roma : questi re, si conclude nel cap. cit., ‘ raro armis nostris, saepius pecunia iuuantur, nec minus ualent’. Chi siano stati i  ‘ reges externi’ imposti da Roma ai ‘ Marcomani ’ ed ai  ‘Quadi ’, non ci è dato saperlo, perchè i fonti fin qui noti    1 Tac. Agr. 3, 2-6; cf. 44, 15,  ? Tac. Agr. 39, 4: cf. la nota precedente.  3 FLOoR, epit. II 30 (IV 12, 30), pag. 101, ed. Halm, non soccorrono per determinare ne’ suoi particolari il  pensiero enunciato dall’autore !; e di conseguenza non ci  è noto in che modo e in qual tempo gli imperatori romani li abbiano giovati con armi o con danaro. Ma è  inesatto affermare che l’usanza di dare ai principi dei  Germani armi o danaro, per acquistare dei partigiani  e sostenere l’autorità dell’ impero sopra i barbari, sia  cominciata sotto Domiziano *; poichè fin dal 47 d. Cr.  l’imperatore Claudio aveva mandato Italico, nipote  di Arminio, a regnare sui ‘ Cherusci”, ‘auctum pecunia,  additis stipatoribus’*; e al tempo dell’ insurrezione di  Civile, a. 70, si osservava: ‘Germanos.... non iuberi,  non regi, sed cuncta ex libidine agere; pecuniamque ac dona, quis solis corrumpantur (sc. Germani), maiora apud Romanos”.* Di modo che il passo  di Cassio Dione, nel quale si dà la notizia che Domiziano mandò a Decebalo danari e operai abili nei di  ! Per i tempi posteriori a quelli in cui fu scritta la Germ. si  noverano soltanto i re dei ‘Quadi’ Viduarius, a. 358 (Amm. Marc.  r. g. XVII 12, 21) e Gabirius, a. 873 (id. XXIX 6,5. XXX, 5,3);  edi principi dei ‘Quadi’ Araharius (id. XVII 12, 12-16), Vitrodorus e Agilimundus. A qualche commentatore della Germ. (cf. i comm alla Germ. del Dilthey,265;  del Kiessling,151; del Pais, p: 64; etc.) è parso di scorgere  nella frase ‘iam et externos patiuntur' una probabile allusione  a Vamnio, di gente queda, imposto da Druso (a. 19) come re  ai ‘Suebi’ (Tac. ann. II 63. XII 29): e ciò può ben darsi, ma  l'accenno sarebbe sempre riferito ad un fatto anteriore al tempo  in cui imperò Domiziano.   2 V. i comm. alla Germ. del Dilthey,265; del Kiessling, 151 sg.; del Pais,64; del Marina,132.   3 Tac. ann. XI 16, 6.   4 Tac hist. IV 76, 9. Lo stesso concetto notasi in HERODIAN.  de Rom. imperatorum uita et rebus, VI 7.    FI Pn    versi mestieri sì in pace che in guerra, devesi coordinare ermeneuticamente coi ll. citati sopra, e concluderne che anche prima del 79 d. Cr. si era messa  in atto dagli imperatori romani la politica dei sussidi di armi e danaro, verso i barbari.    III.  Nel cap. 45 della Germ. si leggono le sgg.  notizie: ‘ trans Sitonas aliud mare, pigrum ac prope  immotum, quo cingi cludique terrarum orbem hinc fides, quod extremus cadentis iam solis fulgor in ortum  edurat, adeo clarus, ut sidera hebetet; sonum insuper  emergentis audiri formasque equorum et radios capitis  adspici persuasio adicit. illuc usque, si fama uera,tantum natura’.* Vuolsi che tali notizie siano pervenute  dal libro de vita et moribus Iulii Agricolae, al cui  autore furono riferite da Agricola stesso, reduce dalle  guerre di Britannia, non prima dell’a. 85 d. Cr., cioè  sei anni circa dopo la morte di Plinio Secondo. Infatti,  quanto al ‘ mare pigrum ac prope immotum ’, leggesi  nell’ Agr. 10, 18: ‘sed mare pigrum et graue remigantibus perhibent ne uentis quidem perinde attolli ?.  Che ivi fosse il limite del mondo ‘ cludique terrarum  orbem ’, riscontrasi in una frase del discorso di Agricola ai soldati: ‘nec inglorium fuerit in ipso terrarum ac naturae fine cecidisse’ (Agr. 33, 26). E il fenomeno che osservasi nelle regioni nordiche *, cioè :    1 Cass. Dion. r. Rom. LXVII 7, 3-4 (Xiphil.).   2 Secondo la recens. Halm e la recens. Io. Mueller.   3 Alcuni commentatori della Germ. (v.il comm. di U. Zernial, 87; e l’op. cit. del Marina,138 in fine e p.. 140 in principio, censurano l'autore di essa per aver confuso il nord della  Britannia con la Scandinavia; ma la censura non è giusta,    Masini    Ae  ‘ extremus cadentis iam solis fulgor in ortum edurat,  adeo clarus, ut sidera hebetet’, è accennato nel cap.  12, 9 dell'Agr.: ‘ nox clara et extrema Britanniae parte breuis, ut finem atque initium lucis exiguo discrimine  internoscas ?.   La rispondenza che abbiamo riportata intera tra le  notizie riferite nella Germ. e le notizie consimili che  presenta il libro de v. et m. I Agricolae, non porta  di conseguenza che l’autore dell’una abbia attinto alle  notizie esposte nell’altro libro, ma dà argomento ad  ammettere che tanto chi scrisse la Germ. quanto l’autore dell’Agr. attinsero le loro notizie agli stessi fonti,  che per questo ultimo furono confermati dalla narrazione fatta da ‘Agricola, al ritorno dalla Britannia. E  di tali fonti comuni alcuni sono pervenuti sino a noi,  e rendono agevole il riconoscere che le notizie recate in  principio del cap. 45 della Germ. erano già acquisite  alla coltura generale, prima ancora della spedizione di  Agricola in Britannia.   Il celebre viaggiatore Pytheas (a. 330 circa a. Cr.)  indica il mare che nella Germ. è detto ‘pigrum ac  prope immotum ’, con la designazione ‘ pepegyia thàlassa ’.! Anch’egli dovette far menzione delle chiare  notti estive delle regioni settentrionali, poichè osservò  che nell’ estrema Thyle si alternavano nel corso dell’anno sei mesi senza notte e sei mesi senza giorno *.    perchè il fenomeno della breve durata e della chiarezza delle  notti estive osservasi ugualmente tanto nell’un paese quanto  nell’ altro. Cf. Ven. Bepa, hist gentis Anglorum I 1, col. 1jin  operum tomus tertius, Colon. Agrip. 1612.   1 STRAB, geogr. I 4, 2 (C. 63), ed. Meineke, v. 1°,82.   ? Prin. n. A. II 75 (77), 187.    AE  Plinio, movendo dalla osservazione sulle chiare notti  estive in Britannia, cerca dare una spiegazione del fenomeno notato da Pytheas : egli scrive ‘ aestate lucidae noctes haut dubitare permittunt, id quod cogit ratio  credi, solstiti diebus accedente sole propius uerticem  mundi angusto lucis ambitu subiecta terrae continuos  dies habere senis mensibus, noctesque e ‘diuerso ad  brumam r emoto ’.' A Plinio si deve anche la divulgazione della rotizia, che poi venne, probabilmente, confermata dalla relazione orale o scritta di Agricola, sul  ‘mare pigrum ac p. i.’: egli lo dice ‘mare concretum ?, ed avverte che da alcuni era chiamato ‘ Cronium ’? e che, secondo Philemon, quella parte del  mare che precedeva il ‘ Cronium ’, sino al promontorio  ‘ Rusbeae ’,3 era detto dai Cimbri ‘Morimarusa ’, cioè  .‘mortuum mare ?’.* Ma prima di Plinio si era già osservato da Seneca padre che ai confini del mondo era  l’oceano, e dopo questo il nulla”: concetto che trovasi  ripetuto in parte nella frase della Germ.:* illuc usque,  si fama uera, tantum natura ’; alla quale risponde la  frase dell’Agr.: ‘in ipso terrarum ac naturae fine ”.  Resta la difficoltà dell’inciso ‘si fama uera”’, in cui  parrebbe contenersi un accenno alle notizie sull’ alto    1 Prin. n. h. L’ osservazione è ripetuta.   ? PLIn. n. A. Vsque ad promunturium Rusbeas': così nei codd. Leidens.  (A), Riccard. (R), Paris. 6797 (d) e nelle edd. Detlefsen (Berol.  1866), L. Jan (Lips. 1870). ‘ Roudoas’ è dovuto a correzione di  seconda mano nel cod. Leidens. Lips. 7 (F). Solino (coll. r. m.  19, 2, rec. Mommsen) lo trascrive ‘ad promunturium Rubeas”’   4 PLIN. n. Ah. IV 13 (27), 95.   5 SEN. RHET. suas. I 1,2, ed. Kiessling.    = If.  nord, conosciute meglio a Roma ovvero positivamente  confermate da Agricola dopo il suo ritorno dalla Britannia. Nei codd. leggesi veramente ‘et fama uera’,  che non pochi dei moderni edd. della Germ. hanno ripresentato. La sostituzione della cong. ‘si’ all’ ‘et’  è dovuta ad una congettura del Grozio ; cosicchè se,  per tale congettura, si può presumere che l’autore voglia presentare un suo dubbio, che valga a mettersi in  contrasto con le voci ‘ persuasio ’ e ‘ fides ’, con le quali  si annunziano certi fenomeni naturali, quali il rumore del  sorgere del sole, le forme dei cavalli e dei raggi del capo del sole stesso, e lo splendore dei raggi solari persistente fin dopo il tramonto e tanto da oscurare le  stelle; ogni dubbio si elimina con la lezione ‘et fama  uera’, che dà per indubitato il limite del mondo in  quel ‘mare pigrum’, con cui si cinge e si chiude lo  orbe terrestre. Nè da tale conclusione è possibile allontanarsi, ammettendo col Dòderlein lo spostamento  delle parole ‘et fama uera’ dopo ‘natura’, di modo  che l’ intera frase suoni: ‘illuc usque tantum natura,  et fama uera’. Il Ritter, invece di tentare di risolvere la questione, la tronca, chiudendo tra parentesi quadre tutta la frase ‘illuc usque, et fama uera, tantum  natura ’.! A noi pare che si debba, anzi tutto, tener  presente l’ avvertenza del Massmann: “libri impressi  iungunt vera tantum natura’.* E, d’ altro canto, 0sservando che nel cod. Rom. della bibl. Angelica (Augustinorum) Q 5,12 manca la voce ‘usque’ e stanno       1 P. Cornelii Taciti opera recensuit FRANCISCvs RITTER, Lps.  1864,651.   ? MASSMANN, Op. cit.,129, nota 23  ConsoLi : ZL’ autore della Germania. :    cy LA  accanto ‘illuc ‘ut’, e osservando inoltre che la particella  ‘‘ut’ è data ‘anche, invece di ‘ et’, dal cod. Florent. della  Laur. 73,20 e dal Vatic. 655, se ne deduce evidentemente  che la frase della Germ. dovette sonare: ‘ illuc, ut fama,  uera tantum natura’. ! E con lo scrivere ciò l’ autore  non si propose affermare alcuna cosa sulla verità o me‘‘no delle notizie attinte per fama intorno all’ argomento  studiato, ma soltanto mirò ad indicare con l’espressione ‘ut fama” un concetto di limitazione a quanto si  soleva affermare rispetto ai termini del mondo (‘na‘tura ’ ); concetto consimile a quello significato prima,  in rapporto allo splendore ed alle parvenze del sole,  con le voci ‘fides? e ‘persuasio’.   Del resto, ove non si vogliano accettare le varianti  ‘ dei codd. sopra citati, si può sempre pervenire alla  medesima conclusione, conservando la lez. ‘illuc usque,  et fama, uera tantum natura’; che vale « la natura  vera, ossia il mondo reale, ? si estende fin là soltanto:  tale ne è anche la ‘fama ». Talchè l’inciso ‘et fama ’=  ‘et fama haec est’ vale a mostrare che era general‘ mente noto che si estendevano sino a quel punto, non  oltre, i limiti della ‘natura reale.    IV.  Per garentire i confini dell’impero dalle in.cursioni dei barbari, si cominciò a costruire, anche dalla    1 Il Nipperdey, leggendo ‘usque et fama, ultra tant. nat. ’,  conviene, in parte, nello stesso concetto, togliere, cioè, a ‘ fa‘ma’ l’epiteto ‘‘uera’.   2 ‘“Verus’ non indica soltanto la qualità di ciò che si fonda  sulla ‘verità, ma rappresenta anche la qualità di tutto ciò che  ha per base la realtà o, per ripetere le parole del-GEoRGES,  ausfihrl. Handiob, II 3093, « in der Wirklichkeit begrindet,  *wirklich »,       PERS (3 pe  parte del Reno, un ‘limes’ o via fortificata, per lo più  munita di argini (‘aggeres ’) e di stazioni di guardia  (‘praesidia’)', sotto l’impero di Tiberio ®: fu continuato e probabilmente portato a compimento sotto Adriano. L’autore della Germ. dà per il primo, anzi il solo, la notizia che gli ‘agri decumates ’,  siti al sud-ovest della Germania, tra l’ alto Reno e le  sorgenti «lel Danubio, e sui quali il fisco riscoteva, forse, un diritto di decima dai possessori, ‘ vennero incorporati all’ impero; onde, per la difesa del territorio  annesso, il ‘limes’ insieme coi ‘ praesidia’ si portò  innanzì, oltre il Reno; e però i campi decumati ‘ sinus  imperii et pars prouinciae habentur ? (Germ. 29, 19).  Quande si fece tale spostamento ? Alcuni dei commen  1 TH. MommsEn, der Begriff des Limes, in Westdeutsche Zeitschrift fiur Geschichte u. Kunst, a. XIII, fasc. 2°. Vedi inoltre  MommsEN-DE RucGiIERO, op. cit., cap. IV,115, nota l.   2 Tac. ann. I 50, 3 ‘limitemque a Tiberio coeptum”’. II 7, 11  “et cuncta inter castellum Alisonem ac Rhenum nouis limitibus aggeribusque permunita’ (a. 16 d. Cr.).   8 Cf. SPARTIAN. Hadr. 12, 6; in scriptt. hist. Aug. I p. 14, ed.  H. Peter. Nell'op. cit. MomMseNn-DE RuGGIERO, cap. IV, p. 142,  si fa menzione di nuove costruzioni aggiunte ai ‘ limites’ sotto i regni di Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Notasi  inoltre, in un discorso del console Velio (Vettio ?) Cornificio  Gordiano (a. 275), che alla morte di Aureliano i Germani ruppero il ‘ limes’ transrenano ed invasero alcune forti e ricche  città dell'impero: v. Vopisc. Tac. 3, 4, in scriptt. hist. Aug.  XXVII p. 187, ed. P.   4 GEFFROY, Op. cit., p. 318 sg. Ma il Mommsen giustamente  avverte che « nè è linguisticamente provato che ‘decumas’  possa significare obbligato alla decima, nè simili istituzioni son  note nell'impero ». Vedi MommsEN-DE RucGIERO, op. cit., cap.  IV, p. 141, nota 11,    ELI  tatori della Germ. si affrettano ad indicare il tempo  di Domiziano o, in generale, verso la fine del I sec.  ed il principio del II. ! Tale indicazione porterebbe di  conseguenza che l’autore della Germ. avesse atteso a  scrivere il suo lavoro sotto Domiziano o nei primi tempi dell’ impero di Traiano, in ogni caso dopo l’a. 79.  Ciò pare a noi inesatto.   Infatti, Domiziano se, per ingannare l’ opinione pubblica, aveva celebrato pseudo-trionfi sui Germani, non  ignorava, d’altro canto, che per un mero caso (cioè, la  piena del Reno) aveva superato la sedizione di L. Antonio, preside della Germania superiore, ? e che ai confini i suoi eserciti erano stati sopraffatti dai barbari; *  talchè, piuttosto che estendere i confini dell'impero di là  dal Reno, per annettere al suo dominio gli ‘ agri decumates’, avrebbe stimato gran ventura conservare i confini di prima, senza spingere in avanti il ‘limes’ ed i  ‘ praesidia ’. È supponibile che si estendano i confini del  dominio, allorquando ci sia la possibilità che i nemici  vinti lascino agio di spostare le antiche linee di difegno SM nuove opere militari a garentia  del territorio acquistatà sl ma quando i nemici sono  vincitori e minacciosi, com@nsi può mai deliberare e  attuare l'accrescimento del terytorio dello Stato ?   Non vi ha nemmeno notizia cha setto Traiano siano  stati inclusi dentro i confini dell'im € gli “agri decu  1 Vedi i comm. del Dilthey, p. 188; dello ernia, p. 60; del  Pais, p. 49; del Marina, p. 97; etc. x   2 SvETON. Dom. 6   3 Oros. hist. adu. pag. VII 10, 3 e 4. Orosio &ità in proposito  la storia, che or più non abbiamo, scritta da Cornelio Tacito  sulle imprese di Domiziano. Cf. Tac. ann. XI 1 4          REI (RT  mates’. Se Tacito avesse scritto qualcosa in proposito,  narrando la storia degli imperi di Nerva e di Traiano,  come egli aveva promesso di fare, riserbando il lavoro  per gli anni senili,* certo gli storici posteriori che si  valsero delle storie tacitiane, lo avrebbero in un modo  qualsiasi ripetuto o, almeno, accennato. Si ha, invece,  un’affermazione in contrario nel seg. luogo di Orosio:  ‘mox Germaniam trans Rhenum in pristinum statum  reduxit’? Avendo, per tanto, Traiano restituito le cose  oltre il Reno allo stato pristino, l’illazione non è dubbia, che anche gli ‘ agri decumates’, siti di là dal Reno,  dovettero ridursi, in conseguenza dei prosperi eventi  delle armi imperiali, alla condizione anteriore, di essere, cioè, ‘sinus imperii et pars prouinciae’. Perciò  non si può non inferirne che l’ annessione dei ‘ decumates ’ all'impero dovette compiersi prima del regno di  Traiano, giacchè questi si restrinse a ridurre la ‘ Germaniam trans Rhenum in pristinum statum”. E poi, se è vero che Traiano, per un sentimento di vanità indegno di  un prode e glorioso imperatore, avesse fatto scolpire  il suo nome sui monumenti eretti per conservare la  memoria di imprese da altri anteriormente compite,  ‘non ut ueterum instaurator sed conditor’, tanto che  ne avesse avuto il nomignolo ‘ herba parietina ’,* certo si dovrebbe restare perplessi, ove mai nei campi  decumati o altrove si trovasse qualche memoria lapidea  concernente l’annessione dei campi sopra menzionati,    1 Tac. hist. I 1, in fine.   ? Oros. hist. adu. pag. VII 12, 2.   3 Amm. Marc. r. g. XXVII 3, 7. Cf. ex Sexto Aur. Victore de  uita et moribus Rom. imperatorum epitome, Ven. 1586, f, 185,    SSR  sì dovrebbe; dicevamo, restar perplessi nell’ attribuire  a Traiano:ciò che prima di lui si era fatto.   Se, dunque, non si può non ammettere l’annessione  dei campi decumati all’ impero, anteriore ai regni di  Domiziano .e di Traiano, non è fuor di luogo il supporre che l’ abbiano attuata i due primi imperatori Flavi, e probabilmente (poichè è noto che sotto Tito l’impero godè di una perfetta tranquillità.) il solo Vespasiano, il quale, come avverte Tacito in un luogo citato  da Orosio; riaperse le porte del tempio di Giano un  anno dopo: che egli stesso le aveva chiuse ?, avendo  portato a. compimento l’impresa contro i Giudei 8.    V.  Nel cap. 33 della Germ. narrasi che il territorio, posseduto un tempo dai ‘Bructeri ’, era stato occupato dai. ‘ Chamaui’ e dagli ‘ Angriuarii’, posciachè  i ‘ Bructeri?” erano stati ‘ penitus excisi uicinarum consensu nationum, seu superbiae odio seu praedae dulcedine seu fauore quodam erga nos deorum’; e si ag     1 Oros. hist. adu. pag. VII 9, 13.   2 Oros. hist. adu. pag. VII 19, 4: ‘quas (se. Iani portas)  utrum post Vespasianum et Titum aliquis clauserit, neminem  scripsisse memini, cum tamen eas ab ipso Vespasiano post  annum apertas Cornelius Tacitus prodat’ (ed. Zangemeister).   3 Oros. hist. adu. pag. VII 3, 8; 9, 9. Il Mommsen ammette  che la fondazione della linea di confine, per la quale si comprese nell'impero la vallata del Neckar, sia stata opera dei Flavi;  ma la giunta dubitativa « principalmente forse di Domiziano »,  messa li soltanto perchè, non essendosi nominato nella Germ.  l'autore della linea di confine « è una prova che questi (l'autore) dovè. essere Domiziano », ci pare così priva di fondamento  da non potersi accogliere come notizia conforme al vero. Vedi  MomwmsEN-DE RucciERO, op. cit., cap. IV, p. 142 e nota 2 in d.*  P. 142.     93   giunge che di essi ‘super sexaginta milia non armis:  telisque' Romanis, sed quod magnificentius est, oblectationi oculisque ceciderunt’. Onde l’autore manda,  come dice il Vannucci *, un « fiero e spaventoso grido»  di gioia », esprimendo un « voto inumano »:: ‘ maneat,  quaeso, duretque gentibus, si non amor nostri,.at certe  odium sui, quando urgentibus imperii fatis nihil iam  praestare fortuna maius potest quam. hostium. discor=  diam’. L’esterminio dei ‘ Bructeri’ si compì appunto,  secondo l’ osservazione di qualche commentatore: della:  Germ., verso l’ a. 100.* In tal modo, annunciandosi!  nella Germ. fatti avvenuti verso il 100 d. Cr., il libro  non potè essere scritto prima dell’ a. 79. Risponde al  vero tale conclusione ?   Noi sappiamo che i ‘ Bructeri’, come in’ generale  tutte le altre genti di stirpe germanica, si mostrarono costantemente avversi ai Romani :? battuti prima  dalle armi romane, ‘ cooperarono alla. distruzione:delle  legioni di Varo;* molestarono, insieme: coi ‘Tubantes’ e gli ‘ Vsipetes ’, la ritirata di Germanico che aveva tratto orrenda vendetta dei ‘Marsi’ (a. 14 d.    i C. Corn. Tacito, tutte le opere con note italiane compilate  da A. VANNUCCI, Prato 1848, vol. IV, p. 274, in nota.   2 Vedi i comm. del Kiessling, p. 127; del. Marina, p. 105; etc.   8 Narra Suetonio (Tib. 19) che un Bructero commise un: attentato contro la vita di Tiberio: l'odio di nazione mutavasi in:  odio contro le persone.   4 VeLL. PaTERC. A. R. II 105, 1. Cf. l'epit. L CXXXVIII di. T.  Livio.   5 Vedi GEFFROY, Op. cit., p. 230. MommsEN-De RuGGIERO, Op. cit.,  cap. I, p. 44: cf. p. 52. Cf. anche A. Wixms, das Sehlachtfeld  im Teutoburger Walde, in Neue Jahrbùcher fùr Philologie u.  Paedag. CLIII p. I, fasc. 7; CLV p. I, fascec. 1, 26.3,    ei)    SR + gp  Cr.)!; ma furono, poco dopo (a. 15), sconfitti da L.  Stertinio, che tolse loro l’aquila della 19.* legione distrutta nella foresta di Teutoburg. ® E ancorchè, edotti  dalla sventura e atterriti dalle armi imperiali, avessero opposto un rifiuto alle insistenti sollecitazioni degli ‘ Ampsiuarii ’, che li incitavano a partecipare alla  guerra contro i Romani (a 58 d. Cr.) 3, pure non tralasciarono di unirsi con Giulio Civile, che aveva suscitato le fiamme dell’ insurrezione nella Germania e  nella Gallia‘, e presero parte in diversi scontri contro  i Romani. La vergine Veleda, che nell’ insurrezione  di Civile seppe coi suoi vaticini accrescere l’ardore patrio degli insorti, mediante il fanatismo POMEIONA, era  appunto di nazione bructera. ‘   L’insurrezione dei ‘ Bataui’ e degli altri popoli che  con loro si erano levati in armi contro Roma, a poro  a poco fu repressa, tra il 70 ed il 71 o 72 d. C. Nulla  sappiamo della fine di Civile : forse ottenne di vivere  in pace, sotto il dominio romano. Ma i compagni di  lui, Classico e Tutor duci dei ‘Treueri’, e i fratelli  Alpinio Montano e D. Alpinio personaggi autorevoli fra  gli stessi ‘Treueri’, forse si salvarono con la fuga,       i Tac. ann. I 51, 7.   2 Tac. ann. I 60, 10. Non sappiamo spiegarci perché nei loro  comm. alla Germ. lo Zernial (p. 65), il Marina (p. 104), etc. vogliano indicare l'aquila della 212 legione, e il Dilthey (p. 198) l'aquila  della 18°, quando le parole precise di Tac. sono: ‘interque  caedem et praedam repperit (sc. L. Stertinius) undeuicensimae. legionis aquilam cum Varo amissam'.   3 Tac. ann. XIII, 56.   4 Tac. hist. IV 21, 11.   5 Tac. hist. IV 77, 2. V 18, 4.   6 Tac. hist. IV 61 e 65.    _ di  forse si uccisero ciascuno di propria mano '; Giulio Sabino, capo dei ‘Lingones ?’, fu mandato al supplizio ; ?  e Veleda fu vista a Roma .dall’autore della Germ. *, e,  come sopra si è detto ', prigioniera.   Dopo il 71 o 72, i ‘ Bructeri’, vinti, dovettero sottomettersi alle condizioni imposte dai Romani vittoriosì : non avevano più per ispiratrice e guida la fatidica Veleda ‘numinis loco habita’; e della loro prostrazione morale e civile, non ancora rimarginate le  ferite avute nell’ultima insurrezione batavica, non potevano non profittare i popoli vicini, emuli per armi,  avidi di preda, bramosi di possedere le loro terre, e  forse anche rivali per comune parentela. Fecero, difatti, lega a danno dei ‘Bructeri’, li assalirono, li sopraffecero, perchè li trovarono più deboli o impreparati; e più di sessanta mila ne trucidarono. I ‘Chamaui’ e gli ‘ Angriuarii ’, che probabilmente si ebbero    1 Tacito fa menzione di Giulio Classico in Aist. II 14. IV 55;  57; 59; 70; 79. V 19 sgg.;di Giulio Tutor in Aist. IV 55 ; 57;  59; 70; 72. V 19; 21;dei fratelli Alpinii in hist. III 35. IV 31  e 32. V 19.   ? Cass. Dion. r. Rom. LXVI 16, 2 (Xiphil.).   3 Germ. 8,9.   4 Vedi la nota 3 a pag. 10.   5 Ammesso che, secondo Strabone (geogr. VII 1, 3 (C 291), p.  400 M.), vi fossero stati dei ‘ Bructeri minores”, e perciò la distinzione tra ‘B. maiores’ e ‘B. minores”, il Miillenhoff! conget=  tura che i ‘Bructeri maiores’ e i ‘ Chamaui' siano stati lo  stesso popolo. In tale ipotesi, i ‘ Bructeri' che si levarono in  armi con Civile contro Roma, sarebbero stati i ‘B. minores '.  Ammiano Marcellino (r. g. XVII 8, 5) narra che, molti anni  dopo, nel 358, i ‘Chamaui’ furono, alla loro volta, sterminati  dall'imperatore Giuliano,     DE  la parte precipua in tale guerra di sterminio, vennero  ad occupare le terre dei vinti.! I ‘ Bructeri” superstiti  all’immane strage, costretti a mutar sedi, restarono  sempre un popolo per sè, senza confondersi con altre  genti, ma si piegarono a sommissione verso l’autorità  romana, tanto da sottomettersi, alcuni anni dopo, al  re imposto loro da Vestricio Spurinna, legato della  Germania inferiore .* Tale sommessione dovette avvenire verso l’a. 97, durante l’impero di Nerva'.3 Or, tra    1 Germ. 33, 2. Non risponde al vero l’asserzione di alcuni  commentatori (v. per es. i comm. Pais p. 53, Marina p. 104,  etc.) che l'autore della Germ. abbia esagerato nelle notizie  date sullo sterminio dei ‘Bructeri’, poichè egli non dice soltanto ‘ Bructeris penitus excisis uicinarum consensu nationum ”,  ma premette ‘ pulsis Bructeris’: talchè il popolo dei ‘ Bructeri’ non fu completamente annientato. Potrà, forse, dirsi esagerato il numero dei morti, ‘super sexaginta milia’; ma una  statistica ufficiale dei caduti in battaglia, massime trattandosi  di pugne tra popoli barbari, non era allora possibile.   2 PLIN. epist. Il 7, 2.   8 Così opina il Mommsen, nell' Index nominum cum rerum  enarratione pubblicato in fine degli scritti di Plinio il giovane,  recens. Keil, Lps. 1870, p. 429, 2* c. Arrogi la considerazione  che, ammesso l'ordine cronologico nella disposizione delle epistole pliniane (cf Mommsen, aur Lebensgeschichte des jiingern  Plinius, in Hermes III (1869) pp. 31-53), tuttochè contraddetto da  Plinio stesso (episf. I 1, 1), le epistole del 2° lib., tra le quali  si annovera quella cit. concernente Spurinna, furono scritte  tra l'a. 97 e l'a. 100. Quando, però, il Mommsen afferma (vedi MommsEn - DE RucgiERO, op. cit., cap. IV, p. 135) : « questa  catastrofe (la sottomissione dei ‘ Bataui’ e degli altri popoli  insorti con Civile) e le ostilità coi vicini popoli fiaccarono la  loro potenza (cioè, la potenza dei ‘ Bructeri’); sotto Nerone essi dovettero per forza accettare dai vicini stessi, appoggiati indirettamente dal legato romano, un re che non vo:    SS, e   il 71 o 72, anno in cui i ‘ Bructeri” insieme coi ‘Bataui’ soccombettero sotto le armi romane, ed il 97 passa circa un venticinquennio, nei primi anni del quale  si compì la strage e l’espulsione dei ‘ Bructeri ’, colpiti  dalla lega dei popoli vicini. Indichiamo i primi anni  del venticinquenuio, perchè appare più rispondente al  vero, in mancanza di qualsiasi documento in proposito, che lo sterminio dei ‘Bructeri’ si fosse compito  appunto in un tempo più vicino al 71 o 72, quando  questi erano prostrati dalla vittoria romana sui ‘Bataui’ edi loro alleati, anzichè più tardi, quando, ricostituitisi nelle nuove sedi, riannodarono relazioni di  dipendenza con Roma, e si assoggettarono al re imposto dal legato romano. Non vi ha, del resto, alcun documento o alcuno accenno nelle storie antiche, che assegni l’a. 100 o altro anno anteriore o posteriore all’anno 100, all’avvenimento della distruzione dei ‘Bructeri’ ed all'immigrazione dei ‘ Chamaui ’ e degli ‘ Angriuarii’ nel territorio bructero ‘iuxta Tencteros?.   Poche altre notizie restano intorno ai ‘Bructeri ?.  Dopo i guai gravissimi inflitti loro dai popoli vicini,  essi, come si è detto sopra, non si dispersero nè perdettero la loro nazionalità nè il nome nella storia.!  Nella prima metà del sec. IV sono menzionati in due  panegirici a Costantino ; ®? poi, nello stesso sec. IV e    levano »; egli, se non c'inganniamo, non ha tenuto presente  che la sommessione dei ‘Bructeri’ ad un re imposto dal legato Vestricio Spurinna avvenne sotto Nerva, non sotto Nerone.   41 Vedi LEDEBUR, das Land und Volk der Bructerer, Berl.  1827.   2 Incerti pan. Constantino Aug. dictus, 12. NAZARI pan. Constantino Aug. dictus, 18: in BAEHRENS, XI panegyrici Latini,  VII e X, pp. 169, 227.    cin B$   ‘nel V si trovano stretti in lega con quelli che erano  stati nel I sec. i loro feroci persecutori, i ‘Chamaui ’  e gli ‘ Angriuarii’, e inoltre coi ‘Chatti’, gli ‘Ampsiuarii ’, i ‘ Sugambri ’, i ‘ Chasuarii ?!: formavano la  potente confederazione dei Franchi.® Anche il ven.  Beda fa menzione dei ‘Bructeri’, dicendoli ‘ Boruchtuarii ?.?    VI.  Il cap. 37 della Germ. presenta un importante  computo di anni. Se dall’anno 640 di R., in cui per la  prima volta si udì parlare delle invasioni cimbriche,  sì giunge al secondo consolato di Traiano, ‘ ducenti    1 Vedi Jos. WoRMSTALL, ueber die Chamaver, Brukterer und  Angrivarier, mit Rùcksicht auf den Ursprung der Franken  und Sachsen. Neue Studien 2: Germania des Tacitus, Gymn.Progr. Miinster, 1888. Il Millenho£, cit. da U. Zernial, p. 65, opina che gli ‘Angriuarii’ (v. Tac. ann. II 8, 13; 19,7; 22, 6; 24, 15;  41,.8) e gli ‘ Ampsiuarii’ (v. Tac. ann. XHI 55, 1; 56, 4) formassero uno stesso popolo, poichè « Angrivarii ist der rein  geographische Name der Anwohner der Weser oberhalb der  Chauken oder spàteren Friesen, und Ampsivarii nur eine speziellere, wie es scheint, gleichfalls geographische Benennung  fiir eine Abteilung des Volkes ».   ? Il nome ‘Franci’, adoperato per significare in complesso  più popoli, appare per la prima volta in una frase del panegirico d’ incerto autore a Costantino : ‘ terram Batauiam ..... a  diuersis Francorum gentibus occupatam’ (ed. cit. Baehrens VII 5, p. 163). Ma nella Castori Romanorum cosmographi tabula quae dicitur Peutingeriana, segm. II, n. 2, in alto, si  legge ‘ Chamavi. qui et Pranci” (1. Franci: la lett. c è corrosa  nella parte superiore): v. Die Weltkarte des Castorius, genannt  die Peutingersche Tafel: einleitender Text von Konrad Miller;  Ravensburg, 1887.   3 Ven. BEDA, hist. gentis Anglorum V 10, col. 124, in operum  tom. tertius, ed. cit.    bh   ferme et decem anni colliguntur’. È noto che Traiano  fu la prima volta console nell’ a. 91; fu nominato ad  un secondo consolato per il 98, nel quale anno, per la  morte di Nerva, venne assunto all’ impero: perciò se  ne conclude che la Germ. fu scritta in un tempo non  anteriore al 98, se appunto di questo anno è fatta espressa menzione nel testo del libro. E tale conclusione  si dovrebbe accettare, se non ostassero alcune considerazioni che non sono da omettersi.   L’autore comincia il cap. 37 col menzionare che i  Cimbri, un tempo sì potenti e di gran fama, si erano  ridotti ad una ‘ parua ciuitas ’. Il nome dei Cimbri ! gli  richiama alla mente le memorabili lotte che si erano  combattute dai Romani contro i popoli germanici, a  cominciar dal consolato di Cecilio Metello e Papirio  Carbone, a. 641/113. E di qui un breve ‘ excursus ’ sulle  vicende di tali lotte, che si ferma, come sopra abbiamo  dimostrato, al trionfo sui ‘ Bataui ’ e sugli altri popoli  insorti con essi, e che altri vorrebbe estendere sino al  trionfo di Domiziano sui ‘ Chatti’ nell’ a. 83. Nessuno    ? È notevole che nella Germ. non si fa alcun cenno dei Teutoni, che furono valorosi compagni dei Cimbri. Plinio tratta di  loro nella n. A. IV 14 (28), 99. XXXV 4 (8), 25. XXXVII 2 (11),  35. Tacito li menziona insieme coi Cimbri in hist. IV 73, 12: v.  anche VeLL. PATERC. A. R. II 8, 3; 12, 2 e 4. Pompon. MEL.  chor. III 3, 32; 6, 54. Amm. Marc. r. g. XVII 1, 14. XXXI 5, 12.  Oros. hist. adu. pag. V 16, 1. 9. 14. Ma forse l’autore della  Germ. si restrinse a menzionare i soli Cimbri, perché la guerra  contro i Cimbri ed i Teutoni si indicò pure con la sola espressione ‘ bellum Cimbricum * (v. l’ epit. Ul. LXVII, LXVIII di T.  Livio; ma in Floro epit. I 38 [III 3] ‘ bellum Cimbricum , Teutonicum ’); o forse anche- perché i Teutoni si reputavano un  popolo celtico : cf. APPIAN. IV 1, 2,       csf    accenno vi è intorno agli avvenimenti che si succedettero sino all’ a. 98, che è il termine del computo  dei 210 anni, fatto, per incidente, poco prima. E ciò  diviene inspiegabile, se si considera che l’autore, avendo  fissato per termine del computo degli anni di lotta coi  Germani l’ a. 98, importante perchè appunto allora  Traiano succedette al padre adottivo Nerva, non poteva  passare sotto silenzio, tra le altre cose, il fatto che la  autorità delle armi romane era a quel tempo in sì alto  pregio da fare ottenere a Vestricio Spurinna, legato di  Nerva, una vittoria incruenta sui ‘ Bructeri, ferocissima  gens’ germanica, soltanto con la minaccia della guerra  e col terrore !. Nè poteva tenere in non cale i buoni  risultamenti dell’ abile direzione politica e militare di  Traiano che, per assodare il dominio romano sul territorio dei ‘ Mattiaci ’ e per dar fine alle agitazioni delle  tribù germaniche della regione centrale del Reno, causate dall’ imprudente scorreria di Domiziano, stette ancora per qualche tempo al comando degli eserciti sul  Reno, prima di recarsi a Roma per assumervi il potere  supremo. Pare, inoltre, che dissoni dalle lodi concordemente date dai contemporanei ai due imperatori  Nerva e Traiano, e per il loro savio governo e per la  rinnovata autorità delle armi romane, il fatto che l’autore della Germ., il quale doveva, giusta la premessa,  estendere le sue considerazioni ed il suo rapido ‘ excursus’ sino al secondo consolato di Traiano, si è fermato, invece, alla desolante osservazione ‘ triumphati  magis quam uicti sunt’; egli avrebbe dovuto avere  sott'occhio gli avvenimenti che si compivano, sotto la    1 PLIN. epist. II 7, 2.    BRL) pesi    è stata nostra, e la Germania è vinta: ‘regno Arsacis  acrior est Germanorum libertas ’.   Oltre a ciò il tono retorico di tutta la frase fa dubitare di esservi stata un’ interpolazione. Precede e seguc  al periodo notato una considerazione storica che in nulla  è avvantaggiata dal periodo stesso, anzi resta da questo  interrotta per dar luogo all’ espressione enfatica ‘ tam  diu G. uincitur ’. Se si espungesse il periodo considerato, il pensiero dell’autore si mostrerebbe in gradato  svolgimento, moverebbesi eguale a sè stesso e non interrotto sino alla conclusione ultima che, per quel certo  pessimismo da cui è informata, nulla ha da fare con l’enfasi delle parole espunte. Nè vi è necessità di sostituire  alla particella ‘tam ’, che nella proposizione seg. ‘ medio tam longi aeui spatio multa in uicem damna’  pare collocata in riscontro col ‘ tam’ della frase ‘ tam  diu G. uincitur ’, la voce ‘ tamen’ che è data dal cod.  Leid. (0) nella forma tam®! e, più chiaramente, nella  forma completa tamen dal cod. Neapol. (c) ; perocchè,  fatta 1’ espunzione, si regge sempre bene tutta la frase,  che in origine dovette, secondo ogni probabilità, così  esser letta : ‘ sescentesimum et quadragesimum annum  urbs nostra agebat, cum primum Cimbrorum audita  sunt arma, Caecilio Metello ac Papirio Carbone consulibus. medio tam longi aeui spatio multa in vicem damna’ e. q. s.   A chi attribuirsi l’interpolazione, se interpolazione ci  fu? Può ben darsi che la si debba attribuire a qualche  antico grammatico , la cui glossa erudita sulla durata    1 Ma avverte il Massmann, op. cit., p. 110, nota 25, ‘ deleta abbreuiatura ‘,    RARE; A  delle guerre germaniche sia penetrata nel testo; può  darsi anche che sia una giunta correttiva fatta da chi  più tardi scrisse l’ apografo, sur un originale creduto  mendoso !. Ma a noi pare di scorgere, nel testo stesso  della frase che crediamo interpolata, l’ autore della  possibile interpolazione. A nessuno sfugge l’enfasi della  conclusione ‘ tam diu G. uincitur’; e la vittoria sulla  Germania è intimamente connessa col secondo termine  del computo fatto, cioè l’ ‘ alter imperatoris Traiani consulatus ’: dunque lo scopo della frase altro non poteva  essere che quello di lodare l’imperatore Traiano, il cui  secondo consolato aveva il merito altissimo di aver  dato termine, secondo che credevasi verso la fine del  sec. I, alla lotta contro i Germani , durata per più di  due secoli. Chi tra gli scrittori romani vissuti in sul  declinare del sec. I e nel principio del II largì più encomi agli imperatori Nerva e Traiano fu Plinio il giovane; tanto che uno dei moderni critici, che con ammirabile dottrina ha trattato della vita e dell’elocuzione  di lui, non ha esitato a scrivere: ‘nemo quidem possit negare, Plinium in Panegyrico modum in nuirtutibus  Traiani praedicandis transiisse (cf. pan. 30-82; 40; 57;  59-80), et tum in illa oratione tum in epistolis nonnullis  (cf. epist. ud. Tr. imp. 10 (5), 2 [a. 98]; 8 (24), 1 [a.  101]; 31 (40), 1) ex Bithynia ad Traianum missis sententias inesse plenas immodicae adulationis ac paene    1 È nota la dichiarazione che leggesi nel cod. Leid. Perizon.  della Germ., la quale è annoverata tra i ‘ libellos nuper adinuentos et in lucem relatos ab Enoc Asculano quamquam  satis mendosos”    ConsoLI: L’ autore della Germania. 3       IRE  seruilis erga Traianum et Neruam reuerentiae !. Plinio,  inoltre, diede in particolar modo evidenza al titolo di  Germanico attribuito a Traiano *; fece menzione delle  vittorie di lui nei paesi renani 3; e specialmente s’ intrattenne, con ampie lodi, del secondo consolato di Traiano ‘. L’a. 98 è per più ragioni anno notevole per Plinio:  gli è conferita da Nerva e da Traiano l’importante carica di ‘ praefectus aerarii Saturni ’ 5; il suo amico e  protettore Traiano è assunto all’impero, ed egli si affretta a scrivergli una breve epistola gratulatoria, esprimendo il voto: ‘ precor ergo ut tibi et per te generi  bumano prospera omnia, id est digna saeculo tuo, contingant ’ $. Nell’a. 98, in fine, si reputarono dai Romani  come finite, per l’ opera prudente di Traiano, le lotte  bisecolari contro i Germani, con la sottomissione di  questi.   Non sarebbe perciò una congettura priva di fondamento l’ammettere che Plinio il giovane, rendendosi interprete de’ sentimenti suoi e de’ suoi contemporanei ,  sentimenti di soddisfazione e di gioia per i vantaggi  apportati dagli avvenimenti dell’ a. 98 all’ impero romano, avesse inserito in una parte dell’opera dello zio,    4 J. P. LAGERGREN, de vita et elocutione C. Plinii Caecilii Secundi, Vpsaliae 1872, pp. 12-13; in Uysala universitets aarsskrift, 1871, V.   ? PLIN. pan. 9, 2. 14, ).   3 PLIN. pan. 14, 1-5. 82, 4-5.   PLIN. pan. 56, 3-7.   Vedi Mommsen, sur Lebensgeschichte d. j. Plin. sopra cit.;   e l'art. dello StoBBE nel Philologus XXVII, p. 641: donde la   notizia riferita dal LAGERGREN, 0. c., p.4; e dal NicoLaI, G. d. r. L.,n.   115, p. 640. Cf. TEUFFEL-SCHWABE, G. d. r. L, © n. 340, 1, p.849; ete.  6 PLIN. epist. ad Tr. imp. 1, 2.    (SISI    ini BB  intitolata bellorum Germaniae uiginti ll. (la quale parte  sarebbe probabilmente quella stessa pervenuta a noi col  titolo de orig. et situ Germanorum) la frase sopra notata del cap. 37, a fin di computare la durata delle  guerre germaniche sino all’a. 98, in cui, dopo sì lungo  tempo, la Germania era stata completamente vinta.   Nè certamente sarebbe stato intendimento di Plinio  violare con una postilla, che ora appare interpolazione,  il libro del dotto scrittore, il quale era a lui zio e padre  adottivo affettuoso, ma rendere il libro delle guerre  germaniche meglio rispondente ai tempi in cui cominciò a farsene la pubblicazione , cioè verso la fine del  sec. I. Quante volte non occorre a noi, oggidi, nel pubblicare un libro di autore antico, di aggiungere delle  note nelle quali si accenni, per completare o chiarire  i concetti espressi nel testo, ad avvenimenti posteriori  alla vita dello scrittore ? Ma al tempo dei Romani non  avevasi il mezzo odierno di distinguere le postille e le  note dal testo; talchè sovente queste penetrarono nel  testo stesso , dal quale indistinte si riprodussero negli  apografi scritti in tempi seriori; e da ciò il lavoro, non  facile nè sempre sicuro ne’ suoi risultamenti, della critica moderna, di espungere dai testi classici tutto ciò  che si considera come interpolato.   Un altro argomento ci conferma nella nostra congettura. Plinio il giovane nell’epistola a Bebio Macro, nella  quale espone in ordine cronologico i libri dello zio, nota  tra questi : ‘ bellorum Germaniae uiginti, quibus omnia  quae cum Germanis gessimus bella collegit ’. ! Evidentemente, poichè l’epistola fu scritta l’a. 101, come tutte    1 PLIN. epist. III 5, 4.     36     le altre contenute nel lib. 3°, con la frase ‘ omnia q.  c. G. gessimus bella’, si allude a tutte le guerre combattute contro i Germani sino a quel tempo in cui  credevasi comunemente che fossero finite per l’opera sagace di Traiano, cioè sino all’a. 98; e nella voce ‘ gessimus ’ si travede il pensiero che la narrazione storica  di Plinio Secondo era stata prolungata dal nipote sino  a comprendere tutte le guerre germaniche ; chè, se si  fosse ristretta alle sole guerre combattute mentre era  ancora in vita Plinio Secondo, ed avesse conservato lo  scopo precipuo per cui era stata scritta, cioè salvare ‘ ab  iniuria obliuionis’ la memoria di Druso Nerone, sarebbesi detto obiettivamente ‘ gesta sunt’: nella voce ‘ gessimus’ si scorge non difficilmente la persona di chi ha  scritto l’epistola a Bebio Macro. In tale argomento soccorre l’autorità di Suetonio, il quale, scrivendo di Plinio  Secondo : ‘ itaque bella omnia, quae unquam cum  Germanis gesta sunt, XX uwoluminibus comprebendit ’,' da un canto ripete l’espressione di Plinio il giovane  ‘omnia bella ?, e dall’ altro canto con 1° uso del verbo  ‘ gesta sunt” dà evidenza al tempo sino a cui erano state  narrate le guerre germaniche.   Si aggiunga un’altra considerazione. Plinio Secondo  nella pref. alla sua nat. Rist. serive : ‘ uos quidem omnes,  patrem te fratremque (sc. Vespasianum, Titum, Domitianum), diximus opere iusto, temporum nostrorum  historiam orsi a fine Aufidi Bassi. ubi sit ea quaeres ?  iam pridem peracta sancitur, et alioquin statutum erat  heredi (cioè al figlio adottivo, Plinio il giovane) mandare, ne quid ambitioni dedisse uita iu  1 V. pag. 5, nota é.    GI    dicaretur”’'. Era quindi proposito di lui, a fin di  evitare la facile accusa di avere alterato il vero per  mire ambiziose , affidare al figlio adottivo, che, giovinetto, molto aveva appreso dalla molteplice e copiosa  dottrina del suo secondo padre, l’incarico di pubblicare,  dopo la sua morte, i lavori storici che gli affidava, e  forse anche di limare o farvi delle opportune giunte,  per rendere la pubblicazione meglio adatta ai tempi in  cui essa aveva luogo. Che vale, infatti, la frase ‘ peracta sancitur’ se non, come spiega Io. Harduinus, ‘ accuratius elimatur, castigatur ° ?*? Non poteva forse il figlio  adottivo , valente letterato anch’ egli, prender parte a  tale ‘ limae labor ’, dopo la morte dell’ autore, avendo  l’obbligo di pubblicare i libri di lui? E, dal canto suo,  Plinio il giovane aveva, quanto alla storia, una certa  competenza, perchè aveva atteso agli studi storîci secondo l’ es. paterno, come egli stesso dichiarava : ‘ me  uero a«l hoc studium (sc. historiae) impellit domesticum  quoque exemplum 5.   Gli antichi non può dirsi che siano stati molto serupolosi nel metter mano sui lavori altrui, per emendarli,    1 PLIN. n. A. praef. 20. Ma il Detlefsen (ed. Berl. 1866) accoglie la lez. ‘ per acta sancitum et alioqui ’.   2 Vedi C. Plin. Sec. hist. nat. Ul XXX VII quos interpretatione  et notis illustrauit IoanNES HARDVINVS, Paris. 1741, t. I, p. 4,  not. 7. Ma nelle ‘ notae et emend. ad 1. I', n. VI, p. 7, spiegandosi il perchè sia stata preferita nel testo la jez. ‘ peracta  sarcitur’ invece di ‘ sancitur ’, si aggiunge: ‘ hoc est, reuocatur,  retractatur, accuratius elimatur, ad polituram sarcitur; uti de  araneae tela Plinius ipse loquitur’ (n. A. XI 24 (28), 84 ‘ ad  polituram sarciens ’.)   8 PLIN. epist. V 8, 1 e 4.     38    massime quando questi non erano stati ancora pnbblicati. Che non si disse per le commedie di Terenzio, emendate e forse preparate da Scipione l’Africano e da  C. Lelio ?! Anneo Cornuto lasciò forse intatte le satire  dell'amico e discepolo suo Persio Flacco ? ?. È superfluo  addurre altri esempi: ci basti rammentare che, se le  mani di L. Vario e di Plozio Tucca si astennero dal profanare il poema lasciato incompleto da Virgilio, ciò avvenne per espresso ordine di Augusto, cui non era lecito disubbidire ?.    VII.  A niuno, poi, sfugge l’ osservazione che nella  Germ. non si fa cenno dei rapporti di tregua e di guerra  tra i Romani ed i Germani, dopo il regno di Vespasiano. Nulla si dice della venuta in Roma, verso l’ a.  85, di* Masyos, re dei ‘ Semnones ’, e di Ganna, vergine  fatidica, che succedette a Veleda: entrambi furono accolti onorevolmente da Domiziano. Trascurasi di menzionare 1’ impresa di Domiziano contro i ‘ Chatti”; chè,  come si è dimostrato sopra, non può indursi un’ allusione a tale impresa dalle ultime parole del cap. 37  ‘ proximis temporibus triumphati magis quam uicti sunt’.  Omettesi di far menzione della spedizione di Vestricio  Spurinna contro i ‘ Bructeri’, dopo la morte di Domi  4 Vedi Cic. ad Att. VII 3, 10. QvinTIL. è. 0. X 1, 99; ed un  framm. del libro de poetis di Suetonio, ed. Roth 1882, p. 293, 5-6.   2 V. la vita A. Persii Flacci de commentario Probi Valeri  sublata: il Roth la omise nella sua ed. dei framm. di Suetonio.   8 SERV. comm. in Verg. Aen. I: ‘ Augustus uero, ne tantum  opus (sc. Aeneis) periret, Tuccam et Varium hac lege iussit  emendare, ut superflua demerent, nihil adderent tamen’: vol.  I, fasc. 1°, p. 2, ed, Th.    dia   ziano: ed altre omissioni potremmo aggiungere. Invece  tutto ad un tratto si passa dalle notizie sopra avvenimenti occorsi durante il regno di Vespasiano al secondo  consolato di Traiano ; e sì importante lacuna dà .nuovo  argomento a sospettare interpolato il passo del cap. 37,  del quale si è sopra a lungo discusso.   Cosicchè, e per i molteplici argomenti che ci offre il  testo della Germ., convenientemente interpretato, e per  gli argomenti esterni sopra esposti, non puossi non riconoscere che nella Germ. non sono menzionati avvenimenti posteriori all’a. 79 d. Cr.; e però sorge spontaneo il dubbio che non Tacito, istoriografo fiorito alquanti anni dopo, ' ma Plinio Secondo (se è da non tenersi conto di Aufidio Basso, scrittore anch’egli di guerre  germaniche) possa essere stato l’ autore della Germ. ;  o meglio, che questa in principio abbia formato parte,  come una digressione necessaria, dei venti libri bellorum Germaniae. Nè quarantasei capitoli (si direbbero  meglio paragrafi) di un’introduzione o di una digressione, quanti se ne contano appunto nella Germ., si possono ritenere troppi per un lavoro storico che ha il  ‘ suo svolgimento in venti libri; poichè è noto che la  digressione sull’Africa è di non breve estensione nel d.  Iug. di Sallustio; e similmente la digressione di Tacito sulla Britannia, nel libro de vita ef moribus Iulii    1 Il libro de wita et moribus Iulit Agricolae, primo, in ordine  cronologico, dei lavori di Tacito, è dell'a. 98: diciamo primo,  perchè pare ormai dimostrato che il dial. de oratoribus non  sia lavoro di Tacito. Vedi L. VALMAGGI, nuovi appunti sulla  critica recentissima del dialogo degli oratori, in Rio. di filol,  e d'i. cl, a. XXX, fasc. 1°, p. 23.    PRE (pn  Agricolae, occupa non meno di sette capitoli; e l’altra  digressione di Tacito stesso sulla Giudea si svolge in  ben dodici capitoli sui ventisei cc. del lib. V delle Rist.,  il quale non ci è pervenuto completo.    diri    CAPITOLO SECONDO    La Germania nella tradizione degli scrittori sino  ai tempi del Rinascimento.    Costantemente si è indicato Tacito quale autore della  Germ., sin dal tempo in cui l’aureo libretto fu scoperto  e rimesso in onore insieme con tanti altri tesori letterari dell’ antichità. Su quale fondamento si poggia  tale indicazione ? L’ indagheremo nel presente capitolo.   I.  Tacito fu sempre considerato dagli scrittori  posteriori, sia dell’ età antica sia del medio evo ', come ‘scriptor historiae Augustae ’ ?, o ‘ qui post Augustum usque ad mortem Domitiani uitas Caesarum  triginta uoluminibus exarauit ’ 8, o semplicemente ‘ annalium scriptor ’‘, o con altra indicazione analoga;    1 Vedi EMMERICH CoRrNELIvs, quomodo Tacitus historiarum  scriptor in hominum memoria uersatus sit usque ad renascentes literas saeculis XIV et XV; inaug. diss. Marpurgi Chatt.  1888. M. MANITIUS, Beitrtige sur Geschichte d. ròmischer Prosaiker in Mittelalter, II, in Philologus, N. F. I (1889), pp. 565-566.   2 Vopisc. Tac. 10,3; in scriptt. hist. Aug. XXVII p. 192, ed. P.   3 HreRoNYM. comm. in Zach. IIl 14, t. VI, coll. 913-914, ed.  Vallars., Veron. 1736.   4 IoRDAN. de or. act. Get. 2, 29, p. 3, ed. A. Holder. È però probabile che Iordanis, citando con inesattezza ‘ Cornelius annalium seriptor ’, mentre ripete le notizie contenute nel libro de  u. et m. Iul. Agric., cc. 10, 11, 12, riferisca osservazioni e notizie  non attinte direttamente ai libri di Tacito.   5 Omettiamo l’ epiteto ‘sane ille mendacium loquacissimus ’,  dato a Tacito da TERTVLL. apologet., cap. 16, pp. 47-48, Cantabrigiae 1686: le necessità della lotta rendevano talvolta ingiusti i primi apologisti del Cristianesimo.    ii dI  e in generale, anche quando non fu indicato, in forma  di epiteto aggiunto al nome proprio, il genere letterario da Tacito coltivato, si citarono i luoghi degli  annali o delle istorie, talvolta nominandosi Tacito autore, talvolta omettendosi il nome di lui.   Il nome dell’autore non sempre è indicato nello stesso  modo. Tertulliano ', Vopisco ?, San Girolamo *, Orosio 4,  Apollinare Sidonio *, etc. lo nominano ‘ Cornelius Tacitus ’. Lo stesso nome ‘ Cornelius Tacitus” osservasi in  uno scolio di Giovenale © e in un luogo degli annales  Fuldenses di Rudolf, monaco di Fulda, il quale si valse  della prima parte degli ann. di Tacito per la sua compilazione storica che va dall’ 838 all’ 863 ?; si nota an  1 TERTVLL. apologet. |. l1.: egli cita Tac Rist. V 3; 4; 9.   ? Vopisc. Auretian. 2, 1. Tae. 10,3; in seriptt. hist. Aug.  XXVI, XXVII, pp. 149,192, ed. P. Sul 1° luogo di Vopisco, che  nota di menzogna Livio, Sallustio, Tacito e Trogo Pompeo, il  Petrarca osserva: ‘notat ystoricos, immeriter puto, precipue  (sic) primos duos’. Vedi P. pe NoLHac, Petrarque et l’humanisme d'aprés un essai de restitution de sa bibliothèque, Paris  1892, p. 258.   3 HiERoNYm. l. l. sopra, in nota 3, pag. 4l.   4 Oros. hist. adu. pag. I 5,1 (cf. Tac. hist. V 7). VII 3,7 (cita  un luogo delle Aist. di Tac., forse del lib. VI o VII, non pervenuto a noi). VII 10, 4 (cita un luogo di Tac., che si è perduto: cf. Tac. hist. III 46. Cass. Dion. r. Rom. LXVII 6, 1; 7,  2; etc.). VII 19, 4 (la notizia che dà nel ]. c. non è in quel che  ci resta dei libri di Tac.). VII 27, l (cf. Tac. Rist. V 3, sgg.).   5 APOLLIN. SIpon. carm. 23, 153 sg. ‘et qui pro ingenio fluente  nulli, | Corneli Tacite, es tacendus ori’: ed. Luetjohann, in  monum. Germ. hist., Berl. 1887, t. VIII, p. 253.   6 Schol. Iuuenal. V 14,101 ‘cuius (sc. Moysis) Cornelius etiam  Tacitus meminit’: cf. Tac. hist. V 3.   7 Ann. Fuld. a. 852 ‘super amnem quem Cornelius Tacitus,       49-=  che in un’ epistola di Pietro di Bluis! e (tralasciando  di menzionare Frekulf, monaco di Fulda e poi vescovo  di Lisieux, Giovanni di Salisbury, Vincenzo di Beauvais,  i quali, come ormai è accertato, conobbero Tacito solo  di nome ?) in un’ epistola e altri Il. degli scritti del  Boccaccio 3, nel comentum super Dantis Aldigherij co  scriptor rerum a Romanis in ea gente gestarum, Visurgim,  moderni uero Wisaraha uocant’: in PERTZ, monum. Germ. hist.  vol. I, p. 368. Vedi per le citazioni tacitiane negli annali di  Fulda e nelle res gestae Saronicae di Widukind, monaco di  Corwey, la diss. cit. del Cornelius, p. 38.   4 PETRI BLESENSIS Bathoniensis in Anglia archidiaconi opera  omnia, Paris. 1667, epist. 101 ad R. archid. Nannet, p. 158, col.  2° ‘ profuit mihi frequenter inspicere...... Corn. Tacitum, Titum  Liuium' e. q. s. Ma A. HorTis, studj sulle opere latine del Boccaccio con particolare riguardo alla storia della erudizione nel m.  evo e alle letterature straniere, Trieste 1879, p. 425, dubita che  « Pietro di Blois conoscesse più in là del nome di Tac. ». Consente in ciò F. RamorINO, Corn. Tac. nella st;ria della coltura,  2* ed., Milano 1898, p. 91, nota 38. Vedi la diss. c. del Cornelius, p. 41.   ? Vedi HoRTIS, op. cit., p. 425, nota 3, e le monografie, ivi  menzionate, di E. Grunauer sui fonti della storia di Frekulf,  dello Schaarschmidt su Giov. di Salisbury, dello Schlosser su  Vinc. Bellovacense. Il Petrarca non scrisse mai il nome di  Tac., che tuttavia egli non poteva ignorare, poichè l’amico suo  Guglielmo da Pastrengo ne aveva fatto cenno nel libro de orig.  rer., f. 18: v. P. pE NoLHAC, op. cit., chap. VI, p. 266.   3 Boccaccio, epist. ad Nic. de Montefalcone : ‘ quaternum quem  asportasti Corn.i Tac.i quaeso saltem mittas ': v. FR. CORAZZINI,  le lettere edite e inedite di messer G. B. trad. e comm. con  nuovi documenti, Firenze 1877. La lettera porta la data ‘ Neapoli XIII kal. februarii’, ed è del 1371: v. Gustav KoERTING,  G. d. Litterat. Italiens im Zeitalter der Renaissance ; II (Boccaccio *s Leben u. Werke), Leipz. 1880, cap. I, pag. 47. Il Boc  i d4   moediam di Benvenuto de Rambaldis da Imola !, nel  liber Augustalis?, nello scritto de wiris claris di Domenico Bandini aretino ®, in una lettera del 1395 di  Coluccio Salutati , 4 etc. .5- Anche del solo nome ‘ Ta  caccio ripete il nome Cornelio Tacito altre due volte nel cap.  IV, p. 201 e p. 253, del comento sopra la Commedia di D. A.  iv. opere di m. G. B. cittadino fiorentino, con le annotazioni  di A. M. Salvini, vol. V, Firenze 1724); ed una sola volta nel  libro gen. deorum, INI 23, f. 28, ed. Parigi 1517. I detti luoghi  del Bocce. si riferiscono ai luoghi di T'ac. ann. XV 57 e 60-65.  hist. Il 2-3.    1 Comentum Inferni, c. IV, t. I, p. 152 ‘sicut patet apud Cor-°    nelium Tacitum': ed. Jac. Phil. Lacaita, Florentiae 1887. Vedi  per la citaz. tacitiana concernente Cleopatra (c. VI) le considerazioni del Ramorino, disc. c, p. 93, nota 43.   ? Liber Aug.c.5 ‘de... Messalina scribit Cornelius Tacitus ’;  in FREHER-STRUVE, rerum Germanicarum scriptores, t. II, p. 6.  Ha dato evidenza alla citaz. il MANITIUS, Beitrige zur G. d. r.  Pr. im Mittelalter sopra cit., p. 566.   3 Il Bandini scrive di Tacito: ‘ Cornelius Tacitus orator et  hystoricus eloquentissimus’. Vedi l’ epistolario di CoLuccio SaLUTATI, edito da Fr. Novati, III p. 297, nota.   4 C. SALUTATI, epist. IX 9, vol. III, p. 76, ed. cit.   5 Ci fermiamo con le nostre citazioni alla fine del sec. XIV: non  è necessario perciò ripetere le citazioni tacitiane che si notano  negli scritti dei più autorevoli umanisti del sec. XV, quali Sicco  Polenton, Poggio Bracciolini, Francesco Barbaro, Giov. Tortelli,  Flavio Biondo, Lor. Valla, L. B. Alberti, card. Bessarione, etc.  Vedi VoIGT-VALBUSA, il risorg. dell'antichità elass., Firenze 1888,  v. I, pp. 250-257. R. SABBADINI, storia e critica di alcuni testi  latini, in Museo it. di ant. class. ( Comparetti ), Firenza 1890,  v. III, p. 339 sgg. In. notizie storico-critiche di alcuni codd.  latini, in Studi ital. di filol. class., Firenze 1899, v. VII, pp. 119132. In. Za scuola e gli studi di Guarino Guarini veronese,  Catania 1896, p. 101, e il doc. 16 a pp. 193-194.     45   citus’ si valsero Vopisco ! e Apollinare Sidonio ?: quest’ ultimo 1’ unì con ‘ Gaius ?.* Ma da altri si preferì  l’ uso del solo nome “ Cornelius ’ ‘ : talora vi si aggiunse ‘ Gaius ?. 5   Non pochi citarono dei luoghi tacitiani senza però nominare l’ autore; così troviamo ripetuti, e talvolta quasi  alla lettera, alcuni passi delle rist. e degli ann. di Ta  1 Vopisc. Prob. 2, 7;in scriptt hist Aug. XXVIII p. 202, ed. P.  ‘non Sallustios, Liuios, Tacitos, Trogos atque omnes disertissimos imitarer”’.   2 APOLLIN. Sipon. epist. IV 22, 2. carm. II 192: ed. Luetjohaan,  p. 73 e p. 178.   3 APOLLIN. Sipon. epist. IV 14, 1 ‘ Gaius Tacitus unus e maioribus tuis’, p. 65; ma nel cod. Paris. 9551 (F.del Luetj.) c' è  ‘tacius corneli”. C£. col |. c. di Sidonio Tac. hist. V 26.   4 Oros. hist. adu. pag. I 10, 1 (cf. VII 34, 5); 10, 3 (cf. Tac.  hist. V 3); 10, 5. VII 9, 7 (cf. Tac. hist. V 13. SveToN. deperditorum librorum reliquiae, ed. Roth, IX, p. 287). APOLLIN. SIpon.  epist. IV 22, 2, ed. cit., pp. 72-73. Sehol. Iuuenal. I 2,99 (ef. Tac.  hist. libb. 1, II). IORDAN., Op. c., 2, 29. Boccaccio, com. sopra la  Comm. di D. A. pp. 202, 254, vol. e ed. cit. L. BRUNI, laudatio  urbis Florentinae (cf. Tac. hist. I 1. KrrNER, laud, urb. FI. L. B.,  Livorno 1889, pp. 19, 30). Omettiamo di citare il chron. Cas. di  Petrus, che nel catal. dei libri della badia di Montecassino annovera ‘ historiam Cornelii cum Omero (sîc)', perchè, come  bene avverte A. Hortis, op. c., p. 425, n. 2, la riunione del nome Cornelio con quello di Omero farebbe pensare « piuttosto  allo Pseudo-Cornelio Nipote ... ben noto per le sue attinenze  con le istorie troiane di Ditti e Darete ».   5 APOLLIN. Sipon. epist. IV 22, 2 ‘ cum Gaius Cornelius Gaio  Secundo (se. C. Plin. Caecil. Sec.) paria suasisset’; ed. c., p.  72: cf. PLIN. epist. V 8,    TRE    BENE gene    cito, in Sulpicio Severo , ! Orosio, ? e nello scoli aste di  Giovenale. ® Vi ha una frase di Cassiodorio, che pare  desunta dalle storie di Tacito.‘ Anche il Boccaccio si  valse, come abbiamo veduto, di Tacito , © talvolta senza    1 SvLP. SEv. chronica quae uulgo inscribuntur hist. sacra (in  S. S. opera studio et lab. Hier. De Prato, t. II, Veron. 1754) II  28, p. ì59 (cf. Tac. ann. XV 37 in fine); II 29, pp. 160-161 (cf.  Tac. ann. XV 40 e 44 in fine). È probabile che quanto scrive  Sulp. Sev. ‘ de Hierosolymorum supremo die’ II 30, pp. 163166, sia stato preso da un luogo ora perduto del lib. V Aist. di  Tac.: v. la nota 6* a p. 164, col. 1°, ed. c. ; e inoltre BERNAYS,  de chronicis Sulpicii Seueri, p. 55 sgg. Per uno strano invertimento dell’ ordine logico, P. Hochart nel suo libro de l’ authenticité des ann. et des hist. de Tac., Paris 1890, pp. 200-201,  scambia l’effetto con la causa, e ammette che il presunto falsificatore di Tac. abbia copiato da Sulpicio Severo quello che  in realtà costui copiò da Tac.   ? Oros. hist. adu. pag. VII 4, 11 (cf. Tac. ann. IV 62 e 63);  4, 17 (cf. Tac. ann. II 85 in fine).   3 Schol. Iuuenat. 1 5, 108 : cf. Tac. ann. XV 62.   4 Casson. war. XI 3i, p. 157, 2* col., in M. A. CassioporI 0pera omnia, ed. J. Garet.,, Ven. 1729, t.I: ‘more maiorum  scuto supposito "; cf. Tac. /A'st. IV 15, 10 ‘inpositusque scuto  more gentis ’.   5 Il Boccaccio ebbe conoscenza di Tac. ann. Il. XII-XVI e  hist. ]l. IIT-]II, perchè se ne avvalse, senza menzionare i fonti,  negli ultimi capitoli del libro de claris mulieribus, per narrare  la vita di Epicharis la cortigiana (c. 91: cf. Tac. ann. XV 5157), di Pompeia Paolina, moglie di Seneca (c. 92: cf. Tac. ann.  XV 60; 63; 64), di Poppea Sabina, amante e poi sposa di Nerone (c. 93: ct Tac arn. XIII 45 e 46. XIV 60-63. XV 23. XVI  6), di Triaria, moglie di L. Vitelliv fratello dell’ imperatore (c.  94: cf. Tac. Aist. II 63. III 77); e aggiungiamo anchela vita di  Agrippina, madre di Nerone (c. 90: cf. Tac. ann. Il. XII-XIV),  sebbene le notizie possano essere state prese da SvETon. Claud.  26. 29. 39. 43. 44. Ner.6. 9. 28. 34. 35. Vedi ScHUECK, Boccaccio's    RESO ge  nominarlo. ?    II.  Quanto alla Germ. non vi è, sino al sec. IX,  scrittore alcuno che ne abbia fatto menzione.o ne abbia tratto vantaggio, ripetendo o imitando qualche luogo di essa. Si è preteso scorgere un accenno alla Germ.  c. 45 ed al nome dell’ autore della stessa (Cornelio) in  un’ epistola di Cassiodorio *, con la quale il re Teodorico ringrazia il popolo degli ‘ Haesti ? 3 per un dono  di ambra. Nell’ ep. di Cassiodorio si legge : ‘ succina  quae a uobis ... directa sunt, grato animo fuisse suscepta:  quae ad uos oceani unda descendens, hanc leuissimam  substantiam, sicut et uestrorum relatio continebat, ex  lateinische Schriften, in Jahrbb. fiur Philol. u. Pidag. CX (1874),  p. 170 sgg. A. HoRTIS, op.c., pp. 425-426. G. KOERTING, Op. c.,  VII, p. 393. P_ pE NoLHAC, op. c., chap. VI, pp. 266-267: e Boccace et Tacite, in Mélanges de l Ecole de Rome, t. XII, 1892.  RAMORINO, disc. c., p. 92, nota 4l.   1 Dal novero degli scrittori che nell'età di mezzo si valsero  di Tac., senza menzionarlo, dobbiamo escludere l’autore ignoto  della vita Heinrici IV, vissuto nel sec XII, non ostante che il  Cornelius vi trovi delle frasi, in cui sembrano riflettersi certe  espressioni che si notano negli ann. di Tac.: v. MANITIUS, Beitr.  cit. p. 566; RAMORINO, disc. c., p. 91, nota 40. E si deve altresi  escludere dal novero Guglielmo di Malmesbury che, in un luogo  dei gesta reg. Angl. c. 68, ed. Hardy, I 95, con la frase * incredibile quantum breui adoleverit’ pare che abbia voluto riprodurre la frase tacitiana, Gist. II 73, 1 ‘ uix credibile memoratu  est quantum ... adoleuerit’; poichè la stessa frase leggesi in  SaLL. Cat. 6, 2 ‘incredibile memoratu est quam facile coaluerint'; e ciò avvertiva sin dal 17-III-1390 il GaABOTTO, in un art.  pubbl. nella Rio. di filol. e d’i. el. XIX (1891), pp. 397-308.   2 Cassion. uar. V 2, ed. c., t. I, p. 73.   3 ‘ Aestii ’, secondo il testo della Germ. 45, 8.     48     portat; sed unde ueniat, incognitum wos habere dixerunt, quam ante omnes homines patria uestra offerente  suscipitis. haec quodam Cornelio scribente  legitur in interioribus insulis oceani ex arboris succo  defluens, unde et succinum dicitur, paulatim solis ardore coalescere.  cum in maris fuerat delapsa confinio, aestu alternante purgata, uestris littoribus tradatur exposita.’ Or, il ‘ quidam Cornelius scribens’ non  è, come affermano alcuni ,' Corn. Tacito, autore delle  hist. e degli ann., ma ‘ Cornelius Bocchus ?. Il Peter  nota, infatti, il l. cit. di Cassiodorio tra i frammenti  delle storie di ‘ Cornelius Bocchus ’ ; * ed è noto che Plinio Secondosegna questo scrittore il quarto tra gli autori i cui scritti gli servirono di fonti per compilare  il libro XXXVII della sua naturalis historia :3 e appunto nel libro XXXVII trattasi del sucino o ambra ,'    1 Vedi MASSsMAnN, op. c., pp. 158-159. TH Finck, Germ. herausgegeben u. erlàutert, Gòttingen 1857, p. 14, nota 2. GEFFROY,  Op. c., p. 97. A: Pars, comm. cit, p. XIX. MARINA, Op. c., p. 4;  2. RAMORINO, disc. c., p. 31. etc.   ? Historic. Rom. fragmenta, ed. Peter, Lps. 1833, p. 298, n.° 8,*  Vedi Mommsen, introd. ai coll. r. m. di Solino, p. XVII.   3 PLIN. n. h. I ex auctoribus l. XXXVII. Si valse anche delle opere di Bocco per compilare i Il. XVI, XXXII e XXXIV;  ma in questi u'timi due si cita solo ‘ B»echus', senza il nome  * Cornelius.   4 PLIN. n. A. XXXVII 3 (11), 42 e 43. Le notizie sull'’ambra,  date da Bocco e raccolie da Plinio, furono poi ripetute da SoLIN. coll. r. m. 20, 9 sgg. Vedi il comm. c. del DiLTHEY, pp. 290296; e WoLFGANG HELBIG, osseroazioni sopra il commercio  dell’ ambra, in Atti d. Accad. d. Lincei, 1877 : inoltre v. le pp.  184-189 della dissertazione di ETTORE PAIS, intorno alle più antiche relazioni tra la Grecia e l'Italia, in Riv. di filol. e di.  cl. XX (1892).    Rea GEA   e vi si esprime lo stesso concetto annunciato da Cassiodorio, con parole quasi consimili. Nè vale il dire che  nelle voci ‘ legitur, insulis, ex arboris succo, solis ardore’ del 1. ce. di Cassiodorio si ripetono le voci del  testo della Germ. c. 45 ‘legunt, legitur, sucum arborum, insulis, solis radiis’; poichè, oltre la ripetizione  del concetto, vi ha maggiore analogia di forme tra il  passo cit. di Cassiodorio ed il corrispondente luogo di  Plinio Secondo, nel quale luogo si ripresentano, come  sì è avvertito sopra, le notizie date da Cornelio Bocco. !  Nemmeno può ammettersi che Iordanis abbia avuto  notizia della Germ.?® sol perchè nel c. 2 del de or.  act. Get. sì trovano le due voci ‘inaccessam, aperuit?, che si osservano usate anche nel c. 1° della  Germ., ma con tutt'altro intendimento e in due periodi  interamente separati e indipendenti l’ uno dall’ altro *.    1 Cassiod. ‘in interioribus insulis oceani’; cf. Plin. n. A.  XXXVII 3 (11), 42 ‘in insulis septentrionalis oceani’. Cassiod.  ‘ex arboris succo defluens’; cf. Plin. ibid. ‘ defluente medulla  pinei generis arboribus ’; e 43 ‘ arboris sucum esse’. Cassiod.  ‘unde etsuccinum dicitur ’; cf Plin.ibid. 43 ‘ ob id sucinum appellantes’ (e Solin. 20, 9 ‘sucum esse arboris de nominis capessas qualitate ’). Cassiod. ‘ aestu alternante purgata, littoribus  tradatur exposita ’; cf. Plin. ibid. 42 ‘ipse intumescens aestus  rapuit ex insulis, certe in litora expellitur esse concreti maris purgamentum. Che Iordanis abbia avuto notizia della Germ. l' ammette il  Massmann, op. c., p. 157.   3 IorpAN. de or. act. Get. 2, 5 p. 3, H. ‘quam diu siquidem  armis inaccessa m (sc. Britanniam) Romanis Iulius Caesar proeliis, ad gloriam tantum quaesitis, aperuit’. Si confronti con Germ. 1, 3 ‘cetera Oceanus ambit...... nuper co  CONSOLI : L’ autore della Germania. 4    i  50   E non solamente nella Germ. occorre il v. ‘ aperire ’ nel  significato di « far conoscere, dar notizia », e perciò  « rendere accessibile », perocchè con lo stesso significato appare in Livio !, Mela ?, Tacito 3, etc. Similmente  non è attendibile il confronto del c. 3 del lib. di Iordanis col c. 40 della Germ., ‘nei quali cc. sono comuni  le parole ‘est in Oceani insula’, non ordinate però in  modo identico in entrambi. Poi è da notarsi che  Iordanis cita, come fonte della sua designazione geografica, il secondo libro dell’opera di Tolomeo; nè, d’altro canto, è noto quale sia precisamente 1’ isola indicata nella Germ., nella quale era il luogo sacre alla  dea ‘ Nerthus” o ‘Terra mater ’ £.   Neppure il luogo del ven. Beda, che noi, trattando dei  ‘ Bructeri ’, abbiamo riferito sopra (p. 28, nota 3), dà la  certezza che questo scrittore, vissuto dal 674 al 735, ab     gnitis quibusdam gentibus ac regibus, quos bellum aperuit.  Rhenus, Raeticarum Alpium inaccesso ac praecipiti  uertice ortus’ e. q. s. i   1 Liv. X 24, 5. XXXVI 17, 14. XLII 52, 14.   2 Pompon. Met. chor. III 6, 49.   8 Tac. Agr. 22, 1. hist. IV 64, 19. ann. II 70, 10. Vedi inoltre  Lvcan. de b. c. IV 352. Var. FLAC. Arg. I 169.   4 ]l confronto è sostenuto anche dal Massmann, l. c.   5 IORDAN. 3, 4 p. 4, H. “est in Oceani arctoi salo posita insula magna, nomine Scandza ”. Germ. 40, 8 ‘ est in insula Oceani castum nemus ”.   6 Si discute ancora se sia Riigen, Fehmarn, Helgoland, Laaland, Bornholni, Seeland, la Scandinavia stessa , che gli antichi consideravano come isola. Il MicHELSEN, vorchristliche  Kultusstatten (citato da U. Zernial, comm. p. 78, da A. Pais,  comm. p. 61, e da G. Marina, op. c., p. 127) indica come più  probabile Alsen.« mit dem heiligen Walde Hellewith und dem  heiligen See Hellesò ».       pe    =.  bia avuto notizia diretta della Germ. Si asserisce, è vero,  che i nomi di popoli ‘ Fresones, Rugini, Boruchtuarii,  Anglii’ egli non poteva ad altro fonte attingerli che  alla Germ., perchè appunto nei cc. 34, 44 (43), 33, 40  della Germ. si tratta di essi !, Ma ciò è inesatto, perchè troviamo fatta menzione dei ‘ Frisii ’, che il Beda  chiama ‘ Fresones *, in Plinio Secondo, Cassio Dione, nel  panegyr. Constantio Caesari, oltrechè in Tacito. * Dei  ‘ Rugii ’, detti dal Beda ‘ Rugini ?, si fa menzione nell’appendice excerpta Valesiana alle storie di Ammiano  Marcellino ; inoltre in Iordanis, Procopio, Paolo diacono. ? Quanto ai ‘ Bructeri ’, che con lieve mutazione .il  Beda chiama ‘ Boruchtuarii ’, è opportuno aggiungere  che di loro si fa cenno non solamente da Velleio Patercolo, Plinio il giovane, Nazario e dall’autore del panegirico a Costantino Augusto, dei quali sopra si è tenuto discorso, ma anche da Strabone, Claudiano, Gregorio di Tours, etc. * Degli ‘Anglii’, che nel sec. V  passarono nella Britannia, leggesi un cenno in Tolomeo 5; e lo stesso Beda spiega l’ etimologia del loro    1 Vedi MassMann, op. c., p. 159.   2 Pcin. n. A. IV 15 (29), 101: qualcuno legge anche la voce  ‘ Frisii’ premessa a ‘gens tum fida’ in XXV 3 (6), 21. Cass.  Dion. r. Rom. LIV 32. Incerti pan. Const. Caes. 9; in BAEHRENS,  XII pan. Lat., V, p. 138. Tac. Agr. 28, 14. hist. IV 15, 12; 18,  26; 56, 15; 79,8. ann. I 60, 6.IV 72, 1; 74, 1. XI 19,3. XIII 54, 2.   3 Excerpta Vales. 10, 48 p. 292, 2° vol., ed. Gardthausen. IorDAN. de or. act. Get. 54,7 p. 64, H. PrRocoP. de db. Goth. II 14.  PavL. pIac. de gest. Langobard. I 19, in rer. Ital. scriptt. del  MURATORI, t. I, -pp. 415-416. Cf PTOLEM. geogr. II 11.   4 STRAB. geogr. VII 1, 3-4 (C. 290-292), pp. 398-401, ed. M.  CLAVDIAN. de IV cons. Hon. 451. GRrEGOR. TvRENS. II 9.   5 ProLem. geoyr. II 11. Un antico trad, di Tolomeo li disse    vi BO  nome: ‘porro de Anglis, hoc est de illa patria quae  Angulus (per altri, Anglia) dicitur.’ ! L'angolo sarebbe  il territorio che si estende da Flensburg sino all’ Eider,  a sud-ovest dello Schleswig. *    III.  Le prime e sicure tracce della Germ. appariscono nel sec. IX, in un libro intitolato franslatio S.  Alexandri?, che fu cominciato da Rudolf, monaco del  monastero di Fulda, nell’a. 863, e, per la morte di costui avvenuta nell’ 865, continuato e portato a fine da  un altro monaco dello stesso monastero, Meginhard.  Rudolf, trattando, nelle prime pagine del suo lavoro,  dei costumi dei Sassoni, riproduce alla lettera diversi  luoghi dei cc. 4, 9, 10, 11 della Germ., rendendone alcune espressioni più adatte al gusto letterario de’ suoi  tempi; ma non nomina mai l’autore del libro. Valgano i sgg. confronti, nei quali sono trascritte in corsivo    ‘ Sueui Angili, qui magis orientales sunt quam Longobardi '; Col.  Agrip. 1584, p. 27, col. 1°.   1 Ven. BEDA, hist. gent. Angl. I 15, col. 11, t. III, ed. c.   2 Si noti eziandio che il ven. Beda dovette attingere le notizie sui ‘Saxones’, dei quali fa cenno nel l. c., non soltanto  alla geogr. di Tolomeo, ma anche ad altri fonti, p. es. AMM.  Marc. r. g. XXVI 4,5. XXVII 8, 5. XXVIII 2, 12; 5, 1e4.  XXX 7, 8. PacaT. DREPAN. pan. Theodos. Aug. 5; in BAEHRENS, X// pan. Lat. XII, p. 275. Oros. hist. adu. pag. VII 25, 3;  32, 10. IORDAN. de or. act. Get. 36, p. 43, ed. H.   3 Pubbl. nei monum. Germ. historica, t. II, p. 675 sgg., ed.  Pertz.   4 Il RITTER, Op. c., praef. p. XVI, n., dimostra evidente l’errore in cui incorsero il Massmano, op. c., p. 224 sgg. e il Haupt  (comm. Germ.) di attribuire a Meginhard quella parte della  transl. S. Alex, che era stata scritta da Rudolf,    le parole e parti di parole della Germ. identicamente  ripetute nella dransl. S. Alexandri:    Rudolf: ‘nec facile ullis aliarum gentium... conubiis  infecti, propriam et sinceram et tantum sui similem gentem  facere conati sunt. unde habitus quoque... corporum...in tanto hominum numero, idem pene omnibus’: cf. Germ. 4,    Rudolf: ‘marime Mercurium venerabantur, cui certis  diebus humanis quoque hostiis litare consueuerant. Deos suos  neque templis includere neque ullae humani oris speciei adsimilare ex magnitudine... caelestium arbitrati sunt: lucos ae  nemora consecrantes deorumque nominibus appellantes secretum illud sola reuerentia contemplabantur’: cf. Germ. 9.    Rudolf: ‘auspicia et sortes quam maxime obseruabani :  sortium consuetudo simplex erat. uirgam frugiferae arbori decisam in surculos amputabant eosque notis quibusdam discretos super candidam uestem temere ac fortuito spargebant. mox,  sî publica consultatio fuit, sacerdos populi, sì priuata, ipse pater familias precatus deos coelumque suspiciens ter singulos tulit, sublatosque secundum inpressam ante notam interpretatus  est. sî prohibuerunt, nulla de eadem re ipsa die consultatio :  si permissum est, euentuum adhue fides exigebatur. auium uoces uolatusque interrogare proprium gentis illius erat; equorum quoque praesagia ac monitus experiri, hinnitusque ac fremitus obseruare; nec ulli auspicio maior fides, non solum apud plebem, sed etiam apud proceres habebatur. erat el alia  obseruatio auspiciorum, qua grauium bellorum euentus explorare solebant: eius quippe gentis, cum qua bellandum fuit, captiuum quoquo modo interceptum cum electo popularium suorum, patriis quemque armis, committere et uictoriam huius  uel illius pro iudicio habere ’: cf. Germ. 10.    Rudolf: ‘quomodo autem certis diebus, cum aut inchoatur luna aut impletur, agendis rebus auspicatissimum initium  crediderint...... praetereo ’: cf. Germ. 1l.    Si osservano anche tracce della Germ.in più luoghi  di Adamo di Brema, scrittore del sec. XI: in essi si PES gra   fa menzione della ‘Sueonia” e dei ‘ Sueones ’;! ed è  noto che in nessuno scritto, greco o latino, lasciatoci  dall’antichità classica, e anteriore alla Germ. (c. 44),  si fa parola dei ‘ Suiones ’, abitatori della penisola  scandinava o della parte orientale di essa. ? Iordanis  menziona la ‘ gens Suethans” e i ‘ Suethidi, cogniti in  hac gente reliquis corpore eminentiores 7.3 Ma Adamo  di Brema dovette ricavare dalla trans. S. Alex., non  dalla Germ. direttamente, quelle poche frasi del suo  lib. V, le quali sono consimili ad alcune frasi che si  leggono nei ce. 4, 9, 10, 11 della Germ. Lo stesso può  dirsi del chronicon Vraugiense del sec. XII, per quelle  espressioni che paiono imitate dalla Germ. e, invece,  furono desunte dalla stessa Zransl. S. Alex. 4   Il Cornelius, nel suo pregevole studio sulle vicende  delle opere tacitiane nel medio evo, ha creduto affermare che in un luogo della vita Mathildis di Donizone  (nel qual luogo si nota la facilità biasimevole, con cui  i Germani ingaggiavano delle risse cruente, massime se eccitati da troppe bevande spiritose) si ripete  l’ osservazione del c. 22 della Germ.: ‘crebrae, ut inter uinolentos, rixae raro conuiciis, saepius caede et  uulneribus transiguntur ’. Ma il confronto appare inverisimile, perchè Donizone, piuttosto che riferirsi ad una  cattiva usanza osservata dall’ autore della Germ., in  1 Descriptio insularum Aquilonis 21 (c. 230), in Micene, Patrolog. curs., t. CXLVI, col. 637; 27 (c. 235), col. 644; 26 (c. 234),  col. 642.   ? R. KEySER, Norges historie, Kristiania 1865, vol. I, p. 34 sg.   3 IORDAN. de or. act. Get. 3, 40; 3, 55, p.5 H.   4 V. il confronto dimostrativo fatto dal Massmann, op. c., Anhang tende dar notizia della facilità con cui a’ suoi tempi  si veniva a risse sanguinose per causa dell’ubbriachezza. * Del resto, trattasi di un’ usanza, che osserviamo  tutto dì nelle classi sociali che più difettano di coltura  e si abbandonano al vizio dell’ ubbriachezza : molto più    doveva ciò avvenire tra genti barbare, e nei tempi descritti da Donizone. *    Dalle osservazioni premesse ci è dato concludere che,  sino all’età del Rinascimento, sparutissime sono le tracce  della Germ. nella tradizione degli scrittori: non mai  Tacito venne indicato quale autore della Germ.    1 MANITIUS, Beitrige c., p. 566. RAMORINO, disc. c, pp. 91-92,  nota 40.   ? Tacito avvertiva: ‘nec facilem inter temulehtos consensum’ (Aist. I 26, 6)  ‘ uinolentiam ac libidines, grata barbaris Il primo degli umanisti, che abbia fatto menzione della scoperta di un libro intitolato de origine  et situ Germanorum, fu Antonio Beccadelli, detto il  Panormita, il quale, in una lettera diretta al Guarini  veronese, scriveva: ‘ compertus est Cor. Tacitus de origine et situ Germanorum. Item eiusdem liber de uita  lulii Agricolae isque incipit: clarorum wirorum facta  ceteraue. Quinetiam Sex. Iulii Frontonis liber de aquaeductibus qui in urbem Romam inducuntur; et est litteris  aureis transcriptus. Item eiusdem Frontonis liber alter,  qui in hunc modum iniciatur : cum omnis res ab imperatore delegata mentionem exrigat et cetera. Et inuentus est quidam dialogus de oratore et est, ut coniectamus, Cor. Taciti, atque is ita incipit: saepe ex  me requirunt et cetera. Inter quos et liber Suetonii  Tranquilli repertus de grammaticis et rbetoribus : huic  initium est: grammatica Romae. Hi et innumerabiles  alii qui in manibus uersantur, et praeterea alii fortasse qui in usu non sunt, uno in loco simul sunt; ii uero  omnes, qui ob hominum ignauiam in desuetudinem abierant ibique sunt, cuidam mihi coniunctissimo ii dimittentur propediem , ab illo autem ad me proxime  et de repente; tu secundo proximus eris, qui renatos  sane illustrissimos habiturus sis ’.! Alla lettera si assegna la data dell’ aprile 1426. Con la stessa lettera si  può ben mettere in confronto una epistola scritta dal    1 Studi ital. di filol. class. VII, p. 125.    E   Poggio al Niccoli, in data del 3 novembre dell’anno precedente. ! Il Poggio gli annunziava : ‘ quidam monachus  amicus meus ex quodam monasterio Germaniae, qui 0lim a nobis recessit, ad me misit litteras, quas nudius  quartus accepi; per quas scribit se reperisse aliqua uolumina de nostris, quae permutare uellet cum Nowuella  Ioannis Andreae, uel tum Speculo, tum Additionibus,  et nomina librorum mittit interclusa .. Inter ea uolumina est Iulius Frontinus et aliqua opera Corn. Tac.  nobis ignota. Videbis inuentarium, et quaeres illa uolumina legalia, si reperiri poterunt commodo’ pretio.  Libri ponentur in Nurimberga, quo et deferri debent  Speculum et Additiones, et exinde magna est facultas  libros aduehendi. Vt uidebis per inuentarium, haec est  particula quaedam, nam multi alii restant ; scribit enim  in hunce modum: « sicuti mihi supplicastis de notando  poetas, ut ex his eligeretis qui uobis placerent, inueni  multos e quibus collegi aliquos, quos in cedula hac inclusa reperietis La lettera del Panormita e quella del Poggio convergono nella notizia della stessa scoperta, che il primo accenna con particolari minuti, mentre il secondo,  tranne per le determinazioni concernenti Frontino e Tacito, si rimette all’ inventario; e convergono anche nella  notizia, che nel luogo della scoperta degli autori mentovati abbondavano libri antichi, parte già in uso e parte  ancora ignoti. ® La notizia al Poggio provenne dal mo  1 La data del 1425 è segnata nell’ ed. Tonelli dell’ epistol. del  Poggio, Firenze 1832.   ? Panorm.: “hi et innumerabiles alii quiin manibus uersantur, et praeterea alii fortasse qui in usu non sunt, uno in loco  simul sunt’. Pogg. :‘ haec est particula quaedam, nam multi haco che, appresso, è detto ‘ Hersfeldensis ° !; ma donde  provenne la notizia al Panormita? quale inventario o nota di libri gli fudato di osservare, per indicare poi con  tanta precisione il principio dell’ Agr., dei libri di Frontino, del dialogo de oratoribus e del libro di Suetonio  de gramm. et rhetoribus? Egli fa cenno di un suo  ‘ coniunctissimus ’, al quale sarebbero stati mandati i  libri ‘ propediem ’, e da questo a lui ‘proxime et de  repente ’. Perciò o il monaco hersfeldese, oltre all’avere iniziato delle trattative col Poggio, trattò anche dello  scambio dei codd. del suo monastero coi libri che desiderava, con qualche umanista amico del Panormita; ovvero il Panormita attinse la notizia, che egli comunica  al Guarini, direttamente dal Poggio, tanto più che allora egli era in sì buoni rapporti di amicizia col Poggio  da mandargli, per mezzo del suo discepolo ed amico  Giovanni Lamola, l’Ermafrodito, e ricevere da lui delle magnifiche lodi ® insieme con l’ avvertimento (non  bene accolto) di scegliere argomenti più serii per i suoi  carmi.    alii restant ’; cf. epist. 1. lib. III, del 14 settembre 1426 :‘ quin  etiam dedi operam, ut habeam inuentarium cuiusdam uetustissimi monasterii in Germania, ubi est ingens librorum copia’.  Queste affermazioni dovettero provenire dalla frase ‘inueni  multos’ e. q. s., che si legge in quella parte della lettera del  monaco hersfeldese, che è ripetuta dal Poggio.   1 Poem epist. III 12 T. ‘ monachum illum ,Hersfeldensem ’.   2 Poggi epist. ll 40 T.: ‘ laudo igitur doctrinam tuam, iucunditatem carminis, iocos et sales; tibique gratias ago pro portiuncula mea, qui Latinas Musas, quae iamdiu nimium dormierunt, a somno excitas.’ L’ epistola presenta la data 3 aprile 1426, perciò è contemporanea, o forse di pochi giorni anteriore, a quella scritta dal Panormita al Guarini, Così non si può discompagnare la scoperta della  Germ., indicata dal Panormita, dalle pratiche iniziate  dal Poggio col monaco hersfeldese per aversi, insieme  con altri codd., ‘ uolumen illud Corn. Taciti et aliorum,  quibus caremus ’.! Son note, dall’ epistolario del Poggio, le vicende di tali pratiche; ® ma si ignora quali  possano essere stati i risultamenti finali di esse. Si sa  tuttavia con quale pertinacia insistessero i cercatori di  opere classiche nell’ età del Rinascimento, e in ispecial  modo il Poggio e il Niccoli; talchè non è improbabile  che alla fine il monaco hersfeldese, dopo il vivo rimprovero che gli inflisse il Poggio e la minaccia di non  ottenere nulla, venuto meno il favore del Poggio medesimo, quanto alla lite che a nome del suo monastero  da più anni sosteneva dinanzi alla Curia, 3 si fosse indotto a portargli il cod. promesso. * Nè fa meraviglia  che il Poggio, avuto il cod., ne abbia conservato assoluto silenzio nell’ interesse suo, sia a vantaggio dei    4 Poca epist. III 12 T. Il Voret (trad. VALBUSA, II 4, vol. I,  P. 254) vorrebbe farla risalire alla scoperta fatta, nel 1422 in  Germania, da Bartolomeo Capra, arcivescovo di Milano; e del  parere del Voigt è il SABBADINI (v. Studi ital. di filolog. class.  VII, p. 128 sg.). Ma danno motivo a dubitare di ciò) le osservazioni fatte dal Poggio, in riguardo a tale scoperta, nella lettera  al Niccoli, del 10 giugno 1422 (epist. I 21).   ? Pocair epist. III 12; 13; 14; 19; 29.   3 Pogcir epist. III 29 T. (26 febbr. 1429): ‘ monachus Hersfeldensis uenit absque libro; multumque est a me increpatus ob  eam causam: asseuerauit se cito rediturum, nam litigat nomine monasterii, et portaturum librum. Rogauit me multa: dixi me nil facturum, risi librum haberemus; ideo spero ot illum nos habituros, quia eget fauore nostro”.   4 VOIGT-VALBUSA, op. c., II 4, vol. I, pp. 255-256.    REN no  suoi negozi librari, sia a causa delle vie tortuose e non  sempre legittime allora seguite per venire in possesso  di codd. preziosi. Egli stesso dichiara al Niccoli, in occasione che questi gli aveva prestato l’ esemplare allora noto di Tacito (oggi cod. Medic. II): ‘ Cornelium Tacitum, cum uenerit, obseruabo penes me occulte. Scie  enim ommem illam cantilenam, et unde exierit, et per  quem, et quis eum sibi uindicet, sed nil dubites, non  exibit a me ne uerbo quidem.’ ! Nè osta il giudizio espresso dal Poggio, nella lettera del 17 maggio 1427,  sull’ inventario portato dal monaco di Hersfeld,® cioè  che questo inventario era ‘ plenum uerbis, re uacuum ’,  e che nella parte del medesimo inventario, mandata al  Niccoli, concernente Tacito ed altri scrittori, vi fossero  ‘ res quaedam paruulae, non satis magno... aestimandae ’ ;  onde egli era caduto ‘ ex maxima spe, quam conceperat ex uerbis suis.’ Perciocchè, se in realtà fosse stato  di sì poca importanza e di sì minimo pregio il cod.  promesso, per qual motivo avrebbe il Poggio tanto insistito per averne il possesso, come egli attesta nelle  due lettere che scrisse poi al Niccoli, l’ una del 31  maggio 1427 e l’altra del 26 febbraio 1429? ® Anzi,  nella prima delle due lettere citate, dichiara espressa  mente di aver meglio che per altri. codd. provveduto ‘    al modo di aversi il ‘ uolumen ’ di Cornelio Tacito, ‘ quo  maxime indigemus, id quidem imprimis est, quod uolo:    1 Poee epist. III 14 T. (27 settem. 1427). In conferma del silenzio che tenevasi sui risultamenti delle investigazioni e delle  pratiche iniziate con mercatanti di codd. e con monasteri, v. l’epist. II 1.   2 Poca epist. III 12 T.   8 Pogeli epist. III 13; 29, in fine, T. POR; E  quin mandaui isti monacho, ut uel ipse secum deferret, nam credit se rediturum brevi, uel per alium monachum curaret deferendum : alios (sc. libros) iussi portari Nurimbergam, hunc uero Romam proficisci recta  uia, et ita se facturum recepit ’.   Il Poggio aveva osservato, nell’ inventario presentatogli dal monaco hersfeldese, dei libri classici che  erano ormai acquisiti alla repubblica letteraria ; e ne  traeva argomento per mostrare l’ ignoranza del frate  che, credendo nuovo per tutti quello che esso frate non  sapeva, aveva infarcito l’ inventario di libri già noti,  ‘qui sunt iidem (soggiunge il Poggio al Niccoli ') de  quibus alias cognouisti’. Probabilmente il Poggio dovette  vedere anche indicato nell’inventario del monaco hersfeldese quel tanto che già conoscevasi delle Rist. e degli ann.  di Tacito, e che egli stesso aveva avuto occasione di  leggere nell’esemplare, scritto ‘ litteris antiquis ’, che si  apparteneva a Coluccio Salutati o ad altri, e poi si  ebbe 1’ agio di osservare in un altro esemplare ( oggi  cod. Medic. II ) , scritto ‘ litteris Longobardis ’, prestatogli dal Niccoli ? ed a questo restituito per mezzo di  Bartolomeo de’ Bardi. * Perciò egli nutrì la speranza di  venire presto in possesso anche di qualcuno dei primi  libri degli annali, che forse nell’inventario erano adombrati con qualche indicazione diversa da quella data  comunemente per il codice già noto; ovvero nella presunzione che il frate, ignorante di studi umanistici, non  avesse saputo determinare con chiarezza il cod.posseduto,    1 Poco epist. III 12 T.   ? Pogau epist. III 15 T. (21 ottobre 1427).   3 V. il poscritto della lettera del Poggio al Niccoli, in data  del 5 giugno 1428 (III 17 T.)    I    e da ciòla possibilità che questo cod. per avventura contenesse altre parti non note dell’opera tacitiana; ovvero  per qualsivoglia altra ragione che a noi non è dato investigare. In tal modo può avere una spiegazione plausibile  l’insistenza del Poggio nel pretendere dal frate la consegna del ‘ uolumen Taciti ’, non ostante che prima, dato  uno sguardo superficiale all’ inventario , fosse rimasto  disingannato di quanto aveva sperato, e perciò avesse sì  poco pregiato i libri indicati e avesse notato di trattarsi di ‘ res quaedam paruulae , non satis magno aestimandae’; chè, ‘si quid egregium fuisset ’, serive egli al Niccoli, ‘ aut dignum Minerua nostra, non solum  scripsissem, sed ipse aduolassem, ut significarem ’.! Ed  a rinnovellare le speranze venute meno nell’animo del  Poggio avrà certamente contribuito il discorso fattogli  da Niccolò da Treviri, uomo dotto ‘ et, ut uwidetur, minime uerbosus aut fallax ’, intorno ad un libro di Plinio sulle guerre germaniche. * In questo libro pliniano  il Poggio dovette subodorare i primi libri degli annales, perchè, come bene avverte il Voigt, questi « non  portavano più verun nome d’ autore »;? e però, mentre da un canto iniziava, sebbene con una certa dubbiezza, delle pratiche col Trevirese per aversi il cod.    1 Poggi epist. III 12 T.   2 Poca epist. III 12 T. (17 maggio 1427): ‘ de historia Plinii  cum multa interrogarem Nicolaum hune Treuerensem, addidit  ad ea quae mihi d.xerat, se habere uolumen historiarum Plinii  satis magnum; tunc cum dicerem, uideretne esse /istoria naturalis, respondit se hunc quoque librum uidisse legisseque, sed  non esse illum, de quo loqueretur; in hoc enim bella Germanica contineri '.   3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol, I, p. 252.    rm BI   pliniano, ! dall’altro canto, per meglio riuscire nel suo  intento, onorifico e al tempo stesso lucroso, è possibile  che abbia sollecitato anche il monaco hersfeldese per  lo stesso cod. pliniano, in cui, come si è detto, credeva  di potere rinvenire i libri perduti degli ann.; ma di questa seconda pratica nulla scriveva in particolare al  Niccoli, a cui soltanto prometteva, protestando la sua  sincerità , di dire a suo tempo quanto potesse interessarlo ?.    Le pratiche col Trevirese nel primo periodo non dovettero approdare a nulla, poichè costui, trattato malamente dalla Curia, se ne era allontanato sì malcontento da non volerne sentire più di libri o di altro; 3  onde il Poggio si propose di mandare qualcuno in  Germania, che curasse di portargli i libri desiderati, 4    1 PocaIr epist. III 12 T.‘adhuc neque despero, neque confido  uerbis suis (sc. Nicolai Treuerensis)  litterae sunt a quodam  socio suo, cui librorum mittendorum curam delegauit, se misisse libros Francofordiam, ut exinde Venetias deferrentur ’.  Notisi quanto mistero in quei negoziati, forse per non suscitare i sospetti degli amministratori dei monasteri, dai quali  venivano esportati, probabilmente per vie illecite, quei codd.  preziosi. Era forse ad Augsburg o a Dortmund il luogo in cui  conservavasi il cod, pliniano dei bella Germaniae (cf. MaAssMANN, Op. c., p. 179), ovvero nella stessa Frankfurt a/M? Hersfeld non è molto distante da questa città.   2 Pogcit epist. III 12 T. ‘ hie monachus eget pecunia: ingressus sum sermonem subueniendi sibi, dummodo ...... et nonnulla  alia opera quae, quamuis ea. habeamus, tamen non sunt negligenda, dentur mihi pro his pecuniis  haec tracto; nescio  quid concludam: omnia tamen a me scies postea.   3 PogaIr epist. III 13 T. (31 maggio 1427): cf. epist. III 14 (27  settembre 1427).   4 Pool epist. III 13 T. ‘ ego solus uolui aliquem mittere in    ns BA: n  Ma dopo non guari Niccolò da Treviri riapparve nel movimento del commercio librario :! nessun vantaggio  ebbe a ricavare il Poggio dal ritorno del Trevirese, in  quanto al codice pliniano delle guerre germaniche e,  fors° anche, in quanto ai libri di Tacito non ancora  noti? Certo non viè documento, apparso fin oggi, che  ci dia in proposito notizie precise. Ma il Voigt bene  avverte non essere probabile che il Poggio ed il Niccoli  vi avessero rinunziato, e « quel silenzio non sì spiegherebbe meno, se il codice fosse venuto in Italia per vie  segrete ». ?   Intorno ai risultamenti definitivi delle pratiche a lungo continuate tra il Poggio e il monaco hersfeldese,  non è improbabile la congettura del Voigt, che e per  le vive insistenze del Poggio stesso e per l’ efficacia  indubitata del danaro mediceo, alla fine il codice (* uolumen illud Corn. Taciti et aliorum, quibus caremus’ )  sia stato portato a Roma o a Firenze; « diversamente,  soggiunge il Voigt, quegli amici umanisti non si sarebbero dati più pace. Ma le vie difficili e tortuose,  con cui si giunse ad averlo, spiegano abbastanza, perchè il libro sia stato tenuto nascosto per una intera  generazione, dissimulandone il possesso, come quello  delle due parti degli annali ».* Or, si conserva un cod.  su cui si modellò la ‘ ed. princ. ’? stampata a Venezia,  probabilmente da Vindelin da Spira, verso il 1469 o il    Germaniam, qui curaret libros huc afferri: sed nolunt qui nolle  possunt, et deberent uelle”.   1 PoccI epist. III 29 (26 febbraio di e IV 4 T. (27 dicembre 1428).   2 VoIGT-VALBUSA, Op. c., Il 4, vol. I, p. 252.   3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol. I, p. 256.    i È  1470: esso contiene gli. ultimi libri degli ann. uniti,  mediante numerazione successiva, coi libri che restano  delle Rist. ?, poi la Germ. e il dial. ; è il cod. Vindobonensis del sec. XV, di scrittura bella ma non accurata,  che a Mattia Corvino, re di Ungheria, provenne, senza  dubbio, da Firenze.? Il cod. Vindobon. porta la data del  1466, perciò è posteriore alla morte del Poggio‘: non  putrebbe, per tanto, essere stato una copia, fatta con poca  diligenza da qualcuno degli scribi del Poggio, sul cod.  primitivo o sur un apografo, venuto a Roma o a Firenze,  di provenienza hersfeldese? « Non è punto provato,  avverte il Ramorino, che tutti i Taciti diffusisi nel 400  provenissero dal secondo Mediceo ».° Sicchè, se la nostra congettura, avvalorata dalle ricerche precedenti e  non contrastata da alcun documento, è attendibile, non  è forse da ammettersi che il frate hersfeldese, ottemperando alle pressanti richieste del Poggio, abbia aggiunto, 1 Seguo l'opinione del Massmann, op. c., p. 23, accolta dg  Carlo Castellani, il quale, in una nota segnata sulla copertina  dell'esemplare che conservasi nella bibl. V. E. di Roma, attribuisce la ‘ princeps’ a Vindelin da Spira. Vedi’ introd. all’ ed.  delle opp. di Tac. fatta dal Jacob, 1885, vol. I, p. XXXV..   ? Ma delle hist. mancano gli ultimi tre capp. del lib. V, cioè  24, 25, 26 e circa metà del c. 23: si giunge sino alle parole  ‘nauium magnitudine potiorem * (V 23), come nel cod. Vatic. 1863.   3 Il Massmann, il Michaelis ed altri edd. di Tac. fanno menzione del cod. Vindobon.: di proposito ne tratta il HimER, in  Zeitschrift fur die bsterr. Gymn. 1878, p. 801.   4 Il Poggio mori il 30-X del 1459: v. i fonti di questa data  nell’ opusc. di G. A. CESAREO, un bibliofilo del quattrocento, p. 5,  2.à eol., nota 2 (estratto dalla riv. Natura ed arte, a. I, 1891-92).   5 RAMORINO, disc. c., p. 96, nota 49.   CONSOLI: L’ autore della Germania. 5    ASTRA    ca Bi   probabilmente in copia, al ‘ uolumen Corn. Taciti * una  parte, l’introduzione forse, insomma quel che aveva potuto avere, del cod. pliniano delle guerre germaniche, nel  quale il Poggio si aspettava di rintracciare i primi libri  degli ann. tacitiani? Ne sarebbe così derivata, o per  preconcetto del Poggio o per interessata annuenza del  frate tedesco o di altri (non escluso Niccolò da Treviri)  alle esigenti aspettative del Poggio, la intitolazione a  Tacito di una parte dei Germanica bella di Plinio Secondo.   Se, dunque, si ammette che fonte del cod. Vindobon.  sia stato il cod. o l’apografo venuto dalla Germania per  i lunghi e pertinaci maneggi del Poggio, e tenuto per  qualche tempo accuratamente nascosto in Firenze, si  spiega agevolmente il perchè fossero noti in Italia la  Germ. e il dial. prima ancora che si avesse notizia dei  codd. portati, sul declinare del 1455, da Enoch d’Ascoli.!    1 Nella bibl. di Cesena si conserva un ms. della Germ., che,  secondo il cat. del Muccioli, appartiene forse al sec. XIV. Tale  indicazione apparve inesatta al LEHNERDT (Enoche v. Ascoli  und die Germania des T.s, in Hermes, vol. XXXIII, fasc. 3°,  p. 504), perchè nel ms. è disegnato lo scudo e il nome di Malat[esta] N[ouellus], vicario apostolico di Cesena e fondatore di  quella bibl., morto nel 1465. Veramente la data del sec. XIV è  da reputarsi molto anteriore alla vera: ma non poteva il ms.  essere stato copiato sur un cod. o un apografo anteriore alla divulgazione dei libri portati da Enoch in Italia? non era  forse Malat. Novello in vita ed in grande autorità prima del  1455? Un altro ms, della Germ., più corretto del precedente,  è incluso nel cod. segnato D IV 112, che si conserva nella bibl.  Gambalunga di Rimini; porta la data del 1426, secondo il cat.  del prof. Attilio Tambellini (v. G. MAZZATINTI, inventari dei mss.  delle biblioteche d' Italia, Forlì 1892, vol. IL, p. 165, n.° 23), la     607     II.  Per altra via, qualche tempo dopo, gli umanisti del ‘400 ebbero di nuovo notizia della Germ. : se  ne ascrive il merito ad Enoch di Ascoli. ! Era questi  un mediocre erudito, ? che aveva passato alcuni anni  in Firenze, prima quale maestro dei figli di Cosimo  de’ Medici, e poi con l’ ufficio di ripetitore nella  famiglia de’ Bardi; indi insegnò belle lettere in Ascoli  e in Perugia. Sia per rapporti personali che egli aveva col papa, sia per autorevoli lettere commendatizie  concesse da Cosimo de’ Medici, a cui era stato prima  raccomandato dal dotto Ambrogio Traversari, generale  dell’ ordine dei Camaldolesi$ fu prescelto da Niccolò V  per fare delle ricerche di codd., specialmente delle deche perdute di T. Livio, nelle biblioteche delle chiese    quale data il LEHNERDT (I. c., p. 505) e R. RETZENSTEIN (zur Texrtgeschichte der Germania, in Philologus vol. LVII (n. s. XI),  fasc. 2°, p. 367 sg.) ritardano giustamente sino al 1476; tanto  più che chi scrisse l’apografo, certo Rainerius Maschius da  Rimini, dichiara di averlo scritto allorchè ‘ dicebatur oratores  imperatoris et regis Gallorum et aliorum ultramontanorum uenire ad oranlum Sixtum IIII pontificem'; perciò dopo il 1471,  anno in cui fu assunto alla tiara Sisto IV della Rovere.   4 Per i funti delle notizie intorno ad Enoch d'Ascoli, v. ALFREDo REUMONT, aneddoti storico-letterari, in Archivio storico italiano, serie III, t. XX (1874), pp. 188-189. VOIGT-VALBUSA, OP. C.,  vol. II, pp. 192-194.   2 Si deve riconoscere un encomiv esagerato in quel che scrisse  di lui Gius. LENTO, clarorum Asculanorum praeclara facinora,  Romae 1622, p 37: ‘ Enochus, sapienti et altiore mente praeditus, omnem mouere lapidem, donec res (cioè, la scoperta di  codd. antichi) prospere scilicet cesserit. quam ob rem non solum nutantes litteras Latinas confirmauit, uerum Graecam facundiam tuendo melius propagauit latius.'   3 A. TRAVERSARII epist., p. 335, ed. Mehus.     6R  e dei chiostri dell’ Europa settentrionale. Enoch partì  per il suo viaggio di esplorazioni letterarie nella primavera del 1451 : visitò l’ isola di Seeland, e di là scrisse una comunicazione a Leon Battista Alberti.! Poi non  diede più notizie di sè,” salvo quelle accennate dal Poggio in una lettera, con la frase sarcastica: ‘ Enoch Esculanus, qui adeo diligens fuit, ut nihil iam biennio  inuenerit dignum etiam indocti hominis lectione ’.8 Probabilmente, se si accoglie la testimonianza del Filelfo,*  Enoch penetrò nella penisola scandinava. Non si ha  alcuna notizia intorno alla via del ritorno: è possibile  che abbia percorso, per fare ritorno in patria, la Germania e vi abbia fatto delle indagini per iscoprire dei  codici. Si conserva ancora nell'archivio di Kònigsberg  il breve, con cui Niccolò V raccomandava al gran maestro dell’ Ordine teutonico, Ludwig von Erlichshausen,  il ‘ dilectum filium Enoch Esculanum qui diuersa  loca et monasteria inquirat, si quis ex ipsis deperditis  apud uos libris reperiretur ’.5 Ma non è provato da alcun       1 GrroL. MANCINI, vila di L. B. Alberti, Firenze i882, p. 328 sg.   2 Onde il Poggio ironicamente scriveva: ‘ ille enim Enoch adeo solers et diligens fuit, ut ne uerbum quidem ad me adhuc  scripserit’; epist. X 17 T. (22 gennaio 1452 [1453]).   3 Poca epist. IX 12: la lettera non porta data; è probabile  che sia stata scritta nel 1453.   4 Nella lettera del Filelfo a Callisto III, del 19 febbr. 1456,  (epist. Ven. 1502) si legge: ‘is enim Enochus in Daciam (/. Daniam) usque profectus est, et, ut referunt aliqui, in Candauiam  (. Scandinauiam) usque, quae quam longissime ultra reliquas  omnes insulas, de quibus exstet memoria apud priscos rerum  scriptores, posita est in mari oceano e regione Germaniae ad  septentrionem ’.   5 VOIGT-VALBUSA, Op. c., V ©, vol, II, p. 193,       lm    documento, che Enoch sia stato in Hersfeld ed abbia fatto  delle ricerche in qualche monastero di quella città. E,  del resto, a qual fine visitare i monasteri di Hersfeld, per  i quali egli avrebbe « senza dubbio ricevuto istruzioni  esatte da Poggio »,' se il monaco tedesco, con cui ebbe  a trattare il Poggio per il‘ uolumen illud Corn. Taciti  et aliorum ’, era, è vero, « nativo di Hersfeld », ma  « stava nel convento di Niirnberg, e andava e tornava spesso da Roma per interessi del monastero »,°  cioè del monastero norimberghese ? In ogni caso, non  sarebbe una congettura priva di fondamento, che Enoch,  nel suo viaggio di ritorno, avesse visitato qualcuno  dei monasteri di Nirnberg, secondo le possibili istruzioni dategli dal Poggio.   Enoch ritornò a Roma sul declinare del 1455, 5 portando seco alcuni codici ; ma non vi trovò liete accoglienze, come egli sperava, perchè Niccolò V, suo protettore, era morto, e il nuovo papa Callisto III non  mostravasi benevolo verso gli umanisti e le loro ricerche  letterarie. Aggiungasi che gli eruditi, tanto a Roma  quanto a Firenze, non mostravano benevolenza per lo  Ascolano, poichè questi si era deciso a non concedere  copia alcuna de’ suoi codd., prima che fosse stato. degnamente rimunerato delle sue fatiche. Scriveva, infatti,    1 Studi ital. di filol. class. vol. VII, p. 130.   ? Studi ital. di filol. class. vol. VII, p. 128.   8 « Forse nel novembre », aggiunse VITTORIO Rossi nella nota: l'indole e gli studi di Giovanni di Cosimo de’ Medici, notizie e documenti; pubblicata nei Rendiconti della R. Accad.  dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologiche : es=  tratto dal vol. II, fasc. 19, Roma 1893. A p. 34 sg., n. 4, lo dimostra ampiamente,    A] Je    Carlo de’ Medici, protonotario apostolico , al fratello  Giovanni: « sì che vedete se volete gettare via tanti  danari per cose, che la lingua latina può molto bene  fare senza esse, che a dirvi l’oppenione di molti dotti  uomini, che gli anno visti, da questi quattro infuori che  sono segnati con questo segno x, tutto il resto non vale  una frulla ».'! Ciò non ostante Carlo de’ Medici mandò  al fratello, insieme con la lettera cit., l’inventario dei  codd. portati da Enocb. Su questo inventario si deter-.  minò meglio l’opinione punto benevola che i dotti fiorentini si erano formata per lo scopritore : di essa si  rese interprete Vespasiano da Bisticci che, per ispiegare  quel che tenevasi cattivo risultamento del viaggio fatto  da Enoch per investigazioni letterarie , scriveva nella  sua biografia del « maraviglioso grammatico » : « istimo  che procedesse per non avere universale notizia di tutti  gli scrittori, e quegli che erano e quegli che non si trovavano ». # Or, come mai si può conciliare tanta noncuranza , non diciamo dispregio , per i codd. scoperti  dall’ Ascolano, se tra questi era compreso quel codice  hersfeldese, o meglio norimberghese, per il cui possesso  si era sì lungo tempo e con tanta persistenza affaticato il Poggio, d’ accordo col Niccoli ? Non è lecito  forse da questa contraddizione argomentare che il cod.,  che si vuol dire hersfeldese, fosse probabilmente venuto  prima in possesso del Poggio? 3 Sarebbesi questi mo  1 GAxE, carteggio I, p. 163 sg. Vitt. Rossi, opusc. c., II, p. 27.  La lettera del Medici porta la data del 13 marzo 1456, st. com.;  1455, st. fior.   ? VESPASIANO, vile d'uomini illustri del sec. XV, ed. Bartoli,  p. 511.   8 Volet-VALBUSA, Op. c., V 5, vol, II, p. 194, nota 2: suppone    si  strato così indifferente per le scoperte di Enoch, e avrebbe  con la sua indifferenza provocato quel giudizio sì freddo  e altezzoso della scuola umanistica fiorentina, sulla quale’  valeva molto la sua grande autorità, se non avesse  posseduto prima del ritorno di Enoch, avendolo in un  modo qualsiasi ottenuto, un esemplare del cod. che per  lunghi anni aveva così vivamente ambito ?    III.  Enoch, disingannato per la fredda accoglienza  avuta e dai dotti umanisti e dai principi mecenati , si  ritirò ad Ascoli, dove poco dopo mori. Quand’ egli si  ricoverò nella sua città nativa, dovette portare seco i  codici che, per la forte remunerazione che si aspettava  di duecento o trecento fiorini, non aveva potuto trovare  occasione di cedere ad alcuno; e che egli avesse. con  sè i detti codici prima di morire, c’ induce ad ammetterlo una lettera del protonotario apostolico Carlo de’  Medici, del 10 dicembre 1457, nella quale questi serive  al fratello Giovanni che, avuta notizia della morte di  Enoch , sì era affrettato a scrivere a Stefano de’ Nardini, da Forlì, allora « governatore di tutta la Marca »,  per pregarlo di mandargli, se non gli originali, almeno  le copie dei codici dell’ Ascolano. !   Non si ha alcuna notizia certa intorno alle persone  che vennero in possesso dei codici portati da Enoch.  Quando questi giunse a Roma, dopo la sua lunga peregrinazione per i paesi nordici, dovette certamente, oltre  al presentare degli elenchi dei libri scoperti, permettere  anche di osservare i libri stessi; ma non permise a nes  che nell’ elenco di Enoch non fossero stati inclusi gli scritti di  Tacito e di Suetonio.  1 Vitt. Rossi, opusc. c., VIII, p. 30.    naz  suno di trarne copia, prima che gli si fosse data una degna remunerazione per la scoperta fatta.! Perciò, finchè  egli fu in vita, i codici che aveva scoperti rimasero in suo  potere. Aveva tentato, è vero, confortato forse dalle esortazioni dell’ Aurispa *, di offrirli a re Alfonso; ma  il risultamento delle nuove pratiche non dovette essere  conforme ai desideri di Enoch. Non è però improbabile  che, dopo la morte di Enoch, i codici di lui siano passati, mediante gli abili maneggi di Carlo de’ Medici e  la cooperazione di Stefano de’ Nardini, nella biblioteca  di Giovanni di Cosimo de’ Medici , e perciò a servizio  degli umanisti fiorentini. Un’ allusione a ciò pare di    1 Carlo de’ Medici scriveva al fratello Giovanni, in data del  13 marzo 1456 (1455, st. fior.): « Lui (Enoch) per insino a qui  non ha voluto farne copia a persona, imperò dice non vuole  avere durate fatiche per altri, e non delibera darne copia alcuna, se prima da qualche grande maestro non è remunerato  degnamente, ed ha oppenione d’averne almanco 200 o 300 fiorini ». GAYE, Op. c., I, p. 163. Vitt. Rossi, opuse. c., p. 27.   Sino al dicembre 1457, quando già era ‘avvenuta la morte di  Enoch, nè Carlo de’ Medici né il card. di Siena avevano potuto avere gli originali o le copie dei libri nuovi lasciati dal1 Ascolano : v. lett. VIII del 10 dicembre 1457, in Virt. Rossi,  opusc. c., pp. 30-31.   2 V. la lettera dell’Aurispa al Panormita, del 28 agosto 1455,  in SABBADINI, biogr. documentata di Giovanni Aurispa, Noto  1890, p. 128; e v. la chiusa di un’altra lettera dello stesso Aurispa al Panormita, del 13 dicembre 1455, pubblicata nel cit.  libro del Sabbadini, p. 133. Ma la data della prima lettera deve essere portata un po’ più tardi, probabilmente al 1457, come  han dimostrato con validi argomenti il CESAREO, opuse. c., I,  p. 4, col. 12, e il Rossi, opusc. c., pp. 34-35, nota 4.    A RES  scorgere in una lettera scritta da Carlo de’ Medici, il  13 gennaio 1458. !   In qual modo pervenne ad averne notizia, e come si  ebbe l’agio di farne l’apografo Gioviano Pontano, il  quale viveva lontano dai circoli letterari di Roma e  di Firenze? Nessun documento ci aiuta, per ora, a determinare una risposta precisa e certa al quesito proposto; e nulla c’ è da spigolare nè da congetturare  dalle due note attribuite al Pontano, che si leggono  nel cod. Leidens. Perizon. Ma è possibile che nuove ricerche sulle vicende di alcuni codici di fonte (come  credesi) pontaniana , i quali si conservano nella biblioteca di Minchen, p. es. il cod. degli Argon. di  Val. Flacco , ? e il cod. che contiene il libro Andreae Floci Florentini de Romanorum magistratibus ac sacerdotiis;* e nuove indagini negli archivi di  Firenze e di Napoli chiariscano le relazioni che ebbe  il Pontano con gli umanisti fiorentini, dai quali probabilmente si ebbe facoltà di prender copia dei codici  d’ Enoch, che egli trovava ‘ mendosos et imperfectos.’  Ma le congetture concernenti le relazioni del Pontano  con la scuola umanistica fiorentina non tolgono la pos  4 Nella cit. lettera del Medici (v. Rossi, opusc. c., IX, p. 31)  si legge: « Per una vostra sono avisato come aveste la lettera  mi scrisse m. Stephano de Nardinis supra quelli libri di Enoc;  non ho poi altro, ma non dubitate che per essere il primo che gl’abbia,non v’àanno acostare uno denaro di più ». Il Rossi tuttavia resta in dubbio « se quei  maneggi sortissero l’effetto desiderato » (pag. 39).   2 Nel cod. Lat. 802 (cod. Victorin. 123) leggesi appunto l' annotazione ‘emit Florentiae Iouianus ’.   3 Nel cod. Lat. 822 (cod. Victorin. 162) c'è la nota ‘ est Iouiani Pontani. Florentiae, MCCCCLXV III ',       i    sibilità, che egli sia venuto a conoscenza dei codici enochiani, per acquisto che abbia fatto degli stessi la  corte di Napoli; sebbene, in tal caso, non ci sarebbe  stato altro scopo per trarne copia, che quello di correggerne le mende numerose. Ma nessun documento nè  indizio ci aiuta per affermare o congetturare ciò.   Fatto certo è che il così detto cod. hersfeldese, quale  fu portato da Enoch a Roma, non si conservò in nessuna biblioteca: era scritto su pagine divise in colonne, e per la Germ. presentava (se quanto afferma il Decembrio, è da riferirsi al cod. anzidetto !) la particolarità dell'uso della v. ‘inscientia ? nel cap. 16, 6, invece  di ‘inscitia’; mentre, come è noto, nel sec. XV era  invalsa generalmente l’ usanza di scrivere le pagine  dei libri per intero, senza dividerle in colonne; e in>  oltre, in nessun cod. della Germ., finora conservato,  osservasi la v. ‘ inscientia ’ nel 1. c. ?    IV.  Quanto all’ elenco dei libri portati iu Italia da  Enoch d’ Ascoli, non abbiamo testimonianze del tutto  concordi nè complete. Bartolomeo Platina ne nota due:  il de re coquinaria di Celio Apicio e il comm. ad Orazio di Porfirione.* Degli stessi due libri fa menzione  Vespasiano da Bisticci. 4    1 Vedi SABBADINI, il ms. hersfeldese etc., in Rio. di filol. e d’i.  cl., a. XXIX (1901), p. 262.   ? Soltanto il cod. della bibl. Angelica (‘ Augustinorum’ ) Q 5,  12 del 1466, e il cod. Kappianus (K del Massmann) presentano  “iusticia’ invece di ‘ inscitia ”.   3 PLATYNAE de uitis max. pont. hist. periocunda, Venet. (Ph.  Pincio Mantuano) 1511, fol. 150,   4 VESPASIANO, l. c.    Par | pes   Il Panormita apprese da Teodoro Gaza che tra le  scoperte enochiane erano Apicio e un Caesaris iter;! e  l’Aurispa, in una lettera del 13 dicembre 1455, diretta al  Panormita, enumera: a) l’Apicio, cui chiama ‘ pauperem  coquinarium ’, inferiore nell’arte culinaria alla sua cuoca; b) il Caesaris iter, che ‘ prosa oratione est, non  uersu’; c) il commento di Porfirione, che a lui sembra ‘ magis aestimandus quam quicquam aliud ab ipso  allatum ?.* Il ‘ quicquam aliud ’ della frase dell’Aurispa  può tanto riferirsi ai due libri menzionati prima, Apicio e il Caesaris iter, quanto alle altre novità librarie  recate da Enoch, le quali l’Aurispa non credeva degne  di essere rammentate; chè non può supporsi che egli  le ignorasse, se scriveva al Panormita: ‘eum qui codices hos inuenit et Romam perduxit ad uos mittam  cum omnibus musis suis”.   Carlo de’ Medici chiedeva a Stefano de’ Nardini che  dei codici nuovi lasciati da Enoch, morto ad Ascoli,  gli mandasse: « Appicius de re quoquinaria, Porfirione  sopra Oratio, Suetonio de uiris illustribus, Itinerarium  Augusti ».* Dovevano essere gli stessi quattro libri  che avea contrassegnati nella lettera del 13 marzo 1456  a Giovanni de’ Medici; poichè il resto dei libri portati  dall’Ascolano non valeva, secondo lui, « una frulla » ‘.    1 Nella lettera del Panormita all'Aurispa (v. SABBADINI, dbiogr.  doc. di G. Aurispa, p. 133, n. 1) si legge: ‘ fac tecum deferas Apicium coquinarium et Caesaris « iter », nuperrime, ut refert  Theodorus tuus nunciam meus, inuentos Romamque perductos ’.   2 La lettera dell'Aurispa è cit. a p. 72, nota 2.*   8 Di questo incarico dato al Nardini egli scrive al fratello Giovanni, nella lett. del 10 dicembre 1457: v. VITT. Rossi, opusc. c.,  VIII, pp. 30-31.   4 Vitt, Rossi, opusc, cit., II, p. 27.    TR (; pere   Talchè ai tre libri che già conosciamo per le testimonianze sopra indicate, bisogna aggiungere, secondo quel  che scriveva Carlo de’ Medici, il libro di Suetonio de  uiris illustribus (non de grammaticis et rhetoribus).  Oltre questi quattro libri, null’ altro sappiamo degli altri libri portati da Enoch.' Nè a riempiere la lacuna può  valere la testimonianza, testè data alla luce, di P. C.  Decembrio; poichè questi non dice, nè lascia in alcun  modo intendere, che i quattro libri segnati nella nota  (Germ., Agr., dial. de oratoribus e Suetonio) si debbano comprendere tra le recenti scoperte di Enoch. L’a.  1455 a cui, nella nota del Decembrio, si accompagnano  le parole ‘ Cornelii taciti liber reperitur Rome uisus ”,  vale a indicare in qual tempo l’autore dello zibaldone  ebbe notizia o vide i libri che nota nell’ elenco, non  la data della scoperta di Enoch; chè, se intendimento  di lui fosse stato accennare in un modo qualsiasi tale  data, avrebbe certamente aggiunto qualche parolaanaloga a quelle che si osservano nella nota del cod. Leid.  Perizon. ‘ nuper adinuentos et in lucem relatos ab Enoc Asculano ?. :   Nulla, per tanto, osta ad ammettere che il Decembrio  abbia potuto attingere le notizie che trascrive nel suo  zibaldone a tutt’ altra fonte, che non a quella dei co  1 Appare inesatta l’asserzione, che nella lista di Carlo de'  Medici sia notata la sola opera di Suetonio « certamente perchè essa nel cod. occupava il primo posto » (v. Studi ital. di  filol. class. vol. VII, p. 130, nota 4); perocchè , argomentando  da una nota di Pier Candido Decembrio (Riv. di filol. e d'’ i.  cl., a. XXIX (1901), fasc. 2°, p. 268) l’opera di Suetonio occupava, invece, nel cod. l'ultimo posto. dici portati da Enoch! : probabilmente le avrà attinto al  codice del monaco hersfeldese, in quanto che verso la  metà del sec. XV questo cod. doveva essere già pervenuto tra le mani del Poggio. Il Decembrio, come è  noto, sin dal 1450 era al servizio della Curia romana.  Se, al contrario, si volesse ammettere che il Decembrio  fosse stato uno dei primi, anzi risolutamente il primo ?,  a vedere il così detto cod. hersfeldese delle opere minori di Tacito, portato in Italia da Enoch, si andrebbe  incontro ad un’affermazione indubitata di Carlo de’ Medici, il quale scriveva al fratello: « a dirvi l’oppenione  di molti dotti uomini, che gli Anno visti (cioè, i libri  portati dall’Ascolano), da questi quattro infuori che sono segnati...., tutto il resto non vale una frulla » :3 e  i quattro libri, l'abbiamo osservato sopra, erano Apicio,  Porfirione, Suetonio e l’Itinerarium. Sarebbe stato mai  possibile che i quattro libri segnati nella nota del  Decembrio fossero stati giudicati per « una frulla » da  quei dotti uomini, che costituivano, diremo così, il fiore  della scuola umanistica romana nel sec. XV ?   È da notarsi, inoltre, che il libro di Suetonio, accennato da P. C. Decembrio, ha per titolo de grammati  4 Si noti la differenza tra il tit. della Germ. segnato dal Decembrio (de origine et situ Germaniae) e quello scritto nel cod.  Leid. Perizon. (de origine situ moribus ac populis Germanorum), attribuito al Pontano. Se il Decembrio e lo scrittore del  cod. cit. avessero attinto la denominazione della Germ. alla stessa fonte, non avrebbero certamente mostrato alcuna discrepanza quanto al tit. del libro.   ? Così opina il Sabbadini : v. Rio. di filol. e d’i. cl., a. XXIX  (1901), p. 263.   3 Lett, cit. del 13-III 1456: v, Vitt. RossI, opusc, c., II, P. 27.    nun E   cis et rhetoribus, il quale non corrisponde al tit. de  viris illustribus, che si legge nella lettera di Carlo de’  Medici. Egli è vero che il secondo tit. include in sè l’altro,  come il genere contiene la specie; ma un titolo preciso, tutto proprio, doveva averselo il libro di Suetonio,  portato dall’Ascolano. Nel cod. Leid. Perizon. è scritto:  ‘ Caii Suetonii Tranquilli de wiris illustribus liber incipit. » de grammaticis ’; e in fine la nota: ‘ amplius  repertum non est adhuc. desunt rhetores XI”. Certo,  l’ indicazione del Decembrio risponde meglio al contenuto di quanto rimane del libro di Suetonio ; mentre  l’ indicazione di Carlo de’ Medici si riferisce alle notizie  che si avevano intorno ad un libro di Suetonio de wiris illustribus, del quale si era giovato S. Girolamo  per scrivere le vite degli uomini illustri, dall'età degli  apostoli sino a” suoi tempi.' E non pare perciò improbabile la congettura, che Enoch, per indicare nell’ inventario il libro di Suetonio, avesse usato il titolo  de uiris illustribus, a fin di attirar meglio sui suoi codici 1’ attenzione dei dot ti; stante che allera era divulgata la leggenda, che Sicco Polenton (de’ Ricci), dopo  essersi servito dell’ opera di Suetonio, per compilare il  suo libro de scriptoribus linguae Latinae, 1’ avesse distrutto col proposito di togliere qualsiasi prova a chi si  fosse avvisato di accusarlo di plagio.? In appoggio di tale  congettura, vale molto la nota, attribuita al Pontano,  che leggesi nel cod. Leid. Perizon: in essa, oltre l’ invettiva contro Sicco Polenton per la pretesa distruzio  i HieroNnyM. epist. XLVII ad Desiderium, t. I, col. 209, Veron.  1734; prol. ad Dextrum praet. praef. in libr. de uiris illustribus, t. II (1735), col. 807.   ? Vitm. Rossi, opusc. ne di quella parte del libro di Suetonio, ‘ quae est de  oratoribus ac poetis’, si trae occasione di lamentare  che Bartolomeo Fazio non avesse potuto, per l’ immatura morte (novembre 1457),' leggere lo scritto di Suetonio, mentre componeva il libro de uiris illustribus  temporis sui. Di modo che, con l’ intitolare de wiris  illustribus il libro di Suetonio, si volle indicare il contenuto del libro molto maggiore del vero, non tanto,  forse, per trarre in inganno chi si fosse deciso a comprare il codice, quanto per avvicinare la scoperta di Enoch  al libro compilato dal Polenton ed alle vite degli uomini  illustri del Fazio.   Non si può disconoscere che, se Enoch aveSse portato  seco degli scritti di Tacito, così pregiati dai dotti umanisti del sec. XV, non avrebbe di certo tralasciato di  dar loro evidenza, compilando 1’ elenco dei libri scoperti durante il suo viaggio nell’Europa settentrionale.  Nè è ammissibile che alla diligenza d’ un cercatore  di codici, scelto appunto per tali indagini da un pontefice di mente superiore e d’ illuminata liberalità, quale fu Niccolò V, fosse sfuggito il nome di Tacito, ove  questo nome si fosse trovato scritto sul frontespizio di  qualcuno dei codici o dei libri contenuti in uno stesso  codice; nè l’intendimento di trarre vantaggio dal mettere in prima linea il nome di Suetonio poteva essere  d’ ostacolo , che si scrivesse il nome di Tacito accanto  o anche dopo quello di Suetonio, se in realtà il nome  di Tacito si trovava in fronte a qualcuno dei libri  portati da Enoch in Italia. L’ importanza di Tacito nei    1 ZENO, diss. Voss., Ven. 1752, p. 70 sg.        80     giudizi degli umanisti del sec. XV non era inferiore a  quella attribuita a Suetonio. !   Molto meno attendibile ci sembra l’ avvertenza, che  fu omessa la menzione del nome di Tacito nella lettera  del Medici, 10 dicembre 1457, perchè questi vide solo  al principio del codice il libro di Suetonio. ®? Appare,  infatti, da un’ altra lettera di Carlo de’ Medici, con la  data « Roma, 13 marzo » (1456 st. com., 1455 st. fior.),3  che egli ebbe sott’ occhio l’ inventario compilato da Enoch, non il codice, sul quale inventario contrassegnò  quattro libri, i migliori secondo « l’oppenione di molti  dotti uomini, che gli Anno visti ». E di più nella cit.  lettera del*°10-XII 1457 non si fa elenco di codici, ma  solamente di libri, e tra questi il de wiris illustribus  di Suetonio occupa il terzo posto. Or, se Carlo de’ Medici vide 1’ inventario presentato da Enoch e non i codici, molto meno probabile appare la congettura, che  egli abbia veduto « una semplice copia, affine al cod.  Vaticano 4498, che reca tutte quattro le opere in que     1 Arrogi una considerazione: come si potrebbe conciliare la  niuna menzione della Germ. nell'inventario delle scoperte dell’Ascolano, col fatto che per avidità di guadagno i cercatori e  mercatanti di codici dicevano talvolta cose non vere o esageravano:quel che realmente si era scoperto? Valga d' es. il caso di Niccolò da Treviri: questi nell'inventario dei libri nuovi  mandato al Poggio scrisse di avere presso di sè un ‘ uolumen in  quo sunt XX comoediae Plauti' (v. Poca epist. III 29 T.); e  poi, invece, ne portò sedici (v. PocaIt epist. IV 4 T.).   ? Cosi appunto si legge in Studi ital. di filol. class. vol, VII,  p. 130, nota 4; e Rio. di filol. e d'i. cl. a. XXIX (1901), fasc. 2,  p. 264. E dello stesso avviso è anche il LEHNERDT, in Hermes,  vol. XXXIII (1898), p. 501.   3 GAYE, Op. c., I, p. 163 sg. Vitt. Rossi, opuse. c., II, p. 27.    ASI RS    st’ ordine» Suetonio de grammaticis, Tacito Agricola,  dialogus, Germania ».! Aggiungasi che nella nota dello  zibaldone del Decembrio il libro di Suetonio occupa  l’ultimo posto, e la Germ. ha il primo parsa: anteriore, perciò, all’Agr. e al dialogus.*   Altre considerazioni c’ inducono ad ammettere come  probabile che, tra i libri portati da Enoch in Italia,  quelli attribuiti a Tacito mancassero dell’ indicazione  del nome dell’ autore. Dalla lettera del Panormita al    1 Rio. di filol. e d’i. el. 1. c. Ma in realtà il cod. Vatic. 4498  contiene Suetonius de grammaticis et rhetoribus nel terzo posto: lo precedono Frontinus de aquaeduct. e Rufus de prouinciis.   2 Perciò appare, ora, infondato, alla luce dei documenti testé  scoperti, il ragionamento del LEHNERDT |. c., p. 501: « dass in  Carlos Briefe nur Suetonius, nicht aber die beiden Taciteischen Schriften genannt werden, findet leicht eine Erklàrung.  Wir erfuhren schon aus einem frilheren Briefe, dass Enoche  mit seinen Schàtzen sehr zuritckhaltend war; so lag auch  den beiden Medici nicht der Codex selbst, sundern nur das Inventar Enoches vor, in dem, wie so hàufig, nur das erste  Werk der Sammelbandschrift aufgefihrt war ».  La spiegazione, invece, sarebbe tutta al contrario, perchè, secondo la nota dello zibaldone di Pier Candido Decembrio, la  Germ. è il primo senitto del cod.; l’ultimo è il de gramm. et  rhetoribus di Suetonio. y   3 Vitt. Rossi nell'opusc. c., p. 38, nota 1, scrive: « se poi Enoch non trascrisse il cod. da lui scoperto, ma portò questo   stesso in Italia, può ben darsi gli sia sfuggito il nome di Tacito, che, come nel cod. Perizoniano, dovea leggersi in fronte  al secondo opuscolo contenutovi, alla Germania, e non al primo, il dialogo de oratoribus ». Ma il MASsMann, op. c., p. 7,  descrivendo îl cod. Leid. Perizon. XVIII C 21, osserva che il  1° opusc. porta nel fol. I il soprascritto di colore rosso ‘ CoRCONSOLI n L’ autore detta Germania, 6    cn a    Guarini veronese, citata in principio del presente capitolo, apprendiamo che solo per congettura erasi attribuito a Tacito il dialogus. Nè alla notizia precisa  data dal Panormita contrasta la nota del Decembrio,  per la quale si vuole riconoscere per vero « indi scutibilmente che il dialogo portava il nome di  Tacito »;! perocchè l’ affermazione del Decembrio devesi riferire allo stato del codice o di un apografo del  codice, ventinove anni dopo che ne avea dato l’ annunzio il Panormita. Dopo tanti anni era possibile che il  Decembrio avesse veduto e descritto qualche esemplare,  proveniente forse dal cod. annunziato dal frate hersfeldese, nel quale esemplare la congettura del Panormita fosse stata accolta come notizia indubitata, e si  fosse ascritta a Tacito la paternità del dial.   Quanto all’ Agr. manca qualsiasi testimonianza, che  il libretto formasse parte del cod. portato da Enoch.  Il Decembrio lo nota soltanto nell’ elenco, senza indicare espressamente che l’Agr. era incluso nello stesso  cod., insieme con la Germ., il dial. e il Suetonio, e ne  teneva il secondo posto. Nè havvi alcun codice, in cui si  presentino riunite insieme le tre così dette opere minori  di Tacito e il de gramm. et rhetoribus di Suetonio, nell’ordine stesso della descrizione che ne fece il Decembrio.   Alla mancanza di testimonio per l’Agr. non può supplire, come pare a noi, il cod. Vatic. 4498; * perchè, co  NELII TACITI DIALO-/gus de oratoribus incipit’: e la stessa osservazione ci è stata confermata, in una cortese lettera del 4-X  1901, dal prefetto della biblioteca universitaria di Leida sig. S. G.  de Vries, alla cui gentilezza ci siamo rivolti per avere delle  notiziecerte sull'argomento.   1 Rio. di filol. e d’ i. cl., 1. c., p. 264.   ? V. gli Studi ital. di filol. class. vol. VII, p. 130: si ammette me sopra si è in parte avvertito, ! in questo cod. non  si contengono raccolte le sole quattro opere che si dicono costituire il cod. hersfeldese, portato da Enoch in  Italia, e nemmeno nell’ ordine indicato dal Decembrio  (G. A. d. S.), ma vi si contengono anche: 1° Frontinus de aquaeduct.; 2° Rufus de prouinctis ;.... 4° [ Pseudo-] Plinius de viris illustribus ;..... 8° M. Iunii Nypsi  de mensuris ; 9° incerti de ponderibus ; 10° Senecae  apokolokyntosîs ; 11° Censorinus de die natali. Di que=  sti scritti alcuni, come p. es. il de aquaeduct. di Frontino,? erano già noti prima che il cod. dell’ Ascolano  fosse stato portato in Italia.    V. Resta la testimonianza che dicesi del Pontano,  scritta sul cod. Leid. Perizon., la quale avrebbe un notevole valore, se prima si chiarissero, mediante la scoperta di nuovi documenti, le difficoltà presentate dal  Voigt * e accolte dal Teuffel,' ma da altri respinte. *  Egli è vero che Vittorio Rossi è pervenuto a dimostrare, con documenti che si conservano nell’ archivio  fiorentino (Med. avanti il Princip.), essere conforme  al vero l’attestazione pontaniana: ‘qui (sc. Bartholomaeus Facius) ne hos Suetonii illustres uiros uidere pos  appunto che al difetto di testimonianza per l' Agricola debba  supplire il cod. Vatic. 4498,   1 V. p. 81, nota 1l?.   ? Poe epist. III 37. IV2e4T,   3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol. I, p. 255 sg., nota 3.   4 TEUFFEL-SCHWABE, G. d. r. L. 5, $ 334, 4, p. 835.   5 Vedi WuENSCH, de Tac. Germaniae codicibus Germanicis,  Marburg 1893; e 4ur Texigeschichte der Germ., in Hermes  vol. XXXII (1897), fasc, 1°, p. 57.    dn   set, mors immatura effecit. Paulo enim post eius mortem in lucem redierunt.’ Infatti, il Fazio morì nel 1457;  e dalla lettera di Carlo de’ Medici, 13 genn. 1458, risulta che sino a quella data non si era potuta ottenere  copia dei libri portati da Enoch. Rimangono però senza  soddisfacente risposta altre obiezioni mosse dal Voigt.  Resta sempre nell’ attestazione attribuita al Pontano  una certa vacuità o mancanza d’ interesse, quanto alle  notizie che vi si annunziano. Egli si duole che il Fazio  sia stato sorpreso da morte immatura, sicchè non si  sia trovato presente quando veniva alla luce l’opuscolo  di Suetonio de wviris illustribus : la ragione di tale doglianza è evidentemente quella accennata sopra, che il  Fazio se ne sarebbe potuto servire nel comporre il suo  libro de viris illustribus temporis sui. Ma il Fazio in  una lettera al card. Enea Silvio Piccolomini, scritta nei  primi mesi del 1457,! gli dà la notizia: ‘ librum quem    1 La lettera, scritta da Napoli e senza data, fu pubblicata nella  raccolta assai confusa delle epistole di Enea Silvio Piccolomini, contenuta in opera quae exrtant omnia di lui, Basil. 1571,  p. 778, n. 233. Nella lett. si fa menzione, fra le altre cose, di  alcune lettere di congratulazione, scritte precedentemente dallo  stesso Fazio, per la promozione del Piccolomini al cardinalato ;  e vi si fa cenno anche del terremoto di Napoli. Or, secondo il breve di Callisto III (‘ dat. Romae apud S. Petrum anno MCCCCLVI  XV Kal. Ianuarii, pontificatus nostri anno II ’), riferito testualmente da Oporico RAYNALDO, in ann. ecel. el. D. Mansi, Lucae  1753, t. X, p. 99, la promozione del Piccolomini al cardinalato  ebbe luogo il 18 dicem. 1456, Il terremoto che rovinò Napoli ed  altre città del Regno avvenne « la domenica mattina a di 5 di  dicembre (1456), a ore dieci e mezza », e si ripeté nei giorni seguenti (v. cron. di Bologna, in MURATORI, rer. It. scriptt. t. XVIII,  cc. 722, 723; giornali napolitani dal 1266 al 1478, ibid. t. XXI,  c. 1132: l’INFESSURA, nel diurio della città di Roma, ibid, t. III,    SE  de uiris illustribus scripsi, Regi dedicaui ac tradidi*;  ed aggiunge: ‘ in quo opere, ut aliquando uidebis, si  non quantum uirtutum tuarum magnitudo postularet,  at quantum ingenii mei paruitas potuit, quantumcumque res ipsa passa est, tibi a me tributum cognosces.’  Cosicchè, se verso la fine del 1456 il Fazio portò a  compimento e pubblicò il suo libro sulla vita degli uomini illustri, e ne fece un presente ad Alfonso d’ Aragona, re di Napoli, è evidente che a nulla gli sarebbe  giovata, ancorchè egli fosse vissuto sino al principio  del 1458, la divulgazione del libro suetoniano, avvenuta in quel tempo.   Nella stessa annotazione del cod. Leid. Perizon. si  accoglie con leggerezza, come notizia indubitata, il supposto plagio di Sicco Polenton e la distruzione di quella  parte del libro di Suetonio, che trattava de oratoribus  ac poetis. !   Resta un’ altra difficoltà. Secondo l’ annotazione del  cod. Leid. Perizon., il libro de grammaticis et rhetoribus di Suetonio si divulgò poco dopo la morte del  Fazio, anzi, per i dati contenuti nella lettera di Carlo  de’ Medici, non prima del gennaio 1458. Un certo tem  p. II, c. 1137, menziona il terremoto del 24 dicembre 1456). La  lettera del Fazio è, per conseguenza, posteriore al dicembre  1456. Nella raccolta cit., p. 784, n. 251, è compresa una lett. del  card, Piccolomini di risposta a quella del Fazio, con la data  ‘ex urbe Roma die XXV Martii 1457,’ Si può, dunque, affermare che la lettera del Fazio dovette essere scritta tra la fine  del dicem. 1456 e la metà del marzo 1457.   1 RIiTscHL, Parerga zu Plautus und Terena, Leipz. 1845, I p.  632. RoTH, C. Sueton. Tranq. quae supersunt omnia, Lps. 1882 ;  praef., p. LI sg.    ana    po era, senza dubbio , necessario perchè i libri o le  copie di essi, che Stefano de’ Nardini avea promesso ,  giungessero a Carlo de’ Medici, e da questo si mandassero al fratello Giovanni, in Firenze, il quale doveva essere il primo ad averli. ' Perciò la divulgazione dei libri  portati da Enoch non poteva aver luogo prima che alcuni  mesi fossero scorsi dopo il gennaio 1458. Intanto Enea  Silvio Piccolomini è il primo a far menzione, sebbene in  un modo poco esatto, del contenuto della Germ. nella  grande epistola di risposta a Martino Meyer, cancelliere dell’ arcivescovo di Magonza ?. Il Meyer, con  lettera in data del 31 agosto 1457, * si era congratulato  col Piccolomini della promozione al cardinalato e nello  stesso tempo , colta la propizia occasione, avevagli  descritto le tristi condizioni fatte dalla Curia romana  alla Germania, e l’aveva avvertito che ‘ nunc uero, quasi  ex somno excitati, optimates nostri quibus remediis huic  calamitati obuiam pergant cogitare coeperunt iugumque  prorsus excutere et se in pristinam uindicare libertatem decreuerunt ’: sono i preludi della riforma religiosa.  Il card. Piccolomini, che aveva già scritto su tale ar  1 Le precise parole scritte da Carlo de' Medici nella lett. cit. del  13 genn. 1458 (F IX, doc. 576) sono queste : « non dubitate che  per essere il primo che gl'’abbia (i libri di Enoch),  non v'énno a costare uno denaro di più ».   ? L’epistola del card. Piccolomini è pubblicata col titolo de  ritu, situ, moribus et conditione Germaniae descriptio, in opera  quae extant omnia, ed. cit., pp. 1034-1086.   8 L' epistola del Meyer è pubblicata a p. 1035 delle opere di  E. S. Piccolomini, ed. c.; ma, per evidente menda di stampa,  porta la data erronea: ‘ex Hasthaffenburga pridie Calend,  Septembris MCCCCVII ”, invece del MCCCCLVII,    RT    gomento al Meyer la lettera del dì 8 agosto 1457, !  tornò a scrivergli in proposito, per confutare le affermazioni di lui, altre tre lettere * ; e di ciò non contento,  per dare, probabilmente, una maggiore pubblicità alle  ragioni addutte in confutazione delle osservazioni del  Meyer, si accinse a scrivergli una lunga epistola, che  prima mandò, per averne l’ autorevole parere, ad Antonio card, di S. Crisogono, con lettera in data del 1°  febbraio 1458. 3 Al Piccolomini premeva di ribattere le  accuse che provenivano dalla Germania, per prepararsi  i voti favorevoli nel prossimo conclave, che, difatti, lo  elevò, dopo la morte di Callisto III, all’ onore della  tiara; ed era importante per lui che tutti sapessero quel  che egli ne pensasse intorno alle agitazioni tedesche  contro la Curia di Roma. E però, per confutare gli ar© gomenti addotti dal Meyer (cui avverte ‘ nec dubitamus  te perditum iri, nisi e schola erroris et officina ueneni  retrahas pedem), arreca, tra le molte ragioni, i benefici fatti dalla Chiesa di Roma alla Germania, e fa un  confronto tra i costumi degli antichi Germani , quali  furono descritti da Cesare e Strabone, e la civiltà tedesca de’ suoi tempi; indi soggiugne (p. 1051): ‘ is igi  1 Epist. n°. 369, pp. 836-839, op. c.   ? Una delle tre lettere, che è segnata nella raccolta cit. col  n° 338, p. 822, porta la data ‘Romae XII Calend. Octobris a.  MCCCCLVII ’. Un' altra, di n° 345, p. 827, ha la data ‘ex urbe,  die uigesima Octobris’, senza indicazione dell’anno, che deve  essere lo stesso 1457. La rimanente, segnata col n° 288, p. 801,  non porta data, ma dal posto che occupa tra una epist. dell'11-IX 1457, e una del 3-X dello stesso anno, è probabile che  sia stata scritta nella seconda metà del settembre 1457.   3 La lett. al card. di S. Crisogono è pubblicata a p. 1034, e  precede immediatamente quella diretta al Meyer.    =,   tur fuit Germanorum status Strabonis tempore, quem  usque ad Tiberium Caesarem uixisse constat. his ferociora de Germanis scribit Cornelius Tacitus, quem in  Adriani tempore incurrisse perhibent. parum quidem  ea tempestate a feritate brutorum maiorum tuorum uita  distabat. erant enim plerumque pastores, syluarum incolae ac nemorum nec munitae his urbes erant,  neque oppida muro cincta, non arces altis innixae montibus, non templa sectis structa lapidibus uisebantur.  aberant hortorum ac uillarum delitiae, nulla uiridaria,  “nulla tempe, nulla uineta colebantur: praebebant largos  flumina potus; lacus et stagna inseruiebant lauacris et,  si quas natura calentes produxerat, aquae. parum apud  eos argentum, rarius aurum, margaritarum incognitus  usus. nulla gemmarum pompa, nulla ex ostro uel serico uestimenta. nondum metallorum inuestigatae minerae; nondum. miseros in uiscera terrae mortales -truserat auri sitis: laudanda haec et nostris anteferenda  moribus. at in hoc uiuendi ritu nulla fuit literarum  cognitio, nulla legum disciplina, nulla bonarum artium  studia. ipsa quoque religio barbara, inepta et, ut propriis utamur uocabulis , ferina ac brutalis. talis tua  Germania fuit usque ad Adrianum Caesarem, quamuis  iam ceterae orbis prouinciae excultae artibus ac mo‘ribus essent ’.   Dovette, dunque, il Piccolomini aver notizia, sebbene  alquanto imperfetta , della Germ. anteriormente al 1°  febbraio 1458, che è la data segnata nella missiva al  card. di S. Crisogono. E, se consideriamo attentamente  il contenuto della lettera del Piccolomini al Meyer, in  data 8 agosto 1457, appare non dubbio che egli ebbe  notizia della Germ. prima di questa ultima data; poi     ica   chè nella lettera si contengono , riassunte senza indicazione di autori, osservazioni consimili a quelle che  sui costumi dei Germani antichi sono ampiamente svolte nella grande epistola sopra cit. Leggesi, infatti, nella  lettera: dell’ 8 agosto 1457 : ‘ namque si legamus uetusta tempora, inueniemus Germanos olim ritu uixisse  barbaro, uestibus usos laceris; uenationi tantum et agrorum culturae dedisse operam, feroces quidem homines  et belli appetentes , sed argenti prorsus inopes, quibus  quippe nec uini usus erat. ipsaque Germania intra mare  et Danubium rursusque intra Rhenum et Albim continebatur; nunc uero quantum transgressa sit suos limites, non ignoramus ?. e. q. s.! Perciò il Piccolomini  dovette conoscere il contenuto della Germ. prima del1’ 8 agosto 1457, cioè circa sei mesi prima del tempo in cui, secondo la lettera di Carlo de’ Medici , del  13 gennaio 1458, si erano cominciati a divulgare i libri  portati da Enoch; e, per tanto, appare non vera l’ annotazione del cod. Leid. Perizon., d’essere, cioè, la Germ.  e gli altri opuscoli ‘ nuper adinuentos et in lucem re.latos ab Enoc Asculano ’, giacchè del contenuto della  Germ. sì era avuta notizia prima che i libri portati  da Enoch, in originale o in copia, fossero stati acquistati da Giovanni di Cosimo de’ Medici o da altri, e prima che se ne fosse cominciata la divulgazione.   Ma per quale via sia pervenuto il Piccolomini ad avere in sue mani la Germ. non ci è dato, secondo i  documenti del tempo scoperti sino ad oggi, determinarlo con certezza. Non è improbabile che il Piccolomini sia stato aiutato in tali indagini dal Poggio ? e   1 Epist. n.° 369, p. 838, ed cit.   2 Nella lettera del 4 gennaio 1457 il Poggio, congratula ndosi dal Panormita,! coi quali egli aveva relazioni di buona  amicizia: ed è noto quanto ebbe a stentare il primo, nei  lunghi e tediosi maneggi, per aversi il ms. del frate  hersfeldese ; del secondo si sa che sin dal 1426 aveva  dato notizie della Germ. nella lettera, citata sopra, al  Guarini veronese.   Il Lehnerdt però, per la soluzione del quesito, muove  da una notizia che si legge nella lettera del 10 dicembre 1457 di Carlo de’ Medici al fratello Giovanni: « heri  mandò per me il cardinale di Siena e domandomi se  Enoch avesse lasanti (1. lasciati) libri alcuni nel banco  nostro; dissigli che no. Lui mi domandava che via lui  potessi tenere ad avere certi libri che lui aveva: io fe”    col Piccolomini, per la promozione di lui al cardinalato, gli scriveva: ‘accedit ad consolationem meam et summam iocunditatem quod uir eloquentissimus (cioè il Piccolomini) optimisque artibus eruditus, fructum eloquentiae et doctrinae sit, quod  perraro accidit, consecutus: in quo gloriari quodam modo mihi  merito uideor posse nostri quondam ordinis uirum, hoc est eloquentiae studiis et dicendi exercitio praestantem, eo in statu  esse collocatum, ut suae doctrinae aemulos extollere et eis  praesidio atque ornamento esse possit'. Ed in un'altra lettera  del 3 novembre (manca l'indicazione dell’anno, ma è, senza  dubbio, del 1457) lo stesso Poggio profferiva i suoi servigi al  card. Piccolomini, scrivendogli: ‘me penitus tuum esse ubique  satisfaciendi cupidum, si qua in re mea tibi cura, studio, opere,  diligentia opus esset.’ Le due lettere del Poggio sono comprese  nell’ epistolario del Piccolomini, segnate l’una col n. 216, p. 771,  l’altra col n. 295, p. 806: tra le due lettere è compresa la responsiva di ringraziamento del Piccolomini al Poggio, n. 293,  p. 805.   1 Vedi la lettera del Piccolomini, allora ‘ episcopus Senensis ',  ad Antonio Panormita, n. 407, p. 951 sg.; e la menzione del  Panormita nell'epist. al Fazio, notata al n. 251, p. 784.    PEN co (ROSS   al giuoco del baloco. Di poi ho sentito che lui ha scritto ad Ascoli a certi sua amici; e pertanto vorria che  voi medesimo scrivessi a m. Stefano che in singulari  vostro servizio lui mi fessi avere o i libri di che io gli  ò scritto overo la copia ».! Il Lehnerdt ne argomenta  che il Piccolomini (denn niemand anders ist der betriebsame Cardinal von Siena) dovette attingere le notizie sulla Germania, annunziate nella lettera, a Martino  Meyer, al ms. enochiano, di cui venne in possesso prima del Medici. ? Ma alla congettura del Lehnerdt si  oppone il testo di un’altra lettera di Carlo de’ Medici,  in data del 13 gennaio 1458, che sopra abbiamo riferito. Stefano de’ Nardini, sollecitato, oltre che da Carlo,  anche da Giovanni de’ Medici, rispose dando promessa  certa, che questi avrebbe avuto i libri di Enoch o le  copie; e dovette aggiungere che lo stesso Giovanni de’  Medici li avrebbe avuti per il primo, poichè il fratello  Carlo nella lettera su cennata soggiugne le sgg. parole, più volte da noi citate: « non ho poi altro, ma non  dubitate che per essere il primo che gl’abbia non vanno a costare uno denaro di più. » 8 Or,  se Giovanni de’ Medici doveva essere il primo ad  aver i libri di Enoch, giusta l’ affermazione «di Carlo  confortata dalla lettera di Stefano de’ Nardini, non è  possibile che prima di lui il card. Piccolomini ne fosse  venuto in possesso.   E naturale poi che un certo tempo dovette trascorrere  tra la lettera del 13 gennaio 1458 e la trasmissione  dei libri di Enoch o di copie dei medesimi, che Gio     1 Vitt. Rossi, opusc. c., VIII, p. 31.  2 LEHNERDT, l. c., pp. 502, 504.  3 VITT. Rossi, opusc. c., IX, p. 31.    vanni de’ Medici desiderava avere: così si giunge alla fine di gennaio od al principio di febbraio. Il Piccolomini, che non risulta essere stato il primo ad averli e leggerli, poteva averne avuto notizia, stante la  difficoltà delle comunicazioni in quei tempi, verso la  ‘metà o la fine di febbraio: dunque non era possibile  che egli ne avesse avuto conoscenza prima «li scrivere  la lunga lettera al Meyer; la quale lettera fu, senza dubbio, preparata e scritta nel gennaio 1458, poichè in data  del 1° febbraio fu spedita per esame al card. di S. Crisogono. ! L’improbabilità che il Piccolomini avesse tratto vantaggio dai libri enochiani si rende ancor più evidente, se  si bada alla conclusione cui siamo pervenuti poco prima,  cioè, che per altra via il Piccolomini dovette aver notizia del contenuto della Germ., prima dell’8 agosto 1457.    VI.  Anche nella supposizione che la Germ. si fosse  trovata unita coi libri portati da Enoch, essa non doveva presentare, come sopra sì è avvertito, il nome dell’autore, poichè non se ne fa cenno nell’inventario dei libri di recente scoperti. Il nome dell’autore dovette essere aggiunto dopo, quando si cominciò la divulgazione  del libro, e si riconobbe che era identico a quello già    1 Nella lett. del Piccolomini al card. di S. Crisogono, p. 1034  ed. c., si legge: ‘ epistolam scribere institui et liber exiuit; quid  dixi liber? libri exiuere.  mittimus igitur ad tuum examen,  ut uideas corrigasque, uel, si melius putes, igne consumas. tu  solus es, cuius existimationem audiendam arbitror.  ad te  ergo ueluti ad fontem doctrinae uenio et ad ipsum iubar  scientiarum, si condendum aut comburendum opus iudicaueris,  obediam imperio tuo. si duxeris edendum, exibit liber intrepidus et nullius calumnias uerebitur, quando abs te probatus  fuerit, quem omnes probant.' e. q. s.    Pei 7, ME    indicato dal Panormita nella lettera dell’ aprile 1426,  diretta al Guarini. E per tal modo la Germ. fu annotata, ventinove anni dopo (1455), col nome di Tacito  nello zibaldone di Pier Candido Decembrio. Cosicchè  l’ indicazione di Tacito come autore della Germ. si riconnette, anche per il libro portato da Enoch, allo stesso fonte che abbiamo considerato sopra, trattando del  codice del frate hersfeldese: la conclusione ne sarebbe la  stessa. Per tale conclusione troverebbesi forse modo  di coordinare l’ attestazione notata nel cod. Leid. Perizon. con le ricerche fatte anteriormente dal Poggio, e  col fatto che il contenuto della Germ. era noto prima  che si fossero divulgati in Italia i libri portati da Enoch; in quanto che il Pontano, che è detto autore dell’ attestazione, non deve aver letto il nome di Tacito  in fronte alla Germ. che egli trascrisse, correggendone  le mende, ma ve l’appose per le notizie avutene a  Roma e a Firenze in quei circoli letterari, ai quali il  libro era prima noto.   Il vedersi, dunque, attribuita a Tacito la paternità  della Germ. nei codici del sec. XV, che soli ci rimangono dell’ aureo libretto , resta sempre dovuto, come  pare a noi, ad un presupposto del Poggio ed all’ annuenza non disinteressata del frate hersfeldese; se non  sì vuole direttamente ammettere che tale attribuzione  sì fondi sulla fede d’ un amanuense del sec. XV, fede,  come bene avverte il Valmaggi in proposito del dialogo de oratoribus, che si ha da reputare dubbia « per  lo meno, sino a tanto che altri documenti e prove sieno contro di lei ».!    1 L. VaLMaG6I, dial. degli oratori, Torino 1890; introduz., pagina XXXIX.    Di Uno studio che avesse 1’ obietto di comparare la  Germ. con gli scritti di Plinio Secondo, riuscirebbe certamente non poco utile a dare evidenza e conferma ai  risultamenti delle indagini fatte nei precedenti capitoli.  Ma un tale studio sarebbe, di necessità, incompleto,  perchè gli scritti di Plinio, i quali si avvicinano, per  analogia di argomento, alla Germ., cioè i venti libri  Germanicorum bellorum, la vita di Pomponio Secondo  e i libri di storia a fine Aufidii Bassi, non sono pervenuti sino a noi. Solo si può istituire il confronto tra  la' Germ. e la nat. hist., determinando anzi tutto quali  notizie, quali considerazioni, insomma quali concetti  presentino in entrambe le opere considerate il carattere di comune origine; sì che se ne possa indurre che  tanto l’una quanto l’altra debbano essere state manifestazioni, sebbene per obietti diversi, dei pensieri di una  stessa mente.   Seguiremo nelle nostre indagini l’ordine dei libri  della nat. hist.    * Restringiamo il confronto soltanto ai concetti o pensieri analoghi espressi nei due libri. Quanto al confronto lessicale,  sintattico e stilistico tra la Germ. e la n. A. di Plinio, abbiamo  prepa:ato un libro, che sarà pubblicato immediatamente dopo  il presente lavoro, di cui può considerarsi opportuno complemento. Valga la stessa avvertenza per il capitolo sg., in cui la  Germ. sarà comparata con gli scritti genuini di Tacito, = DE    I. a) Una spedizione navale, capitanata da Druso,  si mosse nel 742/12 dalle foci del Reno verso le regioni orientali, per fare delle scoperte ed estendere il  dominio romano. Un’altra spedizione fu tentata ventotto anni dopo, nel 16 d. Cr., dal prode Germanico.  Alla prima impresa si allude nella . A. II 67 (67), 167  ‘ septentrionalis uero oceanus maiore ex parte nauigatus est auspiciis diui Augusti Germaniam classe circumuecta ad Cimbrorum promunturium 7. Ad entrambe le  imprese si riferisce la notizia, di cui nella Germ. 34, 6  ‘ipsum quin etiam Oceanum illa temptauimus ”.!   b) Non è da omettersi che della strage di Crasso,  menzionata nella Germ. 37, 15, si fa cenno nella n. A.  II 56 (57), 147; e la notizia. si ripete in vari modi in  V 24 (21), 86. VI 16 (18), 47: cf. XV 19 (21), 83.   c) Nemmeno si deve tralasciare l’ osservazione, che il  cenno sulla guerra cimbrica, fatto nella Germ. 37, 7,  notasi anche nella n. A, II 57 (58), 148. *    II.  Nel lib. II della n. A. si osservano tre Il. di  confronto.   a) Dei ‘ Boi ’ Plinio dà notizia, indicando i luoghi, in  Italia, in cui le loro centododici tribù furono distrutte,    1 Della prima spedizione si fece, più tardi, menzione da SveTon. Claud. 1; e da Cass. Dion. r. Rom. LIV 32,2. La seconda  spedizione del 16 d. Cr. è lodata in versi da ALBINOv. PED. (v.  PLM. ed. Baehrens, vol. VI, pp. 351-352: cf. SEN. suas. I 15, p. 10,  ed. Kiessling); la narra Tac. ann. II 8; 23; 24.   ? La notizia è poi, in diverse occasioni, ripetuta nella n. A.  VII 22 (22), 86. VIII 40 (61), 143. XVI 32 (57), 132. XVII 1 (1),  2. XXII 6 (6), 11. XXVI 4 (9), 19, XXXIII 11 (53), 150. XXXVI  1 (1), 2; 25 (61), 185.    ci GG i   (n. h. Ill 15 (20), 116), e denotando, quali conseguenze  delle loro scorrerie: in Italia, la fondazione di ‘ Laus  Pompeia’ (III 17 (21), 124) e la distruzione di ‘ Melpum ? (III 17 (21), 125); indica anche i luoghi da loro  abitati in Gallia (IV 18 (32), 107). Nella Germ. (28, 7.  42, 3) si denotano i luoghi occupati e poi abbandonati  dai ‘ Boi” o ‘ Boii”, in Germania.   b) Quanto agli ‘ Arauisci ’, che avevano le loro sedi  nella Pannonia, sulla riva destra del Danubio, tra la  Drava e la Sava, trovasi menzione nella Germ. 28, 10  e nella n. A. III 25 (28), 148: li nominò anche Tolomeo, indicando le loro sedi più a settentrione di quelle  degli Scotdisci.* Vi è però una differenza nella grafia,  chè nella n. A. è scritto ‘ Erauisci’, e nella Germ.  ‘ Arauisci ’. Ma del nome usato da Tolomeo la lettera  iniziale è A. Una simile differenza notasi nel nome  ‘ Bastarnae ’, usato nella Germ. 46, 4, e ‘ Basternae ”,  adoperato nella n. A. IV 14 (28), 100. ?    1 ProLEM. geogr. ll 16, 3.   ? Ma si deve avvertire che la grafia ‘ Basternae' non è costante nella n. 4., come asserisce il GEORGES, ausfithrl. Handwb.  I, c. 743; poichè in IV 12 (25),81 mutasi in ‘ Basternaei” e poi  in VII 26 (27), 98 diviene all’abl. ‘ Bastrenis’, che nel cod.  Riccard. (R. del Mayhoff) è ‘ bastenis ’, e nel cod. Leid. (F. del  Mayh.) ‘ bostrenis’, Né i codd. della Germ. consentono tutti col  Leid. Perizon. nel presentare nel |. c. ‘ Bastarnas ’: il cod. Vatic. VRB. 655 presenta ‘basternes ’, e con strana metatesi il  Vindobon. ‘ bastranas’. Nemmeno la grafia accolta dal Leid.  Perizon. può mettersi in relazione con quella che osservasi in  Tac. ann. ll 65, 14, perché in questo la forma ‘ Bastarnas® è  dovuta ad una congettura di Beato Renano: nel cod. è ‘ basternas’. Cf. cod. inscr. Lat. Il 2, p. 862. Ma in Strabone sempre  ‘ Bastàrnai .    Ri odi  c) Soltanto nella Germ. 29, 17 (v. sopra, pp. 19-22)    sì nominano i‘ decumates agri’. La n. A. II 4 (5), 32  fa solamente menzione di una ‘ decumanorum colonia ”.    III.  Il lib. IV della n. /. offre un buon numero  di confronti con la Germ.   a) All’ indicazione generica della Germ. 44, 20 ‘ Suionibus Sitonum gentes continuantur ’,! risponde  quella più particolareggiata della 7. %. IV 11 (18), 41  ‘ circa Ponti litora Moriseni Sitonique Orphei  uatis genitores optinent ’. Resta però la differenza dell’ordine flessivo tra ‘Sitones” e ‘ Sitoni ?.   b) I gioghi dell’Abnoba, nella Selva nera, sono indicati, tanto nella n. %. IV 12 (24), 79 quanto nella Germ.  1, 9, come punto d’ origine del Danubio; anzi la retta  grafia ‘ Abnoba ’, indicata dai codici della n. A. e quale  venne accolta da Tolomeo,® fu di guida a Beato Renano  per determinare, nel testo della Germ. 1. c., la forma  esatta ‘ Abnobae ’ tra le varianti ‘ Arnobae ’ (cod. Vatic. 1862 e cod. Neapol.), ‘ Arbonae ’ (cod. Leid. e cod. Vatic. 1518), ‘ Arnibae ’ (cod. Arundel.). Due iscrizioni scoperte nello Schwarzwald hanno confermato la forma  ‘ Abnoba. ?.   c) È data dalla n. R. IV 12 (24), 79 la notizia, che       1 Omettiamo di citare per i ‘ Sitones ’ il 1. della Germ. 45, 1,  perché nei codd. si Iegge ‘trans Suionas”’ (nel Leid. ‘Suiones’).  Il MEISER ha sostituito ‘Sitonas ’; e la congettura di lui è stata accolta da U. Zernial, Io. Miiller, etc. Hanno conservato la  lezione dei codd. il Dilthey, il Kiessling, il Finek, il Kritz, il  Halm, il Ramorino, etc.   ? ProLEM. yeogr. Il 11.    ConsoLI: L’ autore della Germania. 7    osi OB ci  il Danubio ‘ in Pontum uastis sex fluminibus euoluitur ’; ma'non è del tutto esatta, nè conforme al cenno che prima ne avevano fatto Ovidio, Strabone e Mela,! e dopo ripeterono Solino, Ammiano Marcellino, Isidoro. ? Nella Germ. si conferma la notizia data dalla  n. h., salvochè, come spiegazione dell’esclusione di una  settima foce del gran fiume, si soggiugne immediatamente ‘ septimum os paludibus hauritur?. Se nessun  rapporto ci fosse stato nella composizione e nell’ intendimento della n. A. e della Germ., in questa sarebbesi  detto esplicitamente in modo consimile a quanto scrisse Ammiano Marcellino, l. c.: ‘ amnis Danuuius  s e p tem ostiis.... erumpit in mare  septimum segnius et palustri specie nigrum ?.   d) Nella Germ. 1, 2 i ‘Sarmatae ’ e i ‘ Daci ’*sono  indicati come confinanti coi Germani. La n. A., oltre  all’indicare il secondo nome dato dai Romani ai ‘ Daci *.  (‘ Getae ’), e dai Greci ai ‘Sarmatae’ (‘Sauromatae ’),  determina i luoghi da loro occupati (IV 12 (25), 80:  cf. VI 34 (39), 219), e mostra che presso di loro era in  uso il fafuaggio aggiunge che la Germania è confinante (‘contermina ’) con la Scizia (VIII  15 (15), 38).   e) Uno dei confini dei luoghi abitati dai ‘Chatti’ e    1 OvI. trist. II 189. STRAB. geogr. VII 3, 15 (C. 305), vol. II,  p. 419 ed. M. Pompon. Met. chor. II 1, 8. Confrontando il Danubio al Nilo, Mela dice che quello sbocca nel mare pontico  ‘ totidem quot ille (sc. Nilus) ostiis’; e il Nilo, secondo afferma  lo stesso Mela, chor. I 9, 51, ‘ septem in ora se scindens  singulis tamen grandis euoluitur ’.   ? SoLin. coll. r. m. 13, 1} p. 90, 12 ed. M. Amm, Marc. r. g.  XXII 8, 44 e 45. Is. orig. XII 21, p. 1158.       3 DO  dagli ‘Heluetii” è, secondo la Germ. 30, 5. 28, 6, il  ‘ sallus Hercynius” o ‘ Hercynia silua’: la stessa selva  è segnata nella n. %. IV 12 (25), 80 come confine della  gente pannonica dei “Carnunti’. Plinio denota anche  l’importanza della selva (IV 14 (28), 100), e avverte  che in essa sono ‘ inuisitata genera-alitum’ (X 47 (67),  132) e una ‘roborum uastitas intacta aeuis et congenita mundo ’ (XVI 2 (2), 6).   f) Nella Germ. 46, 4 si considera la voce ‘ Bastarnae ’  come un’altra denominazione del popolo dei ‘ Peucini ”.  La n. h. determina prima i luoghi occupati dai ‘ Basternaei’! (IV 12 (25), 81); poi annovera i ‘Basternae’ accanto ai ‘Peucini’ (IV 14 (28), 100). *   9g) Dei mari nordici, coi quali confina a settentrione  la terra dei Germani, è data nella Germ. 1,3 una notizia indeterminata: ‘cetera Oceanus ambit, latos sinus et insularum immensa spatia complectens’. Nella  n. h. la stessa notizia è presentata con maggiore determinazione: IV 13 (27), 96 ‘ mons Seuo ibi inmensus nec  Ripaeis iugis minor inmanem ad Cimbrorum usque  promunturium efficit sinum, qui Codanus uocatur re  1 Per la differenza grafica del nome del popolo considerato,  v. sopra, p. 96, nota 2°.   2 Nel |. c. della n. A. si legge: ‘quinta pars Peucini, Basternae supra dictis contermini Dacis’. Potrebbesi, tralasciato il  segna d’interpunzione messovi dall’edit. Jan, considerare ‘ Basternae’ come apposizione di ‘Peucini’: così ne sarebbe confermata l'osservazione della Germ., che fa tutto un popolo dei  ‘Bastarnae’ e dei ‘Peucini’. Del resto, in nessun altro l. della  n. h. si tratta dei ‘Peucini’, come di un popolo a sè, differente dai ‘ Basternae”. Cf. StRAB. geogr. VII 3, 15 (C 305); 3,  17 (C 306), p. 419 sg., ed. M.    ni 100  fertus insulis quarum clarissima est Scatinauia inconpertae magnitudinis ’.   h) All’ osservazione che leggesi nella n. A. IV 14  (28), 98 ‘Germania .... nec tota percognita est’, rispondono le considerazioni con cui l’autore della Germ.  dà termine al suo lavoro, tralasciando ‘ cetera iam fabulosa” e quel che egli trova ‘ut incompertum ?.   i) Intorno alle schiatte germaniche degli ‘ Ingaeuones’ (Germ.) o ‘ Ingyaeones ” (n. h.), degli ‘ Herminones?’ (Germ.) o ‘ Hermiones” (n. Ah.) e degli ‘ Istacuones’ (Germ.) o ‘Istyaeones ’ (n. 4.) non è fatta menzione alcuna in iscritti anteriori o posteriori alla Germ.  e alla n. X.! Sembra però che nella Germ. 2, 15 sg.  la distinzione delle tre schiatte sopra mentovate sia  stata fatta in dipendenza dai progenitori mitologici,  figli di Manno. Segue, infatti, nello stesso cap. della  Germ., una distinzione di popoli germanici fatta con  criterio alieno dalla leggenda (‘eaque uera et antiqua  nomina’), ma, come pare, per esemplificazione, cioè :  ‘ Marsi °, Gambriuii, Suebi, Vandilii ”.   La distinzione appare più precisa e completa nella  n. h. IV 14 (28), 99 e 100: I ‘ Vandili” 3, II ‘Ingyae  A Il Georges, ausfithri. Handwb. II, c. 216, registra Ingaevones, secondo la grafia accolta nel testo della Germ. (ma  ‘Ingaenones’ nei codd. Vatic. VRB. 655, Laurent. LXXIII 20,  Stotgard. IV 152, Venet. misc. XIV 1); registra Hermiones (I,  c. 2813), secondo la grafia della n. A.; ma nonsi cura di notare gli ‘Istaeuones'.   2 Nella Germ. nulla si dice dei ‘Marsi’ oltre del cenno del  c. 2, 17. Tacito ne fa menzione negli ann. I 50, 13; 56, 20. II  25, 4.   3 ‘Vandali’, nel cod, Paris ol   ones’, III ‘Istyaeones °°, IV ‘ Peucini °.8 Tra i ‘ Vandili” si comprendono : a) i ‘ Burgodiones” ‘4; b) i ‘ Varinnae’ 5; c) i ‘Charini’; d) i ‘Gutones’: dei quali  popoli due soltanto, cioè i ‘ Varinnae ’ e i ‘Gutones”,  sono annoverati nella Germ. 40, 4. 44, l, forse con  inesattezza, tra i ‘Suebi’; i due rimanenti, ‘Burgodiones’ e “‘Charini’, sono taciuti. Gli ‘Ingyaeones’  comprendono: a) i ‘ Cimbri’ ‘; b) i ‘Teutoni’% c)i  ‘ Chauci’:3 la Germ. tace dei ‘ Teutoni ’. Sotto il nome degli ‘Istyaeones ’ sono notati i ‘Sicambri’ (‘ Sugambri’, per Strabone), dei quali non si fa alcuna  menzione nella Germ. Si ascrivono agli ‘ Hermiones”:  a) i ‘Suebi’; * 6) gli ‘ Hermunduri ’ !; c) i ‘Chatti ’ !!;  d) i ‘ Cherusci ”. !2 I ‘ Peucini” (Basternae) sono espli     1 ‘Inguaeones’, ed. Detlef.; ‘Ingaeuones’, secondo la ‘1.  uulg.’ e nell’ed. Sillig.   ? ‘Istiaeones’, ed. Detlef, ; ‘Istaeuones’, secondo la ‘1. uulg.’  e nell’ed. Sillig.   3 Quanto ai ‘ Peucini’ cf. Germ. 46.   4 ‘Burgundiones’ nel cod. Paris. 6797 e nell'ed. Sillig.   5 ‘ Varine’ nel cod. Riccard.; ‘ Varini” secondo la ‘1. uulg.'  e nell’ed. Sillig. : ‘ Varini’ anche nella Germ. 40, 4.   6 I ‘Cimbri’ non si devono confondere coi ‘Gambriuii’. Strabone, infatti, pone in elenco separatamente i ‘Gambriuii’ e i  ‘Cimbri’: geogr. VII 1, 3 (C 291), p. 399, ed. M.   7 Cf. n. h. XXXV 4 (8), 25. XXXVII 2 (11), 35.   8 Intorno ai ‘ Chauci’ v. Germ. 35, 2. 36, 1. Cf. n. A. XVI 1  (1), 2; 1 (2), 5.   9 V. Germ. cc. 33-43; e inoltre 9, 4. Cf. n. h. IL 67 (67), 170.  IV 12 (25), 81; 14 (28), 100.   10 V. Germ. Al, 4. 42, 1.   ll Dei ‘Chatti’ si ha notizia in più Il. della Germ.: 29, 3. 30,  1, 4, 15. 31, 2 e I1. 32, l e 4, 35, 5. 36, 10 7. 38, 2.   12 V. Germ. 36, 1, 6, 8.        102     citamente annoverati tra le nazioni germaniche, eliminandosi così il dubbio annunziato uella Germ. 46, 2:  ‘Germanis an Sarmatis adscribam dubito’. Or,. se i  ‘Marsi’ edi ‘Gambriuii’, dei quali è fatta menzione nella Germ., sono da considerarsi in dipendenza dagli  ‘Ingaeuones’!; e se tra gli ‘ Herminones” son da comprendersi .i ‘Suebi’ e, in subordinazione a questi, i  ‘Vandilii?,*? (poichè i.’ Varini” ed i ‘ Gotones’, che  nella n. A. si annoverano tra i ‘ Vandilii”, sono compresi dall’autore della Germ. tra i ‘Suebi ’), restano  a rappresentare gli ‘Istaeuones’ le due nazioni dei  ‘Sugambri’’ e dei ‘ Peucini’: il che, considerati principalmente i luoghi occupati da loro, non pare possibile. Vi sono, dunque, delle incertezze e delle notizie incomplete nella Germ., che la n. &. ha interamente  chiarito o completato ; talchè, se si ammette che autore della Germ. sia quello stesso che scrisse la n. A.,  è evidente che questo lavoro dovette essere scritto dopo la Germ.: e in ciò sì avrebbe una indiretta conferma della notizia data da Plinio il giovane, che la  opera bella Germaniae (della quale la Germ. potrebbesi, secondo quanto si è osservato sopra, considerare  come la parte introduttiva) fu scritta prima della x. ’.   j) Il fiume ‘ Albis’ è solamente indicato nella n. /.    1 Vedi Marina, op. c., p. 33.   ? Vedi Dilthey, op. c., p. 249: « es wird dadurch sehr wahrscheinlich, dass die Vandalen selbst nur Ostliche Sueven waren ».   8 Plinio il giovane, presentando nell’epist. quinta del lib. III,  $ 2, l'elenco dei libri scritti dallo zio, avverte : ‘ fungar indicis  partibus atque etiam quo sint ordine scripti notum  tibi faciam’. L' opera della Ge rmaniae è indicata nell’ elenco  prima della n. },     103   IV 14 (28), 100 come uno degli ‘ amnes clari’ che ‘in  oceanum defluunt’. La Germ. 41, 9 presenta l’indicazione dell’ ‘ Albis’ con una certa enfasi : ‘ flumen inclutum et notum olim; nunc tantum auditur ’; ne denota prima l’ origine nel paese degli ‘ Hermunduri ’.   k) La menzione dei ‘Frisii’ fatta, prima d’,\ogni altro scrittore, da Plinio nella n. A. IV 15 (29), 101,  si osserva nella Germ. 34, 3. 35, 3, aggiunta la distinzione dei ‘Frisii’ in ‘maiores’ e ‘minores’; e  all’espressione ‘ gens tum fida’, di cui si fa cenno nella n. h. XXV 3 (6), 21, alludendosi ai ‘Frisii’?, risponde l’osservazione di Tacito: ‘ natio Frisiorum .infensa aut male fida”. *   l) Le notizie intorno ai popoli della prov. Belgica,  ‘Neruii’, ‘Tungri ’, ‘ Treueri ’, ‘ Heluetii”, sono comuni  alla n. h. ed alla Germ.; ma il semplice cenno fatto  dalla prima‘, è più particolareggiato nella seconda, per  i ‘Neruii’ e i “Treueri’, per i ‘Tungri’ (2,  20) e per gli ‘Heluetii” (28, 6).    1 Sarà certamente una menda di stampa il $ 110, invece del  101, segnato nella p. 119,.n. 1, delle prov. rom. del :MommsEn,  trad. De RuagieRo, Roma 1887.   ? Vedi Lup. JAN, scripturae discrepantia nel vol. IV dell’ ed.  della n. h., p. XVII.   3 Tac. ann. XI 19,3. De’ ‘Frisii’ tratta anche Tacito in Agr.  28, 14. hist. IV 15, 12; 18, 26; 56, 15; 79, 8. ann. I 60, 6. IV 72,  le; 73, 4; 74, 1. XI 19,3. XIII 54, 2, 9, 23. Per altre notizie  sui ‘ Frisii” v. Cass. Dion. r. Rom. LIV 32, 2-3; PTOLEM. geogr.  II 11; e il pan. d’incerto autore a Costanzo,.$ 9; in BAEHRENS,  ZII pan. Lat., V, p. 138.   4 V. n. h. IV 17 (31), 106: cf. inoltre XII 1 ;(2), :5 per gli  ‘ Heluetii’ ; e XXXI 2 (8), 12 per. la fonte di acqua ferruginosa presso i ‘ Tungri Similmente le brevi notizie che dà la n. A. IV: 17  (31), 106, concernenti i ‘ Nemetes”, i ‘ Triboci ?, i ‘ Vangiones’, gli “ Vbii” (‘ colonia Agrippinensis ’), i Bataui’, (con qualche particolare, per i ‘ Bataui?, in IV 15  (29), 101; e per gli ‘ Vbii”, in XVII 8 (4), 47), sì osservano nella Germ. 28, 19 sgg. e 29, 1 sgg.    IV.  Il ‘ Pontus Euxinus” è indicato nella Germ. 1,  10 con l’espressione ‘ Ponticum mare ’. Dello stesso mo‘ do è indicato nella n. R. V 27 (27), 97 ‘ hine Ponti cum, illinc Caspium et Hyrcanium ?. Osservasi prima  la stessa espressione in Livio e Mela !.    V.  Nella descrizione generale dei popoli germanici, la Germ. 4,6 dà evidenza ai sgg. caratteri: ‘ truces et caerulei oculi , rutilae comae, magna corpora ’  e. q. s. Nella n. A. VI 22 (24), 88 si annunziano quasi  con le stesse parole i caratteri di alcuni popoli dell’Asia: ‘ipsos uero excedere hominum magnitudinem, ru| tilis comis, caeruleis oculis , oris sono truci ’. Trovasi,  inoltre, nella n. A. XXVIII 12 (51), 191 l’avvertenza, in  proposito delle ‘ rutilae comae ’,sche ad arte si otteneva  o si rendeva, se naturale, più evidente tale colore «lei  capelli mediante l’ uso d’ un certo sapone gallico, adoperato in Germania più dagli uomini che dalle donne.    VI.  a) Cesare scriveva che la maggior parte degli antichi Germani si nutrivano di latte, cacio e carne. ? Nella Germ. 23, 3 si dà una notizia analoga a quella    1 Liv. XL 21, 2. Pompon. Met, chor. II 1, 5. Cf. Tac. ann. XIII  39, 2; e, per analogia, ‘os Ponticum”’ (ann. II 54, 4).  2 Cars. d. G. VI 22, 1: cf IV 1,8. data da Cesare quanto alla carne (‘recens fera ’), ma  si restringe la notizia concernente i latticini, poichè si  esclude il cacio dall’ ordinario vitto dei Germani, e si  indica il solo ‘lac concretum ?, cioè latte rappreso o  cagliato. La restrizione che notasi nella Germ. appare  confermata e più chiaramente indicata nella n. R. XI  41 (96), 259: ‘ mirum barbaras gentes quae lacte uiuant  ignorare aut spernere tot saeculis casei dotem, densantes  id alioqui in acorem iucundum et pingue butyrum.  spuma id est lacte concretior lentiorque quam quod  serum uocatur. Il pensiero laudativo per i Germani, indicato dalla  frase della Germ. 23, 3 ‘ cibi simplices, agrestia poma,  recens fera aut lac concretum: sine apparatu, sine blandimentis expellunt famem”’ ha complemento nell'osservazione igienica notata, in generale, da Plinio: ‘ homini cibus utilissimus simplex, aceruatio saporum pestifera et condimento perniciosior’ (n. A. XI 53 (117),  282).    VII.  a) Quando si legge nella Germ. 9, 9 la parte notevole che avevano per il culto delle genti primitive le selve sacre: ‘lucos ac nemora consecrant deorumque nominibus appellant secretum illud, quod sola  rewerentia uident’;! ricorre alla mente quel che osserva Plinio nella n. A. XII 1 (2), 3 ‘ haec fuere numinum templa, priscoque ritu simplicia rura etiam nunc  deo praecellentem arborem dicant’. E un concetto simile aveva prima espresso Seneca *.    1 Cf. GERM, cc. 39, 40, 43.  ? SEN. epist. IV 12 (41), Ad indicare le regioni del sud soggette a Roma, tanto  nella Germ. quanto nella n. A. è adoperata l’espressione  ‘orbis noster’: Germ. 2,6 ‘ Oceanus rarisab orbe nostro nauibus aditur?. n. A. XII 12 (26), 45 ‘in nostro .orbe proxime laudatur Syriacum (sc. nardum),  mox Gallicum ’, e. q. s. * Inoltre, l’accenno sul balsamo  nella Germ. 45, 25 ‘ Orientis secretis, ubi tura balsamaque sudantur ’, risponde alle notizie che, tra  i primi, ne diede Plinio in diversi luoghi della n. %. ?    VIII. Che l’espressione ‘ frugiferarum arborum impatiens ’, usata nella Germ. 5, 4, non debbasi intendere  senza restrizione, non solo ci avvertono l’indicazione della  maniera con cui si facevano certi sortilegi ( v. Germ.  10, 2 ‘ uirgam frugiferae arbori decisam in surculos  “amputant ’) e l'avvertenza intorno ai mezzi di nutrizione  degli antichi Germani (v. Germ. 23,3 ‘cibi simplices,  agrestia poma ’), ma anche una notizia che osservasi  nella n. &. XV 25 (30), 103, sulla presenza del ciliegio  sulle rive del Reno, in tempi remoti.    IX.  a) La particolarità geografica della terra germanica, che è, in generale, ‘aut siluis horrida aut paludibus foeda ’ (Germ. 5, 2), ha una conferma, in par  1 Osservasi prima in VeLL. PATERC. h. R.I 2,3. Cf. Tac,  Agr. 12, 9.   2 V. n. h. XII 25 (54), 111 sgg. XVI 32 (59), 135: cf. XIII 1  (2), 11. 13. 15. Vedi anche il nostro libro sui neologismi botanici  nei carmi bucolici e georgici di Virgilio, Palermo 1901; LV,  Pp. 103 sg.    RES, () pg  ticolare, nella descrizione che presenta Plinio (7. h. XVI  2 (2), 6) della selva ‘ Hercynia ?. !   b) Nella Germ. 17, 7 si osserva che i Germani ‘ detracta uelamina (sc. ferarum) spargunt maculis pellibusque beluarum, quasi exterior Oceanus atque ignotum  mare gignit’; ma non è detto in che modo facessero  i Germani per impadronirsi di tali belve marine. Possiamo argomentarlo da quel che si dice nella n. %.  XVI 40 (76, 2), 203, in proposito dei predoni di mare:  ‘singulis arboribus cauatis nauigant, quarum quaedam et XXX homines ferunt ’.   c) L’uso druidico delle adunanze ‘ sexta luna, quae  principia mensum annorumque his facit et saeculi post  tricesimum annum” (n. A. XVI 44 (95), 250), osservasi  esteso ad una consuetudine germanica, quella, cioè, di  farsi le riunioni popolari ‘ cum aut inchoatur luna aut  impletur ? (Germ. 11, 5).    X.  A integrare l’ osservazione che la terra germanica è ‘pecorum fecunda”’ (Germ. 5, 5), vale quello  che nota Plinio sugli ottimi pascoli della Germania:  ‘ nam quid laudatius Germaniae pabulis?’ (n. A. XVII  4 (3), 26).    XI.  a) Non appare una consuetudine particolare  dei popoli germanici, che ‘ leuioribus delictis pro modo  poena: equorum pecorumque numero conuicti multantur ? (Germ. 12, 7). La stessa consuetudine vigeva anche, secondo attesta Plinio, presso gli antichi Romani;    1 Cf. Pompon. Met. chor. III 3, 29 ‘ magna ex parte:siluis ac  paludibus inuia ”.     108   perciocchè ‘ multatio quoque non nisi ouium boumque  inpendio dicebatur’, e ‘cautum est, ne bouem prius  quam ouem nominaret, qui indiceret multam’ (n. &.  XVII 3 (3), 11).   b) Quantunque l’ avena si fosse potuta usare per la  preparazione della birra, non è da dirsi incompleta la  notizia, che presso i Germani era in uso ‘ potui umor  ex hordeo aut frumento, in quandam similitudinem  uini corruptus’ (Germ. 23, 1); poichè, secondo la menzione che se ne legge nella n. 4., se ne avvalsero allora più per cibo che per la fermentazione della bevanda gradita: ‘ quippe cum Germaniae populi serant  eam (sc. auenam) neque alia pulte uivant’ (n. %. XVIII  17 (44, 1), 149).!    XII.  a) Il vestiario delle donne germaniche non  si distingueva da quello degli uomini, se non che le  donne ‘ saepius lineis amictibus uelantur’ (Germ. 17,  10). La stessa notizia appare nella n. A. XIX 1 (2, 1),  8 ‘ uela texunt (sc. e lino) iam quidem et transrhenani hostes, nec pulchriorem aliam uestem eorum feminae nouere ’.   b) La notizia data dalla n. A. XIX 1 (2, 1), 9, che  in Germania facevasi il lavoro di tessitura in sotterranei : ‘in Germania autem defossae atque sub terra  id opus (sc. lina texendi) agunt’, completa l’ indicazione dell’uso di quelle abitazioni sotterranee, che nella  Germ. 16, 12 si dicono fatte per ‘suffuginm hiemi et  receptaculum frugibus ?.*       1 Vedi, quanto ai diversi nomi con cui s' indicava la birra,  n. h. XXII 25 (82), 164.  2 Pompon, MEL, chor. II 1, 10 dice lo stesso dei ‘Satarchae ’, In ciò che nella Germ. 46, 14 dicesi intorno al modo di vivere dei ‘Fenni’, ai quali era ‘ uictui herba, uestitui pelles, cubile humus”, pare di scorgere un caso particolare di quanto si considera, in generale, nella n. %. XXI 15 (50), 86, che vi sono delle  ‘ herbae sponte nascentes, quibus pleraeque gentium  utuntur in cibis”, ’    XIV.  Dei ‘ Mattiaci’ la Germ. 29, 9 considera il  popolo, sottomesso all'impero romano; la n. &. XXXI 2  (17), 20 ne menziona le fonti termali (oggi Wiesbaden).    XV.  La notizia data dalla Germ. 5, 18 sulla moneta antica (‘ serratos bigatosque ’), che era preferita  dai Germani vicini alle province romane del Reno e del  Danubio, negli scambi commerciali, è confermata, per  quanto concerne i ‘ denarii bigati’, dalla n. %. XXXII  3 (13), 46: ‘ notae argenti fuere bigae atque quadrigae,  inde bigati quadrigatique dicti °.    XVI.  L’ambra fu in origine un succo di vegetali:  nella Germ. 45,22 se ne adduce la sg. ragione: ‘ quia  terrena quaedam atque etiam uolucria animalia plerumque interlucent , quae implicata umore mox durescente materia cluduntur ’. Alla stessa conclusione si    popolo del Chersoneso Taurico: ‘ob saeua hiemis admodum  adsiduae, demersis in humum sedibus, specus aut suffossa habitant’ (Frick).   1 Sact. /ug. 18, 1 aveva prima avvertito che per i Getuli e i  Libii ‘ cibus erat caro ferina atque humi pabulum uti pecoribus”,     110     perviene, per altra via, nella ». %., in cui sono addutte  per prove l’opinione degli antichi e l’etimologia della  parola ‘ sucinum ’ : XXXVII 3 (11), 43 ‘ arboris sucum  esse etiam prisci nostri credidere, ob id sucinum appellantes ?. Nè vi è contraddizione se nella Germ. 45,  15 si afferma che gli ‘ Aestii ’, sulla spiaggia orientale  del mare suebico, ‘ soli omnium sucinum.... inter uada  atque in ipso litore legunt’, e che essi ‘ pretium (sc.  sucini) mirantes accipiunt ’; mentre nella n. %. XXXVII  2 (11), 35 si ripete la notizia annunziata da Pytheas :  ‘ Gutonibus Germaniae gente adcoli aestuarium Metonomon nomine......, ab hoc diei nauigatione abesse insulam Abalum , illo per uer fluctibus aduehi et esse    concreti maris purgamentum, incolas pro ligno ad ignem    uti eo (sc. sucino) proxumisque Teutonis uendere ?’. Gli  ‘ Aestii’ avevano le loro sedi accanto a quelle dei ‘ Gutones ° o ‘ Gotones ’, sulle spiagge orientali del mare    suebico (Baltico); era naturale, per ciò, che l’industria |    dell’ambra , così bene avviata presso gli ‘ Aestii ’, si  fosse estesa, come tra popoli vicini, e forse in dipendenza l’uno dall’altro, anche presso i ‘ Gotones ’; e da  ciò la notizia registrata nella n. /%., la quale toglie  quella rigidezza di apprezzamento , che traspare dalla  frase ‘ soli omnium ’ della Germ., riferita agli‘ Aestii ?.   È, inoltre, da considerare che, se i ‘ Gutones ” facevano il commercio dell’ ambra coi vicini ‘Teutoni ”,  lo vendevano a loro ‘ pro ligno ad ignem ’’; e perciò nessuna contraddizione si può notare con quanto è detto  nella n. 4., se gli ‘ Aestii” facevano delle meraviglie  nel vedersi pagare un prezzo per il sucino, di cui si  erano cominciate a fare delle ricerche presso di loro ,        11  da che il lusso romano aveva dato a tale merce un valore notevole !.    1 Un’altra relazione tra la Germ. ei lavori di Plinio avverte U. Zernial, nel suo comm. alla Germ. 3, 15 pp. 22-23, cioè,  che la frase ‘adhuc extare’, usata in proposito dei monumenti e tumoli con iscrizioni greche, che allora restavano nel  confine della Germania e della Rezia, si deve riferire a notizie  date da Plinio nei venti libri ‘ bellorum Germaniae. A rendere completo il nostro studio sulla Germ., ci  pare opportuno mettere anche in confronto il contenuto di essa con le opere genuine di Tacito. Il  confronto sarà ordinato come nel cap. precedente, restringendo il nostro esame ai soli concetti che presentino  un qualche indizio di dipendenza o di corrispondenza  tra loro.   Ci atterremo, quanto alla disposizione della materia,  all’ ordine delle opere di Tacito.    I.  a) Che le chiome bionde o rossicce e la corporatura grande formassero uno dei caratteri fisici  della nazionalità germanica è fatto cenno nell’Agr. 11,  3 ‘ rutilae Caledoniam habitantium comae, magni artus  Germanicam originem adseuerant ’: risponde alla descrizione che ne presenta la Germ. 4, 6 ‘rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum ualida ”.  Seneca aveva anteriormente fatto menzione del ‘ rufus  crinis et coactus in nodum apud, Germanos”.! Quanto  alla frase dell’Agr.1. c.* magni artus Germanicam originem adseuerant ’, alla quale si riattacca l’osservazione  intorno ai ‘ Bataui * (‘et forma conspicui , et est plerisque procera pueritia’ Mist. IV 14, 6: cf. V 18, 2)  ed ai ‘ Cherusci ’ (‘ procera membra” ann. I 64, 7),  risponde la considerazione generale intorno ai Germa  * Per i limiti del confronto, vedi l’ avvertenza * a pag. 94.  1 Sen. dial. V 26, 3.        113     ni, che si legge nella Gem. 20, 1 ‘in hos artus, in  hacc corpora, quae miramur, excrescunt ?. Cesare aveva  prima avvertito che il suo esercito era stato invaso  dal timore al sentire dai Galli e dai mercatanti la notizia ‘ ingenti magnitudine corporum Germanos, incredibili uirtute atque exercitatione in armis esse’ !; e Mela  aveva anche osservato che i Germani erano ‘ immanes  animis atque corporibus ?, perchè attendevano agli esercizi guerreschi ed erano afforzati dalla ‘adsuetudine  laborum maxime frigoris ”. *   b) Istituendo un confronto tra la fioridezza dei Galli  nei tempi anteriori e la decadenza che essi mostrarono  dopo, Tacito nell’ Agr. 11, 15 avverte: ‘ Gallos quoque  in bellis floruisse accepimus; mox segnitia cum otio  intrauit, amissa uirtute pariter ac libertate ’. Lo stesso  concetto appare nella Germ. 28, 15, allorchè, per dare  evidenza al carattere nazionale dei ‘ Treueri’ e dei  ‘ Neruii ’, si dice che essi ‘ circa adfectationem Germanicae originis ultro ambitiosi sunt, tamquam per hanc  gloriam sanguinis a similitudine et inertia Gallorum separentur ’. La superiorità dei Galli di un  tempo è attestata nello stesso 1. della Germ. 28, 1 sull’autorità di Giulio Cesare, che aveva ciò indicato nel  b. G. VI 24, 1.   c) La discordia tra i nemici di Roma cooperò sempre  a costituire la superiorità dei Romani ; onde la considerazione che leggesi nell’ Agr. 12, 4 ‘ nec aliud aduersus  ualidissimas gentis pro nobis utilius quam quod in com  1 Cars. db. G. I 39, 1.  ? Pompon. Met. chor. III 3, 26.    CONSOLI : L’ autore della Germania. 8     lla     mune non consulunt ’. Un pensiero analogosi manifesta  nell’ augurio che 1° autore della Germ. fa a’ suoi concittadini, ‘quando urgentibus imperii  fatis nihil iam  praestare fortuna maius potest quam hostium discordiam’ (Germ. 33, 9). Da ciò la politica, sì lodata, di  Druso nelle relazioni coi Germani: egli ‘ haud lene decus quaesiuit inliciens Germanos ad discordias’ (ann.  Il 62, 2).!   d) Un apprezzamento punto benevolo per la spedizione  di Caligola contro i Germani si legge tanto nell’ Agr.  13, 9 ‘ agitasse Gaium Caesarem de intranda Britannia  satis constat, ni uelox ingenio mobili paenitentiae, et  ingentes aduersus Germaniam conatus frustra fuissent ’;  quanto nelle Rist. IV 15, 8, in cui si narra di un Canninefate, che ‘ multa hostilia ausus Gaianarum expeditionum ludibrium inpune spreuerat ’. Lo stesso apprezzamento era stato manifestato prima nella Germ. 37, 23   ‘*ingentes Gai Caesaris minae iu ludibrium uersae ?.   e) La politica dei Romani solevasi avvalere di un  mezzo più efficace delle armi, per vincere e tenere assoggettati i barbari, l’allettamento dei vizi. Nell’ Agr.  21, 10 sgg. sì deridono gli ignoranti che fanno consistere la civiltà nei ‘delenimenta uitiorum’, che sono    1 Claudio Mamertino ripeté lo stesso concetto, che le discordie intestine dei barbari erano la fortuna dell'impero: ‘ tantam  esse imperii uestri felicitatem ut undique se barbarae nationes  uicissim lacerent et excidant, alternis dimicationibus et insidiis  clades suas duplicent et instaurent’ (Pan. genethl. Maxzimiano  Aug. d., 16; in BAFHRENS, AZ/ pan. Lat. III, p. 113 sg.).   2 Severe sono anche le parole con cui Suetonio giudica l’impresa di Caligola contro i Germani (Calig. 43 e 45-47). Persio  la deride (sat. 6, 43 sgg.). CÉ. Cass. Dion. r. Rom. invece strumenti di schiavitù. Similmente uno dei legati dei ‘Tencteri’ presso il ‘concilium Agrippinensium’ raccomandava, secondo racconta Tacito nelle hist.  IV 64, 19: ‘instituta cultumque patrium resumite, abruptis uoluptatibus, quibus Romani plus aduersus subiectos quam armis ualent’. Lo stesso concetto è denotato nella Germ. 23, 6 ‘si indulseris ebrietati suggerendo quantum concupiscunt, hawd minus facile uitiis  quam armis uincentur ”.   f) L'esperienza della vita dimostra vera la sentenza  che Tacito fa dire a Calgaco nell’ Agr. 30, 5: ‘ proelium atque arma, quae fortibus honesta, eadem etiam  ignauis tutissima sunt’. Nella Germ. 36, 2 la si vede  applicata per ispiegare la decadenza dei ‘ Cherusci ’, i  quali ‘ mimiam ac marcentem diu pacem inlacessiti nutrierunt”; e l’autore, considerando che ‘id iucundius  quam tutius fuit”, assurge ad un avvertimento d’ordine  generale, che in nessun tempo è da trascurarsi dagli  uomini di Stato: ‘inter inpotentes et ualidos falso  quiescas ?.   g) Nell’apostrofe di Tacito al suocero estinto, si legge: ‘ nosque domum tuam ab infirmo desiderio et muliebribus lamentis ad contemplationem uirtutum tuarum uoces, quas neque lugeri neque plangi fas est ’  (Agr. 46,3). La frase ‘ muliebribus lamentis’ richiama  alla mente la sentenza della Germ. 27, 7 ‘ feminis lugere honestum est, uiris meminisse’. E probabilmente  tutte e due le espressioni risalgono all’ ammonimento  di Seneca: ‘ obliuisci quidem suorum ac memoriam  cum corporibus efferre et effusissime flere, meminisse  parcissime, inhumani animi est. hoc prudentem uirum non decet: meminisse perseueret, lugere desinat’.! Seneca, presso a morire, ripetè in parte lo stesso concetto,  per confortare la consorte. La nazionalità degli ‘ Heluetii” è, secondo GIULIO (vedase) Cesare, gallica, poichè egli scrive di loro : ‘ Heluetii  quogue reliquos Gallos uirtute praecedunt, quod.  fere cotidianis Droga cum: Germanis contendunt’. 3  Dello stesso parere è Tacito che, considerando gli ‘ Heluetii’ quali erano divenuti a’ suoi tempi, avverte : ‘ Heluetii, Gallica gens olim armis uirisque, mox memoria  nominis clara’ (Rist. I 67, 2). La medesima osservazione è confermata nella Germ. 28, 8, che considera  tanto gli ‘ Falaotit ? quanto i ‘ Boii” come ‘ Gallica utraque gens ’   b) Era a nazionale dei Germani andare ala  pugna coi corpi nudi a diciamo « ignudi »): lo indica Tacito nelle isf. II 22, 6 ‘cohortes Germanorum,  cantu truci et more patrio nudis corporibus super umeros  scuta quatientium ’. Prima di lui, ne aveva dato notizia Cesare, sebbene la sua osservazione non si restringesse ai soli usi guerreschi : ‘pellibus aut paruis renonum tegimentis utuntur, magna. corporis parte nuda ?.!  E l’osservaziore di Cesare fu ripetuta nella Germ. rispetto ai combattimenti (‘ pedites et missilia spargunt....  atque in immensum uibrant, nudi aut sagulo leues  Germ. 6,7), agli esercizi militari dei giovani (‘ nudi    1 SEN. epist. XVI 4 (99), 24.   2 Tac. ann. XV 63.   3 Cars. db. G. 1 1, 4.   4 CAESs. db. G. VI 21,5. Dice lo stesso dei ‘Suebi’ iunenes .... inter gladios se atque infestas frameas saltu  iaciunt” Germ. 24, 2), e alla vita domestica (‘in omni  domo nudi ac sordidi’ e. q. s. Germ. 20, 1: cf. 17, 2). Intorno alla provenienza dei ‘Bataui’ ed ai luoghi da loro occupati, ci informa Tacito nelle Rist. IV  12, 6 ‘Bataui, donec trans Rhenum agebant, pars  Chattorum, :seditione domestica pulsi extrema Gallicae  orae uacua cultoribus simulque insulam iuxta' sitam  occupauere, quam mare Oceanus a fronte, Rhenus amnis tergum ac latera circumluit’. Della ‘insula Batauorum’ avevano già fatto menzione Cesare e Plinio  Secondo. * Nella Germ. 29, 1 si legge: ‘ omnium harum  gentium uirtute praecipui Bataui non multum ex ripa,  sed insulam Rheni amnis colunt ’; e, quanto alla loro  origine, immediatamente dopo si soggiugne : ‘ Chattorum quondam populus et seditione domestica in eas  sedes transgressus, in quibus pars Romani imperii fierent ’.   d) Narra Tacito (Rist. IV 14, 10) che Civile, in occasione di un banchetto tenuto in un bosco sacro, espose  ai convitati la necessità d’insorgere in difesa dei loro  diritti conculcati, contro il dominio romano. L’ usanza  germanica di trattare affari, sì privati che pubblici ,  durante i conviti è menzionata, in generale, nella Germ.  22, 9 ‘ de reconciliandis inuicem inimicis et iungendis  adfinitatibus et adsciscendis principibus, de pace denique ac bello plerumque in conuiuiis consultant : e la  ragione ne è spiegata ‘tamquam nullo magis tempore    1 Secondo la congettura del Walch: nel cod. si legge ‘ iuuata sit an”.  ? Cars. db. G. IV 10, 1. Prin. n. A. aut ad simplices cogitationes pateat animus aut ad  magnas incalescat ”.   e) La disposizione dei Germani per cunei, nelle battaglie, è menzionata nella Germ. 6, 20 ‘acies per cuneos componitur ?’. La conferma appare dal modo secondo  cui furono disposti i ‘ Canninefates’,i ‘ Frisii”, i ‘ Bataui ’, etc. nei combattimenti, durante l’insurrezione di  Civile (rist. IV 16. V 16), e dall’ordine del ‘ Bructerorum cuneus ” (Rist. V 18, 5).! Ma l’ ordinamento dei  combattenti per cunei era stato prima accennato da  Cesare *. Tacito ne fa pure menzione, descrivendo la  battaglia di Bedriaco 3.   f) Nello stesso lib. IV delle hisé. di Tacito, si nota  che i ‘ Bataui ’ furono esenti dall'obbligo di pagare ai  Romani i tributi: ‘ Batauos tributorum expertes (list.  IV 17, 11); ed è confermato in un altro luogo : * sibi  (sc. Batauis) non tributa sed uirtutem et uiros indici ’  (hist. V 25, 9: cf. IV 12, 10). Tale esenzione è notata  anche nella Germ. 29, 6 ‘ (Bataui) nec tributis contemnuntur nec publicanus atterit ’, per la ragione che essi  ‘ tantum in usum proeliorum sepositi, uelut tela atque  arma, bellis reseruantur ?.   g) Civile, nel determinare l’ ordine della battaglia,  ‘matrem suam sororesque, simul omnium coniuges par  1 Cf. Tac. hist. IV 20, 11. La disposizione dei combattenti per  cunei si continuò anche dopo presso i barbari: v. Amm. Marc.  r. g. XXVII 2, 4.   2 Cars. d. G. VI 40, 2: altrove lo indicò con la voce ‘phalanx *; db. G. I 52, 4.   3 Tac. hist. II 42, ]1 ‘comminus eminus, cateruis et cuneis  concurrebant': v. la nota al l. c. nel comm, del VALMAGGI, p.  78, Torino uosque liberos consistere a tergo iubet, hortamenta  uictoriae uel pulsis pudorem ” (Rist. IV 18, 14): si soggiugne poco dopo ‘ uirorum cantu, feminarum ululatu  sonuit acies’. Consimile ordine nei combattimenti a cui  preparavansi i Germani, è indicato nella Germ. 7, 11  ‘in proximo pignora, unde feminarum ululatus audiri,  unde uagitus infantium ’. Ma in tutti e due i Il. citati  la notizia pare che sia provenuta da quanto avevano  scritto prima Cesare sulle donne dei Germani nelle pugne combattute da Ariovisto !, e Strabone intorno alle  donne dei Cimbri. °   h) L’ usanza dei Germani di portare nei combattimenti effigie di animali o altri simboli rappresentanti  le loro divinità protettrici o qualche attributo delle  stesse, è indicata da Tacito, Rist. IV 22, 12: ‘ depromptae  siluis lucisque ferarum imagines, ut cuique genti inire  proelium mos est ’. Nella Ger. 7, 8 si osserva la stessa  consuetudine: ‘ effigiesque et signa quaedam detracta  lucis in proelium ferunt ’*. Così, ad es., gli ‘ Aestii ’ portavano per simboli divini immagini di cinghiali (‘ insigne superstitionis formas aprorum gestant’ Germ.    1 Cars. db. G. I 51, 3.   ? STRAB. geogr. VII 2, 3 (C 294), p. 404, ed. M. Vedi anche  PLvT. C. Mar. 19, 8, p. 497, ed. Th, Doehner. FLor. epit. I 38,  16-17 (III 3), ed. Halm.   3 Tra le‘ effigies” erano notevoli il lupo e il serpente (Wadan),  l’orso e il capro (Thunar), etc. ; tra i simboli o ‘ signa ’, la lancia (Wodan), il martello (Thunar), la spada (Tiu), etc. : v. F.  G. BERGMANN, poémes islandais tirés de l' Edda de Scemund,  Paris 1838, pp. 1-185, 243-259, 303-319; e le « notes explicatives » pp. 221 - 239, 292  300, 358 - 368; v. anche dello stesso  Bergmann la fascination de Gulfi (Gylfa ginning), traité de  mythologie scandinave, Strasbourg & Paris i Cimbri preferivano il toro di bronzo !. I  Germani non rappresentavano in forma umana le loro  divinità: ‘nec cohibere parietibus deos neque in ullam  humani oris speciem adsimulare ex magnitudine caelestium arbitrantur? (Germ. 9, 7).   i) Scoppiata l’ insurrezione di Civile, il danno maggiore fu recato dalle ostilità degli insorti contro gli  ‘ Vbii’, ‘quod gens Germanicae originis eiurata patria  Romanorum nomine ? Agrippinenses uocarentur (Rist.  IV 28, 6). Dalla Germ. 28, 19 si apprende che ‘ ne Vbii  quidem, quamquam Romana colonia esse meruerint ac  libentius Agrippinenses conditoris sui nomine uocentur,  origine erubescunt’; e da un luogo degli ann.'XII 27,  1-4 si ha la notizia più precisa, che ad istanza di Agrippina, moglie dell’imp. Claudio e madre di Nerone,  si condusse una colonia romana nell’ ‘ oppidum Vbiorum’, onde il nome di ‘ Colonia Agrippina’ o solamente ‘ Agrippina’, ovvero ‘ Colonia’ che si ebbe dopo.*   j) Quel che dice Tacito, isf. IV 61, 1, intorno allo  adempimento di un voto di Civile, il quale ‘ post coepta  aduersus Romanos arma propexum rutilatumque crinem    1 PLvr. C. Mar. 23, 6, p. 499, ed. c.   ? ‘ Romanorum nomine’ è dovuto a congettura del Weissenborn. Nel cod. è ‘nom’. La lez. ‘ Romanorum nomen’, che il  Gruter notò, è chiusa dal Halm, dal Ritter, dal Ramorino, etc.  tra parentesi quadre. Altri preferiscono ‘ Romano nomine’, secondo la congettura del Lipsius.   3 Amm. Marc. r. g. XV 8, 19; 11, 7. XVI 3, 1. Ma Io, Harduinus, nel comm. alla n. A. di Plinio, vol. I, p. 225, nota 2?,  crede che sia Agrippina la moglie di Germanico, perchè, come  egli dice, ‘ ueluti mater castrorum procurabat ex eo tractu annonam militibus, qui merebant in exercitu mariti sui : quamobrem et laureato capite pingitur in achate Tiberiano ’,    è    patrata demum caede legionum deposuit’, appare nella  Germ. 31, 3, riferito in ispecial modo ai ‘Chatti’: ‘ ut  primum adoleuerint, crinem barbamque submittere, nec  nisi hoste caeso exuere uotiuum obligatumque uirtuti  oris habitum”.' Anche a Roma non fu, come pare,  sconosciuta tale usanza, poichè Cesare, per dimostrare  il suo affetto ai soldati, ‘ audita clade Tituriana barbam  capillumque summiserit nec ante dempserit quam uindicasset ’. ?   kh) Da uno dei legati dei ‘ Tencteri ’ si diceva: ‘quod  contumeliosius est uiris ad arma natis, inermes ac  prope nudi sub custode et pretio coiremus’ (Qist. IV  64, 8). Il portare le armi, e in qualunque occasione,  stimavasi dai Germani un segno di valentia e di libertà. Ciò confermasi nella Germ. 13, 1 ‘ nihil autem  neque publicae neque priuatae rei nisi armati agunt’;  e si indica il modo con cui facevasi la dichiarazione  d’idoneità a portare le armi. L’ osservazione si ripete  nella Germ. 22, 5 ‘ad negotia nec minus saepe ad conuiuia procedunt armati’. Anche morto, il Germano  aveva seco le sue armi (Germ. 27, 4). Tale usanza, del  resto, non restringevasi ai soli Germani; Cesare la  indica prevalente presso i Galli. 5    1 La stessa usanza presso i Sassoni, in tempi posteriori, è  riferita da PAvL. pIAC. de gest. Langobard. III 7, p. 438, c. 2?.  E nella storia di Norvegia è narrato il giuramento del re Harald Haarfager, di non tagliarsi i capelli nè di pettinarli prima  d'avere spenti tutti i piccoli sovrani che tenevano divisa la  patria sua: e dopo lotte accanite che durarono più di dieci  anni, adempi quanto aveva giurato: v. R. KeysER, Norges historie, ed. c., vol. I, pp. 204-209.   2 SveTton. diu. Iul. 67.   3 Cas, d, G. V 56, 2: cf. VII 21, 1.     122    1) Un altro segno della piena libertà di cui godevano i Germani, e che, come del resto è nell’ordine naturale delle cose, trascendeva talora in dannosi eccessi, era quel che nota Tacito nelle Rist. IV 76,9: ‘ Germanos.... non iuberi, non regi, sed cuncta ex libidine  agere’. E da ciò quella lentezza nelle deliberazioni  delle assemblee, che era veramente un ‘ex libertate uitium’; poichè i Germani ‘ non simul nec ut iussi conueniunt, sed et alter et tertius dies cunctatione coèuntium absumitur’ (Germ. 11, 9). Presso i Galli, nota  Cesare, l’abuso era punito; e al principio della guerra,  quando tutti i giovani armati dovevano adunarsi in  un dato luogo, chi di loro ‘nouissimus conuenit, in  conspectu multitudinis omnibus cruciatibus affectus necatur ?.!   m) Nel luogo testè cit. delle Rist. IV 76, 10 si soggiugne: ‘pecuniamque ac dona, quis solis corrumpantur  (sc. Germani), maiora apud Romanos. Negli ann. XI   ‘ 16, 7 è detto che l’imp. Claudio si avvaleva del danaro per tenere sotto la sua dipendenza il re dei ‘Cherusci’, Italico. Or, tanto nel primo quanto nel secondo dei ll. cc., scorgesi l'applicazione del mezzo che non  di rado usavano i Romani, per meglio asservire il popolo germanico: onde la considerazione che leggesi  nella Germ. 15, 12 ‘iam et pecuniam -accipere docuimus’ ;? e, in particolar modo, intorno ai re dei ‘ Marcomani’ e dei ‘Quadi’ si dice: raro armis nostris,    1 CaEs. db. G. V 56, 2.   2 È noto che, per danaro, la milizie germaniche marciarono  contro gli stessi Germani: v. CAPITOLIN. M. Ant. philos. 21,7;  in scriptt. hist. Aug., IV p. 66, ed. P.,    Mi |    A  saepius pecunia iuuantur, nec minus ualent’ (Germ.  42, 9). !   n) I Germani ammettevano che le donne di condizione elevata fossero le più sicure garentie e i migliori ostaggi, per ottenere l’ adempimento dei patti convenuti tra popolo e popolo o tra i partiti di una stessa  gente. Un caso è rammentato da Tacito, Rist. IV 79,  1:‘orabant auxilium Agrippinenses offerebantque uxorem ac sororem Ciuilis et filiam Classici, relicta sibi  pignora societatis’; la quale ‘ societas’ sappiamo che  era stata già ‘ nobilissimis obsidum firmata’ (Rist. 1V  28, 2). La consuetudine era stata prima indicata nella  Germ. 8, 5: ‘ efficacius obligentur animi ciuitatum, quibus inter obsides puellae quoque nobiles imperantur ”.  Augusto aveva tentato di trarne vantaggio, chiedendo  ad alcuni capi.di nazioni vinte, per tenerli in fede e  soggezione, delle donne per ostaggio. *   o) Per significare 1° approvazione delle proposte discusse nelle assemblee, i Galli solevano battere le armi: ‘conclamat omnis multitudo et suo more armis  concrepat, quod facere in eo consuerunt, cuius orationem approbant ?. La stessa usanza notavasi presso  i Germani : ‘ sin placuit, frameas concutiunt : honoratissimum adsensus genus est armis laudare’ (Germ.  11, 17). Tacito l’accenna nelle Rist. V_ 17, 13 ‘ sono armorum tripudiisque, ita illis (sc. Germanis) mos, adprobata sunt dicta ’.    III.  a) La considerazione sulla maniera di com1 V. pag. 12 sg.    2 SvETON. Aug. 21.  3 Cars, db. G. VII 21, 1, Cf. Liv. battere dei ‘Chatti’, che osserviamo negli ann. I 56,  16 ‘non auso hoste terga abeuntium lacessere, quod  illi moris, quotiens astu magis quam per formidinem  cessit ’,  appare come un’applicazione al caso particolare dell’ osservazione fatta, in generale, sul carattere, dei Germani: ‘ cedere loco, dummodo rursus instes,  consilii quam formidinis arbitrantur’ Germ. 6, 20. Simile usanza presso i‘ Cherusci’ è notata negli ann. II  TIA   b) Tacito narra che, dopo la disfatta di Varo, i Germani sacrificarono presso le are i vinti ‘tribunos ac  primorum ordinum centuriones’ (ann. I 61, 13); e la  stessa notizia sui sacrifici umani egli ripete, in proposito della vittoria degli ‘ Hermunduri”’ sui ‘Chatti”:  ‘ uictores diuersam aciem Marti ac Mercurio sacrauere,  quo uoto equi uiri, cuncta uiua occidioni dantur’ (ann.  XIII 57, 10). Analoga osservazione era stata fatta nella Germ. 9, 1 ‘deorum maxime Mercurium colunt, cui  certis diebus humanis quoque hostiis litare fas habent ’;  ma placavano Marte ‘concessis animalibus’. I‘ Semnones’ anch’essi ‘ caeso publice homine celebrant barbari ritus horrenda primordia’ (Germ. 39, 5); e con  vittime umane si celebrava il culto della dea ‘Nerthus”  o ‘Terra mater’ (Germ. 40, 19). Strabone aveva prima fatto menzione dell’orrendo rito dei sacrifici umani presso i Cimbri '; istituto religioso, del resto, comune a tanti altri popoli primitivi. Iordanis afferma  che anche i Goti offrivano a Marte vittime umane; e    1 StRAB. geogr. VII 2, 3 (C 294), p, 404, ed. M.   2 IoRDAN. de or. act. Get. 5, p. 9, 23, ed. Holder: ‘ opinantes (se.  Gothi) bellorum praesulem apte humani sanguinis effusione  placandum. Procopio dice che l’orrendo rito si era continuato, per  le divinazioni, presso i Franchi già convertiti al Cristianesimo. *   c) All’ indicazione : ‘ certum iam alueo Rhenum ...  Vsipi ac Tencteri accolunt’ (Germ. 32, 1), risponde la  frase che si nota negli ann. II 6, 13 ‘ Rhenus uno alueo  continuus’. Mela dà più chiara spiegazione, ed usa  qualche parola che poi ripetè, sull'argomento stesso, lo  autore della Germ.: ‘(Rbenus) mox diu solidus et certo alueo lapsus haud procul a mari huc et illuc  dispergitur ?. ?   d) Negli ann. II 12, 3 si fa menzione di una selva  consacrata ad Ercole, luogo di convegno dei Germani.  Anche di Ercole e dei canti guerreschi, con cui si celebrava quel ‘primus omnium uwirorum fortium’, si  trova menzione nella Germ. 3, 1 sg.: cf. 9, 2. Evidentemente si allude al culto di Thor (Donar) che, per  interpretazione romana, si era rassomigliato ad Ercole.  Quanto, poi, all’espressione ‘siluam Herculi sacram?”,  che si legge nel 1. c. degli ann., e al ‘ sacrum nemus ”,  dove Civile riuniva i suoi (/Rist. IV 14, 10), si possono  considerare come esempi della consuetudine indicata,  in generale, nella Germ. 9, 9: ‘lucos ac nemora consecrant’. Dello stesso modo son da considerarsi come  casi particolari della consuetudine, di cui è discorso  nel presente paragrafo, la ‘silua auguriis patrum et  prisca formidine sacra’, dove, nel tempo stabilito, si  adunavano i ‘Semnones’ (Germ. 39, 3); il ‘castum  nemus’ consacrato, in un’isola dell’ oceano, alla dea   \    1 ProcoP. de b. Goth. II 25.  ? Pompon. Met. chor. Ill Nertbus’ (Germ. 40, 9); e quello ‘antiquae religionis  lucus ’, presso i ‘ Nahanaruali” (Germ. 43, 14). !   e) Nel discorso pronunziato da Germanico ai suoi  soldati si afferma: ‘non loricam Germano, non galeam,  ne scuta quidem ferro neruoue firmata’ (ann. II 14,  10) : perciò scarsezza, se non totale mancanza, del ferro presso i Germani. Il medesimo concetto è annunziato nella Germ. 6, 1 ‘ne ferrum quidem superest,  sicut ex genere telorum colligitur’; ma l’asserzione di  Germanico, il quale nella foga oratoria negava a tutti i  Germani la lorica e l’elmo, appare mitigata dall’ osservazione che si legge nella Germ. 6, 10 ‘paucis loricae, uix uni alteriue cassis aut galea’. Egli è vero  che i ‘ Cotini” conoscevano la metallurgia del ferro  (Germ. 43, 6), ma i ‘Cotini’” non erano stimati Germani: ‘Cotinos Gallica ... lingua coarguit non esse  Germanos, et quod tributa patiuntur’ (Germ. 43, 3).  Presso gli ‘ Aestii” era ‘rarus ferri, frequens fustium  usus’ (Germ. 45, 12).   Nella stessa orazione di Germanico si nota che i  Germani usavano per scudi ‘uiminum textus uel tenuis et fucatas colore tabulas’ (ann. II 14, 12): lo  stesso avvertesi in generale, intorno agli scudi dipinti,  nella Germ. 6, 9 ‘scuta tantum lectissimis coloribus  distinguunt ’. Soltanto gli ‘ Harii” avevano il costume  di portare gli scudi tinti in nero, per atterrire i nemici durante i combattimenti notturni, presentando un  certo ‘nouum ac uelut infernum adspectum’ (Germ.  43, 24), ?   ì V. rag 105, per la rispondenza con la n. A. di Plinio.    2 Sull'uso degli scudi dipinti v. EvrIr. Phoen. 142, vol. II, p.  402, ed. Nauck. Cic. de or. II 66, 266.        127     f) Del clima della Germania si dice negli ann. II  24, 1 ‘truculeutia caeli praestat Germania’. E l’autore  della Germ. si domanda: ‘(quis) Germaniam peteret,  informem terris, asperam caelo, tristem cultu aspectuque, nisi si patria sit ?° (Germ. 2, 8). Seneca fa una  osservazione consimile: ‘ perpetua illos (sc. Germanos)  hiems, triste caelum premit, maligne solum sterile sustentat” e. q. s.!   g) I soldati di Germanico, che sopraffatti dalla tempesta, sì erano dispersi, tornati poi nei quartieri, dopo  lunga peregrinazione, narravano cose meravigliose,  ‘uim turbinum et inauditas uolucres, monstra maris,  ambiguas hominum et beluarum formas, uisa siue ex  metu credita’ (ann. II 24, 18). Simili notizie favolose  sono riferite nella Germ. 46, 25 intorno agli ‘ Hellusii ’  ed agli ‘“Etiones’: “ora hominum uultusque, corpora  atque artus ferarum gerere’. Ma, mentre un che di  ironico traspare dalla frase ‘siue ex metu credita’,  nella Ger. si. osserva che tali racconti si tralasciano,  perchè sfuggono ad un esame giudizioso : ‘ quod ego ut  incompertum in medio relinquam’ (Germ. 46, 26). Ad  una conclusione non dissimile era venuto prima Pomponio Mela, trattando degli ‘Oeonae’, degli ‘Hippopodes’ e dei ‘ Panuatii ”. *   h) Alludendo ad un’età aurea degli ordinamenti sociali, in tempi antichissimi, Tacito osserva : ‘ uetustissimi mortalium, nulla adhuc mala libidine, sine probro,  scelere eoque sine poena aut coercitionibus agebant’    1 Sen. dial. | 4, 14.   ? Pomp. Met. chor. Ill 6, 56. Cf. Plin. n. h. IT 108 (112), 246.  IV 13 (27), 95 Sotin. coll. r. m. 19, 6-8, p. 105, ed. Mominsen.  Avevstin. de civ. Dei XVI 8, vol. II, p. 135 sg., ed, Dombart.     128   (ann. III 26, 1). Simile concetto, ma col proposito di  dare evidenza, mediante l’antitesi, alla decadenza morale dei Romani nell’età imperiale, è annunziato nella  Germ. 19, 17 ‘plusque ibi boni mores uwalent quam  alibi bonae leges ’. Al medesimo concetto avevano alluso Sallustio! e Orazio. *   î) La pretensione vessatrice di Olennio, che imponeva ai ‘ Frisii’ di soddisfare il tributo di pelli di buoi  con pelli di uri, offre a Tacito l’ occasione di osservare che ‘id aliis quoque nationibus arduum apud Germanos difficilius tolerabatur, quis ingentium beluarum  feraces saltus, modica domi armenta sunt’ (ann. IV  72, 7). Analoga osservazione sui buoi della Germania,  che erano più piccoli e meno belli de’ buoi degli altri  paesi, si nota nella Germ. 5, 5 ‘ pecorum fecunda, sed  plerumque improcera. ne armentis quidem suus honor  aut gloria frontis’. Cesare l’ aveva anche osservato:  ‘ sed, quae (sc. iumenta) sunt apud eos nata, parua atque deformia”.?   j) Tacito narra che Nerone mandò in Britannia uno  de’ suoi liberti, di nome ‘ Polyclitus ?, con l’incarico di  rimettere la concordia tra il legato e il procuratore,  e di rappacificare i barbari ribelli; ma il liberto ‘ hostibus inrisui fuit, apud quos flagrante etiam tum libertate nondum cognita libertinorum potentia erat;  mirabanturque quod dux et exercitus tanti belli confector seruitiis oboedirent’ (ann. XIV 39, 7). La  storia ci rammenta altri liberti potentissimi presso    1 SALL. Cat. 9, 1 “ius bonumque apud eos non legibus magis  quam natura ualebat’.   ? Hor. carm. III 24, 35 sg.   8 CAES. db. G. alcuni imperatori romani. E però, in antitesi a quella  superiorità che si riconosceva, dai Germani non sottoposti a monarchi, ai soli uomini liberi, 1’ autore della  Germ. osserva: ‘ liberti non multum supra seruos sunt,  raro aliquod momentum in domo, numquam in ciuitate,  exceptis dumtaxat iis gentibus, quae regnantur ? (Germ.  25, 8: cf. 44, in principio).   k) Argomento trito era quello dei vantaggi di cui  godeva l’ ‘ orbitas ’ di vecchi ricchi. ‘ Hereditatis spes ’,  scriveva Cicerone, ‘ quid iniquitatis in seruiendo non  suscipit? quem nutum locupletis orbi senis non obseruat ?’!. Orazio ne fa il tema della sat. quinta del lib.  II (cf. anche episf. I 1, 79); e Seneca avverte: ‘in ciuitate nostra plus gratiae orbitas confert quam eripit ?. ?  Allo stesso argomento si riferisce Tacito , scrivendo:  ‘ satis pretii esse orbis quod multa securitate, nullis 0neribus gratiam honores cuneta prompta et obuia haberent ? (ann. XV 19, 7); e in altri luoghi adduce per  esempi Calvia Crispinilla, ‘ magistra libidinum Neronis?, la quale fu ‘ potens pecunia et orbitate, quae bonis malisque temporibus iuxta ualent” (Risé. I 73, 8); e  un tale Pompeo Silvano, che ‘ ualuit pecuniosa orbitate  et senecta ’ (ann. XIII 52, 7). L’antitesi sì osserva nel  1 Cic. parad. V 2, 39.   2 Sen. dial. VI 19, 2; e degli scrittori che, dopo Plinio Secondo, s'intrattennero di tale argomento, v. PLIN. epist. IV 15,  3. IvvenaL. sat. IV 12,99 sgg. PETRON. sat. 1)6, p. 539. MARTIAL. epigr. IV 56, 1-6. Amm. Marc. r. g. XIV 6, 22.   3 Ma Domizio Balbo era stato ‘simul longa senecta, simul  orbitate et pecunia insidiis obnoxius L’ autore della Germania le istituzioni tradizionali dei Germani, presso i quali  ‘nec ulla orbitatis pretia’ (Germ. 20, 18).    IV.  In tutti i luoghi che nel presente capitolo abbiamo comparativamente esaminati, è agevole osservare  che la somiglianza o identità di concetto proviene per  lo più dai fonti comuni, donde i pensieri sono stati  dedotti ; e, ove tali fonti comuni manchino ovvero non  si riesca a determinarli, nulla vieta di ammettere che,  essendo il tempo della composizione della Gem. anteriore a quello in cui furono scritte le opere di Tacito,  questi, trattando ne’ suoi lavori storici di argomenti  analoghi ad alcuni già svolti o menzionati nella Germ.,  si sia avvalso di considerazioni , uotizie, insomma di  pensieri che erano stati espressi in questo ultimo libro.  Nondimeno Tacito non si attenne sempre a tali concetti,  chè talvolta di proposito se ne allontanò , o li modificò, o chiaramente li contraddisse. Valgano di conferma i sgg. esempi.   a) Della notizia, data da Cesare, ! sull’ antica potenza dei Galli fa menzione la Germ. 28, 1, indicandone  con lode somma il fonte: ‘ualidiores olim Gallorum  res fuisse summus auctoram diuus Iulius tradit’. La  medesima notizia appare nell’ Agr. 11, 15, ma senza  indicazione del fonte autorevole: ‘Gallos quoque in  bellis floruisse accepimus’. Anche in un altro luogo    dell’ Agr., c. 10, si ripete, senza che se ne indichi il    fonte, una notizia data da Cesare.* Soltanto, quando si  riferiscono le imprese militari contro la Britannia, si fa    1 Cars, db. G. VI 24, 1.  ? Cars. b. G. V 13, 1 sgg.    Mo]     1Bl    cenno di Cesare: ‘primus omnium Romanorum diuus  Iulius cum exercitu Britanniam ingressus ’ (Agr. 13, 3).   b) La lingua dei Britanni non era molto differente  da quella gallica, perchè entrambe derivavano dallo  stesso ceppo celtico: e su ciò è chiara l’ affermazione  dell’ Agr. 11, 12. Ma con tale affermazione non si  può conciliare quanto è detto nella Germ. 45, 9, cioè  che gli ‘Aestii’, i quali abitavano sulle spiagge ad  oriente del mare suebico, ed avevano costumanze e  riti simili a quelli dei Suebi, adoperassero una ‘lingua Britannicae propior ”.   c) La voce ‘Germania’ usata al plur. notasi nello  Agr. 15, 13. 28, 1: cf. ann. I 46, 9; è evitata nella  Germ., sebbene in questa si presenti non rara l’ occasione della sineddoche mediante l’uso del plur. invece  del sing.   ‘d) Del Norico, che è più volte nominato negli scritti  di Tacito (ist. I 11, 9; 70, 16. ann. II 63, 3), non si  fa menzione nel c. 1° della Germ., nel quale si descrivono i confini della Germania: appena, per incidenza,  sì nota in un altro ]. che la terra germanica è ‘ uentosior  qua Noricum ac Pannoniam aspicit’ (Germ. 5, 3); il  che rende più evidente l’omissione fatta nel c. 1°.   e) Col solo nome ‘Caesar’, Tacito indicò il dittatore  Giulio Cesare (Rist. III 66, 16): più volte premise o  aggiunse il titolo ‘ dictator” (/ist. III 68, 5. ann. I 8,  27. II 41, 3. IV 34,21. VI 16, 2. XI 25,9. XIII 3, 11.  XIV 9, 6); una sola volta lo fece precedere dal prenome C. (ann. IV 43, 5). Nella frase della Germ. 37,  20 ‘ Varum trisque cum eo legiones etiam Caesari  abstulerunt’, si indica col solo nome ‘Caesar’ l’imperatore Augusto. !   f) Facendo menzione della vergine fatidica Veleda,  la cui autorità era divenuta grande dopochè ella aveva  predetto la vittoria dei Germani e la distruzione delle  legioni romane, Tacito accenna ad un antico costume  presso i Germani, ‘quo plerasque feminarum fatidicas  et augescente superstitione arbitrantur deas’ (list. IV  61, 10). Nella Germ. si spiega il fondamento di tale credenza: ‘inesse quin etiam sanctum aliquid et prouidum putant, nec aut consilia earum aspernantur aut  responsa neglegunt’ (Germ. 8, 6); ma si avverte che  le donne fatidiche erano tenute ‘numinis loco’ e venerate ‘non adulatione nec tamquam facerent deas’.   9g) Per il ritorno degli ‘ Agrippinenses ’ in seno alla  grande famiglia germanica, si rendono grazie ‘ communibus deis et praecipuo deorum Marti’ (Qisf. IV 64, 4).  Nella Germ. 9, 1 si assevera, invece, che per i Germani il precipuo degli dei era Mercurio : ‘ deorum maxime Mercurium colunt ’.   h) Nelle Rist. IV 73, 12 si fa menzione dei Teutoni  accanto ai Cimbri; nella Germ. 37, benchè vi si tratti  delle guerre cimbriche, si omette qualsiasi cenno intorno ai Teutoni. *   i) Per l’autore degli ann. sono ‘clientes’ i compa  1 Negli ann. Augusto é detto una volta ‘Caesar Octauianus  (XII 6, 14) ed un’altra ‘Caesar’ (I 2, 3), riferendosi però a  tempi anteriori a quello in cui egli prese il nome di Augusto  (a. 727 /27: cf. WEISSENBORN, de Titi Liuii uita et scriptis). La disfatta di Quintilio Varo avvenne nel settembre dell'a. 9 d. Cr., cioè 36 anni dopo che Ottaviano era stato insignito col titolo di Augusto, gni dei capi barbari, p. es. i ‘clientes’ di Segeste (amm.  I 57, 13), di Inguiomero (ann. II 45, 4), di Vannio  (ann. XII 30, 7); e che significhi ‘ clientela’ per Tacito si  deduce dal l. degli ann. II 55,8. Nella Germ., invece,  i compagni dei capi son detti, con voce più nobile e  decorosa, ‘comites’ (Germ. 13,10, 12, 14, 14,7); ela  loro riunione ‘ comitatus” (Ger.),  non ‘ clientela”.   j) Secondo la Germ. 4, 6, i Germani hanno ‘magna  corpora et tantum ad impetum ualida’. Negli ann. II  14, 14 si restringe l’obietto di tale considerazione, poichè si nota che il corpo dei Germani è ‘uisu toruum  et ad breuem impetum ualidum ’. i   k) L’ autore della Germ. non saprebbe affermare  ‘nullam Germaniae uenam argentum aurumue gignere:  quis enim scrutatus est ?” (Germ. 5, 9). E nondimeno  negli ann. XI 20, 11 è detto espressamente che nell’a.  47 d. Cr. Curzio Rufo ‘in agro Mattiaco recluserat specus quaerendis uenis argenti ’, tuttochè con poco profitto e per breve tempo. Se è assodato, da quanto narra Tacito negli ann.  XIII 57, 2 sgg., che i Germani facevano uso del sale,  non può evitarsi il contrasto con l’osservazione che leggesi nella Germ. 23, 4, cioè che i Germani si preparavano i cibi ‘ sine apparatu, sine blandimentis ?.   Ed altri esempi omettiamo, per amore di brevità. Mende tipografiche    . 28 mendacium  13 comunica  18 Seguo  ll alle    leggi mendaciorum comunicava  Seguiamo  alle    I     At/n^^'^      l^arbarli College Eibrarg   FROM THE   CONSTANTIUS FUND     Established by Professor E. A. Sophoclbs of Harvard   University for " the purchase of Greek and Latin   books, (the andent classics) or of Arabie   books, or of books illustrating or ex plaining sudi Greek, Latin, or   Arabie books.»» (Will} La " GERMANIA " comparata   CON LA ''^NATÌ^RAUGHfGTOmA ' DI RDIMIO   e con le opere di Tacito     Altre opere del Prof. Dott. Santi Consoli :   Italiensk Crammatik til brug for Norske og Danske.  Catania , 1884. L. 3. (in deposito presso E.  Hauffs boghandel, Kristiania in Norvegia).   Istituzioni di lingua latina esposte, secondo il metodo scientifico, agli alunni delle scuole secondarie classiche. Catania, F. Tropea Introduzione allo studio del D. N.  Torino, F.lli  Bocca Fonologia latina Milano, U. Hoepli Letteratura norvegiana,  Milano, U. Hoepli De C. Piinii Caecllii Secundi rhetoricis studiis.    Catinae, C. Galatola Il neologismo negli scritti di Plinio il giovane.   Contributo agli studi sulla latinità argentea.  Palermo, A. Reber Neologismi botanici nei carmi bucolici e georglci di Virgilio. Contributo agli studi sulla latinità dell'evo augusteo. Palermo, A. Reber L' autore del libro " De origine et situ Cermanorum " : ricerche critiche.  Roma, Loescher LA GERMANIA COMPARATA COLLA NATVRALIS HISTORIA di Plinio e cosa le opere d.i rPaclto RICERCHE LESSIGRAFIGHE E SINTATTICHE lib. doc. di letteratura e lingua latina nella R. Università di Catania Loescher Bretaehneider e Regenberg Librai di S. M. la Regina d' Italia L-t l-l'iZ.i l \ (.Ji'ù i U ta.t ^ tCu>u Y^.   (Catai^a^ via MaddemfD. Ttpoffrafia editrice BARBACALLO & 8CUDERI, in Catania. Alla memòria benedetta di mia madre E DI MIA MOGLIE . Il sagio che C. sommettealla benevola attenzione dei lettori ha il solo obietto di dare evidenza ad alcune osservazioni lessigrafiche e sintattiche, più degne di  nota, che risultano dal confronto della Germania con  la naturalis historia di Plinio e con le opere di Tacito. Si ommettono, per tanto, tutte le particolarità, concernenti la lessigrafla e la sintassi, che presentano gli scritti comparati, in quanto che tali particolarità o casi isolati sfuggono ad un'indagine comparativa. Nelle ricerche sulla genesi e lo svolgimento delle voci e locuzioni considerate, terremo presente l'uso che  ne fecero i più autorevoli scrittori latini anteriori a Plinio Secondo ed a Cornelio Tacito, e quelli ad essi  contemporanei. Eviteremo, per ciò, salvo in qualche  caso raro, di seguire le vicende di una data espressione  o di un dato costrutto sintattico nell'uso letterario dei  tempi seriori. Sarà ommessa altresì l' indagine di quei  significati delle voci esaminate , i quali , non essendo  stati accolti nelle opere che sono obietto delle nostre  ricerche, non sembrano di alcun vantaggio per la comparazione istituita. Al nostro compito è sufficiente indagare per quale tramite la voce, la frase, il costrutto che  si esaminano , sì siano introdotti nelle opere messe in  comparazione. Qualche osservazione critica appare, talvolta, nelle note; che, trattandosi di indagini comparative, è necessario, anzi tutto, essere certi dei termini  del confronto ed aver notizia delle vie percorse dalla  critica per fissarli.   Quanto al testo di Tacito, ci siamo attenuti all' edizione curata dal Halm ; e, per il testo della naturalis  historia di Plinio, abbiamo seguito l'ediz. Jan-Mayhoff*.  Ci è parso opportuno seguire, quanto al testo della  Germania, la recente ediz. curata da Io. Mueller ( ' editio maior, II emendata, Vindobonae, Pragae, Lipsiae,  MDCCCC '). Nel citare i passi di un autore, abbiamo eoa    vili    servato invariata l'ortografia del testo, quale è presentata neir ed. di cui ci siamo serviti : e perciò occorre,  qualche volta, leggere nello stesso paragrafo o nello stesso rigo l'identica parola scritta in più modi; p. es. ' adgnoscere ' e ' agnoscere ' , ' adgnatus ' e ' agnatus ' ,  ' caespes ' e ' cespes ', ' conlatio ' e ' coUatio ', ' inlacessitus ' e ' illacessitus ', ' inpatiens ' e ' impatiens ', ' inputare ' e ' imputare ', ' inrumpere ' e ' irrumpere ', etc.  I passi di Tacito sono designati con la indicazione del  rigo , dopo il numero che rappresenta il cap. ; e per  maggiore chiarezza, a fin di agevolare le ricerche ed  i confronti, si è indicato , ogni volta che sia apparso  necessario, anche il num. del rigo nelle citazioni dei  passi di altri scrittori. Ad evitare, però, troppo curaolo  di numeri, si è ommessa, nel citare i luoghi di Plinio,  r indicazione dei numeri che rappresentano i capitoli  e le sezioni: il luogo che si cita è indit^ato soltanto col  numero d'ordine del libro e col numero del paragrafo.  Arrogi che , quante volte si è trascritto il testo di un  luogo della naturalis historia, il numero rappresentante il libro è stato sempre espresso con segni romani ;  allorché, invece, si è citato un luogo della detta opera per semplice confronto o richiamo, senza la trascrizione del testo, si è indicato (da pag. 33 in poi) anche  il numero d' ordine del libro con sole cifre arabiche.  Non pare superfluo, in fine, avvertire (tuttoché, del  resto , si sia chiaramente detto e ripetuto nelle prefazioni dei nostri libri sui neologismi pliniani e sui neologismi botanici nei carmi bucolici e georgici di Virgilio) che la nostra affermazione sulla novità di un  vocabolo o di un costrutto sintattico nelle opere messe  in confronto, o sul significato nuovo di voci anteriormente note, il quale si osserva nelle dette opere, va sempre accolta in senso ristretto , cioè in relazione al materiale letterario latino pervenuto sino a noi. Certamente  né Plinio né Tacito si sarebbero serviti di voci non  note ai loro contemporanei , né a voci usate prima avrebbero assegnato tali significati nuovi da non essere  compresi dai Tettori delle loro opere, A fin di determinare con la maggiore chiarezza che  ci sia possibile le relazioni lessicali tra i due libri  considerati, pare opportuno trattare prima delle voci e  frasi più notevoli, che appariscono usate dagli scrittori  anteriori alTetà di Plinio Secondo, con lo stesso valore  lessicale che si nota nella Oerm. e nella nat. hist Sostantivi :   1/ * aduentus ' : Ge^^m. 2, 2 ^ aliarum gentium aduentibus '. n. h. XVII 242 ' Xerxis aduentu ' : cf. XV 52,  XXIX 13. Plinio riferì ' aduentus ', oltreché a persone,  anche ad animali: n. h. X 30 ' ad hirundinum aduentum '. XXV 90 * florent aduentu hirundinum ' ;  e a  cose diverse : v. n. h. II 142. XVIII 218. XXXII 59.   C0N30U, La aermania comparata. 1      2 ~   etc. : egli perciò si attenne all'uso della voce ' aduenfcus '  accolto nella latinità arcaica e nella classica. ^   2.° ' alea ' vale « giuoco di fortuna , di rischio 5> :  Germ. 24, 6 ' aleam.. sobrii inter seria exercent '. n. h.  XIV 140 ' quantum alea quaesierit tantum bibit '. Per  indicare, in senso traslato, 4; dubbio, incertezza » , la  V. 'alea' è accolta nella 7^. ft^ praef. 7 ' M. Tullius  extra omnem ingeni aleam positus '. Tanto nell' uno  quanto nell'altro significato, la v. considerata ha degli  esempi in tutti gli stadi della latinità. ^   3.° ' amplitudo ' : Germ. 26, 6 ' nec enim cum ubertate et amplitudine soli labore contendunt '. n. h. VI  119 ' stadiorum LXX amplitudine ': cf. X 52 ' in magnam amplitudinem crescit '. XIV 28 ' foliorum amplitudo atque duritia ' : v. inoltre  etc. Nello stesso significato proprio di « ampiezza,  grandezza, estensione grande » era stata già la voce  ' amplitudo ' accolta nell' uso della latinità aurea. ^   4.*^ ' annales ' : Germ. 2, Il ' celebrant carminibus  antiquis, quod unum apud illos memoriae et annali um  genus est ' e. q. s. n. h. II 43 ' miraque humani ingeni  peste sanguinem et caedes condere annalibus iuuat '.  XXXIII 145 ' erubescant annales qui bellum ciuile illud     1 Vedi p. es. Pacvv. in Non. II p. 178 , 9 ed. Mere. ; p. 121 ,  a ed. Gerl.-Roth. Cic. de imp. Cn, Pomp, 5. 13. in Pis, 22, 51.  p. Mil 19, 49. ad Ait XII 50. Tuse. Ili 14, 29. de nat d. \ 38,  105. NtìP. XI (Iph.) 2, 5. Sall. lug. 97, 4. etc.   2 Vedi Forcellini-De Vit, lex t. I, p. 189. Georges, ausfùhrl  Handwb. I, e. 276.   3 Varr. r. r. II 4, 3. Cic in Verr. IV 49, 109. L'uso fu continuato anche da Tac. hisi. IV 22, 15. IdiaL de oraioribua 37,23}.      3    talibus uitiìs inputauere ' K Tale accezione di * annales ', per significare una narrazione storica in generale,  rese possibile la confusione che Puso seriore fece di   * historia ' e * annales ', malgrado le distinzioni d' ordine diverso fatte da Gelilo e Servio. ^   ò."" ' appellatio': Germ. 2, 17 * pluresque gentis appellationes '. ^ n. h. VII 59 ' se patris appellatione salutarent': v. anche II 116. XV 138. XXI 50. etc. Con  lo stesso significato metonimico di « nome, denominazione, appellativo », oltreché con altri significati, la v. appellatio ' appare prima in Cicerone. *   6." * argumentum ' : Germ. 25, 12 ' apud ceteros impares libertini libertatis argumentum sunt. ' n, h. Il  111 ' haut dubio coniectatur argumento ': v. inoltre II  7; 8. III 86; 122. X 106; 107. XI 94 . XII 68. XV 12;  134. XXII 39. etc. Lo stesso significato di « argomento,  segno , prova di fatto > , e talvolta « indizio » ha la  V. ' argumentum ', oltre ad altri significati, presso gli  scrittori anteriori. '^     1 Cf. Tac. ann. II 88, 16.   « Gfll. n, A. V 18 , 1-9. Sbrv. comm, in Verg. Aen. I 373,  voi. I, fase. 1^, p. 125 sg. Th. Cf. Isid. orig. I 43, col. 856.   3 Non pare che sia degna di essere accolta la lezione congetturata da loh. Mueller : ^ plurisque gentes et appellationes '.  Abbiamo preferito attenerci alla lezione data dai codd., rifiutando  anche il * plurisque ' dato dal Ritter , Kritz , Haltn * , Zernial,  Ramorino, etc : i codd. presentano * pluresque '.   ^ Cic. de dom. s. 50, 129. ad AH, V 20, 4. Un altro es. leggesi  in un I. di Tito Ampio, riferito da Sveton. diu. lui. 77, 2. Vedi  anche Tag. ann. Ili 56, 5.   5 V. i numerosi ess. di Plauto, Lucrezio, Cicerone, Livio, etc  nel lex. Forcbllini-De Vit, 1. 1, p. 383 e néiVausfiXhrl Handeob,  del G^ORGKS, I, e. 528 sg.     ~ 4 ~   7.** ^ armentum ' : nella Germ. vale a significare in  generale « branco di animali grossi domestici » : 21, 3  ^ luitur enim etiam homicidium certo armentorum ac  pecorum numero '. Plinio l'adopera nella n. h. per denotare branco di cavalli (Vili 165) o di cinocefali (VII 31)  di certi buoi della Frigia (XI 125) o di animali in  generale (Vili 44. XI 263). Per i vari significati della  V. * armentum ' si erano dati anteriormente degli ess.  da Varrone, Cicerone, Virgilio, Orazio, Ovidio, etc. ^   8.** ' ars ' : Gemi. 24, 3 ' exercitatio artem parauit ,  ars decorem '. n. h. XVIII 197 ' artis quoque cuiusdam  est aequaliter spargere (semen) ' : v. XI 81. XVIII 32.  In Terenzio la v. * ars ' aveva di già assunto il significato particolare di « abilità, destrezza ». ^   9.* ^ bigati ', antiche monete romane con l' impronta  della biga : Germ, 5, 17 ' pecuniam probant ueterem  et diu notam , serratos bigatosque '. n. h. XXXIII 46  ' notae argenti fuere bigae atque quadrigae , inde bigati quadrigatique dicti '. Livio l'usò anche con lo stesso  significato. ^   10. ** ^ cassis ', t. ' cassid- ' : Germ. 6, 10 ^ uix uni al   1 Varr. r. r. II 5, 7. Cic. Phil. Ili 12, 31. ad Att VII 7, 7. de  r. p, II 35, 60. Verg. bue. 2, 23. 4, 22. 6, 45 e 59. georg. I 355;  483. II 144; 195; 201; 329. III 71; 129; 150; 155; 162; 352. IV 223;  3P5. Aen, I 185. Ili 220; 540. VII 486; 539. Vili 214; 360. XI  494. XII 688; 719. Hor. carm. I 31, 6. Ili 3, 41. ep. 1 8, 6. Ovid.  mei. XV 84. fasi. II 277.   « Tbr. Andr. 31 (I 1, 4). adeìph^ 742 (IV 7, 24). Cf. Tag. Agr.  36, 2.   « Liv. XXIII 15, 15: ò adoperata col valore primitivo di aggettivo in XXXllI 23, 7.      5    terìue cassis aut galea '. ^ Con lo stesso significato  (« elmo di metallo ») la v. ' cassis ' fu adoperata dagli scrittori anteriori. Nella n. h. si presenta col significato metonimico di guerra : XIII 23 ^ ista patrocinia  quaerimus uitiis , ut per hoc ius sub casside unguenta  sumantur '.   11.° ^ ciuitas ': l'espressione * Hermundurorum ciuitas \  che leggasi nella Qerm. 41, 3, si riannoda direttamente  ad un* espressione consimile di Cesare. ^ A tale accezione della V. * ciuitas ' si ravvicina il passo della n. h,  XXXI 12 ^ Tungri ciuitas Galliae ': cf. VII 200 ' regiam  ciuitatera Aegyptii, popularem Attici post Theseum (se.  inuenerunt) \   12.** * colla tio ' ; Germ. 29, 6 ' exempti oneribus et  collationibus '. n. h. XXXVII 10 ' Maecenatis rana per  conlationes pecuniarum in magno terrore erat '. La v.  ^ collatio ' vale per ciò « contributo, sussidio »; e con  significato analogo era stata precedentemente usata da  Livio. ^ Ma in un altro 1. della n. h. la v. considerata  conserva il significato di « confronto, paragone », con  cui era stata accolta da Cicerone e da altri: * XXXVII  126 * optimae sunt quae in conlatione aurum albicare  quadam argenti facie cogunt '.   13.** ' color ' : appare nel significato proprio tanto  nella Germ. 6, 9 * senta tantum lectissimis coloribus     1 La differenza tra * cassis ' e * galea ' è notata da Isid. orig.  XVIII 14, e. 1272.   « Gaes. 6. e. IV 3, 3 * Vbii, quorum fuit ciuitas ampia atque  florens *. Cf. Tac. hist. I 54, 1 * ciuitas Liiigonum *. Agr. 17, 3  ' Brigantium e. '   3 Liv. IV 60, 6. V 25, 5. etc.   4 CiG. Tuse \y 38, 83. de natd. ni 28,70. de diu. Il 17,38. etc.      6   distingiiiint ' ; quanto in più luoghi della n. h. : Viti  193. XI 148; 151; 225. XXXV 81; 82. etc. La v. ' color'  era stata prima accolta nello stesso senso da Cicerone,  Cesare e dai poeti dell' età augustea. ^   14.*^ ' conciliura ': Germ. 12, 1 ' licet apud concilium  accusare '. n. h. XXXV 59 ' Amphictyones , quod est  publicum Graeciae concilium '. Con lo stesso significato  dì « adunanza , concilio » , appare presso gli scrittori  anteriori : ' riappare negli scritti di Tacito. *   15.° ' condicio ': il significato tradizionale della voce  ' condicio ' è conservato tanto nella Germ. 24, 12 ^ seruos condicionis huius per commercia tradunt ' ; quanto  nella n. h. Ili 91 ' Latinae condicionis '. IV 57 ' Aegina  liberae condicionis' etc; ^ salvo che nella n. h. si estende anche a cose estranee alle condizioni civili degli uomini : v. XVIII 187. XXIV 158.   16.'' ' conditor ': Germ. 2, 12 ' Tuistonem deum terra  editum et filium Mannum originem gentis conditoresque '. n. h. XVI 237 ' Tiburno conditore eorum ( se.     1 V. gli ess. addotti nel lex. Forcellini-Db Vit, t. II, p. 283;  e UQÌV ausfùhrl. Handwb. dei Georges, I, e. 1199.   « Il lex. Forgellini-Dk Vit, t II, p. 347, e V ausfùhrl Handwb.  del Georges , I, e. 1301 sg. notano, per inesattezza , che Plinio  abbia indicato con la v. ' concilium ' il fiore bianco della pianta   * iasine '. Nel passo della n. h. XXII 82 il fiore della ' iasine '  è rappresentato (secondo i codd. Leid. Voss., Paris. Lat. 6796 e  Riccard. di Firenze) dalla v. * concylium ', che V Urlichs ( Vindie.  Plinian. , Erlangae 1866, v. II 484 ) emendò rettamente • conchylium ', quale è stata accolta nella recente ediz. Mayhoff :   * concilium * fu presentato dalla * uulg. * sino all*ed. del Detlefóen,  Beri. 1868, voi. III.   8 Tac. hi8t. IV 64, 2.   4 Cf. Tag. ann. I 16, 13. hist. II 72, 10.     tiburtum) ' : v. Vili 61. XXII 5. etc. Nella n. h. si estende ancor più il significato di ^ conditor ' , riferendosi , secondo esempi offerti da scrittori precedenti , a  città : V 86, VI 92 ; 113 ; 177. XVI 216. età ; ^ alle  arti : praef. 26. XXXIV 89. XXXV 199. etc. ; ^ alla  storia : V 9. VII 111. XXXVI 106. etc. ; '^ alle leggi t  XVI 13; a scuole filosofiche: XXVI 11. etc.  * concurrunt multae opiniones ' : cosi  secondo i codd. ; neir ed. Fleckeisen si accoglie la congettura  ' concurrunt multa eam opinionem *. Cic. p. Rose. Am. 15, 45.  etc.   5 Plavt. Men. 756 ( V 2, 4 ). Cic. Tasc. V 15, 45. Caes. b. e.  hi 84, 3. Liv. IX 16, 13. Se ne valse anche Tao. hist I 79, ^     •^   SS."" ^ propìnquìtas ' : Germ. 7, 10 ^ non casus nec fortuita conglobalo turmam aut cuneum facit, sed famìliae et propinquitates ' : in traslato, per indicare « parentela », la V. * propinquitas ' era stata prima usata  da Cicerone, Cesare, Livio, etc. » Nella n. h. conserva  il significato proprio : II 64 ' idemque motus alias  maior alias minor centri propinquitate sentitur ' : v.  II 74. Il SIGNIFICATO PROPRIO di propinquitas ' osservasi  prima in Cicerone e Cesare. ^   34.*^ * quies ' : n. h. XVI 70 ' lenis quies materiae \ ^  XVIII 231 ^ uentorum quiete ' : nello stesso significato  di « calma, tranquillità » Cicerone e Virgilio avevano  accolto la v. ' quies '. * Ma nella Germ. ingrata  genti quies ', la v. considerata vale a indicare con     1 Cic. de fin. V 24, 69. Caes 6. G. II 4, 4. Liv. IV 4, 6. Cf.  Tao. ann. XI 1, 11. È usata al sing e con lo stesso eignificato  nei sgg. 11.: Cic. p. Quinci. 6, 26. p. Piane. 11, 27. Nep. X  (Dion) 1, ?. XVn (Ages.) 1, 3.   « Cic. de inu. rhei. I 26, 38. Phil III 6, 15. de off. Ili 11, 46.  Caes. 6. G. li 20, 4. VI 30, 3. b. e. Il 16, 3. etc.   3 Cosi leggiamo secondo i codd., tranne il Paris. 6795 (E del  Mayh.) e TÀrundel. del museo britannico di Londra, e secondo la ' lectio uulg. ' Neired. del Sillig. voi. Ili, Hamb. e Gotba  1853 , si afj^giunge ' est ' a ' quies '. Il Mayhoff , ed. Lps. 1892 ,  innova radicalmente la frase , e legge ' leuisque est ', che si  avvicina , nel suono della pronunzia , alla lez. * lenis qui est ',  presentata dai detti codd. E e Arundel. L* Urlichs ( Vindie.  Plin.y 264; Erlang. 1866) si allontana di più dai codd.,, ammettendo la congettura * leui cuiu3 '.   4 Cic. de leg. agr. 11 2 , 5 in Caiil. IV 1,2; 4, 7. p, Cael. 17.  31>. p. r. Deiot 13, 38. ex libris aeadem. ineeriis tv. 4. de fin.  I 14, 46. V 20, 55. Tuse. I 41, 97. de r. p. I 4, 8. IV 1, 5. etc.  Vbrg. geory. particolarità la « quiete dopo la guerra », come osservasi in Sallustio. ^   35.° ' receptaculum ': appare, nel senso di « ricovero,  rifugio, ricetto », tanto nella Germ. 46, 20 ^ hoc senum  receptaculum (se. ramorum nexus) ' ; quanto nella n. h.  X 100 ^ perdices spina et frutice sic muniunt receptaculum ut centra feram abunde uallentur \^ E ciò è  conforme air uso fattone prima da Cicerone , Cesare ,  Livio '. 3 Ma nella Germ. assume anche il significato  di « deposito, magazzino » per viveri: 16, 11 ^ subter raneos specus sufTugium hiemi et receptaculum   frugibus ': tale significato osservasi prima in Cicerone. ^   36.** ' reuerentia ' : Germ. 29, 9 ' protulit enim magnitudo populi Romani ultra Rhenum ultraque ueteres  terminos imperii reuerentiam '. n. h. XXXVI 66 ^ hac  admiratione operis effectum est ut , cum oppidum id  expugnaret Cambyses rex uentumque esset incendiis ad     1 Sall. Cai. 31, 1: cf. Cic. de imp, Cn. Pomp. 14, 40. Tacito si  valse della v. 'quies* tanto ìq senso metonimico, per indicare  « sogno, visione » (ann. I 65, 6: cf. Cic. acad. pr. II 16, 51. de  diu. I 21, 43; 24, 48; 25, 53; 28, 58; 29, 61; 43, 96; 55, 126. II 60,  124; 61, 126; 66, 135; 70, 145; etc). quanto nel senso proprio di   , è adope' rata nella Gemi. 36, 7 * tracti ruina Cheruscorum et   L Fosi, contermina gens '; e nella n. h. XVII 245 ' Ne |, ronis principis ruina '. Si noti, però, la differenza : nella   I Germ. , come in 11. consimili di Cicerone, Sallustio, Li S vio, Ovidio, etc. ^, la v. ' ruina' si riferisce alle con p dizioni di un popolo o di uno Stato; mentre nella n. h.   - concerne le condizioni di singole persone : di che si   i hanno ess. in Cicerone, Orazio, Ovidio, etc. ^ Plinio si   valse anche della v. ' ruina ' in senso metonimico : n. h.  ^ XXXIII 74 ' flumina ad lauandam hanc ruinam iugis   montium obiter duxere ' : ^ cf. XXXIII 66 ^ in ruina  ;; montium '.   40.* * saeculum ' : Germ, 19, 9 ' nec corrumpere et  corrumpi saeculum uocatur \ Di tal valore metonimico  di * saeculum ', per indicare i costumi dominanti in un   1 Cic p. SesL 2, 5. 51, 109. 57, 121. in Vatin. 8, 21. de proo,  eons. 18, 43. p. Balb. 26, 58. ep. (adfam.) V 17, 1. Sall. Cai.  31, 9. Liv. XLV 26, 6. Ovid. mei. VII! 498. Vbll. Paterg. h. R  II 91, 4. etc. li Gborges, ausfiXhrl Handiob.^ II, e. 2165 , attribuisce per inesattezza a Cicerone la frase sallustiana ' iocendium  meum ruina («e. rei publicae) restinguam * (^Cat 31 , 9). La  frase di Cicerone (p. Mur. 25, 51) é: * respondisset, si quod esset in suas fortunas Incendium excitatum, id se non aqua, sed  ruina restincturum '.   « Cic. in Catti I 6, 14. eum Sen. grat. egii 8, 18. de fin. I 6,  18: cf. de prou. eons, 0, 13. de dom. s. 36,96. Hor. earm. II 17,  9. Ovid. ex Pont I 4, 5.   '^ In simil modo , riferendola a città distrutte , usarono la v.  * ruina' Liv. IX 18, 7. XXI 14, 2. Vbll.Patbrc. h. R. II 19, 4;  ed altri.      19    dato tempo ( i Tedeschi ciò desigaano con la voce  « Zeitgeist ») si hanno ess. precedenti in Terenzio, Virgilio, Orazio, etc. ^; ma il tramite per cui dovette passare, per aversi il significato metonimico su cennato,  notasi , senza dubbio » conservato neir uso fattone da  Plinio nel sg. 1. della n. h. XXXVII 29 ' haec fuit suprema ultio saeculum suum punientis ( se. Neronis ) ' :  V. XXXVII 19.   41.** ^ sagum ': è voce di origine celtica, usata nella  Germ. ad indicare il saio o vestito dei Germani : 17 ,  1 ^ tegumen omnibus sagum fibula aut, si desit, spina  consertum '.^ Nella n. h. fu riferita al saio dei pastori : VIII 54 * pastoris Gaetulìae sago ' ; e ad un indumento dei Druidi: XVI 251. XXIX 52 : e ciò per analogia dell'uso fattone da Columella, che con la v. ^ sagum ' aveva indicato la veste dei contadini.^ Neil' uso  classico * sagum ' si restrinse a dinotare il mantello dei  soldati. ^   42*'' ^ sata ' : in diretta provenienza dall' uso fattone  da Virgilio, ^ in sostituzione della voce ' segetes ', os 1 Tbr. eun. 246 (Il 2, 15). Verg. georg. I 468. Aen. I 291. Hor.  carm. III 6, 17.   , che osservasi in Cicerone, ^ per il tramite dell' uso particolare  fattone da Bruto. ^   51.** * superstitio *: Germ. 39, 10 ^ eoque omnis superstitio respicit '. n. h. XXXI 95 ' superstitioni etiam  sacrìsque ludaeis dicatum ' : v. inoltre VII 5. XXI 182.  XXII 118. XXX 7. XXXVII 160. Si valsero prima della  v. '^ superstitio ' Cicerone, Virgilio , Livio, Seneca , Columella, etc. ^   52.** * temperantia ': Gerrn. 23, 5 ' aduersus sitira non  eadem temperantia '. n. h. XXVIII 56 * multo utilissima est temperantia in cibis \ Col medesimo significato     1 CiG. de /Ia. I U, 37 *doIoris amo tic successlonem efficit  udluptatis '. Ma in un fr. dell' esordio del libro Hortensius^ ri*  ferito da Avqvstin. de uit ò. 26, io opp, t. I p. 308, Bened. , la  V. 3.  Tuse. Ili 29, 72. de nat. d. I 17, 45; 20, 55; 27, 77; 42, 117. II  24, 63; 28, 70 e 71. Ili 20, 52. de diu. I 4, 7. II 7, 19; 39, 83; 41,  85; 60, 126; 63, 129; 67, 136; 72, 148 e 149. de legihm I 11,32.  II 16, 40; 18, 45. [Il fr. del 1. de legibus cit. da Serv. eomm. in  Verg, Aen. VI 611, voi. II, p;ig. 85, in cui notasi la frase * auget superstitionem ', ò riferito dal Thilo al 1. cit. II 16, 40. Il  Nobbe, pag. 1222, lo ascrive, invece, terzo tra i frammenti ' incertorum lib-orum de legibus']. Vedi inoltre Vero Aen. XII  817. Liv. XXVI 19, 4. SBN. ep. XX 5 (122), 16 (al quale I. si paragoni XV 3 (95J, 35). Colvm. de r. r. I 8 , p 326, 22. Cf. Tac.  Agt. li. 11. hist. 11 4, 13. V 13, 2. ann. W dì «teiiiperahza, continenza, moderazione» la v. Uernperantia ' era stata accolta nell' uso degli scrittori anteriori.  ' transfuga ': nel significato proprio , secondo   f: l'uso accolto prima da Cicerone, Sallustio, Livio, etc. ^',   si osserva nella Germ. 12, 3 ' proditores et transfugas arboribus suspendunt \ Attenendosi, invece, alla  tradizione avente in prevalenza carattere poetico ^,  Plinio si valse della v. * transfuga ' nel senso traslato:  n. h. XXIX 17 ' solam hanc artium Graecarum (se.  medicinam ).... Quiritium paucissimi attigere et ipsi  statim ad Graecos transfugae '.   54.** ^ tributum ': nel significato proprio appare egualmente nella Germ. 43, 4 * Osos Pannonica lingua  coarguit non esse Germanos, et quod tributa patiuatur '; e nella n. h. XXI 77 ' ceram ir\ tributa Romanis  praestet': v. altresì VI 119. XII 112. etc. Del resto, la v.  * tributum ', indicando cosa che ha tormentato i popoli in tutti i tempi, fu assai nota agli scrittori anteriori. ^  55.° ' uilitas : Plinio se ne avvalse tanto nel senso  r£ proprio di «poco prezzo, buon mercato», secondo gli     r.     1 CiG. de or. II 60, 247. pari. or. 22, 76. ep. (ad fam.) I 9, 22.   Tuae. Ili 8, 16. V 20, 57. de off. Ili 25,96; 33. 116. etc. Cf. Tac.   ann. I 14, 4.  8 CiG. de dia. I 44, 100. Sall. lug. 54, 2. Liv. XXIV 30, 6.   XXVII 17, 11. etc: cf. epit Z. LI.  f 3 HoR. earm. III 16, 23. Lvgan. de b. e. Vili 335.   l: •* Cic. m Verr. Il 53, 131; 55, 138. Ili 42, 100. p, Flaee. 9, 20.   19, 44. 32, 80. ep. (ad fam.) HI 7, 3. XV 4, 2. de off. W 21, 74;   22, 76. etc. Cabs. b. G. VI 13, 2. 6. e. HI 32, 2. Liv. IV 60, 4.   XXIU 31, 1. etc.     èss. presentati prima da Cicerone •: n. h. XVIII IS  ' annonae uilitas incredibilis erat ': v. anche Vili 7.  XIV 35; 50. XVIII 273. XXXIII 50. XXXV 47; quanto nel senso traslato di « poco valore, poca importanza »: fi. h. XX i ' nominum uilitate deceptus \ XXXVI  119 * quae uilitas animarum ista ': dello stesso modo  II 26. XI 39. XIX 59. XXVI 43. XXXIV 2. A questo  secondo significato, che si osserva in Plauto e in altri scrittori, ^ si avvicina 1' uso fattone nella Germ. 5,  11 * est uidere apud illos argentea uasa.... non in alia  uilitate " quam quae humo flnguntur '.     1 Cic. in Verr. Ili 92, 215; 93, 216; 98, 227. de imp, Cn, Ponip.  15, 44. eum pop. graL egii 8, 18. de dom, s. 6, U e 15. 7, 16  de off. Ili 12, 52.   « Plavt. eapt 230 (II 1, 37). Pbtron. sat. 118 Qvintil i. o.V  7, 23. etc. Cf, ' uilitatem uerbi * in Non. 12, p. 531, 2 ed. Mere;  p. 363 a ed. Gerì, e Roth.   3 * Vllìtas ', nel 1. e. della Germ , non significa « vilipendio,  spregio » ( « Geriogschaetzung », come commenta U. Zernial,  o. e., p. 24), ma «poco valore, poco pregio»; sicché l'intera  frase ' non in alia uilitate ' vale, secondo la giusta osservazione del Grbverus, Bemerkungen zu Taeiius' Germania, 01denb'urg 1850, p. 21, lo stesso che * eodem uili pretio*. La var.  * utilitate *, presentata dai codd. Vatic. VRB. 655,- Rom. Àug.  bìbl., Florent. Laurent. 73, 20, Viodobon., e sostenuta si vivamente dal Kritz, P. C. Tae. Germania, Beri. 1864, p. 42 sg,  che accusa di * sententìa prorsus absurda ' la lez. ' uilitate ',  probabilmente si deve a quella stessa inavvertenza dei copisti,  per la quale nel 1. della n. h. XX 1 si legge nei codd. ' utilitate \ invece di 'uilitate ' che è lez. data dal solo cod. Paris.  6795, accolta dalla ' uulgata ', e ripetuta nella recente ed. del  Mayhoff, voi. Ili, pag. 302, 14.     ^ 26  II.  Aggettivi :   1.^ * arcanus ': Germ. 40, 20 ^ arcanus bine terror ';  n. h. XXIX 21 ' arcana praecepta ': cosi notasi usato  da Cicerone, Virgilio, Ovidio, etc. ^ Ma nella n. h. è  riferito anche, secondo V accezione di Plauto, ^ a persona : VII 178 ' petiit uti Pompeius a4 se ueniret aut  aliquem ex arcanis mitteret ' ; per lo più è usato in  funzione di sostantivo : n. h. Il 65. VII 150. XXV 7.  XXVIII 129. XXX 9.   La frase * arcana sacra ' osservasi in Orazio e Ovidio ^ prima che nella Germ. 18, 7 ^ hoc maximum uinculum, haec arcana sacra, hos coniugales deos arbitrantur '.   2.^ ^ argenteus ' : nel significato comune di « argenteo,  fatto d' argento » * notasi nella Gerrn. 5, 12 ^ est uidere apud illos argentea uasa ' ; e nella n. h. XXXIIf  142 ' missa ab iis uasa argentea ^ non accepis$e ' : v. in   1 Cic. de fin. II 26, 85. Vl^rg Aen. IV 422. VI 72. Ovid mei.  IX 516. etc. Cf. Tac. ann. II 54, 13.   s Plavt. irin, 556 (li 4, 155): si può aggiungere il v. 518 (II  4. 117) in cui, secondo il commeuto del Cocchia, Torino 1886,  p. 65, la V. * arcano ' ò agg. di cas>o dat., che concorda con  ' tibi': ma nei lessici Forgbllini-De Vit., t. l, p. 361,é6B0ROES, I, e. 505, ò considerato come avverbio.   3 HoR. epocL 5, 52. Ovid meL X 436. Cf. ' fatorum sacra ' in  Vero Aen. I 266. VII 123.   * Tale significato osservasi in Liv. Andr. Odi9.tv. 5, in PLM  ed Baehrens, voi. VI, p. 38. Varr. de l L. IX 40, 66, p. 216 Sp.  Cic. in Verr, II 19, 47; 47, 115. IV 43, 93. V 54, 142. in Catil.  I 9. 24. II 6, 13: cf. de nat d. III 12, 30; 34 84. etc.   ^ Gli ' argentea uasa * sono prima menzionati da Cic. in Verr,  IV 1, 1. Phil. II 29, 73. HoR. sai. II 7, 72 sg. etc. Plinio li disse anche ' uasa ex argento ' : n. h. XXXIII 139.     oltre Vili 12. XXII 99. XXVIII 82; 126. XXIX 125.  XXXIII 52; 53; 56; 151 ; 152. XXXIV 160. XXXV 4.  XXXVII 105. etc. Nella n. h. valse apcbe a significare  € ornato o ricoperto d'argento, inargentato » ' : XXXIII  53 ^ G. Àntonius ludos scaena argentea fecit ' : v. altresì  XXXIII 144; 151. etc. ^ « argentino, del colore d'argento » : MI 90 ^ flt et candidus cometes argenteo crine ' : V. inoltre IV 31. XVI 76. XXIV 172. XXXVI 137.  XXXVII 146; 147. etc. Ma nel passo della Oenn. 5,  20 ^ numerus argenteorum facilior usui est ' , assunse  valore di sostantivo, come prima in Livio e poi in Vopisco, 3 per indicare certe monete d' argento , per le  quali Plinio adopera le espressioni ' argenteus denarius ' (n. h. XIX 38. XXI 185) o ^ nummus argenteus '  (n. h. XXXIII 47).   3.* * ater ' : Germ. 43, 22 * atras ad proelia nootes  legunt '. ^ n. h. II 79 * atram in obscuritatem ' . Nella  n. h. osservasi inoltre r agg. ^ ater ' attribuito al colore: VI 190. XI 171 (cf. XVIII 4). XIII 98. XXX 16.  XXXV 127; al sangue: Vili 49; alle nubi: XVIII 355;  alle erbe: XVII 33 S; alla bile: XXI 176; alle ulcere:     1 Significato analogo si osserva io Cic. p. Mar. 19, 40. Liv.  X 39, 13. etc.   2 Cosi in Cic. in Verr. IV 20, 42. Vbrg. Aen. Vili 655. Ovid.  mei. Ili 407. eie.   3 Liv. XXX Vili 11, 8. Vopisc. Prob. 4, 5. Bonosus 15, 8 : v.  seripit hist Aug. XXVIII e XXIX, voi. II, ed. Peter.   4 Cf. HoR. epod. 10, 9 ' atra nocte '.   5 Neired. Mayhoff deUa n. A., voi. Ili, p. 283, 6, leggesi per il  passo XIX )26, secondo la congettura del Salmasio (PUnianae  exereiiaiiones in Solini polghisiora^ Traiecti ad Rheo. 1689;,  ' albae (ac. lactucaQ) ' , meotre ì codd. , eccetto il Paris. 10318  (Q del Mayh.), e la ' uulgata ' danno ' atrae '.     XXtl 154; ad una qualità dì marmo: XXXVl 49. tn  accezioni consimili notasi la v. ^ ater ' in Cicerone, 0razio, Ovidio, Seneca, etc. *   4.*" ^ caeruleus ' : Tespressione ' caerulei oculi ' si legge  nella Germ. 4, 6 e nella n, h. Vili 74: in entrambe si  scorge r imitazione della frase ciceroniana * caeruleos  esse Neptuni {se. oculos) '. ^ Nella n. h. V epiteto * caeruleus ' è riferito , inoltre , a certi animali : Vili 141.  IX 46. XXIX 86; a vegetali: XV 128. XXII 57. XXVII  105; a minerali: XXXVI 128. XXXVII 134; alle acque  del Boristene nella stagione estiva: XXXI 56. I lessici  abbondano di ess. sull'uso dell' agg. 'caeruleus' nell'età anteriore a quella pliniana.   5.** * equester ' : riferito a cavalleria, gente a cavallo,  combattimento equestre , notasi , secondo gli ess. di  scrittori precedenti, ^ nella Germ. 32 , 3 ' Tencteri....  equestris disciplinae arte praecellunt '; e nella n. ^. Vili  162' in libro de iaculatione equestri condito ': v. XXXIV  66. XXXV 129. XXXVII 111. etc; e per ' statua equestris ' V. XXXIV 19; 23; 28. etc.   Notasi anche nella n. h. riferito all' ordine civile dei  cavalieri, come in 11. simili di Cicerone, Nepote, Orazio,  Livio, etc: * v. n. h. V 12. VI 181. VII 88; 177. IX     1 CiG. Phii II 16, 41. Tuse. V 39, 114. Hor. earm. II 16, 2.  OviD. am. I 14, 9. met XV 41. Sen. ep. IV 2 (31), 5 Cf. Tac.  hisL V 6, 19..   « Cic. de fiat d. I 30, 83.   3 Vedi Cic. in Verr, li 61, 150. PhiL IX 6, 13. de fin. II 34,  112. Caes. b, G. Ili 20, 3. Liv. Vili 7, 13. XXVII 1, 11 ; 42, 2. etc.   4 Cic. p. Piane. 35, 87. ad Q. />. I 2, 2, 6. de r. p. I 6, 10. Nep.  XXV (Att.) 1, 1. HoR. sai. II 7, 53. Liv. V 7, 5. etc     X      solo. X 71; 141. XII 13. XVII 245. XIX 110. XXXIII 32;  34; 112. etc. dub, seì^m. XV p. 55, 2 ed. Beck.   6.** * feralis ' : Germ. 43, 22 * ipsaque formidine atque  umbra feralis exercitus terrorem inferunt '. ^ n. h. XX  113 ^ defunctorum epulis feralibus ' : v. XVI 40. L'agg.  * feralis', in senso traslato, è adoperato, come in Ovidio, Lucano, etc. 2, anche nella n. h. XVIII 237 ' Caesar  et idus Mart. ferales sibi notauit scorpionis occasu ' :  V. X 35.   7.^ ' ferax ' : Ge^'^m. 5,4' satìs ferax ( se. terra ). '  n. h. XV 100 ' minime feraces musti (se. acini) ' : v.  XVII 105 ; 124. L' uso di ' ferax ' nel significato proprio , or con r ablativo or col genitivo , osservasi nei  poeti deir età augustea, ^   8.^ ' infamis ' : Germ. 12, 4 ' corpore infames caeno  ac palude... mergunt ' : v. anche 14, 3. n. h. XXXIII  48 ' nec iam Quiritiu.m aliquis sed uniuerso nomine Romano infami rex Mithridates Aquilio duci capto aurum  in OS infudit ' : v. IX 79. In Cicerone si notano numerosi esempi. ^   9.^ ' infernus ' : usato nel significato generale di     1 Con significato simile osservasi V agg. * feralis * in Verg  Aen, IV 462. VI 216. Ovid. irisL III 3, 81 ; 13, 21. etc. Cf. Tac.  hisL I 37, 10. ann. II 31, 7.   2 Ovid. met IX 213. Lycan de b. e. II 260. Cf. Tac. hisi V  25, 15. ann. IV 64, 2.   3 Con Fablat : Verg. georg. II 222. Col genit. : Hor. epod. 5,  22. Ovid. met VII 470. Col genit. e con T ablat. : Ovid. am. U  16, 7.   * Cic. p. Rose. Am. 35, 100. diu. in Caeeil 7, 24. in Verr. IV  9, 20. p. Font. Il, 34 /,. Cluent 47, 130. in Caiil. Il 4, 7. p.  Cael 22, 55. in Pis. 22, 53. />. Seaur. 2, 8. FhiL XI 3, 7. de fin.  U 4, 12. Cf. Tac, hist. II 56, 9. ann. I 73,7. VI 7, 6. XV 49, li.     y      30    « inferiore, di èotto, basso » , osservasi nella n. h. II  128 * ille infernus (s(7. auster) ex imo mari spirat ' ; ^  e prima in Cicerone, Livio, Seneca, Lucano.^ Nella Germ.  43, 23 ^ nullo hostium sustinente nouum ac uelut infernum adspectùm ', è adoperato nel significato particolare di « infernale, d'averno », secondo gli ess. che  ci è dato osservare precipuamente negli scritti poetici  del tempo d' Augusto. ^   10.^ * lineus ' : Qerm. 17, 10 ^ feminae saepius lineis  amictibus uelantur \ n, h. XII 25 ^ uestes lineas faciunt  folife \ XXIX 114 ' lineo panno ' : , 236.  ara am. I 205. ^   7 Cic. p. SesL 20, 46. de nat d. Il' 39, 100. Liv. I 4, 6. Cvrt.  hist. A. M. IV 9 (38), J9.       * multitudine pìscium fluitante ' : v. 15, 63. 16, 168. 37,  37. Nella Gemi, 17, 3 ' locupletìssimi ueste distinguuatur non fluitante ', è adoperato in traslato, secondo ess.  consimili presentati da Catullo, Ovidio, etc. ^   2.** ^ labans ' : 6r^r/n. 8, 1 * quasdam acies inclinatas  iam et labantes a feminis restitutas '. n. h. XXXV 117  ' sunt in eius exemplaribus nobiles palustri accessu  uillae, succoUatis sponsione mulieribus labantes, trepidis quae feruntur '. Conformi sono gli ess. che prima  ne avevano dato Cicerone, Virgilio , Orazio , etc. ^ Pel  significato proprio dell' agg. ' labans ', v. n. h, XXIV  119 * labantes dentesflrmant '. XXIX 37 ^ dentibus mire  prosunt, etiam labantibus '. *   3.** ^ marcens ' : Germ. 36 , 1 ^ Cherusci nimiam ac  marcentem diu pacem inlacessiti nutrierunt '. n. h. IX  147 ' alias marcenti similis et iactari se passa fluctu  algae uice ', e. q. s. Ess. anteriori si notano in Orazio,  Valerio Massimo, Seneca. ^   4.** * auspicatus ' : Germ. 11, 5 ' agendis rebus hoc  auspicatissimum initium credunt '. n. h. XIII 118 ^ nec  auspicatior in Lesbo insula arbor '. XVI 75 ' comitantur  et spina, nuptiarum facibus auspicatissima '. Nello stesso  significato di « prospero, di buono augurio, iniziato sotto     1 Catvll. 64, 68. OviD. mei. XI 470. ars am. II 433 sg. Cf.  Tac. hist III 27, 12. V 18, 3.   « Cic. p. Mil 25, 68. Verg. Aen. IV 22. XII 223. Hor. carm.  III 5, 45. etc. Cf. Tac. hist II 86, 8. ann. XIV 12, 21.   8 Vero. Aen, lì 463.   4 Hor. sat II 4, 58. Val. Max. f. et d. m, II 6, 3. Sen. ep. XIV  l (89), 18. Cf. IvsTXN. epii. XXXIV 2, 7.  auspici favorevoli » , era stato prima adoperato da  Catullo , Velleio Patercolo, etc. '   Per la forma comparativa ' auspicatius ' con valore  avverbiale, v. n. h. 3, 105. 7, 47.   5.'' ' contactus ': Gemi. 10, 13 ^ (equi) publico aluntur isdem nemoribus ac lucis, candidi et nullo mortali opere contacti '. Tale uso di ^ contactus ' in senso  t'raslato osservasi prima in Livio, Properzio, Ovidio,  Seneca. ^ In più luoghi della n, h. è accolto in senso  proprio: v. 7, 17. 8, 78; 85. 9, 147; 183. 11, 193; 277.  18, 152. 28, 80. 29, 51. 34, 146. 36, 58. etc.   6.° ' effusus ': Germ. 30, 2 ' non ita effusis ac palustribus locis, ut ceterae ciuitates '. Dello stesso modo,  per indicare luoghi estesi, vasti, fu usato da Orazio e  Velleio Patercolo. ^ Nella n. h., oltre al conservare il  significato proprio di « versato, sparso, etc. »: v. 4, 101.  6, 71. 8, 14; 161. 9, 102. 16, 2. 20, 90. 22, 145. 29, 50.  etc, il quale significato osservasi prima in Cicerone,  Virgilio, Livio ed altri ', passa in traslato ad indicare profusione, eccesso, esagerazione: III 42 ' Grai, genus in gloriam suam effusissimum ': v. 7, 94; eciòse   J Catvll. 45,- 26. Vell. Paterc. h. R. II 79, 2. Cf. Qvintil.  i. 0, X 1, 85. Col significato più generico di « inaugurato dopo  presi gli auspici » apparo in Cic. p. Rab. perd. 4, II. Hor.  carm. Ili 6, 10.   2 Liv. II 5, 2. IV 15, 8. VI 28, 6. XXI 48, 3. etc. Prof. I J, 2.  OviD. epist ( her, ) 4 , 50. Irist III 4, 78. Sen. Phaedr. 714. Cf  dial, de oraioribus 12, 8.   3 Hor. €p, I 11, 26. Vell. Paterc. A. R. Il 43, 1.   4 Cic. de diu. I 32, 69. Vero, georg. IV 288; 312; 337. Aen, VI  339; 686. X 893. Liv. I 4, 4. XXX 12, 1. etc.      37    condo gli ess. che ne avevano dato Cicerone, Nepole,  etc. «   7.** ^ excìsus ': Germ. 33, 3 ^ pulsis Bructeris ac penitus excisis uicinarum consensu nationum '. Prima la  V. * excisus '.era stata riferita non solo a popoli ed cserciti, ma anche a città, campi, regioni, etc. : ^ nella  n. h. si attiene più strettamente al significato proprio  e assume, talora, un significato pregnante: XXXIII 48   * caput eius {se. C. Gracchi) excisum '. ^ XXXIII 139   * anaglypta asperìtatemque exciso circa liniarum picturas quaerimus '. XXXVI 125 ' uias per montes excisas '. Ess. di tale accezione si osservano in Cicerone,  Virgilio, Ovidio, etc. ^   8.° ' infectus ': Germ. 4, 1 ' Germaniae populos nullis [aliis] aliarum nationum conubiis infectos '. n. h.  XXX 8 ' infecto, quacumque commeauerant, mundo '. Lo  stesso significato in traslato osservasi in Cicerone, Virgilio, Livio, Lucano, etc. ^ Nella n. h. appare anche usato nel significato proprio: VI 70 ' tinguntur sole po   1 Cic. p. Rose. Am. 24, 68. p. Cael. 6, 13. de nat. d. I 16 . 42.  Nep. I (Milt.) 6, 2. Cf. Tac. hisL li 45, 11. ann. I 54, 8.   « Cic. p. Sesi. 15, 35. in Pis. 40, 96. Cai m. 6, 18. Hor. carm.  Ili 3, 67. Vell. Patbrc. h. R. Il 115, 2; 122, 2: aggiungiamo  II 120, 3 Jelto secondo l'ed. prìnc. del 1520, che nell' apogp. Amerb. si legge ' occìsi exercitus ', invece di ' excisl exercitus '.  Cf. Tac. hist II 38, 4. ann. XII 39, 9   3 Cosi nei codd. e nella * iiulgata', ma nel solo cod. Bamberg.  e nelle edd Sillig., Jan e Mayhoff si legge * abscisum *.   4 Cic in Verr. Ili 50. 119 V 27, 68. Vero. Aen II 481. VI 42.  OviD ex Pont. Ili 1, 96. V. inoltre Plin. n. h. 35, 94; 154.   5 Cic. ad A ti. I 13, 3. Vero. Aen. VI 742. Liv. XL 11,3. Lvcan.  de b. e IV 736. Cf Tac. hi8t I 74, 1. ann. II 2, 7 ; 85, 13.      38    puli, ìam quidem infecti ': i v. inoltre 8, 197. 9, 18.  11, 31; 32; 154. 15, 87. 20, 25. 21, 26. 28, 83; 110. 32,  77. 35, 41. 37, 118. etc. Ess. precedenti di tale uso si  notano in Virgilio, Properzio, Mela, etc. ^   9.'' ^ ligatus ': Germ. 39, 7 ^ nemo nisi u inculo ligatus ingreditur '. n. h. IX 103 * breui nodo ligatis ': v.  altresì 11, 255. 17, 115. 18, 261. Nello stesso significato proprio osservasi ' ligatus ' in Catullo, Ovidio, Seneca, Columella, Lucano. ^   10.^ * monstratus ': Germ. 31, 11 ' iamque canent insignes et hostibus simul suisque monstrati '. n. h. XXII  44 ' hacherba dicitur sanatus, monstrata Perieli somnio  a Minerua ' : v. 8, 182. Lo stesso uso di ^ monstratus '  notasi prima in Virgilio, Ovidio, Lucano ed altri. ^   11.^ * nauigatus ': Germ. 34, 5 ^ ambìuntque immensos insuper lacus et Romanis classibus nauigatos '. n.  h. XXXVI 104 ' urbe pensili subterque nauigata ': v.  6, 72. Un es. consimile si osserva in Mela: ' non nauigata maria transgressus est '; ^ es. fondato sull'uso del  verbo ^ nauigare ' nelle forme passive, ^ in conseguen   i Un concetto consimile, espresso anche col verbo * inflcere ',  si nota in Sen. Oed. 122 sg. e Here. [OeQ 337.   « Vero. Aen. V 413. VII 341. Prop. TU 11 ( 18 b ), i (23) Muell.  PoMP. Mel. chor. III 6, 51 (cf. Cabs. b. G. V 14, 2). Vedi Tac.  hi8t III 11, 1.   3 Catvll. 2, 13. OviD. mei. Ili 575 (cf. Liv. V 27, 9). Sen. Med.  742. CoLVM. de r. r. XI 2, p. 591, 23. Lvcan. de b, e. Vili 61.   4 Vbrg. georg. IV 549. Aen. IV 636 : cf. Aen, IV 483. Ovid.  trést III 11, 53. Lvcan. de b. e. Vili 822. Cf. Tac. Agr. 13, 15.  hi8i. I 88, 3. Ili 73, 14.   5 Pompon. Mei*, ehor. II 2, 26.   6 Vedi SBN. n. q. l\ 2, 22. Pun. n. h. 2, 167. 6, 175.     -.89 «.   5Mi deiruso transitivo fattone prima da Cicerone, Virgilio, Ovidio, etc. »   12.** * publicatus ': Germ. 19, 7 * publicatae enim pudiciUae nulla uenia ': tale accezione in senso cattivo  del part. * publicatus ' dipende dal significato con cui  fu adoperato da Plauto il verbo * publicare '; - ma nella n. h. * publicatus ' assume il significato proprio di  «pubblicato, reso pubblico »: XXXIII 17 ^ publicatis  diebus fastis ' : » v. anche 29, 26. 35, 24.   13/ Si noti, in ultimo, ^ impatiens ', che è forma participiale con la negativa * in- ' premessa. È riferito, in  traslato, a cose prive di vita tanto nella Germ. 5, 4  ' satis ferax (se. terra), frugiferarum arborum impatiens '- quanto nella n. h. XXXVI 199 ' est autem caloris inpatiens (se. uitrum) ' : v. 33, 162. 37, 26. Nella  n. h. è riferito pure ad animali: v. 8, 28; 167. 10, 170.  23, 67. etc.; ed a piante: v. 14, 28. 16, 219. 18, 123.  19, 166. 21, 97. etc.   Dell' estensione in traslato del significato di ^ impatiens ' si asservatto ess. anteriori in Ovidio, Curzio, etc.^  Quanto al reggimento di ' impatiens ', v. il cap. Ili, C,  II, 3% *.   IV.  VerU :   1.° ^ absumere ' : Germ. il, 10 ^ sed et alter et tertius dies cunctatione coéuntium absumitur '. n. h. VI  103 * quia maior pars itineris conficitur noctibus propter     » Ctó. de M' '1 34, use. Vbro. Aen. I 67. Ovid. mei, XV 50.   « Plavt. Baeeh. S%3 (IV 8, 22).   » Cf Vkl. Patbrc. h. R. Il 114, 2.   * Ovid. ara am. II 60. C^rt. hiéi. A. M. ì\ 4 kìò), U. aestuus et statiuis dies absumuntur ' : cf. 5 , 58. 22 ,  98. Nello stesso significato , riferito al concetto di  tempo, era apparso prima in Cicerone, Livio, Ovidio,  etc. ^ Nella n. h. , secondo gli ess. presentati dagli scrittori anteriori,^ appare anche ristretto al significato proprio : II 45 ^ quem (se. umorem) solis radii absumant ':  V. inoltre 9, 119 ; 121. 28, 267. etc. ; e quanto alla forma passiva 'absumi ', v. 2, 184. 6, 91. 9, 153. 11, 128.  14, 33. 25, 57. 36, 131. etc. cf. 5, 56.   2.° ^ adfectare ' ; Germ. 37, 24 ' occasione discordiae  nostrae et ciuilium armorum expugnatis legionum hibernis etiam Gallias adfectauere '. n. h. XXXIV 30 * Sp.  Cassius, qui regnum adfectauerat ' : cf. 34, 15. Con lo  stesso significato concernente l' ordine politico, appare  in Sallustio, Velleio Patercolo, etc. ^ Nella n. h. si attiene anche, come osservasi negli scrittori precedenti, *  ad UN SIGNIFICATO PIU GENERALE diligentiam  superuacuis adfectare ': v. 7, 8. 17, 84. 22, 69. 25, 73. etc.     1 Cic. p. Quinci. 10, 34. Liv. XXII 49, 9. Ovid. irist IV 10, 114.  Cf. Tac. Agr. 21, 1. ann, II 8, 9.   « Plavt. Cure. 600 (V 2, 2). most 235 (I 3, 78). Ter. haut  458 (III 1, 49. Phorm. 834 (V 5, 6). Varr. r. r. IH 17, 6. CaTVLL. 64, 242. Vero. Aen. Ili 257. Hor. earm. II 14, 25. ep. I 15,  27. Liv. XXIV 47, 16. XXX! V 7, 4. Sen. de ben. VII 31, 5.   3 Sall. lug. 66y 1. />. hiat. I in Avgvstin. ciu. Dei III 17, p.  122, 19 ed. Dombart, v. I. Vell. Patbrg. h. R 1139,1. Cf. Tac.  Agr. 7, 6. hiat I 23, 2. IV 17, 5 ; 66, 2.   4 Plavt. Baech. 377 (III 1, 10). Cic. p. Rose. Am. 48. 140.  Seript. rhet. ad Her, IV 22, 30. Nep. XXV ( Att. ) 13, 5. Vero.  georg. IV 562. Liv. I 46, 2. XXIV 22, 11. Ovid. am. Ili 8/51 (1.  sospetto per R. Ehwald, praef., p. XII) ars am. Il 39. ex Pont  IV 8, 59. Val. Max./, et d. m. Vili 7, ext. 1. Cvrt. hisL A.M.  IV 7 (32), 31. Cf. QviNTiL. i. o. Ili 8, 61.     -. 41    3.^ * adiigare * : Oerm, 24, 10 ^ quamuis ìiiuenìor, quamuis robustior adligari se ac uenire patitur \ n. h.  XVI 239 * Argis elea etiaranum durare dicitur, ad quam  Io in tauram mutatam Argus alligauerit' : v. altresì  12, 45. 16, 176. 17,211. 18, 241; 262; 267. 21, 166. 27,  101. 28, 93; 98. 31, 98. 32, 7; 113. etc. In tale significato era stato accolto da Catone, Cicerone, Virgilio,  Seneca, etc. ^ Nella n. h. vale eziandio ad indicare, come osservasi in generale negli scritti di Seneca e Lucano, ^ un effetto di azione chimica concernente i colori : IX 134 ^ (bucinura) pelagio admodum alligatur ' .  XXXII 66 ^ ita colorem alligans, ut elui postea non  possit '.   i."" ^ adsignare' : Germ. 13, 7 * insignis nobilitas aut  magna patrum merita principis dignationem etiam adulescentulis adsignant '. n. /i. X 141 ^ quibus {se. auibus) rerum natura caelum adsignauerat '. Con lo stesso significato proprio di « assegnare » era stato usato  da Cicerone , Orazio , Livio , Celso , Columella , etc, ^'  Anche nel senso traslato di « attribuire , ascrivere »  notasi nella Oerm. 14, 5 ^ sua quoque fortia facta gloriae eius adsignare praecipuum sacramentum est ' ; e  nella n. h. VII 197 ' cui (se. Soli Oceani filio) Gellius  medicinae quoque inuentionem ex metallis assignat '.     i Cat. de a. e. 39, 1. Cic. in Verr. IV 42, 90. V28, 71. Tuse.  Il 17, 39. Verg. Aen. I 169; cf. georg. IV 480; Aen. VI 439. Sen.  dial. K 13, 6. Cf. dial. de oratoribus 13, 15.   « Sen. ep. VI 3 (55), 2. Lvcan. de b. e. IX 527.   3 Cic. Phil II 17, 43. ad AH. III 19, 3. de r,p. II 20, 36. Hor  ep. II 1, 8. Liv. V 7, 12; 22, 4. XXI 25, 3. XXXIX 19, 4. XLII  33, 6. Cbls. de med. Ili 18, p. 92. 3. Colvm. de r. r. XII 2, p.  622, 26. Cf. Tag. hist l 30, 19.     XXV 26 ' iauentionem eius ( se. berbae ) Mercurio  adsignat ' : di tale uso si hanno ess. anteriori. *   5.** ' adsimulare ' : Germ. 9, 7 ^ neque in uUam humani oris speciem adsimulare (se. deos) ex magnitudine  caelestium arbitrantur \ Si notano in Cicerone, Lucrezio , Virgilio , etc. ^ ess. consimili , nei quali il verbo  ' adsimulare ' è adoperato nel significato proprio di  « assomigliare, fare qualcosa simile ad un'altra ». Nella  n. h. appare particolarmente usato, come in molti ess.  di scrittori anteriori, ^ nel senso di « simulare, fingere,  prender sembianza » : Vili 106 ^ sermonera bumanum  Inter pastorum stabula adsimulari {se. ab hyaenis) ' :  V. inoltre 3, 43. 9, 10; 34; 113. 37, 179. etc.   6.° ^ ambiri ' : Germ. 17 , 17 ' qui non libidine , sed  ob nobilitatem pluribus nuptiis ambiuntur '. n. h. XVII  266 ^ eontra urucas ambiri arbores singulas a muliere  incitati mensis ' e. q. s.: v., oltre 1' es. cit. , 2, 80. 14,  11. 19, 60. 37, 203. L' espressione che notasi nel 1. e.     « CiG. Bruì. 19, 74. in Verr. V 50 , 131. p. Rab. P09L 10 , 21.  ad Q. fr. 14, 1. de fin. V 16, 44. de r. p. VI 15, 15: cf. ep.  (adfam.) X 18, 2. Vbll. Patbrc. A. R. II 38, 6. Vedi pjr altri  ess. sull'uso del v. * adsignare ' : n. h. 2, 23; 104. 15,65. 18, 64.  19, 50. 25, 60. 28, 33. 29, 2. etc. quanto alle forme dell'attivo; e  per le forme del passivo: 18, 18. 22, 44. 24, 2. 25, 34 ; 87. etc.   « Cxc. de inu. rhet I 28, 42. in Verr. II 77, 189. Lvgr. de r.  n. II 914. Vbrg. Aen. XII 224. Cf. Tac. Agr. 10, 11.   3 Plavt. eiBt 96 ( I 1, 98 ). Epid. 195 (\\2, 11 ). mil. gì 792  (HI 1, 197). Poen. 599-600 (IH 2, 22 sg.). Stick. 84 (I 2, 27 J. Ter.  Andr. 168 ( I 1, 141). haut. 888 (V 1, 15). eim. 461 (III 2, 8 ).  Phorm. 128 (I 2, 78) ; 210 (I 4, 32^. Trag. ine. fr. 0. 3, io Cic.  de off. Ili 26, 98. Cig. p. Cluent. 13, 36. p. CaeL 6, 14. de r.  p. I 21, 34. Vbrg. Aen. X 639. Ovid. mei. XIV 656. etc.     ^ 48 «   della Germ. pigliò, probabilmente, le mosse dalla frase  virgiliana ^ conubiis ambire Latinum \ '   7.° * animaduertere ' : Germ. 7, 4 * neque animaduer*  tere neque uincire, ne uerberare quidem nisì sacerdo*  ti bus permìssum '. n. h. Vili 145 ^ cum animaduerteretur  ex causa Neronis Germanici fili in Titium Sabinum et  seruitia eius '. Lo stesso significato di « dannare a  morte » presenta per eufemismo il verbo ^ animaduertere ' in Cicerone e Livio. ^   8.** ' animare ' : Germ. 29, 13 ^ ipso adbuc terrae suae  solo et caelo acrius animantur '. Uguale significato del  verbo * animare ' (=« dotare d'un temperamento, preparare l'animo»), derivato dal tema della v. ^animus',  appare prima in Plauto e Cicerone. ^ Nella n. h, * animare ' presenta il significato che si fonda sul tema  della V. * anima ', cioè € dar la vita , vivificare , far  vivo » : ^ VII 66 * tempore ipso animatur {se. semen) ':  V. anche 10, 184 ; e per le forme del participio : 2, 155.  5, 44. 7, 1. 11, 77. 18, 4. 23, 83. etc.   9.^ * ascendere ' : Germ. 25 , 11 Mbi enim et super  ingenuos et super nobiles ascendunt '. Con lo stesso significato e del medesimo modo costruito con ' super '  e Tace, il v. ^ ascendere ' era stato adoperato prima da     1 Verg. Aen. VII 333: v. Drabger, ueber Synt a. S*. d. Tae. «,  p. 128. Cf. Tac. hi8t. IV 51, 6.   2 CiG. p. Cluent, 46, 128 : cf. p. Rose. Am. 47, 137. in Verr. I  33, 83. m Caiil. I 12, 30. p. Mil 26, 71. V. inoUre Liv. XXIV  14, 7; e et Tac. hisL I 46, 26; 68, 16; 85 , 3. IV 49, 26. Svbtqn.  Aug. 15, 1.   3 Plavt. Men. 203 (I 3, 20). Cic. de diu. II 42, 89.   ^ Tale significato si osserva ifi più 11. degli scrittori anteriori:  Enn. ann. I fr. 59, ia PLM. voi. VI, p. 69, ed. Baehrens. Pagvv.  irag. 91 (citato da Cic. de diu, I 57, 131). Cic. top. 18, 69. de        Velleìo Patercolo. ^ La forma del passivo, secondo gli  ess. precedenti di Cesare , Vitruvio, Properzio, Velleio  Patercolo,- è pneferita nella n. h, XXXVI 88 ' portìcusque  ascenduntur nonagenis gradibus ' ; ^ ma non è esclusa  la forma attiva: IX 10 ^ ascendere eum nauigia nocturnis  temporibus ' ; cf. 35, 59.   10.° ^ augurari ': Germ. 3, 4 ' futuraeque pugnae  fortunam ipso cantu augurantur '. n, h. XVIII 225 ' ex  occasu eius ( se. sideris ) de hieme augurantur quibus  est cura insidiandi, negotiatores auari • : v. inoltre 6,  192. 10, 154. Accolto similmente in traslato e col significato generico di « profetizzare, predire », osservasi  in Cicerone, Ovidio ed altri. *   11.° ' canore ' (con la penult. lunga) : Germ. 31, 11  ^ iamque canent insignes et hostibus simul suisque monstrati \^ Con un significato più ampio, a dinotare « es   nat d, I 39, 110. de r. p. VI 15, 15. Lvcr. de r. n. V 145. Ovid.  mei. IV 619. XIV 566. Colvm. de r. r. VI 36, p. 492, 17. Vili 5,  p. 527, 20 e p. 528, JO. Scribon. Larg. conpos. 70, p. 29, 32; 95,  p. 40, 26 ed. Helmreich.   J Vell. Patbrc. a. R. II 53, 3. Nei deal, de oraioribus 7, 9 é  preferito ' supra ' con 1* acc. Cicerone lascia V acc. semplice :  p. Font. 1, 4. p, Cluent. 55, 150. p, Mur. 27, 55. de diu. I 28, 58.  de off, li 18 , 62 ; ovvero T accompagna con la prep. * in ' : p.  Cluent 40, HO. p. Sulla 2, 5. de dom. 8. 28 , 75. p. Mèi 35, 97.  PhiL III 8, 20. de fin. Il 22, 74. Tusc. I 46, IH. Cai. m. 10, 34.  Lael 23, 88.   « Caes. b. e. I 79, 2. ViTRvv. de areh. Ili 4 (3) Pkop. V 3,  63. Vell. Paterc. h. R. il 53, 3.   8 Neil' ed. Jan 1. e, voi. V, p. 121, 15, e nell'ed. Maylnff, voi.  V, p. 339, 6 si legge * descenduntur ', invece di * ascenduntur *.  Si noti la frase * gradibus ascen Jere ' in Cic de fin. V 14, 40.   4 Cic. Tuse. I 40, 96. Ovid. mei. III 519. Cf. Tao. hisL I 50, 20.   5 Un che di simile notasi in Vero. Aen. V 416.      45    sere di color chiaro, biancheggiare », notasi nella n. h.  XVIII 65 ' fortunalara Italiam frumento canere candido ' : ' ess. poetici di tale uso erano stati presentati  da Virgilio, Ovidio, Silio Italico. ^   12.*' ' cedere ' : Germ. 36, 7 ' Chattis uictoribus fortuna in sapientiam cessit'. n. h. XXIII 41 ' in prouerbium  cessit sapientiam uino obumbrari '. XVIII 110 * in bonura cedit '. XXXV 91 ' cessit in gloriam artiflcis '. Analoghi ess. si notano in Virgilio , Livio , Curzio ,  etc. '^ Per altri usi del v. * cedere ', notati nella Germ.  e nella n. h.y si osservano ess. negli scrittori precedenti. *   IS.'' ^ eludere ' : Germ. 45, 22 ' terrena quaedam atque etiam uolucria animalia plerumque interlucent ,  quae implicata umóre mox durescente materia cluduntur '. w. h. latera cluduntur tabulis ' : v.  inoltre 18, 330. 33, 25. Il verbo ^ eludere ' per ' clau   1 Cosi leggiamo secoDdo 1* ed. di Gelenio e il cod. Paris. 6795.   II Detlefsen ed il Mayhoff sostitui?cono a * canere ' il v. * serere *, poggiandosi sur un* emendazioQe di seconda mano fatta  nel cod. Vatic. 3861 ; ma in d^ cod. , come nei due codd. Pariss. 67U6, 6797 e nel Leid. si legge * carere *. Si potrebbe anche addurre per es. il 1. 17, 34, letto secondo Ted. Jan.   2 Vero, georg. II 13; 120. llf 325. etc. Ovid. met I \\0: fast,   III 880. SiL. 1t. Pan. I 205. XIV 362. Cic. preferi la formi incoativa 'canescere*: Brut 2, 8 (òf. Qvintil. L o XI 1, 31).  de legibus I 1, 1; la quale forma incoativa fu anche gradita a  Plin. n. h. 7, 23. 17, 34 (letto secondo la * uulg.' e V ed. Mayhoff). 20, 262. 30, 134. 31, 106. 35, 186.   3 Vero. Aen. VII 636, Liv. VI 34, 2. Cvrt. hisi. A. M. Ili 6  (16), 18. Cf. Germ, 14, 15.   4 Cosi per Germ. 6, 20 * cedere loco *: cf. Nep. XI I (Chabr.) 1.  2. Liv. II 47, 3. Ili 63, 1; per n. h. 33, 59 e 35, 80; cf. Cic. de nai.  d. II 61, 153. Cabs. 6. e. Il 6, 3. Ovip. met VI 207.      46    dere ' * è proprio della lingua popolare ; osservasi anche in alcuni scrittori anteriori all' età di Plinio. ^   14.° ' cohibere ' : 6r^rm. 9, 7 ' nec cohibere parietibus   deos ex magnitudine caelestium arbitrantur '. Lo   stesso significato proprio presenta il v. ' cohibere ' nella  ». h. 24, 6. 27, 93. 28, 61; 62. 29, 39; 49. 36, 29. etc;  quale prima era stato usato da Plauto, Cicerone, Orazio, Ovidio, Celso, Curzio, etc. ^   15.° ' commìgrare ' : Germ. 27, 11 ^ quae nationes e  Germania in Gallias commigrauerint '. n. h. XXXV  135 ' captoque Perseo rege Athenas commigrauit ( se.  Heraclides Macedo pictor) '. Lo stesso significato del v.  ^ commigrare ' si osserva in Plauto, Cicerone, Livio, etc. ^     1 Nei framm. cho ci restano degli otto libri c^uò. serm, di Plinio , si conserva costante la forma * claudere * : II e, p. 15, 7.  II A, p. 19, 15, XV p. 55, 22 ed. Beck.   8 Varr. r. r. HI 3, 5. Scribon. Laro, eonpoa. 42 , secondo la  ' ed. princ. Ruellii * (neired. Helmreìch p. 21, 8, Lps. 1887, sì legge ' ducenda ', invece di * cludeada ', conforme al cod; Laudan.  eoncordato col testo di Marcello, edito dal Cornario). Lvcan.  de h, e. Vili 59 (ma si legge * clausit * nei codd. Vossian. XIX  e Bruxell. 5330). Sil. It. Pun. XV 652. Cf. Tac. hist. I 33, 7.  [dial. de omioribus 30, 28]. In uni. di Cic. de nat d. II 39, 100  il Baiter legge ' cludit ' la v. * eludit ' data dai codd., che altri,  p. es. Heind., Schoem., C. F. W. Mueller, leggono * alludit '.   8 Plavt. mil gì 596 (III 1, 1). Cic. p. Casi 5, 11. de nat, d.  II 13, 35. de fai 9, 19. Qat m. 15, 51. Script h. Afr^ 98, 2. Hor.  earm. I 28, 2. Ili 4, 80; 14, 22. IV 6, 34. 8at II 4, 14. ep. II 1,  255. OviD. mei. XIV 224. Cels. de med. VIII 4, p. 314,7. Cvrt.  hist. A. M. VI 2 (5), 11. X 3 (12), 6.   4 Plavt. eisi 177 (I 3, 29;, irin. 1084 (IV 3, 77>. Cic. ad Q.  fr. II 3, 7. Liv. I 34, 1. XLI 8, 7. Ommettiamodi citare Ter. adelph. 649 ( IV 5, 15 ;, perché nel cod. Bemb. ( Vatic. 3226 ) si  legge * migrarant' : negli altri codd, ' co mmlgrarunt '*     ^ 47    16."* ' continuare ' ; con significato indicante spazio e  in forma passiva mediale, si nota nella Germ. 44, 20  ' Suiontbus Sìtonum gentes continuantur ' : così in Cicerone. * Nella n. h. presentasi anche nella forma passiva  e riferito al tempo: VI 220 * dies conti uuaren tur...  noctesque per uices '. XVII 13 ' si plures ita continuentiir anni ' : cf. 10, 94. 11, 103; ma talora presentasi nelle forme delPattivo: XIV 145 * biduo duabusque  noeti bus perpotationem continuasset '. XVII 233 ^ si  post brumam continuauere XL diebus ' : ^ ef. 3, 101. 16,  100. 18, 362. 20, 35. 30, 60.   17.* ' emergere ' : Germ. 45 , 4 ' sonum insuper emergentis (se. solis ) audiri.... persuasio adicit '. n. h.  II 58 ' amplior errantium stellarum quam lunae magnitudo colligitur, quando illae et a septenis interdum  partibus emergant ' : v. 2, 100; 179. Del v. ' emergere *  riferito al levar degli astri si notano altri ess. in Cicerone e Livio. ^ Nella n. h. appare, inoltre, nel significato proprio di « venir su, venire a galla >: XIII 109  ^- ad exorlus solis emergere extra aquam ac florem     V Cic. de nut. d. I 20, 54 II 45, 117.   * CdQsitnile accezione notasi ia Gic. Ta9e. II 17, 39. Hoa 9at.  II 6, 108. OviD ex Pont I 2, 26. Cf. Tag. a/i/i. XVI 5, 10.   3 É mesatta V effefoiazione del Gboroes, ausfuhrL Hnndwb,^  If, e. 2240, rrpeiuta nel Z>«fio/i. Gborgbs-Calonghf, Torino 1896,  e. 924, che a Plinio e Tacito si debba Festensione del significato  del V. ' emergere * • vom Aufgang der Sonne und der Gestirne » ; poiché tale estensione si osserva prima in Cic de nat di.  Il 44, 113 "^ut sese ostendens emorgit Scorpios alte* (ò trad.  d* UQ' passo del carme di A^ato) ; e in Liv. XLIV 37 9 , 6 ; 3 (12), 12.   3 CiG. in Verr. IV 41, 88. Ovid. mei. IH 448.   4 CiG. de leg. agr. II 32, 87. de fln, IV 15, 40. Liv. XLII 55,  10, secondo Ted. Weissenborn, Lps. 1887: nell'ed. Weissenborn,  Beri. "Weidmann 1876, si legge * speratus *, iavece di ' separalus erat*.   5 V. per gli ess. di autori anteriori i 11. citati nel Lex. Forcbllini-Db ViT, t. V, p. 453, e neWausfùhrl i/anrfeo6. del Georges, II, e. 2338. Cf. Tac. Agr. 31, 21. In Tacito inoltre il v. * se pcDere* APPARE USATO NEL SENSO DI « aljontaoare, relegare, spargere ' : Oerm. 17, 7 * eligunt feras et detracia uelamina spargunt maculis pellibusque beluarum ' : in senso traslato consimile era stato adoperato  da Virgilio ; ^ e, riferito ad irradiazioni luminose, si  nota, oltreché in Virgilio e Ovidio, ^ e nei contemporanei di Plinio,'^ anche nella n. h. XXXVII 181 * solis gemma candida est , ad speciem sideris in orbem  fulgentis spargens radios '. Appare eziandio nella n. h.  in senso traslato, per significare « aspergere , inumidire », secondo gli ess. anteriori di Virgilio e Orazio : *  XIII 132 ' si semine, madidum aut , si desint imbres,  satum spargitur ' ; ma nello stesso tempo vi è accolto  col significato proprio : ^ IV 101 ' ( Rhenus ) ab occidente in amnem Mosam se spargit.' : v. 11, 123. 12,  42. 16, 141. 24, 178. etc. ; ovvero in senso pregn.: XXI  45 ' genera enim tractamus in species multas sese spargentia '.   49.° ' superesse ' : Germ, 6, 1 ^ ne ferrum quidem  superest '. 26, 5 ' arua per annos mutant, et superest  ager '. n. h. XVI 224 ' pinus, piceae, alni ad aquarum   ductus in tubos cauantur ;, mirum in modum for tiores, si umor extra quoque supersit ' : cf. 25, 14. 34,  36. Terenzio e Cicerone avevano prima usato il v. * su   liandire »: hisL I 10, 5 (secondo i'emend. dell' Acidalio) ; 13, 17;  46, U] 88, 1. II 33, 9. ann. Ili 12, 8.   1 Vbrg. bue. 2, 41. Aen. VII 191.   « Verg. Aen. IV 584. XII 113. Ovid. met. XI 309.   8 SBN. Med. 74. Petron. sai. 22, p. 74, l. Sil. It. Pan. V 56.   * Vero, georg. IV 229. Hor. earm. II 6, 23.   5 Dello stesso modo in Vjprg. Aen. II 98. Hor. mì II 5, 103.  LvcAj?. de b. e. Ili 64. etc. Cf. Tao. hisL peresse ' nello stesso significato di « abbondare, ridondare ». ^   50.** * triumpbare ' : Germ. 37, 26 * rursus inde pulsi  proximis temporibus triumpbati magis quam uicti sunt'.  ». /i. V 36 * omnia armis Romanis superata et a Cornelio Balbo triumphata \ V uso del v. ' triumpbare '  nelle forme personali del passivo appare per la prima  volta nella poesia dell' età augustea : ^ Cicerone aveva  soltanto adoperato come v. impersonale il passivo  dell' intrans. * triumpbare '. ^   V.  Avverbi :   1.° * aliquanto ', forma ablativale in funzione di avverbio: Germ. 5, 1 * terra etsi aliquanto * specie differt '.   1 Ter. Phorm. 69 (I 2, 19> 162 (I 3, 10;: nel l* ed. Fleckeìsen  ò accolta la grafia ' super erat, super est *. Cic de or, II 25,  108. in Verr. a. pr. 4, 13. ep. (ad fam.) XIII 63, 2 de dia. I 52,  118. II 15, 35. Cf. Tag. Agr, 44, 5. 45, 23. hist I 51, 9; 83, 10.  an/i. I 67, 7. XIV 54, 12.   « Vbrg. georg. III 33. Aen. VI 836. Hor. earm. Ili 3, 43. Ovid.  am. I 15, 26. fast. Ili 732. Cf. Tac. ann. XII 19, 10.   5 Cic. de off. II 8, 28. Dopo Cicerone, se ne valse Liv. III 63,  ll.XLV 38,2.   •* Ad * aliquanto ', dato nel 1. e della Germ. dai codd. ', tranne il Bamberg. (B del Massmann) che presenta ' aliquando ',  TErnesti sostituisce 'aliquantum '; e il Halm, che nella 2.*  ed. delle opp. di Tac. (Lps. 1871, voi. II, p. 194) aveva accolto  senza alcuna esitazione * aliquanto ', nella 4.» (Lps. 1883, voi.  II, p. 222) dubitò che si dovesse sostituire con 'aliquantutn \  e confortò il dubbio con la frase dell' Agr. 24, 9 ' haud m u 1turo a Britannia differunt*. Il Ramorino (Cora. Taciti opera  quae supersunt, Milano 1893, voi. Il, p. 210) contrappone, in  sostegno di 'aliquanto*, il 1. di Plin. n. h. XXXV 80 'quanto  quid a quoque distare deberef: e Tosservazione di lui ò ripetuta da Io. Mueller, ed, e. , p. 6.       n. h. XXXV 56 ^ eosque, qui monochromatis pinxerint....  aliquanto ante fuisse '.^ Nella n. h, la v. ' alìquaato ' si  accompagna anche coi comparativi : V 3 * e uicino  tractii aliquanto excelsiore '. XXI 27 * folio aliquanto  altiore ' : se ne notano ess. precedenti in Plauto, Cicerone, Nepote, Sallustio e Livio. *  2.° * ceterum ' : è assunto in più funzioni :  a) per riprendere il discorso interrotto da una digressione : Germ. 3, 9 ' ceterum et Vlixen quidam opinantur ' e. q. s. n. h. V 149 ' ceterum intus in Bithynia  colonia Apamena ' e. q. s. : cf. 2, 30. ^   h) per significare quasi la stessa opposizione indicata  da ' sed ', in principio di una frase: Germ. 2, 19 * ce   1 Un altro es. da addarsi sarebbe presentato dal 1. della n.  h, XXXV 134 * et aliquanto praefertur Athenion ' ; cosi letto secondo i codd. Riccard., Paris. 6797 e Paris. 6801: il Jan, voi. V,  p. 91, 26 ed il Mayhoff, voi. V, p. 278, 6, vi sostituiscono * aliquando '.  Analoga costruzione della v. ^ aliquanto ' coi verbi  osservasi in Cic. de inu. rhet II 51, 154. p. Quinci, 12 , 40. p.  Rose. Ara. 45, 130. in Verr. Ili 17, 44. IV 39, 85; 63, 141. p. Caeein.  4, 11. in Cam. Ili 5, 11. p. Sull. 20 , 56. de dom. s. 23 , 59. 38,  102. p. Sest. 35, 75. in Vatin. 10, 25. ep. (ad fam.) IX 26, 4 de  r. p. VI 9 (1), 9. de legibus II 26, 64. de off. I 23, 81. etc.   « Plavt. aul 539 (III 6, 3). Epid. 380 (III 2, 44). Cic. p. Rose.  Am. 2, 7. 9, 26. diu. in Caecil. 5, 18. 15, 48. in Verr. I 1, 2; 27,  70; 54, 140. II 1, 1. Ili 38, 87; 43, 102; 47, 113; 63, 148; 64, 150;  57, 131 ; 92, 214. IV 34, 76. de leg. agr. II 2, 3. p. Rabir. perd.  3, 8. de har. resp. 22, 47. p. Cael. 3, 7. aead. pr. II 29, 93. de  fin. IV 3, 7 V 2, 4. Tuse. II 27, 6,  e poi qualsiasi segno divinatorio o presagio in generale, passò a significare la ^ consecratio \ come nel 1.  e. della Germ.   S."" ^ intumescere ' : notasi in più 11. delle poesie di  Ovidio, accolto in senso proprio ed in traslato; ^ di  preferenza fu usato neir età postaugustea : Oerm. 3,  8 ' obiectis ad os scutis , quo plenior et grauior uox  reperoussu intumescat'. n. Ti. II 196 'sine flatu intumescente fluetu subito': v. inoltre 2, 198; 217; 232.  6, 128. 18, 359. etc. ^ Quanto all' uso del v. ' intumescere' in senso proprio, v. n. h. 2,233. 8,85. 11, 179.  13, 124 14, 82. 17, 145. 20, 51. 21, 151. 22, 136. 23,  163. 28, 218; 242. 30, 38. etc.     1 Cia in Fallii. 10, 24 ' indicem in rostris , in ilio, io^uam  augurato tempio ac loco conlocaris ' ed. C. F. W. Mu^ller.   « Ovio. fast l 215. II 607. VI 700. ex Pont IV 14, 34. etc.   9 Id senso trasl. l'usarono pure Colvm. de r. r. 14, p. 318,  29. Tac. ann. I 38,5: cf. hist. Considerianoo ora quelle espressioni che, sebbene usate dagli scrittori anteriori, presentano nella Germ. e nella n. h.y come in altri scritti del primo secolo d.  Cr., UN SIGNIFICATO [non SENSO – H. P. Grice] NUOVO. Sostantivi.blandimentum ' : fu adoperato al plur., secondo  r accezione classica , nelle sgg. frasi pliniane : n. h.  VII 71 ^ fortunae blandimenta poUicentur '. XXVI 14  * alia quoque blandimenta excogitabat '. Significò « cura  assidua » in un 1. della n. h. XVII 98 * hoc blandimento inpetratis radicibus Inter poma ipsa et cacumina ' ; d' altro canto, valse, per estensione, ad indicare  « leccornie, ghiottornie », facendosi sinonimo di ' condimentum ' : v. Germ. 23, 4 ' sine blandimentis expellunt famem '. Questo ultimo significato notasi in un 1.  del sat. di Petronio. *   2.** ' meatus ' : Germ. 1, 10 ' donec in Ponticum mare  sex meati bus erumpat '. n. h. IV 75 * angusto meatu  inrumpit in terras ' : v. 5, 3. 16, 184. etc. ; e cf. 19 ,  85. 22, 117. 28, 197. Nello stesso significato metonimico di « via, corso », la v. ' meatus ' fu accolta dagli  scrittori del tempo di Plinio. ^ Ma, per significare moto,  la V. ' meatus ' fu usata da scrittori anteriori ^ e da     1 Petron. bcU. 141, p. 665, 12 ' aliqua inueniemus blandimenta, quibus saporem mutemiis '.   « Val. Flacg. Ar^on. Ili 403. Cf. Tag. ann. XIV 51, 4.   8 LvcR. de r. n. I 128. Verg. Aen. VI 849. Sil. It. Pan. XII  102. etc.      73    Plinio stesso: n. ft. X 1 1 1 * aues solae uario meatu feruntur et in terra et in aere ' ; v. inoltre: 6, 83. 9, 95.  11, 264. etc.   II.  Verbi :   1." ' firmare ' : Germ. 39, 2 ' fides antiquitatis religione flrmatur '. Con lo stesso significato in traslato ,  riferito a cose religiose, appare prima in un carme  cit. da Cicerone e nei carmi di Virgilio. * Nella n. h.y  oltre al presentare in più 11. il significato di « fermare, rassodare, rinforzare » : v. 10, 94. 17, 206; 212.  18, 47. 20, 212. 35, 182. etc, (il quale significato osservasi prima in Cicerone, Virgilio, Livio , Curzio , Columella ^) , si attiene , come si ha es. da Celso in poi , =^  ad argomenti di medicina: v. n. h. 14, 117. 21, 180.  24, 119. etc.   2." ^ imputare ' : apparve nella latinità dell' evo augusteo, col significato in traslato di « attribuire come  colpa, imputare »: * uso continuato poi da Valerio Massimo , Seneca , Plinio Secondo , e indi da Quintiliano,     1 CiG. de dia, 1 47, 106 'sic aquilae clarum fìrmault luppiter  omen '. Verg. Aen, II 691. XII 188: cf. XI 330.   « Cic. Tuse. II 15, 36. Verg. geonj. Ili 209. Aen. HI 659. Liv.  XXVII 13, 13. CVRT. hisL A. M. IV 9 (38), 18. IX 10 (41), 18  CoLVM. de r. r. VI 27, p. 486, 38. Cf. Tag. ann, IV 73, 7.   3 Cels. de med. Vili 7, p. 320, 5.. La frase * f. aluum solutam *,  che il Georges, ausfiXhrL Handwb,^ I, e. 2572 , attribuisce a  Celso, appartiene invece a Plinio: v. n h, XIV 117 * est centra  Lycia (8C. uua) quae solutam ( se. aluum ) firmat *. La fra^^e  genuina di Cels. de med. I 3, p. 20, 3 è la sg. : * aluum firmare is, cui fusa. *   * OviD. episL {her.) 6, 102. mei. II 400. XV 470. Vedi Krebs  -Sghmalz, aniib. I, p. 640.      T4Tacito e altri. MI v. ' imputare ' fu aftche adoperato  oell' età postclassica in senso traslato , per significare  « ascrivere a merito, attribuire come merito »: Germ.  21, 15'gaudent muneribus, sed nec data imputant nec  acceptis obiigantur '. n. h. Vili 60 ' ut facile appareret  gratiam referre et nihil inuicem iuputare '. Lo stesso  significato notasi in Seneca padre, Fedro, Seneca figlio,  etc. ^ Assume anche nella n. h. il significato semplice  di « assegnare, indicare »: XXIV 5 ' ulcerique paruo  medicina a Rubro mari inputatur '.   3."* * prouocare ' : Oerm. 35, 9 * quieti secretique nulla  prouocant bella '. n. h. XXXIII 4 ' didicit homo naturam prouocare': v. 6, 208. 19, 5. Con significato consimile si nota in Cicerone , Livio , Velleio Patercolo ,  Lucano, etc. ^ Plinio usò pure in traslato il v. ' prouocare ' : n. h. XVI 32 ^ omnes tamen has eiusf'sc. roboris)  dotes ilex solo prouocat cocco ' : v. 9, 66. 35, 94; e cf.  21, 4: tale uso fu continuato da Quintiliano, Tacito,  Plinio il giovane, Suetonio, etc. ^   4.'' ' submittere ': nel significato di : VII 112 ' fasces litterarum ianuae submisit is  cui se oriens occidensque submiserat ': v. 8, 3. 10, 132.  11, 260. etc. ; ^ quanto nel SENSO TRASLATO neque enim pudor , sed aemuli pretia summittunt. Avverbi.   1.** ^ adhuc ': Germ. 19, 10 ' melius quidem adhuc eae  ciuitates, in quibus tantum uirgines nubunt. ' n. h.  XVIII 24 * quandoquidem qui adhuc diligentius ea  tractauere ' e. q. s. L' avv. ' adhuc ', usato per particella rinforzativa col comparativo, invece della v. 'etiam'  preferita nel periodo aureo della lingua latina, appare  nella latinità argentea. ^ È anche postclassico l' uso di     i SBN. dial XI 17, 5. ep, XIX 5 (114), 21. Plin. episL VII 27,  14. SVBTON. din, lui. 67, 12.   2 Cosi in Liv. II 7, 7. XLV 7, 5. Ovid. fast. Ili 372.   5 Lteato in trasl., appare prima in Cic. diu. in Caeeil 15, 48.  p. Piane. 10, 24. Vbrg. Aen. IV 414. XII 832. Liv. VI 6, 7. Ovid.  epist (her) 4, 151. Sbn. de ben. V 3, 2. ep. VII 4 {66) y 6. XIV  4 (92), 2.   * SBN. ep. V 9 (49;, 3. Qvintil. e. o. I 5, 22. II 15, 28 e 29. X  1, 99. SvBTON. Tib. 17, 1. Vedi Goblzer, grammatieae in Sul-pieium Seuerum obaeruaiionea. Par. 1883, pp. 92-93. L'es. apparentemente simile, ma in realtà diverso* di uà 1. di Celio in  CiG. ep. (adfam.) Vili 7, 1 ' eo magia, quo adhuc feliciua rem  gessìsti *, è ben chiarito neir antib. Krbbs-Schmalz , I, p. 87.  et Hand, Turs. adhuc ', invece di ' praeterea ', nei segg. 11. Germ. 10,  9 ^ sin permissum, auspiciorum adhuc fldes exigitur. '  n. h. XXXIII 37 ' sunt adhuc aliquae non omittendae  in auro diflferentiae '. ^ Notasi inoltre ' adhuc ' nella  n. h. col valore di ' hactenus ' : XXXVII 27 ' magnitudo amplissima adhuc uisa nobis erat ' e. q. s. ; ^ e  nella Germ. in sostituzione delle espressioni classiche  ' tum ', ' etiam tum ', ' tum etiam ', etc. : ^ 28 , 5 ^ occuparet permutaretque sedes promiscuas adhuc et nulla  regnorum potentia diuisas '. *   2.*" ' clementer ' : Germ. 1^ 8 * Danuuius molli et clementer edito mentis Abnobae iugo effusus '. Prevalse  neir età argentea della lingua latina 1' uso di riferire  ' clementer ' a luoghi : ^ Plinio lo riferi ad animali,  e, trattando dell' addomesticamento degli elefanti , osservò: n. h. Vili 25 ' argumentum erat ramus homine  porrigente clementer acceptus (se. ab elephante) '. ^   3.° ' hodieque ' : Germ. 3, 12 ' quod (se. Asciburgium)  in ripa Rheni situm hodieque incolitur '. n. h. Ili 124  ' Nouaria ex Vertamacoris, Vocontiorum hodieque pa   1 V. ess. consimili in Sbn. n. q. IV 8. Qvintil. i. o. 11 21, 6.   2 Per la differenza tra ' adhuc ' e * hactenus ' v. Ha.nd, Turs.  IH pp. 4-14. Krebs-Schmalz, antib. I, p. 587 sg. Cocghca, sint  lai. § 85, XII, p. 199.   3 Gandino, sint lai. I, es. 71, n. 3, p 120. II, es. 150, n. 4, p. 97.   4 Cf. Tao. Agr, 16, 24. 37, 1. hist I 10, 1 ; 47, 8. ann, I, 5 13;  48, 2; 59, 11. II 46, 8. IV 56, 8. XI 23, 9. etc: nei quali 11. la v.  ' adhuc ' ò riferita ad un* azione passata.   5 CoLVM. de r. r. II 2, p. 332, 19. Sen. Oed, 281. SiL. It. Pun.  I 274, Cf. Tac. hist III 52, 2. ann. XII 33, 8. XIII 38, 13.   fi Cf. Gell. n. A. V 14, 12: vi si menziona il racconto di Apion Plistonlces intorno al leone di Androclo. go, (se. orla est) ' : v. inoltre 2, 150. 8, 176. 16, 10 ; 15.  18, 65. 30, 2; 13. 36, 189. etc. L'uso di ' hodieque '  nel significato delle espressioni classiche ' hodie quoque',  ' etiam hodie ', o semplicemente ' hodie ', ^ si comincia  ad osservare negli scritti della età postaugustea, alcuni dei quali anteriori alla Germ. od alla n. h. ^    D    L' uso delle voci, delle quali si tratta nella presente  sezione, apparisce tanto nella Gerani, e nella n. h,^ quanto  negli scritti, a noi pervenuti, del V sec. d. Cr. : negli  scritti anteriori non si osserva traccia alcuna di tali voci,   I.  Sostantivi :   1.^ ' adfectatio ' : Germ. 28, 15 ' Treueri et Neruii  circa adfectationem Germanicae originis ultro ambitiosi  sunt '. 3 n. h. XI 154 ' tanta est decoris adfectatio ut tin   1 Vedi Krebs-Schmalz, aniìb. I, p. 597. Gandino, sint lai. II,  es. 150, D. 4, p. 97. Cocchia, sint lai. § 137, rZ, p. 305.   « Vell. Paterc. h. R. I 4, e e 3. II 8, 3; 25, 4; 27, 5. Val. Max.  f. ei d. m. Vili 15, 1. Sen. consultum Claudianum de iure honorum Gallis dando ( tav. di Lyon ) , col. Il, 12 : vedi Dessau,  insertpi. Lai., voi I, Beri. 1892, p. 53. Sen. de clem. 1 10, 2 (ma  nel cod Leid. suppl. 459 [Lips. 49] si accoglie la lez. * hodie ').  n. q. I proL, 3. ep. XIV 2 c90), 16 ; 25 ; 33. Cf. Qvintil. i. o. X  1, 94. dial. de oraioribus 34, 37, secondo i codd. Vatic. 1518 e  Farnes. : il Halm vi accolse la lez. * hodie quoque '.   3 II FiNCK ( Tao. Germ. erìàuleri, Gòttingeii 1857 , p. 227 ), il  Kritz (op. e, p. 43) ed altri, valendosi della lez. presentata dai  codd. Vatic. 1862 , Vatic. 2964, Leid. , Venet. , leggono * nulla  affectatione animi' nel I. della Germ. 5, 19, dove gli altri codd.   danno * offcciir De '. Quanto al I. sopra cih "della Germ 28,      78    giiantur oculi quoque '. XXXIV 6 * circa id multorum  adfectatio furit '. Appare con lo stesso significato in  Seneca, Tacito, Suetonio: ^ l'assumono in senso retorico  Quintiliano e Io stesso Suetonio. ^   2.** ^ boraicidium ' : Germ. 21, 3 ' luitur enira etiam  homicidium certo armentorura ac pecorura nunaero '.  n. h. XVIII 12 ' suspensumque Cereri necari iubebant  grauius quam in homicidio conuictum '. Della v. * homicidium ', invece della v. classica ' caedes ', si valsero  anche Seneca padre, Petronio, Quintiliano. ^   3.° ' intellectus ' : Germ. 26, 10 ' hiems et uer et aestas intellectum ac uocabula habent '. Con lo stesso  valore passivo, ad indicare « significato, senso, concetto »  di qualche cosà, appare la v. ^ intellectus ' in Quintiliano. ^ Nella n. h, presenta il significato, in generale,  di « sentimento, percezione, senso »: XI 174 ' intellectus  saporum ceteris in prima lingua, homini et in palato '.     15, i codd. Monac, Rom. ( Aug. bib.l. ), Hummelian., Stotgard.  presentano la lez. ' affectionem * : migliore ò la lez. ' adfectationem ', data dal cod. Leid. e da altri, poichò, come nota il Dilthey  {Tae, Germ. libellus vollstaendiy erlàuiert, Braunschweig 1823,  p. 176) « ' affectio ' ist jede die Seele aufregende Leidenscbaft,  * affectatio * hiogegen das oft ins Laecherliche getriebene Streben nach einer Sacho Letzteres steht also hier (Germ, 28, 15)  an seiner Stelle. »   1 Ben. ep. XIV 1 (89), 4. Tao hi8t I 80, 7. Svkton. TU. 9, 5.   2 QVINTIL. i. O. I 6, 40. SVBTON. Tiò. 70, 3. etc.   8 Sen. rhet. conirou. IV 7, p. 270 , l. Petron. sai. 137, p.  653, 16. QviNTiL. L o. III 10, 1.   4 QviNTiL. i. 0. I 1, 28. VII 9, 2. Vin 3, 44. eie. Il 1« es. e. dì  Quintiliano é a torto attribuito a Seneca nell'aus/ì^/ir^. Handwb,^  II, e. 291, del Georges, e nel dizion. lat-it. GsoRaEs-CALONOiii,  ed. oit, e.    XI 280 * neque enim est intellectus ullus in odore uel  sapore ' : v. 2, 149. 13, 35. 19, 171. 31, 87; 88. etc. : è  riferito talvolta ad animali : X 108 ' columbis inest  quidam et gloriae intellectus ' ; per altri ess. v. 8 , 1 ;  3; 48; 156; 159. 9, 148. 10, 33; 43; 51; 137. 28, 19. 29,  106. etc.   4.** * repercussus ' : Germ, 3, 8 ^ quo plenior et grauìor  uox repercussu intumescat '. n. h. XXXVI 99 ' turres  septem acceptas uoces numeroso repercussu multiplicant. ' In altri 11. della n. h. la v. ^ repercussus ' presenta significati che si diramano dal concetto comune  del fenomeno di riflessione fisica : II 45 ^ in repercussu  aquae '. V 35 * solis repercussu '. V 55 ^ etesiarum eo  tempore ex aduerso flantium repercussum '. XII 86  * meridiani solis repercussus '. XVI 6 ^ occursantium  inter se radicum repercussu '. XXXVII 22 * colorum  repercussus ' : v. inoltre 10, 43. 11 , 148 ; 225. 31 , 45.  33, 128. 35, 97; 175. 37, 76; 104; 137; 165. etc. Altri  scrittori del periodo postclassico si valsero della v.  ^ repercussus '. ^   II. Verbi.   1.^ * excrescere ' : Germ. 20, 1 ' in omni domo nudi  ac sordidi in hos artus, in haec corpora, quae miramur, excrescunt '. Lo stesso uso di ' excrescere ' si nota  in Seneca. ^ Niella n. h. è, come nel de r. r\ di Colu   1 Vedi Plin. epist II 17, 17. Non è cit. eoa esattezza nel Lex,  Forcellini-De ViT, t. V, p. 176 , e neWaunfuhrl. Handiob. del  Georges, II, e. 2074, il passo di Flor. epit I 38 [III 3], 15, in  cui legges': * ex splendore galearum aere repercusso quasi ardere caelom uideretur* (Halm).    L* imitò Macrob. sat. I 7, 25. Vedi per rargomento le philologisehe Ahhandlungen di M. Hertz, Beri. 1888, p. 41.  2 CiG. p. Ro^e. Am, 22, 63. de fin. Ili 19, 62. V 14, 39.  8 Cabs. b. e. II! 92, 2.   4 Cf. Tac. Agr. 20, 7.   5 Liv. XXII 12, 7. XXXII 4, 4. Cf. Cic. de nat d. II 57, 144.   6 Pompon. Mbl. ehor, II 3, 34. Ili 1, 8 e 9 e 10 ; 8, 81. Plin.  n. h IV 76.      84    etc. ,* anche nella Germ. 27, 6 ' lamenta ac lacrimas  cito, dolorem et tristitiam tarde poniint '. Plinio adoperò la V. ' lamentum ' in traslato: n. h. X 155 ' lamenta circa piscinae stagna mergentibus se puUis natura duce '.   S.** ' lasciuia ' : Germ. 24, 5 ' quamuis audacis lasciuiae pretium est uoluptas spectantium '. Con significati  vicini a quello che si nota nel 1. e. della Germ. la v.  ' lasciuia ' era stata accolta da Pacuvio, Cicerone, Lucrezio, Seneca. ^ Plinio , oltre all' adoperarla secondo  l'uso comune (v. n. h. 5, 7. 9, 34. 18,364. etc), la rivolse, in traslato , a denotare quelli che a noi paiono  capricci della natura : n. h. XI 123 ^ nec alibi maior  naturae lasciuia '. XIV 15 ' est et illa naturae lasciuia ' :  V. 8, 52. 26, 2. 36, 12.   9.° ^ nodus ' : Germ. 38, 5 ^ insigne gentis obliquare  crinem nodoque substringere '. Ovidio aveva riferito  ' nodus ' all'acconciatura dei capelli. ^ Similmente nella  n. h. si adopera la v. ' nodus ' in senso proprio: XXVIII  63 ' uulnera nodo Herculis praeligare '; * ma vi è anche accolta in traslato, ora riferita ad argomenti zoo   1 Cic. in Pi8, 36, 89. p. Mil. 32, 86. Tuse. II 21,48. de legihus  II 25, 64. Cai. m. 20, 73. Vero. Aen. IV G67.,Pergli ess. di Lucrezio e di Livio , V. i' ausfuhrl. Handwb . del Georges, II, e.  483. Cf. inoltre Tac. Agr, 29, 3. hist IV 45, 5.   8 Pacvv. in CiG. de diu. I 14, 24. Cic. de fin. II 20, 65. Lvcr.  de r. n. V 1398. Sen. dial. XII 18, 5. Cf. Tac. hist. Ili 33 , 13.  ann. XI 31, 14; 36, 12.   3 OviD. ars am. Ili 139. Lo ripetè, più tardi, Martial. epigr.  V 37, 8.   * Del * nodus Herculis ' o * Herculaneus * è fatta menzione da  Sen. ep. XIII 2 (87), 38. Cf. Pavli exc. ex Uh, Pomp. Fesii^ voce  • cingillo ', p. 44, 24 ed. Thewr. d. P. 85   logici: V. 11, 177; 217. 28, 99; » o botanici : v. 13, 52.  16, 158; 198, secondo ess. precedenti ; ^ ora ( e , come  pare, per la prima volta) a minerali: v. 34, 136. 37, 55;  150; ovvero ad indicare tumori o indurimenti del corpo  umano: v. 24, 21 ; 24. 30, 110: cf. 11, 216.   10.° ' potus ' : Gerani. 23, 1 * potui umor ex hordeo  aut frumento '. n. h. XXII 164 ^ ex iisdem (se. frugibus)  • fiunt et potus '. Altri ess. della v. ^ potus ' presenta la  n. /^., tanto nel significato di bevanda, quanto in quello  di « bere, tracannare », secondo l'accezione precedente  di Cicerone, Celso, Curzio, etc. : ^ v. n. h, 8, 122 ; 162;  209. 9, 46. 10, 201. 11, 176; 283. 13, 25; 51. 14, 137;  149; 150. 16, 4. 21, 12. 23, 37. 26, 17. 28, 53; 55; 84;  197. 29, 26. 31, 33. 32, 34 ; 54 ; 57. 34 , 151. 36, 156.  etc; * ma per la prima volta notasi nella n. h, nel significato di « escremento umano » : v. 9, 138. 17, 51.   11.° ' pubertas ': n. h. VII 76 ' uidimus eadem ferme  omnia praeter pubertatem in Alio Corneli Taciti ' e. q. s.  cf. 21, 170. Con lo stesso significato metonimico , per  indicare il segno della pubertà, se ne valse Cicerone. ^  Ma la V. considerata assume il nuovo significato metonimico di 4c forza virile, virilità, facoltà di generare »  nella Germ. 20, 6 * sera iuuenum uenus , coque inex   ^ Cosi anche in Cabs. b. G. VI 27, 1. Vbrg. Aen. V 279. LvCAN. de h. e. VI 672. etc.   * Ess. precedenti se ne osservano in Verg. bue, V 90. georg,  II 76. Aen. VII 507. Vili 220. IX 743. XI 553. Liv. I 18, 7. Sen.  de ben. VII 9, 2. Colvm. de arb. 3, p. 670, 5.   « Cic. de diu. I 29, 60. Cels. de med. II 13, p. 56, 28. Cvrt.  hi8i. A. M. VII 5 (21), 16. Cf. Tao. ann. XIII 16, 4.   4 Vedi Krbbs-Schmalz, antib., v. * polio und polus ', II, p. 308.   5 Cic. de naL d. II 33, 86.     hausta pubertas': appare nella n. h.^ riferita, in traslato, alle piante : v. 23, 7. * Quanto a ^ pubertas ' in  senso proprio, v. 25, 154.   12.° * raptus': valse da prima a significare « ratto,  rapimento per amore » ; - nella n. h. fu usata anche  per indicare « strappo mediante uno strumento , piallata »: XVI 225 ' pampinato semper orbe se uoluens ad  incitatos runcinae raptus '. Nella Germ. si assunse nel  significato della v. ^ rapina ', accolta dalla latinità classica, cioè « ladroneccio, rapina »: 35, 10 ^ nullis raptibus aut latrociniis populantur '. ^   13.° ' sagitta ' : nel significato proprio di « freccia ,  dardo, strale, saetta », ^ osservasi nella Germ. 46, 15  ' solae in sagittis spes '; e nella n. h. VII 201 ^arcum  et sagittam Scythen louis filium , alii sagittas Persen  Persei filium inuenisse dicunt ': v. 11, 279. 16, 161. etc.  Ma nella n. h. vale eziandio non solamente a indicare, secondo gli ess. di scrittori precedenti, una specie di sorcolo  o magliuolo:^ v. 17, 156; e una costellazione : '^ v. 17,  131, 18, 309; 310; ma anche a designare (a quanto pare.     1 In un altro 1. della n. h. ò sostituita a ' pubertas ' la voce  propria : 12, 131 'in prima lanugine '.   2 CiG. in Verr. IV 48, 107. Tuse. IV 33, 71. Ovid. fasi. IV 417.  Sen. dial IV 9, 3. Plin. n. h. 34, 69. Cf. Tac. ann. VI 1, 15.   3 Lo stesso congiungimento di ' raptus * al plur. con * latrocinium ' o ' praeda ' si osserva in Tac. hi9t I 46, 13. ann, II 52, 4.   4 Vedi Cic. in Verr. IV 34, 74. Phil II 44, 112. aead. pr. II  28, 89. de fin, III 6, 22. Tuse. I 42, 101. II 7, 19. de nat d. I 36,  101. II 50, 126. etc.   5 CoLVM. de r. r. Ili 10, p. 384, 1-8 ; 17, p. 393, 9-10.   6 Cic. Arai phaen. cum Groti suppl. vers. 84 (325), pag. 369.  Gbrman. Arai, phaen. v. 315, in PLM. voi. I, p. 166, ed. Baehrens.  AviBN. Arat vv. 669, 689, 985, 1117, 1258 ed. Breysig.     per ia prima volta) la pianta detta comunemente € lingua di serpente »: XXI 111 * idem (se. Mago) oiston  adici t a Graecis uocari, quàm inter uluas sagittam appellamus '. ^   14.** ' satisfactio ' : voce usata prima da Cicerone, Cesare, Sallustio per significare « discolpa, scusa ». ^ Nella  Germ, conserva lo stesso significato, aggiuntovi il concetto della pena: 21, 3 ^ luitur enim etiam homicidium  certo armentorum ac pecorum numero recipitque satisfactionem uniuersa domus '. Plinio la riferì agli animali e, trattando delle colombe , scrisse : n. h. X 104  * tunc plenum querela guttur saeuique rostro ictus,- mox  in satisfactione exosculatio '.   15. "* ' sedes ' : in senso traslato, per indicare « soggiorno, stanza, dimora, paese, patria », secondo l'accezione classica, ^ appare nella Germ. 2, 3 ' classibus  aduehebantur qui mutare sedes quaerebant ': v. 25 , 2.  30, 1. Plinio ne fece uso tanto in senso traslato, analogo al precedente: v. n. h. 2, 102. 11 , 138 ; 157. 22,  14. 33, 74. 36, 102 ; ^ quanto in senso metonimico : v.  22, 61; 143. 23, 75; 83. 26, 90 32, 104 : in questa se   1 * Oiston • legge nel 1. e. della n. h. Ose. Weise ; v. Jahrbb.  del Fleckeisen, 1881, p. 512. 1 codd. Paris. 6795, Riccard., Leid.  Voss. e Ted. Detlefsen (voL III, Beri. 1868) danno * pistana \   « CiG. ep. (ad fam.) VII 13, 1. Caes. 6. G. VI 9, 8. Salì.. Cat  35, 2. etc.   3 Cic. p. Cluent 61, 171. 66, 188. p. Mar, 39, 85. p. Sulla 6,  18. p. Areh, 4, 9. de proo, eons. 14, 34. p. Marcel. 9, 29. Caes.  b. G. IV 4, 4. Sall. Cat 6, 1. Verg. Aen, XI 112. Ovid. mei.  Ili 539. XV 22. etc.   4 Cf. Caes. 6. G. I 31, 14 ^ aliud domicilium , alias sedes...  petant '.      88    conda accezione non pare che altri V abbia preceduto,  le."* ' tristitia ' : nella Oerm. e nella n. h. è accolta  nel significato proprio di « mestizia, tristezza », secondo l'uso che se ne era fatto dagli scrittori precedenti; '  Germ. 27, 7 ^ dolorem et tristitiam tarde ponunt '. ^  n. h, XXIV 24 ' inuenio potu modico tristitiam animi  resolui': v. pure 21, 159. 23, 38. 25, 12. 35, 73. Plinio  usò, inoltre, la v. ' tristitia ' in senso traslato, riferendola a cose inanimate : n. h, II 13 ' hic (se. sol) caeli  tristitiam discutit '. XVIII 184 ' sarculatio induratam  hiberno rigore soli tristitiam laxat temporibus uernis ':  e in ciò egli seguì gli ess. analoghi presentati da Cicerone; 3 ma, probabilmente per il primo, appropriò la  V. considerata ad animali : n. h. IX 34 ^ delphinorum  similitudinem habent qui uocantur thursiones. distant  et tristitia quadam adspectus ' : v. 11, 63 (per le api).  32, 60 (per le ostriche). Aggettivi:   1.° ' asper ': appare, usato in traslato, in un 1, della  Germ, 2, 8 * Germaniam peteret , informem terris , asperam caelo ' : * nella n. h. è assunto , come in 11. di     1 CiG. de or. II 17, 72. eum sen. grai, egii 6, 13. Lvcgbivs, in  Cic. ep. {ad fam.) V 14, 2. Sall. Cat 31, 1. Hor. carm. I 7, 18.  OviD. mei. IX 397. Val. Max. / et d. m, 1 6, 12. II 6, 14. Sen.  dial IX 15, 1.   « Consimile frase * tristitiam poni ' si legge iti Ovid. ex Pont  II 1, 10.   3 Cic. ad Ait. XII 40, 3. de nat d II 40, 102. de off, I 12, 37.   * Vi ha analogia con Taso fattone da Ovid. me^. XI490. Vell.  Patbrc. h. R. II 113, 3.      89    autori precedenti, » nel significato proprio: v. 3, 53. 6,  167. 17, 43 ; ed è anche riferito al senso del gusto : *^  V. 2, 222. 12, 27. 19, 111. 20, 97. 25, 159; e, probabilmente per la prima volta, al senso dell'odorato: XXVII  64 ^ radice longa, aequaliter crassa, odoris asperi '. ^  2.** ' uoluntarius ' : adoperato in senso obiettivo, per  indicare ciò che si compie per libera volontà, appare,  come in Cicerone, Livio, Valerio Massimo, etc, ^ anche  nella Qerm. 24, 9 ' uictus uoluntariam seruitutem adit ';  e nella n. h. VI 66 ' uoluntaria semper morte uitam  accenso prius rogo flnit ': v. 37, 3; e cf. 28, 113. Ma  nella n. h. si estende alla designazione di fatti naturali:     1 Varr. r. r. II 5, 8. Cic. pari, or, 10, 36. Lvcr. de r. n. VI  1148. Vbrg. bue. X 49. georg. II 413. Liv. XXV 36, 5: cf XXXVH  16, 5. OviD. mei VI 76.   2 Cosi in Plavt. capi. 188 (I 2, 85); 496 (III 1, 37). Ter. hauL  458 (III 1, 49). Verg. georg IV 277. etc.   3 II Georges nel suo ausfùhrl. Handwb, I, e. 581, in conferma del riferimento deli'agg. * asper * ai sensi del gusto e dell' odorato, cita il 1. di Cic. de fin, II 12, 36 * quid iudicant sensus ? dulce amarum, lene asperum ', e. q. s. ; e la citazione si  ripete nel dizion, laL-iL Georges-Calonghi, c. 250. Senza dubbio, r affermazione è esatta quanto al ' dulce amarum ' rife*  rito al gusto; ma ci pare inesatto riferire il * lene asperum '  air odorato, perchè nei citati vocabolari, in conferma del riferimento di * asper * al senso dell' udito, si ripete , poco dopo ,  lo stesso 1. di Cic. ' lene asperum *, con V avvertenz% che ad  * asper ' si contrappone * lenis ' : osservazione giusta questa  ultima, in quanto che nel 1. e. di Cic. le antitesi sgg. * prope  longe, stare mouere, quadratum rotundum ' non escludono che  r antitesi * lene asperum * si possa riferire al senso dell' udito.   4 CiG. ep. iadfam.) VII 3, 3. Liv. XXVI -36, 8. XXVIII 7, 9.  Val. Max. /. et d. m. I 8, 3. Cf. Tac. hisL II 45 , 3. [ deal, de  oraiorihuB 41, 17]. pinguius (se. serpyllum) uoluntarium et caildidioribus foliis ramisque '.   III.  Verbi:   1.° * adgnoscere ' : Germ. 5, 15 ' formasque quasdam  nostrae pecuniae adgnoscunt atque eligunt '. n. h. XXIX  19 ^ alienis oculis agnoscimus ' : v. 35, 89. Con tale significato il V. ' adgnoscere ' era stato usato prima * ; ma  nella n. h. è riferito anche ad animali: IX 23* nomen  Simonis omnes (se. delphini) miro modo agnoscunt '.   2.° ' colligere : Germ. 37, 8 ' ex quo si ad alterum  imperatoris Traiani consulatum computemus , ducenti  ferme et decem anni colliguntur '. n. h. XIII 85 * ad  quos (se. consules) a regno Numae colliguntur anni  DXXXV ': 2 cf. 6, 59; e, per la forma attiva, 2j 186. ^  Nella n. h. è riferito pure, tanto nella forma passiva  quanto nella attiva, a misure di lunghezza: IV 87  ' ad OS Bospori CCLX M pass, longitudo coUigitur ' :     1 Cic. de fin. V 18, 49. Lael 27, 100. Caes. 6. e. H 6, 4. Vbrg.  Aen. I 406. HI 82; 351. IV 23. Vili 155. X 843. XII 260. Ovu).  fasi. V 590. Lycan, de h. e. II 193. Cf. Tag Agr. 32, 18.   8 II n.o DXXXV nel 1. e. della n. h, leggesi neir ed. Mayhoff,  voi. II, p. 332, 18 ; e, in proposito del d.^ aura., non è nolata alcuna variante presentata dai cod J. Tuttavia il Georges, auifàhrl.  Handùcb., J, e. 1185, e il Valmaggi, dmi. degli oratori eommenL  Torino 1890, p. 66, T hanno mutato in DXXXXV: non sappiamo spiegarcene la ragione.   3 Cf. deal de oraioribus 17, 16 * centuna et uiginti anni ab  interitu Ciceronis in hunc diem colliguntur*. È usato nella  forma attiva in 24, 14 * cum praesertim centum et uiginti annos ab interitu Ciceronis in hunc diem [effici] ratio temporum  collegerit ' : espunto 1' ' effici ' secondo la proposta del RoenBch,  in Rev, de Vinsir. pubi, en Belg. 1865, p. 301.      91    V. 2, 245. 36 , 178. etc.  XII 23 ' sexaginta passns  pleraeque orbe colligant ' : v. 3, 132, 5, 136. 36, 77. etc.   3.° ^ eualescere ' : verbo usato da Virgilio , Orazio ,  Seneca, Lucano, etc. ^ fu da Plinio per la prima volta  riferito a vegetali: n. h. XV 121 * quae (se. myrtus  plebeia) postquam eualuit flauescente patricia ' : v. 16,  125. 17, 116. Nella Oerm. è usato tanto in senso proprio: 28, 4 * ut quaeque gens eualuerat'; quanto in  traslato, per indicare la prevalenza di determinate voci  neir uso comune : 2, 22 ^ ita nationis nomen, non gentis eualuisse paulatim lucrari ' : Germ. 24, 6 ^ aleam, quod mirere, sobri! inter seria exercent , tanta lucrandi perdendiue  temeritate, ut ' e. q. s. Con lo stesso significato proprio  il v. ^ lucrari ' fu adoperato da Cicerone e Orazio. ^  Nella n. h. acquista il significato particolare di « guadagnare mediante il risparmio » e perciò « risparmiare » : XVIII 68 ' quod {se. marina aqua subigi panem) plerique in maritimis locis faciunt occasione lucrandi salis '. Nello stesso senso pare che si debba intendere il V. ^ lucrari ' nel 1. della n. h. XXXIII 45  ^ ita res p. dìmidium lucrata est ', cioè lo Stato risparmiò la metà della spesa, accrescendo il valore di  alcune monete, al tempo della seconda guerra punica.   5.** * obtendere ' : con la forma mediale assume, per  la prima volta, nella Germ. e nella n. h. un signifl   1 Vero. Aen. VII 757. Hor ep. II 1, 201. Sen. ep. XV 2 (94) ,  31. LvcAN. de b. e, I 505. IV 84. Cf. Qvintil. L o. II 8,5. X 2, 10.   « Cf. Qvintil. l o. IX 3, 13. Tac. hist I 80, 8. ann XIV 58, 17.   3 Cic. in Verr, V 24, 61 ; 25, 62. p. Flaee. 14, 33. de off. II 24,  84. parad. 3, 1 (21). Hor. ep. II 3, 238. Quanto al senso trasl.  del v. ' lucrari ', vedi Cic. in Verr. I 12, 33. Hor. earm. cato locale d' uso geografico, ed ìndica « estendersi dinanzi » : Germ. 35, 3 ^ Chaucorura gens omnium   quas exposui gentium lateribus obtenditur , donec in  Chattos usque sinuetur '. n. h. Y 77 ^ buie (se. Libano)  par interueniente ualle mons aduersus Antilibaaus obtenditur '. * Nella n. h. presenta inoltre il significato ,  che notasi in Virgilio, ^ di « stendere dinanzi , porre  dinanzi » : XI 153 ' omnibus membrana nitri modo  tralucida obtenditur ' : v. 37, 100.   e.*" ^occurrere': presentasi la prima volta con significato geografico nella Gerrn. e nella n. h.-/^ Germ,  33, 1 ' iuxta Tencteros Bructeri olim occurrebant ' n,  h. Ili 95 ' quem locum occurrens Terinaeus stnus paninsulam efiìcit '. V 84 ' apud Elegeam occurrit ei {scEuphrati) Taurus mons': v. inoltre 6, 114; 128. etc.  Presenta anche nella n. h, tanto il significato, in traslato, di « rimediare, essere d'aiuto », secondo gli ess.  dati prima da Cicerone, Nepote, Valerio Massimo^ Persio: "* XVIII 189 ' constatque fertilitati non occurrere  homines ' : v. 18, 332. 20, 225. 30, 107. 31, 118. 32, 1;  99. etc. ; quanto il significato di « presentarsi alla  mente o alla vista, sovvenirsi y> quaesdonem  occurrere uerisimile est omnium , qui haec noscant ,  cogitationi ' : cf. 24, 156. Questo ultimo significato os   1 Cf. Tao. Agr. 10, 7.   « Vero, georg. 1 248 : cf. Aen. X 82.   3 A tale sigoiflcato dovette certamente pervenire per il tramite deir uso fattone da Liv. XXXVI 25 , 4 * in asperis locis  silex paene inpenetrabilis ferro occurrebat*. Cf. Pompon. Mel.  ehor. Ili 9, 89. Tag. Agr, 2, 9.   4 CiG. in Verr, IV 47, 105. p. CluenL 23, 63. Nep. XVI (Pel)  1, 1. Val. Max. f. et d. m. VIII 5, I. Pers. sai. 1, 62, 3, 64.      93    I servasi prima in Cicerone, Cesare, Orazio, Seneca, Cur ' zio, Columella, etc. *   7.° ^ periclitari ' : con valore intrans, pregn. di « arrischiare, essere intraprendente », appare la prima  volta nella Gemi. 40, 1 ^ plurimis ac ualentissimis nationibus cincti (se. Langobardi) non per obsequium, sed  proeliis ac periclitando tuti sunt ' ; cf. n. h. 18 , 302.  In Cicerone e Cesare ^ ha il significato generico di ¥. fare  esperimento, far prova ». In alcuni li. della n. h. conserva la qualità di v. intrans., ed è riferito , come in  Celso, ^ ai pericoli causati da certi morbi : XXX 114  ' utilissima sunt in iis ulceribus, quae uermibus periclitentur '. XXXII 54 ^ cinis eorum ( se. cancrorum  fluuiatilium) seruatus prodest pauore potus periclitantibus ex canis rabiosi morsu ': v. altresì 17, 217. 20, 165.  26, 112. etc.   8.** ^ praetexere ' : G^rm. 34, 4 ' utraeque nationes  usque ad Oceanum Rheno praetexuntur '. n. h. VI 112  ' semper fuit Parthyaea in radicibus montium saepius  dictorum qui omnes has gentes praetexunt '. Con significato consimile era stato prima adoperato da Virgilio. ^  Nella n. h. assume altresì , in traslato , il significato  generico di « preporre, porre avanti »: XVIII 212 ' quos     J Cic. de or. Il 24. 104. Ili 49, 191. p. Mil. 9, 25. Tuse. I 22,  51. Caes. b. G. VII 85, 2. Hor. sat. I 4, 136. Sen. deal. I 6, 4.  CvRT. hisL A. M. Ili 8 t21), 21. Colvm. de r. r. Il 2, pag. 334,  34. Cf. Tac. ann. XIV 53, 22.   « Cic. de off. III 18, 73. Caes. b. G. II 8, 1.   3 Cels. de med. Il 1, p. 30, 14. V 26, 24, p. 178, 37. eie.   4 Verg. bue. 7. 12. Aen. VI 5. Cf. Colvm. de r r. X 296, p579, 37.      94    (se. auctores) praetexuimus uolumini huic ': v. praef. 21.  16, 4. »   9.** ' rarescere ' : eoa l'accezione in traslato, per siguijfìcare « diminuire , divenire raro » , notasi la prima volta nella Germ. 30, 3 ' durant siquidem col les, paulatim rarescunt'.2 Nel significato proprio fu adoperato,  dopo Lucrezio, Virgilio, Properzio, Columella,^^ da Plinio:  n. h, XI 231 ' quadripedibus senectute (pili) crassescunt  lanaeque rarescunt '.   10.° ' tolerare ' : Germ. 4, 8 ^ minimeque sitim aestumque tolerare '. n. h. XXVI 3 ' foediore multorum ,  qui perpeti medicinam tolerauerant , cicatrice quam  morbo '. Lo stesso significato notasi in Terenzio, Cicerone, Sallustio, etc. ^ In un altro 1. la n. h. presenta il  V. ' tolerare ' per il concetto di « mantenere , sostentare », secondo l'uso fattone da Cicerone, Cesare, Virgilio, Columella , etc. : ^ VII 135 ' plurimi iuuentam  inopem in caliga militari tolerasse '. XXXIII 136  ^ (Ptolemaeum) octona milia equitum sua pecunia tole   1 Fu continuato tale uso da Plin. pan. 52, 1.  s Si ripete , poi , nella stossa accezione da Amm. Marc. r. g.  XXII 15, 25. XXVI 3, 1.   3 LvcR. de r. n. VI 513. Vero. Aen. IH 411. Prof. IV 14 (15),  33. CoLVM. de r. r. Ili 16, p. 392, 38. Cf. Sil. It. Pun. XVII 422.   4 Ter. hee. 478 (IH 5, 28). Cic. in Verr. Ili 87, 201. in Caiil.  II 5, IC; 10, 23. ep. (ad fam.) VII 18, 1. ad Q. fr. I 1, 8, 25. de  fin. IV 19, 52. Tuse. II 7, 18; 13, 30. V 26, 74; 37, 107. de din.  II 1, 2. Caes. b. G. V 47, 2. Sall. Cai. 10,2. 20, 11. lug, 31, 11.  Cf. Tac. hist n 56, 12. ann. Ili 3, 9.   5 Cic. p. Foni. 2, 13. Caes. b. G. VII 71, 4 Ccitato per inesattezza  dal Georges, ausfiXhrl. Handwb. II, e. 2821, con le indicazioni  7, 41, 7). h. e. Ili 49, 2; 58, 4. Verg. Aen. Vili 409. Colvm. de  r. r. Vili 17, p. 547, 19. Cf. Tac ann. II 24, 7. IV 40, 8. XV 45, 18    95    rauisse '. Ma vi si accoglie, per la prima volta , tanto  nel significato di  : Germ. 27, 9 ' haec in commune de  omnium Germanorum origine ac moribus accepimus '.  38, 4 ' quamquam in commune Suebi uocentur ' : cf.  40, 6; altrove (5, 1. 6, 14) si preferisce l'espressione  avverbiale equipollente ' in uniuersum '. n. h, XVII 9  ' quae ad cuncta arborum genera pertinent in commune  de caelo terraque dicemus '. XXIII 36 ' reliqua in commune dicentur '. Di una sola voce osserviamo essersi fatto uso, perla  prima volta, tanto nella Germ. quanto nella n.h.: è la v.  ' glaesum ', d'origine germanica, adoperata particolarmente dai soldati per significare l'ambra: " Germ, 45, 15  * soli omnium sucinum, quod ipsi glaesum uocant, inter  uada atque in ipso litore legunt '. n. h. XXXVII 42  ' certum estgigni in insulisseptentrionalis oceani et ab  Germanis appellari glaesum, itaque et ab nostris ob id  unam insularum Glaesariam appellatam '. Ma, come si  osserva nel 1. e, la Genn. accoglie anche la v. ' sucinum ', che trovasi nella n. h. identificata con I' ' electron ' dei Greci : III 152 ' iuxta eas Electridas uocauere in quibus proueniret sucinum quod illi electrum  appellant': v. 4,103.8,137. 37, 31; 33; 43-45; 204. e te. ^     J Tale uso deirespressione avv. * in commune * fu conlinuato  da QviNTiL. L o. VII 1, 49. Tag. ann, XV 12, 17.   « Plin. n. h. IV 97 * Glaesaria (se. insula) a sucino militiaa  appellata, a barbaris Austerauia *.   3 Vedi il nostro libro sui Neologismi botanici nei earmi bu"  coliei e georgiei di Virgilio, Palermo. Ad un buon numero delle relazioni lessicali si è data, di mano in mano, evidenza, mediante opportuni confronti e richiami indicati in fine delia maggior parte delle note che corredano le relazioni lessicali tra la Gemi. e la n. h. di Plinio. Restringiamo, ora, il nostro compito a dare evidenza  ad alcune relazioni lessicali tra la Germ. e gli scritti  di TACITO (vedasi), nelle quali non si scorge, salvo di rado e in modo indiretto, l' intermedio della n. H. Sostantivi: annus: Ge7^m. nec arare terram aut exspectare annum tam facile persuaseris \ Agr. 31, 5  ' ager atque annus in frumentum  conteruntur '. Della  V. ' annus ', adoperata per significare « il raccolto o  provento, la produzione dell' annata », un primo accenno appare in Cicerone * : fu accolta da Properzio, e poi  dai poeti e prosatori dell' età postaugustea. ^ Nella n.     1 Cic. in Verr, a. pr. 14, 40.   « Prof. V 8, 14. Lvcan. de b. e. Ili 452. Stat. sii III 2, 22.  Plin. pan. 29, 3.  Consoli, La Germania comparala. T      98    h. la V. * annus ' conserva il significato temporale: v.  2, 13. 9, 162. 18, 211. 28,22. etc. ; e solo si può scorgere come un tramite per giungere al significato sopra notato nei sgg. 11. : XV 98 ^ fructus anno maturescit \ XVI 95 ' sunt tristes quaedam ( se. arbores )  quaeque non sentiant gaudia annorum \   2.** * audentia': Germ. 31, 1 ' et aliis Germanorum  populis usurpatum raro et priuata cuiusque audentia  apud Chattos in consensum uertit ' e. q. s. 34, 10 ' nec  defuit audentia Druso Germanico', ann. XV 53, 9 * ut  quisque audentiae habuisset '. ' Audentia ' è voce della  l^tiqità argentea : altri ess. se ne osservano in Quintiliano e Plinio il giovane. ^ Nella n. h. si notano soltanto le forme della flessione del participio ' audens ';  V. 17, 222. 32, 53. 35, 61. etc.   3.** ^ copiae ' : consideriamo soltanto la forma del  plur. : 6r^rm. 30, 13 ^ omne robur in pedi te, quem super arma ferramentis quoque et copiis onerant '. his£.  Ili 15, 13 ' ut specie parandarum copiarum ciuili praeda  milites inbuerentur. IV 22, 5 ' parum prouisum ut copiae in castra conueberentur ': V. Agr. 22, 9. Prima  che nei 11. ce. la voce di forma plur. ^ copiae ', col significato di € provvisioni, provvigioni, viveri, alimenti », era apparsa in Cesare, Livio, Velleio Patercolo. ^   4.** ' fortuna ' : Germ. 21, 9 ' prò fortuna quisque apparatis epulis excipit '. ann. II 33, 13 ' quaeque ad usum parentur nimium aliquid aut modicum nisi ex fortuna possidentis ': v. IV 23, 11. XIV 54, 9. La forma     1 QviNTiL. I. o. XII prooera. , 4. Plin. episL Vili 4, 4.   « Vedi gli ess. citati dal Gboroes , ausfuhrl Handicb , I, e   1573: V. inoltre Plin. pan. sing. ' fortuna ', usata invece della forma plur. per indicare « ricchezze, beni di fortuna, averi, sostanze »,  osservasi accolta da Nepote, Orazio, Ovidio, poi da Quintiliano, ^ probabilmente per il tramite della frase ciceroniana : ^ cuius denique fortunae studia tum laudi et  gratulationi tuae se non obtulerunt ? ' " Valgano per  il confronto i sgg. 11. della n. h.i 11 118 ^ non erant  malora praemia in multos dispersa fortunae magnitudine '. VII 130 * si uerum facere iudicium uolumus ac  repudiata omni fortunae ambitione decernere , nerao  mortalium est felix ' : ma è accolta la forma regolare  del plur. in XXXVII 81 ' ille proscriptus fugiens hunc  e fortunis omnibus anulum abstulit secum ',   S."* ' pignora ' : consideriamo la sola forma del plur.::  Germ. 7, 11 * et in proximo pignora, unde feminarum  ulula tus audiri, unde uagitus infantium ' : ann. XII 2,  3 ' baudquaquam nouercalibus odiis uisura Britannicum  e^Octauiam, proxima suis pignora ': v. XV 36, 14; 57,  14. Agr. 38, 6. La forma plur. ^ pignora ' era stata  accolta nella poesia dell'età augustea, '^ per significare  figli, madri, mogli, insomma persone legate con intimi  vincoli di parentela; donde la formola di ' obsecratio '  giudiziaria: ' per carissima pignora'; della quale fa  menzione Quintiliano.*   6..'' ' suffugium ': Germ. 16, 11 ' solent et subterra   1 Nbp. XXV (Att.) 21, 1. HoR. ep, I 5, 12. Ovid. trist V 2, 57.   QVINTIL. /. 0. VI 1, 50.   « Cic. Phil. I le, 30.   3 Prof. V 11, 73. Ovid. meL III 134. XI 543. episL (her.) 6, 122.  12, 192. L'espressione * amoris pignora' di Liv. XXXIX 10, 1  ha un altro significato.   * QviNTiL. I. 0. VI 1, 33. neos specus aperire suffugiura hiemi et receptacu lum frugibus \ 46, 17 * nec aliud infantibus ferarum  imbriumque suffugium '. ann. IV 47, 7 ' sanguine barbarorum modico ob propinqua suffugia ' : v. Ili 74, 5.  La V. ' suffugium ', propria della latinità argentea, * si  osserva prima in Seneca e Curzio. ' Tacito se ne valse  anche in genso traslato, ^ accostandosi all' es. che ne  aveva presentato Quintiliano.*   Aggiungiamo altri due aggettivi di forma neutra  plur., assunti col valore di sostantivi : ^ I   7,** ^ ancipitia ' : Gemi. 14, 10 ' facilius inter ancipitia |   clarescunt '. hisL III 40, 10 ' mox utrumque consilium  aspernatus, quod inter ancipitia deterrimum est '. ^ ann.  XI 26, 12 ' scelusque inter ancipitia probatum ueris  mox pretiis aestimaret '. Tacito adoperò anche al sing.  l'agg. ' anceps ' sostantivato: ann. I 36, 9 ' in ancipiti  res publica '. IV 73, 16 ' ille dubia suorum re in anceps tractus '. Nella n. h. la v. ' anceps ' conserva la  ftinzione di aggettivo: IV 10 ' ancìpiti nauium ambitu '.  VII 149 ' ancipites morbi '. IX 152 ' periculum anceps \  XVII 191 ' anceps culpa '. XVIII 210 ' res anceps '.     J Si ha però un es. nel carme pseudo-ovidiano * nux ', v. 1 19  * quid, nisi suffugium nimbos uitantibus essem *.  8 SBN. dial IH 11, 3. CvRT. hUt A. M. VII! 4 (14}, 7.   3 Tac ann, IV »56, 11. XIV 58, 12.   4 QviNTiL. I. o. IX 2, 78.   5 V. la monografia di Th. Panhoff, de neuiriui generis adieeiiuor. subsianiiuo usu ap. Tao. 1883.   « F. RiTTBR, P. Corn. Tae. opp., Lps. 1864, p. 525, 20 espunge  dal testo tacitiano le parole ' quod - est \ chiudendole tra parentesi quadre.      101   XXIII 31 ' ancipiti euentu \ XXV 16 * ratio inuentionis anceps ' : v. inoltre 10, 17. 22, 97. 23, 17 ; 20. 24,  75. 28, 21. 29, 1. etc.   8.** * missilia ' : Oerm. 6, 7 * pedites et missilia spargunt, pluraque singuli '. hist. IV 71, 24 *paulum morae  in adscensu , dum missilia hostium praeuehuntur \ V  17, 14 ' saxis glandibusque et ceteris missilibus proelium incipitur '. L' uso di dare il valore di sostantivo  all'agg. ' missilia ', per indicare, in generale, proiettili  di guerra , come saette , pietre , etc. , appare prima in  Virgilio e Livio ; ^ poi si usò con lo stesso significato  anche nella forma del sing. ' missile ': - ne abbiamo un  es. nel sg. 1. della n. h. XXVIII 33 ' ferunt difflciles  partus statim solui, cum quis tectum, in quo sit grauida,^  transmiserit lapide uel missili ex iis, qui tria animalia  singulis ictibus interfecerint '. Del resto , nella n. h. è  preferito V uso di ' missilis ' come aggettivo : v. 8, 85;  125. 34, 138. etc.   II.  Aggettivi. Annoveriamo, per la loro funzione,  tra gli aggettivi le sgg. forme participiali :   1.** ^ inlacessitus ' : Germ. 36, 1 * Cherusci nimiam ac  marcentem diu pacem ini acessiti nutrierunt'. Agr. 20,     1 Vero. Aen. X 716. Liv. II 65, 4. VI 12, 9. IX 35, 5. XXVI 51,  4 XXXTV 39, 2. L'espressione * missilia fortunae ', che osservasi iu SBN. ep, IX 3 (74), 6, pare che abbia schiuso l'adito ad  un nuovo significato della v. ' missilia ' (= « doni largiti al  popolo »), che appare in Sveton. Aug. 98, 19. Ner. 11, 11.   « Vedi LvcAN. de b. e. VII 485. Vbget. epit r. m. (ed. C. Lang)  I 4, p. 9, 8; 14, p. 18, 6: in III 24, p. 117, 14 leggesi ' missibilia ',  ma nel cod. Perizon. F 17 si nota ' missilia ' ; e ' missilia ' osservasi anche nel cod. Palai. 909, corretto da ' missibilia nulla ante Britanniae noua pars pari/&r illacessita  transìerit '. Il part. sempl. ^ lacessitus ' notasi nella n.  h. Vili 23 ' nec nisi lacessiti nocent '.   2.** ' intectus ', con la particella premessa Mn - ' di  valore negativo: Germ. 17, 2 ^ cetera intecti totos dies  iuxta focum atque ignem agunt '. hist Y 22, 12 ^ dux  semisomnus ac prope intectus errore hostiura seruatur \  ann. II 59, 5 ^ pedibus intectis ': e nel senso traslato,  per significare « aperto , schietto , fidente >, ann. IV  1, 12 * sibi uni incautum intectumque efflceret \ '  » 3.** ' promptus ' : Germ. 7, 2 ' duces exemplo potius  quam imperio, si prompti , si conspicui , si ante aciem  agant, admìratione praesunt '. ann, IV 17, 16 * neque  aliud gliscentis discordiae remedium quam si unus alterne maxime prompti subuerterentur ': v. II 81, 7. IV  51, 16, XIV 40, 8. Con lo stesso significato di « coraggioso, audace, valoroso », appare la v. ' promptus ', nel  grado superlativo, in hist. I 51, 24. II 25, 13. Ili 69, 13.  IV 14, 9. Agr. 3, 12. Quanto all'agg. 'promptus' riferito a cose, V. n. h. 8, 129. 9, 112. 11, 24.   4.** ' reuerens ' : Germ. 34, 12 ' sanctiusque ac reuerentius uisum de actis deorum credere quam scir^ \  hist. I 17, 3. 'sermo erga patrem imperatoramque  reuerens '. Lo stesso significato presenta la v. * reuerens '  in Properzio. ^ Cicerone conservò T usq psi^rticipiale di  ' reuerens ' : * multa aduersa reuerens '. ^ Plinio vi a, anche nei sgg. 11. di Tacito: Agr. 34, 13 * transigite cum  expeditionibus '. hist III 46, 14 * quod Cremonae interim transegimus '. Il tramite, per giungere al significato sopra notato, dovette essere il valore giuridico che  si attribuì in principio al v. * transigere \ cioè « venire  a patti , definire la pendenza con un amichevole accordo > , insomma concludere qualcosa di definitivo  per dirimere le questioni. *   5.** * uocare ' : Germ. 14, 16 * nec arare terram aut  exspectare annum tam facile persuaseris quam uocare  hostem et uulnera mereri \ hist IV 80, 10 ' ncque  ipse deerat adrogantia uocare offensas. ' ann. VI 34, 1  ' Oroden sociorum inopem auctus auxilio Pharasmanes  uocare ad pugnam \ U equipollenza di ' uocare ' e  * prouocare ' muove dalla frase virgiliana * uocare hostem. ' 2   IV.  Avverbi :   1.*" * adductius ' : Germ. 44, 1 ' Gotones regnantur ,     1 Cf., per r uso deUe forme passive di * transigere ', Cic. p.  Quinci 5, 20. in Verr. a. pr. 10, 32. Tuse. IV 25, 55; e, quanto  alle forme attive: p. Rose. Am. 39, 114. p. Cluent. 13^ 39. Phil.  II 9, 21. etc.   « Vbrg. georg. IV 76 * magnisquo uocant clamoribus hostem '.  Sbrv. eomm. in Verg. georg. 1. L, voi. Ili, fase. 1*^, p. 326 Th.,  commenta: ' uocant hostem, prouocant '. Vedi 11 comm.del Heraeus a Tao. hist. IV 80, 10.      105   paulo iam adductius quam ceterae Germanorum gentes \ hist III 7, 4 ' Minucius lustus.... quia adductius  quam ciuili bello imperitabat, subtractus militum irae  ad Vespasianum missus est '. Nei due 11. citati il valore lessicale della v. ' adductius ' = « con maggior  rigore, più severamente , con freno più stretto », si  deve fare risalire alla frase di Cicerone ^ adducere habenas ', che è in contrapposto con V altra ' remittere  habenas. ' ^   2.*" L' espressione ^ haud perinde ', priva di valore  comparativo, adempie una funzione brachilogica: Germ,  5, 10 ' possessione et usu haud perinde adficiuntur '.  34,2 ' aliaeque gentes haud perinde memoratae. ' ann,  II 88, 16 ' Romanis haud perinde Celebris. ' IV 61 , 4  ' monimenta ingeni eius haud perinde retinentur. ' Alla  negativa * haud ' talvolta sono sostituite altre voci negative : ' non, ^ ne-quidem, ^ nec '. ^   Per r espressione comparativa ' haud perinde   quam ', invece della classica * h. p.  atque ', v. hist.  II 27, 1. Ili 58, 14. IV 49, 26. ann. II 1, 8; 5, 9. XIV  48, 7. XV 44, 18. Osservasi anche ^ nec perinde  quam '  o ' neque p.  q. ' in hist. II 39, 12. IV 72, 16. ann.  XIII 21, 7.   3.** * longe ' può adempiere V ufficio di rinforzare il     1 Cic. Lael. 13, 45.   2 Tac. ann. II 63, 10. Cf. Plin. epéaé. I 8, 12. Sveton. Aug. 80,  6. Galb. 13, 1. deperdit librorum relL p. 294, 2, ed. Roth.   3 Tac. Agr. 10, 19 (secondo la congettura del Grozio: nei codd.  * proinde '). Cf Sveton. Tib. 52, 3 sg.   4 Liv. IV 37, 6.     - 106 comparativo, col significato di « molto » : * Germ. S,  3 ' quam (se. captiuitatem) longe impatientius feminarum suarum nomine timent'. ann, IV 40, 10 Monge  acri US arsuras '. XII 2, 6 ' longeque rectius Lolliam  induci '. Altri ess. ne erano apparsi in Virgilio, Fedro,  Velleio Patercolo. ^    B    È notevole che Tacito si valse in più luoghi de' suoi  scritti di alcune espressioni o frasi che si osservano  nella Germ. : daremo evidenza alle più importanti di  esse, disponendone i confronti secondo l'ordine cronologico delle opere di Tacito. ^   I.  Per il libro de uila et morihus lulii AgHcolae:  1.** Germ. 36, 4 ^ ubi m a n u a g i t u r '. Agr. 9, 6  * plura manu agens'.     1 L'uso classico deU'avv. Moage' si restringe a rinforzare il  superlativo o ad accompagnare » per renderne più efficace la  significazione, alcune voci particolari, quali * alius> aliter, diuer*  sus, dissimiiis ', etc. ; e i verbi: ^abesse*, v. Cic. ep. (ad fatn)  II 7, 1. ad AiL VI 3, 1 ;"* antecellere *, v. id. in Yert, IV 53,  118. p. Mxir, 13, 29; * anteponere *, v. id. de or. I 21, 98; * dissentire ', v. id. Lael. 9, 32; • praestare ', v. id* Brut. 64, 230 ; e  simili. Quanto all'uso dell'avv. * longe ' col superlativo, v. inoltre  Plin. n. A. 3, 5. 4, 66. 5, 70. 9, 131. 19, 146. 23, 92. 24, 125. etc.   2 Vero. Aen, IX 556 * longe raelior \ Vell. Paterg. h. R» II  74, 1 * 1. tumultuosiorem *. Phaedr. /a6. Ili 7, 6 *L fortior'. Cf.  Pbtron, sat 9, p. 39, 1 ' 1. malore nisu '. 98, p. 465, 5 * 1. blaiidior '.   3 Nel confronto sarà incluso VAgr.^ tuttoché comunemente si  ammetta che questo sia stato scritto prima della Germi le ra^  gioni sono state esposte a lungo nel nostro libro sopra citato,  V autore del l * de origine et situ Germanorum ', Roma, 1902.      107    2.** Germ. 4, 4 ' unde habitus quoque corporum....  idem omnibus. Agr. \\^ 2 ' habitus corporum uarìi \ '   3/ Gemi. 6, 14Mn uniuersum aestimanti  plus penes peditem roboris '. Agr. 11,9 Mn uniuersum tamen a e stimanti Gallos uicinam insulam  occupasse credibile est'. ^   4.** Germ. 30, 13 ' orane r o b u r in p e d i t-e ': cf.  6, 14 ' plus penes peditem roboris '. Agr, 12, 1 M n  pedite robur'. Livio preferi la frase ' lecta robora  uirorum '. ^   5.** Germ. 17, 6 ' ut quibus nuUus per commercia  cultus '. 24, 12 ' seruos condicionis huius per commercia tradunt '. Agr. 28, 14^ per commercia  uenumdatos '. 39, 4 * emptis per commercia'.   6.** Geì^m. 21, 12 * notum ignotumque quantum  ad ius hospitis nemo disceruit '. Agr. 4:4^ 7 *quant u m a d gloriara, longissimum aeuum peregit '. Vedi  inoltre hist V 10, 8. Della espressione * quantum ad ',  sostituita alla comune ^ quod attinet ad ', si osserva  prin^ft un es., non incensurabile, in Ovidio: lo agcolse,  poi, Seneca. ^ Ma un termine dì passaggio tra le due     1 L' espressione ' habitus corporis ' fu , poi, ripetuta da Pliii.  efii8t VI 16, 20 e da Svbton. deperdiL Ubrorum reli pagt ^9^  12, e4 Ralh. Plin. n. h, U, 224 menziona i ^siqgulos anitpi habitus '.   « Vedi il cap. Ili, C, III, 2^   3 Liv. VII 7, 4: cf. Vili 10, 6.  2. 1.   4 OviD ars am. I 744 ' quantum ad Pirithoum \ Skn. ^^ XII  3 («5?, 14 ' quantum ad habitum mentis *. Un altro ea^ di Seneca è cit neWausfùhrl. Handwh. del GaoaeES, II, o. 19091. Vedi  G. Leopardi , penneri di Daria filoso^ e di belln leUenklura »  Firenze, suec. Le Mounier, 1898 ; voi. I, p. 256.       locuzioni notasi nelle frasi dì Seneca il retore: ^ quantum  ad meum stuporem attinet; quantum ad ius attinet '. '   II.  Per le historiae :   1.° Germ. 25, 6 * occidere solent, non disciplina  et seueritate, sed impetu et ira '. hist I 51 , 5  ' asper^fto militiam tolerauerant ingenio loci caelique  et seueritate disciplinae'. La stessa frase ,  espressa in forma di endiadi come nella Germ,, appare  prima in Cicerone e nel beli. Alex. ^   2.** Germ. 3, 18 'ex ingenio suo quisque  demat uel addat fldem '. hist. I 82 , 13 ' manipulatim   adlocutl sunt ex suo quisque ingenio mi tius aut horridius '. Vi sì accosta la frase plìniana ;  * uaria circa hoc opinio ex ingenio cuiusque'. "^   3.° Germ. 13, 20 ' ipsa plerumque fama bella profi igant '. hist. II 4, 11 ' pr fi igauer at beli u m  ludaeicum Vespasianus '. IV 73, 6 ' profligato bello '.  La frase * proflìgare bellum ' risale a Cicerone e Livio: •* si rese d'estensione maggiore, sostituendosi a     i Sen. rhet. eonirou. VII 1 (16-, 1, p. 298, 18. X 5 (34), 16, p.  509, 8, ed. e. Nella n. h. 25, 12 sì nota * in quantum *.   s Cic. p. Cluent 46, 129 * magister ueleris disciplinae ac  soueri tatis ' : cf. m Catil. I 5, 12. Script b, Alex. 48, 3  * mìlitarem disciplinam seueritatemque minuebant '.  65, 1 ' quae dissoluendae disciplinae seuor i t a t i s q u e  essent ' (Kuebler). Cf. Liv. XXXIX 6, 5.   3 Plin. n. h. 8, 48: cf. 34, 57; e Liv. Ili 36, 1.   4 CiG. ep. dadfam.) Xll 30, 2. Liv. IX 29, 1 ; 37, 1. XXI 40,  11. XXXV 6, 3. XXXIX 38, 5. V. i commenti Orelli-Meiser,  Heraeus, Valmaggi a Tag. hist. II 4.     - 109  ' bellum ' gli aec. * aciem, classem, copias, hostem, iaimicos, proelium ', etc. ^   4.° Germ. 3, 18 'ex ingenio suo quisque demat  uel addat fidem'. hist II 50, 7 ' ita uolgatis  traditisque demere fidem non ausim \ III 39, 3  ' a d d i d i t facinori fidem': v. ann. IV 9, 5. Si  notano ess. delle locuzioni ' demere fidem ' e ' addere  fidem ' in Livio e Ovidio : ^ in un 1. di Cicerone i due  verbi ' addere ' e ' demere ' sono disposti in antitesi ,  come nel 1. e. della Oerm. ^   5.*" Germ. 42, 8 ' sed u i s et p o t e n t i a regibus  ex auctoritate Romana'. hisL III 11, 15 ' uni Antonio  uisac potestas in utrumque exercitum fuit '. **  L' espressione * uis ac potestas ' del 1. e. delle hist si  connette con la frase di Cicerone: ' u i m omnem deorum  ac potestatem'. ^   6.'' Germ. 36, 7 ' tracti ruina Cheruscorum et Fosi '.  hist. III 29, 5 ' quae (se, ballista) ut ad praesens disiecit obruitque quos inciderat , ita pinnas ac summa     i Plavt. mil. gL 230 (II 2, 75 . Cic. p. Rab. FosL 15, 42. Phil  XIV 14, 37. Cabs. b. e. II 32, 11. Nep. XIV vDat.) 6, 8. Liv. Vili  8, 9. X 20, 14. XXVIII 2, li. SiL. It. Pun. XI 398. Tac. ann.  XIV 36, 7.   « Liv. II 24, 6. OviD. rem. am. 290.   8 Cic. aead- pr. II 16, 49. Vedi per altri e?s. di posizione in  antitesi dei vv. * demere ' e ' addere * 1' ausfùhrl Handwb. del  Georges, I, e. 1903.   4 u! Zbrnial, op. e, p. 81, aggiunge al confronto un 1. del  dial. de oratoribus 19, 24 ' qui u i e t p o t e s t a t e , non iure  aut legibus cognoscunt '.   5 Cic de nat d. III 36, 88. Cf. seripL rhet ad Her. I 5, 8      no    ualli r u i n a sua t r a x: i t ' : ma nel 1. e. della Germ.  ' mina ' ha significato metaforico. *   7.° Germ. 44, 1 1 ^ m u t a b i 1 e... hincuel illinc  r e m i g i u m '. hist III 47, 18 ' pari utriraque prora  et mutabili remigio, quando bine u e 1 illinc appellere indiscretum et innoxium est ' : v. anche ann. II 6, 7.  8.° Germ 24, 13 ' ut se quoque pudore uictoriae  exsoluant '. hist III 61, 15 * p u d o r e proditionis cunctos exsoluerent'; arrogi ann, VI 44 ,  20 ^pudore proditionis oranes e x s o 1 u i t '. ^ In  simile accezione metaforica appare il v. ' exsoluere '  in Terenzio, Cicerone, Virgilio, Livio, etc.'*     1 Cf. la frase * tra bere ruinam' in Verg. Aen, II 465 ?g. ; 631.  Vili 192. IX 712 sg.   ^a  costruito ^ proditur ' nella Germ. 8, 1 ' meraoriae pròdilur quasdam acies inclinatas iam et labantes a Sforni nis restitutas '. ^   Consideriamo le leggi sintattiche aventi per obtóÉto  r uso dei casi.   I.  Accusativo :   l.*' L' acc. di relazione, in dipendenza da un aig^tivo da un participio, osservasi nella Gemi. 17, 12  ' nudae brachia ac lacertos '; e nella n. h, XIII 29 ' uitilem sibi arborique indutis circulum '. Ess. consiirfli     1 Quanto alla costpuzione del v. * narratur ' con Tace, e Titifin.,  invece di * narra ntur * col nominativo e l'infin, per significare,  come scrive G. Helmrbigh, c b e s t i m ra t e Angaba und M'itteilung, auch durch Schriftsteller, im Gegensatz zu vagem Gorùcht »: V. la recensione del l'bro del Wormstall, uebèr aie  Chamaoer, Brukterer und Angrioarier ole, nel Jahreàbèrìcht  ueber die Fortschritie der class. Alteri humswissensehaftyXVll  (1889;, 2. Abtheilung, p. 255 (Jahresb. ueb. Tao.),   « In altri 11. della n. A. ò preferita la f rma attiva * narrkht *:  V. 2, 126 ; 236. 8, 35. 32, 75 etc.   3 OviD. mei. XV 311 sg. ' admotis Aihamanas aquis actiiàhdere Jignum | narratur *.   4 Un costrutto analogo osservasi in Liv. XXV 31,9 Val. Mix.  /. ei d. m. II 6, 10. Cf. Caes. b. G. V 12 1. Tac. ann. Ili 65 ,  9. [dial. de orato ribus 32, 27].      136   si notano in Virgilio ^ ed altri poeti delPetli augustea:  ne presenta anche la latinità argentea , i cui scrittori  predilessero i costrutti poetici e di fonte greca. ^   2.^ L'acc. ' cetera ' è assunto , talvolta , in funzione  avverbiale: Germ. 17, 2 ' cetera intecti totos dies iuxta  focum atque ignem agunt '. 29 , 12 ^ cetera similes  Batauis '. 44, 20 ' cetera similes uno differunt '. n. h.  Vili 40 ' tradunt in Paeonia feram quae bonasus uocetur equina iuba , cetera tauro similem '. XXII 133  ' est etiamnum aliud sesamoides , Anticyrae nasqens ,  quod ideo antiqui Anticyricon uocant, cetera simile erigerenti herbae '. La prosa latina aveva già accolto lo  acc. ' cetera ' in funzione avverbiale, ^ ed anche prima  r aveva accolto la poesia, che ne continuò V accezione  neir età augustea. *     1 Verg. Aen, IV 558 sg. Non ó es. sicuro quello dell' Aen, I  320 ' nuda genu ', in cui ^ genu ' può essere accettato per ablativo. Per la stessa ragione il Draegkr, ueber Synt u. Si, d,  Tac^y § 39, p. 19, riconosce es. noi sicuro di acc. di relazione  il 1. degli ann. XVI 4, 11 * flexus genu '.   2 Vedi gli ess. in Màdvig, lai. Sprogl.'y § 203, a, Anm., p. 154.  Cocchia, sint. lai., § 55, p. 1 17 sg. Valmaggi, comm. hist Tae.  lib. 1, p. 134; lib. 11, p. 34. Cf. inoltre* Tag. hist IV 81, 9. ann.  VI 9, 13. XV 64, 15. e te.   3 Cic. orai, 25, 83 (letto secondo il cod. Viteberg., / del Friedrich). Sall. lug, 19, 7; cf. hisL IV 9 (Kritz). Liv. I 35,6. Vell.  Paterc. h. R,l\ 119, 4. Cf. Tac. Agr, 16, 10. ann, VI 15, 5; 42, 12.   * Enn. ann, 1 fr. 32, in PLM. , voi. VI, p. 64, ed. Baehrens.  Verg. Aen. Ili 594: IX 656: cf. Serv. eomm. in Aen. IX 653, p.  368, voi. 11, fase. 2.o Th. Hor. earm, IV 2, 60. ep, I 10, 2 e 50.  Vedi Madvig, lat Sprogly § 203, a, p. 154. Cocchia, sint lai, ,  § 60, b, p. 131.       IL  Genitivo : ^   1.^ Il genitivo parti ti vo trovasi in dipendenza dal relativo neutro * quod ', posposto, che funziona da soggetto della proposizione sg. : Germ. 15, 8 * conferre  principibus uel a r m e n t o r u m uel f r u g u m quod  prò honore acceptum etiam necessitatibus subuenit '. n.  Ti. XXX 127 * feni Graeci quod III digitis capiatur '. Ess. anteriori si notano in Cesare e Livio. ^  Vi ha, però, chi nel 1. e. della Gemi.y facendo precedere al ' quod ' una virgola, trovi un costrutto ellittico, che nella sua interezza somigli ad un altro 1. della  Germ. 18, 6 ' ipsa armo rum aliquid uiro adfert ', 3 simile al 1. della n. h. XXVII 130 / additur piperis aliquid et murrae '. Ma, se cosi fosse, avremmo  una costruzione ellittica isolata , priva di base , se ne  togli un ravvicinamento, del resto non improbabile, col  passo degli ann. di Tacito XV 53, 8 ' iacentem et impeditum tribuni et centuriones et ceterorum , ut quisque audentiae habuisset, adcurrerent trucidarentque '. ^   2.** Per l'uso del genitivo in dipendenza da un comparativo neutro plur., considerato come sostantivo, vi  è rispondenza tra la Germ. 41, 1 'in secretiora Ger   1 Vedi U. Zernial, sei quaedam eap. ex genet usu Toc.,  Gòtt. 1864.  « Caes. 6. G. Ili 16, 2. Liv. XXVIII 8, 9. Cf. Tac. hisL II 44, 20   3 U. Zernial, Germ. erkl p. 41. Cf. il comm. del Heraeus  alle hisL di Tac. II 44.   4 Vedi CoNSTANs, étude s. L langue d. Tac, n.^ 81, p. 45. figli crede probabile che sì tratti di un costrutto ammesso dalla  lingua popolare: non ne adduce però le ragioni.      138   maniae porrìgìtur ', ^ elsin.h. XVI 187 ' et sabuci interiora mire firma traduntur ' : cf. 6, 33. Se ne osserva qualche es. in Cicerone ^,   a** Tra gli aggettivi che, tanto nella Germ. quanto  nella n. h., hanno, talvolta, il loro complemento in una  forma nominale di caso genitivo, si debbono annoverare i sgg. :   a) ' fecundus ' : Germ. 5, 5 ' pecorum fecunda '. n. h.  XXXIII 78 ^ nulla fecundior metallorum quoque erat  tellus '. '^ Ma nella n. h, è ammessa anche la costruzione con r ablativo : XI 233 * numeroso fecunda parta '.*   b) * impatiens ' : Germ. 5, 4 ' frugiferarum arborum  impatiens '. ^ n. h.XXl 97 ' unum autem caulem rectum   habet uetustatis inpatieutem '. ^ Questa costruzione   appare la prima volta nella lingua poetica dell' età augustea; poi si estese alla lingua della prosa. ^     J Vedi Valmaggi, il geniiioo ipoiaitieo in Tae.\ in Boll, di ^lol class., a. IV, n.» 6, pp. 130-135.   2 Cic. ad AH. IV 3, 3. Cf. Tac. hist. II 22, 3. V 16, 5: nel secondo de' due 11. ce. il cod. dà la lez. * propiora fluminis Transrhenani tenuere ' ; il Nipperdey, il Halm, il Ritter e altri vi  sostituiscono * flumìni '.   3 La costruzione col genit. notasi prima in Hor. carm. IH 6,  17. CoLVM. de r. r, IX 4, p. 552, 5 Cf. Tac. hist. I 11, 3. ann.  VI 27, 16. XIV 13, 4   * V. ess. anteriori in Ovid. mei. Ili 31. X 220. Cf. Tac. hist.   I 51, 26. Il 92, 6. IV 50, 22. ann. XIII 57, 2.   5 L'espressione * patiens frugum ', in antitesi a quella u^ata  nella Germ. 1. e , osservasi in Tac. Agr. 12, 16.   6 V. altri ess. sopra, cap. I, A, 111, n.« 13, p. 39.   7 Vero. Aen. XI 639. Ovid. ars am. II 60. mei. VI 322. XIII  3. trist. V 2, 4. Vell. Paterc. /i. i? II 23, 1. Cvrt. hist. A. Ai.  Ili 2 (5j, 17. IX 4 (15). 11. Cf. SiL. IT. Pan. Vili 4. Tao. hist.   II 40, 11; 99, 7. ann. Il 64, 13. IV 3, 5; 72, 2. VI fó,8. XII 30, l.      139    e) * superstes ' : Germ. 6 , 24 * muHique «operdtites  bellorum infamiam laqueo flnierunt '. n. h, VII 156  ' M. Perpennaet nuper L. Volusius Saturninus omnium...  superstites fuere ' : v. 7, 134. Cicerone ne aveva dato  r es.* Nella Qerm. si accoglie anche la costruzione di  ' superstes ' col dativo, secondo gli ess. di scrittori precedenti : 2 14^ 3 * infame in omnem uitam ac probrosum superstitem principi suo ex acie recessisse '.   4.** Quanto al genitivo * moris ' col verbo * esse ' valgano i sgg. confronti: Germ. 13, 2 * arma sumere  non ante cuiquam moris, quam ' e. q. s. 21, 13 ' abeunti, si quid poposcerit, concedere moris \ n. h. XIX  51 ' usque ad eum (se. Epicurum) moris non fuerat in  oppidis habitari rura ' : v. 17, 66 ; 214. La locuzione  * moris esse ' col soggiuntivo retto da * ut ' o con Tinflnito, era stata adoperata da Cicerone, Livio, Velleio  Patercolo, Valerio Massimo, Seneca, etc. ; ^ poi, per il  tramite di Tacito e di Plinio il giovane, * passò nell'uso     1 Cic. ad Q. fr. l 3, 1. Cf. Tac. Agr. 3, 13. ann. I 61, 14. Il  71, 11. Ili 4, 11.   8 Plavt. asin. 21 (I 1, 6). Ter. haut. 1030 (V 4, 7). Ovid. ara  am. Ili 128. mei. XI 552. etc. Cf. Tac ann. V 8, 12. Nei sgg.  11. : Plavt. irin. 57 (I 2, 19); Cic. ep. {ad fam.) VI 2, 3; HoR.  e. saee. 42, resta io dubbio se la v. ' superstes ' sia costruita  col genit. o col dat., essendo forme dell' uno e dell' altro caso  ì rispettivi complementi : ' uitae tuae, rei publicae, patriae '.   3 Cic. in Verr. I 26, 66. Liv. XXXVI 28, 4. Vell. Patbro. A.  K lì 37, 5 ; 40, 3 Val. Max. /. et d. m. II 8 , 6. Sbn. disi. X  13, 8.   4 Tac. Agr. 33, 1. 39, 2 (Ietto secondo il cod. Vatic. 342(), A  del Halm). 42, 19. hist I 15, 3. ann. I 56, 17 ; 80, 2. IV 39, 3.  Plin. epi%t II 19, 8. Ili 21, 3.      degli scrittori seriori, ^ invece della  est ', preferita dalla latinità classica. ^   III.  Dativo : ^   1.° Il dat. di attribuzione trovasi, talvolta, sostituito  al genitivo, in dipendenza da alcuni sostantivi: Germ,   16, 11 ' solent et subterraneos specus aperire , suf fugium hiemi ^ et receptaculum frugibus '. 44, 11 ' est  apud illos et opibus honos '. n. h. XXXVI 198 ' maximus tamen honos in candido tralucentibus {se. uitris).-^  Il dativo di attribuzione osservasi , sebbene di rado,  negli scritti anteriori al 1.'' secolo dell'impero : ^ dopo.     1 Cf. IvLiAN. ìq dig. HI 2, 1. Vlpian. in dig. XLVIII 19, 9.   2 Vedi Georges, ausfuhrl. Handwb. , II, e. 904. Nella n. h, si  accoglie anche la locuzione classica ' mos est*: v. 4 , 33. 11 ,  184. 19, 73. 25, 77. 28, 36. 29, 4. 33 , 11; 21. 34 , 16. Si nota * in  more est * in 16, 13.   3 Vedi, quanto ali* uso del dat. la monografia di W. Knoess,  de dat. fin. qui die. usa Tac. eornm., Vpsaliae 1878; e quella  di A. CzYGZKiEWiGz, de dat. usu Taeit.y BroJy Hiemi ' ò la lez. data dai codJ. Il Reifferscheid ed il Halm  congetturano * hiemis *; il Halra però dubita: * aa hieme? * Certo è che la costruzione di * suffugium * col genitivo osservasi  in un altro 1. della Germ. 46, 18 * ferarum imbriumque suffugium * ; ed ò preferita da Qvintil. L o. IX 2, 78 * suffugia infirmitatis*; e da Tac aan. IV 66 , 11 * urguentium malopum  suffugium •.   5 In Tac. Agr. 21, 9. hist. I 21, 6 * honor ' si accompagna col  genitivo. Anche col genitivo sono costruiti ' rector* e * subsidia *  nella n. h. 2, 12. 35, 102.   6 Caec. Stat. eom, rei. ll9(Ribbeck) * meae morti remedium *.  Cic. de or. I 60, 255 * subsidiura... senectuti * ( ma nello stesso  1. * subsid. senectulis '). in Catll. II 5, 11 * huic..bello..ducem *.  Catvll. 63, 15 * mihi comites *. Vero. Aen. V 111 * pretium  uictoribus '.       r uso si estese di più. *   2.° Nella Germ. e nella n, h. si accoglie T uso del  ^ datiuus absolutus' : - Germ. 6, 14 * ìq uniuersurn a estimanti plus penes paditein roboris \ n. h. XVI  178 ' proxirneque aestimanti hoc uideantur esse,  quod in interiore parte mundi papyrum ' : v. inoltre  15, 72. 16, 200; e cf. 36, 120. Costrutti analoghi sì notano in Cesare, Virgilio, Livio, Ovidio. '•   3.** Degli aggettivi che, tanto nella Germ. quanto nella     » Vedi Tac. hisL 1 22, 11 ; 67 , 4 ; 88 , 5 ( ma ' minister ' col  genit. in hisL II 99, 13: cf. Verg. Aen. XI 658). II 1 , 2. Ili 6,   I. IV 19, 6; 22, 17; 61, 15 ( ma • pignus * col geoil. in hisL III  72, 4 ; 76, 4. V 8, 2. ann. I 3, 1 ; 22, 1 ; 24, 9; 56, 16. II 21, 13;  43, 27; 46, 23; 60, 18; 64, 18; 67, 12. Ili 14, 18; 40, 5 e 13. IV  60, 8; 67, 8. VI 20, 2 ; 36, 12 e 14; 37, 14. XI 8 , 4. XII 22, 10.  XV 53, 5. etc.   * Il Cocchia, sinL lai., § 73, IH, p. 159, lo chiama 'd«t. iudicantis '. Vedi Draeger, ueber Syni. u. Si, d. Tao. 3, § 50, p 24;  e Valmaggi, comm hisi. Tac, lib. II, p.' 96 II Constans, étude  8. l lanyued Tac-y n.^ 91, p 51, nega C come lo Sghmalz, lat.  Sf/ni. 426) che sia costruzione greca, e lo crede « un datif de  rinterèt atlénué »: tuttavia, mentre egli ammette che nell'A/yr.   II, 10 « le datif n'est pas douteux », per il 1. delUi Germ. 6, 14  dee « qu* il est trés probable »: n ^* 250, 2", p 114.   3 Caes b. e. Ili 80, 1. Verg. Aen. Vili 212. Liv.: cf. X 30, 4. Ovid. meL VI 656. VII 320. Cf. Tau Agr. 11, 10.  hist II 50, 12. Ili 8, 6. IV 17, 16. V 11, 18: aggiungiamo Agr,  10, 12, conservandovi lì lez. * transgressis ', data dal cod. Vatic.  3429 (A del Halm). B Renano, seguito dal Halm ( e, nella ed. torinese deWAgr., 1886, p. 23, dal Decia) la mutò in * transgressa ':  il Ritter, accogliendo la congettura del Busch, Tespunse. L'osservazione sul dat. assoluto resta ferma, ancorché si voglia accettare l'emendazione del Doederlein, che fa rientrare ' trans-^   gressis ' nella proposizione seg., dopo * sed *.      142    n. /i., reggono il dativo, ci sembrano degni di nota :   aji> * diuersus ' : Germ, 46, 11 ' quae omnia diuersa  Sarmatis sunt, in plaustro equoque uiuentibus '. n. h.  XII 97 * pretia nulli diuersiora '. ^ Cicerone non evitò  il costrutto col dat., " ma si avvalse anche di quello  COR' r ablativo. ^   h).' auspicatissimus ' : Genn. 11, 5 ' agendis rebus  hoc auspicatissimum initium credunt '. * n. h. XVI 75  * spina nuptiarum faci bus auspicatissima '. ^   4.° Quanto ai verbi composti che sono usati col dat., ^  notiamo i sgg. :   a) ' accedere ' : Gey^m. 4, 1 ' ipse eorum opinioni bus ^  accedo '. n. h. IX 17 ' nec me protinas huic opinioni  eorum accedere haud dissimulo ' : v. inoltre 6, 213. 7,  146. 15, 14. 32, 143. 34, 8. 37, 101. etc. Ma ess., tuttoché non frequenti, ne avevano dato Ennio, Cicerone,  Nepote, Orazio, Livio, Velleio Patercolo, Columella, etc. ^     1 'Dtiiemus* è costruito col genit. in Tao. hist. IV 84,2. ann.  XIV 19, 5.   « Cic. de leg, agr. II 32, 87. Cf. Vbll. Paterg. h. R. II 75, 2.   3 Clc. Brut 90, 307.   •* Vedi Draeger, ueber Syntu. SL d. Tao, 3 , § 206, B, b, p. 83.  CoNSTANS, étude s l langue d, Tae. , n.** 95, 3, p. 54.   5 Vedi 60pra, cap. I, A, III, 4.", pag. 35.   6 Vedi Av Lehmann, de tteròf'8 compos. apud Sali, Caes., Tae.  cum dat siruet, Breslau 1863.   7 II Meìser e il Halm sostituiscono * opinioni * ad *opinionibus'  che ò lez. data dai codd.: ò una sostituzione che non fa venir  meno 'a nostra osservazione: v. la nota 3, pag. 14.   8 Enn. ann. XIV fr 260, in PLM., voi. VI, p 95, ed. Baehrens  (cf. Magrob $at VI 5, 10) Cic. ad Q. fr. I I, 1. ad Ait V 20,  3. Nbp I (Milt.) 4, 5. HoR. sai II 5, 71 sg. Liv. XXVI 50, 12.   VEJ.L Patebc. h i?. I 8, 5 C0J.VM de r r III 21, p. 398, 8. Cf.     -- 143  b) ' eximere ' : Oey*m. 29, 6 ' exerapti oneribus et collationibus '. n, h. XXX 51 ' canìnus (se. lien) si uiuenti  exinaatur et in cibo sumatiir ', e. q. s. La costruzione  col dat. era stata prima accolta da Plauto, Virgilio, Livio, Seneca, Curzio, etc. '   e) ' interuenire ': Germ. 40 , 7 ' interuenire rebus  hominum '. n. h. XXI 68 * in Italia uiolis succedi t rosa,  buie interuenit liliura ' : v. 18, 342. 33, 127. È costruzione classica, confermata dagli ess. di Cicerone. ^   5.*" Il dat. appare usato per complemento di un verbo  passivo air infinito o in un tempo finito semplice : ^  Germ. 16, 1 ' nuUas Germanorum populis urbes habitari satis notum est'. 39, 13 * centum pagi iis habitantur '. ^ n. h. II 247 ' quem (se. Eratosthenen) cunctis     QviNTiL. L 0. IX 4, 2. Tac. hist. I 34, 2 ; 57, 7 ; 59, 8 ; 70, 4. II  33, 1 ; 58, I. etc.   1 Plavt. mere, 127 (l 2, 17). Vero. Aen. IX 447. Liv. Vili 35,  5. Sen. de ben. VI 9, 1. Cvrt. hist A. M. VII l (l), 6. È dubbio se si tratti di dativo o di ablativo nei ?gg. 11. : Hor. carm.  II 2, 18. ep. I 5, 18. Liv. V 15, 3. VI 41, 2. XXVIII 39, 18. XLV  31. 12. CvRT. hist A. M. VI 3 (7», 3; 11 (43., 24. Quanto alla  costiuzione col dat., cf. Qvintil. i. o. X 1, 74. Tao. ann. I 48 ,  7; 64, 9. IV 35, 4. XII 56, 17. XIV 48, 9; 64. 2 (ma con Tablai.  retto da * e ' in Agr. 3, 14}: vedi ilcomm. del Nipperdey ad ann.  XiV 64. Per la condizione postclassica del v. 'eximere' col dat.  nella prosa latina, v. Krebs-Schmalz, antib. I, p. 497.   2 Cic. de or. II 3, 14. ad Q. fr. l 2, 1,2. de fin. I 19, 63. Cf. Liv.  I 6, 4 ; 48, 1. XXIII 18, 6. Ovid. met XI 708. Tac. hist IV 85, li.   3 II dat. usato col part. perf. e coi tempi composti di un verbo passivo è un costrutto più frequente, anche nei tempi della  latinità aurea. Vedi Cocchia, sint lat , § 73, V, p 160.   ^ Nei codd. si legge ' pagis habitantur*: noi ci atteniamo all' enoendazione del Brolier, * pagi iis habitaniur ' , accolta dal  Ma^sroenn, dal Riiler,d8l Halm, dal Kritz, dal Finck, etc La.      144    probari uideo * : v. 3, 9; 54. 16, 249. 36, 12. etc. Cicerone se n' era avvalso, sebbene di rado, massime con  r intendimento di significare un'azione vantaggiosa all' autore di essa. ^   IV.  Ablativo:   1.** All'accusativo predicativo trovasi sostituito l'ablativo ' loco ' col genitivo : Ge?^m. 8, 9 * Velaedam diu  apud plerosque numinis loco habitam '. n. h. Vili 173  ' est in annalibus nostris peperisse saepe (se. mulas),  uerum prodigii loco habitum '. La sostituzione è riferita anche al nominativo : n. h. XXXIII 46 ' hic nummus {se. uictoriatus) ex lUyrico aduectus mercis loco  habebatur': cf. 11, 191. Cicerone, Cesare e Bruto avevano dato i primi ess. di tale uso sintattico. ^'   2.° L'ablativo di luogo appare privo della prep. ' in '  nei sgg. 11. della Germ.: 10, 13 Msdem nemoribus.ac  lucis'. 37, 3 * utraque ripa'. 40, 18 ^ secreto làcu abluitur '. etc. Lo stesso osservasi nella n. h. II 168 ' siue ea {se. palus Maeotica) illius oceani sinus est...., siue     congettura deir Ernest!, ^ pagis habitaot ' , fu seguita dal Dilthey,  dallo Zernial, da Io. Mueller, etc. Il Kiessiing riproduce la lez.  dei codd ,* quamquam nibil', egli soggiunge, op. e, p. 143,  ' adhuc ex scriptoribus Latinis afferri potuit, quod hunc huius  uerbì usum confirmaret*.   1 Cic. pari. or. 5, 15 m Verr. V 45, 118. ad AH. 1 19, 4. Tuse.  V 24, 68. de off. Ili 9, 38. Cai. m. 11, 38. Cf. Tag. Agr. 10, 7.  hi9i. I 11, 9; 27, 9; 35, 8. II 80, 21 ann I 11, 11; 17, 23. II 57,  18. XII 1, 9; 9, 8 etc.   « Cic. de inu. rhei. II 49, 144. de dom. s 14, 36. ep. (ad fam.)  VII 3, 6. Caes. ò. G. vi 13, 1. Brvt. in Cic. ep. ad Brut I 17,  5. Cf Tac. hisi. II 91, 2. IV 26, 7. ann. XIII 58, 4. Vedi Cocchia, ami. laL, § 12, V, e, p. 18.      145    angusto discreti situ restagnatio \ Vili 99 ' hiberno situ membrana corporis obducta ' : y. 6, 74. 10, 62. 19,  48. 25 , 63. etc. * Nella Germ. si accoglie anche 1' uso  della prep. ' in ', quando con 1' ablat. di luogo si accompagni il pron. * idem ', p. e. 12, 10 * in isdem conciliis ', che sintatticamente risponde al 1. e. sopra, 10,  13 ' isdem nemoribus '. Similmente nella n. h, 2, 205;  219 osservasi 1' espressione ' in eodena loco '. ^ Così  nella Germ. 36, 1 si legge ' in latere Chaucorum ' :  costrutto accolto nella n. h. 3, 22. 9, 50. 35, 22. etc. ,  ma rifiutato in 2, 73; 168. 4, 40; 110. 5, 72; 74. 6,  191. 24, 160. etc. ^   3.** Gli aggettivi ' ferax ' e ' ingens ' sono usati nella  Germ. con un complemento di relazione in ablativo :   a) Germ. 5, 4 ' satis ferax ' : al contrario n. h. XV  100 ' qui {se. acini) minime feraces musti '. Il costrutto     1 Potremmo aggiungere n. h. XXXVII 19 * exposìta occuparent iheatrum peculiare trans Tiberim h o r t ì s ' secoado la lez.  data dai codd. e dalla * uulgata ', accolla neir ed. Harduin, II,  p. 767, 9, ma rifiutata dal cod. Banberg. e dalle edd. Jan (vo^  V, p. 145, 38) e Mayhoff (voi. V, p. 388, 10}, che ammettono ' in  hortis •. Cf. Tao. hisL I 64, 17. II 1, 13; 43, I ; 50, 9 ; 62, 2; 66,  4. III 22, 15; 38, 3; 61, 5. V 5, 21. ann. I 61, 12; 65, 20. Ili 38,  10. IV 43, 9. XlV 61, 3. etc.   2 Negli scritti di Tac. si preferisce, in tal caso, respingere la  prep. * in •; valgano d'es. hisL I 55, 10. II 45, 12. Ili 13, 16; 72,  17. IV 53, 4. ann. I 31, 12. II 24, 11. XIV 44, 12. etc. Vedi la  monografia di F. Schneider, quaesL de obi. usu Tao., I, Lìgniciae 1882.   3 Tac. accolse tale costrutto in ann. III 74, 10; lo rifiutò in  ann. XV 38, 17. Per V uso classico dell* ablat. di luogo senza  la prep. * in ', v. Cocchia, sinL lai., § 78, I, p. 178 sgg.   Consoli, La Germania comparata. 10      146    col complemento in ablat. è dato da Virgilio; ^ m&. il  costrutto col genitivo è presentato da Orazio , Livio ,  Ovidio , e seguito da Valerio Fiacco , Tacito , etc. ^ :  d' onde quella incertezza d' uso, che si osserva in Plinio il giovane, ^ salvo che si voglia attribuire quella  che può parere incertezza, a difTerenza di significazione, secondo che propria o in traslato, della v. ' ferax '.  b) Genn. 37, 2 * parua nunc ciuitas, sed gloria ingeas ' : cf. n. h. 23, 75. Il costrutto di ' ingens ' con  r ablat. era stato adoperato da Virgilio : * Sallustio  preferì, invece, il costrutto col genitivo. ^    D    Le osservazioni che seguono si restringono a determinare le relazioni sintattiche concernenti 1' uso dei  modi: quello che e' è da dire in rapporto all' uso dei  tempi, sarà trattato in dipendenza dall' uso dei modi  del verbo.     1 Vero, georg. II 222 * illa ferax oleosi ' (Ribb.) , o maglio  ' oleo est \ secondo la lez. preseatata dai codd. Palat. e Rom.,  confermata da Nonio Marcello (p. 500, 23 ed. Mere; p. 341, 6  ed. Gerlach-Roth) e da Arusiano (VII 473 K).   « HoR. e. aaee. 19. epod. 5, 22. Liv. IX 16, 19. Ovid. mei. VII  470: cf. am. II 16, 7. Val. Flagg. Argon. VI 102. Tac. ann.  IV 72, 9. etc.   3 Plin. episi. IV 15, 8 * ferax... bonis artibus *. II 17, 15 * arborum .. ferax *. Vedi Draegbr, hist Synt, § 206, 3, p. 441 sg.  ueber Synt u. Si. d. Tac. 3, § 71, a, p. 33.   4 Vero. Aen. XI 124; 041. Cf. Stat. sii. I 4, 71 sg. Tac. hisL  I 53, 2; 61, 1. II 81, 3. ann. XI 10, 12. XV 53, 7.   5 Sall. hisi. III 10, ed. Kritz. Cf. Tac. hist IV 66, 17. ann. I  6% 4.      147    I.  Indicatwo:   1.** L' indicativo retto da * dum ' conservasi anche  nelle proposizioni subordinate che si trovino in dipendènza da altre subordinate: Oerm. 12, 5 ' diuersitas  supplicii illuc respicit, tamquam scolerà estendi oporteat , dum puniuntur, flagitia abscondi '. Lo  stesso si osserva nella n. h. XXVII 42 * uolneribus sanandis tanta praestantia est, ut carnes quoque, dum  cocuntur, conglutinet addita '. ^ Cicerone ne aveva dato qualche raro es., seguito poi da Livio e da  altri scrittori. ^   2."* Risponde all' uso sintattico più corretto * prout '  con r indicativo : Germ. 3, 6 ^ prout sonuit [acies '. n.  h. XII 121 ' prout quaeque res fuìt \ XXXI 58 * prout  res exiget ': v. 10, 180. ^ Ma in Plinio si amplia l'uso  di ' prout ', talché questo occorre anche col soggiuntivo: V. n. h. 2, 152. 5, 51. 28, 17. 29, 30. 33, 164. ^   1 Si accompagna anche col soggiuntivo nella n. h. XXVIII  1 70 * carnesque uesci eas et, dum coquantur, oculos  uaporari iis praecipiunt '.   « Cic. p. Cluent 32, 89. de fin. V 19 , 50. Liv. XXIV 19, 3.  CvRT. hi8i. A, M. VII 1 (3), 18; 8 (34), 14. etc. Cf. Tao. héat.  I 33, 6. Ili 38, 22; 70, 12. V 17, 6. ann. II 81 , 9. XIII 15 , 24.  XIV 58, 15. XV 45, 16; 59, 13. Idial de oraioribus 32, 34J. Vedi Draeger, ueher Synt a. SL d. Tao. », § 168, p. 68. Cocchia,  8int lai, § 173, IH, a, p. 417. Frigell, epileg. ad T, Liuii Cosi Cic. in Verr. II 34, 83. ad AH. XI 6, 7. Caes. 6. e. Ili  61, 3. Liv. XXXVIII 40, 14; 50, 5. Cf. Qvintil. i. o. I 7, 2. VII  2, 57. Tac. hisL I 51, 17. Il 10, 9. ann. XII 58, 9. idial de oraiorihm 31, 20].   4 Vedi SBN. ep. XII 3 (85), 11. Tac. hist I 48, 20; 59, 5 ; 62,  15. ann. XII 6, 15. XIII 8, 12. Vedi inoltre Valmaggi , eomm.  hist Tae. I, p. 22.      148    3.** La cong. causale ^ quaQdo ' è ordinata con l'indicativo: Germ. 33, 8 ' duretque gentibus, si non amor  nostri, at certe odium sui , quando... nihii iam praestare fortuna maius potest quam hostium discordiam '.  n. h. XVIII 126 ^quando alius usus praestantior ab iis  non est': v. 17, 13; 16. 21, 1. 34, 57. etc. Numerosi  sono gli ess, di tale costrutto presso gli scrittori anteriori. ^ Nella n. h, trovasi anche la cong. ' quando '  ordinata col soggiuntivo : XVII 27 ' neque fluminìbus  adgesta semper laudabilis, quando senescant ^ sata  quaedam aqua ' : v. 10, 58. dub. semi. XIII, p. 44, 14  sg., ed. Beck. Lo stesso costrutto col soggiuntivo si osserva in Livio e, poi, in Tacito. ^   4.** L'espressione ' ut qui ' con l' indicativo si nota  nella Qerm. 22, 2 * lauantur saepius calida, ut apud  quos plurimum hiems occupat': cf. n. h, 30, 10. Nella  n. h. si accoglie ' ut qui ' col soggiuntivo : XXXI 83  ^ quercus optima, ut quae per se ci nere sincero uim salis reddat ' : v. 18, 134. 36, 120. ^ Certo è che nel mi   1 Plavt. cist 116 (I 1, 118). Ter. adelph. 287 (II 4, 23;. Cic  top. 5, 26. de fin. V 23, 67. Tuse, IV 15, 34. Sall. lug. 102, 9.  Vero. Aen. X 366. Hor. sai. II 5, 9; 7, 5. Liv. XXXIX 51, 9.  Cf. SiL. IT. Pun. XIII 768. Tag. hi$i. I 87, 1 ; 90, 10. ann. I 44,  12. Vedi Cocchia, Bini, lai., § 169, VI, avv. 2, 6, p. 407.   * La lez. * senescant ' nel 1. e. della n. /i. ò presentata dai  codd. e confermata dal Mayhoff, voi. Ili, p. 72 , 14 : nella ed.  Sillig. (v. Ili, Hamb. e Gotha, 1853) si legge 'senescunt'.   3 Liv. Ili 52, 10. Tac. hisi li 34, 4. IH 8, 13. ann. IV 64, 10.  XII 6, 2.   4 Agli ess. dedotti dalla n. A. si può aggiungere 31, 31, ove  si voglia accogliere la lez. * ut quae *, che ò presentata dai  codd. Paris. 6795 e Riccard.», e accettata dalla ' uulg. * e dalle  edd. Harduin. II, p. 551, 6; Mayhoff, voi. V, p. 12, 9: il Jan,  voi IV, p. 266, 2 la rifiuta.      149 -^   giior tempo della lingua latina si diede la preferenza  al soggiuntivo; ^ e qualche es. contrario che osservavasi in Cicerone, è stato convenientemente emendato  dagli editori moderni. ^ Negli scritti di Tacito appare  costantemente la costruzione col soggiuntivo. ^   II.  Soggiuntivo :   1.** Osservasi, talvolta, il presente del soggiuntivo  retto da ' donec ', per indicare una circostanza reale o  un'azione che si suole ripetere per abito: Germ. a) 1,  10 ' donec in Ponticum mare sex meatibus erumpat '.  35, 5 * donec in Chattos usque sinuetur '. h) 20, 5 ' donec  aetas separet ingenuos, uirtus adgnoscat '. 31, 10 * donec se caede hostis absoluat ': v. inoltre 31, 16. 40, 16.  Ai 11. ce. della Germ. si possono confrontare i sgg.     > Cic. Phil XI 12, 30. Caes. 6. G. IV 23, 5. Livio accoglie tanto la costruzione con 1* indicativo : V 25, 9 ; quanto quella col  soggiuntivo. Vedi Riemann, op. e , § 115, n. 3, p.  291. Cocchia sint lai, § 160, III, ò, p. 372 sg.   s Cosi, p. es, in Cic. ad. AH. IV 16, 6 leggevasi prima • ut  qui iam intellegebamus * (v. ed. Nobbe, p. 847) ; ora si legge  * quod iam i. * (v. ed. Alb. Sad. Wesenberg, par. Ili, voi. II, p.  148, 10, in cui il 1. e. ò trasportato in IV 17 (18), 3). Parimente  ad Ali. Il 24, 4, nel passo ' utpote qui nihil contemnere soleinus, (V. ed. Nobbe, p. 834), si ò sostituito 'soleamus' nella cit.  ed. Wesenberg, voi. cit., p. 85, 20.   3 Tac. hist III 25, 4. ann. II 10, 12. IV 62, 6. etc. : perciò il  Prammer sostituisce nel testo della Germ. 22, 3 ad ^ occupat '  la forma del soggiuntivo ^ occupet *. Il Halm , al contrario, estende r accezione dell* indicativo dal 1. e. anche al 1. della  Germ, 17, 6, supplendo il v. «eat* nella frase ellittica * ut quibus nullus per commercia cultus ' : v. Germ ed. Halm, Lps  1883, p. 231, nota.     -150 della n. h.: IX 133 * donec spei satis fiat, uritur liquor \  XVIII 103 ' postea operiuntur in uasis, doaec acescant ':  e similmente 30, 86. 34, 122. etc. Se ne erano dati degli ess. prima da Orazio, Livio, Curzio ed altri. ^ Ma  nella Germ. 37, 24. 45, 19 la v. ' donec ' si accompagna, secondo l'uso sintattico comune, con V indicativo.   2.** La deviazione sintattica di ' quamquam ' col soggiuntivo appare prevalènte nella Germ.j poiché per otto  volte che tale voce è adoperata, in due (5, 13. 17, 14)  si nota al principio di una proposizione principale, in  funzione , come osserva il Draeger, ^ di avverbio ; ^ in  un 1. (4, 5) non è seguita da un verbo di modo finito;  in quattro 11. (28, 20. 29, 15. 35, 3. 38, 4) regge il presente il perfetto del soggiuntivo : in un 1. (46, 3) si  accompagna col presente indicativo. Dello stesso modo  osservasi nella n. h. la v. ' quamquam ' col verbo all' indicativo (16, 161 ; 204 ; 206. etc.) o al soggiuntivo  (18, 125 : cf. dub. serm. II i, p. 20, 13 , ed. Beck ) : si  osserva anche ' quamquam ' coi participi: v. 15, 52. 18,  265. 19, 50. 25, 87. 26, 21. 30, 13. etc. ; e con gli aggettivi: V. 15, 52. 29, 1. 30, 13. etc; talvolta si riferisce ad un verbo sottinteso : v. 3, 55. 8, 120. 16, 151.  34, 62: cf. dub. serm. II e^ p. 14, 27, ed. Beck.   Or, la deviazione sintattica di ' quamquam ' col soggiuntivo, la quale è notata di preferenza nell'età impe   1 HoR. ep, I 18, 63 sg. II 3, 155. Liv. XXI 10, 3. XL 8, 18.  CvRT. hisL A M IV 7 (31), 22. Cf Qvintil. L a XI 3,53. Tac.  hist II 1, 8. Ili 47, 17. V 6, 21. anr^, II 6, 16. etc. Vedi RiBìfAKK,  op. e, p. 297, n. 1.   2 Drabgbr, ueber Synt u. Si. d. Tacs, § 201, p. 81.   3 C£ Tac. ann. XII 65, 12. Idial de oratoribua 2B, 9^ 33^ Ili.     riale , appunto perchè allora , per etócàcia dèi ^rlafé  del volgo, sì cominciò a far confusione tra le funzióni  del modo indicativo e quelle del soggiuntivOj mostrasi  anche nell' età aurea della prosa latina , ma solo nel  caso che il pensiero che s' intende esprimere richieda,  indipendentemente dalla presenza di ' quamquam ', raso del soggiuntivo nella proposizione; come, p. es., per  indicare possibilità o condizione : * talvolta, e ciò bófte  avverte il Rieraann, 2 pare che la deviazione si debba  attribuire ad errore di copisti.   3.** Il soggiuntivo nelle proposizioni relative , tanto  consecutive quanto finali, è d'uso ordinario nel latino:  Gef^m. 29, 4 ' in eas sedes transgressus, in quibus pars  Romani imperii flerent '. 32, 2 * quique terminus esse  sufflciat '. 35, 8 ^ quique magnitudi nem suam malit iustitia tueri \ n, h. XXXIII 84 ' remedium abluere idlatum  et spargere eos, quibus mederi uelis ': v. 34, 122; 134.  etc. ^   4. Per il tramite della frase pliniana, n. h. XXXVI  113 ' cuius nescio an aedilitas maxime prostrauerit  mores \ modellata sulla frase di Cicerone, de fin. V 3,  7 ^ quem... haud scio an recte dixerim principénl ', dò   1 Varr. in Gbll. n. A. XIV 8, 2. Cic. de or. II 1, 1. Ili 7, 27;  26, 101. p. Piane. 22, 53. de fin. Ili 21, 70 (v. comm. Madvig).  Tuse. I 45, 109. V 30, 85 (v. comm. Kuehner). de legibus IH 8,  18. Nep. XXV (Att) 13, 6. Sall lug. 3, 2. 83, 1. Cf. Verg. Aen.  VI 394. Liv. XXXVI 34, 6. Tao. Agr. 3, 1. 13, 5. hist. I 9, U.  II 20, 5. Idial de oraioribus 34, 14].   « RlEMANN, op. e, § 126, p. 300 sg. V. iaoltre Cocchia, slni. lai,  § 181, III, p. 444. Georges, ausfuhrl. Handwb., II, e. 1906.   8 Per la conferma con ess. di Cic. v. Cocchia, séni, lai, § 160,  I e II, p. 366 sgg. Cf. Tag. Agr. 34, 12. hf'ai. I 15, 18. IV 8Ì^ 3.  ann. I U, 9; XV 47, 6. etc.      152    vette, probabilmeQte, penetrare nella elocuzione della  Germ. e di altri scritti dell' età argentea ^ V uso del  perfetto soggiuntivo potenziale nelle proposizioni subordinate: Germ. 2, 5 ' immensus ultra utque sic d i x er i m aduersus Oceanus raris ab orbe nostro nani bus  adi tur '.   Infinito :   1.° Dell' infinito descrittivo si hanno ess. nella n. h. :  V. 14, 6. 28, 146. etc. ^ Nella Germ. V infinito descrittivo giunge a penetrare nelle proposizioni relative improprie. 7, 11 ' et in proximo pignora, unde feminarum  ululatus a u d i r i , unde uagitus infantium '. ^ Sallustio aveva ammesso l' infinito descrittivo nelle proposizioni comincianti col pronome relativo; * e l' es. di lui  fu in più luoghi continuato da Tacito. ^     1 Vedi QviNTiL. i. o. V 13, 2. Tao. Agr. 3, 13. ann, XIV 53,  13. Idial. de oraioribus 34, 8. 40, 19J. Plin. episL II 5, 6. pan  42, 3.   2 Si notino gli ess. analoghi di Vbrg. georg. I 200 (cf. Aen,  II 169). Aen. IV 422. VII 15.   3 Cf. Tag hist. IV 80, 13. ann. VI 19, 12. Alcuni annotatori e  editori della Germ. non hanno accolto la forma ' audiri ' nel  1. e, perché, come scrive il Kritz, op. e, p. 47, * infinitiuus historicus ut iam per se h. 1. ferri nequit, ita multo minus  ex relatiua particula aptus esse potest ' ; ed hanno mutato  * audiri * in * auditur ' ( Kritz ), ' audiunt ' (Madvig), * audias '  (Woelfflin), * audiant ' (Hirschfelder), * est audire * (Schuetz e  Maehly): il Heraeus ha aggiunto * possit ' dopo * infantium *; il  Ritter ha espunto * audiri '.   4 Sall. lug. 70, 5 * litteras mittit, in quis mollitiam socor diamque uiri accusare, testari deos ' e. q. s.   5 Tac. hist I 52, 16; 81, 4. Ili 63, 13. IV 84, 3. Vedi P.      153    2.** Tra i verbi che nella Germ. si accompagnano con  r infinito, invece di reggere, secondo l'uso più comune  per alcuni di essi, il soggiuntivo con * ut ' o * ne ', notiamo i sgg. : ' coarguere, consentire, obsistere, persuadere , quaerere, suflìcere '. Ommettiamo di trattare dei  vv. ' coarguere, ' obsistere, *• sufflcere ', ^ perchè non ci  è dato trovarne adatto riscontro né nella n. h. né negli  scritti di Tacito : è probabile, però, V analogia di costrutto tra ' obsistere ' con l' infinito e ^prohibere ', che  Plinio usò pure con V infinito. *     Crbusny, de U8U inf. hiat ap. Tao. ; in Méaeel philol. liòellus,  Bresiau 1863.   * Il V. 'coarguere' costruito con TinfiiL appare, oltre che  nella Germ, 43, 4, anche in Qvintil. L o. IV 2, 4 e in un 1.  del 6. Alex, 68, 1, che sia letto, però^ come è presentato dai  codd., cioè col v. ' coarguisset * dopo T infinito * recipere *, e non  come leggesi ora neir ed. B. Kuebler. Lps. 1896, p. 43, 26, col  V. * coarguisset * mutato di posto.   * Il V. * obsistere * con l' infìn. si nota nella Germ. 34, 11 * obstitit Oceanus in se simul atque in Herculem ìnquiri '. Presso  gli altri scrittori si accompagna col soggiuntivo retto da ' ne '  o * quo minus ' ; p. es. Plavt. miì. gì 333 ( II 3, 62 ). Cic. in  Verr. V 2, 5. ad AH, VII 2, 3. de nai, d, II 13, 35. Nbp. I (MilL)   3, 5. etc.   •* * Suflìcere * con V infin. è costrutto poetico , dato da Vero.  Aen. V 21 sg. , e ripetuto nella Germ, 32, 2 * quique terminus  esse suflìciat *. Plinio Secondo preferi accompagnarlo col gerundio dativo: v. n. A. 13, 79. 18, 249. 36» 57; o col gerundio  accusativo retto da 'ad *: v. n. h, 24, 147. Plinio il giovane lo  associò con * ut* o 'ne* e il soggiuntivo: v. epist IX 21, 3;  33, 11.   4 Plin. n. h, XXII 90 * Cleemporus nigro prohibet uesci ut  morbos facìente '. Cf. Tag. hist, I 62, 13. ann,\ 69, 3. Vedi Madvio, lai, SprogU § 344 e § 350 Anm. 3, pp. 239, 244. Cocchia,  9ini, lai, , § 168, I, avv. 6, p. 391.     -184 a) La oastruzione del v. ^ consentire ' con V infinito  sì nota nella Oerm. 34, 9 * in claritatem eius referre  consensimus \ Nella n. h. si ha tanto la costruzione  con r infinito : XVII 80 ^ Graeci auctores consentiunt  non altìores quìno semipede esse debere': v. 18, 312;  quanto la costruzione con * ut ' e il soggiuntivo : XIV  64 * Tiberius Caesar dicebat consensisse medicos ut nobilitatem Surrentino (se. nino) darent \ La costruzione  con r infinito non fu estranea a Cicerone e Quintiliano ; ^ ma nemmeno fu trascurata quella con * ut ' e il  soggiuntivo. 2   h) Il V. ' persuadere ' è usato con V infinito nella  Germ. 14, 16 * nec arare terram aut exspectare annum  tam facile persuaseris '. La n. h. presenta * persuadere ' tanto con l' infinito : XXIII 40 ^ at nos e diuerso  fumi amaritudine uetustatem indui persuasum habemus ' ; quanto con * ut ' e il soggiuntivo : XXXVII 88  * persuasimus deinde Indis, ut ipsì quoque iis gauderent '. '   e) La costruzione del v. * quaerere ' con l' infinito,  nel senso di « ad oprarsi , cercare , tendere », appare  gradita ai poeti: * osservasi nella Oerm. 2, 3 * classi   i Cia de leg. agr. I 5, 15. Phil. II 7, 17. IV 3, 7. Qvintil. L e.  Ili 7, 28. IX 1, 17. etc. Cf. Tao. ann. VI 28, 7.   « Vedi Liv. XXX 24, II.   ' Per la dìffereuza neiriuK) classico tra ' persuadere ' eoi ^ggìuotivo cetto da * ut ' o senza, vedi Cocchia, sint tei, g 163,  X, avv. 1, a ed e, p. 380.   * LvcR. de r. n. I 103, Vbrg. Aen, IV 6Sl. Hor. eai^m. ì 16,  26. OviD. am. I 8, 51. episi, (her.) 12, 176. irèst V 4, 7. Phabdr.  fab^. m proL 25. IV 9, 2. ete.     ^ 166 bus aduebebantur qui mutare secles qui^rebant * ^ * e  nella n. h. Y 54 ^ Inter occursantis scopulos noB floere  inmenso fragore quaerit sed ruere '. Vili 214 * potia»  simum e monte aliquo in alium transilire quaerens*.  Non è certo cbe un costrutto consimile sia stato fpi^  ma adoperato da Cicerone. Participio:   1." ^ Velut ' è usato con un participio, iaveoedi ìmm  proposizione retta da * uelut si ' : Oerm, 7, 7 * uelut  deo imperante', n. h. X 47 ' uelut ideo tela iigiiAta  cruribus suis intellegentes '. In Livio tal^ uso notasi più  di frequente. ^   Z."" Participio perfetto aoristico : Germ. 40, 11 * is  adesse penetrali deam intellegit uectamque bubus  feminis multa cum ueneratione prosequitur '. n. h.  XXXVII 54 * nunc gemmarurn confessa gea^ra dicemus ab laudatissimis orsi': v. inoltre Zy 44, 5, 54.     1 U. Zernial, commentando il 1. e. della Germ. p. 19, %vv^.rte: « quaerebant e. inf. bei Tao. nur hier >.   t In un 1. di Cic. de inu. rhet II 26, 77 s? legge : ^ quaerat  tamen aliquam defensionem, et facti inutilitatem aut turpitudinem cum indignatione ppoferre '. Ma i codd. Herbipolit. {H)  il Paris. 7774 A (P) e il Sangall. (5) ommettoùo T infln. * proferre', che il Friedrich (Lps. 1893, par. I, voi. J,p. 201, 16-17) chiude tra parentesi quadre. Ammessa, per tanto, V Interpolazione  del V. ' proferre*, si avverte nell'an^eò. Krbbs-Sghmalz, II, p.  395, che il costrutto di cui ò discorso « ist nicht nachzuahmen » ; e il Georges, ausjuhrl Handtob. , lì, e. 1896 , citando  in proposito la hisi Synt III 301 der Draeger, nota che in questa è da cancellarsi Tes. di Cic. de ina. rhet , 1. e.   3 Liv. I 14, 8; 29, 4; 31, 3; 53, 5. Il 12, 13. XXV 39, 4. etc.  Cf. Tao. hi8t. IV 70, 5; 71, 7.          11, 22; 187; 217. 16, 163. 30, 1. 34, 63. 36, 54. etc.  L'uso del participio perfetto aoristico si nota prima in  Cicerone, Cesare ed altri. ^   3.** Participio futuro attivo nelle funzioni di una proposizione subordinata : Germ. 3,1* Herculem memorant, primumque omnium uirorum fortium i t u r i in  proelia canunt '. n. h. XXXV 92 ' Apelles inchoauerat  et aliam Venerem Coi, superaturus etiara illam  suam priorem ' : v. inoltre 7, 143. 16, 10. 17, 9; 173.  25, 22. 26, 117. 29, 19; 29. 34, 36. 36, 119. 37, 20. etc.  L' uso sintattico di cui si è fatta menzione, fu evitato  nella latinità aurea, ^ e, come è noto, cominciò a prevalere da Livio in poi. ^     1 CiG. p. Mur. 30, 63. Gaes. ò. G. II 7, 1. V 7, 3. VII 32, 1.  etc. Quanto ai confronti con 11. di Tac, v. Draeger , ueber,  Synt u. St d. Tac. 3 , § 209 , p. 84. Vedi anche Madvig , lai.  Sprogl, § 382, 6, p. 263. Cocchia, aint lai. , § 128, 6, IV, avv. 1.%  p. 282. Ramorino, i eomm, de b. G. ili. pp. 68, 156.   2 Vedi Madvig, lai. Sprogl, § 377, Anm. 5, p. 260 sg. GandiNO, 8ini. laty I, es. 4, n. 3, p. 6 sg.   3 Cf. Tac Agr. 31, 2. hist. I 27, 17. II 53, 7. ann. 128, 1; 31,  4; 36, 5; 45, 8; 46, 7. II 17, 4. etc. Quanto ai numerosi ess. che  presenta Tito Livio, v. Guethling, de T. Liuii orai, diì^puiatio^  LiegQitz 1872, cap. II, p.5 sgg. Kuehnast, die Hauptpunkte d.  lioianischen Synt, Beri. 1872, p. 267 sgg. Vedi anche la monografìa di F. Helm, quaesL synt. de pariie. usa Tac. Veli.  Sali , Lps. 1879 ; e la monografia di S, Lichotinsky , suir uso  del participio in Tac, Kiew 1891.          Relazioni sintattiche tra la Qermania  e le opere di Tacito.   Le più notevoli relazioni sintattiche tra la Germ, e  gli scritti di Tacito sono state rese evidenti, mediante  appositi confronti segnati nelle note, nel cap. precedente, in cui si sono trattate le relazioni sintattiche  tra la Germ. e la n. h, di Plinio : nel presente capitolo ci restringiamo, per evitare inutili ripetizioni , a  notare quelle poche relazioni sintattiche tra la Germ.  e le opere di Tacito, per le quali non siamo riusciti  a trovare nella n. h. dei termini sicuri di confronto.   L  Quanto agli usi particolari di alcune parti del  discorso, notiamo :   1.** iPpron. Mpse ', in funzione appositiva al soggetto, trovasi unito con un part. perf. passivo costrutto  assolutamente, par supplire alla mancanza del part.  perf. attivo : Germ, 37 , 15 ' quid enira aliud nobis  quam caedem Crassi , amisso et ipse Pacoro,  infra Ventidium deiectus Oriens obiecerit? '. Agr. 25,  21*diuiso et ipse in tris partes e x e r e i t u  incessit': cf ann. XIV 26, 2. Analoghi costrutti presenta Livio nelle frasi : ' causa ipse prò se dieta,   quindecim milibus aeris damnatur '. ' dimissis et ipse  * adticis nauibus .... nauigare Aegyptum pergit '. ' È     1 Liv. IV 44, 10. XLV JO, 2: cf. XXX VIU 47, 7. Vedi Naegels3ACH, lai. Siy § 97, 2, 6, p. 262 sg.     possibile che tale uso del pron. * ipse ' sia stato introdotto dopo l'uso analogo fatto da Sallustio del pronome * quisque \ *   2.** La particella comparativa ' quam ' è adoperata,  talvolta, con V ellissi dell'avverbio corrispondente * potius ' ; Germ. 6, 20 * cedere loco, dummodo rursus instes, consilii quam formidinis arbitrantur'. hist. Ili 70,   '6 * ctir enim e rostris fratris domura quam Auen Untim et penates uxoris petisset ? ' : v. inoltre hist IV  5B, 6; 83, 20. ann. I 58, 6. IH 17, 16; 32, 9. V 6, 10.  Xin &y 16. XIV 61, 22. etc. L'ellissi di ' potius ' not»sA pure in Plauto, Nepote, etc. ^   3.*^ Quo modo ' è usato ad esprimere paragone, coalpe *ut*: Germ. 41,2 *quo modo paulo ante Rhenura,  aie ttunc Danuuium sequar '. Agr. 34 , 6 ' quo modo  eiiutts saltusque penetrantibus fortissimum quodque animal centra mere, pauida et inertia ipso agrainis sono  p^Ilebantur, sic acerrimi Britannorum ìam pridem ceciderunt '. ann. IV 70, 14 ' quo modo delubra^et altafìa, sic carcerem recludant ' : v. ann. IV 35, 7. XVI  31, 8; 32, 14. [dial. de oratoripus 36, 35]. Quanto  alla rispondenza * quo modo - ita ', \*. hist. IV 8, 19;     1 SAll. lug, 18, 3 ' multis sibi quisque itnperium petentibus \  Pel Bignificato di ' et ipse ' in casi aualoghi, v. la monografia  di J. Prammer , ' et ipse ' bei Tae. ; iù Zisehrf. f. d, oesierr.  Gymn, 1881, 500; e il comm. del Valmaggi a Tae. hist I 42,  J, p. 69 ; Il 33, 17, p. 62.   * Plavt. rud. 1114 (IV 4, 70). Afe/i. 726 (V 1, 26). Nep. XIV  (|)at.) 8, 1 ' statuii congredi quam ' cet. , secondo 1* ed. Halm ;  ina accolta la congettura del Fleckeisen ' statim maluit con»gnodi^V si rendei non adatta la nostra citaxióne^ Cf. Val. Flagg.  Argon. VII 428.      169    64, 18; 74, 9. ann. XIV 54, 5. XV 21,5. XVI 16, 11.»  Anche in Cicerone, oltre al significare domanda o ammirazione, osservasi V espressione ' quo modo ' adoperata in correlazione con ' sic ', di rado * ita '. '^   4.'' La prep. ' ex ' talvolta è usata con significato  modale : Germ. 7, 1 * reges ex nobilitate, duces ex uirtute sumunt ' : v. 3, 18. Agr. 40, 10 ' siue uerum istud,  giue ex ingenio principis fictum ac compositum est '.  hist. I 27, 16 * animum ex eaentu sumpturi ' : v. inoltre hist. 1 82, 14. II 85, 18. ann. 1 58, 4. Ili 69, 7. IV  64, 5. VI 11, 16. XllI 9, 4; 46, 19. XV 72, 3. etc. Di  tale uso della prep. ^ ex ' si notano numerosi ess« presso gli scrittori precedenti. ^   5.** La prep. * per ' ha valore modale neir espressione ' per otiura ': Germ. 15, 1 ' non multum uenatibus,  plus per otium transigunt \ ann. I 31, 12 ' isdem ae^  stiuis in finibus Vbiorum habebantur per otium aufc  leuia munia Notevoli ess. ne avevano     1 V. il comm. del Heraeus a Tao. hist III 77.   * Cic. de leg. agr. II 1, 3. aead. pr. II 12, 38 ; 47, 146. de fin.  Ili 20, 67. Tùse. I 38, 91. Ili 17, 37. IV 13, 28. V 7, 18. de legibua I 12,33. de off. I 38, 136. É inesatta, per ciò, raffermazioue  delio Zernial , op. e. , p. 80 , che è « * quo modo ' =: ' ut ' im  VergleìchuDgssatze wie Agr. 34, 6; bei Cic. nur in dar  Frage ».   3 Tbr. haut 203 a 2, 29;. Varr. de l. L. VI 7, 64, p. 96, 12  Sp. CiG. de ina. rhei. II 45, 132. p. Quinci. S, 30 e 31. dia. in,  Caeeil. r», 19. ep. (ad fam.) II 7, 3 ; 13, 4. XII 4, 2. XIII 56, 3.  de fin. II 11, 34. etc. Liv. I 23, 7; 40, 6. V 14,2. XLII 23, 6; 25»  11; 30, 6, Vedi Drabgèr , hist Sini, § 287 , 2 e 6, p. 592 sgg. ;  u^er Synt u. St d. Tae. 3, § 96, p. 41.   ^ et A. G^RBBR, nonn» de usu praepQ8.ap. ITac, Glueckstadt  1871.         160    dato prima Cicerone e Livio. *   6.^ La rispondenza' siue -seii ', che si osserva nella  Germ. 34, 8 ' siue adiit Hercules, seu quidquid ubique  magnificum est, in claritatem eius referre consensimus ' ; e negli ann. XIV 59 , 1 ' siue nullam opem  prouidebat inermis atque exul , seu taedio ambiguae  spei ' : V. XII 8, 1 ; 26, 8 ; fu prima applicata da Virgilio: ^ e dal modo di applicazione il Woelfflin ne dedusse che € dieso Variation flndet sich nur bei ungleich gebauten Saetzen oder Satzteilen, » ^   II.  Due osservazioni si debbono aggiungere quanto  all'uso dei casi. *   l.'' Il V. * inuidere ' costruito con l'ablativo di cosa:  Germ. 33, 5 * ne spectaculo quidera proelii inuidere  (se. nobis) '. ^ ann. I 22, 9 * ne hostes quidem sepultura     1 Cic. de inu. rhet I 3, 4. Liv. Il 39, 11. IV 58, 12. VI 27 , 7.  XXI 28, 4; 33, 10; 55, 1. XXVII 2. 9; 46, 10. XLIV 38, 10. etc  V. la monografia di F. G. Hensell, de praepos. * per ' usu Tao,  Maìb. 1876.   « Vbrg. Aen, IX 680. Vedi Manil. asiron. I 132-135. Caes b.  G, I 23, 3 ed aJtH presentano la relazione invertita * seu siue ',  che osservasi anche in Tac. ann. I 11, 9 * seu natura siue adsuetudine '. Nella n. h. di Piiaio notasi la rispondenza ' siue   uel ': XVII 223 ' siue fungum placet dici uel patellam '.   8 Woelfflin, 1. cit. dallo Zbrnial, op. e, p. 67.   4 Vedi la monografia di R. Seelisgh, de easuum obi ap. Val.  Max. usu Liu. et Taeiiei gen. rat. hab., Monasterii 1872.   5 Alcuni commentatori della Germ. dichiarano che * spectaculo ' nel 1. e. è dativo, come in Tac. ann. XIII 53, 12 ; e XV  63, 10 : V. Zbrnial, op. e, p. 66. Pais, op, e, p. 53. Ma anche  nel 1. degli ann. XV 63, 10 la frase * non inuidebo exemplo *  presenta, secondo afferma il Draeqer, ueber Synt. u. St. d,  Tae.^, § 64, p. 29, l'ablativo * exemplo \ •      161    inuìdent '. Quintiliano avverte in proposito : ^ si antiquum sermonem nostro comparemus, paene iarn quidquid  loquimur figura est : ut « hac re inuidere » non , ut  ueteres et Cicero praecipue, « hanc rem »'. ^ Il costrutto  considerato ha la conferma in alcuni 11. di Livio e  di Lucano. ^   2.° L'agg. * ferox ' con un complemento dì relazione  in ablativo: Germ. 32, 9 ' prout ferox bello et melior *.  Agr. 27, 1 ^ cuius conscienlia ac fama ferox exercìtus '.  hisL I 51, 2 ' ferox praeda gloriaque exercitus': vedi  inoltre hisL III 77, 21. IV 28, 12. V 15, 13. ann. 1 3,  20. Conformi sono gli ess. presentati da Cicerone, Sallustio, Orazio, etc. ^ Ma in altri 11. di Tacito V agg.  ' ferox ' si accompagna col genitivo, * come in Ovidio; ^  oppure con la prep. ' aduersus ' e l'accusativo. ^   III.  Per quanto concerne V uso dei modi e dei  tempi del verbo, si deve osservare :   I.v la costruzione del v. ' merere ' con V infinito :  Germ. 28, 20 * (Vbii) quamquam Romana colonia esse     » QviNTiL. i. o. IX 3, 1. Vedi Cic rase. Ili 9, 20. Hor. sai. 1  6, 49 sg,   « Liv. Il 40, 11. LvcAN. de b. e, VII 798. Ct Plin. n, h. 35, 92.  Cicerone accompagna ' inuìdeo * con V ablativo di cosa retto  dalla prep. 'in * ; v. de or. II 56, 228. p. Flacc. 29, 70. Vedi  Madvig, lai. Sprogl; e il coram. del Cocchia  a Liv. II 40, 11; Torino 1888, p. 130 sg.   3 Cia in Vatin. 2, 4. Sall Cai, 43, 4. Hor. earm. I 32, 6.   4 Tao. hist I 35. 6. ann, I 32, 11. IV 12, 7.   5 OviD. mei, VIII 613.   6 Tac. hisL III 69, 26. Notisi il costrutto col dativo in Liv.  VII 40, 8.   Consoli, La Germania comparata. U .      162    mèruerint '. ann. XV 67, 7 * diim amari meruiisti ': v.  *XIV 48, 14: tale costrutto fu accolto da Ovidio, Fedro,  ètc; ^ mentre Cicerone ed altri, attenendosi all'uso plautiriOj'diedero la preferenza al costrutto con ' ut ' o ^ ne '  e il soggiuntivo. ^   2.** il participio perfetto neutro usato al singolare  come sostantivo, in funzione di soggetto della proposizione : Germ. 31, 1 ^ et aliis Gèrmanorum populis  usurpatum raro et priuata cuiusque audenlia àpiid  Chattos in consensum uertit , ut primura adoléuerint ,  ìc'rihem barbamque submittere'. hist I 51,23 'accessit  catlide u o 1 g a t u ni , temere e r e d i t u m , decumari  iegiones et promptissimum quemque centurionum dimitti '. ann. Ili 22, 3 ' adiciebantur adulteria, ùerieiia  q u a e s i t u m q u e per Chaldaeós in doirium Caeàaris ' : à V. ann. Ili 9, 12. XV 58, 7. ** Tale sostantiva   1 OviD. in'sL V 11, 10. ex Pont IH 2, 20. Phaedr /dò. ìli 11,  7. Val. Flacc. Argon. I 519. V 223. Cf. Qvintil. /. o. X 1, 72   2 Plavt. Baceh. 1184 (V 2, 65). capt. 422 (II 3. 62; secondo  V ed. comm. dal Cocchia). Epfd. 712 (V 2, 47). Men.  217 (I 3, 34). Sdcfì. 24-26 il 1, 21-26;. Teii. Andr. 281 (I 5, 46).  hee. 760 (V l, 34). Cic de or, I 54. 232. ep.' (ad farà.) XÌV 6.  de fin. li 22, 74. de net. d. I 24, 67. (cf. in Ver\ IV 60, 135).  Ckiss.'b. G. VII 17, 5. Liv. VII 21, 6. Plin. /i. /i. 35, 8. Vedi  KuEBS-ScHMALz, antìb., II, p. 70.   3 II CoNSTANS ammétte da prima che nel 1. e. degli ann IH  22, 3 ci" sia Tuso del participio perf. passivo neutro comò soggetto della proposizione {éiude s l. languì d. Tac. , n.° 246, p.  112); poi riconosce nello stesso pariìcipio perfetto una proposizione infinitiva e non più una sostantivaz-one do! participio  (op. e, n.o 282, 12.^ p. 136): è una inesattézza dovuta a distrazione.   4 Nel citare l'es. ann. XV 58, 7 ci siamo attenuti alla * 1. ù'ulg. ':  'Taelatum erga coniuratos *. Nel cod. Med. &i legge •latatum'»      163   isione del participio perf. neutro, che manca di ess. in  Cesare e Sallustio, presentasi come un costrutto sporadico in Cicerone; frequente, invece, in Livio. '   Avvertenza, Nella Germ. non osservasi alcuno esempio del perfetto soggiuntivo di conseguenza, dipendente  ^a un tempo storico: tale costrutto notasi, al contrario,  più volte negli scritti di Tacito.    -che per il Haase diviene * non celatus tantum *, per il Halm  * clam actum *, e per il Ritter ' laeta tum nerba '. Il Ramorino  sospetta * iactatum erga coniuratos osculum. Cic. parL or. 33, 114. Liv.. XXVIII 26, 7. (cf. XXVII 45, 4). etc.  Vedi DRA.EGER, ueber Synl. u. Si. d. Tae, 3, § 211, p. 86. RieMANN, op. e, § 22, p. 104 sgg.   « Vedi Madvig, lat Sprogl, § 337, Anm. 2, p. 235. DRAEGEa,  hi8t. Synt,, § 133, p. 241 sgg.; ueber Synt u. SL d, Tae, 3, § 182,  p. 74. CoNSTANs, étude s. l langue de Tac. ANNOTAZIONI CRITICHE     AIiIiE     satire II MI e IV di Persio     ^>4>^sK-V ROMA   ERMANNO LOESCHER & C.'>   (Bretschneider e Regenherg)   Librai di 8. M. la Regina d'Italia   1905  Prezzo L. l.   m i 'à^.     SAiT'rx coM'sorii     HS^a,     Btevi Annotazioni Critiche     alle satire II III e IV di Persio Roma Ermanno Loescher & C''. (Bretschneidei e  Regenberg) Librai di S. M.la Regina d' Italia  1905, S\ pp, z8. Af.     BREVI ANNOTAZIONI CRITICHE  HLiLi^  satire II MI e IV di Persio ROMA ERMANNO LOESCHER & C:^   (Bretschneider e R^gimherg)   Librai di S. M, In Reggina d* Italift IpW. \d3.T     H»*v«?ti CdUgi Utwy   Gìh ef   Mmri* H. Morgan   Jan. l Idia     Proprietà letteraria dell' autore  (Catania^ via Maddem, lu 160)     Tipogr&iia editrice Homa dei Fratelli Per rotta, in Catania, 'imn^^'' cuy » -cg jAQO/N g» . -co^oor g»     Nel cod. Moatepessulano  (P) il Buecheler lesse indeciso  ' patru,. ' ; più chiaramente V Owen vi lesse * patruuin ' , che,  por correzione sovra pposta, osservasi, come sopra si è detto, nel  Monacense M 67. A ine pare che si debba restituire nel testo  di Persio la lezione ' patmuni ' presentata dal P. In fatto, tra  i voti immorali che si fanno alla divinità il poeta include quello  per primo, che si erediti preato dallo zio ; ma la crudezza di  tale voto, che muoia presto il parente per ereditare i beni di  lui, si vuole occultare con la finzione del decoro della famiglia,  in modo che non si chieda ^ o si ebuUiat patruus ', ^ espressione troppo dura e volgare^ ancorché si accompagni tosto con.  l' espressione vanagloriosa ' praeclarum funus ! ' ; nemmeno si  chieda ' o si ebulliat patrui praeclarum funus ', frase meno cruda ^ senza dubbio , della precedente , ma che spiace perchè è  sempre il funerale dello zio, che ardentemente si desidera : si  chieda, invece, alladivinitàcheun ' praeclarum funus ', quando  che siaj * ebulliat ' cioè dia evidenza ai meriti civili, alle qualità morali , alla distinzione della nobiltà e delle ricchezze ,  magnifichì insomma il nome autorevole del parente. Cosi non  si avrà V impudenza di cliiedere a Giove la morte dello zio ,  ma con un certo eufemiemo si manifesterà il desiderio che un  funerale splendido illustri, quando che sia, il nome e il casato  dello zìo^ e in tal modo il desiderio della morte del congiunto  appare subordinato o, dico meglio, con ipocrisia mascherato dal  voto, certamente lodevole, che sia splendidamente illustrato il  nome della famiglia, sebbene in circostanza luttuosa. Del resto,  il V, ^ obullirc 'j usato transitivamente, ebbe sempre, anche nella  In tal caso accanto ad ^ ebulliat * si dovrebbe sottintendere la voce ^ animam \ la quale, invece^ appare espressa nelle frasi : * animam  ebulliit ' di Seneca, lud, de mori, Claudii 4, 2 e di Petronio, sat cap. 42  p, 189, 2; * animam ebulUui* dello e tesso Petronio, sat cap. 62 p. 313,  1 : per Ja prima volta Persio sarebbesi privato, senza ragione, di apporre V uùQ, * animam ' al v. ^ tsbuHire ' ? latinità classi cdj il sìgniricato di ^ ìactare^ ostentare^ praedicare ';  od lina conferma ci è dato osservarlfty come ebbi a scrivere nelle  annotazioni critiche al testo di Persio p. tì3^ nota 1, in un luogo delle Tuìsc. di Cic* III 18^ 42 ' tj^ui si uirfcntes ebollire 'uolent et sapientiaa cet, '   Restituendo^ adunque, nel testo dì Persio la voce * patrnuni ^  non solo ai farà atto dì debito omaggio all' autorità del cod,  Jpf uìa, tra il contrasto dei codd. e delle edd.j si verrà a determinare la lez, in modo meglio rispondente al pensiero che il  poeta volle significare nei versi 10 e segg.     SaL li 52,   Tutti i codd. di Perno, che finora sono stati collazionati o  soltanto consultati , danno costantemente per il v. 52 la voce  ^ incussaqne ^; lo stesso osservasi ncù codd, degli e^rcerpta^ noi  quali è contenuto il y. citato* Un solo cod. di Persio fa eccezione ed è il P che presenta ' incusasque ' ; la coiTcttura ' incusaaquo * che notasi nello stesao, è di seconda mano, T^a Ica.  ^ ineussaquo ^ fu dal Jahn (ed Ma la spiegazione data dallo scoliaste fu disapprovata anche dall' Achaintre (ed. Par. 1812  p. 57).   A me pare che si debba preferire la lez. ^ laeto ' non solo  perchè ha per fondamento V autorità del cod. P. , ^ ma eziandio perchè è nell' ordine naturale delle cose che , al riceversi  un ricco dono,- il cuore per la grande gioia o , come dice una     ^ La vecchia interpretazione dello scoliaste fu confermata dal Beniley, m Hor, carm. II 19 , 6 con le parole * pect. laeu . s. sinistra parte  pectoris, ubi cor salit et sudor erumpere solet ' ; e dal Koenig * cor in  laetitiam pronum in sinistra pectoris parte lacrumas tibi excutiat ipso  gaudio ' : e a' nostri giorni è stata ripetuta dal prof. Geyza Nómethy  nel comm. alle satire di Pers. edito a Budapest nel 1903 p. 143. Alla  medesima attenendosi tradussero il Monti « il cor nel lato manco >;  il Wagner * aus der linken Brust » ; il Kayser * unter der linken  Brust » ; il Weber « zur linken Brust » ; il Binder « links aus der  Brust » ; il Duentzer « die Brust dir zur Linken » ; il Hemphill « drops  beneath your left breast». Sfuggi la questione il Fuelleborn (ed. Wien  1794 p. 61) , che tradusse « wie schlaegt vor uebergrosser Freude dir |  das Herz empor ! Schweiss rollt von deiner Wange, | und Freudenthraenen stroemen dir herab » : e la sfuggirono anche i due traduttori francesi di Persio, F. Duboys - Lamolignière (ed. Par.: « je vois  le trouble de vos sens, | et votre coeur s' épuise en longs remercfmens » )  e Vict. Develay (ed. Par. 1897 p. 1G2: « tu te pàmerais de joie et ton  coeur bondirait d' allégresse ».   2 La postilla marginale * uel leuo * (sic) del cod. P. è dovuta ad un  correttore antichissimo il quale, negli emendamenti apportati alle lezioni genuine del cod. P, dovette aver presente qualche esemplare della  recensione Sabiniana. ^loBsa del cod, Ottoburano , ^ ^ prac g:amlio esliìlaratuiu ' sì  sprema in gocce dentro il petto , che non può non sentir la  letìzia di cni eanlta il cuore. Né C' 6 ripetizione di concetto  dieendoBi ^ pectore laeto ' accanto a * laetari praetrcpidum ' ^ poiché in questa ultima ea press ione è indicata soltanto una condizione o tendenza dell' animo commosso per il dono ricevuto,  mentre con ^ pectore laeto ' si esprime quel che ne consegue  in realtà per effetto dell' offerta dei doni. All' accoglimento  della lez- * laeto ' nemmeno osta la vicinanza delle due voci  * laeto ' * laetari \ in quanto che è noto che ai Romani non  riuBci sgradita la prossimità di parole provenienti da una stessa  radice, ^ Leggo^ per ciò^ col Pithou :   I . 38i^ siano chiari e     * V.^ Alattliias ^illober, eim^ neiw Handschrift der nf'chs Satìrm dfx  A. Pers. FI , Augsburg 18tì^2 p, 24, col. l^   2 VJ per es. * omnibus ]aetitiis laetam. ' Cic. df fin. Il 4^ IB ; * Ime  purgati one purgatus erifc ' Cat. de a. e. 157, Vò ' gauisurum gfiudia ' Ter.  Andr. 9Gi (V 5, B) ; * qvianfca gaudia. ... gattdeat CatuU. 61, llìi-116;  * gaudi um gauderemuis * Cnel. ap- Cìc. fuìn. Vili 2, 1: cf. BiòL Toh, 11,  21 *cum gaudio magno gauiai sunt ' ; lùan. 3, 29 * gaudio gaudet ' ; eoe. veridici e d'efficacia maggiore quanto alla previsione del futuro,  più esplicitamente egli soggiunge : « per somnia enim siue insomnia intellegit praemonstratas curationes ac ^^py-nalo^c; ». Ma  il Plum bene avverte che all' interpretazione del Casaubon osta  « ipsa series orationis , cura in praecedente commate non de  corpore curando agitur , sed de re struenda , quae potius ad  Mercurium quam ad Aesculapiura pertinet ». Ne ci si parli di  sogni incatarrati o non incatarrati, da inferirne, come pensò il  Turnèbe, che « pituita purgatissima » valga « maxime carentia  pituita », o, come scrisse Eilhard Lubin, « omni pituita uacua  et carentia, id est nera, certa, non nana et temeraria »; perocché possono bensì gli uomini essere oppressi dalla ^ pituita ' o  malore catarrale, ma non i loro sogni.   Lo scoliaste di Pers. 2, 57 indica chiaramente in che consista  la ' pituita * ( ^ purgatio cerebri uel morbus gallinarum ' ), ma  ne conclude che gli uomini gravati da essa ^ non bona somnia  uideant '; sicché egli associa ' pituita ' con ' homines ', non  con ^ somnia ' : e sulP avviamento dello scoliaste i commentatori moderni di Persio parlano degli uomini che ^ pituita stomachi grauantur ' (ved. Némethy op. e. p. 147 ; e cfr. Hor.  sat. II 2, 75 sg.), ma evitano di congiungere in istretto legame ^ somnia ' con ' pituita '. Questo però non dovette essere  il pensiero di Persio che mise in istretta relazione ' somnia '  con ' pituita ' ; e per tanto V epiteto ' purgatissima \ al quale  si attengono tutte le edd. delle satire di Persio, perchè confermato da quasi tutti i codd. , non può rappresentarci la tradizione sincera di ciò che scrisse il poeta e si lesse dagli antichi  sino al tempo della recensione di Tryfoniano Sabino e forse  anche dopo. Per buona fortuna il cod. P, col quale concorda  in questo luogo il cod. Trevirens. del sec. IX/X, rappresenta  la lezione più sicura e genuina ' purgantissima ', la quale vedesi penetrare anche nelle letture del medio evo , come ce ne  fa fede il vestigio ' purgantis ' presentato dal cod. B àe\V opus  pì'osodiacum di Micene , verso 300 , in cui si cita appunto il veraci di Peri, 2, 57. * Or ^ con V epiteto purgantissima tutta^ a mio parare, si rende chiaro, tanto lo stretto legame eli  ' somuìa ' con ^ pituita \ ostuIantea oracula per somnani '; ed è noto^ come osservava Ci e* nelle Tnsv. IV lOj 23  che ^ cum aanguis corruptus est a ut pituita redmidat aut bilis^  in corpo re morbi aegrotatlnneaque nascuntur '.     Sat. II 71:5.   Codici j editori e imitatori di Persio non sono di accordo sulla  forma definitiva con cui debba essere fissata la voce * animxis ^  nel V. 73. La tradizione man user itta che muove dalla recensione Sabiniana afterma la lez, ^ animo \ che si osserva nei codd*  A Eh sopra citati j - nei tre codd. del sec. XI Laurentianpi. LXVIII 2% Paris, no. S049j Paria, no. ^^:?72; nel Monacens,  e. B del sec. XII e nel fìerolineus. no. 2 del see, XII o XIII;  nel Bernens* no. 648 del scc. XIII; nei due codd. del sec. XIV  Paris, no. 8050 e Rehdigeran. I; nei cinque codd. del sec. XV  Berolinenss. no. *-)H e no. .-^9 , Monacenss. no. 260 e no. \y2ij^  Kehdigeran, II; ^ nel cod, Berolinens, no, 9 del aec. XVI e nel   * V'^edi i Carmina Ct^nluìeiìsm p, ù^O^ moinun. Germ^ hùtt^ poeL Lat  ii^ui Caroìini tom. IH ex recens, Lud. Traobe, BeroU 1B96.   ^ Si scoree anche ' animo ' nella lez. ^ animimo ^ presentata dnl cod.  B di fonte oabmìana ^ I due codd, della biblioteca Jiehdigerana , Turio in pergamena del  sec. XIV e l'altro cartaceo del sec. XV, furono collazionati dallo  TzRchirner in servizio dell' ed, del KauthaJ : della collazione usufruì il  Jahn per la ' ed. maior ' del 1843. 1' Erlangens. anch' esso di data recente. La tradizione degli imitatori di Persio, che si prolungò per tutto il medio evo, si attenne alla lez. ' animi ' , la quale, in fatti, si legge nelle citazioni di Lattanzio (diu.instit. II 4 p. 126 1. 1 Lut. Paris. 1748),  dello scoliaste di Stazio (Theb. II 247 p. 81 Par. 1618), di Giovanni di Salisbury (poi. V 16 p. 319 Lugd. Bat. 1639) e del  Petrarca (epist. de rebus fam. VI 1 p. 309 voi. I ed. Fracassetti,  Firenze 1859); e si legge nei codd. degli excerpta Paris. 7647,  Paris. 17903 e Vatic. Reg. 1428 (deflorationes Persii), e nei rimanenti codd. di Persio, finora noti, eccetto il cod. P ed il  Monacens. no. 83 del sec. XII, i quali danno ' animos '.   Nemmeno gli editori di Persio, antichi e moderni, sono concordi sulla scelta : alcuni preferiscono la lez. ' animo ' , ^ altri  la lez. ' animi ' ; ^ nessuno ha scelto la lez. ' animos ' , la  quale credo che debba essere restituita nel testo, perchè è genuina e meglio adatta al contesto della frase in cui è collocata.  Che sia genuina, non alterata dalla recensione Sabiniana, ce  ne affida V autorità del cod. P che la presenta ; che si adatti  meglio alla frase risulta dalle segg. considerazioni.   Il pensiero dell' autore intorno agli elementi costitutivi della  santità dei costumi e della perfezione morale è evidente: col  ^ compositum ius fasque ' ha voluto significare, anzi tutto, V elemento estemo e formale, ossia l'elemento giuridico-religioso,  il più importante per le funzioni dell' organismo sociale róma   i Vi le edd. Casaub. 1647 p. 8; Schrevel. 1648 p. 573 e 1664 p. 542  Wetsten. (1684) p. 50 ; Prateus 1699 p. 335 ; Walth. 1765 p. 28 ; Bipontina del 1785 p. 11 ; Passow 1808 p. 13 e 1809 I p. 24 ; Weber 1826 p.  11; Hauthal 1837 p. 22; Jahn 1843 p. 28, 1851 p. 15, 1868 p. 21 ; Jahn  -Buecheler 1893 p. 22; Owen (Oxford, senza data e senza pag. nam.);  Némethy 19C6 p. 27 ; ecc.   « VM e edd. Monti p. 638; Achaintre 1812 p. 61; Casaub. 1889 (Duebner) p. XXV ; Duentzer 1844 p. 32 ; Hermann 1879 p. 7 ; Bucoiarelli  1888 p. 51; Kamorino 1905 p. 37; ecc. 11 Hermann aggiunge (praef, ed.  Lps. 1879 p. XIV) che * genetiuum tuebuntur etiam * uerba animi >  luuen. I 4, 91 ': cf. dello stesso Hermann lect. Pera., Marb. 1 842 III p. 12»  p«^lt*     - 15  ilo, con ^ anim. sanctosque recessus mentis ' V eleùietito psichico  o intimo ; e con 1' ' incoctura generoso pectus honesto ' V elemento etico dipendente dalla legge morale universale. Or, ciò  che è enunciato nel v. 73 si presenta costituito di due parti,  di cui la prima è ' compositum ius fasque ', la seconda ^ anim.  sanctosque recessus mentis \ Nessun dubbio che la prima parte  sia bimembre, cioè: a) ^ compositum ius '; b) ^ et fas ': perchè si  conservi la disposizione simmetrica della frase, è necessario che  anche la seconda parte sia pure formata di due elementi coordinati; e se uno di questi elementi è ' sanctosque recessus mentis ', V altro non può non essere costituito dall' idea espressa  mediante la voce ^ animus '.' La quale , coordinandosi , quanto  alla declinazione, nello stesso caso in cui sono espressi i ' sanctos  recessus mentis ', come prima il ^ compositum ius fasque % deve  essere nella forma dell' acc. 'animos', non del genit. 'animi' né  dell' abl. ' animo ', che se, rispetto alla sintassi, possono tollerarsi,  per quel che spetta alla disposizione simmetrica della frase ed  all'espressione del concetto, non sono, a mio parere, sostenibili. ^ Del resto , 1' avvicinamento di ' animus' con ' mens ', che  potrebbe parere una espressione sovrabbondante, per la prossimità di significato delle due voci considerate , non era per i  Romani cosa insolita. Plauto scrisse (trin. 454 [II 4, 53]): ' satin  tu's sanus mentis aut animi tui '; ^ e Cicerone (Cat. m. 11, 36):  ' nec nero corpori solum subueniendum est, sed menti atque animo  multo magis'; e Virgilio (Aen. VI 11 sg.): ' magnam cui mentem animumque | Delius inspirat uates ' ; e Orazio (epist. I 14,  8 sg.) : ' istuc mens animusque | fert '; e Stazio (silu. Per tal motivo gli edd. sono stati costretti a metterà il gen. ' animi ' o V abl. ' animo ' in dipendenza da ^ fasque ', disquilibrando cosi  tutta la frase e confondendo quanto si attiene ai sentimenti deir animo  con le esteriorità del formalismo religioso: cf. Servio, camm. in Verg.  georg, I 269, p. 193 , voi. Ili Th. * ad religionem fas, ad homlnes iura  pertinent. '   2 Neil' ed. Ck>ccbia , Torino 1886 p. 69, 4 è scritto: * satin tu sanu's  m. a. a. t. '9g,) : ' et te iara fecerat ilH [ men^ aniinusque patroni * : altri  ess, per brevità cimmetto.   Leggo, per tanto, i w. 73-74 della sat. II di Persio ;   * composi tuta ìus fasqae, anitnos sanctosqua recessus  mentiS} et in eoe tutu generoso pdctua honesto \     Bai, II T:).   Dalla recensione 8abiniana dovette prendere le mosse la lez,  * adiiioueani ' che ^W editori di Persio, quasi tuttij ^ fissarono  nel V* 75 della sat. II : e se noi cod. B^ di tonte, conte si è  dettOj Habiniana , appare ^ adinoucani \ la quale lez, riappare  circa cinque secoli dopo^ nel cod, Rebdigeran, I, ciò si deve ,  giusta la nota avvertenza del Criisiusj - al fatto che nei coddantichi non si distinzione chiaramente le forme del verbo  ^admoucù^ da quelle del verbo ^admoneo \ La lez. *adnìoneani'  trovasi semplificata in Mnoueani' nei codd. del sec. XI Pariss,  nobenhavn)  no* 2028, Monacens. no. Ìì80; nel cod. Ebneriano del sec* XI/XII,  collazionato dal Hermann; nel Bernens. no. 048 del sec. XIIT,  nel Paris, no. 80p")0 dfd sec. XIV: e sono variazioni dovixtc a  deviazioni di copista negligfontc u troppo dotto le forme  ' uoueam ' del cod. Bernens. no. f-ì98 del sec* X, * moneas ' del  cod. Paris» no. 8055 del sec. XI e *admoueas' del cod. Einsiedlens. no. i\2% del sec* XV.   Anteriore alla recensione Sabiniana dovette essere la lez.  ' admoueant ', di cui ci dà una preziosa testimonianza il cod.     ' Dico n quaìi tutti > ^ perchè ho letto * advnouoant ' soltant3 nelle  due edd. 1048 e 1GG4 delio Sdire veli us e uell* e^l. preparata dal Wetstenius.   * Crusius , in Sueton. dia. Clmtd. 39^ (ir cf, K F. C. Wunderlich j in  TiòulL IV Ij 189 Cpaneg. Mesmllat^) F^ * confermata , molto tempo dopo ^ dal cod. BeroliOp no, 49  del sec, XVI j e, nella forma semplificata ' moucant \ dal cod,  Monacens, M 67 del sec* XV* La lez, del P si adatta meglio  alla frase esaminata, poiché, disponendone in modo diretto  le parole , bì ha ^ cedo ut admoiieant (se. homines) templi^  haec i. e. composìtum ìua fasqne, anim. sanct. ree. ment. ^ et  incoct, gen* p ect. hon.j et farro litabo \ Sicché il pensiero dell' autore sarebbe: lascia che gli uomini ai accostino al tempio,  avendo nell'animo i nobili sentimenti dì giustizia, di pietà, di  onestà ecc., ed allora anch' io farò un sacrificio semplice e gradito di farro. Le parole ' conipositum Ìu3 fasque cet* * sono  usate nel 1. cit. con la funzione sintattica di coniplcm* oggetto  di * admoueant ', e la sintesi delle stesse si compendia nel pron,  * haec 'ì e però non si deve distìnguere con forte interpunzione  la fine del v, 74 dal principio del v. 75, dove il prou, ' liaec '  serve , come ho detto , di riepìlogo ai due versi precedenti : *  basta la vìrgola, leggendosi così il testo: ' e. i. f., a. s. r. | m.^  et Ìp g, p, honesto, | haec cedo ut admoueant tempi is, et farre  litabo ', II Buecheler riconosce che il /* dà ' admoueant * , ma, quasi petf  confortare con la tastimoniaaza del F la le^. ^ adnioueam \ che egli ha  scelta^ soggiunge che le due lettere finali nt rassomigliano alla m; ras^  somiglianza che non osservò , e perciò non ne prese nota , V Owen , il  qnale^ dopo il Buecheler, riesaminò e collazionò il cod. F. Perciò segnarono inopportunamente il punto fermo dopo * honesto *  il Waltbard, il Monti, il Passo w, il Casaubon (ed. Duebner, 1839), il Jahn  (edd. 1851 e 1368), il Hermann, il Bucoìarelli, ecc. ; il punto interrogativo il Casaub. (od. 1647), lo Scbrevel.^ il Wetsten*, 1^ ed, Biponfc. , V A^  chaintre^ il Kamorino, ecc.; il punto interrogativo insieme con V ammirativo il Hauthal; il segno dì due punti il Prateus , il Weber , il Bue^  cheler (III ed. del 1B93), l'Owen, il NémethVj ecc. La virgola dopo la  V. ' houesto ' fa segnata dal Jahn neir ed. del 1843 e dal Duentzer  nell'ed. 1644.     Gongoli, BreiJÌ aimot crit alle satin II, Iti e IV di Fersw, À  Sat. Ili 23.   La tradizione manoscritta, sia quella che muove dalla recensione Sabiniana ed ha i suoi più autorevoli rappresentanti nei  codd. A B, sia quella che proviene da una recensione anteriore  alla Sabiniana ed è rappresentata dal cod, P, dà concordemente per il V. 23 della sat. III la lez. ^ udura et molle lutum est': presentano anche ^ est ' il cod. reg. Londinens. e  due codd. del sec. XV, cioè il Monacens. M 67 ed il Basileens.  F. III. 6. Quante edd. di Persio ho avuto sott' occhio, sino alle  tre più recenti, cioè Ted. inglese delPOwen, Ted. ungherese del  Némethy e Ped. italiana del Ramorino, presentano costantemente,  invece di *'est', la lez. ^es', la quale si osserva in alcune imitazioni della frase di Persio fatte nel medio evo, come p, es. in  quello che scrissero Hildeberto, vescovo Cenomanense, nella mordi,  philos. quaest. I n. 40 col. 1037 B t. CLXXI ed. Migne, e Giovanni di Salisbury nel polìcrat, lib. VII cap. 19 p, 484 ed, Lugd.  Bat. 1639. Ma Pietro di Blois, che cita lo stesso luogo di Persio jxqW epist, LXXIV ad G. archidiaconum p. Ili col. 1* ed.  Sim. Piget, Par. 1667, ommette il verbo, scrivendo ^ udum et  molle lutum nunc nunc properandus, cet. '; e da tale ommissione  è facile argomentare che egli abbia letto ' est ' nel testo di  Persio , forma verbale più agevole a sottintendersi che non  ' es '. La stessa ommissione notasi nel cod. Berolinens. no. 2  del sec. XII o XIII, che presenta ' lutum nunc es properandus ' ;  sicché con ' lutum ' si chiude la prima proposizione e, cominciando con ^ nunc ' la seconda , non si può prescindere dallo  accompagnare ^ es ' con ^ properandus ' anziché con ^ lutum '.  Credo, per tanto, che si debba restituire nel testo di Persio  la lez. presentata dai codd. PAB e da altri codd. di minore  autorità, leggendosi nel 1. e. ' udum et molle lutum est ' come  una considerazione in generale , che fa il censore , introdotto  nel discorso dall' autore, sul tempo più opportuno per ottenere  il maggior profitto dall' educazione e dall' istruzione. Poi lo  stesso interlocutore, volgendosi al giovane neghittoso, lo ammonisce , come passando dalla considerazione generale al caso particolare di lui : ' nunc nunc properandus es ' ; ed insistendo  neir immagine tratta dalP arte del vasellaio , soggiunge : ^ et  acri fingendus es sine fine rota \ Cosi si viene a dare alle  voci ' udum et molle ' una funzione predicativa di ' lutum '  {' lutum est udum et molle '), come se dicesse: la creta è umida  e morbida e adatta ad essere maneggiata dal vasellaio. Quale  necessità di rivolgersi all' adolescente per fare una considerazione generale e impersonale, che la creta è pronta ? E opportuno, invece, il rivolgere la parola al giovane per esortarlo a  educarsi ed istruirsi , essendone in tempo. L' imbarazzo degli  edd. dovette essere, se mal non mi appongo, quell'incontro di  ^ udum et molle lutum est ' con le due forme participiali di  gen. maschile ^ properandus ' e ^ fingendus '; e però s'indussero  a fare di ^ udum et molle ' un attributo di ' lutum ' , costituendo ' tu ' soggetto sottinteso anche della proposizione che  deve conservare un carattere objettivo di concetto generico e  indipendente dalle condizioni degli interlocutori. Ma la difficoltà si elimina agevolmente fissando da prima una forte punteggiatura dopo ^ est ' , perchè resti nettamente determinato il  concetto generale dell' età più adatta all' educazione intellettuale  e morale; e poi, sulla traccia della lez. ' nunc es properandus '  presentata dal cod. Berolinens. no. 2 sopra citato , scrivendo  properandu's e fingendu's. Sai. Ili 60.   La lez. ' dirigis ', accolta dal maggior numero dei codd. e  degli edd. di Persio, piglia le mosse dalla recensione Sabiniana  e fondasi sui due codd. A B, Il correttore antichissimo del cod. P, il quale dovette avere a guida pelle sue emendazioni un esemplare di fonte Sabiniana, accetta anch' egli la lez. dirigis . Un’emendazione di seconda mano fatta sul cod. A muta dirigis in derigis, lezione approvata e accolta dai recenti edd. di Persio, Buecheler (Beri), Owen, Némethy. Il cod. P presenta, invece, In lez. dì modo soggiuntivo dirìgas, la quale, sebbene trascurata da tutti gli edd.j a me pare che debba essere restituita  nel testo di Persio, in quanto clie vale a denotare la possibilità  che ci sia qualche cosa verso cui si diriga l’arco, dello stesso  modo come più sotto è detto securus quo pes ferat Maj perchè bene si adatti il v. dirigas in dipendenza dalla frase est aliquid, è necessario, per rispondenza simmetrica delle parti nello stesso periodo sintattico, che il verbo precedente tendis posto anch'esso in una relativa subordinata, si muti in tendas. Cosicché j ove si voglia fare lieta accoglienza alla lez. presentata dal cod, Pf è necessario che il verso citato sìa lotto :   ^ est alìquìd quo tend&s et ìd quod dirlgas arcani \     JSat, III 93.   Nulla avrei da osservare sulla legittimità della fonna chiusa  di part. futuro ^ loturo ', che loggesi in quasi tutte le edd, di  Persio nel v, cit., ne della forma aperta lauturo ^, la quale fu  accolta dal Hauthat (ed. Lps.) : ^ questa ultima  è presentata dai codd. del sec. XI Paris, no. 8049; Paris, no.  8272, Monaeens. F//, Monaceus, no. 330; da altri due codd.  Monacensi del sec. XII , cioè Ìl cod. e. 3 e quello contenuto nel cod. segnato Kr/89. a ; e dal cod. Guelferbyt. Aug, 29. 12  del sec. XIII. La forma chiusa ^ loturo ' risale ad un' emendazione di seconda mano fatta al cod. A. , poiché tanto questo  i[uantQ il cod. B hanno ^ locu}>o ' , in cui il Buecheler credette  scorgere ' locnro '; ed osservasi anche nel cod. XXXVII 19  della bibl. Laurenzianaj del ecc. XI, esaminato di recente dal  Kamorino.   Leggesi * laturo ' nel cod. P e noi due codd. del sec, XI  Paris, no, 8048 e Bemcns, no. 327: nel cod. mutilo Bernens. si legge ^ laturo ' con la lettera ù sopra- Egli però non ne addusse le ragioni nelle Anmerkufìgen ^sur drUten  iSatirej scritta all' a ; e perciò la lez. si ricongiungerebbe con V emendazione antica segnata da seconda mano nel cod. A. Ma, se le  forme ^ lauturo ' e ' loturo ' non sono da rifiutarsi , si può dichiarare senz' altro come inaccettabile la forma ' laturo ', scritta  prima, come pare probabile, ^ luturo ' nel cod. P ?   Io credo che no ; perciocché , se accanto al v. ^ lauere '  fu accolto nella lingua il v. ^ lauare ' , la forma del supino  preclassica e classica ^ fu sempre ^ lauatum ' , come la forma  classica del part. perfetto fu sempre ^ lautus '. Non e' è dubbio  che dal tema del supino classico ' lauatum ' sia nato il part.  futuro ' lauaturus ' , che si osserva in Ovid. fast. Ili 12 ^ sacra  lauaturas mane petebat aquas ' : e da ' lauaturus ' , per il tramite normale laaturus, ebbe origine per contrazione la forma  ' laturus ' , di cui il cod. P ed altri codd. sopra notati ci danno conferma. Non sarebbe, dunque, contrario alle leggi fonetiche dell'idioma latino l'accogliere nel testo di Persio la lez.  ^ laturo ', che ha per fondamento l' autorità del cod. P : e della  presente annotazione vorranno tener conto, mi auguro, i lessigrafi della lingua latina. Sat. Ili 97. Il cod. P dà ^ sepellitur istas ' per il v. 97 della sat. Ili:  nei codd. ^ JS si legge ^ sepeliit urestas', che gli edd. tutti di  Persio hanno interpretato ' sepeli: tu restas ' , aggiunto o non  il punto interrogativo in fine. Per ispiegare la frase ^ tu restas ' , alcuni commentatori di Persio ricorrono al sottinteso  ' mihi sepeliendus ' ; ^ altri equiparano ^ tu restas ' a ' uiuis  adhuc et uiuis , ut mihi grauia praecipias ' ^ ovvero a ' tu     A Vedi Terent. hautt.  ; Hor. sat 1 3, 137.   * Il Némethy, ed. cit. p. 200, a conferma delle voci da sottintendersi  ^ mihi sepeliendus ' adduce il confronto con Hor. sat l 9, 28 : ' omnes  conposui. felices! nunc ego resto '.   3 Vi V ed. del Prateus, Lond. iiiìlii adlmc tutor restaa ': altri ancora, come Tommaso Farnal)io itA.) , interpretano ' tu cout(?m[)tnr pliiloi^opliorum  r4 p. 557 t, e dal Wetsteu. p. l>5 &.   ^ V* i luoghi Gitati delle edd, SchreveL e Wetsten. J Forse per tal motivo, o non per nuovo e più diligente esame del  cod. , il Jabn s^ indusse it scrivere nelle note critiche delU sua ed. 4 ' sepsi i tur istas ' C, che iìqIP ei. IBJl p* 20 aveva scritto   * seppelHtur istag ' C.   ^ La ragione metrica rifiuta altresì Del Inogo commentato la formu.   * sepe.lil ' j morfologicamente corretta, che dmmo due codd. del sec. X,  cioè il Bernens, no. 257 ed il Leìdoiis. no. 7H; due codd. del se&. XI,  ossia il Bernens. no, ^J2T ed il Paria. 8070; il Behdigerdu. II del sec. XVj  e inoltre il cod. reg. Londinens , la cui collazioaej fatta dal Bentley, fu  pubblicata nel Chtìisk. Jouni, Il cod. Beroens,  del sec. XIII, che presenta ' sepeliui * , om mette di couseguenza il ' tu '  a fin d' evitare che un piede deir esametro dattilico sia di tre sillabe  lunghe. Debbo notare che vi è incertezza intorno alla parola in esame, citata da Nonio Marcello. L' ed. Aldina Vea,  dà ' riisitatis *; T ed.dicativo di ^ risito ' la seconda pers. sing. dovrebbe essere stata,  secondo la flessione normale, *risitas, da cui, per sincope della  i breve della penultima sillaba, gradita forse nel linguaggio familiare, sarebbe nata ' ristas ' = « ridi spesso, ridi di frequente ». E però nel v. cit. di Persio ben si adatta ' tu ristas ?'  per significare il pensiero del giovane avido di piaceri anche  presso a morire, il quale al monitore risponde : " non essermi  come un tutore ; da più tempo V ho fatto seppellire „ : e, quasi  accorgendosi d' un sorriso ironico sulle labbra dell' interlocutore  che lo vede morente per intemperanza, gli chiede : « tu ne rid i  spesso ? » Talché il monitore, annoiato di tanta persistenza nel  male, gli risponde : ^ perge, tacebo '.   Concludendo, io son d' opinione che si debba rendere anche  per il V. 97 il dovuto omaggio al cod. P, leggendo :   ' iam pridem hunc sepeli. tu ristas ? * ' perge, tacebo '.     Sai. Ili 107.   Gli edd. di Persio leggono, tutti concordemente, il v. su indicato : ^ tange, miser, uenas et pone in pectore dextram ' . Non  nego che si possa leggere bene cosi il v. di Persio ; ma il cod.  P invece di ' dextram ' presenta ^ dextra ' : non si può in alcun  modo far posto a tale lez. ? I concetti espressi nel verso sono  due, ben distinti V uno dall' altro : a) tocca i polsi ; b) metti  la destra sul petto : il complem. oggetto del primo verbo ^ tange '  è ' uenas ' ; del secondo verbo ^ pone ' è ^ dextram ' . Nulla però  vieta che si possa intendere che i polsi si tocchino con la destra ; né e' è nulla che vieti che la destra, dopo aver tastati i     luniana Antv. risitant * (e cosi è citata nel Ipssìco Forcellini-De  Vit la 2^. ed. Merceriana Par.   risitantis '. Carrio  lesse * risitantes ', donde la congettura del Bothe ' missitantes % gradita al Georges, ausfUhrl. Handtvb, II col : al Vossio piacque congetturare ' usitant '. polsi, si poggi sul petto dell* ammalato. Può^ quindi^ il primo  concetto mettersi in istretto legame col secondo mediante il  aervizio comune della mano deatra j come se T autore dicesse:  ^ Ungej mìser, uenas dextra ot pone («e, eam) in pectore \ E  ciò può ben risultare dal verso considerato, leggendolo : tange, miser^ uenaa (et pooe in pectore) dexfcra ^ ,   Cosi nulla vieta che si dia posto alla lez. * dextra ' del cod.  P\ sebbene da quello inciso ' et pone in pectore ' derivi , uè  convengo anch' io^ un che di stenta to^ cUe^ del rcsto^ non sarebbe alieno dallo stile di Persio e di altri poeti satirici latini.     SaL IV 9.   Son d- opinione che nel cit. y, 9 si debba restituire il pron,  ' il] ut % nella fonna appunto che è presentata dal cod» P, e  la restituzione debba farai in tutti e due i luoghi^ nei quali ivi  è adoperato; ^ cosicché il v, di Persio sia da leggersi:  hoo puta non ìustum est^ illat male, recti ub illut ^ .   Né osta all' accoglimento di ^ illnt ^ la singolarità della forma  con la desinenza in -tj che non è rara , come a prima vista  potrebbe parere* In fatto^ come è notOj altri ess, di ^ illut ' ci  porgono i coddp Plautini ^ uetus ' o Vatìcanno (B) e ^ decurtatus ^ del se e» XI (C) al presente di nuovo in  Heidelberg ; il cod. Tereuziano Bembin. o Vatican,  del  sec. IV/A-^ (A) ; il palinsesto torinese del sec. IV/V (orazione  dì Cic. prò Tuli.) ; il palinsesto Vatican. Reg. 2077 del sec.     ^ Avverto^ in nota, che nel 2^* dei due IL indicati sostituiscono * istud '  al pron. dimostrativo che ivi è adoperato quattro codd. del sec, XI^ cioè  i Monacenss, Ffl e no. 330 ed i Pari ss. no- 8048 e no* 8070 ; tre codd.  del sec. XII, che sono il Monacens. no. 83, il Paris. 8246, il Berolinena,  no. 2; ed altri codd, più recenti. contenente le Verrin. di Cic. ; il cod. Vatican. - Basilio .  H 25 del sec. IX, in cui si contengono le Philipp, di Cic. ; ^  il cod. Paris. 5764 del s. XI/XII, che contiene i comm. de 6.  ciu. di Cesare; il palinsesto veronese del sec. V delle institutiones  di Gaio ; ecc. ^ Altri ess. presenta il Corpus inscr. Lat. : . ecc. Sat. Tanto il cod. P quanto i codd. A B danno concordemente  ' potis est ' per il v. 13 : la stessa lez. si ripete nel florilegio  contenuto nel cod. Monacens. no. 4423 del sec. XV. Una correzione di seconda mano fatta sul cod. A sostituisce ' potis es ' ;  e questa lez. osservasi nel cod. Laurenziano 19 del  sec. XI e, sotto cancellatura, nel cod. Paris, no. 8272 del medesimo sec. ^ Gli edd. di Persio hanno tutti accettato V emen-  dazione del correttore del cod. A, scrivendo il v. di Persio : et potis es nigrum uitio praefigere theta '.   Io credo che si debba ritornare alla lez. dei codd. P A B,  restituendo nel testo di Persio V espressione ' potis est ' : e mi  conferma in questa opinione, anzi tutto, il fatto che i dotti del  medio evo lessero ^ potis est ' nel verso citato , come ne fanno  fede Isidoro (sec. VI -VII) * e Giovanni di Salisbury; ^ e in secondo luogo una ragione ermeneutica. Al gio-     A Vi Mai, class, auct t. II pp. 7 e 810.  Il Neue (Formenlehre der lateinischen Sprache, III Auflage von C.  Wagener, Beri. Calvary) nelP elenco degli ess. sopra  menzionati trascura la lez. del cod. P di Persio.   ^ Non si può tener conto della lez. , evidentemente errata , * potis e  nigrum ' , che presenta il cod. Paris, no. 8048 del sec. XI.   4 Isidorus, on'g. I 23, 1 col. 837, 18 : * et potis est nigrum uitio prae-  figere tbeta '. 5 Ioannes Saresberiensis , policrat VI 18 p. 371, 36, ed. Io. Maire ^  Lugd. Bat.: et potis est nigrum uitiis praefigere theta '. vnìm aiiibizinso, ^il qua lo * inveii ìum e è rerum prudentia Meìùi  I ante pìlos neiut ' , il saggio pn^cettore dico : ^ scia etenim iu-^  ttum geuiina suspendere [unee | ancipiti^ librac '5 e tosto 90"^*i  giunge : ^ rectuui diseeniis ' ; e di taile discernimento fa, quanta  air obietto, tre ipotesi: a) ubi inter curmi aubit ' (^c. roc*'  tuiuj , cioè, couie spiega il prof. Geyza Németh^j  etiam  tuTii, cum difficìlo est rectum a non recto discern^ra * ; ò) ^ nel  cuui fa Hit pedo regula uaro ' , perehn il ^ aumnium iua ' è non  di rad^ì ^ aumina iniurjfi \ donde la necossità di mitigare U ri-  gore delle leggi eoi principi dell'equità; e) ^ et potis est Jii-  gi'Uin uitio praefigere tlieta % ossia la possibilità, in generale^  di punire ì colpevoli. Questa terza ipotesi v in istretto legame,  logieo e sintattico, con la precedente; e su il poeta ha preferito  avvalersi generalmente de IT espressione ^ uel cum fnllit \ non  potevasi, tanto per V unità di concetto quanto per la diretta di-  pendenza di ^ potis ,.. ' dalla stessa espressione ' nel cum ' eli e  regge il ' fallìt * precedente, non poteviisi^ dicevo^ venire al  verbo di feconda pers. es ' , ma era da con servarsi, per V ob-  biettività (mi si conceda V uso, qui necessario, della voce nuo-  va) della considerazione generale, la stessa terza pers. che si  V notata tanto in 'fallii ' quanto in * subit \   1 jCggo , d un q ne, coi miglio r i co dfl . di Pc r sio e sccond o la tra -  dizione conservata dai dntti nell'etìi di mezzo; et potis est nigrum uitio praefigere thefca,  Jn tutte le edd. di Persio si leggr;   ' ingetntfc ^ hoc bene sìt ' tunicatum ciirn stile mordens  cae|)e ^ ,  Kémethy, op, eìt. p* 21%  Ma il cod. P dà ' mordes ' invece di ^ mordens ' ; e , tutto-  ché il correttore antichissimo vi abbia apposto V emciidazioiui  ' mordens ' , fondata sulla recensione Sabiniana , io non credo  che la lez. genuina del P si possa senz' altro rifiutare. Tutti i  commentatori spiegano il passo cit. che V autore ci voglia pre-  sentare un tristo avaro , il quale , mordendo una cipolla con  sale, mormori soddisfatto ' hoc bene sit '. Secondo la lez, del  cod. P appare, invece, che l'avaro non si congratuli soltanto  con sé stesso del vilissimo cibo che mangia, ma ne faccia quasi  un'esortazione a chi conversi con lui, sulla bontà dei cibi frugali, di poca o nessuna spesa; onde il verso dovrebbe leggersi:   * ingemit « hoc bene, si tunicatum cum sale mordes  caepe » ' .   E in tal modo si rende necessario mutare ^ sit ' ì\\ ^ si ' ;  ma con ciò io non credo che si venga a forzare la parchi per  coordinarla con la lez. del P ^ mordes ' , poiché a me pare di  essere nel vero ammettendo che la t finale di ^ sit ' sia dovuta  air efficacia della pronunzia dejla lettera iniziale della voce  seg. ^ tunicatum ' : e non é improbabile che chi scrisse il P  abbia trovato, nelP esemplare da cui traeva V apografo, il nesso  ^ situnicatum ' e V abbia diviso, senza ben riflettere al mordes seg. , in  sit tunicatum '. Laonde non credo di essere in fallo  riconoscendo per vero che Tryfoniano Sabino, quando i^i accinse  ad emendare il testo di Persio, siasi trovato , recensendo il v., dinanzi alla difficoltà del ' sit ' coordinato con mordes e che abbia opinato di superarla lasciando ' sit ' e correggendo  ^ mordes ' in ^ mordens ' , che poi si ripetè nei codd. che ebbero  a fondamento la recensione di lui.   D'altro canto, non sarebbe sintatticamente inesatto se ai lasciasse coesistere il ^ sit ' col ^ mordes ' , leggendo : ingemit « hon (bene sit !) tunicatum cum sale mordes  caepe t;   ma spiace quell' indicazione di un fatto come realmente avve- mitoj mediante il ^ inordos ' di modo indicativo, laddove s' intenda t* eprime re un invito o consiglio o sollecitazione a man-  g"iare cipolle con sale.   La restituzione della lez. presentata dal P, con la sostila-  aion© della voce ^ si ' al v. * sit \ ha questo di vantaggio sulla  lez. coin un eniente segui taj che, oltre al dare maggiore evidenza  alla tìgura delP avaro che predica agli altri la bontà dei cibi  tiomplici y naturali e di poco o nessun costo ^ ha il merito di  evitare il cumolo dei due participi ' metuena ' e ^ niordens ' (o incidens come è scritto nel cod, Paris, no. 8050 dell' a. 1321}  e di conservare meglio la simmetria della frase.     Sat- IV 51.   La lez. * est ' invece di ' es ' nel v. 51 è data tanto dal  cod- P quanto dai codd, di fonte tSabiniana A B; e si osserva  ripetuta nel cod* Paris, no, 80oO scr. nel sec. XTV e nel cod.  Basileens. f\ III. 6 dtjl sec, XV, Olì edd, tutti l'hanno rifiu-  tata, ma a torto ^ ed hanno ammesso la lez. * es ' che appare  la prima volta in nn^ emendazione di seconda mano notata nel  cod, A e si ripete nel cod. Laurenziano XXXVII 19 del sec.  XL Dico eh a gli edd. l'hanno rifiutata a torto ^ perche il  pensiero dell' autore non è di consigliare il rifiuto dì ciò che  una perso uà non èj ma il disdegno per tutto quello che in real-  tà non t% cioè il disdegno per lo vane apjiarenze e per le cose  che non hanno valore alcuno: insomuia, il contenuto del consi-  glio che da 1' autore ha un* estensione objettiva maggiore chn  non resti espressa col verbo in seconda persoua * es \ Io cre-  do, per tanto ^ che si debba ritornare alla lez, presentata dai  codd, pili autorevoli, leggendo il verso su indicato di Pera io:  respue quod non estj tolUt sua muoera cerdo  K\in opere del Prof. Dott. Santi CirasDli : IIuIIòitkIc sninimntlk Ul brng for Koriitke og Danske, Catania , 1BB4.  L. 3. (in Oì?itu presso E. Ilaul'fs boghantlel, Krif>tiauìaj in Norvegia).   MHit/Aoiil di Ihii^nm kitmti espoF^te, fieeondo il mefcoLlo scientìfico , agli  al u imi dille scuole secondarie olaasicho. Ci^taaia^ F, Tropea, 18BT«  L. :i, 50 (esaurito),   Iiitrodii/ioue il Ilo studio del l>. K. — Torino^ Fratelli Bocca, ItiSH. L. Ci  (esaurito).   Fotioloiriu lutimu — 2'' ediz. riveduta e migliorata. — Milano, U. Hoepli.  im-2. L. 1, 50.   Lettera! lira no r ventatiMilano^ U. Hoepli De Cp Ffìiiiì CiiceilH 8ceiiiidl rlietorick s^tudll^,  Catiuae , C. Galatola ,  18^7, L 3 (esaurito).   Il neoloferismo iioflì Berltti di Plinio lì giovane. Contributo agli studi sulla  Uitiiiit^'i ar^outeti. ^ Palermo, A. Reber^ 1900. L. 3.   Neidosrìsnii 1)otiimei nei earinì biieoUei e g^jorgricl di Yì Icilio, Contributo  agli ytudl sulla latlcitfi dell' evo augusteo»  Palermo , A* ftebor .   Té* tt Ilio re ilei libro De origine et sitn (Teruiauorum ,| ; ricercke critiche,  Jtioma, E. Loeseher & a-, . L. .   Li Germauia, comparata con la Natni'alis lilstoria, di Plinio e eoli lo opero di Tnelto: ricerche lessigrafiche e sìutiitticbe. E orna, E.  Loe^cher & C", 19(Xl L a   ^^otc eritieiic e liìbilogi^Uciie di lettemtura latina^ puutata. I.  Catania^  Barba gai lo Lt Scuderi A« Pernii FI aeei saturartim libtr ; recensuit, adnotatione critica instruxit,  te stimolila usque ad saeculum XV addidlt Santi Consoli. Editio  maior. llomae, apud Hermannurn Loescher et socium. Note eritlelio e bibUoj^i'atìclie di lettemtuni latina, puntata II. Catania,  Fratelli Perrotta, MM, L 1,   A. Pei-sil Flacei satnrariini Hbcr ; recensuit Santi Consoli. Editio miaor.  EomaOi apud Hermann uni Loescher et socium, 19CM. L. 1,     Di prossima pubblicasiione :  Le fonti delie satire di Persio. Up Bf«v! afinm^lonE (critiche alle Set ì. Santi Consoli. S. Consoli. Consoli. Keywords: deutero-esperanto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Consoli.” Consoli.

 

Luigi Speranza -- Grice e Conte: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del sacrificio – scuola di Pavia – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia). Filosofo paviano. Filosofo Lombardo. Filosofo Italiano.  Pavia, Lombardia. Grice: “Must say I love Conte – he  has almost the same talent for linguistic coinage that I do! In Italy ‘filosofia del diritto’ is much more respectable a discipline that it is at Oxford! But Conte managed to keep it philosophically interesting for the philosopher’s philosopher that I am!” “Conte proves that moral philosophy is at the heart of philosopohy qua-uni-virtue – for the critique of reason must include the buletic – and that’s all that Conte dedicates his philosophy too! Into the bargain, he expands into concepts like sacrifice, punishment, ‘fiducia’ (my principle of conversational trust), and so much more!” “He plays with language the way only Heidegger did in German and I in English!” Grice: “Conte is what I – and Italians – would call a ‘Griceian conversationali pragmaticist.’” Studia a Pavia e Padova. Si laurea a Torino sotto Bobbio con “Ius naturale.” Insegna a Pavia. Si occupa della semiotica del performativo deontico o buletico, la regola eidetico-costitutive, validità buletica – desirabilita -- deontica, modo imperativo, prammatica conversazionale – alla Grice. In che cosa consiste quell’’impero’, dal quale il modo imperativo prende il nome. Altre opere: “Interpretazione analogica. Pavia, Tipografia del Libro, “Ius ed ordine” (Torino, Giappichelli). Primi argomenti per una critica del normativismo. Pavia, Tipografia del Libro, Ricerca d'un paradosso deontico” (Pavia, Tipografia del Libro); Nove studi sul linguaggio normativo. Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. I. Studi; Torino, Giappichelli, Filosofia del linguaggio normativo. II. Studi; Con una nota di Bobbio. Torino, Giappichelli); Imperativo ed ordine. Studi Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi, Torino, Giappichelli); Filosofia del diritto” (Milano, Cortina); Ricerche di Filosofia del diritto” Torino, Giappichelli); “Res ex nomine” (Napoli, Editoriale Scientifica); “Sociologia filosofica del diritto. Torino, Giappichelli); “Adelaster. Il nome del vero” (Milano, LED). È inventore del genere da lui chiamato "eido-gramma" ed autore di numerosi eidogrammi, solo parzialmente éditi:  Nella parola. Osnago, Pulcino elefante, Kenningar. Bari, Adriatica. "Per una critica della ragione deontica" (introduzione alla Filosofia del linguaggio normativo).  Pragmatica. Filosofia del diritto Logica deontica Ontologia Performativo (atto verbale) Pragmatica Semiotica Semantica.To undertake to set forth with any definiteness the  ‘religious’ – or eschatological -- ideas of ''a Roman philosopher'' – FILOSOFO ROMANO -- would be an  extremely difficult task.Those, ideas would differ  with the individual and the sect, being determined or varied by a  number of considerations and influences — by locality,  education, and temperament. SILIO would not hold  the views of SEIO. We may speak of the state religion – colto officiale -- of ROMA, as  distinct from various other ‘religions’ tolerated and  practised in different parts, but it is  scarcely possible to define the contents of that  ‘state religion’ – il SACERDOCIO. There are certain special priests  and priestly bodies who see to it that certain rites  and ceremonies are performed scrupulously in a  prescribed manner and on prescribed dates. But these  are officers of the state – LO STATO ROMANO -- whose knowledge and  functions are confined to the ritual observances with  which they have to deal. They are not persons  trained in a system of ‘theology’, nor are they  preachers of a code of doctrines or morals. They have no "cure of souls," and belong to no church. They  have no credo and no Bible or corresponding authority to which to refer. Though most well-informed  persons will know the prominent  deities in the calendar — such as IOVE or MARTE, or QUIRINO -- perhaps scarcely any one but an encyclopaedist or antiquarian could have named one-half of  the total. It is not merely that the deities on the  list are so numerous. There are other reasons for  ignorance or vagueness. In the first place, the line  between the operations of one deity and those of another is often too fine to draw, and deities originally  more or less distinct come to be confused or identified. Secondly, it is often hard, if not impossible, to  make up one's mind whether a so-called deity — such  as SPES — is supposed to have  a real existence, or whether it is simply the personification of an abstract quality. Thirdly, divinities fall out of fashion, and to a  large extent out of memory, while new ones come, or were  coming, into vogue.  The state possesses its old-established calendar of days sacred to a number of deities, and its code of  ritual to be performed in their honour. There are ancient prescriptions as to what certain priests should  wear, what they should do or avoid in their priestly  character, what victims — ox, sheep, or pig — they  should sacrifice, what instruments they should use for  the purpose, and in what formula of words they  should pray in particular connections. There is a  standing commission, with the PONTIFICE MASSIMO at this date that excellent religious authority, the emperor — at its head, to safeguard the state  religion, to see that its requirements are carried out,  and that no one ventures to commit an outrage  towards it. But the state will not tell you  with any precision that you must believe in just so  many deities and no others. It would not tell  you precisely what notions to entertain concerning  those deities whom it does officially recognise. The state  dictates no theological doctrine; neither does it dictate  any moral doctrine beyond those which you would  find in the secular law. It reserves the right to  prevent the introduction of a foreign divinity  if it finds sufficient cause; but so long as the  temples, the rites and ceremonies, the cardinal moral  axioms of the Roman ''religion,'' and the basic  principles of Roman society are respected, the state  practises no sort of inquisition into your beliefs or  non-beliefs, and in no way interferes with your  particular selection of favourite deities. Poly-theism in an advanced commimity is always  tolerant, because it is necessarily always indefinite. What it does not readily endure is an organised attack  upon the entire system, whether openly avowed or  manifestly implied. Even undisguised unbelief in  any deity at all it is often willing to tolerate, so long  as the unbelief is rather A MATTER OF PHILOSOPHICAL DIALECTICS than  anything else, and makes no attempt at a crusade.  When a state so disposed is found to interfere with a  novel religion, it will generally be easy to perceive  that the jealousy is not on behalf of the deities nor  of a creed, but on behalf of the community in its political, economic, or social aspect. Let us endeavour to realise  as best we can the religious situation among the  Roman population.  Though we are not here directly concerned with  the steps by which the Roman religion had come to  be what it was, we can scarcely hope to understand  the position without some comprehension of that  development. The Romans are a CONSERVATIVE people, and many of the peculiarities of their worship  are due to the retention of old forms which had lost  such spirit as they once possessed. In the infant days of the nation there had been no such things as gods in human shape, or in recognisable  shape at all. There were only ''powers" or "influences'' superior to mankind, by whose aid or concurrence man must work out his existence. The early  Romans and such Italian tribes - as they became  blended with were, as they still are, EXTREMELEY SUPERSTITIOUS. In a pre-scientific age they, like other  peoples, are at a loss to understand what produces  a thunder or a lightning, rain, the fertility or failure of  crops, the changes of the seasons, the flow or cessation  of springs and streams, the intoxication or exhilaration proceeding from wine, and a multitude of other  phenomena. Fire is a perplexing thing; so is  wind. The woods are full of mysterious sounds and  movements. They could comprehend neither birth  nor death, nor the fructification of plants. The  consequence is a feeling that these things are due to some unseen agency; and the attempt is made to  bring those powers into some sort of relation with  mankind, either by the compulsion of magical operations and magical formulae, or by sacrifices and offerings of propitiation, or by promises. A superhuman  power might be placed under a spell, or placated with  food and drink, or persuaded by a vow. Such  "powers" were exceedingly numerous. Greatest of  all, and recognised equally by all, was the power  working in the sky with the thunder and the rain.  Its presence was everywhere alike, and its bperations  most palpable at every season. Countless others were  concerned with particular localities or with particular  functions. Every wood, if not every tree, and also  every fountain, was controlled by some such higher  'power'; every manifestation or operation of nature  came from such an 'influence.'' There was no kind of  action or undertaking, no new stage of life or change  of condition, which did not depend for help or hin-  drance upon a similar power. At first "the ''powers"  bore no distinctive names, and were conceived in no  definite shapes. They were not yet gods. The  human being who sought to work upon them to  favour him could only do, say, and offer such things  as he thought likely to move them. But in process of  time it became inevitable that these superhuman  agencies should be referred to under some sort of  title, and the title literally expressed the conception.  Hence a multitude of names. Not only was there  the ever-prominent Jupiter or sky-father " ; there  was a veritable multitude^ of powers with provinces great and small. Among the larger conceptions the  power concerned with the sowing of seed was Saturn,  that with the growth of crops was Ceres, that with  the blazing of fire was Vesta. Among the smaller,  the power which taught a babe to eat was Edulia,  that which attended the bringing home of a bride was  Domiduca. The ability to speak or to walk was  supposed to be imparted by separate agencies named  accordingly. Flowers depended on Flora and fruits  on Pomona.   But to assign a name is a great step towards  creating a ''power'' into a ''god,'' and such agencies  began to take shape in the mind of those who named  them. This was the second stage. Jupiter, Ceres,  Satmn, and almost all the rest became "gods." The  powers in the woodlands — a Silvanus or Faunus —  became embodied, like the more modem gnomes and  kobbolds. Once imagine a shape, and the tendency  is to give it visible form in an image "like unto man,*'  and to honour it with an abode — a temple or shrine.  The earliest Romans known to us erected no images  or temples, but they were not long in creating them.  Particularly rapid was the reducing of a god to  human form when they came into close contact with  the Etruscans and the Greeks. For all the important  deities poetry and art combined to evolve an  appropriate bodily form, which gradually became  conventional, so that the ordinary notion of a Jupiter,  a Juno, a Mercury, or a Ceres was approximately that  which had been gathered from the statue thus  developed. This trouble was not taken with all the most ancient divinities. Many of the old rural and  local deities, and many of those with quite minor  provinces, were left vague and unrealised. They  were represented in no temples and by no statues. Natiu'ally as the Roman state grew from a set of  neighbouring farms into a great city, and from a small  settlement into a vast empire, the little local gods fell  into the background. The deities which concerned  the state, and to which it erected temples, were those  with the more far-reaching operations — such as the gods identified with the sky and its thunders, with  war, with fertility, with the sea, with the hearth-fire  of all Rome. The rest might well be left to localities  or to domestic worship.   From the early days of Rome there existed a  calendar for festivals to certain divinities important  to the little growing town, and a code of ceremonies  to be performed in their honour, and of formulae of  prayer to be offered to them. The later Romans, in  their characteristic conservatism, adhered to those  festivals, to that ritual, and to those formulae, even  when some of the deities had ceased to be of appreci-  able account, and when neither the meaning of the  ritual nor the sense of the old words was any longer  imderstood by the very priests who used them.   Reflect a moment on this situation. First, we  have a number of deities of the first rank, housed in  temples, embodied in statues, and recognised in all  the Roman world; next a number of minor divinities  whose operations and worship may be remotely rural  or otherwise local, and whose functions are by no  means always distinguishable from those of the  greater gods; then a series of more or less un-  intelligible ceremonials carried out by ancient rule  in honoiu" of divinities often practically forgotten ;  outside these a number of vague powers presiding  over small domestic and other actions; finally, a  peculiar Roman tendency — in keeping with the last  — to erect into divinities, and to symbolise in statues  housed in temples, all manner of abstract qualities and states, such as Hope, Harmony, Peace, Wealth,  Health, Fame, and Youth.   Reflect agam that, when the Romans, as they  spread, came into contact with Greeks, Egyptians, or  other foreigners, they met with deities whose provinces  were necessarily often identical with or closely akin      Fio. . — A Sacrifice.     to their own. Then remember that there is no  church and no official document to define the complete  list of Roman gods. Does it not follow, as a matter  of course, on the one hand, that the importation of  new gods was an easy matter, and on the other, that  no individual Roman could draw the line as to the  number of even the old-established deities in whom  he should or should not believe? The guardians of the public reUgion were satisfied  if the due rites were paid by the state to those deities,  on those. dates, and precisely in that manner, which  happened to be prescribed in the official religious  books. For the rest they left matters to the  individual.   So much it has been necessary to say in order to  account for existing attitudes. We must use the  plural, since the attitude of the state officials is but  one of several, and, inasmuch as the state officials  themselves were not a theological caste but only  secular servants of the community administering  the regulations for external worship as laid down in  the records, it often happened that their official  attitude had nothing to do with their individual  beliefs. Often they did not know or care whether  there was a real religious efficacy in the acts which  they performed ; sometimes all that they knew was  that they were doing what the state required to be  done properly by some one.   Cicero quotes a dictum of a Pontifex Maximus  that there was one religion of the poet, another of  the philosopher, and another of the statesman. This  is true, but it is hardly adequate. We must at least  add that of the common people. A well-known  statement of more modern birth puts the case — rather  too strongly — that at our period all religions were  regarded by the people as equally true, by the phi-  losopher as equally false and by the statesman as  equally useful. We may begin with the ordinary  people of whatever station, who were not poets nor thinkers nor magistrates. It is an error to  suppose that such Romans of the first eentiu'y were  either atheistic or indifferent to religion. Their fault  was rather that they were too superstitious, ready to  believe too much rather than too Uttle, but to beUeve  without relating their beUef to conduct. They did  not question the existence of the traditional gods,  nor the characters attributed to them; they were  ready to perform their dues of worship and to make  their due offerings, but all this had no bearing  upon their own morality. They believed with the  terror of the superstitious in omens and portents, and  in rites of expiation and purification to avert the  threatened evil. They were alarmed by thunder and  lightning, earthquakes, bad dreams, ravens seen on  the wrong side of the road, and other evil tokens.  They commonly accepted the existence of maUgn  spirits, including ghosts. They were prepared to  believe that on occasion a statue had bled or turned  round on its base; that an ox had spoken in  human language; or that there had been a rain of  blood. There were doubtless exceptions, and super-  stition was less dire and oppressive than once it  was. More than fifty years before our date Cicero  had said that even old women no longer shuddered  at the terrors of an underworld, and fifty years  after it the satirist asserts the same of children.  But both writers are speaking somewhat hyper-  bolically. Doubtless it had been wondered how  two augurs could look at each other without a  smile, but there is nothing to show that even a minority of augurs were acutely conscious of any-  thing to smile at.   In the multiplicity of deities the ordinary people  were prepared to accept as many more as you chose  to offer them, especially if the worship attaching to  them contained mystic or orgiastic ceremonies. By  this date the populace had become exceedingly mixed,  especially in the capital, and the cool hard-headed  Roman stock had been largely replaced or leavened  by foreign elements, especially from the East. The  official worship of the state was formal and frigid ; it  offered nothing to the emotions or the hopes. Many  among the people felt an instinct for something more  sacramental, and especially attractive was any form  of worship which promised a continued existence,  and probably a happier existence, after death. Even  the mere mysteriousness of a form of worship had its  allurements. Hence a tendency to Judaism, still  more to the Egyptian worship of Isis and Osiris.  The latter made many proselytes, particularly among  the women, and contained ideas which are by no  means ignoble but to our modern minds far more  truly ''religious'' than anything to be found in the  native Roman cults. To pass through purification,  to practise asceticism, to feel that there was a life  beyond the grave apportioned to your deserts, to go  through an impressive form of worship held every  day, and to have the emotion^-thus worked upon —  all this supplied something to the moral nature which  was lacking in the chill sacrifices and prayers to  Jupiter and the other national divinities. In vain had the authorities, in their doubt as to the moral  effects, tried on several occasions to suppress this  foreign worship; it always revived, and it now held  its established place both in the imperial city and in the provinces, particularly near the sea, for it was  especially a sailors' religion. Rome, like Pompeii,  had its temple of Isis and her daily celebrations.  There was, however, no necessary conflict between  this worship and the oflScial religion. It was quite  possible to accept Isis while accepting Jupiter. Nor, though this particular cult has required mention,  must it be taken as belonging to more than a section  of the Roman population. Most Romans would look  upon it and other deviations with acquiescence, some  with contempt, and perhaps some with a shake of the  head, while themselves satisfied with an indifferent  conformity to the more estabUshed customs of the  state.   Setting aside the devotees of the mystic, the more  ordinary point of view was that between Romans and  the established gods of Rome there is an understanding.  The gods will support Rome so long as Rome pays to  them their dues of formal recognition. Their ritual  must not be neglected by the authorities; it is not  necessary for an individual member of the community  to concern himself further in the matter. The  state, through its appointed ministers, will make the  necessary sacrifices and say the necessary words;  the citizen need not put in an appearance or take  any part. He will not do or say anything dis-  respectful towards the deities in question, and he will  enjoy the festivals belonging to them. If remarkable  portents and disasters occur, he will agree that there  is something wrong in the behavioiu* of the state,  and that there must be some public purification or  other placation of the gods. If the state orders such  a proceeding, he will perform whatever may be his  share in it. So far he is loyal to the ''religion of  the state.''   In his private capacity he has his own wants,  fears, and hopes. He therefore betakes himself to whatever divinity he considers most likely to help  him; he makes his own prayers and vows an offering  if his request is granted. Reduced to plain commercial  language his ordinary attitude is — no success, no  payment. A cardinal difference between the religion  of the Romans and our own is to be seen in the nature  of their prayers. They always ask for some definite  advantage — prosperity, safety, health, or the like.  They never pray for a clean heart or for some moral  improvement. Of more importance than the man's  moral condition will be his scrupulous observance  of the right external practices. Unlike the Greek,  he will cover his head when he prays. He will raise  his hand to his lips before the statue, or, if he is  appealing to the celestial deities, he will stretch his  palms upwards above his head ; if to the infernal  powers, he will hold them downwards. These are  the things that matter.   At home, if he belongs to the better type of  representative citizen, our Roman has his household  shrine and his household divinities, whom he never  neglects. If he is very pious, he may pray to them  every morning, or at least before every enterprise.  In any case he will remember them with a small  offering when he dines. There are the ''gods of the  stores" — his ''penates'' — certain deities whom he  has selected as guardians of his belongings, and who  have their little images by the hearth in the  kitchen. There is the household ''protector," or  more commonly there are two, who may be painted  under the form of Ughtly-stepping youths in a little niche or shrine above a small altar. To these  he will offer fruits, flowers, incense, and cakes.  And there is the ''Genius'' of the master of the  house, who is also painted on the wall, or who  may be represented by his own portrait bust or by  the pictxu-e of a snake. That "Genius" means the  power presiding over his vitality and health and well-  being. If he is an artisan and belongs to a guild, he  will pay special worship to the patron god or goddess  of that, guild — to Vesta, if he is a baker, to Minerva,  if he is a fuller. Out of doors he will find a street  shrine in the wall at a crossing, pertaining to the  tutelary god of what may be called his ''parish,'' and  this he will not neglect. Like all other orthodox  Romans he will not undertake any new enterprise —  betrothal, marriage, journey, or important business —  without ascertaining that the auspices are favourable.   In a general way he has a notion that the gods  are displeased at certain forms of crime, and that  they approve of justice and the carrying out of  compacts. The gods overlook the state, because the  state engages them so to do, and therefore to break  the laws of the state is to anger the gods of the state.  But this is rather subtle for the common man, and  there is generally no understood immediate relation  between these gods and his moral conduct, unless he has  sworn an oath by one or other of them. The purpose  of calling a god to witness is to bring upon a perjurer  the anger of the offended deity. But he entertains  no such conception as the modem one of "sin" or of  "remorse for sin." "Sin" is either a breach of the secular law or breach of a contract with a deity,  and ''remorse'' is but fear of or regret for the  consequences.   His morality is determined by the laws of the state,  family discipUne, and social custom. For that reason  his vices on the positive side will mostly be those of  his appetites, and on the negative side a want of  charity and compassion. He may be guiltless of lying  and stealing, murder and violence; he may be honest  and law-abiding ; but there .is nothing to make him  temperate, continent, or gentle. His avowed code is  duty,' and duty is defined by law and tradition.   If this is the religious condition of the conunon-  place man or woman — a blend of superstition,  formalism, and tolerance — it is by no means that of  the educated thinker. Such persons were for the  most part freethinkers. Many of them, finding no  better guide to conduct, conform to the "religion" of  the state without any real belief in its gods or  attaching any importance to its ceremonies. They  do not feel called upon to propagate any other views,  and they probably think the current notions are at  least as good fqr the ignorant as any others. If they  are poets, like Horace or Lucan, they will dress up  the mythology, mostly from Greek models, and write  fluently about Jupiter and Juno, Venus and Mercury,  either attributing to them the recognised characters  and legends, or varying them so as to make them  more picturesque and interesting — perhaps even improving them — but all the time believing no more in the stories they are telling^ or in the deities them-  selves,* than Tennyson need have beUeved in King  Arthur and Guinevere. The gods are good poetic  material and are sure to afford popular, or at least in-  offensive, reading. The poets doubtless do something  to hiunanise and beautify the popular conception of  a deity, but they seldom deUberately set out with any  such purpose. If the educated are not poets, but  pubUc men of affairs, they may beUeve just as Uttle,  and yet regard the established cult of the gods as an  excellent discipline for the vulgar and the best known  means of upholding the national principle of ''duty.''  If they are philosophers they may not, and the  Epicureans in reality do not, beUeve in the gods at all  — certainly not as they are generally conceived — and  will openly discuss in speech and in writing the ques-  tion of their existence or non-existence, and of their  character and nature if they do exist. They will  endeavour to substitute for the barren formalism of  rites and ceremonies, or the inconsistent or incomplete  traditional morality of duty, another set of principles  as a sounder guide to life and conduct. Some are  monotheists, some are simply in doubt. Says Nero's  own tutor, Seneca, ''Do you want to propitiate the  gods? Then be good. The true worshipper of the  gods is he who acts like them." "Better," remarks  Plutarch, "not believe in a God at all than cringe  before a god who is worse than the worst of men."  In the actual worship of images none of them believe.  One conspicuous writer of the time says : "To look for  a form and shape to a god, I consider to be a mark of human feebleness of mind." Concerning the schools  of thought and in particular the tenets of those Stoics  and Epicureans whom St. Paul met at Athens, and  whom he could meet in educated circles all over the  Roman Empire, we shall have to speak in a following  chapter, when sununing up the intellectual and moral  condition of the time. Meanwhile it should be under-  stood that, though a profound or anything approaching a professional study of philosophy was discouraged  among the true Romans — more than once the profes-  sional philosophers were banished from the capital —  there were few cultivated persons who did not to  some extent dabble in it, and even go so far as  to profess an adherence to one school or another.  None of these men believed in the "Roman religion"  as administered by the state, although many of  them were administering it themselves. The same  man could one day freely discuss the gods in con-  versation or a treatise, and the next he might be  clad in priestly garb and officially seeing that the  rites of sacrifice were being religiously carried out in  terms of the books, or that the auspices were being  properly taken.   It does not, however, follow at all that because  poet or public man cared nothing for the pantheon  and all its mythology, he was therefore without his  superstitions. He might still tremble at signs and  portents, at comets, at dreams, and at the un-  propitious behaviom* of birds and beasts. He might  believe in astrology and resort to its professors, called  the ''Chaldaeans." On the other hand he might  laugh at such things. It was all a matter of tempera-  ment. It certainly was not every man who dared to  act like one of the Roman admirals. When it was  reported that the omens were unpropitious to an  inuninent battle because the sacred chickens ''would  not eat," he ordered them to be thrown into the sea  so that at least they might drink. The freethinkers  were in advance of their times. "Science" in the  modern sense hardly existed, and until phenomena  are explained it is hard to avoid a perplexity or  astonishment which is equivalent to superstition.     Consider now these various states of mind — that  of the people, ready to add almost any deity to the  large and vague number aheady recognised ; that of  the poet, who finds the deities such useful literary  material ; that of the magistrate or public man, who,  without enthusiasm or necessary belief, regards  reUgion as a thing useful to society; and that  of the philosopher, who thinks all the current re-  Ugious conceptions unsound, if not absurd, and  morally almost useless.   Manifestly a society so composed will be one of  unusual tolerance. The Romans had no disposition  to force their religion on the subject provinces of the  empire. Their religion was the Roman religion; the  rehgion of the Greeks might be left Greek, the Jewish  religion Jewish, and the Egyptian religion Egyptian.  Any nation had a right to the religion of its fathers.  Nay, the Jews had such peculiar notions about a  Sabbath day and other matters that a Jew was exempted from the military service which would  have compelled him to break his national laws. All  religions were permitted, so long as they were national  religions. Also all religious views were permitted to  the individual, so long as they were not considered  dangerous to the empire or imperial rule, or so long as  they threatened no appreciable harm to the social  order. If a Jew came to Rome and practised Judaism,  well and good. It was, in the eyes of the Romans, a  narrow-minded and uncharitable religion, marked by  many strange and absurd practices and superstitions,  but if a misguided oriental people liked to indulge in  it, well and good. Even if a Roman became a  proselyte to Judaism, well and good, so long as he did  not flout the official reUgion of his own country. If  the Egyptians chose to worship cats, ibises, and  crocodiles, that was theii^ affair, so long as they let  other people alone. In Gaul, it is true, the emperor  Claudius, predecessor of Nero, had put down the Druids.  Earlier still the Druids had already been interfered  with ; but that was because the Druids — those weird  old white-sheeted men with their long beards and  strange magic — are performing human sacrifices —  burning men alive in wicker frames — and such  conduct was not pnly contrary to the secular law of  Rome, but even to natural law. And when Claudius  finally suppressed them, or drove the remnant out of  Gaul into Britain, it was not simply because they  worshipped non-Roman gods and performed non-  Roman rites, but because they were, as they had  always notoriously been, a dangerous political influence interfering with the proper canying out of  the Roman government.   And when we come to Christianity it must be  remarked that, so long as that nascent religion was  regarded as merely a variety of Judaism, it was actu-  ally protected by the Roman power, and owes no  little of its original progress to the fact. In the  Acts of the Apostles it is always from the Roman  governor that St. Paul receives, not only the fairest,  but the most courteous treatment. It is the Jews  who persecute him and work up difficulties against  him, because to them he is a renegade and is weaning  away their people. To the philosophers at Athens he  appears as the preacher of a new philosophy, and  they think him a "smatterer" in such subjects. To  the Roman he is a man charged by a certain com-  munity with being dangerous to social order, to wit,  causing factious disturbances and profaning the  temple; and since he refuses to let the local author-  ities judge his case, and has exercised his citizen  privilege by appealing to Caesar, to Caesar he is  sent. And, when a prisoner in somewhat free  custody at Rome, note that he is permitted to speak  ''with all freedom,'' and that in the first instance he  is acquitted.   True, but the fact remains that Nero bimit  Christians in his gardens after the great fire of Rome,  and that certain later emperors are found punishing  Christians merely for avowing themselves such. Why  was Christianity thus singled out? It was not  through what can be reasonably called ''religious intolerance/' for, as has been said, the Romans did  not seek to force Roman religion on other peoples,  nor did they make any inquisition into the beUefs of  Romans themselves. The reasons for singling out  Christianity for special treatment are obvious enough.  The question is not whether the reasons were sound,  whether the Romans properly understood or tried to  understand, whether they could be as wise before the  event as we are after it, but whether the motive was  what we should call a religious" one. To allow  Epicureans to deny the existence of gods at all, and  to make scornful concessions to the peculiar tenets of  Jews, could not be the action of a people which was  bigoted. If there was bigotry and intolerance, it was  political or social bigotry and intolerance, not reUgious.  To prevent any possible misconception let the present  writer say here that he considers the principles of  Christianity, as laid down by its Founder and as spread  by St. Paul, to have been the most humanizing and  civilising influence ever brought to bear upon society.  But that is not the point. The early Christians were  treated as they were, not because they held non-  Roman views, but because they held anti-Roman  views ; not because they did not believe in Jupiter  and Venus, but because they refused to let any one  else believe in them; not because they threatened to  weaken Roman faith, but because they threatened to  weaken and even to wreck the whole fabric of Roman  society ; not because they were known to be heretics,  but because they were supposed to be disloyal; not  because they converted men, but because they appeared to convert them into dangerous characters.  As it has been put, the Christians were regarded as  the ''Nihilists" of the period. We are apt to judge  the Romans from the standpoint of Christianity  dominant and understood; it is fairer to judge them  from the standpoint of a dominant pagan empire  looking on at a strange new phenomenon altogether  misunderstood and often deliberately misrepresented.  Moreover — and the point is worth more attention  than it commonly receives — we have only to read the  Epistles to the Corinthians, to perceive that the early  Christian gatherings were by no means always such  meek, pure, and model assemblages as they are almost  always assumed to have been. Some of the members,  for instance, quarrelled and ''were drunken.". There  were evidently many unworthy members of the new  communion, and of course there were also many  manifestations of insulting bigotry on their part. The  class of society to which the Christians belonged was  closely associated in the Roman mind with the rabble and the slave, if not with criminals. What the pagan  observer saw in the new religion was "a pestilent superstition," "hatred of the human race," "a malevolent  superstition." He thought its practices to be connected  with magic. The intransigeant Christian refused to  take the customary oath in the law courts, and there-  fore appeared to menace a trustworthy administration  of the law. He took no interest in the affairs of the  empire, but talked of another king and his coming  kingdom, and he appeared to be an enemy to the  Roman power. He held what appeared to be secret meetings, although the empire rigidly suppressed all  secret societies. He weakened the martial spirit of  the soldier. He divided f amiUes — the basis of Roman  society— against themselves. He was a socialist  leveller. He threatened with ruin all the trades  connected with either the established worship — as  amongst the silversmiths at Ephesus — or with the  luxuries and amusements of Ufe. Those amusements  in circus or amphitheatre he hated, and therefore  appeared misanthropic. He not only stood aloof  from the religious observances of the state and the  household, but treated them with contempt or  abhorrence.   Moreover, at this date, he refused to acknowledge  the one great symbol of the imperial authority. This was the statue of the emperor. When that statue  was set up in every town it was not understood by  any intelligent man that the emperor was actually a  god, or that, when incense was burnt before the statue,  it was being burned to the emperor himself as deity.  But just as every householder had his attendant  Genius'' — the power determining his vital functions  and well-being — which was often represented as a  bust with the man's own features, so the statue of  the Augustus, ''His Highness," represented the Genius  of that Head of the State, and the offering of incense  was meant as an appeal to the Genius to keep the  emperor and the imperial power ''in health and  wealth long to live." The man who refused to make  such an offering was necessarily considered to be ill-  disposed to the majesty and welfare of the Head of the State, and therefore of the state itself. The Roman  attitude towards the early Christians was partly that  of a modern government towards Nihilists, and partly  that of a generation or two ago to a blend of extreme  Radical with extreme atheist. We are not here concerned with the whole story of  the persecution of the Christians, but only with the  situation at and immediately after the date we have  chosen. It is at least quite cer ain that when Nero  burned the Christians in the year 64 he was treating  them, not as the adherents of a religion, but as social  criminals or nuisances. How far his notions of  Christianity may have been influenced by Poppaea  we do not know. At least he believed he was  pleasing the populace.  Grice: “Conte quotes from Aristotle’s Soph. El. On the ‘homonimia’ of deon’ – “sometimes for the good, but sometimes for the bad.” Conte distinguishes between semantic ambiguity – surely ‘must’ or the imperative mode does not have TWO senses – and ambivalenza prammatica. Since Aristotle is refusing to use Frege’s idea of ‘Sinn’, and keep referring to ‘semeion’ (Latin segnare) rather, we may well conclude that Aristotle is just Greek Grice. Conte does not dwell much on the imperative mode. Modo imperativo is qualified. Modo is qualified as being modo verbale – the mode of the verb impero. But then the future in French has a ‘valore imperativo.’ Conte is more interested in the ‘must.’ But surely his quoting from Philippa Foot and his joint work with von Wright into Kant’s hypo versus cate is very Griceian! On top, Conte has a taste for local historical analysis and has discovered some gems in some jurisprudential philosophers of his ‘paese’!”  Amedeo Giovanni Conte. Keywords: il sacrificio, the sorry story of deontic logic, fondatore della logica deontica al Ghislieri di Pavia, il giuridico, giudicare, giuridicare, impiego, employ (as noun), employ-ment, empiegamento, Conte e Wright – Wright cited by Grice, alethic --. Wright on change cited by Grice in “Actions and Events”, Mario Casotti, Volere, Grice, Volere --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conte” – The Swimming-Pool Library. Conte.

 

Luigi Speranza -- Grice e Contestabile: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo – scuola di Teano – filosofia casertese – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Teano). Filosofo casertese. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Teano, Caserta, Campania. Grice: “I love Contestabile; I love a philosopher with a sense of humour! At Oxford, it has become increasingly difficult to laugh at people’s surnames! But ‘grice’ means ‘pig,’ in Norwegian! – Anyway, Contestabile contests a revisionist account of Bruno’s life – “surely he wasn’t a coward – I know because of his links with the Campanella whom my family supported in his fight against the furriners!” Cacciato con una telefonata» Intervista di Dino Martirano, Corriere della sera. Con il Psi non ho ricoperto grandi incarichi ma ho avuto l'onore di essere stato amico di Craxi. Mi mancherà la politica ma non è una tragedia. Torno ai miei studi, alla filosofia medioevale. Mi mancheranno certi momenti. Io, che ero stato nel Psi fin quando la procura della Repubblica lo ha sciolto, ricordo bene i mesi trascorsi al ministero della Giustizia: col ministro Biondi fummo i protagonisti del tentativo fallito, però generoso, di riportare la giustizia sui binari della normalità. Sciolto il partito [Psi], chi si è fatto maomettano, chi ebreo, chi cattolico. Però sempre socialisti siamo rimasti. Avvocato e politico italiano Sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia Presidente Berlusconi Predecessore Sorice Successore Mirone Vicepresidente del Senato della Repubblica Presidente Mancino Senatore della Repubblica Italiana Legislature Gruppo parlamentare Forza Italia Circoscrizione Lombardia Collegio Cinisello Balsamo, Vigevano Incarichi parlamentari Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia Sito istituzionale Dati generali Partito politico FI Titolo di studio Laurea in giurisprudenza Professione avvocato. Avvocato e politico italiano.  Laureato in giurisprudenza, esercita la professione di avvocato. Entra in politica iscrivendosi al Partito Socialista Italiano (partito a cui è appartenuto fino agli eventi che hanno travolto tale formazione politica)[1]. In seguito aderisce a Forza Italia, affermando che in tale movimento politico l'area socialista era ben accolta e rappresentata. Viene eletto senatore ed è rieletto anche nelle due successive legislature. Vicepresidente del Senato. Incarichi parlamentariModifica Ha fatto parte delle seguenti commissioni parlamentari: Affari costituzionali e giustizia; Difesa. Membro, inoltre, della giunta per le elezioni e immunità parlamentari.  Sottosegretario di StatoModifica È stato sottosegretario di Stato per la Grazia e giustizia nel primo governo di Silvio Berlusconi. Tutti i figli e i figliastri del garofano. su qn.quotidiano.net. Adnkronos - Psi: C. a De Michelis, noi stiamo bene in FI ^ Senato - XIII legislatura Voci correlate Modifica Governo Berlusconi I Partito Socialista Italiano  C., su Senato.it - legislatura, Parlamento italiano. C., su Senato.it - XIII legislatura, Parlamento italiano. Domenico Contestabile, su Senato.it - legislatura, Parlamento italiano. Biografie Portale Biografie Politica Portale Politica Socialismo Portale Socialismo. PAGINE CORRELATE Fabrizio Cicchitto politico italiano  Maceratini politico e avvocato italiano  Scamarcio politico italiano   Altre saggi: Bruno: una revisione contestata” – La storia della filosofia è continua revisione, e non mi scandalizzo per il revisionismo bruniano. Mi sembra però che questi non colga nel segno. La vita diBruno, dalla fuga da S. Domenico Maggiore a Napoli fino al rogo di Campo dei Fiori a Roma, è di singolare coerenza. È una vita “contro”. L’accusa implicita di opportunismo mi sembra perciò singolare. E’ vero che, durante il processo, ritratta molte sue tesi, e avrebbe avuto salva la vita se continua in questo atteggiamento. Alla fine però si stanca, e scolge lucidamente di morire. È opportunista chi cerca solo di salvare la pelle, e poi decide di morire perché ritiene che il suoi giudice ha esagerato? In quanto alla tesi sul Bruno spia elisabettiana, essa non è provata, anzi è smentita dalla comparazione tra la grafia di Bruno e quella dei biglietti di spionaggio. Infine, la tesi a proposito della relazione tra Campanella e Bruno non mi ha mai convinto. Campanella (la sua rivolta e finanziata dalla nobile famiglia C., come ricorda Firpo nel suo ottimo saggio sul processo a Campanella) vuole poi un regime “comunista”? A leggere “La città del sole” non si direbbe.  (CA  ui  i) e iui Mia ba, VA  dai ‘agi LS  it Il    EGR Ln  i \ LA va Di =  | Pome Rm Te  ti n. i Li  I e Aa Kt Hlirpogt] lb pi  n 9 ha So Rif [a E Ji >    a  ILLE di pe  LIS   ia      Giordano Bruno       DRAMMA MILANO  Tipografia Commercial  n als  dtt,    TORIO EMANUELE, Carnevale.{Resta sapore PERSONAGGI BRUNO (si veda) Sig. G. SALASSA  LORENZO (figlio naturale di  GIORDANO BRUNO, «dot-    tato:da).. ... ». > A.D'ANDRADE  ROMANO DEI LOMBARDI «+. > F. MIGLIARA    LEANDRO giovine patrizio. S.ra ANGIOLETTI    LAURA figlia di ROMANO. >» A. Busi  IL GRANDE INQUISITORE . Sig. SALVARANI ROCCO LILLE DAMIANI    ANDREA. Ni agN°  UNGUARDIANO) che nonparlano N. N.  UN OsTE .. Ni Ni    Giovani e Nobili Veneziani, Servi di Romano,  Gondolieri, Seguaci di Bruno, Soldati, In-  quisitori, Si Servi del S. Uffizio,  Frati e Popolo.    L'azione del 1.° e 2.° Atto è in Veni  quella del:3.° e 4.° Atto in Re ber a  pieni  Sofee  bi;   pece  SUIT ZIA  PIAZZA IN VENEZIA, Un’Osteria e alcune seggiole. In fondo un canale  praticabile, che traversa la scena. Sul canale un  ponte, che mette in un viottolo, sull'angolo del  quale sorge a destra, un magnifico Palazzo illumi  minato a festa, prospiciente sul Canale. .Un in-  gresso laterale, illuminato da faci fisse ai muri, con-  ducedal viottolo nel Palazzo. La porta principale verso .  il Canale è aperta; durante la scena seguente, visi vedono approdare gondole, dalle quali scendono persone  ragguardevoli, che, ricevute dai servi, entrano nel  Palazzo.  Sera. i  TI,    GIOVANI e NOBILI VENEZIANI, parte ‘in abiti fanta-  stici con mezza maschera al volto, e parte in abiti  comuni, vengono da sinistra, traversano il ponte,  e dalla strada entrano nel Palazzo. LEANDRO,  ROCCO ed altri Giovani vanno e vengono ferman-  dosi sulla Piazza, cantando e ridendo, Poi LQ-  RENZO e LAURA.    Leandro  (accompagnandosi colla ghitarra)    A te, Venezia bella, adorata,  A te, mia sposa, la serenata. HEVVPETIAIAMITEREZI LIA VITE RENTAL rara rr ovinantosinezineneisevazize vecio sinioneee  IVTIPRErTA:Itr rara rirevenaatos aes szereris cva:i0e vice vi’ veve’ ’avurecovio sr 0uIvI vare ri [tti STA    Hocco  (Volgendosi all’osteria)    Leandro, scuotiti!  Le mura adori?...  Vieni ove brillano  Divini amori,  Ove donzelle  Cotanto belle  Potrai mirar.    Coro dei nobili  Al convito n’andiam! alla festa!    Leandro    Prima di venir alla gran festa  Distruggere io vo’ un'idea funesta!  Oste, su via porgetemi  Vino di Cipro; a questo petto ardente Occorre del più vecchio e più potente.  Vivan le belle  Danzanti; volano. Gli occhi fiammeggiano  Più che le stelle;  Ne’ Joro vortici  Mi ruban Vanima....  sui Crudo gioir!  «__°’Più non mi muovo Suolo dolcissimo, ir       belt  r__Frrrrrr n  -  a-rt-rvreorosoeeriovoe nueva zeranen sonia mise eeerarmierereriiovnieteacivoteote0ie    Nido mio nuovo!   Muoio in tue braccia...  Santo delir! |   A te, Venezia bella, adorata,   A te, mia sposa, la serenata,    Coro  AI Convito! n’andiam alla festa.  (S'appressano in una gondola LAURA e LORENZO) Eaurna    Sul mare immenso  più non impera   Nè sulla terra  che la circonda.Venezia, è fango  la tua bandiera!  Lutto e non feste!  Pianga e s’ asconda.    Core (con alto di cu iosità) E un amante e la sua Della  Che passeggiano alla luna;  Laura sembra la sua stella,  Ma egli fa poca fortuna.  Seguiam tutti i vaghi amanti,  E vediam, se pur n’ è dato,  In fra i suoni, i balli e i canti  Di trovar l’innamorato.   È Lorenzo di Giordano,   Che fuggì dal sacro tempio ;   lì Lorenzo... il vil, l’insano  Che ne porge un triste esempio.  Lorenzo (con ira) .    È rivolta a me l’offesa?  L’alma freme, batte il core!   - Già suonaron l’ultim’ ore; -  E voi tutti io sfiderò.    Laura    E rivolta a te I’effesa; rato  L’alma freme, batte il core!...  Già suonaron l'ultim’ ore  Io con te li sfiderò.  (LORENZO furente si scaglia contro ROCCO, e gli    toglie la spada. Gli altri NOBILI sguainano. le  proprie e si schierano în fondo)    SCENA II.    Detti, ROMANO dei LOMBARDI entra frettoloso dalla  casa di destra, seguito da servi con torce accese,    Bomano    Chi grida? Chi chiama? Qual chiasso villano?  Non son cîttadini, ma plebe briaca !   Lorenzo, tu?... Il ferro in mano hai snudato?....  Parla! Che avvenne! Sei pazzo ?... Ti placa! Laura (atterrita alla vista del padre)    Che mai dirà  Al Genitor?... pa Voce non ha,  Non ha più cor. Lorenzo (con timore)    Che mai dirò  AI Genitor?...  Voce non ho,  Non ho più cor.    Leandro (con circospezione)    Il segno di croce facciamoci... e andiam via!  Quel vecchio è uno sgherro dell’ Inquisizione.  Partiamo, fuggiamo... La belva più ria,  E un angelo a petto di questo demòne.    Romane (ai Nobili)    Non chiedo ragioni di vostra contesa,  Fra tenebre nacque... in tenebre resti;  E calmi la notte col sonno gli. ardori  Di giovani folli, di stolti furori....  Partite! Or è cauto lontani restar.    Coro di Nobili (infimoriti da Romano).    Fuggiam dal feroce  Vegliardo Romano :  Col fiato ne ammorba  Il truce, l’insano;    nea    Qui tutto è sospetto....  Amici, fuggìam. 1 NOBILI, it CORO, LEANDRO e LAURA sì riti-  rano pel ponte ed entrano nel Palazzo. L’OSTE  ha chiuso ed è scomparso durante la rissa, ROMANO  fa un cenno ai Servi di allontanarsi.    SCENA III.    ROMANO e LORENZO  Romano    Vengo, tu il sai, da Roma; e il Santo  Re e Pontefice armava il braccio mio.  ‘Or sotto il ferreo terribil manto  Della suprema Città di Dio  L’ Inquisizione veneta sta;  E a Roma solo ubbidirà.  Dell’ eresia le vampe infeste  Soffocherò . tutte le teste  D’ un colpo all’ idra io troncherò.    Lorenzo  Fu il Campanella scoperto e preso?  Romano    Libero ei 8° agita... Ma il gran sovrano  De’ rei, che Italia e il mondo ha acceso Contro la Chiesa santa, è Giordano.  Presso i suoi complici quì ascoso stà!    Lorenzo  Odio quel uomo tanto... tel giuro.    Romano    Non basta odiarlo: questo io non curo;  Tu quì arrestarlo ora dovrai:    (Musica da ballo neil’interno del Palazzo)    In fra le maschere lo scoprirai,  Ed il porrat  nelle mie man.    Lorenzo  Si chiede un atto di traditor?...  Romano  Queste ai novizi prove si dan.  Lorenzo  Tradir ricuso; son uom d’onor.  Romano (con sdegno)    A me tu, folle, devi? RANA RARA pinete    Lorenzo  Obbedienza !  Homano  Ed alia Chiesa! Trema...  . Lorenzo (soffocando il furore)  Obbedienza!  Romano  Dunque ?...  Lorenzo (con sottomissione)  Giordano io scoprirò!  Eomano (ricomponendosi)  Tuci giovanili e schictti  Modi ti gioveran, se manca il senno  Di età maggior, Tuo sguardo onestà; ispira,  K assai tua voce ad ascoltarti attira.  Per la grand’ opra non sarai solo,  D’altri miei fidi 1’ aiuto avrai;    Pronto a miei cenni sempre sarai,  Uno per ‘tutti sia il mio voler. Lorenzo (con dolore)    L’iniqua trama ahi mi colpisce!   La terra, il cielo pur n’ hanno orror!...  Vile è colui, ch’ altri tradisce,   Nè v' ha pietade pel traditor.    ERomano (imperioso) Come voglio, sia fatto. Or d’ altro; è m'’ odi.  Dal dì che ardenti e improvidi  Sguardi su Laura hai posti,  Travolto dalla subita  Cicca passion tu fosti;   N | Una rea febbre 1° agita   Tutte le membra o siolto,   E vedo nel tuo volto   Il fuoco del delir.  Bada! io ti scruto, o giovine,  E leggo il tuo desire;  Guai se tal fiamma ignobile  Io non vedrò svanire.  Tu sogni; ma chi vigila  l'e per tuo ben consiglia;  Dimentica mia figlia,  O trema del tuo ardir.    (parte da sinistra mentre  sì volge ancora con fiero sguardo su LORENZO).    Lorenzo (con dolore):    SO Solo alfin... solo quì sono...  Piangere, impallidir, tremar t’è dato sa Povero cor! Ma dannate in eterno  ei Son mie lacrime in lor foco d'inferno. Ci   i . . 0 cielo, perchè l’aere Fa A  ._ ©. Spargi de’ tuoi profumi? CRT   a O terra perchè il giubilo.   SA Delle tue stelle assumi? ©   nare: A me negata è l'estasi. da D’ ogni dolcezza umana,   No: ae d'ogni gioia lè vana (ale  EZIO Larva, che fugge ognor;  TERIOS L’ amor che è riso d’ angioli,   0; Di Nel povero mio cor.  i Strazio divien di dèmone,  WA Delirio agitator. pr  | Amar non posso... 0° AARON]  eta P, ‘L'odio mi restag» SS  CE ao ag Son stretto a questa to;  LR 1 sur aRatalità. EI  _: Vò di te vincere. |  Con santo zelo,  .. Servir vo’ il Cielo...  E questa l’ ultima. Mia volontà.  (parte con fretta per il ponte). ‘ Cala la Vela. arnie, onere ge oi    SALA NEL PALAZZO LOREDANO    Una splendida sala da Ballo nel Palazzo di Lore-  dano a Venezia, con colonnato per modo che si possa  figurare l’accesso in altre sale. Illuminazione splen-  didissima.    SCENA L  Coro degl’Invitati    ($   acc incanto dell’ebbre sale!  Che ballo immenso! Sarà immortale.  Quest’ è la reggia della letizia;  Il, paradiso. d’ ogni. delizia.  Deh! non fuggire, tempo; t’ arresta;  Bearsi al lungo delir giocondo  Della fatata splendida festa  Tutto in. Venezia vorrebbe il mondo.  {Gl’invitati s'allontanano in varie parti)    SCENA ILL BRUNO entra con cautela e colla maschera in  mano, poi gli amici. drrezadzanzecezanconca n ionici oc. c0100 dna enricicondiizeotentoro neo dan'ontooarcrroniòolo /Tasos signor cecanzara anee    Giordano    Quì ognun danza e delira   Spensierato e demente. E niun ragiona,   E senno e cuore ha niuno.   x tutto quì è in periglio, ove il Leone   Alato di San Marco   Prostrato dalla Santa Inquisizione   Ai piè, scordò il ruggito   Di cui tremò per secoli ogni lito  (volgendosi in fondo)    Ecco gli amici: ma assai lenti e scarsi.  Alcuni dei Primi  Luce!  Giordano  Giustizia a tutti!  E Primi  E verità!    Alcuni dei Secondi    [venendo oltre)  Luce !  Giordano  Giustizia a tutti E Secondi  E libertà!  Giordano    Grazie diletti !  Sian pochi i detti;  Molta l’opra. A ingannar V'astuta Corio  Dei biechi Inquisitori  Ho scelto queste sale  Di Loredano. È pronto ognuno ?    Coro  Ognuno!  Giordano    L’ ardir pari del vero alla grandezza?  Ed uniti?    Coro  Siam tuoi, Giordano Bruno!    Giordano e Coro    Nel popol vero s’ incominci 1’ opra:   S° illumini! Bugiarda è la parola   Di Roma e il suo Re, che Dio si noma,  Sull’ alma i Papi vogliono l’ impero   Per posseder la terra;   E coi libri e col braccio    tt Viva facciasi ovunque eterna guerra  Allo spirito, al verbo, a ogni menzogna,  Con che farci suoi schiavi Roma agogna    SCENA III.    DETTI e LAURA che entra anelante dalla sinistra  colla maschera in mano. Enura  Signor, fuggite!  Giordano  Io? no! non fuggo.  Coro (insospettito)  Fuggiamo.... È pazzo!  (fuggono da va»ie aio  Giordano (con ira)  Vili! Tu hai fede? (a Laura)    ERaunna (sempre ancelante)    Gran Dio! In queste sale  Circondavi un estremo  ‘ Periglio. Per voi tremo...  Fuggite per pietà.  IIIEEZZZERETET TEZIEXIZZELUPPEE PE CETO CE TI CE CES CECI ICI IA CIT ALIZICI AZIO LETO EI  Va besasnza rea dI gra rirvarai tion    Giordano (simulando)  Fuggir?... Da chi fuggire?    Laura    Da tutti! I delatori,   Cui fia virtù tradire,   Vi cercano là fuori...  Son mille a me ben noti,  Fierissimi e devoti   Al sacro Tribunal.    Giordano (sorpreso)  Mi conoscete?  Eguana    A Padova  Vi scorsi il«dì che ardito  Nel fiume vi gettaste,  E un fanciullin tornaste  Vivo al materno sen.  L’ Inquisizion seguiavi  Co’ mille sgherri suoi  Per arrestarvi; e voi  Tra il popolo festante  Poteste in un istante  Securo allor fuggir.    Giordano (simulando la calma)    Bruno era quegli, che allor miraste!  Io non lo sono!... Mal giudicaste, i       Laura (sorpresa)    Credetti... ho divinato! © ;  Voi siete il gran filosofo.    Giordano    Oh certo s’ è ingannato  Il vostro giovin cor.    Laura  Perdonate se un lembo alzo del velo,  Che a me vasconde... (solleva: dl velo)  Io v' ho scoperto!... siete...  Celarvi non potete...  Giordano  E chi son io?    Laura    Giordano Bruno, cittadin di Nola! Durante quest’ultimo colloquio, LORENZO entra da  destra, LEANDRO da sinistra; si fermano in -  fondo, e, non veduti funno alto di attenzione).    “erimmiberarisisaorizeoeee     Mi   nisi bro    aravrariszazazezea ripa paio    : Lorenza ngi    Ho. in mani, alfin 1, dai i  ‘Ch’ ha Italia avvelenato;  ‘Salvo da Ini mille: anime! a  Il mondo mi sia. EH 9    Leandro (LormNZO | con simulata ironia)    % TAL il salverài, mia “tnamo, | )    È quegli'il gran? ; Filosofo) di  Il celebre Giordanb. VESTA  Dal Tribunal del Dèmoni    Ù  401  1 PR. E O ARNO E ‘J RARE.    | Baura (| ‘801 ‘presa vi ala  PISAE) | dia 39 DS    IDE Lorenzo! dui GicoL..    (a o pi di te-che mai sarà?    F  a iI    Gietiala (con dolore)    Fui tradito !..-Oh cerudoltà    So IV I Santo phrto)  Tana ‘in Cactpnse deg   Di palpiti, di ladina, Tempo,non è, mio cuore; .: .Salvarlo, fat Miracoli. DERE eo   -0t devo ame l'amore. OL DI    Giordano © La luce tua mi sfolgora,       Fanciulla, nel pensiero;  Se il mio profeta! Libero  Trionferà il mio vero. poi fissando LORENZO Quel volto! V° è 1’ immagine  Impressa di Teresa...   Misto è quel volto... e annunziami  La gioia ed il dolor!    (Prendendo per mano LORENZO)    Giovane, dimmi: sei tu di Roma?  La tua favella mel dice... Parla!   Dimmi: tua madre come sì noma?  Teresa forse?    Lorenzo  Teresa?... Sì!  In fondo appare ROMANO con SERVI e SOLDATI  poi vengono gl’Invitati). Giordano    L’ inquisizione! Oh quale orror!  (a Lorenzo) E tu con essa? Ah traditor!  o Io a te la vita diedi... e la morte -  Tu, iniquo, appresti al Genitor!...  A te l’ inferno schiuda le porte...  Sii maledetto, vil delator.       fekresrey=neoan0enencastec pregsoneeaossog @zorrorerovrse ereeeericrone cer csvpirtetronertpariosonnen contiene nanenene    Lorenzo    Tu... padre mio?  Che mai feci io!...  Padre, perdonami  _Se pur ancora   ‘ Merto pietà.  GU INVITATI che riappariscono da destra e sinistra  e detti.    GI Envitati e Leandro    La festa è orrenda!  Fuggiamo tutti;  Qual tradimenti! > >  Keco distrutti ---  Degl’ innocenti   Gli almi piacer. HEomano    Grazie, o Ciel! Nelle mie mani  Or Giordane io vedo tratto!  Roma esulti...! Il suo desìo  Finalmente è soddisfatto. Lerenzo Orrenda infamia! Tu il. padre mio?...  Ah me infelice! Che mai fec? io!  Padre, perdonami... O Ciel, pietà! ERA EeIOrtitiezast:nuvo cene cen vinariesazyaza cc uPONPPA PESSANO MT RI    Laura (a BRUNO) Delle amarezze il calice   Berrò con te, Giordano;   Già in seno il duolo squarciami  Il core a brano a brano;   Peno per te, pel figlio   Mio primo e solo amor. Leandro  Oh come ovunque penetra  La santa Inquisizione !  Come sarà terribile   La sua imputazione !   In lui perdiamo un figlio,  Che della patria è onor. Giordano (4 LAURA)    Ah no! Laura, non piangere...  Giordano ha l’alma forte !   Pel Vero è pronto a vincere  Il duolo pur di morte!   Dio deh! ritorna il figlio   A Laura e al Genitor,    Lorenzo    Sento nel seno piovermi  D'un aspro duol le stille!...  Il padre... oh! il padre scorgere    ab 0);    Temon le mie pupille!  Com'è infelice un figlio  Ribelle al genitor ! Romano    Entro mi serpe un fremito,  Che mi sconvolge il core,  Veggendo quest’ eretico   Di scismi banditore,   Che, della Chiesa*figlio,  Divenne traditor!    Leandro Tu piangi?... Incauto, a Lui {affida   Pel suo perdono; ma l’alma infida   Nel suo rimorso gran pena avrà.   Coro (a LORENZO)   Che piangi?... Ognuno vile ti grida;  Se’ un traditor; se’ un parricida!  Nè Dio, nè il mondo n’avran pietà.    (I SOLDATI circondano GIORDANO e cala la tela/.       IITTTTAAEIAIII    RA CORTI    Affo Cerzo   IN ROMA    Sala nel palazzo dell’Inquisizione.  In fondo, nel mezzo  della parete una cortina nera che chiudela scena,   A sinistra una finestra aperta con ferriata. In fondo  un tavolo coperto con un tappeto nero, a cui siedono  il grande INQUISITORE e DUE SCRIVANI; ai lati  siedono gl’INQUISITORI, e, di fronte, BRUNO, R0MANO e LORENZO,  Porte a destra e a sinistra.    SCENA I.    Romano    {> iordano! Voi siete’    D’innanzi ai vostri giudici, al supremo  Tribunal della terra! E qui dovete,  Smésso l’antico stile,   Risponder vero, obbediente, umile.    “cà ra    G. Inquisitore  Vostro nome è Giordan Bruno?    Giordano  Di Nola.       mrantsiorizea nano AMDI ATTI ANI ANAZANAZA NZ RATTI TIT IATA TERI ri prenpaniananan ananarenaenzana G. Inquisitore    Vi conosciamo! Voi correste in terre  D’eretici; lè in Praga, in Francoforte. ‘  E predicaste spesso agl’ infedeli   La santissima Chiesa dileggiando   Di Roma, tutti i novator germani  Esaltando. D’ Iddio 1’ essenza in false  Forme sponeste; come v’ inspirava   Mal talento. D’ Iddio la legge in pubblici  E in segreti convegni commentaste;   Le coscienze fùr guaste.    Giordano    Mentite!  Solo io dissi agli uomini  Il mondo ha una visiera  Di antiche, immense tenebre ;  Cerchi la luce vera.  Dio vuol che l’uomo spinga  L’acuta sua pupilla  Fin dove in cielo brilla  L’eterno suo splendor.    Coro d’Inquisitori    D’ anime felle  Empia utopia!  Il tuo, ribelle,  Un Dio non è.  Non ha che larve -    Tua fantasia; .0 et  gi ver disparve ;  “Se in eresia ft fo i  AI fuoco, ‘al fuoco: ©  Sia condannato! 1  “REP carcer. poco, s  ra ! tal OmpIO, egli de    (Si apre la cortina’ dalla’ quale ‘escono pina DTA  io GRANDE INQUISITORE, quindi ROMANO, poi  gli SCRIVANI, ‘gi ISQUISITORI, ed sea pIoR-SSf  DANÒ accompagnato, dalle GUARDIE. : Gala la  cortina e solo LORENZO rimane în ‘scend), DÒ  dt e Laura 01,3    (LAURA entra dalla' sinisird e presi itasi) di LORENZO |  in atto supplichevole). SÉ Roe    dia eor ATI    v Rat    Laura! moi  (HI dÉ tia Koi i  È et    Loréiizo i «105 si vo    MREPSRI RATA    GIL    Lorenzo  Di ea DO Ur  PA Ale 2 i sd Met: la "I    Che vuoi tut    ot Raid) fai  I nSetdi o SERRA  2 Senti la ToRe.e. un uomo Rico tu soi. “ rE:       Lorenzo    Tinura! Da me che brami?  Sento straziarmi il cuore...    Laura Ah! tu il padre salvar déi,  Se una belva ancor non sei.    Lorenzo    Tact Laura! Il ver dicesti   È mio padre! Io lo sentìa  Quando'.il labbro suo: terribile.  Me colpevole maledia.   È mio padre! Ancor lo sento  AI perenne! e fier tormento.‘ ©’  Che m’ opprime e strazia il cor.    Laura |    Pietà del misero.  Tuo genitor.    Lorenzo  L’accento tuo terribile  E un dardo al traditor.    ebic Laura    Lorenzo. it i #1) Ma  shananorazi scenza sanacenencacaee cena sane oeanconeesccnionaaceaeae@ce0cui0reò’npsQa”ncceinci’’’ ne Agp ipmpasrssssso Lorenzo  Nol posso!    Laura    Va da me lungi, o perfido,   Se nieghi al genitor   Salvar la vita.   E sorga il dì terribile   Che ognuno, o traditor,   Ti nieghi aita.   Lorenzo   Taci!.... e che far poss’ io? Laura    Aiutarmi a salvarlo; tu lo puoi!  ‘Ei fugga da quell’ orrida  Fossa in serena terra,   Ove su lui degli uomini  Taccia sì cruda guerra.  Ove un demén carnefice  Non trovi nell’ amico,  Nel figlio, un traditor;  Ove il sovran suo spirito  Onnipotente e pio   Possa inalzarsi libero   Di tutti al Padre, a Dio;  E riabbracciar qui un figlio, Che traviò pentito,  Stringendolo al suo cor. .    pra, im masasena nanasasesc’poossoncostor09posporooscoesaesose®  Lorenzo    Quell’ardire, che in volto a te brilla,  La speranza, la fede m' ispira:   E una sacra, divina favilla   Della fiamma, che tarde nel cor.    Raura e Lorenzo (assieme)    Con te nutro la credula speme,  Che a giustizia il trionfo sorrida;  Siamo uniti per vincere insieme  Od insieme da forti morir. (partono).  Muta la scena.  Carcere di BRUNO con porte in  fondo: dentro vedesi un giaciglio di pietra, una seg-  giola ed un tavolo su cuì arde una lampada.  A    sinistra una scala da cui si accede agli Uftizii del-  l’ Inquisizione. Giordane (seduto sul giaciglio)    «Ecco, o Roma, l’eretico   In questo tetro carcere rinchiuso ! Del sangue suo dissetinsi   I tuoi Inquisitori   Ebbri di gioia in lor ciechi furori! (Gleaso   Sul rabido rogo dall’empio innalzato   La fiamma divampa sanguigna e stridente,   Ma in mezzo all'incendio securà possente   Del martire invitto la voce s’ udrà.  Il rogo non strugge  la libera idea;  Ma, eterna fenice  risorge o sfavilla; Del vasto creato  nel verbo s'inslilla   Te dense tenebre  del mondo a fugar.  In mano ai carnefici chi, miser, mi trasse,  Tu fosti, mio figlio;  tu sli maledetto ' 9  Ma no maledirti, + ma no, nol poss’io:  La morte è un trionfo  per me, figlio mio!    SCENA IV.    LORENZO apre con furia la porta del fondo che mette  nel carcere; indi entra anche LAURA. Entrambi  «$0NO Raealii in domino nero come i servi del-    V’ Inquisizione.   Lorenzo (di piedi di BRUNO)  Padre mio! Tuo figlio...  Giordano   Non sogno!  Lorenzo  Si, son io, ch’ hai maledetto ;  Ma figlio tuo! Ripeti un altra volta  La tua maledizione i  Coll’ accento d’ un padre, ed al mio cuore  Più cara suonerà di quel che fora    Del sacerdote la benedizione ;  Ah! lasciami morir a pieid tuoi. TIrCItIVISIÀ poorrcensersantisaazuztt=veSnII=TIERERA TATE conuaca riv ertaziori (apusa ra rara zar sara ra bist enaneronesane  ‘Giordano Felice è un tal momento!  A me t’ adusse Iddio;  Ora tu sei redento!   M’ abbraccia, o figlio mio. Lorenzo Padro' i] mio cuore un balsamo  Nella tua voce trova!   Col tuo perdon risorgere   Mi sembra a vita nuova. Laura    Redento il figlio, accoglierlo  Ben può il paterno core;  Quale inattesa grazia !..,  Disparve ogni terrore.    Mutti (inginocchiandosi)    Gran Dio, che fra le angoscie  Apri a quest’ alma il riso,   E mesci ai loro spasimi   In terra un paradiso.   A te, che i santi vincoli  Riannodi di natura,   Salga da queste mura   L’ inno de’ nostri cor. Giordano    (STO ER Dal fondo del cor mio 2/0  SARA Grazie a te sien, gran Dio! a    Pi    E |   re k » à,  s ER  wr: DETTI, e ROMANO, che presentasi in cima della    >°    dente. Fissa collo sguardo LORENZO, indi scende  rapidamente. Lo seguono il GUARDIANO Retles    va x carceri e i SERVI del S. UHEIZIO: - da  si ‘Romano <  È Come tu qui?... La figlia ancor Di vedo, ea  Oh mio furore ' eco 3 F : x  Laura e Lorenzo 00 o  O qual terror! > ua |  » Romano È  ‘ Giiordano..- Questa ou fatale a me una figlia  nn dio Spa ma a te la vita.  (LEANDRO, il GUARDIANO delle carceri ei SERVI.    del S. UFFIZIO mascherati ed armati si ap- d  pressano). Lg i VEL  7    Pi AE Li    unisoseorevrespropeosovo Romano (a BRUNO)  Trencar ti voglio, qual vile stelo;  Delle tue carni la terra e il Cielo  Io colle fiamme consolerò.   Lorenzo  Ed io fidato m’ ero a tal jena ?  Tutto l’inferno qui si scatena,  E cielo e terra han di te orror.   Laura e Leandro   Sublime martire! La tua gran vita  Tronca in un lampo tra l’infinita  Gioia... Qual strazio sento nel cor!  Giordano  Del mio carnefice sul volto scritto  Sta col livore il suo delitto;   Solo dal Cielo giustizia avrò.  Romano (a° Soldati)  Innanzi al Tribunal condotto sia.  Coro (Servi e Soldati)    S'innalza un turbine Di guai novelli.  Su de’ fratelli   Tratti in error.  E l’empio eretico <   «N° è lavcagionez 9:13 <L  Maledizione  Sul corruttor!  Al rogo ignifico  ‘ Condotto Sia. ©  Chi l’eresia  Tra noi portò. Legge inviolabile  Il turbolento  A tal tormento  Già condannò.  RIC    FROCIO RA ATONTAITA  Atto Quarto Gran sala nel Palazzo dell’Inquisizione in Roma. Nel  fondo una Galleria apertà sostenuta da colonne, fra  ile quali: si, aprono grandi fin:stre che lasciano tra-  vedere le cupole e i colli di Roma.  Porta: a de-  stra e a sinistra.  Nelmazzo un tavolo con quattro  candelabri.  Siedono al tavolo il grande INQUI-  SITORE, ROMANO e ) UE SCRIVANI.  DUE SERVI  «ai. lati, quindi gl’ INQUISITORI, i    SCENA I.  Coro d'Inquisitori || |)   eo nembo dall’aere piove Lupa  ' Di Giordano su:l’empia cervice!  "Non v'ha niun che l’appelli infelice,   Non v'ha cor che si muova a pietà.  Pronto è il rogo, la fiamma divampa...   E pur essa la vittima è pronta ! AI gran Nome Cristiano quest’onta.  Or. dal fuoco purgata sarà. }    SCENA II,    Giordano (appressandosi).  O sommo Inquisitor! Giunta è l'estrema  Ora, che me a gran prova. al rogo. appella!  G. Inquisitore (alle guardie)  Fuor della porta vigilate !    (le guardie e i servi partono)    O Bruno  Di Nola! Quest’ è 1’ ora che vi chiama  Alla prova del fuoco.... a morte.... 0 a vita  Lieta d'ogni uom nel mondo! E a voi concesso  Ciò e’ ha nessuno fu giammai; la scelta  Fra la vita e la morte! Scegliete. E in, vostre man la vostra sorte! Giordano  (Mi tentan!) Che si vuol da ms? Parlate.  G. Inquisitore    Qui in faccia a tutti, dichiararvi figlio  Della Romana Chiesa ora e in eterno  E vi doniam la vita; rimarrete  Prigion; ma al figlio libertà darete! Giordano. Dèmone tentator! Nol vò.... nol posso!  G. Inquisitore (qa RomaANO)]    Perduto! Udiste ?... La sentenza è data! (Parte coi servi, Le guardie circondano GIORDANO  e partono. Romano (in preda a soffocato sdegno).    Cieco sirumento io sono all’empie voglie  Di costoro! Ubbidir sempre... e frattanto  Spezzare di mia figlia il vergin core,  Serbando la mia vita al lutto e al pianto!  O Laura, tu l’adori  D’averno il rio Filosofo,  Che con l'accento magico  Tuo cuor conquise già.  Or ei morrà sul rogo!...  Ma temo per mia figlia. Dal duol trafitta, all’empio  Vicina ella cadrà!...  Senza la figlia, il padre  Più viver non potrà.  To l’adoro! In lei Tiposi  Ogni speme ed ogni alta;  La mia luce, la mia vita  Con la sua si spegnerà.  Volgi, o Dio su me, su lei  Un tuo sguardo protettor,  E la figlia, che perdei  Deh! ridona al genitor. (ROMANO parte da sinistra e nell'uscire si. moontra  con LAURA). Laura (apprdssandosi ‘a ROMANO)    Ah! padre caro, mi benedici!  Quel divin spirto, che t’empie il core,  Io pur lo sento! Odio i nemici  Di quel gran ùomo;-che' giùsto muore. Ma tu, che. il puoi, deh! tu lo salva;;  Se Do, «con Lui io morirò. :    (Romano    La rea fiamma, che in cor ti VE  Per chi scuote de’ Papi l’impero,  Sulla fronte il delitto’ ti Stampa  Che tu svolgi nel cupo pensiero...   “Salvo tu vuoi Giordano ?  Iniqua ! Nol sperar... tu Il chiedi > invano.    i (parte)  Laura (con disperazione)    Più di salvarlo non v' ha speranza!   L’ ala nel tempo batte spietata! Ah! la fatale ora 8° avanza. i   Con te Giordano io morirò. ( prende il veleno)  A morte infame traggono. ;  L’ apostolo del vero;  Ma dal suo rogo. pallida; |  La fiamma sorgerà.  Che sovra. il cieco popolo...  La luce porterà; COLERE Nè più potrassi spegnere  Quel fuoco che foriero  Sarà di libertà.    | Coro  frecta judicate filù hominum  Laura    Quai voci ascolto! Lugubre  E questo il canto estremo,  Ch’ ora al supplizio adduce-  L’apostolo del Ver.    Coro  Recta judicate fili hominum  Laura    Con te Giordano! Morir voglio!  Al gaudio tuo volar desio. SCENA Ve  {LORENZO e LEANDRO col corteo funebre s’inol-  trano nella scena. GIORDANO Tifo, le guardie si  fa avanti nel mezzo).  Giordano. Gran Dio! la vittima.  Tu vedi pronta  Il rogo a scendere   \a 1 1 Per la tua, fe; CERRI TERA ee    L'ira de’ perfidi,  Ovunque. conta,  Oggi terribile  Piombò su di me.    Coro    Etenim in corde iniquilates operamini;  Injustitias manus vestrae concinnant. Lorenzo. Si squarcino le tenebre  Or dell’uman pensiero,  E torni vivo a splendere  Il sol di verità,  Che strugga alla tirannide  L’ atroce maestà,  E’ incenerisca i fulmini  Del mistico nocchiero  Nella futura età..  Giordano e Leandro  Da’ rei carnefici  Il rogo ardente  Pel nuovo martire  E posto là;  Ma la giustizia  Di Dio clemente  Le braccia schiudere  A Lui vorrà. BRUNO circondato ddlle guardie parte col corteo. Leandro, Cero (partendo)    In terra injustitias manus. vestrae concinnant. (LORENZO s’appressa a LAURA, che si troverd, vicina.  a ROMANO), i    Lorenzo (con disperazione)    O Padre, addio. Per me l’estrema  Ora fatale suonata è già?   Guarda tuo figlio, che più non trema  Nel vendicare la verità.   A me di Laura l’amor fu tolto :  Perchè un mistero buio sognai...  Ah! padre, credilo, tutto: ignorai;  Solo or la luce scorgo del Ver. ER omamno  Lorenzo!   Lorenzo  [trattosi dall’ abito uu pugnale, si ferisce. Laura!  Laura (riavendosi avvicinasi a LORENZO)  Al gaudio Ei vola.   Romane (sorreggendo LORENZO)    Serbate a quanti spasimi  E il povero mio cor?    o    aaravai  -ercerecote e meriei ve oraconcorsoee «n - peacee -LilsSTFri= pone rete na dor e. Lorenzo È tardi, o padre, il piangere... .  Anche Lorenzo... muor! (gli cadde ai piedi). Romano. /Odesi “una campana a lenti rintocchi; avvicinandosi  a LAURA e sorreggendola/    Orribil pena mi strazia il core...  Un disumano fui genitore...!  Non v’ha infelice al par di me!    Laura (presso LORENZO)    Lieta è quest’ ora... della mia vita...  Bel paradiso la via... m’ addita  Giordano.... Io volo... In ciel... con tel    (Da una finestra vedonsi le fiamme del rogo, ed un    urlo di popolo annunzia la fine dello spettacolo.  Cala la tela],    op  de nia - oe  vr 2A  SN  DI LESANIA AL  TR I RRIA  Ji ) _ DE sa NI  Ao AME Ta0  “Si 1 iL VPI, |  ati  Lion "Ul ci    Li TR  PSR =  Hi (i dI    - Un pi Hi  3 i si  f  VI  % Y, ILA }  4 ”  ; A  Yy 4 Pi  f f lo L É  } 1}  Ì ;  A A Domenico Contestabile. Keywords: BRVNO, nobilita italiana, la famiglia Contestabile financia la rivolta di Campanella -- filosofia medioevale, Bruno, il melodramma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contestabile” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Conti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale VIRGILIANA – La nudità eroica d’Enea -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “Conti is a good one – he reminds me of Bosanquet and Pater – the decadents in Italy came AFTER them at Oxford! Conti philosophised on many aesthetic subjects, such as man, masculinity, and maleness --!” Di una famiglia originaria di Arpino, dove frequenta il locale liceo. Si ccupa di filosofia estetica. D'Annunzio lo cita nel “Giovanni episcopo” e si ispira a lui per ‘Daniele Glauro’ in “Il fuoco”. Insegna a Firenze presso la Galleria degli Uffizi ed a Venezia presso l'Accademia di Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione – l’estetica di Zorzi” -- Tornato a Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggi che delineavano la sua concezione critica ed estetica, ispirata dichiaratamente a Platone, Kant e Schopenhauer. La prefazione fu curata d’Annunzio, il quale scrive di stimare molto Conti e di ammirare il suo “ascetismo” estetico.  Direttore delle Antichità di Roma. Direttore della Reggia di Capodimonte a Napoli. Si ispirò alla poetica del filosofo oxoniese Pater e Ruskin.  Altre saggi: “Giorgione, Firenze, F.lli Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia, Venezia, Tip. L. Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume del tempo, Napoli, R. Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R. Ricciardi); Domenico Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “San Francesco, con un saggio di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgilio dolcissimo padre, Napoli, R. Ricciardi). Praz nota che Parodi era solito leggere La beata riva di Conti prima di addormentarsi; quando morì, la lettura non era stata ancora terminata.  Dizionario Biografico degli Italiani, Forme del tragico nel teatro italiano. Modelli della tradizione e riscritture originali,Romantici, vittoriani, decadenti – filosofo decadente – decadentismo -- e museo dannunziano, in Bellezza e bizzarria – il bello e il bizzarro., Croce, La letteratura della nuova Italia, Marcello Carlino.C., Due conviti di Mattia Preti, Bollettino d'Arte.  Io vengo dal mare di Napoli e sono tornato qui a rivedere la primavera. Non c'è nessuna altra città in cui, come in questa, il rifiorire degli alberi e delle siepi si accordi con la giovinezza delle opere del genio umano, nessuna ove, come qui, la Primavera sembri rimanere per un istante velata, per poi riapparire pili fulgida e piìi lieta, al ritorno dei venti che spirano dalle colline e recano i nuovi fiori. Sono anche giunto fra voi, per parlarvi della pittura di Leonardo. Ma il mio compito, dopo la lettura deirillustre scrittore francese che m' ha preceduto, sarebbe oggi, non dico diffìcile, ma quasi vano, se le mie idee fossero affini alle sue ed egli fosse vicino al mio pensiero come io sono vicino al suo aff'etto per questa nobile terra toscana, ove l'arte ha continuato la grazia gentile e la pura bellezza della natura. Diversità di pensare e anche d'immaginare mi rendono oggi possibile esprimere qualche cosa a voi forse non detta, e combattere qualche affermazione troppo lontana dalla mia sicura fede. Leonardo è il discepolo del Vermocchio. Ora, che cosa poteva egli apprendere dal suo grande maestro? Non certamente l'arte, la quale non si apprende e non si insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà mai pensare alla possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista, un poeta? La natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli a trovare i mezzi d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nel mondo. Il maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire: " Il tuo cuore è impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressione plastica o per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tua amarezza; guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umano discorso, ecco la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori che imitano la bellezza del cielo, della terra e del mare; ecco in qual modo si modella la creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l' immagine dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma il discorso, il canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare „. Ogni opera d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa e nuova, nella quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e preesistenti, hanno mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto inatteso e prodigioso che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in Leonardo appare un' immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle labbra del giovinetto Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che illumina un altro mondo; poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra dell'eroe adolescente sul viso e negli occhi della Gioconda, diviene il mistero della seduzione femminile, una grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che nasce dall'espressione d'iin volto, si diffonde verso il paese lontano e attira il contemplatore. Il sorriso verrocchiesco è in Leonardo come nn brano di Plutarco in Shakespeare. Or chi oserebbe dire che l'immortale tragico inglese derivi da Plutarco? Leonardo e il Yerrocchio sono due artisti assolutamente distinti, che parlano un linguaggio interamente diverso e che, se somigliano esteriormente in qualche cosa, hanno due anime quasi opposte, chiusa l'una nella sua idea di bellezza e di stile, l'altra aperta a tutte le manifestazioni della natura e della vita, in una continua ansietà di fissarne l'immagine mutevole con la semplicità del segno rivelatore. Noi viviamo pur troppo in un triste momento della vita, poiché la maggior parte degli uomini ai quali parliamo non sanno che cosa sia l'arte, e lo Stato crede a chi meno vede. Non è forse ancora possibile vincere una così detta scuola di critica scientifica, fondata sull' errore già accennato e chiusa nella rete del pregiudizio cronologico. A coloro che ancora credono alle influenze sugli spiriti geniali e alla necessità in arte di una classificazione come in botanica, noi possiamo trionfalmente rispondere con Leonardo che l'artista genera le sue opere qual fanno le cose. Egli deve creare come fa la natura, e le sue opere superare e cancelUxre i segni del tempo che passa. Un quadro, una statua, un edifizio debbono nascere come le selve e apparire come le albe. Or chi penserà all'epoca d'una primavera o d'un ciclo stellato? Non c'è opera d'arte geniale che venga per noi dal passato lontano, come non e' è indizio di vetustà nelle montagne e nella aerea architettura delle nubi. Dinanzi all'umanità che passa, il genio si ferma e rende eterna la sua traccia come è nel cielo il cammino delle stelle. Avete udito il canto dcirusignolo? Lo riudirete in tutte le primavere. Il genio vi farà sempre udire la sua voce fresca e giovanile come nella stagion nuova della terra il canto dell'usignolo. Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano le allodole, è una notte serena, e l'uomo si perde nella luce lunare. Aprite Dante, e siete nell'eternità della vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa invecchia o perisce, e noi stessi, -accanto a quelle grandi anime, siamo per un istante fuori del tempo. Questo momento di liberazione provai per la prima volta alcuni anni or sono a Milano, trovandomi dinanzi alla Cena, nel convento di Santa Maria delle Grazie. Vidi il capolavoro nella medesima ora indicata dalla luce clie lo illumina dal fondo, tanto che mi fu d'un tratto facile superare i mille e piìi anni passati e trovarmi presente alla scena Gesù era seduto nel centro del convito e da poco avea prò nunziato le parole: qualcuno di voi mi tradira. I convitati a destra e a manca s'erano ritratti e aggruppati in tumulto lasciando nel mezzo Gesù solo, con la sua tristezza infinita La sala era piena di gesti concitati e di ansiose interrogazioni. Il Maestro solo era calmo e la sua figura, sul paese che gli s'apriva lontano alle spalle, era immobile. Ma qual dramma in quella immobilità ! Mentre la sua mano destra, lievemente contratta, esprimeva un istante di ribellione e come un istintivo moto d'ira, la sinistra nel momento successivo s'abbandonava col dorso poggiato sulla tavola e le dita allungate, esprimendo la rassegnaziona e il perdono. Gli occhi abbassati non guardavano e non vedevano nulla di ciò che era presente, ma contemplavano internamente il grande spettacolo del dolore e della miseria umana, mentre la sua anima sembrava essersi già rifugiata in quel fondo di paese luminoso e lontano, dove abitavano una grande speranza e una eterna pace. Nessun uomo avevo veduto mai così solo come Gesù in mezzo a quel tumulto. Era un'isola in mezzo a un mare procelloso. Le onde fragorose del tempo, che travolgono^ uomini e cose, mi avevano forse spinto ad approdare ad una riva ove splendono i fiori eterni della vita? Mai infatti, come quel giorno, ebbi, per virtìi dell'arte, la visione della vita, in un oblio piti completo. Quando il custode del Cenacolo venne ad annunziarmi Fora della chiusura, io riudii nuovamente, dalla strada vicina, il rumore delle carrozze e il rombo dell'esistenza; e ritornai fra gli uomini. Pochi anni or sono Annunzio scrisse una bella pagina di poesia per rimpiangere la rovina del Cenacolo. Voi infatti sapete, che, come della antica e celebrata pittura dei greci, fra pochi anni della Cena vinciana non resterà se non il ricordo ^ Il doloroso avvenimento non ^ Questo studio su Leonardo lìiitore era già stato scritto, quando fu compiuta in Milano dal pittore prof. Luigi Cavenaghi l'opera di ristauro del Cenacolo, salutata da tutti i cultori ed amatori d'arte con gioia e gratitudine. Il Cenacolo, compiuto da Leonardo nel 1497, cominciò ben presto a guastarsi; ì primi provvedimenti per salvare il capolavoro risalgono al cardinale Borromeo, poi nei secoli si susseguirono alternative di lunghi abbandoni, di fallaci rimedi empirici, di studii incompleti e riparazioni deturpatrici, fin che il prof. Cavenaghi fuincaricato delle ricerche scientifiche e tecniclie che, precisando le cause e l'entità dei guasti, portassero ai rimedii più efficaci. Egli trovò — sono sue parole riprodotte naìVIllustrazione Italiana, n. 41, dell'I 1 ottobre 1908 — che il dipinto, coperto da polvere di secoli, si screpolava e la crosta di colore si sollepoteva non commuovere e non far riapparire la visione tragica del fato clic incombe sui capolavori. Ma è forse una illusione. In realtà la natura non distrugge ne i fiori o le selve della terra ne le opere del genio: la Minerva criselefantina di Fidia è passata dall'avorio e dall'oro nelle pagine immortali dei poeti e nella eterna memoria degli uomini. Quando un capolavoro scompare, noi non dobbiamo pensare che il tempo lo abbia distrutto, ma semplicemente che si sia oscurato lo specchio che ci proiettava la sua imagine nel tempo e nello spazio. Nella profonda unità dell'anima umana, clie rende i poeti e i filosofi simili ai figli d'una madre sola, l'ispirazione da cui esso nacque riman pura e vivente come una forza della terra non ancor vestita della sua forma. Se avessi la virtù del canto, vorrei lodare e far comTava dall'intonaco, a squame di varia misura, di modo clie parecchie di quelle i grandi, accartocciandosi, formavano altrettante sacche che si riempivano con al- tre piccole squamette che vi cadevano dall'alto. Vuotare ad una ad una le sac- che senza scuoterle, senza quasi toccarle, mediante una pagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza adatta, poi fare aderire le sacche e le croste all'intorno, togliendone, con un certo liquido dal Cavenaghi ideato, la polvere alla superficie, questo sostanzialmente fu il lavoro paziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi durò il Cavenaghi, rendendo più tonica la fibra in isfacelo, facendole riac- quistare un po' di colorito, così che il dipinto non debba peggiorare e possa vi- vere ancora a lungo, con infiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il Cavenaghi — sarà sempre un organismo precario, e per le condizioni sue, pieno come è di cicatrici, e per l'ambiente. Ad ogni modo questo del Cavenaghi è •stato pel Cenacolo Vinciano il ristauro essenziale, decisivo, nei secoli; e grandi manifestazioni di gratitudine ed ammirazione sono state tributate all'assoluto disinterewse, pari all'amore grande per l'arte, spiegati dal benemerito ristauratore, al quale Caravaggio, sua terra natia, ha consacrato una targa artistica a memoria del fatto; ed i cultori ed amatori d'arte, auspice Luca Beltrami, gli hanno conferita, davanti al capolavoro vinciano, una bellissima medaglia d'oro. Il prof. Cavenaghi inoltre è stato chiamato dal Papa, in sostituzione 4el defunto prof. Seitz, all'onorifico ufficio di direttore delle pinacoteche vaticane. prendere la vita maravigliosa che il Cenacolo leonardesco chiude nella sua rovina. Come la rovina d'ogni cosa grande, essa equivale ad una purificazione e ad una apoteosi. Finche resterà un sol frammento della parete prodigiosa, finche un sol disegno, una sola stampa, una sola fotografia, custodiranno un riflesso lontano della sua bellezza, quella creazione del genio sarà per noi piìi potente che se il tempo e gli uomini l'avessero rispettata in tutte le sue parti caduche. E un errore credere che il tempo non rispetti i capolavori; e noi molto spesso parliamo, spinti dall'abitudine, contro l'eterna verità delle cose. Il tempo, artista maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genio umano. Dove sembrava che l'opera geniale sì fermasse, egli la continua, mutilandola: dove appariva ciò che è chiuso e preciso, egli apre una via infinita all' imaginazione; dov' era un aspetto freddo e muto della realtà, egli fa nascere i segni del mistero. Ciò che sembra una distruzione e invece una rivelazione e una consacrazione. E la natura che riprende l'umana opera interrotta, che fa apparire la sua forza dove la mano dell'uomo cadde stanca, e che, dove l'ispirazione di questo si oscurò e si confuse, fa cantare le sue eterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il tempo soltanto per le sue rovine; è necessario esaltarlo anche per tutte le opere d'arte che, in compagnia del fato e della umana malvagità, ha impedito di compiere al genio umano. Alludo principalmente alle cosi dette sculture non finite di Michelangelo e ad un quadro, che è ancora considerato un abbozzo, di Leonardo. Come i capolavori in rovina appariscono vicini a rientrare Leonardo da Vinci.Conti, Leonardo pittore nella iiuiversalitìi della vita, i capolavori incompiuti seml)rano usciti da poco dal seno stesso della natura. L'artista ne segnò l'imaginc non fra i tormenti del lavoro consapevole, ma come in sogno, obbedendo ad una volonth oscura che per qualche istante abolì la sua volontà individuale. Poche tracce di pentimenti in quei primi segni, ma l'espressione d'una beata obbedienza, come di chi si affidi al mare, e una ricchezza e una esuberanza di vita uguale a quella di cento uomini felici. * Mi limito a parlarvi del quadro di Leonardo, oggi nella Galleria degli Uffizi, e che rappresenta l'Adorazione dei Magi. La prima cosa che ci colpisce è il movimento. Noi sentiamo subito che il pittore ha voluto rappresentare un avvenimento straordinario, un grande fatto della natura e della vita. Quasi tutte le figure vanno, strisciano, accorrono verso la parte centrale della rappresentazione, ove si fermano prostrate e come atterrate dallo stupore e dalla maraviglia. Fra i gruppi in movimento, alcune figure stanno diritte e immobili a guardare la scena. Nel centro una calma assoluta. La Madonna vi appare seduta in una attitudine piena di grazia materna, e sulle sue ginocchia il bambino si china e protende una mano per toccare il 'dono che un vecchio genuflesso gli porge. Intorno si raccoglie e si concentra tutto ciò che nel quadro raggiunge la maggiore intensità d'espressione e la maggior forza di vita. Questi vecchi che vengono da lontano, guidati dal mistero, sono una Conti, LeonarJo j)ittore 91 fra le più potenti creazioni del genio umano. Tutta la scena, piena della loro commozione e del loro sbigottimento, sembra irradiare come un vento di tempesta che, dall'anima dei vecchi, giunga sino ai punti piti lontani del quadro. Ed ecco che noi vediamo gli effetti dell'onda invisibile. Dietro il gruppo centrale è un accorrere disordinato di gente: uno ha le mani levate e grida come per un ignoto pericolo, un cavaliere non riesce a contenere lo spavento del suo cavallo, altri gruppi di cavalli nel fondo appariscono spinti dalla furia d'una battaglia; qua e là, sotto archi crollati, uomini che corrono e s'interrogano ansiosi, altri che salgono discendono a frotte e smarriti per una gradinata. Si sente che un grande avvenimento si compie, e per tutta l'ampia scena notturna è diffusa l'atmosfera del miracolo, come in un giorno sereno la luce del sole sulle campagne. E questa è appunto l'idea che Leonardo ha espressa nel suo quadro con una potenza e una eloquenza suprema. Mai infatti, sino a questi anni, la pittura aveva rappresentato il miracolo, mai lo stupore e il terrore di ciò che sembra turbare le leggi della natura e far presentire agli uomini un rinnovellamento del mondo, erano stati resi visibili nell'opera d'arte. Leonardo, con questa composizione sintetica, con questo semplice suo disegno a chiaroscuro, nel quale non un sol particolare h compiuto, è riuscito a rappresentare il miracolo come non sarebbe stato possibile con l'opera piìi meditata e più coscienziosamente finita. E la ragione mi sembra questa. Vi sono idee e sentimenti che le arti plastiche non possono rappresentare se non con mezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che comiincmcnte si chiama V incomplitto. L' incompiuto è spesso un mezzo meraviglioso dì espressione per il genio umano; è, a rovescio, il mezzo stesso che la natura adopera per purificare e per consacrare nei secoli i capolavori degli uomini. In questi la natura procede per eliminazione, nell'opera rimasta incompiuta il genio lavora in uno stato di concentrazione suprema. Li^ Adorazione dei Magi non solo rappresenta un miracolo; ma è essa stessa un'opera miracolosa. La notte che vi si addensa è piena di luce per l'anima umana. Fra tutti i quadri della Galleria degli Uffizi è il più vivo, il piìi drammatico e il più profondo per significazione. Continuando per voi la enumerazione delle opere pittoriche vinciane e per mostrarvi che, come allora mi fu possibile liberarmi dal tempo, posso anche oggi, e mi piace, spezzare le catene della cronologia, passerò a parlare della Gioconda. La vidi alcuni anni or sono, e feci, quasi per lei sola, il mio pellegrinaggio da Firenze a Parigi. Quando entrai nella pinacoteca del Louvre, la giornata era grigia e le sale quasi in una penombra. Nella sala dei capolavori gli occhi delle figure dipinte da Tiziano, da Raffaello, da Yelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda, corsi verso di lei. Entro la fioca luce indovinai il sorriso e sentii il fascino dello sguardo; vidi anche il candore del seno. Ogni altra cosa era indistinta. In una pinacoteca non è possibile abbandonarsi all'oblio, Angelo Coxti, Leonardo piUore 93 come in una chiesa o in nn cenacolo. Coloro che entrano a visitare le collezioni dei dipinti vanno per lo più a fare confronti, ad osservare particolari, a cercare note caratteristiche, e portano con sé libri e fotografie. Io, qnando mi dispongo ad andare o a tornare al cospetto d'nn capolavoro, m'affatico a togliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia dato procedere con passo leggero e mi trovi dinanzi all'opera geniale, con l'anima semplice e serena. Sono abituato a contemplare un quadro, come se fosse una costellazione. Nella notte ir cielo è pieno di silenzio e le stelle splendono armonizzando ciascuna il suo ritmo alla musica del cielo. Guardando gli occhi di Monna Lisa del Giocondo, li vidi palpitare in ritmo, in armonia con la musica del suo sorriso. Il quadro m'era ancora ignoto, e pensavo a Leonardo. Mi pareva vederlo, mentre nel suo studio fiorentino aspettava l'arrivo della sfinge ridente. Poco dopo ella entrava e si sedeva accanto alla finestra. In fondo apparivano le colline di Fiesole, Monte Morello, l'Appennino lontano, e l'Arno serpeggiava scintillando nel mattino, mentre le torri della città uscivano dalla nebbia al primo sole. Anch'egli si sedeva, e, presa la lira d'argento che s'era fabbricata con le sue mani, cominciava a cantare. La bella donna, udendo la laude melodiosa, sorrideva, mentre l'Arno da lungi diveniva più ricco di scintille. Poi cominciava a dipingere, e, dopo i primi tocchi una orchestra invisibile di liuti riprendeva la canzone interrotta. La donna sorrideva in una calma regale: i suoi istinti di conquista, di ferocia, tutta l'eredità delia specie, la volontà della seduzione e dell'agguato, la grazia dell'inganno, la bontà che cela un prò- 9i An'gelo Conti, Leomrdo pittore posito crudele, tutto ciò appariva alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nel poema del suo sorriso. Per un momento usci un raggio di sole; ed io die m'ero allontanato dal prodigio, corsi e lo vidi intero. La donna era viva dinanzi a me, in tutta la sua vita reale e ideale. Buona e malvagia, crudele e compassionevole, graziosa e felina, ella rideva, e il suo riso si prolungava nel paese lontano e nell'anima mia; sino a darle l'oblio die viene dalla presenza delle cose immortali. Pochi istanti dopo, il sole scomparve e la penombra regnò nuovamente nella sala. Lì presso un sol quadro ardeva come una lampada e in esso cantava, non affievolita, la musica del colore. Era la Festa campestre: fra due donne nude, un suonatore di liuto svegliava alcuni accordi e pareva che la Gioconda ne sorridesse come quando VINCI (si veda) canta, per rendere piìi intensa la sua vita e per tradurre col disegno la sua misteriosa bellezza. Questo ritratto non esprime soltanto ciò che l'occhio vede, ma è il riflesso d'una creatura amata da uno spirito che per oltre quattro anni si affaticò a penetrarne a rivelarne la vita. Come dinanzi alla Gioconda, Leonardo si pone dinanzi ad ogni cosa vivente col medesimo ardore di conoscenza, con la stessa ansiosa curiosità e lo stesso desiderio invincibile di fissarla con segni semplici e definitivi. Tutto questo poema della sua anima, questo dramma intimo che si chiude in una alternativa di tentativi d' espressione e di istanti di tregua contemplativa, di rapimenti e di lotte con la sorda materia, d' ansietà e scoramenti e di calma trionfale, è raccontato nei suoi disegni, che sono 1' immagine più completa della sua potenza non solo intuitiva ma creativa. Per lo scultore il disegno è appena un segno, uno scliema, un presentimento dell'opera futura. Lo chiamiamo disegno, perchè ijon abbiamo altre parole per significare le notazioni figurative degli scultori; ma esso non è se non un appunta ideale, un mezzo per ricordare un sentimento. Ricordate i disegni di BUONARROTI (si veda) per le sue statue, ricordate gli odierni disegni di Rodin per i suoi gruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì disegni, benché esprimano una visione di movimento, non sono pittura e non sono scultura perchè non illuminano una idea che potrà essere espressa, come chiaroscuro e come colore sopra una superficie e che sia per apparire come forma nello spazio. La scultura comincia soltanto col bozzetto in cera, in creta o in gesso, cioè a dire quando V idea, destinata a manifestarsi come forma nasce a somiglianza d'una cosa viva fra le altre cose viventi e sorge nello spazio, nell' aria e nella luce, sottoposta alle leggi del peso e chiusa nelle sue dimensioni. Per parlare con esattezza, la scultura non ha disegno. Nella pittura il disegno è tutto, è il primo segno che nota la visione ancora vaga sopra una superficie, ed è il chiaroscuro e il colore che pili tardi la renderanno eloquente, che le daranno una voce che parla e che canta, come in una musica e come in un poema. Per Leonardo, genio universale, il disegno non è soltanto linguaggio pittorico, ma è il mezzo adeguato d'espressione di tutto ciò che appare e che passa nel suo pensiero, nella sua memoria, nella sua imaginazione e nella sua fantasia. Tutti gli aspetti e tutti i momenti della multiforme ed inesaiiribilc attività del suo spirito trovano la loro espressione negli innumerevoli disegni che egli traccia in margine e fra le linee dei suoi manoscritti, la precedono e spesso la superano con la loro potenza di linea intuitiva e divinatoria. Mai come in Leonardo il disegno ha avuto la virtìi d'esprimere tante cose, dalle più athni alla pittura alle pili lontane, dalle pili concrete alle più astratte; mai come in Leonardo e giunto ad una cosi vasta e così intensa forza di analisi e di concentrazione. I disegni di Leonardo non sono solamente una testimonianza del suo amore per la natura, non sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V anima delle cose, ma principalmente sono un mezzo di cui egli si è servito per conoscere l'universo. Invece di consultare i trattati scientifici ed i sistemi di filosofìa, Leonardo disegna. I disegni sono i suoi pensieri, le sue meditazioni, le sue osservazioni, le sue intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo disegno contiene un segreto svelato, è una verità conquistata, è il segno d' un nuovo trionfo della indagine umana, è un lembo del mistero dell'universo sollevato dal genio umano. Dinanzi a ciò che noi chiamiamo il vero e può essere ugualmente chiamato il mistero, Leonardo ha lo sguardo limpido, sereno, nuovo, lo sguardo meravigliato del fanciullo, ha quella innocenza del genio, senza la quale, come afferma Bacone, non si può entrare ne nel regno della verità ne nel regno dei cieli. La differenza fra l'uomo di genio e l'uomo comune sta p principalmente in questo: dinanzi ai fatti e agli aspetti della natura e della vita V uomo comune si abitua e finisce con l'abolire in se il senso della maraviglia; le sue impressioni, invece d'avere sempre un carattere loro proprio, invece d'es- Leonardo da Yisci Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X. LA GIOCONDA. sere sempre eccitatrici di sentimenti nuovi, gradatamente si attenuano, si affievoliscono; finche si adattano e si sottopongono al modo di sentire individuale, finche si scolorano e muoiono davanti alla monotonia dei bisogni quotidiani. L'uomo guidato dalle abitudini è un addormentatore di se stesso, è uno schiavo di ciò che nel suo spirito è meno degno di comandare. Il genio invece è sempre libero, è sempre desto, e il sonno dell'abitudine non può far discendere un velo sui suoi grandi occhi puri. Leonardo è appunto della famiglia di coloro che non conoscono lo stato di sonno e d'indifferenza, ma che vivendo sempre in una ansiosa curiosità vedono il continuo apparire delle cose e l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni, e che sembrano veramente nascere ogni mattina. In questo stato di attesa dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione è per Leonardo una visione, ogni analisi è una scoperta. Guarda un ramo con le sue foglie, ne cerca la vita col suo disegno, e gli appare la legge di filotassi; canta accompagnandosi con la sua lira d' argento, e scopre la legge di risonanza delle corde negli accordi. In ogni fenomeno egli sente e vede una confessione fatta dalla natura al suo genio divinatore. I suoi disegni sono la traduzione grafica di queste confessioni fatte alla sua anima dall' anima delle cose. Ciascuno d'essi pili che studio dal vero è opera d' immaginazione, è figurazione intuitiva, destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire, dietro ciò che passa, l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterne verità. Ogni loro contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogni luce un riflesso del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci. lii 98 un'eco d'un vivente mistero; e tutta quella sua opera della penna, del carbone, della matita non è se non un mezzo potente da lui adoperato per stringere d' assedio la natura e per costringerla a rivelare il suo segreto. Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie egli trova il cammino che deve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo manoscritto e in un suo disegno il movimento dell'acqua veduto simile al movimento d' una capigliatura, ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto lo aiutino a comprendere quelli del volo, in quel maraviglioso trattato che ha la virtìi di metterci in segreta comunicazione con 1' anima e con la forza delle creature volanti. In questo modo, sempre per mezzo di imagini e di indagini grafiche, di analogie, di forma e di movimento, osservando e studiando l'aria e l'acqua, il suono e la luce, e paragonando le loro proprietà essenziali, egli giunge ad intuire l'unità delle forze fisiche precorrendo Cartesio. E la sua conoscenza, alla quale appariscono come intuizioni le principali conquiste della scienza moderna, è figlia della sua imaginazione. Più ancora che nei suoi manoscritti è espresso nei suoi disegni il cammino fatto dalla sua conoscenza, guidata dall'amore e resa più profonda dalla sua infantile maraviglia. Chi non ricorda, fra gli altri innumerevoli, i suoi disegni di foglie e di fiori? Sono questi fra tutti gli altri, esclusi quelli solo che ritraggono la figura umana, i più precisi. Pure in questa precisione è l'infinito della vita. A prima giunta potete pensare o credere che quei segni corrispondano a qualche cosa di limitato e di esteriore; poi sentiamo che ciascuno di essi ha la potenza di continuarsi in noi. La sua precisione non è il segno rigido e freddo fatto da una mano abile, ma è la linea sicura del genio che ha trovato la vita. Però egli non trascura mai un solo particolare, non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir tutto sino all'ultima parola. Infatti egli dice tutto; ma il suo linguaggio è come il mare e come l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra farsi vasta come 1' anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere questa potenza d'espressione? In un modo semplice e grande: imitando la natura. L'imitazione della natura è il principio che Leonardo proclama in tutti i suoi scritti e mette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa imitar la natura? Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come fanno oggi la maggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di vita. Imitar la natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità, significa divenire come la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d' arte nel modo stesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual fanno le cose. Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei manoscritti di Milano, di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno sviluppo e un'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono connessi intimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi due parole dei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero. Voi sapete che nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè? Volle forse Leonardo coltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e contribuire al loro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo. L'uomo non dev'essere " solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca „, non deve essere soltanto un " transito di cibo „ e avere della specie umana la sola voce e la figura, e tutto il resto " essere assai manco che bestia „. Il vero scopo della vita umana è per Leonardo il pensiero. Il pensiero, per conoscere il passato e la nostra dimora terrena; ecco il mezzo per vivere nobilmente liberandoci dalla illusione del piacere. Il tempo che fece piangere Elena allorché ^ guardandosi nello specchio, vide i primi segni della vecchiezza, il tempo non può colpire il pensiero. Il conoscere la sapienza degli antichi e la vivente realtà delle cose presenti, ecco il decoro e l' alimento degli spiriti umani. Ma perchè un tal desiderio di conoscere? Questo e per me il punto capitale, il vero nodo della questione. Il sapere perchè Leonardo ha voluto studiare tante forme ed ha cercato il segreto di tanti fatti della vita universale, ci farà conoscere la qualità essenziale del suo genio. Nella sua indagine instancabile d'ogni fenomeno del cielo e della terra, nel suo ininterrotto colloquio con la natura, Leonardo non è animato da curiosità puramente scientifica, non da vanità di dottrina, né dalla naturale tendenza d'un intelletto analitico cui l'esercizio delia osservazione doni la gioia più intensa. Spirito sostanzialmente intuitivo e sintetico, egli si sottopone in tutta la sua vita al rigore e spesso al martirio dell' analisi, per acquistare una conoscenza pili ricca, più vasta e piti profonda. Le sue innumerevoli osservazioni, i suoi continui esperimenti sono i gradini che debbono condurlo colà dove, entro una luce inestinguibile, appare l'eternità della vita. Soffrire la disciplina del ragionamento e dell'esperimento per aver in fine, come premio, la visione della vita, non h forse una divina aspirazione? Più la sua conoscenza, nel quotidiano osservare e meditare, gli svelava nuove leggi e nuovi segreti, più cresceva in lui l'amore per tutta la natura; ne vi fu mai al mondo, dopo l' umile frate d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e più ardente. Chi più conosce 'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore generato dalla conoscenza è tutto il segreto dell'opera di Leonardo, dai manoscritti e disegni alle pitture. Il suo realismo è un mezzo per giungere all'idea, è il modo ch'egli adopera per ricomporre ciò che prima ha scomposto, in maniera che la natura stessa sembri formarsi dinanzi a noi e farci assistere alla sua stessa creazione. Chi conosca i manoscritti di AYindsor, nei quali i disegni hanno un'importanza assai maggiore del testo, può convincersi agevolmente di questa verità e può anche comprendere (cosa che in questo momento deve particolarmente interessarci) che quando Leonardo parla di anatomia o di fisiologia, come nei così detti trattati che si vanno ora pubblicando, egli non è mai un anatomico vero e proprio, ne un vero fisiologo, ma è sempre prima d' ogni altra cosa e sopra ogni altra cosa pittore. Tutta la sua opera di scienza, tutti i suoi disegni d'anatomia, d'embriologia, di botanica, non ser- vono se non a rendere più vasta, più profonda e più ricca la sua visione pittorica dell'uomo e della natura. La scienza non è se non un mezzo d'espressione della sua visione del mondo, ed egli se ne giova per dare un carattere di precisa realtà agli ardimenti del suo sogno. Scopo del suo immenso lavoro e di giungere a creare ima- 102 Angelo Conti, Leonardo pittore g'ini clic sembrino nate con le stesse leggi con le quali la natura produce le sue forme: qual fanno le cose. E doloroso che nella sua vasta opera essenzialmente pittorica, nella quale " non fu impedito „, come egli dice, " da avarizia o da negligenza, ma solo dal tempo „, manchi irreparabilmente una fra le pagine piti vive e più grandi: La Battaglia d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa Maria Novella, a pochi passi dal luogo nel quale egli disegnò r opera maravigliosa. Le campane che suonano nel campanile roseo al primo sole del mattino, sembrano diffondere sul mio ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi il lavoro fu compiuto, e immediatamente cominciata la pittura a fresco per la sala del Consiglio in Palazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506. Poi l'opera fu da lui abbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora nella sala del Papa, mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da Michelangelo era nel Palazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti all'ammirazione del mondo. Da queir anno manca ogni notizia. Della pittura incominciata in Palazzo Vecchio si sa soltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma cadente a causa della cattiva preparazione dell'intonaco e dei colori. Cito, contro il mio solito, dati di fatto e date, perchè l' opera pur troppo manca. Se l'opera esistesse, il suo linguaggio renderebbe insostenibile la voce della cronologia; ma poiché è perduta, ci è necessario contentarci delle parole di chiunque ce ne parli. I due tre ricordi pittorici rapidi e sommari dell' episodio centrale della battaglia, non bastano a dare un'idea di ciò che fece Leonardo. Chi sa in qual modo maraviglioso e straordinario egli avrà rappresentato la mischia, la furia guerresca intorno allo stendardo, che sappiamo fosse nel centro, qnal prodigio di scorci, quale evidenza di movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e quale perfezione di cavalli, dei quali egli conosceva la vita come nessuno dei suoi tempi ! Di tutto ciò nulla e rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ogni traccia dell'opera scomparve, la natura, per compensare il mondo, dovè creare una primavera favolosa, non veduta mai. Poiché nel mondo nulla si perde, e quando una bellezza è distrutta, sia essa una selva che arda, un' isola che si sommerga, un capolavoro che cada in rovina, la natura provvida fa nascere nuovi germogli, suscita nuove bellezze e nuove energie, e la sua forza di creazione rimane intatta in virtii della sua maggiore attività: il mutamento. Doctor Mysticus. Iride, mandata da Giunone, scende sulla terra per consigliare TURNO a idare l’assalto al campo troiano, finchè  è assente ENEA. Turno, avendo provocato invano i Troiani rinchiusi, pensa di dar fuoco alle navi, le quali si salvano per l’intervento di Cibele che le trasforma in ninfe del mare. TURNO, interpretato.  favorevolmente quel portento, idispone l’accampamento. Durante la notte, NISO confida ad EURIALO il’proponimento di andare in cerca d’ENEA. Ma Eurialo lo vuole seguire. Ascanio e i capi li lodano, e prometton loro grandi doni. Entrati nel campo dei Rùtuli, ne fanno strage. Ma quando, uskitine, si avviano per i boschi, sono scoperti da Volscente che veniva con trecento cavalieri di Laurento. Fuggono. NISO SI SALVA, MA EURÌALO È RAGGIUNTO ED UCCISO, NONOSTANTE L’INTERVENTO DI NISO, TORNATO INDIETRO A SALVARE IL COMPAGNO. Le teste recise dei due giovani, infilzate in una picca, son portate sotto il campo troiano, fra i disperati lamenti della madre di Eurialo.  Turno assale i Troiani con grande strage. E  poichè Numano insolentiva i nemici vantando le virtù  della stirpe italica, Ascanio compie il suo primo eroismo idi guerra, e lo trafigge con una freccia.Pandaro e Bizia, fratelli, tentano la riscossa lanciandosi sui Rùtuli; ma Bizia è ucciso da Turno, che riesce a entrare nel campo nemico, dove fa strage; finchè, eopraffatto dalla folla dei Troiani, si salva lanciandosi armato  a nuoto nel Tevere. Atque ea diversa penitus dum parte geruntur,  Irim de caelo misit Saturnia Iuno  audacem ad Turnum. Luco tum forte parentis  Pilumni Turnus sacrata valle sedebat.  Ad quem sic roseo Thaumantias ore locuta est:   « Turne, quod optanti Divum promittere nemo  auderet, volvenda dies en attulit ultro.  Aeneas urbe et sociis et classe relicta  sceptra Palatini sedemque petit Evandri.  Nec satis: extremas Corythi penetravit ad urbes 10  Lydorumque manum collectos armat agrestes.  Quid dubitas? nunc tempus equos, nunc poscere currus.  Rumpe moras omnes et turbata arripe castra. Dixit, et in caelum paribus se sustulit alis  ingentemque fuga secuit sub nubibus arcum. A&novit iuvenis duplicesque ad sidera palmas  sustulit ac tali fugientem est voce secutus:  « Iri, decus caeli, quis te mihi nubibus actam  detulit in terras? unde haec tam clara repente  tempestas? medium video discedere caelum palantesque polo stellas: sequor omina tanta,  quisquis in arma vocas. » Et sic effatus ad undam  processit summoque hausit de gurgite lymphas,  multa Deos orans, oneravitque aethera votis.   lamque omnis campis exercitus ibat apertis 25  dives equum, dives pictai vestis et auri.  Messapus primas acies, postrema céoercent  Tyrrhidae iuvenes, medio dux agmine Turnus  E mentre tutto questo in ben diversa parte succede,  Iride giù da cielo mandò la Saturnia Giunone a Turno  audace. Allora a caso sedeva Turno nel bosco dell’avo  Pilumno * entro alla sacra valle; e a lui con la rosea bocca la figlia di Taumante * parlò: « Turno, quel che nes  suno dei numi oserebbe promettere al tuo desiderio, ecco che il giorno che volge te l’offre spontaneamente. Énea lasciò la città e i compagni e la flotta, ed è salito  alla reggia del Palatino ed alla sede di Evandro. Nè basta: è penetrato nell’ultime ville di Còrito *, e raccoglie  ed arma agresti schiere di Etruschi. Che indugi? Il tempo è questo, è questo, di chiedere i cocchi e i cavalli.  Rompi ogni indugio, turba ed assali il suo campo ». Disse, e nell’alto del cielo si alzò con le ali levate, e nel  fuggire segnò sotto le nubi un grande arco. La riconobbe  il giovane, e alzò ambe le palme alle stelle, e, mentr’ella  volava, la seguiva con queste parole. Ìri, ornamento  del cielo, chi dalle nubi a me ti fece discendere sopra la  terra? E come mai, improvvisa, tanta chiarezza di cielo? A mezzo vedo dischiudersi i cieli e in alto vagare  le stelle. Chiunque tu sia, che mi chiami alle armi, obbedisco ad un tanto presagio ». E, così detto, al fiume  si accostò, ed attinse a fiore del gorgo le acque, molto  pregando gli Dei, colmando il cielo di voti. E già l’esercito intiero andava per le aperte pianure,  ricco di cavalli, ricco di vesti intessute nell’oro (all’avanguardia è Messapo, ultimi vengono, i figli di Tirro ‘,  ed a capo del grosso sta Turno: s’avanza brandendo ie    LI   [vertitur arma tenens et toto vertice supra est];   ceu septem surgens sedatis amnibus altus per tacitum Ganges, aut pingui flumine Nilus   cum refluit campis et iam se condidit alveo.   Hic subitam nigro glomerari pulvere nubem   prospiciunt Teucri ac tenebras insurgere campis.  Primus ab adversa conclamat mole Caicus: Quis globus, o cives, caligine volvitur atra?   Ferte citi ferrum, date tela, ascendite muros,   hostis adest, heia. » Ingenti clamore per omnes   condunt se Teucri portas et moenia complent.   Namque ita discedens praeceperat optimus armis 40  Aeneas, si qua interea fortuna fuisset,   neu struere auderent aciem, neu credere campo;  castra modo et tutos servarent aggere muros.   Ergo etsi conferre manum pudor iraque monstrat,  6biciunt portas tamen et praecepta facessunt armatique cavis exspectant turribus hostem.   Turnus, ut ante volans tardum praecesserat agmen  viginti lectis equitum comitatus, et urbi   improvisus adest: maculis quem Thracius albis   portat equus cristaque tegit galea aurea rubra. Ecquis erit, mecum, iuvenes, qui primus in hostem?  En » ait et iaculum intorquens emittit in auras,  principium pugnae, et campo sese arduus infert.  Clamorem excipiunt socii, fremituque sequuntur  horrisono; Teucrum mirantur inertia corda: 55  non aequo dare se campo, non obvia ferre   arma viros, sed castra fovere. Huc turbidus atque huc  lustrat equo muros aditumque per avia quaerit.   Ac veluti pleno lupus insidiatus ovili   cum fremit ad caulas, ventos perpessus et imbres, 60  nocte super media: tuti sub matribus agni   armi, e supera gli altri del capo); come tacito scorre  il Gange profondo, ingrossato da sette fiumi tranquil.  li, o il Nilo dalla pingue corrente, quando rifluisce dai  campi e già se ne torna al suo letto. Qui addensarsi una  nube di negra polvere i Teucri scorgono all’improvviso,  e i campi oscurarsi; Caico, primo dalla torre di fronte,  si mette a gridare: « Che turbine, o cittadini, si aggira  di negra caligine? Presto, alle armi, recate le armi, salite alle mura! Ecco il nemico, olà! ». E i Teucri con  grande schiamazzo si afiollan per tutte le porte, e col.  man le mura. Giacchè così, nel partire, Enea, esperto di  guerra, aveva ordinato: se intanto si offriva una qualche sorpresa, non osassero uscire in ischiera nè accettare battaglia; solo, tenessero il campo e 1 muri al riparo del vallo *. Or, benchè ira e vergogna li spingano  a dare battaglia, pure rinserran le porte, ed obbediscono agli ordini, ed aspettano armati dentro le torri il nemico. Turno, siccome volando davanti avea preceduto  il tardo suo stuolo, con venti cavalieri più scelti, ecco  appare improvviso davanti alle mura: lo porta un cavallo di Tracia pezzato di bianco, e il capo gli copre  un elmo d’oro con rosso il cimiero. « E chi sarà con me,  o giovani, chi primo incontro il nemico? Ecco! » esclama,  e un dardo vibrando, lo lancia per l’aure, segnale della  battaglia, ed alto si avanza nel campo. L'acclamano a  gran voce i compagni, e con un grido lo seguono che  orribile suona: e stupiscono dei cuori inerti dei Teucri,  e come non escano in campo aperto e non cozzin le armi con loro, ma stiano accovacciati là dentro. Turno,  ora qua ora là, esplora a cavallo le mura, e cerca —  ma impenetrabile è il luogo — un accesso. E come quando un lupo che insidia l’ovile ricolmo, freme là presso  al recinto, esposto al vento e alla pioggia, nel cuor della    2balatum exercent, ille asper et improbus ira  saevit in absentes, collecta ‘fatigat edendi  ex longo rabies et siccae sanguine fauces;  haud aliter Rutulo muros et castra tuenti  ignescunt irae, duris dolor ossibus ardet,  qua tentet ratione aditus et qua vi clausos  excutiat Teucros vallo atque effundat in aequor..  Classem, quae lateri castrorum adiuncta latebat,  aggeribus septam circum et fluvialibus undis,  invadit sociosque incendia poscit ovantes  atque manum pinu flagranti fervidus implet.  Tum vero incumbunt (urget praesentia Turni),  atque omnis facibus pubes accingitur atris.  Diripuere focos; piceum fert fumida lumen  taeda et commixtam Vulcanus ad astra favillam.  Quis Deus, o Musae, tam saeva incendia Teucris  avertit? tantos ratibus quis depulit ignes?  Dicite. Prisca fides facto, sed fama perennis.  Tempore quo primum Phrygia formabat in Ida  Aeneas classem et pelagi petere alta parabat,  ipsa Deum fertur genetrix Berecyntia magnum  vocibus his adfata Iovem: « Da, gnate, petenti,  quod tua cara parens domito te poscit Olympo.  Pinea silva mihi, multos dilecta per annos;  lucus in arce fuit summa, quo sacra ferebant,  nigranti picea trabibusque obscurus acernis.  Has ego Dardanio iuveni, cum classis egeret,  laeta dedi: nunc sollicitam timor anxius angit.Solve metus, atque hoc precibus sine posse parentem: 90    ne cursu quassatae ullo neu turbine venti  vincantur: prosit nostris in montibus ortas. »  Filius huic contra, torquet qui sidera mundi:   « O genetrix, quo fata vocas? aut quid petis istis?    notte: sotto le madri, al sicuro, vanno belando gli agnelli, ed esso, inasprito e feroce per l’ira, infuria contro i  lontani; e lo tormenta la lunga rabbia adunata del cibo  con le fauci che han sete di sangue; — non altrimenti  nel Rùtulo, a guardare i muri ed il campo, ardono lire,  il dolore nell’ossa dure lo brucia: come tentare l’accesso,  e come scacciar con la forza i Teucri dal vallo e spargerli nella pianura. Allora investe la flotta, che stava al  riparo di fianco al campo, recinta all’intorno dagli argini e dall'onde del fiume, e invita all'incendio i compagni esultanti, e furibondo impugna una fiaccola ardente; ed essi si accaniscono all’opera: li sprona la presenza di Turno, e tutta di negre faci la gioventù si fornisce. Saccheggiano i focolari; le torce fumose una luce  spandon color della pece, e Vulcano lancia fumo e faville alle stelle. Qual Dio, o Muse, un così fiero incendio allontanò dai  Troiani? chi discacciò dalle navi sì grandi fiamme? Voi  ditelo. Antica è la fede nel fatto, ma la sua fama è perenne. Nel tempo che dapprima fabbricava nell’Ida di  Frigia Enea la sua flotta e si accingeva a prendere il  mare infinito, dicono che essa stessa, la Berecinzia * madre dei numi, al gran Giove volgesse queste parole:  « Ascolta, o figlio, il mio prego, il primo che io, la tua  cara madre, ti chiedo, da quando domasti l'Olimpo. Ho  una selva di pini, da lunghissimi anni a me cara; ed era  il sacro mio bosco sulla cima del monte, ia dove si esercitava il mio culto, di nereggianti abeti ombroso e di  alti tronchi di aceri. Ed io ben lieta li ho dati al dàrdano eroe, allorchè aveva bisogno di navi; ma ora il timore mi rende ansiosa e sollecita: toglimi da questo af-.  fanno, e fa che questo ottenga la preghiera di una madre: fa che non siano mai schiantate da viaggio nes  2Mortaline manu factae immortale carinae  fas habeant? certusque incerta pericula lustret  Aeneas? cui tanta Deo permissa potestas?  Immo ubi defunctae finem portusque tenebunt  Ausonios olim, quaecumque evaserit undis  Dardaniumque ducem Laurentia vexerit arva,  mortalem eripiam formam magnique iubebo  aequoris esse Deas, qualis Nereia Doto  et Galatea secant spumantem pectore pontum. »  Dixerat, idque ratum Stygii per flumina fratris,  per pice torrentes atraque voragine ripas  adnuit, et totum nutu tremefecit Olympum.  Ergo aderat promissa dies et tempora Parcae  debita complerant, cum Turni iniuria Matrem  admonuit ratibus sacris depellere taedas.  Hic primum nova lux oculis effulsit, et ingens  visus ab Aurora caelum transcurrere nimbus  Idaeique chori: tum vox horrenda per auras  excidit et Troum Rutulorumque agmina complet.  « Ne trepidate meas, Teucri, defendere naves,  neve armate manus: maria ante exurere Turno,  quam sacras dabitur pinus. Vos ite solutae,  ite Deae pelagi; genetrix iubet. » Et sua quaeque  continuo puppes abrumpunt vincula ripis  delphinumque modo demersis aequora rostris  ima petunt: hinc virgineae (mirabile monstrum)  [quot prius aeratae steterant ad litora prorae]  reddunt se totidem facies pontoque feruntur.  Obstupuere animis Rutuli, conterritus ipse  turbatis Messapus equis, cunctatur et amnis  rauca sonans revocatque pedem Tiberinus ab alto.  At non audaci Turno fiducia cessit;  ultro animos tollit dictis atque increpat ultro: suno o da turbinose tempeste; e a lor giovi sui nostri  monti esser nate ». E a lei di rincontro il figliuolo, che  volge le stelle del cielo: « Madre, perchè vuoi tu cambiare il destino? e che cosa domandi per loro? Forse  che navi foggiate da mano mortale potranno avere una  sorte immortale? Ed Enea al sicuro affronterà i malsicuri perigli? E quale dei numi ha così grande potere?  Bensì, quando compiuto il lor corso si fermeranno un  giorno nei porti d’Ausonia, qualunque ne sia scampata  dall’onde ed abbia portato il duce dardànio nei campi  laurenti, io le toglierò la sua forma mortale, e vorrò  ch’elle sieno dee dell’ampie marine, come Doto e Galatea nereidi, che fendono il mare spumante col petto ».  Disse; e giuratolo per il fiume dello stigio fratello * e  per le sponde bollenti di pece dall’atra voragine, cennò, ed al cenno, tutto fece tremare l’Olimpo.   Era dunque arrivato il giorno promesso, e avevan  le Parche compiuto il debito tempo, quando l'offesa di  Turno indusse la Madre a cacciar dalle sacre navi le  fiaccole. Allora da prima una luce novella agli occhi rifulse, e immenso fu visto trascorrere dall'Oriente un nimbo pel cielo, e con esso i cori dell’Ida: così tremenda  una voce cadde per l’aria, e le schiere riempì dei Troiani  e dei Ruùtuli: « Non vi affannate a difendere i miei navigli, o Troiani, e non afferrate le armi: prima potrà ardere il mare, Turno, che bruciare i pini a me sacri. È  voi andatene sciolte, andatene, Dee del mare; la vostra  madre lo vuole ». E tosto ad una ad una ie poppe troncan le corde dal lido, e a guisa di delfini, tuffati i rostri, scendon nel fondo del înare: e di qui (meraviglioso  prodigio), quante prore di bronzo eran state prima alla  riva”, ricompaiono volti alirettanti di fanciulle, e si avvian sul mare.    2« Troianos haec monstra petunt, his Iuppiter ipse  auxilium solitum eripuit; non tela nec ignes  exspectant Rutulos. Ergo maria invia Teucris, 130  nec spes ulla fugae; rerum pars altera adempta est;  terra autem in nostris manibus: tot milia gentes   arma ferunt Italae. Nil me fatalia terrent,   si qua Phryges prae se iactant, responsa Deorum.   Sat fatis Venerique datum, tetigere quod arva 135  fertilis Ausoniae Troes. Sunt et mea contra   fata mihi, ferro sceleratam exscindere gentem,   coniuge praerepta; nec solos tangit Atridas   iste dolor solisque licet capere arma Mycenis.   Sed periisse semel satis est; peccare fuisset 140  ante satis penitus modo non, genus omne perosos  femineum? quibus haec medii fiducia valli  fossarumque morae, leti discrimina parva,   dant animos. An non viderunt moenia Troiae   Neptuni fabricata manu considere in ignes? 145  Sed vos, o lecti, ferro quis scindere vallum   adparat et mecum invadit trepidantia castra?   Non armis mihi Vulcani, non mille carinis   est opus in Teucros. Addant se protinus omnes   Etrusci socios. Tenebras et inertia furta ; 150  [Palladii caesis summae custodibus arcis]   ne timeant; nec equi caeca condemur in alvo:   luce palam certum est igni circumdare muros.   Haud sibi cum Danais faxo et pube Pelasga   esse putent, decimum quos distulit Hector in annum. 159  Nunc adeo, melior quoniam pars acta diei,   quod superest, laeti bene gestis corpora rebus  procurate, viri, et pugnam sperate parari. »   Interea vigilum excubiis obsidere portas   cura datur Messapo et moenia cingere flammis.  Stupiron nel cuore i Rùtuli, atterrito è lo stesso Messapo e i suoi cavalli s'impennano; il Tiberino fiume ancor esso s’indugia, rauco ‘sonando, e ritrae il piede dal  ‘ mare. Ma non a Turno audace vien meno l’ardire, chè  anzi rianima 1 cuori coi detti e li garrisce così: « Contro i Toiani, comparvero questi portenti; a loro, il solito scampo lo stesso Giove ha strappato: non v'è più  bisogno delle armi e dei fuochi dei Rùtuli. Così i Teucri non hanno più vie sul mare nè alcuna speranza di  fuga: son tolte loro le acque, e la terra è in nostro potere: tante migliaia di armati mandano l'itale genti!  Non mi atterriscono, no, i fatali responsi dei numi, di  cui i Frigi si vantano. Basti a Venere e ai fati, che della  fertile Ausonia toccarono i campi i Troiani. Ho i miei  destini io pure: esterminar con la spada la scellerata  gente, poichè mi ha rapita la sposa; e un tale dolore  non tocca soltanto gli Atridi‘°, nè soltanto a Micene  e lecito l’armi brandire. Ma esser periti una volta, poteva bastare; e non sarebbe bastato aver peccato una  volta, per odiar tutto il sesso femmineo? Certo, a loro dan forza il vallo interposto e dei fossati l’ostacolo,  breve ritardo alla morte. Ma non vider le mura di Troia  — e le aveva costrutte Nettuno! — ruinare in mezzo  alle fiamme? Ora di voi, o eletti, chi si prepara a rompere il vallo e ad assaltare con me gli accampamenti  tremanti? Non ho bisogno dell’armi, io, di Vulcano, e  di mille carene, per combattere contro i Troiani. E a  loro si aggiungano pure alleati tutti quanti gli Etruschi. Le tenebre e gli assalti infingardi [del Palladio,  e dei custodi della rocca la strage]! non tornano essi,  chè noi non ci chiuderemo nel ventre oscuro del cavallo:  alla luce, all’aperto, circonderemo ie mura di fiamme.  Io farò sì che non si credano in guerra coi Dànai e con     Bis septem Rutuli, muros qui milite servent,  delecti: ast illos centeni quemque sequuntur  purpurei cristis iuvenes auroque corusci.  Discurrunt variantque vices fusique per herbam  indulgent vino et vertunt crateras aénos. Collucent ignes: noctem custodia ducit  insomnem ludo.  Haec super e vallo prospectant Troes et armis  alta tenent, nec non trepidi formidine portas  explorant, pontesque et propugnacula iungunt, tela gerunt. Instant Mnestheus acerque Serestus,  quos pater Aeneas, si quando adversa vocarent,  rectores iuvenum et rerum dedit esse magistros. Omnis per muros legio, sortita periclum,  excubat, exercetque vices, quod cuique tuendum est. 175  Nisus erat portae custos, acerrimus armis,  Hyrtacides, comitem Aeneae quam miserat Ida  venatrix iaculo celerem levibusque sagittis;  et iuxta comes Eurialus, quo pulchrior alter  non fuit Aeneadum Troiana neque induit arma, 180 ‘  ora puer prima signans intonsa iuventa. ©  His amor unus erat, pariterque in bella ruebant;  tum quoque communi portam statione tenebant.  Nisus ait: « Dine hunc ardorem mentibus addunt,  Euryale, an sua cuique Deus fit dira cupido? Aut pugnam aut aliquid iamdudum invadere magnum  mens agitat mihi nec placida contenta quiete est.  Cernis, quae Rutulos habeat fiducia rerum.  Lumina rara micant: somno vinoque soluti  procubuere; silent late loca. Percipe porro, _ 190  quid dubitem et quae nunc animo sententia surgat.  Aeneam acciri omnes, populusque patresque,  exposcunt, mittique viros, qui certa reportent.  la gente Pelasga, che Ettore per ben dieci anni tardò.  Ora dunque, poichè è scorsa la parte migliore del giorno, quel tanto che avanza, lieti dei primi successi, concedetelo, o prodi, a ristorarvi le membra, e aspettate che  venga la pugna ». Frattanto si affida a Messapo di guardar con le scolte le porte !* e di cinger le mura di fuochi. Due volte sette Rùtuli son scelti a custodia dei muri coi loro guerrieri; ed ognuno da cento armati è seguito, con cimieri purpurei ed armi che brillano d’oro.  Corron di qua e di là, si danno il cambio, e sdraiati su  l'erba tracannano il vino e lo versan dai crateri di bronzo. Splendono i fuochi; e le guardie passano la notte  insonne giocando.  Di sopra al vallo i Troiani stanno a osservare, e con  l’armi guardan le mura, e così, in fretta, per il timore,  vanno studiando le porte, congiungon coi ponti le torri,  ammucchiano l’armi. Stanno su loro Mnèsteo ed il fiero  Seresto, che il padre Enea, se mai lo chiedesse il pericolo, avea destinati a guidare l’esercito e a governare  lo stato. Tutti, lungo le mura, al rischio che la sorte ha  voluto, i guerrieri vegliano, n scambiano i turni, secondo che tocca ad ognuno. Niso era a custodia di una porta, d’Irtaco il figlio, che, a compagno d’Enea, Ida aveva  sini la cacciatrice, ed era destro a gettare veloci  saette; e accanto gli era compagno Eurìalo, il più bello  fra tutti gli Enèadi e quanti vestivano l’armi troiane;  fanciullo ancora, gli fioriva sulle gote intonse la prima  lanugine. Stretto un amore li univa, e insieme si precipitavano in guerra; ed anche allora, compagni di scolta, guardavan la porta. Niso disse: « M'ispirano forse  gli Dèi questo mio ardor nella mente, o Eurialo? o il  suo fiero desìo diviene a ciascuno il suo Dio? Già da  gran tempo il mio cuore mi spinge alla pugna o a ten  Si tibi quae posco promittunt (nam mihi facti  fama sat est) tumulo videor reperire sub illo 195  posse viam ad muros et moenia Pallantea. »  Obstupuit magno laudum percussus amore  Euryalus: simul his ardentem adfatur amicum:  « Mene igitur socium summis adiungere rebus,  Nise, fugis? solum te in tanta pericula mittam? 200  non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes,  Argolicum terrorem inter Troiaeque labores  sublatum erudiit, nec tecum talia gessi >  magnanimum Aenean et fata extrema secutus.  Est hic, est animus lucis contemptor et istum 205  qui vita bene credat emi, quo tendis; honorem. »  Nisus ad haec: « Equidem de te nil tale verebar,  nec fas, non: ita me referat tibi magnus ovantem  luppiter, aut quicumque oculis haec adspicit aequis.  Sed si quis (quae multa vides discrimine tali), si quis adversum rapiat casusve Deusve,  te superesse velim: tua vita dignior aetas.  Sit, qui me raptum pugna pretiove redemptum  mandet humo; solita aut si qua id fortuna vetabit,  absenti ferat inferias, decoretque sepulchro; 215  neu matri miserae tanti sim causa doloris,  quae te sola, puer, multis e matribus ausa  persequitur, magni nec moenia curat Acestae. »  Ille autem: « Causas nequidquam nectis inanes,  nec mea iam mutata loco sententia cedit. 220  Adceleremus » ait. Vigiles simul excitat. Illi  succedunt servantque vices: statione relicta,  ipse comes Niso graditur, regemque requirunt.   Cetera per terras omnes animalia somno  laxabant curas et corda oblita laborum; 225  ductores Teucrum primi, delecta iuventus,    a è    o so pn    tare qualche gran fatto, e non sa placarsi a un tranquillo  riposo. Tu vedi quale fiducia s'è impadronita dei Rùtuli. Rari lampeggiano i lumi; immersi nel sonno e nel  vino giacquero; tutto all’intorno è silenzio. Odimi dunque quello ch’io penso, ed il disegno che ora mi sorge  nel cuore. Tutti, il popolo e i padri, chiedon che Enea  si richiami e gli si mandino messi che gli raccontino il  vero. Se mi promettono quello ch’io chiedo per te (per  mia parte, mi basta la gloria del fatto), credo, la, sotto  a quel colle, di ritrovare la via che mena del Pallantèo  alle mura ». Stupì, colpito da grande amore di gloria,  Eurìalo; e con queste parole si volge all’ardito compagno: « Niso, dunque rifuggi dal prendermi teco all’impresa sì grande? Ti lascerò andar solo in mezzo a cotanti perigli? Ah, non così mio padre, Ofelte assuefatto  alle guerre, fra lo spavento argolico ed i travagli di  Troia mi allevò, m’istruì; e non così mi mostrai accanto  a te, nel seguire il magnanimo Enea fino all’estreme  fortune. C’è qui, c'è qui un animo che sa disprezzare  la vita, e crede che ben con la vita si acquisti questa  gloria che agogni tu pure ». E Niso di rincontro: « Non  io certo dubitavo di te, nè lo potrei, oh no: così a te  mi riconduca in trionfo il grande Giove o chiunque  dall’alto ci guarda con occhio propizio. Ma se, come  spesso accade in rischi sì grandi, se un qualche caso, o  un Dio, mi tragga a morire, vorrei che tu rimanessi; ti  dà più diritto alla vita la tua giovinezza: e vi sia chi  mi sottragga alla mischia o mi ricompri al nemico per  sotterrarmi, e se, come accade, lo vieterà la fortuna, mi  renda i funebri offici, anche lontano, e di un sepolcro  mi onori. Ah, ch’io non sia cagione di un sì grande  dolore alla tua povera madre, che sola, o fanciullo, fra  tante madri osava seguirti, e non ristette del grande    3 - Vircuro - Eneide consilium summis regni de rebus habebant,   quid facerent quisve Aeneae iam nuntius esset.   Stant longis adnixi hastis et scuta tenentes   castrorum et campi medio. Tum Nisus et una ‘230  Euryalus confestim alacres admittier orant:   rem magnam, pretiumque morae fore. Primus Iulus  accepit trepidos ac Nisum dicere iussit.   Tunc sic Hyrtacides: « Audite o mentibus aequis,  Aeneadae, neve haec nostris spectentur ab annis, 235  quae ferimus. Rutuli somno vinoque soluti   conticuere: locum insidiis conspeximus ipsi,   qui patet in bivio portae, quae proxima ponto;  interrupti ignes, aterque ad sidera fumus   erigitur; si fortuna permittitis uti 240  quaesitum Aenean et moenia Pallantea,   mox hic cum spoliis ingenti caede peracta   adfore cernetis. Nec nos via fallet euntes:   vidimus obscuris primam sub vallibus urbem    venatu adsiduo et totum cognovimus amnem. » 245    Hic annis gravis atque animi maturus Aletes:   « Di patrii, quorum semper sub numine Troia est,   non tamen omnino Teucros delere paratis,   cum tales animos iuvenum et tam certa tulistis  pectora. » Sic memorans umeros dextrasque tenebat 250  amborum et vultum lacrimis atque ora rigabat:   « Quae vobis, quae digna, viri, pro laudibus istis,  praemia posse rear solvi? pulcherrima primum   Di moresque dabunt vestri; tum cetera reddet   actutum pius Aeneas atque integer aevi 259  Ascanius, meriti tanti non immemor umquam. Immo ego vos, cui sola salus genitore reducto,   excipit Ascanius, per magnos, Nise, Penates  Assaracique Larem et canae penetralia Vestae  Aceste alle mura ». Ma quegli: « Tu indarno intessi i  tuoi vani pretesti, e il mio voler non si muta e non cede. Presto!» soggiunge. E risveglia le scolte; queste  subentrano al cambio; lasciata la guardia, ei s’accompagna con Niso, e vanno in cerca del re.   Gli altri animali per tutte le terre placavan nel sonno i loro affanni nei cuori dimentichi d’ogni travaglio;  ma i duci primi dei Teucri, fior dei guerrieri, tenevan  consiglio sul grave momento del regno: che fare? e chi  mandar messaggero ad Enea? Stanno poggiati alle lunghe aste, e reggon gli scudi, nel mezzo alla piazza del  campo. Quand’ecco Niso, e con lui Eurìalo, pronti, chiedono d’essere uditi, subito: grande è la cosa, e d’interrompere vale la pena. Iulo per primo li accolse ansiosi,  e a Niso ordinò di parlare. Così allora l’Irtàcide: « Udite  con menti benigne, o Enèadi; e quel che portiamo non  lo giudicate dagli anni. I Rùtuli, immersi nel sonno e  nel vino, tacciono tutti; noi, un luogo abbiam scorto,  propizio alle insidie, che si scopre là al bivio della porta  ch’è prossima al mare. Son mezzo spenti i fuochi, e cupo il fumo si erge alle stelle; se ci lasciate tentare la  sorte a ricercare Enea e le mura del Pallanteo, presto  qui con le spoglie nemiche ed onusti di strage ci rivedrete tornare. E non smarriremo la via: sotto le oscure valli, nelle continue cacce, vedemmo lassù la città e  tutto il fiume esplorammo ». Allora, grave d’anni, e  maturo di senno rispose Alete: «O Dei della patria,  sotto il cui nume è ancor Troia, certo voi non pensate  di distruggere i Teucri del tutto, poi che c'inviaste tali  anime e petti sì fermi di giovani! ». Questo dicendo,  stringeva d’entrambi le spalle e le mani, rigando le  guance di pianto: « Oh, quale premio, o prodi, che degno premio per questa impresa vi potremo noi dare?  obtestor: quaecumque mihi fortuna fidesque est,  in vestris pono gremiis; revocate parentem,  reddite conspectum; nihil illo triste recepto.  Bina dabo argento perfecta atque aspera signis  pocula, devicta genitor quae cepit Arisba,   et tripodas geminos, auri duo magna talenta,  cratera antiquum, quem dat Sidonia Dido.   Si vero capere Italiam sceptrisque potiri  contigerit victori et praedae ducere sortem,  vidisti quo Turnus equo, quibus ibat in armis  aureus: ipsum illum, clipeum cristasque rubentes  excipiam sorti, iam nunc tua praemia, Nise.  Praeterea bis sex genitor lectissima matrum  corpora captivosque dabit, suaque omnibus arma:  insuper his, campi quod rex habet ipse Latinus,  Te vero, mea quem spatiis propioribus aetas  insequitur, venerande puer, iam pectore toto  accipio, et comitem casus complector in omnes.  Nulla meis sine te quaeretur gloria rebus:   seu pacem seu bella geram, tibi maxima rerum  verborumque fides. » Contra quem talia fatur  Euryalus: « Me nulla dies tam fortibus ausis  dissimilem arguerit; tantum fortuna secunda  haud adversa cadat. Sed te super omnia dona  unum oro: genetrix Priami de gente vetusta   est mihi, quam miseram tenuit non Ilia tellus  mecum excedentem, non moenia regis Acestae: hanc ego nunc ignaram huius, quodcumque pericli est,    inque salutatam linquo; nox et tua testis   dextera, quod nequeam lacrimas perferre parentis;  at tu, oro, solare inopem et succurre relictae.  Hanc sine me spem ferre tui: audentior ibo   in casus omnes. » Percussa mente dedere    290    Il primo ve lo daranno, e il più bello, gli Dèi e le vostre virtù; gli altri ben presto li avrete dal pio Enea  e da Ascanio, il giovinetto in fiore, che di un così grande servigio non sarà immemore mai ». « Anzi io, soggiunse Ascanio, che altra salvezza non ho se non il ritorno del padre, questo vi giuro, o Niso, per i grandi  Penati, per il lare di Assàraco e per l’altare della antichissima Vesta: ogni mia sorte ed ogni mia speranza,  in vostre mani io pongo; riconducetemi il padre, fate  che io lo riveda: se lo ricupero, nulla sarà più triste  per me. Due coppe vi darò, cesellate in argento e scolpite a bassorilievi, che il padre ebbe alla presa di Arisba; e due tripodi, e due grandi talenti di oro, ed un  cratere antico, dono della sidònia Didone. Se poi vincitore potrò prender l’Italia e tenere lo scettro e sorteggiare le prede, certo tu hai veduto quel destriero su cui  Turno veniva, e le ammi che lo vestivano d’oro: ebbene,  quel suo cavallo, e lo scudo e il cimiero vermiglio, li  sottrarrò dal sorteggio; fin d’ora è un tuo premio, o  Niso. Inoltre, mio padre darà due volte sei corpi di  donne, fra le più belle, ed altrettanti prigioni, con le  sue armi ciascuno: e oltre a ciò, proprio i campi che  or sono del rege Latino. Te poi, che sei vicino a me per  età, o venerando fanciullo, con tutto il cuore ti accolgo,  fin d’ora, e ti abbraccio, compagno per ogni fortuna.  Non cercherò per me gloria nessuna senza di te; ed in  pace ed in guerra, nei fatti e nelle parole, in te fiderò  sopra ognuno ». A lui di rincontro Eurìalo rispose così:  « Non verrà mai un giorno che mi palesi diverso da questo mio forte sentire: mi basta che la fortuna di seconda non muti in avversa. Ma sopra ogni altro dono, solo  una cosa t’imploro: ho una madre, della stirpe di  Priamo vetusta, che, misera, quando partii, non si fer  Dardanidae lacrimas, ante omnes pulcher Iulus,   atque animum patriae strinxit pictetie imago.   Tum sic effatur: Sponde digna tuis ingentibus omnia coeptis; |  namque erit ista mihi genetrix nomenque Creusae  solum defuerit, nec partum gratia talem   parva manet. Casus factum quicumque sequentur,   per caput hoc iuro, per quod pater ante solebat: 300  quae tibi polliceor reduci rebusque secundis,   haec eadem matrique tuae generique manebunt. »   Sic ait illacrimans: umero simul exuit ensem   auratum, mira quem fecerat arte Lycaon |  Gnosius atque habilem vagina aptarat eburna. 305  Dat Niso Mnestheus pellem horrentisque leonis  exuvias: galeam fidus permutat Aletes.   Protinus armati incedunt; quos omnis euntes  primorum manus ad portas iuvenumque senumque  prosequitur votis. Necnon et pulcher Iulus 310  ante annos animumque gerens curamque virilem,  multa patri mandata dabat portanda. Sed aurae   omnia discerpunt et nubibus irrita domant.   Egressi superant fossas, noctisque per umbram  castra inimica petunt, multis tamen ante futuri 315  exitio. Passim somno vinoque per herbam  corpora fusa vident, arrectos litore currus,  inter lora rotasque viros, simul arma iacere,  vina simul. Prior Hyrtacides sic ore locutus:   « Euryale, audendum dextra: nunc ipsa vocat res. 320  Hac iter est. Tu, ne qua manus se attollere nobis   a tergo possit, custodi et consule longe.   Haec ego vasta dabo et lato te limite ducam. »   Sic memorat vocemque premit; simul ense superbum  Rhamnetem adgreditur, qui forte tapetibus altis mò nella terra di Ilio nè fra le mura di Aceste. Or io  qui l’abbandono ignara di questo mio rischio, qual che  si sia, e insalutata: la notte e la tua destra mi sian testimoni che io non potrei sostenere le lacrime della mia  madre. Ma tu, te ne prego, consola la misera, soccorrila,  se resta sola. Lascia ch'io porti meco questa speranza di  te; poi, anderò più audace incontro ad ogni ventura ».  Commossi nel cuore i Dardànidi lagrimarono, il bel  Iulo anzi tutti, chè il cuore gli strinse il ricordo dell’amore paterno. È così disse: « Attenditi pur tutto quanto si deve alla tua grande impresa; chè essa sarà la mia  madre, e soltanto il nome le mancherà di Creusa: piccolo dono, a colei che generò un tal figlio. Qualunque  si sia l’evento, per questo mio capo ti giuro sul quale  soleva giurare mio padre: quello che io ti promisi se  tornerai vittorioso, alla tua madre sarà serbato ed alla  tua stirpe ». Così diceva piangendo, e dalla spalla si  tolse la spada d’oro che aveva foggiata con arte stupenda Licàone di Cnosso, scorrevole entro la guaina di  avorio. Mnèsteo a Niso donava di un irsuto leone la  pelle e la apoglia, e il fido Alete scambia il suo elmo  con lui. Tosto s’avviano armati; e tutta ia schiera dei  grandi, giovani e vecchi, alle porte li accompagnan coi  voti. E intanto il bello Iulo, che ha cuore e senno virile,  oltre l’età, affidava molti messaggi al suo padre. Ma  l’aura tutti li sperde inutili in mezzo alle nuvole.  Usciti, varcano i fossi, e per le ombre notturne vengbno al campo fatale; ma prima, a molti daranno la  morte. (Qua e là sparsi tra il sonno ed il vino scorgono  i corpi sull’erba, e i cocchi alzati sul lido, e, tra le briglie e le ruote, giacere i guerrieri, e con loro le armi,  ed i vini con loro. Primo il figlio di Irtaco così disse:  « Eurìalo, qui bisogna osar con la destra: l’oecasione lo exstructus toto proflabat pectore somnum,   rex idem et regi Turno gratissimus augur;   sed non augurio potuit depellere pestem.   Tres iuxta famulos temere inter tela iacentes  armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis nactus equis, ferroque secat pendentia colla.   Tum caput ipsi aufert domino, truncumque relinquit  sanguine singultantem; atro tepefacta cruore   terra torique madent. Necnon Lamyrumque Lamumque,  et iuvenem Sarranum, illa qui pluritha nocte luserat, insignis facie, multoque iacebat   membra Deo victus: felix, si protinus illum   aequasset nocti ludum in lucemque tulisset.   Impastus ceu plena leo per ovilia turbans, suadet enim vesana fames, manditque trahitque 340  molle pecus mutumque metu, fremit ore cruento.   Nec minor Euryali caedes; incensus et ipse   perfurit, ac multam in medio sine nomine plebem,  Fadumque Herbesumque subit Rhoetumque Abarimque  ignaros, Rhoetum vigilantem et cuncta videntem, sed magnum metuens se post cratera tegebat;   pectore in adverso totum cui comminus ensem  condidit adsurgenti et multa morte recepit.   Purpuream vomit ille animam et cum sanguine mixta  vina refert moriens: hic furto fervidus instat. 350  lamque ad Messapi socios tendebat: ibi ignem   deficere extremum et religatos rite videbat   carpere gramen equos: breviter cum talia Nisus  (sensit enim nimia caede atque cupidine ferri. Absistamus, ait, nam lux inimica propinquat. Poenarum exhaustum satis est, via facta per hostes. »  Multa virum solido argento perfecta relinquunt  armaque craterasque simul pulchrosque tapetas. vuole. Di qua è la via. Ora tu, perchè un qualche drappello non ci si levi alle spalle, fa guardia e sta attento  all’intorno. Io qui farò largo, e ti guiderò per un ampio  cammino >». Così dice, poi smorza la voce; ed il superbo  Ramnete con la sua spada colpisce; ed egli, sui tappeti  ammucchiati giacendo, dormiva lì a pieno petto, russando. Re egli pure, ed al re Turno il più grato degli  àuguri; ma non potè con la scienza profetica allontanare la morte. Lì presso, uccide tre servi che a caso giacevan fra l’armi, e lo scudiero di Remo, ed il suo auriga sorpreso sott’essi i cavalli, e col ferro taglia le gole  rovescie. Poscia anche al signore tronca il capo, ed il  busto lascia singhiozzante nel sangue; intiepiditi la  terra ed i letti di negro sangue s’imbevono. E poi Làmiro, e Lamo, e il giovin Sarrano, che fino a tardi la  notte aveva giocato, bello di volto, e giaceva vinte le  membra dal vino: felice, se avesse giocato tutta la notte  ed infino all’aurora! Così un leone digiuno imperversando tra gli ovili ricolmi — la fame rabbiosa lo istiga  — sbrana e trascina la greggia molle e per il terrore  ammutita, e rugge con bocca sanguigna. Nè minore è la  strage d’EURÌALO; ardendo anch'egli infuria, e alla rinfusa sorprende molta ignobile plebe, e Fado, ed Erbeso,  e Reto, ed Abari, inconsapevoli; Reto, era desto e tutto  vedeva, ma per paura si stava nascosto dietro un grande  cratere: ma mentre si alzava, gli immerse fino all’elsa  nel petto la spada, e la ritrasse grondante di sangue. Ed egli in un fiotto di porpora esala la vita, ed il vino,  morendo, rigetta col sangue. L’altro, più ardente, continua la strage furtiva. E già si volgeva ai compagni di  Messapo; ivi vedeva languire gli ultimi fuochi, e i cavalli al guinzaglio, com’è uso, pascere l’erba, allorchè NISO, che trascinato lo vide da brama soverchia di stra EURYALVS phaleras Rhamnetis et aurea bullis   cingula (Tiburti Remulo ditissimus olim quae mittit dona hospitio, cum iungeret absens,   Caedicus; ille suo moriens dat habere nepoti,   post mortem bello Rutuli pugnaque potiti),   haec rapit, atque umeris nequidquam fortibus aptat. Tum galeam Messapi habilem cristisque decorum induit. Excedunt castris, et tuta capessunt.  Interea praemissi equites ex urbe Latina, cetera dum legio campis instructa moratur,   ibant et Turno regi responsa ferebant, tercentum, scutati omnes, Volscente magistro. 370   lamque propinquabant castris murosque subibant,   cum procul hos laevo flectentes limite cernunt,   et galea Euryalum sublustri noctis in umbra   prodidit immemorem, radiisque adversa refulsit.   Haud temere est visum. Conclamat ab agmine Vol. [scens:   « State, viri: quae causa viae? quive estis in armis?   quove tenetis iter? » Nihil illi tendere contra;   sed celerare fugam in silvas et fidere nocti.   Obiciunt equites sese ad divortia nota   hinc atque hinc,omnemque aditum custode coronant. Silva fuit, late dumis atque ilice nigra   horrida, quam densi complerant undique sentes,   rara per occultos lucebat semita calles.   Euryalum tenebrae ramorum onerosaque praeda   impediunt, fallitque timor regione viarum. NISVS abit: iamque imprudens evaserat hostes   atque locos, qui post Albae de nomine dicti   Albani (tum rex stabula alta Latinus habebat).   Ut stetit et frustra absentem respexit amicum:   « Euryale infelix, qua te regione reliqui? ge, così brevemente. parlò: « Fermiamoci, chè oramai la  luce nemica si appressa. Li abbiamo puniti abbastanza,  e aperta in mezzo ai nemici è la via ». Lasciano lì molte  armi di guerrieri lavorate di argento massiccio, ed i  crateri insieme ed i belli tappeti. Eurìalo si toglie i fregi  di Ramnete ed il balteo dall’auree borchie, e, invano!,  sugli omeri forti lo adatta. A Rèmolo, il tiburtino, li  aveva mandati una volta il ricchissimo Cèdico, in segno  di ospitalità ch’egli stringeva da lungi; e quegli morendo li diede al nipote, e, questo morto, i Rùtuli se ne impadronirono in guerra. Poi l’elmo di Messapo si cinge,  agevole, e adorno di creste. Escon dal campo e s’avviano in salvo. Frattanto i cavalieri mandati innanzi dalla città di  Latino, mentre i pedoni attendono armati nella campagna, venivano per riportare al re Turno un responso:  trecento, tutti scudati, ed era lor duce Volscente. E già  erano. presso al campo e varcavan le mura, quando da  lungi li scorgono che piegavano verso sinistra; e l’elmo,  nella penombra notturna tradì EURÌALO immemore, a un  raggio di luna splendendo. È non fu vana la vista. Grida  dalla sua schiera Volscente: « Fermi, voi! perchè siete  in via? chi siete così armati? e dove andate? ». Ma quelli  non rispondono, anzi si affrettano in fuga pei boschi e  fidano nell’oscurità. 1 cavalieri si gettano di qua, di là ai  bivi ben noti, e tutte circondan di gnardie le uscite. Era  una selva spaziosa e orrida di nere querce e di pruni,  densa da ogni parte di sterpi; e tra le peste occulte,  raro si apriva un sentiero. L'ombre dei rami e il carico  del bottino ritardavano Euriìalo, e il timore gli fa smarrire la via. Niso è fuggito; e di già, senza pensare all’amico, altrepassati aveva i nemici ed i luoghi che poi  dal nome di Alba furon chiamati Albani (allora, v’era  Quaque sequar, rursus perplexum iter omne revolvens  fallacis silvae? » Simul et vestigia retro   observata legit dumisque silentibus errat. Audit equos, audit strepitus et signa sequentum.   Nec longum i in medio tempus, cum clamor ad aures pervenit ac videt EURYALVM, quem iam manus omnis  fraude loci et noctis, subito turbante tumultu, Oppressum rapit et conantem plurima frustra. Quid faciat? qua vi iuvenem, quibus audeat armis  eripere? an sese medios moriturus in hostes inferat, et pulchram properet per vulnera mortem?  Ocius adducto torquens hastile lacerto,   suspiciens altam Lunam, et sic voce precatur: Tu, Dea, tu praesens nostro succurre labori,  astrorum decus et nemorum Latonia custos: si qua tuis umquam pro me pater Hyrtacus aris   dona tulit, si qua ipse meis venatibus auxi,   supendive tholo aut sacra ad fastigia fixi:   hunc sine me turbare globum et rege tela per auras. Dixerat, et toto conixus corpore ferrum conicit. Hasta volans noctis diverberat umbras,   et venit adversi in tergum Sulmonis, ibique   frangitur, ac fisso transit praecordia ligno.   Volvitur ille vomens calidum de pectore flumen  frigidus et longis singultibus ilia pulsat. 415  Diversi circumspiciunt. Hoc acrior idem   ecce aliud summa telum librabat ab aure. Dum trepidant, it hasta Tago per tempus utrumque  stridens, traiectoque haesit tepefacta cerebro.   Saevit atrox Volscens nec teli conspicit usquam 420  auctorem nec quo se ardens immittere possit. Tu tamen interea calido mihi sanguine poenas  persolves amborum » inquit: simul ense recluso       i  no i pascoli incolti del re Latino). Come ristette, ed invano si volse a cercare l’amico: « O infelice EURIALO, e  dove mai t'ho lasciato? dove ti cercherò, ancor rifacendo  il cammino tortuoso per la selva fallace? ». E tosto nota  e ricalca all’indietro le tracce, ed erra silenzioso tra i  pruni. Ode i cavalli, ode lo strepito e i segnali degl’inseguitori. E ben presto agli orecchi un grido gli giunge;  ed Eurìalo vede, cui già tutta quanta la schiera, ingannato dal luogo e dal buio, turbato dall’improvviso tumulto, circonda ed incalza; ed invano ei tenta in mille  modi la fuga. Che fare? con quali forze, con quali armi  tentar di salvare il fanciullo? O non è meglio lanciarsi  in mezzo ai nemici a morire, e bella cercare con le ferite la morte? E subito, vibrando col braccio all’indietro un lanciotto, guarda la Luna nell’alto e così le rivolge una prece: « Tu, dea, tu, propizia, nel nostro periglio soccorrici, o Latònia, onore degli astri e delle selve  custode, se mai ai tuoi altari doni per me ti recò Irtaco,  il padre, se mai con le mie cacce anch’io ne aggiunsi, e li  sospesi alla volta o li infissi ai sacri pinnacoli '*, lascia  che io disordini questa schiera, e guidami i dardi per  l’aria ». Disse, e con tutto il suo corpo puntando, lanciò il ferro. E l’asta volando sferza le ombre notturne,  e trapassa nel petto fino alle spalle Sulmone, ed ivi si  spezza, e attraversa, infittavi dentro, i precordi. Cade di  sella colui, vomitando un caldo fiume dal petto, gia  freddo, ed i fianchi gli scuotono lunghi singhiozzi. Guardano gli altri qua e la; e Niso ne prende coraggio, e  dall’altezza del capo, ecco, un altro dardo librava. E,  nella trepida attesa, l’asta attraversa stridendo a Tago  le tempia, e s’infigge tiepida in mezzo al cervello. Atrocemente infuria Volscente, chè non vede l'autore del  eolpo per potersi lanciare ardente contro di lui. « Eb  de    ibat in EURYALVM. Tum vero exterritus, amens  conclamat Nisus, nec se celare tenebris . amplius, aut tantum potuit perferre dolorem:  « Me me, adsum qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli! mea fraus omnis: nihil iste nec ausus,  nec potuit: caelum hoc et conscia sidera testor.  Tantum infelicem nimium dilexit amicum. Talia dicta dabat: sed viribus ensis adactus  transabiit costas et candida pectora rumpit.  Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus  it cruor, inque umeros cervix collapsa recumbit:  purpureus veluti cum flos succisus aratro 435  languescit moriens, lassove papavera collo  demisere caput, pluvia cum forte gravantur.  At NISVS ruit in medios solumque per omnes  Volscentem petit, in solo Volscente moratur.  Quem circum glomerati hostes hinc comminus spe  {hbinc 440   proturbant. Instat non secius ac rotat ensem  fulmineum, donec Rutuli clamantis in ore  condidit adverso et moriens animam abstulit hosti.  Tum super exanimum sese proiecit amicum  confossus placidaque ibi demum morte quievit. 445  Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt,  nulla dies umquam memori vos eximet aevo,  dum domus Aeneae Capitolii immobile saxum  accolet imperiumque pater Romanus habebit.   Victores praeda Rutuli spoliisque potiti | 450  Volscentem exanimum flentes in castra ferebant. Nec minor in castris luctus, Rhamnete reperto  exsangui, et primis una tot caede peremptis  Sarranoque Numaque. Ingens concursus ad ipsa  corpora seminecesque viros tepidaque recentem bene, tu pagherai intanto col caldo tuo sangue per ambedue » gridò; e, sguainata la spada, senz’altro si avventa ad Eurìalo. Ma allora, atterrito, fuor di sè, con  un grido, non potè più celarsi nelle tenebre Niso, e  sopportare un sì grande dolore: « Me, me! Son qui, sono io il colpevole; in me rivolgete le armi, o Rùtuli! È  mia ogni frode; costui non osò, non poteva; pel cielo,  lo giuro, e per le consapevoli stelle. Sola sua colpa, che  troppo amò l’infelice suo amico ». Così diceva; ma il  ferro, vibrato con forza, attraversò le coste e ruppe il  candido petto. S'abbattè Eurìalo morendo, e per le membra leggiadre il sangue si spande, ed il collo si piega abbandonato sopra le spalle: come quando un fiore purpureo che l’aratro ha reciso, languisce morendo: o come quando i papaveri sul collo stanco la testa piegano,  se per caso li grava la pioggia.   Ma Niso si slancia nel mezzo, e solo, fra tutti, Volscente cerca, e sol di Volscente si cura. Gli si affollano  intorno i nemici, e d’ogni parte, da presso, lo ricacciano; e nondimeno egli incalza ruotando la spada fulminea, finchè la piantò nella bocca del Rùtulo, che schiamazzava, e, già morente, rapì al nemico la vita. Poi. si  gettò, crivellato di colpi sopra l’esanime amico, ed ivi,  infine, trovò in placida morte riposo. Fortunati ambedue! Se qualche valore ha il mio canto, giorno nessuno  mai vi torrà alla memoria dei tempi, finchè la stirpe di  Enea terrà del Campidoglio l’incrollabile rupe, e il padre della patria romana avrà qui l'impero !. Vincitori i Rùtuli, con la preda e con le spoglie, piangendo portavano esanime nell’accampamento Volscente. E non minore fu il lutto nel campo, allorchè si scoperse esangue Ramnete, ed insieme con lui tanti duci  uccisi alla strage, e Sarrano, e Numa; la folla si accalca caede locum et plenos spumanti sanguine rivos.  Agnoscunt spolia inter se galeamque nitentem  Messapi, et multo phaleras sudore receptas.   Et iam prima novo spargebat lumine terras  Tithoni croceum linquens ‘Aurora cubile;  iam sole infuso, iam rebus luce retectis,   Turnus in arma viros, armis circumdatus ipse,  suscitat, aeratasque acies in proelia cogit  quisque suas, variisque acuunt rumoribus iras.  Quin ipsa arrectis (visu miserabile) in hastis  praefigunt capita et multo clamore sequuntur  Euryali et Nisi.   Aeneadae duri murorum in parte sinistra  apposuere aciem, nam dextera cingitur amni,  ingentesque tenent fossas et turribus altis  stant maesti; simul ora virum praefixa movebant,  nota nimis miseris atroque fluentia tabo.   Interea pavidam volitans pinnata per urbem  nuntia Fama ruit, matrisque adlabitur aures EURYALI. At subitus miserae calor ossa reliquit:  excussi manibus radii revolutaque pensa.   Evolat infelix, et femineo ululatu,  scissa comam, muros amens atque agmina cursu  prima petit, non illa virum, non illa pericli telorumque memor; caelum dehinc questibus implet: 480  « Hunc ego te, EURYALE, adspicio? tunc illa senectae    sera meae requies, potuisti linquere solam,  crudelis? nec te, sub tanta pericula missum,  adfari extremum miserae data copia matri?  Heu, terra ignota canibus data praeda Latinis  alitibusque iaces, nec te, tua funera mater  produxi pressive oculos aut vulnere lavi,  veste tegens, tibi quam noctes festina diesque ai loro corpi, e ai guerrieri moribondi, ed al luogo ancor  caldo di strage recente, ed al sangue schiumante che  scorre in ruscelli. Riconoscon fra loro le epoglie, e di  Messapo il lucido elmo, e i fregi con grande sudore  riavuti. !   E già di nuova luce spargeva la terra la prima Aurora  lasciando il giaciglio croceo di Titone; già sorto il sole,  già scoperte le cose alla luce, Turno, già chiuso nell’armi, chiama alle armi i guerrieri; ed ordina ognuno in  battaglia le sue schiere coperte dî bronzo, e raccontando il fatto ne acuisce gli sdegni. Anzi, o miserabile vieta!, piantan sull’aste i capi, e li seguono forte gridando, di EURIALO e di NISO. Gli Enèadi saldi sulla parte  einistra dei muri ordinan la resistenza — chè la destra  è recinta dal fiume —, e difendono gli ampi fossati e  stan mesti in cima alle torri; e li sgomentano i volti confitti dei due guerrieri, ahi troppo noti a loro infelici, e  gocciolanti di marcia e di sangue.   Intanto messaggera la Fama volando alata per la  città spaventata va scorrendo, e agli orecchi giunge della madre di Eurìalo. Subitamente il calore lasciò dell’infelice le ossa: le cade di mano la spola e rotolan giù  i gomitoli. Esce correndo la misera, e, come donna, urlando, stracciate le chiome, folle, raggiunge di corsa le  mura e le prime avanguardie; e non si cura, essa, dei  guerrieri e del rischio dell’armi, e il cielo riempie con  i suoi lamenti: « Così ti rivedo, o Eurialo? Ultimo ri- .  poso alla mia vecchiezza, o crudele, lasciarmi sola hai  potuto? E non fu dato a tua madre infelice parlarti  l’ultima volta, quando movesti ad un rischio sì grande?  Ahi, in terra ignorata, preda ai cani latini ed agli uccelli tu giaci; ed io, tua madre, non ho seguito i tuoi  resti mortali, e non ti ho chiusi gli occhi e lavate le tue    4 - VircILI9 - Eneide - Vol. III    urgebam et tela curas solabar aniles.   Quo sequar? aut quae nunc artus avulsaque membra et funus lacerum tellus habet? hoc mihi de te,   nate, refers? hoc sum terraque marique secuta?   Figite me, si qua est pietas, in me omnia tela  conicite, o Rutuli: me primam absumite ferro:   aut tu, magne pater Divum, miserere, tuoque 495  invisum hoc detrude caput sub Tartara telo,   quando aliter nequeo crudelem abrumpere vita. »   Hoc fletu concussi ariimi, maestusque per omnes   it gemitus; torpent infractae ad proelia vires.   Illam incendentem luctus Idaeus et Actor 500  Jlionei monitu et multum lacrimantis Iuli   corripiunt interque manus sub tecta reponunt.   At tuba terribilem sonitum procul aere canoro  increpuit; sequitur clamor, caelumque remugit.  Accelerant acta pariter testudine Volsci et fossas implere parant ac vellere vallum.   Quaerunt pars aditum et scalis ascendere muros,   qua rara est acies interlucetque corona   non tam spissa viris. Telorum effundere contra   omne genus Teucri ac duris detrudere contis, 510  adsueti longo muros defendere bello.   Saxa quoque infesto volvebant pondere, si qua   possent tectam aciem perrumpere: cum tamen omnes  ferre iuvat subter densa testudine casus. Nec iam sufficiunt; nam, qua globus imminet ingens, 515  immanem Teucri molem volvuntque ruuntque,   quae stravit Rutulos late armorumque resolvit  tegmina. Nec curant caeco contendere Marte   amplius audaces Rutuli, sed pellere vallo   missilibus certant. 520  Parte alia horrendus visu quassabat Etruscam ferite, avvolgendoti poi nella veste che, giorno e notte,  per te, sollecita io tesseva, consolando al telaio i miei  affanni senili. Dove cercarti? Qual terra ha ora le tue  membra troncate e la tua lacera salma? Questo, o mio  figlio, mi riporti di te? Questo, questo, per terra e per  mare, ho seguito? Me trafiggete, se in voi è alcuna  pietà; su me tutte l’armi scagliate, o Rùtuli; me prima  uccidete col ferro! E se no, abbimi misericordia tu, o  gran padre dei numi, e col tuo dardo scagliami questo  mio capo odioso giù nel profondo del Tàrtaro, se in altro modo non posso troncar questa vita crudele ». Si  consumarono i cuori a quel pianto, e mesto fra tutti un  singhiozzare si spande; si fiaccano infrante le forze dei  guerrieri; ma Attore e Idèo, per ordine di Ilionèo e di  lulo molto piangente, la presero, chè suscitava troppo  dolore, ed a braccia la riportarono in casa.   Ma da lontano la tromba per il suo bronzo canoro  squillò con terribile suono; e la segue il grido di guerra  e ne rimbombano L cieli. Vengono i Volsci all'assalto,  sotto la testuggin ‘!* serrati, e s'accingono a colmare le  fosse e a svellere il vallo '”. Altri cercano un varco per  la scalata alle mura, là dove rada è la schiera, e vi traluce meno spessa di eroi la corona. Dall’altra' parte i  Teucri rovesciano ogni sorta di dardi, e li ricacciano  giù con le lor dure picche; chè erano avvezzi a difendere in lunga guerra le mura. E rotolavano in basso ad  offesa pesanti macigni, per tentar di spezzare la schiera coperta: ma questa, sotto la densa testuggine, sopporta ogni colpo. Ma ormai non possono più; chè laddove più folta e perigliosa è la schiera, un masso immenso i Troiani rotolano e piombano giù, che per un  ampio tratto schiacciò i Rùtuli e ruppe il riparo di  scudi. Allora non pensano più, i Rùtuli audaci, a farpinum et fumiferos infert Mezentius ignes.  At Messapus equum domitor Neptunia proles,  rescindit vallum et scalas in moenia poscit.   Vos, o Calliope, precor, adspirate canenti, 525  quas ibi tunc ferro strages, quae funera Turnus  ediderit, quem quisque virum demiserit Orco,  et mecum ingentes oras evolvite belli;  let meministis enim, Divae, et memorare potestis).   Turris erat vasto suspectu et pontibus altis, opportuna loco, summis quam viribus omnes  expugnare Itali summaque evertere opum vi  certabant, Troes contra defendere saxis  perque cavas densi tela intorquere fenestras.   Princeps ardentem coniecit lampada Turnus 535  et flammam adfixit lateri, quae plurima vento   | corripuit tabulas et postibus haesit adesis.   Turbati trepidare intus frustraque malorum   velle fugam. Dum se glomerant, retroque residunt   in partem, quae peste caret, tum pondere turris procubuit subito, et caelum tonat omne fragore. Semineces ad terram, immani mole eecuta,   confixique suis telis et pectora duro   transfossi ligno veniunt. Vix unus Helenor   et Lycus elapsi, quorum primaevus Helenor, Maeonio regi quem serva Licymnia furtim   sustulerat vetitisque ad Troiam miserat armis,   ense levis nudo parmaque inglorius alba.   Isque, ubi se Turni media inter milia vidit,   hinc acies atque hinc acies adstare Latinas; ut fera, quae, densa venantum saepta corona,   contra tela furit seseque haud nescia morti   inicit et saltu supra venabula fertur:   haud aliter iuvenis medios moriturus in hoetes  guerra così al coperto, ma lanciano dardi al nemico per  discacciarlo dal vallo. In altra parte, orrendo a vedersi,  squassava la fiaccola etrusca '* Mesenzio, e fuochi fumanti lanciava. E intanto Messapo, il domator di cavalli,  prole nettunia, rompeva il vallo e chiedeva le scale a  salir sulle mura.   Voi '’, o Calliope, ti prego, ispirate il mio canto: quali  stragi ivi col ferro, e che lutti Turno spargesse, e chi  ogni guerriero laggiù nell’Orco respinse; e meco il gran  quadro della guerra svolgete. Chè tutto voi ricordate,  o Dee, e agli altri ricordarlo potete. °°   V’era una torre, altissima a guardarla dal basso, con  erti ponti, opportunamente disposta; e tutti con ogni  forza lottavano gli Itali per espugnarla, e con estrema  | violenza tentavan di abbatterla: ma di rincontro i Troiani fitti la difendevan coi sassi e scagliavano dardi pei  vani delle finestre. Primo Turno lanciò una fiaccola ardente, e nel fianco vi confisse una fiamma, che, nutrita  dal vento, invase le tavole, e alle imposte corrose si  apprese. Spaventati, quelli di dentro, si scompigliano,  e invano cercan fuggendo lo scampo. E mentre si affollano, e s’arretrano in una parte ancora illesa dal fuoco, allora a quel peso la torre improvvisamente si schianta, e tutto a quel fragore il cielo rintuona. A terra semivivi, sotto l'enorme mole, cadono, dalle lor armi trafitti  o trapassato il petto dal duro legno. Due soli appena,  Elènore e Lico, scamparono; dei quali il giù giovine,  Elènore, Licinnia, una schiava, avea generato ad un re  Meonio con amore furtivo: e, con armi vietate ?!, a Troia  l’aveva mandato, alla leggera, con sola la spada, oscuro,  e con un semplice scudo. Ma egli, come si vide in mezzo  ai mille di Turno, e d’ogni parte incalzarlo schiere e  schiere latine: come una belva che cinta da un denso irruit et, qua tela videt densissima tendit. 559  At pedibus longe melior Lycus inter et hostes   inter et arma fuga muros tenet altaque certat   prendere tecta manu sociumque attingere dextras.  Quem Turnus, pariter cursu teloqye secutus,   increpat his victor: « Nostrasne evadere, demens, sperasti te posse manus? » simul arripit ipsum  pendentem, et magna muri cum parte revellit:   qualis ubi aut leporem ‘aut candenti corpore cycnum  sustulit alta petens pedibus Iovis armiger uncis,  quaesitum aut matri multis balatibus agnum 965  Martius a stabulis rapuit lupus. Undique clamor  tollitur; invadunt et fossas aggere complent;   ardentes taedas alii ad fastigia iactant.   Ilioneus saxo atque ingenti fragmine montis  Lucetium portae subeuntem ignesque ferentem, : Emathiona Liger, Corynaeum sternit Asylas,   hic iaculo bonus, hic longe fallente sagitta;   Ortygium Caeneus, victorem Caenea Turnus,   Turnus Ityn Cloniumque, Dioxippum Promolumque   et Sagarim et summis stantem pro turribus Idam: Privernum Capys. Hunc primo levis hasta Themillae  strinxerat; ille manum proiecto tegmine demens   ad vulnus tulit; ergo alis adlapsa sagitta   et laevo infixa est lateri manus abditaque intus  spiramenta animae letali vulnere rupit. Stabat in egregiis Arcentis filius armis,   pictus acu chlamydem et ferrugine clarus Ibera,  insignis facie, genitor quem miserat Arcens  eductum Matris luco Symaethia circum   flumina, pinguis ubi et placabilis ara Palici. Stridentem fundam, positis Mezentius hastis   ipse ter adducta circum caput agit habena, cerchio di cacciatori, infuria contro le armi, e conscia  si slancia a morire, e con un balzo sopra gli spiedi si  lancia, non altrimenti il giovane morituro si getta nel  mezzo ai nemici, e, dove vede più folte le armi, là tende. Ma, più veloce alla corsa, Lico, fra i nemici e fra  l’armi fuggendo è già presso alle mura, e cerca di afferrarsi là al sommo, e di aggrapparsi alle mani dei compagni;. ma Turno, a corsa, e con l’armi, lo segue e lo  giunge, e, vincitore, l’oltraggia: « Folle, sperasti tu dunque dalle mie mani scampare? » e sì dicendo lo afferra penzoloni e lo svelle con una gran parte del muro:  come quando una lepre o un cigno dal candido corpo  si porta nell’alto l’armigero di Giove °° con piedi artigliati, o come quando il marzio lupo rapisce dalla stalla un agnello, e lo cerca con lunghi belati la madre. Si  alzan da ogni parte le grida; vanno all’assalto, e col.  man di terra i fossati; altri fiaccole ardenti lanciano  verso le cime. Ilioneo con un sasso, un enorme pezzo di  monte, abbatte Lucezio, che già era sotto alla porta per  appicarvi il fuoco; Lìgero atterra Emazione: Asila,  Corineo; l’uno valente nell’asta, l’altro nel dardo che  coglie da lungi. Cèneo uccide Ortigio; e Turno, il vincitore Cèneo; Turno, Iti e Clònio e Diossippo e Pròmolo  e Sàgari e Ida, che guardava le altissime torri. Capi  uccise Priverno. L’aveva sfiorato da prima lievemente  la lancia di Temilla; ed egli, gettato lo scudo, folle portò la mano alla ferita: e allora, volando, una freccia gli  piantò nel fianco sinistro la mano, ed entrando gli ruppe con mortale ferita i polmoni. Stava nell’armi egregie il figlio di Arcente, con ricamata la clàmide, spleudente di porpora ibèra #, bello di aspetto, che il padre  Arcente aveva mandato; ed allevato lo aveva di Cibele  nel bosco, presso alle correnti del Simeto, là dove è et media adversi liquefacto tempora plumbo  diffidit ac multa porrectum extendit harena.  Tum primum bello celerem intendisse sagittam  dicitur, ante feras solitus terrere fugaces,  Ascanius, fortemque manu’ fudisse Numanum  cui Remulo cognomen erat, Turnique minorem  germanam nuper thalamo sociatus habebat.  Is primam ante aciem digna atque indigna relatu  vociferans, tumidusque novo praecordia regno  ibat et ingentem sese clamore ferebat:  « Non pudet obsidione iterum valloque teneri,  bis capti Phryges, et morti praetendere muros?  En qui nostra sibi bello conubia poscunt!  Quis Dens Italiam, quae vos dementia adegit?  Non hic Atridae nec fandi fictor Ulixes:  durum ab stirpe genus natos ad flumina primum  deferimus saevoque gelu duramus et undis:  venatu invigilant pueri silvasque fatigant,  flectere ludus equos et spicula tendere cornu.  At patiens operum parvoque adsueta iuventus  aut rastris terram domat aut quatit oppida bello.  Omne aevum ferro teritur, versaque iuvencum  terga fatigamus hasta; nec tarda senectus  debilitat vires animi mutatque vigorem;  canitiem galea premimus, semperque recentes  comportare iuvat praedas et vivere rapto.  Vobis picta croco et fulgenti murice vestes,  desidiae cordi; iuvat indulgere choreis,  . et tunicae manicas et habent redimicula mitrae.  O vere Phrygiae, neque enim Phryges, ite per alta  Dindyma, ubi adsuetis biforem dat tibia cantum.  Tympana vos buxusque vocant Berecyntia matris  Idaeae: sinite arma viris et cedite ferro. »  pingue di doni e mite l’altar di Palìco **. Posate le aste,  tre volte rotando la fune al suo capo, Mesenzio stesso  lanciava la fionda stridente; e con il piombo disciolto *.  gli ruppe nel mezzo le tempie, e lo rovesciò lungo disteso sul suolo.   Dicon che allora, la prima volta scagliasse in guerra  il suo agile dardo Ascanio, già assuefatto a spaventare  in fuga le fiere, e di sua mano abbattesse il forte Numano, Rèmolo detto, che aveva da poco sposata la sorella minore di Turno. Quegli, davanti a tutti, vociferando a diritto e a rovescio, gonfio nel cuore della fresca real parentela, andava avanzando borioso gridando: « E non vi vergognate, o Frigi acchiappati due vol.  te, di stare un’altra volta dentro ad un vallo assediati, e  di opporre alla morte le mura? Eccoli, quelli che chiedono le nostre spose con l’armi! Qual Dio vi ha spinti  in Italia o quale vostra follia? Non sono qui gli Atridi,  nè Ulisse spacciatore di frottole. Dura razza fin dalla radice, i nostri figli tuffiamo appena nati nei fiumi, e li  induriamo al crudo gelo dell’onde. Fanciulli, si danno  alle cacce e stamcan le selve, ed è lor gioco domare cavalli e tender dall'arco le frecce. Poi, pazienti al lavoro  e paghi di poco, i giovani doman la terra coi rastri, o  scrollano in guerra le mura. Ogni età si consuma tra il  ferro, e con l’asta a rovescio pungiamo le terga dei buoi;  nè la vecchiaia, ancor tarda, indebolisce le forze dell’animo o ne muta il vigore; premiamo con l’elmo i capelli canuti, e sempre ci giova portar via prede novelle  e vivere della rapina. Ma voi amate le vesti dipinte di  croco e di porpora splendida; vi piace badare alle danze, con tuniche adorne di maniche e mitre guarnite di  nastri. O veramente Frige, e non Frigi, andate per l’alto  del Dìndimo ?‘, dove solete ascoltare il canto del flauto Talia iactantem dictis ac dira canentem  non tulit Ascanius, nervoque obversus equino  intendit telum, diversaque bracchia ducens  constitit, ante lovem supplex per vota precatus:  « Iuppiter omnipotens, audacibus adnue coeptis,  ipse tibi ad tua templa feram sollemnia dona  et statuam ante aras aurata fronte iuvencum,  candentem, pariterque caput cum matre ferentem,  iam cornu petat et pedibus qui spargat harenam. »  Audiit et caeli genitor de parte serena intonuit laevum, sonat una fatifer arcus.  Effugit horrendum stridens adducta sagitta  perque caput Remuli venit et cava tempora ferro  traicit. « I, verbis virtutem illude superbis!  bis capti Phryges haec Rutulis responsa remittunt. Hoc tantum Ascanius. Teucri clamore sequuntur,  laetitiaque fremunt animosque ad sidera tollunt.  Aetheria tum forte plaga crinitus Apollo  desuper Ausonias acies urbemque videbat,  nube sedens, atque his victorem affatur Iulum: Macte nova virtute, puer: sic itur ad astra,  Dis genite et geniture Deos. Iure omnia bella  gente sub Assaraci fato ventura resident:  nec te Troia capit. » Simul haec effatus ab alto  aethere se mittit, spirantes dimovet auras, 645  Ascaniumque petit. Forma tum vertitur oris  antiquum in Buten. Hic Dardanio Anchisae  armiger ante fuit fidusque ad limina custos.  Tum comitem Ascanio pater addidit. Ibat Apollo  omnia longaevo similis, vocemque coloremque 650  et crines albos et saeva sonoribus arma;  atque his ardentem dictis adfatur Iulum:  « Sit satis, Aenide, telis impune Numanum a due canne. Vi chiamano i timpani del Berecinto e il  flauto di bosso della gran Madre idèa; lasciate agli uomini l’armi e rinunciate alla guerra. Le vanterie e gli insulti non tollerò Ascanio, e mentr’egli sbraitava, di fronte a lui incoccò sul nerbo equino °° una freccia, e con le braccia aperte stiè fermo, prima levando a Giove, supplichevole, il voto: « O Giove  onnipotente, consenti all'audace mia impresa. Ed io  solenni doni ti recherò ai tuoi templi, ed agli altari un  giovenco t'immolerò, dalle corna dorate, candido, che  porti il capo alto al par della madre, e già cozzi e coi  piedi sparga all’intorno l’arena ». L’udì il Padre, e dalla  plaga serena del cielo tuonò da sinistra: ed insieme risuonò il suo arco fatale. OCrribilmente stridendo fuggì la  scagliata saetta, e dentro il capo di Rèmolo s’infisse e  trapassò col ferro le concave tempia. « Va, schernisci il  valore con le parole superbe! I Frigi, due volte acchiappati, questa risposta ai Rùtuli inviano ». Nè altro disse  Ascanio; ma i Teucri lo applaudon gridando, e fremon  di letizia, ed alzano il cuore alle stelle. Proprio allora,  dall’alto del cielo Apollo crinito stava mirando le schiere ausonie ed il campo, seduto sopra una nube; e a  Iulo vittorioso volgeva queste parole: « Bene, o valoroso  fanciullo! Così si ascende alle stelle, o progenie di numi che dovrai generare altri numi. Ben tutte le guerre  future, per volere dei fati, sotto la stirpe di Assàraco  dovranno aver fine: troppo poco è Troia per te. Ciò  detto, dall’alto dell’etere si getta, e fende le aure vitali,  e viene ad Ascanio, mutando l’aspetto del volto in quello  di Bute, l’anziano. Questi già era stato di Anchise dardanio scudiero e fido custode alle soglie. Poscia il padre  lo diede compagno ad Ascanio; ed Apollo veniva simile  in tutto a quel vecchio, la voce, il colore, i capelli canoppetisse tuis: primam hanc tibi magnus Apollo   concedit laudem et paribus non invidit armis:cetera parce, puer, bello. » Sic orsus Apollo   mortales medio adspectus sermone reliquit,   et procul in tenuem ex oculis evanuit auram.   Agnovere Deum proceres divinaque tela   Dardanidae, pharetramque fuga sensere sonantem.Ergo avidum pugnae dictis ac numine Phoebi Ascanium prohibent: ipsi in certamina rursus   succedunt animasque in aperta pericula mittunt.   It clamor totis per propugnacula muris:   intendunt acres arcus amentaque torquent. 665   Sternitur omne solum telis; tum scuta cavaeque   dant sonitum flictu galeae; pugna aspera surgit; quantus ab occasu veniens pluvialibus Haedis .   verberat imber humum: quam multa grandine nimbi   in vada praecipitant, cum Iuppiter horridus Austris torquet aquosam hiemem et caelo cava nubila rumpit.  Pandarus et Bitias, Idaeo Alcanore creti,   quos Iovis eduxit luco silvestris Iaera abietibus iuvenes patriis et montibus aequos,   portam, quae ducis imperio commissa, recludunt, freti armis, ultroque invitant moenibus hostem.   Ipsi intus dextra ac laeva pro turribus adstant,   armati ferro et cristis capita alta corusci:   quales aériae liquentia flumina circum,   sive Padi ripis Athesim seu propter amoenum, consurgunt geminae quercus intonsaque caelo attollunt capita et sublimi vertice nutant.   Irrumpunt, aditus Rutuli ut videre patentes. Continuo Quercens et pulcher Aquicolus armis   et praeceps animi Tmarus et Mavortius Haemon agminibus totis aut versi terga dedere,  didi e l’armi ferocemente sonanti: ed all’ardente Iulo  si volge con queste parole: « Ti basti, o figliuolo d’Enea, che sia caduto Numano per il tuo colpo e senza tuo  male; questa prima lode a te il grande Apollo concede,  e non t’invidia se tu lo eguagli nell’ arco; ma d’ora in  poi, o fanciullo, astieniti dal guerreggiare ». Così dicendo Apollo, a mezzo il discorso lasciò l'aspetto mortale e lontano svanì dagli occhi nell’aria leggera. Riconobbero il Dio gli anziani dei Dàrdani, e l’armi divine,  e sentiron sonare, mentr'egli fuggìa, la faretra. Onde  ai detti e al volere di Febo allontanavano. Ascanio, avido ancora di pugna; ritornano essi a combattere, ed  espongono nell’aperto periglio la vita. S'alza da tutte  le mura per tutte le torri un clamore: tendono gli archi gagliardi e lanciano i giavellotti. Il suolo tutto si  copre di strali; ai colpi risuonan gli scudi e i concavi  elmi; insorge dura la pugna. Così al venir da ponente,  sotto i Capretti piovosi °°, sferza la pioggia la terra; così  con la grandine precipitano i nembi sul mare, quando  orrido Giove con gli Austri turbina l’acque a diluvio, e  nel cielo le concave nubi dirompe.   Pàndaro e Bizia, da Alcànore Idèo generati, che nel  bosco di Giove allevòo la silvestre Ièra *, giovani pari  agli abeti dei monti paterni, apron la porta, che il duce  aveva a loro affidata, fiduciosi nell’armi, e il nemico provocano a entrar nelle mura. Ed essi là dentro, a destra  e a sinistra, si rizzano a guisa di torri, di ferro armati,  e corruschi gli erti capi di creste; come aeree lunghesso  1 fiumi correnti, sulle sponde del Po o presso l'Adige  ameno, sorgon due querce gemelle, e innalzano le chiome intonse nel cielo, con le cime sublimi ondeggiando.  Irrompono i Ruùtuli, poi che videro aperte le porte; ma  tosto Quercente e Aquìcolo bello nell’armi e Tmaro aut ipso portae posuere in limine vitam.  Tum magis increscunt animis discordibus irae:  et iam collecti Troés glomerantur eodem  et conferre manum et procurrere longius audent. 690   Ductori Turno diversa in parte furenti  turbantique viros perfertur nuntius, hostem  fervere caede nova et portas praebere patentes.  Deserit inceptum atque immani concitus ira  Dardaniam ruit ad portam fratresque superbos. Ét primum Antiphaten (is enim se primus agebat),   Thebana de matre nothum Sarpedonis alti,  coniecto sternit iaculo: volat Itala cornus  aéra per tenerum, stomachoque infixa sub altum  pectus abit: reddit specus atri vulneris undam spumantem, et fixo ferrum in pulmone tepescit.  Tum Meropem atque Erymanta manu, tum sternit   [Aphidnum:   ‘tum Bitiam ardentem oculis animisque frementem,  non iaculo (neque enim iaculo vitam ille dedisset).  Sed magnum stridens contorta phalarica venit,, 705  fulminis acta modo, quam nec duo taurea terga  nec duplici squama lorica fidelis et auro  sustinuit. Collapsa ruunt immania membra.  Dat tellus gemitum, et clipeum super intonat ingens.  Talis in Euboico Baiarum litore quondam 710  saxea pila cadit, magnis quam molibus ante  constructam ponto iaciunt; sic illa ruinam  prona trahit penitusque vadis illisa recumbit;  miscent se maria et nigrae attolluntur harenae;  tum sonitu Prochyta alta tremit, durumque cubile 715  Inarime Iovis imperiis imposta Typhoeo. Hic Mars armipotens animum viresque Latinis  addidit et stimulos acres sub pectore vertit l’impetuoso ed il marziale Emone, con tutte le schiere,  o volser fuggendo le spalle, o sulla soglia stessa della  porta lasciaron la vita. Allora crescon vie più nei cuori  discordi le ire; e già ammassati i Troiani si stringon  colà, ed osan venire alle mani e avanzarsi fuori più  lungi.   Al duce Turno, che in altra parte infuriava e sgominava i guerrieri, giunge la nuova: il nemico arde di  strage novella, e aperte si offron le porte. Lascia l’impresa e spinto dall’ira tremenda, contro la porta dardania si scaglia e i fratelli superbi. E per il primo Antifate (poichè avanzava pel primo) di madre tebana bastardo di Sarpèdone alto, colpisce ed abbatte col dardo:  vola il corniolo italico *' per l’aria leggera, e piantatosi  in gola scende nel fondo del petto; sgorga dalla caverna della negra ferita un'onda spumante, e nel polmone  trafitto intiepidisce il ferro. Poi Mèrope ed FErimante  abbatte, poi Afidno, poi Bizia che Iampeggiava con gli  occhi e con il cuore fremeva; ma non con un dardo,  chè quegli con un dardo non dava la vita! Ma fortemente stridendo una falàrica  venne, lanciata a guisa di un  fulmine, cui le due pelli taurine non ressero, nè la fedele corazza di doppia squama dorata. Le membra immani stramazzano; la terra ne geme, e di sopra lo ecudo immenso rintuona. Tale nel lido euboico di Baia  . cade talora un blocco di macigni che costruiscon prima  con grandi massi e poi gettan nel mare; così esso rovina  all’ingiù, e scagliato nel più profondo si arresta: ma  ribollon le onde e negre si sollevan le arene, e a quel  fragore l’alta Pròcida trema, ed Ischia, che per comando di Giove, fu posta, duro letto, sopra Tifèo. Qui Marte signore dell’armi coraggio e forza ai Latini crebbe ed acuti gli sproni rivolse loro nel cuore, e immisitque Fugam Teucris atrumque Timorem.  Undique conveniunt, quoniam data copia pugnae,  bellatorque animo Deus incidit.   Pandarus ut fuso germanum corpore cernit,   et quo sit fortuna loco, qui casus agat res,  portam vi magna converso cardine torquet,  obnixus latis umeris; multosque suorum  moenibus exclusos duro in certamine linquit;  ast alios secum includit, recipitque ruentes,  demens, qui Rutulum in medio non agmine regem  viderit irrumpentem, ultroque incluserit urbi,  immanem veluti pecora inter inertia tigrim.  Continuo nova lux oculis effulsit, et arma  horrendum sonuere: tremunt in vertice cristae  sanguineae, clipeoque micantia fulmina mittit.  Agnoscunt faciem invisam atque immania membra  turbati subito Aeneadae. Tum Pandarus ingens  emicat, et mortis fraternae fervidus ira   effatur: « Non haec dotalis regia Amatae,   nec muris cohibet patriis media Ardea Turnum:  castra inimica vides; nulla hinc exire potestas. »  Olli subridens sedato pectore Turnus:   « Incipe, si qua animo virtus, et consere dextram:  hic etiam inventum Priamo narrabis Achillem. Dixerat. Ille rudem nodis et cortice crudo  intorquet summis adnixus viribus hastam.  Excepere aurae: vulnus Saturnia luno   detorsit veniens, portaeque infigitur hasta. At non hoc telum, mea quod vi dextera versat,  effugies: neque enim is teli nec vulneris auctor. »  Sic ait, et sublatum alte consurgit in ensem,   et mediam ferro gemina inter tempora frontem  dividit impubesque immani vulnere malas.  contro i Teucri lanciò la Fuga ed il cupo Terrore. Accorrono da ogni parte quelli, poichè si combatte da  presso, ed il guerriero Iddio entrato è a loro nel cuore.  Pandaro, come vede a terra disteso il fratello, e che la  fortuna è per gli altri ed è contrario l'evento, a gran  forza, puntando l’ampie spalle, la porta spinge sui cardini e serra; e molti dei suoi lascia fuor delle mura in  aspra battaglia; ma altri riesce a chiuder con sè e li  accoglie che precipitavano dentro. Folle, che il rùtulo  ‘re non vide, che in mezzo alla schiera dentro irrompeva,  ed anzi lo serrava nel campo, come, tra un gregge imbelle, feroce una tigre; di sùbito, gli sfavillo dagli occhi una luce novella, e le armi orribilmente suonarono:  si squassan sull’'elmo le creste sanguigne, ed agitando lo  scudo vibra bagliori di lampi. Riconoscon la faccia odiosa e le membra giganti, di subito _sgomenti gli Enèadi.  Allora gli sbalza davanti Pàndaro immenso, e fremendo  d’ira pel morto fratello, grida: « Non è questa la reggia  dotale di Amata, nè qui è Ardea, che Turno rinchiuda  fra le mura paterne. Campo nemico è questo che vedi;  ed uscir non potrai ». A lui sorridendo Turno con cuore  pacato: « Orsù, se hai coraggio, combatti con me: racconterai a Priamo che anche qui s’è trovato un Achille ». Sì disse; e quegli, con ogni sua forza poggiando,  aspro di nodi e di ruvida scorza un giavellotto lanciò.  Ma colpì l’aria, chè la saturnia Giunone deviò il colpo  mortale, e l’asta contro la porta s’infisse. « Ma non tu  questa spada, che ruota la mia destra a gran forza, sfuggirai: chè di un altro è l’arma ed è la ferita ». Così disse, e si alzò con tutta la spada levata; e con il ferro la  fronte gli spaccò in mezzo alle tempie, e, con orrenda  ferita, ancora imberbi le guance. Fu un fragore, e la  terra fu scossa al cader del gran peso; stende egli a VirciLio - Eneide - Vol. Fit sonus, ingenti concussa est pondere tellus:   collapsos artus atque arma cruenta cerebro   sternit humi moriens, atque illi partibus aequis.   huc caput atque illuc umero ex utroque pependit. Diffugiunt versi trepida formidine Troés;   et si continuo victorem ea cura subisset,   rumpere claustra manu sociosque immittere portis,   ultimus ille dies bello gentique fuisset.   Sed furor ardentem caedisque insana cupido egit in adversos.   Principio Phalerim et succiso poplite Gygen   excipit: hinc raptas fugientibus ingerit hastas   in tergum. Iuno vires animumque ministrat;   addit Halym comitem et confixa Phegea parma, 765   ignaros deinde in muris Martemque cientes   Alcandrumque Haliumque Noémonaque Prytanimque.   Lyncea tendentem contra sociosque vocantem © vibranti gladio conixus ab aggere dexter   occupat: huic uno deiectum comminus ictu cum galea longe iacuit caput. Inde ferarum vastatorem Amycum, quo non felicior alter   ungere tela manu ferrumque armare veneno,   et Clytium Aeoliden, et amicum Crethea Musis,   Crethea Musarum comitem, cui carmina semper et citharae cordi numerosque intendere nervis:   semper equos atque arma virum pugnasque canebat.  Tandem ductores, audita caede suorum,   conveniunt Teucri, Mnestheus acerque Serestus,   palantesque vident socios hostemque receptum. Et Mnestheus: « Quo deinde fugam, quo tenditis? inquit.   Quos alios muros, quae iam ultra moenia habetis?   Unus homo et vestris, o cives, undique saeptus   aggeribus, tantas strages impune per urbem terra morendo le membra prostrate e le armi sozze di  sangue e di cèrebro; e da ambedue le spalle gli penzola un capo e di qua e di là. Fuggon respinti da pauroso terrore i Troiani; e se il vincitore pensava, in quel  momento, a spezzare i cancelli e a far entrar per la  porta i compagni, l’ultimo giorno era quello della guerra e del popol troiano. Ma il suo furore e un folle desiderio di strage lo scagliò impetuoso in mezzo ai nemici.  Prima egli affronta Fàlari, e a Gige recide il garretto;  poi toglie loro le aste e le lancia alle spalle ai fuggenti.  Forze e coraggio gli somministra Giunone. Hali dà lor  per compagno, e, trafittogli lo scudo, Fegeo; poi, mentre  ignari sulle mura incitavano a guerra, Alcandro, ed Alio,  e Noèmone, e Prìtani. Lìnceo, che gli veniva incontro  e chiamava i compagni, egli previene, rotando la epada,  dallo steccato a destra: e d’un sol colpo da presso, il  capo troncato si giacque insieme con l’elmo lontano. Poi,  Amico, il distruttore di fiere, di cui altri non era più  esperto ad unger gli strali e avvelenare le armi; poi,  Clizio l’eòlide, e amico alle Muse Creteo, Creteo alle  Muse compagno, che sempre i carmi e le cetre ebbe a  cuore, e l’armonia delle corde: sempre i corsieri e le armi e le pugne eroiche cantava.   Alfine i Teucri duci, udita la strage dei loro, accorrono, Mnèsteo ed il padre Seresto, e vedono rotti i compagni, e, fra le mura, il nemico. E Mnèsteo: «E poi,  dove fuggite? dove andare volete? — diceva. — E che  altre mura, che altra città vi rimane? Un uomo solo, e  d’ogni parte rinchiuso dai vostri steccati, potrà, o cittadini, di stragi riempir la città, impunemente? Tanti  fra i primi guerrieri manderà giù nell’Orco? Non della  misera patria e degli antichi Iddii, e del magnanimo  Enea, codardi, vi tocca misericordia o vergogna? » Ac ediderit? iuvenum primos tot miserit Orco?   Non infelicis patriae veterumque Deorum et magni Aeneae, segnes, miseretque pudetque? »  Talibus accensi firmantur et agmine denso   consistunt. Turnus paulatim excedere pugna   “et fluvium petere ac partem, quae cingitur unda: 790  acrius hoc Teucri clamore incumbere magno   et glomerare manum, ceu saevum turba leonem cum telis premit infensis, at territus ille   asper, acerba tuens, retro redit, et neque terga   ora dare aut virtus patitur, nec tendere contra, ille quidem, hoc cupiens, potis est per tela virosque:  haud aliter retro dubius vestigia Turnus   improperata refert, et mens exaestuat ira.   Quin etiam bis tum medios invaserat hostes,   bis confusa fuga per muros agmina vertit; 800  sed manus e castris propere coit omnis in unum:   nec contra vires audet Saturnia luno   sufficere, aériam caelo nam luppiter Irim   demisit, germanae haud mollia iussa ferentem, ni Turnus cedat Teucrorum moenibus altis. Ergo nec clipeo iuvenis subsistere tantum,   nec dextra valet; iniectis sic undique telis   obruitur. Strepit adsiduo cava tempora circum   tinnitu galea, et saxis solida aera fatiscunt,  discussaeque iubae capiti, nec sufficit umbo ictibus; ingeminant hastis et Troès et ipse   fulmineus Mnestheus. Tum toto corpore sudor   liquitur et piceum (nec respirare potestas)   flumen agit: fessos quatit acer ànhelitus artus.   Tum demum praeceps saltu sese omnibus armis   in fluvium dedit. Ille suo cum gurgite flavo   accepit venientem ac mollibus extulit undis et laetum sociis abluta caede remisit. cesi da tali parole, riprendono cuore, e in ischiera serrata lo affrontano: e Turno a passo a passo si ritrae dalla battaglia, volgendo verso il fiume e la parte che n’era  ricinta; e però più accaniti i Troiani lo incalzan con  grande clamore, addensando le schiere. E come quando  un feroce leone stringon da presso con l’armi ostili i cacciatori, e quello, fiero, e torvo lo sguardo, retrocede, ma  nè l’ira o il valore non gli lascian voltare le spalle; ma  neppure potrebbe, benchè desioso, lanciarsi in mezzo  alle armi e alla turba: non altrimenti Turno, dubbioso,  lentamente si arretra, e il cuore per l’ira gli bolle. Anzi,  due volte si era gettato in mezzo ai nemici, due volte  volse in fuga per le mura le schiere sconvolte; ma tutto  rapidamente si accoglie dal campo l’esercito contro lui  solo, nè altre forze formirgli osa la Saturnia Giunone,  giacchè aerea dal cielo Giove Iride inviava, con suoi  bruschi comandi alla sorella **, se Turno non lasciasse  le mura alte dei Teucri. Dunque non può il giovane  con lo scudo o con la mano resistere ancora: son troppi  i dardi che d’ogni parte gli piovono giù. Senza riposo  tinnisce intorno alle concave tempie l’elmo, ed il solido  bronzo s’incrina alle pietre, e le creste si rovescian dal  capo, e ai colpi non basta lo scudo; raddoppian l’assalto i Troiani con l’aste, e primo, fulmineo, Mnèsteo. Da  tutto il corpo il sudore allora gli gronda, e gli cola —  omai il respiro gli manca — in un fiume color della  pece. E finalmente allora, a precipizio, di un salto, con  tutte le armi, nel fiume si lanciò; e quello, con la sua  bionda corrente l’accolse, e lo tenne sopra le onde tranquille, e, della strage asterso, lieto ai compagni lo rese. Angelo Conti. Keywords: VIRGILIANA, decadente, decadenza, divina decadenza, filosofia decadente, filosofo decadente, decadentismo, divinely decadent – d’annunzio, museo d’annunziano, il bello e il bizzarro, il bello bizzarro, estetica, sensatio, senso, sensum, sentior, sentitum, perceived, perceptum – sense and sensibilia, estetico/noetico (nihil est in intellectu qui prior non fuerit in sensu), propieta estetica, proprieta di secondo grado, secondary quality, Grice, Sibley, Scruton, Platone, Kant, Schopenhauer, Ruskin, Pater, Antichita, antico e moderno, il fascino dell’antico, from the antique, from life, Uffizi, Accademia Venezia, RegieAccademiadiVenezia, Capodemonti, Napoli, Antichita Roma, il fiume d’Eraclito, Ulisse e il canto delle sirene, Morelli, Francesco, Virgilio, dolcissimo padre, ascetismo, ascecis, zorzi, riva beata, Pater, Essay on Style by Pater, Da Vinci, Morelli, la nudita eroica d’Enea – Luigi Ratini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Conti: la ragione conversazionale e l’implicatura converseazionale del dialogo filosofico – scuola di Padova – filosofia padovana – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Grice: “Conti is a good one; for one he is a ‘patrizio veneziano,’ for another he like Alexander Pope and detests Newton! (Italian temper there!) – My favourite are his “Dialoghi filosofici,’ full of implicata as they are!” Patrizio veneto, classicista, famoso per essere stato arbitro nella controversia tra Leibniz e Newton, circa l'invenzione del calcolo infinitesimale (keyword: infinito). Si lege in amicizia con  Fay, noto per gli esperimenti fisici che conduce all'Accademia delle Scienze. Di lui esiste una statua in Prato della Valle, fatta da Chiereghin. Scrive saggi riguardanti la struttura della tragedia, e nel “Trattato del fantasma poetico” discute la funzione del coro: monologo, dialogo, coro (terza persona?). Tra le sue tragedie, la più significativa fu il “Giulio Cesare”. Ne scrive altre tre, tutte di soggetto romano: “Marco Bruto”, “Giunio Bruto”, e “Druso”. Altre opere: “Opere” (Venezia, presso Giambatista Pasquali); “Versioni poetiche” (Bari, Laterza). Dizionario biografico degli italiani. Della nascita del C. sono r’ſuoi veri pu dj. Principio de’ suoi studi scritto da lui stero. Disputa col Nigrisoli e altre particolarità de’ suoi studi sono al primo viaggio di Francia. Primo viaggio in Francia. Primo viaggio in Inghilterra e prime conversazioni col Newtono. Mediazione tra il Newtono e il Leibnizio Studi e altre occupazioni di Conti a Londra. Suoi sudj di belle lettere. Viaggio d'Ollanda e d'Allemagna. Nuova dimora in Inghilterra. Ritorno in Francia e ſuoi pudi. Amicizie. e converſazioni in queſti anni in Francia. Querela col Newtono. Suo ritorno in Italia. Edizione del Cesare. Studi e commerzi. Edizione delle ſue Prose e Poesie. Sue Tragedie. Illustrazione del Parmenide di Velia di Platone; fima e onori di C.. Traduzioni. Altri suoi fudi. Progetti di nuove opere. Ultimi ſtudi. Edizione del Druso; ſua morte. Rifleli Jul carattere di C., e notizie particolari della sua vita private. Relazione de’ Manoscritti lasciati da C. Dell' Imitazione. Del Fantasma Poetico. La Poesia Greca. Allegoria dell'Eneide di Virgilio. Illuſtrazione dello Scudo di Enea. Illustrazione del Poema di Catullo intitolato le Nozze di Teride e di Peleo. Dissertazione sopra la Tebaide di Stazio. Discorso ſopra la Italiana Poesia. Illustrazione del Dialogo di Fracastoro intitolato il Na. wagero, o fia della Poesia. Disertazione sopra la Ragion Poetica del Gravina. Della Potenza conoscitiva dell'Anima. Della Fantasia. Poesie Tradotte dall' Inglese. Al Sig. Marcheſe Manfredo Repeta sopra il Poema del Riccio Rapito. Il Riccio Rapito. Prose Franceſe Italiane a Monſieur Perel. Dialogue ſur la Nature de l' Amour. Lettre à Madame la Preſidente Ferrant. Lettera al Sig. Cavalier Vallisnieri. Al sig. Marcheſe Maffei. Al N. U. Sig. Benedetto Marcello. Al P. D. Bernardo Piſenti C. R. Somaſco.A Monſignor Cerarti. L’allegoria dell’Eneide di Virgilio propone una cosa per farne intender un'altra, che ſeco è in proporzione, se l’ “Eneide” per consenso di tutti i più abili commentatori é un panegirico *allegorico* d'Augusto, convien necessariamente che la cosa proposta sieno l’azione d’Enea (l’explicatura), e la cosa che deve intendersi ed è loro proporzionata, l’azione d'Augusto (implicatura) più memorabile e più degna di lode. Per çiò con una ſuccinca narrazione pone prima sotto gli occhi l’azione d'Enea, che e il primo termine (l’explicatura) su cui l’allegoria o metafora o implicatura (& fonda, o come l'originale del ritratto; indi fa il confronto dell’azione di Augusto. Nell'istoria d'Enea, basta quloſſervare l’oggetto dell’epica, e il carattere stoico dell'eroe. L'oggetto tutto tende alla nuova colonia di Roma o al Principato ch'Enea (via Ascanio e Romolo e Remo) ha da fondare nel Lazio e Italia. Questo gli predisse Creusa, Febo, i Penati; questo le Arpie, Eleno e la Sibilla; e perchè fi compisca l’oracolo della predeterminazione e del fatalismo stoico, Enea li salva dagl in incendi e dalla strage di Troja. Ettore lo dichiara Pontefice. I compagni lo eleggono Re. Avvisato o protetto schiva i tradimenti, gli scogli, i ciclopi; non è sommerso nelle tempeste, non trattenuto dall’africana Didone più pericolosa delle stesse tempeste. Finalmente arrivato in nel Lazio trova il re latino dispoſto a riceverlo per genero, Evandro e i toscani pronti a dargli soccorso; sebben abbia a fronte Torno, un nimico feroce e collegato coi vicini, lo vince e l'uccide. Gli oracoli fatalisti predeterminati stoichi dunque, i viaggi, e le guerre d’Enea non riguardano se non lo stabilimento d'un regno o principato. Il carattere poi d’Enea o dell'eroe si vede in tutta l'Eneide composto della *virtù* stoica convenevoli al capo e fondatore d'un regno. La virtu e pietà verso l’uomo e verso Diuspater, senno nel provvedere a’pericoli e prevederli, valore da soldato e da capitano. La pietà (o compasione) verso l’uomo e la carità – l’imperativo della carita conversazionale, verso Diuspater religione. Della carita o benevelonza o compasione, o compieta verso l’uomo Enea dà esempi illustri per tutto. Salva il padre Anchise dalle fiamme portandolo sulle spalle dirige sempre il viaggio secondo i di lui consigli, celebra il suo anniversario co'giochi conſiderati da’ pagani come una parte della eeligione, e per ubbidirlo discende fino all’inferno! Quanto è tenero per il figliuolo Ascanio, e sollecito e della salute e de gli avanzamenti di lui! E quando Creusa sua moglie si smarrisce, non va egli a ricercarla tra gl'incendi e le stragi? Che dirò della sua pietà, carita, compassione, compieta, benevolenza, verso il suo compagno (o d’EURIALO verso NISO), verso l’amico, e verso Torno, il nemico stesso? Nella tempesta più s’affligge della loro perdita che della propria, gli consola e gl’incoraggisce negli affanni, li provvede di cibo, li divertisce e premia co’giochi, fa l’esequie a Polidoro suo parente, a Miseno suo trombettiere, a Gaeta sua nutrice; piange la morte di Palinuro e più quella di Pallante (Patroclo), e ne manda il cadavere ad Evandro con magnificenza e con lutto degno di un re. Avendo ferito a morte Lauro che l’assalì, gli itende la destra, lo solleva, e lascia che a Mesenzio se ne porsi il corpo. Vuol perdonare a Turno, e non l’uccide *che* per vendicar suo amante Pallante; ciò ch'era un atto di carita. Verso Diuspater sempre fervida e pronta è la sua pietà. Come stoico perfetto e negatore del libre arbitrio, nulla intraprende senza consultare l’oracolo, e non comincia alcun’azione senza offrir un voto, una preghiera e sacri fizj, ch’egli offre egualmente al Diuspater propizio, che alle Diuspater nonpropizio o Giunone e Pallade. Per ubbidir Diuspater supera la passione che la strega Didone invoca, cede rispettoso alla sua collera nell'incendio di Troia; conosce Apollo per principal protettore; ascolta attento i cantici d'Ercole, e invoca Berecintia che l'allista nella nuova guerra. Alla sua pietà corrisponde il suo senno. Tosto ch'entra in un paese vuol conoscere i liti, i luoghi, e la gente che l'azbita; così fa in Affrica, e nel regno d'Evandro, e scoperto l'assaſlinio di Polinestore fugge il pericolo di cadervi: fa metter in aguato i soldati per lorprender l'Arpie; egli steſſo dirige la nave che manca di piloto; manda ambasciatori al re del Lazio; cerca soccorso nella guerra; ricevuto lo distribuisce in due corpi per più imbarazzare il nemico ciò ch'è una parte della virtu o prudenza militare, non meno che assediar la città mentre il nemico è sospeso. Questo o quello segno (manifestazione secondo Vitters) del valore poi non dà nell'attaccare i nimici, nel farne stragi di sua mano? uccide i più forti e tra gli altri Lauso, Mesenzio, lo stesso Turno. Più comparisce il valore d'Enea, se col P. Boſsù fi confronti con quello di Turno, antagonista, avversario, dell’epica, ardente, milantatore, prepotente e buono sol per la guerra che vuole giusta od ingiusta, ed in questa è incauto e senza direzione. Enea all'opposto grave – la gravita romana --, misurato e non peccatore o essecivo, parla poco, laconico, opera molto, sempre consigliato e forte colla gloria del consiglio e dell'esecuzione. Di questo o quello segno della virtu -- pietà, senno, e valore, c’e un intreccio mirabile, sicche comparisce Enea saggio e paziente capitano come Agamennone, valoroo vincitor del nimico come Achille, destro a maneggiar lo spirito ed a condur una negoziazione o consenso cooperative conversazionale come Nestore e Ulise: giugne a questa virtù una pietà sincera, una probità esatta che mai non ſi ſmente, una compassion tenera per il suo amico e il suo suddito. Enea è buon figlio, buon padre, buon amico, buon amante, e tutto ciò per motivi superiori di dovere e di ragione morale kantiana alla luce del stoicismo fatalism del predeterminismo. Sopra tutto pero domina la specie della virtù più convenevole d’ogni altra specie al fondatore della dinastia di Romolo, perchè per essa si merita la protezione di Deuspater, si rende l’amico o il popolo che deve ubbidire, l’alleato, ed il vicino con cui si deve patteggiare e con-federarsi in cooperazione conversazionale verso un fine comune. Vi sarebbero il carattere degli altri personaggi e dei dell'epica, ma essendo scritti di mano dell’autore sono come non scritti. Anche la seconda parte che riguarda le azione del primo imperatore romano, Ottavio detto l’augusto è molto imperfetta; eccone qualche confronto. Nella rovina di Troja li ravvisano la rovina della Roma repubblicana di Cesare ed Catone. Da questa rovina, Ottavio, come Enea era stato preservato dalla provvità, 1 videnza del fato, come dice Orazio nel Carmie Secolare. Enea porta in ispalla suo padre Anchiee; Ottavio prende la vendetta del suo padre addotivo Cesare. Enea e in Troja maricato a Creusa da cui ha Julo; Ottavio e maricato a Scribonia da cui ha Giulia. Ma Creusa per ordine de’ Fati è colia ad Enea, come Scribonia ad Ottavio; e nel dir che ad Enea si apparecchia moglie, da cui doveano discendere tanci Re, adula cacitamente Livia. Didone che s’oppone al disegno (de-segno – plannificazione) d’Enea magnifica e vana dell'impero ha del carattere superbo, impecuo lo, ed astuto di questa altra Africana, Cleopatra, che impiegò cutre l'arti femmini li per impegnar Ottavio. Ma v'è un tratto finissimo di lode nella comparazione che poteano i romani fare d’Enea e ďOttavio, perchè laddove Enea cesse alle lusinghe di Didone, e dopo averla posseduta l’abbandona scorteſemente in preda alla disperazione, biasmo da cui poco lo scusanu gli ordini degli Dei; quanto più dovea stimarli Ottavio che mai non si lasciò vincere dalle tante arti di Cleopatra? In Evandro, che accoglie Enea, si puo ravvisar Cicerone, che col suo credito e colla sua eloquenza reſe tanti servigj a Ottavio. L’epica, però per non rimproverargli la disgrazia di Cicerone, fa che non Evandro ma il figliuolo di lui resti ucciso da Turno, nel quale *senza dubbio* vien “simboleggiato” Marc’Antonio, valoroso bensì, ma imprudente, e che le in molte cose mostra fortezza d’animo chiaro ed eccellente, in molte altre, come Turno, li governa malissimo, e da quello o questo segno non meno di magnanimità che di pulsanimità. Nulla dimostra più la finezza cortigianesca di Orazio e di Virgilio come il loro non nominar mai Cicerone. S'astennero dal risvegliar in Ottavio un'idea che gli dava de’ rimorsi. All'incontro nominarono Giunio Bruto e Catone, per mostrare che Ottavio non ha usurpata la libertà, ma che anzi ne era il protettore, l’imperatore, come negli ultimi tempi lo volea Cromuvelo (Lord Protector) in Inghilterra. Antonio stesso molto si risparmia, esi può osservare in Orazio che mai non si parla d’Antonio senza congiungerlo a l’africana Cleopatra per far cadere in lei l’odio e la colpa; e cosi fa Virgilio fagacemente nella battaglia d’Azio, quando parla d’Antonio palesemente, e quando ne parla per allegoria, supprime quell vizio che avrebbero dispiaciuto ai suoi partigiani ch’erano molti, ed a’figliuoli elevati da Ottavio a sommi onori. Queſta è pur la ragione prammatica, per la qual Virgilio non dipinta le guerre che fece Ottavio con Bruto, Callio e cogli altri, che per modo di peregrinazioni, onde non offender quei ch’erano ancora del partito di questi ultimi difensori della pubblica libertà. Il re del Lazio, Latino, che ammonito dall’oracolo vuol dar la figliuola più ad Enea, che a Turno, è il vero ritratto del senato romano, che vecchio (senior, senatore) ed impotente non potendo più regolar la repubblica, benchè per ispirazione divina egl’inchini più a lasciarsi governare d’Ottavio che da Marc’Antonio, atterrito nondimeno dagli apparecchi di guerra, lascia disputar la vittoria a’ due rivali, come appunto il re Latino fuggendo lascia terminar la guerra a Turno ed Enea. In Mesenzio ed in Lauso si veggono Cassio e Giunio Bruto, e l'empietà data a Mezenzio e la virtù data a Lauso lo persuadono. Muore Laulo ed Enea lo compiagne, come Ottavio compianse Bruto, al dir di Plutarco. Quando Lauro combatceva, era Mesenzio con la persona appresso di un tronco per posarvi appoggiato, e gli stava intorno un cerchio de’ più eletti e de’ più fidi; e quando vide Lauso ucciso, comincia a disperarsi, e a lagnarsi, e andar incontro alla morte. Queſta deſcrizione concorda molto con quella che fa Plutarco di Cassio, allora che ritirato sul colle stava rimirando l’esercito di Bruto, e credendo ch’egli fosse rotto, disperato si confiſſe nel le reni la spade. Non occorre cercare rassomiglianza perfetta tra questo o quello accidente vero e questo o quello accidente finto. Baſta che uno si ravvif nell'altro. I ritratti della Poesia, e particolarmente epica, sono “simili” a quelli che i gran pittori introducono ne’ quadri istoriati; negli Dei, negli eroi, ne’ capitani ritengono le fattezze del volto de viventi che vogliono onorare ma variano le attitudini, o le velti per variare le imagini, e produr nello spettatore maggior maraviglia ed affetti più vivi. Con questa regola si pollono ritrovare molti altri confronti nelle cose dell'Eneide colla vita d’Ottavio. Nè par probabile che tanta corriſpondenza sia effetto del caso, attesa spezialmente la sagacità del poeta, e l'idea generale dell'opera. Parte di questa corriſpondenza fa vedere nello scudo d' Enea la seguente illuſtrazione, che si dà intera. Come nell'Iliade d'Omero Teti porge ad Achille uno scudo fabbricato da Vulcano così nell'Eneide di Virgilio Venere porge ad Enea uno scudo fabbricato dallo stesso Dio. Quì non s'intraprende d'illuſtrare ſe non ciò che appartie. ne allo Scudo d'Enea, oſſervando prima generalmente, qual ne foſſe la materia, la faldezza, la figura, l'intreccio e i colori, ed indi particolarmente l' ordine e' i fiti delle coſe ſcolpite, le loro ſtorie, cd allegorie. I'Ciclopi impiegarono nell'armatura d'Enea il rame, l'ac ciajo, l'oro, e l'argento, ma fecero che ivi abbondante più dell'uno o dell'altro metallo ove era biſogno di maggior die feſa, o di più raro ornamento. L'Elmo che dovea abbagliando minacciare i nimici, riſplen dea per la terſezza dell'acciajo, non altrimenti che ſe fiam. me ſpargeſſe. La Lorica era ſcabra per i rilievi del rame e del bronzo, che quanto più maſſicci'ſi fingono, ed incurva ii, tanto più le faette e le ſpade ſpuntavano. Ben è vero che per la miſtura degli altri metalli, i colori della Lorica ſi mi ſchiavano con quei del bronzo e dell'oro, ond'ella riſplende va come un Iride in faccia al Sole. Nell'aſta e nelle ſchinie re abbondava particolarmente l'elettro che è un compofto d ' oro e ' una quinta parte d'argento, ma purgato più volte da'Ciclopi; l'oro nel foco avea ſvaporato l'argento, onde la compoſizione riuſciva più prezioſa, più denſa, ed impene. trabile. Nello Scudov'erano tutti e quattro i metalli tra loro op portunamente fuſi e temperati. I Ciclopi ne aveano appiana ta la maſſa in ſette piaſtre rotonde, che a guiſa dei ſette cuoi attorti dello Scudo d' Ajace implicarono l'une nell'altre, perchè lo Scudo refifteffe a tutte l'armi de' Latini. Miſterioſo era il numero di ſetre appreſſo gli Antichi per la relazione ch'egli avea al numero de Pianeti. Forſe credea no, che gli aſpetti di cucci e ſette influendo nella fabbrica d' uno Scudo gli deffero una tempra immortale. La figura dello Scudo d'Enea era ovale, nè a cid forſe an cora mancava il ſuo miſtero. Gli Scudi ancili chc fi fingea. no 177 no caduti dal Cielo a tempi di Numa, aveano la ſteſſa figura, Or lo Scudo d' Enea non era men celeſte di loro; ed Enea, che doveva portarlo, non ſi fuppone men pio di Numa. I Ciclopi nel fabbricar lo Scudo avendo poſta in opera per comando di Vulcano tutta la loro arte maeſtra, collocarono, intrecciarono, limetrizzarono, e colorirono le figure ſcolpite in maniera, che lo Scudo emulava la reflicura di un arazzo. Nè queſta a mio credere è un'Iperbole poetica, ma un'imi tazione di quell'idee che Virgilio, avea vedute ne'baſi rilievi di Roma, ove ſoggiornava, ed in quelli delle Città della Gre cia, ove per profittarlı dello ſtudio delle bell'arti avea viag giato. A Roma nelle Biblioteche e ne' Tempj ſtavano appeli certi Scudi tutti ſtoriati, e tra gli altri Plinio racconta, che nel Tempio di Bellona Appio Claudio confacrò uno Scudo, ove in picciole figure era rappreſentata tutta la Genealogia dell'antica famiglia de' Claud). Nel conveſſo dello Scudo di Minerva avea Fidia ſcolpita la battaglia delle Amazoni, e nel concavo la guerra degli Dei e de'Giganti. Offerva Plinio, che Fidia, volendo moſtrar l'arte nelle minimeparti, avea elpela ſo ne' Sandali della Dea la battaglia de' Lapiti e de'Centauri, e nella baſe della ſtatua la naſcita di Pandora con quella di trenia Dei. Ne'baſſi rilievi delle lamine che cingevano la ſe dia della fatura di Giove Olimpico, lo ſteſſo Fidia in oro ſcol pito avea, da una parte il sole che conduceva il cocchio, e dall'altra Giove e Giunone; a lato di Giove v'era una delle Grazie, indi Mercurio e Veſta., Venere pareva, uſcir dal ma re, l'Amore l'accoglieva, e la Dea Pito la coronava. Nello ſteſſo baſſo rilievo li vedeva Apollo e Diana, Minerva ed Er; cole, e nel piedeſtallo da un canto Anfitrite e Nettuno, e dall'altro la Luna, che galoppaya ſopra un cavallo. Qual mol ticudine, qual varietà ed intreccio di figure in poco ſpazio? Or è molto verifimile, che come lo Scudo d'Achille diede a Virgilio la prima idea dello Scudo d'Enea, così į baſli rilie vi da lui yeduti a Roma in Atene e in Olimpia gl'inſegnal ſero a perfezionarlo. Nella deſcrizione delle figure ben fi ſcor ge che l'artifizio dell'imitazione, non deriva dagli alerui fan tasmi, ma da un'acurata oſſervazione del ſenſo, che regold la fantaſia del Poeta fino · lo ſpingo oltre la conghiettura, e pretendo che alle figu. se veduce da Virgilio ſcolpite o nell’avorio, o nell'oro, od in altro metallo negli vi applicalle la forza e la leggiadrią Tomo II. 2 de' 3 178 ra 1 1 de colori da lui veduti nelle pitcure encauſtiche: Plioio ne annovera di tre fpezie, e non ſaprei fuggerirne una miglior idea che raſſomigliandole alle picture che vediamo, non dirò fulle porcellane di troppo fragil materia a confronto del me tallo, ma su fmali di più dura tempra, e su vaſi e ſulle cop pe antiche, ove la varietà del colore riſultò dal vario grado del foco, che lor fu dato nel fondere e nel tingere il metal lo. Difficile è proporzionare il grado del foco ad ogni colo re, ma difficiliſſimo ove i colori lieno per conſiſtenza e viva cità differenti, e ſi debba nello ſteſſo tempo abbrugiandoli laſciarli ſecondo il biſogno o floridi, od auſteri, ed a tutti imprimere quello fplendore che ſecondo Plinio non è lo ſtef To che il lume, ma di'mezzo tra il lume e l'ombra, ed è propriamente l'intenſione d'ogni colore nella ſua ſpezie. Il Sig. Abate Fraguier, la cui memoria mi ſarà ſempre ca. offerva, che nello Scudo d'Achille la terra fenduta in folco dall'aratro cangia in nero il color d'oro, che i grappo li d'uva ſono neri e la vigna d'oro, che le giovenche ſono rappreſentate al vivo col bianco e col giallo, cioè collo lta gno e con l'oro, e che veriſſimo è il langue trangugiato da due Leoni che lacerarono il bue. Da ciò inferiſce che l'arte encauſtica fioriva a'tempi d'Omero; ma quando anche i Cro nologi che non convengono dell'età d'Omero glielo conce deffero, molto più debbono elli concedere, che nel tempo d' Omero quell'arte era molto imperfetta a paragone dell'eccel lenza a cui la portarono i Greci nel secolo d'Aleſſandro, e ne’ſuſſeguenti. Le picture de' più celebri artefici encauſtici e rano ſtate portate dalla Grecia a Roma da' Capitani Romani, é poſcia conſecrate ne! Tempi. Virgilio che avea ſotto gli oc chj de'modelli così perfecti, gli ha verifimilmente adombra ti ne ' colori del ſuo Scudo yine queſta ſpezie d'imitazione pud negarſi ad ua Poeta sì doito, e d'on guſto così eſquiſito in ogni genere d'arte • Per reftarne convinti bafta riflettere alla varietà ed armonia de? colori delle figure deſcritte j ai sfuma menti, 0, come parla Plinio, alle commiſſure de culoriftel fi, ai fecreti più mirabili della perſpectiva introdotti negli ac» tidenti delle imagini, e finalmente all'efpreffione degli affec ti de coſtumidegli Uomini rappreſentation La varietà e larmonia de'colori appariſce nell'Oca d'ar gento che vola ne' portici d'oro, ne' flutti biancheggianti per lai fpuma ini un mare cerulco Larrei ſono i colli de'Galli, mentre le loro chiome fon d'oro, e vergate d'oro le veſti; il langue di Mezio è vermiglio e gocciola dalle ſpine che lo no verdi. Per gli sfumiamenti de colori, ed inſieme per l'eſpreſſione degli affetti e de' coſtumi, diverſi nell' arni e nelle veſti fo no i colori de' Barbari condotti in trionfo; il limitar del Tem. pio d'Apollo è bianco come la neve, ma più bianco è lo ſteſſo Dio; Cleopatra è pallida per la morte futura; il Nilo al ſembiante ed al geſto moſtra la doglia che lo crucia e l' impazienza di ſalvare i fuggitivi ſuoi figli. Che dirò della forza della perſpectiva? Parrafio dipinle, al dir di Plinio, il Demone degli Atenieſi vario, iracondo, in giuſto, incoſtante.. Virgilio rappreſenta Porſenna che nello Iteſſo tempo comanda, li ſdegna, e minaccia. Nel Portico a. vanti la Curia di Pompeo era dipinto, ſecondo lo ſteſſo Plinio, un Soldato che non ſi fapea ſe con lo Scudo aſcendeſſe o di Icenderſe. Virgilio fa che i bambini attaccati alle poppe del. la Lupa fieno da queſta alternaniente accarezzati; ciò che il Tallo imirò nelle figure delle porte d'Armida ove Marcanto nio nel ſeguir Cleopatra che fugge, Mirava alternamente or la crudele Pugna ch'è in dubbio, or le fuggenti vele. Ma paſſando a coſe più particolari, io per far meglio in tender l'ordine, l'intreccio, ed i fici delle figure, divido in quattro parii lo Scudo. La prima contiene la diſcendenza d ' Enca fino alla Lupa incluſivamente. La copula o, cioè an cora dimoſtra che tutto era nello ſtello baſſo rilievo. La ſeconda parte contiene molte coſe memorabili fotto i Re e ſotto la Repubblica. La terza la battaglia d' Azio. La quarta i tre Trionfi d'Auguſto. Queſte parti, ſi fanno ſenſibili dividendo l'ovale in quattro altre ovali concentriche che io ſegnerò co'numeri 1. 2. 3. 4. Nello spazio segnato i. ch' è come l'orlo dello Scudo io pongo le figure che rappreſentano i diſcendenti d'Enea anno verati da Virgilio nel primo libro e nel ſeſto: queſti ſono A Scanio, Silvio padre di molci Re, Proca, Capi, Silvio, Enea, i due giovani coronati di quercia, Numitore, e la Lupa che allatra i due bambini. De quindici Re d'Alba, di cui parla 2 2 Dio 186 Dionigi d’Alicarnaſſo e Tito Livio, Virgilio non nomina che queſti, perchè, come egli accenna, furono fondatori di colo. nie, avendo edificato Nomento, Gabia, Fidene, Collazia full? állo d'una montagna, ed il caſtello d'Inuo o di Pane. Fon darono ancora Bola e Cora, e queſte ed altre nominate Cit rà eſſendo nel Paeſe de' Sabini e de' Volſci, avranno dato oc caſione alle guerre e battaglie nello Scudo eſpreſſe. Nel baf ſo rilievo d'Alcanio dev'egli rappreſentarſi a guiſa d’un Ca. pirano o d'un Re che comanda di fabbricare una Città qual era Alba lunga. Altri prendono gli ordini, ed altri gli eſegui ſcono, ed i Soldati ſtanno riguardando l'opra. La pittura d ' Aſcanio è ſulla cima dello Scudo; nella parte oppofta, o nel ballo v'è la Lupa che allatta i bambini, e biſogna rappre ſentaría qual è in molte medaglie. Ne' lati dell'orlo dello Scudo toſto ſi vede un bambino in mano d'un paſtore ch' eſce da una ſelva; lo ſiegue in Re circondato da molti bam bini coronati, indi un Ře che guida un eſercito, un altro che eſpugna una Città, un altro che è in mezzo a Sacerdo ti e a Veltali, molti giovani Re cinti il capo di quercia che combattono e fondano colonie, o su monti, o nelle pianu. se. Nè Tito Livio, nè Dionigi d'Alicarnaſſo parlano in par ticolare di queſte battaglie, onde ſi poſſono ſcolpire a fanta ſia, ma devono eſſer ſcolpice in medaglie appeſe a rami od alle foglie d'un albero genealogico che ſerpeggi nell'orlo. Nello ſpazio ſegnato 2. io pongo da una parte due baſſi ri lievi di forma ellittica, ma incaſtrati di varj fogliami che riempiono i vuoti. Elli rappreſentano il ratto delle Sabine, e la pace cra Romolo e Tazio. Pongo dall'altra parte altri rilievi della ſteſſa forma che rappreſentano Mezio ſquarciato da ' cavalli, e Porſenna che afledia Roma. Nel ſommo dell'ovale ſi vede nelle figure più rilevate il Campidoglio affalito da’Galli, e difeſo daManlio; e nelle più lontane i Salj e le Matrone che eſulcano; nella parte oppo. fta che è la più baſſa dello Scudo v'è il Tartaro con Catili na affiffo allo ſcoglio, e ſopra il ſotterraneo (chiamato da Vir gilio la bocca profonda di Dite ) verdeggiano gli Elisj, ove Catone dà la legge all'anime pie. Le figure di queſto ſpazio ſono maggiori di quelle dell' orlo perchè le parti più vici ne al centro dello Scudo ove fi fogliono diriger i colpi, devo no eſſer più maſſiccie per più reliftere. Lo ſpazio è percid maggiore Nel i 81 5 Nello ſpazio ſegnato 3. v'è la battaglia d' Azio. Apollo ſaettante è ſul Promontorio, ove Auguſto gl’inalzò un Tem pio. Le navi d'Auguſto ſono alla deſtra ſchierate in arco; nel deftro corno v'è Augufto colla ftella in fronte e co' Pe. nati in mano, nel finiftro Agrippa cinto le tempia della co rona roftrata. Dirimpetto vi fono le Navi torreggianti d'An tonio. Secondo Plutarco, Antonio con Publicola reggeva il corno deſtro, e Clelio il ſiniſtro. Cleopatra è nel mezzo in atto di percuotere il fiftro, ſtromento dedicato ad Ilide che Cleopatra voleva emulare in curto. Tra i due ſemicerchi del. le navi ve ne ſono alcune diſtaccate che tra loro combatto no. Soggiunge Plutarco, che Ceſare non ſolamente non or dina ferir le prode dure e ferrate d'Antonio, ma nè anco inveſtirle per fianco, perciò che gli ſproni facilmente ſi ve nivano a romper urtando nelle cravi quadre incaſtrate infie me col ferro: Era dunque queſta battaglia (ſegue egli) mol to ſimile a una giornata per terra, anzi piuttoſto all'aſfalco d'una Cicà. Perciocchè tre o quattro navi di Ceſare com battevano intorno a una nave d'Antonio con partigiane, piche, e con fuoco. D'altra parte gli Antoniani ftando ſulle gabbie di legno traevano dardi e pietre contro i nimici. Così ap punto Virgilio rappreſenta le navi che combattono. Sulle navi di Cleopatra vi ſono i Dei moſtruoſi d'Egitto, in atto di ſaettar Neituno, Venere, Minerva, che ſtanno ſulle navi d'Auguſto, e contro alle quali egli diſſe al Senato che Antonio avea moſſo la guerra, non meno che contro al. la Patria. Marre è in  mezzo della batcaglia, la Diſcordia, e Bellona, ed in aria ſtanno le Furie. Tutto ciò è ſotto la fi. gura del Campidoglio o nella parte ſuperior dell'ovale, men tre a'lari ſono le navi ſchierate. Nella parte inferiore vi fo no le navi di Cleopatra che fuggono ſpinte dal vento Japiga, che ſoffia dal capo di Salentino; non lungi è la figura del Nilo, che allargà la veſte, e chiama i vinci a ricovrarli ne? ſuoi naſcondigli: egli è d' una figura giganteſca appoggiato ſull'urna che verſa i ſette fiumi nel mediterraneo, nel reſto dello ſpazio ſi diffonde il mare coi delfini che ſcherzano. Le figure di quello ſpazio ſono maggiori per la ragione ſopraccen nata, ed è maggiore lo ſpazio ſteſſo. Nello ſpazio ſegnato 4. vi ſono eſpreſli i tre trionfi d'Au guſto. Egli trionfo, dice Svetonio, in tre giorni l'uno dietro all'alcro; la prima volta per la vistoria Dalmacica, la ſecon da 4 182 1 da per l'Aziaca, e la terza per l'Aleſſandrina. Dione Caffio particolareggia i trionfi. Trionfo Ceſare, dic'egli, il primo giorno de' popoli Pannoni, Dalmatini, Japidi, ed altri loro circonvicini, e d'alcuni popoli della Gallia e della Germania ancora, perciocchè Cajo Carina avea già vinti e ſoggiogati i Morini e gli alıri popoli appreſſo, che nella ribellione da lo. Fo fatta gli erano ſtati compagni, ed oltre ciò avea dato una rolta a'Svevi, ed a quelli che aveano già paſſato il Reno; laonde ed egli e Ceſare feco rappreſentò il Trionfo percioc chè la vittoria folevaſi attribuire ſempre all'Imperatore, e l' Imperatore era Ceſare, è teneva in mano il governo di tut, 10. Il ſecondo giorno Ceſare rappreſentò il Trionfo della bat taglia fatta al promontorio d' Azio nel mare. Il terzo poi dell'Egitto ſoggiogato. Le ſpoglie in queſte guerre acquiftare furono baſtanti ad ornar tutto l'apparato di que' Trionfi; quel. Je però d'Egitto avvanzavano di gran lunga curti gli aliri ap parati d'ornamenti di ricchezza e di rarità; tra l'altre coſe vi fi vedea Cleopatra fteſa ſopra una colore in alto di morire, onde in un cerio modo queſta Reina era condotta in trionfo cogli altri prigioni, tra'quali v'era Aleſſandro ſuo figliuolo, e Cleopatra fua figliuola chiamati da lei col nome del Sole e della Luna. Gl’interpreti fi vanno inutilmente affaricando a cercar le ragioni della qualità de'prigioni, e particolarmente perchè ne' cocchi ſi vedeſſe l'imagine dell' Eufrate e dell’A. raſſe fiumi dell'Armenia e della Meſopotamia non conquiſtati da Auguſto. Il P. Arduino nelle ſue rifleſioni fopra Virgilio non ritrovando queſte vittorie d'Auguſto ne trae degli argo menti diſavantaggioſi all'Eneide. Io non perderò inutilmente il tempo a riſpondergli in particolare. Ciò che poſſo dire a coloro che ammettono l'autorità di Dion Callio, è far loro oſſervare, che Antonio dopo aver chiamara Cleopatra Reina dei Re, Ceſarione Re dei Re, ed aggiunto alla loro giuriſdi. zione l’Egico, donò la Siria a Tolomeo, e lutte le Provin cie di quà dall'Eufrate fino all'Elleſponto; donò l'Africa fino alla Cirenaica a Cleopatra, ed al fratello di coſtoro chiama to Aleflandro dond l'Armenia con tutto il rimanente del pae fe al di là dell'Eufrate Gno all'Indie. Or non è verifimile che Auguſto da cutti queſti Paeſi fcieglieſſe de' prigioni, che egli doveva aver fatti o nella battaglia d'Azio, o nella ſcon fiila data ad Antonio in Aleſſandria? Quanto al Reno, Agrip pa l'avea paſſato nel 717. nė fi curò del Trionfo, ma egli è pro. 183 probabile che Auguſto voleſſe che Agrippa trionfare ſeco co me Cajo Carina. Non v'era. ſegno d'amicizia e d'onore che non gli deſſe, perciocchè oltre la corona roſtrata, con cui lo fregið dopo aver vinto Seſto Pompeo in Sicilia, volea ch'egli avelle una cenda e l'altre inſegne militari ſimili a quelle dell' Imperatore, e, come dall'Imperatore, da lui ſi prendeſſe il ſegno della milizia, ed egli era in forſe di dargli per moglie Giulia: canto grande, gli diſſe Mecenate, tu faceſti Agrippa, che o biſogna ucciderlo, o ch'egli ſia tuo Genero. Dopo il Trionfo Auguſto inalzò molti Tempj; uno ad A. pollo ſecondo Svetonio ſul monte Palarino, al quale aggiun ſe una Loggia con una Biblioteca Greci e Latina; un altro ne edificò a Marte vendicatore per il voto fatto nella guerra contro Bruto e Caſſio per vendicare il Padre, ed un altro a Giove Tonante nel Campidoglio. Secondo Dione egli ancora conſecrò il Tempio di Minerva, ornò il Tempio di Giulio ſuo Padre ſoſpendendovi molti e molti doni della preda por tata d'Egitco, e molti ne conſecrò ed offerſe a Giove Capi. tolino, a Giunone, a Minerva. Non è da traſcurare che po fe l'imagine della vittoria ſecondo Dione nel Tempio di Mi nerva, e ſecondo Plinio nel Tempio del Padre Celare, il qua le era nel Foro; aggiunge Plinio, che vi poſe ancora i Ca ſtori che forſe ſimboleggiavano Auguſto ed Agrippa, nel pri mo libro aſſomigliati da Virgilio a Romolo ed a Remo, come interpreta Servio. Poſe ancora Augufto nel foro due quadri, uno della guerra, e l'altro del Trionfo; e s’io non m'ingan doveano queſti rappreſentare coſe alluſive alla battaglia d' Azio, ed ai trionfi dello ſteſſo Ceſare. Comunque la coſa ſia, ove è il centro dello Scudo che è la parte più alta, io pongo la Cupola del Tempio d'Apollo, alle cui porte Augufto affig ge le corone d'oro che erano i doni offertigli da’ Popoli dalle Provincie confederate. Tutto all'intorno vi ſono le are e gl’incenſi colle vittime, e quindi la pompa e la lecizia del trionfo. In quel giorno che Auguſto entrò in Roma, dice Dio ne, gli fu conceduto un Arco nella Piazza di Roma, e in o nor di lui li celebrarono i giuochi quinquennali, e gli anda rono incontro le Vergini Veítali, il Senaco ed il Popolo, colle mogli, e il figliuoli: mi par ſoverchio (ſoggiunge Dio. ne ) di raccontar i voti e le imagini ed altre coſe fatte per lui · La pompa del Trionfo conſiſte ne' prigioni Nomadi, o Numidi, Affricani, Lelegi, Cari popoli dell'Alia minore Ge no, e 184 Geloni ſpezie di Sciti, Morini popoli della Gallia Belgicà fi tuati verſo l' Oceano Britannico. Tra queſti vi ſono molti cocchi colle imagini dell'Eufrate, del Reno, e dell'Araffe col ponte che Auguſto vi fabbricò. Tali ſono i baſli rilievi e le figure di tutto lo Scudo; elle s'ingrandiſcono a proporzione ch'egli ſi va rilevando, e le miniature devono render ſenſi bili i colori di cui ſono in Virgilio dipinte. I colori domi nanti ſono il giallo e il bianco che rappreſentano l' acciajo ed il rame. Marte però deve eſſer dipinto con un colore fer rigno, o fia di ferro, non raffinato in acciajo; diverſi ſono i gradi de colori o floridi od auſteri che biſogna lumeggiare ed onibreggiare; ma ſopra tutto convien dar alle figure lo ſplen dore, o ſia quel grado vigoroſo di colore di cui s'è parlato. Spiegato in queſta maniera ciò che concerne la parte ma teriale e ſtorica dello Scudo, egli è tempo di ragionare delle relazioni che le figure hanno ad Auguſto, al quale tutto il Poema è diretto, come a lungo eſpoſi nell'altra diſſertazione. Biſogna quì ricordarſi che l'adulazione, ingegnoſiſlima nelle fue compiacenze, or impiega le lodi dirette e manifeſte, or l'indirette ed occulte, ſecondo che l'une e l'altre per le cir coſtanze fono più grate a colui che fi loda. Lodar Augufto per la ſua ſtirpe, lodarlo per la vittoria che gli diede l'Imperio, e per i tre trionfi, ne' quali fece tanto riſplender la ſua pietà, erano lodi che Auguſto fonima mente defiderava che ſi pubblicaſſero, onde eſſo poteſſe ritrar: ne più venerazione ed ubbidienza. Conviene a parte a parte moſtrarlo. Giulio Ceſare nel far l'Orazione funebre in lode di Giulia ſua Zia: La firpe materna, diſſe, di Giulia mia Zia ha origi ne dai Re, é la paterna è congiunta cogli Dei immortali, im perciocchè da Anco Marzio derivano i Re Marxj del cui nom fu mia Madre, da Venere i Giulj della cui gente è la noſtra Fa miglia. Trovaſ dunque nel ceppo antico della caſa noſtra la fantità dei Re la quale appreſſo gli Uomini è di grandiflima autorità e la Religione degli Dii nella podeſtà de' quali ſono el Re. Sin quì Svetonio. Non potea dunque che molto pia. cere ad Augufto che Virgilio noftraſſe e nel primo enel ſe fto e nell'ottavo che nella ſua genealogia verano i Re, gli Dei, e gli Eroi. Virgilio dice nel primo libro: il giovine A ſcanio che porta oggidiil cognome di Giulio e che ſi chiamava Ilo, mentre Ilio era in piedi, governerà Lavinio per trent'anni 1 in. 185 intieri etraſporterà la sede del Regno in Alba lunga di cui faa rà una forte Città. Nel feſto egli dice: uſcirà dal ſangue Tro jano miſto all' Italico Silvio ſuo figlio poſtumo che perpetuerd in Alba il ſuo nome, e ſarà egli fello Re e padre di molti Re,. per lui la noſtra ftirpe dominerà in Alba. Virgilio ſcaltro nul la parla delle guerre che ſecondo Dionigi d'Alicarnaſſo vi fu rono tra Giulio figliuolo d'Aſcanio e Silvio, e molto meno che per i ſuffragj del popolo ſi deſſe a Silvio il Regno che apparteneva a ſua madre, ea Giulio per contentarlo la fo vranità ſulle coſe della Religione, per cui, ſoggiunge Dionigi, la Famiglia Giulia ha goduto fin al mio tempo del ſovrano Pontificato, e s'è chiamata Giulia a cagion d' Julo da cui u ſciva. Io non so accordar queſto paſſo di Dionigi d'Alicarnaſ ſo con quell'altro di Plutarco e di Svetonio, ove ſi vede che Giulio Ceſare non per dricco di ſangue, ma per i ſuffragidel popolo in competenza di Catulo ottenne il ſommo Pontifica to. Laſciando cid, baſta quì oſſervare, che Virgilio confonde Aſcanio con Silvio figliuolo di Lavinia e gli altri diſcendenci da lui, poichè dice, che v'era ſcolpita tutta la ftirpe d'Enea cominciando da Aſcanio. Io così interpreto quel Ab Aſcanio. Di tutti queſti Re e di queſti Eroi Virgilio nefa come del le imagini trionfali, che pone nell'orlo del ſuo Scudo, come negli atrj delle caſe de' Romani ſi poncano le imagini degli Avi loro, ſulle quali Giuvenale e Plinio fanno sì gravi riflet fioni intorno al biasmo ed alla lode de' diſcendenti. Ciò ba fi intorno la lode manifeſta della ftirpe d'Auguſto. Palliamo alle lodi indirette. Nelle medaglie, ove fi legge Reft. o reſtitui, ſi vede l'ima. gine o d'un Bruto, o d'un Coclite, o della libertà, o d'al tre coſe alluſive alle azioni celebri de' Romani antichi, che gl' Imperatori Romani aveano imitate o reftituite. Il P. Ar duino vuole che queſte allegorie nelle medaglie cominciaſſero ſotto Tito, di cui ſi contano fino 22. medaglie di queſta ſpe. zie e terminaſſero ſotto Trajano, di cui ſe ne contano 24. ma non, perchè queſte medaglie non ci reſtino, ſi può dedur che ſotto gli altri Imperatori e particolarmente ſottoAuguſto, che vantavafi d'effere il difenſore della libertà del Senato e dei popolo, l'adulazione non aveſſe inventate l'allegoric; certo è almeno, che con queſt'ipoteſi ſi rileva il ſenſo del ratto del. le Sabine, e della pace ira Tazio e Romolo. Prima che Planco determinaffe il Senato a dar ad Occavio Tomo II. il 186 9 il nome d'Auguſto, molti volcano che ſi chiamafle Romolo. In fatti Auguſto l'imicava non ſolo nella fondazione d'un nuovo Impero, ma ancora in molte circoſtanze della ftella fon dazione. Come Romolo col ratto delle Sabine avea provvedu to al mantenimento della Città, così Auguito con la legge di maricar gli ordini che Orazio chiama legge Marita; due ne fece Auguſto., la prima nell' anno 736. e ſi chiamava legge Giulia, e l'altra dell'anno 762. e li chiamava legge Popea perchè fatta ſotto i Conſoli Sulpizio e Popeo. Con queſte leg. gi fi rinovarono l'antiche rammemorate da Cicerone e da Aulo Gellio, e Dion Caſſio merte in bocca d'Auguſto una lunga arringa su queſta materia al Senato, nella quale dopo d'aver cogli eſempj delle nozze degli Dei eſaltato il vantaggio e la giocondità de'figli, l'utile della Repubblica, e il biasmo di viver ſenza moglie, gli fa dire: Romolo autor noftro, e da cui diſcendiamo, non li ſdegnerà con tagione conſiderando il fuo naſcimento e i coftumi introdotti? Orazio nel Carme ſecolare lodando per queſta legge il Se nato obliquamente loda Auguſto; ma Virgilio nella lode obli. qua involge l'argomento del minore al maggiore come s'egli diceffe: fe tanta obbligazione hanno i Romani a Romolo che con una violenza provvide al mantenimento della Città, mol to maggior obbligazione i Romani hanno ad Auguſto che ſen. za danno de' vicini vi provvide con una legge si ſaggia. Romolo dopo le guerre con Tazio ai rapacificò ſolennemen. te con lui, e diviſe feco il Regno; ed Auguſto dopo molte guerre con Marcantonio conciliatoſi ſeco per l'opera de' co muni amici diviſe l'Impero, del quale il termine ſecondo Plu tarco era il Mar Jonio. Tutta la parte, dic'egli, verfo Levan te fu conceſſa ad Antonio, e l'alira verſo Occidente a Ceſare. Pegno della pace fu Ottavia maritata ad Antonio, e certamente ella è rappreſeatata nella vittima che ſi ſcanna nella ceremo nia del giuramento tra Romolo e Tazio: ne deve far difficol tà il noine della vittima, poichè tutto ciò che li confacrava agli Dei era fanto, e la Scrofa è ſtata ad Enea d'indizio del paeſe che ricercava. La pittura di Mezio non è meno allegorica; egli tradi Tul lo Oſtilio come Antonio tradì la Repubblica, e tradi Ottavio con la guerra che all'uno ed all'altra intimo per far piacere a Cleopatra. Mezio ne fu ſquarciato a viſta di Tullo; ed An. tonio fu coſtretto a darſi la morte quafi agli occhi d'Augufto. An 187 Antonio mentre s'incamminava al ſepolcro ove s'era rinchiuſa Cleopatra, andava verſando il ſangue per le Atrade come ap punto il corpo di Mezio per la ſelva. Non ſi potevano eſpri mer da Virgilio coſe sì delicate che in un quadro allegorico, Due volie, dice Svetonio, entrò Auguſto in Roma vitto rioſo e ſenza trionfare, una, poichè egli ebbe vinto Bruto e Caffio ne'campi Filippici, l'altra avendo vioto Seſto Pompeo in Sicilia; il che moftra, qual foſſe la modeſtia politica d ' Auguſto; queſta ſteſſa egli usò con Marcantonio del quale e gli non crionfo, ma di Cleopatra, come ſi può raccoglier dal Trionfo deſcrito da Dion Callio. Egli ſollevò i figliuoli d' Antonio alle prime dignità, nè col moſtrar odio e vendetta con Antonio dopo ch'egli era morto voleva offender Octavia a cui era ſempre grata la memoria del marito. Orazio e Vir gilio ben ſapendolo non mai parlarono di Marcantonio ſc non mettendolo in compagnia di Cleopatra su cui fecero ca der l'odio e la colpa; ma nel tempo ſteſſo, conoſcendo forſe che Auguſto ſi compiaceva, che negli animi de' Romani non ſi ſmarriſſero l'idee di quanto avea fatto contra Marcantonio per la finta difeſa della libertà, eſli procurarono di maſcherar ne l'azioni con l'allegoria, della quale Auguſto poteva abba ſtanza intenderne il ſenſo, e non offenderſi i partigiani d'An tonio per le varie interpretazioni che poteano darle. Nelle mie note su l’Odi d'Orazio io ſpiego con ciò molte coſe in intelligibili ſenza queſta ſuppoſizione, nè ſarà diſcaro che ne moſtri l'uſo nelle ſtorie di Porſenna e di Manlio ſcolpite da Virgilio nella ſeconda ovale dello Scudo. Porſenna voleva riſtabilire in Roma la tirannia traſportan dovi i Tarquinj, e nonmeno Antonio voleva riſtabilirla tra ſportandovi Cleopatra. Se Antonio, dice Dione, foſſe ſtato ſuperiore e ſignore del tutto, era per dare a Cleopatra la Cit tà di Roma; è poco dopo ſoggiunge, che Cleopatra era venu ta in ſperanza d'acquiſtar l'Impero Romano, e che quando al cuno le dimandava giuſtizia, ella riſpondeva che gliela fareb be in Campidoglio:al che pur allude Orazio nell'Ode 37. l. 1. dicendo ch'ella era ebbra di folli ſperanze non meno che di vino mareorico. Io non so ſe troppo raffini nel ritrovar in Clelia che ſi falva a nuoto, Ottavia che al dir di Plutarco eſce precipitoſamente dalla caſa d'Antonio; ma certamente Coclite che rompe il ponte è un ſimbolo d'Agrippa che con la vittoria navale interrompe l'avvanzamento d'Antonio. AQ 2 Tito 188 Tito Manlio è difenſore della libertà del Campidoglio con tra i Galli, come Antonio fu difenſore della preteſa libertà contra Caſſio e Bruto e gli altri nimici di Giulio Ceſare. Non mancarono, dice Plinio, i fregi delle coſe militari in Manlio Capitolino, ſe non gli aveſſe perduti nell'eſito della vita; e Tito Livio ſoggiunge, che lo ſteſſo luogo nell'Uomo ſteſſo fu un monumento e d'inſigne gloria e di ultima pena. Anto nio difeſe il popolo Romano ne' Campi Filippici, e il popo lo Romano in Azio ed in Aleſſandria l' inſeguì e fu cagione della ſua morte. I Salj ed i Luperci eſultano, e le matrone ne loro cocchi agiati conducono le coſe ſacre per la Città per dimoſtrare che non ſono ammeſſe in Roma le ſuperſtizio ni Egiziache, abborrite eſtremamente da' Romani ne'cempi d ' Auguſto e di Tiberio. Catilina tormentato nell' Inferno non moſtra egli le pene dovute a Marcantonio? e per la ragion de contrarj quante lo di meritava Auguſto per la ſalvata libertà? In grazia di que fta ſoffriva Augufto che fi lodaſſe Catone Uticenſe. Orazio nell’Ode 12. c. 1. lo mette tra gli Eroi di Roma. Loderò di Caton la nobil morte? Il P. Catrou pretende, che il Catone che negli Elisj dello Scudo dà legge agli ſpiriti, non fia altrimenti Catune Uricen ſe, ch'era troppo odioſo a'Ceſari, ma Catone il Cenſore, di cui dice Seneca, che tanto giovo co'ſuoi coſtumi al popolo Romano, quanto Scipione colle ſue guerre. Il P. della Rue é per il Carone Uticenſe, ma non ne aſſegna la ragione, la quale è manifefta, ſe ſi riflette al paſſo di Taciro da me nell' alıra diſſertazione addotto e che qui ancora ſoggiongo, perchè cgli moſtra quanto Ottavio fi vantafle, come Cromuello fece a' noſtri tempi, di paſſar per difenſore della pubblica libertà. Tito Livio (così fa dir Tacito a Cremuzio Cordo in Senato ) chiariffimo tra tutti gli Scrittori e per eloquenza e per fedel tà, celebrò con tante lodiGnco Pompeo che Auguſto lo chia mava Pompejano, nè perciò gli fu meno amico. Nelle Opere di Aſinio Pollione (cui Virgilio dedicò l'Egloga terza ) li fa onoratiflima memoria di Callio e Bruto: Meffala Corvino pre dicava Caffio per ſuo Imperatore, e l'uno e l'altro viſſero lun. gamente pieni di ricchezze e d'onori, ed Auguſto, non ſi sa le con maggior lode di manſuetudine o di prudenza, laſciò 1 cor 189 correr le lettere d'Antonio, e l'orazioni di Bruto, che molto lo diſonoravano; nel che forſe volle imitar Ceſare Dittatore che tollerò i verſi di Bibaculo e di Catullo, ed al libro di Marco Cicerone nel quale s' inalza Catone al Cielo, riſpoſe perorando come ſe foſse avanti i Giudici. Con queſto paſſo di Tacito ſi può dar la ragione per la quale Virgilio ed Ora zio non temerono, dedicando l'Opere loro ad Auguſto, di no. minar Giunio Bruto, Marco Bruto, e Callio, Catone, e Pom peo. Maquale ſcaltrezza cortigianeſca v'è in Virgilio nell' introdur Catone a dar legge agli ſpiriti? Par, ch'egli accen ni, che Carone meritava ſolamente grado in quella Repubbli ca ideale di Platone, la quale ſecondo Cicerone egli cercava nella feccia di Romolo. Ed ecco ciò che dovea dirſi intorno alle lodi indirette ed allegoriche. Le figure del quarto e del quinto ſpazio contengono lodi di rette, perchè cuite ripiene delle coſe di cui si compiaceva Auguſto che i Romani continuamente acclamaffero. Egli ſteſ ſo, come ſi diffe, avea nel Foro di Ceſare conſecrata l'ima gine della battaglia, e del Trionfo, nè io dubito punto che Virgilio ne aveſſe eſpreſli i tratti della pittura nello Scudo in quella guila, che nel primo libro nel rappreſentar il Furore alliſo ſopra i trofei e con le mani annodate al tergo imita la pittura ch'era nel Tempio di Giano. Tutto poi nella deſcrizione e della battaglia, e del Trion fo, è diretto alla lode d'Auguſto. Nella battaglia, Auguſto è coi Padri, col Popolo, coi Penati, e co'magni Dei, ed ha in fronte la ſtella paterna; ciò ſignifica, che la guerra era in trapreſa per la libertà del Popolo, del Senato e coll'alliſtenza di Giulio Ceſare già Deificato. All'incontro Antonio non ha ſeco che de' Barbari, ed un'effeminata Reina; Auguſto è di feſo da Venere genitrice, da Minerva, e da Apollo, Dei del la prudenza e del conſiglio, e da Nettuno, che gli era ſtato favorevole nelle guerre in Sicilia contro Seſto. All'incontro Antonio non ha ſeco che Dei moſtruoſi ed odiati da' Romani. Quanto cgli deſcrive più feroce la pugna, tanto maggior mente eſalta il valore d'Auguſto e d' Agrippa, ch'egli ſempre accompagna per le ragioni di ſopra accennate. Le Furie e la Diſcordia con Bellona liriferiſcono a Cleo patra; ma qual mai v'è ſagacità poetica nell'accennare la fu ga e la morte di queſta Reina? Mentre ella ſuona il filtro non vede i due ſerpi che la minacciano alle ſpalle; ella con fida iyo fida in vano nelle forze dell'Egitto, e in vano tenta di rifu. giarſi nelle più occulte ſpiagge delNilo. Tutto allude al.con higlio ed alle azioni di Cleopatra. Perchè poi Virgilio non nc introducefle nel Trionfo l'effigie, e tra i prigioni non poneſ ſe i figliuoli di lei, la cagione n'è forſe ſtata il timore d'ec citar nell'animo altrui con queſte imagini qualche grado di ammirazione e di compaffione, e perciò ſcemar in parte la lode d'Auguſto, e tra l'altre quella della pietà. Ne'gran Poe. ti biſogna egualmente riflettere e a quel che dicono e a quel che tacciono, onde molto male s'argomenta dalla Poeſia alla Storia, e dalla Storia alla Poeſia, quando non s'attende al fi ne a cui tutto vuol accomodare il Poeta. Il fine delle figure ſcolpite nei vari ſpazi dello Scudo ha relazione al fine gene rale dell'Eneide. Le figuredel ſecondo ſpazio riguardano il ſenno d'Auguſto, le figure del terzo il valore, le figure del quarto riguardano la ſua pierà. Queſte ſono le tre virtù do. minanti dell'Eneide. Dionigi d'Alicarnaſlo, che ſcriveva nel tempo d'Augufto, le ſtabiliſce come neceſſarie ai fondatori d ' un Impero, e Virgilio vi fabbrica ſovra l'Eneide. Molte altre coſe io potrei addurre intorno l'artifizio poeti. €0, la chiarezza, e la brevità, colla quale Virgilio in sì po chi verſi eſprime tante coſe, nè mai per oftentazione o d’in. gegno o di dottrina o d'erudizione, maſempre relativamente al diſſegno del tutto e delle parti, ciò che deve ſervire a' Poe. ti moderni di precetto e d'eſempio.  atentat nesatentratata L A ſecca della Filoſofia Italica fondata da Pitcagora ebbe nome e ſede nella Magna Grecia, tra le cui Provincie fu per l'eccellenza de'Filoſofi, che vi fiorirono, celebre la Lucania, ed in queſta la Città di Velia, o d'Elea così denomi nata dal fiume che l'irrigava. Quivi Senofane di Colofone, Cit tà della Jonia nell'Alia minore, ſtabilì e perfezionò la fecta, che dalla Città d'Elea fi diffe Eleacica, e meritò d'avere tra gli al tri diſcepoli Parmenide nato di Pireto, e quel Filoſofo grave e venerabile, che con Zenone paſsò in Atene, ove tenne la con ferenza con Socrate eſpreſſa in queſto Dialogo. Ora avendomi propoſto io d'illuſtrarlo nella ſua parte ſtori ca e Filoſofica, credo diſoddisfar quanto baſta al mio impegno ſe prima tento d'accordar l'erà controverſa dei tre Filoſofi nomi nati, indi ſe della dottrina Eleatica ſpiego l'origine e l'effetto, o la Filoſofia Pittagorica, e la Platonica; finalmente ſe mi fer punto che Platone in queſto Dialogo n'eſpoſe, e dichiaro l'artifizio filoſofico, e poetico dello ſteſſo Dialogo. lo difli, che Senofane ftabili, e perfezionò la ſecca Eleacica perchè Platone dice nel Sofiſta, la gente d ' Elea incomincia appref ſo di noi da Senofane, anzi da più antichi, i quali non poteano eller che Talete, o Pittagora, oi difcepoli loro; non regnando, allora alıra Filoſofia nella Grecia, ſe non l'introdotta dai due fondatori, o profeſſata da i loro allievi. Alcuni però fecero Se nofane poſteriore a Talete, ma più antico di Pittagora, nè fo dove prendeſſero le loro congetture cronologiche, alle quali oltre l'autorità di Platone, s'oppongono le ſcoperte dei due Fi loſofi, e i viaggi loro. Taletecalcolo il primo l' eccliſli lunari, ma come poteva egli calcolarle ſenza conoſcere la propolizione, che Euclide poi fe ce la 47 del primo libro degli Elementi, e di cui s'aſcrive or dinariamente l'invenzione a Pitcagora? I calcoli aſtronomici ſo mo ſul. no (4 ) no dedotti da trigonometrici, principio de' quali è il triangolo rettangolo miſura diſe ſteſſo, e de gli altri triangoli. Pittagora dunque, che l'invento, o fu contemporaneo di Talete, o fiori prima di lui., Io credei, che queſta foſſe una dimoſtrazione in cronologia, finchè in Plutarco (a ) ritrovai che gli Egizj ſimboleggiavano co? tre lati del triangolo rettangolo miſurati da 3, 4, e s le loro principali divinità Ilide, Oliride, ed Oro; aſſegnando ad Oſiri de la perpendicolare, la baſe ad Ilide, e ad Oro l'ipotenuſa; L'antichità del ſimbolo manifeſta quella della cognizione, tan to più che gli Egizi coltivarono l' aſtronomia da poi che eb bero inventato la geometria per miſurare i terreni, e non par veriſimile, che ſenza conoſcere il triangolo rettangolo, il pri mo e il più facile ad immaginarſi de gli altri, poteſſero riu ſcire nella pratica di queſte due ſcienze. V'aggiungo, che fe condo Platone (6.) noci erano, agli Egizi gl' incomenlurabili, la prima idea de' quali naſce dall' impoſſibilità di eſtrar la radice dal quadrato dell'ipotenuſa del triangolo; I lati del retcangolo Pitta gorico ſono i numeri accennati, e queſta è la prova che dagli E giz lo toglieſſe Pittagora, e nello ſteſſo tempo o poco prima l' aveſſe colto Talete, benchè poi Talete ſi contentaffe di moſtrare all'Aſia minore l'ulo aſtronomico della propoſizione, e Pictagora ne deſſe alla Magna Grecia la dimoſtrazione Geometrica, ed è forſe quella regiſtrata da Euclide nel primo libro diverſa dalla 8 del libro 6 dedotta dalle proporzioni delle linee, e che nel progreſſo del tempo Eudoffo, che fiori nel tempo di Placone, portò dall' Egitto col s elemento. Or fe i gradi delle cognizioni dello fpirito umano ſono fema pre gli ftefli, dall'analogie dell' Epoche moderne ſi poſſono de durre le antiche, e particolarmente quelle che hanno relazione agl'inventori de' principjmatematici. Nel paſſato ſecolo ſi trova prima dal Toricelli la Cicloide, e l' Ugenio l'applicò a regola re il moto dell'orologio a pendulo; il Newtono fi limitò all'altrace ta Teoria della luna, e l' Hallejo l'applico a correggere le Tavo le aſtronomiche. La ſeconda congettura della contemporaneità di Pitragora, e di Talete, ſi prende da coſe più facili. Vuol Jamblico, che Ta lete ſcriveſſe una lettera a Ferecide maeſtro di Pittagora, e gli legaſſe certi fcritti morendo, e par che Plinio convenga che i due Filoſofi foſſero ſtati in Egitto al tempo che regnava il Re Amaſi. La queſtione non cade più dunque ne ſu tutto il ſecolo, ne (a) Trattato d'Ilide, ed Oſiride. Nella Rep. e nelle leggi. 1 4 ne ful mezzo ſecolo, ma su l'età dell'uno e dell'altro di pochi anni diſtante; Talete par più vecchio ſe ſcriſſeuna lettera al maeſtro di Pittagora, machi sa poi ſe Pitragora non era allora in Egitto? queſta lieve differenza non toglie però, che ſe Talete' fu più d'un ſecoloprima di Senofane, non lo foſſe ancora Pittagora: Io ritrovo bensì, che Senofane era contemporanco d'Epicar mo, e diEmpedocle. Secondo Timeo lo Storico, Senofane paſsò in Sicilia al tempo di Gerone, ſotto il cui Regno Epicarmo era illuſtre per le ſue commedie, e Plutarco (a) ci conſervò la memo ' ia d'una riſpoſta, che diede Senofane ad Empedocle. Non è facile il determinare, nè qui lo cerco, quanto Epicar mo, ed Empedocle foſſero diſtanti da Pittagora, e quindidà Ar chita Tarentino il vecchio, da Peritione, da Timeo di Locri, da Ocello Lucano, e da altri, che ſi dimandavano Piccagorei (6 ) perchè udirono Pittagora, a differenza deglialtri, che ſi chiamava no Pittagoriſti. Quando cominciò Senofane a ſtudiar la Filoſofia, quella di Ta lete era già diffuſa nella Jonia, e quella di Pittagora nella Magna Grecia,e nella Sicilia; su queſto fondamento altri fecero Seno fane diſcepolo di Anaſimandro, ed altri di Archelao diſcepolo di Anafagora, il quale avea il primo traſportata la Filoſofia dalla Jonia in Atene, ove paffato Senofane ftudiò ſotto (c ) un certo Bottone Ateniere. Dalla povertà cacciato Senofane dalla Grecia, paſsò nella Sici lia e quà s'abbandono alle doctrine Pittagoriche, più delle Joniche conformi all'ingegno di lui acre, e profondo. Dalla Filoſofia Jo nica, e dall' Italica traſſe un nuovo liftema, è meritò ď' effer ca po della ſecta Eleatica primo fonte dell'Accademica, e della Pla tonica, delle quali poi furono rami lo ſcetticismo, e lo ſtoicismo, Nulla ancora s'è fatto, ſe non ſi dimoſtra accordarſi l'ecà di Senofane con quella di Parmenide, e queſta con quella di Socra te. Tralaſciare dunque molte epoche inverifimili, io m'arreſto a quella che aſſegna Timeo a Senofane, ed è che egli fiorille nell'olimpiade 76. Parmenide, ſecondo Laerzio ſeguito dallo Stan lejo, e da altri, fiorì nell' olimpiade 69 diſtante dalla 76 di 7 olimpiadi, che importano 28 anni, calcolando ogni olimpiade per 4 anni compiuti. La voce fiorire è molto vaga o ſteľa nel la Cronologia, perchè non ſempre moſtra, che un Filoſofo fof ſe nel punto più alto della ſua fama, ma che ſolo aveſſe un no meilluſtreacquiſtato. Il Newtono, che cosi rapidamente ſi per fezionò nelle matematiche, fioria del pari in Inghilterra quando ſcriſſe al Leibnizio la lettera in cui gli dichiarava lo ſvi luppo, (a ) Plut. de vit.pud. (6) Patr. diſcuſs. prop. 1. 6. (c) Laerzio vit.di Sen. (6 ) 3 8 luppo, e l'uſo del Binomio eſaltato ad una potenza indetermi nata, e nell'anno 1716 in cui molte coſe aggiunſe al ſuo libro de' colori, e n'illuſtrò molte altre nei principj naturali della Fi loſofia matematica, Senofane, che lo Scaligero fa vivere 104 an ni, ed altri almeno fino a 100, potea fiorire in olimpiadi mol to diftanti, perchè per la forza della ſua mente facilmente riu fcendo nelle fue applicazioni, in breve acquiſtava fama di lomme Filoſofo, e la ſua fama tanto più ſpargeali per le bocche degli Uomini, quanto egli abbelliva le ſue meditazioni filoſofiche con la Poelia per farle ricercare, e leggere con più d'avidità. Parmenide fece i ſuoi ftudi in Elea (a ) ſotto Amenia, e Dio cheta Pictagorici, i quali lo riduſſero a laſciar le ricchezze, ecol tivar la vita privata, e darſi tutto alla Filoſofia. Biſogna dun que che in eſſa molto riuſciſſe, o la Filoſofia foſſe la paſſione, che più lo dominava, ſe nato de' più ricchi, e de’più nobili di Elea ebbe tale coraggio; ma ciò molto applauſo dovea avergli acquiſtato appreſſo de'ſuoi Cittadini, ſe fin d'allora cominciarono a celebrarlo in guiſa, che al dir di Ermipo Empedocle l'emuld. Nulla vieta il ſupporre, che Empedocle avelTe molto ſoggiornato in Elea, e poi foſſe ritornato in Agrigento ſua Patria. In Elea era ſtato emulator di Parmenide doctiſſimo nelPittagoriſmo, e lo fu in Sicilia di Senofane, che lo profeſſava con qualche cangiamento', dopo gli anni 28 che è l'intervallo frappoſto tra l'olimpiade 69 e 76. Paſso Senofane in Elea, ed ivi Parmenide conſecrato agli ſtudi corſe ad udir Senofane, come i giovani nobili, e ben educati ſo leano far nella Grecia, quando nelle loro Circà udiano entrar un Filoſofo illuſtre, e che potea inſtruirli in qualche nuovo liſte ma, del che chiari gli eſempi ne vediamo nel Protagora, nelGor gia, ed in altri Dialoghi di Platone. Quando Parmenide udi Se nofane, queſti poteva eſfer molto vecchio; ma qualunque età dia ſi a Senofane, mi baſta, che nel pricipio dell' olimpiade 76Parme nide imparaſſe da lui il fiſtema dell'uno immobile, e non aveſſe allora che 36, e ancor 40 anni, la ſteſſa età che avea Zenone quando diſputò con Socrate in Acene. Socrate nacque al fine dell'olimpiade 77, ed avea 4 anni com piuti o 5 anni cominciati, quando nella noſtra ipoteſi Parmeni de ne avea 40. Se zo anni dopo ſi fuppone, che Parmenide con Ze none paſlaffe da Elea in Atene, come vuol Platone, non avea che 60 anni, e Socrate che 25, onde era egli molto giovane relativa mente a Parmenide. Semplici, e al fommo veriſimili ſono queſte ipoteſi degli ſtudi, 1 e dei (a ) Laerzio vita di Parmenide. 1 (7 ) e dei viaggi dei due Filoſofi, e ſe s'accordano facilmente con le olimpiadi, perchè oftinarſi a rigettarle, e rinunziare all'au corità di Platone, che potea molto meglio al fuo tempo cono fcere l'epoche dell'era filoſofica, che non ſi conobbero 6oo an ni dopo, e ben più? Le circoſtanze, con cui Platone accompagna l'abboccamento di Socrate con Parmenide, accoppiano in guiſa alla verità del fatto la veriſimiglianza ſtorica del Dialogo, che pare non do ver laſciarſi alcun ſoſpetto. Io le eſtrarro dal Dialogo. Parmenide, e Zenone fuo diſcepolo favorito o fuo figlio a dottivo abitavano fuor delle mura di Atene in caſa di un cer to Pitidoro. Nelle ſolennità de grandi Panatenei, itofene So crate a ritrovar Parmenide, ritrovò folo in caſa Zenone, e comia cid a diſputar feco fu l'idee. Entrato poco dopo Parmenide in caſa con Pitidoro, ſi proſeguì la diſputa incominciata alla pre fenza di molti, tra' quali Ariſtotele non lo Stagirita, ma uno dei 30 Governatori, o Tiranni di Atene. Tali ſono le circo ftanze del luogo, del tempo, e dei teſtimoni della diſputa. Socrate non avea allora che 25 anni; or eſſendo egli mor to nell'età di 72 anni, dall'abboccamento alla morte non vi fo no che 47 anni di diſtanza, e tanti appunto o pochi più dall' abboccamento al Dialogo, ſe Platone lo ſcriffe dopo la morte di Socrate: ma poniamo che l' aveſſe compoſto anche 20 anni dopo; la memoria di un Uomo così illuſtre qual era Parmeni de non potea più ignorarli in Atene, di quel s'ignori ora a Parigi la dimora che vi fece il Leibnizio, e l'Ugenio, e le di fpute che ebbero nell' Accademia reale. Alle verilimiglianze ſtoriche s'aggiungono le poetiche necef ſarie all' ornamento del Dialogo, che è una ſpecie di Poeſia Dramatica: così lo teſse Platone.: Cefalo per bocca di Antifone ſuo fratello uterino, e figliuo lo di Pirilampo, racconta ad A dimanto, e Glaucone, tutto ciò che avea udito da Pitidoro fu la diſputa che ebbero Zenone pri ma, e poi Parmenide con Socrate. ' Antifone avea converſaco familiarmente con Pitidoro compagno di Zenone, ma poi laſcia ta la Filoſofia coltivava l'arte equeſtre, e quando Cefalo ad in ſtigazione de' compagni andd a ritrovarlo, egli dava certo fre no ad accomodare ad un fabro; circoſtanza che io credo finta per dar rilievo al racconto, é fiffar la fantaſia del lettore con qualche coſa di ſtrano. Par toſto che Antifone occupato in un volgare eſercizio, non debba favellare ſe non di coſe volgari, nè mai s' aſpetta, che egli ſia per ſalire nell' ultime aſtrazio ni della metafiſica; quindi il lettore reſta ſorpreſo dalla mera viglia (8 ) 1 > e di viglia, allora che egli racconta il principio della diſputa tra So crate e Zenone, e che poi s'interrompe alla venuta di Parme nide, che fattoſi pregar un poco la continua fino al fine. Quan te menzogne, ſe Socrate non parld mai con Parmenide ! All incontro qual arte fina di veriſimiglianza poetica, per dar or namento alla verità del fatto di cuiCefalo, Adimanto, e Glau cone vivendo poteano renderne teſtimonianza? Come immagi narſi, che un Filoſofo il qual volea render accetta la lettura de ſuoi Dialoghi, cominciaſſe a diſguſtar il lettore con bugie le più sfacciate? Ariſtotele, che calunnia il ſuo Maeſtro in tante parti dell'opere ſue fue, e che parld ſovente di Parmenide Socrate non attaccò mai Platone ſul loro abboccamento, e pur ne poteva trar degli argomenti, per renderne la dottrina ſoſpetta. Non ne parlano altri autori Greci più vicini a Platone, non gli autori Latini, che più ſtudiarono i Greci, e tra gli altri Cicerone e Plinio, che tante coſe ci conſervarono fu l' iſtoria ed Era Filoſofica. Non v'è che il ſolo Ateneo il qual viſſe a' tempi di Marco Aurelio, che vuol dir quaſi più di 600 anni dopo Platone. (a ) Egli dice: Appena permette l' età che Socrate aveſe veduto, ed udito Parmenide, non dover però noi meravigliar ſene, perchè Platone ſuppoſe che Fedro vivere al tempo di Socrate; che Paralo, e Zantippo figliuoli di Pericle, e morti nella peſtilenza, ragionaſſero nel Protagora, e che Gorgia diceſſe nel Dialogo del ſuo nome quel che mai s'era fognato di dire. Molte altre accuſe contro Platone vibra Ateneo, e s'affatica a dipingerlo tanto mordace, e maledico quanto bugiardo. Non so perchè i Cronologi attenti a peſare ogni minuzia de'te fti non oſfervino, che Ateneo nel dire vix ætas permittit dichiara, che poco intervallo di tempo v'era ſtato tra la morte di Parme nide, e l'età di Socrate, maqueſto vix qual ha poi forza cronologica poſto in bocca di Guriſconſulti, di Oratori, diPoeti, di Filologi, non di Cronologi, che avrebbono diminuito l'allegrezza del convito coi loro calcoli, e colle lor aſciutte illazioni? Il Calaubono il qual nel ſuo comentario d'Ateneo in un'altro libro in foglio sfoga tanta eru dizione ſu l’erbe, ſu ipeſci, ſui coſtumidel convito, elu mille altre coſe inutiliffime a ſaperli nulla degna di dire ſu le accuſe colle qua li uno dei Dinnoſofiſti morde Platone. Io per me credo, che A teneo vedendoſi incapace d' emulare l'immenſità della dottrina Platonica, e l'arrificioſa maniera con cui l'eſpone Platone ne'ſuoi Dialoghi, teſſe lunga ſerie d'accuſe, e lo condanna di menzogne ro, e maledico per accreditar ſe non altro la veracità, e la mo deſtia colla quale caratterizza i ſuoi Dinnoſofiſti. Il buon Grama cico (a ) Ateneo lib. 14. Sympt, 9 ) tico ne goda egli pure, e ſen ' applauda; non per queſto io crede rò, che Parmenide non poteſſe ragionare con Socrate, e ſtard immobile nelle mie ipoteſi cronologiche, che a ben peſarle non vagliono meno di tante altre, che in queſto ſecolo fi ſpacciano, e fi difendono come i Teoremi diGeometria: Candidamente perd confeſſo, che io farò per ſacrificarle a colui, che all'autorità di Ateneo ne aggiungere qualchealtra più dimoſtrativa, e meno ſo fpecta; finalmente malgrado le congetture eſpoſte io ſon perſua ſo, che ſe Platone tutto finſe, il Dialogo è più ammirabile per la menzogna poetica tutta opera della ſua fantaſia, che non è per la verità del fatto, di cui poteano farſi onore i men dotti. Platone fcriffe in Filoſofia più ditutti gli antichi che lo precede rono, e come da Eraclito le coſe fiſiche, da Socrate le morali, così tolle da' Pittagorici lemetafiſiche, le quali non ſi correffero che nel fecondo ſecolo della Religione, per le varie diſpuce che, nacquero tra iPlatonici, e tra i Criſtiani. Eſaminerò dunque prima d'ogni altra coſa la natura della difpu ta, dopo di cui proporrò generalmente l'antica Filoſofia, ed in di la particolareggierò in Pittagora, e ne'Pittagorici, tra'quali Se nofane e Parmenide, e la terminerò con Platone. A queſte due coſe io riduco l'origine, e l'effetto dell'Eleatiça Filoſofia.. Gli antichi Filoſofi, ſenza eccettuarne nè pur uno, convennero nel principio, che di nulla fi fa nulla, e ciò gl' impedì di poter conoſcere che Dio era un ente ſingolariſlimo, uno, onnipoten re, buono, e libero; in ſomma di tutte quelle perfezioni dotato le quali o per negazione, o per caſualità, o per eminenza gli at tribuirono i SS. Padri, e cuti'i Teologi. Era Dio ſtato ſempre con la materia? Dunque altro non gli competea, che eſſer un modo di efla od un ente, che ſolo per preciſion di ragione dalla materia ſi diſtingueva; era egli per metà uno, per metà onnipotente, fe dipendea da un principio, ſenza il quale operar non potea, non più che il Pitcore dalla tela e dai colori, e lo Scultore dal marmo. La diminuzione della potenza toglieva a Dio la bontà, perchè non poteva egli vincer in guiſa la contumacia della materia, che non regnaſſe a ſuo malgrado il male miſto col bene. Come dunque Mosè per opporſi al politeiſmo del ſuo tempo dalla creazione cominciò la ſtoria del mondo; così per opporſi a tutti gli errori che derivarono dall'eternità della mate ria fi cominciò nel ſimbolo Apoftolico da Dio creatore, inſiſten do al dogma di S. Paolo, il quale nella Epiſtola agli Ebrei: In tendiamo; (a ) dice egli, per la fede eſſere ſtati connelli i ſecoli Tom. II. b dalla (a ) Epiſt. agli Ebrei cap. 11. Fide intelligimus aptata eſſe ſecula ver bo Dei. (10 ) dalla parola di Dio. I Padri nelle loro diſpute co'Gentili lo dichia rarono. Noi, dice Atenagora,Jepariam Diodalla materia, lamateria crediamo un ente diverſo ---- (m ) Dio è uno, ed ingenito, ed eterno; la materia è corruttibile; e poi celebriamo tutti un Dio ſolo crea tore di tutte le coſe. - -.- la fua forza immenſa non poterono abbrac ciar coloro con l'animo, che la notizia di Dio non cercarono nello ſtef fo Dio, ma dentro fe fteſi. Taciano (6 ) pur dice: Dio non s'inſi nua nella materia e negli spiriti materiali e nelle forme, ma egli è artefice inviſibile ed intangibile di tutte le coſe. Teofilo d'Antiochia (c) parlando ad Autolico, dice, ſe Dio è ingenito e la materia è pur tale, non è più Dio fabricatore e creatore di tutte le coſe. Queſti Pa dri viſfero tutti e tre nel ſecondo ſecolo non molto diftanti l' uno dall'altro. Gli errori de' Marcioniti, de' Valentiniani, de' Baſiliani, chefuronopur cutti e tre che in queſto ſecolo diedero occa fione a' Padri d'illuſtrare il lor zelo, dichiarando con la crea zione della materia il principio fondamentale della Religione Criſtiana. Anzi Taciano dimoſtro, che i Greci ne avevano ri cevute l'idee da'Barbari, ed i Barbari dagli Ebrei, benchè poi le aveſſero oſcurate e corrotse. Affaccendati gli altri Padri a purgarle, oſſervarono che Dio, autore del pari della Fede, che della ragione, non le avea ſeparate in un modo caliginoſo ed impenetrabile, ma le avea in maniera accordate, che dall'aurora dell'una fi potea paſſare al pieno giorno dell'altra, cogliendo però dalla ragione quanto e Platonici e Pittagorici e Stoici, ed Epicurei v aveano im preſſo col lor proprio carattere. Si compiacquero dunque della ſetta Eclerica, ed il primo che l'abbracciale fu Atenagora il primo de' Catechiſti d'Aleſſandria, poi S. Clemente ed Origene dal Veſcovo Uezio chiamato Pocamonico (d ) anzichè Platoni ço, San Clemente ſpinſe tant'oltre la condiſcendenza, che pro poſe come poflibile un ſiſtema filoſofico, il quale raccoglieſſe tut te le verità ſcoperte dalla ragione umana fin dal principio del mondo, ed agevolaſſe il metodo di far ricever i dogmi della fede, e quello della creazione. Amonio Sacca conciliator di Ariſtotele e di Platone, ritrovando che in Ariſtotele l' eternità del mondo ſi conciliava con l'eter nità di Dio, ſe ben egli nulla ſcriveſſe, laſcid tuttavia a' ſuoi diſcepoli, onde ſtabilire tal dogma. Diſtinſe egli l' eternica in due gradi o in due ſegni, nell' uno dei quali poneva Dio, nell'altro le coſe bensì create, ma da lui dipendenti, come il raggio dalSole, o l'ombra dal corpo. S'accorſero i Padri, che iFi (a ) Apologia pro Chriftianis. (6) Tat. allir, cont. Græc. (c ) Teof. Aut, lib. 2. (d ) Iftor. del Moeffenio nel finedelCuduortio. (11 ) e tras i Filoſofi mettendo con la creazione eterna una dipendenza tra la materia é tra Dio, coglievano a Dio la libertà, perché cacitamente fupponevano, che da Dio neceffariamente foſſe emanato il mondo come il raggio dal Sole e l'ombra dal corpo. Far di Dio un Agente neceſſario, è lo ſteſſo che farlo per metà Signore, per che ſe fi confeſſa da una parte, che da Dio dipenda la coſa che egli fa, fi nega dall' altra che da lui dipende il farla ed il non farla. La libertà è la maggiore delle perfezioni. Perchè dun que corla a un ente infinitamenteperfetto? Lafcio S. Ireneo, S.Cirillo, ed altri, cheſoddisfarono ampia mente a tutte l' obbiezioni; ma quello, che più degli altri le ſcDIonvolſe ed atterrò, è ſtato Lattanzio Firmiano, che con au reo ftile nel quarto ſecolo ſcriſe. In queſto ſecolo ancora ſcriffe ro Eufebio nella Preparazione evangelica, e poi S. Agoſtino nel la Città di Dio, l'uno ſegut l' ormeaccennace da Taziano, 1 alţro con erudizione più vigorofa, e più filoſofica ſcriffe contro l'eternità, l'animazione, la divinica del mondo, e l'immutabi lità del Fato. Apparve Proclo (as nel príncípio del V1. fecolo fondendo nella ſua Teologia molto di quella de' nomiDivini at tribuita a S. Dionigi Areopagita, rinovd il fiſtema di Amonio Sacca riſtoro il Platoniſmo caduto. Nel fecolo dopo, Zac caria di Mitilene, ed Enea di Gaza, ſcriſſero' pure contro l'eter nità del Mondo. E da' loro fcritii ſi raccoglie, che l'idea di Dio, combinata col policeiſmo era un'idea nugatoria, non men di quel la del bilineo rettilineo, che rappreſenta alla mente una figura, é non è che una contraddizione. Il P. Balto, nel ſuo dotuiffimo libro contro il Platoniſmo ſvelato, lo dimoftra; e dopo il Balto fe de fece dal Moeſfenio quella circoſtanziata iſtoria ſul Platonis la quale è nel fine dell' opere del Cuduortio, da lui tradotre dall' Ingleſe in Latino. lo nell’eſpor la doctrina de Filoſofi antichi non mi feryi rò dell'autorita de' Platonici recenti, non più, che fe non aveſ ſero mai ſcritto, ſalvo allora, che s'accordano cogli antichi, e ci confervano qualche circoſtanza ſtorica indifferente. Cercherò prima ne' teſti de' Filoſofi ftefli il ſenſo, che naturalmente preſen iano, e dove ſia queſto oſcuro, ed equivoco, ricorrerà all'in terpretazione o di Cicerone, o di Plutarco, o di Sefto Empirico, o di Laerzio Viſle Cicerone molti anni prima del Crifianeſimo, e Plutar co viffe a Roma ſotto Adriano, o Trajano, dopo d'aver ſtudiato in Egitto forro Amonio, diſcepolo di Potamone, e del quale egli b 2 par (a ) Pachimero in Suida, Vedi Fabrizio Bibliot. art, Proclo. e mo,. (12 ) parla nella vita di Temiſtocle ed altrove. Laerzio e Seſto Empi rico, fiorirono in circa ſotto Severo, che vuol dire molto prima di Amonio Sacca, di Plotino, di Porfirio, e di molti alori nimici del nomeCriſtiano; non rifiuterd dall'altro lato i ſoccorſi, che i Padri m'offrono allora particolarmente, che non hanno certa indulgenza alle opinioni filoſofiche, ſcrivendo agl’Imperatori, o non argomentano ad hominem contro coloro, che gl'inſultava no. La mecafiſica di Platone non è diverſa da quella de' Pittago rici, e ſe una volta io dimoſtro, che queſti e particolarmente Pitta gora, Senofane, e Parmenide conobbero bensì un principio intel ligente, ma non ſeparato dalla materia, anzi con effa non facen do che un tutto, avrò dimoſtrato, io mi perſuado, che queſto pur era il ſiſtema Platonico. Cominciero da Cicerone che in poche ma ſoſtanzioſe parole compendio tutto il ſiſtema de' primi Accademici o di Platone, e lo craſſe da' Pittagorici, come da Placone purtraſsero il loro gli Stoici, e i ſecondi e verzi Acca demici, poichè quanto a' Peripatetici (a ) eli convenendo nelle cafe non differivano, che ne' nomi. Gl’antichi, dice egli, divideano (b )lanatura in due coſe, l'una delle quali era efficiente, e l'altraad eſsa quafi preſtandoſi quella di cui ſi fa ceano le coſe.. Incid che facea riponevano la forza, in ciò di cui ſi fa cea, una certa materia, ma l'una e l'altra era nell' una e nell' altra perchè nè la materia può aver coerenza, ſe non ſia da qualche forza ritenuta, ne v'è la forza ſenza qualche materia, poichè nullo v'è che non fic in qualche luogo.. Se la forza e la materia erano indiviſibilmente unite, la fola mente le ſeparava, e perciò conſiderar l'una ſenza l'altra era un?: aſtrazione, una preciſion della menee. Cid che riſulta (c ) dall'uno e dall'altro, o ſia dall'accoppiamento, lo chiamavano corpo, e quafi certa qualità...--. Di queſte qualità al tre fono principali, ed altre derivate da queſte. Delle principali ſono ognuna [CICERONE, QUÆST. ACAD. -- Peripateticos', et Academicos nominibus differentes, et re congruentes lib. 2. (b ) De natura autem ita dicebant, ut eam dividerent in res duas, ut altera eſſet efficiens, altera autem quaſi huic fe præbens ea qua effi ceretur aliquid: in eo, quod efficeret vim eff: cenſebant; in eo au tem quod efficeretur materiam quamdam: in utroque tamen utrum, que: neque enim materiam ipfam cohærere potuiſſe, ſi nulla vi contineretur; neque vim line aliqua materia: nihil eft enim quod non alicubi eſſe cogatur. (c ) Sed quod ex utroque id jam corpus, et quaſi q uandam qualitatem nominabanc Earum igitur qualitatum ſunt aliæ Principes, aliæ ex his ortæ. Principes ſunt uniuſmodi, et ſimplices, ex iis au tem ortæ variæ funt, et quafi multiformes: itaque aer quoque (uti niur  ognuna della ſteſſa ſpecie, e ſemplici. Da queſte qualità, altre ne for no nate, e quaſi moltiformi. L'aere, il fuoco, l'acqua, ela terra for no primi, e da queſti nacquero le forme degli animali, e le altre coſe, che ſi generano dalla terra. Dunque que' principi, per tradurlo dal Greco, ſi dicono elementi, de' quali l' aria, il fuoco, banno la for za di muovere, e di fare, le altre parti di ricevere, e quaſi di pati re, l'acqua, dico, e la terra. La parola ſemplice quì non ſignifica indiviſibile, e Seſto (a ) Em pirico pur la prende in queſto ſenſo. Vè un quinto genere, b )di cui ſono gli aſtri, e le menti ſingolari, ed Ariftotele lo pone diſimile dagli altri quattro. Se le menti ſono tratte dallo ſteſſo elemento, che gli altri, non ſon eſſe ſemplici nel ſenſo d'indiviſibile, ciò che CICERONE dice altrove. Teniamo noi che l'animo abbia tre parti, come piacque a Platone, o ſia ſemplice ed uno; ſe ſemplice ſia egli come il foco, il fangue, l'anima, cioè il ſoffio. Queſte coſe conſtando di parti non ſono ſemplici. Continua CICERONE. (c ) Ma penſano, che di tutte ſia ſoggetto una certa materia priva di ogni specie, e d ogni qualità, e da eui Butte le coſe ſono eſpreſſe e fatte, e che può ricever in sè tutte le coſe. Se la materia era prima d'ogni fpecie, d'ogni qualità, non cra corpo, e perciò conſiderata dalla mente, indipendentemen te dalla forza, ella era incorporea; Selto Empirico chiama per. incorporei i punti, le linee, e le ſuperficie... Platone nel Timeo, la chiama difficile ed oſcura fpecie, e il recercacolo d'ogni generazione, e quali nutrice; aggiunge, che ella non fi diparte mai dalla propria potenza, perciocchè tut te le coſe riceve, nè prende maiper alcun modo, alcuna forma a queſte fimile, e prova eller convenevole, che di tutte le ſpecie ſia privo quel. che ha in sè da ricever tisti'i generi, comequelli che hanno da fa re unguenti odorofi, l'umida materia, che vogliono di certo odore, cori dire di tal guiſa preparano ', che ella non abbia alcun proprio odore e colore eziandio, vogliono in materie molli imprimere alcune pgure, los niuna mur' n. pro latino ) ignis, et aqua, et terra prima ſunt. Ex iis au tem' orræ animantium formæ earumque rerum quæ gignantur è ter ras, ergo illa initia, ut è Greco vertam, elementa dicuntur; è qui bus aer, et ignis movendi vim habent et efficiendi; reliquæ par tes accipiendi et quafi patiendi, aquam dico et terram. a ) Contra Mathematicos. (b ) Quintuin genus e quo eſſent aſtra mentesque ſingulares earum quatuor quæ ſupra dixi diſſimiles, Ariſtoteles quoddameſſe rebatur. (6 ) Sed Salicetam putant oinnibus fine ulla fpecie, atque carentem omni illa qualitate o... materiam quandam ex qua omnia eſptela, atque effecta lipt qux'- tota omnia accipere pofito (14 ) 1 njuna figura affatto laſciano primieramente apparire in quelle, ma cer cano pria di renderle quantopoſſibil fra polite. Molte altre coſe aggiunge Placone, che Ariſtotele in una de finizione riduce, dicendo che la materia non è alcuna di quelle co fe, di cui l'ente fi determina, e tra l'altre coſe annovera la qua lica, e la quantità, che par Cicerone ridurre alla ſola qualità; ma che l'idea del corpo, e della materia foffero diverſe ſecon do gli antichi, lo dimoſtrano le diverſe parole, con cui l'eſpri mevano, chiamando la materia ùns, ed il corpo owllde. Chi po ne un nome, dice Platone nel Sofiſta, dalla cofa diverſo, introdu ce veramente due coſe. La materia dunque, non eſſendo il corpo, ella era incorporea, ed incorporea la chiama in molti luoghi Sesto Empirico, e Plotino, la cui autorità qui è tanto più for te, quanto che egli ſteſo col nome d'incorporeo, non ſignifi cava la ſteſſa coſa che noi chiamšamo fpirituale. Stobeo (a ) lo conferma col dire: Si nega effer corpo lamateria non tanto, perchè manchi degl'intervalli del corpo, o delle tre dimenſioni, quanto perchè ſia priva d'altre coſe appartenenti al corpo, figura, co lore, gravità, leggerezza, ed ogni altra qualità, e quantità. La materia pud (b ) in tutti i modi mutarfi, ed in ogni parte non mai ridurſi al niente, ma ſolo in parti che poſsono all' infinito partir li, e dividerſi, nulla eſſendo di minimo in natura, che divider non fi pola. Le coſe poi che ſi movono tutte', moverſi con intervalli, che all'infinito ſi poſſono dividere, e cosi' movendoſi quella forza, cheab bian detta qualità (cioè il corpo ) e di qud, e di là verſando per fano, che tutta affatto la materia fi muti, efi faccian le coſe, che chix miam quali, dalle cui nature coerenti, e continue in tutte le ſue parti è fatto il mondo, fuori di cui non v'è alcuna parte di materia, nè abas cun corpo. Quante coſe raduna CICERONE in poche parole ! Con la divi fibilità all'infinito della materia, eſclude gli atomi forſe ammeſ da Empedocle ne' minutiſſimi corpicelli, che componevano gli elementi, e da Eraclito nelle mondature piccioliflime, ed indivi fibi (a ) Stobeo. I. 1. Egl. fil. cap. 14. 16 ) Omnibusque modismutare atque ex omni parte eoque etiam interi se non in nihilum ', ſed in ſuas partes quæ infinite lecari, atque di vidi pollint, cum ſit nihil omnino in rerum naturam minimum quod dividi nequeat: quæ autem moveantur omnia intervallis moveri; quzintervalla item infinite dividi poſfint, et cum ita moveatur il la vis, quam qualitatem effe diximus, et cum fic ultro citroque verfetur: et materiam ipfam totam penitus commutari putant, et ita effici quæ appellant qualia, e quibus in omninatura cohærente, et confirmata cum omnibus fuis partibus effectum elle mundunt, extra quem nulla pars materiæ fit nullumque corpus. (15 ) Ibili. Con la coerenza delle parti della materia, CICERONE eſclu de il vuoto negato da tutti, da Talece fino a Platone, onde dif ſe Empedocle: Nulla di vuoto vė, nulla che abbondi. Accenna pur CICERONE le leggi coſtanti che conſervano icore pi movendoſi, e nel dir che fi movono con certi intervalli, i quali all' infinito ſi poffon dividere, non applica egli le leggi del moto a' corpi minimi come a'fenfibili? Le parti (a) del mondo effer tutte le coſe che fono in eso, e tutte occupate da una natura che ſente, e nella quale v'è una ragione per fetta, e la ſteſsa fempiterna, nulla effendovi di più forteche poſsa diſtruggerla, e la steſſadirfi mente, ſapienza perfetta, e chiamarfi Dio, ed eſer.quafi certaprudenza di tutte le coſe, cheprovede alle coſe celefti, ed a quelle che in terra appartengono agli uomini. Se queſto Dio degli antichi Filoſofi rifultava dalle nature coerenti e continue di tutte le parti del mondo, ſe egli era il ſenſo, la ragione perfetta, la ſapienza, la providenza che reg gea queſte parti, era egli altro che una modificazione della forza e della materia, giacchè non v'era forza ſenza materia, nè materia fenza forza, e non era egli ſeparatamente dalle co ſe conſiderato che un ente di ragione? Qual relazione ha que fto Dio al noſtro, che è un ente ſingolariſtimo in sè, e fepa rato non per preciſion di ragione, ma realmente dalla forza e dalla materia, della quale egli è il Creatore? Alle volte lochiamiamo (b ) neceſſità, perchè null' altro pud farſi, ſe non ciò che da lei è coſtituito nella quafi fatale, e immutabile con tinuazione d'un ordine fempiterno; alle volte poi lo chiamiamo fortu na, la qual fa molte coſe improvvife, nè da noi penſate per l'oſcuri. tà, ed ignoranza delle cagioni; ed ecco Dio rappreſentato come agente neceſſario, o ſenza libertà; ecco diſegnato l' ordine fa tale e ſempiterno delle coſe; ecco come per la noſtra igno ranza non poſſiamo conoſcere la conneſſione, e le conſeguenze delle (a ) Partes autem mundi effe omnia quæ infint in eo quæ natura ſentiente teneantur, in qua ratio perfecta inſit quæ fit eadem ſem piterna: nihil enim valentius eſſe a quo intereat, quam vim ani mam effe dicunt mundi eandemque effe mentem fapientiamque per fectam quem Deum appellant, omniumque rerum quæ ſunt ei fub jedtæ quafi prudentiam quandam procurantem cæleftia maxime dein de in terris, eaque pertinent ad homines. 16 ) Quam interdum neceſitatem appellant quia nihil aliter poſfit, at que ab ea conftitutum fit inter qual fatalem, &immutabilem conti nuationem ordinis fempiterni; nonnunquam quidem eandem fortu nam, quod efficiat multa improviſa hæc nec optata nobis propter obſcuritatem ignorationemque cauſarum, (16 ) delle cagioni, e degli effetti loro. In ſomma l'antica Filoſofia aveva adotata l' eternità, l' animazione, la divinità del mondo, e l'immutabilità del Fato, le quattro coſe che Santo Agoſtino ha egregiamente combattute nella Città di Dio. Comparando il trattato d' Ilide, e d' Ogride di Plutarco col paſſo di CICERONE, non è difficile di raccogliere, che la Filoſo fia Egizia ne' principi eſſenziali non era diverſa dalla Greca, ſe non nella maniera di ſpiegarſi o ne' ſimboli. La materia, di cui parla CICERONE, era Ilide, la quale in ogni coſa potea tramu. tarſi, e di tutte le coſe eſer capace, della luce, delle tenebre, del giorno, della notte, della vita, della morte, del principio, e del fi ne. La forza è Oſiride, la cui veſte ſi facea ſenza ombra, e ſenza varietà, d'un color ſemplice, e rilucente; perchè ella è il principio dalla noſtramente ſolo, intefo, puro, e ſincero, tutt' iſimbolicontrarj a quelli delle proprietà dipendenti dalle qualità de' corpi diſegnati per Oro. Riſultava queſti dall'accoppiamento d'Ilde, e d'Oſiride, e chiamavaſi parto o creatura, rappreſentandoſi per l'ipotenuſa del triangolo miſurata dal 5; per cui ſi chiamava con la voce Pente, da cui deriva Panta, o l'Univerſo, che gli Egizi penſavano eſſer la ſteſſa coſa con Dio, nel che, come egli dice, s'accordava Ma netone Sebenita con Ecateo Abderita. Diodoro di Sicilia nel principio della ſua Storia, ſcrive coſa pen {aſſero gli Egizj su la generazione del mondo, ſul principio del le coſe, ſul naſcimento dell'Uomo. Par che Euſebio afcriva a Tot, che è il Mercurio degli Egizj, quanto ſcriſſe Sanconiatone ſul caos, e ſulla formazione della Luna, delle Stelle, degli Elementi. La Teologia miſtica dei Fenici, che dagli Ebrei, ſecondo Euſebio ed altri Padri, ſi preſe, reftd in guila alterata e confuſa, che nel caos poſero prima i principj delle coſe, ed introduſſero poi l'arte fice o l'amore, per opra del quale ordinarono il caos, é fabbrica rono il mondo. Orfeo il primo la portò nella Grecia e L'Inno criſto canto del caos vetufto, E come agli elementi, e come al Cielo Origin deffe, ed alla vaſta terra, E alla profondità del mar Amore Antichiſſimo, e ſaggio. Il caos era la materia, l'amore, o la forma, ed i prodotti, i compoſti, ed i corpi, ed in queſte tre coſe conſiſtea la fiſica generale degli antichi. La ſcienza che n'eftraſſero o la metafi fica rappreſentandola in una maniera molto indeterminata, la ſciava infeparata la materia da Dio, e dai compoſti, ed era molto perciò differente dalla noſtra metafiſica, la quale nell' en te include eſſenzialmente le creature, nè s'eſtende che per un ' 9 1 5 analogia molto lontana al Creatore. Io lo dimoſtrerò partita mente ne' liſtemi di Pittagora, di Senofane, e di Parmenide, e ſarà facile ad applicarne l'uſo a Platone. Pittagora e Platone (a ) giudicano, che il mondo ſia ſtato fatto da Dio: dunque le Platone fece da Dio generar il mon do ordinando la materia fluctuante, egli imparò ciò da Pitta gora, che l'avea imparato dagli Egizi, da Orfeo, anzi dal pro prio maeſtro (6 ) Ferecide Sciro. Avea egli ſoſtenuto, che in tut ta l'eternità Giove, il tempo, e la terra erano ſtati. Facciali pur di Giove, la cagione di tutte le coſe, e gli ſi dia ſomma pruden za, e fomma ſapienza, egli non ſarà mai che la forza, e l'amore che eguaglieraffi al tempo, e alla terra; vi ſi aggiunga, che poi chè Giove diede il premio alla terra ſi chiamò queſta Tellure, (c ) non altro mai ſi concluderà, ſe non che prima la forza, e l'amo re temperaffe, digeriſſe, ed ornaſſe quella mole indigeſta, che chiamavali terra. Pittagora generò il mondo dal foco, e a guiſa di foco ſotti liſſimo (d ) Iparſo, e rinchiuſo nel mondo, volea Placone, che foffe Dio. L'ornamento, (e ) l'unione, l'ordine di tutte le coſe furono chiamate da Pittagora Coſmos, o il mondo, e diffe egli, che il mondo viſibile era Dio. Stimò il primo, dice Cicerone (f) l'animo per tutta la natura delle coſe eſer diffuſo, e per la mente da cui gli animi noftri ſono tratti, ne vide per la detrazione di que fti diſtaccarſi, e ſquarciarſi Dio, e farſi miſera una parte di lui, mentre queſti ſoffrivano. Dio dunque era il mondo, e l'anime era no parti di Dio, effetto della Metempficoſi, ſe pur non era queſta una coſa affatto poetica, come Timeo di Locri lo dice. VIRGILIO espresse il sentimento di CICERONE nelle Georgiche. Della mente di Dio parci efſer l' api, E forfi eterei differo, che Dio Va per tutte le terre, e tutti i mari, E pel profondo Ciel; quindi gli armenti, E le pecore, e gli Uomini, e ogni ftirpe Di fere, e ogni altra, che da se rimove La tenue vita allorchè naſce. Tomo II. E nell (a ) Plut. de Ifid.& Ofir.car. 374. Franc. Edit. Vechel. (6 ) Laert. S. Clem. Aleſs. San Giuſtino apolog. Ermia nel fine dell'opere di S. Giuſtino. (e) Plut,plac.lib.2. (1) De Natura Deor. I. 1. Elle apibus partem divinæ mentis, et hauſtus Æthereos dixere: Deum namque iré per omnes Terrasque tractusque maris Columque profundum. Hinc pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum Quemque fibi tenues naſcentem arceſſere vitas. 1.4. Georg.. C (18 ) E nell' Eneide, Nel principio le terre, il Cielo, e i campi Liquidi, e della Luna lo fplendente Globo, e gli aſtri Titanj, interno fpirco Alimenta, ed infuſa in ogni membro Tutta la mole n'agica la mente E fi framiſchia nel gran corpo; quindi E di pecore, e d'Uomini la ftirpe, De volanti la vita, e'l mar che i moftri Sorco la liſcia ſuperficie porta. no, Pittagora fu l'autor dell'idee; (a ) oſervd il primo tra'Greci che la mente non potendo rappreſentarſi ſingolari, perchè ſono in numerabili nel compararli, ne traſfe igeneri, e le ſpecie, ne'qua li ſi ravviſano le coſe ſparſe. Così ravviſava tutti gli individui umani nell'animal ragionevole. Nel far queſti aſtratti conſide rò, che la materia era mutabile, alterabile, Auflibile in ogni gui fa, ma che non vi ſono ſpecie, che s'accreſcano, o che perifca e perciò gli Uomini oſſervandole coſtantemente in tutti i tempi, e in tutti i Paeſi le credono eterne ed immutabili. La que ſtione era di rappreſentar queſt'idee. I numeri convengono all'Uomo, al cavallo, alla giuſtizia, al la caſa, e a che so io; dunque i numeri ſono univerſali, perchè atti alla rappreſentazione de' molti. L'oſſervazione è d'Ariſtotele, (c ) e molto più la ſtende Poſſidonio, riferito da Seſto Empirico, (d ) il qual dimoſtra per i numeri aſſimigliarſi cutte le coſe, e ſen za queſti non poterſi intendere nè gli elementi, nè l'armonia, nè alcuna delle tre dimenſioni del corpo, nè ciò che riſulta da corpi uniti, coerenti, diftánti, nè tutti i calcoli delle quantità fùccef five, nè ciò che appartiene alla vita, ed all' arti fondate su propor zioni ſolo intelligibili per i numeri. Pitragora dunque ſi ſervì del numero, per dar un ſimbolo dei due principj delle coſe, la forza, e la materia, di cui chiamò l'una l'uno, e l'altra il due. L'unità, diceva egli, è Dio, (e ) ed anche il bene che è di natura * Principio Coelum, ac terras camposque liquentes Lucentemque globum Lunæ Titaniaque altra Spiritus intus alit: totamque infuſa per artus Mens agitat molem, et magno ſe corpore miſcet. Inde hominum pecudumque genus vitæque volantum, Et quæ marmoreo fert monſtra ſub æquore pontus. (a ) Plut. plac. Phil. l. 1. (6 ) Plut. ib. l. 1. c.9. (c ) Metaf. lib. 10. (d ) Contra Logicos. (e ) Plut. plac. Phil. lib. 2. (19 ) un ſolo, e lo ſteſso intelletto, il due infinito, e genio triſto, d'inser torno il qual due ſi fa la quantità della materia. Chiamava uno la forza perchè noi la concepiamo a guiſa d'un non ſo che d'indi viſibile; chiamava due la materia, perchè ella è fempre divil bile in due, Di queſti due principj, uno è quello del bene, e l'altro del male, già l'ha inſinuato Plutarco. Archelao Veſcovo (a ) di Cara dice; Širiano introduce la dualità contraria a ſe ſteffa, la quale egli preſe da Pittagora, ſiccome tutti gli altri ſettatori di tak dogma,; quali difendono la dualità declinando dalla via retta della ſcrittura. Tutte in ſommal'ereſie, che vi ſono nel compendio della filosofia di CICERONE, che vuol dir l'eternità, l'animazione, la divis nità del mondo, Piccagora le raccolfe in un ſiſtema, ed in vano fi dice, che egli nulla fcriveſſe. Liſide diſcepolo (b ) di Pittagora in una lettera fcnca ad Ip parco, dopo la morte del maeſtro ſignifica non voler comuni care ad alcuno i precetti, e dimoſtra che delle coſe, le quali di ceano i ſeguaci di Pitcagora, non ve n'era nè pur ombra. Por firio nella vita di Pittagora dice, che agli Uomini oppreſli da tale calamitat, (cioè dalla morte di Piccagora ): manca lo ſciens di lui, la quale arcana e recondita cuſtodida in petto, nè vi reftas fono che certe coſe difficili da intenderſi imparate a memoria dagli udi tori dell'eſterna Filoſofia, poichènon v'era alçun ſcritto di Pittagora; ed aggiunge,che dopo la morte di lui „ Lilide, Archippo,ed altri furono folleciti, chei penſieridiPiccagora non ſi pubblicaffero, onde eutti gli arcani della ſua Filoſofia con lui perirono'. To dubito aſſai del la vericà della lettera di Liſide, la quale con quel che dice Porfirio pud eſſere ſtata finta,perchè i Criſtiani nontraeſfero argomenti da quanto ci reſta diPitagora, in CICERONE in Plutarco, in Laer zio: ma ſe non v'era coſa alcuna della Filoſofia di Pittagora,.co me poi Jamblico poeea gloriarſi di riftabilirla; e non è manifeſto che egli la riſtabili a fuo modo per combattere i Criſtiani de'quali fu accerbo' nimico; lo ſteſſo Porfirio, che dice nulla aver fcric to Pittagora, come poi ebbe fronte d'afferire, che egli avea ſcrit to fu l'ente, il che Euſebio (c ) riferiſce? Diſcepoli di Pitcagora furono Archita Tarentino il vecchio, Pe ritione, Timeo di Locri, ed Epicarmo. Archita il vecchio (d ), che Simplicio confonde col giovine, fcriſſe delle dieci voci corriſpondenti ai dieci concetti dell'animo, i quali s'eſtendono a cutte le cole, potendoſi d' ognuna cercar la (a ) Zaccagna collect. monumentorum veterum Eccleſiæ Græcæ, atque Latinæ. Archelai Epiſcopi acta. (6 ) Galeo. (c ) Propof. Evang, lalg. (d ) Patrizia diſcuſ, Peripa,1 (20 ) la ſoſtanza, la quantità, la qualità, l'azione, e gli altri acciden ti regiſtrati a lungo da Ariſtotele nella ſua Logica, in cui copiò il trattato di Archita. Lo Stanlejo, che pretende di numerare tutte le donne Pitcago riche, omette Peritione, e pur eſser ella dovea la più celebre,le da lei trafse Ariftotele (a ) tutta l'idea della ſua metafiſica. Lo prova con molta erudizione il Patrizio, allegando la definizio ne della fapienza di Peritione, e comparandola con quella di Ariſtotele. La ſapienza, diceva ella, verſa in tutt'i generi degli en ti, perchè verſa intorno tutti gli enti, come la viſione intorno tutti i viſibili. Ariſtotele definì la metafiſica, per la ſcienza che contem pla l'ente, in quanto ente, e le coſe che per sè gli convengono. Peritione egregiamente ſpiegò gli accidenti dicendo: delle coſe che accadono agli enti, alcune univerſalmente accadono a tutti, alcu ne altre a molti di loro, e certe ad un ſolo, ma riguardar univerſal mente, e contemplar tutti gli accidenti appartiene alla ſcienza. Que. fte ed altre cole che ilPatrizio aggiunge, danno idea della preci fione, e nettezza di Peritione, e nel tempo ſtefso quanto tra' Pittagorici erano familiari l'idee Pittagoriche, ſe le donne ſtef ſe ne ſcriveano con tanta eleganza filoſofica · Non dobbiamo tuttavia meravigliarſene, di poi cheabbiam veduto ne’noftri gior ni Madama la Marcheſa di Chatelet, ſcrivere ſulla natura del. le monadi Leibniziane, queſtione molto più oſcura di quella dell'ente. Timeo di Locri nel ſuo ragionamento ſull'anima del mondo, in queſta univerlità di natura, dice egli, v'è un certo che, il qual rimane, ed è l intelligibile eſemplare delle coſe, che ſono in un fuſo perpetuo di mutazioni, e queſto nelle vicende delle coſe ſingolari, co ftante, e perpetuo eſemplare ſi chiama idea, ed è dalla mente compre fo. Nell'univerſità dunque delle coſe, che vuol dir dentro le coſe o in cutti i compoſti v'è quel non ſo che, che mai non cangia, e può dalla mente eſtrarli qual idolo. Le coſe ſenſibili eſser in un perpetuo fluſso lo diſsegnarono, al dir di Platone, nell'Omero, ed Eſiodo ſotto l'imagine dell'Oceano, e di Te ti, e di queſte non aſsegnarono fcienza i Pictagorici, ma ſolo di quelle, che nè col ſenſo, né coll' immaginazione ſi ravviſa no, e queſta fu la prima differenza tra la Filoſofia Jonica, e l'Italica. Epicarmo ſommo Poeta, come Omero al dir di Platone, so all' una grandezza d'un cubito (diceva egli ) altra tu voglia aggiun gervi o ſottrarsi, non avrai mai certo la Nera miſura; gli Uomini pa rimen (a ) Patriz. l. 2. cap. 1. diſcuſ. Perip. (6) Ragion, ſu l'anima del Mondo. (21 ) rimente conſidera or accrefcere, ed or decreſcere, tutti ſoggiaciono ai cambiamenti del tempo.  Jeri tu fofti un altro, io pur vi fui, E un altro ſiamo in queſto tempo, e fieno Di nuovo gli altri, che non mai gli ſteſſi Noi ſiamo, come la ragion lo predica. Per l'Intelligibile così parlo: A. L'arte tibicinal è qualche coſa? B. Perchè no. A. Forſe è l' Uom queſta tal arte? B. Non mai A. Vediam, che coſa queſto ſia Tibicine B. Egli è un Uom; non dico il vero? A. Il ver ma ftimi che non debba diri Ciò pur del bene? Io voglio dir che il bene Una coſa pur ſia, ma s'altri impari Ad effer buon ei già dirafli buono; Il Tibicine è quegli che la tibia A ſuonar imparò. Quel che a ſaltare Salvatore, e ceſtor quegli che a teſſere Impararo, e così d'ogni altro l'arte Certamente non è, ma ben l'artefice. Nel dir Epicarmo, che il bene è una coſa come l'arte, e che nè il buono, nè l'arte ſono gli uomini che la partecipano, egli c ' inſegna a far le aſtrazioni della mente, la qual avendo comparato tra loro molti Uomini che fien buoni, molti tibicini, molti falcatori e teſtori, ne ha compoſto quell'idea, che poi convie ne a tutti. Queſt'idea reſtando ſempre la ſteſſa in tutti i tem pi, ed in tutti i caſi, per quanto variano i temperamenti, e le figure degli Uomini, li confidera ſempre nello Iteſſo modo, ed è principio del diſcorſo, o di ciò che nel Teeteto ſi chiamano analogie ſcoperte, le quali nel raccogliere le coſe col mezzo de' ſenli, le fanno comprendere la ragione. Epicarmo era contemporaneo di Senofane, come ſi diffe, ed eccoci a ' Filolofi più vicini a Socrate, ed indi a Platone, i qua li a poco preffo ſi trasfuſero le ſtelle idee non diverſificate, che dalla maniera d'eſporle, e di colorirle. Senofane, dice Euſebio, e quelli (6 ) che lo ſeguirono, moſfero così con (a ) Laerzio Vita di Platone. (6 ) Lib. 11. cap. 1. Prep. Evang.  1. 1 contenzioſe ragioni, che piuttoſto arrecareno a' Filoſofanti confuſio ne, che ajuto. Pittagora volea che il mondo foffe eterno, benst come gli altri Filoſofi, quanto alla materia, ma non quanto alla forma, poichè credea che foſſe ſtato generato dal foco; Se nofane pofe il mondo non generato, ma eterno, 'aderendo ad Ocello Lucano, che fcriffe fu l'eternità del mondo prima d'A. riſtotele; ecco la prima differenza tra Senofane, e Pittagora Un'altra più forte ve n' era; Pittagora avea pofti per principj l'uno, e il due, Senofane riduſſe tutto all'uno, Senofane", dice CICERONE, è più antico di Anafagora; vuel che uno fieno tutte le coſe, nè queſto uno è mutabile, ed è Dio non mai nato, e ſempiter no, e di conglobata figura. Seſto Empirico (b ) parlando per bocca di Timone foggiunge, che fecondo Senofane l' Univerſo era una fola coſa, che Dio eſiſteva in tutte le coſe, e che era di figura sfe rica, e di ragione dotato. Ad Empirico ſi conforma Laerzio (c ) dicendo, che ſecondo Senofane, Dio nella materia tutto udiva tutto vedeva, ſebben non reſpirale, e che tutte le coſe inſieme erano la prudenza, la mente, l'eternità. Io dimando, ſe nel far Dio fparfo per tutte le coſe, e fen ſitivo, e prudente, e intelligente, differiva egli dall' opinione che CICERONE eſpoſe nel compendio della Filoſofia? Non v'è che la figura sferica che gli aſſegna Senofane, e per cui non infinito, ma finito lo rende; ma chi fa, fe nel concepir gli antichi la figu ra sferica, comela più ſemplice, intendeſſero ſimbolicamente d'ac tribuir a Dio tutte le perfezioni? converrebbe faper fe Senofane fcriſſe ciò in profa, od in verſo, e ben eſaminare tutto il conte fto della fua dottrina. Non reſtandoci che conghietture, io m'at tengo a quella del ſimbolo per accordar CICERONE con se stesso, il quale nella natura degli Dei combatte Senofane, che aggiunſe la mente all'infinito. Queſt'infinità era una conſeguenza del fuo ſiſtema, perchè ſup poſta l'eternità della materia cost argomentava: (d ) Eterno è cid che è, se è eterno è infinito, fe infinito uno, ſe uno fimile a sèl. Di nuovo ſe l' uno è eterno e ſimile, egli è ancora immobile, fe immobile non ſi trasfigura per poſizioni, non ſi altera per forme, non ſi miſchia con altri. Ariſtocele elamina i ſoffiſmi contenuti in queſto ragio namento; il principale è; da ciò che il mondo è ecerno, infini to, uno, non ne fiegue che egli lia effettivamente immobile, per che le coſe eſiſtono nella maniera che poſfono eſiſtere, e la materia ſe ſteſſa il principio del moto non v'è contradizione a cont (a ) Queſt. Acad. lib. 1. (6 ) Lib. 1. dell'ipotipoſi. (c ) Laert. lib. 9. idí Arift. contra Xenof, Zenon. et Gorgiam. eſſendo per i 2 (23 ) a concepire, che il moto ſia eterno come la materia. Coloro che ammettevano il caos eterno, davano eterno il moto, ſebben ſen za regola o forma. Non ſi cerca qui però, ſe concludeſſe l'argomento di Seno fane, ma ſolo qual foſſe la ſua ſentenza, e coſa egli ne dedu ceſse. Come poi accordarla colla ſua fifica? Ammetteva egli per principj (a ) delle coſe naturali la terra, il foco, l'aria, e l' acqua, e dalle alterazioni di queſti elementi, rendea tutti i miſti a generazione, e corruzione ſoggetti. Grand uſo fece di quefte due coſe, perchè, ſecondo lui, conſiſteva il So le negl'ignicoli raccolti dall umida (6 ) eſalazione in una nuvola ignita, e la Luna in una nuvola coſtipata. Manon era poſſi bile decerminare il grado di verilimiglianza filoſofica ch'egli da va all'Ipoteli, poichè nelle ſentenze filiche di Senofane y' è mani. feſta contradizione. Poneva egli de' Soli innumerabili, e la Lu na abitata. I ſoli innumerabili erano quelli de' Pitcagorici, e di Orfeo (C ); ma come abitar una nuvola? La terra (d ) la quale per immenſa profondicà fi ftendea di ſotto, era coſa ri pugnante alla sfera armillare che Anaſimandro forſe di lui, maeſtro avea inventata o propagata per cutta la Grecia. Cor revano allora tali dottrine, e Senofane, in Colofone, in Atene, in Sicilia, e in Elea le avea ſtudiate; avea Talęce calcolate l'eccliffi del Sole, e della Luna, avea Pittagora applicare al liſtema celeſte le conſonanze Muſicali, e nella lira a lette corde determinato il pu mero, e le diſtanze de' Pianeti; non è poſſibile, che Senofane in un tempo così illuminato voleſſe diſcredicare il ſuo ingegno con ipoteſi aſſurde e ad ogni ragione contrarie; non erano dunque, che idoli fantaſtici, iperboli poetiche, o ſimiglianze groſſolane, in cui ſi deve più badare al color, che alla coſa. La grande difficoltà di Senofane era nel combinare il fiſico col metafiſico, o lo ſtato ideale con l'obiettivo. Avea già ſtabilito Pictagora, l'intelletto altro non eſſer che (e ) mente, ſcienza, opi nione, ſenſo, da cui tutte l' arti, e le ſcienze nacquero. Egli diſse gnava la mente per l'uno, ciò che adeſſo noi chiamiamo lemplice intelligenza; diſegnava la ſcienza pel due, poichè s'acquiſta la ſcienza deducendo una coſa da un'altra; diſsegnava l'opinione per il tre, poichè nel trar la conſeguenza da un principio proba bile ſe ne riguarda nello ſteſſo tempo due, in uno de'quali v'èla ragion ſufficiente d'affermare, nell'altro di negar la coſa. I Pit 3 ta (a ) Laert. vit. di Xen. Plut. plac. (6) Plutar. lib.... Origenes Philoſ. (c ) Veggali Moefenio ſu l'eſiſtenza d'Orfee. Plutar. plac. de Fil. lib.i. (d) Gregorii Aſtronomici Pref. (c ) Plutar. lib. 1. de plac. (24 ) tagorici furono tutti dogmatici, o per dar credito alle ſentenze del ſuo maeſtro, o perchè pareſſe loro, che la fapienza non do veſſe mai eſſer miſtad'ignoranza, come accade nell' opinione milta dell' una, e dell' altra. Senofane fu il primo ad introdur il dubbio nella Filoſofia, e quindi l'opinione. Chiaro l'Uomo non ſa, nè ſaprà mai Degli Dei coſa alcuna ed altre coſe Che da me dette fur, ſiaſi perfetto Pur quanto ei dice, tuttavia non fallo, E v'è opinion in tutte queſte coſe. Da queſti verſi Seſto Empirico inferiſce, che Senofane non to glica la comprenſione, ma ſolamente quella che dalla ſcienza de riva; nel dire in tutte queſte coſe d'è opinione accenna il proba bile, e l'opinabile, onde conclude che Senofane deve porſi tra coloro, che negano darſi criterio della verità, e non tra gli ac cattalecici, che negavano alcuna coſa poterſi da noi compren dere. L'autorità di Selto Empirico è d'un gran peſo, ove ſi tratta di determinare i gradi della cognizione, ma non è da ſprezzar fi ciò che dice CICERONE: Senofane e Parmenide quan tunque con non buoni verſi però con certi verſi accufano quaſi irati d'ignoranza coloro, che ofano dir di ſaper qualche coſa allo ra che nulla fanno. Chi dice nulla eſclude ogni ſcienza, ed ogni opinione. Senofane ſi diſtinſe per la Logica, (c ) e ſecondo la Cro nologia di Euſebio, egli fu udito da Protagora, e da Nef ſa; Metrodoro udi Nefra; Diogene Metrodoro; Anaſarco Diogene, e coſtui Pirro d' Elea, dal qual ebbero nome i Filo ſofi Scercici fino a Gorgia, il qual diceva: Non v'è nulla;,fe anche vi foſe qualche coſa, non ſi potrebbe comprendere, e ſe compren dere, non mai ſpiegare con le parole. Come inoltrarſi dopo tale raf finamento di dubbj? Tra i diſcepoli però di Senofane il più illuſtre fu Parmeni de deſcritto da Platone nel Teeteto qual vecchio grave, e vene rabile e di una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe mal non m'appoogo, che egli nella diſputa non era oſtinato, ſu perbo, rozzo ed agreſte, come Ariſtotele (e ) dipinge Senofane è Meliſſo. Socrate in quel Dialogo, ed in altri s'aſtiene quanto pud (a) Xenoph. ap. Seſt. Emp, adv. Matem. (6 ) QUEST. ACAD.; Eufeb.1.6. C. 19. (d ) Id. l. 12, c. 7. (c ) Metaf. lib.... (25 ) può di ragionare contro le ſentenze di Parmenide per la rive renza che ad eſſo portava. Euſebio caratterizza la dottrina di Parmenide, qual via contraria a quella di Senofane. Ermia però, dice Parmenide in bei verſi, c'inſegna che queſto Univerſo è eterno, immobile, e ſempre ſimile a ſe ſtero. Lo ſteſſo Euſebio credeva, che ſecondo Parmeni de l'univerſo foſſe ſempiterno, ed immobile. Stobeo riferiſce, che Senofane, Parmenide, e Meliſſo colſero affatto la generazio ne, e la corruzione. In che dunque diſconvenia Parmenide da Se nofane, (6 ) Ariſtotele chiaramente lo ſpiega nell' accennar la dif ferenza che v'era tra Parmenide e Meliſſo, dicendo: volea Par menide, che tutto foſe uno ſecondo la ragione, e Meliſo ſecondo la materia, e da queſti due differiva Senofane, che chiaramente non dif ſe nè l'uno, nè l'altro. Eſer uno ſecondo la materia, è il medeſimo che ritrovar nell eſſenza della materia la ragion ſufficiente dell'unità della ſteſſa. Ed in fatti una è la materia, fe in tutte le parti e nel tutco e nella medeſima fpecie è omogenea, qual CICERONE la deſcrit ſe nel compendio della filoſofia, e l'ammiſero Platone, ed Ariſto tele. CICERONE rammemora ancora la forza, utrumque in utroque, ma conſiderando forſe Meliſſo, che gli effetti della forza, o ſieno le forme, ed i modi aggiunti ſucceſſivamente alla materia, non mai erano continuamente cangiando, gli eſcluſe dall'eſſenza, e in con ſeguenza dall'unità della materia; ma ſe una era eſſenzialmente la materia, uno era il mondo o l'univerſo, che da eſſa riſultava e ſe uno in ſe ſteſſo indiviſibile, eterno, ed immutabile. Malgrado dunque le continue aggregazioni delle parti ne' loro tutti, e le continue diſſoluzioni de'tutti nelle lor parti, malgrado le altera zioni, le generazioni, e le corruzioni, contemplando Meliſo l' univerſo nella parte effenziale lo credeva uno, e immutabile in quella guiſa che è ilmare, non oſtante le continue agitazioni che foffre da innumerabili flutti. Se tal era la ſentenza di Meliſo, ella non è men empia ri ſpetto a noi, che ridicola preſo i Pagani, perchè la materia, fe condo lo ſteſſo CICERONE, non può aver coerenza, e in conſeguen Tomo II. d za (a ) Cap. 5. l. t. Præp. Evang. (6 ) Parmenides unum fecundum rationem attigiffe videtur, Meliſſus vero fecundum materiam, quare id et ille quidem finitum, hic ve ro infinitum ait effe, Xenophanes autem quando prior iſtis unum poſuerat (nam Parmenides hujus auditor fuiffe dicitur ) nihil tamen clarum dixit, et neutrius eorum naturam attigiſſe videtur, ſed ad folum coelum refpiciens ille unum ait effe Deum. Metaf, Arift. l. 1. cap. 5. ediz, Parigi  1 1 1 4 > za unità, ſe non è ritenuta da qualche forza, e la continua ſuccef fione delle forme conſiderata affolutamente in ſe ſteſſa, non è me no eſſenziale al mondo, che alla materia. Ragionava dunque più ſottilmente Parmenide; dalla materia, e dalla forza, dalla ſoſtanza, e dall'accidente, avea coll'aſtra zione della mente dedotta l'idea dell'ente e dell'uno, e preten dea che l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo preſcindeffe da tutte le forme, e le differenze dell'ente ſteſſo. Il P. Maſtrio quali tre mille anni dopo ebbe una fimile idea, poichè egli vuole che l'en te in quanto tale preſcinda dal finito, e dall'infinito, da Dio, e dalle creature e la ſentenza è ſeguita da tutti gli Scotiſti. Qualunque ella fiali, certo è che come quella di Parmenide curta opera della ragione più raffinata, e che ben diſſe Arifto tele, che l'uno di Parmenide di VELIA era tutto ſecondo la ragione, non che la ſentenza di Meliſſo ancor non lo foffe, ma egli nel fondarla tutta ſulla materia croppo s'accomodava ai pregiudizi del ſenſo. Da Parmenide, e da Meliſſo ſi diſtaccava Senofane, il quale ef ſendo il primo a ragionare dell'immobilità dell'ente e dell'uno, s'at tenne alla concluſione ſenza ſpiegar il metodo con cui la deduſſe. Ariſtotele (a ) che avea diviſe le loro fentenze nella metafiſi ca, par che nella fiſica le confonda dove diffe', che altri di lo ro tolfero la generazione', e la generazione, e la corruzione, i quali come ben dicano in altre coſe non ſi deve perd penſare che parlino da Fifici, poichè l'efervi alcuni enti immobili è più inſpezione di una ſcienza ſuperiore, che della Fiſica. Non condanna dunque PARMENIDE DI VELIA, e MELISSO DI VELIA, perchè aveſſero tratcato dell'unità, ed immo bilità dell'ente, ma perchè ne aveano fatto un punto di Fiſica, dalla quale egli eſclule il trattato delle coſe eterne, e immuta bili, onde credendo che il mondo, e il Cielo lo foffero, parte ne trattò nella ſteſſa metafiſica, e parte ne' libri del Cielo; na chi può credere che Parmenide non diſtingueffe queſte due ſcien ze, avendo aſſegnati due principi delle generazioni, il foco, e la terra? e determinato che un foco ſottiliſſimo, o lia l'etere cingeſſe gli altri, e che movendoſi in vortice raffrenaffe colla ſua rotazione ſe ſteſſo, e le coſe contenute, ciò che è il principio de' più moderni FILOSOFI (6 ) Egli componeva il mondo di molte ghirlande tra loro teſſüste, una rara, e l'altra' denfa; fra le ghirlan de ne poneva dell'altre meſcolate di tenebre, e di luce, e volea che la coſa la qual a guiſa di muro le circondava forje foda, e maliccia. Queſte ghirlande, e corone erano i vortici di Empedocle, dei qua li egli dice parlando de caſtighi de'genj. Quelli (a ) Ariſt. Fiſic. lib. 1, (b ) Plut, lib. 2. cap. 7. (17 ) (* ) Quelli nel mar ſollicitante forza Dell' etere rifpinge, e fola ſpucali Ne’ſotterranei abimi, e nella lampada Dell'almo Sole dalla terra cacciali, E il Sole infaticabile tramandali Ne' wortici dell'etere. Accoppiando il paffo di Parmenide con quel di Empedocle, par che tutti due deſſero vortici alle Stelle, raffigurando Parinenide nella luce le fiffe, e nelle tenebre i Pianeti; chi sa, che queſta coſa maf ſiccia non foſſe il moto del vortice tutto luminoſo, perchè tutto etereo, il quale impediffe con la ſua forza di rotazione lo sfaſcia mento del mondo viſibile? il moto della Luna, dice Plutarco, (a ) ol'impero con cui gira, l'impediſce di cadere in quella guiſa, che la fionda torta in giro dalbraccio impediſce la caduta del faffo. Vuol Favorino, che Parmenide primo ſcopriſſe, che la ſteſſa Stella pre cede il Sole la mattina, e lo fiegue la fera, o che il Veſpero è lo ſteſſo che il Fosforo. PLINIO ne attribuiſce la ſcoperta a Piccago ra, il quale veriſimilmente la portò d'Egitto, col ſiſtema cele fte; ma forſe Parmenide, nella Teoria di queſta ftella, più che gli altri Pittagorici ſi diſtinſe, come Filolao nel moto della ter ra. Filolao la facea gira r in cerchio intorno alSole, ed Ecfan to volea, che movendoſinon partiſſe dal proprio luogo, ma fer mata a guiſa di ruota, ſopra l'aſſe proprio intorno quello giraffe da Occidente in Oriente; non (6 ) aderiva Parmenide, nè a Filo lao, nè ad Ecfanto, ma conſiderando la terra d'ogni intorno egualmente lontana dalCielo, la ponea in equilibrio, e voleva che ſenza eſſer fpinta da alcuna forza a queſto, o quell'altro verſo, ella fi ſquaſfaſe bensì, ma non ſi moveſſe. Parmenide feparò il primo le parti abitate della terra fuor de' cerchj fol ftiziali, indizio manifeſto, che egli avea proficcato delle teorie di Anaſimandro, di cui ſi ſuol far ignorante Senofane. Tal era: il ſiſtema aſtronomico di Parmenide: nel fiſico egli divinizzò la guerra, la difcordia, l'amore, e diffe: Di tutti gli altri Dei cauſa è l'amore. * Αιθέριον μεν γαρ σφεμένος πόντον δε διώκει, Πόντος δέσχθονος έδας απέπτυσε, γαία δ' εσαύθις Η'ελία ακαμαντος, ο δ αιθέρος εμβαλε δίνεις. Α'λος δ' εξ άλα δέχεται και συγένεσι δε πάντες. Plut. de Ifide, et Ofiride. (a ) De facie Lunæ. 16 ) Plut,deplac. Phil. lib. 3. d 2 Cosi (28 ) 1 Così gli attribuiſce Simplizio, ed Ariſtofane colle da Par menide l'amore che ordina, e fabbrica le coſe nella commedia degli uccelli, gli altri Dei non erano, che gli elementi già di vinizzati da Parmenide. (a ) Empedocle l' emulò, benchè egli quattro elementi poneſse, e due Parmenide, il foco, e la ter ra, principali architetti delle corruzioni, e delle generazioni, e che rarefatti, o condenſati, ſi cangiano in aria, ed in acqua. I principj, ſecondo Ariſtotele, devono eſser tra loro contrari, e nulla v'è di più contrario, che il caldo, e il freddo, a quali corriſpondono il raro, ee ilil denſo denſo,, ilil moto moto,, e la quiete. Tutto queſto ſiſtema fiſico di Parmenide eſpreſse Platone nel Sofiſta. Le mu je Jadi, ele Siciliane, dice, a queſte poſterioriſtimaronocoſa più ſicura d'annodare le coſe inſieme, in modo che l'ente ſia molte coſe ed uno, e ſi tenga colla diſcordia, e colla concordia, perchè diſcordando (6 ) fem pre s'accoſta egli come dicono le più forti muſe, ma le più molli non hanno voluto, che ciò ſe ne ſia ſempre così, ma privatamente alcuna volta dicono che l'Univerſo ſia uno, ed amica per Venere, altra volta molte, e con sè per ſeco diſcordanſi con certa conteſa. S'io non m'in ganno, qui s'allude all'amicizia, e alla diſcordia, o all’amore, e alla lite, che Parmenide poſe come principj efficienti delle genera zioni, e corruzioni; molti Poeti ſtaccando ciò dalle Poeſie di Par menide, e di Empedocle, non ifpiegarono con la lite, e con l'ami cizia, ſe non alcunifenomeni particolari, come chi dalſiſtemadel Newtono, il quale poſe per principio univerſale l’ attrazione; al tri ſolo la prendeſse per iſpiegare i fenomeni del magnetiſmo, e poi per iſpiegare l'eletricità, la gravità ec. fi valeſse d'altro prin cipio. Non può dirſi dunque, che Parmenide non foſse eccellente Fi fico, ſe egli allora penſava a ciò che il Newtono pensò tanti ſeco li dopo; ſcriſſe in verſi il trattato della Natura, come Lucre zio, ma il Poema s'è perduto, e non ce ne reſta che il principio conſervatoci da Seſto Empirico. (c ) Mi portano i deſtrier, e quant'io voglio Traſcorrono; che già m'aveano tratto Nella celebre via del Genio; via Di cui m'aveano ammaeſtrato appieno Gľ (a ) CICERONE. 6 ) Nel Gítema Newtoniano in tanto una parte di erta fugge da un' altra parte, in quanto ella è attratta con più forza da un altro corpo; quindi dall'attrazione ſi deduce l'a repulfione. () I verli ſono in Seſto Empirico contra Logicos. (29 ) 1 Gl'infigni coridori, e dalla fama. Correndo il cocchio ſquaſsano, cui Duce Le fanciulle precedono, ma l'aſſe Splende ſtridendo nell'eſtrema parce De' raggi tra due fiſso orbi torniti. Allorchè s'affrettaro le fanciulle Eliadi, e della notte abbandonando Le café tenebroſe oltrepaſsarle, Nella via della luce al fine entraro; Da i ſpiragli rimoſsero le vele Con man robuſta dove ſon le porte Delle vie della notte, e della luce; L'une e l'altre circonda un arco immenſo, E il pavimento tutto n'è di marmo; Agiliffime corronvi, e s'appreſsano Colà dove tenea Dice le chiavi, L'ultrice Dea, che premj, e pene imparte. Con parole molcendola ottennero Le fanciulle, che all'uſcio ella fmoveſse L'interna leva. L'adattata chiave Spalancando le porte per immenſo Foro i chioſtri ſcoperfe, mentre l'affe Si rivolgeva, e l'orbita del cocchio, Facilmente reggean l'alme fanciulle, A cui ben pronti il cocchio, ed i cavalli Ubbidiro. La Dea liera m’accolfe, E per la deſtra preſomi usd meco Tali parole. Dio ti ſalvi, o figlio Dilecto figlio, che alla noſtra Řeggia Guidarono que' nobili deſtrieri Che hanno in forte di reggere il divino Cocchio, nè rea fortuna ti conduſse In tal via. Non è trita a paſſi umani Ma audacemente di pregare è d'uopo I Numi, onde ti laſcino le leggi Inveſtigar della natura, in grembo Di veritade, che a ubbidire è proſta, E de' mortali tu fuggir potrai Le opinion, di cui non vera fede, Ma tu rimovi il tuo penſier da queſta Via di ricerca, nè ti sforzi lunga Eſperienza delle coſe gli occhi Figgere accenti o pur aperte orecchie Ai Ai dogmi che ragion non prova. Quello Che ti preſcrive eſperienza lunga La ſola mente dall'error corregge. Seſto Empirico, comentando queſti verſi oſſerva, che Parmeni de chiama gli appetiti dell'animo i cavalli, la ragione il genio, o demone, e gli occhi le fanciulle Eliadi; tutto il reſto è fancaf ma poetico, e, comeSenofane, egli penſava intorno alla ricer ca del vero; concludendo il giudizio appartener alla ragione, e non ai ſenſi, ſenza eccettuare i due delladifciplina, o l'udi to, e la viſta; dogma che fu poi quello dell'accademia, come a lungo Cicerone lo prova. I verſi fe hanno per oggetto cofe fublimi, e leggiadramente accoppino l' allegoria all' imitazione, e all' armonia, foddisfanno in un tempo ſtesſo, al fenſo, alla fantaſia, e all'incellecco, ono de queſte potenze coſpirando inſieme a ben rappreſentarci le co fe cantase, a preſtano ſcambievolmente le loro cognizioni, affin chè troppo sfumando nelle aſtrazioni, non ſvaniſca l'idea, e le ſenſazioni, e i fantasmi non l'offuſchino, ma ſervino alla mente di ſpecchio per ben contemplarla. La grande arte è, che lo ſpec chio non abbia troppo d'aſprezze, le quali non diſpergano ſover chiamente, ed affortiglino il raggio, che turbaco non ci laſci diſcernere, dove è l'oggetto. Alla proſa dunque, ma proſa poe tica ricorre Platone volendo appagare tutte le potenze della anima. Ed eccoci finalmente a Platone, dopo d' aver eſaminato come Pittagora dall'eternità, divinità, animazione del mondo racco glieſe l'idee; le divideſfero in certe claſſi generali i Pittagorici le diſtaccaſſero dal tutto, e ne faceſſero degli enti a parte; come Senofane, il primo ricavaſſe la concluſione dell'ente uno ed im-. mobile, come Parmenide contemplaſse ſecondo la ragione queſt' idea, e nelle coſe fiſiche s'uniformaffe a Senofane, diſtinguendo ľ opinabile dal vero. Tutta queſta fabbrica era fondata ſu la maniera di penſar di Pictagora, maniera falla, e pienamente diſtrutta da Padri, che molto al di là del IV. fecolo non combatterono collo fteffo Pit tagora, ma con Platone, di cui ſi debbe adeſſo rintracciare qua li influenze aveſſero nel Dialogo la dottrina dell'idee, dell'uno immobile, e dello ſcetticismo, perchè egli vi parla, e dell'idee, e dell'uno, e tutto proponendo per iporeli nulla conclude. Prima però di ſviluppar queſte cofe l'ordine della doctrina ricerca, che favelliamo dello ſtile Platonico in generale. Profonda e delicata cognizione della lingua Greca ſi ricerca per (31 ) e per ben intendere la bellezza, la forza, e l'armonia dello ſti le poetico di Płacone; lFraguier, che in tutto il cor ſo della ſua vita, l'avea con un ſpirito molto colto nella POESIA LATINA, ed in ogni altro genere di belle lettere ſtu diato, ben eſaminando il ſuo ſtile, ritrovava che Platone avea trasfuſo ne' Dialoghi l' Epico, il Lirico, ed il Dramatico. Com parava egli la profopopea, colla quale Dio nel Timeo ra giona agli Dei inferiori 'all' ode più ſublime di Pindaro travedeva nelle narrazioni dello ſteíſo Timeo, e in alcune del la Repubblica, la magnificenza Epica dell'Iliade. Nel paſſo cita so di ' Ateneo ', Gorgia mal ſoddisfatto di quel Dialogo intito lato col ſuo nome, ci dice, che un giovane, e Lepido Archilo co regnava in Atene; allude egli a Platone, che irritato con tro i Sofifti, non riſparmid le accucezze, ed i ſali contro di lo ro, ma i ſali di Platone non erano aſpri, ed ulcerofi, come quelli di Archiloco, e di Ariſtofane, ma eſtratti dallo ſteſſo mare, in cui nacque Venere. Così Plutarco dice di Menandro, e con non men di ragione io poſſo dirlo di Platone, che tut to comicamente condiſce con le grazie, e con le luſinghe della Poeſia di Omero, ed ingentiliſce in guiſa le accuſe de Sofiſti, che non mai gli affronta con quell' ingiurie, colle quali il Re de'Re alla preſenza dell'eſercito rinfaccia Achille. L' ironia di Socrate a ' è la chiave, ed ella è così ben maneggiata, che da alcuni ſi crede nel Menedemo (a) lodarſi le orazioni funebri, e pure vi ſi condannano. L'allegoria è perpetua in tutti i Dialoghi; allegorici ſono i nu meri armonici, di cui teſſuta è l'anima del mondo; allegoriche le Sirene degli orbi celeſti; allegorico il carro dell'anima, l'ali e il coc chiere; allegorici gli Androgini, la naſcita dell' amore, la gradazionedegli animali di Prometeo, e di Epimeteo, la guerra de gli Atenieſi contro i popoli del mar Atlantico, e quanto diſſe dell'Iſola Atlantica, e ſulle leggi, esu i coſtumidegli abitanti; tutto vi è finto per preparar l'idea della Repubblica, il cui modello cerca Platone nella fabbrica ſteſſa del mondo, ed ordiſce così la men zogna poetica, che molti s'affaticarono di ſpiegare ſtoricamente l'Iſola Atlantide, come il Ciro di Senofonte. Più s'occulta Pla tone in certe allegorie incluſe nelle frafi poetiche, per le qua li ſimboleggia molte coſe, e politiche, e morali, e metafiſiche, diſegnando l'ulcime con coſe colte, o dalla muſica, o dall'altro nomia, o dalla geometria; tre ſcienze (6 ) nelle quali era fo mamente dorto al ſuo tempo. Certo è, che ſe giuſtamente non retro s'ap (a ) CERONE,  Acad. (6 ) Ab, Fleurì nella lode di Platone. s'apprezzano le fraſi poetiche riducendole al ſenſo filoſofico, li corre riſchio di non intender mai, nè le parti, nè il tucco di un certo Dialogo, e ne vedremo nel Parmenide ſteſso gli eſempj. Ebbe dunque Platone comune la poeſia con Parmenide, ma molto egli l'accrebbe col Dialogo, modo più naturale per iftrui re, più comodo per illuminare, adoprato da Socrate, da Seno fonte, da Stilfone, daEuclide, da Glaucone, e al dire d'Ariſto tele da un certo Aleffamene inventato. S'imitano col Dialogo i ragionamenti degli Uomini, come ne? drami s'imitano le azioni. Platone che voleva emular in tutto la poeſia di Omero, ſi sforzo d'imitar le diſpute de Filoſofi, in quella guiſa che Omero avea imitate le azionidegli Eroi. Ciò che al Drama è la favola e l'epiſodio, è la queſtione al Dialogo, e la digreffione, e' nell'una, e nell'altra riuſcì egregiamente Plato ne. Non v'è Tragedia antica, che meglio eſprima il principio, la percurbazione, il ſcioglimento dell'azione, di quel che Platone proponga, diſcuta, termini la queſtione, in cui ſebben nulla concluda, però gli bafta d'aver conſumate le ragioni dall' una, e dall'altra parte. Nelle digreffioni comincia per lenti gradi ad allontanarſi dalla queſtione, poi ſpazia o nella Geometria nella muſica, od in altra ſcienza a fuo talento, e ſenza che il lettore fe ne accorga, il riconduce alla prima propoſizione non per ſalti, ma per gradi. Anche in cid imitd Omero, che al dir del Gravina (a ) traſcorre tallora alſoverchio, tallora moſtra ď abbandonare, ma poi per altra ſtrada ſoccorre. Platone non imita meno Omero nel carattere degl'interlocu tori, e delle ſentenze; io ravviſo in Alcibiade un non so che del carattere di Paride, l'uno e l'altro è milapcatore, fuperbo, e laſcivo; il carattere di Neftore è trasfuſo in quella parte del carattere di Socrate, ove queſto conſiglia, ma Neſtore auto rizza i ſuoi diſcorſi con l'eſperienze acquiſtare nell'uſo della vita, e Socrate con l'impreſſioni del genio che il dominava. I caratteri de' Sofiſti ſono preli da quei dei Trojani, che ſenza ordine, e ſen za diſcipliita s'avanzano come le Gru ſchiamazzando, e poi reſta no ſconfitti da' Greci, il cui coraggio e valore era ſoſtenuto dalla ſapienza, e dal consiglio, e fino da Minerva. Molti. pretendono che Platone ſpieghi la ſua ſentenza nel far ragionare Socrate, Timeo, Parmenide, l'Oſpite Arepieſe, e l' Eleatico, due perſone anonime, e che gli faccia dire a Gorgia, a Traſimaco a Claride., a. Protagora, et Eucidemo, ciò che non approva e vuol rifiutare, ma coſtoro non avvertono, che nel Ragion Poetica. nel far Platone ſiſtematico lo fanno peſlimo Dialogiſta, e talor peffi moFiloſofo, perchè egli concraddice a ſe ſteſſo in diverſiDialoghi, o almeno le coſe vi ſono così ſconneſſe, che non ſi può raccoglierle, non più che le membra di Penteo (a ) diſunite e sbranate. Tratto di cutte le parti della Filoſofia, or Logica, or Fiſica, or Metafiſica, accennomolte ſcoperte de' ſuoi tempiintorno alla mufica, all'aſtro nomia, all'ottica, ma imitando poi la ſetta Eleatica ne'dubbj, e nell'opinioni, tutto propoſe ſenza nulla concludere. CICERONE lo conſidera come il primo degli Accademici, o quel che diede ad Arceſilao, ed indi a Carneade il metodo di dubitare. Seſto Empirico ſenza altro lo pone tra' Pirronici nelle materie an cora più gravi, come in quelle dell'anima,del mondo, di Dio; nè a ciò CICERONE è contrario. Conveniamo dunque che Platone, co me nello ſtile poetico convenne colla ſcola Eleacica, così vi conven ne nel metodo di opinare,che egli col Dialogo reſe più problematico. Confideriamolo adeſſo nelle fentenze, e principalmente in quelle che riguardano l'idee ſulla Divinità, e ſulla materia. S'è già dimoſtrato, che i Pitcagorici riducevano tutto all'idee, ed ai numeri. Platone ſcielſe, e perfezionò ilmetodo dell'idee, econ duffe lo ſpirito alla cognizione del bene per l'idea del bene, della bellezza per l'idea della bellezza, e cosìfece del valore, della tem peranza, della ſcienza, e dell'altre virtù morali ed intellettuali, com ponendo tra loro l'idee n'eſtraffe l'idea della Repubblica, o l'idea del giuſto conſiderato nell'amminiſtrazione d'una Repubblicazimmagine di quella amminiſtrazione, che delle potenze dell'anima fa la ragione. Credevå egli, che ſpiegar le coſe particolari per le univerſali, fof ſe il metodo chela natura leguiva, allorchè procede dalle cagioniagli effecti. Parve ad Ariftotele, che foſſe più facile, e più ſendibile nelle inſegnar le ſcienze, ſeguir l'ordine dello ſpirito, chealla cagionevi per l'effetto. Non ſono più oppofti queſtimetoditra loro, che la ſin teſi, e l'analių, di cui l'una comincia dalle coſe generali, per difcen dere alle particolari, e l'altra dalle particolari, peraſcendere alle ge nerali; l'uno e l'altro Filoſofo nell'inveſtigar l'idee delle coſe, adoprò il metodo ſteſſo di comparare i ſingolari,e di farnele aſtrazioni oppor. rune, e lo dimoſtrerd a lungo pel ragionamento dell'idee Placoniche. CICERONE riduce l'idea alla terza parte della Filoſofia, che ver ſa nel difputare. Così l'idea trattavasi dagli antichi, che ſebbene ac cordavano ella naſcer de ſenſi, però volevano che il giudizio nonfoſe ne fenſi, ma che la mente fore giudice delle coſe, ſtimandola ſola atta a di ſcopriril vero, perchèfola diſcopriva cid cheera ſemplice, della ſteſanas tura, o tal qual era, e queſto lo chiamavano idea già così nominata da Platone, e noi poſiamo (conclude egli ) rettamente chiamarla la lpecie. Non erano perciò l'idee Platoniche, a ben comprenderle, che le fpe cie, eigeneri che noi facciamo, comparando ed altraendo, eche, Tom. II. (a ) Eufeb.Prop.Evang. (6 ) De Natura Deorum. (c ) Lib.1.Accad. 2 e come (34 ) 1 come ſi diffe, cappreſentavano i Pittagorici per l'unità, poichè la mente tutto va unificando per ſua natura. Una ſpiegazione sì facile, e breve dell'idee Platoniche, perfectamente s'accorda co' principi d'Ariſtotele. Egli tratta nella Merafilica l'idee Platoniche da metafc re poetiche, e queſto nome gli avrebbe pur dato Platone, se avelle dogmaticamente ſcritto come Ariſtotele', ma nel Dialogo ſpecie di Poelia Dramatica egli eguagliò la compoſizioneallo ſtile. Morco Platone, ed offeſo Ariſtocele di vederſi poſpoſto a Pfeufipo „ a lui tanto inferiore in ingegno, e in dotcrina vi oppoſe un'altra ſcuola di cui ſi fece capo, e per accreditarla cominciò a combattere le fentenze del ſuo antagoniſta, attaccandoſi alla parte più difficile, e più equivoca o alla quiſtionedell'idee, alle quali Preuſipo imitando.forſe il metodo di Platone dovea dar troppo di realità. Ariſtotele ſcriſe dunque contro l'idee ſeparate, ma Platone avendo già nel Par menide conſumato quanto potea dirli contro di loro, Ariftotele ne copiò gli argomenti dipeſo, ed al ſuo ſolito con brevica ed oſcurità di ſtile, fingendo di combatter Placone critico Preuſipo, ed i ſuoi di i fcepoli. Dital congettura è mallevadore il Patrizio nelle ſue diſcuſ fioni peripatetiche. S'elle ſon vere, non che verifimili, verifimile è pure che fin d'allora ſi ſpargeſſero i ſemi che prima Ammonio Sacca, ed indiPlotino, Porfirio coltivarono, e Jamblico, e Procloridul fero in regolato fiftema. S.Giuſtino, che avea più ſtudiatii Platoni ici, che Platone era perfuafo, che l'idee foſſero ſoſtanzeſeparate, collocate con Dio nella sfera più alta. S. Cirillo rifiuţa Giuliano A poſtaca, che credeva il Sole, la Luna, egli altrieller l'idee viſibili e comporre gli Dei. 11 P. Balto riferiſce a lungo ipaſſi di S. Ireneo, di S. Bafilio e d'altri, i quali impugnarono l'idee ſeparate, che introdu cendo il politeismo rovinavano ne'ſuoiprincipj la Religione Criſtia pa. Soſpetta il P. Balto, che Eufebio difendere l'idee Platoniche persè ſuffiftenţia pro dell'Arianismo da lui profeſfaco. Negli ultimi tempi il Clerico ne rinovd la ſentenza, e molto più l'anonimo Soci niano nel tuo Platonismo ſvelato, ove ſi confondono con l'idee di Platone, gli Eoni rami de'Seffirotii cabaliſtici adottati da' Valencia niani e da' Baſiliani, e de'quali nella concinuazione dell'iſtoria degli Ebrei parla a lungo il Basnage, I comentatori di Platone abbagliatidatante autorità, nè avendo forza di critica fufficiente per reliltervi, s'abbandonarono ai fantasmi di Proclo, e di Jamblico, anziche abbadarea'ceſti di Platone, ne s ' avviſarono di ben pelare le dottrine del Parmenide contro l'idee ſeparate aggiunte da Ariſtotele alla metafiſica. S. A goſtino è il primo de' Padri Latini, che non fepara l'idee Pla toniche da Dio; dando a Dio la creazione del mondo non poteva egli non concepire nell' intelletto divino la ragione dell'ordine del le coſe create, e queſte appunto ſono l' idee su le quali poi San Tommaſo ſeguito da' Teologi, ne fece molti articoli, of. feryando che l'idee divine ſono univerſali, onon rappreſentano a Dio (35 ) 2 € Dio ſolo le ſpecie, ma ancora gl'individui, col rappreſentargli le coſe non quali noi per la limitazione della noſtra mente le veggiamo, ma quali ſono in fé ſteſſe. Il Padre Balco riprende a dritto su queſto punto il Dacier, che per difender malamen te Platone, cade non volendo in un errore. Ma fe Platone preſe da’ Pitragorici l' idee nel ſenſo, che le propoſero Pitcagora, ed Archira, pare che egli ancora come queſti ſentiſſe intorno la Divinità. S'è già dimoſtraco che dopo Pitcagora, Senofane e Parmenide conſideravano Dio non altrimenti, che l'anima del mondo. Lunga cofa, dice Ci cerone, (a ) ſarebbe a dire dell'incoſtanza di Platone intorno a Dio; nel Timeo nega, che porta nominarſi il Padre del mondo; nel libro delle leggi, ſtima non doverfa ricercar affatto coſa ſia Dio. Lo stesſo nel Timeo, e nelle leggi, dice eſſer Dio, il mondo, e gli altri e la terra, e gli animi, e gli altri Dei, che abbiamo ricevuti dagl' iftitu ti de' Maggiori. Il Padre Arduino raccolſe tutti i paffi, ove Pla tone parla degli Dei nel ſenſo ſtero. Dio nel Timeo ſi chiama bensì il Padre, e l'artefice del mondo, ma non mai il Signore, il Sovrano; ſi chiamava il mondo un Dio generato, il quale ba una perfetta ſomiglianza con Dio; figliuolo, e figliuolo unico di Dio; un Dio completo, un Dio generato da un altro Dio, un Dio felice, im magine del Diointelligibile, perfetta copia d un originale perfetto Dio ottimo malimo, qual appunto i Romani doceano diGiove, per cui folo intendevano il deſtino inviſibile delle coſe. Molci alcri paſſi ſpiega l' Arduino, e da cutii ſi raccoglie, che Placone non co noſceva Dio, che come principio intelligente, qual lo conobbe Pittagora, Senofane, PARMENIDE DI VELIA, e cant alori, a' quali può ben applicarſi il pallo di S. Paolo, in un ſenſo filoſofico, che cono ſcendo Dio, non come Dio l'onorarono (non ſeparandolo affacco dal la materia, o, ponendolo ad eſsa coeterno. ) Pitcagora avea generato il mondo, e lo generarono i Fenici, Orfeo, ed Eliodo. A queſt'idea poetica, Platone aggiunſe le Fi loſofiche accennate da Timeo di Locri nel fuo ragionamento della natura, e dell'anima del mondo, e ne compofe il Timeo, nel qual volea nell'ordine oſſervato dalla ſapienza nella fabbrica del mon do, dar un modello di quella Repubblica, che poſcia propoſe nel Dialogo del Giuſto. Ariſtocele pur comparava la coſtituzione del mondo ad una Repubblica, in queſta v'è il Principe, che comanda ai Magiſtrati militari, e civili, e nel mondo v'è Dio, che col miniſtero degli Dei inferiori, compie, conſerva, ed ordina cuc te le coſe. S'è © e di lo Lei li i e lo i e (a ) D: Natura Deorum lib.  s'è gia dimoſtrato, che i Platonici recenti nel divider in due punti, o ſegni, l'eternità, neaſſegnavano il primo ſegno a Dio, in quanto a Dio, ed il ſecondo a Dio creatore della materia la difficoltà è di ritrovare in Platone qualche coſa che s'av vicini a queſta dottrina. Teofilo (a ) non ve la ritrovd altri menti dicendo, che Platone coi ſuoi ſeguaci poneva Dio, e la materia ingenita; con che non venia a porre Dio, nè uno; nè ſolo. lo qui ſtenderò un lungo paſſo di Plutarco, perché fe 'ne giudichi. Il mondo, dice egli,è bensì ſtato fabbricato da Dio, perchè fra tutte le coſe è bellißimo il mondo e Dio fra le cagioni l'ottimo, ma la ſoſtanza, e la materia, della quale è ſtato formato, non eſſer mai nata, ma ſempre averſi trovata ſottopoſta ab Maeſtro, ed ubbidiente a ricever quell'ordine, e quella diſpoſizione, che fore in quanto ella potelle comportare a lui fimigliante, percbè il mondo non fu creato dinulla, ma di ciò che era privo, di bellezza, di leggiadria, e di perfezione, ſiccome la caſa, la veſte, la ſtatua, perciocchè tutte le cose, primache naſceſe il mondo, foffero confuſe, e diſordinate, nondimeno le coſe confuſe non erano ſenza corpo, ſenza fora ma, ſenza regola, moſle da movimento a caſo, e ſenza ragione. Que sto altro non era; che la ſproporzione dell' anima, di ragione Spoglia ta, perciocchè Dio di coſa ſenza corpo non fece corpo, nè anima di coſa d'anima priva, nella maniera che noi vediamo, cbe il Maeſtro di muſica, e dell armonia, non fa egli la voce, bensì la voce acconcia, e il moto proporzionato; così parimenti Dio non fece il corpo trattabile, e ſodo, nè l'anima atta a moverſi, ed in gannarſi, ma preſo l' uno, e l'altro principio, quello oſcuro e pienodi tenebre, queſto confuſo e pazzo, amendue più rozzi, e più difformidel convenevole ordinandoli; e diſponendoli, e congiungendoli formd un animal beltiſſimo, e perfettiſſimo. Dunque la natura del corpo non è punto diverſa da quella natura, come dice Platone, che abbraccio il tutto, ed è fondamento e nutrice di tutte le coſe che naſcono; non dimeno la natura delp anima fu da Platone nel Filebo nominata infini to, il quale non riceve numero, nè proporzione, nè vi ſi trova miſu ra, o termine alcuno di mancamento, di ſoverchio, di ſimiglianza, o di differenza. Così parla Plutarco ed è facile il dedurne, che ſecondo Pla tone eterna era bensì la materia del mondo, ma nuova la for ma, (a ) Teophil. ad Autolicum 1.2. Plato cum ſuis aſſeclis Deum quidem confitetur ingenitum, patrem præterea et conditorem hominum, at que deinde fubjicit, live ſupponit Deo materiam quoque ingenitam, quæ fimul cum Deo prodiderit five extiterit; verum fi Deus cen ſetur ingenitus, et materia perhibetur ingenita, jam nec amplius Deus conditor et creator eſt hominum etiam fecundum Platonicos, nec quod unus et folus ſit ab his vere demonftratur. nè il moto, ma 1 1 (37 ) má, ed in queſto Platone differiva da Ariftotele, il quale, come s'accennd, fece ad un tempo eterne, e la materia, e la forma; Ariſtotele rimprovera perciò Platone, d' aver fuppofto, che la materia con cuiDio compoſe le coſe, foſſe in moto, e loda Anaf fagora, che la poſe in quiete. Vuole egli ignorare, che affatto poetico foſſe il Timeo; pure non è credibile,che egli non l'aveſſe udito dir più volte da Placone ſteſſo, che nel Dialogo finſe Socra te a favellar con Timeo di Locri contemporaneo forſe a Pittagora; parla dell' abboccamento che Solone ebbe coi Sacerdoti d'Egitto, iutta ſpaccia la favola dell'Iſola Atlantide., ſtempera in una taz za i numeri armonici dell'anima del mondo compoſta di cre ſo ftanze, ne ſparge le reliquie su le ſuperficie de glòbi', conſidera come coſa reale la mecemplicoſi, che Timem (a ) nel ſuo ragiona. mento introduce come coſa politica. In ſomma ben eſaminan do tutte le frafi Platoniche e tutto il conteſto della dottrina Filoſofica poeticamente maſcherata, io ſon perſuaſo, che in Platone, comene Pictagorici, Dio vi s'introduca qual animadel mondo, o la ſteſſa mente, e ſapienza perfecta ſparſa per tutto; allora perciò che dice CICERONE nella natura degli Dei, e quan do Platone fa Dio incorporeo (b ) egli confonde Dio con la mate+ ria, la quale era incorporea, come ſi diffe, prima che da Dio ſe ne eſtraffero i corpi. Dall'alcra parte nell'ipateli, che Dio gli abbia eſtratti, fece Dio concepirſi" al di fuori della materia, co me l'architetto al Palagio, e lo ſcultore alla ſtatua. In vano dun que dall' opere di Platone, e degli altri Filoſofi antichi, i qua li ammifero la materia eterna, li cerca l'idea del Dio che ado. riamo; egli è uno ſpirito infinito, nella di cui natura inviſibile ſono riunite cutte le perfezioni immaginabili, e poflibili; onde gli ſcolaſtici lo chiamarono il cumulo delle perfezioni; e i Cartuliani l'ente infinitamente perfecto. Sino a què l' ammet cevano gli ſtefli Pagani, ma la definizione non balta, ſe ad el fa non s? aggiunge, che Dio ha tratto dal niente l' Univerſo, e che è diltinto realmente, e ſoſtanzialmente da tutto ciò che ha creato. Tale definizione come ortodoſſa propoſe l' Abbate d'Oliveta ’ Filoſofi (c ) dopo di aver eſpoſte tutte le loro fen tenze, tra le quali entra e Pittagora, é Senofane, e Parmeni de, e Platone Itello, Non (a. ) Nel fine. (6 ) Cicer. Natur. Deor. (c ) Nel fine del Tomo 3. della traduzione della Natura degli Dei;. Par ce mot. Dieu, je veux dire un eſprit infini, dont la nature eſt indiviſible et incomunicable; dans lequel font réunies toutes les perfections imaginables et poſsibles, ſans aucun mélange d' imperfe etion; qui'a tiré du ndant l'univers, et qui eſt diſtinct réellement et ſubſtantiellement de tout ce qu'il a créé. 0 1 (38 ) o dell' Non è tuttavia, che debbano ſpregiarſi le dottrine di Placone, e rigettarle come inutili; conobbe egli Dio ſotto un'idea con fuſa, come lo conobbe Ariſtotele, e in quella guiſa che S. Tom maſo da Ariſtotele tralle molti principi, e combinandoli coi rivelati propoſe molte concluſioni Teologiche, così può farſi di Platone; S. Tommaſo dall' uno, e dall'altro traſfe l'eſiſtenza di Dio, impiegando i mori, le cagioni, l'ordine del mondo, i gra di più o meno perfetti delle coſe, ma non potè trarla dall' en te contingente e neceſſario, che Platone non conoſceva, ponen do ecerna la materia, e chiamandola neceſſità. Dimoſtrar il primo ente qual principio intelligente, per l'adequaca idea di Dio, non baſta le da eſſo non ti rimovono tutte le compoſizio ni, dimoſtrando, come fa S. Tommaſo, che in lui non ve n'ha nè di forma, nè di materia, e che non può ridurſi ad alcun genere, Nel Parmenide però non v'è biſogno d'alcuno di queſti ar tificj; tutto vi fi' riduce all'idea metafiſica dellence uno. Convien dedurla da' ſuoi principj, od eſtrarla come fece Pittagora, e Peritione da tutti i compofti, ed eſaminarne le proprietà. Così AQUINO (si veda), ove tratta dell'unicà, e della bontà di Dio, prima ricerca, quanto la ragione, gli può per mettere, coſa ſia l' uno, e coſa ſia il buono, indi col princi pio rivelato cid combinando, dimoſtra la purità, e la bon tà di Dio. Io parimenti ricercherò con la ragione, fe si poſſa ben intendere l' uno del Parmenide, laſciando agli altri la fa rica di ſpiegarlo in un modo fublime, applicandovi le coſe Teologiche, delle quali non intendo d' attaccarne, o diftrug. gerne la minima. Io cratterò della dottrina del fine, indi del metodo del Dialogo. Gli antichi con ragione intitolarono queſto Dialogo, il Par menide o dell' idee, perchè Parmenide parla più degli altri, e tutti i ſuoi ragionamenti raggirano su l' idee, o per cercarle con le aſtrazioni della mente, o per diſtruggere le ſeparate, eſempli ficandone il caſo nell'idea dell' uno, la più ſemplice di tutte l'al tre, e a cutte l'altre comune. Supponevano i Pictagorici, che tutte le coſe imicaſſero, o par ticipaſſero l'idee, o le fpecie; provacontro loro Parmenide, che le cofe non poſſono eſſer partecipi delle fpecie, nè ſecondo il tutto, nè ſecondo unaparte, indi col principio di contraddizione, col progreſſo all'infinito, e coll' ideaſteſſa delle perfezioni divine; gli fteffi argomenti di cui ſono nel Parmenide i femi, fteſe Ariſto tele, ed è mirabile che i comentatori non abbiano penſato di con frontarlo nel ragionamento dell'idee con Placone, ciò che attri buiſco all'ipoceli da loro fiſsata, che in queſto Dialogo Parmenide, o Platone confermi e non diſtrugga. l' idee ſeparate. Annullate tali idee in modo cheSocrate ne reſta convinto, Pare menide per non laſciarlo nell' imbarazzo gli moſtra la neceſſità che ha il Filoſofo d'ammettere certi principj fiſſi ed immutabili e tanto più difficili a comprendere, quanto che non fi poffono de terminare, nè co' ſenſi, nè colla fantaſia. Parmenide' nell'etem plificare il caſo del metodo propone l'idea dell'uno, e la con ūdera relativamente a ſe ſteſſa, indi all'ente, al fine, al non en te. Così un matematico trattando per eſempio del triangolo, lo conſidererebbe prima in ſe ſteſſo, poi per rapporto all'altre figure rettilinee o piane, ed al fine alle non rettilinee, od alcerchio. Definiſce Zenone l'uno per oppoſizione a molti, e chiama uno ciò che non è molti. Ariſtotele, nella metafiſica molto ap prova queſta definizione, perché i molti ſono più noti al ſenſo che l' uno; prende Parmenide la definizione, e negando dellº uno tutto ciò che s'include in molti o li predica de' molti; negà ch' egli fia cutro, parte, principio, mezzo, fine, figura moto, quiete, lo ſteſſo, diverſo, ſimile, diſſimile, eguale, mag giore, minore; in oltre gli nega le differenze del tempo, pre lente, paſſato, futuro, l'eſſenza, la ſoſtanza, il nome, il ſen fo, la ſcienza, l'opinione. Parmenide prende ſempre l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo, nè men volendo che l'uno â conſideri per rapporto a ſe ſteſſo, perchè nel riferir l'uno a sè li concepireb be come due o come molti. La ſeconda quiſtione è, ſe l'uno ſia che accada all' uno, ed all'altre coſe; qui l'uno fi ſuppone inſeparabile dall'ente, come rente dall' uno, onde tutto ciò che s' include o li predica dell', pud predicarſi dell' uno; quindi ſe nell' ente's include o dell'ente fi predica, la parte, il tutto, il finito, l'infinito, il principio, mezzo, il fine, la figura, il luogo, il moto, la quiete, il fimile, il diffimile, lo iteſto, il diverſo, l'eguale, il maggiore, il minore, il tempo paffato, preſente, e futuro, 1 eſſenza, o la ſoſtanza, la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, tutte queſte coſe ſi predicheranno ancora dell'uno. Non ſi predicano però queſte coſe oppoſte dell' uno, e dell'ente. nel medelimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo riſpetto, ma in varj te m pi o ſecondo diverſi riſpetti, e ciò fa che le contraddizioni non ſieno, che apparenti, o del genere di quei meraviglioſi, che de generano ſpiegandoſi in puerilità. Cosi penſa lo ſtelfo Platone nel Teeteto, maParmenide nel cercar qui ſe ſia l'uno, quali altre co fe ne fieguano, non cela all'uſo de Sofiſti, ma ſpiega come vero Filoſofo in termini ſemplici i miſteri, e queſta iola credo una nuova prova del liftema Parmenideo da me ſtabilito. In queſte due prime nozioni dell' uno non vi ſi framiſchiano le immaginarie', o poetiche; mabensì ve ne fono nella terza, ove fi rapportal'uno al non ente, o al nulla, di cui non s'ha nozionereale', ma ſolamente immaginaria come dell'impoffibile. V'è un affioma Logico, il qual diceche, dall' impoflibile ogni coſa ſe ne deduce, pera che in lui fi complicano i contraddicorj, anzi il criterio per co nofcerlo è per mezzo dei contradditorj, e poichè l'uno è inſe párabile dall'ente; fia lo ſteſſo dir il non uno, che il non en te, ma del non ente o dell'impoffibile fi dice che ha effenza, o che non l'ha, che è lo ſteſſo e diverſo, che è ſimile, e non fi mile, eguale, non eguale, cheſe genera e fi diſtrugge ec. Dun que le ſteſſe coſe che ſi predicheranno del non ente conveniran no ancora al non uno. Nell'attribuire il non uno all'altre coſe, fi trasformeranno queſte in fantasmi, o sogni d'eſtenſione, di mal fa, di moto e di quiete, ciò che rende il mondo più poetico del cabbaliftico. Platone o Parmenide maneggiano queſto argo mento con ſomma ſagacità, e delicatezza, e ben ſi vede quanto foſſe la loro Filoſofia profonda, e quanto utiliffima eller poſla, non cangiando il grado dell' aſtrazione, nè inneſtandovi opinioni affatto encufiaftiche, come fece FICINO. I celebri Pittori, attenti ad oſſervare in ogni luogo tutto ciò che loro ſomminiſtra idee nuove d'atteggiamenti, di ſcorcii, di lineamenti, difigure, ſe mai su i muri più affumicati ritro. yano quelle ſtriſcie fortuite impreſſevi dalla caligine, le vanno combinando con la loro immaginazione, e creano delle figure leggiadramente fimecrizzate, e canto ſi rifcaldano nel vagheggiar opera loro, che le additano agli altri, come fe ivi foffero,e ſi cruciano e fremono, e ingiuriano, quando queſti ſemplicemen te riſpondono di non ravvifare, che orme irregolari di fumo. I Filofofi, e particolarmente i comentatori hanno lo ſteſſo coſtu me, fiffi in un fiftema l'addatano a tutto ciò che incontrano nell' autore da loro accarezzato, e dove egli ancora parla nel modo più ſemplice, e naturale, e conveniente a'ſuoi principj, par loro di fargli torto, ſe non l'abiſfano nelle loro profonde ſpeculazioni, e lo dimoſtrano tanto più ammirabile, quanto nyono l'intendono, c quanto dagli altri è meno intefo. In tutti i Dialoghi s'è prefiſſo FICINO, di far di Placone (a ) un Teologo Criſtiano, ma non so come ritorni in queſto Dialogo al (a ) Prima ex quinque ſuperioribus de uno fupremoque Deo dixerint quomodo procreat diſponitque deorum ſequentium ordines. Secunda de fingulis Deorum ordinibus, quo pacto ab ipſo Deo proficiſcuntur ec. argum. Marſ. Ficini Parm. vel de uño rerum principio, et de 9 ideis. (41 ) al Paganeſimo, e vi traſporti tutte le idee fimboliche del Timeo, e del Fedro ſenza biſogno, e profitto; e che coſa ſon queſti Dei che ſeguono Dio nell'ordine loro, ed in qual parte del Parmeni de li ritrovo? Annullò il Serano gli Dei, e vi ſoſtituì due ſorti d'idee; Dio è la prima e principal idea, le ſeconde ſono le va. rie idee delle coſe create; ma ſe Parmenide non diſtingueva Dia dal mondo; coſe affatto poeriche non ſono le idee divine? Non bado il Serano, che Parmenide toglie all'ente ſino il tem po' preſente, e le toglie ancora l'eſſenza. Si, ma intende il Se rano l'eſſenza delle coſe ſingolari, e quando Parmenide dice, che l'uno è molte coſe, vuol dire, che egli dà la forza d'elfte re alle coſe ſingolari. Or come ſi può includere nell'idea dell' uno, in quanto tale la forza? E come poteva Parmenide inclu derla nell' uno, ſenza concepirvi l' eſſenza, e nell' accoppiare l' eliftenza alla forza, e non concepir l' uno come molti contro l? ipoteſi? La prima idea, dice il Serano, fi diffonde in maniera ſulle coſe create', alle quali Dio dà la forza, e facoltà d ' eſiſtere, che ad ogni modo circoſcrive ne' determinati cancelli dell' uno, la feffa moltiplici, tà, e quaſi infinità delle coſe ſingolari. Queſta è la luce tenebroſa del Flud, chi può ſpiegarla? Va il Serano peſcando le affezioni dell' idee ſeconde, e ne ri trova ſei, dopo le quali la ſua vena metafiſica, e teologica, ſi conſuma, o perde, ed in tutto il reſto del Dialogo immobil mente fiſto, ed eſtatico ſul ceſto Platonico, par uno di que' Chineſi, che per molti anni guardandoſi la punta del naſo s'im maginano di veder l'eſſenza divina; non batte egli palpebra tutto concentrato in sè, nè degna abbaſſarſi a ſoſtener con note margina li l'imbarazzato lettore. Io ſon ben lontano dal condannare le al tre note di queſto autore, colle quali negli altri Dialoghi eſpone la conneſſione, e callora le ragioni ſemplici del teſto, ma nel Par menide ſpiegando alto il volo per emular il Ficino, li dimentica del ſuo coſtume, e laſcia in aſciutco il leccore; ma come è poſſi. bile, che avendo egli canto ſtudiaco Platone, e confrontati i teſti, nonabbia atteſo ad unpaſſo del Filebo, in cui li ſpiega il fine, che Platone ſi prefiſſe in queſto Dialogo? Nel Filebo, che non ſenza ragione gli antichi faceano ſeguir al Parmenide, cosi ſi parla da Socrate a Protarco. Tu, o Protar dice Socrate, intorno l' uno ed i molti ai dette le coſe pubbliche dei meraviglioſi, le quali, per dir cosi, ſono concedute da tutti, che non fieno punto da toccarli, ejendone alcune puerili, e facili da conoſcerſi, e per nuocere maſſimamente a ragionamenti, fe alcun le ammetteſſe; nè è Tom. II. f de (42 ) - 1 1 tal uno, da ſtimarſi coſa meraviglioſa, ſe alcun dividendo rolla ragione le mem-, bra d'alcuna coſa, e tutte quelle parti, confeſſando quella eſerne una; di poi la confutalle, e ne prendeſe beffe quaſi sforzato a con. feſare coſe moſtruoſe, cioè che una ſola coſa ſia molte ed infinite, ele molte quaſi una ſola, E' quì da notarli quel dividere con la ragione le membra di alcuna coſa, formula che egli repplica ſovente nel Parmenide, in cui dice, ſeparar le coſe con l'intelligenza, e fino sbranarle; indizio manifeſto che qui non ſi tratta, che d'aftrazione di ra gione, per cui nelle coſe più ſemplici fi diſtinguono, non le par ii, ma gli attributi, e le relazioni che le fan molte per rapporto alla mente; or tutto ciò che dice nel Parmenide dell'ente, e dell' uno, non divien egli un di que' meraviglioſi puerili, de' quali par la Socrate, fe non s'averte, che le contraddizioniſono apparen. ti, o che nel medeſimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo non s'aſcrive all'uno, il fimile e diffimile? Siegue Socrate: quando alcuno giovane pone l'uno, non eſſer alcu na di quelle coſe, le quali naſcono, e muojono, perciocchè quì un co come poco fa dicemmo, ſi è conceduto, che non ſi debba con futare. Parla quà Socrate della prudenza, della ſcienza, e della men te, di loro natura une, immortali, ed eterne nel ſiſtema Piccagori co, e delle quali, come d'eſſere reali, parla nel Sofiſta. Conclude Socrate: Ma quando ad affermare è altretto un fol Uo mo, un ſol bue, una coſa bella, ed una coſa buona, allora veramen. te in queſte, ed in cotali unità ſi rende ſollecito lo ſtudio, ed anche ſi fa ambiguala divifione. Primieramente ſe ſieno da ammetterſi certe uni tà sì farte, che fieno veramente; di poi, in qualguiſa ſia de penſarſi, che ciaſcuna di quelle coſe ſia una, e la medeſima ſempre, nè fi pren da generazione, nè morte, ma ſe ne ſtia fermiſima nell' unità di lei; finalmente ſe ſia da porſi alcuna coſa nelle coſe generate, od infinite, o partita, ed oggimaifatta moite coſe, o tutta eſa in diſparte da ſe medeſima, il che più di tutte l'altre coſe parrebbe impoſibile che uno, e lo dello ſi facele parimente in uno, ed in molti. Quefto è l'uno, ed i molti che ſi trovano intorno a cotali coſe, ma non quelli, o Protarco che non conceduti bene ſono cagione d'ogni dubitanza, ed ogni facilità ben conceduti. Manifeftiffimo è, che quì Socrate ripete le difficoltà ſull' idee ſeparate fattegli da Parmenide, e ſu le quali confeffa, che impoſſi bile è di scioglierle, indi fa attenzione al metodo inſegnato da Par menide, di cercar l'idee per via dell' aſtrazioni, con le quali ſi to glie ogni difficoltà intorno a'molti, e all'uno. Da queſti palli io deduco, che il fine di Platone in queſto Dialogo altro non fu, che d'allontanarſi da quel meravigliolo e puerile, in cui facilmente fi cade, quando non ben li diftingua no i concerci della mente, o s'amia irasformare i concetti in ido li, ed a realizzarli poeticamente, come faceano i Pittagorici. Per compir queſto diſegno fcelle Platone il Filoſofo più ſpeculativo dell'antichità, e deſcritto da Socrate qual Uomograve, evenerabile, e d'una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe non erro, che egli nella ſua maniera d'argomentare franca, libera, ed inſie me profonda, nulla tenea del lopraciglio, e della vanità dei Sofi fi; Platone quimoſtra fin dove arrivar pud l'ultima analiſi, che i Pitcagorici faceano dell'idee, oltre le quali il procedere'era un eſporſi a pericolo di non più intender quello che ſi dicea, comepur trop ро è arrivato ad alcuni Scolaſtici, che fpingendo troppo, oltre le queſtioni oncologiche, ofarono ſin negare il principio di con traddizione, ed affermarono chel'infinito ſi raggruppaffe in un pun to. Nel GORGIA DI LEONZIO, nel Protagora, ed in altri Dialoghi contro iSo fifti, coll'arte dell'ironia Socratica, li dipinge a diritto Platone quali cacciatori mercenari d'uomini, mercatanti venditori, appal tatori di ſcienze, e diſcipline falſe; ma chi può dire che Platone ebbe difegno di proporſi in queſto Dialogo Parmenide, qual mer catante venditore, ed appaltatore di bujo peſto, che così devono chiamarſi le quiſtioni tenebroſe, ed all'ambicate; bujo peſto è quel lo di cui troppo liberalmente lo caricano il Ficino, ed il Sera no, non quel che combina la doctrina d' Ariſtotele, con quella di Platone; dotcrina che curt " i Peripatetici, e gli Scolaſtici ab bracciarono e che ultimamente con tanta chiarezza e preci* fione, eſpoſe il Wolfio nella fua Ontologia. Queſto Dialogo è primieramente ontologico, e preſo in queſto ſenſo non ha in sè più di pericolo che la metafilica d' Ariſtocele, ma ridotta alla Dialeccica, L'antica Dialetica verſava fu i generi di tutte le coſe, attenca a compararli, a combinarli, per preparare' ed illuſtrare la quiſtio ne propoſta. S'ingegna lo Stanlejo di ridur a tre generi la Dialec tica de Piccagorici.1. Ai non ripugnanti, o ſia all'eſſenza delle coſe nelle quali ſi combinano, coſe tra loro non contradditcorie.. Così l'eſſenza del triangolo o del quadrato, è l'eſfer figure di cre o quattro linee, perchè non v'è ripugnanza, che il numero ter nario o quaternario, s'adatti o fi combini alle linee rette. 2. Ai differenti o alle coſe che tra loro ſi diverſificano nell'eſſenza, nc gli attributi, e ne' modi; così il triangolo è differente dal qua drato, ed il quadrato dal cerchio. 3. Ai relativi a'quali ſi riduco if 2 no (44 ) no tutte le matematiche conſiderate dagli antichi, come il vero modello della diſciplina, ed a cui i moderni riduſſero l'arte dell' analogie filoſofiche, ed il calcolo de' probabili. Platone ſtabiliſce in molti luoghi non tre ma cinque generi del le coſe; l'eſſenza o ciò che è, lo ſteſſo, il diverſo, il moto, e la quiere; a queſte due ultime nozioni ſi riduceva tutta la fiſica antica, onde diſfe Ariſtotele, che ignorato il moto s'ignora la natura. Lo ſteſſo e il diverfo vaga per tutte le altre fcien ze; onde Platone dello fteſſo, e del diverſo, compoſe l'anima del mondo, e la bellezza. Lo ſteſſo e il diverſo ſono relazioni dell' ente in genere, fi ſpargono ſulle relazioni dell'ente in ſpecie, il fimile, il diffi mile, Peguale, il maggiore, il minore, il nuovo, l'antico. Que fta era la ſcala de'generi ſuperiori, o quelle nozioni ontologi che aſtratte per l'acume della mente da' concreti, coſa ben di verſa dalla ſcala de' predicamenti d' Ariſtotele. Il Wolfio fa propoſe per ultimo oggetto degli ſtudj fuoi, di perfezionar" la Icala de'generi, e con eſſa ſciogliere il problema dell' analiſ dell'idee, propoſta ma non trattata dal Leibnizio. I Pittagorici ne diedero i primi ſemi, e Placone più li ſviluppò, applican doli alla determinazione dell' idee, quindi è che nel Parmeni de tutti iſuoi argomenti ſi riducono alle relazioni dell'ente, in genere dell'ente, in ſpecie. Rinferrata ne' fuoi limiti la materia del Parmenide, il meto do che v’applica è quello del principio di contraddizione, che ci conduce all' aſſurdo; metodo non tanto accetto a noi, per. chè ci dimoſtra la noftra impotenza, ma che ci sforza invin cibilmente all'faffenſo. In queſto metodo Platone ne aggruppa molti altri, il metodo d' eſcluſione è quello dell'analiſi geo metrica. Nel metodo d'eſclufione fi numerano tutti i caſi di una co ſa, e s'eſcludono o tutti per dinotare l'aſsurdità, o tutti men in cui fi cerca la ſoluzione del problema. Così Archi mede avendo dimoſtrato, che un dato poligono non è, nèmag giore, nè minore del cerchio, nel quale è inſcritto o circon Icritto, conclude che gli è eguale. Placone in molti caſi ado pra il metodo ſteſſo. Nel metodo dell'analili geometrica, fi aſſume  il quefito come conceffo, e per legitime conſeguenze s'inoltra fino ad un ve 1 uno, ro (a ) Affumptio quæſiti tanquam conceſsi per ea quæ conſequentur ad verum conceffum.  Wallis Il. dell’Algebra. To concesso, da cui riteſsendo il ragionamento ', li dimoſtra il quelito; molti vogliono, che Platone ſia l'inventore di queſto metodo, e che abbia fatto il Parmenide per darne l'eſempio; maqueſti attribuirono al tutto ciò che conviene adalcune parti, Utiliflime ſarebbono le metafiſiche de'moderni, fe i loro autori fi foſsero limitati all'ipoteſi, e ſi foſſero guardati di proporle in for ma di dogma, cagione d'eterni litigi non ſalvati, ne da ſtile elo quente, nè da calcoli algebraici. Il Carteſio ſegui nelle ſue medi tazioni ilmetodo analitico, ma diede occaſione a molti ſiſtemi più ſtrani de'ſogni, come quello degli Egoiſti, conſeguenza dello fpi nofismo fpirituale. Che dirò dell'arte del Dialogo, in cui s'è già dimoſtrato imi, tarſi i ragionamenti umani, come i Poeti Dramatici aveano imi tate le azioni umane. All'imitazione. di queſte convien il palco, ed il verſo, non all'imitazione de' ragionamenti, la quale per ſua natura appartiene alla DIALECTICA: poco o nulla di leggiadria avrebbono i sillogismi, egli entimemi in verſo, e poco o nulla lor gioverebbe l'apparato della ſcena. Si è pur detto che la quiſtione, e la digreffione al Dialogo, è come la favola, e l' epiſodio al Drama. Nel Parmenide la quiſtione è intorno l'idee, ma non v'è digreſſione, ſe pur non fi voglia ridur a queſta, la preparazione alla diſputa con Par menide, incominciata tra Zenone, e Socrate. La differenza de' drami ſi prende dal diverſo modo dell'azio ne, la quale o è ſemplice, o compoſta, e la differenza de’ Dia loghi dal modo del ragionamento, nel quale, o s'inſegna, os inveſtiga da un ſolo, o s' inſegna, o s'inveſtiga da molti la quiftione propoſta. A quattro generi riduce il Taffo i Dialoghi, al dottrinale, al Dialettico, al tentativo, al contenzioſo. De’due primi generi è miſto il Parmenide, perchè dopo di aver egli diſputato con Socra te, quaſi ſolo favella, non contandoſi le riſpoſte d'Ariſtotele, approvazioni per lo più della concluſione, o preghiere d' eſpor più chiaramente la ragione accennata. Nel inlegnare qual fia la natura o l'idea dell'uno, qui non v'è tentativo, nè litigio, nè in queſto Dialogo v'è molto a ricercare, ſe ſia meglio adat cato all'inſegnamento che il maeſtro interroghi, od i diſcepo lo., perchè appena termino la breve diſputa có Zenone, che Parmenide cominciò a interrogar Socrate, ed avendolo confu? lo, ed imbarazzato con una difficoltà cui non poteva riſpondere, Para (a ). Torquato Taſſo diſc. ful Dialogo. uno. Parmenide paſſa ſenza interrompimento alle tre poſizioni dell ' Vuol Torquato Tallo, che come una ſia l'azione nel Dra ma, così una fia la quiſtion nel Dialogo, la quale o è infini ta, per eſempio ſe deve apprezzarſi la virtù, o è finita, per eſempio che deggia far Socrate condannato a morte. La qui ftione del Parmenide è infinita, perchè fi tratta dell' idee di cui ſi cerca la natura e l'origine, la natura dimoſtrando che non ſono dalla noſtra mente feparate, l'origine dimoſtrando come per via delle ſuppoſizioni s'acquiſtano. Queſte due coſe ne fan no propriamente una, perché non ſi può intender la natura dell' idee ſenza prima determinarne l'origine. L'una e l' altra determina Parmenide, e rimove l' idee feparate per convertire il ragionamento al modo con cui la mente le acquiſta. Parme nide lo propone, non lo dimoſtra per non allontanarſi dal co ſtume della ſua fetta, che era di propor dubitando le coſe: Non è cutravia in ciò ſolamente che appariſce il coſtume di Par menide. Dimanda Socrate, che gli ſia dichiarata la quiſtione delle idee, ed intorno alle coſe che ſi veggono,ed ancora intorno a quelle che ſi comprendono con la ragione. Parmenide, e Zenone attentamente lo aſcoltano, eſpero guardandoſi l'un l'altro fog ghignano quaſi di Socrate meravigliandofi. E queſta è quell'evi denza tanto neceſſaria al Dialogo, e di cui Platone diede si chiari eſempj neli' Ippia, e nel Fedone. Ella è qui ordinata a manife ſtare il coſtume d'un Filoſofo accento, e che colla triſtezza, e coi fogghigni accenna, ciò che nel diſcepolo non s'accorda con la ra gione. Un tratto poi del coſtume d'un Filoſofo attento, è do ve dice Parmenide o Socrate troppo per tempo, innanzi che tu ti eſerciti a parlare, ti sforzi di definire ciò che ſia il bello, il giu ſto, il buono, e qualunque dell' altre ſpecie. Perchè poco fa il con fiderai vedendoti diſputare con Ariſtotele. Per certo mi credi, que fto tuo fervore è bello è divino, il quale alla ragion ſi conduce, ma recati in ſe ſtello, ed eſercitati mentre ſei giovane in queſta fa coltà la quale a molti inutile, e ſi chiama dal volgo garruli tà, altrimenti ſi fuggiria da la veritade. Parmenide qui accenna la Dialectica in quanto vaga per cutti i generi, ſulla qual coſa poco dopo ſoggiunge conſervando il co ſtume divecchio venerabile. Sarebbe cofa ſconvenevole, cheſi trat tale maſſimamente da un vecchio certe coſe si fatte alla preſenza di molti, non ſapendo il volgo, che ſenza queſto vagare, e diſcerne re per tutte le coſeſia impoſſibile abbattendoſi nel vero acquiſtar men te. Ariſtotele e gli altri lo pregarono, e Parmenide riſpoſe con un apo 7 pare inutile apologo: egli è neceſſario finalmente che s'ubbidiſca, tutto che mi è av viſo di tutto quello che patà il cavallo Ibico, cui Atleta e vecchio do vendo prendere la conteſa delle carrette, e per l'eſperienza iremando de' ſuccelli, alimigliando egli a ſe ſtello, dille cheegli già vecchio era coſtretto di ritornar agli amori. Nel medeſimo modo diſſe Parmeni. de, a me pare di temer malto, quando penſo in che guiſa cosè.d'età avanzata, io pola paſar a nuoto un mare cosi profondo di ragionda menti. Intorno la ſentenza, o ſia ciò che ſente il principale interlocu tore del Dialogo, ella è qual conveniva a un Dialettico eſperto, nel vagar per i generi delle coſe, e nell'argomentare, e ben de gno, che nelle coſe intellettuali Platone, Secondo il teſtimonio di Apulejo, lo preferiſſe agli altri Pitiagorici, e n'imitaſſe la ſotti gliezza, e nell' idee, e nel metodo di proporle. Nella Poelia. Epica, altro è che il Poeta imiti narrando un facto, altro che introduca un degli attori a narrarlo. Così nell' Odiſſea, aḥtre ſono le cofe che Omero direttamente narra accadute ad Uliffe, altre quelle che narra Ulife ſteſſo. S'in troducono ne' Poemi i racconti, per variar i modi dell' imita zione, ed ancora per accreſcerla; ella è perciò doppia, quando nel Poema i perſonaggi imitati, imitano effi fteffi col loro rac conto. In queſto Dialogo, Pitidoro imita, narrando i diſcorſi che inteſe da Parmenide. I Dialoghi, benchè fpecie di Poeſia Dramatica, in ciò con vengono con l' Epica, e Platone, che nelle diſpute de'Filoſo fi volle imitare i combattimenti degli Eroi di Omero, emold anche queſto nel modo di rappreſentarli. Nel Filebo propone ſenza alcro la difputa chiaramente enunziata intorno la felici tà ed il piacere, nè premette alcuna circoſtanza ſtorica ai ra gionamenti dei tre interlocutori, Socrate,, Filebo e Protar co; così fa nel Sofiſta, nell' Eutifrone nelle Leggi, e nella Repubblica, ma non cosi nel Convito, nel Fedone, e nel Par menide. Pitidoro vi narra ciò che ha udito da Antifone, e queſto è modo più artificioſo dell'altro, perchè vi ſi ricerca molta ſa gacità nel render neceffario il ragionamento, ed accompagnar lo di quelle circoſtanze che più mettano la coſa fotto gli oc chi, intereſſino il lettore ad aſcoltare i perſonaggi, e di tem po in tempo lo ricreino con opportune digreffioni, ma tutte convergenti alla quiſtione propoſta, ſenza che ſe ne accorga il lettore. Nel diſcorſo naturale noi pafliamo ſenza rifleſſo da una coſa all'altra, ma nel Dialogo, ſe ſi vuol imitando perfezionar la natura, nulla vi ſi deve introdurre ſenza ragion ſuf ficiente. La ſomma difficoltà dell' artificio del Dialogo è nell: interrogazioni, e nelle riſpoſte diftinte e preciſe, ma nel Par menide il dialettico s'accoppia col dottrinale e queſta è la parte dominante, perchè eſcluſe l' idee ſeparate, Parmenide ſem pre parla ſcorrendo per le ſuppoſizioni.; ILLUSTRAZIONE D E L 1 PARMENIDE.},  ILLUSTRAZIONE di VELIA (si veda). tertentanut Estates L A diſputa su l' idee fatta tra Parmenide, Zenone', Socra te, ed un certo Ariſtotele, viene a Glaucone, e ad Adi manto riferita da Cefalo per bocca d'Antifone, il quale avendo familiarmente converſato con Pitidoro compagno di Ze none', avea su queſta materia udito da lui le ragioni dei tre Fi loſofi. Reſtarono queſte cosi profondamente impreſſe nella me moria di Antifone allor giovanetto, che molti anni dopo ſeb ben diſtratto dagli eſercizi equeſtri, poté in tutte le loro cir coſtanze rappreſentarle nell' abboccamento, che egli ebbe con Cefalo, e coi compagni. Tofto Cefalo eſpone il motivo della diſpuca Parmenide ne Poemi avea detto che tutto è uno, e Zenone provato in uno ſcritto, che uno non è molti. Si comincia la Jercura dello ſcritto, e Socrate vi fa ſopra delle difficoltà a mi fura che ſi legge. Poco mancava' a' terminar la lettura, quan do Parmenide con Pitidoro, e Ariſtotele entrarono in caſa. Si leſſe di nuovo alla preſenza di Parmenide, e degli altri il pri moargomento, e fi difputò incidentemente su la differenza del le due definizioni parendo a Socrate, che il dire tutto è uno foffe lo ſteſſo che il dire, uno non è molti. Glielo concede Zenone, é lodaća la ſagacità di Socrate dichiara', che non per vanità o per 'arcano di Filoſofia egli ha' fcritto, ma per fo ftener l'orazion di Parmenide contro coloro che ſi sforzavano di ſchernirlo, perchè ſe molte contraddizioni degne di riſo pativa l' Orazion di Parmenide, molte altre di più ridicole ſe ne inferivano dalle ſuppoſizioni degli altri. Zenone ſcriſfe il: li bro nella ſua giovanezza, ma un certo avendoglielo rubato.fi pubblico. Si ricomincia la diſputa. Parmenide, e Zenone lafciano a So. crace eſpor tutta la ſua ſentenza su l'idee ſeparate, per le quali moſtrava la definizione dell'uno da Zenone affegnata non eſſer univerſale ". Accorcol Parmenide, che tutta la forza dell'argo mento (52 ) mento di Socrate fondavaſi su l’idee ſeparate, l'imbarazza co ftringendolo ad aſſegnarne alle coſe fiſiche. Non sa Socrate ri folvere la difficoltà. Parmenide fingendo di conceder l'idee ſe parate argomenta contro la loro participazione, contro il lo ro progreſo all' infinito, contro alla loro incomprenſibilità. So crate n'è molto curbato, credendo che annullate l ' idee ſepara te non vi fieno più principj per ben filoſofare. Ammira Par menide il fervor di Socrate, e lo conſiglia ad eſercitarſi nella Dialetica per ben inveſtigare l'idee. Pitidoro ed Ariftotele, pre gano Parmenide ad eſemplificar il metodo dell'inveſtigazione dell'Idee. Egli ſcieglie l'idea dell' uno, e col metodo delle ſup poſizioni la tratta. Orquattro ſono le quiſtioni che ſi poſſono eſtrar dal Parmeni de relativamente alla definizione di Zenone, che l'uno non è molti. La prima è quella dell'uno per rapporto all' idee feparate; Ia ſeconda dell'uno per rapporto asé; la terza dell'unc per rap porto all ' ente; la quarta dell'uno per rapporto al non ente. Le tre ultime quiſtioni ſono propoſte per via d'ipoteſi: ſe l'uno; ſe l ' uno è; fe l'uno non è. Per non traſcurar nulla di ciò che agevola l'intelligenza del Dialogo, premetterò partitamente ad ogni quiſtione la Ipiegazio ne delle voci, e delle nozioni neceſſarie, ſtando più che mi ſia poſſibile attaccato alle parole del teſto quale Dardi Bembo il tra duffe; mi par inutile di por tutto il Dialogo, perchè eſſendoſi ri ſtampato di freſco, tutti coloro i quali hanno vaghezza d inten derlo ſe ne faranno già proveduti,per gli altri èinutile e vana ogni illuſtrazione. Zenone di VELIA defini l'uno ciò che non è molci. Approva Ariſto tele (a ) queſta definizione, perchè in generale ogni defini zione, dovendoſi aſſegnare per le coſe più lenfibilia e più note, l'eſperienza di tutti i ſenſi ci moſtra, che i molti ci ſono più noti che l'uno; i fanciulli più teneri nel coccare, nel vedere, e nell'udire pereepiſcono i molti, e la loro cognizione è imme là dove hanno biſogno, che la loro ragione fi maturi un poco per cominciare a dir uno, e quindi numerar su le I molti dunque eſſendo più noti dell' uno, negandoli di forma 6 ) Metaf. lib. 1o. diata; dita. il (53 ) il concetto negativo dell'uno in quella guiſa, che negando le par ti ſi fa il concetto negativo del punto. Dall'uno G fa l'idea aſtratta dell'unità, come dall'idea dell'uomo l'idea aſtratta dell'umanità. Tre ſono le ſpecie dell'unità; la Lo gica, la Matematica, la Metafisica. L'unità Logica ſono i generi, e le ſpecie, o certe idee univerſali atte a rappreſentar molti in uno; l'unità matematica è il principio compoſitivo de' numeri, o il prin cipio per cui fi numera; principio differente dal zero, da cui ſi nuinera. L'unità metafiſica' è una proprietà traſcendentale dell' ente, o che conviene all'ente in quanto tale, poichè d'ogni ente fi predica l'uno, come fi predica il vero, e il buono, o ſia il perfetto, ma la verità, e la bontà, o la perfezione, inclu dendo ordine nella varietà ſuppone l' uno, onde tra le proprie tà dell'ente egli è la più univerſale (a ). L'unità o l'uno nel ſuo concetto aſtrattiſſimo preſcinde da tutte le relazioni, potendoſi per l'aſtrazione della mente non riferire, nè alle coſe che rappreſenta, nè a' numeri che compone, nè a ciò cui conviene: In queſto ſenſo aftrattiflimo definiſce Zenone l' uno, opponendolo ai molti in genere. Contro queſta definizione cosi argomenta Socrate. Vi ſono idee ſeparate: dunque ogni idea eſſen do una in sè, e molti, nel participarſi a molti l'uno, eimolti poſſono accoppiarſi; dunque non pud dirſi, che l'uno fia molti. Prima di ſviluppar l' argomento rifletterò su certe voci, e nozioni di Socrate. $. 2. Suppone toſto Socrate, che vi fieno idee ſeparate. L'idea ſe condo l'etimologia della voce Greca, significa propriamente com fa viſta, e per traslato ſignifica coſa inteſa, o ciò che s'inten de; ma tallora ſignifica l'atto per cui s'intende, il qual però meglio ſi chiama nozione o concetto. Åleinoo defint l'idea, intelligenza per rapporto a Dio, pri mo intelligibile per rapporto anoi, miſura quanto alla mate ria, eſemplare quanto al mondo ſenſibile, effenza quanto a ſe ſteſſa. In tutti queſti ſenſi la prende or Socrate, ora Parmeni de; ma la prima nozione dell' idea ſeparata è che ella fia il primo intelligibile. $. 3• ve ) Wolfo Metaf. (54 ) §. 3. Socrate: oltre l' idee del bello, dell' oneſto, e del giufto, che Parmenide gli accorda, ammette ancora quelle del limile, del diffimile, del moto, della quiete, dell' uno, e de' molti. Queſte ultime idee ſono tra loro oppoſte e contrarie, come il caldo, il freddo, il bianco, ed il nero; eſſendo contrarie, ciò che convie ne all'una, non conviene all' alira, e quindi ſecondo Socrate i ge neri, e le ſpecie, idee più o meno univerſali conſiderate in se non patiſcono paßioni contrarie, ma nulla vieta nell'ipoteſi di Socrate, che non poſſano participarſi dalle coſe. 1 S. 4. Partecipare è propriamente ritener in sè una parte d'un cutto;; così l'aria partecipa la luce ', poichè ogni particella d' aria ha in sè una particella di luce. In un ſenſo più ampio, la voce partici pare s'eſtende dalla quantità alla qualità, all'azione, all effenza Iteffa.;. così ſi dice, che l'accidente partecipa della ſoſtanza', gli effetti delle cagioni, un figlio le virtù, eivizj.del padre: La par cipazione è quindi' più ampia della ſimiglianza limitata alla ſola convenienza delle qualità, e molto più dell'imitazione, che alla fimiglianza aggiunge la relazione tra il modello, e la copia; due gemelli naſcendo saſlimigliano, e pur l'uno' non è la copia dell' altro. I Pittagorici' nel riferir le coſe all' idee ſeparate, come a loro modellidiceano', che participavano o imitavano l'idee, ma fecondo Ariſtotele non mai filoſoficamente ſpiegarono le voci di participazione, e d'imitazione. S. 56 Cið fuppoſto, il primo argomento di Socrate tratto da queſti principj fi pud diſtinguer in due per maggior chiarezza. Ogni idea è una in sé, ed una in molti, dunque nel tempo ſteſſo, uno può efser molti. Cosi lo conferma, Benchè l' idee lieno tra loro con crarie, nondimeno poſsono eſserº nel tempo ſteſso participate da. molti, anzi dallo ſteſso ſecondo diverſi riguardi, ma in queſte participazioni ritengono la loro unità, dunque: ſon uno e molti. Così lo prova: oppoſte e contrarie ſono tra loro l’idee, del ſimile, del diſſimile', del moto', della quiete, dell’'uno; é dei molti; dunque comenulla viera, che lo ſteſso poſsa aver more in Metaf, in una parte, e quiete nell'altra; eſfer fimile ad un altro in una parte, e diffimile nell'altra, così nulla vieta che ſia uno, e molti; una Caſa ha molti legni, e molte pietre; ogni. Uo mo è uno conſiderato in sè, ed è o ſeſto, o ſettimo conſide rato con altri. la un Uomo, altra è la deſtra, altra la fini ſtra, altre le parti dinanzi, altre di dietro, altre le ſupreme, al tre le infime. Nel Sofiſta egli dice; noi chiamiamo un Uomo denominandolo con molti cognomi, mentre a lui attribuiamo i colori, le figure, le grandezze, le virtù, ed ivizi: nelle quali coſe tutte, ed in altre infinite, non ſolamente diciamo che egli fia Uomo, ma ancora buono, ed altre infinite coſe, e le altre fecondo la ſtella ragione. In cotal gui sa fupponendo noi qualunque coſa una, di nuovo l'appelliamo molte e con molti nomi..... Onde ſi è da noi data occaſione di contraddi re, come jo penſo a' giovani, ed a ' vecchi di tardo ingegno: percioc che incontinente ci potrebbe chiunque far obbiezione che ſia coſa impos fibile, che molte sofe folero una, ed una molte. Dunque uno può eſſer molti; dunque non è generale la de finizione, che uno ſia non molti. La participazione dell' idea evidentemente lo manifeſta. Sciolto è l'argomento ſe fi nega l'ipoteſi dell' idee ſeparate perchè colte l'idee è colca la loro participazione. Parmenide ri gecta l'ipoteſi, come nè generale, nè chiara; non generale.per chè non s'eſtende a cutti i cafi poflibili i; non chiara., 'perchè non pud fpiegarſi la participazione dell'idea. Cost:provo la pri ma parte non ſi debbonoaſſegnar idee delle coſe ſeparate, o aſſegnarſene di tutte le coſe '; che vuol dire, non baſta affe le.coſe morali, e matematiche, mabiſogna af. ſegnarne ancora per le fifiche: dunque non ſolamente vi ſono idee del giuſto, del bello, del buono, del grande, del fimile ec, ma dell'uomo, del foco, dell'acqua, e d' alcune coſe, che molti fimano per avventura ridicoloſe; i peli, il fango, le macchie., ed altre coſe ignobili, e vili. Socrate toſto lo nega, perchè gli pare, che ammettere queſt' idee, ſarebbe coſa troppo diſconvenevole, poi can didamente confera, che alcuna volta queſto penſiero lo turbo, e che quando di là fi ferma ſe nefugge temendo di non corrompere la ſua mente, e fantaſia cadendo in ciancie ineſplicabili., onde a quelle coſe ritornato (cioè all'idee del giuſto, del bello, del buono, ed all idee 'matematiche ) verſa intorno a quelle. In (a ) Sof, pag. 306, (56.) In un caſo ſimile ſi ritrovò il P. Malebranchio; ſentendo egli la difficoltà di ſpiegar chiaramente, come l'eſtenſione intelligibi-: le, eſſendo immobile in Dio, gli rappreſenti il moto, ove il luſtra queſto articolo dice nel fine: (a ) Io non oso impegnarmi'. a trattar queſto ſoggetto a fondo, temendo di dir coſe, o troppo aftrat te, o troppo ſtravaganti, o ſe ſi vuole, per non azzardarmi a dir co ſe che non so, nè sono capace di diſcoprire. Queſto è il ripiego di Socrate. Ariſtotele (do ) ove nella Metafiſica combatte l' idee ſeparate malamente attribuite a Platone, adduce tra l'altre coſe, che dandoſi idee ſeparate ſi dovrebbe darne de' ſingolari, de' corrut tibili; egli non eſtendeche l'argomento da Parmenide eſemplifica to, e poida Alcinoo, che afferi non darſi nel fiſtema de' Platonici idee delle coſe arcifiziali; uno ſcudo, una lira ec. ne delle co fe oltre natura la febbre, la bile non naturale; non delle coſe ſingolari, Socrate, Placone; non delle vili, ed abbiecte ſozzure, paglie ec. donde traffero i Platonici dopo Ariſtotele, queſta di ſtinzione, ſe non dal Parmenide? Propoſta che ha VELIA (si veda) un'obbiezione, che Socrate non può riſolvere, egli cangia l' argomento ad judicium in quello aid hominem, che vuol dire non argomenta più ſecondo i principi della ragione univerſale, ma ſecondo i principj del diſputante, e ne deduce la contraddizione. Suppone dunque che vi fieno idee ſeparate ", ma come poi date queſte idee lo ſpiegare che lieno participate dalle coſe Queſta participazione ſi fa, o ſecondo il tutto, o ſecondo la parte. Parmenide dimoſtra, che nèl'uno, nè l'altro può eſſere. Sia da una coſa participaca l'idea ſecondo il cutco, dunque tut ta l'idea è in ſe ſteſſa.; e tutta fuori di ſe ſteſſa; dunque nel tempo ſteſſo eſiſte tutta in sè, e cutca fuori di sè. Siaľ idea conliderata in sè A, e participata fia B, C, D ec. generalmen te, o non A; dunque nel tempo ſteſſo l'idea è A, e non A, ciò che è contraddittorio. Nè occor dire che un giorno è uno, e lo Steffo, ed inſieme in mola ti luoghi, e pur non è da ſesteso in diſparte. Il giorno non è che la luce del sole, diffuſa in tutto il noſtro emisfero. Or quel la parte di luce, che illumina me, non illumina il compagno ſebben mi lia vicino. Parmenide li ſerve dell'eſempio della ve la, (a ) Ricerca della verità T. 4. pag.... (b ) Metaf. I..... (57 ) la, la quale molti coprendo, non è perd una in molti, perchè la parte c he copre l'uno, non è la parte che copre l'altro. Reſta a dimoſtrare, che l'idea non è participata dalle coſe ſe condo una parte; la dimoſtrazione è da se manifefta, perchè l'idea participata ſarebbe una, e non una; una tutta in sè, e non una nelle coſe che ne hanno ſolo una parte. Queſto modo d'ar gomentare, è fondato ſul principio di contraddizione adoprato lovente da Platone, e ſtabilito da Ariſtotele, come il primo prin cipio in cui ſi riſolvono cutti gli altri. Eſperimentiamo noi cal eſſere la natura della noſtra mente, la qual mentre giudica che una coſa ſia, non può inſieme giudicare, che la ſteſſa non ſia. Parmenide eſemplifica l'impoſſibilità di queſta ipoteſi. 5. 8. La grandezza è ciò che è capace di più e di meno. Nel conce pir il più fi concepiſce il maggiore, nel concepir il meno fi conce piſce il minore, e nel concepir l'eguale non ſi concepiſce nè più, nè meno nelle quantità che ſi comparano. lo dico che li comparano, perchè nè il più, nè il meno, nè l' eguale concepir ſi poſſono ſenza riguardar una coſa nel tempo ſteſ to che l'altra o ſenza compararle, e in queſta comparazione pro priamente la grandezza confifte, la quale, come ben dice il Wol fio, non ſi può concepir ſenza un altro a differenza della quali tà. Tutto quindi l' effer della grandezza è relativo, od ha tut to l'eſſere in ordine ad un altro. Così Platone eſpreſſe la natu ra della relazione nel Politico, nel Simpoſio, nel Sofifta, e pri ma di lui Archita, ed Ocello, (a ) i quali diviſero la relazio ne in quattro generi. Da queſti autori traſfe Ariſtotele (6 ) la definizione, che dà della relazione. Nulla perd vieta, come et proverà, che per compendiare i concetti non ſi concepiſca la gran dezza come qualche coſa di aſſoluto, a cui accade – eſſere mag giore, minore, ed eguale, e che di nuovo ſi concepiſcano il maggiore, o'l minore come aſſoluti, a' quali accada il più, o meno, o nè l'uno, nè l'altro. Suppoſto dunque, che fi dia l'idea della grandezza, e in conſeguenza del maggiore, del minore, dell' eguale, così argomenta Parmenide. Sia A l'idea del maggiore, B del minore, C dell' eguale; ſi dividano tutte2, e tre in parti ineguali: С poichè dunque una coſa in canto è maggiore, in quanto partecipa l'idea del maggiore, lia l'idea - B del maggiore A diviſa in parti ineguali, e la parte minore delmaggiore ſia participata, quello che la Tom. II. h par (á ) Diſcuſ. Perip. Patriz; T. 2. pag. 185. (b ) Ad aliquid alia dicuntur quæcunque quod ipſa ſunt aliorum effe dicuntur. o il A (58 ) partecipa non ſarà egli nel tempo fefto, e maggiore, e mino re? Maggiore, perchè parcecipa l'idea del maggiore; minore per chè parcecipa la parte minor del maggiore. Così potrà dirli della participazione della parte più picciola dell'idea del minore, e dell' idea dell'eguale. Se'l idee dunque fi participano dalle coſe, ſe condo una parte loro non potrà mai effer quefta, una delle par ri ineguali. Parmenide non procede olore, maè facile l'aggiun-. gervi, che nè meno pud parcicipare delle parti eguali, perchè la parte.eguale del maggiore participata dalla coſa, la farebbe nel tempo ſteſſo eguale, e maggiore; e così la parte eguale del mi nore, ſarebbe la coſa minore ed eguale.. 9. La noſtra mente, come per ſua natura non può concepiricon tradditrorj, così non pud frappaſſar l'infinito, biſogna che s'ar reſti ad un primo, o ad un ultimo, il qual è come Tuncino che ſoſtiene curri gli anelli della catena. Ariſtocele, e'ne'mori, e nel le cagioni, e ne'fini dimoſtra l' aſſurdità del progreſſo all' infini 10, modo d' argomentare imparato dal Parmenide di Platone non men che l' altro del principio di contraddizione. Il Wolfo dimoſtròeffer impoſibile il progreſſo all'infinito rectilineo, e cir colare. g. 10,. Poſta l'aſſurdità del progreſſo all'infinito, così argomenta Par menide: Tu ſtimi che qualunque ſpecie fia una, quando pare i te cbe certe, e molte coſe fieno grandi, parendoti per avventura in ris guardando a tutte le coſe, che ſia queſta una certa idea, onde tu penfi che il grande fia uno. Prima d'inoltrarſi è da oſſervare, che qui Platone inſegna, co me comparando le coſe, nel riflectere a quello in cui conven gono, ne riſulta un'altra idea, come prima avea inſegnato Epicarmo, Queſt' idea è ſempre una, perchè uno è l'atto della mente con cui ſi rifletre a ciò che le coſe hanno di commune. Continua Parmenide: Se'il grande, e l'altre coſe che ſono grandi nel medeſimo modo conſideralli per tutre le coſe, non apparirebbe egli da capo ceri' una coſa grande, onde farebbe neceſſario che queſte tutte pareffero grandi? Vuol dire che nel compararſi dalla mente di nuovo l'idea del grande con le grandezze participate, nè riſulta un'altra idea di grandezza, per la qual coſa concludeParmenide: apparirà di nuo po altra ſpecie di grandezza fuor do esſa grandezza, e di quelle che fono ! (59 ) fono partecipi di lei, e dopo tutte queſte, altra di nuovo con cui som rebbono queſte grandi, nè pide qualunqueſpecie fia una, ma piuttoſto di numero infinito. La ragione è, che l'idee della grandezza di nuovo aſtratte nella comparazione, eſſendo per loro natura re lative faranno fena pre di nuovo comparabili, e così all' infini to. Ariſtocele su queſto fondamento del Parmenide, e tutti i Platonici, e tra gli altri Alcinoo dillero, che non fu potea aver idee de relativi. $. 11. cioè per Dal modo con cui Parmenide comparando l'ideę, altre idee He deduffe, concluſe Socrate, che le ſpecie ſono' atti dell'intel fetto, i quali non riſiedono, che nell'animo. Gli concede Para menide, che ogni atto dell' intelletto è uno, ma gli fa confef fare, che queſt' acto ha un oggetto, ed è l' ente'; l'ente perd in quanto ſi concepiſce o s'intende', non s'immagina o ſente: prende egli qut l'idea, non per la nozione, o per il concetro' della mente 1 atto, ma per la relazione che ella ha ad un certo oggecto, e conſidera l'unità dell'idea' non relativa mente all'atto dell'intelletto, ma all' ente che la partecipa poichè ſecondo i principj di Socrate, ella è ſempre la ſteſa in tutte le coſe. Ne deduce per confeguenza, che ſe l'idee ſono' at: ti dell'intelletto, le coſe che partecipano della ſpezie', o deli? idea faranno tutte intellective, ed intelligibili. Vi riſponde So crace, che le coſe non partecipano' dell' idee, in quanto' queſte fono atti dell'intelletto, ma in quanto rappreſentano le coſe; che vuol dire, in quanto l' idee Tono eſemplari, di cui le co fe fono limiglianze; onde in tanto le coſe le partecipano', in quanto ad effe li fanno ſimili. Parmenide contro queſte fimi glianze dell' idee, argomenta coll' aſſurdità del progreſſo all' ip knito, come fece delle grandezze. $. 12 Supponiamo che' molte' coſé' fieno ſimili per la participazione dell' idee della ſimiglianza. Potendoſi dunque comparar dall'in telletto le ' fimiglianze', e delle coſe, e dell' idee, Te' ne' eſtrar rà un'altra' idea di ſimiglianza, e queſta di nuovo comparando 1' idee con le coſe, darà un' altra idea di fimiglianza, e co sh all'infinito, cio' che è aſſurdo”. Cosi eſprime queſto argo mento Parmenide: non ſarebbe egli neceſſità grande, che' quel che è fimile al fimile' folle partecipe dell' uno, e della fleffa ſpecie? Or hi 2 non (60 ) 5 non ſarà ciò la ſtessa ſpecie, di cui le fimili coſe rendendoſi partecipi fiano fimili? Dunque non può alcuna coſa eller ſimile alla ſpecie, ne la ſpecie ad altrui, altrimenti oltre alla fpecie', altra ſpecie ſempre apparirebbe, che ſe ella folle fimile ad alcuna coſa altra dacapo', ne cellerebbe mai queſto progreſo, che non ſi faceſſe ſempre nuova fpe cie, ſe ancora folle ſimile la ſpecie, a chi di lei ſi rendeſe partecipe: Ariſtotele propoſe lo ſteſſo argomento ſebben oſcuramente L'Uomo, dice, ſignifica non meno la ſoſtanza ſenſibile degli Uomini ſingolari, che la ſoſtanza intelligibile dell'Uomo per sè, o fia l'idea dell' Uomo. Or ſe queſt' idee convengono in una coſa comune, fi concepiſce comparandole un terzo Uomo, equin di un altro, e così all'infinit. Ariftotele creſce l'aſſurdità Socrate lingolare participando dell'Uomo univerſale partecipa, e dell'animale e dell'animale a due piedi, e d'altre coſe, ciod, quelle che ha comuni colle piance, colle pietre, ed altre innume rabili. Converrà dunque moltiplicare all'infinito l'idee, onde per una coſa ſenſibile converrà porne infinite; ſi può aggiungere che queſto numero di nuovo ſi moltiplicherà all'infinito am mettendoſi l' idee dei relativi, poichè ogni coſa che è nell'Uo mo, pud compararſi a turce l' idee delle coſe viſibili, ed invidia bili, o della ſteſſa, o di diverſa ſpecie. Ma l'Uomo ideale, diceano i Pittagorici, effendo incorrutti bile, ed univerſale non ſi può comparar a coſa ſingolare, e cor ruttibile, ed eſtrarne quindi nuova idea? Ariſtotele vi riſponde: i binarj feparati ſono anche eſſi incorruttibili, e pur per conoſcer li biſogna dar un'idea comune di binario, in cui convenga il binario B, il binario C ec. In oltre l'idea di figura è comune al cerchio, al triangolo, ea tutte le figure piane e ſolide, onde ella, è propriamente ge nere relativamente alle ſpecie, ma chi può mai conoſcere una figura che non ſia, nè cerchio, nè triangolo, nè altra ſimile? Intanto la concepiſce la figura in genere, in quanto la mente non s' applica, che ai limiti che circonſcrivono lo ſpazio, fen za far attenzione rifeffa, nè al modo, nè al numero, nè al fito dei limiti ſtelli. Spiegherd la coſa con un eſempio più fa cile. Egli è impoſſibile che io concepiſca un triangolo ſenza rappreſentarmi che egli fia, o Equilatero, o Iſollele, Sca leno; altro è poi, che nel rappreſentarmi uno di queſti crian goli io non faccia determinata attenzione alle ſpecie dei tre lati. Noi non intendiamo le cofe, dice San Tommaſo, ſe non cona vertendoſi a' fantasmi loro. Ora a qual fantasma è anneſſa l' idea della figura? Confuſamente a tutte le figure; ma io non ne, con (01 ) conſidero diſtintamente alcuna, e ſolo attendo a ciò in cui cut te convengono, ed è d' eſſere uno ſpazio circonſcritto; ma ſe nel concepire l' idee de' generi delle coſe matematiche v'è canta dif ficoltà ammettendo l' idee ſeparate, quale ve ne ſarà nell'idee metafiſiche? Nell'ipoteſi Pitagorica ſi dovranno aſſegnar idee del poflibile, dell'ente, dell'atto, della potenza, della cagione, del principio, del modo, dell'attributo, del terminato, è dell ' indeterminato, del neceſſario, del contingente', del perfetto dell'imperfetto ec. nè ſolo di queſte coſe, ma del prima, del dopo, dell'inſieme, del ſeparato, e finalmente del genere in quanto genere, e della ſpecie in quanto ſpecie: coſe tuote af furdiffime nè abbaſtanza eſaminate da coloro che preteſero che noi vediamo le coſe in Dio, perchè ad ognuna di queſte coſe non men che all'eſtenſione, ed al numero dovrebbe aſſegnarſi un'idea, Ariſtotele con gran ragione v'aggiunſe, che neli ipo teſi dell' idee ſeparate, oltre l'idee de relativi converrebbe am mettere l'idee delle negazioni, e delle privazioni, o degli op pofti, cioè dei contraddittori dei contrarj ec. 9. 13. Dace l'idee, data la loro participazione, ed eſcluſa la compa razione a'ſenſibili, ricerca Parmenide fe debbonſi annoverare l'idee tra gli enti relativi; od aſfoluti. Vi fono delle coſe, di cui tutta l'eſſenza conſiſte nel riferir fi all'altre, e queſte ſono relative, (8. 8.) é ve ne ſon altre di cui l'eſſenza conliſte nella non ripugnanza dei predicari, che le coſtituiſcono, e queſte ſon le affolute; Poichè tutto l'efferé de’ relativi è nel loro confronto, (5.8. ) includono effi neceffaria. mente due termini tra loro oppoſti, il fondamento dei quali fo no le coſe affolute, che tra loro fi comparano; quindi il fonda mento del relativo è sempre l' aſſoluto. Un Uomo fuffifte per sè, e ſe foſſe ſolo nel mondo, non farebbe nè Padrone, nè ſer-' vo, ma ſuppoſto che viva in una ſocietà, può eſſer l'uno, e l' altro, in guila però che non è ſervo in quanto Padrone, nè Pa drone in quanto ſervo, ma come Padrone ſi riferiſce a coloro cui comanda, come ſervo a coloro cui ubbidiſce, e l'uno, e l' altro gli accade in quanto è Uomo, ed a diverſi Uomini li ri. feriſce. Poichè dunque l'idee fi riferiſcono ai fimili che le par tecipano, biſogna che ſieno in ſe ſteſſe e parimenti perchè i ſimili che partecipano l'idee fi poffano riferir all’ idee, convie ne che fieno in ſe ſteſi. Biſogna in una parola, che l'idee, e le coſe che le partecipano abbiano un' eſſenza determinata. Con clude (62 ) 1 clude quindi Parmenide, che l'idee hanno tra loro, un ' eſſenza, ma che queſta non è un eſſenza tutta: relativa alle coſe che ſo no appreſſo di noi, o pure le coſe fi nominano ſimiglianze, o in altramaniera di cui facendoſi partecipi, noi la nominiamo con, qualunque di eſſe.;. aggiunge parimenti, che le coſe che ſono in noi, non hanno la virtù ſua d'eſiſtere in verſo l' idee, ma fono quel che ſono relativamente a ſe ſteſſe. Parmenide quin di chiama le cofe. che ſono in. noi,, e: in torno a noi: equivoche: all' idee.. Cagione equivoca: degli animali, delle piante, de metalli ec. diſero Ariſtocele, e gli Scolaſtici il Sole, perchè ſebben concorra alla loro generazione, non conviene con loro, 0 non gli aſſomi glia che nell'eſſere. Parmenide parlando ad bominem par che allu da all' opinione di Socrate, il quale nell' ammecter l' idee, come cagioni delle coſe, era sforzato ad ammetterle come cagioni equivoche,, non potendo ammetterle, come cagioni eſemplari, il che: Ariſtotele così: dimoſtrò:-ſe quando l'Uomo fi genera da Socra te, eglis'alfomiglia all'idea, e non a Socrate, fi potrà generar: { mile all'idea, liavi o non ſiavi Socrate;; ma ľ Uomo generandofia non s'aſſomiglia all'idea, ma a Socrate, come è manifeſto dall' eſperienza; dunque Socrate, e non l'idea è l'eſemplare del generato: Poſto dunque che l' idee: influifcano nella generazion delle coſe, convien ſempre porle, come cagioni equivoche;: ma da: chi Ariſtotile traffe cal idea, ſe non da Placone? ' Or fe: l'idee non hanno relazioni alle coſe, o ſono diloro ca gioni equivoche, come poſſiamo conoſcerle? Se le piante, de pie tre ragionaſſero,. potrebbono mairappreſentarli (rimirando ſe fteſ. ' fe,. ), che il Sole foſſe loro: tanto diſſimile? che ebbe. tanta parte nella loro generazione. Le noſtre idee non ſono cagioniequivoche delle coſe, le quali noi produciamo affilandoſi ſul loro modello. Un Architeto uno Scultore, un Pitcore fanno la caſa, la ſtatua,., l'immagine ſecondo l'idea che ne hanno formata, e perciò comparano l'effet to all' idea per miſurarla,, e perfezionarla;, nella combinazione dell'idée chiare,. e diſtinte conſiſtendo la ſcienza, l'oggetto del la noſtra ha ſempre proporzione all'idee che d'effo formiamo;.. ma ſe l.idee: ſeparate come cagioni equivoche non hanno alcu na proporzione con le coſe che vediamo, non par poffibile di: riconoſcerle, e in conſeguenza aver- Scienza di loro. Delle co fe quindi rivelate, non abbiamo ſcienza ma fede; ſono certe, € infallibili, ma non a noi: chiare e diftinte.. Platone nel Filebo ſtabiliſce due generi di coſe; altre non 'han no avuto origine, nè finiranno giammai, perchè ſono immutabi li, e fempiterne; altre non ſono perchè ſempre 'fi fanno ſono a generazione, et corruzzione ſoggette: À queſti due ge neri di coſe, ' fa corriſponder due generi di cognizione; delle coſe immutabili, ed eterne ſi ha ſcienza, dell' altre non ſi ha che opinione. Le coſe di cui s' ha ſcienza ſono l'idee, perchè ſono ſempre nello ſteſſo ſtaro, nè ſi può ſapere ſe non ciò che è, ed è ſempre nel medeſimo modo; le coſe di cui s' ha opinione fono le coſe ſenſibili, perchè continuamente fluendo, non ſono mai nello ſteſ fo ſtato. Come dunque Placone nel Tilebo, dà fcienza dell'idee, e nel Parmenide non la dà? La riſpoſta generale è, che da cid che ſi dice in un Dialogo,nulla deve inferirſi relativamente a cid che ſi dice nell'altro, perchè Platone non ragiona ſecondo la ſua ſentenza, come nelle lettere per eſempio, ma ſecondo le ſenten że altrui; oltre a cid, Platone trattando nel Filebo della defini zione della ſcienza egli è manifeſto, che tratta ſolo della ſua pof fibilità relativamente all'oggetto,ſenza poi procurarſi di cercare, ſe ſi dia o no tale ſcienza negli Uomini, I Matematici definiſco no il cerchio, e il triangolo in quanto è poffibile, nè fi curano ſe eſiſta o.no: quindi ben ' li definiſce la Filolofia, la Scienza dei poffibili in quanto tali; nel Parmenide non della poſſibili tà, ma dell'attualità della ſcienza ſi tratta, e Parmenide mo ftra, che dandoſi l' idee ſeparate non poſſiamo aver 'ſcienza di effe, perchè non hanno alcuna proporzione con noi, e con le coſe.noſtre. 5. 15. Ammettendo con S. Agoſtino, e S. Tommaſo, cheIddio ab bia idee, e molte idee, onde per eſſe conoſca i ſingolari, i fu turi, i contingenti, gli infiniti, non perciò poſſiamo dire, che abbiamo ſcienza dell' idee di Dio, o che poliamo conoſcere co me per queſt' ideeegli conoſca le coſe. Il Malebranchio, ed il Poiret, che lo tentarono, caderono ſecondo la fraſe di Socrate in ciancie ineſplicabili. 1. 16. (64 ). S. '16.: s' inoltra Parmenide: La ſcienza in sè conliderata è un'idea, come la bontà, la bellezza ec. ma ſe queſt' idea della ſcienza, non ha alcuna proporzione alle ſcienze a noi note, non poßia mo conoſcerla, poichè le ſcienze intanto a noi ſono note in quanto verſano su noi, o su le coſe che ſono intorno a noi. Or non conoſcendo l'idea della ſcienza in quanto tale, nè men poſſiamo conoſcere ſcientificamente l'altre idee, perchè per aver ſcienza dell' altre idee convien participar dell'idea della ſcien za, ciò che è impoflibile: Parmenide par qui ſupporre che la noftra ſcienza paragonata all'idea della ſcienza ſia come il zero all' infinito ma ſe noi non participiamo dell'idea del la ſcienza, come potremo ſcientificamente, o chiaramente, e diſtintamente conoſcere il bello, l'oneſto, il giuſto, e l'altre idee? Nulla a mio credere v'è di più acuto, e profondo che queſtº argomento, e quel d ' Ariſtotele non l'eguaglia, benchè per altro concluda contro l'ipoteſi dell' idee ſeparate. Oſservò egli che lº idee eſsendo immutabili per loro eſsenza, non ſi può per eſse ſpie gar il moto, dalla cui cognizione dipende quella della natura; dunque l' idee ſono inutili alla ſcienza per cui furono introdotte. Coloro i quali amiſero con Eraclito, che le coſe ſenſibili ſono in un continuo fluſso, ricorſero all'idee ſeparate, le quali immutabili eſsendo, ſomminiſtravano a? Filoſofi dei principj immutabili del loro ſiſtema; la difficoltà è come i Filolofi le conoſceſsero, ſe la lor mente, non nell' eſsere, ma nell operare dipende dagli organi del corpo umano, ſoggetto alle vicende dell'altre coſe fenfibili? f. 17. All' argomento tolto dal principio di contraddizione del pro greſſo all' infinito, Placone aggiunge l' altro tolto dalle perfer zioni Divine. Come il retto è la miſura di ſe ſteſſo, e del cur vo, così il cumulo di tutte le perfezioni che è in Dio; ci ſer ve di miſura per giudicare, e delle perfezioni di Dio ſteſso, e di quelle dell'altre coſe. Per via del principio di contraddizio: ne del progreſso all'infinito ſi dimoſtra l'eſiſtenza di Dio, e per via, o di negazione, o di eminenza, o di caſualità, fi di moſtrano le infinite perfezioni di lui, onde ſe a qualche data ipoteſi conſegua l'annullazione di qualche perfezione divina, l'al ſur ſurdo è maſſimo, perchè Dio nell' effer principio dell'eſiſtenza, è ancora principio di tale eſiſtenza, e nulla può eſiſtere ſe ri pugna alla natura Divina. Socrate non potea non conoſcer Dio comeprincipio intelli gente, dunque era neceſſario, che gli attribuiffè l' idee non me no convenevoli all'intelletto, che i tre lati ad un triangolo; pur tace Socrate, quando Parmenide gli prova, che la perfec tiſſima ſcienza o P idea della ſcienza convenendo a Dio, egli per queſt' idea non poteva conoſcer le coſe, ciò che era con trario alla divina natura. Par dunque che Socrate ſupponeſſe l' idee ſeparate, ma dall'altra parte Ariſtocele dice chiaramen te, che Socrate noo ammetteva l' idee ſeparate ſe ben deffe gli univerſali. Non ſi ſoddisfarebbe in parte alla difficoltà, di cendoli che Platone, per bocca di Socrate, parlò dell' idee in fenfo poetico, per aver occaſione d'annullarle, e propor la doc trina che ha da lui copiato Ariſtotele, e della quale poi ſi ſervì contro que' diſcepoli di Platone, che realizzarono l' idee ſeparate.. 18. Annullate l' idee ſeparate, la voce idea nel progreſo del Dia logo, tutta fi riſtringe all' idee, che la mente aftrae comparan do le coſe. S'è già accennato ($. 8.) il modo, con cui deduſ fe Parmenide l'idea della grandezza, e de' ſimili, e li vedrà inoltrandoſi, che egli parlando dell' uno e dell'ente, proteſta di ſeparar le coſe con l'intelligenza, e con queſta fino sbra narle', che è quanto dire, diſtinguer i concetti o l' idee, ſecon do i rapporti delle coſe, foſſero ancora quefte ſempliciffime; nulla v'è di più ſemplice dell'anima per ſua natura indiviſibi le, e pur in eſſa ſi diſtinguono varie potenze, ſecondo le rela zioni, che ai varj organi del corpo ella ha operando, onde fi dice che ella ſente, ë che ella immagina. Nella parte ancora intellettiva, ſi diſtinguono le facoltà che ella ha di comparare, e di aſtrarre, e di combinare e di, e di contemplare l' idee', onde ella dichiaraſi mente, e ingelletto, (c ) voci non altrimenti fi nonime, poichè le loro etimologie di confrontano ai varj uffizj dell'anima; tutte quindi le ſcienze ſono ſu l' aſtrazioni fonda te. La fiſica aftrae dalle coſe ſingolari, la matematica dalle ſen Tom. 11. i (a) Mens è detta a menfura, poichè l' anima compara, e miſura le coſe, Intellectus da intus legere, poichè intendendo ſcieglie, e deduce una cola da un' altra. fibili, (06 ) fibili, la metafiſica da ogni materia. Vuole il Patrizio, che come in una gran parte del Sofifta, čosi in tutto il Parmeni de non ſi tratti che di quella metafiſica, che Ariſtotele colſe da Placone, e di cui le prime idee ne diedero i Pitcagorici, e tra gli altri, Archira e Peritione; io v'aggiungo che la me cafifica avendo due parti, cioè l' ontologia, o la ſcienza, che tratta delle proprietà dell'ente, in quanto ente, e la Teolo gia naturale o la ſcienza, che tratta delle ſoſtanze ſeparate dal la materia, come Dio e l'anima, Parmenide ſi riſtringe in que ſto trattato all' ontologia, e manifefte ne faranno nel progreſo ſo le prove; baſta accennar qui, che dovendofi dar un elem pio del modo con cui s acquiſtano l ' idee, ſcieglie Parmenide l'idea dell'uno, applicando ad efla il metodo delle fuppoſizio ni. Due coſe aggiunge alluſive all'analiſi, ed alla ſinteſi. La prima che ufficio e d' uomo ingegnoſo il poter apprendere, come ſi ritrovi il genere di qualunque coſa, ciò che ſi fa cominciando dall'analiſi, o dall'eſame delle coſe particolari, e per l'aſtra zione, elevandoſi agli univerſali; la ſeconda, che ufficio è di uomo meraviglioſo inſegnar agli altri le coſe ritrovate, ciò che ſi fa per la ſinteſi, combinando l'idee generali, e quindi le lo ro combinazioni, da cui ſi deducono i problemi, e i teoremi, ed indi i corollari, e le annotazioni. Sommo acume di men te fi ricerca nel far le opportune aſtrazioni, e di nuovo da.quefte aftrarne altre, ſin che ” analiſi propoſta ſi riduca all' ul time idee, e ſomma fodezza, ritrovare l'idee, concatenarle in guifa che alcri con facilità, e prontezza le intendano, e l'uno, è l'altro dimoſtra Parmenide, o col luo nome Placone. Se l'uno che ne ſegua. b. I. Vuol Uole il Ficino, che queſta prima fuppoſizione debba inten derſi. Se l' uno, perchè il verbo è, o ſia la copula del predicato o del ſoggetto v'è pofta, non in grazia della coſa, ma dell' orazione. Nel legger la nota marginale del Ficino mi ricordai, che Licofrone (a ) invecedi dire, il parete è bianco, di ceva il parete bianco, ed altri il parete biancheggia, quaſi che Platone non riprovaſſe nel Sofiſta l' orazion ſenza verbi, o che Ariſt. 1. Phil.  che i verbi non foſſero ſtati inventati per compendiare i gius dizi ! Non è forſe lo ſteſſo il dire, io amo, che io ſono aman te é io biancheggio, che io fono biancheggiante? La fuppofi zione dunque, je l' uno equivale all' orazione condizionata, ed implicità fé uno, nè così la propone Parmenide, ſe non per intimarci, che a null' altro fi deve badare nell'ipoteſi, che all uno preſo in un concetto aſtrattiflimo. Nella Geometria ſinteticamente ſi comincia dal punto prin cipio della linea; nell'aritmetica, dall'uno principio del nume ro; e nell' ontologia dall' uno traſcendentale, che conviene ad ogni noftra idea. Eſclude tutte le relazioni, perchè riferendofi l'uno per eſempio ad A, B, C ec. non è più uno, ma molti, in quanto in lui fi conſiderano le diverſe faccie che ſi riferi ſcono ai molti. Parmenide in queſta prima ipoteſi eſclude dall' uno cutte le relazioni, cioè quelle dell'ente in genere, e l'alore dell'ente in fpecie. Relazioni dell'ente in genere ſono l'identicà, e la di verſità, perchè non competono meno alla ſoſtanza, che alla quantità, qualità, ed agli altri predicamenti. Relazioni dell'en te in fpecie ſono, la limiglianza, la diſſimiglianza, Peguaglian za, l'ineguaglianza, l'antichità, la novità eco perchè competo no o alle fole qualità, o alle ſole quantità ec. * l une e l'altre intanto ſi dicono relazioni, in quanto non conſiderano le coſe in ſe ſtelle, ma relativamente tra loro: il diffimile, l'eguale ec. non li concepiſcono ſenza i due termini, che tra loro fi paragonano. Se l' uno in quanto tale non può compararſi ad alcuna coſa, biſogna eſcluder da lui tutte queſte relazioni, tan to più ſe nelle coſe riferite s'includono i molti. Parmenide comincia dall'eſcluſione delle relazioni più facili a conofcere', che ſono quelle della quantità; paſſa alle relazioni della qualità, e ad alcre, e finalmente all'eſſenza; nè di ciò con tento efclude le relazioni, che l'uno può aver all'opinione, al la ſcienza, é lino al nome. Se l'uno in queſto concetto aftrat tiſſimo fi nominalle, avendo ogni nome relazione al ſenſo, al la fantalia, od alla mente, e quindi a tutti gli uomini, che lo pronunziano o l'odono, l'uno con l'aggiunta di queſte relazio ni ſarebbe molti. Si ſente più che non s'eſprimequeſt' ultimo grado, ed abbiamo grande obbligazione a Platone, che in que Ro Dialogo, nel rappreſentarci la dottrina della fetta Eleatica, ci ha moſtrato l'uſo opportuno delle aſtrazioni. Egli di conten ta di non moltiplicarla, che fino ad un certo grado, a fine che l'idea coll' altrarla tanto non s'inlanguidifca, è sfumi; onde al fine la mente non poſſa più ravviſarla in quella guiſa, che i 2 l'im 708 ) l'immagine d'un oggetto riflettuta da uno ſpecchio ſucceflivamen te in molti altri, al fin diviene si ombratile, che ſvaniſce da. gli occhi. Frattanto era neceſſario dimoſtrare in un ſoggetto aſtrattiſſimo per sè, l'uſo dell'ultime aſtrazioni che può far la mente, non eſſendovi altro modo di accennare, come in ogni quiſtione s'arrivi a quell' ultima idea, in cui conviene che vi ci ripoſi, anco malgrado l'impeto innato, che inevitabilmente ci porta a ſempre più nelle cognizioni inoltrarci. Nell'inveſtigazione poi dell' idea vaga Parmenide per tutti i generi, come era in uſo nell'antica Dialetica, e fatta la ſuppoſizio ne determinata per via di comparazioni, ed eſcluſioni, egli ricava il punto preciſo della quiſtione propoſta. Con la chiarezza maggio re che io poſſa, procurerò deſprimer diſtintamente tutti i gra di tallor dell'analiſi, e callor della ſinteſi Parmenidea. Nel trat çar l'altra quiſtione meconvenne ſeguire le interrogazioni, e le riſpoſte degli Interlocutori ma quà folo Parmenide parla; onde bafta ſolo ſeguendo l'ordine del Dialogo premetter le.co. ſe neceſſarie, eſtrar la propoſizione, e dimoſtrarla fe fi può cal metodo de' Geometri. L' uno non è molti. Abbiamo quanto baſta illuſtrata queſta definizione; qui fo lo avverto, che come il Wolfio, dopo d'aver definito, che l'en te ſemplice è cid che non ha parti, da queſta definizione ne gativa egli deduſſe, che l'ente ſemplice non è ſteſo, non è diviſibi le, ſenza figura, ſenza grandezza, che non riempie ſpazio, che non ha moto inteſtino ec. Così Platone, da ciò che è l ' uno, dimoſtra le fteſſe coſe, e molt'altre che andremo partitamente, conſiderando, e deducendo dalle nozioni preme{le. g. 3. 11 Wolfio defini il tutto ciò che è lo ſteſſo con molti; per abbracciar in una definizione non ſolo il tutto integrale, che chiamaſi totum, ma ancora il potenziale che chiamali omne. Lo ſteſſo, come ſi vedrà fra poco, conviene non meno alle quantia tà, che alle qualità, ed alle ſoſtanze, e l'idea di molti è più univerſale, che quella delle parti, convenendo i molti e agli enti ſemplici, ed a' compoſti come a' quantitativi. Parmenide non definiſce qui, che il tutto integrale, raccogliendo inſieme le 1 (69 ) le parti, e limitandole in uno, a cui niente manca, ed è per fua natura indiviſibile; la nozione di molti è quindipiù aftratta della nozion delle parti, e in queſto ſenſo Ariſtotele diffe, che il tutto è prima delle parti, e non le parti del tutto, il che, ſe ſi crede al Patrizio, tolfe da Ippodamo Turio. (a ) §. 4. L'uno non è nè tutto, nè parte di sè. Se l'uno è tutto non vi manca alcuna parte, ($. 3. ) dunque ha parti; dunque è molti contro la definizione dell' uno ($. 2. ) Se l'uno è parte di sè, è un tutto riſpetto a sè, ma non pud eſser un tutto, come ſi dimoſtrò; dunque non è parte disè. L'uno non effendo nè tutto, né ſteſo, od è indiviſibile, o è ſemplice. parte, non è 8. S. Ogni cutto ha principio, mezzo, e fine. Cid vuol dire, che propoſtoſi un turco nel numerarne le parti fi comincia da quella che chiamaſi prima, e li progrediſce all' ultima paſſando per le intermedie. §. 6. L'uno non ha principio, nè mezzo, nè fine. ol, Se l'aveſse ſarebbe un tutto ($. 5. ) il che è impoſſibile (8.4. ) Speſre volte inſegnò Ariſtotele, che l'infinito è ſenza principio, ſenza fine; offerva il Patrizio, che lo preſe dal Parmenide, ove ſi dice, che l'infinito (o piuttoſto come io crederei l'indefinito ) non ha ne principio, nè fine, cioè non ſi sa in eſſo, nè dove comin, ciar la numerazione, ne dove terminarla. In queſto ſenſo una li nea non è propriamente infinita, o indefinita, le comincia da un punto, nè una ſuperficie, nè un corpo, ſe la ſuperficie comincia da una linea, e il corpo daunaſuperficie. A queſti infiniti måtema rici, che cominciano da un termine, non compere la definizione, che Platone aſſegna dell'infinito, da cui eſclude il principio, ed il fine. (a ) Diſcuſ. perip. T. 2. p. 280. S. 2: (70 ) S. 7. L ' uno è infinito. L'uno non ha principio, nè fine (S. 6. ) Dunque è infinito. (An. Si 6: ) 9. 8. La figura è una parte dello ſpazio, o dell'eſtenſione circonſcrit ca da cerci limiti, o è retta come il quadrato, il cubo ec. o ro tonda, come il cerchio, la sfera, Pelifli, l'eliffoide ec. o miſta dell'uno, e dell'altro. Il principio della figura è dove i moder ni pongono il vertice, il fine dove pongono la baſe", il mez zodove la figura fi divide per mecà. 8. 9. L'uno non ha figura. Ogni figura, o recta, o rotonda ha principio, mezzo, o fine (8. 8. ) ma l'uno non ha principio, nè mezzo, nè fine. ($. 6. ) Dunque non ha figura. L'uno è infigurabile. $. 10. Non lo può concepire', che una coſa ſia in ſè ſteſſa ſenza il di 1 ſtinguere con la mente, che ella è comprendente e compreſa, cid che è concepirla due volte, o di uno far due. Non ſi può conce pire, che una coſa ſia in altrui, ſenza che ella ſia toccata in mol te parti. Il luogo abbraccia, o comprende la coſa in lui colloca ta · Eſer in alcrui, od effer in ſe ſtello,, ſono due oppoſti ſenza. mezzo, come il moto, e la quiete. So IT. L'uno non è in luogo. O ſarebbe in sé, o in altrui; ($. 10. ) ſe in sè, egli ſarebbe a sè il ſuo luogo, onde abbracciando ſe ſteſſo ſarebbe nel tempo fteflo, e comprendente, e compreſo, cioè l' uno ſarebbe due co ſe o molti contro la definizione ($. 2.) ſe foſſe in altrui, fareb be 1 1 1 1 (71 ) be toccato in molte parti, onde avrebbe molte parti contro la definizione. (§. 2. COROL. L'unonon è circonſcritto da alcuna coſa, terra, Cielo, materia, ſpazio ec. ANNOT. Daqueſto argomento lice inferire, che Parmenide cob ſidera qui l'uno, in quanto è dalla mente aſtratto da corpi, che ſono in luogo; s'è già oſſervato, che l'ontologia degli anti chi era fondata su l' idee aftratce dalla materia, dalla forma, dal compoſto, dagli accidenti; onde queſt'uno aſtratto da corpi, e da loro dipendente non ha alcuna relazione a Dio, ch'è un ente per sè, in sè, infinito cc.. 12. Il moto alla ſoſtanza, ſecondo Ariſtotele, è quando una coſa, per eſempio una parte di terra ceſſa d'eſfer terra, e comincia ad eſſer pianta. Il moto alla quantità è quando una coſa, per eſempio un fanciullo creſce nella ſtatura, ed un vecchio decreſce. Il moto alla qualità è quando per eſempio la carne d unUomo fredda, dura, ed aſpra, li fa da sè calda, molle, liſcia. Preten deva Ariſtotele, che queſti tre moti dipendendo dalla forza in crinſeca, che facea cangiare alle coſe la ſoſtanza, e gli acciden ti loro, li diſtingueſſero dal moto locale, nel qual altro non ſi con ſidera, che il paſſaggio da un luogo all' altro: Parmenide, o Pla tone, benchè parli del moto di generazione, e d'alterazione, par ſolo far attenzione, ſecondo l'ulo de'moderni, all'accoppiamento delle parti, e quindi all aumento delle qualità, due coſe accom pagnate dal moto locale, o di traslazione. Lo conſidera egli in linea retta, oin cerchio, nel qual moto una parte della coſa et forma nel mezzo, e le altre parti fi rivolgono intorno al mezzo. Vuol poi, che tutto ciò che ſi genera ſi faccia in qualche luogo ſecondo il principio da lui in queſto Dialogo replicato più volte. Ciò che non è in alcun luogo è nulla. Platone nel Teeteto dice per bocca di Socrate: Se dimoſtran eli una ſpecie di moto, o due ſpecie, come a me pare, nondimeno io conſidero che cid non ſolamente appaja a me folo, mo ancora tu ne fii partecipe, acciocchè amendue parimenti patiamo qualunque coſa face cia meſtieri, ficchè mi di, cbiami tu forſe moverſi, quando alcune coſa fe mute da luogo a luogo, e nello steſo ſi raccoglie? Teodoro glie lo concede. Socrate ſoggiugne: Dunque fiare una specie questa, ma quando fermandoſi alcuna coſa nello ſteffo luogo s'invecchia, o di bian, ca fi fa nera, o dara dimolle, e ſi altera da certa altra alterazione, son chiameremo noi meritamente queſt' altra ſpecie di movimenti?... Ora dico che fieno due le ſpecie del movimento cioè alterazione, la (72 ) la circonferenza. Egli dice circonferenza in luogo di traslazione in cerchio, per moſtrar che nel pieno ogni coſa va in giro., Conſidera poi quì, che nel farſi una coſa vi la un accoppia mento, nel qual prima una parte fi congiunga a quella che li fa, mentre l'altra parte, che ſi deve aggiungere, è ancora fuori della coſa. L'uno non ha moto di alterazione, nè di generazione. Non di alterazione, perchè ſe ſi altera non è più uno, ac quiſtando nuove qualità; ſe fi genera non è più uno, acquiſtan do nuove parti. Or nuove qualità, e nuove parti fanno molti; dunque ſe l' uno o fi altera, o fi genera, è molti contro la de finizione. IN ALTRO MODO. Una coſa non può generarſi o farſi che in un' altra, perchè tutto ciò che è, o fi fa, è in qualche luogo, ma ſe l'uno non può effer in un altro (S. 11. ) nè meno può farſi in eſſo. In ol tre ſe una coſa ſi fa in un altro, non ancora ella è ſe ſi fa. Or quando una coſa ſi fa, una parte è in lei, e una fuori di lei, perchè le parti fi vanno ſucceſſivamente aggiungendo, ma l'uno non avendo parti (5. 4. ) nè può eſſer nè tutto te in sè, nè tutto, nè parte fuori di sè. Dunque non può ge nerarſi. Corol. L' uno non è generabile, nè alterabile, nè par §. 14. L'uno non ha il moto di traslazione. L'uno non è in luogo (5. 11. ) ma la traslazione in linea ret. ta è una mutazione ſucceſſiva del luogo. Dunque l ' uno non eſſendo in luogo ($. 11. ) non può mutar il luogo, ſecondo la linea retta, ma nè meno pud mutarlo, ſecondo la linea circo lare, perchè deve raggirar nel mezzo, e tener fiffe le parti che fi rivolgono intorno al mezzo; ma l'uno non ha nè mezzo, né parte, dunque non può rivolgerſi in cerchio'(. 13. ) Dunque le alluno non conviene nè l'uno, nè l'altro, non gli conviene il moto di traslazione. Q. 15. 1 1. 1 (73 ) g. isi Come ſi concepiſce il moto, nel concepire la traslazione fuc ceffiva del mobile, o ſia il rapporto continuamente vario della diſtanza del mobile a ' corpi contigui, così fi concepiſce la quie te nel concepir il rapporto coſtante di diſtanza a ' corpi conti gui; quindi nel moto, il corpo va ſucceſſivamente occupan do diverſe parti dello ſpazio, e nella quiece occupa le ſteſſe par ti dello ſpazio. $. 16. Luno non è nè in quiete, nè in moto. L'uno non è in sè, nè in altrui (9.11. ) ma ciò che è in quiete, è ſempre nello ſteſſo, ciò che li move è ſempre in al trui. Dunque ſe l'uno non è in ſe ſteſſo, nè in altrui, non ſi ripoſa, nè ſi muove. $ 17 Platone ha ſin ora conſiderato l' uno per eſcluder da lui la ragion di tutto, di parte, di principio, di fine, di mezzo, di figura, di luogo, di moto, cioè per eſcluder dall' uno tutte le relazioni che appartengono alla quantità, come la più nota, e più facile. Senofane pur provava, che l' uno era infinito, im mobile, non ſi trasfigurava nella poſizione, non s'alterava nel la forma, non fi milchiava con alcri. Non è egli molto veri ſimile, che egli ne arecaffe le ſteſſe ragioni, che poi Parmeni de più fteſe, ed affottiglid? Paſſa Parmenide ad eſcluder dall' uno le relazioni dell'ente che appartengono alla qualicà, di cui le prime ſono l'identità e la diverſità. Non premette Parmenide alcuna definizione dello ſteſſo, e del diverſo; come fece del tutto; dai Pittagorici (a ) impard, al dir del Patrizio, che l'identità, e la diverſità non devono conſiderar fi come paſſioni dell' ente, ma come generi ſecondarj, i di cui primi ſono il moco e la quiere. Ariſtotele all'incontro riduce l' identità a una certa unità, e dichiara che ella come la diverſità appartiene alla ſuſtanza, poichè fteſse ſono quelle coſe che con vengono, o nella materia, o nella ſpecie, o nel numero, o nel Tomo II. k gene (a ) Diſcuſ. Perip. T. 2. p. 207. (74.), genere di cui una è la ſoſtanza. Platone eſtende l'identità, e di verſità alle qualità, e da lui impårarono i matematici a dire, che le ragioni o proporzioni, che ſono le ſteſſe con una ſtella, ſo no le ſteſſe tra loro; e non ſi dice pur tutto giorno lo lteſto grado di calore, di lume ec. e. parimente ragioni diverſe, di verſo grado di calore, di lume ec. Dunque non alla ſola fo ftanza, ma alla quantità, alla qualità, ed agli altri predicamen ti apparciene lo ſtello, e il diverſo. Inliftendo il Wolfio su le nozioni ſcolaſtiche, dà il criterio per diſtinguere lo ſteſſo dal diverſo. Quelle coſe, dice egli, fou no le stelle che ſi poſſono ſoftituire. ſcambievolmente ſalvo qua lunque predicato, che loro aſſolutamente, ſotto qualche con dizione convenga; ſicchè fatta la fortituzione, la coſa reſta ta le, come ſe non foſſe ſtata ſoftituita. Se in una bilancia, in cui ſang equilibrati due peſi, in cambio di un peſo, d' una certa grandezza, io ne ſoſtituiſco un alıro, in modo che l'equilibrio Loro non lia tolto, queſti due peſi, in quanto peſi, nulla diſtin guendoli: ſi chiamano gli ſteſſi. Se nel peſo che è prima nella bilancia, vi foſſe una certa figura, ed un certo colore, eun cer to grado di calore, e di freddo, ed anche un certo odore, e tutto ciò appuntino ſi ritrovalle nel peſo che ſi ſoſtituiſce, que fti due peſi non diſtinguendoſi, e nel peſo, e nell' altre qualità li chiamano gli fteſi; Lo ſteffo in numero è ciò che ſi afferma di ſe ſteſſo, o cui ripugna d'efiftere due volte; nel dirſi, queſto triangolo è que ſto triangoló, ' ſi predica lo ſteſſo triangolo di ſe ſteſſo, onde convenendo la ſtella eliſtenza al ſoggetto, e al predicato, egli è manifeſto, che il triangolo in quanto è nell' uno, e nell' altro non ha doppia eſiſtenza, mala ſteſſa, I diverſi poi ſono quelli, che ſcambievolinente non poſſono ſoſtituirfi, falvo ogni predicato che all' uno, o all' altro aſſo lacamente o condizionatamente convenga. Così nel caſo della ſoſtituzione de' peſi della bilancia, ſe un peſo nel ſoſtituirſi all' altro cangia d'equilibrio, il pelo ſofticuito è diverſo dal peſo, di cui preſe la vece; egli è diverlo in ragion di peſo, benchè per altro poteſſe eller lo ſteſſo nella grandezza, nella figura nel calore, ed altre qualità. Poſſono dunque le coſe eſſer le ftel ſe in un predicato, e diverfe negli altri; quindi ſi può diſtin guer lo ſteſſo, e il diverlo in affoluto, e in relativo; ſono aſ loluti, ſe le coſe convengono in tutti i predicati, o diſconven gono falva però la loro eliſtenza; ſono relativi le convengono in alcuni predicati, ma diſconvengono in altri. E'cid neceſſa rio di ben avvertire, perchè in queſto Dialogo fi prende lo ſteſ 1 1 ſo, 1 (75 ) fo, e. il diverſo in queſti due fenfi. Qul Parmenide perd pren de aſtrattamente la coſa, perchè a lui baſta, che l'identità, e la diverficà fiano affezioni, o generi delle coſe non preſe in sé, ma relativamente all'altre, baſtando queſta fola relazione per eſclu derle dall' uno; quindi può facilmente dimoſtrarſi, che l'uno non è, nè a se, nd ad altrui lo ſteſſo, perchè nel ſuo concerto aſtrat tiffimo efclude ogni comparazione; ma Parmenide in alcro modo lo dimoſtra, rappreſentandoſi alla mente per via d'una nozione immaginaria, che l' uno prima è uno, e poi per forza della com parazione egli è molti. Ciò ſi rende ſenſibile col diſegnar l'uno col ſimbolo aritmetico I, e poi aggiongendovi A, o qualche alera lettera, onde egli fia prima i, indi 1 + A. S. 78 L'uno non è lo ſteſſo, nè diverfo a sè, nè ad altri. Se l'uno foſſe da fé ſteffo diverfo, ſoſtituendoſi l'uno per l'uno dove prima della ſoſtituzione fi concepiva i, dopo della foftitu zione si concepirebbe 1 + A, dunque non più i contro l'ipoteſi. Se fia lo ſteſſo ad altrui egli farà quello, cioè 1 + A non cið che è, od uno, il che di nuovo è contro l'ipoteſi.. 19. L'uno non è diverſo, nè da altrui, ne da ſe ſteſſo. L'uno convenendo con tutte le coſe, perchè d'ogni coſa ſi dice, uno non è diverſo da effe, che in virtù di qualche predicato; dun que in quanto non è più uno; dunque non può eſſer diverſo dall' altre cofe. Non è la ſteſſa la natura dell' uno, e dello ſteſfo, perchè quando una coſa li fa la ſteſſa ad aleuna non ſi fa uno; il colore di A per efempio ſia lo ſteſſo, che il colore di B, non perciò mai A è B, perchè le due coſe colorite comparandoſi, benchè con vengano nel colore, e in queſto fieno uno, non perd convengono nell ' çliſtenza, Se gli Itelli non ſi conofcono, che per la Toſti tuzione, gli ftelli convengono bene ne'predicati; ma ſono fem pre due. Dunque quando una coſa ſi fa la ſteſſa con l'altra, di due non ſi få uno, ſe non inquanto ſi concepiſce, che con vengono, o nella quantità, o nella qualità ec. ma non perchè convengono non ſono due; dunque o l' uno paragonato all' uno ſi fanno due, e cosi l'uno non è uno, o reſtando uno non k 2 ſi può (70 ) la pudfar ſoſtituzione. Dunque non pud dirſi, che l' uno fia lo ſteſſo a ſe ſteſſo. 20. Parmenide paſſa a comparar l'uno coi fimili, e diffimili. Aris ftorele dice, che i ſimili ſono quelli che patiſcono lo ſteſſo, ei diffimili quei che pariſcono il diverſo; de' primi una è la qualità, dei ſecondi è diverſa la qualità,onde egli ripone i ſimili, e dilli mili ſotto l'identità, e diverſità, il che imparò da Platone nel Filebo (a ) e più facilmente dal Parmenide, ove Platone defini ſce il ſimile, per ciò cui adiviene patir lo tego, il diffimile, ciò cui adiviene patir il diverſo. Conſidera quì Parmenide le.qualità, come attributi o modi che ſi ricevano nel ſoggetto, il quale nel riceverle in cerca guiſa paciſce; ſono queſte nozioni immaginarie, come quella della ſoſtanza. Su queſte orme Parmenidee, il Wol fio definiſce i fimili quelli, in cui le ſteſſe ſono le coſe, per le qua li doverebbono diſcernerſi, onde ſecondo lui, la fimiglianza è l' identità di quelle coſe per cui dovrebbono tra loro diftinguerli. Se in due volti per eſempio io ritrovo nelle parti gli ſteſſi linea menti, ne' lineamenti gli ſteſſi gradi de' colori ec. in fomma ſe io ritrovo, che le ftelle fieno tutte quelle qualità, per cui dovereb bono diſtinguerſi, i due volti ſono ſimili; diffimili all'incontro ſono quei volti, in cui diverſe ſi ricrovano le coſe per cui tra lo ro fi diſtinguono, che vuol dire i lineamenti delle parti, le figu la collocazione, le grandezze. Il Wolfio fi fece ſtrada con que ſta definizione a definir i ſimili matematici, ben oſſervando, che le loro proporzioni, benchè abbiano per fondamento ilquanto, fi riducono al quale. re, S. 21. L' uno non è fimile nè diffimile ad alcuno, o a se, o ad altrui. Simile a quello cui adivienelo feſto (. 20. ) ma l' uno eſclu de lo ſteſſo (S. 18. ) Dunque efclude il ſimile. L’uno ſe riceve alcuna coſa fuor di quello che è l' eſſer uno, pa tiſce d'eſſer più l'uno, perchè egli è l'uno, ed inſieme la coſa che pariſce, onde almeno egli è due o molti; dunque non è più uno; dunque ſe l’uno non paciſce d'effer lo ſteſſo, o loco, o con altri, non può eſſer a ſe ſteſſo, o ad alcri ſimile, (a ) Patriz. Diſcuſ. perip. p.202. Il (77 ) Il dillimile è quel che pariſce diverſità (5. 20. ) ma l'uno non può parire diverſità, dunque non è, nè diverſo da lui, nèda altre coſe, altrimenti non ſarebbe più uno; dunque l'uno non è diſli mile, nè a ſe ſteſſo, nè ad altrui. 1 l. 22 Concluſo che ha Parmenide non convenir all'uno, nè l'iden: tità, nè la diverſità, nè la ſimiglianza, nè la diffimiglianza, paſ fa a ricercare ſe gli convenga l'eguale o l'ineguale, due pro prietà delle grandezze comparate P une all' altre; l'eguale im murabilmente ſta nel mezzo, da cui l' ineguale allontanandoſi per ecceſſo ſi chiama maggiore, e per difetto minore. L'egua le paragonato all'eguale ha le ſteſſe miſure, paragonato al mag giore ha meno miſure, e ne ha più paragonato al minore. Ra gionando Parmenide con Socrate ad bominem, fi ferve del ter mine di participare, che non è allegorico, ove ſi tratta di par ti. Offervo che non miſurandoli, ſecondo Platone, che con l'uni tà, e col numero, è manifeſto, che la miſura è ſecondo lui quan tità; pur gli attribuiſce lo ſteſso, e il diverſo. g. 23. L'uno non è, nè eguale, nè maggiore, nè minore. Non participando, nè dello ſteſso, nè del diverſo, non parte cipa mai, o le ſteſse, o le diverſe miſure, in conſeguenza non è nè eguale, nè maggiore, nè minore. 6. 24. Come ſi miſurano le grandezze permanenti, così ancora ſi mi ſurano le ſucceſſive, le quali paragonare l'une all' altre, compete loro lo ſteſso e il diverſo, cioè il più, e il meno. Si dice che due Uomini hanno la ſteſsa età, quando è miſurata per lo ſteſso nu mero di rivoluzioni ſolari, e che hanno maggiore o minor età le ella ſia miſurata per maggiori o minori rivoluzioni ſolari. L'antichità, la vetuftà, la novità ſono relazioni degli enti ſuc ceflivi per rapporto alla loro eſiſtenza fucceffiva; antico ſi dice quello che da lungo intervallo di tempo e prima d'un altro; nuo vo quel che ora è, e non fu che già poco tempo prima d'un al tro; il giovane, il vecchio, ſono propriamente le differenze dell' età degli Uomini, mas'attribuiſcono per mecafora a curce le coſe. 9.25. (78 ) f. 25. L'uno non è più vecchio, più giovane di ſe ſteſso, o dell' altre coſe. L ' uno non pud participare, oo delle ſteſse,, o di maggiori o minori miſure degli enti ſucceflivi, perchè non può partici pare dello ſteſso, e del diverſo; ma quel ch'è più vecchio, partecipa di maggiori miſure, quel che è più giovine di minori, dunque ec. g. 26. Per ben intendere come uno nel farli più vecchio di fe fteſso o d'un altro ſi fa più giovane, mi è neceſsario trasferire alcu ne nozioni della ſeconda ipoteſi, ed aritmeticamente ſvilupparle. g. 27 6 3 5 4 Se il rapporto del maggiore al minore crefca per l'aggiun ta agli antecedenti, e a' conſeguenti d'una grandezza eguale, il rapporto ſempre decreſce. Sieno i numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, i quali ſucceſſivamen te creſcono per l'aggiunta dell'unità, èmanifeſto che (a ) > 4 $ Si prendano i quozienti o valori delle ragioni. Il valore della ragione di = it; il valore di = ito il valore di = i +. Or tal eſsendo la ragione qual è il fuo valore ſe I +1/2 > it it ec. come è mani 3 feſto fard > 5 ec. Or rappreſenti A C l' età d'un 3 fanciullo di 3 anni, e B D l'età d'un | fanciullo di due anni, s' aggiunga alla А С F prima età un anno, ciod ad " A C. s'ag giunga CF, e alla ſeconda età B D SA D G. aggiunga un altro anno o DG. Onde s' averà la ragione di }; li vada aggiungendo ſucceſſivamente alle due età un'anno, ed indi un'anno, e li averanno le ragio ni di e di. Egli è manifeſto, che il fanciullo di tre anni è più vecchio di quello di due, ma nel creſcere all'uno, e all' al > 3 4 Ā 1 B tro (a ) Il ſegno è quello del maggiore, Il ſegno di < del minore. Il ſegno è quello dell'eguale. (79 ) tro un' anno la ragione che ne riſulta di è minore dell'altra; molto minore è quella di, e molto più minore quella di onde ſebben il primo fanciullo ſi faccia ſempre più vecchio dell'altro, contuttociò per l'accreſcimento dell'egual quantità ſi fa più gio vane relativamente, perché dove nella prima ragione la differen za era nella ſeconda è minore di 1, e quindi, ſempre mi nore. Egli è vero dunque, che un fanciullo nel farli' più vecchio d'un altro li fa ancora più giovane. Se non ſi compari l'età di due fanciulli, ma ſi conſideri folo l' erà di uno, che ſempre riſpetto a ſe ſteſso creſce di un'anno, egli è manifeſto, che per queſto eguale accreſcimento, nel decreſcer ſempre le ragioni degli anni cra loro comparati, lo ſteſso fanciul lo nel farſi più vecchio di ſe ſtefso, fi fa ancora più giovane. Si vede quindi, che nel farſi il più vecchio dal più giovane, fi fa cid dal diverſo, e che non è diverſo, ma'ſi fa. Corol. Lo era, lo efser ſtato, il li faceva, ſignificano i modi del tempo paſsato; il ſi farà, il ſarà, e ſarà per farſi, i modi del fucuro o dell'inanzi; l'eſsere, il farſi, i modi del preſente. f. 28. L'uno non è in cempo. Se l'uno fofse in tempo participerebbe delle miſure del tempo; dunque or ſarebbe più giovane, or più vecchio, ma queſto non pud eſsere, come s'è dimoſtrato (9. 25. Dunque ec, IN ALTRO MODO. Quel che è in tempo nel farſi più vecchio, ſi fa più giovane di ſe ſteſso, (§. 27.) ma l'uno non può farſi più vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſso, perchè non può farſi, nè una cola, nè l'altra (9.25. ) Dunque non è in tempo. Il più giovane che ſi fa dal più vecchio è diverſo da lui, e non è ma ſi fa, ma l'uno non può ricever il diverſo (§. 18. ) Dunque non può farli dal più vecchio il più giovane; dunque non è in tempo. Il più giovane non ſi fa dal più vecchio, nè in più lungo tem po, nè in più breve di fe fteſso, ma ſempre nell'egual tempo con le ſteſso, o fia, o ſia ſtato, o ſia per dover eſsere; mą l'uno non è ſuſcettibile dell'eguale (§. 23. ) Dunque nè meno dell' egual tempo; dunque non avendo le paſſioni del tempo non è in cempo.. 29. (80 ) S. 29. L'uno non partecipa, nè del preſente, ' nè del futuro nè del paſſato. L'uno non eſſendo in tempo non può partecipare del tem po, ma le paſſioni del tempo ſono, il preſente, il paſſato, il futuro. ($. 27. ) Dunque non le partecipa. Corol. Se l'uno non è partecipe di niun tempo, non fu mai, nè ſi faceva, nè era, nè ora è fatto, nè fi fa, nè farà. 8. 30. Ogni ente, o ciò che è partecipe di eſſenza, è, ſecondo Plato ne, o nel tempo preſente, o ſarà nel futuro, o fu nel paſſato. Nel Timeo egli dice, che Dio per far il tempo fluente nel numero, fece un'immagine dell'eternità. Dunque l'eternità fiſſa in ſe ſteſſa non contiene, che il preſente, e ciò pur dicono i Teolo gi nel diffinirla con Boezio, una poſſeſſione tutta inſieme di una vita interminabile. Negando dunque Parmenide, che il pre ſente competa all' uno, gli nega l'eternità, onde è egli evidente che non parla di Dio, ma ſolo d'un ente di ragione, dal quale per l' astrazion della mente eſclude tutto ciò che involve rela zione a qualche coſa, ed anche a lui ſteſo. Dall' altra parte, qui Parmenide non eſclude dall'uno, ſe non cid che appartie ne per lo più alle coſe corporee e viſibili, il tutto, le parti, il luogo, l'eguale, il maggiore, il minore, la generazione, la traslazione, le differenze del tempo; e ciò che dice dello ſteſ. fo, e del diverſo, del fimile, e del diflimile, che pur conven gono alle coſe incorporee, lo ricava da ciò che ha negato ne' quanti. 1. 31. L'uno non è, o non ha eſſenza. L'uno non partecipa del preſente, del paſſato, del futuro (9.29. ) ma ciò che ha effenza partecipa dell'uno, o dell'altro ($. 30. ) Dunque l'uno non ha eflenza. Annot. Dall'uno conſiderato preciſamente come uno, cioè a dire oppoſto amolti, ſi debbe eſcludere, oltre l'eſſenza attuale, an cor la poſſibile, perchè la poſſibilità come fonte, e principio della realità porta ſeco qualche relazione a cid che eſiſte, é dall' uno ogni relazione deve eſcluderſi.; molto più le relazioni dell' uno all'ente, di ragione che chiamali intellettuale qual è il Lo-. gico, il metafiſico, il matematico, e l'altre relazioni ancora ché aver poteſſe all'ente immaginario ancor chimerico.. §. 32. tra coſa Primafi concepiſce la, non ripugnanza dei predicati delle co ſe, ed è l'eſſenza, e queſta non ſi dice d'altre coſe, o d'al tre eſſenze, ma bensì o gli attributi, i modi, e le relazioni fi dicono deſsa; cal è la definizione logica, che Ariſtotele diede della ſoſtanza, chiamandola ciò che non ſi predica d'al ma che tutte le coſe ſi predicano d'eſsa. In que ſto ſenſo l'eſsenza nel ſuo concetto aſtratto, non differiſce dal la foſtanza, che in quanto queſta ſi riferiſce a ſe ſteſſa, ed agli aleri de' quali è ſoftegno, per il che ſi dice, che ella non ha contrario, e non è capace di più, e di meno. Se l' uno non può predicarſi dell'uno, o di le ſteſſo, per non radoppiarlo o farne due o molti, egli è manifeſto, che non è ſoſtanza to più ſe fi conſidera col Wolfio, che nella nozione della fo ſtanza, v'è qualche coſa d'immaginario, perchè ella fi rappre ſenca alla fantaſią, come un valo od altra coſa, che in sè ri. ceve gli accidenti. $. 33 L'uno non è ſoſtanza. L'uno non ha eſſenza. (S. 31. ) Dunque non ha ſoſtanza ($. 32. ) ſ. 34. La ragione è propriamente quell'atto della mente, che da una coſa n'inferiſce un' alera, od è ancora ſe ſi vuole la con neſſione delle verità univerſali; la ſcienza è la cognizione cer ta, ed evidente delle coſe, ed è tutta opera della ragione che deduce una coſa da un' altra. Nell' attribuire una coſa ad un altra, ſe li ha qualche cimore, che ad efla ſi poſſa attribuire l'op poſto, ſi ha della coſa opinione. Col ſenſo poi non ſi percepi Icono, che le coſe ſingolari, o determinate in ogni parte, e quindi compoſte di molti. Da queſte definizioni e manifeſto chenegli oggetti della ragione, della ſcienza, dell'opinione, del Tom. II. I fen ((82 ). fénfo s } includono moki, çd - in oltre che ogni coſa, che.0.4 ſénte, o su cui di ragiona fcientificamente, od opinabilmente, ha un' eſſenza attuale o poflibile; falfa o vera. 1 $. 356 Dell' uno non li ha ragione, ſcienza, opinione, ſenfo. Quefte coſe includono molti, e dipendono dall'ipoteſid' un eſſenza (§. 34. ) ma l' uno non ha eſenza (S. 31. ) e non in olude molti (.9.,2. ) Dunque ec, g. 36 Non ſi dà nome ſe non alle coſe, della cui eſſenza, o per ragione, o per opinione, o per ſcienza, o per ſenſo ſi ha un ' idea o chiara, od ofcura, o diſtinta, o, confula, o miſta di que Ite differenze. S. 37... L'uno non ha nome. L'uno' non ha effetiza:(: 34:) Dunque l'uno non ha nome. 1 §. 38. Ragruppando in poco ciò che ſin ora ſi è detto, ſi può for mare tal fillogismo. Dal concetto aftrattiflimo dell' uno ſi de vono, eſcluder i molti di qualunque genere effi fieno; ma cid che appatriene alla quantità, alla qualità; alla refazione ec? vi s'includono imolti; dunque devono queſti eſcluderſi dal.concet to aſtrattilfino dell'uno,. ] Se fi diceffe, che così concludendo ſi confonde l'uno col nul la, manifeſto è l'inganno, poichè la definizione del nulla è, che egli non abbia nozione alcuna o poſitiva, o negativa, ciò che elclude dal nulla ogni realtà. Quando'io dico all'incontro, l'uno non é molti, non tolgo a lui ogni realtà, benchè eſplicitámen te io non vi rifletta. Io ſto più immobilmente che poſſo affil ſo su l'uno, in quanto s’oppone a molti, e in queſta conſide razione preſcindo più che poſſo dal conſiderar l' uno, o per rap porto all'ente, o per rapporto al mio penſiero; noi poſſiamo, come accennai, più ſentire, che eſprimere queſte preciſionimen tali, e momentanoe, ma 'non laſciamo di fentirte, e le fencia ·mo (83 ) mo ſe poffiamo eſprimerle in qualche modo, e farle' intendered agli altri; nè per altro la fcola Eleacica; ed indi Placone le pro poſe, che per addeſtrar la mente ad inveſtigar l'idee delle coſe. Era necelfario fciegliere per eſempio quell' idea, in cui la pre ciſione arriva all'ultimo grado, ove pofla mai giungere la men te umana. Non ſi conoſce mai bene la natura', ' ed'i precetti della arte, che l'imita, fe non ned maffimo. Io dimando al Lettore; che legge attualmente il Parmenide di Platone, e lo confronta col mio comentario, fè altro faccio in effo, che ſviluppare il fenſo.ovvio det tefto: Abbia pur Pro clo, e gli altri Placonici, e Gentili, e Criſtiani confiderato queſto Dialogo, non come ontologico, ma come Teologico, io ril pettando, e la dottrina, e l'autorità loro', dirò che la mia Spiegazione ontologica non impediſce, che degli intelletti più fublimi del mio, teologicamente non l'inalzino a coſe maggio ri, come fece il Cardinal Befarione, applicando a queſto Dia logo la dotrrina del preceſo S. Dionigi Areopagita. Si può ri leggere avendo preſente tútra l'intiera ſeſſione, quanto ivi diſ fi appoggiandomi alla dottrina di S. Tommaſo: Dio'è un en te fingolariſfimo, e nell' applicarvi quel che conviene all' en te di ragione; biſogna ftar attenti che non ſi confonda l' uno ton l'altro; la merafíſica degli antichi è la ſteffa che la me tafifica dei moderni; mia nel riferir la prima ' alle coſe, queſte includevano Dio, che gli antichi non ſeparavano dalla mate ria, che per preciſionedi mente, là dove la ſeconda conſiderando fe coſe non ha a Dio, che un'analogia molco lontana, perchè fi diſtingue eſenzialmente, é realmente dalle ſteſſe. Se l'uno è, quali coſe adivengono intorno ad eſſo. I. I. Nom On ſi ricerca ſe faecia meſtieri, che ſucceda- un cert' uno, ma ſe vi ſia l'uno; o pure ſoſtituendo la nozione imma ginaria ſe l'uno partecipi l'eſfenza. Dall'ipoteſi così propoſta ne fiegue', che' l'uno non è la pro: pria 'eflenza, o che l' effenzà, e l' uno non ſono gli ſteſi con: cerci z chi dice elfenza, dice preciſamente la: non ripugnanza dei predicati, e chi dice uno, dice 'non molti.; Nel cratcat queſta: ſuppoſizionë, Platone comincia a frami I 2 fchia (84 ) ſchiare all' aſtrazioni le nozioni immaginarie più che di ſopra Queſto fa ſovente l'oſcurità del teſto, perchè per intenderlo ci sforziamo toſto a concepire ciò, che non è che un' imaginazione ed imaginazione tallora falſa, da cui li deduce una contraddizio ne, nèſempre però vera, ma apparente, il che raddoppia l'ab baglio, ſe non vi s'attende; manifeſteranno gli eſempi ciò che io dico, in tanto mi ſia lecito di contraſegnare con due ſimboli diverſi, A, e B, i due concettidell'ente, e dell'uno. Nel farne il compleſſo A + B io rappreſento un tutto che ha due parti, che io tra loro ſeparo con la mente, per ragionarne più diſtintamente fi 2. Se l'uno è, ogni parte di queſto tutto (uno è:) può dividerſi in infinite particelle. Si prenda la particella uno, e ſi concepiſca come ſeparata per un momento dall'altra particella ence, poichè per la fuppoſizio ne l'uno è, egli è manifeſto, che conſta di due particelle, uno ed ente. Di queſto nuovo compleffo ſi prenda la particella uno, e queſta per la ſteſſa ragione ſi dividerà in due altre, ente ed uno, e così all'infinito. Or ſi prenda l'altra particella ente, e poiché ogni ente è uno, ſi dividerà queſta particella in due altre, le quali di nuovo fi divideranno, e così all'infinito; dunque ogni particel. la del cutto uno è, ovvero è l'uno, ſi divide in infinite particel le all' infinito. Così può ſenſibilmente rappreſentarſi. Ente uno А + B 1 Ente uno uno ente 2 a + 2b 2A + 2B ente uno uno | ente 3A ente, uno uno | ente 46 4A 4B 3. a 36 3B 1 uno, Come A + B rappreſenta il primo compleſſo immaginario della e dell'ente così 2a + 2b rappreſenta il ſecondo com pleſſo immaginario dell'uno, e dell'ence dedotto dall'ente, o da A, e parimenti 2A + 2B ſignifica il ſecondo compleſſo imma ginario dell'uno, e dell'ente dedotto da B. ANNOT. Qui Platone fuppone darli reciprocazione tra le due pror (85 ) propoſizioni l'uno è, è l'uno, nella prima delle quali l' uno è il loggetro, cliente è l'attributo, e nella ſeconda l'ente è il ſoggetto, e uno l'attributo. Perchè legitimamente ſia la reciprocazione del le propoſizioni, biſogna che il ſoggetto ſia tanto ampio, quanto l'attributo, onde può reciprocarſi la propoſizione. Il triangolo è una figura di tre lati; nell'altra ogni figura di tre lati è un trians golo, ma non già ſi reciproca la propoſizione, ogni ternario è nu. mero, perchè non ogni numero è ternario. Il non aver avvertita la legge della reciprocazione fece cader in molti parallogismi tallora i Geometri. Corol. Poichè ogni ente è uno, l'uno ſi moltiplicherà come l'ente, onde potrà dirſi, che l'uno è infinito, o che l'uno è mol ti. Queſta è la prima contraddizione di queſt' ipoteſi, ma è con traddizione immaginaria od apparente, perchè l'uno per sè non è molti, ma è molti per accidente, cioè perchè gli accade di mol tiplicarſi, ſecondo gli enti che lo partecipano, onde non predi candoſi dell'uno nel tempo ſteſſo, e ſecondo lo ſteſſo, gli oppoſti, non ha in sè vera contraddizione. g. 3. Platone s'inoltra con le nozioni immaginarie. Conſiderando l? uno, in quanto partecipe di eſsenza, lo prende ſecondo ſe ſteſso con l'intelligenza, ſpartato da quello di cui diciamo che ſia par tecipe, cioè dell'eſsenza. Ciò vuol dire, che dell'ente, e dell'uno Platone fi fa quei due idoli caratterizzati per A, e per B. Nel dirli che li prende l'uno coll'intelligenza ſpar; tato dall'ente, s'allude manifeſtamente all'aſtrazioni della mente. $. 4. 1 L'eſsenza o l'ente, e l'uno ſono diverfi. Alcro è l'eſsenza, ed altro l'uno (: 32. Sez. 2.) Dunque uno in quanto uno è dall'eſsenza diverſo, e l'eſsenza in quanto eſsenza è diverſa dall'ano; dunque l'uno, e l'eſsenza ſono diverſi; Co sì può illuſtrarſi tale ragionamento. L'ente o l'eſsenza in quanto eſsenza include la non ripugnan za dei predicati coſtitutivi; l'uno in quanto uno include l'oppo Gizione ai molti, ma queſti due concetti tra loro non convengo no; dunque ſono diverfi. 8. 5. (86 ) $. s. L'eſsenza, l'uno, e il diverſo fanno tre concetti o tre coſe trx loro diverſe. S'è già dirnoftrato, che l'uno, el ente non termi nando lo ſteſso concetto ſono diverſi tra loro, ma il diverſo non includendo nel ſuo concetto, che la non convenienza, fa un concet to diverſo, ed in conſeguenza una coſa diverſa dall' altre due; dunque l'eſsenza, l'uno, il diverſo fanno tre coſe diverſe.. 6. Si rappreſenti l'uno per A, l'enre per B, e il diverſo per C ne riſultano quindi. Le combi- FA B7 In ogni combi-7 Tre poi eſsendo le combina nazioni di nazione vie zioni v'è ancora A, B,CAC uno in due Erre volte uno? in ogni com uno in due tre volte due E binazione В С! uno in due tre volte tre Abbiamo dunque dedotto da A, B, C, o dall'ente, dall' uno e dal diverſo il 2.primo pari, il ' tre primo diſpari, dae volte 3 parimenti impari, 3 volce 3 imparimenti: impari. Sipuò an cora dedurre due volte due parimenti pari', e queſte ſono tutte le ſpecie dei numeri. Combinandoſi il 2 il 3 due volte, tre volte e fin quattro volte, ma non altre, ſi compongono tutti i numeri: fino al dieci. It 3* 2 + 2 = 4 2 + 3 2 + 6 = 3 ti 3 2 + 2 + 37 2 + 1 + 2 + 2 = 3 + 3 + 2 3 + 3 + = te: 2 + 2 + 2 +19 1 + 2 + 2 + + 3 = I + 2 + 3 + 4 = 10 II 10 è fatto dall'ı, e dal o, e ſignifica ', che il primo articolo dei numeri termina alla prima decina; fe ſucceſſivamente alla de cina ſi aggiunge l'i, il 2, il 3. ec. ſi arriva alla ſeconda decina, e collo ftelso metodo alla terza, alla quarta ec: fino al 100, che è la decima decina da cui ſi va fino a 1000, o 10 volte 1oo ec. I Pita (87 ) I Pittagorici chiamavanol yno il finito, come quello che li mitava l'infinito o l'indefinito ad una tal ſpecie o forma: dot trina, dice nel Eilebo Platone, la quale diſcende dagli Dei; queſta è, the tutte le coſe tengono in loro fteſſe il termine, o l'infinito innato; o piuctoſto l ' indefinito. Lo rappreſentavano nella materia i Pittagorici, e lo ſimboleggiavano nel 2, o nel binario, poichè ogni coſa ſteſa è divit bile in due e ognuna delle parti in altre due,; e così all'infinito. Quando a queſto infinito s'aggiungea luna, che vuol dir la forza o la forma ſe ne faceva il compoſto che era l'altro principio, di cui par la Platone; queſto compoſto dețerminato a una ſpecie dalla for ma componeva un tutto, in cui vera principio, mezzo, e fi në. Lo diffegnavano i Pictagorici per il 3, e lo chiamavano numero perfecto, medio, e proporzione; oſſervò S. Agoſtino che numerando fino al 3,, € rapportando prima il 2 all'1, ed indi al tre nel comporſi la proporzione continua, aritmetica fi forma per la replicazione del 2 il 4, numero che immediata mente luccede al 3, ciò che non ſi ha negli altri numeri, per chè cominciando la proporzione aritmetica dal.2 chi replica il 3 non fa il numero che immediatamente lo ſegue od il 5 ma il 6; nel continuare la proporzione con queſto metodo i numeri riſultanti ſempre più ſe n'allontanano. S. Agoſtino per ciò offerva co'.Pittagorici, che la perfezione dei numeri è ne quattro primi, in cui gli eftremi ſono intimamente uniti ai mezzi, e i mezzi agli eſtremi. Quindi le più perfecte conſo nanze muſicali, ſono fatte dei primi quattro numeri 2 3-4, 1 ' 2'3? ſ. 7. Se l'uno è, egli è ogni numero. Nella combinazione dell'uno, dell'ente, e del diverſo fi de ducono tutti i numeri (9. 6.), Dunque nell' uno, in quanto è, vi ſono tutti i numeri,; Carol. Il numero eſſendo molti nell' uno, in quanto l'uno è., egli contiene moltitudine, e perchè i numeri fono infiniti nell uno che è, vi farà una moltitudine infinita. COROL. 2. Il numero in moltitudine infinita, eſſendo inclu ſo nell'uno che è, farà egli partecipe d'eſſenza. Si prenda la ſerie naturale de numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 ec. fino al oo unità eterogenea alla prima, e da cui fi comincia l'alcra ferie 200, 30, 40, fino 200 = 60 altra unità eterogenea, da cui comin (88 ). cominciali, un' altra ſerie 2 co ', 300'ec. ſino a o, e cosi all' infinito. Se di queſte tre ſerie ſe ne fa una ſola ſi ha 1.2.3.4.5 ec. co '... 00?... oo..., fino ad in cui ſi potrebbe cominciar di nuovo la numerazione. Cominciando da uno, li può con le frazioni continuar la ſe. rie decreſcente con lo ſteſſo ordine che l'altra, onde 1 I 1 ec. • • ec. fino 3 4 5 I 1 I I I wec. 4 Combinando la ſerie dei finiti intieri, rotti, e degli infiniti matematici, e immaginarj, fi ha tutta la ſerie. ec. 1.2.3.4 ec. co oo oo ' ec. 0° 5 4 3 2 In queſte eſpreſſioni non v'è errore, purchè non s' attenda, che alla proporzione delle quantità, nè ſi realizzino i ſimboli. Ma non biſogna credere, che la numerazione ſia terminata, po tendoſi concepire, e tra gli intieri, e tra rotti, e tra gli infi. niti dei mezzi proporzionali, i quali ſono, come ben prova il Ba rovio, veri numeri (ſe ben noi non poſſiamo eſprimerli ) perchè ſimboli di vere quantità, come i numeri, ointieri, orotti, e gli infinitamente grandi, egli infinitamente piccioli. Platone, al dir d'Ariſtotele, poſe i due infiniti (a ) magnum et parvum, e queſti, come ben ancora lo riconobbe il P. Grandi, ſono gli infinita mente grandi, e gli infinitamente piccioli dei moderni Geome tri; infiniti replico immaginarj, de' quali con tanta chiarezza trattò il Wolfio nell'Ontologia, ſgombrando tutte le difficoltà' che v'oppoſero coloro, che non ben inteſero queſte due ſpecie d'infiniti Platonici, caratterizzati da profondi Geometri con tan to utile della Geomecria, della Mecanica, ed altre parti delle Matematiche. Queſti due infiniti di Platone non ſono diverſi dai grandiflimi, e menomiſlimi, di cui qui parla. 8. 8. In quanti luoghi è l' ente, in tanti è l'uno. Se l' uno è egli accompagna ſempre l'ente, ma non v'è ente, che non ſia in qual che luogo (9.12. Sez, 2. ) Dunque in quanti luoghi è l'ente, in tanti è l'uno. a ) Plato vero duo infinita magnum et parvum. Arift. 3.Phiſ. c.4. §. 9: (89 ) g. 9. Se l' uno è, non ſolo ' egli è l'uno, ma un certo uno. Ogni ente ſingolare partecipa dell'ente, dunque dell'uno; dunque come ogni ente ſingolare è un certo ente, ogni ente ſingolare è un certo uno. ČOROL. Si compartiſce dunque l'uno, non ſolo con le coſe in genere, ma con le coſe ſingolari, onde v'è l'uno, e il tal uno, e a queſto compete, come all'altro, eſfer molti, perchè vi ſono molti enti ſingolari, e compete loro il luogo degli enti ſingolari. g. 10. Se l'uno è, egli è un uno che è uno, e cert' uno, e mol ci, e parti, e finito, e in moltitudine infinito. Egli è uno, e cert'uno, ſe accompagnando gli enti è in ogni ente, ed in ogni cal ente; egli è tutto ſe ogni ente, in quan to è, egli è un tutto; egli è párte, ſe ogni parte dell'ente è jina; egli è finito, ſe ogni tutto ha i ſuoi limiti, e infinito le contiene in sè tutti i numeri. Annot. Queſte contraddizioni non ſono che apparenti. D. II. Se l'uno è, egli ha principio, mezzo, e fine. L'uno è finito, e tutto, e parte (S. 10. Sez. 3. ) Dunque ha in sè limiti, perchè ogni una di queſte coſe ne ha; dunque ha principio, mezzo, e fine. Corol. Dunque l' uno è partecipe di figura retta o roton da, o d'amendue miſta. ANNOT. Come l'uno, di cui quì parla Parmenide, pud effer Dio, o qualche idea divina, fe egli è circonſcritto da tutti i luoghi degli enti, ſe s'individua cogli enti ſingolari, ſe è tutto, parte, finito, figurato ec. 5 Tom. II. m 6. 12. (20 ) Do? 127 ** Se. l'uno è, egli è in ſe ſtello, e iş altrui., Ciò che è tutto, comprende tutte le ſue parti; ma l'uno com prende tutte le ſue parti, dunque l' uno è un tutto; ma il tutto contien ſe ſteſſo, è l' uno è un turco. Dunque l'uno contiene ſe fteffa. ANNOT. La propoſizione è identica, e vuol dire: un tutto è. un tutto; o iltutto è nel tucta; non ſi faccia più attenzione al tutto, mamaall all'uno, e li concluderà, che l'uno è nell'uno. Si com bini poi l'uno, e il cucco, e ſi concluderà, che come il cutto è in ſe ſtello, così l'uno è in fe fteflo. Quel che è in ſe ſteſſo, egli è in ogni ſua parte, ed in tutte le parti, ma il cutto non può eſſer in niuna parte, perchè il più au conterebbe pel manco, nè meno il tutto può eſſer in tutte le par ti, perchè ſe in cutie, farebbe ancora tutto in ciaſcuna, dunque il tutto non è in ſe ſteſſo, ma l'uno è il cutto; dunque non è in fe fteflo. Ogni coſa è in qualche luogo, perchè ciò chenon è in qualche kuogo è nulla e quel che è in qualche luogo è in fe felio, o in altrui, perché non li dà mezzo; mas'è dimoſtrato che ſe è l'uno egli non è in ſe ſteſſo, dunque è in altrui; ma di ſopra s'era pur dimoſtrato, che egli era in le ſtello; dunque è in ſe ſteſſo, ed in alcrui. ANNOT. Non v'è quì che contraddizione apparente, perchè quando ſi dimoſtra, che l'uno è in ſe ſteſſo, ſi conlidera che l'uno è un tutto le cui parti fon tutte inſieme, quando all'incontro fi confidera, che l'uno è in altrui, non ſi concepiſce il tutto con le párti pret inleme, ma come quello che non è in niuna delle ſue parti. S. 13. Se P upo è, egli fta, e ſi muove. Quel che ſta è ſempre in ſe ſteſſo, perchè da lui non mai et di parte; ' ma l'uno eſſendo nell' uno, non ſi diparte mai da fe ftef ſo; dunque è ſempre nello ſteſſo; dunque fta. Quel che è ſempre in altri non è mai nello ſteſſo, e non eſsendo nello ſteſso mai non fta, e non ſtando ſi move, ma l' uno non è in ſe ſteſso, ma ſempre in altrui; dunque ſempre fi move. ANNOT. Non è pur queſta, che contraddizione apparente.. 14. (91 ) $. 14. 1 e il Una coſa comparata all'altra, o è la ſteſsa, o diverſa, o è par te di quella coſa conliderata come tutto, od è tutto, conſiderata 1a cofa come parte. Così dice Platone, e par conſiderar lo ſteſso, e il diverſo relativamente alle qualità ſolamente, e la parte, cutto relativamente alla quantità. Se dunque fi dimoſtraſse, che una coſa relativamente a un' altra non foſse, nè tutto, ne pare ce, nè la Ateſsa, ne ſeguirebbe per il metodo d' eſcluſione, che ella fofse diyerſa. g. 15. Se l'uno è, egli è a ſe ſteſso lo ſteſso, ed a ſe ſteſso diverſo. Se egli è in le ſteſso, e fta ſempre, egli è a ſe ſteſso lo ſteſso, ſe egli è in altrui, e ſempre lr move, è da ſe ſteſso diverſo. L'uno non è parte di ſe ſteſso, nè tutto rifpetto a ſe ſteſso, nè l'uno è diverſo dall'uno; or s'è luppoſto, che una coſa compara ta ad un'altra, fe d'eſsa non è tutto, nè parce, nè diverſa ſarà la ſteſsa; dunque l'uno ſarà lo ſteſso con ſeco; ma ſe l'uno è in al trui non è ſempre lo ſteſso a ſe ſteſso; dunque per l' eſcluſione Platonica ſarà egli da ſe ſteſso diverſo'. §. 16. ne Per eſpor: l'argomento ſeguente in tutta la ſua forza, convie. ne particamente illuftrare i principj da cui dipende. Si ſuppo 1. Che l' uno è da sè diverfo, come da ente nell'ipo teſi, che egli ſia. 2. Che il diverſo e lo ſteſſo, effendo contra rj, uno non può mai eſser dell' altro. Cost lo ſpiego · Molci enti potendo efiftere, od eſiſtendo nel tempo ſteſso, lo ſteſso farebbe nel diverſo, ciò che è impoſſibile, non potendo i con trarj, cioè A, e non A ſtar inleme. Ben ſi vede che qui parla Platone del diverſo, e dello ſteſso aſsoluto, e non relati. vo, quale abbiamo fpiegato nel G. 17. Sez. 2. perchè nulla vie ta, che due coſe non poffino eſser diverſe' nell'eſsenza, nelle quantità, nelle azioni ec. ed intanto eſiſtere nel tempo ſteſso mi Iura eſtrinfeca delle coſe. Non è cosi conſiderando il diverſo aſsoluto, o l'idea del diverſo, e conſiderando lo ſteſso aſſoluto o l'idea dello ſteſso.; l'uno non può mai ſtar nell'altro, e in conſeguenza la ſteſsa coſa non può mai partecipare nello ſteſso tempo di queſte due idee contrarie. Allude qui tacitamente Par m 2 meni (92 ) menide a ciò che ha già dimoſtrato, parlando della participazio ne dell'idee. L'argomento ha tanto maggior forza, quando fi conſiderano gli enti ſeparati dall' uno, poichè ſe foſsero diverfi, per ragion del diverſo participerebbono dell' idea del diverſo che è Tempre una, dal che deduce Parmenide, che non poten do eſser diverſi per la participazione dell'uno nell'ipoteſi di Socrate, non ſono diverſi tra loro. 3. Suppone che le coſe che non ſon uno, non fieno partecipi dell'uno, perchè non ſarebbono uno, ma uno in certo modo. Quì pur Parmenide parla dell'idea dell' uno, che participandofi dalle coſe non è più uno, ma uno con certe circoſtanze, od in certo modo, ma ſe non ſon uno nor faranno eziandio numero, perchè ogni numero è uno. 4. Le coſe che uno non ſono, nè aſsolutamente uno, non poſsono eſser parti dell'uno, poichè l' uno non può eſser parte delle co ſe che non fon uno, nè può eſser tutto, quafi comparato a par ricella. Parmenide alludetacitamente a ciò che diſse di ſopra, che idea non pud eſser participata, nè ſecondo la parte, nè ſecon do il tutto, dal che deduce, che le coſe che non ſon uno ne fono particelle dell' uno, nè ſono all' uno quaſi a particella. Ciò ſuppoſto così argomenta Parmenide col metodo d' eſcluſione. g. 17. Se l'uno è, egli è diverſo, e lo ſteſso con altre cofe; all'uno convien il diverſo, aſsolutamente in quanto diverſo, e non all” altre coſe, cui non conviene, che relativamente Dun que l'uno è diverſo dall'altre coſe.; le altre coſe non ſono diper fe dall'uno, nè ſono parci, nè tutto riſpetto all' uno; dunque fono le Aeſse con l'uno. F. 18. Chi proferiſce lo ſteſso pome una, e più volte ſenza riferirlo a più coſe, come ſi riferiſce nei nomi equivoci, ed analoghi, eſprime fempre lo ſteſso concetto; dunque nel proferire la voce, diverſo; applicandola all'uno, confiderato relativamente agli altri, e un' altra volta agli altri conſiderati relativamente all'uno, nell'ado prar lo ſteſso nome s'eſprime lo ſteſso concetto. Quindi dice Par: menide: quando diciamo eſſer gli altri diverſi dall' uno, e l'uno ef ſer dagli altri diverſo, non mai introduciamo il diverſo a figuificar altra coſa, che la natura di cui è proprio nome. $. 19. (93 ) S. 19. s'è gia oſſervato, che fimile è quel che patiſce lo ſteffo; difts mile quel che patiſce il diverſo (9. 20.Sez. 2.) Se l'uno è, egli è ſimile, e diſſimile a ſe ſteſſo, ed agli al tri. L'uno è diverſo dagli altri (9. 17. Sez. 3. ) Dunque l'altre coſe ſono diverfe dall' uno, ma non fono diverſe nè più né meno dall'uno, che l'uno dall' altre coſe (S. 18. Sez. 3. ) e ſe nè più, nè meno, rimane che egualmente fia uno. In quanto adiviene alle uno l'effer diverſo daglialtri, e gli altri dall'uno, egli patiſce la ſteſſo per rapporto agli altri, e gli altri per rapporto a lui; ma ciò che patiſce lo ſteſſo è fimile, dunque l'uno e limile agli altri, e gli altri per la ſteſſa ragione fon fimili a lui. Il diverſo è contrario allo ſteſſo; ma fi dimoſtro, che l'uno agli altri è lo ſteſſo, e diverſo, (S. 17. Sez. 3. ) ed è contraria paffione effer lo ſteſſo agli altri, ed effer diverſo dagli altri ma in quanto diverſo parve fimigliante; dunque in quanto lo Steffo fia diflimigliante, ſecondo la paſſione contraria. E' da notarſi, che l'uno è ſimile agli altri, in quan to diverſo, e diſſimile in quanto lo ſteſſo. S. 20. Due coſe che ſi toccano ſono preſenti l'una all ' altra, nè tra effe vi ſi frammette un terzo, perchè in queſto caſo non più toccherebbono ſe ſteſſe, ma il terzo frappoſto. Ove due coſe fi toccano, due ſono le coſe, ed uno il contatto, ove tre li toc chino, tre ſono le coſe, e due i contatti; in ſomma creſcen do i termini creſcono a proporzione i contatti, ſecondo il nu mero dei termini meno uno. Si tocchino tra loro due punti matematici, ' poichè nulla fra loro s'interpone, un punto per ragion del contatto coinciderà con l'altro; fi facciano toccare da un terzo punto, queſto pu. re coinciderà, e quindi infiniti punti matematici non fanno che un punto, onde de liegue, che la linea non è compoſta di punti, o che i punti ſovrapofti gli uni agli altri non fanno grandezze. Ciò naſce, perchè tutti i punti ſono omogenei ſen za parti, ma ſe vi foſféro degli enti tra loro eterogenei, ben chè non eſteſi, o ſenza parti, nulladimeno poſti gli uni appreſ so gli altri, benchè non componeſſero grandezza, tuttavia fa rebbono più, come ben offervò Ariſtotele. Ciò diede occaſio ne al Leibnizio di compor l'eſtenſione di enti ſemplici, ma ete (94 ) eterogenei, o diverſi di ſpecie, che eſiſtendo ſcambievolmente gli uni fuori degli altri coeſiſtano in uno; quindi per la no zione dell' eſtenſione, convien conſiderare, e più enti che eſi Atano fuori di sè, e che tra loro s'unifcano, e formino uno. Non fanno però un eſteſo;, perchè fe ben inſieme eſiſtano, non ſono tuttavia tra loro uniti, come allora che liquefatti più me talli ſi confondono in una maſſa. Le partipoi indeterminate dell'eſteſo, conſiderate in aftratto, cioè ſenza far attenzione alla loro fpecie, non diferiſcono tra lo ro, che nel numero. Non ſarà inutile quefta offervazione nel progreſſo. Intanto ſi oſfervi, che l'uno eſcludendo nel ſuo con cetto i più, oi molti, per quanto l'uno ſi moltiplichi per ſe ſteſ fo è ſempre uno, onde egliè il ſuo quadrato, il fuo cubo, ed ogni altra potenza, foſſe anche ella di dimenſioni infinite, e non folo avete un eſponente, ma molti, come le quantità che ſi dicono eſponenziali. $. 21. Se l'uno è, egli tocca ſe ſteſſo, e l'altre coſe. L'uno è in fe fteſſo, ed in altrui (5. 12. Sez. 3. ) In quanto è in fe fteſſo vien impedito di toccar l'altre coſe, dunque tocca fe Hello; in quanto è in altrui, è nell'altre coſe; dunque le coccherà. IN ALTRO MODO Una coſa nel coccar l'altra giace appreffo quella che tocca, ed occupa la ſede vicina; ma ſe l'uno tocca ſe ſteſſo, giace appreſſo ſe steſſo, ed è quindi due coſe, il che non potendo effere, mani feſto è che non pud toccarſi. Le coſe diverſe dall'uno, non potendo effer numero, perchè.non partecipano l'uno, non pociamo mai con l'uno far due, ma nel contatto v'è ſempre almeno due (9. 19. Sez.-3.) Dunque l'uno non toccherà l'altre coſe.: ANNOT. La contraddizione pur è qut apparente, e ſi fa l'ano corporeo nel fupporre, che ei tocchi. Nozione immaginaria. 22. Parmenide ragionando ad hominem con Socrate fuppone la par ticipazione dell'idee, combattuta nella prima parte; conſidera quindi la grandezza, e la piccolezza, come due ſpecie ſeparate, tra (95 ) tra loro contrarie; ben a cid s'avverta, perchè in queſto conſiſte la deſtrezza del Filoſofo, e la forza del ſuo ragionamento, S. 23 2 os' Se l'uno e, egli non è ně eguale, nè maggiore, në mi nore degli altri enti. Sia l'ente minore degli altri enti, egli dunque participerà dell ' idea della piccolezza, la qual è contraria alla ſpecie della gran dezza. Si concepiſca, che la piccolezza ſia nell' uno, o farà in tutto l'uno, o in alcuna parte di eſso; fe in tutto l' uno, eftenderà per l'intiero uno tutto al di dentro, che vuol dire lo compenetrerà con la ſua ſoſtanza, o l'abbraccierà con eſtremi li. miti al di fuori, che vuol dire lo comprenderà; ma ſe la picco lezza s'eſtende al di dentro di tutto l' uno gli è eguale ", e fe lo comprende gli è maggiore, onde la piccolezza ſarebbe nello ſteſ ſo tempo grande, ed eguale contro l'idea di lei. Se la piccolezza è una parte dell'uno, ne ſeguirà, che ella lia di nuovo in tutta la parte, o al di fuori, o ál di dentro quindi che ella fia eguale, o maggiore per le coſe dimoſtrare; dunque non potendo eſser la piccolezza, nè in tutto l' uno, nè in parte dell'uno, non ſarà nell'uno, onde l'uno non farà pic colo, o minore degli altri enti. Corol. In alcuno degli enti per la ſteſsa ragione non po irà ritrovarſi la piccolezza, onde in queſta ipoteſi non v'è al tra cofa piccola, che la piccolezza ftetsa, ma dove non v'è il piccolo, non v'è neppur il grande, perchè l' uno non è che per riſpetto all'altro; dunque non vi faranno coſe grandi, trartone la grandezza, e quindi I uno, e altre coſe ſaranno prive di grandezza, e di piccolezza. e S. 24. Se l'uno è, le altre coſe non ſono di eſso nè maggiori, nè minori, nè eguali. Le altre coſe aſsolutamente parlando ſono prive di grandezza, e di piccolezza, dunque, rifpetto alla uno, non fono nè piccole, ne grandi, e per la ſteſsa ragione, l'uno non è nè maggiore, nè minore dell'altre coſe, eſsendo privo di grandezza, e dipiccolezza. 5.125.  S. 25. Se è l'uno egli farà eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non è maggiore, nè minore dell'altre coſe, ma ſe l'uno non è, nè maggiore, nè minore dell' altre coſe, egli per la forza dell'eſcluſione ſarà eguale. §. 26. Se l'uno è, egli è eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non avendo in sè, nè grandezza, nè piccolezza, nè eccede rà ſe ſteſſo, nè da ſe ſteſo farà ecceduto, dunque farà eguale a ſe ſteſſo. S. 27. L'uno è maggiore, e minore di fe ſteſſo. Egli è in ſeſteſſo, dunque li comprende; dunque èmag giore di ſe ſtello; eſſendo in ſe ſteſſo, egli è da ſe ſteſſo com preſo, dunque è minore; dunque è maggiore, e minore di ſe ſteffo. S. 28, Se l'uno è, le altre coſe ſono maggiori, minori ed eguali all' uno. Null'altro v'è, che l'uno, e l'altre coſe, non dandoſi mez zo, ($. 12. Sez. 2. ) Quel che è in una coſa è minore di eſſa (S. 10. Sezione 2. ) e ciò che la contiene è maggiore; dun que, poi che ogni coſa è in un luogo, e che altro non v'è che l' uno, è l' altre coſe neceſſariamente ſono nell' uno, o l' uno nell'altre coſe; ma ſe l' uno è nell' altre coſe, queſte ſono maggiori dell' uno, perchè lo conten gono; l'uno è minore, perchè è contenuto; dunque l'altre co le ſono maggiori, e - minori dell’uno: ma s'è dimoſtrato, che l' uno non eſſendo nè maggiore, nè minore dell' altre coſe, all' al tre coſe farà eguale (§. 24. Sez. 3.) Dunque egli è eguale, mag giore, minore dell'altre coſe. Corol. Egli dunque può eſſere di miſure eguali, maggiori, e minori, riſpetto a sè, ed all' altre coſe. Quindi Ha 1 1 ! (97 ) Ha più miſure riſpetto alle coſe delle quali è maggiore, me no miſure riſpetto a quelle delle quali è minore, e pari miſu re riſpetto a quelle delle quali egli è eguale. 6. 29. 9 Paſſa a dimoſtrare Parmenide, che ſe l'uno è, egli è parce cipe del tempo, ed è, e ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe fteſto, e degli altri, ed in contrario, e che non è, nè ſi fa nè più giovane, nè più vecchio di ſe ſtello, e degli altri par cicipanti il tempo. Per intendere adequatamente queſte propoſizioni, in cui s'af follano varj principi i biſogna prima ripaffare ciò che fi diſle nel ſ. 3. Sez. 3. 9. 27. Sez. 2. ove fi dimoſtrò. 1. Che chi partecipa dell' eſſenza, partecipa delle differenze del tempo. 2. Che cið che ſi fa più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre coſe, nel farſi più vecchio, li fa più giovane, e cið per eguali parti di tempo, ag giunte agli ineguali, il che abbiamo dimoſtrato coll' eſempio delle ragioni di e diſucceſſivamente accreſciute di 1. comparando percið le ragioni di į, e di abbiam veduto, che i loro va Iori i ti, eit ! + divengono ſempre minori. Altreſuppoſizioniegli fa ne' ſeguenti argomenti. 1. Il tempo è un fluſſo, da cui ſi fa progreſſo dal pallaco al preſente, e dal pre Tente al futuro, e dall'era all'è, è dall' è al ſarà. 2. Che una coſa che'ſi fa paſſa dal preſente ove è, nel futuro ove ſarà, e perciò nel farli è di mezzo cra l'uno, e l'altro, onde propria mente ciò che è nell' inftante, non ſi fa, ma è quello che è, o, come l'eſprime Platone, una coſa che ha fatto acquiſto del preſente cella di farſi, od è ciò che allora convien che fi faccia. 3. Il preſente è ſempre unito all'uno, perchè è ſempre unito all' ente, dal qual l'uno è inſeparabile. 4. Il diverſo, o l'idea del diverſo è la ſtella coſa ſecondo i principi di Socra te, e percid è ſempre uno, onde quello che non è uno, non può eſer il diverſo, o l'idea del diverſo, onde le coſe diverſe dall' uno, o che partecipano il diverſo, ſono più che l'uno, o hanno in sè moltitudine, e in conſeguenza numero o più. 5. Delle più ſono prima le poche, che le molte, e delle poche prima il pochiſſimo. 6. La coſa che prima li fa è la prima, e le dipoi ſono più giovani delle già fatte innanzi. 7. E' impof fibile', che una coſa ſi faccia oltre la natura, onde in una co ſa che ha principio, mezzo, e fine, prima li fa il principio, indi il mezzo, e poi il fine, che vuol dire, il fine ti fa i'ulti mo. 8. Quel che ſi fa ultimo è più giovane di quel che fi fa Tomo II. il a e ce I 21 S: i n (98 ) il primo. 9. Chi ſi fa con tutte le parti infieme d'un tutto,, fi fa nello ſteſſo tempo inſieme col cutto.. 1 1 ſ. 30. Se l'uno è, egli è, e ſi fa, e non è, nè ſi fa più vecchio, e più giovane di ſe ſteſſo. Se l' uno è participando l'eſſenza, participa del tempo ($. 3. Sez. 3. ) ma quel che è in tempo, è in un fluſſo continuo o pal ſa dal paſſato al preſente, o dal preſente al futuro (S. 28. Sez: 3.) Dunque l'uno e continuamente in queſto paſſaggio. In quanto paſſadall'era all' è fi fa più vecchio di sè;ma nel farſi più vec chio, ſi fa più giovane (S. 26. Sez. 2. ) Dunque ſi fa più vec chio, e più giovane di ſe ſteſſo. Chi non oltrepaſſa il preſente, nel far progreſſo dal paſſato, nell'avvenire non ſi fa, ma è ciò che è ($.22. Sez. 4. ) Dunque quando l ' uno tocca primieramente il preſente, non ſi fa allo ra vecchio, ma è vecchio oggimai, Nel toccar il preſente, co me ha prima di lui fatto acquiſto, cefla di farli, od è ancora ciò che avvien che ſi faccia i $. 28.Sez. 3.) Dunque l'uno, quan do fatto vecchio conſeguiſce il preſence, cella di farſi, od è allora più vecchio di ſe ſteſſo, di ciò che era toccando il pal fato; ma l'uno è di quello più vecchio, onde fi faceva vec chio; e facevali di ſe ſteſſo, ed il più vecchio è più vecchio del giovane; dunque allora l' uno è più giovane di ſe ſteſſo quando fatto vecchio conſeguiſce il preſente, ma il preſente è fempre unito all'uno; dunque l'uno, ed è ſempre, e li fa più vecchio, e più giovane di ſe ſteſſo; ma facendoſi tale, od ef ſendo in tempo pari ritiene la ſteſſa età, e chi ritiene la ftel fa età, non è più vecchio, nè più giovane; dunque l'uno eſ ſendo, e facendoli in tempo, non è più vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſſo. g. 31. Se l'uno è, egli è più vecchio dell'altre coſe, o l'altre coſe più giovani di lui. Nelle coſe diverſe, che hanno in sè moltitudine o numero, altre ſon fatte prima, altre dappoi; ma il primo che ſi fa è pochifiimo, (9. 26. Sez. 3. ) e nei numeri l'uno è pochiſſimo, dunque l'uno è facco inanzi alle coſe che hanno numero, o che fono. 1 fono diverſe dall'uno, o ſono gli altri; ma il primo che ſi fa è più vecchio, le coſe che dipoi ſi fanno, ſono più giovani; dunque l'uno è più vecchio dell'alcre coſe, e l'altre coſe più giovani. g. 32. Se l'uno è, egli è più giovane dell' altre coſe, e le altre coſe più vecchie dell' uno. L'uno non può farſi oltre la natura fua. Dunque avendo parti, o principio, o mezzo, o fine, ſi fa ſecondo la natura del principio, del mezzo, e del fine, ma il princi pio fi fa il primo, è il fine ſi fa l'ultimo, ma l' ultimo fatto e più giovane dell' altre coſe, e l' altre coſe più vecchie dell' uno ($. 26. Sez. 3. ); dunque l'uno è più giovane degli altri, e gli altri dell'uno. $. 33. Se l'uno è, egli non è più vecchio, nè più giovane dell' altre coſe.. Ogni parte dell' uno è una; ogni parte del mezzo è una, ed uno è parimente il fine, od il tutto, onde fi farà l'uno, é colla prima coſa che fi fa, ed infieme colla ſeconda, colla ter za ec. onde percorrendo ſin all'eſtremo fi farà un tutto, o 1 uno non eſcluſo nella generazione dal mezzo, non dall' eftre mo, non dal primo, non da altro; ma ſe l'uno ſi fa inſieme con tutte le parti d' un tutto ha la ſteſfa età con tutti gli al tri; dunque ſe non è nato oltre la propria natura, non è fac to prima nè dopo l'altre coſe, ma inſieme e fecondo queſta ragione non è più vecchio, o più giovane degli altri, nè gli altri dell' uno. ſ. 34. Se l' uno è, egli ſi fa più giovane, più vecchio di ſe ſteſſo. Se alcuna coſa foſſe più vecchia d' altra, li farebbe ancora più vecchia di ſe ſteffa: A ſia più vecchio di B, nel creſcerfi gli anni ad A, egli et fa più vecchio di fe fteffo, e di B; dun n 2 que (100 ) | 1 que l'uno nel farſi più vecchio dell' altre coſe ſi fa ancora più vecchio di sè; manel farſi più vecchio, ſi fa ancora più gio vane per la ſteſſa ragione, che creſcendo tempi eguali, la ra gione decreſce (5.27. Sez. 2. ) Dunque l'uno li fa più giovane di ſe ſteſſo, ma s'era dimoſtrato, che ſi faceva più vecchio (S. 30. Sezione 3. ) Dunque ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe Iteffo. 1 f. 35. Se l'uno è, egli non può farſi, nè più vecchio, nè più giovane dell'alere coſe. Ciò che fi fa più vecchio d'un altro, o più giovane, ſi fa più vecchio, e più giovane ancora riguardo a sè (1.37. Sez. 3.) ma l' uno non ſi fa, ma è, e più giovane, e più vecchio ri guardo a sè; dunque non ſi fa, nè più giovane, nè più vec chio riguardo agli altri. Se l'uno è più vecchio, che le altre coſe, ha più lungo tem po dell'altre coſe, ma creſcendoſi il tempo, egli ſempre eccede meno, onde ſi fa più giovane riſpetto alle coſe, delle quali era innanzi più vecchio; ma ſe egli ſi fa più giovane, quell' altre coſe ſi faranno più vecchie; dunque le coſe che erano innanzi, e più giovani dell'uno, ſi fanno dell' uno più vecchie, cinè fi fanno più vecchie, riſpetto a quello che era più vecchio; ma le coſe più vecchie non ſono, ma fi fanno ſempre, perchè la fanno più vecchie, mentre l'uno ſi fa più giovane; dunque le coſe ſi fanno ſempre più vecchie dell'uno. Le coſe poi più vec chie, parimente ſi fanno più giovani dell' uno più giovane perchè l'uno, e l'altre coſe movendoli in contrario G fanno vi cendevolmente contrarie, cioè le coſe più giovani dell'uno, ſi fanno più vecchie dell'uno che è vecchio, ed all'incontro l'una più vecchio, li fa più giovane delle coſe più giovani;, ma non, è poffibile che l' uno, e l' altre coſe fieno fatte nè più giova ni, nè più vecchie, perchè le cali foſſero, non più li farebbo no; dunque le coſe, e l'uno tra loro ſi fanno più vecchie, e più giovani: l'uno li fa più giovane delle cofe, per quello che parve eſſer più vecchio, e prima fatto, l'altre coſe poi fi fanno più vecchie, per quello che ſono ſtate fatte dopo, e ſecondo la ſella ragione: l'altre coſe ancora ſe ne ſtanno riſpettivamente alla uno, come quelle che ſono ſtate più vecchie, e prima dell'uno. Dunque inquanto che nè l' uno, nè gli altri fi fanno, diſtan do 1 (101 ) $ do ſempre tra loro di un numero pari, non ſi farà nè l'uno più vecchio degli altri, nè gli altri dell' uno. Ma come decreſce ſempre la ragione dei tempi, o con minor particella ſempre tra loro differiſcono le coſe prime dall' ultime, e l'ultime dalle prime, così è neceſſario che l' altre coſe ſi facciano, e più vecchie più giovani dell'uno, e l'uno dell'altre coſe. Quinci aggruppando in uno tutte le propoſizioni, abbiamo di. moſtrato, che l'uno è, e li fa più vecchio, e più giovane degli altri, e di nuovo non è più vecchio, nè più giovane di ſe ſteſſo e degli altri. Corol. Perchè l' uno è partecipe del tempo, o ſi fa più vec chio, e più giovane, egli è partecipe del quando, del futuro, e del preſente. Dunque era l'uno, ed è, e ſarà, e ſi faceva, e fi fa, e li farà, e ſarà ancora alcuna coſa in lui, e di lui, ed è, ed era, e farà. COROL. 2. Perchè la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, la defini zione, il nome, riguardando le coſe che ſono nelle differenze dei tempi, in quanto l'uno è capace di queſte differenze, è ancora fog getto di ſcienza, d'opinione, di fenſo, può definirli, e può no. minarſi. Annot. Qui Parmenide non dà ſcienza, e definizione, ſe non delle coſe ſoggette al tempo, il che biſogna accordare con ciò che diſke (9.16. Sez. 1. ) La ſcienza che appreſſo noi è ſcienza del le verità, che ſono a noi dintorno. 9. 36. Riſtringiamo adeſſo in poco, quanto Platone ha propoſto nella propoſizione condizionale, o ſia nell'ipoteſi ſe l'uno è. 1. Diftin le colla mente i due concetti dell'uno, e dell'ence., 2. Ne com poſe un tutto intellectuale di due parti, o dei due concetçi dell' uno, e dell'ente. 3. Tra loro paragonandoli ne deduſſe il terzo concetto del diverlo. 4. Conclure che nell' uno o è una moltitu dine infinita di numeri, che dividono l' uno a proporzione dell' ente. 5. Che l'uno è tutto, e parte, e finiso, e infinito. 6. Da ciò che è un tutto finito, conſiderò in effo il principio, il mez-, 2o, il fine, e quindi la figura. 7. Da ciò che è un turto, e che il tutto è nel tutto, conclure che l'uno è nell' uno, ed in fe ftel 1o. 8. Da ciò che l'uno è comeparte nel tutto, conclure che è in altrui. 9. Che ſta, e ripoſa, ſe egli è in ſe ſteſſo. 10. Che ſi mo ve, le è in altrui. 11. Che è ſimile a sè in quanto l'uno, è lo ſteſſo che l'uno. 12. Simile agli altri, perchè paciſce d' eſſere co me gli altri. Che è diffimile in quanto cert'uno, e certo ente. 14. (102 ) 14. Che è lo ſteſſo, poichè ekſte, ed eſiſtono glialtrienti nello ſteſſo tempo. 15. Che è diverſo, in quanto non ha in sè ciò che hanno gli altri enti. 16. Quindi fimile, e diffimile, perchè patiſce le ſteſſe cofe. 17. Che è maggiore, minore, ed ineguale, e non maggio re, minore, nè eguale dell'altre coſe. 18. Che è, e ſi fa più gio vane, e più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre coſe, e non è, e non fi fa, nè più vecchio, nè più giovane dell'altre coſe, e l'altre co fe di lui. 19. Finalmente, che dell'uno in quanto è li ha ſcienza,, ſenſo, opinione, e può denominarſi, e definirſi. Si potrebbe più compendioſamente ridur in poco l'argomento di Parmenide, conſiderando che reciproche ſono queſte due pro polizioni: l'unoid, è l ' uno, per il che ſi può predicar dell'ente ciò che ſi predica dell' uno, e dell' uno ciò che ſi predica dell' en per ragione dei diverſi concetti formali, predicandoſi dell' ente, la parte, il finito, l'infinito, il principio, il mezzo, il fine, la figura, lo ſteſſo, il diverſo, la quiete, il mo to, il limile, il diſſimile, e il maggiore, l'eguale, il minore, it giovane, il vecchio ec. cutti queſti predicaricompereranno pari mente all'uno. Ben ſi vede, che qui non ſi parla che dell' en te corporeo, e degli enti particolari, a cui or compete una co fa, ed or un'altra. il tutto, S. 37: Ma perchè i predicati oppoſti, come il fimile, il diffimile, it maggiore, e il minore non poſſono competere nel tempo ſteſſo all' uno, ed all'ente ſenza contraddizione, Parmenide moſtra che queſti attributi contrari non gli competono nello ſteſſo tem po, ma in diverſi tempi; tal è la natura di ogni ente finito: gli attributi, imodi, le relazioni, delle quali è capace, non hanno luo go in lui, che ſucceſſivamente a differenza dell'ente infinito, in cui tutte le perfezioni poſſibili, che attribuir gli ſi poſſono,.ftan no in lui tutte inſieme, onde non male con due parole molto energiche, ſebben barbare, ſi chiamò Dio dal Bulfingero, omni tudo compoſibilitatis. Gli Scolaſtici lo chiamarono atto puro, cioè atto ſenza alcuna miſtura di potenza, e quindi diametralmen te oppoſto alla materia che è pura potenza, e talmente pura, che al cuni degli ſcolaſtici la ſpogliano dell'atto entitativo, edell'eſiſtenza. $. 38 (103 ) go 38. Se l'uno è; egli prende diverfi ſtati ſecondo le:: differenza dei tempi. Nel tempo ſteſſo non ſi può participare, e non participare dell'eſſenza, e delle coſe che conſeguono al non participarla, ed al participarla; or il farli è renderſi partecipe dell' ellenza; il rovinarli e privarſi dell' effenza; dunque l'uno non può ne! tempo ſteſſo, e prender, c laſciar l'eſſenza. Dunque la pren de, e la laſcia in diverſi tempi, Quando ſi fa uno, egli perde l' eſfer molte coſe; quando ſi fa molte coſe ceffa d'effer uno; nel farfi uno, e molte, li fepara, e fi congiunge, qualora ſi fa ſimile, e diffimile, ſi affimiglia, e diffimiglia; quando ſi fa maggiore, minore, ed eguale, creſce, decreſce, e li pareggia; quallora movendoſi fi ferma, e quallo ra fermandoſi li move. Or tutte queſte coſe, eſſendo tra loro contrarie, l ' uno non può averle nel tempo ſteſſo, dunque l'ha in tempi diverfi. 9. 39 Non fi pud paſſar dalla quiete al moto, e dal møto alla quie te, ſenza cangiamento di itato. Un corpo che cangia fuccelli vamente la relazione di diſtanza, che egli ha ad altri corpi vi cini, ha uno ſtato diverſo da quello d'un corpo, che conſerya ſempre a ' corpi vicini la ſteſſa diſtanza. Queſto cangiamento di uno ſtato all' altro ſi fa in tempo; ma conſidera Platone, che nel paſſaggio dal moto alla quiete, e dalla quiere al moro, v'è un non so che d'improvviſo, e di momentaneo, che ſi conce piſce nell'iſtante del paſſaggio, e non più appartiene al moto, che alla quiete; non al moto, perchè la coſa ſi concepirebbe ancora in ripoſo; non al ripoſo, perchè la coſa fi concepiſce ancora in moto, Conclude dunque Placone, che queſta natu ra improvviſa è quaſi ſconvenevole tra il moto, e la quiete; che ella non è in verun tempo, e a queſta da queſta paſſan do fi muta nello ftato ciò che li move, e nel moto ciò che ſi ri pola. 8. 40. (104 ).. §. 40. Se l'uno è, nell'atto che cangia ſtato, non gli competono più i predicati dell'ente. Nel paſsar l'uno dal moto alla quiete fi muta momentaneamen te, e all'improvviſo, o mutandoli egli non è in alcun tempo; dunque non ſta nè fi move. Così quando paſsa dall'eſsere alla ro vina, o dal non eſsere al farſi, non è, nè ſi fa, nè fi diſtrugge. Parimente quando paſsa dall' uno in molti, e da molti in uno, non è, nè uno, nè molti, nè ſi congiunge, nè fi ſcongiunge, e paf fando dal ſimile al diſſimile, od al contrario, non è, nè affimi gliato, nè diſlimigliato, e paſsando dal piccolo al grande, ed all' eguale non creſce, nè decreſce, nè ſi pareggia. Annot. Da queſta dottrina ſebben metaforicamente da ' Plato ne eſpreſsa, imparò Ariſtotele ad introdurre tra i principj delle generazioni, la privazione mal a propoſito ſchernità da coloro, che non ne inteſero nè la forza, nè l'uſo. Quando una coſa ha perdute tutte le diſpoſizioni o determinazioni, che la rendevano tale, ella ceſsa d' eſsere la tal coſa, cioè reſta priva di tutto ciò che la coſtituiva, e diſtingueva dall'altre coſe, ma nell'atto ſteſ fo, in cui ceſsa d'eſsere quel che era, comincia ad eſsere ciò che non era, o paſsa dalla privazione alla forma contraria; queſto ſtato di mezzo che è tra la forma, e la non forma, Platone chia ma natura mirabile, e momentanea, ed è certo, che ella nel fifa far i gradi della noſtra cognizione ci moſtra quelli della natura che non opera mai per falti. Nel Timeo dice: Dovendo eſer l'ef figie delle coſe diſtinta da ogni verità di forma, non fia mai prepa rato quel medeſimo grembo di tal formazione, ſe egli non farà informe di tutte quelle ſpecie, le quali è per ricever da qualche parte, percid che ſe egli faravvi alcuna di quelle coſe che in sé riceve fimiglianza, quando riceverà una natura contraria di quella di cui è ſimile, ovve ro un' altra, affatto malagevolmente la ſimiglianza, e l'effigie di quel la eſprimerà quando moſtrerà la ſua, però egli è convenevole, che di tutte le ſpecie ſia privo quello che ha in sè da ricevere tutti i generi. Siccomequelli che hanno da fare unguenti odoriferi, l'umida materia, la quale vogliono di certo odore condire, di tal guiſa preparano, che * ella non abbia alcun proprio odore. E coloro che vogliono in materie molli imprimerealcune figure, niuna figura affatto laſciano primiera mente apparire in quella, ma quelle cercano in prima di render qan to poſibil fia polite. Ciò ſi rende ſenſibile nelle quantità algebraiche poſitive, e ne gative, nelle quali non ſi paſsa dall'une all'altre ſenza paſsar per 1 1 1 il (105. ) o il zero, che non è nè negativo, ne poſitivo, ed è il vero fim bolo della privazione. Nella Geometria il punto matematico equi vale al zero, che è il principio negativo dell'eſtenſione, e dal quale fi comincia la miſura, come l'unità è il principio poſitivo, per cui fi comincia la ſteſſa miſura. Il punto è comune alla linea, che ceſsa per eſempio di eſsere alla ſiniſtra, e comincia ad eſsere alla deſtra, o che termina d' eſser in alto, e comincia ad eſser a baſso; così egli non è deſtro, nè finiſtro, nè alto, nè baſso. Tut te queſte ſono eſpreſſioni utiliNime, e ſebben noicele rappreſen ciamo per fpecie aliene, come il niente, o l' impoflibile, tuttavia molto fervono a reggere i noſtri ragionamenti. L'origine, e la natura del calcolo delle fuſioni dipende dall'uſo della natura momentanea, ed ammirabile di Platone. In queſto calcolo non ſi cercano, ſecondo il Newtono, le quantità infinita mente piccole, chemainon poſsono determinarſi,ma la ragione del le quantità naſcenti, od evaneſcenti, cioè di quelle, le cui fuffio ni, o velocità nel naſcere, o nel ſvanire equivagliono al zero, il qual ſimboleggia il termine del ripoſo, e il principio del moto il termine del moto, ed il principio del ripoſo. Sieno nel preſen te momento le fluenti quantità y, x; nel momento ſeguente di verranno ſecondo l' eſpreſſione Newtoniana y toy, ed xtoy, ove o y, od ox eſprimono i momenti delle velocità. Softituite queſte eſpreſſioni in un'equazione propoſta, per eſempio in quel la della parabola yy. =ax, quefta fi caogierà nell' equazione. yy + 2 oyy tooyy = oaxtoax o cancellando gli eguali 2oyy tooyy = oax, e cancellando il comune o 2 yyt oyy = ax Sin che la quantità efpreſsa per o reſta finita, non può mai de terminarli la ragione delle quantità che fluivano, ma nella ſup poſizione che ella s' annulli, come nel caſo dell' ultima o della prima velocità delle grandezze, ove o s'eguaglia a zero, fi ha 2 yy = ax, e ponendo l'equazione in analogia 2 y.a:: x.y ragione determinata, con cui le qualità cominciano o termic nano di Auire. Il Newcono ſpiega più a lungo queſte coſe nel ſuo trattato delle Curve, e lo ſpiega non chiarezza il Ditton nell'inſtituzione delle Auſſioni; baſta a me d'averlo quì accennato, per moſtrare che agli antichi non man cavano quell' idee, che i moderni hanno poi ſviluppato, carat £ erizzandole con canta utilità delle ſcienze, e delle bell'arri., 1 Platone preſuppone nel ſeguente argomento, che la partenon è parte nè di molti, nè di tutti, ma di cert'una idea, e di cert'uno che chiamiamo tutto, ed è un cutto fatto da tutte le parti, e in sè perfetto, Dalla parola idea lice argomentare, che qui non fi craica che dei concetti, con cui fi concepiicono i molti, e il tutto, e le parti. L'idea dei molti è l'idea dei più aſſolutamente preſi, e com prende egualmente le parti, ed i tutti, dicendoſi molte, o più parti, molti o più molti. L'idea del tutto è l'idea dell'uno più riſtretto in un certo numero, o riſtretto in cerci limiti; idea della parte è l'idea d'uno incluſo in queſti più già ridoc ti. Non ſi pud quindi rigoroſamente parlando dire, che la par te ſia parte di molti, perchè conſiderandoli ſecondo la loro propria idea, non fanno ancora il tutto a cui ha immediata re lazione la parte, Nel dir dunque Platone, che la parte non è parte di mol ti, allude ai modi, o ai più vagamente preli, e nel dir che la parte è parte del tutto, allude ai più riſtretti; ne' più, come s'accennd, vi ſono incluſe indifferentemente le parti, ei tutti, onde ſe la parte foſſe parte dei più, potrebbe eſſer parte di ſe Iteffa. Aggiunge Platone, che ogni parte non è parte di qualun que uno ma d'un cert' uno, cioè di un certo tutto. La par te del triangolo non è la parte del quadrato, nè un ſoldato che è una parce d' un eſercito, è parte di una proceſſione di Frati. Il tutto poi che è fatto di tutte le parti, o a cui non man ca alcuna parte, è perfetto., Si oſſervi in oltre eſſer lo ſteſſo, il dir molti, o più d'uno; che ogni coſa quindi o è uno, o più, cioè molci; che una parte dell' eſtenlione cratca fuori di efla, o feparata da eſſa, eſſendo fteſa, contiene più, e ſe dinuovo ſi ſepa ra in due, una di queſte parti eſſendo di nuovo fteſa, ritiene ipiù. In altri termini ciò vuol dire, che non v'è parte dell'eſtenſione che non ſia diviſibile all'infinito, e come la prima divifione fi fa per 2, ed indi per 2 i Pittagorici aſſegnavano il 2, come il fim bolo dell'infinito. Prima che una parte fi ſeparaſſe da una certa eſtenſione, ella riteneva il nome di parte, ma quando è ſeparata, e che di nuovo ſi divide, ella non è più parte, ma tutto. Queſti nomi di tutto, e di parte ſono ſempre relativi; coloro per ciò che definiſcono l' eſtenſione, ciò che ha parti fuori" di? parti, null' altro dicono ſe non che l' eſtenſione è l'eſtenſione, perchè non ha parti ſe non ciò che è eſteſo. Molto peggio fan no coloro, che ſuppongono, che l' eſtenſione eſſendo compoſta di una infinità di parti fteſe, ſia compoſta d'una infinità di ſo. ſtanze tra loro tutte ſeparate, perchè l'idea dell'eſtenſione null hache di relativo, e ſuppone la coſa aſſoluta,' o la ſoſtanza, su cui la relazione ſi fonda. Il corpo fiſico, e mecanico non ſono pura eſtenſione, come il geometrico,; perchè nel corpo fiſico v'è la forza, o la for ma, e nel mecanico il peſo, origine delle proprietà, e dei lo ro fenomeni.. 8. 42. Se l'uno è, le parti in quanto parti ſono parti dell' uno, o partecipano dell'uno. Le parti non poſſono eſſer parti di le ſteſſe, nè di molti ($. 40. Sezione 3. ) dunque dell' uno, il che è dire, che partecipano dell' uno. §. 43, Se l'uno è, il tutto in quanto tutto partecipa dell' uno. Il tutto cui nulla manca delle tre parti è uno; dunque par tecipa dell'uno. Corol. Il tutto dunque, e le parti partecipano dell' uno, e ciò ſignifica un non so che di ſeparato da gli altri, ma eſiſten; te per sè, ſia egli qualunque coſa. ANNOT. Non par egli, che Parmenide nel dir, che queſt' uno ſia ſeparato dagli altri, e per sè eſiſtente, alluda all'idee feparatę che ha combattute nella prima ſeſſione '? Se non vuol ciò dirſi, come contrario alla profonda Filoſofia d'un sì grande Uomo, non ne liegue egli, che parlando qui con Socrate, parla bensi col fuo linguaggio, ma nel tempo fteffo incende di favellare fecondo le attrazioni della mente. 0 2 9.44. (108 ) 8. 44. Se l'uno è, le cofe che partecipano dell' uno fono altra coſa che l'uno. Niuna coſa può effer alcun uno fuor che lo ſteſſo uno; dunque ſe le coſe partecipano dell'uno, che vuol dire, non ſono lo ſtes fo uno, bifogna che fieno un'altra coſa. Dunque le coſe che partecipano dell' uno fono de verſe dall'uno. S. 4.5. Se l' uno è, le coſe che partecipano dell'uno, ſono in moltitudine infinite. Se le coſe che partecipano l'uno ſono diverſe dall' uno, non ef fendo uno nè più d'uno non faranno niente; ma non fon l'uno, dunque più d'ano, dunque ogni parte d'uno, include in eſſa i più, e queſti altri più, e così in infinito, dunque le coſe clre parteci pano l'uno, ſono infinite in moltitudine. COROL. Poichè il più include per fua natura la moltitudine in finita, ogni parte che d'eſſo ſi tragga fuori con l'intelligenza le ben piccoliflima rifpetto all'altre, ſarà in moltitudine infinita. ANNOT. Platone dice da quelle (cioè dei molti ) trar fuori con r* intelligenza alcuna cofa piccoliffima. In qual altro modo pud egli meglio indicar l'aſtrazione della mente.? nel dir Platone, che confiderando la diverſa natura della fpecie fecondo ſe ſteſſa quanto di lei vediamo, fia egli infinito, e in moltitudine, altro non ſignifica con la diverſa natura, ſe non che ogni parte dell' eftenfione include in sè più, e queſti altri più, e infiniti in. moltitudine. 1 g. 46. Se l'uno è, la parre in quanto parte è diverſa dell' uno, per chè l'uno è per sè indiviſibile, e la parte per sè divifibile. Se l'uno è, le parti ſono più che l' uno. Le parti diverſe dell'uno, ſe non ſono uno, o più d'uno, nulla ſaranno, ma ogni cofa è uno o più; dunque ſe le parti diverſe dall uno non ſon uno, ſaranno più che uno. S. 48. Se l'uno è, le parti che lo partecipano hanno termine tra loro, e riſpetto al tutto, e il tutto riſpetto alle parti. Ogni parte è una, ogni tutto è uno; ſe l'uno e l'altro parte cipa l'uno; ma quello che è fatto uno ha un termine. Dunque ec. Corol. All' altre coſe, che all' uno, avviene che partecipan do dell'uno, e di loro ſteſſe, ſi fanno in loro cert'altra coſa, il che dà loro il termine, ma la natura loro che include i più, è per eſſenza infinita in moltitudine; dunque le altre coſe che l'uno tutte ſecondo le particelle loro, ſono infinite in numero, e par tecipi di termini. g. 49. Se l'uno è, le coſe che partecipano l'uno, fono fimili, e dil ſimili, ſi movono, e ſi fermano, od hanno altre paſſioni con trarie, Le altre coſe che l'uno, ſono tutte infinite, o indefinite, fe condo la loro natura, onde tutte patiſcono lo ſteſſo, ed aven do cermini, e diverſi termini, patiſcono il diverſo, ma il limi le è quel che patiſce il ſimile, il diſſimile quel che patiſce il diverſo. Dunquele coſe, altre che l'uno, ſono ſimili, e diffimi li. Maſe patiſcono le ſtelle coſe, e diverſe, pariranno anche il moverſi, ed il fermarſi, l'eſſer maggiori, minori, ed eguali, l' eſſer più vecchie, più giovani ec. e 3. 50 Riepilogando le coſe dette, abbiam dimoſtrato che ſe l'uno che in quanto lo partecipano ſon d'ello parti. Che il tutto dal le parti riſultante partecipa pur dell' uno; che le parti parte cipanti del tutto, è dell' uno ſono infinite in moltitudine, che han (110 ). hanno termine tra loro, e rifpetto al tutto, come il tutto l'ha riſpetto alle parci, onde nel patir le coſe ſteſſe, e diverſe ſono ſimili, e diffimili, ſi moyono, e fi fermano. Paſſa a confiderar Parmenide nella ſuppoſizione, che sia l'uno, coſa adiviene alle coſe che non partecipano l'uno. g. 58. Se l'uno è, e le altre coſe che non partecipano l'uno, non ſono nè tutto, nè parii, nè fimili, nè diffimili, nè le ſteſſe nè diverſe, non ſi movono, non fi fermano, non ſi fanno, non ſi diſtruggono, non ſono, nè maggiori, nè minori, nè eguali, nè vecchie, nè giovani. Si concepiſca l'uno ſeparato dall'altre coſe, cioè fi concepi ſca che le altre coſe non lo partecipano, non vi ſaranno mol ti, perchè ognun de molti è uno; non vi ſarà numero, o mol titudine ordinata che principia dall’uno, il quale ſucceſſivamen te li va aggiungendo a ſe ſteſſo, e fa ogni numero uno nella fua fpecie; non vi ſarà tutto, che è una moltitudine riſtretta in uño; non vi ſaranno parti, ognuna delle quali è uno ordi nata ad un altro uno; non vi ſaranno coſe limili, nè diffimi li, nè le ſteſſe, nè diverſe con l' uno, perchè ſe teneffero in se -ſimigliznza, ediffimiglianza, comprenderebbono in sè due ſpecie tra loro contrarie, onde non eſſendo partecipi di due, nemme no lo ſarebbono di due contrarj; non poſſono eſſer quindi le coſe nè ſteſſe, nè diverfe, nè moverſi, nè formarſi, nè diftrug. gerſi, nè effer maggiori, giovani, e vecchie, perchè eſſendo ſem pre partecipi di due coſe contrarie ſarebbono partecipi di nu mero. ANNOT. Queſto è lo ſteſſo che concludere che l' uno traſcen dentale, eſſendo inſeparabile dall' ente, è lo ſteſſo tor dalle coſe l' uno, che l'ente, od annullarlo. g. 52. 1 Parmenide ha ultimamente conſiderato, coſa accaderebbe alle coſe, ſe non vi foſſe l'uno, che per ipoteſi ſtabili. Or cangia ipoteſi, e cerca, coſa accaderebbe alle cofe fe non vi foſse l'uno. Queſte due ipoteſi ſembrano diverſe, ma ricadono poi nello ſteſso, perchè canto è annullar le cote ſeparando da loro l' uno che è, od eſsere ſi concepiſce, quanto annuliarle ponendo le co ſe, e negando l'uno. SE (111 ) . B. I. Uando per eſempio fi dice grandezza, e non grandezza, QI si dicono due coſe oppoſte, e tra loro contrarie, poichè la non grandezza diſtrugge ciò che la grandezza pone o in natu ra, o nella mente; le fi fanno quindi le due propoſizioni, la grandezza è la non grandezza non è, tutte e due ſono nega tive, ma l'una è d' un ſoggetto finito, e determinato, l'altra d'un ſoggetro infinito, e indeterminato. La grandezza é il ſog getto di decerminata ſignificazione, la non grandezza di ſignifica zione indeterminara, perchè non grande è il piccolo, non grande il punto, non grande l'unità ec. Or il determinato è contrario all indeterminato; dunque, come ben oſservò Marſilio Ficino, le due propoſizioni, la grandezza è, la non grandezza non è, ſono con trarie, ſebben l’una, e l'alcra fieno negative. Lo ſteſso debbe dirſi delle due propoſizioni, l'uno non è, il non uno non è, egeneral mente della propoſizione A non è; non A non è: nella pri ma ſi nega ad A l'eſere, nella ſeconda ad A che fi nega, ga l'effere. Negar ſemplicemente una coſa, e negare la nega zione, ſono coſe tra loro contrarie. La propoſizione all'incon. tro A non è, e l'altra non A è, ſono equivalenti, perchè nel la prima di A fi nega l' eſſere, nella ſeconda fi afferma, che ad A fia negato l' eſſere. Affermare la negazione è lo ſteſſo che negar la cola; dunque equivalenti propoſizioni ſaranno, l'uno non è, il non uno è. E' poi da oſſervarli, che le negazioni, e pri vazioni ſi conoſcono per le loro realtà oppofte, la cecità per la vi fione, le tenebre per la luce, non A per A. ſi ne B. 2. Se l'uno non è, nel pronunziar la propoſizione ai concepiſce chiaramente e diſtintamente, che l'uno non fia, o li ha fcien za di ciò che s'eſprime, e s'eſprime qualche coſa diverſa dall' altra, l'uno è. Le privazioni, e negazioni ſi concepiſcono chia ramente, e diſtintamente per le loro realtà oppoſte, dunque il non uno per l' uno (J. 1. ) ma la propoſizione il non uno è, è, equivalente all'altra l' uno non è, dunque queſta propoſizione l' uno non è, fi concepiſce chiaramente e diſtintamente, o li ha ſcienza di lei. La propoſizione l'uno non è, è diverſa dall' altra, 3 uno (112 ) ! $ 1 1 uno è, e chiaramente, e diſtintamente ſi concepiſce la loro diver ſità; dunque nel dir l' uno non è, ſi concepiſce qualche coſa di diverſo. Platone così lo dice: eſprime primieramente alcuna coſa che ſi può conoſcere, poſcia differente dall'altra, colui che dice uno, aggiungendovi l'eſfere, oil non eſſere, perciocchè non ſi conoſce meno, ciò che fia quel che ſi dice non ellere, e come ſia certa co fa differente dall'altra. Corol. Può dunque predicarſi dell' uno la ſcienza, e la di yerſità. S. 3. Se non è l'uno, o ſe il non uno è, il non uno partecipa delle coſe che di lui ſi predicano, e non le partecipa. Del non uno è, ſi predica la ſcienza, e la diverſità (Cor. ant. ) dunque partecipa di queſte coſe, mapoichè egli non è, non aven do eflenza, non può participarle, perchè il non ente non ha pro prietà, dunque non le partecipa; dunque le partecipa, e non le partecipa. COROL. Così s'eſprime Platone: Il non ente è partecipe di sé, e d'alcuna coſa, e di queſta, e con queſta, e di queſta, e di cut te le coſe sì fatte; concioliachè non li direbbe uno, nè le diverſe coſe dell'uno, ne avrebbe egli alcuna coſa, nè alcuna coſa fi chia merebbe, ſe non foſſe partecipe di alcuna, nè di queſte altre nondimeno è impoſſibile che ſia l'uno, ſe egli non é, ma niuna cofa vieta, che non ſia partecipe di molte coſe, ed è neceſſario ancora ſe è quello l'uno, e non altro, ma ſe non è, nè l'uno, nè quello non ſarà egli; non ſi dirà nulla di lui, ed il ragionamento farà d'altra cofa, ma ſe fi ſuppone che quello uno non ſia, è ne ceſſario che ſia partecipe di lui, e di molte altre coſe,. 4. Se il non uno è, il non uno è ſimile a ſe ſteſſo, e diffimile all'altre coſe, ed al contrario. Il non uno convien col non uno, dunque con ſe ſteſſo; dunque è ſimile a ſe ſtello. Il non uno è diverſo dall'altre coſe che parte cipano l'uno, dunque è diffimile dall'altre coſe; ma il non uno non eſſendo, non può aver proprietà d'effer ſimile, nè diffimi le, dunque ec. 8. S. 1 (113 ) §. 5. Se il non uno d, egli è eguale, ed ineguale all' altre coſe, e nel tempo ſteſo eguale, ed ineguale. Gli eguali ſono fimili nella quantità; ma il non uno non ha ſimiglianza con l'altre coſe, dunque non ha egualita; ma ſe egli non è eguale agli altri, gli altri non ſono eguali a lui, dunque è loro ineguale; ma gl' ineguali partecipano dell' ineguaglianza, cioè di grandezza, edi piccolezza; dunque l'uno che non è, egli è grande, e piccolo; ma tra il grande, e il piccolo ſi frammetter eguale, e chi ha grandezza, e piccolezza, pud ancora aver eguaglianza; dunque l'uno che non è può participare di queſte coſe; ma s'è dimoſtrato, che non le partecipa, dunque ec. Se l'uno non è, ha in certo modo l'eſſere, o s'attri buiſcono a lui coſe che l'hanno.. -. Nel dire che l'iuno non è, ſi ha ſcienza di cid che ſi dice; nel dir che è, diverſo dall' uno, che è, e dall'alcre coſe; che è fimile, non fimile; diſſimile, non diſſimile dall' altre coſe; eguale, no eguale, fi profeſſa di concepire, e di pronunziare il vero, ma eſprimendoſi, e pronunciandoli queſte coſe a guiſa di enti, all'uno che non è s' attribuiſcono in queſto modo, onde egli ha in un certo modo l'eſſere. B. 70 Queſta propoſizione: il nulla è nulla, il nulla non è nulla, equivale a queſte altre due: il non ente è non ' ente; il non ente non è non ente. La prima di elle è affirmativa, ed iden, tica, perchè fi afferma il nulla di ſe ſteſo, la ſeconda è nega tiva, perchè ſi nega il nulla del nulla, che vuol dir, ſi affer. ma qualche coſa, perche una negazione diſtruggendo l' altra elleno affermano. Nel dire il non ente, non ente, il non en te vien a participare in un certo modo dell effere, affine di ef ſer non ente.. Nel dire all'incontro il non ente non è non en te, il non ente per non eſſere non ente che vuol dir per eſ ſere, vien a partecipar del non eſſere. Così intendo Platone, Tomo II. P allor 1 allor che dice: il non ente ad eller non ente ba il legame dei non eſſere, fe dee non eſſere, come lente tiene nella ſtella guiſa il legame deli eſere, perchè ei non ſia non ente, affinchè di nuovo ei fia perfettamente, e non ſiapartecipe il non ente delléſenza, del non eſſer non ente, ma dell'eſenza dell'eſer non ente, ſe il non ento fia perfettamente. $ Se l'uno non è, egli partecipa; e non partecipa dell' eflenza 1 L'ente è partecipe del non eſſere, ed il non.ente dell'eſſe re ($. 7. Sez. 4. ) ma ſe non è, l'uno é neceffario che ſia par tecipe del non eſſere, affinchè ei non ſia; dunque appariſce, che l'eſſenza ſia nell' uno, ſe egli non è, e la non effenza ſé egli è. ANNOT. Tutti queſti ſono ſcherzi metafiſici, per dar luogo alle nozioni immaginarie, e quindi alle contraddizioni, che mo ſtrano le coſe impoſſibili; ben deve oſſervarſi, che facilmente con effe fi cade in quel mirabile, che degenera in puerilità. Platone ſobriamente l' adopra, per dimoſtrare in quali raffina menti sfumavano le dottrine della ſetta Elearica. 9. 9. Se l'uno non è, ha mutamento, e in conſeguenza moto, e non ha moto, Šisru ! L'uno parve ente, e non ente, onde fta così, e non così, dunque fi muta paſſando dall' eſfér al non effer; dunque ha moto. Ma fe l'uno non è, non è in alcun luogo, perchè ogni en té è in qualche luogo, ma non eſſendo mai in luogo non pudo paſſare da un luogo all'altro, dunque non percid fi move, per che non ſi traſmuta.. io.: $. io. Y Se l'uno non è, non ſi altera, e non alterandoli ne ſi muta, nè ſi move. L'uno non eſſendo, non può mai verſare in quello che non è, dunque non alterarſi, poichè ſe l'uno da ſe stello li alceral fe in alcun luogo, non ſi ragionerebbe più deil' uno, ma di cer ta altra coſa; ma ſe non li altera non ſi rivolge in fe fteffo nè fi muta, nè ſi altera; dunque ec. ļ $. Se l'uno non è, fta e ſi moồe, e fi altera, Quel che non ſi move ſe ne ſta in quiete, e ſi ferma que gli che in quiete ne fta; dunque l'ano non effendo, comeapo pariſce ſta egli e li move, anzi movendoſi è neceſſario che ſi alteri, perchè in quanto alcuna coſa ſi move, incanto ſe ne ſta ella non nello ſteſſo modo, ma altrimenti; dunque l'uno mentre fi move ſi altera, e nondimeno non movendoſi in niun luogo in niuna guiſa ſi può alterare; dunque in quanto fi move", ciò che non è uno ſi altera; ma in quanto non ti move, non fi alce ra, dunque l'uno non eſſendo ſi altera, e non ſi altera. $. 12 Se l'uno non è, egli è diverſo da quel che era prima, non ſi altera; non fi fa, non ci muore, e di nuovo ſi fa, emuore. Cid che ſi alcera è neceſſario che ſi faccia diverſo da quel che era prima, ma quel che non fi altera, non ſi fa në muore; dunque l'uno, non eſſendo mentre fi altera, e ſi fa, e periſce, ma non alterandoſi, non fi fa, nè muore, nè periſce, ed in do tal guiſa l' uno 'non effendo, li fa, e muore e di nuovo non fi fa, nè muore. §. 13: Sin ora ha dimoſtrato Platone, che ſe l' uno non è, egli dà di sè fcienza, ed ha in sè diverlicà, che è partecipe, e non par tecipe di altre cole; quindi lo ſteilo-, e non lo ſteſſo con ſe ſtel  ſi move fteffo, ſimile e diffimile nè ſimile, nè diffimile, eguale, ed ineguale, non eguale, nè ineguale, partecipe d'eſſenza, e non partecipe, ſi muta, e non ſi muta e non ſi mo ve, fi altera, e non fi altera, ft fa, c periſce, e fi fa, e non periſce. Tutte queſte concluſioni derivano dalla poſizione, l' uno non è; l'uno eſſendo inſeparabile dall'ente, ſe non v'è l'uno, nè pur v'è l'ente. OrPente non è, che il poflibile. Annullato dunque il poſſibile reſta l' impoffibile, da cui ſecondo l' Aflioma ſegue coſa, ex impoſſibile ſequitur quolibet, perchè nell'idea aſtrat ta dell'impoſſibile s'includono tutte le contraddizioni. Platone dal conſiderare, che l'uno non ha eſſenza, e non n'è capace, nega tutte le altre relazioni che pud avere. Premetto a ciò che quando diciamo, che alcuna coſa non ſia, nel proferire, queſto non è, fi fignifica ſemplicemente, che non è al tutto in niun modo, e non eſſendo in niun modo, non è capace in alcun modo di eſſenza; dunque non potrà eſſere il non ente, ne in alcun modo farſi partecipe di eſsenza. §. 14. Se l'uno non è, non può farſi in alcun modo par tecipe d'eſsenza. Quel che non è, ſignifica ſemplicemente, che non è al tur 10, in niun modo, o non è ſemplicemente capace di eſsenza, dunque fe l'uno non è, non può mai eſser capace d'eſsenza.. 15: ne la per Se l'uno non è, non pud farſit, nd morire. Chi non è partecipe di eſsenza, non la riceve, nè la de. Dunque fe. L'uno non è, non pud nè ricever, nè acqui ftar l'eſsenza, perchè non n ' è capace; dunque non periſce, nè fi fa. $. 16. Se l'uno nonè, non fi altera, nè fi move, nè ſe ne ſta, non ha grandezza, nè piccolezza, nè parità, né limiglianza, e dia, verlin (11 ) 3 onde eſsenza, non può aver ne grandezza, nèpic marfi. Se verſità riſpetto all' altre coſe, e a ſe ſteſso, nè gli conviene ale cun altro attributo Se l'uno non è, non ſi altera, perchè fi farebbe già, je pe rirebbe potendo queſto; ſe non ſi alcera, nè men fi move, ſe come non ente, non eſsendo in alcun luogo, non pud ſtar lo ſteſso in alcuna coſa, nè in alcuna coſa fermarſi. Se non ha nè piccolezza, nè parità, eſser ſimile, o diverſo, o rifpetto all'altre coſe, o a ſe ſteſso, nè le altre coſe potranno eſser in lui in alcun modo, gli ſono, nè fimili, nè diffimili, nèle ſteſse, nè diverſe, nè pud ſtar ſeco, non ha il di lui, o ciò che ſi dice di alcuna coſa, o queſto, o di queſto, o d'altrui, o ad altrui, o alcuna volta, o dopo, o al preſente, o ſcienza, o opinione, o ſenſo, o fer mone, o nome, o qualunque altro degli enti. Annot. Sebben ſi oſserva, Platone al non uno toglie tutto quello che ha dato all'uno, conſiderato in ſe ſteſso nella prima Sezione, argomento evidente, che, quando tutti gli altri man caſsero, quì non ſi trarca che delle aſtrazioni della mente, fra miſchiate tallora con le nozioni immaginarie, quali ſono in que fta Sezione, e nel rimanente. Non ci reſta che l'ultima quiſtione, in cui ſi cerca ſe non è l'uno, che accada all'altre coſe. $. 1. S'orser Oſservi tolto. 1. Che ciò che è, o è l' uno, o l'altre co ſe • 2. Che ſe queſte non foſsero (almeno nella noſtra im-. maginazione, o nella noſtra mente ) di loro non ſi diſputereb be, perchè il nulla non ha proprierà. 3. Che ſe dell' altre li fa vella, l'altre ſono il diverſo, poichè l'altro, e il diverſo ſono fi nonimi', onde diciamo altro non eſser l'altro, che l'altro d'al tri, ed efser del diverſo diverſo, e che per far le coſe altre dalla uno, vi ſi debbe aggiungere qualche altra coſa, onde fieno per eſser altre, di cui ſaranno altre. 3 Tesni f. 2. (118 ) S. 2.. Se l'uno non è, le coſe altre o diverſe dall'uno, non ſono altre. o diverſe, che per ragion di ſe ſteſse.. Nelle coſe altre dall' uno o diverſe dall'uno, vi's include' qual che altra coſa, per cui fieno altre, ma queſta coſa non pud ef ſer l'uno, perchè per ipoteſi egli non v'è. Dunque, poiché non v'è, che l' uno, e l'altre coſe, eſcluſo che altre coſe non fieno. altre per luno ne liegue che ſieno altre per ſe. ftelse, COROL.. Dunque: per ſe ſteſse. ſono ciò che ſono tra se.., S: 3 Se: l'uno non v'è, le coſe altre dall' uno ſono tali per una moltitudine infinita. Non v'è che uno o i più, dunque le coſe altre o diverſe 1 dall’uno, non potendo eſser altre che l'uno, il quale non v'è per ipoteſi, non ſaranno altre che per i più, cioè per la mol: titudine; ma il più, o la moltitudine eſsendo per le ſteſsa in finita '; le coſe. altre dall uno,. ſono alore per una: moltitudine infinita.. COROLLAR. Qualunque mala dunque di loro appariſce in molti-. tudine infinita, e ſe alcuno ſi prenderà ciò che menomilimo pare co. me. Sogno, incontinente in vece di quello che pare uno, ſi fa innangi una moltitudine infinita, e in vece di quella chemenomilimopar ve, apparirebbe grandiſſimo già, ſe il pareggialli ad altre coſe in die Sparte da lui. Cosi: parla Platone: fia prefa qualunque parte d'eſtenſione, el la è diviſibile in due, ed inoi in due, e così all'infinito. Della di viſione di cui è capace il tutto, ſono capaci reſpettivamente le parti, nè v'è particella si minima, che le noi nell' ipotefi che non v'è uno, poteſſimo vedere con un microſcopio miracolo fo,, non ci pareſse diviſa in una moltitudine infinita di parti, ma tali che nell' iſtante ſteſso, che noi vedeſſimo la parte, la vedremmo attualmente diviſa in altre parti infinite, e cosi all'in finito; non è che io dir voglia, che vedremmo l'infinito at tuale, perchè non poſſiamo intenderlo, non che vederlo, nè so come il Leibnizio abbia poruto concepir nella più minima parte di ciò che egli chiama 'materia, un numero attualmente infinito di monadi"; biſogna prima provare, che noi concepia mo l'infinito attuale -, ed indi che vi ſieno queſte monadi; ma ſe vi foſsero, il che io non l' ammetto, che come principio di co gnizione, e non di natura, in eſse, come l'eſprime il nome loro, v è un'unità, che è il fondamento di concepir nella monade innumerabili proprietà; ma quì nell' eſtenlione Platonica, biſo gna rappreſentarfi ogni parte deſsa ſeparata dall' uno; ' v'è in ciò contraddizione, ma appunto Platone - la ſuppone per de dur dall'aſsurdo i, l'impoſſibilità di ſeparar l' uno dall'ente. §. 4. Se non è l'uno in ogni maſsa apparente apparirà il numero, e le proprietà dei numeri, l'eguale, il mag giore, il minore. Tolto l' uno dalla maſsa, ci ſi fa come nel ſogno innanzi una moltitudine infinita, in cui ſe ſi vuol ordinar colla mente la moltitudine, vi ſi trova il numero; quindi il pari, e l' impari; il picciolo, il grande, il piccioliſſimo, il grandiſſimo., compa rando tra loro le maſse, in cui s'è diviſa la maſsa maggiore, e quindi l'eguale, perchè non ſi può paſsar dal maggiore al mino re ſenza paſsar per l'eguale, ma queſti ſaranno tutti fantasmi d' egualità, di maggiore, di minore, di pari, d'impari ec, come di numero. Se non v'è l' uno, ogni maſsa apparente avendo termine appa rente, riſpetto all' altra non ha nè principio, nè mezzo, nè fine riſpetto a fe ftefsa. Si prenda alcuna delle maſse apparenti coll intelligenza, in nanzi al principio, ſe le fa ſempre innanzi altro principio, e dopo il fine, ſegue ſempre un altro fine, e nel mezzo altre coſe ſem pre più interne del mezzo, e ſempre minori, perchè non ſi può ricever in queſta alcun uno, non eſsendo l'uno. Annot. E ' da oſservarſi, che qui Platone dice, prender alcu na coſa con l'intelligenza, cioè aſtrattamente conliderarla í vi aggiunge poi che potendoſi prender la maſsa ſenza l' uno, cioè fenza far aftrazione dall'uno, ſi sbrana qualunque coſa così pre ſa con l'intelligenza, che è quanto a dire con la mente fi* di vide in più parti, e queſte in altre, e così all'infinito. S. 6. Se l'uno non è, preſa qualunque maſſa a chi da lungi la mira groſſamente par uno, ma chi da preffo l'in tende è un infinito in moltitudine. Non potendo noi nulla concepir ſenza l' uno a prima viſta, e da lungi mirato ci par uno, ma da preſſo, e acutamente vedendolo, tolto l'uno, ci rappreſenciamo infiniti. COROL. Se dunque non v'è l'uno, ma l'altre coſe dall' uno, qualunque di eſſe è infinita, e con termine ed uno, e molci. Se non v'è l'uno le altre coſe ci pareranno, e ſimili, e diffi mili, e le ſteſſe, e le diverſe, e unire, e ſeparate, e moverſi, fermarſi; nè potendo noi concepir le coſe ſenza l'uno le ve dremo, come adombrate da lunge, e patir lo ſteſſo, ed eſſere fimiglianci, mada preſſo molte, e diverſe, e per il fantasma della diverſità diverſe, e diflimiglianti tra loro ſteſſe e pari mente ci pareranno le maſſe ſimili, e diffimili, e da loro ſteſ ſe, e tra di sè, e le ſteſſe, e diverſe tra loro, e che tocchi no, e fieno ſeparate da loro ſteſſe, e fi movano con tutti i mo ti, e ſi facciano, e periſcano, e nell' una, e nell' altra manie e tutte le coſe sì fatte che li poſſono dedurre dalle coſe 7 ra, già dette. S. 7. Ha dimoſtrato fin ora Parmenide 3 che adiviene alle coſe ſe non è l' uno, cerca poi che fieno gli altri che non ſon uno.  Se non è l'uno, le alere coſe non ſon uno, ne molti. Non ſono uno, perchè non v'è l' uno; non ſono molti perchè i molti preſuppongono l'uno. ital 18. s. Se non v'è l'uno, non vi ſarà nè opinione, nè fantasma, ne ſcienza dell'altre coſe. Le altre coſe non hanno alcun concetto con niuna di quel le che non ſono, nè alcuna di quelle che non ſono è appreſso ad alcuna dell'altre che ſono; dunque appreſſo ad altri non v'è opinione, non v'è fantasma dell'ente, e quindi dell uno; ma ſe non v'è l'uno, non effendo poſſibile il penſar a molte coſe fen za r uno, neppur èpoſſibile che ſi penſi che fieno uno, o mol ti le coſe.. 10. Se non vè l' uno, le coſe non fono nè fimili, nè diffi mili, nè le ſteſſe, nè diverſe, nè ſi toccano, ne et ſeparano Non ſi poſſono concepir le coſe ſenza l'uno; dunque ſe non vi è l'uno, non ſi poſſono concepire, nè ſimili, nè diffimili nè le fteffe, nè diverſe, nè unite, nd ſeparate. COROL. Dunque ſe non v' è l' uno nulla v'è, onde o ſia l' uno, o non fia, ed egli e l'altre coſe ancora ſono, e non ſo no ad ogni modo riſpetto a fe ftelle, e tra di loro, e appajo no, e non appajono. II. Riftringendo in poco tutto ciò che negli ultimi paragrafi s'è eſpoſto, egli è manifefto, che l' uno efiendo inſeparabile dall' ente, ove non v'è più uno, non v'è più d'ente, cioè v'è nul. la, ol'impoſſibile", da cui ſeguono tutti i contraddittorj, qual Tomo II. q Pla Platone ci eſpoſe per via di nozioni affatto immaginarie; egli ne fa veder i uſo, e moſtra nel tempo ſteſſo, quanto la fan taſia ſia diverſa dall' intelletto, poichè ella ci rappreſenta una coſa, mentre la mente ragionando ce ne fa concepire un'altra. Si conclude dunque, che Placone in queſto Dialogo non fi af fiffa che a moſtrar ſuſo dell'aſtrazioni della mente, nell' inve ſtigazione dell' idee. 1. Con le negazioni, come fece nel primo capo. 2. Con le analogie dell'altre idee aſtratte; finalmente con le cognizioni dell' idee, del ſenſo, della fantaſia, combinate a quelle della mente. LETTERA A SALIER Primo Cuſtode della Biblioteca DEL RE CRISTIANISSIMO. On dubitate che io ſia mai per dimenticarmi di voi, co N°me alcuni venuti ultimamente di Francia m' accufaro no da voſtra parte; troppo m'è rimaſta impreſſa l'idea della bontà, e gentilezza voftra, troppo è ſtato vivo il piacere e ſodo il profitto, che io ricavai dalle converſazioni letterarie, che abbiamo fpeſſo avute inſieme, e tra l'altre su l'opere di Platone; ce ne porgevano il motivo le ſaggie rifleſſioni, che leggevaci l'Ab bate Fraguier, or su l'ironia di Socrate, or ful carattere de'So fifti, or su la Repubblica, ed or su le Leggi, tutti oggetti delle belle diſſertazioni, che egli diede alla voſtra Accademia. Solo la Iciò egli intatto il Parmenide, o non aveſſe il tempo, o la voglia d' applicarſi a ſviluppare un Dialogo, che è il più malagevole di Platone, o temeſſe dioffendere la ſoavità del ſuo genio con l'idee troppo auftere, e filoſofiche, delle quali il Dialogo abbonda. Voi ben ſapete, che per voſtro conſiglio m' applicai a leggerlo con attenzione e ne concepii quel fiſtema, di cui állor vi parlai. Venuto in Italia, e diftratto da graviſſimi intereſſi dimeſtici, ne interruppi l'eſame già cominciato, ſebbene negli intervalli io leggeſſi continuamente Platone; e l'avrete ve duto nel Sogno del Globo di Venere, che il Signor Conte di Cai lus v avrà forſe dimoſtrato in lingua Franceſe tradotto. Di tem po intempo io parlai del Parmenide con gli amici, e mi fi fue gliò il deſiderio di compierne il ſiſtema da me abbozzato all'occa lione del Platone di Dardi Bembo, che ſtampali in Venezia, con P aggiunta delle note e degli argomenti del Serano letteralmente tradotti. Dalla Differtazione preliminare ritrarrete l'idea generale del la Filoſofia di VELIA (si veda) così celebre per l'acurezza, e per la profon dità de' Filoſofi, come la Jonica per la fodezza dell'eſperienze, e l'Ita  1 1 ľ Italica per la felice combinazione della Geometria, e dell'A ſtronomia alla Fiſica. Non è difficile ſcoprire, che la metafiſica do Ariſtotele è tratta in granparte in queſto Dialogo, in cui Plato ne abbandona quaſi l' artificio poetico adoprato negli altri, e ſi ſpiega nella maniera più ſemplice, e più preciſa. Nella prima Sef fione io v'oſſervai i tre fonti delle allurdità degli argomenti me tafiſici; il principio di contraddizione, il progreſſo all'infinito, el' annullazione fuppofta di qualche perfezione divina. GliEleatici, che forſe gli inventarono, riconoſceano i limiti dell'intelligenza uma na, e pur era queſta la minor parte della Dialectica loro, la qual vaga va per tutti i lommi generi delle coſe. La quiſtione dell'origine e della natura dell' idee v'è più che abbozzata, e la riſpoſta che so crare diede a Parmenide, su la maggior difficolcà dell' idee, è la ſteſſa che uso il Padre Malebranchio nel medeſimo caſo. Nell'al tre opere s' accuſa il Commentatore di dar troppo ſpirito al ſuo Filoſofo; in queſta è cutto il contrario, poichè per quanto ſi ſpieghi Platone, vi reſta fempre molto a medicare, e la compa razione del reſto fa ſempre vergogna al commento. Ficino e Serano, che aſſegnarono al Dialogo un grado di ſublimità Teologica non convenevole, l'hanno sfigurato, e colto agli altri il profitto, che avrebbono potuto ricavare da una ſpe colazione così ben dedocta e conforta nè punto inteſa dai due Commentatori, i quali preteſero che in queſto Dialogo chiama to dell'idee, voleſſe Platone diſputare a pro delle feparate, quan do egli manifeſtamente le rifiuto, tutto riducendo all' Ontolo gia che è la più bella, e la più utile parte della metafiſica In molci errori cadè miſeramente il Carcelio, per averla ab bandonata, eſpregiata; e non furono dal Leibnizio, ed indi dal Wolfio ridotti al ſuo vero lume i dogmi filoſofici, ſe non dopo che effi s' affaticarono a dimoſtrare, le nozioni Ontologiche eſſer quelle alle quali convien avertire prima d' inoltrarſi nella combinazione dell'idee, e quindineiſiſtemi. Tutti gli uomini pre veggono gli aſtratti ne' concreci, pochi hanno la forza di ſepa rarli, pochiſſimi quella di ridurli in teoria, ed è ſolo riſerva to a' ſommi Filoſofi il farne ſiſtema. Voi molto più vedete in Platone, che io poſſa eſprimere; in canto vi prego a conſer varmi il voſtro affetto, ed eſſer certo che il mio farà ſempre inviolabile. La scuola stoica è quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av­ venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di­ stinti tra di loro: da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna significante, significato, oggetto esterno); dal­ l'altra, una teoria del segno proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica trovano però un pun­ to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere "corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata). Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem­ po. Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi­ derati esistenti. Ora, tanto nella teoria del linguaggio, quan­ to in quella del segno proposizionale, accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità incorporee, quali i lekta. Per il momento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una esistenza derivativa' (Long ). Il secondo pos­sibile equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra­ riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano "corpi" an­ che le qualità, in quanto venivano considerate come materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi­ tuiscono stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto disposizioni esistenti di materia (Rist). Si profila, a questo punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di "particolare": quest'ultimo viene carat­ terizzato come un oggetto materiale, che ha una forma defi­ nita come condizione necessaria e sufficiente della sua esi­ stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei "particolari", ed è con­ nesso a una teoria della percezione. Così, si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im­ magini (phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti ester­ ni danno luogo a una percezione vera se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si­ gnificato degli stoici, come si sa che avevano una parte im­ portante anche nella teoria del significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un "particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par­ lando intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il suo riferimento. Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fon­damentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che per gli stoici una teoria del­ la verità, cioè la ricerca delle basi per una verifica delle pro­ posizioni, non può essere elaborata in maniera indipenden­ te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa significata (tò smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine nel mo­vimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta­ bandiera gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò smainomenon), quella signi­ficante (tò smafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn­ chanon), e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo compren­ dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor­ porea, cioè l'oggetto significato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso (Sext. Emp., Adv. Math.) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fe­ nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui­ to nei termini di un triangolo. Si può osservare che compaiono i termini significante e significato (come è dato trovare anche nella teoria mo­derna di Saussure), ma non quello di segno. Come anche slmsin6menon (significato) lekt6n (detto)  tmsm lnon (significente) tynchAnon  in Aristotele, la nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello strettamente linguisti­co. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro­prio. In secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la significazione sono tre e com­prendono anche l'oggetto, che propriamente è esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo parziale. Soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si­ gnificante e l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. Un caso assolutamente a sé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo, chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se­conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente). Nella stessa posizione del triangolo della significazione Ari­stotele pone delle entità psicologiche, che venivano consi­derate le medesime per tutti gl’uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel passo riporta­to, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren­dono . Come rileva Todorov, la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto che, mentre l'en­tità presa in considerazione da Aristotele si situa a livello della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si situa direttamente al livello del linguaggio. Todorov interpreta il lekt6n come la capacità del primo elemento di designare il terzo. Tale interpretazione poggia anche sul fatto che l'e­sempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di de­ signazione come gl’altri nomi, ma è molto controverso se abbia un *senso*. La risposta che di solito si dà a questo inter­rogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la sequenza di suoni /dione/ e vedono Dione, ma sono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dun­que, come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste pro­prio nel percepire la connessione tra la parola che viene pro­nunciata e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la tra­duzione più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di giudizio che quella di stato di cose significato da una parola o da una serie di parole. L'idea che il lekton si può configurare come una affer­mazione intorno all’oggetto emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae morales), in cui viene delinea­to uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una proposizione – “Cato ambulat” -- laddove Sesto propone solo un nome (“Dione”). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Cato­ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso, che è un incorporale. Tale asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: “enuntiatum,” “effatum,” e “dictum.” Dato che l'esempio proposto da Seneca è una proposizio­ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4 nfatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com­pleta possono essere veri o falsi. Nel modello aristotelico della significazione, una espressione e un simbolo di uno stato psichico (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo, non viene operata una chiara distinzione tra la nozione di si­gnificato e quella di pensiero. Tale concezione ricompa­re del resto nella nota teoria di Ogden e Ri­chards, i quali disegnano un triangolo se­miotico in cui figura al vertice superiore la nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene, si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto. “Gli stoici affermano che il lekton è ciò che sussiste in confor­mità con una rappresentazione razionale (logike phantasia) e che una rappresentazione razionale è quella secondo cui il rappresentato (phantasthén) può essere espresso in parole (Sext. Emp., Adv. Math.). In termini del tutto analoghi si esprime Diogene (Vitae), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da en­trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta tra il lekton, che rappresentano il livello del significato, e la rappresentazione razionalie (logike phantasma), che possiamo definire come delle forme di atti­ vità intellettiva o dei pensieri. Quest'ultime entità sono pe­culiari della specie umana e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole -- a questo infatti si riferisce l'aggettivo, “logike”. Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione. Long cosi commenta il passo di Se­sto: "I take this difficult passage to mean that the lekton is defined as the objective content of acts of thinking (no­esis)" e aggiunge anche "or, what comes to the same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di ap­profondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve­ niamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lo stesso Sesto dice altrove (Adv.Math.), quando ha messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen­to appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente contraddizio­ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degl’esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici. Come mette bene in evidenza Mignucci, il lekton, essendo incorporeo, non può essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da sup­porto ad essi e che permetta la loro esprimibilità. Il proble­ ma diviene allora quello di stabilire se a fare da supporto a un lekton siano: un suono della voce; o l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto opta per la prima; la seconda, come pure la definizione di Diogene, per la seconda. Ugualmente, tra gl’interpreti moderni, Mates risponde che è la parola a fare da supporto al lekton. Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu­bile tuttavia filologicamente, in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du­plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica. Da un lato il verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at­tività intellettuale, in assenza della quale non è possibile che si diano i significati. Dall'altra, il risultato dell'attività intel­lettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con­seguenze dal fatto che un lekton è definito da una parte co­me *contenuto* di una rappresentazioni razionale e dali'altra come il significato di una parola: conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si­gnificati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti l'uno dall'altro. A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la phantasia ha un ruolo assoluta­mente primario, in quanto non è possibile, senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della conoscenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero (nosis). Infatti la rap­presentazione viene per prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della rappresentazione.  Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no­zione, già platonica, del pensiero come discorso inter­no. Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae) in cui viene detto che il criterio di veri- .. In questo una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria linguistica del si­gnificato.Il lekton, che abbiamo finora incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì che, come sottolinea Eco, nella se­ fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura di diritto tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, per­ ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui­stica. Occorre tener presente che gli stoici non di­cono ancora che le parole sono segni (-- cf. H. P. Grice – “Not all things that mean are signs. Words are not”) -- sarà Agostino il pri­ (110 a fare una simile asserzione -- e rimane, del resto, una differenza lessicale tra la coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta ci illumina sul­ ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è una proposizione (axioma) che è l'antecedente (prokathegou­menon) in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del CONSEQUENTE (ekkalyptikòn tou ligontos). E dicono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che ven­gono presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap­porto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso permette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno appartiene a un campo che è di­stinto sia da quello logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma SOLO QUELLA PROPOSIZIONE CHE PERMETTE DI SCOPRIRE IL CONSEGUENTE – cioè, che permette l'accesso a una nuova conoscen­za. Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele, assolu­tamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È nor­mallnente accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata dalla so­ stanza degli eventi (Todorov), per quanto concerne il punto di vista antologico, e dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gl’avvenimenti espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "ESSA HA LATTE" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "ESSA CONCEPTIO" (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh.). Essi chiamano antecedente la prima proposizione  via fornisce alcuni esempi di segno -- come quello della Reto­rica. "Se essa ha latte, essa ha partorito" -- in cui vengono presi in considerazione eventi e non sostan­ze. Ma nella filosofia aristotelica la teoria del segno ha una parte marginale. Il segno viene fatto rientrare nel procedi­mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia­lettici, se non è un tekmirion, cioè, un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul sillogismo perfet­to, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gl’epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto. Preti sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo­ de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag­ gio . Per Nausifane, infatti, il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti­mema) presentano in realtà la stessa struttura logica. In en­trambi i casi è necessario distinguere tra la CONSEQUENZA o conclusione  (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti (hyparchonta) per giun­gere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenziali­tà", di implicazione o implicitazione, comune appunto a filosofia e retorica. Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione del­ le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de­ gli stoici -- come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio il nome di "dogmatici". Non solo, ma come prova della centralità della semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno: fatto che testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che conferma la tendenza delle scuole post-aristoteliche a ridurre o trasfor­mare il sillogismo nell'inferenza implicativa. 1 I tipi di segno,  comune e proprio. Nella semiotica stoica si registra la scomparsa della di­ stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi­ nati smeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab­ bandono del sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se­ gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo. Un segno è comune (koin6n) per nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è necessario (ananka­ stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che noi di­ ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi­ dente di cui è segno  (Philodemus, De signis) C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri­ tenere il segno comune come non valido e nell'accettare in­ vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di Filodemo si ricava che una differenza peculiare consiste nel ca­ rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co­ me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno necessario di Aristotele che ri­ chiedeva una connessione necessaria con l'oggetto a cui rin­ viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa­ rebbe segno, ma può anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari­ stotele si poteva inferire dal pallore di una donna il suo es­ sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla bontà di Pit­ taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se­ gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una conclusione interessante: men­ tre Aristotele, pur negando validità scientifica ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi­ stemologicamente più basso, come quello della retorica, do­ minio delPopinione, la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita delle inferenze del tipo non necessario. I tipi di segno: "rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto riprende la di­ stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno si dice in due maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno quello che sembra rive­ lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare segno anche ciò che serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in­ sieme con esso. In maniera propria si dice segno quello che è in­ dicativo di una cosa avvolta nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione, in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co­ mune e segno proprio, dichiara di voler trattare solo di que­ st'ultimo; e poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono oscure, egli propo­ ne di distinguere preliminarmente le cose in "manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla conoscenza in maniera diretta; co­ me esempio Sesto porta "il fatto che è giorno e che io sto di­ scorrendo"23 quando io faccio realmente queste cose. Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han­ no una natura tale da non arrivare alla nostra comprensio­ ne (kata/psis), come a esempio "se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta divengono, per certe cir­ costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura, diviene tempora­ neamente invisibile a causa della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen­ sabili (noto1). Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in quanto le cose manifeste ven­ gono comprese in maniera non mediata e le cose oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle ultime due categorie. Ma i tipi di segno sono diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora­ neamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora­ tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni, secondo i dogmatici, alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri indicativi (endeiktika). Chia­ mano segno rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp. Pyrrh.) Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso­ ciazione costante tra cose comunemente osservate in con­ nessione empirica. Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo tipo si distribuiscano se­ condo la tripartizione28 contemporaneità/anteriorità/po­ steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel caso di "fu­ mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in "cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il fatto indicato è anterio­ re; in "ferita al cuore-morte", il segno rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del precedente, non è su­ scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono di risalire all'"anima", o "il su­ dore" che rimanda ai "pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi, che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei "medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente schema la classifi­ cazione di Sesto: cose manifeste oscure   non danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la distinzione riportata da Se­ sto tra segno rammemorativo e segno indicativo solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso Sesto. Inoltre, tale distinzione appa­ re addirittura in contrasto con l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento logico-for­ male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile­ vante dal punto di vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra segno comune e segno proprio, secondo la testimonian­ za di Filodemo. È, tra l'altro, il carattere necessario del se­ gno proprio che dimostra la coerenza di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un segno "ne­ cessario", come un'analisi più dettagliata della sua struttura ci permetterà di vedere. Ritornando alla definizione stoìca di segno che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa "connesso" o "connessione". Il suo significato lo­gico ci viene chiarito da Diogene: si tratta dell'asserto temporaneamente  condizionale del tipo "Se p, q", in cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no­zione di condizionale valido (hyghiés, "sano", igienico). Da un passo di Sesto, dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna INTERPRETAZIONE VER-FUNZIONALE di "Se p, q". Infatti la validità o in­ validità dell'asserto condizionale "Se p, q" dipende dal valore di verità dell’antecedente e del conseguente di esso.Sesto, in due passi paralleli, camente quel condizionale che non comincia dal vero e fi­nisce nel falso e fcrnisce una tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica contemporanea preve­ de per l'implicazione materiale:  p q ·se p, q• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro­posito del criterio per giudicare un condizionale valido. Esso corrisponde a ciò che è stato definito dai Kneale il dibattito sulla natura dei condizionali, che anima le discussioni di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se- definisce come valido uni­ valido  gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizionale valido. In effetti, come fa rilevare lo stesso Sesto, i ti­pi di condizionale valido sono TRE nella tavola dei valori di verità corrispondente all'IMPLICAZIONE MATERIALE: 1) V V; 2) F F, e 3) F V. INVALIDO: V F. Il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo in casi particolari. Ora, in effet­ti, un segno non può non essere espresso da una proposizio­ne vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui es­so rimanda. Così SONO ESCLUSI sono il secondo (F F) e il terzo caso (F V), in quanto hanno un antecedente falso. Dunque, l'uni­ca possibilità è relativa al PRIMO tipo di condizionale – cioè, quello che comincia dal vero e finisce nel vero. Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al carattere che il segno deve avere di essere *rivelatore* (enkalyp­ tik6n) del conseguente. In effetti, un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da due proposizioni entrambe vere.Tuttavia, secondo Sesto, non si realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le proposizioni rimanno a FATTI DI PER SÉ EVIDENTI (cf. la caverna di Platone). Il primo termine del condizionale non è *rivelatore* del secondo – cf. Grice: “Black clouds mean rain” – yes). In effetti, per comprendere la vera natura del segno bisogna passare dal piano strettamen­te logico a uno più generalmente epistemologico, epistemico, o cognoscitivo, doxastico incluso. Il segno, per gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche possedere il carat­tere di dispositivo che permette di accrescere la cono­scenza. Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si appoggia su un livello logico, ma si inquadra in un'ottica co­noscitiva. Gli esempi di carattere medico (Grice: “Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, they meant measles”) denunciano l'ori­gine di quest'ottica. In generale il segno deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso, come "egli ha sputato cartilagine bronchiale" – or Grice’s “Spots” -- a una cono­scenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una pia­ga nel polmone" (“measles – and Dahl ignored it. A tragedy – and part of a father’s responsibility and liability to know what measles spots mean””) Tuttavia, ciò che la teoria del segno ac­quisisce, passando dalle mani dei medici a quella dei filosofi, è una solida struttura dal punto di vista logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette o non igieniche – malatta.  Quanto ampio e difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla natura dei condizionali (Kneale). Scrive infatti Sesto Empirico. Tutti quanti i dialettici sono generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e quando esso segua, e propongono criteri rivali (Adv. Math.). Riferendosi a questo dibattito, Sesto elenca quattro crite­ri che sono proposti per stabilire la validità di un as­ serto condizionale: quello di FILONE MEGARICO (H. P. GRICE); quello di Diodoro Crono; quello della srsnartsis attribuibile a Crisippo; e quello della émphasis. Sulla disputa si può tuttavia fare un'osservazione genera­le preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa notare Hurst, è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una definizione di questa rela­zione di consequenzialità (akolouthla) in termini formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può possedere proprietà autonome, essendo dotato di significato, non è stato preso in considerazione se non nella misura in cui poteva essere pro­vato che esso coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente sono in grado di elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a comprendere meglio questo modo di procedere un paragone con i metodi della logica contemporanea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes­ sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi pos­sono stabilire in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a quella che è ampiamente cono­sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella di una espressione di implicitazione ("following", “yielding” -- Hurst). A esempio Peirce e Russell erano interes­sati alle proprietà della implicazione materiale indipenden­temente dal fatto che essa riproducesse il significato "usua­le" di "implica" ("implies", o di “se”). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida senza sostenere che l’im­ plicazione rigida rappresenti il significato di "implica" (cf. H. P. GRICE citato da P. F. STRAWSON, Introduction to Logical Theory – e P. F. STRAWSON, Introduction to “Philosophical Logic” on Quine on the meaning of ‘if’. --. Questa differenza nel modo di procedere tra antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formal. Mmentre i logici antichi sono interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a fornire due definizioni: quella di "im­plicazione materiale" e quella di "implicazione rigida". Filone è il primo esponente della scuola megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero­-funzionale dell'espressione "Se p, q". Secondo Filone – citato da Grice nella William James IV, ‘Condizionali indicativi’ --, un'espressione condizionale è valida o o vera se, e solo se, non co­mincia con il vero e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di consequen­zialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro del­ l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il con­dizionale è valido, corrispondente ai tre esempi seguenti:  "Se è giorno, c'è luce" (VV); "Se la terra vola, la terra ha le ali" (FF); e "Se la terra vola, la terra esiste" (FV). Come sottolineano i Kneale, è probabi­le che Filone ha in mente l'uso dell'espressione "Se p, q" nel ragionamento e che vuole attirare l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suo antecedente implicita sempre il conseguente. L'interpretazione proposta da Filone è la più debole che soddisfi tale requisito.  Diodoro Crono è il maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que­ st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst – “wheras H. P. Grice had no qualm about criticising his own tutee!”). La critica che Diodoro muove all'interpretazione filonia­na -- verso la sua diodoreana -- insiste proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degl’esempi di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo tt, possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio, l'asserto "SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” è considerato VERO da Filone se si dessero le condizio­ni, in un tempo t, per cui è giorno e io sto conversan­do. Diodoro invece crede dimostrare che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto la DEFINIZIONE di Filone. Infatti, esso – “SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” può essere pronunciato anche in un tempo t2, quando è giorno -- MA io rimango silenzioso. In questo caso es­so avrebbe la forma – o interpretazione -- invalida (falsa) VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale un condizionale è valido quan­do "non ammise, né ammette di cominciare con il vero e fi­nire con il falso". L'esempio che egli dà è "Se non esisto­no gl’elementi atomici delle cose, esistono gl’ele­menti atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante­cedente sempre falso e il conseguente semprevero: ciò ba­sterà a escludere l'evenienza di un antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionale sarebbe non valido La terza concezione di condizionale valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni (Mates; Bochenski), corrisponde alla implica­zione rigida di Lewis o comunque a una forma di implicazione necessaria (Kneale; Preti). In maniera con­corde con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con­ cezione viene riportata da Diogene (Vitæ). ÈVERO un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden­te, come a esempio “se è giorno, c'è luce”. Il nome del sostenitore di questa concezione non ci è sta­to lasciato da chi la riferisce. Ma vi sono prove che essa appartenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller). La nozione di "incompatibilità", messa in scena da que­ sta definizione, è molto interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Hurst, commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di "consequenzialità" (following, yielding), non possono essere espresse in termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le proposizioni in virtù di pro­ prietà che esse avrebbero al di fuori della relazione. Al con­trario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che sussi­ stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare questa conclusione di Hurst con le osservazioni di Preti, il quale so­ stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della “synar­tsis” (connectio”) sembra alludere a qualcosa di ancora più forte della strict implication di Lewis, alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In effetti in quel testo è presentato come genuinamente stoico il metodo inferenziale della contrapposizione (ana­ skeu), che appare analogo a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza per contrapposizione è quella in cui la negazione del conseguente comporta la negazione del­ l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, il secondo" è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se non il se­condo, non il primo". Preti sottolinea le affinità tra la synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con l'anteceden­te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la ne­gazione del conseguente comporta la negazione dell'antece­dente), e in entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che ten­de a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni categori­ che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as­ serto condizionale. Contemporaneamente si registra un'ac­centuazione del carattere, già presente in Aristotele, di con­sequenzialità necessaria che la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto deve presentare un carattere cogente. – cfr. Hobbes on ‘consequence’ – Computatio – e Grice, “Meaning Revisited” – x, y – consequence --. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura della ra­ gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio­ ne della metafisica stoica (Lacy). Per il primo punto è Sesto stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di discorso interno (logos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto la forma: "Se questo,  quest'altro". Così l'esistenza del segno si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse costituito da una catena ininter­ rotta di eventi, legati tra loro da rapporti di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto dipendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli eventi. L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col­ locata sulla relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi­ nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle­ ga certi avvenimenti presenti e altri che avverranno.4 Ora, per quanto la razionalità degl’uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei, tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"), men­tre ai primi è preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi caratteristici delle cause ("signa causarum et notas") degli eventi e su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av­ verrebbe per gli dei, i condizionali degl’uomini intorno al futuro mancano di necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli­ cazione necessaria. Ma questa, che è una caratteristica irri­ nunciabile, non è tuttavia sufficiente a definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è luce» il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in­ferenza non può provare nulla. La verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della caratteristica di permettere di scoprire una nuova co­noscenza. Il segno stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presente che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma­ nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi­ ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):- sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque, il secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre­ sentato dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi­ stano pori nella pelle. La presenza dei pori è un fatto oscuro per natura. Infatti, essi possono soltanto essere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun­ge, come argomento rafforzativo delle premesse nel ragio­namento precedente, un'ulteriore argomentazione: - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condi­zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo applichiamo il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e non poroso) :>p (un li­quido non vi può scorrere attraverso), espressione che è alla base della premessa del secondo ra­gionamento di Sesto. Essa permette di sviluppare un ragio­namento corrispondente al MODVS TOLLENS, che convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la relazione anche nel caso di verità fattua­li, poiché parte dall'assunzione che il fatto oscuro per natu­ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò che è evi­ dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse quale viene rivelato essere. Antonio Schinella Conti. Antonio Conti. Keywords: Conti’s French letters – Conti’s Scritti Filosofici, Dialoghi Filosofichi, about whether corpori celesti are inhabited -- l’infinito, self-referential, recursion, anti-sneak, regress, infinite regress in the analysis of communication, calcolo finitesimale, calcolo infinitesimale, Enea stoico, Ottavio Stoico, Cicerone stoico, semiotica stoica – allegoria dell’Eneide, scudo di Enea, Il Parmenide di Platone – assiomatico dell’essere – L’essere e. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Conti:  il primo storico italiano della filosofia italiana – amato da Fiorentino -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di San Miniato – filosofia pisana – filosfia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Miniato). Filosofo pisano. Filosofo toscano. Filosofo italiano. San Miniato, Pisa, Toscana. Grice: “Conti is a good one – a historian of philosophy, or rather a philosophical historian – I never know! – his chapter on the Greek embassy that brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia a Siena e Pisa. Si laurea a Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo del bello, che define stare fra il vero e il buono, e li collega come il mezzo tra il principio e fine. Altre opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore e fede, o i criteri della filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio, o i tre amori”; “I discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni città coglie occasione per un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, a Milano sullo stato, ecc.; “Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero, o morale e diritto naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sulla facciata del Duomo di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armonia delle cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sulla relazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private; “Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi del tempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordi nazionali”; “Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima. Il Messia redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia corona del rosario. Ai figli del popolo, consigli. Duprè o Dell'arte, 2 dialoghi. Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e dialoghi sulla filosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi sulla storia della filosofia, accordo della filosofia con la tradizione; discussione sulla filosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual mezzo”. Dizionario Biografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista deve tendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include giudizj e ragionamenti. Dialettica dell'arte, o dialettica rappre sentativa. L'idea è universale, talchè i particolari dell'arte non debbono mai ecclissare o escludere l'universalità del concetto; perché, altrimenti, arte bella non c'è’ L’ordine ideale porge alle immagini formosità. eletta, che manifestasi o per cose straordinarie, o per l'eccellenza de'modi, o per tutto ciò ad un tempo, ma ſuggendo le ampollosità.  L'ordine ideale si determina ne sezni; onde s' origina l'armonia de'con trapposti. Armonia dell'ordine ideale con la natura, legge di corrispondenza e di contrapposto anche in ció.  Armonia col divino per natura.Il gusto del Bello. Regola prossima è il gusto. Sentimento di verità, di bellezza, e di bene. Che cosa è il gusto? Ana logie del gusto intellettivo col gusto sensitivo. Urficj del gusto; sanità e infermità; abiti buoni, o vizinsi; S'esamina gli ufficj del gusto intellettivo della bellezza. Effetto del gusto. Il gusto non può mancare a ' veri artisti, e avvertenze io giudicare il gusto loro dall' opere. Quattro gradi del gusto. Aiuto che il gusto del bello riceve dal sentimento logico e dalla morale coscienza. Stato di sanità o di malattia, cioè buona o rea edu cazione.  E empj. Stato d' abiti buoni o viziosi. Esempj. Conclusione. Come si può guarire o correggere il gusto falso. Le leggi del gusto. Che cosa presuppone l'esame ch'uno faccia del proprio gusto, 3. affinchè possa regolarci un gusto buono e rettificarsi un gusto cattivo, 4. e primiera mente il derivato da falsa educazione. 5. Studio perciò di buoni esemplari. 6. Esame degli abiti viziosi, e quanto alla verità – 7. e quanto a ' fini dell'arte. - 8. Il gusto deve mostrarci il modo e il quando dell'operare. Elevazione del sentimento.Verosimiglianza. Esempj. Equazione di tutti gli elementi dell'arte con l'idea. Gusto de' limiti. I limiti massi. mamente ne segni esteriori.  I Pedanti e i Licenziosi. Argomento. Che sieno i Pedanti e i Licenziosi. Significato più generale di questi vocaboli. 4. Si gnificato più proprio e stretto. Errori contrarj e vizj comuni. La pedanteria va fuori di natura. 7. Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza. 9. Esempj. Non comprendono l'universalità i Pedanti. Esempj. 12. Nė la comprendono Licenziosi. 13. Esempj. Non hanno vera nobiltà i Pedanti, 15. e la licenza è ignobilità. Talchè gli uni e gli altri non consegui scono fama durevole. Estro. Leggi dell'ordine immaginato.. 1. Argomento. Immaginazione. Rinnovazione di fan tasmi, 3. e innovazione o invenzione. 4. Queste per tre modi, spontaneo. pensato, meditato.Legge univer sale della fantasia e sede di quella nell'intelletto. 6. Gradi dell'invenzione immaginativa. Primo; mutamento di alcune cose percepite.Secondo; immagini di cose reali non percepite. Terzo; novità d'imma.ini fra percezioni oscure. 8. Quarto; un ordine di verosimiglianze relativo a un or dine di cose reali determinato. 9. Quinto; relativo a no tizie vaghe. 10. Sesto; relativo ad astratte generalità. 11. Settimo; fantasmi di cose semplici, spirituali, divine. 12. Ultimo; armonia universale di fantasmi e loro elevazione. 13. Perché l'estro abbia tal nome. Origini sue misteriose. 15. Estro fallace o vuoto, e vero o fecondo.  Conclusione. Armonia interna delle Immagini. Argomento. Sceltezza e vita delle immagini, Scel. tezza rispetto all'arti diverse; 3. e rispetto ai componi menti speciali d'un' arte; e rispetto agli argomenti. Sceltezza per la qualità e per la quantità. 5. Vita delle immagini, 6. come le figure d'affetto nell'arte del dire. Unione del sensibile con l'ideale. Allegoria, e 8. allegorie speciali, e vizj dell'allegoria. 10. L'im magine deve ritrarre l'idea intera; e quindi bisogna imma ginar l'opera innanzi di farla e che rispondano i par ticolari al lutto e l'e - trinseco venga dall'intrinseco, e gli accessorj dal principale. 13. Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti. 15. Relazione specificata delle immagini co' segni. Armonie di verosimiglianza in generale. Argomento e legge universale di corrispondenza e di con trapposto, e come si rifletta nelle immagini dell'arte. 2. Questa legge apparisce nella qualità, quantità, tempo e spa zio. 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura. 5. Esempj dell'éra nostra, - 6. Drammatica e lirica 7. Figure di confronto ne'linguaggi. – 8. Esempi del disegno e della musica. 9. Analogia del corporeo e dello spiritua le. 10. Loro diversità; – 11. e contrapposto nella na tura e nell'arte. 12. Verosimile immaginoso, che differi sce dal reale, benchè gli somigli. 13. Quello trascende. Poesia e architettura. 14. Scultura, pittura, musica, e arti ausiliari. Com'accade ciò. Armonie con la natura corporea. 1. Argomento. Legge naturale di simetria. 5. Vi sta e udito porgono immediati all'arte bella i sensibili rap presentati, Il lalto remotamente, il gusto e l'odorato indirettamente forniscono all'arte cose immaginabili, salvo la poesia ch'è universale.  Legge naturale di simetria ne ' visibili aspetti, - 6. e ne' suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'arte bella. 8. Simetria di quantità nel grado. Simetria di quantità nel numero de' suoni, delle cose visibili. 11. Simetria naturale dello spazio. 12. Simetria nell'arti, quanto a’limiti. 13. Simetria di limiti anche nell'unione di più cose. Simetria di luo ghi. 15. Simetria di tempo misuratore, e di tempo rap presentato. - Armonie con la natura spirituale. Gli affetti. Somiglianza loro; 3. varietà; 4. contrapposto. 5. Personificazione immaginosa dell'unmo, 6. e della socievolezza; - 7. che dall'arti non prò mai scompagnarsi. - 8. Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre modi. Materialismo non può spiegarla. 11. Person i ſicazione immaginosa del soprannaturale; 12. presa sostanzialmente da simboli e miti di credenze religiose; 13. ma trasformate dal. l'estro. 14. La personificazione, ritraendo l'uomo, ac cenna lo stato degli artisti e de' tempi loro. Grecia, Roma, Italia; suo scadimento; letterature straniere.. 16. Anche nell' altre arti avviene lo stesso. Immaginazioni tragiche e comiche Argomento. Può l'ottimo essere argomento del l'arte bella? 3. Può il pessimo? — 15. Immaginazioni tragiche e comiche. - 5. Quando mai nasce l'immagina zione tragica più specialmente? 6. Quando la comica? 7. Condizioni dell'una, - 8. e dell' altra. La morte immaginata nell'arte, 10. eidolori del senso, tragica mente; comicamente. 12. Deformità fisiche nel rispetto tragico; 13. e nel comico. - 14. Le mostruosità nell'un rispetto, · 15. e nell'altro, e come in ciò facilmente si trasmodi. Ordine de' Segni. Stile. Argomento. 2. Nozione generica dello stile. - 3. Nozione meno generica. - 4. Nozione determinata. 5. Ne cessità di meditare lo stile. 6. Idem. 7. Ordine dello stile. Unità. - 8. proprietà, evidenza, 9. vivezza, for. mosità. 10. verosimiglianza. Legge sua universale. - 11. L'unione di dette qualità forma il decoro. 12. Esempio di essa, - 13. Esempio del contrario. 14. La misura nello stile. 15. Sunto. Armonia intrinseca dello stile e co ' propri segni.. 1. Argomento. - 2.Unità del bello stile. 3. Si riscon tra nell'arte del dire; ne'proverbj e rispetti, · 4. nelle sentenze, 5. nel periodo, 6. nell'armonia e nell'unione del discorso. 7. Si riscontra nell' arti del disegno; nel l'architettura, 8. ch'è un discorso anch'essa; - 9. nella scultura e nella pittura, 10. simili pur esse al discorso; - 11. e nella inusica; 12. che ha disegno perfetto, o unione d'armonia e di melodia. - 13. Proprietà de' se gni; e come segni adoperino l'arte del dire, la musica, 14. l'architettura, e l'arti figurative; 15. onde viene la proprietà dello stile. 16. Conclusione. Armonia dello stile col pensiero.. 1. Argomento. 2. In che consiste l'evidenza. -3. Dee rispondere lo stile a integrità del pensiero; 4. e a varietà d'argomenti; - 5. abbracciando l'universalità dell' argo mento, proprio, 6. e distinguendolo, per poi bene com porlo. 7. Mancamento d'arte o di volontà impedisce tal perfezione. 8. Vivezza di stile, o moto, 9. nell'arte del dire, 10. nella pittura e scultura, 11. nell'archi tettor3, 12. nella musica. 13, Formosità, - 14. anche nello stile grande, e nel sublime. 15. Onde procede la deformità? 1Armonia dello stile con la natura..... 228 1. Argomento. 2. Il bello stile corrisponde alla natura dell'artista e a quella degli oggetti. 3. Non si possono separare le due relazioni senz'errore e deformità. – 4. Avvi una parte relativa all'artista; 5. e una parte relativa agli oggetti, e danno armonia. 6. La legge di corrispondenza e di contrapposto ſa nascere le diverso specie del bello stile in quei gradi che l'ordine ha varj nella natura. 7. Idem. 8. Nello stile tenue an prevalenza i simili, 9. Qua lità principale di esso è la venusià. 10. Nello stile mez. zano han prevalenza i diversi. 11. Qualità principale di  esso è la naluralezza, 12. Nello stile grande han preva lenza i contrarj. 13. Qualità principale di esso è la pe regrinità Nello stile sublime han prevalenza i contrapposli supremi. 15. Qualità principale di esso è l ' ammirabilità. Arti del Bello speciali. Come si originarono le Arti speciali del Bello.  1. Argomento. — 2. Due generi supremi dell'arte bella, cioè arti di suono e arti di prospettiva. 3. Arte de' suoni parlati, e arte de' suoni armonizzati. 4. Arti prospettive di spazio, e arti prospettive di figura. -- 5. Arti prospettive distinte in arti di spazio imitato e di spazio naturale; in arti di figure imitate e di figure naturali. 6. Onde l'arti del disegno son distinte dall'arti di naturale amenità e dalla mimica e danza, le quali sono arti secondarie. 7. Arti ansiliari dell'arti principali e delle secondarie. 8. Diver sità di segni sensibili determinò diversità del significato, quanto al mondo esteriore, 9. e quanto al mondo interio. re. 10. Stato implicito dell'arti: poesia; 11. arti del disegno e musica. 12. Poi si distinsero l'arti del Bello fra loro; e s'esamina per la poesia, per l'architettura, 13. per l'arti figurative, 14. e per l'arte musicale. Di stinzione di ogni specie in ispecie minori. 15. Conclu sione. 16. L'arte bella fa quasi un mondo novello. Ordine fra l’ Arti speciali del Bello...... 1. argomento. Criterio per giudicare i gradi dell'arti belle. 3. Segni supremamente ideali della poesia. L'ordine loro è una invenzione distinta dall'altra delle im magini. 5. Perfezione suprema de' significati poetici. 6 Ma questa precedenza rende difficile al sommo il poetare buopo. 7. In che la poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra, e perfezione ideale del suo disegno. 9. Perfezione del suo significato. -- 10. In che cosa l'archi tettura è vinta dall'altre due arti del disegno. 11. Pit tura e scultura; disputa di quale fra loro primeggj, antica. - 12. S' esamina quanto a ' segni, 13. e quanto al signi ficato di queste arti. 14. Musica; in che sta un suo sin golare pregio, 15. da cui procede la potenza musicale; benche in altro rispetto la musica resti- superata. - Della Poesia Argomento; definizione della poesia. -2. Come la poe sia somigli la filosofia. 3. Consentono tutti nel divario fra considerare direttamente i sensibili esterni e il conside rarne l'altinenza con l'anima. 4. Però l'idea che regola i poeti, si è l'idea dell'uomo interiore, avvivata d'immagibi. Si riscontra ciò ne' sensibili esterni, comuni alla musica e al segno e alla poesia; – 5, ne' sensibili esterni, propri solo alle rappresentazioni poetiche; - 6. ne' sensibili inter ni, che la sola poesia può prendere per oggetto immediato; - 7. e poi, nelle cose di pura intelligibilità. 8. Tanto è più alta la poesia, quanto più rende viva immagine del. l'uomo interiore; - 9. e, inoltre, quanto più rende imma gine di ciò che l'uomo dev'essere; 10. perchè il poeta tende alle più élette forme dell'anima; 11. e indi cerca immaginativamente di risolvere in armonia le contraddizioni del mondo; 12. come si riscontra ne' poeti veri del tempo antico e del nuovo, - 13. e anche ne' poeti scettici, ov'essi han vera poesia; 14. talché, quest' arte rappresenta in immagini l'universalità dell'intelletto. 15. E ogni ge nere perciò di componimenti nell'arte del dire può parteci - pare di poesia. 16. Conclusione.Le specie della Poesia. Argomento. Tre modi principali della poesia: espositivo, 3. narrativo, - 4. dialogico. sia par talora non essere imitativa nè inventiva, se cade in soggetto reale. 6. Si scioglie la difficoltà, distinguendo al. lora il soggetto reale dalla rappresentazione immaginosa. 7. Indi è varia l ' attinenza fra la poetica rappresentazione ed il soggetto. — 8. Idem. – 9. Indi anco è vario lo stile figu rato nella poesia espositiva, 10. o nella narrativa, - 11. o nella dialogica. 12. Anche il numero musicale dello stile diversifica. 13. Idem. 14. Diversifica pure l'ori. gine de' tre modi principali di poesia, l'espositivo prece dendo a tutti, 15. e poi al drammatico il narrativo. • 16. Conclusione. 302 5. La poe Dell'idioma, 1. Argomento. - 2. Lingua, in significato generale, è unità parlata della morale unità d'un popolo; 3. e che mai non manca di segni per cose antiche, 4. nè ha sino nimi perfetti. 5. Le Parlate. 6. I Dialetti. - 7. Le Lingue. 8. Scelta fra le tarlate. 9. Scelta fra' Dialetti. 10. Distinzione d'una lingua da ogni altra lingua. 11. Uso di lingua parlata, e uso di lingua scritta; 12. iden tici nell'essenza, e in che diversi, 13. Come uso di buoni scrittori giova, 14. e come giova uso di ben parlanti. 15. Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma. 10. Con clusione. Arti del disegno. Pag 338. 1. Che cosa sono l'arti del disegno - 2. Il disegno è fon damento alle tre arti particolari.. 3. Doppia significazione del vocabolo disegno. -- 4. Ogni qualità sensibile de' corpi ha relazione con la lor forma; 5. e può risguardarsi per natura, e per l'arti del disegno, quasi accessoria. - 6. La forma ci palesa l'unità; 7. ch' esterna dipende dall ' in terno delle cose, si per natura e si per arte. 8. Esempj di ciò; e in che dunque consiste l'ordine ideato comune al l ' arti del disegno. – 9. Per acquistare il disegno, ci oc corre abito astrallivo degli occhi, - 10. fantasia ferma e viva in ritenere la linea pura, 11. e intelletto esercitato a distinguere, paragonare, comprendere i contorni; 12. nè basta vedere, ma bisogna saper vedere o guardare; 13. e in ciò sta il cosi detto giudizio degli occhi. - 14. Come si faccia l'esercizio nel disegnare. 15. Una regola princi. pale per l'arti secondarie. Architettura.... 1. Che cosa è l'architettura. 2. Si originò dal convi. vere umano. - 3. Si distinse dall'ingegneria per fine di bel lezza, 4. ritraendo l'immagine formosa del consorzio umano, 5. Questa idea perció la rende inventiva; 6. e indi l'architettura prende significato a ' suoi disegni, 7. e anche la loro unità; 8. ehe si palesa nelle proporzioni della massa, nel congiungimento delle linee, 9. e anche negli ornamenti. – 10. Com'espressione del consorzio uma no, quest' arte abbraccia le altre arti del disegno; – 11. s' accorda co' luoghi abitati dall ' uomo, e a sė li conforma; 12. imprime la bellezza sua nelle città intere, - 13. nel l'intera patria d'una nazione, — 14. per ogni luogo di es sa; 15. e si distende a tutta la terra civile, com' efligie inica dell'incivilimento. 16. Conclusione. S ulura. Che cosa è la scultura. - 2. Principale soggetto al l'arti figurative si è l'aspetto umano. - 3. Più proprio della scultura è la relazione de' lineamenti con la vita interiore, anziché dell'uomo con la natura. -- 4. Indi all'arte sculto. ria il colorito e accidentale, ec. - 5. Nè la scultura di tutto rilievo ha paesaggj, che ristretti son' anche nel bassorilievo: - 6. è limitata nel figurare animali; --- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8. Soggetto più proprio alla scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si comprende la fisio. logica e la fisica. 9. E perché si dica ciò della scultura piucchè della pittura, distinguendo tra figura e forma. - 10. L'unità intera della immagine umana comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le due arti nel nudo e ne' panneggiamenti. 12. Limiti posti dal pudore. 13. Qual sia -dunque l'idea esemplare dell'arte scultoria, 14. E come bisogni evitare ia essa, piucché nella pittura, il freddo  ed il generico; -- 15. ma senza cascare nei vizj opposti, 16. Conclusione. Pittura.... Pag. 395 1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d' esemplare alle immagini ed a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la natura esteriore, come rilevasi dal colorito; 3. e perciò dalla figura colorata e dal prospetto aereo. - 4. Magistero essenziale della pittura è il colorito; – 5. ma non contraſfacendo i rilievi della scultura, 6. nè gareggiando con le cose reali pe' colorie per gli splendori, 7. nė pe' se goi di vitalità; gareggiamento impossibile, - 8. e dannoso; 9. bensi eleggendo que' segni che sveglino i sentimenti nell'anima nostra, come le cose di natura sogliono. 10. La pittura è visione di fantasia. 11. che splende in gen tilezze d' ornamenti, e in paesaggj. 12. e ne segni del con • versare umano, 13. e nell'unione verosimile di più tempi e luoghi, 14. e nel simboleggiare affetti sovrammondani. 15. Conclusione. 16. Utilità di tutte l' arti del dia segno. Musica. Che cosa è la musica. 2. Qual n'è l'idea regolatri ce. Relazione de' suoni col sentimento umano. 3. Ragione anche fisiologica di tale attinenza. 4. E indi attinenza principale di quest'arte con la voce umana. 5. Ma la relazione de' suoni col sentimento é indefinita, 6. e però la musica può indefinitamente significare ogni affetto. 7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli af. fetti, 8. e viene usata per significare più vivo l'esalta. mento comune alla poesia ed all' arti del disegno. 9. Ciò apparisce altresi dal significato universale d'armonia. 10. Però idea suprema e reggitrice della musica è, ch' essa renda immagine dell' esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si determina nel concetto de' componimenti varj. 11. onde nasce la musicale unità, – 12. e l'invenzione di una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori sulla na. tura della musica. Sensisti e Positivisti assoluti, - 15. Sen timentali, Aritmeticanti, Retoricanti. 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra tutte l’ Arti del Bello... 434 1. Danni del separare l' Arti, e argomento. 2. Unità d' obbietto, di soggetto e di potenza prevalente nell' Arti del Bello. 3. Perfezionamenti loro successivi, e legge di que sta successione. - 4. Si risolve una difficoltà. 5. Prima si perfezionò la poesia; 6. indi l'architettura; - 7. poi la scultura, e poi la pittura; — 8. Apalmente la musica. 9. Aiuto che si porgono l'Arti; quale la poesia? – 10. quale l'architettura, 11. l'arti figurative, - 12. la musica? 13. Si conferma l'unità essenziale dell'Arti fra loro. -- 14. Ri torno del pensiero alle cose ragionate; 15 e 16. indi con clusione generale. DIALETTICA. La Filosofia e i Concetti universali. Idea della Filosofia. Che cosa è la Filosofia?  È scienza del pensiero, ma del pensiero in atto di vita, e non soltanto delle leggi logiche astratte; e però è Scienza della coscienza e dello spirito; Scienza degli oggetti connaturali al pensiero, e però di Dio, dell'universo e dell'uomo; Scienza, per tanto, delle somme cause, dell'ultime ragioni e de' primi prin cipj; Scienza, poi, della conoscenza, della scienza e della verità. Perciò nell'idea di relazione s ' appuntano i quesiti tutti della Filosofia; e ivi troviamo la sua più alta verità. Talchè la Filosofia e Scienza di Dio, del mondo e del l'uomo nell'ordine loro uoiversale; o, più breve, Scienza delle relazioni upiversali; e siccome queste forman l' ordine, dunque altresì Scienza dell'ordine universale.  Come in ogni altra Scienza, cosi nella Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'idea superiore. - 12. Questa è l'idea di relazione. - 13. Ciò richiede la tendenza e il bisogoo de' postri tempi. – 14.Im portanza della Filosofia; danni d'una Filosofia separativa. Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. La Verità.... 1. Perché dobbiamo esaminare l'idea universale di verità. 2. La verità è sempre entità conosciuta. – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto. - 4. Si procede relazione in relazione. L'unità dell'oggetto conosciuto si comprende, si distingue, 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi dissero che la verità è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto da una parte sola, e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errori metafisici; - 10. nello Scet ticismo medesimo, e negli errori morali e delle Scienze fisiche. 11. Sicchè l'errore confonde, separa, nega. 12. Jadi spieghiamo il progresso della scienza e della civiltà, 13. o il regresso; 14. le invenzioni e le scoperte. – 15. esame dell'idea di verità ci mostra il costrutto semplice degli Univer sali, presupposto da ogni conoscenza. - - L'Entità. Pag. 1. Si comincia dalla nozione d'entità. — 2. Che cosa sono gli universali, - 3. Tre ordini d'universali: gli analogici, 4. gli attributi metafisici, e le condizioni universali del creato. - 5. L'uoiversale si è in ogni cosa e presentasi all'intelletto. - 6. L'idea d' entità primeggia fra gli universali. La esami Darono gli Antichi, – 7. i Padri, il Medioevo, e la Filosofia moderoa. 8. Non possono farne a meno anche gli Scettici e i Soggettivisti. 9. Questa idea non può pegarsi. Ma esaminandola, bisogna evitare tre difetti. - 11. Si tripartisce: idea dell'essere comunissimo, - 12. idea d'essenza, - 13. idea d'esistenza; – 14. com' apparisce anche da' linguaggi, 15. e dall'antica dottrina sull'essere e sulla possibilità, ch'è di tre specie. - 16. Conclusione. L'Ordine dell'entità.... t. L'idea d'ordine si distingue nell'idea di relazione, d'atto della relazione e di correlazione. 2. Che cosa è la relazione? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3. Ogoi en tità è un tutto di relazioni, benchè, quando si tratta di cosa fioita, non essenziali. Ciò si rileva dal concetto d' essere, - 4. d'essenza e d'esistenza. – 5. La relazione poi è, o intrinseca, - 6. od estrinseca (cioè ad intra, o ad extra ). – 7. Ogni relazione si è atlo; anche le attineoze ideali o di ragione. - 8. Conie si procedè per giungere a questa universalità dell'idea d'allo. Gli Italioti, gl’lonici, Platone; 9. Aristotele; 10. i Padri, gli Scolastici, e il Cartesio; 11. il Leiboitz e la Fisica nioderna. 12. Correlazioni. Unità e triplicità in ogoi cosa. -- . Dottrine aptiche su ciò. - . Il Dogma cristiano della Trinità. - 15. Le correlazioni spiegano la legge universale de' simili e de' contrapposti, 16. Conclusione. l conoscimento dell'Ordine.. 1. Nel conoscimento dell'ordine si distingue il Vero, il Bello ed il Buono, distinta la triplice relazione della Verità col l'intelletto, benchè io significato generalissimo ogoi relazione col nostro conoscimento sia Verità. 2. L'universalità del Vero corrisponde ai gradi dell' essere; e come li notarono già i Filosofi. - 3. Cose non animate; 4. cose animate; 5. gl'intelletti, ove la presenza dell'entità è manifesta. 6. La verità è relazione dell'entità con gl’intelletti, cioè intelligibi lità. Che cosa è la Bellezza, cioè l'ammirabilitd, con trapposta al Vero. Suoi gradi, 8. ne' corpi non animati, Degli animati e negl'intelletti. 9. Che cosa è il Bene, cioè l'amabilità. Suoi gradi, — 10. ne' corpi, negli animali e nella mente, 11. Assioma che deriva dall'esame degli universali, - 12. e loro convertibilità mutua; – 13. la quale si manifesta nella scieoza, nell'arte e nella vita, perché il Buono conduce al Vero ed al Bello, - 14. e il Bello conduce al Vero e al Buono. -15. Nell'esame degli universali analogici abbiamo riscontrato le distinzioni già fatte dai Filosofi antichi e recenti. - 16. Conclusione, e come il Bello morale sia l'accordo del Vero, del Bello e del Buono. Attributi metafisici correlativi e Idea di Dio. Pag. 101 1. Esamedegli attributi metafisici, al quale ci porta l'esame degli universali analogici. — 2. Che cosa s'intende per attri buti correlativi metafisici. 3. Idee di questi attributi, tro vate nell'idea d'entitd; 4. trovate nell'idea d'ordine dela Ľentità; - 5. trovate nell'idea di conoscimento dell'ordine. - 6. L'idee degli attributi metafisici correlativi, e l'idea di Dio, non sono correlazioni astratte; - 7. nè limiti soggettivi; - 8. nè un ideale soggettivo; 9. nè, d'altra parte, sigoi ficano che Dio sia il grado supremo degli esseri; – 10. nè la parte o il tutto; 1. nè Pessenza o la sostanza delle cose contingenti. – 12. La correlazione degli attributi metafisici viene rappreseotata dall'idea del possibile fra l'idea d'Eote e l'idea d'esistente, o dall'idea d ' indefinito fra quelle d'Infinito e di finito. - 13. La correlazione stessa fu pure significata dal Gen tilesimo, 14. da' simboli suoi più notevoli, 15. e dalla simbologia naturale. - 16. Conclusione. Cap. VII. Idea di Creazione.... 1 1. Possibilità razionale della creazione. - 2. Vi ha nel pensiero umano questa idea dell'atto creativo, cioè di Causa prima. — 3. L'idea di causa si distingue dall'idea di sostanza; 4. e si riferisce ad un che, il quale comincia dal nulla quanto all'esistenza, benchè non quanto alla potenza; 5. si riferisce, poi, ad un termine distinto essenzialmente dalla cau sa, o ad extra. - 6. Più vera e più potente fra tutte le cagioni è l'intellettiva. 7. La Causa creatrice si distingue dalle cause naturali, perchè alla totalità delle cose preesiste la pos 8. perchè il soggetto, cioè la sostanza, si produce ad estra; 9. e perchè avvi efficienza intellettuale assoluta: - 10. opde la Causa creatrice fu chiamata Verbo ia tutte le Tradizioni sacre, e il mondo è arte di Dio; -11. la quale produce una somigliaoza divina nell'universo, mentre Dio non somiglia i finiti e li trascende. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di creazione nascono dalla fantasia, - 13. e dallo sdegoare il mistero, comune ad ogni causalita; 14. sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo nell'età de' Padri e de' Dottori, 15. e dell'età della Riforma e del Rinnovamento. - 16. L'idea di creazione ba tanta importanza, sibilità pura; - perchè risguarda la Causa universale. CAP. VIII. Idee relative all'Entità della Natura....... 143 1. Argomento; le condizioni dell' entità: Prima condizione della natura, per l'essere suo, il quanto; 2. che si distia. gue nell'unità, 3. nel numero 4. (che non può essere infinito), 5. e pella unione delle unità. 6. Condizione seconda per l'essenza, il quale; - 7. che si distingue nella varietà, 8. nella contrarietà, 9. e nella somiglianza;. 10. più notevoli dove la oatura è più alta. - 11. Terza condizione per l'esistenza, il quando; 12. che si distingue nel momento, -13. nella successione, - 14. e nella durata; - 15. non predicabili dell' Eternità. 16. Conclusione. il pine. - Idee relative all'Ordine della Natura....... Pag. 1. L'ordine della natura viene dall' attinenza della crea zione, 2. La relazione delle cose create ci dà la dipendenza, o derivazione; 3. ossia la sostanza, - 4. la causa, 5. e l'essenza reale. - 6. L'Atto delle cose ci dà il come (quomodo); – 7. ossia il principio, 8. il mezzo, 9. e 10. Le correlazioni delle cose ci dàono il dove, che può essere correlazione ancointellettiva, 11, e correle zione materiale; - 12. ossia il punto, - 13. Y estensione particolare, 14. e lo spazio, 15, che non può essere infinito, ma è nell'infinito; 16. e il sublime si origina da cið. Cap. X. Condizioni naturali del conoscimento...... 1. Criterio della conoscenza; ove si riscontrado: l'oggetto ideale, – 3.6. l'idea, - 4. che ci fa conoscere il si mile per ilsimile, 5. (onde si spiega la formazione dell'idee universali, e la conoscenza delle cose esteriori, 6. di noi stessi, degli altri uomini, - 7. e di Dio), - 8. c. il senti mento, in relazione del quale ogoi cosa dicesi un fatto, ed esso medesimo ha questo pome. 9. Forma del bellezza; - 10. e qui si riscontrano: la cosa formata, 11. l'idea esem plare, 12. e il gusto. - 13. Legge del bene, ove si ri scontra il bene oggettivo, - 14. la felicità, - 15. e l'utilitd. - 16. Conclusione. Divisione della Filosofia e Arte dialettica. L'Enciclopedia.... 1. Per determinare i quesiti della Filosofia, bisogna ve. dere le sue parti e l'Enciclopedia o l'albero del sapere umano, Ordine di formazione, ordine di logica dipendenza. Criterio armonicamente oggettivo e soggettivo per trovare la distiozione dello scibile e l'ordinamento suo. Quattro classi di conoscenze: onde vengono la Teologia positiva, la Filosofia, le Matematiche e la Fisica. 6. Parti della Fi losofia universale. - 7. Filosofie particolari e applicate. 8. Matematica. - 9. Fisica. - 10. Storia sacra, umana, na turale. – 11. Arti filosofiche, matematicofisiche e storiche. 12. Tradizione perenne dell' Eociclopedia. – 13. Errori che la guastano. Pericolo dell'Enciclopedie a dizionario, le quali spezzano la continuità del sapere. - 15. Divisione della Filosofia in tre parti: la Dialettica, l' Estetica e la Morale. - 16. Conclusione. La Dialettica. Che cosa è la Dialettica. È quasi un dialogo. Esemplare unico dell'Arte logica è la natura, -se no e s'op v'è ignoranza. L'Arte logica è osservazione di natura, - 6. se oo avvi leggerezza, impazienza e preoccupazione appas sionata. È imitazione di natura, 8. se no avvi artifi cio. – 9. È inveozione ordinativa, pop oggettiva, - 10. se no avvi l'assurdo. - 14. È per fine di verità, - 12. se no si confondono l ' arti, che per altro s' accordano e s ' aiutano. 13. La Verità, com'oggetto dell'Arte logica, viene deter minata dalle operazioni di questa, - 14. e però è ordine d'en tità ripensato, 15. ragionato, — 16. e significato. La Critica interiore vera e la falsa........ Pag. 251 1. La Critica suppose un Criterio, che paturale cono scenza porge alla riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dal bisogno di cercar l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nelle cognizioni la parte oggettiva e la soggettiva; - 3. e però è antichissima; benchè a questa si contrapponesse Ja Critica eccessiva. 4. Esempj dell'una e dell'altra nel Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non si può; e questa è critica smodata, o fuori di natura. 6. La riflessione filosofica deve cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbio metodico. 7. Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza; pone, qualunque sia l'intenzione de' Critici, alla virtù; 9. è causa di desolazione, - 10. o di misera indifferenza. 11. Jovece per la Critica razionale s' afferma il oaturale co noscimento, 12. la forma di questo e la materia; 15. cioè la forma naturale in relazione con gli oggetti, e la realtà degli oggetti stessi, che costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero. · 15. Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal Criticismo. Cap. XIV. Verità connaturali al pensiero umano. 272 1. Tre requisiti delle verità connaturali. – 2. Esistenza di noi stessi. - 5. Errore del Kant e de' Positivisti, - 4. e loro confutazione. 5. Si riscontrano i requisiti della conoscenza naturale nella coscienza di noi stessi. – 6. Notizia del mondo esteriore, – 7. e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e de Positivisti, 9. e loro confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza naturale si trovano nella notizia del mondo. 11. Idea di Dio. - 12. Opinione del Kapt e de' Positivisti. 13. Confutazione, 14. Si riscontrano nell'idea di Dio gli stessi requisiti o spontaneità, - 15.inconvertibililà e insepa rabilità. Da queste notizie di noi, del mondo e di Dio risulta la sostanziale totalità della coscienza. 16. La Filosofia non può disconoscere questa materia del pensiero e della scienza. Armonia tra le forme della conoscenza e le cose. 294 1. Che cosa è la forma. – 2. L'armonia tra le forme del conoscimento e gli oggetti, onde provenga. 3. Apparenza sensibile, - 4. corrispondente agli oggetti percepiti; – 5. e quindi si fece da Galileo e poi dagli altri la distinzione fra le qualità primarie de' corpi e le secondarie; - 6. talchè verifi chiamo che l'apparenze sensibili son segoi reali, realmente vera. - . corrispondenti alla realtà delle cose. -7. Aoche le apparenze, che dano'occasione d'inganno, procedono da leggi di natura. - 8. La vista ci dà i segoi apparenti delle distanze. – 9. For me intellettuali, corrispondenti all'entità e verità delle cose, ue' concetti, - 10. ne giudizi, -11. e oei raziocioj. 12. Armonia tra il conoscimento di ciò ch'è o avviene deotro di noi, e il conoscimento di ciò ch'è fuori di noi: per i segoi del l'anima del corpo; – 13. per l'analogie fra l'anima l'uoj verso; - 14. per l'intendimento delle qualità e delle condi zioni d'ogoi cosa esterna; e per la conoscenza di Dio. 16. Conclusione. Principj armonici della ragione... Pag. 318 1. Che sono i principj universali della ragione. — 2. Na scono dalle idee universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima classe, corrispondente agli universali analogici. Per l'entitd si distinguono più principj, riflettendo all ' idee d' essere, 4. e all' idee d'essenza e d'esistenza. 5. Per l'ordine del l'entità, si distinguono, riflettendo all'idee di relazione, 6. di atto della relazione e di correlazione. - 7. Per il cono. scimento dell'ordine, si distinguono, riflettendo all' idee del Vero, – 8. del Bello e del Buono. – 9. Seconda classe, cor rispondente agli attributi metafisici correlativi. – 10. Terza classe, corrispondente alle universali condizioni della Datora fioita. Si hanno: Per l'entità di questa, i priocipj di quantild, di qualità e di tempo; 11. per l'ordine della natura, i principj di derivazione o dipendenza, - 12. di modalità e di confinazione o del dove; – 13. per il conoscimento dell'or dine, com ' esso è negl' intelletti creati, i principj che risguar dano il criterio della verità, la forma della bellezza e la regola del bene. In che stia l'utilità de' principj uni versali. Due opinioni estreme ed erronee: l' una che li Dega, l'altra che li reputa generativi di tutto il conoscimento. - 16. Conclusione. L'Osservazione...... 340 1. Materie da trattarsi. — 2. Atteozione. - 3. Osservazio ne. – 4. Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle verità d'espe rienza esteriore, cosi per Arte logica naturale, 6. come scientificamente. 7. Si verifica delle verità di esperieoza interiore, cosi per suggerimento di natura, 8. come per la Scienza. 9. Si verifica delle verità intellettuali pure, 10. cioè negli universali della Metafisica e delle Matematiche. 11. Si verifica nelle conoscenze ricevute dall'autorità, 12. e ipdi vien la Critica, 13. Lo stesso aodamiento si vede nel procedimento storico delle Scienze. -44. Idem,-15. Anche nel procedimento della Letteratura. 16. E anche nell'Arte pedagogica. Metodo che imita la Natura...... 1. Che cosa è l'imitazione dialettica: parte sostanziale del metodo. 2. Sintesi primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 541 - secondaria. 5. Legge dialettica. 6. Il metodo allora è quasi un contrappuoto musicale. -7. Però non può essere nè solameote analitico, nè solamente sintetico. 8. Difetti del Puno e dell'altro, - 9. Il metodo compreosivo gli uoisce. 10. Contrarie inclioazioni di ogni età verso l'analisi eccessiva o la sintesi eccessiva. 11. Esempio del Gioberti. - 12. Il vero metodo è propriamente dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle Scienze; 14. nell' Arti del Bello, - 15. e nel ” Arti del vivere civile.. 16. Conclusione. L'invenzione dialettica..... Pag. 381 1. Che cosa è l'invenzione scientifica, o che cosa è la Scienza com'ordine meditato di conosceoze, - 2. Si comincia dalla comprensione dell'oggetto per una definizione nominale; - 3. poi si viene all'analisi con la divisione, – 4. con la tési e con l ' antitesi, con la prova dall'assurdo, e con l'elimina zione; - 5. fochè si giunge alla definizione dialettica, che può essere o intrinseca o per via disole relazioni. Poscia, passando alla sintesi, abbiamo l'ordine induttivo e il dedatti 7. Tutto questo mirabile ordinamento è una ricerca delle ragioni, e uno spiegare per esse; oode gli Antichi dis. sero che saper vero è un sapere per le cagioni; - 8. cioè per principj; - 9. e questo s'avveranella teorica degli universali, - 10. e nella Scienza dell'uomo, dell'universo e di Dio; s'avvera nelle Scieoze civili e storiche; Delle Matematiche, e nella Fisica. Indi si spiega l'invenzione degli stromenti e delle macchine; 15. come altresi la ipotesi e l'intuizione dottrinale. 16. Supto. vo. – IL FINE DELL’ARTE DIALETTICA.  Argomento. Connessione logica. Che stato der essere quello di chi cerca la verità, e DIFETTI CHE BISOGNA EVITARE. Si può errare io ciò per leggerezza,  o per una preoccupazione. CHIAREZZA e difetti da evitarsi. Errori che procedopo da leggerezza,  e da preoccupazione, prendendo per chiaro ciò che non è. Certezza; e difetti evitabili; badando anche ip ciò di non errare per leggerezza d' assensi e per qual che preoccupazione, stimando che sia certo l'incerto, e vice Connessione, chiarezza, certezza, non possono realmente trovarsi che pella verità. Si concbiude: che fine d'ogoi Scienza, e perciò anche della Filosofia, non è di dare a noi, quasi mancanti d'ogni ragionevole conoscenza, un primo conoscimento della verità, si l' ordine riflesso della co gosceoza e della verità: e poi, che L’ARTE DIALETTICA È ALTRESÌ UN ABITO MORALE; e ancora, che L’ABITO DEL PARLARE  meditato giova molto all'ordine del pensare RAGIONATO E RETTO versa.. I Criterj della Verità o Leggi universali della Dialettica. L'Evidenza, o il Criterio della Verità. Argomento, e qual sia il disegno della Dialettica, e qual ragione v'abbia di trattare qui de Criterj; e dottrina loro semplicissima. Il Criterio è uoa regola, perch'è un segno della verità in relazione con l'intelletto. Non può negar si, fuorchè negando la conoscenza; non può travisarsi, fuorchè da' sistemi sostanzialmente falsi; e vi ha una dottrina costante sulla natura del Criterio. Il Criterio è un segno apparte nente all'ordine della verità, ed è universale. II Criterio, perciò, è l ' evidenza dell' ordine di verild; è quindi uno e moltiplice, ossia è un ordine di Criterj; perch'è l' evidenza dell'ordine di verild in sè stesso, e ne' suoi contrassegni universali; cioè coutrassegni d'amore e di fede, perchè l'ordine della verità corrisponde all'ordine della nalura umana. Il Criterio vale altresi nelle cognizioni anteriori alla Scienza, 10. nè la Scienza può disco noscerlo. 14. Nella Scienza, poi, l'evidenza precede il ragionamento, l'accompagna, e lo compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterio naturale si converte in evi deoza scientifica; non già perchè si comioci dal dubbio; anzi non può cominciarsi da esso, perch'è un riconoscimento. – 13. Criterio della Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale;. 14.senza di che quella è fuor di natura. - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'un ordine particolare; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficio indiretto e più ristretto. L'evidenza del Teismo, come di verità ordinatrice o di Criterio supremo.... 1. Perchè la verità di Dio creatore sia Criterio compren sivo alla riflessione. 2. La Scienza de' limiti è scienza ne cessaria; e il Teismo ci avverte de' nostri limiti. 3. Questi sono la natura stessa dell'intelletto e delle cose. 4. Soprin telligibile, soprannaturale, 5. intelligibile: 6. la verità di creazione fa serbare questi limiti, e spiega il perchè del sovrintelligibile divino, –7. del sovriptelligibile naturale, 8. e ci rende liberi e sicuri nello studio delle cose intelligibili, che sono inesauste a mente umana. - 9. Quindi essa rende soddisfatto qualunque bisogno dell'uomo, e ordina le Scienze che si riferiscono a' bisogoi stessi. Teologia positiva, - 10. Filosofia, Matematica, — 11. Fisica, 12. Filosofia della Sto ria, Filologia e Critica. Quel Criterio spiega la legge del progresso in Filosofia e il regresso sofistico. – 14. I siste mi, opposti alla verità di creazione, ristringono la conoscenza riflessa, 15. e poi l'apoientano. - 16. Conclusione. Sistemi opposti al Criterio della Verità, e pri mieramente il Panteismo.... Pag. 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo, e pro posito di affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale, 4. pitagorico, - 5. eleatico ed ionico; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici, - 7. che difendevano il Paganesimo; 8. de' Reali nel medioevo, – 9. e dell'altre Sètte; - 10. del Bruno e del Campanella 11. (sterili, se paragonati al Car tesio ed a Galileo ), · 12. dello Spinosa (non paragonabile alla fecondità del Leiboitz), - 13. de' Panteisti tedeschi, 14. e de' loro discepoli. 15. Verità grandi, che balenano dal Panteismo; 16. il quale, bensì, le travisa, e però nega i fatti più sublimi della coscienza. II Dualismo. 493 1. Argomento. - 2. Io che il Dualismo è peggio, e in che meglio del Panteismo? 5. Dualismo fra gl' Indiani. 4. D'Anassagora, - 5. di Platone, -d'Aristotele, 7. degli Stoici. - 8. Dualismo tra certi Filosofi maomettani. 9. Dualismo nella Cristianità del medioevo; 10. e come le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori scola stici; - 14. talchè se n'occasionava, ne' tempi della Riforma, up Dualismo nuovo, non antiteistico, macosmologico e antro pologico. Cartesio; – 15. ed effetti delsuo Dualismo, segnatamente nel Malebranche, - 14. e nel Leibojtz; 15. o anche nell'Idealismo, nel Sensismo e nello Scetticismo poste riori. 16. Il Dualismo riduce i contrarj a contradittorj, - talchè rompe ogoi armonia. L ' Idealismo e il Sensismo.... 515 1. Differenza fra l ' Idealismo e il Sensismo. 2. Cenno storico di questi sistemi. – 3. Io che propriamente consiste l ' Idealismo (e sbaglio d' alcuni moderni), e paragone con gli effetti del Sensismo. - 4. Vizio principale degl ' Idealisti. 5. Nel Sensismo la coscienza umana non riconosce sè stessa; 6. non l'intelletto, essenzialmente diverso dal senso; - 7. non - 8. non l'idealità; 9. non la riflessione sopra di noi; 10. non la religiosità; 11. non la certezza nella cogoizione de' corpi; 12. non la Filosofia; si solamente la Fisica, - 13. ma falsata e con metodi non suoi. - 14. E sono alterate anco le Matematiche, - 15. com' altresi la Sto ria. - 16. Sunto.  Lo Scetticismo. Argomento. 2. Scetticismo nell'Asia e fra gl ' Italo greci; - 3. nell'età Socratica e del medioevo; 4. nell'età moderna. – 5. Eclettici e Mistici, che non riparano allo Scet ticismo, dacchè gli concedono di partire dal dubbio. – 6. Idea Jismo scettico e Sepsismo scettico. 7. Razionalismo, 8. e Positivismo; – 9. e quindi Scetticismo metafisico, antimetafisico, - 11. che bensi trova la Metafisica per tutto. – 12. Come la natura repugoi dallo Scetticismo. 13. Con seguenze principali di questo. Desolazionee scherno. - 14. Dif ficoltà pelle controversie, o Dommatismo scettico; abito di giudicare de' fatti umani da sole circostanze esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla il pensiero. 10. e 15. e L'Amore della Verità... 22 4. Che cosa è nell'ordine suo pieno il Criterio? Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenza della Verità. 2. Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la cono scenza è affetto. -- 4. Bisogna secondare con la libera riflessione il naturale affetto. 5. Come l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento, l'accompagni e lo assicuri, e perciò bi sogna guardare a quell'impulso, 6. a quella compagnia e a quel riposo; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali, che di visero l'affetto dall'evideoza; 8. quanto gli Astratteggian ti, che separarono l'evidenza dall'affetto. 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle Matematiche ed io Fisica. - 10. Ufficio di quello in Filosofia, il quale altresì ci mostra gli affetti con naturali, che corrispondono agli oggetti della Filosofia stessa; - 11. cioè l'amore di noi medesimi e degli altri uomioi, 12. l'ammirazione affettuosa per l'ordine della natura 13. e gli affetti religiosi. – 14. Quello è anche Criterio degli Studj critici, storici e teologici. – 15. Nelle passioni l'affetto patu rale può facilmente riconoscersi. – 16. Per l'affetto la scienza si converte in sapienza. salità; Il Senso Comune... Pag. 1. Quando la parola serve di Criterio? - 2. Che cosa è il Seoso Comune? Due sigoificati di esso, - 5. dal separare i quali vennero due opinioni false, · 4. Limiti del Senso Co mune:. 5. i principj, 6. le immediate percezioni, 7. e le immediate conclusioni. 8. Ufficio diretto e generale del Senso Comune in Filosofia; non cosi nell'altre Scienze, 9. fuorchè dov'esse s' uniscono alla Filosofia stessa. - 10. Obie zioni sull'esistenza del Senso Comune, per la contrarietà delle opinioni. Obiezioni contro la testimonianza de' Lioguagej al Senso Comune, per la supposta indifferenza de' vocaboli al si e al no; – 12. per il materiale significato primitivo di parole che ricevevano poi un sigoificato spirituale. 13. Obiczioni sulla ragionevolezza d'usare il Senso Comune a Criterio, qua sichè questo sia credenza, non evidenza; - 14. quasichè vo gliamo reputarlo sapienza o scienza; 15. quasichè occor resse interrogare tutti gli uomini.. 16. Sunto, e necessità di ricondurre le Scienze alla natura, come le Arti del Bello. Tradizioni e progressi nelle Scienze... 1. Criterio delle Tradizioni scientifiche. 2. Due siguifi. cati del vocabolo Scienza. – 3. Dobbiamo verificare l'univer 4. distinguendo i principj, i teoremi, i problemi, e gli errori. 5. L'unità del consentimento non toglie la libera varietà. -6. Consentimento e progresso pe' principj e ne' teo remi, -7. e ne' problemi. – 8. Le Sètte son dimezzatrici della Verità; 99.. eppure confermano i teoremi, 10. e son’oc casione di progresso, mostrando i mancamenti della Filosofia, 11. perfezionandone la forma, 12. e alcune dottrine particolari, - 13. e le loro conseguenze nelle dottrine de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false: cioè i sosteoitori della sola evidenza privata; – 15. e i sostenitori del solo criterio storico. - 16. Conclusione. Relazioni fra le Scienze e la Religione..... 1. L'argomento, che ora si tratta, è Glosofico di sua na tura, – 2. Due significati della parola Religione. - 5. S'esclu de: che la Filosofia debba ricevere l'autorità senz' uo motivo evidente di ragione; – 4. che, per l'esame, debba sospendersi la Fede; 5. che l'autorità del verbo religioso sia un Crite rio diretto per ogni Scienza; - 6. che la Filosofia debba en trar pe' Misteri, o la Teologia nel ragionamento filosofico; – 7. che sia lo stesso metodo e lo stesso fioe a’ Filosofi e a' Teologi. - 8. Nel fatto, l'efficacia delle Religioni è universale sopra i sistemi filosofici; 9. e sempre la Religione s’ è reputata upa Fede; 10. Criterio è poi, se corrisponde alla coscienza; 11. talchè sia un'evidenza e una credenza, cioè una credenza evidente. · 12. Fa quasi specchio all' uomo interiore, - 15. che riconosce l'integrità dell'essere suo io quella. 14. Gra vissimo errore del negare validità razionale lenza non filosofica. 15. Il Criterio religioso sublima l'animo e lo ràs. serena, porgendo così le due condizioni necessarie d'ogni me. ditazione più alta. 16. Sunto. Leggi speciali della Dialettica. oi. - - Dell'Ordine, come suprema Legge razionale. Legge suprema razionale.  Leggi concrete o datu rali, Legge soprema è l'ordine. Unione de' termi. Cercare questa unione, rispetto agli oggetti, pelle operazioni, cosi dell'Arte bella e dell' Arte buona, come dell'Arte dialettica. Cercare la somiglianza de' ter mioi, –  le loro differenze, e le loro contrarietà, escludendo i contradittorj. Ksempio tolto dalla teo rica de' Criterj. Errore, deformità, male, sono disor dini. Ogni errore non altro è, che da una parte soltanto risguar dare la verità, segregandola dal resto che le appartiene, e senza cui non è più verità. - Gli errori e il male cadono d'ec cesso jo eccesso. Meraviglie della ragione umana, che imita l'ordine della natura interiore ed esteriore. Coo clusione. Ordine dell'idee Ripensamento dell'idee. L'idea, del suo valore intimo, è sempre vera; quantuoque altresi per idea s’in. tenda lutto ciò che con la riflessione s'afferma e nega; e allora l'idea può essere falsa. Bisogna esaminare il positivo del l'idee; nè può darsi un'idea negativa per sè medesima. 6. Poi bisogna esaminare l'ordine dell'idee con gli oggetti, e come non possiamo pegar l'idea d’un oggetto, se igooriamo la sua intima essenza, nè possiamo negare l'idea d'un fatto, se ignoriamo il comeavviene il fatto, ec.; e bisogoa esa minare qual sia la natura dell'oggetto, coocepita per mezzo dell' idee. - 8. Idee a priori e a posteriori? L'idee hanno fra loro uo ordine cbe va riconosciuto; 10. talcbè, riflettendo a quello, si formano idee distinle, adequale, chia -A1. e ci leviamo all'idea perfetta. Bisogna, in line, ch' esaminiamo la forma concettuale dell'idee, 13. la loro estensione e comprensione, 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la quale l'idea è un esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non può intendere alcuni fatti maravigliosi della patura umana. Ordine della Memoria.. 1. Argomento.La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee. 3. Associazione dell'idee. 4. Come possono in unità raccogliersi le varie associazioni, notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende al richiamo de' fantasmi e de'segoi. - 6. E anzi, abbraccia tutte le facoltà, concorrenti nella Memoria, 7. e unità naturale del. 8. e l'unità morale del genere umano. — 9. Que st' ordine, ch'è legge della Memoria, diviene regola. È neces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re, dell' idee, molte cose. ſaomo, - considerare la coonessione dell'idee e i segni seosibili per facil. mente richiamarle. - 11. Inoltre, acquistar l'abito della ri flessione sull'ordine de' giudizj e de' raciocinj, per il pronto discorso scientifico. 12. Singolarmente quell'abito è neces sario per la Memoria delle parole. 15. Tadi procede la pa dronanza dell'esporre. 14. Per l'uoità coosapevole interna, occorre rammemorare il nostro passato. 15. Per unità morale del genere umano poi, occorre la Tradizione, ch'è me moria. – 16. Conclusione. Ordine de' giudizj.. Pag. 166 4. Argomento. 2. Co.ne dall'idee si svolgono i giudizj; - 3. onde i giudizj possibili sono distinti da’ formati o reali. - 4. Categorie, 5. oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questa dottrina. - 7. Categorie oggettive, o se condo gli Universali; 8. Categorie soggettive: 9. I. quanto alla forma concettuale dell'idee, giudizj universali, ge nerali, particolari, singolari; - 10. II. quanto alle relazioni fra l'idee, categorici, ipotetici, disgiuntivi, 11. problema tici, assertori, apodittici, - 12. diretti e comparativi, astratti e concreti, a priori e a posteriori, - 13. analitici e sintetici; - 44.III. quanto alla forma de'giudizj, affermativi, negativi, limitativi; 15. IV. quanto alla relazione di più giudizj, equipollenti, convertibili, contradittorj, contrarj e subcontrarj. 16. Conclusione; e come sia necessario, giudicando, solle varsi all'idea distinta, chiara, adequata, e quindi perfetta, di ciò che meditiamo. Ordine del ragionamento.. 186 1. Argomento. Regole. • 2. Legge dialettica. Idea media; e come il raziocinio sia un giudizio complesso che si scioglie in tre giudizj. – 4. Priocipio formale del raziocinio. - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzione dal simile al diverso. – 7. Induzione dal diverso al simile. - 8. La diffe reoza tra il ragionamento deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere? — 9. Qual'è duoque la differenza del ragiona mento deduttivo, 10. e dell'induttivo? -Da essa viene la regola. 12. E, per opposto, dal violarla vengono i sofi - 13. e si vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non deve mai separarsi la 'regala formale dalla materia del ragionamento; - 16. oè la materia di questo dall'ordine suo. C.: P. Utilità del ragionamento. 206 1. Argomento. 2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto? 5. Che cosa troviamo di nuovo per via del ragionamento? 4. Deduzione; 5. in Fisica, in Ma. tematica applicata; – 6. altre scoperte, – 7. per equipollen za, conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate. – 9. Induzione, é sua certezza. --40. Induzioni fisiche. 11. Analogia. 12. Ipotesi. – 13. In duzione metafisica. – 14. Due erroriopposti: l'uso di coloro che immaginano la deduzione quasi generazione; 15. l'al tro di coloro che negano il dedurre. 16. Conclusione. smi;  Unione e varietà de'Metodi. Argomento. 2. La verità, com ' ordine conosciuto, si trasforma in Metodo: può vedersi dalla Storia della filosolia, 3. e delle Scienze fisiche; 4. talchè vana è la disputa se preceda l'importanza de'Metodi o de principj; - 5. e quindi ancora si vede che il Metodo risguarda il soggello e l'oggello, e ch'è psicologico ed ontologico insieme, 6. cioè critico. - 7. Faria il Metodo; ma neile varietà c'è leggi comuoi. 8. Le varietà poi derivano dalla natura dell'argomento, 9. taotoché riesce assurdo il coofondere tra loro i Metodi; 10. e vba Scienze deduttive, 11. induttive,. 12, miste; 13. più sintetiche, o più analitiche. 14. I Metodi, variando secondo la varietà delle cose, diversificano pure secondo la mente di chi pensa la verità, 15. e secondo la mente di co loro, a cui la verità s ' espone. 16. Sunto. Abiti necessarj al ragionamento Metodo è abito, e richiede: abito di virtù, abito intellettuale che disponga l'intelletto all'Arte ragionativa, e abito dell'Arte. Abito morale, cioè amore della Verità. Bisogna essere preoccupati solo da questo amore; unito alle virtù morali, e come dagli abiti viziosi opposti s' of feoda il ragionaiento buono. Abito intellettuale del rac coglimento, donde nasce il diletto della meditazione, e che porta con sè l'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle dottrine, e di ordinare i proprj studj. Abito intellettuale dell'Arte, cioè il possesso delle regole. 41. e dell'ordine loro; 12 donde procede la necessità di tre atti razionali abitualmente, cioè l'esame del pensiero del principio de' ragionamenti, a mezzo e io fine; 13. il quale ultimo è importantissimo; 14. e indi viene il possesso della ragione; 15. acquistato piucchè mai dall'esercizio della pewna e della disputa; 16. purchè questa sia conveniente. L’ESPOSIZIONE. Iinportanza dell'argomento, Ufbej della PAROLA: interno e SOCIALE. LA PAROLA s’unisce strettamente al pensiero, ma non lo costituisce; bensi lo determina. Non bastano i fantasmi, ma ci vuole IL SEGNO dell'idea, tanto più che IL DISCORSO esterno aiuta con la successione sua la riflessione discorsiva. LEGGE DELL’ESPOSIZIONE si è la legge dialettica; ossia determinare con la lingua l'ordine del pensiero; il che apparisce anche da' nomi che si dànoo a'termio i della proposizione e del raziocinio, e al congiungimento de' termini; e poi, la bellezza dello stile dottrinale accorda il Vero col Buono. Regola perciò è: determinare coll'ORDINE DELLA PAROLA l'ordine del pensiero; in conformità dell'idee e dell'idioma, donde si traggono le regole tutte grammaticali,  e dello stile. Quindi è impossibile separare la bellezza dell ' Esposizione dalla profondità e dall'ordine del pensiero. Se non determiniamo con le parole il proprio concetto, in conformità dell'intimo legame fra i concetti, e in conformità del linguaggic, vengono gravi errori. L’INTERPRETAZIONE E L’IMPLICATURA (“He hasn’t been to prison yet”). L'Interpretazione. Argomento. In quante maniere debba determinarsi l'ordine del pensiero ALTRUI altrui. Relazioni del DISCORSO con la lingua; e perciò la sappia, chi vuolesser critico; tutti sapere ogni liogua, non si può pè giova; e allora valersi degl'interpreti migliori. Relazioni del DISCORSO con la mente ALTRUI; e perciò stare al senso letterale, quanto si puo; oon interpretare alla leggiera né cop troppo di SOTTIGLIEZZA, non alterare né i difetti né i prenj; badare AI FINI che il testimone o lo scrittore SI PROPONEVA – “what he meant, not what he means!” -- Relazioni del DISCORSO con l' animo ALTRUI; e pero guardare alla capacità e alla veracità con argomenti intrinseci ed estrioseci;: nè la capacità negare, preoccupati da un'idea; nè, per la veracità, eccedere ne' due vizj opposti d'una Critica adulatrice o caluoniatrice. Relazioni con la Società umana; e però con l'incivilimento,  con la Religione, con l ' uniune delle prove. Sunto, Metodi secondo le varie Discipline.  Metodi speciali. Perchè i Metodi si distinguono secoudo le Discipline varie?  Quanti sono i Metodi speciali, che procedono dalla relazione varia degli oggetti con la mente? Ogni errore sostanziale di Metodo procede da un errore su detta relazione. Gli errori de' sistemi sul Metodo, esaminati, rendono testimonianza tutti insieme alla vera dottrina. La distinzione de' Metodi è necessaria pell'Arte del Vero, come si distinguono l'Aiti speciali nell'Arte del Bello;  e chi oega la differenza de' Metodi, pega implicitamente esplicitamente una qualche verità; come nell'Arti Belle, 8. cosi nell'Arte dialettica. 9. Connessione de' Metodi;. 10. e ciò si vede anco nell' Arti del Bello. Hl. Ma la connessione non toglie poi la distinzione, 12. secoudocbė il rispetto delle verità mediane o collegatrici diversifica; 13. onde bisogna rispet tare la varia competenza nelle Scienze diverse; 14. beocbe uno Scienziato possa partecipare di più Scieoze. 15. Sunto. - 16. La confusione de' Metodi è coutro il progresso della civiltà. Metodo degli Studj religiosi.  Argomento. 2. Proprietà del Metodo negli Studj re ligiosi. – 3. Metodo storico circa i fatti; – 4. e guardare do v apparisca propriamente la loro Storia. 5 Metodo joterpre tativo circa i fatti, -6, e le dottrine, 7. Metodo filosolico circa la possibilità razionale de' fatti dividi, 8, e come gli .  Avversarj neghino irragionevolmente questa possibilità; 9. poi, circa la razionale convenienza in genere de ' fatti divini, ma esclusa sempre la necessità; -poi ancora, circa la ra zionale convenienza in ispecie, cosi de preliminari della Fe de, 11. come nelle Verità misteriose. 12. Unione del Metodo filosofico, dell'interpretativo e dello storico, per le origini del Culto e per la sua universalità nel tempo, 13. per le sue relazioni universali con le Scienze e con l'Arti, 14. con la Civiltà intera, e con tutti gli altri Culti. Metodo teologico si distingue dagli altri Me. todi e vi s'accorda.. Pag. 342 1. Argomento. 2. Il Metodo teologico si distingue dal filosofico, perchè muove dall'autorità, – 3. perchè risguarda il soggetto medesimo in un rispetto differente, 4. perchè, quantunque abbia io sè una parte filosofica, non è meramente filosofico. Si distingue dal Metodo critico e filologico, percbė storicameote e ioterpretativamente riconosciamo cause sovrunane, l' Intelletto sovrumano, tini soprannaturali. 6. Si distingue dal Metodo matematico, perchè risguarda la libertà divina e l'umana ne' fatti religiosi. Si distingue dal Mo todo fisico; e tal distinzione ha importanza eguale pe' Teologi, che non debbono considerare come il mondo è fatio, - 8.6 pe ' Fisici, che non debbono considerare come il moodó fu fatto. 9. Il Metodo teologico s'accorda poi col filosofico; perchè il Teologo non deve separare mai l'attinenza fra Teologia e Filo sofia che porge a quella le verità prelimioari, l'analogie razio nali e l'ordinamento; - 10. pè il Filosofo deve mai separare l'attinenza tra Filosofia e Teologia, che rende più autorevoli o efficaci le verità razionali.  II Metodo teologico s'ac corda col critico, perchè il Teologo ha bisogno di guardare alla Storia universale e alla Linguistica; — 12. il Filologo ba bi sogno diguardare alla Storia religiosa e ai monumenti sacri. S'accorda col matematico, per la severità del ragiona mento, per molti esempj, per molte dottrine fisicomatematiche, per l'evidenza del concetto d'infinità. S'accorda col fisi co, perchè il Teologo non deve mai tenere la scoperta di cose na - 15. pė il fisico deve spregiare la verificazione delle ipotesi, secondo le narrazioni sacre. 16. Sunto. Metodo della Filosofia. Argomento. Proprietà del Metodo filosofico. – 3. Raccoglimento nella coscienza. 4. Esame de' fatti interni, delle loro leggi e cause. turali; Delle relazioni con gli oggetti; 6. e però avvi una parte del Metodo, asceosiva da'fatti agli oggetti stessi, e una parte discensiya dagli oggetti a ' fatti. -7. Si distingue dal Metodo teologico, e dal critico o filologico: 8. dal matematico, per la natura de' concetti, la natura degli oggetti; – 10. dal fisico, per la natura de' fat ti, e per le relazioni loro con gli oggetti, 11. e quindi per la ricerca delle classi loro, e leggi e cause, e per i priocipi della ragione. - 12. Si accorda col Metodo teologico per l'esa 9. e per . - me della coscienza; 13. col critico o filologico, per lo stu. dio dell'umana natura pe' fatti umani esteriori e nelle lingue; 14. col malematico, per la speculazione di verità con ma teriali; – col fisico, per l'altigenze fra le cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto. Metodo della Filosofia Civile. Argomento.Proprietà del Metodo nella Filosofia Civile. Questa si fondi sopr'i fatti, – 3. badando alla notizia loro precisa e al collegamento loro. 4. Studio delle cagioni; ma fuggendo di prendere l'analogie per identità. Esame delle cagioni esteriori ed interiori, non separabili, ma distinte. - 6. Le cagioni interiori hanno più importanza: 7. ma senza trascurare l' esteriori. Si ascende alle leggi o ragio ni. Leggi supreme della Scienza storica, della Politica, della Giurisprudenza, dell'Economia. - 9. Le dette leggi non tol gono la libertà, - 10. come la libertà non toglie alle conse guenze proprie la necessità; 11. tantochè in ciò risplende l'ordine della Provvidenza. – 12. Dopo l'esame induttivo delle cagioni e leggi può farsi la deduzione, o probabile o necessa ria, di ciò ch' è avvenuto e che può avvenire. 13. Questa Filosofia delle ragioni o leggi, che governano le nazioni, non può trascurare il procedimento storico; ma neppure si può, per questo, trascurare la teorica di quelle. - 14. Talchè la Scienza civile ha due presupposti, la Storia e la batura. –15. Però il Metodo suo si distingue da ogni altro, 16. e a tutti si upisce. Metodo critico nella Storia. 401 t. Argomento. – 2. Esame de' fatti, Discipline che aiutano in ciò la Storia: Cronologia e Geografia, – 4. Archeo logia, Diplomatica, Statistica, Archeologia preistorica, Etno grafia. 5. Come si può andare in eccessi con queste disci pline. Ipercritica. Esame delle cagioni; e iodi lo Storico rifà la Storia entro di sè. 8. Cause finali, 9. particolari, generali, 10. psicologiche, A1. divine. Oggettività della Storia; 15. e come ciò la renda bel lissima e ammaestrativa. – 14. Come lo storico si distingua da ogoi altro Metodo; 15, e vi si accordi. 16 Sunto, Metodo critico nella Linguistica. 1. Proprietà del Metodo interpretativo delle Lingue. 2. Raccolta ed esame de' vocaboli. – 5. Come bisogna valersi dell ' uso proprio nelle Lingue parlate, e come giovino i testi moni dell'uso. A chi ricorrere per lo Lingue morte. Grammatica poi determina le classi e le leggi de' vocaboli, 5. Avvisi necessarj a far bene la Grammatica. – 6. Io che con siste la Filologia comparata. – 7. Utilità di essa, e da quali estremi bisogna fuggire. 8. Il fine dell'esame filologico è interpretativo principalmente; – 9. e ciò ne determina i con fini, i modi, 10. e le relazioni; che sono massimamente due: con la Letteratura, 11. e con la Storia, - 42. E iodi anche vediamo le indirelle relazioni della Linguistica; cioè con 4. La ca, la Teologia. 13. con la Filosofia, 14. cop la Matemati 15. e altresi con la Fisica, sempre distinguendosi da tutto ciò. 16. Sunto. Metodo matematico... Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2. Quantità pore, cioè astratte da ogni altra idea. – 5. Nel che, poi, bisogna di stinguere fra l'insegnamento elementare ed il superiore. 4. Si cerchino le ragioni, sgombre da ogo' idea straniera. 5. Idea dell'Infinito, distinto dall'indefinito matematico. - 6. Il Cavalieri. – 7. Distiozione dal Metodo teologico, - 8. e relazioni con esso; dal Metodo filosofico: e accordo con la Logica, onde l'insegnamento della Matematica è razionale, 12. Distinzione dal Metodo critico, segnatamente dal letterario, 13. e accordo. - 14. Relazione col Metodo fisico. 15. Come le dimostrazioni matematiche abbian virtù di assestare gl'intelletti, e anche possano dissestarli.. 16. Sunto. Metodo nelle Scienze fisiche. Argomento. Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche, - 2. Prinia d'indurre si comincia dall'Analogia; 3. cbe talora non può giungere all' Induzione, 4. Può essere fonte di errori; o del troppo generaleggiare, 5. o del poco. Essa è di molta difficoltà. 7. Regola da tenersi. – 8. Indu zione. Uffioj del senso e dell'iotelletto. 9. Ci solleviamo alle 10. alle cause, - alle leggi, 12. e però al. l'ordine. Doppio errore de' Sensisti e degl ' Idealisti. 14. Frantendono allri la luduzione, ch'è legittima e necessa ria, 15. e da cui siamo condotti alla Deduziune. Suato. Cap. L. Segue del Metodo fisico; e Ordine fra le Scienze.. 479 classi, 16. 1. Argomento. Abiti che prende la meote per gli Studi fisici. – 5. Idem. 4. Necessità di mantenere l'ordine fra le Scienze. - 5. Guai, se la Fisica è usurpativa. Confusione della Fisiologia con la Psicologia: – 6. de' fatti esteriori con fl'interiori. Confusione di linguaggio, e dogmatismo. 8. Si confondono i bruti con l'uomo; – 9. la volontà con gli atti meccanicamente determinati. – 10. Si distingue il genere umano in più specie, poi si pongono le trasformazioni di tutte le specie; -- 11. si confonde l'ordine de' fini col piacere • con la materiale utilità. - Abiti cbe prende l'intelletto per gli Studj religiosi; Filosofia; per le Matema. tiche; per la Gritica. Conclusione. STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA. Epoca dell'’era pagana. Civiltà degl’ialici. Successione dei loro sistemi.. Scuole italiche. Sistemi latini. CICERONE Giureconsulti romani. CIVILTÀ DEGL'ITALICI. SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI. Tre tempi dell'incivilimento italici; i l'elasghi, la trasformazione loro negli Elleni, le colonie. Il terzo è più nolo; quali sono i suoi termini. Cinque cagioni più principali dell'unione fra la civiltà orientale e l'italica: colonie, commerci, viaggi, lingue, tradizioni. Tre opinioni sopr’esse; tutto dall'oriente, nulla e opinione media. Dipendenza non generica nė volgare della filosofia italica; daʼsistemi orien tali. La civiltà jtalica fiorisce primamente dove più vive le comunicazioni con l’Asia e dove più ricco un anteriore incivilimento. l'ero quest'epoca si chiama oriental italica. Questa è un'età di passaggio, fra le qualità orientali e il tempo socratico. Si veda le attinenze lia filosofia italica religione e civiltà. Quanto alla religione sacerdotale, se n'ha indizi per le memorie de ' Pelasghi, de ' Misteri e degli Orfici. Celebre passo di Erodoto sulla religione de ' Pelasghi, e sul nome degli dèi posteriori ec., e conseguenze di ciò. Somigilianze tra la religione pelasgica e quella de' Bragmani. Misteri: quelli di Samotracia istituiti da 'Pelasghi; domma che s'insegnava segretamente e molto simile al panteismo dell'India. Ciò pur anche ne’ misteri eleusini; panteismo naturale, metempsicosi, immortalità, purificazione. - La teologia d’Eleusi non può interpretarsi solamente in senso fisico. Testi monianze di lode que' Misteri pel domma sull'immortalità. Le due anime; anch'in Omero ec. – Gli Orfici: qualcosa di storico v'è circa Orfeo, benché con mistura di simbolo.-- La dottrina che va sotto il nome d'Orfeo si raccoglie da tradizioni antiche e da'versi orlici. Le tradi zioni attribuiscono a Orfeo una religione collegata poi a'Misteri eleusini: cosmogonie orliche, somiglianti all'indiane. Quanto a'versi orlici, que sli non appartengono a Orfeo; ma parecchi son certamente molto antichi. Da varj ioni (che si riferiscono qui, apparisce il panteismo naturale come ne ' Vedi. Passi che fece la religione tra l'Italogreci: panteismo natu rale con molte tracce del Dio unico; adorazione degli astri, massime nel volgo; teogonie, o emanazioni sempre più specificate e che prendono attri boti e nomi distinti; individuazione ultima e volgare del politeismo, specie per opere degli artisti e de' poeti, abbandonando quasi ogni simbolo. Memorie sul combattimento fra le religiose tradizioni e il politeismo cre scente. - La filosofia, dunque, prima sacerdotale; poi sacerdotale e laicale ad un tempo; cedè inline al politeismo, rispettandolo, se non altro, come apparenza o credulità popolare. Questo resistere al male, e poi cedergli, si vede ancora per l'altre parti della civiltà italogreca. La filosofia venne preparata da molte cagioni, e però dovè fiorirvi assai presto, anzi chè cominciare a' tempi di Talete molto dubbiosi. - La filosolia mosse da un ritorno sulla coscienza morale Questa filosofia morale e religiosa fiori, prima di Taleto, non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco; e se n'ha prove non dubbie. La cuola pitagorica precedeva Talute; ma va di. slinto Pitagora dal Pitagoresimo. - Molti argomenti di fatto e molte auto rità per mettere in saldo le antiche origini di tal filosofia. Anche la scuola di Xenofane antecedė Xenofane stesso; e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poi la scuola cleatica e l'ionica, infine i sistemi negativi. L'epoca dell'incivilimento italogreco si può distin guere in tre tempi; de Pelasghi (o con qual altro nome si voglia chiamare que' popoli primitivi); della trasforma zione di essi negli Elleni; delle colonie. L'età de' pelasghi o degl’antichi abitatori d'Italia si perde nella notte de’ secoli, ignoto il principio e la durata. È certo bensì, che quegl’abitatori vennero d'Oriente, come se n'ha prova in tutte le memorie e ne’ linguaggi e nelle reliquie dell'arti, e che i pelasghi, quantunque paruti barbari a Ecateo e ad Erodoto e di barbaro dialetto, sono la più antica sorgente e più copiosa delle genti e lingue e religioni elleniche (Balbo, St. d'It.; Cantù, St. univ.; Guignaut, note al Lib. IV del Creuzer, Rel. de l'antiquité. Sembraron barbari, perchè reliquie di popoli più segregati allora da'popoli nuovi, già molti passati avanti. Fatto è che di là, ove i pelasghi abitarono, fan derivare i greci la civiltà loro, dall' Elicona, dall'Olimpo e dal Pindo. Accadde poi e IN ITALIA un cozzo di popoli. Qual cozzo, e di che popoli, è molto incerto agli eruditi. Ma questo si sa, ed Erodoto l'afferma più volte, che al lora con trasformazione lunga e tempestosa i pelasghi si convertirono in elleni. Viene poi l'età delle colonie; un rovesciarsi di genti greche le une sull'altre, un invadere, un esulare, e indi un propagarsi di colonie, prima nell'Asia minore e nell'isole, poi nella Calcide, nell'Eubea, in Sicilia e SULLE COSTE D’ITALIA, e infine (propag gini di colonie da colonie) in Asia, in Tracia, sul Danubio e nel Mar Nero. Questa terza età è propriamente storica. Dell'altre due il più va ingombro di favole. La terza comincia, secondo l'Hofler assai temperato nelle cronologie, sul secolo undecimo avanti l'èra nostra. (St. Univ.) In un'età così lunga e operosa, e ch’ebbe così lunghe e ricche preparazioni, si forma la civiltà e FILOSOFIA DEGL’ITALICI -- la quale, svolgendosi nelle colonie d’ITALIAe dell'Asia minore, cedè poi al primato d' Atene; onde comincia una seconda età di filosofia. Nell'epoca di che si parla ora, in ogni tempo del l'epoca stessa, cinque cagioni principalmente mantenevano unite la civiltà orientale e l'ITLICA; colonie, commerci, viaggi, lingue, tradizioni: Le colonie, nè dico solo l'egiziane di Lelege, Danao, Cecrope ed altri, ma le prime venute dalla terra degli arii e de' persiani, e l'ultime ellene che si spargevano per l'Asia minore; i commerci, che com’appare in Omero, non cessarono mai tra ITALIA e le coste dell'Asia. I viaggi per l'Oriente, non possibili a negare in tutto, de FILOSOFI d'allora, come Ritter non nega quelli di PITAGORA A CROTONE, Ritter negatore sì voglioso. Le lingue, che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le lingue le tradizioni d'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in torno a cui son tre le opinioni: da Erodoto fino a Creuzer la mitologia ITALICA, la greca segnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana. Ma poi Müller, Voss e altri riferirono tutto ad origine greca. Guignaut (Note al Crcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione media. E questa si è che i germi delle credenze religiose si trapiantassero d' Asia com'anco radici e forme generali delle lingue; ne può pensarsi altrimenti, dacchè ivi coabitarono un tempo le genti ellene: ciò non impedì, nè mai l'im pedisce uno svolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come nelle religioni: all'età poi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia minore, per l'Egeo e nel Ponto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vicini orientali scaturi la fonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta già in Esiodo ed in Omero.  Talchè (ponete mente, o signori), se lo spargersi di colonie nell'Asia minore avvenne dall’undecimo all'ottavo secolo incirca, e nel con tinente poi d'ITALIA e di Sicilia dall'ottavo al sesto, que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare delle tradizioni orientali fra gl’elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia nuova degl'ITALICI. Non istarò dunque a disputare com’essa deriva più o meno da’sistemi orientali, bastandomi ch'ella dipende per fermo da molte tradizioni d'Oriente o per le origini delle schiatte o pel riaccostarsi loro all'Asia. Che tal dipendenza poi de' popoli d'ITALIA, nazione antichissimamente civili e nella civiltà loro pertinaci, possa credersi affatto generica e volgare, cioè senz'efficacia sull'educazione speculativa, giudicatene voi, o signori, che pur vedete gli effetti odierni del comunicare le nazioni fra loro. Dove fu egli il primo fiorire della civiltà ITALICA? nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia. Non già in Grecia propriamente detta. Perchè mai, o signori? La ri sposta non par malagevole. Prima che in Grecia, fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore, appunto perchè più vicini all'Asia media, sorgente de' popoli e della civiltà; e prima pure che in Grecia fiorì nella Magna Grecia, cioè in ITALIA, perchè ivi più forse ch'altrove ra dicò la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni che fanno ionio Pitagora e ionio Xenofane, venuti tra noi, dan segno come frequenti e vive fossero le comunicazioni tra LE COSTE ITALIANE e l’Asia minore. Dico poi, ad ogni modo, che le colonie greche trovarono in ITALIA grandi semenze di civiltà, nè però ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi e prosperare. Di fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto important. Prima, che le tavole d'Eraclea, lette dl Mazzocchi, fan prova come i coloni greci prendessero dagl'ITALIOTI misure e confinazioni agrarie. Seconda, che i Lucani, i Bruzj, i Sanniti, dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, e riparatisi a’ monti, ne discesero poi, e le ributtarono (Hofler), talchè più non resta in ITALIA dialetti greci (in PUGLIA ve n'ha, ma di colonie recenti e fuggite dai Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanari non serbavano istituti civili. Ecco il perchè ho chiamato quest'epoca orientalita logreca (italogreca ITALIOTA per più brevità); greca, perchè filosofia di colonie greche; ITALIANA perchè sorse più splendida in ITALIA e con tradizioni italiane (italica chia marono pure i Greci, come Platone ed Aristotile, la scuola pitagorica e di VELIA); orientale, perchè con origini e comunicazioni asiatiche. Non si toglie a' Greci la loro eccellenza ' se notiamo quel ch ' essi appresero; offenderebbe la verità e loro chi loro negasse la mira bile potenza di far proprio l'imparato e di dargli bellezza e compimento; essi il ricevuto per dieci lo ridussero a mille e quel mille lo insegnarono al mondo; ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'ITALIA nostra, o signori, principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici questa filosofia nuova che tanto potè su Platone e sopr’Aristotile. L’ITALIA ricevè dal 1 ° Oriente e da’Greci, l’ITALIA poi restituì alla Grecia e alla civiltà de' secoli avvenire; e potè dirsi allora quel che poi disse PLINIO. Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium in toto orbe patria. Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati: avvaloriamoci, o signori, d'emulazione e di virtù, e non di lode. E quest'epoca, di fatto (come dissi altrove), è un'età di passaggio; ritiene ancora le qualità orientali, ma che mostrano già di convertirsi nell'altre dell'età socratica. Così tra gl’ITALIOTI come tra gli Asiatici, abbiamo un sistema religioso sacerdotale; ma ora si nasconde ne' misteri, e si separa perciò interamente dalle credenze popolari che prevalgono. Tra gli uni e tra gli altri la filosofia dipende dal sistema religioso. Ma ora si svolge in un modo più laicale e più da sè stesso, perchè così ri chiede la mobilità di quelle repubbliche, e perchè il sistema religioso si rimpiatta, e nè ha sull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e commentarj vedici; par come un'eco de' tempi passati, più che voce vivente. E siccome la filosofia di quest'epoca pigliò i germi da' misteri (Ritter), che hanno del panteismo orientale, così ell'hanno del panteistico a mo' degl'Indiani, ma con tendenze più manifeste alla DIALETTICA che va per distinzioni anzichè per confusioni. Poi, qui come là s' unì la poesia con la speculazione, ma più altresi se ne distinse; perchè i poemi omerici non furon mai ravviluppati con una enciclopedia d'episodj. Ed i poemi scientifici di VELIA (il Sulla Natura di Parmenide) e di GIRGENTI (il Della natura di Empedocle) s'accostano alla prosa. E qui come là v'è ncertezze storiche, meno per altro. Giacchè il più delle incertezze cadono su' misteri e sulle origini pitagoriche, non già sulle scuole posteriori. Premesso ciò, si veda, o signori, qual fosse in attinenza con la filosofia la religione e la civiltà degl'ITALIOTI. Della religione, come sistema sacerdotale, me ne passerò più breve che non feci per l'India, giacchè (com ' ho detto) quel sistema era sul morire, e se n'ha meno ragguagli e meno certezza. La religione sacerdotale ITALIOTA si può ricercare in tre modi: per le notizie assai oscure dei Pelasghi, i quali tennero idee religiose più primitive e più vicine alle orientali; per le notizie scarsissime de' Misteri; per quelle degli Orfici. Essi e l'origine de' Misteri appartengono, credo, all'età di combattimento e di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodoto scrive che da loro non si metteva nome agli dèi; aggiunge che i nomi vennero d'Egitto e che i pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero la decisione all'oracolo di Dodona, riuscito favorevole a que' nomi; e dice infine che le nascite e le forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo e da Omero; tutte cose già ignote. Vuol notarsi com’Erodoto accenni pure che un simbolo osceno gli Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano il senso ne' Misteri; e sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchici si mostrava i simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente. Erodoto, uomo schietto, n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevano appreso le sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omero e d' Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questo luogo così famoso? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle succedute lontana dal politeismo; secondo, che quella si rappresentava co'sim boli orientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti; terzo, che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da un che meno pagano ad un più, non accadde senza contrasto, e indi si ricorse agli oracoli; quarto, che tenuto il simbolo antico ed esteriore, la sua spiegazione si fece nell'in terno de' Misteri; quinto, che i nomi si suppongono venuti d'Egitto in età più recente, perchè all' Asia media non s'imputavano queste tradizioni; infine che Erodoto reca l'antropomorfismo ad invenzione di poeti, non perchè già tal errore non fosse cominciato popolar mente, ma perchè que' poeti l'ordinarono (più o men di proposito) in sistemi di mitologia, ed in modi specificati. Che poi la religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani lo attestano Ferecide e Acusilao in Strabone (Ed. Sturz ); dicendo che i Cabiri, divinità pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabiri maschi e tre femmine. (Creuzer ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto, non solo che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi (II, 5), ma (com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse i simboli esterni. Come si spiegavano essi? Apollonio di Rodi serbò del vecchio storico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia. (Schol. Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori? Similissimi a quelli dell'India. S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros; la materia fecondata, Aziokersa, o principio passivo; e il principio attivo, fecondatore, Asiokersos. Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il passivo si distinguono dall'essenza universale, Azieros o Brahm? 0 piuttosto (giacchè l' interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros, Aziokersos e Casmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio, rispon dono a Maya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il Dio neutro, come non si nomina il Dio supremo nel Rig Veda? tanto più che Casmilo rispon derebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle trasformazioni. Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il domma samotracio mostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Trimurti. (Saint Croix, sur le Mystères du Paganisme; Creuzer, V, 2. ) E risponde non meno a quel panteismo la dottrina samotracia dell'età varie mondane, o che il mondo si distrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche ne' Misteri eleusini s'esponeva la dottrina d’un principio passivo, d'uno attivo, dell'armonia mon diale che ne nasce, e di ciò che distrugge le forme senza intermissione. Bacco, Cerere, lacco e Mercurio, ossia grecamente Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, non ritraggono forse, o signori, i sistemi dell'India, del l'Egitto e della Persia? E forse su quelle divinità è, innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e lo Zeus de' tempi remoti, divenuto poi un principio maschile, contrapposto a Giunone principio femminile. Di que' Mi steri non si sa i particolari, vietato rigorosamente il propalarli, come dice Pausania (art. Beozia) e Apollodoro (Argon. I), e come dimostra il Meursio (De Festis Græcorum). Pure, da'cenni dell'antichità si ritrae che insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale (com’ho detto di sopra), e la metempsicosi, e l'immortalità del l'anima (forse col ritorno all'essenza divina), e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il panteismo naturale viene indicato da CICERONE (De Nat. Deor.), che diceva: come le dottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce meglio per esse la natura delle cose che quella degli dèi. Che vuol egli dire? CICERONE accusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia confondevano, in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale. Prova, dunque, tale accusa, e viene confermato da molt' indizj, che la religione d' Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi; di fatto, che si trattasse d'una fisica soltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore alla natura esterna ce lo vieta lo stesso CICERONE. Egli scrive nel II “De Legibus”, che i Misteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo beneficio d'Atene, perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella speranza di vita migliore; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone (Fedone) che l'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi, e dà a'buoni felicità eterna, cioè un'abitazione comune con gli dèi dopo la morte. Isocrate afferma (Panegirico) che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le più dolci speranze quant'alla fine di questa vita e quant'all'altra che non finirà mai. Che poi gl'iniziati s'ammaestrassero alla virtù si ha da molti argomenti; e il Meursio dimostra che quelli si preparavano a’ Misteri con gli esercizi di castità, e poi si credevano astretti, quasi da sacramento, a rendersi migliori. Così Aristofane (Rane) mette in bocca a un coro d'iniziati queste parole: « Il sole e una luce aggradevole sono per noi che onoriamo i Misteri e osserviamo le regole della pietà verso i forestieri e verso i cittadini. » Però que' Misteri si chiamavan teleti (7: ) ett ), giacchè da loro veniva la perfezione della vita. Va notato che la me tempsicosi s' univa col domma dell'immortalità in que sto modo: credevano gli antichi che il principio animale, principio di vita e di senso, distinguasi sostanzialmente dal principio intellettivo; e che l'uno, cioè l'animale, passi di corpo in corpo, ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giri di secoli e in premio del vivere onesto, ritornando all'essenza universale o divina. Però si di stingueva in Persia il fervéro o genio dall' animazione, e in China Hoen da Pe, e tra gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone (dzepov) o anche logo da psiche, e tra’ ROMANI “animus” da “anima”. Quindi l'anima sensitiva s'immaginò non altrimenti che come materia sottilissima, e che, divisa dal corpo, ne teneva le apparenze, erane lo spettro od il fantasma, vagante nelle notti e intorno a' sepolcri. Tal distinzione si vede pertino in Omero, allorchè Ulisse approdando a'Cimmerj inter roga i morti (Odiss.): « D'Ercole mi s'offerse alfin la possa, Anzi il fantasma; però ch'ei de' numi Giocondasi alla mensa, e cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe, di Giove figlia e di Giunone. » La terza fonte di notizie, cioè le memorie orfiche, non vanno soggette, o signori, a tanta perplessità, e può trarsene qualche costrutto; purchè evitiamo così la co moda credulità come l'eccesso de critici. S'è giunti a du bitare d'ogni realtà storica ed antica rispetto ad Orfeo; ma, quantunque la parte storica si frammischi a' por tenti della favola, e un nome (al solito) rappresenti le dottrine e i canti di più, nondimeno qualcosa di reale e d'antico vi ha; perchè Ibico (in Prisc.) che fiorì presso al 550 prima di Gesù Cristo, già ram menta Orfeo; lo rammenta Pindaro (Pith.), anzi lo chiama padre de canti apdov Tr UTEP (Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr. ); lo rammentano ancora gli an tichi Ellenico e Ferecide e le tragedie ateniesi. Da molti luoghi di Platone (Leg. VIII; Ione, Convito, Rep. 11) apparisce che a tempo di lui eran divulgati già molti carmi col nome di Museo e d’Orfeo; questi è citato nel Filebo e nel Cratilo; e si scorge che l ' espiazioni de’de litti appartenevano alle discipline orfiche. La dottrina che va sott' il nome d’Orfeo si racco glie da tradizioni antiche e da versi orfici. Quanto alle tradizioni antiche, elle attribuiscono tutte ad Orfeo una religione, che istituita da lui si collegò quindi a Misteri d'Eleusi (Müller): e ciò conferma il già detto sulla natura di quel sistema religioso. Si rileva poi dagli antichi scrittori un sistema orfico di cosmo gonia, benchè sotto più forme, e talora v'han messo la mano autori dell' èra cristiana. Creuzer ne dà cinque di tali cosmogonie; rilevantissima quella di Ferecide Siro, pel quale son tre i principj Zeus o Giove o Cronos o l'etere, il Caos o massa inerte ch'egli vivifica, il Tempo o la durata senza limiti. E qui voi scorgete, o signori, l'indefinito ch'è concepito nell'astra zione del tempo (come tra’ Persiani ), e dall'indefinito i due principj, l'attivo ed il passivo. Nella cosmogonia che viene riferita da Atanagora e da Damascio, v’ha l'idea indiana dell' uovo nell'acque, da cui esce Eros o Fa nete, amore o manifestazione dell'armonia universale; e tal idea orfica viene rammentata negli Uccelli d'Aristofane. Il mondo, poi, si rinnova per bruciamento (co me secondo Eraclito, gli stoici, gl'Indiani e l'orgie eleu sine), in virtù di Dionisio corrispondente a Siva. (Creuzer) Mi pare che il Maury ottimamente riduca le teogonie o cosmonie orfiche a questo: Cronos genera i due principj, l'etere e il caos; il caos in virtù dell' etere prende la forma d'uovo, avviluppato dal l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre primitive, a cui segue la luce o l'amore, quando l'uovo si spacca, ossia quando il germe involuto si svolge nelle sue parti: queste le idee più principali che risultano dal paragone de' più antichi testimoni. Ma i versi che ci restano sott'il nome d’Orfeo, son essi autentici? Aristotile e Cicerone negarono già che i versi propalati fin d'allora come d'Orfeo gli apparte nessero; e più n'è dubbio a' dì nostri, perchè nei primi secoli dell' èra volgare molti documenti si rimaneggia rono, e molti se ne invento. Ma dice Mullachio (Fragm. Phil. Græc., ed. Didot. Parisiis): Plerique ver sus puroque et simplici sermone insignes sunt; talchè, considerata la purità e il fare antico di molti versi, e il riscontro di varie testimonianze. ond' essi ci sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizioni vetuste, possiamo affermare che quelli senz'essere forse d’un poeta che si chiamava Orfeo, sien per altro reliquie vere degli Orfici antichi. Udite l'inno insigne alla Natura, tradotto dal Cantù nella Storia universale e riferito negli Schiarimenti (Tauchnitz): « Natura, diva madre universale, in tante guise madre, celeste, venerabile, molto creante spirito (o cuor ), regina che tutto domi indomata, tutto governi, in tutte parti splendi, onnipossente, ve nerata in eterno, divinità a tutte superiore, indistrutti bile, primonata, antichissima,... comune a tutti, sola, incomunicabile, padre a te stessa senza padre, che per maschia forza tutto sai, tutto dài, nodrice e regina di tutto; feconda operatrice di quanto cresce, di quanto è maturo dissolvitrice, delle cose tutte vero padre e madre e nodrice e sostegno. Le quali ultime parole già udimmo per Aditi nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina s’asconde, o signori, ne' versi orfici? La stessa che ne' Vedi: la natura universale è padre e madre, ossia, principio attivo e passivo; ell’è divina, perchè non è la materia, sì l'essenza universale, spirito divino primo e materia prima in unità; è senza padre, cioè senza principio; è primonata, cioè generata da sè stessa con uscire all'atto dall'indefinita potenza; indi, ella è padre di sè stessa; infine, si palesa con tre divine opera zioni, genera tutto, sostiene tutto, distrugge tutto. In Clemente Alessandrino (Stro. V), in san Giustino (Co hort. ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo, in Proclo, in Porfirio e in altri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che rendono lo stesso sistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico. insegna qual sia l'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi documenti degli uomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo; e che Dio tiene in sè il principio, il mezzo e il fine. (Pr. Ev.) Riferirò un altro inno ch’Eusebio tolse da Porfirio (Ivi, e Stobeo, Eclog. Phis. 1, 2, 23, e Bibliot. del Didot, Framm. ec. p.6 ): « Primo e ultimo è Giove che splende col fulmine. Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le cose. Giove è nato maschio, Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra e l'aria stellata de 'cieli; ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della loro origine. Unica forza e unico demone che governa tutte le cose, quest' unico le chiude tutte nel suo corpo regale, il fuoco, l'onda, la terra, l'etere, e la notte e il giorno, e il consiglio, e il primo genitore e nume del l'amore: contiene tutto ciò Giove nell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e il volto maestoso irradia il cielo, intorno a cui sparge con molto lume la chioma pendente e aurea d'astri; e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di toro, un doppio corno che l'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e l'occidente, giri noti a' supremi dèi. Son occhi di lui il sole e la luna che corre di contro al sole. In lui è mente verace, ed etere regale non sottoposto a morte, il quale col consiglio muove e regge ogni cosa; e quella mente, perchè prole di Giove, non può essere nascosta da niuna voce o stre pito o suono o fama. Così, egli beato possiede e senso dell'animo e vita immortale, spandendo il corpo illu stre, immenso, immutabile e con valida forza di brac cio. A lui son omeri e petto e terga immani le ampiezze dell'aria; e con veloci e native penue precipitando, egli vola intorno a tutte le cose. La terra, madre comune, ei monti che levano l' alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la zona media i tumidi flutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il nume, sta nell' intime radici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e negli ultimi confini che inaccessa ed immota spande la terra. Tutte le cose egli nasconde primamente nel mezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma luce con opera divina. » Tra le figure poetiche non si può non vedere in quest'inni l'opera della riflessione che affaticasi di scoprire e spiegare l'attinenza fra Dio e l'universo, confondendola, per abuso d'induzione, con l'attinenza tra l'unità delle sostanze e la moltiplicità c mutabilità de'fenomeni. Non fa dunque meraviglia se Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero gli esordj dalle dottrine orfiche e de' Misteri e però dall'antiche tradi zioni pelasghe, cadessero nel panteismo. Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla reli gione fra gl’ITALIOTE. Prima è un tal panteismo natu rale, in cui le divinità sono le forze della naturu; non le forze per altro simboleggiate, come interpretò poi la scuola de' Fisici (Plutarco la distinse sì bene dall'an tica scuola de' Teologi), bensì le forze naturali confuse con gli attributi divini. In quel panteismo, come nel Rig Veda, gli dèi son poco determinati: differiscono poco gli uni dagli altri; escono tutti e rientrano nel Dio unico (Creuzer, V, 4). Talche certi Padri pensarono ch'ei fosse un culto dell' unico Dio creatore, e tal culto contrapposero alla corruzione posteriore dell'idolatria; Storia della F lofint. 17 2 ill 1 ma, veramente, non può chiamarsi un teismo, bensì un panteismo naturale, dove nondimeno le tracce del l'unità di Dio si conservano così spiccate da causare l'opinione ch'io vi diceva. Però le divinità pelasghe non avevano un nome, dice Erodoto; e a dar loro un nome s ' opponevano le sacerdotali tradizioni (Ispot 20091). E come narra Platone nel Cratilo che prima si chiamò in genere 0: 9 le divinità, così cabiri le dissero i Pelasghi, ossia (forse) potenti; e ciò risponde agli dei complices o consentes degli Etruschi. Poi, questo panteismo naturale si ristrinse più par ticolarmente (e specie nel culto popolare) all'adorazione degli astri, dove più che in altro ci apparisce la po tenza di Dio: e che sia così l'attestano Platone (Fileb. e Crat. ) ed Aristotile (Met.). Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo; e si mantenne questo nel detto volgare: Giove che fa? per dire: che tempo fa? Ma il panteismo naturale de' sacerdoti più e più si foggiò a sistema d'emanazioni, per ispiegare con modo determinato la dipendenza di tutto dalla causa prima; e indi le teogonie e cosmogonie orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine, allora, ebbero nome partico lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne; come narrai che la triade pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dalla fecondazione; e si sa del Giove con tre occhi in Argo (Pausania ), della Venere piramidale di Pafo, e co' due sessi (statuina nella bibliot. naz. di Pa rigi), dell' Apollo a quattro mani, del Sileno a due te ste, di una dea a quattro teste nel Ceramico d' Atene, del Giano bifronte, della Diana mammellata d'Efeso e della Cibele come informe pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco a poco divennero nomi e attributi pro pri di certe divinità specificate; e la Trimurti, le cui vestigia restano fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno e Plutone, s'individuò per modo che l'un Dio non più si confuse con gli altri, e questi si moltiplicarono all'infinito. Però, questa individuazione favoriva il politeismo a volgare e si mescolava con esso, e n'era eccitata e lo eccitava; e ambedue si stabilirono più che mai con l'arti del disegno, che lasciati quasi del tutto i simboli, ri dusse gli dèi a forme umane, con alcune qualità pro prie di ciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma velata, nelle forme tra maschili e femminili di Bacco e d'altri dei, figura sacra dell'androgenia, quando s'abbandono la rozzezza dello scarabeo (Winkelman, St. dell'arte ec. ); e tal simbolo (sia detto di passaggio ) alcuni artisti vo gliono imitare quasi perfezione di membra umane e le sono immaginarie! Fatto sta che la scuola d'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele, imitando i poeti ebbero più ch'altro efficacia nel fermare quel politeismo di dèi spicciolati. Vuolsi por mente adunque, o signori, che da un lato restava la tradizione sacerdotale, benchè più e più cor rotta, e cresceva dall'altro il politeismo. Come restava la tradizione? Ne' Misteri; già lo vedemmo. E perchè mai dovè occultarsi? Dicono le memorie antiche, i primi re di Grecia e d'Italia fossero ad un tempo sa cerdoti, capitani e giudici; patriarcato ch'è origine d'ogni nazione. (Arist. Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano poi d'un contrasto lungo e sanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere; il che apparisce anco nell'In die; ma se ivi le liti si composero stabilmente, fra gl'Ita logreci al contrario scapitò la classe sacerdotale che (l'accennano i racconti circa Erettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in alcuni luoghi, come Eleusi, lasciando a' re tutto il resto; e così, a poco a poco, e tanto più quando sorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse gnamento religioso e restò solamente i riti esteriori del sacrifizio e delle feste. Quell'insegnamento, dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel mistero, in que'luoghi appunto che la classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i sacri querceti di Dorona. E che fa intanto la filosofia? Ella è sacerdotale dap prima, o teologia, perchè tenute le tradizioni asiatiche, cresce nel sacerdozio pelasgo ed orfico; poi, nell' età che  > il sacerdozio si separa e s’asconde, dalle semenze reli giose de' Misteri germogliano i primi sistemi come i pi tagorici, che han del sacerdotale e del laicale ad un tempo. Questa filosofia, perciò, combattè dapprima il politeismo, per esempio ne' frammenti di Xenofane che derideva il fingere dèi a somiglianza nostra. Poi, dac chè il concetto di Dio sempre più s' annebbiò, i poste riori consentirono a' tempi, e gl' Ionj, gli Eleati, e molto più i sofisti, menaron buona, se non altro come appa renza o come credulità popolare la mitologia. Nè altrimenti andò negli ordini tutti della civiltà. Di fatto; quando i governi regi si mutarono in popola reschi, molta efficacia e salutare v'ebbe la filosofia mercè i Pitagorici, e segnatamente Zeleuco e Caronda, i cui frammenti di leggi muovono dal dimostrare che Dio è; ma in progresso la filosofia non potè resistere alla li cenza, fu perseguitata, e però cadde in mano di sofisti che inventarono l'arte della parola per la parola, malvagi adulatori di plebe e mercanti di cavillo. Abbondando le ricchezze, nate da operosità, fiorirono scienza ed arte; ma successe un abito d'ozio e di godimenti, e la Magna Grecia in ITALIA e l'Ionia caddero in mollezze di trista fama. Resisterono i primi sapienti, come dimostra l'istituto pitagorico; ma cedè a poco a poco la loro austerezza, e già Xenofane canta « ch'è dolce nel verno stare al fuoco bevendo, e domándare all'ospite: quant'anni avevi tu quand' il Medo invase? » il Medo, o signori, invasore della patria ! lei sofisti, all'ultimo, la filosofia diventò l'arte di godere. Nell'ordine morale s'arrivò a tal segno ch'Ateneo rimprovera Platone, perch'e' disse nel Sofista come Parmenide di VELIA ama Zenone di VELIA; quasichè tal parola, detta di giovane, non ricevesse mai buon senso. E la filosofia, resistente dapprima co' Pitagorici, giunse co ' sofisti all'indifferenza tra bene e male; indifferenza molto diversa e peggiore dell'indiana; chè questa è non curanza del moltiplice e vario ch'apparisce, in grazia dell'unità sostanziale, ma quella è non curanza senz'al tro; ivi è un'ombra di moralità, qui nessuna. Mostrate così l ' attinenze tra filosofia, religione e ci viltà degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e la successione de' loro sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e per confessione di tutti, v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi; e bisogna ri correre il più a Diogene Laerzio, autorità poco accettata. Le congetture dunque son lecite; e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che sul definire l'età de' tempi remoti variano le tendenze degli Orientali e de' Greci; que sti tirano al meno e quelli al più. Per che ragione? I Greci amando la certezza de' fatti, li trasportano quanto più si può nel tempo storico, e lontani dal favoloso; al contrario degli Orientali, che amano l'indefinito de se coli; effetto del panteismo. Premesso ciò, rammentate, o signori, che prima dell'undecimo secolo avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; e allora co minciò l'età delle colonie; e da esse la più nota civiltà ITALIOTA. Quali preparazioni vi riscontriamo noi per la filosofia? La civiltà pelasga, le dottrine orfiche, i Mi steri; inoltre le comunicazioni più che mai frequenti per l'Asia minore (dove prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E che tempi erano quelli per l'Asia media? Rammentiamocene, o signori; erano i tempi di splendida civiltà, quando circa il mille avanti Cristo si compilavano i Vedi ed i poemi, e fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare, che date tali prepa razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di vita civile ond' il pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi non selvaggi come l' America, ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazioni filosofi che? Non farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate a tre o quattro secoli dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più meno già in via circa il mille od al novecento prima dell' èra volgare? A ogni modo, tempi precisi non se n'ha; e poichè la critica devé supplire, parmi più ragionevole vi supplisca così, che stando ad indizi già riconosciuti per poco probabili. La filosofia mosse anc' allora da un ritorno sulla coscienza morale; ce ne assicura la moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a ' Sette sapienti; a uno de' quali, cioè a Chilone, si reca il detto: conosci te stesso. Abbiamo poi alcuni tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui antichità non si dubita punto; e chi, Foclide per esempio, lo fa contemporaneo, chi anteriore a Pitagora. Le sentenze di Mimnermo, Evano, Metrodo ro, Teognide e va' discorrendo, mostrano chiaramente la riflessione sulle verità morali, benchè nascosta in afori smi. Così queste di Foclide: « Non dire mendacio, ma parla sempre con verità. Primieramente venera Dio e quindi i tuoi genitori. Non disprezzare i poveri, nè voler giudicare alcuno ingiustamente, perchè se tu giudiche rai male, Dio poi ti giudicherà. Fu da Dio a’mortali dato in uso lo spirito ch'è immagine di lui. Il corpo abbiamo dalla terra e si scioglie in essa e siam polve re, ma lo spirito va in cielo. » Or bene, io dico, e mi sembra di poter essere sicuro, che codesta filosofia morale e religiosa sorse e fiori prima del panteismo materiale di Talete e d’Anassi mandro; perchè n'ho prove storiche (come dirò), e per chè dalle tradizioni sacre orientali e orfiche non si poté saltare in un subito alla materialità. Dove fiorì? Non in Italia soltanto co ' più antichi savj della scuola ita lica, ma nell' Asia minore altresì, fra gl ' Ionj, dovunque insomma germinò la civiltà ellena. Di fatto, che che vo glia credersi delle tradizioni circa Pitagora e del suo venire dall' Ionia, esse, unite alla certezza che Xeno fane pure ne derivasse, mostrano almeno che l'antichi tà non reputò straniere agl' Ionj 1 ' idee pitagoriche ed cleate. Aggiungete che Talete ha molti più segni di spiritualità che non i posteriori; e tal peggioramento non si può negare. Perchè dunque, dimanderete, vien solo ricordata la scuola italica? La risposta è facile e il caso è comune; si ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e durò. y Ma la scuola pitagorica o ITALIOTA, dimanderassi an cora, ell’è anteriore a Talete, cioè al panteismo materiale degl' Ionj? Mi sembra certo, purchè si distingua Pitagora dal Pitagoresimo; questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una scuola di filosofi; quegli è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che può essere prima o dopo, senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della scuola nel suo nome rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son diverse l' opinioni. Quanto a Pitagora, Meiners lo crede nato al 584 avanti l'èra nostra; lo crede nato Lacher al 608. Come si determina ciò? Per autorità non salde, e per vie di congetture. Talete poi, secondo Apollodoro, sa rebbe nato il 640, anteriore perciò a Pitagora; dáta non senza incertezze. (Ritter, St. della fil. ant.) Ma ecco il Niebuhr (St. Rom. I) che contrapponendo a Polibio ed a Cicerone l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile la contemporaneità di Pitagora e di Numa; talchè andremmo più oltre che la data di Talete. Avanti alle dáte di Pitagora s'ha in ITALIA e Sicilia ZELEUCO E CARONDA, legislatori l'uno di LOCRI e l'altro di CATANIA; e ne' frammenti di quelle leggi v'ha il segno delº pitagoresimo. Il Krug fa CARONDA DI LOCRI del 668; il Benteley, l'Heyne, il Saint Croix, Centofanti, del 730. Quando Pitagora venne in Italia, in CROTONE, si dice che subito la scuola crescesse tanto di numero e di potenza, da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli: il che umanamente non può accadere. La scuola dunque precedeva. Il personaggio di Pitagora, l'istitutore insomma del Pitagoresimo, diventa un simbolo in gran parte; il che dà segno d'antichità molta, e di tradizioni orientali. Nella scuola pitagorica è mescolanza di culto e di speculazione; e ciò indica il passaggio dall' età teologicha (MYTHOS) alla filosofica o LAICALE (LOGOS), che in modo distinto vengono più tardi. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione della scuola ITALIOTA, il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua persecuzione, corsero pochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si dà presto a un uomo, tardi a un potente consorzio d'uomini. La storia di Pitagora, simbolico in gran parte, ha natura di leggenda; e sogliono le leggende avvicinare tempi lontani. Indi le confusioni dette di sopra.  Nella scuola pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche; talchè l'antichità di queste palesa l'antichità di quella che le raccoglie; com'elle poi diminuiscono in progresso, e appena si scorgono negl' lonj. I Pitagorici han forma di consorteria, e tra loro è comune e costante un corpo di dottrine. Ciò rammenta, o signori, gl’usi orientali che sempre più si perdono nelle repubblichette popolari; e rammenta l'antichità più remota, dove più vale l'unione e l'autorità. Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come una, e vi scopre solo differenze accidentali. Le tavole d' ERACLEA, lette dal Mazzocchi (come accennai già), mo strano un incivilimento anteriore, e quindi un'antica preparazione alla scienza. E delle prove d'antica civiltà nelle genti d'ITALIA recherò qui cosa che pare non fosse disputata fra' Greci, val a dire ch'essi, come dice Taziano (Or. contra Greci) prendessero da’ TOSCANI la plastica. Cousin dimostra con le autorità non ricusabili di Sozione, d' Apollodoro e di Sesto che Xenofane nasceva il 620 avanti l'èra volgare, un 60 anni circa prima di Pitagora stando agli anni di Meiners. Ora, se la dottrina di Xenofane tenne del Pitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto più vecchio del suo maestro? Se bisogni stare alle memorie greche talquali, i capi della scuola pitagorica di CROTONE e di VELIA vennero d'Ionia; men frechè in lonia correva un tutt'altro pensare. Qui, prendendo la cosa talquale, v'ha due inverisimiglianze, prima che ne luoghi de' capiscuola non ci avesse quell'indirizzo di speculazioni, come sarebbe assurdo che d'Alemagna venissero in Italia fondatori d'eghelismo e là non n'apparisse il focolare. Seconda, che piuttosto que' filosofi cercasser favore in Italia, sé qui non preparato il terreno. Ma tutto si concilia, quando il silenzio delle mete, in tanta oscurità di tempi dissero all'incirca il più rinomato, tacquero il meno, senza negarlo bensi, chè non lo conobbero forse. Dissero la scuola ionica, tacendo la scuola religiosa comune là ed a' Magnogreci, O ITALIOTI, perchè più celebre qui; dissero i più famosi capi delle scuole ITALIOTE, tacendo le lontane e recondite preparazioni. E ch'elle ci fossero, mostra il celebre passo di Platone che fa dire a Zenone di VELIA. Queste opinioni sull'uno cominciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui. (Soffista.) Brandis e Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina germe innato negl' intelletti. Al che ripugna Cousin e con ragione. Prima, qui si parla storicamente e non teoreticamente. Poi, se volesse allu (lere a germi naturali e senz' origine, come mai, anzi, parlerebbe Platone di cominciamento anteriore? (te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov). De primi Pitagorici non v'è scritti; scrissero i più vicini al tempo di Socrate; e ciò per l'uso degl'insegnamenti orali, per la costanza delle tradizioni e pel segreto delle dottrine religiose. Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde agli usi orientali. Nella scuola ionica poi sembra che fino il primo, cioè Talete, scrivesse versi, probabilmente prose (Diog. Laert. I, 34, Plut. de Pitiæ Orac. 18, Arist. Phys. ); il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di stabilire la novità. L'uso di non iscrivere, uso lasciato si tardi da ' Pita gorici, spiega ben anco il perchè sembrò più recente « lella scuola ionia il pitagoresimo: più recenti erano le scritture, non la loro filosofia. Recherò infine (lue singolari testimonianze di Padri greci, d'Ermia verso la fine del secondo secolo, e d' Eusebio dottissi mo ne' libri originali della greca filosofia. Ermia, dun que, nell'opera Derisione de' filosofi gentili enumera le contrarie opinioni loro sull'anima, sul bene, sull'immortalità, sulla divinità e sui principj del mondo; e poichè ha.rammentato varj filosofi, viene a Pitagora e lo distingue dagli altri così: egli d'antica nazione. Qui, segnalare tra gli altri Pitagora per antichità, è notabile assai. Eusebio, poi, più espressamente nelle Preparazioni evangeliche dice: che Pitagora nacque a Samo O IN TOSCANA o altrove, ma non greco, e ch' egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia ITALICA di TOSCANA (ETRURIA) E CROTONA succedette la ionica e la di VELIA. Anzi anche Flavio rammenta tre filosofi prischi con quest' ordine qui, Ferecide Siro, Pitagora e Talete. Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità di Niebuhr, di Cousin, di Gioberti (nel Buono), di Poli (Appendice al Manuale del Tennemann) e di Centofanti (Pitagora), e che non hanno in contrario argomenti positivi di tradizione, o concordi autorità di storici antichi, mi fanno sicuro che il pitagoresimo, come scuola religiosa e morale, anteceda l'altre scuole; poi venga la di VELIA, e come più affine alla prima, e come precedente a Xenofane stesso per la dottrina dell'unità universale; succeda loro l’ionica, quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua continuazione che s'accompagna (com' accade) con l'altre; e vengano infine, su che non ha dubbio, le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra lezione. vole ne SCUOLE ITALCHE. Causa interiore del Pitagoresimo è la necessità d'una riforma morale: da ciò l'esame di coscienza posto per principio di filosofia e di vita buona. Cause esteriori. Si volle la riforma religiosa e morale da cui la civile, per mezzo della filosofia. - Parti non dubbie nelle memorie degl'istituti pitagorici. Notizie su Pitagora e sugli altri più famosi. Quali documenti abbiamo certi sulla scuola italica. - Il Carme aureo i antico.- Le notizie che ci danno gli Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma nemmeno rigettate con leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica, suo fine e metodo. — Quali cagioni dettero impulso a quel metodo che fu applicazione d'idee matematiche. Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in un ideolismo matematico; giacchè la monade si pensò come una forza. - Il numero rappresentava l'attinenze o l'armo. nia; indi il simbolo musicale. Due furono i significati del numero, it simbolico ed il reale. Verità del metodo matematico; suoi eccessi nel pro cedere dall'astratto al concreto: esempi varj. – Si cercò le leggi mentali della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse a Dio, causa, ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principj delle cose si dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza. -Questo è l'unità. – L'unità bensi presa, non come parte d’un tutto, ma in senso generale. - A Dio non si può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso; Dio è sopruni tà; ma l'errore precedė dalla induzione astrattiva. Si dimostra co ' do cumenti che il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra il vero ed il falso. - L’unità, come per gl'Indiani, parve l'indefinito che si determina. — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. — Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo, come i contrarj in atto, e ridotti all'armonia da Dio. - L'uni tà generale o la monade che si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allora sugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec. L'anima è numero, ed è nel corpo come Dio nel mondo; è l'armonia del corpo. La verità è l'uno e il numero; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso. — Dio, ragione prima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi, perchè Dio è il numero per eccellenza, e il nu mero è l'esemplare del mondo. Quanto alla scienza, si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità razionale. Numero e armonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima intellettiva il ritorno all'essenza pri ma. --- Come si tentó fuggire le contraddizioni del panteismo naturale negando la cognizione diretta dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirle col panteismo ideale. - Cinque concetti principali di Xenofane: Dio è uno; sommo potere; gli manca ogni contingenza e però non è nè finito nė infi nito né in quiete nè in moto; Dio non può nascere, perchè il non ente non può dal nulla divenire qualcosa: Dio è il tulto. — Indi segui che il mondo è apparenza. – l'armenide stabilisce chiaro il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, e condanna il secondo. Muove dall'idea generale d'essere; Dio si fa più indefinito che in Xenofane. – Tutto è idea. Melisso fa Dio più indeterminato ancora, chiamandolo un qualcosa. -- Gli attributi della moralità non più appariscono. – Panteismo materiale de gl'Ionj: nasce in condizioni opportune. - Il moto delle cose vien conside rato nell’ente o nell'assoluto, ch'è la materia eterna divina, dotata di pensiero. – Diversità nel concepire tal moto fra ' dinamici e i meccanici. E la causa prima del moto la posero diversamente in quella cosa che più parve trasmutabile in ogni altra cosa. – Talete ba dello spirituale anco ra; la grossolanità materiale viene crescendo. Anassayora vide l'assur dità del panteismo, e prese il dualismo; ma non détte troppo alla mente. — Idealismo ateo di Protagora; materialismo di Democrito; le due forme di scetticismo particolare. Scetticismo universale di Gorgia ec. Misticismo d'Empedocle; e perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico. — Due schiere d’uomini; gli atei e i l'itagorici di quel tempo: interpreta zione storica, e interpretazione fisica della mitologia. Qual è mai, o signori, la causa interna del Pitagoresimo? La necessità d'una riforma morale; necessità profondamente sentita da uomini ornati, quanto la gentilità comporta, di grandi virtù. Il conosci te stesso e esame di coscienza morale negli istituti pitagorici, e fondamento altresì di speculazione; chè, nella coscienza e'trovarono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guasto crescente della religione, de costumi e della libertà, al quale s'oppone il Pitagoresimo, e inoltre (com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i commerci d'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una riforma religiosa e morale, da cui venisse la civile; e criterio a tutto ciò désse la Scienza. Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli Alessandrini mescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto (Ritter ) e la sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma religiosa si tentò co’riti e dommi segreti; la morale con l'opporsi a tre vizi, voluttà, superbia ed avarizia, ed esercitando anima e corpo nella musica e nella GINNASTICA; la civile, domando la licenza con abiti disciplinati ossia con l'autorità (curos pz) e con la vita comune. Il discepolato morale prepara così alle speculazioni, e, preparato, s'eleva l'alunno a gradi più alti e più liberi. (Centofanti, Pitagora; Puccini.) Circa Pitagora o di Samo nella lonia o di Samo nella Magna Grecia in ITALIA, poco v'ha di sicuro e con mescolanza di simboli; pare tuttavia che un fondamento storico v’ha e ch'egli e uomo di molta dottrina e virtù. Per la dimenticanza in che vennero le colonie di Magna Grecia in ITALIA e tutte le antichità italiche dopo le conquiste di ROMA, e per la guerra feroce contro i Pitagorici, non ne sappiamo quasi nulla; li sappiamo bensì a lor tempo in molta riverenza. Si rammentano con più certezza LISSIDE, CLINIA, ED ARCHITA cittadini DI TARANTO in Magna Grecia, EURITE E FILOLAO o di TARANTO o di CROTONE. ARCHITA, il più celebre di tutti, capitana più volte gli eserciti, e non ha mai la peggio; buon padrefamiglia e cittadino, domatore di sè stesso, famoso per invenzioni e scoperte in musica ed in matematica e per libri d'agricoltura. La scuola pitagorica venne atrocemente perseguitata; molti fra gli scampati, o si rifuggirono in Grecia o si sbandarono in ITALIA. Sembra che l'odio movesse da opinioni politiche, parteggiando essi per GL’OTTIMATI; ma chi badi alla segretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che un capopopolo attizza le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze, s'accorgerà che trattasi qui, come per Anassagora e per Socrate, del politeismo volgare geloso e persecutore. Gli scritti col nome di TIMEO, d'ARCHITA e d'OCELLO LUCANO sono apocrifi, e i frammenti di BRONTINO e d'EURISAMO; ma non quelli di FILOLAO (vedili nel libro di Boecckh su FILOLAO, e Ritter); i quali col carme aureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola ITALICA, ne dánno contezza. Nel sostanziale di essa gli storici vanno d'accordo. Quanto al Carme aureo, e's'attribuì a FILOLAO, a EPICARMO, a LISIDE, a EMPEDOCLE di Girgenti, da Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per LISIDE; e: mostra, comunque, che ne' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno, secondo l'usanza di molti critici odierni, neghi l'autenticità pel dubbio di tre’ sole parole, che a lui non paiono antiche; e antiche le dimostra il Mullachio. (Fragm. Phil. Græc. Didot). Le relazioni che ci danno del pensar pitagorico gli Alessandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione; chè in loro la critica è poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli antichi; tuttavia dire come si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli Alessandrini si descrive, non i meriti fede per le grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi negli Psilli di Timone Fliasio che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici: « E tu, o Platone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti con gran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il TIMEO. (Fragm. Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la filosofia antica, come la filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj dell'essere, del conoscere e dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è ragione e legge, vediamo bene da tutte le loro memorie che occupò quegl'intelletti for temente. Fine della filosofia parve loro ed a tutti gli antichi, la liberazione degli errori e de' mali comuni, ma con tal divario dagl'Indiani, che la speculazione dovesse congiungersi all'operosità civile. Metodo di filosofare fu il matematico; cioè l'applicazione d'idee matematiche alla natura universale, così esterna come interna, e al suo principio. Onde mai tal metodo? quali cagioni gli dettero im pulso? Già negli antichi v'ha inclinazione di filosofare a priori sul mondo (sebbene l'esperienza, anch'esterna, non s ' escludesse dai Pitagorici), perchè mancavano gli stromenti; poi, premeva più lo speculare teologico, re cato altresì nella fisica; e le lunghezze d'una fisica os servatrice non si comportavano in tempo, che i varj studj non erano scompartiti tra più dotti. Inoltre l'arimmetica e la geometria vennero d'Asia, nate tra le scienze più antiche, perchè non bisognose d'osservazione. Altresì di tali scienze s’aveva necessità tra popoli commercianti e tra colonie che dissodano terreni, asciugano paduli, e scavano canali. Più, la discordia tra' politeisti e il mono teismo - antico fece spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni d'uno e di moltiplice, come anche si scorge nel vecchio Testamento. Infine, tempo é spazio ci danno la quantità, e sappiamo che l'induzione falsa indíava, come ne' Vedi, lo spazio e massime il cielo (onde l'uranismo), e il tempo (onde l’Aherene de' Persiani, il Crono de Greci, il Saturno de' Latini), talchè le tradizioni orientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a quel modo di filosofare. I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del tre, del dieci e delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di Dio. Ma si vuol credere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni? ossia, ch'e'sti massero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più? In altre parole, il Pitagoresimo fu egli un idealismo matematico? No, sicuramente; Aristotile lo spiega chiaro dicendo: ch'essi stimarono le cose una imitazione de'numeri (μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet.). Imitazione, dunque; a leggi di numero, cioè, rispondono le cose; e la mente ritrova l'une nell'altre; e in questo è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che mai restava pe' Pitagorici, levato il composto? Restava la monade. E che cos'era la monade? Forse un'astratta unità, o l'atomo indifferente inattivo di Democrito e di Leucippo? No; ma l'essenza ch'è una forza: il concetto di forza o d' attività prevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come rispetto al mondo. Di fatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento universale se non la continua limitazione (o determinazione) dell'inde finito? Ciò resulta da molti riscontri, ma singolarmente dallo specchio de contrarj (di cui parleremo). Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio; causa è l'anima; e causa d'ogni armonia è l'unità. (Frag. di FILOLAO; Siriano, Com. Met. d ' Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant.; Bertini, Idea d'una Fil. della Vita) Quindi, pe' Pitagorici, le leggi del numero e della geo metria rappresentavano l'attinenze; cioè, significavano il rispetto d'una cosa all'altra, e d'uno all'altro con cetto, l'armonie particolari e l'universale; da ciò i lor simboli musicali. Si dica pertanto, o signori, che per la scuola italica eran due i significati del numero; significato simbolico e reale. È significato reale quando noi diciamo: Dio è uno e le creature sono moltiplici; e così dicevano essi che Dio è il numero per eccellenza, cioè l'unità e la totalità d'ogni perfezione. È significato simbolico quando s'astrae i numeri a significare gli oggetti; come dicendo (per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse Dio e le creature; così parlavano più spesso i Pitagorici. Al lora si fa come l'algebrista un linguaggio figurativo. assai comune agli Orientali; e ciò toglie l'apparente stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità? Certo non manca di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue o d'essenza o d'accidenti o di parti, di gradi o di potenza o di atti; e tutto, dunque, è capace di numero e di misura. Per altro, le leggi matematiche non hanno da cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; come Galileo, osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del moto crescente. Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, come dalla legge matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesse procedere a priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concludere la realtà contingente; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può conclu dere ch'e' si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi ideali a cui essa risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nella caduta son sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quello vi combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene la scuola italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematiche applicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita; del metodo sperimentale di Polo ci ragguaglia Aristotile (Met.); le dottrine musicali d'allora fan supporre molti esperimenti; Erodoto scrivche i medici italiani erano i più reputati; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il metodo astratto ebbe il diso pra. Così, rappresentando il principio, il mezzo ed il fine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa; però Filo lao divideva il mondo in tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso, perchè si compone sommando i suoi quattro numeri primi? ebbene, dieci i pianeti. Cin que i corpi regolari nella geometria? dunque altrettanti gli elementi, e ciascun d'essi n ' ha la figura; la terra ha il cubo, il fuoco la piramide, l'aria l'ottaedro, l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e dunque, altresì cinque i sensi. Se i quattro numeri primi, sommati tra loro, fanno il dieci; e se i quattro numeri pari (2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri dispari (1, 3, 5, 7), sommati, fan tutt'insieme trentasei, la tetrattisi o quadernario dovrà riscontrarsi nelle cose; e quattro, per esempio, sono i gradi della vita: minerale, pianta, animale e uomo; e, ne' corpi, il punto è unità, la linea è qualità, la super ficie è triade, il solido è quadernario, si compone, cioè. di quattro punti. Questo metodo, applicato alle cose dell'esperienza, riuscì arbitrario non di rado, e se, inalzato a Dio, ne guastò il concetto per l'astrazione dell' indefinito; pure, accompagnato come fu da tradizioni buone, da molte virtù morali, da preziose osservazioni interne ed anco esterne, ed eccitando la speculazione, fece sorgere tra gli errori belle e profonde verità. Quel metodo era (com’ac cennai): trovare le leggi mentali della quantità geome trica e arimmetica effettuate nella realtà e salire con queste alla prima cagione, alla prima ragione ed alla prima legge. Però dice FILOLAO che l'intendimento mate matico è il criterio di verità. La prima cagione dell'essere, che è ella mai? Sic come i Pitagorici voller trovare i principj delle cose e il principio de principj, così precede il quesito: che son mai tali principj? Risponde Aristotile: « I Pitagorici, educati nelle matematiche, dissero i numeri esser prin cipj delle cose. » (Met.) cioè tutte le cose si ridu cono a leggi supreme di numero, e queste leggi costi tuiscono la loro essenza. Or bene, che cos' è la prima cagione? È il primo principio, per Filolao; è la causa che antecede ogni altra causa, per Archita: « quam Are chytas causam ante causam esse dicebat, Philolaus rero omnium principium esse affirmabat. » (Siriano, alla Met. Storia della Filosofi. - 1. 18  l' Arist. XIII. Dunque se i principj delle cose son numeri, il primo principio è tale altresì; o, come diceva Hierocle nel commento al Carme aureo (Fragm. Phil. Græc.): « Se tutto è numero, Dio è numero. » Che nu mero? Il numero per eccellenza. Che cos' è il numero per eccellenza? Vediamolo. Il moltiplice fa supporre l’unità; e l'unità n'è sem pre il principio; così abbiamo solido, superficie, linea, punto; questo è il principio della linea, della superficie e del solido. Dunque Dio, ch' essendo il primo principio, è il numero per eccellenza, è altresì l'uno per eccellenza. (Aless. Afrod. Comm. alla Met. d ' Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno per eccellenza. L'unità, idealmente, si può considerare e qual parte che compone la pluralità, e quale idea generica che abbracci la pluralità stessa. Diciamo: il venti è compo sto d'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com pongono un tutto. Diciamo ancora: una ventina, un centinaio, un migliaio, un milione; ecco l'unità gene rica che abbraccia ogni numero, considerato come unità. Nel primo caso, l'unità è l'elemento della pluralità; nel secondo, è la forma mentale che fa capaci di compren dere in un concetto le moltiplicità sparpagliate. E in tal senso l'unità si può chiamare il numero per eccel lenza, giacchè abbraccia ogni numero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio l'idea d'unità ne' detti significati? No; Dio non è il compo nente della moltiplicità; nè Dio è un che generico e comune alle moltiplicità particolari. L'unità di Dio è, a dir così, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela zioni personali della Trinità son soprannumero. (S. Aug. in Joann. Evang. ) Si dice uno per negare il moltiplice, nulla più; e chi confonde l'analogia di tali concetti col significato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente la filosofia e la teologia. Si domanda, per tanto: la scuola pitagorica usò que' concetti nel signi ficato vero? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che Dio per lui è imperatore sommo e duce, uno, eterno, permanente, immobile, simile a sè stesso, diverso dal l ' altre cose, potentissimo, supremo, e che solo conosce l'essenza eterna. Anzi, Siriano nel luogo già citato dice, che pe' Pitagorici Dio è una e singolare causa, astratta « la tutte le cose, e superiore alla dualità de' principi, la quale vedremo più qua: « Ante duo principia unam et singulam causam, et ab omni abstractam præponebat. Parrebb'egli, dunque, che l'unità de' Pitagorici sia nel senso buono? Bertini interpreta più benignamente che si può certe opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare; e tuttavia conclude: « Il sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio molto al disopra del mondo; ma il fato della logica li forzava sovente ad immedesimarli in una sola sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuole dir mai fato della logica? Vuol dire la necessità di certe conse guenze, dati certi principj. Or via, quali son dunque i principj che menavano al panteismo, non ostante l'alte verità frammischiate in abbondanza? Era, appunto, il concepire Dio quasi unità generica, o numero per eccel lenza; e questo in grazia della non buona induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari, e l'unità, cioè il numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così la scuola pitagorica chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza di tutte le cose (Arist. Met. I ); l'essenza delle cose chiamata eterna (la FILOLAO; che inoltre affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero senz'armonia, e tale armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio; aggiunse, che tal numero è legame all'eterna durata del mondo; anzi (e questo val più ), esso legame produce sè stesso. (V.framm. i FILOLAO nel Ritter. St. della Fil. ant.) Finalmente. Dio pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un tempong 11pTLOTES PITTOy, Arist. Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi concepivano Dio com'unità generica, in cui s 'uniscono potenzialmente i contrarj del mondo, pari e dispari, femmina e maschio, male e bene, e via discorrendo; contrarj che si distinguono attualmente quando il potenziale viene all'atto, e l'illimitato si limita, e l'essenza universale (conosciuta solo da Dio, cioè da sè stessa) si determina mano a mano ne' fenomeni. Dubitò il dotto Bertini che s'intendesse da' Pitagorici, non dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma d'accennare che Dio la in sè i contrari perchè li supera. E non esito punto a dire che ciò e ' tenevano forse, ma in confuso, e la con fusione generava il panteismo. Di fatto, se quel concetto era limpido, essi non avrebber detto che Dio è pari ed impari; giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni mondane, e però non si contengono in Dio. Si risponderà: noi n'abbiamo un'idea più chiara. Va bene; se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi l'universo infinitamente, le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi, l'infinito lo pigliavano per l'inde finito o potenziale; e quindi, il finito sembrò a loro il perfetto, e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo specchio delle contrarietà in dieci antitesi (dispari e pari, finito e infinito, uno e più, quiete e moto, luce e tenebre, bene e male ec. ), fatto da qualche Pitagorico; e Simplicio notò come le contrarietà si comprendano si risolvano in Dio. (Arist. Met. I, Simpl. Phys.) Inol tre, come il mondo era la decade, cioè la pienezza d'ogni grado d ' entità, e così Dio; che riceveva nome d'ogni numero, unità, diade, triade, quadernario (o solido), set tenario, decade. Dimodochè pe Pitagorici, come per tutta la filosofia pagana (avvertite, o signori ), il quesito della causa pri venne a quest' altro: Come si limiti 1 illimitato; ossia, pensarono gli antichi che la produzione del mondo consistesse nel determinare in atto la potenzialità prec sistente: talchè Filolao pone tre principj, l’illimitato. il confine, e la causa (το απειρων, το πέρας, το αίτιον ). Il che parve in due modi: i Pitagorici, com’i pan teisti ionj e indiani, dissero che quel potenziale sta in Dio; i dualisti, che e' sta fuori di Dio, ed è la mate ria informata da esso. Nella scuola italica, poi, la im plicitezza de' concetti adombrò alte verità; Dio (per ma esempio), legame del tempo e dello spazio, se non si prende com ' identità d'ogni essenza, vuol dire benissimo che l'unità divina con l'unico atto creatore e conser vatore fa l’unione del moltiplice disgregato: però Dio è l'armonia dell'armonie. Che cos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema di tutti i contrarj. Che cos'è l'universo? I con trarj in atto, e ridotti da Dio all'armonia. Come l'unità generica non diviene numero se non si distingua in unità determinate o particolari, così la monade suprema non genera il mondo se non si distingua in monadi o so stanze particolari. Che si richiede, o signori, a formare il numero? L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra. Ma la distinzione, considerata mentalmente, non è forse un concetto negativo e indeterminato, dacchè si gnifichi che l'una cosa non è l ' altra? Or bene; e pen savano essi che a formare l'universo ci voglia le unità o monadi particolari, poi la loro distinzione; ossia, come (lice Aristotile, elementi positivi da un lato, elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere d'elementi si fa tempo e spazio; nel tempoi momenti e la distinzione di un momento dall'altro, cioè gl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione d’un punto dall'altro cioè il vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con l'ispirazione del vuoto; ossia distinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro com'aria ne’polmoni. I due elementi, il positivo ed il negativo, uniti tra loro, fanno la diade o il pari; l'ele mento positivo o l' unità, così sola come aggiunta al numero pari (per esempio il tre), fa il dispari. Ed ecco, o signori, l' unità nell'altro senso ch'io spiegava di sopra, cioè nel senso non generico ma particolare di compo nente il composto. Talchè l'unità nel senso generico è Dio; le unità nel senso particolare fanno il mondo. Ed ecco altresì perchè si diceva da’ Pitagorici che il pari è illimitato, illimitato perchè il vuoto e l'intervallo (o la negazione) è in astratto un che potenziale, può ricevere distinzione da' punti e da’ momenti all' indefinito. Si diceva per contrapposto che il dispari è limitato, giacchè chiude l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive o tra due monadi, riduce in atto la potenza, e si fa la triade, numero perfetto che ha principio, mezzo e fine. Voi capite, o signori, come per la teorica de’toni e degl' intervalli si vedesse analogia tra la musica e l'universo. Il quale, venendo dall'essenzá eterna come necessario svolgimento d'attività, non ha reale comin ciamento, è ab eterno; comincia sì, ma quant' al nostro pensiero (-o iniyocav), ossia il pensiero nol può con cepire altrimenti. Nè s'avvidero essi che se il pensiero nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'op posto è irrazionale. Che cos'è l'uomo nell'universo? Un'anima razionale che sta nel corpo come in u sepolcro, dice FILOLAO. L'anima è numero e armonia (Plut. De plac. phil. IV, 2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del corpo e n'è principio di vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone la sentenza che l ' ani ma è armonia, combatte i materialisti che ponevano l'anima com'un risultamento dell'unione corporale, an zichè com’un principio di essa, a mo' de ' Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo, che l'ani ma è sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico; ma ne’ Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni), che come Dio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na (V. Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e delle emanazioni tutte, il corpo. Derivano da tutto ciò le teoriche sulla ragione som må del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità, così la verità è l'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia; talchè come il numero fa la misura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del l'uno all'altro, così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le specie degli enti e con le loro attinenze. Ma come si conosce da noi? Il simile col simile; però distinse la scuola italica il senso dall' intelletto come in due parti (Cic. Tusc. IV, 5 ); l'intelletto è divino e si conosce per esso (benchè in modo relativo, dice Filolao) la divinità della natura; il senso è terrestre, e si conosce per esso il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima del conoscimento è dunque Dio; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta la ragione pri ma, non solo perchè raggiano da lui gl'intelletti, ma perche Dio è numero, e il numero è l' esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall' intelletto. (V. il Cou sin e lo Stalbaum, ambedue nel commento al TIMEO) Però, avvertite, o signori, la scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbia vero concetto, stette nel ritro vare la necessità razionale di ciò che conosciamo. Essi voller saper non solo ciò che è ed accade, ma perchè ciò dev'essere ed accadere. Tuttavia successe a loro quel che ad ogni panteista; si credè di trarre a priori le cose dal conoscimento dell'essenza universale, come le pro prietà d'un triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessità razionale (eccetto la ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni e le matematiche) sta solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces sità un altro per attinenza; ad esempio, data la per cezione, non può non essere il corpo, o data la volontà negli uomini che son razionali, non può non essere la libertà. L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni da un'idea, anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e non altro; o anco è sola contingenza. (V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità sono numero, negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero ed armonia il bene, disarmonia o ne gazione il male. (Arist. Met. I.) Il bene è misura, il male è dismisura: da ciò quel detto pitagorico: « La misura è ottima, pétpov Žpustov. » E come Dio è l'ar monia universale, il numero per eccellenza, egli è il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va per armonie matematiche e musicali, così la volontà; e indi nasce la virtù, ch'è numero dentro di noi, componente la discordia degli appetiti (Carme aureo, 57-60 ); numero fuor di noi nell'educazione della famiglia e della città.. (Fragm.di LUCIANO OCELLO ) Allora l'anima si va conformando a Dio (ov.02.09749. Tapos to delov ); la disforme da Dio passa in corpi diversi con la metempsicosi od è punita nel Tartaro; la conforme a Dio ritorna nell'essenza ond'ella emanò. » Sarai, dice il Carme aureo, un Dio immorta le, incorrotto, non sottoposto a morte (v. 71: ETEL 0212. τος θεός, άμοροτος, ούκ έτι θνητος). Signori, chi non mirerà, in mezzo a quell'ombre, la luce di sì alte dot trine? Ma, tralignando i tempi, la filosofia traligno. Il sistema pitagorico è, quant'a'principj, un pantei smo naturale; perchè l'unità per eccellenza vi comprende lo spirito e la materia, distinti poi come tutte l'altre contrarietà. Come voleva egli scappare il Pitagoresimo alla contraddizione suprema d'identificare tutte le contrad dizioni? Dicendo che non conosciamo l'essenza in modo diretto: quasichè importi tal conoscenza per escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire la contrad. dizione, escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento, e così creò un panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G. Cri. sto, venne assai tardi a VELIA città di Magna Grecia. L'idealismo suo nasceva prima di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per più cagioni; pri ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismo naturale; poi, perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui ora pendevano i Dorj non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia d'Elea); scetticismo voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di Colofone anch'esso, e in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema pitagorico, benchè com prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali, però Xeno fane, vissuto a lungo in Ionia, venuto poi in Italia, mostra nell'ontologia l'idealismo italico, ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj. Egli scrisse in versi, e ne resta frammenti, da cui, com'anche da Platone e da Aristotile, si rileva le sue opinioni. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Uscì di patria per le invasioni Lidie, viaggiò in Sicilia, si fermò in VELIA; e visse più che centenne. (Censorino.) Xenofane ha di Dio un'idea sublime. Egli è uno, non simile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re. Ma si deve, o signori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del sistema. Dio è uno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si converte con l'ente; però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio, Xenofane la provò benissimo per un secondo concetto ancora, ch'è la potenza. Voi sapete già, o signori, che per la scuola italica l'unità o la monade o l'entità (vocaboli equivalenti) è forza, è un'energia. Ciò pure affermò Xenofane; e però Dio, ch'è l'ente, è sommo po tere (20 % TELY ): quindi se più dèi uguali, nessuno è po tentissimo per l'eguaglianza, se più dèi inferiori, nes suno è potentissimo per l'inferiorità. Talchè Xenofane, riprensore d’Esiodo e d'Omero, scherniva com’empie le superstizioni volgari, e, diceva, se i cavalli sapessero di segnare, fingerebbero gli dèi a loro sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto; che a Dio manca ogni contin genza, finità e infinità, moto e riposo. L'infinità? In che senso la nega egli Xenofane, e contro chi? Nel senso d'illimitato o indefinito che si determina con atti successivi; contro i Pitagorici pe' quali Dio è infinito e finito ad un tempo, si distingue nell'universo e vi si muta perennemente, benchè immutato nell'essenza: for s'anche, dove Xenofane accenna il moto e il riposo, con futa le opinioni degl' Ionj già cominciate e già oppo ste all'ITALICHE più antiche, ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè le contrarietà fra cui Aristotile notò (come vedemmo) il moto e la quiete, ugualmente che il finito e l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito (indefi nito ) ch'è moto. Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altra verità, in Dio non essere contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore? No; e si scorge dal l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falso nell'applicazione: Dio non può nascere. Va bene; ma per chè? udiamolo, signori; il perchè ce lo dà il trattatello De Xenophane, MELISSO e GORGIA, attribuito ad Aristo tile, non di lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adunque: Dio non può nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non ente non può dal nulla divenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non può non essere; ma il non ente nel significato di Platone e pitagorico è il contingente; che può non essere appunto, giacchè non è per essenza sua propria, bensì dall'ente. Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non ente in significato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla; ma ciò che diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che ne conchiudeva Xenofane? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà pure causalità nessuna; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda, inaccessibile. (ch'è dun que il resto? o quel che ci pare in continua mutazione? Fenomeno, apparenza, illusione, e nulla più; talchè la fisica che si fa con l'apparenze è illusoria, non è scien za. Però egli disse in un verso: « Queste cose (del mondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla opinione. (Plut. Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì Timone Fliasio ne' Psilli. (Fragm. Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava un quinto concetto: che Dio o l'ente è tutto, o intero. (Fragm. di Xenoph.) Che vuol egli dire? Cerchiamolo. Che idea vi dà, o signori, l'infinità? Certo, pienezza d'es sere, cioè che ivi non ha mancamento. Ma tal pienezza significa forse il tutto? No, chè tutto è idea relativa: tutto, implica parti; e quindi ogni tutto può essere più o meno, come numero ch'egli è; nè numero assoluto si dà; mentre assoluto è l'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva concepisce il mondo com'un tutto e confonde l'infinità (come pienezza d'essere) con l'universo. Così accadde agli Eleati; e però Aristotile scriveva di Xeno fane: « Contemplando egli il tutto del mondo, disse che l'unità è Dio. » Indi l'aforismo eleatico, uno è l'ente e il tutto (ey to y uzi có Tiv). Che si concludeva mai da questo? Poichè al tutto non manca nulla, e l'ente è il tutto, nulla può cominciare, perchè sarebbe aggiun gimento: quasichè, o signori, ciò che viene dall'efficienza creatrice aggiungasi all'infinità. E però vedete, che dove gli Eleati pareva negassero l ' indefinito pitago rico, van poi al medesimo vizio; perchè si piglia Dio com'un tutto generico, che viene simboleggiato con lo sfero. Resta da sapere che foss'egli per Xenofane l'ente o Dio. È ragione assoluta, intelletto essenziale. (Fragm. di Xenoph.) Che v'ha dunque più di pitagorico negli Eleati? Si lasciò la parte corporea ed ogni moto e restò la spirituale, divina ed immutabile; quindi è un pan teismo ideale. Il qual sistema si continuò in PARMENIDE, e ZENONE. Di PARMENIDE di VELIA dice Plutarco (Adv. Colot.) che détte alla patria leggi avute in grande amore. Zenone di VELIA, scolare di Parmenide, amo di cuore la patria, e poichè un tiranno lo condannò a morire, sostenne da uomo il supplizio: Melisso di Samo fiori verso l'84a Olimpiade, seguì PARMENIDE DI VELIA, fu uomo di Stato, e capitano gl'ITALIOTI contro Pericle. Questi gli Eleati (VELINI) più famosi. L'opinioni di PARMENIDE vi son date assai chiare ne' frammenti del suo poema. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) E che si trova in quelli fin da principio? I due aspetti, già separati da Xenofane: l'ente, che unico è; e il non ente o l'apparenza, che non è: non è, o signori, in modo assoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scrive PARMENIDE, di filosofare: 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70 ury; vedi anche il Parm. di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma l'ente e si nega il non ente o l'apparenza; o, al contrario, porre che l'ente non è c che sia di necessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive così la via degli Eleati o VELINI da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si fermavano a considerare il moto delle cose. Ebbene, che concetti ha egli Parmenide allorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è? Gli stessi di Xenofane: l'ente è conosci bile con la sola ragione, ingenito, non mobile, tutto (cudow ) unigeno, eterno; non fu nè sarà, perchè ora è tutto insieme; non può esser nato, perch'è assurdo che l'ente non sia; non divisibile, somigliante a sè stesso intera mente, riempie ogni cosa; la dura necessità (dir.n ) lo stringe in vincoli (ossia egli è necessario; necessità di Dio trasferita da' panteisti al mondo ed alla volontà uma na ); egli non è infinito (atedrventov ), non bisogna di nulla, ed è lo stesso il pensare e ciò che si pensa. (Framm. e segnatamente v. 66-94.) In che PARMENIDE differì da Xenofane? Quegli ha forma più scientifica di speculare, perchè comincia dall'idea universale dell'essere, e la contrappone al non essere. (Ritter, Bertini.) Ma crede reste voi che Parmenide s'avvantaggi su Xenofane, come nella severità dialettica, così nella perfezione dell'idea ili Dio? Anzi, dove il maestro partì dall'idea di Dio, ragione pura, santità essenziale e provvidenza, lo sco lare poi con un vizio più rilevato d'induzione si fermò al concetto dell'essere generale, nè v'apparisce punto la personalità divina: sicchè Parmenide non avversa come Xenofane la mitologia, anzi l'accetta qual credenza po polare. In man di lui, perciò, il sistema eleatico si rese più ideale. E questa idealità condusse PARMENIDE (sembra un paradosso ), come anco Xenofane alla confusione lel senso e dell'intelletto. Quanto a Xenofane apparisce da un verso di lui in Sesto Empirico; e quanto a PARMENIDE, lo notò espresso Aristotile (ppovaly usy tér vistn512). Mentrechè il sensista dice: la sensazione è idea e tutto: l'idealista dice: l'idea è sensazione e tutto. Ma sorge contraddizione nuova: se intelligenza e senso son tut t'uno, come potrà egli il senso darci l'illusione? Ep pure, ZENONE DI VELIA non pare ch'altro volesse co’suoi strani sofismi fuorchè mostrare: com’abbandonandoci all'apparenze del moto e del moltiplice, cadiamo sem pre in contraddizioni. E la parte negativa di tal sistema s'accrebbe in Melisso che (notate, o signori) muove dal l'ente indeterminato come PARMENIDE, ma lo significa in modo più indeterminato ancora, chiamandolo un qual cosa. (V. Fragm. Phil. Græc. Didot; De Xenophau Melisso et Gorgia; Arist. de Soph. Elenchis, e Plat. Thecet.) Se non che, Melisso torna co’ Pitagorici a dire che Dio è infinito, negando a loro ch'e'sia finito, per chè l'ente non ha principio nè fine. (Fragm. 2. ) E ciò va bene; ma pare che qui terminasse l'infinità nel concetto di Melisso; egli non lo concepì come infinitu dine assoluta d'entità, e pero dotato d'efficienza crea trice e pensiero puro; anzi l' indeterminatezza di quel l'astrazione fece sì ch'egli non parla dell'intelletto e della bontà di Dio, e l'idea ne vacilla dinnanzi com'om bra informe e vana. (Ritter, Bertini.) Così da Xenofane in poi vi fu scadimento, come da ' Pitagorici di CROTONE agli Eleati o VELINI Questi bensì fecero progredire la dialettica tendendo a conciliare i contrari, e Aristotile fa inventore di quella ZENONE DI VELIA, che si sa da Diogene Laerzio aver composto dialoghi. Se la scuola pitagorica seguitò, ma con forme più filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità, gli Eleati ne presero la parte ideale; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'è perciò la setta men filosofica. In che ci viltà? Tra'costumi voluttuosi della Ionia, e in quelle città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e de Persiani. E se voi mi domandate, o signori: Que' sistemi da che gente vennero professati? Rispondo, che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro nati a Mileto nel l'Asia minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sa nulla; o sappiamo d' Eraclito ch'era superbo, duro e solitario. Di Talete stesso, bench’ Erodoto ricordi un consiglio di lui agl' Ionj, Platone (Teetete) dice ch' ei s'astenne da' pubblici negozj. Qual diversità dalla storia de Pitagorici ! non ci meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. (Fragm. Philos. Græc. Didot, 1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'asso luto. E che cos'è l'assoluto? La materia del mondo. unica entità, eterna, divina, dotata di pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchè Anassagora, ebber ciò di comune; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286 PARTE PRIMA. liani materiali che succedettero agl' ideali. Ma gl' Ionj diversificarono tra loro nel concepire il moto dell'uni verso; chi, come Talete e Anassimene, Diogene d'Apollonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico; chi, come Anassimandro e Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il divario: cercaron tutti la prima cagione delle cose, ma pe' dinamici la produzione si fa con isvolgi mento di forze vive, come gli animali e le piante; pe’miec canici la produzione non ha se non forme apparenti. mutandosi solo le particelle inerti come ne’minerali. La dottrina vera comprende le due opinioni; perchè la cau salità modale trae sempre in atto le potenze, l'atto si produce (dinamica ); benchè quest'atto poi non ci dia sempre una specie o un individuo, come nella generazione degli animali, bensì talora un aggregamento come ne'mi nerali. A ogni modo, tal dottrina non s'applica punto alla causalità creatrice; e gl’lonj, negando che dal nulla si faccia nulla, negando qualunque causalità che non operi sopr'un soggetto preesistente, non s'avvidero, che tal cau salità non può dirsi assoluta, ma condizionata. Questo in genere; venendo poi a specificare la causa prima, gl’lonj la posero chi nell'una e chi nell'altra cosa che più parve trasmutabile in ogni altra o quasi un germe, secondo i dinamici, o quasi elemento univer sale, secondo i meccanici: Talete nell'acqua, Anassi mandro in una natura media (udtaču puçev ), e però lo chiama principio (apua), Anassimene nell'aria, Eraclito nel fuoco, Diogene altresì nell'aria. Ma, badate, o si gnori, nè quell'acqua, nè quell' aria, nè quel fuoco, son proprio ciò che ne vediamo; è un che più intimo e uni versale, simboleggiato in cose visibili secondochè queste parevano più acconce a figurare l'universalità, come l'acqua che tutto abbraccia, l' aria per cui si vive, il fuoco che tutto vivifica e distrugge. E con questo pensare la causa prima, s'andò di male in peggio. Talete serba confuso al materiale un < he di spirituale; però dice che tutto è pieno degli dèi e che in ogni cosa è la mente, e, secondo CICERONE (Quest. Tusc.), professa l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma confuso ed implicato: vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica più antica, già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica ed agl' Italioti; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sulla natura di Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il prin cipio, in cui tutto ritorna è infinito, perchè l'origine o il cominciare non termina mai (tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov. Fragm. Phil. Græc.; Didot); però gli dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da' pesci. Anassimene seguitò quella via; nè altrimenti Eraclito, benchè questi, che cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX, e Clem. Alex. Strom. I ), désse alla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non si discostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sulla ragione prima. Qual è la ragione del conoscere? questa, che il principio conoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le cose conosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di morale gl'Ionj ne parlassero poco; e ciò sta col materialismo loro; Eraclito bensì pone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi della patria; Achelao nega ogni legge necessaria; e il giusto e l'ingiusto fa nascere dalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non détte, benchè materiale e salvo poche verità, una fisica buona. All'assurdità del panteismo volle rimediare Anassagora da Clazomene, nato verso il 500 avanti l'èra nostra, però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò creatrice; sicchè s'apprese al dualismo; anzi, (lacchè spiega poi la formazione del mondo come gli al tri Ionj meccanici, non si sa bene che ufficio e' désse alla mente divina in ordinare, il mondo. (Plat. Fodone.) Il suo libro cominciava: Tutte le cose erano insieme; l'intelligenza le divise e le dispose. (Diog. Laert.) E così distinse Dio, o la mente (vojv), dalla natura; e questa pose in particelle simili, omeomerie, che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta o che rice von poi di mano in mano (2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia in parte lo seguì, ma peggiorando; chè fece l'aria dotata di mente, e quindi ordinatrice. Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva sta bili ordinatrice la mente; ma questa non va esente di materialità (Fragm. Phil. Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori, alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo? La negazione degli scettici, particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte l'opinioni de' Pitagorici e di VELIA, ben chè non anco terminate (come va sempre), e già comin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un tempo le sette degl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da Protagora (di cui nel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone ); colui, non si sa quando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra. Il principio d’un suo libro cominciava: Degli dèi non so nulla; e Timone Fliasio scrive, che Protagora quantun que dicesse ignorarli, osservò la legge ossia le cerimo nie legali (Fragm. Phil. Græc.): nella osservanza della legge i sotisti posero moralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj: tutto si muta; e con gli Eleati: tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra; perchè se nulla r’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza. Vedete, o signori, come l'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due proposizioni già dette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò: se tutto muta, nulla è in sè stesso; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è vera; vere l'apparenze contrarie, veri i contradittorj, vero insomma tutto ciò che si pensa, e l'anima è la somma dei diversi pensieri (Condillac, Kant), e il fine del discorso sta nel produrre l'appa renza: qui è il sostanziale dell'arte sofistica. Che vi pare, o signori, non lo dicono anch ' oggi: tutto è vero quel che si pensa? Quasi contemporaneo, ma un po'dopo è Democrito d'Abdera, nato per Apollonio il 460, e per Trasillo il 470; talchè, se fiorito con Protagora il 444. ciò sarebbe avanti a' 16 od a'26 anni; impossibile il primo caso, non verosimile il secondo, perchè Democrito dettò le cose sue dopo lunghi viaggi. Sa degl'Ionj, perchè materialista, tiene bensì degli Eleati, perchè muove dal concetto dell'ente; e dice: unico ente il vuoto e lo spazio con gli atomi nel seno; dalle loro congiunzioni e dalle figure matematiche conseguenti nascono le qualità; e poiche il simile si conosce col simile (τα όμοια ομοιών είναι apestira ), v'ha conoscimento nell'anima, essendo ella un atomo a cui vengono le figurette o immaginette dei corpi; rozza fantasia che male s'attribui ad Aristotile. E Dio che cosa è per Democrito? Compiacendo alle plebi, egli finse dèi come immagini enormi, ma sotto posti a morte; vero ateismo. (Fragm. Phil. Græc. Di dot.) Vuol notarsi che Leucippo fiori con Eraclito il 500; ma poichè il materialismo giungeva non opportuno. mancò allora il successo, in tal maniera che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se Protagora s'accostò allo scetticismo universale, non mi pare che vi giungesse: affermò che tutto si muta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro ch'e' ne gasse l'entità delle cose in questa loro perpetua muta bilità ed apparenza; chi giunse a tal punto, risoluta mente, espressamente, e GORGIA DI LEONZIO (V. Dial. di Platone col nome di lui, e altri dialoghi); perchè scrisse un libro sul non ente, cioè sulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è non può conoscersi o se si conosce non può significarsi. Con Protagora e GORGIA v ' ha una schiera che la Grecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo e simiglianti. Chi erano costo ro? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In che ci viltà vennero? In età di corruzione. Che frutto recarono? Dicon gli antichi: pessimo nell'arte, nella scienza e nel l'educazione della gioventù; benchè, come si vedrà, fossero occasione di qualche miglioramento. Ma ecco fiorire verso que' tempi (V. Tavole del Storia della Filosofia. - I. 19 Krug) un uomo che vuol riparare a tanta dubbietà. Chi? Empedocle di GIRGENTI. Con che? col misticismo a cui s'ac compagna (come accade sulla fine dei sistemi) un fare d'ecclettico. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del suo poema (népe ouro ) e da' detti d' Aristotile e d'altri si raccoglie che il sistema d'Empedocle non è già fisico solamente; Dio per lui è mente santa incor porea: e nè un pretto dualismo, perchè il mondo è tutto, e c'è divinità mondane o fisiche: e nè un pretto pan teismo, perchè si distingue la mente divina e gli atomi: che cos'è dunque? Parmi ch'e' non avesse un concetto nitido, com'accade agli ecclettici; e così di lui pensa rono gli antichi: alcuno lo fa di Parmenide, altri pita gorico, Platone lo mette con Eraclito, e Aristotile con Leucippo, con Democrito e con Anassagora. Ma prevale il misticismo; perchè ne' frammenti del poema, Empe docle si dà com’uomo miracoloso, e si crede un Dio immortale; e veste da sacerdote. In lui sentite lo scet ticismo e l'estasi; egli pone la mente, umana in parte ed in parte divina; quella c' illude, questa (come dice il Ritter) dà un santo delirio e sorge alla contemplazione mistica di Dio nella natura. Tal è l'Yoga indiano, tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero in grande stima Empedocle; ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian poco. Tuttavia egli seppe dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei sofisti; onorato dai suoi cittadini ed in tutta Sicilia. Così terminò quest'epoca, ed ebbe strascico lungo in due schiere d'uomini; atei la cui morale era il piacere, Evemero, Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e Diagora; Pitagorici o dati anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici la maggior parte. Questi atei com ' Evemero interpretarono storicamente la mitologia: gli dèi furono uomini indiati, non altro. La scuola fisica poi degl'Ionj, più tralignati, la interpretò fisicamente: gli dèi son le forze uniche della natura  EPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE. Moltitudine di scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fin al quarto secolo dell'era stessa, sullo spartimento delle quali non sono chiari gli storici. Criterio per la distinzione del. l'epoche, e quindi per l'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio, le dette scuole si spartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue; 1º negli eruditi; 2 ' negli scettici; 3 ne ' sistemi grecoasiatici: tutti formano la fine dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi anteriori. La seconda classe, o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė, cioè l'epoca quarta. È un'epoca nuova, per la tentata riforma, e per l'efficacia grande cosi di Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del sorgere tardi la letteratura e la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i Romani non furono più con tutta la mente in fatti gravi e giornalieri. Allora può la riflessione volgersi alla coscienza e contemplarvi l'uomo, – Il pensiero de ' Romani si distese all'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e politica degl' Italiani merce i Romani. Affetti domestici nel buon tempo di Roma. Come si vedano in Virgilio le qualità prin cipali della civiltà italica. I germi antichi di questa erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia. Durò poco in Roma la filosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia greca, declinando, avea lasciato salve ben poche verità, e perché Roma cadde in servitù. Cicerone e i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia grecolatina. Cice rone si proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le parti vere e certe ile' sistemi greci, di comporle in ordine chiaro, d'applicurle praticamente, e che se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fu copiatore de ' Greci, ma pensò di suo. Non pare da distinguere i suoi libri (com ' alcuno pensa) in popolari e dottrinali. Libri logici, fisici e morali. Cicerone ripete il conosci te stesso come fondamento della filo sofia: la coscienza con tutte le due relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altri criterj secondari, tenendo sempre in mente l'universi lità e dov'ella si manifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a ’ Platonici, a' Peripatetici, agli Stoici, agli Accademici: rigettato assolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da ecclettico, ma per un ordine di principj; vide cioè che la filosofia è da studiarsi entro di noi; e da tale studio inferi tre verità, che gli furono regolatrici: 1º che l'uomo sta sopr' all ' altre cose; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo; 3º che questa ragione con le sue leggi ci fa palese Dio. Talche delini la filosofia: scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste (off.): l'altra definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che. Va seguito i principj spontanei, naturali, universali della ragione: ecco l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi, ei potè co gliere poche verità; queste affermò, nel resto sospende il giudizio. Esem pio, il finale de natura Deorum. Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sulla legge e sulla libertà; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divina e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre; ossia, egli è certo su'prin cipj e sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle per cezioni esteriori. Dualismo. — Anche per la teorica del conoscimento. Teorica dell'operare bellissima; legge naturale, eterna; Dio n'è la fonte; re. -. chi non ammette Dio, non può ammettere la legge. — Il dovere. Gradi degli officj. Quel ch'è giusto in sè stesso. Utile apparente, e utile vero; questo è conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi positive nascono dalla naturale; Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni eifetti della filosofia di Cicerone. Non anche terminata l' epoca terza cominciò la quarta, de' sistemi greco-latini – LATINO – ROMANO. Dalla seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fino al quarto secolo dell' era stessa, troviamo una moltitudine di scuole, lo spartimento delle quali dà qualche impaccio agli storici. Taluno le piglia tutte insieme (e vi comprende gli Alessandrini) come una sequela de sistemi greci anteriori; e così non pone ad esse un'epoca distinta. E per fermo se tutte le dette scuole non fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi, mancherebbe la ragione del porle da sè, o del farne più classi. La ragione d'un'epoca, quando si parla di scienze, è solamente una grande verità scoperta, da cui dipende l'ordine universale d'una scienza qualunque, o il risorgimento di essa dopo un tempo di scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire. Insomma, v'ha un principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo e potente: la continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più. Applicando tal criterio all' età sovraccennata, par chiaro che i sistemi vi si distinguano in due parti; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nella greca e come termine di essa; la seconda costituisce un'epoca da se per qualità sue proprie, o un'epoca quarta, benchè i siste mi dell'epoca terza la precedano, l'accompagnino ed an che le sopravvivano: tanto è vero che la sola divisione per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epoca greca, si suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da un lato v'ha le scuole di pretta erudizione; le quali non iscopersero nulla, nè rinnovarono nulla; gli Stoici eruditi; i Platonici eruditi, com’Areio Didimo, Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro; i Peripatetici eruditi o commentatori d'Aristotile, come Alessandro d'Afrodisio; i Medici, eruditi anch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha lo scetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevano a sistema il dubbio di Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro la causalità, e negandola per la singolare ragione che il modo intimo del causare nol conosciamo; quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa spiegarlo. Da un terzo lato ancora, mescolati i Greci con gli Asiatici per le conquiste d'Alessandro e poi per la vastità dell'impero di ROMA vediamo un congiungimento tra la sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse la setta degl’Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche il panteismo asiatico, già cominciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio Tianeo e in Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi, benchè distinti dalla scuola d'Alessandria (e fa male chi li confonde), in sostanza cominciaron l'avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento. Gl’Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova? No, perchè i metodi sono affatto dell'età socratica, e i principj gli stessi. Lo scetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo. L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma scientificamente non è. Proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio, non già da'me todi scienziali; piacque la misticità orientale, richiesta già dagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gl’alessandrini facciano un'età da sè; ma più attenta consi derazione m'hacondotto ad altro parere. La seconda parte sì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o LATINA O ROMANA. Introdotte le scuole di Grecia in ROMA comincia ivi un ordine proprio di concetti per efficacia delle tradizioni ITALICHE e per la civiltà di ROMA. Talchè, ripeto, avvi un'epoca quarta, o de sistemi LATINI ROMANI; nuova per le riforme tentate da CICERONE e per la novità dei iureconsulti, che hanno efficacia sì viva e universale nella civiltà europea; e anco perchè CICERONE serve più che i greci alla filosofia cristiana de' padri latini e dei dottori, i quali per via di lui, piucchè in modo immediato, sanno l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio generale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla; degli scettici dissi già nel passato. De'sistemi grecorientali poi si dee trattare nella prim'epoca del l'èra cristiana, perch' essi combatterono la sapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de' sistemi LATINI ROMANI, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia che in ROMA a nascesse tardi la filosofia. Nasce quando la riflessione si volge alla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per elevarsi all'ideale universalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto. Ma quando un popolo, come IL ROMANO, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri che lo attirano o a guerre esteriori od a contese interne; allora ti daranno bensì canti popolari di guerra e d'illustri memorie (come gli accenna LIVIO. Ma non si possono dare filosofia. In que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura dell'uomo qualità generali delle operazioni, come fa il filosofo. Indi la rozzezza de’ROMANI, talchè narra LIVIO, che lo storico più antico e FABIO PITTORE a' tempi d'Annibale. Ma quando ROMA ha esteso la dominazione a tutta Italia e oltre, allora IL ROMANO non vide più solo innanzi a sè le contese de' vicini, e le contese del foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grande nazione e il genere umano. Così l'idea di ROMA si appresenta in relazione con tutta l'Italia e l’Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' ROMANI si dilata. Si allarga fuori del cerchio de' fatti particolari. Il quirita si sente più chiaramente e figlio di ROMA, e italiano, e uomo, tanto più che a poco a poco LA CITTADINANZA ROMANA si estese a tutta Italia. A’tempi di Storia della Filosofia. – 1. e alle 24 2 as 2 CICERONE non rimane quasi più possedimento in ITALIA non assegnato a'cittadini per via di colonie; il qual fatto, unito all'altro che già notai de’ primitivi abitatori ricaccianti le colonie greche, spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè i pochi Greci di PUGLIA non sono gl’antichi), non già ellenici come in Grecia moderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie di ROMA, aiutate dall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formano così l'unità naturale, o la consanguinità della nostra nazione; nazionalità naturale determinata da'naturali confini del nostro paese, e che si manifesta nell'unità formale de dialetti, o già contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque la politica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre; ma lasciando a’municipj un'im magine di ROMA, consoli, senato e popolo com'a FIRENZE (Malespini e Villani), e concedendo a que municipj amministrazione lor propria; indi vennero i nostri comuni del medio evo. Roma e l'ITALIA, considerate in relazione col mondo, formarono nelle menti romane com'un archetipo di perfezione. Il vecchio PLINIO (giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia. Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa; una cunctarum gentium in toto orbe patria. E VIRGILIO, lodando magnificamente l'ITALIA nel secondo delle Georgiche, non si ristringe a Roma, e dice. Hæc genus acre virumi, Marsos pubemque Sabellam Adsuetumque malo Ligurem, Volcosque verutos Extulite.” E Virgilio finisce con quell'alte parole. “Salve, magna parens, Saturnia tellus Magna virum.” Giunto un popolo a questa larghezza di sentimento e di riflessione, possiede l'idealità necessaria per la filosofia. Non lo stringono più le necessità de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze, considera la natura dell'uomo e delle cose. Questo svolgimento di coscienza per la riflessione venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'ITALIA. Qui, più ch'altrove nell'antichità, e sacro il connubio; e gli affetti di famiglia v’ebbero consistenza per molti secoli. La stessa mitologia nostra, come dice Polibio, rigetta le nefandezze de' simboli elleni. Or bene, gli affetti di famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealità suprema della legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se VIRGILIO, benchè imiti Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti che governano il poema; ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è una disposizione di provvidenza rispetto a’ Romani; poi, nel concetto di patria ch' è Roma; in quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto, come la Grecia ), cioè di tutte le genti italiane, non solo consanguinee (schiatta italica), ma dimoranti pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da ROMA (nazionalità politica): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dal principio alla fine; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degli affetti, con la quale il poeta mantovano prepara la poesia cristiana. Sicché, quand' io leggo in alcuni libri ch'a Virgilio manca un'idealità propria, prego da Dio la fine di certe passioni che impediscono la equità de' giudizj. Però, mentre allargavasi il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà; le quali, per altro, s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca gente romana che ch'ella fosse e in qualunque modo si ragunasse da prima, certo è, che s'ella fu rozza per le necessità di continue guerre, sorse tuttavia tra popoli molto civili; ebbe accanto la Magna Grecia e l'ETRURIA, e le tante città de’ SABINI e del LAZIO. Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civili anco tra popoli rozzi? NUMA vien detto alunno di Pitagora; ' e l'anteriorità di quello è spiegata dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai, Dice CICERONE. “Romuli autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis fuisse cernimus.” (De rep.): e Agostino scrive nella “Città di Dio” che Romolo e venuto non “redibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis.” Plinio cita le belle pitture d'Ardea più antiche di Roma. I Romani predarono dalla sola Volsinia 2,000 statue. Bolsena in Fenicio significa città degli Artisti (Cantù, St. Univ.) Se a ciò aggiungo la tradizione, che le leggi de cemvirali si prendessero di Grecia (tradizione falsa per le leggi che s'attengono a' costumi di Roma, vera probabilmente quant'al modo d'ordinarle ), e se aggiungo altresì la perfezione che graduatamente il gius positivo ha dal gius onorario, mi capacito che nel seno di ROMA cresce un germe di civiltà e però di filosofia, da venire a compimento, quando se ne offerisse la occasione. E questa occasione, testimonio la storia, è sempre qualcosa d' esterno. L'occasione a Romani venne da Greci conquistati. Ed ha il proprio segnale nell'ambasceria di Critolao, Carneade e Diogene babilonese. CATONE si sforza di cacciare le sette greche. Invano, il terreno era preparato. E la pianta fiorisce. Ben è vero che la speculazione puramente filosofica non dura a lungo, ma prosegue a fecondare il diritto. E la qual brevità ha due cagioni principali. I sistemi greci, che aveano menato tant' oltre la FORMA LOGICALE della filosofia, quant'alla MATERIA poi l'aveano lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo; talchè si richiede uno sforzo più che umano a rilevarla: poche verità si conservavano intatte da ordirvi la scienza. Quindi, o rimane solo a far opera d'eruditi e d'accozzatori, come gli ecclettici d'allora; o bisognara trar fuori quel poco di certo, che non da soggetto a copiose speculazioni. In secondo luogo, allorchè ROMA venn'a maturità di pensiero, cadde in servitù che isterili la letteratura e la scienza. Quindi, i sistemi latini ROMANI si riducono il più alla filosofia di CICERONE, e alle scuole de' Giureconsulti. I filosofi anteriori a CICERONE seguirono i Greci pressochè interamente. LUCREZIO ripette quasi le dottrine del Giardino; ma nondimeno LUCREZIO mostra la coscienza di romano, allorchè, facendo materiale l'anima, pur conta fra gl’elementi costitutivi di essa un elemento innominato, quasi animo dell'anima. “Nobilis illa vis, initum motus ab se que dividit ollis, Sensifer unde oritur primum per viscera motus.” (De Nat.). E, quando stabilì negl’elementi un moto spontaneo per ispiegare la libertà E quando celebra la divinità della natura con versi stupendi e la santità del matrimonio. SENECA non si parte dal PORTICO, benchè fa professione di non ispregiare nessuna scuola. ANTONINO, com’Epitetto, ha lasciato aurei precetti, ma senza ordinamento di scienza. CICERONE, al contrario, istitue speculazioni proprie, che certo hanno forza nell'universalità de' Romani culti e nella giurisprudenza. Io dunque parlo di CICERONE e de' Giureconsulti. Fin d'ora io dico che CICERONE si propone di sceverare (con un principio superiore) le parti vere e certe de sistemi greci dalle false od incerte, di comporle in ordine chiaro, d'applicarle alla vita privata, e ch'elle confere all'eloquenza. Questa filosofia di CICERONE suol chiamarsi ecclettica; e chi la intenda per metodo compositivo e logicamente ordinato, passi. Ma dice male chi la pigliasse per una scelta a caso, senz’un principio interiore e ordinatore. Nessuno puo negare che ciò distingua le speculazioni di Tullio dall' ecclettismo de' Greci mentovati poco fa, i quali ragunavano nella memoria, ma non componevano nel pensiero; e lè distingue pure da’migliori sistemi dell'epoca antecedente, perchè CICERONE li giudica con libertà e li trasceglie. Nè si può mettere in dubbio l'efficacia di CICERONE – non MARC’ANTONIO, chi lo assassina -- su'secoli avvenire. I Padri e i Dottori lo studiarono molto; e Agostino, da uomo grande che riconosce il vero ed il bene onde che venga, scrive nelle Confessioni. Hic liber -- cioè la lettura dell'Or tension -mutuvit affectum meum, et ad te ipsum, Domine, mutavit preces meas, et vota ac desideria mea fecit alia.” Pare che CICERONE trade la schiatta da quel Tullo Azio, che regna gloriosamente su’ Volsci (Plut. in Cic.). E quegli se lo tene per certo, sicchè dice ne' libri Tuscolani, che Ferecide era antico -- fuit cnim meo regnante gentili: indi la smania di comparire tra gli otti mati. Lasciate le scuole, udì Filone accademico; ma insieme pratica Mucio, personaggio assai versato nella politica, e principale tra’senatori, imparando da lui scienza di leggi; e milita con SILLA tra’ Marsi (Plut.). Sente anche Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene segue Antioco accademico, e non trascura Zenone all’Orto. Anda poi in Asia, e si ferma a Rodi, per esser ammaestrato dallo stoico Posidonio. Favella con tal passione e con voce si concitata, che gli reca danno alla salute. In Sicilia e pretore giusto, umano, amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, CATONE stesso chiama Cicerone padre della patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma per le mene di CLODIO, vi rientra poi come in trionfo. Gli furon trionfo tutte le vie d'Italia, per le quali CICERONE passa. Stette fedele alla re pubblica contro la signoria di GIULIO CESARE e la tirannia di MARC’ANTONIO. MARC’ANTONIO lo manda a trucidare, e Cicerone porse il collo alla spada (Plut.) Ama la famiglia con tenerezza. Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. Come CICERONE intende la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera a Quinto fratello. Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità, e che formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animo schietto e buono. Scrive a PETO. “Sii persuaso, che giorno e notte non altro cerco, non altro penso, se non che i miei cittadini sien salvi e liberi. Non lascio opportunità d'ammonire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso qui, che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita, stimo di aver finito preclaramente. (Ad fam.) Non pecca d'orgoglio, ma di vanità; si lodava spesso, e questo aizza gl'invidiosi, e a lui diminusce rispetto. Faceto, morde non di rado altrui, e, senza volere, s'accatta nemici; ma in lodare i meriti veri abbonda con allegrezza e con liberalità d'uomo sincero e benevolo. Parve talora incerto ne' propositi, e troppo addolorato nelle sventure. Prende due mogli, ripudiando la prima. Volle dedicare un tempio alla figliuola morta. Loda e invidia gli uccisori di GIULIO CESARE. Loda prima GIULIO CESARE troppo, ma non l'opere mai. Dice Capponi (Archivio Storico ): Ma chi fosse più di me severo a Tullio, pensi com'egli animosamente comincia la sua vita d'oratore e la compiesse gloriosamente. Assalse nella difesa di Roscio d'Amelia un Crisogono liberto di Silla ch'era affrontare SILLA medesimo. Principe nella città e guida e anima del Senato, combatte MARC’ANTONIO e incontra la morte.Oratore, accusa sempre gli scellerati, difese qualche volta i non innocenti. FILOSOFO, stette per lo più dalla parte del vero. Bensì approvò il suicidio, l'assassinio de' tiranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità, e la schiavitù. Uomo di stato, cerca troppo la lode, ma insieme la grandezza e il bene della patria. Scrive d'eloquenza, ed e oratore sommo. Scrive di filosofia morale, ed e uomo dabbene. Scrive di cose civili, ed e gran cittadino. Ecco i fatti principali e virtù e difetti che spiegano LA FILOSOFIA DI CICERONE.  È impossibile non vedere in CICERONE tre forti amori, di gloria, di patria e di famiglia. E' reca in tutto ciò un'ardenza di cuore, la quale ha talvolta del molle, ma la tenerezza è temperata da un senso vivo d'onestà e di decoro. (V. le Lettere scritte in esilio.) Ude tutte le scuole, e però raccoglie il meglio; ma con iscelta libera e ordinata, perchè uomo libero ed T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, segue, più che non facessero le scuole greche, il precetto socratico di badare nella scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delle dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come fa CICERONE. Badando al bene, odia la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori, e ne prende il poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, coll’Orto non volle mai pace. Un po' vano, pompeggia assai nelle parole; il che gli scema vigore qua e là. Ma nella filosofia va semplice e spedito. Uomo universale, senatore e console di Roma, cerca l'universalità negli; e questa filosofia da a 'Romani l'idea di tutto il sapere. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore e per bramosía di favori popolari, combatte nella “Divinazione” le falsità del culto, le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio dei filosofi del Portico, non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni, rimorso da coscienza non confessata, dirò io, e lo credo. Taluno da quelle parole di CICERONE ad Attico: ATÓMp492 sunt; minore labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo” (Ad Att., XII, 52). Deduce ch'esso i libri filosofici traduce, non li facesse di suo. Ma quando poi sentiamo che Cicerone stesso, in tempi che gli autori greci erano familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di greco, quali ATTICO e BRUTO, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice (De fin. 1, 3): Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le dottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e un ordine nostro di scrivere. E dice altrove (De off. I, 2): Ora seguiremo e in tal soggetto il PORTICO principalmente, non come interpreti (non ut interpretes); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudizio e arbitrio nostro ci parrà.” Allora, io affermo che Cicerone non poteva dire una bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco. Eragli studio comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco  an 10 1:. bi lice. li 1 tes  377 (In Cic. ). E così un greco antico, più che i moderni non greci, distingue bene i libri tradotti come il Timeo da'propri di Cicerone. L ' opere di lui distingue Ritter in filosofiche o riposte ed in popolari. A me non sembra; sì scorgo chiara la distinzione del DIALOGO SPECULATIVO, come i libri accademici, dagli scritti che hanno un fine pratico, ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai non vede un ordinamento scienziale? E se CICERONE rispetta gli dèi più qui che altrove, pensiamo che ciò s'usa da tutti i filosofi, quando essi non ispeculavano direttamente sulla divino. Mi pare, poi, manifesta la distinzione, e più principale: tra la FILOSOFIA NATURALE (De natura Deorum, De divinatione ), LA LOGICA -- Academicorum, Topica, De inventione, De oratore etc. – LA FILOSOFIA MORALE (Tusculanorum, De officiis, De finibus, De senectute, De amicitia, De legibus, De republica, De fato. Quantunque in ciascuna classe si trovino mescolate più o meno le dottrine, non già divise assolutamente. L' Ortensio poi è perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone, imitando Socrate, tornò a'principj e al fondamento del sapere. Quegli, come questi, si trova in mezzo a una confusione di sistemi, e, come Socrate, chiama i suoi al conosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il rimedio alle superbie d'ipotesi vane e il principio della sapienza vera. Quand' io dico che CICERONE imito Socrate, già non lo paragono a lui, nè come filosofo glielo fo uguale, sì discepolo; dico bensì, che il tornare a'principj è in tutte le cose rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino; e chi rinnova, è istitutore novello e cominciatore d'un'epoca propria. E se CICERONE non riuscì a tanto come Socrate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da imputare. La scienza e la civiltà del Paganesimo cadeno, e sempre più CICERONE le trova quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che CICERONE, come Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Ama con grand' amore la filosofia, 2  ! la pre 18 MA Tha U. >> TH e ne scrive lodi magnifiche in ogni suo libro; anzi l' Ortensio e composto da lui per esortazione a filosofare; e nondimeno quand' ei volgevasi attorno, e sente le strane opinioni di tante sette, esclama: Niente si può dire di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. (De div.) Ammone per ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il conoscimento di noi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri sistemi, non presuntuosa (minime arrogans: De div. II, 1 ). Ripeta il precetto che sta sul tempio d'Apollo, nosce te ipsum, e dice: Essendo tante e sì grandi cose che si scorgono nell’uomo interiore da quelli che voglion conoscere sè stessi, madre loro e educatrice è la Sapienza (De off.). CICERONE invita a fermar l'occhio in questa evidenza interiore, dove tante verità si veggono chiare -- quæ inesse in homine perspiciuntur. In questa coscienza di noi stessi, CICERONE come Socrate, più di Socrate forse perchè ROMANO, sente l'uni versalità del vero, distinta dalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni universali anch'esse; e però CICERONE inculca sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta ragione (De off.); e contro L’ORTO fa valere gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama in sostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di un divino e l'immortalità dell'anima umana; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici Noi più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pensar della gente. (Proem.) – cf. Grice, “Philosopher’s Paradox” -. E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei raccogliesse, di mezzo alle opinioni varie, le tradizioni universali de filosofi e le divine. Inoltre, d'ottime autorità intorno a tal sentenza --cioè l'immortalità dell'anima -- possiamo far uso; il che in tutte le que HIE ale Di D. 4 stioni e dee e suole valere moltissimo -- in omnibus causis et debet et solet valere plurimum. E prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ) -- la quale, quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ), tanto più forse discerneva la verità. » (Tusc.) E tra filosofi, che CICERONE cita, preferisce appunto FERECIDE, come antico, antiquus sane; e indi ne conferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici; il nome de'quali, egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S 16). E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia e un dono, ma quanto a sè, una invenzione degli dèi. Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud, nisi, ut Plato ait, donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26. ) Nel che s'accenna il principio divino della sapienza e della tradizione. Condotto da questo filo tra i ravvolgimenti delle sette cansa gli eccessi d'ogni maniera. IL PORTICO, per esempio, la cui morale severità CICERONE approva e segue, dice, che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne fa un'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi quaggiù; e però IL PORTICO, se consentanei a sè, dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtù e disperarne come BRUTO morente. CICERONE al contrario riconosceva una più umile sapienza e virtù, che può essere di tutti, e che ci abbisogna nel vivere comune. (De amic.) IL PORTICO, crede CICERONE, indiando la natura, di poter trarre le superstizioni volgari a senso ragionevole (come tenta VARRONE per testimonianza d’Agostino – “Città di Dio”. Ma Cicerone le deride (De nat. Deor.). Mena buono all’ACCADEMIA, al LIZIO, e al PORTICO, che la più alta felicità dell'intellettuale natura sia la contemplazione (Hort. in Agost. De Trinit.). Ma in questa vita, ei dice, la contemplazione senza la pratica delle virtù è nulla (De off.); e quindi censura Platone che scrive: Il savio non essere obbligato a civili negozi. (De off.). IL PORTICO, per alterezza di ragione, spregia il corpo e i beni corporei. Ma Cicerone dice:  11 he COL iti be 111 15:-11 19 Poichè s'ha da seguire la natura. Noi siam anima e CORPO. Non possiamo spregiar il corpo, nè si dee imitare que'filosofi, che accorti d'un che superiore a'sensi ne spregiano la testimonianza. Con che l'accoccava pure agl’Accademici. (De fin.). IL PORTICO nega l'efficacia del dolore sull'uomo sapiente, e svile ogni piacere. CICERONE invece mostra che il dolore eccessivo è impedimento agli officj, e che le temperate giocondità son utili e buone. (De sen., De fin.). IL PORTICO, concependo la virtù con altezzosa rigidità, stimano uguali tutti i malvagi e tutti uguali i peccati, perchè tutti contrarj al bene. CICERONE confuta in più luoghi tale uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è mancare a posta, altro è nell'impeto di passione. (De off.) Se nella morale ei tenne dal PORTICO, rigettate le loro esagerazioni, in logica, metodo filosofico e analisi di concetti stette per l’ACCADEMIA giacchè, come dissi altrove, la riforma del filosofare comincia sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, la temperanza; perchè, dove l’ACCADEMIA (a quello che ne sappiamo) nega ogni verità e CERTEZZA nel percepire le cose e ammetteno solo una verosimiglianza, uguale per tutte le opinioni. CICERONE invece ne' fondamentali principj e nelle verità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li stima probabili, non ugualmente, sì convarietà di gradi; e al probabile opponeva quel ch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole: Vorrei che fosse ben chiaro il nostro pensare; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si crede aggirato sempre in errori, e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, o questa vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del disputare, ma del vivere altresì? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose e alcune incerte, così noi, dissenziendo da essi, diciamo probabili alcune e alcune improbabili. (De off.) Qui si scorge, che il dubbio di Cicerone non cade punto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul domma fisico e morale del PORTICO. E nel libro delle Leggi dice” « Preghiamo poi, che questa Accademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti; perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sembrano ordinate e composte con assai aggiustatezza, recherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, ma cacciarla non oso.La qual conclusione mostra, ch'ei non rigetta in tutto i dubbj, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagl’ACCADEMIA allor chè dice. Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei dire piuttosto quel che non è, che quel che è. (De nat. Deor.) Nel vivere nostro, e massime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni non monta già poco il sapere quel ch’una cosa non è; significa sapere che il divino non è come noi, che il divino o l'animo nostro non sono CORPO, che il fine dell'uomo non è la voluttà; negazioni pregne d'affermazione, implicita si ma certa. E chi vuole stimare quanto merita il ritegno di CICERONE, anc' allora ch ' ei parla di probabilità negli officj particolari -- non mai nella legge suprema -- pensi l'assurdità del panteismo e del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica, l'incertezza della morale, anche in Platone e Aristotile; e s'accorgerà, che se Socrate meritò lode dicendo, contro l’arroganza de' sofisti. Io so di non sapere, merita pur lode il nostro CICERONE d'averlo imitato in tanta corruzione di filosofia e di costumi. E quindi ei non ha dubbiezze contro L’ORTO. Dice a loro: che la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato; nè la voluttà va messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De fin.) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri del senso. Il piacere stesso non cato per sè, ma per noi (De fin.). Il dovere ha da cercarsi per sè stesso. E la dottrina dell’ORTO, se consentanea a sè, non lascia luogo al dorere. (De off. ) Ma questo sceverare il vero dal falso, con che 01. Jo (dine interno di principj si faceva? Già ho detto, che Cicerone ritorna al conosci te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. E ho accennato, che ivi egli trova l'uomo non solitario, ma in relazione conl divino, con gli altri uomini e col mondo. Però esclama: « In questa magnificenza di cose, in questo cospetto e conoscimento della natura, o dèi immortali, oh quanto conoscerà sè stesso l’uomo; il che c'impose Apollo Pizio! (De off.) Per via della coscienza, s'accorse Cicerone in modo chiarissimo di tre verità: prima, che l'uomo sta sopra l'altre cose; poi, che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra il divino con le sue leggi. Viene da ciò la definizione della sapienza o della filosofia nel II libro degli Officj (S2): scienza delle cose divine ed umane e delle cagioni di queste; definizione più determinata che non l'altra ne' libri Tuscolani (V. 3), dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone stringe la scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimento ragionato del divino e dell'uomo e de’sommi principj. CICERONE capisce, come nella scienza si désse un ordinamento necessario; e diceva: « È malagevole sapere alcun che in filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto. » (Tusc. II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione. Bisogna riflettere a noi stessi; in noi tro viamo la ragione, che ci distingue da' bruti e dalle al tre cose; nella ragione troviamo i giudizj spontanei, naturali, evidenti, universali. Questi fa d'uopo seguire. Ecco il principio ordinatore della scienza e della virtù. Il tempo, scrive Cicerone, cancella i capricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. Opinionum enim commenta delet dies, naturæ judicia con firmat (De nat. Deor.). Ma questi giudizi erano avviluppati in una moltitudine di sistemi. Però, quanto alla teorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco. Chi potrebbe mai condannarlo d'insipienza? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nè del quinto d'Aristotile, nè della materia o della forma. Le sue indagini hanno per fine la esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondo e l'immortalità dell'anima umana (Ritter). Quanto alla divinità, egli non ne dubita punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna legge della giustizia (De leg.). Ma intorno alla natura di Dio non afferma gran cosa. Del metodo di lui, su tali materie, porg' esempio il libro De natura Deorum. Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico. L'accademico nega il dio animale degli Stoici, e termina dicendo: « Questo io diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ella sia oscura e piena d'intrigate difficoltà. » Lo stoico poi combatte l ' epicureo. Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosa conclude? E' dice: la disputazione di COTTA (Accademico) sembra a VELLEIO (Epicureo) più vera. A me l'altra di BALBO (Stoico), più verosimile. Cicerone, adunque, mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agli Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure da quella ragionando sul divino. Pur tuttavia non sa nulla giudicare assolutamente sulla natura del divino stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, le dottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenza della divino (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ), la legge morale e il libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Crisippo, ch'ogni proposizione è vera o falsa necessariamente (De fato); le opinioni verosimili si hanno ne' libri di FILOSOFIA NATURALE, dove apparisce dubbj sulla natura del divino e dell'anima, e sulle relazioni del divno con l'universo, e quindi sulla prova fisica della divinità provvidente; ne' libri logici, finalmente, su ' principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta, beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esteriori percepite da ' sensi. Anche  Kant pose superiore la certezza dell'argomento morale ad ogni altra certezza. Ma Kant celebra quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione pura o teorica o speculativa. Cicerone, al contrario, non la nega mai, anzi la magnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizj accertati. Dunque Cicerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli poteva conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e la certezza; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone la verisimiglianza. In ciò solo fu accademico; e non pienamente nem men qui, come avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la necessità della materia alla libertà divina; e che cadesse nel semi-panteismo, facendo divina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più luoghi; ma più da queste parole. Le altre parti, onde si compone l'uomo, fragili e caduche, le prese da generazione mortale. Ma l'animo è generato dal divino (De off.), e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo in testimone il divino, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui non détte il divino all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la temperanza dell'affermare in quello ut opinor; tant'era l' ecclissamento delle principali verità sul finire del Paganesimo! Quant'alla teorica del conoscimento, CICERONE distingue l'intelletto dal SENSO. Lo distingue tanto, che come Platone e Aristotile, trovando un'immagine del divino nella mente nostra, la identifica con esso. Anzi nel testimonio del SENSO non pone più autorità ch ' una verisimiglianza, il che procedeva dal dualismo, secondo il quale il divino e la mente son divisi dal resto. E per la logica si valse d'Aristotile, come si ha dal libretto de' Topici. È stupenda la teorica dell'operare; perchè ivi reca Cicerone più che altrove le verità universali raccolte dal testimonio della coscienza; e vi reca quel suo modo di escludere l'esagerazioni e di comporre le spatse verità con un principio più alto. Qual principio? Il rispetto della ragione, che, in quanto conosce la verità, è retta ed è regola delle nostre operazioni. Bisogna seguire, ei dice con gli Stoici, la natura, non l ' arbitrio delle passioni. Ma la natura nostra è ragionevole; dunque ogni atto nostro dee farsi con ragione e sottomet terle l' appetito. (De off. I, 28, 29. ) E questa ragione ha potestà di comandare, perchè sta in essa una legge naturale ed eterna del bene. « La legge (così Cicerone) è la ragione somma, insita nella natura, e che comanda ciò ch'è da fare, proibisce il contrario. (De leg.) Questa legge è nata da tutti i secoli, primache fosse scritta legge alcuna, o che qualche città fosse istituita. Questa legge viene dal divino, perch' ell ' è divina; e chi non ammette il divino, non può ammettere la legge eterna e naturale.  La legge è la ragione divina partecipata a noi; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza di questa è società, però noi siamo primamente consociati coll divino. E poich' ell' è comune a tutti gli uomini, noi in secondo luogo formiamo la società del genere umano « e tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina, e a Dio sovrap potente » (parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ et præpotenti divino. . Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini (soli essi fra gli altri animali) han qualche notizia del divino, nè v'ha gente sì fiera che, ignorando qual divino adorare, pur non sappia che ve n'è uno. Noi dunque siam nati alla giustizia; e il gius non è costituito per opinione, ma per natura. Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e ciascun di noi si definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in dottrina, ma nella facoltà del sapere è uguale. Dalla legge si genera il dovere, che va quindi cer cato per sè stesso, come sudditi alla retta ragione, ne vi può essere alcuna virtù se non si cerchi per sè, ma per la voluttà o per l'utilità. (De off.) Come la ragione guida ogni atto umano, così la retta ragione reca in ogni atto un officio. Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in private, nè in forensi, nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che, nè Storia della Filosofia. 25 se pattuisci con altrui; non v ' ha momento di vita che possa mancare di qualch 'officio; e nell'adempirlo è tutta l'onestà, nel trascurarlo la turpitudine. » (De off.) Nell'adempire gli officj stanno le virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù, se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso (De off. I, 4); sicchè « nella universale so cietà son varj i gradi degli officj; onde si può sapere ciò che si conviene a ciascuno; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poi alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » (De off.) Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge eterna in sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le giustifica nemmeno l'amore di patria. (De off.) Egli distingueva poi l'utile apparente dalla virtù: ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con l'onestà; e quand' apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a pensare sulla scelta. (De off..) L'utilità è l'effetto, non il fine della virtù. (De amicitia) E dalla virtù nasce l'onestà (che in latino ha senso d'onorabilità ), anche se niuno la conoscesse: « etiam si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. » (De off.) Giacchè la virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza: « l'uno viene dall' animo onesto, l'altra dalla sanità del corpo (De off.); e come il decoro de' poeti è la convenienza delle parole col significato, così il decoro della onestà è la convenienza con la natura. » (Ib. 28. ) Però, come i Greci dicevano o" te uovoy (yóv to 2026, il solo buono è bello, così Cicerone (come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice: quod honestum sit, id solum bonum esse: onorabile è solamente ciò ch ' è buono. (Paradox. I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e la virtù. nascono le leggi positive; talchè l'esistenza di Dio è il proemio di tutte le leggi (habes legis proemium, De leg.). « È stoltissima cosa (segue Cicerone contro l’Orto) che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle leggi de' popoli. E che? dunque, anco le leggi de'tiranni?... Ma v'ha un unico gius, da cui è unita la società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è la retta ragione di comandare e di proibire: e chi la ignora, è ingiusto, o ch'ella sia scritta o no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi scritte e agl'istituti de' popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da misurare con la utilità, trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo creda fruttuoso. Così non v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò che per utilità è stabilito, da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da natura non si conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La legge naturale ha da regolare il diritto pub blico, quello delle genti e il privato; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra, sui trattati. sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il giudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana: dopo averne narrato l'umanità ne’secoli primi, aggiunge che questa diminuì a poco a poco, e dopo le vittorie Sillane cessò; e quindi esclama: jure igitur plectimur « a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamo scontata per se coli. De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessi argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep.) Che fa adunque la filosofia di Cicerone? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia e splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza; gli dettò que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci, eletti e temperati; que' libri rettorici, che sono un codice dell'arte per comune giudizio; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica, dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zione platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi. Però, quand' io sento uno storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in lui non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, più che dell'insolito, sia desiderosa del vero. La giurisprudenza è scienza filosofica, perché riguarda gli alti umani o personali. La giurisprudenza positiva non altro fa se non appli care il diritto naturale. Si cerca, quindi, lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme logiche, e quanto alla materia. Quattro età del gius romano. Prima età: consuetudini. È difficile determinare qual parte avesse la civiltà, e quindi la scienza, in que' primi germi del diritto. Ma vestigi di sapienza ve n'ba. Che cosa abbia di vero e di falso la tradizione sulle dodici tavole. La materia di esse certo è romana. Probabilmente la forma logica loro è di Ermodoro Efesio. Seconda età: si pubblica il segreto delle azioni. La giurisprudenza, perciò, viene alla gioventù dalla puerizia. Ma crebbe in modo segnalato allorché, sul cadere del sesto secolo di Roma, si propaga ivi la filosofia. Il settimo se colo è quello di Cicerone. Si prova con l'autorità di Cicerone, che allora si lero a grande stato la giurisprudenza per lo studio della filosofia. Allora si conceve l'idea d'un codice -- idea che vuol abito filosofico delle universalita. Terza età: la signoria de’ Romani, dilatandosi a tutta Italia, fa pos sibili le scienze. Cittadinanza romana a tutti gl 'I taliani. Gius italico che da il dominio quiritario, e il diritto de’ comizii anche per deputati ec. Colonie romane per tutta Italia. Si determina bene il concetto del paese italico. Gius equo e buono. Altra cagione della fiorente giurisprudenza; giureconsulti, per lo più, non sono causidici. Un'altra: l'emulazione in filosofia con gl’oratori. Cenno su’ principali giureconsul ti. Loro virtù. Com'apparisca dagl’autori, ch’essi citado ne' frammenti, lo studio loro ne’ poeti, negli oratori e ne ' filosofi. Si paragona que’ giure consulti a' matematici per tre ragioni. Vigore delle conseguenze. Cura nel l'evitare contraddizioni. Metodo induttivo e deduttivo. L'efficacia della filosofia non si ristringe alla forma logica. Passa alla materia. Tale influsso non apparisce solo da prove particolari, ma più ancora dalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del pensiero e (salvo qualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della giurisprudenza, e perchè i giureconsulti la definissero come la filosofia morale. Distingueno la scienza del diritto dall'arte. Però s'elevano al concetto della filosofia vera, rigettando gli eccessi: la speculazione de’ giureconsulti è contenuta nel vero da' dettami di senso comune e dal fine pratico. Distinzione del diritto in jus naturale, ius gentium et  ius civi. Si mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de’ diritti naturali. Non accettabile, quanto alla servitù, la nozione del gius civile. Ma i giureconsulti ROMANI diceno la servitù non secondo il gius naturale, e riconosceno un fatto. Come la parola “ius” non esclude l'idea d'un diritto eterno. E si distingue dalla espressione “legge.” Poi, si ha ne’ giureconsulti ROMANI l'idea precisa del diritto eterno e del diritto naturale. L'efficacia della filosofia si mostra nella giurisprudenza per via del diritto onorario, per via del diritto ricevuto, e per l'interpretazione de ' giureconsulti. Molte novilà introdotte dal gius ricevuto. La virtù e la vera FILOSOFIA de' giureconsulti ROMANI si fa sentire per fino nel loro stile. Si reca un saggio della loro sapienza e brevità elegante. Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de' giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cerca la comprensione finale. Parlato di Cicerone, è da parlare de' giureconsulti romani. La giurisprudenza è una scienza che e una parte della FILOSOFIA perchè risguarda gli atti umani o personali. La giurisprudenza procede dalla FILOSOFIA MORALE, che abbraccia la scienza de' doveri e quella de' diritti naturali. La giurisprudenza POSITIVA non altro fa che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabili generalità del diritto eterno. Però, se LA FILOSOFIA entra in tutte le scienze com'ordinamento di concetti e di giudizj, entra poi nella GIURISPRUDENZA ROMANA, non solo com'ordine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle ragioni supreme. Avrò dunque a cercare lo svolgimento di LA GIURISRPUDENZA ROMANA, per l'impulso di LA FILOSOFIA ROMANA, nel doppio aspetto della FORMA LOGICA e della materia. La storia di quella e distinta bene dall' Hugo in quattro età nella sua “Histoire du Droit Romaine.” La prima va dall'origine di ROMA fino a le XII tavole, cioè fino alla repubblica. La seconda fino a CICERONE. La terza fino ad OTTAVIANO. Se vero, oltre i due secoli dell'èra volgare. La  quarta eta, fino a GIUSTINIANO. Età di fanciullezza, di gioventù, di virilità, e di vecchiaia. Il giureconsulto Pomponio c'insegna (Fr. 2. D. De Or. Juris) che Roma, ne' primi tempi, si regge SENZA LEGGE nè diritto stabile -- cioè per CONSUETUDINE. La CONSUDETUDINE forma, dice Forti (“Istituzioni Civili”), il diritto privato con l'autorità degli esempi, cioè de' fatti ripetuti, e forma con gli accordi de'potenti il diritto pubblico. Così il potere assoluto del padre, del marito e del padroni è da' giureconsulti risguardato sempre per CONSUETUDINARIO, ed anche l'uso delle clientele. Quanta parte ha la civiltà, e con la civiltà la scienza, in que'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si remota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano scritti, perchè le serba con la lingua loro la stirpe greca. Ma de’ LATINI PRISCHI e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote. Ogni lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è, tuttavia, che, almeno gl’etruschi sono molto civili. Sembra non si possa dubitare che il sangue loro si mescolasse nel popolo di Roma -- benchè l'Hugo lo nega. Ma LUCIO FLORO, parlando della guerra sociale, dice chiaro. Quantunque la chiamiamo guerra “sociale” a diminuirne l'odiosità. pure, se stiamo al vero, quella e guerra *civile* -- giacche il popolo romano, avendo mescolato insieme gl’etruschi, i latini e i sabini, e traendo da tutti un sangue solo – “unum ex omnibus sanguinem ducat” --, è di più membri un corpo e di tutti è una unità (Rer. Rom.) Lerminier nella sua “Philosophie du Droit” riscontra con molto acume in VIRGILIO la prima origine de' tre popoli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche. Lodando l'agricoltura, VIRGILIO dice cosi. Questa vita tennero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello. Così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fa la bellissima di tutti gl'imperi, Roma; e una, si circonda d'un muro i sette colli (Georgiche). Fatto è che a taluno par vedere i *tre* popoli nelle tre tribù del primo popolo romano, rammentate da Livio – TRIBU I: i Rannesi o Latini, -- TRIBU II: i Tarsi o Sabini, e TRIBU III: i Luceri o Etruschi (Warnkoenig, “Histoire du Droit Romaine”). Momen (Storia Romana) nega tal mescolanza. Ma Momsen non da le prove. Probabile, a ogni modo, che quel nuovo comune di Roma. sorto fra ’comuni vicini, si mescolasse pure di genti vicine. O si conceda dunque con Niebuhr la preminenza agl’etruschi, o concedasi a’ latini con l’Hugo, un in dirizzo nelle cose romane lo dettero i primi – gl’etruschi. Ciò spiega, come in tanta rozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio come il popolo latino LATINO DEL LAZIO si possede un gius pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti. Questo io dico per mostrare che le prime consuetudini ed istituzioni hanno qualche ragione di civiltà, e riuscirono buon fondamento alla giurisprudenza perfetta. Però, fin dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzione da’magistrati (magistratus populi romani) che stabilivano il diritto, da' giudici (judex, arbiter ) che giudicavano del fatto (Hugo) -- distinzione che a poco a poco détte occasione al gius onorario. È noto che il reggimento di Roma sott’i re e, più, ne' principj della repubblica, e degl’OTTIMATI, cioè, aristocratico. Indi la opposizione civile dei PATRIZI colla plebe per avere un gius equo -- opposizione che, divenuta incivile o violenta, rovina la repubblica, come la prima ne forma la grandezza. La PLEBE dimanda leggi scritte per contenere l'arbitrio de' PATRIZI, e si promulga la legge di le XII tavole. Narra il giureconsulto Pomponio, che queste si raccolsero in Grecia, interprete d'esse l'efesio Ermodoro (Fr. 4, D. De Orig. Juris.). Certamente, PLINIO il vecchio (“Hist. Nat.”) rammenta come serbata fino a lui la statua fatta per decreto a questo Ermodoro. Talchè la tradizione non pare favolosa in tutto. Ma è certo altresì che in le XII Tavole, per quanto ne conosciamo, non si ha traccia del diritto che non e romano. L’essenza – l’essenziale -- giudizj, patria potestà e connubio, eredità e tutele, dominio e possesso, diritto pubblico e diritto sacro -- e cosa tutta romana, come dice Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri come Warnkoenig. Ma io credo abbisognasse l'opera di quel greco erudito per meditare questa o quella vecchia CONSUETUDINE, e RIDURLA A CONCETTI determinati ed a’lor capi principali, ufficio di riflessione addestrata. Nè ciò avrebber saputo I ROMANI, dati all'armi  anzichè agli studj. Ecco il per chè quella primitiva sapienza, logicamente specificata e distinta d’Ermodoro, trae in ammirazione Tullio. CICERONE scrive ne' libri “De Oratore”. Se ne adirino pur tutti, io dirò quel che sento: a me, il solo libricciuolo di le XII tavole, par superi (se tu guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche de' filosofi tutti nel peso del l'autorità e nella copia dell'utilità. Quanto prevalessero in prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, intenderà facile chi le nostre leggi romane paragoni a quelle di Licurgo, di Dracone e di Solone. È incredibile, di fatto, quant'ogni altro diritto civile, salvo il nostro romano, sia in colto e quasi ridicolo. (De Or.) Le quali parole attestano tre cose: l'antichissima civiltà di quelle genti che formano Roma, e che vi recano le proprie tradizioni, benchè si dessero, poi, a vita agreste e guerriera; la falsità che il gius civile romano procede ài Grecia ne' suoi particolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolge da principj non rozzi ne poco pensati. I ROMANNO danno la sostanza, i Greci probabilmente  LA MERA FORMA LOGICA, per GENERE E SPECIE – cioè, ordinamento di codice. Da le XII tavole nasce la necessità d'interpretarle per disputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loro applicazione. Di qui, come dice Pomponio venne il diritto civile non scritto o l'autorità dei prudenti, e le azioni delle leggi (“legis actiones”). Ma tutto ciò e un SEGRETO de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda età, la libera giurisprudenza passa dallo stato infantile alla gioventù. Ma quando mai accadde tal cosa in modo più segnalato? A Roma si propaga il filosofare. Il secolo posteriore è appunto il secolo di CICERONE. Or bene, la giurisprudenza, cresciuta lentamente crebbe rapidamente. Allora proprio noi riscontriamo i giureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto alla natura degl’atti umani in sè e nell' esteriori attinenze. Scrive CICERONE la “Topica”, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di TREBAZIO, come si ha dal proemio di quel saggio, ov'è scritto. “Non potrei, adunque, con te, che me ne pregavi spesso, benchè timoroso di noiarmi, come scorgevo facile, stare in debito più a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete del diritto. Sicchè queste cose, non avendo libri con me, scrivo a memoria nella mia navigazione, e dopo il viaggio ti ho mandate.” Il qual saggio è notevole molto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di giurisprudenza. E di SERVIO SULPIZIO, primo in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiato da' giure consulti posteriori, ecco che scrive CICERONE, amico di lui. “Si stima, o BRUTO, che grand'uso del gius civile s'avesse da SCEVOLA e da molt' altri, ma l'arte da que st' unico, cioè da SULPIZIO -al che non sarebbe giunta in lui la scienza del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna spartire le materie composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire con le interpretazioni l'oscure; e così a veder prima ben chiaro le cose ambigue, poi a distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero dal falso, le conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque reca tal arte (massima di tutte l'arti ), quasi luce in tutto ciò che dagli altri si rispondeva o si faceva confusamente. (De CI. Orat.) Con le quali parole mostra CICERONE la forma di scienza che si prese dal diritto in virtù della LOGICA. E la FORMA scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, leva le menti alle generalità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza del diritto. E il segnale n'è questo; che al termine dell'età seconda, cioè sul fiorire della filosofia a Roma, GIULIO CESARE e POMPEO ebber disegno d'un codice; disegno, che mostra l’uso e la stima degli universali astratti da ogni caso particolare, ordinati poi secondo GENERI E SPECIE -- giacchè un codice val quanto in istoria naturale un ordinamento PER CLASSI. Pare che SERVIO SULPIZIO effettuasse un alcun che di somigliante a impulso di Cicerone, il quale alla sua volta ne' libri delle leggi mostra un saggio di codice pel diritto pubblico, e al trettanto promise pel diritto privato. Nè qui entro in disputa fra due scuole alemanne, l'una che, con Savigny, sostiene il danno de’codici. Laltra che ne difende l'utilità. Dico a ogni modo (nè si contrasta ) che un codice non si fa senz'abito di speculazioni filosofiche. L'averlo pensato in Roma e tentato a quel tempo, chia risce la efficacia loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a compimento nella terza età, cioè ne' primi due secoli e mezzo dell'impero. Il dilatarsi del dominio romano a tutta Italia prepara il campo alla filosofia. I Romani, sentendosi non più solo romani, ma italiani e uomini, la loro coscienza si chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di questo fatto non v' ha dubbio di sorta. Dopo la guerra sociale, per LA LEGGE PLAUZIA e LA LEGGE GIULIA DE CIVITATE SOCIORUM e data, come nota Haubold nella sua “Tavola cronologica per servire alla St. del Diritto”, a tutte le città italiche CITTADINANZA ROMANA -- eccetto i Lucani e i Sanniti. Poi consegueno la cittadinanza i galli oltrepò, conseguíta prima da'Galli cispadani. La ottenne tutta perciò la Gallia cisalpina. (Framm. L. de Gallia Cisalpina). In tal modo, come scrive Savigny, dopo la guerra italica i cittadini d'Italia divennero parte del popolo sovrano (St. del Dir. rom). Questo gius italico da dominio quiritario, o dominio solennemente e pie namente assicurato, immunità da tutte l'imposte dirette, libero governo municipale delle città italiane (ivi), diritto d'intervenire a'comizj o di mandarvi deputati. Talchè l'Italia, a ' tempi romani, con l'unità politica suprema serbò le unità politiche secondarie, che si chiamavano socio confederati. E questo accadde perchè i romani hanno già fatto l'unità naturale della nazione col mescolamento de’ sangui, spargendo ovunque le colonie (com'osserva Forti), nè per sei secoli ne mandaron mai fuori d'Italia. (Ist. Civ.). L'Italia, dice Hugo, non si considera mai una provincia; chè le provincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma suddite (Hist. du Dr. Rom..) I romani, allora, si levarono con la mente all'unità naturale del territorio, come vediamo ne' Digesti. Al Fr. 99, $ 1 de Verborum significatione è scritto. Dobbiam credere provincie continue le unite all'Italia, come la Gallia cisalpine. Ma e la provincia di Sicilia più si ha da tenere per continua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto. “Continentes provincias accipere debemus eas, quæ Italiæ junctæ sunt, ut puta Galliam: sed et provinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas oportet, quæ modico freto Italia dividitur” Ulpiano. E al Fr. 9, D. de Judiciis et ubi etc., si dice.Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia. “Insulæ Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie.” A questo concetto sì pieno vennero i romani tra gli ultimi tempi della repubblica e i primi del PRINCIPATO, cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana, con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza. Si aggiunga poi, che le sevizie de' principi cadevano in Roma su'patrizi più sospetti, ma quel reggimento temperavano istituti repubblicani e ordini civili equi. Se no, come dice Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi uscissero mai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de' principi; e come ALESSANDRO SEVERO ha un consiglio di XVI sapienti, tra cui i più chiari giureconsulti, FABIO cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio, Modestino e altri. (Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1, § 1-5. ).  E tanto è vero, che la notizia del “gius equo” e buono splendesse viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provincie, finita la guerra civile, non e punto legale, anzi contr'alle leggi; perchè, secondo le costituzioni come dice Warnkoenig, le provincie stano bene, le imposte sono lievi, lo stato pacifico, molto dell'amministrazione in mano di quelle (il che scusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e senato li minacciavano con le leggi repetundarum, tornate vane per corruzione de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom.) Tali cagioni principalmente formarono la sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici, ma scioglievano questioni di diritto in generale. E ciò indica sempre più e la natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da interessi particolari, progredisse continuamente. (Cic., De CI. Orat.). Poi, l'emulazione degli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co' giureconsulti che ne volevano serbare la severità, incita questi a gareggiare in isplendore di filosofia, e ad interpretare il diritto co' placiti del senso comune. Così da una disputa tra l'oratore CRASSO -- contemporaneo al padre di Cicerone -- e MUZIO SCEVOLA giureconsulto sull'interpretare i testamenti o a rigore di parola, o secondo la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in quest'ultimo senso, ripresa da Forti, ma e forse meglio approvata da Cuiacio. Infine, l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la illustre loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetudini di Roma, indica il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale del Portico, che ci chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loro scienza; e tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è spiegato. Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte uomini onorandi. Nomino dapprima QUINTO MUZIO SCEVOLA, assassinato a’tempi di MARIO. Dice POMPONIO che Muzio costitue primo il decreto civile, disponendolo per capi di materie (“generatim”) in XVIII libri. SERVIO SULPIZIO riduce il diritto a stato di scienza. SULPIZIO e prima oratore grande, poi giureconsulto per un rim provero che gli fa MUZIO SCEVOLA d'ignorare le leggi del proprio paese, egli oratore e patrizio. Sostenne la repubblica. Avversa i Triumviri. La repubblica gli alza una statua. Abbiamo di que' tempi ALFENO VARO e OFELIO, ambidue discepoli di SERVIO, e TREBAZIO (a cui la Logica di Cicerone) e un altro MUZIO SCEVOLA – PONTIFICE -- e CASCELLIO. Muzio non accetta da Ottaviano il consolato. Cascellio non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri; e a chi lo consiglia si temperasse rispondeva, “Son vecchio e senza figliuoli.” LABEONE, il cui padre e morto a Filippi, rifiuta il consolato da OTTAVIANO anch'egli, e serba spiriti antichi. Dice Pomponio: Ageio Capitoni si détte moltissimo agli studj. Divide l'anno in modo che sta sei mesi a Roma co' discepoli (“cum studiosis”), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lascia XL volumi, che i più s'usano ancora. Ateio CAPITONE (segue Pomponio) persevere nell'antico. Ma LABEONE, che molto medita nell'altre parti della sapienza (“qui et in cæteris sapientiæ operam dederat”), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina comincia innovare molto” (Fr., D. De Or. Jur. ). I cinque giureconsulti più celebri e più recenti (lasciando gli altri) sono: EMILIO PAPINIANO, PAOLO, GAIO, ULPIANO, E MODESTINO. PAPINIANO, familiare di SETTIMIO SEVERO e principale nel governo, stette per GETA contro il suo fratello CARACALLA, e volendo costui una difesa legale del fratricidio. PAPINAINO la nega e venne ucciso. Scrive “I fatti,” che le dono la pietà, il buon nome e il pudore nostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume, si dee tenere che noi uomini dabbene non possiamo farli (Fr. D. De servis exportandis etc.). Gl’altri quattro illustrano, come dice, il consiglio di ALESSANDRO SEVERO. I giureconsulti, massime della terza età, levano a stato di scienza le loro discipline. Ciò nacque dalla molta erudizione loro, non solo in filosofia, ma eziandio in lettere; e se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci; com'a dire Omero, Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto e, come notai de' tempi di CICERONE, che la giurisprudenza prende forma logica tanto sicura e stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico, dice Hugo, la filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nessuno più di quelli sta in confronto de’matematici per tre ragioni. Cioè per vigore di conseguenze da principj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni -- che Gaio dimandava “inelegantia juris” --, e pel metodo distintivo e compositivo, induttivo e deduttivo ad un tempo -- distintivo e induttivo salendo alle specie generali del diritto; compositivo e deduttivo traendone con brevità ed evidenza le illazioni. Il gran Leibnitz, insigne filosofo, scrive nell' Epist. “Io ammiro l'opera de Digesti, o, meglio, i lavori de' giureconsulti, ond' ell' è presa. Ne vidi mai nulla che più s'accosti al pregio de matematici. O che tu guardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del dire. Ma questa efficacia della filosofia non potè fermarsi all'ordine de' pensieri, dovè penetrare nell'interno, giacchè, com'avvertii, materia della giurisprudenza son gl’atti umani o personali, soggetto filosofico. Tal efficacia non si creda particolare ma generale. Quindi, coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o del Portico o d'altri sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare l'opera generale della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gl’eruditi, che i più de'giureconsulti tolsero dal Portico l'argomentare per analogia, l'amore dell' etimologie, la spartizione delle materie, LA SOTTILE DIALETTICA che conviene al foro, e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi egregiamente al gius civile. Ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così disposto bene secondo le leggi del pensiero, e, salvo qualch'errore de' tempi, così con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili, come si ha dal codice Napoleone: e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria, vi fanno su studj esimj e perseveranti. E perchè si chiarisca il filosofare intimo de' giureconsulti, guardiamo la nozione, ch'e'si fanno della giurisprudenza e della filosofia. Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive. Dand'opera al gius, occorre prima sapere onde ne venga il nome. “Gius” è chiamato da giustizia. Perchè, come Celso lo define elegantemente, il gius è l'arte del buono e dell'equo. Però siamo chiamati, con ragione, sacerdoti della giustizia. Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza del buono e dell'equo; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose lecite dalle contrarie; desiderosi di far buoni gl’uomini, non per timore delle pene, ma eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori, se non m'inganno, di vera e non simulata filosofia. Se la definizione della giurisprudenza si prenda qui a rigore, ella non regge, perchè si stende a tutta la filosofia morale. Ma se badiamo al concetto che avevano di questa gl’antichi, e al generarsi la scienza del diritto dall'altra del dovere, ci formeremo idea chiara del come intimamente e FILOSOFICA LA GIURISPRUDENZA ROMANA. Secondo i sistemi filosofici, sommità di perfezione umana è LO STATO ROMANO. Talchè la morale s'ordina alla politica. Concetto vero per l'attinenze esteriori, falso e pagano quant' all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia se i giureconsulti romani definino il gius civile come la morale. Lo definano così, perchè, a sentimento di tutti gl’antichi, le due scienze si mescolavano in una. Noi con più ragione le distinguiamo, ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza de' primi principj e dell' uomo -- dimenticanza ignota agl’antichi, che però svolgeno razionalmente il diritto e non lo maneggiano materialmente. Notate ancora che nel passo citato si distingue la scienza dall'arte. Se nelle Istituzioni poi la giustizia è definita: Costante e perpetua volontà di rendere a ciascuno il suo diritto: e se la giurisprudenza è definita; Notizia delle cose umane e divine e scienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1, Inst. De just. et jure, si vuol fare la stessa osservazione detta di sopra; e noto con Cuiacio, che in tal luogo la giurisprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o scienza, e com’abito della VOLONTA, secondo l'antica filosofia. E la filosofia la pensano essi, non senz'alta speculazione, ma contenuta nel vero da' dettami del senso comune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'eternità del diritto -- come osserva Vico nella “Scienza Nuova” -- allorchè dissero: Il tempo non muta nè scioglie i diritti: “Tempus non est modus costituendi vel dissolvendi juris.” E, quando discernano il diritto naturale dal positive, nello stesso tempo rigetteno gl’eccessi del Portico, come l'eguaglianza della imputazione; finalmente derisero le stranezze, l'ipocrisie, l'avarizia di quelle sette in età di scadimento. Così sente Ulpiano, che distingue filosofia schietta dalla mascherata; e nel Fr. 6, § 7, D. al Tit. De his quæ in testamento delentur, è schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e nel Fr. 1, § 4, D. de extraordinariis cognitionibus etc., dove si stabilisce gl’onorarj delle professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, vantando di spregiare le mercedi, n'andano a caccia. I giureconsulti poi mostrno tre specie di diritti: jus naturale, gentium, et civile; distinzione che non si vuol confondere con l'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile; e chi non vi badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La distinzione praticamette divario tra leggi proprie di Roma (jus civile) e istituzioni comuni a ogni popolo non selvatico (jus gentium vel naturale). L’altra è distinzione più speculativa e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et jure, D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue il privato in diritto naturale, che natura insegna a tutti gl’animali, come la procreazione de’ figliuoli; in diritto delle genti, del quale, tra gl’animali, hann' uso gl’uomini soli, come la religione verso il divino, l’obbedire a' genitori e alla patria: in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'accusa Ulpiano d'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del l'animalità; ' e sì che Piccolomini da qualche secolo fa, come Warnkoenig, nota che qui, secondo le dottrine vere d' Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengono dalla natura animale, quelli che vengono dalla razionale, e gl’altri che pone la comunanza civile. Non s'intende già che una bestia -- detta da' giureconsulti cosa, non PERSONA – ha diritto, ma che le potenze animali dell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan diritti, come li generano le potenze razionali. Talchè in Ulpiano si trova benissimo sceverata l'animalità dalla razionalità. È da confessare invece, che il diritto civile si define per quello che toglie o aggiunge al diritto naturale e delle genti; e s'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come si dice nel Tit. De regulis juris. Ma tuttavia meritan lode i giureconsulti, che se non condannarono la servitù, la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e di Aristotile. Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale e istituito dalla divina provvidenza, come insegna il Portico (De Jur. Nat. Gen. et Cir.); nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti. Poi, essi definino il gius civile qual e in fatto allora. Osservo di passaggio che il chiarissimo Conforti nel l'annotazioni a Stahl (“Storia della Filosofia del Diritto”, Torino) opina con altri, che i romani non avessero idea del diritto eterno, perchè jus viene da “iubeo”, comandare; dove la parola diritto, e le simili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di rettitudine, o di rittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensa forse al come definisce la parola Jus Forcellini (Voc. ad V.). Gius è tutto ciò che in generale vien costi tuito da leggi o naturali, o divine, o delle genti o civili -- Jus est autem universim id, quod legibus constitutum est etc. Si nomina con altro nome equità comune, equo universale, legittimo, cioè adequato alle leggi, quasi norma e regola degli atti umani. Sicchè I ROMANI chiamano “ius” un che costituito da una legge qua lunque. Così distingueno la legge da ciò che ne procede, e ch’è l'EFFETO DEL SUO COMMANDO. Cicerone (Rep. et De Leg.) adopera legge e gius in tal significato. Ma la risposta migliore si è in quell'assioma de romani già citato: Il tempo non muta nè scioglie i diritti; conobbero, dunque, i romani la santità del diritto fuori del tempo, cioè nell'eternità, o nel suo fondamento assoluto. Inoltre vedemmo che il gius civile si distingue dal naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienza origina il diritto onorario, di cui parla Forti se non con molta novità, certo con più chiarezza di tutti gli altri da me esaminati. E io ritrarrò in breve la sentenza di lui, e n'usce la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e la filosofia morale in tanta perfezione di gius. Ma prima dico che il gius onorario contene gli editti del urbano e del peregrino, e quelli degli edili e proconsoli e propretori delle provincie -- edictum provinciale. Pare che il gius predetto, almeno in modo segnalato, principiasse per chè Cicerone nella seconda Verrina dice. Postea quam jus prætorium constitutum est. Hugo dimostra, contro Heinneccio, che tal diritto ha forza di legge; poichè, tra gli altri argomenti, Cicerone non contrasta nelle Verrine che L’EDITTO DI VERRE SIA LEGGE da tenere, ma lo accusa di averlo infranto VERRE stesso, o conformato non secondo ragione (Hugo, Hist.). Or dunque, i pretori rendevano giustizia ne'civili negozi, gli edili per le convenzioni de' mercati e per LA POLIZIA DELLA CITTA. E tanto gli uni che gl’altri, quando pigliavano i magistrati, mandano fuori un editto, ove stabilivano le forme del giudizio e LE MASSIME -- ottimo istituto in repubblica popolare. Non mutano il gius, ne determinano l'applicazione. Eccone gli esempi. In primo luogo, salva LA FORMA LEGALE,, si supponga che i contraenti hanno pattuito o per inganno, o per errore, o per timore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasi uguale per tutti. Quindi i pretori statuiron una MASSIMA PER L’EFFICACIA CIVILE DELLA MORALITA NEGL’ATTI, scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzione della legge e i mezzi legali. Perchè QUESTA O QUELLA MASSIMA d'equità si recassero ad effetto. I codici moderni han composto di questa o quella MASSIMA le lor legge universale. Allora, dice Forti, gli editti de' magistrati sono uno de' principali modi, per cui la filosofia venne applicata gradatamente ai bisogni civili. Sicchè, quant'alla moralità degli atti, trovarono i magistrati l'ECCEZIONI perpetue contro le obbligazioni per dolo, per timore, per errore, per violenza; la restituzione in intero, i modi legali a sciogliere le dette obbligazioni, od a ripetere ciò che pel tenore loro fosse stato pagato. In secondo luogo, la legge, definito il diritto e ordinatane la sanzione, lascia a'magistrati il modo d'effettuarla. Per esempio, la legge stabilice i modi d'acquistare la proprietà, ma non i modi della sua difesa; che più torna necessaria, quanto più divise le possessioni, e distinta la varietà de'godimenti e diritti che si comprendono nella mozione del dominio -- onde nacquero nuovi contratti e bisogni di nuove difese. Quind'i pretori differenziano a capello il dominio e il possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va' discorrendo (Ist. Civ., L. I. S. 1). Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a formare un'altra maniera di gius -- ioè il diritto ricevuto -- “jus receptum”. Essi, introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza della buona fede, costringeno i magistrati a giudicare di que'contratti, non secondo la nude parola della legge, sì a lume di naturale onestà; come le clausale, si lodate da CICERONE uti ne propter te, fidemre tuam captus, fraudatusne sim; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione (De Off.). I giureconsulti si dano all'interpretazione; e poi chè questa o considera la legge in sè, o L’ATTO DELLA VOLONTA UMANA, così la filosofia di que'sapienti gl’aiuto all’un fine con le spiegazioni delle parole e con la definizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa: gli aiutò all’altro fine co giudizi sulla moralità dell’ATTO, e con le regole per interpretare l'altrui volontà. Gravina così accenna le novità del gius ricevuto. Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e mitiganti a poco a poco e come di soppiatto l'asprezza della legge, sono venute le regole di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi, l'uso dei codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili, perchè procedono dall’equa e utile interpretazione, le stipulazioni aquiliane, autore AQUILIO giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la regola catoniana, la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito e moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Da essi vernero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la querela dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nome di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto (De ortu et progr. I, Civ., C. ) Tale acume di riflessione disciplinata reca i giureconsulti per fino ad un computo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agl’alimenti (come si vede Fr. D Ad Legem Falcidiam ). Cosa notabile molto, perchè fa supporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti. La virtù e la vera filosofia de' giureconsulti le sentiamo pur anche nel loro stile, che in mezzo alle ampollosità di SENECA e degli altri si tien semplice e puro.. Nelle Pandette v' ha errori di lingua, per vizio de' compilatori greci e de' copisti. Ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali maestri di latinità. Termino recando un saggio di tal sapienza ed elegante brevità, in alcune regole di gius dall' ultimo titolo de' Digesti. I diritti del sangue non posson finire per niuna legge civile (Fr.). Sempre nelle cose oscure s' ha da tenere il meno. Sta in natura che le comodità d'una cosa seguan colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può col tempo sanare. Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch' uno s ' è legato. Però l ' obbligazione di parole sciogliesi con parole, e quella di nudo consenso con altro consenso. Che si fa o si dice nel caldo dell'ira, non si stima. Vi sia consenso d'animo, se non v' ha perseveranza. Nessuno può trasferire altrui più diritti che non ha. Sempre nel dubbio son da preferire le sentenze più benigne. L'erede si stima di quelle facoltà e di que' diritti che il defunto. È proprio di quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o ammucchiato sillogismo, di trar la disputa, con lievissime mutazioni, da cose evidentemente vere a evidentemente false. Quante volte l’espressione in un discorso PARE rendere DUE sensi, prendasi quello ch'E PIU ADDATO AL DA FARE. Non si dà benefizio per forza. Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno. In ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equità. Ne’discorsi AMBIGUI è il più da guardare all'INTENDIMENTO DI CHI LI FA. Nelle cose oscure si badi al più verosimile, e a ciò che accade più spesso. Il timore vano non è buona scusa. Per l'impossibile non c'è obbligo che tenga. Le cose proibite da natura non sono convalidate da legge nessuna. Per gius di natura nessuno dee farsi più ricco a danno altrui. Per gius civile i servi si stimano nulla. Non per diritto naturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali. Quando l'impero si foggia all'orientale, la giurisprudenza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno “la indigesta mole de’ digesti” e ciò accadde alla quarta età, o di vecchiezza. Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia latina di CICERONE e de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di questi e di quello apparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica, e, nelle speculazioni, fuggire tutti gl’eccessi delle sette, componendone, guidati dalla coscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari, mi sembra, che veramente dopo la dialettica distintiva de' greci, tendevano I ROMANI alla comprensione finale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca quarta della filosofia. Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: e opere di argomento retorico; (le opere che parlano dei segni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambito, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, l'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so- cio-politico, volta a definire la figura dell'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut- to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi;:ura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio- nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio- ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com- pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que- ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa- rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguijta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2.1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con- densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro- vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an- tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im- pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi- zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi- noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice- rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap- pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar- gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco- gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in"un mo- do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier dell'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili- ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon- strans). 9.2.1.1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro- vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., I, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re- lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae- rere videtur, De inv., I. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini- to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., I, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente al1'eik6s (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eik6s: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio- ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 CICERONE), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semefon aristotelico. 9.2.1.2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar- tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi- le), all'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi- le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite- ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan- za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no- stri sensi e indica (significat) un qualcosa che sembra deri- vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la polvere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo- lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio- nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio- ni, come dimostra il caso dell'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo- sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu- rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa- mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati argumentatio~ Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali necessaria (•ea quae aliter ac discuntur nec fieri nec probari pos- sunt"I es.: ·se ha partorito, è stata con un uomo" probabilis (•quod !ere solet fieri aut quod in opi- nione μositum est") es.: ·se è madre, ama suo figlio" signum credibile indicatt.:m comparabile ("quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam significat, quod ex ipso .!'rofectu.m .est"I. es.: sangue, fuga, "pallore", "polvere" vestigia facll) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono ur.. ruolo autonomo. Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo- ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechno1) e "luoghi intrinseci" (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testimonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda- lica e antichissima dell'amministrazione della giustizia; tut- tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para- digma divinatorio all'interno dei fatti semiotici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati. Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: 105). 9.2.2.1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor- so contraddittorio, tremore [...]. gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Part. or., 39). Cicerone non definisce qufsto tipo di segni, se non dicendo che si tratta di "fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte- ristica condivisa anche dai signa del De inventione (I, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor- nificio (Rhet. ad Her., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigia f acti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi- che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate- goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekméria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (114), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i semefa da un punto di vista episte- mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico- noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero- niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina- zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente- mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o coniectura -- I --vestigia facti osigna verisimili& notae propriae rerum c•quod plerumque ita r11·1 es.: ·adolescenza- incllnazione alla libidine· c•quod numquam aliter fit certumque declarat•) es.: ·tumo-fuoco· 1•sensu percipi potest") es.: ·sangue-uccisione• dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu- rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di- vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con- gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole- micamente rileva (De div., Il, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo- sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di- verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi dell'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di- vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet- tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi- losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora- neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato ste~so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per- ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo- rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que- st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste- nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3.1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon- te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu- nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata- ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro- cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia- listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter- preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in- terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau- se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quanto prima è accaduto" (De div., I, 127). Questo fa sì che gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo- do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tame.1causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con- nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul- la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iter attività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan- ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri- patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no- minati, De div.), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:   emittente divino - Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De div.); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra- gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.).segno interno - evento futuro • ricevente umano  9.2.3.3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi- nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se- gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse- guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e dell'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro- fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati- che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade- re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) 1 e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip- pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes- sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello all'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De div.); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ragioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.,).  Nel suo saggio Semiotica e filosofia del linguaggio ECO (si veda) osserva come la semiotica, proprio nel mo­mento storico in cui esce dalla marginalità, affermandosi come disciplina e vedendosi riconosciuto addirittura il ruolo di scienza paradigma, proprio in questo volgere di seco­ lo, appunto, diventa anche il referente ultimo di una serie di dichiarazioni che proclamano la morte del segno o, almeno, la sua crisi. Situazione non nuova, osserva Eco: la storia del pensiero occidentale è anche leggibile come storia di una cancellazione e rimozione, quella della semiotica come scienza, al di là dei (e nonostante i) numerosi pre-annunci, progetti, ipotesi di una teoria dei segni che, a più riprese, hanno percorso la riflessione teorica degl’ultimi duemila­ cinquecento anni. La proposta di ECO (si veda) è quella di pensare a un progetto attuale di semiotica che trovi giustificazione proprio nello spazio che intercorre tra le attuali negazioni e le reali presenze del passato. Ciò significa che la semiotica deve percorrere a ritroso il cammino della storia e divenire archeologia del sapere segnico: diverrebbe così possibile su­ perare i crampi linguistici che sono alla base delle attuali de­ finizioni del segno (che ne criticano il formato come troppo angusto o troppo ampio, che comunque non ne ritrovano il modello quando escono dai sistemi verbali). Il presente saggio costituisce un tentativo di accogliere il suggerimento di ECO (si veda) e si propone di indagare le pratiche se­miotiche dell’origini e la riflessione teorica sul segno, che sono elaborate dal mondo antico e che ci sono state consegnate dalla TRADIZIONE letteraria, FILOSOFICA, medica, storiografica, retorica. Si propone cioè di ritrovare le tracce di un filo rosso che percorre il mondo antico, dalle origini e che porta alla costituzione di una nozione di se­gno abbastanza diversa da quella proposta dalle teorie del Novecento. La maggior parte, infatti, delle dottrine del segno che so­no elaborate nel Novecento - sia in ambito linguisti­co, a partire dal Cours saussuriano, sia in ambito più gene­ ralmente semiologico - si fondano su due presupposti, che risultano del tutto assenti nella riflessione classica su questo soggetto: il modello di segno, sul quale l'intera indagine semiologica viene articolata, è quello del segno linguistico – ecceto in H. P. GRICE --; il tipo di rapporto postulato come instaurantesi tra le due facce del segno è quello dell'equivalenza (p=q) o almeno CONSEQUENZA (Hobbes, Grice). Da que­sta seconda assunzione dipende il fatto che la nozione di signi­-FICATO più diffusa fino a qualche anno fa nelle teorie seman­tiche fosse quella che lo vede come sinonimia o come de­finizione essenziale. A partire, infatti, dallo strutturalismo hjelmsleviano, fino ad arrivare alle teorie di semantica com­ponenziale e interpretativa di impostazione generativista, il singolo termine linguistico, o se si preferisce, la forma del­l'espressione di un segno, è sentito come equivalente a una serie di figure del contenuto, o marche semantiche, espresse a loro volta meta-linguisticamente da altrettante forme lin­guistiche (ad esempio: uomo = essere animato + uma­no + maschio + adulto). Cf. H. P. Grice: Bachelor: unmarried male – In defence of a dogma. Una indagine sul modo in cui nasce e si articola nell'anti­chità classica greco-romana (e particolarmente ROMANA) la riflessione sul segno ci permette di scoprire che, rispetto al primo punto, in origine, non solo non si ha omologazione dei vari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma che, anzi, le due teorie (quella semantica del linguaggio e quella del segno non-linguistico) procedono in maniera parallela, senza inter-connettersi. Ne è un esempio chiaro il fatto che Aristotele,nel LIZIO, adoperi il termine “symbolon” per indicare il segno linguistico, ma le espressioni “smefon” o “tekmrion” per indicare quello non linguistico. La saldatura avvienne molto più tardi, in Agostino. Ma, in questo caso, è l'espressione linguistica a essere sussunta sotto la categoria più generale [cf. H. P. Grice] e già costituita del segno non-linguistico. Per quello che riguarda il secondo punto, le pratiche se­gniche che la tradizione ci ha tramandato e le teorie classi­che prevedono un funzionamento del segno non secondo lo schema dell'equivalenza, bensì secondo quello deli'implica­zione (p q) – cf. Hobbes, Grice: CONSEQUENTIA. Per citare un esempio celebre, che percorre l'intera tradizione antica da Aristotele del LIZIO alla retorica romana di Quintiliano, pas­sando per IL PORTICO, un caso paradigmatico di segno è: Se una donna ha latte, ha partorito. The fact that this female has produced milk NATURALLY means that this female has given birth (H. P. Grice). A questo punto è già possibile un confronto. Il modello antico classico greco-romano, e particolarmente ROMANO, implicaziona­le – cf. Moore, ENTAIL – Frege assertion sign --, appare non solo molto più interessante rispetto a quello equazionale, ma certamente molto più, per così dire, attua­le. Infatti, è in corso nella ricerca contemporanea una revi­sione di paradigma, che tenta di superare le semantiche co­siddette "a dizionario" (che funzionano secondo il modello dell'equivalenza) per passare alla proposta di semantiche "istruzionali,” che funzionano secondo il modello dell'im­plicazione). Tuttavia, l'interesse di un lavoro di ricostruzione delle teorie semiotiche dell'antichità non è limitato soltanto al re­perimento di materiale sommerso, finalizzato, magari, alla costituzione di un quadro da mettere in confronto con quel­lo attuale di H. P. GRICE. C'è un interesse intrinseco anche nell'osservare come i campi nozionali, e la terminologia LATINA associata a essi si siano venuti distinguendo lentamente e abbiamo preso for­ma a partire da situazioni d’usi linguistici originariamente molto più magmatici. Anche in questo caso bisogna citare Aristotele del LIZIO come il primo che impone dei confini netti a ter­mini e concetti, che sono stati usati sino alla fine del V seco­lo a.C. e oltre (a esempio nei testi del Corpus Hippocrati­cum) con una oscillazione semantica considerevole. Prima della categorizzazione aristotelica del LIZIO, espressioni quali “semefon,” “aitia,” “prophasis,” “tekmrion,” ed “eikos,” non solo costituivano un campo di termini imparentati, ma anche di termini che ammettevano una parziale sovrapposizione e in­tercambiabilità (Lloyd). Ugualmen­te, il riferimento culturale di certe espressioni è stato, prima di Aristotele nel LIZIO, eterogeneo e diverso. “smafno,” a esempio, come ci mostra il frammento (Diels-Kranz) d’Eraclito è il verbo che indica la rivelazione oscura del dio di Del­fi. “tekmairomai,” poi, denota in generale il procedere at­traverso un ragionamento congetturale, ma nei tragici e nei lirici vienne usato in riferimento alla pratica dell'interpreta­zione divinatoria. “smefon,” infine (o la sua variante omerica “séma”), è il termine più complesso di tutti, indicando, fin dalle origini, una molteplicità di cose, dall'INDIZIO al SEGNO di riconoscimento, al prodigio divino, fino a essere usato come termine generale per il segno divinatorio (Bloch: tr. it.; Benveniste: tr. it.). È innanzitutto alla divinazione, all'astronomia e, tramite queste, all'arte della navigazione, che la problematica del segno viene in origine connessa. Come testimonianza di tale connessione, si può ricordare la cosmogonia d’Alcmane in cui all'origine del mondo compare la dea marina Teti, accompagnata da tre personaggi divini. Da una parte P6ros (''la via") e Tékmor ("il se­gnale", "il punto di riferimento"); dall'altra Sk6tos ("l'o­scurità"). Come sottolineano Detienne e Vernant, Tékmor svolge un ruolo fonda­mentale. Nell'oscurità [sk6tos] del cielo e delle acque in origine confuse, Tekmor introduce vie [p6roll differenziate, che rendono visibili sulla volta celeste e sul mare le varie dire­zioni dello spazio, orientando una distesa prima sprovvista di ogni tracciato, di ogni punto di riferimento, aporon kai atékmarton". I naviganti devono congetturare, “tekmafre­ sthal”, sulla distesa indifferenziata del mare, la loro rotta e gli dei e gli indovini la fanno loro intravedere, fissando in anticipo percorsi e punti di riferimento. In questo modo. i naviganti gettano un ponte tra il visibile o proprio il SENSIBILE e l'invisibile. Con Aristotele nl LIZIO, i termini del vocabolario semiotico, che mantenneno fino ad allora il riferimento alla sfera del sacro (e che continuano a essere usati in tal senso fuori dagl’ambienti filosofici e razionalistici), vengono pie­gati a un uso esclusivamente profano (Lanza) filosofico – cf. H. P. Grice: Words are not signs. Tuttavia, se si perde il carattere sacro dell’origini, qual­che traccia rimane ed è leggibile in trasparenza, se è vero che Aristotele nel LIZIO, nella sua delimitazione dei campi concettua­li – cf. Austin/Grice, Seminar on DE INTERPRETATIONE --, riserva l'espressione “smeion” al segno che non dà certez­za e che può risultare ingannevole (mentre riserva l'espres­sione “tekmrion” al segno sicuro). Qui, quello che è il segno ambiguo della rivelazione divina, diviene il segno am­biguo del modello conoscitivo razionalistico (“Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, they meant that he had the measles – By uttering, ‘He hasn’t been to prison yet” he might have meant that he is potentially dishonest. Grice. Se il paradigma semiotico affonda le sue radici nelle pra­tiche non-scientifiche o non-filosofiche della divinazione e della medicina magica (l’"iatromantica"), tuttavia lentamente depura, nel corso dei secoli, queste origini da tutto ciò che in esse c'è di irrazionale e di non controllabile (anche se sempre, al di fuori delle teorizzazioni della FILOSOFIA ANALITICA tipo H. P. Grice, rimarranno usi magmatici e irrazionali di questo paradigma, come dimo­strano, a esempio, le opere d’Artemidoro di Daldis o d’Elio Aristide sui segni onirici). Se si tiene presente quest'ottica, non è più sorprendente osservare che la forma proposizionale e implicazionale (p q) che IL PORTICO danno al segno -- Se c'è cicatrice, c'è stata piaga -- si ritrova identica nelle tavolette divinatorie mesopotamiche. Anche gl’antichi babilonesi esprimeno il segno attra­verso un periodo ipotetico, formato da una protasi, intro­dotta dalla congiunzione summa (equivalente alla “ei” greca e il “si” latino, che introduce il condizionale del PORTICO), e da una apodosi. Es­se, rispettivamente, traducono in proposizioni linguistiche il segno e la sua interpretazione. Se il polmone è rossastro a destra e sinistra, vi sarà un incendio. Bottero. In ambiente greco, una saldatura tra segno divinatorio e forma logica dell'implicazione (p q) la si trova testimoniata in uno dei dialoghi delfici di Plutarco, L 'E di Delfi. In que­st'opera, alcuni prestigiosi personaggi discutono sul signifi­cato d’un oggetto, avente la forma di E, che si trova tra i doni votivi del tempio di Delfi. Tra essi, Teone propone un'interpretazione della E ricorrendo al nome che nella lin­gua antica questa lettera riceve, e cioè ei. Teone assimila poi questo nome alla congiunzione ipotetica ei (latino “si,” italiano ''se") e mo­stra che tale c­ongiunzione svolge nella dialettica un ruolo essenziale, in quanto serve a esprimere il rapporto logico per eccellenza, quello che si ha nei condizionali del tipo, Se è giorno, c'è luce -- esempio, questo, che è tra i più classi­ ci della logica semiotica del PORTICO). Teone sottolinea, infine, che il dio di Delfi, Apollo, è un dio molto amante della dialettica, tanto è vero che i vaticini presuppongono la for­ma del condizionale, p q, che è la forma stessa che assu­mono i fenomeni dell'universo (e qui il richiamo è alla teo­ria del PORTICO della simpatia universale. Certo, quello che risulta dal testo di Plutarco è al massimo che la teoria del PORTICO del fato e della divinazione si fonda su base logica. Il destino consiste in una serie interconnessa di condizionali. Ma se l'ipotesi da porre fosse quella esatta­mente contraria? Se, cioè, lo strumento così asettico e ra­zionale della logica traesse in realtà le sue origini dall'ambi­to divinatorio? Come dimostra la sua stretta connessione con i segni e la divinazione presso IL PORTICO (Goldschmidt; Verbeke). Un enorme cammino è tuttavia stato compiuto dai testi divinatori babilonesi alla logica del PORTICO. La forma proposizio­nale rimane la stessa.. Ma nel caso del PORTICO è depura­ta non solo di ogni carattere sacrale, ma anche di ogni ele­mento contenutistico. È lì solo per il calcolo proposiziona­le. Nel caso degl’antichi mesopotamici, invece, il contenuto della protasi permette di inferire il contenuto dell'apodo­ si mediante più o meno complicati processi di analogia e giochi tropici. Il "rossore" del polmone permette di infe­rire "incendio" per un TRATTO SEMANTICO COMUNE. Infine una disamina sulla riflessione semiotica antica per­mette di scoprire come il dibattito sui segni, sulla loro natu­ra e sulla loro classificazione si sia attestato a livelli sor­prendentemente alti, come è il caso della discussione sui condizionali in seno alla stessa scuola del PORTICO (tra Diodoro, Filone – citato da H. P. Grice -- e Crisippo) o della disputa tra IL PORTICO e L’ORTO sul rapporto tra antecedente e conseguente nei segni, di cui puntualmente ci informa il De signis di Filodemo. La discussione di carattere semiotico, insomma, si riferi­sce sempre a, o si identifica decisamente con, il quadro più generale o più fondamentale del problema della psicologia razionale o della cono­scenza. È poi nel mondo romano che queste problematiche d’ordine conoscitivo generale vienneno piegate all’esigenze più pragmatiche della conoscenza giudiziaria – “Hart is no philosopher, he’s a laywer” -- Grice: il problema dei segni si identifica con quello delle metodiche per as­segnare un maggiore o minor valore di PROVA agl’indizi pre­sentati in un procedimento processuale. La semiotica vienne messa al servizio dell'arte del detective, in ciò prefigurando uno degl’aspetti più singolari dell'interesse contemporaneo nei confronti dei paradigmi indiziari (Eco e Sebeok). È, infine, con Agostino – e con Grice a Oxford --, che la teo­ria del segno fornisce un paradigma anche per la teoria del linguaggio, permettendo d’UNIFICARE in un'unica categoria anche i segni verbali. Desidero ringraziare i molti amici che hanno letto e di­scusso con me parti di questo lavoro. Tra coloro che mi hanno offerto preziosi suggerimenti critici vorrei ricordare Bernardini, Borutti, Crevatin, Fabbri, Manuli, Marmo, Ta­barroni, Vegetti, e Violi. Per molte delle idee e per l'impostazione generale del saggio sono debitore a ECO (si veda), di Bologna, la piu antica varisita del mondo, che segue e incoraggia il lavoro fin dai suoi inizi. Un ringraziamento particolare va a Conte, che ha rivisto una precedente versione del mano­scritto, e dal quale ho ricevuto una infinità di preziosi con­sigli. Quanto agl’errori e alle imprecisioni, ne assumo inve­ce totale responsabilità. C'è un campo specifico in relazione al quale tutte le cul­ture antiche riconoscevano l'eccellenza e il magistero dei popoli mesopotamici: quello della divinazione. Non ci si può nascondere tuttavia, a questo proposito, che l'atteggiamento sviluppato dalla cultura moderna nei confronti delle pratiche che rientrano in questo campo è fortemente svalutativo. Esse, infatti, rappresentano un pa­radigma che si pone esattamente agl’antipodi di quello che normalmente è assunto come il paradigma scientifico. Ma ci sono almeno due ragioni che ci inducono a guardare alla divinazione mesopotamica come a qualcosa che merita più di un interesse puramente occasionale o erudito. In primo luogo, infatti, è necessario ripensare, come sug­gerisce Ginzburg, ai rapporti tra paradigma divinatorio e paradigma scientifico come a qualcosa di molto più complesso di quello che si assume di solito e che non comporta affatto una svalutazione del primo termine. Infatti, per Ginzburg, il paradigma divinatorio (definito an­che, a seconda dei contesti in cui si manifesta, come indi­ziario, semeiotico, e venatorio), costituisce un modello di sapere specifico, caratterizzato dall'aspetto qualitativo: e cioè basato sulla conoscenza dell'individuale, attraverso l'uso della congettura. Ciò gli permette di giungere a risul­ tati notevoli, in tutte quell’aree del sapere che lo utilizzano privilegiatamente (al di là della mantica, sicuramente, anche la medicina, la filologia e cosi via, su su fino alla detec­tion, la connoisseurship, la psicoanalisi), anche se per que­sto deve pagare il prezzo di una ineliminabile dose di aleato­rietà. Si tratta, in realtà, di un sapere del tipo che Peirce [cf. Grice’s lectures on Peirce] definisce abduttivo, in contrapposi­ zione al modello del sapere quantitativo che fa uso della de­duzione come metodo di ragionamento. In secondo luogo bisogna ricordare che, in Mesopotamia, la divinazione subisce un lungo processo evolutivo che dalla fondamentale e primaria tendenza a inferire le cause dagl’effetti (procedimento tipico dell'abduzione) la porterà ad accentuare sempre di più i tratti generalizzanti e aprioristici, in modo da gettare le basi per una vera e propria scientifici­ tà di tipo astratto (Bottero 1974: tr. it. 211). Ciò che risulta di maggiore interesse, dal punto di vista della ricostruzione storica di una disciplina semiotica, è che al centro del pensiero divinatorio si pone proprio il segno in una accezione non banale. Quest'ultimo, infatti, costituisce anzitutto uno schema di ragionamento inferenziale, che permette di trarre alcune conclusioni a partire da certi dati. È interessante notare come il segno divenga centrale nel­ l'universo cognitivo mesopotamico, in quanto, partendo dal campo della divinazione, si estenderà in seguito anche alel altre pratiche culturali e discipline, come la medicina e la giurisprudenza, e arriverà ad articolare, unificandola sot­ to il suo modello, la totalità del sapere. Si raggiungerà dun­ que, in Mesopotamia, un punto in cui il sapere, a livello molecolare, funzionerà secondo lo schema, unificato e for­ male, del segno divinatorio, anche se contenuti di volta in volta differenziati verranno utilizzati per dargli corpo. Pos­ siamo già accennare (anche se vi torneremo su in seguito con maggiore ampiezza di dettagli) alal forma assunta nella cultura mesopotamica dal modello segnico: quella di un pe­ riodo ipotetico in cui una certa conclusione è data nella apodosi, come derivante direttamente dallo stato di cose presentate nella protasi: in cui, in altre parole, la protasi è "segno" deli'apodosi. Un modello segnico di questo tipo ("Se p, allora q") è molto vicino a quello tramandatoci dalla cultura greca nella fase della sua maggiore maturità semiotica: in particolare funziona secondo lo schema implicativo il modello di segno elaborato dalla scuola stoica. Ma qui, una volta rilevata l'affinità, devono subito essere messe in luce le differenze: nel segno della divinazione mesopotamica sono in genere gli elementi materiali (o contenutistici) che permettono il pas­ saggio dalla protasi all'apodosi; in quello della semiotica stoica, invece, le inferenze sono rese possibili unicamente grazie agli elementi formali. A ogni modo, nonostante queste profonde divergenze e al di là del problema, che pure si pone, degli eventuali debiti specifici della cultura greca nei confronti di quella mesopo­ tamica a questo proposito,1 è interessante verificare la pre­ senza dello stesso schema segnico p -:J q che attraversa due civiltà (quella greca e quella mesopotamica) e due ambiti culturali (la divinazione e la filosofia) per altri versi tanto distanti tra loro. 1. 1 Divinazione e scrittura Il fatto che quella mesopotamica sia essenzialmente una civiltà della scrittura costituisce senz'altro uno dei presup­ posti per capire il tipo di divinazione sviluppatosi in Meso­ potamia e le ragioni della sua ampia diffusione: è la scrittu­ ra, infatti, che in Mesopotamia fornisce la forma e il mo­ dello per tutta una serie di attività intellettuali, prima fra tutte quella deli'interpretazione dei segni inviati dagli dei. La lettura dell'avvenire e la conoscenza del nascosto non avvengono qui per diretta ispirazione divina, ma seguono lo stesso procedimento messo in atto neli'interpretazione dei segni della scrittura. 'l E proprio in relazione alla grande importanza assunta dalla scrittura nella cultura mesopotamica che il modello ri­ sultato egemone è quello della divinazione tecnica (Bouché­ Leclercq), quello cioè basato sulla interpretazione di segni che si realizzano esternamente al­ l'uomo e che richiedono l'intervento esplicativo degli spe­ cialisti. Per comprendere il ruolo che la coppia scritturaloralità gioca negli orientamenti divinatori è sufficiente mettere in relazione la civiltà mesopotamica con quella greca. Que­ st'ultima, come noto, è una cultura essenzialmente orale, dove la scrittura si sviluppa in un periodo relativamente re­ cente e non costituisce un fenomeno autonomo rispetto al parlato, bensì, essenzialmente, una sua riproduzione in ca­ ratteri fonetici. In stretta connessione con il carattere orale della cultura, in Grecia risulta egemone proprio il modello della divina­ zione ispirata, in cui il dio parla ali'uomo attraverso un profeta, avvertito come suo portavoce, secondo il celebre esempio della divinazione oracolare della Pizia a Delfi. E non è poi un caso che la società greca non abbia favorito, come avviene invece in Mesopotamia, la nascita e la presen­ za stabile di una classe sacerdotale preposta ali'interpreta­ zione specialistica sia dei segni della scrittura sia di quelli della divinazione. Al contrario, nella cultura mesopotamica la scrittura, per un verso, è un fenomeno piuttosto antico, per l'altro è un dispositivo dotato di meccanismi in larga misura autonomi rispetto al parlato. Le prime attestazioni della scrittura cuneiforme, infatti, si hanno tra la fine del IV millennio e l'inizio del III.2 Nella sua forma primitiva la scrittura è pittografica, in quanto fatta di segni che intendono designare ciò che raffigurano: a esempio la rappresentazione di una testa di bovino, trac­ ciata nei suoi contorni, ma perfettamente identificabile, in­ dicava in prima istanza "il bue"; ma, per una sorta di am­ pliamento semantico del segno, esso indicava anche "la vac­ ca" e "il bestiame grosso". Ugualmente il disegno schemati­ co di un piede aveva anche il significato di "stare in piedi" e quindi quello di "immobile", di "camminare", di "parti­ re", fino ad arrivare addirittura a quello di "portare via''. Come si vede l'abbinamento tra significanti e significati non si presenta né univoco né banale: esso infatti comporta un lavoro interpretativo piuttosto complesso per controlla­ re i processi di ampliamento o di slittamento dei significati per uno stesso segno. Processi che si complicavano attraverso nuove associa­ zioni derivanti dalla giustapposizione di segni diversi: il se­ gno del pane messo accanto a quello della bocca dà il pro­ dotto semantico "mangiare"; quello dell'acqua accanto a quello deli'occhio significa "lacrime"; se invece è messo ac­ canto a quello del cielo significa "pioggia". Più curioso an­ cora è il caso del segno della montagna che, giustapposto al segno indicante la donna, produce il senso "la schiava", in quanto le montagne delimitavano a est e a nord la regione, e una donna portata da un paese situato oltre la montagna era una straniera destinata a tale condizione. Ci sono dunque complicati meccanismi enciclopedici che governano l'interpretazione. Ma si può osservare anche che, nella sua forma più anti­ ca, quella cuneiforme è una scrittura di cose (Bottero 1974: tr. it. 168), in quanto non ha bisogno di passare attraverso il linguaggio verbale per designare gli oggetti della realtà. La sua autonomia rispetto alla realizzazione verbale è tota­ le, tanto è vero che i segni possono essere compresi da per­ sone che parlano lingue diverse e, del resto, sono pronun­ ciati in modo diverso in ciascuna di queste lingue come av­ viene, a esempio, per i numeri arabi nel mondo moderno. I Mesopotamici si dimostrarono molto legati a questa "scrit­ tura di cose" e non l'abbandonarono neppure quando ven­ nero fatti notevoli passi avanti verso il fonetismo con l'in­ venzione della scrittura sillabica. In effetti, circa un secolo dopo la sua prima scoperta, i segni della scrittura pittografica avevano cominciato a subi­ re un processo di scollegamento dalle "cose" che designava­ no, per essere collegati più direttamente alle "parole" con cui il linguaggio verbale designava i medesimi oggetti. Il ca­ rattere monosillabico di molte parole e l'alta percentuale di omonimi, avevano favorito questo processo. Un esempio interessante del fenomeno, che è anche il più antico, è quel- lo del segno della fr H 1---, che viene a in- dicare non più solo "la freccia" ma anche "la vita": la me­ diazione è stata dali'omonimia tra le parole designanti i due concetti, pronunciate entrambe ltil nella lingua sumerica.3 Possiamo così schematizzare il processo: pronuncia l ti l l"" significato ..freccia· ..vita• l ::rafico HH H'VA questo punto per arrivare a un alfabeto sillabico per­ fetto sarebbe stato sufficiente eliminare tutti gli ideogram­ mi indicanti parole per lasciare soltanto i segni di sillabe, sorta di unità minime infinitamente reimpiegabili. Invece i Mesopotamici lasciarono sopravvivere, accanto ai segni presi nel loro valore fonetico (indicanti una sillaba), i segni presi nel loro precedente valore pittografico. Ci sono almeno due importanti conseguenze che derivano da questa organizzazione della scrittura, per la divinazione. Anzitutto, come abbiamo visto da alcuni esempi, la scrit­ tura pittografica ha la caratteristica essenziale di tessere una rete sottile e complessa di rapporti tra le cose: abitua la mente a vedere nelle cose relazioni segrete e legami inso­ spettati. Essa suggerisce, altresi, un'attitudine mentale che porta a guardare anche alle cose del mondo reale come in­ nescanti un analogo processo semiosico: non solo, quindi, l'abbinamento pittografico del segno della montagna e di quello della donna indicheranno "schiava", ma anche lo stesso abbinamento osservato nella realtà, oppure in un so­ gno, porterà a trarre una inferenza analoga. È proprio un meccanismo inferenziale di questo tipo che si pone alla base della divinazione. La seconda conseguenza è connessa con il carattere spe­ cialistico delle conoscenze richieste per l'interpretazione della scrittura: i caratteri cuneiformi non sono accessibili a tutti, dato il sistema di cifrazione cosi complesso. Si crea al­ lora una sorta di aristocrazia di esperti capaci di interpretare i segni della scrittura. Allo stesso titolo si crea, per l'in­ terpretazione dei segni mandati dagli dei, la casta degli in­ dovini baro, i quali hanno come emblema della loro corpo­ razione proprio la tavoletta e il calamo. 1.2 La scrittura degli dei Come sottolinea Jeannie Carlier (1978: 1227), in Meso­ potamia "parlare di una scrittura degli dei non è una meta­ fora". Infatti quella cultura proietta nel campo teologico lo stesso modello di organizzazione che vede operante nel campo della burocrazia statale. Come ii re diffonde il suo potere dal centro alla periferia attraverso una capillare e sviluppatissima rete amministrativa che trasmette i suoi or­ dini scritti indirizzati ai sudditi, così gli dei si servono della scrittura per far conoscere agli uomini i destini che hanno fissato per ciascuno di loro; solo che "l'unica tavoletta a lo­ ro misura è l'universo intero" (ibidem). Sama e Adad, gli dei della divinazione, sono per un ver­ so come il sovrano che notifica la sua volontà ai sudditi per mezzo di messaggi scritti; per un altro sono come il giudice che, dopo aver preso una decisione, la ratifica sulla tavolet­ ta per darle validità e pubblicità. Il mondo, dunque, in questa concezione, è una immensa tavoletta, costituito da oggetti che sono il supporto materia­ le dei presagi da cui verranno ricavati gli oracoli, come vie­ ne testimoniato, tra l'altro, anche da un inno di Assurbani­ pal a Sama5: "Tu scruti alla luce (del) tuo (sguardo) la terra intera come (altrettanti) segni cuneiformi". Del resto i Babilonesi parlavano della disposizione degli astri come "scrittura del cielo" che veniva "letta" dagli astrologi. E d'altra parte non era raro il caso in cui un pre­ sagio consistesse letteralmente in un segno di scrittura trac­ ciato nelle pieghe del fegato di un animale o sulla fronte di un uomo. 1.3 Una semiologia "ante litteram" Una volta messo in luce il carattere di profonda affinità tra il sistema della scrittura cuneiforme e la divinazione concepita come scrittura degli dei, passiamo a esaminare la struttura interna del segno divinatorio. È possibile farsene un'idea abbastanza precisa attraverso i numerosi trattati di­ vinatori che ci sono pervenuti. Questi ultimi consistevano in lunghissimi elenchi di proposizioni complesse, ciascuna composta da una protasi e da un'apodosi. La protasi è in­ trodotta dall'espressione summa (equivalente alla congiun­ zione "se") e ha il verbo al presente o al passato: essa costi­ tuisce il "presagio", cioè il segno ominoso che deve essere interpretato; l'apodosi ha il verbo di solito al futuro e costi­ tuisce !'"oracolo", ciò che viene indicato o svelato dall'in­ terpretazione del segno. Vediamo alcuni esempi che, pur in relazione a differenti tecniche divinatorie, presentano tutti la stessa struttura:4 Astrologia Se nel giorno della sua scomparsa, la Luna si attarda nel cielo (invece di scomparire d'un tratto)- vi sarà siccità-e-arestia nel paese. Fisiognomonia Se un uomo ha il pelo delle spalle ricciuto - le donne lo ame­ ranno. Oniromanzia Se un uomo sogna che gli consegnano un sigillo - avrà un fi­ glio. Lecanomanzia Se, dal centro dell'olio (gettato sull'acqua), si staccano due "ponti", uno maggiore dell'aJtro - la sposa dell'interessato met­ terà aJ mondo un figlio maschio; quanto aJ malato, guarirà. Estispicina Se il polmone è rosso-vivo a destra e a sinistra - vi sarà un in­ cend io. PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 17 Libanomanzia Se, quando versi (la sostanza aromatica) sulla brace, il fumo si sprigiona (solamente) verso destra, e non verso sinistra - avrai la meglio sul tuo avversario. Se si sprigiona (solamente) verso sinistra e non verso destra - il tuo avversario avrà la meglio su di te. Questi esempi permettono già di fare due osservazioni a proposito del meccanismo semiotico in essi instaurato. In primo luogo la struttura del segno è espressa in termini di rapporti tra proposizioni e non tra singole unità lessicali o tra un significante e un significato in senso saussuriano. Questo fa sì che i segni non verbali e gli eventi acquisiscano subito un'importanza predominante, in quanto trovano ap­ punto nella proposizione il modo migliore di essere espressi. In secondo luogo il rapporto che c'è, all'interno di cia­ scun segno, tra la protasi e l'apodosi è di tipo implicativo, intendendo però questo termine come designante un'infe­ renza ancora abbastanza generica: come vedremo, all'inter­ no della scuola stoica, invece, l'interesse si accentuerà pro­ prio sul tentativo di definire il nesso implicativo che caratte­ rizza il segno e a questo proposito si accenderanno diver­ genze che alimenteranno una lunga e complessa discus­ sione . 1.4 n passaggio dalla protasi all'apodosi Messi di fronte ali'enorme massa delle proposizioni divi­ natorie documentate dai trattati mesopotamici può sembra­ re che regni la più completa casualità nel movimento che re­ gola il passaggio delle protasi-presagio alle relative apodo­ si-oracolo. A ben guardare, però, è possibile rintracciare al­ cune linee generali che consentono di mettere un po' d'ordi­ ne in un coacervo altrimenti amorfo e di cogliere alcuni principi di regolazione. Sono rintracciabili in realtà tre casi teorici di passaggio non casuale dalla prima alla seconda proposizione: Il primo tipo di passaggio è connesso al principio del co­ siddetto empirismo divinatorio: protasi e apodosi regi­ strano eventi che si sono verificati effettivamente secon­ do una concomitanza temporale. Questo genere di mec­ canismo si trova nei cosiddetti "oracoli storici", caratte­ rizzati dal fatto di avere l'apodosi al passato, anziché al futuro; essi riproducono verisimilmente la forma del tipo originario di divinazione. 2. 3. Il secondo tipo di passaggio non arbitrario è connesso alla possibilità di un gioco di associazioni tra elementi della protasi ed elementi dell'apodosi: naturalmente sono possibili i due casi, tanto del gioco fonetico sui signifi­ canti, quanto di quello tropico sui significati. Il terzo tipo di passaggio tra le due proposizioni è con­ nesso alla presenza di codici che prevedono una serie esauriente e completamente specificabile di casi. In realtà, nella fase più recente della storia della divina­ zione mesopotamica, i trattati subiscono un'evoluzione nel­ la direzione della sistematicità e dell'astrazione. Il sistema astratto e, in un certo senso, totalmente deduttivo prende il sopravvento anche sulla verisimiglianza stessa dei presagi. La furia classificatoria dei Mesopotamici guarda più ali'e­ saurimento di tutti i casi astrattamente possibili che non al­ la loro concreta possibilità di verifica. Avviene così che l'abbinamento di un'apodosi con una certa protasi dipenda dallo schema astratto e, dunque, divenga prevedibile. 1.4. 1 Gli "oracoli storici" e l'empirismo divinato­ rio Sommersi, e quasi fossilizzati, nell'insieme delle decine di migliaia di oracoli che i trattati mesopotamici ci hanno con­ servato, gli oracoli "storici" costituiscono un numero non grande, ma significativo. Essi possono essere attribuiti, in base all'analisi interna, all'epoca delle origini, anche se compaiono in trattati più recenti. PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 19 Essi presentano infatti quattro caratteristiche specifiche: l. hanno tutti la tipica apodosi al passato; 2. gli argomenti di cui trattano fanno riferimento ad avvenimenti storici che, nel caso in cui possano essere confrontati con altre fonti, risultano degni di fede; 3. i fatti e i personaggi che in essi sono menzionati sono collocabili, nella maggior parte dei casi, nell'epoca di Accad (ca. 2340-2160 a.C.); 4. fanno, quasi tutti, iniziare l'apodosi con la formula amat "(è il) presagio di", formula che è assolutamente inusuale negli al­ tri oracoli. Vediamone alcuni esempi: Se (nel Fegato) la Porta del Palazzo è doppia, se vi sono tre Ro­ gnoni e a destra della Vescichetta-biliare sono scavate (pa/Iu) due perforazioni (pilsu) ben nette - (è il) presagio degli abitanti di Apgal, che Naram-Sin (ca. 2260-23) per mezzo di scavi (pii­ fu) fece prigionieri. Se, a destra del Fegato, si trovano due Diti - (è il) presagio del­ l 'Epoca-dei-Competitori. In entrambi questi casi l'apodosi fa riferimento a fatti e personaggi storici reali deli'epoca di Accad. Si può ipotizza­ re che gli oracoli così formulati non siano stati molto di­ stanti cronologicamente dali'epoca dei fatti storici di cui parlano le apodosi. Anzi, il punto fondamentale è proprio che tali oracoli avrebbero registrato delle coincidenze "significative", a po­ steriori, tra un particolare stato di cose considerato ornino­ so e un evento della storia: tali coincidenze avrebbero as­ sunto in seguito valore di paradigma. A persuaderei di questa ipotesi, che risponde appunto al principio dell'empirismo divinatorio (Bouché-Leclercq 1879-82: vol. l, 298; Bottero 1974: tr. it. 161), c'è il fatto che spesso i Fegati di Mari contengono una formula che mostra come il gioco delle coincidenze si sia potuto stabi­ lire: Quando il mio paese si è rivoltato contro lbbi-Sin (2027-2003), questo (=il Fegato) si trovava così disposto. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMlCA Il plastico di Mari riproduce la forma assunta dal fegato reale esaminato durante un rito di estispicina: esso registra la coincidenza tra questa forma, assunta come ominosa, e un evento storico di importanza determinante, cioè la rivol­ ta contro l'ultimo re del periodo neosumerico, lbbi-S'ìn. L'ipotesi dell"'empirismo divinatorio" si spinge anche ol­ tre, ipotizzando che alla base stessa della scoperta della di­ vinazione si porrebbe la scoperta delle coincidenze tra la se­ rie di presagi e quella degli oracoli; ipotesi che può essere avvalorata dal fatto che tutti gli "oracoli storici" possono essere cronologicamente situati nel periodo delle origini del­ la divinazione mesopotamica. Nella istituzione stessa della pratica divinatoria si sarebbe vicini, così, a una forma del principio del post hoc, ergo propter hoc, per cui qualsiasi evento che fuoriesce in qual­ che maniera dal corso "normale" e che è seguìto da un altro evento, considerato a sua volta eccezionale, finirebbe per costituire con quest'ultimo una coppia inscindibile. Il colle­ gamento tra i due eventi, una volta stabilito, diventerebbe irresolubile; e il secondo evento, se non propriamente cau­ sato dal primo, risulterebbe almeno annunciato da quello. Ciò che di fatto viene qui elaborato è il metodo semiotico dell'inferenza delle cause dagli effetti, che è tipica dell'ab­ duzione. È vero che in questo caso si arriva a conclusioni che ci appaiono assurde, a causa di un errore fondamentale nell'applicazione del metodo: infatti quello che viene preso come risultato (o effetto) (una certa ben definita disposizio­ ne del fegato) che si presume essere il caso di una certa re­ gola (o causa) (rivoltarsi contro lbbi-Sin), in realtà non è affatto tale. Ma questo ha poca importanza: formalmente siamo di fronte a un'abduzione. Un tale principio è applicato costantemente. Non c'è nes­ sun interesse della divinazione a rivolgersi al passato: se le apodosi degli oracoli storici lo fanno è appunto perché la fi­ losofia che sta dietro a questo tipo di oracoli è che la storia può ripetersi. Nell'abduzione, infatti, una volta che sia sta­ ta inferita la regola che spiega un certo risultato, è possibile tenere a disposizione tale regola per successive applicazioni deduttive. PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 21 1.4.2 Oracoli con gioco associativo tra protasi e apodosi La seconda possibilità di un legame non casuale tra pro­ tasi e apodosi dipende dalla presenza di rapporti associativi tra elementi contenuti nella prima ed elementi contenuti nella seconda proposizione. È operante qui in maniera evidente il modello della scrit­ tura cuneiforme. Abbiamo infatti visto che essa tende a creare o suggerire una rete di relazioni tra cose non diretta­ mente in contatto. Sappiamo come l'interpretazione di un segno della scrittura cuneiforme apra la strada a una catena di veri e propri interpretanti: la rappresentazione ideografi­ ca dell'orecchio, a esempio, non solo significa "ascoltare", ma anche "obbedire", "apprendere'', "il sapere", "l'intelli­ genza". Ugualmente possono entrare in corto circuito se­ mantico due ideogrammi omografi o che differiscano per pochi tratti del significante. Cosi abbiamo due tipi di gioco associativo : l . quello sui significati; 2. quello sui significanti. 1 .4.2. 1 Il gioco sui significati Il rapporto che si instaura tra protasi e apodosi nel caso di un gioco associativo sui significati è quello che si ha tra un "cifrato" tropico, e una sorta di "chiaro" al grado zero. Vediamo alcuni esempi: Se il 29 del mese di Aiiar (aprile-maggio) si verifica un'eclisse di sole - il re morirà, duramente punito da Sam mortalità gene­ rale. Se un parto-anormale è doppio, con due teste, l'una saldata al­ l'altra, e otto zampe, ma una sola colonna-vertebrale - il paese sarà precipitato nella confusione per effetto delle dispute inte­ stine . Se un cavallo cerca di accoppiarsi con un bue - riduzione del­ l'incremento del bestiame. Nel primo esempio )'"eclisse di sole" può essere conside­ rata una metafora rispetto alla "morte del re"; del resto la metafora deli'eclisse come segno della morte di un sovrano si catacresizzerà ed entrerà in una lunga tradizione mantica anche greco-romana. Nel secondo esempio compare pure una metafora complessa: infatti la protasi parla del corpo di un unico animale (''una sola colonna-vertebrale"), che però ha organi doppi ("due teste", "otto zampe"); viene al­ lora istituito un parallelo con l'organismo statale (''il pae­ se"), unico, ma dilaniato e reso doppio dalle "dispute inte­ stine". Il terzo esempio presenta un caso di accoppiamento tra due animali di specie diverse, destinato dunque alla infe­ condità, il quale simbolizza una "riduzione dell'incremento del bestiame": la protasi ha la funzione (dal punto di vista della produzione segnica) deli 'esempio (Eco 1 975 : 296; Eco 1984: 47), che vale per l'intera classe. In generale, questi esempi mostrano come la logica che regola il rapporto tra protasi e apodosi è dell'ordine del simbolico. Naturalmente molto spesso la relazione tra il ci­ frato tropico e il chiaro ci sfugge, perché il linguaggio figu­ rato è dipendente dal contesto culturale: è verosimile che in molti casi operino associazioni che per la distanza spazio­ temporale tra le culture non possiamo più avvertire. 1 .4.2.2 Il gioco sui significanti Vediamo ora alcuni esempi di oracoli in cui nella protasi ci sono elementi che differiscono per pochi tratti del signifi­ cante da elementi correlati nell'apodosi: Se piove (zunnu iznun) nel giorno (della festa) del dio della città - quest'ultimo sarà adirato (zenl) contro di essa. Se la Vescichetta biliare è rientrante (na!Jsat) è inquietante (na!Jdat). - Se la Vescichetta biliare è presa dentro (kussti) il grasso - farà freddo (kU$$U).  1 .4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 23 Se il Diaframma è aderente (emid) - aiuto (imid) divino. La somiglianza tra i significanti fa sì che un fatto, indica­ to da una parola con un certo suono, sia considerato segno di un altro fatto, indicato da una parola con suono affine. 1 .4.3 I codici sistematici Il terzo tipo di abbinamento non casuale tra protasi e apodosi è quello legato alla presenza di codici sistematici. Come dicevamo, è possibile registrare nella divinazione mesopotamica un'evoluzione diacronica per cui, dall'epoca delle origini al periodo più recente, il modo di porre il rap­ porto tra protasi e apodosi si modifica nel senso dell'astra­ zione. Il culmine di tale processo porterà alla creazione di codici che prevedono una casistica generale ed esaustiva: in questo caso verrà totalmente abbandonato il principio del­ l'empirismo divinatorio per far spazio a una logica in un certo modo deduttiva, che fa dipendere dalla configurazio­ ne generale del codice l'inferenza del singolo caso. Infatti, a partire dal secondo quarto del II millennio, la documentazione storica non ci presenta più oracoli singoli, ma registra la presenza di un centinaio di "trattati", cioè di raccolte sistematiche e spesso molto dettagliate, di segni di­ vinatori.s La sistemazione in trattati, questo nuovo aspetto della di­ vinazione nel II millennio, ha come tratto saliente quello di risultare funzionale al raggruppamento di diversi segni ora­ colari in relazione a un unico oggetto, considerato ornino­ so. Quest'ultimo veniva scomposto nell'intera gamma delle sue parti o variazioni, ciascuna delle quali veniva a essere il tema di una singola protasi. Si registra, in effetti, una mi­ nuziosa opera di pertinentizzazione del reale: se un oggetto risulta esteso e divisibile, per ognuno dei singoli aspetti identificati, viene costruita una coppia presagio-oracolo. Ecco come, a esempio, in un trattato di estispicina, una sin­ gola porzione del fegato, la cosiddetta "Porta del Palazzo", viene esaminata: Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, si trova una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, una fessura è segnata per il lungo - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, si trova una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, una fessura è segnata per il lungo - Se, nel bel mezzo della Porta del Palazoz, si trova una fessura - ...  Come si può vedere, tutte queste protasi risultano co­ struite su un principio strutturale di opposizioni binarie tra Ila Soglia! e Iii bel mezzo! della Porta del Palazzo, tra jde­ stral e jsinistral, tra j fessuraj e l fessura segnata per il lungoj . È dunque proprio il sistema, inteso in un senso strutturali­ stico ante litteram, a prendere il sopravvento . Non vengono registrati più solo i casi che sono stati effettivamente osser­ vati, ma tutti i casi virtualmente possibili, in relazione a un sistema basato su opposizioni e regole astratte. Questo fatto diviene particolarmente evidente quando in­ contriamo in un trattato delle protasi che prendono in con­ siderazione fino a sette Vescichette biliari per uno stesso fe­ gato: la logica del sistema (basata in questo caso sulla rego­ la: n --+ n + l) prevale non solo sulla realtà, ma perfino sulla verisimiglianza. Una cosa analoa avviene quando, all'ini­ zio del trattato di teratomanzia Summa izbu, vengono pre­ viste, per un neonato perfettamente umano, circa quaranta possibilità di aspetto mostruoso: tra esse, che il neonato as­ somigli a un cavallo, a un leone, a un cane, a un maiale, a un bue, a un asino, oppure a una mano, a un piede e, addi­ rittura, a un corno di capra o a un mattone. Sotto la spinta della sistematizzazione, la divinazione cambia radicalmente: tutto l'impegno non è più dedicato al­ la ricerca di eventi ominosi, ma alla costruzione degli s-co­ dici (Eco 1975; 1984: 266) delle sequenze di protasi; a parti 1.5 ESPLICITAZIONE DELLE REGOLE DI CODIFICA 25 re da queste sequenze verrà costruito il codice vero e pro­ prio di abbinamento con le serie di apodosi. In questo sen­ so, anche se non formulate, varranno regole generali del ti­ po: "ogni volta che trovi il numero x nella protasi, assegna la caratteristica y all'apodosi"; cosi, a esempio, se l'indovi­ no incontra in un evento-protasi il numero sette, che il siste­ ma abbina costantemente, poniamo, alle caratteristiche del­ la "perfezione" e della "totalità", può dare come oracolo "vi sarà Pimpero". Sono del resto molte le regole di codifica non espresse, ma costanti, come a esempio quella per cui tutto ciò che è a destra è connesso con un auspicio favorevole, mentre tutto ciò che è a sinistra, esprime un augurio contrario. Oppure quella per cui è possibile "cambiare di segno", come in alge­ bra, alla predizione in base al contesto: a esempio, un pre­ sagio di per sé sfavorevole, se messo in rapporto con la sini­ stra, diventa favorevole, o viceversa. In questo senso l'apodosi diviene deducibile dalla prata­ si, in quanto basta osservare le caratteristiche sistematiche che in essa sono contenute per inferirla: è il trattato che for­ nisce in realtà la regola (anche senza esplicitarla): di fronte a un nuovo caso sarà facile per l'indovino trovare il risulta­ to applicando la regola. 1.5 L'esplicitazione delle regole di codifica Se nei trattati del II millennio si assiste al superamento della fase empirica a favore di una ristrutturazione della di­ vinazione su base sistematica e deduttiva, tuttavia, le regole della deduzione, per quanto largamente operanti, rimango­ no implicite. Nei trattati del I millennio si assiste a un'ulteriore evolu­ zione della divinazione, che porta ali'esplicitazione delle re­ gole stesse della codifica. Ciò è testimoniato dal grande trattato di aruspicina del I millennio, che aveva un capitolo in cui erano formulati i va­ lori essenziali di certe caratteristiche espresse dalle protasi. Il testo era disposto non più su due, ma su tre colonne. La  26 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA prima riguardava il presagio, o meglio la caratteristica che appariva ominosa nell'oggetto preso come segno. Di solito si trattava di una qualità, espressa o da un aggettivo ("gros­ so") o da un sostantivo astratto ("lunghezza") oppure, an­ cora, da un verbo all'infinito ("essere piegato verso il bas­ so"). Nella seconda colonna veniva registrato il valore fon­ damentale dell'oracolo, come a esempio "gloria", "poten­ za", "vittoria". La terza colonna, infine, proponeva una esemplificazione con un oracolo completo, tale che nella protasi comparisse la qualità registrata dalla prima colonna e neli'apodosi il valore risultante nella seconda colonna. Ec­ cone un esempio: Lunghezza Riuscita Se la Stazione è abbastanza lun­ ga da arrivare fino alla Strada il principe riuscirà nella campa­ gna che avrà intrapreso. È evidente qui l'ulteriore progresso compiuto nella dire­ zione dell'astrazione: abbiamo infatti la vera e propria pre­ sentazione della chiave del deciframento dei segni. Le leggi deli'esegesi sono messe in chiaro. Presentare il trattato sulle tre colonne equivale proprio a mettere in luce le leggi di cifratura. Ciò che vi è di arbitrario nell'abbina­ mento tra protasi e apodosi viene dichiarato fornendo i due termini della corrispondenza. Questo processo di astrazione non si arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alla dico­ tomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All'estrema complessità e particolarizzazione degli oraco­ li più antichi si contrapporrà l'estrema semplificazione di una logica binaria che prevede solo il sì o il no.  2. LA DIVINAZIONE GRECA 2.0 Divinazione e conoscenza Il campo delle pratiche divinatorie costituisce il primo ambito sufficientemente omogeneo in cui nella Grecia anti­ ca si parla di segni. Il termine semefon, che si incontra qui per la prima volta, è un nome di genere, che indica un segno divinatorio di tipo qualsiasi e comprende anche il responso oracolare, costituito in realtà da un testo verbale.1 Accanto a esso, come sue specificazioni relative ad ambiti particolari della divinazione (o, potremmo dire, a particola­ ri manifestazioni di sostanza dell'espressione), si trovano vari altri termini; tra essi oion6s che indica etimologicamen­ te il segno dato dal volo degli uccelli; phasma, che si riferi­ sce inizialmente ai presagi che si possono trarre dai fenome­ ni atmosferici, ma che si estende in seguito alle visioni in ge­ nere; téras, che costituisce l'equivalente deli 'espressione la­ tina prodigium e sta a indicare qualsiasi fenomeno o avve­ nimento insolito, e in qualche maniera mostruoso, che pos­ sa essere preso come base per una interpretazione divinato­ ria (Bioch 1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). In tutti questi casi, qualcosa sta per qualcos'altro, o meglio è assunto come base per un procedimento di inferenza. Nonostante che in Grecia la divinazione come pratica ef­ fettiva abbia avuto un'importanza abbastanza marginale,2 tuttavia il segno divinatorio ha dato origine a una tradizio­ ne, letteraria e filosofica, che lo insedia nel punto di origine mitico del processo di conoscenza.  28 2. LA DIVINAZIONE GRECA Innanzitutto, infatti, l'indovino (mtintis), colui che è ca­ pace di interpretare il segno proveniente dagli dei, è preci­ puamente un sapiente, e il tipo di sapienza di cui il mantis è portatore non si identifica con un'accezione limitativa del termine, come la conoscenza di una tecnica. Al contrario, la sua è piuttosto una sapienza di ordine generale e sicura­ mente superiore a qualsiasi tipo di conoscenza umana, co­ me suggerisce anche l'etimologia del termine mantis, che è collegato alla radice •men, con cui viene indicato un movi­ mento di accrescimento e di potenziamento dell'animo (Crahay 1974: tr. it. 220). In Omero, per la prima volta, incontriamo l'espressione che identifica la divinazione con la conoscenza "delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato": Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore tra gli scru­ tatori di uccelli l che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima (hòs id ta t 'e6nta ta t 'ess6mena pr6 t 'e6nta), l e aveva guidato verso Ilio le navi degli Achei l con la sua arte di­ vinatoria, che Febo Apollo gli aveva concesso. (Il., I, 69-72)3 Il passo omerico mette in risalto il carattere generale e to­ tale della conoscenza rappresentata dalla divinazione; è una conoscenza che trova un paragone solo con quella, molto più tarda, di ordine filosofico: l'espressione tà eonta ("le cose che sono"), che nel passo indica l'oggetto di conoscen­ za dell'indovino Calcante, rimarrà immutato nella tradizio­ ne filosofica, in Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele, come termine tecnico per indicare appunto gli oggetti della conoscenza filosofica in generale. In secondo luogo, il segno, che è lo strumento attraverso cui si attiva tale conoscenza, non proviene dalla sfera del­ l'umano, ma da quella più alta e numinosa del divino; esso è lo strumento di mediazione tra la conoscenza totale che ha il dio e quella limitata dell'uomo. Il segno è altresì, nella prospettiva aperta da Colli (1977: 379; 1975: 40), il luogo dell'irruzione della sapienza divina nella sfera dell'umano. Ma il dio parla un linguaggio che non è quello dell'uomo. La parola del responso oracolare, a esempio, è umana solo come suono, ma non produce alcun significato se le viene applicato il codice del linguaggio verbale degli uomini. C'è dunque una difformità nell'espressione dei contenuti della conoscenza che separa l'uomo dal dio; ma c'è anche una più radicale differenza nelle modalità stesse della conoscen­ za. Il dio padroneggia il tempo attraverso la "vista" simul­ tanea e del passato, e del presente, e del futuro: la sua anni­ scienza deriva appunto dal fatto di possedere una visione panoptica. Infatti Apollo, secondo l'espressione usata da Pindaro (Pyth., III, 29), possiede "l'occhiata che conosce ogni cosa". L'uomo, al contrario, può vedere solo il suo presente, mentre gli sono irrimediabilmente sottratte le altre dimen­ sioni del tempo. Solo il dio può permettergliene l'accesso; ma la visione deve essere tradotta in parole, in quanto l'uo­ mo accede alla conoscenza solo attraverso l'udito. Per il poeta, a esempio, la memoria del passato è garantita dal racconto che traduce la visione panoptica delle Muse (Horn., Il., Il, 484-486). Allo stesso titolo l'indovino è colui che rivela all'uomo il futuro traducendo in parole la "visio­ ne" che il dio gli comunica; ma proprio in questa traduzio­ ne il messaggio perde di perspicuità (Lanza 1979: 99-l00; Detienne 1967: tr. it. 1). Per questi motivi il segno divinatorio è enigmatico, oscu­ ro e per lo più incomprensibile. Per decifrarlo c'è bisogno di un interprete, qualcuno che sia diverso dal soggetto nel quale si è compiuto il processo di comunicazione e di tra­ sformazione della conoscenza. Platone individua due distinte figure, rispettivamente "l'uomo mantico" (colui che riceve la visione) e il "profeta" (colui che interpreta le parole pronunciate dal primo duran­ te l'estasi). Il celebre passo del Timeo, che propone tale di­ stinzione, in sé costituisce un piccolo trattato teorico della divinazione quale se la rappresentavano i Greci, e presenta con grande perspicuità la tradizione del segno divinatorio come segno non direttamente decodificabile: Vi è un segno sufficiente che il dio ha dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica. Occorre piuttosto che la forza della sua intelligenza sia impedi­ ta dal sonno o dalla malattia, oppure che egli l'abbia deviata es­ sendo posseduto da un dio. Ma appartiene all'uomo assennato il ricordare le cose dette (tà rhthénta) nel sogno o nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, il riflettere su di esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni (tà phasmata) al­ lora contemplate, il vedere onde quelle cose ricevano un signifi­ cato e a chi indichino (smalnel) un male o un bene futuro o passato o presente. A chi invece è esaltato e persiste in questo stato non spetta giudicare le apparizioni e le parole da lui dette. Questa è una buona e vecchia massima: soltanto a chi è assen­ nato conviene fare e conoscere ciò che lo riguarda, e conoscere se stesso. Di qui deriva la legge di erigere il genere dei profeti a interprete delle divinazioni ispirate dal dio. Questi profeti, alcu­ ni li chiamano divinatori, ignorando del tutto che essi sono in­ terpreti delle parole pronunziate mediante enigmi e di quelle immagini, ma per nulla divinatori. La cosa più giusta è di chia­ marli profeti, cioè interpreti di ciò che è stato divinato. (Plat., Tim., 7le-72a) Al centro concettuale del passo si pone il verbo smafno, che indica appunto la rivelazione del dio; quest'ultimo si presenta come il vero enunciatore, attraverso l'uomo ispira­ to, del testo divinatorio. Il soggetto grammaticale di smal­ no è costituito dai due termini che indicano le due forme di segno divinatorio, cioè "le cose dette" e "le visioni contem­ plate", ma il responsabile della produzione di questi segni è "la natura divinatrice ed entusiastica", cioè il dio stesso che fa irruzione nell'uomo tramite l'invasamento (come indica anche l'etimologia del secondo termine, collegata a theos). L'uomo non è che un canale di trasmissione o un portavo­ ce. E perché il significato arrivi fino al destinatario c'è biso­ gno di un complesso procedimento di interpretazione. Cosi se prendiamo il verbo semalno come un predicato associato a un certo numero di ruoli (o casi logici) e lo mettiamo in relazione a un processo di comunicazione e a uno di inter­ pretazione, possiamo leggere il passo platonico secondo il seguente schema (molto semplificato in alcune sue parti): 30  soggeno •te cose dette'" "le visioni contemplate'" il dio l'uomo invasato significato - destinatario "'un male o un bene futuro o passato o presente'" trice ed entusia- stica· 2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 3 1  --- - - -,  '"la natura divina- l l'uomo  processo di interpretazione del segno, effe"uato da personaggi con un sapere specializzato, a favore del destinatario "'i profeti'"   Il verbo smafno, dunque, non ha il banale senso di "si­ gnificare", nel senso deli'instaurazione di un rapporto tra un piano dell'espressione e un piano del contenuto all'inter­ no di un segno. Esso sembra piuttosto riferirsi al processo di comunicazione stesso che il dio attiva nei confronti del­ l'uomo: in altre parole, nel passo platonico, il verbo sembra riferirsi alla situazione per cui il dio "indica attraverso segni (enigmatici)" all'uomo qualcosa, che a quest'ultimo è sco­ nosciuto . A confermare l'uso del verbo smafno con questo senso nei contesti divinatori si trova una lunga tradizione che risa­ le almeno a Eraclito, al noto frammento 93 dell'edizione Diels-Kranz (tr. it. 1974). È stato Romeo (1976) che, in una lucida e complessa analisi del frammento, ha messo in evi­ denza questo significato del verbo smafno, arrivando alla traduzione: (sorgente) (strumento) smafnei (oggetto) (scopo) enunciatore- segno -- canale -l! 2. I.A DIVINAZIONE GRECA Il ··•Hno• c du: ha l'oracolo in Delfi, né dischiude, né nasconde il,•.un pnJ.•,ac•o, rna lo indicaattraversosegni(smalner)4 rourro una lunga tradizione che rendeva la forma verbale sl'nuJinei con "significa" o con altre espressioni che avevano l'cffcllo di rendere contraddittorio o incomprensibile l'inte­ ro frammento. Si viene qui a profilare un'opposizione tra due tipi di lin­ guaggio, che hanno caratteristiche antitetiche. Da una parte c'è il linguaggio umano, caratterizzato dalla trasparenza e dall'immediata decifrabilità (e possiamo fare l'ipotesi che proprio questo tipo di linguaggio sia circoscritto da entram­ bi i termini della coppia oppositiva "dischiudo [/égO]"/"na­ scondo [krfptO]": l'uomo o svela completamente il suo pen­ siero, usando il linguaggio, oppure lo nasconde del tutto, non esternandolo in parole). Dall'altra parte c'è un diverso tipo di linguaggio, quello attribuito direttamente al dio nel frammento di Eraclito (e indirettamente nel passo platoni­ co), che è indicato dal verbo semafno e che ha le caratteristi­ che opposte dell'oscurità e della non immediata decodifica­ bilità. Il dio non concede all'uomo una rivelazione comple­ ta, né gli nega totalmente la conoscenza: gli fornisce piutto­ sto, attraverso il segno oracolare, una base di inferenza sul­ la quale l'uomo dovrà lavorare per giungere a una conclu­ sione, senza però dargli alcuna garanzia sulla via da seguire con il ragionamento. Ci sono due spiegazioni al fatto che la cultura letteraria e filosofica greca si sia rappresentata il segno divinatorio co­ me oscuro e ambiguo. La prima è quella che abbiamo visto inquadrarsi nell'otti­ ca di Colli, secondo cui il segno divinatorio può essere con­ siderato come "l'impronta del divino" nell'uomo, indizio di un punto di contatto (quello attraverso cui la conoscenza divina si comunica all'uomo), e contemporaneamente di un punto di fuga.s La seconda spiegazione è quella messa in luce da Vernant (1974: tr. it. 20-21), ed è inerente al tipo di razionalità speci­ fica messa in gioco dalla divinazione, come pratica effetti­ va, oltre che come teoria. Essa si connette al diverso ruolo  2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 33 che gioca il destino rispettivamente nella sfera divina e in quella umana. Infatti, a livello dell'esistenza umana, il de­ stino è concepibile come una successione lineare di avveni­ menti (rappresentato metaforicamente dal filo delle Par­ che), i quali si connettono tra loro apparentemente senza che possa essere attribuito loro un senso globale. Questa successione acquisisce un significato solo quando è arrivata al suo termine, quando cioè il destino "si compie". È solo a questo punto che esso diventa intelligibile e permette di spiegare, alla luce degli ulteriori sviluppi, anche gli avveni­ menti passati ai quali non si era saputo dare un senso. Fino a quel momento, tuttavia, l'uomo rimane in una fondamen­ tale ignoranza: anzi, è proprio questa ignoranza a caratte­ rizzare l'esistenza umana. A livello degli dei, al contrario, il destino di ciascun uo­ mo è presente e intelligibile in ogni momento nella sua tota­ lità. Esso infatti è stabilito in maniera irrevocabile e iscritto nell'eternità già prima della nascita di ogni uomo. La divi­ nazione trova il suo spazio proprio in questo scarto di cono­ scenza che si apre tra gli uomini e gli dei: l'oracolo (e in ulti­ ma analisi anche ogni altro tipo di segno divinatorio) si sup­ pone che riveli all'uomo, quando è ancora in vita, proprio il significato segreto del suo destino, mentre questo sarebbe accessibile, dal punto di vista umano, solo dopo la morte. Tuttavia, se la divinazione compisse la sua funzione pro­ fetica sino in fondo, se cioè abolisse totalmente lo scarto di conoscenza che esiste tra l'uomo e la divinità, risulterebbe con ciò cancellata anche la differenza che distingue l'uomo dal dio. Per questa ragione il dio non svela il destino più di quanto lo nasconda in effetti, secondo la formulazione di Eraclito. L'oracolo lo lascia intravedere, ma nello stesso tempo lo dissimula; lo dà a indovinare attraverso un segno oscuro ed enigmatico che per i consultanti non è più intelli­ gibile di quanto lo siano gli avvenimenti per i quali si sono rivolti all'oracolo. Così, la logica della divinazione fa in modo che con l'ambiguità del segno venga reintrodotta, a livello umano, quella "opacità" circa il destino che l'anni­ scienza divinatoria avrebbe il compito di attenuare, se non di eliminare del tutto.  14 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2. 1 llue tipi di divinazione 2 . 1 . 1 La divinazione naturale Il passo platonico del Timeo, come pure il frammento di Eraclito, fanno riferimento a un tipo di divinazione che vie­ ne di solito definita "ispirata": essa rientra all'interno della categoria generale della mantik atechnos, della divinazione cioè che non richiede un apparato di mezzi tecnici per la sua messa in opera e per questo, talvolta, riceve anche il nome di "divinazione naturale" (Cic., De divinatione). Il carattere specifico di questo tipo di divinazione è quel­ lo per cui il sapere del dio non passa attraverso mezzi di ma­ nifestazione esterni all'uomo: l'ispirazione divina raggiunge direttamente l'individuo attraverso i sogni (cioè un testo iconico) o si comunica a un profeta-portavoce che emette un responso (normalmente un testo verbale). Per usare l'e­ spressione di Romeo (1976: 84), si tratta di un tipo di divi­ nazione "endosemiotica". Secondo questo modello funzionava il più noto e presti­ gioso oracolo della Grecia antica, quello di Delfi6 in cui la Pizia, la sacerdotessa di Apollo, emetteva un responso co­ stituito da un testo verbale. Ma, come abbiamo visto, per quanto esso fosse formulato nei termini del linguaggio na­ turale, il suo senso non era decodificabile mediante la sem­ plice applicazione delle regole del codice linguistico a livello denotativo. Più avanti vedremo alcuni esempi di decodifica aberrante di responsi, fraintesi proprio per la pedissequa applicazione di questo codice senza far ricorso a regole più complesse (come quelle di tipo retorico-tropico). 2. 1 .2 La divinazione artificiale Il secondo tipo di divinazione è la mantik technik, defi­ nita, a seconda dei commentatori, come "congetturale", "induttiva", "deduttiva" o "artificiale". Era basata suli'a­ nalisi dei segni (visibili, acustici, sensibili) che si realizzava-no nell'ambiente esterno all'uomo e che potevano essere spontanei (come i fulmini o le eclissi) oppure provocati (co­ me il lancio dei dadi o l'estispicina).7 Questo secondo tipo di divinazione mette in gioco una lo­ gica particolare, basata sull'ipotesi che esistano rapporti di omologia e di corrispondenza tra il microcosmo, rappresen­ tato dal fenomeno preso come segno, e il macrocosmo, rap­ presentato dall'ordine generale dell'universo (J. Vernant 1948; J.-P. Vernant 1974). A questo proposito vengono isolate delle porzioni di spa­ zio - che possono essere, a esempio, le regioni del cielo per l'astrologia, come pure la superficie del fegato della vittima sacrificale per l'estispicina - che vengono caricate di valore simbolico e deputate a funzionare da specchio dell'ordine cosmico generale. Negli spazi così delimitati è possibile leg­ gere la configurazione futura degli eventi, sottratta a quella aleatorietà, a cui gli eventi reali sono invece sottoposti, e per sopprimere appunto la quale il consultante si rivolge al­ la divinazione. Si creano così due serie, quella delle configurazioni strut­ turali interne al testo segnico e quella degli eventi a cui tali configurazioni rimandano; tra le due si stabilisce un vero e proprio codice di corrispondenza, che permette di passare immediatamente dal segno al suo significato. Ne vediamo un esempio molto semplice nel seguente passo di Omero: Dico che un cenno ci dette il Cronide superbo l il giorno che sulle navi veloci in cammino salivano gli Argivi l a portare stra­ ge e morte ai Troiani l tuonando da destra, mostrando segni di buon augurio. (//., Il, 351-354) In questo caso la volta celeste viene costituita come spa­ zio significativo, come microcosmo in cui sia possibile leg­ gere i segni del destino. Questo spazio viene articolato in una struttura binaria che oppone due regioni, la destra e la sinistra: a ciascuna di esse viene abbinato un valore seman­ tico (ldestral--+"buon auspicio", !sinistra!-+"cattivo auspi­ cio"). Una più articolata configurazione del significato deLA DIVINAZIONE GRECA riva dalla circostanza di enunciazione, cioè dalla sua rela­ zione con la domanda esplicita (o implicita, come in questo caso) che l'interrogante pone alla divinità·. Nel passo omeri­ co la circostanza di enunciazione è la partenza della spedi­ zione per Troia, e la domanda implicita concerne la riuscita dell'impresa: dunque il tuono che proviene dalla regione de­ stra del cielo viene a significare "buona riuscita dell'impresa dei Greci contro Troia". Infatti, per quel che riguarda l'individuazione del signifi­ cato ultimo del segno, tutti i sistemi divinatori si basano su un equilibrio più o meno stabile tra le strutture formali del codice che permettono di cifrare in maniera completa l'av­ venimento prodigioso e insolito, e la molteplicità delle si­ tuazioni concrete a cui tale avvenimento-segno può riman­ dare nei contesti specifici. Nell'esempio omerico il codice è così semplice da essere diventato patrimonio comune, tanto che non si fa cenno della presenza di un indovino, per decifrare il segno. Di so­ lito non è così per la divinazione artificiale, il cui carattere "tecnico" risiedeva proprio nel fatto che per l'interpretazio­ ne dei segni era necessario fare ricorso alla conoscenza spe­ cializzata di personaggi depositari di un sapere che verte sulle regole di decodifica. L'indovino è infatti essenziale nel caso, appena più com­ plesso, riportato da Plutarco nella Vita di Dione (24). L'a­ neddoto riguarda la spedizione effettuata nel 357 a.C. da Diane contro Dionigi di Siracusa, durante la quale si verifi­ cò un'eclisse di luna. L'indovino Miltas, chiamato a inter­ pretare quel segno, dichiarò che esso annunciava che qual­ cosa che era stato splendente fino ad allora, si sarebbe oscu­ rato: non poteva, dunque, che trattarsi del regno tirannico di Dionigi, il quale era destinato a soccombere sotto l'attac­ co portatogli da Dione. Anche qui ci sono le due fasi: la prima determina il signi­ ficato degli abbinamenti del codice e la seconda quello deri­ vante dalla sua applicazione alla situazione concreta. Inol­ tre l'indovino Miltas si avvale di una tecnica più sofisticata, che fa ricorso anche alle trasformazioni retoriche: la rela­ zione tra il macrocosmo della luna che viene oscurata dal-  2. 1 DUE TIPI DI DIVINAZIONE 37 l'eclisse e il microcosmo del regno di Dionigi destinato a soccombere è mediata dall'elemento comune !splendore! con cui si designa in modo proprio una qualità della luna e in modo figurato una proprietà del regno di Dionigi. Esistevano poi codici notevolmente elaborati già al sem­ plice livello degli abbinamenti, come a esempio il codice dell'estispicina. In questa pratica venivano esaminate le vi­ scere degli animali, in particolare il fegato, del quale si os­ servavano l'aspetto e la posizione del lobo, della vescichetta e delle porte.8 Per quello che riguarda la cultura greca non abbiamo esempi del modo in cui venivano effettivamente realizzati gli abbinamenti tra gli elementi significanti e quel­ li a cui essi rinviavano. Tuttavia Luc Brisson (1974), in uno studio molto interessante e completo sulla divinazione in Platone, ha segnalato un passo del Timeo (71 a-d) in cui, nonostante non si parli direttamente di estispicina, si descri­ ve un fenomeno che con essa ha molti punti di contatto. Il passo illustra i processi che si determinan9 quando l'anima razionale, che ha sede nel cervello, lascia la sua impronta, "come in uno specchio", sul fegato che è la sede dell'anima appetitiva: questo permette di vedere riprodotte nel fegato (nei suoi aspetti via via diversificantisi) le impressioni la­ sciate dali'anima razionale. La specularità è, però, solo metaforica perché si verifica­ no in realtà dei processi di codificazione molto forte, che fanno pensare ai meccanismi della "comunicazione biochi­ mica" . In definitiva il fegato viene a costituire un testo segnico sul quale I 'anima appetitiva legge i contenuti intelligibili, di­ venuti sensibili attraverso un processo di codifica. Esso co­ stituisce altresì un microcosmo che rispecchia, anche se in modo molto particolare, l'assetto del macrocosmo costitui­ to dali'anima razionale. Si può presumere che i codici dell'estispicina funzionasse­ ro in un modo analogo a quello descritto per i processi di comunicazione "intrapsichica" illustrati dal Timeo. Tuttavia, proprio da Platone scaturisce una delle più reci­ se condanne che la Grecia classica abbia espresso nei con­ fronti della divinazione artificiale. Tale condanna si trova  38 2. LA DIVINAZIONE GRECA formulata nei due testi del Timeo (72 b) e del Fedro (244 c-d). Nel primo di questi, in particolare, è contenuta una condanna dell'epatoscopia: infatti Platone, che accetta la possibilità di leggere sul fegato molti segni quando questo è contenuto in un organismo vivente, sostiene che esso non può rivelare niente di sicuro agli uomini, quando è privato della vita e non è più sottoposto all'influsso luminoso del­ l'anima razionale. Più generale e radicale è la condanna della divinazione tecnica nel Fedro. In quel testo Platone fa l'elogio della fol­ lia, di cui considera la divinazione una specie, e separa la mantica ispirata ed entusiastica da tutte le altre forme di in­ vestigazione del futuro. In particolare la "mantica", nel senso ristretto, viene contrapposta alla "oionistica", cioè la divinazione mediante l'osservazione dei segni dati dal volo degli uccelli. La ragione della discriminazione è chiara: nella divina­ zione tecnica la ragione umana pretende di sostituirsi ali'i­ spirazione divina. Per indicare che in questo modo non si raggiunge che un grado molto pallido e incerto di conoscen­ za, Platone inventa addirittura una connessione etimologi­ ca tra "oionistica" e olsis (''opinione") ("L'investigazione del futuro [. . .] attraverso gli uccelli [. . .] fu chiamata 'oio­ noistica', che i moderni, rendendola solenne con un omega, dicono oionistica": Phaedr., 244 c). Nella divinazione ispi­ rata, invece, la conoscenza deriva all'uomo da una posses­ sione divina e questo è garan.zia di verità. Sembra profilarsi un'opposizione tra smafnein e tekmal­ resthai, il primo verbo indicando, come nel Timeo e in Era­ clito, il dono della conoscenza elargita dal dio, mentre il se­ condo indica la congettura puramente umana. Questa op­ posizione richiama il motto di Alcmeone: Delle cose invisibili e delle cose visibili gli dei hanno conoscenza certa; ma agli uomini tocca procedere per indizi (tekmafre­ sthal) . (Diels-Kranz, 24 b l) su cui avremo occasione di tornare.   2.2 DUE MODELLI DI DIVINAZIONE ORACOLARE 39 I passi platonici non esemplificano soltanto l'opinione del filosofo ateniese, ma si pongono altresì in linea con la scelta di fondo compiuta da tutta la civiltà greca nei con­ fronti della divinazione ispirata. Infatti, per quanto in Gre­ cia venissero praticate anche forme di divinazione tecnica, a esse è stata sempre riservata un'importanza secondaria, mentre l'attenzione si è concentrata soprattutto sulle forme della divinazione oracolare, che si esprimevano attraverso la parola. D'altra parte questo fenomeno deve essere messo in rela­ zione con il fatto che la civiltà greca è essenzialmente di tipo orale; in essa la scrittura è non soltanto un fenomeno recen­ te, ma del tutto dipendente dal parlato, che essa tende a ri­ produrre foneticamente. In altre civiltà, come quella meso­ potamica o quella cinese, la scrittura è molto più antica e funziona come un sistema autonomo rispetto alla lingua, presentando a suo modo, attraverso i segni grafici, quelle realtà che la lingua presenta in altra maniera: in queste ci­ viltà la scelta compiuta nei confronti del tipo di divinazione è opposta a quella greca. 2.2 Due modelli della divinazione oracolare Esistono tuttavia profonde differenze tra l'immagine che della divinazione oracolare propongono i testi letterari e il modo in cui essa veniva praticata effettivamente nei santua­ ri a essa adibiti. J.-P. Vernant (1974) parla di due distinti modelli. Nella Grecia dell'età classica, infatti, la divinazione come pratica effettiva ha una rilevanza marginale nel regime della polis. Infatti l'oracolo viene consultato non per ottenere una predizione sul destino, ma per prospettargli, in forma di alternativa, un certo corso di eventi che si ha intenzione di intraprendere e per domandargli se la via sia libera o pre­ clusa.9 Si instaura a questo proposito un vero e proprio dialogo tra il consultante e l'oracolo (Crahay 1974): quest'ultimo ri­ sponde innanzitutto alla domanda che è stata posta in for- LA DIVlNAZIONE GRECA ma chiusa, predicendo al consultante se farà o non farà una determinata cosa. Il consultante pone poi all'oracolo una seconda domanda, in forma aperta, ma limitata a una con­ dizione rituale di successo: in sostanza, esso domanda al­ l'oracolo quali ostacoli debbono essere rimossi perché l'im­ presa prospettata giunga a buon fine. È interessante a que­ sto punto vedere come la formula usata di solito dall'oraco­ lo nell'emanare il consiglio di carattere rituale rispecchi quella che veniva usata per redigere le decisioni dell'assem­ blea sancite dal popolo. L'oracolo dice infatti loion kai ameinon éstai (''sarà più conveniente e preferibile"), pro­ prio come nei decreti deli'assemblea si usano formule che pongono l'accento sulla "preferenza" tra le opinioni, piut­ tosto che sull'intimatività della decisione. Ciò è indice del fatto che nella civiltà greca è il modello della discussione as­ sembleare che si proietta sulla divinazione, e non viceversa come avveniva nella civiltà mesopotamica. Ed è interessante che in questo modello di divinazione non si trovi alcuna traccia di risposta ambigua o oscura. Ambiguità e oscurità si trovano solo nel secondo model­ lo, quello "teorico,, della divinazione oracolare, presente in tutta la letteratura scritta, da Erodoto ai poeti tragici, ai fi­ losofi. Esso costituisce la rappresentazione che la cultura della città si dà della divinazione. Secondo·questo modello, l'oracolo viene consultato non per ottenere un consiglio, ma direttamente sul destino. Ciò determina la supposizione che l'oracolo sia onnisciente, in quanto deve conoscere sia lo sviluppo futuro degli eventi, sia, nel contempo, il passa­ to, in cui si situano le remote origini delle sorti attuali e fu­ ture deli'indi\iduo o del gruppo consultante. La logica a cui questo modello risponde non è più bina­ ria: l'oracolo deve qui impegnarsi a ridurre a una sola, spe­ cifica, opzione l'infinità dei possibili. Il responso oscuro e ambiguo reintroduce, del resto, l'in­ certezza che caratterizza la condizione umana che l'oracolo tende ad annullare. Così, nei racconti oracolari dei testi let­ terari, la profezia sembra sempre inadeguata rispetto al cor­ so preso dagli eventi. Il segno rimane oscuro fintantoché il "compiersi" della sorte si incarica di fare chiarezza e di de-  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARI 41 sambiguare, ormai troppo tardi, la polisemia del testo pro­ fetico. 2.3 Il problema interpretativo nei racconti oraco­ lari Naturalmente, per capire come la nozione di smefon si sia sedimentata nella cultura greca, per vedere quale sia il nucleo semantico con cui il termine indicante il segno è sta­ to consegnato alla tradizione filosofica, il riferimento ali'u­ so di smefon nei testi letterari è altrettanto importante quanto il suo significato nelle pratiche divinatorie effettive. Soprattutto nei testi di Erodoto e dei tragediografi è pos­ sibile vedere come costantemente venga tematizzato il pro­ blema interpretativo che il segno oracolare pone: l'oscurità del segno è in principio legata alla difficoltà, che diviene immancabilmente impossibilità, di risolvere tale problema. Si deve però dire che in primo luogo l'uomo è accecato dal­ la hjbris, e palesa la sua scarsa ricettività alla parola della profezia in vari modi: la dimentica, non ne segue le diretti­ ve, sbaglia la modalità di consultazione; alla fine, però, il suo errore fondamentale è quello di scegliere sempre il ter­ mine errato dell'alternativa posta dal segno ambiguo. Se la sua colpa è, dunque, un peccato di tracotanza, il suo errore è un errore di conoscenza, e ha un carattere squi­ sitamente semiotico. Ancora una volta compare l'opposizione "linguaggio umano"/"linguaggio divino": l'uomo infatti interpreta sempre la profezia secondo il proprio codice, non tentando mai di intendere la parola della rivelazione come cifrata in un altro linguaggio, quello appunto della divinità. In termini semiotici, in tutti i racconti sul tema della divi­ nazione oracolare, l'uomo interpreta invariabilmente il te­ sto in modo letterale, mentre questo dovrebbe ricevere una lettura secondo quello che potremmo definire modo enig­ matico.10 Infatti, l'idea fondamentale che i racconti oracolari sug­ geriscono è che esista sempre nella profezia un senso secon-  42 2. LA DIVINAZIONE GRECA do, che è nascosto e che costituisce il vero e unico significa­ to del segno: è la scoperta di questo secondo senso, scartan­ do il primo, che qui chiamiamo interpretazione secondo il modo enigmatico. Invece l'uomo coinvolto nell'interpreta­ zione, data la sua incapacità di attingere la sapienza divina, compie proprio il gesto contrario, scartando la possibilità di un senso non letterale. Vi sono tuttavia diverse forme dell'errore di interpreta­ zione. (i) La prima consiste nella incapacità di assegnare un senso al testo, o meglio, di adeguarlo a circostanze reali no­ te: non si trovano oggetti a cui le parole della profezia pos­ sano essere riferite e il testo appare totalmente assurdo. (ii) La seconda forma di errore consiste nel riferire la profezia a oggetti reali, ma erroneamente identificati; ve ne sono due sottospecie, a seconda che l'errore sia dovuto a una omoni­ mia o a un equivoco (e quest'ultimo è ulteriormente suddi­ visibile). Tutto ciò può essere illustrato mediante il seguente schema: Interpretazione  secondo il modo enigmatico ~l et t e r a l e n o n se n so sen~  so errato per omonlmia per equivoco errate scambio assunzioni di prospettiva di credenza  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLAR.I 43 Vediamo ora alcuni racconti oracolari in cui sono esem­ plificate queste modalità di errore. L'incapacità di assegnare un senso al testo profetico si ha in vari racconti nei quali vengono utilizzati meccanismi re­ torici, tra cui alcuni di tipo metaforico. È naturale che, quando il veicolo metaforico viene interpretato "letteral­ mente", si ottenga una assurdità sul piano del senso, a me­ no che non si immagini un mondo possibile, diverso da quello reale, in cui i muli possano diventare re dei Medi e gli araldi siano dipinti di rosso. Il consultante, che prende in considerazione soltanto il mondo reale, si trova in difficoltà ad assegnare un senso e una denotazione a testi siffatti. Ma vediamo che cosa succede nel primo di questi racconti. È Erodoto a narrarci la storia degli abitanti deli'isola di Sifno, i quali, essendo giunti a un notevole grado di ricchez­ za con le loro miniere d'oro e d'argento, decisero di consul­ tare l'oracolo di Delfi per sapere se avrebbero potuto con­ servare a lungo la loro prosperità. La Pizia rispose: "Ma quando, a Sifno, il pritaneo sarà bianco e bianco il bordo della piazza pubblica, allora c'è bisogno di un uomo accor­ to per guardarsi dall'agguato di legno e dall'araldo rosso" (Herod., Hist., III, 57). La storia continua narrando del­ l'arrivo di una nave dei Sami, della loro ambasceria per chiedere denaro e del saccheggio che questi ultimi fanno dell'isola dei Sifni. Erodoto sottolinea l'incapacità manifestata dai Sifni di dare un senso al testo ("l Sifni non furono capaci di com­ prendere l'oracolo"); per loro il testo, e in particolare, si presume, le espressioni "agguato di legno" e "araldo ros­ so", sono prive di senso, perché appunto essi si fermano a un livello letterale di interpretazione. In realtà il dio gioca con vari meccanismi tropici: innan­ zitutto con una doppia enallage1 1 (è il legno [ = nave] che anticamente è rosso, come spiega Erodoto, ed è l'araldo [ = gli ambasciatori] che organizza un agguato), complican­ do poi il testo con meccanismi metonimici (legno per nave, il singolare araldo per il plurale ambasciatori). Un secondo esempio di mancata comprensione si trova in un episodio di quel lungo e complesso "romanzo oracolare"  2 . LA DIVINAZIONE GRECA t·hc l·:rodotodedicaaCreso,quandoquest'ultimochiedeal­ l ' oracolo di Delfi se la sua monarchia sarebbe durata a lun­ o . La Pizia risponde: "Quando un mulo sarà re dei Medi, allora, Lidio dai piedi delicati, fuggi lungo l'Ermo sassoso, non indugiare e non temere di essere vile" (Herod., Hist., l, 55). Anche in questo caso, l'interpretazione che viene data alla profezia sceglie il senso letterale: Creso ritiene, di con­ seguenza, impossibile che venga a verificarsi uno stato di cose che soddisfi alla descrizione della frase "un mulo sarà re dei Medi"; la conclusione che egli trae da questa impossi­ bilità è che sia altrettanto impossibile che il suo regno abbia una fine. Sarà poi il dio stesso a spiegare al re il suo gioco metafo­ rico, quando ormai i fatti si saranno compiuti e Creso sarà caduto sotto la dominazione dei Persiani . Il "mulo" è, in ef­ fetti, Ciro, e il passaggio è mediato dalla proprietà "sangue misto", che è condivisa sia dal termine metaforizzante sia dal termine metaforizzato: ·sangue misto• / Tanto maggiore è la cecità di Creso se si pensa che l'ele­ mento comune è doppiamente esemplificato in Ciro, in quanto figlio "di madre nobile e di padre di oscuro lignag­ gio" e "di madre meda e di padre persiano", come il testo di Erodoto non manca di sottolineare. Vale la pena di rilevare che l'interpretazione del senso fi­ gurato è un'operazione realmente più difficile di quello che si potrebbe immaginare, fatto che giustifica in qualche ma­ niera gli insuccessi dei consultanti. Essa è legata a cono­ scenze enciclopediche locali, oltre che ai meccanismi retori­ ci che su quelle conoscenze si applicano. Ciò è tanto più ve­ ro se si considera che è impossibile anche per il lettore mo­ derno fornire l'interpretazione del testo profetico quando il testo letterario non ci informa sulle relative porzioni di enciclopedia. Ciò avviene, a esempio, nel racconto oracolare di Arcesilao (Herod., Hist., IV, 163-164) in cui, accanto a scambi metaforici tra "anfore" e "uomini", tra "torri" e "forni" che vengono spiegati dal prosieguo della narrazio­ ne, compare l'espressione "il tuo più bel toro" che rimane inspiegata ed è anche per noi incomprensibile. Vediamo ora il caso in cui il testo appare interpretabile secondo un percorso di senso letterale, in cui cioè sia rin­ tracciabile un corso di eventi corrispondente a esso, senza però essere quello inteso dalla profezia. Consideriamo in particolare il caso in cui l'errore interpretativo sia dovuto a omonimia. Questo meccanismo, accompagnato dal costante frain­ tendimento, caratterizza l'intero romanzo oracolare di Cambise. Si tratta di una storia in cui i vari segni si collega­ no tra di loro in una catena di rimandi interni. Questa storia ha inizio con un sogno: Smerdi (fratello di Cambise) era già tornato in patria (la Persia) quando Cambise ebbe in sogno questa visione: gli parve che un messo, giunto dalla Persia, gli annunciasse che Smerdi, seduto sul trono regale, toccava con la testa il cielo. Temendo perciò che il fratello meditasse di ucciderlo per impadronirsi del regno, mandò in Persia Prexaspe, che gli era fedelissimo fra tutti i Per­ siani, a uccidere Smerdi. (Herod., Hist., III, 30) Dopo parecchi paragrafi, in cui la storia continua narran­ do le stravaganze e le crudeltà di Cambise, ci viene raccon­ tata la ribellione in Persia dei due fratelli Magi, uno dei quali, che si chiamava anch'esso Smerdi, era stato collocato sul trono. Quando Cambise viene a conoscenza di questo fatto, comprende il vero senso del sogno. Ma la storia non finisce qui: Dopo che ebbe pianto e si fu afflitto di tanta sciagura, Cambise balzò a cavallo per muovere al più presto verso Susa contro il Mago; ma, mentre saliva in arcione, gli cadde il puntate del fo­ dero della spada, che rimasta nuda lo ferì alla coscia. Colpito così nello stesso punto in cui aveva trafitto il dio egizio Api, il  2. LA DIVINAZIONE GRECA fl\ iudicando mortale la sua ferita, domandò ancora come si chiarnassc la città dove si trovavano e gli risposero che si chia­ rnava Ecbatana. Ora, molto tempo addietro, a lui che l'aveva consultato, l'oracolo di Buto aveva risposto che sarebbe morto ad Ecbatana ed egli aveva interpretato che sarebbe morto, vec­ chio, ad Ecbatana di Media, dove aveva tutti i suoi beni, men­ tre l'oracolo aveva inteso di indicare Ecbatana di Siria. Pertan­ to Cambise, come ebbe saputo il nome della città, sotto il dupli­ ce colpo della rivolta del Mago e della ferita, rinsavì e, com­ prendendo finalmente il divino responso, esclamò: "Qui è desti­ no che muoia Cambise, figlio di Ciro". (Herod., Hist., III, 64) La rivolta del Mago e la ferita sono, più che avvenimenti, dei segni, in quanto permettono a Cambise di accedere alla conoscenza, di comprendere, finalmente senza più ambigui­ tà, l'oracolo, di non rimanere più prigioniero dei giochi di parole: la rivolta che gli fa capire la differenza tra Smerdi suo fratello e Smerdi Mago; la ferita mortale, la differenza tra Ecbatana in Media ed Ecbatana di Siria. Infine c'è l'ulteriore caso di errata interpretazione a cau­ sa di un equivoco, non strettamente linguistico, e che può essere di varia natura. L'equivoco più famoso di tutta la letteratura oracolare greca è senz'altro quello di cui cade vittima Edipo. Come noto, durante un banchetto Edipo viene insospettito dalle insinuazioni fatte da un convitato circa la sua paternità e decide allora di interrogare il dio della sapienza, il quale gli predice che ucciderà il padre e che si congiungerà con la ma­ dre (Soph., Oedipus tyrannus, 787-798). L'equivoco riguar­ da le assunzioni di crede...zza: Edipo non sa che i suoi veri genitori sono Laio, re di Tebe, e Giocasta, ma crede che sia­ no Polibo, re di Corinto, e Merope; per questo, al fine di stornare gli avvenimenti predetti dall'oracolo, si allontana da Corinto per andare in direzione di Tebe, e compie, così, inconsapevolmente, proprio il destino che gli è stato annun­ ciato. Altre volte l'equivoco riguarda lo sca1nbio diprospettiva. Il caso emblematico è quello di Creso che manda a consul­ tare congiuntamente l'oracolo di Delfi e quello di Anfiarao L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARJ 47 per sapere se dovesse fare guerra ai Persiani. I due oraco­ li, concordemente, predicono che "se avesse mosso contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande impero" (Herod., Hist., l, 53). Creso interpreta il responso come facente rife­ rimento alla distruzione dell'impero dei Persiani, mentre, come si scopre in seguito, sarà proprio il suo impero a subi­ re tale destino. A sviare il re dalla giusta interpretazione in­ terviene un meccanismo semiotico implicito: l'assunzione di Creso che, dal momento che l'oracolo è rivolto a lui, anche il dio assuma la sua prospettiva. E, ovviamente, nella pro­ spettiva di Creso, il grande impero da distruggere non può che essere quello persiano. Si incomincia a intravedere in questo esempio, più che nei precedenti, una caratteristica che è tipica deli'enigma: una fortissima carica aggressiva, potenzialmente distrutti­ va, da parte del dio nei confronti dell'uomo quando gli po­ ne un problema interpretativo da risolvere. Una conferma si trova nel racconto analogo in cui l'ora­ colo di Delfi predice agli Spartani che misureranno la terra di Tegea con le funi (Herod., Hist., l, 66). Gli Spartani in­ terpretano il riferimento alle funi come indicante Patto di misurare le terre per distribuirle ai conquistatori e, di conse­ guenza, fanno una spedizione contro Tegea. In realtà esse sono inserite in un altroframe o sceneggiatura (Eco 1984), in quanto serviranno agli Spartani, ridotti in schiavitù dopo la sconfitta, per misurare le terre che dovranno lavorare. L'attributo con cui viene qualificato il responso è klbd­ los che, nel suo senso traslato, significa "ambiguo", "fal­ so", "ingannevole", ma nel suo senso base fa riferimento alla carica estranea che adultera il metallo prezioso. Ciò che ne risulta, come nei casi presi in considerazione, è la com­ mistione di due metalli, uno buono e uno non, che fa lucci­ care come oro ciò che oro non è. Analogo meccanismo, infine, si trova negli aneddoti, ri­ portati da Diodoro Siculo (Biblioteca, XVI, 91-92; XX, 29), nei quali viene annunciato a un generale che pranzerà o alloggerà nella città che sta assediando; queste cose si verifi­ cheranno, ma la prospettiva non sarà quella del vincitore bensì quella del prigioniero. LA DIVINAZIONE GRECA 2.4 Il segno come sfida: divinazione ed enigma Abbiamo accennato alla carica di aggressività che si cela dietro al segno oscuro. Questo aspetto collega immediata­ mente il segno divinatorio all'enigma vero e proprio, an­ ch'esso oscuro e insolubile e, mitologicamente, espressione della sfida che la divinità lancia ali'uomo. È stato Colli ( 1 975 : 1 8) a mettere in luce il rapporto tra la divinazione, l'enigma e l'altra faccia di Apollo, quella mi­ nacciosa e distruttrice. 1 2 Apollo, infatti, non è soltanto di­ vinità benefica che dona agli uomini l'arte mantica e la me­ dicina: egli è anche il dio della freccia e dell'arco. Queste in­ dicazioni assumono un valore direttamente semiotico quan­ do si scopre che la freccia di Apollo e il segno oscuro sono non due cose diverse, ma due mezzi di espressione della me­ desima potenza del dio e che possono avere anche lo stesso funzionamento, come si può inferire da un passo di Pinda­ ro (0/ymp., II, 83-85). Il vero destinatario delle frecce di Apollo è l'uomo in quanto interprete. Fuori dal linguaggio figurato l'uomo-in­ terprete raccoglie una sfida che il dio, con intenzione ostile, gli lancia; e, dagli esempi stessi che abbiamo visto nei rac­ conti oracolari, si è potuto notare che il non riuscire a vin­ cere questa gara con il dio, cioè non riuscire a interpretare il segno oscuro, conduce alla rovina. Non sembrano esserci, a questo punto, più dubbi sulla relazione assolutamente stretta tra segno divinatorio ed enigma. Ciò viene confermato anche da un'analisi diacroni­ ca del "genere" enigma, che nasce proprio all'interno della sfera religiosa della divinazione con i due ben precisi carat­ teri dell'ostilità divina nei confronti dell'uomo e dell'aspet­ to di sfida a una gara. Lentamente l'enigma si staccherà dal contesto sacro per dare origine a una sua storia evolutiva, nel corso della quale attenuerà, pur conservandone traccia, i caratteri iniziali. La storia deli'enigma è la storia stessa dell'interpretazione intesa come gara, fino ad approdare al­ l'idea di interpretazione come confronto dialettico tra due opinioni opposte. Può essere interessante per il nostro discorso, inteso a  2.4 n SEGNO COME SFIDA 49 enucleare l'aspetto del segno divinatorio come dispositivo scatenatore di interpretazione, seguire alcune delle fasi più salienti dell'evoluzione deli'enigma. Come noto, il primo e più celebre esempio di apparizione dell'enigma in un contesto sacro è quello presente nel mito della Sfinge. La creatura mostruosa mandata da Apollo im­ pone agli abitanti di Tebe l'enigma sulle tre età dell'uomo. La posta in gara è la vita: chi non riesce a risolverlo è divo­ rato dalla Sfinge; chi invece lo risolve - e il solo Edipo ne è capace - fa precipitare la Sfinge nell'abisso. Ma nella prima evoluzione deli'enigma, già in età arcai­ ca, la lotta tra un personaggio divino e uno umano, si spo­ sta a quella tra due personaggi umani, che però conservano ancora un aggancio con la sfera del sacro in quanto sono due divinatori. Questa fase è illustrata dall'aneddoto di Strabone sulla gara tra Calcante e Mopso. Calcante propo­ ne a Mopso di "indovinare" quale è il numero di frutti che porta un fico selvatico che si trova sul loro cammino. Mop­ so dà una risposta estremamente dettagliata ("Sono dieci­ mila di numero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e non rientra nella misura") di fron­ te alla cui esattezza Calcante viene colpito da un "sonno di morte" (Geogr., VI, 232-235). Di fronte alla sapienza, ancora di origine divina, dei due personaggi, anche il contenuto dell'enigma passa in secon­ do piano, come dimostra la banalità deli'oggetto che deve essere scoperto. È, del resto, la stessa irrilevanza contenuti­ stica che si poteva notare nell'enigma della Sfinge, cosi sproporzionato rispetto ai rischi mortali che comportava. Tuttavia, nel passaggio ulteriore, quando l'enigma si umanizza completamente, anche il suo testo assume un as­ setto formale elaborato, basato sulla formulazione di una contraddizione che, anziché non designare niente (come av­ viene di norma in un caso del genere), designa altresì qual­ cosa di reale. Questa forma la si trova nella leggenda ri­ guardante la morte di Omero: Omero interrogò il dio per sapere chi fossero i suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di lo è patria di  2. LA DIVINAZIONE GRECA tua madre, ed essa ti accoglierà morto; ma tu guardati dall'e­ nigma di giovani uomini [. . . ]" . Giunse ad Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla riva e chiese loro se avessero qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato nulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, cosi risposero: "Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano preso li avevano uc­ cisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li portava­ no nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enig­ ma, morì per lo scoramento. (Arist., Dept., fr. 8) Nel frammento compaiono ancora gli elementi dell'enig­ ma che abbiamo già incontrato: la sfida circa un oggetto di conoscenza e il rischio mortale per il sapiente che non si di­ mostra in grado di risolvere l'enigma; ma in più compare la forma elaborata di una contraddizione, che da allora sarà tipica di questo genere. Più precisamente compaiono due coppie di determinazioni contraddittorie "abbiamo preso - non abbiamo preso" e "abbiamo lasciato - portiamo", che possono essere così disposte sul quadrato logico: 50 ·abbiamo preso· CONTRARI {non abbiamo fasciato = ) ·portiamo· ·non abbiamo preso'" SUB CONTRARI ·abbiamo fasciato•   2.5 AGONISMO, DIALETTICA, RETORICA 51 Ciascun singolo termine della prima coppia di contrad­ dittori ("abbiamo preso"/"non abbiamo preso") entra in relazione di congiunzione con un singolo termine della se­ conda coppia ("abbiamo lasciato"/"portiamo"), ma in mo­ do diverso da quello che ci si attenderebbe intuitivamente (cioè "quanto abbiamo preso, lo portiamo" e "quanto non abbiamo preso, l'abbiamo lasciato"). Invece nell'enigma ri­ sultano congiunti termini che logicamente sono in opposi­ zione contraria: "quanto abbiamo preso, l'abbiamo lascia­ to" e "quanto non abbiamo preso, lo portiamo". Eppure l'enigma non è, come sappiamo, assurdo. Il sapiente, che domina la ragione, deve essere in grado di sciogliere questo groviglio problematico. Umanizzandosi completamente, l'enigma mette in evi­ denza l'aspetto competitivo, di gara per la sapienza, e si sta­ bilizza sulla forma della contraddizione apparentemente in­ solubile. L'ulteriore e ultima tappa di questa evoluzione conduce, secondo l'ipotesi di Colli (1975), alla nascita della dialet­ tica. 2.5 Agonismo, dialettica, retorica La dialettica, nel senso antico del termine, nasce infatti sul terreno stesso dell'agonismo: essa si presenta come di­ scussione tra due persone su un qualsiasi argomento cono­ scitivo; su questo campo comune si instaura una gara desti­ nata a far emergere un vincitore. L'andamento generale della discussione segue questo schema (Arist., Top.): inizialmente, lo sfidante propone una domanda in forma alternativa, presentando i due corni di una contraddizione. L'avversario sceglie uno dei due cor· ni e ne sostiene la verità. A questo punto lo sfidante deve dimostrare come vera l'altra alternativa e cosi confutare l'affermazione dell'avversario. Naturalmente il procedi­ mento può richiedere anche una serie molto lunga e artico­ lata di successive domande e risposte, miranti, in maniera diretta o, per lo più, indiretta, alla dimostrazione.  LA DIVINAZIONE GRECA Al suo nascere, però, il linguaggio dialettico è limitato a un ambiente ristretto e in qualche modo elitario. l)ccisi vi cambiamenti sono, tuttavia, destinati a verificar­ si con l'accrescersi della cultura ad Atene e con il definitivo affermarsi del regime democratico; infatti le forme della dialettica entrano nella sfera pubblica e si connettono con il mondo politico. Così la discussione si allarga indefinita­ mente e la dialettica, in una sua forma in qualche modo adulterata, si trasforma in retorica. Dialettica e retorica sono basate entrambe su un forte spirito di competizione. Tuttavia ciò che le distingue è che, nella prima, non c'è bisogno di un giudice per assegnare la palma della vittoria a uno dei due contendenti: la vittoria di uno dei partecipanti risulta dalla discussione stessa, in quanto, durante lo sviluppo del dibattito, l'avversario ha contraddetto la tesi che prima affermava. Nel caso della re­ torica, invece, l'agonismo è molto più diretto e acceso, in quanto saranno gli ascoltatori a giudicare quale è stato il migliore discorso; manca nella retorica una sanzione intrin­ seca (come c'è nella dialettica) e per questo deve aggiungere un elemento emozionale, legato all'intento persuasivo. 2.6 Divinazione e interpretazione persuasiva Il processo evolutivo che abbiamo descritto è iniziato con il segno divinatorio come sfida conoscitiva posta dal dio al­ l'uomo ed è approdato, nel punto del suo massimo allonta­ namento, alla competizione conoscitiva della dialettica e della retorica. Ma proprio a questo punto il cerchio sembra chiudersi tornando al punto iniziale, con l'introduzione, ali'interno della divinazione stessa, dei metodi della discussione dialet­ tico-retorica. È molto indicativo, a questo proposito, un passo di Ero­ doto, in cui assistiamo a una sorta di conciliazione appunto tra la divinazione, con la sua tipica concezione deterministi­ ca del mondo, e l'eloquenza politica, legata a una visione mobile della vita, che sottopone ogni cosa a una incessante  2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 53 discussione. Egli infatti narra che gli Ateniesi, trovandosi di fronte alla minaccia di una invasione persiana, mandarono a Delfi degli ambasciatori per consultare l'oracolo. Ma, in un primo momento, la Pizia li affrontò con l'annuncio di gravissime sciagure. Costernati, senza però darsi per vinti, gli Ateniesi sollecitarono una seconda consultazione, im­ plorando un responso più favorevole e stabilendo di non muoversi più dall'oracolo fino a che non l'avessero ottenu­ to. La Pizia accettò di emettere un secondo responso: Zeus concede a Tritogenia (Atena) che solo un muro di legno sia inespugnabile, il quale salverà te e i tuoi figli. Non aspettare, inerte, la cavalleria e le forze di terra che arrivano in massa dal continente, ma ritìrati, volgi le spalle; verrà il giorno in cui po­ trai tenere testa. O divina Salamina, farai perire figli di donne, o quando si semina o quando si raccoglie il frutto di Demetra. (Herod., Hist., VII, 141) Il racconto d i Erodoto mostra chiaramente come i l segno divinatorio, il responso oracolare, innanzitutto non venga accolto con atteggiamento fatalistico. l messaggeri non si accontentano del primo responso, ma sfidano a loro volta il dio, minacciando di non muoversi dal santuario fintanto­ ché non abbiano indotto il dio a mitigare il suo atteggia­ mento ostile. Ma, ciò che è più interessante, il testo erodo­ teo mostra bene come il segno oracolare sia sottoposto a una discussione. Infatti i messaggeri, una volta ottenuta la risposta, la trascrivono e ripartono alla volta di Atene per riferire il responso all'Assemblea. La forma della discussione che si svolge davanti aiPAs­ semblea è quella tipica della dialettica. Il segno oscuro sca­ tena un processo interpretativo che prevede varie possibilità di percorso. Ma, anzitutto, dialetticamente, si presenta co­ me una dicotomia tra due soluzioni opposte e mutualmente escludentisi: (i) ritirarsi sull'acropoli, anticamente fortifica­ ta con una palizzata, perché a essa alludeva il dio con l'e­ spressione "muro di legno"; (ii) allestire una flotta, perché il dio intende riferirsi (sma(nein), con quella espressione enigmatica, a una barriera di navi.  54 2. LA DIVINAZIONE GRECA Ciascun corno della contraddizione è fatto proprio da un gruppo: (i) "alcuni anziani" (affiancati dai cresmologi) so­ stengono il primo termine; (ii) "altri" (tra i quali compare Temistocle) assumono il secondo. Per ora siamo solo alla presentazione del problema: è poi necessario sviluppare una dimostrazione che porti a contraddire una delle due tesi. La discussione segue il secondo corno del dilemma; è co­ me se si dicesse: "Ammettiamo che l'interpretazione giusta sia quella che consiglia di allestire una flotta. Quale con­ traddizione comporta questa interpretazione?". I cresmologi fanno notare, a questo punto, che accettare il secondo corno del dilemma comporta una contraddizione con quella parte del testo che predice a Salamina di divenire causa della morte di molti uomini. Accettare la giustezza di questo sottoproblema posto dai cresmologi comporterebbe l'autoconfutazione della tesi principale. Si è però nel frattempo verificato uno spostamento del li­ vello tematico della discussione: a questo punto, per avere ragione sulla tesi dei cresmologi, è sufficiente dimostrare in.. fondata la loro obiezione. È appunto quello che fa Temistocle, negando che l'obie­ zione dei cresmologi comporti una reale contraddizione. E anche in questo caso il ragionamento procede per assurdo e prende in considerazione una questione di prospettiva: se infatti avessero ragione gli avversari con il dire che Salami­ na (metonimia per "battaglia con la flotta") avrebbe causa­ to morte agli Ateniesi, e se anche questa seconda parte della profezia fosse rivolta, come la prima, ancora agli Ateniesi, il dio non avrebbe attribuito all'isola l'epiteto di "divina", ma di "sventurata". In altre parole, c'è contraddizione tra l'epiteto "divina" usato per Salamina e la morte degli Ate­ niesi. Dunque questa seconda parte del responso, contenen­ te una predizione di morte, deve essere intesa come rivolta ai nemici. Non sfuggirà che in questa seconda fase della discussione il metodo dialettico va impercettibilmente sfumando in quello più propriamente retorico. Conclusivamente Temistocle propone una interpretazio­ ne che tende più a persuadere in positivo della validità del  2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 55 proprio ragionamento che non a dimostrare la falsità della tesi fondamentale degli avversari. Infine interviene il giudi­ zio dell'uditorio, elemento fondamentale appunto del di­ scorso retorico, per sancire la vittoria di uno dei due con­ tendenti. Il testo dice che gli Ateniesi "giudicarono preferì­ bile (hairetbtera)" la spiegazione di Temistocle rispetto a quella dei cresmologi. Al discreto della logica binaria del­ l'alternativa dialettica, succede il continuo della logica gra­ duata del preferibile. La discussione può aver fatto perdere di vista che oggetto di dibattito è un vaticinio del dio di Delfi. Ma non a caso. La logica, appunto, che viene fatta intervenire neli'interpre­ tazione del responso divinatorio è esattamente la stessa che guida le assemblee politiche. E del resto non è senza significato il fatto che in questo contesto gli avversari di Temistocle siano dei "cresmologi", cioè interpreti specializzati dei responsi divini, ed è notevole che essi risultino sconfitti: è la conferma paradigmatica di come nella Grecia della polis sia la razionalità politica a im­ porre i suoi metodi alla divinazione e non viceversa. In definitiva, il carattere di oscurità attribuito al segno divinatorio rende un ottimo servigio ali'orientamento fon­ damentalmente orale e dialettico della cultura greca: con­ ferma il segno stesso come dispositivo scatenatore di inter­ pretazioni, da sondare con la procedura del confronto tra discorsi contrapposti. Il segno rinvia a una realtà altra da sé, nascosta e ambi­ gua, ma alla quale si può arrivare se ci si impegna in un confronto tra interpretazioni contrastanti: procedura che, lungi dali'essere paralizzante, è invece stimolante e produt­ tiva. In questa prospettiva il segno divinatorio si allontana da quelle che erano due sue caratteristiche fondamentali, cioè il primato della visione e la concezione della verità come ri­ velazione: la verità come a-ltheia, intesa come caduta dei veli che la tenevano nascosta (lanthano). 1 3 Nel passo di Erodoto non sono gli indovini con la loro vi­ sione panoptica a rivelare il senso nascosto del segno: esso prende qui luce dalla congettura (che in Erodoto è sempre  56 2. LA DIVINAZIONE GRECA espressa dal verbo symba/10 e dai suoi derivati, equivalente al più diffuso tekmafroma1). E saranno proprio la congettura e l'abbandono della vi­ sione che permetteranno di far evolvere il segno dal campo della divinazione a quello della scienza vera e propria. SEGNI E PROCESSI SEMIOSICI NELLA MEDICINA GRECA 3.0 Introduzione Ci siamo finora interessati dell'ampio e magmatico cam­ po della divinazione, dove abbiamo visto emergere le prime pratiche semiosiche, connesse, nella cultura greca, con la nascita stessa di un pensiero sapienziale. Ci occuperemo ora dell'altra grande area di manifestazione di un pensiero se­ mioticamente orientato, che sorge prima e in maniera indi­ pendente dalla ricerca filosofica in senso stretto: la medici­ na greca. In quest'area, accanto alla presenza fondamentale dei processi semiosici, si possono registrare anche le prime vere e proprie elaborazioni teoriche intorno al segno e all'infe­ renza (Vegetti 1976: 49 ss.). In seguito, la riflessione semio­ tica sarà consegnata direttamente alla filosofia e alla retori­ ca; ma ampie tracce delle origini rimarranno sia negli esempi che filosofi e trattatisti di retorica sceglieranno per illustrare il segno (esempi spesso di carattere medico, talvol­ ta fisiognomico) sia nella scelta di un modello di funziona­ mento logico del segno secondo lo schema "Se p, allora q", che abbiamo visto operante nella divinazione e che vedremo trasposto nella medicina con diversi contenuti, ma con eguale forma. A differenza della divinazione, per la quale disponiamo di testimonianze per lo più indirette e disorganiche, la medi­ cina greca può contare su una ricca documentazione, rap­ presentata in particolare dal Corpus Hippocraticum, 1 un  58 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA insieme abbastanza ampio e vario di testi (circa un centi­ naio) in cui si trovano illustrate le pratiche e le teorie medi­ che del V e IV secolo a.C. Tali testi non appartengono a un unico autore, come la tradizione aveva indotto a credere, attribuendoli a Ippocrate,2 né a un'epoca circoscrivibile con la vita di un uomo. Sono invece presenti all'interno del C.H. opere con diverse finalità ed3esprimenti indirizzi di­ versi nel campo del sapere medico. Tuttavia, nonostante la disomogeneità che è dato riscon­ trare all'interno del C.H., è possibile vedere nello studio della medicina del V e IV secolo uno dei più importanti campi di indagine del pensiero greco, che si affianca sen­ z'altro alla ricerca filosofica e alla storiografia coeve e che intrattiene con esse dei rapporti fecondissimi di interscam­ bio. È noto il giudizio di Werner Jaeger, secondo cui il pen­ siero socratico non sarebbe stato possibile senza le opere ip­ pocratiche,4 ed è stato sottolineato il debito che la storio­ grafia scientifica, inaugurata da Tucidide nell'ultimo scor­ cio del V secolo, ha contratto nei confronti della téchn ip­ pocratica. Ciò che la medicina aveva da offrire tanto alla filosofia quanto alla storiografia era un modello di sapere specifica­ mente semiotico, articolato sul doppio livello rappresenta­ to, da una parte, da una solida struttura formale (il loghi­ smos, cioè il ragionamento inferenziale, nei suoi due mo­ menti abduttivo e deduttivo) e, dall'altra, da un orienta­ mento di base empirico.6 Come vedremo meglio in seguito, il segno medico costi­ tuisce proprio il prodotto del ragionamento inferenziale ap­ plicato alla ricorrenza dei fenomeni, i quali in tanto acquisi­ scono senso, divenendo segni, in quanto sono riconducibili appunto al loghismos. 3.1 Ambiguità della prognosi A differenza del medico moderno, che legge i segni in funzione della diagnosi, il medico antico elaborava il suo ragionamento in funzione della prognosi. Un intero trattato  3. l AMBIGmTÀ DELLA PROONOSI 59 del C.H., Ilprognostico, è specificamente dedicato a questo problema. Eccone il passo iniziale e programmatico: Quanto al medico, mi sembra che la cosa migliore sia che egli pratichi la previsione; infatti, con una conoscenza e dichiara­ zione preventiva, di fronte ai malati, dei loro casi presenti, pas­ sati e futuri, e con una puntuale esposizione di quanto gli infer­ mi tralasciano di dire, egli conquisterà maggiore fiducia di po­ ter conoscere le condizioni dei malati, così che gli uomini si ri­ solvano ad affidare se stessi al medico. (cap. 1)7 Dal passo si può osservare che la prognosi non è concepi­ ta come previsione di eventi soltanto futuri, ma coinvolge anche elementi di conoscenza che riguardano sia il presente sia il passato:8 il medico deve avere la capacità di descrivere anche quei sintomi, o quei fatti in generale, che gli ammala­ ti tralasciano di esporre. Dal procedimento descritto nel Prognostico non sono assenti scopi chiaramente manipola­ tori: dicendo ciò che sfugge ai malati, il medico mira ad ac­ quistare maggiore credito presso di loro per persuaderli ad affidarsi alle sue cure. È interessante che una procedura che vuole presentarsi con i crismi della scientificità e dell'obiet­ tività, si ponga non tanto lo scopo del rispecchiamento del­ la realtà (nosologica in questo caso), ma quello della sua manipolazione. II discorso del medico è fatto, in questo ca­ so, anche di "segni efficaci" come uello della retorica in­ cantatoria di Gorgia o della magia. Del resto, la formula con il triplice riferimento al passa­ to, al presente e al futuro, che non costituisce un caso isola­ to, ma ricorre a esempio anche in Epidemie l (come pure, per definire la medicina, nel Lachete platonico, 198 d), spinge a istituire un parallelo con l'analoga formula usata per individuare il procedimento divinatorio (Brtescu 1 975: 46) . 1 0 D'altra parte, se per un verso si possono riscontrare ele­ menti comuni tra la medicina e la divinazione, per un altro molti degli scritti medici del C.H. sottolineano esplicita­ mente e con forza la distanza e i punti di divergenza. A  60 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA esempio l'autore del libro Il regime nelle malattie acute (cap. 8) polemizza contro le pratiche discordanti dei cattivi medici, paragonandole alle pratiche di interpretazione divi­ natoria. L'attacco sferrato alla divinazione è su base semiotica: il segno divinatorio è ambiguo, può significare due cose dia­ metralmente opposte, e perciò è lontano da quel piano di oggettività al quale aspira la scienza medica. Anche l'autore del Prorretico II si scaglia contro i cattivi medici criticando le loro predizioni miracolose, che li rendono simili agli in­ dovini, e contrappone orgogliosamente il proprio metodo basato sui segni umani e sulla congettura: Per parte mia non farò affatto delle divinazioni del genere (ou manteU.somat), ma scriverò i segni (smeia) attraverso i quali si deve congetturare (tekmafresthat), tra i malati, quali guariran­ no e quali moriranno, quali guariranno e quali moriranno in poco o in molto tempo. (cap. l) L'inferenza divinatoria (manteuein) è direttamente con­ trapposta alla congettura (tekmairesthaz). La violenza con cui i medici polemizzano contro la divinazione e la netta presa di distanza rispetto a essa è sicuramente indizio del fatto che essi tentavano di imporre un nuovo e autonomo paradigma epistemologico, una "semiotica profana"; ma è indizio, anche, del fatto che il rischio di confusione o di fraintendimento era ancora presente. Sotto certi aspetti la medicina ippocratica appare effetti­ vamente come la continuazione di una medicina preceden­ te, popolare e antichissima, impostata su basi magiche (Parker 1983: 213 ss.). Certi settori della terminologia de­ nunciano chiaramente questa situazione: Pimportanza cen­ trale, nel C.H., della katharsis ("purificazione") rimanda alle purificazioni magiche dello iatr6mantis "medico-indo­ vino" e dei purificatori apollinei come Epimenide e Bacide; lo stesso termine che indica il medicamento, pharmakon, era in origine impiegato per indicare ciascuno dei due citta­ dini di Atene che regolarmente il 6 di Targelione, o anche in  3.2 MEDICINA E SEMIOTICA MAGICHE 61 caso di pestilenze, erano sottoposti a osservanze rituali, fla­ gellati e scacciati dalla città e forse uccisi, per adempiere a una cerimonia di purificazione (Lanata 1967: 45). Proprio per questi motivi il tentativo di autodifferenzia­ zione dei medici ippocratici rispetto al paradigma magico doveva assumere toni molto accesi, come ci mostra uno dei trattati più interessanti del corpus, il Male sacro. Poiché, dal punto di vista della storia della semiotica, la medicina magica non è meno importante di quella laica, dedicheremo il prossimo paragrafo a illustrare il suo paradigma. Dopodi­ ché esporremo la critica di questo stesso paradigma quale ci viene presentata dall'autorè del Male sacro. 3.2 Medicina e semiotica magiche Molte fonti letterarie suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la divinazione e per la medicina: entram­ be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio (197 a): "In verità Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle­ gamento esse lo trovano nella figura antichissima dello ia­ tr6mantis, il medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie. L'appellati­ vo iatr6mantis è riferito in prima istanza allo stesso Apollo; ma passa poi a una serie di personaggi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del­ lo iatr6mantis è la sua capacità di usare una procedura dia­ gnostica: trattandosi di un veggente, egli è in grado di indi­ viduare la causa nascosta di una malattia, causa che è da at­ tribuirsi sempre a un intervento soprannaturale. In epoca antichissima la malattia è concepita infatti come miasma, come contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA divina o demonica. 1 1 Per questa ragione c'è bisogno di un medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il mondo delle forze oscure e soprannaturali alle quali è imputato il presente stato di contaminazione; in se­ guito alla sua diagnosi, lo iatr6mantis può indicare gli stru­ menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione è ben iliustrata da una notizia di un autore di scuola pitagorica, Alessandro Poliistore, che cita le Memorie pitagoriche: L'aria (secondo i Pitagorici) è piena di anime; ed essi le conside­ rano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uo­ mini i sogni e i segni premonitori (smefa) e le malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali da pa­ scolo; e a questi (demoni ed eroi) sono dirette le cerimonie ca­ tartiche e apotropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere.12 Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una se­ miologia sacra abbinata a una medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie che affliggono gli uomini; ma, contemporaneamente, sono anche la fonte dell'informazio­ ne che concerne il mondo invisibile, inviando agli uomini i segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so­ gni) dai quali si rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i riti catartici e apotropaici. In particolare le cerimonie apotro­ paiche sono costituite dalla recita di epOidal, cioè di formu­ le verbali incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma­ le: si tratta di segni linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il soprannaturale, dall'altra sono "efficaci", nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo. 3.3 La critica alla magia e alla semiotica sacra Prenderemo ora in considerazione le critiche rivolte alla  3.3 LA CRITICA ALLA SEMIOTICA SACRA 63 magia sul piano specificamente semiotico ed epistemologi­ co. L'autore del Male sacro si muove sostanzialmente in due direzioni: l . contrapporre alla nozione di "sacro" quel­ la di struttura naturale (phjsis) e di causa razionale (pro­ phasis); 2. mostrare l'inconsistenza sul piano logico del ra­ gionamento sotteso dalle procedure della medicina magica, apponendovi un tipo di ragionamento inferenziale basato sul tekmérion (che qui compare già con il senso di "prova", di "segno sicuro") (cap. l). Ciò che l'autore del trattato vuole contestare è la conce­ zione di un'origine divina della malattia; e questo vale tanto per il "male sacro", cioè l'epilessia, quanto per qualunque altro tipo di morbo. Sotto accusa è la nozione di "sacro'', come qualcosa che si riconduce all'intervento divino. In ef­ fetti, il termine hier6s, anche se in greco si specializzò molto presto in senso religioso, in origine non apparteneva alla sfera olimpica, ma era legato a una concezione animistica: hier6s è tutto quello in cui si rivela una vitalità prodigiosa e magica, e una malattia è sacra in quanto inviata da una for­ za soprannaturale. Lo stesso termine iasthai, "curare" (da cui iatr6s "medico"), originariamente doveva indicare un curare come "un ristorare, un ridonare le forze attraverso appropriate operazioni magico-mediche" (Ramat 1962: 20). In effetti, l'idea della malattia come riconducibile a un intervento diretto "del piano verticale della trascendenza su taluni punti di quello orizzontale della causalità naturale" (Vegetti 1976: 291) appare mettere fuori gioco ogni idea di regolarità dei fenomeni ed escludere, contemporaneamente, la possibilità di controllo su di essi e di previsione. La no­ zione di "natura", che l'autore del trattato contrappone a quella di "sacro", viene a reintrodurre proprio la regolarità nel movimento di cause ed effetti, rendendo possibile l'im­ postazione della medicina su basi scientifiche. Inoltre, se la nozione di phjsis individua la struttura oggettiva e omoge­ nea di ricorrenze tra cause ed effetti, quella, correlata, di pr6phasis (in altri casi aftion, aitle) rimanda al momento della spiegazione del singolo fenomeno.  64 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA 3.4 Le forme di argomentazione logica e il "tekmérion" Tuttavia il punto di maggior forza dell'autore del Male sacro rispetto ai suoi avversari consiste nelle modalità di ar­ gomentazione logica che adotta: facendo un esplicito ricor­ so al tekmrion (''prova", "segno sicuro") egli riesce a indi­ viduare delle contraddizioni interne al sistema della medici­ na magica e a confutarla. Vediamone subito un esempio: E v'è un 'altra grande prova (méga tekmrion) che questa non è più divina delle altre malattie; insorge ai flegmatici per natura, ma non colpisce i biliosi: mentre, se fosse più divina delle altre, in tutti ugualmente dovrebbe prodursi questa malattia, senza distinguere tra biliosi e flegmatici. (cap. 2)13 L'argomentazione assume la forma rigorosa di quello che in seguito sarà chiamato nzodus tollens, cioè "Se p, allora q; ma non-q; di conseguenza non-p''. In altre parole l'autore del A-lale sacro ragiona così: "Se questa malattia fosse più divina delle altre (p}, essa dovrebbe colpire indistintamente tutti (q); ma questo non si verifica (perché colpisce i flegma­ tici, ma non i biliosi) (non-q); ne consegue che essa non è più divina delle altre (non-p)". Si deve rilevare che l'autore utilizza la non verità del conseguente nel modus tollens (''che la malattia non colpisce indiscriminatamente tutti") come segno (teknzérion "segno sicuro", "prova") della non verità dell'antecedente (''che l'epilessia non è più divina del­ le altre malattie"). Naturalmente bisognerà aspettare Aristotele prima che il nzodus tollens come schema ragionativo venga teorizzato e che venga fornita una definizione rigorosa di teknzérion. Del resto, spetterà poi agli stoici di dare un'analisi formale di questo schema argomentativo e di dire che ogni schema argomentativo deve essere considerato come un segno. È in­ teressante, tuttavia, che già l'autore ippocratico leghi l'e­ spressione tekmrion (che da Aristotele in poi assumerà ine­ quivocabilmente il significato di "segno inconfutabile") con  3.5 LA VISTA E OLI ALTRI SENSI 65 lo schema inferenziale del modus tollens: logica e semiotica vengono già a trovare un punto di convergenza e di saldatu­ ra. Saldatura che con gli stoici sarà totale. 3.5 La vista e gli altri sensi Tuttavia la contrapposizione tra una semiologia sacra e una profana non si basa soltanto sulla capacità, che la se­ conda possiede, di utilizzare un ragionamento rigoroso e di fare ricorso a segni che si inquadrino in uno schema logico­ inferenziale. Come ha mostrato Lanza (1979: 103), un altro importante elemento di divergenza tra il paradigma divina­ torio e quello della medicina ippocratica è dato dal diverso ruolo che la vista gioca nei processi di conoscenza. Nella divinazione e nella medicina magica la vista ha una parte fondamentale, in quanto è fonte primaria, e in qual­ che modo unica, dell'attività conoscitiva. Non per niente Apollo, dio della divinazione, è nelle parole di Pindaro co­ lui che possiede "l'occhiata che conosce ogni cosa" (Pyth., III, 29): niente infatti è sottratto alla sua vista nel passato, nel presente e nel futuro; a lui appartiene il "dominio del tempo". L'uomo può conoscere solo ciò che contingente­ mente capita sotto il suo sguardo. Solo l'indovino e il poeta possiedono una seconda vista, che permette loro di vedere anche ciò che è al di là delle limitazioni cui sono sottoposti i comuni mortali; per questo spesso i primi sono ciechi, per essere ricettivi a questa vista; e un'analoga limitazione delle facoltà percettive si verifica anche nell'attività onirica, du­ rante la quale la raccolta di stimoli esterni si attenua fin quasi a scomparire.14 Tanto nel poeta quanto nell'indovi­ no, poi, la visione si tramuta in parola, diventando il segno che supplisce alla mancanza di presenza. Questa concezione comporta una dipendenza del segno dalla divinità e una di­ cotomia tra ciò che è percepibile con la vista e ciò che non lo è. Ma un primo superamento della dipendenza dalla divi­ nità per la conoscenza dell'invisibile si ha nel famoso motto di Anassagora "Vista dell'invisibile è ciò che appare" (6psis ad/On tà phainomena) (D-K, 59 B 21a). Il fenomeno viene  I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA qui a sostituirsi alla divinità. La vista tuttavia rimane cen­ trale. Caratteristicamente in un trattato medico arcaico. Malattie delle donne, al cap. 60, si dice che attraverso il dito il medico "vedrà" il modo di presentarsi del collo dell'u­ tero. Certamente le opere del C.H. procedono sul cammino aperto da Anassagora, ma contemporaneamente in esse il ruolo della vista perde di importanza nel processo di cono­ scenza. Ci sono ragioni specificamente inerenti alla téchn ippocratica che portano a una svalutazione, o almeno a un ridimensionamento, del ruolo della vista. Nel trattato L 'ar­ te si dice esplicitamente che "delle malattie alcune hanno se­ de in luoghi non celati alla vista, e non sono molte, altre in luoghi non aperti alla vista, e sono molte" (cap. 9). Per giungere alla conoscenza di queste ultime, il medico trae congetture da segni tattili, uditivi, olfattivi e talvolta persi­ no gustativi: è attraverso l'intera gamma della tipologia se­ gnica che il medico può elaborare la sua previsione, percor­ rendo il tempo anche nella dimensione di un passato e di un futuro che sono nascosti. Non solo, ma avviene che, quan­ do i segni non si presentano spontaneamente, il medico giunga a "forzare la natura" per costringerla a fornire degli indizi (cap. 13). A questo punto è possibile tentare un riesame dell'oppo­ sizione visibile/invisibile nel momento in cui essa passa dal­ la divinazione, che l'aveva inventata, agli altri ambiti del sapere. La ritroviamo, a esempio, in ambito giuridico, con l'anti­ tesi tra "beni apparenti" e "beni non apparenti" che, secon­ do la penetrante analisi di Gernet (1968: tr. it. 399 sgg.), si configura come opposizione tra i beni materiali (fondiari e patrimoniali soprattutto) che si possono percepire, e i credi­ ti in genere, "invisibili" (a esempio, i crediti nei confronti di un banchiere presso cui si è depositato del denaro). Poi, nell'ambito strettamente filosofico, l'opposizione assume un carattere squisitamente antologico, dando vita a una duplicazione dei livelli di realtà. In Eraclito, a esempio, il "nascosto" costituisce la realtà vera in contrapposizione all'"apparente", dicotomia di cui si trova chiara traccia nei  3.6 L'ANALOGIAE LACONGETTURA 67 due frammenti: "L'armonia che non si vede è superiore a quella manifesta" (D-K, 22 B 54) e "La natura ama nascon­ dersi" (D-K, 22 B 123). Come si può osservare, mentre nella divinazione il "visibile" richiamava apertamente la funzio­ ne, tutta fisiologica, svolta dali'organo della vista, una vol­ ta avvenuta la trasposizione in altri campi questo legame si attenua. Di fatto scompare quasi del tutto nella scienza, do­ ve visibile e invisibile vengono concepiti come due mondi, la cui comunicazione è garantita non dalla vista, ma dalla congettura. 3.6 L'analogia e la congettura Il carattere semiotico della rivoluzione effettuata dal pen­ siero ippocratico è stato messo in luce da Vegetti (1976), il quale, ponendo in relazione gli scritti dei medici ippocratici con la cultura scientifica e filosofica del loro tempo, ha mo­ strato come essi fossero impegnati in una lotta a favore di un "metodo semiotico", contro il cosiddetto "procedimento analogico", tipico della filosofia ionica e di quei medici e intellettuali che a essa in qualche maniera si richiamavano. In effetti, quella ionica, più che come una filosofia vera e propria, si caratterizzava come una physiologhla, cioè una indagine sulla natura (phjsis), e come ricerca di un suo principio (arch). La natura dei filosofi ionici è in sostanza il mondo quale si manifesta all'osservatore, ma presenta un duplice aspet­ to: esso è, contemporaneamente, molteplice, perché si com­ pone di una infinità di fenomeni, e unitario, in quanto cia­ scun fenomeno manifesta lo stesso principio rintracciabile in ogni altro frammento del reale. L'unico procedimento conoscitivo, in questo quadro, è l'analogia: di fronte a qualsiasi fenomeno, si tratta di riper­ correre il cammino della phjsis che porta, per via analogi­ ca, dal singolo fenomeno all'arch. Dal punto di vista se- miotico, la filosofia ionica ragiona come se qualsiasi tipo di modalità di produzione segnica fosse ridotto al solo metodo del riconoscimento di campioni: un frammento sta costan-  68 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA temente per una totalità che è a esso completamente omoge­ nea (Eco 1975: 296; 1984: 48). Un paradigma diverso è quello che si impone a partire da Alcmeone di Crotone proprio con la proposta del principio semiotico della congettura: Delle cose invisibili e delle cose visibili solo gli dci hanno cono­ scenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare (lekmaf­ resthal). (Diog.Lart.,VIII,83== D-K,24Bl) Mentre per i filosofi ionici e per la medicina dei postulati c'era continuità tra i principi della natura, i suoi fenomeni e l'osservatore stesso di quei fenomeni, con lcmeone nasce una frattura profonda tra l'uomo e la realtà. Il mondo del­ l'esperienza non si dà a conoscere spontaneamente, non è più trasparente. Proprio sulla frattura inaugurata da Alc­ meone si impernia il metodo semiotico. Essa conduce alla necessità di sostituire il procedimento dell'analogia con uno basato sull'indizio: la conoscenza umana assume per princi­ pio il tekmafresthai, il procedere per indizi e congetture. Ciò che la medicina ippocratica svilupperà, e che è ancora assente in Alcmeone, è l'inquadramento del metodo conget­ turale in una struttura logica compiuta. 3.7 Metodo analogico e metodo semiotico A questo punto è possibile domandarsi quale forma assu­ ma la metodologia della ricerca congetturale nei trattati ip­ pocratici. Una prima risposta a questa domanda può essere cercata attraverso un'analisi della polen1ica che, a questo proposito, ha opposto Regenbogen (1930) a Diller (1932) nella prima metà di questo secolo. In questa polemica ritro­ viamo una contrapposizione tra "metodo semiotico" e "me­ todo analogico"; ma in un senso sensibilmente diverso da quello esaminato finora, in quanto la nozione di "analogia" era assunta in un senso lato, molto vicino alla nozione se­ miotica di "omomatericità".15  3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 69 In questo secondo caso la nozione di "analogico" viene assunta in un senso strettamente tecnico, come istituzione di un parallelismo tra un fenomeno da spiegare e un altro fenomeno noto, con conseguente possibilità di inferenza dal secondo al primo. L'inferenza analogica del tipo de­ scritto costituisce, secondo Regenbogen, il carattere specifi­ co della metodologia di ricerca utilizzata dali'autore del gruppo di trattati Sulla procreazione, Sulla natura del bam­ bino, Sulle malattie I V: in questi testi vengono spesso messi a confronto processi di tipo non osservabile con processi osservabili e i primi vengono chiariti mediante un'analogia con i secondi, come si verifica a esempio quando viene isti­ tuito un parallelo tra lo sviluppo del feto e quello delle pian­ te (Littré 1839, VII 528, 22 e sgg.) o quello di un uccello (Littré 1839, VII 530, 14 e sgg.). L'autore dei trattati si at­ tiene di fatto al principio di Anassagora secondo cui ciò che appare permette di avere una visione anche di ciò che è invi­ sibile, e applica questo principio sistematicamente. Il para­ gone con l'oggetto visibile, su cui si basa l'analogia, viene visto come una prova deli'oggetto di partenza. Il procedimento analogico non è limitato ali'ambito me­ dico-biologico, ma se ne possono rintracciare esempi chia­ rissimi in ambito storico. A esempio Erodoto (Hist., II, 33), quando parla del Nilo, il cui corso, le cui sorgenti e la cui lunghezza gli sono sconosciuti, sostiene: "a quanto io ri­ tengo, congetturando (tekmair6menos) dalle cose note quelle ignote, (il Nilo) muove da una longitudine eguale a quella da cui muove il Danubio". Il ragionamento è il se­ guente: il corso del Danubio è conosciuto dalle sorgenti alla foce, e, posto sullo stesso meridiano, nella concezione di Erodoto, scorre nella direzione opposta a quella del Nilo, cioè da nord a sud verso il mar Nero, così come il Nilo scor­ re da sud a nord verso il mar Mediterraneo; il Danubio, in­ fine, è il fiume maggiore dell'Europa, come pure il Nilo lo è dell'Africa. Dati questi elementi, si può immaginare il corso del Nilo in analogia con quello del Danubio. Secondo Diller (1932: 17), tuttavia, l'analogia non riesce a coprire tutti i casi di inferenza dal visibile all'invisibile, e porta a questo proposito un certo numero di esempi, tra i  70 3 . I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA quali l'inferenza sperimentale contenuta al cap. 8 del tratta­ to Le arie, le acque, i luoghi. L'esperimento vuole dimo­ strare che le acque che provengono dalla neve e dai ghiacci, perdono le qualità di leggerezza, di limpidezza e di dolcez­ za, mentre conservano quelle di pesantezza e di torbidezza. L'autore del trattato suggerisce a questo proposito di versa­ re, durante l'inverno, dell'acqua in un recipiente e, dopo averla misurata, di esporla all'aperto per lasciarla gelare. Il giorno seguente va messa di nuovo al caldo e fatta scioglie­ re: misurandola, ci si accorgerà che la sua quantità è molto diminuita. Questa è una prova (tekmrion) del fatto che, gelando, l'acqua ha lasciato andar via la parte più leggera e delicata e dimostra, contemporaneamente, la scadente qua· lità dell'acqua proveniente dalla neve e dai ghiacci. Questo esperimento viene definito tekmrion e si basa sulla istitu­ zione di un parallelismo tra due serie di dati di realtà. Ma, giustamente, Diller mette in dubbio che si tratti an­ che di un procedimento analogico: in effetti l'unica analo­ gia che vi si può istituire è che per una piccola quantità di una materia (acqua: ghiaccio) valgono le stesse leggi che valgono per l'elemento nella sua totalità. Si può esprimere quello che avviene nell'esperimento attraverso la formula "parte : parte = tutto : tutto"; la vera inferenza consiste nel trarre conclusioni dalla parte sul tutto. Comunque, per Dil­ ler, qui siamo di fronte a un tipo di inferenza che non è ana­ logica nello stesso senso in cui è analogica l'inferenza che abbiamo visto in Erodoto, in quanto qui "tutto si svolge al­ l'interno del processo che dovrebbe essere spiegato, senza che un processo analogo sia chiamato in causa" (ibidem, 19). Con un ragionamento non diverso, secondo Diller, l'au­ tore del trattato Le arie, le acque, i luoghi sostiene che la parte più fine e più pura deli'acqua ingerita viene espulsa dall'organismo, quella che è più densa e più torbida sedi­ menta: la prova (tekmrion) è data dall'osservazione di co­ loro che soffrono di calcoli alla vescica, i quali espellono un'urina limpidissima, in quanto la parte più densa e torbi­ da si condensa appunto in calcoli. Ciò che questi esempi hanno in comune è che qualcosa di  3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 7 1 non percepibile viene spiegato attraverso dei fenomeni per­ cepibili. Però questi fenomeni non sono degli analoga di ciò che deve essere spiegato, bensì dei segni: essi stabiliscono, rispetto al processo che deve essere spiegato, lo stesso rap­ porto che c'è tra l'effetto e la causa. Quindi, per Diller, l'in­ ferenza semiotica (propriamente: semeiotisch, ibidem, 20, da lui collegata strettamente al procedimento medico) deve intendersi nel preciso senso (che sarebbe stato poi quello aristotelico) di inferenza dal conseguente. Ulteriormente per Diller, mentre l'inferenza analogica rende chiaro il "So­ sein" di un processo o di uno stato sconosciuto quella se­ miotica indizia del suo "Dasein". Recentemente la problematica è stata ripresa da Lonie (1981: 79 ss.),16 che ha sottolineato come nei trattati presi in considerazione dal Regenbogen, ma anche in altri testi del C.H. in generale (a esempio in Le arie, le acque, i luoghi, cap. 8), sono rintracciabili degli esempi di processi esplicati­ vi complessi, che comportano sia una inferenza semiotica (inferire le cause da fenomeni osservabili), sia una induzio­ ne analogica. Molto interessante a questo proposito è il capitolo 12 (= Littré 1839, VII 486, 3 ss.) del trattato Sulla natura del bambino: l'autore stabilisce anzitutto la teoria (elemento non osservabile) per cui lo sperma, trovandosi nell'ambien­ te umido e caldo dell'utero materno, acquisisce una capaci­ tà di respiro (pneuma) che si apre una breccia verso l'ester­ no: esso emette un soffio e, in una seconda fase, inspira aria fresca attraverso la breccia. Per provare questa teoria, l'autore ricorre a un'analogia con tre diverse classi di ogget­ ti, in cui si verificherebbe lo stesso fenomeno: il legno, le foglie, le sostanze commestibili. Viene poi descritto il com­ portamento del legno quando brucia: esso espelle aria cal­ da, in corrispondenza del punto in cui è stato tagliato e, contemporaneamente, attira a sé un altro soffio freddo. L'azione dei due movimenti contrapposti fa sì che il fumo e il vapore si avvolgano intorno al legno. Questo fatto viene descritto come un fenomeno osservabile ("noi vediamo che accade questo"), dal quale viene tratta un'inferenza (eklo­ ghismos) circa la causa del fenomeno stesso. Tale inferenza  72 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA assume la forma di un modus tollens "Se non-p, allora non-q; ma q; perciòp": "Se non ci fosse questo duplice mo­ vimento contrapposto, allora il soffio (fumo e vapore) non si avvolgerebbe intorno al legno, fuoriuscendo" (Littré 1839, VII, 486, 20-21). L'autore passa poi a illustrare lo stesso tipo di comporta­ mento negli altri esempi di analoga e procede quindi alla formulazione di una legge generale per induzione: "tutte le cose che sono riscaldate emettono un soffio (pneuma) e fanno entrare un soffio freddo per rimpiazzarlo". Alla fine l'autore sostiene che i fenomeni descritti devono essere con­ siderati come "prove necessarie" della sua affermazione teorica intorno allo sperma. Nel procedimento conoscitivo messo in scena nell'esem­ pio precedente possono essere messi in luce tre diversi ele­ menti . Anzitutto si ha l'istituzione di un'analogia tra un fatto non osservabile (il comportamento dello sperma neli'utero materno) e alcuni fenomeni osservabili. In secondo luogo, c'è una inferenza semiotica (che è pro­ priamente quella di cui parlava Diller, chiamandola "infe­ renza semeiotica'' e che Lonie chiama "inferenza causale") consistente nel risalire dal fenomeno osservabile (a esempio l'emissione di fumo e vapore durante la combustione del le­ gno) alla sua causa ovvero alla natura del processo. È inte­ ressante notare che inferenze di questo tipo sono molto fre­ quenti nei trattati considerati e che l'espressione che designa il fenomeno da cui l'inferenza è tratta è smefon. In terzo luogo, si ha la formulazione, per induzione, di una legge generale, che è intesa come valida anche per il pri­ mo termine (quello da dimostrare) dell'analogia. In com­ plesso si può dire che il valore probante dell'analogia consi­ ste nel fatto che essa permette di convalidare una proposi­ zione di partenza (relativa a fatti non osservabili) mediante il ricorso a proposizioni concernenti fatti analoghi, ma os­ servabili, che sono considerati come esempi di una legge va­ lida generalmente. Lonie (1981: 85) iliustra i rapporti tra analogia, principio generale ed enunciazione di partenza con il seguente diagramma:  3.8 LA SEMIOTICA NEI TRATTATI METODOLOGICI 73 principio generale esemplifica/ tt(",, conferma /// '' /' > analogo illustra asserzione di pertenza 3.8 Il metodo semiotico nei trattati metodologici Nel gruppo di opere del C.H. dove vengono maggior­ mente approfonditi gli aspetti teorici della medicina (Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Ilprognostico, Il regi­ me nelle malattie acute, Male sacro, Le epidemie l e III e le maggiori opere chirurgiche) è possibile rintracciare, nel mo­ do più chiaro, la formulazione della metodologia/semioti­ ca, quella appunto a cui si riferiva Diller (1932) e che Lonie (1981) individua come procedimento di "inferenza causa­ le". In questo paragrafo cercherò di approfondire in che co­ sa consiste tale metodologia, indipendentemente dagli altri procedimenti che possono esserle associati, come abbiamo visto che avveniva con l'analogia.  Nelle opere che abbiamo sopra menzionato viene innan­ zitutto aperto il problema del significato dei dati di osserva­ zione.17 Il singolo fenomeno (hékaston), non essendo più collegato con (né riconducibile a) una presunta unità della natura, come nella physiologhla, ha bisogno di essere inter­ pretato, cioè riconnesso a un sistema di riferimento. È a questo punto che inizia il procedimento inferenziale, o loghism6s, che è in un primo momento essenzialmente abduttivo: 18 si comincia a ipotizzare che il fenomeno singo­ lo, che si presenta ali'osservazione del medico, sia un caso di una qualche regola generale. Si prova, cioè, a pensare che lo hékaston, di per sé insignificante, possa essere consi­ derato come un smeion, un segno che rimanda a un siste-  3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA ma, e dal quale riceve senso. Questo primo momento ascen­ dente, di costruzione del sistema di riferimento, viene segui­ to da un secondo movimento, discendente, di verifica. Se il sistema ipotizzato sia valido e funzionante, può essere pro­ vato applicandolo a nuovi e diversi casi: il segno si trasfor­ ma così in tekmirion e il metodo diviene deduttivo. Usando lo schema proposto da Eco (1984: 41) per l'abduzione si po­ trebbe cosi illustrare il processo: codice eziologico e/o prognostico: r--, son: h,jksston (singolo fenomeno) : l risultato l -- 1 r -  - -, l l regola 1  l -----_j l  l  lL - - -- - 1 .----l L Vegetti (1976: 49) mette molto bene in luce questo dupli­ ce movimento abduttivo-deduttivo della téchnippocratica: "Ciò d'altro canto conferiva alla funzione dello hékaston, spogliato dai privilegi 'metafisici', una dignità nuova. Esso infatti era, da un lato, chiamato ad essere segno, smeion, sull'altro da sé, sul sistema cui, per via di inferenza, era supposto appartenesse; e dall'altro lato, acquistava il ruolo di 'prova', tekmirion, sulla validità dell'inferenza stessa, che si misura appunto sulla possibilità di trovare conferma ___..J 1 l 74  3.9 LA STRUITURA FORMALE DEL SEGNO 75 negli hékasta. Il metodo semeiotico si configurava cosi, per la téchn ippocratica, come un movimento - 'dialettico' - che procedendo dallo hékaston posto dall'osservazione (ma è il caso ormai di parlare di 'esperienza' scientifica), lo tra­ sforma in smefon, mediante un'inferenza logico-concet­ tuale (loghism6s) e poi in prova o tekmrion, per conclude­ re, se il circolo si fosse saldato, nella capacità di compren­ sione e di intervento pratico su sempre nuovi hékasta". Sicuramente lo schema di riferimento che il medico deve costruire è un codice, ma di tipo particolare: è infatti pro­ babilistico. Come ha messo in evidenza Di Benedetto (1966 e 1986: 132), i testi del C.H. sono disseminati di espressioni che indicano una tendenza o una probabilità quali "la mag­ gior parte", "i più", "molti", "soprattutto", "spesso", "tal­ volta" ecc. Questo non significa che i medici della collezio­ ne ippocratica non siano impegnati nella costruzione di si­ stemi di riferimento costanti e funzionanti generalmente. Semplicemente la logica del hoi pleistoi ("la maggior par­ te") si sostituiva alla logica del ptintes ("tutti"). Del resto, proprio il carattere probabilistico contraddistingue l'infe­ renza abduttiva o ipotetica rispetto a quella strettamente deduttiva. 3.9 La struttura formale del segno La nozione di smeion ("segno", "sintomo") è una delle nozioni centrali nei testi del C.H. La struttura formale at­ traverso la quale il segno è introdotto è relativamente co­ stante, in quanto prevede l'inquadramento in uno schema implicativo del tipo: p-:Jq Dal punto di vista linguistico, molto spesso p e q sono rap­ presentate da proposizioni (o da sequenze di proposizioni), il cui collegamento costituisce un periodo ipotetico, come possiamo vedere da un brano tratto dal cap. 9 del Progno­ stico :  76 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ma bisogna osservare anche gli altri sintomi (smefa): se (n) in­ fatti il malato sembra sopportare favorevolmente il male, oppu­ re, oltre a questi, mostra qualche altro dei sintomi salutari, c'è speranza che il male si risolva in ascesso, sicché l'uomo soprav­ viva, pur perdendo le parti annerite del corpo. In questo esempio la prima parte dell'implicazione è co­ stituita da una sequenza di due proposizioni condizionali introdotte da n ("se"), che si riferiscono a dati di osserva­ zione (protasi), mentre la seconda parte presenta un perio­ do complesso (apodosi) relativo a una previsione medica. Se il riempimento semantico della protasi con dati di osser­ vazione, ovvero elenchi di sintomi, è relativamente costan­ te, l'apodosi può contenere anche una enunciazione diagno­ stica, sebbene ciò avvenga meno frequentemente, data la centralità della prognosi nella medicina antica.. Inoltre l'a­ podosi può contenere anche (e talvolta essere sostituita da) una indicazione terapeutica. 3. 10 Moduli espressivi arcaici Il modello "Se p, allora q", che serve molto spesso (a esempio nei trattati tecnico-terapeutici) a introdurre la ma­ lattia stessa, è molto antico e può essere messo in relazione agli analoghi moduli di presentazione della malattia nei trattati medici assiro-babilonesi e in quelli egiziani.19 Il mo­ dello implicativo nei testi assiro-babilonesi prevede la pre­ senza di una protasi, introdotta da §umma ("se", "nel caso che"), contenente l'indicazione dei sintomi, seguita da un'a­ podosi contenente un'indicazione terapeutica. A esempio: Se il cranio di un uomo ha una infiammazione, le sue tempie so­ no afflitte da SA.ZI (?) con turbamento dei suoi occhi, essendo i suoi occhi affetti da offuscamento, obnubilamento, disturbo, arrossamento (?), con le vene infiammate (?), e molto pianto, tu devi tritare in una macina l/3 di ka di lolium (e) spelta mon­ data, setacciare, quanto più puoi, e quindi prendere l/3 di kq, impastare in acqua di rose, radere a sua testa), applicare legando, e non toglierlo per tre giorni.2  3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 77 La struttura implicativa del modulo assiro-babilonese può essere considerata struttura segnica (anche se non si parla esplicitamente di segno), con la particolarità che al li­ vello semantico è sostituito direttamente il livello praxeolo­ gico:21 il segno (propriamente, l'antecedente del condizio­ nale) suggerisce, senza mediazione, un comportamento. Questo modulo, comunque, estremamente arcaico, è tal­ volta rappresentato anche in alcuni dei trattati tecnico-tera­ peutici, che sono anche i più antichi del C.H. : in Malattie II A e nello stato arcaico (A) del trattato ginecologico Su/le malattie delle donne. Si tratta tuttavia di attestazioni spora­ diche, che sono presenti accanto a moduli diversi, centrati sulla relazione tra sintomatologia e malattia. Un discorso a parte merita il trattato Sulle affezioni in­ terne, dove il modulo espressivo di presentazione della ma­ lattia assume un carattere del tutto particolare. Esso è infat­ ti composto di tre elementi strutturali: (A) una prima pro­ posizione (o serie di proposizioni) introdotte da "se", dove è presentato un fenomeno interno, non visibile, da conside­ rarsi come "la causa" della malattia; (B) una seconda serie di proposizioni, introdotte dall'espressione tade paschei ("tali cose soffre il malato"), nella quale è presentata la sin­ tomatologia (i fenomeni rilevabili esternamente); (C) una terza serie di proposizioni che sono relative alle indicazioni terapeutiche. Avviene molto spesso che la parte A sia sdop­ piata in due: At (le cause dirette dei sintomi); A2 (le cause che hanno prodotto la malattia stessa). Ecco un esempio, tratto dal cap. 8, dove distinguiamo gli elementi strutturali: (At) Se (in) nel petto e nelle spalle si produce una rottura, (A2) fatto che si verifica soprattutto a causa di uno sforzo, (B) ecco i sintomi (tade [...] ptischez): tosse vivace, espettorazione talvolta sanguinolenta; di solito brividi e febbre; dolore acuto nel petto e nelle spalle. Il malato ha l'impressione che una pietra gli pesi sul fianco; i dolori lo trapassano come se lo si bucasse con un ago. (C) Stando così le cose, lo si farà ingrassare con il latte e subito si cauterizzeranno il petto e le spalle. (Littré 1839, VII, 186, 3-10)  78 3. l SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ciò che è interessante di questo modulo dal punto di vista semiotico è che l'inferenza tra i primi due elementi ("Se A, allora B") è non abduttiva (cioè dagli effetti alle cause), ma deduttiva. Ciò significa che l'accento è posto sul sistema, già preliminarmente ricostruito, delle cause che possono produrre determinati sintomi. Questo è il punto di vista del trattatista: nella pratica il medico risalirà invece dai sintomi alle cause. Si deve inoltre notare che Sulle affezioni interne presenta anche una sezione prognostica (D), collocata tra B e C oppure dopo C: il testo citato continuava con "In que­ sto modo il malato sarà molto presto guarito". Un altro termine di confronto per i moduli della medici­ na greca è quello rintracciabile nei testi egiziani. Le formule che questi ultimi adoperano sono diverse da quelle della medicina assiro-babilonese in quanto hanno anche una se­ zione dedicata alla diagnosi. Come Vincenzo Di Benedetto (1986: 91) ha mostrato, esse potevano essere divise in tre elementi strutturali: una prima sezione (A), introdotta dalla congiunzione "se", presenta la sintomatologia come il risul­ tato di un esame/visita del medico; una seconda sezione (B), sempre attraverso la messa in rilievo della parola del medico che fa la diagnosi, enuncia la causa; una terza sezio­ ne (C) presenta l'intervento terapeutico del medico. Vedia­ mo un esempio tratto dal papiro Ebers (scritto intorno al 1550 a.C.): (A) Se tu esamini un uomo che soffre al suo stomaco, tutte le parti del suo corpo sono appesantite come per l'insorgere della stanchezza: tu devi allora mettere la mano sul suo stomaco e lo trovi a mo' di timpano, in quanto va e viene sotto le tue mani. (B) Allora tu devi dire "è un'inerzia nel mangiare che non per­ mette che egli mangi dell'altro". (C) Allora tu devi preparargli un rimedio che svuoti (seguono le indicazioni degli ingredienti della ricetta). In questo caso si ha un andamento abduttivo: la sintoma­ tologia costituisce il punto di partenza per ricostruire il qua­ dro eziologico, cioè una realtà nascosta che deve essere in­ terpretata a partire dai dati esterni disponibili.  MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 79 Tutti questi moduli, attraverso i quali si definisce la pre­ sentazione della sintomatologia medica, costituiranno una base di riflessione, rimanendo talvolta sullo sfondo, ma più spesso affiorando negli esempi, quando la filosofia cerche­ rà di definire la struttura formale del segno. PLATONE 4.0 Introduzione Platone è il primo compiuto erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sue opere tale tradizione dà luogo a un'ampia e articolata teoria del linguaggio, ma non produce, allo stesso tempo, una separata teorìa del segno, come invece avverrà in Aristotele e in genere nelle scuole fi­ losofiche successive. Si possono, però, osservare due fatti: da una parte l'ana­ lisi dei contesti in cui Platone usa termini scmiotici permette di ricostruire un can1po teorico di sfondo abbastanza omo­ geneo, i cui contorni definiscono il segno; dall'altra certi aspetti della stessa teoria platonica del linguaggio presenta­ no un carattere intrinsecamente semiotico, fatto che non si verificherà nelle teorie Enguistichc dei filosofi successivi. Esaminiamo separatamentc i due problemi. 4.1 I segni 4. 1 . 1 La comunicazione divina Raccogliendo la tradizione divinatoria, Platone parla di "segni" in tutti quei contesti in cui si instaura una comuni­ cazione tra dei e uomini (Repubblica, 382 e; Timeo, 71 a -  4.1 I SEGNI 81 72 b; Fedro, 244 b-e). In questi casi viene anche usato il ver­ bo smafno che, come abbiamo già visto, nell'ambito divi­ natorio non indica tanto il "significare", quanto l"'inviare un segno", vero tramite della comunicazione divina. Tale segno può essere un testo verbale, come il responso della Pi­ zia di Delfi, o anche un testo visivo, come lo sono le imma­ gini del sogno (Timeo, 71 e), o quelle impresse nel fegato che funziona come uno specchio (Timeo, 10 b). Il segno può anche essere rappresentato da un evento na­ turale, come il volo degli uccelli; ma in questo caso (che è quello più classico della divinazione tecnica) la comunica­ zione è troppo mediata per avere davvero alore e produce più opinione che conoscenza (Fedro, 244 c). In effetti, il ca­ so della comunicazione più efficace con il soprannaturale è quello del "segno demonico" di Socrate, che si manifesta come una "voce" interna (Fedro, 242 b-e; Apologia, 31 d) che parla direttamente al destinatario. 4. 1 .2 Il segno come "impronta nell'anima" In una seconda serie di contesti il segno appare come im­ pronta (tjpos), nel preciso senso in cui è un segno l'impron­ ta lasciata da un sigillo. Questa accezione è presente nel Teeteto (191 a - 195 b), dove, per la soluzione di problemi epistemologici, viene sviluppata la metafora dell'anima co­ me blocco di cera, su cui vanno a imprimersi i segni prodot­ ti dalle sensazioni (tOn aisthseon smefa). Questi segni, quando sono incisi profondamente, costituiscono la base per le elaborazioni della memoria e per la formazione della retta opinione. In effetti si crea falsa opinione in tutti quei casi in cui gli uomini si dimostrano incapaci di "assegnare ciascuna cosa al proprio segno'' (195 a), cioè di far combaciare il segno impresso nell'anima con la nuova sensazione, in quanto il rapporto che si viene a stabilire nel rinnovato processo per­ cettivo è lo stesso che si instaura tra "copie e originali" (apotypOmata kaì tjpous) (194 b).  82 4. PLATONE 4.1.3 I segni della scrittura Il tema della memoria, che abbiamo trovato accennato a proposito dei segni impressi nell'anima nel Teeteto, ritorna in maniera centrale nel Fedro (274 c - 276 a), quando l'at­ tenzione di Platone si focalizza sui segni della scrittura. Nel mito che Socrate racconta, infatti, i segni alfabetici sono un dono che il dio egizio Theuth offre al re di Tebe Thamus, invitandolo a diffonderli in tutto l'Egitto perché, secondo il dio, essi sarebbero stati "una medicina per la sapienza e la memoria" (Fedro, 274 e). Thamus però non accoglie senza riserve il dono di Theuth, convinto che i segni della scrittura abbiano un effetto contrario rispetto a quello previsto dal dio, indebolendo la memoria: gli uomini "fidandosi dello scritto richiamerebbero le cose alla mente non più dalPin­ terno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni (tjpol) estranei" (Fedro, 275 a). Sviluppando questo concetto, Socrate giunge a una con­ trapposizione tra "le parole scritte" e "il discorso scritto nell'anima": quest'ultimo è "vivente e animato", è scritto con la scienza ed è capace di selezionare i buoni destinatari; le parole scritte, invece, hanno solo l'apparenza della vita, ma in realtà sono capaci di dire una sola cosa e sempre la stessa, al pari delle immagini pittoriche che, se interrogate, "mantengono un maestoso silenzio"; inoltre si rivolgono in­ discriminatamente a tutti. Ma, posto il primato del discorso scritto nell'anima, si istaura tuttavia una relazione semiotica tra i due termini: come propone Fedro, le parole scritte possono essere consi­ derate "un'immagine (eldolon)" del discorso scritto nell'a­ nima (276 a); ciò nonostante esse rimangono segni estrinse­ ci, capaci solo di "rinfrescare la memoria di coloro che già sanno" (277 e). Si possono rappresentare questi rapporti se­ miotici con un triangolo (cfr. p. 83). La linea tratteggiata indica il fatto che per Platone le pa­ role scritte, di per sé, non permettono la vera conoscenza, che deve essere mediata dal discorso interiore, ma produco­ no solo opinione (275 b).  4.1.4 Il segno come inferenza 4.1 I SEGNI discorso scritto nell'anima 83  immagini { 8 /d lJI B ) parole scrrtte oggetti della conoscenza Infine, una serie di contesti ci presenta un uso del termine "segno" (stmeion, in alternanza con tekmrion) come indi­ cante un fatto, un evento, uno stato dal quale si può inferi­ re un altro fatto, evento o stato secondo il modello già in­ contrato nella divinazione mesopotamica e nella medicina greca (p::)q). Nel Teeteto (153 a), a esempio, si dice che il fatto per cui il movimento e lo sfregamento producono il calore e il fuo­ co, i quali a loro volta producono tutte le altre cose, è un se­ gno sufficiente (hikanòn stmeion) per argomentare che il moto produce l'essere e il divenire, mentre la quiete produ­ ce il non essere e il perire. Negli stessi termini si parla di se­ gno nell'Epistola VII (332 c), dove il fatto di avere o meno degli amici viene presentato come il più grande segno del carattere virtuoso o vizioso di una persona. Ancora, nel Gorgia (520 d-e) si definisce un bel segno (ka/òn stmeion) del successo ottenuto il fatto che chi ha reso un servigio ri­ ceva un adeguato contraccambio. In tutti questi casi il se­ gno è espresso da una proposizione legata da un rapporto implicativo con un'altra proposizione. Ma, su questa accezione basilare, si innesta l'idea del st-  84 4. PLATONE mefon come segno che serve a distinguere una certa cosa da tutte le altre. In un passo del Teeteto (208 c - 209 c) si dice che il segno distintivo del sole, sufficiente (hikan6n) per co­ noscerlo, è dato dal fatto che esso è il più risplendente tra tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. Natural­ mente la forma logica sottesa a questa formulazione super­ ficiale è quella implicativa ("Se un corpo celeste che gira in­ torno alla terra è il più risplendente di tutti, allora esso è il sole"). Ma a questo punto Platone si interroga sul valore episte­ mologico della conoscenza attraverso i segni, chiedendosi se cogliere il segno distintivo di una data cosa (''il segno onde la cosa di cui si domanda differisce da tutte le altre", 208 c), significhi cogliere anche la ragione (/6gos) di quella stessa cosa. L'interrogativo non è di piccola importanza e si può notare che esso riapparirà in Aristotele sotto forma di ricer­ ca dei rapporti tra il "segno" e la "causa" di un fenomeno. E, come farà Aristotele, anche Platone qui distingue il se­ gno dalla ragione di conoscenza (/6gos epistms), soste­ nendo che il segno contribuisce al formarsi della retta opi­ nione, ma non della conoscenza. 4.2 La teoria del linguaggio 4.2. 1 Carattere semiotico della concezione lingui­ stica di Platone Nella speculazione successiva a Platone, la teoria del se­ gno e quella del linguaggio verranno a costituire due ambiti completamente separati, che considereranno diversi gli og­ getti delle rispettive indagini, chiamandoli con nomi diversi (in Aristotele, a esempio, il segno linguistico sarà sjmbo­ lon, e non smefon). Nella filosofia platonica, invece, que­ sta divaricazione non si è ancora affermata, ma, al contra­ rio, si può notare che la sua teoria linguistica ha un caratte­ re spiccatamente semiotico.  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 85 In generale, nella cultura greca, il segno è concepito come un elemento percepibile che rimanda a (o permette di giun­ gere alla conoscenza di) un elemento che non è manifesto (adlon, aphanés ecc.); come abbiamo visto, del resto, nel caso della medicina e, prima ancora, della divinazione, il segno costituisce la mediazione tra il piano delle cose acces­ sibili ai sensi e il piano delle cose non accessibili. Proprio con questi caratteri si presenta il segno linguisti­ co nei dialoghi platonici (soprattutto nel Crati/o e nel So/i­ sta): esso è d/Oma ("rivelazione") di un oggetto non perce­ pibile (sia esso un "significato", sia esso l"'essenza" della cosa nominata). Costantemente il verbo smafno ("signifi­ co", "manifesto attraverso segni") si alterna al verbo d/60 (''rivelo", "manifesto") quando si parla di una forma espressiva che rimanda a un contenuto che non viene colto con i sensi. Ciò avviene a esempio in un passo del Crati/o (422 e), nel quale Socrate indaga la capacità che hanno i prO/a on6mata (gli elementi primi e irriducibili del linguag­ gio) di rendere evidenti (phanera) ciascuno degli enti: a que­ sto proposito li paragona ai segni gestuali dei muti, che so­ no capaci di indicare (smalnein) le cose con le mani, con il capo e con il resto del corpo, pur essendo impossibilitati a manifestarle (dlot2n) con il linguaggio verbale. A più riprese nel corso del Crati/o viene affermato il compito semiotico di "rivelazione" (d/Oma) che hanno gli elementi del linguaggio. Ma Platone distingue la rivelazione effettuata dai nomi da QUella effettuata dagli enunciati (Lo­ renz e Mittelstrass 1967: 8): questi ultimi, infatti, rivelano sempre qualcosa intorno agli oggetti (Sofista, 262 d), men­ tre soltanto i nomi "corretti" rivelano gli oggetti come sono (Crati/o, 422 d). Anzi, è proprio il carattere di rivelazione che riveste il nome a costituire il suo criterio di correttezza. Nel Sojzsta (262 a) il nome è definito espressamente "se­ gno vocale" (smefon tis phonis), espressione che è usata come equivalente a d/Oma e la cui funzione è quella di ma­ nifestare l'"essenza" della cosa nominata: "lo direi infatti che c'è un duplice genere dei nostri segni fonici (tii phonii [.. .] dlomaton) che indicano l'essere di qualche cosa" (So- fista, 261 e).  86 4. PLATONE Particolari combinazioni di questi "segni vocali" danno luogo agli enunciati (/6go1), facendo scattare un livello su­ periore. In effetti, nel Sofista viene preso in considerazione il problema che, in termini aristotelici, sarà descrivibile co­ me opposizione tra "semantico" e "apofantico". In Plato­ ne, questa si presenta come opposizione tra il livello ono­ mazein ("nominare") e il livello légein ("enunciare") (262 d). I singoli segni vocali, siano essi on6mata ("nomi") o rhimata ("verbi"), manifestano un contenuto nel momento in cui nominano qualcosa. Le corrette combinazioni di que­ sti segni vocali si situano a un diverso livello, perché, oltre a manifestare un contenuto, lo presentano come "essere il ca­ so" o "non essere il caso" di un determinato evento, stato o processo, cioè ne costituiscono un'asserzione (De Rijk 1986: 199-200). 4.2.2 La teoria linguistica del "Cratilo" Il problema fondamentale che viene affrontato nel Crati­ lo è quello della "correttezza dei nomi". Esso è posto fin dali'inizio del dialogo al centro di una disputa che oppone Cratilo a Ermogene e per la quale Socrate è scelto come giu­ dice. Complessivamente, nella discussione, Cratilo sostiene una tesi che possiamo definire "naturalista", mentre Ermo­ gene una tesi "convenzionalista"; ma le rispettive posizioni sono più stratificate e presuppongono alcune distinzioni. Innanzitutto c'è un primo livello di discorso che riguarda l'atto della nominazione in un momento del linguaggio che possiamo considerare aurorale. Per Ermogene tale atto è frutto di convenzione e nasce dali'accordo degli uomini, che già hanno una conoscenza preliminare delle cose. Per Cratilo, al contrario, l'atto della nominazione non presup­ pone alcun accordo tra gli uomini, ma avviene in maniera naturale. Un secondo livello di discorso è rappresentato dall'analisi dello stesso fenomeno trascurando il momento diacronico della formazione del linguaggio e focalizzando il rapporto di correttezza rintracciabile tra il nome e la cosa a cui esso è  4.2 LA TEORIA DEL LINOUAOOIO 87 applicato sincronicamente. In questo caso tanto Ermogene quanto Cratilo propongono la stessa soluzione, sostenendo che i nomi sono sempre correttamente riferiti alle cose. L'u­ nica differenza tra le due posizioni consiste nel fatto che per Cratilo la correttezza dei nomi segue una legge naturale, mentre Ermogene sostiene il carattere convenzionale delle regole che stabiliscono la correttezza, e adduce come prova il fatto che i nomi possono essere cambiati a piacere, senza disturbare tale rapporto. Un terzo livello di discorso, che scaturisce direttamente dal precedente, è quello che riguarda l'estensione della vali­ dità del rapporto di correttezza. Per Cratilo la correttezza del nome è "universale", vale tanto per i Greci, quanto per i barbari. Per Ermogene, invece, sembra che tale correttezza debba essere limitata alla comunità linguistica particolare che ha adottato la convenzione. Si possono distribuire questi dati su una matrice: Ermogene Cratilo atto della nomina- zione primordiale frutto di accordo n aturale sempre presente sempre presente correnezza basata su leggi con- venzionali basata su leggi naturali validità del rap- porto di correnezza limitata alla comu- nitè inguistica particolare universale    Come abbiamo visto, entrambi i contendenti danno per scontato il carattere di correttezza dei nomi rispetto alle co­ se. Tuttavia ciascuno fornisce una risposta diversa alla do­ manda su chi garantisce la correttezza. La legge naturale,  88 4. PLATONE che ne è responsabile per Cratilo, focalizza il rapporto che si stabilisce tra il nome e gli oggetti che lo portano, senza che abbia alcuna importanza ciò che gli utenti del nome ne pensano. Al contrario, la convenzione, che per Ermogene è garanzia di correttezza del nome, è una regola che riguarda gli utenti del nome, senza che venga presa in alcuna consi­ derazione la natura dei portatori del nome stesso (Kretz­ mann 1971: 127). 4.2.3 Il problema linguistico e la dialettica Accanto a quelle di Ermogene e di Cratilo, nel dialogo è presente anche una terza teoria, sviluppata dallo stesso So­ crate attraverso la confutazione delle posizioni dei due con­ tendenti. Socrate, come al solito, è portavoce delle opinioni di Platone e le ragioni per cui egli rifiuta entrambe le altre posizioni sono da connettersi con la concezione generale del metodo della filosofia che propugna Platone. Infatti, se Cratilo o Ermogene avessero ragione, la via della dialettica, come mezzo per raggiungere la conoscenza, risulterebbe impercorribile (Weingartner 1969: 6). Platone prevede il linguaggio come mezzo necessario nella ricerca fi­ losofica, ma pensa anche che la verità vada cercata nelle co­ se e non nel linguaggio stesso, come suona appunto la con­ clusione del dialogo. Le teorie di Ermogene e di Cratilo mettono entrambe in pericolo questo principio. Vediamo brevemente in quale modo. La teoria di Ermogene si presenta all'inizio come una teoria "convenzionalista classica", sostenendo il principio secondo cui la convenzione e l'accordo costituiscono il cri­ terio di correttezza dei nomi (384 c-d). Tuttavia questa non è l'unica posizione che Ermogene sostiene e non è quella che è effettivamente attaccata da Socrate. Subito dopo Er­ mogene sostiene anche che, "qualsiasi nome uno imponga a una cosa, questo è quello corretto", precisando che, "se uno sostituisce quel nome con un altro, non usando più il precedente, il secondo nome non è affatto meno giusto del primo" (384 d). A questo punto Socrate costringe Ermoge-  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 89 ne a effettuare un cambiamento di focalizzazione e a preci­ sare che chiunque può operare questo cambiamento di no­ mi, non solo una comunità, ma anche un singolo individuo. Ne risulta una dottrina degli idioletti autonomi, tanto parcellizzati da coincidere con la parlata di un solo uomo, che fa scoppiare il convenzionalismo di Ermogene in un soggettivismo totale; tanto che Socrate non manca di met­ terlo in parallelo con il relativismo di Protagora (386 a). Questa "Humpty Dumpty position", come è stata arguta­ mente chiamata (Weingartner 1969: 7), fa perdere al lin­ guaggio la funzione comunicativa e rende impossibile la dialettica, in quanto non permette di distinguere tra enun­ ciati veri ed enunciati falsi. Tuttavia anche la posizione di Cratilo conduce, altrettan­ to perentoriamente, a una impossibilità della dialettica. Egli infatti elabora una teoria che ha le caratteristiche di un "iconismo assoluto": il nome rivela la natura della cosa che nomina, imitandola; ma questa imitazione è totale o è un nonsenso. La configurazione sonora, che si distaccasse an­ che per una piccola parte dalla perfezione deli'imitazione, verrebbe a essere niente di più che "il rumore che fa uno che agita un vaso di bronzo percuotendolo" (430 a). Poiché per Cratilo la produzione linguistica sembra dare luogo in certi casi a imitazioni corrette, in certi altri a dei nonsensi, in entrambe le evenienze la dialettica verrebbe ri­ dotta a uno strumento sprovvisto di senso. Se, a esempio, la ricerca dialettica cominciasse con il chiedersi "Che cos'è la giustizia?" e sperasse di raggiungere, nel corso del dibattito, la conoscenza dell'entità sotto indagine. Si presenterebbero allora due possibilità: (i) se l'espressione !giustiziai rivelasse naturalmente l'oggetto, che nomina, la ricerca finirebbe prima di cominciare; (ii) se invece essa fosse analoga al "ru­ more prodotto da un vaso di bronzo percosso", la domanda stessa non avrebbe senso. La dialettica, per quanto debba giungere a giudizi veri, deve avere la possibilità di enunciare giudi.zi falsi, che devono essere corretti nel corso del dibatti­ to. Ed è appunto questa possibilità che viene eliminata dalla teoria di Cratilo.  90 4. PLATONE 4 . 2 . 4 Il nome come strumento Uno dei punti fondamentali del dialogo platonico è costi­ tuito dalla ricerca di un criterio oggettivo che permetta di assegnare un valore di verità tanto agli enunciati quanto ai nomi. Per raggiungere adeguatamente questo scopo, Socra­ te sposta temporaneamente il discorso dal piano linguistico a quello ontologico, affermando che le cose (pragmata) hanno in loro stesse una stabile essenza e non dipendono dal giudizio soggettivo (386 e). Una tale caratteristica di oggettività è attribuita da Socra­ te anche alle azioni (praxeis), che al pari delle cose (pragma­ ta) sono delle specie di enti (onta). Infatti, dal momento che ci aspettiamo che le azioni abbiano certi effetti, esse non possono essere compiute arbitrariamente. Ma, per Socrate, anche il dire (légein) e il denominare (onomazein, che è una parte del dire), costituiscono delle forme di azione e, di con­ seguenza, devono essere compiute in maniera non arbitra­ ria. Possiamo illustrare questa serie di divisioni attraverso il seguente schema: enti (6nts) cose (pr8gmsta) l ""azioni (prAxtJis) /\ dire (/(lgein) /\  Nel resto del dialogo l'intuizione che il dire e il denomi­ nare costituiscono delle specie di azioni non verrà ulterior­ mente sviluppata, ma rimane comunque una importante in­ dicazione di una possibilità di sviiuppo in senso pragmatico che avrebbe potuto avere la linguistica greca. In questo contesto, lo scopo di mostrare che il linguaggio ha un legame oggettivo con la realtà, commisurato con il fi- denominare (onomAzein)  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 91 ne di raggiungere una comunicazione efficace, è perseguito attraverso il paragone del nome con uno strumento (orga­ non): proprio come la spola serve a sceverare la trama del tessuto, così il nome è "uno strumento didascalico e sceve­ rativo dell'essenza" (388 c). In altre parole, in primo luogo, i nomi operano una tassonomia della realtà, separando gli oggetti del reale, in maniera tale da rispettare le loro nature (Kretzmann 1971: 128); in secondo luogo i nomi permetto­ no di comunicare questa tassonomia. 4.2.5 Forma ("eldos") e materia del nome Se lo scopo dei nomi è quello di far acquisire la conoscen­ za delle cose e di comunicarla agli altri, è necessario che chi ha denominato la realtà (il "nomoteta", personificazione di un'autorità linguistica accettata), categorizzandola in una certa maniera, già ne possedesse una conoscenza prelimi­ nare. In effetti, per garantire la correttezza dei nomi, il nomo­ teta ha agito come il costruttore di spole. Come quest'ulti­ mo guarda ali'eidos ("forma", "idea") della spola, così il nomoteta, per costruire il nome, guarda al "nome in sé", cioè alla forma ideale del nome (389 b; 390 a). Allo stesso titolo, come non ogni materiale è adatto alla costruzione di uno strumento, ma è necessario usare la ma­ teria che meglio si adatta alla forma (a esempio il ferro per il trapano e il legno per la spola, e non viceversa), ugual­ mente sarà necessario che i nomi siano costruiti con suoni e sillabe, piuttosto che con altro materiale, se devono com­ piere bene la loro funzione. Tuttavia non sarà necessario che la forma fonica (direm­ mo: di superficie) dei nomi sia identica per tutte le lingue, ma ciascuna lingua suddividerà in modo diverso il conti­ nuum sonoro (nello stesso modo in cui non ogni fabbro adopera lo stesso ferro per lo stesso strumento atto allo stesso scopo) (389 e). In questo modo Platone spiega la di­ versità delle lingue, le quali pure, indistintamente, sono or­ ganizzate in maniera da rispettare i medesimi modelli. Ciò  92 4. PLATONE che varia da lingua a lingua è la materia, da interpretarsi co­ me la configurazione superficiale di nomi e di sillabe che as­ sume ciascun nome. Ciò che rimane costante è laforma (eidos, idéa) del nome che conviene a ciascuna cosa (390 a). Un modo di pensare a questa forma è quello proposto dali'interpretazione di Kretzmann, che la identifica con la funzio­ ne e lo scopo essenziali a ciascun nome, di separare le cose e di separarle in maniera da rispettare le loro giunture natura­ li. In questo modo, a esempio, il nome greco l hippos l o quelli barbari lchevall, lcavallol, lborsel, lPferdl ecc. saranno tutti corretti se riusciranno a ritagliare la realtà se­ condo le "naturali" giunture; e sembrerebbe esserci il pre­ supposto che tali giunture debbano essere le stesse per tutte le culture. Come si vede, Platone qui sta affrontando una questione che potremmo definire "hjelmsleviana",1 e così potremmo parlare, più che di funzione, come fa Kretzmann, di forma e sostanza, di espressione e contenuto, come fa Hjelmslev: la forma espressiva (la materia di Platone) può variare da lingua a lingua; ma, affinché il nome sia quello giusto, è ne­ cessario che la forma del contenuto (l'eidos o idéa di Plato­ ne) ritagli la materia del contenuto secondo le medesime ar­ ticolazioni. Cosi l hippos l, l cheval l, l cavallo l, l borse l, l Pferd l saranno tutti nomi giusti se ritaglieranno il conti­ nuum materiale del contenuto ("la cavallinità, all'interno dello spettro relativo agli animali) esattamente secondo le stesse giunture. Che poi l'elaborazione dei nomi debba essere messa in corrispondenza con una corretta tassonomia del continuum della realtà, da effettuarsi verosimilmente con il metodo della divisione (diairesis), è dimostrato dal fatto che spetta al dialettico, personificazione dell'autorità scientifica e filo­ sofica, giudicare se il lavoro dei vari nomoteti è stato fatto bene (390 d).  LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 93 4.2.6 La prima teoria semantica Seguendo l'interpretazione di Donatella Di Cesare (1981) si possono rintracciare nel Crati/o due diverse teorie seman­ tiche, che si riferiscono, la prima a una situazione di lin­ guaggio ideale, e la seconda a una situazione di linguaggio come realtà storicamente data. Esaminiamo brevemente la prima. A un certo punto del dialogo (393 d), infatti, Socrate so­ stiene che ciò che è veramente importante per il nome è di significare (smalnein) l'essenza della cosa (ousfa tofl prag­ matos), la quale viene chiaramente espressa (dJoumén) dal nome. Una volta che il nome esprime l'essenza della co­ sa, non ha nessuna importanza se vengono aggiunte o tolte delle lettere al nome. L'esempio che viene portato è quello del nome di una let­ tera dell'alfabeto, il bita: esso nomina la lettera l b l, ma a essa aggiunge ita (lel), tau (ltl) e alpha (lal); nonostante queste aggiunte, esso nomina correttamente il l b l, in quan­ to fa comparire il "valore" della lettera che doveva essere nominata. Un analogo ragionamento vale per tutti i nomi: essi sono corretti se nominano l'essenza della cosa di cui so­ no nomi. Il significato è, dunque, identificato con questa essenza della cosa. Più avanti (394 b-e) Socrate introduce un altro concetto, quello di djnamis ("valore"), che sembra anch'esso identifi­ carsi con il significato. Infatti egli sostiene che chi è vera­ mente pratico di nomi guarda al loro valore (djnamis), non lasciandosi sviare né da aggiunte né da trasposizioni di let­ tere. Cosi i nomi Astyanax ("Astianatte" = "signore della città") e Héktor (''Ettore" = "che tiene saldo"), pur avendo in comune solo la lettera l t l, significano la stessa cosa (tau­ tòn smalne1). Dunque il significato del nome è dato da entrambi gli ele­ menti, l'essenza della cosa nominata e la djnamis del nome: essi di fatto coincidono, in quanto il nome, attraverso il suo significato, deve esprimere la cosa che nomina. Si possono illustrare i rapporti tra nome, significato e cosa con il se­ guente triangolo:  4. PLATONE essenza della cosa = In effetti, come l03), per Platone il nome non "rispecchia" la cosa, ma solo la sua essenza, ed è questa la ragione per cui possono esserci nomi diversi per lo stesso oggetto. Del resto, per rispecchia­ re l'essenza della cosa, il nome deve "associare l'individuo al genere cui appartiene" (ibidem); fatto che corrisponde a quanto avevano sottolineato Lorenz e Mittelstrass (1967: 6- 8), con la loro attribuzione di una funzione predicativa al nome. Il significato specifico del nome, la sua dynamis, consiste allora neli'assegnare ciascuno degli oggetti al con­ cetto appropriato, o al genere che gli compete. Ed è rispetto a questa operazione che si può valutare oggettivamente la correttezza o meno del nome. Se ci soffermiamo a considerare i risultati della teoria del significato esposta nella prima parte del dialogo, vediamo che tutta la dimostrazione di Socrate è rivolta a mostrare la coincidenza della struttura linguistica con quella logico-on­ tologica: il linguaggio, attraverso i nomi, ritaglia il reale se­ condo le stesse giunture che quest'ultimo naturalmente pre­ senta. Così, imitando e rappresentando la struttura della realtà, il linguaggio costituisce una mediazione tra il mondo delle idee e quello sensibile. Del resto il nome rappresenta il genere stesso che può essere predicato di ciascuna cosa e che, inafferrabile in natura, si concretizza nella materia fo­ nica. dynamis  nome cosa sottolinea Donatella Di Cesare ( 1 98 1 : 94  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 95 Tuttavia, come dicevamo, l'identità descritta nella prima parte del dialogo non costituisce per Platone un dato di fat­ to, ma un obiettivo ideale. Infatti dalla parte finale del dia­ logo, che segue la digressione etimologica scaturirà una se­ conda e ben diversa teoria semantica. 4.2.7 La seconda teoria semantica In effetti, l'analisi etimologica svolta da Socrate nella parte centrale del dialogo, e la congiunta riflessione sull'ori­ gine del linguaggio, erano state intraprese per dimostrare la sostanziale identità tra la struttura linguistica e quella anto­ logica, in generale, e tra l'essenza dell'oggetto e la djnamis, in particolare. Ma il risultato a cui esse approdano è esatta­ mente l'op,posto: il linguaggio non rispecchia la struttura oggettiva del reale, ma piuttosto è espressione dell'idea che del reale si è formato il nomoteta. Il significato, dunque, viene a essere identificato con la rappresentazione del reale che si forma nel soggetto (Di Ce­ sare 1981 : 131), rappresentazione che è il risultato delle opi­ nioni, sensazioni, impressioni che vengono esercitate sul soggetto dagli oggetti della realtà. Pagliara (1956 a: 73) ave­ va del resto individuato questo passaggio da una prima a una seconda teoria semantica come analisi di due aspetti di­ stinti del fatto linguistico: (i) il rapporto tra il significante e l'oggetto, nella prima parte del dialogo; (ii) il rapporto tra il significante e il significato, nella seconda. In base alla seconda teoria, il triangolo che illustra i rap­ porti tra nome, significato e cosa dovrebbe avere una parti­ colare struttura (cfr. p. 96). Il linguaggio, dunque, non rispecchia il mondo delleidee, cioè l'essenza delle cose, ma piuttosto il mondo empirico: esso costituisce una realtà storica, che contiene la visione del mondo che avevano i primi nomoteti, quando tentarono di dare un ordine al reale, classificandolo e categorizzando­ lo, proprio servendosi dei nomi come "strumenti sceverati­ vi". Ciò non esclude, tuttavia, che si potrebbe arrivare a un adeguato rispecchiamento della realtà mediante il linguag-  96 4. PLATONE rappresentazione soggettiva = significato nome gio, qualora si raggiungesse una completa conoscenza delle cose. Di particolare interesse risulta poi il fatto che è prevista una precisa funzione mediatrice dell'anima, grazie alla qua­ le la teoria platonica si avvicina a quelle moderne, in cui il linguaggio viene riconosciuto come fatto psichico. Platone raccoglie qui l'eredità dei sofisti, che unici tra i filosofi pre­ cedenti avevano insistito sulla dimensione psichica del lin­ guaggio, in contrapposizione a quanti prevedevano la possi­ bilità per il reale di essere rispecchiato nel linguaggio in ma­ niera diretta e senza mediazione. 4.2.8 La mimesi La prima parte del dialogo era stata dedicata alla confu­ tazione della teoria convenzionalista. L'ultima parte è inve­ ce dedicata alla confutazione della teoria del rispecchiamen­ to sostenuta da Cratilo. Già la sezione centrale, dedicata al­ l'etimologia, ha portato alla conclusione che il linguaggio costituisce una rappresentazione soggettiva, fatto che, di per sé, contraddice la tesi di Cratilo. Tuttavia Socrate, per condurre ancora di più all'assurdo la tesi di quest'ultimo, solleva il problema della mimesi, proponendo provvisoria­ mente una definizione del nome come "imitazione con voce   cosa  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 97 di cosa che si imita; e colui che imita nomina con la voce ciò che imita" (423 b-e). Quel che è interessante è che anche l'imitazione sembra avere, in linea generale, un carattere semiotico: infatti l'imi­ tazione "svela" (dloi) l'essenza della cosa. Ma quello di imitazione non è un concetto pacifico e So­ crate lo indaga in tre diversi ambiti: (i) nel ritratto; (ii) nel caso dei doppi; (iii) nel caso del rispecchiamento "metafisi­ ca". Esaminiamo il primo caso. Tanto il ritratto quanto il nome possono essere messi a confronto con l'oggetto che imitano. Per Socrate si verifica allora il fenomeno per cui certi elementi presenti nell'origi­ nale possono risultare trascurati, come pure elementi assen­ ti possono risultare aggiunti. La copia ha dunque un carat­ tere di iconicità, ma presenta variazioni all'interno di un continuum. Questo, per Socrate, è lo stesso fenomeno che presentano i nomi, fatto che equivale a sottolineare il loro carattere segnico. Ma Cratilo non è della stessa opinione, in quanto pensa che i nomi debbano avere un carattere di so­ miglianza assoluta, in mancanza della quale non sono affat­ to tali. Ecco in schema le due posizioni:       Socrate Cratilo rapporto ..nome/oggetto• iconico icon ico carattere della mimesi continuo discreto    A questo punto Socrate introduce l'argomento del dop­ pio: se nella mimesi tutti i caratteri deli'originale venissero riprodotti, non si avrebbe una imitazione, ma una occor-  98 4. PLATONE renza identica dello stesso oggetto. Non si sarebbe dunque in presenza di un rapporto di rappresentazione, ma di un vero e proprio doppio, in una situazione in cui è impossibile stabilire quale è il rappresentante e quale il rappresentato. In altre parole, il nome possiede un carattere segnico pro­ prio in virtù di questa sua dissimiglianza rispetto all'oggetto cui rimanda. Il terzo caso considerato, che abbiamo definito come "ri­ specchiamento metafisico", pone in primo piano il tema dell'imitazione che il singolo suono compie di un singolo frammento della struttura del reale. La parola sklrots, che significa "durezza",ontrariamente a quanto ci aspette­ remmo se i suoni rispecchiassero in tutto le essenze delle co­ se, contiene al suo interno un /ambda ( I I I ), che esprime "mollezza" e "scivolosità". Dunque la parola imita la "du­ rezza" solo in parte, mentre in parte se ne discosta. Con ul­ teriori esempi, poi, Socrate mira a negare anche un'altra ipotesi, più fondamentale filosoficamente: quella secondo cui nel linguaggio venga rispecchiata la veduta eraclitea del­ la realtà come eterno flusso e movimento (41 1 c; 436 e); ciò infatti non si verifica perché, come sottolinea Socrate, nel linguaggio molte voci lessicali presentano la realtà come perfettamente immobile (437 c). 4.2.9 L'uso e la convenzione Dalle critiche che Socrate muove, soprattutto a Cratilo, scaturisce una proposta positiva. Avendo infatti osservato che il nome sklrots (''durezza") è inesatto, in quanto con­ tiene nel suo significante elementi che non corrispondono alla qualità della cosa designata, Socrate osserva anche che, nonostante ciò, esso adempie perfettamente alla sua funzio­ ne comunicativa: infatti i Greci si intendono quando tale nome viene usato. La responsabilità di questa comprensione è attribuita da Socrate ai due fenomeni dell'uso (éthos) e della convenzio­ ne (xynthk): questi fenomeni non circoscrivono soltanto un rapporto tra i due utenti del nome, ma si rintracciano  4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 99 anche a livello delle relazioni tra il nome e l'oggetto, cioè al livello denotativo (Kretzmann 1971: 138). L'idea che il no­ me sia "rivelazione" (d/Oma) dell'oggetto denotato non viene abbandonata, ma viene solo spostata la responsabilità di questa rivelazione dal rapporto di somiglianza tra i due termini, alla convenzione che li associa (435 a-b). Platone, tuttavia, non sostituisce semplicemente una con­ cezione convenzionalista a una in cui la semiosi avviene per somiglianza. Per lui la situazione ideale rimane quella in cui i nomi sono immagini che riproducono l'essenza degli og­ getti nominati; ma sono i limiti del linguaggio naturale che rendono necessario il ricorso all'accordo (435 b-e). Questo è del resto il punto in cui i commentatori hanno scorto un compromesso tra il convenzionalismo di Ermogene e il na­ turalismo di Cratilo. Nella chiusura del dialogo si deve rilevare anche uno spo­ stamento nella funzione assegnata al segno linguistico: c'è una accentuazione della funzione comunicativa a scapito di quella cognitiva. Il linguaggio non è uno strumento abba­ stanza valido per la conoscenza della realtà, per raggiungere la quale sarà necessario percorrere una via più diretta: quel­ la del ricorso alle cose stesse (439 b). Esso però si configura come un ottimo strumento per il buono svolgersi della co­ municazione interoggettiva. 4.3 La teoria linguistica deii'"Epistola VII" Un'interessante trattazione degli elementi coinvolti in una teoria del significato la si può trovare nell'Epistola VII, un testo attribuito a Platone, ma la cui autenticità è stata più volte messa in dubbio (Edelstein 1966). A molti è sem­ brato che essa non contenesse niente di veramente non pla­ tonico, e a ogni modo presenta un interesse intrinseco che induce a farne oggetto di un'analisi particolare. Nella sua parte centrale, la lettera contiene un passo teo­ rico (342 a - 344 d), in cui vengono indagati gli elementi che permettono di raggiungere e trasmettere la conoscenza. Si tratta anche, allo stesso tempo, di elementi che intervengo-  100 4. PLATONE no nel processo di semiosi. Il primo di questi è il nome (onoma); il secondo la definizione (/ogos); il terzo l'imma­ gine (efdo/on); il quarto la conoscenza (epistm); il quinto, infine, l'oggetto conoscibile (gnost6n) e veramente reale (althos 6n) (342 a-b). Questi elementi, secondo P interpretazione di Morrow (1935: 68), sono organizzabili secondo un ordine interno. Infatti, da una parte si possono collocare i fattori che costi­ tuiscono gli strumenti di conoscenza: i nomi, le definizioni, le immagini o diagrammi; dall'altra, in opposizione diame­ trale, si trovano gli oggetti conoscibili e reali. A mediare tra gli strumenti e l'oggetto della conoscenza si trova l'epist­ mt, che Morrow interpreta come "apprensione soggettiva", e che è ulteriormente suddivisa, come Platone dice più avanti (242 c), in retta opinione (a/ths doxa), conoscenza (epistm) (ritorna curiosamente come nome di una specie, quello che è il nome dell'intero genere) e ragione o intuizio­ ne (noas), del quale ultimo Platone precisa che è il più vici­ no al quinto fattore. Nella lettera si dice che questi tre elementi, che compon­ gono complessivamente l'epistémt e che devono essere con­ siderati come un unico grado, non risiedono "né nelle voci, né nelle figure corporee, ma nelle anime (en psychais)", fat­ to che, come Platone sottolinea, li distingue sia dall'oggetto reale, sia dagli strumenti di conoscenza. Il richiamo ali'ani­ ma, che può essere messo in parallelo con il ruolo assegnato all'anima nella seconda teoria semantica del Crati/o, induce ad accostare questa nozione di epistm alla nozione di si­ gnificato; fatto che del resto può venir confermato se leg­ giamo il passo con l'ottica della tradizione posteriore, so­ prattutto aristotelica, che colloca il significato esattamente nell'anima (tà en tii psychr) (De interpreta/ione, 16 a). Possiamo distribuire i cinque elementi sul triangolo se­ miotico nel modo illustrato alla p. 1 0 1 . Tutto l'interesse del passo è orientato a mostrare il carat· tere difettoso degli strumenti di conoscenza. E, per suggeri­ re come si può ovviare a questo inconveniente, Platone ela­ bora una dottrina che è molto vicina alla teoria di Peirce della semiosi come "fuga di interpretanti". Vediamola at-  TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 101 4. apprensione soggettiva ( epistml)   3. immagine- (efdDion) 2. definizione (/6gos) l intuizione (noùs) l conoscenza (epistmlJ} l retta opinione (allfths d6xa) 6. oggetto conoscibile (gnst6n) e veramente reale (sleth;;s 6n) 1 . nome (6noms) traverso l'esempio stesso che fa da filo conduttore al discor­ so platonico. Si tratta deli'esempio del "cerchio", non a caso di carat­ tere matematico. Non è difficile per Platone mostrare che il referente dell'espressione l cerchio l non è un oggetto del mondo reale, sottoposto al divenire e alla corruzione, ma è un'entità di altro tipo. A essa non si può arrivare se non passando attraverso l'intera serie dei gradi preliminari e, so­ prattutto attraverso un processo di continua sostituzione dell'uno con l'altro: "trascorrendo continuamente fra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la cono­ scenza" (343 e). Ciascun elemento, di per sé incompleto (co­ me lo sono gli interpretanti di Peirce), contribuisce al rag­ giungimento della conoscenza se inserito in questo processo instancabile di sostituzione e di confronto. Questo processo di continua sostituzione permette di ovviare all'imperfezio­ ne degli strumenti.  102 4. PLATONE In effetti il carattere di imperfezione del nome è dovuto al fatto che, come sappiamo dal Crati/o, nel linguaggio sto­ ricamente dato esso non è l'immagine della cosa che nomi­ na, ma è legato alla convenzione. Questo, secondo l'autore ' Epistola VII, gli toglie stabilità, in quanto potremmo dell usare l'espressione l linea retta l per riferirei alle cose circo­ lari e l'espressione l cerchio l per designare la linea retta, senza provocare cambiamenti nelle cose stesse (343 a-b). Si può ricorrere allora alla definizione del cerchio come "quella figura che ha tutti i punti distanti dal centro" (342 b); ma anch'essa, per quanto aggiunga qualcosa, risulta composta di nomi e di verbi e dunque presenta difetti ana­ loghi a quelli incontrati a proposito dei nomi. Tra l'altro, sottolineare che la definizione è "formata di nomi e di ver­ bi" significa accentuarne il carattere di significante, piutto­ sto che quello di significato. Essa è semplicemente un'altra espressione, che può essere sostituita, nel processo conosci­ tivo e/o semiosico, al nome. Del resto, alla possibilità di una sostituzione tra nomi, Platone aveva già accennato, presupponendo l'intercambiabilità di l cerchio l (kyklos), l rotondo l (strongylon), l circolare l (peripherés) (242 b-e). Qualcosa ancora viene aggiunto dal terzo livello, quello rappresentato dagli eldola ("immagini"). Qui il cerchio è conosciuto come "quello che si disegna e si cancella, che si costruisce al tornio e che perisce" (242 c). Si tratta della so­ stituzione di un interpretante iconico ai precedenti interpre­ tanti verbali: per capire che cosa è il cerchio in sé, non sono necessarie solo le spiegazioni verbali, ma anche le illustra­ zioni e le astensioni. Anche a questo livello la conoscenza presenta un carattere incerto, in quanto incontra oggetti in cui l'essenza (tò 6n) risulta inquinata dalla qualità (tò poi6n 11), cioè da proprietà accidentali e contrarie, talvolta, alla vera natura del suo referente metafisica: infatti per ogni punto del cerchio può essere costruita una tangente (343 a), tale che, isolando quel brevissimo tratto, non si saprebbe se esso fa parte di un cerchio o di una retta (Taylor 1912: 361). Il passo teorico deli'Epistola VIl si chiude ritornando su un concetto assai vicino a quello della semiosi illimitata, an­ che se ovviamente modulata in chiave platonica: "mentre  4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 103 ciascun elemento (nomi, definizioni, immagini visive e per­ cezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri, avviene che l'intuizione e l'intellezione di ciascuno brillino a chi compie tutti gli sforzi che può fare un uomo" (344 b-e). La metafora dello "sfregamento", con cui il passo si av­ via alla conclusione, è funzionale sia all'idea epistemologica dell'improvviso accendersi e brillare deli'intuizione, sia an­ che all'idea semiotica che il senso finale non lo si ottiene at­ traverso l'immediata e semplicistica sostituzione di un signi­ ficante con un significato, ma attraverso una strategia di mosse successive e ripetute, come sono quelle appunto del processo di semiosi illimitata. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.0 Introduzione Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia del se­ gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du­ revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche professio­ nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con­ getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz­ zato per tutto il V secolo termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra­ fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle esi­ genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza (1979: 107), non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro­ se e rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del­ la Retorica e in generale nelle opere che trattano di argo­ mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond (1939, ried. 1973: 241), l'uso dei vari termini del lessico semiotico­ gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie­ gati senza speciali sfumature di significato. Ciò non con­ traddice, tuttavia, il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e abbia inau-  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato una solida tradizione, che continuerà nella trattati­ stica successiva, fin nella retorica romana del I secolo d.C. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si limite­ ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni pro­ fonde coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del futuro era un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella classificazione dei tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristotele individua in primo luogo due ca­ tegorie di destinatari dei discorsi: colui che osserva (theo­ ros) e colui che decide (krits). Il primo agisce nella dimen­ sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di­ scorso epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi­ re nelle altre due dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice (dikasts) decide sul passa­ to; il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul futuro.2 Co­ me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio­ ne è totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con le tre dimensioni del tem­ po che fin dall'epoca di Omero appaiono associate agli am­ biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoria del linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondo fatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello che riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della teoria del linguag-  }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e della teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto rilevante proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente dato per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se­ gni": anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sono stati pochi coloro che sono arri­ vati ali'eccesso di pensare che essi potessero fornire il mo­ dello anche per gli altri tipi di segno. In Aristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio ricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segno vengono denomi­ nati smeia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria del segno propriamen­ te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un in­ teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema delle modalità di acquisizione della co­ noscenza, mentre il simbolo linguistico è connesso princi­ palmente al problema dei rapporti che si instaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e gli stati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo­ ria del simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche­ ma a tre termini: i suoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, le quali, a loro volta, sono le im­ magini degli oggetti esterni: Ordunque, i suoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me­ desimi; tuttavia, suoni e lettere risultano segni (smela), anzi­ tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini (homoi6mata) di oggetti (pragma­ ta), già identici per tutti. (Arist., De int., 16 a, 3-8) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter­ mine smeia come apparente sinonimo di sjmbola non si­ gnifica affatto che le due espressioni siano intercambiabili:  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 107 in realtà in questo passo Aristotele usa il termine smefon in un'accezione debole, che ci conferma appunto la tenden­ za a un uso sfumato delle espressioni del lessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione del sistema di demarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa smeia per dire che l'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indizio deli'esistenza parallela di affezio­ ni dell'anima. A ogni modo, è possibile costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo tipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri (nomat8)  rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( sn ti phntl (prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è il rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e stati d'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animo sono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressi in maniera diversa a se­ conda delle varie lingue e culture, esattamente come avvie­ ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og­ getti c'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto i primi sono le immagini dei secondi. Bi­ sogna precisare che sarebbe scorretto identificare in manie­ ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementi del lin­ guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà  108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra due en­ tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il si­ gnificato sono le due facce del segno, in quanto unità lin­ guistica. In Aristotele troviamo invece un rapporto conven­ zionale tra elementi del linguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente non appartengono al lin­ guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltre ri­ levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, ma continua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevale la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni della voce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen­ ta aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che cosa intende Aristotele con l'espressio­ ne tà en tii phonii? A questa domanda vi sono risposte di­ verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene che Aristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu­ re dà al termine "significante" quando spiega la natura del segno linguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phonii doveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres­ sioni linguistiche" intese nella loro forma compiuta di 6no­ ma (nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis (negazione); le ra­ gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi elemen­ ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven­ gono definiti "simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr., 16 a, 25; 24 b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara­ mente la veste fonica e il carattere di "significante". Tutta-  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristote­ le, almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem­ bra diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà. Tali garanzie sembrano esserci quando si dia una reciproca­ bilità tra i due ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicità del linguaggio nei confron­ ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Ari­ stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri­ to (D-K, 68, B 5, 1). Le ragioni che permettono la specializ­ zazione di questo termine nel senso di indicare le espressio­ ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua etimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascuna delle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, una medaglia, una moneta) in ma­ niera intenzionale, affinché possano servire, in un momen­ to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una certa cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat­ to che le due metà riescano a combaciare perfettamente vie­ ne a indicare la presenza di un rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte pre­ suppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri­ spondenza, l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si­ gnificato di "ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della teoria linguistica aristote­ lica la parola sjmbolon all'espressione smefon (che pure indica uno "stare per") induce a indagare su una possibile  LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca­ so del segno, i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria­ mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sono perfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal III secolo a.C. al III d.C. sia attestato anche nel senso di "ricevuta", talvolta redatta in duplice copia: le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente neli'uso che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De interpreta/ione: i nomi ono simboli degli stati d'animo nel preciso senso che si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam­ biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso (Be­ lardi 1975: 199). In quanto sjmbolon, il nome non è più dloma ("rivela­ zione"), come lo era per Platone: in Aristotele il nome è "suono della voce significativo per convenzione" (phon s­ mantik katà synthkn) (De int., 16 a, 19). Questo marca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del­ l'oggetto o la djnamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono convenzionalmente una pura relazione di equivalenztr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio­ ne che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3 Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet­ te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali,7 questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii) interpretabili. Già la nozione di "voce" (phon) presenta alcune interes-  5. 1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santi particolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una "voce" quando: (i) sia emesso da un es­ sere animato (II, 420 b, 5); (ii) sia dotato di significato (s­ mantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani­ mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalle voci emesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono convenzionali (e di conseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono "per na­ tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè "inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Pot., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici (adiafretoi, "invisibili") possono articolarsi in uni­ tà più grandi dotate di significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili, ma non combinabili (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­ guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi (''rivela­ no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri­ mo piano il carattere semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la loro causa.  1 12 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5. 1 .4 Le "affezioni dell'anima" Ritornando poi al triangolo aristotelico della significa­ zione, la seconda nozione degna di rilievo è quella di pathmata en tii psychi. Si noterà che, dove ci si aspetterebbe la nozione di "significato", troviamo invece un'entità psichi­ ca, qualcosa che non è posto all'interno del linguaggio, ma nella mente stessa degli utenti del linguaggio. Per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele, pur configu­ randosi come eventi psichici, non sono affatto individuali: si tratta piuttosto di elementi che, come dice Aristotele, so­ no identici per tutti, fatto che connette la teoria del lin­ guaggio con una sorta di psicologia sociale, se non addirit­ tura universale, piuttosto che individuale (Todorov 1977: 16). In secondo luogo è necessario rilevare una sorta di ambi­ guità che si trova nella nozione posta al vertice superiore del triangolo. Infatti Aristotele dice che i pathimata en tii psychii sono le immagini (homoiomata) degli oggetti esterni: con ciò in­ tende che tra gli oggetti e le entità psichiche c'è lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia. Tuttavia, poi, per indicare la rappresentazione mentale usa anche, più avanti, l'espressione noma ("pensiero", "nozione", 16 a, 10): ma, in questo secondo caso, precisa che i pensieri, sot­ to certe condizioni, possono essere veri o falsi. Da ciò con­ segue che i nomata vengono concepiti come forme di giu­ dizio . Si tratta di due nozioni completamente diverse, e il fatto che venissero entrambe messe in rapporto con le medesime espressioni linguistiche aveva fatto pensare a un loro uso si­ nonimico, che risultava aporetico. In realtà, come ha messo in evidenza Belardi (1975: 109), nessuna delle due nozioni esaurisce da sola il livello della rappresentazione psichica, ma esse rimandano a due facoltà differenti dell'anima: i pathtnata rimandano a una facoltà passiva dell'anima, quella di subire impressioni dagli oggetti del mondo ester­ no; i nomata rimandano a una facoltà attiva, quella di ela­ borare giudizi. Questa relazione è del resto confermata dal  5.l TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 113 rinvio che Aristotele fa al De anima, trattato nel quale non vengono discussi solo i pathimata, ma anche le altre fa­ coltà. 5.1.5 Semantico e apofantico Non si può, a questo punto, non fare un cenno (anche se, di necessità, breve) a una distinzione che si affaccia, nel pensiero linguistico di Aristotele, tra la categoria del "se­ mantico" e quella dell'"apofantico". Nel De interpretatione (16 a, 9 e sgg.) viene aperta la problematica circa la diffe­ renza tra phasis (il semplice "detto") e kataphasis (!'"affer­ mazione"). I nomi (ma così anche i verbi) in sé costituisco­ no un "detto", ma non possono da soli costituire un'affer­ mazione o una negazione. Correlatamente, vengono distin­ ti due tipi di rappresentazioni mentali (noimata): l . quella "che prescinde dal vero e dal falso"; 2. quella "cui spetta necessariamente o di essere vera o di essere falsa". Ciò che in realtà viene a essere contrapposto è la nozione di significato rispetto a quella di condizioni di verità. Al primo tipo di rappresentazione, infatti, corrispondo­ no i nomi (e anche i verbi) presi da soli, i quali possono avere un significato, ma non hanno condizioni di verità. Ciò è provato da Aristotele mediante la scelta di un caso particolare: il termine "ircocervo" (traghélaphos). Esso "si­ gnifica bensì qualcosa" (cioè una commistione mostruosa tra un caprone e un cervo), ma non può essere detto vero o falso. Il "qualcosa" a cui si riferisce qui Aristotele indivi­ dua appunto la dimensione della semanticità pura, regolata da leggi diverse da quelle della referenzialità. Al secondo tipo corrispondono, invece, quelle entità che hanno la dimensione linguistica della proposizione: è quan­ do si passa agli enunciati affermativi e negativi che diviene possibile parlare di verità o di falsità. È solo in questo caso che diviene possibile parlare di apofanticità come dimensio­ ne aggiuntiva (non contrappositiva) rispetto a quella se­ mantica. Ma qual è il mezzo specifico per passare dalla dimensio- LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE ne semplicemente semantica a quella apofantica? Non ci sono dubbi che esso consiste nell'uso del verbo come predi­ cato. Del verbo Aristotele valorizza essenzialmente la fun­ zione predicativa, quando, parlando del giudizio, riduce il verbo a !copula + predicatol: "non c'è differenza", sostiene egli infatti, "tra dire: l'uomo cammina, e dire: l'uomo è camminante" (De int., 21 b, 9-10). In effetti il verbo viene qui concepito come nome assunto in funzione predicativa (Morpurgo-Tagliabue 1967: 62). Tuttavia, affinché il verbo possa esplicare questa sua funzione occorre che esso sia congiunto a qualcos'altro (cioè a un nome); preso da solo, cioè quando la sua funzio­ ne predicativa non può dispiegarsi, esso non può affermare alcunché (De int., 16 b, 19-25). L'incapacità del verbo preso da solo, ad affermare l'esi­ stenza di una certa cosa (cioè a fare asserzioni) è dimostrata da Aristotele con il ricorso all'esempio del verbo "essere": nemmeno esso preso da solo è capace di affermare che una cosa è. Così commenta Eco (1984: 25): "Pertanto, quando Aristotele dice che neppure il verbo essere da solo è segno dell'esistenza della cosa, vuoi dire che l'enunciazione isola­ ta del verbo non è indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa: perché il verbo possa avere tale valore indiziale occorre che sia congiunto gli altri termini dell'enunciato, il soggetto e il predicato (e quindi il verbo l essere l è indizio di asserzione di esistenza, o di predicazione deli'inerenza attuale di un predicato a un soggetto, quando appaia in contesti come lx è yl oppure lx èl, nel senso di "x esiste di fatto)". 5.2 La teoria del segno 5.2.1 La definizione Completamente irrelata rispetto alla teoria del linguag­ gio, in Aristotele la dottrina del segno si pone nel punto di intersezione tra logica e retorica e i segni sono trattati tanto nei Primi analitici quanto nella Retorica.  5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 115 Allo stesso tempo, la nozione di segno presenta due aspetti fondamentali: da una parte infatti ha un interesse epistemologico e antologico, in quanto si configura come strumento di conoscenza, che deve servire a condurre l'at­ tenzione dei soggetti conoscenti a operare un passaggio da un fatto a un altro (Todorov 1977: 19; Simone 1969: 91); dall'altra ha un carattere prettamente logico, in quanto è dotato di un meccanismo formale che presiede al suo fun­ zionamento. La definizione generale del segno (smeion) è data nei Primi analitici (II, 70 a, 7-9). Di questo passo esistono di­ verse traduzioni (Colli 1982: 252; Todorov 1977: 19 ecc.); ma quella che sembra individuare nel modo più soddisfa­ cente il significato del passo è quella di Preti (1956: 5): Quando, una cosa essendo, un'altra è, oppure quando una cosa divenendo, un'altra diviene anteriormente o posteriormente, queste ultime sono segni del divenire o dell'essere. La sottolineatura che abbiamo effettuato intende mettere in risalto appunto la specificità deIl'interpretazione di Pre­ ti, che restituisce al passo aristotelico tutta la sua carica di problematicità e la complessità, che appunto gli ulteriori sviluppi, a opera delle scuole successive, della dottrina del segno metteranno in luce. Prima di tutto vediamo però ciò su cui tutte le interpreta­ zioni del passo concordano, cioè che la nozione di segno proposta da Aristotele prevede l'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo: il segno coincide press'a poco con il rapporto di implicazione "p implica q", accezione, questa, abbastanza comune della nozione di segno e che abbiamo già trovato operante in altri ambiti, diversi dalla filosofia. Ma più precisamente, e particolarmente in questa defini­ zione, il segno coincide con uno dei termini dell'implicazio­ ne. L'interpretazione di Preti suggerisce che esso coincida in particolare con il secondo termine, cioè suggerisce che la definizione aristotelica vada letta nel senso che "q è segno di p": ora questa definizione, che viene a configurare il rap­ porto segnico come "Se q, allora p", comporta, ai fini della  116 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE sua applicazione ad argomentazioni inferenziali, un'inver­ sione da "p implica q" a "q implica p". È proprio questo fatto che conferisce alla nozione di se­ gno il carattere di problematicità e che conduce all'instau­ razione di un dibattito serrato e complesso in seno alle scuole filosofiche postaristoteliche, anche se esse non fa­ ranno esplicitamente riferimento ad Aristotele. D'alta parte, questo tipo di inversione sembra porsi an­ che alla base della richiesta, ai fini della validità del segno, di un'implicazione tra p e q più stretta di quanto non sia, a esempio, l'implicazione materiale. Sembra, in sostanza, che già nella definizione aristotelica venga richiesta la con­ dizione "Se non-q, non-p" ("q, o non-p"), cioè esattamente quel tipo di implicazione stretta che verrà dagli stoici consi­ derata necessaria per la validità del segno. Al di là di questo si deve anche notare che nella defini­ zione (e in genere nell'intera trattazione) del segno condot­ ta da Aristotele è riscontrabile un'ambiguità di fondo nel modo di concepire i due termini del rapporto implicativo. Per un verso, infatti, essi costituiscono dei fatti (o delle proprietà) (e non a caso una parola centrale della definizio­ ne è tò pragma "il fatto"). Aristotele del resto dà esempi di questo genere: "il mostrare che una certa donna è gravida attraverso il fatto che essa ha il latte"; il segno è "l'aver lat­ te", che appare appunto essere l'espressione di un fatto o di una proprietà. Per un altro verso il segno è concepito come una proposi­ zione, in quanto un segno può costituire la premessa da cui si sviluppa un sillogismo: "Un segno, invece, vuole essere una premessa dimostrativa, o necessaria o fondata sulla opinione" (An. Pr., II, 70 a, 6-7). In realtà, la definizione di segno come proposizione, che può costituire una premes­ sa in un ragionamento infcrenziale, è abbastanza centrale in Aristotele. Infatti il ruolo fondamentale che egli attribui­ sce al smefon è proprio quello di essere uno degli elementi che forniscono premesse a quel particolare tipo di siilogi­ smo che è I'entimema.  LA TEORIA DEL SEGNO 1 17 5.2.2 L'entimema e i segni Nella nozione di entimema coesistono due aspetti com­ plementari, che la tradizione successiva svilupperà talvolta separatamente. Da una parte l'entimema può essere consi­ derato un sillogismo tronco, in cui una delle premesse è mancante, perché ritenuta nota o ovvia.9 DalPaltra, l'enti­ mema viene considerato un sillogismo che tende alla per­ suasione, e non alla dimostrazione; in quanto tale non è ne­ cessario che le sue premesse siano vere, ma soltanto che sia­ no probabili (hos epì tò poly). Aristotele sviluppa esplicita­ mente il secondo aspetto delle definizioni parallele dei Pri­ mi analitici (II, 70 a, 9-10) e della Retorica (1, 1357 a, 30- 32) . Dunque il segno trova la sua principale applicazione nel­ l'ambito del discorso persuasivo, ovvero retorico, dove, sotto forma di proposizione, entra nel meccanismo dell'en­ timema e vi svolge il ruolo di "protasi", di premessa. Ma, in quell'ambito, si profila una prima distinzione tra la no­ zione di smeion e quella di eikos "verosimile" o "probabi­ le"), pur imparentate per il fatto di poter figurare entrambe come premesse negli entimemi. Ciò che contraddistingue la nozione di eikos è essenzial­ mente il suo carattere probabilistico, che lo lega irrevoca­ bilmente all'opinione, rimuovendolo in una zona del sapere piuttosto insicura, lontano dalla possibilità di una dimo­ strazione scientifica. 5.2.3 L'inferenza dal conseguente Per quello che riguarda la nozione di segno, la situazione è diversa e senz'altro molto più complessa. In effetti il s meion non costituisce una categoria semplice, bensì una classe composita che prevede al suo interno tipi con carat­ teristiche molto differenziate tra loro. Ma, prima di porre l'accento sulle differenze interne, è forse possibile osservare che qualcosa unisce i vari tipi di segni rispetto alla nozione di eikos: invece che sulla probabilità, nel caso del segno  118 5. LINGUAGGIO ESEGNI IN ARISTOTELE l'attenzione è concentrata sul carattere di "consequenziali­ tà". Il ragionamento inferenziale, basato sui segni, procede tipicamente ek ton hepomén{Jn, "per conseguenze", tende cioè a inferire la causa dall'effetto. Per questa ragione sono possibili sia applicazioni corrette sia applicazioni inganne­ voli. ÈinparticolarenelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5) che Aristotele sviluppa chiaramente la teoria del ragiona­ mento per conseguenze: quest'ultimo porta a conclusioni ingannevoli come, a esempio, nel caso in cui qualcuno, avendo osservato una volta che la terra è bagnata dopo la pioggia, volesse concludere in generale che, se la terra è ba­ gnata, allora è piovuto. Un secondo esempio di ragiona­ mento per conseguenze dato da Aristotele concerne le pro­ prietà, anziché gli eventi, come avveniva in quello prece­ dente: se qualcuno, avesse sperimentato che il miele ha la proprietà di essere giallo e volesse conciudere che qualcosa è miele partendo dalla proprietà che ha il colore giallo, cor­ rerebbe il rischio di scambiare per miele il fiele (ibidem, 167 b, 6-8). In tale contesto Aristotele giunge a identificare de­ cisamente questo tipo di inferenza con quello specifico del segno: "Nei discorsi retorici, del pari, le dimostrazioni trat­ te da segni si fondano sulle conseguenze" (ibidem, 167 b, 8- 9). È possibile a questo punto tornare agli Analitici e com­ prendere meglio perché Aristotele proceda innanzitutto alla distinzione fondamentale tra due tipi di segni: il tekmrion, segno "necessario" o "inconfutabile",10 e il generico s­ meion, che ha le caratteristiche opposte. In realtà quest'ultima distinzione (che, come vedremo, comporta non solo due, ma tre tipi di entità, poiché vi sono due specie di segni non necessari) corrisponde a un tentati­ vo di Aristotele di articolare una tipologia dei segni alle modalità di sviluppo possibile del sillogismo. Sono infatti tre i modi in cui il sillogismo può utilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizioni possibili del medio nelle varie figure. In questo modo si possono avere inferenze che partono da un segno sulla prima, sulla secon­ da o sulla terza figura.  5.3 n. MECCANISMO LOGICO 1 19 5.3 D meccanismo logico 5 . 3 . l Il tekmérion come segno nella prima figura del sillogismo Prima però di entrare nei dettagli tecnici di questa distin­ zione, vale la pena di rilevare preliminarmente che ben di­ verso è il valore epistemologico che Aristotele attribuisce al segno che si sviluppa in un sillogismo di prima figura, cioè il tekmrion, rispetto a quelli che si sviluppano in seconda e in terza figura, cioè i generici smefa. In realtà, nei due ultimi casi si verifica la tipica illusione segnalatanelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5),cioèav­ viene di credere che ci sia possibilità di conversione tra ra­ gione e conseguenza, senza che questo sia di fatto giustifi­ cato: dunque, in questi casi, l'inferenza dalle conseguenze alle cause è estremamente ipotetica e insicura. Nel primo caso, invece, cioè con il tekmrion, si ha un ti­ po di inferenza che parte anch'essa dalle conseguenze, co­ me dimostra l'esempio "se una donna ha latte, allora essa è gravida", in quanto l'"avere latte" costituisce sia una con­ seguenza dell'essere gravida, sia un segno di tale fatto; tut­ tavia, al contrario che nei casi precedenti, sembra esserci possibilità di conversione tra causa ed effetto; o, come sug­ gerivano le osservazioni di Preti (1956: 6) riportate prima, sembra essere previsto da Aristotele, in questo caso, un ti­ po di implicazione più stretta che non l'implicazione mate­ riale. Possiamo vedere ora come Aristotele sviluppa l'aspetto tecnico dei tre tipi di segno, partendo da quello in prima fi­ gura: Ad esempio, il provare che una donna è gravida, in quanto essa ha latte, si fonda sulla prima figura: il medio è infatti l'aver lat­ te. Poniamo che A indichi "esser gravida", che B indichi "aver latte", che C indichi "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 12-16)11  120 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Traducendo il ragionamento di Aristotele nel comune schema illustrativo del sillogismo, si otterrà: 8 "chi ha latte" c "donna" c "donna" In questo esempio il segno "avere nello schema sillogistico come noi ma è anche il termine intermedio dal punto di vista esten­ sionale, tanto che potrebbe essere costruita la seguente fi­ gura per illustrare i rapporti tra i termini del sillogismo: A essere gravida l . A "essere gravida" 2. 8 "avere latte" si predica di si predica di 3. A sipredicadi "essere gravida" latte" non solo è medio lo abbiamo riportato,   5.3 n MECCANISMO LOGICO 121 5.3.2 La seconda e la terza figura del sillogismo e i "semeia" Nella seconda e nella terza figura il termine medio è il le­ game che consente Pinferenza, ma non occupa, né nella formula né estensionalmente, la posizione centrale. Questo fa sì che l'etichetta di "maggiore" e "minore" sia "arbitra­ ria nella seconda o nella terza figura, a qualunque dei due termini si voglia dare il nome di maggiore o minore" (Allan 1970: tr. it. 1973, 123). Del resto è indubbio che il punto di vista adottato da Aristotele nella trattazione che egli fa delle premesse sia quello estensionale. Legata a questo punto di vista è di cer­ to la svalutazione della seconda e della terza figura. Passiamo ora ad analizzare il tipo di segno che si svilup­ pa in un sillogismo basato sulla seconda figura: "Se una donna è pallida, allora essa è gravida". Questa è l'analisi di Aristotele: Infine, la presunta prova che una donna risulta gravida, in quanto è pallida, si sviluppa attraverso la seconda figura. In realtà, dato che il pallore è una determinazione conseguente delle donne gravide, e che tale determinazione appartiene altre­ si a una certa donna, si crede allora provato che questa donna sia gravida. Indichiamo con A "la nozione di pallore", con B "l'essere gravida" e con C "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 20-24) Lo schema che può essere costruito in corrispondenza di questo sillogismo è il seguente: l . 2. 3. A "essere pallida" A "essere pallida" 8 si predica di si predica di si predica di 8 "chi è gravida" C "questa donna" C "essere gravida" "questa donna"  122 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE In questo caso il segno "essere pallida", che è anche il medio, ha la posizione di un estremo e si predica contem­ poraneamente dei due termini "essere gravida" e di "donna". 12 Aristotele condanna questa inferenza come non valida. Come si può osservare, ci ritroviamo qui di fronte al ca­ so più emblematico di inferenza tratta dalle conseguenze. Una conferma di questa condanna la si trova anche nel pas­ so corrispondente della Retorica (1, 1357 b, 17-21): "Se uno respira rapidamente è segno che ha la febbre". Anche que­ sto esempio di segno dà origine a un sillogismo sulla secon­ da figura, in cui il medio, "respirare rapidamente", ha la posizione dell'estremo maggiore e si predica di entrambi i termini "avere la febbre" e "uomo". Nella definizione di questo tipo di segno data nella Reto­ rica vengono aggiunte due particolarità interessanti rispetto a quella presentata negli Analitici: (i) la prima è che il se­ gno è confutabile anche se esso risultasse vero (kàn althès i1): viene dunque prevista la possibilità di costruire un'infe­ renza che risulti conforme alla verità, anche se questo è so­ lo un caso, si direbbe, accidentale; ciò deriva dal fatto che il sillogismo èformalmente scorretto, ma ci sono casi in cui esso porta, nonostante tutto, a conclusioni materialmente vere (Plebe 1966); (ii) la seconda particolarità consiste nel­ l'accennare al fatto che questo tipo di segno instaura una relazione "dall'universale al particolare": ciò è probabil- mente da mettersi in relazione al fatto che è proprio il ter­ mine estensionalmente maggiore a svolgere la funzione di medio, e che si predica prima di una classe, poi di un indi­ viduo . Vediamo ora un segno dal quale si sviluppa un sillogismo basato sulla terza figura. Ecco la definizione che ne viene data negli Analitici: D'altro canto la presunta prova che i sapienti sono eccellenti - poiché Pittaco è eccellente - si costruisce attraverso l'ultima fi­ gura. Poniamo che A indichi "la nozione di eccellente", che B indichi "i sapienti", che C indichi "Pittaco". Risponde in tal ca­ so a verità il predicare di C tanto A quanto B; senonché la pre-  5.3 IL MECCANISMO LOGICO 123 messa BC non viene enunciata, perché risaputa, mentre Paltra è assunta espressamente. (An. Pr., II, 70 a, 16-20) Il segno, più precisamente, è la protasi del condizionale "Se Pittaco è eccellente, i sapienti sono eccellenti " . Su di es­ so si sviluppa un sillogismo che può essere rappresentato dalla formula: l . 2. 3. A si predica di "essere eccellente" c "Pittaco" c "Pittaco" 8 "chi è sapiente" 8 "essere sapiente" si predica di A si predica di "essere eccellente" In questo caso il medio è "Pittaco", che ha la posizione del termine minore estensionalmente. Anche il sillogismo costruito su questo tipo di segno vie­ ne condannato in quanto confutabile (/jsimos). Del resto Aristotele aggiunge che esso rimane confutabile (come quello in seconda figura) anche nell'evenienza in cui esso conduca a una conclusione accidentalmente vera. Inoltre, nel passo parallelo della Retorica (I, 1357 b, 10-11), viene precisato che esso instaura un rapporto che va "dal partico­ lare all'universale"; anche in questo caso è la posizione del medio, che qui è il termine estensionalmente minore, a sug­ gerire questa determinazione ad Aristotele; in effetti si par­ te dalla proprietà di un individuo particolare per conclude­ re che tale proprietà appartiene a un'intera classe di cui l'individuo fa parte. 5.3.3 La classificazione Una volta stabilita una distinzione fra i tre tipi di segno sulla base della posizione che prende il medio in ciascuna  124 5. LINGUAOOIO E SEGNI IN ARISTOTELE delle figure, Aristotele procede a una ricapitolazione gene­ rale, dove consolida le distinzioni terminologiche e ribadi­ sce la diversità della potenza conoscitiva in relazione a cia­ scun tipo: il nome tekmirion ("indizio sicuro", "prova") viene riservato a quei segni che prendono realmente la posi­ zione del termine intermedio (cioè in cui il termine è medio anche dal punto di vista estensionale, sul quale si sviluppa un sillogismo in prima figura); invece il nome generico s­ meion viene lasciato a quei segni che all'intero sillogismo hanno la posizione di un estremo (sui quali cioè si svilup­ pano delle inferenze in seconda e terza figura) (An. Pr., Il, 70b, 1-6). Rispetto a quanto abbiamo già detto, è necessario ag­ giungere una precisazione sulla nozione di éndoxon, che ca­ ratterizza nel massimo grado il sillogismo basato sul· tekmi­ rion. In effetti nei Topici Aristotele precisa che i sillogismi dia­ lettici che danno il massimo di garanzia sono i sillogismi che derivano da premesse che sono degli éndoxa. Vengono poi definite éndoxa quelle proposizioni che sono "condivise da tutti o dai più o dai sapienti, e tra questi da tutti, dai più o dai più noti e famosi" (Top., l, 100 b, 21-23). Sono queste, del resto, le condizioni che permettono di confermare dialetticamente una tesi (Viano 1958 a). Il passo parallelo della Retorica propone un'analoga classificazione che distingue tra il segno necessario (anan­ kaion), corrispondente al tekmjrion, e il segno non neces­ sario m anankaion), corrispondente al generico s­ meion, 3 e ulteriormente suddivisi in "segno che si trova in rapporto dali'universale al particolare" (da mettersi in rela­ zione ai segni in seconda figura del sillogismo) e "segno che si trova nel rapporto del particolare ali'universale" (da met­ tersi in relazione ai segni in terza figura). La classificazione aristotelica può allora essere disposta sullo schema della pagina seguente:  premesse da cui derivano gli entimemi /  eik6s smelon (segno) ("probabile", "verisimile") - è tmdoxon ("fondato sulla opinione") es.: "è amato -ama" ·è invidioso -detesta•  m'S snsnkslon ("'non necessario") - è éndoxon ("fondato sulla opinione") snsnkslon (..necessario") tekm"érion ("prova") - è IJ/yton (..inconfutabile·) - è il medio di un sillo- gismo in 1 • figura es.: ..essa ha latte-è gravide" "ha la febbre -è malata"  t6 ksth ' kéksston pr6s t6 ksth61on ("dal particolare all'universale") rl) ksth6/on pr6s rl) kstll méros ( ·dall'universale al particolare") - è lyron (..confutabile") - è medio in un sillogismo - è lyton (..confutabile") - è medio in un sillogismo in 3• figura es.: "Pittacco è giusto-i sapienti sono giusti" in 2• figura es.: ..respira rapidamente-ha la febbre" "è pallida -è gravido" LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.4 Un sistema particolare di segni non linguisti­ ci: la fisiognomica La particolare concezione che Aristotele ha del segno, come cosa o fatto che serve a condurre l'attenzione del sog­ getto conoscente su un'altra cosa o fatto, permette di por­ tare in primo piano un tipo di conoscenza che si ottiene in modo indipendente dal linguaggio verbale. Ciò conduce a un'evidente valorizzazione dei sistemi di segni non lingui­ stici . Aristotele, infatti, nei Primi analitici, dopo aver esposto la teoria del segno, propone un'interessante, quanto curio­ sa applicazione a un tipo di segni molto speciali: quelli del­ la fisiognomica. Neli'esempio dato si tratta di risalire da un segno visivo a un tratto del carattere: le grandi estremità del leone vengo­ no assunte come segno del suo coraggio. Tutto l'interesse di Aristotele è concentrato su due punti: da una parte egli tende ad acquisire una conoscenza circa l'ordine psichico partendo da un fatto rilevabile attraverso i sensi; dall'altra tende a stabilire il legame più stretto pos­ sibile tra due fatti che l'esperienza gli mostra associati (in questo caso: grandi estremità e coraggio), come presuppo­ sto dell'affidabilità stessa della conoscenza. Per dare validi­ tà al suo esempio di fisiognomica Aristotele propone di fa­ re tre assunzioni: 1 4 (i) che "le affezioni naturali trasformino simultaneamente il corpo e l'anima"; (ii) che vi sia un solo segno di un unico fatto, cioè dell'affezione dell'anima che deve essere scoperta; (iii) che ogni genere abbia un'affezio­ ne propria e un proprio segno (fdion [... ] semefon). Come si può osservare, Aristotele, con queste assunzio­ ni, tenta di razionalizzare e di dare dignità filosofica a una materia che era eminentemente mantica. Qui non c'è più la divinità che garantisce la corrispondenza fra un tratto per­ cepibile dell'aspetto fisico e qualcosa che si inscrive nell'or­ dine dell'invisibile (sia esso il carattere di un uomo o più generalmente il destino legato a quel carattere). Per Aristo­ tele vi può essere corrispondenza fra un tratto fisico e un  LA FISIOGNOMICA 127 aspetto interiore perché qualsiasi affezione trasforma con­ temporaneamente corpo e anima, proprio come avviene nel caso di chi ha imparato la musica, che si è trasformato non solo nell'abilità fisica di suonare, ma anche nella sua sensi­ bilità interna. Ma come avveniva per la mantica, in questa materia si può correre il rischio deli'ambiguità. È proprio per elimina­ re quest'ultima evenienza che Aristotele propone le sue ul­ teriori assunzioni. Infatti l'ambiguità si può verificare in due casi distinti: (i) quando si hanno molti segni che riman­ dano a un'unica affezione (fenomeno che potremmo avvi­ cinare alla sinonimia): l'unico rimedio epistemologico è, in questo caso, assumere che i segni siano univoci, cioè che un unico fatto sia significato da un solo segno; (ii) quando un genere abbia più affezioni, in maniera tale che si rimane in­ decisi su quale sia quella a cui rimanda il segno (fenomeno che potremmo avvicinare all'omonimia): la soluzione pro­ posta da Aristotele è quella di stabilire per ogni genere qua­ le sia l'affezione che gli è propria e quale il segno proprio, in maniera da riferire quest'ultimo univocamente alla prima. Stabilendo preliminarmente le tre precedenti assunzioni è possibile per Aristotele fare della fisiognomica una scienza. E, rispettando appunto queste assunzioni, è possibile stabi­ lire che per il leone le grandi estremità sono il segno del co­ raggio (An. Pr., II, 70 b, 16-17). Fin qui abbiamo seguito Aristotele nel suo ragionamento che si svolge su un piano, per così dire, deduttivistico. È possibile ricostruire, però, anche un altro versante dell'ar­ gomentazione che si colloca geneticamente in un momento in cui la regola deduttiva non è ancora stata posta. In effet­ ti è possibile pensare a un momento in cui si osserva che una certa affezione, il coraggio, è associata al genere dei leoni; contemporaneamente si osserva che ai leoni è asso­ ciata la caratteristica di are grandi estremità. A questo punto viene formulata l'ipotesi che il segno del coraggio sia rappresentato dal possesso di grandi estremità. Il processo logico che verrebbe qui a configurarsi segui­ rebbe lo schema:  128 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE l. "essere coraggiosi" 2. "avere grandi estremità" 3. "essere coraggiosi" (probabilmente) si predica di si predica di si predica di "leoni, "leoni" "chi ha grandi estremità" Un sillogismo in 3a figura, come è questo, secondo Peir­ ce costituirebbe una induzione, ma di un tipo talmente "ti­ mido da perdere totalmente la caratteristica ampliativa pro­ pria dell'induzione genuina" (1984: 210). Esso avrebbe un forte carattere ipotetico. Tuttavia Aristotele non segue in effetti questo ragiona­ mento perché non riesce ad accettare come valido dal pun­ to di vista logico un procedimento che risulta privo di ga­ ranzie. Così è costretto a inquadrare questo, si noti bene, quanto mai aleatorio segno del coraggio in uno schema an­ cora una volta deduttivo. In altre parole, l'osservazi,"ne deli'associazione tra coraggio e grandi estremità deve tra­ mutarsi in un legame stretto e costante. Lo sforzo di Ari­ stotele è tutto rivolto a dimostrare che ogni volta che ci sia coraggio, questo venga manifestato dalla presenza di gran­ di estremità, e viceversa. In termini tecnìci, la situazione ideale, cioè il massimo della certezza, si ottiene quando si verifica conversione (antistréphein) tra ciò che funge da se­ gno e ciò a cui esso rimanda, ovverosia quando l'estensione del primo termine è esattamente uguale a quella del secon­ do. Da qui la necessità (puramente logica, e non semiotica) che un unico segno si riferisca a un'unica affezione: solo in questo modo è possibile la conversione tra i due termini. A questo punto il problema di fare un'ipotesi su quale sia il segno del coraggio si trasforma in quello di trovare un elemento di mediazione tra il "coraggio" e il "genere dei leoni", che ne appaiono costantemente provvisti. Tale elemento di mediazioneJ che sembra appunto giusti­ ficare l'associazione, è "avere grandi estremità", che divie­ ne così il segno, sul quale viene costruito il seguente schema sillogistico deduttivo (An. Pr., II, 70 a, 32-38):  SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEONICO 129 A si predica di B "essere coraggioso" "chi ha grandi estremità" B si predica di c 2. 3. A si predica di c "avere grandi estremità'' "leone" "essere coraggioso" "leone" Ma ciò che Aristotele trascura di mettere in luce è che, come abbiamo visto, i dati di partenza della deduzione stes­ sa poggiano su una precedente inferenza a carattere più ipotetico. L'esempio proposto è interessante perché, prima della presentazione dello schema formale, tutto il ragiona­ mento è rivolto a stabilire i criteri che permettano di dire che qualcosa è segno di qualcos'altro. Ma ciò è possibile solo formulando un'ipotesi, che solo in seguito può essere verificata deduttivamente. 5.5 La svalutazione del sapere segnico In effetti la diffidenza di Aristotele nei confronti della conoscenza che si può ricavare dai segni è molto marcata. Infatti, nella concezione aristotelica, anche quando tra i due termini del segno vi sia un legame necessario, la cono­ scenza del termine non noto sembra imporcisi dall'esterno, senza che si riesca a comprenderne la causa. Aristotele nei Secondi analitici (1, 75 a, 28-36) oppone il ragionamento basato sull'essenza a quello basato sulsegno; quest'ultimo infatti viene definito come ragionamento che si fonda sulle determinazioni accidentali. Ne consegue, peraltro, che soltanto con il primo tipo è possibile arrivare a conoscere la causa. Ciò non significa che la conoscenza attraverso il segno sia totalmente esterio­ re. In certi casi, che sono quelli dei segni necessari, il segno permette di risalire alla causa: così la constatazione del fat­ to che una donna ha latte permette di risalire alla causa, cioè al suo essere gravida, come pure l'accertamento della  130 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARlSTOTELE presenza della febbre permette di risalire allo stato di ma­ lattia che la determina. Tuttavia questo tipo di ragionamento non arriva a forni­ re una vera e propria scienza dei fatti, in quanto quest'ulti­ ma si ottiene solo a partire dalla causa. Il ragionamento at­ traverso il segno parte invece dall'effetto e permette soltan­ to l'affermazione del fatto, cioè dello h6ti ("che"), senza condurre alla comprensione delle cause, cioè del di6ti ("perché"). Nel capitolo 13 dei Secondi analitici Aristotele insiste sul fatto che la dimostrazione veramente scientifica non consi­ ste nella scoperta o nella conclusione della causa, ma essa è scientifica proprio in quanto parte dalla causa; in quel con­ testo viene infatti fondata la distinzione tra "il sapere che qualcosa è" e "il sapere perché qualcosa è". In effetti alle scienze dello h6ti viene riconosciuto un cer­ to diritto di esistenza; tuttavia esse vengono considerate in­ feriori in quanto portano sui fatti, senza raggiungere la co­ noscenza del necessario e a malapena quella dell'universale. Ma quali sono queste scienze dello hoti? Dagli esempi che Aristotele fornisce si direbbe che si tratta eminentemente di scienze indiziarie, basate sui segni e fornite di un carattere fortemente ipotetico in contrapposizione ad altre che invece hanno carattere deduttivo. Tra questi esempi Aristotele cita il caso dell'astronomia (astrologhfa), nome condiviso sia da una certa scienza nau­ tica (nautik) sia da una scienza basata su fondamenti ma­ tematici (mathmatik). Solo la seconda è scienza delle cau­ se. Ugualmente Aristotele contrappone la medicina alla geometria: infatti, nel caso delle ferite circolari, spetta al medico di sapere che esse guariscono più lentamente, men­ tre spetta all'esperto di geometria conoscere il perché di questo fatto. Dunque abbiamo medicina e scienza della navigazione contro matematica e geometria: il senso della scelta aristo­ telica contro il segno non potrebbe essere più chiaro. È interessante osservare come per Aristotele sia possibile anche sviluppare un ragionamento dello hoti oppure uno del dioti all'interno di una stessa scienza. La differenza che  5.5 SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEGNICO 131 contraddistingue i due tipi è duplice. Infatti si fa un ragio­ namento dello h6ti, in primo luogo, quando il sillogismo non si basa su premesse immediate (che, nell'epistemologia aristotelica, significa assumere la causa prima e prossima); in secondo luogo, quando, pur basandosi su premesse im­ mediate, la deduzione non discende dal termine che indica la causa di un fatto, ma dal più noto di due termini, en­ trambi riferiti al fatto. In altre parole, la differenza specifi­ ca del sillogismo del dioti è ancora che esso va dalla causa ali'effetto e non dali'effetto alla causa. L'esempio che Aristotele fornisce è molto interessante. Posto, infatti, che c'è una certa relazione tra il non sfavilla­ re dei pianeti e la loro vicinanza alla terra, Aristotele mo­ stra come attraverso questi due termini sia possibile svilup­ pare due tipi di ragionamento di diverso valore epistemolo­ gico . Da una parte è infatti possibile dedurre la vicinanza dei pianeti dal fatto che non sfavillano (''Se non sfavillano, so­ no vicini"). Si ha in questo caso un ragionamento dello hoti e si può osservare che in questo contesto il "non sfavillare" è tipicamente un segno del fatto che risulta come conclusio­ ne, cioè la loro "vicinanza" alla terra. Il sillogismo costruito sul segno non parte dalla causa del non sfavillamento dei pianeti (che è costituita dalla loro vi­ cinanza), ma parte dell'effetto, che viene assunto come ter­ mine medio, per arrivare alla causa. È possibile anche che la causa non venga mai realmente conosciuta. Aristotele contrappone a questo tipo di ragionamento quello che deduce il non sfavillamento dei pianeti dalla loro vicinanza. Si ha in questo caso un ragionamento del dioti, che mostra il perché qualcosa sia, dal momento che coglie la causa precisamente in quanto causatrice dell'effetto; for­ malmente ciò avviene in quanto viene assunto come medio proprio il termine che indica la causa. Dunque tra il sillogismo del dioti e quello dello hoti c'è un rapporto di simmetria inversa. È sufficiente infatti in­ vertire i termini del secondo per ottenere il primo. Tuttavia ciò non è sempre possibile, come precisa il com­ mentatore del testo aristotelico Filopono:  132 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Spesso è necessario che, quando viene posta la causa, anche l'effetto sia posto, mentre non è affatto necessario che, quando si dà l'effetto, anche la causa si dia: così il fatto di avere il co­ lorito pallido non si accompagna necessariamente al parto, ma se una donna ha partorito, essa ha sempre il colorito pallido: infatti possono esserci varie cause del medesimo fatto. (Philop., in Anal. Post., Wallies, 169-9) L'aleatorietà del procedimento inferenziale tipico del se­ gno (dal pallore al parto) viene qui messa in risalto preve­ dendo il caso che un effetto possa avere molteplici cause, situazione nella quale, secondo Filopono, non potrà essere costruito un vero sillogismo dello h6ti, ma soltanto un sil­ logismo del di6ti. Del resto, Aristotele stesso aveva previsto il caso che un effetto potesse avere cause differenti,15 che rendono difficile e aleatorio il percorso di risalita dali'effet­ to alla causa. D'altra parte, però, secondo il con1mentatore Filopono, si può verificare anche il caso opposto, quello cioè in cui sia possibile soltanto un ragionamento dello h6ti. Infatti è possibile risalire dal fatto che una donna ha partorito (co­ me effetto e segno) al fatto che essa si è unita a un uomo (come causa): ma la reciproca non è necessaria, poiché il parto non segue necessariamente all'accoppiamento (Phi­ lop., in Ana/. Post., Wallies, 169-21). C'è infine un'ultima caratteristica che contraddistingue il ragionamento dello h6ti da quello del di6ti, consistente nel fatto che il primo è tipico del emplice osservatore dei feno­ meni, non specialista, mentre il secoildo spetta all'uomo di scienza (An. Post., I l, 79 a, 2-3). In Aristotele, in definitiva, le scienze indiziarie e il segno in generale sono oggetto di una svalutazione epistemologi­ ca, in quanto nella sua concezione teorica della scienza non viene fatto alcuno spazio alla ricerca e all'ipotesi, quale è presupposta invece da una concezione semiotica del sapere. Come sottolinea Le Blond (1939, tr. it. 1973: l 05), per Ari­ stotele la scienza "n'est elle pas principalement recherche, mais possession; les Analytiques n'apportent guère d'indi­ cations sur la recherche: il décrivent la science achevée, qui  5.6 DEDUZIONE E ABDUZIONE 133 descend des causes aux effets et coincide absolument avec le dynamisme des choses - conception singulièrement con­ fiante, on le voit, qui pose en principe la connaissance par­ faite de la réalité". 5.6 Deduzione e abduzione Non si deve tuttavia pensare che questa posizione teorica corrisponda esattamente alla pratica di ricerca adottata di fatto da Aristotele, a esempio nelle opere scientifiche. Né, d'altra parte, si deve accettare enza riserve l'asserzione ari­ stotelica circa il carattere assolutamente deduttivo delle scienze del di6ti. Come ha mostrato Eco (1983: 242), per Aristotele trovare il perché di un certo fenomeno significa trovare un buon termine medio che spieghi quel fenomeno: ma questo termine medio può essere, in certi casi, anche molto ardito e sofisticato, e non corrispondere a nessuna conoscenza già accertata. Esso può essere, cioè, una "ipote­ si" nel senso peirceano. È illuminante, a questo riguardo, il ragionamento svilup­ pato da Aristotele nel trattato Parti degli animali, in cui, a proposito degli animali provvisti di corna, vengono regi­ strati alcuni "fatti sorprendenti" bisognosi di spiegazione. A esempio: (i) che tutti gli animali con le corna hanno una sola fila di denti, cioè mancano degli incisivi superiori (663 b - 664 a); (ii) che tutti gli animali con le corna hanno quat­ tro stomaci (674 a-b); (iii) che tutti gli animali con quattro stomaci mancano degli incisivi superiori (674 a) ecc. Il problema che ha di fronte Aristotele, in questo caso, è quello di spiegare la ragione per cui, innanzitutto, agli ani­ mali con le corna mancano gli incisivi superiori. Come sot­ tolinea Eco, Aristotele "deve porre una Regola tale che, se il Risultato che vuole spiegare fosse un Caso di questa Re­ gola, tale Risultato non sarebbe più sorprendente'' (1983: 239). E del resto, secondo Peirce, quando una circostanza "strana" si spiega supponendo che essa sia il caso di una certa regola 0enerale, siamo di fronte a un'ipotesi o abdu­ zione .  134 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Proprio in questi termini procede Aristotele, supponen­ do che, nel caso considerato, probabilmente, la materia du­ ra è stata deviata dagli incisivi superiori alla testa con lo scopo di formare le corna. A sua volta, la mancanza di in­ cisivi superiori è causa dello sviluppo di un quarto stomaco ed è il medio dal quale si sviluppa un ulteriore sillogismo. Espresso nei termini del sillogismo (nella formalizzazione peirceana adottata da Eco) il primo ragionamento si rico­ struisce così: Regola = Tutti gli animali devianti (cioè che hanno deviato la materia dura dalla bocca alla testa) mancano degli in­ cisivi superiori. Caso=Tutti gli animali con le corna hanno deviato. Risultato = Tutti gli animali con le corna mancano degli in­ cisivi superiori. La "deviazione deUa materia dura" costituisce contem­ poraneamente il medio del sillogismo e la spiegazione del fenomeno. Quello che Eco mette giustamente in risalto è che lo sforzo di spiegare a titolo ipotetico perché un feno­ meno è così come è, costruendo una forma rigorosamente deduttiva, non differisce in niente da ciò che Peirce chiama abduzione: in ciascuno dei due casi c'è un lavoro su ipotesi che permettono di spiegare fenomeni che appaiono "sor­ prendenti " . L'idea di Eco, in sostanza, è che al di sotto e prima del li­ vello deduttivo preso in considerazione da Aristotele esista un livello abduttivo che Aristotele rifiuta di riconoscere, ma al quale ricorre nel caso che debba costruire delle defi­ nizioni scientifiche: definire il perché di un fatto sorpren­ dente "significa stabilire una gerarchia di collegamenti cau­ sali per via di una sorta di ipotesi che può essere convalida­ ta solo quando dà luogo a un sillogismo deduttivo che agi­ sce come previsione di successive modifiche" (ibidem, 241). Ed è in definitiva proprio il mancato riconoscimento di questo movimento inferenziale preliminare che vieta ad Aristotele di riconoscere il carattere ipotetico della scienza e, nel contempo, la produttività dello stesso sapere segnico.  6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO E LA SEMIOTICA DEGLI STOICI 6.0 Introduzione La scuola stoica è quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av­ venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di­ stinti tra di loro: da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna "significante", "significato", "oggetto esterno"); dal­ l'altra, una teoria del "segno" proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica trovano però un pun­ to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere "corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata). Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem­ po. Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi­ derati esistenti. Ora, tanto nella teoria del linguaggio, quan­ to in quella del segno proposizionale, accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità incorporee, quali i lekta. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI Per il momento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una "esistenza derivativa'' (Long 197I a: 89-90). Il secondo pos­ sibile equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra­ riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano "corpi" an­ che le qualità, in quanto venivano considerate come materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi­ tuiscono stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto disposizioni esistenti di materia (Rist I969: 52-55). Si profila, a questo punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di "particolare": quest'ultimo viene carat­ terizzato come un oggetto materiale, che ha una forma defi­ nita come condizione necessaria e sufficiente della sua esi­ stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long I97I a: 76). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei "particolari", ed è con­ nesso a una teoria della percezione. Così, si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im­ magini (phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti ester­ ni danno luogo a una percezione vera se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si­ gnificato degli stoici, come si sa che avevano una parte im­ portante anche nella teoria del significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un "particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par­ lando intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il suo riferimento.  6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 137 6.1 La teoria del linguaggio 6 . 1 . 1 Il triangolo semiotico Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fon­ damentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che per gli stoici una teoria del­ la verità, cioè la ricerca delle basi per una verifica delle pro­ posizioni, non può essere elaborata in maniera indipenden­ te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa "significata" (tò smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine nel mo­ vimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta­ bandiera gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò smainomenon), quella signi­ ficante (tò smafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn­ chanon), e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo compren­ dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor­ porea, cioè l'oggetto significato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso. 2 (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fe­ nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui­ to nei termini di un triangolo (cfr. p. 138). Si può osservare che compaiono i termini "significante" e "significato" (come è dato trovare anche nella teoria mo­ derna di Saussure), ma non quello di "segno": come anche  138 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI slmsin6menon (significato) lekt6n ( detto)  tmsm lnon (aignificente) tynchAnon  in Aristotele, la nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello strettamente linguisti­ co. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro­ prio. In secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la significazione sono tre e com­ prendono anche l'oggetto, che propriamente è esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo parziale: soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si­ gnificante e l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. 6. 1 .2 Il "lekt6n" come "asserzione" Un caso assolutamente a sé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo, chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se­ conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente)   LA TEORIA DEL LINGUAGGIO Nella stessa posizione del triangolo della significazione Ari­ stotele poneva delle entità psicologiche, che venivano consi­ derate le medesime per tutti gli uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel passo riporta­ to, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren­ dono . Come rileva Todorov (1977: 17-18), la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto che, mentre l'en­ tità presa in considerazione da Aristotele si situa a livello della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si si- tua direttamente al livello del linguaggio: Todorov interpreta il lekt6n come la capacità del primo elementodi designare il terzo. Tale interpretazione poggia anche sul fatto che l'e­ sempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di de­ signazione come gli altri nomi, ma è molto controverso se abbia un senso; la risposta che di solito si dà a questo inter­ rogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la sequenza di suoni l Dio­ ne l e vedono l l Dione l l, ma sono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dun­ que, come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste pro­ prio nel percepire la connessione tra la parola che viene pro­ nunciata e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long (1971 a: 77) identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la tra­ duzione più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di "giudizio" che quella di "stato di cose significato da una parola o da una serie di parole".3 L'idea che i lekta si potessero configurare come "affer­ mazioni intorno agli oggetti" emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae mora/es, 1 17, 13), in cui viene delinea­ to uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una proposizione ( l Catone cammina l ), laddove Sesto proponeva solo un nome ( l Diane l ). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Cato­ ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso  140 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI ( l Cato ambulat l ), che è un "incorporale". Tale asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: enuntiatum ("enunciazione"), effatum ("affermazione"), dictum ("asserzione"). Dato che l'esempio proposto da Seneca è una proposizio­ ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4 Infatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com­ pleta possono essere veri o falsi.5 6. 1 .3 I rapporti tra il "lekt6n" e il pensiero Nel modello aristotelico della significazione le espressioni linguistiche sono i simboli degli stati psichici (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo non viene operata una chiara distinzione tra la nozione di "si­ gnificato" e quella di "pensiero". Tale concezione ricompa­ re del resto nella nota teoria novecentesca di Ogden e Ri­ chards (1936: tr. it. 37), i quali disegnano un triangolo se­ miotico in cui figura al vertice superiore la nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto: [Gli stoici] affermano che il /ekton è ciò che sussiste in confor­ mità con una rappresentazione razionale (loghik phantasia) e che una rappresentazione razionale è quella secondo cui il rap· presentato (phantasthén) può essere espresso in parole. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70) In termini del tutto analoghi si esprime Diogene (Vitae, VII, 63), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da en­ trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta tra i lekta, che rappresentano il livello del "significato", e le "rappresentazioni razionali" (loghikaì  6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 141 phantasfa1), che possiamo definire come delle forme di atti­ vità intellettiva o dei pensieri; quest'ultime entità sono pe­ culiari della specie umana6 e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole (a questo infatti si riferisce l'aggettivo lo ghikaf). Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione. Long (1971 a: 82) cosi commenta il passo di Se­ sto: "I take this difficult passage to mean that the /ekton is defined as the objective content of acts of thinking (no sis)" e aggiunge anche "or, what comes to the same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di ap­ profondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve­ niamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lo stessoSestoavevadettoaltrove(Adv.Math.,VIII, 11-12), quando aveva messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen­ to appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente contraddizio­ ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degli esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici. Come mette bene in evidenza Mignucci (1965: 92-93), i lekta, essendo incorporei, "non possono essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da sup­ porto ad essi e che permetta la loro esprimibilità". Il proble­ ma diviene allora quello di stabilire se a fare da supporto ai lekta siano: (i) i suoni della voce; o (ii) l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto7 opta per la solu­ zione (i),9mentre la seconda,8 come pure la definizione di Diogene, optano per la soluzione (ii). Ugualmente, tra gli ­LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI interpreti moderni, Mates10 risponde che sono le parole a fare da supporto ai lekta; Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu­ bile tuttavia filologicamente, in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du­ plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica: da un lato il verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at­ tività intellettuale, in assenza della quale non è possibile che si diano i significati; dall'altra il risultato dell'attività intel­ lettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con­ seguenze dal fatto che i lekta siano definiti da una parte co­ me contenuti delle rappresentazioni razionali e dali'altra come significati delle parole: conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si­ gnificati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti l'uno dall'altro.13 A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la phantasia ha un ruolo assoluta­ mente primario, in quanto non è possibile, senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della cono­ scenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero (n6sis): "infatti la rap­ presentazione viene per prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della rappresentazione". Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no­ zione, già platonica,15 del pensiero come "discorso inter­ no".16 Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae, VII, 49-50) in cui viene detto che il criterio di veri- .. In questo  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 143 una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria linguistica del si­ gnificato. 6.2 La teoria del segno 6.2. 1 Il "lekt6n" e la teoria del segno Il lekton, che abbiamo finora incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì che, come sottolinea Eco (1984: 30), nella se­ fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura "di diritto" tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, "per­ ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui­ stica" (ibidem). Occorre tener presente che gli stoici non di­ cono ancora che le parole sono segni (sarà Agostino il pri­ (110 a fare una simile asserzione) e rimane, del resto, una òifferenza lessicale tra la coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta ci illumina sul­ ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è una proposizione (axloma) che è l'antecedente (prokathegou­ menon) in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del conseguente (ekkalyptikòn tou ligontos). E di-  144 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI cono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che ven­ gono presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap­ porto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso pe_rmette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno appartiene a un campo che è di­ stinto sia da quello logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma so­ lo quella proposizione che permette di scoprire il conse­ guente (cioè che permette l'accesso a una nuova conoscen­ za). Su questo torneremo tuttavia più avanti. Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele, assolu­ tamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È nor­ mallnente accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata: (i) dalla so­ stanza degli eventi (Todorov 1 977 : 21), per quanto concerne il punto di vista antologico; (ii) dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gli avvenimenti espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "essa ha latte" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "essa concepito". 17 (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 104-106) ... . Essi chiamano antecedente la prima proposizione  LA TEORIA DEL SEGNO 145 via fornisce alcuni esempi di segno (come quello della Reto­ rica, I, 1357 b, 16-18: "Se essa ha latte, essa ha partorito"), in cui vengono presi in considerazione eventi e non sostan­ ze. Ma nella filosofia aristotelica la teoria del segno ha una parte marginale: il segno viene fatto rientrare nel procedi­ mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia­ lettici, se non è un tekmirion, cioè un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul sillogismo perfet­ to, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gli epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto. Preti (1956: 7-8) sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo­ de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag­ gio . Per Nausi fane, infatti, il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti­ mema) presentano in realtà la stessa struttura logica. In en­ trambi i casi è necessario distinguere tra la "conseguenza" (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti (hyparchonta) per giun­ gere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenziali­ tà", di implicazione o implicitazione, comune appunto a filosofia e retorica. 20 Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione del­ le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de­ gli stoici (come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio  LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI il nome di "dogmatici"). Non solo, ma come prova della centralità della semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno:21 fatto che testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che conferma la tendenza delle scuole postaristoteliche a ridurre o trasfor­ mare il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno: A) "comune" e "proprio" Nella semiotica stoica si registra la scomparsa della di­ stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi­ nati smeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab­ bandono del sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se­ gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo (l secolo a.C.): Un segno è comune (koin6n) per nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è necessario (ananka­ stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che noi di­ ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi­ dente di cui è segno. 22 (Philodemus, De signis, I, 1-17) C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri­ tenere il segno comune come non valido e nell'accettare in­ vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di Filo-  LA TEORIA DEL SEGNO demo si ricava che una differenza peculiare consiste nel ca­ rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co­ me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno necessario di Aristotele che ri­ chiedeva una connessione necessaria con l'oggetto a cui rin­ viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa­ rebbe segno, ma può anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari­ stotele si poteva inferire dal pallore di una donna il suo es­ sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla bontà di Pit­ taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se­ gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una conclusione interessante: men­ tre Aristotele, pur negando validità scientifica ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi­ stemologicamente più basso, come quello della retorica, do­ minio delPopinione, la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B) "rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto riprende la di­ stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno quello che sembra rive­ lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare segno an- LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI che ciò che serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in­ sieme con esso. In maniera propria si dice segno quello che è in­ dicativo di una cosa avvolta nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione, in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co­ mune e segno proprio, dichiara di voler trattare solo di que­ st'ultimo (ibidem, 143); e poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono oscure, egli propo­ ne di distinguere preliminarmente le cose in "manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla conoscenza in maniera diretta; co­ me esempio Sesto porta "il fatto che è giorno e che io sto di­ scorrendo"23 quando io faccio realmente queste cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han­ no una natura tale da non arrivare alla nostra comprensio­ ne (kata/psis), come a esempio "se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta divengono, per certe cir­ costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura, diviene tempora­ neamente invisibile a causa della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen­ sabili (noto1).26 Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in quanto le cose manifeste ven­ gono comprese in maniera non mediata e le cose oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle ultime due categorie. Ma i tipi  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 149 di segno sono diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora­ neamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora­ tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo costoro [i dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri indicativi (endeiktika). Chia­ mano segno rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp. Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso­ ciazione costante tra cose comunemente osservate in con­ nessione empirica. Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo tipo si distribuiscano se­ condo la tripartizione28 contemporaneità/anteriorità/po­ steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel caso di "fu­ mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in "cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il fatto indicato è anterio­ re; in "ferita al cuore-morte", il segno rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del precedente, non è su­ scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono di risalire all'"anima", o "il su­ dore" che rimanda ai "pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi, che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei "medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente schema la classifi­ cazione di Sesto: cose manifeste oscure   non danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la distinzione riportata da Se­ sto tra segno rammemorativo e segno indicativo solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso Sesto. Inoltre, tale distinzione appa­ re addirittura in contrasto con l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento logico-for­ male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile­ vante dal punto di vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra segno comune e segno proprio, secondo la testimonian­ za di Filodemo. È, tra l'altro, il carattere necessario del se­ gno proprio che dimostra la coerenza di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un segno "ne­ cessario", come un'analisi più dettagliata della sua struttura ci permetterà di vedere. 6.2.3 La struttura del segno nel "condizionale" Ritornando alla definizione stoìca di segno che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa "connesso" o "connessione". Il suo significato lo­ gico ci viene chiarito da Diogene:32 si tratta dell'asserto temporanea­ mente  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 151 condizionale del tipo "Se p, allora q", in cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no­ zione di condizionale valido (hyghiés, "sano"). Da un passo di Sesto, dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna interpretazione vero-funzionale di "Se p, allora q"; infatti la validità o in­ validità dell'asserto condizionale "Se p, allora q" dipende dal valore di verità deli'antecedente e del conseguente di esso. 33 Sesto, in due passi paralleli, camente "quel condizionale che non comincia dal vero e fi­ nisce nel falso" e fcrnisce una tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica contemporanea preve­ de per l'implicazione materiale:  p q ·se p, allora q• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro­ posito del criterio per giudicare un condizionale valido:34 esso corrisponde a ciò che è stato definito dai Kneale ( 1 962: tr. it. 154 e sgg.) "il dibattito sulla natura dei condizionali", che animò le discussioni di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se- definisce come valido uni­ valido  152 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizio­ nale valido. In effetti, come fa rilevare lo stesso Sesto,3s i ti­ pi di condizionale valido sono tre nella tavola dei valori di verità corrispondente all'implicazione materiale (V V; F F; F V); il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo in casi particolari. Ora, in effet­ ti, un segno non può non essere espresso da una proposizio­ ne vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui es­ so rimanda. Così sono esclusi il secondo e il terzo caso (F F; F V), in quanto hanno un antecedente falso. Dunque l'uni­ ca possibilità è relativa al primo tipo di condizionale, cioè quello che comincia dal vero e finisce nel vero.36 Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al ca· rattere che il segno deve avere di essere rivelatore (enkalyp­ tik6n) del conseguente. In effetti un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da due proposizioni entrambe vere. Tuttavia, secondo Sesto,37 non si realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le proposizioni rimand?no a fatti di per sé evidenti. Il primo termine del condizionale non è rivelatore del secondo. In effetti, per comprendere la vera natura del segno bisogna passare dal piano strettamen­ te logico a uno più generalmente epistemologico. Il segno, per gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche possedere il carat­ tere di dispositivo che permette di accrescere la cono­ scenza.38 Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si ap· poggia su un livello logico, ma si inquadra in un'ottica co­ noscitiva. Gli esempi di carattere medico denunciano l'ori­ gine di quest'ottica. In generale il segno deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso, come "egli ha sputato cartilagine bronchiale", a una cono­ scenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una pia­ ga nel polmone". Tuttavia, ciò che la teoria del segno ac­ quisisce, passando dalle mani dei medici a quella dei filoso..  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO fi, è una solida struttura dal punto di vista logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette. 6.2.4. 1 Il dibattito sulla natura dei condizionali Quanto ampio e difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla "natura dei condizionali" (Kneale 1962). Scrive infatti Sesto Empirico: "Tutti quanti i dialettici sono generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e quando esso segua, e propongono criteri rivali" (Adv. Math., VIII, 12). Riferendosi a questo dibattito, Sesto elenca quattro crite­ ri che erano stati proposti per stabilire la validità di un as­ serto condizionale: (i) quello di Filone Megarico; (ii) quello di Diodoro Crono; (iii) quello della srsnartsis attribuibile a Crisippo; (iv) quello della émphasis. 9 Sulla disputa si può tuttavia fare un'osservazione genera­ le preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa notare Martha Hurst (1935: 492), è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una definizione di questa rela­ zione di consequenzialità (akolouthla) in termini formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici antichi si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può possedere proprietà auto­ nome, essendo dotato di significato, non è stato preso in considerazione se non nella misura in cui poteva essere pro­ vato che esso coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente erano in grado di elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a comprendere meglio questo modo di pro­ cedere un paragone con i metodi della logica contempora- LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI nea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes­ sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi pos­ sono stabilire in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a quella che è ampiamente cono­ sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella di una espressione di implicitazione ("fol/owing", Hurst 1935: 492). A esempio Peirce e Russell erano interes­ sati alle proprietà della implicazione materiale indipenden­ temente dal fatto che essa riproducesse il significato "usua­ le" di "implica" ("implies"). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida senza sostenere che l ' im­ plicazione rigida rappresenti il significato di "implica". Questa differenza nel modo di procedere tra antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formale: mentre i logici antichi erano interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a fornire due definizioni: quella di "im­ plicazione materiale" e quella di "implicazione rigida". 6.2.4.2 L'implicazione filoniana Filone è il primo esponente della scuola megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero­ funzionale dell'espressione "Se p, allora q": secondo lui, un'espressione condizionale è valida se, e solo se, non co­ mincia con il vero e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di consequen­ zialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro del­ l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il con­ dizionale è valido, corrispondente ai tre esempi seguenti: (i) "Se è giorno, c'è luce" (VV); (ii) "Se la terra vola, la terra ha le ali" (FF); (iii) "Se la terra vola, la terra esiste" (FV). Come sottolineano i Kneale (1962: tr. it. 157), è probabi­ le che Filone avesse in mente l'uso dell'espressione "Se p, allora q" nei ragionamenti e che volesse attirare l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suo antecedente implicita sempre il conseguente. L'inter­ pretazione proposta da Filone è la più debole che soddisfi tale requisito. LA TEORIA DEL SEGNO L'implicazione diodorea Diodoro Crono era il maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que­ st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst 1935: 435 n.). La critica che Diodoro muove all'interpretazione filonia­ na insiste proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degli esempi di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo tt, possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio, l'asserto "Se è giorno, io sto conversando" sarebbe considerato vero da Filone se si dessero le condizio­ ni, in un tempo t, per cui fosse giorno e io stessi conversan­ do. Diodoro invece dimostra che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto la definizione di Filone. Infatti esso potrebbe essere pronunciato anche in un tempo t2, quando fosse giorno, ma io rimanessi silenzioso. In questo caso es­ so avrebbe la forma invalida VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale un condizionale è valido quan­ do "non ammise, né ammette di cominciare con il vero e fi­ nire con il falso".40 L'esempio che egli dà è "Se non esisto­ no gli elementi atomici delle cose, allora esistono gli ele­ menti atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante­ cedente sempre falso e il conseguente sempre vero: ciò ba­ sterà a escludere l'evenienza di un antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionale sarebbe non valido.41 6.2.4.4 L'"implicazione connessiva" ("synartesis") di Cri­ sippo La terza concezione di condizionale valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni (Mates  LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI; Bochenski), corrisponde alla implica­ zione rigida di Lewis o comunque a una forma di implica­ zione necessaria (Kneale 1962; Preti 1956). In maniera con­ corde con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con­cezione viene riportata da Diogene (Vitae) : " È v e r o un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden­ te, come a esempio 'se è giorno, c'è luce' ". Il nome del sostenitore di questa concezione non ci è sta­ to lasciato da chi la riferisce; ma vi sono prove che essa ap­ partenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller). La nozione di "incompatibilità", messa in scena da que­ sta definizione, è molto interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Martha Hurst (1935: 495), commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di "consequenzialità" (jollowing), non possono essere espresse in termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le proposizioni in virtù di pro­ prietà che esse avrebbero al di fuori della relazione: al con­ trario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che sussi­ stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare questa conclusione di M. Hurst con le osservazioni di Preti (1956: 13), il quale so­ stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della synar­ tsis "sembra alludere a qualcosa di ancora più forte (della strict implication di Lewis): alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In effetti in quel testo (come vedremo meglio nel capitolo spe- cificamente dedicatogli) è presentato come genuinamente stoico il metodo inferenziale della "contrapposizione" (ana­ skeu), che appare analogo a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza per "contrapposizione" è quella in cui la negazione del conseguente comporta la negazione del­ l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, allora il secondo" è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se non il se­ condo, non il primo".42  6.3 CONCLUSIONI 157 Preti sottolinea le affinità tra la synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con l'anteceden­ te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la ne­ gazione del conseguente comporta la negazione dell'antece­ dente), e in entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che ten­ de a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. 6.3 Conclusioni Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni categori­ che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as­ serto condizionale. Contemporaneamente si registra un'ac­ centuazione del carattere, già presente in Aristotele, di con­ sequenzialità necessaria che la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto deve presentare un carattere cogente. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura della ra­ gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio­ ne della metafisica stoica (De Lacy 1978: 208). Per il primo punto è Sesto43 stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di "discorso interno " (16gos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto la forma: "Se questo, allora quest'altro". Così l'esistenza del segno si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse costituito da una catena ininter­ rotta di eventi, legati tra loro da rapporti di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto di-  158 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI pendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli eventi.44 L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col­ locata sulla relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi­ nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle­ ga certi avvenimenti presenti e altri che avverranno.4Ora, per quanto la razionalità degli uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei, tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"),46 men­ tre ai primi è preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi caratteristici delle cause ("signa [.. . ] causarum et notas") degli eventi e su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av­ verrebbe per gli dei, i condizionali degli uomini intorno al futuro mancano di necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli­ cazione necessaria. Ma questa, che è una caratteristica irri­ nunciabile, non è tuttavia sufficiente a definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è luce»47 il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in­ ferenza non può provare nulla. La verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della caratteristica di permettere di scoprire una nuova co­ noscenza. Il segno stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presen-  6.3 CONCLUSIONI 1 59 te che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma­ nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi­ ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):48 - sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque, il secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre­ sentato dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi­ stano pori nella pelle. La presenza dei pori è un fatto oscuro per natura: infatti essi possono soltanto essere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun­ ge, come argomento rafforzativo delle premesse nel ragio­ namento precedente, un'ulteriore argomentazione:49 - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. - Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condi­ zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo  160 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI applichiamo il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e non poroso) :>p (un li­ quido non vi può scorrere attraverso), espressione che è alla base della premessa del secondo ra­ gionamento di Sesto. Essa permette di sviluppare un ragio­ namento corrispondente al modus tollens, che convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la relazione anche nel caso di verità fattua­ li, poiché parte dall'assunzione che il fatto oscuro per natu­ ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò che è evi­ dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse quale viene rivelato essere. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO 7.O Introduzione Contemporaneo allo sviluppo della riflessione stoica sul segno è il capitolo della semiotica antica scritto dalla scuola epicurea. Uno dei cardini dell'epistemologia epicurea, in­ fatti, è il principio semiotico del congetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per natura non percepibili con i sensi. Gli stessi elementi fondamentali della metafisica epicurea (cioè l'esistenza degli atomi e del vuoto, le configurazioni e le ragioni dei fenomeni celesti) vengono stabiliti attraverso inferenze semiotiche che partono dai fenomeni percepibili: Gli indizi (semeia) dei fenomeni celesti ce li forniscono alcuni fenomeni che accadono presso di noi, e che si vede dove e come avvengono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere. (Epic., Epistula ad Pythoclem, 87) Epicuro rifiutava il ragionamento deduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici, giudicandolo vuoto e privo di utili­ tà, ma accettava e valorizzava l'inferenza analogica che si sviluppa a partire dai segni. Nel periodo ellenistico, anzi, gli epicurei divennero i portabandiera di un metodo di ragiona­ mento qualificabile come "induzione semiotica", e proprio sul metodo deli ' in ferenza si posero in polemica con gli esponenti della scuola stoica. Un intero trattato del I secolo a.C., il Perì smelon kaì smeioseon (Sui segni e sulle infe-  162 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO renze), redatto dall'epicureo Filodemo di Gadara, è dedica­ to, del resto, al dibattito intercorso fra stoici ed epicurei sul tema dell'inferenza semiotica.1 Epicuro, così, e la scuola epicurea nel suo insieme, pro­ pugnano la possibilità di elaborare giudizi che siano oggetti­ vamente validi su fenomeni non direttamente conosciuti at­ traverso l'esperienza, sulla base di inferenze elaborate a partire dai segni. Il problema centrale diviene, allora, quello di stabilire il criterio per verificare se ed entro quali limiti tali giudizi pos­ sano essere considerati attendibili o non attendibili (cioè ve­ ri o falsi) e di fornire le basi per poter dire se certe asserzio­ ni corrispondano effettivamente ai fatti che esse descrivo­ no. Si fa strada quindi la nozione di "criterio di verità", che costituisce la cornice di sfondo all'interno della quale si col­ locano tanto la teoria deli'inferenza semiotica quanto la teoria del linguaggio. In effetti il criterio di verità è non uni­ co, ma molteplice: secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,2 esso comprende le sensazioni (aisthseis), le affe­ zioni (path), le preconcezioni (prolpseis), a cui può essere aggiunta, per motivi che vedremo, l'evidenza immediata (enargheia). I criteri di verità, e tra essi la pro/essi ("antici­ pazione", "preconcezione") in particolare, giocano un ruo­ lo fondamentale in entrambe le teorie sia nella teoria del­ l'inferenza3 sia nella teoria del linguaggio;4 in questo modo essi costituiscono un elemento di connessione tra le due teo­ rie. Tuttavia ciò non è ancora sufficiente a permettere un'articolazione comune tra segno inferenziale e segno lin­ guistico, che rimangono ancora una volta oggetti di due in­ dagini separate. Si ricorderà che anche per gli stoici la teoria del segno lin­ guistico, chiamato smafnon, nasceva ali'interno di una di­ scussione sul criterio di verità e sul "vero"; e anche in quel caso il segno inferenziale, chiamato smefon, non aveva al­ cun punto di contatto con il precedente se non per il ruolo giocato dalla nozione di lekt6n, a cui spettava il carico di essere vero o falso. Si deve però notare una peculiarità della semiotica epicurea: essa si arricchisce anche di una teoria deli'immagine percettiva, che si collega al criterio di verità,  7 . l CRITERIO DI VERITÀ ED EPISTEMOLOGIA EPICUREA 1 63 ma che anticipa anche alcuni problemi interessanti per una teoria semiotica deli'iconismo. Così, nei paragrafi seguenti esamineremo le questioni del criterio di verità, della prolessi e deli'immagine percettiva in Epicuro, che collegheremo con la teoria deli'inferenza se­ miotica, da una parte, e con la teoria del linguaggio, dall'al­ tra. Gli sviluppi che la teoria semiotica epicurea avrà nel trattato De signis di Filodemo saranno esposti, data la loro ampiezza, a parte nel prossimo capitolo. 7.1 ll criterio di verità e l'epistemologia epicurea L'impostazione generale della filosofia di Epicuro, dal punto di vista epistemologico, è un tentativo di fondare la conoscenza su basi puramente empiriche. In primo piano vengono posti i fatti o gli oggetti; ma anche le parole essen­ zialmente costituiscono una via per giungere alle cose. In questo modo si presentano per la filosofia due metodi di ri­ cerca: (i) uno orientato alla conoscenza che proviene dalle parole; (ii) l'altro a quella che proviene direttamente dalle cose.s Tuttavia il primo è considerato un processo prelimi­ nare rispetto al secondo, e spesso la conoscenza che si ottie­ ne attraverso gli strumenti del linguaggio, come quella che si produce attraverso le proposizioni, è vuota e inganne­ vole.6 Il fondamento ultimo della conoscenza sono i criteri di verità, i quali sono in grado di procurare all'uomo niente­ meno che l'imperturbabilità.7 Essi sono dunque posti alla base stessa della filosofia generale di Epicuro; del resto essi erano trattati in un'opera perduta, intitolata Canone, in cui era contenuta la materia propedeutica rispetto all'intero si­ stema dottrinario.8 Se noi pensiamo alla verità in termini moderni, cioè come una funzione delle proposizioni, corriamo il rischio di non comprendere il pensiero di Epicuro. In effetti, nella lingua greca in generale, l'aggettivo althés ("vero") può servire tanto a qualificare la verità di una proposizione, quanto a indicare ciò che sussiste di fatto o che è reale. In Epicuro, in  164 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO particolare, l'aggettivo "vero" implica un'effettiva consape­ volezza di qualcosa. Si giustifica così la sua applicazione al­ le sensazioni e alle affezioni, in quanto dire che una certa sensazione (o una certa affezione) è vera equivale a dire che essa fornisce un indizio effettivo su un fatto reale, renden­ docene consapevoli.9 Prima di passare in rassegna le varie forme del criterio di verità, è necessario sottolineare fin d'ora come esso sia fun­ zionale a una teoria dell'inferenza semiotica. Infatti esso tende a stabilire delle verità basilari riguardanti le cose per­ cepibili, che servono a loro volta come punto di partenza per fare inferenze intorno alle cose non direttamente rag­ giungibili con i sensi.10 7.2 Le forme del criterio di verità Epicuro, dunque, considerava come criteri di verità le sensazioni, le p[econcezioni (o prolessi), le affezioni (o sen­ timenti). 1 1 Nel paragrafo 82 della Lettera ad Erodoto veni­ va fatto cenno anche alla enargheia ("evidenza immediata, o "chiara visione"). Riferendosi a questi passi, Long (1971 b: 116) fa una interessante proposta circa l'organizzazione interna delle forme del criterio di verità. Suggerisce infatti di ordinarie in modo gerarchizzato: in primo luogo ci sono le affezioni e le sensazioni; poi l'evidenza immediata; infine le preconcezioni. Secondo Long, le prime due hanno un va­ lore di verità puramente soggettivo, se prese da sole, e devo­ no essere coordinate all'evidenza immediata e alle prolessi, per giungere a costituire un criterio oggettivo. Le affezioni e le sensazioni comportano la consapevolez­ za di qualcosa, e la loro "verità" consiste proprio in questa consapevolezza, anche se, appunto, soggettiva. Si possono riprodurre le relazioni tra le forme del criterio di verità se­ condo il seguente schema: TEORIA DEI SIMULACRI criteri di veritè  consapevolezza consapevolezza soggettiva oggettiva ll affezioni sensazioni evidenza 7.3 Teoria dei simulacri prolessi   Finora abbiamo considerato il processo conoscitivo dalla parte del soggetto che prova una sensazione o ha una affe­ zione in relazione agli stimoli esterni. Se consideriamo lo stesso processo dalla parte opposta, cioè partendo dall'oggetto, possiamo constatare che Epicu­ ro aveva elaborato una vera e propria teoria dell'immagine che ha molti elementi di interesse per una semiotica dell'ico­ nismo. Dal paragrafo 46 della Lettera ad Erodoto Epicuro inizia a parlare del modo in cui si rende possibile la perce­ zione degli oggetti. Questi ultimi, infatti, emettono in conti­ nuazione degli efflussi di atomi estremamente fini, che compongono configurazioni in tutto e per tutto identiche alla forma esterna dei corpi solidi.12 Queste configurazioni prendono il nome di simulacri (eldO!a). Essi viaggiano a una velocità estremamente alta e possono penetrare nei no­ stri organi di senso o nella nostra mente, e lì produrre un ' immagine (phantasfa) più o meno esatta del corpo da cui i simulacri sono stati emanati. Il processo può essere sche­ matizzato così: oggetti - - -  simuh1cri - - .-.. immsgini mentali (stertJmnia) (sfd"lJfs) (phsntssfst) INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Quella di Epicuro può essere definita una teoria "causa­le" (Long) della percezione, in quanto gli ogget­ ti sono responsabili dell'esistenza dei simulacri e questi ulti­ mi causano direttamente il formarsi delle immagini nella mente. Si deve però dire che le immagini sono una diretta conseguenza dei simulacri, ma solo secondariamente una conseguenza degli oggetti, dai quali possono anche essere difformi. In effetti la continuità del processo può essere interrotta al livello del passaggio dell'efflusso dagli oggetti esterni ai simulacri . Questi ultimi, sebbene di solito risultino delle co­ pie esatte degli oggetti, talvolta possono subire delle modifi­ cazioni per il fatto di entrare in collisione con altri atomi nel passaggio attraverso l'aria e possono anche ridursi in di­ mensione nel momento in cui entrano in una persona (in quanto, anche in questo caso, entrano in collisione con altri atomi). 1 3 Epicuro è, con questa teoria, impegnato a rendere conto del fatto che gli oggetti, visti da vicino, presentano certe di­ mensioni, mentre ne presentano altre, molto minori, se visti da lontano, senza entrare in contraddizione con il principio che la sensazione è garanzia di verità in ogni caso, e ci si troverebbe di fronte veramente a una contraddizione se la phantasfa fosse un'immagine dell'oggetto, mentre in realtà è un'immagine del simulacro (ekiOion). Sesto Empirico sembra riportare correttamente il pensie­ ro di Epicuro quando cita, a questo proposito, l'esempio della "torre": Così io non oserei dire che la vista suggerisca il falso per il fatto che a grande distanza essa vede la torre piccola e rotonda e a di­ stanza accorciata la vede più grande e quadrata, ma direi piut­ tosto che la vista suggerisca il vero, perché l'immagine ricevuta dai sensi, quando le appare piccola e di una certa forma, è real­ mente piccola e di quella determinata forma, per il fatto che i li­ miti appartenenti ai simulacri (eldola) vengono cancellati dal passaggio attraverso l'aria. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 208-209)  7.4 TEORIA DELL'ERRORE E DELL'OPINIONE 167 In effetti, ciò che i sensi recepiscono è il flusso di atomi che si stacca dall'oggetto e che costituisce il suo simulacro e non l'oggetto stesso. Tale flusso, passando attraverso l'a­ ria, si altera nella sua configurazione, producendo la diver­ sità delle immagini che si hanno dello stesso oggetto. Cosi ogni immagine mentale (phantasfa) è effettivamente vera perché è relativa non all'oggetto, ma a ciascuno dei simula­ cri dell'oggetto, che sono diversi in relazione alla distanza percorsa per raggiungere il soggetto che percepisce. L'importante è non identificare il simulacro che si produ­ ce nelle vicinanze dell'oggetto con quello che si ha in una vi­ sione a distanza. 7.4 Teoria dell'errore e dell'opinione Il tema deli'inferenza semiotica diventa sempre più cen­ trale nel campo dei processi percettivi quando si abbandona il terreno sicuro della sensazione per esplorare quello insi­ dioso delle opinioni, in cui si può verificare l'evenienza del­ l'errore. Se gli uomini si attenessero soltanto alle loro sen­ sazioni e si limitassero a descrivere le loro immagini mentali (phantasfa1), non ci sarebbe possibilità di errore. Ma ciò non avviene, e l'errore sorge quando viene ad aggiungersi alla sensazione qualche processo mentale che Epicuro, nella Lettera ad Erodoto (5 1), chiama "secondo movimento" (al­ l klnèsis). Long (1971 b: 1 18) identifica questo "secondo movimen­ to" proprio con il processo di elaborazione deli'opinione. Infatti Epicuro dice che esso è "connesso" con il primo mo­ vimento (cioè la semplice apprensione di immagini), ma, a differenza di questo, "ammette una distinzione": quella tra il falso e il vero. Il primo movimento, cioè l'apprensione di immagini, non ammette alcuna distinzione di questo gene­ re, perché è prodotto da cause esterne, ovvero dai simula­ cri; il secondo movimento, invece, consistendo nell'aggiun­ ta di un giudizio che noi facciamo su queste immagini, può ricevere conferma o attestazione contraria. Si può così sche­ matizzare il processo:  168 7. INFERENZA E LINOUAOQIO IN EPICURO processo conoscitivo / apprensione di immagmi lphsntsstik epiboli'J sempre vera opinione (d6xs)   conferma e non attestazione contraria vera attestazione contraria e non conferma falsa  In effetti, se, sulla scorta di una visione distante e oscura, io dico, traducendo in parole le mie sensazioni: "Quella ha le apparenze di una torre rotonda", io parlo in maniera veri­ tiera; ma se dico: "Quella è una torre rotonda", il mio giu­ dizio è disconfermato nel caso che, avvicinandomi, riceva l'immagine di una torre quadrata. In definitiva, le immagi­ ni sono tutte vere mentre le opinioni sono alcune vere e altre false. 14 Quello che comunque risulta è il carattere congettu­ rale dell'opinione. 7.5 La congettura È naturale che all'interno di una teoria dell'opinione uno spazio privilegiato venga dedicato alla congettura. Infatti, in generale, la congettura consiste proprio in un'ipotesi co­ noscitiva su una dimensione che va oltre ciò che può essere colto attraverso i sensi. L'opinione, come la concepisce Epi­ curo, è associata esattamente a queste caratteristiche, consi­ stendo appunto in un giudizio che prevede l'impegno del soggetto su qualcosa che attende conferma. Ci sono alcune parole chiave che definiscono il processo conoscitivo attuato attraverso l'opinione. La prima è pro-  7.5 LA CONGETTURA 169 sménon, "ciò che attende conferma", 1 5 che è appunto l'og­ getto sul quale si esercita il giudizio. Una seconda e una terza parole chiave, collegate tra loro da una relazione di antonimia, sono epimartjrsis "attesta­ zione" e antimartjrsis "attestazione contraria" o "conte­ stazione". Tuttavia, il sistema di Epicuro per la conferma o la disconferma di una certa opinione non gioca su due, ben­ si su quattro termini: c'è infatti conferma quando si ha "at­ testazione" o "non contestazione"; c'è disconferma quando c'è "contestazione" o "non attestazione". Si viene cosi a creare un vero quadrato semiotico: attestazione contestazione ( epimsrtyrlJsis) non contestazione (ouk sntimsrtyrsis) ( sntimsrtyrlJsis) non attestazione (ouk epimsrf'jrlJsis)  in cui, per Epicuro, due termini (o quelli della deissi positi­ va, o quelli della deissi negativa) congiuntamente sono ne­ cessari per decidere di un'opinione. 1 6 Tuttavia ciascuno dei quattro termini è idoneo a stabilire la validità di un'opinione. Infatti nella teoria semiotica ri­ portata nel De signis da Filodemo, il criterio per decidere sulla validità di un'inferenza induttiva sarà rappresentato dalla sola non contestazione, ovvero dal non conflitto del­ l'espressione segnica con i fenomeni percepibili. Nel quadrato di Epicuro sorge il problema di stabilire un criterio per definire in che cosa consista il termine base, cioè l'attestazione. Questo criterio è rintracciabile nella enargheia ("l'eviden­ za", "la chiara visione"), come ci dice Sesto:  170 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Ed è attestazione (epimartjris) una apprensione, conseguita mediante evidenza (di' enarghefas), del fatto che l'oggetto opi­ nato è appunto quello che precedentemente veniva opinato, co­ me, ad esempio, se Platone da lontano incede verso di me, io congetturo ed opino, a causa della distanza, che si tratti di Pla­ tone, e, quando egli mi si è accostato, viene attestato che si trat­ ti eli Platone, mercé la soppressione della distanza, e la confer­ ma si è avuta in virtù della stessa evidenza. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 212) In effetti Epicuro era ben consapevole del fatto che si possono commettere degli errori neli'identificazione o nel riconoscimento degli oggetti della percezione e, probabil­ mente, egli pensava che in ogni atto percettivo, accanto alla pura e semplice sensazione, anche la d6xa gioca sempre un ruolo. In questo modo la congettura diviene onnipresente, in quanto è coinvolta in ogni atto percettivo. Di conseguen­ za, la funzione che vengono ad assumere le sensazioni e le immagini mentali è quella di fornire i dati sulla base dei quali elaborare le congetture. 1 7 Nella Lettera ad Erodoto (38) sembrano essere presi in considerazione due tipi di oggetti sui quali l'inferenza se­ miotica si esercita: (l) ciò che attende conferma (prosménon) (2) ciò che non cade sotto i sensi (adlon) che danno luogo a due tipi di processi inferenziali. Il primo è relativo al genere di congettura che si instaura all'interno degli stessi processi percettivi ed è illustrato dal­ l'esempio, riportato da Sesto, del vedere in lontananza Pla­ tone che si avvicina, e poter solo congetturare che si tratti proprio di lui. In questo caso l'oggetto su cui si esercita la congettura è qualcosa che viene colto dai sensi, ma non di­ stintamente. Tuttavia, questo processo si conclude con una verifica: in questo caso, la conferma del dato congetturato, attraverso una visione chiara. Chiameremo questo tipo in­ ferenza percettiva. Il secondo è relativo all'inferenza su cose assolutamente escluse dal processo percettivo: è il caso della congettura nel senso fliù classico. Anche di questo ci fornisce un esempio Sesto. 8 Si tratta di risalire dali'esistenza del moto (cioè di  7.6 L'INFERENZA DA SEGNI 171 un elemento percepibile, un phain6menon) all'esistenza del vuoto (cioè di un elemento non percepibile, adlon). È la ti­ pica relazione logica di implicazione (chiamata da Sesto akolouthfa) tra un antecedente e un conseguente. Chiame­ remo questo secondo tipo di processo inferenza al non per­ cepibile. 7.6 L'inferenza da segni L'inferenza al non percepibile è una tipica inferenza da segni. Infatti in molti casi, come quello che abbiamo visto, "Se c'è moto-+c'è vuoto", non è possibile conoscere diret­ tamente l'oggetto sul quale viene fatta l'inferenza ("il vuo­ to"), ma lo si deve attingere attraverso un segno ("il mo­ to"). In effetti, anche per Epicuro, l'inferenza da segni è connessa con la possibilità di ampliare i limiti della cono­ scenza oltre la sfera degli oggetti sensibili. È proprio grazie a una teoria dell'inferenza segnica che la scuola epicurea riesce a superare i limiti del proprio radicale empirismo, aprendo la via anche alla conoscenza di fenomeni non per­ cepibili direttamente dai sensi. Anzi, nel De signis di Filode­ mo (fr. 2), c'è un esplicito invito a considerare le conoscen­ ze ottenute tramite inferenza, altrettanto sicure di quelle di­ rette. Un programma conoscitivo di questo tipo presuppone un'epistemologia che divide gli oggetti in quattro categorie, in maniera del resto non molto diversa da quanto avveniva nella semiotica stoica: ( l ) Oggetti o fatti evidenti (enarghi): "quegli oggetti che vengono recepiti involontariamente per mezzo di una rappresentazione o di una affezione" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 316). Come esempi vengono dati il fatto che sia giorno o il riconoscimento che una certa persona è un uomo. (2) Oggetti oscuri in modo assoluto (phjsei adla): "quegli oggetti che né furono conosciuti nel passato, né sono conosciuti nel presente, né saranno conosciuti nel futu-  172 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO ro, ma sono inconoscibili in eterno" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 317-318). Come esempio viene data l'im­ possibilità di conoscere se il numero delle stelle sia pari o dispari. Fatti di questo genere sono inconoscibili, co­ me spiega Sesto, non per la loro natura, ma per la no­ stra natura, dato il tipo di limitazioni a cui è sottoposta la conoscenza umana. (3) Oggetti oscuri di per sé (ghénei adla): "quegli oggetti che sono oscuri per la propria natura, ma che si stima vengano conosciuti per mezzo di segni e di dimostrazio­ ni" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 319). Gli esempi so­ no gli atomi e il vuoto infinito. L'esistenza degli atomi e del vuoto era postulata da Leucippo e da Democrito su basi puramente razionali, ma Epicuro insisterà, in con­ formità con il suo empirismo, che possono essere cono­ sciuti attraverso l'inferenza analogica. (4) Oggetti che attendono conferma (prosménonta): sono quegli oggetti posti immediatamente oltre la nostra esperienza (Ep. Hdt., 38), la cui conoscibilità è limitata da fattori, quali la distanza nello spazio o il loro essere situati nel futuro. Come si può vedere, gli unici oggetti che possono essere conosciuti attraverso l'inferenza sono quelli che apparten­ gono alla terza e alla quarta classe. Essi sono da porre in corrispondenza con i due tipi di inferenza di cui abbiamo già parlato. L'inferenza percettiva, infatti, verte intorno agli oggetti appartenenti alla quarta classe, quelli "che attendono con­ ferma". L'inferenza al non percepìbile, invece, verte intorno agli oggetti appartenenti alla terza classe, cioè è rivolta alla co­ noscenza di quegli oggetti che sono "oscuri di per sé" e che non arrivano mai a essere esperiti dai sensi . In questo caso il metodo di verifica assume una forma indiretta: la "non at­ testazione contraria" (ouk antimartjresis). Il vuoto, come abbiamo visto, non è verificabile per esperienza diretta, ma gli epicurei sostengono che la sua esistenza non è in contra­ sto con nessun fatto conosciuto, 1 9 mentre la sua negazione  7.7 LA PROLESSI 173 entra in conflitto con l'esperienza empirica del movimento, che richiede il vuoto per attuarsi. Il cuore del ragionamento basato sulla non attestazione contraria consiste nel fatto che, quando si hanno due proposizioni contraddittorie in­ torno a qualcosa che non è percepibile, e una di esse risulta falsa in base a una prova empirica (nell'esempio preceden­ te, la non esistenza del vuoto, in quanto entra in conflitto con l'esistenza del moto), allora l'altra può essere conside­ rata vera (De Lacy 1978: 188). 7.7 La prolessi La prolessi (o "anticipazione" o "preconcezione") costi­ tuisce il secondo dei due criteri di verità che abbiamo defini­ to "oggettivi". Essa ha un ruolo determinante nell'inferenza percettiva, come mostra Diogene: Per esempio, per poter affermare: "Ciò che sta lontano è un ca­ vallo o un bue", dobbiamo per prolessi (o anticipazione) già aver conosciuto una volta la figura di un cavallo e di un bue. (Diog. Lai!rt.. Vitae, X, 33) In effetti la protessi è necessaria perché si abbia percezio­ ne in senso proprio, cioè affinché si passi dalla semplice consapevolezza del fatto che si sta vedendo un'immagine, al giudizio oggettivo che questa è immagine di un oggetto pre­ ciso. In altre parole, secondo Epicuro, per poter effettiva­ mente percepire un cavallo o un bue, si deve: l . avere avuto precedentemente un'immagine di questi animali; 2. averla immagazzinata nella mente; 3. effettuare un confronto con i dati che vengono forniti dalla propria attuale sensazione. Le prolessi sono in realtà delle immagini mentali o dei concetti che si sono formati in seguito a numerose esperien­ ze relative agli oggetti esterni. Esse hanno due caratteri fon­ damentali: (i) sono strettamente legate alla memoria di esperienze precedenti; (ii) sono evidenti (enargeis). Come concetti, le prolessi non necessariamente corri­ spondono a singoli oggetti esterni, ma costituiscono piutto-  INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO sto il tipo, di cui le singole esperienze percettive sono le oc­ correnze. Ciò, del resto, è strettamente collegato al fatto che esse rappresentano un test di verità: solo possedendo il concetto generale di "uomo", si può decidere se ciò che si ha di fronte sia o non sia un'occorrenza particolare di esso. 7.8 La teoria del linguaggio Le protessi costituiscono anche una condizione necessaria del linguaggio e agiscono tanto al livello della decodifica quanto a quello della codifica. Infatti, da una parte, l'atto di pronunciare un nome (a esempio juomol) richiama nella mente dell'ascoltatore un'immagine o un concetto, cioè un'entità che è soggiacente, hyfootetagménon, a quel nome e che è derivata dalla protessi; 0 potremmo dire che la pre­ senza di un significante fa scattare nell'ascoltatore I'abbina­ mento con un significato. Dall'altra, il Iocutore deve posse­ dere una preconcezione di ciò che intende esprimere, altri­ menti non gli sarebbe possibile dire niente: in questo caso, il locutore codifica un significato presente nella sua mente per mezzo di un artificio espressivo (un "nome"). Nella teoria epicurea la prolessi sembra coinvolta in ogni caso nella formazione dei concetti. Infatti Diogene dice che "tutti i concetti (epfnoia1) sorgono dalle sensazioni, o per diretta esperienza, o per analogia, o per somiglianza, o per combinazione, con una certa collaborazione anche da parte del ragionamento" ( Vitae, X, 32). Long (1971 b: 1 19) sug­ gerisce di identificare con le prolessi la prima classe di con­ cetti, cioè quelli che sorgono per diretta esperienza dalle sensazioni. Se dunque le prolessi sono alla base di ogni concetto, si viene a configurare una teoria del segno linguistico sensibil­ mente diversa da quella che è normalmente attribuita agli epicurei sulla scorta delle testimonianze di Sesto e di PIutar­ co.21 Questi ultimi, infatti, sostenevano che nella teoria lin­ guistica di Epicuro solo due fattori erano implicati: la cosa significante (sèmainon, o voce, ph(Jn) e la cosa designata (tynchanon). In effetti, la ragione per cui Plutarco e Sesto  7.8 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 175 trascurano le protessi nella teoria del significato linguistico è imputabile al fatto che essi non vedono nella teoria epicu­ rea niente di simile al lekt6n stoico, che è contemporanea­ mente incorporeo e completamente diverso da un'immagine mentale. Ciò non impedisce, tuttavia, alle protessi di avere la stes­ sa funzione dei lekta stoici, cioè di costituire un elemento di mediazione tra le parole e le cose. Di conseguenza, la teoria epicurea del segno linguistico dovrebbe essere così rico­ struita: prolessi  nomi cose Del resto, se a Epicuro fosse attribuita una teoria lingui­ stica secondo cui le parole si riferiscono direttamente alle cose, senza la mediazione delle protessi, entrerebbe in con­ traddizione tutta la sua dottrina della falsa credenza. A esempio, poiché gli uomini credono erroneamente che gli dei siano malevoli nei loro confronti ed esprimono verbal­ mente questa credenza, se non esistesse il livello concettuale delle prolessi, non ci sarebbe niente che corrisponde alla proposizione "Gli dei sono malevoli nei confronti degli uo­ mini". La presenza della prolessi come elemento mediatore tra le parole e le cose può rendere conto di molte asserzioni false e di asserzioni su cose che non esistono. Ciò che gli uo­ mini fanno, pensando agli dei come malevoli, è una falsa supposizione, ovvero un concetto non derivato dali'ogget­ to, cioè dagli dei stessi. La centralità della protessi nella teoria linguistica epicu­ rea è dimostrata anche dal fatto che essa deve essere identi­ ficata anche con quel particolare significato che è il "signifi-  176 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO cato basico" o "primario" (proton ennoma), di cui si parla nella Lettera ad Erodoto (37-38) e che si oppone a tutti gli altri significati che possono essere considerati derivati da esso.22 7.9 L'origine del linguaggio La teoria linguistica in Epicuro è connessa con quella del­ l'origine stessa del linguaggio, che è discussa principalmen­ te nella Lettera ad Erodoto (75-76).23 Per Epicuro il linguaggio è un'attività che gli uomini han­ no sviluppato nel corso della loro evoluzione, passando at­ traverso due stadi distinti. Nel primo stadio il linguaggio esprime una relazione con la realtà che potrebbe essere defi­ nita naturale, mentre nel secondo una relazione che potreb­ be essere definita convenzionale. In effetti Epicuro, nella polemica phjsisln6mos, assume una posizione mediana e molto particolare, rifiutando sia l'idea che ci sia stato un unico datore di nomi, sia l'idea (per altro sostenuta dagli stoici) che le parole si accordino in maniera naturale alle co­ se. Esaminiamo più in particolare come è descritto il pro­ cesso di nascita e sviluppo del linguaggio nella Lettera ad Erodoto . In una prima fase l'attività linguistica degli uomini non è affatto diversa dai processi naturali quali tossire, starnuti­ re, gemere ecc.: infatti gli uomini emettono suoni, simili a parole, sotto lo stimolo involontario e naturale delle affe­ zioni (path) che provano e delle immagini (phantasmata) che si formano in loro. Il linguaggio primitivo costituisce una reazione istintiva all'arnbiente, e la tesi di Epicuro sem­ bra essere, in relazione a questo stadio, a pieno titolo quella naturalista. Ma, a ben guardare, essa presenta qualcosa di più. Infatti ha sempre costituito un problema, per i sosteni­ tori della tesi del naturale accordo tra le parole e le cose, spiegare la diversità delle lingue: qui Epicuro non evita que­ sto aspetto del problema,24 ma lo integra nella sua teoria. La diversità delle lingue è diretta conseguenza della diver­ sità degli ambienti in cui i vari popoli si trovano e in relazio-  7. l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 177 ne ai quali emettono suoni diversi. Insomma, le lingue va­ riano perché le cose variano da regione a regione. Inoltre gli uomini, accorgendosi che si producono suoni diversi in re­ lazione alle affezioni e alle immagini prodotte dagli oggetti, trovano utile usare questi suoni come nomi-etichette degli oggetti. A questo punto interviene il secondo stadio nel processo evolutivo del linguaggio, in cui vengono introdotti degli ele­ menti di convenzione. Questi ultimi si instaurano sotto una duplice spinta: da una parte c'è un movimento che tende a razionalizzare il linguaggio, rendendo le espressioni ambi­ gue, createsi naturalmente "più chiare" e "più concise"; dal­ l'altra c'è l'operato degli "uomini colti", i quali tendono a introdurre concetti relativi a cose che vanno oltre la perce­ zione e che dunque non hanno potuto essere nominate at­ traverso il processo naturale. Come sottolinea Sedley (1973: 19), il tentativo deliberato di introdurre processi di semplifi­ cazione nell'evoluzione del linguaggio corrisponde al desi­ derio di rendere conto dei processi astratti, come quelli in cui la relazione uno e uno tra parole e cose non è più soste­ nibile. Ciò avviene sostanzialmente in due casi, che sono le­ gati all'intera problematica linguistica di Epicuro, cioè (i) nella formazione dei termini generali e (ii) nei processi di metaforizzazione. 7.lO Epicuro e la tradizione "physis/nomos" Dopo aver esaminato la teoria epicurea dell'origine del linguaggio, è possibile ritornare al triangolo semiotico e analizzare quali relazioni siano implicate tra i vari termini, in rapporto con altre posizioni della tradizione linguistica. Un primo confronto può essere stabilito con Aristotele. Spesso gli studiosi hanno suggerito una dipendenza della teoria linguistica di Epicuro da quella di Aristotele (tra gli altri, Arrighetti), o almeno una stretta somiglian­ za (Long 1971 b: 121). In effetti nel De interpreta/ione (16 a) Aristotele pensa alle affezioni dell'anima come a immagi­ ni provenienti dalle espressioni sensoriali derivate dalle cose  INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO esterne, in un modo non molto diverso da come le protessi di Epicuro derivano dagli oggetti. Se questo è un punto di contatto tra le due teorie, tuttavia maggiori sono, secondo Sedley, le divergenze. Anzitutto, per Aristotele i diversi popoli hanno esattamente le stesse affezioni mentali, ma le rappresentano attraverso espressioni linguistiche diverse. Per Epicuro, invece (come abbiamo visto a proposito dell'origine del linguaggio), le forme linguistiche sono diverse perché le affezioni mentali (path e phantasmata, ambedue inclusi negli aristotelici pathmata) sono diverse da popolo a popolo, in relazione ai diversi ambienti naturali. Ma ci sono anche altri elementi di divergenza tra Aristotele ed Epicuro. Per il primo, infatti, nessun nome preso di per sé ha funzione apofantica, cioè nessun nome può essere detto vero o falso; inoltre nessuna espressione diviene un simbolo se non in seguito a conven­ zione. Per Epicuro, invece, i nomi di oggetti individuali comportano verità o falsità, come avveniva, del resto, an­ che nel Crati/o platonico; inoltre, una certa espressione, che può essere anche un semplice rumore, può essere usata co­ me un simbolo, per quanto in assenza di elementi conven­ zionali, come avviene negli stadi primitivi della comunica­ zione. Un secondo confronto può essere stabilito poi anche con la posizione platonica. Sicuramente in Epicuro non è pre­ sente alcuna posizione simile a quella della prima teoria se­ mantica di Platone,25 adottata in seguito anche dagli stoici, secondo la quale il nome è una lista abbreviata delle pro­ prietà dell'oggetto a cui si riferisce. Platone, infatti, vede le parole primitive come una rappresentazione fedele delle proprietà dell'oggetto, quasi che tutto il vocabolario fosse deliberatamente costituito da onomatopee. La posizione naturalistica di Epicuro si limita a sostenere che, ali'interno di ciascun linguaggio, ogni nome ha un uso corretto quando viene impiegato per denotare l'oggetto, o la classe di oggetti, a cui è stato associato nel momento del­ la sua origine naturale. Tuttavia, nonostante questa distin­ zione, ci sono forti elementi di convergenza tra la posizione platonica e quella epicurea, in quanto in entrambe i nomi  EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 179 hanno alla loro origine un valore cognitivo, che viene par­ zialmente obliterato attraverso i cambiamenti del linguag­ gio nel corso del tempo.26 Per Platone il recupero del senso originario delle parole avviene attraverso l'etimologia, stra­ da sulla quale lo seguiranno anche gli stoici. Epicuro ritie­ ne, invece, che la relazione originaria del linguaggio con gli oggetti percepibili sia stata oscurata soprattutto da processi metaforici e, per recuperare il valore epistemologico origi­ nario dei nomi, suggerisce di ricercare "la prima immagine" (prOton enn6ema: Ep. Hdt., 38). Questa prima immagine è da identificarsi con la prolessi, cioè con il concetto che si è formato alla prima percezione dell'oggetto e che è stato as­ sociato al nome. In conclusione, rispetto alla teoria di Aristotele e alla pri­ ma teoria semantica di Platone, si può dire che Epicuro as­ sume una posizione intermedia. Per Aristotele i nomi sono simboli e sono convenzionali. Per Platone, invece, i nomi sono delle icone degli oggetti e sono naturali. Per Epicuro i nomi sono simboli, come per Aristotele, in quanto non riproducono le proprietà degli og­ getti, ma sono naturali, come per Platone, nella loro origi­ ne, coincidente con il primo dei due stadi evolutivi del lin­ guaggio . Gli elementi di convenzionalità si sviluppano soltanto in seguito, nel secondo stadio. Questa posizione intermedia di Epicuro spiega perché non venga fatto ricorso all'etimolo­ gia, come invece avviene in Platone e negli stoici, e, pur tut­ tavia, si chieda di tenere presente "la prima immagine": in realtà, la corrispondenza biunivoca tra il nome e "la prima immagi ne" si fonda non sulla forma, ma sulla origine natu­rale . IL ''DE SIGNIS'' DI FILODEMO 8.0 Introduzione Dopo Epicuro la teoria del segno trovò un ampio svilup­ po negli scritti dei suoi seguaci. Un trattato del I secolo a.C.,1 ilPerìsmet'Onkaìsmei8seon(Suisegniesulleinfe­ renze)2 di Filodemo, testimonia ampiamente del grado di raffinatezza e di complessità che la teoria del segno aveva raggiunto in seno alla scuola epicurea. Si tratta di un'opera composta probabilmente a uso della scuola epicurea di Er­ colano, della quale Filodemo fu uno dei più importanti esponenti. Il De signis non costituisce un vero e proprio trattato metodologico, né un'esposizione sistematica della teoria epicurea del segno, ma riporta la polemica allora in corso fra stoici ed epicurei sull'inferenza da segni e su varie tematiche semiotiche a essa connesse. Il trattato è diviso in quattro sezioni, nelle quali sono esposte le argomentazioni di tre maestri epicurei, Zenone di Sidone, Bromio e Deme­ trio di Laconia,3 a favore della teoria epicurea del segno e contro le critiche a essa mosse dagli esponenti della scuola stoica. Il trattato è di grandissima importanza semiotica, perché tanto gli stoici quanto gli epicurei costruivano la loro teoria logica sull'inferenza da segni. Nel confronto le due teorie si illuminano a vicenda. Inoltre il De signis dibatte una serie di problemi che ancora oggi sono al centro della discussione semiotica. Del resto, per la sua pertinenza semiotica, que­ st'opera aveva attirato anche l'interesse di Charles Sanders  8.l RELAZIONE SEGNICA «A PRIORI» E «A POSTERIORI» 181 Peirce, che ne aveva affidato l'approfondimento e l'analisi all'allievo Allan Marquand; di quest'ultimo ci rimane un saggio sulla logica semiotica degli epicurei.4 8.1 La relazione segnica è "a priori" o "a poste­ riori"? Al centro del trattato di Filodemo si colloca il contrasto fondamentale tra le due scuole circa il modo di concepire il rapporto che si instaura tra i due termini della relazione se­ gnica: gli stoici sono sostenitori di una posizione che vede tale relazione come a priori, formale e di natura razionale; gli epicurei, invece, sostengono che tale relazione è a poste­ riori e interamente fondata su basi empiriche. Il punto di vi­ sta epicureo, in effetti, è che per poter stabilire una relazio­ ne tra un segno e ciò a cui esso rinvia, è necessario aver os­ servato più volte i due termini in un qualche tipo di con­ giunzione (sia essa spaziale, temporale, causale ecc.). Così la relazione si stabilisce in seguito ali'esperienza, e non a priori, come sostenevano gli stoici. Di conseguenza, il me­ todo semiotico proposto dagli epicurei è quello deH'analo­ gia (ho katà tn homoi6tta tr6pos), cioè un "metodo stret­ tamente empirico e basato sull'osservazione delle similarità nella nostra esperienza e su certe congiunzioni costanti, dal­ le quali noi inferiamo ugualmente delle similarità e delle congiunzioni nella sfera di ciò che è oscuro" (De Lacy 1938: 398). In corrispondenza con i due modi di concepire la relazio­ ne segnica, stoici ed epicurei sviluppano anche due differen­ ti teorie sulla verifica della validità logica della relazione. Gli stoici consideravano valida la relazione segnica basata sulla contrapposizione (anaskeu), secondo cui la negazione del conseguente comporta la contemporanea negazione del­ l'antecedente. A esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è vuoto", gli stoici sostenevano che la negazione della cosa si­ gnificata ("c'è vuoto") implicherebbe anche la negazione del segno (''c'è moto"). Si tratta di un metodo di verifica as­ solutamente a priori e astratto, al quale gli epicurei con-  182 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO trappongono un metodo completamente empirico. Anzi, gli epicurei sostengono che nessun metodo a priori è possibile fino a che non sia stata costruita un'inferenza su base empi­ rica: l'esistenza del vuoto, nell'esempio precedente, è inferi­ ta a partire dalla osservazione empirica che non si verifica il moto senza l'esistenza congiunta del vuoto, e da una conse­ guente generalizzazione.5 Ciò significa che il principio astratto degli stoici può esse­ re formulato soltanto dopo che l'inferenza è stata costruita su base empirica e con il ricorso a un ragionamento analogi­ co. Così gli epicurei sostengono che il metodo della con­ trapposizione poggia, inconsapevolmente, sul fondamento ultimo dell'analogia epicurea. In questo modo le verità ne­ cessarie, che gli stoici consideravano analitiche e a priori, sono in realtà stabilite attraverso l'induzione. Gli epicurei prospettano un punto di vista secondo cui la logica dedutti­ va è susseguente a una logica induttiva in ordine di svilup­ po: la prima dipende infatti dalla seconda (De Lacy 1978: 221). Se questa idea è chiaramente espressa nel trattato di Filodemo, non ci si deve tuttavia aspettare una discussione articolata sulle relazioni tra la logica formale e deduttiva da una parte, e logica induttiva e metodo empirico dall'altra. Anzi, a ben vedere, nel corso del trattato, entrambi i prota­ gonisti della discussione tendono a confondere due cose che la logica moderna avrebbe piuttosto tendenza a tenere di­ stinte: da una parte, il metodo per la costruzione di un'infe­ renza segnica; dall'altra, il criterio per la verifica della sua validità (Martinelli) . Così, il metodo di costruzione deli'inferenza per gli epicurei è l'analogia, mentre il criterio è più precisamente quello della inconcepibilità (adianosfa). Tuttavia la distinzione non è così forte, in quanto sia il me­ todo sia il criterio sono su base empirica: in effetti, nel di­ battito, gli stoici tenderanno ad attaccare il metodo per in­ validare il criterio e viceversa. 8.2 Contrapposizione vs inconcepibilità Vediamo di analizzare, in termini formali, l'opposizione  CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPmiLITÀ · 1 83 che si stabilisce tra il criterio stoico della contrapposizione e quello epicureo della inconcepibililà. Data l'inferenza p-:Jq il criterio della sua verifica secondo la contrapposizione stoica è esprimibile come il che equivale a dire che, negando per ipotesi il conseguen­ te, anche l'antecedente risulta negato. La prova dell'infe­ renza, dunque, avviene su base formale e non empirica. Il criterio della inconcepibilità epicurea, invece, prescinde da considerazioni formali ed è basato sull'analogia empiri­ ca. Esso viene così illustrato nelle parole di Filodemo: Ma talvolta l'inferenza non è provata essere vera in questo mo­ do ( = per contrapposizione), ma proprio per l'impossibilità di concepire che il primo sia, o abbia una certa proprietà, mentre il secondo non sia, o non abbia tale proprietà, come per esem­ pio: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo". Se è vera questa inferenza, diviene vero anche che "Se Socrate non è un uomo, nemmeno Platone è un uomo", non perché, attraver­ so la negazione di Socrate, Platone sia negato insieme ad esso, ma perché non è possibile che Socrate non sia un uomo e Plato­ ne sia un uomo; e questa inferenza appartiene al metodo dell'a­ nalogia . (col. XII, 14-31=cap. 17) Dal punto di vista formale il criterio della inconcepibilità è esprimibile come impossibile (pl\q) In effetti le due formule che corrispondono rispettiva­ mente al criterio di verifica stoico e a quello epicureo non esprimono un contenuto logico molto diverso l'una rispetto all'altra. La stessa presenza di un operatore modale nella   184 8. n «DE SIGNIS» DI FnODEMO formula del criterio di inconcepibilità è controbilanciata dal carattere, ugualmente modale, di necessità, che sappiamo essere richiesta dali'implicazione come la concepivano gli stoici . Tuttavia, in Filodemo i due metodi sono presentati come contrapposti, e anzi, nel passo citato, sembra che trovino applicazione in casi diversi. Se non è dunque sul piano del contenuto logico che si dif­ ferenziano, che cosa è allora che li rende diversi? È possibi­ le cercare una risposta a questo interrogativo soffermando­ ci sull'esempio che viene riportato da Filodemo di inferenza verificata con il metodo dell'inconcepibilità: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo" Questa inferenza, ci dice Filodemo, appartiene al metodo dell'analogia. Infatti, entrambi i membri dell'inferenza condividono un elemento, cioè la proprietà attribuita ai soggetti rispettivi delle due proposizioni, fatto che potrem­ mo esprimere come: u {P)  u {S) in cui "u" è la proprietà di "essere un uomo", "P" è "Plato­ ne" e "S" è "Socrate". Questo aiuta a capire che cosa intendano esattamente con "analogia" e con "inferenza segnica basata sull'analogia" gli epicurei. In effetti, mentre per gli stoici non è necessario alcun elemt.nto in comune tra i due membri dell'inferenza segnica, una tale caratteristica diviene essenziale per gli epi­ curei.6 Il fatto, però, che l'analogia, da un punto di vista logico, si venga precisando come situazione in cui c'è una proprietà condivisa dai soggetti delle due proposizioni membri del­ l'inferenza, ci permette di dire che la logica usata dagli epi­ curei non è la stessa di quella usata dagli stoici: mentre que­ sti ultimi si servono della logica delle proposizioni, gli epi­ curei ritornano a una logica dei predicati, sotto un certo punto di vista più simile a quella aristotelica.CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPIBILITÀ 185 A distinguere il metodo della contrapposizione da quello dell'inconcepibilità è dunque l'ambito di applicazione: le proposizioni nel primo caso, le proprietà nel secondo. Lo scopo è tuttavia lo stesso: dimostrare che l'inferenza ha un carattere di necessità. Ora non c'è nessun problema a considerare necessaria la relazione stoica verificata dalla contrapposizione, in quanto il metodo adottato è aprioristi­ co. Ci sono maggiori problemi, invece, come gli stoici sot­ tolineano, a considerare necessaria l'inferenza analogica. A ogni modo, per gli epicurei le relazioni segniche vengo­ no scoperte empiricamente e, se la ricerca è ben condotta, la relazione tra il segno e l'oggetto a cui il segno rimanda' è necessaria. Tuttavia, il metodo stesso dell'inconcepibilità è un metodo empirico, in quanto una certa cosa è inconcepi­ bile solo nei termini della nostra esperienza. Le inferenze verificate dall'inconcepibilità sono basate sull'analogia tra il segno e ciò a cui esso rimanda: "Un oggetto che non ab­ bia niente in comune con ciò che appare è inconcepibile" (col. XXI, 27.;.29 = cap. 36). Anche le inferenze su ciò che va di là dell'esperienza sono basate sull'analogia con le proprietà che presentano le cose ali'interno deli'esperienza. Se non è possibile verificare di­ rettamente la presenza di quelle proprietà negli oggetti non percepiti, si ricorre alla prova indiretta della non incompati­ bilità (ouk antimartjrsis) con i dati empirici.7 L'inferenza che viene presa in considerazione è la seguente: Se gli uomini che noi conosciamo direttamente, una volta deca­ pitati muoiono, senza che ricrescano nuove teste, allora tutti gli uomini, dovunque, una volta decapitati muoiono e non ricre­ scono nuove teste. Il primo membro del condizionale è considerato segno del secondo. Tra i due membri si stabilisce un elemento co­ mune, e l'inferenza è propriamente un'induzione: l'espe­ rienza ripetuta dell'associazione tra decapitazione da una parte e morte congiunta alla non ricrescita della testa dal­ l'altra, porta alla generalizzazione di questa associazione, in modo da poter fare inferenze e previsioni anche in casi  186 8. IL «DE SIONIS» DI FnODEMO non precedentemente osservati, o non osservabili in asso­ luto. Inoltre, poiché è impossibile verificare l'inferenza sui casi non osservabili, gli epicurei la ritengono veri ficata basando­ si sulla non incompatibilità con i casi che cadono nel domi­ nio deli'esperienza. La condizione è tuttavia quella di sce­ gliere i casi giusti, che sono quelli che appartengono allo stesso genere: a esempio, per inferire la non ricrescita delle teste, è necessario non basarsi sulla ricrescita dei capelli o delle unghie (coli. XIII, 20 - XIV, 2 = cap. 18). 8.3 Segni comuni e segni propri La disputa sui metodi di verifica dell'inferenza si lega alla discussione sui tipi possibili di segno. Tanto gli stoici quan­ to gli epicurei distinguevano tra segno comune (koinòn s­ mefon) e segno proprio (fdion smefon). Definivano il segno comune come quella entità che può esistere anche in assen­ za di un'entità cui dovrebbe rinviare (a esempio, nell'infe­ renza "Se quest'uomo particolare è ricco, allora è buono"! la ricchezza può sussistere anche se non sussiste la bontà). Definivano poi il segno proprio come quell'entità che può esistere solo se esiste un oggetto non percepibile a cui essa rinvia (a esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è9vuoto", il moto può esistere solo se esiste anche il vuoto). Gli epicurei erano d'accordo con gli stoici nel rifiutare i segni comuni come basi inaffidabili di inferenze, ma non concordavano sul fatto che ogni caso di segno proprio fosse anche un caso (come sostenevano gli stoici) di segno stabili­ to per contrapposizione, cioè stabilito aprioristicamente. Per essi era possibile stabilire dei segni propri usando un criterio empirico, come è quello dell'inconcepibilità.10 Se consideriamo l'inferenza: "Se Epicuro è un uomo, allora anche Metrodoro è un uomo " ci troviamo di fronte a un segno proprio costruito per ana- SEGNI COMUNI E SEGNI PROPRI 187 logia, cioè sull'osservazione di una proprietà in Epicuro che è inconcepibile pensare che Metrodoro non abbia esatta­ mente negli stessi termini. In altre parole si può dire che, posto l'accordo tra le due scuole sulla validità dei soli segni propri, gli stoici costituivano un oggetto come segno a par­ tire dal conseguente (ovvero dal rinviato), mentre gli epicu­ rei lo costituivano a partire dall'antecedente. È l'oggetto che compare nell'antecedente, infatti, che nella semiotica epicurea viene associato a certe proprietà (costantemente osservate) e diviene segno di un altro ogget­ to non percepibile a cui vengono attribuite le proprietà del primo. Tuttavia, il primo oggetto X deve avere almeno due proprietà Pt e P2 e il secondo oggetto deve avere almeno una di queste: la proprietà comune diviene il segno della presenza della seconda proprietà che può non essere perce­ pibile direttamente nel secondo oggetto. A esempio, se un certo individuo X ha le due proprietà: Pt = "essere un uomo" p2 = "non poter avere la ricrescita della testa, una volta tagliata" sarà sufficiente che un altro individuo Xt abbia la proprietà Pt perché gli si possa attribuire anche la proprietà p2. Le condizioni della validità generale di questa inferenza sono due: (i) che l'associazione tra le due proprietà nel pri­ mo membro dell'inferenza sia costante; (ii) che tale associa­ zione non si stabilisca tra proprietà casuali. Come vedremo in seguito, si tratta di scegliere delle proprietà che siano "es­ senziali". Rimane da fare una considerazione generale sul tipo di segno proposto dagli epicurei: esso sembra costantemente configurarsi come segno iconico, in quanto, in termini peir­ ceani, rimanda al suo oggetto in virtù di una somiglianza o per avere alcune proRrietà in comune con esso (Peirce 1980: 140; Eco 1973: 51). 1  188 8. ll «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.4 Critica stoica all'induzione epicurea Gli stoici non accettano la validità dell'inferenza basata su un criterio induttivo, come proponevano gli epicurei. A essa contrappongono inferenze segniche basate sostanzial­ mente su due tipi di criterio: (i) la tautologia; (ii) la L-impli­ cazione. 12 Seguiamo lo sviluppo dell'argomentazione degli stoici. Essi prendono come punto di partenza una tipica in­ ferenza induttiva, o analogica, epicurea: "Se gli uomini tra di noi sono mortali, allora tutti gli uomi­ ni lo sono''. Per gli stoici l'inferenza cosi formulata è inaccettabile. Per acquisire validità, essa deve essere riformulata secondo l'uno o l'altro dei criteri che abbiamo menzionato. Vedia­ mo il criterio definito come tautologia. Gli stoici sostengo­ no che, per rendere valida l'inferenza, cioè, dal loro punto di vista, per rendere necessaria la relazione tra i due mem­ bri, entrambe le proprietà prima considerate devono essere contenute nella premessa. 1 3 Gli stoici propongono così di riformulare l'inferenza nel modo seguente: Dal momento che gli uomini tra di noi sono mortali, e se in altri luoghi vi sono uomini simili a quelli tra di noi sotto tutti i ri­ spetti, e anche nell'essere mortali, essi sono eventualmente mor­ tali . (coIl. II, 37 - III, 4= cap. 5) Il carattere tautologico dell'inferenza è sottolineato dagli stoici stessi, i quali sostengono espressamente che "la con­ clusione appresa attraverso questo segno non differisce dal segno a partire dal quale si trae l'inferenza (smeioume­ tha)".14 Infatti viene assunta la premessa che entrambe le serie di entità (cioè sia gli uomini che si trovano tra di noi, sia gli uomini che sono in luoghi sconosciuti) hanno non so­ lo la proprietà comune di essere "uomini", ma anche con­ temporaneamente quella di essere "mortali".  8.5 RISPOSTA EPICUREA A FAVORE DELL'INDUZIONE L'assunzione nella premessa dello stesso carattere di "mortalità" che dovrà essere anche oggetto di inferenza è, per gli stoici, condicio sine qua non della necessità dell'infe­ renza. L'inferenza sarà valida, dunque, solo se totalmente analitica o tautologica. Vediamo ora l'argomentazione stoica contro l'induzione secondo il criterio definito L-implicazione. In questo secon­ do caso gli stoici propongono di riformulare l'inferenza epi­ curea di partenza in maniera tale che il carattere di "morta­ lità" da inferire sia contenuto nella definizione stessa di "uomo". Per esprimere l'idea che la parola luomol implicita semanticamente tutto un insieme di proprietà che una defi­ nizione metterebbe in luce, essi introducono le espressioni hii "in quanto" e kath6 "nella misura in cui". L'inferenza riformulata secondo questo principio assume la forma se­ guente: Dal momento che gli uomini tra di noi, in quanto (hi1) e nella misura in cui (kath6) sono uomini, sono mortali, anche in qual­ siasi altro luogo gli uomini sono mortali.ts in cui la semplice espressione l uomo l è data come implici­ tante la proprietà "mortale" da inferire. Gli stoici sostengono che l'attribuzione della proprietà di essere "mortale" a l uomo l, se avviene in qualsiasi altro modo diverso da questo, come appunto fanno gli epicurei, rende vana l'inferenza. 8.5 La risposta epicurea a favore dell'induzione La sostanza della replica epicurea è che il sistema stoico, per quanto appaia analitico e a priori, tuttavia poggia in ul­ tima analisi su una base induttiva. In realtà, secondo gli epicurei, la necessità della relazione inferenziale è costruita sull'osservazione di congiunzioni costanti. È a causa del fatto di non vedere mai il fumo senza il fuoco, né il moto senza la presenza del vuoto, che noi arriviamo a dire che il fumo è segno del fuoco e il moto segno del vuoto.16 Cosi è  190 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO su base empirica che viene stabilito il sistema di necessità lo­ gica a priori alla quale fanno ricorso gli stoici . Del resto, la stessa connessione necessaria tra due termini, espressa at­ traverso il test della contrapposizione, può essere verificata solo dopo che l'esperienza ha mostrato la costante congiun­ zione tra di essi. Come giustamente interpreta Estelle De Lacy (1938: 405), "le ipotesi sul livello logico e teoretico sono formulate sulla base di informazioni intorno alla connessione di termini da­ ti dali'osservazione deli'esperienza dei sensi. La validità di queste ipotesi, di conseguenza, dipende dalla loro corri­ spondenza con i fatti e dalla loro adeguatezza nel compren­ dere tali fatti, come pure dalla loro interna coerenza o com­ patibilità dell'uno con l'altra". Se questa è la sostanza della replica epicurea alle critiche stoiche sull'induzione, vale però anche la pena di analizzare la risposta specifica17 alla seconda critica stoica. Infatti, in relazione alla L-implicazione, gli epicurei, ribaltando l'ar­ gomento stoico, sollevano una questione interessante: la de­ finizione di uomo in quanto mortale è non il punto di par­ tenza di un'inferenza deduttiva, ma il punto di arrivo di ri­ petute inferenze induttive. In altre parole, si costruisce la definizione di uomo in quanto tale, come comprendente an­ che la proprietà di essere "mortale" in conseguenza di due serie di informazioni: (i) le informazioni che ci fornisce la storia sulle vite degli uomini che ci hanno preceduti; (ii) le informazioni che ci derivano dali'esperienza diretta dei no­ stri contemporanei. Così gli epicurei pongono l'equivalenza tra la proposizione: (a) "Gli uomini, in quanto uomini, sono mortali " (che è la formula suggerita dagli stoici, e che indica dedutti­ visticamente il fatto che nella nozione di "uomo" vi è com­ presa la proprietà "mortale"), e la proposizione: (b) "Gli uomini con questa proprietà (di essere mortali) sono uomini" PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 191 che è la formula epicurea, la quale suggerisce in qual modo venga costruita la definizione. In sostanza, gli epicurei sem­ brano sostenere che la definizione di "uomo" viene costrui­ ta mediante un'accumulazione di proprietà che sono rileva­ te mediante un metodo analogico in entità che sono9deno­ minate in un certo modo, in questo caso, luominil.1 8.6 Proprietà essenziali e proprietà accidentali Un altro interessante problema che emerge nella disputa tra stoici ed epicurei è quello della distinzione tra proprietà primarie e proprietà secondarie. Questa distinzione risale a Democrito, che è stato il primo a usarla (De Lacy 1938: 403). Il problema non è affatto banale e ancora oggi, in molte teorie semantiche, si ricorre a un'analoga distinzione. Gli epicurei affrontano l'argomento per rispondere a una critica stoica che attacca il metodo dell'analogia mostrando il rischio che si corre neli'applicarla a proprietà che non hanno tutte la stessa ripartizione o generalità. Infatti, so­ stengono gli stoici, allo stesso modo in cui viene universaliz­ zata la concomitanza osservata tra la proprietà "uomo" e la proprietà "mortale'', altrettanto potrebbe essere fatto per la concomitanza osservata tra "uomo" e "di breve vita": il ri­ schio è che, così facendo, si viene ad attribuire quest'ultima proprietà anche agli abitanti del monte Athos, che nell'anti­ chità erano proverbialmente considerati longevi.20 Proprio da questo tipo di critica gli epicurei sono spinti a elaborare una distinzione tra proprietà che sono variabili (cioè peculiari a certi individui) e proprietà che sono costan­ ti (cioè rintracciabili in ogni individuo). L'inferenza corret­ ta sarà quella che parte dalle proprietà costanti. Tuttavia, sostengono gli epicurei, la stessa presenza di proprietà va­ riabili, invece di indebolire la teoria dell'inferenza analogi­ ca, la rafforza: posto infatti che gli uomini conosciuti diffe­ riscono moltissimo rispetto alla lunghezza della vita (essen­ do alcuni di breve vita e altri longevi), diviene possibile, proprio sulla base dell'esistenza della variazione, fare cor­ rettamente l'inferenza che altrove esistano uomini di ecce-  192 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO zionale longevità, come lo sono appunto gli abitanti del monte Athos.21 Ma ciò che spinge gli epicurei ad andare ancora più a fon­ do su questa strada è l'attacco stoico a proposito di inferen... ze che hanno conseguenze sulla loro teoria metafisica. La provocazione stoica concerne la teoria degli atomi, che, nel­ la metafisica epicurea, hanno la proprietà di essere "incolo­ ri" e "indistruttibili"; però essi hanno anche la proprietà di essere "corpi", a cui, nell'esperienza, sono associate le pro­ prietà opposte (cioè "colorati" e "distruttibili"). Queste so­ no le due inferenze che, secondo gli stoici, gli epicurei do­ vrebbero fare, applicando correttamente il metodo analo­ gico: (l) "Dal momento che tutti i corpi della nostra esperienza hanno colore e anche gli atomi sono corpi, anche gli atomi hanno colore." (2) "Dal momento che tutti i corpi nella nostra esperienza sono distruttibili, e anche gli atomi sono corpi, gli atomi devono essere tutti distruttibili."22 La replica epicurea è molto interessante, per due motivi. In primo luogo, perché precisa ulteriormente la necessità di fare distinzioni tra proprietà a cui il metodo analogico si applica, e proprietà a cui non si applica; infatti il metodo agisce selettivamente sulle proprietà e non in modo ca­ suale.23 In secondo luogo, la replica epicurea è interessante per­ ché modula la precedente distinzione in termini teoricamen­ te più forti: essa diviene una distinzione in proprietà che possiamo definire essenziali e proprietà accidentali. Infatti gli epicurei parlano di certe proprietà che i corpi hanno pro­ prio "in quanto corpi" (hei somata), che essi mantengono in ogni occasione: prima fra tutte la proprietà di "opporre resistenza al tocco". Questa è dunque una proprietà essen­ ziale. Poi ci sono quelle proprietà che non sono strettamen­ te legate alla natura dei corpi e che possono variare a secon­ da delle condizioni: si tratta di proprietà accidentali, che i PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI corpi hanno "in quanto partecipano di una natura opposta a quella corporea e non resistente",24 come a esempio la di­ struttibilità o il colore, il quale ultimo è tanto accidentale che scompare nelle condizioni di buio. Possiamo schematizzare queste due serie di proprietà at­ traverso una tabella:   proprietè entitè corpi A B proprietè accidentali (in quanto partecipano di una nature opposta) ..distruttibilitè• ·colore•  (in quanto tali) ·resistenze al tocco· proprietè essenziali  Gli epicurei precisano molto chiaramente che le inferenze induttive generalizzanti non dovranno partire dalle proprie­ tà della colonna B; ma niente impedirà di fare inferenze ge­ neralizzanti, con il metodo dell'analogia, partendo dalle proprietà della colonna A.25 A conferma di questo schema si può riportare l'esempio del "fuoco'',26 per il quale, accanto alla proprietà essenziale di bruciare, viene elencata una serie di proprietà variabili peculiari ai vari tipi:  8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO proprietà essenziali proprietà accidentali (koin6ttes) (idi6ttes) ·di lunga o corta durata• ·non tutte le sostanze sono bruciate nello stesso modo· ·facili o difficili da spegnere · ·duri o teneri· •di colore variabile a seconda del combustibile· Nella sezione di Bromio27 viene anche prevista una specie di topica per individuare la ripartizione delle proprietà: in­ fatti, ai fini della correttezza delle inferenze, le proprietà es.. senziali (o comuni, koin6ttes) e quelle accidentali (o pecu­ liari, idiOttes) devono essere analizzate nei vari campi o ca­ tegorie che sono di pertinenza di un oggetto: nelle sostanze, nei poteri, nelle qualità, negli attributi, nelle disposizioni, nelle quantità, nei numeri. Lo scopo di questa topica appare essere quello di giustifi­ care inferenze universalizzanti ali'interno di categorie omo­ genee: infatti, a esempio, pur essendoci un'infinita varietà di esseri umani e di cibi che li nutrono, se si considera il fie­ no rispetto alla categoria dei "poteri", si troverà che esso ha due proprietà costanti: "di non nutrire gli esseri umani" e "di non essere digerito da essi".28 Perciò, al di là delle diverse caratteristiche che questo og­ getto potrà presentare (diversi colori, diversa consistenza, diverso grado di maturazione ecc.), potremo fare con sicu­ rezza l'inferenza che da nessuna parte si troverà del fieno che abbia la proprietà di nutrire gli uomini e di essere da lo­ ro digerito. Ma che cosa sono propriamente per gli epicurei quelle proprietà degli oggetti ''in quanto tali", che abbiamo defini­ to proprietà essenziali? Dai precedenti esempi (e da altri analoghi) appare chiaramente che esse sono, per loro, le - 194 propnettt r entità ! fuochi PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI  proprietà definitorie di un oggetto, cioè quelle che concor­ rono alla sua definizione essenziale. Abbiamo visto che per gli stoici una definizione viene co­ struita analiticamente, attraverso una ricognizione delle proprietà implicite nella nozione da definire: un individuo, in quanto è uomo, ha la proprietà di essere mortale. Per gli epicurei le cose vanno nel senso opposto. La defi­ nizione di una nozione viene costruita per accumulo delle proprietà comuni a certi individui. Di conseguenza, tra le proprietà comuni (o essenziali) rilevate empiricamente e le proprietà che fanno parte della definizione, non c'è diffe­ renza. Lo dimostra anche l'uso della particella hi ("in quanto") che viene utilizzata (come vedremo meglio più avanti) nelle espressioni definitorie. Rimane aperto il pro­ blema se sia possibile costruire empiricamente una defini­ zione annotando le proprietà comuni a una classe di ogget­ ti, o se il processo non sia in qualche maniera viziato (alme­ no in parte) proprio dalla preliminare esistenza di definizio­ ni che rimandano alla lingua come struttura globale interde­ finita e/o storicamente stratificata. Questa seconda ipotesi sembra in parte prospettarsi con la definizione di l uomo l . Per gli epicurei, infatti, la pro­ prietà "mortale'' è, come abbiamo visto, una proprietà es­ senziale o definitoria di l uomo l . Si deve però notare che es­ sa fa parte della definizione di l uomo l già in una lunga tra­ dizione che risale per lo meno ad Aristotele. Quest'ultimo definiva infatti l uomo l come "animale mortale provvisto di ragione" (Top., V, l, 128 b, 35-36). Gli stoici poi lo defi­ nivano come "animale razionale mortale" (Epictetus, Diss. II, 9, 2). La tradizione epicurea, infine, lo definiva come "mortale provvisto di sapienza pratica" (De signis, col. XXII, 22-24=cap. 37).29 È probabile, dunque, che definizioni di questo genere co­ stituissero un'implicita guida nella stessa ricognizione empi­ rica delle proprietà comuni a una serie di oggetti (gli uomini percepibili) analizzati in vista di un'inferenza al non perce­ pibile .  196 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.7 Modalità di inerenza delle proprietà essenziali ai soggetti Quando nel trattato di Filodemo si parla di proprietà co­ muni o essenziali, queste vengono congiunte al soggetto me­ diante le particelle héi, kath6, par6, che equivalgono nel si­ gnificato alle espressioni italiane "in quanto", ''nella misura in cui". Esse vengono a indicare una condizione restrittiva nell'inferenza al non percepibile, come abbiamo visto nel­ l'esempio della natura degli atomi come "corpi in quanto tali", o degli uomini come mortali "nella misura in cui sono uomini". Nella sezione di Demetrio sono elencate quattro accezioni fondamentali di queste particelle, che rimandano a quattro modi di inerenza delle proprietà ai soggetti: (i) Secondo la prima accezione, le proprietà possono es­ sere viste come conseguenze necessarie (ex ananks synépe­ tar): come esempio di conseguenza necessaria del fatto di essere uomini, sono riportati i fatti di avere un corpo e di essere soggetti alla malattia e alla vecchiaia.3° Con questo esempio l'autore sembra individuare un tipo di proprietà che in certe semantiche contemporanee sono chiamate fat­ tuali o sintetiche3 1 o proprietà secondo il modo 1r). 32 (ii) Nella seconda accezione, le proprietà sono individua­ te come essenziali alla definizione o alla concezione fonda­ mentale (prolessi)33 di un certo oggetto. Questo si verifica a esempio con espressioni del tipo: "I corpi, in quanto corpi, hanno volume e resistenza", o come: "L'uomo, in quanto uomo, è un animale razionale''. In questo caso il rapporto sembra essere di tipo equativo: l'estensione del primo termi­ ne viene a coincidere con quella del secondo. Nel caso del­ l'esempio di l uomo l, l'equivalenza definizionale viene data in termini di genere ("animale"), più differenza specifica ("razionale"). (iii) Secondo la terza accezione, certe proprietà sono vi­ ste come sempre concomitanti (synbebekénar), come nell'e­ sempio: "L'uomo nella misura in cui è uomo, muore". L'autore sembra individuare qui delle proprietà che nelle teorie contemporanee sono state definite semantiche, anali­ tiche o proprietà secondo il modo E : "uomo,, infatti, è in­ cluso nella classe più vasta di "mortale". Quest'ultima, poi, ritorna sotto forma di marca semantica a comporre il seme­ ma corrispondente al termine l uomo l . (iv) La definizione della quarta accezione è perduta in una lacuna, ma essa può essere ricostruita dagli esempi che il testo ha conservato: "L'uomo, nella misura in cui è folle, è massimamente infelice,, "Un coltello taglia nella misura in cui è affilato", "Gli atomi, nella misura in cui sono soli­ di, sono indistruttibili", "Un corpo, nella misura in cui ha peso, cade verso il basso". Marquand (1883: 125) interpreta questi come esempi di proprietà che implicano gradazioni o proporzione. I De Lacy (1978: 125) fanno invece la conget­ tura che si tratti di proprietà delle proprietà. Certi di questi esempi farebbero pensare al rapporto se­ miotico della connotazione, inteso come significato che si appoggia su un altro significato e che comunque è fissato da un codice. Si possono schematizzare i quattro modi in cui le proprie­ tà ineriscono al soggetto, · sia secondo l'interpretazione di Marquand, sia secondo quella della semiotica contempora­ nea (cfr. p. 198). 8.8 Conclusioni Se gli stoici avevano fornito alla semiotica una solida im­ palcatura logica, gli epicurei arricchiscono la problematica del segno mediante una serie di specificazioni destinate ad avere valore operativo nella ricerca concreta ed effettiva. Abbiamo già visto le distinzioni tra i tipi di segno, i tipi di proprietà, i modi di inerenza delle proprietà ai soggetti. Ol­ tre a questi temi gli epicurei affrontano anche il problema della gamma di variazione a cui i fenomeni sono sottoposti e quello dei limiti di tale variazione, come condizione per fare inferenze corrette. Infatti ammettono l'esistenza di proprietà che variano da individuo a individuo, ma negano  198 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO semiotica contemporanea   Marquand conseguenza  1. 2. concezione estensionalmente necessaria definizione o proprietè fattuali o sintetiche  essenziale (protessi ) proprietà equivalenti al soggetto  3. concomitanza proprietà semantiche o analitiche  4. gradazione o connotazioni proporzione codificate che nei fenomeni non percepibili la gamma di variazione sia illimitata e che comunque superi i confini della variazione osservabile nei fenomeni conosciuti. Così non si potrà infe­ rire che gli uomini fuori dalla nostra esperienza siano tanto resistenti da essere invulnerabili, oppure che essi siano fatti di ferro, o che passino attraverso le pareti, come quelli co­ nosciuti passano attraverso l'aria. La giustificazione di que­ sto fatto viene data dal metodo deli'inconcepibilità: "è in­ concepibile che ci sia un ogetto che non abbia niente in co­ mune con ciò che appare". 5 Nel De signis vengono anche affrontati i problemi con­ nessi ai vari tipi di inferenza: da classe a classe; da oggetti identici ; da casi rari ; da casi unici . Tutti questi problemi so­ no collegati a un tema che è costante nella semiotica epicurea: quello delle garanzie di validità di un'inferenza. A esempio, un'inferenza scorretta è quella che porta a concludere che tutti gli uomini sono bianchi, partendo dal­ l'osservazione che gli uomini greci lo sono, o che, al contra­ rio, porta a concludere che tutti gli uomini sono neri, par­ tendo dali'osservazione che gli Etiopi sono tali. In effetti, simili inferenze sono errate perché non sono frutto di "una accurata supervisione di tutti i casi percepibili".36 Ciò che, dal punto di vista logico, avviene in casi di questo genere è che si tenta di applicare ali'intera classe o genere (quello de­ gli "uomini") una proprietà che di volta in volta è caratteri­ stica di una sottoclasse o specie (quella dei "Greci" o, ri­ spettivamente, quella degli "Etiopi"). In effetti, per garantire il massimo di sicurezza, gli epicu­ rei pongono alla base del loro metodo per costruire inferen­ ze una teoria della progressiva inclusione semantica tra in­ dividui, specie e generi, cioè una teoria delle classi. È infatti legittimo fare inferenze tra membri (classi o in­ dividui particolari) i quali si situino a un livello analogo o che siano il più possibile vicini e simili. Naturalmente que­ sto non significa che l'inferenza debba essere fatta esclusi­ vamente tra membri che si situano esattamente allo stesso livello, altrimenti l'induzione perderebbe molta della sua forza, ma nella maggior parte dei casi viene previsto un mo­ vimento ascendente di generalizzazione.37 Una teoria delle classi è implicita anche nella trattazione epicurea dei casi unici, elaborata ancora una volta in rispo­ sta a una critica stoica. In effetti gli stoici avevano tentato di attaccare il metodo deli'analogia ricorrendo ali'argomen­ to deli'esistenza in natura di casi unici, che non presentano analogia con alcun altro fenomeno: a esempio, in mezzo al­ la stragrande quantità di pietre che esistono nella nostra esperienza, ce n'è una sola, il magnete, che è capace di atti­ rare il ferro; ugualmente, solo l'ambra ha la proprietà di at­ tirare la paglia; infine, non c'è che il quadrato che misura 4 di lato che ha il perimetro e l'area espressi dallo stesso nu­ mero.38 Secondo gli epicurei, però, le critiche degli stoici, invece di inficiare l'inferenza analogica, in realtà la rafforzano.  200 8. IL «DE SIGNIS» DI Fll.ODEMO Per dimostrare questo, gli epicurei ricorrono al metodo di ridurre ad altrettante classi gli oggetti unici. Così, essi dico­ no, se alcuni magneti attirassero il ferro e altri no, l'inferen­ za per analogia sarebbe inficiata; ma poiché così non avvie­ ne, è possibile inferire le proprietà degli altri magneti a par­ tire dal magnete che cade sotto la nostra percezione.39 Molti ancora sarebbero i punti particolari da prendere in considerazione, per mostrare il modo con cui gli epicurei tentano di dettagliare la teoria del segno. Ma quello che in definitiva caratterizza la semiotica epi­ curea è il suo richiamo a un completo programma empirista (che era condiviso, tra l'altro, anche dai medici empirici). Tale programma comprende tre tappe fondamentali: os­servazione; storia; inferenza da simile a simile. I pri­ mi due momenti del programma permettono di individuare le "proprietà essenziali", e quindi di passare al terzo mo­ mento, che è quello della ricostruzione del processo semioti­ co vero e proprio. Nei primi due momenti, infatti, vengono suggerite delle condizioni sui fenomeni da osservare per ottenere le pro­ prietà costanti: essi devono essere "molti", devono essere diversi tra di loro (''vari") e, contemporaneamente, devono essere "omogenei".40 Il terzo momento, infine, combina le proprietà deli'enciclopedia semantica con le leggi della logi­ ca (che per gli epicurei sono quelle della logica delle classi). In questo compromesso, appunto, tra i concreti suggeri­ menti in vista della produttività empirica e il tentativo di mantenere il massimo rigore formale deve essere individua­ ta l'originalità della proposta epicurea.  RETORICA LATINA. L'interesse per la problematica semiotica nel mondo ro­ mano fa parte di quel processo di costante e progressiva ac­ quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel III secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro­ mano, il paradigma semiotico abbandona il campo della fi­ losofia in senso stretto, per installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia la conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica, una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto­ partizione della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del paradigma se­ miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de­ stinato a essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi conto, nel modo più chiaro, del cambiamen­ to di prospettiva, basta mettere a confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei riguardi della retori­ ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei segni; ma, come era già avve-  202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella dei tipi di sillogismo. Cosi fa­ cendo, aveva indicato un percorso ben preciso: la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de­ vono rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte­ resse si sposta, come nel caso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni referenziali a quelli efficaci . In Cicerone, e in genere nella trattatistica retorica roma­ na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori­ ca non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al contrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui scopo è quello di contri­ buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è l'elo­ quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del De oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia­ ramente l'opinione di Cicerone circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma non di produrne. In effetti, per Cicerone la retorica costituisce il "corona­ mento" della filosofia, dalla quale non può essere dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec­ nica capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen­ siero già formato. Come mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in Cicerone agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente bene se non quando si parla ve­ ramente bene. Tuttavia la retorica, indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra che essa è organiz­ zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di di­ scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del­ l'assemblea (politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri­ cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che  9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or­ nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita­ zione del discorso: gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si inseriscono nel pro­ gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro­ gramma è il commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio o sulla sua forza proba­ toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia, come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare l'espressione "prova" per indicare le probationes (pf­steis) retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno­ tazione scientifica la cui assenza appunto definisce le "pro­ ve" retoriche. Tuttavia, un merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di dare una classifi­ cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni autore ha assolto in ma­ niera particolare, proponendo una classificazione che non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li­ nee secondo le quali i tre grandi autori della trattatistica re­ torica romana, cioè Cornificio (autore della Rhetorica ad Herennium), Cicerone e Quintiliano, ricostruiscono nelle rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia­ scuno secondo diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium, attribuita un tempo a Cicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi asse­ gnata a Cornificio (Calboli: 1969).  204 9. RETORICA LATINA La problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della constitutio coniecturalis dove, per verifica­ re se sia stata commessa o no una determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col­ pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret­ tamente a cui i segni devono rimandare non è il fatto o rea­ to, che è ovviamente noto, ma l'agente responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da una intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti­ pico procedimento diairetico, suddivide lo stato congettura­ le in sei parti, sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto), signum (pro­ cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio (conseguenza), adprobatio (conferma). La probabilità Troviamo qui una terminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la trasposizione la­ tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so-  9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi dalle corrispondenti nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi­ nizione nella quale non rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è connessa alla caratteriz­ zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se [l'accu­ satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem­ pre stato avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di "movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione (del crimine)" (II, 6). Non ritro­ viamo nemmeno qui la nozione greca di smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia­ ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico­ struire il fatto scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di por­ tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la sua definizione non è ancora molto elo­ quente ("Argumentum è ciò attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e con un so­ spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe­ nomeno percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile  206 9. RETORICA LATINA direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per gonfiore o lividezza, significa che è stato uc­ ciso da una dose di veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è stato visto sul luogo del delit­ to, significa che egli è colpevole (ibidem) ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione al rapporto temporale (anteriorità, con­ temporaneità, posteriorità) che si instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che risale al­ la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori­ ca ad Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di consecutio, che Calboli (1969: 232) mette in relazione ai sjmptoma della terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa) che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia arrossito, sia impallidito, ab­ bia titubato, sia caduto in contraddizione, si sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi­ che non controllabili, dei segni involontari che possono ve­ nire messi in relazione, in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di colpa). Questi se­ gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe­ rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca­ to difensore può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è turbato per la gravità del pe­ ricolo e non per la coscienza della colpa; d'altro canto, l'ac­ cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento "segno di sicurezza, non d'inno­ cenza" (ibidem).  probabile causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio - spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio - praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207 9. 1 .5 La classificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il procedimento indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari li­ velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e possibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar­ gumenta: essi mettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è quella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal comportamen­ to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes­ sivo rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il se­ guente schema (Curcio 1900):  - locus - tempus - spatium - consequens   Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli­ ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non saldamente fondata. Tuttavia, con­ temporaneamente, appare molto più aderente alla materia instans conscientiae - signe  confidentiae - signa  innocentiae  208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non priva di una logica inter­ na nel suo seguire i segni deli'imputato in un percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro­ cesso . Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se­ gni, quando propone di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo proposito, nota che ci so­ no dei segni che non garantiscono nessuna certezza come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché, a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu­ ta, ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran numero ("se però vi si aggiungono an­ che tutti gli altri, tali segni hanno un certo peso per accre­ scere il sospetto", ibidem). 9.2 Cicerone Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se­ gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­ to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so­ cio-politico, volta a definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut­ to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio­ nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­ pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­ rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con­ densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro­ vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­ tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im­ pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi­ zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi­ noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice­ rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­ pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar­ gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in . un mo­ do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili­ ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon­ strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­ vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­ lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae­ rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar­ tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi­ le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi­ le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite­ ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­ za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­ stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri­ vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo­ lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio­ nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio­ ni, come dimostra il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo­ sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu­ rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa­ mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati  212 9. RETORICA LATINA argumentatio  necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat, quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio   --- --- -  l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­ lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut­ tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­ digma divinatorio all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati.  9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin­ seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau­ sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­ sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili­ stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­ me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi­ dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman­ da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari­ stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat­ tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­ gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali  214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte­ ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor­ nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­ goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i smefa da un punto di vista episte­ mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico­ noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero­ niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­ zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­ mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza­ inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l ----- verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­ rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di­ vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­ gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole­ micamente rileva (De div., II, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­ sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­ verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­ vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­ tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­ losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora­ neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica.  216 9. RETORICA LATINA Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo­ rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste­ nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­ te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­ nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­ cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia­ listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­ preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in­ terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­ se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div., I, 125-127).  9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­ nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri­ patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­ minati, De div., II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi­ nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se­ gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro­ fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­ pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­ sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). QUINTILIANO Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div.); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div.);  l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­ cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra­ gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re­ torica divenisse inutilizzabile come mezzo di agitazione po­ litica e sociale: per questo, da strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita Cicerone, era divenuta so­ prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui che espone i principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa di chiunque altro e contemporanea­ mente registra il processo di cadaverizzazione che l'elo­ quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria tratta un programma completo del ciclo educativo del perfetto orato­ re, in cui la competenza semiotica ha una posizione di rilie­ vo. Gran parte degli elementi che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio­ tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci­ ficamente dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica. Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri­ flessione sul segno è saldamente inquadrata all'interno del­ l'ottica giuridica con cui viene trattata la materia. I segni in­ fatti fanno parte delle probationes artificiales, cioè delle RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars) dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato. D'altro canto, le pro­ bationes inartificiales sono quegli elementi che derivano dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al suo dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1 Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove)  i n artificial tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta, quaesita ( inter­ rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rt i f i c i s l e s  formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a inquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è stato rilevato che Quinti­ liano non si trova del tutto a suo agio in questo campo) (Kennedy). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta, exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo­ giche vicine al genere deli'implicazione, ovvero del rappor­ to "se p, allora q". Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto) argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed epistemologico QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere una forma logica che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse­ re una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È giorno, dun­ que non è notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno"); (iii) il concludere dal non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst. or., V, 8, 7). Analizzati ali'interno di questa griglia, i segni tendono a configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti; nozione, questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto attinta direttamen­ te dalla tradizione della retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti anche molti esem­ pi, tra cui l'ormai celebre "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo", che, più o meno variato, ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante riferimento, Quintilia­ no è orientato verso un'ottica epistemologica, piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi­ bilità di acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo proposito: "Aristotele, inte­ ressato ad argomentazioni che in qualche modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti, poneva distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se­ gni deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza, evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte­ ressato alle reazioni di un'udienza forense, a cercare di giu­ stificare, secondo una gerarchia di validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura risulti 'persua­ sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa, Quintilia­ no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le grida o i livori non vengono esco­ gitati dali'arte deli'oratore, ma gli vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se esi rimandano a un significato inequi- RETORICA LATINA vocabile, scompare la possibilità di argomentazione; se, in­ vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma necessita­ no essi stessi di prove (lnst. or.). Per questa ragione i segni devono essere divisi innanzitut­ to in necessari e non necessari. I segni necessari l signa necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano, "aliter se habere non possunt" (lnst. or., V, 9, 3), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e vengono messi in corrispondenza con i tekmria della tradizione greca. Si tratta di segni insolubili (alyta smefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguen­ ti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti­ bile . La furia classificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma­ re, si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti­ po di classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in "Se cammina, si muove", "Se ha partori­ to, si è unita con un uomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta la messe, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or., V, 9, 7). Quintilia­ no sembra sollevare qui il problema della "conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr., 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico segno di un'unica cosa".  QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri­ spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se­ condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto convincen­ ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce­ neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base al­ l'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con­ seguente: firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i propri fi­ gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re­ pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos­ sono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre­ sentino in gran numero avvalorandosi a vicenda (lnst. or., V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signum senza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia con il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga considerato una categoria autonoma rispetto alle due prece­ denti (segni necessari e verisimiglianze), come del resto av­ veniva nella fonte aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione vestigium e ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire l'uccisione, spinge a stabilire un parallelo con i vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice­ roniane, dove compariva lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9), sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria (quella dci signa non necessa­ ria == eik6ta) venivano classificati fatti o proprictfi che forni­ vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente sicuro che arriverà a domani); nella cate­ goria dei signa sono classificati fatti che sono insicuri per­ ché ambigui (una macchia di sangue su una veste può ri­ mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare del sangue di una vitti1na durante un sacrifi­ cio). La classificazione, allora, dovrebbe essere così formu­ lata: necessaria relazione necessaria tra a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo· l ------- signa  non necssaria verisimiglianze non conva!idabili scienti­ ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se macchia di sangue, allora omi­ cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di verisimiglianza (e non si­ gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora e che  9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma non necessari, Er­ magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti­ liano ha una certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto deboli come elementi pro­ banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo come se­ gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la condizione tipica della semiotica giuridi­ ca, in perenne dialettica tra la forza oggettivamente proba­ toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica semiotica generale, non c'è al­ cun problema a considerare come segni "tutte le conseguen­ ze che si traggono da un fatto". Le proprietà che l'enciclo­ pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente intuito dalla retori­ ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer­ tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura­ li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco­ mandando, nel secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin­ guaggio Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di lin­ guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica: in esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi­ pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra­ verso segni (Simone). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia­ na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco­ gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so­ prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri­ ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene­ rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro). STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e­ nunciato il punto di congiunzione tra il significante (semaf­ non) e il significato (semain6menon), elemento che comun­ que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve­ ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui significante e signifi­ cato si fondono, e considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda­ to che le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si­ gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si­ gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro­ le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si­ gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter­ minologie& È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con­ cetti di significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio­ ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo luo-  228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita come un og­ getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op­ pure che sfugge alla percezione (De dialect., cap. V). È così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se­ guenti termini: dicibile  vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi­ cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi­ sione terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve­ nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co­ me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva­ to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si­ gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por­ tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui­ stici antichi. RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa­ to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al­ tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo­ sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen­ so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e­ nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet­ tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi­ bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet­ tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im­ plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag­ gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es­ senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe­ raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela­ zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio-  230 10. AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio­ ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti­ no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte­ nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri­ guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag­ gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin­ guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta­ zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin­ via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra­ ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale:  onIE=>c  m_E:! c dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic­ tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u­ nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al­ tro (livello ii).   10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI Conseguenze dell'unificazione delle prospet­ tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co­ me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro­ varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in­ fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma­ na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili­ tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun­ que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui­ stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec­ cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per­ dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri­ stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia­ lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto­ ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce­ pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di­ rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co­ se di cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen­ za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag­ gio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle co­ se che significa. Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemo­rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con­ temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in­ sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca­ si: il primo caso è quello in cui il locutore produce un se­ gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il ri­ ferimento ai "copricapr', che essa effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife­ risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno  COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono­ scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co­ noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co­ sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es­ sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual­ mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag.). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi­ li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive­ lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga­ ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi­ mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, ci spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte­ riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani­ mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter  234 10. AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan­ do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio­ ne dei destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è determinato dalle im­ pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni del simbolismo univer­ sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia­ rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia­ na, che è individuabile anche nello schema riassuntivo pro­ posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore pensato proferito sa pere    10.6 Le classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologia agostiniana presenta un aspet­ to "teologico", connesso al problema del verbo divino, tut­ tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet­ to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana,  l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio­ nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni conven­ zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra­ slato secondo la natura del designato: segno/cosa LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se­ gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel­ lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene­ ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica­ zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber­ nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu­ sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può osser­ vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb­ bero comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca­ te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge­ nere a specie quando definisce la relazione tra nome e paro­ la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e includen­ do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag., 4.9).  genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME -- segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze  ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti     nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)   SIGNIFICANTE delle .. AES"  LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa" La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co­ me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as­ sumere come segno una res che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ., I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo, cosciente del­ la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ., l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran­ sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual­ cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi­ cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun­ te con funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose, Ago­ stino propone questa definizione di segno nel De doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro".  238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui­ re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se­ gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce­ zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al­ tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel­ li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi­ cali, come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio­ ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester­ nare" (Dedoctr. Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban­ diere e le insegne militari, le lettere. LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi in considerazione i segni che riguar­ dano altri sensi, come l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca­ ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri­ sto e fu guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data" Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si­ gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano, inintenzionalmente, irrita­ zione o gioia . Dopo averli definiti, Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente interessato ai signa data, in quan­ to a questa categoria appartengono anche i segni della Sa­ cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e pensano" (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici umani (le pa­ role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe an­ che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i segni natu­ rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva "naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono i "segni convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del resto era sta­ to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na  240 10. AGOSTINO ben precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que­ sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrisponden­ za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si può stabi­ lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat­ tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce­ zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi­ tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag., III e VII). Questa concezione del significato si rende possibile sol­ tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago­ stiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato.  SEMIOSI ILLIMITATA L'indagine comincia da l si l, di cui si riconosce che espri­ me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli­ neato che non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si passa, poi, a lni­ hi/1, il cui significato viene individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa­ rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe­ rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica contestuale: il termine può esprimere separa­ zione rispetto a qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso virgiliano; oppu­ re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so­ no alcuni negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco (una se­ rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di­ versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto al modello istruzio­ nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è proprio grazie ali'assunzione generalizza­ ta del modello implicazionale che la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni semiolingui­ stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in generale, è possibile, però, rilevare una connes­ sione storicamente documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti­ colare del segno. A esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C. la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona (1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che "la scrittura cu­ neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3 Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu­ rioso notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios (''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era­ clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi, come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca­ pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero (1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio.  Si potevano contare oltre cento oracoli per tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti tavolette. Infatti da un'analisi del vocabolario dell'azione oracolare compiuta da Crahay  risulta che alcuni vocaboli presentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo con segni") e l'ag­ gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio­ ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera un confronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr . anche //., I I I, 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso del­ l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica­ tes it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio è totale e simul­ tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole. Tuttavia agli uo­ mini egli concede, invece, solo la frammentazione della parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo­ gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro che la sapienza vista dal­ l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry per la presenza di possibili procedi­ menti anche di cleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca­ sualità ed essere sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av­ veniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per una disamina generale e approfondita dei vari ti­ pi di divinazione i testi basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8 "Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini tecnici designanti par­ ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer­ to numero di iscrizioni epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr. Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come vedremo  NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine, l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine "modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di prospetti­ va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco. Pur­ troppo non è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si­ gnificante e significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi­ stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem­ brato appropriato definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen., VI): la sa­ cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso su delle foglie, se­ guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo­ glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi antitetici della li­ ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco, quella maligna e deva­ stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Per una nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel mondo antico, si veda Detienne. In particolare, sulla concezione di a/theia come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne. D'ora in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente, per una documentazione completa sulla medicina gre­ ca, dovrebbero essere prese in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso che stiamo svolgendo . Rimandia­ mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo  246 NOTE 3 Si possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter­ ne, il libro II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar­ caica del trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della medicina (Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me­ todologici della medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi ri­ sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460 e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà del V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967: 78). 6 Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati­ ca non arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ci atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal­ volta apportandovi delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita una distin­ zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai verbi di "dire", con il significato di "pubblicamente ", anziché con un si­ gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate avviene nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella testa, Le articola­ zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.). 10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri­ calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi pro­ cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds (1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr. it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di sfug­ gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del =  NOTE 247 trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol­ /ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do­ vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen­ do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti. 1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son­ no di cui parla Platone nel Timeo e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di­ vinatione per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco (1975: 295): per "omoma­ tericità" si intende il fenomeno per cui "l'oggetto, visto come pura espres­ sione, è fatto della stessa materia del suo possibile referente. Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983). 17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18 Sull'abduzione si vedano Thagard; Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco. Di Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi­ cina greca e quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be­ nedetto-Lami (1983). 2° Cfr. Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione, cfr. Conte. Cfr. Hjelmslev. Cfr. Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet., Cfr. Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Cfr.Arist., De int.,16a; An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa nozione cfr. Di Cesare. s Cfr. Eco. Cfr. Heinimann. 7 Cfr. Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quanto nebulosamente, il tema della doppia articola­ zione del linguaggio umano, che verrà poi sviluppato in epoca contempo­ ranea da André Martinet (1960). 9 Anche se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica (1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti­ mema come sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici  248 NOTE (Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi­ smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente "neces­ sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non necessario" (mè anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e la stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12 Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote­ le così commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi­ smo che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu­ tabile (ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta­ no come si è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a, 34-37). 1 Dei segni quello necessario è la prova, quello non necessario non ha un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie­ ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé­ ras Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttavia segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di­ stinzione tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le Blond. Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Cfr. Arist., An. Post., II, 98 b, 25-30. È del resto sulla base delle immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka­ talptikaì phantasfai, che viene basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono il caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi­ gnucci; Sandbach; "The crite­ rion of truth" di Rist. Cfr. anche Sext. Emp., A dv. Math. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo /éghein.  6 Cfr. Diog. Lart., Vitae, VII, 51; Long Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9 Cfr. Diog. Lart., Vitae, Vll, NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che, come sostiene Diogene Laerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici distinguevano tra il "proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, la traduzione "what is said" rispetto a quella propo­ sta da Mates e dai Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene­ rale e permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione, risalente al Crati­ lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come "'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr. Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in completi e incompleti; cia­ scuno dei due tipi dava luogo a una sottoclassificazione, anche molto com­ plessa, che non prenderemo qui in considerazione; si veda a questo propo­sito Mates. 63. 1° Cfr. Mates (1953: 1 1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi­ ficato delle parole e avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intension di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier. 13 Cfr. Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la fornisce Sesto (A dv. Math., VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe altre sono false". Sul problema del criterio di verità, cfr. Rist (1969: 133-151); Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1 Cfr. Platone, Th., 190 a (206 d); Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso interno" (endiathetos /6gos), a differenza delle espressioni emesse materialment (prophorikòs 16gos), è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math., VIII, 275-276): "(Gli stoici) dicono che l'uomo differisce da­ gli animali irrazionali a causa del discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze pronunciano suoni arti­ colati"; cfr. anche Pohlenz (1959, 1: 61-62). trattazione di Conte (1972: XXXV), curatore dcll'edizione italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in quanto al genere è, a quel che pa-  250 NOTE re, un segno"; cfr. anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese, è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 156. Al di là del carattere pole­ mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando "medici" e "fi­ losofi", fissa i due punti estremi di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale interesse da parte dei medici (come, poi, di­ mostrano anche i numerosi esempi di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 . 34 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251. 11 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in consi­ derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto sembra avere un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale (1962) e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una successione cronologica e teo­ rica. "2 Cfr. Phil., De signis, XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco, sono messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276; 287.  Cfr. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le médecin de cet organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de prophète, un de­ vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe". 46 Cfr. Cic., De divinatione, I, 125-127.  49 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., 309. CAPITOLO 7. NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv. Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180: "D'altronde anche la dimo­ strazione è, in linea generale, un segno, giacché essa è considerata come di­ svelatrice della conclusione". 1 Il testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il prossimo capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic., EpistulaadHerodo­ tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi K.D.), XXIV. 3 Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33; Epic., Nat., XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971 b: 1 14) sostiene che un simile rap­ porto tra linguaggio e pro/essi è presupposto anche nella Ep. Hdt., 37-38.  Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Pyth., Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr. Epic., Ep. Hdt., 48. 1" Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt., 38) e prende la forma dell'induzione nella teoria epicurea. Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, non direttamente attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. 18 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il criterio della "non incompa­ tibilità" con i fatti conosciuti è centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo­ tem, 1119f. 22 Si deve segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe-  252 NOTE cifico del "significato" in termini intensionali. 23 Cfr. Sedley (1973: 17-18); il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti. Come veniva evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate. Cfr. capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d, 435 c; cfr. Sedley. La data di composizione del trattato, che è controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il titolo greco, essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget­ tura di T. Gompers; altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella sua versione latina De signis; cfr. De Lacy. Nella prima sezione vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella seconda viene esposta la versione di Bromio del­ l'enumerazione e confutazione di Zenone degli argomenti contro l'inferen­ za empirica; nella terza viene riportata l'enumerazione di Demetrio di La­ conia degli errori comuni degli antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda lista degli errori degli oppositori, è anoni­ ma, ma, con molta probabilità, è anch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand; Deledalle.  Cfr. Phil., Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13). Il riferimentobi­ bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco del papiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy. 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45, e col. XXXVII, 12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9 Cfr. col. I, 12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980: 140), del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale sembra riproporre, in epoca contem­ poranea, una tematica simile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og­ getto che essa denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef­ fettivamente, sia che non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19.  NOTE 12 Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. Cfr. col. II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8= cap. 5. 1Cfr. col. III, 30-34 = cap. 6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 = capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18 Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai "dogmatici" sul problema della defini­ zione come combinazione di attributi, a esempio "animale", "mortale", "ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico, Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 = cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli. XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll. XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col. XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda antichità le de­ finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac. Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale mortale, provvisto di intelli­ genza e razionalità" (Adv. Math., VII, 269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18 Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=Cfr.coli.XX,32-XXI,3= cap.35. coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe p. (1970: 100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 = cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52. XXI, 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47. XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1 A questo proposito Cicerone parla di "regolarità della ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div., I l, 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in due sen­ si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa­ rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co­ me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola [di­ cibile]". La dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo­ sizionali, come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s et leur logique, Actes du Colloque de Chan­ tilly, Vrin, Paris Al, D.J. The Philosophy ofAristotle, Oxford, Ox­ ford (tr. it. La filosofia di Aristotele, Lampugnani Nigri, Milano, AMANDRY, La mantique apollinienne à Delphes. E5sai sur lefonction­ nement de roracle, Thèse (Bibliotèque des Écoles Françai­ ses de Athènes et de Rome), Paris Oracles, littérature et politique", in Revue des études an­ ciennes, 61, 1-2, pp. 400-413 AllENs, H. (ed.) 1984 Aristotle's Theory of Language and Its Tradition. Texts from 500 to l750, Benjamins, Amsterdam-Philadel­ phia AlusTOTELE Opere. I. Organon (trad. di G. Colli), Einaudi, Torino ARluGHEITI, Epicuro. 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Luigi Speranza -- Grice e Contri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del Napoleone di Hegel – scuola di Cazzano di Tramgina – filosofia veronese – filosofia veneta --filosofia italiana – Luigi Speranza (Cazzano di Tramigna). Filosofo veronese. Filosofo Veneto. Cazzano di Tramigna, Verona, Veneto. Grice: “I like Contri – he reminds me of my days at Rossall! Of course Contri is interested in Hegel – “a la ricerca del segreto sofisma di Hegel” – and attempts to reveal it as Stirling never could! But Contri is also interested in ‘il bello’ – being an Italian! – The interesting thing is that he goes back to Italy – Aquino! He has a good exploration on ‘verum’ in Aquino, too, which reminds me of Bristol, Revisited!” Allievo di Zamboni, elabora una minuziosa critica alla logica di Hegel di cui mise in rilievo le incongruenze gnoseologiche e metodologiche che portano alla errata concezione hegeliana della realtà come vita dell'idea. Rovesciando l'immanentismo hegeliano, scopre un mondo di realtà sviluppando una concezione di filosofia della storia che denomina “storiosofia”.  Studia a Verona. Si laurea a Padova. Discepolo fervente di Zamboni, di cui accolse e sostenne la dottrina della gnoseologia pura. In alcune occasioni si descrisse come elaboratore in contemporanea al suo maestro Zamboni di alcune teorie, collegate all’estetica ma non solo. Insegna a Bologna. Zamboni fu espulso dall'Università Cattolica con la motivazione di allontanamento dalla ortodossia tomistica e con accusa di non conformità al Magistero della Dottrina Cattolica Romana. C. definì la posizione della Cattolica con il termine da lui coniato di “archeo-scolastica”. La posizione “archeo-scolastica” della Cattolica di Milano, di una conoscenza indimostrata, a priori, dell’essere e degl’esseri era bersaglio di critiche da parte di filosofi cristiani e non che la ritenevano inadeguata nell’ambito del pensiero moderno. Contri sostenne che la dimostrazione della conoscenza dell’essere e degl’esseri data dalla Gnoseologia Pura di Zamboni superava definitivamente tali critiche e ridava certezza dimostrata della conoscenza e dell’esistenza di Dio. Accusa di plagio Gemelli per aver pubblicato nella monografia Il mio contributo alla filosofia neoscolastica (Milano) pagine già scritte da Mercier e Wulf, senza indicare le citazioni. Gemelli diede le dimissioni da Rettore della Università Cattolica ma rimase in carica. Insegna Bologna. Il prof. Ferdinando Napoli, Generale dei Barnabiti, cultore di scienze naturali, venne depennato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, allora presieduta dal Gemelli. Venne dato ordine di non pubblicare articoli a firma di C.. Continuando la difesa della dottrina di Zamboni, fondò la rivista quadrimestrale di polemica e di dottrina neoscolastica “Criterion”. Il confronto con l’Università Cattolica di Milano continuò negli anni successivi con relazioni a numerosi congressi di cui C. da resoconto sulla rivista. Insegna a Ivrea. Sulla rivista Criterion apparvero intanto i saggi del C. sui suoi studi hegeliani che prelusero all'opera definitiva dLa Genesi fenomenologica della Logica hegeliana. Partecipa attivamente agli organi culturali del fascismo. Sscrisse su giornali quali Il Secolo Fascista, Quadrivio, Il Regime Fascista, Il meridiano di Roma e La Crociata Italica. Contri si avvalse della tribuna offerta da queste testate per promuovere i suoi studi filosofici e critica filosoficamente l’ ebraismo di Spinoza, di Durkheim e di Bergson. Insegna a Milano e tenne conferenze su studi hegeliani. Sorse una disputa con Zamboni in seguito all'articolo Il campo della gnoseologia, il campo della storiosofia, in risposta alla pubblicazione del Contri Dallo storicismo alla storiosofia. Prese parte attiva a congressi tomistici internazionali e a congressi rosminiani.  Partecipa attivamente alla “Missione di Milano”, lanciata dall’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini.  Come riconoscimenti ai suoi studi conseguì alcuni premi fra i quali uno indetto dall'Angelicum sul tema “Quid est veritas”, e una segnalazione all'Accademia dei Lincei per l'opera: Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, Milano, LSU. Discepolo e geniale continuatore di Zamboni. Così potrebbe definire la situazione filosofica di oggi. Il mondo del pensiero, perduta la bussola non teologica d'orientamento, è costituito da una miriade di metafisiche che cozzano le une contro le altre tanto da definirsi che heghelianicamente come il divenire in sè, che è puro fenomenismo. A tale fenomenismo corrispondono molteplici fenomenologie. Per esempio quella di  Heidegger, afferma che il reale è un solo, una totalità onniafferrante (Hegel direbbe begriff), tanto come essere quanto come niente. Anche Hidegger poi tenta la via della salvezza ammettendo la realtà del mondo esterno come di un che, che resiste al soggetto, ponendosi nel solco del pensiero di Zamboni. In questo modo Hidegger tocca il problema che si volle e che si vuole eludere: la realtà del mondo esterno. Esistono queste realtà, come la mia realtà, indipendentemente dal pensarle? Per dare risposta a questo interrogativo cruciale, è necessaria la gnoseologia pura. La gnoseologia secondo C., scoprì la risoluzione definitiva del problema della certezza della conoscenza umana. Essa permise di risolvere il problema dell'esistenza di Dio, riavvalorando criticamente le cinque vie della dimostrazione Aquino. Sono meriti del metodo filosofico di Zamboni il poter affermare la sostanzialità del mio “io” personale, la mia realtà individua e dimostrare l'esistenza di Dio, trascendente, personale. Il metodo zamboniano distingue gli elementi della conoscenza umana tra la sensazione, che e sempre oggettiva, e lo stato d'animo e tra questi "quello stato d'animo che è anche atto: l'attenzione". Ogno stato d'animo e sempre soggettivo. La gnoseology riesce a cogliere la realtà del proprio “io”, nei suoi atti e stati. Essi sono reali, per­ché immediatamente presenti all'”io”, e se sono reali gli accidenti dell'io, perché essi sono modo di essere dell'io, reale è l'io, come sostanza, cui essi ineriscono. Perciò dall'immediata certezza della realtà degli accidenti di un ente si giunge alla certezza della realtà sostanziale dell'io." La critica alla posizione della neoscolastica di Gemelli, Olgiati e Masnovo sulla conoscenza indimostrata dell'ente e la soluzione tramite la gnoseologia pura. Rispetto alla dimostrazione della realtà dell'ente, si fonda così nell'esperienza immediata ed integrale il concetto di essere e ‘esseri’ che non è più necessario assumere acriticamente, come qualcosa di razionalmente immediato, pena l'impossibilità di una logica razionale. L'assunzione acritica del concetto di essere ed esseri è propria del neotomismo dell'Università Cattolica, che in un suo autore, Masnovo, perviene alla sua massima teorizzazione nel "mio hic et nunc diveniente atto di pensiero". Ma con questo l'essere e gli esseri è solo pensato e ammesso acriticamente come pensiero, è un presupposto, mentre nella gnoseologia zamboniana è il risultato di un processo di astrazione, che deriva da una realtà immediatamente presente all'autocoscienza dell'io, che non ha la natura del pensiero, non è pensiero essa stessa, ma qualcosa di diverso. Si può pertanto uscire dalla formula logica della ragion sufficiente, che è sempre e comunque razionalista e riduce al razionalismo anche il neotomismo. Nell'ambito dell'esperienza immediata ed integrale si scopre invece non la ragion sufficiente, ma la sufficienza ad esistere o no. E la fondazione ed il ripensamento delle prove dell'esistenza di Dio, e in particolare della terza via tomistica, diventano inoppugnabili. Nessuno più può dubitare dell'esistenza del sufficiente ad esistere, che è Dio."  Secondo Peretti la fondazione gnoseologica della metafisica è il più grande merito di Zamboni.  L'ambiente filosofico dell'Università Cattolica non accetta la gnoseologia zamboniana e fonda la metafisica sul concetto di ente, assunto acriticamente, come un presupposto indimostrabile. Esso finì per identificarsi con l'ente di ragione (ens rationis), non sfuggendo all'insidia hegeliana, che lo aveva dialettizzato sia come essenza che come esistenza. La dialettica negativa di Hegel produsse ben presto nella corrente neotomista di Milano (ma anche in altre università cattoliche) i suoi effetti devastanti. Aveva messo in guardia i neotomisti dalla fraus hegeliana, che si svela nell'antitesi (contra-posizione) come negazione. Seguendo la metodologia gnoseologica, Contri affronta Hegel, il "padre del fenomenismo" compiendo una minuziosa e sistematica analisi della fenomenologia hegeliana. Dopo averle individuate ha messo in rilievo le incongruenze gnoseologiche e perciò metodologiche che sfocia nella concezione della realtà come vita dell'idea, presentandola come uno svolgimento dialettico del ‘begriff’, come qualche cosa che non mai in sé, ma diviene eternamente in sé e per sé. C. resa evidente questa impostazione, anima del fenomenismo, e scoperta nella deficienza gnoseologica e pertanto metodologica, derivata dall'impostazione razionalista ed empirista che al fondo dello stesso criticismo, rovescia l'immanentismo hegeliano, che si gli scopre non più come mondo di idee, ma di realtà, di cui ognuna è altro del suo altro, in un ordito cosmologico, di cui la storia dell'uomo rappresenta l'essenza. Ed ecco la storiosofia, che reclama, al posto dell'immanentismo gnoseologicamente insostenibile, la trascendenza della trama di questo ordito, che a questo punto in sé e per sé non può più essere spiegato (si ricordi che l'anima della spiegazione hegeliana è la "negazione"!). Tale trascendenza prova l'esistenza di un Dio trascendente, che ha concepito la trama creando le realtà ordito di questa trama, di realtà in reciproca relazione, in cui non c'è membro che sia fermo. In questo ordine si risolvono in modo nuovo i rapporti tra le realtà, che per esempio tra l'anima e il corpo, superando così gli scogli di una spinosa questione di eredità aristotelica, di grande importanza anche oggi, in cui le realtà terrene e spirituali non trovano la sintesi equilibratrice.  La storiosofia rappresenta uno sviluppo del metodo di Zamboni, considerandolo la via per rinnovare tutta la filosofia poiché esso non è storicismo filosofico, non è naturalismo, è avanti positivistico, non è speculazione, ma metodo appunto, (metodo) che da secoli la filosofia europea ha cercato, perdendolo oggi nella disperazione del momento." Altri saggi: “Il concetto aristotelico della verità in Aquino” (Torino, SEI); “Gnoseologia” (Bologna, L.Cappelli); “Il concetto d’armonia” (Bologna); “Il tomismo e il pensiero moderno secondo le recenti parole del Pontefice, Bologna, Coop. tipografica Azzoguidi): “Del bello” (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina); “La filosofia scolastica in Italia nell' era presente” (Bologna, Cuppini); “L’essere e gl’esseri” (Bologna, C. Galleri); Un confronto istruttivo: Mercier, Gemelli, De Wulf ed altri ancora, Bologna, C. Galleri); “Pane al pane: riassunto d'una situazione, Bologna, Costantino Gallera. “Neo-scolastici e archeo-scolastici” (palaeo-scholastici) sulla rivista Italia letteraria; “Il segreto sofisma di Hegel” (Bologna, La Grafolita), “Mussoliniana: il discorso del duce” (Bologna, La Diana scolastica); “Gnoseologia pura di A. Hilckmann; Il segreto di Hegel di S. Contri, Bologna, Stabilimento Tipografico Felsineo); “Hegel, Ivrea, ed. Criterion); “La genesi fenomenologica della logica hegeliana” (Bologna, ed.Criterion; Ambrogino o della neoscolastica, dialogo filosofico,  Bologna); “La soluzione del nodo centrale della filosofia della storia, Bologna, Criterion); “Complementi di storiosofia, Bologna, Criterion); “Punti di storiosofia, Bologna, Criterion; Lettera a S.S. Pio XII sulla filosofia della storia, Bologna, Criterion; Il Reiner Begriff (=concetto puro) hegeliano ed una recensione gesuitica, Bologna, Criterion; Dallo storicismo alla storiosofia. Lettura prima, Verona, Albarelli; I tre chiasmi della storia del pensiero filosofico.  Inquadratura unitotale della controversia sulla storiosofia, Milano, ed. Criterion); “Rosmini” (Domodossola, La cartografica C. Antonioli); Ispirazione da dei” divina della S. Scrittura secondo l'interpretazione storiosofica” (Milano, Criterion); “La sapienza di Salomone, Milano, ed. Criterion; “La riforma della metafisica” (Milano, ed. Criterion); Filosofia medioevale.  Raggiungere la forma nuova, Fiera Letteraria; Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, alla luce della momentalità storiosofica” (Milano, Libreria Editrice Scientifico Universitaria); “Rosmini” (Milano, Centro di cultura religiosa); “Posizioni dello spiritualismo Cristiano: La dottrina della poieticita in un quadro rosminiano” (Domodossola, Tip. La cartografica C. Antonioli); “Assiologia ed estetica”, Theorein; Posizione dello spiritualismo cristiano. La dottrina della poieticità, in un quadro rosminiano, Rivista rosminiana; Heidegger in una luce rosminiana: la favola di Igino e il sentimento fondamentale, Domodossola, La cartografica); Missione di Milano. Chiosa storico-filosofica, Ragguaglio); “Heidegger in una luce rosminiana, Rivista rosminiana); La coscienza infelice nella filosofia hegeliana” (Palermo, Manfredi); “Husserl edito e Husserl inedito” (Palermo, Manfredi); “Kierkegaard: profeta laico dell'interiorità umana”; “Saggio di una poetica vichiana” (Milano, Il ragguaglio librario); La fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Rivista rosminiana; L'unità del pensiero filosofico, Sapienza; Il pluralismo filosofico nell'ambito di una concezione cristiana, Sapienza; In margine al centenario dantesco, Sapienza; La negazione come principio metodologico di unificazione speculativa, Theorein; Vita e pensiero di Hegel, Rivista rosminiana; Possibilità di un accordo tra la dottrina rosminiana del sentimento fondamentale e le concezioni moderne  sull'inconscio, Rivista  rosminiana; Morale e religione nella Fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Palermo); “Parallelo tra Hegel e Rosmini, Palermo, Mori); “Metafisica e storia, Palermo, Mori); “Il sofisma di Hegel” (Milano, Jaca book). “Il caso Contri”; “Gnoseologia”; noseologia, storiosofia; Contri, Note mazziane; La propedeutica metafisica hegeliana al problema del pensare e la lettura rosminiana di S. Contri, Contri tra gnoseologia e storiosofia, Punti di trascendenza in S. Contri, in Sophia, Crociata Italica, Fascismo e religione nella Repubblica di Salò, L'Estetica di Benedetto Croce. Certi gestiscriveva la Vanni Rovighiche gli furono rimproverati come acquiescenza al potere politico fascista (e furono ben pochi in confronto a quelli di molti altri) furono dettati dalla preoccupazione di difendere la sua Università dalla minaccia di chiusura da parte del potere politico, minaccia tutt’altro che immaginaria. E forse fu il timore di fronte alle obiezioni di un’altra autorità, quella ecclesiastica, che gli premeva ben più di quella politica, a indurlo ad allontanare dall’Università un uomo di grande ingegno e di purezza adamantina: Zamboni, un gesto che non può non essergli rimproverato e che lasciò anche a noi allora studenti dell’amaro in bocca. Contri, (Circa il volume di Croce 'La storia come pensiero e come azione. Siro Contri Presidente dell' Istituto di Cultura Fascista. CONDOTTA POLITICO-MILITARE ESPRESSA DAI FATTI UNIVERSALMENTE NOTI,  I QUALI CELEBRANO COTANTO LA SINGOLARITÀ DI BONAPARTE. Paralello degli uomini ipiù celebrati  dalla Storia dei Secoli. Non è del mio proposito il qui premettere alle azioni di NAPOLEONE le cause che rivoluzionarono la Francia, e i  fatti che a danno proprio, o di altrui  operarono i Francesi, poiché questi sono  noti a tutti, o se qualcuno' vi è, che non  li sappia, da quelli stessi, che io dirò,  operati da Lui, meglio si rileverà la grandezza degli altri distinguendosi troppo  bene riunite in un solo quelle grandi  ia   qualità, con le quali si va a riordinare,  e regolare in pace il cittadino, come in  guerra a vincere e superare l'inimico.  Nè vi voleva di meno: conobbe BONAPARTE opportunamente, che non si ha  la pace, se non si fa la guerra, che non può  tornare all'ordine il Francese, se non è  vittorioso, subito che la gloria di aver  vinto altrui richiama, per goder dei frutto, al dovere di vincere se stesso se non  si dipende? Col dipendere dagl'ordini di  BONAPARTE nel campo di battaglia, si  volò dal Francese alla vittoria: che meraviglia, se all'un fatto autorevole perciò riesci agevole inculcare con altri i  doveri di giustizia, nell'osservanza de'  quali, rimesso l'ordine pubblico, si passò  ad unire a quelli di conquista i frutti  preziosi della pace.   Troppo è singolare NAPOLEONE  BONAPARTE nella storia dei secoli.  Quegli uomini che arrichirono di beni,  che fornirono di gloria la Patria, ed i regni, di cui erano signori, di cui erano cittadini, con le loro imprese in guerra,  con i loro consigli in pace, daranno a me  tutto quel meglio che ciascuno di essi  possedeva parzialmente, per provarlo  riunito in BONAPARTE a riordinare la  Francia, a pacificare V Europa. Non si vuol qui osservare l'ordine dei  fatti, nei quali BONAPARTE si mostrò  da prima grande Capitano, ma presa sibbene l'epoca del Consolato tanto glorioso  per Lui, e dove Egli si mostrò grande  politico, si faranno servire i fatti nell 9  uno, e nell'altro stato operati all'espressione di quella condotta, la quale praticata da Lui solo, celebra veracemente la  sua Singolarità.   Dirò pertanto, con tutto che io non  ignori, che Giulio Cesare fu l'uomo in  Roma, il quale più d'ogni altr'uomo delle storie antiche può dare a me una  qualche simigliala di NAPOLEONE in  Francia, pure i fatti che me lo descrivono per grande, non sono quegli stessi che  ora mi dimostrano grandissimo BONAPARTE. 11 ritorno di GIULIO CESARE dal Governo della Spagna non è simile a quello di  BONAPARTE dopo V occupazione dell'  Egitto; Cesare trovò la Repubblica Romana divisa in due fazioni, una di GNEO POMPEO, e l'altra di MARIO CRASSO. BONAPARTE trova la Repubblica non divisa in fazioni, ma in tanto disordine e confusione, che più non è divisibile, poiché l'eccesso dell'anarchia produce la serie indefinita delle divisioni  sempre rinascenti e rovinose; pure non  altri vi fu, se non che Egli, tanto potente, che la divise per trarla dalla sua confusione. GIULIO CESARE vien pregato da ognuno dei due rivali a farsi del suo partito,  e Cesare si fa mediatore di pace.   BONAPARTE non pregato va da se  a rimproverare d'ingiustizia, e di oppressione i Governanti, e a nome del Popolo  Francese ingiustamente oppresso intima  la loro destituzione. Giulio Cesare si fa pacificatore di chi  voleva la pace. BONAPARTE assicura la pace a fronte di coloro che volevan la guerra. Giulio Cesare dee vincere con la persuasione due nemici, che erano nel seno della Patria a promovere con la divisione l'interna discordia. BONAPARTE dee vincere con la forza i nemici esterni della Francia, e dee  persuadere la Francia in disordine della  necessità di un nuovo ordine di cose per  felicitarla. Giulio Cesare accetta l' incarico di  mediatore non per servire, ma per regnare; perchè coll'esser così fra Crasso e  Pompeo, ambidue li vedeva dipendenti  da Lui; regna chi non dipende, non dipende chi giudica, e quello che giudica  si fa arbitro dei due nemici: non voleva Cesare con la sua dipendenza rendere  più forte uno dei rivali, ma voleva col  pretesto della sua mediazione indebolire ambidue. Trattò la pace non per unirli fra di loro, ma per unirli a se, non perchè fossero amici, ma perchè fossero disarmati.   BONAPARTE instruito dei disordini della Francia e delle sue perdite, con  eroica risoluzione veste il carattere di  guerriero, di pacificatore; si mostrò così  al Consiglio dei Cinquecento, dove era  maggiore l'autorità, e dove erano tanti  che volevano governare; non si ritiene  da dirli indegni di quest'ufficio, quando  per due anni avevano così male governata la Francia. Il rimprovero di un simile  delitto, la fermezza di chi rimprovera,  ed il coraggio, avvilì e disperse i delinquenti, (molto più di Trasibulo che cacciò d'Atene i trenta suoi tiranni): si rimi*  se allora BONAPARTE al voto del Popòlo Francese, che lo acclamò Liberatore;  ed assicurato di lealtà, annunziò il Consolato, e la sua Costituzione. Fatta la pace fra Pompeo, e Crasso  per opera di Cesare, tutti due concorsero a farlo Console, e in tutto il tempo n   Consolato il di Lui Collega non comparve mai a palazzo.   Si vide BONAPARTE Primo Console, e gli altri due furono sempre con Lui  nel Consolato. Se fu solo Cesare a comandare fu con  usurpazione.   Se ha BONAPARTE nel comando la  primazia, glie la concede la costituzione: Cesare non soffriva che gli applausi  di buon governo fossero attribuiti ad alcun altro che a Lui: per tal modo andava  avvezzando Roma al governo di un solo,  e disponeva gli animi ad approvare nel  Consolato la Monarchia.   BONAPARTE sebbene il primo nel  Consolato, ed il maggiore nella autorità;  è però sempre insieme con gli altri a governare; non sprezza l'opera altrui, non  sfugge l'altrui consiglio, e vuole che tutti abbiano parte al merito della sua bontà, della sua aggiustatezza; non vuol cambiar governo nei momenti che tanto si  opera per stabilirlo; tutto quello che si fa, si fa per conoscere, 3e il Francese può  essere buon repubblicano: il grido della  libertà democratica non è un voto valevole per la esclusione della monarchia;  quantunque siansi veduti i Francesi eletrizzati andare incontro alla morte per  vendicare la libertà; si deve dar ciò  alla forza di quel barbaro terrore difuso  per avvilimento universale con la oppressione dell'innocente; sostenuto con  la franchigia ed esaltazione del malvagio per accrescere il numero dei terroristi; non già ad un maturo consiglio, ad  una risoluzione giudiziosa, unanime, universale, che però il procedere di BONAPARTE fu assai prudente per richiamare  all'ordine i Francesi in rivoluzione, e  metterli veracemente in libertà, col costituire la forma di un buon governo.   Cesare ha finito il Consolato. BONAPARTE viene dichiarato a Vita  Primo Console. Cesare dopo il Consolato si elesse il  Governo delle Gallie dove andò con E-sercito, e fece guerra a molte nazioni.  Vide pesare che le fazioni lo potevano  fare il primo della Repubblica, ma non  bastavano a farlo padrone, per cui era  necessario un esercito: come armarsi però  senza scoprire il suo disegno? Ecco l'arte  di Cesare; si armò per servizio della Repubblica, la servì valorosamente per poterla signoreggiare, la esaltò per poterla  opprimere: nel regnare l'arte del segreto  non è tacere, ma consiste in rivelare una  intenzione verisimile che nasconda la  vera, ma che non sia la principale: la più  fina simulazione del mondo consiste nel  sapersi ben servire della verità. BONAPARTE fu fatto Primo Console  non dalle fazioni, ma dal voto libero di  una gran nazione: i meriti della guerra,  e quelli maggiori della pace precedettero  la sua perpetuità nel Consolato; non servì alla Francia per signoreggiarla, non la  esaltò per opprimerla, quando con averla  levata da suoi disordini, e fatta amica di  tutte le nazioni 5 non cercò di escludere i tanti dall'onore di questa grand'opera,  i quali ora sono con Lui nel governo vigilantissimi per conservarla. Per dare però una maggior rilevanza  al paragone di BONAPARTE con Giulio  Cesare, mi farò a tracciar questi nè suoi  principj per condurmi così a provar meglio la singolarità dell'altro; e giusta la  diversità di tante sue virtuose azioni, mi  farò pure a dir di quelli, i quali nei bei  secoli della Grecia, e di Roma onorarono  la loro patria, perchè i più valorosi nell'  arte della guerra, i più sapienti nel governo dei popoli tra coloro tutti, che il  precedettero, scorrendo la vita de' medesimi, dimostrerò, senza osservare l'ordine dei tempi, giacché non è ciò del  mio soggetto, riunite in BONAPARTE le  grandi virtù di tutti quelli celebratissimi nella storia delle nazioni. CeSare nella sua più fresca età passò  la prima volta a militare sotto Marco Minucio GermOj allora Pretore in Asia.,  e mandato in Bitinia all'assedio di Mitiiene, la sola città che ricusava sottomettersi ai Romani, si distinse tanto nella  sua presa, che meritò diverse corone civiche, le quali davansi a chi aveva salvata la vita ad alcun cittadino romano.  BONAPARTE che nel principio della  Rivoluzione Francese trovavasi in Parigi  tutto intento a coltivare i grandi suoi talenti nella scuola militare, e nella vera  filosofia, fu mandato all'assedio di Tolone Ufficiale in una compagnia d'artiglieri,, allora di soli ventitre anni, ed ivi le  prove del suo valore furono tanto luminose e così sollecite, che i Rappresentanti del popolo ivi presenti, non tardarono a promoverlo Generale di Brigata,  nel qual posto più d'ogn'altro suo pari si  mostrò esperto nell'arte difficilissima di  condur i soldati alla vittoria; e singolarmente intrepido si rendette in quei  terribili momenti di assalto, sotto l'impeto del quale ebbe a tornar Tolone in  potere dei Repubblicani. Giulio Cesare fu accusato da L. Vezio  cavalier romano complice nella cospirazione di Catilina. BONAPARTE fu accusato, e fatto arrestare a Nizza dal Convenzionale Befroi  come terrorista. Il terrore allora era diretto a dominare sugli uomini per disordinarli, per perderli. La Congiura di Catilina si volgeva a  fare un dominatore di Roma per felicitarla. Il Valore mostrato nell'armi da BONAPARTE mosse l'invidia di tanti ad  accreditarne l'accusazione. Fu accusato Giulio Cesare di troppa  parzialità per Lentulo, Gabinio, Cetego,  Statilio capi dei congiurati. Questi per  salvar la vita ebbe bisogno di un CICERONE; fuggì gli occhi di tutti; si rinserrò  nella propria casa timoroso d'incontrare  nuovamente il risentimento dei Padri. BONAPARTE va da se a Parigi per fare delle rimostranze al Comitato di salute  pubblica contro una simigliante ingiustizia, ha cuore di orare la propria causa  in faccia a quel Tribunale istesso eretto per distruggere gli innocenti; e non  avendo più dove ricorrere per denegata  giustizia, chiede il permesso di ritirarsi  a Costantinopoli, perchè soverchiamente delicato, non vuol vivere a fronte di  un'accusa troppo ingiusta. Il patrocinio delle Vestali, l'amor del  Popolo tant'altre volte come in questa  capriccioso, perchè mosso dall'ingenita avversione al volere dei grandi, richiama  Giulio Cesare al suo uffizio. Affidato BONAPARTE al patrocinio  più sicuro della sua giustizia, attende da  filosofo il momento propizio alla sua  gloria, poiché il Vendemiatore vide  BONAPARTE col comando di un corpo  numeroso di linea tanto ben disposto, e  regolato, trarre dall'estremo periglio la  Convenzione, e salvar Parigi dal furore  di un nuovo disordine, che urtando liberamente, poteva nelle sue rovine aprire  la tomba a tutti i Cittadini : un'operazione tanto salutare, li procurò dei potenti  amici, li meritò la pubblica ammirazione, la riconoscenza nazionale; in questo  giorno egli trionfò di tutti i cuori: gli  amici lo amavano teneramente, lo temevano grandemente gl'inimici : il suo trionfo fu molto dissimile a quello di Mario,  di Siila, di Cesare, e di Pompeo; questi  volevano, trionfando, signoreggiare, ed  avvilire tutti i Romani: BONAPARTE  riponeva nella grandezza dei Francesi, e  nella maggiore loro felicità il suo trionfo, la sua gloria era di vincere., lasciando  alla nazione di trionfare. La prima azione di questo Giovine  Guerriero fu quella di sostenere nella  Patria i diritti delle supreme podestà  contro un forte partito dei suoi, il qual  voleva nella morte dei Governanti assicurare al disordine la sua dominazione,  che è quanto dire, a Lui viene affidata  la grande impresa di frenare, di avvilire  gl'inimici interni della Patria, che sono  i più potenti, i più terribili, perchè i più  sicuri di unire alla forza aperta i funesti  progressi di una domestica prodizione.  Per tutto questo era mal sicuro dell'istes^  ssl sua vita, perchè Comandante di tanti  altri armati troppo facili a cedere alla seduzione di alcuni di quelli, coi quali oltre ad aver comune la patria, erano del  medesimo sangue, divisi soltanto di sentimento per la formazione di questo, o  dell'altro Governo pure BONAPARTE  superiore ad ogni pericolo, va, come si  disse, condotto dal suo genio a farsi il  terrore dei sediziosi, il salvatore dei Governanti: molto più grande questa impresa di quella di Petrejo contro Catilina, poiché questi comandava all'aperto  a piè dell'Alpi i suoi Armati, dove la cognizione del luogo, e la sua ampiezza  dava al Capitano in caso di perdita il  piano per una gloriosa ritirata. Quando  per BONAPARTE il campo di battaglia  era Parigi; aveva pertanto comune con  gl'inimici gFistessi ostacoli, i medesimi  pericoli, che anzi si facevano maggiori per Lui; perchè doveva esser sempre  nel sospetto, che quella immensa popolazione rivoluzionata, inquieta per l'incertezza di un felice destino, potesse  fornire ad ogni momento di un maggior  numero di soldati le legioni dei ribelli:  con tutto questo le sue disposizioni furono così giudiziose, il suo coraggio tanto sorprendente, che con poco sangue  sparso vinse interamente la fazion nemica, e levò ad essa ogni speranza di risorgere, per tornare contro di Lui a nuova  pugna. Egli adunque, come Filopemene  mandato a guerreggiare contro gFistessi  Greci suoi, non si disse per Lui ventura  il trionfar di loro, ma una soda virtù,  mentre quelli, che eguali han tutte le cose, non possono che per virtù primeggiare sugli altri, e distinguersi più di loro. Se fu capace BON APARTE di trionfare sugl'istessi suoi Francesi, e ciò non  per se, ma per il solo bene dei vinti, ragion voleva, che i Governanti ad una  prova tanto singolare d'amore, scegliesscio Lui Comandante in Capo dell'Armata d'Italia, siccome gl'interpreti sicuri  del voto universale dei Francesi, per  aprire cosi un nuovo campo di gloria ai  suo valore, ed assicurare a loro il bene  della vittoria sugl'esterni nemici della  Francia. NAPOLEONE va senza ritardo al  luogo, ^ove lo attende la grandezza de'  suoi destini; quivi essendo si mostra a  tutti i suoi, come Marc'Autonio mirabilissimo nella idea delle sue imprese, le  concepisce quali dovevano essere nella mente di un regnante; e più di Marc’Antonio l'eseguisce con facilità, mentre  questi mancava di una pronta attività  per una felice esecuzione. È dunque BONAPARTE, dove nasce l'Appennino e  mancan l'Alpi, fra strette gole ed inaccessibili dirupi, in quei luoghi istessi praticati altra volta con bravura da un Flaminio, da un Postumio celebratissimi  Capitani di Roma; quivi egli è a fronte  di un inimico, che si avanza vittorioso da Voltri per battere Monteligino, ultimo trinceramento repubblicano, di dove  poi andar più oltre con maggior speditezza, perchè minori gli ostacoli del luogo, ed arrivare una volta a por piede sul  terreno Francese, per risvegliare così,  ed animare il partito nemico delia libertà. Con tutto questo che pareva tanto  prossimo ad eseguirsi, BONAPARTE nelle concepite disposizioni guerresche, vede sicura l'occupazione dell'Italia; e più  oltre andando, non vede tanto incerto  l'approssimarsi alla Capitale dell'Alemagna: le grandi distanze, gl'infiniti pericoli, che si frappongono, non lo distraggono un momento dal porsi sulle mosse  per dar principio all'opera, e giungere  ad occupare la grandezza del suo fine: i  modi sono presti per vincere; in caso di  mancanza, sono pronti gli altri per trarre  dalla sua difesa gli utili di una grande  vittoria. Sagace nella previdenza di tutte  le cose, passa con risolutezza dallo stato  di difesa, a quello di offesa; e mentre si occupava rinimico a vincere le resistenze del Capo di Brigata Rampon, BONAPARTE, seguitato dai prodi Generali  Berthier, e Massena, dirige le truppe dei  suo centro, e della sua sinistra sul fianco, e alle spalle degli Alemanni. Questa  manovra tanto difficile nel luogo., ed eseguita sugl'occhi di un inimico vigilantissimo, preparò la memorabile vittoria di  Montenotte, e la decise; poiché simile  ad Alessandro, e a Pirro nella prestezza  delle disposizioni, nell'impeto, e violenza del conflitto, divise il corpo di Beaulieu dagli Austro-Sardi; e mentre batteva  un corpo, l'altro era tenuto a bada, e poi  piombando su di questo, ambedue furon vinti, disordinati, dispersi; la conseguenza di ciò fu l'essersi reso padrone del  Cairo, di Dego, e della posizione importantissima di santa Margherita, per cui  trovossi al di là delle cime dell'Alpi, su  i declivi, che guardano la bella Italia.  La impresa non fu strepitosa soltanto  per essere stata eseguita nel breve corso  di quattro giorni, ma perchè opera di un  Capitano di soli ventisette anni, come  Pompeo nell'Affrica contro Domizio della  Fazion Mariana, e Jarba Re de' Mori suo  aleato, per cui questi ebbe da Siila, allora Dittatore in Roma, il titolo di Grande. BONAPARTE però più grande di  Pompeo per aver superatigli ostacoli della natura in un con quelli opposti dall'arte militare la più studiata, la più perfetta. A che ricordarsi più con meraviglia  del passaggio dell'Alpi fatto da Annibale? sebben'egli partito dal Rodano con la  sua armata di Numidi, e di Spagnuoli per  passar le Gole transalpine, e le Alpi* per  nove giorni di cammino fino alle sue vette combatter dovesse ad ogni passo i Galli che in imboscata e con prodizione attraversavano, estremamente molesti, la  sua gita; e negli altri sei giorni impiegati  nella discesa, niuno essendovi più, che  il molestasse, pure le nevi altissime, i  ghiacci, e le bufere rendessero tanto più malagevole, e pericoloso il suo tragitto:  ciò non pertanto più maraviglioso fu il  salire, e il discendere di BONAPARTE,  quando in questo si deve aggiugnere il  dover vincere passo passo un inimico,  che in un momento era pronto alla difesa, e nell'altro prontissimo all'Offesa;  per cui gli avvenne di essere una qualche  volta respinto; lo che sembrava, e ciò a  tutti, una volontaria ritirata, tant'era  presto a riprendere il combattimento  con più veemenza, e risoluzione; come  chi, per accrescere il colpo contro le  mura nemiche, par si discosti per levar  più alto l'ariete, e la mazza ferrata a far  maggiore la gravità del colpo, e più sollecita la sua distruzione: ed è per questo  che il General Augereau forza le Gole  di Millesimo; Menard, e Joubert discaccian l'inimico da tutte le posizioni di  quei contorni; ma l'inimico è sulle alture a riprenderne delle nuove, e più formidabili per cui i Francesi in ogni ora  sono chiamati a nuovi disastrosissimi conflitti essi vi vanno non un movimento pronto, ben regolato e risoluto, in  ogni luogo perciò sormontano il potere  dell'inimico. Dopo fatiche così eccedenti,, e sì luminosi vantaggi più non si teme  della vittoria; in fatti quando sugl'albori del sesto dì della battaglia Beaulieu  gli attacca, supera il villaggio del Dego,  respinge il general Massena per tre volte assalitore, Victor, e Lannes per ordine  di BONAPARTE piombano sulla sinistra dell'inimico; ma l'inimico è più forte; le truppe repubblicane vacillano per  un istante; indi ritornano all'assalto;  raddoppiano il coraggio, e Dego è nuovamente in lor potere. Il piano delle operazioni dei diversi corpi d'armata è troppo concorde perchè il risultato non lasci mai d'essere utilissimo al loro avanzamento: i suoi capi sono sempre insieme a combinare su d'un piano troppo  attivo e giudizioso, mosso e regolato dal  capo supremo, che lo ideò, che lo compose. La valle pertanto di Borimela, e quella  del Tanaro sono aperte ai repubblicani;  le trincee di Montezimo, e di Ceva sono  superate; passano questi il Tanaro, e rinimico è in piena ritirata per la strada  del Mondovì: sul far del giorno i due eserciti sono a fronte l'uno dell'altro; comincia nel villaggio di Vico la zuffa, Fiorella, e Dammartin attaccano con impeto il ridotto, che cuopre il centro del nemico, questi abbandona il campo, passa  la Stura, e si pone fra Cuneo, e Cherasco entro un recinto bastionato; Massena si muove contro, e rovescia le gran  guardie nemiche. Dopo questa operazione i Francesi si trovano vicino a Turino: il General Colli propone una sospension d'armi; BONAPARTE vi acconsente con la condizione, che vengano a lui  rimesse Cuneo, e Tortona; il Re non sa  non approvarlo, e BONAPARTE con ciò  dà alla sua armata in Italia una situazione sicura ed imponente, e vede aperta   senz'altri ostacoli la sua libera comunicazione con la Francia. Ogni giorno  pertanto crescono gli armati,, BONAPARTE gl'impiega al passo del Pò nella grande battaglia di Lodi; con marce, e contromarce cuopre air inimico i veri suoi  movimenti, si fa strada tra l'Adda, e il  Ticino per dirigere la sua marcia sopra  Milano, mentre Beaulieu ingannato, si  affaticava a fortificarsi tra il Ticino, e  la Sesia. Il resultato di queste felici operazioni non aveva in se tutto, che si voleva, per andare senz'altro intoppo dritto  dritto alla capitale della Lombardia. Sono eccellenti le disposizioni del generale inimico per apporne dei nuovi. Questi ritardarono la marcia, non l'impedirono', Beaulieu col suo corpo d'armata  dall'opposta parte dell'Adda guarda con  numerosa artiglieria l'estremità del ponte di Lodi, che lo cavalca per l'estensione di cento tese; non volle tagliare il  ponte, lusingandosi cosi di meglio dirigere il fuoco alla distruzione di tanti nemici insieme strettamente riuniti al suo passaggio. Il soldato francese, sotto un  tanto Duce, conosce il grande pericolo,  ma troppo è animato a superarlo; vede  che il passo del ponte è angusto e micidiale, ma ad impadronirsene ve li sprona l'onore, e gl'interessi della patria: la  morte di alcuni aprirà il varco a molti,  si muoja, dicevan essi, purché si vinca.  Quanti mai sono che vogliono essere i  primi, contenti di assicurare ai superstiti col loro sangue gli utili d'una grande vittoria: il secondo hattaglione de'carahinieri precede l'armata francese serrata in colonna: i prodi si presentano sul  ponte, il fuoco dell'inimico è tanto terribile e continuato, che la testa della colonna stette in forse per alcuni momenti a fronte di un sì alto pericolo, e se un  solo istante di più s'indugiava, tutto era  perduto:Berthier, Massena, Cervoni, Duprat si precipitarono alla testa delle truppe, e fissarono la fortuna ancor vacillante: l'inimico nell'istante è rovesciato,  l'Adda è aperta alla cavalleria, la vittoria è definitivamente decisa. Più di Cesare glorioso BONAPARTE  poiché quello sostenne il ponte sul Aisne  contro Galba, che con le sue forze numerosissime tentava superarlo; quando  l 'a i t ro acquistò il ponte di Lodi contro gli  Alemanni, che lo guardavano tanto forti: Noyon atterrita apre le porte a Cesare. Milano festeggiante incontra BONAPARTE; in quello Noyon teme il suo tiranno; in questo Milano ama il suo benefattore: Cesare vinceva per far schiavi i  vinti: BONAPARTE trionfa per farli liberi.   Dalle divisate azioni guerresche chi  non vede riunito in BONAPARTE il cova ^gio, l'operativa prontezza di Marcella; ìa circospezione, ed il provedimento  Fabio Massimo? Conobbe troppo be> bON APARTE la importanza delle  <e imprese; e potè dire molto avanti  to quello, che solo aveva pensato di  . Si valse opportunamente dei suoi  .ta^i con non lasciarsi alle spalle altrui inimico: vinto uno dalle sue armi,  gli altri maravigliati, ed atterriti dalle  sue vittorie fecero delle proposizioni di  pace, che furono accordate con i vantaggi dovuti al vincitore; i quali però non  portavano il vinto ad un odioso avvilimento.   Riunì BONAPARTE in queste operazioni la esecuzione dei pensieri di Marcello in Siracusa; di Fabio Massimo nella capitale de' Tarentini, popolazioni da  loro debellate.   Marcello per trattato leva molti bel1 issimi simulacri, perchè servissero di  ornamento alla sua patria; la quale siuo  allora non aveva, ne avuti, nè veduti abbigliamenti cosi gentili ed isquisiti. Fabio Massimo trasse fuori denari e ricchezze, lasciando ai Tarentini i loro numi sdegnati che eran di marmo. Marcello  fu applaudito dal popolo e condannato  dagli uomini di probità. Fabio Massimo  fu celebrato da questi, e non curato dagli  altri. Siro Contri, «Il regime fascista». Siro Contri. Contri. Keywords: il Napoleone di Hegel, del bello, il bello, assiologia, poetica vichiana, Mussolini, discorso, duce, logica di Hegel, filosofia dell’essere, l’essere e gli esseri, Hegel contraddetto, il bello, pulchrum, archeo-scolastici, paleo-scolastici, Aquino, aristotele, il vero, l’errore di Croce, l’equivoco di Croce, percezione del bello, l’armonia e il bello, del storicismo alla storiosofia, storiosofia o filosofia della storia, interpretazione dommatica di Aquino, la negazione di hegel, il concetto puro di Hegel, la negazione come metodo in Hegel, nihilismo e negazione in Hegel, l’errore di Hegel, il sofisma di Hegel, Gentile e il bello. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contri” – The Swimming-Pool Library. Contri.

 

Luigi Speranza -- Grice e Corbellini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del darwinismo politizzato – scuola di Cadeo – filosofia piacentina – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cadeo). Filosofo piacentino. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Cadeo, Piacenza, Emilia-Romagna. Grice: “I like Corbellini; of course he has to defend science versus what he calls – alla Popper? – ‘pseudoscenza’ in Italy, which he calls ‘il paese della pseudoscenza’ – I thought that was Oxford!” I sui interessi riguardano la grammatical del vivente, la storia della medicina e la bioetica. Insegna Roma. Si laurea con “L’epistemologia evoluzionistica”.I suoi interessi di studio hanno riguardato la storia e la filosofia della biologia evoluzionistica, delle immunoscienze e delle neuroscienze, per includere poi anche lo studio della storia della malaria e della malariologia in Italia, delle ricadute della genetica molecolare, delle implicazioni dell’evoluzione e l'evoluzione. L'approccio storico-epistemologico all'evoluzione trovato una sintesi nella ricostruzione della storia delle idee di “salute” e malattia e delle trasformazioni metodologiche a cui è andata incontro la ricerca delle spiegazione causale della salute. La sua ricerca si è orientata anche verso l'esame delle radici delle controversie bioetiche. Difende un'idea non confessionale della bioetica, che ha radici filosofiche in uno scetticismo morale radicale, naturalistico e non relativista (Bioetica per perplessi. Una guida ragionata, Mondadori).  Coltiva anche un interesse per la percezione sociale e il ruolo della scienza nella costruzione del valore civile. Sostiene che l'invenzione e l'espansione del metodo scientifico hanno consentito e favorito l'evoluzione del libero mercato e della stato di diritto, ovvero che la scienza ha funzionano come catalizzatore nella costruzione e manutenzione dei valori critico-cognitivi e morali che rendono possibile il funzionamento del sistema liberal-democratico.  Altre opere: “Nel Paese della Pseudoscienza. Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà” (Milano, Feltrinelli); “Cavie? Sperimentazione e diritti animali” (Bologna, Il Mulino); “Tutta colpa del cervello: un'introduzione alla neuro-etica” (Milano, Mondadori Università,; Scienza, Torino, Bollati Boringhieri); “Dalla cura alla scienza” (Milano, Encyclomedia Publishers); “Scienza, quindi democrazia, Torino, Einaudi); “Perché gli scienziati non sono pericolosi” (Milano, Longanesi); “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (con Giovanni Jervis), Torino, Bollati Boringhieri, EBM); “Medicina basata sull'evoluzione” (Roma-Bari, Laterza); “Bi(blio)etica” (Torino, Einaudi); “Breve storia delle idee di salute e malattia” (Roma, Carocci); “La grammatica del vivente. Storia della biologia e della medicina molecolare” (Roma-Bari, Laterza); “L'evoluzione del pensiero immunologico” (Bollati Boringhieri, Torino). L’errore di Darwin. Introduzione; Dall’etica medica alla bioetica; Il senso morale umano e le controversie bioetiche; 3. Sperimentazione sull’uomo e consenso informato; Scelte di fine vita; Scelte di inizio vita; Medicina genetica; Sperimentazione animale; Medicina dei trapianti e definizione di morte; Etica della ricerca responsabile; Medicina rigenerativa e staminali; Neuroetica; Etica ambientale e OGM; Etica della comunicazione scientifica, della percezione della scienza e del «gender»; Indice dei box; Indice analitico; Indice dei nomi. Come nota C. nella prefazione all’edizione italiana del libro di Ru- bin, il tentativo di applicare l’approccio evoluzionistico alla filosofia politica spesso rischia di venire frainteso. Il fraintendimento più comune e pericoloso deriva dalla mancata distinzione tra il darwinismo politicizzato e la politica darwiniana: il primo è costituito, come è accaduto nel caso del “social darwinismo”, dall’nterpretazione strumentale e priva di coerenza logica o di basi scientifiche delle idee darwiniane per difendere qualche particolare ideologia politica»; la seconda, invece, consiste nell’«uso delle conoscenze evoluzionistiche sulla natura umana per meglio comprendere le origini delle preferenze politiche individuali, la loro distribuzione sociale e le dissonanze tra gli adattamenti ancestrali e l’ambiente attuale. Ridley si mostra ben consapevole del rischio di trasformare la politi- ca darwiniana in ideologia. Questo, tuttavia, non gli impede di avanzare alcuni suggerimenti di politica economica Cfr. Skyrms, The Evolution of Social Contract, e Festa “Teoria dei giochi, metodo delle scienze sociali e filosofia della politica”, Prefazione a de Jasay, Scelta, contratto, consenso). Alcune immani tragedie che hanno segnato la storia degli ultimi due secoli sembrano dovute, almeno in parte, all’ignoranza – e, talvolta, alla ne- gazione – di alcune caratteristiche essenziali della natura umana. Per esempio, Ridley osserva che Marx vagheggia un sistema sociale che avrebbe funzionato solo se fossimo stati degli angeli, ed è fallito perché siamo invece degli animali. Singer, Una sinistra dawiniana. Politica, evoluzione e CO0OPERAZIONE, Torino, Edizioni di Comunità, Arnhart, Darwinian Conservatism, Exeter (UK), Imprint Academic, Rubin, La politica secondo Darwin; Corbellini, “Politica darwiniana vs darwinismo politicizzato”, prefazione a Rubin, La politica secondo Darwin; Ridley.Origini.Virtu.indd Le origini della virtùsi vedano soprattutto gl’ultimi tre capitoli del saggio – che gli sembrano compatibili con le nostre tendenze evolutive. La prospettiva filosofico-politica che ne emerge è un libe- ralismo con tendenze anarchiche, che non sarebbe inappropriato chiamare anarco-liberalismo. Tale prospettiva, ispirata dalla grande fiducia di Ridley negl’ISTINTI CO-OPERATIVI e altruistici degl’esseri umani, sfocia infatti nella difesa di un ordine politico-economico nel quale il ruolo del gover- no e dell’intervento pubblico è ridotto ai minimi termini: Recuperiamo la visione di Kropotkin, che immaginava un mondo di liberi individui. Non sono così ingenuo da pensare che ciò possa accadere da un giorno all’altro, o che qualche forma di governo non sia necessaria. Ma metto se- riamente in dubbio la necessità di uno Stato che decide ogni minimo dettaglio della nostra vita e si attacca come una gigantesca pulce alla schiena della nazione. D’altra parte, Ridley si rende conto che, mentre le soluzioni politico-economiche da lui favorite si accordano con alcune tendenze evolutive umane, confliggono però con altre. Per esempio, egli osserva che certe istituzioni economi- camente adeguate nella società moderna, come la proprietà privata, possono entrare in tensione con le tendenze primi- tive all’egualitarismo, alla redistribuzione e al rifiuto dell’accumulazione di ricchezza. L’analisi dei conflitti tra le moderne istituzioni politico-economiche e le nostre ten- denze primitive è uno degli argomenti centrali del già citato libro di Rubin.Le “Imperfezioni umane” di Pani e C. Covato Mailing Le “Imperfezioni umane” di Pani e C. Fornire un punto di vista innovativo, cioè evoluzionistico, di tutto quello che riguarda la salute e le disfunzioni comportamentali, e suggerire qualche punto di vista originale sul perché nonostante le dissonanze evolutive, la condizione umana è globalmente migliorata. È questo l’obiettivo del libro dal titolo “Imperfezioni umane. Cervello e dissonanze evolutive: malattie e salute tra biologia e cultura” (Rubbettino), scritto da Luca Pani e C., Roma, Centro studi americani a Via Caetani. Dopo i saluti di Messa, direttore Centro studi americani, interverranno alla presentazione moderata da Palmieri (Tg1) monsignor Leuzzi, Vescovo ausiliare di Roma, Mingardi, direttore generale Istituto Leoni, Ippolito, professore di storia della Filosofia a Roma. Negli ultimi vent’anni una nuova ipotesi di lavoro si è fatta strada in ambito medico sanitario, definita nel mondo anglosassone «evolutionary mismatch» (dissonanza evoluzionistica) – raccontano gl’autori -. Questa teoria assume, in pratica, che l’ambiente nel quale la nostra specie ha acquisito i suoi tratti adattativi sia drammaticamente cambiato in un tempo troppo breve perché predisposizioni o tratti genetici e fenotipici dell’organismo fossero in grado di adeguarsi, per selezione naturale, alle novità”. Le conseguenze di queste dissonanze? “Disfunzioni o disturbi o rischi che richiedono un approccio medico”.  “Il libro è diviso in tre parti – spiegano Pani e Corbellini – Si inizia con un’illustrazione dei presupposti di qualunque strategia motivazionale, cioè dei meccanismi che sono alla base del piacere e delle ricompense, e da cui deriva – in ultima istanza – la possibilità di acquisire nuove conoscenze che consentono di affrontare le incertezze psicologiche che si accompagnano a qualunque comportamento esplorativo. La riflessione prosegue con esemplificazioni di risposte comportamentali che in particolari (o mutate) condizioni si manifestano come malattie. Il terzo capitolo è dedicato in modo specifico al comportamento alimentare e discute l’esempio più eclatante di dissonanza evoluzionistica: il mismatch metabolico. Gl’ultimi due capitoli affrontano una serie d’imperfezioni e predisposizioni comportamentali umane che scaturiscono da compromessi evolutivi, e che risultavano vantaggiose o meno nel contesto dell’adattamento evolutivo, mentre i cambiamenti ambientali determinati dall’evoluzione culturale hanno generato, a loro volta, ulteriori fenomeni disadattativi”. Nel dettaglio gli autori descrivono le dissonanze create dai nuovi contesti di vita per quanto riguarda cicli del sonno, accesso al cibo, comunicazione, cooperazione ovvero isolamento sociale, oppure di comportamenti più complessi come la rabbia aggressiva o l’altruismo; ma anche le preferenze politiche o l’intelligenza. Negli ultimi capitoli del volume emergono anche idee e ipotesi relative a scoperte cognitive e innovazioni che hanno migliorato la condizione umana, o reso possibili cambiamenti comportamentali incredibili.Il concetto di libero arbitrio implica che sussista nelle persone, dato un certo grado di sviluppo cognitivo e morale, la capacità di decidere e di agire, scegliendo tra diverse alternative disponibili, senza essere condizionati da fattori fisici o biologici di qualunque genere. Si assume, in altri termini, che le persone maturino una cosiddetta “agenticità”, cioè una capacità di agire e decidere in un quadro di consapevolezza degli effetti prodotti, che non è riducibile o spiegabile sulla base dei processi neurobiologici che hanno luogo nel cervello e/o alle leggi fisiche che li governano. Di libero arbitrio si può parlare, comunque, in molti modi e da diverse prospettive: filosofica, metafisica, giuridica, psicologica, etc.  Nel corso dell’evoluzione della specie, abbiamo sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto credere di essere liberi e poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario successo di animali sociali  Negli ultimi decenni le neuroscienze cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio, con una quantità crescente di prove, la visione classica di libero arbitrio, aprendo un dibattito scientifico ancora in corso.  Qual è la sua posizione all’interno del dibattito?  La mia posizione è che il libero arbitrio è una credenza senza senso, come aveva spiegato bene, molto prima delle neuroscienze, il filosofo Spinoza. Se ci fosse qualcosa come il libero arbitrio, allora davvero potrebbe esserci qualsiasi cosa ci possiamo immaginare. Tuttavia, è vero che,nel corso dell’evoluzione della specie,abbiamo sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto credere di essere liberi e poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario successo di animali sociali. Il libero arbitrio è un’illusione, ma un’illusione molto produttiva.  L’intuizione di ritenersi liberi, in un senso vago o indefinito, è una forma di autoinganno, come tante altre che sono prodotte dalla nostra coscienza, che nel tempo è stata socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di responsabilità, con tutte le conseguenze che ne derivano anche per l’organizzazione di un ordine sociale efficiente sulla base di un sistema di obblighi. Ovviamente questa strategia è modulata da specifiche condizioni ecologiche e sociali, per cui in alcuni contesti questa illusione si può espandere e diventare la base di sistemi anche molto progrediti per qualità di vita, come quelli occidentali, mentre in altri ambienti di vita sarà più adattativo che tale intuizione e illusione non maturi neppure, o maturi in forme che sono funzionali a all’accettazione di un comportamento consapevolmente eterodiretto.   L’intuizione di ritenersi liberi è una forma di autoinganno che nel tempo è stata socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di responsabilità  Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale? Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano?  In che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze? Non è del tutto chiaro nei dettagli come interagiscano le strutture del cervello che controllano le emozioni o le reazioni impulsive, e quelle che controllano la pianificazione di azioni calcolate. Quello che si sa è che alcune condizioni, come trovarsi di fronte un’altra persona preferibilmente con le proprie stesse caratteristiche somatiche o un parente, induca l’inibizione di un comportamento utilitaristico, cioè volto a massimizzare qualche beneficio in generale a prescindere dai danni che si possono arrecare alle persone; ovvero che induca un comportamento di accudimento o altruistico, di carattere parentale o reciproco.  Mentre situazioni contrarie all’ordine morale appreso socialmente e attraverso l’educazione scatenano quasi automaticamente reazioni di disgusto o qualche altra avversione emotiva (ad esempio, rabbia o disprezzo).  Se non ci sono di mezzo contatti fisici, o rapporti parentali con altre persone, o impulsi emotivi avversi, le persone possono applicare un calcolo razionale e quindi scegliere un’azione in base all’utilità percepita o calcolata.  Comunque esistono diverse teorie su come emozioni e ragione entrano in gioco nelle scelte in generale, e in quelle morali in particolare. Quello che si sta sottovalutando, penso, è il ruolo che le emozioni, che mediano i valori morali, possono giocare nell’apprendimento di comportamenti, che a loro volta retroagiscono sui valori, cioè che possono cambiare nel tempo le predisposizioni delle persone nel rispondere a situazioni identiche o diverse. In altre parole, le emozioni servono direttamente alla sopravvivenza ed entrano in azione quando è minacciata l’omeostasi funzionale a qualche livello, e quindi servono a premiare o punire i comportamenti appresi sulla base della funzionalità che manifestano. Ma questi nuovi comportamenti possono far scoprire nuovi valori, cioè trovare premianti strategie diverse da quelle prevalenti nella società, e quindi modulare le emozioni originarie, evitando che gli impulsi emotivi inducano risposte non calcolate e che potrebbero essere deleterie.  In fondo, dato che noi occidentali sul piano genetico siamo praticamente uguali agli altri gruppi umani, qualcosa del genere potrebbe spiegare come ci siamo affrancati moralmente e politicamente da schemi decisionali tribali od oppressivi. Credits to Unsplash. Parliamo del legame tra violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto dall’aggressività nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili determinanti genetiche del comportamento aggressivo?   L’aggressività, come la cooperazione, è stata un fattore chiave per la sopravvivenza e l’evoluzione della nostra specie. Come tutti i tratti, l’aggressività è polimorfica e quindi ci sono persone geneticamente più predispostedi altre all’aggressività.  È verosimile che la selezione sociale abbia col tempo reso più vantaggiosi i geni della cooperazione in alcuni contesti ecologici, e quindi favorito il processo socio-culturale che nell’età moderna ha ridotto drammaticamente la violenza sul pianeta, e soprattutto nel mondo che ha inventato la scienza e ha abbracciato lo stato di diritto. I governi occidentali continuano giustamente la lotta contro la criminalità e la violenza, ma nella storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi. Pinker ha dimostrato questo fatto in un dettagliatissimo e acuto saggio, “Il declino della violenza”.   Nella storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi  E per quanto riguarda la differenza di genere? Cosa sappiamo dei rapporti tra cervello maschile, cervello femminile e comportamento aggressivo? Le differenze di genere nel comportamento aggressivo esistono. Studiando complessivamente l’aggressività di bambini e bambine si è visto che i due generi sono egualmente aggressivi verbalmente, mentre i bambini lo sono di più fisicamente rispetto alle bambine. Nel complesso i bambini sono più aggressivi delle bambine sul piano dell’aggressione diretta. Mentre le bambine sono indirettamente aggressive anche più dei bambini. Queste differenze, come altre, dipendono verosimilmente da stimoli ormonali nel corso dello sviluppo e rispondono a strategie adattative selettivamente vantaggiose nell’ambiente dell’evoluzione. Il modo in cui maturano il cervello maschile e femminile dipende molto dai contesti e si conoscono diversi fattori ambientali e culturali che influenzano, ad esempio, la violenza a carico delle donne. Ci sono prove concrete del fatto che il patriarcato e la sua istituzione giuridica sono fattori importanti per la persistenza della violenza maschile ai danni delle donne, e del fatto che ridurre il dominio maschile attraverso delle adeguate politiche sociali riduce la violenza maschile e che la cooperazione tra donne riduce la violenza maschile sia contro le donne sia contro altri uomini. Parliamo ora delle differenze individuali nel controllo degli impulsi. Non ci sono moltissimi dati, ma uno studio di qualche anno fa ha esaminato cosa avviene nel cervello quando si fanno scelte impulsive, che svalutano una ricompensa ritardata, ovvero come viene rappresentata dinamicamente nel cervello la svalutazione del ritardo quando si sta aspettando e anticipando una ricompensapossibile che è stata desiderata e scelta. La corteccia prefrontale ventromedialemanifesta uno schema caratteristico di attività durante il periodo di ritardo nel ricevere la ricompensa, oltre a esercitare un’attività modulatoria durante la scelta, che è coerente con la codificazione del tempo durante il quale avviene una svalutazione del valore soggettivo. Lostriato ventrale esibisce a sua volta uno schema di attività simile, ma preferenzialmente negli individui impulsivi. Un profilo contrastante di attività collegata al ritardo e alla scelta è stata osservata nella corteccia prefrontale anteriore, ma selettivamente in persone pazienti, cioè non impulsive. Quindi corteccia prefrontale ventromediale e corteccia prefrontale anteriore esercitano – sebbene ciò sia ancora da chiarire come – influenze modulatorie ma opposte rispetto all’attivazione dello striato ventrale. Ovvero quell’esperimento ci dice che il comportamento impulsivo e l’autocontrollo sono collegati a rappresentazioni neurali del valore di future ricompense, non solo durante la scelta, ma anche nelle fasi di ritardo post-scelta.  Cosa può voler dire tutto questo per il nostro discorso? Mi lasci citare ancora Spinoza, per il quale è «libera quella cosa che esiste e agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura». La vera libertà, è autonomia e indipendenza, non arbitrio o scelta indeterminata. Quindi si è tanto più liberi e non soggetti a impulsi, quanto più alcune strutture del nostro cervello, altamente connesse e addestrate dall’esperienza, lo rendono autonomo e meno soggetto o costrizioni esterne.   Credits to Unsplash.com Quali sono le possibili influenze delle disfunzioni cognitive e dei fattori ambientali sulla capacità decisionale (anche ai fini dell’imputazione penale)? Può condividere con noi qualche caso di studio? Casi di studio ce ne sono diversi, ma quelli al momento più esemplari riguardano gli effetti delle varianti alleliche del gene della mono-amin-ossidasi A, detto anche “gene del guerriero”, in quanto collegato all’aggressività su basi osservazionali mirate. In sostanza, le persone con la variante che produce meno mon-amino-ossidati A. rispondono in modi più aggressivi e violenti, rispetto a chi esprime livelli più alti.  Il fatto interessante è che se queste persone predisposte all’aggressività sono state allevate in ambienti accoglienti, esprimono un’aggressività minore rispetto a omologhi genetici cresciuti in famiglie disagiate. Anche dati sperimentali in ambito psicologico e di economia comportamentale dimostrano che le aggressioni hanno luogo con maggiore intensità e frequenza, quando provocate in un contesto sperimentale, soprattutto in soggetti con una bassa attività di mono-amino-ossidati A.  Gli studi sperimentali mostrano anche che il mono-amin-ossidati A è meno associato con la comparsa dell’aggressione in una condizione di bassa provocazione, ma predice più significativamente il comportamento aggressivo in una situazione molto provocatoria.  Esiste ormai una letteratura sterminata anche sui casi di persone con anomalie morfologiche e funzionali dell’amigdala che regolarmente esprimono un profilo sociopatico, ovvero che non provano emozioni negative quando provocano sofferenze in altri individui. Si conoscono inoltre casi di tumori cerebrali o lesioni neurologiche che alterano la personalità individuale, e non poche persone hanno commesso crimini in quanto un tumore cerebrale ha alterato le loro capacità decisionali. La memoria del testimone: in particolare, come si accerta l’attendibilità della testimonianza e quali sono i principali metodi di verifica?  Il sistema giudiziario si fonda sulla memoria: interrogatorio/confronto, testimonianze, ricordo dei giurati al momento di discutere il verdetto. Ma la memoria umana è falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false memorie.  Gli stati emotivi influenzano la qualità della memoria. La nostra storia personale influenza il modo in cui ricordiamo. Gli psicologi e gli esperti studiano soprattutto il problema della testimonianza oculare, perché in ben tre casi su cinque le identificazioni si rivelano sbagliate.  Esistono diversi metodi di controllo/verifica e volti a ridurre gli errori nelle testimonianze. Uno di questi analizza per esempio l’accuratezzadella testimonianza oculare e delle modalità di interrogatorio del testimone, per arrivare a una probabilità relativa al caso.   Il sistema giudiziario si fonda sulla memoria. Ma la memoria umana è falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false memorie.  Esiste anche un diritto alla riservatezza per i nostri ricordi. Nel senso che se io non intendo comunicare a qualcuno un ricordo, ho diritto a tenerlo per me. Un giudice deve avere forti ragioni per forzare l’accesso alla mia memoria, ed è comunque tenuto a rispettare i miei diritti fondamentali se ci prova. Se davvero si riuscirà a costruire affidabili brain lie detector, macchine della verità con accesso alle memorie cerebrali, si configurerà un problema sul fronte di normare i limiti del diritto di un giudice far rilevare impronte mnestiche del nostro cervello, i ai fini di un’indagine processuale. Non tanto per la riservatezza del dato di interesse, cioè se un imputato o un testimone mentono o dico la verità nel caso in specie, ma per il fatto che quell’accesso può rendere noti dei fatti che non hanno rilevanza con l’indagine e che potrebbero danneggiare la persona. Inoltre, alcuni farmaci e tecnologie possono potenziare la memoria individuale. Ebbene, sarebbe lecito consentire a o incentivare alcuni attori del procedimento giudiziario (giudici e giurati) a potenziare le loro memorie ai fini di un più efficiente funzionamento del sistema? La morale ha, o potrebbe avere, un fondamento biologico?  La morale ha un fondamento biologico. La morale serve a tenere insieme i gruppi umani sociali, e ha creato le premesse sociobiologiche per l’affermarsi della religiosità quale sistema di controllo incorporato nelle persone e alimentato socialmente per garantire che i valori morali adattativi in società meno complesse delle nostre siano mantenuti e trasmessi. In prospettiva: quali sono a suo avviso i possibili intrecci tra acquisizioni neuroscientifiche e diritto penale? Quale impatto potrebbero avere sugli attuali meccanismi di attribuzione della responsabilità e di applicazione della pena?  Su questo punto la penso come chi ha detto che con l’arrivo delle neuroscienze, nel diritto, cambia tutto e non cambia niente. Vale a dire che il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali. Mentre si potrebbe affermare un concetto consequenzialista(utilitarista) della concezione della pena, più vicino al diritto positivo.   Il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali  In Italia, come vengono accolte dalla magistratura le evidenze neuroscientifiche? E a livello internazionale? L’Italia è all’avanguardia, se così si può dire, nell’uso di prove neuroscientifiche in tribunale. Due sentenze in particolare, Trieste e Como, riconobbero il ruolo causale di tratti neurogenetici nel comportamento delittuoso, e di conseguenza attribuirono uno sconto di pena.  Le sentenze italiane sono state accolte con allarme in diversi contesti internazionali. Ma c’è poco da fare: se queste conoscenze e tecnologie acquisiranno una base sperimentalmente solida e consentiranno di prevedere con buona attendibilità le predisposizioni a commettere reati, è inevitabile che entreranno a far parte dello strumentario di lavoro dei giudici.  Tuttavia, esiste un’ambivalenza in Italia, come in altri paesi, verso l’uso delle prove neuroscientifiche. Intanto in Italia non tutti i giudici hanno ancora chiaro cosa sia una perizia neuroscientifica e ignorano criteriepistemologicamente validi e formalmente definiti per scegliere periti che apportino davvero prove scientifiche e controllate nel contesto di un dibattimento processuale. Ciò sebbene la Cassazione abbia in sentenze recenti fatto proprio lo Standard Daubert, che elenca regole di ammissibilità delle prove nei processi statunitensi.  Inoltre, si tratta comunque di definire cosa implica una diminuita imputabilità per colui che commette un reato, in quanto le sue azioni e decisioni dipendevano dal modo di funzionare del cervello e dalla sua dotazione genetica. Questo individuo è meno libero di altri e quindi anche meno responsabile, e quindi le sanzioni dovrebbero essere volte a ridurre al minimo le probabilità di reiterazione del o dei reati. Il riferimento è al noto scritto di Greene, J. Cohen, For the law, neuroscience changes nothing and everything, in Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci. 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Gli animali ebbero origine nell'acqua, dove erano tutti simili a pesci; con il tempo sono saliti sulla terraferma dove, liberati dalle scaglie, hanno continuato a vivere. Tale fu anche l'origine dell'uomo. Con l'avvento del Cristianesimo, e fino almeno all'evo moderno, l'indagine scientifica fu dominata dall'impianto filosofico essenzialista di derivazione aristotelica, nel quale la possibilità stessa della conoscenza si fonda sulla fissità della specie; inoltre, l'evoluzione non si armonizza con la Genesi e non trova collocazione in un sistema di riferimento che considera le specie immutabili perché perfette, in quanto create ex nihilo da Dio. Nel XVII secolo, col riaffiorare delle antiche concezioni, la parola evoluzione cominciò ad essere utilizzata come riferimento a un'ordinata sequenza di eventi, particolarmente quando un risultato si trovava, in qualche modo, già dall'inizio contenuto all'interno di essa. La storia naturale si sviluppò enormemente, mirando ad investigare e catalogare le meraviglie dell'operato di Dio. Le scoperte effettuate dimostrarono l'estinzione delle specie, che fu spiegata dalla teoria del catastrofismo di Cuvier, secondo cui gli animali e le piante venivano periodicamente annientati a causa di catastrofi naturali per poi essere rimpiazzate da nuove specie create dal nulla. In contrapposizione ad essa, la teoria dell'Uniformitarismo di James Hutton, del 1785, ipotizzava un graduale sviluppo della Terra, il cui aspetto non era dovuto ad eventi catastrofici ma a un lento processo perpetuatosi attraverso gli eoni.  Darwin, nonno di Charles, avanza delle ipotesi sulla discendenza comune affermando che gli organismi acquisivano "nuove parti" in risposta a degli stimoli e che questi cambiamenti venivano trasmessi alla loro discendenza; nel 1802 suggerì la selezione naturale. Lamarck sviluppò una teoria simile (l'"ereditarietà dei caratteri acquisiti"), la quale ipotizzava che tratti "necessari" venissero ereditati col passaggio da una generazione alla successiva. Queste teorie di trasmutazione furono sostenute in Gran Bretagna dai Radicali come Robert Edmond Grant. In questo periodo l'opera di Malthus, Saggio sul principio della popolazione, influenzò il libero pensiero mostrando come l'incremento della popolazione mondiale fosse correlato a un eccesso nelle risorse disponibili.  Varie teorie furono proposte per riconciliare la Creazione biologica con le nuove scoperte scientifiche, incluso l'attualismo di Charles Lyell secondo cui ogni specie aveva un suo "centro di creazione" ed era progettata per un particolare habitatil cui cambiamento portava inevitabilmente alla sua estinzione. Charles Babbage ritenne che Dio avesse creato le leggi per un programma divino che operava per la produzione delle specie e Owen seguì Johannes Müller nel pensiero che la materia vivente avesse un'"energia organizzativa", una forza vitale (Lebenskraft) che, dirigendo lo sviluppo dei tessuti, determinava l'arco di vita degli individui e delle specie.  Antichità Greci Ipotesi secondo cui un tipo di animale, perfino l'essere umano, potesse discendere da altri tipi di animali erano state formulate dai filosofi greci Presocratici. Anassimandro di Mileto suppose che i primi animali vivessero in acqua, durante una fase umida del passato della Terra, e che i primi avi viventi a terra della razza umana dovevano essere nati in acqua, e aver passato solo una parte della loro vita sulla terraferma. Intuì anche che il primo umano della forma conosciuta oggi doveva essere stato il figlio di un altro tipo di animale, perché l'uomo ha bisogno di un lungo periodo di accudimento per raggiungere l'autonomia. Empedocle di GIRGENTI; intuì che quello che noi chiamiamo nascita e morte degli animali sono solamente il mischiarsi e il separarsi degli elementi che formano "l'infinita tribù delle cose mortali". Più in particolare, i primi animali e le prime piante erano simili alle parti divise che formano quelli che vediamo oggi, qualcuna delle quali sopravvisse unendosi in differenti combinazioni, e poi mescolandosi di nuovo, finché "tutto riuscì come se fosse stato fatto di proposito, lì le creature sopravvissero, essendo accidentalmente composte in modo corretto". Altri filosofi diventarono più importanti nel Medioevo, fra cui Platone, Aristotele, ed esponenti della scuola stoica di filosofia, credevano che le specie di tutte le cose, non solo viventi, fossero state stabilite da un progetto divino.  Epicuro dell’ORTO ha anticipato l'idea della selezione naturale. Il filosofo romano e atomista LUCREZIO espone queste idee nel suo poema De rerum natura (Sulla natura delle cose). Nel sistema Epicureo, si è ipotizzato che molte specie siano state generate spontaneamente da Gea in passato, ma che solo le forme più funzionali siano sopravvissute e abbiano avuto progenie. Gli epicurei non sembrano aver anticipato l'intera teoria dell'evoluzione come la conosciamo oggi, ma sembra che abbiamo postulato una teoria abiogeneticaseparata per ciascuna specie, piuttosto che postulare un singolo evento abiogenetico con la differenziazione delle specie a partire da uno o più organismi progenitori originari.  Cinesi Antichi pensatori cinesi come Zhuang Zhou, un filosofo taoista, hanno espresso varie idee su come le specie biologiche si siano diversificate. Secondo Joseph Needham, il Taoismo nega esplicitamente la fissità delle specie biologiche, e filosofi taoisti ipotizzano che le specie abbiano sviluppato diversi attributi in risposta ad ambienti differenti. Il Taoismo insegna che gli esseri umani, la natura e il cielo sono in uno stato di "trasformazione costante" noto come il Tao, una visione della natura in contrasto con quella più statica tipica del pensiero occidentale.  Romani Il poema di Lucrezio De rerum natura fornisce la migliore spiegazione superstite del pensiero dei filosofi epicurei greci. Esso descrive lo sviluppo del cosmo, la Terra, gli esseri viventi, e la società umana attraverso meccanismi puramente naturalistici, senza alcun riferimento al coinvolgimento soprannaturale. De rerum natura potrebbe aver influenzato le speculazioni cosmologiche ed evolutive di filosofi e scienziati durante e dopo il Rinascimento. Il suo punto di vista è in forte contrasto con le opinioni di filosofi romani della scuola stoica come CICERONE, Seneca, e PLINIO il Vecchio che avevano una visione fortemente teleologica del mondo naturale che ha influenzato la teologia cristiana. CICERONE riporta che la visione peripatetica e stoica delle natura riguarda fondamentalmente il produrre vita "capace di sopravvivere nel migliore dei modi", cosa data per scontata tra l'élite ellenistica. Agostino. Agostino in un dipinto di Lippi In linea con il precedente pensiero greco, il vescovo e teologo del IV secolo, Agostino di Ippona, scrisse che la storia della creazione nel libro della Genesi, non doveva essere letta troppo alla lettera. Nel suo libro De Genesi ad litteram ("Sul significato letterale della Genesi"), ha dichiarato che in alcuni casi le nuove creature potrebbero essersi originate attraverso la "decomposizione" di precedenti forme di vita. Per Agostino — a differenza di quelle che considerava le forme teologicamente perfette degli angeli, il firmamento e l'anima umana — le "piante, uccelli e la vita animale non sono perfetti… ma creati in uno stato di potenzialità". L'idea di Agostino che le forme di vita siano state trasformate "lentamente nel corso del tempo" ha spinto padre Giuseppe Tanzella-Nitti, docente di teologia presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma, a sostenere che Agostino abbia suggerito una forma di evoluzione. Osborn scrisse in From the Greeks to Darwin:  "Se l'ortodossia di Agostino fosse rimasta una dottrina della Chiesa, la scoperta dell'evoluzione sarebbe avvenuta molto prima di quanto non abbia fatto, certamente nel corso del XVIII invece del XIX secolo, e la controversia su questa verità della Natura non sarebbe mai sorta… Chiaramente la creazione diretta o istantanea di animali e piante sembrava essere insegnata dalla Genesi, Agostino lesse questo alla luce del nesso di causalità primaria e il graduale sviluppo da imperfetto a perfetto spiegato da Aristotele. Questo influente insegnante ha così tramandato ai suoi seguaci pareri strettamente conformi alle vedute progressiste di questi teologi del nostro tempo che hanno accettato la teoria evoluzione. In Storia della lotta della scienza con la teologia nella cristianità (A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom), dove White scrisse sui tentativi di Agostino di preservare l'antico approccio evolutivo alla creazione:  "Per secoli una dottrina largamente accettata era che l'acqua, la sporcizia, e le carogne avevano ricevuto il potere dal Creatore per generare vermi, insetti, e una moltitudine di piccoli animali; e questa dottrina era stata accolta con particolare favore da Sant'Agostino e molti dei padri fondatori, in quanto solleva l'Onnipotente dal creare, Adamo dal nominare, e Noè dal vivere nell'arca con queste innumerevoli specie disprezzate. In De Genesi contra Manichæos, Agostino dice: "Supporre che Dio creò l'uomo dalla polvere con le mani è molto infantile… Dio non plasmò l'uomo con le mani né soffiò su di lui con la gola e le labbra…" Agostino suggerisce in altri lavori la sua teoria dello sviluppo degli insetti dalle carogne, e l'adozione della vecchia teoria dell'evoluzione, mostrando che "alcuni animali molto piccoli non possono essere stati creati nei giorni quinto e sesto, ma possono essere stati originati in seguito dalla putrefazione della materia." Per quanto riguarda l'agostiniana De Trinitate ("Sulla Trinità"), White ha scritto che Agostino "…sviluppa finalmente l'idea che dietro la creazione di esseri viventi c'è qualcosa di simile a un'evoluzione, di cui Dio è l'autore ultimo, che opera attraverso le cause seconde; e, infine, sostiene che alcune sostanze sono dotate da Dio del potere di produrre alcune classi di piante e animali.. Una pagina del Kitāb al-Hayawān (libro degli animali) di Al-Jāḥiẓ La filosofia islamica e la lotta per l'esistenzaModifica Anche se le idee evolutive di greci e romani si estinsero in Europa dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, non furono abbandonate dai filosofi e scienziati islamici. Nell'Epoca d'oro islamica, i filosofi esplorarono nuove idee nel campo della storia naturale, quali la trasmutazione dal non vivente al vivente: "dal minerale al vegetale, dalla pianta all'animale, e dall'animale all'uomo. Nel mondo islamico medievale, lo studioso al-Jahiz(776 -868) scrisse un libro sugli animali nel IX secolo, dove descrive la catena alimentare. Khaldun scrive il Muqaddimah in cui afferma che gli esseri umani si sono sviluppati dal "mondo delle scimmie", in un processo attraverso il quale "le specie diventano più numerose". Alcuni dei suoi pensieri, secondo alcuni commentatori, anticipano la teoria biologica dell'evoluzione. Nel primo capitolo si legge: "Il mondo con tutte le cose in esso create ha un certo ordine e la sua solida costruzione mostra nessi tra cause ed effetti, combinazioni fra alcune parti della creazione ed altre, trasformazioni di alcune cose esistenti in altre, in uno straordinario reticolo senza fine. Aquino in un dipinto di Carlo Crivelli Durante il Medioevo, la cultura classica greca decadde in Occidente. Tuttavia, il contatto con il mondo islamico, dove i manoscritti greci erano stati conservati e ampliati, ben presto portò a un'ondata massiccia di traduzioni latine, che re-introdussero in Europa le opere greche, nonché quelle del pensiero islamico.  La maggior parte dei teologi cristiani credeva che il mondo fosse progettato secondo una gerarchia immutabile, la grande catena dell'essere o scala naturae, che influenzò il pensiero della civiltà occidentale per secoli. Altri teologi erano più aperti alla possibilità che il mondo si fosse sviluppato attraverso processi naturali. AQUINO si spinse oltre il pensiero di Agostino nel sostenere che i testi sacri come la Genesi non dovessero essere interpretati in modo letterale, poiché ciò si poneva in conflitto con quello che i filosofi naturali avevano imparato sul funzionamento del mondo naturale, e li vincolava dallo scoprire nuove cose[non chiaro]. L'Aquinate pensava che l'autonomia della natura fosse un segno della bontà di Dio, e che non vi era alcun conflitto tra il concetto di un universo divinamente creato, e l'idea che l'universo si potesse essere evoluto nel tempo attraverso meccanismi naturali.Tuttavia, Tommaso contestava i sostenitori di Empedocle, che sostenevano che l'universo avrebbe potuto svilupparsi anche senza un obiettivo di fondo. Rinascimento e IlluminismoModifica  Comparazione di uno scheletro umano con uno scheletro di uccello ad opera di Belon La filosofia meccanica di Cartesio incoraggiò l'uso della metafora dell'universo come macchina, un concetto che avrebbe caratterizzato la rivoluzione scientifica. Alcuni naturalisti, come Benoît de Maillet, produssero teorie che sostenevano che l'universo, la Terra, e la vita, si erano sviluppati meccanicamente, senza una guida divina. Maupertuis virò verso un'idea più materialista, scrivendo che le modifiche naturali si verificano durante la riproduzione e si accumulano nel corso di molte generazioni, producendo razze e specie nuove; una descrizione che ha anticipato il concetto di selezione naturale. La parola evoluzione (dal latino evolutio, "srotolare, svolgere") è stata inizialmente utilizzata in riferimento allo sviluppo embrionale; il suo primo impiego in relazione allo sviluppo della specie è venuto nel 1762, quando Charles Bonnet la ha utilizzata per il suo concetto di "pre-formazione", in cui le donne portavano una forma in miniatura di tutte le generazioni future. Il termine ha poi guadagnato gradualmente il significato più generale di crescita o sviluppo progressivo. Più tardi nel XVIII secolo, il filosofo francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, uno dei più importanti naturalisti del tempo, ha suggerito che le specie erano in realtà solo delle varietà ben delineate, prodotte dalle modifiche, dovute a fattori ambientali, di un organismo originale. Ad esempio, credeva che leoni, tigri, leopardi e gatti di casa potessero avere tutti un antenato comune. Leclerc ha inoltre ipotizzato che le circa 200 specie di mammiferi conosciute in quel periodo potessero essere derivate da solo 38 forme animali originali. Le idee evolutive del conte erano però limitate; credeva che ciascuna delle forme originali fossero sorte per generazione spontanea e che ognuno fosse stata modellata da "muffe interne" che limitavano la quantità di cambiamenti possibili. Le opere di Buffon, Histoire Naturelle e Époques de la nature, contengono teorie ben sviluppate sull'origine materialista della Terra; la sua messa in discussione della fissità della specie è stata estremamente influente.[24]  Un altro filosofo francese, Denis Diderot, scrive che le cose viventi possono essere sorte per generazione spontanea, e che le specie sono in uno stato di costante evoluzione attraverso un processo in cui nuove forme di vita sorgono continuamente, e possono sopravvivere o meno in base al caso; un'idea che può essere considerata un'anticipazione parziale della teoria della selezione naturale. Burnett, Lord di Monboddo, incluse nei suoi scritti, non solo il concetto che l'uomo era disceso dai primati, ma anche che, in risposta all'ambiente, le creature avevano trovato metodi di trasformare le loro caratteristiche in lunghi intervalli di tempo. Il nonno di Darwin, Darwin, pubblicò Zoonomi, dove suggerì che "tutti gli animali a sangue caldo sono sorti da un filamento vivente".[26] Nel suo poema Tempio della Natura, Erasmus ha descritto il progredire della vita dai minuscoli organismi viventi nel fango fino a giungere alla biodiversità moderna. La nascita della teoria di Darwin All'Università di Edimburgo, durante gli studi, Charles Darwin fu coinvolto direttamente negli sviluppi della teoria evoluzionistica di Robert Edmund Grant, ispirata dalle idee di Erasmus Darwin e Lamarck. In seguito, all'Università di Cambridge, i suoi studi di teologia lo convinsero ad accettare le considerazioni di William Paley sul "disegno" di un Creatore, mentre il suo interesse nella storia naturale aumentò grazie al botanico John Stevens Henslow e al geologo Adam Sedgwick, entrambi fermamente credenti in una creazione divina e nell'antico uniformismo della terra. Durante il viaggio del Beagle, Darwin si convinse della fondatezza dell'attualismo di Lyell e cercò di conciliare le varie teorie creazionistiche con le prove che riuscì ad evidenziare. Al suo ritorno, Richard Owen dimostrò che i fossili che Darwin aveva trovato, appartenevano a specie estinte mostranti relazioni con delle specie viventi in alcune località. Gould rivelò con sorpresa che gli uccelli completamente diversi ritrovati nelle Isole Galápagos erano, in realtà, 13 specie diverse di fringuelli (conosciuti ora, volgarmente in tutto il mondo, come i Fringuelli di Darwin). Schizzo di un albero filogeneticodisegnato da Darwin negli appunti preparatori del suo First Notebook on Transmutation of Species. Darwin medita sulla trasmutazionein una serie di appunti segreti. Si occupò inoltre della selezione artificiale delle razze domestiche, consultando William Yarrell e leggendo un opuscolo scritto da un amico, Sebright, il quale commentava come "con un severo inverno, o una scarsità di cibo, attraverso l'uccisione degli individui deboli e malaticci, si avessero tutti i migliori effetti della più abile selezione". Nel 1838, in uno zoo, vide per la prima volta una scimmia antropomorfa: il bizzarro comportamento di un orango lo impressionò per la somiglianza con quello di un "bambino dispettoso" e, dalla sua esperienza sui nativi della Terra del Fuoco, lo portò a pensare che non ci fosse poi un grande abisso tra gli uomini e gli animali, a dispetto della dottrina teologica che considera solo la specie umana possedente un'anima. Darwin comincia a leggere la sesta edizione del Saggio sul principio della popolazione di Malthus, con la quale ricordò la dimostrazione statistica secondo cui la popolazione umana, riproducendosi al di sopra dei propri mezzi, competesse per la sopravvivenza. In questo periodo tentò di applicare per primo questi principi alle specie animali. Darwin applicò nella sua ricerca il pensiero liberista sulle leggi di Natura, considerando la pura lotta per la vita priva di sostegni esterni. Dal dicembre 1838 intravide una somiglianza tra il concetto della selezione artificiale e la Natura Malthusiana che selezionava, attraverso il cambiamento, le varianti da eliminare, in modo che ogni parte delle nuove strutture acquisite fosse pienamente pratica e perfetta.  L'origine delle specieModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: L'origine delle specie. La sintesi evolutiva modernaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Neodarwinismo.Anassimandro di Mileto afferma che dall'acqua e dalla terra riscaldate sarebbero nati dei pesci o degli animali molto simili a pesci; in questi concrebbero gli uomini, e i feti vi rimasero rinchiusi fino alla pubertà. Quando questi si spezzarono, allora finalmente ne uscirono uomini e donne che potevano già nutrirsi." (Censorino, De die natali) Anassimandro dice pure che da principio l'uomo fu generato da animali di altra specie." (Plutarco, Doxa) ^ Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Colin A. Ronan, The Shorter Science and Civilisation in China: An Abridgement by Ronan of Needham's Original Text, Cambridge; New York, Cambridge, Miller James, Daoism and Nature, su jamesmiller.ca Sedley, Lucretius, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, Stanford, CA, Stanford, Bowler, The Earth Encompassed: A History of the Environmental Sciences., in Norton History of Science, New Yorki, Norton, CICERONE (si veda), De Natura Deorum. Sant'Agostino, La genesi alla lettera. ^ Gill, Meredith J., Augustine in the Italian Renaissance: Art and Philosophy from Petrarch to Michelangelo, Cambridge; New York, Cambridge, Owen, Vatican buries the hatchet with Charles Darwin, su Times, Bergoglio, "Teoria del Big Bang non contraddice la creazione divina. Dio non è stato un mago", su huffingtonpost.it, Huffington Post, Fairfield, From the Greeks to Darwin: An Outline of the Development of the Evolution Idea, New York, Macmillan, Dickson White, Storia della lotta della scienza con la teologia nella cristianità, edizione inglese: A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom, vol. 1, New York, Londra, D. Appleton et Company, Gutenberg. ^ Ben Waggoner, Medieval and Renaissance Concepts of Evolution and Paleontology, su ucmp.berkeley.edu, University of California Museum of Paleontology. Egerton, A History of the Ecological Sciences, Arabic Language Science Origins and Zoological Writings, in Bulletin of the Ecological Society of America, Washington, D.C., Teodros, Explorations in African Political Thought: Identity, Community, Ethics, in New Political Science Reader Series, New York, Routledge, Khaldūn: "Sixth Prefatory Discussion, in Muqaddimah. 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In the few years of the pre-  Christian period that remained the teaching of Empedocles, and of Epicurus as the mouthpiece of the  y atomic theory, was revived by LUCREZIO in his “De Rerum Natura.” Of that remarkable man but little is recorded, and the record is untrustworthy. LUCREZIO died by his own  hand, Jerome says, but of this there is no proof. It is difficult, taking up LUCREZIO’s wonderful poem, to resist the temptation to make copious extracts from it, since, even through the  vehicle of Munro's annotations, it is  probably little known to the Oxford pupil in Literae Humaniores in these evil days of snippety philosophy. But the temptation  must be resisted, save in moderate degree. With the dignity which his high mission inspires, LUCREZIO appeals to us in the threefold character of teacher, reformer, and poet. First, by reason of  the greatness of my argument, and because I set the  mind free from the close-drawn bonds of your Roman superstitions; and next because, on so dark a theme, I compose such lucid verse, touching every point with the grace of poesy. As a teacher, LUCREZIO expounds the doctrines of The Garden (L’Orto) concerning life and nature. As a reformer, LUCREZIO attacks the Roman superstitions. As a philosophical poet, LUCREZIO informs both the atomic philosophy and its moral application with harmonious and beautiful verse swayed by a fervour that is akin to religious emotion. Discussing at the outset various theories of origins, and dismissing these, notably that which asserts  that things came from nothing for if so, any kind might be born of anything, nothing would require seed," LUCREZIO proceeds to expound the teaching  of the atomists as to the constitution of things by particles of matter ruled in their  movements by unvarying laws. This theory LUCREZIO works all round, explaining the processes by which  the atoms unite to carry on the birth, growth, and  decay of things, the variety of which is due to variety  of form of the atoms and to differences in modes  of their combination; the combinations being deter-  mined by the affinities or properties of the atoms  themselves, " since it is absolutely decreed what each  thing can and what it cannot do by the conditions of  Nature." Change is the law of the universe;. what  is, will perish, but only to reappear in another form.  Death is "the only immortal"; and it is that and  what may follow it which are the chief tormentors  of men. " This terror of the soul, therefore, and this  darkness, must be dispelled, not by the rays of the  sun or the bright shafts of day, but by the outward  aspect and harmonious plan of Nature." LUCREZIO explains that the soul, which he places in the centre of the breast, is also formed of very minute atoms of  heat, wind, calm air, and a finer essence, the pro-  portions of which determine the character of both  men and animals. It dies with the body, in support of which statement LUCREZIO advances XVIII arguments, so determined is he to " deliver those  who through fear of death are all their lifetime subject to bondage. These themes fill the first three books. In the  fourth he grapples with the mental problems of sensation and conception, and explains the origin of belief in immortality as due to ghosts and appari-  tions which appear in dreams. " When sleep has  prostrated the body, for no other reason does the  mind's intelligence wake, except because the very  same images provoke our minds which provoke them  when we are awake, and to such a degree that we  seem without a doubt to perceive him whom life has  left, and death and earth gotten hold of. This Na-  ture constrains to come to pass because all the senses  of the body are then hampered and at rest throughout the limbs, and cannot refute the unreal by real  things."   In the fifth book Lucretius deals with origins —  of the sun, the moon, the earth (which he held to be  flat, denying the existence of the antipodes); of life  and its development; and of civilization. In all this  he excludes design, explaining everything as pro-  duced and maintained by natural agents, "the masses,  suddenly brought together, became the rudiments of  earth, sea, and heaven, and the race of living things."  He believed in the successive appearance of plants  and animals, but in their arising separately and di-  rectly out of the earth, " under the influence of rain  and the heat of the sun," thus repeating the old  speculations of the emergence of life from slime,  " wherefore the earth with good title has gotten and  keeps the name of mother." He did not adopt Empedocles's theory of the " four roots of all things,"  and he will have none of the monsters — ^the hippo-  griflFs, chimeras, and centaurs — ^which form a part of  the scheme of that philosopher. These, he says,  ** have never existed," thus showing himself far in  advance of ages when unicorns, dragons, and such-like fabled beasts were seriously believed to exist.  In one respect, more discerning than Aristotle, he  accepts the doctrine of the survival of the fittest as  taught by the sage of GIRGENTI. For he argues that since upon "the increase of some Nature set a  ban, so that they could not reach the coveted flower  of age, nor find food, nor be united in marriage,"  many races of living things have died out, and  been unable to beget and continue their breed." LUCREZIO speaks of GIRGENTI in terms scarcely less exaggerated than those which he applied to Epi-  curus. The latter is " a god " who first found out  that plan of life which is now termed wisdom, and  who by tried skill rescued life from such great billows and such thick darkness and moored it in so  perfect a calm and in so brilliant a light, ... he  cleared men's breasts with truth-telling precepts, and  fixed a limit to lust and fear, and explained what  was the chief good which we all strive to reach." As  to GIRGENTI," that great country (Sicily) seems  to have held within it nothing more glorious than  this man, nothing more holy, marvellous, and dear.  The verses, too, of this godlike genius cry with a  loud voice, and make known his great discoveries,  so that he seems scarcely bom of a mortal stock."  Continuing his speculations on the development  of living things, Lucretius strikes out in bolder and     l.^    original vein. The past history of man, he says, lies  in no heroic or golden age, but in one of struggle  out of savagery. Only when "children, by their  coaxing ways, easily broke down the proud temper  of their fathers," did there arise the family ties out  of which the wider social bond has grown, and soft-  ening and civilizing agencies begin their fair offices.  In his battle for food and shelter, " man's first arms  were hands, nails and teeth and stones and boughs  broken off from the forests, and flame and fire, as  soon as they had become known. Afterward the  force of iron and copper was discovered, and the use  >^. ' of copper was known before that of iron, as its nature is easier to work, and it is found in greater quantity.  With copper they would labour the soil of the earth  and stir up the billows of war. Then by slow  steps the sword of iron gained ground and the make  of the copper sickle became a byword, and with iron  they began to plough through the earth's [soil, and  the struggles of wavering man were rendered equal."  As to language, " Nature impelled them to utter the  various sounds of the tongue, and use struck out the  names of things." Thus does Lucretius point the  road along which physical and mental evolution have  since travelled, and make the whole story subordi-  nate to the high purpose of his poem in deliverance  of the beings whose career he thus traces from super-  stition. Man " seeing the system of heaven and the  different seasons of the years could not find out by  what causes this was done, and sought refuge in handing over all things to the gods and supposing  all things to be guided by their nod." Then, in the  sixth and last book, the completion of which would  seem to have been arrested by his death, LUCREZIO explains the law of winds and storms, of earth-quakes and volcanic outbursts, which men " foolishly  lay to the charge of the gods," who thereby make  known their anger. So, loath to suffer mute,  We, peopling the void air,  Make Gods to whom to impute  The ills we ought to bear ;  With God and Fate to rail at, suffering easily.   And what a motley crowd of gods they were on  whose caprice or indifference he pours his vials of  anger and contempt! The tolerant pantheon of  Rome gavie welcome to any foreign deity with respectable credentials; to Cybele, the Great Mother,  imported in the' shape of a rough-hewn stone with  pomp and rejoicings from Phrygia 204 b. c; to Isis,  welcomed from Egypt; to Herakles, Demeter, As-  klepios, and many another god from Greece. But these are dismissed from a man's thought when the prayer or sacrifice to them had been offered at the  due season. They had less influence on the Roman's  life than the crowd of native godlings who were  thinly disguised fetiches, and who controlled every  action of the day. For the minor gods survive the changes in the pantheon of every race. Of the Greek  peasant of to-day Mr. Rennel Rodd testifies, in his Custom and Lore of Modern Greece, that much as  he would sliudder at the accusation of any taint of  paganism, the ruling of the fates is more immediately real to him than divine omnipotence. Mr.  Tozer confirms this in his Highlands of Turkey. He  says: " It is rather the minor deities and those as-  sociated with man's ordinary life that have escaped  the brunt of the storm, and returned to live in a dim  twilight of popular belief. In India, Lyall tells us that, " even the supreme triad of Hindu  allegory, which represents the almighty powers of  creation, preservation, and destruction, have long  ceased to preside actively over any such correspond-  ing distribution of functions. Like limited monarchs, they reign, but do not govern. They are  superseded by the ever-increasing crowd of godlings  whose influence is personal and special, as shown by  Mr. Crooke in his instructive Introduction to the  Popular Religion and Folk-lore of Northern India. The old ROMAN CATALOGUE of spiritual beings,  abstractions as they were, who gfuarded life in minute  detail, is a long one. From the indigitamenta^ as  such lists are called, we learn that no less than forty-  three were concerned with the actions of a child.  When the farmer asked Mother Earth for a good  harvest, the prayer would not avail unless he also  invoked " the spirit of breaking up the land and the  spirit of ploughing it crosswise; the spirit of furrow-  ing and the spirit of ploughing in the seed; and the  spirit of harrowing; the spirit of weeding and the spirit of reaping; the spirit of carrying com to the  barn; and the spirit of bringing it out again." The  country, moreover, swarmed with Chaldaean astrolo-  gers and casters of nativities; with Etruscan harus-  pices full of " childish lightning-lore, who foretold  eve'tits from the entrails of sacrificed animals; while  in competition with these there was the State-supported college of augurs to divine the will of the  gods by the cries and direction of the flight of birds.  Well might the satirist of such a time say that the place was so densely populated with gods as to  leave hardly room for the men."   It will be seen that the justification for including  Lucretius among the Pioneers of Evolution lies in  his two signal and momentous contributions to the  science of man; namely, the primitive savagery of  the human race, and the origin of the belief in a  soul and a. future life. Concerning the first, an-  thropological research, in its vast accumulation of  materials during the last sixty years, has done little  more than fill in the outline which the insight of LUCREZIO enabled him to sketch. As to the second,  he anticipates, well-nigh in detail, the ghost-theory  of the origin of belief in spirits generally which Her-  bert Spencer and Dr. Tylor, following the lines laid  down by Hume and Turgot, have  formulated and sustained by an enormous mass of  evidence. The credit thus due to Lucretius for the  original ideas in his majestic poem — Greek in con-  ception and Roman in execution — has been obscured in the general eclipse which that poem suf-  fered for centuries through its anti-theological spirit.  Grinding at the same philosophical mill, Aristotle,  because of the theism assumed to be involved in his  " perfecting principle," was cited as " a pillar of the  faith" by the Fathers and Schoolmen; while Lucre-  tius, because of his denial of design, was “anathema  maranatha.” Only in these days, when the far-reach-  ing effects of the theory of evolution, supported by  observation in every branch of inquiry, are apparent,  are the merits of Lucretius as an original seer, more  than as an expounder of the teachings of GIRGENTI and L’ORTO, made clear.   Standing well-nigh on the threshold of the Chris-  tian era, we may pause to ask what is the sum of  the speculation into the causes and nature of things  which, begun in Ionia (with impulse more or less  slight from the East), by Thales, ceased, for many centuries, in the  poem of Lucretius, thus covering an active period  of about five hundred years. The caution not to see  in these speculations more than an approximate ap-  proach to modern theories must be kept in mind. There is a primary substance which abides  amidst the general flux of things.   All modern research tends to show that the various  combinations of matter are formed of some prima ma-  teria. But its ultimate nature remains unknown.   2. Out of nothing comes nothing.  Modern science knows nothing of a beginnings and, moreover, holds it to be unthinkable. In this it stands  in direct opposition to the theological dogma that God  created the universe out of nothing; a dogma still  accepted by the majority of Protestants and binding on  Roman Catholics. For the doctrine of the Church of Rome thereon, as expressed in the Canons of the  Vatican Council, is as follows: " If any one confesses  not that the world and all things which are contained  in it, both spiritual and mental, have been, in their  whole substance, produced by God out of nothing; or  shall say that God created, not by His free will from  all necessity, but by a necessity equal to the necessity  whereby He loves Himself, or shall deny that the  world was made for the glory of God: let him be  anathemaJ'  The primary substance is indestructible. The modern doctrine of the Conservation of Energy  teaches that both matter and motion can neither be ere-  ated nor destroyed. The universe is made up of indivisible particles  called atoms, whose manifold combinations, ruled  by unalterable affinities, result in the variety of  things. With modifications based on chemical as well as  mechanical changes among the atoms, this theory of  Leucippus and Democritus is confirmed. (But recent  experiments and discoveries show that reconstruction  of chemical theories as to the properties of the atom may  happen.) Change is the law of things, and is brought  about by the play of opposing forces.   Modern science explains the changes in phenomena  as due to the antagonism of repelling and attracting  modes of motion; when the latter overcome the former,  equilibrium will be reached, and the present state of  things will come to an end.   6. Water is a necessary condition of life.  Therefore life had its beginnings in water; a theory   wholly indorsed by modern biology, Life arose out of non-living matter. Although modern biology leaves the origin of life   as an insoluble problem, it supports the theory of  fundamental continuity between the inorganic and the  organic.  Plants came before animals: the higher organ-  isms are of separate sex, and appeared subsequent  to the lower. Generally confirmed by modern biology, but with  qualification as to the undefined borderland between  the lowest plants and the lowest animals. And, of  course, it recognises a continuity in the order and  succession of life which was not grasped by the Greeks. Aristotle and others before him believed that some of  the higher forms sprang from slimy matter direct.   9. Adverse conditions cause the extinction of  some organisms, thus leaving room for those better  fitted.   Herein lay the crude germ of the modern doctrine  of the survival of the fittest. Man was the last to appear, and his primi-  tive state was one of savagery. His first tools and  weapons were of stone; then, after the discovery of  metals, of copper; and, following that, of iron. His  body and soul are alike compounded of atoms, and  the soul is extinguished at death. The science of Prehistoric Archceology confirms the  theory of man's slow passage from barbarism to civili-  zation; and the science of Comparative Psychology de-  clares that the evidence of his immortality is neither stronger nor weaker than the evidence of the immortality of the lower animals. Such, in very broad outline, is the legacy of sug-  gestive theories bequeathed by the Ionian school and  its successors, theories which fell into the rear when  Athens became a centre of intellectual life in which  discussion passed from the physical to those ethical  problems which lie outside the range of this survey.  Although Aristotle, by his prolonged and careful  observations, forms a conspicuous exception, the  fact abides that insight, rather than experiment, ruled Greek speculation, the fantastic guesses of parts of  which themselves evidence the survival of the crude and falsei deas about earth and sky long prevailing. The more wonderful is it, therefore, that so much  therein points the way along which inquiry travelled after its subsequent long arrest; and the more apparent is it that nothing in science or art, and but  little in theological speculations, at least among us Westerns, can be understood without reference to Greece. Approxi-Namb. Place. mate Speciality. Thales. Miletus.Cosmological (Ionia).Ae Pri f Water.Substance Anaximender. the Boundless. Anaximenes.Air. Pythagoras. Samos Numbers: the Ionian a Cosmos built coast). up of geometrical figures or(Grote, Plato) generated out of  number. Xenophanes. Colophon. Founder of the (Ionia). Eleatic school. Heraditus. Ephesus Ionia Fire. Empedocles. Agrigentum Fire, Air,Earth, (Sicily). And Water ruled by Love  and Strife. Anaxagoras. Clazomenae (Ionia). Nous. Leucippus Democritus. Abdera. Formulators of the Atomic Thrace Theory Aristotle.  Stagira  (Macedonia). Naturalist.  i Epicurus. Samos. Expounder of the Atomic  Theory and Ethical Philosopher. LUCREZIO.  Roma Interpreter of Epicurus and  EMPEDOCLE DI GIRGENTI: the first Anthropologist. Gilberto Corbellini. Keywords: darwinismo politizzato, Dawkins’ selfish gene – read selfish gene – medicina in Roma antica -- evoluzione, emergentismo, biologia filosofica, grammatical del vivente, cooperazione, altruismo, razionalita, utilitarismo, darwinismo sociale, evolluzione, filosofia dell’evoluzione, progresso ed evoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corbellini” – The Swimming-Pool Library. 

 

Luigi Speranza -- Grice e Cordeschi: la ragione conersazionale e l’implicatura conversazionale della logica della guerra – scuola dell’Aquila –filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (L’Aquila). Filosofo abruzzes. Filosofo italiano. L’Aquila, Abruzzo. Grice: “Cordeschi is fine if you are into how we can model a pirot from an automaton – Descartes’s old idea!” -- Roberto Cordeschi (L'Aquila) filosofo.  Si laurea a Roma sotto Somenzi. Si appassiona subito alla storia della cibernetica, di cui Somenzi fu tra i primi studiosi e contributori in Italia. Con la co-supervisione di Radice discute una tesi sui Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a Morino, Avezzano, Torino, Roma, e Saerno. Altre opere: “Turing” – homo mechanicus (Alan Mathison); “Turing’s homo mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale); “La cibernetica in Italia” (Roma: Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana); “Un padrino per l’Intelligenza Artificiale. Sapere; “L’intelligenza meccanica”; Alfabeta; “Dalla cibernetica a internet: etica e politica tra mondo reale e mondo virtuale; “Dal corpo bionico al corpo sintetico. Roma: Carocci); “Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione Banca Agricola Mantovana); “Natura, machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia delle macchine: dalla cibernetica alla robotica bellica” (Roma: Armando); “Rap-resentare il concetto: filosofia e modello computazionale”. Sistemi Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il metodo sintetico e la scienza cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove prospettive nell’Intelligenza Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani), “Quale coscienza artificiale? Sistemi intelligenti, “Adattamento” e “selezione” nel mondo della natura” (Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa al Documento di Dartmouth, Sistemi Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli; “Forme e strutture della comunicazione linguistica. Intersezioni. Filosofia dell’intelligenza artificiale. In Floridi L., a cura di. Linee di ricerca, SWIF. Una lezione per la scienza cognitiva. Sistemi Intelligenti, Funzionalismo e modelli nella Scienza Cognitiva. Forum SWIF. C Vecchi problemi filosofici per la nuova Intelligenza Artificiale. Networks. Rivista di Filosofia dell’Intelligenza Artificiale e Scienze Cognitive, In ricordo di Vittorio Somenzi Quaderno Filosofi e Classici SWIF; Intelligenza artificiale. Manuale per le discipline della comunicazione. Roma: Carocci. L’intelligenza Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci); “Naturale e artificiale” (Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale. Psicologia, filosofia e macchine intorno alla cibernetica, Milano-Bologna: Dunod-Zanichelli); “Pensiero meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi Intelligenti; Prospettive della Logica e della Filosofia della scienza. Atti del Convegno SILFS. Pisa: ETS. I modelli della vita mentale, oggi e domani. Giornale Italiano di Psicologia, Filosofia della mente. Quaderni di Le Scienze, L’intelligenza artificiale. In: Bellone, E., Mangione, C., a cura di. Geymonat L., Storia del pensiero scientifico. Il Novecento,  Milano: Garzanti); Somenzi, La filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati Boringhieri); Indagini meccanicistiche sulla mente: la cibernetica e l’intelligenza artificiale. In: Somenzi, V., Cordeschi, R., a cura di. La filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati Boringhieri: Qualche problema per l’IA classica e connessionista. Lettera matematica PRISTEM, Una macchina protoconnessionista. Pisa: ETS: Le radici moderne del recupero scientifico della teologia. Nuova Civiltà Delle Macchine); Scienza e filosofia della scienza; La mente nuova dell’imperatore. La mente, i computer, le leggi della fisica. Milano. Wiener. In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, Milano: Marzorati, Turing. In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti,  Milano: Marzorati: Significato e creatività: un problema per l’intelligenza artificiale. L’Automa spirituale: Menti, Cervelli e Computer, Cervello, mente e calcolatori: précis storico dell’intelligenza artificiale. In: Corsi, P., a cura di. La fabbrica del pensiero. Dall’arte della memoria alle neuroscienze, Milano: Electa: L’intelligenza artificiale tra psicologia e filosofia. Nuova Civiltà delle Macchine, Mente, linguaggio e realtà. Milano: Adelphi. Linguaggio mentalistico e modelli meccanici della mente. Osservazioni sulla relazione di Boden. L’evoluzione dei calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno Internazionale di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del concetto: il neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della Filosofia Italiana; La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli “sperimentalisti”. Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro una recensione crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la risoluzione dei problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica e critica della psicologia, Manuscript. La psicologia tra scienze della natura e scienze dello spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi, a cura di. Gli studi di psicologia in Italia: Aspetti teorici scientifici e ideologici, Quaderni di storia critica della scienza. Nuova serie. 9, Pisa: Domus Galileana); Una critica del naturalismo: note sulla concezione crociana delle scienze. Critica marxista; Introduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Predicati. In: CIntroduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Elementi di logica matematica. Roma: Riuniti); Bilancio dell’empirismo contemporaneo. Scientia; La filosofia di Leibniz: esposizione critica con un’appendice antologica. Roma: Newton Compton Italiana); Filosofia e informazione. Padova: La Cultura; Validità e reiezione nella logica aristotelica. Il problema della decisione. Report: Storia della Filosofia Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript. In generale, nella implicatura robotica c’è la tendenza a ricorrere al vocabolario delle rappresentazioni solo quando, per così dire, non se ne può fare a meno, ovvero, più precisamente, quando si lascia il livello puramente reattivo nel quale il lessico delle rappresentazioni sarebbe banale, per passare a quello topologico e, a maggior ragione, a quello metrico o delle mappe cognitive. Due robot puramente reattivi sono capaci di risolvere alcuni compiti per i quali, nella ricerca su animali (la squarrel Toby di Grice), si erano invocate rappresentazioni complesse come le mappe cognitive. Questi stessi robot reattivi, man mano che si riducono le restrizioni sull’ambiente, diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli stessi compiti, che possono essere risolti solo da agenti dotati di stati interni (attitudine psicologica) ai quali essi riconoscono lo status di rappresentazioni. La massima sarebbe in questi casi quella di esaminare tutti i modi possibili di spremere l’ultima goccia di informazione dal livello reattivo prima di parlare dell’influenza della rappresentazione, modello del mondo o mappa sul comportamento intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni, una volta ammesse, le opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei punti di vista ormai usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza naturale, classica o nouvelle che sia. Si può parlare di rappresentazione anche per i pattern connessionisti, a patto di distinguere la relativa computazione. La rappresentazione e solo simbolica, quale che sia la loro complessità, e un pattern connessionista, non essendo considerato simbolico, non e una rappresentazione. Si parla di una rappresentazione che possono essere di diversa complessità e accuratezza, esplicita (spliegatura) o implicita (impiegatura), metrica o topologica, centralizzata o distribuita. E in generale si parla di ra-presentazione simbolica quando si è in presenza di un costrutto dotato di proprietà ritenuta analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni polemiche da parte di alcune tendenze dell’IA nouvelle identificano nell’Ipotesi del Sistema Fisico di Simboli il paradigma linguistico per eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un confronto di qualche anno fa tra sostenitori e critici di questa ipotesi mostra come questa interpretazione sia quanto meno opinabile. Sarebbe opportuno tenerne conto, per evitare di porre in un modo troppo sbrigativo l’identificazione tra simbolo e  il concetto piu generale di segno in IA classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi che stanno alla base della costruzione di un modello di conversazione, tra i quali quello della natura della rappresentazione. Mi riferisco all’interpretazione in termini di un sistema di elaborazione simbolica dell’informazione (dunque in termini di un sistema fisico materiale di simboli) di sistemi tradizionalmente non considerati tali, come quelli proposti dai teorici dell’azione situata. L’idea di simbolo che sta alla base di questa ipotesi è che un simbolo è un pattern che denota, e la nozione di denotazione è quella che dà al simbolo la sua capacità rappresentazionale. Il pattern puo denotare altro pattern, sia interni al Si veda per una formulazione particolarmente esplicita (Gallistel). Detto in breve, tali proprietà riguardano, tra l’altro, la produttività, ovvero la capacità di generare e capire un insieme illimitato di frasi, e la sistematicità, ovvero la capacità di capire ad esempio tanto aRb quanto bRa. Fodor ne ha fatto la base per la sua controversa ipotesi del “linguaggio del pensiero” Per una introduzione all’argomento, si veda (Francesco). Per pattern si intende, come sarà più chiaro nel seguito, una struttura fisica, biologica o inor- ganica, che può essere oggetto di processi computazionali—codifica, decodifica, registrazione, cancellazione, cambiamento, confronto—i quali occorrono in sistemi diversi, in un calcolatore e nel sistema nervoso, anche se in quest’ultimo caso non sappiamo nei dettagli come. Questa tesi provocò diverse reazioni (si vedano Cognitive Science). Si noti che nelle intenzioni di Simon e Vera la tesi non comporta che ogni pattern sia dotato di meccanismo  sistema che esterni ad esso (nel mondo reale), e anche stimoli sensoriali e azioni motorie. Processi tanto biologici quanto inorganici possono essere simbolici in questo senso e, dal punto di vista sostenuto da Simon e Vera, i relativi sistemi sono sempre sistemi fisici di simboli, ma a diversi livelli di complessità. Per esempio, nel caso più semplice che riguarda gli organismi, anche l’azione riflessa (subcorticale) è un processo simbolico: la codifica di un simbolo provocata da un ingresso sensoriale, poniamo la bruciatura di una mano, dà luogo alla codifica di un simbolo motorio, con la conseguente rapida effettuazione dell’azione, in questo caso il ritirare la mano. Più precisamente, l’idea è che “il sistema nervoso non trasmette certo la bruciatura, ma ne comunica l’occorrenza. Il simbolo che denota l’evento [la brucia- tura] viene trasmesso al midollo spinale, che a sua volta trasmette un simbolo ai mu- scoli, i quali esercitano la contrazione che consente di ritirare la mano.” Nel caso degli artefatti, già il solito termostato è un sistema fisico di sim- boli, sebbene particolarmente semplice: il suo livello di tensione è un simbolo che denota uno stato del mondo esterno. Come ho ricordato, anche Brooks ha finito per riconoscere alle rappresentazioni un loro ruolo nel comportamento dei suoi robot, se non altro alle rappresentazioni “relati- ve al particolare compito per il quale sono usate” (i “modelli parziali del mondo”), quali potrebbero essere, a diversi livelli di complessità, quelle usate da agenti naturali come Cataglyphis o da agenti artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra ri- cordato. Simon e Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come sistemi fisici di simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto sofisticata, anche se specializzata a un compito particolare. Ma essi includono tra i sistemi fisici di simboli anche artefatti molto più semplici, come il ricordato termostato, e agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al livello del taxon system (che, seguendo Prescott, era stato definito come una catena di associazioni consistenti in coppie <stimolo, risponsa>). Secondo i due autori, i primi robot alla Brooks sono (un tipo relativamente sem- plice di) sistemi fisici di simboli: anche l’interazione senso-motoria diretta di un agen- te con l’ambiente nella misura in cui dà luogo a un comportamento coerente alle rego- larità dell’ambiente, non può essere considerata se non come manipolazione simboli- ca. Ho ricordato sopra il semplice comportamento reattivo di Allen, che tramite sonar evita ostacoli presenti in un ambiente reale. In questo caso, i suoi ingressi sensoriali danno luogo a un processo di codifica, e i costrutti in gioco (i simboli, secondo la definizione sopra ricordata) che risultano da tale interazione sensoriale, e poi motoria, dell’agente con l’ambiente sono rappresentazioni interne (degli ostacoli esterni da evitare) in un senso non banale: l’informazione sensoriale captata dal robot è converti- ta in simboli, i quali sono manipolati al fine di determinare gli appropriati simboli motori che evocano o modificano un certo comportamento. L’assenza di memoria in questo tipo di agente comporta che l’azione sia eseguita senza una rappresentazione esplicita del piano e dell’obiettivo che orienta l’azione stessa (senza pianificazione), ma non che non ci sia attività rappresentazionale simbolica. Qual è la natura di questi simboli, di queste rappresentazioni simboliche? denotazionale, cosa che evidentemente renderebbe banale questa definizione di simbolo: ci sono pattern che non denotano, tanto naturali quanto artificiali. Sulla sufficienza della denotazione per caratterizzare la nozione di simbolo (come di rappresen- tazione) si è molto discusso. Nel caso degli artefatti più semplici si tratta di rappresentazioni analogiche che stabiliscono e mantengono la relazione funzionale del sistema con l’ambiente. Questo, si è visto, è già vero per il solito termostato. Nel caso di (come pure di certi sistemi connessionisti, o che includono sistemi connessioni- sti), tali rappresentazioni (analogiche) hanno carattere temporaneo (senza intervento di memoria) e distribuito (non sono sottoposte a controllo centralizzato). In questi casi, una rappresentazione certo imprecisa ma sufficientemente efficace è fornita da un sonar sotto forma di un pattern interno fisico (un pattern di nodi della rete, nel caso di un sistema connessionista): essa denota o rappresenta per il robot un ostacolo o una certa curvatura di una parete o di un percorso. Una volta che tale pattern venga comu- nicato a uno sterzo, esso determina l’angolo della ruota sterzante del carrello del robot. Per quanto diversa a seconda dei casi, è sempre presente un processo di codifica- elaborazione-decodifica non banale, che stabilisce una ben precisa relazione funziona- le tra il sistema e l’ambiente, e spiega il comportamento coerente dell’agente nell’interazione con il mondo. Non parlare di rappresentazioni interne, e limitarsi a dire che un agente “intrattiene certe relazioni causali con il mondo, non spiega come tali relazioni vengano mantenute. E’ del tutto ragionevole sostenere che un agente mantiene l’orientamento verso un oggetto tramite una relazione causale (Grice, “La teoria causale della percezione”) con esso e che tale relazione è un pattern di interazione, ma non ha senso pensare che tale pattern venga prodotto per magia, senza un corrispondente cambiamento di stato rappresenta- zionale dell’agente, ovvero che esso possa aver luogo senza una rappresentazione interna fosse pur minima.” Rappresentazioni più complesse, che sono alla base di un’attività non semplicemente percettiva diretta, sono presenti in altri casi, quando entrano in gioco la me- moria, l’apprendimento, il riconoscimento di oggetti e l’elaborazione di concetti, la formulazione esplicita di una mappa o di piani alternativi, sotto forma di rappresentazioni off-line, e ancora. In molte di queste attività “alte” intervengono rappresentazioni esplicite, linguistiche e metriche, ma se si riconosce che la cognizione richiede questo tipo di rappresentazioni, è difficile mettere in dubbio che tali attività non condividono con attività più “basse” come la percezione, sulle quali esse vengono elaborate, il meccanismo denotazionale, sia pure in una forma minimale. A meno di restringere arbitrariamente la nozione di rappresentazione e di simbolo, non c’è ragione di riservarla esclusivamente a pattern linguistici, o ai costrutti della semantica denotazionale (variabili da vincolare ecc.). Penso si possa sottoscrivere questa conclusione di Bechtel: “la nozione base [di rappresentazione] è effettivamente minimale, tale da rende- re le rappresentazioni più o meno ubique. Esse sono presenti in ogni sistema organiz- zato che si è evoluto o è stato progettato in modo da coordinare il suo comportamento con le caratteristiche dell’ambiente. Ci sono dunque rappresentazioni nel regolatore, nei sistemi biochimici e nei sistemi cognitivi”. Il riferimento di Bechtel al regolatore di Watt è polemico nei confronti di van Gelder, che ne faceva il prototipo della sua concezione non computazionale e non simbolica della co- gnizione. In realtà questo tipo di artefatti analogici (sistemi a feedback negativo e servomecca- nismi) erano stati interpretati come sistemi rappresentazionali già all’epoca della cibernetica, in primo luogo da Craik, che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica del pensie- ro”, come egli la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è visto come una macchina calcola- trice capace di costruire un modello o un parallelo della realtà”. Non entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi al contenuto delle  Simon e Vera distinguono il livello della modellizzazione simbolica da quello della realizzazione fisica (sia biologica che inorganica) di un agente. Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha un’attività rappresentazionale che è data dalle caratteri- stiche specifiche del suo apparato fisico di codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si pensi ancora alla codifica, molto approssimativa ma generalmente efficace, at- traverso sonar degli ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa decodifica che si conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione simbolica di questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella “alta” sopra ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di rappresentazioni, da quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della “ricognizione”, possono essere opportunamente modellizzati attraverso regole di produzione, come livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un robot basato sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio, il funzionamento di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura, che con- trolla la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da un’unica regola di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso sonar e bussola allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa in considerazione dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi termini: “Un sistema di produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un robot behavior-based], perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona una attraverso il confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa base di dati. Le precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere confrontate con costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della sussunzione funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di tale confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o modificano direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se distinguiamo il livello della realizzazione fisica da quello della sua modellizzazione, quella che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del mondo” rilevanti per l’azione è descritta in modo adeguato da un opportuno sistema di regole di produzione, e tramite tale sistema un certo comportamento di una sua creatura può essere evocato o modificato nell’interazione con l’ambiente. E questo modello (a regole di produzione) delle regolarità comportamentali di diversi livelli dell’architettura della sussunzione può essere implementata in un dispositivo che, grazie all’elevato grado di parallelismo, presenta doti di adattività, robustezza e rispo- sta in tempo reale paragonabili a quelle di un dispositivo behavior-based. In questo senso, le regole di descrizione danno una modellizza- zione adeguata del comportamento di un agente situato. Oltre alle risposte automatiche, che nel caso dell’azione riflessa o “innata” e di quella reattiva possono essere rese attraverso un’unica regola di produzione (qualcosa che corrisponda a una relazione comportamentista S→R), esistono le azioni automa- rappresentazioni, al ruolo dell’utente degli artefatti e alla natura della spiegazione cognitiva. L’articolo di Bechtel contiene una disanima efficace di questi problemi, rispetto a posizioni diverse come quella sostenuta da Clancey contro la tesi di Vera e Simon. In breve, le regole di produzione hanno la forma “se... allora”, o CONDIZIONE → AZIONE. La memoria a lungo termine di un sistema fisico di simboli è costituita da tali regole: gli antecendenti CONDIZIONE permettono l’accesso ai dati in memoria, codificati dai conseguenti AZIONE. tizzate a seguito dell’apprendimento, quando cioè le regolarità relative a un certo comportamento sono state memorizzate, o quelle che comportano una relazione “di- retta” con il mondo tramite le affordance alla Gibson. Un esempio sono le risposte immediate che fanno seguito a sollecitazioni improvvise o impreviste provenienti dall’ambiente Ora i teorici dell’azione situata (e, come si è visto, i nuovi robotici) insistono sul fatto che questi casi di interazione diretta con l’ambiente si svolgono in tempo reale, senza cioè che sia possibile quella presa di decisione, diciamo così, meditata che ri- chiede la manipolazione di rappresentazioni e la pianificazione dell’azione. Si pensi all’esempio di Winograd e Flores dell’automobilista che, guidando, affronta una curva a sinistra. In primo luogo, secondo i due autori, non è necessario che egli faccia continuamente riferimento a conoscenze codificate sotto forma di regole di produzione—non è necessario riconoscere una strada per accorgersi che è “percorribi- le” (la “percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella relazione diretta agente- ambiente). In secondo luogo, la decisione è presa dall’agente, per così dire, senza pensarci (senza pensare di posizionare le mani, di contrarre i muscoli, di girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a sinistra ecc.). Tutto ciò avviene automaticamente e immediatamente, dunque senza applicare qualcosa come una successione di regole di produzione “se p, q”. In conclusione, la tesi è che non è possibile modellizzare questo aspetto della presa di decisione istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che comporta codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni, regole di produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores è la teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha a che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul serio la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze, aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea, non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi elementi, i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso l’apprendimento, la formazione di schemi automatici di comportamento (di risposte motorie, nell’esempio di sopra), finiscono per determinare l’esclusione immediata di certe alternative possibili (come, nell’esempio della guida, innestare la marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia, frenare ecc.), e tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza dell’ambiente stesso (fondo strada bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella terminologia di Gibson sono invarianti dell’ambiente che vengo- no “colte” (picked up) dall’agente “direttamente” nella sua interazione con l’ambiente stesso, e “direttamente” viene interpretato come: senza la mediazione di rappresentazioni e di computa- zioni su esse. Un esempio sono i movimenti dell’agente in un ambiente nel quale deve evitare oggetti o seguirne la sagomatura e così via: un po’ quello che fanno i robot reattivi di cui ho parlato. L’esempio del termostato è ricorrente in scienza cognitiva e in filosofia della mente dai tempi della cibernetica. E’ evidente che definire sistemi fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del tipo dei robot di Brooks, come vedremo) comporta rinunciare al requisito dell’universalità per tali sistemi (sul quale si veda Newell).  aspettative pertinenti.17 Secondo le stesse parole di Simon “il solutore di problemi non percepisce mai Dinge an sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i propri pre- concetti” (Simon). Di norma, dunque, l’informazione considerata dall’agente non è collocata in uno spazio bene ordinato di alternative, generato dalla formulazione del problema: tale informazione è generalmente incompleta, ma è pur sempre sostenuta dalla conoscenza della situazione da parte dell’agente. La proposta è, dunque, che la modellizzazione a regole di produzione di un’azione del genere, e in generale di una affordance, è un simbolo che, via il sistema percettivo di codifica, raggiunge la memoria del sistema per soddisfare la CONDIZIONE di una regola di produzione esplicita. In questo modo, soddisfatta la CONDIZIONE, si attiva la regola, e la produzione (la decodifica) del simbolo di AZIONE avvia la risposta motoria. Da questo punto di vista, le affordance sono rappresentazioni di pattern del mondo esterno, ma con una particolarità: quella di essere codificate in un modo particolar- mente semplice. Nell’esempio di sopra, una volta che si sia imparato a guidare, la regola è qualcosa come: “se la curva è a sinistra allora gira a sinistra”.Questa regola rappresenta la situazione al livello funzionale più alto nel quale la rappresentazione che entra in gioco è “minima”. Un termine del genere, a proposito delle rappresentazioni, lo abbiamo visto usato da Gallistel, ma per Simon e Vera il termine rimanda alla forma della regola indicata, che può essere rapidamente applicata: in questo caso, cioè, non c’è bisogno di evocare i livelli “bassi” o soggiacenti, quelli coinvolti con l’analisi dettagliata dello spazio del problema e con l’applicazione delle opportune strategie di soluzione, che comportano computazioni generalmente complesse, sotto forma di successioni di regole di produzione. Questi livelli intervengono nelle fasi dell’apprendimento (quando si impara come affrontare le curve), e possono essere evocati dall’agente quando la situazione si fa complicata (si pensi a una curva a raggio variabile, che rivela la complessità dell’interazione codi- fica percettiva-decodifica motoria). E tanto un apprendimento imperfetto quanto una carenza, per i più svariati motivi, dell’informazione percettiva rilevante possono anche ostacolare l’accesso ai livelli soggiacenti che potrebbero dare luogo alla risposta cor- retta (non tutti coloro che hanno imparato a guidare riescono ad affrontare tutte le curve con pieno successo in ogni situazione possibile). Insomma, in questa interpretazione di Simon e Vera l’interazione in tempo reale dell’agente con l’ambiente è data non dal fatto di essere non simbolica e di non poter essere modellizzata mediante regole di produzione, ma dal fatto di non dover accede- re, per dare la risposta corretta, alla complessità delle procedure di elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti a quello alto. E’ nell’attività cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si elaborano piani e strategie di soluzione di problemi, che viene evidenziata la consapevolezza dell’agente. Simon e Vera ponevano infine un problema che riguarda i limiti degli approcci reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e che mi sembra condivisibile: “E’ tuttora dubbio se questo approccio behavior-based si possa estendere alla soluzione di pro- blemi più complessi. Le rappresentazioni non centralizzate e le azioni non pianificate possono funzionare bene nel caso di creature insettoidi, ma possono risultare insuffi- cienti per la soluzione di problemi più complessi. Certo, la formica di Simon non ha 17 Su questo tipo di comportamento, che può essere visto in termini di “percezione attesa”, si veda bisogno di una rappresentazione centralizzata e stabile del suo ambiente. Per tornare al nido zigzagando essa non usa una rappresentazione della collocazione di ciascun gra- nello di sabbia in relazione alla meta. Ma gli organismi superiori sembrano lavo- rare su una rappresentazione del mondo più robusta, una rappresentazione più complessa di quella di una formica, più stabile e tale da poter essere manipolata per astrarre nuova informazione”. La successiva evoluzione della robotica sembra confermare questa osservazione.  Wikipedia Ricerca Entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale Dichiarazione di guerra dell'Italia verso gli alleati nella seconda guerra mondiale 1leftarrow blue.svg Voce principale: Storia del Regno d'Italia. A seguito dell'attacco tedesco contro la Polonia, il capo del governo Benito Mussolini, nonostante un patto di alleanza con la Germania, dichiarò la non belligeranza italiana. L'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale avvenne con una serie di atti formali e diplomatici solo dopo nove mesi,, e fu annunciata da Mussolini stesso con un celebre discorso dal balcone di Palazzo Venezia. Durante i nove mesi di incertezza operativa, il Duce, impressionato dalle folgoranti vittorie tedesche, ma conscio della grave impreparazione militare italiana, restò a lungo dubbioso fra diverse alternative, a volte contrastanti fra loro, oscillando tra la fedeltà all'amicizia con Adolf Hitler, l'impulso a rinnegarne la soffocante alleanza, la voglia di indipendenza tattica e strategica, il desiderio di facili vittorie sul campo di battaglia e la brama di essere ago della bilancia nello scacchiere della diplomazia europea. Mussolini annuncia la dichiarazione di guerra dal balcone di Palazzo Venezia a Roma AntefattiModifica Gli attriti con la Francia e l'avvicinamento alla GermaniaModifica  L'ambasciatore francese in Italia André François-Poncet. Il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop incontra a Roma MUSSOLINI e il ministro degli esteri italiano CIANO. Durante il colloquio, Ribbentrop parlò di un possibile patto di alleanza fra Germania e Italia, argomentando che, forse nel giro di tre o quattro anni, un confronto armato contro Francia e Regno Unitosarebbe stato inevitabile. Alle molte domande di Mussolini, il ministro degli esteri tedesco spiegò che esisteva un'alleanza fra inglesi e francesi, i quali avrebbero cominciato insieme a riarmarsi, che esisteva un patto di assistenza reciproca fra sovietici e francesi, che gli Stati Uniti d'America non erano nelle condizioni di intromettersi in prima persona e che la Germania era in ottimi rapporti con il Giappone, concludendo che «tutto il nostro dinamismo può dirigersi contro le democrazie occidentali. Questa la ragione fondamentale per cui la Germania propone il Patto e lo ritiene adesso tempestivo. Il Duce non sembrava convinto e iniziò a tergiversare, ma Ribbentrop catturò la sua attenzione affermando che il mar Mediterraneo, nelle intenzioni di Adolf Hitler, sarebbe stato posto sotto il totale dominio italiano, aggiungendo che l'Italia aveva in passato dimostrato la sua amicizia verso la Germania e che adesso era «la volta dell'Italia di profittare dell'aiuto tedesco. L'obiettivo di Hitler, cogliendo l'importanza strategica di avere Roma dalla propria parte, consisteva nel ridurre il numero dei potenziali nemici in una futura guerra, scongiurando l'eventuale avvicinamento dell'Italia a Francia e Regno Unito, il che avrebbe significato il ritorno al vecchio schieramento della prima guerra mondiale e al blocco marittimo che aveva contribuito a piegare l'Impero tedesco di Guglielmo II. L'incontro fra Ribbentrop, MUSSOLINI e CIANO, però, si concluse con un momentaneo nulla di fatto.  Dopo la conferenza di Monaco del 1938 la Francia si era riavvicinata all'Italia, inviando a Roma un suo ambasciatore nella persona di André François-Poncet, e Mussolini ritenne di poter approfittare del periodo di buoni rapporti per farle tre richieste riguardanti il mantenimento della particolare condizione degli italiani in Tunisia, l'ottenimento di alcuni posti nel consiglio di amministrazione della compagnia del Canale di Suez e un arrangiamento relativo alla città di Gibuti, che era il terminale dell'unica ferrovia esistente per Addis Abeba, all'epoca capitale dell'Africa Orientale Italiana. Infatti, gli obiettivi del Duce non comprendevano la conquista di territori europei. Il primo ministro inglese Chamberlain e il suo ministro degli esteri, lord Halifax, si recarono a Parigi e ultimarono i dettagli per la collaborazione militare tra Francia e Regno Unito, mentre i rapporti fra Italia e Francia iniziavano a deteriorarsi. Il successivo 30 novembre, durante un discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni, il ministro degli esteri Ciano pronunciò un discorso durante il quale, accennando alle rivendicazioni irredentistiche italiane, venne interrotto dalle acclamazioni Nizza!, Savoia!, Corsica!, partite da una trentina di deputati. In quel momento, nella tribuna diplomatica, assisteva alla seduta anche l'ambasciatore francese André François-Poncet, arrivato a Roma da appena una settimana. Una manifestazione simile si verificò il giorno stesso in piazza di Monte Citorio, dove un centinaio di dimostranti esternò le stesse acclamazioni. Nonostante la parvenza di spontaneità, si era trattato di iniziative organizzate da Ciano e da Achille Starace, i quali, chiedendo molto di più delle tre richieste di Mussolini per poi fingere di accontentarsi del poco ottenuto per via negoziale, avevano inscenato le manifestazioni per impressionare François-Poncet, il quale infatti avvisò immediatamente Parigi dell'accaduto.[8] Il governo francese gli ordinò allora di chiedere spiegazioni e arrivò alla conclusione che, se la situazione era quella, una futura guerra contro l'Italia sarebbe stata inevitabile. La sera stessa, durante una seduta del Gran consiglio del fascismo, Mussolini prese però le distanze da quanto accaduto in aula, dato che l'Italia aveva da poco ripreso buone relazioni con la Francia e che la protesta era stata intrapresa a sua insaputa. François-Poncet chiese a CIANO se le grida dei deputati potevano rappresentare gli orientamenti della politica estera italiana e se l'Italia riteneva ancora in vigore l'accordo franco-italiano. Ciano, dissimulando la propria paternità su quanto accaduto, rispose che il Governo non poteva assumersi la responsabilità delle affermazioni dei singoli, ma che le riteneva un chiaro campanello d'allarme del sentire comune nazionale, e che era auspicabile, secondo la sua opinione, una revisione dell'accordo.  Di fronte a risposte così poco rassicuranti, la Francia iniziò ad aspettarsi un attacco italiano. Tuttavia, lo stato d'animo dei vertici militari d'oltralpe era improntato all'ottimismo: il generale Henri Giraud affermò infatti che un eventuale conflitto sarebbe stato, per le truppe francesi, «una semplice passeggiata nella pianura del Po», mentre altri ufficiali parlavano di un'azione militare «facile come infilare un coltello nel burro. Il primo ministro francese Édouard Daladier, irrigidendo la propria posizione nei confronti dell'Italia, affermò che non avrebbe mai ceduto ad alcuna pretesa straniera, facendo così sfumare anche la speranza di accoglimento delle tre richieste del Duce su Tunisia, Suez e Gibuti. Lo Stato Maggiore francese, fin dal 1931, aveva disposto dei piani per l'invasione militare dell'Italia, ampliandoli dopo ma il generale Alphonse Georges fece notare che nessuna azione sarebbe stata possibile contro l'Italia se, sulla Francia, fosse pesata una minaccia tedesca. Mussolini decise di aderire al patto italo-germanico, comunicando a Ribbentrop il proprio impegno. Secondo Ciano, il Duce si convinse ad accettare la proposta tedesca a causa della comprovata alleanza militare tra Francia e Regno Unito, dell'orientamento ostile del governo francese nei confronti dell'Italia e dell'atteggiamento ambiguo degli Stati Uniti d'America, che mantenevano una posizione defilata, ma che sarebbero stati pronti a rifornire di armamenti Londra e Parigi. Il maresciallo Pietro Badoglio, ribadendo la linea mussoliniana tracciata l'anno precedente, riferì allo Stato Maggiore Generale il contenuto di un suo colloquio avuto con il Duce due giorni prima, durante il quale «il Capo del Governo mi ha dichiarato che, nelle rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto parlare di Corsica, Nizza e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le quali non entrano nel suo piano di azione. Mi ha dichiarato, inoltre, che non intende porre domande di cessioni territoriali alla Francia perché è convinto che essa non ne può fare: quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare una eventuale richiesta (e ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra -- e ciò non è nelle sue intenzioni. Gli sforzi sostenuti per la guerra d'Etiopia del 1935-36 e per il supporto alla guerra civile spagnola del 1936-39avevano comportato spese eccezionali per l'Italia, le quali, unite alla limitata capacità produttiva dell'industria, alla lentezza del riarmo e alla scarsa preparazione dell'esercito, spinsero il Duce ad annunciare al Gran consiglio del fascismo, il 4 febbraio 1939, che il Paese non avrebbe potuto partecipare a un nuovo conflitto. La firma del Patto d'AcciaioModifica  Italia e Germania, rappresentate rispettivamente dai ministri degli esteri Ciano e Ribbentrop, concretizzarono la proposta tedesca dell'anno precedente e firmarono a Berlino un'alleanza difensiva-offensiva, che Mussolini aveva inizialmente pensato di battezzare Patto di Sangue, ma che poi aveva più prudentemente chiamato Patto d'Acciaio. Il testo dell'accordo prevedeva che le due parti contraenti fossero obbligate a fornirsi reciproco aiuto politico e diplomatico in caso di situazioni internazionali che mettessero a rischio i propri interessi vitali. Questo aiuto sarebbe stato esteso anche al piano militare qualora si fosse scatenata una guerra. I due Paesi si impegnavano, inoltre, a consultarsi permanentemente sulle questioni internazionali e, in caso di conflitti, a non firmare eventuali trattati di pace separatamente.[16]  Pochi giorni prima, Ciano aveva incontrato Ribbentrop per chiarire alcuni punti del trattato prima di firmarlo. In particolare la parte italiana, conscia della propria impreparazione militare, voleva rassicurazioni sul fatto che i tedeschi non avessero intenzione di iniziare a breve una nuova guerra europea. Il ministro Ribbentrop tranquillizzò Ciano, dicendo che «la Germania è convinta della necessità di un periodo di pace che dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5 anni» e che le divergenze con la Polonia per il controllo del Corridoio di Danzica sarebbero state appianate «su una strada di conciliazione». Siccome la rassicurazione di nessun conflitto armato per quattro o cinque anni faceva arrivare al 1943 o al 1944e, quindi, coincideva con la previsione di Mussolini del 4 febbraio 1939 di essere militarmente pronto per il 1943, il Duce diede il suo assenso definitivo per la firma dell'alleanza. Vittorio Emanuele III, nonostante la decisione di Mussolini, continuò a manifestare i propri sentimenti antigermanici e il successivo 25 maggio, al ritorno di Ciano da Berlino, commentò che «i tedeschi finché avran bisogno di noi saranno cortesi e magari servili. Ma alla prima occasione, si riveleranno quei mascalzoni che sono». Dal 27 al 30 maggio il Duce fu impegnato nella stesura di un testo indirizzato ad Hitler, successivamente passato alla storia come memoriale Cavallero dal nome del generale che glielo consegnò ai primi di giugno, nel quale venivano inserite alcune interpretazioni italiane del Patto da poco stipulato. Nello specifico, Mussolini, nonostante ritenesse inevitabile una futura «guerra fra le nazioni plutocratiche e quindi egoisticamente conservatrici e le nazioni popolose e povere», ribadì che Italia e Germania avevano «bisogno di un periodo di pace di durata non inferiore ai tre anni» allo scopo di completare la propria preparazione militare, e che un eventuale sforzo bellico avrebbe potuto avere successo. Ciano si recò al Berghof, vicino Berchtesgaden, per un colloquio con Hitler. Quest'ultimo, parlando del Corridoio di Danzica, prospettò un eventuale confronto armato circoscritto a Germania e Polonia qualora Varsavia avesse rifiutato le trattative proposte dai tedeschi, specificando che, in base alle informazioni in suo possesso, né Parigi né Londra sarebbero intervenute. Inoltre, il Cancelliere tedesco accennò a delle trattative segrete in corso con l'Unione Sovietica per un'alleanza. Ciano ricordò che era stato definito, alla firma del Patto d'Acciaio, di far passare alcuni anni prima di intraprendere azioni belliche, ma il Führer lo interruppe dicendo che «li avrebbe attesi, secondo quanto era stato concordato. Ma le provocazioni della Polonia e l'aggravarsi della situazione» avevano «reso urgente l'azione tedesca. Azione però che non provocherà un conflitto generale. Hitler chiede al Capo del Governo italiano di quali mezzi e di quali materie prime avesse bisogno per riuscire a prendere parte a un'eventuale nuova guerra. Nella speranza che il Paese ne fosse esonerato, il Duce rispose con una lunghissima lista appositamente abnorme e impossibile da soddisfare, talmente esagerata da essere definita da Galeazzo Ciano «tale da uccidere un toro. L'elenco - soprannominato Lista del molibdeno a causa delle 600 tonnellate richieste di questo materiale - comprendeva, fra petrolio, acciaio, piombo e numerosi altri materiali, un totale di quasi diciassette milioni di tonnellate di rifornimenti e specificava che, senza tali forniture da ricevere subito, l'Italia non avrebbe potuto assolutamente partecipare a una nuova guerra. Il Führer, nonostante il sospetto che Mussolini lo stesse ingannando, rispose dicendo che comprendeva la precaria situazione italiana e che poteva inviare una piccola parte del materiale, ma che gli era impossibile soddisfare per intero le richieste nostrane. La Germania inviò alla Polonia un ultimatum per la cessione del Corridoio di Danzica e la Polonia ordinò la mobilitazione generale. La mattina del giorno successivo, nonostante la situazione fosse già disperata, Mussolini si offrì come mediatore presso Hitler affinché la Polonia cedesse pacificamente Danzica alla Germania, ma il ministro degli esteri inglese Halifax rispose che tale soluzione era inaccettabile. Appresa la notizia, nel pomeriggio dello stesso giorno il Duce propose allora a Francia e Regno Unito una conferenza per il successivo 5 settembre, «con lo scopo di rivedere quelle clausole del trattato di Versaglia che turbano la vita europea». Mussolini, precedentemente, aveva già tentato di instradare la situazione nell'alveo di una soluzione diplomatica. Ciano, nel suo diario, in più momenti annotò che il Duce «è d'avviso che una coalizione di tutte le altre Potenze, noi compresi, potrebbe frenare l'espansione germanica»; «Il Duce sottolinea la necessità di una politica di pace»; «si potrebbe parlare col Führer di lanciare una proposta di conferenza internazionale»; «Il Duce tiene molto a che io provi ai tedeschi che lo scatenare una guerra adesso sarebbe una follia [...] Mussolini ha sempre in mente l'idea di una conferenza internazionale. Il Duce raccomanda ancora ch'io faccia presente ai tedeschi che bisogna evitare il conflitto con la Polonia il Duce ha parlato con calore e senza riserve della necessità della pace»;«Vedo nuovamente il Duce. Tentativo estremo: proporre a Francia e Inghilterra una conferenza per il 5 settembre»; «facciamo cenno a Berlino della possibilità di una conferenza». Durante la sera del 31 agosto, però, Mussolini venne informato che Londra aveva tagliato le comunicazioni con l'Italia. La scelta della non belligeranzaModifica  Truppe tedesche, il 1º settembre 1939, rimuovono una sbarra di confine tra Germania e Polonia All'alba del 1º settembre le forze armate tedesche, utilizzando come casus belli l'incidente di Gleiwitz, diedero inizio alla campagna di Polonia, varcandone il confine alla volta di Varsavia. Mussolini, avendo firmato solo tre mesi prima l'alleanza con il Reich, fu messo di fronte alla scelta se scendere o meno in campo a fianco di Hitler. Ricevuta notizia dell'attacco tedesco e conscio dell'impreparazione italiana, la mattina dello stesso giorno il Duce telefonò subito all'ambasciatore italiano a Berlino, Bernardo Attolico, chiedendo che Hitler gli mandasse un telegramma per sganciarlo dagli obblighi del Patto, in modo da non passare per traditore agli occhi dell'opinione pubblica. Il Führer rispose immediatamente, in modo molto cortese, accogliendo senza problemi la posizione dell'Italia, dicendo che ringraziava Mussolini per l'appoggio morale e politico e rassicurandolo sul fatto che non aspettava il sostegno militare italiano. Il telegramma, però, probabilmente per punire la beffa italiana della Lista del molibdeno, non venne pubblicato da alcun quotidiano del Reich e non venne trasmesso alla radio, facendo successivamente nascere, nell'opinione pubblica tedesca, una crescente ostilità nei confronti degli italiani, percepiti come inaffidabili e traditori del Patto.[32] Galeazzo Ciano riferì che Mussolini, avendo percepito questa crescente avversione, ancora il 10 marzo 1940 disse a Ribbentrop di essere «molto riconoscente al Führer per il telegramma nel quale questi ha dichiarato che non aveva bisogno dell'aiuto militare italiano per la campagna contro la Polonia», ma che sarebbe stato meglio «se questo telegramma fosse stato pubblicato anche in Germania». Non potendo scegliere la neutralità per non tradire l'amicizia con Hitler, nella seduta del Consiglio dei Ministri delle 15:00 del 1º settembre 1939 il Duce rese nota ufficialmente la posizione di non belligeranza. La mancata consultazione dell'Italia da parte della Germania prima dell'invasione della Polonia e prima della firma del patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 fra Germania e Unione Sovietica, comunque, secondo l'interpretazione italiana erano violazioni dei tedeschi dell'obbligo di consultazione fra i due Paesi, previsto dal testo del Patto d'Acciaio, consentendo perciò a Mussolini di dichiarare la non belligeranza senza formalmente venir meno ai patti sottoscritti.  Il 2 settembre Mussolini ripropose l'idea di una conferenza internazionale: inaspettatamente, Hitler rispose dichiarandosi disposto a fermare l'avanzata tedesca e a intervenire in una conferenza di pace cui avrebbero partecipato Germania, Italia, Francia, Regno Unito, Polonia e Unione Sovietica. Gli inglesi, tuttavia, posero come condizione inderogabile che i tedeschi abbandonassero immediatamente i territori polacchi occupati il giorno prima. Galeazzo Ciano riportò nel suo diario che «non tocca a noi dare un consiglio di tale natura a Hitler, che lo respingerebbe con decisione e forse con sdegno. Dico ciò ad Halifax, ai due Ambasciatori e al Duce, e infine telefono a Berlino che, salvo avviso contrario dei tedeschi, noi lasciamo cadere le conversazioni. L'ultima luce di speranza si è spenta». Secondo lo storico Renzo De Felice: «Così, nelle prime ore tra il 2 e il 3 settembre, sulle secche dell'intransigenza inglese forse più che su quelle dell'intransigenza tedesca, naufragò la navicella della mediazione italiana». Il Regno Unito e Francia, in virtù di un trattato di alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla Germania. L’ambasciatore Attolico, facendo riferimento all'accordo fra Hitler e Mussolini per una non immediata entrata in guerra dell'Italia e al telegramma di conferma di Hitler, comunicò che nel Reich «le grandi masse popolari, ignare dell'accaduto, cominciano già a dar segno di una crescente ostilità. Le parole tradimento e spergiuro ricorrono con frequenza». A conferma dell'impreparazione italiana, il Commissariato Generale per le Fabbricazioni di Guerra sondò il grado di approntamento delle Forze Armate, ricevendo come risposta dagli Stati Maggiori che, salvo imprevisti, la Regia Aeronautica sarebbe riuscita a ripianare sufficientemente le proprie carenze entro la metà del 1942, la Regia Marina alla fine del 1943 e il Regio Esercito alla fine del 1944. Inoltre l'economia italiana risultava fortemente danneggiata dal blocco navale alle esportazioni tedesche di carbone, imposto da Regno Unito e Francia e dall'applicazione del diritto di angheria, il quale prevedeva che Londra e Parigi potessero non solo attaccare il naviglio nemico, ma anche controllare il naviglio neutrale (o non belligerante) e porre sotto sequestro merci e navi neutrali (o non belligeranti) provenienti da una nazione nemica o dirette verso di essa. Dall'agosto al dicembre 1939, infatti, gli inglesi fermarono a Gibilterra e a Suez, con vari pretesti, 847 navi mercantili e passeggeri italiane (cifra poi salita a 1.347 navi al 25 maggio 1940), rallentando fortemente i traffici di qualsiasi merce nel Mar Mediterraneo, arrecando grave danno alla produttività nazionale e peggiorando i rapporti fra Roma e Londra.[39]  Durante l'inverno il Regno Unito fece sapere di essere disposto a vendere carbone all'Italia, ma ad un prezzo stabilito unilateralmente da Londra, senza garanzia sulle tempistiche di consegna e a patto che l'Italia rifornisse di armamenti pesanti Regno Unito e Francia. Siccome l'accettazione di una simile proposta avrebbe comportato il crollo delle relazioni fra Italia e Germania e una sicura reazione di Hitler, Galeazzo Ciano comunicò il rifiuto del governo italiano. La cronica mancanza di carbone e di approvvigionamenti causata dal blocco navale anglo-francese, però, minava fortemente la stabilità nazionale e rischiava di portare il Paese all'asfissia economica. La Germania intervenne, rifornendo l'Italia del carbone necessario e rendendola così ancora più dipendente da Berlino, anche se la fornitura era molto rallentata perché, per aggirare il blocco marittimo, doveva obbligatoriamente avvenire via rotaie dal passo del Brennero. Per i generi di prima necessità, invece, l'Italia sopperì parzialmente mediante l'estensione delle politiche autarchiche adottate ai tempi della guerra d'Etiopia. Gli esorbitanti costi di gestione dell'Africa Orientale Italiana, uniti ai suoi magri guadagni, stavano però rivelando che la conquista dell'impero era stata più un aggravio che un beneficio per le casse dello Stato. Per quanto riguarda le risorse umane, le truppe italiane risultavano impreparate sotto ogni aspetto: nonostante le «otto milioni di baionette» millantate da Mussolini, la stragrande maggioranza dei soldati italiani non era motivata da alcun odio contro inglesi e francesi, non era addestrata a impieghi specifici come l'assalto a opere fortificate o l'aviotrasporto ed era cronica la mancanza di munizioni, mezzi motorizzati e indumenti adatti.  Il Duce, a conoscenza della crescente ostilità dei tedeschi nei confronti degli italiani, aveva paura di una possibile ritorsione di Hitler vincitore e si era posto il problema di quale sorte, in caso di vittoria tedesca, il Führer avrebbe riservato all'Italia qualora questa si fosse sottratta ai suoi doveri di alleata. Il generale Faldella, infatti, testimoniò che «più si profilava l'eventualità della vittoria germanica, più Mussolini temeva la vendetta di Hitler».Sulla situazione, poi, pesava la questione dell'Alto Adige, una zona di territorio italiano popolata prevalentemente da abitanti di lingua e cultura tedesca che, nonostante le rassicurazioni sull'inviolabilità dei confini, Hitler avrebbe potuto sfruttare come casus belli, nell'ottica pangermanista di unificare tutte le popolazioni di stirpe germanica, per annettere quel territorio al Reich e per invadere militarmente l'Italia settentrionale.[46]Addirittura, il Duce fu anche sfiorato dall'idea che convenisse cambiare campo e schierarsi con gli anglo-francesi. Infatti, alludendo alla scarsità delle riserve di carburante necessarie per la guerra, commentò che, senza tali scorte, non sarebbe stato possibile impegnarsi «né col gruppo A né col gruppo B», facendo perciò supporre che, almeno in linea teorica, il Duce non escludeva a priori un ribaltamento delle alleanze. Spaventato dalla situazione, diffidente nei confronti dei tedeschi e preoccupato da una loro eventuale calata nella Penisola, il successivo 21 novembre Mussolini ordinò il prolungamento difensivo del Vallo Alpino del Littorioanche sul confine con il Reich, nonostante l'alleanza fra Italia e Germania, creando il Vallo Alpino in Alto Adige. La zona, massicciamente fortificata a tempo di record, venne poi soprannominata dalla popolazione locale "Linea non mi fido", con evidente riferimento ironico alla Linea Sigfrido. Il problema della non belligeranzaModifica  La bandiera da guerra tedesca e la bandiera italiana sventolano insieme Gli esiti della campagna di Polonia, contraddistinta da una serie di impressionanti e fulminee vittorie dei tedeschi, contrastavano con la condizione di non belligeranza italiana, mettendo implicitamente in risalto il fallimento della politica militarista che Mussolini aveva condotto durante tutto il suo governo e dando l'inaccettabile impressione che l'Italia potesse essere considerata, in sede internazionale, come un Paese debole, ininfluente, secondario o codardo. Il Duce era infatti convinto che, nonostante l'insufficienza militare nostrana, l'Italia non avrebbe potuto astenersi dalla guerra. Secondo il cosiddetto Promemoria segretissimo, infatti, l'Italia non poteva restare non belligerante «senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera moltiplicata per dieci». Il problema, secondo Mussolini, non consisteva nel decidere se il Paese avrebbe partecipato o no al conflitto, «perché l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra, si tratta soltanto di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente con l'onore e la dignità, la nostra entrata in guerra».[49] Nello stesso testo, il Duce tornò a riflettere sull'opportunità di denunciare il Patto d'Acciaio e di schierarsi al fianco di Londra e Parigi, concludendo però che si trattava di una strada non praticabile e che, anche «se l'Italia cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non eviterebbe la guerra immediata colla Germania», ritenendo uno scontro con il Reich un'eventualità più disastrosa di un conflitto contro Francia e Regno Unito.[49]  Nonostante ciò Mussolini stesso covava la speranza, ormai flebile, di riuscire ancora a riportare la situazione nell'alveo delle trattative diplomatiche, credendo possibile una sorta di ripetizione della conferenza di Monaco del 1938. Per alcuni mesi il Duce restò infatti dubbioso fra tre possibili alternative:[51] fungere da mediatore in una riconciliazione per via negoziale fra tedeschi e anglo-francesi, in modo da ottenere da tutti qualche sorta di ricompensa, oppure rischiare e scendere in guerra al fianco della Germania (ma solo quando quest'ultima sarebbe stata a un passo dalla vittoria finale), oppure condurre una sorta di guerra parallela a quella della Germania, in piena autonomia da Hitler e con obiettivi limitati ed esclusivamente italiani, che gli avrebbe consentito di sedersi al tavolo dei vincitori e di raccogliere qualche guadagno con il minimo sforzo, essendo costretto a centellinare le poche risorse disponibili,[52] e senza perdere la faccia.[53]  Scartata la prima ipotesi, dal momento che le richieste di trattative avanzate da Hitler erano state respinte, Mussolini si orientò allora sulla seconda e sulla terza, in realtà strettamente interconnesse fra loro, maturando questa convinzione almeno già dal 3 gennaio 1940, quando scrisse una lettera al Führer per comunicargli che l'Italia avrebbe preso parte al conflitto, ma solo nel momento che avrebbe ritenuto più favorevole:[54] non troppo presto per evitare una guerra logorante, e non troppo tardi da arrivare ormai a cose fatte.[55] Nella stessa lettera, però, nonostante l'impegno a entrare in guerra, Mussolini dimostrò di nuovo la propria titubanza, suggerendo contraddittoriamente a Hitler di trovare un accomodamento pacifico con Parigi e Londra, in quanto «non è sicuro che si riesca a mettere in ginocchio gli alleati franco-inglesi senza sacrifici sproporzionati agli obiettivi». Dopo un incontro con il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop, il Duce confermò questa linea, come risulta dal contenuto di una sua telefonata con Claretta Petacci intercettata dagli stenografi del Servizio Speciale Riservato.[N 2] Nella telefonata, Mussolini parlò dell'eventuale entrata dell'Italia in guerra come di un fatto ineludibile, senza però precisare come e quando. I dubbi sul da farsiModifica  Mussolini e Hitler. Mussolini e Hitler si incontrarono per un colloquio al passo del Brennero. Secondo Galeazzo Ciano, l'obiettivo del Duce era dissuadere il Führer dal proposito di iniziare un'offensiva terrestre contro l'Europa occidentale. L'incontro, invece, finì in un lunghissimo monologo del Cancelliere tedesco, con il Duce che a stento riuscì ad aprire bocca. Fra marzo e aprile Hitler intensificò la sua pressione psicologica su Mussolini, mentre il fronte antitedesco sembrava crollare in una serrata sequenza di vittorie germaniche. Le Forze Armate del Reich, mettendo in atto l'efficace tattica del Blitzkrieg, travolsero infatti la Danimarca, la Norvegia, i Paesi Bassi, il Lussemburgo, il Belgio e iniziarono l'attacco alla Francia. I vertici militari italiani prevedevano, secondo il generale Paolo Puntoni, la «liquidazione della Francia entro giugno e dell'Inghilterra entro luglio». Le folgoranti vittorie tedesche, unite alle risposte tardive e inefficaci di inglesi e francesi,[59]fecero rimanere gli italiani col fiato sospeso, tutti più o meno consapevoli che dal conflitto sarebbero dipese le sorti dell'Europa e dell'Italia, e causarono in Mussolini una serie di reazioni contrastanti che, «con gli alti e bassi tipici del suo carattere», continuarono ad accavallarsi, rendendolo incapace di prendere una decisione che sapeva di dover prendere, ma alla quale cercava di sottrarsi. A chi gli chiedeva un parere sull'eventualità che l'Italia restasse fuori dal conflitto, Mussolini, riferendosi all'attacco tedesco in corso in quei mesi, rispondeva che: «se gli inglesi e i francesi reggono il colpo ci faranno pagare non una, ma venti volte, Etiopia, Spagna e Albania, ci faranno restituire tutto con gli interessi». Pio invia un messaggio al Duce per convincerlo a restare fuori dal conflitto. Ciano, riferendosi al messaggio, annotò sul suo diario che: «l'accoglienza di Mussolini è stata fredda, scettica, sarcastica». Il re Vittorio Emanuele III, accennando alla «macchina militare ancora debolissima», sconsigliò l'entrata in guerra, raccomandando al Duce di rimanere nella posizione di non belligeranza il più a lungo possibile. Contemporaneamente la diplomazia europea si impegnò per evitare che Mussolini scendesse in campo al fianco della Germania: per impreparata che fosse l'Italia, il suo apporto rischiava di essere decisivo per piegare la resistenza francese e avrebbe potuto creare grosse difficoltà anche al Regno Unito. Il 14 maggio, su insistenza francese, il presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano Rooseveltindirizzò al Duce un messaggio dai toni concilianti, il quarto da gennaio, per dissuaderlo dall'entrare in guerra. Due giorni dopo anche il primo ministro inglese Winston Churchill seguì l'esempio, ma con un messaggio più intransigente, in cui avvertiva che il Regno Unito non si sarebbe sottratto alla lotta, qualunque fosse stato l'esito della battaglia sul continente. Il 26 maggio partì un quinto messaggio di Roosevelt al Duce. Tutte le risposte di Mussolini confermarono che voleva rimanere fedele all'alleanza con la Germania e agli "obblighi d'onore" che essa comportava, ma privatamente non aveva ancora raggiunto la certezza sul da farsi. Pur parlando continuamente di guerra con Galeazzo Ciano e con gli altri suoi collaboratori,ed essendo profondamente colpito dai successi tedeschi, almeno fino al 27-28 maggio (se si esclude un'improvvisa convocazione dei tre sottosegretari militari la mattina del 10 maggio) non risulta che il numero dei colloqui con i responsabili delle Forze Armate avesse avuto alcun incremento, e nulla faceva presagire un intervento a breve. Mentre i francesi si aspettavano un lento avanzare della fanteria tedesca attraverso il Belgio, o al massimo un improbabile attacco frontale contro le fortificazioni della Linea Maginot, circa 2.500 carri armati tedeschi penetrarono in Francia dopo aver attraversato in modo fulmineo la foresta delle Ardenne, una regione collinare caratterizzata da profonde vallate e da fitti arbusti che Parigi riteneva, fino a quel momento, del tutto inadatta a essere attraversata da carri armati. Alla sorpresa di un'azione tatticamente così brillante seguì il rapido e totale collasso delle Forze Armate francesi, che fece nascere la convinzione, nei vertici militari italiani, che il Regno Unito non sarebbe stato in grado di fronteggiare da solo un attacco tedesco e che sarebbe stato costretto a scendere a patti con Berlino e che gli Stati Uniti non avrebbero avuto la volontà né il tempo utile di impegnarsi direttamente nel conflitto, dato che non lo avevano fatto neanche per salvare la Francia e per servirsi di essa come una testa di ponte sul continente europeo.[68] Inoltre, la maggioranza dell'opinione pubblica statunitense era contraria alla guerra e Franklin Delano Roosevelt, impegnato nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali, non poteva non tenerne conto. Il direttore dell'OVRA, Guido Leto, dispose la raccolta di indiscrezioni, informazioni riservate e intercettazioni telefoniche per sondare i sentimenti degli italiani nei confronti della guerra, allo scopo di creare uno spaccato il più aderente possibile alla realtà da sottoporre al Duce, che chiedeva un quadro completo della situazione. Secondo tali relazioni, «i nostri informatori segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore frequenza ed ampiezza, uno stato di timore - che andava diffondendosi rapidamente - che la Germania fosse sul punto di riuscire a chiudere assai brillantemente e da sola la tremenda partita e che, di conseguenza, noi - se pure ideologicamente alleati - saremmo rimasti privi di ogni beneficio per quanto aveva tratto colle nostre aspirazioni nazionali. Che, a causa della nostra prudenza - di cui veniva attribuita la responsabilità a Mussolini - saremmo stati, forse, anche puniti dal tedesco e che, quindi, se ancora in tempo, bisognava bruciare le tappe ed entrare subito in guerra». Leto, inoltre, aggiunse che «pochissime voci, e non certo di politicanti delle due parti avverse e con debolissimi echi nel paese, si levarono ad ammonire sulle tremende incognite che la situazione presentava». In questo clima, perciò, anche Mussolini si convinse che l'Italia potesse «arrivare tardi», in quanto era opinione comune che il Regno Unito avesse i giorni contati e che la conclusione della guerra fosse ormai prossima. A nulla servirono le opposizioni del re e di Pietro Badoglio, motivate dall'impreparazione del Regio Esercito e da un giudizio prudente sulle vittorie tedesche in Francia. Il sovrano, inoltre, pose l'accento sull'importanza che avrebbe potuto avere nel conflitto un eventuale intervento armato statunitense, che sarebbe stato foriero di numerose incognite. Dello stesso avviso era anche il principe ereditario Umberto di Savoia. Galeazzo Ciano scrisse nel suo diario: «Vedo il Principe di Piemonte. È molto antitedesco e convinto della necessità di rimanere neutrali. Scettico, impressionantemente scettico sulle possibilità effettive dell'esercito nelle attuali condizioni, che giudica pietose, di armamento».  Secondo Mussolini, invece, le rapide vittorie tedesche erano il presagio dell'imminente fine della guerra, per cui l'insufficienza effettiva delle Forze Armate italiane assumeva ormai un'importanza trascurabile. Accanto al suo timore che l'Italia non avrebbe ricevuto alcun beneficio nella futura conferenza di pace qualora il conflitto fosse terminato prima dell'intervento nostrano,  nacque in Mussolini la convinzione che gli fosse necessario «solo un pugno di morti» per potersi sedere al tavolo dei vincitori e per avere diritto a reclamare parte dei guadagni, senza la necessità di un esercito preparato e adeguatamente equipaggiato in una guerra che, secondo l'opinione pubblica nella tarda primavera del 1940, sarebbe durata ancora solo poche settimane e il cui destino era già scritto in favore della Germania. L'entrata in guerra dell'ItaliaModifica Ultimi tentativi di mediazioneModifica  Il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt A fine maggio, nei giorni in cui i tedeschi vincevano la battaglia di Dunkerque contro gli anglo-francesi e il re del Belgio Leopoldo III firmava la resa del proprio paese, il Duce si convinse che fosse arrivato il «momento più favorevole» che attendeva da gennaio ed ebbe una decisiva virata verso l'intervento: il 26 ricevette una lettera dal Führer che lo sollecitava a intervenire e, contemporaneamente, un rapporto inviato a Roma dall'ambasciatore italiano a Berlino Dino Alfieri, che era succeduto a Attolico, su un suo colloquio con Hermann Göring. Quest'ultimo aveva suggerito all'Italia di entrare in guerra quando i tedeschi avessero «liquidata la sacca anglo-franco-belga», situazione che si stava verificando proprio in quei giorni. Entrambi produssero nel dittatore una forte impressione, tanto che Ciano annotò nel proprio diario che Mussolini «si propone di scrivere una lettera ad Hitler annunciando il suo intervento per la seconda decade di giugno». Ogni settimana, di fronte all'ampiezza della vittoria tedesca, poteva essere quella decisiva per la fine della guerra e l'Italia, secondo Mussolini, non poteva farsi trovare non in armi. Lo stesso giorno, in un estremo tentativo di scongiurare la partecipazione italiana al conflitto, il primo ministro inglese Winston Churchill aveva, previo accordo con il suo omologo francese Paul Reynaud, inviato al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt la bozza di un accordo, che quest'ultimo avrebbe dovuto successivamente trasmettere al Duce. Secondo tale documento, conservato presso i National Archives di Londra con il nome Suggested Approach to Signor Mussolini, Regno Unito e Francia ipotizzavano la vittoria finale della Germania e chiedevano a Mussolini di moderare le future richieste di Hitler. Nello specifico, secondo questa proposta di accordo, Londra e Parigi promettevano di non aprire alcun negoziato con Hitler qualora quest'ultimo non avesse ammesso il Duce, nonostante la mancata partecipazione italiana al conflitto, alla futura conferenza di pace in posizione uguale a quella dei belligeranti. Inoltre, Churchill e Reynaud si impegnavano a non ostacolare le pretese italiane alla fine della guerra (che principalmente consistevano, in quel momento, nell'internazionalizzazione di Gibilterra, nella partecipazione italiana al controllo del Canale di Sueze in acquisizioni territoriali nell'Africa francese). Mussolini, però, in cambio avrebbe dovuto garantire di non aumentare successivamente le proprie richieste, avrebbe dovuto salvaguardare Londra e Parigi frenando le pretese di Hitler vincitore, avrebbe dovuto revocare la non belligeranza e dichiarare la neutralitàitaliana e avrebbe dovuto mantenere tale neutralità per tutta la durata del conflitto. Roosevelt si dichiarò personalmente garante per il futuro rispetto di tale accordo. L'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, Phillips, recò a Ciano la missiva, indirizzata a Mussolini, con il testo dell'accordo. Lo stesso giorno il governo di Parigi, per rendere la proposta di Roosevelt ancora più allettante, mediante l'ambasciatore francese in ItaliaAndré François-Poncet fece sapere al Duce di essere disponibile a trattare «sulla Tunisia e forse anche sull'Algeria». Secondo lo storico Ciro Paoletti, «Roosevelt prometteva per un futuro incerto e lontano. Sarebbe stato in grado di mantenere? E se per allora non fosse stato più presidente? L'Italia aveva già avuto in passato, nel 1915 e negli anni seguenti, delle notevoli promesse, poi non mantenute a Versailles nel 1919, come ci si poteva fidare? Mussolini doveva scegliere fra le promesse a lunga scadenza, fatte per di più da un presidente che di lì a sei mesi doveva presentarsi alla rielezione, e le possibilità vicine, concrete, date da una Francia al collasso, da un'Inghilterra allo stremo e dalla paura di cosa avrebbe potuto fargli subito dopo la ormai certa vittoria in Francia - e assai prima di qualsiasi intervento americano - una Germania trionfante». Secondo gli storici Emilio Gin ed Eugenio Di Rienzo, inoltre, il Duce non avrebbe mai accettato di sedersi al futuro tavolo delle trattative di pace, accanto a un Hitler trionfante, solo "per concessione" degli Alleati, senza aver combattuto, in quanto la sua figura in sede internazionale ne sarebbe uscita debolissima e la sua autorità, paragonata a quella del Führer, sarebbe stata del tutto irrilevante. Ciano, nel suo diario riportò infatti che Mussolini «se pacificamente potesse avere anche il doppio di quanto reclama, rifiuterebbe». La risposta a Phillips, infatti, fu negativa. Gli atti formali e l'annuncio pubblicoModifica  La folla, radunata di fronte a Palazzo Venezia, assiste al discorso sulla dichiarazione di guerra dell'Italia a Francia e Gran Bretagna. Il Duce comunicò a Badoglio la decisione di intervenire contro la Francia e, la mattina successiva, si riunirono a Palazzo Venezia i quattro vertici delle Forze Armate, Badoglio e i tre capi di Stato Maggiore (Graziani, Cavagnari e Pricolo): in mezz'ora tutto fu definitivo. Mussolini comunicò ad Alfieri la sua decisione e il 30 maggio annunciò ufficialmente a Hitler che l'Italia sarebbe entrata in guerra mercoledì 5 giugno. Mesi prima, in realtà, il Duce aveva ipotizzato un'entrata in guerra per la primavera 1941, data poi avvicinata al settembre 1940 dopo la conquista tedesca di Norvegia e Danimarca e ulteriormente accorciata dopo l'invasione della Francia, fatto che faceva presagire un'ormai imminente fine del conflitto. Il 1º giugno il Führer rispose, chiedendo di posticipare di qualche giorno l'intervento per non costringere l'esercito tedesco a modificare i piani in corso di attuazione in Francia. Il Duce si mostrò d'accordo, anche perché il rinvio gli permetteva di completare gli ultimi preparativi. In un messaggio del 2 giugno, però, l'ambasciatore tedesco a Roma Mackensen comunicò a Mussolini che la richiesta di posticipare l'azione era stata ritirata e, anzi, la Germania avrebbe gradito un anticipo. Il Duce, tramite il generale Ubaldo Soddu, chiese a Vittorio Emanuele III che gli venisse ceduto il comando supremo delle forze armate che, in base allo Statuto Albertino, era detenuto dal sovrano. Secondo Galeazzo Ciano il re avrebbe opposto notevole resistenza, finendo con il concordare una formula di compromesso: il comando supremo sarebbe rimasto in capo a Vittorio Emanuele III, ma Mussolini lo avrebbe gestito in delega. Il 6 giugno il Duce, scontento di questa soluzione e irritato dalla difesa del sovrano delle proprie prerogative statutarie, sbottò: «Alla fine della guerra dirò a Hitler di far fuori tutti questi assurdi anacronismi che sono le monarchie».[89] Volendo evitare l'entrata in guerra venerdì 7 giugno, data che era stata superstiziosamente considerata di cattivo auspicio, si giunse a lunedì 10 giugno. Galeazzo Ciano fece convocare per le 16:30 a Palazzo Chigi l'ambasciatore francese André François-Poncet e, secondo la prassi diplomatica, gli lesse la dichiarazione di guerra, il cui testo recitava: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra con la Francia a partire da domani 11 giugno». Alle 16:45 dello stesso giorno venne ricevuto da Ciano l'ambasciatore britannico Percy Loraine, che ascoltò la lettura del testo: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra con la Gran Bretagna a partire da domani 11 giugno». Entrambi gli incontri si svolsero, secondo i diari di Galeazzo Ciano, in un clima formale, ma di reciproca cortesia. L'ambasciatore francese avrebbe detto che considerava la dichiarazione di guerra come un colpo di pugnale a un uomo già a terra, ma che si aspettava una tale situazione già da due anni, dopo la firma del Patto d'Acciaio fra Italia e Germania, e che comunque nutriva stima personale per Ciano e non poteva considerare gli italiani come nemici. L'ambasciatore inglese, invece, sempre secondo Ciano avrebbe partecipato all'incontro restando imperturbabile, limitandosi a domandare educatamente se quella che stava ricevendo dovesse essere considerata un preavviso o la vera e propria dichiarazione di guerra. Preceduto dal vicesegretario del Partito Nazionale Fascista Pietro Capoferri, che ordinò alla folla il saluto al Duce, alle 18:00 dello stesso giorno Mussolini, indossando l'uniforme da primo caporale d'onore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, di fronte alla folla radunatasi in Piazza Venezia, annunciò, con un lungo discorso trasmesso anche via radio nelle principali città italiane, che «l'ora delle decisioni irrevocabili» era scoccata, mettendo al corrente il popolo italiano delle avvenute dichiarazioni di guerra. Di seguito, l'incipit e explicit del discorso: «Combattenti di terra, di mare, dell'aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno d'Albania. Ascoltate! Un'ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo. Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!». Le reazioni dell'opinione pubblicaModifica  La prima pagina de Il Popolo d'Italia dell'11 giugno 1940 La notizia fu accolta con entusiasmo dai gruppi industriali italiani, che vedevano l'inizio del conflitto come un'occasione per aumentare la produzione e la vendita di armi e macchinari, e da una buona parte dei vertici fascisti, nonostante le più alte personalità del regime avessero in precedenza espresso scetticismo sull'intervento italiano e avessero abbracciato la linea di condotta tracciata da Mussolini il 31 marzo 1940, che prevedeva di entrare in guerra il più tardi possibile allo scopo di evitare un conflitto lungo e insopportabile per il Paese. In ogni caso, fra le personalità che avevano espresso dubbi - se non veri e propri atteggiamenti ostili - sull'intervento militare italiano, nessuna palesò pubblicamente la propria opposizione al conflitto e sulla scrivania del Capo del Governo non vennero recapitate lettere di dimissioni.  La stampa italiana, condizionata da censura e controllo imposti dal regime fascista, diede la notizia con grande enfasi, utilizzando titoli a caratteri cubitali che facevano uso entusiasta di citazioni del discorso e manifestavano completa adesione alle decisioni prese: «Corriere della Sera: Folgorante annunzio del Duce. La guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Il Popolo d'Italia: POPOLO ITALIANO CORRI ALLE ARMI! Il Resto del Carlino: Viva il Duce Fondatore dell'Impero. GUERRA FASCISTA. L'Italia in armi contro Francia e Inghilterra. Il Gazzettino: Il Duce chiama il popolo alle armi per spezzare le catene del Mare nostro. L'Italia: I dadi sono gettati. L'ITALIA È IN GUERRA. La Stampa: Il Duce ha parlato. La dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla Francia. Bertoldo: Londra non sarà piena di tedeschi, ma fra poco sarà piena di italiani.»  L'unica voce critica che si levò, oltre ai giornali clandestini, fu quella de L'Osservatore Romano: «E il duce (abbagliato) salì sul treno in corsa». Questo titolo fu accolto con grande disappunto dai vertici italiani, tanto che Roberto Farinacci, segretario del partito fascista, in un commento alla stampa affermò che: «La Chiesa è stata la costante nemica dell'Italia».  Il capo dell'OVRA, Guido Leto, prendendo atto della reazione dell'opinione pubblica italiana, riferì che: «Come la polizia rilevò e riferì il quasi unanime dissenso del paese verso un'avventura bellica, così nella primavera del 1940 essa segnalò il rovesciamento della pubblica opinione presa da un ossessionante timore di arrivare tardi. E nel primo e nel secondo tempo operò come un termometro: non determinò, né influenzò, né menomamente alterò la temperatura del paese, ma semplicemente la misurò». Hitler, venuto a conoscenza dell'annuncio pubblico, inviò immediatamente due telegrammi di solidarietà e ringraziamento, uno indirizzato a Mussolini e uno a Vittorio Emanuele III, anche se, privatamente, espresse delusione per le scelte del Duce, in quanto avrebbe preferito che l'Italia attaccasse a sorpresa Malta e altre importanti posizioni strategiche inglesi anziché dichiarare guerra a una Francia già sconfitta. In sede internazionale l'intervento italiano contro la Francia fu visto come un gesto vile, al pari di una pugnalata alle spalle, in quanto l'esercito francese era già stato messo in ginocchio dai tedeschi e il suo comandante supremo, il generale Weygand, aveva già impartito ai comandanti delle forze superstiti l'ordine di ritirarsi per mettere in salvo il maggior numero possibile di unità. Il giudizio di Churchill sull'ingresso dell'Italia nel conflitto bellico e sull'operato di Mussolini fu affidato al commento pronunciato a Radio Londra: «Questa è la tragedia della storia italiana. E questo è il criminale che ha tessuto queste gesta di follia e vergogna». Quando venne raggiunto dalla notizia dell'intervento italiano contro un nemico ormai sconfitto, il presidente degli Stati Uniti Roosevelt rilasciò a Charlottesville una dura dichiarazione radiofonica: «In questo 10 giugno, la mano che teneva il pugnale l'ha affondato nella schiena del suo vicino».  Piani di guerraModifica  L'entrata in guerra fu la notizia principale su tutti i quotidiani italiani. I preparativi bellici italiani erano stati delineati dallo Stato Maggiore dell'esercito e prevedevano una condotta strettamente difensiva sulle Alpi Occidentali ed eventuali azioni offensive (da iniziare solamente in condizioni favorevoli) in Jugoslavia, Egitto, Somalia francese e Somalia britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la dislocazione delle forze disponibili, non di piani operativi, per i quali veniva lasciata al Duce piena libertà di improvvisazione. I vertici militari riconobbero l'inadeguatezza del Paese ad affrontare una guerra ma, allo stesso tempo, non presero posizione dinanzi all'intervento, ribadendo la loro totale fiducia in Mussolini. L'approccio del Duce al conflitto appena iniziato dall'Italia si concretizzò in direttive più o meno frammentarie, che egli indirizzava ai vertici militari: furono formulate richieste di operazioni nei teatri più disparati, mai trasformatesi in scelte precise e piani concreti. Venivano a mancare, in questo quadro, una strategia complessiva e di ampio respiro, obiettivi reali e un'organizzazione razionale della guerra. Ciò fu evidente fin da subito, quando lo Stato Maggiore Generale notificò che: «A conferma di quanto comunicato nella riunione dei Capi di Stato Maggiore tenuta il giorno 5 ripeto che l'idea precisa del Duce è la seguente: tenere contegno assolutamente difensivo verso la Francia sia in terra che in aria. In mare: se si incontrano forze francesi miste a forze inglesi, si considerino tutte forze nemiche da attaccare; se si incontrano solo forze francesi, prendere norma dal loro contegno e non essere i primi ad attaccare, a meno che ciò ponga in condizioni sfavorevoli». In base a quest'ordine la Regia Aeronautica ordinò di non effettuare alcuna azione offensiva, ma solo di compiere ricognizioni aeree mantenendosi in territorio nazionale, e altrettanto fecero il Regio Esercito e la Regia Marina, la quale non aveva intenzione di uscire dalle acque nazionali salvo per il controllo del canale di Sicilia, ma senza garantire le comunicazioni con la Libia. Come preannunciato nella corrispondenza con il governo tedesco, dall'11 giugno le truppe italiane cominciarono le operazioni militari al confine francese in vista della pianificata occupazione delle Alpi occidentali ed effettuarono bombardamenti aerei, di carattere puramente dimostrativo, su Porto Sudan, Aden e sulla base navale inglese di Malta. L'alto comando delle operazioni venne affidato al generale Graziani, un ufficiale esperto in guerre coloniali contro nemici inferiori per numero e per mezzi, che non aveva mai avuto il comando su un fronte europeo  e che non aveva alcuna familiarità con la frontiera occidentale. I vertici militari italiani, costretti a centellinare le poche risorse disponibili, decisero di muovere le truppe solo in concomitanza con i movimenti dei tedeschi:[108]l'aggressione alla Francia avvenne infatti solo quando la Germania l'aveva già praticamente sconfitta, poi ci fu un periodo di inattività italiana contemporaneo all'inattività tedesca nell'estate 1940, poi le azioni italiane ripresero quando la Germania iniziò la pianificazione dell'aggressione al Regno Unito. Secondo lo storico Ciro Paoletti: «Ogni volta che i Tedeschi si muovevano poteva essere quella decisiva per la fine vittoriosa del conflitto; e l'Italia doveva farsi trovare impegnata quel tanto che bastasse a dire che anch'essa aveva combattuto lealmente e godeva il diritto di sedersi al tavolo dei vincitori». L'atteggiamento dell'Italia, che «entrava in guerra senza essere attaccata» né sapeva dove attaccare, e che «addensava le truppe alla frontiera francese perché non aveva altri obiettivi», venne sintetizzato dal generale Quirino Armellini con la massima: «Intanto entriamo in guerra, poi si vedrà. Il Promemoria segretissimo 328 era una relazione, stilata da Mussolini, con destinatari Vittorio Emanuele III, Galeazzo Ciano, Pietro Badoglio, Rodolfo Graziani, Domenico Cavagnari, Francesco Pricolo, Attilio Teruzzi, Ettore Muti e Ubaldo Soddu. cfr. Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito Mussolini, su larchivio.  Il Servizio Speciale Riservato era un organo, istituito ai tempi di Giovanni Giolitti, per tenere sotto controllo le principali personalità del Paese. ^ Diversa, invece, la versione su toni e parole data dall'ambasciatore francese: «E così, avete aspettato di vederci in ginocchio, per accoltellarci alle spalle. Se fossi in voi non ne sarei affatto orgoglioso», e Ciano avrebbe risposto, arrossendo: «Mio caro Poncet, tutto questo durerà l'espace d'un matin. Ben presto ci ritroveremo tutti davanti a un tavolo verde», riferendosi a un futuro tavolo delle trattative al termine del conflitto. cfr. Niente pugnale alla schiena in Internet Archive., in Il Tempo. Di seguito i testi dei due telegrammi, qui fedelmente riportati secondo le fonti reperibili. cfr. La Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo. Berlino, telegramma di Hitler al Re  La provvidenza ha voluto che noi fossimo costretti contro i nostri stessi propositi a difendere la libertà e l'avvenire dei nostri popoli in combattimento contro Inghilterra e Francia. In quest'ora storica nella quale i nostri eserciti si uniscono in fedele fratellanza d'armi, sento il bisogno d'inviare a Vostra Maestà i miei più cordiali saluti. Io sono della ferma convinzione che la potente forza dell'ITALIA e della GERMANIA otterrà la vittoria sui nostri nemici. I diritti di vita dei nostri due popoli saranno quindi assicurati per tutti i tempi. Berlino, telegramma di Hitler a Mussolini Duce, la decisione storica che Voi avete oggi proclamato mi ha commosso profondamente. Tutto il popolo tedesco pensa in questo momento a Voi e al vostro Paese. Le forze armate germaniche gioiscono di poter essere in lotta al lato dei camerati italiani. Nel settembre dell'anno scorso i dirigenti britannici dichiararono al Reich la guerra senza un motivo. Essi respinsero ogni offerta di un regolamento pacifico. Anche la Vostra proposta di mediazione si ebbe una risposta negativa. Il crescente sprezzo dei diritti nazionali dell'ITALIA da parte dei dirigenti di Londra e di Parigi ha condotto noi, che siamo stati sempre legati nel modo più stretto attraverso le nostre Rivoluzioni e politicamente per mezzo dei trattati, a questa grande lotta per la libertà e per l'avvenire dei nostri popoli. Fonti ^ Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Paoletti, Acerbo, Paoletti, Paoletti, Le Moan, Ciano, Schiavon, Ciano, Ciano, Corpo di Stato Maggiore, Candeloro, Paoletti, Paoletti, Ciano, Collotti, Ciano, Paoletti, Bocca, Costa Bona, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Paoletti, Ciano, Bocca, De Felice, Ciano, Paoletti, Paoletti, Paoletti, Candeloro, Ciano, Candeloro, Bocca, Candeloro, Faldella, Paoletti, Bottai, Bernasconi e Muran, Rochat, Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito Mussolini, su larchivio.com, Candeloro, Paoletti, Rochat, Paoletti, Candeloro, Corrispondenza Mussolini – Hitler, su digilander.libero.it. Speroni, Ciano, Candeloro, Felice, Costa Bona, Ciano, Ciano, De Felice, De Felice, Vedovato, G., et Grandi. Grandi al Duce. Questo è il momento di astenersi dalla guerra». Rivista di Studi Politici, Felice, De Felice, Paoletti, Paoletti, Leto, Paoletti, Felice, Faldella, Speroni, Speroni, Faldella, Badoglio, De la Sierra, De Felice, Il carteggio Churchill-Mussolini? Una traccia nei National Archives di Londra, su nuovarivistastorica, Paoletti, Ciano, Ciano, Felice, Carteggio Hitler Mussolini L'Archivio "storia - history", su larchivio. Felice, Ciano, Lepre, Corpo di Stato Maggiore, Niente pugnale alla schiena, in Il Tempo, Speroni, Felice, La Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo, Pietrantonio, L’Italia dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna, su abitarearoma, Santis, Bocca, Fiori, Mussolini: il discorso che cambiò la storia d'Italia, in Repubblica, Campagna di Francia, su storiaxxisecolo, Rochat, Rochat, Faldella, Rochat, Cicchino. Il testo della dichiarazione di guerra, su larchivio.com, Bocca, Faldella, Battistelli, I rapporti militari italo-tedeschi, Paoletti, Rochat, p. 248. ^ Rochat, Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione, Rocca San Casciano, Cappelli, Grimaldi e Bozzetti, Il giorno della follia, Roma-Bari, Laterza, 1974, ISBN non esistente. Pietro Badoglio, L'Italia nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1946, ISBN non esistente. Alessandro Bernasconi e Giovanni Muran, Le fortificazioni del Vallo Alpino Littorio in Alto Adige, Trento, Temi, Bocca, Storia d'Italia nella guerra fascista, Milano, Mondadori, Bottai, Diario, a cura di Bruno Guerri, Milano, Rizzoli, Candeloro, Storia dell'Italia moderna, Volume 10, Milano, Feltrinelli, Ciano, L'Europa verso la catastrofe. La politica estera dell'Italia fascista, Verona, Mondadori, Ciano, Diario, a cura di Felice, Milano, Rizzoli, Collotti ed Enrica Collotti Pischel, La storia contemporanea attraverso i documenti, Bologna, Zanichelli, Corpo di Stato Maggiore, Bollettini della guerra, Roma, Stato Maggiore R. Esercito, Ufficio Propaganda, Corpo di Stato Maggiore, Verbali delle riunioni tenute dal Capo di S.M. Generale, Roma, Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico, Costa Bona, Dalla guerra alla pace: Italia-Francia, Milano, Angeli, Felice, Mussolini il duce. Lo stato totalitario, Milano, Einaudi, Sierra, La guerra navale nel Mediterraneo, Milano, Mursia, 1Santis, Lo spionaggio nella seconda guerra mondiale, Firenze, Giunti, Faldella, L'Italia e la seconda guerra mondiale, Bologna, Cappelli, Moal, La perception de la menace italienne par le Quai d'Orsay à la veille de la Seconde Guerre Mondiale, intervento alle «Journées d’études France et Italie en guerre. Bilan historiographique et enjeux mémoriels», Roma, Ecole Française, Lepre, Mussolini l'italiano. Il duce nel mito e nella realtà, Milano, Mondadori, Leto, OVRA-Fascismo e antifascismo, Rocca San Casciano, Cappelli, Paoletti, Dalla non belligeranza alla guerra parallela, Roma, Commissione Italiana di Storia Militare, Quartararo, Roma tra Londra e Berlino - La politica estera fascista, Roma, Bonacci, Rochat, Le guerre italiane, Milano, Einaudi, Schiavon, La perception de la menace italienne par l'État-Major français à la veille de la Seconde Guerre Mondiale, intervento alle «Journées d'études France et Italie en guerre. Bilan historiographique et enjeux mémoriels», Roma, Ecole Française, Speroni, Umberto II. Il dramma segreto dell'ultimo re, Milano, Bompiani, Voci correlate Battaglia delle Alpi Occidentali Lista del molibdeno Occupazione italiana della Francia meridionale Storia del Regno d'Italia Italia nella seconda guerra mondiale Altri progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene il testo completo del carteggio del 1940 fra Hitler e Mussolini contiene il testo completo della dichiarazione di guerra dell'Italia a Gran Bretagna e Francia Istituto Nazionale Luce. La dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna: il discorso di Mussolini, su patrimonio.archivioluce. Portale Guerra   Portale Italia   Portale Seconda guerra mondiale   Portale Storia Ultima modifica 23 giorni fa di Franz van Lanzee PAGINE CORRELATE Patto d'Acciaio accordo di reciproco aiuto politico, diplomatico e militare tra i governi del Regno d'Italia e della Germania nazista  Lista del molibdeno richiesta italiana di materiale bellico nella II guerra mondiale  Memoriale Cavallero. Roberto Cordeschi. Cordeschi. Keywords: la logica della guerra, la guerra del fascismo, Croce, sperimentalismo italiano, mente, homo mechanicus, Turing, Craik, artificiale e naturale, filosofia, rappresentare il concetto, logica matematica, reiezione in Aristotele, predicate, significato, communicazione, creativita, informazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cordeschi” – The Swimming-Pool Library. Cordeschi.

 

Luigi Speranza -- Grice e Corleo: all’isola -- la ragione conversazionale – scuola di Salemi – filosofia trapanesi – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salemi). Filosofo trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Salemi, Trapani, Sicilia. Grice: “Corleo is a genius --  His keyword is identity, the Hegelian type, and that’s why he attracted Gentile’s attention! But my favourite is his excursus on language! He talks like a veritable Griceian – about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the spontaneous cry to seek attention, Romolo from Remo, say – He very much elaborates on the subject and the predicate and the copula, and the other parts of speech – But he retains an empiricist, evolutionary viewpoint with which I wholly agree!” Studia nel Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana. Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”.  Durante la spedizione dei mille, fu nominato da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio: “Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di Salemi.  Altre opere: “Meditazioni filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente dall’esperienza e dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio affermativo (S e P) o giudizio negativo -- S non e P --, giudizio condizionale -- Se p, q --, giudizio tetico -- S e P --  giudizio ipotetico -- si p, q --, giudizio disgiuntivo -- p v q --  e via via. Poichè,ogni proposizione o giudizio, semplice or complessa, debbe congiungere un predicate ad un soggetto -- S e P -- o negare un predicato ad un soggetto -- S non e P --, e ciò non può farsi altrimenti che in forza della identità parziale o totale del predicato stesso col soggetto, ovvero del contrario o contrapposto del predicato in caso di giudizio negativo, sia cotesta identità assoluta, o sperimentale, sotto condizione, problematica, o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso di giudizi che serve a scoprire una verità incognita per mezzo di una verità nota, o a dimostrare il nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il raciocinio deve esser fodato sulla medesima legge d'identità, che costituisce l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni passaggio da una verità ad un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato dalla connessione che deve esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si può dall'uno inferir l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal noto all'ignoto, e molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri conosciuti. Or, questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà strano che la connessione si debba risolvere anch'essa in identità; ma riflettendo con attenzione, si scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere altrimenti. Se S è connesso con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma importa invece che ambidue sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti integranti del tutto S-P, di guisa che la loro connessione non *significa* o signa altro, che il loro legame necessario per la formazione di quel tutto complesso proposizionale – “S e P” -- onde se essi non fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel tutto non sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico alla somma delle parti che lo costituiscono. Due o più giudizi, tra loro connessi, sono parti integranti di un giudizio di maggiore estensione che tutti li abbraccia, ed è identico con essi come il tutto è identico con la somma delle sue parti. Laonde non può esser vero l'uno senza che sia vero l'altro, perocchè in diverso non sarebbe vero quel giudizio maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi subalterni dai quali è costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad esaminare ogni teorema geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in genere e delle varie sue specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione tra cotesti teoremi, nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di seguito; onde essi si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima. Essi non sono che le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di triangolo e delle sue specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto complessivo sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora nemmeno avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna delle sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di nesso a costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella identità di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni sul raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale riunire per necessità le parti fra di lor, senza di cui egli non potrebbe esser quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri connessi a quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale li identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non ci contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per mezzo di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno essendo vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in qual giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la identità di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il raciocinio analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione dei singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono appunto i giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli s'identificano come parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione non è che l'identità del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il cui necessario legame egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è dimostrativo, quando serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare niente altro è che legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione pertanto vi è, perchè i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si raggruppano in unico e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia come tante sue parti: onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un predicato P col suo soggetto S, all'identità parziale dell'altro predicato P2 con l'altro suo soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi tutti costituiscono un solo subbietto più esteso, che di tutti quei predicati si compone, e che perciò è identico con la loro somma. Un subbietto subalterno non potrebbe concorrere alla costituzione del subbietto totale, se non possedesse quel tale predicato e se gli altri subalterni non possedessero quelli altri predicati; onde la connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri gli altri, ed *implicitamente* deve esser vero il giudizio totale, con cui tutti s'identificano. È inventivo e non dimostrativo il raziocinio, quando, dalla verità che si conosce, si passa a quella che s'ignora; ed anco in tal caso la ragion del passaggio è fondata sulla connessione, e perciò sulla legge d'identità, in quanto che dalla identità parziale che si conosce, si sospetta prima e poi si scopre la identità totale. Per causa di alcuni punti d'identità o di parziali somiglianze tra un fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile* identità dei loro elementi in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In questo caso vi ha l'*ipotesi* o supposizione, che annunzia come *possibile* identico totale quello che tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza dei punti, della cui identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la medesima identità con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in altri simili. Ed allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della identità di tutti gli elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una legge e l'altra, e si ha perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o non si giunge ad accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui però dobbiamo renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale, nella ipotesi o supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per poterla trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la *testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la connessione dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve giungere in forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti, nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli elementi proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque passaggio dalle verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità assolute ed ai raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel conoscimento delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi sperimentali, ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti parziali ed il subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso solo. È questo il doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e necessaria dei fatti sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li costitui scono, e lo svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti subalterni, che sono del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza del raziocinio non può essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra; essa consiste nel passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che la costituiscono, o dalle identità parziali alla totale per mezzo della scoperta di quelle altre identità parziali che sono con loro connesse per compiere l'identità totale. Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei concetti, della doppia identità delle parti e del tutto per avere ragionamenti rigorosi; e non potendo giungervi per mezzo dei concetti, assicurarsene per mezzo della esperienza. In questi due soli modi è possibile il raziocinio. Chi cura soltanto la forma esteriore del ragionamento e ripone la logica nello studio delle leggi della FORMA LOGICA, non prende di mira lo scopo vero del raziocinio, che è l'accertamento della identità de' giudizi connessi col tutto di cui sono parti; e perciò corre l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert, che non è mai garanzia sicura di esatti ragionamenti. Or, perchè mai i subbietti di tali giudizi son dive nuti concettuali e perciò includono necessariamente i loro pre. Tre sono state le più grandi logiche formali. La prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta dal particolare al particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari. La seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i particolari si presentano con caratteri di necessità, empirico se si presentano soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come Porfirio e BOEZIO, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone, e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie dalla classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che non posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano. Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici, conchiudendo dal generale al particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve notare, che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi, o spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo. Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second, si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto particolare e gli altri dello stesso genere, alla loro totale identità. Perchè moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente, perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali ad altre parziali, o peggio, ad altre total, senza assicurarne la totale identità. rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse, non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni, non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica, e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea, come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio. Nello stesso modo, un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gl’errori di esperimento si correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne occupano. Gl’errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed accurato esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità: così soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli che non convengono; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo; ed in ciò consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica, duce il Locke, aveva già compreso la necessità dell'esame delle idee, all'oggetto di non ammetterle soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza, necessità, universalità ed assolutezza, con cui s'impongono. La disposizione che si dà al complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare, sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante la regola della doppia identità parziale e totale. Onde il vero metodo scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola, nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità, e se non mirassero al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali, concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare, senza alcuna ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee. Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde, in vece della vera origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee, diede spesso supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime, e sopra tutto delle idee morali, col preteso stato naturale e col contratto sociale. Tutte quelle idee che non potè giustificare coi sensi, le rigetto, o le ammise alla credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i posteriori idealisti, visto l'inte lice esito dell'esame, son tornati ad ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri che s'impongono alla nostra ragione, sia ritenendole verità prime indiscutibili ed indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune); sia supponendole forme assolute del pensiero  quidquid recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ); sia riputandole innate e facienti parte del nostro intel letto, almeno in una prima idea fondamentale, quella dell'essere (*scuola rosminiana*); sia ammettendole come frutto d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart); sia credendole comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole giobertiane*), o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana ), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola di Schopenauher ), o attuazione inconscia (scuola di Hartmann ). Tutti supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni, o a dogmi, per dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè stesse, nei loro attuali elementi costitutivi, adducendo a prova della impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici, i quali ebbero bensì il buon volere, ed anche la presunzione dell'esame, senza mai averne studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche utili. Laonde è d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment ammesse, per inferirne le bramate conseguenze. Or se è vero che percepire distintamente, sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare, ideare, giudicare, connettere e ragionare, non sono altro che più o men largamente identificare le parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente, in forma sperimentale o in forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur troppo evidente che, per potere scorgere l'identità più prontamente e con maggiore chiarezza, sarebbero assai utili due cose. Primo, abbreviare e ravvicinare tra loro con SEGNI le percezioni ed i loro elementi, le idee ed i loro elementi. Secondo indicare con segni le successive operazioni che vengon fatte spontaneamente o riflessivmente sui detti complessi e loro elementi. L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono scienza, ma sono potenti mezzi di scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano le idee e le operazioni su di esse fatte rendendo più facile e più sicuro il colpo d'occhio su di loro per scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè non sarà possibile una logica aritmetica o matematica per agevolare la conoscenza delle identità parziali e totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio della intelligenza? Non vale il dire che nell’aritmetica e la geometria si tratta di rapporti tra sole quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi e le operazioni identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero trattare molti altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente, e perciò l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire questo; poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune, l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra. Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno, costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente, potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno, eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo – la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali. Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale. Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che voglio negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco così la serie dei segni principali: + più, meno, =  uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’ simile, 1 identico, ^ identico parziale,? dubbio, 000 connesso, (II) in contatto, et etcetera, -1-- non simile, ^ non identico,?- non dubbio cioè riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso, percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e sintetizzato, !! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi spontanea e riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la parte a. | A la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da quello di riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei giudizii e nei raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i due spazî, che segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i suoi elementi si rappresentano così ovvero al ovvero A:, ovvero secondo chè sieno più o meno distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha una delle due formole: 10 AA? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B? A A? Bİ, non è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica certamente, 1 -?-; 2º Aja?, l'elemento a fa parte dell'idea a _?. o della percezione A? La risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde? с a hg an. Or, dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali, с de cioè l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli altri elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^()()(). Con le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $ 56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici? Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due, o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò, lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale. Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter” -- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione* da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere, cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto, cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico, assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”), il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione, anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec. Vi sono poi delle parti di percezioni che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’ “onore”,  il “dovere”, ec. Cosi anche e il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec. É in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno, particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice (“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa, come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”, “amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio (di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo nella sintesi,  nell’analisi e nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti. Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione, fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al linguaggio, e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico, e porrò così il quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò, essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta. Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile: nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”), il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è quest'altro. Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un primo uso di un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di un'astrazione (o articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha bisogno dell'uso del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono a vicenda, in modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si guardano *sinteticamente* dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento, non pajono più naturalmente spiegabili, e comparisce quella specie di circolo vizioso, di cui si parla inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo sviluppo pieno dell’altra, ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non si sa più qual delle due debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal fatto bisogna incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento men complicato e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza mutua, e come mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo un’obbiezione ben facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per poter determinare qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare communicamente in Romolo e Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia una base sufficiente per poter sostenere che il segno communicativo più antico e più elevato e più ricco di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto del signare comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio  non mi credo autorizzato a dare una soluzione diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori, e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente, naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --, quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve essere per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del genero segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine necessita. Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico, assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare* (transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato, segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti. Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’) i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta (l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato (‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare, i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale --  che costituisee la communicazione e la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora (“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo “o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna, signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è ottenuto. Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione comunicativa alcuna richiama l’attenzione dell’altra parte della diada conversazionale. Ciò che si è dapprima, one-off, ottenuto senza intento communicativo o intenzione communicativa, può la seconda volta esser voluto *di proposito*, voluntariamente, -- def. di verbum in Aquino -- per la utilità che se n’è ricavata: ripetendosi dunque avvedutamente lo stesso segno, quello è divenuto un vocativo naturale. E noi osservammo che appunto questa vocale “o” è il vocative nella Roma di Remo (o tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio mutuo o duale dunque non nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di un'effetto o risponsa, che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per imitazione, consigue. Volendo di nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto o la stessa risponsa, non ci vuol’altro che ripetere un altro specimen del stesso genero di segno (“o”). L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando vi sono tante possibilità d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar luogo spontaneamente a un arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono assoluto che sia impossibile l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza della utilità del segno medesimo? Non dico che l’atto del signare communicativamente nacque in questo o in quell’altro modo. Dico che vi sono moltissime possibilità tutte *naturali*, nelle quali l'uomo può avvertire l'utilità dell'uso di un segno articolato per l’effetto o la risponsa spontanea, no intenzionata, che ne ottiene, e senza il bisogno di un preventivo arbitrio duale. Basta questo per distruggere a rigor di logica le basi tutte di quell'edificio che si vuol fondare sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa senza prima aver conosciuto l'uso e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto ebbero forse insegnato da Dio l'uso del atto di signare communicativamente, con che communica (o transferre) il suo bisogni, la sua gioia, il suo pericolo, la domanda del soccorso? Forse non vediamo fin dal loro nascere i varii animali communicarsi per mezzo di un segno, per lo più *istintivo* -- che causa una risponsa istintiva, i diversi loro stati? Non puo il brutto perfezionare il suo atto di signare communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di analizzare gli elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre, siccome vedremo a suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o stimolo, in esito al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta volontariamente; e tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la libertà del movimento per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi ha una specie di “tacito” arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto ottenuto o la risponsa ottenuta una volta, per ragion di associazione o co-relazione iconica istintiva associativa, fa appunto le veci di un arbitrio duale. Se dunque questo segno inferiore è possibile nel bruto, il quale non astragge, perchè lo stesso principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è possibile fra due uomini! Un uomo, che ha la piena capacità di astrarre, riconosce più facilmente l'utilità dell’effetti ottenuto o della risponsa ottenuta dall’altra parte della diada conversazionale, e si crea l'idea generica del arbitrio duale del segno, dalla quale discende poi come conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco, illimitato, creativo, e di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne, in ragion di questa o quella percezione, o in ragione di questo o quello concetto astratta. Concepita una volta l’utilità dell’uso del atto di signare communicativemente, del segno articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro che possedere in fatto la capacità di variare e combinare *indefinitamente* in modo aperto e illimitato, l'articolazione e la operazione di questo o quello segno primitivo, e l'uomo possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo adunque può, da un certo numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a *stabilire* un arbitrio duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale del segno, poichè da un fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e l'idea generica; e possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di questo o quello segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto il resto. Quantunque il segno che compone l’atto del signare communicativo e per arbitrio muto, pure siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre elementi delle medesime (S, e, P) ed i concetti astratti, debbono quindi ritrarre le proprietà fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono avere fra ogni percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e diverso il segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il medesimo segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo, perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione risultante in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” – Varrone, verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in verità, tutto quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce, e perciò il segno del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni proposizione si aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene un'analisi, la mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un segno che non e un verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione risultante signata dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante* e non basica, e composte della combinazione di questa o quella azione sostanziali intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro fondamento in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo* (la copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla che nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della classe del segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in ogni atto di signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il verbo “essere”, al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo, decomponendoli in “copula e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante. Ed è notevole che ogni segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi, perchè denota un’azione che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti in un segno di verbo fondamentale che è intransitivo, o come i modisti dicono neutro – epiceno, mezza voce --, cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è veramente transitivo é la forma del risultato, ma ognuna delle azioni sostanziali componenti è intransitiva. La sintesi e necessaria e l'analisi e necessaria, perchè una percezioni e complessiva e costa di questo o quello elemento, che colla riproduzione, sovrapponendosi gli uni agli altri, si sintetizzano nel punto simile e si analizzano nel punto dissimile. Bisogna dunque che ogni segno indica un composto o complesso proposizionale, e che ogni segno articulato composito e de-compo nibili. Però, siccome gli elementi di ogni risultato e una azioni sostantiva, perciò è necessario che ogni segno si puosciogliere in un segno solo che indica l’azione sostantiva, non come occulta (sub-stantia), ma come realtà, cioè come essere, onde il *nome* (nomen, onoma – nomen substantivum, nomen adjectivum) non meno che il segno del verbo, si sciolgono tutti nell'essere, il quale è verbo e nome allo stesso tempo, ed è appunto verbo sostantivo, perchè indica un’azione che sta per sè stessa, e che non ha bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine addiettivo e ogni altro segno sin-categorematico che indica quantita, qualita, relazione, o modalità o relazione, ra-presentano la composizione, il risultato, la combinzione di questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè sole, ma ha bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su cui debbono appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque suo modo di essere non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro che la somma medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione è una forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente, quindi è che tutte le parole indicanti modd lità, quantità e relazi ni, conie gli avverbii, le preposizioni, le congiunzioni, gli aggettivi, ec. non sono riduttibili al solo verbo essere, nè al solo nume essere, a differenza del segno del verbo e del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo sostantivo “essere”. Nel tempo stesso non possono sussistere per sè, ed han continuo bisogno di questo o quello essere (il S, il P), perchè la composizione non può stare senza di questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo la differenza che passa tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la relazione, e la modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione medesima, e quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di questa o quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e principalmente il verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono, indica la collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome aggettivo, il segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la preposzione (in latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e, adversative, ma), ec. indica come questa o quella azione e disposte, e che relazione ha fra loro, in ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di azioni è un *risultato* che subisce questa o quella modificazione (declinazione, congiuggazione) secondo i cangiamenti parziali del numero (singolare, duale, plurale) e della posizione di questo o quello componento, cosi vi ha una sintesi fondamentale in ogni parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una continua analisi di ogni parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e necessario il segno radicale che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè, il fondo permanente dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua desinenza (uomo, uomni, pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo definito (il – ille, la -- illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per indicare ogni variazione e accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale di questa o quella aziona si effettua. Il atto di signare monosillabica dei cinesi supplisce a ciò coll’accozzare diverse sillabe, cioè diverse segni, di cui ognuna esprime una idea, e tutte unite esprimono un complesso. Una idea fissa si esprime con un signo fisso. Una segnato variabile si esprime con un segno variantie. Sorge da ciò la necessità del segno derivativo, del segno della desinenza e del segno del prefisso, infisso, e suffisso, come anche la necessità di trasformare in maniera avverbiale un nome e un verbo, e di operare ogni cangiamento di preposizione in verbo ed in nome, dell’aggettivo in sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la forma fondamentale, ogni mutamento di forma debbe esprimersi con cangiarli secondo il bisogno e secondo la relazione che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni ed un'altra. Finalmente vi ha un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del discorso, ed è quella del giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo – indicativo, imperative -- in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da un giudizio all'altro per mezzo di una connessione, così la proposizione prende forma concatenata e compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo s'incatena con quello periodo e forman un discorso. Però è no ievole che l’operazione dell'analisi e l’operazione della sintesi spontanea non puo altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”, cioè di giudizio o volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo anche un segno solo, considerata nella sua radicale o nella sua derivazione, indica benissimo l’operazione analitica che vi è dentro. La ragione, per cui non si può annunziare ad altri, che sotto forma di giudizio, una completa operazione di sintesi e di analisi, si è appunto questa, che quando si annunziano ad altri cotali operazione di sintesi o analisi, vi è di già il concorso della riflessione, e perciò non si annunzia altro che il risultato ultimo della sintesi e dell'analisi riflessa, il qual risultato e il giudizio e la volizione, ambe due con contenuto proposizionale. Onde si ha che nello singolo signo si rappresenta le sintesi e le analisi spontaneamente fatte, e nel complesso si rappresenta il risultato totale, che perciò appunto veste la forma di giudizio o volizione con contenuto proposizionale. Da tutte queste osservazioni emerge che il segno e la sua costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese d’Italia -- debbe avere una forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme variabile (semiotica componenziale), siccome il risultamento organico subbiettivo ed il risultamento esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una forme variabile, poiché il segno debbe necessariamente prendere lo stesso aspetto del segnato. In ogni segno possono riguardarsi due parti distinte, cioè il segno e la costruzione del segno. Ogni segno è segno di una percezione, o di una parte di percezione, o di un'idea o concetto (signato). La costruzione del segno ra-presenta ogni relazione che ha questa o quella percezione, questa o quella idea, questo o quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro del grado delle conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la ricchezza del repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione indica quante percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente, ed in quante maniere sa  metterle in relazione fra di loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza studiata sino al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una percezione sola o una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere se mai una di tale segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo stare attento alla *forma* del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche dalla forma della costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare col segno che si adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma forse la causa del fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un segno sia adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato (equivocazione), è necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato solo; poichè non è presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico (equivocazione – para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di usare un segno solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per far nascere la dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare. Allorchè dunque si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno proprio, il segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o concevire un segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa svegliare l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare). Allora l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile novello ch' è ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più di tutto nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’), a cui mano mano un emittente si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto più è possibile, somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del traslato: un segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo spirare), è adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa qualche somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente, quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che propriamente esprima ciascuno dei segni, che essi adoperano per indicarle. Ma il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte meditazioni, e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso. Inoltre gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano, non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo, si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio, ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente, quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità, perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni (perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con ambidue uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo radicale che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere di radice originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono chiamarsi il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio delle forma con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la ricchezza delle forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente, molto più quando non è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i segni di più avanzati nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso numero di vocaboli proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà del segno: onde esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e adoperano al bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio all’esattezza scientifica, ma quanto sono rigorose, tanto son più fredde, poichè non si confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra qualunque segno avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente i di tal sorta non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò porta l' impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che appartennero all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo hanno acquistato segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un traslato o di una metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto proprio (By uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my pride and joy). Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre. L’emittente e ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel repertorio di forme poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo segna, e perciò le relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più semplici, e sempre più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o proposizione: soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur fare intorno a queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più abbondante di figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il segnato per come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione sostanziale, l'azione sostanziale stessa, ed il suo oggetto, non van sempre in ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è divenuta più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione stessa che ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye da ciò che al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha bisogno di esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni o nel calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella stessa costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la spontaneità dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si presta meglio alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e nell'oratoria ha bisogno di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare il loro effetto dalla varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo a particolari confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta semiotica generale. Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono dalla natura stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal corso delle loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente debbe esser quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile figurato e dei traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando è necessaria. L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme, se non che in un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla medesima lingua dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione, dall'epoca della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però in tal caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema: l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro, i quali adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro.  Wikipedia Ricerca Affezione Lingua Segui Modifica Il termine affezione (dal latino affectio, sinonimo di affectus) nel linguaggio comune è usato nel significato di "affetto", inteso come un sentimento di benevolenza verso il prossimo, di intensità minore della passione.  In filosofia il lemma indica tutto ciò che avviene nell'animo determinandone una modificazione: l'affezione è ogni «fenomeno passivo della coscienza», ossia la condizione in cui si trova chiunque subisca un'azione o una modificazione[2].  AristoteleModifica In Aristotele, in senso generico, l'affezione è ciò che si contrappone all' ἔργον, (azione): il πάϑος, il "patire", una delle dieci categorie che si possono predicare dell'essere. I sensi producono affezioni con i dati sensibili, che provengono dagli oggetti esterni, sull'anima, che come una tabula rasane viene impressa, dando luogo così all'inizio del processo conoscitivo.   L'affezione può anche riguardare un cambiamento di stato, cioè «una modificazione o carattere sopravvenienti a una sostanza, come l'essere musico o l'essere bianco per l'uomo»  In senso più ampio, sempre in Aristotele, poiché dagli oggetti esterni provengono quegli elementi che provocano nell'anima modifiche non solo sensibili ma anche sentimentali come il piacere, il dolore, il desiderio...ecc., le affezioni coincidono con le "passioni" della sfera etica Quest'ultimo significato si ritrova anche in Cicerone, che adotta affectionescome sinonimo di perturbatio animi o concitatio animi. Anche Agostino d'Ippona usa i termini perturbationes, affectus, affectiones come sinonimi di passiones.  La funzione delle affezioni. Nella storia del pensiero la funzione delle affezioni viene considerata in tre diversi modi:  con Platone e il platonismo, poiché il comportamento buono si basa sulla conoscenza del vero, le affezioni sono dannose perché influiscono negativamente sia sulla conoscenza che sul comportamento morale. Su questa stessa linea di giudizio sono Cartesio, Spinoza, Leibniz, e soprattutto Hegel, che fanno rientrare le affezioni — sia per la conoscenza che per la moralità — nell'ambito della false o confuse idee. Nella filosofia aristotelica e in quella epicurea le affezioni sono valide nell'ambito conoscitivo, poiché i dati sensibili ricevuti passivamente dal soggetto sono sempre veri, mentre falsi sono i nostri giudizi anticipatori (prolessi) delle sensazioni vere e proprie. Le affezioni sono valutate positivamente anche dal punto di vista morale, poiché non esiste uomo senza passioni, quindi il problema non è quello di eliminarle ma di moderarle (μετριοπάϑεια). Con lo stoicismo le affezioni sono ineliminabili dal punto di vista del processo conoscitivo, mentre vanno messe da parte nei comportamenti morali, che non devono essere compromessi dalle passioni. Il saggio è colui che raggiunge l'apatia, l'indifferenza alle passioni. Kant Secondo Kant, per le nostre intuizioni è indispensabile che il nostro animo sia "afflitto" (affiziert, "affettato") dalle affezioni. Quella della ragione sarebbe una falsa conoscenza senza le affezioni sensibili. Se invece noi intendiamo le affezioni come passioni allora il loro ruolo è puramente negativo: esse sono, non diversamente da quanto aveva inteso Cartesio, «cancri della ragion pura pratica, per lo più inguaribili.  Il concetto di affezione tuttavia fa nascere nella dottrina kantiana un problema relativo alla dicotomia fra fenomeno e cosa in sé. Se l'affezione è tale nel senso per cui i sensi del soggetto vengono modificati dall'oggetto, poiché spazio e tempo sono parte della nostra intuizione sensibile come "a priori", indipendenti dall'esperienza, e il noumeno è per definizione inaccessibile ai sensi, dove mai l'affezione fisicamente modificherà la nostra sensibilità? Kant per uscire dalla difficoltà parla allora di affezione come il risultato di un rapporto causale, intellettivo e non intuitivo sensibile, tra l'oggetto e il soggetto percipiente. Le categorie senza intuizione sono vuote, ma l'intuizione empirica senza le categorie non porta ad alcuna conoscenza.  NoteModifica ^ Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente; Enciclopedia Garzanti di Filosofia alla voce corrispondente Aristotele, De Anima, Aristotele, Metaphisica, (in Sapere.it alla voce "Affezione") ^ Aristotele, Rhetorica, Cicerone, Tusculanae Agostino, De civitate Dei, La passioni sono una "malattia" della razionalità. Sono utili per la vita come l'istinto di sopravvivenza ma impediscono la serenità dell'uomo razionale. (In Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti, Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente ^ I. Kant, Critica della ragion pura, Estetica trascendentale Cfr. I. Kant, id.,  Dialettica trascendentale ^ I. Kant, Antropologia pragmatica Kant, Critica della Ragion pura, Analitica trascendentale, 24 Voci correlateModifica Modo (filosofia)  «affezione»   Portale Filosofia. Intelletto facoltà della mente di intendere e concepire  Critica della ragion pura libro del 1781 di Immanuel Kant  Pensiero di Kant Wikipedia Il contenutoSimone Corleo. Keywords: filosofia morale, filosofia dell’identita, filosofia universale, meditazione filosofica, logica, antropologia, sofologia, noologia, noetica-estetica -- linguaggio ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza, l’universale ontologico, la categoria come universale ontologico, segno, signare communicativamente, segnabile, sensibile – nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu -- segnato, emettente, repertorio di segni, repertorio di forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio pre-convenzione, pre-consenso mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah, peccora, conversazione adulto-bambino, il vocativo “o” emesso sense intent communicative – signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea, scenario ii. Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e le categorie agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione, modalita. Il nome sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la congiunzione, il vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione semplice “S e P” – modelo filosofico dello svilupo del signare communicativamente – dello spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale, l’idea di un gesto come SEGNO di una affezione dell’animo – DUALISMO? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corleo” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cornelio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Giove, Ganimede, e Prometeo – scuola di Rovito – filosofia cosentina – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rovito). Filosofo cosentino. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Rovito, Cosenza, Calabria. Grice: “I love Cornelio – he has a gift for titling his treatises: gyymnasma!” “My favourite of his gymnasmata is the one on what he calls the ‘generation’ of ‘man’ – in Roman, ‘homo’ is said to come from mud, humus – and this is strange because Prometeo created man out of mud – In Rome, the more Catholic your philosophy is, the more ‘Aquinate’, as it were, the less Hegelian and Platonic – so trust an Italian philosopher to believe in the Graeco-Roman myth of the ‘generation of man’ than the story of Adam’s spare rib, etc.!” Si forma alla scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche diTelesio, molto studiato nei salotti. Studia a Roma, approfondendo e facendo proprie molte tesi galileiane. Conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui fu erede il suo tutore Severino. Insegna a Napoli, portando la filosofia di Cartesio e di Gassendi. Nel “Pro-gymnasmata physica” sono esposte la sua teoria filosofiche. Altre opere: “Pro-gymnasmata physica”; “Epistola ad illustriss. marchionem Marcellum Crescentium”; “De cognatione aëris et aquae”; “Epistola Ad Marcum Aurelium Severinum”. Dizionario biografico degli italiani. Quæ in hoc volumine continentur animalium conformatio ex inspectione er ex aque, ac terre expira ouorum percipi facile patest  tionibus ætheri permiftis con animalium ex semine conformatio de stituitur scribitur aer ob vsum respirationis recentari de animalium pars primigenia non iecur neque cor, neque fanguis ter præter modum diſtraktus aut com animantes exſectis teftibus quandoque preffus vite animalium et ignis con filios generant. fernationi inutilis antiquorum varix de.rerum initijs opi aer nisi vaporibus aqueis permiſtus re niones spiritioni inutilis apoplecticorum et ftrangulatorum aer infra aquam demerſus à fuperftan mitis est exitus tis aqua pondere comprimitur Aqua frigore concreta rarefcit, et in ma. Aeris in reſpiratione quis vſus. iorem molem ampliatur. aeris per neceſitas tum ad vitam ani aqua quomodo in vapores foluatur malium tum ad ignem conferuan in glaciem concreſcat dum Aqua fenfu iudice neque contrahi,neque Aeris grauitas diftrahi potest Aeris color caeruleus onde aqua triformis Arris, Aquarum pondus fub eifdem Aquis ineſſe non poteſtnotabilis quanti demerſi curnon ſentiamus. tas aeris Akris compreffio,ea diſtractio nifi æthere Archimedes ingenj doctrinæque prin admiſſo nequit explicari ceps Aeris ex aqua generatio Ariſtoteles animaduertit in generatione Aztheris ſubſtantia omnino admitten diuiparorum fieri.conceptus ouifor da Alibilis fuccusad cor confluit Aristoteles ab attico platonico philo animalia amphibia cur sub aquis distid fopho notatus si le ſine spiritu viuant Aristoteles cur priuationem inter prin Animalia pulmonibus prædita cur niſi cipia numerauerit reſpiraverint citiffimemoriuntur Aristotelis de loco fententia improba animalia, quæ interclufo fpiritu fiiffa cantur dexterum cordis ventriculum, Ariſtotelis principia diffentanea. pulmones babent multo fanguine Ariftotelis quàm galena doctrina de ge refertos. neratione animalium fanior ar mes tur arteriæin vteros prezrintinm perti mentuan mentes frequentiores, ampliores Calor omnis animalium eflà Janguine fiunt Aiteris non moventur à ri pulſifica eiſ- calor nonnunquam diſſimilis nature cor dem à corde communicata, fid ab im pore congregat pulfu fanguinis Calore corpora non femperrarefiunt, Arteriæ omnes eoderntemporis puncto Calore cur omnia diffoluantur, atque li. ab impulſu fanguinis mouentur, tam queſcant que cordis proximefunt, quam quæ à Caloris naturaex Platone explicatur corde longiſſimèabfunt. Cauernæ in quibushomines fuffocantur, arteriarum venarumqueplexus, atque ignisextinguithi' implicatio ibi eße folet vbi fit aliqua Chyli in ſanguinem mutatio quomodo ſecretio fiat. Aſtrologia conieéturalis vanitas Cloylus ad inteſtina de aplies duobus li quoribuspermiſcetur attractioni vulgo tributi motus re vera chylum ounem per lacteas venas trana. pendent à circumpulſione refulſo prodideruntiuniorcs Auftifichs ſuccusper membranas, a Chymix cognitio ad Thyſiologiam illis neruos in partes diffunditur ſirandam perutilis Auftificus fuccus ab Arabibus obfer- chymici magnam cladem galenicæ fa Uatus,fedperperam iudicatus. &tioni attulere cibaria non eo quo ingeruntur ordine Ilis à fanguine in iecinore fecerni B permanentin ventriculo tur cibi pars e ventriculo fiatim elabitur Bilis nõ eſt fanguinisexcrementun antequam integra maſa confefta fue Bilis nutritiumfuccum diluit, et fluxum reddit ciborum concoétionem auctores diuerſa Bilis vtilitas rationeexplicant Brahaus illuftris Aftronomus à predi- cibus in ventriculo quomodo conficia Etionibus aftrologicis abstinuit  Bruni de mundanorum innumerabilitate cibus non à folo calore conficitur sententia refellitur cibus in ventriculo fermentarur Brunus voluminibus ſuis nugas inferuit. Cibus in ventriculo coctus non femper albicat Cibus non detinetur in ventriculo donec Alidorum halituum magna vis in totusfuerit confectus exterendis duris corporibus Cola piſcis cur amphibiorum more diu Calor cæleftis est eiufdem nature, atque tule fub aquis viuere potuerit elemenearis Conceptus omnes viviparorum ouifor culor innatus eftmedicorum inane com mes ſunt Con rit. tur. с Copernicus ab Italis mundani systematis FFelleus, Gʻaqueus humor cuit Condensatio, et rarefaétiofine tenuiſſima quod ob defluxum bydrargyri inane ætheris fubftantia explicari non po videtur teft F Elle nullum animal caret. notitiam arripuit quibus Copernicus maximus astronomus prædi. chylus diluitur,iterato fæpius circuitu &tiones aſtrologicas improbauit ad inteftina reuoluuntur cor motum non habet à cerebro, fed inſe Fermentatio quid ſit ex Platone, ip, o cietur, cpalpitat Fermenti vis à calore excitatur. ibid. Cordis motus fit ab balitibusin eiuſdem Firmicus reprehenditur lofibras influentibus flamma cur fine pastu permanere ne Cordis motus nõ excitatur àferuorefan queat guinis, vt Ariftoteli, Carteſio pla- Flamma cur faſtigietur in conum, ibid. Fæmina ſubminiſtrat materiam omnem Corpora je inuicem propellere poffunt, ex qua fætuscorporatur non autem attrahere Fæminæ genitura non carent D Feminarumgenitura an aliquid conferat Ifferentis inter conceptus ouip.rros, adgenerationem Fætus vita non pendet à vita matris Dɔny Volumen de natura hominis fætus cum propria tum parentis vi ab utero excluditur E Frigore nonnunquam diſſimilis nature Lectrum quomodofeſtucasattrahat. corpora ſegregantur experimenta ludicra quatuor primum Alenus ab Ariſtotele maximis de orbiculorum in aqua alternatim a rebus diſſentit frendentium, defcendentium Galenus Platonis fententiam de circum secundum orbiculorum in tubo dque pulſione non eſt affecutus pleno fuerfum deorſumque recurrena Galeni experimentum de fistula in arte. - tium ad nutum eius, qui tubi oftium riam immiſa oſtendit arterias ab im digito obturat pulſie fanguinis moueri tertium orbiculorum in tubo retorto Galeni Secta cæpit deficere aſcendentium defcendentium pro Galenice fattioni magna clades d chy paria tubi inclinatione micis eſt illata quartum orbiculorum ex imo furfum galenice medicine summa aſcendentium propter diſtractionein Galilæus de atomis, inani aliter vidé aeris in eiſdem conclufi tur decernere, ac Democritus et Epi Experimentum quo Verulamius probat curus aquam comprimipole eſt fallax Galileus omnium primus physiologiam experimentum Torricelli de spario, com Geometria iugauie Ga Gevens ifotelemaximisde Galilcus aſtronomicarum rerum peritif Hippocratimulta tribuuntur, quecom. fimus improbauit aſtrologicas prædi mentitia funt ctiones" Hobbes fententia de ſubſtantia inter al GALILEI (si veda) Carteſi aliorumque iuniorum rem et aquam media. doctrina phyſicapræftantior quam homo à teneris annisita potefl educari, antiquorum vt amphibiorum more ſub aquisdiu Genituraquid,vnde prodeato tius viuat Genitura non fit in teftibus Homo incerto gignitur fpatio Genitura in procreatione animalium ef- Hominis genitura non est eiufdem ratio ficientis tantum caufa vim habet. nis cum femine ſtirpium Genitura non eſt pars, feu materia con Hornunculorum generatio à Paracelſo fituendi conceptus: propoſita commentitia eft Genituræ craffamentum oua, et conte Humanusfætus recens formatusmaiu ptus minimè ingreditur Sculæ formica magnitudinem vix fum Geniturepars, quæ efficiendi vim habet, perat oculorum fugit aciem Geniture vis per occultum agit corpora quantumuis denfa penetrat Sanguinefecernere. Ecinorisprecipuum munusest bilen Geometrie Paradoxa nonſemper plyſInanenihil eft. cis diſquiſitionibus aptantur so Ingenia ad philofophandum idonea que Glandulg cur maiores et frequentiores nam fint. in tenellis, et pinguibusanimalibus, Initia rerum naturalium abftrufa. quam in ſenioribus, &macilentis, in omni motu fit reciproca corporum  dla translatio Glandule fecernunt auctificum ſuccum Iuniores multa fulicius inuenere quam à reliquo fanguine Priſci. 4 Glandularum vtilitas. ibid. K Græci curdoctrine ſudijs cæteris natio nibuspræcelluerint probauit aftrologicas predi&tio Grauiora corpora etiam à leuioribus ju. perftantibus premuntur L Grauitas quid L Ac quibus vis feratur' ad mam H mas Hanimalium accuratiſſima. Aruei obſeruationes degeneratione lacervberibus virorum, &virginum frequenti fuetu prolicitur Harueius in obferuando diligētior, qaam Lace papillisrecens natorum extillans.. in iudicando Hippocratis de calore Paradoxum. lac in ventriculo pueri coagulatur Hippocratesanimaduertitfetum in man ' Latte columbs-nutriunt pullos ſuosprin tris vtero alimentum exfugere mis diebus Laa nes Luuleirum venarum nonnulla cum me. Saraicis coniunguntur medicina praua quadam conſuetudina Lamine complanatæ mutuo contactu co. hominibus infimæfortis tractanda re hærentes cur niſi magno conatu diuelli linquitur nequeant Medicina rationalis ſuper falſis hypothe. Lansbergius' excellens Aftronomus à fibus hactenus fuit ſuperstructa predi& tionibus aſtrologicis abſtinuit. Medicina Græcorum continet inanes conie turas et fallaces præceptiones, Lien per flexuojam arteriam craffioren fanguinem excipit Medicina inconftantia, Seftarum va Lien craffiorē et impuriorem ſuccum ex rietas. cibireliquisſecretum ſuſcipit Medicinam pauciffimi Romanorum fa Lienis vtilitas, Arụctura Etitarunt Lumennon eft in rebus, fed fit in ipfo  Membranarum vtilitas, dentis oculo Motus ad fugam vacui vulgo relati pen Luminis naturaexplicatur dent à circumpulſionefuperftantis ae. ris maseratica vis diſimilis elektrick: Mund for printeriplexdifferentia mini. Men Maßarias iuniorum gloriæ infenſus  Mundi magnitudo incomprehenſa. ibid. Materia exqua fætus corporatur eſt al N bugineus lentor ſinailis ouorum albus Aturæ ratio ex ipſa potiusrerum Mathematicæ diſciplinæ fummam inge paranda stü aciem defiderant Naturalis historie cognitio ad Phyſiolo Mathematicarum disciplinarum notabile giam malde necellaria incrementum O Medici latina verba importunèeffutiunt, Bferuatio noua deforaminibus in vt imperitorum plaaſum aucupen. interiorem pentriculi tunicam.: tur biantibus. Medici periculofus, &ancipites morbo- obſeruatio noua de pensatorum ventri. rum curationes inftituunt, culis. Medici perperam diuidunt partes in ſper. Obferuatio noua lenti humoris in ventri maticas,atque fanguineas', culo exiſtentis Medici rationales quam profitentur', Obſeruatio viarum, que nouum alimentū. ſcientiam omnino ignorant ex ventricnli fundo excipient Medicis familiare eft mutuainter fe ia. Oetimestris partus non minus pitalis Etare conuicia quam ſeptimeſtris Medicorum improbitas Ouiformis conceptus in viviparis habet Medicorum inſcitia reprehenditur, vcram ſeminis rationem Ouum gr Pusega Perguedus nouisobfervationibusfretus R Frisvarijoeleis queriamlitar $ Strguis I i Ouum fæcundum b.abet rationem femi- Ptolemai Copernici, &Brahei mundan nis in ouiparis Systematis pofitiones manca im perfecte Ancreatis ductus vtilitas Pueri cur facilius mathematici effe pof fant,quàm phyſici,aut politici. Paracelſus d plerifque propter obſcurita- Pulli ex quo generatio defcribitur tem deſertus R opinion Erum natura vix alibi quàm in li Pecquetus obferuationibus quæriſolita bematofin tribuit cordi, non iecinori. Refpiratione cordis æſlum temperari fal sò creditum est Pestilentix confideratio philosophandi ratio inſtituta à noftri fæ Anguis non eſt ſuceus ſimplex, nec culi auctoribus laudatur. tamen continet quatuor decantatos Philoſophia noftris temporibus in liber humores tatem vindicata eft Sanguis in omne corpus per arterias dif Philosophia Cartesii quails funditur Ploilofophiæ ftudium à pleriſque peruer- Sanguis per arterias in membra influen's titur vitalitatem magis, quam nutrimen Philoſoplrorum in definiendis rerum ini. tum infert tijs conſenſus sanguis non calore, motuue liquefcit, fed Phyſiologia parum hactenus adoleuit permiftione tenaifimihalitus pbyſiologia plurimarum rerum cognitio nem, et experientiam requirit Sanguis non fuapte natura caliduseſt, Phyſiologia onde ordienda nec calorem accipit à corde, fed motu, Phyſiologia poteft ex falfis hypotheſibus atque agitatione incalefcit veras naturalium rerumaffectiones Sanguis non in iecinore, nec in corde, vel concludere alio certo viſcere conficitur Phyſiologie obſcuritas onde proficifca. Sanguinis duapartes altera viuifica tera auctifica Phyſiologiæ perfetta cognitio cur defpe- Sanguinis natura admirabilis Eius randa potior pars aciem fugit Phyſiologiam noftre etatis fcriptores Sanguinis motusà corde a præclaris inuentis illuſtrarunt Sanguinis circulationem ab Harueio de Phyſiologiam nemo Geometriæ ignarus fcriptam indicauerant,ante Pizulus Mis aſequitur Sarpa, &Anstress Cefalpinus. Planetarum corpora ad ætheris liquidif- Sanguinem fal coire, &denfere noir par ſui motum circumferripoflunt titur Plato materiam voluit eſſe locum Sapientia illa quam in ætatibus habet ſe weêtus nostræ potius cetati, quins pria e feq. tør. ſeis fcis temporibus debetur Vacuipropugnatores corporis naturam à Semen animalium quidnam fit cx Aris tałtu determinant Stotele P'ene lactea non deferuntomnem fuc Senfus non ea omnia percipit, qua in na. cum alibilem jura exiſtunt Venis la &teis animantesquædam carere Senſu quæcumquepercipiuntur falsò ta videntur lia iudicantur qualia videntur. ibid. Venarum lymphaticarum progreffus, ego Soli nibilſimiliusquamflamma vſus leg. Solem igneum esſe tactus et oculorum Vene meſaraica fuccum nutritium ex teftimonio probat Cleanthes inteſtinis ad iecur Stelliole Encyclopedia Vens meſaraicæ non ſunt deſtinate nú Stelliola nouitate verborum abſtruſe do. tricationi inteftinorum et alui Etrina caliginem offudit Vene vmbilicales maiores ampliorefque Stirpium ex ſemine propagatio compre funt coniugibusarterijs. 88 hendi facile poteſi Ventriculi,& inteftinorum motus  Stoicis materia corpuseffe videtur Vermes in iecinorè, liene,corde,pulmoni Sympathia Antipathiæ et Antiperiſia bus et cerebro animaliū fis inania commenta Verulamius opes ætatemque inter expe rimenta conſumpſit Elefius putauit poße ſpatiumma Vix quibus humores d corpore per aluum gna vi conatuque pacuum fieri. expurgantur Vita hominis in continuata fanguinis Telefiusveteresphilofophos, é precipuè. motione conſiſtit Ariſtotelem exercuit Vitalis halitus in ſanguine existensquo Testes priuerfo corpori robur conferunt. modo percipiatur Vitri denſitatem penetrat hydrargyrus Theologi Hegyptü Deos omnes ex ouo prognatos eſetradiderunt Vniuerſum vnum indiuiduum, atque im Tyndaridæ ex ouo editi mobile Torricelli Paradoxum geometricum Vrina per quas vias in renes, &veficam profunditur. Acuum experimento Torricelli Vvirjungiani ductus vtilitas Vacuum neque mouere corpora poteſt ne Enonis de natura geniture fenten que ne moueantur inbibere Ztia.  Wikipedia Ricerca Ganimede (mitologia) personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei Lingua Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376.jpg Ganimede e l’aquila, Nome orig.Γανυμήδης Sessomaschio Luogo di nascitaDardania Professionedio dell'amore omosessuale e principe dei Troiani Ganimede (in greco antico: Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un personaggio della mitologia greca. Fu un principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali del suo tempo.  «La vicenda mitologica di Ganimede servì da emblema significante per la natura dell'amore tra uomini, un amore filosoficamente più elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda dell'aquila divina si assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti artistici al desiderio omoerotico[1].»  In una versione del mito viene rapito da Zeus in forma di aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la storia che lo riguarda è stata un modello per il costume sociale della pederastia greca, visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente accettato tra un uomo adulto e un ragazzo. La forma latina del nome era Catamitus, da cui deriva il termine catamite, indicante un giovane che assume il ruolo di partner sessuale passivo-ricettivo. Genealogia Figlio di Troo e di Calliroe (o di Acallaride).  Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di Ilo[8], per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo padre fu Erittonio[10] oppure Assarco.  Non risulta aver avuto spose o progenie.  Mitologia Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, GANIMEDE che indossa il suo berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto Il tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si invaghirono sia il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa leggenda.  Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli Dei, affascinato dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un tralcio di vite d'oro[12]: il padre si consolò pensando che suo figlio era ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli Dei, una posizione che era considerata di gran distinzione.  Zeus per sottrarre Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo portò quindi sull'Olimpo dove ne fece il suo amato. Per questo motivo nelle opere d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con la coppa in mano.  Walter Burkert ha trovato un precedente riguardante il mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni viene anche associato con la genesi della sacra bevanda inebriante dell'idromele, la cui origine tradizionale è proprio la terra di Frigia. Tutti gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di Era; la consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un rivale più che mai pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha successivamente messo Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquariola quale è strettamente associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno zodiacale dell'Acquario.   Busto di Ganimede, opera romana d'epoca imperiale (Parigi, Museo del Louvre) Mito iniziatico Lo stesso argomento in dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia Zeus-Ganimede costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio adulto e giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico (vedi la pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame sessuale - all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi amori "paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente un giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi rituali imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato, avveniva la sua iniziazione sessuale. Zeus e Ganimede, rappresentando la perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti. Il cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera il padre degli dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. Filosofia Platone rappresenta l'aspetto pederastico del mito attribuendo la sua origine a Creta e ponendo, quindi, il rapimento sull'omonimo monte Ida dell'isola: la sua è una critica dell'usanza della pederastia cretese che aveva oramai perduto quasi completamente la sua funzione originaria, accusando quindi i Cretesi di essersi inventati il mito di Zeus e Ganimede per giustificare i loro comportamenti[17].  Nel dialogo platonico poi Socrate nega che il bel giovane possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli Dei, proponendone, invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus avrebbe amato l'anima e la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo corpo.  Il neoplatonismo ci offre una rappresentazione mistica del rapimento di Ganimede; esso sta a significare il rapimento dell'anima a Dio, e in questo senso è stato usato, anche in opere d'arte funerarie e anche durante il Neoclassicismo, sia nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un esempio, il Ganymed di Goethe. Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede (National Gallery, Londra) PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20], poi Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca narrante la vita e le gesta del dio Dioniso.  Virgilio ritrae con pathos la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente contro il cielo. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati disperati anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un motivo frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche Stazio.  Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo contro Eros per averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite si trova così costretta a rimproverare il figlio di barare come un principiante.  Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il personaggio di Rosalind si traveste da uomo quando deve andare nella foresta di Arden, scegliendo il nome di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio del rapporto che si era creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava ben oltre la semplice amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in questo caso omosessuale.   Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di epoca paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon Marius. Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide, 1036 Ganymed.  Nelle arti Nella scultura una delle immagini più famose di Ganimede è il gruppo scultoreo di Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a cui viene attribuito anche l'Apollo del Belvedere) e tanto ammirato da Plinio il Vecchio: «Leocare realizza un'aquila che trattiene con forza Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli nella sua veste.» Questo particolare del rapimento tramite l'aquila è stato spesso elogiato anche in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi epigrammi, così come fa anche Marco Valerio Marziale.  La leggenda di Ganimede ha ispirato anche un gruppo in terracotta, probabilmente originario di Corinto e oggi conservato nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei pochi esempi di grande scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea molto rara della coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana.  Nella ceramica il tema di Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei crateri, quei particolari grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino durante i banchetti (o simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli ospiti gareggiavano in immaginazione poetica e filosofica per celebrare i meriti dei loro rispettivi eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea figure rosse che ritrae da un lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede mentre sta giocando con un grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il ragazzo è completamente nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di origine in parte pederastica (vedi nudità atletica).   Il ratto di Ganimede, di Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire innumerevoli rappresentazioni di questo mito, con artisti quali Michelangelo Buonarroti, Benvenuto Cellini e Antonio Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno dei temi con più forte significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay ante litteram.  Quando il pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma, i lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato contribuiscono a farlo rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti catturare verso l'alto senza opporre la minima resistenza.  Nel Ratto di Ganimede di Antonio Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è più contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter Paul Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo Ratto di Ganimede per un mecenate calvinista olandese, ecco che un'aquila scura porta in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e si fa la pipì addosso per lo spavento.   Ratto di Ganimede, di Gabbiani Gli esempi di Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono stati studiati da Worley. L'immagine raffigurata era invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato da un'aquila, mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati raramente affrontati: in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata". Inoltre, l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel Rinascimento italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita alla condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun interesse per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo.  Jean-Baptiste Marie Pierre, Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou, Pierre Julien, Jean-Baptiste Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini di Ganimede nell'arte francese.  La scultura che ritrae Ganimede e l'aquila di José Álvarez Cubero, eseguita a Parigi, ha portato all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo come uno degli scultori più importanti del suo tempo.  L'artista Thorvaldsen, di gran lunga il più notevole degli scultori danesi, ha scolpito una scultura dedicata alla scena di Ganimede e l'aquila.   Particolare di una scultura, da un modello tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito figurativo greco del IV secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli. AltroModifica Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato a indicare un bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante omosessuale.   Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio, tenendo in mano un gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a figure rosse (Parigi, museo del Louvre).   Ganimede e Zeus, e Apollo e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale per le Metamorfosi di Ovidio (Venezia)   Illustrazione gli Emblemata di Alciati. Ganimede rappresenta allegoricamente l'anima che si "rallegra" in Dio.   Raffaello da Montelupo, Giove bacia Ganimede  (Ashmolean Museum, Oxford)   Cherubino Alberti, Copia rovesciata da originale di Polidoro da Caravaggio, Giove bacia Ganimede. La borsa di denaro in mano al giovane allude alla prostituzione, in spregio al mito pagano.   Il Ganimede di Antonio Canova  "Ganimede" (1804), di José Álvarez Cubero  Ganimede abbevera l'Aquila divina, di Thorvaldsen Albero genealogicoModifica AtlantePleioneScamandroIdea Elettra ZeusTeucro DardanoBatea Erittonio Ilo Troo Calliroe EuridiceIlo AssarcoIeromnene Ganimede Laomedonte Strimo (o "Leukyppe")TemisteCapi PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino EttoreParideCreusaEneaLavinia AscanioSilvio Silvius Enea Silvio Bruto di TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys Capeto Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio Aventino Proca NumitoreAmulio MarteRea Silvia ErsiliaRomolo Remo Età regia di RomaShe-wolf suckles Romulus and Remus. Zanotti Il gay, dove si raccnta come è stata inventata l'identità omosessuale Fazi Secondo l'AMHER ("The American Heritage Dictionary of the English Language, catamite, Apollodoro, Biblioteca su theoi.com. Omero, Iliade XX, 213 e seguenti, su theoi Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, su theoi. Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane su penelope.uchicago.edu. Cicerone, Tusculanae disputationes, Tzetzes a Licofrone Clemente Alessandrino, su theoi.com. Igino, Fabulae Igino, Fabulae Iliade, Burkert; Burkert fa purtuttavia notare che non esiste un nesso diretto con l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi Platone, Leggi, Platone, Fedro, Platone, Simposio, Ovidio, Metamorfosi, Apuleio, L'asino d'oro, Virgilio, Eneide, Stazio, Tebaide, 1.549. ^ Marius/Schlör, Mundus Iovialis, Worley, The Image of Ganymede in France: The Survival of a Homoerotic Myth, in Art Bulletin, Chisholm, Alvarez, Don José, in Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge Ganimede), di Ferrier Apollonio Rodio, Le Argonautiche. Apuleio, L'asino d'oro. Cicerone, De natura deorum. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica. Euripide, Ifigenia in Tauride. Nonno di Panopoli, Dionisiache. Omero, Iliade. Omerico, Piccola Iliade. Ovidio, Le metamorfosi. Pausania, Periegesi della Grecia. Pindaro, Olimpiche, 1821. Platone, Fedro. Platone, Leggi. Platone, Simposio. Pseudo-Apollodoro, Biblioteca. Strabone, Geografia. Teognide, Frammenti. Virgilio, Eneide. AA.VV., Suda.  Christian Wilhelm Allers, Giove rapisce Ganimede, Veckenstedt, Ganymedes, Libau, Saslow, Ganymede in the Renaissance: Homosexuality in Art and Society, New Haven (Connecticut), Yale, Burkert, The Orientalizing Revolution: Near Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Age, Cambridge (Massachusetts), Harvard, Graves e Elisa Morpurgo, I miti greci, Milano, Longanesi, Carassiti, Dizionario di mitologia greca e romana, Roma, Newton et Compton, Cerinotti, Miti greci e di Roma antica, Firenze-Milano, Giunti, Ferrari, Dizionario di mitologia, Torino, UTET, Eva C. Keuls, The Reign of the Phallus. Sexual Politics in Ancient Athens, Berkeley, University of California Press, Bernard Sergent, Homosexualité et initiation chez les peuples indo-européens, coll. « Histoire », Parigi, Payot, Gély, Ganymède ou l'échanson. Rapt, ravissement et ivresse poétique, Presses Universitaires de Paris, Guidorizzi (a cura di), Il mito greco, 1 (Gli dèi), Particolare di Zeus accanto a Ganimede, di Griepenkerl Voci correlateModifica Icona gay Mito di Etana Omoerotismo Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella mitologia The Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. (EN)  Peter R. Griffith, Visual arts: Gaymede. "Ganymed" (testo, in tedesco e italiano). (EN) Circa 200 immagini di Ganimede nel Warburg Institute Iconographic Database Internet Archive. Portale LGBT   Portale Mitologia greca  Leda personaggio della mitologia greca, figlia di Testio e moglie di Tindaro  Estia dea greca del focolare, della casa e della famiglia. Figlia di Crono e Rea  Laomedonte re di Troia nella mitologia greca, figlio di Ilo  Wikipedia Il contenutoGrice: “It’s best to represent Cornelio as representing Cartesio – yes, the Cartesio that Ryle attacked! But Italy never had a Ryle, so that’s good!” Tommaso Cornelio. Cornelio. Keywords: Giove, Ganimede, e Prometeo, pro-gymnasmaton, gymnasmaton, gymnasta, gymnasium, ginnasio, ginnasiale, nudo romano, nudita romana, corpo nudo, snudare, atleta, atletismo, lotta ginnastica, competizione ginnastica, implicatura ginnastica, l’implicatura ginnastica di Socrate, Socrate al ginnasio, implicatura ginnasiale, the eagle, Giove come aquila, aquila come impero romano, aquila come impero nazi – le due aquile -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cornelio” – The Swimming-Pool Library. Cornelio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cornello: la ragione conversazionale – scuola di Sorento – filosofia sorrentina – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo sorrentino. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Sorrento, Campania. Gabriele Tasso and his wife, Caterina, are cousins.They come of the Bergamesque family dei Tassi del Cornello. The family, originally from ALMENNO, can be traced with certainty to anOMODEO who established himself in the Brembana valley known as’del Cornello.’ Nearby is Mount Tasso, which gets its name from the yews (tassi) which cover the slopes. KEYWORD: DE’ TASSI DEL CORNELLO (feudo) – dai Torreggiani di Milano – tasso: badger – skin carried by horses. O CORNETTO --A branch of YEW originally appeared in the upp half oof the family crest The lower half is occupiedby the figure of a badger (tasso).  La sua opera più importante è la Gerusalemme liberate, in cui vengono cantati gli scontri tra cristiani e musulmani durante la prima crociata, culminanti nella presa cristiana di Gerusalemme. Ultimo dei tre figli di Bernardo TASSO, letterato e cortigiano nato a Venezia, ma di antica nobiltà bergamasca, poi al servizio del principe di Salerno Ferrante Sanseverino del regno di Napoli, compreso nella monarchia spagnola, e di Porzia de' Rossi, nobildonna napoletana di origini toscane, pistoiesi da parte paterna e pisane da parte materna. Di Sorrento e della «dolce terra natìa» il poeta conserverà sempre un magnifico ricordo, rimpiangendo  «... le piagge di Campagna amene, pompa maggior de la natura, e i colli che vagheggia il Tirren fertili e molli.»  (Gerusalemme liberata) Quando C. era ancora bambino, il principe di Salerno fu bandito dal regno e Bernardo seguì il suo protettore. All'età di 6 anni si recò in Sicilia e dalla fine del 1550 fu con la famiglia a Napoli, dove lo seguì il precettore privato Giovanni d'Angeluzzo. Frequentò per due anni la scuola dei Gesuiti appena istituita e conobbe Ettore Thesorieri con il quale poi restò in corrispondenza epistolare.  Ebbe un'educazione cattolica e da giovane frequentò spesso il monastero benedettino di Cava de' Tirreni (dove si trovava la tomba di Urbano II, il papa che aveva indetto la prima crociata), e ricevette il sacramento dell'Eucaristia quando «non avea anco forse i nov'anni», come scrisse egli stesso. Due anni dopo la sorella Cornelia, che nel frattempo si era sposata con il nobile sorrentino Marzio Sersale, rischiò di essere rapita durante un'incursione ottomana a Sorrento, e questo rimase impresso nella sua memoria.   Guidobaldo II Della Rovere. Rimase a Napoli fino ai dieci anni, poi seguì il padre a Roma, abbandonando con grande dolore la madre che fu costretta a rimanere nella città partenopea perché i suoi fratelli «rifiutavano di sborsarle la dote». Nella città pontificia fu Bernardo a educare privatamente il figlio, ed entrambi subirono un grave trauma quando vennero a sapere della morte di Porzia, probabilmente avvelenata dai fratelli per motivi d'interesse.  La situazione politica a Roma subì però uno sviluppo che preoccupò Bernardo: era scoppiato un dissidio tra Filippo II e Paolo IV e gli spagnoli sembravano sul punto di attaccare l'Urbe. Mandò allora Torquato a Bergamo presso Palazzo Tasso e la Villa dei Tasso da alcuni parenti e si rifugiò presso la corte urbinate di Guidobaldo II Della Rovere, dove fu raggiunto dal figlio pochi mesi dopo.  A Urbino C. studiò assieme a Rovere, figlio di Guidobaldo, e a Monte, poi illustre matematico. In questo periodo ebbe maestri di assoluto livello quali il poligrafo Girolamo Muzio, il poeta locale Galli e il matematico Federico Commandino. Torquato passava a Urbino solo l'estate, dal momento che la corte trascorreva l'inverno a Pesaro, dove Tasso entrò in contatto con il poeta Bernardo Cappello e con Dionigi Atanagi, e scrisse il primo componimento a noi noto: un sonetto in lode della corte.  Bernardo si sposta intanto a Venezia, indiscussa capitale dell'editoria, per occuparsi della pubblicazione del suo Amadigi. Poco tempo dopo, quindi, anche il figlio cambiò una volta di più città, stabilendosi in laguna. Sembra che proprio a Venezia, non ancora sedicenne, abbia cominciato a mettere mano al poema sulla prima crociata e al Rinaldo. Il Libro I del Gierusalemme (conservato dal Codice vaticano-urbinate 413) fu scritto dietro consiglio di Giovanni Maria Verdizzotti e Danese Cataneo, due poeti mediocri che allora frequentava e che già avevano scorto nel Tasso un talento straordinario. Si iscrisse per volere paterno alla facoltà di legge dello Studio patavino, raccomandato a Sperone Speroni, la cui casa frequentò più delle aule universitarie, affascinato dalla vastissima cultura dell'autore della Canace. Tasso non amava la giurisprudenza, tanto che attendeva più alla produzione poetica che allo studio del diritto. Così, dopo il primo anno ottenne dal padre il consenso per frequentare i corsi di filosofia ed eloquenza con illustri professori tra cui spicca il nome di Carlo Sigonio. Quest'ultimo rimarrà un modello costante per le dissertazioni teoriche tassesche futureprime fra tutte quelle dei Discorsi dell'arte poetica, in cui si nota anche l'influsso dello Speronie lo avvicinò allo studio della Poetica aristotelica.  È in quest'epoca che si colloca il primo innamoramento del ragazzo, già molto sensibile e sognatore. Il padre era stato introdotto nella corte del cardinale Luigi d'Este, e nel settembre 1561 si era recato col figlio a fare la conoscenza dei familiari del suo protettore. Conobbe nell'occasione Lucrezia Bendidio, dama di Eleonora d'Este, sorella di Luigi.  Lucrezia, quindicenne, era molto bella ed eccelleva nel canto, anche se era piuttosto frivola. Avendo notato un interessamento della fanciulla, Tasso cominciò a dedicarle rime petrarcheggianti, ma dovette presto essere ricondotto alla realtà, poiché nel febbraio 1562 scoprì che la ragazza era promessa sposa al conte Baldassarre Macchiavelli. Non si arrese, continuando a cantarla in poesia, ma dopo le nozze si lasciò andare al risentimento e alla delusione.  Intanto, l'entourage cominciava ad avvedersi del talento del Tassino (come veniva chiamato per essere distinto dal padre), e gli furono commissionate delle rime per alcuni funerali. Confluendo in due raccolte, furono le prime poesie pubblicate da Torquato.  Ancora più notevoli erano gli sforzi prodigati per il Rinaldo, composto in soli dieci mesi e dedicato a Luigi d'Este. Il poema epico cavalleresco, incentrato sulle avventure del cugino di Orlando, fu stampato a Venezia nel 1562 e contribuì a diffondere il nome di Tasso, che aveva ancora soltanto diciotto anni.  Il padre intanto lo aveva messo nel 1561 al servizio del nobile Annibale Di Capua, e il duca d'Urbino gli aveva procurato una borsa di studio di cinquanta scudi annui per permettergli di continuare i corsi universitari. Dopo due anni a Padova, Tasso proseguì gli studi all'Bologna, ma durante il secondo anno di permanenza nella città felsinea, nel gennaio 1564, fu accusato di essere l'autore di un testo che attaccava pesantemente, con una satira sferzante, alcuni studenti e professori dello Studio. Espulso e privato della borsa di studio, fu costretto a ritornare a Padova, dove poté beneficiare dell'ospitalità di Scipione Gonzaga, che gli fornì il necessario per continuare il percorso di formazione.  Ritrovò tra i maestri Francesco Piccolomini e seguì le lezioni di Federico Pendasio. In casa del principe Gonzaga era appena stata istituita l'Accademia degli Eterei, ritrovo di seguaci dello Speroni che miravano alla perfezione della forma, non senza scadere nell'artificiosità. Tasso vi entrò assumendo il nome di Pentito e leggendovi molti componimenti, tra cui quelli scritti per Lucrezia Bendidio e per una donna che la critica ha per lungo tempo identificato in Laura Peperara.  Secondo questa versione Torquato conobbe Laura nell'estate del 1563, quando aveva raggiunto a Mantova Bernardo, nel frattempo messosi al servizio del duca Guglielmo Gonzaga. La delicatezza nei modi della giovane fece dimenticare presto al Nostro le ancor fresche pene amorose per Lucrezia Bendidio. Lo spirito del Petrarca rivisse allora nelle liriche del ragazzo nuovamente innamorato. L'anno dopo, rivedendola, fu però deluso, e pur continuando a cantarla dovette ben presto rassegnarsi al secondo scacco.  Ricerche recenti hanno tuttavia collocato la nascita della Peperara nel 1563, rendendo quindi impossibile che fosse lei la seconda musa del Tasso.  I due canzonieri amorosi andarono in parte a finire tra le Rime degli Accademici Eterei, stampate a Padova nel 1567, assieme ad alcune che scriverà nel primo anno ferrarese.  Si legò anche all'Accademia degli Infiammati.  A Ferrara  Torquato Tasso all'eta di 22 anni ritratto da Jacopo Bassano. Giunse a Ferrara in occasione del secondo matrimonio (quello con Barbara d'Austria) del duca Alfonso II d'Este, al servizio del cardinale Luigi d'Este, fratello del duca, spesato di vitto e alloggio, mentre dal 1572 sarà al servizio del duca stesso. I primi dieci anni ferraresi furono il periodo più felice della vita di Tasso, in cui il poeta visse apprezzato dalle dame e dai gentiluomini per le sue doti poetiche e per l'eleganza mondana.  Il cardinale lasciò al Nostro la possibilità di attendere solamente all'attività poetica, e Tasso poté così continuare il poema maggiore. Rapporti particolarmente intensi intercorsero con le due sorelle del duca, Lucrezia e Leonora. La prima era uno spirito libero e incarnava ideali di vivacità e vitalità, mentre la seconda, malata e fragile, fuggiva la vita mondana e conduceva un'esistenza ritirata. Per quanto Tasso fosse attratto da entrambe e per quanto si sia avallata l'ipotesi di una relazione amorosa con Leonora, la critica tassesca ha concluso che non si andò al di là di forti simpatie.  La ricchezza culturale della corte estense costituì per lui un importante stimolo; ebbe infatti modo di conoscere Battista Guarini, Giovan Battista Pigna e altri intellettuali dell'epoca. In questo periodo riprese il poema sulla prima crociata, dandogli il nome di Gottifredo. Nel 1566 i canti erano già sei, e aumenteranno negli anni appresso.  Nel 1568 diede alle stampe le Considerazioni sopra tre canzoni diPigna, dove emerge la concezione platonica e stilnovistica che il Tasso aveva dell'amore, con alcune note però affatto peculiari, che lo portavano a ravvisare il divino in tutto ciò che è bello, e a definire di matrice soprannaturale anche l'amore puramente fisico. I concetti vennero ribaditi nelle cinquanta Conclusioni amorose pubblicate due anni più tardi.  Compose anche i quattro Discorsi dell'arte poetica e in particolare sopra il poema eroico, anche se videro la luce solo nel 1587 a Venezia, per i tipi di Licino.  Nell'ottobre 1570 partì per la Francia al seguito del cardinale e, temendo gli potesse accadere qualche disgrazia nel lungo e pericoloso viaggio, volle dettare le proprie volontà all'amico Ercole Rondinelli, richiedendo la pubblicazione dei sonetti amorosi e dei madrigali, mentre precisava che «gli altri, o amorosi o in altra materia, c'ho fatti per servizio di alcun amico, desidero che restino sepolti con esso meco», ad eccezione di Or che l'aura mia dolce altrove spira.  Per il Gottifredo afferma di voler far conoscere «i sei ultimi canti, e de' due primi quelle stanze che saranno giudicate men ree», il che prova che il numero dei canti era salito almeno a otto.  Intanto, sempre nel 1570, Lucrezia d'Este sposò Francesco Maria II Della Rovere, compagno di studi di Torquato nel periodo urbinate.  Il soggiorno transalpino fu di sei mesi, ma, siccome Luigi aveva messo a disposizione del poeta poco denaro, questi trascorse il periodo francese sostanzialmente nell'ombra, con il solo onore di essere ricevuto da Caterina de' Medici, la moglie di Enrico II. Di ritorno a Ferrara, il 12 aprile 1571 decise di lasciare il seguito del cardinale.  Credeva incorrere in miglior fortuna presso Ippolito II, e scese pertanto a Roma. Anche il cardinale di villa d'Este però lo deluse, e Tasso decise di risalire la penisola, facendosi ospitare qualche tempo da Lucrezia e Francesco a Urbino, prima di entrare al servizio di Alfonso II.  In questo periodo continuò ad attendere al capolavoro, ma si diede anche al teatro, e scrisse l'Aminta, celebre favola pastorale che rientrava nei gusti delle corti cinquecentesche. Rappresentata con ogni probabilità all'isola di Belvedere, dov'era una delle «delizie» estensi, ebbe un grande successo e fu richiesta anche da Lucrezia d'Este a Urbino l'anno successivo. Nell'euforia del successo, scrive una tragedia, Galealto re di Norvegia, ma la abbandona  all'inizio del secondo atto, salvo rimettervi mano molto più tardi trasformandola nel Re Torrismondo.  Il capolavoro e la revisione L'impegno principale rimaneva comunque il poema epico, per il quale l'autore non aveva ancora stabilito un titolo. Nel novembre '74 l'opera era quasi completa, visto che «io aveva comincio quest'agosto l'ultimo canto», ma si deve aspettare per avere l'annuncio del completamento del testo, quando in una lettera al cardinale Giovan Girolamo Albano leggiamo: «Sappia dunque Vostra Signoria illustrissima, che dopo una fastidiosa quartana sono ora per la Dio grazia assai sano, e dopo lunghe vigilie ho condotto finalmente al fine il poema di Goffredo».  Completato quindi il poema maggiore, si apre il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge l'inquietudine del poeta: «Qui va pur intorno questo benedetto romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero. Scipione Gonzaga Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose.  I cinque erano il maestro ed erudito Speroni, il principe e cardinale Gonzaga, il cardinale Antoniano, il poeta Bargeo e il grecista Nobili.  Cndivise in parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di poetica né tanto meno di fede.  Ossessivo nell'apportare modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questao condotto finalmente al fine il poema di Goffredo. Completato quindi il poema maggiore, si aprì per Tasso il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge l'inquietudine del poeta. Qui va pur intorno questo benedetto romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero. Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose.  I cinque erano il maestro ed erudito Sperone Speroni, il principe e cardinale Scipione Gonzaga, il cardinale Silvio Antoniano, il poeta Pier Angelio Bargeo e il grecista Flaminio de' Nobili.  Torquato condivise in parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di poetica né tanto meno di fede.  Ossessivo nell'apportare modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questa particolare istoria di Goffredo si conveniva altra trattazione; e forse anco io non ho avuto tutto quel riguardo che si doveva al rigor de' tempi presenti. E le giuro che se le condizioni del mio stato non m'astringessero a questo, ch'io non farei stampare il mio poema né così tosto, né per alcun anno, né forse in vita mia; tanto dubito de la sua riuscita».[26] Nemmeno l'entusiastica ammirazione di Lucrezia d'Este cui leggeva il poema ogni giorno «molte ore in secretis»[27], né l'essere venuto a conoscenza del grande piacere con cui da più parti l'opera veniva letta, poterono placare le sue angosce. Scrive “Allegoria”, con cui rivisitava tutto il poema in chiave allegorica cercando di emanciparsi dalle possibili accuse di immoralità. Ma non bastava: gli scrupoli di carattere religioso assunsero la forma di vere e proprie manie di persecuzione. Per mettere alla prova la propria ortodossia nella fede cristiana si sottopose spontaneamente al giudizio dell'Inquisizione di Ferrara, ricevendo due sentenze di assoluzione.[29]   Barbara Sanseverino Disagi presso la corte estense e fughe Due belle signore, giunte alla corte nel 1575 e protrattesi presso il duca fino all'anno dopo, costituirono un intermezzo piacevoleforse l'ultimoin mezzo a tante preoccupazioni. Per loro, la contessa di Sala Barbara Sanseverino e la contessa di Scandiano Leonora Sanvitale, cantò gioiosamente in alcune rime amorose, che, com'era accaduto per Lucrezia e Leonora d'Este, obbediscono alle conventions de genre e non rivelano altro che una sincera amicizia. Ma il Tasso si era stancato anche di Alfonso, e sognava diandare a Firenze, presso la corte medicea. Non è chiaro perché volesse abbandonare Ferrara, ma i motivi adducibili sono vari e variamente intriganti, e tutti hanno in loro almeno una parte di verità. «Ch'io desideri sommamente di mutar paese, e ch'io abbia intenzione di farlo, assai per se stesso può essere manifesto, a chi considera le condizioni del mio stato», scrive a Gonzaga.  Le «condizioni del mio stato» possono avere una valenza materiale: Tasso riceveva dal duca solo cinquantotto lire marchesane mensili, che sommate alle centocinquanta percepite in qualità di lettore all'Università (carica che ricopriva per i soli giorni festivi) danno una cifra sicuramente bassa che a un poeta ormai affermato doveva parere stretta, anche solo per una questione di dignità, senza voler pensare a motivazioni di pretta bramosia L'espressione tassesca può assumere però anche una connotazione morale e psicologica: si erano in effetti verificati alcuni episodi spiacevoli presso la corte estense. Ha una lite con il cortigiano Ercole Fucci. Provocato, aveva rifilato uno schiaffo al Fucci, che in risposta lo colpì più volte con un bastone.  Un servo aveva inoltre rivelato al Tasso che, durante una sua assenza, un altro cortigiano, Ascanio Giraldini, aveva fatto forzare la porta della sua camera, nel tentativo di appropriarsi di alcuni manoscritti. Tasso sarebbe anche riuscito a rintracciare il magnano ottenendone una confessione, come risulta da un'altra lettera al Gonzaga, in cui si ipotizzano altre trame ordite alle sue spalle, anche se «io non me ne posso accertare».[33]  A far precipitare il rapporto con il duca e la corte furono però gli scrupoli religiosi del poeta. Si autoaccusò presso l'Inquisizione ferrarese (dopo l'autoaccusa presso il tribunale bolognese avvenuta due anni prima), attaccando inoltre influenti personaggi di corte. Si cercò allora di far desistere il poeta dall'intenzione di confermare le sue affermazioni negli interrogatori successivi, senza risparmiargli punizioni corporali che non riuscirono afar cambiare idea al Tasso, che si presentò altre due volte davanti all'inquisitore.[35]  Le accuseerano rivolte in particolare contro Montecatini, il segretario ducale. Siccome Torquato voleva recarsi a deporre presso il Tribunale capitolino, l'inquisitore ferrarese, conscio del fatto che una simile azione poteva mettere a repentaglio i rapporti con la Santa Sede,vitali per casa d'Esteinformò immediatamente il duca con una missiva del 7 giugno. Alfonso mise il poeta sotto sorveglianza, e C., ritenendosi spiato da un servo, gli scagliò contro un coltello.   Il Castello Estense Tasso rimase nella prigione del Castello fino all'11 luglio, quando Alfonso lo fece liberare e lo accolse presso la villeggiatura di Belriguardo, dove però rimase pochi giorni, venendo rimandato a Ferrara per essere consegnato ai frati del convento di S. Francesco.[37]  Il poeta supplicò allora i cardinali dell'Inquisizione romana affinché lo sollevassero da una situazione ormai insopportabile trovandogli una sistemazione nell'Urbe, e nel contempo si lamentava con Scipione Gonzaga per il trattamento ricevuto, ma pochi giorni dopo si ritrovò nuovamente nella prigione del Castello. Tentò quindi un'altra via e chiese invano perdono al suo signore. E indubbiamente provato dalle fatiche della Gerusalemme, e le lettere del periodo rivelano un animo inquieto e agitato, spesso preoccupato di smentire chi voleva vedere in lui i germi della pazzia. Le manie di persecuzione e l'instabilità si erano impadronite di lui, ma fino a qual punto? Fino a qual punto invece certe manifestazioni del poeta, che mantiene nelle missive una lucidità pressoché completa, funsero da pretesto per emarginare un personaggio divenuto pericoloso? Su questo punto i critici non sono mai riusciti a trovare un accordo.  Intanto la prigionia el Castello si prolungava, e non restava che la fuga: nella notte si travestì da contadino e fuggì nei campi. Raggiunta Bologna, proseguì fino a Sorrento, dove, ancora sotto mentite spoglie e fisicamente distrutto, si recò dalla sorella, annunciandole la propria morte, così da vedere la sua reazione, e svelandole la sua vera identità solo dopo aver osservato la reazione realmente addolorata della donna.  A Sorrento rimase parecchi mesi ma, volendo riprendere parte alla vita di corte, fece inviare da Cornelia una supplica al duca, in data 4 dicembre 1577, chiedendo di essere riammesso alle sue dipendenze, in un testo che fu certamente dettato, almeno in parte, dal poeta stesso: «La maggior colpa che io credo sia in lui, è la poca sicurezza, che ha mostrata d'avere nella parola di V.A., e il molto diffidarsi della sua benignità».[40]  Così, nell'aprile 1578 ritornò a Ferrara, ma, tempo tre mesi, era di nuovo in fuga; Mantova, Padova, Venezia. Presa la via di Pesaro, da Cattolica mandò ad Alfonso una missiva in cui cerca di spiegare i motivi dell'abbandono, che restano, anche nella testimonianza diretta del Tasso, criptici: «ora me ne dono partito. per non consentire a quello, a che non dee consentire uomo, che faccia alcuna professione d'onore, o ch'abbia nell'animo alcuno spirito di nobiltà. Paura, instabilità?  Quello che è certo è che nello stesso mese le parole di Maffio Venierche lo aveva incontrato a Veneziasembrano far perdere credibilità alle ipotesi di follia: «sebbene si può dire che egli non sia di sano intelletto, scuopre tuttavia più tosto segni di afflizione che pazzia». Anche gli scambi epistolari intrattenuti con Francesco Maria Della Rovere paiono rivelare una personalità afflitta e agitata più che folle. Il Leitmotiv, adesso più che mai, è il dolore. Il dolore si fa allora poiesis, creazione. È proprio questo il periodo in cui vengono composti i versi dell'incompiuta canzone Al Metauro, tra i più citati e famosi dell'opera tassesca. Qui, in una rievocazione della propria vita sub specie doloris[44], affiorano i ricordi delle proprie sofferenze e della morte dei genitori. Il poeta è un esiliato, concretamente e metaforicamente, sin da quando bambino dovette lasciare il luogo natìo:  «In aspro esiglio e 'n dura povertà crebbi in quei sì mesti errori; intempestivo senso ebbi a gli affanni: ch'anzi stagion, matura l'acerbità de' casi e de' dolori in me rendé l'acerbità degli anni»  Intanto continuava a vagare. Percorse a piedi il tratto che separa Urbino da Torino, ma non sarebbe riuscito a entrare nella cittàera stato respinto dai doganieri perché in stato pietosose Angelo Ingegneri, amico di Torquato da alcuni anni, non lo avesse riconosciuto e aiutato a entrare. A Torino ricevette l'ospitalità del marchese Filippo d'Este, genero del duca di Savoia, e godette di una certa tranquillità che gli permise di comporre poesie e iniziare tre dialoghi, la Nobiltà, la Dignità e la Precedenza. In seguito a nuovi pentimenti e nuove nostalgie della corte ferrarese, il poeta si adoperò ancora una volta per il rientro nella città ducale, facendo leva sulle intercessioni del cardinale Albano e di Maurizio Cataneo, e infine riguadagnò la capitale estense, proprio mentre fervevano i preparativi per le terze nozze di Alfonso, quelle con Margherita Gonzaga, figlia del duca di Mantova Guglielmo.  Fu ospitato da Luigi d'Este, ma nessuno badava a lui: «Ora le fo sapere, che io qui ho trovato quelle difficoltà che m'imaginava, non superate né dal favore di monsignor illustrissimo, né da alcuna sorte d'umanità ch'io abbia saputo usare», scrisse a Maurizio Cataneo. In una missiva al cardinale Albano, recante la data, Tasso chiede almeno gli si faccia riottenere lo stipendio precedente.[47]  A questo punto i fatti precipitano: «Iersera l'altra si mandò il povero Tasso a Sant'Anna, per le insolenti pazzie ch'avea fatte intorno alle donne del Signor Cornelio, e che era poi venuto a fare con le Dame di Sua Altezza, quali, per quanto m'è stato rifferto, furono così brutte e disoneste, che indussero il Signor Duca a quella risoluzione».[48] Non è chiaro quando accadesse esattamente il fatto, si oscilla tma è certo che in quest'ultima data il poeta fosse già stato recluso nella prigione di Sant'Anna.[ Pare sicuro anche che le parole offensive pronunciate in preda all'ira si siano indirizzate poi in modo esplicito allo stesso duca, ed è probabile che si trattasse di gravi accuse (forse legate ancora una volta alla vicenda dell'Inquisizione) che, fatte in pubblico, chiedevano una risoluzione drastica.  Il duca Alfonso II rinchiuse quindi Tasso nell'Ospedale Sant'Anna, nella celebre cella detta poi "del Tasso", dove rimase per sette anni. Qui, alle manie di persecuzione, si aggiunsero tendenze autopunitive.   Delacroix: Tasso all'ospedale di Sant'Anna Nell'Ospedale veniva trattato alla stregua dei «forsennati», ricevendo poche razioni di cibo scadente, privato di ogni comodità materiale e di ogni conforto spirituale, visto che il cappellano, «se ben io ne l'ho pregato, non ha voluto mai o confessarmi o comunicarmi».[50] È vero che dopo nove mesi ci fu un miglioramento del vitto, ma dovette trattarsi di ben poca cosa, e i primi tre anni coincisero con una sorta di isolamento.  Scrisse comunque ininterrottamente a principi, prelati, signori e intellettuali pregandoli di liberarlo e difendere la propria persona. Le suppliche erano rivolte al solito Gonzaga, alla mai dimenticata Lucrezia d'Este, a Francesco Panigarola (che sarebbe divenuto vescovo di Asti), a Ercole Tasso e molti altri. I primi anni di reclusione non impedirono a Torquato di scrivere; anzi, le tre canzoni del periodo rivelano una poesia essenziale, magistrale nella gestione delle armonie, simbolo di un'ormai indiscussa maturità e dimostrazione, una volta di più, di come le facoltà mentali del poeta fossero ancora intatte. Ecco quindi A Lucrezia e Leonora, con la celebre invocazione alle «figlie di Renata», in una nostalgico ricordo dei tempi sereni trascorsi a corte, messo in contrasto con la durezza del tempo presente, ecco Ad Alfonso, nuova supplica al duca che, rimasta inascoltata, diventò un inno Alla Pietà nell'omonima canzone.  Le condizioni mutarono con gli anni: gli fu permesso di uscire qualche volta e di ricevere visite, il vitto migliorò ulteriormente, mentre poté lasciare Sant'Anna più volte alla settimana, «accompagnato da gentiluomini e qualche volta fu condotto anche a corte».[52] Tuttavia il trattamento rimaneva molto duro e, a distanza di secoli, pare spropositato se il motivo dovesse ridursi alla pazzia o a delle offese personali.  Certo, il Tasso soffriva di turbe psichiche. A questo proposito è illuminante la lettera di aiuto che indirizzò il 28 giugno 1583 al celebre medico forlivese Girolamo Mercuriale. Qui troviamo un elenco e una descrizione dei mali che affliggono il poeta: «rodimento d'intestino, con un poco di flusso di sangue; tintinni ne gli orecchi e ne la testa, imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli: la qual mi perturba in modo ch'io non posso applicar la mente a gli studi per un sestodecimo d'ora», fino alla sensazione che gli oggetti inanimati si mettano a parlare. È da notare tuttavia come tutte queste sofferenze non l'abbiano reso «inetto al comporre. Si può poi ammettere che «il Tasso non fu semplicemente un melanconico, ma di tratto in tratto veniva sorpreso da eccessi di mania, da riescire pericoloso a sé ed agli altri»[54], ma, anche se questi squilibri dovessero essersi manifestati realmente, essi non giustificano né la tesi della pazzia né la necessità di allontanare il Tasso dalla corte per un periodo così lungo. Con buone probabilità, quindi, la ragione principale deve essere riallacciata ancora una volta ai tentativi tasseschi di ricorrere all'Inquisizione romana, e l'imprigionamento era il solo modo per non compromettere il rapporto con lo Stato Pontificio.  Dopo l'edizione veneziana "pirata" e mutila di Celio Malespini, sempre durante la prigionia, vennero pubblicatenel tentativo di porre rimedio alla sciagurata operazionea Parma e Casalmaggiore, ancora senza il suo consenso, due edizioni del poema iniziato all'età di quindici anni. Il titolo di Gerusalemme liberata fu scelto dal curatore di queste ultime versioni, Angelo Ingegneri, senza l'avallo dell'autore. L'opera ebbe un grande successo.  Siccome anche le stampe dell'Ingegneri presentavano delle imperfezioni e la Gerusalemme era ormai di dominio pubblico, bisognava approntare la versione migliore possibile, ma per far questo era necessaria l'autorizzazione e la collaborazione del Tasso. Così, seppur riluttante, il poeta diede il proprio consenso a Febo Bonnà, che diede alla luce la Gerusalemme liberata il 24 giugno 1581 a Ferrara, restituendola in modo ancora più preciso pochi mesi dopo. Queste traversie editoriali addolorarono il Tasso, che avrebbe voluto mettere mano al poema in modo da renderlo conforme alla propria volontà. All'amarezza per le pubblicazioni seguì ben presto quella che gli fu causata dallapolemica con la neonata Accademia della Crusca. La diatriba non fu scatenata, per la verità, né dal poeta né dall'Accademia. La sua origine va ricercata nel dialogo Il Carrafa, o vero della epica poesia, che il poeta capuano Camillo Pellegrino stampò presso l'editore fiorentino Sermartelli. Nel dialogo Torquato viene esaltato assieme alla sua opera, in quanto fautore di una poesia etica e fedele ai dettami aristotelici, mentre l'Ariosto viene duramente condannato a causa della leggerezza, delle fantasiose invenzioni e dell'eccessiva dispersione che si possono riscontrare nell'Orlando Furioso. Il testo provocò la reazione dell'Accademia, che rispose nel febbraio dell'anno seguente con la Difesa dell'Orlando Furioso degli Accademici della Crusca, stroncando il Tasso ed esaltando invece «il palagio perfettissimo di modello, magnificentissimo, ricchissimo, e ornatissimo» che era il Furioso. La Difesa fu fondamentalmente opera di Leonardo Salviati e di Bastiano de' Rossi. Tasso decise di scendere in campo con l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata, edita a Ferrara dal Licino il 20 luglio. Rivendicando la necessità di un'invenzione che si fondi sulla storia, il poeta si opponeva alle opinioni dei paladini del volgare fiorentino, e respingeva le accuse di un lessico intriso di barbarismi e poco chiaro. La polemica continuò, visto che il Salviati replicò in settembre con la Risposta all'Apologia di Torquato Tasso (testo noto anche come Infarinato primo), cui seguirono un nuovo opuscolo di Pellegrino e un Discorso del Nostro, dopo di chese si esclude un ulteriore scritto del Salviati, l'Infarinato secondo per qualche tempo le acque si calmarono, ma la querelle tra ariosteschi e tasseschi proseguì fino al secolo successivo, e fu una delle più infiammate della storia della letteratura italiana.  Durante la reclusione Tasso scrisse principalmente discorsi e dialoghi. Fra i primi quello Della gelosia, Dell'amor vicendevole tra 'l padre e 'l figliuolo, Della virtù eroica e della carità, Della virtù femminile e donnesca, “Dell'arte del dialogo”; “Il Secretario” cui si deve aggiungere il Discorso intorno alla sedizione nata nel regno di Francia e il Trattato della Dignità, già iniziato a Torino, come si è visto. Queste opere sviluppano tematiche morali, psicologiche o strettamente religiose. La virtù cristiana è proclamata come superiore alla pur nobile virtù eroica, si afferma la comune origine di amore e gelosia, si valutano i talenti specifici della donna, il tutto arricchito dal racconto di esperienze personali che giustificano l'opinione dell'autore. Vengono affrontate anche questioni politiche, in special modo nel Secretario, diviso in due parti, la prima dedicata a Cesare d'Este, la seconda ad Antonio Costantini. Qui, nella descrizione del principe ideale, si enucleano alcune caratteristiche come la clemenza (chiaro il riferimento alla propria condizione), l'esser filosofo, e soprattutto «un gentiluomo a la cui fede ed al cui sapere si possono confidare gli Stati e la vita e l'onor del principe». Più copiosa ancora fu la composizione di dialoghi, scritti sotto il nume ideale di Platone, ma paragonabili più obiettivamente a quelli del sedicesimo secolo. Quasi ogni tematica morale viene sviscerata in una serie davvero lunga di opere più o meno prolisse e più o meno felici.  Tasso scrisse, nell'ordine, Il Forno, o vero de la Nobiltà, il Gonzaga, o vero del Piacer onesto, in seguito rivisto e stampato con il titolo Il Nifo, o vero del piacere; Il Messaggero. Qui immaginò di interagire amichevolmente con il folletto da cui si credeva perseguitato nella realtà. Questo dialogo ispirò la celebre operetta morale leopardiana Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), con una seconda lezione. Il padre di famiglia (ispirato a un gentiluomo che lo ospitò a Borgo Sesia prima dell'arrivo a Torino); Il cavalier amante e la gentildonna amata (con dedica a Giulio Mosti, giovane ammiratore del poeta); Romeo o vero del giuoco, rivisto e dato alle stampe con titolo Il Gonzaga secondo, o vero del giuoco; La Molza, o vero de l'Amore (prende spunto dalla conoscenza che il Tasso fece della celebre poetessa Tarquinia Molza a Modena, dedicato a Marfisa d'Este); Il Malpiglio, o vero della corte (con riferimento al gentiluomo ferrarese Lorenzo Malpiglio); Il Malpiglio secondo o vero del fuggir la moltitudine; Il Beltramo, overo de la Cortesia; Il Rangone, o vero de la Pace (in risposta a uno scritto di Fabio Albergati); Il Ghirlinzone, o vero l'Epitafio. Il Forestiero napolitano, o vero de la Gelosia; Il Cataneo, o vero de gli Idoli, e, infine, La Cavalletta, o vero de la poesia toscana. In tutto questo non aveva dimenticato l'opera principe, dimostrando di avere al riguardo idee piuttosto lontane da quella che sarà la realizzazione finale. A Lorenzo Malpiglio espose intenzioni sostanzialmente opposte agli interventi che avrebbe apportato negli anni successivi: parla di portare la Liberata da venti a ventiquattro canti (secondo l'idea originaria) e di accrescere il numero delle stanze, tagliando anche dei passaggi ma con il risultato che «la diminuzione sarà molto minor de l'accrescimento. Qualche segnale, magari anche dettato da semplice interesse, lasciava intravedere un astio meno severo nei confronti del Nostro. Prima della reclusione  a Comacchio era stata rappresentata una commedia tassesca alla presenza della corte. Ora Virginia de' Medici voleva che il testo fosse perfezionato e completato per essere interpretato durante i festeggiamenti del suo matrimonio con Cesare d'Este. Tasso si mise al lavoro ed esaudì la richiesta. L'opera fu poi pubblicata e ricevette il titolo “Gli intrichi d'amor” edal Perini, uno degli attori dell'Accademia di Caprarola, che aveva messo in scena la commedia. L'opera, ricolma di intrecci amorosi e di agnizioni secondo il costume dell'epoca, è sofisticata e inverosimile, ma non mancano pagine vivaci ed episodi ispirati all'Aminta. Vi si possono inoltre vedere alcuni elementi che confluiranno nella commedia dell'arte: il personaggio del Napoletano, parlando in dialetto e «profondendosi in spiritosaggini sbardellate», richiama alla mente la futura maschera di Pulcinella. La critica è stata piuttosto concorde nel ritenerla infelice, tutta una goffaggine pedantesca e superficiale, nel giudizio di Francesco D'Ovidio. F. Pourbus: Vincenzo Gonzaga Dopo la prigionia: le delusioni, le sofferenze, le peregrinazioni. Finì la prigionia. Venne affidato a Vincenzo Gonzaga, che lo volle alla sua corte di Mantova. Nelle intenzioni di Alfonso, Tasso doveva restare presso il figlio di Guglielmo Gonzaga solo per un breve periodo, ma di fatto il poeta non tornò più a Ferrara, e restò presso Vincenzo, in un ambiente in cui conobbe Ascanio de' Mori da Ceno, diventandone amico.  A Mantova ritrova qualche barlume di tranquillità; riprese in mano il Galealto re di Norvegia, la tragedia che aveva lasciato interrotta alla seconda scena del secondo attoe che aveva frattanto avuto un'edizione nel 1582 -, e la trasformò nel Re Torrismondo, conglobando nei primi due atti quanto aveva precedentemente scritto ma cambiando i nomi, e procedendo alla stesura dei tre atti successivi in modo da arrivare ai cinque canonici. Quando nell'agosto si recò a Bergamo, ritrovando amici e parenti, si mise subito in azione per dare alle stampe la tragedia, e l'opera uscì, a cura del Licino e per i tipi del Comin Ventura, con dedica a Vincenzo Gonzaga, nuovo duca di Mantova. Si trattava comunque di una "libertà vigilata", e i fatti lo dimostrano chiaramente. Dopo essere tornato a Mantova, deluso e preoccupato di una possibile venuta di Alfonso, Tasso andò a Bologna e a Roma senza chiedere al Gonzaga l'autorizzazione e questi, sotto la pressione del duca di Ferrara, tentò in ogni modo di farlo tornare indietro. Antonio Costantini, sedicente amico del poeta che metteva al primo posto l'ambizione e l'obiettivo di essere tenuto in onore presso la corte mantovana, e Scipione Gonzaga si mobilitarono, ma Torquato capì la situazione e rifiutò di ritornare, rendendo impossibile qualsiasi mossa, dal momento che un intervento che lo riportasse nel ducato mantovano con la forza non sarebbe mai stato tollerato dal Pontefice. Il fatto che nessuno impedisse il viaggio a Bergamo mentre ci fosse una mobilitazione generale per allontanare il poeta dall'Urbe rimane comunque un segnale che pare ulteriormente ridimensionare il peso della presunta follia di Torquato nelle preoccupazioni dei duchi del settentrione.  Il santuario di Loreto in un'incisione di Francisco de Hollanda (prima meta del sec. XVI) Nel corso del tragitto Tasso passò da Loreto, raccogliendosi in preghiera nel santuario e concependo quella canzone «a la gloriosa Vergine» che può forse richiamare il Petrarca della Canzone alla Vergine in qualche scelta lessicale, ma, in mezzo alla lode e alla supplica, è tanto più intessuta di travaglio e sofferenza:  «Vedi, che fra' peccati egro rimango, qual destrier, che si volve nell'alta polve, e nel tenace fango.»  Torquato fu a Roma. L'irrequietudine era di nuovo alle stelle: le lettere registrano le sue richieste di denaro e le lamentele per la propria condizione di salute. Il poeta è ormai disilluso, e fa meno affidamento sulla possibilità che gli altri lo aiutino. Come scrisse alla sorella in una lettera del 14 novembre, gli uomini «non hanno voluto sanarmi, ma ammaliarmi. Tuttavia, il Nostro è in preda al bisogno materiale e continua ad autoumiliarsi, scrivendo versi encomiastici per Scipione Gonzaga, divenuto cardinale, senza ottenere alcunché. Anche la speranza di essere ricevuto dal papa Sisto V viene delusa, nonostante le lodi che Tasso rivolge al pontefice in varie poesie, confluite assieme ad altre del periodo in un volumetto stampato a Venezia. Vista l'inutilità del soggiorno romano, il peregrinante poeta pensò trovare maggior fortuna nell'amata Napoli. Così, ritorna nella città vesuviana fortemente intenzionato a risolvere a proprio favore le cause contro i parenti per il recupero della dote paterna e di quella materna. Benché potesse contare su amici e congiunti, e sulle conoscenze altolocate partenopee, tra cui i Carafa (o Carrafa) di Nocera, i Gesualdo, i Caracciolo di Avellino, i Manso, preferì accettare l'ospitalità di un convento di frati olivetani. Qui conobbe l'amico più caro degli ultimi anni: Giovan Battista Manso, signore di Bisaccia e primo entusiasta biografo dell'autore dopo la sua morte.  Il clima amichevole in cui fu accolto, la stima di amici e letterati, e il conforto di una «bellissima città, la quale è quasi una medicina al mio dolore, riuscirono a risollevare per un breve periodol'infelice animo tassiano. Per ringraziare i monaci scrisse il poemetto, rimasto incompiuto, Monte Oliveto, in riferimento al convento in cui sorgeva il complesso monastico che attualmente ospita la caserma dei carabinieri (resta visitabile la chiesa Sant'Anna dei Lombardi). L'operaun resoconto encomiastico delle principali tappe esistenziali e delle principali virtù di Bernardo Tolomei, il fondatore della Congregazioneè fortemente intessuta di spirito cristiano, in un severo richiamo ad una vita sobria, lontana dalle vanità del mondo. Dedicata al cardinale Antonio Carafa, si interrompe alla centoduesima ottava. Al pari del Re Torrismondo e di molta parte dell'ultima produzione tassesca, il Monte Oliveto non ha goduto dei favori della critica. Guido Mazzoni vi vide più una predica che un poema, mentre Eugenio Donadoni utilizzò quasi le medesime parole che gli erano servite per stroncare il Torrismondo (v. Re Torrismondo): questa è «l'opera non più di un poeta, ma di un letterato, che cerca di dare forma e tono epico a una convenzionale vita di santo».[78] Come per la tragedia nordica, la rivalutazione è arrivata con l'analisi di Luigi Tonelli e di alcuni studiosi più recenti.  In ogni caso, anche questo periodo napoletano si rivelò problematico per Tasso, a causa delle precarie condizioni di salute e delle ristrettezze economiche, a cui si aggiunsero anche nuove polemiche letterarie e religiose sulla Gerusalemme liberata. Spostatosi a Bisaccia, Tasso poté vivere un periodo di maggiore tranquillità. Manso ricorda un episodio curioso: mentre sedeva con l'amico davanti al fuoco, questi disse di vedere uno «Spirito, col quale entrò in ragionamenti così grandi e meravigliosi per l'altissime cose in essi contenute, e per un certo modo non usato di favellare, ch'io rimaso da nuovo stupore sopra me inalzato, non ardiva interrompergli». Alla fine della visione, Manso confessò di non aver visto nulla, ma il poeta gli si rivolse sorridendo: «Assai più veduto hai tu, di quello che forse... E qui si tacque».[79] Viste le rare manifestazioni allucinatorie di cui abbiamo notizia, (si ricordino quelle che erano state descritte nel dialogo Il messaggero, in cui è descritto uno spirito amoroso che appare a Tasso sotto la figura di un giovanetto dagli occhi azzurri, simili a quelli che Omero alla dea d'Atene attribuisce), la risposta del Nostro assume una valenza indubbiamente ambigua, e non può escludersi che avesse voluto mettere alla prova il Manso per vedere se anche lui lo avrebbe considerato un "folle".  A dicembre era di nuovo a Roma, dove giunse nella speranza di poter essere ospitato dal Papa in Vaticano, confidando negli illusori pareri di alcuni amici.[80] Ad ospitare Tasso fu invece Scipione Gonzaga, e il poeta si sentì di nuovo «più infelice che mai». Ricominciava la routine: richieste d'aiuto a destra e a sinistra, con l'obiettivo di ricevere i cento scudi che gli erano stati promessi per la stampa delle sue opere: «vorrei in tutti i modi trovar questi cento ducati, per dar principio a la stampa, avendo ferma opinione che di sì gran volume se ne ritrarrebbero molto più», scrisse ad Antonio Costantini.[82] I destinatari erano ancora una volta i più disparati: il principe di Molfetta, il Costantini, il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, gli editori. Il Nostro si umiliò per l'ennesima volta anche con Alfonso, cui chiese nuovamente perdono, mentre al Granduca di Toscana Ferdinando I domandò l'intercessione del cardinal Del Monte, lo stesso che prenderà sotto la propria protezione Caravaggio. Tutte le speranze, però, furono disattese.  Al tempo stesso anche le missive ai medici si rifecero intense. Tuttavia, in mezzo a tante delusioni e a tanto affanno non venne meno la verve creativa: oltre ad aver raccolto le Rime in tre volumi, e avervi scritto il commento, Tasso compose anche un poema pastorale che riprende, anche se solo nel nome, alcuni personaggi dell'Aminta. È Il rogo di Corinna, dedicato a Fabio Orsino. La prima pubblicazione dell'opera fu postuma. Per quanto Grazioso Graziosi, agente del duca di Urbino, dicesse al suo signore del modo eccellente in cui il Tasso era trattato presso il cardinale Gonzaga, egli rilevava al contempo le infermità fisiche e mentali di Torquato, che privavano la sua età «del maggior ingegno che abbian prodotto molte delle passate. Tuttavia, è bene diffidare della prima quanto della seconda affermazione. Se «il povero Signor Tasso è veramente degno di molta pietà per le infelicità della sua fortuna»[85], come si legge in una missiva del Graziosi di due settimane dopo, perché cacciare il poeta in malo modo, mentre Scipione Gonzaga non era presente, e costringerlo a una nuova situazione di bisogno? In aiuto del Tasso vennero ancora i monaci della Congregazione del Tolomei, che lo ospitarono a Santa Maria Nuova degli Olivetani.[86]  Gli ultimi anni del Tasso, però, non conobbero pace duratura: le sofferenze psichiche si acuirono nuovamente, certo per le nuove delusioni derivanti da richieste di denaro non esaudite, dall'obbligo di piegarsi alla composizione di poesie a pagamento, e il poeta fu costretto a farsi ricoverare nell'Ospedale dei Pazzarelli, adiacente alla chiesa dei Santi Bartolomeo e Alessandro dei Bergamaschi, la cui costruzione era appena stata ultimata. Il dolore emerge in modo chiaro in una lettera inviata il primo dicembre 1589 ad Antonio Costantini, divenuto ormai suo confidente. Ritornò presso Scipione Gonzaga, sempre lamentandosi per la scarsa considerazione in cui era tenuto e sempre scrivendo della propria infelicità.[88] Tasso premeva, come già più volte in passato, per essere accolto a Firenze dal Granduca di Toscana, e accettò quindi con gioia l'invito di Ferdinando de' Medici. A Firenze giunse in aprile, ospite prima dei fidati Olivetani, poi di ricchi e illustri cittadini quali Pannucci e Gherardi. Alla tranquillità necessaria per rivedere la Gerusalemme si aggiunsero anche relative soddisfazioni economiche (sempre comunque in cambio di versi encomiastici): dal Granduca ricevette centocinquanta scudi[89], da Giovanni III di Ventimiglia, marchese di Geraci, sembrerebbe, duecento scudi.[90]  Il motivo di gioia principale era tuttavia un altro, era l'avvicinarsi dell'evento più ambito da chi si sentiva, sopra ogni cosa, poeta: «Penso a la mia coronazione, la qual dovrebbe esser più felice per me, che quella de' principi, perché non chiedo altra corona per acquetarmi». Non ci fu nessuna incoronazione. C'è chi ha asserito che questa lettera contenesse solo una bislacca speranza del Tasso, senza alcun legame con la realtà.[92] Tuttavia, la sicurezza con cui l'evento viene ormai dato per certo lascia pensare che le illusioni del Nostro avessero un fondamento, e non fossero una pura chimera.  Un nuovo evento lo indusse all'ennesimo spostamento: papa Urbano VII era succeduto a Sisto V, incoraggiando il Tasso a fare nuovamente affidamento sugli aiuti pontifici. C. scese così a Roma, accolto dagli Olivetani di Santa Maria del Popolo. Giovanni Battista Castagna morì tredici giorni dopo l'elezione, lasciando il posto a Gregorio XIV. Anche questa volta le lettere del poeta registrano un amaro scacco: «Ho perduto tutti gli appoggi; m'hanno abbandonato tutti gli amici, e tutte le promesse ingannato», confidò, sempre più afflitto, a Niccolò degli Oddi. L'autore della Gerusalemme è ogni giorno che passa più confuso, sballottato qua e là dagli eventi come una barca in mezzo al mare. Tutto questo riflette la condizione interiore di una persona disincantata ma al tempo stesso ancora ingenuamente pronta a fidarsi delle fallaci promesse che giungono dal mondo intorno, riflette un'instabilità ormai cronica. È vero che la fede andò radicandosi sempre più in Tasso, ma il fatto che al duca di Mantova scrivesse di volersi ritirare in un monastero e pochi giorni dopo accettasse il suo invito a tornare a corte è l'evidente manifestazione di un'anima senza pace. Ritornato quindi sul Mincio, accolto con tutti gli onori, poté dedicarsi totalmente al lavoro letterario, e in particolare alla revisione del capolavoro. La missiva a Maurizio Cataneo del 4 luglio ci informa del fatto che il poeta era già a buon punto, e illustra le linee direttrici della propria opera correttrice: «sono al fine del penultimo libro; e ne l'ultimo mi serviranno molte di quelle stanze che si leggono nello stampeato. Desidero che la riputazione di questo mio accresciuto ed illustrato e quasi riformato poema toglia il credito a l'altro, datogli dalla pazzia de gli uomini più tosto che dal mio giudicio». Sono parole che possono parere sciagurate, ma riflettono gli scrupoli religiosi sempre più pressanti.  Non si era comunque concentrato solo sul poema: aveva raccolto le Rime in quattro volumi, e con l'editore veneziano Giolito parlava della possibilità di stampare tutte le opere (esclusa la Gerusalemme) in sei libri. A tutto questo va aggiunto un nuovo lavoro che aveva intrapreso, lasciandolo poi incompiuto. La genealogia di Casa Gonzaga, con dedica a Vincenzo, si interruppe dopo centodiciannove ottave, per essere pubblicato solo nel 1666, tra le Opere non più stampate dell'edizione romana Dragondelli.[96] Il poemetto è sicuramente trascurabile, fatto di una versificazione fredda, appesantita da nozioni e nomi. Tra le fonti il ruolo principale è stato svolto da un regesto di Cesare Campana, Arbori delle famiglie... e principalmente della Gonzaga, uscito a Mantova l'anno prima, e dall'Historia sui temporis di Paolo Giovio, accanto a cui va ricordata la tradizione orale legata alla battaglia del Taro. La calma, tuttavia, era ormai un ricordo di gioventù, e ogni soggiorno diventava insopportabile dopo un certo numero di mesi. Così, ridiscese la penisola, con l'intenzione di raggiungere nuovamente Roma. Il viaggio fu travagliato e appesantito dal fatto che Tasso si ammalò più volte durante il tragitto, costretto a sostare in varie località, fra cui Firenze. Giunto nell'Urbe, ricevette l'ospitalità di Cataneo. Poche settimane dopo era ancora in viaggio, diretto a Napoli  A questo punto, inaspettatamente, ci fu spazio per qualche luce e qualche reale soddisfazione. Il soggiorno napoletano non tradì, né per quanto riguarda l'accoglienza ricevuta (fu ospitato dal principe di Conca Matteo di Capua e poi da Manso con grandi onori e affetto), né sulle questioni letterarie, né su quelle relative alla salute dell'artista. In effetti, in virtù della «purità dell'aria, comincia a sentirsi meglio, e di conseguenza poté dedicarsi in modo più proficuo alle proprie attività. In questi mesi completò la Conquistata, e, sempre durante il soggiorno partenopeo, mise mano all'ultima opera significativa, Le sette giornate del Mondo creato. Gli ultimi tre anni di vita lo videro prevalentemente a Roma. L'elezione al soglio pontificio di Clemente VIII lo fece venire nell'Urbe, e anche qui ebbe un trattamento decisamente migliore rispetto alle recenti esperienze. Poté infatti alloggiare nel palazzo dei nipoti del Papa, Pietro e CinzioAldobrandini, in procinto di diventare cardinali. Cinzio sarà di fatto il vero mecenate dell'ultimo periodo. La produzione letteraria ebbe nuovi sussulti, consacrandosi ormai quasi esclusivamente agli argomenti sacri: compose i Discorsi del poema eroico e altri Dialoghi, carmi latini e rime religiose. Addolorato per la morte di Scipione Gonzaga, gli dedicò, nel marzo 1593, Le lagrime di Maria Vergine e Le lagrime di Gesù Cristo.Tasso aveva intanto finito di rivedere il poema, e sempre nel 1593 vide la luce a Roma, per i tipi di Guglielmo Facciotti, la Gerusalemme conquistata.  Esistono inoltre chiare testimonianze del fatto che ci fosse l'intenzione di incoronare Tasso in Campidoglio, nonostante alcuni studiosi si siano osti negarlo e a considerarla un'invenzione del poeta. È veramente degno il Signor Torquato Tasso di esser celebrato in questi medesimi tempi come raro per la sua poesia, ed è parimente degno della grandezza dell'animo del Signor Cinzio Aldobrandini di erigergli una statua laureata, con mill'altre cerimonie e specie, come dicono che tosto si vedrà, e dargli luogo in Campidoglio fra le più degne ed antiche cerimonie [...]», rivela Matteo Parisetti in una lettera ad Alfonso II, risalente all'agosto del Lo stesso Tasso è esplicito al riguardo: «Qui in Roma mi voglion coronar di lauro», scrive al Granduca di Toscana il 20 dicembre 1594, «o d'altra foglia». Sennonché, pur essendo ancora bisognoso di soldi e continuando a fare richiesta per ottenerli, il poeta sentiva sempre più lontane le preoccupazioni del mondo, e sempre meno si curava della vanità e dei successi terreni. La salute, dopo la parentesi napoletana, andava aggravandosi nuovamente, e Torquato cominciava a capire che la fine non era lontana. Per questo ritornò alle falde del Vesuvio, per concludere rapidamente in proprio favore la questione legata all'eredità materna: il risultato fu soddisfacente, acconsentendo il principe di Avellino a versargli duecento ducati all'anno, ai quali vanno aggiunti cento ducati annui che il Papa si risolverà a dargli a partire dal febbraio 1595.  A Napoli rimase dal giugno al novembre del 1594, alloggiato al monastero benedettino di san Severino, sempre più votato alla vita monastica e attratto ancora dalla letteratura agiografica. Fu probabilmente nei mesi trascorsi presso i benedettini che Tasso abbozzò l'incompiuta Vita di San Benedetto. Alla fine dell'anno ritornò a Roma.  Cambiò città per l'ultima volta: la fine era dietro l'angolo. Riconosciuta la definitiva infermità che gli rendeva ormai impossibile scrivere e correggere, non sentì più che un ultimo bisogno, tralasciando tutto il resto, il bisogno della «fuga dal mondo». Entra al monastero di S. Onofrio, sul Gianicolo, senza più nemmeno curarsi del fatto che il Mondo creato non era stato ancora rivisto. Tutto svaniva, di fronte all'importanza di prepararsi al trapasso: «Che dirà il mio signor Antonio, quando udirà la morte del suo Tasso? E per mio avviso non tarderà molto la novella, perch'io mi sento al fine de la mia vita. Non è più tempo ch'io parli de la mia ostinata fortuna, per non dire de l'ingratitudine del mondo». Tutto perdeva importanza, a fronte della dolcezza della «conversazione di questi divoti padri», che cominciava «la mia conversazione in cielo. Monumento in Sant'Onofrio Il 25 aprile, all'«undecima ora». Tasso muore. E una morte serena, ricevuta con tutti i conforti dei sacramenti.La morte  del Tasso è stata accompagnata da una particolar grazia di Dio benedetto, perché in questi ultimi giorni le duplicate confessioni, le lagrime e insegnamenti spirituali pieni di pietà e di giudizio, mostrarono che fosse affatto guarito dall'umor malinconico, e che quasi uno spirito gli avesse accostato al naso l'ampolle del suo cervello. Venne sepolto nella Chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo.  Presso il monastero, accanto alla strada è ancora visibile la rampa della quercia, dove si trova il tronco nero di una quercia secolare sostenuto da un sopporto metallico. Secondo la tradizione locale si tratta della cosiddetta quercia del Tasso, l'albero alla cui ombra il poeta spesso sedeva per riposarsi.  Albero genealogico Reinerius de Tassis Sconosciuta Omedeo Tasso ( Sconosciuta Ruggero Tasso SconosciutaBenedetto Tasso SconosciutaPalazzo de Tassis Tonola de Magnasco, Pasimo (o Paxio) de Tassis. SconosciutaPietro Tasso. SconosciutaGiovanni Tasso  Catalina de Tassi Gabriel Tasso Porzia de RossiBernardo Tasso Torquato Tasso Opere  Un ritratto a Sorrento. Gerusalemme Scritto quando egli aveva solo 15 anni il Gierusalemme rappresenta il primissimo tentativo di Tasso di maneggiare il genere epico nonché il suo primo impegno letterario di rilievo. Se ne possiedono soltanto centosedici stanze del canto I. Oltre a condividere con la Liberata l'argomento (la prima Crociata), si notano pure alcune somiglianze tra il proemio di questo esordio poetico giovanile e quello del capolavoro della maturità.  Rinaldo All'età di diciotto anni Tasso riprese la materia del romanzo cavalleresco e pubblicò il Rinaldo, poema in ottave che narra in dodici canti la giovinezza del paladino della tradizione carolingia e le sue imprese di armi e di amori. Nella prefazione al poema Tasso dichiara di voler imitare in parte gli "antichi" (Omero e Virgilio), in parte i "moderni" (Ariosto). Si concentra però su un unico protagonista, secondo le esigenze di unità proposte dall'aristotelismo. Si tratta di un'opera tipicamente giovanile, ancora priva di originalità, ma compaiono già alcuni temi e toni fondamentali che caratterizzeranno il Tasso maturo e formato culturalmente.  Rime Torquato Tasso compose un gran numero di poesie liriche, lungo l'arco di tutta la sua vita. Le prime furono pubblicate col titolo di Rime degli Accademici Eterei. Uscirono Rime e prose. Tasso lavorò fino al 1593 ad un riordino complessivo dei testi, distinguendo rime amorose e rime encomiastiche. Previde poi una terza sezione, dedicata alle rime religiose e una quarta di rime per musica, ma non realizzò il progetto.  Nelle Rime amorose è ben riconoscibile l'influenza della poesia petrarchesca e della vasta produzione petrarchistica del Quattrocento e Cinquecento; contemporaneamente, però, il gusto per le preziosità linguistiche e l'intensa sensualità rivelano l'evoluzione verso un linguaggio nuovo che maturerà nel Seicento. L'uso frequente di forme metriche poco usate dai poeti precedenti, come il madrigale, e la raffinata musicalità dei versi fecero sì che molti di essi fossero musicati da grandi autori come Claudio Monteverdi e Gesualdo da Venosa.  Più solenni e classicheggianti le Rime encomiastiche, dedicate alle figure e alle famiglie signorili che ebbero rilievo nella vita del poeta. Per la loro creazione si ispira a Pindaro, Orazio e al celebre Monsignor della Casa. Fra tutte, la più famosa è la Canzone al Metauro, intessuta di elementi autobiografici.  Le Rime religiose sono caratterizzate dal tono cupo e plumbeo, forse dovuto al fatto che le scrisse negli ultimi anni di vita. Qui il poeta manifesta il desiderio di sconfiggere l'ansia esistenziale e il tormentoso senso del peccato attraverso la fede e l'espiazione.  Discorsi dell'arte poetica Attorno alla metà degli Anni Sessanta scrisse i quattro libri dei Discorsi dell'arte poetica ed in particolare sopra il poema eroico, letti all'Accademia Ferrarese e pubblicati molto più tardi, nel 1587, dal Licino. Il testo fornisce una chiara visione della concezione tassesca del poema eroico, piuttosto distante da quella ariostesca, che dava la prevalenza all'invenzione e all'intrattenimento del pubblico.  Perché possa essere giudicato di buon livello, deve basarsi su un evento storico, da rielaborare in modo inedito. Infatti, «la novità del poema non consiste principalmente in questo, cioè che la materia sia finta, e non più udita; ma consiste nella novità del nodo e dello scioglimento della favola. Al verosimile deve essere unito il meraviglioso, e Tasso trova l'unione perfetta di queste due componenti nella religione cristiana. Intiera, l'opera deve essere una, ossia prevedere l'unità d'azione, ma senza schemi rigidi: ci può essere largo spazio per la varietà, e per la creazione di numerosi racconti nel racconto, e in questo senso la Gerusalemme liberata costituisce una piena realizzazione delle idee dell'autore. Lo stile, infine, deve adeguarsi alla materia, e variare tra il sublime e il mediocre a seconda dei casi.  Aminta Magnifying glass icon mgx2.svg Aminta (Tasso).  Le sofferenze di Aminta, dipinto di Bartolomeo Cavarozzi «L'Aminta non è un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto lirico, narrazione drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le tragedie e le commedie e i così detti drammi pastorali in Italia … Essa è in fondo una novella allargata a commedia, di quel carattere romanzesco che dominava nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il Ruffo, la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due protagonisti, Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a monologhi e capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla narrazione L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da partecipi con le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è tutto nella narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: "s'ei piace, ei lice". Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di caratteri e di avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui, comparazioni, sentenze, movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale, piena di grazia e delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima. Semplicità molta è nell'ordito, e anche nello stile, che senza perder di eleganza guadagna di naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo. Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà un'apparenza pastorale a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la stessa semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di perfezione, e certo non ci è opera d'arte così finamente lavorata.»  (De Sanctis) L'Aminta è una favola pastorale. Presenta un prologo, 5 atti, un coro. Ogni canto si conclude a lieto fine.  Ha ispirato la composizione della favola pastorale Flori di Maddalena Campiglia lodata dallo stesso Tasso. Sulle ali dell'entusiasmo per il successo dell'Aminta Tasso incominciò una tragedia, Galealto re di Norvegia, che però interruppe alla seconda scena del secondo atto. Il poeta la riprese e la completò a Mantova, subito dopo la liberazione dall'Ospedale di Sant'Anna cambiando però il titolo, diventato Re Torrismondo, e il nome del protagonista. L'ambientazione è nordica: in essa sono frequenti le immagini di distese boschive. In questo, il Tasso mostra la sua forte curiosità per le leggende nordiche, come ad esempio mostra la lettura dell'Historia de gentibus septentrionalibus di Olao Magno.  L'editio princeps è quella bergamasca del 1587; seguirono a ruota le edizioni di Mantova, Ferrara, Venezia e Torino, ma poi ci fu un lungo silenzio. L'opera fu rappresentata per la prima volta soltanto al Teatro Olimpico di Vicenza.  Trama Torrismondo è intimamente segnato dal conflitto tra amore e amicizia: il sovrano (d'una ignota regione nordica, non di Norvegia) ama Alvida, che a causa di un debito passato (Germondo aveva salvato la vita a Torrismondo) deve sposarsi con l'amico Germondo, re di Svezia, regno nemico a quello di Alvida poiché Germondo stesso era stato accusato di omicidio del fratello di Alvida. Germondo dunque non può sposarsi con la donna amata poiché il padre di quest'ultima lo odia. Germondo decide allora che Torrismondo per sdebitarsi avrebbe dovuto chiedere la mano di Alvida e al momento delle nozze avrebbe dovuto scambiare la sposa. Ottenuta da Torrismondo la mano di Alvida i due consumano l'amore. La storia prenderà un'altra china quando Torrismondo scoprirà che la donna amata non è altri che la sorella, la situazione culminerà nel suicidio dei due. Il Re Torrismondo è molto importante perché anticipa le tragedie barocche, nelle quali si riprendono alcune caratteristiche fondamentali delle tragedie senecane: la meditatio mortis (il Memento mori) e il gusto dell'orrido. Nel Tasso, però, ciò che compare fortemente e caratterizza le sue tragedie è il conflitto intimo che dilania l'animo dei personaggi: l'uomo si sente intrappolato dal fato, poiché impossibilitato all'agire, a modificare il corso degli eventi ormai già predisposti.  Tuttavia, la critica non si è espressa positivamente in merito all'opera: Solerti ed Ovidio si sono mostrati ostili verso il Torrismondo come lo erano stati nei confronti degli Intrichi d'amore, e severo si è dimostrato anche Umberto Renda, che alla tragedia ha dedicato una monografia.  Ancora più duro il giudizio di Eugenio Donadoni, che arrivò a parlare di «opera di un ex-poeta, non più di un poeta,  e nemmeno Giosuè Carducci, pur apprezzando lo sforzo di unire elementi pagani e religiosi, classici ed esotici, ha ritenuto il dramma degno dell'ingegno tassesco. Solo Tonelli fa presente che superava pur sempre «la maggior parte delle tragedie cinquecentesche e rivaleggiava con le migliori del tempo. Gerusalemme liberata Gerusalemme liberata.  Tasso con la sua Gerusalemme liberata La Gerusalemme liberata è considerata il capolavoro di Tasso. Il poema tratta di un avvenimento realmente accaduto, ossia la prima crociata. Tasso iniziò a scrivere l'opera con il titolo di Gierusalemme durante il soggiorno a Venezia. L'opera fu pubblicata integralmente con il titolo di Gerusalemme liberata. In seguito alla pubblicazione del poema il poeta rimise mano all'opera e la riscrisse eliminando tutte le scene amorose e accentuando il tono religioso ed epico della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme conquistata. In realtà la Conquistata fu immediatamente dimenticata e la redazione che continuò ad avere grande successo e ad essere ristampata, in Italia e nei paesi stranieri, fu la Liberata.  Trama Goffredo di Buglione nel sesto anno di guerra raduna i crociati, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio Gerusalemme. Uno dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato Tancredi. Chi vince il duello vince la guerra. Il duello però viene sospeso per il sopraggiungere della notte e rinviato. I diavoli decidono di aiutare i musulmani a vincere la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con uno stratagemma riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani, tra cui Tancredi, in un castello incantato. L'eroe Rinaldo per aver ucciso un altro crociato che lo aveva offeso viene cacciato via dal campo. Il giorno del duello arriva e poiché Tancredi è scomparso viene sostituito da un altro crociato aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra quando arrivano gli eroi imprigionati liberati da Rinaldo che rovesciano la situazione e fanno vincere la battaglia ai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una torre per dare l'assalto a Gerusalemme ma Argante e Clorinda (di cui Tancredi è innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e viene uccisa in duello proprio da colui che l'ama, Tancredi, che non l'aveva riconosciuta. Tancredi è addolorato per aver ucciso la donna che amava e solo l'apparizione in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno lancia un incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire la torre. L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, prigioniero della maga Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e alla fine lo trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e permette ai crociati di assalire e conquistare Gerusalemme. I Dialoghi La stesura di prose dialogiche impegnò Tasso fin dal 1578, anno della composizione del Forno overo de la Nobiltà.  La dialogistica tassiana è stata da sempre relegata al margine dalla critica: De Sanctis accenna soltanto al Minturo overo della Bellezza, limitandosi ad asserire che Tasso da giovane fu “infetto dalla peste filosofica”. Un giudizio a dir poco sminuente se si considera che il poeta compose venticinque dialoghi (e questa è solo la cifra canonica; non si fa riferimento, infatti, agli abbozzi e ai rimaneggiamenti) e vi pose il suo impegno fino alla morte.  Una valutazione più precisa è fornita da Donadoni: lo studioso dedica un intero capitolo della sua monografia ai Dialoghi indagandone trame, fonti e suggestioni. La prima edizione moderna del corpus dialogico tassiano è quella di Guasti, il quale, però, non riuscendo a reperire tutti i manoscritti dei Dialoghi si basa sui testimoni a stampa, dando vita ad un’edizione, che presenta corruttele da far rabbrividire i moderni filologi.  Un grande passo in avanti nella fortuna dei Dialoghi è rappresentato dall’edizione critica di Ezio Raimondi pubblicata nel 1958, di capitale importanza per gli studiosi tassiani i quali, ancora oggi, continuano a considerarla punto di riferimento. Raimondi considerò i Dialoghi tassiani come opere postume, scegliendo la versione più attendibile fra manoscritti e stampe in base alla loro storia individuale.  Questo criterio non è stato accettato da Stefano Prandi e Carlo Ossola, i quali hanno proposto un’edizione storica dei Dialoghi che tenesse conto dei testi effettivamente circolanti all’epoca dello scrittore. L’edizione in realtà non ha mai visto la luce e si è fermata ad uno specimen che avrebbe dovuto anticipare una successiva edizione completa.  Negli ultimi anni gli studiosi della prosa tassiana sono aumentati: si è posta attenzione al Tasso politico, con due edizioni commentate della Risposta di Roma a Plutarco e al Tasso egittologo di cui si è occupato Bruno Basile. Non mancano letture dei singoli dialoghi: Basile e Arnaldo Di Benedetto si sono occupati del Padre di Famiglia (rispettivamente, Fonti culturali e invenzione letteraria nel «Padre di famiglia» di Torquato Tasso; e Torquato Tasso, «Il padre di famiglia»); Emilio Russo del Manso (Amore e elezione nel "Manso" di Tasso), Massimo Rossi del Malpiglio Secondo e del Rangone (Io come filosofo era stato dubbio. La retorica dei "Dialoghi" di Tasso); Maiko Favaro, dopo la monografia di Prandi/Ossola, ha offerto una puntuale lettura del Forno, premiata con il premio Tasso  (Le virtù del tiranno e le passioni dell’eroe. Il “Forno overo de la Nobiltà” e la trattatistica sulla virtù eroica); Angelo Chiarelli si è, invece, occupato del Malpiglio overo de la corte (Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana), preceduto dal contributo di Massimo Lucarelli sullo stesso argomento (Il nuovo «Libro del Cortegiano»: una lettura del «Malpiglio» di C.) e del Costante («Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso).  L'edizione critica di Raimondi fornisce il testo dei venticinque dialoghi tassiani, con un'appendice che ci permette di conoscere i manoscritti superstiti e le stampe. Questo il titolo dei vari dialoghi:  Il Forno overo de la Nobiltà; Il Beltramo overo de la cortesia; Il Forestiero Napoletano overo de la gelosia; Il N. overo de la pietà; Il Nifo overo del piacere; Il messaggiero; Il padre di famiglia; De la dignità; Il Gonzaga secondo overo del giuoco; Dialogo; Il Rangone overo de la pace; Il Malpiglio overo de la corte; Il Malpiglio secondo overo del fuggir la moltitudine; La Cavalletta overo de la poesia toscana; Il Gianluca overo de le maschere; Il Cataneo overo de gli idoli; Il Ghirlinzone overo l'epitaffio; La Molza overo de l'amore; Il Costante overo de la clemenza; Il Cataneo overo de le conclusioni amorose; Il Manso overo de l'amicizia; Il Ficino overo de l'arte; Il Minturno overo de la bellezza; Il Porzio overo de le virtù; Il Conte overo de le imprese. Le sette giornate del mondo creato È un poema in endecasillabi sciolti, accanto ad altre opere di contenuto religioso di impronta chiaramente controriformistica. Il poema venne pubblicato postumo. Si fonda sul racconto biblico della creazione ed è suddiviso in sette parti, corrispondenti come dice il titolo ai sette giorni nei quali Dio creò il mondo, e presenta una continua esaltazione della grandezza divina della quale la realtà terrena è un pallido riflesso.  Le lacrime di Maria Vergine e Le lacrime di Gesù Cristo Si tratta, come nel caso de Le sette giornate del mondo creato, di due scritti facenti parte delle cosiddette "opere devote" del Tasso. Nello specifico, sono due poemetti in ottave che riprendono la tradizione della "poesia delle lacrime", in voga nella seconda metà del Cinquecento, appena qualche anno prima della morte.  Influenze culturali  Statua di Tasso a Sorrento La figura del Tasso, anche per la sua pazzia, divenne subito popolare. La lucidità delle opere scritte durante il periodo di prigionia nell'Ospedale di Sant'Anna fece diffondere la leggenda secondo cui il poeta non era veramente pazzo ma fu fatto passare per tale dal duca Alfonso che voleva punirlo per aver avuto una relazione con sua sorella, imprigionandolo (anche se, come si è visto, è assai più probabile che la vera ragione della reclusione consistesse nell'autoaccusa del poeta di fronte al tribunale dell'Inquisizione). Questa leggenda si diffuse rapidamente e rese particolarmente popolare la figura del Tasso, fino a ispirare a Goethe il dramma C..  In età romantica il poeta divenne il simbolo del conflitto individuo-società, del genio incompreso e perseguitato da tutti coloro che non sono in grado di comprendere il suo talento straordinario. In particolare Giacomo Leopardi, che quando si recò a Roma il giorno venerdì 15 febbraio del 1823 pianse sul sepolcro del Poeta in S. Onofrio (commentando in una lettera che quella esperienza era stata per lui "il primo e l'unico piacere che ho provato in Roma"), considerava Torquato Tasso come un fratello spirituale, ricordandolo in numerosi passi dei propri scritti (tra cui quello citato) e nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (una delle Operette morali).  Molta parte della poesia recanatese è impregnata di stile tassesco: i notturni di alcuni canti, come La sera del dì di festa o Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, richiamano quelli della Gerusalemme, mentre nella canzone Ad Angelo Mai Leopardi crea una forte empatia con il «misero Torquato, spirito fraterno «concepito come un alter ego. I due nomi femminili più celebri presenti nei Canti, Silvia e Nerina, furono ripresi dall'Aminta.  In generale, l'attenzione si spostò dai personaggi della Liberata al dramma esistenziale vissuto dal suo autore. Ferretti scrisse le parole del Torquato Tasso, melodramma in tre atti musicato da Gaetano Donizetti e rappresentato per la prima volta al Teatro Valle. Il "mito" conquistò anche Franz Liszt: era quando l'apostolo del Romanticismo metteva in musica l'opera byroniana Il lamento del Tasso, dando vita al poema sinfonico Tasso. Lamento e Trionfo.  Il poeta vicentino ottocentesco Jacopo Cabianca ha dedicato al Tasso un poema in dodici canti intitolato appunto Il Torquato Tasso.  Nei primi anni del ventesimo secolo il compositore catanese Pietro Moro si concentrò sugli ultimi momenti di vita del poeta con Ultime ore di Torquato Tasso, carme in un atto sulle parole di Giovanni Prati (riviste per l'occasione da Rojobe Fogo).  Torquato Tasso nel cinema Torquato Tasso, regia di Luigi Maggi, Torquato Tasso, regia di Roberto Danesi. Adattamenti cinematografici de La Gerusalemme liberata Il primo regista a girare un film sull'opera fu Enrico Guazzoni. Ne farà due remake;  Gerusalemme liberata, di Enrico Guazzoni; La Gerusalemme liberata, di E. Guazzoni); La Gerusalemme liberata, di Carlo Ludovico Bragaglia; I due crociati, parodia di Giuseppe Orlandini con Franco e Ciccio. Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus, Laurea poetica nastrino per uniforme ordinariaLaurea poetica (postuma) — Roma. Giovan Pietro D'Alessandro, Vita di Torquato Tasso, ed. da C. Gigante, in «Giornale storico della Letteratura Italiana», Giovan Battista Manso, Vita di Torquato Tasso, B. Basile, Roma, Salerno Editrice, Pier Antonio Serassi, La vita di Torquato Tasso, Bergamo, Stamp. Locatelli, 2 to. Solerti, Vita di C., Torino-Roma, Loescher, Tonelli, C., Torino, Paravia, Giulio Natali, Torquato Tasso, Roma, Tariffi, Capitoli di storie letterarie Ettore Bonora, in Storia della letteratura italiana, dir. E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, Garzanti, Marziano Guglielminetti, in Storia della civiltà letteraria italiana, dir. G. 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Dal petrarchismo a Torquato Tasso, Firenze, Società Editrice Fiorentina, Massimo Colella, «Parmi ne’ sogni di veder Diana». Emersioni seleniche nelle Rime di Torquato Tasso, in «Griseldaonline», 1Sull'«Aminta» Mario Fubini, L'«Aminta»: intermezzo alla tragedia della «Liberata», in Studi sulla letteratura del Rinascimento, Accorsi, «Aminta»: ritorno a Saturno, Soveria Mannelli, Rubbettino, Arnaldo Di Benedetto, Il sorriso dell'«Aminta», in «Giornale storico della letteratura italiana», Arnaldo Di Benedetto, Tasso, Haller, Ungaretti, in «Studi tassiani», Sui Dialoghi A. Benedetto, Torquato Tasso, «Il padre di famiglia», in L'«incipit» e la tradizione letteraria italiana. Dal Trecento al tardo Cinquecento, Pasquale Guaragnella e Stefania De Toma, Lecce-Brescia, Pensa MultiMedia, Chiarelli, «Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso, in «Filologia e Critica», Angelo Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura italiana»,  Raimondi Ezio, Il Problema Filologico e Letterario dei Dialoghi di T. Tasso, in Rinascimento Inquieto, Einaudi, Torino. Bozzola Sergio, «Questo quasi arringo del ragionare». La Tecnica dei «Dialoghi» Tassiani, in «Italianistica, Rivista di Letteratura Italiana», Baldassarri Guido, L’arte del dialogo in Torquato Tasso, in «Studi Tassiani»,  Guido Armellini e Adriano Colombo, Torquato TassoL'uomo, in Letteratura italianaGuida storica: Dal Duecento al Cinquecento, Zanichelli Editore, Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palumbo, L. Tonelli, C., Torino); Lettere di Torquato Tasso (Firenze, Le Monnier); L. Tonelli, G. Natali, Torquato Tasso, Roma, G. Natali, cA. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino. Altri pensano invece che queste sperimentazioni risalgano al periodo patavino o addirittura a quello bolognese.  G. Natali, cit.,   Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palumbo, G. Natali, cG. Natali, Tonelli, cit.68  G. Natali,  L. Tonelli, Durante, A. Martellotti, «Giovinetta Peregrina». La vera storia di Laura Peperara e Torquato Tasso, Firenze, Olschki,   W. Moretti, C., Roma-Bari Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Milano: Paravia,  L. Tonelli, cil rapporto amoroso è stato ipotizzato in particolare da Angelo de Gubernatis in T. Tasso, Roma, Tipografia popolare, L. Tonelli, c Lettere, cit., I22  L. Tonelli, cit.89  L. Tonelli, Lettere, cit., I49  Secondo Doglio la data non è casuale e si inserirebbe nella tradizione petrarchesca. Petrarca avrebbe infatti visto per l'unica volta Laura, cfr. Doglio, Origini e icone del mito di C., Roma Lettere, c Lettere,  Lettere, Si tratta di un'epistola al Gonzaga; Lettere, cit.,  L. Tonelli S. Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario, Milano, Principato, L. Tonelli, Lettere,  Si trattava comunque di uno stipendio oggettivamente basso, che a una persona comune avrebbe garantito a stento la sopravvivenza; L. Tonelli, cit.172  Lettere, L. Chiappini, Gli Estensi, Milano, Dall'Oglio, A. Solerti, cA. Solerti, cit., II,  120-121  A. Solerti, L. Tonelli, cit. G. B. Manso, Vita del Tasso, in Opere del Tasso, Firenze, M. Vattasso, Di un gruppo sconosciuto di preziosi codici tasseschi, Torino, M. Vattasso, cA. Solerti, L. Tonelli, c M. L. Doglio, I. De Bernardi, F. Lanza, G. Barbero, Letteratura Italiana,  2, SEI, Torino, Lettere, cit., I298  Lettere, cit., I299  A. Solerti, ccosì scrive al cardinale Luigi un suo informatore L. Tonelli, Lettere, Tonelli, Solerti,  Lettere, Guasti, Napoli, Rondinella,  A. Corradi, Delle infermità di Torquato Tasso, Regio Instituto Lombardo, Tonelli, M. L. Doglio, cit.,  41 e ss.  Opere di Torquato Tasso, Firenze, Tartini e Franchi, L. Tonelli, cInfarinato era il nome accademico assunto dal Salviati  Tra parentesi sono indicate le date di pubblicazione  L. Tonelli, Opere, cit., Tra parentesi si indicano due date, quella di composizione e quella di pubblicazione  Lettere.  La prima versione di quelli che saranno Gli intrichi d'amore non ci è pervenuta  L. Tonelli, L. Tonelli, Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, Non fu più tenero il Solerti; L. Chiappini, c L. Tonelli, cit.  L.Tonelli,  Solerti, cLettere, L. Tonelli, cit.,  266-267  Lettere, c L. Tonelli, Mazzoni, Del Monte Oliveto e del Mondo creato di C., in Opere minori in versi di Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli,  E. Donadoni, C., Firenze, Battistelli,  G. B. Manso, Vita di T. Tasso, in Opere di C., Firenze; Lettere, Così al Costantini; Lettere,   Lettere,  L. Tonelli, Passo riportato in A. Solerti, A. Solerti,   L. Tonelli, Lettere,  Lettere, cit.,Lettere, cit., Lettere, A niuno sono più obligato che a Vostra Eccellenza, ed a niuno vorrei essere maggiormente; perché è cosa da animo grato l'esser capace de le grazie e de gli oblighi. Laonde non ho voluto più lungamente ricusare il secondo suo dono di cento scudi, bench'io non abbia mostrato ancora alcuna gratitudine del primo; ma la conservo ne l'animo, e ne le scritture: e ne l'uno sarà forse eterna, e ne l'altre durerà tanto, quanto la memoria de le mie fatiche. Niuno de' presenti o de' posteri saprà chi mi sia, che non sappia insieme quant'io sia debitore a la cortesia di Vostra Eccellenza, ed a la sua liberalità; con la quale supera tutti coloro che possono superar la fortuna." Così scrive il Tasso al marchese Giovanni Ventimiglia da Firenze. Soltanto C. dedica al marchese due composizioni encomiastiche, non portando però a compimento il promessogli poema Tancredi normando.  Lettera a Scipione Gonzaga, Lettere. E. Rossi, Il Tasso in Campidoglio, in Cultura, Lettere, cit., V6  L. Tonelli, cit.278  Lettere, cit., V62  L. Tonelli, Cipolla, Le fonti storiche della «Genealogia di Casa Gonzaga», in Opere minori in versi di Torquato Tasso, cit.,  I  L. Tonelli, G. B. Manso, L.Tonelli, L. Tonelli, E. Rossi, c A. Solerti, Lettere, cit., Lettere, cLettera ad Antonio Costantini, in Lettere, Lettera di Maurizio Cataneo a Ercole Tasso; A. Solerti, cit., II363  Lettera di monsignor Quarenghi a Giovan Battista Strozzi, A. Solerti, cAlmanach du gotha, de J.-H. de Randeck, Les plus anciennes familles du monde: répertoire encyclopédique des 1.400 plus anciennes familles du monde, encore existantes, originaires d'Europe,   de Karl Hopf, Historisch-genealogischer Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de A. M. H. J. 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Angelo Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura italiana». Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso, in «Filologia e Critica», Sul muro esterno della Chiesa di S. Onofrio, a Roma, una tavola con iscrizione tedesca ricorda il soggiorno di Goethe e l'ispirazione che lo portò a scrivere il dramma, dopo aver veduto la tomba del poeta custodita all'interno dell'edificio sacro  Ad Angelo Mai, v. 124  Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al testo, Milano, Paravia, Failla, Ante Musicam Musica. C. nell'Ottocento musicale italiano, Acireale-Roma, Bonanno, Emersioni seleniche nelle Rime di C. Colella | Griselda Online, su griseldaonline. 2Torquato Tasso, commedia goldoniana Tasso, dramma di Goethe, Torquato Tasso, opera di Gaetano Donizetti Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, dalle Operette morali di Giacomo Leopardi Thurn und Taxis, ramo austriaco della famiglia Tasso di Bergamo, fondatori delle prime poste europee Museo tassiano, museo dedicato a Torquato Tasso Accademia dei Catenati Cella del Tasso, attuale ubicazione a Ferrara. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Torquato Tasso, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Torquato Tasso, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  To Tasso, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Torquato Tasso, su Liber Liber.  Opere di C., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Torquato Tasso,. Opere Progetto Gutenberg. Libri Vox. C., in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Spartiti o libretti di Torquato Tasso, su International Music Score Library Project, Project Petrucci Tasso, su Internet Movie Database, IMDb.com.  Torquato Tasso Testi completi e cronologia delle opere. Opere integrali in più volumi dalla collana digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza Opere di C., testi con concordanze, lista delle parole e lista di frequenza Due segregazioni: il Cantico spirituale di Giovanni della Croce e Il Re Torrismondo di C., su midesa). Opere di C. colle controversie sulla Gerusalemme poste in migliore ordine, ricorrette sull'edizione fiorentina, ed. illustrate dal professore Gio. Rosini, Pisa, presso Niccolò Capurro, Le lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di tempo e illustrate da Cesare Giusti, 5 voll., Firenze, Felice Le Monnier, I dialoghi, Cesare Guasti, Firenze, Felice Le Monnier, Le rime di Torquato Tasso. Edizione critica su i manoscritti e le antiche stampe Angelo Solerti, Bologna, presso Romagnoli-Dall'Acqua, Opere di C..  DELL'ARTE DEL DIALOGO. Voi mi pregate, pad* molto reverendo, nelle vostre lettere, eh' io voglia darvi alcuno ammaestramento: e i chiedete, se non m'inganno,  dello scrivere i dialoghi, perchè son quelle medesime nelle quali m'avvisate d' aver ricevuti quelli della poesia toscana e della pace. E se  propriamente ragionale, io non posso compiacervi, perchè tanto a me  disdioevol sarebbe la persona di maestro, quanto a voi quella di scolare: né rifiutandola io temo di poterne esser biasimato, come Giotto, perch'agli ricusò convenevole onore: io non accetto ufficio non conveniente. Bla se volete onorarmi con questo nome, e ammaestramento  chiamate l' opinione» io la scriverò; perchè niuna cosa debbo tenervi celata, la qual possa giovar agli altri, oppure a me stesso'; ed allora stimerò buone le mie ragioni» che dal vostro giudicjo saran confermate.  E se -delle regola avviene quel che delie leggi : siccome altre leggi hanno  i Genovesi diverse da quelle oV Veneziani o de/ Ragusei, oasi potrebbero avere altri precetti nell'artificio del bene scrivere» Ma io non gli  voglio dar questo nome, nò voi gliele scrivete in fronte ; perciocché io  l'ho raccolte in un'operetta assai breve per assomigliar alcuni dottori  cortigiani, i quali' non potendo sostener persona così grave, vestono di  corto. E a' in questo abito potranno sensa fastidio esser lette dagli amid  ' e da parenti, non v' incresca di leggere.Nell'imitazione o s'imitano l' azioni degli uomini o i ragionamenti:  e quantunque poche operazioni si facciano alla mutola, e pochi discorsi  senza operazione, almeno dell' intelletto, nondimeno assai diverse giudico quelle da questi : e degli speculativi è proprio il discorrere, siccome degli attivi l'operare. Due sàran dunque i primi generi dell'imitazione: l'un dell'azione, nel quale son rassomigliati gli operanti:  l' altro delle parole, nel quale sono introdotti i ragionanti. E. 1 primo  genere si divide in altri, che sono la tragedia e la commedia, ciascuna  delle quali patisce alcune divisioni: e '1 secondo si può divider parimente. Ed Aristide un de' più famosi Greci, i quali scrissero e non  parlarono, così parve che gli dividesse, dicendo che Platone avea comicamente rappresentato Ippia, Prodico, Protagora, Gorgia, Eutedemo,  Bonisidoro, Agatone, Cinesia e gli altri: e ch'egli medesimo chiama le  sue leggi tragedia, e si confessa ottimo tragico. Ma tra' moderni v*è  chi gli divide altramente, facendone tre specie: l'una delle quali può  montare in palco, e si può nominare rappresentativa, perciocché in essa   vi siano persone introdotte a ragionare cioè in alto, com' è usanza   di farsi nelle commedie e nelle tragedie: e simil maniera è tenuta da  Platone nei suoi Ragionamenti, e da Luciano ne' suoi; ma un'altra ce  n' è, che non può montare in palco, perciocché conservando1' autore  la" sua persona, come isterico narra quel che disse il tale e '1 cotale:  e questi due ragionamenti si possono domandare istorici o narrativi, e  tali sono per- lo più quelli di Cicerone. E c'è ancora la terza maniera  ed è di quelli, che son mescolati della prima e della seconda maniera,  conservando l'autore la sua prima persona, e narrando come istorio):  e poi introducendo a favellar tyafiarix&s come s'usa <fi far nelle tragedie e nelle commedie: e può e non montare in palco, cioè non può  montarvi, in quanto l' autore conserva la sua persona ed è come 1* istorico: e può montarvi in quanto s'introducono le persone rappresentativamente a favellare: e Cicerone fece alcuni ragionamenti sì fatti. E  quantunque questa- divisione sia tolta dagli antichi e paia diversa dall' altra, nondimeno l'intenzione forse è l'istessa; perchè la tragedia si  divide in quella che si dice tragedia propriamente, e nell'altra nella  qual parla il poeta: e tragedia sì fatta compose Omero. E questa divistone perchè è fatta in due membri, è più perfetta; nondimeno i àiaIoghi sono stati detti tragici e comici per similitudine, perchè le tragedie e le commedie propriamente sono l'imitazione dell'azione; però  tragici si posson chiamar sopra tutti gli altri il Critone e 1 Fedone: Dell' un de' quali Socrate condannato alla morte, ricusa di fuggirsene  con gli amici: nell'altro dopo lunga deputazione dell' immortalità dell'anima bee il veleno. E comico è il convito nel quale Aristofane è  impedito dal rutto nel favellare; ed Alcibiade ubriaco si mescola fra i  convitati. Ma il Menesseno par misto di queste due specie: perciocché  Socrate battuto dalla maestra Aspasia è persona comica; ma lodando  i morti ateniesi innalza il dialogo all' altezza della tragedia. Pur questi  medesimi dialoghi non son vere tragedie, ovvero commedie; perchè  nell' une e nelT altre le quistioai e i ragionamenti son descritti per  l'azione; ma ne' dialoghi l'azione è quasi giunta de' ragionamenti : e  8' altri la rimovesse, il dialogo non perderebbe la sua l'orma. Dunque  in lui queste differenze sono accidentali piuttosto che • altramente ; ma  le proprie si terranno dal ragionamento jslesso e da' problemi in lui  contenuti, cioè dalle cose ragionate, non sol dal modo di ragionare.  Per eh' i ragionamenti sono o di cose che appartengono alla contemplazione, oppur di quelle che son convenevoli all' azione e negli uni sono  i problemi intenti all' elezione e alla fuga, negli altri quelli che riguardano la scienza, e là verità; laonde alcuni dialoghi debbono esser detti  civili e costumati,, altri speculativi. E '1 soggetto degli uni e degli altri;  o sarà la quistione infinita, come se la virtù si possa insegnare; o la  finita che debba far Socrate condannato alla morte. E perciocché gran  parte de' platonici dialoghi sono speculativi e quasi in tutti la quistione  è infinita, non pare che lor si convenga la scena in modo alcuno, né  meno agli altri che son de' costumi, perchè son pieni d' altissime speculazioni. Anzi piuttosto non si conviene ad alcun dialogo, se non forse  per rispetto dell'elocuzione, la quale alcuna volta pare istrionica, siccome disse il Falereo, awengachè nella scena si rappresenti l'azione o  atto dal quale son denominate le favole e le rappresentazioni dramma-*  tiche. Ma nel dialogo principalmente s' imita il ^ragionamento il qual  non ha bisogno di palco: e quantunque vi fosse recitato qualche dialogo di Platone, l'usanza fu ritrovata dopo lui senza necessità. Perchè  se in alcuni luoghi l'elocuzione pare accomodata all'istrione, come nell'Eridemo, può leggersi dallo scrittore medesimo, ed aiutarsi colla pronuncia.  Né egli conviene ancora il verso, come hanno detto, mala prosa ; perciocché  la prosa è parlar conveniente allo speculativo e all' uomo civile, il qual ragioni degli uffici e delle virtù. E i sillogismi, e l'induzioni, e gli entimemi  e gli esempi non potrebbono esser convenevolmente fatti in versi. E se  leggiamo alcun dialogo in versi, come è l'amicizia bandita di Ciro  predentissimo, non stimeremo lodevole per questa cagione, ma per al*  tra: e diremo, che il dialogo- sia imitazione di ragionamento scritto in  prosa senza rappresentazione per giovamento degli uomini civili e speculativi : e ne porremo due specie, 1' una contemplativa, e Y altra costumata : e 1 soggetto nella prima specie sarà la quistione infinita o  la finita : e quale è la invola nel poema, tale è nel dialogo la quistione : e dico la sua forma, e quasi Y anima. Però se una è la  favola, uno dovrebbe essere il soggetto, del quale si propongono i  problemi. E nel dialogo sono oltre di ciò T altre parti, cioè la  sentenza^ e '1 costume,* e Y elocuzione ; ma trattiamo prima della  prima. Dico adunque, che la quistione si forma della dimanda e  della risposta; e perchè 1 dimandare s'appartiene particolarmente al  dialettico, par, che lo scrivere il dialogo sia impresa di lui : ma '1 dialettico non dee richieder più cose d' uno, oppur una cosa di molti ;  perchè se altri rispondesse non sarebbe una V affermitene o la negazione: e non chiamo una cosa quella, ch'ha un nome solo se  non si fa una cosa di quelle: come l'uomo è animai con dne  piedi e mansueto : ma di tutte questo si fa una sola cosa ; ma dell' esser bianco e dell'essere uomo e del camminare, come dice Aristotile, non se ne fa uno; però s' alcuno affermasse qualche cosa,  non sarebbe, una affermazione ; ma una voce, e molte l' affermazioni. Se dunque l'interrogazione dialettica ò una dimanda della risposta, ovvero della proposizione, ovvero dell'altra parto della contradizione: e la proposizione è una parte della contradizione, a queste cose non sarà una risposta, né una dimanda. Ma se al dimostrativo  non s' appartiene il dimandare, a lui non converrà di scriver dialogo. E par, che Aristotile assai chiaramente faccia questa differenza  nel primo delle prime risoluzioni fra la proposizkm dimostrativa e la  dialettica, dicendo, che la dimostrativa prende l'altra parte della  contradizione; perciocché 'colui, il qual dimostra, non dimanda, ma  piglia ; ma la dialettica è dimanda della contradlzione. Nondimeno  nel primo delle posteriori egli dice, che s' è il medesimo l' interrogazione sillogistica e la proposizione : e le proposizioni si fanno in ciascuna scienza, ancora si posson fare le dimando. Laonde io raccolgo,  che si posson fare i dialoghi nell'aritmetica, nella geometria, nella  musica e nell' astronomia e nella morale e nella naturale e netta  divina filosofia, e in tutte F arti e in tutte le scienze si posson fu  le richieste e conseguentemente i dialoghi. E se oggi fossero in looe dell'arte del dialogo i dialoghi scritti da Aristotile, non ce ne sarebbe perawentura dubbio  alcuno. Ma leggendo quei di Platone, i quali son pieni di proposizioni appartenenti a tutte le scienze, potremo chiaramente conoscere  lMstcsso. Nondimeno siccome il dimandare è proprio al dialettico, così a lui si conviene il dialogo più; che a tutti gl’altri. Laonde  Aristotele nel capitolo seguente pare, che faccia differenza fra le matematiche e ì dialoghi, dicendo, che se fosse impossibile mostrar dal  falso il vero,  sarebbe facile il risolvere, perchè, si convertirebbono  di necessità. Ma si convertono più quelle, che son nelle matematiche, perchè non ricevono alcuno accidente, e in ciò son differenti  da quelle, che son ne’ dialoghi. E dialoghi chiama i parlari dialettici, i quali son composti della dimanda e della risposta. Al dialetttico dunque converrà principalmente di scrivere il dialogo, o a colui, che vuol rassomigliarsi. E'1 dialogo sarà imitazione d' una disputa dialettica. Va perchè quattro sono i generi delle dispute, il  dottrinale, il dialettico, il tentativo e il contenzioso, l'altre dispute  ancora si possono imitare ne' dialoghi. E forse in quelli d'Aristotele  sono tutte IV. Ma in quelli di Platone si troverebbono similmente, perchè Socrate per via d' ammaestramento e d'esortazione  parla con Alcibiade, con Fedro e con Fedone, e come dialettico  disputa con Zenone, e con Parmenide;. e come tale riprova Ippia,  GORGIA, Trasimaco e gli altri sofisti e talora gli tenta. Ma i sofisti  son contenutosi, e vaghi di gloria, come appare nell' Eutiemo, detto  altramente il Litigioso. Nondimeno questi IV generi non sono così partitamente distinti dagl’interpreti di Platone i quali pongono  tre mdftUre di dialoghi; l'una, nella quale Socrate esorta i giovanetti; nell’altra riprova i sofisti; la terza è mescolata dell' una e  dell' altra, la qual senza dubbio è più soave per la mescolanza. Ma  chi volesse scriver dialoghi secondo la dottrina ó? Aristotele e arricchir di questo ornamento le scuole peripatetiche, potrebbe scriverli  in tutte IV le maniere. Ma principalmente son lodevoli le due  prime: la dottrinale e la dialettica, l'artificio della quale consiste  principalmente nella dimanda usata con mollo artificio di Socrate  ne’ libri di Platone, come appare nel primo dialogo nel quale Socrate  richiede ad Ipparco quel, che sia la cupidigia del guadagno; e in tutti  gli altri simiglianlt, non eccettuando quelli, ne’ quali sotto la persona di forestiero ateniese dà le nuove leggi d’una città: e 'n quelli  di Senofonte ancora con arte molto simile Socrate chiede a Critobulo  se l'economia è nome di scienza, come la medicina e l'architettura.  E nel Tirreno Simonide a Jerone, che differenza aia fra la vita reale e la privata: e dalla risposta, eh' è fatta, prendono occasione d'insegnare. Ma da questo artificio si dipartì M. Tullio, Il quale nelle  partizioni oratorie pone la dimanda in bocca, non di quel, eh' insegna,  ma di colui, ch'impara. Ed. egli medesimo ci dimostra la diversità  fra i ROMANI in quelle parole di CICERONE: figlinolo, tuo)  dunque eh' io ti dimandi scambievolmente IN LINGUA LATINA di quelle  cose medesime, delle quali tu mi suoli addomandare nella Greca ordinatamente? Laonde pare, che la dimanda, fatta dal discepolo, 6ia  derivata da CICERONE, e l' artificio sia proprio de’ROMANI, il quale  s’usò dal Possevino e da altri nella dottrina peripatetica, perchè forse  è più facile. Ma è non così lodevole, né fu, eh' io mi ricordi, usata dagl’antichi. E per questa ragione M. Tullio nelle Quistioni Tuscalane più s' avvicina all' arte de’ Greci ; perciocch' egli comandava,  che alcun de' suoi famigliari ponesse quello, che gli pareva, ed egli  contraddiceva alla conclusione in questo modo. Auditore. La morte  mi pare esser male. M. A quelli che son morti o a quelli eh' han da  morire P La quale è vecchia e Socratica ragione di disputar contra  l' altrui opinione. Tuttavolta il por la conclusione ha dello scolastico: e però dice d'aver poste ne' V libri le scuole de' V giorni. Tanto potè l' amor della filosofia in un vecchio senator romano, padre della patria, il qual quistiona secondo il costume de' Greci  forse per ingannar se stesso in questo modo e consolarsi nella servitù. Ma non si dimenticò ne’ libri dell' oratore di quel, eh' era convenevole a' romani Senatori; laonde CRASSO e MARC’ANTONIO in altra maniera  introduce a favellare. Ma fra tutti i dialoghi Greci, lodevorrssimi sono  que' di Platone; perciocché superano gl’altri d'arte, di SOTTILITÀ, d'acume,  e d'eleganza e di varietà di concetti e d'ornamento di parole. E pel secando luogo son quei di Senofonte; e quei di LUCIANO nel terso. Ma CICERONE è  primo fra' LATINI, il quale volle forse assomigliarsi a Platone: nondimeno nelle quistioni, e nelle dispute alcuna volta è più simile agli oratori, che a' dialettici. Ma nel secondo luogo non so che se gli avvicini, o chi possa paragonare a' Greci. E NELLA NOSTRA LINGUA coloro, che  hanno scritto dialoghi, per la maggior parte hanno seguita la maniera meno artificiosa, nella quale dimanda quegli, che vuole imparare, non quel, che riprova. E se alcuno s'è dipartito da questo modo  di scrivere, merita lode maggiore: e tanto basti della prima parie, che è la quistione. Ma perchè il dialogo è imitazione del ragionamento, e il dialogo dialettico imitazione della disputa, è necessario, che i ragionanti e i disputanti abbiano qualche opinione delle cose disputate, e qualche costume, il qual si manifesta  alcuna volta nel disputare. Da quelli derivano l'altre due parti nel  dialogo, io dico la sentenza, e il costume: e lo scrittore del dialogo  deve imitarlo non altramente, che faccia il poeta ; perchè egli è quasi  mezzo fra il poeta e ri dialettico. E niun meglio l'imita, e meglio  l'espresse di Platone, che, descrive nella persona di Socrate il costume d'un uomo dabbene, che ammaestra la gioventù, e risveglia gli  ingegni taidl e raffrena i precipitosi, e richiama gli erranti, e riprova  la falsità de' sofisti, e confonde l'insolenza e la vanità, amator del  giusto e del vero, magnanimo, non che. mansueto nel tollerar l'ingiurie, intrepido nella guerra, costante nella morte. Ma in quella d'Ippia, e di GORGIA DI LEONZIO, e d'Eutidemo, e degl’altri sì fatti si descrivono gl’avari, e ambiziosi, e amatori di gloria, i quali non hanno vera scienza  d'alcuna cosa, ma parlano per opinione. In quella di Menoue e di  Grifone descrive il buon padre e il buon amico, e in quella d'Alcibiade, di Fedro, e di Carmide i costumi de' nobili son descritti maravigliosamente. Oltra queste parti del dialogo ci sono le digressioni, come nel poema gli episodj : e tale è quella d' Eaco, e di  Minos, e di Radamanto nel GORGIA, e quella di Teutdemone degl’Egizi nel Fedro, d'Ero Panfilio ne' dialoghi della Repubblica. Ma perchè abbastanza s'è ragionato del soggetto del dialogo, e della sentenza,  e de' costumi di coloro, che sono introdotti a favellare; resta, che  parliamo dell'ultima parte, la quale è l'elocuzione: e se crediamo  ad Artemone, che ricopiò l'epistole d'Aristotele, bisogna scriver col  medesimo stilo il dialogo e l'epìstola, perchè il dialogo è quasi una  sua parte. Ma Demetrio Falereo dice, che il dialogo è imitazione del  ragionare all'improvviso. Ma l'epistola si scrive, e si manda in dono  in qualche modo. Però dee esser fatta e polita con maggiore studio. Tultavolta nò Platone, ne M. Tullio pare, che sempre avessero questa considerazione. Perchè ne' dialoghi l'elocuzione dell'uno e dell'altro non è meno ornata, che quella dell'epistole: e in tutti gli altr’ornamenti i dialoghi paiono superiori. E ciò non par fatto senza molta  ragione. Conciossiacosaché i dialoghi di Platone e di M. Tullio sono imitazione de' migliori, e nell'imitazioni sì fatte, le persone e le cose imitate debbono piuttosto accrescere che diminuire, come ci insegna Demetrio medesimo, il qual vuole, che la magnificenza sia nelle cose, se  il parlare è del cielo o della terra. Oltre di ciò laddov/egli parla od  periodo ne fa tre generi : il primo isterico, il secondo dialogico» il teno oratorio: e vuole, che ristorico sia nel meno dell'uno e dell'altro,  non molto ritondo, né molto rimesso: ma la forma dell'oratorio sia  contorta e circolare: e quella del dialogico più semplice dell'istoria)  in guisa che appena dimostri d' esser periodo. I quali ammaestramenti  sono stati meglio osservati da' Greci, che, da M. Tullio, che imitò Platone solamente; perchè egli così nel periodo, come in tiascun'-altra  parte, ricercò la grandezza più dr Senofonte e degli altri. Laonde usa  le metafore pericolosamente in luogo delle Immagini, che sono osate da  Senofonte: e somiglia colui, 11 quale cammina in luogo, dove è pericolo di Bdrucciolare, compiacendo a se medesimo, e avendo molto ardire, siccome è proprio delle nature sublimi ; talché fu detto di lai,  ch'egli molto s'innalzava sovra il parlar pedestre: e che il suo parlare non era in tutto, simile al verso, né in tutto simile alla prosa : e  ch'egli usava l'ingegno non altramente, che i re facciano la podestà:  e insomma niun ornamento di parole, niun color rettorico, ninn lume  d'orazione par, che sia rifiutato da Platone. Ma s’in alcuna parte del  dialogo dobbiamo aver risguardo agli avvertimenti di Demetrio, è in  quella, nella qual si disputa, perchè in lei si conviene la purità, e la  simplicità dell'elocuzione, e '1 soverchio ornamento par che impedisca  gli argomenti, e che rintuzzi, per così dire, l'acume, e la sottilità. Ma l' altre parti debbono essere ornate con maggior diligenza : e dovendo  lo scrittore del dialogo assomigliare i poeti nell'espressione, e nel per  le cose innanzi agli occhi, Platone meglio di ciascuno ce le fa quasi  vedere, il qual nel Protagora parlando d'Ippocrate, che s' era arrossito,  essendo ancora di notte, soggiunge: Già appariva la luce, onde il color  pareva esser veduto e la chiarezza, die evidenza è chiamata dai Latini, nasce dalla cura usata nel parlare, essersi ricordato, che Ippo-  crate era da lui veduto di notte. E nel medesimo dialogo leggiamo  con maraviglioso diletto, che l'eunuco portinaio, perchè i sofisti gli erano  venuti a noia, serra con ambe le mani la porta a Socrate e al com-  pagno : e appena l' apre, udendo, che non erano di loro. E ci piace il  passeggiar di Protagora e degli altri, che passeggiando con tanto or-  dine ascoltavano il ragionare : e ci par vedere lppia seder nel trono, e  Prodico giacere avviluppato. E con piacer incredibile leggiamo simil-  mente che due giovanetti appoggiati sovra il gomito descrivessero ccr-3!i, e altre inclinazioni della sfera : e che Socrate pur col gomito, di-  mandasse, di chi ragionavano. Né con minor espressione ci pone in-  nanzi agli occhi Garmide e gli amici : e quasi veggiamo gli estremi,  che sedevano da questa parte e da quella, l'uno cadere e l'altro es-  ser costretto a levarsi. Ma sopra tutte le cose c'empie di compassione  e di maraviglia il venir di Garmide alla prigione innanzi al giorno, e  l'aspettar, che si destasse Socrate, condannato alla morte: e poi, che  il medesimo raccolga la gamba, la quale era stata legata, e grattandosi discorra del dolore e del piacere, l'estremità de' quali son con-  giunte insieme : e distendendosi, e postosi a sedere sovra la lettiera dia  principio a maggiore e più alta contemplazione. E nel medesimo dialogo  tempera il dolore, quando scherza colle belle chiome di Fedone, le quali  dovevano il giorno tagliarsi : e nella descrizione parimente è maravi-  glioso. E se leggiamo i ragionamenti di Socrate sotto il platano, e quelli  del forestiero ateniese all'ombra degli alberi frondosi, mentre col La-  cedemonio e col Gandiano vanno all'antro di Giove, ci par di vedere,  e ascoltare quello, che leggiamo. Queste son le perfezioni di Platone,  veramente maravigliose: le quali, sebben saranno considerate, non ci  rimarrà dubbio alcuno, che lo scrittore del dialogo non sia imitatore,  o quasi mezzo fra il poeta e il dialettico. Àbbiam dunque, che IL DIALOGO sia imitazione di ragionamento, fatto in prosa per giovamento de-  gli uomini civili e speculativi, per la qual cagione egli non ha bisogno  di scena o di palco : e che due sian le specie, l' una nel soggetto della  quale sono i problemi, che risguardano l'elezione e la fuga: l'altra  speculativa, la qual prende per subietto quistione, jche appartiene alla  verità e alla scienza; e nell'una e nell'altra non imita splamente la  disputa, ma il costume di coloro, che disputano, con elocuzioni in alcune parti piene di ornamento, in altre di purità, come par, che si convenga alla materia. Tasso. Tasso. Cornello. Keywords: l’arte del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tasso”, “Grice e Cornello” – The Swimming-Pool Library. Cornello.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cornificio:  la ragoone conversazionae e la vera etimologia -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Autore di un’opera etimologica in tre libri, composta fra il tempo di Cicerone e Ottaviano. Das Werk des C. Longus de etymis deorum. a) Prise. GLK, C. in 1 de etymis deorum. Macr. C. etymorum libro tertio. Cornificius in etymis: vgl. noch wo Anschlufs an die stoische Philosophie (vgl. W. A. Baehrens, Hermes; K. Reinhardt, Kosmos und Sympathie, München); Arnob., Festus, M. bemerkt bezüglich der Etymologie von Minerva: C. vero, quod fingatur pingaturque minitans armis, eandem dictam putat. (nare); (nuptiae); (oscillare); (Rediculus; s. Ed. Meyer, Herm.  (lalassus). Der bloße Name Cornificius ohne Glosse erscheint. Das diese Glossen aus dem Werk „de etymis deorum" geflossen sind, vermuten R. Merkel.  Ovids Fasten, Berlin.; Th. Bergk, Kl. phil. Schr. Willers, De Verrio Flacco glossarum interprete disput. crit., Halle. C. hat dann auch andere als Götteretymologien behandelt, vermutlich wenn er von Kultusgebräuchen und Kultus-einrichtungen sprach. Wahrscheinlich dürfen wir den gleichen Schriftsteller finden auch in dem C. Longus bei Serv. Aen., wo es sich ebenfalls um Etymologien handelt: invenitur tamen apud C. Longum lapydem et Icadium profectos a Creta in diversas regiones venisse, lapydem ad Italiam, Icadium vero duce delphino ad montem Parnasum et a duce Delphos cognominasse et in memoriam gentis, ex qua profectus erat, subiacentes campos Crisaeos vel Cretaeos appellasse et aras constituisse.  Dieser kann dann aber nicht  identisch sein mit dem Dichter und Feldherrn C.  (Bergk.), der nie den Beinamen Longus trug, den außerdem die Zeitverhältnisse unmöglich machen. Denn der Verfasser der etymo'ogischen Schrift zitiert nach Macr.das Werk Ciceros de natura deorum, das im J. 44 erschien, so das sie in den folgenden drei Jahren von dem stark beschäftigten Statthalter Afrikas hätte geschrieben sein müssen. Benutzt hat dann Verrius die Abhandlung 'de etymis deorum'. — J. Becker, C.Longus und C. Gallus, Ztschr. für die Altertumsw. Wissowa, Realenz.; Funaioli 473. A stoic wrote a book on etymology. Cornificio Lungo. Cornificio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cornuto: la ragione conversazionale a Roma antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A slave in Rome, he became one of the city’s leading intellectuals. A member of the porch. The name Anneo points to a connection of some kind with the family of Seneca. He taught rhetoric and philosophy, his pupils including Agathino, Petronio Aristocrate, Lucano, and Persio. In his will, Persio left C. his books, which he accepted, and his money, which he rejected. He was sent into exile by Nerone. He wrote an influential commentary on Aristotle’s Categories. He argues that the categories reflect divisions within language, rather than within reality. In a different essay, the Epidrome, he surveys the myths and by means of linguistic analysis and allegorical interpretation he seeks to extract what he considers to be their true meaning. Lucio Anneo Cornuto Cornuto. Cornuto.

 

Luigi Speranza -- Grice e Corrado: la ragione conversazionale e  la dieta di Crotone e la semiotica magica– scuola d’Oria – filosofia brindisese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Oria). Filosofo brindisese. Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Oria, Brindisi, Puglia. Grice: “I like Corrado; of course we have the beefsteak, the English do; but Corrado philosophised on the near ‘cibo pitagorico’ a Crotone and produced a philosophical cookbook for the noblemen!” --  Uomo di grande cultura, fu soprattutto grande gastronomo e uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il '700 e l'800 nelle corti nobiliari di Napoli, simbolo del suo tempo nella variegata realtà partenopea. E il primo cuoco che mette per iscritto la "cucina mediterranea", il primo, a valorizzare la grande cucina regionale italiana.  Scrisse “Il cuoco galante”, definito all'epoca un libro di alta cucina, testo richiesto in tutto il mondo dalle principali autorità dell'epoca, e ristampato per ordini del principe per ben 6 volte.  Preparava elegantissimi banchetti in principio alla corte di Don Michele Imperiali Principe di Francavilla presso il palazzo Cellamare di Napoli, dove coordinava un piccolo esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi e preparava i pranzi o le cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia sontuosa e raffinata.  Figlio di Domenico e di Maddalena Carbone. Rimasto orfano per la morte del padre, ancora adolescente, divenne paggio alla corte di Michele Imperiali che era Principe di Modena e Francavilla Fontana, Marchese di Oria e Gentiluomo di camera di S.M. il Re delle due Sicilie, che lo condusse a Napoli dove risedette per diversi anni. Appena maggiorenne, entrò a far parte della Congregazione dei Padri Celestini nel convento di Oria.  Dopo l'anno di noviziato, fu chiamato dal Superiore Generale De Leo nella residenza napoletana di San Piero in Maiella, dove si specializzò negli studi di filosofia. Dallo stesso padre generale fu avviato, anche, allo studio delle scienze naturali e dell'arte culinaria, per la quale divenne famoso. Non diventò mai sacerdote per cui, dopo la soppressione degli ordini religiosi si stabilì a Napoli, ove risedette per oltre cinquant'anni, insegnando la lingua francese ai figli delle famiglie aristocratiche della città, pubblicando contemporaneamente molte sue opere che gli diedero successo e notorietà. Per i molti impegni che ebbe a Napoli, non tornò più ad Oria, anche se non mancarono momenti di nostalgia per la lontananza dalla sua famiglia e dalla sua città natale.  Il Principe di Francavilla gli attribuì la mansione di Capo dei Servizi di Bocca -- antica mansione con cui veniva chiamato colui che era preposto a sovrintendere alla cucina, alla preparazione delle vivande e all'organizzazione dei banchett --  di Palazzo Cellamare, sito sulla collina delle Mortelle prospiciente il golfo di Napoli e della famiglia del Principe, poiché molti illustri personaggi di un certo livello e rango, che venivano a Napoli, invitati a mensa poterono constatare la fama di questa opulenta ospitalità più spagnolesca e tipicamente partenopea che era in uso al tempo.  Parlando del suo lavoro Vincenzo Corrado così si esprimeva:  «L'abbondanza, la varietà, la delicatezza delle vivande, la splendidezza e la sontuosiotà delle tavole richiedevano una schiera di uomini d'arte, saggi e probi. Questa mastodontica organizzazione, era guidata proprio da lui. Alle sue dipendenze lavoravano un maestro di casa, un maestro di cucina ed un maestro di scalco che aveva il compito di acquistare, di cucinare, di dissodare e di trinciare ogni tipo di animale, mentre una schiera di cuochi, rispettando la gerarchia allora in uso, lavorava secondo la propria specializzazione (oggi le grandi cucine dei Ristoranti hanno i cuochi di rango): vi era il cuoco friggitorie, quello per le insalate, il pasticciere, il bottigliere e il ripostiere. Tutti questi erano aiutati da una serie di sguatteri e di serventi che avevano il compito di girare intorno al tavolo per esibire lo spettacolo fantasioso delle portate prima ancora di servirle. Tutta questa organizzazione era coadiuvata da un piccolo esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi che interveniva non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate artisticamente decorate. C., a seconda degli ospiti del Principe preparava i pranzi o le cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia sontuosa e raffinata. Egli stesso ci descrive queste splendide composizioni con pregevole gusto e raffinatezza, lasciando, anche, delle visioni grafiche. Gli elementi decorativi della tavola erano affidati al maestro ripostiere che usava gusto artistico e genialità: grandi vasi in porcellana ricolmi di fiori variopinti, alzate di cristallo e argento a tre o quattro piani colmi di dessert o frutta o fiori o ortaggi, bianchi gruppi di porcellana raffiguranti scene arcadiche o bucoliche; puttini d'argento; gabbiette dorate con piccoli uccellini cinguettanti; coppe di cristallo di varie fogge in cui guizzavano pesciolini tra foglie di rose ed altri fiori. Il centro veniva racchiuso da una cornice di frutta, di fiori freschi e di ortaggi, secondo la stagione variante, disposti, intervallati da piccole spalliere di agrumi in porcellana con ortolani nell'atto di raccoglierli. La composizione era la sintesi di un artista di provata esperienza, di raffinata fantasia e di vivace estro, capace di accoppiare tanti svariati elementi fondendoli insieme a formare uno spettacolo di gran gusto e di particolare gradevolezza. Il valore del tavolo di gala completato dal vasellame, cristalleria e argenteria di grande pregio era inestimabile. Questo senso artistico, anche, nell'arte culinaria C. lo aveva ereditato da un suo antenato letterato di mestiere. Ma per quanto dotato di una cultura autodidatta, di vivacità d'ingegno, di originalità e di una particolare facilità nell'insegnamento, se non avesse avuto la fortuna di conoscere Don Michele Imperiali, che ne coltivò le particolari doti incoraggiandolo a scrivere della sua specifica arte per tramandarla ai posteri, probabilmente sarebbe rimasto un ottimo organizzatore, un appassionato gastronomo, ma la sua fama si sarebbe estinta con lui.  Le opere “Il cuoco galante’. Il primo libro vegetariano della nostra storia. il credenziere: colui che si prendeva cura della credenza. L'opera fu sottoposta a ben 7 ristampe. Prodotta in 7500 copie, Dalla dedica si ricava il leitmotiv dello scritto nonché la filosofia in cui credeva l'autore, che è di questo tenore: il “buon gusto nella tavola” inteso come “sano pensare”. Di questo trattato di gastronomia, il successo fu istantaneo e inaspettato, in quanto la precedente opera gastronomica, La lucerna dei cortigiani, stampata presso Napoli e dedicata a Ferdinando II duca di Toscana, non era riuscita ad attirare l'interesse del pubblico che la trascurò ignorandola.  Invece grande successo ottenne la prima edizione del "Cuoco Galante" che si esaurì rapidamente, tanto che il Principe ne ordinò una seconda edizione che ebbe eguale successo. Intanto Vincenzo Corrado migliorò e ampliò il testo di questa opera e ne preparò una terza edizione.  La fama del libro superò i confini del Regno di Napoli e dell'Italia; infatti dall'estero giunsero richieste da tutti quegli stranieri che avevano conosciuto ed apprezzato il Corrado alla corte degli Imperiali, per cui si pervenne ad una quarta edizione, seguita dalla quinta e infine la sesta pubblicata. Assolute novità introdotte dall'autore erano allora la patata, il pomodoro, il caffè e la cioccolata.  Altre saggi: Incoraggiato dal successo del Cuoco Galante, il Principe spinse l'autore a pubblicare nel un Credenziere del buon gusto, del bello, del soave e del dilettevole per soddisfare gli uomini di sapere e di gusto. Egli scrive e pubblica inoltre “Il cibo Pitagorico”, “Trattato sulle patate”, “Manovre del cioccolato” e “Manovra del caffè”; “Trattato sull'agricoltura e la pastorizia ed infine, “Poesie baccanali per commensali”. -- è il faro della cucina moderna della nobiltà a cavallo del periodo della rivoluzione francese. Egli privilegia i personaggi di rango in visita alla mensa del principe con opulenta ospitalità. Orbene in questo contesto di sfarzo godereccio, di lusso e di differenze sociali abissali, rimase fin abbagliato dalla nobiltà, la gente ricca e potente, verso la quale nutre sempre sentimenti di grande reverenza se non addirittura di venerazione. Proprio per riconoscenza al Principe, dando alle stampe i suoi due libri, confessa. “Questi due libri che del buon gusto trattano, con la guida e norma scrissi, e pur mercé la tua generosità mandai alle stampe, e tu di propria mano ne *segnasti* il titolo “Il Cuoco Galante” -- l'uno e “Il credenziere del buon gusto” l'altro, tutti e due a te li porgo come frutto di un albero dalla mano piantato. Mio Scopo egli è di richiamare alla memoria dei nobili uomini dei quali tu fosti la gloria l'ornamento alla memoria e la lode. Ah? Ma qual Tu fosti non basterebbe di dire di cento e mille lingue, per cui io stimo meglio il tacere e con il silenzio benedire gli anni che ti fu appresso.  L'organizzazione dei magnifici banchetti e delle cene lussuose gli diedero l'appellativo di “il cuoco galante”. La cosa straordinaria è che dietro gli scenari di un favoloso pranzo o cena vi era una preparazione, quasi orchestrale della quale il direttore era il filosofo. Alle sue dipendenze vi era una vera e propria squadra di addetti alle cucine formata da precettori cuochi e servienti. La presentazione estetica, oltre al gusto, acquista la sua importanza in cucina, ed dedica grande spazio alle decorazioni e al modo di imbandire le tavole dei banchetti. Nell'opera sono anche presentati i sorbetti, in vari gusti, ed il caffè, che, a differenza dall'attuale espresso, veniva bollito in apposite caffettiere.  Precettori un precettore di alloggio e sistemazione posti per gli invitati, un precettore di preparazione dei cibi, un precettore abile con utensili domestici, che aveva la mansione di far provviste e comperare il necessario al mercato per le mense, di dissodare e di affettare ogni tipo di carne o pesce. Chef e Cuochi “Il cuoco friggitore”, il cuoco per le insalate, il pasticciere, il bottigliere, il ripostiere. Serventi lavapiatti, camerieri, maggiordomi, domestici, volteggianti e giullari che intervenivano non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate artisticamente decorate.  Non era solo una semplice cena, era un vero e proprio spettacolo, fuori dall'immaginato. A volte comprendeva l'utilizzo di 100 persone per altrettanti o più invitati.  I banchetti o le cene con caratteristiche e assortimenti di piatti erano accoppiate con tanta inventiva e particolari astuzie architettoniche ed eleganti al fine di plasmare una scenografia sfarzosa e affinata.  Egli stesso nelle sue opere e nei suoi diari ci descrive queste splendide composizioni culinarie come opere d'arte, quasi uno spreco consumarle. Bicchieri e coppe di cristallo, posate in argento intagliate, tovaglie di pizzo fiorentino, buche e composizioni floreali, piatti in porcellana di Capodimonte. Termini culinari "Il Cuoco Galante", proprio nella terza edizione, alfine di una maggiore comprensione, spiega alcuni termini "cucinarj" usati per la preparazione delle varie pietanze, ne riportiamo un esempio:  Bianchire: Far per poco bollire in acqua quel che si vuole; Passare: Far soffriggere cosa in qualsiasi grasso; Barda: Fetta di lardo; Inviluppare: Involgere cosa in quel che si dirà; Arrossare: Ungere con uova sbattute cosa; Stagionare: Far ben soffrigere le carni o altro; Piccare: Trapassar esteriormente con fini lardelli carne; Farsa: Pastume di carne, uova, grasso ecc.; Farcire: Riempire cosa con la sarsa; Adobare: Condire con sughi acidi, erbette, ed aromi; Bucché: Mazzetto d'erbe aromatiche che si fa bollire nelle vivande; Salza: Brodo alterato con aromi, con erbe, o con sughi acidi; Colì: Denso brodo estratto dalla sostanza delle carni; Purè: Condimento che si estrae dai legumi, o d'altro; Sapore: La polpa della frutta condita, e ridotta in un denso liquido; Entrées: Vivande di primo servizio; Hors-dœuvres: Vivande di tramezzo a quelle di primo servizio; Entremets: Vivande di secondo servizio; Rilevé: Vivande di muta alle zuppe, potaggi, o d'altro.  Pitagora nell’atto, che dalla cattedra nella nostra italica scuola dettava sistemi, che riguardavano quanto mai fosse fuori di esso lui, e di noi per pascere l’animo e l'intelletto, non trascure di sistemare peranche ciò che meglio, e piu opportunamente al nutrimento ed alla conservazione del meccanico nostro vivere conducesse. E però dettando il canone o la legge, come dir si voglia, per la cucina delli suoi mentati, non di *carni* di animali ei ditte quadrupedi, o volatili, o di pelei imbandite vengano le mente di quanti han voglia di più lungamente, e più lanamente vivere, ma soltanto di vegetabili erbe, di radici, di foglie, di fiori. Ebbe cotesso filosofante la somma disgrazia di non essere da ogni filosofo inteso, come sovente la savia donna stobeo sua moglie e espose li g luf'J\ l&- r menti: e com’egli la tras-migrazione dell’anime avesse ingegnata, così dalli silenziari scolari suoi, e da parecchi altri prevenuti da quel di lui fatto sistema si divieta del cibo animalesco, e la preferizione del solo cibo erbaceo furon pref nel sinistro senso di una supertiziosa venerazione, cK egli aveffe per l’animale, nella macchina del quale l’anima dell’uomo dopo la morte fojfcro tras-migrate. Ma ’ che chefané di ciò, egli è indubitata cosa, che il cibo erbaceo fallo più confacenti all’verno, per cui vedef la più parte dei Naturalifi a quella opinione indicimata, che l'uomo naturalmente non è carnivoro. E se noi ponghiamo mente al parlare dell’antica filosofia, rilevaremo con tutta chiarezza che le frutta della terra defluiate vennero al nutrimento dell'uomo, e che sopra del pesce, dell’animale terrestre, e del volatile n eh he lo fie[fio uomo soltanto il domini; Jlcchè l efifierfii poi dati alcuni uomini ad alimentarsi di animali j'offe fiata una necessità di alcuni luoghi, oppure un lusso! Non senza ragione quindi la italiana gente, ansi avvedutamente oggi più che in altro tempo la legge pitagorica ha ripigliata ad oficrvare con tutto impegno nella cucina del filosofo galante, e nelle mensa: e le nazioni anche più culte, che da Italia sono lontane, han preso il gufo di dare al corpo nutrimento più sano, gusiosso, e facile per mezzo dell’erba. Ed ecco perciò tutta la scuola cucinaria pofia in movimento per inventar un nuovo modo a poter preparare e condire l’erba per mezzo di altri fingili vegetabili, onde non solamente grato al palato si renda il semplice pitagorico cibo, ma eziandio pofia sioddisfarsii al lusso nell' imbandire laute Menfie da filmili siempìicità compofie. E quesio è il fine della mia filosofia, difiefio, ed a comune uso e utilità. Vero egli è, che non tutti li vegetabili dei quali ferie preferìve qui la preparazione filano li più perfetti, e giovevoli ai nutrimento nostro. Ma ciò ha dovuto farsi per accomodarsì af gufo comune, ed alla moda presiente della tavola fu,di che qualunque Aristarco non avrà che opporre. Nella mia filosofia volendosi imitare la filmile semplicittà della materia del soggetto, con sempiice e chiaro discorso si da la pratica come ogni erba italiana dando il suo proporzionato condimento con fughi di carne, con latte Animali, e di fórni, con butirro, con olio, con uova, e con altr’erbe odorifere e gusiofe debano preparar f. E intanto per a et tare, ad ogni articolo alcuna cosa verrà premefi, che rifguarda la natura, e le virtù del vegetabile di cui fe ne voglidn preparare la vivanda. E già qui fiegue in prima, la maniera di far i brodi, i  coli e le buri neceJTarj pel condimento: ed in secondo luogo h nòta del vegetabile del quale nella mia filosofia fe ne preferivo il modo di prepararli: avendo io in ciò fare procurato di mettere in J'alvo anche il Injjo nell' imbandire con simili generi una mensa di formalità e gala, e nel tempo Jìeffo di soddisfare il gusto delicato dei nobili, e di provvedere alla conservazione dell’utterato. INDICE: Velli Brodi, Coli, e Purè p. I Velli Coli a Velie Purè i tutta la c minarla prepa- ragione de’ vegetabili, Lattuca, Spinaci, Cavolo Cappuccio, Selleri, Zucca, Zucca lunga ia Delle Zucche Vernine ivi Cavai fiore Finocchi Iudivia Cardoni Cavoli Torgi Carciofi Broccoli Boraggine Senape Cipolle ivi Rape Ravanelli CicoriaPetronciane Pafiinacbe Pomidoro Cedriuoli Peparoli Pifelli Sparaci Raperortzpli Velli Ceci Fave Faggioli 3^ De//** I-enfe 39 Funghi Tartufi Erba per condiment, Maggiorana, Targone, Pimpinella, Santa Maria Crefcione Origano Timo Acetofa Salvia Menta Cerfoglio Porcellana Bafiltco Ruta Sambuco Rosmarino Tralci Vite Zafferano Anafi Cappari Scalogne Dettagli Rafano o Ramolaccio Bettonica Idea dell'ufo delle frutta ivi. Grice: “My favourite chapter from ‘Il cuoco galante’ is the philosophical one, on Pythagoras! I vitto pitagorico consiste l’erba fresca, la radice, il fiore, la frutta, il seme, e tutto cid che dalla terra produce per nostro nutrimento. Vien detto pittagorico poiche Pitagora, com’ è tradizione, di questi prodotti della terra soltanto fece uso. Pitagora mangia l’erba semplice e naturale, ma gli uomini de’ nostri di li vogliono conditi, e manovrari; ed io nel voler conversare con distinzione dell’erba procuro eseguire l’uno, e soddisfare l’altro, con escludere le carni, e di servirmi del condimento, anche pitagorico, com'è il ſugo di carne, il lasase, le uova, l’olio, ed il burirro per compiacere qualche particolar palato, servirmi pure delle parti più delicate degli animali.  Molte fonti filosofica suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la semiotica e la filosofia: entram­be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio: "In verità, Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle­gamento esse lo trovano nella figura antichissima dello ia­tromantis, il filosofo-cum-medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie. L'appellati­vo del filosofo come iatromantis è riferito in prima istanza allo stesso dio Apollo; ma passa poi a una serie di filosofi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del­l filosofo iatromantis è la sua capacità di usare una procedura dia­gnostica: trattandosi di un veggente, egli è in grado di individuare la causa nascosta (il segnato) di una malattia (il segnante), causa che è da at­tribuirsi sempre a un intervento sopra-naturale. In epoca antichissima, la malattia è concepita infatti come miasma, come contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità  divina o demonica. Si tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione italica pre-olimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata; Detienne; Dodds; Lloyd; Parker. Un'ampia panoramica sul movimento magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde. Per questa ragione, c'è bisogno di un filosofo-cum-medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il mondo delle forze oscure e sopra-naturali alle quali è imputato il presente stato di contaminazione; in se­guito alla sua diagnosi, il filosofo-cum-iatromantis [those spots mean measles,  black cloud means rain] può indicare gli stru­menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione è ben iliustrata da una notizia di un filosofo della scuola pitagorica a Crotona, Poliistore, che cita le "Memorie pitagoriche"."L'aria, secondo i pitagorici, è piena di anime. Ed essi le conside­rano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uo­mini i sogni e i segni premonitori (semeia) e le malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali da pa­scolo. E a questi demoni ed eroi sono dirette le cerimonie ca­tartiche e apo-tropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere" (Diog. Laert., Vitae, D-K). Va notato, di sfug­gita, che il carattere italico molto arcaico della concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana. C'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile (Cfr. Deticnne. Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una semiologia SACRA e magica abbinata a una filosofia esoterica e medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie che affliggono gli uomini. Ma, contemporaneamente, sono anche la fonte dell'informazio­ne che concerne il mondo in-visibile o in-perceptibile, in-sensibile, inviando agli uomini i segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so­gni) dai quali si rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i riti catartici e apo-tropaici. In particolare, le cerimonie apo-tro­paiche sono costituite dalla recita di epoidai, cioè di formu­le verbali incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma­le. Si tratta di segni linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il sopra-naturale, dall'altra sono efficaci, nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo.Grice: “Oddly, my mother was keen on Mrs. Beeton, I’m keen on Signore Corrado!”  La cucina e la credenza, ad esami parlando, son sorelle gemelle, poichè le due appartengono al buon gusto del cibo, e le due nacquero, cresceron, e s’ingrandirono nello stesso temp, e nella nostra Italia che in altri luoghi, sotto i fastosi e dominanti romani, e divennero tutte e due arti d’ingegno, di piacere, e di utile; ed il cuoco ed il credenziere debbono esser d'accordo nel loro, quantunque dissimile, lavoro. Della estesa ed elevata cucina se n’è discorso abbastanza. Dico abbastanza ma non già al fine; e compimento, poichè ciò accade quando non vi saranno più uomini al mondo. Ora vengo a trattare di quanto la credenza include, e di quanto un credenziere dee esser fornito. E se nel dar l’istruzione per la cucina pensai e scrissi da cuoco, ura collo stesso metodo filosofo da credenziere. Come tale intendo ragionare al dilettante. Procuro di aggiugnere quanto di bello, di buono, e di dilettevole mi ha potuto suggerire la fantasia. Gradisci dunque, o cortese mentato, questa mia fatica, e sappi, ch’io resto soprabondevolmente pagato col piacere di avervi servito. Vivi felice. Vincenzo Corrado. Corrado. Keywords: la dieta di Crotone, il cibo pitagorico, il concetto di conversazione galante, gala --.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corrado” – The Swimming-Pool Library. Corrado.

 

Luigi Speranza -- Grice e Corsano: la ragione conversazionale (Roma).  Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma. Il pensiero di Bruno nel suo svolgimento storico; a cura di Adele Spedicati users.png Galatina, : Congedo, mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui 2. : Il pensiero di..  users.png Galatina, : Congedo, 1999 mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac:Controlla la disponibilità qui 6. : Umanesimo e rel...   users.png Napoli, : Guida mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Bayle, Leibniz e la ...CORSANO, Antonio   users.png Milano : Signorelli, mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui De la causa, princip...BRUNO, Giordano   users.png mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui G. B. Vico / Antoni...CORSANO, Antonio   users.png Napoli, : Libreria Scientifica, mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Leibniz / Anton...users.png Bari, : Laterza,  mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac:Controlla la disponibilità qui Giambattista Vico / ... users.png Firenze, : Sansoni, stampa 1940 mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui  tutti checked_false.png Il pensiero educativo del Rinascimento italiano / Antonio Corsano, Maria Ricciardi Ruocco  users.png Firenze, : La Nuova Italia mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Il pensiero educativ...  users.png Bari : Laterza mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Il pensiero religios...CORSANO, Antonio   users.png Galatina, : Congedo, 2002?- rgrafbi.png Grafica Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Opere scelte / Anton...   users.png Bologna, : Cappelli- mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Storia del problema ..   users.png Bari, : Laterza, mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui U. Grozio : l'umanis...   users.png Bari, : Laterza, mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Umanesimo e religion... <18... 11 - 20 di 19 risultati tro. Antonio Corsano. Corsano. Refs.: L. Speranza, “Grice e Corsano”, The Swimming-Pool Library. Corsano.

 

Luigi Speranza -- Grice e Corsini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia in roma antica – scuola di Fellicarolo – filosofia modenese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Fellicarolo). Filosofo modenese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Fellicarolo, Modena, Emilia-Romagna. Grice: “I like Corsini; if we at Oxford had a sublime history as they do in Italy, we surely would be philosophising about it! Corsini taught philosophy at Pisa and spent most of his efforts in deciphering what the Romans felt interesting about Greek philosophy!” Grice: “Corsini also explored the roots of Roman philosophy from the earliest times – ab urbe condita,’ as the Italians put it!” Studia nel Collegio dei padri scolopi fananesi, dove in seguito entra quale novizio e  si trasferì nel Noviziato di Firenze.  Le sue capacità lo portarono a diventare docente di filosofia a soli vent'anni presso la stessa scuola. Si trasferì quindi a Pisa dove insegna. Eletto Superiore Generale e dovette trasferirsi a Roma.  I principali campi di studio ai quali si applica furono: la filosofia, la cronologia, l'epigrafia, la filologia e la numismatica ma si interessò anche di matematica, di logica, di fisica, di idraulica, di didattica, di storia e di lettere antiche e moderne. Altre opere: “Illustrazione relativa alle recensioni su De Minnisari e Dubia de Minnisari pubblicate ne gli Acta Eruditorum; “Illustrazione relativa all'Epistola ad Paulum M. Paciaudum, pubblicata negli Acta Eruditorum”; “Ragionamento istorico sopra la Valdichiana” (Firenze); “Index notarum Graecarum quae in aereis ac marmoreis Graecorum tabulis observantur” (Firenze); “De Minnisari aliorumque Armeniae regum nummis et Arsacidarum epocha dissertation” (Firenze); A. Fabbroni, Vitae Italorum...,  Pisis  E. de Tipaldo, Biografie degli italiani illustri,  X, Venezia); Dizionario biografico degli italiani. Elogio di C. (con lettere di Fananese a Rondelli). Fanani nianae, quod in ditione est oppidum Ducum provinciae Ateftinorum Fri, III. Non. natus eft C. optimis quidem parentibus, honestissimaque familia, quippe quae jamdiu civitate Mutinensi donata fuerat. Is ubi primum adolevit Sodalitatem hominum Scholarum Piarum, quos praeceptores puer in patria habuerat, ingressus est. Multa diligentia, multoque labore in humaniorum litterarum [cf. Grice, Lit. Hum.], philosophiae ac theologiae studiis Florentiae se exercuit apud suos; et cum omnes condiscipulos gloria anteiret, ab omnibus tamen in deliciis habebatur. Erat enim bonitate suavitateque morum prope singulari; et cum plurimuin faceret non solum in excolendis studiis, sed etiam in officiis omnibus religiosi hominis obeundis, minimum tamen ipse de se loquebatur. Vix ferre poterat Eduardus peripateticos quofadam horridos, durosque oratione et moribus, quibuscum versari cogebatur; intelle xeratque jam falsos hujusmodi sapientiae magistros de veritate jugulanda potius, quam de fendenda assidue certantes, philosophiam artem fecisse subtiliter et laboriose infaniendi. Relictis igitur disputandi spinis, ad Academiam se convertit, cujus ratio inquirendi verum libero folutoque judicio, et fine ulla contentio ne et pertinacia non poterat non magnope reprobari homini natura leniſſimo. Nec forum in philosophorum libris corum dogmata, quae disputationibus huc et illuc trahuntur, ut ipse per se perpenderet, inveſtigavit C., sed etiam philosophiae adminicula et an ſas, qualem Xenocrates geometriam appellabat, in Euclide, Apollonio et Archimede quae sivit. Quo in itinere felicem adeo habuit exitum, ut fervore quodam aetatis impulsus, břevi condere potuerit libellum de circulo quadrando, quem ad Guidam Grandium mi fit. Novit in eo Grandius eximium et admirabile adolescentis ingenium, eumdemque hortatus est, ut pergeret porro in eo studio, quod ceteris et studiis et artibus antecede ret, et in quo ipse futurus effet excellens. At C. praeſertim trahebatur ad humaniores litteras, quibus a puero mirifice dedicus fuerat, quaſque vel in sublimiorum disciplinarum occupationibus, ne obsoleſcerent, legendo renovaverat. Itaque moleste tulit demandatam fibi a majoribus fuisse provinciam tradendi publice FIRENZE philosophiam, quasi ad ea detru deretur, quae sui non essent ingenii. Principio sequi coactus est Goudinium, cui brėvi substituit Hamelium. Atque hos auctores sic interpretatus est, ut facile intelligeretur non eſſe ex illorum doctorum numero, pud quos tantuin opinio praejudicata poteſt, ut etiam fine ratione valeat auctoritas eo rum, quos ſequi ſe profitentur. Poftremo ad ſcholae fuae utilitatem et ornamentum maxime pertinere exiſtimavit, fi e multis, quae ſunt in philoſophia et gravia et utilia a recentioribus praefertiin FILOSOFI tracta ta, quantum quoque modo videretur deli geret, in quo adoleſcentes exerceret. Sa pienter etiam faciebat, quod ipſos non ſolum quibus luminibus ab illa omnium laudanda rum artium procreatrice Philoſophia petitis a mentem illuſtrare, fed etiam quibus virtuti bus omnem vitam tueri deberent fedulo e rudiebat. Quare minime eſt mirandum fi in tantam claritudinem brevi pervenerit, ut fuis et Florentinis vehementer carus, quibuſdam vero hominibus nudari ſubfellia ſua, et cor nicum oculos configi dolentibus eſſet invim diofifſimus. Fuerunt et nonnulli (tantum in vidia, aut inſcitia potuit ) qui apud eos, quorum munus eſt providere, ne quid er roris in religionem moreſque irrepat, Corſi nium accufarunt, multa illum tradere, in exponendis praeſertim Gassendi et Cartesio ſententiis, a recta religione abhorrentia. Stomachatus eft homo religiofiflimus, caftif fimuſque obtrectatorum temeritatem. Hos ve ro ut falſae et iniquae inſimulationis publi ce convinceret, utque ab omni metu diſci pulos fuos liberaret, ftatuit in lucem profer re, quae in ſchola et domi iiſdem expoſue rat. Quod cum praeftitiffet, id evenit, ut alteros reprehendiſſe poeniteret, alteri fe di diciſſe gauderent. Inſcripfit opus: Inſtitutio nes philoſophicae ad ufum Scholarum Piarum, et illud in quinque volumina diſtribuit si ma mum continet hiſtoriam philoſophiae et lo gicam; ſecundum verfatur in indagandis prin cipiis, et tanquam feminibus unde corpora funt orta et concreta, horumque proprieta tibus et qualitatibus; agit tertium de cor poribus inanimatis, quae caelo, aere, ri et terra continentur; examinat quartum animata corpora, multipliceſque eorum fpecies, et elementa metaphyſicae tradit; quia tum denique morum doctrinam complectitur. Nec folum in conficiendis his libris res no vas inveſtigavit C., fed etiam eas, quae funt ab antiquis traditae, quarum cognitionem eo utiliorem putavit, quod faepe. philoſophos nova proferre judicamus, cum pervetera proferant. Praeter quam quod in ea erat opinione C., illi, fitum eſt veritatem invenire, fingulas nofcen das effe diſciplinas, ut ex omnibus, quod probabile videri poſſit, eliciat, praeſertim cum doceamur a ſapientiffimis viris, nullam fectam fuiffe tam deviam, neque philoſopho rum quemquam tam delirantem, qui non vi derit aliquid ex vero. Nec modo quid fibi probaretur, fed aliorum etiam fententias, et quid cui propo quid in quamque ſententiam dici poſſet, pera fecutus eſt, quod ea modeſtia praeſtitit, ut: non vincere maluiſſe, quam vinci oſtenderid. Hanc opinionum varietatem ex fuis fone tibus fincere deductam, ut potentius in die fcipuloruin animos influeret, non modo ora, vine diſpoſuit., ſed etiam claritate et nitore, LATINO SERMONE illuſtravit. Praeclare enjin, CICERONE: mandare quemquam litteris cogitationes fitas, qui eas nec difponere poffit, nec illuftra-: re, nec delectationé. aliqua lectorem allicere, hominis est. intemperanter abitentis otio et like cris. Sunt nonnulli qui in hiſce. Insitus, rionibus dum pleniflimo ore laudant ima menſam prope eruditionis copiam,, politio remque elegantiam, quibus ornantur, defide; rare videntur abditiorem 'reconditioremque tractationem earum rerum, quae primum ii) phyſica tenent locum, quales ex. gr. ſunt Trotus., Newtoniana' attractia, harumque lo ges, non tam.ut ceteros, quam ut ſe ipſum, qui nunquam adduci potuit, ut Newtoni fententiae affentiretur, convinceret. Sed ii meminiſſe debent quibus ſcripſerit:C., hribuſque temporibus ſcripferit. Quoniam ve to plurima ſunt in phyfica, quae fine 'gea metriae ope tractari non poffunt, hoc quo que adjumențum a fe afferri oportere diſci pulis ſuis putavit. Itaque Philoſophicis Ma thematicas Institutiones adjecit, in quibus fi ordinem excipias (initium enim facit a pro portionibus, quas nemo ignorat difficillimam effe geometriae partem) cetera ſatis belle procedunt. Neque multo poft retexuit hoe ipſum opus, in quo eo elaboravit attentius, quod fperabat aditum fibi facturum ad mu nus tradendi mathematicas diſciplinas in LIZIO Florentino. Acceptum illud cum plauſu fuit propter dilucidam brevitatem atque ele gantiam, licet in eo acutiores peritioreſque geometrae pauca quaedam jure ac merito teprehenderint. Praeſtantiam, quam conſe cutus fuerat C. in rebus geometricis, yoluit ad hydroſtaticam transferre; cumque fedulo evolviffet quae in ea facultate ſcris ptis mandaverant poft GALILEI (vide), BRUNI Torricellius, Michelinius, Guglielminius, Grandius, alii. que pauci, in ſcenam prodire non dubitavie fuftinens perſonam non modo conſiliarii et arbitri de dirigendis avertendiſque aquis, ſed etiam ſcriptoris. Etenim ex ejus officina prow diit liber, qui infcriptus eft: Ragionamenti intorno allo stato del Fiume Arno e dell' acque della Valdinievole, quique editus fuit fum ptibus. Marchionis Ferronii, cujus cauffam praeſertim defendebat. Spe dejectus Eduar dus perveniendi in LIZIO Florentini docto rum numerum, qui praeter modum iis tem-. poribus. creverat, animum ad Academiam Piſanam convertit, petiitque dari ſibi va cuum eo tempore logicae interpretis locum. Celeriter quod optabat impetravit, propte rea quod Joannes Gaſto Magnus Etruriae Dux eximiam illius ſcientiam in omni re philo ſophica cognoverat. Vir non tam doctrina praeſtans, quam docendo prudens (etenim quaedam etiam ars, eſt docendi ) magno erat emolumento ſtudiofis adoleſcentibus, qui non uſitata frequentia fcholam illius celebrabant. Cum vero de fchola in otium folitudinem que se conferret, tempus potiffimum conſu mebat in augendis. perficiendiſque ſuis Phi lofophicis Institutionibus, abſolvendoque, quod inſtituerat, opere de Practica Geometria. Ins ter haec magna fuit amnis Arni inundatio,ut fi inundationes excipias, quae annis acciderunt, nul lam unquam majorem fuiſſe conſtaret. Pere vaſerat opinio per animos Florentinorum huic luctuofae calamitati cauſſam praefertim dediffe Clanis aquas in Arnum deductas, et quae ad eaſdem moderandas aquas facta fue rant opera. Hunc errorem ut eriperet Edu. ardus, utque perſuaderet eadem opera fuiſſe utiliffima ac faluberrima, libro expoſuit qua lis fuiſſet, et quis eſſet ſtatus Claniae val lis, quidque conſultum et actum ad fua uſque tempora, ut peſti lentiſſima regio convaleſcere aliquando et fa nari poſſeti, utque controverſiae inter finia timos Principes de dirigendis aquis ejuſdem regionis tollerentur. Piſis erat C. con tubernium cum Alexandro Polito, qui hum maniores litteras profitebatur, cujuſque vi tam ſupra explicavimus. Hominis Graecis et Latinis litteris eruditiffimi exemplum et vo. ces, ſelectiſſimorumque librorum copia, qua is abundabat, C. per fe jam flagran tem vehementiffime incenderunt ad eas ar tes, quibus ab ineunte aetate deditus fuerrat, celebrandas. Sciebat Graece, cujus ſermonis elementa juvenis Florentiae acce perat a ſodali ſuo Franciſco Maria Baleſtrio, fed non luculenter. Itaque multo ſudore ac labore in arte grammatica primum ſe exer euit, poftea Graeca multa convertit in LATINVM, Graecorumque libros et eos pracſer tim, qui res geſtas et orationes ſcripſe runt, utilitatem aliquam ad dicendum aucu- | pans, ftudiofiffime legebat. Cum vero ei eſſet perſuaſum ingentes ac prope immenſos cam pos illi proponi, qui eloquentiae ceterife que humanioribus litteris vacare cupit, acom mico hac de re aliquando ſciſcitanti reſpon dit: percipiendam ei effe omnem antiquitatem, cognoscendam hiſtoriam, omnium bonarum artium ſcriptores et doctores et legendos et pervolu tandos, et exercitationis cauſa laudan.los, in terpretandos, corrigendos, refellendos; diſputan dumque de omni re in contrarias partes, et quid quid erit in quaque re, quod probabile videre poffit, eliciendum atque dicendum. Hujuſmodi exercitationes, quas diu incluſas habuit, Core finius in veritatis lucem tandem proferre ſe poffe putavit, cum Faſtos Atticos illustrandos fuſcepiſſet; magnum ſane opus et prae clarum, quod omnem fere Athenienfium hi ftoriam complecti debebat, cum qua philofophiae, omniumque laudatarum artium hi ſtoria arctiſfime eſt conjuncta. Diviſit illud ipſum opus in partes duas, quarum prio rem veluti apparatum Faftorum effe voluit, quod in illa fuſe lateque ea exponerentur, quae commode in ipfis Faftis, ad quos ta men pertinebant, 'exponi haud poffe vide bantur. Agit itaque de Archontum inſtitu tione, numero, varietate, muneribus et re rie, de Archontico anno, atque ordine men fium Athenienfium. Cum vero Archontigiis annus non in menſes ſolum, ſed in Pryta nias etiam diviſus eſſet, ac Tribuum Athe nienfium fingulae aequali temporis, annique parte Prytaniae munere fungerentur, de ie pſarum Tribuum ac Prytaniarum numero, ordine ac ſerie, deque Atticae populis, ex quibus illae conſtabant, eruditiſſime differit. Neque ab his ſeparandam putavit tractatio nem de Athenienſium Senatu et Ecclefiis, dcque Proedrorum, ac Epiſtatum numero, diſtinctione et officiis. Tranſit inde ad contexendam Archontum ſeriem diſtinguens eponymos a pseudeponymis. Quam diſtinctionem licet nonnulli agnoverint, nemo tamen exſtitit, qui Pſeudeponymorum Archontum feriem illuftrandae Atticae hiſtoriae maxime neceffariam recenſere tentaverit. Agit de mum de civilibus Graecarum gentium annis, ipfarumque menfibus, cyclis atque periodo, cum antea declaraſſet tempus, verumque di em, quo varia Athenienſium feſta peragi et redire confueverant. Id facere neceſſe fuit propterea quod eadem fefta, veluti perſpi cuae certaeque temporis notae, rerum gefta rum memoriaé ſaepiffimè a ſcriptoribus adji ciuntur. Haec quidem in priori operis par te. In fecunda vero Fafti exponuntur a pri ma Olympiade, qua Coroebus palman retus lit, uſque ad Olympiadein cccxvi. Causa fuit juſta C. praetereundi antiquiora tempora, quod iſta laterent craſſis occultata tenebris, et circumfuſa fabulis. Ne tamen primam Athenienfis imperii formam deſpice. re videretur (nam Athenis initio Reges, inde perpetui Archontes, mox decennales, tandemque annui imperarunt) qui Reges et Archontes perpetui, et qua aetate fuerint in Prolegomenis perſecutus eft. Ceterum Fa. ftos fic contexuit C., ut nullum ad nos pervenerit nomen Archontum, Olympioni čarum et Pythionicarum, nulla lex, neque pax, neque bellum, neque caſus neque res illuſtris et memoranda populi Athenien fis, quae in iis ſuo tempore non fit notata. Interdum etiam attigit Spartanorum, Phoceli fium, Thebañoruin, aliorumque Graecorum gefta, conſilia, pugnas, diſcrimina, quod ca maxime ſint Atticae hiſtoriae conjuncta. Graecos vero philosophos, poetas, oratores, cete roſque tum pacis, tum inilitiae artibus claros viros ita commemoravit, ut quibus Olympicis annis, et quo loco in lucem fint editi, vitam que ' finierin't intelligi poffit. Atque haec o Innia capitulatim ſunt dicta. Etenim nimis lon gus effem fi praecipua, et nova vellem deſcri bere, quae in his Faftis continentur. Nihil poſuit in iis C. fine locuplete auctori täte et teſte, aut faltem ſine probabili conje: ctura; quodque difficillimum fuit, fcriptorum Graecoruin loca aut vitiata aut minime intel lecta, aut mutilata'ſic reſtituit, illuſtravit, fupplevitque, ut dubitari poffe videatur plus ne jis reddiderit luminis, quam ab iiſdem aco ceperit. Neque minori perſpicientia Athe nienfium nummos vidit, ex quibus non pau. ca quidem in rein ſuam hauſit; ſed multo plura e marmoreis monumentis fumpfit, ta li modo dirimens controverſiam, quae ex fufcitata fuerat a ſummis viris Spanhemio, et Gudio, nummis ne, an inſcriptionibus princeps locus dandus effet in explicandis ri tibus, feſtis, Numinibus, ludis, magiſtrati bus, rebuſque geſtis Athenienfium. Inter nobiliores inſcriptiones, quas refert Corfi nius, et miro prorſus acumine atque eru ditione explicat, et interdum etiam fupplet, eft Florentina quaedam apud Riccardios ile luſtrandis Athenienfium Tribubus maxime idonea. Sed haec mirifice corrupta erat, au gebatque corruptelam collocatio. Etenim cum ex tribus fragmentis conſtaret, imperi tus artifex fic illa in pariete diſpoſuerat, ut media pars primae, finiſtra mediae, dextera vero omnium poftremae partis locum Occu paret. Vidit haec mala Corſinius, qui 2 tutiſſime indagabat omcia, iifque remedia goadhibuit. At puduit Joannem Lamium ſe non adeo lynceum fuiffe, cum ufus effet sadem inſcriptione in ſuis ad Meurfium Scholiis, et ex pudore orta eſt invidia. Ex quo intelligi poteſt quare is debitas mun quam tribuerit laudes operi, quod omnium judicio longe multumque ſuperat quidquid in hoc rerum Atticarum genere ſcripſerunt Sigonius, Scaliger, Petavius, Petitus, Sponius, et vel ipfi Meurfius, et Dodwellus, quorum errorés dum faepe corrigit C., et dum minime ab iis animadverſa pro fert, fatis declarat iiſdem detrahere voluiffe Haerentem capiti multa cum laude coro nam. Rumor erat ea parare Lamium, quibus fpe rabat hominibus fe probaturum, C. in emendanda illuſtrandaque Riccardiana in fcriptione ſurripuiffe fibi fegetem et mate riem gloriae ſuae. Porro Lamius poft edi tas Corſinii emendationes fupponere cogita verat in locum impreſſae jam paginae in I. Meurſii operum volumine, quae prae fe fe rebat inſcriptionem corruptam, aliam pagi nam, in qua emendatior inſcriptio legebatur; C.: 1 bancque mutationem, omnibus occultari pof ſe putaverat, quod Meurſii liber nondum efe ſet in vulgus editus. Non latuit certe Core finium, in cujus manus pervenit etiam pria mum impreffa pagina, qua omnem a fe prow pulſare poterat injuriam. Id ut audivit Lami mius aliam rationem iniit perficiendi confi lii ſui. Dedit ad Angelum Bandiniun litte ras plenas iracundiae ac minarum, ſpecie qui dem ut ea, quae jamdiu ſepoſuerat ad Riccardianum marmor explanandum, aliquando proferret; re autem ipſa ut quae a C. didicerat, perpaucis additis aut mutatis, le ctori aut occupato aut indiligenti vendita Yet pro ſuis. Atque id utrumque ſcriptorem conferenti luce clarius eft. Quare mirari ſa tis non poffum hominis frontem, qui furti C. infimulet in eo loco, in quo ipfo cum re aliena, atque etiam cum telo eſt de prehenſus. Atque haec an. v. ſunt geſta, cum Fafti Attici anno ſuperiori lu cem vidiſſent. Sed tamen res defenſionem apud multitudinem potuit habere uſque ad cum annum, quo Meurſii opera cum Lamii animadverſionibus vulgata funt fimul universa. Tum enini primum jejuna illa marmoris interpretatio, quam ante annos xxII. Lamius in l. operum volumen intulerat, lecta eft.: ad calcem vero ejus voluminis ſecundae Aucto ris curae in eum lapidem, et quaſi retra Statio quaedam ante dictorum edita eſt. Qua in mantiſſa bina extant indicia Corſinii cauffam mire tuentia, alterum quod nihil hoc in loco proponatur, quod non ille in Faſtorum libro occupaverit; alterum quod mantiſſae characteres ab ejuſdem voluminis characteribus forma et figura longe abſunt, teſtanturque non niſi poſt annos multos quam liber fuerat impreſſus, diſtractis jam aut obſoletis formis illis prioribus, additam eſſe appendicem, de qua meminimus. Sed jam fatis multa de homine meo quidem judicio paucis comparando, niſi regnum in litteris, quod FIRENZE perdiu tenuit, malis inter dum artibus et clarorum virorum vexatione confirmandum putaſſet. Quamvis in Fa. Hujus rei narrationen pluribus etiam verbis exa pofitam vide in libello cujus eſt infcriptio: Paffatem po Autuntile, quo in libcllo Si quis est qui dictum in se ir clemencius Exis. Atis Articis elaborare C, maxime glorio fum fuerit, non minorem tamen laudem rea portavit ex Agoniſticis Differtationibus, de qui bus Ludovicus Muratorius, intelligens ſane. judex, dicere folebat, poſſe eas per ſe ſo las aeternum nomen Auctori comparare. His Diſſertationibus oftendere voluit C., quo tempore Graeci celebrare conſueverunt ludos Olympicos, Pythicos, Nemeaeos, et Iſthmiacos, quod tempus eatenus fuerat vel incompertum, vel faltem obſcurum. In hoc autem non mediocrem utilitatem chronolo giae et hiſtoriae ſe allaturum putavit, quod iiſdem ludis fcriptores uterentur ad notanda deſignandaque rerum geſtarum tempora. Ab Olympicis exordiens, qui ceteros fplendore et frequentia ſuperabant, breviter cos percurrit, quos ab Hercule primum inſti tutos Trojano bello deſiiſſe, moxque ab. Iphito reftitutos iterum intermiffos fuiffe fcriptores narrant. Etenim illud caput eſſe videbatur, ut de Olympiade illa quaereret, qua Coroe bus palmam accepit, et quae prima dicitur, omnes Exiflimayit ele, fit exiſtimet Reſponſum,  d.ctum effe, qu'a lacris prior quod ab illa ceterarum Olympiadum ordo et feries incipiat. Hanc celebratam fuiſſe putat an. periodi Julianae  circiter folftitium aeſtivum, plenilunii tempo re, qui mos ſemper manſit non folum anti quioribus, quibus civiles Graecorum anni lunares erant, fed recentioribus etiam, qui bus ſolares anni a Romanis ad Graecos tran. fierunt. Primus is erat anni menſis, in quem incidiffent Olympici ludi. Quinque diebus eorum certamina abſolvebantur, inter quae curſus, quo, uno certatum eſt ad Olympia dein uſque, primas tenebat. Neque. in Aelide folum, fed et in aliis Graeciae ur bibus fumma cum populi frequentia ac faca. crorum caeremonia Olympici celebraba ntur, donec v. ineunte reparatae falutis faeculo, jidem cum Pyticis. ſublati fuerunt., Pyticos primum inftituit Apollo, eofque jamdiu in-. termiffos, confecto. Criſſenfi bello, Olympiade. Amphictyones revocarunt. Ii dem Olympicorum inſtar pentaéterici erant; neque ſecundis annis, aut quartis, ut Petavius et Dodwellus, exiſtimarunt, ſed tertiis, hiſque exeuntibus circa Elaphebalionis menfis finem, tum Delphis, tum in aliis Graeciae urbibus peragi confueverunt, Proxime poft Pythia Olympiade ſcilicet Lill. inſtaura ta fuerunt Nemea, quorum origo reperitur a ſeptem Argivis ducibus, qui ad lenien dum defiderium pueruli Archemori a ſerpen te occiſi funebres hoſcę agones ante Olympiadem primam prope Ne meaeum nemus inftituerunt. At Nemeadem illam, ex qua veluti cardine ceterae infe quentes numerari coeperunt, in annum Olympiadis LxxII. poft Marathoniam pu gnam incidiffe fatis probabiliter Eduardus af firmat. Nemeades aeſtivae aliae, aliae hibere nae, omnes vero trietericae fuerunt; eaeque alternis annis ita peragebantur, ut hibernae quidem in medios ſecundos, aeſtivae vero in quartos ineuntes Olympiadum annos in currerent. Cum Nemeis ludis quaedam erat Iſthmicis a Theſeo, ut ferțur, conſtitutis fia militudo. Funebres erant ambo, ambo trie terici, et qui utrolibet in certamine viciſſent apio coronabantur, Ithmici quoque alii em rant aeſtivi, non tamen alii hiberni, ut qui dem Dodyellus putabat, fed verni brabantur illi primis Olympiadum annis Hea catombeone menſe, hi Thargelione, exeun te fere tertio Olympico anno. Sic definivit C. tempora quatuor illuſtrium Graea ciae ludorum, patefaciens obſcura et ignota vel ipſis chronologiae luminibus Scaligero Petavio, et Dodwello, quorum auctoritate abreptus ipfe in primo Faſtorum Atticorum libro Pythiades ſecundis Olympicis annis cona cefferat. Agoniſticis hiſce Differtationibus, veluti faftigium operis, idem adjecit feriem Hieronicarum alphabetico, ut dicitur, ordi ne diſpoſitam, et Dodwelliana longe ube riorem accuratioremque. Nam feptuaginta. ſupra centum vitores recenſuit, qui Dod weilum prorſus fugerant; fonteſque indic cavit (in quo Dodwelli diligentia ſaepiffi, me deſiderabatur ) unde uniuſcujufque vin ctoris nomen, aud patria, aut aetas, aut tertaminis genus, quo viciffet, hauriebatur. Hoc opus vehementer adeo Auctori fuo pro batum erat, ut vir modeftiffimus in eo quo daininodo gloriari videretur. Etenim, ut At rico fcripfit CICERONE, fua cuique Sponfa,fuus quiqua Quoniam autein tumuin his Agoniſticis Diſſertationibus, tum in Faltis ſcribendis faepe uſus eſt C. ſubſidio marmoreorum monumentorum, in quibus multae occurrunt notae, quarum neque fa cilis, neque prompta fuit explicatio, fepara tum opus. a ſe expectare putavit Graecarum antiquitatum ftudiofos, quo in opere non ſolum ex marmoreis, fed etiam ex aereis Graecorum tabulis: varias eorum notas colli geret, haſque explicaret atque illuſtraret. Quae dum animo verſaret, fcriptionique jam manum admoviffet, ecce in lucem prodit Scipionis Maffeii liber de Graecorum figlis l.z pidariis, in quo trecenta fere vocum com pendia ingeniofe: feliciterque enodantur.. Cum C. ab amico librum accepiſſet, ei epi ſtolam fcripfit (relata haec fuit in volumen. diarii Litteratorum. Florentiae editi ) in qua ſummas tribuit Maffejo laudes, quod primus ex omnibus materiem hanc ſeorſim tractandam füfceperit,, magnam in illam con ferens.eruditionis copiam, et acre: prudenſ que judicium.. Non, propterea tamen: ſpar tam, quam fibi ſumpſerat, ille deſeruit, quia, ut ait Auſonius, is crat campus, in quo alius alio plura invenire poteft, nemo om. nia. Et plura certe C.  invenit, cum mille fere notas, aut numerorum vocum que compendia uno volumine colligere po tuerit et explicare illo ſuo acutiffimo inge nio, cui inquirenti et contemplanti omnia occurrere ſe ſeque oftendere videbantur. Ut vero delectatione aliqua alliceret adoleſcen tes, quibus inſuavis fortaſſe et aſperior via deri poterat ſiglarum inveſtigatio, poftquam multa eruditiſſime praefatus effet de notarum origine, vi, utilitateque, opportune ſparſit in toto libro non pauca ad hiftoriam, geos graphiam, chronologiam, ac mythologiam ſpectantia. Ex quibus aliiſque diſciplinis ube riora etiam hauſit, ut ornaret dissertatio nes ſex, quas, abſoluta univerſa notarum ſerie, confecit, ut eſſent operis corollarium. Explicant illae inſignes quaſdam Chriſtianac et profanae antiquitatis inſcriptiones, ficque explicant, ut facile exiſtimari queat, eum qui non comprehenderit rerum plurimarum ſci entiam, quique judicio certo et ſubtili non fit praeditus, in his antiquitatis ftudiis ſatis callide verſari et perite non poſſe. Inſcriptit C. hoc ſuum opus: Norse Graecorum five vocum et numerorum compendia, quae in gereis atque marmoreis Graecorum, tabulis obſer vantur, dedicavitque Cardinali Quirinio, a quo pecuniam ad illud ipſum evulgandum dono accepit. Etenim his temporibus haud illi magna res erat, quae vix fatis efle vide batur ad vitam ſuſtentandam, neceſſarioſque. libros emendos. Praepoſitus dialecticae ſcholae, nihil aliud annui ſtipendii obtinuit nifi octingentos denarios. Hoc eſia fatum videtur nobiliilimae. quidein diſcipli nae, ut pote quae per omnes diſciplinas ma: nat ac funditur, ut qui illam profitentur me: diocribus afficiantur praemiis. Vel ipſi Graeci, quamvis ellent aequi liberalium artium aeftimatores, minam, eſſe voluerunt inerce dem Dialecticorum. Coin.nodiori in ftatu res C. eſſe coeperunt cum traductus fuit ad metaphyſi cam atque ethicam docendam. Tunc eniin ipfius ftipendium erat bis millenorum et am plius denariorum, poſteaque illud ipſum ad quatuor. mille ducentos quinquaginta uſque pervenit, cum proſperae. res multae confecutae fuiſſent. Satis ſuperque id erat homi ni temperato ad vitam beatiſſimam; videba turque libi ſuperare Craffum divitiis. Quan tum vero ſorte ſua contentụs, quantiſque a moris vinculis Academiae Piſanae obftrictus effet, ex eo conjici poteſt, quod mortuo Lu dovico Muratorio Mutinenfis Ducis bibliothe cae praefecto in illius locum fuccedere recu favit, quamvis liberaliſſime ipfius Ducis ver bis invitaretur. Quo cognito ab Emmanue le Comite Richecourtio, qui Franciſci I. Cae faris nomine res Etruriae adminiſtrabat, ipſe fingularibus verbis ei gratias agendas cenſuit, eidemque prolixe de ſua non modo, fed et Cae aris voluntate pollicitus eſt. Id non potuit C. non fumme eſſe jucundum; utque viro de fe et de Sodalitate ſua bene ſemper merito gratum fe oftenderet dedica vit illi PLUTARCO opus de Placitis Philoſopho. tum a se LATINVM factum, vitaque Scriptoris, fcholiis, et diſſertationibus ornatum. Causam ſuſcipiendae novae interpretationis ei dem dederunt naevi quidam, quibus maçı lantur Budaei, Xylandri, et Crụſerii honi num ceteroquin doctiſſimorum interpretationes; ſuſceptam vero ita perfecit, ut ver bu pro verbo reddiderit, multaque etiam attulerit de fuo, quae funt diverfo chara ctere notata, ne attenuata nimis diligentia perſpicuitati officeret, et ne res ipfa omni LATINAE orationis dignitate cultuque deſtitu ta ſordeſceret. In limine operis Plutarchi vi tam ex illius aliorumque veterum ſcriptis a ſe diligentiſſime colletam, et feriem philo ſophorum, quorum placita a Plutarcho pro feruntur, aetatemque, in qua vixerunt, ex. poſuit. Singulis vero operis capitibus brevia adjecit commentaria, quae aut mutilos et hiulcos Plutarchi locos ſupplent, aut de pravatos emendant, aut obſcuros atque per plexos, opportune allatis aliorum philoſo phorum ſententiis, illuſtrant. Siquando au tem longioris eſſe orationis putavit Corſi nius lucem aliquam afferre rebus obſcuriſſi mis, cum non Heraclitus ſolum, ſed et quiſ que fere antiquitatis philofophorum, quo rum ſententias coarctavit et peranguſte re ferſit PLUTARCO, Exotélv8 cognomen me reatur, hujuſmodi illuſtrationes ad finem li bri rejecit. Quo in loco voluit etiam recenfere illuſtriores ſententias, quae propriae di cuntur recentiorum philoſophorum, cum ea rum tamen manifeſta appareant veſtigia in Plutarchi libro, quod profecto ad veterum gioriam amplificandam plurimum valet. Ta les ſunt attractionis leges, vireſque, ut di cuntur, centripeta et centrifuga, Charteſiani vortices, lunae phaſes, maculae, quod que haec fit terra multarum urbium et mone tium, converfio folis, planetarum, fiderum que certa quadam celeritate ac periodo cir ca axes ſuos, natura, coſtans motus, rever lioque cometarum, telluris motus, quodque ex eo cauſſa ' maris aelus repetenda fit jegew’ewe explicatio, aliaque hujuſmodi mul ta tum ad corporum, tum ad animi na turam pertinentia. Profecto nihil dulcius erat Corfinio quam per abdita remotioris antiqui• tatis permeare, et inde nova et inexpecta ta deferre, quae hominibus contemplanda bono in lumine exhiberet. Nam, ut Ari ſtoteles inquit, fuo quiſque artifex ftudio atque opera impenſius delectatur. Cum igi tur accepiffet ab Antonio Franciſco Gorio amiciſſimo ſuo graphidem eximii cujųſdam anaglyphi, quod Romae viſitur in Aedibus Farneſianis, non magnopere hortandus fuit, ut in illo exponendo elaboraret. Exhibet hoc ſuperiori in parte Herculem cuin Eų. ropa, Hebe, Satyriſque quieri, voluptati que poſt exantlatos labores indulgentem, in inferiori vero tripodem Apollini ſacrum, Ar givae Junonis Sacerdotem, atque alatam Virginem, et Herculem demum ipſum ſe ſe expiantem, ut purus ad Deorum conci lium afcenderet. Hinc et illinc anaglyphum ornant binae columnae cum Graeca inſcrie ptione, quae multis verſuum decadibus Her culis geſta commemorat: in ſupremo tan dein anaglyphi loco octodecim hexametra car mina exculpta ſunt, quibus Herculis labores et certamina declarantur. Praeclariſſimi hujus monumenti explicationem Eduardus libello quem ad Scipionem Maffejum inſtituit, com plexus eſt; ex eoque judicari poteft, vehe mens afiiduumque ftudium ipfi copiam eru ditionis dediſſe, naturam vero tribuiſſe in genium ad conjiciendum divinandumque fa ctum. Et fane divinationis cujuſdam vide illum potuiſſe laceras ac depravatas multorum verſuum lacinias feliciſſime corri gere atque ſupplere. Magnae antiquitatis ar gumentum praebere ſuſpicatus eſt Doricam dialectum, qua exarata eſt inſcriptio, ne- ! que ipfe affirmare. dubitat opus paullo poſt Alexandri tempora', antequam Q. Flaminius priſtinam Graecis libertatem redderet, perfe &um fuiſſe. Sed aliter alii ſentiunt qui bus nunc plerique affentiri videntur. Hoc ipſo ferme tempore Corſinius ejuſdem Gorii poſtulationibus Diſſertationes quatuor con ceſſit, quae impreſſae funt ab illo in vi. vo lumine Symbolarum litterariarum. Extricat pri ma epigraphen ſculptam in labro interiori cujuſdam crateris ahenei Mithridatis Eupa toris, qui crater in muſeo Capitolino, Vide Winkelman, Monumenti antichi inediti Trel. Prelim. Idem quaedam alia notat in quibus deceptum fuiſſe C. arbitratur Sic interpretatur C.  mire involutam in. ſcriptionem: Regis Mithridatis Eupatoris Regni anno 54. Eupatoriftts GYMNASII-- hoc eft civibus Eupatoriae, qui IN GYMNASIO certarunt -- ſenectutem conſeival, quod erat ad laudem vini, quo plenus crater vi &ori con cedebatur. Alii aliter interpretanda extrema pracſertim inſcriptionis verba exiſtimarunt, quorum fententiam plerique nunc fequuntur affervatur. Secunda patefacit obſcuros igno ratoſque dies natalem et fupremum Plato nis, qua occafione aliorum etiam virorum illuſtrium Archytae, Philolai, Iſocratis, Ly fiae, Dionis, et Socratis aetates et tempora perſequitur. Explicat tertia adverſam par tem numiſmatis Antonini Caeſaris, in qua Prometheus humanum corpus ex luto fin gens, et Pallas capiti mentem, papilionis imagine expreſſam, inſerens confpiciuntur. Curioſa ſunt quae excogitavit C., ut perſuaderet hominibus morem repraeſentandi humanam mentem ſub papilionis imagine non ex miris hujus volucris affectionibus et natura, non ex ipſa animi immortalitate, circuitu, aut tranſmigratione, non ex Chal daicae, Graecaeque fapientiae fontibus, non ex arcanis amoris myſteriis, fed ex fola ar tificum imperitia profluxiſſe. Cum enim unum idemque nomen pſyches papilionem et ani nium deſignet, rudis artifex, qui primus ani mum exprimendum ſuſcepit, non putavit hu jus ideam poffe melius excitari, quam obje eta imagine illius rei, quacum is commune nomen habet. Quarta Diſſertatio demum in eo verſatur, ut oftendat mentitam et falfam effe LATINAM quamdam inſcriptionem, quae Piſis vilitur in Scortianis aedibus. Summi labores, quos C. impendit in conficien dis, quos retulimus, libris, magna compen ſati fuerunt gloria, ut unus e multis, qui illuſtrandae Graecae praefertim antiquitati ſe ſe dederunt, excellere judicaretur. Cujus de praeſtanti in hoc rerum genere doctrina tan ta etiam judicia fecit Scipio Maffejus, quan ta de nullo; cujus teſtimonii auctoritas ma xima reputari debet non folum quod ab hox mine prudentiſſimo proficifcitur, fed etiam quia figulus invidens figulo, faber fabro, ut eſt Heſiodi dictum, alterius laudi et gloriae | minime favere ſoleat. Ex mutua opinione doctrinae, fimilitudineque ftudiorum orta eft inter cos jucundiffima amicitia, cujus tanta vis fuit, ut C. aeſtate an.quamvis non bene valens, Veronam venerit aliquot menſes commoraturus apud amicum. Quo tempore inter eos fuit familiariſſima focietas, et communicatio ftudiorum. Dono accepit C. a Maffejo tercentum fere Graecas inſcriptiones (has Chici1shullius collegerat, et fecundae Afiaticarum antiquitatum parti reſervaverat ) ea conditio; ne, ut eas Latine redderet atque illuſtraret, Satisfecit ille aliqua ex parte promiffo ſuo, cum anno inſequenti edidiſſet eas inſcriptio. nes, quae ad Athenas ſpectabant; eaſdem que iterum cum commentariis edidit quam driennio poft, ut eſſent ornamento quarto Faftorum volumini. Nono menſe poftquam in Etruriam rediit C., moritur Alexander Politus, quocum ille ita vixit, uit. quem pauci ferre poterant propter difficilli mam naturam, hujus fine offenfione ad fum. mam fenectutem retinuerit benevolentiam. Mortuo autem Polito neque inquirendum neque conſultandum fuit quis illi ſucceſſor in Academia Piſana daretur, cum omnium oculi ftatim in C.conjecti fuiſſent. Ita hic exeuntė poftquam octodecim fere annos philoſophiam tradidif ſet, munus docendi humaniores litteras li bentiſſimo animo ſuſcepit. Initio propoſuit fibi (nam muneris ratio, et adolefcentium utilitas ab eo poftulabant, ut cum Graecis Latina conjungeret ) explanare Plutarchi parallelas ROMANORVM vitas, ut inde occaſionem ſumeret utriuſque populi leges inter ſe conferendi. Memoriter dicebat e ſuperiori loco, quod ad praeceptoris et ſcholae dignitatem plurimum tum conferre putabatur; et quae tradebat inſignita e rant luminibus ingenii, et conſperſa erudi tionis ſententiarumque flore. Genus dicen di erat quiétum et lene, purum et elegans, ut maxime teneret eos qui audiebant, et non folum delectaret, fed etiam fine fatieta te delectaret. Nulli diſcipulorum aditum ſermonem, congreſſumque fuum denegabat, quin immo eos bis in hebdomada domum ſuam invitabat, ut in ftudiis exerceret ROMANORVM ANTIQVITATVM. Domi etiam tradebat metaphyſicam, quo onere non placuit Academiae Moderatoribus illum libe rare niſi  quo quidem tem pore Venetiis evulgavit ſuas Inſtitutiones Me taphyficas. In his adornandis illud unum pro pofitum fibi fuit, ut in animis adoleſcentium rectas de animae immortalitate, arbitrii li bertate, Dei exiſtentia, ceteriſque naturalis theologiae dogmatibus notiones infereret, quibus in gravioribus aliis diſciplinis veluti praeſidiis uti pofſent, quibuſque caverent a peſte quadam hominum non tam religioni, quam reipublicae infeſta, quae rationem per vertendo ubique venenatas opiniones diffe minare non veretur. Subaccuſent aliqui, fi lubet, C., quod nimis, parcus fuerit in pertractandis quibuſdam rebus, quae in ca, in qua nunc ſumus, luce ignorari mi nime poſſe videntur; omnes profecto uno ore fateri debent tales effe hafce Inſtitutio nes, ut cupidi metaphyſicae nullibi poffint refrigerari ſalubrius atque jucundius. Poftre mum hoc operum fuit, quae C. Phi loſophiae dicavit, nifi dicere velimus, eti am cum minime videretur tum maxime ila lum philofophari conſueviſſe, Quod declarant ejus Latinae orationes ad Academicos Piſanos refertae Philoſophorum fententiis, faluberri ma praecepta, quibus adoleſcentes ad omne officii munus inftruebat, doctiflimoruin Philoſophorum familiaritates, quibus ſemper flo ruit, et ars illa diſtinguendi vera a falſis, colligendi ſparſa, eaque inter ſe conferendi, diligenter examinandi omnium rerum verbocum rumque pondera, nihilque afferendi fine evi denti ratione, aut faltein probabili conjectu ra in qua arte quantum inter omnes un Aus excelleret, praeſertim oftendebat, in vetuftatis monumenta inquireret. Hujus inquiſitionis uber fane fructus fuit Diſſertatia illa de Minniſari, aliorumque. Armeniae Regim nummis, Et. Arſacidarum epocha, quam idem in lucem extulit. Difficulta tis maximae fuit oftendere Minniſari num mum, quem praecipue illuſtrandum C. ſuſceperat, ad illum fpectare Maniſarum Armeniae et Meſopotamiae. Regem, de quo Dio Caffius in libro ROMANAE HISTORIAE mentionem fecit, et Arſacidarum epocham uon in Parthiae. folum, fed etiam in: Arme niae regum nummis inſcriptam fuiffe, eam. que ab anno Urbis conditae Dxxv. initium duxiſſe. Antea quidem doctiſſimorum viro rum Uſſerii, Petavii, Noriſii, Spanhemii, Vaillantii, et Froelichij fententia fuerat, ſe rius. Arſacidarum imperium incepiſſe, adver ſus quam ſententiam C. ita pugnavit, ut veritas non minus quam modeſtia eluxe rit. Quoniam vero in antiquitatis ftudio multae res inter fe ita nexae et jugatae funt, ut, inventa una, aliae, quae prius latebant, ſe ſe contemplandas offerant, ean ob rem Corfinius in Minniſari regis num mo explicando varia ſcriptorum loca corri gere et ſupplere, verum Darii genus expo nere, Tiridatem alterum, Arfamem, aliof que Armeniae Reges Vaillantio prorſus in cognitos proferre potuit. Res in hac Differ tatione contentae, non fine laude oppugnatae fuerunt a Jeſuitis Froelichio et Zacharia, reſponditque ad ea, quae objecta fuerunt, ſine iracundia C.. Eteniin veritatis unice amans alios a fe diffentire haud ini quo ferebat animo, ſemperque deteſtatus eſt eos, qui ſuis ſententiis quaſi addicti et con. fecrati etiam ea, quae plane probare non poſſent, conſtantiae, non veritatis cauſſa de. fenderent. Propugnationem quoque Corſinii libello (*) ſuſcepit ejus convictor et fodalis Huic titulus eſt. Lettere critiche di un Pafton r Arcade ad un Accademico Erruſco nelle quali ſi ſciola gono le difficoltà fane contro un'opera del Reverendiſſia mo Padre Corſini nel Tom. IX. della Storia leveraria of lialia &e, in Pisa in Carolus Antoniolius, qui quidem non me. diocria adjumenta illi praebuit, cum pluri mum valeret in omni genere ftudiorum quae ipſe excolebat. Magni quoque Acade miae fuit Antoniolii opera in Graecis littea ris tradendis toto illo ſexennio, quo C., coactus capeſſere, ſummum Sodalitatis fuae magiſtratum, bona Principis cum ve nia, et fine ulla ſtipendiorum jactura Piſis abfuit. Hic Romam venit menſe. ardens. defiderio indicia veteris memoriae, quibus mirabiliter urbs. illa abun dat (quacumque enim quis ingreditur in aliquam hiſtoriam veftigium ponit ) cogno ſcendi. Sed raro ei poteſtas dabatur huic ſuo. deſiderio, fatisfaciendi, cum podagrae dolori bus ſaepiſſime vexaretur, et munus ſuum diligentiſſime exequi vellet. Quanta vero pru dentia ac dexteritate fuerit in tractandis ne. gotiis, quanta aequitate in conſtituendis, temperandiſque, ſi res pofcebat, conſtitutis jam legibus, quanta humanitate erga omnes, quantaque vigilantia ac providentia in con fulendo rebus. praeſentibus, praecavendoque futuras, fatis praedicari non poteft. Cum autem nihil ſine aliorum conſilio agere ei mos eſſet, et facilitate ſumma uteretur in füos adjutores procuratoreſque, inde norza nulli materiem ſumpſerunt falſae criminatio nis, quod ad aliorum magis quam ad ſuun arbitrium res Familiae adminiftraret. Omnino totum fe tradidit Sodalitati, to tamque fic rexit, ut oblitus commodorum ſuorum omnibus proſpexerit. Non eſt credi bile quanto animi dolore angeretur, fi ali quis ſuorum in crimen vocabatur. Horrebar enim homo innocentiſſimus vel ipfam pecca ti ſuſpicionem. Sed non propterea fontibus iraſcebatur, hofque clementia magis atque manſuetudine, quam animadverſione et ca ftigatione ad frugem revocare ſtudebat. Cum vero feveritatem, fine qua reſpublica adıni niftrari non poteſt, adhibere cogebatur, similis, ut praeclare admonet CICERONE, legum erat, quae ad puniendum non iracundia, fed aequitate ducuntur. In his occupationi bus muneris ſui, ne plane ceſſäre a fcriben do videretur, extare voluit explicationem đuarum Graecarum inſcriptionum, quae mus ſeum ornant Bernardi Nanii Veneti Senatoris. quam feliciter id praeftiterit, perſcrutata prius litterarum priſcarum, quibus illae con fcriptae ſunt, forma atque vi, facile judica bunt ii, qui ſunt harum deliciarum amato Tes. Tentaverat eamdem rem Franciſcus Za nettus, ſed longiſſime aberravit a vero ejus interpretatio. Ipſe C. cum Anconae effet ineunte eoque prae ſente cum multis aliis detecta fuiſſent atque agnita corpora Sanctorum Cyriaci, Marcelli ni et Liberii, quos ſingulari obfequio ea dem civitas venerațur, incitatus fuit, ut ali quid laboris impertiret illorum Sanctorum illuſtrandae hiſtoriae, definiendoque praeſer tim tempori, quo tranſata eorumdem cor pora fuerunt in eum, ubi nunc jacent, lo cum, et quo Anconae coli coeperunt. Haec C., edito commentariolo, accidiffe - ftendit exeunte faeculo et ex ipfis an tiquitatis monumentis quibus ſententiam ſuam confirmavit, quatuor Anconitanorum Epiſcoporum nomina in lucem protulit, quaç uſque ad id tempus fuerant incognita, Per pauca in hoc commentariolo attigit de S, Liberio, quod ejus hiſtoriam involutam tenebris et fabulis exiſtimabat, Mox cum ei aliquid luminis affulfiſſet, et monumentorum ope, et mirabili illa ſua conjiciendi arte pa tefacere potuit Liberium fuiſſe unum ex fo ciis S. Gaudentii Abfarenſis Epiſcopi, qui circiter an. MxXxx. Anconam venit, fo litariam vitam acturus in ſuburbano mona ſterio Portus Novi. Harum rerum inventio multis laudibus. celebrata fuit a Scriptoribus annalium Camaldulenſium: pergrata quo que fuit. Benedicto XIV. pro ejus. fingulari ftudio in Anconitanam Ecclefiam. Hic cum ſaepe ad congreffum colloquiumque ſuum invitaret Eduardum, quod ejus ſummum in genium, fuaviffimos. mores, atque eximiam probitatem et nofſet et diligeret, ſaepe quo que ipſum hortabatur,, ut ea pergeret man dare litteris, quae abdita Chriſtianae anti quitatis patefacerent. Sed fuerunt juftae ca uffae quare. C. amantiffimis. Pontificis M. conſiliis minime obtemperavit; et quid quid fubciſivorum temporum incurrebat, quae perire non patiebatur, libentiffime concedebat ſuis priſtinis ftudiis. Ruſticabar cum eo in Tuſculano, quando epiſtolam ſcripſit ad Paullum Mariam Paciaudium, in qua plura de Gotarzis eximio nummo, ejuſque, Bar danis, et Artabani Parthiae Regum hiſtoria perſecutus eſt, et pro jure noftrae amicitiae ab ipſo poftulabam, ut in otio, quod raro da batur, et peroptato illi dabatur, ceffaret a libris et a ftilo. Verum cuin is eſſet ut fi ne his ftudiis vitam inſuavem duceret, di cere folebat hujuſmodi ſcriptiones non pre mere, ſed relaxare animum. Et relaxatione certę aliqua ille indigebat, cui grave adeo erat, quod multi appetunt, ceteros regendi munus, ut onus Aetna majus ſibi ſụſtinere videretur. Poterat quidein illi eſſe lovaniens to recordatio multorum benefactorum, inas ter quae maximum illud reputari debet quod eo ſexennio, quo ad Sodalitatis gum. bernaculum ſedit, viginti domus, five cole legia conſtituta sunt. Interim advenit tem pus, quo magiſtratu fe abdicare, et extre mos auctoritatis fuae fructus capere debe bat in provehendo digno viro, qui fibi fuc cederet. Verum minime illi: contigit, ut funt ancipites variique casus comitiorum, quem optabat, exitus. Peractis comitiis, fine mora rediit ad Academiam Piſanam et ad il lamºquietam in rerum contemplatione et co gnitione maxime poſitam degendae vitae rae tionem, qua qui frueretur, negabat ei aliquid deeffe ad beatė vivenduin. Liber de Praefe. ctis Urbis ei erat in manibus; Graecas in fcriptiones in Aſia repertas, quas, ut ſupra retulimus, a Scipione Maffejo dono accepe rat, quafque jampridem Latinas fecerat, co pioſis commentariis explicabat; aderat diſci pulis ſuis; veniebat frequens in Academiam, afferebat res multum et diu cogitatas, facie batque fibi audientiam hominis erudita, com pta et mitis oratio. Idem efflagitatu et coae tu amicorum inftituta. hoc tempore opera abrupit, ut explicationem lucubraret cujuf dam nummi recens in Auſtria reperti, in quo erat nomen et imago Sulpiciae Dryan tillae Auguſtae. Conjecit ille feminam hanc libertam fuiſſe, libertatémque accepiffe a Sul picio quodam, ab eoque in Sulpiciam ģen tem receptam; nupfiffe demum Carinó fcea leftiffimo Imperatori. Haec porro incerta. Illud unuin ſine ulla dubitatione colligi pof fe videtur ex nummi fabrica, characterum forma, feminaeque ornatu, illum ipſum num mum cuſum fuiſſe inter Elagabali et Diocle tiani imperium, proptereaque Dryantillam ad aliquem Imperatorum, qui illo intervallo re gnarunt, pertinere. Neque his contentus Edu ardus voluit etiam excutere hiſtoricorum et rei nummariae interpretum mire inter fe dif ſidentes opiniones de Aureliani ac Vaballa thi imperio atque aetate, ac poftremo ſuam ſententiam proferre. Fuit haec, Aurelianum exeunte Julio, vel ineunte Auguſto imperium ſuſcepiſſe, eaque multis et gravibus confirmatur argumentis. Ad ex vero diluenda, quae contra dici poterant ex illorum ſententia, qui praeſertim niti vide bantur lege quadam data a Claudio VII. Kal. Novembris Antiochiano et Orfito Con ſulibus, ut ſerius Aurelianum inchoaffe im perium perſuaderent, diſtinguit Conſules or dinarios a ſuffectis. Hac autem conſtabilita diſtinctione, quae maxime apta erat non fo lum ad id, quod requirebat, ſed etiam ad expediendos alios, quos vel ipſe Scaliger in diffolubiles in Chronologia exiſtimaverat now dos, concludit eamdem legem editam fuiffe anno quando An tiochianus et Orfitus ſuffecti Conſules erant, minime vero anno cclxx. iiſdem Confuli bus ordinariis. Nec minor difficultas erat o ſtendere, qui fieri potuerit, ut Aurelianus ad vil. Imperii annum perveniffe dicatur, et explicare locum Euſebii, qui tradit in ejuſdem tempora incidiffe in. Antiochenam Synodum: exploratnm eft enim hanc Sya nodum anno cclxix. incoeptam et abſolutam fuiſſe. Feliciter haec praeftitit Corſi nius, cum probaſſet Aurelianum anno et ultra antequam a legionibus poft mortem Claudii Imperator fieret, ab ipfo Claudio deſtinatum ſibi fuiſſe ſucceſſoreni, adeoque ampla poteſtate donatum ut ab hoc tema pore nonnulli ejus Imperii initium ſumere potuerint. Quae vero de Vaballatho diſream ruit C. haec ferme ſunt. Illum Ze nobia procreavit ex Athena priori viro, ejuf demque nomine ab uſque dum Claudius in Gothicum bellum uni ce intentus vixit, Orientis imperium te H4 ut nuit. Ex quo factum eſt, ut quae hoc tem pore cuſa funt Vaballathi numiſmata, Impe. satorem Caefarem Auguftum illum nominent. Poftquam vero ille deſciviſſet a matre, Aureliano adhaereret, huic quidem conjun octus in nummis repraefentari voluit, minime vero paludamento, radiata corona, fplendi doque Augufti nomine decoratus, ſolo Im peratoris contentus. Praetereo alia multa Scitu digniſſima in hac Diſſertatione conten ta, ne, cum nimis longus in recenfendis ſcriptis operibus fuerim, videar oblitus con ſuetudinis et inſtituti mei. Hujus libelli (cil ra liberatus C. totus in eo fuit, ut ab Solveret ſeriem Praefectorum Urbis ab Urbe con dita ad annum afque five a Chri fto nato DC. Etenim poſteriora tempora mi nime inquirenda putavit, quibus, penitus fere exſtincto Urbanae Praefecturae fplendo re ac dignitate, nonniſi tenue nomen, ac leviſſima priſtinae majeſtatis umbra ſuperfuit; ex quo fiebat, ut nihil inde lucis facra et profana ſperare poffet hiſtoria, cum contra uberrimam fplendidiffimamque utraque acci. peret ex veterum Praefectorum ferie, horumque aetate rite conſtituta. Ut vero non utilitate ſolum, ſed etiam jucunditate lecto res invitaret C., operi varia opportu ne admifcuit, quae marmora et ſcriptores, quorum teftimoniis ubique fere utitur, cor rigunt et illuſtrant, interpretumque falſas opiniones atque errores emendant. Non ego ſum neſcius multos anteceſſiſſe Corſinium in hujuſmodi pertractando argumento; ex qui bus omnibus, ac praefertim Jacobo Gotho fredo ac Tillemontio plurima in rem ſuam tranftulit. Sed ii exiguis finibus operam fuam continuerunt, fi unum excipias Feli cem Contelorium, qui contextam a Panvi. nio Praefectorum ſeriem ad annum uſque traduxit. Tale tamen non fuit Contelorii opus, quin eadem de re aliquid politius, copiofius, perfectiuſque proferri a C. potuerit. Et protuliffe certe ipſum oportet, cum magna fuorum laborum prac conia ab intelligentibus viris reportaverit. Mi rari hi tantummodo viſi ſunt quod aut is in gnoraverit hac ipſa in re plurimum quoque elaboraſſe Almeloveenium, aut quod hujus fcripta conſulere praetermiſerit. Id profecto et praeſtitiſfet abundantius et copiofius pro poſitae fibi rei ſatisfacere potuiſſet, neque poftea ventofiffimi homines triftem fuftinuif fent notam calumniatorum, qui nullo in pre tio ob pauca quaedam a C. praetermif ſa hujus opus habendum inflatis buccis clamitarunt. Ne hi verbofis fibi famam ad quirerent ſtrophis vel apud imperitam mul titudinem, factum eſt diligentia Cajetani Mari nii, qui librum Bononiae edidit, quo non folum eorum obftitit injuriis, verum etiam nova a ſe inſcriptionum ope detecta Praefectorum Urbis nomina in lucem protulit. Sed ad C. revertor, qui dum fine intermiſſione obſequebatur ftudiis ſuis et adoleſcentium utilitati, oblitus vide batur fe jam fenem factum (quando enim typis mandavit librum de Praefectis Urbanis ſexageſimum primum aetatis annum agebat ) et infirma aegraque valetudine effe. Sed ac Hujus eſt inſcriptio: Difefa per la ſerie de' Pree fetti di Roma del Ch. P. Corfini contro la cenſura farie. le nelle offervazioni ſul Giornale Piſano, in cui le della Serie si suppliſce anche in affai luoghi e le emenda. In Bon logna e AQUINO (si veda) in 4. Vide Pilanas Ephcm meridcs eidit miſerabilis caſus, qui repente ipſi onga nem ſpem non folum litteris, ſed etiam na: turae vivendi praecidit. Erat haec conſuetu. do Academiae Piſanae, ut qui humaniores lite teras profitebantur, Kalendis Novembris, quo tempore inftaurari ftudia folebant,  LATINAM  om rationem haberent ad vehementius inflamman dam cupidam doctrinarum juventutem. Di cebat eo ipſo die Eduardus (vertebat tunc annus tertius fupra fexageſimum hujus fae tuli ) de viris, qui et ſcriptis editis, in ventiſque rebus in Academia maxime florue runt, eaque erat oratio, ut nunquam is di xiſſe melius judicaretur. Cum eo pervenirſet, ut exultaret in immenſo GALILEI (si veda) laudum campo, repente apoplexis ipſum perculit, ac ſemivivum reliquit. Dolore hujus caſus o ſtenſum eft quantum ille Academiae eſſet ac ceptus. Aegre domum deductus, ibi quatri duo cum morte conflictatus eſt. Quinto die, multis adhibitis remediis, levari coepit, ac praeter ſpem paullatim convaluit. Ut arden ter deſideraret priſtinas recuperare vires, efficiebat ille fuus ſingularis amor in Aca demiam, cui majus ſe non poſſe munus afferre videbat, quam fi inſtitutum juſſu Prin cipis biennio fere ante opus de ejuſdem Academiae ortu, progreſſu ac vicibus ad umbilicum perduceret. Plurima collegerat at que vulgaverat ad hanc hiſtoriam pertinen tia vir diligentiſſimus Stephanus Maria Fa bruccius Juris civilis in eadem Academia do ctor, quae quidem ampla et bella materies effe poterant ad novum aedificandum opus. Hoc igitur ſubſidio inſtructus Eduardus, ala cer ſe ſe ad rem accinxit. Et primo quidem ILLUSTRIVM ITALICORVM GYMNASIORVM ori ginem ſubtexuit, diſſerenfque quatuor prio ribus capitibus de prima GYMNASII PISANIi institutione, neque ab xi. neque a xiv. Chris fti faeculo, ut multi ſcripſerunt, fed ab ine unte XIII. vel exeunte xii. illam repeten dam effe exiſtimavit. Ex hoc tempore ad annum uſque, quo anno Fa bruccius contendit coepiſſe Academiam Piſa nam, hanc fi nullam dicere nolumus, mi nimain certe fuiſſe oportet. Conſecutae des inceps yices multae, ut ipſa modo langues ſcere, modo ad interitum properare, vires vitamque modo recuperare, ac faepe etiam veluti extorris ſedem mutare viſa fuerit, Quae omnia octo conſeqılentibus capitibus perſecutus eft Eduardus. Cum vero Acade miae res, imperante Coſmo I. ceteriſque.non solum Mediceis, sed etiam Lotharingis Principibus, feliciflime proceſſiſſent, quibus ab his beneficiis, ſplendore atque gloria aucta, quibuſque gubernata legibus consuetudinibusque, variis interdum pro temporum varietate, exposuit in quatuordecim capitibus, quo rum nonnulla adumbrata magis quam de fçripta videntur. Haec omnia primam ope ris partem conficere debebant, cum refer vafſet alteram, quam tamen minime attigit, Doctorum vitis. Dum haec scripta legebam videbatur mihi pofſe ab Auctore defiderari major rerum copia, magiſque apta ac preſ fa oratio. Inest quidem in omnibus C. scriptis luxuries quaedam, quae, ut in herbis ruſtici ſolent, depaſcenda erat; quod fi eft vitium in omni oratione, maximum tamen eſt in hiſtoria, in qua pura et illu fțris brevitas expetitur. Eodem tempore, quo Eduardus in Academiae historiam incumbebat, ne plane superioris aetatis Audia de servisse videretur, epistolam fcripfit ad ami cum et collegam fuum Franciſcum Albi zium, in qua de Auſonii Burdigalensi consulatu egit, Desperaverant vel ipsi chronologiae Patres Panvinius et Pagius, computationem quamdam annorum ah. Auſonio factam in e pigrammate, ad Proculum, in quo, ab Urbe condita ad consulatum suum annos enumeravit, conciliari posse, cum Varroniana epocha, ideoque, novam excogitarunt epocham XIII. annis Varroniana pofte riorem, qua non solum Ausonium, sed etiam Arnobium usos fuisse scripserunt. Horum aliorumque Auſonii interpretum errorem ut corrigeret Eduardus, probare debuit. Auſonium non Romanum, modo, fed et Bur digalenſem geffiffe consulatum, et Romanorum et Burdigalenfium Consulum fastos conscripsisse. Qua distinctione constabilita, facile fuit oftendere eumdem Aufonium in ea pigrammate, quod ad Heſperium filium ini fit cum Romanis faſtis, de Romano, a ſe ges: ſto consulatu, in epigrammate autem illo, quod est ad Proculum, de patrio, municipali, quinquennali (etenim in municipis omnibus majores magiſtratus quinquennales eſſe ſolebant) de Burdigalenſi nimirum con. ſulatu locutum fuisse. Hanc epistolam secuata est altera ad Joannem Chrysostomum Trom. bellium Canonicum Regularem, in qua do nummo quodam ab Athenienſibus Livia Augustae dicato, illiuſque aetate differens, feminam illam non ſupremis tabulis, ſed matrimonii jure a marito nomen Auguſtae accepiſſe pluribus monumentis comprobat. Quae quidem aliaque ex abditiſſima antiqui. tate deprompta, quae fparfit C. in hac epiſtola, ut jucunda lectoribus, ita iif dem plena moeroris fore arbitror, quae in extrema pagina ejuſdem epifolae Trombel lius adnotavit. Scribit enim ille: Dum extre mam hujus epiſtolae partem edimus, monemur, eodem fere tempore, quo Brixiae egregius Maza zuchellius, inclytum Corfinium noftrum Pisis apoplexi repente ereptum. Eheu litterae aflicłae ! o amicos incomparabiles ! o annum vere calami 10fum et peffimum ! Dies, quo illum apople xis iterum invafit, fuit v. ante poft quem caſum tribus ferme diebus vixit fine ſenſu, Sepultanta tus eft in Aede S. Euphraſiae totius Acade miae luctu, quae hanc calamitatem acerbif fime doluit, doletque adhuc reminiſcens ſe orbatam homine, in quo plurimae erant lit terae eaeque interiores, divinum ingenium, ac induſtria fumma; fruebatur vero nominis celebritate, ut hac fola muneris fui fplendorem tueri potuiſſet. Atque haec vi tae decorabat dignitas et integritas. Quan tả gravitas mixta comitati in yultu et moribus ! quantum pondus in verbis ! ut nihil inconſideratum exibat ex ore ! quam diligen ter inquirebat in fè ſe, atque ipſe ſe ſe ob Servabat I Oinnino tantus erat in ipso ordo, conſtantia, et moderatio dictorum omnium atque factorum, ut probitatem et religio nem prae se ferret, et ad omne virtutis de cits natus videretur. Quidquid come loquens, et omnia dulcia dicens mirabiliter ad se diligendum omnium ani mos alliciebat; si vero in familiari sermo ne a quopiam dissentiret, contentiones disputationesque vitabat, quod non tam na turae quam virtutis erat. Etenim iracun diae aculeos aliquando sentiebat, sed hos perpetuus cupiditatum domitor frangebat, pla neque occultabat. Secum ipse vivens animi triftitiam frequenter patiebatur, praeſertim si contemplaretur misera, in quae incidimus, tempora, quibus corrumpere, et corrumpi saeculum vocatur. Quod vero nonnulli per verſe adeo abuterentur philofophia, ac prae ſertim metaphyſica, ut ea animos a religio ne avocarent, tanto illum perfundebat horrore, ut vehementer poenitere eum non nunquam videretur industriae suae, quam in erudienda juventute ad recentiorum philoſo phorum dogmata inſumpſerat. Quae quidem poenitentia injurioſa mihi videtur; omnium artium parenti philosophiae, quasi ejus culpa, quae deflebat mala C., accidif ſent. Etenim ſunt unicuique ſcientiae: certi fines ac termini ab omnium rerum modera tore Deo constituti, quos qui tranfilit, nae ille devius in praecipitem locum ruat necese est. Sed ad C. revertor, de cujus laudibus non eft tacendum ſummae illum bonitati ingenuitatique ſummam dexterita tem, ſi oportuiſſet, conjűxisse. Liberalis minimeque cupidus pecuniae hanc facile a se extorqueri patiebatur. Virorum litteris illus ftrium amicitias ftudiofillime coluit, amavitque in primis Trombellium et Paciaudium, quo rum mentionem fupra fecimus, quorumque conſuetudinis magnum cepit fructum eo prae sertim tempore, quo Romae fuit. Dolui in pſum combufliffe, quas ab amicis accipere solebat, epistolas, quia ſciebam in iis erudita multa contineri: eae quidem mihi non me diocri subsidio futurae fuiſſent huic explican dae vitae. De qua fatis erit dictum, fi hoc unum addam, eumdem ineditas reliquiffe bi nas Dissertationes de S. Petro Igneo, et B. Joanne delle Celle; librum de civitatibus, quarum mentio sit in graecis nummis, ſex que Latinas orationes habitas in Academia Piſana, ex quibus lenitas ejus fine nervis cognoſci potest. Opere: “Instıutiones philosophicae, ac Mathemaricae ad ufum Scholarum Piarum: Florentiae typis Paperini, continens physicam generalem, continens libros de coelo Es mundo, continens tractarum de anima, E metaphysicam  continens ethicam vel moralem continens institutiones mathematicas Editae iterum fucrunt hae institutiones in V. mos diſtributae Bononiac ex ty pograghia Laclii a Vulpe cum hoc titulo Cl. Reg: Scholarum Piarum, et in Pisana Academia Philosophiae Professoris Institutiones Philosophicae ad un fum scholarum Piarum edirio altera auctior et emendarior; Ragionamenti intorno allo fato del fiume Arno, dell acque della Valdinievole, In Colania appresso Heng Werergroot, in 4. “Elementi di Matiemasica, ne' quali sono con migliori ardine e nikovo metodo dimostrare le più nobili e necesaria proposizioni di Euclide, Apollonio, e Archimede, Ch. Reg. delle Scuole Pie: in Firenze. nella Stamperia di S. A. R. per li Tartini, e Frasa ahi in 8. Hace elementa mathematica edita secundo fuerunt Year I 2 1 netiis apud Antonium Perlinum, in qua edie tione quaedam mutata ſunt, emendatufque error, quo cao ptus fuerat Auctor, dum in priori editione exposuit propoíitionem XXXV Venetae huic editioni a djc&us est ejusdem Auctoris liber della Geometria Pranica; Ragionamento Istorico Sopra la Valdichiana, in cui si descrive la antica e presente suo stato” (Firenze, Moucke); “Faſii Anici in quibus Archonium Athenienfium sea ries, Philosophorum, aliorumque illustrium Virorum deras arque praecipua Acicae historiae capita per Olympicos annos disposita describuntur, novisque observationibus illustrantur: ACl. Reg. Scholarum Piarum in Pisana Academia Philosophiae Professore, Florentiae, ex typographia. Giovannelli ad insigne Palmae in Platea S. Eliſabeth. ex Imperiali typographia Cl. Reg. Scholarum Piarum in Acadeo mia Pisana Philosophiae Profeſoris Differtationes. Agonisticae, quibus Olympiorum, Phychiorum, Nemeurum, ale que Isthmorum lempus inquiriiur ac demonftrarur: Aco redit Hieronicarum catalogus eduis longe uberior Es accurarior. Florenciae ex typographia Imperiali. In cxtrema pagina hujus libri öxhibetur integra feries menfium Macedonicorum, Atticorum, et Romanorum ad de mondirandun veruna corum ficum ac connexionem; quam ſeriem hoc quoque in loco nos exponemus, quia rem gratam antiquitatis ſtudioſis facturos arbitramur. Series enim a C. contexta differt nonnullis in nienſibus ab ca quam Scaliger, Uſterius, Petavius, Dodwellus, aliique descripferunt, i Macedonici Atrici Romani Lous Gorpiaeus Hyperbercraeus Dlus Apellaeus Audynaeus Peritius Dystrus Xanthicus Artemisius Daiſius Panemus Hecatombeeon Meragirnion Boedromion Pyanepſion Maemacterion Pofideon Gamelion Anthefterion Elaphebolion Murychion Thargelion Scirrhophorion Julius Augustus September October November December Januarius Februarius Marrius Aprilis Majus Junius Lettere intorno al saggio di Maffei intitolato: Graecorum Siglae lapidariae. Extat del Giornale de’ Letterati pubblicaro in Firenze notae graecorum, five vocum Ex numerorum compen dia, quae in aereis atque marmoreis Graecoruin rabulis ob. fervantur. Collegii, recenſuit, explicavit, eaſdemque cabu las opportune riluftravia C. Cl. Reg. Scholas) rum Piarum in academik Piſina Philoſophiae Profesor. Accedunt Differtationes ſex, quibus marmora quaedam rum facra cum profana exponuntur ac emendantur. Florentine Tographio Imperiali in fol. Plutarchi de Placitis Philofophorum libri V. Larine reddidit, recenſuir, adnotationibus, variantibus lectionibus, diferrationibus illuſtravit C. Cl. Reg. Schoe laruan Piarum in Pisana Acad. Philosophia Professor Flo. seniige ex Imp. Typographio, Disertationes quibus antiqua quaedam insignia moc sumente illuſtrantur. Vide eas, Symbolarara litercriarum Antonii Francisci Gorii. Herculis quies et expiatio in eximio Farnesiano mere more expresa: in fol. Inscriptiones Articae nunc primum ex Cl. Maffeii Schea dis in lucem editae latina interpretatione brevibusque observationibus illuſtratae Cler. Regul. Schole sunr Puarum in Academia Pisana Philosophiae Professore. Florenciae ansio ex typographio Jo. Pauli Giovannel li in 4. Solecta ex Graeciae Scriptoribus in usum ſtudiosae Juvent. sutis, Florentiae ex Imperiali rypographio ir 8. Inſtitutiones Metaphyſicae in ufus Academicos auctore Eduardo Corfi:n0 Clericorum Regularium Scholarum Piaruz in Academia Pifana. Philoſophiae Profeſore. Vesieriis ex Typographia Balleoniana in 12 C. Cl. Reg. Scholarum Piarum in Accodemia Pisana humaniorum litterarum Profeſſoris de Minni fari aliorumque Armeniac Regum nummis, et Arſacidarum Epocha Differtario Liburni typis Antonii Santini et Sociorum in 4. Spiegazione di due antichiſſime inſcriçroni Greche indie ricare al Reverendiffimo Padre Anton Franceſco Vezzofi, Prepoſto Generale de Cherici Regolari, Lettore nella Seo pienza Romana, ed Eſaminatore de' Vefcovi da Edoardo Corfini Ch. Reg. delle Scuole Pie. In Roma, nella Stamperia di Giovanni Zempel; Relazione dello scuoprimento e ricognizione fatta in Ancona dei Sacri Corpi di S. Ciriaco, Marcellino, e Lia berio Proiettori della Circà; e Riflefroni ſopra la translazione, ed il culto di queſte Sanci. In Roma, nellu Stamperia di Zempel in 4. Eduardi Corfini Cler. Regul. Scholarum Piarum, En in Academia Piſana humaniorum literarum Profeffuris Dis Seseario, in qua dubia adverſus Minniſari Regis nummum, et novam Arſacidarum epocham a Cl. Erasmo Froelichio s. J. proposita diluuntur. Romae ex typographio Palla dis in 4. C. Cler. Regul. Scholarum Piarum et in Academia Pisana humaniorum lirerarum Profeſoris ad Cles riflimam virum Paulum Mariam Paciaudium Epiſtola, ir qua Gotarzis Parthiae Regis nummus hactenus ineditos expli Catur, et plura Parthicae hiſtoriae capita illustrantur. Romae, in Typographio Palladis. Excudebant Nicolaus et Marcus Palearini ir 4.Cl. Reg. Scholarum Piarum in Pifar:& Academia humaniorum litterarum Profeſoris Epiftolae rres, quibus Sulpiciae. Dryantillae, Aureliani ac Vaballathi Avea guſtorum nummi explicantur et illuſtrantur. Liburni apud Jo. Paullus Fanthechiam ad fignum Verit. in 4. Series Praefeciorum Urbis ab Urbe condira ad annum uſque sive a Chriſto naro DC. collegit, rem cenſuit, illuſtravir Eduardus Corſinus Cler. Reg. Scholarum Piarum in Academia Piſana humaniorum liuerarum Professor Pisis excudebar Joh. Paulus Giovane nelius Academiae Pifunae Typographus cum Sociis in 4. Notizie Iſtoriche intorno a S. Liberio ſepolto e venera 10 nella Cattedrale della città di Ancona all' Eminentiffimo Signor Cardinale Acciajuoli Veſcovo di detta città. In Are cona nella Sramperia Bellelli in 4.  Cl. Reg. Scholarum Piarum, in Academia Piſana humaniorum litterarum Profeſoris Epiſtola de Burdigalenfi Aufonii Confulatu. Piſis Exe cudehar Joh. Paulus Giovannellius Academiae Pifanae inyo pographus cum Sociis in 4. Clericor. Regular. Scholarum Pia rum Ex- generalis, et in Pifana Univerſitare Primarii Les coris ed Joannem Chryſostomum Trombellium canonicorum Regularium Congregationis S. Salvatoris Ex-generalem et S. Salvatoris Bononiae Abbatem Epistola, Bunoniae,  ex typographia Longhi in 4; Disertazione sopra S. Pietro Ignes, sopra il B. Giovanni delle Celle; De Civitatibus, quarum mentio sit in Graecis nummis, Pars I. 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Luigi Speranza -- Grice e Cortese: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del segno naturale -- del principio del significato – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. e alpinista. Grice: “I love Cortese; first he wrote on Frege, whose views on ‘aber’ are very much like mine on ‘but’! – But then he also wrote on ‘irony,’ alla Socrates – as per Kierkegaard’s example, “He’s a fine fellow! => He’s a scouncrel --, and most ‘theoretically,’ as the Italians put it – on the ‘principle of meaning’ – significato – which had me thinking – I very freely speak of the principle of conversational helpfulness, but somehow, principle of ‘signification’ sounds obtuse! Signification seems too natural to require a principle! If helpfulness and benevolence are evolutionary traits, they are certainly NOT ‘instituted’ as principles, even if they are requirements for trust and the ‘institution of decisions’!” “I am anything but a contractualist, and principle has to be taken with a pinch of salt!” If I speak of a rational constraint, the idea of a principle evaporates: it’s conversation as rational cooperation – as I put it – as different from and stronger than ‘conversation as mere cooperation’ – but this slogan frees us from a commitment to the existence of a ‘principle’ to which we might want later to provide with some sort of ‘psycho-logical’ validation!” Di una famiglia originaria di Sant’Angelo Lodigiano. Si laurea a Trieste e Milano sotto Bontadini e Noce. Insegna a Trieste. Studia Kierkegaard, Gioberti. Italianismi in Kierkegaard. Altre opere: “Kirkegaardiana” (Milano); “Esistenzialismo e fenomenologia” SEI, Torino); “Protologia e temporalità, Gregoriana, Roma); “Kierkegaard” (Milan); “Del principio di creazione o del significato” Liviana, Padova, Kierkegaard” (La scuola, Brescia); “Ironia” (Marietti, Genova); La Creazione: Un'apologia accidentale della filosofia” (Marietti, Genova); “Il negozio del sapone, Liviana, Padova); “Enten-Eller ([Victor Eremita” (Adelphi, Milano); “L'attrice” (Antilia, Treviso); “Un discorso edificante” (Marietti, Genova); Il naturale e il sovra-naturale (Padova); Ermeneutica” (Lint, Trieste), “Il responsabile” – “Eden” – “Introduzione all’introduzione” del Gioberti – “Frege: signare il concetto”; “Liberalismo”Meteorologia branca delle scienze dell'atmosfera Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento meteorologia non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La meteorologia[1] (dal greco μετεωρολογία, letteralmente "studio dei fenomeni celesti"[2]) è il ramo delle scienze dell'atmosfera e della Terra che studia i fenomeni fisici che avvengono nell'atmosfera terrestre (troposfera) e responsabili del tempo atmosferico.   Cumulonembo calvus, nube convettiva in atmosfera StoriaModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Storia della meteorologia.  Rappresentazione di venti e meteorologia in una tavola degli Acta Eruditorum del 1716 Il termine deriva dal greco μετεωρολογία, meteōrología, da μετέωρος metéōros, "elevato" e λέγω légō, "parlo", quindi "discorso razionale intorno agli oggetti alti": la parola μετέωρος ha un'etimologiaincerta, forse derivato dal termine metá in italiano ‘’oltre’’ e ourea ovvero il termine arcaico greco per ‘’montagne’’ quindi Oltre i Monti [3], o forse da μετά metá "con, dopo" e αἴρω áirō "alzo".[4] Dopo le prime intuizioni dei greci si è dovuto attendere fino alla seconda metà del XX secolo quando, con l'arrivo dei calcolatori elettronici, l'uomo ha avuto la possibilità di eseguire in un tempo ragionevole le tante operazioni di calcolo che caratterizzano l'elaborazione a mezzo di un modello meteorologico. Gli oggetti che cadono dal cielo più frequentemente sul nostro pianeta sono le idrometeore, vale a dire particelle costituite da acquanella sua forma liquida (pioggia) o solida (neve, cristalli di ghiaccio, grandine o neve tonda).  DescrizioneModifica  Circolazione generale dell'atmosfera  Ciclone extratropicale  Fronte caldo  Fronte freddo  Fronte occluso In particolare lo studio dell'atmosfera è lo studio sia sperimentale dei suoi parametri fondamentali (temperatura dell'aria, umidità atmosferica, pressione atmosferica, radiazione solare, vento), attraverso l'uso di osservazioni e misurazioni dirette e indirette a mezzo di stazioni meteorologiche, palloni, sonde, razzi e satelliti meteorologici equipaggiati della necessaria strumentazione, sia teorico, facente cioè uso dell'astrazione propria del linguaggio della fisica matematica per la quantificazione delle leggi fisiche o processi (appartenenti alla fisica dell'atmosfera) che intercorrono tra essi.  I due approcci confluiscono nel risultato finale ovvero l'ideazione, l'implementazione e l'inizializzazione di modelli matematici in grado di ottenere una previsione o prognosi a breve scadenza dei vari fenomeni atmosferici (nubi, perturbazioni, vento, precipitazioni tramite i cosiddetti modelli meteorologici) su un dato territorio (previsione del tempo).  Tempo meteorologico e climaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tempo meteorologico, Clima e Variabilità meteorologica. Obiettivo della meteorologia è quello di misurare direttamente i parametri fisici atmosferici istantanei e cercare di fornire previsioni su determinati eventi atmosferici futuri, studiando dunque i fenomeni di breve durata che caratterizzano il tempo meteorologico; la raccolta di dati sul lungo periodo è utile invece a livello climatologico studiando l'andamento medio del tempo atmosferico di una regione in un certo lasso temporale: mentre il tempo atmosferico è definito come l'insieme delle condizioni atmosferiche in un certo istante temporale su un dato territorio, il clima invece è l'insieme delle condizioni meteorologiche medie di un territorio su di un arco temporale di almeno 30 anni, come stabilito dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM): talune analisi che si riferiscono in primis all'ambito meteorologico non possono dunque essere estese all'ambito climatologico essendo questo una media statistica sul lungo periodo, oggetto di studio di quella scienza affine che è appunto la climatologia; quindi mentre la meteorologia ha come finalità ultime la comprensione dei fenomeni atmosferici a breve scadenza con relativa previsione, la climatologia studia invece i processi dinamici che modificano le condizioni atmosferiche medie a lunga scadenza, come ad es. i cambiamenti climatici.  Principali fenomeni meteorologiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Fisica dell'atmosfera. L'atmosfera terrestre è un gigantesco sistema termo-fluidodinamico, accoppiato con il sistema oceanico, la biosfera e la criosfera, e mosso da una sorgente di energia termica sotto forma di radiazioni che è il Sole. La natura dinamica e intrinsecamente caotica o turbolenta dell'atmosfera si esplica attraverso la circolazione generale dell'atmosfera e una serie innumerevole di fenomeni atmosferici che quotidianamente osserviamo. Gran parte di questi fenomeni possono essere inclusi in tre grandi categorie di processi:  i processi di redistribuzione del calore, sia in verticale attraverso il trasferimento radiativo e convettivo, sia in orizzontale (a piccola, media e larga scala) attraverso i venti e la circolazione generale dell'atmosfera. i processi atmosferici coinvolti nel ciclo dell'acqua, innescati a loro volta dai processi radiativi, quali evaporazione, condensazione, nubi, precipitazioni e i fenomeni perturbativi ad essi associati (a piccola, media e larga scala) quali fronti meteorologici, cicloni extratropicali, cicloni tropicali, temporali, rovesci, tornado ecc. i processi legati all'elettricità atmosferica, come i fulmini. Le prime due categorie di processi sono intimamente connesse giacché evaporazione, condensazione e formazioni cicloniche contribuiscono anch'esse al trasporto dell'energia nel sistema sia in verticale che in orizzontale e allo stesso tempo da essi innescati.  I vari fenomeni meteorologici sono classificati all'interno della cosiddetta scala dei moti atmosferici a seconda delle dimensioni del territorio, del tipo di analisi richiesta e dell'intervallo temporale di interesse in cui essi insistono.  StrumentazioniModifica  Strumentazione di una stazione meteorologica  Satellite meteorologico(Meteosat) Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Stazione meteorologica. L'uomo ha anche costruito nuovi strumenti per osservare le varie interazioni; i seguenti strumenti sono stati approvati dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM), e molti di essi vengono utilizzati in ogni stazione meteorologicamondiale:   radiometri e scatterometri localizzati su satelliti meteorologici misurano l'energia elettromagnetica reirradiata dal pianeta verso lo spazio esterno, fornendo quindi un'immagine dello stato dell'atmosfera e della presenza di nuvole termometri (es. a minima e massima), per la misurazione della temperatura; igrometri, per la misurazione dell'umidità; psicrometri, per la misurazione dell'umidità; termoigrometri, per la registrazione della temperatura e dell'umidità; pluviometri/pluviografi, per la misurazione delle quantità di pioggia; nivometri, per la misurazione dell'accumulo di neve al suolo; anemometri, per la misurazione della forza e della direzione dei venti; trasmissometri, per la misurazione della visibilità; palloni sonda per radiosondaggi: attraversano verticalmente l'atmosfera per ottenere profili verticali di pressione, temperatura, umidità e vento (sono per ora la principale fonte di dati per i modelli meteorologici); boe galleggianti e navi meteorologiche, per l'osservazione delle condizioni meteorologiche in mare aperto; radar meteorologici. Irradiano energia elettromagnetica e ricavano informazioni sull'atmosfera analizzando le caratteristiche del segnale da essa riflesso. Sono utilizzati per individuare eventi di precipitazione, stimarne l'entità e prevederne l'evoluzione a breve termine (nowcasting), e in alcuni casi per sondare la struttura interna delle nubi. Possono essere installati a terra o su satellite; satelliti meteorologici, cioè satelliti che ruotano attorno alla terra per inviare al suolo immagini del movimento delle nubi e le mappe della temperatura. I satelliti si dividono in geostazionari e a orbita polare. Si possono visualizzare le immagini dei satelliti su molti siti web. Previsioni meteorologiche Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Previsione meteorologica.  Manica a vento, uno dei simboli della Meteorologia  Immagine del NOAA  Carta meteorologica di previsione a 500 hp Le previsioni meteorologiche si ottengono solitamente dalla seguente procedura:  osservazione e misurazione delle variabili atmosferiche (es. velocità e direzione del vento, temperatura dell'aria, umidità, pressione); trascrizione, studio ed elaborazione dei dati rilevati su carte sinottiche o assimilando i dati attraverso modelli matematici che girano su calcolatori numerici, dove in quest'ultimo caso, viene prodotta la situazione meteorologica di un determinato momento, chiamata analisi; prognosi futura a partire dalle carte sinottiche oppure facendo evolvere la condizione iniziale tramite uso dei modelli matematici meteorologici (previsione). Ambiti di studioModifica All'interno della disciplina vi sono vari ambiti di studio:  la meteorologia sinottica che studia in maniera qualitativa e quantitativa l'evoluzione delle condizioni atmosferiche di vaste porzioni dell'atmosfera stessa (superiori ai 1000 km) tramite l'uso di carte meteo, nozioni empiriche, metodo delle analogie ecc. la meteorologia dinamica che, partendo dalle equazioni di base della fluidodinamica, cerca di spiegare formazione e sviluppo dei fenomeni osservati (detta anche meteorologia fisica o teorica). la meteorologia numerica, si occupa di definire e affinare i modelli numerici di previsione meteorologica la meteorologia satellitare, che si avvale delle analisi di telerilevamento atmosferico e quindi dei relativi dati trasmessi a terra dai satelliti meteorologicicome ad esempio i satelliti Meteosat. la radarmeteorologia che si avvale dei dati raccolti dai radar meteorologici dislocati sul territorio per affrontare la previsione meteo a brevissima scadenza (nowcasting). la meteorologia aeronautica, che si occupa principalmente dei fenomeni rilevanti per la navigazione aerea; la meteorologia spaziale che si occupa del cosiddetto tempo meteorologico spaziale in alta atmosfera; la meteorologia ambientale che studia pollini e dinamica degli inquinanti in atmosfera; l'agrometeorologia che studia le relazioni tra tempo atmosferico e agricoltura[5]; Meteorologi famosiModifica Edmondo Bernacca Andrea Baroni Plinio Rovesti Guido Caroselli Mario Giuliacci Guido Guidi Paolo Sottocorona Paolo Corazzon Luca Mercalli Andrea Giuliacci Daniele Izzo NoteModifica ^ Anche se spesso viene usata, la grafia metereologia non è corretta, come dimostra l'etimologia greca; cfr. anche l'abbreviazione meteo. ^ meteorologìa in Vocabolario, su Treccani Con la stessa etimologia delle antiche divinità della cosmogonia greca Ouranos (Cieli) e Ourea (Montagne) ^ Franco Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino, Loescher, Mariani Clima e agricoltura Rivista I tempi della terra su itempidellaterra.org. Navarra, Le previsioni del tempo, Il Saggiatore,  Agrometeorologia Atmosfera Anticiclone Avvezione Barometro Carta meteorologica Circolazione atmosferica Formula ipsometrica Fisica dell'atmosfera Igrometro Isobara (meteorologia) Isoterma (meteorologia) Grandine Ghiaccio Geopotenziale Legge della persistenza Legge della compensazione Meteorognostica Nube Neve Pressione atmosferica Precipitazione (meteorologia) Promontorio di alta pressione Riscaldamento stratosferico Storia della meteorologia Stazione meteorologica Saccatura Satellite meteorologico Strato limite Teoria del caos Temperatura Termometro Tempo (meteorologia) Umidità Variabilità meteorologica Vortice polare Altri progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene sulla meteorologia Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su meteorologia  «meteorologia» Collabora a Wikinotizie Wikinotizie contiene notizie di attualità su meteorologia meteorologia Meteorologia, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Modifica su Wikidata ( EN ) Meteorologia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Da questa sezione sono stati rimossi e reinseriti ripetutamente alcuni link vietati. Organizzazioni nazionaliModifica Meteo Aeronautica Servizio Meteorologico dell'Aeronautica Militare AMPRO Associazione Meteo Professionisti Organizzazioni internazionali World Meteorological Organization Organizzazione Meteorologica Mondiale (EN) European Centre for Medium-Range Weather Forecasts Centro europeo per le previsioni meteo a medio termine (EN) Eumetnet Raggruppamento di 29 servizi meteo nazionali europei (EN) Eumetsat Organizzazione europea per i satelliti meteorologici European Meteological Society Portale Meteorologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di meteorologia Ultima modifica 3 mesi fa di Pav03 Storia della meteorologia Meteorologo Previsione meteorologica Wikipedia Il contenutoGrice: Can a sign have a different meaning for utterer and recipient? – If so, why do we keep calling communication – signare seems to be still good enough! -- Alessandro Cortese. Cortese. Keywords: del principio del significato, Kierkegaard, soap, sapone, actress, attrice, edifying discourse, discorso edificante, naturale/sopra-naturale/preter-naturale, Paul Carus, hyperphysical. Those spots means she has the devil inside her. Praeter-natural implicatura, supra-natural implicature, non-natural implicature, natural implicature. “Del significato”, ironia socratica, sapone, Savona, signare il concetto, sovrannaturale, liberalismo, il responsabile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cortese” – The Swimming-Pool Library. Cortese.

 

Luigi Speranza -- Grice e Corvaglia: la ragione conversazionale,  il pessimismo e l’implicatura di Tantalo – scuola di Melissano – filosofia leccese – filosofia pugliese-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Melissano). Filosofo leccesse. Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Melissano, Lecce, Puglia. Grice: “I love Corvaglia – or corvus in diluvio, as he called himself! – a very Italian philosopher and thus interested in the history of Italian philosophy, especially Vannini – the fact that he wrote plays on philosophical subjects – La casa di Seneca – helps!”  Opera nel campo della filosofia del rinascimento. Tra gli studi filosofico-scientifici si distinguono per vastità e profondità i volumi Le opere di Vanini e le loro fonti, e Vanini Edizioni e plagi, risposta polemica condotta contro le veementi critiche ricevute Porzio.  Pubblica il romanzo Finibusterre, trasfigurazione quasi sacra della sua amata terra e del popolo del Basso Salento, ch'egli incitava con ogni mezzo, anche se spesso travisato e intralciato e persino calunniato a crescere, per migliorare materialmente e moralmente. Il romanzo fu ben accolto dalla critica. Benedetto Croce, a cui Corvaglia lo aveva dedicato, rimarcò "lo sfondo storico rappresentato in modo assai vigoroso" e il "trattamento dei caratteri e degli effetti". Con maggiore puntualità Annibale Pastore (già suo professore all'Torino) gli confidava di sentire emergere nella sua mente, attraverso figure e temi del romanzo, ricordi sepolti, "struggente malinconia", un mondo molto simile a quello del Manzoni, "anch'esso celato alla superficie, soffuso d'ironia-limite", e tuttavia turbato da altri affascinanti caratteri, quali: "il sorprendente realismo, la perfetta armonia, l'effusione poetica, l'occhio acuto e sicuro, che scruta l'animo umano fin nelle più remote pieghe".  Si dedica totalmente alla filosofia del Rinascimento, animato dal bisogno di trarre alla luce obliterate sorgive  e percorrendo il movimento spesso alquanto sconosciuto della filosofia, che dal Rinascimento risale fino al Medio Evo.  S'apre nella sua vita uno spiraglio di fiducia verso gli uomini impegnati, e si prestadoverosamente secondo la sua fede politica all'attività politica, accogliendo e votandosi alla cultura mazziniana, cui rimane Fedele.. È di questo periodo la pubblicazione, tra l'altro, dei Quaderni Mazziniani: “Noi Mazziniani”, “Mazzini ed il Partito di Azione”, “L'Acherontico retaggio”, “Il Partito Repubblicano italiano”, il discorso Ai giovani, la conferenza (edita da Laterza) su Giuseppe Mazzini. Dopo la proclamazione della Repubblica, però, si allontana da ogni azione politica, ritenendola del tutto estranea e lontana dall'ideale da lui vagheggiato e sperato. Si trasferisce a Roma, nell'ambiente culturale a lui più consono, ritornando agli studi tra i suoi libri, dove soltanto sente di vivere senza alcun compromesso, in assoluta libertà.  Cascata di S.M. di Leuca. Scaligero, un saggio di "speleologia". Saggio su Cardano. Su iniziativa del comune di Melissano, è stato avviato un "Biennio di Studio su Corvaglia", al fine di approfondirne e divulgarne la conoscenza. Alla realizzazione del progetto collaborano, come protagonisti, anche l'Amministrazione Provinciale di Lecce, l'Università degli Studi del Salento e l'Istituto Comprensivo Statale di Melissano, che chiuderanno il biennio dei lavori, organizzando un Convegno su Corvaglia", al fine di dibattere argomenti di particolare interesse presenti nella sua opera. A tale riguardo si sta già operando non solo sul piano della ricerca specialistica e accademica, ma anche sulla promozione d'iniziative, che coinvolgano biblioteche e settori culturali degli enti locali, creando opportunità per sviluppare in maniera articolata e organica la ricognizione e la valorizzazione del patrimonio culturale salentino in generale e melissanese in particolare, lasciato in eredità da Corvaglia.   La casa di Seneca- Commedia di L. Corvaglia. Altre opere: “La casa di Seneca” (Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Rondini (dedicata "Al mio povero innocente Nova, fuggevole visione di un Infinito", che avvampa e dilegua in vicenda amara di avventi senza natale"; Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Tantalo” Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce), Santa Teresa e Aldonzo (L. Cappelli Editore, Bologna); Rondini- Commedia; “Romanzo Finibusterre, Editrice Dante Alighieri, Milano); “Le fonti della filosofia di Vanini” (Anphitheatrum Aeternae Providentiae, Società Dante Alighieri, Milano); “Introduzione semi-seria dialogata per il lettore Vanini” (Edizioni e plagi, Tipografia Carra di Casarano); “Ricognizione delle opere di G.C. Vanini, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana”; La poetica di Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana", Quaderni Mazziniani; “Noi Mazziniani” Tipografica di Matino (Lecce), “Mazzini e il partito d' azione (critica), Tipografica di Matino (Lecce), “ L'acherontico retaggio (con l'elogio della vita comune), Tipografica di Matino (Lecce), Quaderni Mazziniani n° 4. Il partito repubblicano italiano, Tipografica di Matino (Lecce). Discorso tenuto a Lecce nel Teatro Paisiello. Giuseppe Mazzini, Discorso commemorativo tenuto a Lecce nel Teatro Apollo, Laterza, Bari,"Rinascenza salentina", Un Paese del Sud. Melissano. Storia e tradizioni popolari, Tipografia di Matino. Meridionalista e Polemista, La Poetica di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, Musicaos Editore, Sulla Poetica di G.C. Scaligero. Convegno sy Corvaglia. Il pensiero politico di Corvaglia. Popolo Sacralità Religiosità.  Wikipedia Ricerca Tantalo personaggio della mitologia greca, figlio di Zeus, legato al famoso supplizio Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Tantalo (disambigua). Tàntalo Tantalus by J.Heintz the Elder, jpg Tantalo Nome orig.Τάνταλος SessoMaschio Luogo di nascitaLidia ProfessioneRe di Lidia Tàntalo (Τάνταλος) è un personaggio della mitologia greca.  Re di Lidia (o della Frigia) che per i suoi numerosi peccati fu punito dagli dei e gettato nel Tartaro, la sua punizione è divenuta una figura retorica con cui si indica una persona che desidera qualcosa che non può raggiungere.  EtimologiaModifica Secondo Platone, accordandosi alla radice greca τλα-/τλη- del verbo greco τλάω (che significa "soffrire"), il nome Tantalo deriverebbe da talànatos(infelicissimo) Genealogia Modifica Figlio di Zeus o di Tmolo[4] e della ninfa Pluto sposò la ninfa Dione[2] (figlia di Atlante) o Eurinassa (figlia di Pattolo) o Euritemiste (figlia di Xanto) o Clizia  (figlia di Anfidamante) e fu padre di Pelope, Brotea, Niobe e Dascilo[10].  MitologiaModifica Tantalo visse presso il monte Sipylos in Anatolia, dove fondò la città di Tantalis[11].  Il banchetto di Tantalo I misfattiModifica Tantalo, che grazie alle sue origini era ben voluto dagli dei si rese responsabile di diverse offese nei loro confronti e violò le regole della xenia cercando di rapire Ganimede, rubando dell'ambrosia che in seguito distribuì ai suoi sudditi ed organizzando il furto di un cane d'oro creato da Efesto e posto a guardia di un tempio di Zeus a Creta (di tale furto l'artefice materiale fu Pandareo ma Tantalo giurò il falso ad Hermes, inviato dagli dei proprio per recuperare l'animale; secondo un'altra versione il cane era in realtà Rea trasformata in quel modo da Efesto).  Il re infine organizzò un banchetto a cui invitò gli dei stessi e, per mettere alla prova la loro onniscienza, uccise suo figlio Pelope e lo fece servire come pasto: Demetra, disperata per la perdita della figlia Persefone, non si accorse di nulla e consumò parte di una spalla del ragazzo, ma gli altri dei notarono immediatamente l'atrocità e gettarono i pezzi di Pelope in un calderone[13].  Il supplizioModifica  Il supplizio di Tantalo Gli dei punirono Tantalo gettandolo negli inferi[12] e condannandolo ad avere per sempre una fame e una sete impossibili da placare  schiacciato dal peso di un masso, legato ad un albero da frutto e immerso fino al collo in un lago d'acqua dolce: appena prova ad abbeverarsi il lago si prosciuga e non appena prova a prendere un frutto i rami si allontanano o un colpo di vento li fa volare lontano.  Il sepolcro di Tantalo sorgeva sul monte Sipylos ma gli onori gli furono pagati ad Argo, la cui tradizione locale sosteneva anche di possedere le sue ossa[3].  Miti successiviModifica I mitografi successivi cercarono in tutti i modi di discolpare gli dei da un possibile atto di cannibalismo stravolgendo in tutto la storia di Tantalo: secondo tale versione, infatti, egli era un sacerdote che rivelò ogni segreto ai non iniziati, al che colpirono suo figlio con una malattia orrenda. I chirurghi di allora, con varie operazioni, riuscirono a ricostruire il corpo originale anche se di lì in poi esso portò innumerevoli cicatrici.  Filosofia Il mito di Tantalo venne successivamente ripreso dal filosofo Arthur Schopenhauer nella sua opera più nota, Il mondo come volontà e rappresentazione, come esempio della eterna insoddisfazione dell'uomo per cui "contro un desiderio che viene appagato ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; la brama dura a lungo, le esigenze vanno all'infinito mentre l'appagamento è breve e misurato con spilorceria".  Curiosità. Il furto dell'ambrosia a vantaggio degli esseri umani lo accomuna a Prometeo, ma in questa veste il suo mito si trasforma da peccatore a benefattore. Tantalo, alla stregua di Licaone, era uno dei re originali a cui era concesso, con il favore degli dei, di condividerne la mensa: il suo gesto viene visto come un atto di separazione fra divinità e umanità, che verrà poi ripreso da molti altri miti come nel caso di Achille. Il supplizio di Tantalo viene citato anche da Primo Levi in Se questo è un uomo nella frase: "Si sentono i dormienti respirare e russare, qualcuno geme e parla. Molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle. Sognano di mangiare (...). È un sogno spietato, chi ha creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo." Oriana Fallaci, in Se il sole muore, cita il mito di Tantalo dal momento che nella missione Apollo 11l'astronauta Michael Collins sarà costretto ad avvicinarsi alla Luna senza avere la risposta a: "Com'è la Luna? Assomiglia alla Terra? È più bella? Più brutta? Che effetto fa camminarci?". La tortura di Tantalo viene ripresa anche da Thomas Mann in La montagna incantata. Un personaggio dell'opera, la signora Stohr, riferendosi al prolungarsi indefinito delle prescrizioni per le cure, afferma: «[omissis] Dio buono si è sempre allo stesso punto, lo sa anche lei. Si fanno due passi avanti e tre indietro... Quando uno ha fatto cinque mesi, arriva il vecchio e gliene rifila altri sei. Ah, è la tortura di Tantalo. Si spinge, si spinge e quando si crede d'essere in cima...». È evidente la confusione che la signora, avvezza alle gaffes, fa tra Tantalo e Sisifo. L'interlocutore, il sarcastico e dotto umanista Settembrini, risponde sul punto: «Oh, brava e generosa! Finalmente concede al povero Tantalo un diversivo. Per variare gli fa spingere il famoso pietrone! È un atto di vera bontà! [omissis]». Ne La valle dell'Eden John Steinbeck fa dire a Kate: "Chi era quello che non riusciva a bere da un setaccio? Tantalo?". Tantalo appare come sostituto di Chirone nel secondo libro della Saga di Percy Jackson Il mare dei mostri. Il tantalio, elemento chimico di numero atomico 73, prende il nome da Tantalo, e si trova sotto il niobio, il cui nome deriva proprio da sua figlia Niobe. Platone, Cratilo, Igino, Fabulae Pausania il Periegeta, Periegesi della Grecia, su theoi Scholia ad Euripide, Oreste Tzetzes a Licofrone,Scholia ad Euripide, Oreste, Pausania il Periegeta, Periegesi della Grecia, III, 22.4, su theoi Igino, Fabulae Apollodoro, Biblioteca, III, 5.6, su theoi.com. il Scolio ad Apollonio Rodio, Le Argonautiche, Plinio il Vecchio Naturalis historia, Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, su theoi Pindaro, Olimpiche, 1.60 ff, su perseus.tufts Euripide, Oreste  Liberale, Metamorfosi Apollodoro, Biblioteca, Epitome II, 1, su theoi Tzetze, a Licofrone Pindaro, Olimpiche, 1, 59-63. BibliografiaModifica Fonti primarie Esiodo, Teogonia Pausania, Pindaro, Olimpica III, 41 Igino, Fabulae Graves, I miti greci, Milano, Longanesi Cerinotti, Miti greci e di roma antica, Prato, Giunti, Ferrari, Dizionario di mitologia, Litopres, UTET, Carassiti, Dizionario di mitologia classica, Roma, Newton, Prometeo Issione Tizio Sisifo Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Tantalo Collegamenti esterniModifica Tantalo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Carlo Gallavotti, TANTALO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Tantalo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. La storia di Tantalo, su haidukpress.Portale Mitologia greca: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di mitologia greca Ultima modifica 3 giorni fa di Nicola Gotti Enomao re di Pisa nella mitologia greca, figlio di Ares  Clitennestra personaggio della mitologia greca, moglie di Agamennone e amante di Egisto  Minia re e fondatore di Orcomeno in Beozia nella mitologia greca  Wikipedia Il contenutoAlles Wollen entspringt aus Bedürfniß, also aus Mangel, also aus Leiden. Diesem macht die Erfüllung ein Ende; jedoch gegen einen Wunsch, der erfüllt wird, bleiben wenigstens zehn versagt: ferner, das Begehren dauert lange, die Forderungen gehen ins Unendliche; die Erfüllung ist kurz und kärglich bemessen. Sogar aber ist die endliche Befriedigung selbst nur scheinbar : der erfüllte Wunsch macht gleich einem neuen Platz : jener ist ein erkannter, dieser ein noch unerkannter Irrthum. Dauernde, nicht mehr weichende Befriedigung kann kein erlangtes Objekt des Wollens geben: sondern es gleicht immer nur dem Almosen, das dem Bettler zugeworfen, sein Leben heute fristet, um seine Quaal auf Morgen zu verlängern. – Darum nun, solange unser Bewußtseyn von unserm Willen erfüllt ist, solange wir dem Drange der Wünsche, mit seinem steten Hoffen und Fürchten, hin- gegeben sind, solange wir Subjekt des Wollens sind, wird uns nimmermehr dauerndes Glück, noch Ruhe. Ob wir jagen, oder fliehn, Unheil fürchten, oder nach Genuß streben, ist im Wesentlichen einerlei: die Sorge für den stets fordernden Willen, gleichviel in welcher Gestalt, erfüllt und bewegt fortdauernd das Bewußtseyn; ohne Ruhe aber ist durchaus kein wahres Wohlseyn möglich. So liegt das Subjekt des Wollens beständig auf dem drehenden Rade des Ixion, schöpft immer im Siebe der Danaiden, ist der ewig schmachtende Tantalus. Luigi Corvaglia. Corvaglia. Keywords: Tantalo, Schopenhauer, Sisifo, assurdo, Camus, tragico. Refs.: Vanini, Bordon, poetica, Mazzini, Pomponazzi, Cardano --. Luigi Speranza, “Grice e Corvaglia” – The Swimming-Pool Library. Corvaglia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Corvino: la ragione conversazionale a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Imbevuto di discorsi socratici, insigne per le sue attività politiche e militari, scrittore e protettore di poeti. C. studia in Atene con Orazio e poi coltivò l’eloquenza, la grammatica, la poesia. C. e incluso nelle liste di proserizione perchè avversario di Cesare, ma salva la vita. C. combattò con Bruto e Cassio a Filippi, poi si unì ad Marc'Antonio.In seguito, C. strinse rapporti con Ottaviano. C. e console, combattè ad Azio ed ebbe comandi in Oriente. Per una vittoria sugl'Aquitani, C. consegue il trionfo.C. rimase però sempre fedele alle antiche convinzioni politiche, e perciò, dopo sei giorni dalla nomina, abbandona l’ufficio di praefectus urbis. C. e curator aquarum. A nome del Senato, C. salutò Augusto "pater patriae."Corvino fu capo di un circolo filosofico al quale appartennero Tibullo e Ligsdamo.C. scrive carmi bucolici e orazioni. Come oratore, C. e molto lodato da Tacito e Quintiliano.C. compose un’opera storica, probabilmente di memorie.Alcuni hanno rilevato influssi dell’Epicureismo, altri di Posidonio, nel lungo frammento che ci rimane di un poema sulla caccia ("Cynegetica") composto da Grattio, vissuto al tempo di Augusto.Ma abbiamo elementi troppo scarsi per determinare le direttive del suo pensiero. Del poeta Linceo (probabilmente questo era uno pseudonimo), Properzio, suo amico e rivale in amore, dice che attingeva la sua sapienza ai libri socratici e che avrebbe potuto trattare del corso delle cose, del sistema del mondo e di problemi, escatologici e naturali. Marco Valerio Mesalla Corvino. Corvino.

 

Luigi Speranz -- Grice e Cosi: l’implicatura conversazionale del cuore -- accordo – cuori -- l’accordo – scuola di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I love Cosi; my favourite of his philosophical essays on justice is the one on ‘l’accordo,’ for this is what my principle of conversational helpfulness or co-operation is all about!”  Giovanni Cosi. Si laurea a Firenze. Insegna a Firenza, Sassari, Siena. Altre opere: “La liberazione artificiale: l’uomo e il diritto di fronte a la droga” (Milano: Giuffrè); "Religiosità e teoria critica" (Giuffre); "Secolarizzazione e ri-sacralizzazioni" (Giuffre); "Il sacro e giusto: itinerario di archetipologia” (FrancoAngeli). Dopo aver compiuto ricerche sull'espressione del dissenso in forma non rivoluzionaria negli ordinamenti liberal-democratici, pubblica per la Giuffrè Editore il volume "Saggio sulla disobbedienza civile"; "Il traviato”, “il filosofo traviato: il filosofo come gentiluomo (Giuntina); “La  obbedienza civile, la disobbedienza civile: il consenso, il dissenso, la aristocracia, la plutocracia, la democrazia, la repubblica (Milano: Giuffrè). Il giurista perduto: avvocati e identità professionale” (Giuntina), “Logos e dialettica” (Giappichelli, Torino); “Il filosofo risponsabile” (Giappichelli,Torino); “Lo spazio della mediazione, -- il terzo escluso – chi media nella diada? (Giuffrè). “Invece di giudicare” (Giuffrè); “Il spazio della mediazione nel conflitto della diada conversazionale” (Giappichelli Torino); “Legge, Diritto, Giustizia” (Giappichelli, Torino). “Giudicare, o Fare giustizia. – vendetta – il concetto filosofico” (Giuffré Editore, Milano). La liberazione artificiale: l'uomo e il diritto di fronte alla droga, Giuffrè, Milano; Saggio sulla disobbedienza civile: storia e critica del dissenso in democrazia, Giuffrè, Milano; Il giurista perduto: avvocati e identità professionale, Giuntina, Firenze; Il sacro e il giusto: itinerari di archetipologia giuridica, Franco Angeli, Milano; Il Logos del diritto, Giappichelli, Torino; La responsabilità del giurista: etica e professione legale, Giappichelli, Torino; Società, diritto, culture: introduzione all'esperienza giuridica, dispense di Sociologia del Diritto, Firenze); La professione legale tra patologia e prevenzione: materiali di etica professionale, dispense di Sociologia del Diritto, Firenze; Per una politica del diritto del fenomeno droga: problemi e prospettive", Archivio Giuridico; Il diritto e la droga" e "Per una comprensione culturale dell'uso di droghe", Testimonianze; "Religiosità e Teoria Critica: la teologia negativa di Max Horkheimer", Rivista di Filosofia Neo-scolastica, "Secolarizzazione e risacralizzazioni: le sopravalutazioni post-illuministiche dell'immanentismo", in L. Lombardi Vallauri - G. Dilcher, Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, Giuffrè - Nomos Verlag, Milano - Baden-Baden);  "Sulla 'naturalità' dei diritti civili", Testimonianze; "L'Uno o i Molti? Il 'nuovo politeismo' di Miller e Hillman", Testimonianze; "Ordine e dissenso. La disobbedienza civile nella società liberale", Jus; "Iniziazione e tossicomania: intorno a un libro di Luigi Zoja", Testimonianze; "Le aporie del pacifismo: critica della pace come ideologia", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "L'immagine sofferente della legge", L'Immaginale; "Diritto e morale in tema di aborto", Testimonianze; "Professionalità e personalità: riflessioni sul ruolo dell'avvocato nella società", Sociologia del Diritto; "L'avvocato e il suo cliente: appunti storici e sociologici sulla professione legale", Materiali per una storia della cultura giuridica; "La coscienza, gli dei, la legge", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto;  "Il diritto del mondo I", Anima; "Un anniversario dimenticato: Il Bill  e la sua eredità", Sociologia del Diritto; "Vecchio e nuovo nelle crisi di identità degli avvocati", in Storia del diritto e teoria politica, Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Macerata; "Verso il paese di Inanna", Anima;"Avvocato o giurista?", comunicazione al VI Convegno nazionale di studio dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, Firenze, Iustitia, "Tutela del mondo e normatività naturale", in L. Lombardi Vallauri (ed.), Il meritevole di tutela, Giuffrè, Milano); "Tutela del mondo e strumenti giuridici", Testimonianze; "La professione legale tra etica e deontologia", Etica degli Affari e delle professione; "Diritto e realizzazione: un'introduzione alla fenomenologia del logos giuridico", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "La legge e le origini della coscienza", Per  la filosofia; "Naturalità del diritto e universali giuridici", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto,"Naturalità del diritto e universali giuridici", in F. D'AGOSTINO (ed.), Pluralità delle culture e universalità dei diritti, Giappichelli, Torino); "Etica secondo il ruolo", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "Purezza e olocausto: un'interpretazione psicologico-culturale", Per  la Filosofia; "Logos giuridico e archetipi normativi", in L. LOMBARDI VALLAURI, Logos dell'essere, Logos della norma, Adriatica, Bari); “Giustizia senza giudizio. Limiti del diritto e tecniche di mediazione”, in F. MOLINARI e A. AMOROSO, Teoria e pratica della mediazione, FrancoAngeli, Milano); “Le forme dell’informale”, comunicazione al Congresso Nazionale della Società di Filosofia Giuridica e Politica, Trieste, Ora in Giustizia e procedure, Atti del suddetto Convegno, Giuffrè, Milano); “L’idea di professione”, Dirigenti Scuola, “Controllare la professione”, Dirigenti Scuola, “Professione, patologia e prevenzione”, Dirigenti Scuola. Ricerca Cuore organo muscolare, centro motore dell'apparato circolatorio. disambigua.svg Disambiguazione. Se stai cercando altri significati, vedi Cuore (disambigua). Il cuore è un organo muscolare, che costituisce il centro motore dell'apparato circolatorio e propulsore del sangue e della linfa in diversi organismi animali, compresi gli esseri umani, nei quali è formato da un particolare tessuto, il miocardio ed è rivestito da una membrana, il pericardio. natomia del cuore umano EmbriologiaModifica Può originare da un abbozzo mesodermico ventrale, come negli anfibi, nella parte rostrale del celoma, oppure da due abbozzi pari, come nei mammiferi, che poi si uniscono medialmente. In entrambi i casi il primo abbozzo cardiaco è compreso nel mesentere ventrale che in seguito si dividerà in mesocardio dorsale e ventrale; successivamente entrambi spariranno per far spazio al tubo cardiaco che permane nella cavità pericardica, separatasi dalla cavità addominale per lo sviluppo di un setto trasverso.  In questa fase il cuore, che si trova lungo il decorso del vaso sanguifero mediano nella regione subfaringea, non ha ancora né valvole né altre suddivisioni: è rappresentato da un tubo con due pareti, una muscolare più esterna, miocardio, e una endoteliale più interna, endocardio.  Anatomia comparataModifica Nei vertebrati l'apparato circolatorio presenta una complessità crescente dai pesci ai mammiferi, le modifiche che ha subito nel corso dell'evoluzione sono in relazione allo sviluppo di un apparato respiratorio[1]sempre più efficiente.  Nei pesci il cuore è costituito da un solo atrio, che raccoglie il sangue povero di ossigeno proveniente da tutto il corpo, e un solo ventricolo, che raccoglie il sangue proveniente dall'atrio: esistono però un seno venoso nel punto di arrivo delle vene e un bulbo arterioso all'inizio delle arterie, quindi le camere sono in realtà quattro. Le camere nel cuore dei pesci La circolazione in questi animali è definita semplice perché il sangue compie un intero ciclo passando una sola volta per il cuore, da dove raggiunge le branchieper essere ossigenato così da arrivare ai tessutitrasportato dalle arterie. Dopo aver ceduto alle cellule l'ossigeno e aver prelevato il diossido di carbonio e i prodotti di rifiuto, il sangue torna verso l'atrio per mezzo delle vene. A questo punto torna nel ventricolo e da qui alle branchie: a questo punto il ciclo ricomincia. Nei vertebrati terrestri, mammiferi e uccelli, vi è una circolazione doppia (polmonare e sistemica), nella quale il sangue, nel corso di un ciclo completo, passa due volte per il cuore. Negli anfibi e nella maggior parte dei rettili il cuore ha due atri, ma un solo ventricolo così che i due tipi di sangue finiscono nell'unico ventricolo, qui si rimescolano parzialmente e riducono la quantità di ossigeno destinata ai tessuti; insieme all'aorta, alle arterie e vene polmonari esiste un’arteria pulmo-cutanea che porta il sangue alla pelle, dove il sangue circolante si ossigena.[1]  Cuore dei varani  Anatomia: RVH= atrio destro; LVH= atrio sinistro; KK= circolazione sistemica; LK= circolazione polmonare; SAK= valvole del setto atrioventricolare; CP= cavità polmonare.   Sistole: Frecce blu= sangue venoso, Frecce rosse= sangue arterioso   Diastole: Frecce blu= sangue venoso, Frecce rosse= sangue arterioso  Solo nei coccodrilli i ventricoli sono separati, mentre l'aorta e l'arteria polmonare sono collegate dal forame di Panizza.  Per ricapitolare i diversi tipi di circolazione, potremmo così riassumere[2]:  Nei pesci la circolazione è semplice, è unidirezionale e ha un solo ventricolo; Negli anfibi e nei rettili è doppia e incompleta; Nei mammiferi e uccelli è doppia e completa, vi sono due ventricoli completamente separati Anatomia umanaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Cuore umano.  La posizione del cuore all'interno del torace umano Negli esseri umani è posto al centro della cavità toracica, precisamente nel mediastino in posizione anteroinferiore fra le due regioni pleuropolmonari, dietro lo sterno e le cartilagini costali, che lo proteggono come uno scudo, davanti alla colonna vertebrale, da cui è separato dall'esofago e dall'aorta, e appoggiato sul diaframma, che lo separa dai visceri sottostanti. Il cuore ha la forma di un tronco di conoad asse obliquo rispetto al piano sagittale: la sua base maggiore guarda in alto, indietro e a destra, mentre l'apice è rivolto in basso, in avanti e a sinistra;[4] pesa nell'adulto all'incirca 250-300 g, misurando 12-13 cm in lunghezza, 9-10 cm in larghezza e circa 6 cm di spessore (si sottolinea che questi dati variano con età, sesso e costituzione fisica). Battito del cuore di un uomo a 61 bpm Fisiologia Il cuore si contrae e si rilascia secondo il ciclo cardiaco.  Il cuore è costituito dalle cellule del miocardio, tipicamente striate, che si occupano della contrazione e dalle cellule auto ritmiche non contrattili, da cui origina lo stimolo di contrazione. Le cellule auto ritmiche possiedono la capacità di auto depolarizzarsi, grazie all'apertura canali del sodio (detti fun), che spostano il potenziale di membrana verso valori più positivi, consentendo l'apertura dei canali del calcio. L'ingresso di calcio nella cellula è prolungato e porta il potenziale a stabilizzarsi su valori positivi per qualche millisecondo, generando un plateau. Il segnale termina grazie all'apertura dei canali del potassio, che riportano il potenziale di membrana a valori negativi e consentono ai canali funny di aprirsi nuovamente. La contrazione del miocardio inizia grazie all'ingresso del calcio nella cellula, che provoca la fuoriuscita di altro calcio dal reticolo sarcoplasmatico e quindi la contrazione.  Il cuore nelle culture umane. Nell'antichità classica (anche per il filosofo e scienziato Aristotele) il cuore era ritenuto sede della memoria. Il verbo ricordare deriva infatti dal verbo latino recordari e questo dal sostantivo cŏr (genitivocŏrdis), cuore (come sede della memoria) col suffissore- di movimento all'incontrario: quindi, propriamente, rimettere nel cuore (= nella memoria). Ancora oggi l'espressione "a memoria" si traduce par coeur in francese, by heart in inglese e de cor in portoghese ("coeur", "heart" e "cor" significano "cuore").  Particolarmente cruento era il sacrificio del cuore nel mondo azteco. Gli Aztechi prendevano un cuore, estratto ancora palpitante dalle vittime sacrificali umane, e lo offrivano agli dei. Apparato respiratorio nei vertebrati, su sapere La circolazione dei vertebrati, su hischool.weebly. Fiocca, Testut e Latarjet, Dizionario etimologico della lingua italiana, di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, ed. Zanichelli. Léo Testut e André Latarjet, Miologia-Angiologia, in Trattato di anatomia umana. Anatomia descrittiva e microscopica – Organogenesi, Torino, UTET, Fiocca et al., Fondamenti di anatomia e fisiologia umana, 2ª ed., Napoli, Sorbona, cuore, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Cuore, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere riguardanti Cuore, su Open Library, Internet Archive.Cuore, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Portale Anatomia   Portale Biologia   Portale Medicina Ultima modifica 18 giorni fa di Lorenzo Longo Arteria vasi sanguigni che trasportano il sangue dalla periferia del cuore al corpo  Cuore umano organo muscolare cavo  Apparato circolatorio insieme degli organi deputati al trasporto di fluidi diversi – come il sangue e, in un'accezione più generale, la linfa – che hanno il compito di apportare alle cellule gli elementi necessari al loro sostentamento  Wikipedia Il contenutoGrice: “Italians are afraid of the ‘sacro’ because since the fall of the Roman Empire, it means the evil Pope! – unless otherwise stated by people like Evola, etc.” – Grice: “Hart should have spent more time analysing the implicatures of ‘disobey,’ as Cosi does -- to realise how wrong his theory is!” Grice: “Austin, who taught morals at Oxford, should have examined, as Cosi does, what we mean by ‘responsible philosopher’ before opening his mouth!” – Grice: “My idea of helpfulness does not quite include that of ‘mediation’ but it should – the space of mediation in the conflict in the conversational dyad! I owe this to Cosi.” Grice: “I decided to use ‘judicative’ versus ‘volitive’ after Cosi. – His ‘giudicare’ is a gem!” -- Giovanni Cosi. Keywords: l’accordo, il secolare/il sacro; profane/sacro – secolare; archetipo, il filosofo come gentiluomo, l’obbediente, il disobbediente, il consensus, il disensus, to obey, conflitto, mediazione, diritto (right), giure, giurato – legatum, vendetta, giudicare, fare giustizia, vendetta conversazionale, natura, naturalita, non-naturale, legge naturale gius naturale, giusnaturalismo, fenomenologia del giurato; normato naturale? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Cosmacini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del consenso e la compassione – sinestesia e simpatia – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Cosmacini; for one he wrote on THREE areas of my concern: ‘cuore’, as when we say that two conversationalists reach an ‘accord’! – on ‘empatia’ – a Hellenism, and most importantly, on ‘compassione,’ which is at the root of my principle of conversational benevolence. -- Giorgio Cosmacini (Milano), filosofo. Studia a Milano e Pavia.la “convenzione della mutua” o INAM(Istituto nazionale per l'assicurazione contro le malattie) e apre un ambulatorio mutualistico Fare bene il mestiere di “medico della mutua” non significa gestire un certo numero di “mutuanti”; voleva inoltre dire aver cura di una comunità di persone, ciascuna delle quali con esigenze proprie. raggiungendo in quel periodo circa trecento mutuanti. Quando i suoi mutuanti erano circa millecinquecento, decise di realizzare un suo sogno: la libera docenza. è autore di numerose opere d'argomento filosofico-medico. Altre opere: la mutua, medico della mutua, mutuante, mutuanti, ambulatorio mutualistico. “Scienza medica e giacobinismo in Italia: l'impresa politico-culturale di Rasori (Collana La società, Milano, Franco Angeli); Röntgen. Il "fotografo dell'invisibile", lo scienziato che scoprì i raggi x, Collana Biografie, Milano, Rizzoli); “Gemelli. Il Machiavelli di Dio, Collana Biografie, Milano, Rizzoli); “Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea alla guerra mondiale. Gius. Laterza et Figli); “Medicina e Sanità in Italia nel Ventesimo secolo. Dalla 'Spagnola' alla 2ª Guerra Mondiale, Roma, Laterza); “La medicina e la sua storia. Da Carlo V al Re Sole, Collana Osservatorio italiano, Milano, Rizzoli); “Una dinastia di medici. La saga dei Cavacciuti-Moruzzi, Collana Saggi italiani, Milano, Rizzoli); Storia della medicina e della Sanità nell'Italia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, G. C. Cristina Cenedella, I vecchi e la cura. Storia del Pio Albergo Trivulzio, Roma-Bari, Laterza); “La qualità del tuo medico. Per una filosofia della medicina, Roma-Bari, Laterza); “Medici nella storia d'Italia, Roma-Bari, Laterza, L'arte lunga. Storia della medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il medico ciarlatano. Vita inimitabile di un europeo del Seicento, Laterza); “Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, ciarle, Milano, Cortina, La Ca' Granda dei milanesi. Storia dell'Ospedale Maggiore, Roma-Bari, Laterza); “Il mestiere di medico. Storia di una professione, Collana Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Introduzione alla medicina, Roma-Bari, Laterza, Biografia della Ca' Granda. Uomini e idee dell'Ospedale Maggiore di Milano, Laterza, Medicina e mondo ebraico. Dalla Bibbia al secolo dei ghetti, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza, Il male del secolo. Per una storia del cancro, Roma-Bari, Laterza); “La stagione di una fine, Terziaria); “Il medico giacobino. La vita e i tempi di Rasori, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Salute e bioetica, Torino, Einaudi, G. C. Satolli, Lettera a un medico sulla cura degli uomini, Roma, Laterza, La vita nelle mani. Storia della chirurgia, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza, Una vita qualunque, viennepierre edizioni, Il medico materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza «La mia baracca». Storia della fondazione Don Gnocchi, Presentazione del Cardinale Dionigi Tettamanzi, Laterza); “La peste bianca. Milano e la lotta antitubercolare, Milano, Franco Angeli); “L'arte lunga. Storia della medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il romanzo di un medico, viennepierre edizioni, L'Islam a La Thuile nel Medioevo. Un «tuillèn» alla terza crociata: andata, ritorno, morte misteriosa, KC Edizioni, Le spade di Damocle. Paure e malattie nella storia, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “La religiosità della medicina. Dall'antichità a oggi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “L'anello di Asclepio. L'età dell'oro”; “La peste, passato e presente, Milano, Editrice San Raffaele); “La medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base” (Collana Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Il medico saltimbanco. Vita e avventure di Buonafede Vitali, giramondo instancabile, chimico di talento, istrione di buona creanza” (Roma-Bari, Laterza); “Prima lezione di medicina, Collana Universale.Prime lezioni, Roma-Bari, Laterza); “Il medico e il cardinale, Milano, Editrice San Raffaele); “Testamento biologico. Idee ed esperienze per una morte giusta” (Bologna, Il Mulino); “Politica per amore” (Milano, Franco Angeli); “Guerra e medicina. Dall'antichità a oggi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Compassione” (Bologna, Il Mulino); “La scomparsa del dottore. Storia e cronaca di un'estinzione, Milano, Raffaello Cortina); “Camillo De Lellis. Il santo dei malati, Roma-Bari, Laterza); “Il medico delle mummie. Vita e avventure di Bozzi Granville, Collana Percorsi, Roma-Bari, Laterza); “Como, il lago, la montagna, NodoLibri); “Tanatologia della vita e stetoscopio. Bichat, Laënnec e la "nascita della clinica", AlboVersorio,. Medicina e rivoluzione. La rivoluzione francese della medicina e il nostro tempo” (Collana Scienza e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Un triennio cruciale. Como, il lago, la montagna, NodoLibri); “La forza dell'idea. Medici socialisti e compagni di strada a Milano. L'Ornitorinco,  Per una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina tra Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco,  Medicina Narrata, Sedizioni); “Galeno e il galenismo. Scienza e idee della salute” (Milano, Franco Angeli); “La chimica della vita” -- e microscopio. Pasteur e la microbiologia, AlboVersorio); “Per una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina in Italia fra Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco); “Il tempo della cura. Malati, medici, medicine, NodoLibri); “Elogio della Materia” -- Per una storia ideologica della medicina, Edra edizioni); “L'Infinito di Leopardi. Un impossibile congedo” (Sedizioni,. Memorie dal lago e ricordi dal confine. Como, il lago, la montagna, NodoLibri,  Salute e medicina a Milano. Sette secoli all'avanguardia, L'Ornitorinco); “La medicina dei papi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Medici e medicina durante il fascismo” (Pantarei); “Il viaggio di un ragazzo attraverso il fascismo, Pantarei); Historia cordis, Ass. Beretta,. Curatele Dizionario di storia della salute, G. Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi, Roberto Satolli, Collana Saggi, Torino, Einaudi.  “mutua gratia” - Practicis nostris, Muri LAPIDES, sine inscriptione, apud nus, gadinca, vel Hnoc. Non liquet, “don mutual” – mutual gift -- Chartain Chartul. Hygenum de Limitibus constituendis. inquit Somnerus. (Mutinæ carnes, in Con thesaur. S. Germ. Prat. fol. 12. rº.: Dicta. mutuum, Exactio nomine mului, Charta suet. MSS. Eccl. Colon. e Bibl. Eccl. Atre- Ysabellis exhibuit dicto thesaurario quasdam Rogerii 1. Reg. Sicil. ann. apud Mu bat, eædem quæ vervecinæ. Vide Multo, litteras mutuæ gratiæ dudum confectas inter ralor. tom. 6. col. Nulla angaria, par I mutio, id est, Patuus. Vocabul. dictam Ysabellam et prædictum defunctum angaria, echioma, gabella,Muruum, extorsio utriusque Juris. dum vivebat, et constante legitimo matrimo- jaciatur, imponatur. Chron. Parmense ad mutis, Truncus, stirps. Pactum inter nio inter ipsos. aapud eumdem Humb. dalph. et episc. Gratianopol. ann. “mutuare”, Mutuum, seu exactionem ec impositum fuit per commune Parma in Reg:. Chartoph. reg.: nomine mutui impositam solvere. Vide unum mutuum octo millium librarum impe recte tendendo ad pedem cujusdam margassii mutuum. rialium per episcopatum, et quinque millium seu claperii in quo margassio seu cleppe. Mutuatim, pro mutuo, in Vita Anti- per civitatem. Et mutuum clericis fuit im rio sunt duæ mutes arborum. dii Archiep. Bisonticensis cap. 5: Bene- positum duo millium librarum, etc. Chron. Åwwvíz, in Gloss. Græc. Lat. dictionis ergo dono mutuatim dato, etc. Mutin.: Tria Mu [Mirac. S. Bernhardi Episc. tom. 5. Julii (mutuatio, pro mutatio, in Consuet. tua extorsit.] Historia Cortusiorum lib. 3. p.112, Eoque quippiam petere volente, MSS. Auscior. art. 3: Fiat autem mutua cap. 14, Teutonici cruciabant Paduanos verbis in ore reclusis, subito mulus effectus tio consulum annuatim in festo S. Joan. *mutuis* el daciis. Infra: *mutual* imposuit et est; qui a plerisque tentatus, an videlicet Baptistæ. datias. Lib. 7. cap. 1: V'exabantur Muluis astu Muritatem simularet, et tandem certa ex Ital. Mutola, Muta. Oc- et daliis. Albertinus Mussalus lib. 12. de loquendi impotentia comprobatur. Occurrit currit in Vita B. Justinæ de Aretio n. 9. Reb. gest. Italic. pag. 86: Communes da præterea toin. 2.Sanctorum Apr.], Idem quod Expeditatus, riæ, exactionesque et Mutua publica el priMuronagium. Vide in Charta Forestæ cap. 9. forte pro múti- vata etc. Charta R. Abbatis Monasterii Ka Mullo. latus. Locum vide in Mastinus. roffensis in Pictonib. . ex (Ovis, Massiliensibus Mous, Nudus, glaber. Regesto Philippi Pulcri Regis Franc. Tabu tonfede. Charta ann. 1390: Quilibet Mu- Gloss. Lat. Græc. MSS. Sangerman. larii Regii n. 11: Non recipiemus ibi Mu tofeda solvat xvi. denarios. * Castigat. in utrumque Glossar. forte tuum, nisi gratis mutuare voluerint habitan Lugdunensibus, Feye. Vide supra Menlulosus, ead'ns, ex Vulc. tes. Ita in Liberlatib. Novæ Bastidæ in Oc Lex Ripuar. lit. 6o. S 4: Si citania ann. in alio Regesto ejusdem xudovicv, Malum colo- autem ibidem infra terminationem aliqua in- Regis ann. n. 16. Vide Credentia, neum. Supplem. Antiquarii et Gloss. MSS. dicia sua arte, vel butinæ,aut Lat. Græc. Sangerm. Aliud itidem Gloss.: extiterint, ad sacramentum non admittatur, mutuum coactum* exactio, quæ a Mutonium, Tepábeuo, Additio. etc. Ubi mutuli, videntur esse aggeres ter- dominis in urgentibus negotiis suis ac ne 1., quos Motes nostri vocant: aut forte cessitatibus fiebat super subditos, vassallos, equilatus, quod sic describit Jovius Hist. lapides ii quosMuros vocant Agrimensores,ac tenentes cum restitutionis conditione ac lib. 14: Mutpharachæ admirabili virtute i. sine inscriptione, vice terminorum po- pollicitatione: a qua quidem exactione præstantes, toto orbe conquisiti, ea condi- siti. Vide Bonna 2. exempta pleraque oppida, quibus concessæ tione militant, ut quos velint Deos, impune KF Errat Cangius, si fides Eccardo, libertates, leguntur. Charla libertatum colant, præsentique tantum Imperatori ope- in Notis ad Legem citatam, quam ad cal- Aquarum Mortuarum ann. 1246: Omnes ram navent. Hæc post Carolum de Aquino cem Legis Salicæ edidit. Mútuli enim sunt habitatores loci illius sint liberi et immunes in Lex. milit. machinaliones clandestinæ, vel seditiones ab omnibus questis, talliis, et toltis, et clam excitatæ, a veteri German.Meulen, tuo coucto, et omni ademptu coacto. Con capitis tegumentum, quod monachi cap. | clandestine agere, unde Meutmacher, Fla- suetudines Monspelienses MSS.: paronem vocabant. Gall. Christ. tom. 4. bellum seditionis, Gall. Mutin. Hæc vir Toltam nec quistam, vel Mutuum coactum, col uti. Mutrellis 782: Statuimus in dormitorio, quod liceat fratribus eruditus; quæ tameninmeam fidem reci. vel aliquam exactionem coactam non habet;. Vide Mitræ. necunquam habuit dominus Montispessulani I Vide Morth. I Gall. Mouton. in hominibus Montispessulani. Eædem ver *, ut supra Muramen. Charta ann.  exArchivis Massil.: naculæ, totas inquistas, ni prest forsat, o Terrear.villæ de Busseul ex Cod. reg. Item super co quod petebantdicti parerii alcuna action destrecha, etc. Libertates fol. 47. vº.: Item unum Pariziensem Mut -I quartam partem Murunorum, astorium et concessæ oppidis Castelli Amorosi et Va CANGII CLOSS. – T. IV. 2. Feda 2. pere nolim. etc. lentiæ, in diæcesiAginnepsi, ab Edwardo I Eodem significatu, De S. 6: L. FURPANIO L. Lib. PuILOSTORGO Mr. I. Rege Angliæ ex Regesto Constabulariæ Juvenate Episc. tom. 1. Maii pag. 399: ROBRECHARIO VIX ann. LIJTI. Purpuria L. Burdegalensis fol. : Nec recipiemus Episcopus Narniensis ex suo palatio, ialari L. OLYMPUSA PECIT.  in ibi Muruum, nisi gratis nobis mutuare velint reste indutus, racheto et Muzzeta. Vide Inscript. Vide Martin Lex. in habitantes. Eadem habent libertales Rio. Mozzetta. hac voce. magi in Arvernis. vocatur letri rudoris in. Fantasia, miratores. Pa Mutuum VIOLENTUM, in Charta liberta- quietudo terrena. Ita Apuleius de Muudo. pias. tum Jasseropis, apud Guicheponum in A Græco nimium púxw, Mugio, reboo. Vide Ma Histor. Bressensi  Roga coacta, in I Piscis genus, qui alius zer. Charta Ludovici Comitis Blesensis et Cla- videtur ab eo quem Spelmannus piscem. in Statutis Mon romontens. ann. 1197. pro Creduliensi viridem vocat. Computus ann. 1425. apud tis Regal. fol. 318: Debeat solvere emptori villa: Omnes homines Credulio marentes Kennett. in Antiquit. Ambrosden. pag. gabellæ piscium, solidos quatuor pro quoli taliam mihi debentes, el eorum hæredes, a 575: Et in 111. copulis viridis piscis... Et bet rubo piscium, et intelligatur detracta talia, ablatione, impruntato et Roga coacta inxv. copulisde Myllewellminorissortisx: Myrta et cestis ac funibus. de cælero penitus quilos et immunes esse sol. vi. d. et in xx. Myllewell majoris sortis Eadem notione, usurpant Cat concedo. Exslat Statutum Philippi VI. Re- Xit, sol. (* Vide Mulsellus.] lius Aurelianus, Celsus, et Apicius. Vide gis Frane. 3. Febr. ann. 1343. quo vMoniales, ex Anglo -Sa- Murta. in posterum fieri ullum Mutuum coactum xop. myn'e'cen'e, vel minicene, hodie Graviter, com super subditos suos: quod scilicet paulo Anglis Minneken et minnekenlasse. Copeil. posite ambulare. Chron. Ditm. Mersburz. anie exegisse docet Diploma anni 1342. Ænbamiense in Anglia: l'episc. tom. 10. Collect. Histor. Frane. pag. 28. Junii, sed et Philippum Pulerum Re- Episcopi et abbates, monachi et Mynecenæ, 131: Henricus Dei gratia res inclytus à se. gem aliud ann. 1309. in 12. Regesto Char- canonici et nonne, natoribus duodecim vallatus, quorum ser tophyl. Reg. Ch. 15. et in 36. Regest. apud Ausonium in rasi barba,alii prolixa Mystace incedebant Ch. 48. lemmate Epigrammatis. Cantharus po- cum buculis, etc. Laudatum Philippi VI. Statutum torius Scaligero, qui a similitudine muris I Sacerdotum præposi frustra quæsitum in Regestis publicis testa- et barbæ, quæ in conum desinit, Myobar- tus; titulus honorarius Archiep. Toletani, tur D. de Lauriere tom. 2. Ordinat. Reg. bum voce ibrida dietum existimat. Turne- ex Hierolex. Macri. Franc. prg. 234. Undeexistimat D. Cangium bus vero Advers. lib. 3. cap. 19. putat ver- lapsum memoria art. 4. et 5. Statuti ejusd. | bum compositum mure et barbo, quod |, Mysteriorum per. Regis . non3. Febr.spectasse, mensuram, liquidorum sescunciam penitus, vel princeps. Prudent. Peristeph. 2. quo vetat Philippus Rex in posterum a dentem sonat, ut sit tamquam muris cya- 349: Bene est, quod ipse ex omnibus My subditis suis exigi equos, currus, ele. nisi thus. Quidam le; emendat Lil. Gyraldus  Epist, *mutuum violatum* Exactio nomine xobarbaru, quod non placet. Vide Cupe. Zachariæ PP. ann.748. tom. 1. Rer. Mo *mutui*, quæ a subditis exigitur. Charta rum in Harpocrate pag. 78. gunt. pag. 255, Officium, sacra Li mutuum violatum, velmessionem bajuli vel turgia. Pelagius Episcop. Ovetensis in Fer servientum. [ Leg. Violentum ut, supra.) ctum... Si autem Myocepha aur ypopius fuerit,dinando Rege Hispan.: Tunc Alfonsus Rez mutuum ebraldum. Charta Henrici Co- post inunctionem ligabis oculos aut linteo in velociter Romam nuntios misi ad Papam mitis Portugalliæ tom. 3. Monarchiæ Lusi- aqua infuso frigida, aut spongia in ipsa Aldebrandum cognomento septimus Grego tanæ p.282, Non introducam *mutuum* aqua infusa. rius. Ideo hoc fecit, quia Romanum Vyste Ebraldum Colimbriam. 9piratici genus arium habere voluit in omni Regno. Infra: mutuum, stipendium datum in ante-, ut placet Tur Confirmarit itaque Romanum Mysterium in cessum. Lit. ann. 1408. tom. 9. Ordinat. nebo lib. 3. Adversar. cap. 1. nomen omne regnum Regis Adefonsi æra 1113. (Chr. reg. Franc.: Ordinamus adepti. Melius Scaliger, a forma qevūves, 1088. ) per senescallos, receptores, thesaurarios,... hoc est, angusta et oblonga, dictum ira- Missæ sacrifi tum nobilibus quam innobilibus, cum ex dit. cium. Acta S. Gratil. tom. 3. Aug. pag. parte nostra mandati fuerint ut ad guerras Hist. Franc. Sfortiæ ad ann. col. 2: Indutus est (Gratilianus) ve nostras accedant, *mutuum* fieri priusquam apud Murator. tom. 31. Script. Ital.col.stimentis a.  Wikipedia Ricerca Sinestesia (psicologia) fenomeno sensoriale/percettivo Lingua Segui Modifica Avvertenza Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze. La sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una "contaminazione" dei sensi nella percezione. Il fenomeno neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo.[2]   Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di una persona soggetta al fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del fenomenoModifica Con il termine "sinestesia" si fa riferimento a quelle situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi.[1]  Nella sua forma più blanda è presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che i nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto distaccata dagli altri.  Più indicativo di un'effettiva presenza di sinestesia è il caso in cui il percepire uno stimolo (come ad esempio il suono) provoca una reazione netta e propria di un altro senso (ad esempio la vista). Per "forma pura" si intende la sinestesia che si manifesta automaticamente come fenomeno percettivo e non cognitivo. Il fenomeno è involontario, ma una maggiore attenzione prestata dal soggetto può evocarlo con maggiore consapevolezza, al punto che il sinestesico puro, vedendo i suoni e sentendo i colori, può riuscire a trarre vantaggio da queste contaminazioni sensoriali; un compositore che sfruttava questa sua capacità fu Olivier Messiaen, così come il pittore Vasilij Vasil'evič Kandinskij, che affermava di poter sentire la voce dei colori, che per lui erano suoni, entità vive e lo spiega bene nel suo libro Lo spirituale nell’arte. Un altro sinestesico fu il pittore e musicista lituano, Mikalojus Konstantinas Čiurlionis. Il compositore russo Aleksandr Nikolaevič Skrjabin era particolarmente interessato agli effetti psicologici sul pubblico quando sperimentavano suoni e colori contemporaneamente. La sua teoria era che quando si percepiva il colore giusto con il suono corretto, si creava "un potente risonatore psicologico per l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più famosa, che viene eseguita ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco [1]. Ma la lista degli artisti sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche affermano che il fenomeno sinestesico interessi il 4% della popolazione e di questo 4% la maggior parte sono artisti. Un'altra caratteristica della sinestesia è poi che si presenta a volte nelle persone mancine, o in concomitanza con altre caratteristiche come l'allochiria (confusione della mano destra con la sinistra), scarso senso dell'orientamento, dislessia, deficit dell'attenzione e, raramente, autismo.  Spesso la contaminazione sensoriale avviene a direzione unica: ad esempio, se vedo una nota musicale come un colore, non è detto che vedendo quel colore la mia mente evochi quella nota. Questa è una delle caratteristiche della sinestesia percettiva, l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo Paratico il mancino Leonardo Da Vinci era affetto da sinestesia.[3]  Esperienze di tipo sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale, mediante l'uso di sostanze allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD, esperienze di deprivazione sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di malattie che colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è detta pseudosinestesia, in quanto è indotta o non presente dalla nascita. La sinestesia acquisita sembra riguardare solo le forme di sinestesia percettiva, e non sono stati documentati casi di sinestesia concettuale acquisita.  Le persone che hanno esperienze sinestesiche nella "forma pura" sono un numero relativamente ridotto. Studi recenti hanno mostrato una certa variabilità:  1 ogni 2000 1 ogni 200 Queste esperienze sono quotidiane ed iniziano sin dall'infanzia. Molti sinestesici si sorprendono scoprendo che questa esperienza non è provata da tutte le persone.  L'esperienza sinestetica è composta da due elementi:  L'evento induttore (inducer). L'evento concorrente (concurrent). Per esempio, può accadere che un sinestesico descriva il suono (inducer) del proprio bambino che piange come un colore giallo sgradevole (concurrent). La relazione tra un inducer e un concurrent è sistematica, nel senso che a ogni inducer corrisponde un preciso concurrent.  Grossenbacher et Lovelace, distinguono due tipi di sinestesia a seconda che l'inducer sia percettivoo concettuale.  Sinestesia percettiva: l'inducer è uno stimolo percettivo (per es. la vista di lettere produce anche la vista di colori "collegati"). Sinestesia concettuale: i concurrent sono prodotti dal pensare a un particolare concetto (per es: numero, mese dell'anno, posizione nello spazio). Si utilizza intensivamente la sinestesia anche nella terminologia utilizzata nella degustazione o nell'analisi sensoriale.    Basi genetiche della sinestesia Purtroppo con le competenze scientifiche attuali non è possibile identificare singoli loci genici che determinino con certezza questo fenomeno neurocognitivo. Il fenomeno è più probabilmente dovuto a un complesso meccanismo neurale e non a singole proteine codificate da parti di genoma. In ogni caso interessanti esperimenti di neuroimaging paiono confermare tale fenomeno. Sinestesia: grafema-coloreModificaRamachandran e i suoi collaboratori hanno notato che la forma più comune di sinestesia è quella grafema(lettera, numero) - colore e infatti i rispettivi centri cerebrali sono molto vicini tra loro. Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza magnetica funzionale) hanno permesso di individuare il "centro del colore" (es. Zeki et Marini, Brain), l'area V4 nel giro fusiforme.  L'area dei grafemi è stata anch'essa individuata nel giro fusiforme, in particolare nell'emisfero sinistro vicino all'area V4. L'area si attiva sia in seguito alla presentazione di lettere sia in seguito alla presentazione di numeri.  L'ipotesi di Ramachandran è che ci sia una attivazione congiunta. La presentazione di un grafema fa attivare l'area dei grafemi, che fa attivare contemporaneamente anche l'area del colore, anche senza la presenza di uno stimolo. Questo è dovuto ad un eccesso di connessioni tra le due aree, non presente in tutte le persone.  Le connessioni che si hanno alla nascita sono un numero superiore di quello che si trovano in un cervello adulto. Quello che avviene nei primi mesi di vita è un processo definito pruning (potatura, sfoltimento) delle connessioni cerebrali. L'ipotesi di Ramachandran è che le connessioni tra area del colore e area dei grafemi, che normalmente subiscono un processo di pruning, rimangono invece intatte nei sinestesici. Probabilmente per una mutazione genetica che fa fallire il processo di pruning. Esisteranno delle regole che in seguito all'esperienza permetteranno di sviluppare connessioni particolari tra area dei grafemi e area del colore. Questo spiegherebbe perché ad un grafema viene sempre associato un certo colore.  Ramachandran ipotizza che l'attivazione del giro fusiforme non implichi un arrivo alla coscienza delle informazioni. Perché sia possibile essere consapevoli dell'informazione percepita si dovranno attivare altre aree superiori. Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la sinestesia non sia dovuta alla presenza di un numero maggiore di connessioni neurali (le quali non sarebbero presenti nei non sinestesici); infatti, secondo lo studioso tale fenomeno percettivo è imputabile al fatto che, nel cervello dei sinestesici, alcune connessioni neurali risultano ancora attive, mentre non vengono più "utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di percepire. Questo spiegherebbe il motivo per cui chi assume droghe psicoattive sia in grado di esperire una condizione di "pseudo-sinestesia", circoscritta esclusivamente al limite temporale in cui tali sostanze dispieghino il loro effetto, per poi tornare a non percepire sinestesicamente una volta terminato quest'ultimo. Secondo Grossenbacher è molto improbabile, infatti, che si siano create nuove connessioni neurali durante l'assunzione di tali droghe; piuttosto, risulta più probabile che vengano percorse "strade" neurali solitamente "disattive".  Influenza dell'attenzione sulla percezioneModifica Esperimento di Ramachandran e Hubbard: caso della figura gerarchica (un 5 composto da tanti 3), se ai soggetti veniva chiesto di fare attenzione a livello globale vedevano il colore rosso, se invece dovevano dirigere la loro attenzione a livello locale (3) vedevano verde.  Questo esperimento porta a concludere che l'attenzione influenza il manifestarsi del fenomeno sinestesico.  Sinestesici projector  Nel caso di grafema-colore, il colore è visto come una pellicola che ricopre il numero completamente. Un sinestesico testato da Dixon, riferiva di provare un'esperienza irritante se il numero era di un colore incongruente con quello del fotismo (l'effetto della sua sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli evocava il colore rosso, ma in realtà era scritto con il giallo.  Sinestesici associatorModifica Sempre nel caso di grafema-colore, il colore appare nella mente, e non sopra il numero. In genere, i sinestesici associator riferiscono che l'esperienza di vedere un numero con un colore non congruente con quello del fotismo, non è un'esperienza per nulla disturbante. La percezione del colore "reale" del numero è un'esperienza molto più intensa del fotismo, per un sinestesico associator.  I sinestesici projector sembrano una minoranza rispetto ai sinestesici associator (11 su 100, tra quelli intervistati da Dixon e collaboratori).  Tra i maggiori studiosi della sinestesia percettiva, Richard Cytowic, Ramachandran, E. Hubbard, Sean Day, Bulat Galeyev, Irina Vaneckina.  Rapporto con i canali del calcioModifica Studiando nel moscerino della frutta un gene coinvolto nell'elaborazione del dolore, alcuni ricercatori hanno creato il primo modello della sinestesia. Con la tecnica dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni quali candidati a interessare possibili geni del dolore. Il primo ad essere analizzato più in dettaglio è stato quello che codifichi parte di un canale del calcio noto come α2δ3. Questi canali che regolano il passaggio di Ca2+ attraverso la membrana cellulare sono fondamentali per l'eccitabilità elettrica dei neuroni. Con questi canali interferiscono diversi antidolorifici.  Nei topi carenti di α2δ3 si è dimostrato che questo gene controlli la sensibilità al dolore provocato dal calore sia nella Drosophila sia nei mammiferi. Indagini condotte con la MRI hanno anche rivelato che α2δ3 partecipi all'elaborazione del dolore termico a livello cerebrale. In assenza di α2δ3 il segnale del dolore a genesi termica arriva al talamo, ma poi non prosegue verso i suoi centri corticali superiori. Le immagini di fMRI mostrano piuttosto un'attivazione crociata delle aree corticali per la visione, l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si osserva anche quando lo stimolo doloroso sia di natura tattile. Emozioni colorate | Le Scienze, su lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon Baron-Cohen (1996). Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford: Blackwell Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy, Lascar Publishing, lascarpublishing.com/Leonardo in Internet Archive. ^ Baron- Cohen, Ramachandran et Hubbard, Neurocognitive mechanism of synesthesia" Edward M. Hubbard1 and V.S. Ramachandran, Neurocognitive mechanism of synesthesia, su cell.com, November 3, 2005. URL consultato il libero. ^ percezione e idee, la sinestesia | PsycHomer, su psychomer. Le Scienze: Non provo dolore, ma ne sento l'odore e ascolto le note BibliografiaModifica Córdoba M.J. de, Hubbard E.M., Riccò D., Day S.A., III Congreso Internacional de Sinestesia, Ciencia y Arte, Parque de las Ciencias de Granada, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Edición Digital interactiva, Imprenta del Carmen. Granada. Córdoba M.J. de, Riccò D. (et al.), Sinestesia. Los fundamentos teóricos, artísticos y científicos, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Granada. Cytowic, R.E., Synesthesia: A Union of The Senses, second edition, MIT Press, Cambridge, Cytowic, R.E., The Man Who Tasted Shapes, Cambridge, MIT Press, Massachusetts, Marks L.E., The Unity of the Senses. Interrelations among the modalities, Academic Press, New York Riccò, Sinestesie per il design. Le interazioni sensoriali nell'epoca dei multimedia, Etas, Milano, Riccò D., Sentire il design. Sinestesie nel progetto di comunicazione, Carocci, Roma, 2Tornitore T., Storia delle sinestesie. Le origini dell'audizione colorata, Genova, 1986. Tornitore T., Scambi di sensi. Preistoria delle sinestesie, Centro Scientifico Torinese, Torino, Voci correlate Takete e Maluma Sinestesia tattile-speculare. «sinestesia» Udire i colori, gustare le forme, su lescienze.espresso.repubblica.it, Le Scienze. TED Talk: "I listen to color" Portale Psicologia: accedi alle voci di che trattano di psicologia Qualia aspetti qualitativi delle esperienze coscienti  Locus ceruleus Sinestesia tattile-speculare raro fenomeno sensoriale/percettivo  Wikipedia Il contenutoGrice: “The grammar of ‘mutuality’ can be extraordinarily complicated. But I’m sure Schiffer’s ‘A and B mutually know that p’ doesn’t make sense as an analysandum.” Grice: “You can trade (L mutate both ways) or exchange *information* -- The grammar is: A and B are in love – implicated: ‘mutual’ --  A and B are friends – implicated: mutual. Dickens, who never attended Oxford, would never catch the subtlety of his biggest solecism, “Our mutual friend”! – Grice: “But I’m surprised from Schiffer, who did attend the varsity!” -- Giorgio Cosmacini. Cosmacini. Keywords: compassione, salute, mens sana in corpore sano, storia della medicina, Foucault, l’anello di Asclepio, la medicina nella Roma antica, giacobinismo, fascismo, giacobinismo in Italia, medici fascisti, medicina fascista, la medicina non e una scienza, tanatologia, bio-chemica, la chemical della vita, bio-chemistry –Grice on life, the philosophy of life, cooperation and compassion. Imperativo conversazionale, compassione conversazionale, imperative della mutualita conversazionale – mutualita conversazionale – imperative of conversational mutuality, mutuality, mutual, the depth grammar of mutuality – Grice against Schiffer – Grice scared by ‘mutual knowledge’ – and using it in scare quotes (“Such monsters as Schiffer’s ‘mutual knowledge’ have been proposed to replace my regress when there’s nothing wrong with stopping it elsewise!” Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmacini” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cosmi:  all’isola-- la ragione conversazionale el’implicatura conversazionale dei discorsi: corsi e ricorsi -- metodo dei principi generali del discorso – scuola di Casteltermini – filosofia girgentina – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Casteltermini). Filosofo girgentino. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Casteltermini, Gigenti, Sicilia. Grice: “I love Cosmi – for one he uses the very exact phrase I do, ‘the general principles of discourse,’ and he also finds them to have a rational (‘razionale’) basis – they involve those desiderata for helpful communication, a co-operative principle – concerning most constraints I refer to: the necessity to avoid superfluity (supperfluita) and to maximize clarity (chiarezza) – so that’s genial!” – Grice: “Cosmi actually has two treatise, a more theoretical one, “General principles of discourse,” and an applied tract, “Metodo’ – of the “general principles of discourse’ – he had already elaborated on all the figures of rhetoric, so he knew what he was talking about and where he was leading --.” Grice: “The fact that he like me also loved Locke – and perhaps was more of a ‘sensista’ than I am, makes him great, too!” Fu un'imponente filosofo, no italiano, ma siciliano (Grice: “Sicily is not considered part of the ‘peninsola italiana’). Formatosi nel Seminario dei Chierici di Agrigento, ricopre la carica di rettore a Catania. Riceve dal re Ferdinando l'incarico di redigere il piano regolatore della filosofia siciliana. Da un rilevante contributo all'innovazione del illuministimo. Fu un grande filosofo, il primo e il più geniale del regno meridionale e uno dei primi e più geniali del Settecento italiano. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Principi generali del discorso, e della ortografia italiana ad uso delle regie scuole normali di Sicilia by C., edition published in Italian and held by 2 WorldCat member libraries worldwide. E primo forne il D2 Cosmi. Questo e un aureo libretto dei "Principi generali del discorso" – i. e. un principio comune a ogni discorso. Questo affinchè il filosofo a una nozione direttrice, non superflue. In questo trattato invano cercheresti quella immensa farragine di precetti disordinati, e quelle infinite minuterie non necessarie, con cui si sostitoleva confondere e stancare la prattica conversazionale del giovanetto. Si spone un solo principio generale e fondamentale, sintetizzato nell'antico ma verissimo motto: precetto uno. Il resto e uso. Questa mia preziosa filosofia è un sapientissimo essamine pel filosofo che vuole adoperare il "metodo conversazionale." Quivi si ricorda dapprimà quanto in occasione di filosofare sulla maniera di dare la prima istruzione conversazionale al ragazzo, in caso la necessita. Si ricorda come puo potè attuare la mia prammatica conversazionale, mettendo in esecuzione un maniobra chiara, spedita, uniforme per ogni topico conversazionale adattata alla maniera del civil conversare --  è cosa necessaria il sapere la semantica e le implicature conversazionale del volgare linguaggio. Il pirincipio della conversazionale e un principio di chiarezza (perspicuita) -- e un principio di aggiustatezza (approprio_ -- e un principio di mezzana eleganza (stilo estetico), e un principio senza oscurità, e un principio con univoci e senza cattive equivoci (un buon aequi-voce e accettable)– sensa non sunt multiplicanda praeter necessitatem --, e un principio senza superfluità (economia dello sforzo conversazionale, fortitudine conversazionale, candore conversazionale -- e un principio senza barbarismi -- imperciochè la perfezione e efficenza del volgare linguaggio guidato dalla semantica formale e il segno del reale. E vuole che al giovane si da un principio generale e fondamentale -- e un principio generale della conversazione, esposto con metodo ragionabile e calculable e con chiarezza. Un solo principio o imperativo categorico, un principio di efficenza communicative -- un principio soggetto il meno che si può all'eccezione o la violazione involuntaria si non a la splotazione retorica -- e un principio stesso ben capito e ben esercitato, chi forma il  corpo di ogni parte della filosofia. Ebbe un giorno a scrivere di CICERONE, che questo ingegno eminente prende a gradi la sua maturità e si perfezionava coll’uso, colla riflessione e col maneggio dei grandi affair. Or quello che osservo su Cicerone, intervenne proprio me medesimo, i cui Elementi di filologia, non prometto continuazione; ma osservazioni su l'uso dei Principj del Discorso, e qualche riflessione su i primi pensieri, da cui era partito nell'immaginar il mio metodo, gli somministrarono la materia di un secondo, e anche di un terzo volume di preziose nozioni di metodica prammatica.  Il secondo volume  e come il primo, è diviso in due parti.  La prima parte ha per titolo, “PRINCIPJ GENERALI DEL DISCORSO applicati alla lingua volgare”, per la quale avverto che, sebbene nelle parti già pubblicate dei “Principj generalie del discorso” siesi detto ciò che basta per l'istruzione della prima età; la sperienza mi ha fatto conoscere, che, volendosi col metodo intrapreso tirare innanzi il cammino, per la piena intelligenza,  1 C., Elem. di filol. ecc.,  Elem. di filol, ital. e latina, tomo II, Palermo; pag. III   ed imitazione dei classici principalmente italiani, era necessario ad entrare in qualche più esteso rischiarimento, *non per multiplicare l’imperativo conversazionale, ma per agevolarne l'uso, senza di cui inutili sempre la massima conversazionale universalisable si rimarranno. Dietro di che, in cinque paragrafi, filosofo, con la solita competenza, “Del Pronome in generale”, “Del Pro-nome ed dell’Articolo”; “Del pronomi e del verbo che ne dipendono; Della Preposizione, detta “segnacasi”, e “Della Costruzione irregolare”. I quali cinque paragrafi, con la giunta delle prime due parti dei PRINCIPJ GENERALI DEL DISCORSO  -- PRINCIPIO GENERALE DEL DISCORSO -- già stampati a riprese. Egli fece riunire in separato volumetto per uso degli scolari 3  Io non mi stancherei, dirò col  Blasi, di riportare varie altre sentenze, che oggi pajono roba fresca, e pure da presso a un secolo il nostro l'aveva annunziato con tanta chiarezza da farla scorgere anco ai ciechi; ed è per tanto che riferisco qualche altro criterio, che dovrebbe aver nell'animo e nella coscienza ognuno, che si dà all'educazione specialmente elementare:  Invece di sorprendere, cosi il C., l'età fanciullesca coll' apparenza dottrinale di parole incognite, ingegnerassi il maestro a far vedere, che ciò che s'insegna di nuovo, è presso a poco quanto sapeva il fanciullo o quanto avrebbe potuto agevolmente sapere con un poco di riflessione 5.  Anzi che ad un giuoco di memoria desiderava che lo studio fosse diretto allo sviluppo dell'intendimento; inculcava lo studio dell' aritmetica fatto a norma delle regole predette, e indi tornava a ribadire che:  Per mantenere sempre desta l'attività nella mente degli allievi, è di somma importanza il non sgomentarli giammai coll'apparenza di gravi difficoltà nelle operazioni che loro si propongono; anzi colla frequenza degli esempi il far loro osservare, che avrebbero da se sciolto le domande, se avessero fatto riflessione alle cose sa pute 6.  E poi seguiva cosi:  Che se alle volte occorrerà di dovere insegnare delle cose difficili, allora il maestro procurerà di scemare la difficoltà colla curiosità della ricerca, perchè il piacere della scoverta l'incoraggisca al tedio dell'operazione. Ma qualora la curiosità non è infiammata, il fanciullo non sente altro che la fatica, e la fatica sola da se ributta 7.  Poi chiedeva a se stesso:  É necessario il rappresentare al naturale lo stato presente della educazione ncstra letteraria? Lo farò con coraggio. Si è caricata la nostra memoria; perciò è rimasto senza energia e senza originalità l'intelletto. La nostra filosofia, in vece   C., Metodo dei principj generali del Discorso, Palermo, Metodo cit., BLABI, Note storiche di G. A. De C.; Palermo, Cosmi, Metodo ecc., d'essere l'arte di pensare, è stata l'arte di parlare di ciò che non s'intende; la nostra rettɔrica, l'arte di csaggerare con parole, e di parlare a controsen 30. Gran servigio, gran servigio, ridico, si presta al pubblico da chi indirizza per la strada regia del sipere la presente gioventù, da chi coltiva la loro ragione e il loro cuore.  Era tempo oramai di aprirsi a tutti la strada alla coltura delle scienze e delle arti; di venire nella comune estimazione le cognizioni realmente utili all'umanità, di siudiarsi la Natura nei suoi varj regni e nel suo vero prospetto. Era già il tempo ce la pubblica e la privata utilità fossero rico 103ciute ch.n: la misar di calcolare l'importanza delle cognizioni; che la Religione s'impari nella sua storia, nei suoi Dogmi, nella sua Morale, mi senza il pru:ito della costroversia; che nelle lingue doite si cerchi il gusto, ma senza pedanteria; che le matematiche, e l'analisi ci servano di guida nelle cognizioni astratte; che nelle scienze naturali si cerchino i mezzi per accrescere, o conservare la sanità dei nostri corpi, o per influire ne la ricchezza nazionale, coltivando e migliorando i prodotti dell'arte e della natura; e che finalmente la volgare e popolare lingua, vero termometro della coltura nazionale, si perfezioni; che non pud perfezionarsi, senza che si eserciti la ragione nello stesso tempo '.  [ocr errors] IV.  A questa stupenda Direzione pei maestri, il De Cosmi unì la prima parte dei Principj Generali del Discor30, che già aveva stampato a solo sin. dal 1790; cui fece seguire ora dalla parte secondo, che delle proposizioni, dei verbi, dei pronomi, delle congiunzioni s'intertiene, chiudendola con alcune regole primarie ad illustrazione delle altre, messe in fine della prima parte; e terminando l'aureo librettino con un capitolo sulla Scelta dei libri necessari allo studio della lingua italiana; dove vuole che siano preferiti i libri del Trecento; additando per libro di prima lettura il Fiore di virtù o il Volgarizzamento dei Gradi di S. Girolamo, 'od anche gli Ammaestra. minti degli antichi di frate Bartolomeo da San Concordio; e per la seconda classe, il Trattato del Governo della famiglia di Agnolo Pandolfini 5.  A sintesi di tutto il libretto il De Cosmi conchiude così:  Ciò che i maestri debbono inculcar continuamente alle tenere orecchie degli scolari sarà la necessità delle regole e dell'uso; perchè l'uso e le regole sono i veri arbitri di ogni lingua. Nulla contro le regole, nissuna parola fuori dell'uso",  Questo pregevole volumetto incontrò l'applauso di tutti i letterati; e un di essi, che si volle occultare sotto le iniziali 0. G. R. P., ne fece una bellissima ed estesa rivista nelle Notizie Letterarie di Cesena Cosmi, Metodo ecc. L'articolo dell' O. G. R. P. venne riprodotto da Angelo nelle Memorie per servire alla Storia letteraria di Sicilia; Ms. della Biblioteca Comunale C.. Discorso concetto filosofico Un discorso è una modalità di comunicazionelinguistica mediante cui si parla o scrive. La definizione del termine varia a seconda dei campi di applicazione (antropologia, etnografia, cultura, letteratura, filosofia, ecc.).  In semantica e analisi del discorso è una generalizzazione del concetto di comunicazione all'interno di tutti i contesti. Nel campo dei codici è la totalità del linguaggio utilizzato (vocabolario) in un determinato settore di pratica sociale o ricerca intellettuale (es: discorso giuridico, discorso religioso, discorso medico, ecc.). Michel Foucault ha definito il discorso come "un ensemble de séquences de signes" (un insieme di sequenze di segni).[1] Per quanto riguarda il campo delle scienze sociali e delle scienze umanistiche, il termine ha rilevanza riguardo a un pensiero che si può esprimere mediante il linguaggio.  Il discorso si differenzia dall'enunciato e dalla dichiarazione. Il discorso, infatti, può rappresentare la manifestazione di un pensiero individuale relativamente o meno a un determinato argomento; la dichiarazione invece consiste in un atto ufficiale di solito è preparato e coinvolto in documentazioni.   Con il termine discorso si identifica anche l'esposizione pronunciata in pubblico relativamente a un argomento o materia (discorso inaugurale, discorso commemorativo, ecc.).  Foucault, L'archéologie du savoir, Parigi, Gallimard, 1969, p. 141. Voci correlateModifica Parti del discorso Parresia Discorso diretto Discorso indiretto Frase Autore Dialettica Retorica Monologo Dialogo  «discorso» Portale Antropologia   Portale Filosofia   Portale Linguistica   Portale Sociologia Pregiudizio Strutturalismo (filosofia) movimento filosofico  Le parole e le cose Libro di Michel Foucault. Grice: “I call it ‘principle’ not ‘principles’ – or at least I did in my first William James lecture: ‘some general principle of discourse’ – I later found out that Aristotle is right: ‘arkhe’ is best used in the singular!.Grice: “So MY principle is ‘be cooperative’ – principle of conversational helpfulness --.  Maxims are not as important as ‘principle’ is – as Kant would agree!” Cosmi. Giovanni Agostino De Cosmi. Giovanni Cosmi. R Cosmi. Keywords: metodo dei principi generali del discorso, discorso, discursus, principle versus principle – principio, principii  -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmi” – The Swimming-Pool Library. Cosmi.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cosottini:  la ragione conversazionale el’implicatura conversazionale di MELOPEA – scuola di Figline Valdarno – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana –Luigi Speranza (Figline Valdarno). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Figline Valdarno, Firenze, Toscana. Grice: “Cosotini considers ‘Home, sweet home,’ in terms of linearity – surely Miss X can ‘improve’ on the score! Especially if she did visit Payne’s little cottage by the sea – in Easthampton, and shed a tear!”. Si laurea a Firenze con “Fenomenologia”. Fonda GRIM, Gruppo per la Reserccia dell’Improvisazione Musicale. GRICE Gruppo por la research dell’Improvisazione conversazione espressiva. Insegna Improvvisazione Musicale. Le Fanfole, canzoni composte su testi del poemetto meta-semantico di Fosco Maraini Gnosi delle Fanfole. Linearità e Nonlinearita in semiotica – sintagma lineare, sintagma soprasegmentale – the volume of a sound – a ‘natural’ expression of pain – the higher the volume, the higher the pine --. Grice on stress, intonation and implicature. I KNOW it. I KNOW it (you don’t have to tell me). SMITH paid the bill. Due conversazionaliste si muovono pacatamente per le loro vie, variando direzioni e anche versi, ascoltandosi sempre, ma con dialoghi liberi e mai serrati. “La musica dei matti” creazione dialogica di suoni del tutto libera e interamente legata all'istante, tale da produrre mozzione conversazionale dallo sviluppo verticale. Improvvisare la verità. Il concetto di ‘improvvisare’ improvissato – cf. English ‘improved’. Improvisation – improvised. Musica e Filosofia. Realizza la partitura grafica Dettagliper tre esecutori, che consiste di una mappa e ottantuno carte con segni grafici codificati (la mappa e le carte sono i “veicoli” e il modo in cui si legge la grafia genera molteplici possibilità di implicature. “wordless novel”. I suoi studi si concentrano sulla filosofia della musica e sull’improvvisazione musicale, scrivendo numerosi saggi per riviste specializzate come Musica Domani, Perspectives of New Music, Aisthesis, Musicheria e la rivista online De Musica.  Inoltre pubblica un saggio sul silenzio e sulle sue potenzialità performative. Metodologia dell'Improvvisazione Musicale. Tra Linearità e Nonlinearità, un libro di metodologia dell’improvvisazione musicale nel quale Cosottini teorizza la dicotomia tra Linearità e Nonlineairtà come strumento per l’analisi dell’improvvisazione musicale.  Non-linearita EDT, il silenzio in contesto non lineare, Filosofia della Musica. Non-linearità.  Metodi non lineari. EDT Non linearità. EDT Ascolto creativo e scrittura creativa di un’improvvisazione musicale. Metodologia dell’improvvisazione musicale. Tra Linearità e Nonlinearità Edizioni ETS, L’estetica dell’improvvisazione tra suono e silenzio in Musica Domani, improvisation-research-center--musica-e-filosofia. Do You Need A Sign.  Wikipedia Ricerca Palazzo Bardi edificio a Firenze Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Palazzo Bardi (disambigua). Palazzo Bardi Palazzo busini-bardi 11.JPG Esterno del Palazzo Bardi Localizzazione StatoItalia Italia RegioneToscana LocalitàFirenze Indirizzovia de' Benci 5 Coordinate 43°46′02.99″N 11°15′32.75″E Informazioni generali CondizioniIn uso CostruzioneXV secolo Realizzazione Committentebanchieri Busini Il palazzo Bardi o Busini-Bardi-Serzelli si trova in via de' Benci 5 a Firenze.   Palazzo Bardi, il cortile attribuito a Brunelleschi StoriaModifica Fu costruito su preesistenze negli anni Trenta del XV secolo per conto della famiglia di banchieri Busini, su disegno forse di Filippo Brunelleschi: è quindi evidente la sua grande importanza nel testimoniare, circa quindici anni prima della costruzione di palazzo Medicidi via Larga ad opera di Michelozzo, il definirsi della tipologia del palazzo rinascimentale, con cortile centrale, in un momento di significativa crescita urbana promossa dai ceti dirigenti del tempo.  Giovanni de' Bardi (della linea di Gualtiero, non di quella di Piero, esiliata nel 1343) acquistò il palazzo nel 1482: la famiglia già nel secolo precedente aveva significative proprietà di là dal ponte. Agnolo de' Bardi, nipote di Giovanni, fece fare dei lavori di ammodernamenti al palazzo, forse con il concorso di Giuliano da Maiano, ma non ne venne modificato l'assetto generale. Furono chiuse le grandi aperture sul fronte che davano accesso a vari locali adibiti a botteghe (una successione di fornici è ancora apprezzabile su via Malenchini e due permangono su via de' Vagellai). Da sottolineare come i lavori, pur giungendo ad esiti formalmente diversi, si sviluppassero in parallelo con quelli dell'antistante palazzo Corsi, ugualmente volti a convertire la più antica struttura medievale in un palazzo adeguato alla nuova concezione rinascimentale.   Preesistenze sul lato sud in via Malenchini Verso la fine del XVI secolo, come ricorda una lapide sulla facciata, si riuniva in questo palazzo una comitivadi letterati, artisti e musicisti, conosciuta sotto il nome di Camerata fiorentina di casa Bardi, istituita dapprima allo scopo di risuscitare l'antico teatro greco e che più tardi si occupò del melodramma teatrale, tanto che qui si eseguì per la prima volta il canto dantesco del conte Ugolino, messo in musica da Vincenzo Galilei e si eseguirono le Nuove Musiche di Giulio Caccini. Più tardi la Camerata divenne Accademia, trasferendosi nell'odierno palazzo Corsi-Tornabuoni in via Tornabuoni.  Il palazzo fu abitato dai Bardi fino all'estinzione del ramo familiare a inizio dell'Ottocento, per poi passare ai Bardi Serzelli, che l'hanno abitato fino al 1954, anno della morte del conte Alberto. Successivamente affittato alla Provincia di Firenze, è stato da questa scelto negli anni settanta per ospitare il III Liceo Scientifico statale. Ha subito il rifacimento degli intonaci sul fronte di via Malenchini. A partire dal 1990 circa, oramai liberato dalla presenza della scuola e acquistato da una società immobiliare, è stato interessato da un complesso cantiere finalizzato al recupero della fabbrica e alla suddivisione in appartamenti dei grandi ambienti interni, conclusosi nel 2007.  Il palazzo appare nell'elenco redatto nel 1901 dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, quale edificio monumentale da considerare patrimonio artistico nazionale, ed è sottoposto a vincolo architettonico. Descrizione  Esterno La semplice facciata, sviluppata sui canonici tre piani e graffita con una finta muratura a conci rinnovata nel 1885 (al tempo della proprietà di Ferdinando Bardi, comunque da considerare sostanzialmente fedele alle preesistenze), quindi restaurata e integrata nell'ambito del recente intervento, presenta ai lati due scudi con le armi, oramai consunte ma ancora ben leggibili, della famiglia Busini (d'azzurro, a tre fasce increspate d'oro, e alla banda attraversante di rosso, caricata di tre rosed'argento). Da segnalare sul fronte anche la lapide che ricorda come, in questo palazzo, Giovanni Bardi conte di Vernio avesse riunito a Camerata fiorentina di casa Bardi, in seno alla quale nacque il melodramma.  IN QUESTA CASA DEI BARDI VISSE GIOVANNI CONTE DI VERNIO CHE AL VALOR MILITARE MOSTRATO NEGLI ASSEDI DI SIENA E DI MALTA CONGIUNSE LO STUDIO DELLE SCIENZE E L'AMOR DELLE LETTERE COLTIVÒ LA POESIA E LA MUSICA E ACCOLSE E FU L'ANIMA DI QUELLA CELEBRE CAMERATA LA QUALE INTESA A RIPORTARE L'ARTE MUSICALE IMBARBARITA DALLE STRANEZZE FIAMMINGHE ALLA SUBLIMITÀ DELLA MELOPEA DI CUI SCRISSERO GLI STORICI DELL'ANTICA CIVILTÀ APRÌ LA VIA GIÀ CHIUSA DA SECOLI AL RECITATIVO CANTATO E ALLA MELODIA E CON LA RIFORMA DEL MELODRAMMA FU LA CUNA DELL'ARTE MODERNA. Palazzo busini-bardi, targa camerata dei bardi. JPG  Stemma Bardi sul cancello d'ingresso Di rilievo l'androne, chiuso sul fondo da una elegante cancellata (presumibilmente databile al Settecento) con sulla rosta l'arme dei Bardi (d'oro, alla banda di losanghe accollate di rosso) accostata da due aquile. Le fasce marcapiano aggettanti sono ornate da volute di fiori, primo esempio di "stile nuovo" fiorentino. Semplici finestre centinate si allineano su otto assi. all'esterno si trova murato anche un piccolo tabernacolo con un affresco scarsamente leggibile con la Madonna in gloria adorata da una monaca.  L'elemento più interessante è il bel cortile centrale porticato sui quattro lati, progettato forse dal Brunelleschi, probabilmente il primo cortile privato signorile a Firenze (dopo i cortili pubblici del Palazzo del Bargello e di Palazzo Vecchio): a pianta quadrata, presenta arcate a tutto sesto con colonne con capitelli corinzi che scandiscono lo spazio. I volumi sono scanditi ad altezza doppia rispetto al modulo usato spesso successivamente del cubo sormontato da semisfera: qui l'altezza delle colonne è doppia rispetto all'intercolumnio (a differenza per esempio del loggiato dello Spedale degli Innocenti) e, pur mantenendo dimensioni armoniche, presenta un maggior slancio. Tipicamente brunelleschiana è anche la disposizione delle porte che si aprono sul cortile.  "Si osservi anche il sonoro androne d'ingresso, con volte a crociera su capitelli pensili strettamente analoghi a quelli del palazzo di Niccolò da Uzzano; o lo splendido episodio dei capitelli delle colonne del cortile stesso, che presentano un singolare episodio di protocorinzio appunto brunelleschiano, cui non a caso rispondono i capitelli del cortile della casa di Apollonio Lapi, posta in via del Corso 13, egualmente attribuita all'esordio professionale di Filippo: per la qual cosa piacerebbe datare pure il prezioso testo architettonico protobrunelleschiano di palazzo Bardi (Morolli).  All'interno molte stanze presentano dei soffitti in legno risalenti all'epoca di Agnolo de' Bardi, che li fece uniformare.  BibliografiaModifica  Tabernacolo Emilio Burci, Guida artistica della città di Firenze, riveduta e annotata da Pietro Fanfani, Firenze, Tipografia Cenniniana; Ministero della Pubblica Istruzione (Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti), Elenco degli Edifizi Monumentali in Italia, Roma, Tipografia ditta Ludovico Cecchini; Ross, Florentine Palace and their stories, with many illustrations by Adelaide Marchi, London, Dent; Schiaparelli, La casa fiorentina e i suoi arredi, Firenze, Sansoni, Limburger, Die Gebäude von Florenz: Architekten, Strassen und Plätze in alphabetischen Verzeichnissen, Lipsia, F.A. Brockhaus, Bertarelli, Italia Centrale, II, Firenze, Siena, Perugia, Assisi, Milano, Touring Club Italiano; Garneri, Firenze e dintorni: in giro con un artista. Guida ricordo pratica storica critica, Torino et alt., Paravia; Bertarelli, Firenze e dintorni, Milano, Touring Club Italiano; Allodoli, Arturo Jahn Rusconi, Firenze e dintorni, Roma, Istituto Poligrafico e Libreria dello Stato, Barfucci, Giornate fiorentine. La città, la collina, i pellegrini stranieri, Firenze, Vallecchi; Thiem, Christel Thiem, Toskanische Fassaden-Dekoration in Sgraffito und Fresko, München, Bruckmann, Limburger, Le costruzioni di Firenze, traduzione, aggiornamenti bibliografici e storici a cura di Mazzino Fossi, Firenze, Soprintendenza ai Monumenti di Firenze, Biblioteca della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio per le province di Firenze Pistoia e Prato);  Bucci, Palazzi di Firenze, fotografie di Raffaello Bencini, 4 voll., Firenze, Vallecchi, Quartiere di Santa Croce; Quartiere della SS. Annunziata; Quartiere di S. Maria Novella, Quartiere di Santo Spirirto; Lisci, I palazzi di Firenze nella storia e nell’arte, Firenze, Giunti et Barbèra, Fanelli, Firenze architettura e città: atlante -- Firenze, Vallecchi, Touring Club Italiano, Firenze e dintorni, Milano, Touring Editore; Salvagnini, La guerra degli sporti, in "Granducato", Bargellini, Ennio Guarnieri, Le strade di Firenze, Firenze, Bonechi, Il Monumento e il suo doppio: Firenze, a cura di Marco Dezzi Bardeschi, Firenze, Fratelli Alinari; Firenze. Guida di Architettura, a cura del Comune di Firenze e della Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, coordinamento editoriale di Domenico Cardini, progetto editoriale e fotografie di Lorenzo Cappellini, Torino, Umberto Allemandi; MOROLLI, Vannucci, Splendidi palazzi di Firenze, con scritti di Janet Ross e Antonio Fredianelli, Firenze, Le Lettere; Zucconi, Firenze. Guida all’architettura, con un saggio di Pietro Ruschi, Verona, Arsenale; Cesati, Le strade di Firenze. Storia, aneddoti, arte, segreti e curiosità della città più affascinante del mondo attraverso vie, piazze e canti, 2 voll., Roma, Newton et Compton editori; Touring Club Italiano, Firenze e provincia, Milano, Touring, Pecchioli, ‘Florentia Picta’. Le facciate dipinte e graffite dal XV al XX secolo, fotografie di Antonio Quattrone, Firenze, Centro Di; Paolini, Case e palazzi nel quartiere di Santa Croce a Firenze, Firenze, Paideia; Paolini, Lungo le mura del secondo cerchio. Case e palazzi di via de’ Benci, Quaderni del Servizio Educativo della Soprintendenza BAPSAE per le province di Firenze Pistoia e Prato n. 25, Firenze, Polistampa; Paolini, Architetture fiorentine. Case e palazzi nel quartiere di Santa Croce, Firenze, Paideia, Palazzo Bardi; Paolini, scheda nel Repertorio delle architetture civili di Firenze di Palazzo Spinelli(testi concessi in GFDL). Una pagina sulla conservazione del palazzo, su limen.   Portale Architettura   Portale Firenze Ultima modifica 2 anni fa di Omega Bot Palazzo Malenchini Alberti Palazzo Bardi-Tempi Palazzo de' Benci Edificio a Firenze, Italia. Mirio Cosottini. Cossotini. Grice: “I am sure that a suprasegmental or non-linear segment adds to what a conversationalist means – he means THAT Smith did not pay the bill, and that somebody else did” – By stressing on LOVE he means that he likes her AND that he loves her.” Keywords: melopea, prosodia, Hjelmslev, Hockett, fonema, tratto sopra-segmentale, stress – Grice’s examples: “Smith kicked the cat” – “Smith didn’t pay the bill. Nowell did.” “Smith didn’t pay the bill”. “I knew it” “I love her” -- segno, nonlinearita, codice, soprasegmento. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosottini” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Costa: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’interno e l’esterno – l’internalizzazione-l’esternalizzazione -- uomini fuori di sé– scuola di Torre del Greco – filosofia napoletana – filosofia campanese --filosofia italiana – Luigi Speranza (Torre del Greco). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Torre del Greco, Napoli, Campania. Grice: “I love Costa; if I have to chose three of my favourite essays of his, those would be, “Le passioni,” “L’uomo fuori di se: l’esternalissazione’ and above all, his sublime, “l’estetica della communicazione,’ which is what my philosophy is all about!” --  Mario Costa (Torre del Greco), filosofo. È conosciuto, in particolare, per aver studiato le conseguenze, nell’arte e nell’estetica, delle nuove tecnologie, introducendo nel dibattito filosofico una nuova prospettiva teorica, attraverso concetti come "estetica della comunicazione", "sublime tecnologico", "blocco comunicante", "estetica del flusso".  Professore a Salerno e, come professore incaricato di Metodologia e storia della critica letteraria e di Etica ed estetica della comunicazione, ha contemporaneamente insegnato per molti anni nelle Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" e di Nizza (Sophia-Antipolis). A Salerno ha fondato e diretto, daArtmedia, Laboratorio permanente dedicato al rapporto tra tecno-scienza, filosofia ed estetica, organizzando su queste tematiche decine di iniziative di studio, mostre e convegni internazionali. L'estetica dei media ha ottenuto il Premio Nazionale Fabbri.  Pubblicato una trentina di libri; alcuni di essi e numerosi suoi saggi sono tradotti e pubblicati in Europa e in America. Il suo lavoro teorico si è svolto in due momenti successivi ed ha seguito due fondamentali direzioni di ricerca: l'interpretazione socio-politica e filosofica delle avanguardie artistiche, e l'elaborazione di una filosofia della tecnica costruita soprattutto attraverso l'analisi dei cambiamenti che la nuova situazione tecno-antropologica ha indotto nell'arte e nell'estetico.  Per quanto riguarda la prima delle due direzioni indicate, ha fornito un complesso di interpretazioni filosofiche ed estetiche di numerosi movimenti dell'avanguardia artistica e letteraria. Momenti di particolare rilievo in questo ambito di ricerca possono essere considerati i suoi lavori su Duchamp e sulle funzioni della moderna critica d'arte, nonché i suoi studi sul "lettrismo" e sullo "schematismo", movimenti artistici di grande importanza, anche estetologica, ma, all'epoca, pressoché ignoti in Italia. Per quanto riguarda la seconda delle direzioni indicate, il suo pensiero si è a sua volta sviluppato secondo due assi fondamentali: uno riguardante le conseguenze sociali ed etiche della comunicazione tecnologica, riassunte soprattutto nel libro La televisione e le passioni che analizza gli effetti disgreganti e distruttivi della televisione, e poi nel più recente La disumanizzazione tecnologica, e l'altro, dominante rispetto al primo, consistente in un ripensamento del senso che l'"estetico" e l'"artistico" vanno assumendo nella fase attuale delle nuove tecnologie elettro-elettroniche e digitali della scrittura, dell'immagine, della spazialità, del suono e della comunicazione, ciò che lo ha condotto ad una radicale ed originale reimpostazione teoretica di tutto il campo investigato. Negli ultimi suoi lavori (Ontologia dei media, e Dopo la tecnica) la prospettiva teoretica si è andata ulteriormente approfondendo dando luogo ad una compiuta filosofia dei media e della tecnica in quanto tale. Alcune opere rappresentative L'estetica dei media può considerarsi, per i contenuti trattati e per la inedita metodologia di indagine instaurata e seguita, un libro che apre un nuovo campo di ricerca, prima del tutto ignorato ed inesplorato dalle discipline estetologiche, quello appunto della "estetica dei media", da non confondere, ad esempio, con l'estetica della fotografia o con quella del cinema, alle quali ha comunque dedicato altri suoi importanti lavori. Il libro in questione segue ai diversi contributi teorici relativi all'estetica della comunicazione le cui identificazione, nominazione e formulazione teorica risalgono, e che è ora rappresentata, nella sola Italia, da numerose Cattedre e indirizzi universitari. Il sublime tecnologico è considerato il lavoro più noto e più innovativo di tutta la sua produzione teorica; è in esso che, considerando le conseguenze indotte nel campo dell'arte e dell'estetico dalla nuova situazione tecno-antropologica, si parla dell'oltrepassamento della dimensione dell'arte e delle categorie ad essa connesse, nella direzione di una nuova forma di sublime, quella appunto del sublime tecnologico, con tutto quello che questo concetto implica e comporta. La nozione del sublime tecnologico è stata diffusamente accolta e seguita sul piano internazionale della teoria estetica ed ha sollecitato un incalcolabile numero di sperimentazioni da parte di artisti di tutto il mondo. Arte contemporanea ed estetica del flusso traccia le linee di una nuova estetica e della sperimentazione artistica che da essa può scaturire. Si tratta da una parte di un violento e argomentato pamphlet contro l'arte contemporanea, ritenuta “una congerie più o meno sgradevole di nullità mercantili”, e dall'altra della tematizzazione ed elaborazione del concetto di “flusso estetico tecnologico”, considerato come ultima e residua possibilità di sperimentazione per gli artisti e come chiave per comprendere alcuni aspetti dell'ontologia contemporanea. Dopo la tecnica ripercorre la storia delle varie epoche della tecnica sottolineandone la discontinuità e la capacità di agire configurando, ogni volta in maniera diversa, l'organizzazione antropologica di chi da esse è abitato. Sulla base di questi presupposti, si mostra come la tecnica, una volta connessa e dipendente dai bisogni umani, si va rendendo incondizionatamente autonoma forzando l'uomo a vivere dentro di essa, ad appartenerle e a favorire il suo sviluppo. Altre saggi: “Arte come soprastruttura”, Napoli, CIDED, Teoria e Sociologia dell'arte, Napoli, Guida Editori, Sulle funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel Duchamp, Napoli, M.Ricciardi Editore, Il ‘lettrismo' di Isidore Isou. Creatività e Soggetto nell'avanguardia artistica parigina posteriore, Roma, Carucci Editore, Le immagini, la folla e il resto. Il dominio dell'immagine nella società contemporanea, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Il sublime tecnologico, Salerno, Edisud, L'estetica dei media. Tecnologie e produzione artistica, Lecce, Capone Editore, Il ‘lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia, Napoli, Morra, La televisione e le passioni, Napoli, A.Guida, 1Lo ‘schematismo'. Avanguardia e psicologia, Napoli, Morra, Lo ‘schématisme parisien'.Tra post-informale ed estetica della comunicazione, Fondazione Ghirardi, Piazzola sul Brenta (Padova), Sentimento del sublime e strategie del simbolico, Salerno, Edisud, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria dell'oggetto tecnologico, Genova/Milano, Co.& Nolan, Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Roma, Castelvecchi, Tecnologie e costruzione del testo, Napoli, L'Orientale, L'estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Roma, Castelvecchi, L'estetica della comunicazione. Come il medium ha polverizzato il messaggio. Sull'uso estetico della simultaneità a distanza, Roma, Castelvecchi, Dall'estetica dell'ornamento alla computerart, Napoli, Tempo Lungo, Internet e globalizzazione estetica, Napoli, Tempo Lungo, New Technologies, Artmedia-Museo del Sannio, oDimenticare l'arte. Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Milano, Franco Angeli, L'oggetto estetico e la critica, Salerno, Edisud, La disumanizzazione tecnologica. Il destino dell'arte nell'epoca delle nuove tecnologie, Milano, C. et Nolan, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria dell'oggetto estetico tecnologico, Milano, C. et Nolan, Arte contemporanea ed estetica del flusso, Vercelli, Mercurio,  Ontologia dei media, Milano, Post media books,  Dopo la tecnica. Dal chopper alle similcose, Napoli, Liguori. Il lavoro teorico di C. teso, tra l'altro, a definire la nuova epoca dell'estetico connessa alle neo-tecnologie elettro-elettroniche e digitali, e a fare in modo che questa si andasse ben configurando e definendo, si è, per ciò stesso, sempre accompagnato ad un'intensa attività di promozione estetico-culturale:  agli inizi degli anni ottanta organizza a Napoli, col supporto della RAI-TV, una grande esposizione di videoarte (Differenzavideo); per sollecitare una riflessione sugli effetti estetico-antropologici indotti dalle tecnologie della comunicazione, co-organizza (conPerniola) presso l'Salerno, il Convegno Estetica e antropologia i cui Atti sono, in parte, pubblicati sulla Rivista di estetica di Torino, necrea, con l'artista Forest, il movimento internazionale dell'Estetica della comunicazione che presenta in vari contesti  (Electra di Popper, al Centre Pompidou a La Revue parlée di Gautier, ialla Sorbonne, al Séminaire de Philosophie de l'art di Revault D'Allonnes); dà luogo al primo evento/rassegna di estetica della comunicazione (L'immaginario tecnologico, Benevento, Museo del Sannio); concepisce e dirige, presso l'Salerno, Artmedia, Convegno Internazionale di Estetica dei Media e della Comunicazione; organizza presso l'Salerno un Convegno Internazionale su estetica e tecnologia; organizza presso la stessa Università il Convegno "Il suono da lontano". Eventi sonori e tecnologie della comunicazione"; realizza, per la RAI-TV (Dipartimento Scuola e Educazione) la trasmissione televisiva in tre puntate: Un'estetica per i media; fa svolgere, presso la settecentesca Villa Bruno (S.GiorgioNapoli) Technettronica. Laboratorio di Estetica dei Media e della Comunicazione; presenta per la prima volta in Italia presso l'Salerno due videoplays di Samuel Beckett; fonda e dirige, la Rivista Multilingue Epipháneia. Ricerca estetica e tecnologie, fonda e dirige, presso le Edizioni Tempo Lungo di Napoli, Vertici, una «Collana di Estetica e Poetiche» aperta alle questioni estetologiche connesse ai nuovi media (testi di Piselli, Cauquelin, Adorno, C., Solulard, Dorfles);  co-organizza a Parigi la Edizione di Artmedia; co-organizza presso l'Salerno il Convegno Internazionale Tecnologie e forme nell'arte e nella scienza; organizza presso il Museo del Sannio di Benevento la Mostra New Technologies (Roy Ascott, Maurizio Bolognini, Forest, Kriesche, Mitropoulos); norganizza presso l'Salerno la IX Edizione di Artmedia; nco-organizza a Parigi la X Edizione di Artmedia; norganizza presso l'Salerno un seminario conclusivo di Artmedia dal titolo "L'oggetto estetico dell'avvenire". Sulle funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel Duchamp, Napoli, Ricciardi, C., L'oggetto estetico e la critica, Edisud, Salerno. C., Il 'lettrismo' di Isou. Creatività e Soggetto nell'avanguardia artistica parigina, Carucci Editore, Roma,Il 'lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia, Morra, Napoli, Si veda anche Signe, forme, schéma, ornement, in "Schéma et schématisation", L'estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Castelvecchi, Roma, C.Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Castelvecchi, Roma, Arte contemporanea ed estetica del flusso, Mercurio, Vercelli. Inoltre: Technology, Artistic Production and the "Aesthetics of communication", in "Leonardo", Tecnologie e costruzione del testo, L'Orientale, Napoli, Reti e destino della scrittura. Sulla diffusione e la rilevanza del suo pensiero, si vedano tra gli altri: Bootz, The thesis of Benjamin and C., in Bootz, Baldwin, Regards Croisés, West Virginia, Abruzzese, Il compiersi della pubblicità dal manifesto metropolitano ai linguaggi elettronici del presente: pretesti, testi e questioni, in Lattuada, Nuove tendenze ed esperienze nella comunicazione e nell'estetico, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Kerckhove, L'estetica dei media e la sensibilità spaziale. Riflessioni su un libro di C., in "Mass Media",Frank Popper, L'art à l'âge électronique, Paris, Hazan, C., professore di estetica, in MCmicrocomputer, Roma, Pluricom. esternalismo/internalismo. – La nozione di esternalismo (externalism), usata in contrapposizione a quella di internalismo (internalism), si è sviluppata principalmente in merito ai dibattiti sulla filosofia della mente e sull’epistemologia ed è attualmente al centro del dibattito filosofico sulla giustificazione epistemica, sull’epistemologia sociale, sul ruolo dell’ambiente e dell’esterno negli stati mentali, nei processi cognitivi e nei processi linguistici e comunicativi; si parla di e./i. anche in filosofia morale. Nell’e. una conoscenza si considera giustificata se è causata da processi affidabili derivati dall’esperienza esterna; diversamente, nella prospettiva internalista, una credenza viene considerata vera se fondata su esperienze interne al soggetto (per es. il cogitocartesiano), riconducendo la conoscenza, anche sensibile, del mondo esterno all’appercezione di stati di coscienza (Kornblith, Epistemology: internalism and externalism; Bonjour, E. Sosa, Epistemic justification: internalism vs. externalism, foundations vs virtues). Nella filosofia della mente, gli stati mentali vengono ricondotti, in prospettiva esternalista, a connessioni causali con l’ambiente esterno; in chiave internalista, a processi e fattori interni alla mente. Nella teoria della motivazione morale si parla di i. allorché si ritiene che vi sia una connessione necessaria fra considerazioni morali e motivazione, costitutiva della considerazione morale stessa; si parla invece di e. quando si ritiene che tale connessione si fondi su fattori concomitanti contingenti. Con l’argomento della ‘Terra gemella’ (twin Earth), il filosofo Hilary Putnam ha sostenuto che una differenza di estensione, ossia dell’insieme degli individui cui si applica un concetto o un predicato, è anche una differenza di significato; questo per dimostrare che i significati non sono enti mentali, ossia che la medesima parola applicata a due enti diversi (anche se non apparentemente tali) cambia di significato, benché averne o meno cognizione dipenda dalla competenza semantica dei parlanti in merito all’oggetto designato (The meaning of ‘meaning’, Gunderson, ed.,Language, mind and knowledge). A partire dalle tesi dell’e. semantico (in filosofia del linguaggio si privilegia la coppia di termini esternismo/internismo) il dibattito si è esteso alle filosofie della mente e alle scienze cognitive, indagando se il soggetto cognitivo sia circoscrivibile al cervello e al sistema nervoso, o se la mente e il mentale includano anche fattori ambientali, sia fisici sia sociali, ricalibrando i confini fra mente, corpo, ambiente. Nel dibattito filosofico ha avuto rilievo anche la tesi della ‘mente estesa’ di Clark e Chalmers (Chalmers, The extended mind, in Analysis; Clark, Supersizing the mind: embodiment, action, and cognitive extension, ), che riconosce il ruolo dei fattori extracorporei e ambientali nel costituirsi della mente, ma riguardo agli aspetti cognitivi non fenomenici (non coscienti). Superando contrapposizioni troppo rigide fra le due posizioni, nelle tesi esternaliste più recenti si tende a riconoscere non unicamente la dipendenza causale dall’esterno del mentale, ma a vedere l’origine del mentale nell’interazione causale ambiente-corpo-cervello, ciascuno influente nei processi cognitivi e mentali. In ambito sia semantico sia fenomenico si è differenziato l’e. dall’i. in base alla possibilità di ‘individuare’ uno stato mentale ritenendo di poter ricorrere, o meno, a fattori esterni (Wilson, Boundaries of the mind. The individual in the fragile sciences: cognition). Più recentemente si è teso invece a privilegiare l’aspetto della realizzazione fisica. Si parla, in tal senso, di e. del veicolo o anche procedurali, spostando il punto di messa a fuoco dall’identificazione del contenuto dello stato mentale (intenzionale o fenomenico) alla natura del sistema di realizzazione fisica di tale stato (Amoretti, La mente fuori dal corpo. Prospettive esternaliste in relazione al mentale). Entro l’approccio incentrato sul veicolo e sulla realizzazione fisica sono state elaborate posizioni differenziate, principalmente riguardo alla possibilità di comprendervi o meno elementi fenomenici, ossia legati agli stati cognitivi coscienti.Grice: “Costa uses words in ways we don’t allow at Oxford: a sign by which nobody signs; and so on.Mario Costa. Keywords: uomini fuori di sé, blocco comunicante, communicazione sine contenuto, communicazione fatica, semiotica, estetica della comunicazione, significante sine significato – segno sine segnato – autoreferenzialita – asemanticita – sintassi – retorica – codice – intenzione communicative, medio, messaggio, recursivita, self-reference, meta-linguaggio – linguaggio come metalinguaggio -- - Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa” – The Swimming-Pool Library. Costa.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Costa: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della sinestesia conversazionale – scuola di Ravenna – filosofia ravennese -- filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ravenna). Filosofo ravennese. Filosofo emiliano. Filosofo Italiano. Ravenna, Emilia-Romagna. Grice: “My favourite keyword for Costa is ‘contrassegnare’!” – Grice: ““I love Costa; for one, he improves on Locke; on the composition of ideas and how to ‘countersignal’ them with ‘vocaboli precisi’ – I explored that a little in my ‘Prejudices and Predilections,’ when I attack minimalism and extensionalism, and provide a way which is meant to resemble Locke’s way of words, or rather Locke’s way of ‘complex’ words, or ‘composite’ (Costa’s ‘comporre’) out of ‘simple’ ones – as in Quine’s worn-out ‘bachelor’ unmarried male that I play with with Strawson in “In defense of a dogma.” In this respect, it is interesting to see that Costa also wrote on ‘ellocution’ and ‘sintesi’ versus ‘analisi’!” Figlio di Domenico e Lucrezia Ricciarelli, studia a Ravenna e Padova. Insegna a Treviso e Bologna, a Villa Costa, Bologna -- è costretto a riparare a Corfù perché sospettato di essere affiliato alla Carboneria. Può rientrare a Bologna. Altre opere: “I trattati della elocuzione e del modo di esprimere l’idea e di segnarla con una espressione precisa a fine di ben ragionare” – Colla profferenza, “Fa fredo,” C. segna che fa freddo. Il trattato filosofico della sintesi e dell'analisi; i quattro sermoni dell'arte poetica, un commento alla Divina Commedia, la Vita di Dante, il Dizionario della lingua italiana, poesie (Laocoonte), lettere e traduzioni.  Letterato neo-classico e dunque tipicamente italiano e anti-romantico, ammira i corregionali Monti e Giordani e sostenitore del purismo e del “sensismo” lucreziano in filosofia. Nella lettera a Ranalli di introduzione al Della sintesi e dell'analisi così riassume le sue concezioni filosofiche. È necessario, per togliere la infinita confusione che è nelle scienze ideologiche, di dare all’espressione un determinato valore. Sostengo che questo non si può ottenere, come crede Locke, colla de-finizione (horismos) (la quale e una scomposizioni di una idea o di piu idee), se prima la idea non sia stata ben composta. Sostengo che questa non si puo compor bene, se prima non si conosce quale ne sieno gli elementi semplici – soggetto e predicato, il S e P -- Sostengo che un elemento semplice e una reminiscenza relative a una sensazione, e che la idea si compone di almenno due di sì fatti elementi – il S e P – la proposizione, ‘segno che p’ -- e del sentimento del rapporto di una reminiscenza e dell’altra, cioè dei proposizione – nel indicativo o imperative – il giudizio – il giudicato – e la volizione – il volute. Da ciò conséguita che l'esperienza (se l'esperienza vale ciò che si sente mediante l'attenzione) è il fondamento della scienza umana. I kantisti ed altri filosofi distinguono una idea in una idea soggettiva e in una idea oggettiva, ed attribuiscono un'origine a posteriori e sintetico alla una ed un'origine a priori e analitico all’ltra. Questa distinzione può esser buona, ma non è buona l'ammettere che abbiano origini di natura diversa: a posteriori/sintetico, dal senso – e a priori/analitico – dall’intelleto – nihil est in intellectus quod prior non fuerit in sensu.  Ogni idea ha un stesso origine. e questo si fa palese per un solo esempio. Da una idea soggettiva puo nascere sue  proposizioni. Una proposizione: "La reminiscenza S1 e la reminicenza S2 sono in me”. Altra proposizione: “La reminiscenza S si associa con la reminiscenza P”. Qual è l'origine dell’idea dalla quale deriva sì fatta proposizione? Il sentimento. Dire che la reminiscenza del color di rosa è in me, è dire che sento che è in me, e dico: “Vedo una macchia rosa”. Così direte dell'altra proposizione. Dall’idea oggettiva puo nascere una proposizione e altra proposizione. Il corpo pesa. La rosa manda odore. Da che nasce la proposizione? Dal sentimento (senso). Perciocché dire che questo corpo pesa è lo stesso che dire che sento il peso di questo corpo; giu-dico, ovvero, sento che la cagione (causante, causans) della mia sensazione tattile del senso del tattoo è in questo corpo. Così dire che la rose manda odore è lo stesso che dire che sento l'odore della rosa, giu-dico, ovvero, sento che l'odore dela rosa ha una delle cagioni in cose fuori, cioè che non sono in me. Fra una idea soggettiva e una idea oggettiva non vi è altra differenza, se non che nella che si suppone oggetiva  sento che la cagione (causans) è nella nostra persona. Nell’idea che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è in me (o noi entrambi – nella diada --), nell’idea soggetiva nella cosa (il reale). fuori. Ma come sentiamo noi che vi sia una cosa (il reale) fuori? Questo è il gran problema dagl'ideologi non ancora solute. Ma l'ignoranza in che siamo non dà facoltà legittima alla scuola trascendentali di concludere che il giudizio dell’idea soggetiva non dipende dal sentire. Il giudicio è un sentimento, cioè, un rapporto sentito fra una sensazione e altre sensazione, una reminicenza (il S) e altra reminiscenza (il P); ché se tale non fosse, nessuno potrebbe dire che l'idea che abiamo di una rosa p.e. ha la sue cagioni fuori di noi entrambi, perciocché una sì fatta proposizione suppone che l'uomo che proferisce questa proposizione o explicatura (spiegato) abbia o la sensazione S e la sensazione P, o le reminiscenza S e la reminiscenza P in relazione alla sensazione prodotte dalla rosa, e l'idea del sentente. Voi vedete chiaramente, che nell'uno e nell'altro degli addotti esempii la modificazione che chiamamo ‘idea,’ e il sentimento dei loro rapporti sono nella nostre anime ambidue, e che quindi si esprimono falsamente coloro, che dicono che sentiamo il corpo fuori di noi. Dovrebbero dire, strettamente, che sentiamo che la cagione (causans) del nostro sentire (sentito) non è in noi entrambe. Coi fondamenti da me posti si può stabilire una dottrina, se il buon desiderio non mi acceca, per la quale vadano a terra le opinioni di coloro che disprezzano il sensismo, e che con odiosa espressione la chiamano dottrina de' “sensuali”. Con che danno a divedere, che essi mattamente opinano che il materiale organo del senso (i cinque organi, i cinque sensi) senta e percepisca, senza accorgersi che se gli occhi (visum) e le orecchie (auditum) e il naso (odore) sentissero ciascuno separatamente, non potrebbe giammai nascere giudizio alcuno circa la qualità della sensazione  di natura diversa. L’uomo non potrebbe mai dire che l’odore della rosa mi diletta più del colore della rosa, e così via discorrendo. Il sentimento di un solo centro, nostre anime ambidue: e nostre anima ambidue senteno in sé mesima, e non fuori di sé. Puo parere che questa dottrina del sensismo sia la stessa che quella dell'idealista irlandese Bercleio; ma essa è diversa, poiché ammette che oltre la idea vi sieno fuori dell'uomo la cagione (causans) di essa idea. Di questa cagione (causans) – il reale, il noumeno -- noi conosciamo l'esistenza, e nulla più. Che cosa e un corpo in se stesso? A questa interrogazione non si può rispondere se non dicendo che e ignota la cagione della nostra sensazione condivisa. Sappiamo che esiste, sappiamo che si modifica, e tutto ciò sappiamo, perché fa della mutazione nell'animo nostro ambedue o nell’anima nostra ambedue. Dal che si deduce ciò che dianzi vi dissi, che ogni idea ha per loro due primitivi elementi (il S e P) la sensazione, la reminiscenza, il sentimento che e nelle nostre anime ambidue, e non fuori di lei. Così la pensa il filosofo chiamato per beffa dal cattolico romano col nome di sensualista e di materialista. Materialista a buona ragione si puo chiamare i nostri avversario, o almeno materialista per metà, giacché ammette che il sentimento del corpo percepiscano, e giudichino relativamente alla qualità del reale, della cosa esterna. Leggete le lettere filosofiche di Galluppi stampate non è guari in Firenze. In Galluppi troverete chiaramente esposte la dottrine sensista, quelle di Hume circa la cagione, e segnatamente quelle di Kant. Se dalle mie teoriche si possono ricavare gli argomenti validi a confutare le opinioni del filosofo trascendentale, o di coloro, che oggi si danno il nome di eclettico – come ha tempo Cicerone --, io vi prego di compilare alcune note, o vogliam dire corollarii, pei quali si vegga manifesta la falsità di alcuni principii del irlandese Bercleio, del scozzese Reid e del scozzese-tedesco Kant, la filosofia dei quali è fonte della massima parte della moderne follia (Della Sintesi e dell'Analisi, ed. Liber Liber / Fara Editore). Altre opere: “Alighieri”; “Della elocuzione” Fara editore, S. Arcangelo di Romagna); “Della sintesi e dell'analisi” (Giovanni Battista Borghi e Melchiorre Missirini); “La divina commedia, con le note di Paolo Costa, e gli argomenti dell'Ab.G. Borghi. Adorna de 500 vignette” (Giovanni Battista Niccolini e Giuseppe Bezzuoli, Firenze, Stabilimento artistico Fabris,Claudio Chiancone, La scuola di Cesarotti e gli esordi del giovane Foscolo, Pisa, Edizioni ETS  (sulla formazione padovana del Costa, e sulla sua amicizia giovanile col Foscolo) Filippo Mordani, Vite di ravegnani illustri, Ravenna, Stampe de' Roveri. Dizionario biografico degli italiani. Una delle facoltà, onde l'uomo è tanto superiore alle bestie, si è la favella [fabula – da ‘fa’, speak – cf. fama], mercè della quale i primi uomini non solo si strinsero in comunanza civile, ed ordinarono la legge ed il governo; ma a fare più beata e gloriosa la vita crebbero le scienze e le arti, ed ispirarono con queste l'odio al vizio ed al falso; l'amore della virtù, del vero, del bello; e i fatti e i nomi degni di memoria ai tardi secoli tramandarono. E qual cosa è più utile ai privati, ed alla repubblica e più degna e di maggiore onore, che l'arte di gentilmenle parlare? Per questa ci è aperta la via alla dignità, alla fortune ed alla fama; per questa le città si mantene ordinata e pacifica; per questa  sono animati i guerrieri – come Niso ed Eurialo --, encomiato un principio; per questa con più degni modi si loda e si prega il supremo autore elle cose, e pura e viva si mantiene nel cuor degli uomini la religione. Laonde, se desiderate onore o giovamento a voi stessi ed alla Italia, ardentemente volgete l'animo a questo nobilissimo studio del parlare o discorsare civile. Che se vi fu dolce fatica l'interpretare e l'imitare gli antichi filosofi romani, non meno dolce vi e il venire meco investigando il magistero, che è nelle opere loro; imperciocchè, essendo la favella [la lingua, il parlare] istrumento col quale si commovono e si traggono gli animi degli uomini, uopo è di volgere sovente la considerazione alle proprietà dell'intelletto e del cuore umano; il che, pel naturale desiderio, che abbi mo di conoscere noi stessi, è dilettevolissimo. Mettiamoci dunque volentieri a quest'opera; e per cominciare con ordine, poniam subitomente al fine, che si propone chi scrive, perocche non sarà poi difficile temperare ed ordinare secondo quello il modo del favellare. La favella – nella diada conversazionale -- intende a *manifestare* (cfr. Vitters) ad altro un pensiero e un affetto proprio con soddisfazione dell’altro. Ad ottenere questo FINE, sono necessarie due codizioni. Prima: che la elocuzione sia chiarà – Grice: “imperative of conversational clarity). Seconda condizione: che l’elocuzione sia ornata convenevolmente. Parliamo tosto della chiarezza conversazionale, che poco appresso diremo dell' ornament. La chiarezza da due cose procede. Prima: dalla qualità dell’espresione, che si pone in uso. Secondo: dalla collocazione – cum-locatio, syn-taxis -- loro. Prima diciamo della qualità dell’espressione, L’espressione, che e un *segno* [cf. Grice: Words are not signs] di una idea, fa perfettamente l'ufficio suo ogni qual volta sia ben determinata, cioè appropriata a ciascuna idea singolare per nodo, che non possa a verun' altra appartenere. Per meglio iutendere in che consista la natura loro, bisogna considerare che ogni idea e composta – il S e P -; e che alcune, differendo da altre in pochi elementi, abbisognano di segno particolare, per apparire distinte. Quell’espressione che la distingue dicesi “proprio”. Vaglia un esempio. L'idea di ‘frutto’ ha per suoi elementi le idee delle qualità comuni a ogni frutto; l'idea di “melagrana,” oltre i detti elementi, comprende le idee delle qualità particolari della melagrana: perciò è che, se chiameremo frutto la melagrana, quando è mestieri distinguerla, non parleremo con proprietà. (cf. Lawrence: What is that? E un fiore). Ho qui recato il materiale esempio di un errore, in che è diſficile di cadere, affinché si vegga chiaramente non essere molto dissimile da questo l'errore di coloro, che d'altre cose ragionando usano i vocaboli generali (fiore) per ignoranza' de'particolari (tulipano). Tanto sconvenevol cosa si repula l 'usare una espressione impropria, dice il Casa, che si hanno per non costumali coloro, i quali, non dan dosene gran pensiero, pare che amino di essere frantesi, e nulla curino il fastidio di chi si sforza d'intenderli: all'incontro coloro, i quali usano l’espressione propria, mostrano di essere civili, essendo solleciti di alleviare altrui la fatica [cf. Grice, prinzipio di economia dello sforzo razionale], poichè pare che mercè della espressione proprie le cose si mostrino, non coll’espressione, ma con esso il dito. I poeti, che sono lodali per la evidenza, onde le cose ci pongono dinanzi agli occhi  ci somministrano esempi del modo assai proprio. Giovi recarne qui alcuno a schiarimenlo di quanto abbiamo detto: Come d'un tizzo verde, ch'arso sia dall'un de capi che dall'altro geme, e cigola per vento, che va via. È qui da notare come l’espressione “tizzo” e l’espressione “cigola” meglio ci rappresentano la cosa, che arde, e l'effetto del fuoco, di quello che se Alighieri avesse detto: un ramo verde fa romore per vento che va via, essendo questa SIGNIFICAZIONE alta a denotare altra idea non simili in tutto a quella che si voleva esprimere. Cosi Petrarca disse propriamente: raffigurato alle fattezze conte, piuttosto che dire alla persona; e Alighieri: levando i moncherin per Ľaria fosca, in vece di dire, levando le braccia tronche. Qui si vede come l’espressione “fattezza” e l’espressione “moncherino” sieno meglio usati per essere espressione di SIGNIFICAZIONE SINGOLARE. Se la proprietà [cf. be as informative as is required – avoid ambiguity] è si necessaria a SIGNIFICARE la cosa che cade sotto i sensi, quanto maggiormente nol sarà ella, quando si vogliono esprimere le idee intellettuali e le morali, che se non fossero determinata in virtù dell’espressione, o svanirebbero dalla mente nostra, o vi starebbero disordinate e mal ferme? A quel modo che dalla precisione delle cifre dell'aritmetica dipende la esattezza de’ calcoli, cosi dalla proprietà dell’espressione dipende quella delle idee e de' ragionamenti in qualsivoglia delle scienze astratte; e quindi ottima è quella sentenza del filosofo: consistere il sommo dell'arte di ragionare nel l'uso di un discorso bene ordinata. Anche Piccolomini ha detto della sua parafrasi di Aristotele, che la base e il fondamento della elocuzione si ha da stimar che sia la purità, la netlezza e candidezza – cf. Grice, the imperative of conversational candour -- di quel discorso, nella quale l'uom parla. Ad acquistare l'abito di discurrire con proprietà tre cose si richieggono. Prima,  il saper bene dividere le idee fino ai primi loro elementi. Secondo, il conoscere l'etimologia dell’espressione (etimo: il vero), per quanto è possibile. Terzo, il rendersi famigliari le opere degli antichi filosofi romani, ne'quali è dovizia di voci pure e di modi assai propri. Chi non ha uso delle delle cose è spesso costretto di adoperare le noiose circonlocuzioni in luogo di un solo vocabolo o di una breve sentenza, e di abusare de sinonimi. Si dice “sinonimo” l’espressione di una medesima sigoificazione, o quelli, che rappresentando le stesse idee principali, differiscono in qualche accessoria. Della prima generazione sono i seguenti: fine e finimenio; abbadia e badia; consenso e consentimenlo e simili. Aliri ne trov po nella formazione de' tempi, e de'partecipii, come rendei e rendetli; visto e veduto; parso e paruto; ma colali sinonimi non sono in gran numero. La più parle è di quelli che differiscono per aumento, o diſelto di qualche idea accessoria. Cavallo, corridore, destriero, palafreno, poledro, rozza, sono espressioni istituite a significare il medesimo animale; ma ognuna differisce dall'altra. “Cavallo” denola la qualità della specie; “corridore” la particolarità d'esser veloce; “destriero” ricorda l'uso di menare il cavallo a mano destra; “palafreno” quello di frenarlo colla mano; “poledro” la qualità dell'essere giovane; “rozza” quella dell'essere vecchio e disadalto. Le voci unico e solo sembrano per avventura la stessa cosa; ma il Petrarca disse la sua donna essere “unica e sola” (one and only), volendo significare che nessun'altra è nella schiera di Laura, e che nessuna può esserle dala in compagnia. Incontra alle volte, che le parole istituile a significare un'idea stessa differiscono per la virtù, che haono di richiainarne alla mente alcun'altra più o men nobile, o per cagione del suono o vobile o rimesso, o per cagione dell'uso, che di quella suol esser fatlo in umile o in illustre componimento. Tali sono, a cagione d'esempio, i vocaboli “adesso” ed “ora”, che significano ‘il momento presente’, ma “adesso” non sarebbe ricevuto in nobile componimento; dal che si vede che sebbene ei denoli il punto presente del tempo, come fa l'altro, pure trae in sua compagnia alcune idee, che il fanno parere di bassa condizione. É dunque da por wenle che l’espressione, che si dice sinonimo, non sempre ci rappresentano stesso complesso d'idee; e quindi può intervenire, che ingannali dall'apparenza, alcuna votla siamo lralli ad usarli impropriamenle. È da avvertire per ultimo, che ogni espressione antiquale, cioè quelle, che pel consenso universale de’ filosofi sono stale abolite, non hanno più luogo tra le voci proprie. Si uilmente sono improprie ogni espressione dei dialelli parlicolari, e l’espressione forastiera, che dall'uso de' wigliori filosofi non hanno avuto la cile tadinanza. Le quali tutte non sarebbero bene intese dall'intera Italia; e perciò denuo essere, da chi desidera di discurrire chiaramente, a lullo polere schivale. Questo basli aver dello della proprietà, che è la prima cosa, che si richiede a render chiara le elocuzione. Direino poi a suo luogo come il trasporlare con altra legge di proprietà l’espressione dal significato proprio all'improprio giovi maravigliosamente alla chiarezza. In virtù dell’espressione esprimiamo i nostri giudizii, e collegando insieme il giudizio espresso formiamo i raziocioii, i quali verranno chiari alla menle altrui, qualvolta sieno osservate le leggi, di che ora faremo parola; ma prima si vuole avvertire, cha talora il discorso può es sere ordinato secondo le leggi, per le quali ' riesce chiaro, ma non avere poi quella forza, quella virtù e quella eſficacia, che avrebbe, se si disponessero le parole diversamente senza però offendere le delle leggi. A suo luogo direno della disposizione (sintassi) delle parole, che agagiunge efficacia al discorso. Ora è a dire solo tanto di quella, che lo fa chiaro. Ogni giudizio espresso dicesi proposizione. Nel ragionamento, il quale di nolle proposizioni si compone, alcuna vene ba, che viene modificata dalle altre. Quella, che è modificata, dicesi principale, le allre suballerne (o minore). Vaglia a ben distinguerle il seguente esempio del Casa. Menire i nostri nobili cittadini gli agi e le morbidezze e i privuli loro comodi abbracciano e stringono, l'impera lore, non dormendo nè riposandu, mu travagliando e fabbricando, ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta. L'imperatore ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta è la proposizione (premessa) principale (maiore), le altre, che lei modificano, sono le subaltern (premessa minore). La proposizio ne principale, a somiglianza della principale figura in un dipinto, dee fra tutte le subalterne campeggiare e risplendere; per ciò è che vuolsi evitare la frequenza di queste ultime, le quali, allorchè fossero troppe, invece di raflorzare la principale o premessa maiore, siccome è loro officio, verrebbero ad indebolirla. Questa si è la prima avvertenza, che circa le proposizioni subalterne aver dee colui che discurre; indi si prenderà cura di ben' collocarle. Prima che veniamo a dire quale sia la buona collocazione loro, è necessario di osservare, che le delle proposizioni subalterne si distin guono in espresse ed in implicite. Diconsi espresse quelle, nelle quali tutte le parli loro sono manifeste, come nella seguente: ľuomo è ragionevole. Diconsi implicite quando il giudizio che si esprime, e significati dall nome addiettivo o dal nome sustantivo con preposizione o dall’avverbio, come nelle seguenti. L’uomo GIUSTO è lodato. Pilade ama Oreste. CON. I romani amarono GRANDEMENTE la patria. Quando si dice “l'uomo giusto” si viene ad affermare che ad esso si appartiene la giustizia, che è quanto dire giudichiamo che egli è giusto. Si dica il medesimo delle altre due proposizioni. Ama con FEDE GRANDEMENTE, La proposizione IMPLICITA (entimema, implicatura) serve a significar del giudizio, che per abilo la mente umana FEDE amarono suol fare rapidamente; perciò è che non si denno usare in vece di quelle la proposizione espressa, SPLICITA (splicatura), perciocchè impedirebbero la spedi tezza dell' intelletto di nostro compagno conversazionale. Si dovranno ancora nello scegliere la proposizione implicita (implicatura, impiegato) schivare le inutili, cioè quelle, che risveglierebbero le idee, che in virtù del solo sustantivo o del solo verbo possono essere richiamate a mente, e scegliere quelle, che meglio qualificano il significato. Sarebbe, a cagione d ' esempio, vano (redundante) e noioso l'aggiunto di “bianca” alla “neve” (salvo se il caso richiedesse di far conoscere parti colarmente questa qualità), essendo che l’espressione “neve” trae seco, senz'altro aiulo, la idea di ‘bianco’ (cf. ‘atleta’ ‘longo’). Rispello alla collocazione della proposiziona suballerna, sia ella implicite o espresse, la regola (massima, imperativo) si mostra di per sé: imperciocchè, essendo intese a denotare alcuna qualità del signato o da' sustantivo o da' verbo o da' participio, deve chiaramente apparire a quali di queste parti dell'orazione (l’otto parti dell’orazione – partes orationis) vogliono appartenere; e perciò fa mestieri collocarle in luogo tale, che mai non venga dubbio se sia poste a modificare piuttosto l'uno, che l' altro o verbo o participio o sustantivo. Quao do a ciò si manca nasce perplessità (“misleading, but true) come nel seguente luogo di Boccaccio. E comechè Aligheri aver questo libretto fallo nell'età più matura si vergognasse. Qui può sembrare che il libretto sia stato falto nell' età più matura; che se avesse dello: comechè egli aver futto questo libretto si vergognasse nell'età più matura, la proposizione sarebbe stata chiarissima. Alcuna perplessità è ancora in quest'a tro di Passavanti: Leggesi, ed è scritto dal venerabile dottor Beda, che negli anni domini ottocento sei un uomo passò di questa vila in Inghilterra. Comechè non sia per cadere nel pensiero di alcuno che colui, che si parle di questa vita, possa andare in Inghilterra, nulladimeno, per quella collocazione di parole, la mente di chi legge resla alcun poco sospesa. Molte TRASPOSIZIONE – Grice: William Blake: love that told cannot be, love that never told can be --, che si biasimano nella lingua italiana, sono spesso con venevoli NALLE LINGUA LATINA, perchè, nella lingua romana, il nome aggettivo, che per le desinenze diverse nei generi, nei numeri e nei casi si accordano col nome sustantivo, rade volte LASCIANO DUBBIO a cui vogliano appartenere, e rade volte i casi obliqui si confondono col caso retto, comunque nella proposizione sieno collocati. Bellissimo è in latino il seguente luogo di CRASSO, riportato da CICERONE. HÆC TIBI EST EXCIDENDA LINGVA QVA VEL EVVLSA SPIRITV IPSO LIBIDINEM TVAM LIBERTAS MEA REFVTABIT. Tenendo l'ordine di queste parole nella lingua italiana si produce falsità nella sentenza. Sconvolgendolo si perde tutta l'efficacia. Se dico. Questa lingua li è d'uopo recidere: recisa questa, col fiato stesso la tua sfrenatezza la libertà mia reprimerà’ – Appare che LA SFRENATEZZA  reprima LA LIBERTÀ. Se, per lo contrario, dico. La libertà mia reprimerà la tua sfrenatezza, toglieremo alla sentenza molto della sua forza – devuta a una disobbedenza intenzionale della massima conversazionale d’evitare l’ambiguità. Vedremo a suo luogo la ragione, per cui la diversa collocazione di una espressione semplice rafforza o snerva l'espressione complessa. Ora ci basta osservare, poichè cade in acconcio, che le varie lingue -- parlando ora della sola facoltà, che hanno di PERMUTARE IL LUGO ALLE PAROLE – “love that never told can be”/”love that told can never be” --  luttochè sieno alle a qua. Junque specie di componimento, nol sono ad esprimere uno stesso concetto nella stessa FORMA – massima conversazinale della forma, non del contenuto --; perciò è che quando si trasportano le scritture da una favella ad un'altra non dove l'espositore darsi briga di ritrarre espressione per espressione. Avendo rispetto al genio della lingua, cerca di produrre per altro convepevol modo nell’animo di nostro compagno conversazionale gl’effetto che l’espressione in lui operano. Per fuggire le equivocazioni [cf. Grice, avoid ambiguity] giov ancora badare ne' verbi alla prima voce dell'imperfetto dell'indicativo – “amava” -- la quale è simile alla terza, dicendosi “amava” +> “io amava”; “amava” +>  “colui amava” – cf. latino: ‘amaba’/’amabaT’ --. Perciò a distinguerle è sovente bisogno di preineltere all’espressione ‘AMAVA’ – latino: AMABA/AMABAT -- il nome o il pronome. Giova spesso alla CHIAREZZA, e segnatamente nell’espressione complessa o composita, il ben distinguere le persone e le cose, delle quali si parla (il topico). E perciò sta bene talvolta il *ripetere* il nome sostantivo per non confondere l’una coll'altra. Imperciocchè, i pronomi e i relativi sogliono spesso essere cagione di equivoco – confusione – cf. avoid ambiguity, be perspicuous [sic], the imperative of conversational clarity. E questo interviene specialmente, quando nella proposizione antecedente sono più nomi sustantivi di un medesimo genere e numero, che si possono accordare coi relativi delle susseguenti. Perciò, conviene tal volta o giovarsi di un sinonimo onde porre in luogo di alcun nome mascolino un femminino. O inulare il numero del più in quello del meno. O viceversa. Può ancora geverarsi PERPLESSITÀ nell'usare il possessivo “suo” e “suoi,” invece de relativo lei, lui e loro; e perciò alle volle è necessario adoperar questo per quello, come nel caso seguente. “MAI DA SÈ PARTIR NOL POTÈ, INFINO A LANTO CHE EGLI [CIMONE] NON L’EBBE FINO ALLA CASA *DI LEI* ACCOMPAGNATA”  (Boccaccio). Se Boccaccio avesse detto: “fino alla casa SUA accompagnata”, si sarebbe potuto credere essere QUELLA DI CIMONE! Per far maniſesta (esplicita, chiarissima) la connessione de'ragionamenti sono assai opportune le particelle copulative (“e” – He went to bed and took off his trousers” (Urmson); avversative (“ma” – Lei e povera, ma onesta – Frege, FARBUNG), illative (“se” – se p, q – FILONE, DIODORO, CRISIPPO) e somiglianti – e disgiuntiva (“o” – “Lei sta alla cucina o alla stanza di dormire”). Molli fra' filosofi italiani, ad imitazione de’ filosofi francesi, sogliono scrivere a piccoli membri, senza congiungerli insieme colle particelle, e in ciò sono da biasimare, iaperciocchè costringono la mente o l’animo di nostro compagno conversazionale a passare “di salto” da una proposizione all'altra senza dargli occasione di scorgere subitamente le attenenze (pertinenza, relevanza – cf. Grice, category of relation – be relevant – a ‘platitude’ -- Strawson) loro. JILL: JACK IS AN ENGLISHMAN; HE IS, THEREFORE, BRAVE” – deduzione, induzione, adduzione? --. Affinchè si vegga manifestamente quanto la mancanza de' legamenti tolga di chiarezza al discorso, leverò dal seguente luogo di PASSAVANTI le particelle che ne conneltono le parti. Qualunque persona sogna, pensi se il suo sogno corrisponde all’affezione sua, a quella che più ta sprona. Se vede che si, non a. spetti che al sogno suo debba altro seguitare. Quel sogno non è cagione alla quale debba altro effetto seguitare; è l'effetto dell'affezione della persona. Tale sogno oseservare, cioè considerare donde proceda, non è in sè male: è l'effetto di naturale cagione. Facciamo congiunti questi membri colla particella “e”, la particella “imperciocchè”, la particella “ma” e vedremo il discorso apparire più chiaro (“She was poor and she was honest”). Qualunque persona sogna, pensi se il suo sogno corrisponde all’affezione sua, a quella, che più lu sprona. *E* se vede che si, non aspetti che al sogno suo debba altro seguilare; *imperciocchè* quel sogno non è cagione, alla quale debba altro effetto seguitare; *ma* è l'effetto del l'affezione della persona; e tale sogno osservare, cioè considerare donde proceda, non è in sè male: imperciocchè è l'effetto di natural cagione.” Questi pochi avvertimenti basteranno, se io non erro, a render cauti i conversatori che desiderano di conversare chiaramente. Tralascio le wolle cose che i filosofi hanno ragionato in torno la proposizione, poichè mi pare che, qual volta siasi imparato a distinguere la proposizione principale (premessa maiore) dalle proposizione subalterna (premessa minore), e siasi conosciuto che la virtù di queste si è di modificare le parti dell'altra, non faccia mestieri di *molto sottile* ragionamento a sapere in che modo elle si debbono collocare nella orazione o espressione complessa; perciò senza più entro a parlare dell' ornamento. La perſezione dell'arte del conversare nella LINGUA LATINA, secondo CICERONE, consiste nell'esporre chiaramente, or nataniente e convenevolmente le cose o il topico, che a trattare imprendiamo. Di quella chiarezza e di quell'ornamento e decoro – CANDORE --, che dall’invenzione e disposizione della materia procede, si ragiona nella rettorica – G. N. LEECH: “H. P. GRICE’S CONVERSATIONAL RHETORIC”.  Accade qui di parlare delle suddette tre qualità solamente rispetto al modo di significare (modus significandi) il concetto ritrovati. Avendo abbastanza detto della prima, diremo ora delle altre due, che fanno il discorso – la mozione, mossa, o moto, conversazionale -- accetto a nostro compagno conversazionale. Grice: “I’m not surprised that the Italians start the cataloguing of the maxims of conversations by the MANNER, rather than the CONTENT!” -- Prima di tutto si vuole osservare che la proprietà delle voci e l'ordinata (cf. Grice, be orderly) composizione loro generano gran parte della BELLEZZA DEL DISCORSO – Grice: “My maxims aim at rational cooperation, they are not moral or aesthetic in purpose.”. Imperciocchè fanno sì, che esso sia inteso senza fatica, che è quanto dire con qualche sorta di piacere. Ma questo non basta; chè nessuno per verità loda il conversatore solamente perchè si fa intendere dal suo compagno conversazionale; ma lo biasima e sprezza, s'ei fa altrimenti. Chi è dunque che faccia meravigliare gl’uomini e tragga a sua voglia le volontà loro? Chi è applaudito e chi è venerato più che more tale? Colui che NEL CONVERSARE è distinto, COPIOSO – ma non *troppo* copioso --, splendido, armonioso, e che queste qualità, onde si forma l'ornamento, congiunge al decoro – CANDOR – veracita e sincerita. Que' che conversa co'rispetti, che la qualità delle materia e del compagno conversazionale richiede, solo merita lode: che qualsivoglia ornamento DISGIUNTO DAL DECORO diviene sconcezza e deformità. Molto leggiadre ed efficaci sono le voci proprie, che per cagione del loro suono hanno somiglianza col significato, o quelle che ne ricordano qualche particolare qualità. E espressione, che ricorda il significato per somiglianza di suono le seguenti: “belato”; “ruggito”; “soffio”; “nitrito”; “boato”; “rimbombo”; “tonfo”, e molte al tre, che per alcuni furono sono termini figure, a differenza di quelle, che, non avendo soosiglianza veruna col significato, sono delle termini memorativi o cifre. Fra i termini figure voglionsi annoverare, oltre le voci che abbiamo teste accennat, quelle che o provengono da altr’espressione, che è segno di cosa somigliante al signficato che si vuol esprimere o communicare (cf. Grice on the circularity of analyising ‘signare’ e ‘communicare’), o ricordano l'origine o gl’usi del significato. L’espressione “spirito” è bella per certa tal qual somiglianza, che il significato, cioè l’immateriale sostanza, sembra avere col fialo o con qualsivoglia altra sottil materia, che SPIRI (onomatopoeia) e preferibile a ‘animo’. Belle similmente e l’espressione “moneta” e l’espressione “pecunia”. la prima delle quali, venendo da “moneo”, significa che il metallo ed il conio ammoniscono la gente circa il valore di essa moneta. La seconda, venendo da “pecus”, ricorda l'origine del denaro, che fu sostituito ai buoi ed alle pecore, antica inisura delle cose mercatabili. Ho qui posti questi due esempi ancora perchè si vegga quanto giovi alcuna volta l'investigare l’etimologia. Concorrono co' termini propri e co' termini figure a far bella la mozione conversazionale le parole nobili, qualvolta sieno convenevolmente adoperate. Accade delle parole, dice Pallavicini, che comunemente accade degli uomini nel civil conversare. Questi acquistano ripulazione o vilipendio dalla qualità delle persone colle quali usano farnigliarmente; e le parole dalla qualità delle persone da cui sono sovente proſerite; e ciò interviene perchè tutti hanno per fermo, che i personaggi illustri e gl’uomini letterati sieno ESPERTI A CONVERSARE *con legge*, e che la plebe allo incontro parli e cianci barbaramente. Avviene da ciò che alcune voci, che significano cose vili o laide [‘the --- bishop fell from the – stairs – profanity – Grice], sono tuttavia tenute per nobilissime. All 'opposito altre ve a'ba, che, nobili cose significando, in grave componimento non sarebbero lodate. Della prima spezie sono in Italia l’espressione “lordo”; “lezzo”; “tube”; “piaga”, ed altre, che nelle più nobili conversazione sogliono essere usate. Dall'altro canto, l’espressione “papa”, siccome osserva il lodato cardinale Pallavicini, la quale nobilissimo personaggio rappresenta, non sarebbe ricevuta in grave componimento poetico. In tre schiere vengono separate da Pallavicini le parole rispetto la maggiore o minore nobiltà loro. Nella prima si collocano quelle, che dal conversatore in nobile conversazione e usata a significare un concetto grande ed il lustre. Vocaboli di questa specie non si potranno senza AFFETAZIONE adoperare in tenue argomento, o in famigliare discorso. Che se alcuno famigliarmente usa l’espressione “pugna” in vece di “battaglia”; “luci” in vece di “occhi”; “accento” o “nota” in vece di “parola”, certo è che moverebbe a riso il compagno conversazionale. La seconda schiera è di quella espressione, che vanno egualmente per le bocche degl’uomini ragguardevoli e del popolo, e che si possono senza biasimo usare in ogni occorrenza. La terza poi è di quelle, che sono avvilite nella bocca della plebe, come e l’espressione “pancia”; “budella”; “corala” e simili, le quali possono essere opportune in una conversazione intesa ad avvilire alcuna cosa, come e la mossa, noto, o mozione conversazionale ‘satirica’. Anche le espressione antiche, qualvolta elle hanno convenevole forma e non sieno passate ad altro significato [non multiplicare sensi piu di la necessita], vagliono à nobilitare la conversazione. Ma si richiede somma cautela in co lui che a vila le richiama, poichè una espressione antiquata, ollrechè spesso portano seco oscurità [cf. Grice, ‘avoid obscurity of expression, procrastinate obfuscation, be perspicuous [sic]], ‘avoid unnecessary proliity [sic]’], più spesso fanno l'orazione ricercata e deforme. E chi oggi potrebbe, senza indurre a riso il compagno conversazionale, l’espressione “beninanza”; “bellore”; “dolzore”; “piota”, “spingare” ed altre simili d’usare. Ora diremo della metafora (“You are the cream in my coffee), la quale, usata opportunamente, è lume e vaghezza della orazione. Prima è a sapere che gl’uomini selvaggi per essere scarsi di cognizioni mancarono dell’espressione, e che volendo eglino significare alcuna cosa non ancora significata, fanno uso naturalmente di quella espressione gia usata, la quale e inventata a contras-segnare *altra* cosa somigliante in qualche parte all'idea novella (“You are LIKE the cream in my coffee”). Occorrendo loro, per esempio, di significare alcun uomo crudele, il chiamarono “tigre” per la somiglianza dell'indole di colal bestia con quella dell'uomo crudele. Cosi dissero assetate le campagne asciulle, “volpe” 1'uomo astuto (“sly as a fox” – he is a fox), “capo del monte” la cima – ‘top of the heap’ ‘New York, New York’ -- e “piè” del monte la falda di quello. Per gl’addotti esempi si vede questo trasporlamento (meta-bole, transferenza, trans-latio) di una expression da un significato propio e vero ad un significato impropio e falso (“You are the cream”) altro non essere che una similitudine ristretta in una espressione (“You are like the cream – simplifcata a “You are the cream”); imperciocchè la seguente similitudine spiegata. La comparazione vera “Costui è crudele COME una tigre” si restringe, per brevita, in questa forma metaforica falsa. “Costui è una tigre”. È dunque la metafora una abbreviata similitudine [an elliptical simile], che si fa recando una espressione dal significato proprio al signficato improprio: e perciò da Aristotele è detta imposizione del nome d'altri. Siccome la metaſora e da principio usata per *necessità*, potrà parere ad alcuno che crescendo il numero delle idee determinate e della espressione propria, la metafora divenga pressochè inutile – o una figura di retorica --; ma non accade cosi: perocchè, sebbene fra le conversatori civili e culle non sia tanto necessaria quanto fra le selvagge e rozze, pure la metafora è e sempre luce e VAGHEZZA della conversazione per virtù e forza di quelle sue qualità. La metafora presenta spesso all'animo più chiaramente ogni sorta di concetti, poichè, veslendo di forma *sensibile* una idea non-sensibile, o intelleltuale (nihil est in intellectu quod prior non fuerit in sensu), ce le pone davanli agli cinque sensi. Vuole Alighieri significare che non è meraviglia se per la le nuità della nostra fantasia non possiamo per venire ad imaginare le cose, che Alighieri desidera narrare del Cielo; e questo con una metafora dicendo. E se le fantasie nostre son basse a tant'altezza non è maraviglia. Per tal modo il concetto, che era tutto non-sensibile e intelettuale, divenne sensibile e per conseguente più chiaro (cfr. Grice, ‘be perspicuous [sic] – the imperative of conversational clarity] e più popolare. E se taluno volendo dire che gl’uomini bugiardi saono talvolta infingersi e comporre gl’atti e le parole a modo di parer verilieri, dice che la menzogna prende talvolta il manto della verità, non significherebbe egli il suo concetto assai vivamente. (He said that she was the cream in her coffee, By uttering ‘You’re the cream in my coffee” U signs – explicitly – THAT the addressee is the cream in the utterer’s coffee. Fra tutte le metafore poi e più efficace quella metafora che si cava da una qualità sensibile, corporea, materiale, che si mostra a le cinque sensi, e forse la ragione si è questa. Alla reminiscenza della qualità di un corpo, la quale ci vengono all'animo per i cinque sensi, più tenacemente si associano le idee, che di essi ci vengono per gli altri sentimenti; quindi è che ogni qualvolta ci riduciamo a memoria una della qualità sensibile (in questo caso visibile) del reale (un oggetto) quasi tutte le altre appartenenti a quello pur si risvegliano, e vivamente ed intero lo ci pongono dinanzi agli “occhi” dell'intelletto. Laonde se belle sono le metafore – parola dolce. che si cávano dalla qualità, da cui sono affetto: l'odorato (secondo senso dell’odore), il tatto (terzo senso del tatto), l'udito (quarto senso dell’audizione) e il gustato (quinto senso del gusto), come queste: odore di santità – odore santo, durezza di cuore – duro cuore, ruggir di venti, vento ruggente -- dolcezza di parole; parola dolce -- più bella, per che più viva si presenta all'animo, entrando quasi per gli cinque organi de’cinque sensi, sono le seguenti. Splende la gloria (visum). Folgoreggiano gli scudi. Ridono i prali (udito). Si rasserena la fronte; l’anima è oscurata per tristezza. Piacquero ad Aristotele sommamente quella metafora, che ci rappresenta (re-praesentatum, rappresentato) la cosa in mozzo, e principalmente quando la metafora attribuisce a una in-animato una operazione di un animato.Tali sono queste di Omero. Le saette di volar desiose; inorridisce il mare. Anche VIRGILIO, parlando di una satta entrata nel petto di una vergine, dice. Harsit virgineumque alle bibit hasta cruorem. Si dalla metafora ci pone la cosa vivamente quasi innanzi agl’organi dei cinque sensi, e per la “novità” o vita (no morte) loro ci fanno maravigliare. La metafora, siccome dice Aristotele, partorisce dottrina, facendo conoscere fra le idee alcuna attenenza dianzi non osservata. Quale attenenza scorgesi tosto fra un manto e la nobillà della prosapia? Certamente nessuna: pure veggasi come Alighieri ce la fa scorgere. O poca nostra nobiltà di sangue, ben tu se'manto, che tosto raccorce, sì che se non s'appondi die in die lo tempo ya d'intorno co' la for Coine un bello e ricco manto adorna la persona di colui che sen veste, così adorna l'animo d' alcuni uomini quell'onore che ricevono pei pregi degli avi loro, e che chiamasi nobiltà: ma, se per virtù novella non si rinfranca, ei viene di giorno in giorno scemando. Questi pensieri il divino poeta ci reca alla mente colla nuova similitudine, e ci dilella e ci illumina. Vale eziandio la metafora a muovere con maggior forza l’affeto, perciocchè, laddove alcuna volta parole proprie astretti a recare alla mente di nostro compagno conversazionale le idee una dopo l'altra, la metafora, rappresentandole tutte ad un tempo, assale l’animo con veemenza. Basti un solo esempio di PETRARCA, il quale rivolto alla morte così le dice: con saremmo me dove lasci sconsolato e cieco, poscia che il dolce ed amoroso e piano lume degli occhi miei non è più meco? Quali e quanli pensieri si destano nella mente all’espessione “cieco” e la frase/espressione frasale “lume degli ochi miei”! Ma circa l'uso della metaſora nell’aſſetto si vuole por menle che ella non mostra  il lavoro e la fatica dell’intelletto, perocchè non è verisimile che colui, che ha l'animo perturbato, si perda a far cerca d'ingegnosi concetti e figure retoriche. È ancora pregio della metafora di coprire con velo di modestia e di gentilezza il segnato, che espressa con un termino *proprio* (e non un termino figura como e la metafora) sarebbero odioso o turpo. Ecco un bell’esempio di Passavanti. La innata concupiscenza, che nella s vecchia carne e nell'ossa aride era addor meniata, si cominciò a svegliare: la favilla, quasi spenta si raccese in fiamma; e le frigide membra, che come morte si giacevano in prima, si risentirono con oltraggioso orgoglio. E VIRGILIO dice. O luce magis dilecta sorori, Sola ne perpetua moerens curpere juventa? Nec dulces natos, Veneris nec praemia noris? Questo e i principale vantaggio della metaſora, onde sovente viene preferita al termino proprio. Diremo ora dei vizii che talvolta elle possono avere. Se bella e la metafora che fa scorgere una maniſesta somiglianza tra due segnati (‘you’ ‘the cream in my coffee’), da che si toglie il vocabolo e l'altra, a cui si reca, chiaro è che deformi saravno quelle, che tengono ji paragone di rose o polla e poco somiglianti, e che sono male acconcie al proposto dne (“a woman without a man is a fish without a bicycle”). Nessuna somiglianza si vede fra le cose paragonale nella seguente metafora di MARINI. Folendo egli lodare un maestro, che formara bellissimi esempi da scrivere, esalta la penna di lui, dicendo ch'ella deve essere divina: Perchè una penna sela, Benchè s'alzi per sè pronto e sicura, Se divina non è tanto non rola. E qual somiglianza è mai tra il relare e lo scrivere? E tolta da peca somiglianza quella metafora che volendo segnare una cosa piccola prende da una cosa grande l'imagine, e al contrario. Mariai assomiglia le lacrime della sua douna a'lesori dell'Oriente, e Tertulliano il diluvio universale al bucato. Erro similmente colui che dice a suo amante. Son gli occhi resiri archiòugiati a ruote, Ele ciglia inarcale archi turcheschi. È bellissina la metafora che Poliziano tolse al Boccaccio. E le biade ondeggiar come fa il mare. Sarebbe difettosa quest’altra. E tremolare il mar come le biade. Viziose come le sopraddeile sono la più parte delle metafore usate dagli scrittori del secolo XVII, e soprattutto dai poeti, i quali sriscerarano i monti per estrarne i metalli, face vano sudare i fuochi, ed avvelenavano l'obolio colp inchiostro. Parmi inutile cosa l'estendermi in questa materia, essendochè il nostro secolo, sebbene incorra in altri vizii, di così falle baie si mostra nemico. Della metafora e l’analogia che e alquanto dura, ė da sapere che puo essere mollificata per certa maniera di dire, quali sarebbero: quasi – per dir cosi e che alcune ve nha, che sono state ammollite dall'uso, come la seguente: Fabbro del bel parlare. Ė da biasimare ancora la metafora, che la sorvenire il nostro compagno conversazionale di qualche bruttura, o di cosa rile, o che disconvenga alla gravità della trattata materia o topico. Perciò meritamente Casa rimprovera ALIGHIERI per essere talvolta caduto in questo difeilo, siccome quando disse. L'allo fato di Dio sarebbe rotto se Lete si passasse, e lal vivanda fosse gustala senza alcuno scollo di pentinento. E altrove. E vedervi, se avessi avuto di tal tigna brama, colui poteri ec. Questa e una imagine plebea e sconvenienti alla gravità del subbietto. Cosi merita biasimo Pallavicini, comechè sia maestro sommo nel l'arte dello stile conversazionale, quando disse, che il cardinal Bentivoglio aveca saputo illustrar la porpora coll' inchiostro, e quando per accennare la qualità, ond'è costituita l'eleganza della elocuzione, dice: saputi distintamente quali ingredienti compongono quesla salsa, cioè l'eleganza; i quali modi sono da biasimare, essendochè nel primo esempio li vedi dinanzi agli occhi la porpora brullala d'inchiostro, e nell’altro t’infastidisce l'abbietta voce che sa di cucina. Similmente non paiono degni di lode coloro, che sogliono usare per vezzo della conversazione un idiotismo, e segnatamente quello, che ha origine da certa anticha costumanze dimenticata oggidi. Non merita lode Davanzali quando volendo dire: o nulla o lullo: disse: o asso o sette. Questo proverbio, oltre chè si è di vilissima condizione, è tolto da un giuoco, che potrebbe essere sconosciuto a molli. E proverbio, del quale non si sa l'origine, il seguente; e perciò freddo od oscuro: Maria per Ravenna, invece di cercar la cosa dove ella non e. Bastino questi pochi proverbi per moltissimi, che qui si po ebbero recare, e de' quali vanno in traccia alcuni mal accorti conversatori, onde parere versali nella lingua antica. Aucora è biasimevole alcune volte la metaſora, che si deriva dalle materie filosofiche; imperciocchè, se il fine, pel quale il conversatore usa di quella, si è di rendere più chiaro e più vivo i concetto, questo non si potrà ottenere traendo la similitudine da cose poco nole o malagevoli ad intendere, come a la metafisica, che spesso, ond'essere chiarita, hanno bisogno delle similitudini tolle dalle cose materiali; ma di rado somministrano imagini, che vagliano a cercar recar luce alle prose ed alle poesie. Pure in questi tempi sono alcuni conversatori, i quali hanno per vezzo l'usare siffatta metafora, avvisando d'illustrarne la sua mozzione conversazionale, e di mo strarsi intendente e sottile; ma va grandemente errato, perciocchè non solamente appor tano ombra ed oscurità (‘avoid obscurity of expression, be clear) alla sentenza, ma danno segno di affettazione che è vizio sopra tutti spiacevole. si è dello di sopra che la metafora diletta, non solamenle perchè ci pone dinanzi agli oc ebi in forma quasi sensibile un pensiero astratto, ma ancora perchè ci porge ammaestramento col farci apprendere fra le idee alcuna attenenze prima non osservata; dal che si deduce che il conversatore, i quali vogliono recar maraviglia, de guardarsi dall' usare una metafora troppo comunale, come quelle, che, a somiglianza della monete passata per molle mani, sono rimase senza vaghezza. Non ogni metafora poi, comechè sia ben derivata, potrà convenire ad ogni conversazione. Poichè tra le metafore ve n'ha delle più o meno illustri, converrà avvertire che il grado della nobiltà loro non disconvenga alla qualità del componimenlo. Similmente nel formare la metafora si vuole avere riguardo al pensare della gente nella cui lingua si conversa. La diversità de'luoghi e de' climi fa che gli uomini abbiano diversi i costumi e le usanze, e perciò diverse ancora le idee e le significazioni di esse. Impercioc chè, traendo ciascuna gente le similitudini dalle cose, che più spesso le sono dinanzi agli occhi, incontra che alcun popolo deriva una metafora da una cosa campestre, lal altro da una cosa marittima, tal altro dal combinercio o dalle arti, secondo suo silo e costume. Il rigore o la benignità del clima poi è spesso cagione che l'umana imaginativa sia più vivace in un luogo e meno altrove; e quindi è che una metafora naturalissime nel Trastevere appaia ardila e strana nel Tevere. Anche l’essere le geoli più o meno civili cambia la natura della metafora; perciocchè dove sono leggi meno buone, ivi è più ignoranza del vero; e dove è più ignoranza del vero è più amore del verisimil; il che torna il medesimo, ove è minor virtù intelleltiva, ivi abbonda la forza della fantasia. Cadono perciò in gravissimo errore coloro, che, imilando il volgarizzamento di Ossian falio da Cesarolli, sperano di venire in fama di sommi poeli toglieodo sempre la metafora da'venti e dalle tempeste, dai torrenti, dalle nebbie e dalle nuvole. Paiono a costoro inaravigliose squisitezze e delizie i seguenti, e simili modi: sparger lagrime di bellà - i figli dell'acaciaro il tempestoso figlio della guerra siede sul brando distruzione di eroi dar. deggiano gli sguardi rotola la morle - urlano i torrenti. Cotale metaſora, che per avventura e naturale a'popoli selvaggi, sono in Italia ridevoli e sciocche fantasie. Alla diversa indole delle genti debbe anche por mente chi dall' una lingua all'allra trasporla i versi e le prose, se non vuole produrre nell'animo di nostro compagno conversazionale effetto contrario a quello che l'autore straniero o forastiero o del Trastevere produsse in coloro, ai quali volse le sue parole. Affiuché si vegga manifestamente che non lutte lete. metafore convengono a tulti i popoli, recherò qui alcuni esempi che a questo proposito Tagliazucchi toglie dalla lingua latina. Bella metafora si è questa presso Virgilio: classique im millit habenas; deformità sarebbe tradu re in italiano: melte le briglie alla flolla. Così per segnare il pane corrotto dall'acqua dice lo stesso poeta. Cererem corruptam undis; mal si tradurrebbe: Cerere corrolla dall'onde. Orazio disse. lene caput aquae sacrae; e si tradurrebbe malissimo in italiano: il dolce capo dell'acqua sacra. Per segnare il liero sdegno d'Achille dice: gravem sioma chum Pelidae; e malissimo si tradurrebbe: il grave stomaco del Pelide. Moltssime altre metaſore potrei qui recare, che sono proprie solamente della lingua latina; ma chi ha cognizione della lingua latina conoscerà di per sè la verità di quello che io dico, ed argomenterà quanto debbono differire nella metafora la lingua italiana e quelle de'popoli da noi disgiunli e per costume e per clima, se tanto differiscono l'italiana e latina con islrelto vincolo di parentela congiunte. Una regola o massima o omperativo da osservarsi nell'uso della metafora si è di non aminassarle nella conversazione, ma collocarvele parcamente e di guisa, che paiano, come dice Cicerone, esserci venule volonterosamente, e non per forza nė per invadere il luogo altrui. È da avvertire in secondo luogo, che la metafora o non si dee congiungere con altra metafora o con voci proprie di maniera, che fra queste e quella si scorga opposizione maniſesta. Se per esempio avrai detto che Scipione è un fulmine di guerra, non dirai tosto che egli trioníò in Campidoglio. Se paragonerai eloquenza ad un torrente, non le attribuirai poco appresso la qualità del fuoco, ma avrai cura che la metafora sia sempre collegata (e no mista) colle idee prossime di guise, che nostro compagno conversazionale non trovi mai contrarietà ne' tuo concetto. In questo difetto caddero anche alcuni autori eccellenti, come Petrarca nel Sonetto XXXII, dove, cominciando dal dire metaforicamente, ch' egli ordisce una tela, prosegue: ſ ' farò forse un mio lavor si doppio fra lo stil de'moderni e il sermon prisco, Che (paventosamente a dirlo ardisco) Infino a Roma ne udirai lo scoppio. Ma non così egli fece nel Sonetto che comincia Passa la nave mia colma d'obblio, chè in esso avendo preso ad assomigliare gli amorosi affanni suoi alla nave, da questa imagine non si diparte sino alla fine. Non intendo io però di affermare coll’esempio di questa allegoria, che in breve discorso non possano star bene insieme più metafore di natura diversa; ma di avveitire che assai disconviene il trapassare da una similitudine ad un'altra inconsideratamente e quasi per salto. Giova moltissimo talvolta a render chiare e naturali quella metafora, che per se medesime sarebbero ardite e spiacenti, il preparare per convenevole modo l'animo di nostro compagno conversazionale. Se taluno volendo dire che gli uomini per mal esempio altrui caggiono in errore, dicesse caggiono nella “fossa” della falsa opinione, use rebbe certamente ardita e spiacevole metafora: nulladimeno ella diviene bellissima, qualvolta per le cose antecedenti ne siamo disposti. Va. glia l'esempio di Alighieri. Dopo aver ricordata la nota sentenza se il cieco al cieco sarà guida cadranno ambedue nella fossa prosegue: i ciechi soprannominati, che sono quasi infiniti, con la mano in sula spalla a questi mentitori sono caduti nella fossa della falsa opinione. Cosi l’ardita metafora divenla parte di una vaghissima dipintura, che viene quasi per gli occhi alla mente, ed ivi s'imprime e lungamente rimane. Sono certi scrittori, i quali riducono le idee astratte a termini più astratti (obscurus per obscurius) di quello che si converrebbe cercand a tulto potere di al lontanarle da' sensi: indi a questi loro soltilis simi concelti uniscono molte metafore repugnanti fra loro, il che fa che la mente di nostro compagno conversazionale tra questi estremi e tra questi contrari confusa nulla comprenda, come si può di leggeri conoscere nel seguente esempio tolto da un libro moderno: A giudizio dei savi scorgesi palesement, che nelle vedute su blimi della gran madre anche l'emulazione, principio avvedutamente inserito nella costituzione dell'uom, ' concorrer deve a scuotere ed a sferzare l'industria, on de riguardo allo sviluppamento di questa [Oh quanta confusione ed oscurità in tanta pompa di parole! Pare che il conversatore volesse dire, che i savi conobbero che la natura ha posto nel cuore dell' uomo il desiderio d'emulare gli altri; e che da questo procede l'industri; ma accoppiando i vocaboli principio e costituzione, che sono segni d'idee molto astratte, colla melaforica voce “inserire” ha composto un enigma; perciocchè nessuno polrà imaginare chiaramente siffallo innesto. Più strana poi diviene la metafor, quando l'astratto segnato dalla espressione “principio” si fa a scuolere ed a sferzare l'ind stria falla inopportunamente persona per trasformarsi losto in altra cosa, che si sviluppa a guisa di una malassa. In questa forma la metafora, che e vaghezza e luce della favella, diviene tenebre alla mente e vano suono (flatus vocis) agli orecchi. Conciossiache L’INTENZIONE del conversatore non sia solamente di render chiaro il concetto, ma di farlo talvolta dilettevole e maraviglioso, interviene che alcuni, per recare altrui dilelto e maraviglia, si fango a derivare dalla metafora certe loro conseguenze, come se in quella non già una simililudine si contenessa, ma come se la cosa a cui si reca il nome novello, veramente si trasformasse nella cosa, donde esso nome si toglie. Di questa specie di concetti si presero diletto i prosatori ed i poeti del secolo decimo settimo, forse per desiderio di avanzare gli scrittori delle altre elà, ed in fastidirono tutti i sani intellelli. Basti di ques 1 [Atti dell' Costitulo pazionale. era sti vizi un solo esempio. Ugone Grozio, per mostrare che non a dolere la morte di Giovanna d'Arco, dopo aver lodate nel principio di un epigramma le virtù di lei, sog giunse: Necfas est de morte queri, namque ignea tota aut numquam, aut solo debuit igne mori. Con l’espressione “fuoco”, imposta a cagione di similitudine, viene il conversatore a trasformare la misera vergine in vero fuoco materiale; e quindi trae la strana conseguenza, che ella mai non dovesse morire, o morire nel fuoco. Similmente si è frivolo modo e sciocco il derivare la metafora dalla somiglianza ed uguaglianza de'noni imposti a cose diverse, ALLUDENDO all' una di esse mentre si fa mostra di ſavellare dell'allra. In questo difetto incorse anche il primo de'nostri poeti lirici quando, piangendo la sua donna, parla del lauro, ed allude freddamente al nome di lei, come nella canzone, che comincia, Alla dolce ombra delle belle fronde ed in molti altri luoghi si può vedere. Essendosi fin qui parlato de' pregi e de'vizi delle metafore, cadrebbe in acconcio il ragionare degli altri traslati di parole e di concetto e della figura: ma, perciocchè queste cose sono state definite e largamente dichiarate da tutti i retlorici, stimo che qui basti il ricordare che siffatte maniera di favellare non e bella, se non in quanto vengono dal conversatore opportunamente adoperate. Per lo stesso fine, che la metafora si propone, cioè di rendere più vivo il concetto, melte bene talvolta il trasportare l’espressione a un segnato improprio o nominando invece del tutto la parte (metonimia), o invece della cosa la materia, ond'ella è composta, o il genere per la specie o il plurale pel singolare (majestic plural – We are not amused), e viceversa. Si può cadere in difetto usando questo traslato, che fu chiamato “sinedoche”, ogni qualvolla l'imagine della cosa, da cui si prende l’espressione, non sia bene associata alle idee, che si vo gliono svegliare in altrui, non sia atta a fare impressione nell'animo più che le altre ide, che vanno in sua compagnia. Vaglia a dichiarazione di ciò un solo esempio. Si dirà con maggior efficacia: fuggono per ſalto mare le vele, di quello ch: fuggono per l'alto mare le prore; poichè l’imagine delle vele gonfiate dal vento, come quella, che maggiormente percuote la vista di colui, che mira la nave in alto, più strettamente d'ogni altra idea si associa all'idea del fuggire: in altro caso però tornerà meglio chiamar la nave o poppa o carena, cioè quando l'azione, che essa fa, o la passione, che riceve, meno con venga alla vela che alle altre parti. Veggasi come ne ua Virgilio: vela dabant laeti. Submersas obrue puppes si nomida ancora talvolla la causa per l’effetto, o questo per quella: il contenente pel contenuto: il possessore per la cosa posseduta: la virtù ed il vizio invece dell'uomo virtuoso e del vizioso: il segno per il segnato ed il contrario; e questa figura, che dicesi “metonimia”, giova per le delle ragioni, essa pure adoperala opportunamente, a dare evidenza alla elocuzione. Ma di questi traslati e di quelli di concetto, che consistono in sentenze da intendersi a contra-senso (ironia), tanto se ne parla, come già dissi, in tutte le scuole, che qui, facendo la definizione dell'”allegoria”, dell'”ironia” e di altri simili traslali, avvertirò solamente che questi saranno diſellosi se verranno a collocarsi nella conversazione senza essere mossi dagli affetti. Anche rispetto a quelle forme, che sovente adoperiamo per rendere più efficaci i pensieri, e che si chiama con ispecial nome figura, ricorderò che alcune ve n'ha, come l’ “interrogazione” e l’ “apostrophe”, che nascono dall'affetto, ed alcune altre dall'ingegno, come l'”antitesi” (contrapposizione) e la distribuzione; e che perciò vuolsi avvertire di non far uso di queste seconde ne'luoghi, ove si possa credere che colui, che favella, abbia l'animo perturbato. Ma nessuno avvertimento, per ' vero dire, è giovevole a chi non sente nell'animo la forza degli affetti. Il più delle figure, come detto è di sopra, muovono dalla passione, e, se dall'ingegno vengo. no cercal, riescono fredde e di nessuna virtù: perciò è che male s'imparano da' rettorici. Con più figure favella la rivendugliola, secondo il detto di un illustre scrittore, contrattando sua merce, che il retſorico in suo studiato serino ne: tanto egli è vero che procedono più dalla natura che dall'arte. Questo vogliamo che ci basli aver dello così alla grossa delle figure. Dappoichè abbiamo detto in che consista la proprietà dell’espressione e della metafore, e come queste e quelle si debbano collegare per rendere chiaro ed accelto la mozzione conversazionale a nostro compagno conversazionale, e fatto alcun cenno de' traslati e delle figure, vérreio a dire, seguitando le dottrine di Palavicini, degli elementi, onde è costituita la “eleganza” (cf. Grice, ‘aesthetic maxims’), senza della quale ogni altro ornamento quasi vano riuscirebbe. L’espressione “eleganza”deriva dal verbo “eligere” ed è usata a segnare quella certa tersezza e gentilezza, per la quale una mozzione conversazionale non solamente viene ad essere scevro da ogni errore, ma in ogni sua parte ornato di qualità che da tutto ciò che ha del plebeo si allontana. Diciamo delle parti, delle quali ella si compone, che sono quattro. La prima e la brevità (Grice, ‘be brief – avoid unnecessary prolixity [sic].” La seconda e l'osservanza delle regole morfosintattiche. Terzo, la civilita o l'urbanità. Quarta, la varietà (non-detachability). Sebbene la chiarezza (conversational clarity, be perspicuous [sic]) spesso si ottenga col l'ampio e largo mozzione conversazionale, pure talvolta colla brevità si rende il pensiero più lucido e più penetranti (Brevity is the soul of wit). Le parole, dice Seneca, vogliono essere sparse a guisa della semenza, la quale comechè sia poca, molto fruttifica. La sovrabbondanza (over-informativeness) delle parole all'incontro empie le orecchie di vano suono (flatus vocis) e lascia vuote le menti. Perciò è da guardare non solo che nostro compagno conversazionale non sia distratto da una vana proposizione subaltern (premessa minore), ma che non sieno affetti più da un segno che dall’idea segnata. Saranno perciò utili a togliere questo inconveniente ed acconce a rendere elegante l'elocuzione quella espressione, che somigliante alla moneta d'oro equivale al valore di più altre, come le seguenti: disamare, disvolere, rileggere, ed altre molte, e con queste i diminutivi, gli accrescitivi, i vezzeggiativi, i peggiorativi, de' quali abbonda la nostra lingua. Vi sono ancora molti modi, che abbreviano la mozzione conversazione, e questi consistono nel tralasciare o il verbo o il pronome o la particella o l’affissi, che racchiusi nella diretta favella puo essere SOTTINTESO. (Implicatura). Basta qui recarne alcuni ad esempio. Se io grido ho di che dammi bere quo ha di belle cose onde fosti et cui figliuolo andovui il cielo imbianca - vergognando tacque a baldanza del signore il baltè иот da faccende non se da ciò vedi cui do mangiare il mio, ed altri moltissimi somiglianti modi, coi quali si ottiene questa importantissima parle della eleganza, onde rice. ve nerbo l'orazione, Avend’io delto che la brevità costituisce gran parte della eleganza, non intesi di affermare che agli scrillori non sia lecito di esporre le cose particolarizzando; chè questa anzi è l'arte colla quale si produce l'evidenza; ma volli avvertire chi brama dilettare altrui colle proprie scritture, di ben ponderare quali sieno le particolarità, che hanno virtù di far luminoso il concetto, e di tralasciar quelle, che l'offuscano e pongono l’altrui mente in falica. Secondo, dobbiamo eziandio osservare la regola morfosintattica, cioè quelle leggi che la volontà de’ primi favellalori e l'uso di coloro, che vennero dopo, banno imposto alla lingua italiana. Comechè il trascurarle non induca sempre oscurità (avoid obscurity of expression) pure importa moltissimo che sieno osservata, poichè ogni elocuzione irregolare apparisce plebea (un solecismo). E perciò grande si è la stoltezza di coloro, che vando cercando negli autori antichi i costrutti contro grammatica, e quelli come pellegrine eleganze pongono nelle scritture: dal che ottengono effetto contrario al buon desiderio: per ciocchè o portano oscurità nella sentenza, o in fastidiscono i lettori facendo ridere gli uomini di lettere, non ignari che quelle strane forme sono la più parte errori, o di amanuensi o di stampatori o di autori plebei, de'quali non fu piccol numero anche nel bel secolo dell'oro (errata). Terzo, siccome sono molli' vocaboli, secondo che è dello, i quali usati già da ' buoni scrittori han no acquistata certa nobiltà e fanno nobile il conversare, così pure sono molli modi, i quali, avendo in sè certa gentilezza, il fanno elegante, e non essendo propri degli stranieri, gli danno quel paliyo colore, e direi quasi fisonomia, per cui ciascuna favella da ogni allra si distingue. In che precisamente sia riposta que sta vaghezza, che si chiama civilita o “urbanità”, si è difficile dichiarare; e perciò assal meglio che con parole, si può mostrare cogli esempi. Porrò qui dunque alcuni modi volgari, ed al fianco di essi i moderni urbani o civile. Ciò che loro venisse in grado. A chicsa non usava giammai. Seppegli reo. Ciò che loro piacesse. Non era solita di andare in chiesa. Gli parve cosa calli va. Fece rivivere. Il prese per marito. “Era il giorno in cui” -- Egli domandò al servo certa cosa. Ben io mi ricordo. A vila recò. Il prese a marito. “Era il giorno che” – “Egli domandò il servo di certa cosa” -- Ben mi ricorda, o ben mi torna a mente. Vicino di quell'isola. Non-Upper: Viveva a modo di bestia. “Vicino a quell'isola” Upper: “Viveva come una bestia” Moltissime sono le forme somiglianti a que ste, le quali, sebbene non vadano per la bocca de ' comunali scrittori, pure sono chiare e naturali, e per cerla loro indicibile gentilezza recano diletto. Vogliono però essere parcamenle adoperate, perocchè in troppa copia ſarebbero il discorso ricercato; e questo difetto dobbia mo schivare anche a pericolo di parere negligenti. La negligenza è mancanza di virtù (salvo quando e falsa – nulla piu difficile che falsare la negligenza), che rende meno lodevole il discorso, ma non meno credibile: e l'affettazione è deforme vizio, che al dicitore toglie autorità e fede. Modo più sconcio si è quello di coloro, i quali, per vaghezza di parere eleganti ed SUO esperti della PATRIA LINGUA – LINGUA PATRIA -- patria lingua, compongono prose con parole e modi fuor d'uso, e costruzioni contorte alla boccaccesca; e della stessa guisa fanno versi oscuri e senza grazia e senza per bo, e si argomentano poi di avere imitato Aligheri o Petrarca. Ma che altro per verità fanno costoro, se non se muovere a sdegno i buoni ingegni, e dare occasione al volgo di ridersi di quei pochi, che studiano a’libri antichi? Un'altra generazione di scrillori (e questa è dei più ), alzato il segno dell'anarchia, gridando che l’USO è l'ARBITRO della lingua (Wittgenstein), si fa beffe di ogni gentilezza e di ogni proprietà: guida per entro l'idioma nativo parole e forme forestiere, e il guasta sì, che non gli lascia di se non la sola terminazione delle voci. Cosi due sette di contraria opinione vorrebbero partire la repubblica letteraria. L'una tiinida e superstiziosa restringe la lingua a que' termini, in cui stette nel trecento: l'altra licenziosa ed arrogante vuole che ogni ar gine si rompa sì, che le purissime fonti del civil conversare si facciano torbide e limacciose. Affinchè appaia manifesto il torlo di questi se diziosi, dirò che cosa sia lingua; e dalla sua definizione trarrò alcune conseguenze. La serie de' segni e dei modi vocali instituiti a rappre sentare ogni generazione di pensieri, o, per meglio dire, ad esprimerc tulle quante le idee, ond’è formata la scienza di una patria, è ciò che dicesi lingua (come l’italiano dal latino, o il pidgin e il creole che e il francese). Da questa definizione si deduce che nè una sola città nè un'età sola può essere autrice e signora della lingua italiana – Roma e la citta della lingua romana; ma che è forza che alla formazione di questa abbia avuto parte la nazione intera, cioè tutti gli uomini congiunti di luogo e di costumi, che hanno idee proprie da manifestare; e che a scernere il fiore dalla crusca abbiano dato e diano opera gl'illustri scrittori. E così avvenne di vero nella formazione e nell'incremento di questo, che Alighieri chiamò, ironicamente, il volgare d'Italia, poichè, come dice BEMPO, e un siciliano e un Pugliese e un Toscano e e un Marchegiano e un romagnolo e un lombardo e un veneto vi posero mano. Tutte le parole dunque per tal guisa formate, che vagliono ad esprimere con chiarezza i pensieri, potranno essere con lode usate, sieno elle an tiche o moderne; chè le moderne ancora deb bono essere benignamente accolle, quando sie no necessarie a segnare una idea novella. Quella facoltà, che fu conceduta agli antichi, non si può togliere ai presenti uomini; perciocchè, se non si possono prescrivere limiti all'umano sapere, nè meno alla quantità dei segni delle idee si potrà prescrivere (quark, querk). Per la qual cosa ſu e sarà sempre lecito a' sapienti, qualvolla la necessità il richiegga, l'inventare una nuova espressione (“Deutero-Esperanto”) e un nuovo modo. Questa risposta è alla selta dei superstiziosi. Ora ai libertini (Bennett – meaning-liberalismo – libertinismo semiotico – Locke – liberty) brevemente diremo che la lingua italica non è la lingua del volgo, ma, come è delto, si è quella, che gli illustri scrittori di ogni secolo hanno ricevuta per buona, e che perciò quando si dice che appo l'uso è la signoria, la ragione e la regola del parlare, non si vuol dire l'uso del volgo, ma de' buoni scrittori. I più antichi die dero vita e forma alla lingua romana, ed i posleri loro la arricchirono e la potranno arricchire, non senza grande biasimo potranno toglierle l’essere suo. Siccome ad ogni mazione è spe ma ciale la fisonomia e certa foggia di vestire, cosi e speciale al idio-letto le voci ed i modi propri e figurati, i quali hanno attenenza co'diversi costumi delle diverse genti; e perciò coloro, i quali vogliono introdurre licenziosamente nell'idioma nativo espressione e modi forestieri – implicate, non impiegato -- operano “contro ragione”,  e, mentre ambiscono di essere tenuti uomini liberi e filosofi, fanno mostra d'obbrobriosa ignoranza. Non si lascino dunque sopraffare i gio vanelli da quei beffardi filosofastri, che con trassegnano per derisione col nome di purista chi studia scrivere italianamente; ma alla co storo petulanza coll'autorità di CICERONE ri spondano arditamente che colui, il quale la patria favella vilipende e deforma, non solo non è oratore, non è poela, ma non è uomo (CICERONE, de orat.). Quarta e ultima, se le parole fossero sempre composte ugualmente, non sarebbero graziose a chi ascolla o legge; e perciò un altro elemento della eleganza si è la variet. Il discorso può ricevere varietà da sei luogh, che ad uno ad uno ver remo a dichiarare brevemente, seguitando Pallavicini. Accade tante volte di dover nominare replicatamente la cosa medesima, e ciò produce noia agli orecchi, i quali sopra tutti i sentimenti del corpo sono vaghi di varietà; onde per isfuggire la ripetizione delle voci sono molto giovevole il sinonimo, quando la piccola differenza, che è in essi, non tolga al discorso laproprietà necessaria; per non peccare contro la quale sarà mestieri aver considerazione, co me allrove si è detto, al vero intendimento de vocaboli. Se, a cagion d'esempio, dovendo si cambiare l’espressione “fanciullo”, si prendesse l’espressione “infante”, si osserverà che questa, venendo dal verbo fari, segna non parlante, e che perciò non può strettamente essere sempre sostituita a quella di “fanciullo”. Il secondo dai sei luogo della varietà sta nel ra presentare una cosa pe' suoi effetti congiunti, come, a cagion d'esempio, se poeticamente dicessimo; il sole velava i pesci, per dire era il fine dell'inverno: al germogliare delle piante, per dire al tornare della primavera. Con somma grazia e novità Aligheri rappresentò la sera pe' suoi effetti dicendo: Era già l'ora, che volge il desio a' naviganti, e inlenerisce il core lo di, che han detto a' dolci amici addio; E che lo nuovo peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano, Che par il giorno pianger, che si muore. Questo fonte di varietà è abbondantissimo, e possiamo vederne un esempio in Bernardo Tasso, che in cento modi segna il sorgere del giorno. Nel rappresentare le cose pe' suoi effetti porrai cura che questi non destino al cun pensiero sordido od abbietlo, e che nel le scritture famigliari la congiunzione loro coll'oggetto sia mollo nola, sicchè non paia puplo ricercata. Il terzo luogo dai sei modi sono le definizioni o epiteto o apposizione delle cose, o sia le brevi descrizioni loro, le quali si possono prendere invece delle cose stesse, o que ste indicare per alcuna loro speciale proprietà; come chi per nominare Giove dicesse il padre degli uomini e degli Dei, o per dire la fortuna, Colei, che a suo senno gi infimi innalza ed i sovrani deprime. Il quarto luogo dai sei modo si è l'uso promiscuo del signato attivo, medio, o passivo da un verbio Potrai dire: Raffaele colori questa tavola, ovvero, da Raffaele fu colorita questa tavola; e secon do che chiederà il bisogno, userai o questo o quello segno. Il quinto luogo dai sei luoghi è la qualita (categoria d’Aristotelel'uso negativo (o infinito – privazione) invece dell’affirmativo o positivo; come chi sosliluisse alla proposizione positiva o affirmative seguente, ma con signato negativo: Il sole si oscurò, quest' altra proposizione splicitamente negative, per mezzo dell’adverbo di negazione, “non”: Il sole non isplendette”. Il sesto luogo dai se luoghi e la metafora (you’re the cream in my coffee), per la quale si può maravigliosamente variare il discorso, ora volgendo in “senso” (segnato, strettamente) metaforico – Sensi non sunt multiplicanda praeter necessitatem – uso metaforico -- un concetto allre volle espresso con termini propri: ora usando una metafora tolta o dal genere o dalla specie o da cose animate o da cose inanimate: ora quelle, che si presentano ai sensi: ora le altre, che si riferiscono agli altri sentimenti del corpo. Ornamento, dal quale l'elocuzione riceve molta gravità, e la sentenza. La sentenza o dogma o assioma o principio o adagio o gnomico o proverbo (“Methinks the lady doth protest too much” what the eye no longer sees the heart no longer grieves for”) si è verità morale ed universale, segnata con la brevità, che all'intelletto sia lieve il comprenderla ed il ritenerla. Tali sono le seguenti. Ipsa quidem virlus sibimet pulcherri. ma ncrces. Quidquid erit, superanda omnis for tuna ferendo est. La mala ineple non ha mai allegrezza di pace. Proprio de'tiranni è il temere. La buona coscienza è sempre sicura. Avvegnachè la sentenze sia più accomodata a quella conversazione che tratta di materie gravi, nulladimeno possono adornare molte altre specie di componimenti, e perfino le lettere famigliari, se ivi con moderazione sieno adoperate. Dico che sieno adoperate con moderazione, perchè il soverchio uso delle sentenze, anche nelle materie più gravi, è indizio che lo scrittore vuol ostentare sapienza, e perciò il fa parere affettato. In cotal vizio cadde ro molli scrittori del secol nostro, i quali me ritamente furono tacciali di “filosofismo” di  Borsa, che in una sua dissertazione ra giopò del presente gusto degl'italiani. Scon venevolissimo è l'abuso e talvolta anche l'uso della sentenza pe' discorsi, che trattano di cose mediocri o umili. Ma che diremo poi росо senno di coloro, che guidano in teatro i servied altre persone rozze ed agresli a parlamentare ed a spular tondo, come se dal pergamo predicassero? Questo è modo tanto sconcio, che il volgo slesso ne rimane infastidito, on d'è qui da passare con silenzio. È da lodarsi segnatamente nelle opere morali o politiche l'elocuzione, che a quando a quando sia ornata, ma non tessuta di sentenze, la copia soverchia delle quali, stanca i lettori invece di sollevarli, come si può sperimentare leggendo le opere morali di Seneca. Lo scrittore dal quale più che da ogni altro si apprende a fare buon uso della sentenza, è Cicerone, nelle cui filosofia mai non pare che quelle sieno condotte nel discorso a pompa, ina sempre vi nascono naturalmenle per recar luce e diletto. Diciamo alcuna cosa anche del concetto, onde viene grazia o piacevolezza ai componimenti. Concetto propriamente si dice una certa proposizione, che per essere nuove ed espresso con brevi parole recano altrui diletto e maraviglia e scuoprono il sottile ingegno di chi le dice. Ve n'ha di due maniere. La prima è dei delti gravi, l'altra dei ridevoli, che con proprio nome si chiama una facezia. Gli uni e gli altri nascono da’ medesimi luo ghi, e differiscono, secondo Cicerone, solamente in questo: che i gravi si traggono da cose oneste; i ridevoli da cose deformi o alcun poco turpi: ma pare veramente che a far ri devole un dello, sia necessario, il più delle 1 volle, che esso comprenda in sè alcune idee discrepanti congiunte insieme di maniera, che la congiunzione loro ben si convenga con una terza idea. Ciò sia chiaro per un esempio. Un buon ingegno de' nostri tempi fcce incidere in rame la figura di un vecchio venerabile con lunga barba, vestito alla francese, ornato di frangie e di feltucce e tutto cascante di vezzi, e sotto vi pose queste parole. Traduzione d' Omero di M. C. Tultii ne fecero le risa grandi. Se il ridicolo di questa figura consistesse nel solo accoppiamento dell'imagine dell'uomo antico e grave con quella de' giovani leziosi, ci ſarebbe ridere anche l'imagine di una sirena, che è composta di due contrarie nature; lo che per verità non accade, ed accadrebbe solamente qualora si dicesse che la bella donna, che termina in pesce, figura delle folli poesie ricordate da Orazio nella Poetica. Pare dunque manifesto che il ridicolo di sì falta deformità si generi dalla convenienza che è tra esse e la cosa, cui si vogliono assomigliare. Per ciò s'intende quanto diriltamente Castiglione dichiari che si ride di quelle cose, che hanno in sè disconvenienza, e par che slieno male senza però slar male. Affinchè prima di tutto si vegga che da’ luoghi, donde si cava la grave sentenza, si possono ancora cavare i molli da ridere, re cherò l'esempio, che ne dà Castiglione. Lodando un uom liberale, che fa comuni cogli amici le cose proprie, si polrà dire, che ciò ch'egli ha, non è suo: il medesimo si può dire per biasimo di chi abbia rubato, o con male arti acquistato quello che tiene. Di un buon servo fedele si suol dire: non vi ha cosa che a lui sia chiusa e sigillata: e que sto similmente si dirà di un servo malvagio destro a rubare. Le maniere de concelli ingegnosi sono pres sochè infinile, e di moltissime ha ragionalo Cicerone nel terzo libro dell'Oratore, ma noi toccheremo qui solamenle alcune principali. Cicerone distingue primieramente le maniere graziose, che consistono nelle parole, da quelle che stanno nella cosa, o che si esprimono col parlare continuato. Egli dice che consistono nella cosa quelle (sieno gravi o piacevoli ), che mulale le parole non cessano di generare maraviglia o riso: tali sono le narrazioni verisimili, e fatte secondo il costume e le varie condizioni degli uomini, e di queste molte ve n'ha nel Decamerone di Boccaccio. Una seconda consiste nella imitazione de’ costumi altrui fatta per modo di parlare continuato, come quella che fece Crasso, il quale in una sua orazione contraffacendo un uom supplichevole con queste parole, per la tua nobiltà, per la tua famiglia, ne imitò cosi bene la voce e gli alti, che mosse la gente a ridere; e proseguendo, per le statue, distese il braccio, ed accompagnò la voce con geslo e con imitazione si naturale, che le risa scoppiarono maggiori. Queste sono le due maniere, che consistono nella cosa, e che si esprimono col parlar continuato. Quelle che maggiormente si attengono alla materia che qui si tratta sono le maniere di que'concetti, la grazia de quali sta nella parola. Recbiamone esempi. Alcuni molli graziosi si generano in virtù della metafora. Avendo Lodovico Sforza duca di Milano eletta per sua impresa una spazzetta, con che voleva segare se essere disposto a cacciare dall'Italia gli oltremontani, domanda alcuni ambasciatori fiorentini, che loro ne paresse. Quelli risposero. Bene ce ne pare, salvochè molle volle avviene che chi spazza tira la polvere sopra di sè. Più grazioso ė il motto, quando ad alcuno, che metaforicamente abbia parlato, si risponde cosa inaspettata continuando la metafora stessa. Tale si fu detto il Cosimo de' Medici, il quale a' Fiorentini ſuoruscili, che gli mandarono a dire che la gallina cova, rispose. Male potrà covare fuori del nido. Anche il paragonare cose vili e piccole a cose grandi è spesso cagione di ridere, come in questi versi del Berni: E prima, iodanzi tutto, è da sapere che l’orinale è a quel modo tondo, Acciocchè possa più cose tenere, E falto proprio come è falto il mondo. Dobbiamo in questa maniera della facezia guardarci dal fare sovvenire il compagno conversazionale di cose laide e stomachevoli, affiochè la piacevolezza non degeneri in buffoneria: lo che sovente accade a coloro, che non sono piacevoli per naturale disposizione. Molti molti ridevoli si formano per via di iperbole [“Every nice girl loves a sailor”] accrescendo o diminuendo alcuna cosa. Diminui ed accrebbe a un tempo le cose Cicerone parlando giocosamente di suo fratello, che essendo di piccola slatura aveva cinto il fianco di una spada' smisurata. Chi ha, disse, cosi legato mio fratello a quella spada? Dall’equivoco procede spesso i motti freddi ed insulsi, ma spesse volte ancora gli arguli. Argulo parmi il seguente in biasimo di una donna, che fosse di molli. Ella è donna d'assai: il qual molio potrebbe ancora essere usato per lodare alcuna femmina prudente e buona. Molla venustà è in que’ delli, che invece di esprimere due cose ne esprimono una sola, per la quale l'altra s'intende (IMPLICATURA, SOTTITESSO). Assai leggiadro è questo  in cui si favella di un'amazzone dormiente, recato ad un esempio da Demetrio Falereo: in terra aveva posto l'arco, piena era la faretr, e sotto il capo aveva lo scud: il cinto esse non isciolgono mai. Similmente è grazioso il nominare con buone parole le cose non buone, come fece lo Scipione, secondo che narra M. Tullio, con quel centurione, che non si era trovato al conflitto di Paolo Emilio contro Annibale. Il centurione scusasi di sua negligenza col dire. Io sono rimasto agli alloggiamenti per farli sicuri; perchè, o Scipione, vuoi dunque tormi la civiltà? Cui rispose Scipione. Perchè non amo gl;uomini troppo diligenti. Sono assai argute quelle risposte, per le quali si DEDUCE da una medesima cosa il contrario di quello che altri deduceva. Appio Claudio dice a Scipione. Lo maraviglio che un uomo ďalto affare, quale tu sei, ignori il nome di tante persone. Non maravigliare, rispose Scipione, perocchè io non sono mai 69 blato sollecito d’imparare a conoscer molti, ma a far si, che molti conoscano me. Per egual modo Parnone rispose a colui che chiamava sapientissimo il tempo: Di pari dunque potrai chiamarlo “ignorantissimo”, perchè col tempo tutte le cose si dimenticano. Il concetto della risposta conversazionale può essere grazioso solamente perchè racchiude alcun insegnamento non aspettato da colui che fa la domanda. Fu chiesto ad uno spartano, perchè si facesse crescere la barba, e quegli rispose. Acciocchè mirando in essa i peli canuli io non faccia cosa, che all età mia disconvenga. Hauno grazia similmente alcuni detti, perchè mollo convengono al costume della persona, alla quale si attribuiscono. Essendo un colal uomo beone caduto inſermo, era assai mole stalo dalla sete. I medici a piè del suo letto parlavano tra loro del modo di trargli quella molestia, quando l'infermo disse: Ponsate di grazia, o signori, a togliermi di dosso la febbre, e del cacciar via la sete lasciate la briga a me solo. loducono a ridere anche que’ detti, che procedono da sciocchezza o goffezz, finta o vera che ella sia. Tali sono le due seguenti terzine di Berni: lo ho sentito dir che Mecenale Diede un fanciullo a VIRGILIO Marone, che per martel voleva farsi frate; E questo fece per compassione, ch'egli ebbe di quel povero cristiano, Che non si desse alla disperazione. si può similmente cavare il ridicolo dalle parole composte di nuov, che esprimono al cuna deformità del corpo, o dell'animo, come furono queste usate dal Boccaccio: picchia. pello; madonna poco.fila; lava-ceci; bacia santi. Si falte maniere, che direi quasi deſormità della lingua, poichè dall'uso si allonta pano, essendo convenienti alla cosa segnata stanno bene, e perciò inducono a ridere e han lode di graziose; ma se poi in forza dell'uso divengono proprie, perdono, a somiglianza delle vecchie metafore, alquanto della grazia primiera. Osserva Demetrio Falereo che la grazia del detto proviene alcuna volla dall'ordine solamente, quando una cosa posta nel fine produce un effetto, che posta nel mezzo o nel principio nol produrrebbe, o il produrrebbe minore. Egli reca l'esempio seguente di Senofoole, che, parlando dei doni dali da Ciro a certo Siennesi, disse. Gli donò un cavallo, una vesle, una collana, e che i suoi campi non fossero guasti. L'ullimo dono è quello dove sta la grazia, parendo cosa nuova, che si donasse a siennesi ciò che egli possedeva: se quel dono fosse stalo collocato prima degli altri non avrebbe avuto grazia alcuna. Bello pel medesimo artificio ci pare un detto di Benedetto XIV. Accomiatandosi da lui due personaggi di religione luterana, egli avvisa di benedirli e di ammonirli. Era di vero assai agevol cosa il fare che egli no ricevessero con grato animo quell'atto di amore paterno: ma il venerabile vecchio ollenne il buon effetto parlando così. Figliuoli, la benedizio ne de vecchi è acceita a tutte le genti; il Signore v'illumini. Ingegnosissimo si è que sto detto per l'ordine suo maraviglioso. Colla prima affeltuosa parola, “Figliuolo,” il papa procacciasi la benevolenza del compagno conversazionale. Nella sentenza, la benedizione de’vecchi è accetta a tulle le genti, chiude la prova della con venevolezza di ciò ch'egli vuol fare. In quel l'io io vi benedico, trae la conseguenza delle promesse. Nella precazione poi ripiglia la dignità di pontefice, che accortamente aveva quasi deposta da principio e solto cortesi pa role nasconde il documento, che a lui si ad dice di porgere a chi è fuori della chiesa romana. Questo ci basti d'aver ragionato pei delli graziosi e piacevol, chè il voler parlare di tulle le maniere loro o semplici o miste sarebbe officio di chi volesse trattare solamente di questa materia: e diciamo con maggior brevità de’ concetli sublimi. Alcuni haimo chiamato sublime qualsivoglia concetto, coi nulla manchi di grazia e di perfezione; ina qui si vuol prendere la parola nel segnato, in che viene usata da ' più de' moderni reltorici e perciò così detiniamo i concetto sublime. Concetto sublime si dicono quelli, che rappresentano con brevi parole l'idea di alcuna potenza o forza straordinaria, per la quale chi ode resla compreso di alla maraviglia. Tali sono i seguenti. Giove nel primo libro dell'Iliade promette a Teli di vendicare Achill, e dopo il conforto delle sue parole i neri Sopraccigli inchinò: sull immortale Capo del sire le divine chiome Ondeggiaro, e tremonne il vasto Olimpo. Questo concetto, il quale ci fa maravigliare della potenza di Giove, cesserebbe di essere sublime se con lunghezza di parole fosse segnato: perchè quella lunghezza sarebbe contraria alla rapidità dell'alto divino e farebbe che il pensiero del poeta non venisse improvviso alla mente di nostro compagno conversazionale, che è quanto dire non generasse maraviglia. Sublime è ancora quel luogo di T. LIVIO nella allocuzione di Annibale a Scipione. Ego Annibal pelo pacem, poichè la parola Annibal reca al pensiero la virtù, le imprese, la fero cia di quel capitano. Medesigiamente si fa maniſesta una straordinaria fortezza di animo ne'due luoghi seguenti. Seneca, nella Medea, fa dire alla nudrice: Abiere Colchi: conjugis nulla est fides, Nihilque superest opibus e tantis tibi. Medea risponde: Medea superesto Corneille, ad imitazione di Senec: Nerine: Dans un si grand revers que vous reste- t- il? Med. Moi. In luogo del nome di Medea il poeta francese pose il pronone, ed ottenne effetto maraviglioso e colla brevità e con quella cotal pienezza di suono, che è nella voce “moi”. Il poeta latino col nome di Medea desta nel compagno conversazionale la memoria della potenza, della sapienza e della magnanimità di quella maga. Divisata così la natura de' motti graziosi e piacevoli e de' sublimi, e restando a dire al cuna cosa dell'uso, che se ne può fare, ripe teremo ciò, che già detto abbiamo delle sentenze, cioè che lo scrittore si guardi dal fare troppo uso de' concetti ingegnosi e graziosi e de' sublimi, poichè non è cosa tanto contraria alla grazia e alla grandezza, quanto l'artificio manifesto e l'affettazione. Le grazie si dipinsero ignude appunto per insegnare che elle sono nemiche di tutto che non è ingenuo e naturale. La grandezza similmente non va mai disgiunta dalla semplicità, e piccole appaiono sempre quelle cose, che sono piene d'ornamenti; imperciocchè la mente soffermandosi in ciascun d'essi riceve molle e divise imaginet le in luogo di quella imagine sola, che ci rappresenta la cosa continuata ed una. Male adoperano coloro che non avendo rispetto alla materia, di che favellano, nè alle persone ne alla modestia nè alla gravità conveniente allo scrittore, colgono tutte le occasioni, che loro porgono o le cose o le parole, per trar materia di motleggiare; perocchè invece di mo strare acutezza d'ingegno appaiono loquaci ed insulsi. Che dovrà dirsi poi di que, che abusano dell'ingegno per empiere le scritture di freddi e falsi concelti, di riboboli, di bislicci e d'indovinelli? di que', che tengono per finis sime arguzie le allusioni delle parole, che erano la delizia del Marino e de' suoi seguaci? Diremo che nali non sono per ricreare gli ani mi e sollevarli dalla fatica, e per indur ſesta e riso, ma per noia, fastidio e sfinimento di chi è costretto di udirli. Se il discorso si fa strada all’animo per gli orecchi, è necessario che egli sia accompagnato dall' armonia, della quale niuna cosa ha maggior forza negli uomini. L'armonia ci dispone al pianto e all'ira, e ci rallegra e ci placa; e lulle le genti, avvegnachè barbare, sono tocche dalla dolcezza di lei; laonde gran de mancamento sarebbe, se lo scrittore ad ac crescere efficacia alle sue parole non se ne valesse. Dalla greca voce d.gpótely (armosin), che segna connettere, è derivata la voce “armonia”. I maestri di musica insegnano, che essa consiste nell'accordo di più voci sonanti nel medesimo punto; ma coloro, che parlano del l'arte retorica e della poelica, presero questa parola quasi nel significato, che i maestri di musica prendono quella di melodia, come si vede aver fatto Aristotele, che usò in questa significazione ora la voce melos, ora la voce armonia. La melodia consiste nella altenenza, che hanno rispettivamente i gradi successivi di un suono nel salire dal grave all'acut: e noi direino che rispetto al discorso l'armo nia sta nell'altenenze delle lettere o delle sil labe o delle parole, che si succedono con quel la certa legge che si affà alla natura dell'or gano dell'udito. L'armonia, di che parliamo, è di due maniere, semplice o imitative. L’una ba per fine soltanto la dileltazio ne degli orecchi, l'altra, oltre la dilettazione degli orecchi, la imitazione del suono e dei movimenti delle cose inanimate e delle animate, e quella degli umani affetti: colle quali imitazioni inaggiormente ella si rende accetta all'intelletto e gli animi sigrioreggia. La dilettazione degli orecchi si ottiene con parole costrutte e disposte in modo analogo, come è dello, alla natura dell'organo del l'udito e fuggendo tutte le voci e tutti gli accozzamenli di esse, che producono sensazio ne spiacevole. L'imitazione poi si fa adope. rando e componendo suoni o gravi o acuti o inolli o robusti, secondo che meglio si affanno a ciò che si vuole imitare. Diciamo alcuna cosa più largamente e dell' una e dell'altra armonia, l’armonia semplice e l’armonia composita o imitativa. Le parole, le quali, come tutti sanno, si compongono di vocali e di consonanti, sono più o meno armoniche, secondo che le lettere delle due specie suddelte si trovano disposte con certa proporzione. Le vocali fanno dolce il vocabolo le consonanti robusto. Ma le troppe vocali, che si succedono, producono quel suono spiacevole, che si dice iato; le troppe consonanti fanno le parole aspre e diſficili a pronunciare: così l'incontro delle sillabe somiglianti produce la cacofonia, Circa le parole non molto armoniche, ma approvate dall' uso, diremo chę elle non si banno a rigettare; ma si deve aver cura di collocarle in guisa, che il loro suono disarmonico serva al l'armonia di tutto il discorso. Anzi sono da commendare quelle lingue che ricche si trovano di vocaboli diversi di suono, i quali, giunti insieme con bell'arte, sogliono rendere maravigliosa l'armonia del conversare. Sebbene, circa l'arte del collocare le parole con armonia, non possa darsi maestro infuori dell' orecchio avvezzo alla lettura de' classici scrittori, pure non sarà del tutto vano il dire più particolarmente alcuna cosa delle parti, onde l'armonia si coropone. E prima di tutto è a sapere che l’altenenza tra le lettere, le sillabe e le parole, dalle quali risulta l'armonia, sono di due ragioni: cioè altenenze di tempo, poichè si pronunciano o in tempi uguali o disuguali; e attenenza di suono, poichè ogni sillaba differisce dall'altra per aculezza e gravità e per più o meno di dolcezza o di asprezza. Diciamo prima delle attenenze di tempo. Pie chiamamo I LATINI quella certa quantità di sillabe, che pronunciandosi in tempi eguali, si potevano misurare colla battuta del piede nel modo che oggi ancora fanno i suonatori. E, poichè si pronunciavano più o meno sillabe (attesa la varia conformazione delle parole) in ispazi uguali di tempo, avvenne che lunghe si dissero quelle che occupavano la maggior parte del tempo misurato dalla battuta, e brevi le altre, che occupavano la parte minore. “Coelum”, per esempio, si compone di due sillabe e si pronuncia in ugual tempo che ful-mi-na, che è di tre: perciò coelum è un piede di due lunghe, e ſulmina è un pie de di una lunga e di due brevi. I piedi sono di molte specie, e ciascuna ha il suo nome. Ve n'ha de' semplici di due sillabe, che sono o due brevi o due lunghe, una breve e una lunga, o una lunga e una breve: ve n'ha di tre sillabe, che per la varia combinazione delle brevi e delle lunghe risultano di otto specie: ve n'ha finalmente più di cento specie dei composti, cioè formali dall' unione di due piedi semplici. Dall'indelernipala quantità di piedi disposti con legge analoga alla natura dell'organo del l'udito umano, la qual legge si sente nell'anima e definire non si può, nasce il numero; e similmeple dall ' unione determinata di varii piedi, i versi, che sono molle maniere, se condo la qualità de' piedi, onde sono composti. Dalla varia qualità e quantità de’ versi nascono poi le differenti specie del metro. A rendere armonioso il verso si congiunge al pu nero il suono, che, siccome abbiamo accennato, si genera dalla proporzione, con che sono di sposte le consonanti e le vocali. Da ciò nasce che, sebbene talvolta i versi abbiano il medesimo número, non hanno il medesimo suono, ma variano nella loro armonia maravigliosamente: per la qual cosa interviene che dalla unione di molti versi che abbiano il medesimo numero, come a cagion d'esempio, di esametri, si possono generare molle ed assai varie armo pie: la diversa upione di queste armonie di cesi, “ritmo”. Come nella poesia dal ipovimento di molti versi upili nasce il ritmo poetico, così da quello di minuti membri d' indeterminala mi sura nasce quello della prosa, il quale pure è di varie sorla, siccome avremo occasione di osservare in appresso. Ora veniamo a dire del l'armonia della favella italiana. Gl’italiani non hanno determinata la quantità nelle sillabe, come si vede aver fatto i latini, per la qual cosa nemmeno i piedi hanno potuto determinare. Alcuni letterali del sesto decimo secolo, fra' quali il Caro, tentarono di rinnovare fra noi i versi esametri ed i pentametri, ma quanto poco (per la in sufficienza della lingua nostra) al buon volere rispondesse l'effett, apparirà dai seguenti versi di Claudio Tolomei, i quali, se non sono molto aiutati dall'arte del recitante, non possono ricevere soavità. Ecco il chiaro rio, pien eccolo d'acque soavi, Ecco di verdi erbe carca la terra ride. Scacciano gli alni i soli co' le frondi e co'ra (mi coprendo; Spiraci con dolce fato auretta vaga. A noi servono invece di piedi le sillabe é gli accenti, e quindi è che da un determinato numero di sillabe e da una determinata positura di accenti nasce il numero, onde si generano molte specie di versi. Omettendo le di spute de'rettorici e le loro opinioni circa questa materia, faremo qui alcun cenno solamente rispetto agli accenti. Le parole sono di una o più sillabe: se di una soltanto, l'accento è su quella, come in tu, me, no, si: se di più o egli è nell'ullima, come in mori, o nella pri 79 ma, come in tempo, o nella penullima come in andarono, o prima di essa, come in concedea glisi. L’indicati accento si dice “acuto”, perchè alzano la pronuncia: dove questi non sono, si trova il “grave”, che l'abbassano. Gli acuto e il grave  alzando ed abbassando il discorso, por tano seco certa proporzione di tempo, e perciò tengono fra noi il luogo de' piedi Jalini, e formano varie specie di versi, che, secondo, la quantità delle sillabe, si dicono o pentasillabi o senarii o seltenarii o ottonarii o novenarii o decasillabi o endecasillabi. Dalle varie unioni di questi nascono i diversi metri. E il ritmo nasce nel modo, che si è detto parlando della lingua latina, e circa il verso e circa la prosa. Non si contenta l'animo upano dell'armonia, onde è ricreato solamente l'orecchio, ma gran demente si piace di que' suoni, che più vivamenle ci pougono innanzi il segnato; e questo specialmente egli ricerca nella poesia, la quale o avendo, o mostrando di avere per suo principal fine il diletto, dee apparire più d'ogni altro discorso ordinala, e splendida: sarà quindi utile cosa l'investigare quale sia la virtù imitativa delle parole. Questa e l’armonia imitativa. Dalla mescolanza delle lettere liquide e delle vocali risulta infinita varietà di vocaboli dell’imitazione delle grida, de’suoni, de’romori e de’movimenti, e chi, porrà mente alla nostra lingua troverà, secondo che osserva BEMPO, voci sciolle, languide, dense, aride, morbide, riserrate, tarde, mutole, rolle, impedite, scorrevoli e strepitanti. Perciò è che variando la composizione di questi suoni si potranno ordinare.e versi e ritmi, che ogni grido o romore o movimento vagliano ad imi. tare. Jofinili esempi bellissimi di si ſalta imi. tazione sono nella Divina Commedia: ma basti qui la sola descrizione dello strepito, che ALIGHIERI udi nell'Inferno: Quivi' sospiri, pianti, ed alti guai risonavan per l'äer senza stelle, Perch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d'ira, voci alte ' e fioche, e suon di man con elle facevano un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell'aria senza tempo tinta, Come l'arena, quando il turbo spira. Del medesimo genere sono i seguenti versi del Poliziano. Di stormir, d'abbaiar cresce il romore: Di fischi e bussi tutto il bosco suon: Del rimbombar de' corni il ciel rintrona. Con tal romor, qualor l'äer discorda, Di Giove il foco d'alta nube piomba: Con tal tumulto, onde la gente assorda, dall'alte cataratte il nil rimbomba. Con tal orror del latin sangue ingorda Sonò Megera la tartarea tromba.Il Parioi ci fece sentir il guaire di una ca goolina, e il risponder dell' eco in questi bellissimi vers. Aita, aita, Parea dicesse; e dall'arcate volte a lei l'impielosita eco rispose. Siccome il succedersi delle parole ora va lento or celere, è manifesto che questo, che si può chiamare movimento del discorso, ba somiglianza coi movimenti delle cose, e che per ciò aver dee virtù d'imitare le azioni loro. Recherò qui per maniera d'esempio alcuni luo ghi cavali da' poeti. Odesi il furore e l'impeto del vento in questi versi di Dante: Non altrimenti fatto che d'un vento Impetüoso per gli avversi ardori, Che fier la selva senza alcuu rallento, E i rami schianta, abbatte, e porta i fiori; Dinanzi polveroso va superbo, E fa fuggir le belve ed i pastori. Mirabilmente Virgilio descrisse il tumullo dei venti all'uscire della grotta di Eolo: Qua data porta ruunt et terras turbine per flant. Incubuere mari, totumque a sedibus imis Una Eurusque, Notusque ruunt, creber que procellis Africus, et vaslos volvunt ad sidera flu clus. Insequitur clamorque virum, stridorque rudentum. Fra i versi che esprimono la caduta de corpi sono bellissimi i seguenti: E caddi come corpo morto cade; il qual verso è cadente, come il corpo che cade. Insequitur praeruplus aquae mons. In queste parole di Virgilio si sente il piom bare dell'acqua precipitosa: ed eccellentemente fece sentire il medesimo suono il Caro: E d' acque un monte intanto Venne come dal cielo a cader giù. In virtù di quest'altro verso dello stesso Caro, una nave sparisce in un subito, e si sente il romor dell'acqua che l'inghiotte: Calossi gorgogliando e s'aſfondò. Lo stesso con una sola parola lunga e scor revole dipinse il procedere del carro di Net tuno: Poscia sovra il suo carro d'ogni intorno Scorrendo lievemente, ovunque apparve Agguagliò il mare e lo ripose in calma. Nelle seguenti parole di Virgilio quasi sen tiamo a stramazzare il bue; Procumbit humi bos. Dell’armonia che imita gli affetti col suono, Onde conoscere per qual modo gli affelli vengano imitati dall'armonia, uopo è d'inve sligare quali altenenze essi abbiano col suono e quali col namero. In quanto alle altenenze si ponga mente che ad ogni sorta di affetli risponde un particolar molo del l'organo vocale, per cui si formano voci di verse secondo la diversità de' medesimi affetli; all'allegrezza risponde il riso, alla mestizia il pianto; ed il riso ed il pianto si manifestano con suono al tutto diverso: così presso tutte le geoli la subita maraviglia è significata dal l'esclamazione ah, ovvero oh; il lamento dall' eh, o dall’ahi; e la paura dall'uh. Que ste voci, che da principio sono elfelti naturali delle aſſezioni dell'animo, diventano poi, merce dell'esperienza, segni di quelle: per la qual cosa interviene che i vocaboli composti di ma, niera, che facciano mollo sentire il suono di quelle leltere, che alle predette voci primitive si assomigliano, avranno virtù d'imitare o questa o quella affezione. Le parole, che s'in, nalzano per la a o per l'o, che sono lettere di largo suono, saranno acconce ad esprimere l'allegrezza e gli affetti nobili ed alli: quelle, che declinano per la é e per l'i, che sono lettere di molle suono, saranno convenienti alla malinconia ed agli umili e miti affetti. [ Omnis enim motus animi suum quemdam a natura habet vullum, et sonum et gesium (CICERONE, de Orat. ). quelle, che si abbassano nell' u potranno e sprimere le cose paurose e le perturbazioni dell'animo, che ne procedono. Questa particolare virtù delle parole viene poi rafforzata dalle attenenze, che le passioni hanno col numero. Volgendo la considerazione alle varie passioni, si potrà conoscere che l' uomo'nell'ira è fatto impetuoso, frettoloso nell'allegrezza, lento nella mestizia, svarialo nell' amore, immobile nella paura. Quindi av. viene che la musica non solamente si giova delle note gravi o delle acute, ma delle rapi de e delle tarde modulazioni a risvegliare ogni sorta d'affetto. A somiglianza di quest' arte maravigliosa, anche la naturale favella, il suono ed il numero adoperando, innalza o abbassa gli accenli, rallenta od accelera il corso delle parole, secondo la natura degli affetti, che di esprimere intende. Con quest' arte medesima l'accorto scrittore compone i ritmi diversi secondo la tenuità o la gravità della materia, e secondo le qualità della persona che parla. Ma di questo avremo altrove occasione di favellare. Ora in confer. mazione di quanto abbiamo detto intorno gli affetti, recheremo alcuni esempi. Come la lettera a innalzi il verso e lieto il faccia, si può conoscere da quel solo verso del PETRARCA: Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono; il qual verso sarebbe rimesso se dicesse: O voi, che udite in dolci rime il suono; sostituendo 1'i alla a. Veggasi come Dante seppe significare uno stesso concetto con due diverse armonie, che rispondono a due diversi affelti. Il conte Ugo lino sdegnalo, e Francesca d' Arimino dolente dicono all’ALIGHIERIdi esser presti a rispon dere alla sua domanda. Ma lo sdegnato dice con suono aspro e terribile: Parlare e lagrimar vedrai insieme; e quella mesta con dolcissimo e tenue suono: Farò come colui che piange e dice. Maravigliosamente esprime Dante con voci aspre lo sdegno: E disse, taci, maladelto lupo, Consuma dentro le con la tua rabbia. La velocità de' pensieri, che procedono dal l'aſſello, apparisce in questo esempio dello stesso poeta: Dunque che è, perchè perchè ristai? Perchè tanta viltà nel core allelte? Perchè ardire e franchezza non bai? Un verso, che esprime luogo pauroso e cupo, si è questo: 10 venni in loco d'ogni luce mulo. Dove si vede che se Dante, in vece di muto, avesse delto privo, il verso non avrebbe messo nell'animo quel sentimento d'orrore. La e, che è lettera di suono lento, basso ed oscuro, rende sommamente imitativi i se gucnti versi: Buio d'inferno e di notte privata D'ogni pianeta solto pover cielo Quant' esser può di nuvol tenebrata. In virtù di somiglianli armonie producono gli scriltori que' maravigliosi effetti, che la più parte degli uomini sentono nell'animo, ene ignorano il magistero. Di queslo cercai mani. festare la natura, non già perchè io pensi che colui che scrive debba avere di continuo alle mani la regola; chè anzi ho sempre creduto la dolcezza e proprietà del suono, al pari d'ogni allra vaghezza poetica ed oratoria, nascere spontaneamente; ma questo volli fare, perchè stimai che l'investigar le occulte ragioni del. l'arte aiuti l ' intelletto a dirittamente giudi carne, e quindi a formare quell'interior senso si necessario a comporre lodevolmente, e quel l'abito, che prendono gli orecchi alla lettura de'ben giudicati esemplari. Nulladimeno per compiacere agli orecchi non si vuol mai turbare quell'ordine delle parole, in virtù del quale diventa chiara l'elocuzione. Se per esprimere qualsisia o movimento o suono od affello coll'armonia, o per formare un pe riodo numeroso e grave ci faremo oscuri, nes suna lode al certo ce ne verrà. Nè solamente dobbiam sempre conciliare l'ordine domandato dagli orecchi con l'ordine sopraddello, ma spesso ancora con quello, che rende più evi. denti o più efficaci i concetti, del quale ora ci rimane a parlare, siccome di sopra abbiamo promesso. Parliemo della collocazione dell’espressione, per la quale si rende ‘efficace’ la mozzione conversazionale. È manifesto che in ciascun periodo le pa role o le proposizioni si possono, senza to gliere la chiarezza, alcuna volta posporre o anteporre l'una all'altra in più maniere; ma è da por mente che, fra le molte possibili permutazioni, poche sono quelle che meritino di essere lodate, e che spesso una solamente si è l'ottima. Ho udito dire da molti che il più delle volte l'ordine migliore delle parole nella proposizione si è l'ordine diretto, e que sto in verità nell'italiana favella è spesso da preferirsi all'inverso, segnatamente nei die scorsi didascalici o in quelli ove non si ma nifesta alcun affetto; ma certo egli è che l'or. dine diretto (prescindendo dai mancamenti che aver può rispello all'armonia) è alcuna volla degno di biasimo, siccome freddo ed inefficace. A quale legge dunque dovremo ubbidire, ol. tre a quella già stabilita circa la chiarezza e l'armonia, nel collocare le parole e le propo. sizioni a fine di rendere più vive le descri zioni e più efficace l'espressione degli affetti? La filosofia ci mostra che le idee tornano alla mente associate in quell' ordine, che vennero all' anima per l'impressione delle cose ester 88ne, o in quello, che si genera in virtù della forza particolare di ciascuna idea, essendo che le più vivaci, o quelle che maggiormente si attengono a' nostri bisogni, si risvegliano pri ma dell'altre; e questo mostrandoci, ella ne insegna che, se vogliamo fedelmente ritrarre nelle menli altrui cio che abbiamo veduto o imaginiamo di vedere, v ciò, che sentiamo, ci è duopo di formare la catena delle parole se. condo quella delle nostre idee, per quanto il comporta il genio della lingua. Questa verità verremo ora con alcuni esempi mostrando, Si osservi primieramente nel seguente esem pio, tolto dall'Ariosto, come nella descrizione delle cose, che non sono in moto, sieno poste innanzi all'animo dell'ascoltalore quelle idee, che prima farebbero impressione ne' sensi del riguardante, e poscia succedano a mano a mano le altre secondo loro qualità e silo: La stanza quadra e spazïosa pare Una devola e venerabil chiesa, Che su colonne alabastrine e rare Con bella architellura era sospesa. Sorgea nel mezzo un ben locato altare, Che avea d'innanzi una lampada accesa, E quella di splendente e chiaro ſoco Rendea gran lume all'uno e all'altro loco. La prima impressione, che riceverebbero gli occhi di chi mirasse un somigliante luogo, sa rebbe certamente la forma e l'ampiezza di esso, e tosto occorrerebbe alla ' mente la cosa alla quale somiglia, cioè la devota e venerabil chiesa: indi l'allenzione del riguardante si indirizzerebbe alle parti del luogo più appari scenti, le colonne alabastrine e rare: queste chiamano il pensiere a fermarsi alcun poco sulle qualità dell'architellura, indi alle parli. più minute, cioè all'altare, alla lampada, alla luce, che si spande d'intorno. Quanto giovi disporre le parole nell'ordine, in che le idee sono naturalmente impresse nei sensi dalle successive modificazioni delle ester ne cose, si può conoscere da questo esempio di Virgilio, il quale, volendo rappresentare all'imaginazione nostra il greco Sinone trallo al cospetto di Priamo, si esprime cosi: Namque ut conspectu in medio turbatus, inermis Constitit, atque oculis Phrygia agmina circumspexit. La collocazione di queste parole è secondo l' ordine, nel quale avrebbero proceduto le sensazioni di colui, che avesse veduto cogli occhi propri sinone, e che l'imagine di quella vista si riducesse a memoria. La prima cosa, che gli verrebbe all'animo, sarebbe il luogo ov'era condotto Sipone, conspectu in medio; indi la persona di lui colle sue più distinte qualità, turbatus, inermis; poi l'azione, constitit; poi la parte del' vollo, che subito chiama a sè l'altenzione del riguardante, co Die quella, che è indizio dello stato dell'ani ma, oculis; poi le cose, sopra le quali gli occhi si volsero, Phrygia agmina; infine l'ultima e lenla azione degli occhi dipinta colla tarda parola circumspesil. go Un altro esempio dello stesso VIRGILIO dimo. slrerà come sieno poste nel proprio luogo pro posizioni e parole. Ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alla (Horresco referens ) immensis orbibus (angues Incumbunt pelago, pariterque ad litora tendunt: Pectora quorum inter fluctus arrecta, jubacque Sanguineae exsuperant undas: pars cae lera pontum Pone legit, sinualque immensa volumine lerga. Fit Sonitus, spumante salo, jamque arva tenebant; Ardentesque oculos suffecti sanguine et igni, Sibila lambebant linguis vibrantibus ora. و Colui che fosse presente al descritto caso, osserverebbe primamente di lontano due cose indistinte venir del luogo che gli fosse al co spetto, gemini a Tenedo; indi le acque per le quali nuotassero, tranquilla per alta; al l'avvicinarsi di quelle due indistinte cose, egli comiocerebbe a distinguere il loro divincolare; poi ecco che le due cose, che da prima indi stinte si mostravano, si vedrebbe essere due serpenti, angues, i quali più s'accostano e più li vedi, e più discerni l'azione loro; prima del gittarsi sul mare, poi del girarsi al lido, incumbunt pelago, pariterque ad litora lendunt; ed a mano a mano più visibili la. cendosi le qualità de' serpenti, si vedrebbero i pelti erti sui flutti ed alte le creste sangui. gne, e il rimanente de'corpi con grandi volute nuolare, pectora quorum ec. Finalmente udi rebbe il suono dell' acque, e ne vedrebbe le spume. Pervenuti al lido i serpenli, discerne rebbe i loro occhi ardenli e sanguigni, ne ascollerebbe i fischi, e vedrebbe a vibrare le lingue, fit sonitus ec. Per l'addotto esempio maniſestamente si vede che nel collocare le parole secondo la catena di quelle sole idee, che verrebbero al. l'animo di chi il descritto caso avesse veduto, sta l'arte di rendere evidenti le descrizioni: di qualità che all'uditore sia avviso non di udir raccontare ma di vedere cogli occhi pro pri. Nel rappresentare colle parole le sole idee che vengono naturalmente all'animo di chi mira le cose, e di chi è mosso dagli affetti, consiste l'arte del particolareggiare: chi tra passasse Test limite cadrebbe nella prolissi tà, e nella minutezza, la quale rende stucche voli que' poeti che eccessivamente particola reggiando si pensano di produrre l'evidenza. Siccome poi le cose hanno più o meno di forza sull'animo nostro a misura che più o meno vagliano a concitare l'amore o l'odio, o a mettere timore; così interviene talvolta, che esse al tornar che fanno alla mente tengono quell'ordine, che è secondo i gradi della ri. spettiva loro forza. Perciò è che qualvolta le idee in virtù delle parole sieno ordinate con formemente a siffatta legge, il discorso è caldo e passionato; e freddo e di nessun efletto se l'ordine delle parole discorda da quello delle idee. Nel libro IX dell'ENEIDE veggendo Niso l'amico EURIALO già presso ad esser morto dai Rutuli, cosi esclama: Me me (adsum qui feci), in me conver: tite ferrum, O Rutuli, mea fraus onnis: nihil iste nec, ausus, Nec potuit: coelum hoc, et conscia si dera testor. Volendo il poeta esprimere le veemenza della passione di NISO, soppresse il verbo interficile, e pose innanzi alle altre la voce me quarto caso, poichè la prima idea, che viene all'animo del giovanetlo, si è quella della propria persona, che egli vuole sacrificare per l'amico suo; poi vengono le altre parole ordinata Diente seguitando la della legge. Similipente PETRARCA: E i cor, che indura e serra Marle superbo e fero, Apri tu, padre, inlenerisci e spoda. Se invece egli avesse dello: Apri tu, padre, intenerisci e snoda I cor, che indura e serra Marte superbo e ſero, l'elocuzione sarebbe riuscita fredda, perciocchè la prima imagine che si presenta al commosso animo del poeta, sono i cuori, i quali egli con quelle prime parole quasi pone innanzi a Dio, affinchè si piaccia d'intenerirli. Accade alcuna volta che lo scrittore vuole accrescere vigore alla propria sentenza, e in questo caso non dee disporre le sue parole a modo, che all'uditore paia di aver inteso tutto al prinio detto, ma far sì, che le idee vengano all' animo di lui crescendo gradatamente, come nel seguente esempio: Tu se' buono, santo, divino. E in quest'altro del Boccaccio: Ri. prenderannomi, morderannomi, lacereran nomi costoro. Similmente metterà bene il collocare l'ay verbio dopo il verbo e l'addiettivo dopo il sustantivo, qualvolla sieno posti nel discorso alfine di accrescergli vigore. Perciò è che me. glio si dirà: io ti amerò sempre, che io sempre ti amerò: è facile il sentire come questa seconda collocazione riesca fredda. Molli preclari ingegni, e Ira questi il Caro, hanno biasimato il Boccaccio, perchè troppo frequentemente pone il verbo alla fine del pe riodo; e per verità l'hanno biasimato a ragio ne; perchè non solo con ciò si toglie al di. scorso la varietà, ma anche perchè il più delle volle si viene a turbare la naturale associa zione delle idee. Alla quale associazione se porrà mente lo scrittore troverà sempre molivo onde approvare o disapprovare l'ordine che egli avrà posto nelle sue parole. Lunga opera sarebbe il trattare qui minutamente questa materia e il prescrivere le regole applicabili a tutti i casi particolari; queste si possono age volmente dedurre dalla regola generale, che abbiamo assegnata, e perciò stimiamo che qui 94 basti fare qualche altra osservazione intorno ad alcuni luoghi, ne'quali il verbo è posto in ultimo. Avendo il principe Tancredi, presso il Boccaccio, rimproverato Ghismonda di avere eletto per suo amatore Guiscardo di nazione vile, e non uomo dicevole alla nobiltà di lei, così ella, rinfacciandogli il fatto rimprovero, gli dice: in che non taccorgi che non il mio pec cato, ma quello della fortuna riprendi. Qui chiaro si vede che se Ghismonda avesse dello: non taccorgi che non riprendi il mio pec cato, ma quello della fortuna, avrebbe par. lalo freddamente. Il figliuolo di Perolla, in  LIVIO, sdegnato che il padre suo gli abbia inpedito di uccidere Annibale, si volge alla patria dicendo: O PATRIA FERRVM QVO PRO TE ARMATVS HANC ARCEM DEFENDERE COLEBAM HODIE MINIME PARCENS QUANDO PATER EXTORQVE ACCIPE. Ne'due citati luoghi son poste innanzi le idee, che prima si presentano all'animo passionato di colui che favella, e in ullimo è il verbo, che apporta luce alla MENTE SOSPESA dell'ascoltatore. Se T. LIVIO avesse detto: O Patrin, accipe ferrum ec., oltrechè avrebbe parlalo fuori del modo naturale di colui che ha l'animo commosso, avrebbe ancora mancato di quell'arte, che l'attenzione altrui si procaccia: imperciocchè qualvolta egli ci porge innanzi il ferro, col quale il giovane vuole difendere ostinatamente la rocca, subito la mente sta attendendo impazientemente che cosa esser debba di quel ferro; e, poiché ode la risoluzione di esso giovane, resla preso da subita maraviglia e ne riceve diletto. Nel collocare le parole secondo la catena delle idee, si vuol porre grande cura di conciliare quest'ordine con quello che è richiesto dall'orecchio e dal genio della lingua, al quale non si può contrariare. Qualvolta lo scrittore ciò pervenga ad ottenere, sembra che le sue parole siensi di persé poste al luogo loro, e che chiunque avesse voluto dire la stessa cosa l'avrebbe detta a quel modo. Questa si è quella facilità, che molti avvisano di poter conseguire, ma spesso invano a ciò si affaticano e sudano. Parliamo del carattere del discorso. Avendovi posti innanzitulli gl’elemenli, onde si compongono accade ora di ragionare più parlicolarmente delle leggi della CONVENEVOLEZZA, o sia del DECORO. Come dalla mescolanza de'sette colori fatta con legge si genera la varietà e la vaghezza nella imagine delle cose dal pittore imitate, cosi dalla mescolanza degl’elementi predetti, similmente fatta con legge, nasce la varietà e la venustà della conversazione. Colui che si facesse ad accozzare e ad ammassare alla rinfusa parole nobili, modi urbani, mela fore, traslali, igure, sentenze, ec., verrebbe certamente a comporre di buona materia as sai deforme Perſella riuscirà posizione, allorchè le parole e i modi e l'armonia e le figure verranno e ben divisale le une con le altre e lulle insieme, SECONDO I FINI che lo scrillore si propone, secondo la materia della quale savella, secondo la condizione sua e di coloro che l'odono, secondo i luoghi in cui parla; chè in queste tutte cose consiste IL DECORO. Dal decoro nasce la leggiadria, che risplende nelle più belle opere dell'arle, e senza di esso nessuna cosa al mondo è pregevole. Conciossiachè poi varii sono I FINI speciali, che lo scrittore si propone, varii i subbielli, di che può ragionare, varie le umane condizioni e le circostanze, conseguita che varii pur sieno i generi e le specie de' conponimenti per loro proprio carattere distinti. Il qual carattere, per le cose delle di sopra, definiremo nel modo seguente: Il carattere del discorso si è la contemperanza degli ele nepli, da ' quali risultano la CHIAREZZA e l'ornamento, fatta secondo la legge del decoro. E perciocchè la principal legge del decoro si è quella, che riguarda IL FINE CHE CI PROPONIAMO QUANDO ALTRUI MANFESTIAMO I NOSTRI CONCETTIi, a questo volgeremo tosto la nostra considerazione. Chi scrive intende o a convincere o ä PERSSUADERE  o dilettare altrui. Secondo questi tre fini nasceno tre generi di scrivere o tre caratteri si diversi, che vogliono essere di stigli e particolarmente considerati; cioè il filosofico, il PERSUASIVO, il poetico. Di questi diremo prima alcuna cosa in generale, indine accenneremo le specie. In quanto al carattere del discorso filosofico, Ufficio de'flosofi si è il mostrare altrui la verità, e perciò le loro scritture intendono a fare che il lettore od ascoltatore non sola. menle venga di buona voglia nella sentenza a lui esposta, ma che sia costretto anche suo malgrado a vevirvi, che è quanto dire ch'egli rimanga convinto. Se pertanto ci verrà fallo di scuoprire quella virtù del linguaggio, per la quale si genera il convincimento, ci saranno subito manifeste le qualità, onde il carallere filosofico si distingue dagli altri. Il convincimento si genera nell'animo o qual volta per via de' sensi percepiamo l’ATTENENZA ſra alcune qualità, e in questo caso diciamo esser convinti dal fatto, o qualvolta ci vien posta innanzi una serie di proposizioni insieme collegate e procedenti da una o da più altre conformi a'falli, le quali si chiamano principii; ed in questo secondo caso diciamo di essere CONVINTI CON EVIDENZA DI RAGIONE. A costringere l’animo con questa evidenza intendono i filosofi, ed a tal fine son loro necessarii i vocaboli di singolare significazione ed i modi precisi; imperciocchè se nella catena delle proposizioni che formano il ragionamento, una sola vi fosse di perplesso significato, o che accrescesse o menomasse di un solo elemento iniportante alcuna idea, si mulerebbero le attenenze delle dette proposizioni, dal che procederebbe l'errore, come accade nelle operazioni aritmeliche, qualvolta, no solo numero si ponga iu luogo di un altro, Se agli uomini venisse dalo (che Dio volesse) di ordinare la lingua italiana a modo che dalle percezioni delle qualità semplici delle cose fino alle più complesse idee d'ogni maniera non fosse vocabolo di mal fer ma significazione, non sarebbe malagevole il ragionare dirittamente in qualsivoglia altra Ina teria, come si ragiona nella matemalica; inn perciocchè in virtù de'segni ben determinali si verrebbe al conoscimento delle attenenze delle idee complesse grado per grado fino ai loro principii; e per tal forma ciascuno potrebbe sempre rendersi certo della enunciata verità. Da tutto ciò si raccoglie che nella precisione delle parole e dei modi sta la virtù di convincere; e che perciò essa precisione esser dee la prerogativa dello scrivere filosofico. L'uso della metafora pertantoe delle figure può divenire larghissima fonte d'errori, per ciocchè è facile che l'animo umano ingannato dalle similitudini, di che si formano le metafore, e commosso dagli artificii travegga, e quindi si faccia a comporre le nozioni, non secondo la natura delle cose, ma secondo le apparenze e la capricciosa indole della fantasia. Il sistema del Malebranche, ch'ebbe tanti se.guaci e disputatori (per lacere di molli altri ) procede da una similitudine. E si dovrà dunque nello scrivere insegnali vo schivare ogni metafora ed ogni figura, e renderlo secco e ruvido, come quello de'ma temalici? V'hanno certamente alcune malerie (e tale è per avventura la ideologia ), le quali richieggono un linguaggio pressochè simile a quello della geometria o dell'algebra; ma non è perciò che le altre parti della filosofia, ed anche talvolta la stessa austera scienza delle idee, non dimandino ornamento sobrio e ve recondo. Niuna materia filosofica vuol essere molto mollo fregiala, acciocchè il verisimile, in forza degli artifizii oratorii, non venga ad invadere. il luogo del vero, nė paia che il filosofo voglia invescare e prendere altrui: nulladimeno è necessario che a quando a quando l'intelletto del leggitore, affaticato dal lungo ragionare, trovi riposo, e venga alleltato, senza che la esposta verità rimanga oscurala. Perciò il filosofo collo schivare le parole barbare, rance, oscure e disarmoniche toglie ogni ruvidezza al suo discorso, e gli da grazia e leggiadria convenevole co' modi urbani e gentili, colle vereconde metafore scelte a maggiore schiarimento di quanto per le parole ben determinate e espresso; colla BREVOTÀ e colla varietà de'modi, con alcune naturali figure, quale sarebbe l'interrogazione, e specialmente coll’armonia facile e piana, e con tutti gli allri modi naturali alla temperata favella. Questo carattere filosofico e si ben divisato da CICERONE, che io stimo convenevole cosa di recare le sue parole temperata e famigliare è l'orazione de’ filosofi: non è composta di modi popolari; non è legata a cerle regole d'armonia, ma discorre liberamente. Niente sa d'iralo, niente d'invidioso, niente di inirabile, niente di astuto. Casla, vereconda, quasi pudica vergine, onde piuttosto ragionamento che orazione può nominarsi. Parliamo del discorso  di carattere PERSUASIVO o PROTETTICO [Grice – ‘protreptic’]. Poichè abbiamo dato contrassegno del carattere filosofico, veniamo a fare il medesimo della mozzione conversazionale persuasiva. “Persuadere” (“to influence and being influenced”) segna propriamente far credere altrui alcuna cosa; dal che manifesto apparisce essere grande la differenza tra il “convincimento” e la “persuasion”. Perchè siamo CONVINTI è forza che conosciamo ogni proposizione che compone un ragionamento fino alla prima percezione, dalle quali dipende il principio fondamentale di quello. Perchè siamo “PERSUASI” basta che il ragionare abbia per fondamento o l'opinione o l'apparenza o l'autorità (non come l’intende Courmayeur). Molti dicono, a cagion d' esempio, di essere “PERSUASI” che il sole si giri intorno la terra, ed altri che la terra si volga intorno al proprio asse. Gl’uni prestano fede all'apparenza, gli allri al detto degl’uomini sapienti. Ma di quello che credono non sanno porgere altrui vera dimostrazione. Da questo esempio, e da infiniti altri, si può vedere che la PERSUASINE non è sempre generata dal conoscimento – o sceinza, ma credenza -- di ogni proposizioe  che si richieggono nella dimostrazione, e che per conseguente a trarre le volontà, ed a tenere le menti del più degl’uomini, non importa semipre il dimostrare sollilmente alla maniera del filosofo, ma giova di far uso di qualsi voglia verisimile principio: di comporre imaginazioni che abbiano faccia di verità: di adoperare figure che, perlurbando l'aninmo di nostro compagno conversazionale, conformino i pensieri di lui secondo la nostra volontà di guisa, che, se egli sia per venire nella nostra sentenza, precipitosamente vi corra. Ma tutte queste cose si vogliono adoperare a modo, che il discorso abbia sempre apparenza di vera dimostrazione; perciocchè l’uditore di qualsivoglia condizione sempre domanda al conversatore che sia loro mostra la verità. Converrà quindi dedurre il discorso, per natural guisa e chiaramente, e da esso rimovere ogni proposizione ed ogni artificio, nel quale apparisca alcuna ombra di falsità. Primo ufficio del conversatore si è il provare la sua proposizione nella divisata maniera. Secondo, il dilettare. Terzo, il commovere; accorgimento si richiede nelle prove; sobrieta dell’ornamento che intendono al diletto; veemenza nel concitare l’affeto.  Con queste arti si perviene a trionfare ed a governare la volontà di nostro compagno conversazionale. Per le cose dette si conosce che il conversatore, comechè dice di voler dare esatta dimostrazione di quanto afferma, questo non fa sempr: del che si può aver prova nella disputa, che fa in contraddilorin, per le quali talvolta appaiono vere due sentenze, una delle quali, essendo opposta all'altra, deve di necessità esser ſalsa (reduction ad absurdum, introduduzione della negazione). Non è dunque l'arte della conversazione veramente l'arte di dimostrare (prendendo questa parola nello stretto segnato del filosofo) ma, come la define Dionigi d'Alicarnasso, “l'arte di farsi credere”. Ma qui potrà per avventura sembrare che, avendo io nel sopra indicato modo divisata la natura di una mozzione conversazionale persuasiva, de abbia fat 10 un'arte d'inganno. Chi però cosi pensasse а porterebbe opinione falsissima; perciocchè non si ſa inganno agl’uomini adoperando a bene quell'arte, che sola si conſà all'indole della più parte di essi. Pochi sono coloro, che possono essere falli capaci della verità per via di sollile ed esatto ragionamento; anzi avviene il più delle volte che, sembrando molti falsissimo il vero e piacesse a Dio che così non fosse), è forz, per guadagnare l'opinione foro, venire ad alcuna utile verità per le strade del verisimile; e questo non è certo ingannare, ma giovare la umana famiglia. Vero ufficio dei conversatori si è l ' usare l'eloquenza non ad inganno, ma per indurre gl’uomini a fuggire il vizio, a seguitare la virtù e la verità; per metter fine alle conlese, per sedare i tumulti, per sollevare l'autorità della legge contro il volere di coloro, che il privato bene antepongono a quello della repubblica: che se alcuni malvagi intellelli abusano di tutte le arti civili, dovremo per questo sbandirle da Roma e ricondurre gli uomini a viver di ghiaude? Finalmente e la mozzion conversazionale di carattere poetico, come in Heidegger. La poesia fou dai ROMANI inventata per proprio diletto, e poscia dagli autori della vila civile ad ammaestramento di esso popolo adoperala. Piacque ad aleuni a solo ricreamen to dell'animo usarla, ma i più nobili poeti sotto il velame delle favole, delle imitazioni e dei mirabili concetti pascosero la dottrina, e con locuzione accesa nella fantasia e con soavi armonie si aprirono la strada alle menli volgari, le quali all'insegnamento dei filosofi sarebbero stale ritrose. Per lo che niuno può dubitare che chiunque si dispone a fare una mozzione conversazionale poetica non debba cercare di piacere alla più parte degli uomini. Questo fece ad imagine degli antichi il nostro Alighieri, la cui divina Commedia leggevano anche le persone d'umile condizione, e ne traevano documenti a ben vivere. Questo ſecero l'Ariosto e il Tasso, e cosi dee fare chiunque ha vaghezza di essere salutato un autore di una mozzione conversazionale poetica. Se dunque investigheremo quali sieno quei modi che dilettano il più degli uomini, e quali sieno que' che li noiano, giungeremo a conoscere quali convengano e quali disconvengano al carattere della mozzione conversazionale poetica. E primieramente e palese che le espressione apportano diletto e colla materiale struttura loro e colla qualità delle idea, che recano alla mente; perciò è che l'essere del carattere poetico dall'una e dall'altra di queste cose dovrà generarsi. Una delle qualità necessarie alla mozzione conversazionale poetica sarà dunque la più squisita armonia, onde siano dilettati i sensi ed appagato l'intelletto in virtù della imitazione. Dell'armonia abbiamo dello abbastanza, perchè passeremo tosto a dire della natura delle idee dilettevoli. Il diletto si genera negli animi da ciò che, dolcemente i sensi movendo, fa operare la mente senza tenerla in fatica: e perciò è che le imagini dei corpi diversi e tulte quelle cose e que’ concetti, che hanno virtù di risvegliare gli affetti, ci recano maraviglioso piacere e le idee astratte all'incontro non lo ci recano, perciocchè, se non sono mollo complesse, fanno lieve impressione nell’animo; se molto complesse, abbisognano di molta attenzione, e perciò affaticano la mente. Proprii, saranno dunque del carattere poetico i vocaboli e i modi acconci a svegliare ad un tempo la rimembranza di molte sensazioni dilettevoli ed a concitare le varie passioni ed a rendere sensibili coll'aiuto delle similitudini tolte dalle cose corporee i più sottili concetti della mente. Cogli aggiunti opportunamente scelti vengono segnata la passione o l’azione, e gli usi delle cose e le qualità loro proprie, le quali in virtù dei soli nomi sustantivi non verrebbero all'animo di nostro compagno conversazionale, o ci verrebbero debolmente; perciò al poeta conviene l'adoperare essi aggiunti più frequentemente che all'oralore, quale dipinge meno parli colarmente le cose, siccoine colui che non ha per fine principale il diletto. Colla metafora si dà corpo a una nozione astratta, coi tropi si pone dinanzi agli occhi della mente quella sola parte o qualità dell'obbietlo, che prima si presenterebbe al senso di colui che cogli occhi del corpo il mirasse. Adoperando i predetti modi, si perviene a dare a’ concetti intellettuali forma sensibile guisa, che nostro compagno conversazionale, direi quasi, non più per segni percepisce le cose, ma le vede, e con mano le tocca. Affincho palesemente si vegga questa prerogativa, che sopra tutt e rende il carattere poetico distinto dagli altri, recherò ad esempio alcuni concetti intellettuali, convertendoli in forma sensibile. Tutti i viventi muoiono. La sede del romano impero fu da Costantino trasferitu a Bisanzio Il popolo facilmente mula consiglio. Quello ch' ei fece dai tempi di Romolo, sino a quello dei Tarquinii. Quello concetto si dice intellettuale, siccome quelli che si denno giudicare secondo il segnato proprio di ciascuna parola; sensibili saranno, qualvolla sieno espressi di maniera che giudicare si debbano secondo l'apparenza o la similitudine, siccome divengono i predelti Trasformandoli nel modo seguente. La morte batte egualmente alle capanne de poveri ed a’ palagi de’ re. Posciachè Costantin lo quila volse contro il corso del ciel, che la seguiu Dietro quel grande, che Lavinia Wolse. Infida è ľaura popolare. E guel cliei fe' dal mal delle Sabine Al do Tor di Lucrezia. Queste finzioni che assai di lettano, e perchè contengono manifeste similitudini e perchè racchiudono veri intellettuali concetti, sono talmente proprie della mozzione conversazionale poetica, ch'elle sarebbero sconvenevoli nei discorsi, che non hanno per fine primario il diletto. Come queste poi si addicano più a cerle specie, che a certe altre, vedrenio a suo Juogo. Ora bastea di avere in genere contra-segnata la natura del carattere poetico, onde apparisca che tengono mala strada coloro, i quali cercando "fama tra i poeti fanno pompa ne’loro versi di dottrina e di soltile ingegno, ed espongono i loro pensieri con ordine troppo minuto e distinto. I concetti che si cavano dall’intrinseco della filosofia, recanó seco molta oscurità e difficoltà, specialmente quando vengono segnato co' vocaboli e commodi loro proprii, e perciò sono contrarii al diletto, che è il fine del poet, o, come altri vuole, il mezzo necessario ad indurre il giovamento. E quando si dice che il poeta dev'essere filosofo, non si vuol dire che a modo dei filosofi debba scegliere, ordinare e segnare il concetto, ma che egli usi molto di filosofia nello scegliere le materie più utili agli uomini, e nel dare a quelle e forma e veste conveniente alla natura di ciascuna. Che se talvolta egli vorrà togliere alcun concetto dalla filosofia, lo toglierà dalla superficie e non dal profondo seno di lei, in quel modo, che ha fatto il Petrarca, qualvolta si è giovato della filosofia di Platone, come si vede nel seguente esempio. Per le cose mortali, che son scala al fattor chi ben le stima, D'una in altra sembianza potea levarsi all'alta cagion prima. E in altri luoghi moltissimi si vede con qual arle e cautela dalla flosofia nella poesia egli abbia trasportati i concetti, gli abbia temperati ed ornati, sicchè non hanno nè ruvidezza alcuna nè oscurità, ma naturalezza, novità, e magnificenza, che sono qualità popolari, che è quanto a dire poetiche. C’e una e altra specia del discourse di carattere filosofico. Le materie, intorno le quali cade l'insegnamento, sono: la matematica, la fisica, la metafisica, la morale, la politica, l'arte oratoria e la poetica, le arti liberali e le meccaniche, e tutte le conoscenze che da queste principali procedono, ciascuna delle quali essendo più o meno astratta, richiede o maggiore o minore soltigliezza d'ingegno e forza di attenzione in chi le consider: per la qual cosa interviene che dovendo i conversatori usar parole e modi con venevoli alla natura di ciascuna delle dette materie, ne risultano diverse specie di caratteri insegnativi più o meno austeri. Rispelto poi alle persone, cui vuolsi mostrare la verità, giova osservare che elle sono di due maniere. Alcune letterale ed alcune mezzanamente istruite. Alle prime, che sono avvezze al ragionamento, si converrà stretto sermone: più diffuso alle altre, le quali hanno bisogno che le cose sieno esposte loro per minuto, ed anche talvolta per via di similitudini e di esempi chiarile. Per tal cagione il discorso filosofico prende spesso alcuna delle forme del persuasivo, senza mai perdere però la precisione, che forma l'essenziale sua proprietà. Di tal sorta sono molte mozzione conversazionale indirizzati all'insegnamento de' giovani, e i dialoghi e le epistole filosofiche, le quali vengono usate affinchè certe materie depongano alquanto della nativa loro austerità, ed allin cbè i conversatori affaticati trovino riposo nelle digressioni e in altre parti accessorie. C’e una e altra specia di discourse di carattere pesuasivo o protrettico. Se al mondo fossero uomini dirittamente sapienti e perfettamente savi, sicchè astuzia e lusinga di oratore non potessero negli animi loro, vana riuscirebbe l'arte del persuadere, perciocchè tutti richiederebbero di essere convinti con precisa e poco adorna favella: ma Blo non sono quaggiù nel mondo cose perfette, e perciò è che, sebbene tutti gli uomini avvisando di poter essere condotti alla verità per via di vera dimostrazione, sdegnino i manifesti artificii; pure non v'ha alcuno, che vaglia a resistere alla seduzione di astuta eloquenza; dal che si ricava che l'arte del persuadere si può adoperare con ogni sorta di persone; po pendo menle però che quanto maggiore negli ascoltanti è l'aculezza dell'intelletto e la sapienza, altrellanto esser deve la cura nell'ora tore di occultare l’artificio. Dovranno dunqne i modi del discorso persuasivo tanto più avvicinarsi a quelli del filosofico, quanto piu le persone, cui si favella, sono sapienti ed arcorte; ed all'incontro tanto più dovranno lingersi, direi quasi, del COLORE (Farbung) poetico, quanto nel conversatore è minore l'altitudine ad argo nentare sottilmente: e la ragione di questo si è che, a misura che negli uomini manca l'acı fezza dello intelletto, cresce la forza della fan. tasia, dell'opinione e delle passioni. Ma no è perciò che, anche favellando a sì falte persone, debba l'oratore ornare il discorso d'imagini fantastiche a modo che esso perda le apparenze della buona dimostrazione; essendo che' il popolo stesso, il qual pure, come è detto, presume di sapere ragionare sottilmente, sde gna quella orazione che gli par vuota di ragioni. Dovrà dunque il discorso persuasivo aver sempre l'aspetto di vera dimostrazione; ma colale aspetto poi sarà diverso, secondo la maggiore o minor perspicacia delle persone, che si vogliono persuadere, le quali si possono dividere in tre schiere. La prima è degli uomini letterati: la seconda degli uomini che banno convenevole discrezione di mente: la terza del popolo basso. Per le quali tre schiere tre specie di carattere PERSUASIVO procedono. La prima partecipa alquanto delle qualità del genere filosofico: la terza di quelle del poelico: la seconda è stile medio e media fra le due. Della prima specie e l’allegazione, che l’avvocato pronuncia al cospetto de' giudici; della seconda i discorsi morali, la storia, l’elogio, ed altre opere intese a persuadere circa il giusto e l'onesto le persone discrete; della terza la predica e la allocuzione e il parlamento, che si fanno al popolo ed a; soldati. Siccome poi varia si è la condizione delle persone che favellano, e varie le cose di cui si può favellare, interviene che secondo queste e quelle verrà il carattere PERSUASIVO a dividersi in altre specie: e perciocchè le per le cose si possono considerare di tre ragioni, cioè di nobili, di mezzane e di umili, piacque a' retorici di restringere sotto tre soli nomi i molli membri del carallere persuasivo, e questi sono: il sublime, il temperato ed il tenue. Che a ciascuna di queste specie si addicano e voci e modi particolari, è facile comprendere e chi non vede che al discorso rivolto a celebrare le lodi di un eroe o di un sapiente si convengono maniere diverse da quelle, che sarebbero accomodate a descrivere o a lodare l’amenità della villa? Che la lettera famigliare intenla a persuadere qualsivoglia verità ad alcuno, dev'e di natura diversa dall' orazione che tralla della cosa medesima? Paren sone e I 2 domi che qui non sia bisogno di allargarsi troppo in parole, una sola cosa ricorderò, cioè, che von solamente si addicano a cfascuna spe. cie particolari maniere, ma ancora particolare collocazione di parole e particolare armonia. Imperciocchè l'animo di chi favella, essendo secondo i varii casi o tranquillo o perturbato, o elevato o umiliato, non è dubbio che, nel seguitare questi diversi affetti, variamente si devono ordinare le idee, e colle idee le paro le, e che similmente dee variare l'armonia, se vero è ch'ella soglia naturalmente, qualvolta favelliamo, accompagnare i moti dell'animo, Oltre di che vuolsi considerare che que' che parlano alla moltitudine, o scrivono cose da proferirsi ad alla voce, sogliono muoverla e modularla con diverso andamento da quello che userebbe colui, il quale famigliarmente ragionasse e tranquillamente in angusto loco alcun fatto narrasse; e perciò il ritmo di que ste due specie di favellare è fatto diverso dalla necessità di pronunciare a modo, che le nostre parole sieno ascoltate volentieri, e quan do in luogo pubblico di gravi negozii a molti parliamo, e quando in camera a pochi di qual sivoglia materia. Quale sia poi quella deter minala armonia, che in ciascun caso convenga, insegnare uon si può. Qui basti l'avvertimento, chè l’esempio de classici scrittori assai meglio ne può ammaestrare. Penso che sia convenevole cosa il collocare fra le specie del carattere persuasivo anche quello che si addice alla istoria; e ciò per le seguenti ni. Uſlicio dell'istorico si è di produrre coll'insegnamenlo la prudenza civile e militare, il che si ottiene col porre innanzi all ' animo del lettore i fatti importanti e le cagioni e gli effelli di quelli. Al qual line, è mestieri di descrivere avvenimenti d'ogni ma piera e particolari e generali, assalti, uccisioni, incendii, battaglie, saccheggi, trattazioni, páci  congiure, delilli e virtù; di palesare nelle concioni poste in bocca ai re, ai magistrati, ai capilani, i gravi consigli e i documenti della politica; di esprimere i caratteri delle passioni, e di usare le più luminose sentenze. Le quali tulle cose vogliono essere significate con modi che varino secondo il variare della maleria. Comechè uguale a sè medesimo sia sempre il carattere della storia, cioè grave, siccome si addice a chi le gravi cose racconta, certo egli è che secondo la differenza degli avvenimenti dovrà variare nel sostenersi e nello innalzarsi, ed apparire nelle concioni più alto ed eſti cace, nelle descrizioni più ameno ed ordinato, e spesso più veemenle nella persona degli uo mini ivi introdolli a parlare, ma sempre temperato in quella dello scrittore, che da ogni parteggiare dee mostrarsi lontano. Non può dunque convenire al caraltere storico nè l'autorità filosofica, la quale sarebbe contraria alle malerie, nè la poetica pompa, che torrebbe fede alla narrazione; perciò é forza che gli sieno proprie le prerogative generali del ca. rattere persuasivo, dal quale differisce sola mente per le qualità speciali di sopra accennale. C’e una e altra specia del discourse di carattere poetico. Se ſu bisogno dividere in alcune specie il carattere persuasivo a cagione della maggiore o minore altitudine delle menti umane a di scerncre la verità, ciò non occorrerà circa il carallere poetico; imperciocchè tanto gli uo. mini di sottile ingegno, quanto quelli, in cui la fantasia prevale all'intelletto, hanno tulli dinanzi al poela una medesima disposizione. Se il popolo porge orecchio alle finzioni noe. tiche, quasi come a cose vere, i sapienti le riguardano come simboli della verità e quasi come leggiadri sogni della filosofia, e in questo loro dolce ricreamento sdegnano ogni austerilà e fino l'apparenza delle faticose forme filoso. fiche. Perciò è palese che il poeta rivolge sem. pre le parole ad vomini, i quali, sieno di qual sivoglia condizione, amano che la mente loro şia condotta ad operare senza fatica. Da que. sto si ricava che ogni specie di carattere poe tico dovrà avere sempre la prerogativa di schivare, come dicemmo di sopra, le idee che tengono in falica l'intelletto, e rappresentare quelle, che vestile di forme sensibili, eserci. citano la imaginativa. Non sarà dunque diviso in ispecie questo genere per rispelto della diversità degl'intel letti, ma della condizione del poeta o delle persone che introduce a parlare, e delle varie cose, che ei ſa subbietto del canto. Ma, prima di entrare in questo proposito, parni che sia da togliere una falsa opinione circa la natura della poesia. Sono alcuni i quali avvisano che 115 ma il l'essenza di lei consista nel metro, e fra que sti è il Melaslasio, il quale nella sua esposi zione della Poetica d'Aristotele sostiene che la lavella metrica, per essere l'istrumenlo con che l'imitazione si fa, ne forma l'essenza. Ma io domanderei voleplieri a coloro che cosi la pensano, qual nome vorrebbono dare all’ENEIDE tradolla in favella sciolta dal metro? Le daranno per avventura nome di prosa? L’espressione “prosa” altro non segna che discorso senza metro, e per ciò verranno a dire solamente che quell'illustre racconto è fatto sce. mo di quella sola qualità, di che grandemente si diletta l'orecchio, ma non già di tutte le altre, che stabiliscono la natura dei discorsi composti a fine di diletto. Dal che appare manifesto che un altro general nome è bisogno per distinguere i discorsi composti per dilettare. E quale è a ciò più accomodalo vocabolo che quello di poesia? L’espressione “poeta”, secondo sua origine, significa facilore o vogliam dire fabbricatore; e perciò poesia sonerà lo stesso che fabbricazione o finzione, e tali sono di necessità quasi tutti i discorsi, che si compongono a fine di dilellare, essendo che il nudo vero non è dilettevole sempre e in ogni sua parle: perciò Varchi dice nell'Erco laro, che il verso non è quello che faccia principalmente il poeta; e che Boccaccio talvolla più poeta si mostra in una delle sue Novelle, che in tutta la Teseide. Ed Orazio afferma che a distinguere la poesia da ciò che essa non è, basta disgiungerne le membra, cioè loglierle il metro, e allora si vede manifestamente che il carattere non le si toglie. Conchiudiamo pertanto, che il metro induce diſſerenza di specie ma non determina la natura del genere; e stabiliamo che a tutti i discorsi  che hanno per fine il dilettare con metro o senza, si conviene il nome di “poesia”.  Ora veniamo alle specie. Talvolta il poeta rappresenta la persona d'uomo, che cantando, dice laudi degli Dei e degli Eroi; talvolta quella, ch'esprime i moti dell'allegrezza, dell'affanno o dell’amore, o solamente gli scherzevoli con cetli. Le poesie di questa maniera solevano dagli antichi essere cantate sulla “lira,” e perciò presero il pome di “lirica”, e tuttora il conservano. Varie essendo le passioni e le cose che esprimere si possono dal conversatore lirico, interviene che ancora il canto si divide in varie specie, che tutte poi si riducono a tre, come nel carattere persuasivo: cioè al sublime, al mediocre ed al tenue. Ciascuno di questi canti ha qualità sue proprie. Magnificenza e gravità di mod, di sentenze e di arinonia, e splendore d'illustri parole e di concetti fantastici convengono a chi celebra le laudi degli Dei e degli Eroi, ed esprime alte e generose passioni: più tenui maniere e parole e più soave armonia a chi esprime gli affelli meno gravi e canta di subbielli meno nobili: quegli poi, che dice i mili affetti o gli scherzi o le umili cose, avrà nelle sue parole piacevolezza e semplicità da ogni fasto lontana, ed armonia soave e varia, ma sempre tenue. Alla detta varietà d'armonie, mirabilmente poi servono i metri, alcuni de' quali portano secofl'umiltà, altri la mediocrità, altri l'allezza dell'armonia. Sono molti esempi di questa varietà in Petrarca, Si ponga mente ai modi, al metro, al ritmo delle due canzoni d'amore, una delle quali comincia, Chiure, fresche e dolci ucque; e l'altra, Di pensiero in pensier, di monte in monte; e si vedrà la prima essere in tutte le sue parti piena di soavità, di gentilezza e di grazia, e l'allra di robustezza e di gravità. Talvolta il poeta narra gl ' illustri ſalli; tal volla i mediocri; e talvolta i piacevoli: indi si generano i poemi epici, i romanzi, i poemi burleschi e le novelle. Talvolta poi introduce a parlare o le persone illustri o le mediocri o le umili, e quindi provengono le tragedie, le commedie, le egloghe pastorali e le pisca torie. Ognuna di queste specie, siccome è pa lese, ha modi ed armonia convenevole alla maleria ed alla condizione delle persone. Perciò è che il poeta, specialmente nella tragedia, nella commedia e nell' egloga, ove se medesimo nasconde introducendo altri a par lare, dee rendere alquanto umili i modi, l'ar monia di guisa, che lo spettatore, ascollando le tragiche persone o le coniche, abbia a dire: così parlerebbero gli uomini di questa o di quella condizione, se loro naturale favella fos sero i versi. Giovi questo generale avverli mento, perciocchè non si possono mostrare i certi limili, fra i quali dee slarsi ciascuna spe 118 rie. Tutte hanno nell'intero loro corpo faltezze particolari, alle quali colui che ben vede di stintamente le raffigura: pure a quando a quando or questa or quella viene a parteci. pare dell ' altrui colore di guisa, che l'epico nelle forti passioni innalza le parole e i modi al pari del cantore degl'inni; e il più sublime lirico parra alcuna volla, siccome fa l'epico. Lo stesso interviene delle allre specie, fra le quali per fino la commedia talora si leva a gareggiare colla Tragedia, e la tragedia al dire l'Orazio, spesso, si duole con sermone pe destre. Nelle opere dell'arle, siccome in quelle dels la nalura, si scorge infinita diversilà, ma per questa spesso non è tolto che moltissimi indi vidui della medesima specie, sebbene molto dissimili, non sieno egualmente belli e prege voli. Questo vedesi manifestamente per le la vole colorite da' celebri dipinlori, de'quali uno essendo il fine, cioè quello dell'imitare la bella natura, non in tutti una apparisce la sembianza del loro dipingere. Raffaello, Correggio, Domenichino, Caraccio, Tiziano e Paolo, i quali cerlo non mancano nelle regole invaria bili dell'arte, sono fra loro assai differenti. Tutti mostrano invenzione lodevole e lodevole composizione, belle forme, ben disposto colo. rito e conveniente a ciascuna cosa: tutti esprimono i costumi e gli affelli, ma ciascuno d'essi ſa delle predette e di altre virtù una cotale mislura, che siamo condolti a dire che nessu. 1 Til no di loro ha la maniera dell'altro, comechè Tulli sieno eccellenti. Questa, che i pillori chia mano maniera, è similmente comune a' filosofi, agli oratori, agli storici ed a'poeli. Quanti scriltori sono tenuli meritevoli di pari commendazione, sebbene tale fra loro sia la diſſerenza, che spesso ciascuno solamente a sè me, desinio ed a nessun altro assomiglia? La rinsposizione dell'ingegno e delle affezioni dela l'animo, che in ciascun uomo è diversa, è cagione che le dette maniere sieno di numero pressochè infinito. Alcuno de' famosi scriitori ha il pregio della perspicuità, alcuno della eleganza, allri della grazia, altri dell'aculezza. Questi è grave e maestoso: quegli delicato e molle: chi è breve e robusto: chi copioso, chi úrbano e chi veemente: ma tali poi sono tutti, che, se alcuno di noi desiderasse di ottener gloria di ottimo scrillore, sarebbe incerto a quale di loro volesse essere somigliante. L'accennata maniera particolare, per la quale ciascuno scrittore è distinto dagli altri, si è quella che gli antichi chiamarono “stile” (cf. Tannen, Conversational style), prendendo questa voce dall'istrumento che per iscrivere adoperavano. La stessa parola “stile”, presa più largamente che non fanno i filosofi, segna comunemente il carattere in genere o in ispecie: ma è palese che, filosoficamente parlando, si è bene d'usarla nel senso leste dichiarato. Ond'è che assai propriamente diremo in generale, carattere filosofico, caruilere persuasivo o poetico; ed in ispecie carattere oralorio, lirico, epico, tragico, sublime, medi cre e tenue: e stile di Demostene, di CICERONE, di Ortensio, di Omero, di VIRGILIO: percioc chè nei primi fu il solo carattere persuasivo, negli altri il poelico; ma in ciascuno ebbe una particolare maniera, che modificando il carattere, l’essere suo non gli tolse. E chi volesse invesligare le cagioni da che proceda colale maniera, che stile si appella, vedrebbe ch'elle sono le qualità dell'intellello, della fantasia di ciascuno scrillore, e le qualità degli affetti, a cui egli ha l' animo disposto: laonde volendo dare alcuna definizione dello stile, paroi che far si potesse nel modo seguente. Lo stile si è il carattere modificato secondo le qualità dell'intellelto, della fantasia e degli affelli dello scrittore. Parliamo sommeramente del modo di acquistare la qualita necessaria a conversare civilmente. Ora che abbiamo poluto conoscere che cosa sia lo stile, non sarà indarno l'investigare co me si possa acquistare forza, grazia e vaghezza nello scrivere; e che è quanto dire come si possa formare lo stile convenevole e pulito. Se lo stile si genera per la qualilà dell ' in tellelto, della fantasia e degli affetti dello scrit tore, vera cosa è che, a formarlo convenevole e pulito, bisognerà rendere perfette le mento vate tre cagioni il più che si può. L'uomo nasce fornilo dell'intelletto, cioè della facollâ di sentire, di percepire, di alten. dere, di paragonare, di giudicare, di astrarre, di ricordarsi, di imaginare, ma d'uopo è che queste lacollà vengano poscia diriltamente usate ed esercitale, onde sia generala quella virtù pressochè divina, che si appella la ragione, la quale consiste nell'abito di. paragonare in sieme i sentimenti distinti dell'anima e le idee, di derivar dai falli pariicolari le nozioni gene. rali; di anteporre o posporre le une alle altre, di congiungerie o di separarle, secondo la con venienza o disconvenienza loro, e secondo i loro gradi di più o di meno. A formare que sl’abito, sarà bisogno di studiare le opere de' filosoti, che trattano soltilmente delle cose na lurali, delle proprietà dell'intelletto e del cuore umano; di apprendere l ' istoria, senza la co gnizion della quale, al dire di Cicerone, l'uo mo si rimane sempre fanciullo; di osservare la nalura, di pralicare fra le diverse condi. zioni degli uomini, e di operare ne privati negozii e ne' pubblici. Ad arriccbire l'imagi. nativa, la quale è l'abito di recare all'animo la reminiscenza delle qualità sensibili che più ci muovono e dilellano; di congiugnere insie me con verisimiglianza quelle, che sono di. sgiunte in nalura, e di significare per siinili tudine delle cose corporee i concelli astralli, non solo metterà bene di leggere gl'inventori di nuove e vaghe fantasie, ina di por menle a tutto ciò che ai sensi porge diletlo, sia nelle azioni degli uomini e degli anigali sia nel l’esteriore aspelto e movimento delle cose inanimate; e soprattullo gioverà di ben con siderare le somiglianze che fanno fra loro le cose di qualsivoglia genere e specie; chè que sto si è il fonte, dal quale si derivano le vuo ve e maravigliose metafore. Di molla ulilità sarà poi all'intellelto ed all'immaginativa lo sludio de' precelli dell'arte oratoria e della poetica, i quali, essendo il compendio di quanto ove i filosofi hanno osservato intorno le cagioni, onde piacciono e dispiacciono le opere degli scrillori, apportano quella luce, che un uomo solo nel breve spazio della vila studierebbe indarno di procacciarsi colla sola virtù del proprio ingegno. Vuolsi però sull'osservanza de'precelli avvertire ciò che nell'arle poetica osserva Zanotti; cioè che le cagioni del piacere e del dispiacere trovate da’ filosofi, essendo cagioni universali ed indeterminale, mostrano bensi i luoghi, non vogliono che si ecceda o si manchi, ma non prescrivono poi a qual segno si debba giugnere o rimanere, per non ecce dere o non mancare; ond' è che, a fare buon uso del precello, è bisogno di quella discre. zione, che si acquista con lungo sludio e fatica. Rispetto agli affelli, io mi penso che, sel) bene sieno da natura, pure a conciliarli in al trui grande aiuto si possa trarre dall'arte. Se l'amore, l'odio, l'ira, la mansuetudine, la misericordia ed allre affezioni dell'animo na. scono da cagioni determinale, come per eseni. pio l'amore da bellezza e da virtù, l’odio da male qualità del corpo o dell'animo altrui, non v'ha dubbio che gli aſſelti medesimi si deb bono in chi legge risvegliare per virtù della viva' rappresentazione di quelle cagioni: dal che si raccoglie che lo scrittore, considerando le varie disposizioni degli uomini passionali, e le cagioni, per le quali la passione si genera, avrà materia onde gli animi perlurbare. Cosi per aiuto dell'arte verrà ad operare in altrui quell'eſello, che imperſellamente avrebbe operalo mercè della sola naturale sua disposi. zione. Da quanto è dello apparisce che la scienza avvalora l'intellelto e l'immaginativa, ed aiuta a muovere gli affetti, e che perciò ella si è il fonte dello scrivere rettamente. La scienza poi è generala negli umani intellelli da due cagioni: queste sono: la naturale disposizione delle organo corporale e l'azione delle cose esterne sopra di esso; sì falte ca. gioni sono di necessità diverse in ciascuno; perocchè non è da credere che si possano tro vare due corpi nella stessa maniera conforma li; ed è poi certamente impossibile che uno riceva dalle cose esterne nell'animo le mede sime impressioni che un altro. Per la qual cosa avviene che diversa in ciascuno si generi la scienza, e quindi diversa la forza dell'in gegno e dell'imaginaliya, diversa la qualilà degli affetti, e per conseguente anche lo stile, che da queste procede, deve riuscire diverso. Dal che si vede che imprendono opera dispe rala coloro, che si affaticano ad imitare lo stile d'altri. E alcuni pur sono che andando passo passo sull' orme di ALIGHIERI, del Petrarca o del Boccaccio, avvisano alla costoro gloria di per venire; ma le opere loro per verità, in fuori di un poco di pulita buccia, niun sugo hanno. Che cosa dovremo dunque apprendere dagli scrittori? Rispondo che si vuole apprendere la lingua e i modi acconci ad esprimere chia ramente, ornatamente e convenevolmente i no stri concelli. Da questo scrillore ci sludieremo di procacciare una cosa, da quello un'altra, a seguileremo sempre la nostra natura, secondo l'esempio di Dante, il quale lasciò scritto di sè: lo mi son un che, quando amore spira, nolo, ed a quel modo che delta dentro, vo significando. Che se allrove disse a VIRGILIO: Tu se' lo mio maestro e lo mio autore, Tu se' solo colui, da cui io loisi Lo bello stile, che mi ha fallo onore, non intese già d'avere tolto al maestro la ma niera propria di quel poeta, ma sibbene la qualità, onde il carattere poetico é differente dal filosofico e dal persuasivo. E chi è che pon senta la differenza che è dallo stile di Dante a quello di Virgilio? Rimane per ultimo a dire degli autori, che coloro che amano di scrivere nell'italiana favella, devono scegliere a maestri. Nulla dirò dello studio della lingua greca e della latina, perciocchè essendo notissimo che nell'una e nell'altra scrissero coloro, che insegnarono a tutto il mondo, e che questa nostra da quelle procede, ciascuno conosce di per sé quanta ulilità trarre se ne possa. Mi ristringerò dunque a fare alcuna parola de' solo il conversatore italiano, che agli altri si devono preporre. E prima è a sapere che nel secolo XIV alcuni prosatori ed alcuni poeti diedero al volgar nostro tanta proprietà e grazia, che nessuno ha poi polulo eguagliarli: che nel secolo XV questo volgare ſu quasi abbandonalo per soverchio amore della lingua latina e per pusillanimità degli uomini d’Italia: che nel secolo XVI ſu dal Fortunio e dal Bembo ridollo a regole deter. minate; e da molti ſu nobilmente adoperato in varii generi di scritture: che nel secolo XVII fu da talupo acconciamente impiegato ed ar ricchito di voci perlinenti alle scienze, fu da alcun altro scrillo con eleganza, ma venne da moltissimi in parte corrotto e rivolto in vanilà di falsi concelli: che nel XVIII finalmente ſu da pochi bene usato, e da moltissimi con pa role e modi forestieri vituperato. Tale essendo stata la fortuna di questa bellissima lingua, chi potrà dubitare che oggi non sia a noi sa lutevole il consiglio, che ci porgono gli uomini sapienli, cioè quello di studiare agli antichi esemplari? Se nel buon secolo della lingua la lina si stimava essere opera di gran probllo ai giovani il molto leggere gli antichi scrittori del Lazio, quanto maggiormente non si dee credere che lo studiare i nostri sia per giovare a noi, che viviamo in un secolo, ove gl'ita liani, pressoché tutti, più delle cose forestiere che delle proprie dilettandosi, scrivono sì, che punto non pare alle loro scritture che sieno stali allevati in Italia? Verissimo si ė (anche parlando delle arti) quello che dicono i politi ci, cioè che qualvolta le cose sieno pervenule a corruzione, bisogna richiamarle ai loro principii. Questa sentenza dovrebbe essere dinanzi all'animo di tutti coloro, che amano il profitto de' giovani nelle lettere umane; pure sono al cuni cbe, deridendo coloro che studiano i lesti della lingua, dicono essere sciocchezza il darsi tanto pensiero delle parole ogni qualvolta si 1centisti, abbia cura dei concelli; come se il recare alla mente altrui i nostri concelli non dipenda dalla virtù di ben accoviodate parole. Colali persone, avendo posla loro usanza o ne' soli domestici negozii o in alcuna scienza o arte, nè mai data opera allo studio della lingua, vilipendono ciò che non conoscono, e perciò, non avendo au. torità, non meritano alcuna risposta. Tutti gli uomini di mente discreta non si maraviglie ranno, se qui vengono consigliati i giovanetti a studiare prima nelle opere de’ trecentisti, ne’ quali è dovizia di vocaboli proprii e di forme gentili, e chiarezza e semplicità e urba nità e maravigliosa dolcezza, ed a riserbare agli anni loro più maturi lo studio dei cinque che scrissero eloquentemenle di cose gravi e magnifiche. Ma per avventura alcuno dirà: non dobbia. ino noi essere intesi dagli uomini del nostro secolo e cercare di piacer loro seguendo l'usanza? Perchè dunque vorremo che la gioventù studii ancora quelle opere, ove si trovano, ol tre le voci ed i modi, che sono fuor d'uso, e barbarismi e pleonasmi e solecismi ed equivocazioni, e talvolta negligenza e stranezza nel costrutti? Perchè non vorremo consigliarla piullosto a leggere i soli scrillori del cinquecento, i quali seguitando le regole grammati. cali dettate dal Fortunio e da Bembo, non solo scrissero correttamente, ma trattarono eloquen temente di varie ed importanti materie? A queste obbiezioni risponderemo che si dee se guire l'usanza, del buon conversatore, l'usanza del volgo; che non si vuole negare che in molle opere del trecento non si trovino ma non fra la copia delle maniere proprie, nobili e graziose, varii difelli; ma che per questo non ci rimarremo da consigliare la gioventù di avere sempre caro sopra tutti quel secolo beato, e di leggere per tempo i suoi eccellenti scrittori, poichè ci teniamo certi che quanto è difficile il rendersi famigliari e domestiche le maniere native e gentili, altrettanto è facile di perdere l’abito di peccare contro la grammatica e contro l’uso. La predetta virtù non si può acquistare se non con lungo esercizio: il diſello si può togliere assai agevolmente dopo lo studio della grammatica, e dopoche per la filosofia e per la erudizione ci verrà dato di ben conoscere il valore delle parole e di ben distinguere la lingua nobile dalla plebea, e le maniere, che per vecchiezza ban no perduta la grazia e la forza pativa, da quel le che sono ancora belle ed efficaci. Quanto allo studio de'cinquecentisti, non du bitiamo che ei sia per essere ulilissimo, essen do che molli eccellenti scrittori di quel tempo adoperarono la lingua, che appresero da Alighieri, da Boccacio, da Petrarca e dagli altri tre centisti, emulando mirabilmente i romani in molli generi di scrilture: ma teniamo per ſermo che convenga alla gioventù di avvezzarsi al candore ed alla semplicità del trecento prima di cercare lo splendore, la ma gnificenza, la copia e l'altezza de' pensieri nei cinquecentisti. Perciocché lulti coloro, che sfor zano di parere magnifici e splendidi primaché dalla filosofia sieno ſalli ricchi di cognizioni, fanno l'orazione loro bella nella buccia, una nell'intrinseco vana e puerile. Non potendo i giovanelli esprimere con verila se non quei pensieri e quegli allelli, che sono proprii del la tenera età, troveranno assai comodale al bisogno le parole ed i modi usati da'trecentisti, la più parte de'quali, come que' che vissero nell'infanzia dell'italico sapere, scrissero di tenui materie. Verrà poi quel tempo maturo, in che a'giovani farà mestiero di alzare a'gravi concelli lo stile, ed allora apprenderanno da Guicciardini gravità e nerbo; dal Segretario fiorentino sobrietà ed evidenza; dal Carocopia, efficacia e gentilezza; da Casa splendore e magnificenza; da GALILEI ordine e precisione; d’Ariosto e da Tasso i pregi lulli, ond' ė divina la poesia. Ma allo studio di quesli e degli altri molli, che fecero glorioso il secolo di papa Leone, non avranno l'animo ben di. sposto se non coloro, cui prima sarà piaciuto di allingere ai puri fonti del trecento, da'quali derivarono i sopraddetli abbondantissimi fiumi. Questo, o Giovani, è quanto ho stimato op portuno di porvi dinanzi per indirizzarvi nel cammino delle lettere, alle quali inolti vanno per vie distorte e per lo contrario. Vi ho mo strato quali sieno gli elementi dell’ELOCUZIONE; come nel contemperarli secondo le leggi del decoro si loronino i varii caratteri; e final. mente come lo stile proceda da naturale di sposizione e come col sapere si perfezioni. Darò fine coll'avvertirvi, se vero è che la scienza e l'esempio fanno l'arte, è vero altresì che arte senza uso poco giova: onde, se dallo stile cercate onore, vi sarà bisogno di neditare mollo, di leggere molto e di scrivere mollissimo.  Ricerca Sinestesia (figura retorica) Questa voce sull'argomento retorica è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni La sinestesia (dal greco syn, 'insieme', e aisthánomai, 'percepisco') è una figura retorica, in particolare un tipo di metafora ("metafora sinestetica"), che prevede l'accostamento di 2 parole appartenenti a due sfere sensoriali diverse. Ha largo uso in poesia ed in genere nella versificazione:  «L'odorino amaro»  (Giovanni Pascoli, Novembre.) «Voci di tenebra azzurra.»  (Pascoli, La mia sera.) «Venivano soffi di lampi.»  (Pascoli, L'assiuolo.) «Urlo nero»  (Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici.) Tra le canzoni, si può citare Il sogno di Maria di Fabrizio De André:  «Quando mi chiese: "Conosci l'estate?" io per un giorno per un momento, corsi a vedere il colore del vento.»  È usata anche nella lingua di tutti i giorni ("colori caldi", "giallo squillante" ecc.) e quindi anche in prosa.  NoteModifica ^ Angelo Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Milano, Arnoldo Mondadori Wikizionario contiene il lemma di dizionario «sinestesia»   Portale Linguistica: accedi alle voci che trattano di Linguistica Ultima modifica 2 mesi fa di Nima Tayebian, Enfasi Sinestesia pagina di disambiguazione di un progetto Wikimedia  Analogia (retorica) Figura retorica  Wikipedia Il contenutoWikipedia Ricerca Sinestesia (psicologia) fenomeno sensoriale/percettivo Lingua Segui Modifica Avvertenza Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze. La sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una "contaminazione" dei sensi nella percezione. Il fenomeno neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo.   Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di una persona soggetta al fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del fenomenoModifica Con il termine "sinestesia" si fa riferimento a quelle situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi. Nella sua forma più blanda è presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che i nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto distaccata dagli altri.  Più indicativo di un'effettiva presenza di sinestesia è il caso in cui il percepire uno stimolo (come ad esempio il suono) provoca una reazione netta e propria di un altro senso (ad esempio la vista). Per "forma pura" si intende la sinestesia che si manifesta automaticamente come fenomeno percettivo e non cognitivo. Il fenomeno è involontario, ma una maggiore attenzione prestata dal soggetto può evocarlo con maggiore consapevolezza, al punto che il sinestesico puro, vedendo i suoni e sentendo i colori, può riuscire a trarre vantaggio da queste contaminazioni sensoriali; un compositore che sfruttava questa sua capacità fu Messiaen, così come il pittore Kandinskij, che affermava di poter sentire la voce dei colori, che per lui erano suoni, entità vive e lo spiega bene nel suo libro Lo spirituale nell’arte. Un altro sinestesico fu il pittore e musicista lituano, Mikalojus Konstantinas Čiurlionis. Il compositore russo Skrjabin era particolarmente interessato agli effetti psicologici sul pubblico quando sperimentavano suoni e colori contemporaneamente. La sua teoria era che quando si percepiva il colore giusto con il suono corretto, si creava "un potente risonatore psicologico per l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più famosa, che viene eseguita ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco. Ma la lista degli artisti sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche affermano che il fenomeno sinestesico interessi il 4% della popolazione e di questo 4% la maggior parte sono artisti. Un'altra caratteristica della sinestesia è poi che si presenta a volte nelle persone mancine, o in concomitanza con altre caratteristiche come l'allochiria (confusione della mano destra con la sinistra), scarso senso dell'orientamento, dislessia, deficit dell'attenzione e, raramente, autismo.  Spesso la contaminazione sensoriale avviene a direzione unica: ad esempio, se vedo una nota musicale come un colore, non è detto che vedendo quel colore la mia mente evochi quella nota. Questa è una delle caratteristiche della sinestesia percettiva, l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo Paratico il mancino Leonardo Da Vinci era affetto da sinestesia. Esperienze di tipo sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale, mediante l'uso di sostanze allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD, esperienze di deprivazione sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di malattie che colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è detta pseudosinestesia, in quanto è indotta o non presente dalla nascita. La sinestesia acquisita sembra riguardare solo le forme di sinestesia percettiva, e non sono stati documentati casi di sinestesia concettuale acquisita.  Le persone che hanno esperienze sinestesiche nella "forma pura" sono un numero relativamente ridotto. Studi recenti hanno mostrato una certa variabilità:  1 ogni 2000 1 ogni 200 Queste esperienze sono quotidiane ed iniziano sin dall'infanzia. Molti sinestesici si sorprendono scoprendo che questa esperienza non è provata da tutte le persone.  L'esperienza sinestetica è composta da due elementi:  L'evento induttore (inducer). L'evento concorrente (concurrent). Per esempio, può accadere che un sinestesico descriva il suono (inducer) del proprio bambino che piange come un colore giallo sgradevole (concurrent). La relazione tra un inducer e un concurrent è sistematica, nel senso che a ogni inducer corrisponde un preciso concurrent.  Grossenbacher et Lovelace (2001), distinguono due tipi di sinestesia a seconda che l'inducer sia percettivoo concettuale.  Sinestesia percettiva: l'inducer è uno stimolo percettivo (per es. la vista di lettere produce anche la vista di colori "collegati"). Sinestesia concettuale: i concurrent sono prodotti dal pensare a un particolare concetto (per es: numero, mese dell'anno, posizione nello spazio). Si utilizza intensivamente la sinestesia anche nella terminologia utilizzata nella degustazione o nell'analisi sensoriale.    Basi genetiche della sinestesiaModifica Purtroppo con le competenze scientifiche attuali non è possibile identificare singoli loci genici che determinino con certezza questo fenomeno neurocognitivo. Il fenomeno è più probabilmente dovuto a un complesso meccanismo neurale e non a singole proteine codificate da parti di genoma. In ogni caso interessanti esperimenti di neuroimaging paiono confermare tale fenomeno. Sinestesia: grafema-coloreModifica Ramachandran e i suoi collaboratori hanno notato che la forma più comune di sinestesia è quella grafema(lettera, numero) - colore e infatti i rispettivi centri cerebrali sono molto vicini tra loro. Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza magnetica funzionale) hanno permesso di individuare il "centro del colore" (es. Zeki et Marini, Brain), l'area V4 nel giro fusiforme.  L'area dei grafemi è stata anch'essa individuata nel giro fusiforme, in particolare nell'emisfero sinistro vicino all'area V4. L'area si attiva sia in seguito alla presentazione di lettere sia in seguito alla presentazione di numeri.  L'ipotesi di Ramachandran è che ci sia una attivazione congiunta. La presentazione di un grafema fa attivare l'area dei grafemi, che fa attivare contemporaneamente anche l'area del colore, anche senza la presenza di uno stimolo. Questo è dovuto ad un eccesso di connessioni tra le due aree, non presente in tutte le persone.  Le connessioni che si hanno alla nascita sono un numero superiore di quello che si trovano in un cervello adulto. Quello che avviene nei primi mesi di vita è un processo definito pruning (potatura, sfoltimento) delle connessioni cerebrali. L'ipotesi di Ramachandran è che le connessioni tra area del colore e area dei grafemi, che normalmente subiscono un processo di pruning, rimangono invece intatte nei sinestesici. Probabilmente per una mutazione genetica che fa fallire il processo di pruning. Esisteranno delle regole che in seguito all'esperienza permetteranno di sviluppare connessioni particolari tra area dei grafemi e area del colore. Questo spiegherebbe perché ad un grafema viene sempre associato un certo colore.  Ramachandran ipotizza che l'attivazione del giro fusiforme non implichi un arrivo alla coscienza delle informazioni. Perché sia possibile essere consapevoli dell'informazione percepita si dovranno attivare altre aree superiori. Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la sinestesia non sia dovuta alla presenza di un numero maggiore di connessioni neurali (le quali non sarebbero presenti nei non sinestesici); infatti, secondo lo studioso tale fenomeno percettivo è imputabile al fatto che, nel cervello dei sinestesici, alcune connessioni neurali risultano ancora attive, mentre non vengono più "utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di percepire. Questo spiegherebbe il motivo per cui chi assume droghe psicoattive sia in grado di esperire una condizione di "pseudo-sinestesia", circoscritta esclusivamente al limite temporale in cui tali sostanze dispieghino il loro effetto, per poi tornare a non percepire sinestesicamente una volta terminato quest'ultimo. Secondo Grossenbacher è molto improbabile, infatti, che si siano create nuove connessioni neurali durante l'assunzione di tali droghe; piuttosto, risulta più probabile che vengano percorse "strade" neurali solitamente "disattive".  Influenza dell'attenzione sulla percezioneModifica Esperimento di Ramachandran e Hubbard: caso della figura gerarchica (un 5 composto da tanti 3), se ai soggetti veniva chiesto di fare attenzione a livello globale vedevano il colore rosso, se invece dovevano dirigere la loro attenzione a livello locale vedevano verde.  Questo esperimento porta a concludere che l'attenzione influenza il manifestarsi del fenomeno sinestesico.  Sinestesici projector Nel caso di grafema-colore, il colore è visto come una pellicola che ricopre il numero completamente. Un sinestesico testato da Dixon, riferiva di provare un'esperienza irritante se il numero era di un colore incongruente con quello del fotismo (l'effetto della sua sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli evocava il colore rosso, ma in realtà era scritto con il giallo.  Sinestesici associator Sempre nel caso di grafema-colore, il colore appare nella mente, e non sopra il numero. In genere, i sinestesici associator riferiscono che l'esperienza di vedere un numero con un colore non congruente con quello del fotismo, non è un'esperienza per nulla disturbante. La percezione del colore "reale" del numero è un'esperienza molto più intensa del fotismo, per un sinestesico associator.  I sinestesici projector sembrano una minoranza rispetto ai sinestesici associator (11 su 100, tra quelli intervistati da Dixon e collaboratori).  Tra i maggiori studiosi della sinestesia percettiva, Richard Cytowic, Ramachandran, E. Hubbard, Sean Day, Bulat Galeyev, Irina Vaneckina.  Rapporto con i canali del calcioModifica Studiando nel moscerino della frutta un gene coinvolto nell'elaborazione del dolore, alcuni ricercatori hanno creato il primo modello della sinestesia. Con la tecnica dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni quali candidati a interessare possibili geni del dolore. Il primo ad essere analizzato più in dettaglio è stato quello che codifichi parte di un canale del calcio noto come alfa 2 delta 3 (α2δ3). Questi canali che regolano il passaggio di Ca2+ attraverso la membrana cellulare sono fondamentali per l'eccitabilità elettrica dei neuroni. Con questi canali interferiscono diversi antidolorifici.  Nei topi carenti di α2δ3 si è dimostrato che questo gene controlli la sensibilità al dolore provocato dal calore sia nella Drosophila sia nei mammiferi. Indagini condotte con la MRI hanno anche rivelato che α2δ3 partecipi all'elaborazione del dolore termico a livello cerebrale. In assenza di α2δ3 il segnale del dolore a genesi termica arriva al talamo, ma poi non prosegue verso i suoi centri corticali superiori. Le immagini di fMRI mostrano piuttosto un'attivazione crociata delle aree corticali per la visione, l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si osserva anche quando lo stimolo doloroso sia di natura tattile. Emozioni colorate | Le Scienze, su lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon Baron-Cohen Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford: Blackwell Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy, Lascar Publishing, lascarpublishing.com/Leonardo in Internet Archive. ^ Baron- Cohen Ramachandran et Hubbard, Neurocognitive mechanism of synesthesia" Hubbard1 and Ramachandran, Neurocognitive mechanism of synesthesia, su cell.com  il libero. ^ percezione e idee, la sinestesia | PsycHomer, su psychomer.it  Le Scienze: Non provo dolore, ma ne sento l'odore e ascolto le note Córdoba M.J. de, Hubbard E.M., Riccò D., Day S.A., III Congreso Internacional de Sinestesia, Ciencia y Arte, Parque de las Ciencias de Granada, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Edición Digital interactiva, Imprenta del Carmen. Granada Córdoba M.J. de, Riccò D. (et al.), Sinestesia. Los fundamentos teóricos, artísticos y científicos, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Granada Cytowic, R.E., Synesthesia: A Union of The Senses, second edition, MIT Press, Cambridge, Cytowic, R.E., The Man Who Tasted Shapes, Cambridge, MIT Press, Massachusetts, Marks L.E., The Unity of the Senses. Interrelations among the modalities, Academic Press, New York, Riccò D., Sinestesie per il design. Le interazioni sensoriali nell'epoca dei multimedia, Etas, Milano, Riccò D., Sentire il design. Sinestesie nel progetto di comunicazione, Carocci, Roma, Tornitore T., Storia delle sinestesie. Le origini dell'audizione colorata, Genova, 1986. Tornitore T., Scambi di sensi. Preistoria delle sinestesie, Centro Scientifico Torinese, Torino, Voci correlate Takete e Maluma Sinestesia tattile-speculare Altri progettiModifica Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «sinestesia» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su sinestesia Collegamenti esterniModifica Udire i colori, gustare le forme, su lescienze.espresso.repubblica.it, Le Scienze. TED Talk: "I listen to color" Portale Psicologia. Qualia aspetti qualitativi delle esperienze coscienti  Locus ceruleus Sinestesia tattile-speculare raro fenomeno sensoriale/percettivo  Wikipedia IlWikipedia Ricerca Sinestesia (film) film diretto da Bernasconi Sinestesia Lingua originale italiano Paese di produzione Svizzera Durata 91 min Rapporto1:1.85 Generedrammatico RegiaErik Bernasconi SceneggiaturaErik Bernasconi ProduttoreVilli Hermann, Imagofilm Lugano e RSI FotografiaPietro Zuercher MontaggioClaudio Cormio Effetti specialiFlavio Scarponi, Oltremondo studio Lugano MusicheZeno Gabaglio, Christian Gilardi ScenografiaFabrizio Nicora CostumiLaura Pennisi Interpreti e personaggi Alessio Boni: Alan Giorgia Würth: Francoise Melanie Winiger: Michela Leonardo Nigro: Igor Teco Celio: Padre di Francoise Bindu De Stoppani: Maide Roberta Fossile: Cathrine Igor Horvat: Martin Federico Caprara: Uomo strano Eva Allenbach: Segretaria Massimiliano Zampetti: Infermiere Daniele Bernardi: Fisioterapista Alessandro Otupacca: Proprietario ristorante Sinestesia è un film del 2010 scritto e diretto da Erik Bernasconi, prodotto da Villi Hermann e coprodotto da Giulia Fretta per la RSI. I protagonisti sono Alessio Boni, Melanie Winiger, Würth e Nigro. È stato nominato ai Quartz per la miglior sceneggiatura, per la miglior attrice (Melanie Winiger) e per la miglior attrice esordiente (Giorgia Wurth). La pellicola è uscita nelle sale ticinesi. Trama Il film racconta due momenti della vita di quattro giovani adulti confrontati con le prove del destino. Alan, sua moglie Françoise, la sua amante Michela, il suo migliore amico Igor, vivono le sfaccettature del quotidiano dopo un incidente che costringe Alan su una sedia a rotelle. Per questo la narrazione si compone, con una struttura circolare, in quattro capitoli: uno per personaggio, ognuno ispirato a un genere cinematografico. Sono quattro momenti di una stessa storia, che esplorano le emozioni dei personaggi da quattro angolature diverse. La trama si basa in larga parte sull'osservazione di fatti realmente accaduti e affronta con accenti diversi (thriller psicologico, commedia, dramma…) i temi dell'amicizia, dell'amore, dell'infedeltà e della disabilità.  ProduzioneModifica L'idea del film è partita nel dicembre 2006, con la lettura di un trafiletto in un quotidiano. Poi nell'estate del 2007 il regista e sceneggiatore Erik Bernasconi ha vinto un concorso indetto dal Dipartimento della Cultura del Cantone Ticino e dalla RSI per progetti di scrittura di film. Così Erik Bernasconi inizia a collaborare con il produttore Villi Hermann, della Imagofilm, e parte la stesura della sceneggiatura.  AmbientazioneModifica Il film è stato girato quasi interamente nella Svizzera italiana, a parte alcune scene girate a Lucerna e Ginevra. Le riprese hanno avuto luogo nella primavera e nell'estate del 2009.  RiconoscimentiModifica 2010 - Premio del cinema svizzero Candidatura al premio Quartz per la miglior sceneggiatura Collegamenti esterniModifica ( EN ) Sinestesia, su Internet Movie Database, IMDb.com. Sinestesia, su Rotten Tomatoes, Flixster Inc. Sinestesia, su FilmAffinity. Modifica su Wikidata   Portale Televisione: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di televisione Ultima modifica 2 mesi fa di Botcrux Melanie Winiger modella e attrice svizzera  Erik Bernasconi regista e sceneggiatore svizzero  Zeno Gabaglio Grice: “It may be said that my transcendental Kantian approach to cooperative rational conversation is a response to Costa’s totally empiricist (or ‘sensista’ as he prefers) invocations of ‘chiarezza’ (my imperative of conversational clarity), and brevita, eleganza, and all the categories that inform the maxims. Paolo Costa. Keywords: la teoria sensista della communicazione – senso – consenso – aesthesis – synaesthesia --– idea dei chi proferisce la proposizione “Me diletta l’odore di questa rosa piu del colore”, cooperiamo, e la risponsa di nostre anime e “Contrariamente, a me mi diletta il colore di questa rosa piu dell’odore” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Costantino:  la ragione conversazionale a Roma – la scuola di Naissus – i romani della Dardania -- filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Naissus, parte dell’Impero Romano, oggi, Nis, nella Serbia, capostipite della dinastia costantiniana: Cloro Costanzo, romano d’origine illirica e nativo della Dardania. Madrelingua: latina unicamente. Costantino I. Costantino I Cesare e poi Augusto dell'Impero romano Testa dell'acrolito monumentale di Costantino (Musei Capitolini) Nome originale: Flavius Valerius C. Regno Cognomina ex virtute: Pius Felix Invictus Maximus Victor Triumphator Germanicus maximus IV Sarmaticus maximus III Gothicus maximus II Dacicus maximus Adiabenicus Arabicus maximus Armeniacus maximus Britannicus maximus Medicus maximus  Persicus maximus Nascita Naissus Morte Nicomedia Sepoltura Chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli Predecessore Costanzo Cloro (per parte dei territori di competenza amministrati) e Flavio Severo (per la carica di Cesare d'Occidente) Successore Costantino II (cesare) Costanzo II Costante I (cesare dal 333) Dalmazio (cesare dal 335) Coniuge Minervina Fausta Figli Crispo Costantina Costantino II Costanzo II Costante I Elena Dinastia Costantiniana Padre Costanzo Cloro Madre Elena Flavio Valerio Constantino (Constantino I) Moneta di Costantino con la rappresentazione del monogramma di Cristo sopra il labaro imperiale Nascita Naissus Morte Nicomedia Cause della morte naturali Luogo di sepoltura Chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli Religione cristianesimo convertito dal paganesimo Dati militari Paese servitor Impero romano Forza armata Esercito romano Grado Augusto Comandanti Costanzo Cloro e Massimiano Guerre Guerra civile romana Campagne germanico-sarmatiche di Costantino Invasioni barbariche del IV secolo Campagne siriano-mesopotamiche di Sapore II Battaglie  Battaglia di Verona Battaglia di Torino Battaglia di Ponte Milvio Battaglia di Cibalae Battaglia di Mardia Battaglia dell'Ellesponto Assedio di Bisanzio (324) Battaglia di Adrianopoli Battaglia di Crisopoli Nemici storici Massenzio e Licinio Comandante di Esercito romano voci di militari presenti su Wikipedia Manuale San Costantino I Raffigurazione di san Costantino nella basilica di Santa Sofia a Istanbul. L'imperatore, che la Chiesa ortodossa ha definito «Simile agli Apostoli», proclamandolo santo, è raffigurato nell'atto di dedicare la basilica. Imperatore Nascita Naissus Morte Nicomedia Venerato da Chiesa cristiana ortodossa Santuario principale Chiesa dei Santi Apostoli Ricorrenza 21 maggio Manuale Battaglie di Costantino I nella guerra civile. Flavio Valerio Aurelio Costantino, conosciuto anche come Costantino il Vincitore, Costantino il Grande e Costantino I (in latino: Flavius Valerius Aurelius Constantinus; iΚωνσταντῖνος ὁ Μέγας?, Konstantînos o Mégas; Naissus, Nicomedia), è un filosofo italiano. Costantino è una delle figure più importanti dell'impero romano, che riforma largamente e nel quale permise e favorì la diffusione del cristianesimo. Tra i suoi interventi più significativi, la riorganizzazione dell'amministrazione e dell'esercito, la creazione di una nuova capitale a oriente, Costantinopoli, e la promulgazione dell'Editto di Milano sulla libertà religiosa.  La Chiesa ortodossa e le Chiese di rito orientale lo venerano come santo, presente nel loro calendario liturgico, col titolo di Eguale agli apostoli; mentre il suo nome non è presente nel Martirologio Romano, il catalogo ufficiale dei santi riconosciuti dalla Chiesa cattolica. Le fonti primarie sulla vita di Costantino e sulle relative vicende da imperatore devono essere prese con la dovuta cautela. La principale fonte contemporanea è costituita da Eusebio di Cesarea, autore di una Storia Ecclesiastica che non manca di esaltare la gloria e la nobiltà di Costantino in quanto imperatore, a cui fa seguito una Vita di Costantino che ne costituisce una vera e propria agiografia. Anche Lattanzio, nel suo De mortibus persecutorum, delinea in modo netto la distinzione fra il pio Costantino e il perverso Diocleziano (Salona). Distinzione forse non del tutto disinteressata, visto che Lattanzio, nato in Nordafrica da famiglia pagana e convertitosi al cristianesimo, dove fuggire precipitosamente da Nicomedia, sede imperiale di Diocleziano, all'alba dell'ultima persecuzione contro i Cristiani. La stessa cautela deve valere per la Storia Nuova di Zosimo. Infine, l'appendice alla storia di Ottato di Milevi sullo scisma donatista racchiude alcune lettere che C. invia ai cristiani del Nordafrica e che, se autentiche, potrebbero rivelare alcuni tratti del pensiero dell'imperatore riguardo alla questione.  Albero genealogico della dinastia costantiniana che ha in COSTANZO CLORO (si veda) il vero capostipite. Costantino nacque a Naissus (odierna Niš, in Serbia), un modesto centro situato nella provincia romana della Mesia Superiore, figlio di COSTANZO CLORO (si veda), militare e politico romano di origini illiriche e nativo della Dardania. Costantino e di madrelingua latina e, ha sempre difficoltà nel padroneggiare il greco, tanto da doversi avvalere d'interpreti con locutori ellenofoni. Si conosce pochissimo della sua gioventù. Perfino la sua data di nascita è incerta. Forse è proprio durante l'adolescenza che gli è affibbiato il soprannome dispregiativo “Trachala,” da interpretare nel senso di "viscido come una lumaca". Nominato Prefetto del pretorio delle Gallie (cioè comandante militare) e in base al sistema della Tetrarchia voluta da Diocleziano, nominato Cesare dall'Augusto di Occidente, Massimiano, di cui sposa la figliastra Teodora. Costantino e affidato all'Augusto d'Oriente, Diocleziano, ed educato a Nicomedia presso la corte dell'imperatore, sotto il quale comincia la carriera militare: fu tribunus ordinis primi e con questo grado fu al seguito dello stesso Diocleziano nel suo viaggio in Egitto. Successivamente partecipò attivamente alla campagna contro i Sasanidi condotta da Galerio per poi tornare a servizio di Diocleziano con il quale lascia definitivamente l'Egitto attraversando la Palestina. Combatté ancora tra le file dell'esercito di Galerio sul confine danubiano, ove si distinse nelle guerre contro i Sarmati. Diocleziano abdicò a favore del proprio Cesare Galerio e lo stesso fa Massimiano in Occidente, a favore di Costanzo Cloro. Galerio nomina proprio Cesare il nipote Massimino Daia e impone a Costanzo, con il sostegno di Diocleziano, come nuovo Cesare Flavio Severo, un ufficiale di alto rango che aveva militato tra le file dello stesso Galerio.E in questo frangente che Costantino raggiunse il padre in Britannia (alcune fonti vogliono che quella di Costantino sia stata una vera e propria fuga da Nicomedia, dove Galerio avrebbe voluto trattenerlo per garantirsi la fedeltà di Costanzo Cloro) e condusse con lui alcune campagne militari nell'isola.Circa un anno dopo, Costanzo Cloro morì nei pressi di Eburacum, l'odierna York. Qui l'esercito, guidato dal generale germanico Croco (di origine alamanna), proclama C. nuovo Augusto d'Occidente, mettendo a repentaglio il meccanismo della tetrarchia, ideato da Diocleziano proprio per porre termine all'uso ormai consolidato degli eserciti di proclamare di propria iniziativa gli imperatori. Per tale ragione Galerio, che al tempo era l'unico Augusto legittimo rimasto in carica, e inizialmente scettico nel riconoscere l'investitura di Costantino, tuttavia alla fine si convinse a cooptarlo nel collegio imperiale ma con il rango di Cesare, promuovendo invece come nuovo Augusto d'Occidente Flavio Severo. Costantino da parte sua accettò la decisione di Galerio e, per dimostrare come riconoscesse l'autorità di Severo quale nuovo superiore in grado, cede a quest'ultimo il controllo della diocesi Iberica, mentre a lui sarebbe rimasto il governo delle Gallie e della Britannia. La sofferta nomina di C. a Cesare, per quanto gestita e riassorbita nei quadri della tetrarchia, aveva mostrato la debolezza del sistema di successione per cooptazione creato da Diocleziano. Infatti Massenzio, figlio dell'Augusto emerito Massimiano, scontento di essere stato tagliato fuori da qualsiasi posizione di potere, si fece acclamare imperatore a Roma con l'appoggio dei pretoriani, dell'aristocrazia senatoria e della plebe urbana. Galerio per l'occasione decise di agire senza indugi e con durezza, ordinando a Severo, che risiedeva a Milano, di marciare verso Roma per sedare la rivolta ma, giunto in prossimità della città, le truppe al suo comando disertarono poiché venute a conoscenza che Massimiano, per il quale avevano militato prima della sua abdicazione, si era schierato a sostegno del figlio. Severo, fatto prigioniero, fu poi ucciso.Galerio allora tenta di organizzare in prima persona una spedizione in Italia, ma non ottenne alcun risultato e fu costretto a ritirarsi nell'Illirico. Durante questi eventi, Costantino e impegnato sul confine renano a combattere con successo i Franchi e si era mantenuto neutrale nella disputa tra Galerio e Massenzio. Massimiano cerca dunque di farselo alleato e, per attirarlo alla sua causa, lo raggiunse a Treviri, offrendogli in sposa la figlia Fausta e il titolo di Augusto. Costantino accettò l'offerta di alleanza e, dopo essere convolato a nozze, si fa proclamare Augusto sul finire dell'anno. Tornato a Roma, Massimiano entra in urto con Massenzio, al potere del quale non voleva più essere subordinato e, costretto a fuggire dalla città poiché le truppe erano rimaste leali al figlio, fu riaccolto alla corte di Costantino in Gallia. Galerio, nel tentativo di porre rimedio alla crisi istituzionale creatasi, convoca a Carnuntum un convegno al quale presero parte, oltre a lui, anche Massimiano e, soprattutto, Diocleziano. In questa circostanza e creato Augusto Liciniano Licinio, un commilitone di Galerio, mentre Costantino fu degradato nuovamente a Cesare e Massimiano dovette deporre, questa volta definitivamente, le vesti imperiali per una seconda volta. Contestualmente Massenzio fu dichiarato hostis publicus («nemico pubblico»). Tornato deprivato di ogni potere, Massimiano inizia a tramare contro Costantino. Approfittando dell'assenza del genero, impegnato a sedare una sollevazione dei Franchi, il vecchio Erculio si proclamò per la terza volta imperatore e, assunto il comando della truppe stanziate a Marsiglia, si arroccò nella città.[49] Costantino, tornato in fretta dal confine renano, la pose d'assedio ma, ancor prima che iniziassero le ostilità, i soldati all'interno della città si arresero e consegnarono Massimiano, a cui fu però risparmiata la vita.[50] Agli inizi del 310, dopo un ennesimo complotto ordito da Massimiano e sventato questa volta dalla figlia Fausta, Costantino ordinò la messa a morte del suocero e successivamente, attorno alla metà dell'anno, decise di riappropriarsi del titolo di Augusto che gli era stato tolto a Carnuntum, ottenendo stavolta il consenso di Galerio. Alla morte di Galerio nel 311, Costantino si alleò con Licinio, mentre Massenzio con Massimino Daia. Costantino, ormai sospettoso nei confronti di Massenzio, riunito un grande esercito formato anche da barbari catturati in guerra, oltre a Germani, popolazioni celtiche e provenienti dalla Britannia, mosse alla volta dell'Italia attraverso le Alpi, forte di 90 000 fanti e 8 000 cavalieri.[53] Lungo la strada, Costantino lasciò intatte tutte le città che gli aprirono le porte, mentre assediò e distrusse quante si opposero alla sua avanzata. Egli, dopo aver battuto due volte Massenzio prima presso Torino e poi presso Verona, lo sconfisse definitivamente nella battaglia di Ponte Milvio,[54] presso i Saxa Rubra sulla via Flaminia, alle porte di Roma. Con la morte di Massenzio, tutta l'Italia passa sotto il controllo di C. Durante questa campagna sarebbe avvenuta la celebre e leggendaria apparizione della croce sovrastata dalla scritta In hoc signo vinces che avvicina C. al cristianesimo. Secondo Eusebio di Cesarea questa apparizione avrebbe avuto luogo proprio nei pressi di Torino. Ebbe dalla moglie Fausta Costantina.  Augusto d'Occidente Schema della battaglia avvenuta presso Adrianopoli, dove C., seppure in inferiorità numerica, prevalse su Licinio, il quale lasciò sul campo secondo Zosimo ben 34.000 armati.  Massimino Daia veniva sconfitto da Licinio e si dava la morte. Entrando in Nicomedia Licinio emanò un rescritto (impropriamente detto editto di Milano dal luogo dove era stato concordato con Costantino), con cui a nome di entrambi gli augusti rimasti veniva riconosciuta anche in Oriente la libertà di culto per tutte le religioni, ponendo fine ufficialmente alle persecuzioni contro i cristiani, l'ultima delle quali, cominciata da Diocleziano tra il 303 e il 304, si era conclusa nel 311 su ordine di Galerio, prossimo a morire.  Il testo del decreto recita: Cum feliciter tam ego [quam] C. Augustus quam etiam ego Licinius Augustus apud Mediolanum convenissemus atque universa quae ad commoda et securitatem publicam pertinerent, in tractatu haberemus, haec inter cetera quae videbamus pluribus hominibus profutura, vel in primis ordinanda esse credidimus, quibus divinitatis reverentia continebatur, ut daremus et Christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset, quod quicquid <est> divinitatis in sede caelesti, nobis atque omnibus qui sub potestate nostra sunt constituti, placatum ac propitium possit existere»  Noi, dunque C. Augusto e Licinio Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai galilei e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché il divino, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità. -- Lattanzio, De mortibus persecutorum, capitolo XLVIII)  Nella prosecuzione il rescritto ordina l'immediata restituzione ai galilei di tutti i luoghi di culto e di ogni altra proprietà delle chiese.  Costantino e Licinio, che ne aveva sposato la sorella Costanza, entrarono una prima volta in conflitto  (in seguito alla riappacificazione l'Illirico passò a Costantino). In seguito alla sconfitta di Licinio, che si arrese dopo le battaglie di Adrianopoli e di Crisopoli e venne successivamente ucciso, Costantino rimase l'unico augusto al potere. Questo periodo cominciò con una serie di uccisioni, a partire da quella del suo antico rivale Licinio. L'anno seguente Costantino fa uccidere a Pola il figlio primogenito Crispo, figlio di Minervina, per una presunta relazione con Fausta e inoltre Liciniano, figlio della sorella Costanza e di Licinio. Quindi anche la moglie Fausta venne uccisa soffocata o annegata nel bagno termale, riscaldato oltre la temperatura normale. La leggenda vuole che Crispo sia stato eliminato in seguito all'accusa di Fausta di averla insidiata, e quindi anche lei venne giustiziata quando Costantino riconosce l'innocenza del figlio. Forse erano entrambi vittime di falsi delatori o lei volle assicurarsi l'eliminazione dei rivali dei propri figli come successori di Costantino. Il rimorso di C. e grande, secondo quanto riporta ne “I Cesari” il suo polemico successore, il principe Giuliano. Si erano iniziati i lavori per la costruzione della nuova capitale Nuova Roma sul sito dell'antica Bisanzio, fornendola di un senato e di uffici pubblici simili a quelli di Roma.  Il luogo venne scelto come capitale nper le sue eccezionali qualità difensive e per la vicinanza ai minacciati confini orientali e ai danubiani. Inoltre, particolare non secondario, consentiva a Costantino di sottrarsi all'influenza invadente, arrogante e irritante degl’aristocratici presenti nel Senato romano, che tra l'altro erano della religione dell’antica Roma. Nova Roma e inaugurata e prese presto il nome di “Costantinopoli”. Rispetto alla vecchia città, la nuova era quattro volte più vasta: dove c'era un'antica porta Costantino pose un foro circolare, inoltre spostò le sue mura più a occidente di 15 stadi. La città (oggi Istanbul) resterà poi fino al 1453 capitale dell'Impero romano d’oriente. Diocesi (impero romano) e Prefettura del pretorio. Riprendendo la divisione della riforma tetrarchica dioclezianea che prevedeva due Augusti e due Cesari, l'Impero venne ridisegnato e suddiviso in quattro prefetture, tutte facenti capo a un unico Imperatore: delle Gallie, comprendente la Gallia transalpina, la Spagna e la Britannia;  d'Italia, comprendente l'Italia, la Sicilia, Sardegna e Corsica, e l'Africa dalle Sirti alla Mauretania Caesariensis; d'Oriente, comprendente tutte le province orientali con l'eccezione delle isole di Lemno, Imbro e Samotracia, l'Egitto e la pentapoli di Libia, oltre alla Tracia e la Mesia inferiore; d'Illirico, comprendente le province balcaniche, vale a dire dalla Macedonia, alla Tessaglia, a Creta all'Ellade, ai due Epiri, all'Illiria, a Dacia, Triballia e Mesia superiore, oltre alle Pannonie sino alla Valeria. All'interno di queste prefetture mantenne rigidamente separati il potere civile e politico, da quello militare: la giurisdizione civile e giudiziaria era affidata a un prefetto del pretorio, cui erano subordinati i vicari delle diocesi e i governatori delle province. I prefetti furono, quindi, privati in parte del potere militare,[65] lasciando loro ancora compiti di logistica militare,[66] e diventarono amministratori delle grandi prefetture in cui era diviso l'impero. Essi svolgevano le seguenti funzioni:[67]  la suprema amministrazione della giustizia e delle finanze (sostenendo anche le spese militari[68]). l'applicazione e, in alcuni casi, la modifica degli editti generali. controllo dei governatori delle province, i quali in caso di negligenza o corruzione venivano destituiti e/o puniti. Inoltre il tribunale del prefetto poteva giudicare ogni questione importante, civile o penale, e la sua sentenza era considerata definitiva, al punto che neanche gli imperatori osavano lamentarsi della sentenza del prefetto. Costantino poi controbilanciava l'importanza e la potenza dei prefetti del pretorio con la breve durata della carica. Ogni prefettura, divisa in tredici diocesi, di cui una (Oriente) era governata da un Conte d'Oriente, un'altra (Egitto) da un Prefetto Augusteo, e le altre undici da altrettanti Vicari o sottoprefetti, i quali sottostavano all'autorità del prefetto del pretorio.[69] Ogni diocesi era ulteriormente suddivisa in province.  L'apparato burocratico venne snellito e suddiviso tra gli affari della corte, affidati a quattro alti dignitari, e gli affari dello Stato, affidati a tre alti funzionari: costoro, insieme con i prefetti urbani componevano il Concistorium principis o Sacrum concistorium ("Consiglio del principe" o "Sacro collegio").  I quattro dignitari che regolavano le attività della corte erano:  il comes rerum privatarum ("ministro degli affari privati"), che si occupava di gestire il patrimonio privato dell'imperatore[70], il praepositus sacri cubiculi ("preposito del sacro cubicolo"), una sorta di gran ciambellano che si occupava della vita della corte imperiale e da cui dipendevano cortigiani e schiavi, due comites domesticorum ("ministro dei domestici"), responsabili l'uno del personale che svolgeva il proprio servizio a piedi e l'altro del personale a cavallo e della guardia imperiale. I tre alti funzionari a cui competeva l'amministrazione dello Stato erano:  il magister officiorum ("maestro degli uffici"), un cancellerie che si occupava dell'amministrazione interna e delle relazioni esterne, il quaestor sacri palatii ("questore del sacro palazzo"), con competenza in materia di leggi e di giustizia, che dirigeva inoltre il "Consiglio del principe", il comes sacrarum largitionum ("ministro delle sacre elargizioni"), che si occupava delle materie finanziarie statali. La politica amministrativa di Costantino è controversa e in particolare è stata aspramente criticata dallo storico illuminista Edward Gibbon, autore di Storia del declino e della caduta dell'Impero romano (opera composta tra il 1776 e il 1788), che dà di Costantino un giudizio estremamente negativo. Per Gibbon al tempo di Costantino: si istituì un poderoso sistema burocratico, coniando cariche sconosciute in antecedenza (magnifico, illustre, conte, duca, ecc.), tali da creare un controllo vessatorio e di spionaggio su tutte le province; i pretoriani erano in numero spropositato ed erano di origine armena, con corazze di argento e d'oro; la capitale trasferita da Roma a Costantinopoli (depredando importanti opere di Fidia e altri scultori della Grecia classica) accentuò l'emarginazione del Senato romano; la tassazione esorbitante finì per spopolare anche una delle regioni (Campania) più produttive dell'Italia; si accentuò, inoltre, la disgregazione dell'esercito romano, sia con la nomina di barbari al massimo comando militare, sia con la penalizzazione economica dei soldati che salvaguardavano il confine (limes) dalle invasioni. Complessivamente, per Gibbon, neppure Caligola o Nerone fecero più danni all'impero di Costantino.  Politica estera e frontiere  Lo stesso argomento in dettaglio: Campagne germanico-sarmatiche di Costantino, Limes romano, Diga del Diavolo e Brazda lui Novac (limes).  Le frontiere romane settentrionali e orientali al tempo di Costantino, con i territori acquisiti nel corso del trentennio di campagne militari. La mappa qui sopra rappresenta anche il mondo romano poco dopo la morte di Costantino, con i territori "spartiti" tra i suoi tre figli (Costante I, Costantino II e Costanzo II) e i due nipoti (Dalmazio e Annibaliano) Già ai tempi in cui era stato Cesare in Occidente, attorno agli anni 306-310,[71] Costantino ottenne grandi successi militari su Alemanni e Franchi, di cui si dice riuscì a catturare i loro re, dati in pasto alle belve durante i giochi gladiatorii. Divenuto unico augusto in Occidente nel 313 respinse una nuova invasione di Franchi in Gallia. Dopo una prima crisi con Licinio, al termine della quale i due augusti trovarono un nuovo equilibrio strategico nel 317, ottenne nuovi successi contro le genti barbare lungo il Danubio. Egli, infatti, batté sia i Sarmati Iazigi sia i Goti. Avendo ottenuto da Licinio anche l'Illirico, Costantino non solo respinse numerose incursioni di Sarmati Iazigi e Goti, ma potrebbe aver dato inizio alla costruzione di due nuovi tratti di limes: il primo nella pianura ungherese chiamato diga del Diavolo, formato da una serie di terrapieni che da Aquincum collegavano il fiume Tibisco, per poi piegare verso sud e collegare il fiume Mureș, percorrere il Banato fino al Danubio all'altezza di Viminacium; il secondo nella Romania meridionale chiamato Brazda lui Novac, che correva parallelo a nord del basso corso del Danubio, da Drobeta alla pianura della Valacchia orientale fin quasi al fiume Siret.[74]  Divenuto unico augusto nel 324, affidò ai figli la difesa dell'Occidente contro Franchi e Alamanni (contro i quali ottenne nuovi successi e il titolo di Alamannicus maximus, insieme con Costantino) mentre lui stesso combatteva sul confine danubiano i Goti) e i Sarmati). Divise l'impero tra i figli assegnando a Costantino II Gallia, Spagna e Britannia, a Costanzo II le province asiatiche, l'Oriente e l'Egitto e a Costante I l'Italia, l'Illirico e le province africane. Alla sua morte nel 337 si preparava ad affrontare in Oriente i Persiani.  Costantino nei suoi oltre trent'anni di regno aveva aspirato a riconquistare, non solo tutti i territori appartenuti all'Impero di Traiano, ma soprattutto a diventare il protettore di tutti i Cristiani anche oltre le frontiere imperiali. Egli, infatti, costrinse molte delle popolazioni barbariche sottomesse a nord del Danubio, a sottoscrivere clausole religiose dopo averle battute più e più volte, come nel caso dei Sarmati e dei Goti. Identica sorte sarebbe toccata al regno d'Armenia e ai Persiani se non fosse morto. Esercito  Riforma costantiniana dell'esercito romano.  Mappa della ex-Dacia romana con il suo complesso sistema di fortificazioni e difesa. In grigio la cosiddetta diga del Diavolo e a destra (in verde) il Brazda lui Novac, di epoca costantiniana. Le prime vere modifiche apportate da Costantino nella nuova organizzazione dell'esercito romano, furono effettuate subito dopo la vittoriosa battaglia di Ponte Milvio contro il rivale Massenzio nel 312. Egli infatti sciolse definitivamente la guardia pretoriana e il reparto di cavalleria degli equites singulares e fece smantellare l'accampamento del Viminale. Il posto dei pretoriani fu sostituito dalla nuova formazione delle schole palatine, le quali ebbero lunga vita poi a Bisanzio ormai legate alla persona dell'imperatore e destinate a seguirlo nei suoi spostamenti, e non più alla Capitale. Una nuova serie di riforme furono poi portate a termine una volta divenuto unico Augusto, subito dopo la sconfitta definitiva di Licinio nel 324. La guida dell'esercito fu sottratta ai prefetti del pretorio, e ora affidata a: il magister peditum (per la fanteria) e il magister equitum (per la cavalleria). I due titoli potevano tuttavia essere riuniti in una sola persona, tanto che in questo caso la denominazione della carica si trasformava magister peditum et equitum o magister utriusque militiae[80] (carica istituita verso la fine del regno, con due funzionari praesentalis). I gradi più bassi della nuova gerarchia militare prevedevano, oltre ai soliti centurioni e tribuni, anche i cosiddetti duces,[65] i quali avevano il comando territoriale di specifici tratti di frontiera provinciale, a cui erano affidate truppe di limitanei. C., inoltre, sempre secondo Zosimo, rimosse dalle frontiere la maggior parte dei soldati e li insediò nelle città (si tratta della creazione dei cosiddetti comitatensi):  «città che non avevano bisogno di protezione, privò del soccorso quelle minacciate dai barbari [lungo le frontiere] e procurò alle città tranquille il danno generato dalla soldataglia, per questi motivi molte città risultano deserte. Lasciò anche che i soldati rammollissero, frequentando i teatri, e abbandonandosi alla vita dissoluta.»  (Zosimo, Storia nuova)  Nell'evoluzione successiva il generale in campo svolse sempre più le funzioni di una sorta di ministro della guerra, mentre vennero create le cariche del magister equitum praesentalis e del magister peditum praesentalis ai quali veniva affidato il comando effettivo sul campo. Costantino introdusse una riforma monetaria, necessaria anche per fare fronte alla scarsità di monete d'oro. Venne, quindi, introdotto il solidus d'oro, con un peso di 4,54 g pari a 1/72 di libbra, cioè più leggero (anche se più largo e sottile) dell'aureo, che in quel momento valeva 1/60 di libbra. Si ritornò inoltre al sistema bimetallico di Augusto coniando la siliqua d'argento, di 2,27 g pari a 1/144 di libbra: il miliarense, con un valore doppio della siliqua, aveva quindi lo stesso peso del solidus. Per quanto riguarda i bronzi, il follis, ormai fortemente svalutato, venne sostituito da una moneta di 3 g, detto nummus centonionalis, cioè 1/100 di siliqua.  Fu una riforma duratura, tanto che il peso aureo del solido introdotto con la riforma di Costantino rimase invariato per secoli anche durante l'impero bizantino. Ma a livello sociale le conseguenze furono catastrofiche: tutti coloro che non avevano accesso alla nuova moneta d'oro, infatti, dovettero subire le conseguenze dell'inflazione, a causa di una svalutazione rispetto al solidus delle altre monete d'argento e di rame, che non erano più protette dallo Stato. Il risultato fu una insuperabile spaccatura tra una minoranza privilegiata di ricchi e la massa dei poveri.  Morte e successione  Albero genealogico della dinastia costantiniana: i discendenti di Costantino. Costantino morì il  non molto lontano da Nicomedia (in località Achyrona), mentre preparava una campagna militare contro i Sasanidi. La sua salma fu portata a Costantinopoli e sepolta in un sarcofago nella Chiesa dei Santi Apostoli.  C. preferì non nominare un unico erede, ma dividere il potere tra i suoi tre figli cesari Costante I, Costantino II e Costanzo II e due nipoti Dalmazio e Annibaliano. Costanzo, che era impegnato in Mesopotamia settentrionale a supervisionare la costruzione delle fortificazioni frontaliere,[86] si affrettò a tornare a Costantinopoli, dove organizzò e presenziò alle cerimonie funebri del padre: con questo gesto rafforzò i suoi diritti come successore e ottenne il sostegno dell'esercito, componente fondamentale della politica di Costantino. Si ebbe un eccidio, per mano dell'esercito, dei membri maschili della dinastia costantiniana e di altri esponenti di grande rilievo dello stato: solo i tre figli di Costantino e due suoi nipoti bambini (Gallo e Giuliano, figli del fratellastro Giulio Costanzo) furono risparmiati. Le motivazioni dietro questa strage non sono chiare: secondo Eutropio Costanzo non fu tra i suoi promotori ma non tentò certo di opporvisi e condonò gli assassini; Zosimo invece afferma che Costanzo fu l'organizzatore dell'eccidio. Nel settembre dello stesso anno i tre cesari rimasti (Dalmazio e Annibaliano furono vittime della purga) si riunirono a Sirmio in Pannonia, dove il 9 settembre furono acclamati imperatori dall'esercito e si spartirono l'Impero: Costanzo si vide riconosciuta la sovranità sull'Oriente, Costante sull'Illirico e Costantino II sulla parte più occidentale (Gallie, Hispania e Britannia). La divisione del potere tra i tre fratelli durò poco: Costantino II morì nel 340, mentre cercava di rovesciare Costante, e Costanzo guadagnò i Balcani; nel 350 Costante fu rovesciato dall'usurpatore Magnenzio, e Costanzo divenne unico imperatore.  Icona ortodossa bulgara con l'imperatore e la madre Elena e la "vera croce". Il comportamento costantiniano in tema di culto uffiziale ha dato spazio a molte controversie fra i filosofi -- controversie particolarmente aspre quando essi hanno preteso di valutare non solo il comportamento pubblico, ma le sue convinzioni interiori. In alternativa all'opinione tradizionale, secondo cui Costantino si sarebbe convertito al cristianesimo poco prima della battaglia di Ponte Milvio, è stata, invece, asserita la sua costante adesione al CULTO SOLARE, mettendo in dubbio perfino il battesimo in punto di morte. Secondo altri filosofi, poi, il culto uffiziale e per Costantino un puro e semplice instrumentum regni. Burckhardt afferma: «Nel caso di un uomo geniale, al quale l'ambizione e la sete di dominio non concedono un'ora di tregua, non si può parlare del sacro consapevole -- un uomo simile è essenzialmente a-religioso, e lo sarebbe anche se egli immaginasse di far parte integrante di una comunità religiosa. Secondo altri filosofi ancora, poi, occorre distinguere fra convinzioni private e comportamento pubblico, vincolato dalla necessità di conservare il consenso delle proprie truppe e dei propri sudditi, qualunque ne fosse l'orientamento religioso. Da questo punto di vista è utile distinguere fra il comportamento di Costantino antecedente e quello successivo alla battaglia di Crisopoli, grazie alla quale consegue il dominio assoluto sull'impero.  Dopo questo, si trova comunque d'accordo molti studiosi di quell'epoca. Tra costoro, Veyne sostiene con sicurezza l'autenticità della conversione di Costantino, ricordando, con Bury, che la sua rivoluzione e forse l'atto più audace mai compiuto da un autocrate in spregio alla grande maggioranza dei suoi sudditi. E ciò in considerazione del fatto che la popolazione che segue il culto dei galilei e circa il 8% del totale nel principato di Costantino.Veyne ha inoltre proposto un'interessante teoria per tentare di spiegare in modo razionale il fenomeno leggendario della visione che potrebbe aver spinto Costantino a una conversione solo apparentemente improvvisa. Veyne ipotizza che un sogno abbia potuto avere azione catalitica su un terreno psicologico predisposto da esperienze e suggestioni vissute precedentemente. È comunque fuori di dubbio la sincerità costantiniana nella ricerca dell'unità e concordia del culto, la cui necessità deriva da un preciso disegno politico che considera l'unità del mondo condizione indispensabile alla stabilità della potenza imperiale. Costantino infatti interpreta in questo senso l'antico tema, caro alla Roma sul principato della “pax deorum”, nel senso che la forza del principato non deriva semplicemente dalle azioni di un principe illuminato, da una saggia amministrazione e dall'efficienza di un ben strutturato e disciplinato esercito, ma direttamente dalla benevolenza del divino. Mentre però, nella religione della Roma antica, vi era un rapporto DIRETTO tra il potere del principe e il divino, il principe non puo ignorare istituzioni che, tramite i suoi vescovi, adita la fonte divina del potere. Costantino non puo fare a meno di essere co-involto nelle lotte teologiche. Su una tale base ideologica, questa ricerca dell'unità e della concordia comporta quindi anche interventi molto duri nei confronti di coloro che il principe considera eretici, che sono trattati duramente, dei pagani. I conflitti teologici si trovarono dunque ad avere una ricaduta politica, mentre d'altra parte le sorti interne del principato sono sempre più dipendenti dai risultati delle lotte teologiche. Gli stessi vescovi, infatti, sollecitavano continuamente l'intervento del principe per la corretta applicazione delle decisioni dei concili, per la convocazione dei sinodi e anche per la definizione di controversie teologiche. Ogni successo di una fazione comportava la deposizione e l'esilio dei capi della fazione opposta, con i metodi tipici della lotta politica. La religione della Roma Antica si era fortemente trasformata: sulla spinta della insicurezza dei tempi e dell'influsso dei culti di origine orientale, le sue caratteristiche pubbliche e ritualistiche hanno sempre più perso di significato di fronte a una più intensa e personale spiritualità. Si era andato diffondendo un sincretismo venato di mono-teismo (il colto solare di un divino unico, il re sole identificato con Giove -- e si tendeva a vedere nelle immagini degli dei tradizionali – altri che Giove -- l'espressione di un unico essere divino: Giove. Una forma politica a questa aspirazione sincretistica e data dall'imperatore Aureliano con l'istituzione del culto ufficiale del Sole Invitto con elementi del mitraismo e di altri culti solari di origine orientale. Il culto e diffuso nell'esercito, soprattutto nell'occidente, e a esso non furono estranei né Costanzo Cloro, il padre di Costantino, né Costantino stesso. Costantino e certamente il primo a comprendere l'importanza della religione per rafforzare la coesione culturale e politica dell'impero romano.  Fa vietare il concubinato dei mariti, mentre fu reso più difficile il ripudio, antenato del divorzio. La domenica e elevata a giorno festivo pubblico. Lo Stato inizia a finanziare il clero pubblico e la costruzione di nuove edificii o fu l'imperatore a farle erigere personalmente, ad esempio a Roma (Antica basilica di Pietro nel monte Vaticano), ma especialmente fuora di Roma: a  Betlemme (Basilica della Natività), Gerusalemme (Basilica del Santo Sepolcro) e Costantinopoli (Chiesa dei Santi Apostoli). In un decreto concesse che su richiesta di una sola delle parti contendenti, le cause civili potessero essere giudicate innanzi ai vescovi. Fu concesso agli ecclesiastici l'esonero dagli oneri municipali. Moneta di Costantino, con una rappresentazione del Sol Invictus e l'iscrizione SOLI INVICTO COMITI, "al Sole Invitto compagno"  Moneta di Costantino con la rappresentazione del monogramma di Cristo sopra il labaro imperiale Le monete coniate da Costantino forniscono indirettamente notizie sull'atteggiamento pubblico di Costantino verso i culti religiosi. Quando ancora ricopriva il ruolo di principe, alcune emissioni si inserirono nel classico filone della Tetrarchia, con dediche «al Genio del Popolo Romano» ("Gen Pop Romani"), provenienti specialmente dalla zecca di Londinium (Londra). Ancora per alcuni anni dopo la battaglia di Ponte Milvio le zecche orientali (Alessandria, Antiochia, Cyzicus, Nicomedia, ecc.) continuarono a produrre monete dedicate «a Giove salvatore» (Iovi conservatori). Nello stesso periodo le monete delle zecche occidentali (Arles, Londra, Lione, Augusta Treverorum, Pavia, ecc) continuarono a coniare monete dedicate «al Sole invitto compagno» e, nel caso della zecca di Pavia, anche «a Marte salvatore» (Marti Conservatori) e «a Marte Protettore della Patria» (Marti Patri Conservatori).  L'attributo «compagno» riferito al Sole, che manca in monete analoghe di precedenti imperatori, è singolare e occorre chiedersene il significato. Normalmente viene interpretato come «al compagno (di Costantino), il Sole Invitto»; indicherebbe quindi una indiretta deificazione dell'imperatore stesso. Il vero significato, però, potrebbe anche essere completamente diverso. Nell'età imperiale, infatti, la parola latina comes, oltre che «compagno» indicava un funzionario imperiale e perciò da essa è derivato il titolo nobiliare «conte». Alle orecchie dei galilei, quindi, questa strana legenda poteva ricordare che il sole non era un dio, ma una potenza subordinata alla divinità suprema. A sua volta l'imperatore si presenta come l'autorità suprema in terra allo stesso modo come il sole lo era in cielo; autorità, però, entrambe subordinate.  Questa interpretazione è confermata dall'emissione  (durante la prima guerra civile contro Licinio), la cui legenda recita: SOLI INVIC COM DN (soli invicto comiti domini), che potrebbe essere tradotto come «al sole invitto compagno del signore», ma che sembra più logico tradurre «al sole invitto, ministro del Signore».  La maggior parte delle zecche sia in oriente sia in occidente passarono a emissioni laiche benaugurali, fra cui per prima quella con la legenda «Liete vittorie al principe perpetuo» (Victoriae laetae prin. perp.).Da quell'anno dalle monete bronzee di Costantino iniziano a sparire gli dei tradizionali, come Elio, Marte, Giove, sostituiti dall'immagine solitaria dell'imperatore, che volge gli occhi verso l'alto, ad un divino generico, che può essere interpretata come Giove. La monetazione aurea invece mantiene ancora a lungo gli dei tradizionali, forse perché rivolta ai patrizi e a persone di rango elevato, ancora legate alla religione tradizionale  Le monete con simboli dei galilei o supposti tali sono rare e costituiscono solo circa l'1% delle tipologie conosciute. La zecca di Pavia (Ticinum) conia un medaglione d'argento in cui il monogramma di Cristo era riprodotto sopra l'elmo piumato dell'imperatore. Solo dopo la vittoria su Licinio compare la tipologia con il labaro imperiale e il monogramma di Cristo, che trafiggono un serpente, simbolo appunto di Licinio,[99] e simultaneamente scompaiono del tutto dalle monete sia le immagini del sole invitto sia la corona radiata, altro simbolo apollineo e solare.  Nel 326 appare il diadema, simbolo monarchico di derivazione ellenistica, e poco dopo il sovrano viene raffigurato con lo sguardo rivolto in alto, come nei ritratti ellenistici, a simboleggiare il contatto privilegiato tra l'imperatore e la divinità.  L'ambiguitas constantiniana Quanto sopra osservato a proposito delle monete di Costantino, cioè la volontà imperiale di presentarsi come un prediletto dal cielo, senza, però, mettere in chiaro quale fosse la divinità, può essere rilevato in molti altri aspetti dell'impero di Costantino.  Il ruolo determinante giocato da Costantino nell'ambito della chiesa cristiana (ad esempio tramite la convocazione di concili e il presiederne i lavori) non deve oscurare il fatto che Costantino svolse funzioni analoghe nell'ambito di altri culti. Egli infatti mantenne la carica di pontefice massimo della religione pagana; carica che era stata di tutti gli imperatori romani a partire da Augusto. Lo stesso fecero i suoi successori cristiani fino al 375.  Anche la battaglia di Ponte Milvio, con cui nel 312 Costantino sconfisse Massenzio, diede origine a leggende discordanti, che, però, potrebbero risalire tutte a Costantino, sempre attento a presentarsi come prescelto dal divino, qualunque essa fosse. Per queste leggende si veda la voce in hoc signo vinces. In questo senso si spiegano sia l'editto imperiale di tolleranza o l'editto di Milano del 313 (conferma rafforzata di un editto di Galerio del 30 aprile 311), sia l'iscrizione sull'arco di Costantino: entrambi citano una generica "divinità", che poteva dunque essere identificata sia con il Dio cristiano, sia con il dio solare. L'ambiguità dell'Editto di Milano, però, è ovvia, dato che esso fu proclamato da Licinio.  Costantino persegue probabilmente il proposito di riavvicinare i culti presenti nell'impero, nel quadro di un non troppo definito monoteismo imperiale. Vi fu una grande confusione da parte degli osservatori esterni del cristianesimo che portò molti ad identificare i cristiani come adoratori del sole. Molto prima che Eliogabalo e i suoi successori diffondessero a Roma il culto siriaco del Sol invictus, molti romani ritenevano che i cristiani adorassero il sole:  «Gli adoratori di Serapide sono cristiani e quelli che sono devoti al dio Serapide chiamano se stessi Vicari di Cristo»  (Adriano)  «…molti ritengono che il Dio cristiano sia il Sole perché è un fatto noto che noi preghiamo rivolti verso il Sole sorgente e che nel Giorno del Sole ci diamo alla gioia»  (Tertulliano, Ad nationes, apologeticum, de testimonio animae)  Questa confusione era senz'altro favorita dal fatto che Gesù era risorto nel primo giorno della settimana, quello dedicato al sole, e perciò i cristiani avevano l'abitudine di festeggiare proprio in quel giorno (oggi chiamato domenica):  «Nel giorno detto del Sole si radunano in uno stesso luogo tutti coloro che abitano nelle città o in campagna, si leggono le memorie degli apostoli o le scritture dei profeti, per quanto il tempo lo consenta; poi, quando il lettore ha terminato, il presidente istruisce a parole ed esorta all'imitazione di quei buoni esempi. Poi ci alziamo tutti e preghiamo e, come detto poco prima, quando le preghiere hanno termine, viene portato pane, vino e acqua, e il presidente offre preghiere e ringraziamenti, secondo la sua capacità, e il popolo dà il suo assenso, dicendo Amen. Poi viene la distribuzione e la partecipazione a ciò che è stato dato con azioni di grazie, e a coloro che sono assenti viene portata una parte dai diaconi. Coloro che possono, e vogliono, danno quanto ritengono possa servire: la colletta è depositata al presidente, che la usa per gli orfani e le vedove e per quelli che, per malattia o altre cause, sono in necessità, e per quelli che sono in catene e per gli stranieri che abitano presso di noi, in breve per tutti quelli che ne hanno bisogno.»  (Giustino)  Questa scelta liturgica era inevitabile. Il giorno del sole, infatti, non solo era proprio il primo della settimana, quello in cui Gesù era risorto, ma anche aveva una valenza metaforica teologicamente e scritturalmente corretta. L'abitudine di chiamare tale giorno "giorno del Signore" (dies dominica, da cui, appunto il nome domenica) compare per la prima volta alla fine del primo secolo (Apocalisse 1, 10[100]) e poco dopo nella didaché, prima cioè che il culto del Sol Invictus prendesse piede.  Anche la decisione di celebrare la nascita di Cristo in coincidenza col solstizio d'inverno ha dato origine a molte controversie, dato che le date di nascita di Gesù fornite dai Vangeli sono imprecise e di difficile interpretazione. Le prime notizie di feste cristiane per celebrare la nascita di Cristo risalgono circa all'anno 200. Clemente Alessandrino riporta diverse date festeggiate in Egitto, che sembrano coincidere con l'Epifania o col periodo pasquale (cfr. Data di nascita di Gesù). Nel 204 circa, invece, Ippolito di Roma propone il 25 dicembre (e la correttezza storica di tale scelta sembrerebbe essere stata approssimativamente confermata da recenti scoperte). La decisione delle autorità romane, tuttavia, di uniformare la data delle celebrazioni proprio il 25 dicembre potrebbe essere stata stabilita in buona parte per motivi "politici" in modo da congiungersi e sovrapporsi alle feste pagane dei Saturnali e del Sol invictus.  La confusione delle date liturgiche fra i culti continuò per un certo periodo, anche perché ovviamente l'editto di Tessalonica, che proibiva i culti diversi dal cristianesimo, non determinò la conversione immediata dei pagani. Ancora ottanta anni dopo, nel 460, il papa Leone I sconsolato scriveva:  «È così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono astenersi da ogni apparenza di ossequio a questo culto degli dei.»  (Papa Leone I, 7° sermone tenuto nel Natale del 460 - XXVII-4)  La sovrapposizione fra culto solare e culto cristiano ha dato origine a molte controversie, tanto che alcuni hanno sostenuto che il cristianesimo sia stato pesantemente influenzato dal mitraismo e dal culto del Sol invictus o addirittura trovi in essi la sua radice vera. Questa ipotesi si forma durante il Rinascimento, ma si è diffusa negli ultimi decenni del XX secolo, tanto da essere considerata (se non accettata) perfino negli ambienti più progressisti delle chiese cristiane. Un esempio di questa ipotesi ce lo fornisce il vescovo siriano Jacob Bar-Salibi che, alla fine del XII secolo, scrive:  «Era costume dei pagani celebrare al 25 dicembre la nascita del Sole, in onore del quale accendevano fuochi come segno di festività. Anche i Cristiani prendevano parte a queste solennità. Quando i dotti della Chiesa notarono che i Cristiani erano fin troppo legati a questa festività, decisero in concilio che la "vera" Natività doveva essere proclamata in quel giorno.»  (Jacob Bar-Salibi)  Anche l'allora cardinale Joseph Ratzinger (poi papa Benedetto XVI) parla della cristianizzazione della festa antico romana dedicata al sole e agli dei che lo rappresentavano. È introdotta la settimana di sette giorni e fu decretato come giorno di riposo il dies Solis (il "giorno del Sole", che corrisponde alla nostra domenica).  (LA) «Imperator Constantinus.Omnes iudices urbanaeque plebes et artium officia cunctarum venerabili die solis quiescant. ruri tamen positi agrorum culturae libere licenterque inserviant, quoniam frequenter evenit, ut non alio aptius die frumenta sulcis aut vineae scrobibus commendentur, ne occasione momenti pereat commoditas caelesti provisione concessa. * Const. A. Helpidio. * <a 321 PP. V NON. MART. CRISPO II ET CONSTANTINO II CONSS. Nel venerabile giorno del Sole, si riposino i magistrati e gli abitanti delle città, e si lascino chiusi tutti i negozi. Nelle campagne, però, la gente sia libera legalmente di continuare il proprio lavoro, perché spesso capita che non si possa rimandare la mietitura del grano o la cura delle vigne; sia così, per timore che negando il momento giusto per tali lavori, vada perduto il momento opportuno, stabilito dal cielo.»  (Codice giustinianeo)  Benché dopo la sconfitta di Licinio il cristianesimo di Costantino trovi sempre più conferme pubbliche, occorre non dimenticare che: «Mentre egli e sua madre abbelliscono la Palestina e le grandi città dell'impero di sfarzosissime chiese, nella nuova Costantinopoli egli fa costruire anche dei templi pagani. Due di questi, quello della Madre degli dèi e quello dei Dioscuri, possono essere stati semplici edifici decorativi destinati a contenere le statue collocatevi come opere d'arte, ma il tempio e la statua di Tyche, personificazione divinizzata della città, dovevano essere oggetto di un vero e proprio culto». Probabilmente il progetto politico di Costantino di tollerare il Cristianesimo, se non frutto di una conversione personale autentica, nacque dalla presa d'atto del fallimento della persecuzione contro i cristiani scatenata da Diocleziano. La sconfitta così clamorosa di Diocleziano aveva dovuto persuadere Costantino che l'Impero aveva bisogno di una nuova base morale che la religione tradizionale era incapace di offrirgli. Bisognava, quindi, trasformare la forza potenzialmente disgregante delle comunità cristiane, dotate di grandi capacità organizzative oltre che di grande entusiasmo, in una forza di coesione per l'Impero. Questo è il senso profondo della svolta costantiniana, che finì per chiudere la fase movimentista del cristianesimo trascendente e aprire quella del cristianesimo politicamente trionfante. I cristiani furono inseriti sempre di più nei gangli vitali del potere imperiale. Inoltre, alla Chiesa cristiana, già alimentata cospicuamente dal flusso delle contribuzioni spontanee dei fedeli, furono concesse numerose esenzioni e privilegi fiscali, moltiplicandone la ricchezza. Dopo l'esercito, la Chiesa cristiana grazie a Costantino stava diventando il secondo pilastro dell'Impero. La leggenda della donazione costantiniana Secondo una tarda leggenda medievale, Costantino, dopo la battaglia di Ponte Milvio, fece dono a papa Silvestro I (convinto di essere stato da lui guarito dalla lebbra), dello splendido Palazzo Laterano (di proprietà della moglie Fausta), consegnando così al papa romano la città di Roma e dando avvio, con quell'atto di devoluzione, al potere temporale dei papi, ma la cosiddetta Donazione di C. (nota in latino come "Constitutum Constantini", ossia "decisione", "delibera", "editto") è un documento apocrifo conservato in copia nelle Decretali dello Pseudo-Isidoro e, come interpolazione, in alcuni manoscritti del Decretum di Graziano (XII secolo). Nel 1440 il filologo italiano Lorenzo Valla dimostrò in modo inequivocabile come il documento fosse un falso.   Colonna di Costantino I a Costantinopoli. Sotto di essa l'imperatore avrebbe posto amuleti pagani e reliquie cristiane a protezione della città La leggenda della donazione quindi probabilmente voleva dare un fondatore illustre, il primo imperatore cristiano, al successivo disegno politico di imporre il Cristianesimo come unica religione ufficiale dell'impero romano. Tale sviluppo però ebbe luogo solo a partire dall'epoca tarda, con Graziano e Teodosio quindi verso la fine del IV secolo (391). Dopo la caduta dell'Impero d'occidente, nel 476, la "donazione" divenne la base giuridica del Papato per legittimare il proprio potere temporale sulla città di Roma e la sua indipendenza dall'imperatore.  La conversione Costantino mantenne il titolo di Pontifex Maximus che gli spettava come imperatore e condusse una politica di mediazione tra i vari culti dell'Impero e anche tra le diverse correnti del nascente Cristianesimo.  Riceve il battesimo cristiano solo IN PUNTO DI MORTE, per mano di un suo consigliere, il vescovo ariano Eusebio di Nicomedia.[109] Alcuni storici, però, ritengono che questo racconto possa essere stato tramandato per motivi politico-religiosi e propagandistici.[110]. Va detto che il battesimo ricevuto sul letto di morte da catecumeno era un'usanza del tempo, quando non essendo stato ancora riconosciuto il sacramento della confessione si preferiva annullare tutti i propri peccati prima della morte, che avveniva così in albis.  Senza escludere l'utilità politica attesa da Costantino dall'alleanza con la Chiesa cattolica, alcuni documenti risalenti al periodo dell'Editto di Milano rivelerebbero un avvicinamento dell'imperatore al cristianesimo ben più marcato di quanto descritto da parte della storiografia, in una lettera del 314-315 di Costantino a Elafio, suo vicario imperiale in Africa, si rivolgeva infatti circa lo scisma donatista con queste parole[111]: «… non sarò mai soddisfatto né mi aspetterò prosperità e felicità dal potere misericordioso dell'Onnipotente fino a quando non sentirò che tutti gli uomini offrono al Santissimo la retta adorazione della religione cattolica in una comune fratellanza…»  solo dieci anni più tardi scriveva a Sapore II re di Persia con medesimi accenti[112]: «…Io sarò soddisfatto solo quando vedrò che tutti pregheranno, con fraterna concordia d'intenti, nell'autentico culto della Chiesa universale…»  ciò farebbe pensare che il battesimo venne amministrato in punto di morte a Nicomedia solo come termine di un lungo processo di conversione che non fu estraneo a contaminazioni con ambienti dell'arianesimo, nella cui fede fu battezzato. Tali contaminazioni gli costarono la mancata canonizzazione cattolica (per la Chiesa cattolica, coerentemente, la santificazione spetta solo a coloro che sono stati battezzati secondo le norme cattoliche) e gli concessero l'inserimento ufficiale solo tra i santi ortodossi; accadde diversamente per la madre Elena, che si commemora il 18 di agosto, il cui battesimo fu invece celebrato in osservanza di tale liturgia. Fu dunque l'adesione all'arianesimo negli ultimi anni della sua vita, quelli successivi alla partenza per la nuova Costantinopoli, a indurre la Chiesa di Roma a prenderne le distanze; ciò avvenne attraverso la riscrittura agiografica della vita, da parte di papa Silvestro così come descritta negli Actus Silvestri.  Non è altresì da escludere che sulla conversione di Costantino abbiano influito in modo determinante gli eventi succedutisi dagli inizi del IV secolo con la constatazione del fallimento delle persecuzioni del 303 e l'editto di Galerio del 311 che tentava di far rientrare la religione cristiana nell'alveo di tutte le altre religioni ammesse nell'impero, che tradiva il timore dell'universalismo del cristianesimo che metteva a rischio le istituzioni romane basate sulle differenze etniche.  Dal papiro di Londra numero 878, che contiene una parte di un editto del 324, e da un'attenta riconsiderazione storica pare che Costantino fosse animato da "un effettivo accostamento al sentimento cristiano".  Che sia stato per convinzione personale o per calcolo politico, Costantino appoggiò comunque la religione cristiana soprattutto dopo l'eliminazione di Licinio nel 324, costruendo basiliche a Roma, Gerusalemme e nella stessa Costantinopoli; conferì alle chiese il diritto di ricevere beni in eredità e quelle maggiori furono dotate di vaste proprietà; diede ai vescovi vari privilegi e poteri giudiziari, quali quello di essere giudicati da loro pari ponendo le basi al principio relativo al vescovo di Roma del prima sedes a nemine iudicatur; concesse gli episcopalis audientia. Fu in epoca costantiniana inoltre, una volta identificata la Chiesa secondo la definizione paolina di Corpus Mysticum e ritenuta capace di ricevere donazioni ed eredità, che ebbe luogo il concetto, prima sconosciuto nella legislazione romana, di persona giuridica nella successiva legislazione.  Il riformatore cristiano  Lo stesso argomento in dettaglio: Concilio di Nicea I.  L'icona di San Costantino nel Castello di Lari (Toscana), opera realizzata per i 1700 anni dell'editto di Milano La politica di Costantino mirava a creare una base salda per il potere imperiale sull'assioma che c'era un unico vero dio, una sola fede e quindi un unico legittimo imperatore. Nella stessa religione cristiana per questo motivo era dunque importantissima l'unità: Costantino fu promotore, pur non essendo battezzato, di diversi concili, per risolvere le questioni teologiche che dividevano la Chiesa. In tali concili presenziò come pontifex maximus dei romani o "vescovo di quanti sono fuori della chiesa".  Il primo fu quello convocato ad Arelate (primo concilio di Arles), in Francia nel 314, che confermò una sentenza emessa da una commissione di vescovi a Roma, che aveva condannato l'eresia donatista, intransigente nei confronti di tutti i cristiani che si erano piegati alla persecuzione dioclezianea: in particolare si trattava del rifiuto di riconoscere come vescovo di Cartagine Cipriano, il quale era stato consacrato da un vescovo che aveva consegnato i libri sacri.  Ancora nel 325, convocò a Nicea il primo concilio ecumenico, che lui stesso inaugurò, per risolvere la questione dell'eresia ariana: Ario, un prete alessandrino sosteneva che il Figlio non era della stessa "sostanza" del padre, ma il concilio ne condannò le tesi, proclamando l'omousia, ossia la medesima natura del Padre e del Figlio. Il concilio di Tiro del 335 condannerà tuttavia Atanasio, vescovo di Alessandria, il più accanito oppositore di Ario, soprattutto a causa delle accuse politiche che gli vennero rivolte.  L'imperatore fece costruire numerose chiese cristiane, tra cui le basiliche del Santo Sepolcro a Gerusalemme, la basilica di Mamre e la basilica della Natività a Betlemme. A Roma eleva la basilica del Laterano e la prima basilica di San Pietro. Per la sua sepoltura decise di non farsi seppellire nel mausoleo dove era già la madre a Roma, ma si fece costruire un mausoleo a Costantinopoli vicino o all'interno della chiesa dei Santi Apostoli, tra le reliquie di questi ultimi, che cercò di radunare. Eusebio di Cesarea narra che Costantino fu munifico e ornò gli edifici di oro, marmi, colonne, e splendidi arredi. Purtroppo nessuna delle basiliche originali di Costantino si è conservata fino ai giorni nostri, salvo pochi resti di fondazioni. In tutto l'impero, i templi pagani, salvo poche eccezioni, non vennero riconvertiti in chiese, ma abbandonati, perché inadatti al nuovo culto che richiedeva la presenza di numerosi fedeli all'interno. I culti pagani invece si svolgevano all'aperto, con la cella del tempio riservata al dio. Vi fu quindi la riconversione ad uso religioso di un particolare tipo di edificio romano, la basilica civile.  Culto Anche se divenuto cristiano, alla morte Costantino venne divinizzato (divus), per decreto del senato, con la cerimonia pagana dell'apoteosi, come era consuetudine per gli imperatori romani. Costantino, nonostante avesse iniziato a costruire un grandioso mausoleo di famiglia a Roma, lo lasciò a sua madre (il cd. Mausoleo di Elena) e volle essere sepolto a Costantinopoli, nella Chiesa dei Santi Apostoli, divenendo così il primo imperatore a essere sepolto in una chiesa cristiana.  Costantino è considerato santo dalla Chiesa ortodossa, che secondo il Sinassario Costantinopolitano lo celebra assieme alla madre Elena.  La santità di Costantino non è riconosciuta dalla Chiesa cattolica (infatti non è riportato nel Martirologio Romano), che tuttavia celebra sua madre[117] il 18 agosto.  A livello locale il culto di san Costantino è comunque autorizzato anche nelle chiese di rito romano-latino. In Sardegna, per esempio, la festa del santo (nella tradizione religiosa sarda) ricorre il 7 luglio. Il 23 aprile invece, viene festeggiato a Siamaggiore, in provincia di Oristano, l'unico paese dell'isola in cui Costantino Magno Imperatore ne è anche il patrono. Nell'isola esistono due santuari principali dedicati all'imperatore: uno si trova a Sedilo, nel centro geografico dell'isola, in provincia di Oristano, dove il 6 e 7 luglio di ogni anno si corre l'Ardia, una sfrenata e spettacolare corsa a cavallo di origine bizantina che rievoca la vittoria del 312 a Ponte Milvio; l'altro è a Pozzomaggiore, in provincia di Sassari. Altre attestazioni minori si hanno in vari luoghi della Sicilia; l'ultimo sabato di luglio, a Capri Leone, paese in provincia di Messina, si festeggia la festività in suo onore, dove per devozione paesana egli è divenuto Santo Patrono. Suggestiva la processione serale, con il simulacro di Costantino Imperatore portato a spalla dai fedeli.  Titolatura imperiale  Lo stesso argomento in dettaglio: Monetazione tetrarchica e Monetazione di Costantino e dei Costantinidi. Titolatura imperialeNumero di volteDatazione evento Tribunicia potestas33 volte: la prima volta il 25 luglio del 306, la seconda il 10 dicembre del 306, la terza nel settembre del 307, la quarta il 10 dicembre del 307 e poi annualmente ogni 10 dicembre fino al 337 (anno in cui non assunse l'iterazione perché premorì). Consolato. Salutatio imperatoria: la prima  quando è proclamato Caesar, poi rinnovata ogni anno. Titoli vittoriosi Germanicus maximus; Sarmaticus maximus); Gothicus maximus); Dacicus maximus; Adiabenicus; Arabicus maximus; Armeniacus maximus; Britannicus maximus; Medicus maximus; Persicus maximus. Altri titoli Caesar, Filius Augustorum e augustus; Pius, Felix, Pontifex Maximus; Invictus, Pater Patriae, Proconsul; Maximus; Victor (in sostituzione di Invictus); Triumphator (titolo aggiunto tra il 328 ed il 332). Località italiane in cui è attestato il culto a San Costantino imperatore Calabria  Calabria, Provincia di Vibo Valentia, San Costantino Calabro Calabria, Provincia di Vibo Valentia, Briatico, San Costantino di Briatico (frazione) Lucania  Basilicata, Provincia di Potenza, San Costantino Albanese Basilicata, Provincia di Potenza, Rivello, San Costantino (frazione) Sardegna  Sardegna, Provincia di Oristano, Siamaggiore, Parrocchiale di San Costantino Magno Imperatore Sardegna, Provincia di Oristano, Sedilo, Santuario di Santu Antinu Sardegna, Provincia di Sassari, Pozzomaggiore, Chiesa di San Costantino (Pozzomaggiore) Toscana  Toscana, Provincia di Pisa, Casciana Terme Lari, Castello dei Vicari a Lari Toscana, Provincia di Pisa, Casciana Terme Lari, Santuario di San Martino in Petraja a Casciana Terme Trentino-Alto Adige  Trentino-Alto Adige, comune di Fiè allo Sciliar, frazione di San Costantino/St. Konstantin, Chiesa di San Costantino Trentino-Alto Adige, comune di Naz-Sciaves, frazione di Raas, Chiesa dei Santi Egidio e Costantino Note ^ Costantino si attribuì il titolo Invictus dopo la propria autoproclamazione ad Augusto, nella seconda metà del 310. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda 1990, pp. 46-61.  Il senato di Roma gli accordò questo titolo dopo la vittoria su Massenzio. Si veda Lattanzio, De mortibus persecutorum Costantino adottò il titolo Victor in sostituzione di Invictus nel 324, dopo la vittoria definitiva su Licinio. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda 1990, pp. 134-144.  Costantino adottò il titolo Triumphator al tempo delle campagne gotiche sul confine danubiano. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda 1990, pp. 147-150.  Timothy Barnes, The victories of Constantine, in Zeitschrift fur Papyrologie und Epigraphik 20, 1976, pp.149-155.  CIL.  CIL Iscrizione databile al 319 sulla quale troviamo diversi titoli vittoriosi: «Imperatori Caesari Flavio Constantino Maximo Pio Felici Invicto Augusto pontifici maximo, Germanico maximo III, Sarmatico maximo Britannico maximo, Arabico maximo, Medico maximo, Armenico maximo, Gothico maximo, tribunicia potestate XIIII, imperatori XIII, consuli IIII patri patriae, proconsuli, Flavius Terentianus vir perfectissimus praeses provinciae Mauretaniae Sitifensis numini maiestatique eius semper dicatissimus.»  (CIL VIII, 8412 (p 1916))  ^ Y.Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta dell'impero, Roma; Scarre, Chronicle of the roman emperors, New York.  Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica; Malalas, Cronografia; IL Alg-1, (Africa proconsularis, Tenoukla): Dddominis nnnostris Flavio Valerio Constantino Germanico Sarmatico Persico et Galerio Maximino Sarmatico Germanico Persico et Galerio Valerio Invicto Pio Felici Augusto XI. ^ Il giorno e il mese sono largamente accettati, mentre l'anno è talvolta anticipato al 271 o ritardato al 275 o anche molto più tardi (ad esempio "ca. 280" secondo l'Enciclopedia Europea della Garzanti. Fonti WEB citano addirittura il 289.). Il suo biografo ufficiale, Eusebio di Cesarea, dice soltanto che la sua vita fu approssimativamente lunga il doppio del suo regno, cioè circa 62-63 anni. Purtroppo Eusebio dichiara che il suo regno durò 32 anni (e non 31), in quanto contava come interi anche gli spezzoni incompleti dell'anno di nascita e di morte; ciò ha indotto in errore alcuni storici, che anticipano di due anni la sua nascita. Nel merito si veda inoltre Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, pp. 39-42.  Sesto Aurelio Vittore, De Caesaribus, 41.16; Sofronio Eusebio Girolamo, Cronaca; Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 8.2; Annales Valesiani, VI, 35; Orosio, Historiae adversos paganos; Chronicon paschale, p.532, 7-21; Teofane Confessore, Chronographia A.M. 5828 (testo latino); Michele siriaco, Cronaca, VII, 3. ^ Il titolo imperiale ufficiale era IMPERATOR CAESAR FLAVIVS CONSTANTINVS PIVS FELIX INVICTVS AVGVSTVS; dopo il 312 aggiunse MAXIMVS ("il grande") e sostituì INVICTVS con VICTOR, in quanto INVICTVS ricordava il culto del Sol Invictus. ^ Costantino I, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati.it. ^ Origo Constantini Imperatoris Barnes, Constantine and Eusebius; Elliott, Christianity of Constantine, 17; Odahl, 15; Pohlsander, "Constantine I"; Southern, Odahl, Constantine and the Christian empire, London, Routledge, Gabucci, Ancient Rome : art, architecture and history, Los Angeles, CA, J. Paul Getty Museum, Barnes, Constantine and Eusebius; Lenski, "Reign of Constantine" (CC); Odahl, Drijvers, J.W. Helena Augusta: The Mother of Constantine the Great and the Legend of Her finding the True Cross (Leiden, 1991) 9, 15–17. ^ Barnes, Constantine and Eusebius, 3; Barnes, New Empire, 39–40; Elliott, Christianity of Constantine, 17; Lenski, "Reign of Constantine" (CC); Odahl, 16; Pohlsander, Emperor Constantine, 14. ^ Eleanor H. Tejirian e Reeva Spector Simon, Conflict, conquest, and conversion two thousand years of Christian missions in the Middle East, New York, Columbia; Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine. ^ Epitome de Caesaribus, 41.16 ^ Come convincentemente dimostrato in A. Alflödi, Constantinus... proverbio vulgari Trachala... nominatus, in BHAC (Bonn). Nel merito si veda anche V. Neri, Le fonti della vita di Costantino nell'Epitome de Caesaribus, in Rivista storica dell'antichità XVII-XVIII/1987-88, Bologna; Lattanzio, De mortibus persecutorum, Costantino I, Oratio ad sanctorum coetum Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino Origo Constantini Imperatoris 2, 3. Tra il 299 ed il 307 i Tetrarchi iterano il titolo Sarmatico massimo per quattro volte e ciò ben testimonia l'intenso sforzo bellico profuso contro tale popolazione barbara. Si veda Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum; Eutropio Lattanzio, De mortibus persecutorum; Zosimo, Origo Constantini Imperatoris 2,4; Zonara Epitome de Caesaribus, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 25, 1-5 ^ Moreau, Lactance. De la mort des persécuteurs, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 26, 1-3; Zosimo Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, p. 71. ^ Pasqualini, Massimiano Herculius. Per un'interpretazione della figura e dell'opera, p. 87. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Lattanzio, De Mortibus Persecutoru; Zosimo, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Sulle deliberazioni di Carnuntum si veda Roberto, Diocleziano, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 3. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum;  Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, Zosimo, Storia nuova, Eutropio, Breviarium historiae romanae, Barnes, C. and Eusebius Nella pianura tra Rivoli e Pianezza: Vittorio Messori e Giovanni Cazzullo, Il Mistero di Torino, Milano, Mondadori, Zosimo, Storia nuova, II, 26. ^ Zosimo, Storia nuova, II, 28.  Zosimo, Storia nuova, Battesimo di Costantino, su treccani Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, Zosimo, Storia nuova, II, 30.  Zosimo, Storia nuova, Zosimo, Storia nuova, II, 33.2.  Zosimo, Storia nuova, II, 33.3. ^ Ammiano Marcellino, Storie; Gibbon (Saunders), Zosimo, Storia nuova, Gibbon (Saunders), Per la traduzione di "comes" con "ministro" si interpreti: Ita etiam qui sacri Palatii ministeriis ac officiis praeficiebantur, eorumdem ministeriorum ac officiorum Comites dicti, ut ex infra observandis constat., cfr. Du Cange, Baroni, Cronologia della storia romana, Eutropio, Breviarium historiae romanae, Zosimo, Storia nuova, Maxfield, L'Europa continentale, Baroni, Cronologia della storia romana; Flavio Claudio Giuliano, De Caesaribus, 329c. ^ C.R.Whittaker, Frontiers of the Roman empire. A social ad economic study, Baltimora et London, 1Zosimo, Storia nuova, Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta dell'impero, Roma, Lido, De magistratibus; Zosimo, Storia nuova, Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta dell'impero, Roma, Zosimo, Storia nuova, Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, Più tardi, nel 358, il vescovo Macedonio fece traslare il sarcofago imperiale nell'attiguo mausoleo del martyrium di S. Acacio. ^ Chronicon paschale, Bury, Chronicon paschale; Passio Artemii; Zonara, L'epitome delle storie,  In particolare furono uccisi i fratellastri di Costantino I, Giulio Costanzo, Nepoziano e Dalmazio, alcuni loro figli, come Dalmazio Cesare e Annibaliano, e alcuni funzionari, come Optato e Ablabio. ^ Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 9. ^ Zosimo, Storia nuova, ii.40. ^ Burckhardt, Costantino il Grande e i suoi tempi, tr.it. Longanesi Ad esempio, Clemente, titolare della cattedra di storia romana all'università di Firenze, autore di una Guida alla storia romana; Fraschetti, docente di storia economica e sociale del mondo antico presso la Sapienza di Roma, autore de La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana; Arnaldo Marcone docente di Storia romana all'università di Udine, autore di Pagano e cristiano. Vita e morte di Costantino; Robin Lane Fox, docente di Storia antica presso il College di Oxford, autore di Pagani e cristiani; e molti altri titolati studiosi del mondo antico, come Andrea Alfoldi, Franchi de' Cavalieri, Baynes, Sordi, Bringmann. Veyne, Quando l'Europa è diventata cristiana, Collezione Storica Garzanti, Milano, Filoramo, La croce e il potere, Mondadori, Milano; Horst, Costantino il grande, Milano Il ripudio nel tardo Impero: una costituzione di Teodosio II, su jus.vitaepensiero.it. Dal Gesù storico al Cristo della fede: la svolta costantiniana, su homolaicus.com. Costantino e la legislazione antiereticale. La costruzione della figura dell'eretico Notizie in inglese sulle monete di C. in bronzo con simboli cristiani Apocalisse su La Parola La Sacra Bibbia in italiano in Internet. La nascita di Gesù è avvenuta secondo i vangeli circa quindici mesi dopo l'annuncio a Zaccaria della nascita del Battista. La collocazione di questo evento nell'ultima settimana di settembre, in accordo con la tradizione cristiana, è compatibile con le notizie oggi disponibili sul turno di servizio sacerdotale al tempio della classe sacerdotale di Abia, alla quale apparteneva Zaccaria. Cfr. Data di nascita di Gesù ^ da Christianity and Paganism in the Fourth to Eighth Centuries, Yale, Ramsay MacMullen, La scelta del 25 dicembre per celebrare il Natale cristiano: dal dies natalis del Sol invictus, espressione del culto solare di Emesa e del dio Mitra, alla celebrazione del Cristo, “sole che sorge”, su gliscritti.it. Burckhardt Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi; Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, nella sua opera De falso credita et ementita Constantini donatione ^ Sozomeno, Historia Ecclesiastica, II,34; Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, IV,61–63; Socrate Scolastico, Historia Ecclesiastica; Cirro, Historia Ecclesiastica, GIRLAMO (si veda), Chronicon. Barbero, Costantino il Vincitore, Salerno, Epistula Constantini ad Aelafium, CSEL; Carile in L'imperatore e la Chiesa. Dalla tolleranza alla supremazia della religione cristiana (380), alle contese per la cattolicità delle chiese; Enciclopedia Costantiniana, Treccani Gli Actus Silvestri sono menzionati la prima volta nel Decretum Gelasianum, documento attribuito a papa Gelasio I, come affermato in: Marilena Amerise, Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda eredità (Hermes Einzelschriften, 95), Franz Steiner Verlag, München; Wilhelm Pohlkamp n Internet Archive. aveva identificato nei manoscritti una versione più antica, e una versione più recente. Carile in L'imperatore e la Chiesa cit. ^ Ranuccio Bianchi Bandinelli e Mario Torelli, L'arte dell'antichità classica, Etruria-Roma, Utet, Torino 1976, pag 112. ^ Alberto Perlasca, Il concetto di bene ecclesiastico. Anche se si pensa che la madre di C. propendesse più per la religione ebraica, tanto da restare delusa alla notizia della conversione al cristianesimo del figlio (Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza).  Scarre, Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda; Galerio attribuì questo titolo a C. e Massimino Daia subito dopo il convegno di Carnuntum, sostituendolo a quello di cesare. Si veda nel merito Stefan, Un rang impérial nouveau à l’époque de la quatrième Tétrarchie: Filius Augustorum. Première partie. Inscriptions révisées: problèmes de titulature impériale et de chronologie, in Antiquité Tardive; Costantino si attribuì il titolo invictus, e con ogni probabilità anche quello di Pater Patriae insieme alla carica di Proconsul, dopo la propria auto-proclamazione ad OTTAVIANO (si veda). Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda; Costantino adottò il titolo Victor in sostituzione di Invictus dopo la vittoria definitiva su Licinio. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda; Ammiano Marcellino, Historiae (testo a fronte in inglese). Vittore, De Caesaribus (versione latina) Consolaria costantinopolitana. Chronicon paschale. Costantino I, Oratio ad sanctorum coetum. Epitome de Caesaribus (versione latina). Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino (latino); Storia ecclesiastica (traduzione inglese). Eutropio, Breviarium historiae romanae (testo latino), IX-X . Giordane, De origine actibusque Getarum; Vedi qui testo latino. Girolamo, Cronaca, versione francese QUI. Lattanzio, De mortibus persecutorum; latino. Origo Constantini Imperatoris; Vedi qui testo latino e traduzione in inglese. Orosio, Historiarum adversus paganos libri Vedi qui testo latino. Notitia dignitatum, Notitia dignitatum (latino) . Panegyrici latini, testo latino. Socrate Scolastico, Storia ecclesiastica, I. Sozomeno, Historia Ecclesiastica, I. Teodoreto di Cirro, Historia Ecclesiastica, I. Teofane Confessore, Chronographia (testo latino) . Zonara, L'epitome delle storie, Vedi qui testo latino. Zosimo, Storia nuova, traduzione inglese, QUI. Studi Andreas Alföldi, Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Laterza, Roma-Bari; Barbero, Costantino il Vincitore, Salerno Editrice, Roma, Barnes, The victories of Constantine, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik Timothy Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge, MA Harvard; Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, Harvard, Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Wiley Blackwell, Malden - Oxford, Bandinelli e Torelli, L'arte dell'antichità classica. Etruria-Roma, UTET, Torino, Burckhardt, Costantino il Grande e i suoi tempi, tr.it. Longanesi, Milano, Carpiceci e Marco Carpiceci, Come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti - Costantino il grande, San Silvestro e la nascita delle prime grandi basiliche cristiane, Edizioni Kappa, Roma Chastagnol, L'accentrarsi del sistema: la tetrarchia e Costantino, Storia di Roma, Einaudi, Torino, Storia Einaudi dei Romani, Ediz. de Il Sole 24 ORE, Milano; Cuneo, La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante; Giuffrè, Diehl, La civiltà bizantina, Garzanti, Milano, Donati e Gentili, Costantino il Grande: la civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Fraschetti, La conversione: da Roma pagana a Roma cristiana, Laterza, Bari; Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda Eberhard Horst, C. il Grande, Milano, Bompiani, Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica: da Diocleziano alla caduta dell'impero, Carocci, Roma, Marcone, Pagano e cristiano: vita e mito di Costantino, Laterza, Roma-Bari, Maxfield, L'Europa continentale, in Il mondo di Roma imperiale. La formazione, Laterza, Roma-Bari, Mazzarino, L'Impero romano, tre vol., Laterza, Bari; riediz. e successive rist.; Moreau, Lactance. De la mort des persécuteurs, Parigi Percivaldi, Fu vero Editto? C. e il Cristianesimo tra storia e leggenda, Ancora Editrice, Milano, Pasqualini, Massimiano Herculius. Per un'interpretazione della figura e dell'opera. Roma, Rentetzi, Costantino, Elena e la vera croce. Modelli iconografici nell'arte bizantina, Studi Ecumenici. - Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino - Pontificia Università Antonianum, archive isevenezia.it/it/ pubblicazioni/ pubblicazioni_dell_ise /rivista_ di_studi ecumenici/ Roberto, Diocleziano, Roma Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, Torino, The paradigmatic value of the depiction of Constantine in the homonymous arch in the formation of the Christ in Throne's iconography web.archive.org /web/.ni.rs/ byzantium/ english.php (Paper presented to the Nis and Byzantium Symposium”, Nis), Nis, Scarre, Chronicle of the roman emperors, Pat Southern, The Roman Empire: from Severus to Constantine, Londra, Stefan, Un rang impérial nouveau à l’époque de la quatrième Tétrarchie: Filius Augustorum. Première partie. Inscriptions révisées: problèmes de titulature impériale et de chronologie, in Antiquité Tardive Costantino e le sfide del cristianesimo. Tracce per una difficile ricerca, a cura di Tanzarella - Adamiak, Il pozzo di Giacobbe, Trapani. Whittaker, Frontiers of the Roman empire. A social ad economic study, London, L'editto di Milano e il tempo della tolleranza. Costantino, Mostra di Palazzo Reale a Milano, mostra a cura di Paolo Biscottini e Gemma Sena Chiesa, catalogo a cura di Gemma Sena Chiesa, Ed. Mondadori Electa, Milano. Filmografia Costantino il Grande, regia di Lionello De Felice, con Cornel Wilde, Belinda Lee e Massimo Serato. Voci correlate Aeroporto C. il Grande Niš (Serbia) Antica basilica di San Pietro in Vaticano Ardia Arco di Costantino Arco di Malborghetto Arte costantiniana Basilica della Natività Basilica del Santo Sepolcro Basilica Palatina di Costantino (ad Augusta Treverorum, oggi Treviri) Basilica di Massenzio (a Roma) Basilica di San Giovanni in Laterano Basilica di San Paolo fuori le mura Cesaropapismo Colonna di Costantino Monumento a Costantino Imperatore Donazione di Costantino Flavia Giulia Elena In hoc signo vinces Monogramma di Cristo Statua colossale di Costantino I Terme di Costantino Ponte di Costantino (Danubio) Costantino I imperatore, detto il Grande, su Treccani– Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Alberto Olivetti, COSTANTINO I imperatore, detto il Grande, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Costantino I detto il Grande, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, MacGillivray Nicol e J.F. Matthews, Constantine I, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Costantino I, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Costantino I, in Diccionario biográfico español, Real Academia de la Historia. Opere di Costantino I, su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Modifica su Wikidata Opere di Costantino I, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Costantino I, su Open Library, Internet Archive. C. I, su Goodreads. Costantino I, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. C. I, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.it. The Roman Law Library by Professor Yves Lassard and Alexandr Koptev, su web.upmf-grenoble. Monete emesse da Costantino I, su wildwinds.com. Sito dedicato alle monete di Costantino in bronzo, su constantine the great coins. Predecessore Imperatore romano Successore Costanzo Cloro (con Galerio) Costantino IIVDM Imperatori romani e relative linee di successione VDM Diocleziano Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Bisanzio   Portale Cristianesimo Categorie: Imperatori romani Santi romani Nati a Naissus Morti a Nicomedia Costantino I Dinastia costantiniana Santi per nomeStoria antica del cristianesimo Personalità del cristianesimo ortodosso Personaggi citati nella Divina Commedia (Inferno) Personaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso) Santi della Chiesa ortodossa[altre] Costantino. Keywords: implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costantino.”

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Costanzi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’amore e la morte – scuola di Pozzuolo Umbro -- filosofia perugina – filosofia umbra -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pozzuolo Umbro). Filosofo italiano. Pozzuolo Umbro, Castiglione del Lago, Perugia, Umbria. Grice: “I like Costanzi; possibly my favourite of his essays is the one on ‘amore’ and ‘morte’ – eros and Thanatos for the Oxonian!” Si laurea a Bologna. Ensegna a Bologna. Altre opere: “Pensiero ed essere” (Perrella, Roma); “Varisco: l’uno e i molti” (Perrella, Roma); “Noluntas” (Perrella, Roma); “Schopenhauer” (Roma); “L'asceta moderno” – L’asceta -- Arte e storia, Roma; Spinoza, Universitas, Roma); “Il sentito in Platone” -- Arte e storia, Roma); “L'ascetica di Heidegger” Arte e storia, Roma); “L'ascesi di coscienza e l'argomento d’Aosta”, Arte e storia, Roma); “Meditazioni inattuali sull'essere e il senso della vita” Arte e storia, Roma); “La terrenità edenica del Cristianesimo e la contaminazione spiritualistica” (Patron, Bologna); “La donna angelicata e il senso della femminilità nel Cristianesimo” (Patron, Bologna); “La filosofia pura, Alfa, Bologna); “Il senso della storia, Alfa, Bologna); “Sul prologo di Zarathustra (Nietzsche e Schopenhauer) con trad. dello stesso Prologo, in Ethica; “L'etica nelle sue condizioni necessarie, Ed.ni di Ethica, Bologna); “L'estetica pia, Patron, Bologna); “L'ora della filosofia, R. Patron, Bologna); “L'uomo come disgrazia e Dio come fortuna” (Alfa, Bologna;  “La critica disvelatrice” (Ed.ne dell'Istituto di Filosofia dell'Bologna, Bologna); “Amore e morte” (L. Parma, Bologna); “La singolarità della diada: compimento di un itinerario senza vie” (Cooperativa libraria universitaria editrice, Bologna); “L'equivoco della filosofia cristiana e il cristianesimo-filosofia” (Clueb, Bologna; e ragioni della miscredenza e quelle cristiane della fede, Clueb, Bologna); “La fede sapiente e il Cristo storico” (Sala francescana di cultura Antonio Giorgi, Assisi); “La rivelazione filosofica” (Sala francescana di culturaAntonio Giorgi, Assisii); Il Cristianesimo: filosofia come tradizione di realtà” (Sala francescana di cultura, Assisi); “Breviloquio della sera” (Sala francescana di culturaAntonio Giorgi, Assisi); “L’immagine sacra” (Sala francescana di cultura, Assisi); “L'identità del Lumen publicum nelle privatezze di Anselmo e Tommaso” (Il Cristianesimo-filosofia, Le Lettere, Roma); Opere, E. Mirri e M. Moschini, Bompiani, Milano). Sgarbi torna a Tuoro per presentare l'opera omnia del filosofo Teodorico Moretti-Costanzi, "Umbria Left.  Il filosofo imagliato dal Sessantotto, "il Giornale"Dizionario Biografico degli Italiani.  Wikipedia Ricerca Al di là del principio di piacere saggio di Sigmund Freud Lingua Segui  Al di là del principio di piacere Titolo originaleJenseitsdes Lustprinzips Freud Jenseits des Lustprinzips. djvu Autore Freud Genere Saggio Sottogenere Psicoanalisi Lingua originale tedesco Al di là del principio di piacere (tedesco: Jenseits des Lustprinzips) è un saggio di Sigmund Freud incentrato sui temi dell'Eros e del Thanatos, ovvero rispettivamente la "pulsione di vita" e la "pulsione di morte" (Todestrieb[e]).   Giuditta II di Klimt,, Venezia, Galleria internazionale d'arte moderna. Achille sorregge Pentesilea dopo averla colpita a morte, una delle leggende fiorite sull'episodio vuole che l'eroe se ne innamori proprio in questo momento. Bassorilievo dal tempio di Afrodite a Afrodisia Il dualismo di EmpedocleModifica Freud formula il conflitto psicologico in termini dualistici fin dai suoi primi scritti, ma è solo in questo testo che egli presenta un simile conflitto mediante concetti desunti dal pensiero di Empedocle, il quale parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi o forze di Amore (o Amicizia) e Odio (o Discordia). Empedocle di Agrigento si presenta come una figura fra le più eminenti e singolari della storia della civiltà greca. Il nostro interesse si accentra su quella dottrina di Empedocle che si avvicina talmente alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un'unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. I due principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e neikos(discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione.» Il nome di Eros deriva da quello della divinità greca dell'amore, e «tende a creare organizzazioni della realtà sempre più complesse o armonizzate, [mentre] Thanatos tende a far tornare il vivente a una forma d'esistenza inorganica. Queste sono pulsioni. Eros rappresenta per Freud la pulsione alla vita, mentre Thanatos quella della distruzione. Qualora l'autodistruzione diventasse oggetto di malattia però Thanatos diviene il nome del conflitto che si crea tra energia negativa (autodistruzione) e positiva (la rabbia del Thanatos viene utilizzata per distruggere la malattia stessa).» Freud riscontra anche in un altro filosofo, questa volta contemporaneo, un'anticipazione della sua scoperta: "E ora le pulsioni nelle quali crediamo si dividono in due gruppi: quelle erotiche, che vogliono convogliare la sostanza vivente in unità sempre più grandi, e le pulsioni di morte, che si oppongono a questa tendenza e riconducono ciò che è vivente allo stato inorganico. Dall'azione congiunta e opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni della vita, ai quali mette fine la morte. Forse scrollerete le spalle: 'Questa non è scienza della natura, è filosofia, la filosofia di Schopenhauer'. E perché mai, Signore e Signori, un audace pensatore non dovrebbe aver intuito ciò che una spassionata, faticosa e dettagliata ricerca è in grado di convalidare? Thanatos non compare negli scritti di Freud, ma egli, a quanto riferisce Jones, l'avrebbe talvolta usato nella conversazione. L'uso nel linguaggio psicoanalitico è probabilmente dovuto a Federn.» Sabina Spielrein e Barbara LowM= Su esplicita influenza di Sabina Nikolaevna Špil'rejn, citata in nota nel libro, per Freud Thanatos segnala il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla tomba. Concetto che non deve essere confuso con quello di destrudo, vale a dire con l'energia della distruzione (che si oppone alla libido).  Thanatos è il principio di costanza,accennato fin dal capitolo sette de L'interpretazione dei sogni e che adesso, sotto l'influsso del pensiero di Schopenhauer, diventa identico al principio del Nirvana proposto da Low: le eccitazioni della mente, del cervello, dell'"apparato psichico" non vengono più solo sgomberate, tenute costanti al più basso livello possibile, bensì estinte, eliminate sino al grado zero della realtà inanimata. La coazione a ripetereModifica Nel testo del '20 Freud sostiene che «nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere la quale si afferma anche a prescindere dal principio di piacere.» Sulla falsariga del motto errare humanum est, perseverare autem diabolicum, essa viene definita per quattro volte «demoniaca»: Vi sono individui che nella loro vita ripetono sempre, senza correggersi, le medesime reazioni a loro danno, o che sembrano addirittura perseguitati da un destino inesorabile, mentre un più attento esame rivela che essi stessi si creano inconsapevolmente con le loro mani questo destino. In tal caso attribuiamo alla coazione a ripetere un carattere "demoniaco". La coazione a ripetere è riscontrabile anche nella nevrosi traumatica dei reduci della prima guerra mondialeoppure di chi tende a rivivere o reinterpretare gli eventi più violenti.  Freud collocò la coazione a ripetere fra i sintomi della nevrosi: si ripete il sintomo nevrotico invece di ricordare, si ripete per non ricordare, con quello che Freud chiama «l'eterno ritorno dell'uguale. Per la relazione tra pulsione e coazione a ripetere, Freud notò che le coazioni tendono come la pulsione a una ripetizione assoluta e atemporale, mai definitivamente appagata, e che tendono a sparire quando un fatto viene riportato a conoscenza del paziente. Dalla rimozione di una pulsione (a muoversi ovvero a ricordare un fatto doloroso o traumatico), la coazione a ripetere trae l'energia per imporsi sulla volontà cosciente dell'Io. La coazione a ripetere diventa il punto di partenza della terapia psicoanalitica. Occorre ricordare per non ripetere gli errori del passato, gli stessi dubbi e conflitti per tutta la vita, in amore, in amicizia, nel lavoro.  Freud rileva questa coazione anche nelle circostanze più ordinarie e naturali, persino nel gioco dei bambini come quello con il rocchetto usato dal suo piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il rocchetto lontano da sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il rocchetto a sé, rappresenta il ritorno della madre. Imparerebbe così a padroneggiare l'assenza materna attraverso un duplice movimento, che è sempre seguito dalla vocalizzazione di un "oooo..." (ted. fort, «via!»), quando il rocchetto è lontano, e da un "da" (ted. da, «Eccolo!»), quando il rocchetto è di nuovo vicino. Dopo l'esposizione d'una serie di ipotesi (in particolare l'idea che ogni individuo ripete le esperienze traumatiche per riprendere il controllo e limitarne l'effetto dopo il fatto), Freud considera l'esistenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte, riferendosi al bisogno intrinseco di morire che ha ogni essere vivente. Gli organismi, secondo quest'idea, tendono a tornare a uno stato preorganico, inanimato – ma vogliono farlo in un modo personale, intimo. In definitiva, «sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte. A questo punto sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di dare una risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si presentino nuovi strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti altresì ad abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a quanto pare, non porta a nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato se la prenderanno con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni. Implicazioni Modifica Uno psicoanalista con competenze pure di antropologia filosofica come Sciacchitano sostiene che «la vera psic[o]analisi fu il frutto tardivo dell'attività teoretica di Freud. Bisogna aspettare la svolta degli anni Venti, con l'invenzione della pulsione di morte, per parlare di vera e propria psicoanalisi. Essa comincia con la rinuncia alle pretese e alle finalità mediche della psicoterapia. Il nuovo modello freudiano individuava nello psichico un nucleo patogeno fisso, qualcosa che non si scarica mai, ma continua a ripetersi identicamente a se stesso e insensatamente, cioè fuori da ogni intenzionalità soggettivistica e contro ogni teleologia vitalistica. Ce n'era abbastanza per far crollare ogni illusione terapeutica. Parecchi allievi a questo punto abbandonarono il maestro che toglieva avvenire, come si dice terreno sotto i piedi, alle loro illusioni umanitarie». Freud non cambierà più idea. Ciò significa che il fondatore della psicoanalisi asserirà la sostanziale "inguaribilità'" del disagio psichico per lo stesso arco di tempo, un ventennio, in cui egli precedentemente aveva affermato l'esatto contrario. Reich, in La funzione dell'orgasmo e Analisi del carattere, propose una propria ipotesi di confutazione alla teoria della pulsione di morte.   La madre morta, Egon Schiele, Vienna, Leopold Museum. Nell'arte: Schiele Schiele sa che tutto ciò che vive è anche morto, porta in sé il suo esistenziale compimento, fin dall'istante del concepimento, come attesta il funesto dipinto: La madre morta, in cui il grembo appare come un lugubre mantello, un involucro mortuario che racchiude il Sein zum Tode [Essere-per-la-morte] del nascituro, ne circoscrive la parabola esistenziale.»  (Vozza)  Agonia, Schiele, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek.  Madre con i due bambini, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere. «Schiele introduce un evento di grande rilievo nell'iconografia della malinconia e della vanitas, operandone una trasfigurazione tragica: l'uomo non [...] medita più sulla morte raffigurata in un teschio posto nel suo studiolo come altro da sé, ma assume sul proprio volto l'icona funebre, diventa morte incarnata, esibita nel gesto d'esistere, nel godimento del sesso e nella prostrazione della sofferenza. Nessuna iconoclastìa sopravvive nel gesto pittorico di Schiele: si pensi all'Agonia, sacra rappresentazione di stupefacente intensità cromatica, allegoria del dolore immedicabile, emblema di una eterna e impietosa Passione, sublime omaggio a quell'incomparabile maestro di sofferenza che è stato Grünewald.»  (Marco Vozza) «La Madre con i due bambini esibisce un volto già visibilmente cadaverico, mentre un infante osserva sgomento il deliquio orizzontale del fratellino. Nessuno meglio di Schiele ha saputo render visibile quella che l'analitica esistenziale ha chiamato Geworfenheit, l'indifeso essere gettati in un mondo ostile. Insieme a lui soltanto Kokoschka, in seguito Dubuffet e Bacon.»  (Marco Vozza) Quadro che Sabina Nikolaevna Špil'rejn sceglie come modello rappresentativo del connubio Eros-Thanatos nel film biografico Prendimi l'anima (Roberto Faenza): Perché Giuditta uccide Oloferne, estratto dal film su YouTube (vedi screenshot). Freud, Al di là del principio di piacere(1920), in Opere di Freud L'Io e l'Es e altri scritti; Torino, Bollati Boringhieri, . Ed. paperback Freud, Analisi terminabile e interminabile, in OSF L'uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti, Torino, Bollati Boringhieri; Ed. paperbackGalimberti, Enciclopedia di psicologia, Garzanti, Torino; Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri; Jones, Vita e opere di Freud: L'ultima fase, Milano, Garzanti, Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, a cura di Luciano Mecacci e Cyhthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, Bari-Roma, Laterza, voce Thanatos, The language of psycho-analysis, Karnac, Paperbacks, books.google.it. ^ Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere; Freud, Freud. Freud; Mugnani, Analisi del testo di S. Freud: "Il problema economico del masochismo". Pasqua, Al di là del principio di piacere: sul principio di Piacere e la Coscienza; Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, voce Principio di piacere. su books.google.it. Freud; Laplanche, Pontalis, op. cit., voce Coazione a ripetere. Anteprima disponibile; Google Libri. ^ Sigmund Freud; Cf. anche Il perturbante, OSF;  Freud Introduzione alla psicoanalisi,Boringhieri Freud, Al di là del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere; Freud, op. cit. Sciacchitano, Il demone del godimento, Godimento e desiderio, aut aut, Vozza, Il senso della fine nell'arte contemporanea, in L'Apocalisse nella storia, Humanitas, Vozza Vozza, ibidem. Voci correlateModifica Psicoanalisi Empedocle Eros (filosofia) Eros Il disagio della civiltà Libido Destrudo Morte Sabina Nikolaevna Špil'rejn Tanato; Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Open Library, Internet Archive. Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Progetto Gutenberg. Laplanche, Pontalis, The language of psycho-analysis, Karnac, Thanatos, Nirvana Principle, e Compulsion to Repeat, Portale Letteratura   Portale Psicologia Nikolaevna Špil'rejn psicoanalista russa  Differimento Resistenza (psicologia) ciò che negli atti e nel discorso, si oppone all'accesso dei contenuti inconsci alla coscienza Teodorico Moretti Costanzi. Keywords: amore e morte, l’essere, il sentito, ascesi (verbo?), Zarathustra, il singolo della diada, l’uno e i molti, nolere, nolitum, volitum, amore/morte, eros/tanatos, immagine sacra, imaginatum, essere, un essere, due esseri, le due esseri entrambi – rivelazione – la rivelazione filosofica – a new discourse on metaphysics: from genesis to revelations – un nuovo discorso di metafisica: del genesi alle rivelazione. – Zarathustra e cristita --  nollere in Schopenhauer --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costanzi” – The Swimming-Pool Library. Costanzi

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Courmayeur: la ragione conversazionale e  l’implicatura conversazionale di Hegel in Italia – scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “The most interesting thing about Courmayeur’s philosophy is that he is a count; unlike Locke, or the common-or-garden English Oxonian philosopher who doesn’t have a dime, this one has, as the Italians say, ‘all the money in the world’! That helps with philosophy! His forte is moral philosophy AND HEGEL, which proves that Hegel becomes the taste of aristocrats and not just dons like Bosanquet!” - Dall'antica famiglia valdostana dei Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Ottenuta la maturità classica al Massimo d'Azeglio di Torino, si laurea con Solari con “Hegel” (Torino, Gobetti). Studia sotto Ruffini e Einaudi la filosofia politica del medio evo e il concetto di costituzione. Insegna a Torino. Fu capitano di complemento degli Alpini e membro del CLN, dal quale venne nominato, primo prefetto di Aosta. Fu all'origine dello statuto della regione autonoma Valle d'Aosta.  Fra le sue opere più note, Il concetto dello stato, è considerata da molti la sintesi del suo pensiero storico-filosofico.  Oltre che filosofo del diritto e storico del pensiero politico, viene considerato il fondatore della filosofia politica italiana come disciplina a sé stante, finalmente distinta dalla filosofia dello stato. Paradossalmente ciò avviene proprio col saggio, “Il concetto dello stato”. Ben diversamente dall'ordinamento tematico della “Staatslehre” come pure dall'ordinamento cronologico per filosofi in uso nella filosofia politica, ordina la filosofia politica secondo uno schema concettuale schiettamente filosofico: "il concetto di forza – forzare ", "il concetto di potere" (il verbo ‘potere’); "il concetto di autorità – auctoritas --". Il concetto di faccia dello stato, secondo una scala di qualificazione crescente. Il concetto di "forza" (il forzare) e qualificato di un imperativo, un mando o commando efficace. Il concetto di "potere" (potere del giurato) contiene il concetto di forza (il forzare – come un mando o imperativo efficace), ma organizzato in una istituzione e qualificato dal ‘giurato’. Finalmente la terza faccia, il concetto di "autorità" come contenendo la second faccia del potere del giurato, qualificato da una concetto di legge variable: la promozione del giurato, la promozione del bene comune (la res publica), o la promozione della piccolo patria. Altre opere: Il concetto dello stato (Torino: Giappichelli); “La Valle d'Aosta, Bologna: Boni); “La filosofia della politica, Torino: POMBA); “Filosofia politica nel medio evo italiano” (Torino: G. Giappichelli); “La filosofia politica d’Alighieri” (Einaudi, Torino); “Morale, diritto ed economia, Pavia: Libreria Internazionale F.lli Treves); “Morale, Roma: Athenaeum); “Appunti di storia delle dottrine politiche: la filosofia politica medioevale, Torino: Giappichelli);  “Il concetto dello stato in Zwingli", in Filosofia del diritto, Roma); La teoria del diritto e della politica in Inghilterra all'inizio dell'età moderna, Torino: Istituto giuridico della R. Università); “Obbedienza e resistenza” (Roma/Ivrea, Edizioni di Comunità). La piccola patria, Milano: Franco Angeli); Obbligazione Politica, Pensa Multimedia.  Dizionario biografico degli italiani. Biblioteca civica Passerin d'Entrèves. Ricerca Patria Lingua Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Patria (disambigua). La Patria (dal latino = la terra dei padri) è il concetto di nazione e paese, natio interiorizzato e idealizzato.   L'Altare della Patria a Roma. Descrizione La patria è un topos prettamente letterario (concetto ricorrente) che è possibile ritrovare in tantissimi temi trattati e argomentati nelle scienze umane, con particolare frequenza nell'area umanistica.  BibliografiaModifica Vincenzo Cappelletti, Patria e Stato nel Risorgimento, in «Il Veltro», Finotti, Italia. L’invenzione della patria, Milano, Bompiani, Ceccarelli, Patria. Da patria a nazione, in Guido Pescosolido e Giuseppe Bedeschi (a cura di), Dizionario di storia, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana “Giovanni Treccani”, «patria» Collegamenti esterniModifica patria, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. patria, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Thesaurus Portale Antropologia   Portale Politica   Portale Storia Popolo insieme delle persone fisiche che sono in rapporto di cittadinanza con uno Stato  Statista personaggio politico deputato a governare e regolare gli affari di Stato  Sciovinismo forma fanatica ed esasperata di nazionalismo o patriottismo. Grice: “It’s only natural that Courmayeur had such an intricate concept of ‘state’ – he was born in a minority, like Russell, who was born in a place which some called England, some called Wales. The situation is so borderline that it reminded me of my ancestors, the Ingvaeonic – and see all the problem the Frisians are having in Germany! Now they do recognise the ‘anglo-frisiche’ – but hardly allow them to vote!” “It is not clear how the collectivity has any bearing on the third state of ‘state’ – the ‘auctoritas’ – but then perhaps ‘auctoritas’ is the wrong concept, since it just means ‘author’ – Courmayeur is making the point that all authority is legitimate authority. “You have no authority” means ‘you have  no legitimate power’ – and you have no power, means you have no legal force, and you have no force means you cannot command!” As Courmayeur would say: it’s all different in valaestan, the vernacular of Aosta, which hardly has the same status as Italian (since giuridically Aosta belongs to Italy) or French (since French is the official language, along with Italian). But don’t ask that imperialist Crystal for an answer!” Alexandre Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Alessandro Passerin d’Entrèves et Courmayeur. Courmayeur. Keywords: Hegel in Italia, piccola patria, il concetto dello stato, filosofia politica versus staatslehre, prima faccia: il forzare come imperativo efficace; seconda faccia: il potere come il forzare organizzato in una istituzione e qualificato dal giurato; la terza e ultima faccia: l’autorita, come il potere qualificator da una legge centrata in un concetto ideale variabile: il giurato, il bene comune (res publica), la piccola patria. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Courmayeur” – The Swimming-Pool Library. Courtmayeur.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Cotroneo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della VIRTÙ – [andreia] – scuola di Campo Calabro – scuola di Reggio Calabria – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Campo Calabro). Filosofo italiano. Campo Calabro, Reggio Calabria, Calabria. Si laurea Messina sotto Volpe con “L’implicatura di Kierkegaard”. Ensegna a Messina. “Scritti”. “Lo storicismo di Cotroneo”. Altre opere: “Bodin teorico della storia” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Croce e l'Illuminismo” (Napoli, Giannini); “I trattatisti dell'arte storica” (Napoli, Giannini); “Storicismo antico e moderno” (Roma, Bulzoni); “Rareta e storia” (Napoli, Guida); “Societa chiusa, società aperta” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La ragione della libertà” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Trittico siciliano: Scinà, Castiglia, Menza” (Roma, Cadmo); “Momenti della filosofia italiana” (Napoli, Morano); “Questione post-crociane” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Tra filosofia e politica” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Le idee del tempo. L'etica. La bioetica. I diritti. La pace, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Un viandante della complessità. Morin filosofo a Messina, Annamaria Anselmo, Messina, Armando Siciliano Editore); “Croce e altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Etica ed economica” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La virtù” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo italiano, Firenze, Le Lettere); “Illuminismo, Napoli, La scuola di Pitagora); “Libertà” (Napoli, La scuola di Pitagora); “Storia della filosofia, Napoli, La scuola di Pitagora); “Positivismo, Napoli, La scuola di Pitagora); “Filosofia della storia, Napoli, La scuola di Pitagora); “Rinascimento, Napoli, La scuola di Pitagora); “Aristotele e Perelman, Retorica vecchia e nuova” introduzione (Napoli, Il Tripode); La retorica di Aristotele, retorica antica, Perelman, Itinerari dell'idealismo italiano, Napoli, Giannini, Raffaello Franchini, Teoria della pre-visione” (Messina, Armando Siciliano Editore, Croce, La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, Soveria Mannelli, Rubbettino, Il diritto alla filosofia, Atti del Seminario di studi su Franchini” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo, Atti del Convegno di studi, Napoli-Messina” (Soveria Mannelli, Rubbettino); La Fenomenologia dello spirito” (Napoli, Bibliopolis); Cavour, Discorsi su Stato e Chiesa” (Soveria Mannelli, Rubbettino, Letteratura critica Giovanni Reale, Girolamo Cotroneo, in Dario Antiseri e Silvano Tagliagambe, Storia della filosofia, Milano, Bompiani, Lo storicismo di Cotroneo, Soveria Mannelli, Rubbettino, Giuseppe Giordano, Tra Storia della Filosofia e Liberalismo, in Bollettino della Società Filosofica Italiana, Roma, Carocci, Giordano, Rivista di storia della filosofia, Milano, Franco Angeli, C., in Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ricerca Virtù disposizione d'animo volta al bene Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Virtù (disambigua). La virtù (dal latino virtus; in greco ἀρετή aretè) è una disposizione d'animo volta al bene, che consiste nella capacità di una persona di eccellere in qualcosa, di compiere un certo atto in maniera ottimale, o di essere o agire in un modo ritenuto perfetto secondo un punto di vista morale, religioso, o anche sociale in base a alla cultura di riferimento.  Il significato di virtù ha risentito di quello di bene, un concetto che assume significati diversi a seconda delle modifiche intervenute nel corso delle varie situazioni storiche e sociali. Concezione questa non condivisa dalle dottrine che ne negano il relativismoconnesso e che intendono la virtù come l'assunzione di valori, intesi come assoluti, immutabili nel tempo. La parola latina virtus, che significa letteralmente "virilità", dal latino vir "uomo" (nel senso specifico di "maschio" e contrapposto alla donna) si riferisce ad esempio alla forza fisica e a valori guerreschi maschili, come ad esempio il coraggio.  Nella lingua italiana la virtù è invece la qualità di eccellenza morale sia per l'uomo sia per la donna e il termine è riferito comunemente anche a un qualche tratto caratteriale considerato da alcuni positivo.   Personificazione della virtù nella Biblioteca di Celso. La virtù nella filosofia occidentale anticaModifica Il concetto grecoModifica  Niccolò Machiavelli Nella visione della vita secondo la filosofia anticagreca, la concezione dell'aretè non era connessa all'azione per il conseguimento del bene, bensì indicava semplicemente una forza d'animo, un vigore morale e anche fisico. Essa coincide con la realizzazione dell'essenza innata della persona, sia sul piano dell'aspetto fisico, il lavoro, il comportamento e gli interessi intellettuali.  Questa concezione di virtù contiene l'eccellenza degli eroi omerici, quella degli statisti Ateniesi, o quella descritta nel Menone di Platone ovvero la capacità di ben governare. In questo senso il coraggio, la moderazione e la giustizia erano virtù morali.  Tale sarà, ad esempio, il senso nella concezione rinascimentale sulla politica in Niccolò Machiavelli che vorrà distinguere l'aretè del principe moderno, come la capacità di opporsi alla "fortuna" e di modificare le circostanze ai propri fini di potere e con lo scopo principale del mantenimento dello stato (senza tener conto del giudizio morale sui mezzi impiegati), dalla virtus cristiana del sovrano medioevale che governa per grazia di Dio a cui deve rispondere per la giustificazione della sua azione politica, diretta anche a difendere i buoni e proteggere i deboli dalla malvagità. Nel Principe nessuna considerazione morale né religiosa dovrà ostacolare la sua azione spregiudicata e forte, frutto della sua "aretè", tesa a mettere ordine là dov'è il caos della politica italiana. Non diversamente, nella visione di Nietzsche la virtù consisterà nella "volontà di potenza" in opposizione alla "morale degli schiavi" nata dallo spirito di risentimento del Cristianesimo nei confronti degli uomini superiori.  Le virtùModifica  Platone Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Etica  Socrate e Platone. La concezione della virtù nel pensiero greco antico costituisce il fulcro centrale dell'etica e delle sue trasformazioni nel corso del tempo.  Così in Platone le virtù corrispondono al controllo della parte razionale dell'anima sulle passioni. Ne La Repubblica verranno indicate per la prima volta le quattro virtù, che da Sant'Ambrogio in poi verranno chiamate "cardinali", vale a dire principali:  la temperanza, intesa come moderazione dei desideri che, se eccessivi, sfociano nella sregolatezza; il coraggio o forza d'animo necessaria per mettere in atto i comportamenti virtuosi; la saggezza o "prudenza", variamente intesa dalla speculazione antica seguente, che costituisce, come controllo delle passioni, la base di tutte le altre virtù; la giustizia è quella che realizza l'accordo armonico e l'equilibrio di tutte le altre virtù presenti nell'uomo virtuoso e nello stato perfetto. Le virtù secondo Aristotele Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Aristotele L'Etica. Aristotele Mentre Platone parlava genericamente di saggezza per l'esercizio della virtù, Aristotele la distingue invece dalla "sapienza". La saggezza, o "prudenza", è una "virtù dianoetica", propria cioè della razionalità comune a tutti che ispira la condotta umana permettendo il giusto esercizio delle "virtù etiche", quelle cioè che riguardano l'azione concreta.  Tra le virtù dianoetiche che presiedono alla conoscenza (intelletto, scienza, sapienza) o alla attività tecniche (arte), la saggezza è propria di colui che, pur non essendo filosofo, è in grado di operare virtuosamente. Se si dovesse acquisire la sapienza filosofica per praticare le virtù etiche questo comporterebbe che solo chi ha raggiunto l'età matura, divenendo filosofo, potrebbe essere virtuoso mentre con la saggezza, grado inferiore della sapienza, anche i giovani possono praticare quelle virtù etiche che permetteranno l'acquisto delle virtù dianoetiche. La saggezza insomma permette una vita virtuosa, premessa e condizione della sapienza filosofica, intesa come "stile di vita" slegato da ogni finalità pratica, e che pur rappresentando l'inclinazione naturale di tutti gli uomini solo i filosofi realizzano a pieno poiché  «Se in verità l'intelletto è qualcosa di divino in confronto all'uomo, anche la vita secondo esso è divina in confronto alla vita umana.»  Virtù eticheVirtù dianoetiche Giustizia Coraggio Temperanza Liberalità Magnificenza Magnanimità Mansuetudine Virtù calcolative Arte Prudenza Virtù scientifiche Sapienza Scienza Intelligenza La saggezza può esser fatta conseguire ai giovani tramite l'educazione che i saggi, o quelli ritenuti tali dalla collettività, impartiranno anche con l'esempio concreto della loro condotta. Da questi modelli il giovane apprenderà che le virtù etiche consistono nella capacità di comportarsi secondo il "giusto mezzo" tra i vizi ai quali si contrappongono (ad esempio il coraggio è l'atteggiamento mediano da preferire tra la viltà e la temerarietà), sino a conseguire con l'abitudine un abito spontaneamente virtuoso: infatti  «La virtù è una disposizione abitudinaria riguardante la scelta, e consiste in una medietà in relazione a noi, determinata secondo un criterio, e precisamente il criterio in base al quale la determinerebbe l'uomo saggio. Medietà tra due vizi, quello per eccesso e quello per difetto»  In medio stat virtus è il detto della filosofia scolastica che traduce il concetto greco di mesotes.  La virtù secondo gli stoiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Stoicismo Etica. La saggezza, ossia la capacità di operare con prudenza, è al centro della morale epicurea e stoicama, mentre per gli epicurei la virtù si consegue attraverso un calcolo razionale dei piaceri stabilendo quali di essi siano veramente necessari e naturali, per gli stoici invece il comportamento virtuoso, risultato del conseguimento dell'"apatia", cioè della liberazione ascetica dalle passioni, è di per sé portatore di felicità. Per coloro che non riescono a condurre la loro vita secondo saggezza lo stoicismo indicherà delle regole di condotta che insegneranno a operare secondo ciò che è più "conveniente" od opportuno tenendosi sempre lontano dagli eccessi delle passioni.  La morale stoica ispirerà quella dei filosofi come Cartesio, che rivaluterà tra le passioni quella della "magnanimità", considerata virtù somma, e Spinoza che afferma che «il primo e unico fondamento della virtù, ossia della retta maniera di vivere, è di cercare il proprio utile» intendendo per "utile" solo ciò che «conduce l'uomo a maggior perfezione» infatti «gli uomini che ricercano il proprio utile sotto la guida della ragione non appetiscono per sé niente che non desiderino gli altri uomini, e perciò essi sono giusti, fedeli, onesti» e per ciò stesso la virtù è premio a sé stessa come portatrice di una vita serena condotta secondo la razionalità.  Le virtù secondo il cristianesimo Il fine di una vita virtuosa consiste nel divenire simili a Dio Nel pensiero cristiano oltre le virtù umane è possibile l'esercizio di quelle soprannaturali: le virtù teologali di fede, speranza e carità che in qualche modo dovranno conciliarsi con quelle dell'etica antica.  San Tommaso conserverà la validità delle virtù "cardinali" aristoteliche ma considerandole inferiori a quelle teologali mentre Agostino riteneva false le virtù umane dei pagani che mascherano sotto il nome di virtù quello che in realtà è l'esercizio di vizi "splendidi", ma pur sempre negativi in quanto causati dall'orgoglio e dalla ricerca dell'effimera gloria umana. L'unica grande virtù è la carità, l'amore di Dio il cui esercizio, per quanto essi facciano, non dipende dagli uomini ma dalla volontà divina che lo infonde negli spiriti eletti, cioè dalla infusione nell'uomo della indispensabile grazia divina. Concezione questa che riaffiorerà con la Riforma protestante e nel Giansenismo.  Inoltre uno dei nove cori delle gerarchie angeliche, viene denominato Virtù ed indica secondo lo Pseudo-Dionigi il coro angelico preposto a dispensare la grazia divina.  La virtù nel pensiero moderno Nella filosofia dell'età moderna la concezione della virtù oscilla tra quella che la considera come l'esercizio di un controllo delle passioni a cui rinunciare e quella che invece la ritiene rientrare nell'ambito di un comportamento istintivo e naturale dell'uomo. Alla prima interpretazione si associano le dottrine della corrente libertina da Bayle a Mandeville che ironizzano sulla effettiva possibilità per gl’uomini dell'esercizio delle virtù che se anzi fossero attuate provocherebbero la disgregazione della società. Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa. Si è sempre parlato ipocritamente di virtù, osservano i libertini, le quali in realtà sono la mascheratura dei propri vizi come ben appare nella contrapposizione tra le ostentate "pubbliche virtù" e i nascosti "vizi privati". La virtù come sacrificio del singolo cittadino a vantaggio della patria di tutti, è anche nella concezione politica di Montesquieu che riporta questo comportamento civile ai regimi repubblicani mentre in quelli monarchici prevale l'orgoglio e in quelli dispotici la paura. Anthony Ashley Cooper, III conte di Shaftesbury Nell'etica inglese la virtù è intesa, in opposizione alle dottrine sull'"egoismo" di Thomas Hobbes, come atteggiamento impulsivo naturale determinato dal sentimento morale della benevolenza (Shaftesbury e Francis Hutcheson) che spinge l'uomo a operare senza badare alla riprovazione morale dell'opinione pubblica, al terrore di una punizione futura o all'intervento delle autorità, istituite come incentivi alla bontà. L'azione virtuosa dell'uomo è invece ispirata dalla voce della coscienza e dall'amore di Dio. Solo questi due fattori spingono l'uomo verso la perfetta armonia, per il suo stesso bene e per quello dell'universo. Lo stesso istinto alla virtù secondo David Hume e Adam Smith è quello della simpatia. Le nostre sensazioni nelle relazioni con gli altri (e le azioni sono valutabili moralmente in rapporto ad altri uomini), non possono essere ridotte a una dimensione esclusivamente egoistica: ciò che noi proviamo è condizionato sempre da ciò che provano gli altri in conseguenza delle nostre azioni.»  (David Hume, Trattato sulla natura umana, Libro terzo, Parte terza, sez. prima-terza) «Per scoprire la vera origine della morale, e quella dell'amore e dell'odio che deriva dalle qualità morali, dobbiamo considerare nuovamente la natura e la forza della simpatia. Gli animi degli uomini sono simili nei loro sentimenti o nelle loro operazioni, né esiste un sentimento che si produca in una persona di cui non partecipino, in qualche grado, tutte le altre. Questa disposizione naturale e spontanea dell'uomo all'esercizio della virtù troverà espressione nel deismo e in seguito costituirà il nucleo della teoria romantica dell'"anima bella" di Schiller.  La virtù come sforzo. Kant Una ripresa della concezione della virtù come repressione delle passioni umane è nella filosofia morale di Kant che distingue una "dottrina della virtù" dalla "dottrina del diritto". Nel diritto l'uomo si sottomette alla legge per rispettarne la formalità esteriore senza considerare il motivo della sua azione ma solo perché così prescrive la norma, mentre nella morale ci si vuole comportare secondo il dettato morale indipendentemente da qualsiasi motivo e conseguenza della propria azione: si realizza così la virtù come soggezione della volontà all'"imperativo categorico". La vetta, opera simbolista di Saccaggi, che esprime i concetti romantici di Streben (sforzo) e Sehnuct (struggimento), ossia l'anelito dell'uomo verso un ideale che si rivela sempre più arduo ed elevato. L'imperativo categorico, ossia la virtù, implica che l'uomo debba compiere uno sforzo (Streben), combattendo le inclinazioni sensibili e le passioni, nel conformare la sua volontà a ciò che l'imperativo comanda, mentre pensare che questo possa avvenire spontaneamente significa confondere la debolezza umana con ciò che è proprio della santità che appartiene solo a Dio che non ha nessun dovere nei confronti della legge morale. Ciò che prescrive la morale è identico sia per gli uomini sia per la divinità, ma questa, poiché non ha niente che possa ostacolarla nell'osservanza della legge morale, non ha neppure virtù. Questa visione della virtù assimilerebbe il pensiero kantiano allo stoicismo che Kant invece rifiuta laddove questo connette all'esercizio della virtù la felicità. Certo l'uomo nella sua costituzione sensibile ha bisogno della felicità ma nulla garantisce che egli possa raggiungerla. Un'esigenza di giustizia vuole poi che l'uomo abbia una felicità bilanciata al suo comportamento virtuoso ma poiché questo non accadrà mai nel nostro mondo terreno, egli allora postulerà l'esistenza di un'anima immortale a cui un Dio giusto assicuri la giusta felicità.  L'etica kantiana, tradotta da Fichte e Schelling nella tensione verso un ideale infinito a cui l'Io cerca progressivamente di conformare il non-io, pur non raggiungendolo mai definitivamente, sarà invece messa in discussione da Hegel, il quale vi vedrà l'espressione di un tipico soggettivismo delle "virtù private" contrapposto a quella "eticità" antica, ancora valida nel suo tempo, da apprezzare perché rivolta alla collettività dove si realizza il bene tramite la famiglia, la società civile e lo Stato.[Le virtù secondo il BuddhismoModifica Il Buddhismo sostiene la conciliabilità tra saggezza e virtù come un desiderabile obiettivo per l'uomo buono che ci ricorda l'antica concezione socraticaispirata a quell'intellettualismo etico secondo cui il l'uomo fa il male perché ignora cosa sia il bene.  Le virtù nel Buddhismo sono il continuo applicare, come regole di autodisciplina nella vita quotidiana, dei Tre rifugi o dei Cinque precetti che consistono nello  1. Astenersi dall'uccidere o danneggiare qualunque creatura vivente 2. Astenersi dal prendere ciò che non ci è stato dato 3. Astenersi da una condotta sessuale irresponsabile 4. Astenersi da un linguaggio falso o offensivo 5. Astenersi dall'assumere bevande alcoliche e droghe Vivendo in questo modo si incoraggiano la disciplina e la sensibilità necessarie per chi voglia coltivare la meditazione, che è il secondo aspetto del sentiero.  La virtù nella filosofia cinese La virtù (traduzione di "de" ) è un concetto importante anche nelle filosofie cinesi come il confucianesimo e il taoismo. Le virtù cinesi comprendono l'umanità, lo xiao (solitamente tradotta come pietà filiale) e zhong (lealtà). Un valore importante, contenuto nella gran parte del pensiero cinese, è che lo stato sociale di ciascuno debba essere determinato dall'insieme delle sue virtù manifeste, e non da un qualunque privilegio di nascita. Nei suoi Analecta, Confucio parla della pratica che conduce alla perfetta virtù. Le virtù confuciane si sviluppano in due rami: il ren e il li; il ren può essere tradotto come benevolenza, amore disinteressato, e l'uomo la può raggiungere praticando cinque virtù: magnanimità, rispetto, scrupolosità, gentilezza e sincerità. Confucio afferma che queste virtù devono essere praticate verso il li, che è la parte pratica della virtù confuciana. Il li consiste in cinque canali relazionali: marito/moglie, genitore/figlio, amico/amico, giovane/anziano, suddito/sovrano.  Romanus Cessario, Le virtù, Editoriale Jaca, Ancient Ethical Theory (Stanford Encyclopedia of Philosophy) Ferroni, Machiavelli, o Dell'incertezza: la politica come arte del rimedio, Donzelli Editore, Platone, Repubblica o sulla giustizia. Testo greco a fronte, a cura di Vitali, Feltrinelli, Aristotele, Etica Nicomachea, Aristotele, Etica Nicomachea, Kambouchner, L'Hommes des passions. Commentaires sur Descartes, Paris, Albin Michel, BODEI (si veda) Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Eth. V, prop. 41 Eth. IV, prop. Gregorio di Nissa, De beatitudinibus, oratio 1: Gregorii Nysseni opera, ed. W. Jaeger (Leiden L'elenco è dedotto dalla prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi: «Rivestiti della corazza della fede e della carità avendo come elmo la speranza» (1Ts 5,8) Kostko, Beatitudine e vita cristiana nella Summa theologiae di S. Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio Domenicano, I vizi capitali considerati come gli opposti delle virtù nella concezione cristiana sono superbia, avarizia, lussuria, gola, ira, invidia e accidia (in Domenico Galvano, Catechismo della diocesi di Nizza1) Mondin, Etica e politica, Edizioni Studio Domenicano, Mandeville, La favola delle api ^ L'espressione si ritrova nell'operetta di Bernard de Mandeville pubblicata anonima con il titolo The Grumbling Hive, or Knaves Turn'd Honest (Ronzio di arnie, o Furfanti divenuti onesti), ristampata con l'aggiunta del sottotitolo Vizi privati e pubbliche virtù e infine con il titolo Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits (La favola delle api: ovvero vizi privati, pubbliche virtù) Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, Kant, Metafisica dei costumi Galli e Aa.Vv., Saccaggi: un poliedrico pittore internazionale su gabbantichita.com, Studio d'Arte e Restauro Gabbantichità. Nell'opera, intitolata anche La regina dei ghiacci, l'atteggiamento passionale e implorante dell'uomo si contrappone alla gelida irraggiungibilità della donna, allegoria della Montagna-Natura. Fraisopi, Adamo sulla sponda del Rubicone: analogia e dimensione speculativa in Kant, Armando, Pasquale Fernando Giuliani Mazzei, Kant e Hegel: un confronto critico, Guida; Hua, Buddhismo: Une breve introduzione, Dharma Realm Buddhist Association, Pavolini, Buddismo, Hoepli,  Chiesa Cattolica, Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, New Catholic Encyclopedia, Catholic University of America, Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli UE Scheler, Per la riabilitazione della virtù. Aquino, Le virtù. Quaestiones de virtutibus, I e V, Testo latino a fronte, Milano, Bompiani, Paideia Bushidō Moralità Etica Bontà Teoria dei valori Giustizia sociale Pietà (teologia) Sette peccati capitali Virtù cardinali Virtù teologali Timè. virtù virtù, Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Virtù  Virtù (altra versione), su Enciclopedia Britannica.Virtù, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata The Four Virtues, su thefourvirtues.com. The Virtues Project, su metamind. Virtue Science.com.  Portale Filosofia   Portale Religione.  Etica ramo della filosofia  Etica Nicomachea opera di Aristotele  Virtù dianoetiche ed etiche Girolamo Cotroneo. Cotroneo. Keywords: VIRTÙ, retorica, retorica di Aristotele, retorica nuova, retorica moderna, Perelman, rareta e storia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cotroneo” – The Swimming-Pool Library. Cottroneo.

 

Luigi Speranza – Grice e Cotta: la ragione conversazionale all’accademia a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He appears as a character in De natura deorum by Cicerone. There he presents the points of view of the Accademia. However, he spends some time in exile and almost certainly studies the doctrine of the Porch and that of the Garden as well. Gaio Aurelio Cotta. Cotta.  

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Cotta:  la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nella storia del diritto romano – filosofia fiorentina – filosofia toscana-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Grice: “My favourite explorations by Cotta are three: ‘per che violenza?” – “dalla guerra alla pace: un itinerario filosofico” and a secondary-literature study on ‘i concordati’ --- which is MY philosophy. You see, Plato thought that the soul resided in the brain – cool as he was – but Aristotle corrected him: it resides in the HEART – Cicero loved that and coined ‘cum-cor’ – i.e. something like my cum-operare: your hearts convene!” -- Grice: “I would say Cotta is Italy’s H. L. A. Hart, with a bonus – he wrote on essentialism, deontic logic, and from war to peace!”  Figlio di Alberto, studioso di scienze forestali, e Maria Nicolis di Robilant. Da parte di madre è discendente diretto di Eulero. Studia a Firenze presso l'istituto dei barnabiti La Querce. Si laurea a Firenze. Chiamato alle armi con il grado di sottotenente, il giorno dell'annuncio dell'armistizio, è in Friuli. Scioltosi l'esercito, scende in barca lungo l'Adriatico per raggiungere l'Italia non ancora occupata dai tedeschi. Ammalatosi di malaria, dopo svariate traversie decide di raggiungere il Piemonte, dove partecipa alla guerra di resistenza come comandante di una brigata partigiana nella VII Divisione Autonoma "Monferrato". È tra i primi ad entrare a Torino nei giorni della liberazione. Per la sua partecipazione alla guerra partigiana gli vengono attribuite la Medaglia di bronzo al valor militare e la Croce di guerra. Dopo gli studi sul pensiero politico dell'Illuminismo i suoi interessi si sono incentrati sulla filosofia giusnaturalistica, che è stato in grado di fondere con elementi della fenomenologia. Autore di saggi sulla visione politica di Montesquieu, Filangieri, Aquino ed Agostino, dedicandosi in seguito a riflessioni teoriche sul diritto e sulla politica. Insegna a Torino, Perugia, Trieste, Trento, Firenze, Roma, e Teramo. Fu tra i componenti del comitato promotore del referendum abrogativo della legge sul divorzio. Altre opere: “La società; “Il concetto di ‘legge’ in Filangieri” (Torino, Giappichelli); “Il concetto di ‘legge’ in Aquino” (Torino, Giappichelli). “Il concetto di Roma come città in Agostino”; “Filosofia e politica nell'opera di Rousseau”; “La sfida tecnologica”; “L'uomo tolemaico” – la ferita narcissista di Galileo – “Quale Resistenza?, Perché la violenza; “Il normato: tra il giurato e l’obbligato”; “Il diritto nell'esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica”; “Dalla guerra alla pace”; “l’uomo, la persona, il diritto umano”; “Il pensiero politico di Montesquieu, Bari, Laterza); “L’inter-soggetivo giurato”; “I limiti della politica, “Il sistema di valori e il diritto”; Perché il diritto Quid ius?” (Brescia, La Scuola). Stante la concessione chirografata dall'ex re Umberto II, C. puo fregiarsi del titulo nobiliare di “conte”, sia pure del tutto informalmente stante l'instaurazione dell'ordinamento repubblicano e la XIV disposizione finale e transitoria della Costituzione. Diritto romano ordinamento giuridico della civiltà romana Lingua Segui Modifica Con diritto romano si indica l'insieme delle norme che hanno costituito l'ordinamento giuridico romano per circa tredici secoli, dalla data convenzionale della Fondazione di Roma fino alla fine dell'Impero di Giustiniano (565 d.C.). Infatti, tre anni dopo la morte di Giustiniano l'Italia fu invasa dai Longobardi: l'impero d'Occidente si dissolse definitivamente e Bisanzio, formalmente imperiale e romana, si allontanò sempre più dall'eredità dell'antica Roma e della sua civiltà (anche giuridica). Il Corpus Iuris Civilis in una stampa, che raggruppava l'insieme di tutte le leggi romane contemporanee e precedenti alla sua compilazione, avvenuta sotto Giustiniano I «Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non danneggiare nessuno, dare a ciascuno il suo.»  (Eneo Domizio Ulpiano Libro secondo delle Regole dal Digesto 1.1.10 principio [1]) L'importanza storica del diritto romano si riflette ancora oggi in una lista di termini legali latini. Infatti, dopo la dissoluzione dell'Impero romano d'Occidente, il Codice giustinianeo rimase in effetti nell'Impero romano d'Oriente, conosciuto come Impero bizantino. Il linguaggio legale in Oriente fu il greco.  Il diritto romano definisce un sistema legale applicato nella maggior parte dell'Europa occidentale fino alla fine del XVIII secolo. In Germania, il diritto romano venne utilizzato più a lungo sotto il Sacro Romano Impero. Il diritto romano servì inoltre come base per la pratica legale attraverso l'Europa occidentale continentale, così come nella maggior parte delle colonie delle nazioni europee, inclusa l'America latina e pure l'Etiopia. Il sistema inglese e nord americano della common law venne influenzato anche dal diritto romano, in particolare nel loro glossario giuridico latineggiante. Anche la parte orientale dell'Europa venne influenzata dalla giurisprudenza del Corpus Iuris Civilis, specialmente nei paesi come la Romania medievale che creò un nuovo sistema, un mix del diritto romano e locale. L'Europa orientale fu inoltre influenzata dal diritto medievale bizantino.  Il diritto romano viene diviso approssimativamente in tre o cinque differenti stadi evolutivi. Dalla fondazione di Roma alle leggi delle XII Tavole.  Magnifying glass icon mgx2.svg Storia del diritto romano, Ius Quiritium e Mos maiorum. La prima fase, detta del diritto arcaico o quiritario, comprende il periodo che ha inizio con la fondazione di Roma e giunge alle Leggi delle XII tavole. In questo periodo, il diritto privato, compreso il diritto civile romano era applicato solo ai cittadini romani, ed era legato alla religione. Si trattava di una forma giuridica non sviluppata, quindi non contenente gli attributi di formalismo rigoroso, simbolismo e conservatorismo. Il giurista Sesto Pomponio disse: "All'inizio della nostra città, le persone iniziarono le loro prime attività senza alcun diritto scritto, e senza alcuna regola fissa: tutte le cose erano governate dispoticamente dai re". Si ritiene che il diritto romano sia radicato nella mitologia etrusca, con un'enfatizzazione dei rituali. Diritto repubblicano fino alla seconda guerra punica. Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Leggi delle XII tavole, Leges Liciniae Sextiae, Lex Canuleia, Lex Hortensia e Lex Aquilia. L'inizio del secondo periodo coincide con il primo testo di diritto: le leggi delle XII tavole. Il tribuno della plebe, Gaio Terentillo Arsa, propose che le leggi fossero scritte, per evitare che i magistrati potessero applicarle in modo arbitrario.Dopo otto anni di scontri politici, i plebei riuscirono a convincere i patrizia inviare un'ambasceria ad Atene, per copiare le leggi di Solone; essi inviarono poi altre delegazioni ad altre città greche per ottenerne il consenso. Secondo quanto ci racconta Livio, furono scelti dieci cittadini romani per mettere per iscritto le leggi. Mentre stavano eseguendo questo lavoro, gli vennero attribuiti poteri politici supremi, detti imperium, mentre il potere dei normali magistrativenne ridotto. I decemviri produssero le leggi su dieci tavole, dette tabulae, ma lasciarono insoddisfatti i plebei. Un nuovo decemvirato, si racconta, aggiunse due ulteriori tavole. La nuova legge delle XII tavole venne ora approvata dall'assemblea popolare. Gli studiosi moderni tendono a non dar credito alla precisione degli storici romani. Non credono in genere che un secondo decemvirato abbia mai avuto luogo. Il decemvirato si ritiene abbia incluso i punti più controversi del diritto consuetudinario, e di aver assunto le funzioni principali a Roma. Inoltre, la questione sulla influenza greca trovata nel diritto romano arcaico è ancora molto discussa. Molti studiosi ritengono improbabile che i patrizi abbiano inviato una delegazione ufficiale in Grecia, come gli storici romani credevano. Invece, gli studiosi suggeriscono che i Romani abbiano acquisito leggi dalle città greche della Magna Grecia, serbatoio principale dal mondo romano a quello greco. Il testo originale delle XII tavole non si è conservato, anche perché furono distrutte durante il sacco di Roma da parte dei Galli. I frammenti sopravvissuti mostrano che non si trattava di un codice del diritto in senso moderno. Non forniva infatti un sistema completo e coerente di tutte le norme applicabili o nel dare soluzioni giuridiche per tutti i casi possibili. Piuttosto, le tabelle contenevano disposizioni specifiche volte a modificare l'allora esistente diritto consuetudinario, anche se le disposizioni erano valide per tutti i settori del diritto, dove la parte più ampia era dedicata al diritto privato e alla procedura civile.  In seguito le leggi delle dodici tavole vennero integrate da una serie di nuove leggi come:  la Lex Canuleia, che ammetteva il matrimonio (ius connubii) tra patrizi e plebei; le Leges Licinae Sextiae che prevedevano restrizioni sui terreni pubblici (ager publicus), dove almeno uno dei due consoli doveva essere plebeo; la Lex Ogulnia dove i plebei ottennero l'accesso alle cariche sacerdotali; la Lex Hortensia dove i verdetti delle assemblee plebee (plebiscita) ora riguardavano tutte le persone; la Lex Aquilia, che poteva essere considerata come la fonte del moderno diritto civile. Tuttavia, il contributo più importante di Roma alla cultura giuridica europea non fu la promulgazione di leggi ben elaborate, ma l'emergere di una classe di professionisti giuristi e della giurisprudenza. Questo venne realizzato applicando in modo graduale e con metodo scientifico la filosofia al soggetto del diritto, tema che i greci stessi mai trattarono come una scienza.  Tradizionalmente, le origini della giurisprudenza romana sono collegate a Gneo Flavio, il quale sembra abbia pubblicato una serie di "modi di dire" contenenti il linguaggio giuridico da utilizzare in tribunale per intraprendere un'azione legale. Prima di Flavio, queste formule sembra fossero segrete e note solo ai sacerdoti. La loro pubblicazione rese così possibile, anche per chi non ricopriva cariche sacerdotali, di esplorare il significato di questi testi di legge. Il periodo che successe dopo la fine della seconda guerra punica fino all'avvento del principato, corrisponde storicamente al periodo del diritto chiamato pre-classico. Questo periodo coincise con una produzione da parte dei giuristi di un grande numero di trattati, soprattutto a partire dal II secolo a.C. Tra i più famosi giuristi del periodo repubblicano si ricordano, Quinto Mucio Scevolaautore di un voluminoso trattato su tutti gli aspetti del diritto romano, che ebbe grande influenza nelle epoche successive, e Servio Sulpicio Rufo, amico di Marco Tullio Cicerone. E benché Roma avesse sviluppato un sistema del diritto molto evoluto, oltre a una raffinata cultura legale, la Repubblica romanavenne rimpiazzata dal principato.  In questo periodo possiamo notare lo sviluppo di leggi più flessibili per soddisfare le esigenze del momento. In aggiunta al vecchio e formale ius civile venne creata una nuova classe giuridica: lo ius honorarium, che può essere definita come "la legge introdotta dai magistrati che avevano il diritto di promulgare editti al fine di sostenere, integrare o correggere la giurisprudenza esistente. Con questa nuova legge il vecchio formalismo venne abbandonato per i più flessibili principi dello ius gentium.  L'adattamento del diritto alle nuove esigenze fu dedicata alla pratica giuridica dei magistrati, e soprattutto riguardante i pretori. Un pretore non era un legislatore e non poteva tecnicamente creare una nuova legge quando emetteva i suoi editti. I risultati delle sue sentenze godevano di tutela giuridica[19] ed erano in effetti spesso fonte di nuove norme giuridiche. Il successore del precedente pretore non era vincolato dalle disposizioni del suo predecessore; comunque doveva rifarsi alle norme contenute negli editti del suo predecessore che si dimostrassero utili. In questo modo si generò un modo costante di operare da un punto di vista giuridico, editto per editto. Così, nel corso del tempo, parallelamente al diritto civile, che andava integrandosi e correggendosi, emerse un nuovo corpo di leggi pretorie. In realtà, la legge pretoria venne così definita dal celebre giurista romano Papiniano. Ius praetorium est quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. Il diritto pretorio è una legge introdotta da pretori per integrare o correggere il diritto civile per il bene pubblico.»  Alla fine, il diritto civile e il diritto pretorio si fusero nel Corpus Iuris Civilis. I primi duecentocinquant'anni da Augusto, fino alla morte dell'imperatore Alessandro Severo corrispondono al cosiddetto "periodo classico". Questo momento storico rappresentò per il diritto e la giurisprudenza romana il momento più elevato dell'intera storia romana. I successi letterari e le pratiche dei giuristi di questo periodo hanno dato una forma unica al diritto romano.  I giuristi lavorarono in diverse direzioni, dando pareri legali: su richiesta delle parti private; ai magistrati a cui era affidata l'amministrazione della giustizia, soprattutto i pretori; nella redazione degli editti dei pretori, quando veniva annunciato pubblicamente l'inizio del loro mandato, su come avrebbero gestito le loro funzioni, oltre alle formule, in base alle quali vennero condotti procedimenti specifici. Alcuni giuristi vennero incaricati di occuparsi di prestigiosi uffici giudiziari e amministrativi. I giuristi produssero, inoltre, tutta una serie di commentari legali e trattati. Attorno al 130 il giurista Salvio Giuliano redasse un modello standard di come doveva essere redatto un editto di un pretore, che poi venne utilizzato da tutti i pretori da quel momento in poi. Questo editto conteneva dettagliate descrizioni di tutti i casi, nei quali il pretore avrebbe potuto compiere un'azione legale e una difesa. L'editto standard funzionava come un codice di legge completa, anche se formalmente non aveva forza di legge. Esso indicava i requisiti giuridici per un'azione legale di successo. L'editto divenne pertanto la base per numerosi commentari giuridici da parte dei giuristi classici di epoca tarda come, Giulio Paolo e Eneo Domizio Ulpiano. I nuovi concetti e istituti giuridici elaborati dai giuristi di epoca pre-classica e classica sono troppo numerosi da menzionare qui. Seguono quindi alcuni esempi:  i giuristi romani separarono chiaramente l'utilizzo di una cosa (proprietà) nel diritto legale, dalla possibilità di utilizzare e manipolare la cosa (possesso). Elaborarono anche la distinzione tra contratto e colpa come fonti delle obbligazioni legali. I contratti standard (di vendita, di lavoro, locazione, appalto di servizi) furono regolati nei più importanti codici continentali e le caratteristiche di ciascuno di questi contratti furono sviluppate nella giurisprudenza romana. Il giurista classico Gaio creò un sistema di diritto privato basato sulla divisione materiale di personae (persone), res (cose) e actiones (azioni legali). Questo sistema fu usato per molti secoli successivi: basterebbe ricordare i Commentaries on the Laws of England di Blackstone, gli atti francesi del Codice Napoleonicooppure il codice civile tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch). L'ultimo periodo è quello denominato post-classico, iniziato con la morte di Alessandro Severo  e segnò la fine del principato, dilaniato dalle guerre civiliper la porpora imperiale e dalle continue invasioni dei barbari del nord e delle armate persiane. Terminò, quindi, con il regno di Giustiniano. In questo periodo le condizioni per il fiorire di una cultura giuridica raffinata divennero meno favorevoli. La situazione politica ed economica generale si era andata deteriorando, da quando gli imperatori romaniavevano assunto un controllo più diretto di tutti gli aspetti della vita politica. Il sistema politico del principato, che aveva mantenuto alcune caratteristiche della costituzione repubblicana, cominciarono a trasformarsi nella monarchia assolutadel dominato. L'esistenza di una giurisprudenza e di giuristi che considerassero il diritto come una scienza, non come mero strumento per raggiungere gli obiettivi politici stabiliti dal monarca assoluto, non si adattarono al nuovo ordine di cose. La produzione letteraria cessò quasi di esistere. Pochi furono i giuristi conosciuti dopo la metà del III secolo. Tuttavia, mentre la maggior parte della giurisprudenza del diritto classico finì per essere ignorata e, infine, dimenticata in Occidente, in Oriente prese piede una fondamentale attività di codificazione delle leggi classiche e della giurisprudenza e di armonizzazione con le leggi successive, soprattutto grazie all'opera di Giustiniano I, che avrebbe costituito la base del diritto medievale.  Eredità del diritto romano In Oriente Edizione del Digesta, parte del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano I. Quando la centralità dell'Impero romano venne spostata a est della Grecia, apparvero nella legislazione ufficiale romana molti concetti legali di origine greca. Questa influenza risulta visibile perfino nel diritto privato inerente ai rapporti tra persone e alla famiglia, che tradizionalmente faceva parte del diritto che subiva minori cambiamenti. Per esempio Costantino I cominciò a porre delle restrizioni all'antico concetto romano di patria potestas, il potere detenuto dal padre nei confronti della famiglia e dei suoi discendenti, riconoscendo che le persone in potestate, i discendenti, potevano avere diritti di proprietà. Egli apparentemente fece delle concessioni al concetto molto più severo di autorità paterna del diritto greco-ellenistico. Il Codex Theodosianus è una codificazione delle leggi di Costantino. Gli imperatori successivi andarono perfino oltre, fino a quando Giustiniano I decretò che un fanciullo in potestate potesse diventare proprietario di tutto ciò che avesse acquistato, con esclusione di quanto veniva acquistato da suo padre. L'opera giuridica di Giustiniano, particolarmente il Corpus Iuris Civilis, continuò a costituire la base della pratica legale dell'Impero bizantino. Leone III Isaurico emise un nuovo codice, denominato Ecloga. Gli imperatori Basilio I il Macedone e Leone VI il Saggiocommissionarono la traduzione in greco del Codice e del Digesto, parti del codice di Giustiniano, conosciuta con il nome di Basilica. Il diritto romano preservato nel corpus legislativo di Giustiniano e nella Basilicarimasero la base della giurisprudenza greca e nelle corti della Chiesa ortodossa perfino dopo la fine dell'Impero bizantino e la conquista dei Turchi, formando così la base per gran parte del Fetha Negest, che rimase in essere in Etiopia. Reintroduzione in Occidente Lo stesso argomento in dettaglio: Regni romano-barbarici, Diritto barbarico e Diritto medievale. In seguito alle invasioni barbariche, come fonte principale del diritto, il diritto romano scomparve in gran parte dell'Europa occidentale. L’imperatore d'Oriente Giustiniano I promulgò il Corpus iuris civilis che in futuro sarebbe diventato la base per la reintroduzione del Diritto romano nell'Occidente. Nel Corpus, Giustiniano fece confluire tutte le antiche leggi di Roma cercando di armonizzarle con le nuove che nel frattempo erano state promulgate. Il Codice di Giustiniano fu applicato nei territori italiani sottoposti all'autorità di Bisanzio, ma le seguenti invasioni barbariche le cancellarono dall'Occidente, riducendo il diritto romano a mero diritto comune. In seguito, l'insistenza degli imperatori romano-germanici di proclamarsi diretti successori dell'Impero romano, in particolare della Dinastia ottoniana di Sassonia favorì, anche grazie alle università, la reintroduzione del Diritto romano in Occidente, andando a rimpiazzare le tradizioni giuridiche degli invasori germanici. Nel Regno di Sicilia il diritto romano fu reintrodotto per volontà dell'imperatore Federico II con le due assise di Capua e Messina. Il diritto romano venne riscoperto e dominò la pratica legale di molti paesi europei. Un sistema giuridico, in cui il diritto romano venne mescolato con elementi di Diritto canonico e di costume germanico, soprattutto con il diritto feudale, divenne comune in tutta l'Europa continentale e conosciuto come lo ius commune, termine che viene indicato nei sistemi giuridici anglosassoni come civil law. Diritto romano e tutela dei monumenti La protezione delle opere pubbliche e delle principali opere d'arte come anche, più in generale, dell'intera consistenza cittadina era disciplinata da un insieme organico di statuti, leggi, costituzioni e provvedimenti risalenti già alla prima età repubblicana. Nell'epoca classica si creò una nuova serie di cariche pubbliche che sovrintesero alla tutela di settori sempre più specifici, regolando e inserendo in un sistema altamente efficiente una realtà in precedenza già presente, seppur in forma embrionale, anche nel mondo greco.  Le tracce di come un tanto imponente sistema si sia trasmesso sino ai giorni nostri, influenzando la nascita delle prime moderne forme di protezione dei monumenti pubblici, sono fin troppo evidenti. Si pensi, per esempio, all'istituzione dei magistri aedificiorum et stratarum voluti, nella Roma da papa Martino V. Diritto romano oggi Oggi, il diritto romano non è più applicato nella giurisprudenza moderna, anche se negli ordinamenti giuridici di alcuni Stati come il Sudafrica e San Marinoalcune parti si basano ancora sullo ius commune. Tuttavia, anche se la giurisprudenza si basa su un codice, si applicano molte regole derivanti dal diritto romano: nessun codice ha completamente rotto i collegamenti con la tradizione romana. Piuttosto, le disposizioni del diritto romano sono state create su misura in un sistema più coerente, espresso nella lingua nazionale di molti Stati. Per questa ragione, la conoscenza del diritto romano è indispensabile per capire i sistemi giuridici contemporanei. Il diritto romano risulta spesso un argomento obbligatorio per gli studenti di legge nelle varie giurisdizioni di diritto civile.  Come passo fondamentale verso l'unificazione del diritto privato negli Stati membri dell'Unione europea, viene così adottato il vecchio Ius Commune, che era la base comune della pratica legale in tutto il mondo, permettendo poi molte varianti locali, ed è sentito da molti come un modello basilare.  Divisioni interne al diritto romanoModifica Il diritto romano si suddivide in:  ius Quiritium (deriva da "Quirites", sinonimo di "Romani"), costituito da un insieme di consuetudini ancestrali, non scritte, talmente remote che i Romani stessi non ne conoscevano l'origine. Riguardava gli ambiti di diritto di famiglia, matrimonio, patria potestas e proprietà privata, e non comprendeva le obbligazioni, che in età arcaica non esistevano. Costituisce il nucleo più arcaico del ius civile. ius civile, era l'insieme delle norme che regolano i rapporti tra i cives romani, considerato nell'ottica romana come orgogliosa prerogativa dei cittadini di Roma. Di esso il giurista romano Papiniano dà la seguente definizione tramandataci dal Digesto giustinianeo: Ius autem civile est quod ex legibus, plebis scitis, senatus consultis, decretis principum, auctoritate prudentium venit. Il ius civile è il diritto che promana dalle leggi, dai plebisciti, dai senatoconsulti, dai decreti degli imperatori e dai responsi dei giurisperiti.»  (Digesto) ius gentium, l'insieme di tutti gli istituti che trovano tutela, oltre che nell'ordinamento statuale romano, anche presso altri popoli. ius naturale, la lezione stoica proficuamente accolta da Cicerone, si trasfuse nella coscienza giuridica romana. I giureconsulti, però, non essendo filosofi, ne trassero scarsi e rozzi ammaestramenti, interpretando la natura come atavico istinto comune anche agli esseri irrazionali. Ciò accadde specificamente nella definizione che ne diede Ulpiano, allorché stabilisce che "Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli esseri animati. [Da esso] derivano l'unione del maschio e della femmina, che noi chiamiamo matrimonio, la procreazione e l'allevamento dei figli. Vediamo infatti che anche gli altri animali, perfino quelli selvaggi, conoscono e praticano questo diritto. Questo passo di Ulpiano sarà inserito nel Digesto giustinianeo e insieme con l'intero Corpus iuris civilis costituirà oggetto di studio per le scuole giuridiche medievali. Gaio propende per una bipartizione del diritto, cioè che il diritto si divida in ius civile, creazione artificiale della civitas, e in ius gentium o ius naturale, diritto comune ai popoli e che trova la sua ragion d'essere nella naturalis ratio, cioè in una ragione naturale, dunque ritenuto anche eticamente migliore poiché ispirato dalla natura: in questa visione la schiavitù è considerata come una situazione naturale già predisposta dalla stessa natura; Ulpiano propende per una tripartizione del diritto; come Gaio, pensa che lo ius civile sia creazione artificiale, ma va oltre affermando che il ius gentium riguarda un regolamento per i soli uomini, mentre lo ius naturale sarebbe quello di tutte le creature viventi: in questo caso la condizione di schiavo viene vista come una condizione predisposta dal diritto e non riconducibile alla condizione naturale dell'uomo. ius honorarium (o ius praetorium), che riguarda le situazioni di diritto o di fatto che, pur non trovando tutela nelle norme dello ius civile, sono state regolamentate dall'attività giurisdizionale dei magistrati dotati di iurisdictio. Lo stesso Papiniano, nel medesimo brano in cui definisce il ius civile, racchiude il concetto di ius honorarium, che egli chiama ius praetorium, nelle seguenti parole. Ius praetorium est quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi gratia propter utilitatem publicam; quod et honorarium dicitur ab honore praetorum. Il ius pretorium è il diritto introdotto dai praetores al fine di aiutare, aggiungere, emendare lo ius civileper la pubblica utilità; ciò che viene anche chiamato honorariumdall'onore dei pretori.»  Ius legitimum, il cui nome deriva da lex è il diritto prodotto in sede assembleare attraverso la votazione e approvazione di una legge comiziale; lo ius legitimum ha particolare vita in età repubblicana e fiorisce particolarmente con Augusto per poi scomparire dopo la sua morte e la trasformazione dello Stato in impero; con il venir meno delle assemblee a favore del duopolio Senato-imperatore e del successivo monopolio imperiale del potere la lex perde il suo carattere di comizialità e viene a identificarsi con la definizione di norme da parte dell'imperatore stesso, nella forma della "costituzione imperiale". Da questo momento lo ius legitimum si estingue, confluendo nello ius civile. Durante la repubblica le principali assemblee produttrici di ius legitimum erano i comitia centuriata e i concilia plebis, in minore parte le altre assemblee. Eneo Domizio Ulpiano, Digesto principio. Ad esempio stare decisis, culpa in contrahendoo in pacta sunt servanda.  In Germania, Art.  BGB. Valacchia, Moldova e alcune altre province medievali. Secondo Francisci (Sintesi storica del diritto romano) la prima fase, denominata del diritto "primitivo", iniziava con la fondazione di Roma e terminava con la fine della seconda guerra punica. Biondi, Istituzioni di diritto romano, Ius civile Quiritium. Come ad esempio la pratica rituale della mancipatio, una forma di vendita. "Roman Law", in Catholic Encyclopedia, Appleton Company, New York. Jenő Szmodis, The Reality of the Law From the Etruscan Religion to the Postmodern Theories of Law, Kairosz, Budapest, Olga Tellegen-Couperus, A Short History of Roman Law, Livio, Ab Urbe condita libri. Decemviri legibus scribundis. Pudentes, sing. prudens, o jurisprudentes. Pietro De Francisci, Sintesi storica del diritto romano. Invece Biondi lo accorpa in un unico periodo con il precedente e lo chiama "repubblicano". Berger, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, in The American Philosophical Society.  Magistratuum edicta. Actionem dare.  Edictum traslatitium. Francisci, Sintesi storica del diritto romano, Tellegen-Couperus et Tellegen-Couper, A Short History of Roman Law. Ecloga | Byzantine law Britannica, su britannica. Cardini e Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia. "È questo il famoso Corpus iuris civilis, nel quale Giustiniano dettò le sue nuove leggi preoccupandosi però di armonizzarle coerentemente con quelle antiche. Tale monumento alla sapienza giuridica di Roma sarebbe stato alla base della rinascita degli studi giuridici e delle istituzioni politiche della stessa Europa; e costituisce ancora oggi il fondamento sul quale si appoggiano i sistemi giuridici di gran parte dei paesi del mondo. Cardini e Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, "La pretesa di questi re di atteggiarsi a imperatori romani non fu priva di risultati anche importanti: essa fu ad esempio uno dei motivi per cui, a partire dalla metà del XII secolo, il diritto romano rientrò nell'Europa occidentale e -anche grazie al lavoro che fu allora espletato nelle università- s'impose come nuovo diritto sostituendosi in tutto o in massima parte alle precedenti tradizioni giuridiche ereditate dai germani delle invasioni." Cardini e Marina Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, "Introdusse il diritto romano, fondò l'Università di Napoli per disporre di un ceto di funzionari fedeli istruiti all'interno dei confini (altrimenti i suoi sudditi avrebbero dovuto andare fino a Bologna per studiare) e favorì lo "Studio" medico di Salerno. Incluse tutte le proprietà private. Campanelli, L'antefatto: leggi e norme di tutela nel diritto romano, "‘ANAΓKH", I curatores viarum, operum publicorum, rei publicae, statuarum, ecc. ^ Platone, nel VI capitolo delle Leggi, cita un tipo particolare di magistrati chiamati astynomi, storicamente documentati (cfr. Die Astynomenischrift, Atene) dediti alla cura e alla riparazione dei luoghi pubblici. Con la bolla Etsi in cunctarum. Che per gli Stoici era permeata dalla ragione divina. Fassò: «Digesto, Fassò. La ricostruzione dell'intero sistema di diritto romano è basata sul ritrovamento di fonti giuridiche e storiche più o meno complete. Di seguito, un elenco, certamente non esaustivom  delle principali fonti di produzione del diritto romano che ci sono pervenute: OTTAVIANO (si veda), Res gestae divi Augusti, opera divisa in tabulæ, CICERONE (si veda) De legibus, Codice Ermogeniano. Codice Teodosiano; il contraltare alla codificazione giustinianea, in sedici libri densi di diritto e innovazioni strutturali, tra cui il Liber Legum Novellarum Imperatoris Theodosi. Constitvtiones Sirmondianae: raccolta di 16 costituzioni imperiali, che disciplinano materie ecclesiastiche; presero il nome dal primo loro editore, il gesuita Sirmond. Emanate non furono tutte accolte nel Codice teodosiano, in appendice al quale sono pubblicate da Mommsen. Corpus Inscriptionum Latinarum. Decretum Gelasianum, fonte di diritto canonico più che di diritto romano (da The Latin Library); editto di Costantino e Licinio; l'Editto di Teodorico, diviso in articoli, è un codice territoriale, cioè contene disposizioni valide sia per i romani che per gl’ostrogoti. Ciascuno degli articoli è ricavato da un testo delle leges o degli iura, soprattutto dai codices, dalle Sententiæ di Paolo ecc. Vi sono anche alcune norme nuove, di incerta origine: non si sa se di origine ostrogota oppure derivate dalla pratica. Fontes Iuris Romani Ante-iustiniani in usum scholarum, divise in libri (sulle Leges, sugli Auctores, e sui Negotia). Fragmenta Vaticana, frammenti di un'ampia compilazione privata di costituzioni imperiali e di passi desunti dalle opere di Papiniano, Ulpiano e Paolo. Il palinsesto è scoperto da Mai nella Biblioteca Vaticana. Le costituzioni imperiali ivi riportate sono varie. Giustiniano I, Corpus iuris civilis, composto da Imperatoris Iustiniani Institutiones, (versione latina) -logo.svg; opera didattica in 4 libri destinata a coloro che studiavano il diritto; Domini Nostri Sacratissimi Principis Iustiniani Iuris Enucleati Ex Omni Vetere Iure Collecti Digestorum seu Pandectarum (o Pandectae), antologia in libri di frammenti estrapolati (non senza modifiche) dalle opere giuridiche dei più eminenti giuristi della storia di Roma, testo latino; Domini Nostri Sacratissimi Principis Iustiniani Codex, testo latino: raccolta di costituzioni imperiali d’ADRIANO (si veda) allo stesso Giustiniano; Novellæ Constitutiones: costituzioni emanate da Giustiniano dopo la pubblicazione del Codex. Istituzioni di Gaio (Gai Institutionum). Leggi delle XII tavole (Duodecim Tabularum Leges). Lex Romana Burgundionum, scritta all'inizio del VI secolo, è articolata in  titoli e la si attribuisce a Gundobado, re dei Burgundi, Gallia Orientale. È destinata ai soli sudditi romani del regno dei Burgundi. Sententiae Pauli: i cinque titoli delle Sententiae receptae Pavlo tributæ e i libri delle Pavli sententiarvm interpretatio. Senatus consultum de Bacchanalibus; Ulpiano, Titvli ex corpore Ulpiani: opera piuttosto elementare, destinata soprattutto all'insegnamento del diritto, contenuta in un manoscritto della Biblioteca Vaticana. Secondo la dottrina prevalente, si tratta di una compilazione post-classica, con molta probabilità dell'epoca di Diocleziano o Costantino di passi rimaneggiati e rielaborati tratti da opere di Ulpiano). Storiografia moderna; Annunziata, Temi e problemi della giurisprudenza severiana. Annotazioni su Tertulliano e Menandro, Scientifica, Napoli, Ruiz, Storia del diritto romano, Jovene, Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Jovene, Biondi, Istituzioni di diritto romano, Ed. Giuffré, Milano Burdese, Manuale di Diritto Privato Romano, Utet giuridica, Burdese, Manuale di Diritto Pubblico Romano, Utet giuridica, Costabile, Storia del diritto pubblico romano, Iriti, Francisci, Sintesi storica del diritto romano, Roma Marzo, Istituzioni di diritto romano, Giuffrè, Milano, Marzo, Manuale elementare di diritto romano, Utet, Torino  Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palumbo, Sanfilippo. Istituzioni di diritto romano, Rubbettino, Schiavone, Ius: l'invenzione del diritto in Occidente, Torino, Einaudi, 2 International roman law moot court Diritto latino romano, diritto, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Diritto romano, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Diritto romano, su Enciclopedia Britannica, Corpus Iuris Civilis: Lion, Hugues de la Porte, Corpus iuris civilis, su the latin library. The Roman Law Library (Lassard, Koptev) Dizionario Storico del Diritto Romano Simone Diritto e Storia del Diritto Romano, Vervaart, Rechtshistorieː A gateway to legal history - Roman Law, su rechtshistorie. Fonti di diritto romano, su ancientrome (in russo). Portale Antica Roma   Portale Diritto Portale Roma Portale Storia Corpus iuris civilis raccolta di materiale giurisprudenziale, voluta dall'imperatore d'Oriente Giustiniano I  Digesto Compilazione di frammenti derivanti da opere di giuristi romani voluta da Giustiniano I.  Basilika. Il conte Sergio Cotta. Keywords: l’inter-soggetivo, il giurato, il normato. La prima ferita narcissista, Filangieri, giurato, l’uomo galileano, l’obbligato, il normato, Latin ‘normare’ – not recognized in Dizionario etimologico – il giurato d’entrambi – il concordato d’entrambi – fenomenologia – Roma citta – polis, politea, res publica – pubblico e privato -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cotta” – The Swimming-Pool Library. Cotta.

 

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